La sua risposta Heidegger l’ha già data: la filosofia deve innanzi tutto incutere spavento nell’uomo,
e costringerlo a fare ritorno a quello sradicamento dal quale egli continua a fuggire rifugiandosi
nella cultura.
Ma Cassirer ribadisce la risposta del suo idealismo della cultura: che l’uomo possa creare cultura «è
il suggello della sua infinità [...] Vorrei che il senso, la meta in effetti fosse la liberazione nel senso
del ’rigettate lontano da voi l’angoscia di ciò che è terreno’ ».37
Per Cassirer bisogna operare per l’arte di abitare nella cultura, mentre Heidegger vuole trasformare
« il terreno [...] in un abisso ».38
Cassirer prende posizione a favore del lavoro di istituzione di senso da parte della cultura, per
l’opera che trionfa con la sua intima necessità e la sua durata sulla contingenza e caducità
dell’esistenza umana.
Tutto questo è rifiutato da Heidegger con gesto patetico. Quello che rimane sono alcuni rari attimi
di grande intensità. Non bisognerebbe continuare a far mistero del fatto che «la forma suprema
dell’esistenza dell’esserci si può ricondurre a pochissimi e rari istanti di quella durata dell’esserci
che intercorre tra la vita e la morte; soltanto in pochissimi istanti infatti l’uomo vive al culmine
della sua possibilità».39
Un istante di questo genere fu per Heidegger l’assistere alla compieta nella chiesa abbaziale di
Beuron, quando si accorse della « forza primordiale mistica e metafisica della notte, che noi
dobbiamo incessantemente spezzare per esistere davvero ».
Un istante di questo genere fu anche quella scena d’infanzia che in seguito ebbe a raccontare
talvolta agli amici. Quando lui, il piccolo campanaro, ai primi albori del giorno, mentre era ancora
buio, riceveva sul pianerottolo di casa la candela accesa dalle mani della madre e, proteggendo la
fiamma con l’incavo della mano, andava alla chiesa attraversando il sagrato e lì se ne stava in piedi
vicino all’altare, riportando con le unghie la cera della candela che era gocciolata giù, affinché
bruciasse più a lungo. Ma poi essa era consumata, e lui aveva atteso quel momento, anche se aveva
cercato di ritardarlo.
Se l'esserci si compone di due atti, la notte da cui scaturisce e il giorno che supera la notte, Cassirer
concentra la sua attenzione sul secondo atto, quello cioè del giorno della cultura. Heidegger invece
si interessa al primo atto, guarda nella notte da cui noi proveniamo. Il suo pensiero fissa quel niente
dal quale soltanto è possibile che qualcosa sorga. L’uno si rivolge a ciò che è scaturito, l’altro alla
scaturigine. L’uno ha a che fare con la casa della creatura umana, l’altro si sofferma affascinato
davanti al mistero abissale della creatio ex nihilo, che avviene sempre di nuovo quando l’uomo si
desta alla coscienza della propria esistenza.
11. Un capolavoro nascosto: il corso sulla Metafisica del 1929-30. Sulla noia.
Il mistero e il suo sgomento. Heidegger tenta una filosofia della natura. Dal sasso alla coscienza.
La storia di una apertura.
Quando, nel febbraio 1928, Heidegger fu chiamato a Friburgo alla cattedra di Husserl, aveva scritto
a Karl Jaspers: « Friburgo sarà ancora una volta per me la prova se esiste ancora un po’ di filosofia
o se tutto si risolve nel nozionismo» (24 novembre 1928).1
Heidegger vuole mettere alla prova se stesso. Ma non c’è soltanto la tentazione del nozionismo; è
anche la sua nuova fama a creargli difficoltà. «Meno piacevole è l’esistenza pubblica entro cui sono
capitato », scrive a Jaspers il 25 giugno 1929.2 Le conferenze di Heidegger sono diventate intanto
un’attrazione. Siegfried Kracauer racconta della conferenza che Heidegger tenne presso la Kant-
Gesellschaft di Francoforte il 25 gennaio 1929: «Notiamo, infine, che la personalità del
conferenziere ha attirato un pubblico molto numeroso, che non era certamente versato nei problemi
della filosofia, ma che si è azzardato a penetrare nel complesso mondo delle più sottili definizioni e
distinzioni ».3
Naturalmente Heidegger gode delle sue entrate in scena, e anche della sua fama. Si sente lusingato
quando Jaspers lo informa che all’università di Heidelberg ora si legge e si discute anche «
Heidegger ». Tuttavia non vuole essere considerato solo come l’autore di Essere e tempo. Nelle
lettere a Jaspers parla con sufficienza di questo libro: « Non ci penso già più che ho scritto da poco
un cosiddetto ’libro’ » (24 settembre 1928).4
Nei primi anni dopo la comparsa di Essere e tempo egli dovette confrontarsi col fatto che il mondo
filosofico pubblico si aspettava da lui una esposizione, sistematicamente completa e comprensiva di
tutti gli aspetti della vita, dell’uomo nel mondo. Essere e tempo veniva letto come un contributo
all’antropologia filosofica, nella speranza che questo progetto avesse una continuazione.
Nel suo libro su Kant del 1929 Heidegger aveva esplicitamente respinto questa aspettativa
definendola un fraintendimento. Non è possibile sviluppare, scrive in quella sede, una filosofìa a
tutto tondo sull’uomo e sulle sue connessioni vitali di fondo. L’intento di portare a compimento
un’opera del genere è in contraddizione con il carattere fondamentale dell’esserci: la sua finitezza e
storicità. Se il filosofare è qualcosa che si desta nell’uomo, esso comincia ogni volta da capo, e la
sua fine non viene raggiunta dall’interno come perfezione sistematica; l’unica e autentica fine del
filosofare è invece la sua interruzione contingente, dovuta alla morte. Anche la filosofia muore.
Ma come filosofi si può « morire » anche prima della fine definitiva. E ciò accade quando il
pensiero vivente si irrigidisce in ciò che si è già pensato una volta; quando il passato trionfa sul
presente e sull’avvenire, quando il pensato tiene prigioniero il pensiero. Nei primi anni ’20
Heidegger aveva voluto tornare a « fluidificare » i pensieri della tradizione filosofica - da Aristotele
fino a Husserl. Adesso egli si pone il compito di risolvere a sua volta nel movimento del pensiero
anche la sua ontologia fondamentale, che nel frattempo è diventata qualcosa di citabile come
sistema e trattabile come metodo.
Il 12 settembre 1929 egli scrive a Elisabeth Blochmann, in riferimento al rumore che si faceva
intorno alla sua persona e alla sua opera: « Attraverso l’imperante laboriosità e i suoi successi e
risultati siamo radicalmente sviati nella nostra ricerca - noi reputiamo erroneamente che l’essenziale
debba essere costruito ».5
Egli non vuole semplicemente continuare a creare e a lavorare alla costruzione del proprio pensiero,
del proprio sistema. « Con il mio corso invernale sulla metafisica », scrive nella stessa lettera, «
dovrà riuscirmi un inizio del tutto nuovo. »
Ho già accennato al grande corso sulla metafisica del semestre invernale 1929-30, che Heidegger
annuncia con il titolo I concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine. Qui
viene tentato uno stile nuovo. Nel capitolo precedente l’ho chiamato: filosofia dell’evento. In questo
corso Heidegger parla del fatto che la filosofia deve destare 1’« accadere fondamentale nell’esserci
umano».6
Quale accadere fondamentale? Le parole nominate nel titolo del corso, finitezza e solitudine,
alludono già all’interesse di Heidegger per un approfondimento dell’esperienza del «non essere a
casa propria». La filosofia «è il contrario di ogni sorta di conforto e di consolazione. E' il vortice nel
quale l’uomo viene risucchiato, al fine di comprendere concettualmente l'esserci senza cadere in
fantasticherie».7
Ma allora i « concetti » di questo filosofare dovranno avere un’altra funzione e un altro tipo di
«rigore» rispetto ai concetti della scienza. I concetti filosofici rimangono vuoti « se non fossimo già
anticipatamente afferrati da ciò che essi hanno il compito di cogliere concettualmente ».8 I concetti
della filosofia sono intesi da Heidegger come un « attacco »a ogni tipo di certezza di sé e di fiducia
nel mondo. La «suprema incertezza » è la « costante e pericolosa compagna » della filosofia. Ma si
incontra raramente questo « elementare essere disponibili per la pericolosità della filosofia », ed è
per questo che non c’è nemmeno una vera discussione filosofica, nonostante la quantità ormai
enorme di pubblicazioni filosofiche. « Ognuno di loro vuole dimostrare all’altro qualche verità, e,
nel far ciò, dimentica l’unico vero compito, il più difficile, che è quello di sospingere il proprio
esserci e quello degli altri nell’orizzonte di una fruttuosa problematicità.»9
In questo corso si parla molto di pericolo, spaesamento e problematicità. Per questa impresa di
vivere selvaggiamente e pericolosamente sul piano filosofico, Heidegger si serve del termine
metafisica; metafisica però non nel senso di una dottrina delle cose sovrasensibili. Egli intende dare
all’aspetto del trascendere (meta) un altro senso che, come egli afferma, è il senso più originario. Si
tratta di una trascendenza non nel senso dell’andare in cerca di un altro « luogo », di un mondo
dell’aldilà, ma di una peculiare « inversione rispetto al pensare e all’interrogarsi quotidiano».10
Anche per questa inversione è evidentemente bene che «l'esserci si scelga i propri eroi».11 Infatti ci
sono persone che hanno il « destino particolare di essere per gli altri l'occasione che li desta alla
filosofia ».l2
Non c’è dubbio che Heidegger annoveri se stesso fra queste persone « particolari ». Egli sa ormai di
essere un personaggio carismatico della filosofia, sa di avere una missione. «È questo », come
scrive a Karl Jaspers il 3 dicembre 1928, «quello che porta una solitudine così particolare
nell’esserci - quell’oscuro stare di fronte al proprio altro che si crede di dover portare al tempo. » 13
E Jaspers, ancora sconvolto dopo una visita di Heidegger, gli risponde: « Era da tempo
immemorabile che non sentivo qualcuno parlare come Lei oggi. Mi sentivo libero come all’aria
pura in questo incessante trascendere » (5 dicembre 1929).14
Nell’analisi heideggeriana dell’angoscia si era già mostrato dove va a sfociare questo trascendere:
in quel niente dal quale poi scaturisce quel qualcosa che è estremamente sorprendente e
angosciante. Per la filosofia dell’evento di Heidegger, che è sulle tracce del mistero del tempo e
dell’attimo, è facile occuparsi dell’altro grande evento del vuoto: la noia. Quello che ne risulta è uno
dei « pezzi » più impressionanti che Heidegger abbia mai pronunciato. Molto raramente uno stato
d’animo era stato descritto e interpretato, in tutta la tradizione filosofica, così come accade in queste
lezioni. Qui la noia diventa davvero un evento.
Heidegger vuole che coloro che lo ascoltano precipitino nel grande vuoto, vuole che sentano il
brusio di fondo dell’esistenza, vuole dischiudere l’attimo in cui non c’è più niente, in cui non si
offre più alcun contenuto mondano a cui tenersi saldi o di cui ci si possa riempire. L’attimo del
vuoto trascorrere del tempo. Il tempo puro, nella sua presenza. La noia, cioè il momento in cui ci si
accorge del modo in cui il tempo trascorre, proprio perché esso non vuole passare e non si sa come
cacciarlo, come ammazzarlo, o, per usare un’altra espressione comune, in che modo riempirlo.
Heidegger affronta questo tema con grande pazienza (nel testo della lezione il discorso procede per
150 pagine). Egli mette in scena la noia come evento iniziatico della metafisica; mostra come nella
noia i due poli dell'esperienza metafisica, il mondo nella sua totalità e l’esistenza del singolo, siano
congiunti in modo paradossale. Il singolo viene afferrato dalla totalità del mondo proprio nel modo
del non esserne afferrato, e dell’essere lasciato piuttosto nel vuoto. Heidegger vuole condurre il suo
uditorio fino al punto in cui ci si deve chiedere: « [...] ci accadono forse cose tali, che una noia
profonda si trascini qua e là negli abissi dell’esserci come una nebbia silenziosa? »15
Di fronte agli abissi di questa noia ci prende di norma l'horror vacui. Ma bisogna aver resistito a
questo terrore, dato che esso ci fa conoscere intimamente quel niente a cui si riferiva la vecchia
domanda metafisica: perché c’è qualcosa e non piuttosto il niente? Heidegger pretende dai suoi
ascoltatori il niente come un esercizio nell’arte del rimanere vuoti.
Qui non si tratta, e Heidegger lo sottolinea, di uno stato d’animo voluto, cercato, non si tratta di una
posizione ricercata a fatica, bensì, al contrario, « dell’abbandonarsi al libero sguardo quotidiano ».16
Ogni giorno abbiamo spesso la sensazione di questo vuoto, dice Heidegger, ma altrettanto
quotidianamente copriamo subito questo vuoto. Egli invita a lasciar perdere per un momento - per
un noioso momento -questa frettolosa copertura. Questo lasciar perdere è peraltro frutto di una dura
battaglia filosofica, perché contrasta con la tendenza spontanea di ogni giorno, che desidera cadere
nel mondo e non, come in quest’attimo di sospensione nel vuoto, cadere fuori dal mondo. Ma tutto
ciò non serve a nulla: non si può fare filosofia senza questo cader-fuori, senza questo perdersi e
abbandonarsi, senza questo vuoto. Heidegger vuole mostrare la nascita della filosofia dal niente
della noia.
Nel corso delle sue considerazioni sulla latenza quotidiana della noia Heidegger parla della
situazione attuale del proprio tempo. E' ampiamente diffuso, dice, un certo malessere nei confronti
della cultura attuale. Egli nomina, come autori che gli danno voce, Spengler, Klages, Scheler e
Leopold Ziegler. Con poche parole Heidegger liquida le loro diagnosi e prognosi. Saranno cose
anche interessanti, intelligenti, ma siamo sinceri, dice Heidegger, esse in realtà non ci « toccano »
affatto. « Al contrario: il tutto è un qualcosa che fa notizia, in ogni caso rassicurante in modo
inconfessato e tuttavia apparente. »17 Perché? Perché « ci svincola da noi stessi » e ci incoraggia a
rispecchiarci « in una condizione e in un ruolo di portata universale ». 18 Vengono messi in scena
dei drammi in cui noi possiamo calzare i coturni dei soggetti culturali. Ci sono perfino visioni
opprimenti di tramonto ad adulare il nostro senso del valore di noi stessi, o più precisamente: il
nostro bisogno di metterci in scena e di vederci messi in scena.
Heidegger conclude la sua critica a questo tipo di diagnosi filosofica del tempo con l’osservazione
apodittica: « Questa filosofia giunge soltanto a una raffigurazione positiva dell’uomo, ma mai al suo
esserci ».19
Ma nell’abisso dell’esserci è in agguato la noia, dalla quale la vita cerca la fuga nelle forme della
rappresentazione.
L’analisi di Heidegger diventa un’esplorazione del centro del deserto. Nel far questo egli dimostra
di avere il senso dell'escalation drammatica. La tensione cresce, tanto più vuoto è il luogo in cui
egli conduce il pensiero. Egli comincia con l’essere annoiati « da qualcosa ». Qui abbiamo ancora
un oggetto identificabile, una cosa, un libro, una cerimonia, una certa persona, cui possiamo
attribuire la noia. Essa penetra in un certo senso in noi dall’esterno, ha una causa esterna. Ma
quando questo oggetto non può più essere indicato in maniera così univoca, quando la noia penetra
tanto dall'esterno quanto cresce anche dall’interno, allora si tratta dell’« annoiarsi di qualcosa ».
Non si può dire che un treno che non arriva puntuale ci annoia; è invece la situazione, in cui si viene
calati a causa del suo ritardo, che ci può annoiare. Ci si annoia di un determinato evento, o in
occasione di un determinato evento. L’aspetto irritante di questa noia sta nel fatto che in queste
situazioni si comincia ad annoiarsi di se stessi. Non si è capaci di far niente di se stessi, e la
conseguenza è questa: che adesso è appunto il niente a fare qualcosa di noi. Una serata noiosa:
Heidegger descrive con gusto una di queste serate nell’ambiente accademico; essa non procura
soltanto fastidio, ma mette addosso anche un leggero panico, perché in queste situazioni noi stessi
diventiamo noiosi. La situazione è davvero complicata, perché quello che annoia qui è un’iniziativa
che dovrebbe servire proprio a scacciare la noia. La noia è in agguato nelle iniziative prese per
ammazzare il tempo. Ciò cui si fa appello contro di essa, ne è sempre già inficiato. Sono coloro che
minacciano di precipitare nella noia a dover essere intrattenuti. Dove viene cacciato il tempo,
oppure: dove va alla deriva l'esserci che scaccia il tempo? C’è una specie di buco nero
dell’esistenza, che attrae e divora?
La noia più profonda è quella del tutto anonima. Non c’è niente di determinato che essa evochi. « È
che uno si annoia », diciamo noi. Heidegger sottopone questa espressione a un’analisi dettagliata.
Qui c’è una doppia indeterminatezza. Questo « è » indeterminato è tutto e niente, e in ogni caso non
è niente di determinato. E poi « uno » siamo noi stessi, ma come esseri dalla personalità
indeterminata. Come se la noia avesse ingoiato anche l’io stesso, che comunque può ancora
continuare a vergognarsi di essere un noioso. Questo «è che uno si annoia » viene preso da
Heidegger come espressione di quella assenza completa di un tempo riempito e che riempie, di
quell’attimo in cui niente è più in grado di parlarci e di coinvolgerci. Questo « essere-lasciati-vuoti
» è definito da lui come un « esser-consegnati all’ente che si nega nella sua totalità ».20
Qui c’è una sorprendente comprensione del tutto, un tutlo però che non ci interessa più. Qualcosa di
vuoto sta di fronte a un tutto vuoto: in questa mancanza di riferimento l’uno è riferito all’altro. C’è
una triplice negatività: il « non » stesso, la nullità del tutto e la mancanza di riferimento, nel senso
del riferimento negativo. È chiaramente questo il culmine, ovvero il punto più basso, cui Heidegger
voleva condurre la sua avvincente analisi della noia. Ci troviamo nel cuore di una metafisica di
sapore heideggeriano. A questo punto si realizza anche il suo scopo di «penetrare nell’essenza del
tempo per mezzo dell’interpretazione dell’essenza della noia».21 Come viene vissuto dunque il
tempo, chiede Heidegger, in questa totale assenza di tutto ciò che riempie? Esso non vuole
trascorrere, sta fermo, ci trattiene in una pigra immobilità, ci « costringe a stare fermi ». Questa
paralisi complessiva ci fa accorgere del fatto che il tempo non è un medio in cui noi ci muoviamo,
ma è qualcosa che noi produciamo. Noi «temporalizziamo » il tempo, e se veniamo paralizzati dalla
noia abbiamo appunto smesso di temporalizzarlo. Però questo smettere non è mai totale. Il processo
della temporalizzazione, che in certi momenti è assente e cessa, resta legato a quel flusso temporale
che noi stessi siamo - ma nel modo del ristagno, dell’immobilità e della paralisi.
Questa esperienza ambivalente del flusso ristagnante del tempo è il punto di svolta nel dramma
della noia messo in scena e analizzato da Heidegger. Dalla triplice negatività (il « non » stesso, la
nullità del tutto, e la mancanza di riferimento) c’è solo un’unica via di uscita: bisogna liberarsi.
Quando non c’è più niente che va, bisogna mettersi in cammino. Heidegger dà alla sua svolta una
formulazione circostanziata: « Ma ciò che il tempo annuncia quando incanta e incatena [...] non è
niente di meno che la libertà dell’esserci in quanto tale. Infatti la libertà dell’esserci consiste solo
nel liberarsi da parte dell’esserci. Ma il liberarsi da parte dell’esserci accade sempre e soltanto
quando l'esserci si decide nei confronti di se stesso ».22 Poiché però nella noia questo se stesso si è
diradato fino a essere uno spettro privo di essenza, questo decidersi non potrà risalire a un se stesso
compatto che è in attesa di entrare in azione. Piuttosto, questo se stesso nascerà sole nella decisione.
In un certo senso esso non viene trovato, ma inventato mediante la decisione. In esso soltanto ciò
che era chiuso viene aperto. « L’attimo della decisione » scaturisce dalla noia e le mette fine. Così
Heidegger può dire che « il tempo che incanta-e-incatena » sortisce come effetto complementare
una « costrizione dell’esserci nel culmine di ciò che rende autenticamente possibile ».23 Si può
esprimere tutto ciò anche informa più popolare: nella noia ti accorgi che non c’è niente di
importante, se non quello che fai... Dunque, l'esserci che si desta a se stesso deve avere attraversato
la zona della noia profonda, questo « vuoto nel tutto ». A questo punto della riflessione, Heidegger
volta le spalle agli stati d’animo piuttosto « privati » e « intimi » della noia e prende di mira, nei
modi della filosofia della cultura, la situazione storicosociale di allora. Egli chiede: si farà ancora
l’esperienza di questo bisogno del « vuoto nel tutto », oppure essa sarà piuttosto ignorata, respinta
dalla lotta contro altri bisogni, più tangibili?
Siamo nel semestre invernale 1929-30. È cominciata la grande disoccupazione e quindi la miseria in
seguito alla crisi economica mondiale. Heidegger arrischia un breve sguardo sulle scene di
indigenza contemporanee: « Ovunque vi sono sconvolgimenti, crisi, catastrofi, stati di necessità:
l’odierna miseria sociale, il disordine politico, l’impotenza della scienza, il logoramento dell’arte, la
mancanza di fondamento della filosofia, la debolezza della religione. Certo, stati di necessità ve ne
sono ovunque ».24 Contro questi stati di necessità ci si appella a programmi, partiti, soluzioni, ci si
dà da fare in ogni modo. Ma, dice Heidegger, « questa irrequieta legittima difesa contro gli stati di
necessità impedisce che uno stato di necessità sorga e si diffonda nella sua totalità ».25
Lo « stato di necessità » non è dunque una qualche singola miseria, ma è piuttosto la quintessenza
del carattere di oppressione di cui si può fare esperienza anche proprio nello stato d’animo della
noia, è «questo, che nell’uomo entra in tensione l'esserci in quanto tale, che gli viene assegnato il
compito di esser-ci ».26 Chi si sottrae a questa « oppressione essenziale »27 è privo di quella
caparbia ostinazione che costituisce per Heidegger l’eroismo quotidiano. Chi non ha conosciuto la
vita come « fardello » in questo senso, non ne sa niente nemmeno del «mistero» dell’esserci, e
quindi «resta privo di quell’intimo sgomento che ogni mistero porta con sé e che dona all'esserci la
sua grandezza».28
Il mistero e lo sgomento. Heidegger allude alla definizióne del numinoso in Rudolf Otto. Questi
aveva spiegato l’esperienza religiosa come uno sgomento di fronte a una potenza che ci si fa
incontro come mistero. Heidegger riprende i tratti del numinoso così inteso, ma cancella il
riferimento ultraterreno. L’esserci stesso è il numinoso, ciò che inquieta e sgomenta
misteriosamente. Lo sgomento è l’accrescersi drammatico dello stupore per il fatto che c’è qualcosa
e non niente; l’enigma che sgomenta è l'esserci nel suo nudo «che». Di questo sgomento si parla
anche nelle frasi seguenti, e ciò merita di essere sottolineato, poiché a esse è stato attribuito in
seguito un senso specificamente politico che a quell’epoca ancora non possedevano: « Se,
nonostante tutti gli stati di necessità, l’oppressione del nostro esserci oggi resta assente, e se manca
il mistero, per noi si tratta, innanzi tutto, di ottenere per l’uomo quella base e quella dimensione
all'interno della quale incontri di nuovo qualcosa come un mistero del suo esserci. Che per questa
richiesta, e per lo sforzo di avvicinarsi a quello, l’uomo medio d’oggi - piccolo borghese - si
allarmi, e a volte si senta persino svenire, così da aggrapparsi tanto più spasmodicamente ai suoi
idoli, è perfettamente logico. Desiderare qualcosa d’altro sarebbe un fraintendimento. Dobbiamo in
primo luogo richiamare nuovamente nel nostro orizzonte ciò che in grado di incutere sgomento al
nostro esserci ».29
Chi può incutere questo sgomento? Per il momento non è ancora altri che il filosofo carismatico, il
cui destino «particolare » è « di essere per gli altri l’occasione che li desta alla filosofia ».30 In altre
parole è Heidegger stesso che si attribuisce questo ruolo. Incutere sgomento e destare alla filosofia:
per ora sono ancora la stessa cosa.
Come se avesse presagito che la sua affermazione potesse essere fraintesa politicamente come un
invito all’« uomo forte », Heidegger osserva alla fine di questo passo che nessun evento politico,
nemmeno la guerra mondiale, è in grado di produrre questo destarsi dell’uomo per se stesso. Non si
tratta ancora quindi di una esperienza politica di risveglio, ma di una esperienza filosofica. Da qui
anche la critica di Heidegger a tutti quei tentativi di erigere in campo politico « l’edificio di una
visione del mondo».31 Se l'esserci è divenuto « trasparente » a se stesso, smette di erigere tali
edifici. «Evocare e ridestare » l'esserci nell’uomo32 non significa altro che metterlo in movimento
in modo tale che questi edifici debbano crollare.
Heidegger si è già lasciato alle spalle un lungo percorso: nell’edizione a stampa del corso sono ben
260 pagine. Le domande metafisiche fondamentali poste in apertura: Che cos’è il mondo? Che
cos’è la finitezza? Che cos’è la solitudine? sono intanto quasi del tutto dimenticate. Adesso
Heidegger torna a sollevarle, ricordando che gli esercizi sulla noia svolti fin qui erano una
preparazione: il tentativo cioè di destare o di mettere in scena uno stato d’animo in cui « mondo », «
finitezza » e « solitudine » si incontrino in modo tale da rendere possibile in generale il lavoro del
concetto. Tutto dipende dal « come » di quest’incontro. Ciò che dev’essere compreso, deve innanzi
tutto essere accaduto, qui e ora, nelle ore pomeridiane del giovedì del semestre invernale 1929-30.
Il « mondo come un tutto ». Perché c’è bisogno di un particolare stato d’animo per farne
esperienza? Il « mondo » c’è pur sempre; esso è tutto ciò che c’è. Ci troviamo pur sempre in mezzo
a esso. Certo. Ma adesso sappiamo anche che per Heidegger questo quotidiano soggiornare nel
mondo è al tempo stesso Tessere caduti in esso. Noi siamo scomparsi in esso. E perciò egli
evidenzia lo stato d’animo della noia, perché in essa, come anche nello stato d’animo dell’angoscia,
che viene analizzato in Essere e tempo, l'« intero del mondo » si rivela sospinto a una distanza che
rende possibile l’atteggiamento metafisico dello stupore o dello sgomento come terzo atto di un
dramma esistenziale. Nel primo atto si entra, quotidianamente, nel mondo, e il mondo ci riempie;
nel secondo atto tutto si allontana: l’evento del grande vuoto, la triplice negatività (il « non » stesso,
la nullità del mondo, la mancanza di riferimento); nel terzo atto infine ciò che si era ritirato, il
proprio se-stessi e il « mondo », fa nuovamente ritorno. Il sé e le cose diventano in una certa misura
« più essenti », guadagnano una nuova intensità. Questo è il punto in cui tutto va a parare.
Raramente Heidegger l’ha detto con una formulazione così chiara e scoperta come in questo corso:
« Non si tratta di niente di meno che di riappropriarsi di questa dimensione originaria dell’accadere
nell’esistenza che filosofa, per tornare soltanto allora a ’vedere’ tutte le cose in modo più semplice,
più forte e più tenace ».33
Il « mondo come un tutto » è un tema troppo grande per lo sguardo della ricerca. Proprio per questo
Heidegger vuole mostrare che questo grande tema, anche se fosse troppo grande per la ricerca,
viene vissuto quotidianamente e immediatamente in questi stati d’animo come la noia e l’angoscia,
e invero nel ritrarsi da parte del mondo. A partire dalla fine si fa chiaro che l’analisi minuziosa della
noia non è nient’altro che un tentativo di descrivere il modo in cui abbiamo «il mondo come un
tutto ».
Ma adesso la prospettiva può anche essere rovesciata. Che noi « abbiamo mondo » è un fatto; altra
cosa è che il mondo « abbia » noi. Non solo nel senso che noi ci risolviamo nel mondo del «Si» e
del «prendersi cura dell’utilizzabile». Questo Heidegger l’aveva già mostrato in Essere e tempo. Ma
piuttosto nel senso che noi apparteniamo al regno della natura.
Nella seconda parte di questo corso Heidegger presenta per la prima volta una sorta di filosofia
della natura, un tentativo che rimane unico nella sua opera, e che in seguito non ripeterà più. Quale
sia il significato che gli attribuisce, si può desumere dal fatto che egli metta queste considerazioni
alla pari con Essere e tempo e accanto a esso.
Un anno prima erano apparse due opere poderose di antropologia filosofica: La posizione dell'
uomo nel cosmo di Max Scheler e I gradi dell’organico e l' uomo di Helmuth Plessner.
Scheler e Plessner cercavano in modo diverso di scoprire la connessione e la cesura fra l’uomo e il
resto della natura, mettendo reciprocamente insieme i risultati dell’indagine biologica e la
spiegazione filosofica. In Essere e tempo Heidegger aveva sottolineato così fortemente la
separazione fra Tesserci e la natura extraumana che, come ebbe a dire criticamente in seguito Karl
Lowith, doveva sorgere l’impressione di un distacco dell’esistenza umana dai suoi presupposti
corporei e naturali. Scheler e Plessner, entrambi stimolati anche da Heidegger, ricollocarono l’uomo
nel contesto della natura ma, e questo era ciò che li interessava, senza naturalizzarlo.
Fu in particolare il tentativo di Scheler a destare grande attenzione. Heidegger si sentì sollecitato a
compiere una propria escursione nel campo di una antropologia che includesse la filosofia della
natura.
Del mondo fa parte la natura. Ma si può dire che la natura extraumana abbia « mondo »? La pietra o
l’animale hanno un mondo, oppure soltanto compaiono in esso? Vale a dire in un orizzonte
mondano che c’è solo per l’uomo, per quest’essere naturale che è creatore di mondo?
In Essere e tempo Heidegger aveva dichiarato che il modo d’essere della natura, l’inorganico e
l’organico, la vita legata al corpo, «è accessibile solo a un’osservazione distruttiva». Ma non è
affatto così semplice: la coscienza deve cogliere ciò che è privo di coscienza, la conoscenza deve
conoscere ciò che è privo di conoscenza. L’esserci deve comprendere un ente per il quale questo «
ci » non c’è affatto.
La parte di questo corso che concerne la filosofia della natura è una singolare meditazione sul « ci »
e su come possiamo comprendere la natura, che non conosce questo « ci ». Heidegger vuole
penetrare in questa oscurità, per tornare a gettare da lì uno sguardo sull’uomo. Uno sguardo
straniante, per il quale l’evento del farsi chiare delle cose all’uomo, e in generale nella natura,
diventa qualcosa di totalmente insolito. Si tratta di scoprire, a partire dalla natura, che nell’uomo si
è spalancato un esser-ci - una « radura » (Lichtung), come dirà Heidegger in seguito - al quale
possono apparire le cose e gli esseri che sono nascosti a se stessi. È Tesserci che offre il
palcoscenico alla natura. L’unico senso della filosofia heideggeriana della natura è la messa in scena
dell’epifania di questo « ci ».
Le cose e gli esseri si presentano davanti a noi. Ma noi possiamo anche calarci in essi? Possiamo
condividere il loro modo di essere? Essi ce lo comunicano, e noi ci mettiamo in comunicazione con
essi?
Noi dividiamo con loro un mondo in cui essi sono sprofondati e che per noi « ci » è. E in questo
senso noi conferiamo loro quel « ci » che essi stessi non hanno. E noi riceviamo da loro la magia di
questa quiete e di questo totale abbandonarsi a ciò che essi sono. Da questo punto di vista possiamo
esperire in noi stessi persino una mancanza di essere.
Heidegger comincia il suo percorso con i sassi. Il sasso è « privo di mondo ». Esso si presenta nel
mondo senza essere in grado di instaurare da sé una relazione con il mondo. Nella descrizione del
rapporto con il mondo proprio degli animali Heidegger segue soprattutto le indagini di Jacob von
Uexkull, che definisce l’animale « povero di mondo ». Il suo ambiente è la « cerchia circostante »
dalla quale gli impulsi dell’animale vengono « irretiti ».34 Conformemente agli impulsi che
provengono da essa vengono attivate e « dischiuse » determinate forme di comportamento e
appetizioni. Il mondo per l’animale è «ambiente». Esso non può vivere separato da questo.
Heidegger cita il biologo olandese Buytendijk: « Viene dunque in luce che nell’intero mondo
animale l’es-ser-vincolato dell’animale al suo ambiente è profondo quasi come l’unità del corpo
».3S Questo « ambiente » come ampliamento del corpo è detto da Heidegger « cerchio disinibente».
L’animale reagisce a ciò che spezza questo cerchio; reagisce a qualcosa e in tal senso è in relazione
con questo qualcosa, ma non percepisce il qualcosa come questa determinata cosa; in altre parole,
non percepisce il fatto di percepire qualcosa. L’animale ha una certa apertura nei confronti del
mondo, ma
il mondo non può essergli « manifesto » come mondo. Questo accade soltanto nell’uomo. Fra
l’uomo e il suo mondo si apre uno spazio di gioco. Il legame con il mondo si è allentato a tal punto
che l’uomo può entrare in relazione con il mondo, con se stesso, e con sé come qualcosa che accade
nel mondo. L’uomo non è soltanto differenziato, può anche differenziarsi in sé rispetto ad altro; ed è
in grado non solo di rapportarsi a cose differenti, ma anche di operare differenziazioni fra le cose.
Questo « spazio di gioco », che abbiamo già incontrato, Heidegger lo chiama « libertà ». L’ente
semplicemente presente riceve un altro carattere di realtà nell’orizzonte della libertà: esso si
distingue come reale sullo sfondo del possibile. Un essere che ha delle possibilità non può far altro
che considerare la realtà come realizzazione di possibilità. Lo spazio di gioco del possibile, che si
apre per l’uomo, conferisce al reale contorni precisi, nettezza, unicità. Esso si colloca in un
orizzonte di confrontabilità, di genesi e di storia, e quindi anche di tempo. Tutto ciò consente che un
qualcosa possa essere fissato, distinto, interrogato come questo qualcosa. Al di fuori dell’«
irretimento » in cui il mondo viene vissuto, ma non esperito, il mondo emerge come espressamente
percepito. Al possibile si lega il pensiero che qualcosa potrebbe anche non essere. In tal modo il
mondo riceve una peculiare trasparenza. Esso è, sì, tutto ciò che è, ma proprio per questo non è
tutto. E' calato nello spazio ancora più grande di ciò che è possibile e di ciò che è nullo. Soltanto
perché abbiamo il senso dell’assenza è possibile che noi esperiamo la presenza in quanto tale - nella
gratitudine, nello stupore, nello sgomento, nella gioia. La realtà, così come è esperita dall’uomo, è
aggrovigliata nel movimento dell’avvenire, dell’occultarsi e del mostrarsi.
Questa familiarità con il possibile e con il niente (che non c’è nel riferimento al mondo da parte
dell’animale) mostra quel riferimento allentato al mondo che Heidegger chiama « formatore di
mondo ».
Così come Max Scheler nel suo progetto antropologico La posizione dell’uomo nel cosmo aveva
spiegato la personalità spirituale dell’uomo rifacendosi all'immagine schellinghiana del «Dio che
diviene» nell’uomo e per mezzo dell’uomo, anche Heidegger, alla fine del suo corso, si richiama a
un altro grande pensiero di Schelling: con l’uomo la natura apre gli occhi e osserva di esserci.
Questo « raggio di luce » schellinghiano36 è chiamato da Heidegger il « luogo aperto » che si è
spalancato nell’uomo in mezzo all’ente rinchiuso nella naturalità. Senza l’uomo l’essere sarebbe
muto: ci sarebbe, ma non sarebbe il vero. Nell’uomo la natura è giunta all’autotrasparenza.
Questo corso dell’inverno 1929-30, certo il più importante che Heidegger abbia tenuto, è già quasi
una seconda opera principale. Esso era cominciato destando e analizzando la noia, questo stato
d’animo di fioco rapimento. Si conclude rovesciando questo rapimento annoiato in un entusiasmo di
tutt’altro genere. Si tratta di uno dei pochi passi di Heidegger ricolmi dello spirito della gioia di
vivere: «L’uomo è quel non-poter-restare eppure non-poter-lasciare-il-posto [...] E soltanto dov’è la
perigliosità del provare orrore è la beatitudine della meraviglia - quell'insonne rapimento estatico
che è il soffio vitale di ogni filosofare ».37
12. Bilanci alla fine della Repubblica. Plessner.
Il crollo delle « volte ». Amico e nemico. L'equivoco di Heidegger: il singolo o il popolo? La prima
chiamata a Berlino. Karl Mannheim.
La disputa sulla sociologia del sapere, il tentativo di salvare il liberalismo.
Vivere con l'« inappianabile ». Heidegger nella caverna di Platone. L'idea di ciò che fa essere.
Come l'ente diventa più ente.
NEL 1928, poco prima della sua morte, Max Scheler disse in una conferenza: « In circa diecimila
anni di storia noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato in tutto e per tutto problematico a
se stesso, in cui l’uomo non sa più che cos’è, ma in cui sa anche di non sapere ». 1
La diagnosi di Scheler si riferisce a due aspetti della situazione storica alla fine del periodo di
Weimar. Il primo aspetto concerne la frammentazione in una molteplicità di ideologie e visioni del
mondo in lotta fra loro. Quasi tutte si intonano alla catastrofe, alla rottura e al mettersi in cammino,
e tuttavia producono nel loro complesso soltanto la sensazione di una mancanza di vie d’uscita.
« È come se il mondo si fosse liquefatto e ci scivolasse via fra le mani»:2 così Walther Rathenau
descriveva già nel 1912 una evoluzione il cui stadio avanzato può essere commentato solo
satiricamente da Robert Musil verso la fine della Repubblica di Weimar: « Non appena arriva un
nuovo ’ismo’ si crede che ci sia un uomo nuovo, e con la chiusura di ogni anno scolastico ha inizio
un’epoca nuova [...] L’incertezza, la mancanza di energia, le tinte fosche caratterizzano tutto ciò che
oggi è ’anima’ [...] Com’è naturale, tutto questo trova riscontro in un’inaudita meschinità spirituale
del singolo [...] I partiti politici degli agricoltori e degli artigiani hanno filosofie diverse [...] Il clero
ha la sua rete, ma anche gli steineriani hanno milioni di adepti, e le università vogliono anch’esse
contare: in effetti una volta lessi in un fo-
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glio sindacale dei camerieri che c’è una visione del mondo propria dei garzoni di trattoria, che
devono essere sempre tenuti in considerazione. È una Babele: da mille finestre si sentono urlare
mille voci diverse ».3
La produzione ideologica degli anni di Weimar reagisce all’evidente sovraccarico cui era sottoposto
il modello tradizionale di interpretazione e di orientamento a causa dei nuovi eventi e delle nuove
condizioni di vita. Di queste nuove condizioni fa parte il pluralismo proprio di una società liberale
aperta, che si definisce proprio nel non porre come vincolante nessuna visione del mondo e nessuna
immagine dell’uomo. Il vincolo non sta più nelle affermazioni di contenuto, ma solo nelle regole
del gioco che, almeno nelle intenzioni, vogliono costringere alla coesistenza pacifica anche progetti
fra loro opposti. Nell’ambiente pluralista, caratterizzato dalla varietà spirituale, le cosiddette «
verità » vengono declassate a semplici opinioni. Una pretesa che suonava offensiva per tutti quelli
che credevano di avere trovato la parola salvifica. La democrazia come forma di vita relativizza le
pretese di verità assoluta. Hans Kelsen, che fra i giuristi fu uno dei pochi difensori della Repubblica,
formulò così questo concetto: « Alla visione metafisico-assolutistica del mondo è correlata una
concezione autocratica, a quella critico-relativistica l’atteggiamento democratico. Chi ritiene che la
verità assoluta e i valori assoluti della conoscenza umana siano cose inaccessibili, deve quanto
meno ritenere possibile non solo la propria opinione, ma anche quella opposta degli altri. Perciò il
relativismo è la visione del mondo presupposta dal pensiero democratico ».4
Nella società di Weimar tutti approfittano delle garanzie liberali di libertà di opinione e di pensiero,
ma coloro che sono disposti ad accettarne anche le conseguenze, vale a dire il relativismo, sono una
sparuta minoranza. Uno studio del 1932 sull’atteggiamento spirituale della gioventù tedesca giunge
alla conclusione che per gran parte dei giovani il liberalismo è morto: « Questi giovani serbano un
indicibile disprezzo per il mondo 'liberale’ che definisce l’assolutezza spirituale poco
rispettosamente come estraneità al mondo; essi sanno che i compromessi sono, nella sfera spirituale,
l’inizio di tutti i vizi e di tutte le menzogne ».5
Un portavoce di questo antiliberalismo fu il filosofo russo
Nikolaj Berdjaev, a quel tempo molto letto in Germania, che negli anni ’20 conobbe e imparò a
disprezzare a Berlino il laboratorio della modernità. Il suo saggio II nuovo Medioevo (1927) fa i
conti con la democrazia, alla quale rimprovera di lasciar decidere alla maggioranza dei voti che cosa
sia verità.
«La democrazia è amante della libertà, non perché abbia rispetto dello spirito umano e della
personalità umana, ma solo per indifferenza nei confronti della verità ».6
Berdjaev equipara la democrazia alla mancanza di rispetto per lo spirito. Anche Max Scheler parla
dell’imperversare del disprezzo dello spirito, che è, dopo la mancanza di vie scita, il secondo
aspetto della sua analisi filosofica del presente. Ma Scheler non mette in conto alla democrazia
questo disprezzo dello spirito, bensì ai suoi avversari. Per lui sono sprezzanti dello spirito tutte
quelle aspirazioni che si sottraggono agli sforzi di civilizzazione, proponendo cose che presumono
essere naturali ed elementari ed evocando come potenze originarie sangue e suolo, istinto, ebbrezza,
comunità di popolo e destino. « Tutte queste cose preludono a una rivolta sistematica degli istinti
nell’uomo della nuova età del mondo.»7 È in corso, dice Max Scheler, una sollevazione contro la
ragione dell’accordo. In maniera analoga Thomas Mann, sollecitato da Scheler, aveva descritto nei
suoi Discorsi ai tedeschi (1930) l'habitus spirituale dominante del proprio tempo. Egli parla di «
scolari scatenati » che si sono sottratti alla « scuola idealistico-umanistica » e che inscenano ora un
«ballo di san Vito del fanatismo». « All’eccentricità della situazione spirituale di un’umanità
sfuggita all’idea corrisponde una politica di stile grottesco, con atteggiamenti da esercito della
salvezza, convulsioni di massa, chiasso da bancarella, alleluia e ripetizioni salmodianti di slogan
monotoni, finché non viene la bava alla bocca. Il fanatismo diventa il principio di salvezza,
l’entusiasmo un’estasi epilettica, la politica diventa l’oppio delle masse del Terzo Reich o
un’escatologia proletaria, e la ragione nasconde il suo volto. »8 Thomas Mann loda la ragione
oggettivamente repubblicana del movimento operaio socialdemocratico. Egli punta sulle energie
politiche del centro-sinistra e mette in guardia gli intellettuali dall’erosione delle convinzioni
umanistiche di fondo, consiglia la diffidenza di fronte alle esaltazioni di un cuore avventuroso che,
affamato di intensità, vuole la rivolta a
ogni costo e celebra la distruzione come estasi metafisica. Thomas Mann se la prendeva con quei
selvaggi del tipo di Ernst Jünger, il quale a metà degli anni ’20 dichiarò: « Non staremo da nessuna
parte, se non dove il lanciafiamme ha compiuto la grande purificazione per mezzo del nulla ».9
Thomas Mann ragiona in modo espressamente politico, mentre Scheler resta sul terreno della
filosofia. Egli prende posizione a favore di un esame di coscienza da parte dello spirito, il quale
deve rendersi conto in senso autocritico che l’epoca delle grandi sintesi spirituali è davvero finita.
Ma non per questo lo spirito deve tirarsi indietro e rassegnarsi. Esso deve invece cogliere la propria
problematicità come un’opportunità. Scheler attribuisce un significato sublime alla mancanza di vie
d’uscita. La sua ultima opera, La posizione dell’uomo nel cosmo, si conclude come è noto
considerando che la perdita di certezze potrebbe essere al tempo stesso un processo attraverso il
quale nasce un nuovo Dio. Un Dio non più della « custodia e protezione » e di « sovrannaturale
onnipotenza»,10 ma un Dio della libertà. Un Dio che noi facciamo crescere con la nostra azione
libera, la nostra spontaneità e iniziativa. Questo Dio non offre asilo alcuno ai fondamenti malati
della modernità. « L’essere assoluto non esiste per sostenere l’uomo, né per colmare quelle
debolezze e quei bisogni che tendono sempre a trasformarlo in ’oggetto’.»11
Il Dio di Scheler si mostra dunque nel coraggio della libertà. Bisogna affrontare e superare le attuali
turbolenze e mancanze di orientamento. Dalla forza che oppone resistenza alle unilateralità
fanatiche e ai dogmatismi nascerà un nuovo umanismo come « idea del logos eterno, oggettivo, la
penetrazione [...] nei misteri del quale [...] non spetta a una nazione, a una sfera della cultura, bensì
a tutti, ivi compresi coloro che verranno in futuro, nella cooperazione [...] solidale di soggetti
culturali insostituibili perché individuali ».12
In un saggio del 1931, Potere e natura umana, Helmuth Plessner cita queste considerazioni di
Scheler come esempio della necessità, evidentemente non scomparsa nemmeno fra gli spiriti liberi,
di reperire formule di livellamento, di costruire una copertura a volta sotto cui dare riparo a una
situazione spirituale rimasta senza tetto. « Come possiamo noi, qui, dove tutto è un fluire, sperare in
qualche sintesi duratura, che non sia superata già dopo pochi anni? Dalle coperture a volta non c’è
da aspettarsi altro, se non che esse possano crollare. »13
Il principio antropologico di Plessner è il seguente: l’uomo è definito dal fatto di non essere
definibile una volta per tutte, perché qualsiasi quadro di riferimento etico, scientifico
o religioso entro cui collocare una possibile definizione è esso stesso un prodotto storico dell’uomo.
L’« uomo », nel senso della sua definizione, della sua essenza, rimane sempre un’invenzione della
cultura da lui creata. Tutte le affermazioni sull’ uomo non sono mai in grado di coglierlo come una
grandezza oggettuale definita. Ogni possibile prospettiva scaturisce dalla « sfera di potere della
soggettività creatrice». Questa dev’essere pensata in senso radicalmente storico. Ma la storia non è
solo il « palcoscenico » sul quale « le parole vanno e vengono secondo un qualche nesso che veicola
valori sovratemporali »; bisogna intenderla piuttosto come «luogo di produzione e annientamento
dei valori ».14 Ma anche questa idea della storicità è un’idea storica. Anche l’idea
dell’autorelativizzazione dei valori attraverso la storia non è una posizione assoluta. Vi sono state e
vi sono ancora culture che non conoscono questo tipo di riflessione critica su se stesse. Quello che
rimane è il riconoscimento « sconvolgente» dell’« insondabilità » dell’uomo. Esso è insondabile
perché continua ad avere sempre davanti a sé i propri fondamenti. Ciò che l’uomo è risulta sempre,
di volta in volta, solo nell’attimo della decisione. La determinazione dell’uomo è
l’autodeterminazione. L’uomo è ciò per cui si sarà deciso. Esso si progetta a partire da una
situazione di indeterminatezza. « In questa relazione di indeterminatezza nei confronti di se stesso,
l’uomo si concepisce come potere e scopre se stesso, sul piano teoretico e pratico, come una
questione aperta per la propria vita. »15
Da ciò Plessner trae questa conseguenza: non è la filosofia, bensì l’agire pratico nelle situazioni
necessariamente confuse, a decidere di volta in volta che ne è dell’uomo in quel determinato
momento storico. L’essenza dell’uomo non può essere reperita in « nessuna definizione di una
situazione neutrale ».16 Ora, in questo contesto, Plessner comincia a parlare di Heidegger: la sua
ontologia fondamentale, afferma Plessner, si spinge già troppo in là nella definizione dell’esserci
umano.
I concetti esistenziali di Heidegger sono storicamente indifferenti, e questo è il loro difetto. Per
esempio il concetto stesso di storicità non viene inteso storicamente.
Max Scheler e Martin Heidegger eseguono, secondo Plessner, in modo diverso la loro « sinfonia di
prospettive verso l’assoluto».17 L’uno pone l’assoluto nello spirito creatore, l’altro nei fondamenti
conformi all’esserci.
In Heidegger ciò conduce in fin dei conti a un disprezzo nei confronti di tutta la sfera politica,
considerata come un ambito del « Si » e dell’« inautenticità », separato dall’ambito distinto del se-
stesso autentico. Ma questo non è altro che 1’« interiorità » tedesca, l’ultima fuga metafisica di
fronte alla potenza della storia.
Helmuth Plessner vuole invece che la filosofia venga esposta dall'interno a questa potenza, anche se
è possibile che essa ne rimanga stritolata. La filosofia deve affrontare « la realtà senza fondo »,18
vale a dire: accorgersi che, volente
o nolente, essa stessa si trova nelle « relazioni vitali primitive di amico e nemico».19 Per essa non
esiste alcuna possibilità di starsene rilassata al di fuori, non c’è alcuna posizione al di sopra delle
parti in lotta. Il tempo non consente alcun rilassamento universalistico, non c’è modo di tirare il
fiato; una filosofia che intenda affrontare la realtà deve addentrarsi nei rapporti elementari di
amicizia e inimicizia e cercare di capirli, comprendendo anche se stessa a partire da quelli. Qui
Plessner si richiama esplicitamente alla definizione del politico di Carl Schmitt.
II saggio di Helmuth Plessner fu scritto in un momento in cui in Germania era già cominciata la
guerra civile. Il successo dei nazionalsocialisti alle elezioni di settembre del 1930; le sa che
marciano e danno battaglia per le strade alla Lega dei combattenti del fronte rosso e ai difensori
della Repubblica: il centro politico, la ragione del confronto, viene stritolato. Lo stile politico è
determinato dalla formazione di fazioni militanti.
In questa situazione Plessner esige che la filosofia si svegli finalmente dal suo sogno che le fa
credere di poter cogliere il «fondamento» dell’uomo. Essa non è più intelligente della politica.
Entrambe hanno il medesimo campo visivo, «che è aperto sul luogo insondabile dal quale la
filosofia e la politi ca, osando anticipare le cose, [...] danno forma al senso della nostra vita ».20
Il concetto della storicità, intesa in senso radicale, conduce Plessner alla convinzione che la filosofia
debba confrontarsi con la sfera rischiosa del politico, non solo a causa di un dovere esteriore, ma a
partire dalla sua stessa logica interna. Ma se la filosofia si mette accanto alla politica, comprende
quanto le sia difficile essere all’altezza dei tempi. Il pensiero filosofico « non è mai arrivato così
lontano come la vita, ed è sempre più avanti della vita ».21 Un presente spirituale, come quello del
momento storico attuale, sembra pretendere costituzionalmente troppo dalla filosofia. Per questo
essa si è limitata di norma, a formulare principi o prospettive future. Essa si mantiene o nell’ambito
dei presupposti o in quello delle aspettative. Essa rifugge dal presente confuso e dall’attimo della
decisione. La politica è invece, secondo Plessner, « l’arte del momento giusto, dell’occasione
propizia. Tutto dipende dall’attimo ».22 Plessner esige dunque una filosofia che si apra all’« attimo
».
Che cosa richiede l’attimo dal filosofo nel 1931? La risposta di Plessner è questa: egli deve cogliere
il significato del «popolo». «L’essere popolo è un tratto fondamentale dell’uomo: come il saper dire
io-e-te, come la familiarità e l’estraneità.»23 È un cattivo idealismo quello che fa semplicemente
sparire questa appartenenza nell’idea di una umanità universale. Ciò che è proprio deve affermarsi,
e ciò vale tanto per il singolo quanto per il popolo. Ma questa autoaffermazione non significa
predominio e gerarchia. Poiché tutti i popoli e tutte le culture scaturiscono dal « fondo di potere »
della « soggettività creatrice », Plessner ammette la « parità democratica dei valori di tutte le culture
»24 e spera nel « lento e progressivo superamento dell’assolutizzazione del proprio popolo ».25
Questo significa, tradotto in termini esplicitamente politici: autoaffermazione nazionale contro le
pretese del trattato di pace di Versailles e contro il pagamento dei danni di guerra, e al tempo stesso
rifiuto dello sciovinismo nazionale o addirittura razzistico. Al tempo stesso l’appartenenza al
proprio « popolo » contiene un « aspetto di assolutezza», dato che il singolo non può disporre della
sua appartenenza, ma si trova già sempre calato in essa. « Per l’uomo tutti i problemi politici sono
racchiusi nell’orizzonte del suo popolo, dato che egli esiste solo in questo orizzonte, nel rifrangersi
casuale di questa possibilità. » Questa situazione non consente all’uomo «alcuna realizzazione pura,
né nel pensiero, né nell’azione [...] ma soltanto relativa a un determinato popolo, al quale già
appartiene per sangue e tradizione ».26
Plessner conclude il suo saggio con una seconda critica a Heidegger, cui rimprovera l’assenza di
riferimento al « popolo». Con la sua filosofia dell’autenticità egli rende più profondo quello «
strappo fra una sfera privata della salvezza dell’anima e una sfera pubblica del potere » che è tipico
della Germania. Egli favorisce 1’«indifferentismo politico». Si tratta, secondo Plessner, di un
pericolo per « il nostro Stato e il nostro popolo ».
Ho parlato così esaurientemente di Plessner perché la sua filosofia, che si rifà a Heidegger, compie
con grande dispendio di riflessione quella politicizzazione e nazionalizzazione che in Heidegger
avvengono invece in maniera piuttosto nascosta. Ma proprio perché questi processi, per quanto
nascostamente, sono avvenuti, quando nel 1931 appare la critica di Plessner, Heidegger non ha più
bisogno di sentirsene colpito. Infatti anch’egli è ormai in procinto di cercare una relazione esplicita
con il « popolo », e quindi anche con la politica, lungo percorsi analoghi a quelli di Plessner.
Ricordo ancora una volta il ragionamento di Essere e tempo su « storicità», « destino » e « popolo
»: in quell’opera il legame con la comunità popolare aveva già rivestito un suo ruolo, anche se non
centrale. L’ideale di esistenza di Essere e tempo si attaglia certo al libero riferimento a se stesso da
parte del singolo, e tuttavia Heidegger non vuole intenderlo come un individualismo. Per questo egli
sottolinea le potenze fattuali dell’esserci proprie della comunità e del popolo, che devono essere
assunte come aspetti della gettatezza nel proprio progetto esistenziale. Chi ha lottato per accogliere
la gettatezza del proprio esserci « senza illusioni »,27 deve anche osservare che non può scegliere il
proprio popolo, cui appartiene, e che è gettato anche nel popolo, perché è nato all’interno della sua
storia, della sua tradizione e cultura. Heidegger chiama « destino-comune » (Geschick) questa
implicazione del singolo esserci nello « storicizzarsi della comunità, del popolo ».28 Questa
coappartenenza può tuttavia - come anche gli altri aspetti della vita - essere vissuta in modo
differente: in modo « autentico » o « inautentico ». L’esserci può « assumersi » consapevolmente
questo « destino-comune » del popolo; esso è pronto a dare il proprio contributo per reggere questo
« destino-comune », a esserne responsabile; fa propri gli interessi del suo popolo, fino a rendersi
disponibile al «sacrificio» della propria vita; esso «si sceglie i propri eroi»29 dal patrimonio di
tradizioni di quel popolo. Ma nel fare tutto ciò il singolo non sacrifica la propria autoresponsabilità.
Il rapporto autentico con il popolo rimane un rapporto con il proprio se stesso. Si comporta invece
in modo inautentico chi cerca la comunità del popolo per sfuggire al proprio se stesso; per costui il
« popolo » non è altro che il mondo del « Si ».
Poiché dunque c’è un modo autentico e uno inautentico di rapportarsi al popolo, il discorso sul
popolo e sull’appartenenza al popolo deve restare in quell’« equivoco » che concerne tutto ciò che è
inteso in senso « autentico ». « Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in
realtà non lo è; oppure non sembra tale, ma in realtà lo è. »30
In Essere e tempo Heidegger non è andato al di là di questo « equivoco ». Si parla di popolo e di
destino comune, ma il pensiero non si sforza ancora di riuscire a capire per che cosa è scoccata
l’ora, che cosa esiga concretamente il momento storico. Heidegger non si è ancora cercato i « propri
eroi». Egli non ha ancora abbandonato l’ambito terminologicamente protettivo dei principi, quello
dell’ontologia fondamentale. La storia concreta è sospettata di inautenticità, oppure viene
formalizzata come « storicità », un guscio vuoto che può accogliere qualsiasi « sostanza » storica,
come anche nessuna. Il pensiero esige da se stesso un’apertura storicopolitica (« destino-comune del
popolo »), ma ancora non la realizza.
La critica contemporanea aveva notato benissimo questo «equivoco », questa posizione oscillante
fra ontologia astorica e postulato della storicità. Ne sono un esempio le osservazioni critiche di
Plessner su Heidegger. E già in precedenza Georg Misch aveva sostenuto l’idea, nel corso di una
esauriente recensione di Essere e tempo, che in Heidegger il pensatore ontologico avesse avuto
partita vinta sull’ermeneutico della vita storica.
Lo stesso Heidegger, che era solito lamentare la presunta incomprensione di Essere e tempo, aveva
visto le cose in maniera simile. Infatti già poco dopo la pubblicazione di Essere e tempo cominciò a
condurre il suo pensiero nella direzione individuata da Plessner e Misch, quella di una storicità più
radicale, del riferimento al momento storico e della decisione politica.
Il 18 settembre 1932 Heidegger scrive a Elisabeth Blochmann di essere ormai lontano da Essere e
tempo e che il sentiero battuto a quell’epoca gli appare ora « coperto di vegetazione» e non più
percorribile. A partire dal 1930 egli parla spesso nelle lettere a Elisabeth Blochmann e a Karl
Jaspers della necessità di un « nuovo inizio », ma anche dei dubbi sulla possibilità di riuscita di
questo nuovo inizio. In una lettera a Jaspers del 20 dicembre 1931 ammette apertamente di « avere
osato troppo, al di là della mia forza esistenziale e senza vedere chiaramente la ristrettezza di quello
che posso oggettivamente domandare ». In questa stessa lettera egli fa riferimento all’« episodio di
Berlino », accaduto ormai da un anno.
Il 28 marzo 1930 Heidegger aveva ricevuto una chiamata a Berlino, per occupare la cattedra di
filosofia più importante della Germania. In un primo tempo la commissione esaminatrice, ancora
sotto la responsabilità di Karl Heinrich Becker, ministro prussiano della cultura, aveva preferito
Ernst Cassirer. È vero che Heidegger rientrava già nella ristretta cerchia dei candidati, ma i suoi
oppositori avevano avuto la meglio. Farias ha condotto un’indagine su questi fatti. Ne risulta che fu
soprattutto Eduard Spranger a schierarsi contro Heidegger. Egli aveva posto la questione se la
popolarità di Heidegger non fosse dovuta più alla sua personalità che alla sua filosofia, peraltro
poco adatta a essere insegnata e studiata. Nel verbale della commissione si scrisse infine: «
Recentemente si fa spesso il nome di Martin Heidegger. Benché la qualità delle sue pubblicazioni
sia molto controversa, è un fatto incontestabile che egli [...] eserciti una forte attrattiva personale.
Tuttavia anche i suoi sostenitori riconoscono che, fra i numerosi studenti che fanno corte attorno a
lui, non ce n’è forse nessuno che lo comprenda veramente. Oggi come oggi, Heidegger sta
attraversando una crisi: converrebbe attenderne l’esito. Farlo venire in questo momento a Berlino
sarebbe cosa nefasta ».3I
La voce che Heidegger fosse in crisi si basava da un lato sul fatto che non era ancora apparso né era
stato annunciato il secondo volume di Essere e tempo. Il libro su Kant del 1929 aveva trovato una
accoglienza contrastante, ma soprattutto non era stato inteso come parte della continuazione di
Essere e tempo. Anche il modo in cui Heidegger si presentò a Davos aveva contribuito a creare
l’impressione di una crisi. Era rimasto il ricordo del modo brusco con il quale aveva liquidato la
filosofia della cultura e aveva annunciato un nuovo inizio, che restava però esso stesso
nell’incertezza.
Nella primavera del 1930 ci fu una sostituzione nel ministero prussiano della cultura. Adolf Grimme
prese il posto di Becker. Grimme, un politico di formazione filosofica (era stato allievo di Husserl),
proveniva dalla cerchia dei socialisti religiosi che si raccoglieva attorno a Paul Tillich. Egli respinse
la lista fornita dalla facoltà, e contro l’esplicito parere di quest’ultima fece inviare la convocazione a
Martin Heidegger. Grimme voleva un professore di spicco. Inoltre l’arrivo di un antiborghese e
rivoluzionario della cultura come Heidegger non poteva spaventare un uomo come Grimme,
proveniente anch’egli dal movimento giovanile antiborghese.
I giornali liberali di Berlino si irritarono per questa imposizione da parte del ministro: « Un ministro
socialista chiama a Berlino un reazionario della cultura ».32
Nell’aprile del 1930 Heidegger si reca a Berlino per trattare, passando per Heidelberg dove vuole
consigliarsi con Jaspers. Questi aveva saputo dai giornali della convocazione e gli aveva scritto: «
Lei assume il posto più in vista e in tal modo potrà esperire e rielaborare impulsi finora non
conosciuti della sua filosofia. Mi pare che non ci possa essere occasione migliore » (29 marzo
1930).33
Poiché egli stesso in passato aveva nutrito speranze di ottenere una cattedra a Berlino, prova un «
leggero dolore [...] ma esso è il più leggero possibile, perché ora è Lei a ricevere quest’incarico ».
Heidegger, che viene informato dal ministro sull’avversione da parte della facoltà, ciò nonostante
conduce in primo tempo trattative serie. Egli richiede ad esempio che si assumano provvedimenti
affinché possa disporre la sua vita « in relativa calma, lontano dai disturbi provenienti dai traffici
della grande città» 34 dato che questa è una « condizione di base » irrinunciabile del suo fare
filosofia.
Ma, ritornato a Friburgo, Heidegger decide di rinunciare all’incarico. « La rinuncia mi è divenuta
gravosa solo in considerazione di Grimme stesso», scrive il 10 maggio 1930 a Elisabeth
Blochmann. Di fronte a Grimme egli spiega così il proprio rifiuto: « Non mi sento oggi, essendo
giunto appena all’inizio di un lavoro solido, attrezzato a sufficienza per adempiere alla cattedra
berlinese nel modo che io stesso devo pretendere da me, come da ogni altro. Solo la filosofia che è
davvero del proprio tempo, vale a dire però padrona del proprio tempo, può diventare una filosofia
che veramente resti ».35
Una frase decisiva: Heidegger ammette apertamente di non sentirsi ancora « attrezzato a sufficienza
», di non essere ancora arrivato alla « filosofia vera », che non è solo espressione del proprio tempo
nel pensiero, alla maniera di Hegel, ma che ne è « padrona », cioè che gli indica la direzione da
seguire o che, come dirà un anno più tardi nel corso su Platone, deve « superare il presente ».
Egli non si sentiva ancora all’altezza di questa esigenza posta da lui stesso, ma scrive anche di
trovarsi in cammino verso un « inizio ».
Sebbene questa prima offerta di un incarico a Berlino avesse destato molto interesse pubblico,
questa volta non c’è ancora da parte di Heidegger una dichiarazione trionfante e programmatica in
favore della « provincia », ma solo un’umile ammissione: non sono ancora pronto! La rinuncia che
Heidegger spedisce a Grimme si conclude con una preghiera di «riconoscere i limiti che sono
tracciati anche per me».36
La vera filosofia deve « essere padrona del proprio tempo », aveva scritto Heidegger. In tal modo
egli aveva posto la filosofia, e se stesso, di fronte a un grande compito: essa deve dimostrare forza
di diagnosi e prognosi del tempo e, oltre a ciò, suggerire determinate decisioni, e non soltanto la
decisione in generale. Sono richieste concezioni filosofiche politicamente pregnanti; le alternative
dell’azione devono essere visibili e, ove possibile, devono essere decise filosoficamente. Heidegger
deve pretendere tutto questo dalla filosofia, se essa vuole essere « padrona del proprio tempo ».
Con questa esigenza egli si trova in linea con la tendenza dell’epoca. Ciò appare in modo
particolarmente chiaro nella disputa sulla sociologia del sapere che animava il mondo spirituale del
tempo e che era stata sollevata dallo spettacolare intervento di Karl Mannheim al congresso
sociologico del settembre 1928. Un partecipante a questo congresso, il giovane Norbert Elias, parlò
allora di una « rivoluzione spirituale»37 che si era appena compiuta, e il sociologo Alfred Meusel
descrive il suo « senso di preoccupazione nel dover viaggiare su una nave insicura sopra un oceano
fortemente agitato».38 Che cosa era successo?
Karl Mannheim aveva parlato, nel suo intervento, del « significato della concorrenza nella sfera
spirituale », e nel far ciò aveva fatto qualcosa che a prima vista appariva come la solita spiegazione
marxistica dei prodotti spirituali a partire dalle condizioni della base sociale. La provocazione per i
marxisti consisteva nel fatto che Mannheim applicava ai marxisti stessi questa accusa di ideologia,
con la quale essi erano soliti attaccare i loro avversari. In tal modo egli metteva in discussione le
loro pretese universalistiche. Ma questa offesa dei marxisti non era sufficiente a destare una grande
attenzione nel mondo scientifico. L’attacco ebbe l’effetto di una provocazione perché egli elevò a
principio la messa fra parentesi della questione della verità nell’analisi dei prodotti spirituali.
Per Mannheim vi sono sul piano spirituale solo differenti «stili di pensiero » che stanno fra loro in
un duplice rapporto (lui stesso definisce « relazionistica » la propria impostazione): essi si
riferiscono direttamente alla realtà della natura e della civilizzazione e stanno in relazione fra loro,
la qual cosa produce un evento estremamente complesso, che consiste nel formarsi di tradizioni, di
consenso collettivo, di concorrenze e schieramenti opposti, e che appare simile a una libera
economia di mercato, se non addirittura identificabile con essa. Tutto questo processo ha
naturalmente una « base », ma questa può essere colta a sua volta mediante uno stile di pensiero.
Ciò in cui il pensiero si radica deve restare esso stesso controverso all'interno della controversia
degli stili di pensiero. Pertanto non ci può essere un concetto definito per questa « base ».
Mannheim fa uso della parola « essere », intendendo con essa la totalità di ciò cui il pensiero può
riferirsi o da cui viene sollecitato. Il pensiero, dice Mannheim, non ha mai a che fare con la nuda
realtà o con la realtà effettiva, ma si muove sempre in una realtà interpretata, intesa e compresa.
Mannheim commenta criticamente l’analisi heideggeriana del « Si ». « Il filosofo scorge questo
’Si’, questo soggetto misterioso, ma non gli interessa il modo in cui esso si genera. Ma proprio qui,
dove il filosofo cessa di interrogarsi, comincia il problema sociologico. L’analisi sociologica mostra
che questa interpretazione pubblica dell’essere non è qualcosa che c’è semplicemente, e non è
nemmeno qualcosa di inventato, bensì è oggetto di contesa. L’interesse non è guidato qui dal
desiderio contemplativo di sapere; l’interpretazione del mondo è per lo più il correlato delle lotte
per il potere da parte di singoli gruppi. »39
Il relazionismo di Mannheim non dà ragione ad alcun partito ideologico, a nessun progetto
interpretativo. Come nelle epoche della storia di Ranke, ogni prodotto culturale è equivalente, non
già davanti a Dio, ma dal punto di vista dell’essere che lo fonda. Non ci sono accessi privilegiati.
Ogni pensiero possiede, a modo suo, un « vincolo all’essere ». Ma soprattutto: è di volta in volta un
essere particolare quello in cui si radica il pensiero del singolo o dei gruppi. Alle fondamenta vi
sono le « esperienze originarie paradigmatiche di determinati settori della vita »,40 che si riflettono
poi nei diversi prodotti spirituali e che possiedono perciò un nucleo di « irriducibilità di tipo
esistenziale ».4I Perciò non ci potrà essere un livellamento completo delle differenze in una
immagine comune del mondo e nei principi dell’agire dedotti da quest’ultima. Ma secondo
Mannheim il compito politico della sociologia del sapere è quello di alleviare le opposizioni e le
tensioni riconoscendo il rispettivo vincolo all’essere a ciascuna delle « parti » che si trovano in lotta
e che concorrono alla soppressione l’una dell’altra. Attraverso quest’atto di comprensione bisogna
sottrarre alla lacerazione dell’intero una parte delle energie di ostilità. Una volta compiuto questo
passo, nella società vi sono differenti visioni del mondo le une accanto alle altre, nessuna delle quali
può avere pretese di assolutezza, e nel migliore dei casi esse portano avanti l’evoluzione storica
attraverso la loro reciproca adesione o opposizione disciplinate dall’autotrasparenza. La sociologia
del sapere dovrebbe sovrintendere alla società, che consta solo delle relazioni fra le sue parti, così
come un terapeuta-supervisore dovrebbe fare nei confronti delle coppie che litigano. Non c’è alcun
vincolo privilegiato all’essere, nessuna verità valida in senso atemporale; soltanto una certa quantità
di «intelligenza in libera sospensione» può qualificare la sociologia del sapere per il compito di
composizione e neutralizzazione politica dei contrasti, per quanto è appunto possibile. Essa sa che
non è né possibile né desiderabile che si raggiunga una totale omogeneità. Il programma politico-
spirituale della sociologia del sapere vuole appianare i contrasti attraverso la comprensione delle
inconciliabili quote di differenze legate all’essere negli « strati profondi della formazione umana del
mondo ».42
La sociologia del sapere di Mannheim è l’imponente tentativo politico-scientifico, compiuto alla
fine della Repubblica di Weimar, di salvare il liberalismo, offrendogli come base una sorta di
pluralismo ontologico. Il pensiero viene invitato a distinguere fra opposizioni conciliabili e
inconciliabili, a cercare dove possibile di operare un livellamento razionale, e altrimenti fare
intervenire il mistero della « inappianabilità di tipo esistenziale ». Karl Mannheim conclude con
queste parole; «Chi vuole trovare l’irrazionale dove ancora de iure devono operare la chiarezza e la
schiettezza dell’intelletto, ha paura di guardare in faccia il mistero laddove esso realmente si cela
».43
Heidegger ha preso atto di questo programma di distensione da parte della sociologia del sapere.
Tuttavia egli non può considerare un simile tentativo di salvare il liberalismo, riconducendolo a un
pluralismo ontologico, come un contributo alla soluzione dei problemi del tempo. Egli contesta
molto semplicemente che la sociologia del sapere si sia avvicinata anche di un solo passo al «
mistero laddove esso realmente si cela ».
Nel corso su Platone del semestre invernale 1931-32, che si occupa per un ampio tratto del mito
della caverna nella Repubblica, egli mette i sociologi del sapere fra i prigionieri nella caverna che
possono solo osservare il gioco di ombre sulla parete di fondo e non possono vedere né gli oggetti
reali né tantomeno il sole che illumina ogni cosa. Chi è stato liberato dalla caverna alla luce della
verità e fa ritorno nell’oscurità per liberare coloro che in precedenza furono prigio-
nieri con lui, non verrebbe accolto bene da costoro: «Gli si direbbe che è unilaterale e che, poiché
proviene da qualche altro posto, sostiene un punto di vista che ai loro occhi è unilaterale; e
probabilmente, anzi certamente, essi hanno laggiù una cosiddetta 'sociologia del sapere’, con il cui
ausilio gli si farà capire che egli lavora con i cosiddetti presupposti ideologici, la qual cosa
infastidisce molto, com’è naturale, la comunità dell'opinare comune all’interno della caverna, e che
perciò dev’essere respinta ». Ma il vero filosofo, che ha scorto la luce, non farà molto caso a questa
« chiacchiera della caverna »; al contrario egli « afferrerà e strapperà fuori con forza » alcuni che ne
sono degni e nel corso di « una lunga vicenda cercherà di condurli fuori dalla caverna ».44
Nel 1930 Heidegger aveva sollevato l’esigenza che la filosofia fosse « padrona del proprio tempo ».
Ma negli anni successivi lo vediamo trincerarsi sempre più a fondo nella storia del pensiero greco.
Cerca forse di sfuggire alla storia? Nel già citato corso su Platone egli respinge da sé questo
sospetto addirittura con stizza: «Nell’autentico ritorno alla storia noi prendiamo quella distanza dal
presente che, sola, ci procura
lo spazio per la rincorsa necessaria per saltare al di là del nostro presente, e considerarlo cioè
nell’unico modo in cui ogni presente in quanto tale merita di essere considerato: esso deve essere
oltrepassato [...] Alla fine solo il ritorno alla storia ci riporta in ciò che oggi propriamente accade
».45
Ma Heidegger corre il rischio di restare bloccato nella storia passata, e se la rincorsa consenta
davvero un salto nel presente gli appare per il momento una cosa incerta. L’impressione che ricava
dalla filosofia di Platone è così schiacciante che continuano a venirgli dei dubbi sul fatto che egli
abbia veramente qualcosa di suo da dire. In una lettera a Jaspers egli si definisce come una sorta di
custode nel museo della grande filosofia, la cui unica preoccupazione è di fare attenzione « che le
tende alle finestre vengano aperte e chiuse nel modo giusto, affinché le poche grandi opere della
tradizione si trovino in un certo senso sotto la luce più opportuna al passaggio degli occasionali
visitatori » (20 dicembre
1931).46
Questa caratterizzazione piuttosto curiosa di se stesso e intesa seriamente, come lascia intuire
un’osservazione contenuta in una lettera a Elisabeth Blochmann: « Quanto più forte mi accingo al
mio proprio lavoro, tanto più sicuramente ogni volta vengo ricondotto a forza al grande inizio
presso i greci. E spesso dubito se non sia più essenziale abbandonare ogni tentativo personale e
operare unicamente affinché questo mondo stia nuovamente davanti ai nostri occhi, non per la
semplice presa in consegna, ma nella sua sconvolgente grandezza ed esemplarità» (19 dicembre
1932).47
Degli inizi greci della filosofia Heidegger si era già occupato dai primi anni ’20. Ma adesso essi
agiscono su di lui con una forza tale che a volte rischia di venirgli meno la sua stessa autocoscienza
filosofica. Egli diventa umile, ma solo nei confronti dei greci, non davanti ai filosofi attuali.
L’intenso interesse di Heidegger per i greci è accompagnato dunque da uno stato d’animo
ambivalente. Si dischiude per lui un orizzonte infinito che lo riempie di slancio e gli dà una grande
sensazione di muoversi liberamente. Ma di fronte a questo orizzonte egli si sente anche piccolo e
insignificante. C’è la forte tentazione a scomparire del tutto in questo passato, ma la sua concezione
della storicità radicale, che esige dalla filosofia il rendersi « padrona » del momento storico, non gli
consente di soffermarsi presso l’« origine». Egli deve giustificare il proprio tuffo appassionato nel
passato come « rincorsa » per saltare dentro il presente. Ma ammette senza illusioni di fronte a se
stesso che, come filosofo accademico, si colloca ancora nella « ristrettezza di ciò che si può
domandare » ed è impedito dallo « sprofondare nel proprio lavoro» (a Elisabeth Blochmann, 10
maggio 1930).48 Nei suoi momenti di depressione Heidegger sa che lui stesso è seduto nella
caverna. Sugli incalzanti problemi attuali egli non ha ancora, a ben vedere, niente di particolare,
niente di proprio da dire. E ciò lo tormenta. L’umore è instabile, talvolta sente la forza di un nuovo
inizio, sente di avere gli stessi diritti di Platone; altre volte si sente vuoto, senza originalità, senza
forza creativa. Le sue intenzioni eccessive talvolta
lo coinvolgono, talaltra lo opprimono. Nei confronti di Jaspers egli riveste queste ultime con la
formula platonizzante: la filosofia ha il compito di « guida e salvaguardia sapiente » all’interno
della «dimensione pubblica autentica» (20 dicembre 1931 ).49
Che cosa trova dunque in Platone di così forte da far sì che «ciò che è proprio» sfumi nell’indefinito
(a Jaspers, 8 dicembre 1932),50 e quali sono i criteri che qualificano come tale questa « guida
sapiente »?
La prima metà del corso su Platone del 1931-32 è dedicata, come si è detto, all’interpretazione del
mito della caverna tratto dalla Repubblica. Egli descrive e spiega esaurientemente le singole fasi
della vicenda. Atto primo: gli abitanti della caverna osservano il gioco di ombre sulla parete di
fronte. Atto secondo: uno di essi viene slegato dalle catene, liberato. Atto terzo: costui può girarsi,
vede gli oggetti e il fuoco che sta dietro; viene portato fuori alla luce del giorno. Accecato,
dapprima non vede proprio niente, poi però gli oggetti risplendono davanti a lui nella luce,
diventano « più essenti », e infine egli guarda il sole, che non solo illumina tutto, ma anche fa sì che
tutto cresca e prosperi. Atto quarto: il prigioniero liberato torna nella caverna per liberare i suoi
compagni, che però si rifiutano di essere strappati via dalle loro abitudini. Il liberatore è per loro un
pazzo, ridicolo, presuntuoso e pericoloso. Lo uccideranno, se riusciranno a prenderlo.
Questo mito appare in un primo tempo chiaro come il sole, anche perché è lo stesso Platone a
interpretarlo ancora una volta. I prigionieri sono incatenati dai loro sensi esteriori, dalla loro
percezione esteriore. La liberazione scioglie il senso interno, il pensiero. Il pensiero è la facoltà
contemplativa dell’anima. Mentre l’appetizione e il coraggio, le altre due facoltà dell’anima,
rimangono impigliate nel mondo sensibile, il pensiero se ne libera e concede una visione delle cose
così come esse sono realmente. Il sole, alla cui visione si eleva il pensiero, è il simbolo della verità
suprema. Ma che cos’è questa verità? Platone dice: il bene. Ma che cos’è il bene? Il bene è come il
sole. Ciò significa due cose: in primo luogo esso fa vedere le cose, rende possibile la loro
conoscibilità, e quindi anche la nostra conoscenza; in secondo luogo esso fa sorgere, crescere e
prosperare tutto ciò che è. Il bene consente il trionfo della visibilità, di cui approfittano gli stessi
abitanti della caverna, dato che il fuoco, che proviene dal sole, fa vedere loro almeno le ombre che
si formano; e il bene fa sì che ci sia in generale qualcosa e che questo qualcosa si mantenga
nell’essere. Questo essere onnicomprensivo, che vive della forza del bene, Platone se lo rappresenta
come un vivere comune giusto e ordinato: la polis ideale.
Questo dialogo aveva preso le mosse dalla domanda sull’essenza della giustizia, e Platone spiega
esplicitamente che è difficile incontrare la giustizia, cioè l'essere ordinato dal bene, sulla via dello
studio dell’anima, e che è meglio osservarla in proporzioni più grandi, quelle appunto della polis.
Una volta che la si sia conosciuta nel makroanthropos della polis, la si potrà riconoscere anche
nell’anima del singolo. Il principio fondamentale della giustizia, che Platone presenta nello Stato
ideale, è la realizzazione della giusta misura e dell’ordine. In un mondo graduato secondo una scala
gerarchica di uomini disuguali, a ciascuno viene assegnato il posto in cui potrà sviluppare le forze
che gli sono peculiari e farle operare in vista del tutto. L’immagine delle forze che cooperano
armonicamente viene ingrandita da Platone al di là della polis, fino a raggiungere la dimensione più
ampia dell’armonia pitagorica delle sfere. Così però anche il cerchio si chiude. L’anima è di origine
cosmica e il cosmo ha natura di anima. Anima e cosmo stanno sospesi entrambi in una sfera di
quiete e immutabilità. Essi sono puro essere, in opposizione al tempo che muta, al divenire.
Ma di questo platonismo Heidegger non sa cosa farsene. Cominciamo dall’ultimo aspetto di cui si è
parlato, quello dell’ideale ontologico dell’eternità che non trapassa.
Per Heidegger il senso dell’essere è il tempo, cioè il passare e l’accadere. Per lui non c’è alcun
ideale ontologico della persistenza, e il pensiero ha per lui proprio il compito di sensibilizzare
l’uomo al trascorrere del tempo. Il pensiero dischiude l’orizzonte temporale dovunque la tendenza
quotidiana alla reificazione faccia irrigidire relazioni e situazioni in una falsa atemporalità. Il
pensiero deve « fluidificare », deve consegnare l’ente, e soprattutto l'esserci stesso, al fluire del
tempo; esso dissolve il mondo metafisico ultraterreno delle idee eterne. Niente deve più durare nel «
vortice del domandare ».
Heidegger deve dunque leggere Platone per così dire « in contropelo», se vuole ricavarne qualcosa.
Questo vale per quanto concerne l'essere, che per Platone è in quiete, e che si oppone al tempo
heideggeriano, e così pure per quanto riguarda la « verità ».
In Platone c’è una «verità» che permane, che attende quindi di essere trovata. Le ombre sulla parete
sono una pallida copia dell’originale, cioè degli oggetti che proiettano ombre e che vengono portati
davanti alla luce del fuoco, alle spalle dei prigionieri. La copia si riferisce a un originale. Ma anche
queste cose « originali » non sono altro che copie imperfette rispetto al gradino immediatamente più
alto, quello delle idee. La conoscenza vera passa attraverso le copie e scopre l’originale, vale a dire
ciò che propriamente «è». La verità è esattezza, conformità di una conoscenza al conosciuto. Le
percezioni degli abitanti della caverna sono non vere, perché colgono soltanto l’apparenza e non già
l’essere che vi appare. Per Platone c’è la verità assoluta delle idee. Essa può essere colta nello
slancio dell’anima, con un pensiero che sta fra la matematica e l'estasi mistica. Ma per Heidegger
non ci può essere alcuna verità di questo genere; per lui c’è solo l'accadere della verità, che si
compie nel rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso e con il mondo. L’uomo non scopre alcuna
verità che esiste indipendentemente da lui; egli progetta, in modo sempre diverso nelle diverse
epoche, un orizzonte ermeneutico entro cui il reale riceve un determinato senso. Questo concetto di
verità era già stato delineato da Heidegger, almeno embrionalmente, in Essere e tempo, ed esposto
nella conferenza Dell' essenza della verità, tenuta nel 1930.
La verità, così egli spiega in quella sede, non c’è né dal lato soggettivo, nel senso dell’affermazione
«vera», né da quello oggettivo, nel senso della correttezza della connotazione; essa è invece un
accadere che si compie in un duplice movimento: un movimento a partire dal mondo, che si mostra,
si evidenzia, appare; e un movimento a partire dall’uomo, che si appropria del mondo e lo
dischiude. Questo duplice accadimento gioca nella distanza in cui l’uomo è posto nei confronti di se
stesso e del mondo. Egli sa di questa distanza, e perciò sa anche che c’è un mondo che gli si mostra,
e uno che gli si sottrae. Lo sa poiché fa esperienza di sé come di un essere che può mostrarsi e
nascondersi. Questa presa di distanza è lo spazio di gioco della libertà. « L’essenza della verità è la
libertà. »5I La libertà intesa in questo senso significa; distanza, spazio di gioco. Questa distanza che
concede spazio di gioco è detta da Heidegger anche « apertura ». Soltanto in questa apertura c’è il
gioco di occultare e rivelare. Se questa apertura non ci fosse, l’uomo non potrebbe distinguersi da
ciò che lo circonda. Egli non potrebbe distinguersi nemmeno da se stesso, e quindi non saprebbe
affatto di esserci. È solo perché c’è questa apertura che l’uomo può giungere all’idea di
commisurare le sue asserzioni sulla realtà a ciò che di essa appare. L’uomo non possiede verità
incrollabili, ma sta incrollabilmente in una relazione con la verità, e questo produce quel gioco di
occultamento e svelamento, di uscita allo scoperto e scomparsa, esser-ci ed esser-via. Heidegger
trova l’espressione più breve per indicare questa concezione della verità nel termine greco che
indica la verità: aletheia, la cui traduzione letterale è s-velatezza. La verità viene strappata alla
velatezza, o perché qualcosa che è essente si mostra, esce allo scoperto, o perché questo qualcosa
viene condotto allo scoperto, svelato. In ogni caso, qui ha luogo una sorta di lotta.
Queste considerazioni devono portare alla conclusione che non ci può essere alcun criterio
metastorico della verità. Non c’è più la storia infinita deH’avvicinamento a una verità, e nemmeno
lo slancio platonico dell’anima nel cielo delle idee; c’è solo un accadimento della verità, vale a dire
una storia dei progetti ontologici. Ma quest'ultima è identica alla storia dei paradigmi-guida delle
epoche culturali e dei modelli di civiltà. Ad esempio, il mondo moderno è determinato dal suo
progetto ontologico della natura. « Il fatto decisivo che è accaduto, è che è stato compiuto un
progetto attraverso il quale si è anticipatamente delimitato che cosa si debba intendere in avvenire
con ’natura’ e 'processo naturale’: una connessione dinamica, determinata in senso spazio-
temporale, di punti materiali. »52 Questo progetto ontologico, che naturalmente non ci si deve
rappresentare come scaturito da una singola testa, ma come sintesi culturale, determina il mondo
moderno in tutti i suoi aspetti. La natura diventa un oggetto di calcolo, e l’uomo guarda a se stesso
come a una cosa fra le cose; l’attenzione si restringe a quegli aspetti del mondo che appaiono in
qualche modo dominabili e manipolabili. Questo atteggiamento strumentale di fondo ha così
provocato lo sviluppo tecnico. Tutta la nostra civiltà, dice Heidegger, è espressione di un
determinato progetto ontologico, nel cui ambito ci muoviamo anche nel « fatto banale di andare a
spasso per la città con il tram a trazione elettrica ».53 Le nostre conoscenze non diventano « più vere
» per il fatto che conducono ad abilità tecniche; bensì la natura dà risposte diverse a seconda del
nostro modo di interrogarla. Essa « svela » di volta in volta, sotto il nostro intervento, aspetti
differenti. E poiché noi stessi apparteniamo alla natura, anche noi stessi veniamo trasformati dalle
modalità del nostro intervento. Anche noi ci sveliamo, attivando aspetti diversi della nostra essenza.
Non c’è alcuna verità nel senso di una grande x incognita, alla quale noi ci avviciniamo in un
progresso infinito e alla quale commisuriamo i nostri enunciati sempre più precisi e più esatti, ma
c’è soltanto il «confronto» attivo con l’ente, che si mostra di volta in volta diversamente, come del
resto anche noi stessi facciamo. E tutto questo è un processo creativo; ogni progetto ontologico
infatti produce un mondo interpretato e organizzato, materialmente e spiritualmente, in un certo
modo.
Se dunque non c’è alcun criterio assoluto di verità, ma so
lo un accadimento dinamico della verità, tuttavia Heidegger trova un criterio di valutazione di
questo accadere della verità che va al di là di esso: è il criterio della riuscita. L’esserci può infatti
riuscire, in base al modo in cui lo incontriamo e Io facciamo essere, più ente o meno ente. « È una
questione a sé stante, se attraverso questa scienza l’ente sia divenuto più ente, oppure se non si sia
inserito qualcosa di totalmente diverso fra l’ente e l’uomo conoscente, a causa del quale il rapporto
con l’ente è stato stritolato, l’uomo è stato privato del suo istinto nei confronti dell’essenza della
natura, mentre l’istinto per l’essenza dell’uomo è stato soppresso. »54
Da queste formulazioni risulta che a Heidegger interessa cogliere, attraverso il criterio del
comparativo «più ente», l’accrescimento o la diminuzione del vivente: se l’ente può mostrarsi nella
pienezza delle sue possibilità, se noi « mettiamo allo scoperto » noi stessi e il mondo, se il nostro
modo di rivolgerci all’ente consente a questo di apparire e prosperare in tutta la sua ricchezza, così
come noi stessi. « Visione essenziale del possibile »,55 così Heidegger chiama questo modo di
rivolgere l’attenzione, che possiede i suoi organi particolari: «la filosofia originaria» e la «grande
poesia». Entrambe fanno essere « l’ente più ente »,56
Dopo il 1933 Heidegger farà filosofia prevalentemente sulle tracce della « grande poesia »;
all’inizio degli anni ’30 è il momento della « filosofia originaria » di Platone.
Ma Platone, questo metafisico per eccellenza di una verità assoluta, non dovrebbe offrire alcun
punto di appoggio per la concezione heideggeriana della verità come accadere della verità. O forse
le cose stanno diversamente?
Heidegger ammette, e sarebbe del resto difficile negarlo, che in Platone questa esperienza
fondamentale dell'aletheia, intesa come accadere aprente della verità (senza verità « oggettiva »), ha
già cominciato « a diventare inoperante » e a trasformarsi nella « concezione corrente dell’essenza
della verità», intesa come «esattezza» di asserzioni.57
Se Heidegger vuole assicurarsi del grande inizio presso i greci, deve comprendere Platone ancora
meglio di quanto Platone stesso abbia fatto. Perciò elimina il punto di riferimento della verità inteso
da Platone, cioè il mondo delle idee con in cima l’idea suprema del bene simboleggiata dal sole, e
volge invece quasi esclusivamente l’attenzione sul processo di liberazione e di ascesa dell’anima
dove, secondo lui, quel
lo che più importa non è la scoperta di un « retromondo spirituale». Piuttosto, in questa liberazione
avviene un cambiamento di comportamento e di atteggiamento che fa essere l’ente « più ente ».
Heidegger differenzia lo slancio di Platone da qualsiasi fuga dalla realtà. È vero invece il contrario:
soltanto chi si libera dalla caverna delle ombre (delle opinioni, delle abitudini, degli atteggiamenti
quotidiani) giunge davvero al mondo, cioè al mondo reale. E che cos’è il mondo reale? Noi lo
sappiamo già, Heidegger lo ha descritto fin troppo spesso: è il mondo visto dalla prospettiva
dell’autenticità, l’arena della gettatezza e del progetto, della cura, del sacrificio, della lotta, un
mondo attraversato e dominato dal destino, minacciato dal niente e dalla nullità; un luogo
pericoloso, nel quale possono resistere solo coloro che sono decisi a rinunciare a ogni riparo, coloro
che sono davvero liberi, senza dover cercare protezione sotto il tetto delle verità precostituite.
Poiché a Heidegger interessa proprio questa immagine del mondo, egli non si sofferma molto a
lungo sul culmine vero e proprio del mito della caverna, l’attimo della redenzione nella
contemplazione estatica del sole, bensì torna in fretta, insieme a colui che è stato liberato,
all’interno della caverna. Per Heidegger soltanto a questo punto avviene il culmine drammatico
della parabola. Infatti colui che è stato liberato per la luce diviene a sua volta liberatore. Ma il
liberatore « deve essere violento »,58 dato che gli incatenati si sono messi a loro agio nel proprio
mondo e non vogliono affatto essere liberati da questa situazione, visto che non conoscono
nient’altro. Heidegger saccheggia due aspetti della vicenda per costruire, estensivamente,
l’immagine del filosofo eroico: questi è chiamato ad assolvere il compito di guida e custode e deve
prepararsi a essere un martire nel tentativo di liberare gli incatenati. Questi infatti si difenderanno e
risponderanno con la violenza a chi usa la violenza. Forse lo uccideranno per essere lasciati in pace.
Il filosofo che sta alla guida è chiamato a mettere in moto per l’intera comunità un nuovo
accadimento della verità e a istituire un nuovo rapporto con la verità. E il filosofo-martire non
muore soltanto, come Socrate, della morte del filosofo, ma forse deve patire persino la morte della
filosofia... L’« avvelenamento » della filosofia, dice Heidegger, avviene soggiacendo alle abitudini e
alle considerazioni sull’utilità da parte di coloro che abitano nella caverna. Heidegger tratteggia uno
schizzo pungente della vita filosofica: la filosofia come forma evanescente di edificazione religiosa,
come ancella gnoseologica delle scienze positive, come chiacchiera ideologica, come giornalismo
da terza pagina alla fiera delle vanità intellettuali. Tutto questo equivale a dire che la filosofia
dovrebbe sopportare «l’annientamento e l’infiacchimento della propria essenza ».59 La filosofia
autentica, che in Platone ha scorto il sole del bene e in Heidegger ha gustato i frutti della libertà, che
in Platone possiede la verità e in Heidegger suscita un accadimento di verità, questa filosofia
autentica si trova senza vie d’uscita; essa infatti non può difendersi da questo « avvelenamento »
dovuto alla strumentalizzazione in vista dell’utile e di ciò che è in voga, e se non collabora verrà
disprezzata e messa da parte. Ma l’ethos della libertà le impedisce anche di sottrarsi al pericolo.
Essa non deve ritirarsi dalla caverna, « essere liberi, essere liberatori è agire insieme nella storia ».60
Heidegger riassume il tutto in queste parole* « L’autentico filosofare è impotente nella sfera
dell’ovvietà dominante; soltanto nella misura in cui quest’ultima si trasforma, la filosofia può
ancora parlare ».6I
Ed ecco tornare il tema della storia. La « ovvietà dominante» deve trasformarsi, prima che la vera
filosofia possa parlare. Che cos’altro rimane, se non aspettare il grande momento storico? Certo,
rimane comunque l’altra possibilità, che una volta o l’altra arrivi Un grande filosofo che, come
aveva detto Heidegger nel suo corso sulla Metafisica del 1929-30, possegga quel carisma che lo
faccia essere il destino degli altri, l’occasione « che li desta alla filosofia ».62 Heidegger, che nel
museo della filosofia si prende cura della giusta illuminazione delle grandi opere, sperimenta già
anche il suo nuovo ruolo: quello dell’anticipatore che, come afferma nel corso su Platone, « prepara
la strada » a colui che deve venire.63 « Si riuscirà », chiede sibillino Heidegger in una lettera dello
stesso periodo a Karl Jaspers, « a creare un terreno e uno spazio per i prossimi decenni della
filosofia? Ci saranno uomini capaci di portare in sé una lontana disponibilità? » (8 dicembre
1932)64
Se ci deve essere un simile grande cambiamento nella storia a opera dei filosofi, se l’autentica
filosofia deve essere considerata come un’opera di liberazione, non si potrà evitare ancora a lungo il
riferimento alla sfera politica. In definitiva anche lo slancio dell’anima, così come lo descrive
Platone nella Repubblica, conduce a una dimensione politica. In quella sede Platone sviluppa, come
è noto, l’idea che la coesistenza comune è bene ordinata soltanto quando i filosofi vi diventano
regnanti. Lo stesso Platone aveva cercato di metterlo in pratica con il tiranno Dionigi di Siracusa, e
come è noto fallì miseramente. Fu venduto come schiavo e riuscì a mettersi in salvo solo con l’aiuto
della fortuna.
Ma Platone resterà sulla sua posizione: il vero filosofo è illuminato dall’idea del bene. Per mezzo di
essa egli ha fatto ordine dentro di sé; in lui le facoltà dell’anima (l’appetizione, il coraggio, la
saggezza) si trovano in armonia, e secondo
il modello di questa armonia interiore egli sarà poi capace di dare ordine alla convivenza comune, la
quale si compone di tre livelli, al pari dell’anima ben ordinata: alla facoltà appetitiva corrisponde la
classe dei lavoratori, al coraggio la classe dei guerrieri e dei guardiani, alla saggezza quella dei
filosofi che detengono il potere. Si tratta di tre ordini ai quali il pensiero politico occidentale resterà
legato per molto tempo; nel Medioevo si parlava della triade contadino-cavaliere-prete, e questo
pensiero tornerà a far aleggiare la sua presenza anche nel discorso di rettorato di Heidegger, dove
egli evoca la triade unitaria di « servizio del lavoro », « servizio delle armi »e « servizio del sapere
».
Il filosofo che ha contemplato il sole e che ritorna nella caverna come liberatore, reca massime
morali nel suo bagaglio. La Repubblica di Platone è senza dubbio un’opera di etica filosofica. È
tanto più sorprendente che Heidegger, il cui pensiero si muove intorno al problema dell’assunzione
di potere da parte della filosofia, affermi d’altra parte che nel caso dell’idea platonica del bene «
non si tratta di etica o di morale » e che ci si deve « liberare da ogni rappresentazione sentimentale
di questa idea del bene ».65
Così la questione diventa alla fine sempre più pressante: se Heidegger mette in ombra la tangibile
etica politica di Platone, in che cosa scopre poi la potenza meravigliosa della filosofia platonica?
Nel mito della caverna colui che viene liberato alla luce non è costretto a tornare come liberatore
nella caverna. Egli potrebbe accontentarsi di essere stato redento alla verità e di avere raggiunto la
forma suprema della vita, il bios theoretikos. Perché torna a mescolarsi fra la gente, perché vuole
insediare lì la sua opera di liberazione, perché la «saggezza» torna indietro sul mercato della
politica? Platone solleva queste domande e distingue l’ideale di virtù della giustizia politica
dall’ideale di affrancarsi da tutti gli intrighi politici. La filosofia pratica e la filosofia della
redenzione stanno l'una di fronte all’altra. Il filosofo può scegliere. « E chi [...] ha gustato come sia
dolce e beato quel possesso » della filosofia e « vedendo d’altra parte abbastanza la follia del volgo,
e come nessuno [...] riesce a combinar nulla di buono nella vita pubblica [...] un tal uomo,
considerato tutto questo, e standosene tranquillo e facendosi i fatti suoi, come uno che dalla bufera
si tragga al riparo sotto un muricciolo da polvere e grandine trasportata dal vento, vedendo gli altri
tutti pieni di morale disordine, è lieto di poter vivere lui questa vita puro di ingiustizia e di opere
empie, e di dipartirsene un giorno sereno e tranquillo, con una bella speranza.»66 Questa possibilità
di redenzione di sé mediante la filosofia rimane sempre per Platone un’attrazione, un’alternativa
all’etica politica.
Se Heidegger mette fra parentesi l’etica politica di Platone, allora il suo entusiasmo si riferisce forse
a questa attra zione di autoredenzione per mezzo della filosofia? No, perché Heidegger riconosce
esplicitamente il dovere filosofico «di agire insieme nella storia ».67 Se non è né per l’etica
platonica concretamente formulata, né per la volontà di autoredenzione filosofica, per che cosa si
accende dunque la filosofia di Heidegger di fronte a Platone?
Molto semplicemente, per l’atto di liberazione, di uscire all’aperto; un’« esperienza originaria » per
la quale tutte le consuetudini, i vincoli e gli orientamenti mondani di una determinata cultura e
civilizzazione perdono il loro definitivo carattere vincolante. Questo non significa comunque fare
esercizio di disimpegno, ma fare esperienza del fatto che ciò che risulta impegnativo si trasforma in
qualcosa che noi stessi abbiamo scelto. L’apertura a cui giunge colui che viene liberato dalla
caverna, gli consente di vedere l’ente « nella sua totalità ». « Nella sua totalità », vale a dire
nell'orizzonte del niente dal quale l’ente scaturisce e rispetto al quale esso si staglia. L’abitante della
caverna che viene liberato ha posto le sue fondamenta sul niente, egli sceglie il suo punto di
osservazione «nella problematicità dell’ente nella sua totalità», e quindi si rapporta « all’essere nel
suo confinare con il niente ».68
La formula di Heidegger per esprimere questo atteggiamento è: « ciò che conferisce potere »
(Ermächtigung).69 Che cosa vuol dire? Heidegger si rifiuta di rispondere. « Che cosa voglia dire
questo, non è più oggetto di discorso, qui bisogna soltanto agire.»70 Con l’esperienza di «ciò che
conferisce potere» si è raggiunto il « limite della filosofia ».
Il pensiero heideggeriano di questo periodo si muove attorno all’idea di « ciò che conferisce potere
». Egli è alla ricerca di una via per varcare i confini della filosofia, ma con mezzi filosofici e per
motivi filosofici.
Profondamente immerso in Platone, inebriato dalla «gigantomachia » che vi scopre, assumendo
posizioni alterne fra l’ebbrezza delle vette raggiunte e il senso di scoraggiamento, Heidegger è in
procinto di trovare il proprio ruolo; egli vuol essere l’araldo di un’epifania a un tempo storico-
politica e filosofica. Arriverà un’epoca degna della filosofia e arriverà una filosofia padrona del
proprio tempo. E in qualche modo egli sarà della partita, come scudiero o come cavaliere. Bisogna
essere desti e non perdere il momento propizio, se la politica può e deve diventare filosofica e la
filosofia può e deve diventare politica.
13. L’inverno 1931-32 alla baita: «A carne di lupo, zanne di cane ». La rivoluzione
nazionalsocialista. L’uscita collettiva dalla caverna. L’essere è arrivato. L’anelito alla politica
impolitica. Il patto fra plebaglia ed élite.
Le « meravigliose mani » di Hitler. Heidegger interviene. L’elezione a rettore.
Il discorso di rettorato. Antichità esplosive.
Il prete senza Vangelo.
PLATONE era spinto verso la politica. Le cause di ciò erano riposte negli elementari istinti politici
degli abitanti della polis, nel fatto che la filosofia poteva essere sedotta da parte del potere e
nell’esigenza di un’organizzazione sociale che consentisse alla filosofìa il piacere indisturbato di
continuare a teorizzare. Per quanto si allontanasse dalla vita comune, Platone restava comunque un
abitante della città e non poteva separarsi da essa. Anche l’Accademia, da lui fondata in seguito, si
mise sotto la protezione e al servizio della polis.
Martin Heidegger, leggendo Platone, non è ancora spinto a occuparsi di politica, ma spera in una
trasformazione storica che magari produca una nuova concezione dell’essere. Egli distingue ancora
le energie creative della storia dalla cosiddetta politica quotidiana. In quest’ultima vede all’opera
solo «macchinazioni», sterile eccitazione, vuoto affaccendarsi, zuffe di partito. La vera storia si
compie per lui in una profondità di cui la politica dominante si presume non sappia nulla.
Questo modo di conferire profondità alla politica, ovvero di superarla in senso storico-filosofico,
era tipico degli anni di Weimar. I diagnostici di quel tempo, che coltivavano ambizioni filosofiche,
erano soliti assidersi di fronte agli avvenimenti politici come se fossero di fronte alla parete di fondo
della caverna platonica e volessero scoprire dietro il gioco d’ombre delle attualità del giorno le
autentiche gigantomachie. Anche nella politica di tutti i giorni ci si doveva occupare di polarità
sublimi: il mito dell’origine contro la profezia (Tillich); l’uomo faustiano contro il fellah (Spengler);
il nuovo Medioevo contro il demonismo dei moderni (Berdjaev); la mobilitazione totale contro il
filisteismo borghese (E. Jünger).
Anche Heidegger predilige questo stile patetico di pittura a grandi campiture. Egli passa
frettolosamente attraverso la concitazione degli accadimenti quotidiani per imbattersi nella storia
«autentica». Il corso su Platone del 1931-32 parla della « rivoluzione di tutto l'essere umano, al cui
principio noi ci troviamo ».1 Ma tutto rimane ancora a livello schematico. L’unica cosa chiara per il
momento è solo l’irruzione e il capovolgimento nell’estasi meditativa e solitaria del mito della
caverna. Questa estasi, la cui formula è « l’ente diventa più ente », deve essere condotta fuori dalla
caverna della mera interiorità, per essere socializzata. Ma come può accadere ciò? Forse facendo sì
che il filosofo estatico diventi il fondatore di una nuova comunità? Per il momento Heidegger si
accontenta ancora di destare lo spirito della filosofia nelle aule dove tiene i suoi seminari, e di
salpare per grandi viaggi verso le immense lontananze delle tradizioni filosofiche. Ma Heidegger sa
che tutto ciò non significa ancora che la filosofia diventi « padrona » del proprio tempo. Ma è
questo che essa deve fare. Heidegger aspetta ancora. Probabilmente dovrà essere la storia a entrare
in scena potentemente, prima che il filosofo si senta autorizzato a farlo.
Anche chi è in attesa della storia e della grande politica ha le sue opinioni sulla politica quotidiana.
Finora Heidegger le aveva espresse raramente, e quando lo aveva fatto era stato per lo più
occasionalmente, quasi con disprezzo. Egli considerava tutto ciò nient’altro che « chiacchiera della
caverna».
Nei giorni intorno al Capodanno fra il 1931 e il 1932, cioè nelle vacanze del semestre dedicato a
Platone, Hermann Mörchen fa visita al filosofo nella sua baita a Todtnauberg. A quel tempo
Mörchen annotò le sue impressioni in un diario: « Lassù si dorme proprio in abbondanza; alle otto e
mezza di sera è già ’ora di ritirarsi in baita’. Tuttavia d’inverno c’è buio a sufficienza perché
rimanga anche il tempo di chiacchierare. Certo non si parlava di filosofia, ma soprattutto di
nazionalsocialismo. Gertrud Bäumers, un tempo così legata ai liberali, è diventata
nazionalsocialista, e suo marito la se-
gue! Non l’avrei mai pensato, ma non c’è proprio niente da meravigliarsi. Lui non ne capisce molto
di politica, e così è il suo disprezzo per la mediocrità che in sostanza gli fa riporre speranze su quel
partito che promette di fare qualcosa di deciso e quindi di contrapporsi efficacemente al
comuniSmo. L’idealismo democratico e la coscienziosità alla Brüning non potevano più far niente
quando ormai si era giunti a tal punto; e così oggi doveva essere approvata una dittatura che non
denigrava i metodi di Boxheimer. Solo attraverso una simile dittatura era possibile evitare la ben
peggiore dittatura comunista che distrugge ogni cultura individuale della personalità e quindi tutta
la cultura in senso occidentale. Lui certo non si interessa di singole questioni politiche. Chi abita
quassù ha ben altri parametri per tutto ciò ».2
Hermann Mörchen fu del tutto sorpreso dalle simpatie politiche di Heidegger. Era in grado di
spiegarsele solo con la sua ignoranza delle « singole questioni politiche ». Un altro studente di
Heidegger, Max Müller, racconta anch’egli quanto grande fosse la sorpresa nella cerchia degli
allievi quando Heidegger si professò seguace del nazionalsocialismo. Infatti «nessuno dei suoi
allievi pensava allora alla politica. In queste esercitazioni non si sentì mai una sola parola di politica
».3
All’epoca della visita di Mörchen a Todtnauberg e del corso su Platone, nell’invemo 1931-32, la
presa di posizione di Heidegger a favore della NSDAP non è nient’altro che un’opinione politica. Egli
vede in questo partito una forza ordinatrice nella miseria della crisi economica e nel caos del crollo
della Repubblica di Weimar, ma soprattutto un baluardo contro il pericolo di una rivoluzione
comunista. « A carne di lupo, zanne di cane », disse a Mörchen. Ma per il momento la sua simpatia
politica per il nazionalsocialismo non trova ancora alcuna via di accesso alla sua filosofia. Un anno
dopo le cose cambieranno radicalmente. Allora infatti arriverà per Heidegger il grande momento
della storia, quella « rivoluzione di tutto l’essere umano » di cui aveva parlato, come per un
presagio, nel corso su Platone. La rivoluzione nazionalsocialista diventerà allora per lui un evento
che si impossessa dell’esserci, che penetra fin nell’intimo della sua filosofia e che spingerà il
filosofo oltre i « limiti della filosofia ». Nel corso su Platone egli aveva interrotto l’analisi
dell’estasi filosofica osservando che « su questo non bisogna continuare a parlare, bisogna agire ».4
Nel febbraio del 1933 è giunto per Heidegger il momento dell’azione. L’estasi appare
improvvisamente possibile anche in politica.
Nel corso su Platone egli aveva annunciato di voler tornare agli inizi greci per guadagnare la
distanza utile a compiere il salto nel presente e al di là di questo. Il salto era stato troppo breve e non
aveva raggiunto il presente. Ma adesso è la storia a venirgli incontro, a sopraffarlo e a coinvolgerlo.
Egli non ha più bisogno di saltare, potrebbe lasciarsi trascinare da coloro che incitano il popolo, se
non avesse l’ambizione di essere lui stesso un incitatore. «Bisogna intervenire», dice Heidegger a
Jaspers nel marzo 1933.
Ormai in là negli anni, rievocando il passato con l’intento di giustificarsi, Heidegger sottolinea la
miseria di quel periodo, che avrebbe reso necessaria un’azione politica decisa. La disoccupazione,
la crisi economica, la questione sempre irrisolta del pagamento dei danni di guerra, la guerra civile
per le strade, il pericolo della rivoluzione comunista. Il sistema politico di Weimar non riuscì a
risolvere tutti questi problemi e produsse solo liti di partito, corruzione e mancanza di
responsabilità. E lui, Heidegger, avrebbe voluto unirsi a quelle forze in cui scorgeva una vera
volontà di ricominciare. Egli aveva sperato, come scriverà il 19 settembre 1960 in una lettera allo
studente Hans-Peter Hempel, « che il nazionalsocialismo riconoscesse e raccogliesse dentro di sé
tutte le forze costruttive e produttive ».5
Lo studente aveva informato il filosofo del conflitto in cui l’aveva spinto l’ammirazione per la sua
filosofia e il disprezzo per la sua politica. Heidegger si sforzò di dargli una risposta esauriente: «
Questo conflitto rimane insolubile fintantoché Lei, ad esempio, un giorno legge al mattino II
principio di ragione e alla sera vede servizi e documentari sugli ultimi anni del regime di Hitler,
fintantoché Lei giudica il nazionalsocialismo solo dal punto di vista di oggi e guardando a quanto è
venuto chiaramente alla luce un poco alla volta dopo il 1934. All’inizio degli anni ’30 le differenze
di classe nel nostro popolo erano diventate insopportabili per tutti i tedeschi che vivevano con senso
di responsabilità sociale, e così anche il pesante ostruzionismo economico nei confronti della
Germania dovuto al trattato di Versailles. Nel 1932 c’erano sette milioni di disoccupati che
vedevano davanti a sé e per le proprie famiglie solo miseria e povertà. Il turbamento dovuto a
queste condizioni, che le odierne generazioni non riescono nemmeno a immaginare, arrivò a
coinvolgere anche le università ».
Heidegger chiama in causa motivi razionali. Ma non menziona il suo entusiasmo rivoluzionario.
Nella sua retrospettiva « non ha più voluto riconoscere la radicalità delle sue intenzioni »6 (Max
Müller).
Quello che accadde con la presa di potere da parte dei nazionalsocialisti fu per Heidegger una
rivoluzione; era per lui molto più che un fatto politico: un atto nuovo della storia dell’essere, un
sovvertimento epocale. Con Hitler egli vede l’inizio di una nuova era. È per questo che nella sua
lettera a Hempel egli ricorda, a propria discolpa, che anche Hölderlin e Hegel si erano « sbagliati »
in maniera analoga: « Simili errori sono già accaduti a figure più grandi: Hegel vide in Napoleone
lo spirito del mondo e Hölderlin scorse in lui il principe della festa, cui erano invitati gli dei e Cristo
».
La presa di potere da parte di Hitler aveva generato uno stato d’animo rivoluzionario nel momento
in cui si capì, con paura, ma anche con ammirazione e sollievo, che la NSDAP era effettivamente
interessata ad abbattere il «sistema di Weimar», ormai sorretto solo da una minoranza. La
risolutezza e la brutalità facevano impressione. Il 24 marzo tutti i partiti, a eccezione dei
socialdemocratici e dei comunisti già in prigione, diedero il loro consenso alla cosiddetta « legge
plenipotenziaria ». Lo scioglimento dei partiti di Weimar non avvenne solo per paura della
repressione, ma anche perché la rivoluzione nazionalsocialista fu in grado di operare un
coinvolgimento di massa. Theodor Heuss, a quel tempo deputato del Partito democratico tedesco,
scrisse il 20 maggio 1933, riconoscendo questo fatto: « Le rivoluzioni intervengono con forza per
mettere sotto tensione l'’opinione pubblica’; è sempre stato così [...] Esse annunciano inoltre anche
l’esigenza storica di plasmare di nuovo lo 'spirito del popolo’ ».7
Vi furono schiaccianti proclami del nuovo senso di comunità, vi furono giuramenti di massa sotto
cattedrali di luci, falò di festa sui monti, discorsi del Führer alla radio, e nei luoghi pubblici raduni
di gente vestita a festa che accorreva ad ascoltarli, nell’Aula magna dell’università e nelle osterie.
Canti corali nelle chiese in onore della presa di potere. Il vescovo della Chiesa evangelica Otto
Dibelius disse il 21 marzo 1933, «giorno di Potsdam», nella Nikolaikirche: «Da nord a sud, da est a
ovest una nuova volontà muove verso lo Stato tedesco, un afflato a non rinunciare un momento di
più, per usare le parole di Treitschke, ’a una delle sensazioni più sublimi nella vita di un uomo’,
quella di volgere lo sguardo entusiastico al proprio Stato».8 È difficile rendere lo stato d’animo di
quelle settimane, scrive Sebastian Haffner, che le visse in prima persona. Esso costituiva la base per
il potere del futuro Stato del Führer. « Era un sentimento - non si può chiamarlo diversamente -
molto diffuso di redenzione e di liberazione dalla democrazia. »9 Non solo i nemici della
Repubblica provarono questo sentimento di sollievo per la fine della democrazia. Anche la maggior
parte dei sostenitori di quest’ultima non credevano più che essa avesse la forza di superare la crisi.
Era come se ci si fosse liberati di un incantesimo paralizzante. Sembrava annunciarsi qualcosa di
veramente nuovo: un dominio da parte del popolo, senza partiti e sotto la guida di un uomo dal
quale ci si aspettava la riunificazione della Germania al suo interno e la sua presa di coscienza
all’esterno. Anche in coloro che osservavano gli eventi in maniera distanziata si destò l’idea che la
Germania fosse ritornata in sé. Il « discorso sulla pace » che Hitler tenne il 17 maggio 1933 e in cui
egli dichiarò « l’amore e la fedeltà sconfinata nei confronti del proprio popolo »,10 che implica il «
rispetto » dei diritti nazionali degli altri popoli, fece il suo effetto. Il Times scrisse che Hitler aveva
«effettivamente parlato per una Germania unita ».11
Persino tra le file della popolazione ebrea ci fu, nonostante il boicottaggio dei negozi ebrei del 1°
aprile e il licenziamento degli impiegati ebrei il 7 aprile, una parziale approvazione della «
rivoluzione nazionale ». Georg Picht ricorda che nel marzo 1933, nel corso di una conferenza,
Eugen Rosenstock-Huessey dichiarò che la rivoluzione nazionalsocialista era il tentativo da parte
dei tedeschi di realizzare il sogno di Hölderlin. A Kiel, Felix Jacoby iniziò il suo corso su Orazio del
semestre estivo 1933 con queste parole: «Come ebreo mi trovo in una situazione difficile. Ma come
storico ho imparato a non considerare gli eventi della storia da un punto di vista privato. Fin dal
1927 ho votato per Adolf Hitler e mi dico
felice di poter fare lezione, nell’anno della sollevazione nazionale, sul poeta di Augusto. Augusto è
infatti l’unica figura della storia universale che si può paragonare ad Adolf Hitler».12
Il desiderio di una politica impolitica sembrava trovare improvvisamente la sua soddisfazione. La
politica era stata infatti per la maggior parte delle persone un’occasione oziosa per conservare e
imporre interessi di parte, un terreno di litigi, di egoismo e di ostilità. Nell’ambiente politico si
vedevano imperversare solo gruppi e federazioni, manovratori e congiurati, bande e combriccole.
Lo stesso Heidegger aveva espresso il proprio risentimento contro la politica, attribuendo a tutta
questa sfera i caratteri del « Si » e della « chiacchiera ». La « politica » era considerata come un
tradimento dei valori della vita « vera », della felicità famigliare, dello spirito, della fedeltà, del
coraggio. « Un uomo politico è per me ripugnante », aveva detto già Richard Wagner. La passione
antipolitica non vuole rassegnarsi al dato di fatto della pluralità delle persone, bensì è alla ricerca
della grande singolarità: il tedesco, il connazionale, il lavoratore manuale e intellettuale, lo spirito.
Quello che era rimasto di assennatezza politica perse dall’oggi al domani qualsiasi credibilità;
adesso contava soltanto il coinvolgimento emotivo. Gottfried Benn scrisse in quelle settimane
all’indirizzo degli intellettuali emigrati: «La grande città, l’industrialismo, l’intellettualismo, sono
tutte ombre che quest’epoca ha gettato sui miei pensieri, sono tutte potenze del nostro secolo, cui mi
sono rivolto nella mia produzione; vi sono momenti in cui tutta questa vita tormentatasi inabissa, e
non rimane nient’altro che la pianura, la distesa, le stagioni, le parole semplici: il popolo ».13
Questi erano anche i sentimenti di Heidegger, della cui ultima visita, nel giugno del 1933, Jaspers ci
dà la seguente descrizione: « Lo stesso Heidegger sembrava cambiato. Già al suo arrivo si creò uno
stato d’animo che ci divise. Il nazionalsocialismo era diventato una ubriacatura del popolo. Andai a
cercare Heidegger di sopra nella sua stanza per salutar
lo. ’È come nel 1914...’, presi a dire, e intendevo continuare dicendo: ’di nuovo questa illusoria
ubriacatura delle masse’, ma di fronte al sorriso di approvazione con cui Heidegger accolse già le
prime parole, non riuscii a procedere oltre. Di fronte a Heidegger, anch’egli preso da quella
ubriacatura, ho rinunciato. Non gli dissi che era sulla strada sbagliata. Non avevo più nessuna
fiducia di lui ora, dopo questa trasformazione. Sentii me stesso minacciato di fronte a quella
potenza, di cui ora Heidegger faceva parte ».14
Per Heidegger stesso era una potenza di redenzione. L’ora della verità era giunta. Heidegger, che
praticava con tanto accanimento l’attività del pensiero, esigeva adesso un tribunale per la filosofia.
Nel suo ultimo colloquio con Jaspers disse, con voce adirata e alterata, « che è stupido che ci siano
così tanti professori di filosofia. In Germania bisognerebbe conservarne solo due o tre ». E quando
Jaspers gli chiese: « Qua
li, allora? », Heidegger molto eloquentemente tacque.15
Si tratta di un salto mortale filosofico nella primitività. In una conferenza per gli studenti di
Tubinga, il 30 novembre 1933, Heidegger lo ammetterà esplicitamente: «Essere primitivi significa
stare per intimo impulso là dove le cose cominciano; essere primitivi, essere spinti da forze
interiori. Proprio per questo, perché il nuovo studente è un primitivo, egli ha la vocazione a
realizzare la nuova esigenza del sapere ».16
Qui c’è qualcuno che vuole tagliare il nodo gordiano della realtà; qualcuno che prende un rabbioso
commiato dalle faticose sottigliezze del proprio pensiero dell’essere. Improvvisa erompe una fame
di concretezza e di realtà solida, e la filosofia solitaria cerca il bagno di folla. E' un periodo difficile
per le differenziazioni, e Heidegger fa piazza pulita anche della sua differenza più prominente,
quella fra essere ed ente, facendo capire che l’essere è finalmente arrivato, «noi stiamo sotto
l’imperio di una nuova realtà».17
Quello che sta succedendo qui, verrà definito in seguito da Hannah Arendt, nel suo ampio saggio Le
origini del totalitarismo, come « patto fra plebaglia ed élite ».l8 Una élite culturale, per la quale i
valori tradizionali del mondo di ieri erano decaduti all’indomani della prima guerra mondiale,
bruciai ponti dietro di sé nel momento stesso in cui i movimenti fascisti arrivano al potere. Era «
nella massa che l’élite del dopoguerra voleva decadere ».19
Nel « vortice del domandare filosofico », così aveva detto Heidegger in precedenza, decadono le
nostre ovvie relazioni con la realtà: la filosofia di Heidegger si abbandona al vortice
della realtà politica. Ma questo egli può farlo solo perché in questo momento ritiene che la realtà sia
un pezzo di filosofia realizzata.
« Il tedesco, scisso in se stesso, interiormente privo di unità, ridotto a brandelli nello spirito e nella
volontà, e quindi impotente a livello della prassi, non ha più la forza di affermare la propria
esistenza. Ciò che è giusto, il tedesco lo cerca tra le stelle, e intanto perde il contatto con la terra [...]
Alla fine, ai tedeschi non è rimasta aperta che la strada dell’interiorità; in quanto popolo di cantori,
poeti e pensatori, il germanico ha quindi sognato un mondo in cui gli altri vivessero, e soltanto
quando il disastro e la miseria lo avessero reso disumano, forse, dall’arte, sarebbe sorto l’anelito a
un nuovo risorgimento, a un nuovo Reich e quindi a una nuova vita. »20
Colui che si presenta qui come realizzazione dei sogni segreti di artisti e pensatori è Adolf Hitler nel
suo discorso tenuto a Potsdam il 21 marzo 1933.
Karl Kraus disse una volta che pensando a Hitler non gli veniva in mente niente. A Heidegger non
solo sono venute in mente molte cose su Hitler, ma anche, come ammise di fronte alla commissione
di epurazione dell’università di Friburgo, aveva « creduto » in Hitler. Il verbale della commissione
di epurazione riassume le deposizioni di Heidegger su questo punto: « Egli credeva che Hitler
sarebbe andato al di là del partito e della sua dottrina e che questo movimento potesse essere
guidato spiritualmente su altre vie, in modo tale da far incontrare tutto sul terreno di un
rinnovamento e di un raccoglimento in vista di una responsabilità per l’Occidente ».2I
Nella sua retrospettiva Heidegger si presenta come uno che agiva in base a sobrie considerazioni di
politica reale e per spirito di responsabilità sociale. Ma effettivamente in quell’anno Heidegger era
ammaliato da Hitler.
«Come è possibile che un ignorante come Hitler possa governare la Germania? » chiedeva
esterrefatto Jaspers a Heidegger in occasione della sua ultima visita nel giugno del 1933. E
Heidegger rispose: « La cultura è del tutto indifferente [...] Basta guardare le sue meravigliose
mani! ».22
Non è una manovra tattica, un adattamento esteriore, ma una questione di cuore che spinge
Heidegger a concludere con queste parole il suo Appello agli studenti tedeschi (Aufruf an die
deutschen Studenten) del 3 novembre 1933, in occasione del referendum popolare per l’uscita dalla
Società delle
Nazioni: « Non teoremi e ’idee’ siano le regole del vostro essere. Il Führer stesso, e solo lui, è la
realtà tedesca dell’oggi e del domani, e la sua legge »,23
Nella lettera a Hans-Peter Hempel, che lo aveva interrogato su questa frase, Heidegger dà la
seguente spiegazione: « Se avessi pensato solo ciò che si coglie a una lettura superficiale, allora
l’espressione ’il Führer’ dovrebbe essere messa in corsivo. Invece in corsivo c’è la 'è' che sta a
significare che 'innanzi tutto e sempre coloro che fanno da duce sono loro stessi condotti’, condotti
dal destino comune e dalla legge della storia ».
Dunque nella lettera del 1960 Heidegger si giustifica osservando che in questa frase scandalosa egli
aveva pensato qualcosa di ben preciso, destinato a sfuggire a una lettura superficiale. Ma questo
alcunché di specifico non è nient’altro se non ciò che lo stesso Hitler ha sempre affermato di se
stesso, cioè di essere l’incarnazione di un destino. E proprio così Heidegger lo ha di fatto vissuto.
Quello che Heidegger non dice, ma che conferisce un senso peculiare e un pathos particolare alle
sue affermazioni e attività di quei mesi, è il fatto che la rivoluzione nazionalsocialista lo aveva
elettrizzato dal punto di vista filosofico, che aveva scoperto nel sovvertimento del 1933 un
avvenimento metafisico fondamentale, una rivoluzione metafisica: una « completa rivoluzione del
nostro esserci tedesco »24 (Discorso di Tubinga, 30 novembre 1933). Per di più una « rivoluzione »
che non concerne solo la vita del popolo tedesco, ma che apre anche un nuovo capitolo della storia
occidentale. Si tratta del «secondo grande scontro armato»25 dopo il «primo inizio» nella filosofia
greca, l’origine della cultura occidentale. Questo secondo scontro armato è diventato necessario
perché nel frattempo l’impulso del primo inizio si è consumato. La filosofia greca aveva posto
l'esserci dell’uomo nell’ampia apertura dell’indeterminatezza, della libertà e problematicità. Ma nel
frattempo l’uomo è tornato ad accovacciarsi nel guscio delle sue immagini del mondo e dei suoi
valori, delle sue macchinazioni tecniche e culturali. Agli albori della grecità ci fu un attimo di
autenticità. Ma poi la storia del mondo è tornata nella luce opaca dell’inautenticità, nella caverna
platonica.
Heidegger interpretò la rivoluzione del 1933 come un’uscita collettiva dalla caverna, come
l’avviarsi in quell’ampia apertura altrimenti dischiusa soltanto dal solitario interrogare e pensare del
filosofo. Con la rivoluzione del 1933 era giunto per lui il momento storico dell’autenticità.
Erano avvenimenti politici quelli a cui Heidegger reagiva, e la sua azione si svolgeva sul piano
politico - tuttavia era la sua immaginazione filosofica a guidare la sua reazione e il suo agire. E
questa immaginazione filosofica trasformò lo scenario politico in un palcoscenico storico-filosofico
sul quale si recitava un pezzo dal repertorio della storia dell’essere, dove la storia vera era
difficilmente riconoscibile; ma non era questo ciò che contava. Heidegger voleva mettere in scena il
proprio pezzo teatrale storico-filosofico, e a tal fine doveva reclutare dei comprimari. E' vero che in
tutti i discorsi di questi mesi egli fa appello all’« imperio della nuova realtà tedesca », ma - e su
questo non c’è alcun dubbio - è la sua filosofia a svelare l’autentico significato degli «imperativi».
La filosofia conduce a tal punto gli uomini negli ambiti di potere di questi imperativi, che essi
possono esserne trasformati dall’interno. Per questo organizza campi di lavoro scientifici, per
questo parla dei disoccupati che egli recluta per l’università, per questo gli innumerevoli richiami, le
invocazioni e gli appelli, tutti miranti a «conferire profondità», nel senso anzidetto, agli eventi della
politica quotidiana, in modo da adattarli a questo immaginario palcoscenico metafisico. La filosofia
esercita questo potere se essa non si limita a parlare sulle situazioni e sugli eventi, bensì a partire
da essi. La filosofia deve diventare essa stessa parte della «realtà rivoluzionaria » della quale parla:
« Essa [la realtà rivoluzionaria] è esperibile solo per colui che ha il senso giusto per esperirla, e non
per l’osservatore [...] infatti la realtà rivoluzionaria non è qualcosa di semplicemente presente, bensì
fa parte della sua essenza il fatto che per prima cosa essa si svolge [...] Una simile realtà esige un
rapporto del tutto diverso rispetto a una situazione di fatto » (Discorso di Tubinga, 30 novembre
1933).
Heidegger aveva sempre lottato per affermare il principio che è lo « stato d’animo » a definire il
nostro essere-nel-mondo, ed è per questo che egli assume anche ora come punto di partenza lo stato
d’animo del capovolgimento, del mettersi in marcia e della nuova comunità. La repressione da parte
dello
Stato, le manganellate alla plebaglia e le azioni antisemite erano per lui fenomeni collaterali che
bisognava accettare.
Vediamo dunque uno Heidegger tutto preso nel suo sogno di una storia dell’essere; le sue mosse sul
palcoscenico della politica sono quelle di un filosofo sognatore. Che politicamente Heidegger abbia
sognato, e perciò si sia ingannato, sarà lui stesso a riconoscerlo successivamente in una lettera a
Jaspers (8 aprile 1950). Ma che egli si sia ingannato politicamente perché sognava filosoficamente,
questo non potrà ammetterlo mai. Infatti, come filosofo che voleva sondare il proprio periodo
storico, egli doveva difendere, anche di fronte a se stesso, la sua competenza filosofica
nell’interpretazione degli accadimenti storico-politici.
Sarebbe stato diverso se si fosse gettato a capofitto nell’avventura politica, senza che gli fosse
venuto in mente qualcosa in proposito dal punto di vista filosofico; se avesse agito senza lasciarsi
ammaestrare o guidare dalla propria filosofia. In questo caso avrebbe agito nonostante la sua
filosofia, oppure nell’azione le sue coperture filosofiche avrebbero preso il volo. Ma tutto ciò non
accadde. Quello che lo aveva colpito di Hitler era qualcosa di filosofico, aveva messo in gioco
motivi filosofici e aveva costruito un intero palcoscenico filosofico per gli accadimenti storici. La
filosofia doveva « diventare padrona del proprio tempo », come aveva scritto nel 1930. Ma per non
dover sacrificare la concezione del potere della filosofia, egli imputa alla propria inesperienza
politica, non però alla sua interpretazione filosofica degli eventi, il fatto di essersi « sbagliato » a
proposito della rivoluzione nazionalsocialista. In seguito tuttavia egli trasformerà anche questa «
svista » in una storia filosofica, nella quale riservare a se stesso un ruolo grandioso: era l’essere
stesso a essersi sbagliato in lui e per suo tramite. Egli ha portato la croce dell’« errore dell’essere ».
« Bisogna intervenire », aveva detto Heidegger a Jaspers. Questo « intervento » comincia nel marzo
del 1933 con l’ingresso di Heidegger nella Comunità di lavoro politico-culturale dei docenti
universitari tedeschi, una sorta di frazione nazionalsocialista all’interno della Federazione
universitaria tedesca, l’organizzazione ufficiale di categoria dei docenti universitari. I membri di
questo gruppo ritenevano di essere i quadri della rivoluzione nazionalsocialista nelle università.
Essi facevano pressione per uniformare quanto prima alla loro attività la Federazione universitaria,
al fine di introdurre nelle università il «principio del Führer» e conferire all’istruzione un
orientamento ideologico, e proprio su questo punto c’erano notevoli differenze fra loro.
Iniziatore e fulcro di questo gruppo era Ernst Krieck, che, da insegnante di scuola elementare, era
riuscito a diventare professore titolare di filosofìa e scienza dell’educazione presso l’Accademia
pedagogica di Francoforte. Krieck aveva l’ambizione di diventare il filosofo di punta di questo
movimento, in concorrenza con Alfred Rosenberg e Baeumler. Con la Comunità di lavoro voleva
procurarsi un potere personale. Krieck aveva fatto propaganda per la NSDAP quando ciò non era
ancora qualcosa che potesse favorire la carriera. Nel 1931 era stato trasferito per ragioni disciplinari
perché accusato di agitazione nazista e nel 1932 era stato sospeso dal servizio. La presa di potere
aiutò quest’uomo a riottenere un posto di professore, prima a Francoforte, poi a Heidelberg. Nel
partito era considerato come il « filosofo della svolta epocale». Krieck rappresentava un realismo
eroico-popolare che si rivolgeva contro l’idealismo della cultura: «La critica radicale insegna a
vedere che la cosiddetta cultura è diventata del tutto inessenziale ».26
A questa « mistificazione culturale » Krieck contrappone la nuova tipologia dell’uomo eroico: «
Egli non vive a partire dallo spirito, ma dal sangue e dalla terra. Non vive della cultura, ma
dell’azione ». L’« eroismo » di cui parla Krieck è simile all’« imbarazzo » heideggeriano nel senso
che la « cultura» viene disprezzata come baluardo dei deboli. Bisogna imparare, dice Krieck, a
vivere senza i cosiddetti valori eterni. La casa della «formazione, della cultura, dell’umanità e dello
spirito puro » è ormai crollata e le idee universalistiche si sono rivelate come un autoinganno.
Ma in questa situazione di desolazione metafisica Krieck offre, a differenza di Heidegger, i suoi
valori legati al sangue e al suolo; al posto della metafisica dall’alto egli propone ora una metafisica
dal basso. Scrive Krieck: « Il sangue si leva contro l’intelletto formale, la razza contro la finalità
razionale, il vincolo contro l’arbitrio chiamato 'libertà’, la totalità organica contro il disfacimento
individualistico [...] il popolo contro il singolo e contro la massa »,27
Nel marzo 1933 Krieck voleva che la Comunità di lavoro deliberasse un programma politico-
culturale basato sulla sua linea ideologica. Heidegger si oppose a questo programma perché non
accettava l’ideologia di sangue-e-suolo. C’era unità di intenti solo nel criticare la Federazione
universitaria e l’idealismo culturale che vi dominava e che si adattava solo superficialmente alla
nuova situazione. Il presidente di questa federazione, il filosofo Eduard Spranger, aveva intanto
indirizzato allo « Stato in lotta » una nota di fedeltà, nella quale però rivolgeva al tempo stesso una
preghiera per la salvaguardia dello « spirito ». Heidegger schernisce questo tentativo di
conciliazione: « modernità funamboliche ». Così egli scrive in una lettera a Elisabeth Blochmann
del 30 marzo 1933, dopo una delle prime riunioni del gruppo di lavoro a Francoforte. In questa
lettera c’è anche una breve descrizione di Ernst Krieck. Egli viene definito un uomo con una
mentalità da « subalterno », cui 1’« odierna fraseologia » impedisce di comprendere « grandezza e
difficoltà effettive del compito ». Il fatto che adesso tutto venga preso in senso « politico» è a suo
parere una caratteristica generale dell’attuale rivoluzione; si tratta di un « incollarsi a ciò che è in
primo piano». Per « molti » ciò potrà essere forse un « primo risveglio »; ma questa può essere solo
una preparazione, cui dovrà seguire « un secondo e più profondo » risveglio. Con questo inquietante
« secondo risveglio » Heidegger vuole distinguersi da un ideologo come Ernst Krieck. Che cosa
esso significhi Heidegger lo dice solo per cenni oscuri nella lettera a Elisabeth Blochmann, che
essendo per metà ebrea un mese dopo perderà il suo posto di docente. Si parla di un « terreno nuovo
», che consente di « abbandonarsi all’essere stesso in una nuova forma e in una nuova
appropriazione ».28 Ma in ogni caso con questo « terreno » (Boden) non ci si riferisce a « sangue e
razza », come accade in Ernst Krieck.
Heidegger voleva coinvolgere nel gruppo di lavoro Alfred Baeumler. Quest’ultimo, con il quale
Heidegger intratteneva in questo periodo ancora rapporti di amicizia, si propose al pari di Krieck nel
ruolo di filosofo-guida del movimento. Il decisionismo politico di Baeumler era vicino al pensiero
di Heidegger. In una conferenza tenuta nel febbraio 1933 agli studenti nazionalsocialisti, Baeumler
contrappose l’«uomo politico» all’«uomo teoretico». Quest’ultimo immagina di abitare in un «
mondo spirituale superiore », mentre quello si realizza come « essere che agisce originariamente ».
In questa dimensione originaria dell’agire le idee e le ideologie non avrebbero più, secondo
Baeumler, alcun ruolo decisivo. «Agire non significa decidersi per..., infatti ciò presuppone che si
sappia ciò per cui ci si decide. Agire significa invece: assumere una direzione, prendere partito, in
forza di un compito del destino, di un 'diritto proprio’ [...] La decisione per qualcosa che io ho
conosciuto è già un fatto secondario. »29
Sono formulazioni, queste, che potrebbero essere sottoscritte anche da Heidegger. La decisione
come atto « puro », questo è l’elemento primario, quella spinta che l’uomo si dà, quello spiccare il
salto al di là delle consuetudini. Il « ciò per cui» della decisione è, di fronte a questo, solo
l’occasione che fa sì che possa manifestarsi la forza rivoluzionaria dell’intero esserci. In Heidegger
è il « Si » che pone domande preoccupate sul « fine », che prova angoscia di fronte alla decisione e
che perciò si ferma a soppesare le « possibilità », le affoga nella chiacchiera e « se l’è già sempre
squagliata » dove si tratta di prendere una decisione.30 Questo timore di fronte alla decisione è per
Heidegger « colpa », e così la vede anche Baeumler, che aveva imparato da Heidegger. E anche
Baeumler connette questo decisionismo, che in Heidegger era rimasto peculiarmente vuoto ancora
negli ultimi anni ’20, con la rivoluzione nazionalsocialista. Baeumler fa propaganda per il
movimento « puro », che è la sostanza esistenziale, mentre l’ideologia è un puro accidente, e chi si
tiene alla larga dal movimento diventa colpevole « di neutralità e tolleranza ».
Heidegger non riesce a far accettare a Krieck la sua proposta di invitare Baeumler a partecipare alla
Comunità di lavoro. Per Krieck, Baeumler è un concorrente troppo pericoloso. Ma questo non
rappresenta un ostacolo per il successo di Baeumler. Egli viene protetto dalla carica di Rosenberg. Il
partito lo nomina « educatore politico » degli studenti di Berlino, dove fa erigere per lui un Istituto
di pedagogia politica. Eduard Spranger, che a Berlino ricopre la cattedra di pedagogia filosofica,
protesta, anche perché vede in Baeumler il responsabile della campagna di diffamazione contro gli
studiosi liberali ed ebrei. Il 22 aprile Spranger pubblica una dichiarazione contro « menzogna,
oppressione della coscienza e atteggiamento ostile allo spirito ».31 Ciò offre a Baeumler l’occasione
per contrattaccare. Il 10 maggio, nel suo discorso per il più importante rogo di libri a Berlino, egli lo
attacca stigmatizzando il « vecchio spirito » universitario. « Ma una università che nell’anno stesso
della rivoluzione parla solo di essere guidata dallo spirito e dall’idea, e non da Adolf Hitler e Horst
Wessel, è apolitica. »32
Heidegger è elettrizzato dalla presa di potere di Hitler, e vuole agire, ma non sa esattamente che
cosa deve fare. Cercheremmo invano in lui idee precise in tal senso. Naturalmente il suo sguardo è
orientato soprattutto all’università. Nella giustificazione di sé che egli redasse in seguito, egli
sosterrà di essersi lasciato convincere ad accettare il rettorato friburghese «per poter contrastare
l’avanzata di personalità inadatte e la minacciosa supremazia dell’apparato e della dottrina del
partito ».33
Ma dai materiali che sono stati raccolti da Hugo Ott, Victor Farias e Bernd Martin risulta però
un’immagine del tutto diversa. Secondo queste testimonianze, a partire dal marzo 1933 un gruppo
di professori e docenti nazionalsocialisti, guidati da Wolfgang Schadewaldt e Wolfgang Aly,
d’accordo con Heidegger, avrebbe mirato espressamente ad assumere quell’incarico. Il documento
chiave in tal senso è una lettera scritta al ministero del Culto da Wolfgang Aly, il più anziano
membro di partito nel corpo insegnante di Friburgo e oratore-istruttore dell’organizzazione di
partito, in data 9 aprile, e cioè tre settimane prima dell’elezione del rettore. In questa lettera Aly
comunica « che il professor Heidegger ha già intrapreso trattative con il ministero prussiano della
Cultura » e che gode della « più ampia fiducia » da parte del gruppo universitario del partito. Inoltre
egli può essere considerato dal ministero come 1’« uomo di fiducia » dell’università. In occasione
del successivo congresso del gruppo di lavoro politicoculturale a Francoforte, tenuto il 25 aprile,
Heidegger avrebbe potuto presentarsi già come « portavoce della nostra università ».34
A questo punto l’elezione di Heidegger a rettore era già cosa fatta per la cerchia di partito. Lo stesso
Heidegger sarà forse stato ancora titubante, non però perché non gradisse l’appoggio e la protezione
dei nazionalsocialisti, ma perché doveva essere in dubbio sulle proprie reali capacità di soddisfare le
aspettative che venivano riposte su di lui da parte delle forze « rivoluzionarie ». La sua volontà era
di agire, di intervenire, ma era ancora alla ricerca « del punto giusto in cui intervenire» (a Jaspers, 3
aprile 1933).
In una lettera a Elisabeth Blochmann del 30 marzo 1933 egli ammette la sua situazione di
imbarazzo e al tempo stesso dissipa le proprie preoccupazioni: « Cosa accadrà delle università
nessuno lo sa [...] A differenza dai pezzi grossi, che ancora poche settimane fa qualificavano il
lavoro di Hitler 'scaltra stupidaggine’ e adesso tremano per i loro stipendi etc., gli assennati devono
convenire che non molto può venir guastato. Perché da tempo non c’è più nulla; già da lungo tempo
l’università non è più un mondo che possieda un’influenza efficace e concentrata in se stessa o che
sia in grado di far da guida. Una coercizione alla meditazione - persino quando sfuggono mosse
sbagliate - può essere solo una benedizione ».35
Non si fanno frittate senza rompere le uova; chi fa un ingresso rivoluzionario in una terra
sconosciuta, deve appunto assumersi il rischio di incorrere in erramenti e in errori. In ogni caso non
si lascerà trarre in inganno dal grido « la scienza è in pericolo! » Inoltre il compito è troppo
importante per lasciarlo in mano soltanto ai « membri di partito », come scrive Heidegger a
Elisabeth Blochmann il 12 aprile 1933, tre settimane prima di entrare lui stesso pubblicamente nel
partito.
Mentre dietro le quinte si prepara l’assunzione del rettorato da parte di Heidegger, l’ufficio è ancora
affidato a Josef Sauer, professore di storia della Chiesa cattolica. L’investitura ufficiale del rettore
designato Wilhelm von Möllendorff, eletto alla fine del 1932, era prevista per il 15 aprile.
Möllendorff, professore di anatomia, era socialdemocratico.
Nella versione di Martin Heidegger e di sua moglie Elfride fu lo stesso Möllendorff, dopo la presa
di potere, a dichiararsi non più disponibile ad assumere il rettorato. Möllendorff era amico di
Heidegger e si rivolse direttamente a lui per discutere delle difficoltà che potevano derivare dal
rettorato. Heidegger, che nell’inverno 1932-33 aveva ottenuto un semestre sabbatico, il 7 gennaio
era tornato da Todtnauberg a Friburgo. Stando a quanto ricorda la signora Heidegger, Möllendorff
manifestò allo stesso Heidegger il « desiderio insi-
stente » che fosse lui, « non vincolato in alcun modo alla politica in senso partitico » ad assumere il
rettorato. « Egli ripetè molte volte questo auspicio nel corso delle sue visite, mattina, mezzogiorno e
sera. »36
Che il socialdemocratico Möllendorff avesse serie preoccupazioni di fronte all’assunzione del
rettorato, è cosa comprensibilissima, dato che a Friburgo era cominciata, come dappertutto, la
persecuzione dei socialdemocratici. Sotto la guida del commissario del Reich Robert Wagner, essa
fu particolarmente accanita. Già all’inizio di marzo ci furono attentati alla sede del sindacato e alla
sede centrale del partito, ci furono arresti e perquisizioni di abitazioni. Nel caso di Nußbaum,
deputato spd al parlamento regionale, ci fu il 17 marzo un brutto incidente. Nußbaum, che aveva
trascorso le settimane precedenti in un reparto psichiatrico, si difende contro due poliziotti e li
ferisce mortalmente, con la conseguenza di acuire ulteriormente in città la caccia spietata contro la
spd. Nella piazza della cattedrale ha luogo una dimostrazione contro il marxismo, che deve essere
estirpato « fino alla radice », come proclamano gli agitatori. Non lontano da Heuberg vengono già
costruiti due campi di concentramento. La stampa locale mostra fotografie della deportazione dei
prigionieri. Adesso la nsdap attacca il borgomastro, dottor Bender, appartenente al partito di centro.
L’accusa è di non avere reagito in modo adeguato all’azione compiuta da Nußbaum. Bender aveva
parlato di « incidente », e pertanto doveva essere cacciato dalla carica di sindaco. Una deputazione
di cittadini assume le sue difese. Uno dei suoi portavoce è appunto Möllendorff. L’11 aprile Bender
viene esautorato. Viene stabilito che il suo successore sia Kerber, governatore distrettuale della
nsdap nonché caporedattore del giornale nazionalsocialista Der Alemanne. In questo giornale
Heidegger pubblicherà un articolo. Con l’affare Nußbaum-Bender, Möllendorff era diventato del
tutto inviso ai nazionalsocialisti del luogo.
Certamente Möllendorff può avere avuto preoccupazioni di fronte all’assunzione del rettorato, ma
era anche un uomo coraggioso e alla fine si mostrò disponibile ad accettare la carica. La cerimonia
ufficiale ebbe luogo, come stabilito, il 15 aprile. La sera precedente Schadewaldt si era presentato a
nome del gruppo di partito al rettore uscente Sauer, cui aveva manifestato i propri dubbi su
Möllendorff quale persona adatta a imprimere all’università il necessario allineamento, e propose al
suo posto Heidegger. Sauer, uomo votato alla Chiesa cattolica, che non vedeva di buon occhio
l’anticlericalismo di Heidegger, mantenne un atteggiamento riservato. Così Möllendorff rimase in
carica per altri cinque giorni. Il 18 aprile, giorno in cui vi fu la prima seduta del senato accademico
presieduta da Möllendorff, Der Alemanne pubblicò un violento attacco contro il nuovo rettore, che
si concludeva con queste parole: « Professor dottor von Möllendorff, la consigliamo di cogliere
l’occasione per non ostacolare la riforma dell’università».37 Adesso fu chiaro per Möllendorff che
non avrebbe resistito più a lungo. Egli convocò per il 20 aprile una seduta del senato accademico,
durante la quale sia lui sia l’intero senato rassegnarono le dimissioni, proponendo Martin Heidegger
come successore. Stando a Elfride Heidegger, egli sarebbe andato a casa loro la sera precedente e
avrebbe detto a Heidegger: « Professore, adesso è Lei a doversi assumere la carica! »38
Heidegger, a favore del quale si era espressa già un mese prima una parte considerevole del corpo
accademico, dichiarò di essere rimasto indeciso fino all’ultimo momento: « Ancora nel corso della
mattinata del giorno in cui doveva svolgersi l’elezione, avevo molte perplessità e volevo ritirare la
candidatura ».39
La riunione plenaria elegge Heidegger quasi all’unanimità. Comunque, dei 93 professori, 13 erano
già esclusi perché ebrei, e dei restanti 80 solo 56 presero parte al voto. Ci furono un voto contrario e
due astensioni.
Nonostante le perplessità che avrebbe avuto, come ebbe a dichiarare in seguito, subito dopo
l’elezione Heidegger mostra un notevole impulso ad agire.
Il 22 agosto egli invita con una lettera Carl Schmitt a collaborare alla nuova situazione.
Quest’ultimo non ha peraltro bisogno di una tale sollecitazione, perché vi fa già parte, anche se per
un motivo opposto: Heidegger voleva la rivoluzione, Schmitt voleva l’ordine. La riunione plenaria
aveva affiancato a Heidegger membri del senato moderati, per lo più vecchi conservatori;
Heidegger doveva essere « accerchiato». Ma Heidegger vi si sottrae, evitando di convocare il senato
accademico. Prima ancora della cerimonia ufficiale di assunzione del rettorato (con il discorso del
27 maggio) egli proclama il principio del Führer e l’allineamento dell’università. Poco dopo il
Primo maggio, « festa nazionale della comunità popolare », egli entra, con gesto dimostrativo, nella
NSDAP. La data del suo ingresso nell’organizzazione era stata da lui concordata con il partito,
considerandone gli aspetti tattici. Egli invita studenti e docenti a prendere parte alle festività del
Primo maggio nello stile di una cartolina precetto. Nella circolare si dice: « La costruzione di un
nuovo mondo spirituale per il popolo tedesco diventa compito fondamenta' le dell’università
tedesca. Questo è compito nazionale, nel senso e al livello più elevato ».40 Quando Robert Wagner,
commissario della polizia del Reich - un famigerato forcaiolo, responsabile della deportazione degli
oppositori nel campo di concentramento di Heuberg -, nei primi giorni di maggio viene nominato
governatore del Reich, Heidegger se ne congratula con parole energiche: « Lietissimo per la nomina
a governatore del Reich, il rettore dell’università di Friburgo in Brisgovia saluta il duce di questa
terra di confine con un combattivo Sieg Heil. Il rettore dell’università di Friburgo. [Firmato:]
Heidegger».41
Il 20 maggio egli sottoscrive un telegramma a Hitler da parte di alcuni rettori nazionalsocialisti. In
esso si prega di procrastinare l’accoglienza di una delegazione della Federazione universitaria con
questa motivazione: « Soltanto un presidente eletto in base all’allineamento gode della fiducia
dell’università. Inoltre, il presidente già in carica ha ricevuto l’esplicita e netta sfiducia da parte
della corporazione degli studenti tedeschi ».42
Il 26 maggio, giorno precedente la cerimonia d’assunzione del rettorato, Heidegger tiene il suo
primo discorso ufficiale per la commemorazione di Leo Schlageter, il militante dei Freikorps che
nel 1923 aveva fatto attentati dinamitardi contro l’occupazione francese del bacino della Ruhr, e che
per questo era stato fucilato secondo la legge marziale. I nazionalisti lo consideravano un martire
per la causa nazionale. Heidegger si sentiva legato a lui anche perché Schlageter era stato, come lui,
allievo del Konradihaus di Costanza. Il 26 maggio ricorreva il decimo anniversario della morte di
Schlageter, che venne celebrato a Friburgo come ovunque con grande fasto.
Nel suo discorso commemorativo Heidegger cerca per la prima volta di utilizzare a fini politici la
sua filosofia dell’autenticità. Egli dà un’immagine stilizzata di Schlageter come figura dalla quale si
può desumere che cosa significhi agire in senso concretamente storico e politico, facendosi incontro
al mistero dell’essere dell’ente. Schlageter, dice Heidegger, ha subito « la morte più dura ». Non
nella lotta assieme ad altri, non protetto e sorretto dalla comunanza, bensì da solo, « rigettato»
interamente su se stesso, nel « fallimento ».43 Schlageter realizza l’ideale esistenziale di Essere e
tempo, egli «assume su di sé» la morte come «possibilità più propria, incondizionata e insuperabile
».44 I partecipanti alla cerimonia commemorativa dovevano « far confluire dentro di sé la durezza e
limpidezza » di questa morte. Ma da dove ricevette Schlageter la sua forza? Essa gli proveniva dai
monti, dai boschi e dal cielo della patria. « Di roccia primitiva, di granito sono i monti [...] Da
tempo forgiano questa tenacia della volontà [...] Il sole autunnale della Selva Nera [...] da lungo
tempo alimenta la limpidezza del cuore. ».45I monti e i boschi comunicano solo ai pigri un
sentimento di sicurezza, sui duri e sui decisi agiscono invece come « chiamata della coscienza». La
coscienza chiama, aveva spiegato Heidegger in Essere e tempo, non a compiere una determinata
azione, ma all’« autenticità ». Che cosa si debba fare concretamente, lo decide poi la situazione. Nel
caso di Schlageter essa ha deciso che nel momento della sconfitta egli dovesse difendere l’onore
della Germania. Egli « dovette » recarsi sul Baltico (combattere contro i comunisti), « dovette »
recarsi sulla Ruhr (combattere contro i francesi). Egli seguì il proprio «destino », che aveva scelto e
da cui era stato scelto. « Posto inerme dinanzi ai fucili, lo sguardo interiore dell’eroe si slanciò oltre
le bocche dei fucili, verso il giorno e le montagne della sua terra natia, per poter morire, guardando
il paese alemanno, per il popolo tedesco e per il suo Reich. »46 Quello fu un istante di verità; infatti
«l’essenza della verità», come aveva detto Heidegger nell’omonima conferenza del 1930 (peraltro
con parole diverse da quelle del testo pubblicato successivamente), è un accadere che avviene sul «
suolo della patria».47 L’importante è aprirsi alle potenze dell’esserci. «radicamento al suolo » ne è
un presupposto. E poi, il giorno successivo, il discorso di rettorato.
Nel periodo che lo precedette c’erano state già notevoli
sollecitazioni. Il 23 maggio il rettore Heidegger aveva diramato una comunicazione a tutti coloro
che appartenevano all’università, concernente l’aspetto esteriore della cerimonia: bisognava cantare
l’inno di Horst Wessel ed esclamare «Sieg Heil». L’intera manifestazione doveva avere l’impronta
di una festa nazionale. Nel corpo docente serpeggiava una certa indignazione. In una circolare
Heidegger spiegò successivamente che « sollevare la mano destra » non sarebbe stato espressione di
attaccamento al partito, ma della sollevazione nazionale. Egli segnalava inoltre la propria
disponibilità a scendere a compromessi: « Dopo il colloquio col capo delle associazioni
studentesche ho limitato l’alzata della mano destra alla quarta strofa dell’inno di Horst Wessel »,48
Heidegger sa che in questo momento lo sguardo del mondo filosofico è rivolto su di lui. Nelle
ultime settimane egli non ha perso occasione per mettere in vista il suo ruologuida; sono giunti da
lui, insieme alle alte delegazioni del partito, ministri, rettori di altre università, giornalisti, e più
camicie brune che uomini in frac. Heidegger si è molto sbilanciato. « Tutto dipende da questo »,
aveva scritto a Jaspers il 3 aprile 1933, « se vogliamo preparare alla filosofia il posto opportuno in
cui intervenire e vogliamo aiutarla a prendere la parola. » Il posto in cui intervenire adesso è stato
trovato, ma riuscirà egli a trovare anche la parola filosofica giusta?
Il tema trattato nel discorso di rettorato è L’autoaffermazione dell' università tedesca (Die
Selbstbehauptung der deutschen Universität). Egli comincia il discorso con questa frase: che cos’è
l’identità dell’università, in che cosa consiste la sua « essenza »?
L’essenza dell’università non è questa: che vi siano dei giovani che ricevono una formazione
professionale e il sapere necessario a tal fine. L’essenza dell’università è la scienza, ma che cos’è
l’essenza della scienza? Con questa domanda Heidegger si ritrova con un colpo di mano presso i
suoi amati « inizi greci della filosofia », cioè là dove era regredito al fine di guadagnare la rincorsa
necessaria per spiccare il salto nel presente.
L’essenza della scienza si è dunque manifestata presso i greci. Qui la volontà, contro la «
strapotenza del destino», si era elevata a sapere, imponendosi con ostinazione. Questa « suprema
ostinazione » vuole sapere che ne è di essa, quali potenze dell’esserci la determinano e che cosa
significa che tutto ciò, in generale, è. Questo sapere apre una radura nel fitto del bosco.
Heidegger drammatizza l’accadere della verità. Di quali verità si tratti nel dettaglio, rimane oscuro.
In cambio assume autonomia la metafora centrale che costituisce il cardine dell’intero testo. È la
metafora della lotta o, più precisamente, delle truppe d’assalto.
L’essenza dell’inizio greco è dunque la conquista attraverso la lotta di alcune visibilità nel mezzo
dell’oscurità dell’ente nella sua totalità. Questo è l’inizio eroico della storia della verità e qui sta
anche la vera identità della scienza e dell’università, dice Heidegger.
Ma da che cosa è minacciata la scienza così intesa? Naturalmente dall’oscurità dell’ente, ma questo
è il suo orgoglio. Il fatto di essere in lotta con l’ente costituisce proprio l’essenza del sapere. Più
minacciosa è la degenerazione dovuta al « tranquillo diletto di una occupazione senza rischi che
risponde all’esigenza di un mero accrescimento di conoscenze ».49
La minaccia proviene dalle retrovie, dalla pratica consueta della scienza, in cui si fa carriera, si dà
sfogo alle vanità e si guadagnano soldi. La vita comoda delle retrovie è tanto più scandalosa perché
là fuori, al fronte del sapere, accadono nel frattempo cose grandi e pericolose. Infatti si è modificata
la posizione dell’esserci nei confronti dell’oscurità dell’ente. L’accadere della verità è entrato in una
fase critica. Presso i greci c’era ancora uno « stupefacente perseverare » di fronte alla problematicità
dell’ente. Erano in gioco il senso di protezione, la fede nell’essere, la fiducia nel mondo. Ma questa
fede nell’essere è scomparsa perché « Dio è morto ». Ma nelle retrovie si è notato ancora poco di
tutto ciò. Lì ci si sarebbe accontentati di una «cultura moribonda» fino a collassare nella «follia» e
nell’« annientamento», se non fosse giunta la rivoluzione, questa « nobiltà della riscossa ».50
Che cosa succede in questa rivoluzione?
Soltanto in essa, stando alle fantasie di Heidegger, sarà compresa rettamente la scoperta di
Nietzsche « Dio è morto», e un intero popolo prenderà consapevolmente su di sé la «solitudine
dell’uomo d’oggi nel cuore dell’essente ».5I Viene superato il grado di degenerazione di quelli che
Nietzsche chiama nello Zarathustra gli « ultimi uomini », che non hanno più nessun « caos » in se
stessi e perciò non possono più partorire nessuna «stella», che si accontentano di aver trovato la
comoda « felicità » e di avere « abbandonato la plaga dove era difficile vivere », e che al posto di
questa si accontentano delle loro « vogliuzze per il giorno e per la notte» e rendono onore alla loro «
salute ».52
La rivoluzione nazionalsocialista è dunque per Heidegger il tentativo di « partorire una stella »
(Nietzsche) in un mondo senza Dio. E per questo Heidegger dà fiato a tutti i registri del suo
romanticismo metafisico dell’orrore per conferire agli eventi una profondità inopinata.
Heidegger parla agli studenti che lo stanno ad ascoltare, come pure ai superiori di partito, ai
professori, ai dignitari, ai funzionari ministeriali e ai capi settore, insieme alle loro consorti, come se
facessero parte della truppa metafisica d’assalto che penetra nella regione « del più alto cimento
dell’esserci nel cuore della strapotenza dell’ente».53
E Heidegger stesso è il comandante delle truppe d’assalto. I comandanti si spingono, come è noto,
più avanti di tutti nell’oscurità, là dove non sono più coperti dai propri soldati; essi non temono «
l’essere esposti senza difesa alcuna nell’ascoso e nell’incerto »54 e dimostrano in tal modo la loro
«forza di poter avanzare soli ».55
Non c’è dubbio: l’oratore vuole dare importanza a se stesso e al proprio uditorio. Tutti insieme,
infatti, appartengono alla truppa d’assalto, alla schiera di audaci. E lui, l’oratore stesso, il
comandante, è forse un po’ più audace di loro, perché dimostra o almeno pretende di avere la «
forza di poter avanzare solo ».
Tutto ruota intorno al pericolo, e qui scompare un fatto elementare: che in questa situazione era
ancora più pericoloso non appartenere a questa infausta truppa d’assalto della rivoluzione.
Ma a quali pericoli sta pensando Heidegger? Si tratta forse del pericolo cui fa riferimento Kant
quando esorta l’uomo, dicendo: « Abbi coraggio di servirti del tuo proprio intelletto »? Il pensare in
proprio esige coraggio, perché comporta la rinuncia alla protezione e alla comodità dei pregiudizi
che creano consenso. .
Con il suo discorso Heidegger non affronta questo tipo di
pericolo. Certo, durante il banchetto qualcuno mormorerà che egli ha dato voce al suo «
nazionalsocialismo privato », ma questo non cambiava niente nel fatto che egli continuasse anche in
seguito a « essere uno dei loro ». Con questo discorso egli non si era ancora messo fuori gioco.
Si tratta allora del pericolo della conoscenza, come fu formulato una volta in modo così insuperabile
da Schopenhauer, quando paragonò il vero filosofo a Edipo, il quale, « nella ricerca di una
illuminazione sul suo orribile fato, continua senza sosta a indagare, anche se ha il presentimento che
dalle risposte verrà a lui la sciagura più terribile»?56 Con questa «sciagura più terribile»
Schopenhauer si riferiva all’abisso metafisico che si spalanca davanti all’uomo che si interroga sul
senso della vita.
Questo abisso ce l’ha anche Heidegger davanti agli occhi, e lo chiama « solitudine dell’uomo d’oggi
nel cuore dell’essente ». Ma l’esperienza di questo venir meno del senso delle cose non può essere
vissuta e pensata fino in fondo dal singolo in quanto tale, sottratto ai riferimenti di senso collettivi.
Come si potrebbe parlare di questa « solitudine » quando c’è un intero « popolo in marcia »?
Effettivamente Heidegger interpreta la rivoluzione come un’uscita collettiva dalle caverne delle
false consolazioni e delle comode certezze di senso. Un popolo diventa autentico,-si alza in piedi e
pone la domanda inquietante: perché è qualcosa, e non piuttosto un niente? Esso si consegna
orgoglioso alle potenze dell’esserci: «natura, storia, linguaggio; popolo, costume, Stato; poesia,
pensiero, fede; malattia, follia, morte; diritto, economia, tecnica »,57 sapendo che esse non danno
alcun sostegno ultimo, e che anzi conducono nell’oscuro, nell’incerto, nell’avventuroso.
L’uomo che è attivo in questo modo non conquista per sé alcun mondo raffinato dello spirito, che
magari gli procuri sollievo dalle fatiche del giorno. Per questi giochi di prestigio Heidegger non ha
che parole di biasimo. Colui per il quale «l’ente è divenuto problema », non si ritira di fronte a esso,
bensì si spinge oltre, animato dallo spirito dell’assalto. Non si tratta di escogitare qualche cosa che
sta nell’aldilà, si tratta solo di «essere all’opera». Così Heidegger traduce il greco energheia.
Heidegger intende ripetere l’inizio greco della filosofia, ma senza lasciarsi incantare dall’idea della
vita contemplativa, dal sole platonico. Egli la mette da una parte, pretendendo di comprendere i
greci ancor meglio di quanto abbiano fatto essi stessi. La « teoria » in senso greco, dice Heidegger
avviene « soltanto nel pathos che coglie chi si trova in prossimità dell'essente in quanto tale e preda
del suo incalzare».58 Questo non è affatto il senso del mito platonico della caverna. In esso si tratta
di salvezza, di divenire liberi dalle oppressioni della caverna. Heidegger mira a qualcosa di
paradossale: vuole l’estasi platonica senza il cielo platonico delle idee. Vuole uscire dalla caverna,
ma senza credere in un luogo al di fuori della caverna. L’esserci deve essere colto da un pathos
infinito, ma non dal pathos dell’infinito.
Nel 1930 Thomas Mann aveva messo in guardia dai pericoli delle « antichità esplosive » Una di
queste antichità esplosive si trova anche nel discorso di Heidegger, dove egli parla dei tre servizi,
«servizio del lavoro», «servizio delle armi », « servizio del sapere ». Qui toma a presentarsi
l’immagine venerabile dei « tre ordini »: contadini, guerrieri e preti, che è stato il modello di società
dominante per tutto il Medioevo. La definizione medievale di quest’ordine è la seguente: « È
dunque triplice la casa di Dio che abitiamo: qui sulla terra gli uni pregano, gli altri combattono e
altri ancora lavorano; questi tre tipi sono connessi fra loro e non tollerano di essere separati;
cosicché dalla funzione dell’uno dipendono le opere degli altri due, e tutti fanno prendere parte a
tutti del loro rispettivo aiuto » (Adalberto di Laon).59
Nell’immagine medievale dei «tre ordini», i preti congiungono l’organismo sociale con il cielo. Essi
hanno cura che le energie spirituali circolino nel mondo terreno. La posizione dei preti è occupata in
Heidegger dai filosofi o, più precisamente, dalla filosofia che è padrona del proprio tempo. Ma dove
un tempo fu il cielo, adesso c’è l’oscurità dell’ente che si nasconde, c’è la « certezza del mondo »; e
i nuovi preti sono ora diventati effettivamente i « luogotenenti del niente» e si rivelano se possibile
ancora più confusi dei guerrieri. Essi non hanno più alcun Vangelo da predicare, non hanno più
niente da prendere in cielo e dirigere sulla terra, e tuttavia essi rilucono ancora dell’opaco bagliore
di quell’antica potenza sacerdotale che un tempo si fondò sul monopolio delle grandi cose invisibili
ed entusiasmanti.
Heidegger si butta in politica come farebbe un prete, e prende la parola nel momento in cui si tratta
di infliggere alla Repubblica di Weimar il colpo mortale. Quindici anni prima, all’inizio di questa
Repubblica, Max Weber aveva invitato gli intellettuali, nella sua conferenza di Monaco sulla
Scienza come professione, a sopportare il « disincanto del mondo ». In questo contesto anche Max
Weber fece ricorso alla « meravigliosa immagine » del mito platonico della caverna. Ma si tratta
solo di una reminiscenza malinconica, dato che l’unità platonica di conoscenza rigorosa ed
esuberanza di senso era andata per Weber irrimediabilmente perduta. Egli non prevede la grande
liberazione, l’uscita dalla caverna; Max Weber metteva in guardia dai loschi affari dei « profeti in
cattedra », che deliberatamente volevano instaurare un nuovo incanto.
Anche Heidegger non ha simpatia per i « profeti in cattedra». Ma i profeti in cattedra sono sempre
gli altri.
La prima volta che parlò del mito platonico della caverna, nel corso di lezioni dell’estate 1927,
Heidegger aveva descritto la liberazione dalla caverna come un processo che si compie « in tutta
sobrietà e nel completo disincanto di un interrogare puramente rivolto verso le cose ».60
Ma adesso Heidegger è lì, ritto e marziale a sciabolare parole, il prete senza Vangelo, il comandante
della truppa metafisica d’assalto, circondato da bandiere e stendardi; durante il corso su Platone
aveva sognato di identificarsi nella figura del liberatore, che libera dai ceppi i prigionieri della
caverna e li conduce fuori. Adesso si accorge che i prigionieri della caverna sono già tutti in marcia,
e non gli resta altro che mettersi alla loro testa.
14. Il discorso di rettorato e i suoi effetti.
La riforma dell' università. Heidegger antisemita? Le manovre rivoluzionarie di Heidegger.
Analogie con il movimento del ’68. Al servizio del popolo. Il campo di lavoro scientifico.
« Il discorso di rettorato cadde nel modo più totale in oblio e il giorno successivo alla cerimonia era
già dimenticato [...] Ci si muoveva lungo la via, tracciata da decenni, della politica della facoltà. »
Così scrive Heidegger nel suo scritto giustificativo del 1945, intitolato Fatti e pensieri (Tatsachen
und Gedanken).1
Di fatto il discorso non venne dimenticato così rapidamente. Esso conobbe due edizioni a sé stanti
durante il periodo nazista e venne citato e magnificato da parte della stampa di partito. Ad esempio,
nella rivista Kieler Blätter, un articolo del 1938 che fa il punto sul tratto di strada percorso fino
allora dalla politica culturale nazionalsocialista, afferma quanto segue: « Nel suo discorso di
rettorato Martin Heidegger determina l’essenza della scienza, analogamente a Baeumler, a partire
da un atteggiamento di fondo attivistico ed eroico».2
Le reazioni immediate furono entusiastiche. La stampa locale e i giornali a più larga diffusione
presentano questo discorso come un evento grandioso, destinato a dischiudere nuove prospettive. La
rivista degli studenti nazionalsocialisti mette in guardia dall’opportunismo di molti uomini di
scienza che si adeguavano solo superficialmente alla nuova situazione, e sottolinea come eccezione
in senso positivo il discorso di rettorato di Heidegger; in esso, si dice, si esprime realmente Io
spirito di rottura e di rivoluzione. Persino la rivista Volk im Werden pubblica nel 1934, cioè nel
periodo in cui il suo editore, Ernst Krieck, era già un nemico intimo di Heidegger, un articolo di un
certo Heinrich Bornkamm in cui si dice: « Nella fin troppo vasta letteratura dei nostri giorni sulla
riforma dell’università, gli stimoli migliori sono offerti, a quanto mi sembra, dal discorso
friburghese di rettorato di Heidegger ».3
Anche la stampa meno ufficiale reagisce positivamente. Eugen Herrigel, che sarà in seguito taoista
(Lo Zen e il tiro con l'arco), definisce questo discorso un « testo classico », e la Berliner
Börsenzeitung scrive: « Ben pochi sono stati i discorsi di rettorato capaci di produrre un effetto
altrettanto affascinante e di coinvolgere tanto i lettori ».4
Si constata comunque anche una certa perplessità. Karl Lowith disse, riferendosi all’effetto
immediato del discorso di rettorato, che non si sapeva se adesso si doveva mettersi a studiare i
presocratici o entrare nelle SA. Per questo motivo i commentatori contemporanei si concentrano di
buon grado su quelle affermazioni che possono essere riferite senza problemi alla dottrina del
nazionalsocialismo, ad esempio il programma heideggeriano dei « tre doveri »: il servizio del
lavoro, il servizio delle armi e il servizio del sapere.
Presso i commentatori critici stranieri prevale lo stupore incredulo, alcuni sono sconvolti. La Neue
Zürcher Zeitung scrive: « Il discorso di Heidegger rimane, anche alla terza o quarta lettura,
espressione di un abissale e deleterio nichilismo, che non può essere eliminato nemmeno dalla
professione di fede nel sangue e nella terra di un popolo ».5
Benedetto Croce scrive a Karl Vossler in una lettera del 9 settembre 1933: « Ho letto poi per intero
la prolusione dello Heidegger, che è al tempo stesso stupida e servile. Non mi meraviglio del
successo che avrà per qualche tempo la sua filosofia: la vuotaggine e il qualunquismo hanno sempre
successo. Ma non producono niente. Credo però che non potrà avere alcuna influenza politica: ma
disonora la filosofia, e questo è un male anche per la politica, almeno per quella futura ».6
E' sorprendente la reazione di Karl Jaspers. Il 23 agosto 1933 egli scrive a Heidegger: « La
ringrazio per il discorso di rettorato [...] Il grande respiro del Suo avvio sulla grecità degli inizi mi
ha toccato ancora una volta come una nuova e persino ovvia verità. In questo Lei è concorde con
Nietzsche, con la differenza però che, come si può sperare, Lei realizzi nell’interpretazione
filosofica quello che afferma. È per questo che il Suo discorso ha una sostanza credibile. Non sto
parlando dello stile e della densità che fa di questo discorso, come vedo, un documento finora
unico, e destinato a restare nella memoria, di una volontà accademica attuale. La mia fiducia nella
Sua filosofia [...] non viene disturbata da certe caratteristiche di questo discorso, che sono conformi
ai tempi, da qualcosa che in esso mi risulta un po’ forzato e da frasi che mi sembra suonino piuttosto
vuote. Tutto sommato sono contento che ci sia qualcuno che può parlare così, qualcuno che
raggiunga i limiti autentici e le origini ».7
Due mesi prima di questa lettera Heidegger aveva fatto visita a Jaspers per l’ultima volta. In quella
occasione Heidegger aveva tenuto una conferenza sull'Università nel nuovo Reich (Die Universität
im neuen Reich). Era stato invitato dagli studenti nazionalsocialisti di Heidelberg per rinforzare il
fronte contro i professori conservatori e in particolare contro il rettore Willy Andreas, non ancora
allineato. Evidentemente era riuscito nell’intento. Un partecipante a questa manifestazione, lo
storico Gerd Tellenbach, annotò nelle sue memorie: « Uno studente, fanatizzato dalla foga agitatoria
del discorso, si rivolse a un compagno dicendo che [...] ad Andreas non restava che cacciarsi una
pallottola in testa ».8 Effettivamente Heidegger aveva assunto un atteggiamento molto militante,
aveva dichiarato morta l’università tradizionale, aveva respinto con parole dure le «
rappresentazioni cristiane umanizzanti » e aveva sollecitato a « lavorare per lo Stato». Si era parlato
dell’« ardimento » di chi vuole sapere, e del fatto che « solo una stirpe dura » avrebbe potuto
sostenere questa lotta « senza pensare a se stessa ». Chi però « non sostiene la lotta, resta escluso ».9
I professori erano apparsi in alta uniforme in occasione di questo discorso, che la stampa aveva
annunciato con grande pompa. Ma Heidegger vi comparve nell’abbigliamento scoutistico da
movimento giovanile, in pantaloni alla zuava e colletto alla Robespierre. Jaspers scrive nelle sue
memorie: « Ero seduto davanti su un lato con le gambe stese in avanti, le mani in tasca, e non mi
muovevo».10 In occasione di un colloquio privato, dopo la manifestazione, Heidegger gli era
apparso « come preso in un’ebbrezza », e si avvertiva un che di minaccioso provenire da lui. E
tuttavia, due mesi dopo, egli loda il discorso di rettorato. Nelle sue annotazioni personali egli
spiegherà in seguito il suo atteggiamento dicendo che avrebbe voluto dare « la migliore
interpretazione possibile » del discorso per poter mantenere aperto il dialogo con Heidegger, ma che
in realtà provava ribrezzo di fronte « al livello insopportabilmente meschino e straniarne» 11 in cui
si muovevano i discorsi e le azioni di Heidegger.
L’approvazione del discorso di rettorato da parte di Jaspers non aveva solo questo senso tattico che
egli appalesò in seguito. Continuavano a esserci importanti punti di contatto fra i due, e
sorprendentemente anche nel campo della riforma nazionalsocialista dell’università. Nella sua
lettera del 23 agosto 1933 Jaspers nomina la nuova costituzione dell’università appena bandita dal
ministero della Cultura del Baden, il cui punto nodale era l’introduzione del principio del Führer e
l’esautorazione degli organi collegiali, definendola uno «straordinario passo avanti». Egli trova
«giusta la nuova costituzione ». La « grande era » dell’università è a suo parere terminata da tempo,
e perciò è necessario un nuovo inizio.
Nell’estate del 1933 lo stesso Jaspers aveva elaborato delle tesi per la riforma dell’università che
dovevano essere discusse fra i docenti di Heidelberg. Jaspers ne aveva parlato a Heidegger in
occasione della sua ultima visita nella speranza che egli sollecitasse gli uffici governativi a mettersi
in contatto con lui. A tale scopo Jaspers aveva preparato una lettera di accompagnamento nella
quale sottolineava che le proprie idee di riforma non erano « in contrasto » con i « principi esposti
fino a ora da parte del governo », ma che anzi « fanno tutt’uno » con essi.12 Infine Jaspers aveva
rinunciato a presentare le sue tesi. Il motivo di ciò fu annotato da lui su un foglio allegato al
manoscritto delle tesi: « Non posso far niente se non ho una precisa richiesta, in quanto mi è stato
detto che non faccio parte del partito e che come compagno di una donna ebrea vengo soltanto
tollerato e non posso godere di alcuna fiducia ».13
Nelle sue «tesi », che nel 1946 metterà peraltro alla base del suo scritto sulla riforma dell’università,
Jaspers traccia un quadro del degrado dell’università. Nella diagnosi egli concorda con Heidegger. I
danni manifesti sono per lui i seguenti: la frammentazione in discipline settoriali, la sempre
maggiore scolarizzazione e l’orientamento soltanto professionale, il sopravvento dell’aspetto
amministrativo, il crollo del livello complessivo dell’insegnamento, l’abuso della libertà di
apprendimento, che porta all’esclusione «di quello che è il correlato della libertà: l’esclusione di
coloro che falliscono negli studi ».14 Nella situazione attuale, quella dell’estate 1933, sussiste la
possibilità, che forse « non si ripresenterà mai più », di superare tutti gli impedimenti e le
sedimentazioni « per mezzo della decisa deliberazione di un uomo che domina senza limiti
l’università e che può fidare nella potente spinta proveniente da una gioventù consapevole di questa
situazione e dell'insolita disponibilità di coloro che altrimenti sono tiepidi e indifferenti ». Se adesso
non si agisse con decisione, l’università andrebbe incontro alla propria « morte definitiva ».
I piani di riforma di Jaspers prevedono nel dettaglio: la deregolamentazione dello studio,
l’eliminazione dei piani di studio e delle documentazioni formali, lo snellimento amministrativo
attraverso il rafforzamento della responsabilità e delle autorità preposte a comandare. Il rettore e i
decani non devono più dipendere da delibere di maggioranza. Jaspers vuole il principio del Führer,
con la riserva però che coloro che decidono responsabilmente devono anche essere responsabili di
fatto e poter essere eventualmente rimossi. Si tratta insomma di offrire garanzie contro l’abuso del
principio del Führer. Se la rinnovata riforma universitaria del Baden offra queste garanzie, sarà il
tempo a dimostrarlo. In ogni caso egli augura pieno successo al « principio aristocratico »
recentemente instaurato, come scrive nella lettera a Heidegger del 23 agosto 1933.15
Nell’estate del 1933 Jaspers condivideva dunque la convinzione di Heidegger che fosse possibile,
con la rivoluzione nazionalsocialista, realizzare anche un rinnovamento razionale dell’università, se
solo coloro che detenevano il potere avessero prestato ascolto agli scienziati di rango. Anche
Jaspers vuole a suo modo « intervenire ». Egli fa addirittura delle concessioni a concetti come quelli
di servizio del lavoro e di esercitazioni militari. Essi fanno parte per lui della «realtà di
quell’onnicomprensivo» che congiunge con «i fondamenti dell’esistenza e con il popolo nel suo
complesso ». Però Jaspers si schiera esplicitamente contro il primato della politica: « Nessun’altra
istanza al mondo» può decidere le finalità della ricerca e dell’insegnamento «se non il portare allo
scoperto la chiarezza del vero sapere in quanto tale ».16
Ma fino a questo punto nemmeno Heidegger si era espresso diversamente. Nel suo discorso di
rettorato egli non fa discendere lo spirito della scienza dalla politica, bensì al contrario fa conseguire
l’impegno politico dall’atteggiamento dell'interrogare filosofico rettamente inteso. E tuttavia: per
quanto concerne la tonalità emotiva e la modalità dell’intima partecipazione al movimento politico,
c’è un abisso fra Jaspers e Heidegger. Jaspers difende l’aristocrazia dello spirito, mentre Heidegger
vuole abbatterla. Per quest’ultimo è stupido che ci siano così tanti professori di filosofia; ne
basterebbero due o tre, come aveva detto nell’ultimo colloquio con Jaspers.
Per Heidegger, che ancora nell’aprile del 1933 aveva scritto a Jaspers che tutto dipende dal fatto di
trovare nella « nuova realtà» il « giusto punto d’inserimento» della filosofia e di aiutarla a «
prendere la parola », per lui questa « nuova realtà » è diventata nel frattempo la rivoluzione
nazionalsocialista. Ma Jaspers vuole conservare la parola della filosofia, tale che essa non venga
falsificata dalla politica. Con stupore e terrore egli vede Heidegger innalzare quelle potenze che lo
hanno incantato a potenze esistenziali di tipo metafisico. Ma egli intuisce anche che nelle manovre
politiche di Heidegger continua a operare ancora un furore filosofico. E ciò affascina Jaspers. Egli
vuole capire che cosa faccia sì che questa «nuova realtà» possa conquistare presso Heidegger una
simile forza d’urto filosofica e un tale significato. Per questo egli fa la sua inquietante osservazione
sul discorso di rettorato di Heidegger: « che, come si può sperare, Lei realizzi nell’interpretazione
filosofica quello che afferma ».17
Dopo la sua elezione a rettore, Heidegger aveva già introdotto de facto il principio del Führer a
Friburgo, ancora prima che ciò venisse stabilito ufficialmente dalla riforma universitaria del Baden.
Per diversi mesi egli omise di convocare il senato accademico, e in tal modo lo esautorò. Le sue
comunicazioni e le sue circolari alle facoltà e agli organi collegiali erano redatte in un tono stridente
e imperativo. Heidegger, un uomo che non aveva fatto esperienza al fronte nella prima guerra
mondiale, era affascinato dall’idea di introdurre
lo spirito soldatesco nel corpo docente. Egli incaricò il professor Stieler, un ex capitano di corvetta,
di elaborare un collegio di probiviri per il corpo docente, che doveva ispirarsi alle rispettive regole
in vigore presso il corpo ufficiali. Heidegger, che si era rivelato abile nelle trattative per
l’assegnazione delle cattedre, adesso vuole metter fine ai traffici per ottenere maggiorazioni di
stipendio, dotazioni di cattedre etc.; lo spirito di mercato e della concorrenza economica doveva
essere superato. Perciò nell’abbozzo dell’ordinamento dei probiviri si dice: « Vogliamo coltivare e
sviluppare fra noi quello spirito di vero cameratismo e autentico socialismo che fa sì che il collega
non venga considerato un concorrente nella lotta per l’esistenza».18
In questo abbozzo approvato da Heidegger si trova anche questa frase: « Vogliamo ripulire la nostra
corporazione da elementi inferiori e prevenire future campagne di degenerazione ».19
In questo contesto, Heidegger avrà forse inteso per « elementi inferiori » persone non
sufficientemente qualificate sul piano professionale e caratteriale, ma per la rivoluzione
nazionalsocialista erano naturalmente e soprattutto gli ebrei e gli oppositori politici. E questo
Heidegger doveva saperlo.
A Friburgo le SA avevano propagandato già all’inizio di marzo il boicottaggio dei negozi degli ebrei
e fatto circolare liste di avvocati e medici ebrei. Lo studentato nazionalsocialista aveva cominciato a
invitare al boicottaggio dei professori ebrei. Il 7 aprile venne varata la « legge per la ristrutturazione
del pubblico impiego », che escludeva dal servizio statale tutti i « non ariani » assunti dopo il 1918.
Ma a Friburgo il commissario del Reich Robert Wagner aveva emesso il giorno precedente una
disposizione ancora più dura: la provvisoria sospensione finalizzata al licenziamento di tutti gli
impiegati ebrei, anche se in servizio presso lo Stato da prima del 1918. In base a questa disposizione
Husserl venne sospeso il 14 aprile 1933. In quel momento Heidegger non era ancora in carica.
Quando, alla fine di aprile, la disposizione di Wagner venne abolita in favore della legge per la
ristrutturazione del pubblico impiego, la sospensione di Husserl dovette essere ritirata. Questo fu
compito quindi del nuovo rettore, che nel frattempo era entrato in carica. Heidegger unì a questo
suo compito un gesto personale. Incaricò Elfride di mandare dei fiori a Husserl. Husserl aveva
sentito questa sospensione come la « più grande offesa della sua vita »; si sentiva ferito soprattutto
nel suo sentimento nazionale, e in una lettera aveva scritto: « Credo di non essere stato un cattivo
tedesco (di vecchio stampo, naturalmente) e credo che la mia casa sia stata un focolare di sentimenti
autenticamente nazionali, come tutti i miei figli hanno dimostrato con le loro azioni in guerra, come
volontari sul campo di battaglia e prestando servizio all’ospedale militare».20
Il mazzo di fiori e le parole di saluto non furono in grado di modificare la delusione di Husserl nei
confronti di Heidegger. In una lettera del 4 maggio 1933 al suo allievo Dietrich Mahnke egli
definisce l’ingresso « assolutamente teatrale » di Heidegger nel partito come « conclusione di
questa intima amicizia presumibilmente filosofica ». Negli ultimi anni, vi si dice, l’antisemitismo di
Heidegger « si è espresso con sempre maggiore forza, anche nei confronti del gruppo dei suoi
entusiasti allievi ebrei, e nei confronti della Facoltà ».2I
Heidegger antisemita?
Non lo fu nel senso del folle sistema ideologico dei nazionalsocialisti. Risulta infatti evidente che né
nei corsi di lezioni e negli scritti filosofici, né nei suoi discorsi e pamphlets politici si possono
trovare osservazioni antisemite e razziste. Quando ad esempio nella circolare per la festa del Primo
maggio Heidegger connota «come imperativo del momento» la «costruzione di un nuovo mondo
spirituale per il popolo tedesco », egli non vuole escludere da questo compito nessuno che abbia la
volontà di collaborare. Il nazionalsocialismo di Heidegger era decisionistico. Per lui non era
determinante la provenienza, quanto la decisione. Nella sua terminologia questo vuol dire che
l’uomo non deve essere giudicato sulla base della sua « gettatezza », ma del suo « progetto ». In
questo senso egli potè persino essere d’aiuto ai colleghi ebrei oppressi, laddove ne riconoscesse le
qualità. Quando Eduard Fraenkel, ordinario di filologia classica, e Georg von Hevesey, professore
di chimica della fisica, vennero licenziati in quanto ebrei, Heidegger cercò di evitarlo con una
lettera indirizzata al ministero della Cultura. In essa egli presenta un’argomentazione tattica: il
licenziamento di questi due professori ebrei, la cui alta reputazione scientifica è fuori discussione,
danneggerebbe proprio una « università di confine» sulla quale sono puntati in modo particolare gli
sguardi della critica straniera. Inoltre i due erano « ebrei nobili »,22 dal carattere esemplare. Egli
stesso poteva attestare il loro comportamento inappuntabile, « per quello che consente il giudizio di
un uomo ». Fraenkel venne licenziato nonostante l'interessamento di Heidegger; Hevesey per il
momento potè rimanere.
Heidegger si diede da fare anche per il suo assistente ebreo Werner Brock. Non potè trattenerlo
all’università, ma riuscì a fargli avere una borsa di studio per ricerche a Cambridge.
Nel 1945 Heidegger richiamò l’attenzione sul suo impegno a favore di scienziati ebrei e anche sul
fatto che già dopo pochi giorni dal suo ingresso in rettorato aveva rischiato un conflitto con lo
studentato nazionalsocialista quando vietò di appendere nell’università il manifesto antisemita
Contro lo spìrito non tedesco.
Questi comportamenti attestano la riserva di Heidegger nei confronti di un antisemitismo
grossolano e ideologico.
All’inizio del 1933, poco prima di emigrare, Hannah Arendt scrisse a Heidegger. Stando alla
parafrasi della Ettinger, erano giunte alle sue orecchie cattive notizie su di lui; « era vero che
escludeva gli ebrei dal suo seminario, che non salutava più [...] i colleghi ebrei, che mandava via i
suoi laureandi ebrei e che insomma si comportava come un antisemita »?23 Heidegger rispose con
tono furibondo; è la sua ultima lettera a Hannah fino al 1950. «Egli enumerò in serie», secondo la
parafrasi fatta dalla Ettinger, « tutti i favori che aveva fatto agli ebrei, a cominciare dalla sua
apertura mentale nei confronti degli studenti ebrei, ai quali metteva a disposizione il proprio tempo
con generosità, sebbene questo fosse di disturbo al suo lavoro [...] Chi era a venire da lui quando si
trovava in difficoltà? Un ebreo. Chi insiste nel voler parlare quanto prima della propria tesi di
laurea? Un ebreo. Chi gli spedisce un’opera voluminosa perché la recensisca subito? Un ebreo. Chi
gli chiede aiuto per ricevere una sovvenzione? Un ebreo. »24
A prescindere dal fatto che qui Heidegger presenta come « favori » cose che fanno parte dei doveri
del suo servizio, con la sua difesa egli rivela « che divideva effettivamente i tedeschi, tanto i suoi
colleghi quanto gli studenti, in ebrei e non ebrei »25 (Ettinger), e fa inoltre capire che gli ebrei
nell’università erano sentiti da lui come persone insistenti. Da una lettera di Heidegger, scoperta nel
1989 e scritta il 20 ottobre 1929 a Victor Schwörer, vicepresidente della «Comunità di assistenza
alla scienza tedesca » (una organizzazione per la distribuzione di borse di studio), risulta che
Heidegger condivise interamente il cosiddetto « antisemitismo concorrenziale»26 (un’espressione
coniata da Sebastian Haffner), molto diffuso nei circoli accademici. Scrive Heidegger: « Si tratta
della [...] improrogabile riflessione sul fatto che ci troviamo di fronte a una scelta, o di procurare di
nuovo per la nostra vita spirituale tedesca energie ed educatori autentici e radicati al suolo, oppure
di consegnarla definitivamente, in senso ampio e ristretto, alla crescente ebraizzazione ».27
Questo « antisemitismo concorrenziale » in sostanza non accetta l’assimilazione degli ebrei, ma
continua a identificarli come un gruppo particolare, e si oppone al fatto che essi occupino nella
cultura una posizione di dominio, non proporzionale alla loro presenza nella popolazione
complessiva. In questo senso, come informa Max Müller, Heidegger aveva fatto notare in un suo
colloquio del 1933 «che originariamente a Medicina interna erano in servizio solo due medici ebrei,
mentre alla fine in questa specialità si potevano trovare solo due medici non ebrei. Di ciò era un po’
seccato ».28
Quindi non può destare sorpresa che Heidegger, rivolgendosi al ministero della Cultura in favore
dei due colleghi ebrei, Hevesey e Fraenkel, minacciati di licenziamento, riconosca espressamente la
« necessità di una inflessibile applicazione della legge per la ristrutturazione del pubblico impiego
».29
L’« antisemitismo concorrenziale » contempla di norma in ambito culturale l’accettazione di un
particolare «spirito ebraico ». Ma in Heidegger questo « spirito ebraico », dal quale bisogna
guardarsi, non c’è. Egli si è sempre opposto a questa forma di antisemitismo « spirituale ». In un
corso tenuto a metà degli anni ’30 egli prende le difese di Spinoza e spiega che se la sua filosofia è
« ebrea », allora è ebrea anche tutta la filosofia da Leibniz fino a Hegel. Questo rifiuto
dell’antisemitismo « spirituale » sorprende ancora di più se si pensa che altrimenti Heidegger mette
volentieri in evidenza l’elemento « tedesco » in filosofia, separandolo nettamente dal razionalismo
dei francesi, dall’utilitarismo degli inglesi e dall’ossessione tecnologica degli americani. Ma, a
differenza dai suoi compagni di lotta e avversari Krieck e Baeumler, egli non ha mai fatto ricorso a
questo elemento « tedesco » in filosofia per distinguerlo rispetto a quello « ebraico ».
Karl Jaspers, cui nel 1945 viene richiesto di esprimere per iscritto un parere sull’antisemitismo di
Heidegger, arriva a formulare questo giudizio, che Heidegger non fu un antisemita negli anni ’20, e
continua dicendo: « In tale questione egli non si è limitato solo alla riservatezza. Ciò non esclude
che in altre circostanze, come devo supporre, l’antisemitismo abbia contrastato con la sua coscienza
e con il suo gusto».30
In ogni caso, il suo tipo di antisemitismo non fu per lui motivo di adesione alla rivoluzione
nazionalsocialista. Ma è vero anche che l’antisemitismo nazionalsocialista, la cui brutalità venne
ben presto a galla, non l’ha nemmeno indotto ad allontanarsi da questo movimento. Egli non
appoggiò queste azioni, ma le accettò. Quando, nell’estate del 1933, alcuni studenti
nazionalsocialisti presero d’assalto la sede di un’associazione di studenti ebrei, agendo con tanta
efferatezza che
il procuratore non potè fare a meno di avviare dei procedimenti d’indagine e si rivolse per
informazioni al rettore Heidegger, quest’ultimo rifiutò ogni ulteriore indagine, osservando che
nell’assalto non erano coinvolti solo studenti.31 Heidegger coprì quella gentaglia; lo doveva alla
rivoluzione, questa era la sua idea.
Quando Elisabeth Blochmann venne licenziata perché per metà ebrea, in base alla legge per la
ristrutturazione del pubblico impiego, e scrisse una lettera a Heidegger cercando di ottenere aiuto,
egli promette certo di intervenire a Berlino in favore dell’amica - per la verità senza successo - ma
perfino in questo rapporto personale, dove non è necessaria nessuna riserva tattica, egli non trova
parole di indignazione di fronte a questi metodi. Egli esprime il proprio dispiacere a Elisabeth
Blochmann, come le fosse accaduto un incidente. Sembra che non gli sia mai venuto il pensiero che
la sua azione, intrecciata a quella collettiva della rivoluzione, fosse rivolta anche contro la sua
amica, che gli scrive disperata: « Ho già passato giorni molto difficili, ma non avrei potuto
immaginare che una tale proscrizione fosse possibile. Forse ho vissuto troppo ingenuamente nella
sicurezza di una profonda appartenenza allo spirito e alla sensibilità - così inizialmente mi sono
sentita del tutto inerme, e disperatissima» (18 aprile 1933).32 E Heidegger le risponde: «Io sono
prontissimo in qualsiasi momento per ogni Suo desiderio o necessità» (16 ottobre 1933).33
Hannah Arendt, Elisabeth Blochmann, Karl Lowith, persone vicinissime a Heidegger, devono
abbandonare la Germania, ma questo per il momento non ostacola in lui la « comunità del volere »
con i nazionalsocialisti. Egli sente di appartenere al movimento, anche se nella sua terra natale sono
stati costruiti i primi campi di concentramento, anche se gli studenti ebrei sono stati brutalmente
assaliti e in città vengono distribuite le prime liste di proscrizione. E quando poi Heidegger formula
una prima prudente critica alla politica ufficiale, ciò non accade per lo sdegno nei confronti degli
eccessi di antisemitismo, ma per le concessioni fatte alle vecchie forze borghesi.
Quello che era giunto alle orecchie di Hannah Arendt all’inizio del 1933, che cioè Heidegger si
tirava indietro di fronte a colleghi e studenti ebrei, e quello che egli contestò nella sua risposta a
Hannah, tutto ciò accadde effettivamente nei mesi successivi. A partire dal momento in cui fu
rettore, egli interruppe i propri rapporti con i colleghi ebrei e non laureò nessuno dei suoi studenti
ebrei. Li mandò da colleghi della facoltà. « Heidegger volle che i suoi allievi ebrei si laureassero,
ma non più con lui»34 (Max Müller). A Wilhelm Szilasi, uno studioso ebreo suo amico che non
dipendeva dall’università, disse che nella situazione venutasi a creare i loro rapporti dovevano
interrompersi.35
Heidegger interruppe anche i suoi contatti con Edmund Husserl. Che egli abbia impedito al suo
vecchio maestro e amico di entrare nel seminario di filosofia è invece una voce non vera. Ma
Heidegger non fece nulla nemmeno per aprire spontaneamente una breccia nel crescente isolamento
di Husserl. Fu Martin Honecker, collega di Heidegger alla cattedra cattolica, a tenere il
collegamento fra loro e a far regolarmente pervenire a Husserl, attraverso il « messaggero » Max
Müller, i « migliori saluti dal seminario di filosofia », informandolo di quello che succedeva in
istituto. « Aveva per me l’aspetto di un ’saggio’; non gli interessavano le questioni del quotidiano,
anche se era proprio la politica quotidiana a minacciare costantemente lui e sua moglie perché ebrei.
Era come se non sapesse nulla di questa minaccia, o semplicemente non volesse prenderne atto »36
(Max Müller). Husserl era poco partecipe delle faccende dell’istituto, ma voleva sempre sentire
qualcosa di Heidegger. Dopo il primo sdegno per il suo «tradimento» del 1933, il suo giudizio tornò
ad ammorbidirsi. « Egli è certo il più dotato fra tutti coloro che abbiano mai fatto parte della mia
cerchia»,37 disse a Max Müller.
Nel 1938, quando Husserl morì in solitudine, e il 29 aprile quando venne cremato, non era presente
nessuno della facoltà di filosofia, a eccezione di Gerhard Ritter. Non c’era nemmeno Martin
Heidegger, a letto ammalato. Quella stessa sera Karl Diehl, professore di economia nazionale, tenne
un breve discorso commemorativo per Husserl alla presenza di un piccolo gruppo di colleghi. Diehl
era solito definire questo gruppo « la facoltà delle persone oneste ».38
All’inizio degli anni ’40 Heidegger ritirerà, sotto pressione dell’editore, la dedica a Husserl sul
risguardo di Esseree tempo. Ma il ringraziamento nascosto nelle note venne conservato.
Torniamo al 1933.
Ricordiamoci che nel discorso di rettorato Heidegger aveva abbozzato lo scenario di una rottura
epocale, un secondo inizio della storia dell’umanità; tutti erano invitati a essere testimoni
compartecipi di un atto decisivo nella gigantomachia della storia dell’essere. Ma nel suo caso quello
che ne risulta non è molto di più che una battaglia contro l’università dei professori ordinari.
Heidegger scriverà in seguito a Jaspers: « Io 'sognavo’, e in fondo pensavo solo a ’quella’ università
che mi aleggiava davanti agli occhi » (8 aprile 1950).39
Questa lotta per una « nuova » università ha alcune somiglianze con la rivolta studentesca del 1967.
Heidegger si presenta con un aspetto che ricorda spiccatamente il movimento giovanile, come la
punta di giavellotto degli studenti rivoluzionari, che sono « in marcia ». Heidegger con i pantaloni
alla zuava e il colletto alla Robespierre contro i manicotti impellicciati sotto le toghe. Egli fa la
parte del rappresentante nazionalsocialista degli studenti di una certa disciplina, che sono in rivolta
contro gli ordinari, e appoggia l’indipendenza degli assistenti. È il grande momento dei liberi
docenti, che possono coltivare qualche speranza. Heidegger è attento al fatto che anche il restante
personale di servizio venga convocato alle adunanze.
Heidegger non era così presuntuoso da credere di « poter fare il Führer del Führer », come ha
affermato in seguito Jaspers. Ma nell’ambito della politica universitaria egli aspirava effettivamente
a una posizione di comando nella lotta contro il dominio degli ordinari. In occasione del congresso
della Federazione universitaria del giugno 1933, la fazione dei docenti nazionalsocialisti, nella
quale Heidegger aspirava a una posizione di comando, riuscì a costringere i membri del precedente
direttivo a ritirarsi. Durante la conferenza dei rettori, che ebbe luogo subito dopo, egli si adoperò
per sciogliere la federazione. Inoltre Friburgo doveva essere dichiarata un « avamposto » della
rivoluzione nazionalsocialista delle università. Allora Heidegger sarebbe diventato effettivamente
una sorta di duce delle università tedesche. E ne aveva l’ambizione. Ma non riuscì a imporsi contro
gli altri rettori. La fazione nazionalsocialista abbandonò per protesta la riunione. Poiché le attività di
Heidegger sul piano nazionale non avevano il successo desiderato, egli voleva realizzare un
modello esemplare almeno sul piano regionale. È intanto una cosa assodata che durante l'estate del
1933 Heidegger collaborò intensamente all’elaborazione della riforma universitaria del Baden, che
entrò in vigore il 21 agosto, facendo così del Baden il primo Land tedesco che realizzava
l’allineamento dell’università secondo il principio del Führer.
Per Heidegger l’esautoramento del dominio degli ordinari significava continuare la sua lotta contro
l’idealismo borghese e contro lo spirito modernistico delle discipline scientifiche positivistiche.
Anche questo impulso tornerà nella rivolta studentesca del 1967. Ciò contro cui combatteva
Heidegger a quel tempo, veniva chiamato dagli studenti del 1967 « idiozia settoriale ». La critica
del 1967 era questa: la società borghese insegna l’interesse per le scienze come disinteresse per la
società. Ora, anche Heidegger parla di questa responsabilità della scienza nei confronti del corpo
sociale, anche se con altre parole: « La costruzione di un nuovo mondo spirituale per il popolo
tedesco diventa compito fondamentale dell’università tedesca. Questo è compito nazionale, nel
senso e al livello più elevato ».40
Uno degli ideali del movimento giovanile del 1967 era la cosiddetta « eliminazione della divisione
fra lavoro manuale e lavoro intellettuale ». Questo era anche l’ideale di Heidegger. Alla festa delle
matricole del 25 novembre 1933 egli tenne un discorso programmatico sul tema Lo studente
tedesco come lavoratore (Der deutsche Student als Arbeiter). Con formulazioni nelle quali
risuonano pensieri del saggio di Ernst Jünger L’operaio, apparso nel 1932, Heidegger polemizza
contro la presunzione dei dotti. Lo studente non deve voler collezionare tesori spirituali per fame un
uso privato e per la carriera, bensì deve domandarsi in che modo possa servire nel modo migliore il
popolo con le sue ricerche e con il suo sapere: « Questo servizio crea l’esperienza fondamentale
dell’origine dell’autentico cameratismo». Lo studente deve concepire il proprio studio molto
umilmente come « lavoro », ma deve anche effettivamente usare le mani: aiutare nel raccolto, nei
lavori di risanamento nei dintorni di Friburgo, in quelli sul ponte cittadino e dove ce n’è bisogno.
«Lo Stato nazionalsocialista è lo Stato dei lavoratori », così afferma Heidegger, e gli studenti
dovevano sentirsi, ciascuno al proprio posto, « in servizio » con la propria ricerca e il proprio
sapere.
E' strano che Heidegger, il quale finora voleva tenere libero lo spirito della vera scienza e filosofia
da tutte le considerazioni sull’utilità e sull’orientamento immediato alla prassi, adesso dia voce a
una strumentalizzazione della scienza per scopi nazionali. Egli aveva fatto la caricatura della
filosofia che si orienta ai « valori », presentandola come grado zero dell’idealismo borghese, e
adesso tira fuori i valori dell’autoaffermazione nazionale per pretendere in loro nome, con tanto di
legittimazione filosofica, la « disponibilità fino all’estremo» e il «cameratismo fino all’ultimo».
Tutto ciò viene messo in relazione, e con un accento particolare, nel suo discorso per la «
manifestazione della scienza tedesca per Adolf Hitler », tenuta a Lipsia l’ 11 novembre 1933, con
quel principio filosofico secondo cui l’« esigenza originaria » di ogni essere è « di mantenere e
salvare la propria essenza »41.
Heidegger al servizio del popolo. La NSDAP aveva varato all’inizio del 1934 un programma per
l’inserimento sociale dei disoccupati. I disoccupati vengono comandati all’istruzione «politico-
statale» presso l’università. Lì i «lavoratori del pugno » devono essere istruiti dai « lavoratori della
fronte ». Heidegger si era impegnato a favore di questo programma di « rapporto con la base »,
come è stato chiamato nel 1967. Egli tenne il discorso di apertura di fronte a 600 lavoratori.
Per prima cosa Heidegger chiarisce ai lavoratori radunati davanti a lui che cosa significa il loro
essere. Già in questo modo cioè essi servono alla «costruzione e all’edificazione del nuovo avvenire
del nostro popolo ». Ora però, essi sono purtroppo disoccupati - per Heidegger è una occasione
propizia per farci scivolare dentro i primi termini filosofici, definendo la loro incresciosa situazione
come « non capace di esserci ». Essi sarebbero « capaci di esserci » solo se potessero servire lo
Stato e il corpo popolare. Procurare lavoro è dunque il primo compito dello Stato nazionale. Il
secondo compito è quello di procurare sapere: « Ogni lavoratore del nostro popolo deve sapere
perché e a che scopo sta lì dove sta». Soltanto in questo modo il singolo sarebbe «radicato nel corpo
popolare e nel destino del popolo ». Poiché Heidegger non può tenere seduti i disoccupati
raccontando loro della problematicità dell’ente nella sua totalità come di una forma di sapere di cui
il concittadino ha bisogno, e poiché non vuole far notare la loro gettatezza a quelli che sono stati
gettati fuori dal mercato del lavoro, deve offrire e creare qualcosa di concreto. Dal suo discorso si
può notare quanto ciò gli riesca difficile. Non gli viene in mente niente di buono. E così egli parla di
ciò che è necessario sapere, cioè « come il popolo si articola [...]; che cosa ne è del popolo tedesco
in questo Stato nazionalsocialista [...] che cosa significa il futuro risanamento del corpo popolare
[...] che cosa ha portato ai tedeschi l’inurbamento». Per mezzo di questo sapere i disoccupati qui
riuniti potranno diventare « uomini tedeschi chiari e decisi ». I procacciatori di sapere
dell’università li aiuteranno in ciò. Lo faranno volentieri. Infatti gli uomini di scienza sanno che
anch’essi possono diventare dei compatrioti soltanto portando il loro sapere all’uomo che lavora.
L’unità di pugno e fronte è la vera realtà. « Questa volontà di completare il procacciamento di
lavoro con un giusto procacciamento di sapere deve essere la sua intima certezza e la sua fede
incrollabile. » Ma questa fede ha il suo sostegno nella «superiore volontà del nostro Führer». E
pronunciando un «Sieg Heil! » Heidegger conclude il suo discorso.42
In un discorso agli studenti di Tubinga del 30 novembre 1933 egli descrive il processo di «
conquista della nuova realtà » come se si trattasse della nascita di un’opera d’arte. È giunto il
momento di abbandonare lo spazio dell’università tradizionale, essa non è che « l’isola vuota di uno
Stato vuoto ». Ma chi combatte si trova per così dire all’interno di un’opera che sorge. Egli riceve la
pienezza dell’esserci e diventa « comproprietario della verità del popolo nel suo Stato ».
Al posto dell’estasi filosofica è subentrata la mistica della comunità di popolo. La filosofia, intesa
come pensiero che si interroga in solitudine, può per ora dimettersi. Ma naturalmente il tutto resta
una faccenda filosofica, dato che Heidegger si lascia incantare filosoficamente dal movimento, e su
questo stesso piano gli riesce di incantare altri. Uno degli incantati disse a quel tempo: « Quando
Heidegger parla è come se mi cadesse un velo dagli occhi ».43
Un progetto che Heidegger promosse con particolare ambizione fu quello del « Campo di lavoro
scientifico ». L’idea in tal senso era già stata presentata da lui a Berlino il 10 giugno 1933 in
occasione di un congresso didattico dell’Ufficio scientifico degli studenti tedeschi. Doveva essere
una via di mezzo fra un campo scout e l’Accademia platonica. Vivere insieme, lavorare insieme,
pensare insieme, per un certo tempo limitato, nella libertà della natura. Qui la scienza doveva
tornare a destare alla « realtà vitale della natura e della storia», e dovevano essere superati l’«
ideologismo infruttuoso » del cristianesimo e la « cianfrusaglia positivista »,44 I partecipanti si
sarebbero aperti alle nuove potenze dell’esserci. Questi erano i propositi. Furono messi in pratica
dal 4 al 10 ottobre ai piedi della baita di Todtnauberg. Una marcia serrata a partire dall’università.
Per il primo tentativo Heidegger aveva scelto una piccola cerchia di docenti e studenti e aveva
redatto alcune indicazioni di regia: « L’obiettivo viene raggiunto a piedi [...] SA e ss in uniforme, con
tanto di elmetto in acciaio e fascia al braccio ». Programma della giornata: sveglia alle 6 e silenzio
alle 22. « Il vero lavoro di ricerca in comunità consiste nella riflessione su vie e mezzi per realizzare
la futura università consona allo spirito tedesco. »45
I temi scelti per i gruppi di lavoro e per i corsi, fissati da Heidegger, concernevano questioni
universitarie, l’organizzazione delle facoltà, la riforma nazionalsocialista dell’università, il principio
del Führer e così via. Ma l’aspetto decisivo era, come scrive Heidegger, che « attraverso la
comunità al campo » si destassero « la tonalità emotiva e l’atteggiamento fondamentali» dell’attuale
rivoluzione. Heidegger vuole condurre una schiera di giovani nella pacifica Todtnauberg, per fare
falò, appelli con alzabandiera, preparare il rancio, discutere, cantare con la chitarra, e tuttavia egli
annuncia questo proposito come se ci si dovesse recare in terra nemica e affrontare pericoli: «La
riuscita del campo dipende dalla quantità di nuovo coraggio [...] dalla decisione della volontà alla
fedeltà, al sacrificio e al servizio ». L’unico pericolo di questa impresa era che Heidegger facesse
una figuraccia e che la cosa si riducesse a una normalissima vita di accampamento con gente che
ormai aveva superato l’età dei giovani militanti della Hitlerjugend. Heinrich Buhr, uno dei
partecipanti, racconta che Heidegger disse intorno al falò parole impressionanti contro «
svalutazione del mondo, disprezzo del mondo, unificazione del mondo » da parte del cristianesimo,
celebrando « il grande e nobile sapere dello smarrimento dell’esserci ».46 Heinrich Buhr, che in
seguito divenne parroco, sentiva risuonare in queste parole il « cuore avventuroso» di Jünger. Fu
una manifestazione edificante, per alcuni persino coinvolgente, ma non c’era bisogno di coraggio
per superarla. Fu una cosa romantica, ma non pericolosa. A creare un certo malumore ci pensò un
intrigo tra i fedelissimi di Heidegger e un gruppo di studenti delle SA di Heidelberg, che volevano
sostituire all’aspetto scoutistico un tono militaresco e un antisemitismo militante. Nel suo scritto di
autodifesa per il procedimento di epurazione politica del 1945, Heidegger ne fece un importante
conflitto politico. « Il gruppo di Heidelberg aveva il compito di far saltare l’accampamento »,
scrive.
In occasione di questi scontri, il libero docente Stadelmann, che era al seguito di Heidegger,
abbandona su ordine di quest’ultimo l’accampamento. Hugo Ott ha reperito l’epistolario fra
Stadelmann e Heidegger relativo a questo episodio. Se ne ricava un’impressione come se fosse
accaduto qualcosa di drammatico fra un cavaliere e il suo scudiero: fedeltà fino all’ultimo,
sacrificio, tradimento, perfidia, rimorso, contrizione. Heidegger scrive che « La ’prova’ della
comunità» probabilmente non l’aveva superata nessuno. « Ma ognuno ha acquistato la
consapevolezza che la rivoluzione non è ancora giunta al termine, perché l’obiettivo della
rivoluzione universitaria è la formazione dello studente SA. » E Stadelmann, evidentemente risentito
per essere stato escluso a tempo debito dal duello, scrive: « E mai come nella comunità di
Todtnauberg mi sono accorto che faccio parte della rivoluzione [...] La disciplina la vorrò mantenere
ma speravo in qualcosa di più, avevo creduto nella possibilità di una comunità di fedeli ».
Heidegger risponde: « So che la sua devozione, alla quale tengo molto, devo prima
riguadagnarmela».47
Le potenze dell’esserci, che hanno qui evidentemente un loro ruolo, sono di tipo associazionistico
ed escursionistico. Ma Heidegger riesce a erigere un palcoscenico dove le macchinazioni, gli
intrighi e le tensioni fra le dinamiche di gruppo hanno l’aspetto di qualcosa di « grande » che, come
scrive Heidegger nel discorso di rettorato, « è nella tempesta ». Heidegger diventa prigioniero di
significati che lui stesso ripone nella realtà.
Egli riotterrà la libera motilità del suo pensiero quando non vorrà più collaborare all’opera d’arte
totale della comunità di popolo, ma tornerà a dedicarsi alle opere dell’arte e della filosofia.
Heidegger sapeva dare una « lettura » migliore di questo tipo di opere che non della realtà politica.
Egli si sentiva a casa propria solo nella filosofia e in una realtà orientata in senso filosofico. Egli
pretese troppo da sé quando « intervenne » in questo movimento rivoluzionario per fare una politica
reale. Ma tornerà presto ad alloggiare sotto il tetto, relativamente più sicuro, del pensiero filosofico.
15. Il corto circuito tra filosofia e politica. L’uomo al singolare e al plurale. La scomparsa della
differenza. Nessuna ontologia della differenza. Il secondo incarico a Berlino.
La lotta di Heidegger per la purezza del movimento. Il rivoluzionario è una spia.
La filosofìa deve essere « padrona » del proprio tempo, aveva detto Heidegger. Nel tentativo di
soddisfare questa esigenza, egli toglie gli ormeggi alla sua ontologia fondamentale.
Teniamo presente che in Essere e tempo egli aveva descritto l'esserci dell’uomo su un piano
elementare, che sta ancora al di sotto delle differenze storiche e delle opposizioni dei progetti
individuali di vita. Anche le tonalità emotive della noia e dell’angoscia, che egli aveva analizzato
nei suoi corsi dei primi anni ’30, si riferivano in generale all’essere-nel-mondo, e non alle situazioni
emotive individuali dell’esserci indeterminate situazioni.
Sebbene egli abbia occasionalmente affrontato il con-essere, tuttavia il suo pensiero era sempre
rivolto all’uomo, dove il singolare si riferisce al genere umano: l’uomo; l'esserci; anche ciò che sta
di fronte all’uomo è strutturato al singolare: il mondo, l'ente, l'essere.
Ma fra l’uomo e l’intero nel suo complesso - l'essere, lo spirito, la storia - c’è un altro ambito
ancora, quell’« esserci-fra » dove ci sono gli uomini nella loro pluralità, i molti, che si distinguono
fra loro, che coltivano interessi diversi, che si incontrano nelle cose che fanno. È soltanto in
quest’ambito che viene prodotta quella che si può chiamare realtà politica. Tutta questa sfera, il cui
significato ontologico sta nella molteplicità e nelle differenziazioni dei singoli, scompare nel
panorama dell'esserci descritto da Heidegger. Ci sono solo due tipi di esserci, quello autentico e
quello inautentico, il « se stesso » e il « Si stesso ». Naturalmente Heidegger non negherebbe che i
progetti dei singoli esserci sono differenti, ma questa differenza non è per lui una sfida in senso
positivo, anzi egli non la considera fra le condizioni fondamentali dell’esistenza. Noi dobbiamo
convivere col nudo dato di fatto di essere circondati da persone che sono diverse, e che noi non
capiamo affatto, oppure capiamo fin troppo bene; sono persone che amiamo o magari odiamo, o che
ci risultano indifferenti e forse enigmatiche, e rispetto alle quali ci sentiamo separati da un abisso,
oppure da niente. Tutto questo è un universo di relazioni possibili, cui Heidegger non ha prestato
alcuna attenzione, e che egli non ha accolto fra i suoi esistenziali. Heidegger, l’inventore della
differenza ontologica, non ha mai pensato di sviluppare una ontologia della differenza. Differenza
ontologica significa distinguere l'essere dall’ente. Un’ontologia della differenza significherebbe
accettare la sfida filosofica della diversità degli uomini, le difficoltà e le opportunità che ne
risultano per la convivenza.
Nella tradizione filosofica esiste già da tempo questo tipo di mistificazione, per cui si parla sempre
e solo dell’uomo, mentre ci sono solo gli uomini. Sul palcoscenico della filosofia entrano in scena
Dio e l’uomo, l’io e il mondo, l'ego cogito e la res extensa, e adesso in Heidegger Tesserci e
Tessere. Anche il discorso heideggeriano sull’« esserci » mette in ombra, già solo con la
suggestione del linguaggio, l’identità di tutto ciò che è «esserci». L’esserci è «tenuto immerso»
nell’«ente nella sua totalità», dice Heidegger. Ma innanzi tutto il singolo esserci è tenuto immerso
nel mondo degli altri uomini che ci sono.
Anziché pensare la fondamentale pluralità di questo mondo di uomini, Heidegger la elude nel
singolare collettivo: il popolo. E questo singolare popolare viene posto all'interno dell’ideale
esistenziale dell’essere se stessi, un ideale che autenticamente era stato sviluppato in base al singolo
che è ripiegato su se stesso. L’« esigenza originaria di ogni esserci, di conservare e salvare la sua
propria essenza », viene trasferita esplicitamente da Heidegger in occasione del « proclama della
scienza tedesca per Adolf Hitler » (Lipsia, 11 novembre 1933) sul popolo, che deve «conservare e
salvare la propria essenza ». Da che cosa è minacciato? Dalle umiliazioni del trattato di Versailles,
dallo smembramento di territori che un tempo furono tedeschi, dal pagamento dei danni di guerra.
Quale organizzazione sanziona questo torto? La Società delle
Nazioni. E pertanto era giusto che Hitler dichiarasse l’uscita dalla Società delle Nazioni e che
adesso ottenesse dal popolo con un plebiscito (legato all’elezione del parlamento del Reich per
mezzo di una lista unica) l’approvazione a posteriori di questo passo. Con la sua filosofia
dell’autenticità, il cui asse si sposta dal singolo al popolo, Heidegger impartisce la più alta
benedizione a questa manovra politica: « esigenza originaria dell’esserci ».
Questo discorso del novembre 1933 è ontologia fondamental-popolare applicata. Nel corso sulla
Logica dell’estate 1934, che per il momento è pubblicato solo sotto forma di appunti che presentano
lacune, Heidegger ha svolto una riflessione esplicita su questa trasformazione dell’« essere -sempre-
mio» nell’« essere-sempre-nostro ». Il «se stesso», dice, «non è una caratterizzazione distintiva
dell’io». Ciò che è fondante è invece il « noi-stessi ». Concentrando i propri sforzi sull’« io-stesso »
il singolo perde il terreno che gli sta sotto i piedi, « sta nell’abbandono di fronte al sé » perché cerca
il sé nel posto sbagliato, cioè nell’io isolato. Esso va trovato invece nel « noi ». Tuttavia non è detto
che qualsiasi raggruppamento di persone - « una associazione bocciofila, una banda di delinquenti »
- sia già in tal senso un « noi ». La differenza tra autenticità e inautenticità sussiste anche sul piano
del « noi ». Il « noi » inautentico è il « Si », il « noi » autentico è il popolo, che afferma se stesso
come un unico uomo. « Un corpo popolare è dunque un singolo uomo in grande. »1
Il pathos dell’autenticità di Essere e tempo era la solitudine. Ma se il popolo diventa il singolare
collettivo dell’esserci, allora questa solitudine è scomparsa nell’inquietante unità del popolo. Ma
Heidegger non vuole rinunciare al pathos esistenziale, e così sceglie un palcoscenico dove un intero
popolo può sfilare nella sua decisa solitudine. Il popolo tedesco è solitario in mezzo agli altri popoli.
Per mezzo della sua rivoluzione, esso ha osato spingersi più in là, nelle incerte plaghe dell’« ente
nella sua totalità». Queste parole le abbiamo già sentite nel discorso di rettorato: il popolo si è
portato sotto il cielo vuoto di Zarathustra, è una comunità che si è messa in cammino per tentare di
dare un senso a ciò che ne è privo, si è suddiviso in formazioni, organizzazioni delle maestranze di
fabbrica, federazioni. Il popolo tedesco è il popolo metafisico.
Quale sia il vero pensiero politico, sarà Hannah Arendt a dirlo, anche in risposta a Martin
Heidegger: esso scaturisce dall’« essere insieme reciproco dei diversi»2 e resiste alla tentazione di
conferire una profondità gnostica al brulichio dell’accadere storico oppure di elevarsi a una storia
«autentica», che poi possiede quell’automatismo e quella logica che sono destinati a perdere di vista
il caos della storia reale, che consta solo dell'intreccio di infinite storie che si incrociano. Anziché
pervenire a un pensiero politico, Heidegger si è fermato solo a questa gnosi storica. Questo non
sarebbe stato un grosso male, se egli si fosse accorto di essere privo di concetti politici. Ciò che
rende così insidioso il suo ingresso sulla scena politica durante questi mesi, non è tanto il fatto che
egli non fosse un politico, quanto piuttosto che non se ne accorgesse e scambiasse la sua gnosi
storica per pensiero politico. Se egli avesse continuato a raccontare le sue storie « autentiche » in
veste di gnostico della storia, senza volerle immischiare nella « politica », egli sarebbe rimasto
quell’artista della filosofia che effettivamente era; invece, trascinato dalla rivoluzione, volle
diventare il politico della filosofia. E allora si mette accanto al falò della festa per il solstizio
d’estate e lancia appelli a coloro che stanno incantati ad ascoltarlo: « I giorni passano, tornano a
farsi più brevi. Ma il nostro coraggio cresce a infrangere il buio che arriva. Non dobbiamo mai
diventare ciechi nella battaglia. Fiamma, illuminaci e guidaci, mostraci la via dalla quale più non si
toma! Accendetevi, fiamme; cuori, ardete! »
La maggior parte dei professori di Friburgo ritenevano che il rettore fosse un sognatore radicale
inselvatichito. Alle volte lo si trovava anche ridicolo e si raccontava la storia di alcuni studenti che,
sotto la guida del già citato Stieler, professore di filosofia ed ex capitano di corvetta, si stavano
esercitando con finti fucili di legno nella cava d’argilla attigua a una fornace, e che Heidegger,
passando di là in automobile, saltò fuori. Stieler, alto come una pertica, due metri e due centimetri,
si sarebbe messo sull’attenti e avrebbe fatto rapporto in perfetto stile militare a Heidegger, che era
molto basso di statura, e Heidegger, che aveva prestato servizio in guerra solo nell’ufficio della
censura postale e in una postazione meteorologica, ascoltò il rapporto ricambiando il saluto militare,
come un comandante. Queste erano le scene di battaglia che faceva Heidegger.
Nel settembre 1933 Heidegger riceve l’incarico all’università di Berlino, e in ottobre all’università
di Monaco. Victor Farias ha indagato sui retroscena. Ne è risultato che in entrambi i casi l’incarico
gli è stato evidentemente assegnato contro l’opposizione delle rispettive facoltà. A Berlino era stato
Alfred Baeumler ad adoperarsi con particolare vigore in suo favore e a definirlo in una relazione
scritta come un « genio filosofico ».3 Nella contemporanea trattativa con l’università di Monaco,
Heidegger fa osservare che a Berlino gli era stata accordata una cattedra « con uno specifico
incarico politico », e chiede di essere informato se anche a Monaco venga chiamato,
conformemente al suo desiderio, a « riformare l’università ». Egli farà dipendere la sua decisione,
aggiunge, dalla sua possibilità di servire al meglio «l’opera di Adolf Hitler».4 L’opposizione a
Heidegger proveniva da due fronti: i professori conservatori sentivano la mancanza in Heidegger di
un contenuto dottrinale « positivo », mentre gli ideologi nazisti « duri », come Ernst Krieck e
Jaensch, non vedevano in lui un’adesione alla visione del mondo propria del nazionalsocialismo.
Sullo sfondo della candidatura a Berlino e Monaco circolava una relazione scritta redatta dallo
psicologo Jaensch, collega di Heidegger del periodo di Marburgo. In essa Heidegger veniva definito
un « pericoloso schizofrenico », i cui scritti rappresentano in verità « documenti psicopatologici ».
Il pensiero di Heidegger sarebbe in sostanza un forma di ebraismo « avvocatesco-talmudico », e
proprio per questo motivo egli eserciterebbe una simile attrazione sugli ebrei. Heidegger avrebbe
abilmente « adattato la sua filosofia dell’esistenza alle tendenze del nazionalsocialismo ».5 Un anno
dopo, quando Heidegger è in predicato per la direzione dell’Accademia dei docenti
nazionalsocialisti, Jaensch scrive una seconda relazione, nella quale mette in guardia contro le
«ciance schizofreniche» di Heidegger, capaci di avvolgere «delle banalità con la sembianza di cose
significative ». Heidegger viene definito un « rivoluzionario puro e semplice », e nel caso che « la
nostra rivoluzione un giorno si arrestasse », bisogna tener conto che Heidegger « non resterà certo
dalla nostra parte », ma tornerà a « cambiare colore ».6
Ernst Krieck, che pretende per sé il ruolo di filosofo « ufficiale » del movimento, caratterizza la
posizione di Heidegger come « nichilismo metafisico ». Diversamente da Jaensch, Krieck manifesta
pubblicamente la sua critica, nel 1934, nella rivista Volk im Werden da lui diretta: « Il tono
ideologico di fondo della dottrina di Heidegger è determinato dal concetto di cura e di angoscia,
entrambe finalizzate al nulla. Il senso di questa filosofia è un esplicito ateismo e nichilismo
metafisico, altrimenti sostenuto nel nostro ambiente da parte dei letterati ebrei, e quindi è un
fermento di disgregazione e dissoluzione per il popolo tedesco. In Essere e tempo Heidegger fa
consapevolmente e intenzionalmente una filosofia del 'quotidiano’, dove non c’è niente che riguardi
il popolo, lo Stato, la razza e tutti i valori della nostra immagine nazionalsocialista del mondo. Se
nel discorso di rettorato [...] risuona improvvisamente il tono eroico, questa non è che una forma di
adattamento al 1933, in totale contraddizione con l’atteggiamento di fondo di Essere e tempo (1927)
e di Che cos'è metafisica? (1929) e con le dottrine della cura, dell’angoscia e del niente ».7
Il policentrismo degli apparati di potere del nazionalsocialismo ebbe ripercussioni anche nel settore
scientifico-politico e ideologico. Nei ministeri della Cultura della Baviera e di Berlino c’era la
volontà di conquistarsi Heidegger a causa della sua reputazione intemazionale. Si voleva esporre
come un’insegna un personaggio di grande spicco e non si badava molto al fatto che il
nazionalsocialismo « privato » di Heidegger fosse destinato a restare incomprensibile alle cerchie di
partito, o che avrebbe destato persino un’impressione sospetta. Krieck espresse addirittura la
supposizione che Heidegger connettesse la rivoluzione con il nichilismo dell’angoscia per spingere
alla fine il popolo tedesco « fra le braccia salvatrici della Chiesa ».8
Comunque fosse, Heidegger non sarebbe stato idoneo al compito di « conferire al movimento un
nucleo spirituale ed etico ».9
Anche Walter Gross, direttore dell’ufficio politico-razziale della NSDAF, pensava alla versione
heideggeriana del nazionalsocialismo quando, nel 1936, giunse alla conclusione, in una sua
memoria, che « il tradizionale intelletto umano degli scienziati sufficientemente preparati nella loro
disciplina e non gravati né sul piano razziale né su quello politico [...] non contiene assolutamente
nessun [...] elemento utilizzabile in senso nazionalsocialista ».l0 Risultava pertanto senza senso a
quel tempo un « orientamento politico » delle università; sarebbe stato meglio invece accrescere
l’effetto tecnico-economico delle scienze. Gross consiglia una « spoliticizzazione» dell’università
per mettere fine agli « sforzi penosi » da parte degli ordinari dell’epoca « di recitare la parte del
nazionalsocialismo ». A suo parere era meglio che l’evoluzione e la diffusione dell’ideologia
nazionalsocialista venissero affidate piuttosto alle rispettive sedi di partito, che dovevano garantire
che nel giro di circa un decennio potesse via via subentrare una nuova generazione di scienziati «
ideologicamente impeccabili ».
Dunque, nei centri di potere ideologico del nazionalsocialismo Heidegger era considerato come uno
che « recitava la parte del nazionalsocialismo ». Gross fu anche colui che mise subito in guardia da
Heidegger l’ufficio di Rosenberg quando, alla fine dell’estate del 1934, Heidegger venne preso per
un certo tempo in considerazione in seno al partito come direttore di un’Accademia dei docenti
nazionalsocialisti, di prossima istituzione, un organismo preposto all’addestramento delle giovani
leve di scienziati. Gross fece riferimento alle relazioni scritte di Jaensch e di Krieck e si richiamò
alle notizie riservate non positive sulle « attività » 11 di Heidegger a Friburgo.
Nonostante queste opposizioni, Heidegger aveva ricevuto gli incarichi a Monaco e a Berlino. E in
ambedue i casi Heidegger decise alla fine per un rifiuto. Ufficialmente e internamente al partito egli
motivò il suo rifiuto affermando che c’era ancora bisogno di lui a Friburgo per la riforma
dell’università e che non era ancora disponibile un suo successore al rettorato. « Se mi tirassi
indietro », scrive il 19 settembre 1933 a Elisabeth Blochmann, « a Friburgo crollerebbe tutto. »12
All'università di Friburgo le cose venivano viste diversamente. La maggior parte dei professori
sperava che Heidegger lasciasse quanto prima la sua carica, meglio oggi che domani. Non c’era
molta simpatia per quel tono risoluto delle sue circolari, dei suoi appelli e moniti; ma soprattutto il
corpo docente era per la maggior parte disposto a trovare un compromesso con la nuova situazione
politica, a patto però che l’insegnamento e la ricerca non ne venissero coinvolti. Per i professori era
particolarmente irritante la cancellazione di ore di seminario e di lezione a causa delle esercitazioni
militari e dei servizi di lavoro organizzati dagli studenti delle SA. Heidegger dava invece grande
importanza a queste operazioni, nelle quali si manifestava per lui il nuovo spirito della rivoluzione
nazionalsocialista. Erik Wolf, nominato da Heidegger decano della facoltà di giurisprudenza, cercò
con particolare zelo di trasformare il consueto insegnamento di questa disciplina nel senso voluto da
Heidegger, e dovette imbattersi nell’energica opposizione dei professori che avevano un
orientamento conservatore. Il 7 dicembre 1933 Wolf, sentendosi logorato, voleva rinunciare e
consegnò a Heidegger le proprie dimissioni, dicendosi esposto a tormenti psichici e dubbioso di
essere l’uomo giusto per quel posto. Egli scrive però, in tono deferente, di rimettere « al giudizio
della Vostra Magnificenza, che conosce i motivi profondi, di decidere se il fallimento dei miei sforzi
sia stato causato dall’insufficienza delle mie forze, dalla inadeguatezza della mia persona»13 o
dall’ostruzionismo dei colleghi. Heidegger non accetta le dimissioni: « E' implicito nello spirito
della nuova costituzione e dell’attuale situazione di lotta che Lei abbia in primo luogo la mia
fiducia, e non tanto quella della facoltà».14 Heidegger si sente in dovere di aiutare il suo seguace
fedele ma insicuro, e per questo motivo invia ai docenti recalcitranti questo messaggio di
ammonizione per le vacanze natalizie: « Il fondamento determinante e il fine da raggiungere in
realtà solo gradualmente è, fin dal primo giorno della mia assunzione di questa carica, la radicale
trasformazione dell’educazione scientifica a partire dalle forze e dalle esigenze dello Stato
nazionalsocialista. Un allineamento solo caso per caso alle 'condizioni attuali’ ad esempio della
scelta e della suddivisione del materiale su cui fare lezione, non solo non è sufficiente, ma anche
inganna gli studenti e i docenti sugli autentici compiti che ci attendono. Il tempo in più di cui i
docenti possono disporre a causa della soppressione di alcune ore di lezione, deve essere messo
assolutamente al servizio della meditazione sull’intima trasformazione di lezioni ed esercitazioni
[...] Le lotte e le opposizioni che scaturiscono da una effettiva volontà comunitaria di
trasformazione dell'università sono per me più essenziali di qualsiasi soddisfazione per quanto
completa dei colleghi, la quale non porta a nulla, se non a coprire quello che è stato fino a ora. Io
sono grato per il più piccolo degli aiuti che conduca innanzi l’università nel suo complesso. Ma
valuterò anche il lavoro della facoltà e dei singoli docenti nella misura in cui in essi si renderà
visibile e operativa la collaborazione alla realizzazione dell’avvenire. Rimane, certo, che solo la
volontà incrollabile dell’avvenire può dare senso e sostegno agli sforzi del presente. Il singolo,
quale che sia la sua posizione, non vale niente. Il destino del nostro popolo nel suo Stato vale
tutto».15
Heidegger minaccia di « valutare » come si conviene coloro che non vogliono collaborare. Questo
può voler dire molte cose, dall’ammonizione alla denuncia presso le autorità superiori, fino alla
rimozione dall’incarico o all’incarcerazione. Ma per quanto riguarda il servizio del lavoro e
l’esercitazione militare Heidegger era in una posizione debole, dato che nel frattempo era divenuta
predominante negli organi di partito la tendenza a lasciar tornare la normalità nel settore
dell’insegnamento.
Nella giustificazione di se stesso redatta in seguito, Heidegger afferma che il ministero di Karlsruhe
aveva richiesto per motivi politici la destituzione dei decani Wolf e Möllendorff, e che soprattutto
nel caso del socialdemocratico Möllendorff non avrebbe potuto impedirlo, e perciò avrebbe dato le
dimissioni. In base alle ricerche di Hugo Ott e di Victor Farias questa esposizione dei fatti non può
più essere sostenuta. Heidegger si è dimesso non per solidarietà con un socialdemocratico, ma
perché la politica del partito non era abbastanza rivoluzionaria nel senso in cui egli l’intendeva. A
Heidegger non interessava, come affermò in seguito, la difesa dello spirito occidentale
dell’università, non gli stava a cuore l’« universitas », bensì egli difendeva la rivoluzione contro il
conservatorismo erudito e la Realpolitik borghese, interessata solo allo sfruttamento economico e
tecnico dell’università. E' per questo che egli potè dichiarare nel corso della sua conferenza a
Tubinga il 30 novembre 1933 che « la rivoluzione nell’università tedesca non solo non è conclusa,
ma non è nemmeno cominciata »,16 e per questo egli si dimette da rettore il 23 aprile 1934, dopo
che il ministero della Cultura gli aveva consigliato di richiamare Erik Wolf alla sua carica di decano
a causa di « preoccupazioni non del tutto immotivate » della facoltà. Di Möllendorff proprio non si
parlava. Il ministero gli fa dunque capire che l’atteggiamento rivoluzionario della «rivoluzione di
tutto Tesserci tedesco» (Heidegger) nell’università si è spinto troppo oltre.
Quindi le dimissioni di Heidegger dal rettorato sono connesse con la sua lotta per la purezza del
movimento rivoluzionario, così come lo intendeva lui, cioè come rinnovamento dello spirito
occidentale dopo la « morte di Dio ».
Egli difese questa purezza del movimento rivoluzionario anche contro le tendenze clericali che a
Friburgo erano particolarmente potenti. L’associazione studentesca cattolica « Ripuaria » era stata
in un primo tempo sospesa dalle autorità locali del partito, con il benestare di Heidegger, ma
all’inizio del 1934, in seguito alla firma del concordato, era stata riammessa. In quella occasione
Heidegger scrisse irritato a Oskar Stäbel, il Reichsführer degli studenti tedeschi: « Questa pubblica
vittoria del cattolicesimo, specialmente qui da noi, è inammissibile. Si tratta di un danno
inimmaginabile inferto a tutto il lavoro. Io conosco da anni, e fin nei dettagli, i rapporti e le forze
locali [...] Si continua a non conoscere la tattica cattolica. Ma verrà il giorno in cui tutto ciò avrà la
sua pesante vendetta ».17
Il cattolicesimo, con la sua grande influenza organizzativa e spirituale a Friburgo, significava per
Heidegger, il quale pure si era sbarazzato solo con grandi sforzi delle proprie origini cattoliche, un
impedimento da non sottovalutare nella « trasformazione di tutto Tesserci tedesco ». Per questo
nella sua comunità di lavoro scientifico egli aveva diretto i suoi attacchi principali contro il
cristianesimo, così come veniva praticato nelle chiese. Là era dominante, aveva detto, la vera
mancanza di Dio, essendo stato predisposto un Dio per gli indolenti e per i vili, una sorta di
assicurazione sulla vita. Mentre la sua rivoluzione metafisica era qualcosa per i forti, per gli audaci,
per i decisi.
Heidegger non riuscì a imporsi con la sua critica al cattolicesimo presso le autorità di partito, che
per il momento avevano intenzione di scendere a compromessi con i poteri tradizionali.
Fu sempre la lotta per la purezza del movimento rivoluzionario che in due occasioni spinse
Heidegger a denunciare persone invise politicamente.
Eduard Baumgarten, un nipote di Max Weber, aveva cominciato la sua carriera scientifica negli
Stati Uniti, dove si era avvicinato sul piano filosofico al pragmatismo americano. Negli anni ’20
fece amicizia a Friburgo con Heidegger, che fu persino padrino di battesimo di una sua figlia. Dal
punto di vista filosofico c’erano divergenze di opinione, che per il momento venivano composte
ancora amichevolmente. Baumgarten si trasferì a Gottinga, dove aveva ricevuto un incarico per
insegnare cultura americana. Dato che il suo insegnamento aveva riscosso molto successo, nel 1933
egli ottenne un posto di docente con licenza di fare esami. Era disposto ad allinearsi politicamente e
chiese di essere iscritto alle SA e all’organizzazione dei professori nazionalsocialisti. A questo punto
intervenne Heidegger. Il 16 dicembre 1933 questi scrisse una lettera all’organizzazione dei
professori nazionalsocialisti in cui si afferma: « Per affinità spirituale, il dottor Baumgarten
proviene dal circolo intellettuale liberal-democratico di Heidelberg ispirantesi a Max Weber.
Durante il suo soggiorno a Friburgo egli era tutt’altro che un nazionalsocialista [...] Dopo aver
fallito con me, ha frequentato assiduamente l'ebreo Fraenkel, il quale, prima di essere destituito qui
a Friburgo, era stato attivo a Gottinga. Presumo che per questa via Baumgarten abbia trovato
ricovero a Gottinga [...] Al momento ritengo che Baumgarten non possa essere accettato né nelle SA
né nel corpo docente. Baumgarten è un oratore straordinariamente abile. Tuttavia nel campo della
filosofia lo ritengo un mistificatore».18
Anche nei suoi discorsi pubblici Heidegger aveva sempre messo in guardia da coloro che si
adattano solo superficialmente alle nuove condizioni. In tal senso questa diffida da Baumgarten è
assolutamente coerente con il suo atteggiamento rivoluzionario. La lettera di Heidegger venne
giudicata «carica di odio» dal dirigente dell’organizzazione dei professori di Gottinga, e fu allegata
agli atti come documento «inutilizzabile ». Baumgarten potè continuare la sua carriera, con l’aiuto
del partito. In seguito divenne direttore del seminario filosofico di Königsberg, direttore onorario
del suo gruppo locale, e fu invitato a prendere parte a convegni di lavoro da parte dell’ufficio di
Rosenberg.
Nel 1935 Jaspers venne a conoscenza di questa lettera tramite Marianne Weber. Fu una cosa che
non riuscì a dimenticare, faceva parte delle «esperienze più drastiche»19 della sua vita. La frecciata
sul « circolo intellettuale liberal-democratico di Heidelberg ispirantesi a Max Weber » non poteva
non colpire anche lui stesso. Ma quello che gli sembrava ancora peggio era che Heidegger, che
finora egli non aveva conosciuto come antisemita, fosse disposto a diffamare con insinuazioni
antisemite un uomo di scienza che gli era antipatico. Jaspers era sconvolto, ma cominciò anche ad
aver paura di lui e perciò non osò in questa occasione rivolgersi a lui direttamente. Solo alla fine del
1945, quando la commissione di epurazione pregò Jaspers (su proposta di Heidegger) di redigere
una relazione scritta su Heidegger, Jaspers rese pubblico il caso Baumgarten.
Per quanto concerne il caso Hermann Staudinger, professore di chimica e premio Nobel (1953), è
stato Hugo Ott a reperire i documenti decisivi e a ricostruire la vicenda. Durante una visita a
Friburgo dell’ispettore per l’università del Baden, Fehrle, il 29 settembre 1933, in occasione della
nomina di Heidegger a rettore-duce secondo la nuova costituzione universitaria, quest’ultimo
informò l’ispettore del sospetto che Staudinger fosse politicamente inaffidabile. Fehrle fece fare
subito delle indagini con la dovuta celerità, dato che in base alla « legge sulla ristrutturazione del
pubblico impiego» la scadenza dell’istruttoria procedurale era fissata al 30 settembre 1933.
Heidegger aveva cominciato già durante l’estate a raccogliere informazioni su Staudinger. Le
accuse contro Staudinger si riferivano al periodo della prima guerra mondiale. Dal 1912 Staudinger
era professore alla Scuola tecnica superiore di Zurigo, ma era rimasto cittadino tedesco. In un primo
tempo non era stato arruolato in guerra per motivi di salute. Negli anni della guerra pubblicò articoli
pacifisti, in cui esortava a cambiare le idee politiche in considerazione dell’odierno sviluppo della
tecnologia bellica che minacciava l’intera umanità. Nel 1917 aveva chiesto la cittadinanza svizzera.
A quel tempo furono presentati da parte tedesca degli atti su di lui in cui Staudinger veniva
sospettato di aver rivelato alle potenze nemiche importanti informazioni di guerra nel settore
chimico. Questo sospetto cadde per la verità nel vuoto, ma già nel maggio 1919 fu aggiunta agli atti
una annotazione in cui si diceva che durante la guerra Staudinger aveva assunto un atteggiamento «
atto a nuocere gravemente all’immagine della causa tedesca all’estero».20 Nel 1925, quando
Staudinger ricevette l’incarico a Friburgo, si era parlato ancora una volta della questione, ma gli
stessi professori di orientamento nazional-conservatore non se ne erano scandalizzati, perché intanto
Staudinger era già diventato un luminare conosciuto in tutto il mondo.
Adesso dunque, Heidegger fa avviare indagini allo scopo di allontanare Staudinger dal suo incarico.
La Gestapo raccoglie gli atti e il 6 febbraio 1934 li consegna a Heidegger perché esprima un parere
in merito. Egli fa una lista dettagliata delle accuse: il sospetto di aver rivelato al nemico
procedimenti chimici di fabbricazione; poi la richiesta di cittadinanza svizzera, presentata da
Staudinger proprio nel « periodo di massimo bisogno della patria », e la conseguente assunzione
della cittadinanza senza approvazione da parte tedesca; la dichiarazione pubblica di Staudinger
secondo cui egli « non avrebbe mai sostenuto la propria patria con le armi o altri servizi ».2I
C’è materiale accusatorio a sufficienza. « Si dovrebbe quindi prendere in considerazione più il
licenziamento che il pensionamento », scrive Heidegger. L’« assunzione di provvedimenti » risulta
tanto più urgente in quanto Staudinger «oggi si dichiara amico del movimento patriottico al 110 per
cento ».22
Come già nel caso Baumgarten, anche in questa situazione Heidegger è soprattutto interessato a
rintracciare i cosiddetti opportunisti. Qui lo zelo di Heidegger è anche maggiormente sollecitato,
perché egli non vede di buon occhio il patto pragmatico fra lo Stato e le discipline universitarie. A
suo parere la «trasformazione di tutto l'esserci tedesco» è destinata a fallire se le discipline
scientifiche «prive di radicamento» tornassero in primo piano per mezzo del loro asservimento
politico. A ciò è dovuta la sua campagna contro Staudinger, il quale dal canto suo ora punta tutto
sulla dimostrazione della grande importanza delle sue indagini per l’insurrezione nazionale. Nella
settimana in cui viene esposto a tormentosi interrogatori, Staudinger pubblica un articolo in cui
esalta il significato della chimica per la nuova Germania che mira all’autarchia, esprimendo la sua
«grande gioia» per l’«inizio della rivoluzione nazionale ».23 Poiché alti funzionari di partito
intervengono in suo favore, non si giunge al licenziamento. Anche Heidegger fa una ritrattazione, e
il 5 marzo 1934 suggerisce il pensionamento al posto del licenziamento, in «considerazione della
fama di cui lo stesso gode all’estero nell’ambito della sua disciplina ».24 Ma anche con questa
proposta Heidegger non riesce ad avere la meglio. Dopo una complessa trattativa, Staudinger ha il
permesso di restare in servizio.
Questa storia ha un epilogo. Nel 1938, quando Heidegger tiene la sua conferenza sulla Fondazione
dell’immagine moderna del mondo mediante la metafisica {Die Begründung des neuzeitlichen
Weltbildes durch die Metaphysik), nella quale critica il tecnicismo della scienza moderna, la rivista
Der Alemanne, organo del partito nazionalsocialista, pubblica un articolo in cui Heidegger viene
contrapposto come esempio di inutilità (un filosofo che « nessuno comprende e che [...] insegna il
nulla ») al « lavoro realmente importante per la vita » svolto dalle discipline scientifiche. Che
significato avesse questa affermazione, lo indica un’inserzione messa proprio sotto l’articolo:
l’annuncio di una conferenza del professor Staudinger sul tema « Piano quadriennale e chimica ».25
Questo episodio è ricordato da Heidegger nella sua difesa di fronte alla commissione di epurazione
il 15 dicembre 1945. Egli tace però di avere precedentemente denunciato Staudinger.
Si presume che Heidegger abbia taciuto le sue denunce non solo perché non voleva aggravare la sua
stessa situazione. Probabilmente quello che aveva fatto non gli era affatto sembrato una denuncia.
Egli sentiva di appartenere al movimento rivoluzionario e il suo intento era quello di tenere lontani
gli opportunisti dalla sollevazione rivoluzionaria. Questi non dovevano avere il permesso di
infiltrarsi nel movimento e di utilizzarlo a proprio vantaggio. Per Heidegger, Staudinger era uno di
questi uomini di scienza che sono al servizio di qualsiasi scopo, purché ne risulti per loro un utile
personale, e che non cercano nient’altro se non « il tranquillo piacere di un’attività senza pericoli ».
Ironia della storia: di fatto non furono i filosofi come Heidegger a prestare al regime i servigi più
grandi, ma scienziati «apolitici ». Essi soltanto hanno conferito efficacia sul piano pratico a quel
sistema che Heidegger voleva servire alla sua maniera fantastico-rivoluzionaria.
16. Dove siamo quando pensiamo? Todtnauberg a Berlino: il programma di un Accademia dei
docenti. L’addio agli intrighi politici.
« Questo è un corso sulla logica... » Heidegger si sceglie i suoi eroi: da Hitler a Hölderlin.
L’ « oscuramento del mondo » e il nazionalsocialismo realmente esistente.
DOVE SIAMO IN REALTÀ QUANDO PENSIAMO?
Senofonte ci tramanda un bell’aneddoto su Socrate. Quest’ultimo aveva combattuto valorosamente
come soldato nella campagna del Peloponneso, ma in un’occasione, mentre le truppe erano in
marcia, egli era rimasto improvvisamente fermo in piedi, assorto nei suoi pensieri, e così rimase per
una giornata intera, dimenticandosi di sé, del luogo in cui si trovava e della situazione. Gli era
venuto in mente qualcosa,
o qualcosa aveva attirato la sua attenzione, qualcosa che lo faceva pensare, e così era uscito dalla
propria realtà. Egli era finito nel giogo di un pensiero che si era impossessato di lui e che lo
spingeva in una terra di nessuno, dove però gli sembrava, curiosamente, di sentirsi a casa propria.
Questa terra di nessuno del pensiero è la grande interruzione dell’accadere quotidiano, ed è un
altrove che attrae. Da tutto quello che sappiamo di Socrate, questa esperienza dell’essere-altrove
dello spirito è un presupposto del suo trionfo sull’angoscia di fronte alla morte. Afferrato dal
pensiero, Socrate diventa un intoccabile. Potranno uccidere il suo corpo, ma il suo spirito vivrà. Egli
è affrancato dalla lotta per l’esistenza. A questo Socrate, che se ne sta lì immobile e assorto, mentre
le cose fanno il loro corso, pensava Aristotele quando lodò il talento proprio della filosofia, quello
di essere in ogni luogo e in nessun luogo; essa non ha bisogno « né di strumenti né di luoghi
speciali; in qualunque luogo sulla terra uno si dedichi al pensare, ovunque sarà a contatto con la
verità come se essa fosse presente ». 1
Ma Socrate era anche un filosofo della polis, della piazza
del mercato di Atene. Era lì che egli voleva essere presente con il suo essere-altrove, con il suo
essere assente. La filosofia è al tempo stesso senza luogo e vincolata a un luogo.
Ora, Heidegger era un filosofo particolarmente legato al proprio luogo, e nel periodo dei suoi
intrighi politici era sceso in campo con parole dure contro il cosiddetto pensiero «privo di potenza e
di suolo ». Ma adesso egli si accorge che quel suolo della nuova realtà rivoluzionaria, sul quale
voleva mettere piede, vacilla. Mentre sta conducendo trattative per il suo incarico a Berlino, scrive a
Elisabeth Blochmann: « Tutto sarebbe senza una base. Mi sono sentito come alleviato, quando sono
stato di nuovo fuori Berlino» (19 settembre 1933).2
In questa lettera Heidegger dà una formulazione del suo essere trascinato di qua e di là: « Credo di
sapere una sola cosa, che ci stiamo preparando a grandi trasformazioni spirituali, vale a dire che le
dobbiamo condurre assieme a noi alla superficie». E d’altro canto: «Dal mio proprio lavoro [...] per
il momento sono lontanissimo, quantunque io avverta ogni giorno come l’agire quotidiano [...] a
esso prema ».
Verso dove viene sospinto indietro?
I luoghi del suo pensiero possono essere indicati in modo molto preciso, sono uno immaginario e
uno reale: la Grecia della filosofia e la provincia, vicino a Todtnauberg.
Per quanto concerne questo sogno della Grecia, che Heidegger voleva realizzare con la rivoluzione
nazionalsocialista, il necessario era già stato detto da Nietzsche mezzo seco
lo prima: «La filosofia tedesca nel suo complesso [...] è la più radicale forma [...] di nostalgia finora
esistita [...] Non si è più di casa in nessun posto, si finisce per voler ritornare nell’unico luogo in cui
ci si potrebbe sentire in patria, perché solo lì si vorrebbe abitare: e questo è il mondo greco! Ma
proprio andando verso questo mondo, si trova che tutti i ponti sono crollati - tranne gli arcobaleni
dei concetti! [...] Certamente: si deve essere molto fini, molto leggeri, molto sottili per passare sopra
questi ponti! Ma quale gioia si trova subito in questa volontà di spirito, quasi un voler essere spiriti!
[...] Si vuole tornare indietro, attraverso i Padri della Chiesa fino ai greci [...] la filosofia tedesca è
[...] volontà di rinascita, volontà di progredire nella scoperta dell’antichità, nel disseppellimento
dell’antica filosofia, soprattutto di quella presocratica, del tempio greco più profondamente sepolto!
[...] diventiamo di giorno in giorno più greci - dapprima, come è giusto, nei concetti e nelle
valutazioni, in un certo senso come degli spettri grecizzanti: ma un giorno, come è sperabile,
diventeremo tali anche nel nostro corpo! »3
Heidegger voleva, come abbiamo frattanto appreso, il ritorno della grecità nel corpo sociale: la
rivoluzione come ricostituzione della « potenza » originaria dell’« irruzione della filosofia greca »
(Discorso di rettorato).
L’altro luogo: la provincia, Todtnauberg. Sulla sua altura della Selva Nera Heidegger si era sentito
vicino al suo sogno greco, e da là era disceso nella pianura della politica, dalla quale voleva ricavare
qualcosa, perché questa si trovava in sommovimento - infatti « tutto ciò che è grande è nella
tempesta! »
Nei mesi della sua attività politica Heidegger deve fare la dolorosa esperienza di non essere capace
di conciliare come vorrebbe i suoi due mondi, quello in cui vive e quello in cui pensa. Si è molto
sparlato sulla conferenza radiofonica di Heidegger del marzo 1934, che conteneva il rifiuto da lui
pubblicamente opposto a Berlino: Paesaggio creativo: Perché restiamo in provincia?
(Schöpferische Landschaft: Warum bleiben wir in der Provinz?) Si è voluto vedere qui solo un
romanticismo ideologizzato della vita contadina e della terra natia. Invece Heidegger offre qui, a
suo modo, reali informazioni sulla sua semplice esperienza, che per lui fu pero un’esperienza
essenziale: « Tutto il mio lavoro [...] è sostenuto e condotto dal mondo di queste montagne e dei
suoi contadini. Periodicamente ora il lavoro lassù viene interrotto per un lasso di tempo piuttosto
lungo da trattative, viaggi per conferenze, riunioni, e dall’attività di insegnamento quaggiù. Ma non
appena io vi faccio ritorno, già nelle prime ore dell’essere-in-baita (Hüttendasein), irrompe l’intero
mondo delle domande precedenti, e proprio con tutta la pregnanza che possedevano quando le
avevo lasciate. Io vengo semplicemente assorbito dal vortice insito nel lavoro e fondamentalmente
non riesco a padroneggiare la sua legge nascosta»4.
Heidegger osserva, e ammette di fronte a se stesso, che il mondo della sua vita e quello del suo
pensiero possono arrivare ad armonizzarsi nella baita di Todtnauberg, e propriamente soltanto in
quel luogo. Soltanto nell’« essere-in-baita » «l’intero mondo delle domande precedenti », cioè
questa ripresa dell’inizio greco, diventa una realtà vivente; soltanto là esso « viene-alla-presenza »
(anwest), come Heidegger è solito dire. Perciò egli prova anche sollievo, dopo il fallimento del
rettorato, nel tornare in questa « località » del suo pensiero. « Di ritorno da Siracusa? » Così gli
avrebbe chiesto allusivamente Wolfgang Schadewaldt incontrandolo occasionalmente per strada.
Come è noto, a Siracusa Platone aveva voluto realizzare una utopia dello Stato, riuscendo a sfuggire
alla schiavitù solo con grande fortuna.
1123 aprile 1934, quando Heidegger si dimette dalla carica di rettore, egli rinuncia a una posizione
politica esposta, ma per il momento rimane saldo nel suo proposito di procurare alla filosofia il «
giusto punto di inserimento» (a Jaspers, 10 marzo 1933)5 nella nuova realtà rivoluzionaria. Poiché
però non vuole più abbandonare la ritrovata « località » del suo pensiero, non gli rimane nient’altro
se non il tentativo di trapiantare questa « località », cioè di portarla semplicemente con sé come la
chiocciola della sua filosofia. Aveva rifiutato l’incarico a Berlino perché lì tutto procedeva « senza
avere una base», ma nell’estate 1934 egli matura le sue idee per l’allestimento di una Accademia dei
docenti di Berlino e segnala la sua disponibilità a recarvisi a condizione che gli venga offerta la
possibilità di realizzare queste idee. I suoi piani sono finalizzati a creare nel centro di Berlino una
sorta di convento filosofico, un rifugio nello stile di Todtnauberg.
Già dall’autunno del 1933 Heidegger aveva avviato trattative in tal senso con Berlino. Il progetto
dell’Accademia dei docenti del Reich tedesco era stato avviato a Berlino da ambienti di partito e dal
locale ministero della Scienza e dell’Educazione. L’idea era quella di creare una istituzione di
perfezionamento politico, che doveva essere frequentata da tutti i nuovi scienziati che potevano un
giorno diventare professori ordinari; lo scopo era ovviamente quello di dare un orientamento
ideologico legato all’idea di popolo. La concessione della venia legendi doveva essere riservata a
chi portava a termine i suoi studi presso l’Accademia dei docenti, e quindi essere sottratta alle
università. In tal modo si doveva rimediare all’inconveniente, diagnosticato dalle autorità di partito,
che il « materiale umano ereditato », per quanto concerne il mondo scientifico, si allineava in buon
ordine al regime, non presentando però « alcun elemento utilizzabile in senso nazionalsocialista »,6
e creare i presuppósti per poter formare nel giro di circa un decennio una generazione di uomini di
scienza « ideologicamente impeccabili ».
Si parlava di Heidegger come del possibile direttore di questa Accademia dei docenti. Egli prepara
proposte dettagliate e il 28 agosto 1934 le spedisce a Berlino. Non doveva diventare una «
accademia » in senso stretto, un « club di notabili », ma nemmeno una scuola politica popolare,
bensì una « comunità di vita e di educazione ». Egli la descrive come un ordine ecclesiastico, che
sta sotto un « proprio spirito » e che crea un’unica «tradizione», che «rimane vincolante» anche
dopo il periodo della frequenza. Elemento decisivo è «l’effetto inespresso dell’atmosfera ». Perciò
gli insegnanti dovrebbero « agire soprattutto attraverso ciò che sono, chi e che cosa sono, e non
attraverso ciò su cui 'parlano’ ». Gli insegnanti e gli allievi dovrebbero vivere insieme nell’ordine
quotidiano del « naturale alternarsi di lavoro scientifico, rilassamento, raccoglimento, simulazione
di gare, lavoro fisico, marcia, sport e festeggiamenti ». Doveva esserci anche occasione di
«autentica solitudine e vero raccoglimento», poiché ciò che serve alla vita comune non può nascere
soltanto dalla vita comune. L’allestimento dell'Accademia doveva prevedere strutture idonee a
favorire questo alternarsi di solitudine e comunità: aula, refettorio con pulpito per la lettura, locali
dove fare festa e coltivare la vita musicale, dormitori comuni. Per contro devono esserci « celle », in
cui il singolo possa ritirarsi per il lavoro spirituale e per il raccoglimento interiore. La biblioteca
deve essere arredata in modo parco e contenere solo l’essenziale; essa « appartiene alla scuola come
l’aratro al contadino ». Gli allievi devono essere coinvolti nella scelta dei libri, per imparare così
«che cosa significa giudicare autenticamente e scrupolosamente i testi scritti ». Conclusivamente
Heidegger riassume il pensiero centrale di questo convento scientifico: «Se nell’attività scientifica
deve essere superato, e per l’avvenire evitato, l "americanismo’ che, comunque, già oggi è fin
troppo potente, si tratta di dare alla scienza la possibilità di crescere in base alle sue intime
necessità. Ciò può accadere solo e unicamente tramite l’influsso determinante di singole personalità
».7
L’Accademia dei docenti non viene realizzata nel senso in cui la concepisce Heidegger. Sullo
sfondo c’erano stati intrighi e raggiri. L’ufficio di Rosenberg e il ministero erano stati messi in
guardia da altre autorità del partito. Il 14 febbraio 1934 Krieck aveva scritto a Jaensch: « Prendono
consistenza le voci secondo cui verrebbe consegnata nelle mani di Heidegger, con l’Accademia dei
docenti, l’intera nuova leva delle università prussiane. Questo sarebbe, a mio avviso, fatale. La
prego di mettere a punto per gli organi superiori del partito un rapporto sull’uomo, sul suo
atteggiamento, la sua filosofia e la sua lingua tedesca ».8 Jaensch, che era già intervenuto durante le
trattative di Monaco e di Berlino, fornì il rapporto richiesto. In esso si dice: « Se desidera conoscere
la mia opinione [...] a questa vorrei anteporre la frase di Adolf Hitler, che riconosce sempre come
autorità somma le leggi della sana ragione. Un contrasto con la ragione nei passi decisivi della vita
dello Stato conduce necessariamente e immutabilmente a una catastrofe [...] Sarebbe in contrasto
con la sana ragione se l’istituzione forse più importante per la vita spirituale del prossimo futuro
venisse assegnata a uno dei più grandi squinternati e stravaganti solipsisti che abbiamo in tutta la
vita universitaria [...] Nominare come massimo educatore delle nostre nuove leve accademiche un
uomo il cui pensiero tanto solipsistico quanto confuso, schizoide, e già in parte schizofrenico (noto
a tutti), è stato osservato chiaramente sia fra gli studenti, sia qui a Marburgo, eserciterebbe
un’influenza devastante sul piano educativo ».9
Per la verità il ministero respinse questo rapporto, ma si mostrò comunque più interessato a
reclutare un ideologo, e perciò escluse Heidegger dal novero dei candidati. Ma Heidegger continua
a restare un elemento utilizzabile per gli apparati di regime. Nel maggio del 1934 viene chiamato a
far parte della commissione di Filosofia del diritto nell’« Accademia per il diritto tedesco ».
Presidente della commissione è Hans Frank, commissario di giustizia del Reich, che nel discorso .di
apertura definì il carattere e i compiti di questa commissione. Dovevano essere poste nuove basi per
un nuovo diritto tedesco, contemplando i seguenti valori: « razza, Stato, Führer, sangue, autorità,
suolo, fede, difesa e idealismo»;10 la commissione doveva costituirsi come «commissione di lotta
del nazionalsocialismo ». A questa commissione, che si riuniva presso l’Archivio-Nietzsche di
Weimar, Heidegger collaborò fino al 1936. Non si sa niente di più su quale sia stato il suo
contributo. Nel 1936 viene accolto fra i membri Julius Streicher. La cosa suscitò un tale scalpore
che nel 1936 Karl Lowith interrogò in merito Heidegger a Roma. Dopo qualche esitazione,
Heidegger rispose dicendo che « su Streicher non c’era bisogno di sprecare parole, perché lo
Stürmer non era altro che pornografia. Perché mai Hitler non si liberasse di questo figuro, gli
riusciva incomprensibile: evidentemente ne aveva paura».11
Anche se la fede in Hitler e nella necessità della rivoluzione è rimasta intatta in Heidegger, tuttavia
il suo rapporto con la politica si va via via allentando. La sua filosofia si era cercata un eroe, ed era
un eroe politico. Adesso egli è nuovamente in procinto di separare le due sfere. La filosofia viene
collocata a un livello « più profondo », essa diventa l’accadimento fondamentale dello « spirito »,
che certo condiziona la politica, ma che non si risolve in essa. All’inizio del suo corso su Schelling
del 1936 dirà poi: « E dovrebbe presto risultare evidente la profonda non-verità delle parole che
Napoleone disse a Erfurt a Goethe: la politica è il destino. No, lo spirito è il destino e il destino è
spirito. Ma l’essenza dello spirito è la libertà ».12
La svolta dalla politica e il ritorno allo «spirito» si annuncia già nelle lezioni del semestre estivo
1934. Era stato annunciato il tema « Lo Stato e la scienza ». Nella prima ora di lezione si
raccoglievano in aula tutti coloro che avevano un rango e un nome: i vertici di partito, i notabili, i
colleghi; gli studenti erano una minoranza. C’era la curiosità di sapere che cosa avrebbe detto
Heidegger dopo le sue dimissioni da rettore. Queste lezioni furono un evento sociale. Heidegger si
fece strada verso la cattedra in mezzo all’uditorio accalcato, dove prevalevano le camicie brune, e
spiegò di aver cambiato il tema del suo corso: « Questo è un corso sulla logica. Logica deriva da
Logos. Eraclito ha detto... » In questo momento fu chiaro che Heidegger si apprestava a immergersi
nella sua « profondità », che egli non voleva parlare contro la politica, ma che voleva comunque
tenersi alla larga da essa. Già con le prime frasi egli oppone un rifiuto alla « chiacchiera ideologica
indisciplinata », ma anche a quel « ciarpame di formule » che la scienza borghese è solita offrire
sotto il titolo di « logica ». « La logica, per noi, è il passare in rassegna che interroga sui fondamenti
dell’essere, il luogo della problematicità. »13 Già alla seconda ora di lezione sedeva ancora fra il
pubblico solo chi era interessato alla filosofia.
È stato un inizio difficile, scrive Heidegger un anno dopo a Jaspers, ripensando ai primi semestri
dopo il rettorato: «Il mio è un [...] procedere faticosamente a tastoni; soltanto da pochi mesi ho
nuovamente raggiunto il punto di raccordo con il lavoro interrotto [...] nell’inverno ’32-33; ma si
tratta di un debole balbettio; e per il resto ho altre due spine nel cuore: il confronto con la fede delle
origini e il fallimento del rettorato; questo è ciò che veramente vorrei fosse risolto » (1° luglio
1935).14
In questo lavoro diretto a comprendere i propri impulsi religiosi e politici, gli viene in aiuto un altro
« eroe »: Friedrich Hölderlin.
Nel semestre invernale 1934-35 egli tiene il suo primo corso su Hölderlin. D’ora in poi Hölderlin
rimarrà un punto di riferimento costante del suo pensiero. In Hölderlin Heidegger vuole scoprire
che ne è di quel divino che a noi manca e di una « politica » che stia al di sopra delle faccende
quotidiane. Hölderlin, dice Heidegger, è una « potenza della storia del nostro popolo », ma essa non
è ancora veramente venuta alla luce. Le cose devono cambiare, se il popolo tedesco vuole ritrovare
se stesso. Per contribuire in tal senso Heidegger nomina la « ’politica’ nel senso più alto e autentico,
al punto che chi ottiene qualcosa su questo piano non ha bisogno di fare discorsi sul ’politico’ ».15
Quando Heidegger si rivolse a questo poeta, era in corso una Hölderlin-Renaissance. Hölderlin non
è più soltanto, come fu fino all’inizio del secolo, un poeta lirico interessante per la storia della
letteratura, il quale aveva scritto anche un curioso romanzo epistolare, Iperione, e che apparteneva
ai filelleni, come ce n’erano molti all’epoca del classicismo tedesco. Né Dilthey né Nietzsche, che
pure avevano richiamato insistentemente l’attenzione su Hölderlin, furono in grado di farlo entrare
nella coscienza del mondo tedesco. Questa impresa riuscì solo alla vigilia della prima guerra
mondiale al circolo di George e al suo esponente Norbert von Hellingrath, che scoprì e commentò
l’opera tarda di Hölderlin e diede inizio alla pubblicazione di una grande edizione compietà delle
opere. Il circolo di George vedeva in Hölderlin il geniale anticipatore del « simbolismo », ma non
un simbolismo estetizzante, bensì fermamente esistenziale. « È come se fosse stato sollevato un
sipario sul Santissimo, e si offrisse alla vista l’indicibile »16 - questo era il tono dell’entusiasmo per
Hölderlin negli anni ’20 e ’30. Max Kommerell annoverò Hölderlin fra i « poeti-guida »; in
Hölderlin, dice, ci si immedesima in un «flusso di energia tedesca».17 Presso il movimento
giovanile Hölderlin era considerato come il genio del cuore che si spezzò per la Germania.
Venivano ripetutamente citate quelle frasi dell' Iperione che dicono: « Sono parole dure, ma devo
dirle, perché questa è la verità: non posso immaginarmi un popolo più dilacerato di quello tedesco.
Puoi incontrare operai, ma non uomini; pensatori, ma non uomini; sacerdoti, ma non uomini;
padroni e schiavi, giovani e adulti, ma non uomini... Non sembra un campo di battaglia dove mani,
braccia e tutte le membra giacciono alla rinfusa, mentre il sangue vitale versato cola nella sabbia?
»18
Con il suo anelito verso una nuova totalità della vita, Hölderlin divenne un modello nel quale
identificarsi per una moltitudine di persone colte, di diversa ispirazione politica, ma egli lo fu in
modo del tutto particolare per coloro che andavano in cerca di possibilità di fare nuove esperienze
del sacro nella parola poetica. Nella sua poesia A Hölderlin, Rilke scrive:
Ah, quanto bramano i più alti spiriti, tu senza desideri
pietra su pietra l' innalzasti: e resse. Ma nemmeno
la sua rovina ti turbò.,19
La follia che lo colse diede alla poesia di Hölderlin una ulteriore autenticità: che egli fosse
impazzito non dipendeva forse dal fatto che si era spinto più in là di altri in quelle zone della vita
che sono cariche di mistero e di pericolo?
Il poeta dei tedeschi; il poeta che fu sopraffatto dalla potenza della poesia; colui che come un
ostetrico portava alla vita nuove divinità, colui che varca le frontiere e, insieme, il grande fallito. In
questi termini si stilizzava l’immagine di Hölderlin, e Heidegger vi si riallaccia.
La sua esegesi di Hölderlin ha tre capisaldi. Dopo il fallimento della sua politica di « potere »,
bisognava sondare l’essenza del potere e la gerarchia delle potenze dell’esserci. Poesia, pensiero e
politica: in che rapporto stanno fra loro?
In secondo luogo Heidegger vuole trovare con Hölderlin un linguaggio per esprimere ciò che ci
manca. Egli cita Holderlin come testimone, che ha il potere della parola, della nostra carenza di
essere (« la notte degli dei »), e come messaggero di un possibile superamento di questa carenza. In
terzo luogo egli vuole comprendere, attraverso la mediazione di Hölderlin, mediante questo « poeta
del poetare », il proprio stesso operare, il pensiero del pensare. In Hölderlin, e soprattutto nel suo
fallimento, egli rispecchia se stesso: traccia indirettamente un’immagine di sé, di come vede se
stesso e come desidera essere visto.
Nel suo corso egli commenta i due inni tardi di Hölderlin, Germania e II Reno. Come idea guida di
tutta la sua interpretazione Heidegger cita un aforisma di Hölderlin: « Per lo più i poeti si sono
formati al principio o alla fine di un periodo della storia del mondo. Con il canto i popoli escono dal
cielo della loro infanzia alla vita attiva, alla terra della cultura. Con il canto essi fanno ritorno alla
vita delle origini ».20
È la parola del poeta, dice Heidegger, ciò attraverso cui, in ciascun periodo della storia di un popolo
e della sua cultura, «esce finalmente allo scoperto quello di cui noi, in seguito, parliamo e trattiamo
nel linguaggio di ogni giorno ».
È una visione, adulatoria per i poeti, della potenza della parola poetica. I poeti danno a un popolo la
sua identità. Essi conducono al popolo le sue divinità, come fecero Omero ed Esiodo, e istituiscono
in tal modo « usanze e costumi ». I poeti sono i veri inventori della cultura di un popolo. Poiché
Hölderlin nelle sue poesie ha trattato proprio di questa potenza della poesia, Heidegger lo definisce
il « poeta del poetare ».
Ora, Heidegger pone l’atto del poetare, che istituisce cultura, in relazione con le altre grandi forme
di istituzione: l’apertura filosofica del mondo e la fondazione di uno Stato. «La tonalità emotiva
fondamentale (Grundstimmung), vale a dire la verità dell’esserci di un popolo, viene istituita
originariamente dai poeti. L’essere (Seyn) dell’ente, così rivelato, viene compreso però in quanto
essere [...] dal pensatore, e Tessere così compreso viene collocato nella verità storica determinata
facendo sì che il popolo venga condotto a se stesso in quanto popolo. Ciò accade attraverso la
creazione [...] dello Stato da parte del creatore dello Stato. »2I
Il poetare, il pensare e la politica hanno in comune che possono essere « opere » di grande potenza.
In riferimento a Hölderlin, Heidegger afferma: « Può essere che noi un giorno usciamo dalla nostra
quotidianità e dobbiamo entrare nella potenza della poesia, e che non possiamo più tornare nella
quotidianità, così come l’abbiamo lasciata».22
I poeti, i pensatori e gli statisti diventano destino per gli altri perché essi hanno quella « creatività »
per mezzo della quale viene al mondo un qualcosa che crea attorno a sé una « corte » in cui ci sono
nuove condizioni dell’esserci e nuove evidenze. Questa creazione di opere, che poi si instaurano
potentemente e magicamente nel paesaggio dell’ente, Heidegger la chiama anche « lotta ». Nel
corso Introduzione alla metafisica (Einführung in die Metaphysik), tenuto un anno dopo, Heidegger
descrive tale lotta creatrice con queste parole: « La lotta è ciò che delinea ed enuclea inizialmente
l’inaudito, quello che non è stato fino allora né detto né pensato. Questa lotta viene sostenuta, in
seguito, da chi crea: da poeti, pensatori, uomini di Stato. Essi gettano innanzi al preponderante
imporsi la massa compatta dell’opera e avvincono in questa il mondo così dischiuso ».23
Come Heidegger potesse essere «avvinto» dall’azione « creatrice » di uno Hitler, che « fondò » uno
Stato, abbiamo già potuto osservarlo. Adesso è a tema « l’ambito di potere» della poesia di
Hölderlin, per il quale vale lo stesso discorso fatto a proposito della rivoluzione nazionalsocialista.
Nella sua conferenza sull' Università nello Stato nazionalsocialista (Die Universität im
nationalsozialistischen Staat) del 30 novembre 1933, Heidegger aveva messo in guardia dal vedere
la « realtà rivoluzionaria » come qualcosa di « semplicemente presente » o meramente « fattuale ».
In tal modo non si farà mai esperienza di ciò che essa è. Bisogna entrare nella sfera di attrazione di
questa realtà e lasciarsi trasformare. Questo vale anche per Hölderlin e per tutta la grande poesia.
Essa esige una decisione: o ci si vuole esporre al suo «vortice», oppure si vogliono tenere le
distanze di sicurezza. La poesia di Hölderlin si dischiude solo a chi è deciso, e per costui può
diventare poi, al pari della politica o del pensiero, un evento rivoluzionario, una «trasformazione di
tutto Tesserci». Ma soltanto pochi vogliono essere coinvolti in questa avventura. Heidegger indaga
le tattiche per prendere le distanze di sicurezza, le quali mirano tutte a non esporsi affatto alla
potenza della parola poetica. Quando è così, la poesia viene intesa come « espressione » di
esperienze vissute e di fantasia, capace di intrattenere e buona per ampliare l’orizzonte spirituale.
Oppure la poesia come sovrastruttura ideologica, come trasfigurazione o offuscamento delle
condizioni reali. Oppure c’è un’altra rappresentazione della poesia, e qui Heidegger cita l’ideologia
nazionalsocialista: « La poesia è una funzione biologicamente necessaria del popolo ».24 Anche la
digestione, dice Heidegger con scherno, è una funzione necessaria del popolo. Questo
atteggiamento di non affrontare la sfera di potere di un fenomeno, ma di fissarla solo dall’esterno, è
definito da Heidegger l’atteggiamento di fondo « del liberalismo ». « Se qualcosa può e deve essere
definito con l’abusatissimo termine liberalismo’, è proprio questo modo di pensare. Esso si pone
fondamentalmente e fin da principio al di fuori di ciò che intende, ne fa un mero oggetto del proprio
opinare. »25
È un uso bizzarro del termine « liberalistico ». Con esso si intende il rifiuto, privo di pensieri e di
sentimenti, oppure metodico, di affidarsi al senso proprio di una cosa; ci si vuole portare « al di
sopra », « al di sotto » o « dietro » le cose, ma in ogni caso si vuole evitare di essere coinvolti « in »
esse. Con questa critica Heidegger è approdato senza avvedersene a una situazione emotiva che per
Hölderlin è il tratto caratteristico della « notte degli dei ».
Noi « uomini d’oggi »,26 dice Hölderlin, abbiamo invero «molte esperienze », nel senso cioè della
conoscenza scientifica, ma in ciò abbiamo perso la capacità di percepire le cose, la natura e le
relazioni umane nella loro pienezza e vitalità. Noi abbiamo perduto il « divino », vale a dire che lo «
spirito» si è ritirato dal mondo. Abbiamo assoggettato a noi la natura, il « cannocchiale » penetra
nelle distanze più remote dell’universo, e così noi « trascuriamo » il « sorgere festoso » del mondo
fenomenico. Dei « legami amorosi » fra la natura e l’uomo abbiamo fatto « capestri », ci siamo «
presi gioco » dei limiti di ciò che è umano e di ciò che è naturale. Siamo diventati una « stirpe astuta
», persino orgogliosa di poter vedere le cose nella loro « nudità ». E così non si « vede » più la terra,
non si « ascolta » più il canto dell’uccello, e il linguaggio fra gli uomini si è « rinsecchito ».27 Ma
tutto questo per Hölderlin significa « notte degli dei », cioè la perdita della immanente
significatività e della potenza irradiatrice immanente delle relazioni del mondo e dell’uomo.
Nella concezione di Hölderlin il poeta deve ricondurre alla parola questo mondo assolutamente
vivente, ma che intanto è tramontato. In quanto può ricordare solo ciò che è tramontato, egli è un «
poeta nel tempo della povertà ».
Il divino non è per Hölderlin una sfera dell’aldilà, ma connota una realtà trasformata nell’uomo, fra
gli uomini e in relazione alla natura. Esso è una vita aperta al mondo, potenziata, avventurosa,
intensa, desta, sia individualmente sia in generale. È il giubilo, per l’essere-nel-mondo.
Per questo divino, così come lo concepisce Hölderlin, Heidegger aveva coniato negli anni ’20 il
termine « autenticità », e ora trova per esso un nome nuovo: il « riferimento all’essere » (Seyn).
L’esserci, aveva detto Heidegger in Essere e tempo, sta sempre già in qualche riferimento all’essere
(Sein). Anche lo sfuggire nell’inautenticità fa parte di questo riferimento. Il «riferimento all’essere
(Sein)» diventa un « riferimento all’essere (Seyn) » laddove esso venga afferrato esplicitamente,
cioè vissuto « autenticamente ». D’ora in avanti Heidegger scrive essere (Seyn) con la ipsilon tutte
le volte che intende proprio quel riferimento « autentico » che divinizza in questo senso Tesserci. E
l’apertura verso il divino significa nell’esserci proprio questo: aprirsi, osare spingersi fino alla
propria abissalità e fino al miracolo del mondo.
Si potrebbe pensare che questa apertura sia in tutto e per tutto un compito del singolo esserci deciso.
Nella filosofia dell’autenticità di Essere e tempo questo aspetto individuale domina anche di fatto, e
continua a perpetuarsi nell'immagine degli eroi del poetare e del pensare che « istituiscono » le
divinità e il divino per un intero popolo. Tuttavia Heidegger sottolinea ora con maggior forza
l’aspetto storico e collettivo. Ci sono epoche storiche che favoriscono questo riferimento all’essere
(Seyn) e altre che lo ostacolano o lo rendono addirittura impossibile. La «notte degli dei» o, come
altrimenti dice Heidegger, l'« offuscamento del mondo », si posa su epoche intere. Per Heidegger
Hölderlin è così grande proprio perché, in un periodo di cesura epocale, in cui le vecchie divinità
sono scomparse e le nuove non sono ancora arrivate, è stato il solo che, in ritardo e insieme in
anticipo, ha dovuto sopportare fino in fondo il dolore di ciò che è perduto e la potenza di ciò che
viene.
Ma tardi, amico, giungiamo. Vivono certo gli dei,
ma sopra il nostro capo, in un diverso mondo.
[...]
Un ricettacolo fragile non sempre può contenerli.
Così si dice in una poesia tarda di Hölderlin, che Heidegger mette insieme con i versi della poesia
Come al giorno di festa:
Ma è nostro, o poeti,
restare a capo scoperto
sotto la tempesta del Dio,
ma afferrare con la propria mano
il raggio del Padre,
porgere al popolo il dono divino
circonfuso dal canto.28
Questa immagine della « tempesta del Dio » sul capo del poeta è commentata da Heidegger come
un « essere esposti alla strapotenza dell’essere (Seyn) »,29 e cita la lettera di Hölderlin all’amico
Böhlendorff del 4 dicembre 1801, poco prima del viaggio a Bordeaux: « Per il resto posso gioire per
una nuova verità, una veduta migliore di ciò che sta sopra di noi e intorno a noi, e ora temo che a
me succeda alla fine come al vecchio Tantalo, cui gli dei diedero più di quanto non potesse digerire
». E dopo il suo ritorno, confuso e lacerato, 5crive: « L’elemento possente, il fuoco del cielo, e la
quiete degli uomini [...] mi ha commosso profondamente, e come si dice degli eroi, posso certo dire
di me stesso che Apollo mi ha colpito» (a Böhlendorff, novembre 1802).
Hölderlin, questa è l’interpretazione di Heidegger, si è spinto lontano, forse troppo lontano,
«nell'ambito dove si esercita una minaccia complessiva dell’esserci storico-spirituale ».30
Mentre il popolo intorno a lui persiste nella « povertà dell’assenza di povertà » e perciò « non può
servirsi » del proprio poeta, quest’ultimo deve sopportare tutto questo, il dolore e la felicità che lo
schiaccia. La « tonalità emotiva fondamentale », a partire dalla quale Hölderlin vive e fa poesia, non
trova ancora alcuna risonanza nel popolo, che ha ancora bisogno di un « cambio di tonalità ». « Per
questa lotta finalizzata al cambio di tonalità di quelle tonalità emotive che ancora dominano e si
trascinano innanzi, è necessario che le primizie vengano sacrificate. Si tratta di quei poeti che nel
loro dire anticipano il futuro essere (Seyn) di un popolo nella sua storia, e che nel far ciò vengono
necessariamente trascurati. »31
« Si tratta di quei poeti », dice Heidegger, ma intende dire anche « si tratta di quei pensatori... » E in
tal modo è giunto all’autoritratto. Gli sembra infatti che anche a lui le cose siano andate come
andarono a Hölderlin. Anch’egli si era aperto alla « tempesta del Dio », anche su di lui si era
abbattuta la folgore dell’essere (Seyn), anche a lui era toccato il tormento della «povertà della non
povertà» del popolo, anch’egli ha « istituito » un’opera che non è ancora giunta realmente a
termine. « Ma essi non possono servirsi di me », cita Heidegger con duplice significato, e continua
poi, facendo riferimento alla rivoluzione attuale, con queste parole: « Per quanto tempo ancora i
tedeschi continueranno a trascurare queste parole feconde? Se la grande svolta del loro esserci non
si fa evidente, che cos’altro dovranno far loro sentire le loro orecchie?»32
Ecco tornare « la grande svolta », la rivoluzione metafisica dell’irruzione nazionalsocialista. E
questo dovrebbe essere in realtà il momento in cui Hölderlin, questo « istitutore » di un nuovo «
essere » (Seyn), trova finalmente ascolto. Hölderlin ha preceduto il popolo nell’avventura «di osare
ancora una volta accostarsi agli dei per creare così un mondo storico».33
Ancora una volta dunque Heidegger festeggia la grande « irruzione ». Se questa è l’ora cosmico-
storica di Hölderlin, come non potrebbe essere anche l’ora di Heidegger! Ma Heidegger sa, dopo il
fallimento del suo rettorato, che l’azione politica immediata, «l’organizzare e amministrare», non è
cosa per lui. Il suo compito è quello di essere al servizio dell’« irruzione » « per mezzo di un’altra
metafisica, cioè di una nuova esperienza fondamentale dell’essere ».34
Quali siano le grandi tendenze cosmico-storiche che minacciano e che potrebbero far soccombere
questa grande « irruzione », Heidegger lo descrive nel semestre successivo nel corso intitolato
Introduzione alla metafisica. Qui egli si avventura nel campo di una diagnosi filosofica dell’epoca
attuale. Al centro delle sue considerazioni egli pone quello che chiama il « depotenziamento dello
spirito ».35
Lo spirito viene ridotto in primo luogo a ragione strumentale o, come dice Heidegger, a «
intelligenza ». Si tratta solo della «considerazione e valutazione, in senso teorico e pratico, di
determinate cose, in ordine alle loro possibili modificazioni o radicali innovazioni ». Questa «
intelligenza » calcolante viene posta in secondo luogo al servizio di una visione del mondo, di una
dottrina ideologica. A questo proposito egli nomina il marxismo, il fanatismo tecnico, ma anche il
razzismo di popolo. « Poco importa che questa intelligenza, così asservita, sia rivolta alla
regolamentazione e al dominio dei mezzi materiali di produzione (come nel marxismo) o in
generale alla sistematizzazione e alla elaborazione razionale di tutto ciò che è già dato e posto
(come nel positivismo), o si attui nel dirigismo organizzativo di un popolo concepito come massa
vivente e come razza»;36 in ogni caso le «forze dell’accadere spirituale » perdono la loro libera
motilità e la loro dignità che è fine a se stessa. Esse perdono così anche la loro apertura per il
richiamo dell’essere. La mobilitazione totale, economica, tecnica e razzistica, ha come conseguenza
un «oscuramento del mondo », cui Heidegger fa riferimento con espressioni che ricordano le
formule: « la fuga degli dei, la distruzione della terra, la riduzione dell’uomo a massa, il sospetto
gravido d’odio contro tutto ciò che è creativo e libero».37
In questo panorama a tinte fosche Heidegger inscrive anche la realtà tedesca del 1935. Lo spirito
dell’insurrezione del 1933 è minacciato: esternamente dall’America (mobilitazione tecnica) e dalla
Russia (mobilitazione economica). «Questa Europa, in preda a un inguaribile accecamento, sempre
sul punto di pugnalarsi da se stessa, si trova oggi nella morsa dalla Russia da un lato e dall’America
dall’altro. Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa:
la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo
massificato. In un’epoca in cui anche l’ultimo angolo del globo terrestre è stato conquistato dalla
tecnica ed è diventato economicamente sfruttabile, in cui qualunque evento in qualsiasi luogo e
momento è divenuto rapidamente accessibile, [...] in cui il tempo non è più che velocità, istantaneità
e simultaneità mentre il tempo come storicità autentica (Geschichte) è del tutto scomparso dalla
realtà di qualsiasi popolo; in un’epoca in cui un pugile è considerato un eroe nazionale, in cui i
milioni di uomini delle adunate di massa costituiscono un trionfo; allora, proprio allora,
l’interrogativo: a che scopo? dove? e poi? »38
Ma lo spirito dell’insurrezione è minacciato anche dall’interno, dal razzismo (« dirigismo
organizzativo di un popolo concepito come massa vivente e come razza »).
Nella rivoluzione nazionalsocialista egli aveva visto una forza di resistenza contro l’evoluzione
funesta della modernità. Essa costituiva per lui «l’intima verità e grandezza di questo movimento
».39 Ma nel 1935 egli vede il pericolo che i migliori impulsi di questo movimento si esauriscano e
cadano vittima della « desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici
dell’uomo massificato».40 In questa situazione il filosofo deve conservare e difendere l’originaria
verità dell’insurrezione rivoluzionaria. Egli deve però armarsi di pazienza. « La filosofia è per sua
essenza inattuale: essa appartiene infatti a quel genere di cose il cui destino è di non trovare mai una
immediata risonanza nel presente, e anche di non doverla mai incontrare. »4I
Ma Heidegger non spende nemmeno una parola per dire che egli stesso poco tempo prima aveva
ceduto alla tentazione di voler destare una « risonanza immediata ». In ogni caso, dopo la fallita
presa di potere della filosofia, Heidegger fa ritorno alla filosofia solitaria che, sull'esempio di
Hölderlin, cerca di allontanare, combattendo da sola, il « pericolo epocale dell’oscuramento del
mondo». In occasione della sua fallita escursione nel terreno della politica questo lo ha imparato: «
La preparazione del vero » non ha luogo in una notte.
Il « manifestarsi dell’essere (Seyn) » avviene già ora talvolta nella filosofia, nella sua filosofia, ma
prima che questo evento possa irradiarsi in tutta la società e la trasformi fin dalle fondamenta,
passerà ancora « molto tempo », che proprio per questo rimane un « tempo della povertà ». « In
questo luogo della miseria metafisica » gli spiriti devono resistere, tanto che si tratti di Hölderlin o
di Heidegger, per tenere vivo il ricordo di ciò che ancora manca.
Heidegger resta dunque fedele alla sua fantasia filosofica, ma comincia a liberarla dalla sua
implicazione con la politica nazionalsocialista.
Il nazionalsocialismo realmente esistente diventa per lui sempre più un sistema della rivoluzione
tradita, che per lui era invece una rivoluzione metafisica, un « manifestarsi dell’essere (Seyn) » sul
terreno di una comunità di popolo. Così l’autentico nazionalsocialista, quale Heidegger continua a
sentirsi, deve diventare un pensatore nel tempo della povertà.
Del fallimento del suo rettorato Heidegger fa la cosa migliore di tutte: si inscrive nella propria storia
dell’essere come un araldo che è giunto troppo presto e che perciò incorre nel pericolo di essere
stritolato e persino rifiutato dal proprio tempo. Un fratello di Hölderlin.
17. L’epoca dell’immagine del mondo e della mobilitazione totale. Heidegger sulla via del ritorno.
Il porsi-in-opera della verità. Il pragmatismo festoso. Fondatori di Stati, artisti, filosofi. La critica
del pensiero di potenza. Nietzsche e Heidegger: chi supera chi? Costruire zattere in mare aperto.
Nelle ultime elezioni libere, quelle del 6 novembre 1932, i nazionalsocialisti avevano ottenuto il
33,5 per cento dei voti. Nelle elezioni del 5 marzo 1933, dopo l’incendio del Reichstag,
l’eliminazione della kpd e la repressione in massa di quanto restava dell’opposizione, la nsdap
continuava a non avere dalla sua parte la maggioranza del popolo. Nelle elezioni del 12 novembre
1933, quando ci fu una lista unica, legata a un plebiscito per l’uscita dalla Società delle Nazioni, il
92 per cento dei voti furono per la nsdap. Questo risultato elettorale non può certo aver rispecchiato
esattamente lo stato d’animo della popolazione: in quel momento l’adesione a Hitler non era ancora
così grande. Ma bisogna supporre che alla fine degli anni ’30 la stragrande maggioranza del popolo
appoggiasse interamente e in ogni suo aspetto la politica di Hitler. E ciò non perché il terrore,
l’allineamento e la repressione avessero avuto un effetto così potente, ma perché a quel tempo la
politica di Hitler si era rivelata come un successo agli occhi della stragrande maggioranza. Il 28
aprile 1939 Hitler fa un riassunto di questi successi in un suo grande discorso: « Io ho superato il
caos che c’era in Germania, ho ripristinato l’ordine, la produzione della nostra economia nazionale
ha avuto un’ascesa incredibile in tutti i comparti [...] Sono riuscito a reinserire completamente nel
quadro delle produzioni utili quei sette milioni di disoccupati che stavano a cuore a noi tutti [...] Io
ho unito il popolo tedesco non solo sul piano politico, ma l’ho anche armato militarmente, e inoltre
ho cercato di fare accantonare foglio dopo foglio quel trattato che nei suoi 448 articoli contiene la
violenza più per
fida che sia mai stata perpetrata ai danni di popoli e uomini.
Io ho restituito al Reich le province che ci erano state sottratte nel 1919, ho strappato milioni di
tedeschi alla disperazione più profonda, riconducendoli alla patria, ho ricostituito l’unità millenaria
dello spazio vitale tedesco e mi sono [...] sforzato di fare tutto ciò senza versare sangue e senza
arrecare al mio o ad altri popoli la sofferenza della guerra. Ho creato tutto ciò [...] come quando
ventuno anni fa ero ancora un lavoratore sconosciuto e un soldato del mio popolo, con le mie sole
forze ».1
Su questo bilancio di successi poteva essere d’accordo, punto per punto, lo stesso Heidegger. Egli
vedeva con favore l’unità politica interna del popolo ottenuta con metodi dittatoriali. Disprezzando
la democrazia di Weimar, egli non trovò affatto scandalosa l’eliminazione dell’opposizione politica.
Contro il principio di chi comanda e chi obbedisce Heidegger non aveva niente da obiettare. Il
regime nazionalsocialista aveva ridato il lavoro a molte persone e le aveva rese così « capaci di
esserci » (come dice Heidegger, in una conferenza del febbraio 1934). L’uscita dalla Società delle
Nazioni e l’abrogazione unilaterale del trattato di Versailles erano per Heidegger la dimostrazione
della volontà di autoaffermazione del popolo, il soddisfacimento « di quella esigenza originaria
dell’esserci di conservare e salvare la sua propria essenza». La politica hitleriana delle annessioni
trovava il suo appoggio; per lui era uno scandalo « che diciotto milioni di tedeschi appartengano, sì,
al popolo ma, vivendo al di fuori dei confini del Reich, non appartengano anche al Reich ».2 La
politica interna ed estera del regime corrispondeva alle aspettative di Heidegger, che non furono mai
delineate con chiarezza.
Il nazionalsocialismo era « la via tracciata per la Germania»; si trattava «soltanto di ’tener duro’ il
tempo necessario»,3 come disse a Karl Lowith a Roma nell’estate del 1936. Ma questa sua
approvazione era tornata a manifestarsi sotto forma di espressione di opinioni politiche. Il pathos
metafisico era sparito. Gli era rimasta appunto l’opinione che i nazionalsocialisti facessero
un’ottima politica - eliminazione della disoccupazione, pace sociale, revisione del trattato di
Versailles etc. Nel frattempo gli risultava chiaro che quella visione della rivoluzione metafisica, che
lo aveva attratto nell’arena politica, non era divenuta realtà. E mentre cerca di recuperare « andando
tentoni », come scrive a Jaspers il 1° luglio 1935, il filo del « lavoro interrotto » nel semestre
invernale 1932-33, riesce sempre meno a chiudere gli occhi davanti all’idea che il passaggio
dall’epoca moderna all’epoca nuova rimanga appannaggio, per il momento, solo del pensiero
solitario, di un pensiero cioè che voglia mettersi sulle tracce della sconvolgente dinamica dell’epoca
moderna e quindi del motivo profondo che sta alla base del fallimento delle proprie ambizioni
politico-filosofiche. Evidentemente egli aveva sottovalutato questa dinamica quando sentì la
rivoluzione nazionalsocialista come una profonda cesura epocale. Gli anni fra il 1935 e il 1938 sono
dedicati al lavoro di reinterpretazione. Ancora nel 1935, nel suo corso sulla Metafisica
(Metaphysik), egli aveva riconosciuto al nazionalsocialismo « intima verità e grandezza », volendo
così definire il suo aspetto di resistenza contro il mondo moderno. Durante gli anni successivi, in
cui egli esplora la dimensione infinita del progetto della modernità, la sua ottica si modifica, e il
nazionalsocialismo non gli appare più come una uscita dalla modernità, ma come una sua
espressione particolarmente coerente. Scopre che lo stesso nazionalsocialismo è il problema di cui
aveva ritenuto che fosse la soluzione. Vede imperversare nel nazionalsocialismo il furore della
modernità: la corsa pazza del tecnicismo, il dominio e l’organizzazione, cioè l’inautenticità sotto
forma di mobilitazione totale.
Peraltro Heidegger non ha timore di sostituire questa visione successiva alle sue precedenti
affermazioni sul movimento. È quello che succede nel 1953 in occasione della pubblicazione del
corso sulla Metafisica del 1935. Qui egli aggiunge fra parentesi, vicino al passo sull’« intima verità
e grandezza del movimento », una annotazione in cui si dice che era intesa la grandezza di ciò che è
terribile, cioè l’« incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno». Come vedremo subito,
questa è una interpretazione che Heidegger matura soltanto dopo il corso sulla Metafisica, nelle
lezioni su Nietzsche, nelle sue annotazioni filosofiche segrete, i Contributi alla filosofia (Beiträge
zur Philosophie), e nella conferenza La fondazione dell'immagine moderna del mondo mediante la
metafisica, apparsa dopo la guerra con il titolo L'epoca dell'immagine del mondo, uno degli scritti di
Heidegger che ha avuto maggiore risonanza.
Fra il 1935 e il 1938 Heidegger rielabora dunque la sua delusione per la mancata realizzazione sul
piano politico della rivoluzione metafisica; egli cerca di comprendere la potenza sconvolgente del
mondo moderno, e di comprendere che cosa sia stato a impossessarsi di lui stesso, e come si possa
tornare a liberarsi da questa presa.
Che cos’è questo moloc, questo mondo moderno, di fronte al quale le speranze politico-filosofiche
di Heidegger si sono infrante e che lo costringe a cercare nuovamente asilo nel pensiero solitario?
Nel saggio L’epoca dell'immagine del mondo egli descrive il mondo moderno con le immagini della
mobilitazione totale. Si richiama a Ernst Jünger, senza tuttavia citarlo espressamente. La tecnica
meccanica, la scienza e la ricerca si sono unite a formare un potente sistema, un sistema fatto di
lavoro e di bisogni. Il pensiero tecnico domina non solo la ricerca e la produzione in senso stretto,
ma anche l’atteggiamento dell’uomo verso se stesso, verso gli altri e verso la natura è quello di chi
dispone tecnicamente. L’uomo interpreta se stesso mediante concetti di disponibilità tecnica. Ciò
vale anche per l’arte che viene annessa, come «produzione artistica», all’universo produttivo
dell’epoca moderna. La cultura nel suo complesso è considerata un patrimonio di « valori » che
possono essere gestiti, calcolati, instillati e pianificati. Fra questi valori culturali ci sono anche le
esperienze e le tradizioni religiose, che vengono anch’esse ridotte al rango di mezzo per garantire la
consistenza del tutto. Con questa strumentalizzazione della trascendenza viene raggiunto lo stato di
completa « sdivinizzazione ».4
Il mondo moderno è dunque per Heidegger: tecnica meccanica, scienza strumentale, impresa
culturale e sdivinizzazione. Ma questi sono solo i sintomi importanti e appariscenti. Alla base c’è un
« atteggiamento metafisico fondamentale», una visione dell’ente nel suo complesso che determina
tutti i settori della vita e tutte le attività. Si tratta di una decisione su che cosa si debba considerare
ente e che cosa sia importante nel vivere. Questo atteggiamento fondamentale è definito da
Heidegger per mezzo della trasformazione dell’uomo in « soggetto », per il quale il mondo diventa
la quintessenza di « oggetti », cioè di puri oggetti reali e possibili che possono essere padroneggiati,
adoperati, consumati, rifiutati o eliminati. L’uomo si alza in piedi, non fa più esperienza di sé come
inserito in un mondo, bensì questo mondo è qualcosa che gli sta di fronte e che egli fissa nell’«
immagine del mondo». «L’uomo diviene il centro di riferimento dell’ente come tale. »5
Ma non è forse sempre stato così? No, dice Heidegger, un tempo le cose stavano diversamente e
dovranno tornare un giorno a stare diversamente, pena il declino.
Le cose stavano diversamente: nell’antica Grecia. In questa conferenza Heidegger offre una
esposizione concisa della sua immaginazione sul modo « originario » di abitare nel mondo. Per la
grecità antica (e quindi anche per il nostro futuro, se vogliamo ancora averne uno) vale quanto
segue: «L’ente è il sorgente e l’aprentesi, ciò che, come essente-presente, sopravviene all’uomo
quale essente presente, e gli sopravvive come all’ente che si apre all’essente-presente nel mentre lo
apprende. L’ente non diviene essente per il fatto che l’uomo lo intuisca nel corso della
rappresentazione [...] È piuttosto l’uomo a essere guardato dall’ente, cioè dall’autoaprentesi
all’esser-presente in esso raccolto. Guardato dall’ente, compreso e mantenuto nell’aperto dell’ente,
sorretto da esso, coinvolto nei suoi contrasti e segnato dal suo dissidio: ecco l’essenza dell’uomo nel
periodo della grandezza greca ».6
Questa esposizione concisa non è così chiara da rendere superflua l’aggiunta di un commento. Per il
pensiero greco il mondo è uno scenario dove l’uomo compare in mezzo ai suoi simili e alle cose per
agire e vedere in esso attivamente e, insieme, per subire passivamente l’azione e la visione. Il luogo
dell’uomo è una posizione di visibilità in un duplice senso: egli mostra se stesso (e solo se si mostra
egli è davvero, altrimenti è nella caverna del privato, è un « idiota ») ed è quell’essere al quale gli
altri enti possono mostrarsi. L’« apparenza» non è per il pensiero greco una modalità deficitaria
dell’essere. Infatti l’essere è apparenza, e nient’altro. Soltanto ciò che appare, è. Perciò per Platone
l’essere sommo era anch’esso sempre consegnato, come idea, al vedere. L’uomo veniva concepito
come un essere che condivide con il resto del mondo il vedere e il potersi-mostrare. Non soltanto
l'uomo, bensì anche il mondo nel suo complesso vuole apparire; esso non è solo ciò che è guardato
passivamente, non è solo il materiale per la nostra vista e per i nostri interventi. Nel pensiero greco
il mondo per così dire ci guarda a sua volta. L’uomo esprime con particolare purezza il principio
cosmico che spinge ogni cosa a mostrarsi e per questo è il punto di massima visibilità in senso sia
attivo sia passivo. Per questo l’uomo greco ha inventato anche il teatro, che è a sua volta il
palcoscenico del mondo. Era il cosmo, nel suo complesso, ad avere per lui natura di palcoscenico.
L’uomo è il luogo aperto dell’essere.
In tali condizioni, questa è la convinzione di Heidegger, c’è un essere più ricco, più intenso, c’è
un’ampiezza aperta. Al contrario, l’uomo moderno si trova a essere prigioniero dei suoi progetti, ed
esperisce ciò che gli succede come anomalia, incidente, intervento del caso. In tal modo il mistero
scompare dal mondo, scompare la ricchezza, l’abisso, il destino, la Grazia. « Accade infatti che là
dove l’ente sia divenuto oggetto della rappresentazione, perda in certo modo il suo essere. »7
La storia heideggeriana dell’essere si articola così: la grecità agisce su un palcoscenico aperto, dove
l’uomo e il mondo vengono all’apparire e mettono reciprocamente in scena le loro tragedie e
commedie, nella consapevolezza della strapotenza e della sovrabbondanza dell’essere, che rimane
misterioso e nascosto. In epoca cristiana l’essere è custodito in Dio, cui ci si fa incontro con
riverenza, mentre però si va già alla ricerca con curiosità di analogie e corrispondenze fra il Creator
e il creatum e infine si cade vittima dell’orgoglio di ripetere ciò che è stato creato in ciò che si è
creato da sé. Ma il mondo moderno si è risolto interamente nell’« aggressione».8 «
Nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo
raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano della uniformità
organizzata e per installarsi in essa. Questa uniformità è infatti lo strumento più sicuro del dominio
completo, cioè tecnico, della Terra. »9
Riprendendo e rovesciando i pensieri di Max Weber sul mondo disincantato dei moderni, Heidegger
parla del nostro «incanto» determinato dal mondo della tecnica. La storia moderna si muove sotto
l’azione di un incantesimo. C’è una via d’uscita?
Nel 1933 Heidegger aveva creduto che l’uscita collettiva dal guscio d’acciaio del mondo moderno
fosse diventata una realtà storica. Cinque anni dopo egli constata che questa opportunità di una
svolta fondamentale non c’è stata e che non ci potrà essere nemmeno in seguito sul piano politico.
Egli intende ora la rivoluzione, e quello che ne è conseguito, come un processo che soggiace ancora
interamente all’incantesimo moderno della mobilitazione totale, senza svolgere una riflessione
autocritica sul proprio ruolo personale.
La sua diagnosi è la seguente: il mondo moderno entra nello stadio del confronto più duro fra le
diverse concezioni di dominio del mondo che si contendono il campo: l’americanismo, il
comuniSmo, il nazionalsocialismo. I rispettivi « atteggiamenti fondamentali » vengono evidenziati
nettamente e decisi con forza, ma tutto ciò accade sul terreno comune del mondo moderno e del suo
incanto da parte della tecnica. « Per questa lotta [...] l’uomo pone in gioco la potenza illimitata dei
suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tutte le cose. »10
Il « calcolo » sta per americanismo, la « pianificazione » per comuniSmo e il « controllo » per
nazionalsocialismo.
Dalla prospettiva globale di Heidegger, critico della modernità, che nelle sue lezioni su Nietzsche
chiama anche « l’epoca della compiuta mancanza di senso »," tutto ciò non è altro che un unico «
contesto di sventure », come dirà in seguito Adorno in un altro gergo.
Se si guarda a lungo nel buio, si scopre sempre qualcosa dentro di esso. Nell’oscurità generale
Heidegger si sforza di evidenziare delle differenze. Il mondo moderno è, sì, nel suo complesso una
« ascesa del soggetto », ma fa differenza se « l’uomo vuole e deve essere un io ridotto alla propria
gratuità e rimesso al proprio arbitrio o un ’noi’ nella società; se vuole e deve essere isolato o far
parte di una comunità; se vuole e deve essere una persona nell’ambito della comunità o il semplice
membro di un gruppo nella ’corporazione’; se vuole e deve esistere come Stato, nazione e popolo o
come umanità generale dell’uomo moderno; e tutto ciò se vuole e deve esserlo come quel soggetto
che esso, nella sua essenza moderna, già è ».12
È evidente quale sia la preferenza di Heidegger. Egli ce lo dice con sufficiente chiarezza là dove
parla, dopo poche frasi, della « inconsistenza del soggettivismo inteso come individualismo ». Il «
noi », la « personalità nella comunità » e il «popolo» - queste sono le forme dell’essere soggetto
meno corrotte di tutte nel mondo moderno. E in tal modo egli sanziona i propri intrighi politici,
anche se non nel senso inteso originariamente di una rivoluzione metafìsica, ma come quell’opzione
che risulta in fin dei conti migliore nella generale inconsistenza del mondo moderno. Ma
naturalmente nemmeno questo è il « giusto », ciò di cui c’è bisogno.
Heidegger vuole prevenire i fraintendimenti. Non si tratta di «dire di no a un’epoca». Un pensiero
che si sclerotizza sulla « pretesa di potere della negazione » rimane incatenato a ciò che nega e
quindi perde la sua forza di apertura. Non si tratta nemmeno di una mistica « astorica ». L’essere
dell’ente, che si apre al pensiero, non è un Dio senza mondo. Esattamente al contrario: questo
pensiero vuole riconquistare una prospettiva in cui il mondo torni a diventare uno spazio dentro il
quale, come dice Heidegger nelle lezioni del 1935 sulla Metafisica, « ogni singola cosa: un albero,
una montagna, una casa, un grido d’uccello, vi perde completamente il proprio carattere
insignificante e abituale ».13
Quanto questo pensiero sia vicino all’arte, Heidegger ce lo spiega nella sua conferenza L’origine
dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes), tenuta per la prima volta nel 1935. Qui egli
descrive, sull’esempio di un dipinto di van Gogh, che rappresenta le scarpe scalcagnate dell’artista
(e che Heidegger ritiene erroneamente essere scarpe da contadino), il modo in cui l’arte conduce le
cose all’apparenza, sicché esse perdono la loro « indifferenza » e « consuetudine ». L’arte non
descrive, ma rende visibile. Ciò che essa solleva a opera si racchiude in un mondo proprio, che
conserva la sua trasparenza per il mondo in generale, in modo tale però che l’atto che crea un
mondo diviene esperibile come tale. Così l’opera si pone al tempo stesso come una forza donatrice
di senso, che « mondeggia », e attraverso la quale l’ente diventa «più ente ». Perciò Heidegger può
dire che l’essenza dell’arte «spalanca, nel mezzo dell’ente, un luogo aperto, nella cui apertura ogni
cosa è diversa dall’abituale ». 14
L’opera d’arte è anche qualcosa di prodotto. Come delimita Heidegger l'essere-prodotto dell’arte
dalla produzione tecnica analizzata nel saggio sull' Immagine del mondo?
Per connotare la differenza, Heidegger introduce il concetto di « Terra ». La « Terra » è la natura
impenetrabile, autosufficiente. «La Terra è l’autochiudentesi per essenza.»15 L’« oggettivazione
tecnico-scientifica » vuole penetrare la natura, strapparle il segreto del suo funzionamento. Ma
lungo questa via noi non capiremo mai ciò che essa è. C’è questo stare-in-sé della natura, questo
suo modo di sottrarsi a noi. Fare propriamente esperienza di questa «sottrazione» significa aprire se
stessi all’affascinante chiusura, alla « terrosità » della natura. Questo è ciò che cerca l’arte,
nient’altro. Possiamo determinare il peso di un sasso, possiamo scomporre in onde
elettromagnetiche la luce colorata; ma in queste determinazioni non abbiamo dischiuso l’essere
pesante di quel peso, e lo splendore di quel colore. « La Terra destina al fallimento ogni tentativo di
penetrare in essa.»16 L’arte invece rende visibile l’« indischiudibilità »'7 della Terra, essa produce
qualcosa cui altrimenti non perviene alcuna rappresentazione; essa dischiude uno spazio, in cui si
può mostrare proprio « l’autochiudersi » della terra. Essa manifesta un mistero senza intaccarlo.
L’arte non si limita a rappresentare un mondo, bensì dà forma allo stupore, al terrore, alla gioia,
all’indifferenza nei confronti del mondo. L’arte racchiude ciò che è proprio in un mondo a sé stante;
come dice Heidegger: essa « istituisce » un mondo che può opporsi per un momento alla generale «
sottrazione e disgregazione del mondo ». Questo aspetto di creazione di un mondo, e quindi la
particolare potenza dell’arte, è ciò che conta di più. Ad esempio il tempio greco. Per noi esso è oggi
solo un monumento della storia dell’arte, mentre un tempo fu un centro di riferimento intorno al
quale si organizzava la vita di una comunità, che lo riempiva di senso e di significato. « Il tempio, in
quanto opera, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e
morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso
dell’essere umano nel suo destino. »18 In tal modo il tempio dona all’uomo la « visione di se
stesso».19 In questa potente manifestazione l’opera d’arte istituisce il « Dio » della comunità, la sua
più alta attestazione e la sua autorità che conferisce senso. Perciò Heidegger chiama l’arte anche un
« porsi in opera della verità ».20 Da questo punto di vista egli istituisce un parallelo, come già aveva
fatto nel corso su Hölderlin, fra l’arte, il pensiero e 1’« azione che fonda uno Stato ».
Si tratta qui di un pragmatismo festoso, che in primo luogo fonda la storicità delle « verità »
istituite: esse possono essere conservate solo per un certo tempo. In secondo luogo le «verità» non
sono se non nelle opere. «L’istituzione della verità nell’opera è una produzione [traente fuori] un
ente che prima non era ancora e che, successivamente, non sarà mai più. »21
Quando Heidegger descrive la potenza originaria delle verità istituite, si osserva che
quell’eccitazione del 1933, quando egli visse la rivoluzione nazionale come opera d’arte totale
dell’azione che fonda uno Stato, non si è ancora esaurita. «Il porsi in opera della verità apre il
prodigioso, rovesciando l'ordinario e ciò che è mantenuto come tale. La verità, aprentesi nell’opera,
non trova in ciò che è durato finora né fondamento né giustificazione. Ciò che è durato finora non
trova nell’opera che la confutazione della sua realtà esclusiva.»22 Queste frasi si attagliano, dal
punto di vista di Heidegger, tanto all’opera d’arte totale politica, quella della rivoluzione, quanto a
un tempio greco, a una tragedia di Sofocle, a un frammento di Eraclito o a una poesia di Hölderlin.
Ogni volta si tratta di un’azione creativa, che traspone l’uomo in un rapporto modificato rispetto
alla realtà; egli conquista un nuovo orizzonte, un nuovo riferimento all’essere. Tuttavia questo atto
fondativo è soggetto alla legge dell’invecchiamento e dell’assuefazione. Ciò che è stato aperto torna
a richiudersi. Era un’esperienza che Heidegger aveva fatto soprattutto nella rivoluzione politica. « Il
principio è ciò che vi è di più inquietante e di più violento. Ciò che viene in seguito non rappresenta
già uno sviluppo ma una trivializzazione conseguente all’allargarsi, un non potersi mantenere in se
stesso dal principio, un immiserimento e insieme una esagerazione del principio.»23 Così l’uscita
iniziale dal mondo moderno è giunta a un punto morto, e rimane un compito riservato al pensiero,
in alleanza con la poesia, quello di mantenere aperto l’« orizzonte »24 per un riferimento del tutto
diverso all’essere. Per indicare in che cosa consiste questo assolutamente altro, Heidegger conia nel
saggio sull' Immagine del mondo la formula del superamento dell'« esser-soggetto », più
precisamente: della mutata forza del pensiero « che l’esser-soggetto da parte dell’umanità non è
stato e non sarà mai l’unica possibilità dell’essenza iniziale dell’uomo storico ».25
Ma qui Heidegger incontra notevoli difficoltà: il superamento dell’esser-soggetto deve essere
dischiuso attraverso un poetare e pensare che scaturisce dalla volontà di realizzare un’opera. Ma
l’opera è espressione di una disposizione estremamente attivistica. Che cosa fanno infatti i poeti e i
pensatori? « Essi gettano innanzi al preponderante imporsi la massa compatta dell’opera e in essa
bandiscono il mondo così dischiuso. »26 La volontà heideggeriana di realizzare un’opera non è forse
un potenziamento particolarmente estremo della soggettività? Non è fin troppo facile identificare
questa volontà di opera con la volontà di potenza di Nietzsche, anch’essa intendibile come un
potenziamento della soggettività? Non si tratta in entrambi i casi di presunzioni soggettive e di
pretese di potere di contro all’imperversante nichilismo moderno, diagnosticato da entrambi?
Heidegger, che aveva fatto esplicitamente propria nel discorso di rettorato la diagnosi nietzscheana
« Dio è morto », è del tutto consapevole della sua vicinanza a Nietzsche. Nel saggio sull'Immagine
del mondo egli vede in lui un pensatore che sarebbe quasi, ma solo quasi, riuscito nell’intento di
oltrepassare il mondo moderno. In questa sede egli riassume un pensiero centrale delle sue lezioni
su Nietzsche, tenute a partire dal 1936: Nietzsche è rimasto bloccato nella riflessione moderna sui
valori. Quell’epoca che egli voleva oltrepassare aveva avuto in fin dei conti partita vinta su di lui e
gli aveva guastato i suoi pensieri migliori. Heidegger vuole comprendere Nietzsche meglio ancora
di quanto Nietzsche stesso si sia compreso. Egli vuole superarlo sul cammino verso un nuovo
pensiero dell’essere. E qui non può sottrarsi al confronto con l’assunzione di Nietzsche da parte di
ideologi del nazionalsocialismo come Alfred Baeumler. Tale assunzione era messa in discussione
perfino dai più incalliti ideologi nazisti. Ernst Krieck, ad esempio, mette sarcasticamente in guardia
da una simile adozione di Nietzsche: « Tutto sommato Nietzsche era nemico del socialismo, nemico
del nazionalismo e nemico del pensiero razziale. Se si prescinde da questi tre orientamenti spirituali,
egli avrebbe potuto essere un nazista perfetto »,27 Arthur Drews, professore di filosofia a Karlsruhe,
nel 1934 si mostra addirittura indignato di questa Nietzsche-Renaissance. Nietzsche è per lui un «
nemico di tutto ciò che è tedesco »,28 che prende partito a favore dell’educazione del « buon
europeo », attribuendo addirittura agli ebrei « un ruolo-guida nella fusione di tutte le nazioni ».
Nietzsche è poi un individualista convinto, cui niente è più estraneo « del principio nazionalistico:
l’utilità comune precede quella individuale ». Perciò dovrebbe « dopo tutto ciò risultare persino
incredibile che si faccia di Nietzsche il filosofo del nazionalsocialismo, dato che egli predica [...]
proprio in tutte le cose il contrario del nazionalsocialismo ». Il fatto che ciò continui a verificarsi ha
la sua « causa principale [...] certo nel fatto [...] che oggi la maggior parte di coloro che parlano di
Nietzsche sono soliti beccare soltanto l”uvetta’ dalla torta della sua 'filosofia’ e di fronte al suo
modo di scrivere aforistico non ricevono assolutamente alcuna immagine chiara dell’insieme dei
suoi pensieri ».29
Fu Alfred Baeumler, con il suo libro Nietzsche, filosofo e politico (1931), che conobbe un enorme
successo, a compiere il gioco di prestigio sia di beccare soltanto l’« uvetta », sia di tenere d’occhio
un ben preciso « insieme di pensieri ». Egli saccheggia la filosofia della volontà di potenza e gli
esperimenti nietzscheani con il biologismo del proprio tempo. Il darwinismo delle potenze vitali,
l’idea della razza dei dominatori e dell’impulso formatore per il quale i conglomerati umani
diventano materiale plastico, l’abrogazione della morale a opera del decisionismo vitalistico - sono
questi gli elementi dai quali Baeumler progetta la propria filosofìa di Nietzsche, per la quale egli
peraltro non è in grado di servirsi della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale. «In verità», scrive,
«questo pensiero, visto a partire dal sistema di Nietzsche, è privo di importanza.»30 Con Nietzsche
Baeumler vuole mettere sotto processo la metafisica tradizionale: non c’è alcun mondo
sovrasensibile di valori e idee, e naturalmente non c’è nemmeno nessun Dio, c’è solo un
fondamento istintuale. Baeumler ha bisogno solo di radicalizzare l’interpretazione fisiologica di
Nietzsche, per farne risultare infine i pensieri della « razza » e del « sangue ».
Effettivamente, la mistica di sangue e razza è una delle possibili conseguenze della volontà di
potenza intesa in senso fisiologico; anche Heidegger la pensa così, sebbene a differenza di
Baeumler giudichi negativamente questa conseguenza: « Per Nietzsche la soggettività è in modo
incondizionato in quanto soggettività del corpo, cioè degli istinti e delle passioni, ossia della volontà
di potenza [...] Pertanto, l’essenza incondizionata della soggettività si dispiega necessariamente
come la brutalìtas della bestialitas. Alla fine della metafisica sta la tesi: homo est brutum bestiale. Il
fatto che Nietzsche parli della ’bestia bionda’ non è una esagerazione occasionale, ma è il
contrassegno e il termine distintivo di un contesto nel quale egli sapeva di trovarsi, senza scorgerne
i riferimenti storico-essenziali ».3I
L’esaltazione della « bestia bionda » è per Heidegger la conseguenza nichilistica della «sollevazione
del soggetto».
Lo stesso Heidegger aveva dovuto subire accuse di «nichilismo» da parte degli ideologi nazisti. Nel
1934 Krieck scrive, come già citato: « Il senso di questa filosofia è un esplicito ateismo e nichilismo
metafisico, altrimenti sostenuto nel nostro contesto da parte dei letterati ebrei, e quindi è un
fermento di disgregazione e dissoluzione del popolo tedesco ».32 Nei corsi su Nietzsche Heidegger
ritorce le accuse e cerca di provare che la volontà di potenza, cui si richiamano gli ideologi nazisti,
non è oltrepassamento ma compimento del nichilismo, senza che gli adepti di Nietzsche se ne siano
neppure accorti. Così i corsi su Nietzsche diventano un attacco frontale alla metafisica degradata del
razzismo e del biologismo. Heidegger riconosce la parziale utilizzabilità di Nietzsche per
l’ideologia dominante, e perciò stesso ne prende le distanze. Per altro verso egli cerca di
riallacciarsi a Nietzsche, ma in modo tale da presentare il suo proprio pensiero come un
superamento di Nietzsche - sulle tracce di Nietzsche.
Nietzsche voleva far crollare la metafisica tradizionale muovendo da un principio profondamente
metafisico, che nella formulazione schellinghiana suona così: « Il volere è originario essere ».
Tuttavia Nietzsche intende la volontà diversamente dalla tradizione fino a Schopenhauer. La volontà
non è desiderio, impulso oscuro, ma è un « poter dare ordini », è una forza che fa crescere l’essere.
« Il volere non è in generale nient’altro che voler diventare più forti, voler crescere. »
La volontà è volontà di accrescimento della potenza vitale. Per Nietzsche il mantenimento di sé è
possibile solo nella logica dell’accrescimento. Ciò che ha solo la forza di auto-mantenersi, affonda.
Si mantiene solo chi si accresce, si rafforza, si estende. Il vivente non ha alcun senso trascendente,
ma ha un indirizzo di senso che è immanente: è alla ricerca di accrescimento di intensità e di
riuscita. Esso cerca di integrare ciò che è estraneo nella propria sfera di potere e nella propria forma.
Ciò che è vitale domina in quanto predomina e soggioga. Esso è un processo energetico e come tale
è «privo di senso» perché non è riferito ad alcuno scopo preordinato. Si tratta per questo di
nichilismo? Nietzsche presenta la sua dottrina come oltrepassamento del nichilismo per mezzo del
suo compimento.
Egli vuole portare a compimento il nichilismo portando allo scoperto il nichilismo nascosto nella
lunga storia del conferimento di senso da parte della metafisica. Gli uomini hanno sempre
considerato come un « valore », sostiene Nietzsche, tutto ciò che poteva servire al mantenimento e
all’accrescimento della propria volontà di potenza o alla difesa dalle potenze superiori. Alle spalle
di ogni posizione di valori e della loro stima sta quindi la volontà di potenza. E ciò vale anche per i
« valori supremi », Dio, le idee, il sovrasensibile. Ma questa volontà di potenza è rimasta a lungo
non trasparente a se medesima, attribuendo a ciò che lei stessa aveva fatto un’origine sovrumana.
Gli uomini hanno creduto di aver trovato entità autonome, mentre le hanno semplicemente inventate
in forza della loro volontà di potenza. Essi hanno misconosciuto la propria energia creatrice di
valori. Evidentemente preferivano essere vittime passive e destinatari di un dono, anziché essere
loro stessi attori e donatori, forse per paura della propria libertà. Questa fondamentale svalutazione
della propria energia creatrice di valore è stata ulteriormente forzata da parte dei valori
sovrasensibili costituiti. A partire dal sovrasensibile sono stati svalutati l’aldiqua, il corpo e la
finitezza. Mancava evidentemente il coraggio della finitezza. E in questo senso quei valori
sovrasensibili, inventati come baluardo contro la minaccia da parte della nullità e della finitezza,
sono diventati essi stessi la forza della svalutazione nichilistica della vita. Sotto il cielo delle idee gli
uomini non sono mai venuti al mondo effettivamente. E Nietzsche intende far crollare
definitivamente questo cielo delle idee - questo è il compimento del nichilismo - affinché si impari
finalmente che cosa significa « restare fedeli alla terra » - e questo è l’oltrepassamento del
nichilismo.
Dio è morto, ma la rigidezza della remissività è rimasta, questa è la diagnosi di Nietzsche, e quel «
portento » di cui egli parla consiste nello sbarazzarsi di questa rigidezza della remissività passando
attraverso l’ebbrezza e l’euforia di chi dice sì alla vita dionisiaca. A Nietzsche interessa la
santificazione dell’aldiqua. In ciò egli vuole distinguersi dal nichilismo del mero disincanto. Il
nichilismo moderno perde un aldilà senza conquistare un aldiqua. Nietzsche vuole invece insegnare
l’arte del saper vincere quando si perde. Ogni estasi, ogni beatitudine, le ascese al cielo da parte del
sentimento, tutte le intensità che in precedenza restavano attaccate all’aldilà, devono raccogliersi
nella vita dell’aldiqua. Occorre conservare le forze della trascendenza, ma dirigerle
nell’immanenza. Procedere oltre e tuttavia « restare fedeli alla terra », questo è il compito che
Nietzsche affida al suo superuomo, all’uomo dell’avvenire. Il superuomo, così come lo progetta
Nietzsche, non ha religione, ma non nel senso che l’abbia perduta; egli l’ha bensì ricondotta in se
stesso. Allo stesso modo, anche la sua dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale non ha la caratteristica
della rassegnazione e della stanchezza del mondo. Il movimento circolare del tempo non deve
svuotare l’accadere facendone qualcosa di insensato e di vano; in Nietzsche il pensiero del ritorno
ha la funzione di intensificare; il suo imperativo è questo: tu devi vivere l’attimo in modo tale da
poter desiderare che esso ti ritorni senza paura. « Da capo! »
Veniamo a Heidegger: egli segue Nietzsche nella critica all’idealismo, lo segue anche nel motto
«restate fedeli alla terra ». Ma proprio su questo punto egli muove una critica a Nietzsche e gli
rimprovera di non essere rimasto fedele alla terra, proprio con la sua filosofia della volontà di
potenza. Per Heidegger « restare fedeli alla terra » significa: non dimenticare l’essere rimanendo
invischiati nell’ente. Secondo Heidegger, a partire dal principio della volontà di potenza, Nietzsche
trascina tutto nella sfera dell’uomo che conferisce valore. L’essere, con cui l’uomo ha a che fare e
che egli stesso è, viene visto interamente come « valore ». In ciò l’essere si risolve ogni volta,
falsamente, nel fatto di avere « valore » per l’uomo. Nietzsche voleva che l’uomo avesse il coraggio
di se stesso, che si alzasse in piedi. Heidegger dice che in tal modo non c’è stato solo un alzarsi in
piedi, ma una sollevazione, una sollevazione della tecnica e delle masse, che adesso attraverso il
dominio tecnico diventano interamente quello che Nietzsche chiamava l’« ultimo uomo », e che si
raccolgono « ammiccanti » nelle loro dimore e nella loro piccola sorte, difendendosi con estrema
brutalità da qualsiasi cosa possa danneggiarne la sicurezza e il possesso. « L’uomo entra in
sollevazione », dice Heidegger, guardando anche alla situazione tedesca attuale, « il mondo diventa
un oggetto [...] La terra stessa può continuare a mostrarsi solo come oggetto di aggressione [...] La
natura appare ovunque [...] come l’oggetto della tecnica. » Secondo Heidegger, tutto ciò era già
presente in Nietzsche, dato che in lui l’essere viene visto solo nella prospettiva del valore estetico,
teoretico, etico e pratico, e quindi viene perso di vista. Per la volontà di potenza il mondo è solo più
la quintessenza di « condizioni di mantenimento e di accrescimento ».
«Ma l’essere», chiede Heidegger, «può essere valutato più di quanto già avviene quando lo si eleva,
esso stesso, a valore? » La sua risposta è questa: « Però, se l’essere viene stimato come un valore,
esso è già stato ridotto a una condizione posta dalla stessa volontà di potenza », e in tal modo «è
estinta la via verso l’esperienza dell’essere stesso ».
Con « esperienza dell’essere » non si intende, come abbiamo appreso, l’esperienza di un mondo
superiore, bensì l’esperienza dell’inesauribilità del reale e lo stupore sul fatto che, con l’uòmo, si è
creato al centro della realtà un « luogo aperto» in cui la natura apre gli occhi e si accorge di esserci.
Nell’esperienza dell’essere l’uomo si scopre come orizzonte. L’uomo non è prigioniero dell’ente e
costretto a forza in esso. In mezzo alle cose egli invece ha « gioco », così come una ruota deve
avere « gioco » attorno al mozzo, per potersi muovere. Il problema dell’essere, dice Heidegger, è in
ultima istanza « un problema della libertà ».
L’esperienza dell’essere è estinta dovunque i singoli o intere culture si irrigidiscono nei loro
rispettivi rituali di rapporto con la realtà, sul piano teoretico, pratico e morale, dove essi vengono «
irretiti » dal loro proprio progetto, e perdono la consapevolezza della relatività di questo rapporto
con l’essere e quindi anche la forza di trascenderlo. E una relatività in vista del « grande fiume
nascosto » (Heidegger) del tempo, su cui le nostre verità e culture sono sospinte come esili zattere.
L’essere non è dunque un qualcosa di salvifico; l’essere è, per dirlo senza pathos, il concetto-limite
e la quintessenza di tutte le relazioni all’essere che vengono praticate, di tutte quelle che sono
pensabili come di quelle che sono ancora impensabili. Di conseguenza la storia dell’essere è per
Heidegger una sequenza storica di relazioni all’essere che sono fondanti. Nel saggio sull' Immagine
del mondo egli ha offerto un abbozzo di questa sequenza di relazioni all’essere - si potrebbe dire
anche: di paradigmi culturali. Questa sequenza stessa non realizza alcun « senso superiore » che
starebbe ancora più in là. Si tratta piuttosto per Heidegger di un gioco delle possibilità. In uno
scritto posteriore di Heidegger si dice a questo proposito: « L’essere [...] non ha alcun fondo, esso
gioca come abisso (Abgrund) [...] Il pensiero giunge, attraverso un salto, all’ampiezza di quel gioco
in cui ne va del nostro essere umani ».
Il pensiero dell’essere è per Heidegger questo movimento « ludico » del tenere aperto in vista
dell’orizzonte incommensurabile dei rapporti ontologici. Perciò non si può nemmeno chiedere a
Heidegger che cosa sia l’essere; in questo caso infatti si pretenderebbe da lui una definizione di
qualcosa che è a sua volta l’orizzonte di ogni possibile definizione. E poiché la domanda sull’essere
è questa apertura di orizzonte, il suo senso non può risiedere nel fatto di ricevere una risposta. Una
delle formule di Heidegger per respingere questa pretesa di rispondere una volta per tutte alla
domanda sull’essere è contenuta nei corsi su Nietzsche: « Dell’essere non ne è niente... » Vale a
dire: l’essere non è niente a cui ci si possa tener fermi. Esso è ciò che semplicemente dissolve,
contrariamente alle visioni del mondo che fissano e che danno sicurezza. La domanda sull’essere
deve impedire che il mondo diventi immagine del mondo. Quando Heidegger si accorse che questo
« essere » stesso poteva diventare un’immagine del mondo, cominciò a scrivere Seyn con la ipsilon,
e talvolta ricorse
anche all’espediente di tracciare una croce sopra la parola
«essere ».
Per Heidegger lo stesso Nietzsche fu un filosofo dell'immagine del mondo.
In effetti il pensiero di quest’ultimo appare concluso in senso particolarmente figurato dalla dottrina
dell'eterno ritorno dell’uguale. Con questo pensiero la dimensione del tempo viene eliminata,
chiudendone il cerchio; e ciò sebbene Nietzsche, richiamandosi al « divenire » di Eraclito, volesse
in realtà approfondire la dimensione del tempo. Ma questo è certo il punto principale
dell’opposizione fra Nietzsche e Heidegger: Nietzsche pensa il tempo nella dinamica della volontà
di potenza e ne richiude il cerchio all’intemo dell’essere con la dottrina dell’eterno ritorno.
Heidegger cerca invece di mantenere questo pensiero, che il senso dell’essere è il tempo. Nietzsche
fa del tempo un essere, Heidegger dell’essere il tempo.
L’immagine speculativa secondo cui le religioni, i conferimenti di senso e le culture siano esili
zattere che gli uomini costruiscono in mare aperto e su cui essi viaggiano per un trattò attraverso le
epoche, proviene dal filosofo giapponese Nishida. Secondo Heidegger, Nietzsche ha perso di vista,
nell’ebbrezza del suo lavoro ricco di invenzione e per la gioia di aver ultimato la zattera, sia le
maree che il mare aperto. Questo è oblio dell’essere. Ma lo stesso Heidegger vuole guardare in
mare, e perciò, con la domanda sull’essere si fa venire in mente l’altalenare delle cose.
Tuttavia, e su questo aspetto ha richiamato l’attenzione Karl Lowith in una critica ai corsi
heideggeriani su Nietzsche, è destinato a restare dubbio chi dei due, Nietzsche o Heidegger, abbia
pensato più radicalmente l’aperto e chi di loro abbia cercato invece nuovamente sostegno in
qualcosa di onnicomprensivo. Per Nietzsche la vita «dionisiaca», che va al di là di ogni cosa, non fu
un fondamento portante, ma un abisso, minaccioso per i nostri tentativi apollinei di conferire
saldezza a noi stessi. Forse sarebbe stato Nietzsche a poter rimproverare a Heidegger la mancanza
di radicalità nell’oltrepassamento del bisogno di sicurezza. Forse egli avrebbe visto anche l’« essere
» di Heidegger solo come un retro-mondo platonico che ci viene offerto per la nostra sicurezza e
protezione.
Nella discussione della dottrina dell’eterno ritorno Heidegger parla del fatto che Nietzsche avrebbe
tenuto per sé le sue idee migliori, poiché per alcuni dei suoi pensieri non c’era ancora alcun « sito
del loro svilupparsi ».33 Egli cita la frase di Nietzsche: « Non si ama più abbastanza la propria
conoscenza, appena la si comunica ».34
Heidegger appare così partecipe nel commentare il silenzio di Nietzsche, che ci si rende subito
conto di come qui egli stia parlando anche di sé e della propria vicenda. « Se le nostre conoscenze
rimanessero limitate a quanto Nietzsche pubblicò, non potremmo mai arrivare a conoscere quello
che Nietzsche già sapeva e stava preparando e continuamente ripensava, ma che tenne invece per
sé. Solo prendendo visione del lascito manoscritto si ha un quadro più chiaro. »35
Quando Heidegger fece questa osservazione, stava lavorando a un manoscritto che « tenne per sé »
e a pensieri rispetto ai quali non vedeva evidentemente giunto il momento opportuno: i Contributi
alla filosofia, il cui sottotitolo è: Dell'evento (Vom Ereignis).
18. Il diario filosofico di Heidegger: i Contributi alla filosofia. Il rosario filosofico di Heidegger. La
grande nenia. Piccole ascensioni.
Il silenzio eloquente.
Per la versione pubblica del pensiero heideggeriano dell’essere, intorno al 1938, vale l’asserto: «
Dell’essere non ne è niente... » L’essere si sottrae, se vogliamo afferrarlo direttamente. Infatti tutto
ciò che afferriamo, proprio per questo diventa ente. Diventa cioè oggetti che noi trasferiamo
nell’ordinamento del nostro sapere o dei nostri valori, suddividiamo, smembriamo, assumiamo
come metro e che possiamo trasmettere con il loro nome. Tutto ciò non è l’essere, ma c’è perché noi
intratteniamo un rapporto con l’essere. È l’orizzonte aperto in cui l’ente ci si fa incontro. E la
domanda sull’essere non è alla ricerca di un ente sommo, che un tempo venne chiamato Dio; questa
domanda deve invece creare la distanza che ci consenta di fare un’esperienza a sé stante di questo
riferimento. Ma si tratta di un’esperienza che trasforma. L’uomo si accorge di essere « libero » nei
confronti del mondo; egli si è aperto un orizzonte al suo interno.
In un corso su Nietzsche si trova un’oscura allusione che ci mette sulle tracce di un’altra versione
della questione heideggeriana dell’essere. «Non appena l’uomo, nella sua vista dell’essere, si lascia
vincolare da quest’ultimo, viene rapito e trasportato al di là di se stesso, sicché, per così dire, egli si
estende tra sé e l’essere, ed è fuori di sé. Questo ’essere elevato al di là di sé, via da sé, ed essere
attratto dall’essere stesso’, è l’ ’eros’. »1
I Contributi alla filosofia, redatti fra il 1936 e il 1938, e a quel tempo non destinati alla
pubblicazione, costituiscono un documento unico di questo eros. Heidegger vuole essere « rapito e
trasportato al di là di se stesso ». Da che cosa? Dagli esercizi del suo proprio pensiero.
Verso che cosa? Questo è difficile dirlo, se non si vuole avere niente a che fare con le
rappresentazioni del Dio dell’Occidente cristiano. E tuttavia nei Contributi non si fa che
parlare di Dio, anche se di un Dio diverso da quello tradizionalmente inteso. È un Dio che
scaturisce dal pensiero dell’essere. Quel Dio, di cui si crede che abbia creato l’essere dal nulla, è in
Heidegger esso stesso creato dal nulla. È il pensiero estatico a produrlo.
Nei Contributi possiamo osservare Heidegger calarsi in un’« altra condizione » per mezzo di un
delirio di concetti e di una litania di frasi. I Contributi sono un laboratorio per l’invenzione di un
nuovo discorso su Dio. Heidegger fa esperimenti con se stesso per riuscire a scoprire se sia
possibile fondare una religione senza una dottrina positiva.
All’inizio egli procede secondo il modello classico della fondazione di una religione: l’invenzione
di un nuovo Dio comincia con la messa in scena del crepuscolo degli idoli. I falsi dei devono farsi
da parte, al loro posto dev’essere fatta piazza pulita. A tal fine Heidegger ripete la sua critica del
pensiero moderno che ci è in parte già nota. Questa critica sfocia nella constatazione che anche Dio
è diventato un oggetto di cui dispongono l’intelletto o l’immaginazione. Poiché in epoca moderna
queste rappresentazioni di Dio si sono sbiadite, al loro posto sono subentrate rappresentazioni
sostitutive del sommo bene, come la « causa prima » e il senso della storia. Tutto questo deve
sparire, dato che appartiene al repertorio dell’ente; ma l’ente deve « crollare e rovesciarsi», prima
che l’essere (Seyn) possa mostrarsi.
Gli esercizi del pensiero dell’essere cominciano quindi con uno svuotamento. Questo è il modo in
cui anche Meister Eckhart e Jakob Böhme hanno voluto esperire il loro Dio: esso doveva riempire
della sua realtà il vuoto del cuore.
Qual è il Dio che si fa avanti nel pensiero svuotato di Heidegger? Heidegger solleva con cautela il
velo che copre il suo segreto. « Osiamo dunque la parola immediata », scrive, e poi, ancora:
«L’essere (Seyn) è il tremito del divinare».2
Parole. Può Heidegger concepire qualcosa con queste parole? Egli ci prova per diverse centinaia di
pagine. E' difficile che un Dio o un essere (scritto con o senza ipsilon) possano mostrarsi, se non gli
è concesso di presentarsi come un « qualcosa ». Con il dire « ciò che una cosa è » ha inizio, come è
noto, il pensiero che rappresenta, ma proprio questo modo di pensare deve essere precluso al
pensiero dell’essere. Nella religione ebraica dove si vietano le immagini, Dio è pur sempre qualcosa
che si riferisce a sé in prima persona: «Io sono colui che è ». Ma l’essere di Heidegger non è una
forma di io trascendente. Non è niente che stia di fronte all’esserci, bensì è qualcosa che si compie
in esso. Per evitare la rappresentazione di un Dio sostanziale, Heidegger parla del «divinare » nel
senso di un accadimento che ci fa « tremare ». Non si tratta quindi di Dio o degli dei, ma del
divinare. Quando il divino ci dispiega la sua essenza, non ci limitiamo a tremare, ma si genera un
intero repertorio di tonalità emotive: « sgomento », « ritegno », « mitezza », « giubilo », «timore ».
Da questo « macigno » di « tonalità emotive fondamentali » il « pensiero essenziale » attinge i suoi
pensieri e le sue proposizioni. « Se la tonalità emotiva fondamentale rimane esclusa, non resta che
uno strepito forzato di concetti e vuoti gusci fonetici. »3
Heidegger riempie pagine su pagine con le frasi del suo pensiero dell’essere, ma poiché queste
tonalità emotive fondamentali, come lo stesso Heidegger sottolinea, sono rare e momentanee,
accade troppo spesso che tali frasi non scaturiscano dalla tonalità emotiva, ma cerchino al contrario
di produrla. Questa è l’essenza della litania, con la quale Heidegger, cattolico apostata, aveva
familiarità. I Contributi sono il suo rosario. È a questo che dobbiamo quelle ripetizioni di formule,
quelle cantilene che risultano monotone solo a coloro il cui animo non ne viene toccato e «
trasformato ». Quello che conta è la forza di operare una trasformazione, e a tal fine anche alla
sequenza di nenie da organetto può spettare un ruolo importante. Che cosa sono infatti le frasi
cantilenanti se non frasi con le quali non si dice più nulla, e nelle quali perciò può effondersi il
silenzio? Ma la « tacitazione » è detta da Heidegger « la 'logica’ della filosofia », laddove
quest’ultima voglia accostarsi all’essere.4 Non desta quindi meraviglia che in una delle sue lezioni
su Nietzsche dichiari esplicitamente, sull’esempio di Zarathustra, che per coloro che non si sentono
coinvolti la « dottrina » deve diventare un « ritornello ».5 Questo è detto evidentemente dal suo
punto di vista.
Il « ritornello » come strumento di « tacitazione » eloquente.
Nelle considerazioni introduttive ai Contributi Heidegger scrive: «Qui non ci sono descrizioni né
spiegazioni; il dire non sta più di fronte a ciò che deve esser detto, ma è il dire stesso inteso come il
dispiegarsi dell’essenza dell’essere (Wesung des Seyns) ».6 In Heidegger l’essere (Seyn) parla come
aveva fatto in Hegel lo spirito del mondo. È una pretesa audace, che egli esprime in modo così
scoperto soltanto in queste annotazioni tenute segrete.
Ma come parla l’essere (Seyn)? Con la litania solenne del dire, con questo mormorio sulla « fuga
della verità dell’essere (Seyn) » e sul « tremito della sua essenza » e « la rilassata mitezza di una
intimità di quel divinare del Dio degli dei ».7 Tutto questo dadaismo metafisico, dal punto di vista
del suo contenuto semantico, è un niente. Ma ciò non significa che sia una cattiva indicazione su un
Dio che si sottrae e che il pensiero vuole pensare proprio nel suo « sottrarsi ». I Contributi di
Heidegger sono, nella misura in cui si rivolgono direttamente all’essere, espressione di un pensiero
che soffre di fenomeni di sottrazione. Del resto la scuola heideggeriana non ha più questo problema.
È di norma un filone esaurito.
Fintantoché Heidegger demolisce la tradizione filosofica, i suoi pensieri sono, anche nei Contributi,
precisi e avvincenti, e possono essere tali in quanto hanno a che fare con un oggetto che si lascia
afferrare. Ma il vuoto, che si crea e che si deve creare dopo questa distruzione, rimane vuoto.
L’evento di un nuovo riempimento non avviene.
Le cose non andrebbero poi male se Heidegger potesse ritirarsi nella fede. Invece egli vuole far
scaturire dal pensiero l’evento riempitivo. Non assume più la posizione della sua conferenza
marburghese su Fenomenologia e teologia del 1927. A quel tempo egli aveva operato, in perfetto
stile luterano, una netta distinzione fra pensiero e fede. La fede è l’evento indisponibile in cui Dio fa
irruzione nella vita. Il pensiero può soltanto determinare il punto in cui avviene questa irruzione.
Ma l’evento di Dio in quanto tale non è cosa del pensiero.
E tuttavia, nei suoi Contributi, Heidegger si è dedicato proprio all’ambizioso progetto di esperire la
presenza reale del divino a partire dal pensiero. Poiché però il divino non vuole assumere alcuna
figura chiara e univoca nel pensiero, Heidegger deve aiutarsi con questa espressione stringata: « La
vicinanza all’ultimo Dio è la tacitazione ».8 Egli richiama l’attenzione, al pari di Giovanni Battista,
su un Dio che viene e definisce se stesso come un « precursore ». L’attesa di Godot è cominciata già
nei Contributi di Heidegger.
Dell'evento, questo è il sottotitolo. In senso stretto si tratta di due eventi. L’evento della modernità,
epoca dell’immagine del mondo, della tecnica, dell’organizzazione, delle «macchinazioni», in
breve: «l’epoca della compiuta insensatezza». È il contesto fatale dell’oblio dell’essere, i cui
presupposti risalgono addirittura fino a Platone. Il secondo evento, cioè la fine della modernità, la
svolta, si prepara nel pensiero heideggeriano dell’essere. Il primo evento è qualcosa su cui
Heidegger parla, in quanto crede di essersi sottratto a esso, almeno in parte. L’altro evento è
qualcosa a partire da ad Heidegger parla; esso prepara una nuova epoca, ma per ora è l’evento di un
solitario, motivo per cui Heidegger tenta anche una sequenza di allitterazioni che comincia con
Ereignis (evento) e si conclude con Einsamkeit (solitudine): «Ereignis ha sempre il significato di
Ereignis come Er-eignung (appropriazione), Entscheidung (decisione), Ent-gegnung (in-contro),
Entsetzung (spiazzamento), Entzug (sottrazione), Einfachheit (semplicità), Einzigkeit (unicità),
Einsamkeit (solitudine)».9 Con il suo solitario pensiero dell’essere, Heidegger è uscito a caccia di
un Dio. « L’evento e la sua combinazione nell’abisso dello spazio-tempo sono la rete in cui l’ultimo
Dio appende (hängt) se stesso [o «imbriglia se stesso » (fängt), entrambe le letture sono possibili in
base al manoscritto; N.d.A.] per lacerarla e farla finire nella propria unicità, divino e unico, quanto
c’è di più estraneo in ogni ente. »10
Lo stesso Heidegger non si nascondeva la stranezza, anzi l’insensatezza, del suo discorso. Nei suoi
momenti migliori egli era persino in grado di assumere in proposito un atteggiamento ironico. Carl
Friedrich von Weizsäcker gli raccontò una volta la simpatica storiella degli ebrei dell’Est, che narra
di quell’uomo che siede sempre in osteria, e interrogato sul perché risponde: « Già, mia moglie! » -
« Tua moglie che cosa? » - « Lei parla e parla e parla e parla... » - « E di che cosa parla?» - «Questo
non Io dice! » Quando Heidegger sentì questa storia, disse: « Così stanno le cose »."
Così stanno le cose per quanto concerne i Contributi. Nel loro complesso sono articolati
rigorosamente, anche se nel dettaglio contengono certe cose aforistiche e frammentarie. Al posto di
« articolare » Heidegger dice « connettere » (fü-« fuga » (Fuge). Una fuga con due voci principali,
cioè i due « eventi », che suonano insieme e in controcanto, e infine si spengono nell’unisono del
diradare dell’essere. La sequenza delle sezioni ha il compito di demarcare, nel suo complesso, il
cammino di un avvicinamento. La parte intitolata « Sguardo preliminare» (Vorblick) dà già
un’occhiata complessiva all’intero cammino attraverso il fitto del bosco e fino alla radura.
«L’assonanza» (Der Anklang) esamina l’essere nello stadio dell’oblio dell’essere, quello cioè del
presente. «Il gioco di rinvio » (Das Zuspiel) racconta la storia di come nella metafisica occidentale
ci siano sempre state assonanze e presagi dell’essere. « Lo stacco » (Der Sprung) contiene
considerazioni su quali ovvietà e consuetudini di pensiero sia necessario togliere di mezzo prima
che si possa compiere il passo decisivo, che appunto non è un passo, ma un salto pericoloso, uno
stacco. Nella « fondazione » (Die Gründung) Heidegger si occupa prevalentemente della sua analisi
dell'esserci, presente in Essere e tempo, una autointerpretazione che ascrive quest’opera al momento
in cui lo stacco è stato compiuto e in cui si cerca di consolidare la posizione raggiunta. Nelle sezioni
intitolate « I venturi » (Die Zu-künftigen) e « L’ultimo Dio » (Der letzte Gott) avviene una sorta di
ascensione al cielo. Nell’ultima sezione, «L’essere» (Das Seyn), si guarda ancora una volta dall’alto
tutto l’insieme, per vedere quanto lontani ci si sia spinti e quanto in alto si sia saliti. « Su quali vette
dobbiamo salire per poter gettare uno sguardo sull’uomo nella sua miseria essenziale? »12 Per
Heidegger è diventato chiaro nel frattempo che il nazionalsocialismo non è stato capace di cambiare
nulla in questa « miseria essenziale ». Al contrario: esso fa parte delle « macchinazioni » e della
mobilitazione totale del mondo moderno. Ciò che esso offre in più è « il più piatto
’sentimentalismo’ » ed « ebbrezza di esperienze ».13 Ma questa critica si riferisce all’epoca nel suo
complesso. Anche le tendenze spirituali e morali, che si oppongono al nazionalsocialismo, vengono
respinte dalla prospettiva del pensiero dell’essere. L’intero è il non-vero. Che le diverse ideologie
puntino sull’io, sul noi, sul proletariato, sul popolo, tanto che esse vogliano conservare come valore
l’umanesimo illuminato o il cristianesimo della tradizione, e che si spaccino per nazionaliste,
internazionaliste, rivoluzionarie o conservatrici, tutte queste differenze non contano niente, perché
si tratta sempre e solo di questo, che « il ’subiectum’ (l’uomo) » si pone «come centro dell’ente».14
Questa «autolegislazione dell'uomo » è detta da Heidegger « liberalismo », e quindi il biologismo
del popolo e il razzismo possono essere chiamati anche « liberalismo biologico ». In questa notte
del pensiero dell’essere si può dire che, dal punto di vista politico, tutti i gatti sono grigi. La radura
c’è soltanto intorno a Heidegger. Heidegger contro il resto del mondo - così egli si vede nel solitario
colloquio dei Contributi.
Una cosa che balza agli occhi è che Heidegger non si limita a fare filosofia «a partire» dall’evento
del pensiero dell’essere, ma anzi, e ciò accade forse ancora più spesso, fa filosofia « su se stesso »
come su un fatto che appartiene alla storia dell’essere. Egli vede se stesso come attore sopra un
palcoscenico immaginario, nel ruolo del « cercatore, custode e guardiano »,15 annoverando se
stesso nella cerchia di coloro «che recano il sommo coraggio della solitudine, per pensare la nobiltà
dell’essere (Seyn) ».16
Egli si abbandona a fantasie su come il pensiero dell’essere potrebbe un po’ alla volta permeare il
corpo sociale attraverso l’istituzione di una federazione. La cerchia più intima è costituita da « quei
pochi singoli » che « istituiscono anticipatamente i luoghi e i momenti per gli ambiti dell’ente ». La
cerchia più allargata è formata da « quei molti federati » che si lasciano afferrare dal carisma della
grande « figura singolare» e che si mettono al servizio della «trasformazione dell’ente ». E poi ci
sono « quei molti, riferiti gli uni agli altri »che, uniti dalla comune origine storica, si lasciano
inserire deliberatamente nel nuovo ordine delle cose. Questa «trasformazione» deve avvenire in
perfetto silenzio, al di fuori del « rumore delle rivoluzioni ’cosmico-storiche’ », che per Heidegger
non sono tali.17 Heidegger si immagina una storia «autentica» che agisce di nascosto e di cui egli è
insieme testimone e autore.
Sarebbe inutile cercare nei Contributi una visione concreta del nuovo ordine. Heidegger ripiega
sulla metafora. « Le grandi filosofie » che offrono al popolo una dimora spirituale sono come «
monti svettanti. Esse offrono al Paese il suo punto più alto e indicano la sua roccia originaria. Si
ergono come punto di orientamento e indicano di volta in volta un orizzonte. »18
Quando Heidegger sogna, con la propria filosofia, di «stare come una montagna fra le montagne »,
quando vuole «dare consistenza a qualcosa di essenziale », affinché il popolo della pianura abbia
una possibilità di orientarsi verso «ciò che svetta » in filosofia, in questo appare che anche dopo
l’ubriacatura politica la filosofia di Heidegger è inficiata da idee di potere. A questo sono dovute le
immagini della « pietrificazione ». Lo Heidegger degli anni ’20 aveva preferito una metafora
completamente diversa. A quel tempo egli voleva « fluidificare » le costruzioni di pensiero
pietrificate. Adesso egli le fa svettare in alto e anche la sua filosofia viene mandata sulla « montagna
dell’essere (Seyn) ».
Ciò contraddice in realtà l’idea di filosofia che Heidegger aveva maturato prima del 1933. A quel
tempo gli stava a cuore la motilità, libera ma in sé finita, di un pensiero che procede dal fatto
dell’essere-nel-mondo, al fine di rischiarare per un istante Tesserci e tornare a scomparire con esso.
Il pensiero come evento è tanto contingente quanto Tesserci stesso. Ma la metafora della montagna
rinvia senza ombra di dubbio al fatto che Heidegger vuole inscriversi ora con la sua filosofia
all’interno di un mondo duraturo. Vale a dire che egli vuole prender parte a qualcosa che vada al di
là della sua esistenza contingente e della situazione storica. Questa passione per ciò che sovrasta
contraddice la sua filosofia della finitezza. Il processo del diradare diventa un evento epifanico in
cui entra in gioco una sfera che in precedenza era detta dell’« eterno » o del « trascendente ». Il
filosofo che si ossessiona nella sua solitudine e che giorno dopo giorno scrive nel suo quaderno, non
vuole restare solo con i suoi pensieri. Egli cerca collegamenti, non più, certo, con un movimento
politico, ma in compenso con lo spirito inquietante di una storia dell’essere o di un destino
dell’essere. Nell’arena immaginaria dell’essere accadono cose grandi e durature, ed egli vi si trova
in mezzo.
Dunque, mentre Heidegger esplora in lungo e in largo e rispecchia se stesso in questa esplorazione,
non rimane più niente della sua attenzione filosofica nei confronti dei suoi rapporti personali di vita
e per la sua azione effettiva durante gli ultimi anni. Egli non si sottopone più all’esame di se stesso,
un tempo considerato una disciplina filosofica di grande reputazione, e comunque non lo fa nei
Contributi. Riflette sulla grandiosa mostruosità dell’« oblio dell’essere », ma può prescindere dalla
propria situazione contingente, senza nemmeno accorgersene. Rimane per se stesso un punto cieco.
Con la domanda sull’essere vuole portare luce nei rapporti del mondo, ma il suo rapporto con se
stesso rimane oscuro.
Heidegger ha sempre evitato di incalzare il proprio esserci con la domanda sull’essere. È vero che
nella lettera a Jaspers del 1° luglio 1935 confessò a Jaspers di avere «due spine» conficcate nella
carne che lo tormentavano, « il confronto con la fede delle origini e il fallimento del rettorato », ma
i Contributi mostrano quanto egli sia bravo a sfuggire a se stesso nelle vesti di attore principale di
un dramma sulla storia dell’essere. Habermas ha definito questo procedimento come «astrazione per
via di essenzializzazione », e ha colto nel segno. La perdita della fede delle origini viene nobilitata
come destino epocale e il fallimento del rettorato come onorevole sconfitta nella lotta contro la
frenesia del mondo moderno.
L’esame morale di se stesso: forse che il pensatore, sul palcoscenico della storia dell’essere, lo
ritiene qualcosa di non consono al suo livello? Forse anche questa è ancora un’eredità della sua
origine cattolica, cui rimane estraneo quel rimorso della coscienza proprio del mondo protestante.
Per potersi attenere al concetto della totalità e alla « questione» del suo pensiero, egli li separa in
ogni caso dall’aspetto puramente personale. Perciò egli può stare a guardare con singolare
indifferenza come il movimento, per il quale si era entusiasmato, conduca anche nel suo ambiente a
conseguenze sciagurate, per lui assolutamente intollerabili: basti ricordare i destini di Hannah
Arendt, di Elisabeth Blochmann o di Edmund Husserl.
Dopo il 1945, nel loro epistolario, Hannah Arendt e Karl Jaspers si trovarono d’accordo nel dire che
Heidegger era evidentemente un uomo la cui sensibilità morale non era all’altezza della passione
del suo pensiero. Jaspers scrive: « È possibile, a un’anima impura - cioè a un’anima che non avverte
la propria impurità e non compie costanti sforzi per liberarsene, ma continua a vivere distrattamente
nel sudiciume - è possibile a quest’anima, nella sua insincerità, vedere quanto c’è di più puro? [...]
Lo strano è che egli possiede la nozione di qualcosa di cui oggi gli uomini si accorgono a
malapena» (1° settembre 1949).19
Hannah Arendt risponde: « Ciò che Lei chiama impurità io lo chiamerei mancanza di carattere, ma
nel senso che egli non ha, letteralmente parlando, alcun carattere definito, neppure uno
particolarmente cattivo. In tale condizione, egli vive tuttavia con una profondità e una passionalità
che non è facile dimenticare» (29 settembre 1949).20
Però la mancanza di una riflessione morale non è solo questione di carattere, ma anche un problema
filosofico. Quello che manca qui al pensiero è quella accortezza che metta effettivamente in pratica
quella « finitezza » spesso evocata da Heidegger. Essa contempla infatti la possibilità di essere
colpevoli e l’assunzione di questa colpa contingente come sfida per il pensiero. Dunque, nei
Contributi non c’è posto per una disciplina filosofica di antico lignaggio come la meditazione su di
sé e l’esame di sé. In tal modo però viene perso di vista un ideale di « esistenza autentica »: la
trasparenza dell’esser-ci a se medesimo. Il famoso silenzio di Heidegger è anche una tacitazione
interiore, quasi un blocco di fronte a se stessi. Anche questo è un contributo all’oblio dell’essere.
La potenza del pensiero di Heidegger lo sopravanza in un duplice senso: da un lato questo pensiero
prescinde dalla persona del tutto comune del pensatore, e dall’altro esercita una sopraffazione su di
lui.
Come ricorda Georg Picht, Heidegger era pienamente « consapevole che il compito del pensiero gli
era stato per così dire imposto ». A volte si era sentito persino « minacciato da ciò che egli stesso
aveva da pensare ».2I Un altro testimone dell’epoca, Hans A. Fischer-Barnicol, che conobbe
Heidegger dopo la guerra, scrive: « Mi sembrava che il pensiero si impossessasse di quest’uomo
anziano come di un medium. Parlava attraverso di lui ».22 Hermann Heidegger, suo figlio, conferma
questa impressione. Suo padre, racconta, gli avrebbe detto più di una volta: « Il pensiero pensa in
me. Non posso oppormi a ciò ».
Analoghe espressioni furono usate da Heidegger nelle sue lettere a Elisabeth Blochmann. Il 12
aprile 1938 egli le descrive la sua « solitudine ». Non se ne lamenta, ma la considera come la
conseguenza estrema della sua condizione di essere stato segnato, e perciò anche designato, dal «
destino del pensiero ». « La solitudine non sorge e consiste certo nella lontananza di ciò che ci
appartiene, bensì nella venuta di una diversa verità, nell’assalto della pienezza di ciò che provoca
solo stupore (Nur-Befremdlichen) e di ciò che è unico.»23
Egli scrive queste parole in un’epoca in cui sta annotando nei Contributi frasi come questa: «
L’essere (Seyn) è lo stato di bisogno di Dio, nel quale soltanto egli si trova. Ma perché Dio? Donde
lo stato di bisogno? Perché l’abisso è nascosto? Perché è un superamento, e perciò coloro che sono
superati sono ugualmente i più alti. Donde il superamento, l’abisso, il fondo, l’essere? In che cosa
consiste la divinità degli dei? Perché l’essere (Seyn)? L’essere perché gli dei? Perché gli dei? Gli dei
perché l’essere (Seyn)? »24
Egli si aiuta a superare il tratto straniarne delle sue proposizioni avvicinandosi, come fa
sull’esempio di Nietzsche, all’ignorata straneità dei grandi pensatori. « Soprattutto imparo ora a
esperire la vera prossimità di tutti i grandi pensatori solo in ciò che ce li rende più straniati. Questo
aiuta a vedere anche in se stessi ciò che rende stranianti e a valorizzarlo, perché esso è
evidentemente l’origine di ciò che riesce essenziale, quando riesce » (a Elisabeth Blochmann, 14
aprile 1937).25
In un’altra lettera a Elisabeth Blochmann, Heidegger descrive l’andirivieni fra l’attività ufficiale di
insegnamento, dove deve fare concessioni alla comprensibilità e perciò si finisce «fuori binario », e
il « ritorno entusiasta nel « Proprio (Eigene)» e nell’«Originario (Eigentliche)» (20 dicembre
1937).26 I Contributi appartengono per lui sicuramente all’ambito più intimo di questo « Originario
». Ma non si tratta, come si è intanto capito, di un incontro di pensiero con se stesso, bensì di una
cosa completamente diversa: un pensiero dell’essere nel senso del genitivo soggettivo. Non è
l’essere a essere pensato, bensì è l’essere a impossessarsi di chi pensa e a pensare per suo tramite.
Esistenza mediale.
Heidegger si tormenta, ma in gioco c’è anche la gioia. Risulta evidente che nei Contributi si parla di
« gioia » più spesso che in altri scritti di Heidegger. Anche nella « gioia » l’essere ci si fa incontro.
Angoscia, noia e gioia diventano nei Contributi la sacra trinità dell’esperienza dell’essere.
Nella « gioia » Tesserci diventa quel cielo in cui le cose pervengono quando appaiono nel loro
sorprendente « che ».
Per poter conservare questo «luogo aperto» dell’esserci, il pensiero deve ritirarsi e prestare
attenzione al fatto che questa apertura non viene prodotta con rappresentazioni di ogni tipo. Il
pensiero deve dare pace e farsi « silente ». Ma dal paradosso della tacitazione eloquente Heidegger
non riesce a venir fuori. E, oltre a questo, c’è anche la tradizione dei grandi pensatori. C’è un’intera
montagna che si innalza nella radura. Non bisognerebbe cominciare con l’appianarla? Nel compiere
questa operazione egli si rende conto che qui c’è ad attenderlo una montagna di tesori nascosti.
Questo è il suo destino con tutti i « grandi ». Dopo due decenni di intenso studio di Platone, alla fine
degli anni ’30 Heidegger dice a Georg Picht: « Devo confermarLe una cosa: la struttura del pensiero
platonico mi risulta totalmente oscura ».27
In una lettera a Elisabeth Blochmann del 27 giugno 1936 egli descrive il suo dilemma: « Sembra
che la lotta per la preservazione della tradizione ci consumi; produrre qualcosa di proprio e
preservare ciò che è grande - tutte e due le cose assieme vanno oltre le umane forze. E tuttavia quel
preservare non è forse abbastanza, se non proviene da una nuova appropriazione. Non c’è alcuna
via d’uscita da questo circolo, e da questo deriva il fatto che il proprio lavoro appaia ora importante,
ora nuovamente del tutto indifferente e abborracciato ».28
Nelle lettere a Jaspers egli fa riemergere la sensazione di svolgere un lavoro abborracciato. Così
anche il 16 maggio
1936, nell’ultima lettera prima che il loro rapporto si interrompa per un decennio. Nei confronti
della grande filosofia, egli scrive, « il proprio dibattersi diventa davvero indifferente, e serve solo
come rimedio d’urgenza».29
Nelle lettere a Elisabeth Blochmann, e soprattutto nei Contributi, Heidegger annuncia l’altro stato
d’animo: quel sentimento a volte persino euforico di grande riuscita e di alto significato della sua
opera. Qui egli crede di sapere che in lui è avvenuto « l’arrivo di un’altra verità ».
19. Heidegger sotto osservazione. Il congresso parigino di filosofia del 1937. Heidegger prova
risentimento. Idee per un’ intesa franco-tedesca. Heidegger e la guerra. « Il pianeta è in fiamme. »
Il pensiero e il tedesco.
«Lo straordinario incalzare dei fatti esteriori va scemando», scrive Heidegger il 14 aprile 1937 a
Elisabeth Blochmann.1
I fatti esteriori sono questi: a Gottinga la cattedra di Georg Misch, genero di Dilthey messo in
pensione d’ufficio, deve essere nuovamente assegnata. Nel luglio del 1935 la facoltà di filosofia
mette Martin Heidegger al primo posto nella lista dei possibili candidati. Con lui, si dice nel verbale
sottoscritto dal decano, « avremmo in tal modo il privilegio di accogliere, a un tempo, una delle
figure eminenti dell’odierna filosofia tedesca [...] e un pensatore disposto a lavorare nella linea della
concezione nazionalsocialista del mondo ».2
Nel frattempo al ministero si era saputo che Heidegger appoggiava ancora il nazionalsocialismo
nelle questioni politiche importanti (politica estera, economia, servizio del lavoro, principio del
Führer), ma che non sosteneva più in alcun modo la visione del mondo del nazionalsocialismo.
Pertanto il ministero comunicò alla facoltà l’intenzione di nominare, come successore di Misch, il
professor Heyse di Königsberg. La facoltà si affrettò quindi a modificare a favore di Heyse la
precedente proposta di graduatoria. Heidegger, che non aveva alcun interesse a trasferirsi a
Gottinga, si era tuttavia risentito di questo declassamento. Sul piano filosofico Heyse era un
epigono di Heidegger. Ecco le sue parole: « Ma in tal modo tornano a fare irruzione nella filosofia e
nella scienza le domande primordiali dell'esistere. Queste scaturiscono dal fatto che Tesserci umano
è attratto nell’orbita delle potenze primordiali dell’essere ».3 Al tempo stesso Heyse è un
nazionalsocialista risoluto e abile sul piano politico-organizzativo. Era il presidente, imposto
dall’alto, della Kant-Gesellschaft, l’associazione filosofica più grande del mondo e che godeva di
ampio prestigio internazionale. Nel 1937 Heyse sarà anche a capo della delegazione tedesca al
congresso di filosofia tenutosi a Parigi. Su ciò torneremo a parlare in seguito.
Il declassamento subito a Gottinga rafforzò in Heidegger la sensazione di non essere più benvoluto
negli ambienti politici importanti. Ma egli godeva pur sempre (e questo fino alla fine) di intercessori
nell’apparato politico di potere: non sarebbe altrimenti possibile spiegare il fatto che il ministero di
Berlino volesse in quello stesso anno nominarlo decano della facoltà di filosofia a Friburgo. Ciò non
avvenne a causa dell’opposizione dell’allora rettore in carica a Friburgo: « Durante il suo mandato
di rettore il professor Heidegger ha perso la fiducia dei suoi colleghi di Friburgo. Anche la
sovrintendenza del Baden ha avuto con lui dei problemi ».4
Le istituzioni statali volevano sfruttare il prestigio internazionale di Heidegger, anche se crescevano
le riserve nei confronti della sua filosofia. Nell’ottobre del 1935 egli fu chiamato a far parte di una
commissione che doveva preparare una nuova edizione delle opere di Nietzsche. Heidegger
ricevette inviti per conferenze all’estero, e non gli fu impedito di accettarli. All’inizio del 1936 parlò
a Zurigo, e nello stesso anno a Roma; all’inizio degli anni ’40 doveva tenere conferenze in Spagna,
Portogallo e Italia. Egli aveva dichiarato la propria disponibilità e anche già annunciato gli
argomenti, ma aveva procrastinato così a lungo le date, che alla fine, nella fase conclusiva della
guerra, esse dovettero essere annullate.
All’inizio del 1936 Heidegger accolse l’invito a Roma da parte dell’istituto italiano di studi
germanici. Erano previste inizialmente più conferenze a Roma, Padova e Milano. Ma Heidegger si
limitò a Roma, dove rimase per dieci giorni e parlò, di fronte a un vasto pubblico, sul tema
Hölderlin e l’essenza della poesia (Hölderlin und das Wesen der Dichtung). In questa occasione
incontrò Karl Lowith che, pur essendo un emigrante, era stato anch’egli invitato da parte italiana a
tenere una conferenza. Nella sua autobiografia Lowith descrive questo incontro con il suo maestro
di un tempo. Dopo la sua conferenza, Heidegger accompagnò i Lowith alla loro piccola abitazione,
mostrandosi « visibilmente colpito dalla povertà dell’arredamento».5 Il giorno successivo partirono
insieme per una gita a Frascati e Tuscolo. Una giornata splendida, ma piena di intralci. Sembra che
soprattutto Elfride trovasse « penoso » Tessere insieme. Heidegger portava il distintivo del partito. «
Evidentemente non gli era neanche passato per la testa che la croce uncinata era fuori luogo se
trascorreva la giornata con me.»6 Heidegger si comportava amichevolmente, ma evitò qualsiasi
riferimento alla situazione tedesca. Lowith invece, che era stato indotto a espatriare proprio da
questa situazione, ne parlò. Condusse il discorso sul dibattito apertosi sui giornali svizzeri solo
poche settimane prima, in occasione della conferenza di Heidegger a Zurigo.
Heinrich Barth, fratello del grande teologo, aveva introdotto il suo resoconto sulla conferenza
sull'Opera d'arte del 20 gennaio 1936, redatto per la Neue Zürcher Zeitung, con queste parole: «
Dobbiamo evidentemente considerare un onore il fatto che Heidegger prenda la parola in uno Stato
democratico, visto che è ritenuto, almeno da qualche tempo, uno dei portavoce filosofici della
nuova Germania. Ma rimane impresso nella memoria di molti il fatto che Heidegger abbia dedicato
nel 1927 Essere e tempo ’con ammirazione e amicizia’ all’ebreo Husserl, e che nel 1929 abbia
legato per sempre la sua interpretazione di Kant al pensiero di Max Scheler, per metà ebreo. Gli
uomini di regola non sono eroi, neppure i filosofi, benché esistano alcune eccezioni. Non si può
quindi chiedere a qualcuno di nuotare controcorrente; soltanto un certo obbligo verso il proprio
passato rialza il credito della filosofia, che non è soltanto sapere, ma che un tempo era saggezza ».7
Emil Staiger, a quel tempo ancora libero docente, aveva reagito con indignazione: poiché
evidentemente Barth non aveva nulla da spartire con Heidegger, egli avrebbe spiccato un «mandato
di cattura politico » per stigmatizzare la sua filosofia. Ma Heidegger sta « accanto a Hegel, accanto
a Kant, ad Aristotele ed Eraclito. E quando ciò sarà riconosciuto, si deplorerà maggiormente che
Heidegger si comprometta con il presente; è sempre tragico quando si confondono gli ambiti.
Eppure questo venir meno della fiducia non toglie nulla all’ammirazione, così come non può venir
meno il profondo rispetto per la Fenomenologia dello spirito per il fatto che Hegel era un
reazionario prussiano ».8 A ciò risponde ancora una volta Barth, dicendo che non si deve « separare
con un baratro l’aspetto filosofico e quello umano, il pensiero e Tessere ».9
Nella conversazione con Heidegger Lowith spiega di non poter concordare né con l’attacco politico
di Barth, né con la difesa di Staiger; la sua opinione è cioè « che la presa di posizione di Heidegger
a favore del nazionalsocialismo fosse insita nell’essenza della sua filosofia». Heidegger concordò «
senza riserve » e disse « che il suo concetto di 'storicità’ era alla base del suo ’impegno politico’ ».
La « storicità », nel senso in cui la intende Heidegger, dischiude di volta in volta un orizzonte
limitato di possibilità di azione, entro cui si muove anche la filosofia, se vuole diventare « padrona
del proprio tempo ». Come sappiamo, la rivoluzione del 1933 era apparsa a Heidegger come
un’opportunità di uscire dal contesto fatale delle «macchinazioni» del mondo moderno. E anche se
nel frattempo aveva iniziato a vedere le cose diversamente, egli insiste nel dire, di fronte a Lowith,
che l’opportunità di un nuovo inizio non era ancora definitivamente persa; « si trattava solo di ’tener
duro’ il tempo necessario ».10 E tuttavia egli ammette una certa delusione rispetto all’evoluzione
degli eventi politici, ma subito attribuisce agli « uomini di cultura », con il loro atteggiamento
titubante, la colpa del fatto che la rivoluzione non abbia mantenuto ciò che prometteva. « Se questi
signori non si fossero sentiti troppo raffinati per impegnarsi, le cose sarebbero andate diversamente,
ma io ero completamente solo.»11
Hitler continuava ad affascinarlo. Al pari di molti altri lo giustificava per tutte le cose negative,
dicendo « se il Führer soltanto sapesse! » Karl Lowith era deluso, ma la reazione di Heidegger gli
sembrava tipica: « non c’è cosa più facile per i tedeschi che essere radicali sull’idea e indifferenti
sul dato di fatto. Sono capaci di ignorare tutti i singoli dati di fatto per poter insistere tanto più
decisamente sul loro concetto dell'intero e scindere la ’cosa’ dalla ’persona’ ».12
Ma il « concetto dell’intero » che aveva Heidegger si era ulteriormente allontanato con la
progressiva presa di distanze dalla politica quotidiana, dalla storia concreta. Lo si può notare nella
sua conferenza, che presenta uno Hölderlin « gettato fuori » fra i « cenni degli dei » e la « voce del
popolo» -« fuori in quel frammezzo (Zwischen), frammezzo agli dei e agli uomini ».13 È la « notte
degli dei »; essi sono fuggiti e non sono ancora ritornati. È un « tempo di privazione » e bisogna,
come dice Heidegger chiudendo la sua conferenza, persistere con Hölderlin nel « niente di questa
notte », perché
Un ricettacolo fragile non sempre può contenerli
e per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina.
La vita, dopo, è sogno di loro.14
La lettera a Karl Jaspers dopo il soggiorno romano comunica qualcosa dell’atmosfera di quei giorni,
e soprattutto sul modo in cui Heidegger si senta vicino a Hölderlin come a un «poeta nel tempo
della povertà»: «In realtà possiamo ammettere che sia una condizione meravigliosa quella per cui la
'filosofia’ è screditata. Bisogna infatti combattere per essa senza dare nell’occhio » (16 maggio
1936).15
Che Heidegger non riscuotesse più molto credito presso i potenti, potè riscontrarlo egli stesso nelle
reazioni tedesche alla sua conferenza su Hölderlin, che il pubblico romano aveva ascoltato con
devozione. Nella rivista Wille und Macht della Gioventù hitleriana un certo dottor Könitzer osserva
che i giovani conoscono Hölderlin « nella sua peculiarità meglio [...] del professor Heidegger».16
Per essere uno che parteggia per la « notte degli dei » di Hölderlin, Heidegger reagisce in modo che
risulta evidentemente tutt’altro che pacato: «L’asserzione di quel tal critico di Wille und Macht
secondo cui il mio articolo su Hölderlin sarebbe profondamente estraneo alla gioventù, dimostra
soltanto che non ci si può attendere molto da questo tipo di 'tedeschi’. Un ex ss Führer, che conosce
bene la società di Marburgo, m’informa, inoltre, che il dottor K. si segnalava, ancora nell’estate del
’33, come socialdemocratico, mentre adesso è un pezzo grosso del Völkischer Beobachter ».17
Meno innocua di questa critica ricevuta su una rivista della Gioventù hitleriana fu un’altra vicenda
che iniziò dopo il soggiorno romano di Heidegger. Il 14 maggio 1936 ci fu una richiesta dell'uffìcio
Rosenberg alla federazione dei docenti nazionalsocialisti con sede a Monaco, intesa ad accertare
«come fosse valutata la personalità del professor dottor Martin Heidegger ».18
Hugo Ott ha condotto indagini sui retroscena di questa vicenda. Ne risulta che nell’ufficio
Rosenberg era cresciuta la diffidenza nei confronti di Heidegger; le relazioni di Jaensch e di Krieck
avevano avuto il loro effetto. Fece scalpore anche la voce che Heidegger tenesse regolarmente
conferenze presso il monastero di Beuron. Si sospettava che Heidegger facesse attività sovversiva in
accordo con i gesuiti. Perciò nella lettera dell’ufficio alla federazione dei docenti si dice: «La sua
filosofia [di Heidegger] è fortemente legata alla Scolastica, ed è perciò singolare che Heidegger
possa sporadicamente esercitare un influsso non irrilevante sui nazionalsocialisti ».19
Questa accusa di clericalismo occulto fu sollevata proprio in un momento in cui Heidegger aveva
reso ufficiale e ribadito nelle relazioni svolte in occasione di diversi procedimenti di dottorato e di
abilitazione (come nel caso di Max Müller) la sua convinzione che una filosofia « cristiana » fosse
in ultima istanza un « ferro ligneo e un fraintendimento ».
Comunque stiano le cose, le informazioni fomite su Heidegger da parte della federazione dei
docenti devono essere state tali da indurre l’ufficio Rosenberg a trasmettere il dossier in data 29
maggio 1936 all’ufficio generale di sicurezza del Reich, sezione scientifica. In seguito a ciò venne
ordinata la sorveglianza di Heidegger da parte del servizio di sicurezza statale. In Fatti e pensieri
Heidegger racconta che nel semestre estivo 1937 fece la sua comparsa al suo seminario un certo
dottor Hanke di Berlino, il quale prese a collaborare rivelandosi « molto dotato e interessato », e
dopo qualche tempo gli chiese un colloquio personale. In quella occasione, dice Heidegger, « mi
confessò di non poter continuare a nascondermi di lavorare per il dottor Scheel, che allora era alla
guida del partito nel sud-ovest della Germania ».20
Se si ritiene che Heidegger fosse stato al corrente della sorveglianza quando espresse nelle lezioni
su Nietzsche la sua critica contro il biologismo e il razzismo, in questo caso bisognerebbe
riconoscergli di aver avuto del coraggio personale. Anche gli uditori di quelle lezioni ebbero allora
questa sensazione, e furono quindi a maggior ragione sorpresi nel vedere che Heidegger manteneva
più esplicitamente di altri professori il saluto hitleriano.
Alcuni organi importanti del partito avrebbero cercato, a partire dalla metà degli anni ’30, di
ostacolare e «mettere fuori gioco » il suo lavoro filosofico, come scrive Heidegger in Fatti e
pensieri. Ad esempio alcuni organi di governo avrebbero operato per farlo escludere dalla
partecipazione al congresso internazionale su Cartesio, tenutosi a Parigi nel 1937. La direzione
francese del congresso era intervenuta, e soltanto per questo egli era stato invitato all'ultimissimo
momento a far parte della delegazione tedesca. « Il tutto in una forma che mi rendeva impossibile
andare a Parigi con la delegazione tedesca. »21
Ma Victor Farias ha trovato alcuni documenti presso il Berliner Document Center e nell’Archivio di
Potsdam, dai quali risulta che Heidegger fu a Parigi già nell’estate del 1935 per preparare la
partecipazione tedesca al convegno. Heidegger aveva attribuito grande importanza a questa
manifestazione, e tuttavia Cartesio era per lui il padre fondatore di una filosofia moderna contro la
quale era rivolta la sua stessa filosofia. Il congresso di Parigi doveva attirarlo come un’arena nella
quale dovevano confrontarsi grandi forze. A questa sfida egli voleva sottoporsi con grande piacere.
Scopo di Heidegger era di maturare quelle idee che poco tempo dopo, il 9 giugno 1938, espose a
Friburgo nella conferenza La fondazione dell’ immagine moderna del mondo mediante la metafisica
(e, come già ricordato, pubblicata con il titolo: L’epoca dell'immagine del mondo).
Dunque, Heidegger voleva andare a Parigi e attese soltanto, in un primo tempo invano, di esservi
mandato ufficialmente da parte tedesca. L’invito tedesco arrivò tardi, troppo tardi per Heidegger.
Farias ha trovato una lettera che Heidegger scrisse al rettore di Friburgo il 14 luglio 1937 e nella
quale spiegava per quale motivo non era più disposto a far parte a breve scadenza della delegazione
tedesca: « Dell’invito personale che, un anno e mezzo fa, mi fu rivolto dal presidente del congresso
detti notizia a suo tempo al ministero nazionale dell’Educazione. In quell’occasione feci presente
che questo congresso, ideato contemporaneamente come celebrazione del giubileo di Cartesio, si
configurava intenzionalmente come un attacco portato avanti dalla concezione dominante, liberal-
democratica della scienza, e che perciò sarebbe stato opportuno costituire una delegazione tedesca,
adeguata ed efficace. Non avendo ottenuto alcuna risposta, [...] non ha alcuna importanza il
desiderio della direzione francese del congresso. L’unica cosa che conta è l'originaria volontà delle
autorità tedesche circa la mia partecipazione o meno alla delegazione tedesca ».22 È evidente che
Heidegger si sentiva offeso per il fatto che le autorità tedesche non avessero preso subito contatto
con lui per preparare strategicamente il congresso e per la composizione di una delegazione.
Probabilmente egli contava di essere mandato a Parigi come capodelegazione. Ma le autorità di
governo e di partito affidarono a metà del 1936 a Heyse il compito di guidare la delegazione, e
quest’ultimo, in una memoria dell’agosto dello stesso anno, descrisse con queste parole gli intenti
del congresso: evidentemente il razionalismo cartesiano doveva essere identificato con il concetto
della filosofia in quanto tale. In tal modo era stata esclusa « l’odierna volontà filosofica tedesca », la
quale era stata additata come « negazione delle grandi tradizioni europee, come espressione di un
particolarismo naturalistico, e come rinuncia ai valori spirituali »,23 « Isolamento spirituale » della
Germania e « guida spirituale » della Francia: questo era lo scopo strategico della manifestazione. A
ciò bisognava contrapporre qualcosa di molto efficace. La delegazione doveva non solo essere in
grado « di rappresentare e di far valere chiaramente la volontà spirituale nazionalsocialista dei
tedeschi »; non c’era bisogno soltanto di una difesa forte, ma era necessario anche poter passare
all’attacco. Si trattava, scriveva Heyse, « di tentare un’offensiva spirituale tedesca in ambito
europeo». Purtroppo però c’erano davvero pochi filosofi nella nuova Germania che potessero
affrontare la lotta per dare alla filosofia tedesca il «rango dell'internazionalità ».24 Sulla lista
proposta da Heyse c’erano, fra gli altri: Heidegger, Carl Schmitt, Alfred Baeumler.
Le proposte vengono accettate e nella primavera del 1937 Heyse si rivolge a Heidegger, che ora
rifiuta la propria partecipazione. In tal modo gli vengono risparmiate alcune circostanze penose.
Infatti la delegazione era stata composta non solo secondo criteri ideologici, ma anche in base ad
aspetti razziali. Husserl, al quale la direzione del congresso aveva affidato una delle relazioni
principali, non potè accettare l’invito perché « non ariano ». Le autorità tedesche supponevano
giustamente che una partecipazione di Husserl avrebbe relegato « completamente in secondo piano
la delegazione ufficiale »; si temevano « straordinarie ovazioni » per Husserl: una dimostrazione
contro la delegazione tedesca.
La delegazione fece un ingresso marziale a Parigi; alcuni professori portavano l’uniforme del
partito. Un giornale francese si meravigliò che, rispetto ai precedenti congressi internazionali di
filosofia, da parte tedesca non venissero presentati, come sembrava, degli « individui », bensì
rappresentanti di uno spirito collettivo. Che dal Paese dei poeti e dei pensatori anche la filosofia
avanzasse a ranghi serrati, fu sentito in una certa misura come una cosa preoccupante.
Heidegger dunque rimase a casa, dove lavorò al proprio contributo per l’intesa franco-tedesca. Vie
per il confronto (Wege zur Aussprache), questo il titolo che egli diede al proprio contributo per il
volume Terra alemanna. Libro di popolo e di missione, pubblicato nel 1937 e finalizzato al
confronto fra lo spirito tedesco e quello francese.
Il volume collettaneo, edito da Franz Kerber, sindaco di Friburgo ed ex redattore capo del giornale
nazionalsocialista Der Alemanne, apparve in un periodo in cui Hitler, dopo aver marciato sulla
Renania demilitarizzata, diffondeva l’idea di un compromesso con la Francia. Ma il saggio di
Heidegger non era scritto per questi scopi propagandistici del momento. Egli leggeva volentieri
questo testo che, come racconta Petzet, « sembrava stargli straordinariamente a cuore »,25 davanti a
una cerchia di amici, e così venne poi ripreso anche nel volume Esperienze del pensiero
(Denkerfahrungen).
Si tratta della comprensione fra i popoli francese e tedesco. Heidegger non si sofferma su
controversie e conflitti di tipo geopolitico, economico o militare. L’« ora attuale del mondo » ha
destinato « ai popoli occidentali che fanno la storia» un compito molto più grande: «salvare
l’Occidente». La salvezza non si ottiene livellando e mescolando reciprocamente fra i diversi
popoli, per mezzo di compromessi, i diversi modi di pensiero e di cultura, ma soltanto se ciascun
popolo medita su ciò che gli è proprio e peculiare e su questa base offre il proprio contributo alla
salvezza dell’identità occidentale: in Francia domina il cartesianesimo, la visione per cui la ragione
dispone della res extensa. In Germania invece si è formato un forte pensiero storico. L’aspetto
notevole di questa contrapposizione, che presa per sé non risulta particolarmente originale, sta nel
fatto che Heidegger la vede come una differenziazione di tendenze che nella scena primigenia
dell’Occidente, cioè in Grecia, non erano ancora decise e separate. L’essere di Platone e il divenire
di Eraclito, quindi il
razionalismo e la storicità, si contrapponevano l’un l’altro nello spazio comune della polis e
realizzavano così una identità spirituale che poteva affermarsi contro l’elemento «asiatico », dal
quale la Grecia era circondata come un’isola dall’oceano. Qual è l’elemento « asiatico » nel «
momento attuale del mondo »? Heidegger non lo dice espressamente, ma risulta dalla logica della
sua esposizione: l’elemento asiatico dei nostri giorni non è niente di « barbarico », ma è la
modernità nella sua forma scatenata, caratteristica dell’America e della Russia. Poiché però il
cartesianesimo francese è la più recente scaturigine di questa modernità, la collaborazione franco-
tedesca per la salvezza dell’Occidente sarà caratterizzata da una peculiare asimmetria. Il
razionalismo francese dovrà andare alla scuola della storicità tedesca, e più precisamente alla scuola
del pensiero heideggeriano dell’essere. Infatti solo a partire dalla prospettiva di questo pensiero il
razionalismo può superare la sua smania di oggettività e aprirsi alla ricchezza della storia
dell’essere. Di conseguenza si dice che lo spirito tedesco non ha bisogno di quello francese nella
stessa misura in cui questo ha bisogno di quello. Del resto le considerazioni amichevoli di
Heidegger si riferiscono anche al fatto che lo spirito francese si è accorto di che cosa gli manca: un
personaggio come Hegel, Schelling, Hölderlin. Pertanto è possibile venirgli in aiuto.
Non c’è alcun riscontro per sostenere che Heidegger conoscesse il pamphlet del kantiano francese
Julien Benda II tradimento dei chierici. Questo libro, che subito dopo la sua pubblicazione, nel
1927, ebbe in Francia una risonanza straordinaria, può essere letto come una risposta anticipata
della Francia all’offerta di dialogo da parte di Heidegger. Per Benda il tradimento degli intellettuali
comincia proprio nel momento in cui essi si abbandonano ai continui cambiamenti della storia,
sacrificando valori spirituali universali come la verità, la giustizia, la libertà alle potenze irrazionali
dell’istinto, dello spirito del popolo, dell’intuizione etc. I «chierici », questi intellettuali filosofici e
letterari che vengono definiti come chierici laici, avrebbero il compito di affermare questi valori
spirituali dell’umanità contro le aggressioni provenienti dallo spirito storico contingente. Chi
dovrebbe farlo altrimenti, visto che i « laici » sono necessariamente coinvolti in faccende e passioni
mondane? Assistiamo qui all’intervento di un rigoroso razionalismo umanistico contro il canto delle
sirene proprio degli spiriti romantici del popolo. Dallo spirito tedesco, dice Benda, non c’è più nulla
da imparare dopo la morte di Kant, si può solo stare in guardia di fronte a esso. Benda cita una frase
di Renan che suona come una risposta a Heidegger: «L’uomo non appartiene né alla propria lingua
né alla propria razza; non appartiene che a se stesso, perché è un essere libero, vale a dire un essere
morale».26 Benda è convinto che chi caccia lo spirito umano dalla sua patria universale e ne fa
oggetto di lotta fra i popoli, si ritroverà subito fra coloro che spingono alla « guerra delle culture».27
Ma proprio questo è ciò che Heidegger non vuole. Egli vuole attestare a suo modo la possibilità di
una vicinanza feconda. Di questa fa parte « la volontà longanime di prestarsi reciproco ascolto e il
sobrio coraggio di autodeterminarsi ».28 Ma ciò non cambia nulla nel fatto che le « vie per il
confronto » debbano condurre per lui al punto in cui si può decidere quale sia la relazione con
l’essere che meglio corrisponde all’apertura dell’essere, se quella cartesiano-razionale o quella
storica. Non è ammissibile che si «eviti il compito più difficile: la preparazione di un ambito di
decidibilità».29 E qui risulta chiaramente che Heidegger intende il proprio pensiero come un
pensiero che è all’altezza di questo compito. Nel caso dell’intesa franco-tedesca a proposito delle
questioni filosofiche, non ci si dovrà incontrare in un qualche punto al confine tra i due Paesi, ma
sulle alture di Todtnauberg.
Tre anni dopo, la guerra iniziata da Hitler è in pieno svolgimento. Nell’estate del 1940 la Francia è
sconfitta. E nel semestre estivo di quello stesso anno, nel suo corso su Nietzsche e il nichilismo
europeo (Nietzsche und das europäische Nihilismus), Heidegger fa riferimento alla capitolazione
della Francia, giungendo a una conclusione sorprendente: « In questi giorni noi stessi siamo
testimoni di una misteriosa legge della storia, cioè che un giorno un popolo non è più all’altezza
della metafisica scaturita dalla sua stessa storia, e questo proprio nell’attimo in cui tale metafisica si
è mutata nell’incondizionato [...] Non basta possedere carri armati, aeroplani, mezzi di
comunicazione; non basta neanche disporre di uomini in grado di far funzionare tutto ciò [...] C’è
bisogno di un’umanità che sia radicalmente adeguata all’essenza fondamentale, unica nel suo
genere, della tecnica moderna e della sua verità metafisica, cioè che si lasci interamente dominare
dall’essenza della tecnica per guidare e utilizzare così, proprio essa stessa, i singoli processi e le
singole possibilità della tecnica. Alla 'economia macchinale’ incondizionata è adeguato, nel senso
della metafisica di Nietzsche, soltanto il super-uomo, e viceversa: l’uno ha bisogno dell’altra per
l’instaurazione del dominio incondizionato sulla terra».30
Vale a dire che la Germania si è rivelata più cartesiana della nazione cartesiana che è la Francia. La
Germania è riuscita meglio, rispetto alla Francia, a realizzare il sogno cartesiano del dominio sulla
res extensa, cioè il superamento tecnico della natura. La « mobilitazione totale »,31 vale a dire la
strutturazione tecnica e organizzativa di tutta la società e dell’individuo, è riuscita solo in Germania.
Qui sono state tratte tutte le conseguenze dalla metafisica moderna, secondo la quale l’« essere » è
solo « rappresentatività » (Vorgestelltheit) e alla fine solo « produttività » (Hergestelltheit). La
Germania ha vinto perché ha realizzato pienamente, alla maniera del « superuomo », la mostruosità
del mondo moderno. I francesi sono gli apprendisti stregoni: hanno scatenato un processo del quale
non sono più stati «all’altezza». Soltanto nella Germania totalitaria di Hitler si è formata quella «
umanità» che è « conforme » alla tecnica moderna. Qui evidentemente gli uomini stessi sono
diventati proiettili. Del resto Heidegger comunicherà in seguito, con un misto di orrore e di
fascinazione, che uno dei suoi studenti giapponesi si è arruolato come pilota kamikaze.
Ancora nel corso sulla Metafisica del 1935 la Russia e l’America sono le potenze all’avanguardia
della « desolante frenesia della tecnica scatenata »;32 mentre ora vede davanti a tutti, sotto questa
prospettiva, la Germania. È impossibile non avvertire qui un tono di leggera soddisfazione per
questo. Ciò ricorda molto da vicino Diederich Heßling, il subordinato di Heinrich Mannschen, che,
offeso a morte da un brusco luogotenente, osserva con sufficienza: « Quello non ce lo può imitare
nessuno! » Così fa anche Heidegger: la Germania vince perché si abbandona più efficacemente di
altri alla « mostruosità » della tecnica, e tuttavia: questa ferrea conseguenza dell’oblio dell’essere
non ce la può imitare nessuno!
I figli di Heidegger, Jörg e Hermann, vengono arruolati e a partire dal 1940 sono al fronte. A
riempire le aule e i seminari dell'università sono giovani feriti in guerra, soldati in convalescenza e
studenti anziani. La percentuale di studentesse è in aumento. Cresce il numero delle notifiche di
morti e dispersi dalle zone di guerra.
1126 settembre 1941 Heidegger scrive alla madre di un caduto che era stato suo allievo: « Per noi,
che siamo rimasti, è difficile compiere il passo verso la consapevolezza che ciascuno dei molti
giovani tedeschi, che oggi sacrificano la loro vita con uno spirito ancora autentico e un cuore
riverente, può conoscere il destino più bello ».”
Quale « destino più bello » spetterà mai a chi è caduto? Forse il fatto che Heidegger se ne ricorderà?
La maggior parte dei morti era in confidenza solo con pochi amici, ma conservati nel ricordo del
filosofo, dice Heidegger, essi ridesteranno per le generazioni a venire « l’intima vocazione del
tedesco allo spirito e alla fedeltà del cuore ». In tal modo la guerra riceve un senso? Non ha parlato
forse Heidegger, nelle sue lezioni su Nietzsche, del fatto che questa guerra è l’espressione della «
volontà di potenza » dimentica dell’essere?
In effetti questa è una cosa che Heidegger dice ripetutamente nelle sue lezioni, come anche che la
filosofia nell’attuale momento storico di « impiego disincantato del ’materiale umano’ al servizio
dell’incondizionato conferimento alla volontà di potenza del potere»34 rischia di diventare del tutto
superflua. In quanto « simulacro della cultura », essa scompare dal meccanismo pubblico, non
essendo altro che un «essere reclamati dall’essere stesso ».35 Ma per questo essere reclamati non c’è
più tempo. Una delle conseguenze della guerra è che ormai in Germania si crede « di essersi lasciati
alle spalle l’appartenenza a un popolo di poeti e pensatori».-6 Ma allora come può avere ancora un
senso il sacrificio umano per una simile guerra?
Heidegger vede due possibili risposte a questa domanda. La prima è quella nota da tempo, che cioè
al fine di raggiungere l’autenticità della vita quello che conta non è il carattere morale dell’intera
situazione; quello che importa è soltanto («atteggiamento» che si assume. In questo senso
Heidegger, nella lettera a quella madre, loda nel caduto il « fuoco interiore » e il « profondo rispetto
di ciò che è essenziale », anche se non dice che cosa questo significhi sul piano concreto. Lo stesso
Heidegger non lo sa di preciso, poiché non conosce per nulla le circostanze concrete della morte di
quel giovane.
La seconda risposta è che il sacrificio umano ha un senso perché e nella misura in cui la guerra
stessa ha un senso. Su questo punto, però, le valutazioni di Heidegger sono incerte. Da un lato egli
intende la guerra come espressione della volontà di potenza epocale - anche se non rileva mai la
responsabilità esclusiva di ciò da parte della Germania hitleriana -e quindi, nel suo complesso, come
un accadimento della mobilitazione totale dell’epoca moderna che ha perduto ogni senso. Da questo
punto di vista qualunque sacrificio dovrebbe essere insensato. Ma con l’entrata in guerra
dell’America la situazione cambia per lui ancora una volta. Nel corso su Hölderlin dell’estate 1942
egli afferma: « Oggi sappiamo che il mondo anglosassone dell’americanismo è deciso ad annientare
l’Europa, cioè la patria, cioè l’inizio di ciò che è occidentale ».37
Ma dove continua a sopravvivere « ciò che è occidentale »? Non certo nella Germania ufficiale,
dato che qui la vittoria spetta, come Heidegger non si stanca di sottolineare, all’« economia delle
macchine » e alla riduzione dell’uomo a materialità.
Ma c’è ancora quella Germania « non ufficiale » e immaginaria in cui aveva creduto uno come
Hölderlin. La Germania la cui lingua conserva lo spirito filosofico, come altrimenti solo la grecità
ha saputo fare. Nel corso su Eraclito del 1943 Martin Heidegger disse: « Il pianeta è in fiamme.
L’essenza dell’uomo è allo sbando. Solo dai tedeschi - posto che essi trovino ’ciò che è tedesco’ e lo
custodiscano - può venire un ripensamento dell’intera storia del mondo».38 Questa Germania
autentica, che appartiene all’Occidente, e che è circondata dal tradimento, vive forse, in ultima
istanza, solo nella filosofia di Heidegger?
Così stanno le cose, anche se Heidegger non vuole avere niente a che fare con « la coscienza che si
vanta di avere una missione da compiere ».39 Negli ultimi mesi della guerra la sua filosofia si
rivolge interamente alla «rammemorazione» dei grandi fondatori: Hölderlin, Parmenide, Eraclito. In
Heidegger si apre sempre di più la divaricazione fra pensiero e accadimenti esteriori. Mentre gli
eventi procedono verso la loro catastrofica conclusione e i crimini del regime hitleriano
raggiungono con il genocidio degli ebrei un vertice raccapricciante, Heidegger si trincera sempre
più profondamente in ciò che è « iniziale ». « Lo spirito nascosto di ciò che appartiene all’inizio
dell’Occidente non serberà nemmeno Io sguardo di disprezzo per questo processo di
autodevastazione di ciò che è privo di inizio, ma attenderà la propria ora fatale nell’abbandono della
quiete proprio di ciò che sta all’inizio40 »
Ma diversamente dal 1933 Heidegger è ora immune dall’aspettarsi che questo « inizio » provenga
da un grande evento politico-sociale. L’«ora fatale» è quella del poetare e del pensare in solitudine,
che non hanno e non cercano per il momento alcun « appoggio » in qualche movimento politico o
sociale. Il « pensiero essenziale pone attenzione ai lenti segnali di ciò che sfugge a ogni calcolo »,
scrive Heidegger nel 1943 nel poscritto a Che cos'è metafisica?41 Questo pensiero non ottiene alcun
« successo ». Rimane soltanto la speranza che forse qua e là si « accenda » un pensiero analogo
attraverso il quale si crei la fratellanza segreta di coloro che fuoriescono dall’attuale «gioco del
mondo». «Gioco del mondo»: questa stessa espressione viene usata per la prima volta da Heidegger
in un corso del 1941 per connotare la grande miseria. L’attuale « gioco del mondo » conosce
soltanto « lavoratori e soldati ». Ci sono due modi per sfuggire a questa «normalità ». Il primo di
questi è definito da Heidegger, alludendo a Ernst Jünger, come avventurosità: « Chi può
meravigliarsi nel vedere che in una simile epoca, in cui il mondo è completamente allo sbando, si
desti il pensiero che il piacere del pericolo, l'’avventura’, siano il modo attraverso il quale l’uomo si
assicura la realtà? »42 L’avventuroso conferisce colori vivaci e slancio vitale all’oblio dell’essere.
Egli si getta negli ingranaggi del mondo moderno, anche se quest’ultimo lo stritolerà. Egli alza la
sua posta per dare al gioco maggiore attrattiva.
L’altro modo di opporsi al gioco del mondo come contesto fatale è per Heidegger l’« insistenza »
(Inständigkeit) del pensiero meditante. In precedenza ci si riferiva a ciò usando espressioni come «
contemplazione » e « vita contemplativa», che Heidegger non considera adatte a esprimere la
propria impresa. Questa « insistenza » avvicina Heidegger alla vita semplice. Togliete all’uomo
moderno tutto ciò che possiede, dice Heidegger nel corso su Eraclito del 1943, toglietegli tutto ciò
con cui si trattiene e a cui si attiene, « il cinema, la radio, i giornali, il teatro, i concerti, gli incontri
di pugilato, i viaggi»,43 e morirebbe di vuoto, perché le «cose semplici » non sono più in grado di
dirgli nulla. Ma nel pensiero meditante il vuoto diventa occasione di « ricordarsi dell’essere ».44
Anche nel momento in cui la guerra era al culmine - « il pianeta è in fiamme » - Heidegger si
sintonizza su quello che sarà uno dei grandi temi della filosofia del dopoguerra: l’abbandono.
Questo abbandono nel bel mezzo della guerra è dovuto all’arte del prescindere dalla realtà
opprimente. Nel già citato poscritto a Che cos'è metafisica? del 1943 Heidegger scrive una frase
oscura, che «sì, Tessere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente».45 Nell’anno in cui aveva inizio
l’inferno, Heidegger si spinse col pensiero molto in là rispetto all’ente, così lontano che ora l’essere
diventa per lui qualcosa che in precedenza non era: una grandezza di riferimento indipendente
dall’ente. Questa stravaganza rispetto al periodo precedente verrà nuovamente ritrattata
nell’edizione del testo fatta nel 1949; al posto del « sì » egli scriverà « mai », generando così una
frase che non conosce quelle vertigini: « mai l’essere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente».
Ma per il modo in cui l’essere si rende presente in questo brutto periodo, Heidegger trova la
formulazione più sensata e appropriata in un saggio su Hölderlin risalente agli ultimi anni della
guerra: il « caos dello spalancarsi ».46 L’abisso si è aperto, la terra trema.
In contrasto con ciò, Heidegger formula nello stesso periodo, rifacendosi a Hölderlin, il suo inno
alla patria sveva: « La Suevia, la madre, abita vicino ’al focolare della casa’. Il focolare custodisce
l’ardore, sempre in serbo, del fuoco che, una volta infiammato, apre le brezze dell’aria e la luce
nella dimensione serena. [...] Perciò è solo con difficoltà che uno abbandona, quando non può fare
altrimenti, il luogo della vicinanza ».47
20. Heidegger nella milizia popolare.
Friburgo distrutta. L’idillio angosciante: la rocca di Wildenstein. Heidegger davanti alla
commissione di epurazione.
Il parere di Jaspers: « non libero, dittatoriale, privo di comunicativa ». Il divieto di insegnamento.
La Francia scopre Heidegger. Kojève, Sartre e il nulla. Heidegger legge Sartre. L’incontro
mancato. La visita all’arcivescovo.
Il crollo e la guarigione nel bosco innevato.
Nella notte del 27 novembre 1944 le squadriglie di bombardieri anglo-americani distrussero la città
di Friburgo. Poco prima Martin Heidegger è partito per Breisach con un contingente della milizia
popolare. L’intento è quello di impedire il passaggio dell’esercito francese sulla sponda destra del
Reno. Ma è già troppo tardi. Gli uomini della milizia popolare tornano indietro, e con loro anche
Heidegger. Egli era stato reclutato in base al decreto del Führer del 18 ottobre 1944 che imponeva
l’ultima chiamata alle armi di tutti gli uomini fra i sedici e i sessantanni, senza possibilità di
esonero; l’unico criterio che stabiliva l’abilità alle armi era la possibilità di lavorare. E poiché
Heidegger era capace di lavorare, era anche considerato abile alle armi. Ma non tutti i colleghi di
Heidegger furono arruolati. Il reclutamento spettava alle autorità locali del partito. Regnava uria
grande confusione; e così tutti i membri della facoltà di filosofìa si adoperarono per ottenere
l’esonero di Heidegger. Su loro incarico Eugen Fischer, che un tempo era stato il famigerato
direttore del Kaiser-Wilhelm-Institut für Eugenetik a Berlino, e ora era professore emerito a
Friburgo, scrisse una lettera a Kurt Scheel, capo della Federazione dei docenti del Reich, nella quale
egli pregava di esonerare Heidegger e concludeva con queste parole: « Facendo questa preghiera nel
momento più difficile, di fronte al fatto che il nemico si trova nell’Alsazia
402
tedesca a meno di cinquanta chilometri dalla nostra città, noi mostriamo con ciò stesso la nostra
fiducia nel futuro della scienza tedesca». Tre settimane dopo Scheel risponde: «A causa della
situazione non chiara non ho potuto fare niente per Heidegger »; ma nel frattempo la situazione si
era già risolta. Dopo aver fatto rientro dalla missione della milizia popolare, Heidegger aveva
ottenuto un congedo dall ’università per riordinare i propri manoscritti e metterli al sicuro nei pressi
di Meßkirch. Ma prima di abbandonare Friburgo bombardata e in attesa dell’occupazione da parte
delle potenze alleate, egli fece visita al filosofo Georg Picht e a sua moglie, che sarà la celebre
pianista Edith Picht-Axenfeld. Heidegger voleva che lei gli suonasse ancora una volta qualcosa. La
signora Picht eseguì la Sonata postuma in si bemolle maggiore di Schubert. Heidegger guardò Picht
e gli disse: « Questo noi non possiamo farlo con la filosofia».1 In quella notte del dicembre 1944
Heidegger vergò nel libro degli ospiti di Picht queste parole: « Diverso dal giungere alla fine è il
tramontare. Ogni tramonto rimane nascosto nell’alba».
Era dunque una « fine » o un « tramonto » quello che accadeva tutto intorno, e da cui Heidegger
fuggiva? Le parole nel libro degli ospiti di Picht lasciano aperta questa domanda. Ma sei mesi dopo,
il 20 luglio 1945, Heidegger darà una risposta in una lettera a Rudolf Stadelmann, il suo « scudiero»
ai tempi della Comunità di lavoro scientifica, ora decano a Tubinga: « Non si fa altro che pensare al
tramonto. Noi tedeschi non possiamo tramontare, perché non siamo ancora sorti, e dobbiamo ancora
passare attraverso la notte ».2
In questo stesso anno, tra la fuga da Friburgo e il suo ritorno nella città, frattanto occupata dai
francesi, Heidegger vive in un idillio angosciante. A Meßkirch, con suo fratello Fritz, durante
l’inverno riordina i suoi manoscritti. E quando arriva la primavera, lo segue anche tutta la facoltà di
filosofia, ovvero ciò che ancora ne rimane. A Friburgo si era deciso cioè di mettere al sicuro alcune
parti dell’università, e a tal fine era stata scelta la fortezza di Wildenstein, sopra Beuron, vicino a
Meßkirch. Nel marzo del 1945 dieci professori e trenta studenti, prevalentemente di sesso
femminile, percorsero in parte a piedi e in parte in bicicletta, e sotto un pesante fardello di libri, la
Selva Nera e il corso superiore del Danubio, per prendere dimora in questa fortezza, possedimento
dei Für-
stenberg, e nella vicina località di Leibertingen. Da Meßkirch su verso la fortezza di Wildenstein.
Questo sentiero era stato percorso spesso dal giovane Heidegger nelle sue passeggiate, e adesso egli
torna a percorrerlo per tenere un piccolo seminario nell’osteria della fortezza, mentre laggiù, a valle,
le truppe francesi avanzano in direzione di Sigmaringen, dove si erano rifugiati i resti del regime
collaborazionista di Vichy. A fine maggio comincia la fienagione. I professori e gli studenti danno
una mano, ricevendone in cambio generi alimentari. Da Friburgo giungono solo poche notizie. Si sa
soltanto che la città è occupata. Per fortuna intorno a essa non c’è stata nessuna battaglia. Laggiù
nella valle, presso il monastero di Beuron, è stato istituito un ospedale militare; ogni giorno arrivano
soldati feriti. E in alto, sopra le rocce, dove un tempo abitava una stirpe di cavalieri predoni, fra un
raccolto e l’altro si studiano la Critica della ragion pura di Kant, la storia medievale e Hölderlin.
Soprattutto Hölderlin, che nel suo inno L’Istro aveva cantato il corso superiore del Danubio:
Ma gli danno un nome, Istro.
Bella la sua dimora. II fogliame
arde mosso sulle colonne [...]3
Heidegger aveva più volte interpretato questa poesia, e torna a farlo anche in questa occasione.
Ormai Hölderlin è diventato parte integrante della sua genealogia personale. Nel suo corso
universitario su L'Istro del 1942 egli aveva aggiunto, come si è già detto, un’osservazione (non
contenuta nel volume pubblicato): « Forse Hölderlin, il poeta, deve diventare il destino
determinante con cui si confronta un pensatore il cui nonno, nello stesso periodo in cui nasceva
l”inno sull’Istro’ [...] nacque, com’è attestato, nell’ovile di una fattoria posta sotto le rocce lungo il
corso superiore del Danubio, e vicino alla sponda. La storia occulta del dire non conosce casualità.
Tutto è destinazione ».4
Dalla fortezza di Wildenstein si può vedere la vecchia casa sul Danubio, cui apparteneva quella
stalla dove nacque il nonno di Heidegger.
Questo semestre estivo così diverso dai soliti si conclude il 24 giugno con una festa tenuta nella
fortezza. È invitata anche la gente dei dintorni, che porta del cibo. Nel cortile interno c’è una
rappresentazione teatrale e il ballo. Tre giorni dopo, nella vicina residenza di campagna del principe
Bernhard von Sachsen-Meiningen c’è un’altra grande apparizione pubblica di Heidegger, che per
alcuni anni rimarrà l’ultima. La sua conferenza è preceduta da un breve concerto per pianoforte.
Heidegger parlerà sulla frase di Hölderlin che dice: « Da noi tutto si concentra sullo spirituale;
siamo diventati poveri per diventare ricchi ».
A Friburgo, ora occupata, l’amministrazione militare francese prende le prime misure volte a
reperire spazi abitabili. « Heidegger in città è considerato un nazista a causa del suo rettorato. »5
Questa laconica annotazione del borgomastro commissariale contenuta negli atti è sufficiente per
far registrare nella « lista nera » la casa di Heidegger, Am Rötebuck 47, già a metà maggio. Non è
ancora deciso se si tratterà solo di un acquartieramento di soldati o se gli Heidegger dovranno
abbandonare la loro abitazione. C’è persino la minaccia di un sequestro della biblioteca. Elfride
Heidegger, che nelle prime settimane deve condurre da sola le difficili trattative con le autorità, fa
ricorso e prega di attendere il ritorno di suo marito.
Già prima del ritorno di Heidegger essa riceve dal borgomastro commissariale la delibera in base
alla quale, su ordine del governo militare, per far fronte alla gravissima mancanza di alloggi « le
abitazioni da mettere sotto sequestro sono in primo luogo quelle di persone appartenenti al partito
»,6 e Martin Heidegger sarebbe stato appunto, indiscutibilmente, un membro del partito.
All’inizio di luglio, di ritorno da Wildenstein, Heidegger trova una situazione drammaticamente
mutata. Alla fortezza e nella residenza di campagna era stato ascoltato ancora con devozione, e
pochi giorni dopo, a Friburgo, si ritrova nelle vesti di imputato. Le autorità gli fanno capire che può
benissimo rinunciare alla propria biblioteca, dato che in avvenire non potrà certamente più
esercitare la sua professione. Il 16 luglio Heidegger redige una lettera al borgomastro, che
costituisce un primo abbozzo dell’autodifesa degli anni successivi. « Protesto vivamente contro
questa discriminazione rivolta contro la mia persona e il mio lavoro. Per quale motivo devo essere
punito non solo con il sequestro della mia abitazione, ma anche con la confisca totale del mio luogo
di lavoro, ed essere diffamato di fronte alla città, e di fronte all’opinione pubblica mondiale? Non
ho mai detenuto una carica nell’ambito del partito, né ho mai svolto un’attività al suo interno o