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RÜDIGER SAFRANSKI

HEIDEGGER E IL SUO TEMPO


Traduzione di Nicola Curdo
Edizione italiana a cura di Massimo Bonola
TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A. Corso Italia» 13 - 20122 Milano
www.tcalibri.it
L’edizione italiana di questo libro viene pubblicata con il contributo di 1NTER NATIONES
Copyright © 1994 by Carl Hanser Verlag, Munchen/Wien Longanesi & C. © 1996 - 20122 Milano,
corso Italia, 13 Edizione su licenza della Longanesi & C.
Titolo originale
Ein Meister aus Deutschland
Prima edizione TEADUE ottobre 2001
Ristampe: 10 987 6543 2 1
2005 2004 2003 2002 2001
Heidegger e il suo tempo
La tempesta che soffia impetuosa nel pensiero di Heidegger - simile a quella che ancora dopo
millenni soffia dall’opera di Platone - non proviene da questo secolo. Essa proviene dai primordi, e
ciò che lascia dietro di sé è qualcosa di compiuto che, al pari di ogni cosa compiuta, ritorna ai
primordi.
HANNAH ARENDT
Una verità deve poter morire, come si diceva una volta; altrimenti rimane priva di mondo. Il mondo
è diventato così arido perché così tanti pensieri che sono stati prodotti vagano senza luogo e senza
figura.
ERHÄRT KÄSTNER
Senza l’uomo l’essere sarebbe muto: ci sarebbe, ma non sarebbe il vero.
ALEXANDRE KOJÈVE
Per Gisela Maria Nicklaus
Sono grato agli amici che mi hanno aiutato con la loro partecipazione, con curiosità e informazioni
proprie: Ulrich Boehm, Hans-Peter Hempel, Helmuth Lethen, Cees Nooteboom, Peter Sloterdijk,
Ulrich Wanner.
Prefazione
QUELLA di Heidegger, della sua vita e della sua filosofia, è una lunga storia, ormai. In essa vi sono le
passioni e le catastrofi di tutto il secolo.
Sul piano filosofico Heidegger viene da lontano. Si è posto di fronte a Eraclito, Platone, Kant come
fossero suoi contemporanei. Vi si è accostato a tal punto da poter ascoltare il non detto, portandolo a
espressione. In Heidegger è ancora presente, in modo meraviglioso, tutta la metafisica, ma
nell’attimo del suo tacitamento; si può dire anche: nell’attimo in cui essa si apre a qualcosa d’altro.
Porre domande: questa fu la passione di Heidegger, non già il dare risposte. Ciò su cui vertevano le
sue domande e le sue ricerche egli lo chiamava: l’essere. Per tutta la sua vita di filosofo tornò
sempre a porre quest’unica questione dell’essere. Ed essa non aveva altro senso se non questo:
restituire alla vita quel mistero che nel mondo moderno minaccia di scomparire.
Heidegger cominciò come filosofo cattolico, e fece sua la sfida alla modernità. Egli maturò la
filosofia di un esistere - o meglio: di un « esserci » - che si trova sotto un cielo vuoto, soggetto alla
furia del tempo che tutto divora: l'esserci è gettato nell’esistenza, con la facoltà di progettare la
propria vita. Una filosofia che si rivolge al singolo nella sua libertà e responsabilità e che prende sul
serio la morte. La questione dell’essere, nel senso in cui la pone Heidegger, ha il significato di
sollevare l’esistenza, così come si leva l’ancora, per poter veleggiare liberamente in mare aperto. È
una triste ironia della sorte che toccò alla sua opera, se la questione heideggeriana dell’essere è
andata per lo più perdendo questo tratto liberatorio, intimidendo piuttosto il pensiero, e bloccandolo.
Una volta che questo blocco sarà tolto, si sarà forse abbastanza liberi da poter reagire a certe infelici
profondità di questo genio filosofico con la celebre risata della servetta tracia.
La compromissione politica di Heidegger continua a creare imbarazzo. Per motivi filosofici egli
divenne, per un certo periodo, un rivoluzionario nazionalsocialista, ma la sua filosofia lo aiutò
anche a liberarsi dagli intrighi politici. Quello che aveva fatto gli servì di lezione. Da quel momento
in poi il suo pensiero si è soffermato anche sul problema della volontà di potenza che può sedurre lo
spirito. Il cammino filosofico di Heidegger muove dal pensiero della risolutezza, passando
attraverso la metafisica del grande momento storico, per concludersi con la riflessione sull’«
abbandono » e con il pensiero di un rapporto con il mondo che comporti la tutela di quest’ultimo.
Martin Heidegger - un maestro tedesco.
Egli fu davvero un genio, un « maestro » nel senso in cui lo fu il mistico Meister Eckhart. Come
nessun altro ha tenuto aperto, in un’epoca di laicità, l’orizzonte dell’esperienza religiosa. Ha trovato
un pensiero che rimane vicino alle cose e che ci mette in guardia dal cadere nella banalità.
Egli fu profondamente « tedesco », al pari dell’Adrian Leverkühn di Thomas Mann. La storia della
vita e del pensiero di Heidegger è anch’essa una storia faustiana. Spiccano l’amabilità, il fascino e
l’abissalità di questa straordinaria via tedesca all’interno della filosofia, una via destinata a
diventare un evento europeo. Infine: con il suo coinvolgimento in politica egli acquista qualcosa
anche di quel « Maestro tedesco » di cui si parla nella poesia di Paul Celan.
Perciò il nome di Martin Heidegger si lega al capitolo più emozionante della storia dello spirito
tedesco di questo secolo, che merita di essere raccontato, nel bene e nel male e al di là del bene e
del male.
1, Gettatezza. Il cielo sopra Meßkirch.
Lo scisma sul posto. Ruolo-chiave.
I piccoli campanari. Al fratello unico. Da-da-dasein. I genitori. Sotto la protezione
della Chiesa. I laici e gli altri.
Al liceo di Friburgo. Quasi gesuita.
DIVENUTO ormai celebre, Martin Heidegger scrive nel 1928 una lettera all’ex direttore del collegio
religioso di Costanza dove aveva trascorso alcuni anni di scuola: « Forse la filosofia mostra nel
modo più penetrante e duraturo quanto l’uomo sia originario. Fare filosofia in fondo non significa
nient’altro che questo: essere originari ».
L’elogio heideggeriano dell’originario ha molteplici significati. Egli vuol essere un maestro di
originarietà. Nelle origini della filosofia in Grecia egli cercò l’avvenire trascorso, e nel presente
volle scoprire il punto in cui, al centro della vita, la filosofia continua a scaturire sempre nuova.
Questo accade nella tonalità emotiva. Egli critica la filosofia che dà a intendere di cominciare con
dei pensieri. In realtà, dice Heidegger, essa comincia con una tonalità emotiva, con la meraviglia,
l’angoscia, la «cura », la curiosità, il giubilo.
Per Heidegger la tonalità emotiva congiunge la vita con il pensiero, e non manca qui l’ironia della
sorte, dato che egli stesso, nel suo caso, fu così restio di fronte alle orme lasciate dalla connessione
fra vita e pensiero. Egli cominciò una volta un ciclo di lezioni su Aristotele con una frase lapidaria:
« Nacque, lavorò e morì ». Allo stesso modo voleva che si parlasse anche di lui, perché proprio
questo era il suo grande sogno: vivere per la filosofia e forse addirittura scomparire nella propria
filosofia. Anche questo ha a che fare con la sua tonalità emotiva che, forse troppo affrettatamente,
scopre in ciò che è presente la propria importunità, e perciò va alla ricerca di qualcosa di occulto. La
vita stessa può essere importuna. La tonalità emotiva di Heidegger gli fa dire che il Da-
sein, l’« esserci », è gettato e che l’essere si è manifestato come un peso; infatti: « L’esserci, in
quanto se stesso, ha forse deciso liberamente, e potrà mai decidere, se vuole o no entrare
nell’esserci? ».1
Heidegger ama il gesto ampio, per cui non si sa mai con esattezza se stia parlando dell’Occidente
oppure di se stesso, e se stia discutendo dell’essere in generale oppure del proprio. Se però è valido
il principio per cui la filosofia non nasce dal pensiero ma dalla tonalità emotiva, non è possibile
limitarsi a isolare i pensieri lasciando che si azzuffino con altri pensieri sul piano elevato della
tradizione spirituale. Naturalmente Heidegger si è riallacciato ad alcune tradizioni, ma per motivi
riconducibili alla sua biografia. Certo, esse non gli permettono di sentire il proprio venire-al-mondo
come un dono o come un annuncio e una promessa. Dev’essere stata una caduta a precipizio: così
vuole la sua tonalità emotiva.
Ma il mondo in cui egli si sente gettato non è quello di Meßkirch alla fine del secolo scorso, dove
egli nacque il 26 settembre 1889, in cui trascorse l’infanzia e dove tornò sempre volentieri. Egli si
sentì gettato solo quando fu gettato fuori da questo mondo familiare, che lo proteggeva dalle smanie
della modernità. Non si dovrebbe dimenticare che nascere non significa ancora essere venuti al
mondo. Nella vita di una persona sono necessarie più nascite, e può accadere di non venire mai al
mondo del tutto. Ma restiamo per ora alla prima nascita.
Il padre, Friedrich Heidegger, è mastro bottaio e sacrestano presso la chiesa cattolica di St. Martin a
Meßkirch. Muore nel 1924. Sarà destinato a vedere la rottura di suo figlio con il cattolicesimo, ma
non il suo successo filosofico. La madre, Johanna Kempf, muore nel 1927. Martin Heidegger porrà
sul suo letto di morte una copia di Essere e tempo (Sein und Zeit), la sua opera fresca di stampa.
La madre è originaria di Göggingen, un paese vicino. Quando scendono i venti freddi dagli altipiani
della Schwäbische Alb, a Meßkirch si dice: « Ecco il vento di Göggingen... » La famiglia materna
viveva là da generazioni in un solido podere, il Lochbauernhof. Nel 1662 un antenato, Jakob
Kempf, aveva ricevuto in feudo la fattoria, per il lavoro dei campi, dal monastero cistercense di
Wald presso Pfullendorf. Il nonno di Heidegger potè riscattarla nel 1838 in cambio della somma di
3800 fiorini. Ma sul piano spirituale la famiglia rimase sotto la protezione della Chiesa.
Gli avi paterni erano piccoli contadini e artigiani. Provenienti dall’Austria, erano arrivati in questa
zona nel Settecento. Gli storici locali di Meßkirch hanno scoperto che ci sono parentele alla larga
con i Megerle e i Kreutzer. Dalla prima di queste famiglie nacque il più celebre predicatore del
Seicento, Abraham a Sancta Clara, dall’altra il compositore Konstantin Kreutzer. Anche con Conrad
Gröber, che fu poi mentore spirituale di Heidegger nel collegio di Costanza, e in seguito
arcivescovo di Friburgo, gli Heidegger erano imparentati alla lontana.
Meßkirch è una cittadina che si trova fra il lago di Costanza, la Schwäbische Alb e il corso
superiore del Danubio. Una terra povera, che un tempo fu in miseria, posta ai confini fra il ceppo
alemanno e quello svevo. L’alemanno è per natura un po’ pigro, malinconico, anche piuttosto
meditabondo. Lo svevo è un tipo più sereno, più aperto, e anche più sognatore. Il primo è incline al
sarcasmo, l’altro al pathos. Martin Heidegger aveva qualcosa degli uni e degli altri, e i numi tutelari
che scelse per sé sono un alemanno, Johann Peter Hebel, e uno svevo, Friedrich Hölderlin.
Entrambi recano indelebile, secondo lui, il conio di quella terra, eppure si ergono come giganti sul
mondo intero. Così egli vedeva anche se stesso: «aprirsi all’ampiezza del cielo e al tempo stesso
radicarsi nell’oscurità della terra ».2
In un ciclo di lezioni del 1942 Heidegger interpreta l’inno danubiano di Hölderlin intitolato L'Istro.
Al manoscritto del corso egli aggiunse una annotazione che non è stata riportata nel testo a stampa:
« Forse il poeta Hölderlin dovrà decidere il destino [...] di un pensatore il cui nonno, nello stesso
periodo in cui fu scritto l’inno II Danubio [...] nasceva nell’ovile di una fattoria situata sotto le
rocce, nella valle superiore del Danubio vicino alla sponda del fiume ». 3
Mitizzazione di sé? Forse, ma comunque è il tentativo di darsi una stirpe dalla quale discendere.
Hölderlin che risplende sulla casa presso il Danubio, ai piedi della fortezza di Wildenstein, sotto la
quale si trova Meßkirch. Lì vivevano gli Heidegger fin dal Settecento. La casa è ancora in piedi e i
suoi abitanti raccontano che il professore, con il suo berretto basco, vi tornava spesso in visita.
Vicino alla casa sul Danubio e alla fortezza di Wildenstein c’è Beuron, con il suo monastero
benedettino, che un tempo fu sede dei canonici agostiniani. Questo mondo di quiete monacale, con
la sua grande biblioteca, le stalle per il bestiame e i fienili continuò a esercitare la sua attrazione su
Martin Heidegger anche quando si era già allontanato dalla Chiesa. Negli anni ’20 egli trascorse
qualche volta alcune settimane in una cella del monastero, nei periodi in cui le lezioni universitarie
erano sospese. Fra il 1945 e il 1949, nel periodo in cui gli fu interdetto l’insegnamento, il monastero
di Beuron fu l’unico luogo dove comparve in pubblico.
Alla fine dell’Ottocento Meßkirch contava duemila abitanti. La maggior parte di questi erano
occupati nell’agricoltura e nell’artigianato. C’era anche qualche industria sul posto, una fabbrica di
birra, una per la lavorazione dei tessuti e un caseificio. A Meßkirch c’erano una succursale del
distretto amministrativo, scuole professionali, un ufficio telegrafico, la stazione, un ufficio postale
di seconda classe, la pretura, alcune cooperative e le amministrazioni dei beni demaniali e della
Residenza. Meßkirch faceva parte del Baden, e ciò aveva la sua importanza per l’atmosfera
culturale della cittadina.
Nel Baden c’era fin dall’inizio dell’Ottocento una forte tradizione liberale. Nel 1815 fu varata una
costituzione rappresentativa e nel 1831 fu abolita la censura sulla stampa. Il Baden fu una roccaforte
della rivoluzione del 1848. Dalla vicina Costanza, nell’aprile di quell’anno, Hecker e Struve
lanciarono il loro invito alla sollevazione armata. I contingenti rivoluzionari si raccolsero presso
Donaueschingen; furono battuti e un anno dopo conquistarono il potere per un breve periodo; il
granduca Leopoldo fuggì in Alsazia, e solo con l’aiuto delle truppe prussiane fu possibile ristabilire
lo status quo. Nel Baden i prussiani non erano molto ben visti, e dopo il 1871, da quelle parti, il
Reich continuava ancora a puzzare di Prussia. Alla fine il liberalismo badense era sceso a patti con
il Reich, anche perché aveva trovato un altro nemico da combattere: la Chiesa cattolica.
A partire dal 1848 la Chiesa aveva cominciato a sfruttare astutamente per i propri interessi quello
spirito liberale che altrimenti osteggiava con forza; si parlava di libera Chiesa in libero Stato, di
eliminazione dell’ingerenza statale nelle scuole e nelle università, di libero impiego delle prebende,
di libera amministrazione del patrimonio ecclesiastico. Si doveva obbedire più a Dio che agli
uomini. Il conflitto si inasprì nel 1854, quando il governo della regione fece arrestare l’arcivescovo
di Friburgo. Infine il governo si mostrò conciliante perché evidentemente la Chiesa era troppo
radicata nella mentalità e nelle abitudini di vita della popolazione, soprattutto in campagna e nelle
piccole città. Questo populismo cattolico della Germania sudoccidentale era fedele alla Chiesa ma
guardava allo Stato con fastidio, era gerarchico ma desideroso di autonomia di fronte al potere
statale. Era antiprussiano, più regionalista che nazionalista, anticapitalista, agrario, antisemita,
legato alla terra natia, e si radicava soprattutto negli strati sociali più bassi.
I    conflitti fra Stato e Chiesa tornarono ad acuirsi nel 1870, quando il Concilio Vaticano sancì il
dogma dell 'infallibilità del papa. Se nell’epoca del nazionalismo non era possibile ricostituire il
dominio universale della Chiesa, almeno il mondo cattolico doveva essere messo efficacemente al
riparo nei confronti dello Stato e della società secolarizzata.
Contro questo intento si formò un’opposizione, il cosiddetto movimento del « vecchio cattolicesimo
», che aveva le proprie radici soprattutto nella borghesia colta cattolica e nazional-liberale della
Germania meridionale. In questo ambiente non si voleva diventare troppo « romani » e congiungere
l’elemento cattolico con quello nazionale. Alcuni « vecchi cattolici » miravano inoltre a una
modernizzazione della Chiesa nel suo complesso: eliminazione del celibato, limitazione del culto
dei santi, autonomia delle comunità, scelta del parroco.
II    movimento creò una propria organizzazione ecclesiastica, elesse un vescovo, ma rimase esiguo
quanto al numero di adepti; non superò mai i centomila aderenti, sebbene fosse appoggiato dal
governo, soprattutto nel Baden, dove il movimento del vecchio cattolicesimo conobbe un forte
sviluppo. Negli anni ’70 e ’80 Meßkirch era una delle sue roccaforti. Ci furono periodi in cui vi
aderiva quasi la metà della popolazione.
Conrad Gröber, un rappresentante impegnato del cattolicesimo romano, dipinge a fosche tinte il «
periodo del Kulturkampf» a Meßkirch, che arriva a lambire l’infanzia di Martin: « Lo sappiamo per
nostra amara esperienza quanta serenità giovanile andò perduta in quegli anni; in cui i figli delle
famiglie del vecchio cattolicesimo, più ricche, evitavano quelli delle famiglie cattoliche più povere,
e affibbiavano soprannomi ai loro preti e a loro stessi, li bastonavano e li immergevano nelle
fontane per ribattezzarli; ma sappiamo purtroppo, sempre per esperienza personale, che gli stessi
insegnanti appartenenti al vecchio cattolicesimo dividevano le pecore dalle capre, e chiamavano gli
scolari cattolici con il nomignolo di ’pesti nere’ e facevano sentire tangibilmente che non si poteva
percorrere impuniti le vie del cattolicesimo romano. Erano tutti degli apostati, senza eccezione, e
dovevano unirsi ai vecchi cattolici se volevano ottenere a Meßkirch un posto definitivo. Lo si è
visto anche molto tempo dopo, che soltanto cambiando religione era possibile conquistarsi un
posticino in questa città di dileggiatori ».4
Fra coloro che rimasero saldi nella loro fede c’era il padre di Heidegger. Egli restò con la Chiesa «
romana », anche se in principio gliene vennero solo svantaggi.
Il governo aveva concesso ai vecchi cattolici di Meßkirch il diritto di usare in comune la chiesa di
St. Martin. Per i « romani » questa era una sconsacrazione della casa di Dio, e perciò la
abbandonarono. Con l’aiuto dei monaci di Beuron essi trasformarono nel 1875 un vecchio deposito
della frutta, non lontano dalla chiesa del paese, in una « chiesa di emergenza ». Nello stesso luogo
fu alloggiata anche l’attrezzatura per il lavoro da bottaio del sacrestano Friedrich Heidegger, e lì fu
battezzato Martin.
Il contrasto fra i cattolici « romani » e i vecchi cattolici divise la comunità cittadina in due strati
sociali. Da un lato c’erano i vecchi cattolici, vale a dire le « cerchie migliori », i « liberali », i «
moderni ». Dal loro punto di vista i cattolici « romani » erano la palla al piede del progresso, gente
ottusa, popolino arretrato, che restava legato alla sopravvivenza di certi costumi ecclesiastici.
Quando i cattolici « romani » andavano nei campi per la benedizione primaverile o autunnale, i
vecchi cattolici restavano a casa e i loro bambini tiravano sassi sugli ostensori.
In questi conflitti il piccolo Martin visse per la prima volta il contrasto fra tradizione e modernità.
Egli conobbe l’aspetto offensivo di questa modernità. I vecchi cattolici facevano parte di « quelli là
in alto » e i cattolici « romani », sebbene fossero in maggioranza, dovevano sentirsi dei sottoposti. E
fu così che si rinserrarono ancor più saldamente nella loro
comunità.
Quando verso la fine del secolo il numero dei vecchi cattolici si ridusse drasticamente anche a
Meßkirch e il clima di Kulturkampf si distese, i cattolici « romani » si videro restituire la chiesa del
paese insieme ai beni e alle proprietà immobiliari. Gli Heidegger poterono tornare nella sacrestia
che dava sul sagrato. Il 1° dicembre 1895 vi fu una celebrazione solenne per suggellare questa
vittoria sugli « apostati ». In questa occasione il piccolo Martin si trovò senza volerlo a giocare un
ruolo-chiave: il sacrestano dei vecchi cattolici trovava imbarazzante dover passare al suo successore
la chiave della chiesa, e così non trovò di meglio che cacciarla in mano a suo figlio, che in quel
momento stava giocando sul sagrato.
Il mondo dell' infanzia - questo fu la piccola e bassa sacrestia sul sagrato di fronte alla chiesa di St.
Martin, che si ergeva ritta contro il cielo. La piazza si apre sulla residenza dei Fürstenberg, costruita
nel Cinquecento. I bambini potevano entrare dal grande portale nel cortile interno e spingersi oltre
nel giardino della residenza fino al cancello del parco, dall’altra parte dell'edificio, dove comincia la
campagna e il sentiero tra i campi: « Esso porta dal cancello del parco della residenza fino a
Ehnried. I vecchi tigli del parco lo guardano al di sopra delle mura, sia quando risplende chiaro, nel
periodo pasquale, in mezzo al rigoglio delle spighe e ai prati che si ridestano, sia quando, attorno a
Natale, scompare dietro la prima collinetta sotto le folate di neve ».5
I « figli del bottaio », Martin e suo fratello più giovane Fritz, dovevano dare una mano durante le
funzioni religiose. Erano chierichetti, raccoglievano fiori per l’addobbo della chiesa, recapitavano
messaggi per conto del parroco e dovevano suonare le campane. Nel campanile erano appese sette
campane, come ricorda Heidegger nel suo scritto Sul segreto del campanile (Vom Geheimnis des
Glockenturms), e ciascuna di esse aveva un nome, un diverso suono e un momento in cui essere
suonata. C’era la « quarta » per il pomeriggio alle quattro: il cosiddetto « terrore di chi dorme », che
destava repentinamente dal sonno tutti i dormienti del paese; la « terza » serviva anche per suonare
a morto. La « bimba » suonava per la dottrina e per il rosario, la « duodecima » metteva
fine alle lezioni scolastiche antimeridiane; la « sonante » era la campana sulla quale si suonavano le
ore intere: aveva il suono più bello ed era la più grande di tutte; con essa venivano annunciate alla
vigilia e di primo mattino le festività solenni. Fra il giovedì santo e il sabato di Pasqua le campane
venivano legate, ma poi si suonava la raganella: girando una manovella si metteva in movimento
una serie di martelletti che battevano sul legno duro. Ai quattro angoli del campanile c’era una
raganella, e i piccoli campanari dovevano girarla alternativamente; il suono stridulo dello strumento
doveva diffondersi in tutte le direzioni. Ma il momento più bello era in occasione delle feste
natalizie. Verso le tre e mezzo del mattino, i piccoli campanari giungevano alla casa del sacrestano,
dove sua moglie aveva già apparecchiato la tavola con caffellatte e dolci. Dopo questa colazione
venivano accese in casa le lanterne e si saliva alla chiesa attraversando la neve e la notte invernale,
e su ancora nell’oscura cella campanaria, dove le funi erano gelate e i batacchi ricoperti di ghiaccio.
« La disposizione misteriosa », scrive Martin Heidegger, « in cui si combinavano assieme le feste
ecclesiastiche, i giorni di vigilia e il corso delle stagioni e le ore del mattino, del meriggio e della
sera, cosicché ci fosse sempre un certo suono di campana a percorrere i giovani cuori, i sogni, le
preghiere e i giochi - è proprio questo che contribuisce a racchiudere uno dei misteri più magici, più
sacri e più duraturi della torre campanaria. »6
Era una vita sotto il manto protettivo della Chiesa in una cittadina di provincia all’inizio del secolo.
Nel Sentiero tra i campi (Der Feldweg) Heidegger ricorda i giochi con la barchetta, da lui stesso
intagliata nel legno, nella fontana della scuola: « L’incanto di quei viaggi restò celato in uno
splendore, a quel tempo ancora appena visibile, che riluceva su tutte le cose, e il cui regno aveva i
suoi confini là dove giungevano lo sguardo e la mano materni [...] Quei viaggi del gioco non
sapevano ancora nulla delle migrazioni al di là di ogni sponda ».7
Questo « splendore, a quel tempo ancora appena visibile », riluce in tutti i ricordi di Heidegger
legati alla sua infanzia a Meßkirch, e non si tratta solo di una trasfigurazione, dato che anche il
fratello Fritz visse quegli anni allo stesso modo. « Così la maggior parte di noi godeva, attraverso
tutte le birichinate, del ristoro di un perenne stato di leggera gaiezza, mai più avvertita. »8
Il fratello Fritz rimase per tutta la vita nel luogo della sua infanzia, dove lavorò come impiegato
nella locale sede della Kreditbank, e dove poi morì.
Per gli abitanti di Meßkirch Fritz Heidegger era un tipo « originale ». Egli era talmente popolare da
quelle parti che anche in seguito il filosofo, famoso in tutto il mondo, fu sempre visto solo come il «
fratello di Fritz ». Fritz Heidegger era « balbuziente », ma solo quando « faceva il serio »; come si
racconta a Meßkirch, « non ce la faceva a tirar fuori quel che voleva dire », e così l’espressione
heideggeriana Dasein (esserci) pronunciata da lui suonava Da-da-dasein. Ma quando si trattava di
celiare parlava senza ingarbugliarsi, ad esempio nei suoi celebri discorsi carnascialeschi. In queste
occasioni non era certo timido, e nel perìodo hitleriano se l’era presa addirittura con certi che erano
noti sul posto come nazisti, e fu la sua popolarità a proteggerlo. Fritz non aveva frequentato
l’università. Impiegato di banca, si definiva a volte un « faro nella notte ». Per conto di suo fratello
ricopiò a macchina trentamila pagine manoscritte e durante gli anni della guerra le conservò in una
cassaforte della banca. Le si sarebbe potute capire, diceva, soltanto nel Duemila, « quando gli
americani avranno impiantato da tempo un gigantesco super-mercato sulla luna ».9
Egli collaborava, racconta, a collazionare e rielaborare i testi. Non sopportava che in una frase ci
fossero due pensieri. « Dovresti vedere di separarli », avrebbe detto al fratello. Se la porta è stretta,
ci si passa solo uno alla volta. In questo caso dunque Fritz preferiva che le cose fossero semplici e
chiare, ma solitamente non le faceva mai ingarbugliate abbastanza. Diceva spesso: la gente può
anche farsi un’idea semplice di me, ma non deve ritenermi una persona semplice! Della filosofia
apprezzava il suo lato burlesco e gli dispiaceva vedere i filosofi prendersi troppo sul serio. Era
solito dire che quanti hanno un certo spirito capiscono bene questo Da-da-dasein: « In noi,
nell’angolino più intimo del cuore, vive qualcosa che supera tutte le difficoltà: la gaiezza, l’ultimo
residuo di quella originaria follia della quale stiamo perdendo il sentore ».l0 Fritz Heidegger
possedeva quell’autoironia che mancava a suo fratello Martin. Riferendosi alla sua nascita, che
avvenne cinque anni dopo quella di Martin, faceva questo commento: « Il dolore di vivere comincia
oggi per me, domani per te. Per il lombrico che se ne sta nella Schloßstrasse è cominciato il
mercoledì delle ceneri: è nauseabondo, tutto pesto e terribilmente storto, come si è di solito in quel
giorno ». 11
Martin Heidegger, per riconoscenza, dedicherà a suo fratello un libro. « Al fratello unico », vi si
dice, con un simpatico doppio senso.
I    genitori, come ricorda Fritz Heidegger, erano credenti, ma senza fanatismo e atteggiamenti
bigotti. La vita cattolica gli era entrata a tal punto nella carne e nel sangue che non avevano per
niente bisogno di difendere la loro fede o di affermarla di fronte agli altri. A maggior ragione essi
rimasero senza parole quando il loro figlio Martin deviò dalla « retta via », che per loro era
semplicemente la più ovvia e naturale.
La madre era una donna serena. « Spesso diceva », racconta Fritz Heidegger, « che la vita è fatta
così bene che c’è sempre qualcosa di cui potersi rallegrare. »I2
Era un tipo risoluto, a volte orgoglioso, non nascondeva la consapevolezza dei suoi natali di buona
famiglia contadina. Era considerata una lavoratrice, la si vedeva quasi sempre in grembiule e «
cuffietta ». Il padre era un uomo introverso, capace di starsene zitto per giornate intere, modesto,
diligente, retto. Una persona che non ha lasciato molti ricordi di sé ai figli.
In casa Heidegger non c’era abbondanza, ma nemmeno povertà: 2000 marchi di patrimonio
immobiliare e 960 marchi nella dichiarazione preventiva dei redditi (nel 1903); vale a dire un ceto
medio-basso. Una famiglia poteva viverci, ma non bastavano per mandare i figli nelle costose
scuole superiori. E qui interveniva la Chiesa. Era una prassi comune che la Chiesa pagasse sussidi
agli studenti più dotati e che reclutasse al tempo stesso nuove vocazioni sacerdotali, soprattutto
nelle campagne.
II    parroco del paese, Camillo Brandhuber, propose ai genitori che il loro figlio, che prometteva
bene, una volta finita la scuola che c’era in paese (non c’era un liceo sul posto) venisse mandato al
collegio cattolico di Costanza, un seminario per la formazione di nuovi sacerdoti. Brandhuber aveva
impartito gratuitamente al suo allievo lezioni di latino, rendendogli così possibile l’accesso a un
liceo. Il direttore del collegio di Costanza era Conrad Gröber. Brandhuber e Gröber avevano
procurato a Martin una borsa di studio offerta da una fondazione locale. I genitori erano orgogliosi
che la Chiesa prendesse il loro figlio sotto la sua ala protettrice. Ma per Martin cominciò il periodo
di dipendenza finanziaria dalla Chiesa. E adesso aveva un dovere di gratitudine.
Questa dipendenza finanziaria sarebbe durata per ben tredici anni, fino al 1916. Dopo la borsa di
studio «Weiß» per il periodo trascorso in collegio a Costanza (1903-1906), Martin ricevette per gli
ultimi anni di liceo e i primi quattro semestri presso il seminario di teologia di Friburgo, fino al
1911, il sussidio di studio «Eliner», legato alla formazione sacerdotale. Gli anni di studio fra il 1913
e il 1916 furono finanziati dalla donazione «Schätzler». Lo scopo di questa fondazione era quello di
avviare i borsisti alla salvaguardia del patrimonio filosofico e teologico di san Tommaso d’Aquino.
Heidegger continuò a restare legato al mondo cattolico anche quando già aveva cominciato ad
allontanarsi nel suo intimo dalla Chiesa. Dovette adattarsi, e se ne vergognava - un tormento,
questo, che egli non potè perdonare al « sistema del cattolicesimo », come ebbe a chiamarlo. Questo
« sistema » istituzionale, con la sua politica degli interessi nella vita pubblica, lo disturbava a tal
punto che in seguito avrebbe simpatizzato per il movimento nazista anche perché si presentava
come anticlericale.
Nel 1903 Heidegger entra nel collegio di Costanza e comincia a frequentare il liceo di quella città.
Meßkirch era ancora un mondo cattolico chiuso, anche se vi si avvertiva ancora l’eco dei conflitti
con i « vecchi cattolici ». Ma a Costanza, che dista cinquanta chilometri, i tempi moderni si
facevano sentire già più chiaramente.
Quella libera città dell’impero era di confessione mista. La storia gloriosa della città continuava a
sopravvivere nei suoi monumenti. C’era l’antico Kaufhaus, dove nel Quattrocento si tenne il
Concilio di Costanza, e la casa dove Hus aveva atteso il processo. Il convento dei domenicani, in
cui fu tenuto prigioniero l’«eretico», era stato trasformato nel frattempo in un albergo, il cosiddetto
Insel Hotel, che con le sue sale per riunioni costituiva uno dei fulcri della vita culturale della città.
Qui si tenevano concerti e manifestazioni, frequentate spesso e volentieri dagli studenti del liceo.
Qui lo « spirito moderno » veniva tollerato. Si parlava di Nietzsche, di Ibsen, dell’ateismo, della
«filosofia dell’inconscio» di Hartmann e della « filosofia del come se » di Vaihinger, e addirittura di
psicoanalisi e interpretazioni dei sogni. A Costanza spirava un vento di progresso: la città era
rimasta fin dalle giornate di Hecker del 1848 una roccaforte del liberalismo. Günther Dehn, che
frequentava il liceo di Costanza ai tempi di Heidegger, racconta nelle sue memorie il brivido di
trepidazione che avevano provato lui e i suoi compagni di scuola nell’apprendere che l’inserviente
dei bagni pubblici maschili era un vecchio quarantottino che aveva già combattuto sulle barricate. Il
giornale locale di maggiore tiratura, la Abendzeitung, era democratico, anticlericale e anche
prudentemente antiprussiano, sebbene - o forse proprio per questo - nella città fosse di stanza un
reggimento di fanteria prussiano e gli ufficiali di tutto il Reich trascorressero di buon grado le loro
vacanze nella città lacustre.
Il collegio, chiamato Casa dello studente St. Konrad, o più semplicemente Konradihaus, era stato
chiuso negli anni del Kulturkampf ed era stato riaperto soltanto nel 1888. Il liceo, un ex convento
gesuita, era sotto il controllo dello Stato. I collegiali frequentavano così una « scuola laica », in cui
era predominante un umanismo culturale moderato, liberale, anticonfessionale. C’era l’insegnante
di lingue moderne, Pacius, un democratico, spirito libero e pacifista, molto amato dagli studenti
perché le sue massime erano davvero incisive. Egli era solito far arrabbiare i collegiali, che come
aspiranti teologi avevano in gran stima Aristotele, dicendo: « Aristotele, che cos’era mai in
confronto a Platone, quel gigante dello spirito? »13
Ma non risparmiava nemmeno i protestanti: « L’astrologia », soleva dire, « questa superstizione,
nasce, secondo le mie ricerche, con Melantone ». Per l’insegnante di lettere e storia, Otto Kimmig,
Nathan il saggio di Lessing era l’unico testo sacro che si potesse accettare. L’influenza di questi
docenti, dai quali fu istruito anche Martin Heidegger, dev’essere stata considerevole: « Quanto
questi due insegnanti mi abbiano portato fuori dall’universo del pensiero cristiano, che per loro non
esisteva affatto, mi fu chiaro soltanto in seguito »14 - questa è la conclusione di Günther Dehn.
Gli ospiti del Konradihaus venivano per quanto possibile immunizzati nei confronti dello spirito
libero della scuola. Ricevevano una patina apologetica, venivano preparati a fare i conti con i « laici
» ed erano tenuti a redigere a turno dei discorsi nei quali dovevano mostrarsi attrezzati a difendersi.
Ad esempio veniva assegnato il tema se l’uomo sia in grado davvero di pervenire con le sue sole
forze all'umanità, oppure: dove stiano i limiti della tolleranza; si parlava della libertà e del peccato
originale e veniva discusso il problema se rifigenia di Goethe fosse una figura pagano-cristiana o
cristiano-germanica oppure soltanto pagana. Da tali questioni scottanti si poteva trovare sollievo
solo nei temi di storia locale, come la cronaca dell’abbazia di Reichenau, gli usi e costumi di Hegau
e i villaggi preistorici su palafitte del lago di Costanza. Talvolta fra i collegiali si creava un clima da
movimento giovanile: nelle giornate di sole si facevano passeggiate nel verde, con chitarre e canti,
gite a Meinau, al Grafengarten di Bodman e ai vigneti dell'Untersee. Si provavana commedie
dialettali, si faceva musica, e quando i compagni di scuola « laici » vantavano le loro visite alle
artiste del teatro, gli ospiti del collegio potevano raccontare del loro ultimo presepio vivente.
Comunque, questi collegiali non erano certo dei « bigotti »: eleggevano regolarmente - e del resto
siamo nel Baden - un organo di rappresentanza con funzione consultiva nella direzione del convitto,
e pubblicavano un giornalino nel quale si rammentava a scadenze regolari che il Baden era stato la
prima regione tedesca ad abolire la censura sulla stampa.
Gli ospiti del collegio vivevano sotto una sorveglianza stretta, ma certo non intollerante. A ogni
modo, Martin Heidegger ricordava senza rancore gli anni trascorsi a Costanza. Nel 1928 scrisse
all’ex padre spirituale per le classi ginnasiali, Matthäus Lang: « Ripenso volentieri e con
riconoscenza agli inizi delle mie ricerche nel Konradihaus, e sento sempre più chiaramente quanto
tutti i miei tentativi siano legati strettamente alla terra natale. E' ancora chiaro nel ricordo come io
cominciai ad avere fiducia in lei come nuovo prefetto, fiducia che nutro tuttora, e la gioia che mi
procurò nel convitto».15
Meno felice era per i collegiali il rapporto con i compagni « liberi » del liceo, soprattutto quando
questi provenivano dai ceti più abbienti. Costoro, figli di avvocati, funzionari e commercianti, si
sentivano superiori rispetto ai « capponi », come li chiamavano loro. I collegiali venivano per lo più
dalle campagne ed erano, come anche Martin Heidegger, di condizioni modeste o addirittura
povere. Günther Dehn, figlio di un direttore delle poste, ricorda: «I 'capponi’ li abbiamo sempre
trattati un po’ dall’alto in basso. Erano vestiti male e, a parer nostro, si lavavano poco. Ci
credevamo gente migliore. Ma questo non ci impediva di servircene per i nostri scopi. Venivano
costretti a fare i compiti in maniera accuratissima. E durante l’intervallo dovevano passarci la
traduzione, cosa che facevano sempre volentieri ».16
I collegiali restavano fra di loro, così potevano affermarsi meglio; formavano una comunità un po’
derisa dagli altri. Erano esclusi da certi divertimenti dei loro compagni « laici », o per mancanza di
soldi o perché vi era un esplicito divieto. Rimanevano spettatori abusivi quando per tre interi giorni
il carnevale impazzava nelle stradine tortuose e nei locali della città e gli studenti formavano una
propria corporazione carnascialesca. D’estate, poi, arrivavano in città i turisti stranieri e allora le
navi dei divertimenti, quelle con le bandierine colorate, salpavano per Meersburg, riportando
indietro alla sera una folla barcollante di persone che si spandeva cantando e vociando per le viuzze
del centro. E gli studenti liceali erano sempre là in mezzo, con i loro berretti colorati. Così il giorno
dopo potevano vantarsi, durante la pausa, di esperienze e conquiste che riempivano le orecchie dei
collegiali. Nel periodo della vendemmia si serviva dovunque il mosto, che dava piuttosto facilmente
alla testa. In certi locali gli studenti liceali potevano restare fino alle dieci di sera, e vi incontravano
i loro insegnanti per bere un bicchiere di vino: una buona occasione per fraternizzare; ma tali
intimità e dimostrazioni di autonomia restavano precluse agli ospiti del collegio.
Questi ultimi facevano parte di un mondo diverso, e glielo si faceva capire. Erano costretti a
combattere contro il senso di sottomissione. E a tal fine li soccorreva l’orgoglio: coloro che erano
esclusi potevano anche sentire in cuor loro di essere gli eletti.
Nel rapporto di conflittualità fra il collegio e la gaia vita cittadina al di fuori, fra mondo cattolico e
ambiente liberal-borghese, forse si era già formata in Heidegger l’immagine di quei due mondi: di
qua quello severo, duro, ostinato e dai ritmi lenti, di là quello della vita vissuta rapidamente, con
superficialità, nel quale ci si dedicava alle attrazioni del momento; qui la fatica, là il mero
affaccendarsi; qui ci si radica, là si va avanti senza appigli; gli uni si rendono la vita difficile, gli
altri cercano la via più comoda; gli uni sono profondi, gli altri superficiali; da una parte si resta
fedeli a ciò che è proprio, dall’altra ci si perde nella distrazione.
Questo schema avrà in seguito fortuna, all’interno della filosofia heideggeriana, nei concetti di
autenticità e inautenticità.
Nell’autunno del 1906 Heidegger si trasferì dal Konradihaus di Costanza al collegio liceale
arcivescovile di St. Georg a Friburgo, dove frequentava lo stimato Bertoldgymnasium. La borsa di
studio della fondazione locale di Meßkirch non copriva più le spese per il collegio a Costanza. I
mentori intraprendenti del figlio del sacrestano, Conrad Gröber e Camillo Brandhuber, gli avevano
dischiuso un’altra fonte di sussistenza: la borsa di studio « Eliner », una fondazione istituita nel
Cinquecento da Christoph Eliner, un teologo di Meßkirch. Con essa dovevano essere aiutati gli
studenti di teologia del paese, ed era prescritta la frequenza del liceo e dell’università a Friburgo.
Il passaggio da Costanza a Friburgo ebbe il sapore di un privilegio. Martin potè separarsi senza
rancori da Costanza, di cui conservò sempre un buon ricordo. Anche in vecchiaia egli prese parte
agli incontri degli ex allievi del Konradihaus. Non ebbe analoghi sentimenti di attaccamento nei
confronti del collegio di Friburgo. Poiché trascorse quasi tutta la sua vita in questa città, sentì il
bisogno di frapporre delle distanze. Qui egli si allontanerà dal cattolicesimo, che a Friburgo getta
ombre particolarmente potenti: la cattedrale, completata in forme di gotico maturo, si erge maestosa
sulla città. Essa sta come un’enorme nave ai piedi delle catene montuose della Selva Nera, come se
fosse in procinto di salpare verso la baia della Brisgovia.
Fino alla seconda guerra mondiale la città vecchia, stretta intorno alla cattedrale, si conservava
ancora pressoché intatta. C’erano ancora i numerosi vicoli che portavano a raggiera verso la piazza
della cattedrale, alcuni dei quali abbelliti ai margini con canaletti d’acqua corrente. I collegiali erano
alloggiati nei pressi delle residenze ecclesiastiche.
Quando il giovane Martin arrivò a Friburgo, la città offriva più o meno la stessa veduta che Sulpiz
Boisseré descrisse così, un secolo prima, in una lettera a Goethe: « Su Friburgo dovrei scriverti un
libro intero; è un luogo universale, tutto antico e così ben conservato, un posto meraviglioso, e in
ogni vicolo c’è un ruscelletto d’acqua cristallina, e una fontana a getto, [...] tutto intorno vigneti; e i
terrapieni, costruiti un tempo a scopo di fortificazione, sono piantati a vigna».17
Martin era uno scolaro volonteroso del Bertoldgymnasium. La sua ambizione intellettuale cercava
ancora uno spazio all'interno della Chiesa: dopo la maturità voleva entrare nell’ordine gesuita. E i
suoi insegnanti appoggiavano queste intenzioni. Il preside del collegio liceale scrive sul certificato
di maturità, del 1909: «Il suo talento, il suo zelo e il suo comportamento morale sono buoni. Il suo
carattere rivela già una certa maturità, anche nello studio si è dimostrato autonomo, applicandosi
talvolta anche un po’ troppo, a spese di altre discipline, alla letteratura tedesca, nella quale si mostra
particolarmente edotto. Nella scelta in seno all’attività teologica è sicuramente incline alla vita
nell’Ordine. Si candiderà, probabilmente, all’ammissione nella Compagnia di Gesù ».18
Diversamente da alcuni altri suoi compagni di scuola, il giovane Martin non si sente attratto dalle «
moderne » tendenze culturali dell’epoca. I giovani autori del naturalismo, del simbolismo e dello
Jugendstil non rientrano ancora nel suo orizzonte di letture. I suoi esercizi spirituali sono di tipo più
severo. Nello stilare nel 1915 il suo curriculum per l’abilitazione, egli parla degli stimoli culturali
ricevuti a scuola: «Quando nella settima classe liceale l’insegnamento di matematica dalla semplice
soluzione di problemi imboccò strade più teoretiche, la mia semplice predilezione per questa
disciplina divenne un vero e proprio interesse, che si estese anche alla fisica. A questo proposito
trassi stimolo dalle ore di religione, durante le quali mi vennero consigliate numerose letture sulla
teoria dell’evoluzione biologica. Nella nona classe liceale le lezioni su Platone [...] mi introdussero
in modo più cosciente ai problemi filosofici, anche se non con rigore teoretico ».19
È proprio la lezione di religione a destare il suo interesse per la dottrina biologica dell’evoluzione,
che a quel tempo era assai ostile alla dottrina religiosa. E' chiaro che essa lo induce a inoltrarsi in
zone più pericolose, sul piano spirituale, dove la fede di Meßkirch vive uno status difficile. Egli non
ha paura dell’esperienza spirituale, perché sente ancora di avere un terreno ben saldo sotto i piedi,
un terreno di fede. E così il 30 settembre 1909 entra nel noviziato della Compagnia di Gesù a Tisis,
presso Feldkirch (Vorarlberg). Due settimane dopo, trascorso il periodo di prova, viene già
congedato. È noto che Heidegger, come informa Hugo Ott, lamentò disturbi di cuore e perciò fu
rispedito a casa per motivi di salute. Questi disturbi si ripeteranno due anni dopo, e saranno la causa
dell’interruzione della sua formazione sacerdotale. Forse il suo cuore si oppose, a quel tempo, ai
piani concepiti dalla mente.
2. Fra gli antimodernisti. Abraham a Sancta Clara. Il valore escatologico della vita. La logica
celeste. Heidegger scopre Brentano e Husserl. L’eredità filosofica del xix secolo. L'inaridirsi
dell’idealismo tedesco.
La filosofia del « come se ». La fuga dai valori culturali. I valori e il valore dei soldi.
MARTIN HEIDEGGER È ancora irremovibile: respinto dai gesuiti, fa richiesta di essere accolto fra gli
aspiranti al collegio teologico di Friburgo. Ci saranno stati forse anche motivi finanziari. I genitori
non sono in grado di mantenerlo agli studi e la borsa di studio « Eliner », che riceve dai tempi del
liceo a Friburgo, è vincolata alla carriera teologica.
Nel semestre invernale 1909 egli comincia a studiare teologia. Nel curriculum vitae del 1915
scriverà: « Le lezioni di filosofia allora impartite mi soddisfecero poco, cosicché passai a uno studio
da autodidatta dei testi della Scolastica. Essi mi procurarono una certa preparazione logico-formale,
ma sotto l’aspetto filosofico non mi diedero ciò che cercavo».1
Egli però cita espressamente solo un teologo di Friburgo, che in seguito continuerà a definire suo «
maestro »: Carl Braig.
Già nell’ultimo anno di liceo aveva studiato il suo testo Dell' essere. Compendio di ontologia
(1896), familiarizzando con alcuni concetti fondamentali della tradizione ontologica. Fu lui il primo
a stimolarlo a un confronto con Hegel e Schelling. Accompagnandolo in alcune passeggiate,
Heidegger ebbe modo di conoscere il « modo penetrante »2 di pensare tipico di Braig, che era in
grado, come scrisse Heidegger cinquant’anni dopo, di far diventare i pensieri un presente vitale.
Carl Braig era un teologo deH’antimodernismo.
A partire dall’enciclica Pascendi dominici gregis del 1907, che aveva dichiarato guerra al «
modernismo » (« De falsis doctrinis modernistarum »), i concetti di « modernismo » e
« antimodernismo » erano diventati i vessilli di una battaglia religiosa interna non solo al
cattolicesimo. Gli antimodernisti non avevano a cuore semplicemente la difesa dei dogmi
ecclesiastici (l’« Immacolata concezione ») e dei principi della gerarchia clericale (l'infallibilità del
papa). Questa è l’immagine che ne hanno dato spesso i loro avversari, che perciò hanno visto
nell'antimodemismo nient’altro che una pericolosa o persino ridicola congiura oscurantistica contro
lo spirito scientifico del tempo, contro l’illuminismo, contro l’umanismo e le idee di progresso di
qualsiasi tipo.
Ma che si potesse essere antimodernisti senza diventare oscurantisti lo mostra proprio l’esempio di
Carl Braig: una mente acuta, che mise allo scoperto i presupposti fideistici irriflessi che si annidano
nelle diverse varianti della scientificità moderna; egli voleva svegliare dal « sonno dogmatico »
tutto ciò che si illudeva di essere libero da credenze e presupposti. Anche i cosiddetti agnostici,
diceva, hanno una fede, benché si tratti di una fede particolarmente primitiva e semplicistica: quella
nel progresso, nella scienza, nell’evoluzione biologica, che si presume così bendisposta nei nostri
confronti; e poi c’è la fede nelle leggi economiche e storiche... Il modernismo, afferma Braig, è «
cieco davanti a tutto ciò che gli sia estraneo o che non sia al suo servizio»;3 e l’autonomia del
soggetto è diventata una prigione che esso stesso si è fabbricato intorno. Nella moderna
civilizzazione Braig critica la mancanza di timore reverenziale nei confronti del mistero inesauribile
di una realtà di cui siamo parte e che ci coinvolge. Se l’uomo, nella sua supponenza, si pone al
centro, alla fine gli resterà soltanto un rapporto pragmatico con la verità: « vero » è ciò çhe ci è utile
e che ci procura risultati pratici. Secondo Braig, invece, « la verità storica, come ogni verità - ma
più di tutte risplende qui vittoriosa la verità matematica, la forma più rigorosa della verità eterna -
precede l’io soggettivo e sussiste senza di lui [...] Le cose non sono in verità così razionali, nel loro
complesso, come le contempla l’io della ragione, [...] e non c’è Kant [...] che possa cambiare la
legge che impone all’uomo di orientarsi in base alle cose ».4
Di fatto Braig vuole portarsi alle spalle di Kant, ma in compagnia di Hegel, il quale aveva obiettato,
contro l’eccessiva prudenza di Kant, che la paura di sbagliare è essa stessa l’errore. Braig
incoraggia a superare i limiti del trascendentale: è forse già stabilito che siamo noi a scoprire il
mondo? Perché non può essere piuttosto il mondo a scoprire noi? Non è forse che noi conosciamo
solo perché noi stessi siamo conosciuti? Noi possiamo pensare Dio; perché allora non dovremmo
essere a nostra volta i pensieri di Dio? A volte Braig sembra voler fare a pezzi, con piglio risoluto,
la stanza degli specchi in cui vede prigioniero l’uomo moderno. Braig predica apertamente un
realismo di stampo pre-moderno, insieme spirituale ed empirico. Egli lo motiva osservando che noi,
giacché siamo a conoscenza dei limiti, siamo già al di là di essi. Avendo conoscenza del conoscere e
percezione del percepire, ci muoviamo già nel campo della realtà assoluta. Dobbiamo liberarci
dall’assolutismo del soggetto, afferma Braig, per diventare liberi per la realtà dell’assoluto.
Su questo terreno di scontro intorno alla questione del modernismo, il giovane Martin Heidegger
esce con la sua prima pubblicazione. Egli è già membro del Gralbund, un gruppo di stretta
osservanza antimodernista facente capo al movimento giovanile cattolico, la cui guida spirituale era
il viennese Richard von Kralik, un fanatico della ricostituzione della pura fede cattolica e
dell’impero cattolico-romano della nazione tedesca. Il centro di quest’impero dovevano essere gli
Asburgo, non la Prussia. Si trattava quindi di una concezione politica della Mitteleuropa. In questi
ambienti si vagheggiava il Medioevo romantico che fu di Novalis e si credeva nella « legge soave »
della fedeltà alla tradizione, cara a Stifter. Ma in questi ambienti c’era anche la disponibilità a
difendere con straordinario vigore tale tradizione dalle moderne presunzioni e lusinghe.
Un’opportunità in tal senso si offrì al giovane Heidegger in occasione dei festeggiamenti per
l’inaugurazione del monumento di Abraham a Sancta Clara nell’agosto 1910 a Kreenhainstetten,
una piccola località vicino a Meßkirch.
Il patriottismo locale di Meßkirch aveva sempre celebrato la memoria del noto predicatore di Corte
Abraham a Sancta Clara, nato a Kreenhainstetten nel 1644 e morto a Vienna nel 1709 circondato da
grandi onori, dedicandogli articoli sulla stampa locale e piccole cerimonie negli anniversari della
nascita più significativi. Ma dall’inizio del secolo era confluito in questa tradizione accorata e
patriottica un aspro carattere polemico-ideologico. Gli antimodernisti della Germania meridionale
avevano eletto Abraham a Sancta Clara a loro figura-guida, richiamandosi a lui nelle loro polemiche
contro la corrente liberale del cattolicesimo. Nel celebre monaco agostiniano si potevano trovare
parole forti contro la vita edonistica e corrotta della città, contro la superbia spirituale che non si
inginocchia più davanti alle dottrine rivelate della Chiesa, contro la smania di spreco dei ricchi, ma
anche contro la cosiddetta avidità di guadagno degli « ebrei strozzini ». Questo predicatore aveva
fatto suo il partito dei miseri e dei poveri, vantandosi delle proprie umili origini. Non tutti quelli che
sono nati sotto un tetto di paglia hanno paglia dentro la testa: così diceva una delle sue sentenze più
spesso citate. Abraham a Sancta Clara era un cristiano-sociale, popolare, dai modi rudi, credente e
pio, ma non bigotto, legato alla terra natia e anche antisemita: proprio la miscela giusta per gli
antimodernisti.
Quel 16 agosto 1910, quando il monumento fu inaugurato, ci fu una grande festa popolare. Martin
Heidegger venne da Friburgo.
Il paese era tutto in fiore; appesi alle finestre e sopra la strada principale c’erano striscioni con frasi
celebri del predicatore. Si mise in movimento una parata a festa: davanti gli araldi a cavallo con i
costumi storici del tempo di Abraham a Sancta Clara; e poi i monaci di Beuron, i dignitari religiosi
e laici, gli scolari con bandierine colorate, le ragazze adorne di fiori, i contadini con i loro costumi;
ci fu l’esibizione della banda musicale, si tennero discorsi e gli allievi della scuola comunale di
Meßkirch lessero poesie e frasi celebri di Abraham.
Di questo avvenimento ci dà notizia l’articolo che Heidegger scrisse per il settimanale cattolico-
conservatore Allgemeine Rundschau, edito a Monaco; un testo che egli ritenne degno di essere
inserito nell’edizione delle sue opere.
« L’accento naturale, fresco, talvolta anche grossolano, conferisce a questo evento la sua impronta
specifica. Il modesto borgo di Kreenhainstetten, con i suoi abitanti tenaci, orgogliosi, schivi, giace
addormentato nella conca inferiore di una valle. Persino il campanile è un tipo strano. Esso non leva
liberamente il suo sguardo sul territorio, al pari dei suoi fratelli, ma nasconde la sua mole pesante
fra i tetti rossi e ne-
ri delle case [...] E questa è la stessa schiettezza, chiarezza e veracità che informò la cerimonia di
inaugurazione del monumento ».5
Non bisogna dimenticare che quando Heidegger scrive queste frasi ha già annusato l’aria di città, a
Costanza, e, dal 1906, a Friburgo. Egli sa che cosa lo distingue da quelli che, nell’ambiente
borghese, possono muoversi consapevoli di se stessi e a loro agio, vestiti alla moda ed esperti in
questioni di letteratura contemporanea, arte e filosofia. Heidegger lo ha intuito dalla differenza fra il
proprio mondo, quello di Meßkirch e Kreenhainstetten, e il mondo là fuori, e qui si annuncia già la
differenza fra autenticità e inautenticità. E così anche nelle frasi che riguardano l’inaugurazione del
monumento si può trovare una sorta di autoritratto. Il campanile è « un tipo strano », e così lui
stesso. Mentre altri levano « liberamente lo sguardo sul territorio », la sua « mole pesante » lo
risospinge al suolo da cui proviene, «tenace, orgoglioso, schivo», come i suoi abitanti. Egli desidera
essere come quella gente, ma anche come Abraham a Sancta Clara, che aveva qualcosa della «
salute del popolo nel corpo e nell’anima », che impressionava per il suo « arcaico vigore cattolico,
senso di fede e amore di Dio », ma si mostrava anche esperto nella raffinata cultura spirituale del
suo tempo, dominandola senza esserne dominato. Perciò, commenta Heidegger, poteva permettersi
« di fare irruzione senza paura in qualsiasi concezione della vita che sopravvalutasse l’aldiqua».
Abraham a Sancta Clara sapeva di che cosa parlava, non era certo uno che faceva come la volpe con
l’uva.
Il giovane Heidegger adduce argomenti contro la « decadenza » della sua epoca. Che cosa le
rimprovera? La « soffocante oscurità »; è un’epoca di « cultura esteriore », di « vita febbrile », di «
furia di rinnovamento che tutto sradica », di « lusinghe momentanee », in cui domina « il folle
scavalcamento di tutti i più profondi contenuti spirituali della vita e dell’arte ».6
Si tratta di una comune critica conservatrice alla cultura; non soltanto nel Gralbund si parla e si
pensa così: anche in Langbehn e Lagarde si trova una polemica analoga contro la superficialità, la
ricerca spasmodica di apparire, la vita febbrile e la smania di rinnovamento. Si osserva tuttavia che
manca nel giovane Heidegger quell’antisemitismo che in ge-
nere compare in questi casi. E ciò è tanto più degno di attenzione se si considera che il
finanziamento del monumento di Kreenhainstetten era stato avviato da Karl Lueger, sindaco di
Vienna, personaggio popolare proprio per il suo antisemitismo. Da notare è anche la sicurezza con
la quale Heidegger parla qui ancora di « valore escatologico della vita », che egli vede tradito in
tutti questi fenomeni del proprio tempo. Che cosa si debba intendere con ciò, egli lo spiega negli
altri articoli (scoperti da Victor Farias) che Heidegger redasse fra il 1910 e il 1912 per la rivista Der
Akademiker, un mensile della federazione universitaria dei cattolici integralisti.
Nel numero di marzo del 1910 egli presenta una biografia dello scrittore e saggista Johannes
Jorgensen. Verità e menzogna della vita, questo il titolo del libro. In esso si descrive il cammino di
una evoluzione dal darwinismo al cattolicesimo, presentata come via che va dalla disperazione alla
sicurezza, dall’orgoglio all’umiltà, dalla sfrenatezza alla libertà vivente. Per il giovane Martin
Heidegger è una via esemplare e perciò ricca di insegnamenti, perché attraversa tutte le stoltezze e
le lusinghe del modernismo per fare infine ritorno alla quiete e alla salvezza della fede della Chiesa,
e cioè al « valore escatologico della vita ». In questo cammino qualcuno si è liberato dalla grande
illusione del modernismo che vuol condurre «l'io alla maturazione senza residui»; in esso qualcuno
dimostra infine sul proprio corpo e sulla propria vita che chi ripone tutto su di sé lo ripone su niente.
« Ai nostri giorni si parla tanto di 'personalità’ [...] La persona dell’artista viene in primo piano. Così
si sentono dire molte cose di persone interessanti. O. Wilde, il dandy; P. Verlaine, il ’beone geniale’;
M. Gorkij, il grande vagabondo; Nietzsche, il superuomo: persone interessanti. E quando poi
qualcuno in un momento di grazia si rende conto della grande menzogna della sua vita da zingaro, e
abbatte gli altari dei falsi idoli diventando cristiano, ciò viene definito ’stantio, nauseante’. »7
Heidegger dirà nel 1930, nella sua celebre conferenza Dell'essenza della verità (Vom Wesen der
Wahrheit): « La libertà ci renderà veri ». In questi saggi giovanili vale l’esatto contrario: la verità ci
renderà liberi. E questa verità non è qualcosa che l’uomo possa riporre su di sé e sviluppare per
proprio conto; egli la riceve nella comunità vivente dei fedeli e
nelle sue tradizioni. Soltanto qui c’è « il godimento sublime del possesso della verità », al quale
nessuno può arrivare da solo. Il giovane Heidegger sostiene quel realismo fideistico che fu del suo
maestro Carl Braig. La devozione fideistico-protestante è per lui ancora troppo soggettiva. In una
recensione al volume di F.W. Foerster, Autorità e libertà. Osservazioni sul problema culturale della
Chiesa, egli polemizza contro il godimento narcisistico delle « esperienze vissute », contro
l'impressionismo delle visioni del mondo, in cui si esprimono solo « stati d’animo personali », ma
nessun contenuto oggettivo. L’argomento ricorrente di Heidegger nella sua polemica contro le
visioni del mondo è il seguente: esse si basano sui bisogni della vita. Ma chi cerca la verità fa il
contrario: costringe la vita sotto l’egida delle sue concezioni. Per il giovane Heidegger un criterio
evidentemente decisivo per la verità è che con essa il gioco non è per nulla facile; che la facoltà di
possederla sta nell’« arte del controllo e dell’alienazione di sé ». La verità si riconosce dal fatto che
essa si oppone a noi, ci sfida e ci trasforma. Soltanto chi sa prescindere da se stesso, e chi «
raggiunge la libertà dello spirito di fronte al mondo delle pulsioni, troverà la libertà. Essa è una
sfida per lo spirito dell’autonomismo sfrenato ». Essa illumina, ma non è illuminante di per sé. La
presunzione personale deve piegarsi all’« autorità morale e religiosa». «Già quest’unico fatto, quasi
terrifico, che la maggior parte degli uomini, basandosi su loro stessi, non trovino la verità e non
vogliano raggiungerla, e piuttosto la inchiodino sulla croce, toglie qualsiasi fondamento alle
possibilità di un’etica individualistica. »x
Bisognerebbe annotarsi questa argomentazione, perché Heidegger vi resterà fedele: la sfida e la
scomodità rimangono criteri di verità; ma in seguito perfino il supposto possesso della verità sotto
l’egida della fede sarà considerato come una via comoda e perciò come un tradimento della verità.
E quel qualcosa di difficile e arduo che bisogna esigere sarà allora quella libertà di cui in
precedenza si diffidava, che sopporta il proprio essere senza tetto e senza riparo sul piano metafisico
e non si lascia schermare dai principi ben saldi della verità e del realismo fideistico.
Le invettive di Heidegger contro il « culto della personalità » non sono prive di risentimento, dato
che egli non può nascondere di essere privo di quella patina diffamata della personalità. Questo
studente di teologia sovvenzionato dalla Chiesa appare piuttosto maldestro nell'ambiente medio-
borghese del liceo e dell’università. Le sue apparizioni in ambito extrafilosofico saranno sempre
caratterizzate dalla mancanza di sicurezza. Gli rimarrà addosso una certa « aria di gente comune ».
Ancora negli anni ’20 a Marburgo, dove già è il segreto monarca della filosofia in Germania, certi
colleghi e studenti che non lo conoscono lo scambiano per l’addetto alle caldaie o per l’usciere.
Quell’essere « interessanti » contro cui egli polemizza, gli manca ancora del tutto. Poiché non ha
ancora trovato il proprio ruolo da mettere in scena, evita ogni palcoscenico pubblico in cui
l’importante è sortire immediatamente un effetto sicuro, chiamando con un certo disprezzo «
entusiasmo da Cesare Borgia » quelle messe in scena di sé che facevano i giovani nietzscheani nei
caffè cittadini. Ciò che risulta facile, la semplice spontaneità, desta in lui il sospetto della
superficialità. Questo atteggiamento è proprio di chi non ha ancora trovato l’ambiente adatto per la
propria spontaneità e per il quale ciò che è « proprio » appare là fuori, presso gli altri, come un peso
vincolante. Se egli avvolge la «verità» con un’aureola di difficoltà, durezza, opposizione, ciò riflette
la stessa resistenza che egli avverte là fuori, fra le persone « di mondo », contro le quali deve
affermarsi. Ma nell’ambiente domestico questa verità della fede perde tutto il suo fardello di
difficoltà. Così anche la sua recensione di J0rgensen si conclude con una lirica apologia del senso di
sicurezza nella cattolica terra natia: « Egli [Jorgensen] vede nelle antiche città gli ombrosi bovindi,
le statue a lui familiari della Madonna e degli angeli delle case, sente il gorgoglio sonnecchiante
delle fontane, ascolta i mesti canti popolari. Sui suoi libri aleggia il sentore di una serata di giugno
qui in Germania, che si spegne in un silenzio di sogno. L’anelito del convertito in cerca di Dio, che
trova la terra natia, dovette essere il fermento potente della sua arte ».9
In questo mondo la verità del cattolicesimo è ancora di casa. E' un mondo che appare simile a quello
di Meßkirch fino a essere convertibile con esso. Qui la fede fa ancora parte dell’ordine della vita e
la si riceve senza doversi costringere al « controllo e alla alienazione di sé ». Ma quando si capita
con la propria fede in una terra straniera, bisogna soccorrerla con
la disciplina e con la logica. Di fronte a ogni fede si spalanca un abisso. Come si fa a superarlo? Il
giovane Heidegger punta sulla tradizione e la disciplina. Poi verrà la risolutezza (Entschlossenheit),
il decisionismo. Dopo ancora è la volta dell’« abbandono », cui egli si affiderà.
Intorno al 1910 Heidegger ritiene ancora che il « patrimonio di verità » della Chiesa è un dono e
non un possesso che derivi dai nostri risparmi e del quale possiamo disporre liberamente. E la fede
in questo patrimonio di verità non è un semplice sentimento. La religione del mero sentimento,
come quella di Schleiermacher, è per Braig e per il suo allievo; Martin Heidegger una concessione
al soggettivismo moderno. La fede non è un conforto sentimentale, ma una sfida ardua. Non desta
meraviglia che il mondo illuminato la senta come una presunzione, perché lo è davvero. Ad
esempio essa pretende che in nome della « verità » si rinunci alla logica psicologica della vita
vissuta fino in fondo. Il giovane Heidegger scrive: « E se vuoi vivere nello spirito, raggiungere la
tua beatitudine, allora muori, ucciditi e umiliati dentro di te, agisci con la Grazia soprannaturale, e
risorgerai ».10    
Questo modo di rivolgersi a Dio è privo di ogni mitezza paesana. E' guidato dall’intento di rendersi
la vita difficile e non vuole ammettere alcun tipo di rilassamento, come può essere quello proprio
del sentimento religioso di Schleiermacher, e non vuole nemmeno degradarsi ad asilo della mera
interiorità. E' altrove che Heidegger intende cercare in questo momento lo spirito di Dio sulla terra.
L’affermazione di Braig secondo cui « più vittoriosa di tutte risplende qui la verità matematica, la
forma più rigorosa delle verità eterne » gli aveva indicato la direzione, e gli fa scrivere sull'
Akademiker:] « C’è una logica ferrea e rigorosa a contrastare la delicatezza di sentimento
dell’anima moderna. Il ’pensiero’ non può farsi coartare nelle eterne, irremovibili barriere dei
principi logici. E qui è il punto. Del pensiero logico rigoroso, che si chiude ermeticamente di fronte
a ogni influsso affettivo dell’animo, di ogni lavoro scientifico davvero privo di presupposti, fa parte
un certo fondo di vigore etico, l’arte dell’autocontrollo e della alienazione di sé ». 11
Si tratta per lui dello stesso vigore che fa parte anche del superamento di sé proprio della fede. Per
lui l’autoritarismo della fede e l’oggettività della logica rigorosa sono un’unica
e medesima cosa; si tratta di modi diversi di prendere parte all'eterno. Solo nella rigorosa disciplina
della fede e della logica si soddisfa il desiderio di « risposte concluse, definitive, alle domande
ultime dell’essere, che talvolta sorgono improvvise come lampi, e che poi certi giorni gravano come
un péso sull’anima, afflitta e povera di vie da percorrere e di mete, come un carico di piombo ».12
Quando, nel 1915, Heidegger nomina nel suo curriculum la « formazione logico-formale » come se
si trattasse di una propedeutica, minimizza. Per lui infatti la logica formale e la logica matematica
erano a quel tempo effettivamente come una sorta di funzione religiosa: dalla logica egli si lascia
condurre alla disciplina dell’eterno e qui trova sostegno nel terreno malfermo della vita.
Nel 1907 Conrad Gröber aveva fatto dono al suo allievo della dissertazione di Franz Brentano Del
molteplice significato dell' ente secondo Aristotele. Qui egli trova ciò che chiama la « logica
rigorosa e ferrea »; una cosa per spiriti forti, che non vogliono vivere solo delle loro opinioni e dei
loro sentimenti,
È degno di nota che Gröber, uomo di Chiesa di stretta osservanza, abbia scelto proprio questo
scritto. Franz Brentano infatti, nato nel 1838, nipote del romantico Clemens Brentano, fu un filosofo
che da sacerdote cattolico solo in un primo tempo sottomise la filosofia alla fede, ma dopo il «
Concilio dell'infallibilità » del 1870 entrò in conflitto con i suoi superiori. Infine uscì dalla Chiesa,
si sposò, e per questo motivo dovette rinunciare al suo posto di professore a Vienna. Fino al 1895
visse ancora come libero docente, per ritirarsi infine, ormai quasi cieco, a vivere a Venezia.
Brentano fu maestro di Husserl, e quindi fu uno dei padri fondatori della fenomenologia. La
domanda da cui muoveva Brentano era quella che si interrogava sul modo d’essere di Dio. Se Dio
c’è, che cosa significa allora questo «c’è»? È forse Dio una rappresentazione nella nostra mente? È
nel mondo come una quintessenza, come un essere supremo? Attraverso analisi sottili, Brentano
scopre che c’è una via di mezzo fra le rappresentazioni soggettive e l’essere in sé delle cose: gli «
oggetti intenzionali ». Le rappresentazioni non sono, secondo Brentano, qualcosa di puramente
interiore, bensì sono sempre rappresentazioni « di qualcosa ». Esse sono la coscienza di alcunché di
essente che c’è, o, più precisamente: che mi si dà e mi si offre. Questi « oggetti intenzionali »,
interiori, sono qualcosa, cioè: essi non si lasciano risolvere in atti soggettivi, attraverso i quali
entriamo in relazione con loro. In tal modo Brentano prepara un mondo del tutto a sé stante
dell’ente, che occupa una posizione intermedia nel consueto schema di soggetto e oggetto. In questo
mondo degli « oggetti intenzionali » Brentano localizza anche il nostro rapporto con Dio. Qui « c’è
» Dio. La consapevolezza di Dio non può essere verificata in oggetti reali della nostra esperienza,
ma non si regge nemmeno su concetti universali astratti, come quelli di « sommo bene », « ente
sommo », etc. Brentano avvia un’indagine dei concetti ontologici in Aristotele per spiegare che il
Dio che è oggetto di fede non è quel Dio che vogliamo ricavare lungo le vie dell’astrazione dalla
pienezza dell’ente. Con Aristotele, Brentano mostra che questa totalità, presa in senso stretto, non
c’è affatto. Ci sono soltanto singole cose. Non c’è nessuna estensione in sé, ci sono soltanto cose
estese. Non c’è l’amore, ma solo i molti singoli eventi dell’amore. Brentano ci mette in guardia
dall’attribuire falsamente una sostanza alle cose concettuali. La sostanza non si annida nei concetti
universali, ma nelle singole cose concrete. Esse sono di infinità intensiva, perché stanno fra loro in
infinite relazioni e perciò possono essere determinate secondo infiniti punti di vista. Il mondo è
inesauribile: esso si offre solo nei dettagli e nella molteplice differenziazione dei modi di essere. Per
il pensiero di Franz Brentano Dio si annida nel dettaglio.
La sua indagine copre, rifacendosi ad Aristotele, tutto il terreno di ciò che è pensabile, e in tal modo
la fede, che per Brentano rimane vincolante, viene preservata da una ingannevole logicizzazione.
Essa riposa su di un terreno del tutto diverso da quello della fondazione logica, ma (a ciò allude la
dissertazione di Brentano) un giorno si potrebbe riuscire a descrivere esattamente che cosa accade
propriamente e davvero nell’atto di fede, a differenza ad esempio di quanto accade negli atti del
giudicare, rappresentare o percepire. Questi sono i tratti generali del programma fenomenologico
degli anni successivi.
La lettura di Brentano fu per Heidegger un esercizio difficile. Egli racconta come si tormentava con
essa a Meßkirch nei periodi in cui non c’erano lezioni. « Quando gli enigmi si affastellavano l’uno
sull’altro e non c’era più alcuna via d’uscita, veniva in aiuto il sentiero tra i campi. » Là, su quella
panchina, le cose tornavano a farsi facili per lui. « L’ampiezza di tutte le cose che crescono e
dimorano attorno al sentiero tra i campi, fa dono di un mondo. Solo nel non detto del suo linguaggio
[...] Dio si fa Dio. »13
Attraverso Franz Brentano Heidegger arriva a Edmund Husserl. Le sue Ricerche logiche, apparse
proprio al volgere del secolo, divennero per Heidegger una sorta di personale libro di culto.
Per ben due anni egli lo tiene nella sua camera, preso a prestito dalla biblioteca universitaria, dove
per il momento non lo richiedeva ancora nessuno, la qual cosa destò in lui il senso di una passione
solitaria e che, insieme, lo distingueva. Ancora cinquant’anni dopo, egli si entusiasma ripensando a
questo libro: « Rimasi tanto colpito dall’opera di Husserl, che la lessi incessantemente negli anni
seguenti [...] Il fascino che emanava dall’opera si estendeva anche all’aspetto tipografico esterno e
al frontespizio ».14
Heidegger trova in Husserl un’energica difesa delle pretese di validità della logica contro la sua
relativizzazione psicologica. In un saggio del 1912 egli definisce di che cosa si tratta: «
Fondamentale per la conoscenza della insensatezza e della sterilità teoretica dello psicologismo
rimane la distinzione fra atto psichico e contenuto logico, fra accadimento reale del pensiero, che si
svolge nel tempo, e il senso identico ideale, extratemporale; in breve: la distinzione fra ciò che ’è’ e
ciò che ’ha valore’ ».15
Con questa distinzione fra « atto psichico » e « contenuto logico» Husserl aveva dato all’inizio del
secolo un colpo di scure al nodo gordiano della disputa sullo psicologismo; certo, in modo così
acuto che soltanto pochi, e fra questi il giovane Heidegger, si accorsero di che cosa fosse accaduto.
Ciò che appariva in primo piano era un problema settoriale della filosofia, eppure in queste
controversie si decideva delle opposte tendenze e tensioni dell’epoca.
Intorno al 1900 la filosofia si trova in una situazione particolarmente tormentata. Le scienze della
natura, alleate a positivismo, empirismo e sensualismo, tolgono a essa l’aria che respira.
Il sentimento di trionfo delle scienze poggia sulla cono« scenza esatta della natura e sul dominio
tecnico di essa. Esperienza secondo regole, esperimento, costruzione di ipotesi, verifica,
procedimento induttivo: queste erano diventate componenti della logica della ricerca scientifica. La
vecchia e onorata domanda della filosofia che si chiedeva il « che cos'è » delle cose, era caduta in
disuso. Come è noto essa conduceva a discussioni interminabili, e poiché non si era più d’accordo
sulle cose che procedono all’infinito, si voleva anche sbarazzarsi di questo genere di discorsi. Per
quegli scienziati moderni che cominciavano a concepire se stessi come funzionari di un processo di
ricerca, era molto più promettente la domanda che si chiede « come qualcosa funziona ». In questo
caso si poteva ricavare alcunché di saldo e di tangibile, nell’intento di far funzionare, secondo le
proprie concezioni, le cose e forse anche le persone.    
Ma l’intelletto, con cui mettiamo in moto tutto questo processo, è esso stesso parte della natura.
Perciò bisognerebbe, secondo questo progetto ambizioso, poterlo indagare con lo stesso metodo che
si applica alla natura « esterna ». E per questo motivo nasce verso la fine del secolo, in correlazione
con le scienze della fisiologia e della chimica del cervello, una sorta di « scienza naturale » dei
fenomeni psichici: la psicologia sperimentale.
Il principio di questa impostazione di ricerca è quello di porsi come se si fosse stupidi, e di fare
come se non si sapesse nulla dello psichico, come se lo si potesse osservare dall’esterno, in modo
positivistico ed empiristico. Si vuole spiegare, non comprendere, si ricerca la conformità a regole,
non si cerca il senso. Infatti la comprensione ci rende complici dell’oggetto su cui indaghiamo. Ma
questo ci impedisce di averlo di fronte a noi puro, separato da noi stessi. L’impostazione della
scienza empirica ha bisogno in psicologia, come anche altrove, di un oggetto asettico, nel quale si
deve analizzare non già il « senso », quanto piuttosto il « meccanismo » dello psichico: le leggi
della trasformazione degli stimoli fisiologici in immagini rappresentative, il verificarsi, negli
insiemi di rappresentazioni, di strutture associative
conformi a regole, e infine anche le leggi del pensiero stesso, cioè la « logica ».
Da questa prospettiva la « logica » appare come un accadimento naturale nella psiche. E questo è
precisamente il « problema dello psicologismo ». Infatti i naturalisti dello psichico fanno della «
logica », questo insieme di leggi del pensiero, una « legge naturale » del pensiero, e trascurano nel
far ciò che la logica non descrive affatto empiricamente « come noi pensiamo », ma come «
dobbiamo » pensare, posto che vogliamo pervenire a giudizi che abbiano pretesa di verità, come la
scienza esige. Analizzando il pensiero come evento psichico naturale, la scienza si invischia in una
spinosa contraddizione: essa indaga il pensiero come un accadimento che si svolge secondo regole,
ma se facesse attenzione a se stessa dovrebbe osservare che il suo pensiero non è un processo che si
compie secondo leggi. Il pensiero non è determinato da leggi, ma si vincola a determinate regole.
Nell'ampio spettro del pensabile, la logica non si presenta come legge della natura, ma come
qualcosa che vale se noi lo facciamo valere.
Il concetto di legge ha, come è noto, un duplice senso: esso connota ciò che avviene regolarmente e
necessariamente così come avviene; e connota un insieme di regole che vuole prescrivere a ciò che
accade un determinato corso. Nel primo caso si tratta di leggi dell'essere, nel secondo di leggi del
dover essere; le prime descrivono ciò che è, le altre prescrivono ciò che deve essere.
Le ricerche di Husserl mirano a liberare la logica dal naturalismo e a riportare alla luce il suo
carattere normativo, e cioè spirituale. Naturalmente il lavoro della logica ha luogo nello psichico,
ma esso è un prodotto normativo dello psichico e non una legge naturale di un processo psichico.
Ma a questo chiarimento fa seguito immediatamente un
altro problema: quello del rapporto fra l'atto psichico e il suo
prodotto, fra la genesi del pensiero e la validità del suo contenuto.
Il processo di calcolo « due per due fa quattro » è un atto psichico, ma il « due per due fa quattro » è
valido anche quando questo atto psichico non viene compiuto. Il risultato del calcolo ha pretesa di
validità indipendentemente dal fatto che questa o quella testa stia facendo ora questo calcolo. Chi
calcola, o compie una qualche altra operazione logica, entra a far parte - e già questo suona molto
platonico - di un regno trans-soggettivo dello spirito. Le sfere del significato e del valore che vi si
raccolgono vengono attualizzate e utilizzate ogniqualvolta si compiano quegli atti del pensiero che
sono descrivibili come accadimenti psichici.
Tuttavia la formulazione secondo cui la logica non è la legge naturale del pensiero, ma appartiene a
una sfera ideale del valore, è esposta a fraintendimenti, perché lascia supporre che qui sia in gioco
soltanto una convenzione pragmatica. Invece, se prendiamo come esempio la logica della
conclusione sillogistica, questa non l’abbiamo concordata assieme, dicendo così che è « corretta »;
essa è in sé corretta. Tutti gli uomini sono mortali - Socrate è uomo - dunque Socrate è mortale:
questa conclusione è evidentemente giusta; è valida. Ma con ciò non è detto che i giudizi così
formulati siano anche empiricamente veri: ciò dipende dal fatto che le premesse («Tutti gli uomini
sono mortali...») siano corrette. Servendoci del modo giusto di trarre conclusioni, possiamo
formulare giudizi falsi a volontà (se tutti gli uomini fossero degli impiegati, anche Socrate lo
sarebbe). Perciò non si può nemmeno dire che ci siamo abituati alle modalità logiche del sillogismo
perché esse ci hanno aiutato a pervenire a risultati conoscitivi. Esse non hanno affatto bisogno di
aiutarci a raggiungere risultati conoscitivi in senso empirico, e molto più spesso ci inducono in
errore. Perciò questi sillogismi non sono affatto verificati empiricamente, ma, come ogni operazione
logica, sono soltanto e semplicemente autoevidenti.
Quanto più si va a fondo in questa evidenza della logica, tanto più enigmatica essa diventa. Da una
semplice analisi del sillogismo si passa improvvisamente al regno magico di uno spirito che trionfa
su tutti i tentativi di ridurlo in senso pragmatico, biologistico, naturalistico o sociologico.
Ma è proprio in quest’epoca, che comincia con la metà del xix secolo, che sotto l’impressione
suscitata dai successi pratici delle scienze empiriche matura una vera e propria passione per la
riduzione, e per la cacciata dello spirito dal campo del sapere.
Nietzsche aveva fatto a questo secolo una diagnosi, quella di essere « onesto » e « sincero », ma in
maniera plebea. Esso è « più ossequioso, più vero di fronte alla realtà di ogni tipo» e ha cercato
istintivamente ovunque teorie che siano adatte a giustificare una « sottomissione al fattuale ».16
Nietzsche aveva davanti agli occhi l’aspetto filisteo e anche meschino di questo realismo. Ma di
fatto, a partire dalla metà del xix secolo, trionfava un realismo che si sottometteva al fattuale per
poterlo dominare ancora più pienamente e poterlo trasformare nel proprio senso. Quella « volontà di
potenza » che Nietzsche aveva attribuito allo « spirito libero » non trionfa sulla vetta del «
superuomo » ma del diligente affaccendarsi, come in un formicaio, da parte di una civiltà che «
eleva a scienza la propria ragion pratica ». Ciò valeva per il mondo borghese, ma anche per il
movimento operaio, la cui soluzione persuasiva era « sapere è potere ». La cultura doveva portare
ascesa sociale e insegnare a tener testa agli inganni di ogni tipo: chi sa qualcosa non è persona facile
da imbrogliare; l’aspetto impressionante del sapere è che non si ha più bisogno di lasciarsi
impressionare. Esso promette la conquista della sovranità e viene incontro al bisogno di far
discendere le cose al proprio livello, per quanto misero esso sia.
E già sorprendente vedere come, a partire dalla metà dell’Ottocento, dopo i voli idealistici ad alta
quota da parte dello spirito assoluto, si manifesti ovunque la voglia di evidenziare la «piccolezza»
dell’uomo. Cominciò allora ad affermarsi la figura speculativa che consiste nel dire « l’uomo è
nient’altro che... » Per il romanticismo il mondo si sarebbe messo a cantare, purché si scovasse la
parola magica. La poesia e la filosofia della prima metà del secolo scorso erano il progetto
entusiasmante di trovare e inventare sempre nuove parole magiche. L’epoca richiedeva significati
esuberanti.
I mattatori che calcavano la scena magica dello spirito erano atleti della riflessione, e tuttavia nel
momento in cui i realisti batterono alla porta con la loro sensibilità per i dati di fatto, armati della
formula del « nient’altro che », essi apparvero come bambini ingenui che erano impazzati in ogni
dove mandando all’aria ogni cosa; ora però si trattava di riassettare tutto; cominciava la serietà della
vita, e di questo si sarebbero occupati i realisti. Questo realismo della seconda metà dell’Ottocento
metterà a punto l’artificio di pensare l’uomo come alcunché di piccolo, e di fare grandi cose con lui,
se vogliamo chiamare « grande » la moderna civiltà scientificizzata, da cui tutti traiamo vantaggio.
Il progetto della modernità comincia con una disposizione d’animo che si oppone a tutto ciò che è
stravagante e fantastico. Ma nemmeno la più fertile fantasia avrebbe potuto inventarsi a quel tempo
le aberrazioni che lo spirito del disincanto positivistico avrebbe ancora prodotto.
L’inaridirsi dell’idealismo tedesco aveva generato attorno alla metà del secolo un robusto
materialismo. Di colpo i breviari del disincanto divennero dei best-seller. Ad esempio Karl Vogt con
le sue Lettere psicologiche (1845) e il suo pamphlet Fede cieca e scienza (1854); Jacob Moleschott
con La circolazione della vita (1852); Ludwig Büchner con Energia e materia (1855) e Heinrich
Czolbe con Nuova esposizione del sensualismo (1855). Czolbe aveva caratterizzato l’ethos di
questo materialismo fatto di energia, materia e funzioni ghiandolari con queste parole: « E' prova di
[...] presunzione e fanatismo voler migliorare il mondo conoscibile attraverso l’invenzione di un
mondo sovrasensibile e voler fare dell’uomo un essere che si eleva al di sopra della natura
attraverso la giustapposizione di una parte sovrasensibile. Certo, l’essere insoddisfatti del mondo
dei fenomeni, che è il motivo più profondo della concezione sovrasensibile [...] è una debolezza
morale ».17 Czolbe conclude con questa esortazione: « Accontentati del mondo che ti è dato ». Ma
che cosa era mai « dato » in un simile mondo sensibile? Il mondo del divenire e dell’essere -
nient’altro che la tempesta di molecole e le trasformazioni energetiche. Era il mondo dell’atomista
Democrito. Non c’è più bisogno del « nous » di Anassagora e delle idee di Platone, e nemmeno del
Dio dei cristiani, della sostanza di Spinoza, del «cogito» di Cartesio, dell’« io» di Fichte e dello
«spirito» di Hegel. Lo spirito che vive nell’uomo non è altro che funzione cerebrale. I pensieri si
rapportano al cervello come la bile al fegato e l’urina al rene. Questi pensieri sono « qualcosa di non
filtrato », come osservava a quel tempo Hermann Lotze, uno dei pochi sopravvissuti della stirpe un
tempo forte dei metafisici. E fu
lo stesso Lotze che fece invano notare ai materialisti il loro salto mortale nella stoltezza. Egli si
richiamò a Leibniz, che aveva già risolto l’intera questione del materialismo, e soprattutto del
rapporto di coscienza e corpo, confrontandosi con Hobbes: se qualcosa si fonda su qualcos’altro, ciò
non significa affatto che le due cose siano identiche, perché se così fosse, esse non sarebbero
differenti; ma se non fossero differenti l’una non potrebbe fondarsi sull’altra. La vita dell’uomo,
dice Leibniz, si fonda sulla respirazione, ma perciò è lungi dall’essere semplice aria.
La marcia trionfale del materialismo non poteva essere fermata da obiezioni intelligenti, soprattutto
perché in essa era commisto un particolare elemento metafisico: la fede nel progresso. Se
analizziamo a fondo le cose e la vita fino alle loro componenti più elementari scopriremo, secondo
questa fede, il mistero che muove la natura. Se riusciamo a capire come sono fatte tutte le cose,
siamo anche in grado di riprodurle.
Qui è all’opera una coscienza che vuole scoprire gli altarini di tutte le cose, anche della natura che
dev’essere colta sul fatto attraverso l’esperimento, e a cui si deve mostrare, quando si sa come
funziona, che cosa dovrà fare.
Questo atteggiamento spirituale dà avvio nella seconda metà dell’Ottocento anche al marxismo.
Con un lavoro minuzioso e faticoso Marx aveva sezionato il corpo sociale, distillandone l’anima: il
capitale. Alla fine non è più del tutto chiaro se la missione messianica del proletariato (il contributo
di Marx all’idealismo tedesco prima del 1850) avrebbe mai avuto qualche possibilità contro le leggi
ineluttabili del capitale (il contributo di Marx allo spirito deterministico dopo il 1850). Anche Marx
vuole scoprire gli altarini di tutte le cose; la critica dell’ideologia lo rende possibile. Per i critici
dell’ideologia i pensieri non vengono trasudati dal cervello, come per la grossa schiera di fisiologi e
zoologi che si davano alla filosofia, bensì dalla società. Anche lo studioso di scienze sociali critico
dell’ideologia vuole smascherare le strane secrezioni dello spirito. Le campagne di guerra del
materialismo hanno il loro valore proprio nella critica al valore.
Nel 1866 appare una critica decisiva di questi atteggiamenti spirituali: l’opera classica di F.A.
Lange intitolata Storia del materialismo. Non si può dire che essa sia rimasta priva di conseguenze.
Nietzsche ne fu fortemente influenzato, e sebbene la sua filosofia sia esplosa in seguito come «
filosofia della vita », facendo saltare più di qualche pezzo particolarmente massiccio di
materialismo, fu tuttavia proprio Lange ad accendere la miccia. Anche il neokantismo, di cui si
tornerà a parlare in seguito, dato che il giovane Heidegger si muove in quell’ambiente, fu avviato da
Lange.
Il pensiero fondamentale di Lange è la ricostituzione della sana distinzione kantiana fra un mondo
dei fenomeni, che possiamo analizzare secondo leggi, un mondo del quale facciamo parte anche
noi, come cosa fra le cose con una parte del nostro essere, e un mondo che giunge fin dentro di noi e
che in precedenza fu chiamato « spirito », mentre in Kant assume il nome di « libertà », laddove si
riferisce alla interiorità dell’uomo, e di «cosa in sé» in riferimento al mondo esterno. Lange ricorda
la definizione kantiana della natura: essa non è ciò in cui valgono le leggi che noi chiamiamo leggi
della natura, ma al contrario, non appena consideriamo qualcosa dal punto di vista di tali « leggi »,
lo costituiamo come « natura » fenomenica, non appena lo consideriamo dal punto di vista della
spontaneità e della libertà, si tratta di « spirito ». Entrambi i modi di vedere sono possibili e
necessari, e soprattutto non sono convertibili. Possiamo analizzare noi stessi come cosa fra le cose,
possiamo considerarci, come fece espressamente Hobbes, al pari di una macchina, ma siamo noi a
scegliere questa prospettiva: siamo talmente liberi da poter fare di noi stessi una macchina. Noi
siamo una componente del mondo fenomenico, quindi natura secondo la legge, cosa fra cose, e al
tempo stesso ciascuno conosce in se stesso la spontaneità della libertà. La libertà è il mistero del
mondo che si rivela in noi, l’altra faccia dello specchio dei fenomeni. La « cosa in sé » è ciò che noi
stessi siamo nella nostra libertà; il cuore di tutte le determinazioni è la dimensione in cui noi stessi
possiamo determinarci.
F.A. Lange rimette in gioco questa duplice prospettiva kantiana: l’uomo è cosa fra le cose e libertà.
Il materialismo come metodo scientifico di ricerca, dice Lange, va senz’altro approvato.
L’esperienza scientifica della natura deve procedere come se ci fosse solo la realtà materiale. Essa
non deve servirsi dello « spirito » come tappabuchi là dove non riesce a procedere oltre con le sue
spiegazioni. Lo « spirito » non è un anello di una catena causale, ma è piuttosto l’altro lato
dell’intera catena. Si può fare una fisiologia dello psichico sul piano della scienza della natura, ma
non si deve dimenticare che nel far questo non si coglie l’anima in se stessa, ma solo i suoi
equivalenti materiali. Lange non critica i procedimenti della scienza della natura, ma solo la falsa
coscienza e la cattiva filosofia che li accompagnano, cioè la rappresentazione che con l’analisi della
res extensa si sia già esaurito tutto ciò che è umano. Se già si pensa per categorie spaziali, si è
facilmente suggestionati a credere che tutto ciò che è debba essere mostrato in qualche punto nello
spazio o essere attribuito a una struttura rappresentabile spazialmente.
Il grande merito di F.A. Lange fu di aver mostrato che se c’è un punto di ebollizione dell’idealismo
in cui tutto lo spirito evapora, c’è anche un punto di congelamento del materialismo, dove nulla più
si muove, nemmeno se si introduce clandestinamente lo spirito, ad esempio sotto forma di « forza
vitale », di cui nessuno sa con esattezza che cosa sia. Contro l’evaporazione idealistica e il punto di
congelamento materialistico, Lange suggerisce la struttura del « sia... sia » del
lo spirito e della materia.
Lange difende una metafisica a prezzo scontato. Essa è per lui una poesia concettuale, una
mescolanza edificante di poesia e sapere. Altrettanto vale per la religione. Se essa afferma di
possedere una scienza di Dio, dell’anima e dell’immortalità, si espone alla critica scientifica e non è
più in grado di reggersi. E necessario un livellamento di fonti. Il « punto di vista dell’ideale» non
può fondare il proprio orgoglio sulla conoscenza della verità, ma sulla formazione di valori e sulla
conseguente trasformazione della realtà. Per l’esperienza c’è verità; per lo spirito ci sono valori.
Nietzsche metterà poi la parola fine a questa coesistenza pacifica di verità e valore concepita da
Lange, compiendo semplicemente un passo avanti: quello di mettere il valore a disposizione della
verità. Lange voleva salvare i valori dall’assalto delle verità; in Nietzsche al contrario le verità
vengono ingoiate dal vitalismo dei valori. Così la verità è solo più illusione, nella quale ci sentiamo
a nostro agio e che ci torna utile. Altri definiranno al contrario i valori come semplici dati di fatto
che si presentano appunto nelle culture: Rickert li chiama « stati di valore ». Essi possono essere
descritti in una prospettiva scientifico-culturale e raccontati in una prospettiva storiografica. Il
valore vale solo laddove è diventato un fatto. Vale solo ciò che ha avuto valore. E questo sarà
l’accento specifico dello
storicismo.
F.A. Lange è alla ricerca della conciliazione: il materiali-
smo deve dividere il suo potere con il mondo dello spirito: « Chi vuole confutare una Messa di
Palestrina o accusare di errore una Madonna di Raffaello? Il Gloria in excelsis rimane un dominio
universale e risuonerà nei secoli, fintantoché nervi umani potranno essere scossi dal tremito del
sublime. E così quegli elementari pensieri fondamentali della redenzione del singolo attraverso la
dedizione del proprio volere alla volontà che guida ogni cosa, quelle immagini di morte e
risurrezione che esprimono quanto di più toccante e di più sommo attraversi il cuore dell’uomo [...]
quegli insegnamenti infine che ci comandano di dividere il pane con l’affamato e di annunciare ai
poveri la lieta novella; essi non spariranno per sempre per far posto a una società che ha raggiunto il
suo scopo quando ha usato il suo intelletto per creare una polizia migliore e il suo acume per
soddisfare bisogni sempre nuovi grazie a sempre nuove invenzioni ».18
Questo idealismo deve mettere in equilibrio la civilizzazione portata avanti da scienza e tecnica. E'
un idealismo del « come se »; infatti i valori che vengono raccomandati hanno perduto la loro antica
dignità, la loro potenza ontologica, dato che in essi si riconosce ciò che noi stessi abbiamo creato.
L’ideale è in realtà soltanto un idolo che risplende nello splendore fasullo di ciò che è artificiale. Gli
idealisti possono evidentemente ancora attenersi al bene e al bello solo nella prospettiva di una
involontaria frivolezza. I loro principi di fede sono presentati con il sorriso proprio degli aruspici,
più orientato a far credere agli altri che non a credere loro stessi, Un bestseller filosofico che
esprime eloquentemente questa frivolezza cultural-borghese è la Filosofia del come se di Hans
Vaihinger. Qui i valori vengono caratterizzati come utili finzioni. Si tratta di pure e semplici
invenzioni, ma se esse ci vengono in aiuto nell’assolvere ai compiti teorici e pratici della nostra vita,
allora ricevono un significato che solitamente chiamiamo « oggettivo ».
Di questo «come se» era imbevuta tutta l’epoca guglielmina, in cui imperversava la voglia di cose
inautentiche. Ciò che sembrava essere qualcosa destava grande impressione. L’uso di qualsiasi
materiale era finalizzato a mostrare di più di quanto realmente non fosse. Fu l’era delle cose finte: il
marmo era legno dipinto, il lucente alabastro era gesso; il nuovo doveva sembrare vecchio; le
colonne greche sul porta-
le della Borsa, la fabbrica eretta come fortezza medievale, la rovina era in realtà una costruzione
recente. Si teneva in gran cura l’associazione storica: i tribunali ricordavano i palazzi ducali, i
salotti borghesi ospitavano sedie in stile luterano, coppe di peltro e Bibbie di Gutenberg che si
rivelavano essere dei nécessaires per il cucito. Anche l’imperatore Guglielmo non era del tutto
autentico: la sua volontà di potenza era più volontà che potenza. Il « come se » esige una messa in
scena e vive di quella stessa. Nessuno lo sapeva bene come Richard Wagner, che ricorse a tutti i
registri della magia teatrale per riscattare la propria epoca; si trattava di un riscatto a breve
scadenza, quello del « come se ». Tutto ciò si accompagnava a principi di sano realismo. Proprio
perché questo modo di sentire era così spiccato, doveva essere un po’ abbellito, adornato,
drappeggiato, cesellato e così via, in modo che l’insieme avesse l’aspetto di qualcosa e contasse
qualcosa. Del resto anche la politica ufficiale tedesca puntava sul contare di più: la Germania deve
contare di più nel mondo. Chi conta, si risparmia la fatica di dover diventare qualcosa.
Questa mescolanza di sano realismo e di principi del « come se » aprì la strada all’ingresso in
Germania del pragmatismo anglosassone di William James e di Charles Peirce. Come è noto, il
pragmatismo predica una sorta di disarmo nelle faccende relative alla verità. La verità viene
strappata dal suo ancoraggio al regno delle idee e calata in un principio sociale di
autoregolamentazione e di processi d’azione. Il criterio della verità sta nel successo pratico, e ciò
vale anche per i cosiddetti valori. La loro realtà non si attesta nella sospetta e mai sufficientemente
dimostrata concordanza con un essere ideale, ma nell’efficienza. Lo spirito è ciò che esso realizza.
Il pragmatismo sostituisce la teoria della verità come corrispondenza con la teoria dell’efficienza.
Ora non c’è più bisogno di avere paura dell’errore perché, in primo luogo, dopo la caduta del
criterio oggettivo di verità l’errore perde il suo carattere ontologico di peccaminosità: la « verità »
può essere definita ora come un errore che risulta utile; e in secondo luogo gli errori fanno parte di
un’esperienza completa. Quando il cane vuol passare attraverso una porta con un lungo bastone in
bocca, girerà la testa e proverà fino a quando non riuscirà nel suo intento. Questo è il metodo del
trial and error; come nell’esempio del cane, allo stesso modo l’uomo varca la soglia della verità,
che però non è più quella che fu un tempo: essa ha perduto il suo pathos venerando. E' questione di
interessi pratici, non della ricerca di certezza; si tratta come è noto di un atteggiamento spirituale in
cui si annidano in incognito ancora molti aspetti religiosi. Il pragmatismo sostituisce l'examen
rigorosum della metafisica con una prova pratica sul posto. Esso allevia la tensione teutonica che
guarda sempre alla totalità e aiuta ad avere un atteggiamento più rilassato nei confronti del proprio
principio morale: noi cresciamo a forza di errori! «I nostri errori», dice William James, « in fin dei
conti non sono cose così importanti. In un mondo in cui, pur con tutte le attenzioni, ci è possibile
evitarli, una certa misura di serena spensieratezza è più sana della paura nervosa eccessiva. »19
Un’altra potente tendenza dell’epoca viene in soccorso di questa spensieratezza: la biologia
evoluzionistica fondata sulle scoperte di Darwin. Questa insegna che non soltanto noi, ma anche la
natura stessa procede secondo il metodo del trial and error. Le mutazioni sono trasmissioni erronee
di informazioni genetiche. Nella catena delle specie ci sono degli scostamenti, una variabilità
dovuta al caso. La selezione avviene a opera del successo nell’adattamento: si conserva ciò che
riesce a imporsi. In questo modo, attraverso mutazioni casuali, cui si aggiunge la selezione nella
lotta per la sopravvivenza, la natura fa centro senza prendere la mira. Anche la natura dunque cresce
a forza di errori. Con la legge della mutazione e selezione sembrava del resto risolto senza ricorso a
un telos anche il problema kantiano della teleologia della natura. Il caso cieco produce una natura i
cui risultati appaiono come se essa inseguisse un fine. Dio non gioca a dadi: può darsi, ma la natura
sembra che sia stata colta in flagrante, proprio nel suo giocare a dadi. La biologia evoluzionistica
ebbe a quel tempo l’effetto di una grandiosa sanzione del metodo per giungere all’ordine attraverso
l’errore, e conferì al principio secondo cui la verità non è appunto nient’altro che questo successo
pratico un’evidenza quasi insuperabile.
Verso la fine del secolo Werner von Siemens fece sfilare in una suggestiva passerella lo spirito di
questo « secolo scientifico », come egli lo chiama, nel Zirkus Renz, la più grande sala per
conferenze di Berlino, dove organizzò una serata di gala per gli scienziati della natura che volevano
festeggiare, raccolti tutti insieme, l’arrivo del nuovo secolo: «Così, signori miei, noi non vogliamo
lasciarci distogliere dalla nostra fede che la nostra attività di ricerca e di invenzione condurrà
l’umanità a gradi più elevati di cultura, nobilitandola e rendendole più accessibili gli sforzi per
perseguire gli ideali; che il nuovo secolo scientifico che si sta aprendo ne diminuirà le miserie e le
malattie, accrescendo il piacere di vivere, rendendo la vita migliore, più felice e più soddisfatta del
suo destino. E anche se non possiamo sempre riconoscere con chiarezza la via che conduce a queste
condizioni migliori, ciò nonostante vogliamo tener salda la nostra convinzione che la luce della
verità, su cui indaghiamo, non ci condurrà su vie sbagliate e che la pienezza di poteri che essa
arreca all’umanità non potrà degradarla, ma dovrà piuttosto innalzarla su un gradino più alto
dell’esistenza ».20
Fra i presupposti del successo vi sono la morigeratezza spirituale e la curiosità per ciò che ci è più
prossimo, per l’invisibile che non è insito nell’aldilà ma nel mondo, per la micrologia delle cellule e
la macrologia delle onde elettromagnetiche. In entrambi i casi la ricerca penetra nell’invisibile e
produce effetti visibili, ad esempio nella lotta contro gli agenti patogeni microbiologici o sotto
forma del telegrafo senza filo che abbraccia il mondo intero. Alcuni sogni della metafisica, come la
conquista della sovranità nei confronti del corpo, il superamento di spazio e tempo, sono diventati
realtà della tecnica.
Quando la fisica impara a volare, precipitano tutti i voli pindarici della metafisica, che devono
continuare a maturare sulla terra. Quello che possono fare sulla terra è qualcosa di abbastanza
umile, come insegna l’esempio dei neokantiani. Uno di essi, Paul Natorp, definiva così nel 1909 il
compito della filosofia: essa non è nient’altro che lo sforzo metodologico di autotrasparenza da
parte della scienza. Nella filosofia la scienza della natura diviene consapevole dei propri principi,
modi di procedere e orientamenti nel mondo. Questo significa per Natorp « guidare la scienza [...]
non già dal di fuori, ma illuminando la legge interiore della via che la scienza ha già sempre
descritto e che continua indefessa a descrivere».21 Ciò vincola la filosofia a uno scopo che
rappresenta l’esatto rovesciamento del suo principio: «Dapprima la filosofia si portò in grembo gli
embrioni di tutte le scienze; ma una volta che queste sono state partorite e accudite maternamente,
così da poter maturare e crescere sotto la sua protezione, esse non vedono malvolentieri di
andarsene nel vasto mondo per conquistarlo. La filosofia le osserva ancora per un attimo con
premurale di tanto in tanto fa sentir loro anche le proprie parole di monito, pronunciate sottovoce,
senza con ciò volere o poter limitare l’indipendenza che ormai hanno raggiunto; ma alla fine si
ritirerà in silenzio a vivere la propria vecchiaia fino a quando un giorno, senza quasi che venga
notato o che si senta la sua mancanza, scomparirà per sempre dal mondo ».22
Windelband, Natorp, Rickert, Cohen furono detti « neokantiani » perché raccomandarono alle
scienze moderne della natura la riflessione metodologica di Kant, rifacendosi ugualmente a Kant
nella questione della fondazione delle norme etiche. In questa corrente filosofica che fu molto
influente fino alla prima guerra mondiale c’era molto acume e vis polemica nel dettaglio, ma nel
complesso essa stava sulle difensive nei confronti dello strapotere dello spirito scientifico del
tempo. Si trattava di una filosofia che sperava, dopo la fine della filosofia, di continuare a vivere
nelle sue « creature », cioè nelle scienze. Tuttavia Natorp ammette di non vedere ancora troppe «
speranze » per la « filosofia nelle scienze ». In effetti c’erano ancora grandi quantità di residui
irriflessi di concezione del mondo e di merce di contrabbando nel bagaglio degli scienziati empirici
ed esatti che pretendevano il prestigio della scientificità per la fede cieca e infantile che avevano
conservato. Per esempio lo zoologo Ernst Haeckel era uno scienziato di questo genere. Dalla
biologia evoluzionistica di Darwin egli distillò una dottrina del mondo e dell’universo che
pretendeva di aver risolto tutti gli Enigmi del mondo, come recitava il titolo del bestseller di
Haeckel del
1899.
I neokantiani volevano essere in un duplice senso la coscienza della scienza: come coscienza
metodologica e come coscienza etica; questa infatti era la loro seconda specialità: il problema del
valore. Come è possibile analizzare scientificamente, questa era la domanda, quel processo in cui
non accade - come nelle scienze della natura - che «qualcosa diventa qualcosa », ma in cui invece «
qualcosa vale come qualcosa ». Per i neokantiani la cultura era la quintessenza della sfera dei valori.
La sostanza materiale di una scultura, ad esempio, può essere analizzata dal punto di vista fisico,
chimico, etc., ma fino a questo punto non si sarà ancora compreso che cosa questa scultura sia,
perché essa è ciò che significa. Questo significato ha valore e viene colto da chiunque concepisca
questa scultura non come un ammasso di pietra, ma appunto come arte. In tutti questi processi
culturali, afferma Rickert, è « incarnato un qualche valore riconosciuto dall’uomo ».23 La natura e
la cultura non sono sfere separate, bensì la natura diventa un oggetto di cultura nella misura in cui
viene connessa ai valori. La sessualità, ad esempio, è un processo biologico privo di valori, ma una
volta fatta propria dalla cultura diventa un evento che veicola molto valore: diventa amore. La realtà
umana è impregnata di processi di formazione di valori. In questo non c’è niente di misterioso:
il mondo dei valori non sta sospeso sopra le nostre teste, bensì tutto ciò con cui l’uomo entra in
rapporto viene, proprio in tal modo, valorizzato. Perciò uno « stato di cose » diventa uno « stato di
valore ». Gli stati di cose possiamo spiegarli, ma gli stati di valore possiamo solo comprenderli. La
società umana nel suo complesso è uguale al re Mida: ciò che essa tocca, ciò che essa cattura nella
sua sfera d’influenza, non diventa in realtà oro, ma riceve valore.
La filosofia dei valori fu un’ossessione del neokantismo. Sprofondati nel mistero del valore, questi
filosofi accademici avevano trascurato ciò che vale innanzi tutto: i soldi. Fu così un outsider, Georg
Simmel, che all’inizio del secolo presentò
il geniale capolavoro di tutta la filosofia dei valori: la Filosofia del denaro.
Simmel descrive il passaggio dal ratto al baratto come l’evento decisivo di tutta la civilizzazione.
Perciò egli chiama gli uomini civilizzati «l’animale che pratica lo scambio ».24
Lo scambio assorbe in sé la violenza e il denaro universalizza lo scambio. Il denaro, in origine una
cosa materiale, diventa il simbolo reale di tutti i beni per i quali esso può stare nello scambio. Una
volta che c’è il denaro, tutto ciò con cui esso entra in contatto diventa stregato: tutto può essere
stimato in base al suo valore, tanto che si tratti di una collana di perle, di un discorso funebre o del
reciproco uso degli organi sessuali. Il denaro è la categoria trascendentale realmente esistente della
socializzazione. Le relazioni di equivalenza
istituite dal denaro garantiscono la coesione interna della società moderna. Il denaro è quel mezzo
magico che trasforma il mondo, nel suo complesso, in un « bene » che può essere stimato in base al
suo valore e perciò può anche essere valorizzato.
Ma in che modo qualcosa diventa denaro? La risposta, semplice ma incalcolabile quanto alle sue
conseguenze, è la seguente: diventando qualcosa che ha valore. Questo qualcosa che ha valore può
essere poi impiegato per pagare qualcosa che si desidera a qualcun altro da cui lo si vuole. Il metro
dello scambio è sempre calcolabile con precisione, ma quello che rimane oscuro è da dove
scaturisca propriamente questo metro. Gli uni dicono: dal lavoro; gli altri: dal mercato; altri ancora:
dal desiderio; altri infine: dalla scarsità. Ma in ogni caso, il valore del denaro non inerisce alla sua
natura materiale; è stato piuttosto lo spirito sociale ad assumere il potere materiale. Il potere di
circolazione del denaro ha superato lo spirito, di cui un tempo si diceva che soffia dove vuole... Ma
lo spirito di Simmel, come appunto anche il denaro, penetra in tutti gli angoli, anche i più riposti,
della vita sociale. Simmel può congiungere tutto con tutto: se il denaro crea un’espressione comune
di valore per cose così disparate come possono essere una Bibbia e una bottiglia di grappa, Simmel
vi scorge un collegamento con il concetto di Dio di Cusano, per il quale Dio significava
coincidentia oppositorum, il punto in cui tutti gli opposti si raccolgono in unità. « Nella misura in
cui diventa l’espressione sempre più assolutamente sufficiente e l’equivalente di tutti i valori, il
denaro raggiunge un’altezza astratta al di sopra dell’intera e immensa molteplicità degli oggetti, e
diviene il centro in cui le cose più opposte, estranee, lontane trovano un elemento comune, il loro
punto di contatto. In questo modo, di fatto, il denaro genera quell’innalzamento al di sopra della
singola cosa e induce a confidare nella sua onnipotenza come nell’onnipotenza di un principio
superiore. »25
Anche nel caso del denaro, l’analisi del potere del valore non può evidentemente fare a meno, come
dimostra l’esempio di Simmel, di rifarsi al patrimonio concettuale della metafisica.
Perciò nell’epoca ostile alla metafisica, prima del 1914, la sfera del valore, anche sotto forma di
denaro, fu un asilo per i residui della metafìsica. E così stanno le cose, per tornare al punto di
partenza, anche in Husserl, il quale difende il valore della logica a prescindere dalla psicologia,
come un regno platonico delle idee dall’attacco delle talpe della psicologia
naturalistica.
In una simile posizione di difesa si trova pure il giovane Heidegger. Anch’egli trova i suoi residui
metafisici, insieme a Husserl (e a Emil Lask), nel mistero del valore, nella sfera della logicità pura
che resiste a tutti i tentativi di relativizzarla per mezzo della biologia o della psicologia. In quella
sfera si conserva per lui il « valore escatologico della vita ». Ma ancora non è chiaro quale
collegamento vi sia fra la logica e la vita dell'anima. Nel suo saggio del 1912 Nuove indagini sulla
logica (Neuere Forschungen über Logik), Heidegger afferma che lo psichico è la « base operativa »
del logico, ma che nel complesso rimangono in quel campo « problemi peculiari su cui forse non si
potrà mai far luce ».
Con la logica Heidegger crede di poter afferrare un lembo di valore sovraindividuale, e questo
significa molto per lui, che vuole credere alla realtà oggettiva dello spirito. Lo spirito non deve
essere solo un prodotto della nostra mente. Ma egli vuole riconoscere una realtà autonoma anche al
mondo esterno. Esso non deve evaporare in una chimera dello spirito soggettivo. Ciò sarebbe infatti
la versione gnoseologica di quell'« autonomismo sfrenato» dell'io che egli criticava aspramente.
Heidegger vuole evitare entrambe le cose: la caduta nel materialismo e la falsa ascensione in cielo
propria dell'idealismo soggettivo. I suoi primi tentativi di muoversi in filosofia sono orientati a un
realismo critico per il quale « soltanto chi crede alla determinabilità di una natura reale impegnerà
le sue forze per conoscerla ».26
Ed egli si orienta verso la possibilità di uno spirito oggettivo. Questo spirito lo trova nel «
patrimonio di verità rivelate» della Chiesa, ma questo non può bastare al filosofo, che perciò ricorre
a un secondo punto, la logica e il suo valore
oggettivo.
Possiamo osservare come Heidegger, nei primi anni di studio, sia alla ricerca di una filosofia con la
quale possa affermarsi nell’area della modernità e che al tempo stesso gli consenta in qualche modo
di rimanere sotto il cielo di Meßkirch.
3. Ore sul Monte degli Ulivi. La pianificazione della carriera. La dissertazione. C’è il nulla?
Il giudizio impersonale. Le preghiere al Reverendissimo. Al di là della filosofia della vita.
L’irruzione della vita nella filosofia. L' esperienza vissuta di Dilthey e la vita vissuta di Nietzsche.
La grande corrente di Bergson.
Il giardino fiorito di Max Scheler.
DAI primi saggi filosofici di Heidegger, Il problema della realtà nella filosofia moderna (Das
Realitätsproblem in der modernen Philosophie) e Nuove indagini sulla logica, non ci si accorge che
essi sono stati scritti in un periodo che fu per lui di rivolgimento e di crisi. Egli prende posizione a
favore del principio di una realtà conoscibile con attendibilità e della tenuta metafisica della logica
in un momento in cui i progetti per il suo futuro cadono nell’incertezza. E' l'anno 1911.
Dopo tre semestri vissuti in collegio studiando teologia, si fanno nuovamente sentire i disturbi di
cuore. Forse si tratta di « superlavoro », come scrive nel suo curriculum del 1915, ma forse si tratta
di una difesa del corpo contro una attività sbagliata. Su proposta del medico del collegio, nel
febbraio del 1911, Heidegger viene mandato a Meßkirch per trascorrervi alcune settimane in «
completo riposo ». I suoi superiori si fanno l’idea che la costituzione fisica di questo studente di
teologia non sia abbastanza robusta per il suo impiego futuro nel servizio ecclesiastico.
Heidegger trascorre tutta l'estate presso i suoi genitori a Meßkirch. Non sa quale strada scegliere. Il
suo stato d’animo è depresso, e cerca sollievo in tentativi poetici. A Meßkirch i dubbi sulla futura
professione si ingigantiscono in modo patetico e diventano Ore sul Monte degli Ulivi
(Ölbergstunden), come recita il titolo di una poesia che Heidegger pubblica nelTaprile del 1911
sull'Allgemeine Rundschau:
Ore sul Monte degli Ulivi, ore della mia vita:
nell’oscuro bagliore
d’esitazione avvilita spesso voi mi vedeste.
Mai in lacrime ebbi a chiamarvi invano.
Il mio giovane essere
spossato ha il suo lamento
solo all’Angelo della Grazia affidato.1
Hugo Ott ha scovato questa poesia, e anche le lettere di Ernst Laslowski, uno studente di storia
presso la cattedra cattolica di Heinrich Finke a Friburgo. In Laslowski, che era originario dell’Alta
Slesia e che aveva studiato alcuni semestri a Friburgo, Heidegger aveva trovato un amico
premuroso, che ben presto lo aveva affascinato. Questi gli scrive: « Se tuo padre potesse sostenere i
4-5 o 3-4 semestri che ti servono per la laurea e per l'esame di libera docenza, questa sarebbe già
una bella opportunità ».:
Ma il padre non è in grado di pagare. Il figlio della gente povera dovrà restare sotto la protezione
della Chiesa e delle sue borse di studio, oppure dovrà arrangiarsi a fatica.
Nella corrispondenza con Laslowski vengono prese in esame tutte le alternative. Martin dovrà
restare a teologia e intraprendere la carriera sacerdotale? Questo è il consiglio di Laslowski. Martin
sarebbe al sicuro economicamente, dovrebbe solo passar sopra alle preoccupazioni dei suoi
superiori, che non hanno molta fiducia nella sua salute. Potrebbe laurearsi e prendere senza
problemi l’abilitazione. Nel frattempo potrebbe fare un intermezzo in una parrocchia di campagna,
per « giungere a piena maturità ». Certamente egli avrebbe poi fatto una brillante carriera come
teologo.
Queste visioni sono adulatorie, ma Heidegger sa ormai che quello che lo lega alla teologia non è
tanto l’aspetto teologico, quanto quello filosofico. La seconda possibilità sarebbe quella di
concentrarsi interamente sulla filosofia, restando però nell’ambiente cattolico. Il « patrimonio di
verità » della Chiesa non deve assolutamente essere toccato. La filosofia potrebbe essere addirittura
impiegata come arma di difésa. Certo, la fede non ha bisogno di essere fondata filosoficamente, ma
è possibile respingere filosoficamente le pretese antimetafisiche di una scientificità falsamente
intesa. Infatti gli scienziati non sono consapevoli in genere di quanti prestiti metafisici essi facciano
quando attribuiscono valore di verità alle loro proposizioni. Se si può dimostrare che già nella
logica pura si annida il « valore escatologico della verità », la Chiesa, con il suo « patrimonio di
verità », si colloca su una posizione meno compromessa. E se egli si volesse dedicare alla filosofia e
alla apologetica cattolica, intese in questo senso, riuscirebbe forse anche a guadagnarsi, come
mecenati, istituzioni e organi di stampa del mondo cattolico, come ad esempio l'Albertus-Magnus
Verein o la Görres-Gesellschaft zur Pflege der Wissenschaft. Laslowski lo consiglia di mettersi in
contatto con il filosofo cattolico Clemens Baeumker che insegna a Strasburgo. Baeumker è direttore
della Görres-Gesellschaft e curatore editoriale della rivista Philosophisches Jahrbuch; egli si dedica
in particolare alla sovvenzione dei cattolici in ambito filosofico. I filosofi cattolici non godono di
buona reputazione. Dal resto dell’ambiente filosofico non vengono presi molto sul serio, e le
cattedre di filosofia cattolica sono poche.
Resta la terza possibilità, la più umile: studiare una materia che si insegna nelle scuole, fare l'esame
di Stato e diventare insegnante. Egli la prende seriamente in considerazione, perché una prospettiva
sicura dal punto di vista professionale
lo    attrae. In tal senso egli prende in considerazione anche le discipline scientifiche.
Dopo questa difficile estate trascorsa a Meßkirch, arriva la decisione: Heidegger interrompe lo
studio della teologia. Per
il    semestre invernale 1911-12 si iscrive alla Facoltà di scienze naturali a Friburgo per studiare
matematica, fisica e chimica, ma continua i suoi studi di filosofia con zelo immutato. Prende
contatto con Clemens Baeumker, che nel 1912 pubblica nel Philosophisches Jahrbuch der Görres-
Gesellschaft il saggio di Heidegger sul Problema della realtà nella filosofia moderna; e con Josef
Sauer, professore di storia dell’arte e archeologia cattolica alTuniversità di Friburgo e curatore della
rivista cattolica Literarische Rundschau, sulla quale, sempre nel corso del 1912, appaiono a puntate
le Nuove indagini sulla logica dello stesso Heidegger.
In una lettera a Sauer del 17 marzo 1912 egli espone il proprio programma di ricerca. Legato
com’era all’ambiente clericale, Sauer dovette sorprendersi non poco nell’apprendere i propositi di
questo studente di collaborare allo «sviluppo culturale e religioso della nostra Chiesa »: « Se il tutto
non si risolve in un continuo infruttuoso sofisticare e in una pedante ricerca di contraddizioni, allora
si sarà almeno giunti vicino ad una soluzione provvisoria del problema dello spazio e del tempo, per
come essi risultano nella prospettiva della fisica matematica ».3
Probabilmente non doveva risultare del tutto chiaro a Josef Sauer, che aveva poca dimestichezza
con la filosofia, in che modo la Chiesa potesse ricevere un aiuto dall'orientamento della fisica
moderna sul problema del tempo; ciò nonostante egli era soddisfatto di Heidegger, dato che i saggi
sulla logica riscuotevano pur sempre un considerevole interesse negli ambienti cattolici. Lo stesso
Heidegger ne fu informato da Laslowski, che il 20 gennaio 1913 gli scrisse: «Carissimo, ho
l'impressione che tu sarai tra quei Grandi che le università fanno di tutto per avere. Anche se può
non andare così ».J
Tuttavia, « il cattolicesimo non c’entra affatto in tutto il sistema filosofico moderno ». Heidegger
non dovrebbe lasciarsi imbrigliare nella gabbia del cattolicesimo e dovrebbe pubblicare anche su
organi di stampa non confessionali.
Le difficoltà di questa azione di equilibrismo - mantenere il favore dell’ambiente cattolico, senza
peraltro avere la fama di filosofo confessionale - vengono discusse esaurientemente nell'epistolario
fra i due amici. Laslowski dice: « Poiché tu devi probabilmente iniziare come cattolico. Ma questa è
senza dubbio una questione delicata ».5
La cosa migliore sarebbe per il momento non esporsi. Ciò avrebbe oltretutto un utile effetto
collaterale: « Sarebbe bene, a mio avviso, che tu per un po’ di tempo ti avvolgessi di misteriosa
oscurità, in modo da incuriosire la gente. Poi per te tutto sarebbe più semplice ».6
Il solerte Laslowski, che peraltro è anche un po’ innamorato di Heidegger, è alla ricerca di qualche
cattedra vacante di filosofia cattolica. Egli batte la grancassa in favore del suo amico in occasione di
una visita al Campo santo teutonico, dove incontra il libero docente Engelbert Krebs, un sacerdote e
teologo di Friburgo. Krebs, che ha otto anni più di Heidegger, per il momento non può fare niente
per lui, dato che lui stesso non ha ancora una posizione. Heidegger si mette in contatto con lui non
appena Krebs rientra dal suo soggiorno romano. Ne nascerà un sodalizio amichevole che durerà
alcuni anni, e che si interromperà in occasione della rottura di Heidegger con il « sistema del
cattolicesimo ».
Laslowski aiuta Heidegger anche a procurarsi denaro. Nella sua associazione studentesca a
Breslavia incontra un vecchio signore cui riesce a scucire un finanziamento privato, garantendogli
che Heidegger è la maggiore risorsa filosofica per i cattolici tedeschi. Con questi soldi, con una
piccola borsa di studio amministrata dall’università di Friburgo e impartendo ripetizioni, Heidegger
vive l’anno successivo all’interruzione degli studi teologici. Nell’estate del 1913 si laurea in
filosofia con una tesi su La dottrina del giudizio nello psicologismo (Die Lehre vom Urteil im
Psychologismus).
In questo lavoro Heidegger si rivela un allievo diligente e studioso di Husserl, le cui Ricerche
logiche hanno un potente effetto su di lui. Insieme a Husserl egli lotta contro i rappresentanti dello
psicologismo, cioè contro il tentativo di spiegare la logica a partire dalla psicologia. Si tratta di
filosofi molto in vista, come Theodor Lipps e Wilhelm Wundt, di fronte ai quali questo dottorando,
consapevole delle proprie capacità, assume una posizione critica. Il confronto con lo psicologismo
lo costringe per la prima volta a una riflessione su quello che sarà il grande problema della sua
opera principale: il tempo.
Il pensiero come atto psichico avviene nel tempo, richiede tempo. Ma il contenuto logico del
pensiero, dice Heidegger con Husserl, vale indipendentemente dal tempo. Il logico è « un fenomeno
’statico’, che sta al di là di ogni evoluzione e mutamento, che cioè non diviene e non nasce, ma
funge; esso è in ogni caso qualcosa che può essere colto dal soggetto giudicante, ma che non può
mai essere alterato da questo coglimento ».7
Dunque il tempo non è ancora per Heidegger, come sarà pochi anni dopo, quella potenza ontologica
che trascina tutto nella propria motilità; c’è ancora un aldilà rispetto a esso. Ma Heidegger si chiede
quale sia il senso di questo « logico », e osserva: « Forse qui ci troviamo di fronte a qualcosa di
ultimo e di irriducibile, rispetto al quale è escluso possa venire una luce nuova, e ogni ulteriore
domanda finisce necessariamente per incepparsi ».8
La logica statica deve entrare in un rapporto di tensione con una realtà dinamica sul piano
temporale, una realtà in mutamento. Heidegger ci pensa sulla scorta di un problema che sarà
importante per la sua filosofia successiva: si tratta della questione del niente. Egli indaga la
negazione nell’atto del giudizio. Possiamo dire: « La rosa non è gialla », oppure: « Il maestro non
c’è ». Questo « non » significa dunque solo che qualcosa di determinato, che noi attendiamo o con
cui intratteniamo una qualche relazione, non è presente. Il giallo della rosa o la presenza del maestro
sono « mancanti ». Da questa assenza, da questo « non », si può poi ricavare per astrazione il «
niente », ma come puro oggetto di pensiero. Perciò questo «niente» c’è solo nell’atto del giudicare,
ma non nella realtà. In essa vale quanto segue: « se qualcosa non esiste, non posso dire: esiste ».9
Nella conferenza Che cosà metafisica? (Was ist Metaphysik?) del 1929 Heidegger porrà l’origine di
tutta la metafisica, anche della sua, nella esperienza del niente: « Il niente è più originario del non e
della negazione ». Esso irrompe nella «noia profonda, negli abissi dell’esserci ».l0 Egli descriverà
questo niente come qualcosa che colloca l’intero mondo dell’ente in una situazione di segretezza,
dubbia e angosciante.
Anche il giovane Heidegger conoscerà questo stato d’animo, ma ancora non lo accoglie nella sua
filosofia; egli è ancora l’accademico che vuole diventare qualcuno, e che perciò conserva modi
accademici. E dunque per lui vale ancora il principio che il « niente » può essere incontrato solo nel
giudizio, ma non nella realtà. E nel far questo egli si serve di argomenti che in seguito verranno
addotti contro di lui e la sua filosofia del niente da parte del positivista logico Rudolf Carnap.
Poiché però il giovane Heidegger, a differenza da Carnap, è un logico per motivi metafisici,
l’acquisizione secondo cui il niente può essere incontrato solo nei nostri giudizi, cioè solo nel nostro
spirito, non potrà impedirne la carriera ontologica. Infatti ciò che è nel nostro spirito, è per ciò
stesso anche un aspetto del grande « essere ». Attraverso di noi la negazione entra nel mondo,
diventa il niente. Così una semplice semantica della negazione diventa la grandiosa ontologia
dell’essere e del niente. Ma allora questo « niente » non è più
il freddo « non » proprio del giudizio, ma diventa il « niente » dell’angoscia. Però questa tonalità
emotiva, come già si osservava, non ha ancora trovato espressione linguistica nei saggi filosofici di
Heidegger del 1912. Di fronte agli aspetti angoscianti della realtà egli ha ancora un atteggiamento
piuttosto disinvolto, ad esempio nella discussione del « giudizio impersonale », che si annida nelle
proposizioni prive di soggetto. « Piove », diciamo noi. Chi piove? « Intendiamo esprimere allora
una condizione propria di un misterioso soggetto impersonale, oppure questo giudizio ha un senso
del tutto diverso? ».11 Che cosa o chi è il soggetto che « piove »? Anziché sprofondare nelle
riflessioni, come accadrà in seguito, Heidegger sceglie l’esempio dello scoppiare, e scrive: «Se ad
esempio alle manovre sono intento a ritardare assieme a un amico una batteria troppo anticipata e
che sta già facendo fuoco, e nel momento in cui sentiamo rombare il cannone dico: ’in fretta, sta già
scoppiando’, il senso del giudizio sta nello scoppio, nel suo avvenire (già) adesso ».12
Heidegger indaga il « giudizio impersonale » perché vuole mostrare che in certe circostanze né le «
ricchezze psicologiche » né la « determinazione univoca e il chiarimento dei significati lessicali »
portano allo scoperto il contenuto di un giudizio, ma che a tal fine è necessario conoscere e capire il
contesto situazionale in cui avviene l’azione. Pochi anni dopo Heidegger farà proprio di questa
prammatica del nostro vivere quotidiano il teatro della sua domanda sull'essere. Per ora egli si
imbatte già una volta in questo, nello «scoppiare ». Siamo alla vigilia della prima guerra.
Con l’esempio della manovra assistiamo per un attimo solo all’ingresso del cosiddetto «mondo
della vita» (Lebensweit) nelle rigorose analisi ermeneutiche.
Il 26 luglio 1913 Heidegger sostiene l’esame di laurea presso la Facoltà di filosofia, riportandone la
distinzione della lode. Il suo relatore è Arthur Schneider, cattedratico di filosofia cattolica, il quale
accettò quella stessa estate un incarico all’università di Strasburgo. Nel Consigliere segreto
professor Heinrich Finke, storico di fama e molto influente all’interno della facoltà, Heidegger trova
un sostenitore che gli fa sperare di ottenere, a ventiquattro anni, la cattedra di Schneider rimasta
vacante. Dal canto suo Engelbert Krebs, libero docente di teologia, ricopre il ruolo di supplente alla
cattedra, e conta di avere delle possibilità di essere nominato
titolare. Krebs e Heidegger, che peraltro intrattengono rapporti di amicizia, diventano concorrenti. Il
14 novembre 1913 Krebs annota sul suo diario: « Questa sera tra le cinque e le sei [Heidegger] è
venuto da me e mi ha raccontato come Finke lo abbia esortato a conseguire la libera docenza con un
lavoro storico-filosofico, e come gli abbia parlato lasciando chiaramente intendere che Heidegger
deve tenersi pronto per l’odierna cattedra vacante, eventualmente in veste di libero docente.
Potrebbe essere quindi che la mia attuale supplenza sia un tenere in caldo la cattedra per Heidegger
».l3
Questa concorrenza non danneggia, per il momento, l'amicizia fra i due. Dopo la prima visita
fattagli da Heidegger, Krebs annota: « Una testa fine, modesta, ma sicura nel presentarsi ».14 Fin
dalle prime conversazioni egli ne è così impressionato da essere disposto ad accettare senza invidia
che Heidegger sia il più degno successore alla cattedra di Schneider. « Peccato », scrive alla fine del
1913, « che non ci sia arrivato già due anni fa. Adesso avremmo bisogno di lui. »15
Krebs e Heidegger si aiutano a vicenda nei loro lavori scientifici. Krebs deve tenere lezioni sulla
logica, di cui non è molto competente, e Heidegger prepara con lui le lezioni. « Egli mi è utile più di
quanto lui stesso non creda »,16 annota Krebs, che dal canto suo viene incontro a Heidegger con le
sue conoscenze sulla storia della Scolastica.
Heidegger aveva scelto proprio in quest'ambito il tema della sua abilitazione. In un primo tempo
egli intendeva continuare le sue ricerche logiche lavorando sull'« essenza del concetto di numero »,
ma poiché adesso mirava a una cattedra cattolica, rivolse i suoi interessi anche alla Scolastica.
Oltretutto la borsa di studio alla quale si era candidato nel 1913, e che gli era stata assegnata,
richiedeva che si lavorasse su questi temi. Si trattava di una borsa di studio piuttosto consistente,
offerta dalla Fondazione in onore di san Tommaso d’Aquino, istituita nel 1901 dagli Schätzler, una
famiglia di industriali di Augsburg.
Heidegger ne aveva fatto richiesta il 2 agosto 1913 presso il Capitolo del Duomo di Friburgo,
scrivendo testualmente: «Il deferente sottoscritto si permette di presentare al reverendissimo
Capitolo del Duomo di Friburgo la più umile richiesta per la concessione di una borsa di studio
della fondazione Schätzler. Il deferente sottoscritto intende dedicarsi al-
lo studio della filosofia cristiana e intraprendere la carriera accademica; poiché lo stesso vive in
condizioni molto modeste, sarebbe riconoscente di cuore al reverendissimo Capitolo del Duomo
»,17 etc. Queste lettere umilianti lasciano una spina in chi le scrive o deve scriverle. Difficilmente si
perdonano le persone presso cui si è dovuto elemosinare. Sebbene i Reverendi l’abbiano aiutato, o
forse proprio per questo, in seguito egli non ne vorrà più sapere di loro. Ben diverso significato
aveva per lui la Chiesa della gente umile di Meßkirch. Questo voleva dire terra natia, cui egli si
sentì di appartenere per tutta la vita. Quando si trovava a Meßkirch andava sempre a messa, fino a
tarda età, nella chiesa di St. Martin, e prendeva posto nei banchi del coro, dove già sedeva quando,
da giovane, faceva il piccolo campanaro.
Poiché a quel tempo egli era ancora considerato un filosofo cattolico molto promettente, il Capitolo
del Duomo gli concesse una borsa di studio di 1000 marchi a semestre, una somma con cui uno
studente poteva vivere senza preoccupazioni. Nella lettera di assegnazione il vescovo ausiliario
Justus Knecht richiama espressamente le finalità della fondazione: « Nella fiducia che Lei resti
fedele allo spirito della filosofia tomistica, Le concediamo [...] ».18
Heidegger viene sovvenzionato per tre anni, fino all’estate del 1916, e per tre anni è legato al
tomismo e alla Scolastica in un modo in cui non è sempre facile distinguere, nemmeno per lui
stesso, fra dovere e inclinazione naturale. Nel dicembre 1915, presentando la sua terza richiesta per
la borsa di studio, Heidegger scrive: « Il deferente sottoscritto crede di poter ringraziare, almeno per
l’importante fiducia in lui riposta, il reverendissimo Capitolo del Duomo arcivescovile, in nome del
quale egli dedica il lavoro di ricerca della sua vita a fluidificare il patrimonio della Scolastica, per la
futura lotta spirituale in nome dell’ideale di vita cristiano-cattolico». Le ambizioni filosofiche di
Heidegger sono ancora particolarmente modeste. Nel curriculum vitae del 1915 egli indica
l’interpretazione del pensiero medievale come «attività» futura «della sua vita». Egli intende
comunque utilizzare quel patrimonio di idee per confrontarlo con l’attualità, per la «lotta» in nome
dell’« ideale di vita cristiano-cattolico». Ciò nonostante, leggendo i suoi lavori filosofici non ci si
accorge che nel frattempo è cominciata la guerra mondiale e
che la filosofia della vita trionfa mentre già centinaia di migliaia di uomini sono caduti sui campi di
battaglia.
Dopo il materialismo e il meccanicismo di fine Ottocento, contro cui era diretta la filosofia della
logica di Husserl, e quindi anche del primo Heidegger, la grande sfida per Heidegger doveva essere
ora proprio la filosofia della vita, nelle sue diverse varianti. Ma è solo la parola « fluidificare » a
segnalare che nel frattempo egli è entrato in contatto con i motivi della filosofia della vita. Quella di
« fluidificare » era infatti una vera e propria ossessione, in quel tempo, per la filosofia della vita.
Soltanto pochi anni prima la filosofia della vita era per il giovane Heidegger qualcosa per « anime
moderne raffinate », cioè non era cosa per lui. Nel 1911 egli aveva scritto in un saggio per
l'Akademiker: «La filosofia, che in verità è uno specchio dell'eterno, riflette oggi in vario modo solo
opinioni soggettive, stati d’animo personali e desideri. L’anti-intellettualismo fa sì che anche la
filosofia diventi ’esperienza vissuta'; ci si dà un’aria da impressionisti [...] Oggi la visione del
mondo si attaglia alla ’vita’, anziché essere al contrario [.»] ».20
Questa rigida riserva nei confronti della filosofia della vita era dovuta in Heidegger non solo al «
valore escatologico » della vita, di estrazione cattolica, ma gli derivava anche dalla scuola
neokantiana di Heinrich Rickert, presso il quale Heidegger voleva abilitarsi. Rickert, dal quale
Heidegger trasse orientamento, fra gli altri, in questa occasione, riassunse in seguito il suo giudizio
sulla filosofia della vita con queste parole: « Come ricercatori dobbiamo dominare e consolidare la
vita concettualmente, e perciò dobbiamo uscire dalla irrequietezza puramente vitale della vita, verso
un ordine sistematico del mondo ».2I
La filosofia della vita, cui opponeva resistenza a quel tempo la filosofia accademica, e con essa il
giovane Heidegger, era diventata intanto la corrente spirituale dominante al di fuori dell' ambiente
accademico. La « vita » era diventata un concetto centrale, come lo erano stati in passato « essere »,
« natura», « Dio», oppure «l’io»; e anche una parola d’ordine impegnata su due fronti: da un lato
contro il nuovo idealismo
del « come se », seguito dai neokantiani nelle università tedesche, ma anche dalle convenzioni della
morale borghese. La « vita » si contrapponeva ai valori eterni faticosamente dedotti o anche solo
tramandati distrattamente. Dall’altro lato la parola « vita » doveva contrastare un materialismo
senz'anima, eredità dunque della fine del xix secolo. Già l’idealismo neokantiano era stato una
risposta a questo materialismo e positivismo, ma una risposta innocua, secondo la filosofia della
vita. Si rende un cattivo servizio allo spirito se lo si separa dualisticamente dalla vita materiale. Così
sarà impossibile difenderlo. Bisogna piuttosto portarlo dentro la stessa vita materiale.
Presso i filosofi della vita, il concetto di « vita » si fa cosi ampio ed elastico che tutto vi rientra;
l'anima, lo spirito, la natura, l'essere, la dinamicità e la creatività. La filosofia della vita ripete la
protesta dello Sturm und Drang contro il razionalismo del Settecento. A quel tempo la parola
d'ordine era « natura ». Il concetto di « vita » riveste adesso la medesima funzione. La « vita » è
pienezza di forme, ricchezza d'invenzione, un oceano delle possibilità, così imperscrutabile e
avventuroso che non abbiamo più bisogno di un aldilà: c’è già abbastanza nell’aldiqua. La vita è
mettersi in cammino verso lidi lontani, ma è al tempo stesso ciò che è immediatamente vicino, la
propria vitalità che esige una forma. La « vita» diventa lo slogan del movimento giovanile, dello
Jugendstil, del neoromanticismo, della pedagogia della riforma.
Prima del 1900 la gioventù borghese voleva sembrare matura. L’essere giovani costituiva uno
svantaggio per la carriera. I giornali suggerivano mezzi per accelerare la crescita della barba, e
portare gli occhiali era uno status symbol. Si imitavano gli avi nella foggia dei vestiti, e ai giovani
ancora in pubertà si faceva indossare la « finanziera » e si insegnava loro il passo moderato. Una
volta la « vita » era considerata come disillusione, come qualcosa contro cui la gioventù doveva
rompersi le corna. Ora invece la vita è la turbolenza, mettersi in movimento, e quindi è la gioventù
stessa. In tal modo l'essere giovani non è più una macchia che dev’essere, nascosta. Al contrario: è
l’età adulta a doversi giustificare dal sospetto di essere rinsecchita e irrigidita. Un’intera cultura,
quella dell’età guglielmina, viene citata davanti al « tribunale
della vita » (Dilthey) e messa a confronto con questa domanda: questa vita vive ancora?
La filosofia della vita intende questo genitivo in senso soggettivo: essa non fa filosofia sulla vita,
bensì è la vita stessa che vi fa filosofia. Come filosofia essa vuole essere un organo di questa vita;
vuole accrescerla, dischiuderle forme e figure nuove. Non vuole soltanto scoprire quali siano i
valori vigenti: è abbastanza immodesta da volerne creare di nuovi. La filosofia della vita è la
variante vitalistica del pragmatismo. Essa non si interroga sull’utilità di una concezione, ma sulla
sua potenza creativa. Per la filosofia della vita quest’ultima è più ricca di qualunque teoria; è per
questo che essa disprezza il riduzionismo biologico: in esso lo spirito viene abbassato al livello
della vita, mentre nella filosofia della vita lo spirito dev’essere elevato a vita.
I grandi protagonisti della filosofia della vita prima del 1914 furono Friedrich Nietzsche, Wilhelm
Dilthey, Henri Bergson e Max Scheler.
Nietzsche aveva equiparato la « vita » alla potenza creatrice, e in tal senso l’aveva chiamata «
volontà di potenza ». La vita vuole se stessa, vuole darsi forma. La coscienza sta in un rapporto
ambivalente con questo principio dell’autoformatività del vivente. Può operare come fattore di
impedimento o di accrescimento. La coscienza può produrre paure, scrupoli morali, rassegnazione,
e perciò può essere pietra d’inciampo dello slancio vitale. Ma la coscienza può anche mettersi al
servizio della vita: può porre valori che incoraggiano la vita al libero gioco, a raffinarsi e sublimarsi.
Ma in qualsiasi modo agisca la coscienza, essa rimane comunque un organo di questa vita, e perciò
i destini che la coscienza dispone per la vita sono al tempo stesso destini che la vita prepara per se
stessa. Una volta essa si accresce, per mezzo della coscienza; un’altra volta si distrugge, sempre per
mezzo della coscienza. Ma se la coscienza agisca nell’una o nell’altra direzione, è una questione
che non viene decisa da un processo vitale inconsapevole, bensì dalla volontà cosciente, cioè dalla
libertà della coscienza nei confronti della vita. La filosofia della vita di Nietzsche strappa via la «
vita » dalla camicia di forza in cui l’aveva imbrigliata il determinismo del tardo Ottocento, e le
restituisce la sua peculiare libertà. È la libertà dell’artista di fronte alla sua opera. « Voglio essere il
poeta della
mia vita », annuncia Nietzsche, e sono note le conseguenze di questa posizione per il concetto di
verità. La verità in senso oggettivo non esiste. La verità è il modo dell’illusione che si rivela essere
al servizio della vita. Questo è il pragmatismo di Nietzsche che però, diversamente da quello
anglosassone, si rapporta a un concetto dionisiaco della vita. Nietzsche disprezza il dogma
darwiniano dell’« adattamento » e della «selezione» come legge dell’evoluzione della vita. Per lui
sono solo proiezioni di una morale utilitaristica. Così il filisteo si rappresenta una natura in cui
l’adattamento sarebbe presumibilmente premiato anch’esso con una carriera. Per Nietzsche la «
natura » è il bimbo cosmico che gioca, di cui parlava Eraclito. La natura forma figure e le distrugge,
è un incessante processo ludico in cui trionfa la potenza di ciò che è vitale, non già ciò che si adatta.
La sopravvivenza non è ancora un trionfo: la vita trionfa solo nell’eccesso, nello spreco, nel
godimento della estrinsecazione.
La filosofia della vita di Nietzsche è attivistica e pervasa di arte. La sua « volontà di potenza » era
innanzi tutto una visione estetica, non politica. Essa ricreava per l’arte una forte autocoscienza.
Sotto la pressione dell’ideale scientifico questa aveva perduto se stessa, piegandosi al dogma
dell’imitazione. Chi si richiamava a Nietzsche poteva affermare che se l’arte e la realtà non
concordano fra loro, tanto peggio per la realtà!
Le correnti artistiche importanti di inizio secolo - simbolismo, Jugendstil ed espressionismo - sono
tutte ispirate da; Nietzsche. La «volontà di potenza» assume sul piano estetico nomi diversi. Nella
Vienna di Freud, dove l’inconscio riscuoteva grande interesse, le persone veramente vitali sono
quelle nervose: « Non appena il sistema nervoso sarà stato pienamente svelato e l’uomo, soprattutto
l’artista, sarà dedito, j interamente ai nervi, senza considerare la ragione e i sensi, la gioia perduta
farà ritorno nell’arte [...] » (Hermann Bahr, 1891). Gli espressionisti esigono la «rinascita della
società dall’unione di tutti i mezzi e di tutti i poteri dell’arte » (Hugo Ball); anche nella cerchia di
Stefan George e nei simbolisti sii ; crede nella « rinascita » dello Stato e della società a partire dallo
spirito dell’arte sovrana. Franz Werfel preannunciai « l’ascesa al trono del cuore». Le fantasie di
onnipotenza da parte dell’arte e degli artisti vivono ora il loro grande mo
mento. Lo spirito della filosofia della vita ha liberato nuovamente le arti dall’asservimento al
principio della realtà. Esse tornano a presumere di avere delle visioni con le quali protestano contro
la realtà nella convinzione che anch’essa si trasformerà. « Visione, protesta, mutamento »: questa è
la trinità dell'espressionismo.
La filosofia della vita di Nietzsche guardava alla vita vissuta, quella di Dilthey all'esperienza
vissuta. Dilthey non si preoccupava della biologia; egli voleva fare esperienza di che cosa fosse in
generale l’uomo attraverso la storia dello spirito, ma trovò solo singole opere e figure, una gran
quantità di posizioni in cui la vita spirituale mostra tutta la sua ricchezza. La vita, così come la
intendeva Dilthey, era l’universo dei libri, dove sono stampate frasi che di volta in volta ci
consegnano un senso, ma che nel loro insieme non si raccolgono a formare un significato
complessivo. La vita dello spirito produce una quantità di forme che possono diventare una sorta di
Calvario se non siamo in grado di riportare alla vita quello spirito che è irrigidito nelle forme fissate
e nelle opere oggettive della cultura. Ciò accade attraverso la comprensione, che è il modo in cui lo
spirito fa esperienza dell 'oggettivazione dello spirito estraneo e « fluidifica » ciò che si è irrigidito.
Dilthey fa uso di questa espressione e Heidegger la prende da lui laddove, come si è ricordato, parla
di « fluidificazione» della Scolastica nella lotta a favore dell’ideale di vita cattolico. La
comprensione ci riporta indietro la vita passata, la ripete. Comprendere significa ripetere. La
possibilità dell'esperienza che compie la ripetizione è un trionfo sulla caducità del tempo. Ma le
opere, che nascono nel tempo, non consentono di fissare il loro contenuto in modo oggettivo e
vincolante. Ogni atto di comprensione è legato esso stesso a una sua posizione temporale; e così
veniamo continuamente afferrati dal tempo che scorre via e che continua sempre a produrre cose
nuove e ogni volta uniche: punti di vista, prospettive, visioni, concezioni del mondo che si
susseguono incessantemente. Dilthey si chiedeva: « Dove sono i mezzi per superare l’anarchia delle
convinzioni che minaccia di sopraggiungere? »- L’anarchia era infatti qualcosa di poco rassicurante
per questo studioso tedesco dalla fine sensibilità che visse negli anni della rivoluzione industriale in
Germania. Perciò egli credeva che la vita dello spirito si combinasse in
un ordine segreto, e pur non sapendo dire in che modo, in questo giardino dell’umanità egli voleva
essere il giardiniere, La parola « vita » ha in Dilthey un suono di familiarità, e non quella valenza
demoniaca che troviamo in Nietzsche. «La vita è il fatto fondamentale, che deve costituire il punto
di partenza della filosofìa. Essa è ciò che conosciamo dentro di noi, è ciò alle cui spalle non
possiamo risalire. La vita non può essere condotta davanti al tribunale della ragione. »
Nietzsche voleva far sì che la sua vita diventasse filosofia, Dilthey vuole risvegliare alla vita le
opere dello spirito. Il primo fa della filosofia della vita un’avventura esistenziale, l’altro una
esperienza culturale.
Nietzsche e Dilthey venivano ancora dall'Ottocento. Ma il genio della filosofia della vita nel
Novecento fu Henri Bergson, che intraprese il tentativo di darle una configurazione sistematica. Nel
1912 uscì in traduzione tedesca la sua opera principale, L’evoluzione creatrice. Ebbe
immediatamente un successo di pubblico senza precedenti. Nel suo saggio Tentativi per una
filosofia della vita, redatto nel 1913, Max Scheler scrive: « Il nome di Bergson risuona attualmente
nel mondo della cultura in maniera così forte e incalzante che chi possiede un udito fine può
domandarsi dubbioso se un filosofo siffatto debba essere letto ».23 Bisogna leggerlo, dice Max
Scheler, perché nella filosofia di Bergson trova espressione «un atteggiamento del tutto nuovo
dell’uomo nei confronti del mondo e dell’anima »: « Questa filosofia ha nei confronti del mondo il
gesto della mano aperta che indica la via, dell’occhio che si spalanca grande e libero. Non è lo
sguardo di sottecchi, l’occhio critico sulle cose [...] che può avere un Cartesio; non è l’occhio di
Kant che si posa così sulle cose e le attraversa con quella estraneità e singolarità come se venisse da
un ’altro’ mondo [...], piuttosto lo lambisce e lo impregna fin dentro alle sue radici spirituali il fluire
dell’essere, come un elemento [...] ovvio e salutare proprio perché è il fluire dell’essere ».
Bergson, analogamente a come già fece, prima di lui, Schopenhauer, scopre due fonti della
conoscenza della vita: la prima è l’intelletto, l’altra l’intuizione (per Schopenhauer: l’esperienza
interiore della volontà). L’intelletto è quella facoltà che Kant ha analizzato in modo puntuale.
Bergson si ricollega a queste analisi. Spazio, tempo, causalità ed estensio
ne sono le categorie di questo intelletto. Ma Bergson ne modifica la prospettiva: questo intelletto
viene considerato dal punto di vista della biologia evoluzionistica. In tal modo esso appare come un
prodotto di questa evoluzione, come un organo con cui orientarsi nel mondo della vita e orientare le
nostre azioni. Esso ha dato evidente prova di sé ed è espressione di un «adattamento sempre più
duttile dell’essere vivente alle condizioni di esistenza date ».24
L’intelletto è dunque un sistema che filtra la sovrabbondanza e la molteplicità dell’essere e del
divenire attraverso punti di vista pratici per la sopravvivenza (analogamente, in Schopenhauer, l
’intelletto è uno strumento della volontà).
In tal senso Bergson è un biologista pragmatico. Ora però egli osa fare il suo passo decisivo, con
una semplice considerazione: dato che possiamo analizzare l'intelletto nei suoi limiti, siamo sempre
anche al di là di esso, altrimenti non potremmo scoprirne la limitatezza. Deve esserci un ambito « al
di fuori » del suo. Secondo Bergson il nocciolo della questione è che questo « al di fuori » è
qualcosa di interiore, l'intuizione. Nell'intuizione, nell'esperienza interiore, l'essere non è un oggetto
da cui possiamo prendere le distanze; in essa facciamo invece esperienza immediata di noi stessi
come parte dell’essere: «La materia e la vita che riempiono il mondo, ci sono anche in noi. Le forze
che operano in tutte le cose, le avvertiamo in noi ».25 L’intelletto è al servizio della vita nel senso
della sopravvivenza, ma l’intuizione ci conduce più vicino al mistero della vita. Rispetto al mondo
nel suo insieme, la vita appare come un’onda infinita che fluisce liberamente nella coscienza
intuitiva: « Entriamo dunque nel nostro intimo: toccheremo un punto molto più profondo, un colpo
molto più forte ci risospingerà alla superfìcie [...] ». La Recherche, il capolavoro proustiano, si
avvale di questa indicazione alla propria interiorità in cui la vita si rivela in modo particolarmente
misterioso e sollecitando la fantasia a fare esperienza interiore del tempo. L’intelletto orientato
verso l’esterno costruisce il tempo fìsico, quello misurabile e uniforme (« tempus quod aequaliter
fluit », Newton). L’esperienza interiore, l’intuizione dunque, conosce un tempo diverso. Che è la
durata (durée). Dire che la vita « ha una durata » equivale a dire che la nostra vita consta di un fluire
continuo, con ritmi alternati, condensazioni, intoppi, vortici. Qui asso-
linamente niente va perduto, c’è una crescita costante e ogni punto è unico perché in nessun punto è
uguale il passato che i
lo    precede e che ci sospinge innanzi, dato che l’istante che passa si aggiunge al passato e lo
modifica. L’uomo si muove nel tempo come un medium, ma egli « temporalizza » anche il    tempo
in quanto conduce la sua vita, cioè possiede iniziativa e spontaneità. E' un essere iniziatico. Secondo
Bergson, nell’intimo dell’esperienza del tempo sta nascosta l’esperienza della libertà creatrice: una
libertà che opera in tutto l’universo come potenza creatrice. Nell’esperienza della libertà umana la
libertà creatrice che opera nel cosmo trova la sua autocoscienza. L’intuizione ci conduce al cuore
del mondo:
« Noi siamo, circoliamo e viviamo nell’assoluto ».    
Questi sono i termini sublimi, incantevoli e incantati, pieni di slancio e di promesse, con cui la
filosofia intona, prima del 1914, il tema della « vita ». Ma il giovane Heidegger non si lascia
trasportare da quest’onda. Egli conclude la sua dissertazione del 1913 guardando sobriamente e
rigidamente alla « logica pura », con il cui ausilio è possibile « avvicinarsi ai problemi gnoseologici
» e « articolare l’ambito complessivo dell'’essere’ nei suoi diversi modi di realtà».26    
In Heidegger non si avverte ancora nulla di quel senso di rottura che Max Scheler esprime in quello
stesso periodo nel suo saggio Tentativi per una filosofia della vita. Davanti ai nostri occhi, scrive
Scheler, si compie una « trasformazione , della visione del mondo »: « Segnerà, per chi è stato in
una lunga e oscura prigione, il primo passo in un giardino fiorito. La 'prigione’ è la civiltà del nostro
ambiente umano, opera di un intelletto volto soltanto a quanto è meccanico e meccanizzabile; il
giardino è il mondo variopinto di Dio che noi, sia pure ancora in lontananza, vediamo sorgere
davanti a noi e salutarci nella sua limpidezza; mentre il prigioniero è l’uomo europeo di oggi e di
ieri che, tra sospiri e lamenti, procede lentamente, carico dei propri meccanismi e che, con gli occhi
rivolti a terra e le membra pesanti, ha dimenticato il suo Dio e il suo mondo ».27
«
Che il giovane Heidegger non abbia ancora del tutto afferrato questo stato d’animo di rottura,
proprio della filosofia della vita, risulta tanto più sorprendente se pensiamo che là fuori, nel tumulto
filosofico di quel tempo, già si agitano molti dei suoi temi e motivi futuri: una esperienza diversa
del tempo, la fluidificazione dello spirito irrigidito, la dissoluzione del soggetto conoscente astratto,
l’arte come luogo della verità.
L’heideggeriano mondo di ieri dovrà ancora collassare nella guerra. Heidegger dovrà trovarsi privo
di qualsiasi rifugio metafisico per poter scoprire a modo suo quella « vita » cui darà in seguito il
nome di effettività e di esistenza.
4. Lo scoppio del conflitto. Le idee del 1914. La filosofia di Heidegger nonostante la storia.
Fluidificare la scolastica. Duns Scoto. L’abilitazione. Servizio militare in guerra.
Il fallimento della carriera rapida.
Un sodalizio maschile. Il matrimonio.
Fresco di laurea, il dottore in filosofia si mette a lavorare al
lo scritto di abilitazione sulla Dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (Die
Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus). La borsa di studio « Schätzler », con cui per il
momento può vivere senza problemi, lo vincola alla difesa sul piano filosofico del « patrimonio di
verità della Chiesa » sotto forma di tomismo. Se si affretta, ci sono possibilità che egli ottenga
quella cattedra di filosofia cattolica che è tuttora vacante. Le cose non si mettono male, e intanto
comincia la guerra.
L’entusiasmo che si scatena all'inizio della guerra coinvolge naturalmente anche l'università di
Friburgo, dove i giovani soldati vengono mandati al fronte tra cori festosi, addobbi floreali e
discorsi celebrativi. Heidegger viene arruolato il 10 ottobre 1914, ma a causa dei suoi disturbi di
cuore viene riconosciuto solo parzialmente abile e rimandato a casa. Egli ritorna alla sua scrivania,
dove si immerge a capofitto nei sottili dibattiti medievali sul nominalismo.
Heidegger faceva certamente parte di quella strana specie di studenti che Ludwig Marcuse, il quale
studiava anch’egli filosofia a Friburgo in quegli anni, ha descritto nella sua autobiografia con queste
parole: «Alla fine di luglio incontrai uno dei più rispettabili fra i miei compagni di corso, Helmuth
Falkenfeld, nella Goethestraße. Disse disperato: 'Hai già sentito che cosa è successo?’ Risposi,
pieno di disprezzo e con rassegnazione: ’Lo so, Sarajevo’. Disse: ’No, domani salta il seminario di
Rickert’. Dissi spaventato: ’È malato?’ Rispose: ’No, per la minaccia della guerra'. Dissi io: ’Che
cosa c’entra il seminario con la guerra?’ Egli sollevò penosamente le spalle».
Questo amico è dispiaciuto a causa dello scoppio della guerra perché gli toglie l'occasione di
esporre al seminario di Rickert la sua relazione scritta, preparata con tanto scrupolo. Egli sarà
arruolato già nei primi giorni di guerra, e inviato al fronte, da dove gli scrive: « Le cose mi vanno
ancora bene, anche se la battaglia del 30 ottobre, cui ho preso parte, mi ha quasi assordato col suono
delle sue 24 batterie di cannoni. Ciò nonostante [...] rimango dell'idea che la terza antinomia
kantiana è più importante di tutta questa guerra mondiale e che la guerra si rapporta alla filosofia
come la sensibilità alla ragione. Non credo affatto che gli avvenimenti di questo mondo corporeo
siano in grado di toccare anche minimamente le nostre componenti trascendentali, e non ci crederò
nemmeno se una scheggia di granata francese dovesse conficcarsi nel mio corpo empirico. Viva la
filosofia trascendentale ».2
Presso i neokantiani di stretta osservanza il punto di vista della filosofia trascendentale, che essi
tenevano rigorosamente fermo, doveva avere evidentemente un effetto anestetizzante. Le passioni
scatenate dalla guerra e i destini che essa preparava al singolo venivano attribuiti alla sfera
volgarmente empirica. L’apriori della conoscenza e della persona etica non ne venivano toccati.
Tutto ciò non faceva mettere in dubbio il senso e la legittimità della guerra, ma stava a significare
che la filosofia, intesa come filosofia rigorosa, non aveva niente da dire a questo proposito per dare
a tali eventi una fondazione e una giustificazione. Le opinioni e i giudizi privati potevano anche
traboccare di entusiasmo, ma la filosofia doveva conservare la sua nobile temperanza. Essa doveva
procedere lungo il suo cammino sovrano, senza lasciarsi reclutare dallo spirito del tempo, anche se
quest’ultimo all’inizio della guerra aveva messo in marcia un intero popolo. Se i filosofi, anche i
rigidi neokantiani, si fecero coinvolgere, ciò non fu una conseguenza della loro filosofia, quanto
piuttosto perché si accorsero improvvisamente, con lo scoppio della guerra, che ci potevano essere
cose più importanti di questa filosofia. Emil Lask, per esempio, il giovane genio del neokantismo
(che cadde nel secondo anno di guerra e a cui Heidegger dedicherà la sua tesi di abilitazione), aveva
notato già prima della guerra che le ruote dell'intelletto macinano tanto più finemente quanto meno
materia vitale devono macinare, e che cioè il pensiero filosofico può vantarsi solo se si tiene lontano
dalla materia della vita e dalle sue molteplici valenze. Lask sentì tutto questo come un difetto, e
perciò pochi mesi dopo l’inizio della guerra scrisse dal fronte a sua madre: « Infine è giunto il
momento di partire. La mia insofferenza era al limite, e in me era fortissimo il sentimento di esere
inerte quando, invece, si sarebbero dovute utilizzare tutte le forze disponibili, il sentimento di
quando tutto è in gioco e diventa intollerabile non portare alcun contributo, sia pure minimo »3.
Heidegger non sembra dispiacersi della sua momentanea esclusione dalla partecipazione alla guerra.
Non aveva bisogno di rischiare la vita e poteva continuare a lavorare, e perii resto avrà forse
condiviso l’entusiasmo generale per la guerra, dato che esso divampò potentemente anche nella sua
cerchia più ristretta di amici e di colleghi cattolici. Il suo mentore Heinrich Finke fondò nel 1915 un
comitato per la difesa degli interessi tedeschi e cattolici nella guerra mondiale. Al suo interno
venivano intraprese iniziative e pubblicati scritti che davano alla guerra un senso religioso e che si
inserivano nel dibattito sugli scopi del conflitto, con posizioni piuttosto moderate. Engelbert Krebs,
amico di Heidegger, pubblicò in questa sede numerosi pamphlet che nel 1916 furono raccolti in un
volume dal titolo II segreto della nostra forza. Pensieri sulla grande guerra.
L’inizio della guerra provocò una marea di pubblicazioni. Sembra che dalle penne dei tedeschi siano
uscite a quel tempo un milione e mezzo di poesie. Rilke si trovava in buona compagnia con il suo
Inno alla guerra:
Per la prima volta ti vedo sorgere
lontano, incredibile Dio della guerra, di cui sentivo parlare
Finalmente un Dio. Ché quello pacifico spesso più non s’afferrava,
ora ci rapisce improvviso il Dio della battaglia...
Salute a me, che ora vedo uomini rapiti d’entusiasmo.4
Questo rapimento entusiastico non risparmiava i professori. La « Dichiarazione dei docenti
universitari del Reich tedesco », del 16 ottobre 1914, che portava 3016 firme, manifstava lo «
sdegno perché i nemici della Germania, primo fra tutti l’Inghilterra, vogliono creare uno scontro,
presumibil mente a nostro favore, fra lo spirito della scienza tedesca e quello che essi chiamano il
militarismo prussiano ».5
Non si voleva lasciarsi dividere dal « militarismo », ma nemmeno riconoscerlo come mero dato di
fatto: si voleva caricarlo di significati. I rapiti dall’entusiasmo furono afferrati da una febbre
interpretativa senza pari: « Sono in verità proprio le forze più profonde della nostra cultura, del
nostro spirito e della nostra storia, a sostenere e animare questa guerra » (Erich Mareks, Dove
siamo?).6
Nelle sue Considerazioni di un impolitico Thomas Mann parla della guerra come di un evento in cui
« l’individualità dei singoli popoli, le sue fisionomie eterne » escono potentemente allo scoperto e
possono essere colte solo con una «psicologia dell’affresco».7 Si assiste a una congiuntura di
dichiarazioni d’identità nazionale di natura straordinariamente vigorosa. Non soltanto in Thomas
Mann vengono abbozzate in grande stile tipologie fìlosofico-culturali finalizzate a scopi polemici.
Vengono istituite alcune contrapposizioni convincenti: profonda cultura contro civilizzazione
superficiale; comunità organica contro società meccanicistica; eroi contro mercanti; il sentire contro
il sentimentalismo; la virtù contro il calcolo.
1 filosofi reagiscono in modo diverso. Alcuni procedono indisturbati nel loro sobrio lavoro
accademico, secondo la caricatura fatta da Ludwig Marcuse. Altri, e sono i filosofi della vita
divenuti tanto popolari, vogliono dare un contributo specificamente filosofico alla guerra
interpretandola come tenzone spirituale. A tal fine essi mobilitano le loro riserve metafisiche. Con
sovrabbondante loquacità Max Scheler celebra il « Genio della guerra », come recita il titolo del suo
grande saggio del 1915. Scheler abbozza tutta una antropologia sub specie belli. La guerra rivela ciò
che è nascosto nell’uomo. Scheler conserva una certa signorilità: non condanna le potenze nemiche
e concede loro il diritto di combattere. Egli vede nella guerra il segreto della autoaffermazione delle
culture che, al pari degli individui, devono scontrarsi tra loro, se vogliono trovare la loro forma
autonoma e inconfondibile. Per far ciò esse devono calarsi nel fuoco, dove questa forma viene
forgiata. La guerra rende inevitabile il confronto con la morte e perciò costringe il popolo, e il
singolo, a concepirsi come un intero, e tuttavia come un intero che può essere
spezzato. La guerra è il grande artista del discernere: divide l’autentico da ciò che è inautentico,
rivela la sostanza vera. La guerra è l' examen rigorosum dello Stato, in cui quest’ultimo deve
dimostrare se è solo amministrazione di una società
o anche espressione di una volontà comune. La guerra è l’ora della verità: «L’immagine dell’uomo
nella sua interezza, grandezza, complessità, di cui la pace faceva vedere solo una zona mediana a
toni di grigio [...] questa immagine compare ora davanti a noi nella sua plasticità. Soltanto la guerra
scandaglia la portata, l’ampiezza della natura umana; in essa l’uomo diventa consapevole di tutta la
sua grandezza, di tutta la sua piccolezza ».8
Quale sostanza spirituale è portata allo scoperto dalla guerra? Gli uni dicono: la vittoria
dell’idealismo. Da tempo ormai esso era soffocato dal materialismo e dall'utilitarismo, ma adesso
torna a farsi vivo e gli uomini sono nuovamente disposti a sacrificarsi per i valori immateriali, per il
popolo, la patria, l’onore. Perciò Ernst Troeltsch afferma che l’entusiasmo bellico è un ritorno della
« fede nello spirito » che trionfa sopra « l’idolatria del denaro », la « scepsi titubante», la « ricerca
del piacere » e l’« ottusa rassegnazione alle leggi della natura ».l)
Altri vedono nella guerra la liberazione dell’energia creativa, che nel lungo periodo di pace
minacciava di irrigidirsi. Essi celebrano nella guerra la violenza della natura; infine, essi dicono, la
cultura ritrova il suo contatto con le cose elementari. Secondo Otto von Gierke la guerra « è insieme
ciò che più potentemente distrugge le culture e ciò che più potentemente le genera ».l0
La guerra trasforma tutto e, nelle speranze di Max Scheler, trasformerà la stessa filosofìa. Non ci si
accontenterà più di « pure sottigliezze formalistiche », e crescerà la fame di una « visione originale
e autonoma del mondo ». 11
Di fatto però la filosofia non guadagna, durante la guerra, nessuna nuova « visione originale ». Essa
vive del proprio patrimonio metafisico, che spende nel conferire « profondità» e «significato»
all’evento catastrofico della guerra. Le menti che pensano davvero in termini politici, da Max
Weber a Carl Schmitt, provano ripugnanza per tutto questo. Maxi Weber stigmatizza « le
chiacchiere e i vaneggiamenti dei letterati »12 che scambiano per pensiero politico le loro acroba
zie di pensiero. E per Carl Schmitt l’elevazione della politica al rango metafisico è
«occasionalismo»13 puro e semplice, un atteggiamento che si serve della realtà solo per produrre
idee narcisistiche.
Heidegger si tiene lontano da tutto. Il suo furore filosofico non imperversa in campo politico. Il suo
pensiero ha in questo momento il carattere peculiare di un fare filosofia nonostante la storia.
Come si è detto, dopo la sua dissertazione intendeva lavorare in realtà sull'« essenza del concetto di
numero». Il suo mentore, Heinrich Finke, lo consiglia di trattare questo nucleo problematico nel
campo della filosofia scolastica. Heidegger trova un testo idoneo a discutere quello che lo affascina
nel concetto di numero: la realtà dell’idealità. Il titolo del testo sul quale egli intende condurre le
proprie indagini è: Dei modi del significato ovvero Grammatica speculativa. All’epoca questo testo
era attribuito a Giovanni Duns Scoto (1266-1308). In seguito si è potuto però stabilire che l’autore
fu Tommaso di Erfurt, un filosofo appartenente alla scuola di Duns Scoto.
Duns Scoto fu il filosofo medievale della critica della ragione. Con straordinario acume - nel
Medioevo era chiamato per questo il « doctor subtilis » - egli cercava di delimitare la portata della
ragione naturale nelle questioni metafisiche. Sosteneva che non potremo cogliere la vera essenza di
Dio con il nostro intelletto, e poiché il mondo è creato da Dio, e perciò partecipa
dell’impenetrabilità di Dio da parte dell’intelletto, anche le cose intorno a noi, per quanto possiamo
concepirle rettamente nel dettaglio, conservano la loro enigmaticità. Questa critica razionale alla
ragione è per Duns Scoto al servizio della fede. Per questo maestro dell’alta Scolastica, che visse in
Scozia, vale quello che Kant disse in seguito di se stesso, cioè di aver voluto far posto alla fede
attraverso la propria critica razionale della ragione. In Kant, come pure in Duns Scoto, questa critica
procede in una duplice direzione: respingere le presunzioni della ragione e, insieme, l’uso falso
della fede. La vera fede va al di là della conoscenza, ma non la sostituisce. In altre parole:
dobbiamo accordare sia alla fede sia alla conoscenza ciò che spetta loro di diritto. Non è lecito voler
sostituire l’una con l’altra. Duns Scoto era un nominalista moderato, per il quale i concetti sono
innanzi tutto soltanto nomi (nomina) e non sono l’essenza della cosa stessa. Con questa espressione,
« la cosa stessa », i filosofi medievali intendono naturalmente e soprattutto Dio e il mondo.
I nominalisti muovono dunque da una dualità fra pensiero ed essere, ma cercano di colmare questa
lacuna, e ciò vale in particolare per quell’opera proveniente dalla scuola di Duns Scoto, su cui
Heidegger intende lavorare.
La sua idea di fondo è la seguente: il pensiero si muove nel linguaggio. Il linguaggio è un sistema di
segni. Esso rinvia alla cosa allo stesso modo in cui l’anello come insegna in ferro di un’osteria
rimanda al vino che in essa si può bere, secondo l’esempio di Duns Scoto (ovvero Tommaso di
Erfurt), che evidentemente era un amante del buon vivere. Fra il pensiero e l’ente c’è un abisso di
diversità («eterogeneità »), ma c’è anche qualcosa in comune (« omogeneità »). Il ponte fra i due si
chiama analogia. Fra il nostro pensiero e l’ente c’è lo stesso rapporto analogico che vige fra Dio e il
mondo. Questo è il punto d’arrivo di tutto il pensiero. In questo punto l’intera volta della grande
metafisica medievale ritrova un sostegno sicuro. Tutti gli elementi dell’essere, fìno a giungere
all’ente sommo, stanno fra loro in relazione di analogia. Il rapporto di analogia fra Dio e il mondo
ha questo significato: Dio non può semplicemente identificarsi con il mondo; ne sarebbe
prigioniero. Ma non può nemmeno essere qualcosa di totalmente differente da esso, dato che il
mondo è stato creato da lui. Il mondo rinvia a Dio così come l’insegna di osteria al vino, ed è chiaro
che non già l’insegna dì osteria, bensì il vino stesso toglie la sete. L’insegna di osteria può essere
reale, ma Dio o il vino sono più reali. Nel pensiero medievale ci sono, come dice Heidegger
commentando questo pensiero, «gradi di realtà»,14 livelli d’intensità. E il pensiero altamente
speculativo si spinge ancora più in allo con la domanda: su quale livello di realtà si trova
effettivamente il pensiero stesso? Per Duns Scoto l’uomo non è così vicino a Dio con il suo
pensiero quanto credono quei pensatori che affermano la realtà dei concetti, che già quasi gli
attribuiscono la possibilità di ripensare i pensieri di Dio, da cui è scaturito il creato. Ma non gli è
nemmeno così lontano come credono i nominalisti radicali che fanno precipitare il pensiero, di
fronte a Dio, nella notte dell' ignominia.
Che cosa cerca e che cosa trova Heidegger in questa cattedrale del pensiero medievale?
Egli cerca la nascosta modernità di questo pensiero; vuole fluidificarla, e trova innanzi tutto alcune
sottigliezze che anticipano il procedimento fenomenologico husserliano. Ad esempio c’è già in
Duns Scoto la distinzione fenomenologica fra la « prima intentio » e la « secunda intentio ». La «
prima intentio» è l’atteggiamento naturale: l’essere orientati agli oggetti della percezione e del
pensiero. La « secunda intentio » è quello sguardo peculiare attraverso il quale il pensiero rivolge
l’attenzione a se stesso e ai propri contenuti. Si tratta della distinzione husserliana fra « Noesis »
(atto dell’intenzione) e « Noema » (contenuto dell’intenzione), di cui si tornerà a parlare in seguito.
Heidegger fluidifica questo filosofo medievale, reclutando
lo ai fini di Husserl. Egli ci presenta uno scolastico che, al pari di Husserl, indaga il campo della
coscienza pura per poi far apparire magicamente la struttura del mondo intero. II pensiero che pensa
se stesso, questo pensiero che si contempla nel suo stesso operare, dipana un cosmo che non si può
escludere dal mondo osservando che non è di questo mondo. È sufficiente che esso significhi
qualcosa. Heidegger dice: «Duns Scoto ci insegna la libertà di esistenza dell’ambito del significato
».15
Heidegger voleva studiare filosoficamente l’essenza del numero. Egli può seguire questa ossessione
sulle tracce di Duns Scoto. Infatti questa Grammatica speculativa degli scotisti ricava dall'unità e
dall'uno tutta un’ontologia.
Il testo, come pure l’analisi di Heidegger, comincia con le categorie fondamentali in cui c’è per noi
realtà. Queste categorie fondamentali - che peraltro Duns Scoto non colloca sul piano più basso del
« fondamento » ma, in modo tipicamente medievale, in « alto » - vengono chiamate « i
trascendentali», e sono: « ens » (l’ente in generale), «unum» (l’uno), « verum » (il vero) e « bonum
» (il buono). Che ci sia ente, e cioè l1«ens», con cui tutto comincia, è evidente. Meno ovvio, ma
comprensibile dopo qualche riflessione, è il fatto che l'ente si presenti sempre solo come un ente,
come qualcosa di determinato, e quindi come un «uno». Ma l’«uno» è uno solo nella differenza da
un alcunché di diverso da esso (« diversum »). Heidegger dice: « L’uno e l’altro sono la vera ori-
gine del pensiero come presa di possesso oggettuale ».16 Ma in questa origine si genera già la crepa,
sottile come un capello, fra pensiero ed ente. Non è infatti una proprietà di questo stesso uno, si
potrebbe chiedere, quella di non essere l'altro? No, ogni ente è ciò che esso è, e questo « non-essere-
l’altro » non fa parte delle sue qualità. Questo « non » viene aggiunto alle cose solo da parte del
pensiero che opera confronti. Le cose sono per così dire prese in se stesse, non possono essere
confrontate fra loro e quindi non possono nemmeno distinguersi attivamente le une dalle altre. Esse
non si differenziano, bensì sono differenziabili solo per il nostro pensiero. E' una scoperta molto
importante. Essa ci dice, nella formulazione di Heidegger, che « ciò che è reale è individuale ».17
Duns Scoto chiama questo individuale con il nome di « haecceitas », che tradotto letteralmente
significa l'« essere-questo-qui-ora » da parte delle cose. Ciò che è di volta in volta qualcosa di unico
nel suo punto spazio-temporale.
Questa scoperta è di grande portata perché rivela su un piano elementare che la nostra ragione è in
grado di astrarre e distinguere da sé in modo razionale fra ciò che le cose sono in sé e ciò che il
nostro pensiero vi aggiunge. Che cosa sono in sé? Pure singolarità fra le quali il nostro intelletto si
muove su e giù paragonando, collegando e ordinando. Heidegger esprime questo pensiero,
rifacendosi a Duns Scoto, affermando che noi proiettiamo l'ente, che consta di pure singolarità
differenti (eterogeneità) in un «medio omogeneo» dove possiamo confrontare l’ente, comprenderlo,
e appunto anche contarlo. Che cosa sia questa « omogeneità » risulta particolarmente chiaro dalla
serie dei numeri. Se io conto cinque mele, non è una qualità della terza di queste mele il fatto di
essere appunto la terza; infatti in essa non cambia niente se
io la tolgo da quella serie di mele. Dunque da un lato c’è la molteplicità eterogenea e dall’altro il
medio omogeneo della numerabilità. Nell’ente molteplice non c’è alcun numero, ma - e questo è il
punto decisivo per il rapporto di analogia - è l’ente nella sua molteplicità che consente innanzi tutto
la nu merazione. Per questo i due ambiti sono fra loro collegati. Tra la molteplicità del singolo e il
suo ordinamento nella seie dei numeri sussiste appunto il rapporto di analogia.
Il mistero dell’analogia, in cui ci si muove già con le semplici cifre, conduce direttamente al più
potente dei misteri:
Dio. Egli sta, rispetto all’insieme degli enti, all'incirca nello stesso rapporto della serie infinita dei
numeri rispetto alle singolarità dell’ente, che sono numerabili, ma letteralmente « innumerevoli ».
Le cose sono ciò che sono e, oltre a ciò, sono fatte in modo tale da soddisfare solo analogamente il
contenuto semantico ideale proprio dei nostri concetti (in questo caso: dei nostri concetti di
numero). Ma questo vuol dire che esse sono infinitamente di più e infinitamente diverse da quanto
non appaiano nel medium omogeneo dei concetti rigorosi. Da ciò Heidegger trae una conclusione
che sarà di importanza immensa per la sua filosofia successiva: un tipo di scienza orientato
all’ideale del concetto che coincide con il significato (concetto univoco) non potrà corrispondere in
maniera sufficiente a questa « struttura fondamentale della realtà effettiva » in cui « omogeneità ed
eterogeneità si intrecciano in modo peculiare »;18 invece vi corrisponderà la «parola vivente » nella
« peculiare motilità del suo significato».19 Questa conclusione resterà determinante per Heidegger
anche in tutte le fasi della successiva evoluzione del suo pensiero. Infatti, anche se non ricorrerà più
in seguito al concetto di analogia proprio della Scolastica, tuttavia resterà fedele alla convinzione
che non già la logica univoca, bensì la lingua parlata, nella sua storicità e molteplicità di significati,
e anche nella sua forma poetica, sia l'organo della filosofia che corrisponde più di tutti alla realtà.
Nella primavera del 1915 Heidegger conclude il suo lavoro di abilitazione e lo consegna a Rickert.
Quest’uomo sempre indaffarato, con la sua criniera leonina, ricopriva a quel tempo a Friburgo il
ruolo di un grande ordinario, attorniato da uno sciame di assistenti non pagati. Teneva i suoi corsi
nella biblioteca: l’aula grande dell’università, che avrebbe potuto riempire senza problemi, gli dava
un senso di agorafobia. I suoi seminari avevano luogo nella sua villa, e vi era ammesso solo un
pubblico accuratamente selezionato di professori, notabili dediti alla cultura, dottori e liberi docenti.
Anche Heidegger vi prese parte qualche volta. Rickert era un caposcuola, e gli piaceva presentarsi
come tale. Come un generale di stato maggiore, cercava di esercitare la sua influenza nella politica
di assegnazione delle cattedre di filosofia in Germania. Il campo era ancora abbastanza
controllabile. Se si guastavano i rapporti con lui, poteva costare caro per la
carriera. Egli non dimostrò un interesse speciale per il giovane Heidegger, che dal suo punto di vista
apparteneva alla nicchia dei cattolici. Accettò il lavoro di Heidegger, ma non voleva fare la fatica di
leggerlo. Pregò Engelbert Krebs, del quale ignorava probabilmente l’amicizia con Heidegger, di
redigere una perizia. Krebs descrive nel suo diario come andarono le cose: « Mentre lo leggevo mi
ero tenuto vicino Heidegger, per discutere subito con lui le aporie del lavoro ».20 Sulla base di
questa perizia Rickert approva il lavoro. Il 27 luglio 1915 il procedimento di abilitazione si
conclude con la lezione di prova sul tema II concetto di tempo nelle scienze dello spirito. Come
motto Heidegger sceglie la sentenza di Meister Eckhart: « Il tempo è ciò che si trasforma e si
moltiplica; l’eternità permane semplicemente».
D’ora in poi Heidegger è libero docente, e tale rimarrà ancora per alcuni anni. Egli comunica al suo
amico Laslowski un detto di Rohde, amico di Nietzsche, inteso come motto «per liberi docenti e per
coloro che vogliono diventarlo»: « Nessuna palude è più adatta della più profonda oscurità
accademica a rendere anche il temerario luccio una gonfia, impettita, tronfia rana ».21
Heidegger impreca contro l’ambiente accademico perché all’epoca tutte le sue ambizioni sono state
disattese. Aveva sperato nella cattedra vacante di filosofia cattolica. Finke glielo aveva fatto capire e
aveva fatto sì che la cattedra restasse vacante fino alla sua abilitazione, con l’appoggio di Rickert,
che era interessato dal canto suo che questa cattedra restasse tale, perché voleva essere l’unico gallo
nel pollaio.
A partire dal semestre invernale 1913-14 Krebs aveva assunto la supplenza alla cattedra, e dopo un
anno e mezzo voleva finalmente sapere se gli rimaneva qualche possibilità di ottenerla, anche in
vista della prossima abilitazione del suo amico Heidegger. Così egli si presentò nel marzo del 1915
presso il competente ministero della Cultura a Karlsruhe. Raccomandò se stesso e alcuni altri
candidati, ma non Martin Heidegger. L’intera vicenda non fu affatto un intrigo, dato che egli
informò i colleghi a Friburgo del suo tentativo. Ma Heidegger si sentì ferito, raggirato. Con il tempo
si impara a guardare con durezza e freddezza ogni sorta di fauna umana, scrisse a Laslowski. Krebs
abbandonò presto il campo come possibile concorrente, perché gli fu promessa una cattedra di
dogmatica alla Facoltà di teologia, che poco tempo dopo gli fu assegnata. Ma a partire dall’inizio
del 1916 si profila per Heidegger un’evoluzione delle cose in senso negativo. Infatti
il bando di concorso riceve un taglio così inequivocabilmente storico-filosofico della Scolastica
medievale che Heidegger, il quale nel suo lavoro su Duns Scoto aveva seguito un criterio più
sistematico che storiografico, vide svanire le sue possibilità di riuscita. In questa situazione
Laslowski consiglia all'amico di non eccedere nella modernizzazione della Scolastica. « Non ti
avrei dato un tale consiglio da vecchio padre », scrive, « se tu non avessi fatto accenni nella tua
penultima lettera a come i signori rizzino le orecchie. Sai tu stesso come nei circoli teologici vi sia
una grande suscettibilità, addirittura a livello ipertrofico, e un preteso ’senso di responsabilità’ dello
stesso livello, quando si tratti di cospirare contro un ’tipo infido’. La tua critica giunge troppo presto
agli interessati ».22
Evidentemente Heidegger matura in questo periodo, nelle sue lettere e in colloqui personali, una
critica alla filosofia cattolica che non osa ancora esprimere pubblicamente.
Nella primavera del 1916 egli redige un capitolo conclusivo per la stampa del suo lavoro su Duns
Scoto. Vi domina un tono diverso. Non più la distanza critica dalla Scolastica, ma una nuova
irrequietezza, un impeto e un’enfasi e soprattutto ora, per la prima volta, una sottolineatura della «
vita » fino a quel momento in lui del tutto insolita.
Ricordiamo che alla fine della parte principale del lavoro aveva parlato del « discorso vivente »
nella « peculiare motilità del suo significato ». Nelle poche pagine del capitolo conclusivo si parla
per ben ventitré volte di « vita », « spirito vivente », « atto vivente » etc. Egli torna a guardare alla
ricerca svolta e non può trattenere l’impressione « di una sorta di vuoto mortale », e vuole ora far
finalmente uscire allo scoperto « quella inquietudine spirituale finora sopita ».23
Nell’impazienza del suo capitolo conclusivo Heidegger fa torto a se stesso. Egli fa come se non
avesse già cominciato a operare quello che ora esige con veemenza, cioè l’interpretazione della
logica a partire da « nessi translogici ». Era lo spirito della metafisica medievale a creare questa
interconnessione. Ma nel nuovo capitolo conclusivo questo spirito viene sottoposto con vigore alla
corrente della filosofia della vita. Per lo « spirito vivente » l'« atteggiamento teoretico dello spirito »
non è tutto; « un sunto che raccoglie la totalità dello scibile » è troppo poco, dato che si tratta di «
penetrare nella vera realtà e nella verità effettiva ».24
Dove deve condurre questo viaggio? Dove bisogna trovare la vita vera? In ogni caso non nell’«
atteggiamento di vita che rifugge i contenuti e procede sulla superficie », bensì in una
intensificazione che nel Medioevo era resa possibile dal riferimento trascendente, e oggi... già, in
che modo è possibile oggi conquistare questa intensificazione?
Non sorprende, in questo contesto, il richiamo all’« ottica della metafisica », ma è nuovo il modo di
fondare questa metafisica. Essa non riposa più soltanto nel « patrimonio di verità della Chiesa »,
bensì scaturisce dall’« azione sensata e realizzatrice del senso ». In tal modo però la metafisica
viene calata giù dal cielo sulla terra, e diventa la logica interiore dell'agire storico. Nel capitolo
conclusivo del suo lavoro su Duns Scoto, Heidegger è in procinto di scoprire lo spirito storico della
vita. In altre parole: egli scopre Hegel, cui riconosce di aver maturato il « potente sistema di una
visione storica del mondo » in cui sono risolti « tutti i motivi problematici fondamentali della
filosofia precedente ».25
Questo sguardo rivolto allo storicismo hegeliano alla fine del lavoro su Duns Scoto nasconde il fatto
che in esso è insita un’opzione del tutto diversa di Heidegger in vista di una riflessione successiva.
Heidegger aveva ripercorso il modo in cui Duns Scoto supera nel concetto di « analogia » la
minaccia di un dualismo fra spirito umano e realtà esteriore - l’edizione ridotta della grande
differenza fra Dio e il mondo. In questo concetto vengono pensate assieme la differenza e l’unità di
spirito e realtà e, oltre a ciò, in esso viene concesso allo spirito umano un più elevato grado di realtà,
perché nella serie delle realtà che discendono da Dio lo spirito umano è quello più vicino a Dio.
Perché? Perché lo spirito umano, che è un analogo di Dio, domina esso stesso l’arte di comprendere
l’analogia, e quindi è un po’ iniziato al mistero della creazione. La coscienza umana riposa perciò in
Dio. Nel capitolo conclusivo Heidegger riguarda alla magia del rapporto vissuto con la trascendenza
come a un mondo che si è inabissato. Ne rimane la memoria storica. Sarebbe già qualcosa se, con
Hegel, si
potesse credere al Dio nella storia. Questo è il tentativo operato da Heidegger nel capitolo
conclusivo. Ma questa non è, come si è già detto, l'unica prospettiva. L’altra risulta dalla riflessione
sulla categoria peculiare di haecceitas. Heidegger si era soffermato a sufficienza su questo concetto
che i nominalisti avevano coniato per il miracolo della singolarità del reale. Heidegger mostra di
essere affascinato da questo concetto: « Ciò che esiste realmente è alcunché di individuale [...] Tutto
ciò che esiste realmente è un ’questo-qui-ora’. La forma dell'individualità (haecceitas) è chiamata a
esprimere una originaria determinatezza della realtà effettiva ».26
Heidegger presenta questo pensiero nominalistico come un primo tentativo di collocare il «
numinoso » non solo nell’aldilà divino, ma di scoprirlo nella prossimità, nella realtà
immediatamente concreta. Ogni ente è in sé qualcosa di inesauribile. Noi non esauriamo la sua
ricchezza se lo pensiamo come « oggetto ». Pensare effettivamente tale « questo-qui-ora», vorrebbe
dire andare al di là del pensiero oggettivante. Soltanto allora l’ente può apparire nella sua peculiare
ricchezza. Heidegger dirà in seguito, parlando dell’ente che si fa incontro in questo modo, che esso
« è presente ». La « presenza» fa saltare l’angustia dell’« oggettualità ».
Il pensiero che conduce in questo modo alla singolarità del reale è un’alternativa a Hegel. Per Hegel
la « singolarità » è sul piano filosofico un niente, che non dà niente al pensiero; è qualcosa di
eterogeneo che riceve significato solo laddove viene calato nell’ambito omogeneo dei concetti, e
cioè nelle connessioni universali e universalizzabili.
Heidegger vuole la « libera motilità » e accusa la Scolastica di non essere stata in grado « di
collocarsi con un certo stacco spirituale al di sopra del proprio lavoro ».27
Ma non ci si pone al di sopra del proprio movimento inserendolo nello spirito storico, come fa
Hegel, bensì anche superando qualsiasi universalismo, anche quello storicistico, e divenendo liberi
per la singolarità del reale, cioè per la « haecceitas ». Ciò accade quando Heidegger, dopo la
chiamata di Husserl a Friburgo nel 1916, cerca di istituire un intenso rapporto di lavoro con il
fondatore e maestro della fenomenologia, e infine riesce nel suo intento. Tuttavia, quando egli nel
1915 redige il capitolo conclusivo della sua tesi di abilitazione, c’è per lui ancora in primo piano il «
sistema hegeliano di una visione storicistica del mondo ».28
Alla fine del 1918, nella lettera di commiato all’amico Krebs, sacerdote e teologo, Heidegger dirà
che lo spirito storico vivente, che aveva conosciuto in Hegel e poi in Dilthey, fu quella forza che gli
« rese problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo ».
Ma è l’idea della storicità che viene vista in modo fenomenologico. Il « valore escatologico della
vita » dimora adesso proprio in questa storia. La verticale metafisica comincia a inclinarsi nella
linea orizzontale storico-fenomenologica.
Dopo l’abilitazione Heidegger viene arruolato nuovamente dalle autorità militari. Tornano a
manifestarsi i sintomi della sua malattia cardiaca. Nell’autunno del 1915 viene mandato per quattro
settimane all’ospedale militare di Mühlheim-Baden e poi comandato in qualità di membro della
riserva presso l’ufficio di controllo postale di Friburgo. Quest’ufficio sovrintendeva alla censura
sulle lettere. La posta sospetta, soprattutto la corrispondenza con Paesi stranieri nemici e neutrali,
veniva aperta. Erano impiegati qui donne obbligate a prestare servizio e uomini inabili
all’arruolamento regolare. Heidegger non aveva richiesto spontaneamente di fare questo lavoro che
però, data la situazione di guerra, non poteva avere niente di scandaloso per lui. Era un servizio
comodo, che egli assolse fino all’inizio del 1918, e che gli lasciava tempo a sufficienza per il suo
lavoro scientifico.
Il 23 giugno 1916 è il giorno in cui si decide chi debba occupare la cattedra di filosofia cattolica
vacante da un biennio. Si tratta di una decisione deludente per il giovane Heidegger che era in ballo
già da due anni. La commissione si accorda su Josef Geyser, ordinario di Münster, con una
motivazione umiliante per Heidegger: « La mancanza di simili personalità è tale da dover prendere
in considerazione la nomina di un candidato esterno; cosicché la facoltà dopo matura riflessione è in
grado di proporre un unico candidato ».29 Heidegger non compare assolutamente nella lista, e non
viene considerato nemmeno come candidato straordinario nel caso che Geyser non accettasse
l'incarico. Gli si vuole conferire soltanto un incarico di insegnamento normale.    
L’amico Laslowski lo consola dalla lontana Slesia: « Han
no paura di te. Tutti interessi personali. Quella gente non è più in grado di giudicare obiettivamente
».30
In realtà Heidegger venne proposto e discusso nelle sedute della commissione come « candidato
idoneo sul piano confessionale », ma probabilmente all’interno della frazione cattolica, cui spettava
la parola decisiva in questa assegnazione, era considerato ora un militante incerto. Forse anche la
giovane età può aver influito in senso sfavorevole. Si era laureato appena tre anni prima. Inoltre non
si poteva permettere che questo giovane facesse carriera così rapidamente in casa propria mentre i
suoi coetanei combattevano al fronte e molti ci avevano anche lasciato la vita. Si preferì perciò
puntare sull'età più matura e non più abile alle armi: Geyser aveva vent’anni più di lui.
La speranza di Heidegger di arrivare alla cattedra già al primo tentativo venne delusa. Dovrà
aspettare altri sette anni.
In quell’estate del 1916, ricca di delusioni, Heidegger conosce Elfride Petri, sua futura moglie, una
studentessa di economia nazionale presso l’università di Friburgo. Sono trascorsi già sei mesi dalla
rottura del suo fidanzamento con una ragazza di Strasburgo, figlia di un impiegatuccio di dogana.
Questa giovane aveva sofferto a lungo di una malattia polmonare. Non sappiamo se questo sia stato
il motivo della loro separazione. In ogni caso per Laslowski, che tendeva a vedere nell’amico un
superuomo nietzscheano, questa rottura aveva un significato sublime: « Ho visto come di giorno in
giorno tu sia progredito: ti sei elevato al di sopra della sfera in cui soli possono darsi ’amore’ e
'felicità’; sapevo già da tempo che tu dovrai percorrere strade, per avvicinarti ai tuoi traguardi, dove
l’amore deve raffreddarsi ».31
Sei mesi dopo, dunque, ecco il nuovo amore.
Elfride è figlia di un alto ufficiale sassone, è protestante, una ragazza del Nord, emancipata:
economia nazionale era a quel tempo una materia davvero insolita per una studentessa. E' una
seguace di Gertrud Bäumers, una liberale legata al Movimento giovanile e che lottava per i diritti
delle donne. Martin Heidegger ed Elfride Petri si conoscono all’università. Durante le vacanze fra i
semestri c’è un viaggio all’isola di Reichenau, dove Heidegger e Laslowski, Elfride e la sua amica
trascorrono alcuni giorni insieme.
Una reminiscenza di quest’estate è la poesia di Heidegger
intitolata Passeggiata serale a Reichenau (Abendgang auf der Reichenau):
Verso il lago fluttuava un bagliore d’argento
verso lontane sponde oscure,
e nei giardini assorti d’estate, nell'umida
sera cade come parola d’amore trattenuta
la notte.
E fra i frontoni bianchi di luce lunare
s’intrappola l'ultimo richiamo d’uccelli
dal tetto della vecchia torre -
ciò che mi diede il luminoso giorno d’estate
è carico di frutti -
dall’eternità
un carico di rapimento dei sensi per me nel grigio deserto di una grande semplicità.12
Quando questa poesia viene pubblicata, alla fine del 1916, Heidegger è già fidanzato con Elfride
Petri, e tre mesi più tardi, nel marzo del 1917, i due si sposano.
L’amico Laslowski avrebbe preferito che Heidegger non prendesse tale decisione così rapidamente.
Vorrebbe fermarsi all'immagine che si è fatta di Heidegger, quella di un viandante che si spinge
sulle vette della filosofia, dove l’amore e la gioia, come nel viandante dello Zarathustra, devono
«raffreddarsi ». Heidegger deve innalzarsi rispetto ai bassopiani dell'umanità, dove ci si sposa e si
fondano famiglie, e Laslowski, che in tutta umiltà si sente competente su questi bassopiani, vuole
diventare almeno un testimone di questa espugnazione delle vette. Il sublime e il suo osservatore:
Laslowski dovrà aver definito all’incirca così la sua amicizia con Heidegger. Il 28 gennaio 1917 egli
scrive a Heidegger: «Carissimo Martin, potessi esserti vicino in questo giorno. Non ne sono sicuro,
ma dopo ciò che la signorina Petri mi ha scritto non posso essere molto contento. Sarebbe un bene
se fossi io a sbagliarmi, ma ti prego, sii prudente! Aspetta fino a quando non saremo di nuovo
insieme. Mi preoccupo molto per te, persino in questa vicenda così terribilmente importante.
Comprendi me e la mia preghiera, non decidere troppo in fretta »33.
Martin Heidegger non si lascia distrarre dalle preoccupazioni dell’amico. Ma egli supera anche altre
preoccupazioni: deve essere stato un duro colpo per i genitori a Meßkirch, co-
sì devoti, apprendere che Martin, dopo avere interrotto la carriera di sacerdote e di teologo, si
apprestava a fare un matrimonio misto. E i Petri avranno arricciato il naso di fronte a quest’uomo di
umili natali, forse anche intellettualmente dotato, ma che non aveva ancora una carriera sicura. Sarà
in grado di mantenere una famiglia, tanto più secondo gli standard che ci si aspetta negli ambienti
degli ufficiali d’alto rango?
Non ci sarà una festa di nozze in grande stile. Il libero docente Martin Heidegger e la studentessa di
economia nazionale Elfride Petri vengono uniti in matrimonio con una cerimonia privata nella
cappella universitaria della cattedrale. I genitori non sono presenti. Per desiderio di Heidegger il
matrimonio viene celebrato da Engelbert Krebs, che nel verbale delle nozze annota; « Matrimonio
di guerra, senza organo né vestito da sposa, senza velo né corona, senza macchine né cavalli, senza
banchetto né ospiti, con la benedizione di entrambi i genitori giunta per lettera, senza la loro
effettiva presenza ».34
Parlando con Elfride, Krebs aveva avuto l’impressione che essa meditasse di passare alla fede
cattolica. Ma ciò non accadde. Alla nascita del primo figlio, un anno e mezzo dopo, Elfride e Martin
dichiareranno di non poter rispettare la promessa contratta col matrimonio di educare i loro figli
nella fede cattolica.
Husserl ebbe a quel tempo l’impressione che Heidegger fosse diventato protestante. In una lettera a
Rudolf Otto, dell’inizio del 1919, egli scrive di non aver esercitato la benché minima influenza « sul
passaggio di Heidegger [...] nel campo del protestantesimo », sebbene « possa essere stato in ottimi
rapporti » con Heidegger, in quanto « libero cristiano » e «protestante non dogmatico». 35
Queste sono le parole con cui Husserl caratterizza il giovane Heidegger, che ritiene già il suo allievo
più dotato e che tratta quasi come un collaboratore alla pari nel grande progetto della
fenomenologia.
5. Il trionfo della fenomenologia. I sensi aperti. Il mondo nella testa. Husserl e la sua comunità.
L’orologiaio pazzo. Il lavoro alle fondamenta.
La poesia come segreta aspirazione della filosofia. Proust fenomenologo. Husserl e Heidegger,
padre e figlio. Elisabeth Blochmann. Heidegger, la sua voglia di vivere, e la « situazione folle ».
NEL 1916, quando Edmund Husserl arrivò a Friburgo, la fama della fenomenologia non era andata
oltre gli addetti ai lavori. Ma già pochi anni dopo, nei primi anni del dopoguerra, questa disciplina
specifica della filosofia si fa portatrice di speranza e di una nuova visione del mondo. Hans Georg
Gadamer racconta che all’inizio degli anni '20, quando « le parole d’ordine del tramonto
dell’Occidente erano onnipresenti », 1 fra le innumerevoli proposte sulla possibile salvezza
dell’Europa, in una «discussione fra coloro che volevano migliorare il mondo », accanto ai nomi di
Max Weber, Karl Marx e Kierkegaard veniva nominata anche la fenomenologia. In pochi anni,
dunque, la fenomenologia aveva raggiunto una fama promettente, che spinse Gadamer e molti altri
ad andare a Friburgo per ascoltare il maestro della fenomenologia e il suo magico allievo. La
fenomenologia possedeva l’aura di un nuovo inizio, e ciò la rendeva popolare in un’epoca che
oscillava fra lo stato d’animo della decadenza e l’euforia del ricominciare.
Prima del 1916 le roccaforti della fenomenologia furono Gottinga, dove Husserl aveva insegnato fra
il 1901 e il 1915, e Monaco, dove nacque un secondo centro, indipendente rispetto ai circoli di
Gottinga, e che si raccoglieva attorno alle figure di Max Scheler e Alexander Pfänder. Si voleva
farne qualcosa di più di una scuola di pensiero, e perciò la si chiamò « movimento ». Non si trattava
solo di ricostituire la scientificità rigorosa in filosofia - questa è la descrizione ufficiosa che i
fenomenologi davano di se stessi - quanto anche di una riforma della vita nel segno dell’onestà
intellettuale: si voleva superare il falso pathos, l’autoillusione ideologica, la mancanza di disciplina
nel pensare e nel sentire. Hedwig Conrad-Martius, che fece parte fin dagli inizi del circolo
fenomenologico di Gottinga, ne descrive lo spirito con queste parole: «Era l’ethos della purezza e
dell’onestà oggettive [...] E ciò doveva ripercuotersi naturalmente sulla mentalità, sul carattere e sul
modo di vivere
Il movimento fenomenologico era il corrispettivo in filosofia, dal punto di vista dello stile, di quello
che poteva essere in poesia la cerchia di Stefan George. Entrambi i circoli puntavano sul rigore, la
disciplina e la purezza.
« Verso le cose! », questo era il motto dei fenomenologi. Ma che cos’era « la cosa »? In ogni caso
essa era considerata come occultata e perduta nella confusione di pregiudizi, di grandi parole e
costruzioni ideologiche. Era un impulso analogo a quello espresso all’inizio del secolo da Hugo von
Hofmannsthal nella sua celebre Lettera. Hofmannsthal fa scrivere al suo Lord Chandos: « Ho
perduto la facoltà di pensare e di parlare coerentemente su qualsiasi argomento [...] le parole
astratte, di cui la lingua, secondo natura, si deve pur valere per recare a giorno un qualsiasi giudizio,
mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti ». 3
Ciò che gli fa mancare la parola è la muta, inesauribile, opprimente, ma anche affascinante evidenza
delle cose, che si offrono come per la prima volta. Aprirsi in questo modo di fronte all’evidenza è
ciò che volevano anche i fenomenologi, e così prescindere da tutto ciò che era stato pensato e detto
fino ad allora sulla coscienza e sul mondo, e che per loro non era che presunzione. Essi andavano in
cerca di un modo nuovo di far pervenire le cose in sé, senza ricoprirle con ciò che è già noto.
Bisogna dare al reale la possibilità di potersi «mostrare ». Ciò che si mostra e il modo in cui esso si
mostra a partire da sé veniva detto dai fenomenologi: « il fenomeno ».
I fenomenologi condividevano con Hofmannsthal la convinzione che fosse necessario innanzi tutto
tornare a imparare l’alfabeto reale della percezione. Bisogna per prima cosa dimenticare tutto quello
che è stato detto finora e ritrovare il linguaggio della realtà. Ma per i fenomenologi della prima ora
c’era soprattutto la realtà della coscienza, e soltanto attraverso questa si giungeva anche alla realtà
esterna, di cui ci si doveva appropriare.
I fenomenologi erano modesti in maniera immodesta, accusando tutti i filosofi intorno a loro di
costruire i propri sistemi senza fondamento. Infatti la coscienza non è conosciuta a sufficienza già
da molto tempo, è un continente vergine. Si comincia a indagare l’inconscio senza avere alcuna
familiarità con la coscienza.
Husserl fu l’iniziatore del movimento. Egli ammoniva i suoi studenti ad andare a fondo nelle cose.
Soleva dire: « Non si può essere troppo buoni con se stessi, se si vuole lavorare ai fondamenti ».4 I
suoi allievi dovevano considerarsi onorati di lavorare nella « vigna del signore », dove peraltro non
si capiva quale « signore » si intendesse. Se si pensa a quello spirito di umiltà e di ascesi, di onestà e
purezza, che i fenomenologi chiamavano a volte anche « castità », non appare più tanto strano che
alcuni di loro siano diventati in seguito tanto religiosi: l’esempio di maggior spicco in tal senso è
Edith Stein, che è stata proclamata beata. Essa « fu al servizio » della fenomenologia - come ebbe a
dire lei stessa - nei primi anni di Gottinga prima del 1914, e fra il 1916 e il 1918 fu assistente
privata di Husserl a Friburgo; negli anni Venti passò alla fede cattolica e infine entrò in convento, da
dove fu prelevata dai nazisti e, essendo ebrea, fu uccisa ad Auschwitz.
Secondo Adolf Reinach, allievo di Husserl, la fenomenologia è un progetto « che ha bisogno, per
realizzarsi, di un lavoro di secoli ». 5
Quando muore, nel 1938, Husserl lascia circa 40.000 pagine manoscritte inedite. Al loro confronto,
le opere pubblicate durante la sua vita appaiono nel complesso ben poca cosa. Dopo le Ricerche
logiche del 1901, furono due i libri che lo resero famoso e che aiutarono la sua filosofia a imporsi:
la Filosofia come scienza rigorosa del 1910 e il primo volume (l’unico pubblicato durante la sua
vita) delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica del 1913.
Nell’arditezza dei suoi sogni, che egli confidava al suo diario, Husserl aveva immaginato che il
futuro della filosofia, potesse consistere nel continuare a tessere il lavoro cominciato da lui. Egli
diceva sempre, riferendosi a se stesso, di essere un « iniziatore », e del resto lo fu anche nel modo di
rapportarsi alla sua stessa opera: quando voleva preparare per la stampa un manoscritto redatto già
da qualche tempo, cominciava a riscrivere tutto il testo, con grande disperazione dei suoi assistenti
che dovevano aiutarlo nel lavoro. Anche con il suo pensiero egli ricominciava sempre da capo, e gli
riusciva difficile lasciar passare quello che aveva scritto in precedenza. La coscienza, e in particolar
modo la sua propria, era per lui un fiume in cui, come è noto, non ci si può mai rituffare nello stesso
punto. A partire da questa concezione, egli maturò addirittura una fobia nei confronti della
pubblicazione dei suoi scritti. Altri filosofi che non avevano queste difficoltà, come ad esempio
Max Scheler, per il quale doveva essere evidentemente un nonnulla preparare contemporaneamente
la pubblicazione di tre libri, gli risultavano sospetti. Di Scheler parlava a volte con dispetto, sebbene
riconoscesse la sua genialità: « Bisogna avere intuizioni improvvise, ma non si ha il diritto di
pubblicarle »,6 era solito dire Husserl. Max Scheler, che aveva i suoi lampi di genio migliori mentre
conversava e che, se non c’era carta a portata di mano, si annotava le idee anche nei risvolti dei
polsini, non voleva e non poteva tenere niente per sé. Tutt'altra cosa rispetto a Husserl, che
almanaccava così a lungo sulle sue opere, da farle diventare quel gigantesco plico di manoscritti che
nel 1938 furono salvati avventurosamente dai nazisti per opera di un padre francescano che li portò
di nascosto a Lovanio, in Belgio, dove oggi vengono conservati in un centro di ricerche
appositamente istituito.
Nato in Moravia nel 1859, Husserl, che era cresciuto nelle solide condizioni di vita della borghesia
ebrea della monarchia danubiana, improntate a un’epoca in cui il « senso di sicurezza era il
possesso più ambito, l’ideale di vita di milioni e milioni » (Stefan Zweig),7 aveva studiato
matematica, perché questa scienza gli era apparsa affidabile ed esatta. Poi aveva osservato che
anche la matematica aveva bisogno di essere fondata a sua volta. La sua passione era proprio ciò
che era fondamentale, certo, fondante. E così giunse alla filosofia, ma non, come scrisse nella
retrospettiva sulla sua vita, alla «filosofia della tradizione», in cui scoprì «ovunque oscurità,
vaghezza immatura, cose a metà, se non persino disonestà intellettuale, niente che si possa accettare
o far valere come parte o inizio di una scienza seria ».8
Con che cosa bisogna cominciare se si vuole indagare la coscienza? Il principio del cominciamento,
che Husserl cerca sempre di instillare nei suoi allievi è questo: bisogna lasciare da parte tutte le
teorie sulla coscienza, tutte le opinioni preconcette e le spiegazioni, per osservare con la maggior
spregiudicatezza e immediatezza possibile ciò che accade nella coscienza, nella mia coscienza, qui
e ora.
Noi vediamo sorgere il sole. Nonostante tutta la scienza, non siamo stati capaci di toglierci
l’abitudine di dire che «il sole sorge ». Peggio ancora: vediamo davvero il sole sorgere, ma
sappiamo che non è così. È solo ciò che sembra. La realtà è diversa. Con questo schema realtà-
apparenza possiamo far saltare per aria tutto il mondo della vita che ci è familiare: niente è ciò che
è; tutto appare solo così. Che cos’è una bella giornata di agosto, diciamo ad esempio: a Vienna nel
1913? Robert Musil, che pure fu toccato dalla fenomenologia, la descrive malinconicamente così: «
Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo
incombente sulla Russia [...] Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere ».9
Una giornata di agosto non si presenterà mai all’esperienza vissuta nel modo in cui la descrive
Musil ironizzando sulla scienza. Guardando in aria non abbiamo mai visto, né potremo vedere mai
qualcosa come le linee isoterme. Al loro posto c’è invece, nella fattispecie, la giornata estiva delle
nostre sensazioni liriche. Essa è, come direbbe Husserl, un « fenomeno » del nostro mondo vitale.
Esso c’è anche quando so in che modo si genera dal punto di vista meteorologico. Tutto ciò che è
dato alla coscienza è « fenomeno », e l’indagine della coscienza nel senso husserliano osserva in
rigorosa introspezione l’intimo ordine dei fenomeni coscienziali. Tale indagine non interpreta e non
spiega, ma cerca di descrivere ciò che i fenomeni sono e mostrano « da se stessi ». Questa stessa
attenzione ai processi della coscienza fa sparire in un colpo solo il dualismo di « essenza » e «
apparenza », o, più precisamente: scopriamo che l’assunzione di questa distinzione fa
semplicemente parte delle operazioni di questa coscienza. La coscienza è consapevole in modo
strano di ciò che le sfugge nella percezione. E poiché tutto ciò che entra nella coscienza è
fenomeno, anche e appunto questa invisibilità è un fenomeno della coscienza. L’essenza non è
qualcosa che si nasconde « dietro » l’apparenza, ma è essa stessa apparenza nella misura in cui la
penso, o nella misura in cui penso che essa mi sfugga. Anche la « cosa in sé » kantiana, questo non-
concetto che sta per ciò che semplicemente non-appare, è pur sempre, in quanto qualcosa di
pensato, anche qualcosa che appare.
Husserl è lontano dal rinfocolare dubbi artificiosi e solipsistici sulla realtà del mondo esteriore. Al
contrario: egli intende mostrare che tutto il mondo esteriore è già presente in noi, che noi non siamo
un recipiente vuoto in cui viene versato il mondo esterno, ma che siamo sempre « in relazione » con
qualcosa. La coscienza è sempre coscienza di qualcosa. Che la coscienza non sia « dentro » ma «
fuori » presso ciò di cui è coscienza, lo si osserva non appena la si riconduca al livello che le spetta.
Questo, e nient’altro, è la fenomenologia.
Al fine di ottenere questa chiarificazione di sé, Husserl ha sviluppato una tecnica precisa: la «
riduzione fenomenologica ».
La riduzione fenomenologica e un determinato modo di compiere una percezione o in generale un
processo coscienziale, dirigendo l’attenzione non già su ciò che viene percepito ma sul processo
stesso della percezione. Per motivi metodologici si esce per così dire da una percezione, ma non del
tutto, bensì solo nella misura in cui se ne può osservare l’attuazione. Io vedo un albero. Se
percepisco la percezione che ho dell’albero, mi accorgo di attribuire all’albero percepito l’indice di
« reale ». Ma se soltanto mi rappresento un determinato albero, oppure se me ne ricordo, che cosa
vedo allora? Vedo ricordi, rappresentazioni? No, vedo alberi, ma alberi tali da essere connotati da
altri indici, quelli della « rappresentazione» o del «ricordo». I modi d’essere sono tanti quanti sono
gli alberi stessi: alberi visti qui e ora, alberi ricordati, alberi rappresentati. Il medesimo albero, che
una volta guardo con gioia, perché mi dà ombra, lo considero un’altra volta dal punto di vista
dell’utile che potrei ricavare facendone legna; e il medesimo albero non è sempre lo stesso nella
percezione. Il suo essere è mutato, e se io lo indago in modo cosiddetto « oggettivo », reale, anche
questo è uno dei molti modi di far «essere» l’albero. La riduzione fenomenologica mette dunque fra
parentesi la domanda che si chiede che cosa sia « in realtà » l’albero, e si rivolge ai diversi modi in
cui esso si offre alla coscienza, o meglio: il modo in cui la coscienza si sofferma presso di esso.
Con l’esercizio della riduzione fenomenologica si mette fra parentesi la cosiddetta percezione
naturale e si esclude la realtà « esteriore », si perde un intero mondo, ma solo per riconquistarlo,
come dice Husserl nelle Meditazioni cartesiane, «con l’autoriflessione universale».10
La riduzione fenomenologica è quell’aspetto della fenomenologia che decide tutto. Si tratta di una
determinata attenzione nei confronti dei processi coscienziali, detta anche «visione
fenomenologica»; un’attenzione grazie alla quale si scopre in che misura la vita della coscienza ha «
gioco » rispetto alla cosiddetta realtà esterna. Ma non si tratta forse di un gioco vuoto, quello che
rimane una volta messo fra parentesi il riferimento alla realtà? Husserl scrive in proposito: « Questa
esclusione universale della validità di [...] tutte le prese di posizione rispetto al mondo
oggettivamente dato [...] non ci pone di fronte a un niente. Ciò di cui ci appropriamo invece, o
meglio: ciò di cui io, che medito, mi approprio in questo modo, è la mia propria vita con tutte le sue
esperienze e tutte le sue opinioni, l’universo dei fenomeni nel senso della fenomenologia. L'epoche
[esclusione della validità del riferimento naturale alla realtà, N.d.A.] è, si può dire anche così, il
metodo radicale e universale con cui io mi colgo come un io, come pura vita coscienziale, in cui e
attraverso cui tutto il mondo oggettivo è per me, ed è così com’è, appunto, per me ». 11
Si è tentati di immaginare la « coscienza pura » come una coscienza vuota: come uno specchio
vuoto o uno stomaco vuoto. Ma proprio questo non è che un mero « pregiudizio» sulla coscienza,
che non può essere affermato prima che la coscienza abbia fatto esperienza reale di sé. Si scopre
infatti che la coscienza non è mai separata dall’essere, nemmeno per un istante. Non esiste una
coscienza vuota, di fronte alla quale stanno oggetti con cui essa riempie il suo vuoto. La coscienza è
sempre coscienza di qualcosa. La coscienza « purificata» nell’intento metodologico dalla realtà
esterna non può smettere di immaginare una realtà «esterna»: il mondo esterno del mondo interno.
La coscienza non ha un «den tro »; essa è il « fuori » da se stessa. Soltanto se ci si sprofonda a
sufficienza nella coscienza, ci si ritrova senza accorgersi fuori, presso le cose, si viene « proiettati
fuori »12 verso le cose, come dice Jean-Paul Sartre, per il quale la lettura di Husserl nei primi anni
'30 diventa un’esperienza di conversione. Egli si sente liberato dalla tradizione paralizzante della «
filosofia della digestione » che trattava la coscienza come stomaco del mondo.
Per Husserl dunque la coscienza è sempre « essere orientati verso qualcosa ». Questa struttura
fondamentale della coscienza egli la chiamava « intenzione ».
Ai diversi tipi di processi della coscienza corrispondono diversi tipi di intenzioni. Il voler cogliere
qualcosa attraverso una intenzione conoscitiva che prende le distanze dalle cose è solo una delle
possibili forme della coscienza intenzionale. Accanto a questa intenzione, con la quale spesso si
identifica erroneamente l’intero fenomeno della coscienza, ci sono molte altre forme intenzionali;
forme cioè dell’essere orientati verso qualcosa. Non accade cioè che un oggetto venga già colto per
così dire in senso « neutrale » per poi essere « voluto », « temuto », « amato », « desiderato », «
stimato » attraverso l'intervento di un atto aggiuntivo. Volere, stimare, amare hanno di volta in volta
il loro riferimento oggettuale: l’« oggetto » è per la coscienza un oggetto diverso, a seconda che io
lo colga con curiosità, speranza, paura, dal punto di vista pratico o teoretico. Spiegando questo
pensiero Husserl dice che l’amore « costituisce il proprio 'oggetto’ proprio come un ’non-oggetto’ ».
Merito della fenomenologia è di aver mostrato con quanta sottigliezza e molteplicità di forme lavori
effettivamente la nostra coscienza e quanto siano primitive e grossolane quelle concezioni con le
quali la coscienza cerca di rendersi conscia del proprio lavoro. Di regola si tratta di quello schema
in cui vengono contrapposti uno spazio interiore soggettivo e uno spazio esteriore oggettivo per poi
chiedersi come rimettere insieme ciò che è stato separato artificialmente, e come il mondo possa
entrare nel soggetto e questo in quello. La fenomenologia mostra che la nostra percezione e il nostro
pensiero funzionano diversamente rispetto a quello che pensiamo comunemente; essa mostra che la
coscienza è un fenomeno « intermedio », come lo ha definito il fenomenologo francese Maurice
Merleau-Ponty: non è né soggetto né oggetto in senso tradizionale. Pensare e percepire sono innanzi
tutto processi che avvengono in un flusso coscienziale di puri atti dimentichi di sé. Soltanto una
riflessione elementare, quale la coscienza della coscienza, separa e scopre: qui un « io », un
soggetto, come proprietario della sua coscienza, e là gli oggetti. Si può dire anche così: la coscienza
è innanzi tutto e interamente ciò di cui è coscienza; la volontà scompare nel voluto, il pensiero nel
pensato, la percezione nel percepito.
Husserl ha spalancato una porta, aprendo davanti a sé un « campo » sterminato: il mondo della
coscienza. Essa è talmente articolata e spontanea che una descrizione fenomenologica fedele deve
cadere in contraddizione con le intenzioni di Husserl orientate verso la scienza, la sistematicità e la
conoscenza delle leggi. La gigantesca opera incompiuta e inconciudibile lasciata da Husserl dà
l’impressione di essere diventata essa stessa, contro le sue intenzioni scientifiche sistematizzanti,
una espressione di quel flusso di coscienza che essa doveva descrivere. Le macerie di sistematicità
che scorrono in questo flusso ricordano un episodio di Solaris, il romanzo filosofico di fantascienza
scritto da Stanislaw Lem. Gli scienziati hanno scoperto un pianeta che consta interamente di
cervello: un’unica massa oceanica di plasma. Questo cervello che se ne va solitario per lo spazio è
evidentemente al lavoro. Esso inarca sopra la sua superficie enormi figure, onde, fontane, forma
vortici, voragini, una quantità di forme senza pari. Gli scienziati prendono questi processi come
segni e cercano di leggerli. Ne nascono enormi biblioteche, e vengono inventati sistemi, escogitati
nomi e concetti, finché agli scienziati non viene l’idea - un’idea spaventosa per le persone comuni -
che gli eventi che si verificano il ogni punto encefalico sono irripetibili e non confrontabili fra loro,
che non possono essere riassunti sotto alcun concetto e che è insensato dar loro un nome, dato che
non si sono mai presentati prima esattamente in quella forma e perciò non c’è più alcuna possibilità
di identificarli. Tutte le forme ordinatrici della conoscenza sono come un disegno sulla sabbia, che
la prossima ondata cancellerà.
Husserl era un uomo dell’Ottocento, un dotto di stampo paternalistico-professorale, un consigliere
segreto che andava in cerca di fondamenti e certezze ultime, di certezza periino su Dio. All’inizio
della carriera filosofica disse che la sua speranza era « di trovare mediante una scienza filosofica
rigorosa la via verso Dio e verso una vita vera ».13
Le scienze empiriche dal canto loro non si davano particolarmente cura di questi lavori di
fondazione da parte dell’« orologiaio pazzo », come lo chiamavano gli studenti di Friburgo, perché
durante i suoi penetranti monologhi spesso faceva girare il medio della mano destra nel palmo
incavato della sinistra. Era così assorto nel suo proprio flusso coscienziale che non si accorgeva
affatto del silenzio dei suoi studenti e quando uno di loro, lo studente Hans Georg Gadamer, fece
una volta un intervento, egli disse più tardi al suo assistente Martin Heidegger: « Oggi è stata una
discussione davvero stimolante ».14 Ciò che si ama diventa il centro di un paradiso. E così Husserl
non poteva capire che i suoi studenti vivevano anche in altri mondi ed erano coinvolti in altre
faccende. Una volta disse in tutta serietà alla sua assistente Edith Stein che avrebbe dovuto restare
con lui fino a quando si sposava, e che doveva trovarsi un marito fra i suoi allievi, che sarebbe
potuto diventare assistente e chissà, forse anche i loro figli sarebbero diventati fenomenologi...
Non manca il lato ironico nel fatto che questo « professionista dei fondamenti », come egli stesso si
definiva, nel tentativo di trovare un terreno solido per la conoscenza, abbia scoperto proprio il
flusso coscienziale, intraprendendo poi lo sforzo, davvero comico, di trasformare questo elemento
infinitamente mobile e vitale, nel fondamento, nello zoccolo su cui reggere la certezza e la sicurezza
ultime. Egli vuol costruire una casa su una duna di sabbia, e secondo lui dovrà resistere per intere
generazioni. L’indagine fenomenologica della coscienza: un progetto di secoli. Nell'euforia egli
afferma: « Si comprende così che la fenomenologia è per così dire la segreta aspirazione di tutta la
filosofia moderna ».15 Ma ci sono anche momenti di incertezza, quando dubita sul senso di tutta la
sua impresa: non si resta dei principianti nel senso peggiore del termine se si misura il campo
enorme della coscienza? Non è come se si volesse raggiungere un orizzonte che arretra
costantemente?
Se non è possibile descrivere e analizzare la coscienza fino in fondo, la soluzione proposta da
Husserl per uscire dal problema è quella di chiudere per così dire il sacco dall’altra
parte, cioè dall’inizio. Il nome usato per indicare questo corto circuito del pensiero è « ego
trascendentale ». Questo è la quintessenza di tutte le funzioni e operazioni della coscienza, la
sorgente del flusso coscienziale.
Se la coscienza dell’io, come insegna Husserl, si formi solo secondariamente nella percezione della
percezione, come è possibile condurre un ego trascendentale all’inizio dell’intero processo della
coscienza? Semplicemente dichiarando la concezione fenomenologica, con cui si osserva il
processo coscienziale, come il luogo dell’ego trascendentale. « Ogni cogito, con tutte le parti che lo
compongono, nasce o perisce nel flusso delle esperienze vissute. Ma il soggetto puro non nasce e
non muore, sebbene a modo suo entri in scena ed esca di scena. Esso entra in azione e toma a uscire
da essa. Capiamo che cosa esso sia e che cosa faccia, o meglio: esso stesso lo capisce,
nell’autopercezione, che è una delle sue azioni, un’azione tale da fondare l’assoluta indubitabilità
della costituzione d’essere ».16
Ecco quindi la soluzione: Husserl, che aveva sortito l’artificio di descrivere il processo della
coscienza « prima » della sua scissione in io e mondo, e quindi come un processo «privo di io »,
ricade sul piano trascendentale nuovamente in quella rappresentazione che voleva invero superare,
cioè quella dell’« io» come possessore dei propri contenuti coscienziali. L’io, appena decostruito,
diventa ancora una volta, come nella tradizione cartesiana, l’istanza somma della certezza. Sarà
proprio questa svolta verso l’ego trascendentale, che si annuncia verso il 1913, a suscitare in seguito
la critici da parte di Heidegger. Husserl concepisce l’ego trascendentale come una sorta di sostanza i
cui contenuti possono mutare senza che essa stessa muti. Questo ego trascendentale ha anche una
sospetta affinità con lo spirito divino che la tradizione ha sempre pensato come fondamento
immutabile di tutti i contenuti del mondo. E così non sorprende che Husserl dica, riferendosi alla
scoperta dell’ego trascendentale: «Se agisco per me stesso non sono dunque un io umano ».17
In tal modo Husserl compie alla fine la svolta verso un io dal quale procede, come già in Fichte, il
mondo intero, e la coscienza cessa di essere soltanto quel qualcosa di magico che si presenta nel
mondo e per il quale un mondo intero può apparire appunto come mondo. Heidegger definirà questo
nomeno enigmatico come qualcosa di ontico il cui carattere distintivo è di essere ontologico,
rigettandolo in quel mondo dal quale Husserl lo aveva fatto uscire nascostamente. L’ego
trascendentale di Husserl ha il mondo nella testa, ma questa testa non è più davvero nel mondo.
Questo è chiaro: quando si vuole appendere a un punto fermo la vita ricca della coscienza, ma si
vuole evitare la riduzione naturalistica e psicologistica, è molto facile che il pensiero cada nella
tentazione di assumere una prospettiva simile a quella divina.
Però, una coscienza che vuole rendere trasparente a se stessa la multiforme vita della coscienza e
appropriarsene senza distruggerla non deve necessariamente innalzarsi fino al Dio del filosofo
trascendentale; può anche diventare una coscienza poetica. Questo è fin dai tempi di Platone il
presagio più o meno nascósto dei filosofi. Nemmeno Husserl vi era estraneo. « Filosofia e poesia »,
disse in un colloquio con un giapponese, «sono intimamente legate l’una con l’altra nella loro
intima origine e possiedono una segreta affinità nell’anima. »18
Questa « segreta affinità » con la poesia non è così spiccata in nessun’altra filosofia come nella
fenomenologia. La descrizione della vita della coscienza e quindi dell'esperienza vissuta del mondo,
l’attenzione ai fenomeni dello spazio interiore ed esteriore, del tempo interno ed esterno, erano già
da sempre il tema dei poeti e in particolare di quel poeta che alla scuola di Bergson e negli spazi
ingombri di suoni del boulevard Hausmann si concedeva ai suoi esercizi fenomenologici: Marcel
Proust. Se la fenomenologia doveva essere stata « il segreto anelito di tutta la filosofia moderna »
(Husserl), era necessario definire Proust come il segreto anelito della filosofia fenomenologica.
Basta leggere l’inizio della Recherche, dove il narratore descrive il suo risveglio: una descrizione
fenomenologica insuperabile del risveglio quotidiano dell’io, che deve ogni volta lasciarsi alle
spalle un lungo viaggio attraverso lo spazio e il tempo prima di ritrovare i fili che incrociano il qui e
l’ora.
« Ma era sufficiente che, nel mio stesso letto, il mio sonno fosse profondo e tale da distendere
completamente il mio spirito, ed ecco che questo abbandonava la mappa del luogo
dove mi ero addormentato e, svegliandomi nel pieno dell] notte, io non sapevo più dove mi trovassi
e, in un primissimo momento, nemmeno chi fossi; avevo nella sua semplicità primaria soltanto il
sentimento dell’esistenza così come può fremere nella profondità di un animale; ero più privo di
tutto dell’uomo delle caverne; ma a quel punto il ricordo - non ancora del luogo dove mi trovavo,
ma di alcuni dei luoghi dove avevo abitato e avrei potuto essere - veniva a me come un soccorso
dall’alto per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire; in un secondo
scavalcavo secoli di civiltà e le immagini, confusamente intraviste, di qualche lampada a petrolio,
poi di alcune camicie col collo piegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io
L’attenzione fenomenologica al mondo dei processi della coscienza necessita di un atteggiamento
che è in contrasto con le esigenze e con le complicazioni della vita quotidiana, dal momento che in
questa prestiamo attenzione alle cose, alle persone e a noi stessi, ma non al modo in cui tutto cioè «
dato » nella nostra coscienza. Husserl ha sempre sottolineato la rottura rispetto all’atteggiamento
naturale nei confronti del mondo. E così anche Proust poteva dispiegare l’universo fenomenologico
del suo lavoro sulla memoria soltanto nell’eremo della sua camera da letto, che negli ultimi dodici
anni della sua vita divenne la sua stanza di lavoro. Ma in cambio di questa vita ritirata Husserl, e più
ancora Proust, ricevono la scoperta di tutta una ricca ontologia interiore: nell’interiorità c’è un
regno ontico dalle infinite articolazioni e sfumature. Gli oggetti del ricordo, della paura, del
desiderio, della speranza e del pensiero sono altrettante « realtà » che sommergono le precise
separazioni in soggetto e oggetto.
In ogni caso per Martin Heidegger, la cui iniziazione alla filosofìa era stata la lettura del libro di
Brentano sul « molteplice significato dell’ente», la fenomenologia di Husserl è una filosofìa che
dischiude la multiformità dell’ente.
Nelle celebri lezioni marburghesi dell’estate 1925, dedicate alla « storia del concetto di tempo »,
Heidegger nominerà retrospettivamente gli aspetti della fenomenologia husserliana che lo hanno
condotto lungo la propria via, facendo riferimento in quella sede ai confini che dovette oltrepassare
per procedere oltre.
Decisivo fu per lui l’atteggiamento fenomenologico di tor-
nare in modo del tutto nuovo alle « cose »: « deporre i pregiudizi - il puro e semplice vedere e la
fissazione del veduto, senza porsi la domanda curiosa: che cosa si deve fare ». Questa « oggettività
» impregiudicata della fenomenologia è tanto difficile perché « l’uomo possiede l’elemento della
sua esistenza nell’artificiale, nel mendace, già sempre nel chiacchierare degli altri ».20
Fra le cose « artificiali » in seno alla filosofia che la fenomenologia riesce a superare, c’è per
Heidegger il dogma ostinato delle due sfere: quella dell’essenza e quella dell’apparenza. Secondo
Heidegger la fenomenologia ha riabilitato i fenomeni, il mondo delle apparenze: essa ha acuito
l’ingegno di fronte a ciò che si mostra. Nella concezione fenomenologica ciò che appare non è una
realtà inferiore, forse persino ingannevole, dietro alla quale va cercato ciò che è autentico, in senso
metafisico o scientifico-naturale. Anche questo « autentico» è qualcosa che appare, sia che si tratti
di Dio o dell’« oggetto » della logica o delle cosiddette leggi della natura. La fenomenologia non è
per Heidegger una speculazione, una costruzione del pensiero, ma il lavoro di « decostruzione [...]
dei velamenti » e quindi di quel « far-vedere disvelante ».21 Ciò che veniva disvelato - e si tratta per
Heidegger della scoperta più importante della fenomenologia - è la struttura intenzionale della
coscienza. In tal modo è superato per lui il dualismo gnoseologico di soggetto e oggetto, e ciò sotto
un duplice profilo: dal mondo che si mostra e dalla coscienza che è già sempre in relazione con il
mondo.
Ma nelle lezioni del 1925 Heidegger traccia anche nettamente i limiti di Husserl. Salvando i
fenomeni Husserl ha invero aguzzato l’ingegno di fronte ai diversi modi di farsi incontro da parte
dell’ente, ma non ha mai posto la domanda: in che senso l’uomo, cioè la coscienza intenzionale, è
un ente? Husserl è giunto, nella sua ricerca, solo fino a dare una determinazione negativa: l’uomo è
« gettato incontro alla natura ». La risposta di Heidegger a questa domanda, che cosa e chi sia
l’uomo, la conosceremo in seguito.
Nei primi anni di intensa collaborazione con Husserl, Heidegger è comunque ancora intento a
togliere le idee husserliane dai contesti immanenti alla coscienza, e a gettarle nel mondo. In ciò gli è
di aiuto in primo luogo la familiarità con la filosofia diltheyana della vita storica. Nella prospettiva
di
Dilthey diventa sospetta per lui ogni filosofia che si perda nel fraintendimento di sé, credendo di
potersi garantire un luogo sicuro al di fuori della storia. La costruzione husserliana di un ego
trascendentale è uno di questi abbandoni all’« aldilà» della coscienza. In secondo luogo è lo studio
di Kierkegaard che lo aiuta ad affrontare l’immanenza husserliana della coscienza.
L’attacco di Kierkegaard contro l’illusorio dominio di sé da parte dello spirito non procede, come
quello di Dilthey, dalla «vita» storica, ma dall’insopprimibile differenza fra pensiero ed esistenza.
Presi nelle complicazioni della vita, noi capitiamo sempre in situazioni in cui dobbiamo decidere
chi vogliamo essere. Noi abbandoniamo il luogo di ciò che è meramente pensabile, dobbiamo
assumere fissa dimora e responsabilità; non possiamo evitare di compiere il passaggio dall’uomo
della possibilità, che può meditare su tutto, all’uomo della realtà, che pur restando all'interno del
pensabile opera una scelta che diviene vincolante per lui nell’azione, tanto interiore che esteriore.
Di fronte alla critica esistenzialistica di Kierkegaard la filosofia della coscienza è solo una fuga dai
rischi della vita vissuta.
Saranno le stesse circostanze storiche a far sì che questa potenza della vita storica ed esistenziale
non rimanga per Heidegger soltanto un pensiero.
Fin da quando Husserl giunse a Friburgo, Heidegger aveva cercato di essere vicino al maestro, che
inizialmente però si era mostrato scostante. Per Husserl, Heidegger era evidentemente un filosofo
legato all’ambiente confessionale, e ciò diminuiva l’interesse di Husserl nei suoi confronti. Ci fu
una corte che durò invano quasi un anno, fino a quando Heidegger riuscì a prendere un
appuntamento personale con Husserl per un colloquio. Il 24 settembre 1917 Husserl scrive a
Heidegger: « Ho piacere di favorire i suoi studi, per quanto mi è possibile ».22
Nell’inverno 1917-18 Husserl «scopre» finalmente Heidegger. Poco tempo prima Edith Stein aveva
smesso di lavorare come assistente personale di Husserl. La situazione era diventata per lei
insopportabile: dover preparare per la pubblicazione i suoi manoscritti, per poi dover fare
esperienza del modo in cui questo « iniziatore » continuasse a passarle nuovi abbozzi e annotazioni,
il cui destino era di sovvertire completamente il lavoro già svolto. Inoltre Husserl aveva sfruttato
eccessivamente i servigi di Edith Stein, senza venirle incontro nella realizzazione del suo desiderio
di ottenere l’abilitazione.
Poiché ora Husserl doveva guardarsi intorno alla ricerca di un nuovo collaboratore, fu più
accondiscendente nei confronti dei corteggiamenti da parte di Heidegger.
Nelle ultime settimane del 1917 devono esservi stati colloqui filosofici molto frequenti fra i due.
Quando infatti nel gennaio del 1918 Heidegger viene arruolato come soldato della riserva e in
seguito comandato per l’addestramento militare presso il campo di esercitazioni di Heuberg, vicino
alla natia Meßkirch, Husserl lamenta, in una lettera dal tono personale, quanto gli manchino ora i
loro colloqui di filosofia. Heidegger risponde contento, e certo anche un po’ lusingato; in questo
momento la sua consapevolezza di sé gli proviene non tanto dalla filosofia quanto dall’essere
riuscito a sopportare bene il duro addestramento militare. Lo stesso Husserl, un uomo che aveva il
senso della nazione, può rallegrarsi di questo zelo non filosofico. Forse è proprio bene, scriverà il
28 marzo 1918, che Heidegger lasci da parte per un momento la filosofia: ritornerà in seguito ai
problemi filosofici: « Si spera che la guerra non duri più molto a lungo dopo la grande vittoria a
occidente »; sicuramente egli tornerà ai « problemi filosofici » con « maggiore energia ».23
Per il momento Heidegger rimane arruolato in guerra. Viene mandato alla stazione meteorologica al
fronte - come accadrà del resto, vent’anni più tardi, anche a Jean-Paul Sartre, all’inizio della
seconda guerra mondiale - e nel luglio di quello stesso anno sarà spedito a Berlino a frequentare un
corso di meteorologia. La fitta corrispondenza con Husserl continua, e nel tono diviene ancor più
cordiale e confidenziale. Nella lettera del 10 settembre 1918 Husserl esalta la giovinezza incorrotta
di Heidegger, « il chiaro occhio dell’animo, il cuore limpido, il modo di vivere improntato alla
franchezza».24 La lettera si conclude con una esclamazione festosa: « Oh, la Sua giovinezza - è
davvero un piacere per me, un’autentica gioia del cuore che Lei con le Sue lettere mi faccia
partecipare della Sua giovinezza ».
Questo tono paterno ed espansivo può dipendere forse anche dal fatto che Husserl, dopo aver perso
in guerra il figlio più giovane nella primavera del 1916, in questi mesi autunnali sta con il fiato
sospeso anche per l’altro figlio, ricoverato all’ospedale militare con una apoplessia cerebrale. Così
Husserl si prende cura di Heidegger come se fosse un figlio adottivo. Quando Husserl scrive questa
lettera a Heidegger, Edith Stein abita proprio in casa Husserl come infermiera e domestica. Malwine
ed Edmund Husserl sono a letto con una grave forma influenzale, la donna di servizio si è
licenziata, la figlia è in viaggio, e dall’ospedale da campo arrivano cattive notizie. Nelle lettere a
Roman Ingarden, Edith Stein descrive la situazione deprimente di quella casa, nella quale per
Husserl il contatto epistolare con Heidegger ha un evidente significato di sollievo e
incoraggiamento. La fede nella vittoria, che Husserl aveva espresso ancora in primavera in modo
così eloquente, è scomparsa. Al suo posto è subentrata in casa sua la lamentela sul «sistema»
dell’impero. Come informa Edith Stein, Malwine Husserl era perfino passata nel frattempo «nelle
file degli 'indipendenti’»25 (è sottinteso l’uspd), facendo arrabbiare il marito. C’erano state terribili
liti domestiche.
Nel frattempo Heidegger fu comandato alla fine di agosto al fronte occidentale, alla stazione
meteorologica dell'esercito, sulle Ardenne, presso Sedan. I servizi meteorologici erano stati
installati in quel luogo per supportare con le previsioni del tempo l’uso di gas venefìci nella
battaglia della Marna-Champagne.
Dalle prime lettere scritte a Elisabeth Blochmann possiamo ricavare un’impressione di come Martin
Heidegger visse questa situazione.
Elisabeth Blochmann era una compagna di studi di Elfride. Negli anni della guerra aveva studiato
per un certo tempo filosofia a Strasburgo da Simmel, nonché germanistica e pedagogia; durante la
guerra lavorò temporaneamente nel servizio sociale di assistenza ai malati. Era fortemente
improntata allo spirito del Movimento giovanile, così come questo fu espresso nel 1913 dalle parole
di Hohen-Meißner: «La gioventù libera tedesca vuole plasmare da sé la propria vita assumendosene
la responsabilità [...] in proprio e secondo la sua intima verità ».
Fu proprio nei circoli del Movimento giovanile che si incontrarono per la prima volta Martin
Heidegger, Elisabeth Blochmann ed Elfride.
Nelle prime lettere si avverte chiaramente lo spirito del Movimento giovanile che unisce i due. Si
parla molto di «veridicità » e « responsabilità ». I sentimenti amorosi si presagiscono appena.
Entrambi si esercitano nell’arte dei discorsi indiretti e delle allusioni. Elisabeth Blochmann, più
giovane di tre anni, manifesta la sua ammirazione per Martin Heidegger, che se ne sente adulato e si
rivolge a lei volentieri con il tono di mentore filosofico e padre spirituale, dicendo: «deve esistere il
dovere di esprimere, a chi sente nel nostro stesso modo, quello che nella più profonda sincerità
esperiamo vivacemente e potentemente in noi» (2 ottobre 1918).26
« La vita dello spirito deve nuovamente divenire per noi una vera, effettiva realtà - deve ricevere
una spinta impetuosa, sorta dall’intimo della persona, che ci ’metta sottosopra’ e ci costringa a un
autentico risveglio - e questa spinta si mostra autentica solo nella schiettezza, non nell’essere
borioso, decadente, forzato [...] La vita dello spirito può solo essere vissuta in modo da dare
l’esempio, e ricevere una forma tale da afferrare coloro che vi prendono parte, immediatamente,
nella loro più propria esistenza [...] Dove davvero vive la fede nel valore della propria vocazione,
ogni assenza di valore di un ambiente accidentale viene superata dall’interno e per sempre. » (15
giugno 1918)27
Martin Heidegger sarà testimone dell’ultima grande impennata delle armate tedesche occidentali
contro gli alleati che avanzavano vittoriosi, e gli apparirà chiaro, in maniera stridente, che quello «
spirito » che aveva animato la cultura degli anni precedenti la guerra non aveva più alcuna realtà. La
guerra ha fatto terra bruciata di tutto, fino a mettere a nudo un nucleo che Heidegger chiama, con
pathos indistinto, la «furia» di « ciò che è personale » o la « fede nel proprio valore» oppure
«l’appartenenza all’Io-centrale». Questa violenta riconduzione al nucleo personale è vissuta da lui
come una grande opportunità: adesso è possibile superare « la mancanza di valore di un ambiente
casuale », ma solo se si ha la forza di affidarsi a se stessi e di eliminare il falso spirito dei vantaggi
offerti dalla civiltà. Allora ci sarà, secondo Heidegger, una rinascita dello spirito, dapprima in una
ristretta cerchia di « persone vere », poi ci sarà forse, per irradiazione, un rinnovamento in tutta
l’ampiezza e profondità del popolo. Il 7 novembre 1918, ancora dal fronte, Heidegger scrive a
Elisabeth Blochmann: « Quale forma mai prenderà la vita dopo questa fine, che doveva arrivare ed
è la nostra sola salvezza, è incerto - sicura e irremovibile è l’istanza rivolta agli uomini veramente
spirituali di non divenire proprio ora deboli, mi di afferrare risolutamente il timone e di educare il
popolo alla verità e alla stima autentica degli autentici valori dell’esserci. In me vi è in effetti una
brama di vivere - pur se verranno sacrifici esteriori e rinunce - solo esteti e uomini interiormente
poveri, che in vesti 'spirituali’ con lo spirito hanno finora solo giocato, come altri con denaro e
piacere, adesso crolleranno e si dispereranno esitanti - da loro ci sarà anche poco da attendere
quanto ad aiuto o valide direttive ».28
È « una brama di vivere », scrive Heidegger. Gli mette le ali ai piedi sapere che il mondo, che « con
lo spirito ha solo giocato », adesso va in rovina. Le sue visioni politiche rimangono vaghe. Le
lettere dal fronte non contengono descrizioni della vita in quei luoghi, «il viaggio verso il frontet
stato meraviglioso » (2 ottobre 1918),29 mentre sono numerose le manifestazioni della gioia con cui
attende un nuovo inizio in filosofia. Bisognerà anzitutto demolire, come egli lascia trasparire, ciò
che è stantio, falso, convenzionale, mera simulazione. Si parla di « esperienze originarie », anche di
tipo religioso, che la filosofia e la teologia si limitano a occultare, fornendo loro una falsa continuità
e disponibilità.
Il soldato della riserva Martin Heidegger ha scoperto una nuova intensità: non la guerra stessa, ma
ciò che rimane quando la catastrofe brucia tutt’intorno ogni cosa; non il bagno d’acciaio della
vittoria, ma la grande eliminazione delle scorie a opera della sconfitta. E' una forma di fede « nello
spirito e nella sua potenza - chi vive in lui e per lui, non combatte mai una battaglia perduta» (6
novembre 1918).30
E ancora: « La vita nuova che noi vogliamo, o che vuole in noi, ha rinunciato ad essere universale,
ossia inautentica e piatta - il suo possesso è originarietà - non l'artificialmente costruttivo ma
l’evidenza dell’intuizione totale» (1° maggio 1919).31
Parole grandi, cariche di promesse, ma non frasi fatte, dato che il giovane libero docente di
filosofia, promosso capo-
rale nelle ultime settimane di guerra, ritornato a Friburgo nel novembre 1918 si getta con tutte le sue
energie nel tentativo di seguire questa « intuizione totale » - di comprendere ciò che lo prende - e
aiutare questa intuizione, questa evidenza di certi momenti a pervenire al linguaggio filosofico, ma
soprattutto a inserirla nella continuità della vita. Nel far questo egli osserva la dinamica del tempo:
esso « temporalizza » l’intuizione e l’evidenza dell’attimo, ma non si difende, non punta sulla
durata. Esso accade, è un evento, non è niente di già fatto, ma tutto dipende da ciò che noi ne
facciamo. In una esauriente lettera a Elisabeth del 1° maggio 1919, che forse svela nel modo più
intimo le ossessioni filosofiche non solo del gióvane Heidegger, egli scrive: « È un disconoscimento
razionalistico dell’essenza del personale flusso vitale, quando si pensa e si pretende che esso debba
sempre vibrare con la stessa vasta e sonora ampiezza con la quale si ravviva negli attimi toccati
dalla grazia. Tali pretese sorgono da una carenza di interiore umiltà di fronte al mistero e al carattere
di  grazia della vita intera. Noi dobbiamo saper attendere le in tensità più alte di una vita piena di
significato - e dobbiamo i rimanere in continuità con questi attimi - non tanto goderli -quanto
piuttosto inserirli all’interno della vita - portarli con noi nel procedere della vita e includerli nella
ritmica di ogni vita che sorge.
« E negli istanti in cui entriamo in immediata sintonia con noi stessi e con la direzione alla quale
vivendo intimamente apparteniamo, non dobbiamo soltanto constatare quello che si è rischiarato,
semplicemente metterlo a protocollo - come se ci stesse meramente di fronte (gegen-uber) come un
oggetto (Gegenstand) il consapevole posseder-se-stessi è anzi autentico solamente quando è
qualcosa di veramente vissuto, vale a dire è al tempo stesso un essere. »
Dunque, nel 1919 Martin Heidegger è « felice» di elaborare le sue intuizioni, e quanto accade
intorno a lui egli lo chiama: «situazione folle» (14 gennaio 1919).32
6. Tempo di rivoluzione. Max Weber contro i profeti in cattedra. I santi dell’ inflazione. La cattedra
di Heidegger. Dalla preistoria della « Seinsfrage ». Vissuto e devitalizzazione.
Mondeggia. La filosofia del disboscamento totale. Il dadaismo di Heidegger. La trasparenza della
vita. L’oscurità dell’attimo vissuto. Spiriti affini: Heidegger e il giovane Ernst Bloch.
All’inizio del 1919 Max Weber tenne a Monaco una conferenza dal titolo La vocazione interiore
alla scienza. Parlava in un luogo che, al pari di altre grandi città del Reich, era in fermento
rivoluzionario. Poche settimane dopo a Monaco esplose apertamente la guerra civile e venne
proclamata una Repubblica dei Soviet, in cui per breve tempo a dominare la scena furono scrittori
come Toller e Mühsam, che volevano instaurare il « regno della luce, della bellezza e della ragione
». Per Max Weber tutto ciò era soltanto arrivismo politico irresponsabile, praticato da avventurieri
che non volevano rendersi conto che dalla politica si pretende troppo quando ci si aspetta che essa
realizzi il senso delle cose e la felicità. Karl Löwith, che era presente in sala, descrive il modo in cui
la figura di Max Weber, un anno prima della morte, « si avvia al palco pallida e affaticata », « a
passi rapidi attraverso la sala affollatissima».' Il suo volto, «circondato da una barba ispida », gli
ricordava « il cupo fervore delle figure dei profeti di Bamberga». Faceva un’impressione
«sconvolgente». Max Weber lacerò, secondo Karl Löwith, «tutti i veli al mondo dei desideri, eppure
ciascuno di noi finiva col sentire che al cuore di questo intelletto lucido c’era un senso di umanità
profondissimo. Dopo gl’infiniti discorsi rivoluzionari degli attivisti letterari, la parola di Max Weber
era come liberazione ».
Questo discorso, che venne subito pubblicato e che scatenò un ampio e acceso dibattito pubblico,
contiene una lucida diagnosi dell’epoca. Esso tratta in primo piano l’ethos delle
scienze, ma in sostanza Max Weber cerca di rispondere alla domanda: come sia ancora possibile
realizzare, nel guscio d’acciaio della moderna civilizzazione « razionalizzata », l’esigenza di una
vita sensata. La sua risposta è la seguente: la scienza, che con le sue ripercussioni tecniche ha
trasformato a fondo la nostra vita quotidiana e che nella guerra ha mostrato l’enorme potenziale
distruttivo che nasconde in sé, questa scienza è diventata un destino, e tuttavia essa ci abbandona di
fronte alla domanda sul senso: « Vediamo quale sia il significato della scienza come vocazione, dal
momento che son naufragate tutte quelle precedenti illusioni: 'mezzo per il raggiungimento del vero
essere’, ’della vera arte’, 'della vera natura’, ’del vero Dio’, ’della vera felicità’. La risposta più
semplice è stata data dal Tolstoj con queste parole: È assurda, perché non risponde alla sola
domanda importante per noi: che dobbiamo fare? come dobbiamo vivere?’ Il fatto che non vi
risponda è assolutamente incontestabile. Si tratta soltanto di domandarsi in che senso non dia
'nessuna’ risposta, e se in luogo di questa essa non possa per caso dare un qualche aiuto a chi si
ponga la questione nei suoi termini esatti ».2
La scienza è in grado di esaminare l’adeguatezza dei mezzi rispetto a determinate finalità, fondate a
loro volta su scelte di valori. Essa è in grado inoltre di analizzare la contraddittorietà interna e la
compatibilità con altre decisioni sul valore. È in grado dunque di fornire un contributo
all’autoriflessione, ma non può privarci della decisione su come vogliamo vivere. Questa apertura
della decisione personale sui valori potrebbe essere sentita come una liberazione da qualsiasi tutela.
Il fatto che le scienze non siano in grado di prendere decisioni sul senso e sul valore non
costituirebbe allora alcun problema, quanto piuttosto un’opportunità. Ma le cose non stanno così.
Infatti la nostra civiltà, dice Max Weber, è entrata così a fondo nello spirito della razionalità da
minare la fiducia del singolo nella propria competenza decisionale. Anche nelle proprie decisioni
sul valore il singolo vuole avere quella certezza oggettiva e quella garanzia cui si è abituati
normalmente nel mondo tecnicizzato. Chi viaggia in tram non ha bisogno di sapere come questo
funzioni: può fidarsi del fatto che tutto è « calcolato » bene. Ma se si è circondati da un mondo di
vita che può essere « calcolato » secondo infinite istanze e si viene abituati a non capire tutto,
sapendo però che altri lo capiscono - altrimenti non avrebbero potuto produrre questi prodigi della
tecnica - si pretenderà la medesima certezza e garanzia anche laddove in realtà non si può
richiederla: nella sfera delle decisioni sul senso e sul valore. Anziché ricorrere alla libertà che vi è
racchiusa, si vuole invocare anche qui l’oggettività della scienza. E così si giunge alla congiuntura
delle ideologie che cercano di conquistarsi credito ammantandosi di scienza. Questo è il lavoro
svolto da quelli che Max Weber chiama « profeti in cattedra ». Essi reagiscono alla mancanza di
misteri di un mondo disincantato dalla razionalizzazione, razionalizzando in maniera sbagliata
l’ultimo mistero rimasto, quello della personalità e della sua libertà. Essi non vogliono accettare il
rapporto di tensione fra razionalità e personalità, bensì fare apparire come per magia
dall’«esperienza vissuta» una interpretazione del mondo con la quale si procede con la stessa
sicurezza che si ha viaggiando sul tram. Invece di lasciar stare il mistero là dove esso ancora
sussiste, cioè nell’anima del singolo, i « profeti in cattedra » immergono il mondo disincantato nella
penombra di un nuovo incantamento.
Max Weber propone al contrario una netta separazione: da un lato il saldo possesso del mondo,
dall’altro il rispetto del mistero della persona, anche se questa talvolta tende a sgravarsi del peso
della libertà. Max Weber esige onestà. Bisogna guardare in faccia ai fatti, anche a quelli spiacevoli:
in un mondo che possiamo penetrare razionalmente e gestire tecnicamente, Dio è scomparso; esiste
ancora, semmai, solo nell’anima del singolo che dev’essere disponibile, «a proprie spese », a
compiere il « sacrifìcio dell’intelletto » e a credere in lui. La fede vivente, che non è di questo
mondo, esercitò su Max Weber lo stesso fascino che può suscitare un artista o un virtuoso. Queste
persone egli le chiamò « i virtuosi della religione ». Ma una fede che si confonde con la scienza o
che cerca di instaurare con essa una concorrenza ideale, è per lui un inganno pericoloso. Soltanto
una fede che non ricorra a prestiti ingannevoli dalla scienza possiede ai suoi occhi dignità e verità
nel « regno extramondano della vita mistica o nella fraternità dei rapporti immediati e diretti tra i
singoli ». Qui può alitare un « soffio profetico », ma bisogna fare attenzione che esso non soffi
nell’arena politica.
Le ammonizioni di Max Weber non servirono a nulla. I « profeti in cattedra » reagirono con rabbia.
Uno che voleva ancora salire in cattedra (e con il quale Martin Heidegger avrà a che fare nella
rivoluzione nazionalsocialista) fu Ernst Krieck, maestro elementare, il quale si fece portavoce della
«giusta » critica a Max Weber. Egli attaccò la « posa dell’oggettività » e la libertà dei valori, tipico
fenomeno di decadenza, espressione dell’« intellettualismo sradicato ». E ciò appare appunto anche
nella scienza: la nazione ha perduto la sua anima. Pertanto Krieck propone « la rivoluzione della
scienza ». Essa deve contribuire a creare una « religione nazionale universale » che deve condurre il
popolo alla « unità morale »4 e sollevare lo Stato al di sopra del livello di mera macchina
utilitaristica.
Max Weber non riuscì più a difendersi da critiche, attacchi e calunnie. Nel 1920 morì. Non sarebbe
venuto a capo nemmeno di tutte quelle profezie, visioni, dottrine salvifiche e ideologie che
andavano affermandosi. Infatti nei primi anni della Repubblica di Weimar era sorta una forte e
libera concorrenza ai « profeti in cattedra » accusati da Max Weber. Era l’epoca dei santi
dell’inflazione che volevano redimere la Germania e il mondo comparendo per strada, nei boschi,
nelle piazze del mercato, nelle tende da circo e nei fumosi retrobottega delle bettole. Il tramonto
dell’Occidente di Oswald Spengler, che in quegli anni vendette 600.000 copie, fu il progetto teorico
generale che esplose in mille piccole schegge: mille interpretazioni del mondo nello spirito del
tempo della fine e del ricominciamento radicale. Quasi tutte le città più grandi avevano uno o più «
redentori ». A Karlsruhe c’era uno che si faceva chiamare « Gorgo ancestrale » e prometteva ai suoi
adepti la partecipazione a energie cosmiche; a Stoccarda viveva un « Figlio dell’Uomo » che
invitava a banchetti vegetariani di redenzione; a Dusseldorf c’era un nuovo Cristo che predicava la
prossima fine del mondo e invitava a ritirarsi nell’Eifel. A Berlino il «monarca spirituale» Ludwig
Haeusser riempiva enormi sale dove proponeva « l’etica più coerente con Gesù », intesa come una
sorta di comuniSmo ancestrale, annunciava l’anarchia dell’amore e proponeva se stesso come «
Führer » - « l’unica possibilità di innalzare e far maturare il popolo, il Reich e l’umanità».5
I  numerosi profeti e carismatici di quegli anni hanno quasi tutti un accento millenaristico e
apocalittico, sono i profeti erranti delle eccitazioni rivoluzionarie di fine guerra, i decisionisti del
rinnovamento del mondo, i metafisici diventati selvaggi e affaristi alla fiera delle ideologie e delle
religioni succedanee. Chi si preoccupava della propria serietà prendeva le distanze dal sudiciume di
queste cerchie, ma i confini erano molto sfumati. Ciò vale anche per la scena politica in senso
stretto, dove il messianismo e le dottrine salvifiche prosperavano tanto a destra quanto a sinistra.
Nei giorni della Repubblica dei Soviet a Monaco un proclama redatto da Toller e Mühsam annuncia
la trasformazione del mondo in « un prato pieno di fiori, in cui ciascuno può cogliere la sua parte
»;6 vengono dichiarati abbattuti lo sfruttamento, ogni forma di gerarchia e di pensiero giuridico, e si
dà ordine ai giornali di pubblicare in prima pagina poesie di Hölderlin o di Schiller accanto ai più
recenti proclami rivoluzionari.
Lo spirito febbrile di quegli anni si diffuse in tutti gli ambiti politici per dare un senso a ciò che ne
era privo. Non si era disponibili ad accettare, né in politica né in ambito scientifico, il disincanto del
mondo moderno. Lo spirito del realismo e della Realpolitik (« Coalizione di Weimar ») non fu più
capace di avere la maggioranza dopo il 1920, e presso le scienze umanistiche e sociali l’esortazione
di Max Weber a guardarsi dalle ideologie trovò poca udienza. Nel 1921 Eduard Spranger
riassumeva la protesta contro l'oggettività weberiana e la sua rinuncia alla metafìsica con queste
parole: «Fiduciosa [...] la giovane generazione attende un’intima rinascita [...] Il giovane respira
oggi più che mai attraverso la totalità dei suoi organi spirituali [...] »7
C’è un « istinto alla totalità » e « al tempo stesso un anelito religioso: dalle condizioni artificiali e
meccaniche si torna a mettere le mani sulla metafìsica che sgorga eterna ».
La prima lezione di Martin Heidegger dopo la guerra, tenuta nel semèstre straordinario all’inizio del
1919, ha per titolo: L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo (Die Idee der
Philosophie und das Weltanschauungsproblem). Il giovane libero docente intende prendere
posizione nella disputa del tempo. Le sue considerazioni preliminari si richiamano a Max Weber.
Egli sottolinea il carattere scientifico della filosofia, in cui « deve essere tenuta fuori la posizione
personale del filosofo - come in ogni scienza ».8
Ma Heidegger non vuole fermarsi alla separazione weberiana di conoscenza scientifica e giudizio di
valore; egli non intende solo operare una distinzione, ma problematizzare il fatto stesso che noi
formiamo valori e visioni del mondo, e il modo in cui lo facciamo. Diversamente dalla maggioranza
dei critici di Max Weber, egli non intende riconciliare scienza, valore e visione del mondo,
riconducendoli a una qualche sintesi ultima. Egli si propone lo scopo ambizioso di scoprire un
ambito che si colloca a monte di questa distinzione. La domanda è: come viviamo noi la realtà
prima ancora di giustificarla in un atteggiamento scientifico o di valore o di visione del mondo?
Questa scienza della scienza non era per lui qualcosa come una teoria della scienza: egli la
chiamava piuttosto « l’idea della filosofia come scienza originaria ». Da queste parole sembra che
egli voglia continuare il progetto husserliano di fondare fenomenologicamente la scienza, cioè di
descrivere le strutture coscienziali dalle quali procedono sia la scienza sia l’atteggiamento naturale
nei confronti del mondo. Ma già in questo primo corso di lezioni risulta chiaro che Heidegger si
spinge al di là di Husserl. Egli cita il principio di Husserl: « tutto ciò che si offre originariamente
[...] nell’intuizione, va accolto semplicemente [...] come ciò che si dà»,9 per osservare poi che
Husserl ha descritto i modi dell'esser-dato solo nella coscienza che ha un atteggiamento teoretico.
Ma nel « vissuto della nostra esperienza ambientale» soltanto occasionalmente assumiamo un
atteggiamento teoretico. L’«atteggiamento originario del vissuto»10 è del tutto diverso: esso non è
ancora stato centrato con precisione nel mirino della filosofia, come annuncia con estrema
consapevolezza il giovane libero docente, che all’epoca è ancora considerato l’allievo più
promettente di Husserl.
Il «vissuto», perfino l’«atteggiamento originario del vissuto »: non è un termine che sta per misteri
nascosti, che indica il sacco oscuro dal quale in ultima istanza è possibile tornare ad attingere tesori
metafisici? Gli studenti di allora, come sappiamo da Karl Lowith e Hans Georg Gadamer, avevano
questa sensazione. Ma chi si aspettava questo, chi, affamato di ideologia e bisognoso di metafisica,
andava in cerca di nuove e vecchie offerte di senso nel « vissuto », veniva deluso da Heidegger,
dalle sue formulazioni fredde e tuttavia appassionate, laconiche e tuttavia esaurienti. Infatti, anziché
presentarsi come un profeta in cattedra, egli invita gli studenti a farsi esattamente consapevoli dell’«
esperienza vissuta» di quella cattedra alla quale si trova e dalla quale sta parlando. Tutto il corso di
lezioni ruoterà attorno a questa esperienza della cattedra e perciò vogliamo citare qui un lungo
passo di questa impressionante descrizione fenomenologica della situazione: « Come al solito voi
venite in quest’aula, alla solita ora, e andate al vostro solito posto. Tenete ferma questa esperienza di
'vedere il vostro posto’, oppure cercate di seguire la mia visione delle cose: entrando in aula, vedo la
cattedra [...] Che cosa vedo 'io'? Superfici brune che si incontrano ad angolo retto? No, vedo
qualcos’altro: una cassa, e invero una cassa più grande, sopra la quale ne è posta una più piccola.
Nient 'affatto: io vedo la cattedra alla quale devo parlare. Voi vedete la cattedra dalla quale vi si
parla e alla quale ho già parlato. Nell’esperienza pura non c’è nessun nesso fondativo - come viene
chiamato - come se io vedessi in un primo tempo superfici brune che poi mi apparirebbero come
casse, poi come pulpito e poi ancora come pulpito accademico, cioè come cattedra, non appena io
'incollo’ per così dire a questa cassa il distintivo della cattedraticità, come si farebbe con
un’etichetta. Tutto ciò non è che una cattiva interpretazione, facile a fraintendersi, cioè una
deviazione dalla pura visione del vissuto. Io vedo la cattedra per così dire in un sol colpo; e non la
vedo isolatamente; vedo che il pulpito è regolato troppo in alto per me. Vedo un libro che vi è posto
sopra, e che immediatamente mi disturba [...] vedo la cattedra in un determinato orientamento, con
una certa illuminazione e con lo sfondo [...] Nell’esperienza del vedere la cattedra mi si dà qualcosa
a partire da un ambiente immediato. Questo aspetto ambientale [...] non è costituito di cose con un
determinato carattere semantico, di oggetti, che in aggiunta vengono concepiti nel loro significare
questo o quello; il significato è invece il momento primario, mi si offre immediatamente, senza che
venga compiuta alcuna mediazione di pensiero attraverso un coglimento oggettivo. Vivendo in un
mondo-ambiente, questo ha significato per me sempre e dovunque, tutto è intriso di mondo, tutto
mondeggia (es weitet)».11
Mondeggia: questo è il primo dei curiosi neologismi heideggeriani, che seguiranno così numerosi.
Qui si può osservare il modo in cui viene trovata questa espressione per connotare un processo che
in un primo tempo appare ovvio, ma che visto più da presso rivela una complessità per la quale non
c’è ancora un nome. Così egli inventa questo nome per connotare ciò che noi comunemente non
conosciamo, perché ci è troppo vicino. Le cose infatti stanno proprio così: se riflettiamo sulla
visione di una cattedra, trascorriamo senza accorgerci in un altro ordine, che non è più quello del
vedere cose. Noi pensiamo cioè secondo questo modello: c’è un io che percepisce, e questo io
incontra un qualcosa, un oggetto, e di questo oggetto l’io osserva successivamente alcune proprietà.
Ora, Heidegger vuole farci notare che in realtà non è così che le cose ci si fanno incontro. Il modo
in cui esse ci incontrano in realtà può essere mostrato per contrasto soltanto facendo la prova qui e
ora con un esempio, magari quello dell'esperienza della cattedra qui, nell’aula 2 dell’università di
Friburgo in una grigia giornata di febbraio del 1919. Bisogna cercare non di parlare « sugli » atti
della percezione -non ci si può richiamare sostitutivamente a teorie note, bensì bisogna compiere
quest’atto e contemporaneamente accompagnarlo con l’attenzione. Bisogna cioè dirigere
l’attenzione sull’attenzione, e soltanto allora si potrà seguire il discorso di Heidegger, cogliendo che
cosa gli interessa in esso, ciò intorno a cui tornerà sempre a ragionare in maniera nuova, cosicché si
può anche ricavarne l’impressione che egli non si muova affatto da questo punto. Riusciamo così a
capire che percepiamo innanzi tutto un diffuso ma significativo rapporto con il mondo, e che
perveniamo a un oggetto « neutrale » solo attraverso la via dell’astrazione dall’atto percettivo
naturale. Se noi osserviamo questo processo secondo l’atteggiamento teoretico consueto, noi lo
rovesciamo: lo facciamo cominciare con la cosa apparentemente « neutrale », cui attribuiamo poi
delle proprietà, collocandolo nella rispettiva casella di un rapporto col mondo.
Il concetto nebuloso di « esperienza originaria » riceve un senso pregnante: esso connota la
percezione così come questa realmente avviene, al di là delle opinioni teoretiche su di essa. Dire che
la cattedra « mondeggia » significa dunque: io esperisco la significatività della cattedra, la sua
funzione, la sua collocazione nello spazio, la sua illuminazione, le piccole storie che la riguardano
(nell’ora precedente c’era qualcun altro; il ricordo della via che ho percorso per arrivare qui; la mia
rabbia per il fatto di essere seduto qui e ascoltare queste cose incomprensibili, etc.). La cattedra «
mondeggia », vale a dire: raccoglie un intero mondo, nello spazio e nel tempo. Si può fare
benissimo la prova di ciò. Quando in seguito ci ricordiamo di questa esperienza della cattedra,
osserveremo -e dopo Proust lo possiamo fare particolarmente bene - che nel far questo ci
ricordiamo di tutta una situazione di vita: tiriamo in ballo la cattedra, ed ecco che un intero mondo
l’accompagna. Proust intinge nel tè la madeleine, e gli si dischiude davanti l’universo di Combray.
La madeleine « mondeggia ».
Non qualsiasi cosa è vissuta in modo così decisamente « mondeggiante », ma ogni cosa «
mondeggia » un po’. Heidegger immagina che un negro del Senegai sia capitato dentro l’aula dove
c’è lezione, e che questi osservi quella strana cosa di legno che ha davanti: non dovrà costui
percepire qualcosa di neutrale e di incomprensibile, in un certo senso una nuda cosa? Si può dire
anche in questo caso che innanzitutto si percepiscono sempre significati? Sì, vale anche in questo
caso; il negro infatti farà esperienza della cosa secondo questo significato: « non mi serve a niente
».
In principio è il « significato », in principio « mondeggia», in un modo o nell’altro.
Ma a che scopo tutto questo sprofondarsi nel « vissuto »e questo « mondeggiare »? Innanzi tutto per
questo: dobbiamo renderci conto di che cosa accade realmente quando ci troviamo nel mondo, per
esempio davanti alla cattedra. Questo essere situati, che è sempre un esperire, deve diventare
trasparente a noi stessi. Ma Heidegger vuole ancora di più: vuole porre in una luce abbacinante
quello che realmente succede quando ci mettiamo in un atteggiamento teoretico, cioè in quel modo
di atteggiarsi nei confronti del mondo che viene correntemente chiamato «scientifico». Nel
cosiddetto «atteggiamento teoretico oggettivante » facciamo cioè sparire la significatività primaria,
ciò che appartiene al «mondo-ambiente », ciò che è intriso di esperienza, spogliamo il qualcosa fino
alla sua « nuda » oggettualità, e questo avviene soltanto sostituendo l’io esperiente con un nuovo io,
artificiale e secondario, che viene battezzato con il nome di « soggetto » e che quindi, con reciproca
neutralità, sta di fronte all’oggetto neutrale, che ora viene chiamato oggetto in senso stretto, «
objectum ». E a questo punto si fa chiaro dove vuole arrivare Heidegger: ciò che la filosofia
moderna, e prendendo le mosse da essa anche la scienza moderna, pongono come situazione
originaria, l’inizio senza presupposti della riflessione e la certezza ultima, cioè la contrapposizione
« soggetto-oggetto », non è affatto un inizio privo di presupposti. Non si comincia con esso. Si
comincia piuttosto con il nostro trovarci a vivere nel modo descritto del « mondeggiare » presso il
mondo, con le sue cattedre, le sue madeleines e i negri del Senegai.
Se frattanto ci siamo abituati a quella parola nebulosa che usa Heidegger quando parla dell’«
originario », e riusciamo a seguirne il senso preciso (quello dell’inizio sempre già situazionale),
capiremo anche perché egli parli dell’« intenzione originaria della vita vissuta » che bisogna
scoprire a monte della contrapposizione artificiale e pseudo-iniziale di soggetto e oggetto. Egli
vuole protestare, come dice, contro una « ingiustificata assolutizzazione del teoretico » (di cui
accusa anche Husserl). La « fissità sul teoretico, penetrata così a fondo, è [...] un grande
impedimento alla visione complessiva [...] del dominio dell’esperienza mondana».12 Egli parla con
una punta di aggressività del processo di « progressiva infezione teoretica che distrugge il mondo-
ambiente »,i:i e anche per questa trova un nome nuovo: « devitalizzazione » (Entleben).
L’atteggiamento teoretico, per quanto sia utile, e sebbene faccia parte del repertorio dei nostri
atteggiamenti naturali nei confronti del mondo, è « devitalizzante »; successivamente Heidegger
userà anche il concetto di « reificazione », riprendendolo da Lukacs. In questa lezione egli afferma:
« La cosalità circoscrive un’intera sfera originaria che è distillata dal mondo-ambiente. Che
’mondeggi’ è in essa già un fatto eliminato. La cosa è ancora meramente presente in quanto tale,
cioè è reale [...] Il significato viene de-interpretato fino a questo residuo: l'essere-reale. L’esperienza
vissuta del mondo-ambiente è de-vitalizzata fino a quest’ultimo residuo: conoscere alcunché di
reale in quanto tale. L’io storico è de-storicizzato fino a un residuo di egoità specifica come
correlato della cosalità [...] »14
Servendosi di questa modalità di atteggiamento teoretico, gli uomini hanno cominciato già da molto
tempo a modificare la vita, sia la propria che quella della natura, in maniera vantaggiosa, ma anche
pericolosa. E ciò fu possibile « devitalizzandola », come dice Heidegger, o «disincantandola», per
usare le parole di Max Weber.
Come unica ulteriorità rispetto a questo mondo disincantato della razionalità, Max Weber aveva
lasciato l’ambito privatizzato delle « decisioni » personali e non più razionalizzabili sul valore. Da
questo rifugio privato scaturiscono poi anche le ideologie, contro le quali non c’è nulla da obiettare,
fintantoché non pretendono il prestigio della scientificità.
La critica heideggeriana all’« irrazionale » è ancora più inconciliabile. Ciò che le scienze chiamano
1’«irrazionale»è in realtà, secondo Heidegger, una parola che indica il residuo di esperienza nel
punto cieco dell’atteggiamento teoretico, « Sul piano teoretico io stesso provengo dall’esperienza
vissuta [...] della quale non si sa che cosa fare e per la quale ora si è trovato l’appellativo di
irrazionale. »15
Questo irrazionale diventa poi un « oggetto » con il quale, proprio perché è così « cieco », si può
fare ciò che si vuole: una cantina per gli occulti operai delle ideologie, una rupe per i nuovi profeti,
un oggetto oscuro delle brame metafisiche, un rifugio per nottambuli che da esperienze indicibili
approntano le loro indicibili teorie. Questo elemento psichico irrazionale può assumere poi, ad
esempio, l’aspetto di una macchina psicoidraulica o quello di una casa borghese con tanto di
sotterraneo (il soggetto impersonale), piano terra (l’io) e soffitta (il super-io), oppure quello di un
paesaggio marino con vastità oceaniche, dighe, allagamenti, paludi, zone che affiorano, etc. Di
fronte a questo irrazionale ci si può comportare anche come se si volesse cavalcare la tigre.
Ma si può guardare a questo irrazionale anche, come suggerisce apertamente Max Weber, come
l’origine dei giudizi di valore. Ma stanno davvero così le cose, si chiede Heidegger in altra sede,
cioè che abbiamo davanti a noi « oggetti »-persone, situazioni, cose - « che innanzitutto ’ci sono’
come nude realtà [...] le quali poi però, nel corso dell’esperienza, vengono rivestite di un carattere
mondano perché vadano in giro così nude? »c16
Heidegger tratta con derisione e sarcasmo la filosofia dei valori di Rickert - sotto la cui influenza sta
anche Max Weber - e le pretese di potere da parte della scienza che si dice libera dai valori. Ma egli
parla addirittura con gelida rabbia di quel tipo di metafisica edificante e ideologica che, in pacifica
coesistenza con tutte le altre nostre conoscenze, dipinge sopra di noi un cielo al quale stanno appesi
i valori come i frutti a un albero; vale a dire una metafisica che compensa con la consolazione la
sofferenza di fronte al guscio disincantato e duro come l’acciaio del mondo razionale, e che si
richiama a esperienze « più elevate » o « più profonde ». Di fronte a ciò Heidegger si esprime (in un
corso tenuto due anni dopo) definendola « appello all’oscurità come rifugio, nebulosa evocazione di
presunti ’sentimenti cosmici’ tanto confusi quanto presuntuosi, e perciò ben decisi a tenersi
nell’ombra».17
Heidegger non faceva nomi, ma bisogna sapere che la gran massa della letteratura ideologica di
quegli anni aveva una tendenza metafisica. Era una reazione facile: si poteva infatti far fronte nel
modo più facile alla scomodità della fisica della vita, ritirandosi appunto nel meta di
un’interpretazione speculativa in grande stile. Heidegger rabbrividisce dalla nausea: quasi tutti i
suoi corsi di questi primi anni cominciano con un’invettiva contro il fare cultura, ed egli non si
stanca mai di sottolineare che la filosofia deve perdere una volta per tutte questa abitudine di fare
l’occhiolino al cielo. Egli esige lo « sguardo freddo », e che tutte le questioni ideologiche vengano «
freddamente ridotte all’impotenza »;18 chi non sopporta di essere « gettato nel dubbio assoluto »
dovrebbe togliere le mani dalla filosofia.
Questi anatemi sono ambigui. C’è un filosofo di professione che difende il proprio terreno dai
metafisici che fanno da sé e dai filosofi da terza pagina. Già questo ha qualcosa di quel filisteismo
che costituisce proprio l’oggetto dei suoi attacchi. D’altro canto però Heidegger si veste da
antiborghese e provoca i difensori della triade bello-buono-vero. Si tratta di un rovesciamento a
tutto tondo contro la cultura delle vette sublimi, della falsa interiorità, delle grandi parole e
dell’ebbrezza del profondo. Insomma, per dirla in una parola, la sua è anche una forma di «
dadaismo » filosofico.
I dadaisti, a Berlino, a Zurigo e altrove, già durante la guerra avevano preso in giro l’estetismo del
circolo di George, il pathos svenevole degli espressionisti, il tradizionalismo dei filistei della cultura
e gli affreschi metafisici del paradiso, perché tutte queste idee si erano rese ancora una volta ridicole
di fronte alla realtà della guerra. Ma la provocazione dei dadaisti consisteva soprattutto in questo:
che alla domanda « Che cosa volete contrapporre a tutto ciò? » rispondevano «Niente! Noi
vogliamo solo quello che comunque c’è già», Il dadaismo, come si dice nel Primo manifesto, « fa a
pezzi tutte le parole d’ordine dell’etica, della cultura e dell’interiorità ». Vale a dire: un tram è un
tram, la guerra è la guerra, un professore è un professore, una latrina è una latrina. Chi fa un
discorso, dimostra con questo soltanto di spostarsi dalla tautologia laconica dell’essere a quella
ciarliera della coscienza. « Con il dadaismo una nuova realtà assume i suoi diritti » (Primo
manifesto). Questa nuova realtà è quella che tutti gli spiriti buoni hanno abbandonato e il cui
comfort culturale è andato in rovina. « La parola Dada sta a simboleggiare il rapporto più primitivo
con la realtà circostante » (Primo manifesto). C’è solo « questo, questo, questo », ovvero, in
tedesco, c’è solo « da, da, da ».
Se in tutta la profusione di acume e di accademismo filosofico che caratterizza il primo corso di
lezioni heideggeriane vogliamo scorgere l’impulso dadaista, dobbiamo tener presente che egli ha
preso le mosse da una domanda che ha del patetico, quella cioè sulla « scienza originaria », sulla «
intenzione originaria della vita », sul « principio dei principi », per poi avviare gli studenti, calati
nello stato d’animo della grande attesa, al mistero oscuro dell'esperienza di una cattedra.
Effettivamente, questa è una provocazione di gusto dadaista. E ciò vale anche per la successiva
trasformazione del consueto nell’inconsueto. Con questo genere di attenzione il quotidiano diventa
qualcosa di misterioso e di avventuroso. I dadaisti, almeno alcuni di loro, erano, come pure
Heidegger, nonostante la loro tendenza iconoclasta, o forse proprio grazie a essa, sempre alla ricerca
di ciò che desta meraviglia. Dopo aver trascorso una serata al Cabaret Voltaire di Zurigo, Hugo Ball
scrive nel suo diario metafisico La fuga dal tempo: « Ci sono certo anche altre vie per raggiungere il
miracolo, ci sono anche altre vie della contraddizione ». 19 Essi rimasero, come pure Heidegger, a
loro modo dei metafisici, in maniera segreta e insolita.
Il « piccolo mago di Meßkirch » - come verrà presto chiamato - era in grado di fare filosofìa
sull’esperienza di una cattedra in modo tale che gli studenti, pur essendo abituati dalla guerra a
eventi più abbacinanti, restavano con il fiato sospeso. Tutte le zavorre venivano buttate via; con un
sol gesto venivano bruscamente congedate tutte le vecchie grandi parole, i sistemi prolissi e le
sottigliezze accademiche costruite per aria, e al loro posto c’era il ritorno a questioni assolutamente
elementari: che cosa succede realmente, qui e ora, mentre faccio esperienza della cattedra? Questo
modo di guardare alle cose è analogo a quello coltivato nel periodo di terra bruciata nella letteratura
tedesca dopo il 1945:
Fate a pezzi i vostri canti
bruciate i vostri versi
dite seccamente
quel che dovete (Schnurre),
oppure:
Ecco il mio berretto,
ecco il mio cappotto,
ecco il mio rasoio
nella custodia di lino. (Eich)
Il ritorno di Heidegger alle questioni marginali è diretto in forma polemica e provocatoria contro la
disponibilità, che imperversava anche in filosofia, al millantato credito e a firmare cambiali per un
futuro assolutamente incontrollabile. Il messaggio che Heidegger consegna con la sua sobrietà è il
seguente: non ci sono più roccaforti della filosofia; abbiamo già abbastanza da fare per comprendere
adeguatamente quel
lo che succede. Molti anni dopo, Heidegger descriverà questa svolta in maniera un po’ più affettata
come il ritorno «verso quel massimamente Vicino di fronte a cui continuamente passiamo frettolosi
e distratti, e che sempre di nuovo ci ’spaura’ ogni qualvolta lo scorgiamo ».20
E' davvero sorprendente il modo in cui Heidegger riesce a incatenare l’attenzione a questa vicinanza
dell'esperienza del «mondo-ambiente». Certo, questo pensiero avrà esercitato anche sugli studenti di
allora quell’effetto di attrazione che ancor oggi possiede; ma poi arriva il momento in cui ci si
strofina meravigliati gli occhi e ci si chiede: eppure c’era qualcosa, che cosa devo farmene
dell’esperienza della cattedra? Karl Jaspers ha dato una formulazione pregnante a que. sto tipo di
esperienze nelle sue annotazioni su Heidegger, che egli accumulò a partire dagli anni ’20 e che
tenne a portata di mano sulla scrivania fino alla sua morte. Jaspers dice di Heidegger: « Il pensatore
più stimolante fra i contemporanei, imperioso, stringente, misterioso - ma che poi ti lascia vuoto».
Effettivamente l’esperienza del mondo-ambiente, così come Heidegger la tratteggia in queste
lezioni, nasconde un mistero vuoto. Heidegger mostra che abitualmente non dischiudiamo davanti a
noi la ricchezza dell'esperienza immediata. Ma quando si tratta di determinare e di descrivere questa
ricchezza, sembra che non resti quasi niente, se non un paio di banalità.
Ora, Heidegger non vuole affatto indagare quale sia l’essenza di una cattedra, bensì vuole
dimostrare, sulla base di questo esempio, la praticabilità di un certo tipo di attenzione che, come
egli afferma, in primo luogo dovrebbe essere fondante per il filosofare e, in secondo luogo, viene
solitamente « trascurata » da noi (e anche da tutta la tradizione filosofica). La filosofia vera esige
che ci si possa calare in questo atteggiamento, in questo tipo di attenzione, indipendentemente dagli
« oggetti » e dalle situazioni. Si tratta di un metodo, ma solo di un metodo paradossale. Esso
consiste nell’escludere gli altri metodi di intervento teoretico e nel cogliere una situazione così
come essa è « data », prima ancora che io ne faccia il tema di un’indagine o di una riflessione.
Anche l’espressione « esser dato » è già eccessivamente teoretica. Infatti nella situazione io non
dico a me stesso: questa situazione mi è « data », bensì sono io a essere nella situazione, e se ci sono
del tutto, allora non c’è più alcun « io » che si pone di fronte a questa situazione. La coscienza
dell’io costituisce già una frattura. Il percepire e l’esperire non cominciano con l’«io»; cominciano
invero con l’«io» quando l’esperienza subisce un salto. Io perdo la sensazione immediata della
situazione; e qui sorge qualcosa. Oppure, per usare un’immagine diversa: io vedo gli oggetti
attraverso un vetro; e se questo vetro non è del tutto trasparente, ma riflette, vedo me stesso.
Heidegger vuole un tipo di attenzione che colga immediatamente l’essere consegnati a una
situazione. Si tratta di qualcosa che sta in mezzo fra l’espressione esplicita di una situazione vissuta,
da un lato, e il parlare su di essa, dall’altro lato, che ha i caratteri della distanza, della oggettivazione
e dell’astrattezza. Si tratta di una autotrasparenza della vita in ciascuno dei suoi momenti.
E perché questa autotrasparenza?
Ebbene, da un lato per renderci consapevoli di quello che perdiamo nell’atteggiamento teoretico. In
tal senso gli intenti di Heidegger sono chiari. Ma nella penetrante intensità del suo fare filosofia c’è
una peculiare eccedenza, ed è questa che rende il suo pensiero così affascinante già in questo primo
periodo. Tale eccedenza si nasconde nella domanda, che per ora egli non pone ancora
esplicitamente, ma che in seguito sarà ripetuta in modo perfino rituale: la domanda sull’essere.
Heidegger si cala nell’esperienza vissuta per rintracciare il nostro « essere in situazioni », e anche
quando è in procinto di trovare un linguaggio per questo essere, egli sa esattamente che nel
teorizzare scientifico, come anche negli affreschi delle visioni del mondo, finiamo regolarmente per
perderlo di vista.
C’è una intenzione eccedente rivolta all’« essere ». Ma che cosa c’è di eccedente in essa? Questa
intenzione è eccedente perché non mira soltanto alla conoscenza adeguata di una situazione del
vissuto, ma a una conformità all’essere, che ha a che fare non tanto con la conoscenza pura, quanto
con la riuscita della vita. Heidegger si sforza così tanto di raggiungere l’autotrasparenza di un
momento vissuto come se in esso si celasse una promessa, quasi una Terra promessa. Egli liquida
tutto ciò in maniera indiretta, fredda, con tono accademico, e tuttavia lo intravvediamo spesso con
sufficiente nettezza. Una volta egli si riferisce alla ricostruzione dell’autotrasparenza di una
situazione di vita chiamandola semplicemente «simpatia di vita»,21 un’altra volta descrive il punto
in cui bisogna decidere se si vuole la teoria o la trasparenza, e dice: «Ci troviamo all’incrocio
metodologico che decide sulla vita o sulla morte della filosofìa tout court, siamo su un abisso: o
cadiamo nel niente, cioè nell’assoluta oggettività, oppure riusciamo a compiere il salto in un altro
mondo, o più precisamente: nel mondo in quanto tale ».22
«Ci lascia vuoti », dice Jaspers. Forse si è di fronte all’esercizio riuscito di una insolita intensità, di
una così lucida presenza dello spirito, ma la promessa non era ancora maggiore? Lo stesso
Heidegger non ci ha promesso sotto sotto qualcosa di più? Lo aveva ripromesso anche a se stesso?
Voglio ricordare le frasi che Heidegger scrisse a Elisabeth Blochmann nel periodo di questo corso di
lezioni: « La vita nuova che noi vogliamo, o che vuole in noi, ha rinunciato a essere universale,
ossia inautentica e piatta [flächig] (superficiale [ober-flachlich]) il suo possesso è originarietà non
l’artificialmente costruttivo, ma l’evidenza dell’intuizione totale» (1° maggio 1919).23
In questa lettera si parla anche del « carattere di mistero e di grazia della vita initera » e del fatto che
« dobbiamo saper attendere le intensità più alte di una vita piena di significato ».
L’anno precedente era apparsa un’opera che, con una sorprendente coincidenza con l’intenzione di
Heidegger, intraprende anch’essa il tentativo di giungere sulle tracce dell’essere, che molto
promette, nell’« oscurità del momento vissuto ». Si tratta di uno dei grandi libri della filosofìa di
questo secolo: lo Spirito dell’utopia di Ernst Bloch. Questo libro, espressionistico nello stile e
animato da una lucida gnosi, e quindi smanioso e innamorato delle immagini, comincia con queste
parole: « Mentre viviamo non vediamo troppo vicino; noi fuggiamo. Perciò quello che accade nella
nostra vita, quello che siamo veramente stati in essa, non vuole coincidere con ciò di cui possiamo
fare esperienza. Esso non è ciò che si è, e nemmeno ciò che si crede di essere ». Bloch possiede a
dismisura ciò che a Heidegger manca: una immaginazione spirituale dell’« oscurità del momento
vissuto ». Inoltre Bloch, che è un outsider in filosofia, possiede una spregiudicatezza che viene
meno a Heidegger il quale, nonostante il suo approccio non convenzionale, si nasconde pur sempre
nella disciplina di una determinata scuola di pensiero, quella fenomenologica. Bloch lo dice
apertamente: per far luce sull’oscurità dell’attimo vissuto c’è bisogno di un « lirismo filosofico del
limite ultimo ».24
Facciamo una prova; Bloch descrive l’esperienza di un boccale che sta davanti a lui e che ci viene
presentato con queste parole: « È difficile capire quale sia l’aspetto del ventre oscuro e ampio di
questo boccale. Qui vorremmo saperi«. Questa continua domanda infantile torna a presentarsi. Il
boccale infatti ha qualcosa di simile all’infanzia [...] Chi osserva abbastanza a lungo il vecchio
boccale, ne porta con sé il colore e la forma. Io non divento grigio con ogni pozzanghera e non
vengo piegato da ogni binario. Posso però essere formato come un boccale, mi osservo come
qualcosa di bruno, dalle fattezze curiose, come un’anfora nordica, e ciò non solo per imitazione o
solo per immedesimazione, ma in maniera tale da diventare più ricco e più presente in quella parte
di me, ancora più educato a me stesso con questa forma cui prendo parte [...] Tutto ciò che è stato
fatto analogamente con amore e con necessità, conduce una vita propria, penetra in un nuovo
ambito che gli è estraneo, e ritorna assieme a noi con una forma che noi non potremmo mai avere in
vita, adornato di un certo segno, di un certo sigillo di noi stessi, per quanto debole questo possa
essere. Anche qui si ha l’impressione di gettare lo sguardo su un lungo corridoio illuminato dal sole,
al cui fondo c’è una porta, come accade di fronte a un’opera d’arte ».25
Perché non si dovrebbe poter indicare con l’esperienza vissuta di un boccale quello che concerne il
nostro essere? In uno scritto successivo Heidegger si cimenterà proprio con un boccale. Ma
all’esperienza della cattedra di questo suo corso giovanile di lezioni manca ancora quella pienezza
dell’essere di cui egli va alla ricerca come il giovane Bloch.
Ma a Heidegger non interessa soltanto questa pienezza; ancora di più gli sta a cuore un altro
mistero: la meraviglia di fronte al « nudo » che: che in generale qualcosa sia.
La relazione fra l’esperienza immediata e la sua oggettivazione era stata caratterizzata da Heidegger
come un processo di «devitalizzazione»: l’unità della situazione si dissolve, dall’esperienza nasce
l’autopercezione di un soggetto che si pone di fronte all’oggetto. Si cade fuori dall’essere
immediato e si trova se stessi come qualcuno che ha « oggetti », e che fra gli altri oggetti ha anche
se stesso come oggetto; e questo qualcuno si chiama soggetto. Questi oggetti, e anche il soggetto,
possono essere poi interrogati quanto ai loro ulteriori caratteri distintivi, nessi causali etc.; essi
vengono determinati analiticamente, e da ultimo vengono anche valutati. In questo processo
secondario accade che gli « oggetti » neutralizzati vengano nuovamente inseriti in un contesto
mondano, oppure, come dice Heidegger, che ricevano un vestito, affinché non vadano in giro nudi.
Questa costituzione teoretica del mondo ha un punto di fuga astratto. Che cosa si intenda con ciò, è
dimostrato nuovamente da Heidegger con il suo esempio dell'esperienza ambientale della cattedra.
Assumendo l’atteggiamento teoretico posso analizzare questa cattedra come segue: « Essa è
marrone; marrone è un colore; il colore è autentico dato sensibile;
il dato sensibile è risultato di processi fisici o fisiologici; quelli fisici sono la causa primaria; questa
causa, l’elemento oggettivo, è un determinato numero di vibrazioni dell’etere; i nuclei dell’etere si
spezzano in elementi semplici, fra i quali, essendo elementi semplici, vigono leggi semplici; questi
elementi sono ultimi; gli elementi sono qualcosa in senso assoluto ». 26 Lungo questa via si giunge
a un « qualcosa in assoluto », come una sorta di nucleo o di essenza delle cose. Questo presunto
nucleo del qualcosa fa apparire l’intera sequenza di gradi come semplici gradazioni di fenomeni. La
cattedra marrone non è ciò per cui appare. Essa non è invero nulla, ma nemmeno questo qualcosa,
così come essa appare. Questo modo di concepirla fa dire a Heisenberg che nel l’immagine del
mondo delle scienze naturali moderne torna a vivere l’antica filosofia della natura secondo la quale
l’« autentico ente »27 sarebbero gli atomi (o addirittura le particelle subatomiche).
Heidegger mostra che con questa riduzione analitica non si fa altro che trasporre l’enigma che
qualcosa in generale sia, a livello microcosmico, sul piano dei rapporti subatomici (ma si potrebbe
riprodurlo altrettanto bene del resto a livello macrocosmico, sull’intero universo), non accorgendosi
però che questo enigma del qualcosa si mantiene tale a qualsiasi livello lo si riduca: infatti il colore
è già esso un « qualcosa», così come il dato sensibile o le vibrazioni dell’etere o i nuclei, etc. A
differenza di quel qualcosa che la scienza conserva come un residuo al termine delle sue riduzioni,
Heidegger connota questo « qualcosa » che manifesta la sua stupefacente presenza in ogni punto
dell'esperienza vissuta, come alcunché di « premondano ».28
Evidentemente Heidegger ha scelto questa espressione come complementare al « retromondo » di
cui parla Nietzsche, che dovrebbe caratterizzare quella curiosità che attraversai « fenomeni »
presumendoli privi di sostanza, per giungere infine all’« essenza », ovvero a ciò che sta dietro o
sotto di essi.
Questo qualcosa di strabiliante cui pensa Heidegger, chiamandolo « premondano », è l’accorgersi
del miracolo che, in generale, c'è qualcosa. Lo stupore davanti al qualcosa può collegarci a
qualsivoglia esperienza. L’uso dell’espressione « premondano », in riferimento a questo stupore, è
una scelta felice da parte di Heidegger anche per il fatto che in essa risuona quello stupore che si
prova trovandosi nel mondo come se ci si fosse or ora arrivati. Così, alla fine del corso di lezioni, ci
si deve ricordare nuovamente del suo inizio. Al principio Heidegger aveva definito il suo tentativo
di condurre un’esperienza all’autotrasparenza fenomenologica come un « salto in un altro mondo o,
più precisamente, nel mondo in generale ».29
Questa esperienza originaria dello stupore è per Heidegger contrapposta esattamente alla
«devitalizzazione» teoretica. Essa non equivale a « interruzione assoluta del riferimento alla vita;
non già il rilassamento di ciò che è devitalizzato, non la fredda fissazione teoretica di un esperibile
», bensì essa è « l’indice della massima potenzialità della vita ». Essa è un « fenomeno
fondamentale », che avviene proprio in « momenti di esperienza particolarmente intensa ».30 Ma se
essa avviene, magari raramente, allora è costantemente legata all’osservazione che essa è già
sempre presente in forma latente, ma rimane occultata perché di norma, nelle nostre relazioni vitali,
noi siamo soliti « fissarci nella vita », senza distanza, o appunto con le distanze « devitalizzanti »
proprie dell’atteggiamento teoretico. Non c’è dubbio: qui si tratta della illuminazione
fenomenologica di una esperienza che, nella sua semplicità, è al tempo stesso mistica, posto che si
scelga per connotare il mistico la frase memorabile di Wilhelm Wundt: « Proprio della mistica è,
ovunque, di ritrasformare il concetto in intuizione ».31 Guardando la cattedra, posso rendermi conto
del miracolo che io stesso sono e che c’è un intero mondo che mi si offre.
Nello stupore sul fatto enigmatico « che qualcosa, in generale, è » vive una domanda che non può
essere tranquillizzata da nessuna possibile risposta, dato che ogni risposta che spiega un « che » con
un « perché » subisce il regresso all’infinito: ogni « perché » è passibile di un ulteriore « perché ». E
poiché nessuna risposta è possibile, non è nemmeno possibile formulare propriamente ciò su cui ci
interroghiamo nell’enigma del « che ». Perciò Ernst Bloch, che anche qui si interrogava su un
problema analogo, ha chiamato questo stupore la « figura della domanda non costruibile ». Egli era
del resto abbastanza intelligente da lasciare la parola al poeta laddove si trattava di rendere dicibile
ed esperibile questo stupore. Nella sua opera Tracce egli cita un passo meraviglioso dal Pan di Knut
Hamsun: « 'Pensate, a volte vedo la mosca azzurra. Sì, tutto questo sembra di così poco conto, non
so se lo capite.’ ’Sì, lo capisco.’ ’Sì, sì. Ogni tanto guardo l’erba e probabilmente l’erba mi guarda a
sua volta. Che ne facciamo? Guardo un filo d’erba tutto solo, forse trema un po’ eroi sembra che sia
qualcosa; allora mi dico: ecco questo filo d’erba, trema! E se contemplo un pino, c’è forse un ramo
che mi fa anche riflettere un po’. Ma talvolta incontro anche delle persone sulle cime, capita...’ ’Sì,
sì’, disse l’uomo, e si alzò. Cadevano le prime gocce di pioggia. ’Piove’, dico. ’Sì, pensate, piove’,
disse anche lei, e già se ne andava ».32
7. Il commiato dal cattolicesimo.
La «vita fattizia» e la «mano levata contro Dio». I lavori di decostruzione. Il Dio di Karl Barth.
Studiare, cadendo, le leggi della caduta. L’inizio dell’amicizia con Karl Jaspers. Il corso del 1923
sull’ Ontologia.
Il preludio a Essere e tempo.
All’epoca di queste lezioni sull’« esperienza della cattedra » Heidegger prende commiato dal
cattolicesimo. Il 9 gennaio 1919 egli scrive a Engelbert Krebs, amico dei tempi in cui erano
entrambi cattolici e ora professore di dogmatica cattolica a Friburgo: « I due anni trascorsi, durante i
quali mi sono sforzato di arrivare ad una chiarificazione della mia posizione filosofica [...] mi hanno
portato a risultati per i quali io, trovandomi legato da un vincolo extrafilosofico, non potrei avere
garantita la libertà di opinione e di insegnamento. Le mie convinzioni sul piano gnoseologico, che si
estendono alla teoria della conoscenza storica, hanno reso per me problematico e inaccettabile il
sistema del cattolicesimo - non il cristianesimo e la metafìsica in quanto tali, determinazioni che
hanno assunto, però, un senso nuovo. Credo di aver profondamente avvertito [...] ciò che vi è di
valido nel Medioevo cattolico [...] Le mie ricerche di fenomenologia della religione dovranno
avvicinarsi in modo efficace al Medioevo e dar prova del fatto che il mutamento di prospettiva da
parte mia non comporta, a causa di una polemica da apostata, risentita e desolata, il trascurare ü
giudizio obiettivo e la grande stima del mondo cattolico [...] È diffìcile vivere come filosofo;
l’intimo amore per la verità, nei confronti di se stessi e in relazione a coloro per i qual si deve essere
insegnanti, pretende rinunce e lotte che restano sempre estranee alla ricerca scientifica. Credo di
possedere la vocazione interiore per la filosofi e per la sua realizzazione nella ricerca e
nell’insegnamento» orientati alla definizione esterna dell’uomo in quanto tale; solo in virtù di
questo credo di poter compiere ciò che è nelle
mie forze e in questo modo giustificare davanti a Dio la mia esistenza e il mio operato ».l
Due anni prima Engelbert Krebs aveva celebrato il matrimonio religioso di Martin ed Elfride,
accogliendo la promessa degli sposi di far battezzare i loro figli nella fede cattolica. L’occasione di
questa lettera fu il fatto che Elfride aspettava un bambino e che nel frattempo i coniugi avevano
convenuto di non farlo battezzare come cattolico. Dunque la separazione dal « sistema del
cattolicesimo » è per Heidegger anche una separazione dall’istituzione. Dal punto di vista formale
egli non è uscito dalla Chiesa (cosa del resto impossibile per il diritto ecclesiastico cattolico), ma
nella cerchia di Husserl egli è considerato ora come un « protestante adogmatico», come dice
Husserl nella già citata lettera a Rudolf Otto del 5 marzo 1919.
Che egli, intimamente, si sia già molto allontanato dal mondo cattolico risulta anche dal fatto che
respinge esplicitamente da sé la tentazione della « desolata polemica da apostata », come se questa
potesse essere presa seriamente in considerazione da lui. Da ciò lo trattiene, come scrive, l’alta
considerazione dei valori del Medioevo cattolico. Per Krebs è una magra consolazione, dato che il
cattolicesimo attuale evidentemente non esige altrettanto rispetto. Egli deve la sua evoluzione
spirituale alla libertà da un « vincolo extrafilosofico ». Guardando al suo passato, adesso gli sembra
che sia stato un vantaggio l’avere interrotto in tempo utile la carriera di sacerdote. Quali convinzioni
religiose gli sono rimaste? Egli resta legato al « cristianesimo » e alla « metafisica», « tuttavia in un
senso nuovo », come ebbe a dichiarare.
Non si tratta più di quella metafisica che nel pensiero cattolico medievale raccoglieva in unità Dio e
il mondo. In questo pensiero Heidegger aveva trovato in un primo tempo una patria spirituale,
scoprendovi poi con perspicacia crepe sottili come un capello, nelle quali si annidava la rottura
dell’intero, che venne in seguito.
La metafisica cui egli si attiene è una metafisica che viene dopo la rottura della precedente unità. Il
vecchio cielo è precipitato, il mondo si è lacerato assumendo la forma di mondità, ed è questo il
factum da cui bisogna prendere le mosse. La filosofia non si è ancora addentrata sufficientemente in
que-
sta mondità, come egli afferma nel ciclo di lezioni del semestre straordinario 1919.
A prima vista sembra che l’enfatico invito di Heidegger a prendere finalmente sul serio il «
mondeggiare » del mondo ripeta un movimento che ha le sue origini nel tardo Ottocento: la scoperta
della realtà effettiva, quando si scorgeva l’economia dietro lo spirito (Marx), l’esistenza mortale
dietro la speculazione (Kierkegaard), la volontà dietro alla ragione (Schopenhauer), l’impulso dietro
la cultura (Nietzsche, Freud) e la biologia dietro la storia (Darwin).
Effettivamente Heidegger è sostenuto da questo movimento di « scoperta » della realtà effettiva, più
di quanto egli non voglia ammettere con se stesso. Ma Heidegger, che fino a poco tempo prima
pensava ancora sotto il cielo del cattolicesimo, vuole superare ulteriormente, dove possibile, queste
«scoperte» quanto a radicalità. Per lui questi attacchi critici sono pur sempre tentativi di sviluppare
visioni del mondo che offrano un qualche riparo; essi non penetrano ancora fino alla « potenzialità
della vita », il vero luogo di produzione di tutte le autointerpretazioni e immagini del mondo, di
natura più o meno scientifica. Nel ciclo di lezioni dell’inverno 1921-22 egli trova un nome per
questa realtà effettiva: «la vita fattizia ».
Questa « vita fattizia » non è più sostenuta da alcuna istanza metafìsica, essa precipita nel vuoto e si
infrange nell’esistenza. Non soltanto il mondo, anche la singola « vita fattizia» è, in senso letterale,
caduta.
Bisogna dire, preliminarmente, che in questa che Heidegger chiama « vita fattizia » non troveremo
niente che possa giustificare l’attribuzione di un qualche valore di verità a una fede religiosa o a una
costruzione metafisica. Il principio medievale del passaggio mobile fra l’uomo finito e la verità
dell’infinito, questo scambio che va al di là dei confini è diventato per la « vita fattizia »
un’illusione. Quindi è un’illusione anche quel Dio che viene amministrato come un « tesoro di
verità» sempre disponibile da parte di una Chiesa ricca di tradizione, fissata e articolata sotto forma
di istituzione.
All’inizio degli anni ’20 Heidegger tenne lezioni sulla fenomenologia della religione. In esse si
trattava di Paolo, Agostino, Lutero e anche di Kierkegaard. Queste lezioni sono state pubblicate
soltanto in parte. Ma Otto Pöggeler ha potuto vedere i manoscritti e scorgere in essi lo Heidegger «
protestante ». Heidegger interpreta un passo della Prima lettera ai Tessalonicesi di Paolo, dove si
dice: « Circa il tempo e l’ora, o fratelli, non avete bisogno che ve ne scriviamo. Voi stessi infatti
sapete perfettamente che il giorno del Signore arriva come un ladro di notte ».2 Dio è indisponibile
come il tempo. Nei profondi pensatori religiosi, dice Heidegger, Dio diventa un nome per il mistero
del tempo. Heidegger parla esaurientemente anche di un passo della Seconda lettera ai Corìnzi,
dove Paolo rammenta a coloro che si vantano di un particolare legame mistico con Dio la parola di
Cristo: « Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nella debolezza ».3 Basta soltanto
penetrare di nuovo, come fecero il giovane Lutero e più tardi Kierkegaard, in questa religiosità
protocristiana dell’attimo indisponibile della grazia, e le cattedrali della metafisica e della teologia,
che vogliono rendere la fede resistente al tempo, crollano in se stesse.
Questi tentativi di trasformare il Dio « temporale » indisponibile in un bene disponibile vengono
stimolati, dies Agostino, dall’« inquietudine » del cuore umano che vuole trovare quiete. Agostino
aveva distinto rettamente fra la quiete che ci si prende e la quiete che si riceve da Dio. Essa ci
investe e di essa si può dire ciò che Paolo dice del Signore: che viene « come un ladro di notte » e
porta via ogni inquietudine. Noi non potremmo costruire alcuna pace, se questa non ci venisse data.
Chiunque abbia ricordato, all'interno della tradizione cristiana occidentale, l’abisso fra Dio e l’uomo
e l’attimo indisponibile della grazia, e quindi il mistero del tempo, è invocato ora da Heidegger
come garante della sua impresa di mostrare la « vita fattizia » come slegata da Dio e le dimore
metafisiche come chimere.
Nell’introduzione del 1922 allo scritto Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto
della situazione ermeneutica (Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles Anzeige des
hermeneutischen Situation) - un testo di cui si tornerà a parlare -, Heidegger scrive: « Ogni filosofia
che si comprende per quello che è, deve conoscere come modalità fattizia dell’interpretazione della
vita - proprio laddove essa abbia ancora un ’presagio’ di Dio - che quanto essa compie è un tornare
a lacerarsi su se stessa da parte della vita e, in ter mini religiosi, un alzare le mani contro Dio. Ma
soltanto in questo modo essa si pone onestamente davanti a Dio, cioè secondo le possibilità di cui,
come tale, dispone; ciò significa, in termini ateistici, che essa deve tenersi libera da preoccupazioni
allettanti, che si limitano a incantare la religiosità ».4
Heidegger parla di Dio allo stesso modo in cui Husserl parla della realtà al di fuori della coscienza.
Husserl metteva fra parentesi la realtà, Heidegger mette fra parentesi Dio. Con la sua messa fra
parentesi Husserl intendeva conquistare il campo della coscienza pura e dimostrare che quest’ultimo
contiene già in sé, e a partire da sé, l’intera pluralità del reale. E Heidegger mette fra parentesi Dio
per cogliere la mondità pura del mondo, libero da ogni tendenza a creare in ciò qualche idolo
sostitutivo. Husserl diceva: « Si deve prima perdere il mondo [...] per riottenerlo poi con
l’autoriflessione universale».5 Anche Heidegger punta su un’analoga inversione?
Anch’egli intende perdere Dio attraverso l’autotrasparenza della vita fattizia per poterlo poi
riguadagnare come un evento indisponibile che irrompe nella vita fattizia « come un ladro di notte
»?
Vedremo.
In ogni caso Heidegger assume per ora con il suo « ateismo» filosofico una posizione
complementare alla teologia dialettica che conobbe un’affermazione imponente nel 1922 con la
pubblicazione della seconda stesura dell’Epistola ai Romani di Karl Barth.
Un « alzare la mano contro Dio » c’è anche in Karl Barth, che ha definito la sua una teologia della
crisi. È il Dio della cultura che è finito in crisi, nella guerra e attraverso la guerra. A proposito di
questo Dio della cultura le cose stanno per Barth allo stesso modo in cui stanno per Heidegger
relativamente al « patrimonio di verità della Chiesa »: ciò che è semplicemente indisponibile viene
spacciato falsamente per un possesso culturale. Anche Barth, al pari di Heidegger, intende «
ritrascinare indietro la vita », tagliandole le vie di fuga verso costruzioni metafisiche consolatorie.
Non esiste alcun passaggio mobile verso Dio: Dio è la negazione del mondo. E' un autoinganno,
dice Barth, voler sviluppare un concetto di Dio a partire dalla realtà. Questa è anche la critica di
Heideg
ger alla metafisica e alla pietas culturale. Heidegger sentiva di essere su posizioni vicine a quelle
del grande teologo protestante, e perciò ebbe a dire all’inizio degli anni ’20 che a quel tempo si
poteva parlare di una vera e propria vita spirituale soltanto in Karl Barth. E probabile che il Dio «
messo fra parentesi » da Heidegger sia simile al Dio di Karl Barth: « Dio è il puro limite e il puro
inizio di tutto ciò che siamo, abbiamo e facciamo; Dio sta di fronte, in una differenza qualitativa
infinita, all’uomo e a tutto ciò che è umano; non è e non sarà mai identico a ciò che noi chiamiamo
Dio, a ciò che noi viviamo, presagiamo e preghiamo come Dio: Dio che oppone a ogni inquietudine
umana un ’ Alt! ’ incondizionato e a ogni umana quiete un incondizionato ’Avanti!’, il ’sì’ nel nostro
’no’ e il ’no’ nel nostro ’sì’, il primo e l’ultimo, e come tale l’ignoto, ma mai e in alcun modo una
grandezza fra le altre nella sfera di realtà che ci è nota [...], questo è il Dio vivente ».6
Contro l’appropriazione culturale di Dio Barth scrive: « Non vi è qui alcun oggetto di esperienza
per i romantici, di entusiasmo per i rapsodi, di analisi per gli psicologi, di racconti per i narratori.
Non vi è nulla, proprio nulla di quei ’germi’, di quelle 'emanazioni’ divine, nulla di quella vita
sgorgante, zampillante in cui dovrebbe trovarsi una connessione continua tra l'essere di Dio e il
nostro ».7
Questa teologia faceva per certi aspetti da contraltare al Tramonto dell'Occidente di Spengler, un
libro che fece epoca. Quella « atmosfera da terremoto » del tribunale di Dio sopra la nostra cultura,
evocata in modo così eloquente da Karl Barth, corrisponde abbastanza esattamente allo scossone
inferto all’ottimismo culturale, cui contribuì anche l’opera di Spengler. Nella teologia di Barth si
sente ancora l’eco della catastrofe della guerra, ad esempio quando dice che le «trombe
dell’assalto» rimangono indietro quando Dio fa il suo ingresso nella vita. Il «ritrascinare indietro la
vita» di fronte a un falso aldilà: questo è dunque il compito più importante per Heidegger e Barth.
Heidegger strappa via la vita da Dio, Barth strappa via Dio dalla vita.
Questa « vita » che deve essere ricondotta a se stessa è oggetto del corso del semestre invernale
1921-22, intitolato Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Gli studenti, che si sarebbero
aspettati una introduzione ad Aristotele, rimase-
ro probabilmente sorpresi. In effetti Heidegger comincia con alcune considerazioni sulla ricezione
di Aristotele, dunque con la storia della filosofia, ma soltanto per sostenere che il fare storia della
filosofia ha di norma poco a che vedere con la filosofia: « Il fondamento autentico della filosofia è il
radicale afferramelo esistenziale e la maturazione della problematicità; collocare nella
problematicità se stessi, la vita e le attuazioni decisive è il vero afferramento fondamentale di ogni
cosa ed è la forma di chiarificazione più radicale ».8
Nelle lezioni del semestre straordinario Heidegger aveva dimostrato, con l’esempio dell’esperienza
della cattedra, quanto sia maldestra la nostra comprensione delle esperienze più elementari. Adesso
bisogna prendere di mira le «attuazioni decisive » della vita.
Se la prima sorpresa per gli studenti fu nel sentir parlare non già di Aristotele, ma della « vita
fattizia », ve ne fu subito una seconda: chi si aspettava che il radicale « afferramento esistenziale »
conducesse al piano esistenziale-personale, rimase deluso. Heidegger sottolinea invero
incessantemente che non si deve fare filosofia «sulla» vita fattizia, ma «a partire da essa »; è vero
che si parla di « rischio » e della possibilità di « naufragare » nella realizzazione di questo pensiero,
come anche della necessità di avere « coraggio », dato che il dubbio radicale equivale a « mettere in
gioco tutta la propria esistenza, interiore ed esteriore ». Dunque il prologo è drammatico,
surriscaldato, e tuttavia in seguito l’intera discussione viene curiosamente raffreddata
dall’esposizione di un complicato armamentario concettuale che sembra poter derivare dall’arsenale
della Neue Sachlichkeit e dalla tendenza di quest’ultima a prendere le distanze da tutto. E così si
parla di « ruinanza », « prestruzione », « decostruzione », «larvanza», «rilucenza». Heidegger, che
in questi anni comincia a presentarsi in curiose casacche da contadino, non parla con termini vicini
all’origine e alla terra, bensì con un tono oggettivo, quasi tecnico, gelido. Un gesto di brillante
modernità. Almeno così doveva essere avvertito in quel tempo. Non c’è traccia del gergo
dell’autenticità.
In queste lezioni si sente per la prima volta quel tono che sarà caratteristico dello Heidegger degli
anni successivi, quella peculiare tensione fra calore esistenziale e neutralità distanziata, fra
concettualità astratta e concrezione emozionale, fra penetrazione che fa appello all’uditorio e
distanza descrittiva.
Noi viviamo, ma non ci conosciamo. Siamo all’oscuro di noi stessi. Se vogliamo diventare
trasparenti a noi stessi, questo è uno sforzo che secondo Heidegger « si ripercuote sulla vita ». La
filosofia della vita di Heidegger è una filosofia contro la tendenza spontanea della vita. Perciò essa
può anche essere di un freddo pungente e contemporaneamente essere immersa nel fluire
dell’esistenza.
Il corso di Heidegger su Aristotele comincia dunque con l’esplicazione del pensiero che chi vuole
comprendere Aristotele, chi vuol porsi in una relazione con lui che sia particolarmente intensa, deve
prima aver compreso se stesso; quanto meno dovrà aver compreso che cosa vuol comprendere in
Aristotele e per suo tramite. Chi vuol comprendere se stesso deve chiarirsi la situazione in cui sta. È
una situazione di formazione universitaria presso la facoltà di filosofia nell’anno 1921. Questa
situazione implica un intero mondo, domande su domande. Perché studiare filosofia proprio adesso?
Che ruolo può spettare alla filosofia in generale, all’università, come professione o come
propedeutica per un’altra professione, in quest’epoca? Che cosa ci si ripromette dalla propria vita se
si è scelto di studiare filosofia? Heidegger solleva queste domande, o meglio: le mette in scena.
Quello che egli intende produrre è infatti una tormenta di palesi nebulosità e di dubbi, da cui deve
risultare evidente quanto sia in realtà oscura e nebulosa la situazione non appena cerchiamo di
condurla alla trasparenza. In questo contesto possiamo ancora una volta osservare come in
Heidegger la creazione di neologismi si realizzi nel corso della graduale costruzione del suo
pensiero. Non possiamo contemplare dall’esterno, dice Heidegger, questa vita in cui ora ci
troviamo: siamo sempre in mezzo a essa, circondati dai suoi limiti particolari. Là dove siamo noi,
c’è solo «questo», « quest ’ altro » e «quest’altro ancora». Heidegger descrive questa vita coni suoi
numerosi «questo qui» (dieses), e all’improvviso ecco giungere l’espressione calzante: l’elemento
caratteristico della vita è la « nebulosità » (Diesigkeit).9
Tale « nebulosità » è difficile da sopportare. La risposta che dà la filosofia è di norma la costruzione
di valori, tradizioni, sistemi, edifici di pensiero in cui si trova riparo, al fine di non andarsene in giro
« così nudi » e indifesi nel proprio tempo. Ci si trincera dietro i beni culturali, ci si affida alla
filosofia come a un’assicurazione sulla vita o a un contratto di risparmio immobiliare. Si investono
lavoro e fatica e ci si chiede quale rendita ci sarà, che utile se ne ricaverà, che cosa ne farò. Ma con
la filosofìa, dice Heidegger, non si può fare niente; facendo filosofia si può al massimo far luce su
che cosa, in generale, si « fa ». La filosofia ha a che fare con i «principi », ma con i principi intesi in
senso stretto: ciò che sta in principio. Non si tratta di chiedersi quale sia stato il principio del
mondo, e nemmeno di occuparsi dei principi nel senso dei valori supremi o degli assiomi. Il
principio è ciò che mi spinge e mi fa essere sempre e di nuovo colui che dà principio alla mia vita.
Faticosamente e tortuosamente, Heidegger cerca di descrivere un movimento e accresce la tensione.
Alla fine si vuole ottenere una risposta su quale sia in realtà il principio motore. Il corso di lezioni è
giunto ormai quasi a metà e si continua a essere lasciati all’oscuro con questa frase: « Se si
comprende dunque che la vita fattizia è propriamente sempre in fuga di fronte a ciò che è
principiale, allora non ci si meraviglierà del fatto che questa conversione appropriata rispetto ai
principi non possa aver luogo ’così semplicemente’ ».10
Orfeo non doveva voltarsi se voleva condurre Euridice fuori dal regno dei morti, nella vita. Egli si
voltò ed Euridice ripiombò nel regno delle tenebre. Heidegger vuole offrire alla vita in movimento
l’occasione di voltarsi; essa deve «afferrarsi alle radici », e cioè: deve rendersi conto del
fondamento dal quale proviene e a cui intende sottrarsi, per essere una « vita fissata » nel proprio
mondo. Ma questa « torsione » non risulta forse così difficile proprio per il fatto che la vita avverte
che là, nel cuore di se stessa, non c’è «niente», un vuoto, un horror vacui che ci spinge fuori alla
ricerca di qualcosa che lo colmi? Non dobbiamo forse noi, per preservare il valore della vita,
occultare a noi stessi ciò che spinge fuori in un mondo in cui abbiamo già sempre qualcosa di cui
preoccuparci? Heidegger ci incoraggia a gettare uno sguardo su ciò che quotidianamente ci occupa
seriamente, uno sguardo che non consenta più a ciò di cui ci preoccupiamo seriamente di rimanere
qualcosa di « serio » nello stesso modo in cui lo era in precedenza. La parola magica con cui
Heidegger ci fa improvvisamente apparire come trasformato tutto ciò che è quotidiano e consueto si
chiama « cura » (Sorge). « La vita è cura, e lo è proprio nell’inclinazione del rendersi facili le cose,
della fuga. » 11
Il concetto di « cura » sarà al centro di Essere e tempo, ma già in questo corso gli viene destinato un
ingresso imponente sulla scena. La « cura » è la quintessenza di atteggiamenti come: «interessarsi a
qualcosa», «preoccuparsi di», «essere in pena per », « avere in programma », « cercare ciò che è
giusto », « occuparsi di qualcosa », « voler ottenere qualcosa». Intesi in questo senso, la «cura» e il
«preoccuparsi» (Besorgen) sono pressoché identici all’agire in generale. Heidegger ha scelto questo
concetto per mettere in evidenza il carattere di riferimento temporale di queste attività della vita.
Laddove agisco prendendomi cura, io « anticipo » me stesso. Io pongo qualcosa davanti a me, me lo
« propongo », in senso spaziale e temporale, me ne preoccupo e voglio realizzarlo; oppure ho
qualcosa « dietro di me » e perciò voglio conservarlo, oppure disfarmene. Il preoccuparsi ha intorno
a sé un orizzonte spaziale, ma anche e soprattutto un orizzonte temporale. Ogni agire è come un
Giano bifronte: una faccia guarda al futuro, l’altra al passato. Ci si preoccupa del futuro, per poter
dire poi di non aver perso nessuna occasione in passato.
Tutta questa analisi potrebbe essere intesa come una descrizione, imbellettata con un vocabolario
curioso, di un fatto banale, cioè che le persone agiscono sempre in qualche modo. Ma se si intende
Heidegger in questo modo, lo si fraintende. Così facendo si perde di vista la questione principale,
che consiste in questo pensiero: nel preoccuparsi non solo si « prescinde » da se stessi, bensì,
afferma Heidegger, si perde se stessi. Il mondo delle cose di cui mi preoccupo finisce per coprirmi.
Io sono nascosto a me stesso, « fisso la mia vita» nelle relazioni del prendere-cura: « Nella cura la
vita si chiude contro se stessa e tuttavia, proprio in questa chiusura, non può liberarsi di sé. Nel suo
incessante guardare altrove, essa si cerca sempre ».12
Per questo processo, in cui la vita « vive al di là di sé» e « fissa la sua vita » in ciò di cui si prende
cura, e facendo ciò «sfugge» a se stessa, Heidegger conia il termine «ruinanza» (Ruinanz), mirando
intenzionalmente all’associazio-
ne con « rovina » e « rovinoso »: in senso stretto ruinanza significa « precipizio »,
La cura e il preoccuparsi erano stati intesi da Heidegger come un movimento nel futuro o nel
passato, ma in ogni caso in senso « orizzontale ». Ora egli inclina questa motilità dalla linea
orizzontale fino a raggiungere quella verticale, conferendole naturalmente una accelerazione
velocissima: caduta a precipizio. Ma la « vita fattizia », che vive così protesa in avanti, non si
accorge affatto di precipitare. E' soltanto la filosofia ad aprire gli occhi di fronte a uno stato che tale
non è, giacché si tratta di una caduta libera. La vita dev’essere ricondotta a se stessa, dice
Heidegger, per osservare poi che essa non può trovare alcun sostegno in se stessa, ma nemmeno
altrove. Heidegger profonde grandi sforzi per fare piazza pulita di quel fraintendimento per il quale
l’autotrasparenza della vita equivarrebbe a un suo acquietamento. Le cose stanno esattamente al
contrario: la filosofia è inquietudine potenziata: essa è l’inquietudine praticata, per così dire, come
metodo. Per la filosofia di Heidegger di questi anni vale il seguente motto dadaista: « Non perderò
la testa fino al punto di studiare, cadendo, le leggi di caduta dei gravi » (Hugo Ball).
Verso dove precipitiamo? Alla fine del corso Heidegger non può eludere questa domanda. La sua
risposta è un oracolo che farà precipitare non pochi studenti nello sconforto: « Il verso-dove della
caduta non è qualcosa di estraneo ad essa, ma ha a sua volta il carattere della vita fattizia, ed è
precisamente 'il niente della vita fattizia.13
Che cos’è il « niente della vita fattizia »? La vita fattizia slessa non può certo essere « niente », dato
che essa ha luogo. La vita fattizia accade, o meglio: cade. Dunque il « niente della vita fattizia »
dev’essere qualcosa che fa parte di questa vita senza risolverla nel niente. Forse con questo niente
che appartiene alla vita fattizia si intende la morte? Della morte, però, in questo corso di lezioni non
si parla affatto. Questo «niente» è piuttosto definito da Heidegger con queste parole: la « vita
fattizia » diventa un niente non appena si perde in un « essserci ruinante ». Egli parla del « non-
avvento [della vita fattizia] nell'esserci ruinante ».14
Heidegger, che nel frattempo ha il sentore di essere in procinto di introdurre una nuova svolta nella
filosofia, con il suo pensiero del « non-avvento » della vita fattizia nell’« esserci ruinante » compie
una variazione del pensiero dell’alienazione che aveva avuto nell’Ottocento, in Hegel e poi in Marx,
un ruolo di straordinaria portata storica. Questo pensiero dice che l’uomo produce il suo mondo in
modo tale da non potersi riconoscere in esso. La sua realizzazione di sé è il suo immiserimento di
sé.
In questo corso Heidegger non riesce ancora a differenziare con sufficiente chiarezza le sue proprie
considerazioni da questa tradizione di pensiero. Ma da questa differenza dipende tutto: la filosofia
dell’alienazione presuppone infatti un’immagine del «vero essere se stessi», un’«idea» dell’uomo
così come esso è, come potrebbe e dovrebbe essere. Ma proprio, dietro questa idea Heidegger pone
un grosso punto di domanda. Da dove ci viene questo presunto sapere sulla destinazione autentica
dell’uomo? Heidegger sospetta che dietro questo « sapere » si nasconda una merce teologica di
contrabbando. Si può pure tenere per buono tutto ciò, dice, ma allora bisogna dichiarare corrette
anche quelle idee, e bisogna ammettere di averle ricevute nella fede, e non si può spacciarle come
essenze dimostrabili filosoficamente.
Vediamo qui Heidegger intento a respingere l’idea di un vero essere se stessi, restando tuttavia
ancora nell’orbita di questa idea. E la tensione rimane; essa viene definita espressamente, e in
grande stile, all’interno di Essere e tempo con il nome di « autenticità ».
Nei primi anni ’20, quando Heidegger procede tentoni, per tentativi e delimitazioni, lungo la via
della sua filosofia dell’autotrasparenza della vita, ha inizio la sua amicizia con Karl Jaspers,
anch’egli alla ricerca di un nuovo cominciamento della filosofia. Comincia così la delicata,
controversi amicizia di questi due iniziatori.
I due si conoscono nella primavera del 1920 durante una serata a casa di Husserl. Dopo un anno e
mezzo di cauta esplorazione reciproca, nell’estate del 1922 essi si sentono finalmente legati nella «
coscienza di una rara e autonoma comunanza di lotta » (Heidegger a Jaspers, 27 giugno 1922). Già
il loro primo incontro era nel segno di un fronte comune contro i rituali accademici. Ripensando a
quella serata in casa Husserl nella sua Autobiografia filosofica, Jaspers la descrive così: « Nella
primavera del 1920 mia moglie e io eravamo a Friburgo per alcuni giorni [...] Ci furono i
festeggiamenti per il compleanno di Husserl: eravamo in molti seduti tutti in cerchio a prendere il
caffè. In quella occasione la signora Husserl chiamò Heidegger ’figlio della fenomenologia’. Io
raccontai che una mia studentessa, Afra Geiger, una personalità di prim’ordine, era venuta a
Friburgo per studiare da Husserl e che in base all’ordine di accettazione al suo seminario era stata
mandata via. In questo modo, a causa del formalismo accademico, entrambi avevano perduto una
buona opportunità di guardare alla persona in quanto tale. Heidegger intervenne con vivacità a
confermare quanto avevo detto. Era una sorta di solidarietà di due giovani contro l’autorità degli
ordinamenti astratti [...] L’atmosfera di quel pomeriggio non era buona. Sembrava avere un che di
piccoloborghese, si avvertiva qualcosa di angusto, che [...] rinunciava alla spontaneità del rapporto
da persona a persona, alla scintilla spirituale [...]. Soltanto Heidegger mi pareva diverso. Gli feci
visita, rimasi solo con lui nella sua cameretta, lo vidi studiare Lutero, notai l’intensità con cui
lavorava, ebbi simpatia per il suo modo di parlare, penetrante e conciso».15
Karl Jaspers, sei anni più vecchio di Heidegger, era considerato allora un outsider all’interno della
corporazione filosofica. Come medico proveniva dalla psichiatria, dove si era fatto un nome con la
sua Psicopatologia generale, un libro che sarebbe divenuto presto un’opera esemplare nella sua
disciplina. Ma Jaspers cominciò a prendere le distanze dalla medicina come disciplina. Aveva capito
con chiarezza, non da ultimo osservando i casi-limite della malattia, che l’aspetto psichico non può
essere sufficientemente compreso nel quadro di una psicologia di orientamento scientifico-naturale.
Già sul terreno di questa psicologia egli aveva ricevuto alcuni stimoli dal metodo diltheyano della
comprensione e dalla cautela con cui la fenomenologia descriveva i fenomeni coscienziali. Ma il
suo passaggio decisivo alla filosofia fu merito degli impulsi che egli ricevette da Max Weber e da
Kierkegaard.
Egli fu impressionato dalla netta distinzione operata da Max Weber fra indagine dei fatti e scelta dei
valori. Come Max Weber egli era convinto che le pretese falsamente scientifiche dovessero essere
respinte, ma - e in ciò egli si spingeva ancora oltre - la sua idea era che l’ambito delle decisioni
normative, quello cioè della vita personalmente responsabile, ha bisogno di un’autochiarificazione,
e ne è capace; e quest’ultima, se anche non può essere «scientifica», è tuttavia qualcosa di più che
una mera questione di riflessione privata o di religione. Jaspers voleva rendere trasparenti quelle
che Max Weber chiamava le « potenze vitali » che stanno alla base delle decisioni. Per questo modo
di fare filosofia, che egli chiamerà in seguito « chiarimento esistenziale », Jaspers trovava un grande
modello in Kierkegaard. Max Weber aveva svincolato la filosofia dalle scienze rigorose e l’aveva
resa in tal modo libera per se stessa, e Kierkegaard le aveva restituito il pathos esistenziale. Così la
vedeva Karl Jaspers.
Un’opera di trapasso dalla psicologia alla filosofia, nel senso del « chiarimento esistenziale », fu la
Psicologia delle visioni del mondo di Jaspers, un libro la cui fortuna andò molto al di là dei confini
della disciplina specifica. Servendosi del metodo weberiano della costruzione per tipi ideali, Jaspers
indagò le «concezioni e immagini del mondo» che concrescono da esperienze umane di vita,
soprattutto dai problemi fondamentali quali la libertà, la colpa, la morte, che conferiscono di volta
in volta ai progetti filosofici il loro profilo peculiare. Attraverso la descrizione, e quindi in un certo
senso « dall’esterno », Jaspers abbozza una tipologia di queste immagini del mondo e di tali
concezioni, non però inseguendo finalità storiche o di sociologia della scienza. II suo scopo non è
nemmeno il raggiungimento di qualcosa come una « coscienza assoluta » che stia alla base di tutti
questi progetti, una questione a quel tempo molto in voga pressoi neokantiani. Certo, alle volte
quest’opera ha conosciuto interpretazioni storiche, sociologico-scientifiche o neokantiane, ma essa
non era intesa in tal senso. A Jaspers interessava porre la questione: in quali forme può realizzarsi
l’ipseità, in che modo essa può mancare il suo scopo e in che modo essa fallisce. Qui Jaspers segue
le tracce del processo della libertà, anche della paura della libertà e della disponibilità che ne
consegue a rintanarsi nel « guscio » di principi e spiegazioni che si presume siano sicuri. In
particolar modo gli interessano le modalità di atteggiamento e di pensiero in « situazioni limite »
(morte, sofferenza, fatalità, colpa, lotta) in cui si ri-
vela il carattere rischioso proprio di una vita che intraprende una libera responsabilità di sé. Come
scrive Jaspers nella sua Autobiografia filosofica, « tutto era afferrato, per così dire, con piglio
veloce [...] Il quadro generale era più ampio di quanto fossi riuscito a dire ».16
Con quest’opera la filosofia conobbe un tono diverso. La risonanza pubblica fu così grande che
Jaspers, pur non essendo laureato in filosofia, nel 1921 fu chiamato a ricoprire una cattedra di
filosofia a Heidelberg. Ma la sua posizione rimase ambigua: presso gli scienziati di stretta
osservanza era considerato un rinnegato, uno che aveva aderito a una cosa imprecisa come la
filosofia, appunto, mentre i filosofi lo ritenevano uno psicologo con una forte tendenza alla
predicazione.
Jaspers non prese posizione contro questi giudizi; sentiva di percorrere una « via inesplorata ».
In questa situazione, dunque, Jaspers e Heidegger s’incontrano. E Jaspers comprende Heidegger fin
troppo bene, stando a quello che Heidegger gli scrive il 5 agosto 1921, caratterizzando il proprio
lavoro filosofico: « Non so se anch’io mi trovo in un terreno inesplorato, tuttavia vado veramente
solo quando mi spingo così avanti e lì mi fermo ».17
Dal 1919 Heidegger lavorava a una recensione del libro di Jaspers. Nel giugno 1921 la spedì a
Jaspers: era diventata un vasto trattato che per la sua mole non potè essere pubblicato, com’era
previsto, nei Göttingischen Gelehrten Anzeigen, ma vide la luce soltanto nel 1973.
Heidegger comincia lodando molto il libro, ma poi sviluppa la sua critica, formulata ancora con
prudenza: Jaspers non si è spinto abbastanza avanti. Egli ha scritto sull’atto dell’esistenza, ma non
ha posto la sua stessa meditazione all'interno di quest’atto dell’esistenza. Egli cerca di conservare la
libertà di fronte ai gusci delle visioni del mondo e di rinviare al nocciolo dell’esistenza personale,
ma questi rinvìi diventano essi stessi visioni del mondo se questa libertà creativa che sta a
fondamento dell’essere se stessi viene descritta come qualcosa di semplicemente presente, e cioè a
sua volta e in ultima istanza come un fatto constatabile scientificamente.
« Un’autoriflessione autentica », scrive Heidegger alla fine della sua recensione, « può essere
sensatamente avviata solo quando c’è, ed essa c’è solo quando veramente ci si ridesta, ed è possibile
ridestarsi davvero soltanto coinvolgendo in
certo modo senza riserve l’altro nella riflessione [...] Si può coinvolgere nella riflessione, si può
destare l’attenzione, solo andando un po’ avanti nel cammino stesso. »18
Ma si può anticipare soltanto se si coglie in se stessa la « questione » della filosofia. Però la «
questione » della filosofia è « colui stesso che fa filosofia e la (sua) nota miseria ».19
Jaspers non dovette intendere il riferimento alla «miseria » come rivolto a lui personalmente; dal
contesto risulta fin troppo chiaramente che esso aveva di mira una sorta di miseria antropologica, e
per questo motivo Jaspers non si risentì di questa recensione; ma di fronte a essa rimase senza
parole. Che cosa intendeva dire Heidegger con l’esigenza di fare filosofia non « sull’atto »
dell’esistenza, ma « a partire da esso »? Due erano le cose: o Heidegger lo aveva frainteso, e non
aveva visto che lui si muoveva proprio su quella via cui Heidegger ammoniva, cioè la filosofia
come « preoccupazione di sé » (Heidegger), oppure riferendosi a quest’ultima Heidegger aveva in
mente una cosa del tutto diversa; ma allora i suoi cenni in tal senso erano insufficienti. In ogni caso
Jaspers non vedeva in che modo Heidegger volesse procedere sulla sua via. E ciò nonostante rimase
il vago sentore che essi fossero compagni di strada. Il 1° agosto 1921 Jaspers scrive a Heidegger: «
Secondo me la Sua recensione è, fra tutte quelle che ho letto, quella che maggiormente scava alla
radice dei pensieri. Tuttavia sento ancora la mancanza [...] del metodo positivo. Leggendola, ho
scorto sempre la potenza del procedere innanzi, ma poi ho trovato, con sorpresa, che io stesso mi
ero spinto così avanti ».20
Nella sua risposta Heidegger definisce la sua recensione « una cosa ridicola, un nonnulla da profani
», dicendo di non immaginare assolutamente « di essere più avanti di quanto Lei stesso non sia,
tanto più che mi sono messo in testa di fare alcune deviazioni » (5 agosto 1921 ).21 Per un anno la
corrispondenza fra i due tace. Poi, nell’estate del 1922, Jaspers invita Heidegger per un paio di
giorni a Heidelberg: « Sarebbe bello se trovassimo un paio di giorni per parlare insieme di filosofia,
scegliendo i momenti adatti, e per provare a rinvigorire la nostra ’lotta comune’. Penso che
potremmo vivere insieme - ciascuno con una stanza per sé, dato che mia moglie è in viaggio;
ognuno fa quello che vuole e possiamo trovarci, quando abbiamo voglia, oltre che per mangiare
insieme, anche per parlare, soprattutto di sera, o quando capita, senza nessun obbligo » (6 settembre
1922).22
Heidegger accetta l’invito. E nessuno dei due dimenticherà più questi giorni di settembre. Entrambi
si nutrirono di questi giorni, dato che presto la loro amicizia vivrà soltanto di questo futuro passato.
L’intensità filosofica, l’abbandono nell'amicizia, il sentimento improvviso di mettersi insieme in
cammino, aprendo nuove vie; tutto ciò fu per Jaspers, come egli scriverà in seguito, un’esperienza «
sconvolgente »: Heidegger gli fu « vicino » in maniera indimenticabile. E do-; po queste sacre
conversazioni Heidegger scrive a Jaspers: «Quegli otto giorni trascorsi con Lei mi accompagnano
costantemente. L’aspetto improvviso di questi giorni, esteriormente del tutto privi di eventi [...]
l’incedere forte, non già sentimentale, con cui l’amicizia è giunta a noi, la consapevolezza crescente
di una comunità di lotta, sempre sicura di sé da entrambe le ’parti’ - tutto ciò mi occupa la mente in
maniera inquietante, come possono essere inquietanti per il filosofo il mondo e la vita » (19
novembre 1922).23 ; In questo periodo iniziale l’amicizia fra i due era così piena di slancio che
Jaspers propose di fondare una rivista in cui avrebbero scritto loro due soltanto, una « fiaccola »
della filosofia. Era ora di far sentire finalmente la propria voce, nel , «deserto filosofico di
quest’epoca», contro la filosofia dei professori universitari: « Non imprecheremo contro nessuno,
ma spiegheremo le cose senza riguardi » (24 novembre I922).24
Poi però al professor Jaspers viene in mente che Heidegger non siede ancora in cattedra e quindi il
progetto della rivista dovrà attendere fino a quando quest’ultimo avrà ricevuto un incarico.
Preoccupazioni da professori.
C’è un altro fattore che fa propendere a sfavore del progetto della rivista. I due non sono ancora così
certi delle loro proprie posizioni così come dovrebbero esserlo per poter aprire le ostilità. Jaspers
scrive: « Noi due stessi non sappiamo che cosa vogliamo; vale a dire che siamo sostenuti entrambi
da un sapere che non ha ancora assunto una forma esplicita» (24 novembre 1922).25 E Heidegger
risponde che si è ottenuto già molto se lui stesso è diventato « più sicuro nella giusta e concreta
insicurezza» (14 luglio 1923).26
In effetti fra l'estate del 1922 e quella del 1923 Heidegger riesce a compiere grandi passi nella
chiarificazione dei propri pensieri. Si fa visibile l’impostazione di Essere e tempo, Questi progressi
sono documentati nel manoscritto intitolato Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele.
Prospetto della situazione ermeneutica, che egli spedisce a Marburgo come documentazione di
concorso alla fine del 1922 (e che è riapparso solo nel 1989), e nel corso sull' Ontologia (Ontologie)
del 1923, l’ultimo semestre friburghese prima dell’assunzione della cattedra a Marburgo.
Le Interpretazioni fenomenologiche suscitarono a Marburgo una grande impressione. Paul Natorp
vide in esse un « progetto geniale » ed esse furono per Gadamer, che a quel tempo si laureava con
Natorp e che potè vedere il manoscritto, una « vera fonte di ispirazione ». Da questo testo proveniva
una « forza d’urto » davvero particolare, che nel semestre successivo spinse Gadamer a recarsi a
Friburgo ad ascoltare Heidegger, per seguirlo successivamente ancora a Marburgo.
Anche il corso sull'Ontologia dell’estate 1923 dovette suscitare un’analoga forte impressione. Non
pochi fra coloro che in anni successivi si sarebbero fatti un nome e una reputazione in filosofia
sedevano a quel tempo ai piedi del libero docente Heidegger, che per qualcuno era già diventato un
segreto monarca della filosofia, un sovrano che indossava un loden di taglio svevo. Fra i presenti
c’erano Gadamer, Horkheimer, Oskar Becker, Fritz Kaufmann, Herbert Marcuse, Hans Jonas.
Nel manoscritto su Aristotele Heidegger dà una definizione lapidaria del suo progetto filosofico: «
Oggetto della ricerca filosofica è l'esserci umano, da essa interrogato nel suo carattere ontologico
».27
Soltanto a prima vista questa definizione risulta scevra da complicazioni. Che cos’altro avrebbe
dovuto fare la ricerca filosofica, e che cos’altro ha mai fatto, se non indagare l’esistenza umana?
Sta di fatto che la filosofia si è occupata nel corso della sua storia anche di altre cose e non solo
dell’esistenza umana. E' solo per questo che si rese necessaria la protesta di Socrate, che voleva
ricondurre la filosofia alla cura dell'uomo per se stesso. E questa tensione fra una filosofia che vuole
indagare Dio e il mondo e una filosofia che si concentra sull'’e-
sistenza umana, si conserva nella storia della filosofia. Talete di Mileto, che mentre scruta il cielo
cade in un pozzo, è certo la prima concreta incarnazione di questo conflitto. E nella filosofia di
Heidegger l'esserci sarà sempre in procinto di cadere a precipizio.
Anche l’espressione «carattere ontologico» non sembra presentare a prima vista alcuna difficoltà.
Che cos’altro si può voler ottenere dall’indagine di un «oggetto», se non il suo modo di essere, cioè
la sua modalità ontologica?
Il carattere ontologico di una molecola: non sono forse gli elementi di cui essa si compone, le sue
reazioni chimiche, la funzione che ha nell’organismo, e così via? E il carattere ontologico di un
animale? Non lo si scopre forse attraverso l’anatomia, il suo comportamento, la sua posizione
nell’evoluzione, e così via?
Se viene concepita in questo modo, l’espressione «carattere ontologico » assume un aspetto
sbiadito. Essa abbraccia semplicemente tutto ciò che si può sapere di un oggetto, dove è inevitabile
che questo sapere sia al tempo stesso anche un sapere delle differenze: di come una molecola si
distingua da un’altra e un animale si differenzi da un altro animale, da una pianta o anche da un
uomo. L’espressione sommaria: «carattere ontologico » diventa una pluralità di molti « caratteri
ontologici ».
Da questo punto di vista abbiamo da un lato l’atteggiamento della volontà di sapere, che rimane
identica a se stessa, e dall’altro lato i diversi oggetti possibili dei quali si vuole sapere qualcosa, di
cui cioè si vuole scandagliare il carattere ontologico, a prescindere da quali siano i fini che ci
animano.
Naturalmente le scienze hanno ben chiaro, almeno a partire da Kant, che bisogna accostarsi ai
diversi « oggetti » con metodi diversi. Ciò vale soprattutto per i due « mondi » della natura e
dell'uomo, in quanto l’uomo è qualcosa di più della natura, cioè un essere che produce cultura e che
perciò è produttore di se stesso. Proprio i neokantiani avevano affinato la consapevolezza della
differenza di metodo che sussiste tra la scienza della cultura e quella della natura. La scienza della
natura mira a leggi universali, la scienza della cultura cerca di comprendere l’individuale, come
insegna Windelband. Oppure, la scienza della natura indaga stati di cose, la scien-
za della cultura stati di valore, come insegna Rickert. Ma per Heidegger la meditazione svolta da
costoro sui diversi caratteri ontologici è lungi dall’essere abbastanza radicale. Ciò che egli stesso
intende raggiungere è formulato nel manoscritto su Aristotele in un’unica frase estremamente
concisa e perciò difficile da capire. Citerò dapprima questa frase, commentandola poi brevemente e
servendomi per la spiegazione del corso di lezioni sull'Ontologia: « Questo orientamento di fondo
del domandare filosofico non è imposto e sovrapposto dall’esterno all’oggetto da indagare, cioè la
vita fattuale, bensì dev’essere inteso come esplicita assunzione di una motilità fondamentale della
vita fattizia che è tale da preoccuparsi del suo essere nella concreta maturazione di esso, e ciò anche
laddove essa sfugge a se stessa ».28
Non «imposto dall’esterno»: Heidegger vuole applicare all’indagine dell’esistenza umana in
generale il principio fenomenologico secondo il quale bisogna dare a ciò su cui si deve svolgere la
ricerca, la possibilità di « mostrarsi ».
Il corso sull'Ontologia si occupa perciò molto esaurientemente anche delle considerazioni
preliminari su come si possa parlare in maniera adeguata dell’uomo, osservando infine che con
queste considerazioni preliminari ci si trova già al cuore del problema.
Se ci avviciniamo a un oggetto, dice Heidegger, per ricavare ciò che esso è, se vogliamo cogliere il
suo « senso ontologico», dobbiamo calarci nel suo «senso di attuazione », a partire dal quale è
possibile in generale dischiudere il « senso ontologico ». Chi, provenendo da un ambito culturale
estraneo al nostro, si imbatte nella nostra vita economica e non è ancora in grado di coglierne il «
senso di attuazione », si precluderà anche la comprensione del «senso ontologico » del denaro,
anche se lo prende in mano e lo soppesa. Oppure: la musica rimane un rumore, fino a quando non
mi colloco nel « senso compiuto » della musica. Ciò vale per i diversi ambiti dell’essere: l’arte, la
letteratura, la religione, il calcolo con cifre immaginarie, il gioco del calcio. Queste considerazioni
fanno apparire chiaramente, e contrario, l’aspetto limitato del processo riduzionistico. Se dico che il
pensiero è una funzione della psicologia del cervello, o che l’amore è una funzione della reazione
ghiandolare, faccio un’asserzione sull’essere del pensiero e dell’amore senza essermi posto nella
loro attuazione. Il loro senso ontologico si dischiude soltanto in questa attuazione. Tutte le cose,
osservate da un punto di vista estraneo alla loro compiutezza, rimangono del tutto assenti: il gioco,
la musica, l’arte figurativa, la religione.
Queste considerazioni sono di tipo fenomenologico. Esse devono cioè mettere in chiaro quale
atteggiamento sia necessario affinché i « fenomeni » possano mostrarsi così come essi « sono in se
stessi ». Il « gioco » non può mostrarsi a un atteggiamento estraneo al gioco. L’amore si mostra
soltanto all’amore, Dio solo alla fede. « E in che modo devo osservare, si chiede Heidegger,
affinché possa mostrarsi che cosa ’è’ l’uomo? »
La risposta non può essere che questa: il pensiero dell’esistenza deve porsi, se vuole comprendere
questa esistenza, nel suo senso di attuazione. Questo è ciò che intende dire Heidegger con la
formulazione che è stata data nel manoscritto del corso su Aristotele: « l’esplicita assunzione di una
motilità fondamentale della vita fattuale ».
Questa « motilità fondamentale » è ivi connotata per la prima volta, con una sottolineatura enfatica,
mediante il termine esistenza.
Dicendo che qualcosa « esiste », intendiamo per lo più che supponiamo la presenza di qualche cosa,
e quando poi scopriamo che quello che si supponeva c’è effettivamente, diciamo: esiste davvero.
Sulla base di calcoli Galilei ha ipotizzato che ci debba essere una luna di Giove, e poi, con l’aiuto
del cannocchiale, ha scoperto che questa luna di Giove « esiste ». Ma Heidegger vuole escludere
proprio questo significato dell’esistere, nel senso cioè di « essere effettivamente presente». Egli usa
questo termine in senso transitivo: in quanto esisto, io non sono semplicemente presente, bensì devo
esistere « me stesso »; non mi limito a vivere, ma devo « condurre » la mia vita. L’esistenza è un
modo d’essere, e invero è « l’essere accessibile a me stesso ».29
L’esistenza è un ente che, diversamente dai sassi, dalle piante e dagli animali, ha un rapporto con se
stessa. Essa non soltanto « è », ma si accorge che « ci » è. E soltanto perché c’è questo accorgersi di
sé, può aprirsi anche tutto l’orizzonte della cura e del tempo. L’esistere perciò non è un essere
presente, ma un’attuazione, un movimento. Quanto questa concezione fosse capace di mettere in
movimento lo stesso
Heidegger, ce lo mostra una lettera a Karl Lowith del 1921, In essa si dice: « Io faccio unicamente
ciò che debbo e ciò che ritengo necessario, e lo faccio così come posso - non ritaglio il mio lavoro
filosofico sui compiti culturali di un generico oggi [...] Lavoro sulla base del mio ’io sono’ e della
mia origine spirituale, che è quella che è di fatto. E' con questa fatticità che imperversa l’esistere
».30
Il senso di attuazione dell’esserci dell’uomo è questa esistenza testé descritta in senso transitivo,
ovvero (ed è la stessa cosa) la vita fattuale come vita che si prende cura e si preoccupa nel tempo, e
in esso si progetta. L’esserci umano può essere compreso solo a partire dal senso della sua
attuazione, ma non quando me lo pongo davanti come un oggetto che è presente. La filosofia
dell’esserci, così come Heidegger se la immagina e come la abbozza nei suoi tratti portanti già
alcuni anni prima di Essere e tempo, non si pone come osservatrice «al di sopra» dell’esserci, bensì
è una espressione, un organo di questo esserci. La filosofia è la vita che si prende cura e che agisce
alla presenza dello spirito. Questa possibilità estrema della filosofia è, come dice Heidegger nel
corso sull' Ontologia, « l'esser desto dell’esserci per se stesso.31 e ciò significa soprattutto
sorprenderlo nel punto « in cui esso sfugge a se stesso ».32 Vale a dire: rendere trasparente la «
tendenza alla defezione » da parte della vita, tagliando le vie di fuga verso una presunta stabilità e
avere il coraggio di consegnarsi all’inquietudine della vita, nella consapevolezza che ciò che si
presume stabile, fisso, vincolante, non è nient’altro che una costruzione, una maschera che Tesserci
indossa o che riceve dall’« interpretazione pubblica», cioè dalle opinioni, rappresentazioni morali e
presunzioni di senso che sono dominanti.
L’« esser desto dell’esserci per se stesso» viene definito da Heidegger come il compito più alto della
filosofia. Ma poiché questa verità non ci fa scoprire autenticamente noi stessi, bensì ci risospinge
nel cuore dell’inquietudine dal quale vogliamo fuggire, proprio per questo motivo c’è anche l'«
angoscia di fronte alla filosofia».33 Per lo Heidegger di questi anni la filosofia è una istitutrice di
inquietudine. L’angoscia davanti alla filosofia è angoscia davanti alla libertà. Anziché parlare di
libertà Heidegger parla ancora, per il momento, della « possibilità » della vita fattuale.
La filosofia in senso heideggeriano è dunque una co-attuazione dell’esserci che si prende cura e che
si preoccupa, ma è anche libera motilità e meditazione sull’appartenenza della possibilità alla realtà
stessa dell’uomo. Con tutto ciò, dunque, la filosofia non è altro che un esserci che si tiene desto, e
perciò condivide esattamente le preoccupazioni, le problematiche e la mortalità di quest’ultimo.
Il meglio che si possa dire della filosofia, anche di quella di Heidegger, è che essa è un evento il
quale, al pari di ogni esistenza, ha il proprio tempo.
8.
La chiamata a Marburgo. La « comunità di lotta » con Jaspers. Gli spiriti di Marburgo. Fra i
teologi. Hannah Arendt. La grande passione. La lotta di Hannah per uscire dall’ ombra. L occulta
vittoria di Heidegger.
« La vita giace pura, semplice e grande davanti all’anima. » La nascita di Essere e tempo. Alla
madre sul letto di morte.
Heidegger aveva nutrito speranze per una cattedra a Marburgo già nel 1920. In quella occasione
aveva ottenuto solo di richiamare l’attenzione su di sé: si era piazzato al terzo posto in graduatoria.
A Marburgo si era ritenuto che questo giovane libero docente fosse sì promettente, ma avesse
pubblicato ancora troppo poco. Nell’estate del 1922, quando torna a presentarsi l’opportunità di
vincere una cattedra a Marburgo, in qualità di professore straordinario, Heidegger non ha ancora
pubblicato niente di nuovo. Tuttavia la sua fama, che si regge solo sulla sua attività di
insegnamento, nel frattempo è cresciuta ulteriormente, e così il 22 settembre 1922 Paul Natorp, il
principale esponente della scuola neokantiana di Marburgo, scrive a Husserl che a Marburgo « si è
recentemente ridestata l’attenzione per Heidegger», e ciò non solo perché Husserl ha evidentemente
una così grande stima del suo assistente, « ma anche per ciò che mi viene riferito sulla sua nuova
evoluzione».1 Natorp chiede se Heidegger stia preparando qualche pubblicazione che possa essere
presa in visione. Husserl passa questa richiesta allo stesso Heidegger, e questi si siede a tavolino,
come scrive Jaspers, « per tre settimane » e ricava un sunto dei suoi elaborati su Aristotele,
premettendovi una prefazione, e spedisce a Marburgo un plico di una sessantina di cartelle: si tratta
del testo, qui già commentato, che si intitola Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele.
Prospetto della situazione ermeneutica.
« Il lavoro ha avuto successo anche a Marburgo », scrive Heidegger a Jaspers il 19 novembre 1922.
Effettivamente
Natorp aveva comunicato a Husserl di avere « letto con grandissimo interesse il compendio di
Heidegger » insieme a Nicolai Hartmann, trovandovi « una non comune originalità, profondità e
rigore ».2 Natorp valuta positivamente le opportunità di Heidegger di passare a Marburgo.
Anche a Gottinga ci si interessa nello stesso periodo a Heidegger. Georg Misch redige in quella città
un parere dai toni addirittura entusiastici, dicendo che Heidegger « possiede una coscienza
assolutamente originaria, scaturita da una sua evoluzione autonoma, del significato della storicità
della vita umana ».3
Misch, che è genero di Dilthey, non riesce a imporsi a Gottinga nonostante il suo elogio e
l’appoggio di Husserl che si prodigava per trovare un incarico a Heidegger non solo a Marburgo,
ma anche nella sede in cui aveva operato precedentemente. A Marburgo sembrano esserci
prospettive migliori. Tuttavia Heidegger, che con il suo magro stipendio di assistente non è più in
grado di mantenere una famiglia nel frattempo diventata di quattro persone (motivo per cui Elfride
dovette darsi all’insegnamento scolastico), rimane scettico. Scrive a Jaspers: « Questo essere tirati
di qua e di là, con mezze promesse e adulazioni e così via, ti mette in una situazione terribile, anche
se ti sei ripromesso di non interessartene» (19 novembre 1922).4
Ma Heidegger ha successo. Il 18 giugno 1923 riceve l’incarico di professore straordinario a
Marburgo, « con posizione e diritti di ordinario », come comunica con orgoglio a Jaspers il giorno
successivo.
Un anno prima Jaspers e Heidegger si erano confermati nel proposito di essere una « comunità di
lotta ». Essi avevano rinunciato al progetto di creare una rivista di filosofia che procedesse « senza
riguardi » contro lo spirito filosofico del tempo in considerazione del fatto che Heidegger non
sedeva ancora saldamente in sella. Adesso le cose sono cambiate, e tuttavia i due non riprendono
più in mano il programma della rivista. Ma i toni adottati ora da Heidegger, quelli sì diventano
irriguardosi. Non si può non accorgersene leggendo la lettera di Heidegger a Jaspers del 14 luglio
1923. Non appena nominato professore, Heidegger si scaglia contro i colleghi con un tono che sta
fra l’ilarità e la stizza. Riferendosi al suo conoscente Richard Kroner, che si è piazzato solo al terzo
posto nella graduatoria di concorso, scrive: « Non ho mai incontrato gente così miserevole - adesso
si fa compatire come farebbe una vecchietta. L’unica cosa buona che si potrebbe ancora fargli,
sarebbe di togliergli oggi stesso la venia legendi ». Kroner avrebbe addirittura promesso a Nicolai
Hartmann, molto influente a Marburgo, che in caso di una sua nomina avrebbe frequentato come
uno studente le lezioni del collega. « Questo io non lo farò », scrive Heidegger, « ma gli farò vedere
l’inferno nel modo in cui sarò presente; arriva [...] una truppa d’assalto di 16 persone. »
Altrettanto marziale è il tono con cui Heidegger toma a evocare la « comunità di lotta » con Jaspers:
è giunta l’ora in cui « concretizzarla »: « Bisogna togliere di mezzo molta idolatria, cioè i vari
stregoni della filosofia odierna devono vedere scoperto il loro terribile e miserabile operato, e
mentre sono ancora in vita, affinché non credano che con loro sia apparso oggi il Regno di Dio ».
Mentre Heidegger continua a definire pubblicamente Husserl il suo « maestro », approfittando
anche del fatto che Husserl si dà da fare per lui, in cuor suo ne ha preso le distanze a tal punto che in
una lettera a Jaspers annovera anche lui fra gli stregoni che va diffamando: « Lei sa bene che
Husserl ha ricevuto un incarico a Berlino; si comporta peggio di un libero docente che scambia
l’ordinariato per una beatitudine eterna [...] Husserl è andato del tutto ’fuori’ di testa, sempre che sia
mai stato ’in sé’, cosa della quale ultimamente dubito sempre più. Oscilla come un pendolo da una
cosa a un’altra e dice certe banalità da far pena. Vive della missione del 'fondatore della
fenomenologia’, e nessuno sa che cosa ciò voglia dire - lo sa chi è stato qui per un semestre. Husserl
comincia a capire che la gente non lo segue più [...] e oggi vuole redimere il mondo a Berlino ».
Del resto Husserl non aveva accettato l’onorevole incarico offertogli a Berlino da Ernst Troeltsch. Il
suo bisogno di redimere il mondo facendo base a Berlino non era poi così forte come supponeva
Heidegger. Vi sono elementi per ritenere che Heidegger proietti sul suo ex maestro le proprie
ambizioni. Infatti proprio questa lettera dagli intenti bellicosi spedita a Jaspers mostra che
Heidegger ha preso gusto al ruolo dell’Èrcole che deve spazzar via il letame dalle stalle di Augia
della filosofia. Non c’è forse già in ciò quella posa da redentore di cui egli incolpa Husserl? In ogni
caso, in questa lettera a Jaspers, Heidegger si crogiola nelle fantasie di « trasformare a fondo la
filosofia » e di « capovolgerla ». Nell’estate del 1923 Heidegger scopre di essere Heidegger.
Nel corso sull’Ontologia di quell’estate, l’ultimo tenuto a Friburgo, egli è sicuro del fatto suo. Con
gioia racconta a Jaspers: « Io lascio il mondo dei loro libri e delle loro smancerie letterarie e mi
prendo i giovani - me li ’prendo’, vale a dire, in senso forte, che li terrò 'sotto pressione’ per tutta la
settimana; certi non ce la faranno. È il modo più semplice di selezione: per qualcuno ci vorranno
due o tre semestri prima di capire perché non gli lascio passare niente, nessuna pigrizia, nessuna
superficialità, nessuna vertigine e nessuna frase fatta, soprattutto se ’fenomenologica’ [...]. La mia
gioia più grande è quella di poter creare un cambiamento facendo vedere le cose, e di essere libero,
adesso » (14 luglio 1923).5
Nelle questioni finanziarie non si sente ancora sicuro. Che stipendio può chiedere? Ha diritto a
un’abitazione, a una sovvenzione per il trasloco? Jaspers frena le sue aspettative: « Per quanto
concerne lo stipendio, non potrà fare richieste » (20 giugno 1923).6
Qualche tempo prima di trasferirsi a Marburgo, Heidegger acquista un piccolo appezzamento di
terreno a Todtnauberg, sul quale fa costruire una baita molto semplice. Non vi lavora
personalmente: Elfride organizza tutto e si prende cura di ogni cosa. D’ora in poi Todtnauberg sarà
il domicilio del suo ritiro dal mondo e al tempo stesso la cima tempestosa del suo filosofare. Da qui
tutte le strade portano giù.
Nell’autunno del 1923 Heidegger arriva a Marburgo. Lascerà nuovamente la città nella tarda estate
del 1928 per succedere a Husserl all’università di Friburgo. Su questi cinque anni a Marburgo
Heidegger ha formulato giudizi differenti. Alla fine del suo periodo marburghese egli scrive a
Jaspers: «Non sono in grado di indicare qualcosa che deponga a favore di Marburgo. Non mi sono
trovato bene nemmeno per un momento» (13 maggio 1928).7
Ma da una maggiore distanza di tempo egli definirà questi anni, nel corso di un colloquio privato,
come il periodo della sua vita « più stimolante, più raccolto e più ricco di eventi », e anche come il
« più felice ».8
Nella lettera a Jaspers il giudizio negativo sul periodo marburghese aveva anche un significato
tattico. A quel tempo Jaspers meditava di lasciare Heidelberg e voleva sapere da Heidegger se gli
poteva consigliare di spostarsi a Marburgo. Heidegger però non poteva farlo perché sapeva che a
rendergli così produttivi questi anni non era stata solo la situazione all’università, ma anche il vivere
da pendolare fra Marburgo e Todtnauberg. Inoltre era successa una cosa di cui egli non voleva dare
a Jaspers notizia alcuna, e di cui avremo presto modo di parlare.
Marburgo è una piccola città di stampo protestante con una università ricca di tradizione. Nel 1927
quest’ultima festeggiò i suoi 400 anni. In questa occasione, come racconta Hermann Mörchen,
Heidegger apparve scuro in volto, indossando un inconsueto cutaway, nella chiesa cattolica che non
era solito frequentare, mentre la celebrazione religiosa del giubileo si teneva nella chiesa riformata.
Nei periodi di sospensione delle lezioni questa cittadina dominata dall’università si svuotava e
assumeva un aspetto addormentato, ma in questo periodo Heidegger era nella sua baita di
Todtnauberg, I rapporti fra le persone erano di pubblico dominio: si conoscevano tutti. Un buon
posto per gli intrighi, per le chiacchiere di provincia, per le piccole consorterie, per il narcisismo
della minima differenza. Un mondo piccolo che, in quanto dominato dai « dotti », si riteneva
grande. Heidegger a Jaspers: « L’università è noiosa. Gli studenti filistei, senza particolari stimoli. E
poiché mi sto occupando molto del problema della negatività, qui ho l’occasione migliore per
studiare che aspetto abbia ’il niente’ » (2 dicembre 1926).9
A Marburgo non c’era una «vita di società», alla quale peraltro Heidegger non dava alcun valore.
Tuttavia egli si fece vedere qualche volta in casa del consigliere segreto signora Hitzig, dove tutti i
nuovi arrivati del mondo accademico venivano « introdotti » in modo cerimoniale. Correva voce
che questa donna fosse consanguinea di ben novantun professori ordinari tedeschi viventi. C’era un
circolo di ammiratori di George, che si raccoglieva attorno a Friedrich Wolters, storico
dell’economia. I «moderni», gli ammiratori della Neue Sachlichkeit e i simpatizzanti di sinistra si
incontravano a casa dello storico dell’arte Richard Hamann. Rudolf Bultmann raccoglieva intorno a
sé un circolo che si radunava una sera alla settimana per leggere testi greci dalle otto alle undici; a
partire dalle undici si passava alla parte piacevole, anch’essa secondo una rigida divisione di orario:
un’ora di alte chiacchiere accademiche, e poi si potevano raccontare barzellette bevendo vino e
fumando sigari. Bultmann, da buon studioso, conservava coscienziosamente le migliori storielle in
un quaderno, per poterne disporre all’occasione. Qualcuno, come Ernst Robert Curtius, abituato alla
vita dell’alta società, soffriva per queste condizioni e alle volte si recava in treno fino alla vicina
Gießen per concedersi una buona cenetta nel ristorante della stazione. A Marburgo era una cosa
impossibile, soleva dire.
Dunque, in questo mondo universitario dagli spazi angusti, Heidegger divenne molto presto una star
avvolta di mistero. Faceva lezione di primo mattino, e ciò evidentemente non bastava a intimorire
gli animi, dato che dopo soli due semestri c’erano 150 studenti a frequentare le sue lezioni.
Gadamer, che fino all’arrivo di Heidegger era stato allievo di Nicolai Hartmann, racconta come i
seguaci di quest’ultimo passassero a schiere tra le file di Heidegger.
Hartmann, un barone baltico, era un uomo notturno. Si alzava verso mezzogiorno e cominciava a
ravvivarsi solo verso la mezzanotte. Aveva raccolto intorno a sé anche un circolo di amici. Stavano
a discutere fino alle prime luci dell’alba. Gadamer: « Ma poi, quando arrivò Heidegger a Marburgo
e cominciò le sue lezioni alle sette del mattino, già solo per questo sorse inevitabile un conflitto:
non ce la facevamo più a restare dopo mezzanotte nella cerchia di Hartmann ».10
Hartmann, che fino all’arrivo di Heidegger era stato il punto di riferimento per la filosofia, e che
adesso si vedeva messo da parte, accettò due anni dopo un incarico a Colonia, sentendosi sollevato
e liberato da un peso. In precedenza Gadamer, fresco di laurea con Hartmann, aveva cercato di far
convivere in sé il vecchio e il nuovo maestro: « Quando, nel 1924, nel momento della nostra grande
povertà dopo la fine dell’inflazione, dovetti fare un piccolo trasloco da studente con un carro a
rastrelliera, avevo due nobili cavalli a tirare questo carro: Hartmann e Heidegger attaccati allo
stesso carro. Ed essi tiravano nella medesima direzione! In queste occasioni Heidegger aveva un
incantevole umorismo da monello. Quando, nel viaggio di ritorno, il carro era vuoto, all’im-
provviso egli lasciò Hartmann da solo a tirare il carro saltò sul carro e aprì l’ombrello ». 11
Anche sul piano esteriore Heidegger era una figura che dava nell’occhio a Marburgo. D’inverno si
poteva vederlo uscire con gli sci in spalla verso la città. Alle volte arrivava a lezione in tenuta da
sciatore. D’estate Heidegger indossava il suo celebre abito di loden con pantaloni alla zuava, una
specie di scoutismo nobilitato. Gli studenti chiamavano questo modo di vestirsi il « vestito
esistenziale ». L’aveva disegnato il pittore Otto Ubbelohde e per Gadamer questo costume aveva
qualcosa dell’« umile sfarzo di un contadino con l’abito della domenica».12
Heidegger entrò subito in contatto con l’Associazione accademica di Marburgo, un gruppo legato
alla Bundische Jugend che si opponeva alle corporazioni e rifiutava il « filisteismo dei vecchi
signori » propugnando il principio di autoeducazione e autoresponsabilità dei giovani nello spirito
della formula di Hohen-Meißner, e cercando di sviluppare uno studio che riuscisse a superare la
settorialità delle facoltà. Caratteristica di questo circolo era una mescolanza di rigore alla Stefan
George e di romanticismo scoutistico. Sul piano socio-politico l’orientamento era piuttosto a
sinistra, in ogni caso antiborghese. Alle frasi fatte della cultura borghese si contrapponeva l’«
autenticità ». Quando uno studente ebbe a dire una volta di volersi « formare una personalità »,
Heidegger osservò sarcastico che era meglio lasciar perdere. Qui dominava un’atmosfera culturale
all’incirca del tipo descritto da Thomas Mann nell’episodio del movimento giovanile del Doctor
Faustus. Qui Adrian Leverkühn, durante le passeggiate e i pernottamenti nei fienili con alcuni
amici, affronta i grandi dibattiti su Dio e il mondo con espressioni che appartengono a un « gergo
erudito », « della cui affettazione non si rendevano affatto conto [...] Si compiacevano di formulare
’il problema dell”essenza’, parlavano di ’spazio sacro’ o ’spazio politico’ o ’spazio accademico’, di
'principio strutturale’, di ’tensione dialettica’, di ’rispondenze essenziali’ e così via ».l? E quando
questi giovani si dispongono al sonno nel fienile, i loro discorsi sono arrivati alla « nuda finitezza».
Heidegger tenne alcune conferenze per i soci dell’Akademischer Verein. Al rigore che vi si
rispettava tradizionalmente egli conferì un accento particolare, dichiarando che pròprio i problemi
esistenziali devono essere trattati con « il gelo del concetto ». Heidegger invitava questi studenti
anche a casa propria, una volta addirittura per la festa di san Nicola. Si intonarono canti, Elfride
aveva cucinato dei dolci e ci fu l’arrivo di un san Nicola. Hermann Mörchen, che riferisce
l’episodio, ricevette in regalo la Fenomenologia dello spirito di Hegel. C’era inoltre l’abitudine di
fare passeggiate insieme, con tende e chitarre. Gli studenti di questa cerchia avevano il permesso di
far visita a Heidegger nella sua baita a Todtnauberg. Lì il segreto monarca della filosofia teneva
corte in allegra compagnia. Per la festa del solstizio d’estate venivano fatte rotolare a valle
ghirlande infuocate, cui Heidegger indirizzava parole forti. Talvolta si accendeva un falò sul prato
davanti alla baita, ed egli teneva un discorso. « Essere desti vicino al fuoco della notte... » così
cominciò una volta, e con la frase successiva era già tornato ai suoi amati Greci. Parmenide a
Todtnauberg.
Arnold von Buggenhagen, che non ebbe successo come studente da Heidegger, descrive così il suo
ingresso al seminario: « Heidegger parlava a mezza voce, senza far uso di alcun concetto, e nel
fiume del discorso confluiva una straordinaria intelligenza, ma ancor più una forza di volontà che
determinava la direzione del discorso, soprattutto quando la tematica diventava pericolosa. Nel
ruolo di uno che parlava di cose ontologiche, egli offriva non tanto l’immagine di un professore
quanto quella di un capitano di lungo corso sul ponte di comando di un grande transatlantico in
un’epoca in cui gli iceberg vaganti possono significare pericolo di affondamento anche per navi di
proporzioni titaniche ».14
Buggenhagen descrive l’effetto che faceva allora questo nuovo tono del fare filosofia, che soltanto
dopo l’uscita dell’opera principale di Jaspers, nel 1932, venne battezzato con il nome di « filosofia
dell’esistenza »: esso agiva come valvola di sfogo contro le pretese di un universalismo della
ragione che sapeva di stantio, e come incoraggiamento a mettere in gioco « in qualche modo » se
stessi. Lo stimolo stava proprio nell’indeterminatezza di questa espressione: «in qualche modo».
Che infatti nella filosofia di Heidegger non fossero in ballo confessioni personali, espressionismo o
affettuosi aiuti per vivere, fu subito chiaro. Heidegger aveva respinto queste aspettative in modo
abbastanza energico. Nelle sue lezioni citava spesso Schelling: « L’angoscia della vita fa uscire
l’uomo dal centro». Il «centro» era per Heidegger quell’incontro con se stessi che si esprime nella
semplice frase: « io mi accorgo che sono ». Buggenhagen racconta come Heidegger rappresentasse
magistralmente quell’inquietudine che procede, o che dovrebbe procedere, da questo « nudo dato di
fatto ». Chi aveva imparato da Kant che il legittimo fondamento della conoscenza sta nella ragione,
poteva accorgersi adesso che quel fondamento sta nell’inconfondibile e inalienabile esistenza del
singolo. Dunque non in ciò che è capace di universalizzazione, ma nell’individuale. Di questo si era
sempre parlato implicitamente come di qualcosa di fondamentale, e tuttavia questo discorso non
aveva mai assunto contorni chiari. Buggenhagen racconta che lui e altri suoi compagni si chiesero,
vergognandosene, se avessero una « sufficiente massa di esistenza »l5 per poter fare a meno del
legittimo fondamento della ragione universalizzabile.
Da Heidegger una cosa era subito chiara: che questa filosofia non poteva essere « studiata e messa
da parte » come una disciplina universitaria tradizionale. Certo, le lezioni di Heidegger erano piene
zeppe di un’erudizione che metteva soggezione, e tuttavia si notava che non era questo il punto
fondamentale: egli si rapportava a questo sapere, di cui disponeva in abbondanza, con
l’atteggiamento di chi intende addirittura sbarazzarsene. Per gli studenti era uno spettacolo
sorprendente vedere in azione questo filosofo. A qualcuno egli appariva « come un’aquila che si
leva maestosa in volo », ad altri come un « uomo invasato dal furore ». Buggenhagen racconta che
gli venne all’improvviso di pensare «se questo filosofo non fosse un Aristotele impazzito che desta
interesse perché rivolge la grandezza della sua possanza speculativa contro il proprio pensiero e nel
pensiero afferma di non pensare affatto, ma di essere esistenza».16
Ma questa « esistenza » heideggeriana rimase per molti studenti qualcosa di enigmatico, e la cosa
migliore che potessero fare era di preoccuparsi della propria enigmaticità. Buggenhagen ammette
che ciò non gli riusciva. Altri avranno maggiore successo in questo tentativo.
Hermann Mörchen ci informa su come Heidegger fosse capace di destare impressione con il suo «
silenzio ». Per Mörchen, che oltre a filosofia studiava anche germanistica e teologia, il discorso sull'
esistenza aveva un significato religioso. Lo chiese a Heidegger, ma questi tacque, e ciò dimostrava
per Mörchen « che niente parla in maniera più indeterminata e più forte di un silenzio essenziale.
Esso è al tempo stesso un esempio del tipo di libertà che Heidegger lasciava a coloro che si
formavano alla sua scuola ». Durante un seminario Heidegger disse una volta: « Facciamo onore
alla teologia tacendo di essa ».17
Ma questo tacere sulla teologia gli fu reso ancora più difficile a Marburgo di quanto già non fosse a
Friburgo, dato che Marburgo era una roccaforte della teologia protestante. Qui l’impronta moderna
di questa teologia era più vivace, e si esprimeva nei tentativi di conquistare un nuovo accesso alla
fede cristiana attraverso il confronto con lo spirito scientifico e con la cultura.
Poco dopo il suo arrivo a Marburgo, Heidegger andò a sentire una conferenza di Eduard
Thurneysen, che faceva parte dei teologi « dialettici » della cerchia di Karl Barth. Per Gadamer il
contributo di Heidegger alla discussione rimase indimenticabile, dato che quello che disse non era
in contraddizione con lo spirito del luogo, ma con quanto si era sentito dire di Heidegger a
Marburgo: che egli si fosse allontanato dalla Chiesa e dalla fede. Heidegger disse dunque che « il
vero compito della teologia, al quale essa deve sempre ricondursi, è di cercare la parola che sia in
grado di chiamare alla fede e di conservare nella fede ». 18
Questa formulazione descrive abbastanza esattamente il programma del grande teologo del luogo,
Rudolf Bultmann. Questi era giunto a Marburgo due anni prima di Heidegger. Da qui egli rinnoverà
la teologia protestante, per la seconda volta dopo Karl Barth. Questa teologia avrà grande successo
in Germania solo dopo il 1945 sotto il nome di « demitizzazione», ma è proprio negli anni
marburghesi di Heidegger che Bultmann la va maturando. È una teologia nello spirito della filosofia
heideggeriana. Su questo lo stesso Bultmann non ha lasciato il benché minimo dubbio. Dall’analisi
heideggeriana dell’esserci Bultmann ricava la descrizione della situazione umana, dell’« esistenza
»: gettatezza, cura, temporalità, morte e caduta nell’inautenticità. Per lui acquista importanza la
critica di Heidegger a una metafisica in cui il pensiero simula una sottrazione al tempo e una
disponibilità della vita che sono del tutto irreali. Quella che per Heidegger è critica alla metafisica, è
per Bultmann demitizzazione. Il fi. losofo Bultmann intende mettere allo scoperto, al pari di
Heidegger, la «struttura esistenziale» dell’esistenza umana;
il teologo Bultmann vuole poi mettere a confronto questa « nuda » esistenza con il messaggio
cristiano, anch’esso liberato dai dogmi storici e ridotto al suo fondamentale significato esistenziale.
Che Heidegger, così come lo intende Bultmann, non descriva un ideale di esistenza, quanto
piuttosto le strutture esistenziali, è ciò che lo rende così congeniale alla teologia di Bultmann, il
quale scrive: « Poiché la filosofia dell’esistenza non dà risposta alla questione della mia propria
esistenza, essa consegna quest’ultima alla mia responsabilità personale, e facendo ciò mi rende
libero per la parola della Bibbia ».19
Heidegger e Bultmann diventano ben presto amici, restando entrambi legati a questa amicizia per
tutta la loro vita. Tuttavia il rapporto spirituale fra loro rimane asimmetrico, Heidegger non è
influenzato da Bultmann allo stesso modo in cui quest’ultimo lo è da Heidegger. Egli accetta la
teologia di Bultmann presupponendo la fede, che però non può essere oggetto della filosofia. In tal
senso egli non segue la teologia di Bultmann, il quale segue invece per un tratto la via della filosofia
heideggeriana, per trovare quel luogo in cui è possibile incontrare il messaggio cristiano.
Nell’estate del 1924 Heidegger, su invito di Bultmann, tiene per i teologi di Marburgo la conferenza
II concetto di tempo (Der Begriff der Zeit), un classico esempio di come l’arte heideggeriana sappia
esprimere un eloquente silenzio filosofico in questioni di teologia.
Come egli asserisce inizialmente, non vuol dire nulla di cose teologiche e divine, limitandosi a ciò
che è «umano»; ma egli ne parlerà poi in modo tale che alla fine una teologia del tipo di quella di
Bultmann calza a pennello.
All’epoca di questa conferenza Heidegger sta già elaborando i pensieri di Essere e tempo. Egli
presenta in forma concisa un abbozzo delle più importanti « strutture fondamentali dell’esserci »,
che sono determinate nel loro complesso dal carattere del « tempo ».
Per la prima volta egli interpreta qui la temporalità con la particolare curvatura della mortalità:
«L’esserci [...] sa della sua morte [...] E un precorrimento dell’esserci che va al suo non-più ».20
Già in ogni agire e in ogni esperienza, qui e ora, noi osserviamo questo « non più ». Il cammino
della vita è sempre un venir meno della vita. Noi facciamo in noi stessi esperienza del tempo come
di questo passare e venir meno. Perciò questo « non più » non è l’evento della morte alla fine della
nostra vita, bensì è la modalità dell’atto stesso del vivere, il « ’come’ del mio puro e semplice
esserci ».2I
In che cosa si differenziano queste considerazioni dalla grande tradizione di riflessione sulla morte,
dal pensiero della morte di Socrate, dal monito cristiano memento mori, dall’affermazione di
Montaigne « fare filosofia significa imparare a morire »?
Se ne differenziano in questo: che Heidegger non pensa la morte per poi trionfare su di essa con il
pensiero, ma per chiarire che soltanto il pensiero della morte, di quel « non più» sempre presente,
dischiude l’accesso alla temporalità e quindi all’indisponibilità dell’esserci.
Questa conferenza si accontenta di cenni che poi verranno vigorosamente sviluppati nel celebre
capitolo sulla morte di Essere e tempo. Tuttavia questi cenni sono sufficienti per congedare in
maniera chiara una potente tradizione teologica e metafisica. Si tratta della tradizione che determina
Dio, o l’ente sommo, come una sfera sottratta alla temporalità e della quale noi possiamo essere
partecipi mediante la fede o il pensiero. Heidegger interpreta ciò come un sottrarsi alla propria
temporalità. Il presunto legame con l’eterno non va al di là del tempo, ma soltanto sospinge via da
esso, non amplia le nostre possibilità, ma rimane alle loro spalle.
Questa tradizione, dalla quale Heidegger prende le distanze, è la stessa contro cui anche Bultmann
matura la propria teologia della demitizzazione, una teologia che pone al centro del messaggio
cristiano la croce, e cioè la morte di un Dio. Nella teologia di Bultmann l’esperienza della
temporalità, così come la elabora Heidegger, viene data per presupposta. In Bultmann bisogna aver
fatto esperienza dell’« essere per la morte », con tutte le paure e le angosce che ciò comporta, prima
di poter essere aperti ad accogliere il messaggio cristiano. La croce e la resurrezione connotano la
metamorfosi che avviene nella vita di un credente: la rinascita dell’uomo non è un evento fantasioso
di una futura eternità, ma si compie qui e ora come trasformazione dell’uomo interiore - una
rinascita a partire dall’esperienza radicale della temporalità, e cioè della mortalità, della vita. Nella
vita circondata dalla morte e nella morte circondata dalla vita. Questo è il messaggio paradossale e
sobrio del Nuovo Testamento, nell’interpretazione di Bultmann.
Quanto la filosofia di Heidegger fosse a quel tempo fonte di ispirazione per i pensatori religiosi, lo
mostra anche l’esempio di Hans Jonas. Egli studiò con Heidegger e Bultmann, e la sua grande
indagine sul tema dello Gnosticismo affronta un’altra tradizione spirituale (la gnosi fu il più potente
movimento spirituale nel periodo tardo-antico e nel primo cristianesimo) allo stesso modo in cui
Bultmann procede nei confronti della tradizione cristiana. Al pari di Bultmann, anche Jonas assume
l’analisi heideggeriana dell’esserci come una « toppa » in cui far entrare poi la « chiave » del
messaggio spirituale. E in questo caso quella chiave entra davvero molto bene. La gnosi vive infatti,
almeno nella lettura di Jonas, dell’esperienza della « gettatezza ». La mistica e la teologia gnostiche
narrano della « caduta » dello spirito (pneuma) nel mondo terreno, dove esso deve rimanere sempre
straniero e senza patria. Esso può ambientarsi nel mondo terreno solo se tradisce e dimentica la
propria vera origine, se si disperde e si perde nel mondo. Per l’immagine della redenzione propria
della gnosi tutto dipendeva dalla capacità dello spirito che vaga sulla terra di superare il suo oblio
dell’essere, di tornare a raccogliersi dalla dispersione e di ricordarsi nuovamente della propria
origine dimenticata. In breve: Hans Jonas descrive la gnosi come un movimento religioso, fissabile
storicamente, alla ricerca di una « autenticità» intesa in senso heideggeriano.
Per Heidegger si aprì nel periodo marburghese la sorprendente opportunità - che i teologi di qui
chiamavano Kairos, la grande occasione - di accedere a un tipo del tutto particolare di autenticità.
Un incontro dal quale nacque, come egli ammetterà in seguito a sua moglie Elfride, « la passione
della sua vita ».
A Marburgo era giunta all’inizio del 1924 un’ebrea diciottenne che voleva studiare con Bultmann e
Heidegger. Si tratta di Hannah Arendt.
Essa proveniva da una famiglia di ebrei assimilati della media borghesia di Königsberg, città in cui
era cresciuta. Già all’età di quattordici anni si destò la sua curiosità filosofica. Lesse la Critica della
ragion pura di Kant e dominava così bene il greco e il latino che a sedici anni fondò un circolo per
lo studio e la lettura della letteratura antica. Ancor prima dell’esame di maturità, che sostenne in
qualità di candidato esterno a Königsberg, aveva ascoltato Romano Guardini a Berlino e aveva letto
Kierkegaard. La filosofia era diventata per lei un’avventura. A Berlino aveva anche sentito parlare
di Heidegger. In seguito scriverà in proposito: « Si sente dire una cosa molto semplice: il pensiero è
tornato a nuova vita, i tesori culturali del passato, che si credevano ormai morti, tornano a parlare, e
si scopre che essi ci offrono cose ben diverse dalle banalità che si supponeva dicessero. C’è un
maestro, e ora si può forse imparare a pensare [...] Questo pensiero concresce come una passione
dal fatto puro e semplice dell’essere-nati-nel-mondo e [può] avere un fine ultimo tanto poco quanto
la vita stessa ».22
Hannah Arendt a Marburgo era una giovane che con i suoi capelli alla maschietta e i suoi vestiti alla
moda attirava su di sé tutti gli sguardi. « La cosa che in lei si notava subito era la forza suggestiva
che emanava dai suoi occhi »,23 scrive Benno von Wiese, che negli anni ’20 ebbe con lei una breve
relazione, nelle memorie della sua vita; « in essi si sprofondava letteralmente, e si doveva temere di
non poter più riaffiorare alla superficie. » A causa dell’elegante vestito verde che spesso indossava,
gli studenti l’avevano soprannominata « la verde ». Hermann Mörchen racconta che alla mensa
universitaria alle volte anche al tavolo accanto si smetteva di parlare quando era questa studentessa
a prendere la parola. Si doveva semplicemente stare ad ascoltarla. Entrava in scena con un misto di
consapevolezza di sé e di timidezza. In occasione del colloquio obbligatorio di ammissione al
seminario di Bultmann, girò le carte in tavola e pose a sua volta certe condizioni per la sua
partecipazione. Disse a Bultmann senza tanti giri di parole che « non dovevano esserci osservazioni
antisemite ».24 Bultmann la rassicurò con il suo tono pacato e amichevole sul fatto che « avrebbero
affrontato tutti e due in-
sieme la situazione » nel caso qualcuno avesse fatto qualche affermazione del genere. Hans Jonas,
che conobbe Hannah Arendt al seminario di Bultmann e che fece amicizia con lei, racconta come
questa studentessa sia stata accolta dai colleghi di studio come un fenomeno eccezionale. Si
coglieva in lei « un’intensità, un accanimento, un fiuto per la qualità, una passione per l’essenziale,
una profondità, che le conferivano un che di magico ».
Abitava in una mansarda vicino all’università. Lì si radunavano a discutere di filosofia i suoi amici,
che in parte l’avevano seguita ancora da Königsberg e da Berlino, e lì capitava anche che
presentasse lo spettacolo attraente del suo piccolo compagno di camera, un topolino che lei
chiamava fuori dal suo buco per dargli da mangiare.
E in questa mansarda ricevette, a partire dal febbraio 1924, per due semestri, il suo maestro di
filosofia Martin Heidegger, in gran segreto, senza che nemmeno i migliori amici venissero a
saperne qualcosa.
Elzbieta Ettinger, che ha ricostruito dal lascito di Hannah Arendt la storia di questa relazione, cita
passi dalle lettere di Hannah Arendt e parafrasa le lettere di Heidegger (non disponibili per la
pubblicazione). Secondo le ricerche della Ettinger, alle quali mi rifaccio, la vicenda ebbe inizio nel
febbraio 1924. Heidegger aveva già osservato per due mesi questa studentessa quando, all’inizio di
febbraio, la invitò nel suo studio per un colloquio. Heidegger rimarrà legato a questa immagine di
lei: «Portava un impermeabile e aveva un cappello che le scendeva a coprire il viso; si esprimeva
sibilando di tanto in tanto dei ’sì’ e ’no’ appena percepibili».25
Probabilmente Hannah Arendt si sentì subito e irresistibilmente attratta da quest’uomo per cui
provava ammirazione. Il 10 febbraio Heidegger le scrive la sua prima lettera, che comincia in
maniera formale: « Cara signorina Arendt». « Mantenendo una rispettosa distanza », osserva la
Ettinger, « egli le garantiva la propria lealtà, lodava le sue qualità intellettive e spirituali, e le offriva
solo il suo incoraggiamento a rimanere fedele a se stessa. »26
È una lettera impersonale e al tempo stesso piena di sentimento, un « canto lirico »,27 commenta
Elzbieta Ettinger. Anche la prima lettera di Heidegger a Elisabeth Blochmann era stata una lettera di
questo tipo: un misto di ossequio sottile e di messa in scena di se stesso come guida spirituale.
Quella volta, il 15 giugno 1918, egli aveva scritto: « [...] e se io non avessi acquisito la convinzione
che Lei nella sua vocazione si è conservata degna del fatto di essere stata afferrata da un tale spirito,
non avrei potuto osare di scriverLe oggi e di rimanere anche in avvenire in relazione spirituale con
Lei. Resti forte e felice [...] »28 Forse è un po’ meno compassato, ma il tono di Heidegger nella sua
prima lettera a Hannah, che ne è sopraffatta e confusa, è altrettanto da guida spirituale. Il grande
genio si è votato a lei. Quattro giorni dopo Heidegger scrive « Cara Hannah ». E due settimane più
tardi ecco un paio di righe che fanno presumere « l’inizio di una intimità fisica » (Ettinger).29
Fu sempre in questo mese di febbraio che, come racconta Hermann Mörchen, Heidegger presentò al
seminario di Bultmann un’interpretazione del commento di Lutero al terzo capitolo della Genesi,
vale a dire la vicenda della caduta nel peccato.
Fu Heidegger a dettare le regole di questa relazione, e Hannah vi si attenne. La cosa più importante
era serbare rigorosamente il segreto. Non solo sua moglie, ma nessun’altra persona dell’università e
nella piccola città doveva venirne a sapere qualcosa. Heidegger inviava messaggi cifrati, con i quali
« chiamava a sé Hannah, quando contava di essere solo, indicando - con precisione cronometrica - il
tempo e il luogo del loro prossimo appuntamento, attraverso segnali convenuti, come l’accensione e
lo spegnimento della lampada, ricorrendo a regole e misure precauzionali ».30 Hannah sottostava a
queste disposizioni, « affinché a causa del mio amore per Te niente ti risulti più gravoso del
necessario ».3I Hannah Arendt non ha osato chiedere a Heidegger di decidersi per lei.
Nel 1924, durante la pausa estiva delle lezioni, mentre Heidegger è a Todtnauberg, Hannah ritorna
dai suoi parenti a Königsberg e compone un autoritratto, soltanto leggermente cifrato, che fa
recapitare a Heidegger. La tormenta infatti il sentimento di non essere davvero presente in questa
relazione. Non può mostrarsi, ma vuole finalmente apparire nelle Ombre, come recita il titolo del
suo testo. Essa cerca di trovare un modo per esprimere quel qualcosa di « straordinario e magico »
che le è appena accaduto e che ha diviso la sua vita in « qui e ora, là e poi ». 32
Essa definisce il suo amore «una inflessibile dedizione a un unico ». Relegata nell’ombra, persa
interamente nei propri stati d’animo, Hannah Arendt tratteggia la propria motilità psichica che sta
nel vortice di una interiorità scissa e priva di mondo. Il testo racconta, interrotto da riflessioni e con
la distanza che consegue all’uso della terza persona, di un amore che non è ancora interamente
sbocciato. Gli manca qualcosa di assolutamente elementare, cui Hannah Arendt darà poi in Vita
activa il nome di « interstizio mondano »: « Nella passione, con la quale, soltanto, l’amore coglie il
chi dell’altro, va per così dire in fiamme l’interstizio mondano che ci collega agli altri e al tempo
stesso ce ne separa. Ciò che separa gli amanti dal resto del mondo è che essi sono privi di mondo,
che il mondo che si pone fra gli amanti è bruciato ».” Questo « interstizio mondano » non viene
soppresso solo dalla passione, ma anche dalla costrizione esteriore al segreto. Dove l’amore non
può mostrarsi, dove esso non ha testimoni, va presto perduto anche il criterio per distinguere fra
realtà e immaginazione. E' questo che deprime Hannah, ed essa parla nell’« ombra » del suo « esilio
incantato ».34 E in una poesia di questo periodo dice:
Perché mi dai la mano
timido e come segreto?
Vieni da una terra così lontana
che non conosci il nostro vino?35
Heidegger aveva diciassette anni di più, era padre di due figli, sposato a una moglie ambiziosa, che
prestava molta attenzione alla reputazione della famiglia e guardava con sospetto al fatto che suo
marito fosse circondato a quel tempo da schiere di studentesse. Nei confronti di Hannah Arendt
assunse sempre un atteggiamento di rifiuto, perché Heidegger la trattava con evidente predilezione,
ma anche perché era ebrea. L’antisemitismo di Elfride era ben noto ad alcuni già negli anni ’20. A
questo proposito, come sottolinea la Ettinger, Günther Stern (Anders), il quale fu sposato in seguito
per alcuni anni con Hannah Arendt, ricorda che in occasione di una festa a Todtnauberg Elfride
Heidegger gli chiese se non volesse entrare nel gruppo nazionalsocialista giovanile di Marburgo, e
che rimase sconvolta nell'apprendere che lui era ebreo. Se a quel tempo Hannah Arendt non mise
Heidegger davanti a una decisione, ciò non esclude tuttavia che se ne aspettasse una da parte sua.
La segretezza faceva parte in ultima analisi del gioco di lui. Agli occhi di lei era lui a dover far sì
che questa relazione diventasse una realtà più solida. Ma lui non voleva, la dedizione da parte di
Hannah era per lui una gioia, però non doveva derivarne alcuna responsabilità. Nelle lettere lui la
rassicura ogni volta che nessuno
lo capirebbe come lei, anche e soprattutto nelle questioni filosofiche. Ed effettivamente Hannah
avrà modo di dimostrare in seguito quanto bene capisse Heidegger. Lo capirà ancora meglio di
quanto lui stesso non si sia capito. Lei risponderà in modo complementare, come fanno gli amanti,
alla sua filosofia, e le conferirà quella mondità che ancora le manca. Alla « anticipazione della
morte » Hannah risponderà con una filosofia della natalità, al solipsismo esistenziale dell’«esser-
sempre-mio » con una filosofia della pluralità; alla critica della « deiezione » nel mondo del « Si »
risponderà con l'«amor mundi». Alla «radura» (Lichtung) di Heidegger risponderà nobilitando
filosoficamente il « mondo pubblico». Soltanto in questo modo la filosofia di Heidegger si
completa, ma quest’uomo non se ne accorgerà. Egli non leggerà i libri di Hannah Arendt, o lo farà
solo molto fugacemente, e ciò che vi leggera gli darà fastidio. Su tutto ciò diremo di più in seguito.
Heidegger ama Hannah, e la amerà ancora a lungo; egli la prende sul serio, la ritiene una donna che
lo capisce, lei diventerà per lui la musa ispiratrice di Essere e tempo', le confesserà che senza di lei
non avrebbe potuto scrivere quel libro. Ma non arriverà mai a pensare di poter imparare qualcosa da
lei. Nel 1955, quando appare l’edizione tedesca del grande libro della Arendt intitolato Le origini
del totalitarismo, e Hannah medita di far visita a Heidegger, lei finirà per prendere definitivamente
le distanze da lui. In una lettera a Heinrich Blücher ne spiega il motivo: « Il fatto che il mio libro
debba uscire proprio adesso [...] finisce per essere la peggiore coincidenza che si possa immaginare
[...] Come sai, sono del tutto pronta a comportarmi di fronte a Heidegger come se non avessi mai
scritto una riga e non ne dovessi mai scrivere una. E questa è implicitamente la conditio sine qua
non dell’intera faccenda».36
Torniamo a Marburgo. Tanto più la relazione va avanti, tanto più difficile diventa mantenere la
segretezza; inoltre essa comincia a farsi via via più scomoda per Hannah. Poiché a Heidegger
interessano i momenti piacevoli del loro incontro e non ha intenzione di avere Hannah sempre con
sé (questo ruolo spetta a Elfride), egli propone a Hannah nel 1925 un trasferimento, meglio se a
Heidelberg, presso il suo amico Karl Jaspers. Non si tratta della fine della loro relazione, ma solo di
una separazione spaziale. Nel frattempo anche Hannah coltiva l’idea di andarsene da Marburgo. Ma
lei ha altri motivi. Probabilmente deve aver sperato, come suppone la Ettinger, che Heidegger la
trattenesse, e ora è umiliata nel vedere che è lui a farle la proposta di andar via. Ma da parte di lei -
è sempre la Ettinger a osservarlo - non c’era soltanto una mossa tattica. Dieci anni dopo scriverà a
Heinrich Blücher, che sarà per lei tutto: amante, amico, fratello, padre, collega: « Continua a
sembrarmi incredibile che mi siano toccati in sorte entrambi: il 'grande amore’ e l’identità conia
propria persona [...] E tuttavia ho il primo solo da quando ho anche quest’ultima. Ma alla fine so
anche che cosa sia veramente la felicità ».37
Nella relazione con Heinrich Blücher, un compagno di sventure in esilio, ex comunista, poi
chiamato in America come autodidatta a occupare una cattedra di filosofia - soltanto con
quest’uomo dall’intelligenza carismatica, dal fare sovrano e di buon cuore lei potrà trovare l’unità
di dedizione e identità con se stessa. Questo con Heidegger non era possibile. È per proteggere se
stessa che verso la fine del 1924 vuole allontanarsi da Heidegger. Ma non riesce a liberarsi di lui. E'
vero che non gli comunica il suo nuovo indirizzo di Heidelberg, ma segretamente aspetta che lui
voglia cercarla e trovarla.
Heidegger viene a conoscenza dell’indirizzo di Heidelberg attraverso Hans Jonas, e ricomincia
l’andirivieni epistolare. E ricominciano gli espedienti. Nella primavera del 1926 Heidegger parte
per una conferenza in Svizzera. Gli accordi erano, secondo la Ettinger, 38 che Hannah lo avrebbe
incontrato in una piccola località lungo il percorso. Il suo viaggio avrebbe dovuto interrompersi per
un giorno. I due avrebbero trascorso la notte in una locanda. Lui promette di guardare fuori in cerca
di lei in tutte le stazioncine dove il treno farà sosta.
Hannah racconta a Heidegger della relazione con Benno von Wiese, e in seguito anche di quella con
Günther Anders. Il modo in cui lui reagisce è sentito da lei come un’offesa: le fa i migliori
complimenti e continua a combinare gli appuntamenti. In questo modo le fa capire che crede, con la
sua grande passione, di elevarsi al di sopra delle piccole passioni del momento in cui lei si fa
coinvolgere. Ma soprattutto: evidentemente lui non si accorge che le storie d’amore di lei sono
altrettanti disperati tentativi di dimenticarlo. E qualora se ne sia accorto, allora a lei sembra che
questo significhi che lui voglia giocare con il potere che ha su di lei. Lei si tira indietro, non
risponde alle lettere, ma poi forse arriva una nuova sollecitazione, una preghiera, una dichiarazione
d’amore da parte sua, e lei è pronta. La Ettinger racconta un esempio: alla fine degli anni ’20
Hannah è in viaggio con un’amica verso Norimberga. Riceve una lettera di Heidegger che « la
invita per un appuntamento ».39
Heidegger la chiama come fa il funzionario Klamm con Frieda nel Castello di Kafka. E Hannah
reagisce allo stesso modo di Frieda: presta ascolto alla chiamata e corre da Heidegger.
Sei anni dopo il distacco da Marburgo, Hannah Arendt scrive il suo libro su Rahel Varnhagen.
Leggendo la descrizione del fallimento della relazione d’amore di Rahel con il conte Finckenstein,
si ha l’impressione che l’autrice rielabori qui esperienze e delusioni proprie. Il conte avrebbe dovuto
dichiararsi a lei, così voleva Rahel, non solo nel suo salone, ma anche davanti alla famiglia di lui.
Lei, l’ebrea, voleva essere accolta nel mondo degli Junkers, cui lui apparteneva, e se lui non ne
aveva il coraggio, se non le avesse fatto, come scrive Hannah Arendt, il dono di « essere vista » e
di« essere conosciuta », allora avrebbe dovuto almeno decidersi a interrompere il rapporto.
Soprattutto Rahel fu umiliata, scrive Hannah Arendt, per il fatto che il conte lasciò che le cose
facessero il loro corso, permettendo così che l’inerzia delle relazioni potesse trionfare
sull’avventura dell’amore. « Egli è vincitore », scrive Hannah Arendt, « e ha raggiunto quello che
voleva: che fossero la vita e il destino - cioè la sua vita e il suo destino - ad avere il predominio sulle
pretese di lei, che gli apparivano smisurate e folli, e ciò senza doversi decidere nel bene o nel male,
senza prendere posizione. »40
Non fu anche Heidegger un « vincitore » di questo tipo, che cioè attraverso la sua mancata
decisione ottenne che fosse il « destino » a dominare sulle « pretese di lei, che apparivano smisurate
e folli »?
Una volta che il « destino » ebbe compiuto il suo compito, dividendo i due per molti anni, dopo
aver incontrato nuovamente Heidegger nel 1950, Hannah scrive a Heinrich Blücher: « In fondo
sono felice, perché ho avuto questa conferma: che ho fatto bene a non dimenticare ».4I
Con questo incontro iniziò un nuovo capitolo di una storia che durò per tutta la vita.
Anche dopo la dipartita della sua musa, Heidegger conserta V« ispirazione » per il proprio lavoro.
Durante il periodo di sospensione delle lezioni lavora a Todtnauberg al suo manoscritto, che verrà
pubblicato nel 1927 con il titolo di Essere e tempo. Ha affittato una stanza da un contadino che
abitava nei dintorni: nella baita c'è poco spazio e poca quiete, quando c’è la famiglia. Nelle lettere a
Jaspers, al quale non confessa la propria relazione con Hannah Arendt, egli annuncia la sua gran
voglia di mettersi furiosamente al lavoro. Il 24 luglio 1925 scrive: « Il 1° agosto salgo alla baita. Mi
piace molto l’aria forte della montagna: questo leggero, debole soffio di vento che tira quaggiù alla
lunga ti snerva. Otto giorni a spaccar legna, e poi torno a scrivere ». Il 23 settembre 1925: « Quassù
è magnifico - vorrei rimanere qui a lavorare fino a primavera. Non ho nessuna voglia di stare in
compagnia di professori. I contadini sono molto più piacevoli, e persino più interessanti ». Il 24
aprile 1926 arriva la comuni* cazione trionfante da Todtnauberg: « Il 1° aprile è iniziatala stampa
del mio trattato Essere e tempo [...] Sono proprio in vena e mi dispiace solo che arrivi il nuovo
semestre, con quell’aria borghese che torna ad avvolgerti [...] E' già notte fonda - il vento spazza la
cima del monte, nella baita i balconi cigolano, la vita sta pura, semplice e grande davanti all'anima
[...] Talvolta non mi rendo più conto che laggiù si possano giocare ruoli così strani [...] »
Lo stimolo a concludere Essere e tempo, almeno una parte di esso, era venuto dall’esterno. Nel
1925 Nicolai Hartmann aveva accettato l’incarico a Colonia, e la facoltà di Marburgo voleva fare di
Heidegger, professore straordinario, un ordinario. La commissione incaricata esercita ora su
Heidegger una leggera pressione affinché si decida a dare alle stampe una nuova pubblicazione. Ci
si riferiva in tal senso a un’affermazione di Hartmann, che aveva segnalato « un lavoro davvero
eccellente di Heidegger» come prossimo alla conclusione. Questa indicazione è sufficiente alla
facoltà di filosofia per avanzare il 5 agosto 1925 la proposta di Heidegger per la successione di
Hartmann. Ma il 27 gennaio 1926 giunge da Berlino un responso negativo. Il ministro della Cultura
Becker scrive: « Pur riconoscendo il successo del professor Heidegger nell’insegnamento, non mi
sembra tuttavia opportuno passare a lui una cattedra di ordinario di così alto valore storico, fino a
quando non saranno grandi prestazioni letterarie a ricevere dagli esperti quel riconoscimento che un
tale incarico esige ».42
Il 18 giugno 1926 la facoltà di filosofia scrive ancora una volta al ministero con preghiera di
assegnare l’incarico a Heidegger. Nel frattempo egli avrebbe dato alle stampe un grande lavoro.
Vengono allegate le bozze di stampa. Il 25 novembre le bozze tornano indietro. Il ministero resta
fermo sulla sua decisione. All’inizio del 1927 Essere e tempo viene pubblicato come edizione
straordinaria dello Jahrbuch für Philosophie und Phänomenologische Forschung edito da Husserl e
Max Scheler. Ora finalmente anche il ministero comprende che razza di opera fosse quella che si
apprestava a vedere la luce. Il 19 ottobre 1927 Heidegger passa da professore straordinario a
professore ordinario.
Fu un andirivieni sofferto. Heidegger scriveva a Jaspers il 24 aprile 1926: «L’intera vicenda [...] mi
è indifferente». Ma, comunque sia, queste circostanze costrinsero Heidegger a dare alle stampe la
sua opera, anche se per lui non era ancora pronta. Jaspers riceve via via per posta le bozze, con
brevi note di Heidegger. Il 24 maggio 1926 egli scrive: « Nel complesso, si tratta per me di un
lavoro di passaggio ». Il 21 dicembre 1926 afferma che il suo giudizio sul lavoro non è
«straordinariamente alto », ma « con esso ho imparato a capire [...] che cosa volessero i più grandi
». Il 26 dicembre 1926: «Questo lavoro non mi darà di più di quanto io già non possieda di esso:
l’essere giunto in chiaro a me stesso e il saper porre domande con una certa sicurezza e in una certa
direzione ».
Nella primavera del 1927 la madre di Heidegger è in punto di morte. Heidegger accenna a Jaspers la
sua pena nel dover apparire agli occhi della madre come un figlio che ha rinnegato la fede: «Lei
stesso potrà farsi un’idea di quanto io sia per lei una grande preoccupazione e le renda pesante
morire. L’ultima ora che ho trascorso da mia madre [...] è stata un esempio di 'filosofia pratica’ che
ricorderò. Credo che per la maggior parte dei ’filosofi’ la questione di teologia e filosofia, o meglio
di fede e filosofia, sia una pura e semplice questione da scrivania » (1° marzo 1927).43
È in queste settimane di agonia della madre che Heidegger tiene a Tubinga, il 9 marzo 1927, una
conferenza sul tema Fenomenologia e teologia (Phänomenologie und Theologie), che ripeterà un
anno dopo a Marburgo in forma rielaborata. Qui Heidegger dichiara « che la fede nel suo nucleo più
intimo, ossia come specifica possibilità dell’esistenza, resta il nemico mortale di quella forma
desistenza [...] che è propria essenzialmente della filosofia ». Questa contrapposizione non esclude
però una « reciproca serietà e un reciproco riconoscimento », ma questi sono possibili solo se la
differenza viene mantenuta e non viene confusa. La filosofia cristiana è un « ferro ligneo ». La
filosofia deve potersi affidare unicamente a se stessa «come il libero domandare dell’esserci riposto
puramente su se stesso ».44
Così egli intende la propria filosofia. Con Essere e tempo egli crede di averla raggiunta. E perciò,
nel prendere commiato, pone sul letto di morte della madre il suo esemplare personale dell’opera
fresca di stampa.
9. Essere e tempo. Il «Prologo in Cielo ».
Quale essere? Quale senso? Dove cominciare?
L'esserci come colonia di alghe: tutto è connesso. L’in-essere. L’angoscia. La cura attraversa il
fiume. Quanta autenticità sopporta l’uomo? L’alternativa di Plessner e Gehlen. La filosofia morale
di Heidegger.
Il destino e la libertà. Esserci collettivo: comunità o società?
FACCIAMO un passo indietro: dopo un prologo teologico, Martin Heidegger aveva cominciato come
filosofo cattolico. Il suo pensiero si muoveva nell’ambito della questione di Dio quale chiave di
volta e garante della nostra conoscenza del mondo e di noi stessi. Heidegger veniva da una
tradizione che poteva affermarsi solo in senso difensivo contro una modernità per la quale Dio
aveva perduto il suo significato. Heidegger voleva difendere il cielo sopra Meßkirch - anche con le
armi di questa modernità, ad esempio con la tesi husserliana del valore sovratemporale e
sovrasoggettivo della logica, un pensiero che egli trovava prefigurato nella filosofia metafisica del
Medioevo. Ma qui egli aveva già trovato anche i dubbi nominalistici su di sé da parte di una ragione
che ammette di fronte a se stessa che non solo Dio le rimane incomprensibile, ma anche la
haecceitas, il questo qui, l’individualità irripetibile. Individuum est ineffabile.
Ma per lui fu solo l’idea della storicità a mettere allo scoperto tutta la problematicità della
metafisica. Se è vero che il pensiero metafisico non punta sull'immutabilità dell’uomo, tuttavia esso
ha fede nell’immutabilità del senso ultimo delle cose. Heidegger aveva imparato da Dilthey che
anche le verità hanno la loro storia. Verso la fine della sua tesi di abilitazione egli compì il
mutamento decisivo di prospettiva: considerò il pensiero medievale, che aveva conosciuto così da
vicino, guardandolo da lontano, e in tal modo esso gli apparve come un’epoca dello spirito
incantevole, ma anche di decadenza. L’idea di Dilthey « che il senso e il significato sorgono solo
nell’uomo e nella sua storia » divenne per lui determinante. L’idea della storicità, intesa in senso
radicale, distrugge ogni pretesa universalistica di validità. Essa rappresenta forse la più grande
cesura mai avvenuta nella storia occidentale nella concezione che l’uomo ha di se stesso. E con essa
giungeva anche la fine della filosofia «cattolica» di Heidegger.
La storia reale e la frantumazione del mondo di ieri nella guerra mondiale fecero il resto per far
provare a Heidegger che il terreno sprofondava sotto i piedi ed era necessario un nuovo inizio.
La vita storica diventa la base della filosofia per lo Heidegger posteriore al 1918. Ma con questa
visione, dice Heidegger, non si è guadagnato molto, fintantoché il concetto di « vita » rimane
indeterminato. Alla scuola della fenomenologia egli si era reso consapevole del fatto che qui c’era
un problema. Egli si era posto cioè in modo autenticamente fenomenologico la domanda su quale
fosse l’atteggiamento da scegliere affinché la vita umana potesse mostrarsi in tutta la sua
peculiarità. La risposta a questa domanda pone le basi per la sua propria filosofia: la critica alla
reificazione. La vita umana ci sfugge, egli insegna, se vogliamo coglierla con un atteggiamento
teoretico, oggettivante. Ce ne accorgiamo già nel tentativo di renderci consapevoli della semplice «
esperienza della cattedra ». Nel pensiero oggettivante scompare la ricchezza dei riferimenti propria
del mondo vitale. L’atteggiamento oggettivo «devitalizza» l’esperienza vissuta e « demondizza » il
mondo che ci si fa incontro. La filosofia di Heidegger si rivolge all’oscurità dell’attimo vissuto. Qui
si tratta di una profondità misteriosa, non di un mondo inferiore dell’inconscio o di un mondo
superiore dello spirito, ma dell'autotrasparenza degli atti vitali, anche di quelli quotidiani. La
filosofia diventa per Heidegger l’arte dell’« essere desto per se stesso da parte dell’esserci ». La
dedizione al quotidiano ha un accento polemico, diretto contro una filosofia che continua ancora a
credere di conoscere la destinazione dell’uomo. Heidegger si presenta con il pathos del nuovo
inizio. Nei suoi primi corsi universitari è all’opera un desiderio dadaista di decostruire i valori
sublimi della cultura e di smascherare come un mero spettro il senso tradizionalmente at* tribuito
alle cose. Esso « imperversa » con la sua « fatticità » e se ne frega dei «compiti della cultura per
l’universalità dell’oggi », come scrive nel 1921 a Lowith. Dapprima a fatica, poi con un crescendo
di successo trionfante, egli fa uscire via via dall’oscurità dell’esserci - questo il nome con cui
chiama ora la vita umana - quelle strutture che in Essere e tempo vengono presentate come
«esistenziali»: l’« in-essere», la « situazione emotiva », la « comprensione », la « deiezione», la
«cura». Egli trova la formula dell’«esserci, cui ne va del suo proprio poter-essere ».
Il periodo fra il 1923 e il 1927, anno in cui appare Essere e tempo, è caratterizzato da una enorme
produttività. Nei grandi corsi vengono sviluppate le tematiche di Essere e tempo. A confronto con
questa mole di pensiero, che nell’edizione completa ammonta a millecinquecento pagine, Essere e
tempo è quasi solo la punta di un iceberg. Tuttavia in quest’opera quei pensieri vengono presentati
secondo un impianto strutturale sottilmente escogitato e con un notevole impianto terminologico. E
sono rimaste in piedi anche le impalcature, cioè gli accorgimenti metodologici, cosicché l’opera
doveva suscitare l’impressione di una mostruosa pesantezza. Ciò non ha danneggiato il suo effetto
sulla scena accademica, per la quale le cose semplici sono piuttosto sospette. Per il pubblico più
vasto l’oscurità di questo libro faceva parte del suo alone di mistero. Si poteva discutere se
l’oscurità fosse propria dell’esserci o soltanto della sua analisi, ma in ogni caso la cosa, presa nel
suo complesso, sortiva un effetto misterioso.
In Essere e tempo Heidegger lavora alla dimostrazione filosofica che l'esserci dell’uomo non ha
alcun altro appiglio se non questo « ci », che ha da essere. In un certo senso egli continua il lavoro
di Nietzsche: pensare la morte di Dio e criticare « gli ultimi uomini » (Nietzsche) che si
accontentano di miserabili idoli succedanei e non ammettono affatto lo spavento per la scomparsa di
Dio. In Essere e tempo la formula che esprime la capacità di potersi spaventare suona così: « il
coraggio dell’angoscia ».
Essere e tempo. Un titolo che promette di occuparsi di tutto. Nell’ambiente accademico era noto che
Heidegger stava preparando una grande opera, ma non ci si aspettava che essa avrebbe evidenziato
delle ambizioni così elevate. Heidegger non era ancora considerato, non si deve dimenticarlo, come
un filosofo originale, bensì come un interprete virtuoso della tradizione filosofica, che egli era in
grado di attualizzare come nessun altro e dove operava nei confronti di Platone e di Aristotele
analogamente a quanto faceva Rudolf Bultmann con la figura di Cristo: rivitalizzandoli.
Hermann Mörchen ricorda come Heidegger, all’inizio del 1927, in occasione di un ritrovo in
compagnia dei suoi studenti dell’associazione, « senza dir nulla e pieno di aspettative, come un
bambino che mostra il suo prediletto giocattolo segreto, mise sul tavolo un foglio di bozze fresco di
stampa, quello che recava il titolo: Essere e tempo».1
L’opera, caratterizzata da una drammaturgia a effetto, comincia con una sorta di « Prologo in Cielo
». Entra in scena Platone. Viene citata un’affermazione tratta dal Sofista: «È chiaro infatti che voi da
tempo siete familiari con ciò che intendete, quando usate l’espressione essente; anche noi
credemmo un giorno di comprenderlo senz’altro, ma ora siamo caduti nella perplessità».
Questa « perplessità », dice Heidegger, c’è ancora, ma noi non la ammettiamo. Che cosa intendiamo
quando diciamo che qualcosa è « essente », noi non lo sappiamo ancora. Il prologo lamenta una
duplice dimenticanza dell’essere. Abbiamo dimenticato che cosa sia l'essere, e abbiamo dimenticato
anche questa dimenticanza. « E' dunque necessario riproporre il problema del senso dell'essere »,
ma poiché abbiamo dimenticato la dimenticanza « è dunque necessario incominciare col ridestare la
comprensione del senso di questo problema. »
Come si addice a un prologo, esso accenna fin da principio al traguardo dell’opera:
«L’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale
». Il senso dell’essere è « il tempo ». Qui viene rivelato il punto culminante, ma per renderlo
comprensibile Heidegger avrà bisogno non solo di tutto questo libro, ma anche del resto della sua
vita.
La questione dell’essere. A guardar bene Heidegger pone due domande: che cosa intendiamo
propriamente quando facciamo uso dell’espressione « essente »? La domanda verte sul senso di
questa espressione. A questa domanda Heidegger raccorda la domanda del tutto diversa sul senso
dell’essere stesso. Riferendosi a questa questione, nel suo duplice significato, Heidegger afferma
che non c’è ancora una comprensione per il senso di questo problema. Una affermazione strana.
Per quanto concerne la domanda sul senso dell’essere (non solo dell’espressione « essere »), si può
dire che essa è la domanda che ha sempre continuato a occupare la riflessione umana dagli inizi
della storia fino a oggi. Si tratta della domanda sul senso, la finalità e il significato della vita umana
e della natura. E della domanda sui valori e su come orientarsi nella vita, sul perché, sullo scopo del
mondo, del cosmo, dell’universo. La vita pratico-morale fa sì che gli uomini pongano questa
domanda. In epoche precedenti, quando la fisica, la metafisica e la teologia erano ancora
strettamente connesse l’una all’altra, anche la scienza aveva cercato di dare una risposta alla
questione del senso. Ma a partire da Kant essa aveva trovato che noi, quali esseri morali, dobbiamo
porre la questione del senso, ma come uomini di scienza non le possiamo dare una risposta, e perciò
da allora le scienze rigorose si astengono dal porre questa domanda. Ma la vita pratico-morale la
ripropone ogni giorno nella dimensione pubblica e nella poesia, nella riflessione morale e nella
religione. Come può Heidegger affermare che non c’è più alcuna comprensione di questo
problema? Egli può farlo soltanto se è dell’opinione che tutti questi tipi di conferimento di senso, e
le rispettive domande sul senso, non colgano il « senso dell’essere ». E' un’affermazione ardita, che
serve innanzi tutto a porre il filosofo stesso nella giusta luce. Egli si presenta infatti come uno che
riscopre quello che è nascosto e dimenticato fin dai giorni di Platone. Già nel « Prologo in Cielo »
Heidegger si presenta come protagonista di una cesura epocale. Quale sia nel dettaglio il contributo
che egli ha da dare sul senso dell’essere, lo vedremo in seguito. Heidegger è un maestro
nell’allungare le vie da percorrere. Possiamo rallegrarci della luce soltanto alla fine, quando essa
compare alla fine del tunnel.
Per il momento Heidegger lascia da parte la questione del senso dell’essere, che io chiamo la
«domanda enfatica». Egli comincia piuttosto con l’altra domanda, quella « semantica», che dice:
che cosa intendiamo quando usiamo l’espressione « ente »?, in che senso parliamo di « essere »?
Questa domanda si inserisce perfettamente anche nel contesto delle scienze moderne. Ciascuna
scienza, la fisica, la chimica, la sociologia, l’antropologia, elabora un determinato settore dell’ente,
oppure le scienze insistono sul medesimo settore, ma con domande e metodologie diverse. Ogni
riflessione metodologica su come ci si debba accostare in maniera appropriata al proprio oggetto
implica una ontologia regionale, anche se non la si chiama più con questo nome. Perciò
l’affermazione di Heidegger, secondo cui non ci si chiarisce più in che senso venga inteso l’essere
nei rispettivi ambiti di oggetti, non risulta subito evidente di per sé. Già lo stesso neokantismo aveva
sviluppato una sensibilità straordinaria per la consapevolezza metodologica. In esso ci furono le
sottili distinzioni di Rickert e di Windelband fra scienze della natura e della cultura, l’ermeneutica
di Dilthey, la sociologia comprendente di Max Weber, il metodo fenomenologico di Husserl,
l’ermeneutica psicoanalitica dell’inconscio. Nessuna di queste scienze era ingenua sul piano del
metodo; tutte avevano una coscienza ontologica del problema, in quanto mettevano in atto una
riflessione sul loro ruolo nel contesto complessivo dell’indagine del reale. Quindi anche per la
domanda semantico-metodologica vale quanto si è detto per la domanda enfatica sul senso
dell’essere. In entrambe Heidegger afferma che non c’è alcuna comprensione per il senso delle
domande, e tuttavia esse vengono poste ovunque: nella vita pratico-morale quella enfatica, nelle
scienze quella semantico-metodologica.
Heidegger deve mirare a qualcosa di particolare, non si sa ancora che cosa. Egli crea abilmente un
clima di attesa, per presentare infine la sua tesi. Proprio nell’indagine sull'uomo risulta con
chiarezza, secondo lui, che le scienze non sanno esattamente in che senso esse considerano l’uomo
un «ente ». Esse si comportano come se si potesse prendere visione dell’uomo come un tutto,
analogamente ad altri oggetti che sono presenti nel mondo. Nel far questo, esse seguono una
tendenza spontanea dell’esserci «a comprendere il proprio essere in base all’ente a cui si rapporta in
linea essenzialmente costante e innanzi tutto, cioè in base al ’mondo’ ».2 Tuttavia questa è
un’automistificazione dell’esserci, il quale, fintanto che vive, non è mai finito, intero e concluso al
pari di un oggetto, ma rimane sempre aperto per il futuro, pieno di possibilità. All'esserci appartiene
l'essere-possibile.
A differenza dagli altri enti, l’uomo è in rapporto con il proprio essere. Questo è chiamato da
Heidegger « esistenza». L’esistenza ha, come ho già avuto modo di mostrare a proposito
dell’interpretazione heideggeriana di Aristotele del 1922, un senso transitivo. L’intransitivo che c’è
nell’esserci Heidegger lo chiama l’« esser-gettato »: « L’esserci, in quanto se stesso, ha forse deciso
liberamente [...] se vuole o no entrare nell”esserci’? ».3
Ma se noi ci siamo intransitivamente, non possiamo far altro se non vivere transitivamente ciò che
in noi è intransitivo. Ciò che noi siamo diventati intransitivamente, possiamo e dobbiamo esserlo
transitivamente. Sartre troverà in seguito la formulazione adeguata a questo pensiero: « fare
qualcosa di ciò per cui si è stati fatti ». Noi siamo un’autorelazione e quindi, al tempo stesso, una
relazione all’essere. « La peculiarità ontica dell’esserci sta nel suo esser-ontologico. »4
Il termine «ontico» connota tutto ciò che c’è. Il termine «ontologico » connota il pensiero curioso,
sorprendente, spaventato del fatto che io ci sono e che, in generale, c’è qualcosa. Ad esempio è
ontologica l’inimitabile frase di Grabbe: «Al mondo una volta sola, e poi a fare lo stagnino a
Detmold! » Esserci o esistenza significano dunque: noi non solo « siamo », ma anche abbiamo
percezione del fatto che siamo. E noi non siamo mai finiti, al modo di qualcosa di semplicemente
presente, non possiamo fare il giro attorno a noi stessi, bensì in ogni nostro punto siamo aperti a un
avvenire. Noi dobbiamo condurre la nostra vita. Siamo consegnati a noi stessi. Siamo ciò che
diventiamo.
Fin dall’inizio, nel porre la domanda: come è possibile parlare adeguatamente dell’esserci?
Heidegger prende di mira il tempo.
Guardando nel tempo come in un orizzonte aperto, osserviamo che abbiamo davanti alcune cose
incerte, ma una cosa è del tutto certa: il grande « non più », la morte. Di essa abbiamo conoscenza,
non solo perché altri muoiono, ma perché noi possiamo fare in ogni momento esperienza di questo
« non più »: il fluire del tempo, un susseguirsi di piccolissimi commiati, di piccolissime morti. La
temporalità è l’esperienza del « non più », di quello presente, di quello futuro, e infine di quello
della morte.
Entrambi gli aspetti della temporalità, quello di chiusura e quello di apertura, l'essere per la morte e
l'essere possibile, sono una sfida ardua per l'esserci. E proprio per questo - e qui il cerchio si chiude
e ritorniamo al principio - Tesserci è incline a rapportarsi a se stesso come a qualcosa di
semplicemente presente, e con ciò crede di poter essere alcunché di concluso prima ancora di
esserlo. L’oggettivazione scientifica dell’uomo è per Heidegger una diversione davanti
all’inquietante temporalità dell’esserci. Nel far ciò le scienze non fanno altro che continuare la già
ricordata tendenza ostinata dell’ esserci quotidiano a comprendere se stesso « a partire dal mondo »,
cioè come cosa fra cose. La scienza è la forma della quotidiana autoreificazione dell'esserci,
coltivata e perpetrata con metodo. E Heidegger vuole arrivare proprio al nocciolo della questione.
Egli riunisce le due domande, quella enfatica sul senso dell’ essere e quella semantico-metodologica
sul senso dell’espressione « essere », in questa tesi: la tendenza a gettare l'esserci fra le cose si
mantiene anche nella domanda enfatica sul senso dell’essere. Il «senso» viene cercato come un
qualcosa che c’è nel mondo o in un immaginario aldilà come alcunché di presente, a cui ci si può
attenere e da cui si può ricevere orientamento: Dio, una legge universale, le tavole di pietra della
morale.
Questo modo di interrogarsi sul senso come su qualcosa di semplicemente presente fa parte per
Heidegger della fuga da parte dell'esserci di fronte alla sua temporalità e al suo poter-essere. La
domanda sul senso dell’essere è stata posta e risolta nella dimensione di una metafisica della
presenza, e perciò è stata mal posta. Oggi questa confusione rinasce di fatto a nuova vita: viene «
costruito un senso », ci sono programmi di conferimento di senso, si parla della scarsità di risorse di
senso e del fatto che esse devono essere effettivamente gestite. Una metafisica della presenza
particolarmente stolta.
Qui non si tratta di un atteggiamento teoretico sbagliato. La domanda sul senso dell’essere non vale
più - lo abbiamo già visto - come domanda delle scienze rigorose, che sono andate avanti
brillantemente proprio perché hanno abbandonato questa domanda. La domanda sul senso è posta
dalla coscienza quotidiana pratico-morale. Ma come deve essere inteso questo atteggiamento della
coscienza?
Fa parte della raffinatezza drammaturgica di Essere e tem po il fatto che Heidegger faccia entrare in
scena il vero soggetto della domanda sul senso dell’essere soltanto a metà della sua opera. Il
soggetto, il « chi » di questa domanda, è uno stato d’animo, che per lui è « la situazione emotiva
fondamentale dell’angoscia». Nell’« angoscia » Tesserci si interroga sul senso dell’essere, sul senso
del suo essere. Il famoso paragrafo 40 è dedicato all’analisi dell’angoscia. Invece in Essere e tempo,
nonostante Hannah Arendt, non c’è alcun paragrafo che tratti della gioia o dell’amore, stati d’animo
dai quali ugualmente potrebbe scaturire la domanda sul senso dell’essere. Tutto questo non ha solo a
che fare con la distinzione, filosoficamente fondabile, di determinati stati d’animo dal punto di vista
della loro manifestatività sul piano filosofico, ha a che fare anche con l’autore, con i suoi stati
d’animo effettivi e con la sua predilezione per certi stati d’animo.
Parliamo dunque dell’angoscia. Essa è, fra le tonalità emotive, la regina in ombra. Bisogna
distinguerla dalla paura, la quale è diretta su qualcosa di determinato, è uno stato d’animo di piccola
caratura. L’angoscia invece è indeterminata e tanto sconfinata quanto il mondo. Il ciò-davanti-a-cui
dell’angoscia è « il mondo in quanto tale ». Davanti all’angoscia tutto cade a terra spoglio, denudato
di ogni significatività. L’angoscia è sovrana, può impossessarsi di noi per un niente. Perché non
dovrebbe poterlo fare, visto che ciò che ha di fronte è appunto il niente? A colui che è angosciato il
mondo non è più in grado « di offrire niente, e tanto meno il con-essere con altri». L’angoscia non
sopporta alcun altro Dio all’infuori di sé; essa isola sotto un duplice punto di vista. Essa lacera il
legame con il prossimo e rescinde il singolo dalle relazioni di familiarità con il mondo. Essa mette
Tesserci a confronto con il nudo « che » del mondo e del suo proprio se stesso. Ma ciò che rimane
quando l’esserci è passato attraverso il gelido fuoco dell’angoscia, non è un niente. Ciò che
l’angoscia gli ha bruciato, ha messo a nudo il nucleo incandescente dell’esserci: « l'esser-libero-per
la libertà di scegliere e possedere se stesso ».5
Nell’angoscia, dunque, Tesserci fa esperienza dello « spaesamento» del mondo e della propria
libertà. Così l’angoscia può essere insieme angoscia di fronte al mondo e angoscia di fronte alla
libertà.
Questa analisi è stimolata da Kierkegaard, per il quale l’angoscia davanti alla libertà è angoscia
davanti alla colpa, Kierkegaard cerca di superare l’angoscia attraverso il «salto » nella fede, un salto
sopra l’abisso. L’« angoscia » di Heidegger non è il prologo a questo salto. Egli ha perduto la fede
delle sue origini. In Heidegger l’angoscia viene dopo il salto, quando si è già in procinto di
precipitare.
Ovviamente la filosofia dell’angoscia di Heidegger vive anche dello stato d’animo genericamente di
crisi proprio degli anni ’20. Il disagio della civiltà - titolo del saggio di Freud apparso nel 1929 - era
ampiamente diffuso. La saggistica ideologica di questi anni era caratterizzata dal sentimento di
disagio di un mondo caduco, perverso o alienato, Le diagnosi erano tristi e le terapie proposte
numerose. I tentativi avevano la tendenza a curare l’intero malato a partire da un unico punto. Come
nella politica di Weimar si cancellò il centro democratico rispetto agli estremismi di coloro che
volevano cambiamenti totali, così anche nella filosofia della crisi di quegli anni ci si rifugiò in
soluzioni estreme. Queste portavano nomi diversi: « proletariato », « inconscio », « anima », « sacro
», « nazione » e così via. Un campionario della fiera delle filosofie di soluzione della crisi fu offerto
a quel tempo da Carl Christian Bry nel suo libro Religioni camuffate, un bestseller degli anni ’20.
Quando apparve questo libro, due anni prima di Essere e tempo, imperversavano il fanatismo
antisemita e il pensiero della razza, iniziava la « bolscevizzazione » del kpd, a Landsberg Hitler
scriveva Mein Kampf, e milioni di persone cercavano la salvezza in movimenti settari: occultismo,
vegetarismo, nudismo, teosofia e antroposofia; c’erano molte promesse di redenzione e proposte di
orientamento. Il trauma della svalutazione monetaria aveva fatto prosperare gli affari degli
sfruttatori dell’inflazione. Tutto può diventare « religione camuffata », dice Bry, se diventa il
principio «monomaniaco» del senso delle cose e della salvezza. Bry, che era egli stesso un uomo
religioso, trovò un criterio sorprendentemente semplice per distinguere fra religione e religione
succedanea. Una religione vera educa al profondo rispetto per l’inspiegabilità del mondo. Alla luce
della fede il mondo diventa più grande, anche più oscuro, dato che mantiene i propri segreti, e
l’uomo si interpreta come una parte di esso. Egli rimane nell’incertezza su se stesso. Per il
monomaniaco della « religione camuffata », invece, il mondo si restringe. « Egli trova in tutto e in
ogni cosa solo la conferma della propria opinione »,6 che difende con il fervore della fede di fronte
al mondo e ai propri stessi dubbi.
Essere e tempo si inscriveva in questa situazione determinata dallo stato d’animo di crisi, ma si
distingueva dal genere dominante per il fatto di non offrire alcuna terapia. Nel 1929 Freud aveva
iniziato la sua diagnosi sul « disagio della civiltà» con queste parole: « Così mi manca il coraggio di
ergermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna
consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono ».7 Queste parole si confanno anche
all’impresa heideggeriana. Anch’egli pensa a partire dall’esperienza del disagio e si rifiuta di ergersi
a profeta e di « portare consolazione ».
Tuttavia la domanda enfatica di Heidegger sul « senso dell’essere » potrebbe prestarsi molto bene a
destare questo tipo di aspettative. In effetti esse furono destate, ma non soddisfatte. Che questo tipo
di aspettativa debba andare delusa fa parte del messaggio di Essere e tempo che suona così: non c’è
niente che si nasconde dietro. Il senso dell’essere è il tempo; ma il tempo non è una cornucopia di
doni, esso non ci dà nessun contenuto e nessun orientamento. Il senso è il tempo, ma il tempo non «
dà » alcun senso.
Nell’analisi heideggeriana dell’esserci l’angoscia segna il punto di svolta: si precipita dalle relazioni
in cui finora si è fissata la propria vita. Le analisi che precedono il capitolo sull’angoscia hanno per
tema Tesserci ambientato stabilmente nel suo mondo. Viene mostrato che l’angoscia, poiché fa sì
che il mondo si ritragga, e in tal senso è un fenomeno di distanza, è più facile da descrivere rispetto
a questo « essere-nel-mondo» proprio dell’esserci quotidiano, peculiarmente privo di distanza e
fisso nel suo vivere. Se si vuole che quest’ultimo venga reso trasparente, è necessario in un certo
senso « seguire » questo movimento privo di distanza da parte dell’esserci, e non si ha il diritto di
porsi in un punto che stia appunto al di fuori di esso. Proprio qui vige il principio fenomenologico
fondamentale: non si deve parlare « sui » fenomeni, ma bisogna scegliere un atteggiamento che
consenta al fenomeno di mostrarsi.
Da questo punto di vista la filosofia ha spesso peccato, fi. nora. Essa ha descritto in che modo la
coscienza sorga dal mondo (naturalismo), oppure come il mondo venga costituito dalla coscienza
(idealismo). Heidegger cerca una terza via. La sua impostazione, originale ma anche stringente, è
questa: bisogna cominciare dall’« in-essere ». Infatti sul piano dei « fenomeni » non accade né che
io faccia prima esperienza di me e poi del mondo, né, al contrario, che io esperisca prima il mondo e
poi me stesso, bensì nell’esperienza entrambi sono dati contemporaneamente e in una connessione
inscindibile. Questa esperienza era stata chiamata dalla fenomenologia «intenzionalità». Per
Heidegger questa è l’idea più importante della fenomenologia, che egli però concepisce ora come
riferimento al mondo da parte dell'esserci e non solo, alla maniera di Husserl, come struttura della
coscienza.
L’analisi dell’« in-essere » conduce a peripezie lessicali bizzarre. Infatti ogni enunciato concettuale
deve evitare di ricadere nella così facile separazione di soggetto e oggetto e nella scelta di un punto
di vista « soggettivo » (interiore) o « oggettivo » (esteriore). Così nascono quelle accozzaglie di
parole separate da trattini, che hanno il compito di connotare le strutture nel loro nesso inscindibile.
Alcuni esempi: « essere-nel-mondo » significa: Tesserci non si contrappone a un mondo, ma si
trova sempre già in esso. « Con-essere-con-altri » significa: Tesserci si trova sempre già in
situazioni comuni in compagnia di altri. « Essere-avanti-a-sé » significa: a partire dal momento
presente Tesserci non guarda a caso, ma si dirige sempre verso l’avvenire nel modo del prendersi
cura. Queste espressioni mostrano il carattere paradossale dell’intera impresa. « Analisi » significa
infatti che qualcosa viene smembrato dal resto. Heidegger cerca invece, analizzando, di
neutralizzare gli effetti dell’analisi, cioè la suddivisione in parti e in elementi. Heidegger affronta
Tesserci come si farebbe con una colonia di alghe. In qualunque punto la si prenda, sarà necessario
estrarla sempre come un tutto. Questo sforzo di cogliere qualcosa di particolare, intendendo
contemporaneamente anche l'intero che vi si connette, conduce talvolta a un’involontaria parodia di
se stessi. Così, ad esempio, la « cura » viene determinata come « esser-già-avanti-a-sé-in (un
mondo) come esser-presso (l’ente che si incontra dentro il mondo) ».8
La complicatezza del linguaggio dev’essere commisurata alla complessità dell’esserci quotidiano.
Nel corso Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (Prolegomena zur Geschichte des
Zeitbegriffs) dell’estate 1925, Heidegger dice: « Se siamo costretti qui a introdurre espressioni
pesanti e forse sgraziate, non si tratta di un mio capriccio né di una particolare passione per creare
una terminologia propria, ma della costrizione esercitata dai fenomeni stessi [...] Anche se spesso
compaiono formulazioni di tal fatta, non ci si deve arrestare a ciò. Non c’è il bello nelle scienze e
forse tanto meno nella filosofia ».9
Inoltre questa terminologia particolare è - analogamente al modo di procedere brechtiano - una
tecnica di straniamento, dato che ciò che si deve indagare « non è una cosa estranea e sconosciuta,
ma viceversa la cosa più prossima », e proprio per questo è una cosa che fa sì che lo sguardo «
sbagli direzione ».10 In tal senso si tratta di un linguaggio calcolato. Esso dice ciò che è ovvio in
modo tale che anche i filosofi possano comprenderlo. E in tal senso questo linguaggio annuncia
anche gli sforzi della filosofìa nell’esplorazione della vita quotidiana, dalla quale essa finora è
fuggita. « Ciò che è onticamente più vicino e noto, è ontologicamente più lontano, sconosciuto e
disconosciuto. » 11
L’analisi dell’esserci è detta da Heidegger «analisi esistenziale» e le determinazioni fondamentali
dell’esserci si chiamano « esistenziali ». Questo concetto ha dato origine a molti fraintendimenti.
Ma esso è coniato per semplice analogia con il concetto tradizionale di categoria. La filosofia
tradizionale ha del resto chiamato « categorie » le determinazioni fondamentali dei suoi «oggetti »,
come ad esempio spazio, tempo, estensione, etc. Poiché per Heidegger Tesserci non è un « oggetto
» semplicemente presente, bensì è « esistenza », per questo egli non chiama categorie le
determinazioni fondamentali, ma appunto « esistenziali ».
Heidegger comincia dunque la sua analisi dell'esserci con l’«in-essere» perché Tesserci stesso
comincia con esso. L’« in-essere » non significa solo che ci si trova in qualche luogo, ma che si è
già sempre occupati in qualcosa, si ha sempre a che fare con qualcosa.
Come è noto, radicale è chi va alle radici. Per Marx la radice dell’uomo era l’uomo che lavora. L’«
aver-a-che-fare con qualcosa», inteso come determinazione fondamentale dell’uomo, è concepito da
Heidegger in senso ancora più ampio del « lavorare ». Marx aveva definito il lavoro come «
scambio metabolico con la natura ». In Heidegger questo « aver-a-che-fare » si riferisce, sì, anche al
« mondo ambiente » (delle cose, della natura), ma pure al « mondo del sé » (il rapporto con se
stessi) e al « mondo con-diviso » (la società).
L’impostazione di Heidegger è pragmatica perché l’agire (l’espressione « aver-a-che-fare » non
significa altro che questo) funge da struttura fondamentale dell’esserci.
Pragmatica è anche la connessione fra l’agire e il conoscere. Nella terminologia heideggeriana:
l’aver-a-che-fare primario ha la sua rispettiva « avvedutezza » (Umsicht). Il conoscere è una
funzione dell’agire. È per questo che è sbagliato voler capire la coscienza conoscente a partire da se
stessa. E questo discorso è diretto contro l’indagine fenomenologica della coscienza ad esempio di
Husserl. Dato che il conoscere risulta dall’aver-a-che-fare dal punto di vista pratico con il mondo,
occorre anche indagarlo a partire dall’attività pratica della vita.
Non si tratta forse di un ricorso al ben noto principio materialistico: « l’essere determina la
coscienza »? Questa è l’obiezione di Heidegger: se si lascia che sia l’essere a determinare la
coscienza, si fa credere di sapere che cosa sia l’essere. Ma questo noi non lo sappiamo; è appunto
ciò su cui ci interroghiamo, dice Heidegger. Si può solo osservare attentamente e descrivere
fenomenologicamente come il «mondo ambiente », il « mondo con-diviso » e il « mondo del sé » si
fanno incontro all’esserci.
Egli chiede innanzi tutto: in che modo e sotto che forma si fa incontro il mondo ambiente delle
cose? Esso si fa incontro in quanto « mezzo » (Zeug) con il quale c’è nell’ambito della mia attività
una determinata « appagatività » (Bewandtnis).
Un esempio: la porta che apro abitualmente, non la percepisco come una tavola di legno smaltata.
Quando ne faccio uso non la percepisco affatto: la apro per entrare nello studio. Essa ha il suo «
posto » nel mio spazio vitale, ma anche nel mio tempo vitale: essa ricopre un determinato ruolo nel
rituale della mia quotidianità. Anche il suo cigolare ne fa parte, così come le tracce del suo uso, i
ricordi che le sono « connessi » e così via. Questa porta è, come dice la corrispettiva espressione
heideggeriana, « a portata di mano » (zuhanden). Se una volta dovesse trovarsi chiusa, a sorpresa, e
io dovessi sbatterci la testa, allora mi accorgerei con dolore che la porta è anche una tavola dura di
legno. E allora la porta « a portata di mano » diventa una porta « semplicemente presente ».
Le relazioni a cui siamo abituati in questo modo formano il mondo di ciò che è « a portata di mano
». Qui c’è un nesso di significato, del quale mi servo nelle mie azioni, anche senza riconoscerlo nel
dettaglio. Noi « viviamo » questi significati senza esserne esplicitamente coscienti. Soltanto quando
si crea un disturbo, dall’esterno o dovuto alla coscienza, questo rapporto vissuto si spezza e le cose
si fanno notare come qualcosa di meramente « presente ». Ma in ciò che è « semplicemente presente
» le significatività vissute proprie di ciò che è a portata di mano sono scomparse o hanno perduto il
loro vigore. Soltanto con la trasformazione di ciò che è a portata di mano nel semplicemente
presente le cose diventano in senso stretto « oggetti », che possono essere indagati con un
atteggiamento teoretico.
L’analisi di Heidegger cerca di salvare per il pensiero il mondo di ciò che è « a portata di mano »,
perché questo mondo è per lo più « trascurato » dalla conoscenza filosofica. Ci si pone in maniera
troppo affrettata di fronte alle cose (e alle persone), cosicché esse sono solo « semplicemente
presenti », in modo indifferente. In seguito Heidegger chiamerà la trasformazione del mondo in
qualcosa di meramente presente con l’espressione « dimenticanza dell’essere », e la conservazione
consapevole dello spazio vitale « a portata di mano » diventerà il vincolo all’essere, inteso come
«prossimità» o come un « abitare presso le cose ». Il rispettivo atteggiamento prenderà poi il nome
di « abbandono » (Gelassenheit).
In Essere e tempo predomina comunque un altro ideale di esistenza, come vedremo poi.
La struttura fondamentale di questo aver-a-che-fare con il mondo è detta da Heidegger « cura »
(Sorge). Egli dà all’espressione un significato ampio. Cura è tutto. Per spiegarlo, Heidegger cita la
favola della « Cura » scritta da Igino.
«La 'Cura’, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse
un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre era intenta a stabilire che cosa avesse fatto, intervenne
Giove. La ’Cura’ lo pregò di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsentì
volentieri. Ma quando la ’Cura’ pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo
proibì e volle che fosse imposto il suo. Mentre la ’Cura’ e Giove disputavano sul nome, intervenne
anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il suo nome, perché aveva
dato a esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai
contendenti la seguente giusta decisione: Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte
riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per
prima diede forma a questo essere, fin che esso vivrà lo possieda la Cura. »12
Con « cura » non si deve intendere dunque che si sia sempre preda di qualche « preoccupazione ». «
Cura » è un connotato fondamentale della conditio humana. Heidegger usa questa espressione nel
senso del prendersi cura, pianificare, preoccuparsi, calcolare e prevedere. Il riferimento al tempo qui
è decisivo. Può prendersi cura soltanto un essere che vede davanti a sé un orizzonte temporale
aperto e indisponibile entro cui deve vivere. Noi siamo esseri che si prendono cura e che si
preoccupano perché esperiamo esplicitamente l’orizzonte temporale che si apre davanti a noi. La
cura non è altro che temporalità vissuta.
Preoccupati e senza pace a causa del tempo, noi incontriamo, nelle nostre azioni, il mondo. Questo
può essere, nella prospettiva dell’aver-a-che-fare con esso, semplicemente presente o a portata di
mano. Ma Tessere stesso non è né qualcosa di semplicemente presente, né a portata di mano: esso è
invece « esistenza ». « Esistere » significa avere una relazione con se stessi, doversi rapportare a se
stessi e quindi al proprio essere. Come si annuncia all’uomo il proprio essere? Heidegger risponde:
nella « tonalità emotiva ».
« Le possibilità rivelatrici del conoscere sono inadeguate rispetto all’apertura originaria propria
delle tonalità emotive in cui Tesserci è posto innanzi al suo essere. »13
Heidegger combatte con enfasi contro un’automistificazione della filosofia dura a morire. Poiché la
filosofia è uno sforzo del pensiero, essa assegna al pensiero la massima capacità di dischiudere. I
sentimenti e gli stati d’animo sono « soggettivi » e perciò, si dice, sono inadeguati a sostenere la
conoscenza oggettiva del mondo. Naturalmente i cosiddetti «affetti » sono sempre stati oggetto
della curiosità teoretica. Essi potevano essere oggetti della conoscenza, ma di norma non erano
accettati come organi della conoscenza. Con Nietzsche e la filosofia della vita questa situazione era
cambiata, ma per Heidegger non ancora in modo abbastanza radicale. La filosofìa che prende le
mosse dagli stati d’animo si è fatta confinare nel «refugium dell’irrazionalismo»: un cattivo
domicilio per la filosofia. «L’irrazionalismo, come controparte del razionalismo, discorre da orbo di
ciò di cui questo parla da cieco. »14
Heidegger mette mano direttamente, senza deviazioni, alle «tonalità emotive ».
Noi siamo sempre « in qualche modo » immersi in una tonalità emotiva. La tonalità emotiva è una «
situazione emotiva». Noi possiamo certo calarci in stati d’animo, ma l’essenziale è che questi si
fanno sentire, si infiltrano, ci assalgono, ci sopraffanno. Noi non ne siamo padroni. Nella tonalità
emotiva facciamo esperienza dei limiti della nostra autodeterminazione.
Ora, Heidegger non passa in rassegna tutti gli stati d’animo possibili, ma si concentra su alcuni di
essi che si attagliano alla sua concezione. Egli mette in evidenza, quale tonalità emotiva
fondamentale della quotidianità, «l’indifferenza emotiva, sovente persistente, uniforme », con tracce
di « tedio» e di « noia ». In ciò appare che « l’essere si è rivelato come un peso ».15 II quotidiano
affaccendarsi è una fuga di fronte a questa tonalità emotiva. L’esserci si dà da fare, opera
attivamente, non confessa a se stesso ciò che lo stato d’animo annuncia. « Per lo più Tesserci [...]
evita Tessere aperto nella tonalità emotiva. »16
L’ontologia fondamentale di Heidegger può essere intesa come il dispendioso tentativo di tagliare
all’esserci tutte le vie di fuga. Con una intensità tanto meticolosa quanto penetrante, Heidegger
affronta quelle tonalità emotive in cui si manifesta il « carattere di peso dell'esserci », in modo
uniforme e quotidiano nel tedio e nella noia, stridente e drammatico nell’angoscia.
Però l’affermazione secondo cui le tonalità emotive che sono di peso sarebbero quelle fondamentali,
non è affatto stringente. Max Scheler, che analogamente a Heidegger attribuisce agli stati d’animo
un carattere fondante, giunge a esiti diversi. Nella sua indagine Essenza e forme della simpatia
(1923) egli spiega l’amore e l’affetto come « il convolare e il procedere insieme » verso la
situazione emotiva fondamentale e considera al contrario ciò che è triste e di peso come un disturbo
e un pericolo per questo tratto simpatetico fondamentale.
Si potrebbe semplicemente dire che Heidegger ha preso come punti di partenza quella tonalità
emotiva che per lui è predominante e fondante e la situazione emotiva di un periodo di crisi, quello
della Repubblica di Weimar. Ciò avrebbe una sua giustificazione nel senso che Heidegger mette in
evidenza « l’esser-sempre-mia» e la «storicità» della tonalità emotiva. Però, nonostante « l’esser-
sempre-mia » e la «storicità » egli intende fare affermazioni che abbiano una giustificazione sul
piano ontologico fondamentale: nelle sue tonalità emotive fondamentali egli non coglierebbe
soltanto il suo esserci e quello del suo tempo, bensì Tesserci in generale.
Con la sua analisi dell’esserci Heidegger voleva porre la questione dell’essere e dunque non voleva
che fosse intesa solo come un contributo all’antropologia filosofica. Perciò è tanto più sorprendente
che importanti filosofi-antropologi del tempo, come Helmuth Plessner e Arnold Gehlen muovano
proprio dal carattere di peso dell’esistenza umana. Ma entrambi ne traggono conclusioni diverse.
Sullo sfondo di queste posizioni, l’impostazione di Heidegger risalta in modo particolarmente
chiaro. Nella sua opera antropologica principale, I gradi dell'organico e l' uomo (1928), Plessner
definisce l’uomo facendo riferimento alla sua posizione « eccentrica». Esso non ha un ambiente
organico speciale nel quale è pienamente inserito, bensì è aperto al mondo. Non vive come gli
animali « a partire dal suo centro e dentro il suo centro»,1 bensì deve cercare e costruire il proprio
centro. È un essere che vive nella distanza, che deve soffrire sotto il peso di se stesso e della propria
posizione eccentrica. Questa infatti lo coinvolge in cocenti contraddizioni. Va in cerca della propria
posizione, istituisce relazioni, ma non riesce a risolversi interamente in esse. Torna a intersecare
questi legami in quanto fa esperienza interiore di sé come di un essere riflessivo. Agisce nel mondo
e si riflette a partire da esso. Perciò è eccentrico non solo rispetto al mondo, ma anche rispetto a se
stesso. « In quanto è un io, che rende possibile il completo rivolgimento del sistema della vita a se
stesso, l’uomo non sta più nel ’qui-ora’, bensì alle spalle di esso, di sé, senza alcuna collocazione,
nel niente [...] La sua esistenza è fondata davvero sul niente. »18
Eccentricità significa: bisogna sopportare la vita più di quanto non si sia sostenuti da essa, ovvero,
in termini positivi, bisogna condurre la propria vita. La vita umana sta sotto la legge dell’«
artificialità naturale ».
A questo risultato si richiama negli anni ’30 Arnold Gehlen. Anche per lui l’uomo è aperto al mondo
e non è inserito per istinto in nessun ambiente specifico. Questa mancanza di adattamento
diminuirebbe le possibilità biologiche di sopravvivenza, se essa non fosse compensata in altro
modo. Quello che gli manca quanto a natura, l' uomo deve crearlo sotto forma di cultura. Deve
crearsi per proprio conto l’ambiente adatto. Nel far ciò procede secondo il principio dello
sgravamento. Datò che è già molto quello che deve « fare », l’uomo si sforza di configurare se
stesso e le cose in modo da « funzionare » con il minor dispendio possibile di spontaneità, di
energia motivazionale e di stimolo. L’uomo cerca cioè di eliminare la propria eccentricità e
riflessività, istituendo il proprio mondo vitale in modo che esso lo sgravi da tutto ciò che un’intera
tradizione filosofica ha considerato come quintessenza della dignità umana: la spontaneità, la
riflessività, la libertà.
La vita diventa tanto più pesante quanto più l’uomo si fa uomo interiore. Tale interiorità è di norma
troppo debole per poter sostenere un mondo proprio, ma abbastanza forte per far percepire la
necessaria oggettivazione e istituzionalizzazione del mondo della vita sociale come presunzione e
come «non verità». Infine l’uomo, che soffre per lo «iato» di questa interiorità, si consegna
all’inevitabile e fa sì che la civilizzazione gli tolga i pesi dell’esistenza, anche se nel far questo ha la
sensazione di perdere se stesso. L’uomo entra in sé e perde il mondo; entra nel mondo e perde se
stesso.
Per Gehlen ne consegue che « l’uomo può fissare solo indirettamente un rapporto duraturo con se
stesso e con i suoi simili; deve ritrovare se stesso compiendo una deviazione, alienandosi, e per
questo ci sono le istituzioni. Queste sono peraltro [...] forme prodotte dall’uomo, nelle quali lo
psichi-
co [...] si oggettivizza, viene intrecciato al corso delle cose e proprio in questo modo riceve una sua
durata. Così almeno gli uomini vengono bruciati e consumati dalle loro stesse creazioni e non dalla
natura selvaggia, come accade agli animali ».19
Gehlen e Plessner puntano entrambi, al pari di Heidegger, sul carattere di peso dell’esistenza, per
descrivere poi le tecniche culturali di sgravamento come necessità elementare di sopravvivenza.
Heidegger parla per la verità anche della « tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose
facili ».20 Ma per lui è proprio questa tendenza che priva l’uomo del suo « proprio poter-essere ». Il
modo in cui ci si rapporta al carattere di peso proprio dell’esserci, cercando uno sgravamento
oppure assumendo il peso su di sé, decide dell’inautenticità o autenticità. In ogni caso, per
Heidegger lo sgravamento è soggetto innanzi tutto al sospetto di essere | una manovra di fuga, di
aggiramento, di deiezione, di « inautenticità », appunto. L’« autentico » eroe sostiene, come Atlante,
il peso del mondo, e inoltre deve anche fare l’acrobazia di camminare in posizione eretta e di
progettare arditamente la propria vita.
Accanto al celebre capitolo sulla morte, furono le analisi sull’autenticità e inautenticità a procurare
una grande pubblicità a questa difficile opera negli anni ’20. La descrizione heideggeriana del
mondo della vita inautentica ha un chiaro riferimento critico nei confronti del proprio tempo,
sebbene egli l’abbia sempre negato. Ugualmente vi troviamo una critica alla massificazione e
all’inurbamento, al nervosismo della vita pubblica, alla potente ascesa dell’industria dei
divertimenti, alla quotidianità febbrile, al qualunquismo da terza pagina in cui scade la vita
spirituale; tutti questi elementi confluiscono nella sua descrizione di un esserci che non vive del suo
proprio « poter-essere », ma viene vissuto da parte del « Si »: « Ognuno è gli altri, nessuno è se
stesso».21
Questo mondo del « Si » è stato descritto da altri autori degli anni ’20 talvolta in modo ancora più
penetrante e preciso. Nel suo L'uomo senza qualità Robert Musil scrive: « ’E' molto apprezzabile
che un uomo, ai nostri tempi, aspiri ancora ad esser completo.’ ’Macché, non è possibile’, opinò
Ulrich. Trova a dare un’occhiata al giornale. È assolutamente impenetrabile. Vi si parla di tante
cose, che non basterebbe il cer
vello di un Leibniz per capirle. Ma non ce ne accorgiamo nemmeno; siamo diventati diversi. Non
c’è più un uomo completo di fronte a un mondo completo, ma un qualche cosa di umano che si
muove in un comune liquido nutritivo’ ».22 Walter Mehring dice nella sua canzone Oplà, siam vivi!:
In questo albergo sulla terra
c’era tutta la crema della società,
che portava con disinvoltura
tutto il peso di campar!
Vicki Baum scrive nel suo romanzo di successo Grand Hotel del 1931: « Se parte, arriva un altro e
si mette nel suo letto. Stop. Si sieda un paio d’ore nella hall e osservi: ma la gente non ha volto!
Non sono che tante finzioni messe insieme. Sono tutti morti e non lo sanno affatto ».
Anche il « Si » di Heidegger è una di queste finzioni. « Il Si, come risposta al problema del Chi
dell’esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo
essere-assieme. »23 Le descrizioni heideggeriane del modernismo di Weimar fanno impressione
proprio per l’ambiente in cui vengono collocate. L’effetto che ne consegue è la grande entrata in
scena di ciò che è banale e quotidiano sul palco approntato dall’ontologia fondamentale. Esso recita
il ruolo di primo attore nel dramma della nostra esistenza. Ed è per questo che Heidegger non vuole
essere letto come un critico del proprio tempo: la critica sarebbe infatti qualcosa di ontico, mentre
lui ha a che fare con l’ontologico.
Questi « nessuno » recitano sul palco di Heidegger una scena spettrale. Sono maschere dietro cui
non si nasconde niente. Non c’è un « sé ». Dove è rimasto il sé? L’inautenticità è forse una
condizione di rifiuto, di caduta o di alienazione del sé autentico? Il vero sé attende in noi stessi, o
dietro le quinte, di tornare a essere realizzato? No, dice Heidegger. L’inautenticità è la forma «
originaria » del nostro esserci, e invero non solo nel senso di ciò che è (onticamente) consueto, ma
anche sul piano ontologico. Infatti l’« inautenticità » è un esistenziale tanto quanto l’« in-essere ».
Noi ci troviamo già sempre in una situazione in cui siamo presi nelle nostre faccende. Ciò è già
stato spiegato con l’esempio del « mondo ambiente », ma vale naturalmente anche per il « mondo
condiviso » e per il « mondo del sé ». Vale a dire: Tesserci non è « innanzi tutto e per lo più » presso
di sé, bensì è là fuori, presso le proprie faccende e presso gli altri. « Innanzi tutto ’io’ non ’sono’ io
nel senso del me-Stesso che mi è proprio, ma sono gli altri, nella maniera del Si [...] Innanzi tutto
Tesserci è il Si, e per lo più rimane tale. Se Tesserci scopre autenticamente il mondo e vi si
inserisce, si apre a se stesso il suo essere autentico, esso realizza sempre questa scoperta del
’mondo’ e questa apertura dell’esserci sotto forma di rimozione dei velamenti e degli oscuramenti e
come chiarificazione delle contraffazioni con cui Tesserci si rende prigioniero di se stesso. »24
Un momento in cui le « contraffazioni » si spezzano e si manifesta T« essere autentico » lo
conosciamo già: è l’attimo dell’angoscia. Il mondo perde la sua significatività, appare come nudo
«che» sullo sfondo del niente, e Tesserci stesso esperisce il proprio sradicamento, non si sente più
protetto e guidato da alcun senso oggettivo. Il passaggio all’« essere autentico » avviene dunque
come shock della contingenza, come esperienza del fatto che dietro si nasconde il niente. Questa
esperienza di iniziazione a una filosofia dell’autenticità è stata formulata da Heidegger, ancora più
chiaramente che in Essere e tempo, nella sua lezione inaugurale friburghese del 1929. La filosofia,
vi si dice, comincia solo se abbiamo il coraggio « di farci venire incontro il niente ». A tu per tu con
il niente ci accorgiamo infatti di non essere solo «qualcosa » di reale, ma anche esseri creativi, che
sono in grado di far scaturire qualcosa dal niente. Decisivo è il fatto che l’uomo possa fare
esperienza di sé come del luogo in cui il niente diventa qualcosa e il qualcosa niente. L’angoscia ci
conduce a questo punto di rovesciamento. Essa ci mette a confronto con quell’« essere-possibili »
che noi stessi siamo.
L’analisi heideggeriana dell’angoscia tralascia deliberatamente di affrontare l’angoscia della morte.
Si potrebbe dire, piuttosto, che il suo tema è l’angoscia della vita, l’angoscia davanti a una vita che
si fa improvvisamente presente a ciascuno in tutta la sua contingenza. L’angoscia mostra con
evidenza che la vita quotidiana è in fuga dalla propria contingenza. Questo è il senso di tutti i
tentativi di « dare stabilità al proprio vivere ».
Si potrebbe pensare che il « Si » sia solo l’uomo qualun que, mentre anche i filosofi vi prendono
parte. Essi infatti si fissano nella vita, secondo la critica di Heidegger, per mezzo delle loro grandi
costruzioni, dei loro mondi di valori e retro-mondi metafisici. Anche la filosofia è per lo più
occupata a eliminare lo shock da contingenza o, meglio, a non permetterlo affatto.
E veniamo ora all’« autenticità » stessa. Essa è la negazione della negazione. Essa resiste alla
tendenza alla fuga, alla diversione.
L’autenticità ha posto le proprie fondamenta sul niente. Essa significa venire al mondo un’altra
volta. L’autenticità non scopre nuovi ambiti dell'esserci. Tutto può restare così com’è, e tale rimarrà;
è solo l’atteggiamento a essere cambiato.
Se l’angoscia è l’esperienza di iniziazione dell’autenticità, allora la celebre « anticipazione della
morte » heideggeriana fa già parte della riuscita di questa autenticità. Perciò nell’ordito di Essere e
tempo il capitolo sulla morte ha il proprio posto nella sezione sul possibile «essere un tutto da parte
dell’esserci », un altro termine per dire « autenticità ».
Anche in rapporto alla morte Heidegger sceglie come elemento di contrasto la comprensione
quotidiana della morte, che è riconducibile alla formula « una volta o l’altra si morirà, ma, per ora,
si è ancora vivi ».25 La propria morte, fintanto che si vive, « non è ancora presente e quindi non ci
minaccia ».26
Non sarebbe particolarmente originale sul piano filosofico se Heidegger volesse arricchire la
tradizione del memento mori, vecchia ormai di millenni, di una nuova predica per la penitenza e la
conversione, anche se è vero che le fa il verso quando cita lo scritto tardomedievale II contadino di
Boemia di Johannes Tepl: « Non appena l’uomo viene al mondo, è già abbastanza vecchio per
morire ».
Heidegger vuole descrivere fenomenologicamente i diversi modi in cui noi veniamo toccati dalla
morte finché siamo in vita, non già con un discorso concitato, ma con una terminologia altamente
concettuale e con la distanza propria di un ragionamento scientifico. Ciò nonostante si avverte una
eccitazione che sta a indicare che qui ci troviamo nelle zone calde della sua filosofia. La morte, dice
Heidegger, non è la fine della vita, bensì l’« essere-per-la-fine »; essa non ci sta di fronte solo come
l’ultima ora della nostra vita, bensì sta dentro la nostra vita, dato che noi sappiamo della nostra
morte, La morte è la « possibilità » che ci sta costantemente davanti, e come tale è la «possibilità
dell’impossibilità della propria esistenza ». Sebbene tutti siano colpiti dalla morte, ciascuno deve
morire la propria morte, e non gli serve a niente il pensiero dell’universalità di questo destino. La
morte isola, anche quando si muore in massa. Il tentativo di comprenderla come limite assoluto
deve comprenderla al tempo stesso come limite della comprensione. Il riferimento alla morte è la
fine di ogni riferimento. Il pensiero della morte è la fine di ogni pensiero. Nel pensiero della morte
Heidegger vuole seguire le tracce del mistero, del tempo: la morte non è un evento « nel » tempo,
ma la fine del tempo. Essa appare come evento « nel » tempo laddove io faccio esperienza della
morte di altri. In questo caso soggiaccio alla suggestione del tempo spazializzato. Lo spazio
temporale è così ampio che io, dopo il decesso di altri, continuo ad aver posto in esso. Queste
immagini spaziali del tempo scaturiscono dal pensiero inautentico di esso. Non viene pensato il
tempo in senso proprio, cioè il fatto che il movimento irreversibile del tempo, il grande « non più »,
passa attraverso me. Le immagini inautentiche del tempo prendono quest’ultimo come qualcosa di
semplicemente presente.
Ricordo che Heidegger aveva distinto l’ente come esistenza da quello semplicemente presente. Nel
contesto dell’analisi della morte questa distinzione si fa particolarmente importante. Il
semplicemente presente è ciò che è spazializzato. Al contrario, Tesserci dell’uomo è tempo
assegnato, sopportato, vissuto fino alla fine. Di contro alla « semplice presenza »c’è il « non-esser-
più ». Le cose sono « nel » tempo, mentre Tesserci ha il suo tempo, si « temporalizza »; e poiché per
il bisogno di sicurezza e di stabilità questa è una pretesa, c’è appunto una potente tendenza
all’autoreificazione della vita. Si vorrebbe riposare nel tempo come le cose. I pensieri rassicuranti
sull'immortalità fanno appello alla forza dello spazio che permane contro il tempo che fugge via.
Vista nell’ottica del pensiero della temporalità, la domanda sul senso dell’essere posta inizialmente
appare improvvisamente in una nuova luce. Si capisce in che senso venga posta per lo più la
domanda sul senso, cioè come domanda su
un senso permanente, ovvero sul senso di ciò che permane. Heidegger pensa contro questa
persistenza, contro la suggestione quieta e inquietante dello spazio. Il senso dell’essere è il tempo;
vale a dire: Tessere non è assolutamente qualcosa che permane, è invece qualcosa che passa, non è
semplicemente presente, bensì è evento. Chi ha il coraggio di pensare davvero la propria morte,
scopre se stesso come un evento finito dell’essere. Questa scoperta è già quasi il massimo grado di
autotrasparenza che Tesserci possa raggiungere di per sé. Se inautenticità è l’occultamento di sé,
allora questa autotrasparenza è un atto di autenticità. Poiché però la filosofia di Heidegger lavora in
vista di questa autotrasparenza, essa intende se stessa come un atto di autenticità.
Alcuni interpreti di Essere e tempo si sforzano di purificare la filosofia heideggeriana
dell’autenticità dal punto di vista ontologico fondamentale solo per sventare il sospetto che ci possa
essere una connessione fra questa « autenticità » e il successivo impegno politico di Heidegger a
favore del nazionalsocialismo. Tuttavia questo tentativo finisce per forzare in maniera illecita il
formalismo di questa filosofia dell’autenticità. Infatti Heidegger ha pur sempre dichiarato
esplicitamente che «a base [...] dell’esistenza autentica» c’è «un ideale concreto dell’esserci ».27
Questo ideale è determinato innanzi tutto in senso negativo. L’esserci è autentico quando ha il
coraggio di fondarsi su se stesso e di non affidarsi a quella che Hegel chiama « eticità sostanziale »
di Stato, società, morale pubblica; se sa rinunciare alle offerte di sgravamento da parte del mondo
del « Si » e trova la forza di riprendersi dalla « perdizione »; se non gioca più con le mille
possibilità che ci sono, ma afferra quell’esser-possibile che esso stesso è.
Se Heidegger, grande interprete di Aristotele, contrappone la propria etica dell’autenticità all’etica
del mondo pubblico, nel far ciò deve prendere le distanze dalla tradizione aristotelica di un’etica
pratica della vita pubblica. Contrariamente a Platone, Aristotele aveva ricondotto la filosofia del
bene sul terreno della realtà sociale del suo tempo. Egli aveva riabilitato il consueto e l’abituale. Ciò
che è moralmente buono poteva essere conquistato per lui non già contrapponendosi ai valori
sociali, ma piuttosto solo a partire da essi.
Per Aristotele e per la tradizione che muove da lui, fino a giungere al pragmatismo etico e alla teoria
della ragione comunicativa, il punto di partenza e il metro di orientamento per una vita riuscita e
moralmente responsabile è proprio quell’ambito che Heidegger definisce come il mondo del « Si ».
Se il sé si ritira dal « Si » e ritorna su se stesso, a che cosa perviene? La risposta di Heidegger è
questa: esso giunge alla coscienza della mortalità e del tempo, alla visione dell’inaffidabilità di ogni
modo di aver cura civilizzatorio da parte dell'esserci, e soprattutto: alla coscienza del proprio poter-
essere, e dunque alla libertà nel senso di spontaneità, iniziativa, creatività. È un punto di arrivo al
quale vuole giungere per vie diverse anche Gottfried Benn. Nella poesia Bettola egli dice:
In pezzi mi lascio andare,
resto vicino alla mia fine,
ma una grande ora può scoccare
fra i balli e le rovine.
Per Benn Tesserci che perviene a se stesso deve innanzi tutto « andare in pezzi », per Heidegger
invece deve staccarsi con forza, e non troverà alcun terreno sotto i piedi, se non l’abisso della
libertà, ma insieme anche una «grande ora».
In occasione della spettacolare disputa con Cassirer, tenuta a Davos nel 1929, Heidegger dichiarerà
«che soltanto in pochissimi e rari istanti [...] l’uomo vive al culmine della sua propria possibilità
».28
Effettivamente l’autenticità di Heidegger non concerne in primo luogo l’agire buono e moralmente
corretto, quanto l’apertura di opportunità di grandi momenti; quello che le interessa è accrescere
l’intensità dell’esserci; ma in quanto in essa ne va anche dell’etico, le riflessioni che Heidegger fa
su questo punto in Essere e tempo possono essere formulate in un principio: fa’ quello che vuoi, ma
deciditi, e non lasciare che nessuno ti tolga la decisione e con essa la responsabilità. Gli studenti,
che a quel tempo a Marburgo dicevano, in tono parodistico: « Io sono deciso, però non so a che
cosa », avevano capito molto bene il decisionismo di Heidegger, e al tempo stesso lo avevano anche
frainteso. Lo avevano capito perché Heidegger parlava realmente di una decisione, senza però
nominare contenuti o valori per i quali ci si dovesse decidere. Ma lo avevano frainteso in quanto si
erano aspettati di ricevere tali indicazioni e orientamenti dalla sua filosofia. Heidegger intende
esplicitamente deludere questo atteggiamento di aspettativa. Esso appartiene infatti al modo
inautentico di fare filosofia. La filosofia non è un’istanza di informazioni morali; essa è, almeno per
Heidegger, il lavoro di distruzione e di smantellamento di tutte le presunte oggettività etiche. Quel
che rimane dopo questo lavoro è effettivamente un niente, se confrontato con la ricca tradizione del
pensiero morale.
Conformandosi alla buona consuetudine della filosofia morale, Heidegger parla anche della
coscienza, ma solo per rivelare anche qui questa nullità di determinazioni concrete. La coscienza ci
chiama all’autenticità, ma non ci dice che cosa dobbiamo fare per diventare autentici. « Che cosa
dice la coscienza nel suo chiamare il richiamato? Esattamente nulla [...] al se-Stesso richiamato non
è detto ’nulla’; esso è semplicemente ridestato a se-Stesso, cioè al suo più proprio poter-essere. »29
Heidegger non teme l’accusa di formalismo. Nella conferenza marburghese sul Concetto di tempo
egli richiama il formalismo della filosofia morale kantiana, che come è noto non ha elaborato
alcun’altra massima morale se non quella che nel proprio agire bisogna rispettare la ragione
dell’altro, vale a dire la sua libertà. Detto in parole povere: non fare agli altri ciò che non vorresti
fosse fatto a te stesso.
Analogamente al postulato kantiano del rispetto reciproco di ragione e libertà, Heidegger sviluppa il
suo principio del reciproco rispetto dell'esserci nell’altro: « l’ente nei cui confronti Tesserci, in
quanto con-essere, è un essere-per, non ha il modo di essere del mezzo utilizzabile, essendo esso
stesso un esserci. L’altro esserci non è incontrato nel quadro del prendersi cura, ma dell’aver cura
».30
Heidegger sceglie una formulazione descrittiva, che però in realtà contiene un’esigenza. Infatti
questo «aver cura» non connota affatto il modo quotidiano, socialmente consueto, in cui gli uomini
entrano reciprocamente in rapporto, ma quello in cui essi dovrebbero rapportarsi fra loro «
autenticamente ». « Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè
l’esistenza degli altri e non qualcosa di cui essi si prendano cura, aiuta gli altri a divenire
consapevoli e liberi per la propria cura. »3I
Qui Heidegger formula, con un atteggiamento descrittivo, il suo imperativo categorico: autenticità
significa non fare né di se stessi né degli altri una cosa, un « mezzo ». E anche la « decisione per se
stessi » viene congiunta, pur essendo a sua volta celata in una formulazione descrittiva, a
un’esigenza morale. Questa decisione deve cioè aprire la possibilità «di lasciar ’essere’ gli altri che
ci-sono-con nel loro poter-essere più proprio [...] Dall’esser se-Stesso autentico nella decisione,
scaturisce Tessere-assieme autentico».32
Ma che cosa potrebbe essere questo « essere-assieme-autentico » rimane per il momento altrettanto
indeterminato quanto l’essere se stessi autentico. L’unica informazione è anche qui puramente
negativa. L’essere-assieme, come Tessere se stessi, deve trovare la via d’uscita dalla «perdizione nel
Si ». È pensabile di evadere e allontanarsi collettivamente dall’inautenticità?
Si è spesso paragonata la distinzione heideggeriana fra Tessere-assieme-autentico e Tessere-
assieme-inautentico con la distinzione fra « comunità e società», così come l’ha presentata
Ferdinand Tönnies nel libro omonimo. L’opera apparve nel 1887, ma in un primo tempo non ebbe
alcuna risonanza. Negli anni ’20 divenne un bestseller sociologico, approntando i concetti più
importanti della critica conservatrice alla moderna società di massa. Secondo quest’opera la
comunità vale più della società. Comunità significa « organismo vivente » e convivenza « duratura
e vera ». La società è un « aggregato meccanico e un artefatto » e garantisce solo una convivenza «
provvisoria e apparente ». Nella comunità gli uomini sono « vincolati nonostante tutte le
separazioni », nella società sono « separati nonostante tutti i vincoli ».33
Di fatto però l’essere-assieme-autentico heideggeriano non coincide con questa rappresentazione
della comunità. Tale immagine della comunità comporta infatti anche che il singolo si voglia
liberare dei pesi della sua distanza, della sua solitudine e della sua individualità. Mentre l’autenticità
di Heidegger respinge ogni conformismo. Poiché egli incoraggia Tesserci a un poter-essere «
inalienabile » e cioè individuale, una comunità di stretta omogeneità dovrebbe apparirgli piuttosto
sospetta. Tuttavia Heidegger trarrà dalla sua etica dell’autenticità altre conseguenze politiche. Egli
intenderà la rivoluzione nazionalsocialista come una evasione collettiva dall’inautenticità e per
questo vi aderirà.
Ma queste conseguenze non risultano giocoforza dalla visione del mondo di Essere e tempo. Altri
ne hanno tratto conseguenze diverse. L’ontologia fondamentale di Heidegger, ivi compresa la sua
filosofia dell’autenticità, è abbastanza indeterminata da lasciare spazio nelle questioni politiche a
opinioni differenti. Gli heideggeriani della prima ora, come Herbert Marcuse, Jean-Paul Sartre,
Günther Anders, Hannah Arendt e Karl Lowith sono esempi di ciò.
Ma non ci può essere alcun dubbio che Heidegger, nonostante la sua ontologia della libertà, si riveli
in Essere e tempo come un nemico della democrazia pluralistica. Egli non ha alcuna sensibilità per
il principio della vita democratica: «Essa [la società democratica] regola innanzi tutto ogni
interpretazione del mondo e dell’esserci e ha sempre ragione. E ciò, non [...] perché essa disponga
di un’esplicita e appropriata trasparenza dell’esserci, ma per effetto del non approfondimento ’delle
cose’ e dell’insensibilità ad ogni discriminazione di livello e di purezza ».34
Quello che Heidegger rimprovera qui alla società democratica non è nient’altro che il suo principio
strutturale. Effettivamente essa è tale che tutte le opinioni e idee vi trovano accesso,
indipendentemente dal fatto di disporre o meno della « trasparenza dell’esserci ». Caratteristico di
questo tipo di vita pubblica è il fatto che in essa le persone appaiono su un piano di totale medietà e
« assenza di livello », e possono prendere la parola, autenticamente oppure no. Questa vita pubblica
è, almeno in linea di principio, uno specchio della vita, per quanto banale e insignificante -
inautentica - essa possa essere. E fa parte di essa anche che le verità debbano sopportare di essere
degradate a semplici opinioni sul mercato delle opinioni. La società democratica è effettivamente un
campo d’azione del « Si ».
È noto che i « mandarini » accademici, caratterizzati da una tradizione apolitica e antidemocratica,
potevano solo in rari casi abituarsi alla Repubblica di Weimar. Essi sospettavano di tutto ciò che
apparteneva alla democrazia: i partiti, la molteplicità delle opinioni e degli stili di vita, la reciproca
relativizzazione delle cosiddette « verità », la medietà e la normalità priva di eroismo. In questi
ambienti lo Stato, il popolo e la nazione erano considerati come valori in cui continuava a vivere
una sostanza metafisica inabissata: lo Stato, al di sopra delle parti, agisce come idea etica che
purifica il corpo popolare; le personalità-guida esprimono carismaticamente lo spirito del popolo.
Nell’anno in cui apparve Essere e tempo, il rettore dell’università di Monaco, Karl Vossler, inveiva
contro il risentimento antidemocratico dei suoi colleghi: « La vecchia irrazionalità si veste sempre
di nuovi simulacri: un fare politica metafisico, speculativo, romantico, fanatico, astratto e mistico
[...] si sente lamentare che tutte le faccende politiche sono sporche, irrimediabilmente insane, che la
stampa è falsa, e così pure i gabinetti ministeriali, che i parlamenti sono volgari, e così via. E si
crede di essere, mentre ci si lamenta, troppo elevati, troppo spirituali per fare politica ».
Anche l’« autentico » Heidegger si mette al di sopra dei partiti e guarda con sospetto e dall’alto in
basso alle faccende politiche.
Ma come immagina Heidegger in questo momento il superamento dell’inautenticità nella sfera
politica? Su questo Essere e tempo non dà alcuna risposta conclusiva. Da un lato infatti la
conversione all’autenticità rimane un atto di radicale isolamento del singolo. Heidegger cita,
condividendo la sua posizione, il conte Yorck von Wartenburg: « Lo Stato dovrebbe assumersi il
compito pedagogico di dissolvere le opinioni elementari e pubbliche, e di favorire, mediante
l’educazione, la massima individualizzazione possibile del vedere e dell’osservare. Si avrebbero
allora, al posto della cosiddetta pubblica opinione (cioè dell’esteriorizzazione radicale), di nuovo
coscienze individuali, cioè: le coscienze si farebbero forti e operanti ».35
Dall’altro lato fa parte dell’essere-nel-mondo anche il fatto che l’uomo è inserito nella storia del suo
popolo, nel suo « destino » e nella sua « eredità ». E poiché l’autenticità non rappresenta un
particolare ambito di azione con finalità e valori speciali, ma significa unicamente cambiare il
proprio modo di porsi e di atteggiarsi di fronte a qualsiasi ambito della vita, è possibile anche che
Tesserci si collochi appunto in modo autentico o inautentico in questo « destino » del popolo. Ma in
Essere e tempo non viene ulteriormente tratteggiato quale aspetto potrebbe avere una assunzione e
una continuazione autentica del destino di un popolo. Viene suggerito soltanto questo: Tesserci,
anche quello collettivo, non trova la propria autenticità attraverso norme, costituzioni, istituzioni,
ma solo attraverso esempi vissuti, cioè soltanto « scegliendosi i propri eroi ».36
Tuttavia, nonostante questi cenni oscuri su una via collettiva verso l’autenticità, in Essere e tempo
resta predominante il tratto individualistico. In un punto Heidegger definisce addirittura la sua
impostazione come un « solipsismo esistenziale ».37
Nelle questioni decisive dell’esistenza ciascuno rimane solo. Nessun popolo e nessun « destino »
collettivo possono togliere al singolo le decisioni nel campo dell’« autentico poter-essere ». Di
fronte al « destino » collettivo bisogna « venire in chiaro delle circostanze della situazione aperta
».38 Heidegger disapprova energicamente tutti i progetti di intervento storico a lunga scadenza.
Quello che rimane è un occasionalismo storico. Bisogna sfruttare il momento, cogliere l’occasione.
Perché, a che scopo?
Non per raggiungere una finalità storica lontana; se mai c’è una finalità, essa è quest’attimo stesso.
Si tratta di incrementare il sentimento dell’esserci. Autenticità è intensità, nient’altro.
Heidegger trova ancora i suoi momenti di intensità soprattutto nella filosofia. Ma non passerà molto
tempo perché egli li cerchi anche nella politica.
10. La tonalità emotiva del tempo: l’attesa del grande momento. Carl Schmitt, Tillich e altri. La
presenza di spirito.
La decisione e il niente. La liberazione dagli obblighi scolastici. L’evocazione dell’ esserci. La
compieta di Beuron. Preghiera e imbarazzo. Il male. Il grande dibattito di Davos: Heidegger e
Cassirer sulla montagna incantata. La notte e il giorno.
Essere e tempo era un’opera incompiuta. Erano previste due parti. Non fu completata nemmeno la
prima, sebbene Heidegger, pressato dalla scadenza, negli ultimi tempi vi abbia lavorato giorno e
notte. Fu certo l'unica volta nella sua vita in cui fece a meno per giorni interi di rasarsi. Tuttavia egli
ha via via elaborato tutti quei temi che avrebbero dovuto essere affrontati nei capitoli annunciati in
Essere e tempo ma non realizzati. Un abbozzo della terza sezione della prima parte, mancante, sul
tema « tempo ed essere » viene esposto nell’estate del 1927 nell’ambito del corso di lezioni sui
Problemi fondamentali della fenomenologia (Die Grundprobleme der Phänomenologie).
La seconda grande parte di Essere e tempo, che mancava ancora integralmente e che avrebbe
dovuto contenere la distruzione di ontologie esemplari in Kant, Cartesio e Aristotele, è rielaborata
da Heidegger negli anni successivi in scritti a sé stanti o in cicli di lezioni: nel 1929 appare Kant e il
problema della metafisica (Kant und das Problem der Metaphysik), nel 1938 egli pronuncia la
conferenza intitolata L'epoca dell'immagine del mondo (Die Zeit des Weltbildes), che contiene la
critica al cartesianesimo; il confronto con Aristotele viene condotto all’interno dei suoi corsi
universitari.
In questo senso Essere e tempo ha avuto una continuazione e una conclusione. Anche la cosiddetta «
svolta » (Kehre), che poi la scuola heideggeriana ha tanto mistificato, viene prefigurata già in questo
progetto. Nel corso sui Principi metafisici della logica (Metaphysische Anfangsgründe der Logik)
del 1928 essa viene nominata per la prima volta come un compito: « L’analitica del tempo è al
tempo stesso la svolta ».1
Questa «svolta» significa che l’analitica dell’esserci « scopre » innanzi tutto il tempo, ma poi si
volge indietro al proprio pensiero, affrontandolo dal punto di vista della comprensione del tempo. Il
pensiero del tempo considera la temporalità propria del pensiero. Però non nel senso di una analisi
delle circostanze storiche, dato che non è qui, secondo Heidegger, il nocciolo della temporalità. La
temporalità dell’esserci si realizza, come sappiamo già, nella « cura ». Nella cura l'esserci vive
all’interno del proprio orizzonte temporale aperto, prendendosi cura e preoccupandosi di cercare dei
punti fermi e affidabili nel fluire del tempo. Tali punti fermi possono essere il lavoro, i rituali, le
istituzioni, le organizzazioni, i valori. Ma questi punti fermi devono perdere tutta la loro dignità di
sostanza per una filosofia che si è « vòlta » a diventare coscienza della propria temporalità.
Scoprendo il fluire del tempo, la filosofia non può più fare altro se non riconoscere se stessa come
parte di esso. Privata delle sue pretese universalistiche e avulse dal tempo, questa filosofia della
«svolta» scopre che, se il senso dell’essere è il tempo, non ci può essere nessuna fuga dal tempo che
approdi a un essere affidabile. Le vie di fuga sono tagliate; la filosofia non dà più risposte, essa può
intendersi solo più come un interrogare che si prende cura. La filosofia non è nient’altro che la cura
in azione, « preoccupazione di sé », come dice Heidegger.
A causa delle sue pretese di verità, la filosofia ha un modo difficilmente penetrabile di porsi di
fronte a qualcosa. Facendo filosofia, Heidegger vuole scoprire gli altarini della filosofia. Che cosa
può fare essa, in generale? La risposta di Heidegger è la seguente: scoprendo che il senso è nel
tempo, essa può acuire gli ingegni per il cuore pulsante del tempo, cioè per l’«attimo». La svolta è
questa: dopo l’essere del tempo, il tempo dell’essere. Questo però sta in equilibrio sulla cima di
ogni singolo attimo.
L’« attimo » ha per Heidegger un pathos del tutto particolare. Con esso non si intende cioè riferirsi
al luogo comune secondo cui il tempo che corre via attraversa costantemente un presente, un
momento presente. L’attimo non è semplicemente qualcosa di « dato », bensì deve essere scoperto,
e ciò proprio perché il nostro rapporto abituale con il tempo è solito occultare l’istantaneità
dell’attimo con la stabilità vuota dell’« e così via ». L’istantaneità dell’attimo non è un accadimento,
ma un esito dell’agire dell’esserci, una virtù dell’autenticità. « L’attimo non è altro che lo sguardo
della decisione, nella quale l’intera situazione di un agire si apre e si mantiene aperta. » Porsi di
fronte all’attimo, e quindi alla costrizione di decidere, è per Heidegger una « possibilità
fondamentale dell’esistenza autentica dell’esserci ».2
La scoperta e la caratterizzazione heideggeriana dell’« attimo » si inserisce in quella curiosità
febbrile e in quella voglia di esperimenti metafisici tipiche degli anni ’20. I progetti filosofici che si
proponevano di rompere con il proprio tempo, dal «buio dell’attimo vissuto» di Ernst Bloch fino
all’« attimo della decisione» di Cari Schmitt, dal «terrore improvviso » di Ernst Jünger al « Kairos
» di Paul Tillich, si riferiscono tutti, come fa appunto anche Heidegger, all’« attimo », che aveva
cominciato la sua vita filosofica nel pensiero di Kierkegaard.
L’« attimo » di Kierkegaard è il momento in cui Dio fa irruzione nella vita e il singolo si sente
chiamato alla decisione di osare il salto nella fede. In quest’attimo il tempo storico, che separa il
singolo da Cristo, diventa privo di significato, Chi viene chiamato e sfidato dal messaggio e
dall’opera di redenzione di Cristo, esiste « contemporaneamente » a Cristo. In quest’attimo
esistenzialmente infuocato viene bruciata l’intera tradizione culturale che si trascina dietro la
religione come patrimonio culturale e come morale convenzionale. A partire da Kierkegaard 1’«
attimo » diventa il faro dei virtuosi antiborghesi della religione, del tipo di Carl Schmitt, che si
perde con la sua mistica dell’attimo nella sfera politica edel diritto pubblico, o di Ernst Jünger, che
con esso diventa un guerriero e un surrealista. Alla piattezza dell’« e così via», tipico della stabilità
borghese, si contrappone il sapore forte di una intensa infinitezza vissuta nell’attimo.
Così inteso, l’attimo promette di intrattenere una relazione con il «totalmente altro», ha il senso di
un’altra esperienza del tempo, e dell’esperienza di un altro tempo. Esso promette svolte e
trasformazioni improvvise, forse addirittura approdo e redenzione, ma in ogni caso costringe alla
decisione. In quest’attimo il tempo orizzontale viene incrociato da un tem po verticale. Secondo la
definizione che ne dà Rudolf Otto nel suo libro II sacro (1917), che tanto clamore suscitò, l’attimo è
l’equivalente temporale soggettivo dell’incontro con il numinoso. Tutta la vita spirituale degli anni
’20, affamata di intensità, ha guardato al numinoso in ogni sua forma. L’impulso metafisico si
trasforma nell’angoscia di perdere l’attimo decisivo. « L’orologio normale di un’epoca astratta è
esploso »,3 scrive Hugo Ball nella Fuga dal tempo, mentre mette in scena al Cabaret Voltaire i mille
piccoli rivolgimenti della cultura, in attesa di un grande rivolgimento. Il dadaismo è tutto un
programma di addestramento al grande momento che dovrà rendere tutto nuovo. Da qui
l’impazienza specifica di quegli anni. « Essere dadaista significa lasciarsi gettare dalle cose, essere
contro ogni forma di sedimentazione, stare seduti un momento su una sedia significa aver messo in
pericolo la vita. » (Primo manifesto dadaista) In un ambiente di vita destabilizzato sia sul piano
spirituale sia su quello materiale, il grande ideale è la presenza di spirito. Presenza di spirito è avere
il senso delle occasioni. Di questa presenza di spirito parla anche il romanzo di Kafka II castello,
scritto all’inizio degli anni ’20. In esso l’occasione mancata e l’assenza dello spirito diventano uno
scenario metafisico dell'orrore: l’agrimensore K. dimentica di andare a un appuntamento con
l’autorità del castello. Forse questo avrebbe potuto salvarlo.
La Neue Sachlichkeit, anch’essa fortemente impregnata di metafisica, punta altrettanto sulla
presenza di spirito. Essa considera al giusto livello solo ciò che «è all’altezza del tempo». Per
Brecht il pugile diventa la figura rituale: è l’atleta della presenza di spirito. Il buon pugile coglie
d’istinto i momenti in cui deve piegarsi e quelli in cui deve colpire. Le fantasie di mobilità della
Neue Sachlichkeit sono dominate dall’ossessione di mancare l’appuntamento con il tempo. Un
determinato tipo di diagnosi del tempo degli ultimi anni della Repubblica di Weimar cerca la verità
storica non nel continuo temporale, ma nello strappo e nella rottura. Ne sono esempio Tracce di
Bloch, Strada a senso unico di Benjamin, Il cuore avventuroso di Ernst Jünger. Per tutti questi
tentativi, nel loro complesso, vale la frase di Benjamin: « L’istante della conoscibilità è l’attimo del
risveglio».4 La storia è intesa come cratere vulcanico: essa non avviene, erompe. Perciò bisogna
essere pronti a interpretarla velocemente, prima di restarne sepolti. Chi vive l’attimo, non deve
preoccuparsi troppo della propria sicurezza. I momenti pericolosi richiedono cuori avventurosi.
Poiché la « storia del mondo procede di catastrofe in catastrofe », come dice Oswald Spengler,
bisogna essere preparati a questo: ciò che è decisivo avviene « all’improvviso », « repentino come
un lampo, un terremoto [...] Anche in questo dobbiamo staccarci dal modo di vedere del secolo
precedente, [...] che punta sul concetto di ’evoluzione’ ».5
Kierkegaard fu uno dei pensatori del xix secolo che iniziarono il xx secolo al mistero dell’attimo.
L’altro fu Nietzsche, L’attimo di Kierkegaard significava l’irruzione del totalmente altro. L’attimo di
Nietzsche significa rompere ciò che è abituale. Nell’attimo della «grande liberazione» avviene in
Nietzsche la nascita dello spirito libero: « La grande liberazione arriva [...] improvvisa, come un
terremoto: l’anima giovane viene scossa, lacerata, strappata via; essa stessa non capisce che cosa
succeda. È dominata da un impulso, un conato che la possiede come un ordine; si desta un volere,
un desiderio di andare oltre, in qualche dove, a qualsiasi costo; una curiosità accesa e pericolosa
s’infiamma e dardeggia in tutti i suoi sensi [...] Un improvviso terrore e sospetto contro quello che
essa amava, un lampo di disprezzo contro ciò che chiamava ’dovere’, una smania ribelle di
migrazione, arbitraria, vulcanica e urtante ».6
L’attimo di Nietzsche è intensità potenziata che non si conquista attraverso il contatto con
l’assoluto, come in Kierkegaard, ma in una trascendenza che ha in sé la grande potenza, la « grande
liberazione ». Un surriscaldamento endogeno. Per essa non c’è alcun orientamento a valori
superiori, che anzi sono scomparsi: « Dio è morto! » L’intensità dell’attimo viene dalla libertà, dalla
spontaneità assoluta. Viene dal nulla. Naturalmente questi attimi sono stati eccezionali. Ma soltanto
a partire da questo elemento eccezionale viene allo scoperto ciò che nella vita normale rimane
altrimenti nascosto. « Il caso normale non prova nulla, l’eccezione prova tutto [...] Nell’eccezione la
forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione. »7
Sono frasi tratte dalla Teologia politica pubblicata nel 1922 da Carl Schmitt, che prende posizione
con forza a favore delle decisioni che, « in senso normativo, sono nate da un nulla».8
La potenza della decisione non ha altro fondamento se non la volontà di potenza; al posto della
legittimazione vi è l’intensità di un attimo dotato di potenza originaria. Questa teoria della decisione
che scaturisce normativamente dal nulla è stata definita da Paul Tillich nel 1932 «romanticismo
politico », che contiene in sé l’esigenza « di creare la madre a partire dal figlio e di chiamare il
padre dal nulla ».9 Per Carl Schmitt lo Stato è una condizione permanente di eccezionalità
numinosa: l’attimo sacro che si è fatto Stato è per lui la «sovranità». La pungente definizione di
quest’ultima è: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione».10 Carl Schmitt riconosce il
contenuto teologico del suo concetto di sovranità. « Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza
un significato analogo al miracolo per la teologia. ».11 Nel miracolo si manifesta la sovranità di Dio,
nella condizione eccezionale quella dello Stato.
Gli amanti dei grandi momenti negli anni di Weimar sono quasi tutti avventisti del nulla, preti senza
lieta novella, nei quali il contenuto sta tutto nel contegno.
L’attimo di Heidegger, quando l'esserci ritorna in sé dalla dispersione, è una condizione eccezionale
in cui viene spezzata « la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione » (Carl Schmitt). Esso è
insieme un attimo nel senso di Nietzsche e di Kierkegaard: in esso c’è qualcosa che irrompe e
qualcosa che erompe. Tutto dipende, come dice Heidegger nel suo corso I concetti fondamentali
della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine (Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt -
Endlichkeit - Einsamkeit) del 1929-30, dall’adesione all’attimo di « intimo sgomento che ogni
mistero porta con sé e che dona all’esserci la sua grandezza ».'2 Nel frattempo Heidegger è tornato a
Friburgo. Nel 1928 viene chiamato a occupare la cattedra di Husserl. Lo stesso Husserl si era
adoperato affinché Heidegger fosse il suo successore.
Negli scritti e nelle lezioni di Heidegger dopo il 1928, nella lezione friburghese inaugurale Che cos
è metafisica? (1929), nelle conferenze Dell’essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes,
1929) e Dell'essenza della verità (1930), ma soprattutto nel grande corso del 1929-30 I concetti
fondamentali della metafisica, si avverte un tono nuovo. La temperatura sale. La Neue Sachlichkeit
trova la sua fine anche nell’opera di Heidegger. Le descrizioni fondamentali-ontologiche, fredde e
quasi ingegneristiche, vengono ora espressamente collocate all'interno del flusso esistenziale.
Heidegger comincia a scaldare il suo uditorio.
Mentre tiene il suo corso del 1929-30, egli scrive a Elisabeth Blochmann: « Il mio 'corso sulla
metafisica’ mi dà molto da fare; ma tutto il lavoro è più libero. Mi sono tolto di dosso gli obblighi
scolastici, la scientificità alla rovescia, e tutto ciò che vi si accompagna» (18 dicembre 1929).13
Che cosa è successo?
Già durante il corso sui Principi metafisici della logica del semestre estivo 1928 Heidegger aveva
sottolineato, riassumendo i « risultati » cui era giunto in Essere e tempo, che l’analisi esistenziale è
pura descrizione, che essa parla dell'esistenza, ma non a essa. «L’analitica dell’esserci si colloca
dunque a monte di ogni profezia e di ogni proclama ideologico; essa poi non è nemmeno sapienza
»,14 è in realtà soltanto « analitica. »
L’analitica dell'esserci non solleva nessuna delle due esigenze che Aristotele ha indicato come
possibilità fondamentali del pensiero morale. Essa non è né « sophia » (sapienza), né « phronesis »
(intelligenza pratica, avvedutezza). Essa non è un proclama ideologico che dà consigli su come
comportarsi nel proprio tempo e in relazione a esso. Ma non è nemmeno una forma di sapienza che
mira a un punto di vista al di là delle turbolenze del tempo. Essa non ha a che fare né con verità
eterne né con astuzie a breve termine.
L’analitica deve soltanto mostrare come ci si rapporta all'esserci in generale, e questa lezione del
1928 riconduce ciò ad alcuni prìncipi concisi, senza paura di cadere nel semplicistico.
In primo luogo l'esserci è di fatto sempre e innanzi tutto disperso nel proprio mondo (il corpo, la
natura, la società, la cultura).
In secondo luogo questa dispersione non potrebbe affatto essere osservata se non ci fossero la «
positività e la potenza originarie » dell’esserci, che si perdono nella dispersione, ma che sono anche
in grado di riprendersi da essa. Senza potenza originaria non ci sarebbe niente da poter disperdere. Il
drammatico accadimento fondamentale dell’esserci si gioca fra origine e dispersione, dove
paradossalmente la dispersione è più originaria della potenza originaria che non si possiede mai, ma
che si può sempre soltanto guadagnare - muovendo dalla dispersione.
In terzo luogo questo ritornare in sé dalla dispersione ha bisogno dell’urto dovuto all’evidenza: ha
bisogno dell’attimo del vero sentire. Questo è per Heidegger la tonalità emotiva dell’angoscia, della
noia. In questa tonalità emotiva si fa udibile la voce della coscienza che intona il suo richiamo, con
il quale l'esserci viene richiamato a se stesso.
In quarto luogo questo andirivieni fra dispersione e raccoglimento, fra i grandi momenti e il
quotidiano prendersi cura delle cose, è visibile soltanto se si riesce a cogliere « l'esserci come un
tutto ». L’andirivieni fra dispersione e origine è esso stesso il tutto, di più non c’è.
Questo sguardo sul tutto è possibile, in quinto luogo, soltanto « sulla base di un impegno
esistenziale estremo » da parte di coloro stessi che fanno filosofia ».15 Chi pensa in modo
ontologico fondamentale può analizzare « esistenzialmente » solo ciò che egli stesso ha vissuto.
Che cosa deve impegnare chi fa filosofia? Risposta: la sua propria angoscia e noia, il suo ascolto
della chiamata della coscienza. Una filosofia che non comincia con gli attimi del vero sentire è
priva di radici e di oggetto.
Qualsiasi cosa significhi, nel dettaglio, questo « impegno esistenziale estremo », è comunque certo
che l'analitica dell’esserci in senso heideggeriano può essere compresa solo se anche l’ascoltatore (o
il lettore) si mette in gioco in questo impegno. Heidegger deve in qualche modo riuscire a provocare
questo « impegno esistenziale ». Egli non può solo «parlare dell’esistenza», bensì deve destare la
«originaria positività e potenza » nell’esserci dell’altro. Chi vuole ascoltare, e più ancora: chi vuole
comprendere deve sentire intimamente. Il filosofo non può limitarsi a « descrivere la coscienza
dell’uomo », deve possedere l’arte di « evocare l'esserci nell’uomo ». Vale a dire che le prospettive
dell’ontologia fondamentale si schiudono « in generale solo nella trasformazione dell’esserci umano
e a partire da essa». In breve: l’analitica esistenziale ha bisogno, per poter essere compresa,
dell’impegno esistenziale. Così Heidegger deve trovare una via per suscitare nei suoi spettatori
quegli attimi di ve-
ro sentire. In un certo senso deve metterli in scena; ed essi diventeranno poi iniziazioni, esercizi e
meditazioni, liberi dall’« obbligo scolastico e dalla scienza alla rovescia». Gli attimi di vero sentire
- angoscia, noia, chiamata della coscienza - devono essere destati nell’ascoltatore affinché si
annunci il «mistero dell’esserci » che deve essere insito in loro. Il nuovo stile di Heidegger è la
filosofia dell’evento. La filosofia deve evocare come per magia la situazione emotiva, per poi
sforzarsi di interpretarla. Ad esempio essa deve procurare all’esserci uno stato di terrore, calarlo
nell’angoscia, sospingerlo nella noia, per poi potergli offrire la scoperta che ciò che succede in
questi stati d’animo è un niente.
Questo nuovo tono della filosofia esistenziale d’azione esercitava a quel tempo un potentissimo
effetto sugli ascoltatori. Heinrich Wiegand Petzet, studente quando presenziò alla lezione inaugurale
Che cos’è metafisica?, racconta: «Era come se un lampo enorme squarciasse quel cielo buio e
coperto [...] le cose stavano là, aperte, in un chiarore quasi abbacinante [...] Non si trattava di un
’sistema’, ma dell’esistenza [...] Ero rimasto senza parola quando lasciai l’Aula magna. Era come se
avessi per un momento guardato il fondo del mondo ».,6
E' proprio così: Heidegger vuole costringere il suo uditorio a guardare per un attimo « il fondo del
mondo ». Il fondo, il fondamento, il principio di ragion sufficiente e, ancora, l’atteggiamento
scientifico e il sentimento quotidiano della vita: ovunque si avverte il bisogno di mettere i piedi su
un terreno solido. Heidegger passa in rassegna le diverse varianti della solidità e della fondatezza
con una punta di ironia. Ma intanto si chiede: come stanno le cose con il nulla? Chi si interroga sul
fondo e sui fondamenti non dovrà prima o poi scoprire che questo fondo è un abisso? E che
qualcosa può stagliarsi davanti a noi soltanto sullo sfondo del nulla?
Per un momento Heidegger fa propria la parte dello scienziato positivista e del logico, per i quali il
niente, come è noto, non c’è affatto. Lo scienziato ha sempre a che fare con un qualcosa e il logico
ci fa notare che il niente è solo un artificio linguistico, cioè la sostantivazione di un giudizio
negativo (« il fiore non è giallo », oppure « egli non viene a casa»). Queste obiezioni offrono a
Heidegger l’occasione di polemizzare contro «l’intorpidimento e lo sradicamento» delle scienze
moderne. Esse si bloccano di fronte a esperienze elementari. « L’idea della 'logica’ si dissolve a sua
volta nel vortice di un domandare più originario. »17 Heidegger resta sulle tracce del nulla. Ma non
può esibirlo sul piano argomentativo, deve suscitare un’esperienza. Si tratta dell’attimo
dell’angoscia che abbiamo già incontrato. « L’angoscia rivela il niente. Noi 'siamo sospesi’
nell’angoscia. O meglio, è l’angoscia che ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua
totalità. »18 Questo « dileguare » è qualcosa che al tempo stesso opprime e svuota. Esso svuota
perché tutto perde il suo significato e diventa nullo. Opprime perché il niente penetra nel sentimento
di sé. L’angoscia svuota, e questo vuoto opprime: il cuore si contrae. Il mondo esterno si reifica, si
irrigidisce nell’assenza di vita, e il sé interiore perde il suo centro d’azione, si spersonalizza.
L’angoscia è reificazione fuori e spersonalizzazione dentro. « Qui è la ragione per cui noi stessi,
questi esseri umani che siamo, nel mezzo dell’ente ci sentiamo dileguare con esso. Per questo, in
fondo non ’tu’ o ’io’ ci sentiamo spaesati, ma ’uno’ si sente spaesato. »19 Giunto a questo grado zero
dell’angoscia, Heidegger compie ora una svolta sorprendente. Questo precipitare per un istante nel
nulla egli lo chiama un « essere oltre l’ente ». E' un atto del trascendere che ci rende possibile
parlare dell’ente come di un tutto. Naturalmente noi possiamo parlare anche in astratto sul tema
della totalità. Nel puro pensiero immaginiamo un concetto superiore o collettivo: il totum, il « tutto
». Tuttavia la totalità così intesa non ha alcuna realtà vissuta, è solo concetto senza contenuto.
Soltanto quando sorge il sentimento angosciante che in questo tutto non c’è niente, esso diventa una
realtà vissuta; una realtà che non viene verso di noi, ma che si ritrae da noi. Chi nell’angoscia si
vede sfuggire la realtà, fa esperienza in ciò del dramma della distanza. La distanza angosciante
dimostra che noi non siamo del tutto di questo mondo, che noi veniamo sospinti al di là di esso,
ricacciati non già in un altro mondo, ma nel vuoto. Nel mezzo della vita siamo circondati dal vuoto.
Nella trascendenza di questo interstizio che si apre fra noi e il mondo, facciamo esperienza
dell’«essere tenuti immersi nel niente».20 Ogni domanda sul perché vive di quella domanda ultima
che chiede: perché c’è qualcosa e non piuttosto il niente? Chi è in grado di escludere con il pensiero
se stesso o il mondo, chi è in grado di dire di no, agisce nella dimensione del nientificare. Egli
dimostra che il niente c’è. L’uomo, dice Heidegger, è il « luogotenente del niente ».21
La trascendenza dell’esserci è dunque il niente.
Tra i filosofi dell’attimo, coloro che sono religiosi vedono nell’attimo l’avvento del numinoso
(Rudolf Otto) oppure di ciò « che ci tocca direttamente » (Paul Tillich), o del « Regno di Dio» (Karl
Barth) o dell’« orizzonte onnicomprensivo» (Karl Jaspers). Anche l’attimo di Heidegger conduce a
una trascendenza, ma a una trascendenza del vuoto. La trascendenza del nulla. Tuttavia la potenza
del numinoso non è scomparsa. Essa procede da un movimento peculiare fra il niente e il qualcosa,
un movimento che l’uomo può realizzare con la coscienza. Questo è lo spazio numinoso entro cui
egli si muove e che fa sì che egli possa vivere il prodigio che c’è, in generale, qualcosa appunto
come un prodigio. Non solo: su questo sfondo risulta altrettanto sorprendente la potenza creatrice
dell’uomo: egli è in grado di produrre qualcosa; è vero che trova se stesso assieme a tutta la
contingenza del suo essere-così, tuttavia egli è in grado di dare una configurazione a se stesso e al
mondo, può far germogliare l’essere, oppure anche distruggerlo. Nell’angoscia del vuoto si perde un
intero mondo, e tuttavia si fa l’esperienza di come dal niente continui a rinascere un mondo nuovo.
Passando attraverso l’angoscia è possibile tornare nuovamente nel mondo.
Esserci significa: esistere in questo margine di gioco, in questa ampiezza aperta. Tale margine di
gioco viene aperto dall’esperienza del nulla. La ruota può girare perché «ha gioco » (cioè libertà)
attorno al mozzo; allo stesso modo l'esserci si muove perché « ha gioco », cioè libertà. Questa
libertà non comporta soltanto che l'esserci faccia esperienza del nulla, ma che esso possa farsi posto,
dicendo di no, nella « durezza dell’agire ostile » o nell’« asprezza del detestare», nel «dolore del
fallimento» o nell’« inesorabilità della rinuncia ».22
Il non e il niente sono per Heidegger il grande mistero della libertà. Infatti ogni margine di gioco fra
niente e qualcosa, che si sia aperto nell’esserci, dà la libertà di dividere, di distinguere e di decidere.
«Senza l’originaria evidenza del niente non c’è un esser se stesso, né una libertà. »23
L’evento metafisico fondamentale dell’esserci è dunque questo: in quanto l'esserci è in grado di
trascendere nel niente, è anche in grado di fare esperienza dell’intero dell’ente come di qualcosa che
passa dalla notte del niente alla chiarezza dell’essere.
Nell’estate del 1929, poche settimane dopo la conferenza Che cos'è metafisica?, Heidegger riceve a
Todtnauberg la visita di Elisabeth Blochmann. Fra i due c’è una storia d’amore repressa. È ancora
del finire di quest’estate la lettera in cui Hannah Arendt gli confessa che lui rappresenta tuttora la
«continuità» della sua vita e in cui gli ricorda «arditamente » la « continuità del nostro - ti prego di
lasciarmelo dire -amore».24 Eccoci dunque a Elisabeth Blochmann. Heidegger fra le donne. Nei
confronti di Elisabeth Blochmann egli parla del «limite della nostra amicizia», che lui ha toccato per
« averla trascinata di fronte a qualcosa » che per lei « doveva riuscire sgradevole ». Heidegger
doveva averla ferita per essersi avvicinato troppo a lei, o troppo poco. La lettera non molto chiara
del 12 settembre 1929 consente entrambe le interpretazioni. In questa lettera si fa riferimento a una
gita che i due avevano fatto a Beuron. Avevano visitato la chiesa della locale abbazia benedettina. I
discorsi vertevano sulla religione. Heidegger spiegò a Elisabeth quale fosse il suo atteggiamento nei
confronti della Chiesa cattolica. La lettera ricorda questo colloquio. La verità, scrive, « non è una
cosa semplice». Essa ha bisogno «del giorno e dell’ora in cui possediamo completamente l'esserci».
E ancora: «Dio - o quale altro nome Lei voglia dargli - chiama ognuno con voce diversa ». Non si
può presumere di avere alcun potere di disporre su ciò. Non ci sono né istituzioni né dogmi in grado
di conservare la verità. Tutto ciò è un « fatto orrendo ». Poi egli comincia a parlare di quella
situazione che deve avere irritato Elisabeth Blochmann dopo questo lungo colloquio. Essi avevano
cioè preso parte insieme alla preghiera della sera, la compieta, nella chiesa abbaziale, e Heidegger si
era commosso, con sorpresa di Elisabeth, che ancora ricordava le sue accese polemiche contro la
Chiesa cattolica. In questa lettera egli cerca di spiegare il suo atteggiamento. Questa esperienza di
Beuron, scrive, « si svilupperà come un seme per qualcosa di essenziale ».
Il tentativo di descrivere questo alcunché di « essenziale » è quasi una parafrasi dei pensieri centrali
della conferenza sulla Metafisica, o forse è meglio dire che la conferenza sulla Metafisica è una
parafrasi dell’esperienza e della preghiera vespertina a Beuron. Scrive Heidegger: « Che l’uomo
inceda quotidianamente dentro la notte è per l’uomo d’oggi una banalità [...] Nella compieta è
ancora presente la forza primordiale mistica e metafisica della notte, che noi dobbiamo
incessantemente spezzare per esistere davvero. Perché il bene è solo il bene del male ».
La compieta è diventata per lui il simbolo « dell’essere tenuta immersa dell’esistenza entro la notte,
e della necessità interiore della quotidiana disposizione a essa ».
Poi egli annoda questa esperienza alla sua filosofia del niente: « Noi reputiamo erroneamente che
l’essenziale debba essere costruito, e dimentichiamo che esso cresce solo se noi viviamo
completamente, vale a dire al cospetto della notte e del male - secondo il nostro cuore. Decisivo è
questo primordiale negativo: mettere nulla sulla via della profondità dell’esserci. Questo è ciò che
dobbiamo concretamente imparare e insegnare ».25
Tuttavia questa lettera va per un aspetto importante oltre la conferenza: qui infatti si parla di una
dimensione della notte che non viene svelata dalla conferenza sulla Metafisica a proposito del nulla.
Nella conferenza infatti questo nulla non è ancora messo esplicitamente in relazione al male, come
accade nella lettera. In quest’ultima si dice che dobbiamo vivere « completamente » - « al cospetto
della notte e del male ». Che Heidegger parli dell’aspetto del male che c’è nel nulla proprio nella
lettera a Elisabeth Blochmann, ha forse a che fare con la sua impossibilità di difendersi, di vedere se
stesso come un seduttore? Ma in ogni caso risuona qui, nel suo pensiero del nulla, quella metafisica
gnostico-cristiana che per lui era ovviamente una tradizione ancora viva.
In quella c’è ancora una cognizione del fatto che il male fa parte della conditio humana. Nella
tradizione che va da Paolo, attraverso Agostino e Lutero, fino a Kant non si era ancora dimenticato
che ogni riflessione, in quanto riguardante la comprensione di tutto l’essere, della morale o della
politica, doveva liberarsi di quella notte che tutto fonda, e che veniva chiamata caos, il male o,
appunto, il nulla. E ogni luminosità del pensiero o della civiltà era vista nel suo stagliarsi su que-
sto sfondo. Essa era venuta dalla notte ed era quindi condannata a ripiombare nella notte. Rimaneva
la convinzione che anche nelle fasi di civiltà apparentemente solide può sempre tornare ad aprirsi
l’abisso della tentazione, della distruzione e dell'annientamento. Per il cristianesimo primitivo,
ancora fortemente segnato dal pensiero gnostico, la questione del male del mondo era ancora
pressoché identica alla domanda: che cos’è il mondo? Le definizioni del mondo e del male erano
approssimativamente coincidenti. Con la nascita di Cristo si era trovata la risposta per un certo
periodo più efficace all’esistenza del male nel mondo, nella fede cioè che noi siamo sì in questo
mondo, ma non siamo di questo mondo. La plasticità e la nettezza delle prime immagini del diavolo
non erano che la versione popolare di un mistero e non possono ingannarci su di esso: il male era
considerato insondabile quanto Dio stesso. Forse anzi esso era addirittura più insondabile, dato che
il male non forma alcun ordine, ma è la negazione dell’ordine. Qui non c’è intelletto che tenga,
motivo per cui ci si rifiutò, almeno in un primo tempo, di voler comprendere il male e di eliminarlo
per mezzo di spiegazioni. Quello che si doveva fare, si diceva, era di opporgli resistenza e di
confidare nella grazia del Signore. Come potesse il Dio onnipotente permettere il male, costituiva
invero un grande problema. Esso era così importante che tutta la filosofia e la teologia del
Medioevo non riuscirono a sbarazzarsene. Il problema della teodicea, della giustificazione di Dio in
rapporto al male nel mondo, ha legato a sé il pensiero fino all’età moderna, nella quale è stato
secolarizzato nell’antropodicea.
La vecchia metafisica aveva cercato di accostarsi al problema della teodicea con una riflessione
approfondita sulla libertà umana. Essendo il creatore del mondo, si diceva, Dio avrebbe fatto
l’uomo a immagine di sé proprio concedendogli la libertà. La provenienza del male nel mondo era
vista nella libertà umana, o, più precisamente: questa libertà era vista come quel luogo « aperto »
della creazione dal quale scaturisce il male, che sta a fondamento della creazione come un « niente
» o come caos. Già per questo pensiero antico l’uomo, proprio perché poteva essere libero e insieme
creativo, era un « luogotenente del niente ».
Heidegger tornerà sempre a confrontarsi con questo pensiero, soprattutto nelle sue interpretazioni
dello scritto di Schelling sulla libertà, che proviene interamente da questa tradizione di pensiero. Le
considerazioni di Heidegger continueranno sempre a rivelare quanto egli fosse in intima confidenza
con una metafisica del niente, che attraverso il male pensa al tempo stesso la tentazione.
La conferenza sulla Metafisica evita, diversamente dalla lettera, di dare risalto alla rilevanza etica
del discorso sul niente e sulla notte. Ma la lettera, là dove afferma che « il bene è solo il bene del
male», attira l’attenzione proprio sul problema morale di come si possa estorcere il bene dal male,
di come si possa resistere alla notte e ritrovare il giorno. Nella conferenza Heidegger parla della
tendenza dell’esserci a nascondere a se stesso l’abisso del niente e a cullarsi in una falsa sicurezza e
protezione. L’angoscia « dorme », egli dice. Di contro a ciò egli invita all’« esserci audace », che
coglie il pericoloso spazio di gioco della libertà. Bisogna essere passati attraverso l’angoscia prima
di avere la forza di liberarsi « dagli idoli che ciascuno ha e con i quali è solito evadere»,
Tradotta in termini morali, la problematica della conferenza sulla Metafisica suonerebbe così: non
può trattarsi solo di resistere al male, bisogna innanzi tutto notare che questo male c’è, bisogna
accorgersi di questa notte dentro di noi e attorno a noi. Il problema è la scialba unidimensionalità
della nostra cultura, che si sente protetta dal precipizio e dal male. L’uomo moderno, scrive
Heidegger nella lettera, fa «della notte giorno, nel modo in cui egli intende il giorno, come
proseguimento di un’attività e di un’ebbrezza ».
Ma se nella sua conferenza sulla Metafisica Heidegger avesse parlato effettivamente del male,
anziché della notte, l’invito a porsi di fronte al nulla e a passare attraverso esso avrebbe assunto un
doppio senso davvero ambiguo. Il fascino del niente si sarebbe legato al significato che in esso
qualcuno si abbandona al male, affamato di intensità e dimentico della morale, come
abbandonandosi a un’esperienza selvaggia, straordinariamente attraente, proprio nel senso diffuso
in quegli anni dal nichilismo rivoluzionario di Ernst Jünger. « Uno dei mezzi », scrive Ernst Jünger
nel suo saggio L’operaio del 1932, «atti a preparare una vita nuova e più ardimentosa è
l’annientamento della scala di valori prodotta dal
lo spirito isolato in se stesso e divenuto dispotico; è la distruzione del lavoro educativo che l’età
borghese ha esercitato sull’uomo [...] La migliore risposta all’alto tradimento commesso dallo
spirito contro la vita è l’alto tradimento dello spirito contro lo 'spirito’; partecipare a questo lavoro
di mina è uno degli acuti e crudeli piaceri del nostro tempo. »26
L’incoraggiamento di Heidegger all’« esserci audace » procede invero in una direzione simile, ma
appunto non vi si parla di coraggio del male, di piacere abissale dell’amoralità guerresca, anarchica
e avventurosa; si parla « solo » di coraggio del nulla. L’uomo, come « luogotenente del niente » non
dev’essere il tipo di guerriero cui pensava Ernst Jünger. Ma allora, come dobbiamo immaginarcelo?
Saliamo sulle gelide cime di Davos, dove nella primavera del 1929 Martin Heidegger comparve
assieme a Ernst Cassirer in occasione di una settimana di studi accademici che entrò poi nella
leggenda. Entrambi gli ospiti tennero più conferenze di fronte a un agguerrito pubblico
intemazionale. Il culmine di questa settimana fu un dibattito. Un evento grandioso, per il quale era
giunta la stampa intemazionale. Chi riteneva di essere qualcuno in filosofia, era presente, o almeno
se ne teneva informato, laggiù in pianura, attraverso i giornali, dato che l’era delle trasmissioni
radiofoniche non era ancora cominciata. Martin Heidegger riportò per la prima volta un grande
successo. Anche Cassirer era una star e godeva di grande considerazione. La sua opera principale,
La filosofia delle forme simboliche, era apparsa negli anni ’20 e fu un’opera monumentale della
filosofia della cultura. Cassirer, che proveniva dal neokantismo, si era liberato dalle questioni
anguste di una teoria della conoscenza scientifica e in quest’opera era giunto a concepire una
filosofia di ampio respiro, incentrata sullo spirito creatore dell’umanità. A tal fine Cassirer aveva
potuto utilizzare l’enorme raccolta di materiale della biblioteca Aby-Warburg di Amburgo. Egli era
considerato il maggiore rappresentante di una tradizione umanistica e di un idealismo culturale
universalistico. Nel 1929, prima dell’incontro al vertice di Davos, aveva assunto il rettorato
dell’università di Amburgo (primo ebreo a essere eletto rettore di una università tedesca). Ciò fu
tanto più degno di nota in quanto Cassirer, con disappunto della maggioranza reazionaria dei
professori, prese pubblicamente posizione a favore della Repubblica. Su invito del senato di
Amburgo, egli ave
va tenuto il discorso celebrativo per la festa della costituzione nel municipio della città. Contro il
pregiudizio coltivato nell'ambiente professorale, secondo cui la costituzione parlamentare
repubblicana era « poco tedesca », egli aveva portato la prova che l’idea repubblicana era già stata
ideata nella filosofia di un Leibniz e di un Wolff e aveva trovato la sua espressione più compiuta
negli scritti per la pace di Kant. «È un fatto», disse Cassirer, «che l’idea della costituzione
repubblicana come tale non è affatto qualcosa di estraneo nel complesso della storia dello spirito
tedesco, né tantomeno un vero e proprio intruso, dato che è cresciuto invece sul suo proprio terreno
ed è stato alimentato dalle sue energie più originarie, quelle della filosofia idealistica. »
Questo discorso aveva suscitato proteste e polemiche ad Amburgo. Cassirer, che per natura era
conciliante, si era trovato suo malgrado coinvolto in mezzo a schieramenti agguerriti, motivo per
cui la sua elezione a rettore venne festeggiata come un trionfo dello spirito liberale anche al di fuori
di Amburgo. Cassirer fu effettivamente un patriota della costituzione.
Questo grand seigneur dell’umanismo politico e della filo sofia idealistica della cultura era stato
dunque invitato a Davos dalla regia della manifestazione per fare da contraltare a Martin Heidegger,
che dal canto suo rappresentava il nuovo e il rivoluzionario. I partecipanti sentivano di rivivere una
delle leggendarie dispute filosofiche medievali, quando si scontravano i protagonisti delle tendenze
spirituali del tempo. Un clangore di armi metafisiche sopra le cime di Davos splendenti di neve. Ma
c’era ancora un’altra reminiscenza; non già dai tempi remoti, ma nello spazio dell'immaginazione.
Lassù a Davos Thomas Mann aveva ambientato, nel suo romanzo La montagna incantata, apparso
nel 1924, il grande dibattito fra l’umanista Settembrini e il gesuita Naphta. Erano gli archetipi della
tenzone spirituale di quest’epoca. Da una parte Settembrini, figlio impenitente
deH’illuminismo,liberale, anticlericale, umanista dall’eloquenza infinita. E dall’altra Naphta,
apostolo dell’irrazionalismo e dell'inquisizione, innamorato dell’eros della morte e della violenza.
Per Settembrini lo spirito è una potenza della vita concessa all’uomo perché se ne serva e vi
rimanga fedele; Naphta ama invece lo spirito contro la vita. Settembrini vuole sollevare, consolare,
far crescere gli uomini; Naphta vuole invece incutere loro terrore, scacciarli dal « morbido giaciglio
» dell’umanismo, dal loro rifugio nella cultura, vuole spezzare le ossa alle loro presunzioni.
Settembrini ha un’opinione positiva dell’uomo; Naphta è un terrorista metafisico.
I partecipanti alla settimana di studio a Davos sentirono effettivamente il ricordo di quell’evento
immaginario. Kurt Riezler, a quel tempo amministratore dell’università di Francoforte e
accompagnatore di Heidegger nelle escursioni sciistiche sulle montagne, accenna a questo episodio
della Montagna incantata nel resoconto che redasse per la Neue Zürcher Zeitung.27
Dietro Cassirer dunque il fantasma di Settembrini, e dietro Heidegger quello di Naphta? Lo stesso
Heidegger aveva letto il romanzo di Thomas Mann con Hannah Arendt nell’estate d’amore del
1924.
L’impressione destata da questo incontro fu da « mozzafiato », come ricorda O.F. Bollnow, presente
in qualità di studente invitato da Heidegger. I partecipanti avrebbero avuto la sensazione solenne «
di aver presenziato a un momento storico, in maniera del tutto simile a quanto aveva detto Goethe
nella sua Campagna di Francia: ’Qui e oggi nasce una nuova epoca della storia universale’ - in
questo caso della storia della filosofia - ’e voi potete dire che c’eravate’ ».28
Heidegger non aveva ancora aspettative così elevate. In una lettera a Elisabeth Blochmann parla del
« pericolo » che «tutto tendesse al sensazionale»; dice di essersi «trovato al centro dell’attenzione
più di quanto potessi gradire », e per questo aveva cercato di distogliere l’interesse filosofico da se
stesso, concentrandosi interamente su Kant. Meno sgradevole fu l’attenzione che egli attirò su di sé
con il suo ingresso non convenzionale all’interno dello scenario elegante del Grand Hotel. Egli
racconta a Elisabeth Blochmann che durante le pause fra le manifestazioni salì sulle montagne con
un conoscente (si tratta del già citato Kurt Riezler) per fare delle « stupende gite ». « Piacevolmente
stanchi, ebbri di sole e della libertà dei monti, nel corpo ancora l’intero risonante entusiasmo delle
lunghe discese, la sera arrivavamo con le nostre attrezzature da sci nel bel mezzo dell’eleganza
degli abiti da sera. Questa immediata coesione di serio lavoro di ricerca da una parte e di sci,
praticato in disinvoltura e gioia totali, dall’altra, era per la maggioranza dei docenti e degli uditori
qualcosa di inaudito. » (12 aprile 1929)29
Era così che voleva essere visto: come lavoratore scrupoloso nelle enormi pietraie della filosofia,
come spregiatore del mondo elegante, come sportivo, come un uomo semplice e spontaneo, uno che
va deciso alla meta e intraprende imprese audaci. E all’incirca così apparve anche ai testimoni di
questo incontro al vertice della filosofia sopra le vette della « montagna incantata ». « Il confronto
fra Heidegger e Cassirer», racconta uno dei partecipanti, «ci ha dato moltissimo anche sul piano
umano [...] Da un lato quest’uomo piccolo e bruno, buon sciatore e sportivo, con la sua espressione
energica e immutabile, quest’uomo ruvido e scostante, talvolta addirittura grossolano, che vive e
tratta i problemi che pone in un isolamento impressionante e con la più profonda serietà morale.
Dall’altro lato un uomo dai bianchi capelli, non solo esteriormente ma anche interiormente un eroe
olimpico, con ampi spazi di pensiero e problematiche di vasta portata, con la sua espressione serena,
la sua vitalità ed elasticità e, non ultima, la sua aristocratica signorilità. »30
Toni Cassirer, moglie del filosofo, racconta in una nota retrospettiva sulla sua vita redatta nel 1950
che i colleghi presenti avevano preparato lei e suo marito agli strani modi di fare di Heidegger. « Ci
era noto il suo rifiuto di qualsiasi convenzione sociale. » Nel suo ambiente si temeva da Heidegger
il peggio; si diceva in giro che volesse « annientare, se possibile », la filosofia di Ernst Cassirer.31
Tuttavia nel corso della disputa non si avvertì nulla di questa inimicizia personale di cui Toni
Cassirer credette in seguito di ricordarsi. C’era una «meravigliosa collegialità», come scrive il
testimone già citato. Lo stesso Heidegger, in una lettera a Elisabeth Blochmann, considerò come un
arricchimento personale l’incontro con Cassirer, lamentando però che l’atmosfera di compiacenza
non avesse fatto emergere con sufficiente chiarezza i contrasti. « Cassirer nella discussione è stato
un vero gentiluomo, quasi troppo accomodante. Così ho trovato troppo poca opposizione, ciò che ha
impedito di dare ai problemi la necessaria incisività di formulazione. »
Peraltro il protocollo della disputa non suscita questa impressione. Sembra che i contrasti fossero
netti.
Cassirer chiede se Heidegger voglia rinunciare a « tutta quest’oggettività » e « assolutezza », così
come esse si presentano nella cultura, « ritirandosi completamente all’interno dell’ente finito»
dell’uomo.33
Gli sforzi di Cassirer sono diretti a rendere comprensibile la forza di simbolizzazione, e quindi di
cultura, da parte dello spirito umano come un mondo di « forme ». Esse non rappresentano invero
l’infinità in senso metafisico tradizionale, e tuttavia sono più che mere funzioni di
automantenimento di un essere finito. La cultura significa per lui un trascendere ciò che ha preso
forma, essa edifica la casa spaziosa dell’uomo, più facile da distruggere che da conservare, una
fragile protezione dalla barbarie la cui minaccia è una possibilità sempre in agguato per l’uomo.
Heidegger rimprovera a Cassirer di adagiarsi troppo nelle dimore dello spirito. Egli vede certo
correttamente che ogni cultura, ogni azione dello spirito sono un’espressione della libertà; tuttavia
questa libertà potrebbe irrigidirsi nelle sue configurazioni. Perciò la libertà dovrebbe sempre tornare
a essere liberazione; se essa è scivolata a fatto culturale, allora la si è già perduta. « L’unico
rapporto adeguato alla libertà nell’uomo è il liberarsi della libertà nell’uomo. »34
Per Heidegger il problema consiste nel fatto che l’uomo, alla ricerca di sostegno e protezione, « si
fissa » nella cultura da lui stesso creata, e in tal modo perde la coscienza della propria libertà.
Bisogna che questa coscienza venga ridestata. E ciò non può essere fatto da alcuna filosofia del
compiacimento culturale. È necessario portare l'esserci di fronte alla sua originaria nudità e
gettatezza. Cassirer volge la sua attenzione alle prestazioni trascendenti della cultura - « Dal calice
di questo regno degli spiriti affluisce a lui l’infinità», aveva citato da Hegel -, risparmia all’uomo il
confronto con la sua finitezza e nullità e misconosce in tal modo il vero compito della filosofia che
consiste nel « risospingere, in una certa misura, l’uomo nell’asprezza del suo destino, distogliendolo
dall’aspetto pigro di un uomo che si limita a utilizzare le opere dello spirito ».35
Al culmine della controversia Heidegger chiede: « In che misura la filosofia ha il compito di
liberarci dall’angoscia? O non ha piuttosto il compito di consegnare l’uomo radicalmente ad essa? »
36

La sua risposta Heidegger l’ha già data: la filosofia deve innanzi tutto incutere spavento nell’uomo,
e costringerlo a fare ritorno a quello sradicamento dal quale egli continua a fuggire rifugiandosi
nella cultura.
Ma Cassirer ribadisce la risposta del suo idealismo della cultura: che l’uomo possa creare cultura «è
il suggello della sua infinità [...] Vorrei che il senso, la meta in effetti fosse la liberazione nel senso
del ’rigettate lontano da voi l’angoscia di ciò che è terreno’ ».37
Per Cassirer bisogna operare per l’arte di abitare nella cultura, mentre Heidegger vuole trasformare
« il terreno [...] in un abisso ».38
Cassirer prende posizione a favore del lavoro di istituzione di senso da parte della cultura, per
l’opera che trionfa con la sua intima necessità e la sua durata sulla contingenza e caducità
dell’esistenza umana.
Tutto questo è rifiutato da Heidegger con gesto patetico. Quello che rimane sono alcuni rari attimi
di grande intensità. Non bisognerebbe continuare a far mistero del fatto che «la forma suprema
dell’esistenza dell’esserci si può ricondurre a pochissimi e rari istanti di quella durata dell’esserci
che intercorre tra la vita e la morte; soltanto in pochissimi istanti infatti l’uomo vive al culmine
della sua possibilità».39
Un istante di questo genere fu per Heidegger l’assistere alla compieta nella chiesa abbaziale di
Beuron, quando si accorse della « forza primordiale mistica e metafisica della notte, che noi
dobbiamo incessantemente spezzare per esistere davvero ».
Un istante di questo genere fu anche quella scena d’infanzia che in seguito ebbe a raccontare
talvolta agli amici. Quando lui, il piccolo campanaro, ai primi albori del giorno, mentre era ancora
buio, riceveva sul pianerottolo di casa la candela accesa dalle mani della madre e, proteggendo la
fiamma con l’incavo della mano, andava alla chiesa attraversando il sagrato e lì se ne stava in piedi
vicino all’altare, riportando con le unghie la cera della candela che era gocciolata giù, affinché
bruciasse più a lungo. Ma poi essa era consumata, e lui aveva atteso quel momento, anche se aveva
cercato di ritardarlo.
Se l'esserci si compone di due atti, la notte da cui scaturisce e il giorno che supera la notte, Cassirer
concentra la sua attenzione sul secondo atto, quello cioè del giorno della cultura. Heidegger invece
si interessa al primo atto, guarda nella notte da cui noi proveniamo. Il suo pensiero fissa quel niente
dal quale soltanto è possibile che qualcosa sorga. L’uno si rivolge a ciò che è scaturito, l’altro alla
scaturigine. L’uno ha a che fare con la casa della creatura umana, l’altro si sofferma affascinato
davanti al mistero abissale della creatio ex nihilo, che avviene sempre di nuovo quando l’uomo si
desta alla coscienza della propria esistenza.
11. Un capolavoro nascosto: il corso sulla Metafisica del 1929-30. Sulla noia.
Il mistero e il suo sgomento. Heidegger tenta una filosofia della natura. Dal sasso alla coscienza.
La storia di una apertura.
Quando, nel febbraio 1928, Heidegger fu chiamato a Friburgo alla cattedra di Husserl, aveva scritto
a Karl Jaspers: « Friburgo sarà ancora una volta per me la prova se esiste ancora un po’ di filosofia
o se tutto si risolve nel nozionismo» (24 novembre 1928).1
Heidegger vuole mettere alla prova se stesso. Ma non c’è soltanto la tentazione del nozionismo; è
anche la sua nuova fama a creargli difficoltà. «Meno piacevole è l’esistenza pubblica entro cui sono
capitato », scrive a Jaspers il 25 giugno 1929.2 Le conferenze di Heidegger sono diventate intanto
un’attrazione. Siegfried Kracauer racconta della conferenza che Heidegger tenne presso la Kant-
Gesellschaft di Francoforte il 25 gennaio 1929: «Notiamo, infine, che la personalità del
conferenziere ha attirato un pubblico molto numeroso, che non era certamente versato nei problemi
della filosofia, ma che si è azzardato a penetrare nel complesso mondo delle più sottili definizioni e
distinzioni ».3
Naturalmente Heidegger gode delle sue entrate in scena, e anche della sua fama. Si sente lusingato
quando Jaspers lo informa che all’università di Heidelberg ora si legge e si discute anche «
Heidegger ». Tuttavia non vuole essere considerato solo come l’autore di Essere e tempo. Nelle
lettere a Jaspers parla con sufficienza di questo libro: « Non ci penso già più che ho scritto da poco
un cosiddetto ’libro’ » (24 settembre 1928).4
Nei primi anni dopo la comparsa di Essere e tempo egli dovette confrontarsi col fatto che il mondo
filosofico pubblico si aspettava da lui una esposizione, sistematicamente completa e comprensiva di
tutti gli aspetti della vita, dell’uomo nel mondo. Essere e tempo veniva letto come un contributo
all’antropologia filosofica, nella speranza che questo progetto avesse una continuazione.
Nel suo libro su Kant del 1929 Heidegger aveva esplicitamente respinto questa aspettativa
definendola un fraintendimento. Non è possibile sviluppare, scrive in quella sede, una filosofìa a
tutto tondo sull’uomo e sulle sue connessioni vitali di fondo. L’intento di portare a compimento
un’opera del genere è in contraddizione con il carattere fondamentale dell’esserci: la sua finitezza e
storicità. Se il filosofare è qualcosa che si desta nell’uomo, esso comincia ogni volta da capo, e la
sua fine non viene raggiunta dall’interno come perfezione sistematica; l’unica e autentica fine del
filosofare è invece la sua interruzione contingente, dovuta alla morte. Anche la filosofia muore.
Ma come filosofi si può « morire » anche prima della fine definitiva. E ciò accade quando il
pensiero vivente si irrigidisce in ciò che si è già pensato una volta; quando il passato trionfa sul
presente e sull’avvenire, quando il pensato tiene prigioniero il pensiero. Nei primi anni ’20
Heidegger aveva voluto tornare a « fluidificare » i pensieri della tradizione filosofica - da Aristotele
fino a Husserl. Adesso egli si pone il compito di risolvere a sua volta nel movimento del pensiero
anche la sua ontologia fondamentale, che nel frattempo è diventata qualcosa di citabile come
sistema e trattabile come metodo.
Il 12 settembre 1929 egli scrive a Elisabeth Blochmann, in riferimento al rumore che si faceva
intorno alla sua persona e alla sua opera: « Attraverso l’imperante laboriosità e i suoi successi e
risultati siamo radicalmente sviati nella nostra ricerca - noi reputiamo erroneamente che l’essenziale
debba essere costruito ».5
Egli non vuole semplicemente continuare a creare e a lavorare alla costruzione del proprio pensiero,
del proprio sistema. « Con il mio corso invernale sulla metafisica », scrive nella stessa lettera, «
dovrà riuscirmi un inizio del tutto nuovo. »
Ho già accennato al grande corso sulla metafisica del semestre invernale 1929-30, che Heidegger
annuncia con il titolo I concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine. Qui
viene tentato uno stile nuovo. Nel capitolo precedente l’ho chiamato: filosofia dell’evento. In questo
corso Heidegger parla del fatto che la filosofia deve destare 1’« accadere fondamentale nell’esserci
umano».6
Quale accadere fondamentale? Le parole nominate nel titolo del corso, finitezza e solitudine,
alludono già all’interesse di Heidegger per un approfondimento dell’esperienza del «non essere a
casa propria». La filosofia «è il contrario di ogni sorta di conforto e di consolazione. E' il vortice nel
quale l’uomo viene risucchiato, al fine di comprendere concettualmente l'esserci senza cadere in
fantasticherie».7
Ma allora i « concetti » di questo filosofare dovranno avere un’altra funzione e un altro tipo di
«rigore» rispetto ai concetti della scienza. I concetti filosofici rimangono vuoti « se non fossimo già
anticipatamente afferrati da ciò che essi hanno il compito di cogliere concettualmente ».8 I concetti
della filosofia sono intesi da Heidegger come un « attacco »a ogni tipo di certezza di sé e di fiducia
nel mondo. La «suprema incertezza » è la « costante e pericolosa compagna » della filosofia. Ma si
incontra raramente questo « elementare essere disponibili per la pericolosità della filosofia », ed è
per questo che non c’è nemmeno una vera discussione filosofica, nonostante la quantità ormai
enorme di pubblicazioni filosofiche. « Ognuno di loro vuole dimostrare all’altro qualche verità, e,
nel far ciò, dimentica l’unico vero compito, il più difficile, che è quello di sospingere il proprio
esserci e quello degli altri nell’orizzonte di una fruttuosa problematicità.»9
In questo corso si parla molto di pericolo, spaesamento e problematicità. Per questa impresa di
vivere selvaggiamente e pericolosamente sul piano filosofico, Heidegger si serve del termine
metafisica; metafisica però non nel senso di una dottrina delle cose sovrasensibili. Egli intende dare
all’aspetto del trascendere (meta) un altro senso che, come egli afferma, è il senso più originario. Si
tratta di una trascendenza non nel senso dell’andare in cerca di un altro « luogo », di un mondo
dell’aldilà, ma di una peculiare « inversione rispetto al pensare e all’interrogarsi quotidiano».10
Anche per questa inversione è evidentemente bene che «l'esserci si scelga i propri eroi».11 Infatti ci
sono persone che hanno il « destino particolare di essere per gli altri l'occasione che li desta alla
filosofia ».l2
Non c’è dubbio che Heidegger annoveri se stesso fra queste persone « particolari ». Egli sa ormai di
essere un personaggio carismatico della filosofia, sa di avere una missione. «È questo », come
scrive a Karl Jaspers il 3 dicembre 1928, «quello che porta una solitudine così particolare
nell’esserci - quell’oscuro stare di fronte al proprio altro che si crede di dover portare al tempo. » 13
E Jaspers, ancora sconvolto dopo una visita di Heidegger, gli risponde: « Era da tempo
immemorabile che non sentivo qualcuno parlare come Lei oggi. Mi sentivo libero come all’aria
pura in questo incessante trascendere » (5 dicembre 1929).14
Nell’analisi heideggeriana dell’angoscia si era già mostrato dove va a sfociare questo trascendere:
in quel niente dal quale poi scaturisce quel qualcosa che è estremamente sorprendente e
angosciante. Per la filosofia dell’evento di Heidegger, che è sulle tracce del mistero del tempo e
dell’attimo, è facile occuparsi dell’altro grande evento del vuoto: la noia. Quello che ne risulta è uno
dei « pezzi » più impressionanti che Heidegger abbia mai pronunciato. Molto raramente uno stato
d’animo era stato descritto e interpretato, in tutta la tradizione filosofica, così come accade in queste
lezioni. Qui la noia diventa davvero un evento.
Heidegger vuole che coloro che lo ascoltano precipitino nel grande vuoto, vuole che sentano il
brusio di fondo dell’esistenza, vuole dischiudere l’attimo in cui non c’è più niente, in cui non si
offre più alcun contenuto mondano a cui tenersi saldi o di cui ci si possa riempire. L’attimo del
vuoto trascorrere del tempo. Il tempo puro, nella sua presenza. La noia, cioè il momento in cui ci si
accorge del modo in cui il tempo trascorre, proprio perché esso non vuole passare e non si sa come
cacciarlo, come ammazzarlo, o, per usare un’altra espressione comune, in che modo riempirlo.
Heidegger affronta questo tema con grande pazienza (nel testo della lezione il discorso procede per
150 pagine). Egli mette in scena la noia come evento iniziatico della metafisica; mostra come nella
noia i due poli dell'esperienza metafisica, il mondo nella sua totalità e l’esistenza del singolo, siano
congiunti in modo paradossale. Il singolo viene afferrato dalla totalità del mondo proprio nel modo
del non esserne afferrato, e dell’essere lasciato piuttosto nel vuoto. Heidegger vuole condurre il suo
uditorio fino al punto in cui ci si deve chiedere: « [...] ci accadono forse cose tali, che una noia
profonda si trascini qua e là negli abissi dell’esserci come una nebbia silenziosa? »15
Di fronte agli abissi di questa noia ci prende di norma l'horror vacui. Ma bisogna aver resistito a
questo terrore, dato che esso ci fa conoscere intimamente quel niente a cui si riferiva la vecchia
domanda metafisica: perché c’è qualcosa e non piuttosto il niente? Heidegger pretende dai suoi
ascoltatori il niente come un esercizio nell’arte del rimanere vuoti.
Qui non si tratta, e Heidegger lo sottolinea, di uno stato d’animo voluto, cercato, non si tratta di una
posizione ricercata a fatica, bensì, al contrario, « dell’abbandonarsi al libero sguardo quotidiano ».16
Ogni giorno abbiamo spesso la sensazione di questo vuoto, dice Heidegger, ma altrettanto
quotidianamente copriamo subito questo vuoto. Egli invita a lasciar perdere per un momento - per
un noioso momento -questa frettolosa copertura. Questo lasciar perdere è peraltro frutto di una dura
battaglia filosofica, perché contrasta con la tendenza spontanea di ogni giorno, che desidera cadere
nel mondo e non, come in quest’attimo di sospensione nel vuoto, cadere fuori dal mondo. Ma tutto
ciò non serve a nulla: non si può fare filosofia senza questo cader-fuori, senza questo perdersi e
abbandonarsi, senza questo vuoto. Heidegger vuole mostrare la nascita della filosofia dal niente
della noia.
Nel corso delle sue considerazioni sulla latenza quotidiana della noia Heidegger parla della
situazione attuale del proprio tempo. E' ampiamente diffuso, dice, un certo malessere nei confronti
della cultura attuale. Egli nomina, come autori che gli danno voce, Spengler, Klages, Scheler e
Leopold Ziegler. Con poche parole Heidegger liquida le loro diagnosi e prognosi. Saranno cose
anche interessanti, intelligenti, ma siamo sinceri, dice Heidegger, esse in realtà non ci « toccano »
affatto. « Al contrario: il tutto è un qualcosa che fa notizia, in ogni caso rassicurante in modo
inconfessato e tuttavia apparente. »17 Perché? Perché « ci svincola da noi stessi » e ci incoraggia a
rispecchiarci « in una condizione e in un ruolo di portata universale ». 18 Vengono messi in scena
dei drammi in cui noi possiamo calzare i coturni dei soggetti culturali. Ci sono perfino visioni
opprimenti di tramonto ad adulare il nostro senso del valore di noi stessi, o più precisamente: il
nostro bisogno di metterci in scena e di vederci messi in scena.
Heidegger conclude la sua critica a questo tipo di diagnosi filosofica del tempo con l’osservazione
apodittica: « Questa filosofia giunge soltanto a una raffigurazione positiva dell’uomo, ma mai al suo
esserci ».19
Ma nell’abisso dell’esserci è in agguato la noia, dalla quale la vita cerca la fuga nelle forme della
rappresentazione.
L’analisi di Heidegger diventa un’esplorazione del centro del deserto. Nel far questo egli dimostra
di avere il senso dell'escalation drammatica. La tensione cresce, tanto più vuoto è il luogo in cui
egli conduce il pensiero. Egli comincia con l’essere annoiati « da qualcosa ». Qui abbiamo ancora
un oggetto identificabile, una cosa, un libro, una cerimonia, una certa persona, cui possiamo
attribuire la noia. Essa penetra in un certo senso in noi dall’esterno, ha una causa esterna. Ma
quando questo oggetto non può più essere indicato in maniera così univoca, quando la noia penetra
tanto dall'esterno quanto cresce anche dall’interno, allora si tratta dell’« annoiarsi di qualcosa ».
Non si può dire che un treno che non arriva puntuale ci annoia; è invece la situazione, in cui si viene
calati a causa del suo ritardo, che ci può annoiare. Ci si annoia di un determinato evento, o in
occasione di un determinato evento. L’aspetto irritante di questa noia sta nel fatto che in queste
situazioni si comincia ad annoiarsi di se stessi. Non si è capaci di far niente di se stessi, e la
conseguenza è questa: che adesso è appunto il niente a fare qualcosa di noi. Una serata noiosa:
Heidegger descrive con gusto una di queste serate nell’ambiente accademico; essa non procura
soltanto fastidio, ma mette addosso anche un leggero panico, perché in queste situazioni noi stessi
diventiamo noiosi. La situazione è davvero complicata, perché quello che annoia qui è un’iniziativa
che dovrebbe servire proprio a scacciare la noia. La noia è in agguato nelle iniziative prese per
ammazzare il tempo. Ciò cui si fa appello contro di essa, ne è sempre già inficiato. Sono coloro che
minacciano di precipitare nella noia a dover essere intrattenuti. Dove viene cacciato il tempo,
oppure: dove va alla deriva l'esserci che scaccia il tempo? C’è una specie di buco nero
dell’esistenza, che attrae e divora?
La noia più profonda è quella del tutto anonima. Non c’è niente di determinato che essa evochi. « È
che uno si annoia », diciamo noi. Heidegger sottopone questa espressione a un’analisi dettagliata.
Qui c’è una doppia indeterminatezza. Questo « è » indeterminato è tutto e niente, e in ogni caso non
è niente di determinato. E poi « uno » siamo noi stessi, ma come esseri dalla personalità
indeterminata. Come se la noia avesse ingoiato anche l’io stesso, che comunque può ancora
continuare a vergognarsi di essere un noioso. Questo «è che uno si annoia » viene preso da
Heidegger come espressione di quella assenza completa di un tempo riempito e che riempie, di
quell’attimo in cui niente è più in grado di parlarci e di coinvolgerci. Questo « essere-lasciati-vuoti
» è definito da lui come un « esser-consegnati all’ente che si nega nella sua totalità ».20
Qui c’è una sorprendente comprensione del tutto, un tutlo però che non ci interessa più. Qualcosa di
vuoto sta di fronte a un tutto vuoto: in questa mancanza di riferimento l’uno è riferito all’altro. C’è
una triplice negatività: il « non » stesso, la nullità del tutto e la mancanza di riferimento, nel senso
del riferimento negativo. È chiaramente questo il culmine, ovvero il punto più basso, cui Heidegger
voleva condurre la sua avvincente analisi della noia. Ci troviamo nel cuore di una metafisica di
sapore heideggeriano. A questo punto si realizza anche il suo scopo di «penetrare nell’essenza del
tempo per mezzo dell’interpretazione dell’essenza della noia».21 Come viene vissuto dunque il
tempo, chiede Heidegger, in questa totale assenza di tutto ciò che riempie? Esso non vuole
trascorrere, sta fermo, ci trattiene in una pigra immobilità, ci « costringe a stare fermi ». Questa
paralisi complessiva ci fa accorgere del fatto che il tempo non è un medio in cui noi ci muoviamo,
ma è qualcosa che noi produciamo. Noi «temporalizziamo » il tempo, e se veniamo paralizzati dalla
noia abbiamo appunto smesso di temporalizzarlo. Però questo smettere non è mai totale. Il processo
della temporalizzazione, che in certi momenti è assente e cessa, resta legato a quel flusso temporale
che noi stessi siamo - ma nel modo del ristagno, dell’immobilità e della paralisi.
Questa esperienza ambivalente del flusso ristagnante del tempo è il punto di svolta nel dramma
della noia messo in scena e analizzato da Heidegger. Dalla triplice negatività (il « non » stesso, la
nullità del tutto, e la mancanza di riferimento) c’è solo un’unica via di uscita: bisogna liberarsi.
Quando non c’è più niente che va, bisogna mettersi in cammino. Heidegger dà alla sua svolta una
formulazione circostanziata: « Ma ciò che il tempo annuncia quando incanta e incatena [...] non è
niente di meno che la libertà dell’esserci in quanto tale. Infatti la libertà dell’esserci consiste solo
nel liberarsi da parte dell’esserci. Ma il liberarsi da parte dell’esserci accade sempre e soltanto
quando l'esserci si decide nei confronti di se stesso ».22 Poiché però nella noia questo se stesso si è
diradato fino a essere uno spettro privo di essenza, questo decidersi non potrà risalire a un se stesso
compatto che è in attesa di entrare in azione. Piuttosto, questo se stesso nascerà sole nella decisione.
In un certo senso esso non viene trovato, ma inventato mediante la decisione. In esso soltanto ciò
che era chiuso viene aperto. « L’attimo della decisione » scaturisce dalla noia e le mette fine. Così
Heidegger può dire che « il tempo che incanta-e-incatena » sortisce come effetto complementare
una « costrizione dell’esserci nel culmine di ciò che rende autenticamente possibile ».23 Si può
esprimere tutto ciò anche informa più popolare: nella noia ti accorgi che non c’è niente di
importante, se non quello che fai... Dunque, l'esserci che si desta a se stesso deve avere attraversato
la zona della noia profonda, questo « vuoto nel tutto ». A questo punto della riflessione, Heidegger
volta le spalle agli stati d’animo piuttosto « privati » e « intimi » della noia e prende di mira, nei
modi della filosofia della cultura, la situazione storicosociale di allora. Egli chiede: si farà ancora
l’esperienza di questo bisogno del « vuoto nel tutto », oppure essa sarà piuttosto ignorata, respinta
dalla lotta contro altri bisogni, più tangibili?
Siamo nel semestre invernale 1929-30. È cominciata la grande disoccupazione e quindi la miseria in
seguito alla crisi economica mondiale. Heidegger arrischia un breve sguardo sulle scene di
indigenza contemporanee: « Ovunque vi sono sconvolgimenti, crisi, catastrofi, stati di necessità:
l’odierna miseria sociale, il disordine politico, l’impotenza della scienza, il logoramento dell’arte, la
mancanza di fondamento della filosofia, la debolezza della religione. Certo, stati di necessità ve ne
sono ovunque ».24 Contro questi stati di necessità ci si appella a programmi, partiti, soluzioni, ci si
dà da fare in ogni modo. Ma, dice Heidegger, « questa irrequieta legittima difesa contro gli stati di
necessità impedisce che uno stato di necessità sorga e si diffonda nella sua totalità ».25
Lo « stato di necessità » non è dunque una qualche singola miseria, ma è piuttosto la quintessenza
del carattere di oppressione di cui si può fare esperienza anche proprio nello stato d’animo della
noia, è «questo, che nell’uomo entra in tensione l'esserci in quanto tale, che gli viene assegnato il
compito di esser-ci ».26 Chi si sottrae a questa « oppressione essenziale »27 è privo di quella
caparbia ostinazione che costituisce per Heidegger l’eroismo quotidiano. Chi non ha conosciuto la
vita come « fardello » in questo senso, non ne sa niente nemmeno del «mistero» dell’esserci, e
quindi «resta privo di quell’intimo sgomento che ogni mistero porta con sé e che dona all'esserci la
sua grandezza».28
Il mistero e lo sgomento. Heidegger allude alla definizióne del numinoso in Rudolf Otto. Questi
aveva spiegato l’esperienza religiosa come uno sgomento di fronte a una potenza che ci si fa
incontro come mistero. Heidegger riprende i tratti del numinoso così inteso, ma cancella il
riferimento ultraterreno. L’esserci stesso è il numinoso, ciò che inquieta e sgomenta
misteriosamente. Lo sgomento è l’accrescersi drammatico dello stupore per il fatto che c’è qualcosa
e non niente; l’enigma che sgomenta è l'esserci nel suo nudo «che». Di questo sgomento si parla
anche nelle frasi seguenti, e ciò merita di essere sottolineato, poiché a esse è stato attribuito in
seguito un senso specificamente politico che a quell’epoca ancora non possedevano: « Se,
nonostante tutti gli stati di necessità, l’oppressione del nostro esserci oggi resta assente, e se manca
il mistero, per noi si tratta, innanzi tutto, di ottenere per l’uomo quella base e quella dimensione
all'interno della quale incontri di nuovo qualcosa come un mistero del suo esserci. Che per questa
richiesta, e per lo sforzo di avvicinarsi a quello, l’uomo medio d’oggi - piccolo borghese - si
allarmi, e a volte si senta persino svenire, così da aggrapparsi tanto più spasmodicamente ai suoi
idoli, è perfettamente logico. Desiderare qualcosa d’altro sarebbe un fraintendimento. Dobbiamo in
primo luogo richiamare nuovamente nel nostro orizzonte ciò che in grado di incutere sgomento al
nostro esserci ».29
Chi può incutere questo sgomento? Per il momento non è ancora altri che il filosofo carismatico, il
cui destino «particolare » è « di essere per gli altri l’occasione che li desta alla filosofia ».30 In altre
parole è Heidegger stesso che si attribuisce questo ruolo. Incutere sgomento e destare alla filosofia:
per ora sono ancora la stessa cosa.
Come se avesse presagito che la sua affermazione potesse essere fraintesa politicamente come un
invito all’« uomo forte », Heidegger osserva alla fine di questo passo che nessun evento politico,
nemmeno la guerra mondiale, è in grado di produrre questo destarsi dell’uomo per se stesso. Non si
tratta ancora quindi di una esperienza politica di risveglio, ma di una esperienza filosofica. Da qui
anche la critica di Heidegger a tutti quei tentativi di erigere in campo politico « l’edificio di una
visione del mondo».31 Se l'esserci è divenuto « trasparente » a se stesso, smette di erigere tali
edifici. «Evocare e ridestare » l'esserci nell’uomo32 non significa altro che metterlo in movimento
in modo tale che questi edifici debbano crollare.
Heidegger si è già lasciato alle spalle un lungo percorso: nell’edizione a stampa del corso sono ben
260 pagine. Le domande metafisiche fondamentali poste in apertura: Che cos’è il mondo? Che
cos’è la finitezza? Che cos’è la solitudine? sono intanto quasi del tutto dimenticate. Adesso
Heidegger torna a sollevarle, ricordando che gli esercizi sulla noia svolti fin qui erano una
preparazione: il tentativo cioè di destare o di mettere in scena uno stato d’animo in cui « mondo », «
finitezza » e « solitudine » si incontrino in modo tale da rendere possibile in generale il lavoro del
concetto. Tutto dipende dal « come » di quest’incontro. Ciò che dev’essere compreso, deve innanzi
tutto essere accaduto, qui e ora, nelle ore pomeridiane del giovedì del semestre invernale 1929-30.
Il « mondo come un tutto ». Perché c’è bisogno di un particolare stato d’animo per farne
esperienza? Il « mondo » c’è pur sempre; esso è tutto ciò che c’è. Ci troviamo pur sempre in mezzo
a esso. Certo. Ma adesso sappiamo anche che per Heidegger questo quotidiano soggiornare nel
mondo è al tempo stesso Tessere caduti in esso. Noi siamo scomparsi in esso. E perciò egli
evidenzia lo stato d’animo della noia, perché in essa, come anche nello stato d’animo dell’angoscia,
che viene analizzato in Essere e tempo, l'« intero del mondo » si rivela sospinto a una distanza che
rende possibile l’atteggiamento metafisico dello stupore o dello sgomento come terzo atto di un
dramma esistenziale. Nel primo atto si entra, quotidianamente, nel mondo, e il mondo ci riempie;
nel secondo atto tutto si allontana: l’evento del grande vuoto, la triplice negatività (il « non » stesso,
la nullità del mondo, la mancanza di riferimento); nel terzo atto infine ciò che si era ritirato, il
proprio se-stessi e il « mondo », fa nuovamente ritorno. Il sé e le cose diventano in una certa misura
« più essenti », guadagnano una nuova intensità. Questo è il punto in cui tutto va a parare.
Raramente Heidegger l’ha detto con una formulazione così chiara e scoperta come in questo corso:
« Non si tratta di niente di meno che di riappropriarsi di questa dimensione originaria dell’accadere
nell’esistenza che filosofa, per tornare soltanto allora a ’vedere’ tutte le cose in modo più semplice,
più forte e più tenace ».33
Il « mondo come un tutto » è un tema troppo grande per lo sguardo della ricerca. Proprio per questo
Heidegger vuole mostrare che questo grande tema, anche se fosse troppo grande per la ricerca,
viene vissuto quotidianamente e immediatamente in questi stati d’animo come la noia e l’angoscia,
e invero nel ritrarsi da parte del mondo. A partire dalla fine si fa chiaro che l’analisi minuziosa della
noia non è nient’altro che un tentativo di descrivere il modo in cui abbiamo «il mondo come un
tutto ».
Ma adesso la prospettiva può anche essere rovesciata. Che noi « abbiamo mondo » è un fatto; altra
cosa è che il mondo « abbia » noi. Non solo nel senso che noi ci risolviamo nel mondo del «Si» e
del «prendersi cura dell’utilizzabile». Questo Heidegger l’aveva già mostrato in Essere e tempo. Ma
piuttosto nel senso che noi apparteniamo al regno della natura.
Nella seconda parte di questo corso Heidegger presenta per la prima volta una sorta di filosofia
della natura, un tentativo che rimane unico nella sua opera, e che in seguito non ripeterà più. Quale
sia il significato che gli attribuisce, si può desumere dal fatto che egli metta queste considerazioni
alla pari con Essere e tempo e accanto a esso.
Un anno prima erano apparse due opere poderose di antropologia filosofica: La posizione dell'
uomo nel cosmo di Max Scheler e I gradi dell’organico e l' uomo di Helmuth Plessner.
Scheler e Plessner cercavano in modo diverso di scoprire la connessione e la cesura fra l’uomo e il
resto della natura, mettendo reciprocamente insieme i risultati dell’indagine biologica e la
spiegazione filosofica. In Essere e tempo Heidegger aveva sottolineato così fortemente la
separazione fra Tesserci e la natura extraumana che, come ebbe a dire criticamente in seguito Karl
Lowith, doveva sorgere l’impressione di un distacco dell’esistenza umana dai suoi presupposti
corporei e naturali. Scheler e Plessner, entrambi stimolati anche da Heidegger, ricollocarono l’uomo
nel contesto della natura ma, e questo era ciò che li interessava, senza naturalizzarlo.
Fu in particolare il tentativo di Scheler a destare grande attenzione. Heidegger si sentì sollecitato a
compiere una propria escursione nel campo di una antropologia che includesse la filosofia della
natura.
Del mondo fa parte la natura. Ma si può dire che la natura extraumana abbia « mondo »? La pietra o
l’animale hanno un mondo, oppure soltanto compaiono in esso? Vale a dire in un orizzonte
mondano che c’è solo per l’uomo, per quest’essere naturale che è creatore di mondo?
In Essere e tempo Heidegger aveva dichiarato che il modo d’essere della natura, l’inorganico e
l’organico, la vita legata al corpo, «è accessibile solo a un’osservazione distruttiva». Ma non è
affatto così semplice: la coscienza deve cogliere ciò che è privo di coscienza, la conoscenza deve
conoscere ciò che è privo di conoscenza. L’esserci deve comprendere un ente per il quale questo «
ci » non c’è affatto.
La parte di questo corso che concerne la filosofia della natura è una singolare meditazione sul « ci »
e su come possiamo comprendere la natura, che non conosce questo « ci ». Heidegger vuole
penetrare in questa oscurità, per tornare a gettare da lì uno sguardo sull’uomo. Uno sguardo
straniante, per il quale l’evento del farsi chiare delle cose all’uomo, e in generale nella natura,
diventa qualcosa di totalmente insolito. Si tratta di scoprire, a partire dalla natura, che nell’uomo si
è spalancato un esser-ci - una « radura » (Lichtung), come dirà Heidegger in seguito - al quale
possono apparire le cose e gli esseri che sono nascosti a se stessi. È Tesserci che offre il
palcoscenico alla natura. L’unico senso della filosofia heideggeriana della natura è la messa in scena
dell’epifania di questo « ci ».
Le cose e gli esseri si presentano davanti a noi. Ma noi possiamo anche calarci in essi? Possiamo
condividere il loro modo di essere? Essi ce lo comunicano, e noi ci mettiamo in comunicazione con
essi?
Noi dividiamo con loro un mondo in cui essi sono sprofondati e che per noi « ci » è. E in questo
senso noi conferiamo loro quel « ci » che essi stessi non hanno. E noi riceviamo da loro la magia di
questa quiete e di questo totale abbandonarsi a ciò che essi sono. Da questo punto di vista possiamo
esperire in noi stessi persino una mancanza di essere.
Heidegger comincia il suo percorso con i sassi. Il sasso è « privo di mondo ». Esso si presenta nel
mondo senza essere in grado di instaurare da sé una relazione con il mondo. Nella descrizione del
rapporto con il mondo proprio degli animali Heidegger segue soprattutto le indagini di Jacob von
Uexkull, che definisce l’animale « povero di mondo ». Il suo ambiente è la « cerchia circostante »
dalla quale gli impulsi dell’animale vengono « irretiti ».34 Conformemente agli impulsi che
provengono da essa vengono attivate e « dischiuse » determinate forme di comportamento e
appetizioni. Il mondo per l’animale è «ambiente». Esso non può vivere separato da questo.
Heidegger cita il biologo olandese Buytendijk: « Viene dunque in luce che nell’intero mondo
animale l’es-ser-vincolato dell’animale al suo ambiente è profondo quasi come l’unità del corpo
».3S Questo « ambiente » come ampliamento del corpo è detto da Heidegger « cerchio disinibente».
L’animale reagisce a ciò che spezza questo cerchio; reagisce a qualcosa e in tal senso è in relazione
con questo qualcosa, ma non percepisce il qualcosa come questa determinata cosa; in altre parole,
non percepisce il fatto di percepire qualcosa. L’animale ha una certa apertura nei confronti del
mondo, ma
il mondo non può essergli « manifesto » come mondo. Questo accade soltanto nell’uomo. Fra
l’uomo e il suo mondo si apre uno spazio di gioco. Il legame con il mondo si è allentato a tal punto
che l’uomo può entrare in relazione con il mondo, con se stesso, e con sé come qualcosa che accade
nel mondo. L’uomo non è soltanto differenziato, può anche differenziarsi in sé rispetto ad altro; ed è
in grado non solo di rapportarsi a cose differenti, ma anche di operare differenziazioni fra le cose.
Questo « spazio di gioco », che abbiamo già incontrato, Heidegger lo chiama « libertà ». L’ente
semplicemente presente riceve un altro carattere di realtà nell’orizzonte della libertà: esso si
distingue come reale sullo sfondo del possibile. Un essere che ha delle possibilità non può far altro
che considerare la realtà come realizzazione di possibilità. Lo spazio di gioco del possibile, che si
apre per l’uomo, conferisce al reale contorni precisi, nettezza, unicità. Esso si colloca in un
orizzonte di confrontabilità, di genesi e di storia, e quindi anche di tempo. Tutto ciò consente che un
qualcosa possa essere fissato, distinto, interrogato come questo qualcosa. Al di fuori dell’«
irretimento » in cui il mondo viene vissuto, ma non esperito, il mondo emerge come espressamente
percepito. Al possibile si lega il pensiero che qualcosa potrebbe anche non essere. In tal modo il
mondo riceve una peculiare trasparenza. Esso è, sì, tutto ciò che è, ma proprio per questo non è
tutto. E' calato nello spazio ancora più grande di ciò che è possibile e di ciò che è nullo. Soltanto
perché abbiamo il senso dell’assenza è possibile che noi esperiamo la presenza in quanto tale - nella
gratitudine, nello stupore, nello sgomento, nella gioia. La realtà, così come è esperita dall’uomo, è
aggrovigliata nel movimento dell’avvenire, dell’occultarsi e del mostrarsi.
Questa familiarità con il possibile e con il niente (che non c’è nel riferimento al mondo da parte
dell’animale) mostra quel riferimento allentato al mondo che Heidegger chiama « formatore di
mondo ».
Così come Max Scheler nel suo progetto antropologico La posizione dell’uomo nel cosmo aveva
spiegato la personalità spirituale dell’uomo rifacendosi all'immagine schellinghiana del «Dio che
diviene» nell’uomo e per mezzo dell’uomo, anche Heidegger, alla fine del suo corso, si richiama a
un altro grande pensiero di Schelling: con l’uomo la natura apre gli occhi e osserva di esserci.
Questo « raggio di luce » schellinghiano36 è chiamato da Heidegger il « luogo aperto » che si è
spalancato nell’uomo in mezzo all’ente rinchiuso nella naturalità. Senza l’uomo l’essere sarebbe
muto: ci sarebbe, ma non sarebbe il vero. Nell’uomo la natura è giunta all’autotrasparenza.
Questo corso dell’inverno 1929-30, certo il più importante che Heidegger abbia tenuto, è già quasi
una seconda opera principale. Esso era cominciato destando e analizzando la noia, questo stato
d’animo di fioco rapimento. Si conclude rovesciando questo rapimento annoiato in un entusiasmo di
tutt’altro genere. Si tratta di uno dei pochi passi di Heidegger ricolmi dello spirito della gioia di
vivere: «L’uomo è quel non-poter-restare eppure non-poter-lasciare-il-posto [...] E soltanto dov’è la
perigliosità del provare orrore è la beatitudine della meraviglia - quell'insonne rapimento estatico
che è il soffio vitale di ogni filosofare ».37
12. Bilanci alla fine della Repubblica. Plessner.
Il crollo delle « volte ». Amico e nemico. L'equivoco di Heidegger: il singolo o il popolo? La prima
chiamata a Berlino. Karl Mannheim.
La disputa sulla sociologia del sapere, il tentativo di salvare il liberalismo.
Vivere con l'« inappianabile ». Heidegger nella caverna di Platone. L'idea di ciò che fa essere.
Come l'ente diventa più ente.
NEL 1928, poco prima della sua morte, Max Scheler disse in una conferenza: « In circa diecimila
anni di storia noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato in tutto e per tutto problematico a
se stesso, in cui l’uomo non sa più che cos’è, ma in cui sa anche di non sapere ». 1
La diagnosi di Scheler si riferisce a due aspetti della situazione storica alla fine del periodo di
Weimar. Il primo aspetto concerne la frammentazione in una molteplicità di ideologie e visioni del
mondo in lotta fra loro. Quasi tutte si intonano alla catastrofe, alla rottura e al mettersi in cammino,
e tuttavia producono nel loro complesso soltanto la sensazione di una mancanza di vie d’uscita.
« È come se il mondo si fosse liquefatto e ci scivolasse via fra le mani»:2 così Walther Rathenau
descriveva già nel 1912 una evoluzione il cui stadio avanzato può essere commentato solo
satiricamente da Robert Musil verso la fine della Repubblica di Weimar: « Non appena arriva un
nuovo ’ismo’ si crede che ci sia un uomo nuovo, e con la chiusura di ogni anno scolastico ha inizio
un’epoca nuova [...] L’incertezza, la mancanza di energia, le tinte fosche caratterizzano tutto ciò che
oggi è ’anima’ [...] Com’è naturale, tutto questo trova riscontro in un’inaudita meschinità spirituale
del singolo [...] I partiti politici degli agricoltori e degli artigiani hanno filosofie diverse [...] Il clero
ha la sua rete, ma anche gli steineriani hanno milioni di adepti, e le università vogliono anch’esse
contare: in effetti una volta lessi in un fo-
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glio sindacale dei camerieri che c’è una visione del mondo propria dei garzoni di trattoria, che
devono essere sempre tenuti in considerazione. È una Babele: da mille finestre si sentono urlare
mille voci diverse ».3
La produzione ideologica degli anni di Weimar reagisce all’evidente sovraccarico cui era sottoposto
il modello tradizionale di interpretazione e di orientamento a causa dei nuovi eventi e delle nuove
condizioni di vita. Di queste nuove condizioni fa parte il pluralismo proprio di una società liberale
aperta, che si definisce proprio nel non porre come vincolante nessuna visione del mondo e nessuna
immagine dell’uomo. Il vincolo non sta più nelle affermazioni di contenuto, ma solo nelle regole
del gioco che, almeno nelle intenzioni, vogliono costringere alla coesistenza pacifica anche progetti
fra loro opposti. Nell’ambiente pluralista, caratterizzato dalla varietà spirituale, le cosiddette «
verità » vengono declassate a semplici opinioni. Una pretesa che suonava offensiva per tutti quelli
che credevano di avere trovato la parola salvifica. La democrazia come forma di vita relativizza le
pretese di verità assoluta. Hans Kelsen, che fra i giuristi fu uno dei pochi difensori della Repubblica,
formulò così questo concetto: « Alla visione metafisico-assolutistica del mondo è correlata una
concezione autocratica, a quella critico-relativistica l’atteggiamento democratico. Chi ritiene che la
verità assoluta e i valori assoluti della conoscenza umana siano cose inaccessibili, deve quanto
meno ritenere possibile non solo la propria opinione, ma anche quella opposta degli altri. Perciò il
relativismo è la visione del mondo presupposta dal pensiero democratico ».4
Nella società di Weimar tutti approfittano delle garanzie liberali di libertà di opinione e di pensiero,
ma coloro che sono disposti ad accettarne anche le conseguenze, vale a dire il relativismo, sono una
sparuta minoranza. Uno studio del 1932 sull’atteggiamento spirituale della gioventù tedesca giunge
alla conclusione che per gran parte dei giovani il liberalismo è morto: « Questi giovani serbano un
indicibile disprezzo per il mondo 'liberale’ che definisce l’assolutezza spirituale poco
rispettosamente come estraneità al mondo; essi sanno che i compromessi sono, nella sfera spirituale,
l’inizio di tutti i vizi e di tutte le menzogne ».5
Un portavoce di questo antiliberalismo fu il filosofo russo
Nikolaj Berdjaev, a quel tempo molto letto in Germania, che negli anni ’20 conobbe e imparò a
disprezzare a Berlino il laboratorio della modernità. Il suo saggio II nuovo Medioevo (1927) fa i
conti con la democrazia, alla quale rimprovera di lasciar decidere alla maggioranza dei voti che cosa
sia verità.
«La democrazia è amante della libertà, non perché abbia rispetto dello spirito umano e della
personalità umana, ma solo per indifferenza nei confronti della verità ».6    
Berdjaev equipara la democrazia alla mancanza di rispetto per lo spirito. Anche Max Scheler parla
dell’imperversare del disprezzo dello spirito, che è, dopo la mancanza di vie scita, il secondo
aspetto della sua analisi filosofica del presente. Ma Scheler non mette in conto alla democrazia
questo disprezzo dello spirito, bensì ai suoi avversari. Per lui sono sprezzanti dello spirito tutte
quelle aspirazioni che si sottraggono agli sforzi di civilizzazione, proponendo cose che presumono
essere naturali ed elementari ed evocando come potenze originarie sangue e suolo, istinto, ebbrezza,
comunità di popolo e destino. « Tutte queste cose preludono a una rivolta sistematica degli istinti
nell’uomo della nuova età del mondo.»7 È in corso, dice Max Scheler, una sollevazione contro la
ragione dell’accordo. In maniera analoga Thomas Mann, sollecitato da Scheler, aveva descritto nei
suoi Discorsi ai tedeschi (1930) l'habitus spirituale dominante del proprio tempo. Egli parla di «
scolari scatenati » che si sono sottratti alla « scuola idealistico-umanistica » e che inscenano ora un
«ballo di san Vito del fanatismo». « All’eccentricità della situazione spirituale di un’umanità
sfuggita all’idea corrisponde una politica di stile grottesco, con atteggiamenti da esercito della
salvezza, convulsioni di massa, chiasso da bancarella, alleluia e ripetizioni salmodianti di slogan
monotoni, finché non viene la bava alla bocca. Il fanatismo diventa il principio di salvezza,
l’entusiasmo un’estasi epilettica, la politica diventa l’oppio delle masse del Terzo Reich o
un’escatologia proletaria, e la ragione nasconde il suo volto. »8 Thomas Mann loda la ragione
oggettivamente repubblicana del movimento operaio socialdemocratico. Egli punta sulle energie
politiche del centro-sinistra e mette in guardia gli intellettuali dall’erosione delle convinzioni
umanistiche di fondo, consiglia la diffidenza di fronte alle esaltazioni di un cuore avventuroso che,
affamato di intensità, vuole la rivolta a
ogni costo e celebra la distruzione come estasi metafisica. Thomas Mann se la prendeva con quei
selvaggi del tipo di Ernst Jünger, il quale a metà degli anni ’20 dichiarò: « Non staremo da nessuna
parte, se non dove il lanciafiamme ha compiuto la grande purificazione per mezzo del nulla ».9
Thomas Mann ragiona in modo espressamente politico, mentre Scheler resta sul terreno della
filosofia. Egli prende posizione a favore di un esame di coscienza da parte dello spirito, il quale
deve rendersi conto in senso autocritico che l’epoca delle grandi sintesi spirituali è davvero finita.
Ma non per questo lo spirito deve tirarsi indietro e rassegnarsi. Esso deve invece cogliere la propria
problematicità come un’opportunità. Scheler attribuisce un significato sublime alla mancanza di vie
d’uscita. La sua ultima opera, La posizione dell’uomo nel cosmo, si conclude come è noto
considerando che la perdita di certezze potrebbe essere al tempo stesso un processo attraverso il
quale nasce un nuovo Dio. Un Dio non più della « custodia e protezione » e di « sovrannaturale
onnipotenza»,10 ma un Dio della libertà. Un Dio che noi facciamo crescere con la nostra azione
libera, la nostra spontaneità e iniziativa. Questo Dio non offre asilo alcuno ai fondamenti malati
della modernità. « L’essere assoluto non esiste per sostenere l’uomo, né per colmare quelle
debolezze e quei bisogni che tendono sempre a trasformarlo in ’oggetto’.»11
Il Dio di Scheler si mostra dunque nel coraggio della libertà. Bisogna affrontare e superare le attuali
turbolenze e mancanze di orientamento. Dalla forza che oppone resistenza alle unilateralità
fanatiche e ai dogmatismi nascerà un nuovo umanismo come « idea del logos eterno, oggettivo, la
penetrazione [...] nei misteri del quale [...] non spetta a una nazione, a una sfera della cultura, bensì
a tutti, ivi compresi coloro che verranno in futuro, nella cooperazione [...] solidale di soggetti
culturali insostituibili perché individuali ».12
In un saggio del 1931, Potere e natura umana, Helmuth Plessner cita queste considerazioni di
Scheler come esempio della necessità, evidentemente non scomparsa nemmeno fra gli spiriti liberi,
di reperire formule di livellamento, di costruire una copertura a volta sotto cui dare riparo a una
situazione spirituale rimasta senza tetto. « Come possiamo noi, qui, dove tutto è un fluire, sperare in
qualche sintesi duratura, che non sia superata già dopo pochi anni? Dalle coperture a volta non c’è
da aspettarsi altro, se non che esse possano crollare. »13
Il principio antropologico di Plessner è il seguente: l’uomo è definito dal fatto di non essere
definibile una volta per tutte, perché qualsiasi quadro di riferimento etico, scientifico
o religioso entro cui collocare una possibile definizione è esso stesso un prodotto storico dell’uomo.
L’« uomo », nel senso della sua definizione, della sua essenza, rimane sempre un’invenzione della
cultura da lui creata. Tutte le affermazioni sull’ uomo non sono mai in grado di coglierlo come una
grandezza oggettuale definita. Ogni possibile prospettiva scaturisce dalla « sfera di potere della
soggettività creatrice». Questa dev’essere pensata in senso radicalmente storico. Ma la storia non è
solo il « palcoscenico » sul quale « le parole vanno e vengono secondo un qualche nesso che veicola
valori sovratemporali »; bisogna intenderla piuttosto come «luogo di produzione e annientamento
dei valori ».14 Ma anche questa idea della storicità è un’idea storica. Anche l’idea
dell’autorelativizzazione dei valori attraverso la storia non è una posizione assoluta. Vi sono state e
vi sono ancora culture che non conoscono questo tipo di riflessione critica su se stesse. Quello che
rimane è il riconoscimento « sconvolgente» dell’« insondabilità » dell’uomo. Esso è insondabile
perché continua ad avere sempre davanti a sé i propri fondamenti. Ciò che l’uomo è risulta sempre,
di volta in volta, solo nell’attimo della decisione. La determinazione dell’uomo è
l’autodeterminazione. L’uomo è ciò per cui si sarà deciso. Esso si progetta a partire da una
situazione di indeterminatezza. « In questa relazione di indeterminatezza nei confronti di se stesso,
l’uomo si concepisce come potere e scopre se stesso, sul piano teoretico e pratico, come una
questione aperta per la propria vita. »15
Da ciò Plessner trae questa conseguenza: non è la filosofia, bensì l’agire pratico nelle situazioni
necessariamente confuse, a decidere di volta in volta che ne è dell’uomo in quel determinato
momento storico. L’essenza dell’uomo non può essere reperita in « nessuna definizione di una
situazione neutrale ».16 Ora, in questo contesto, Plessner comincia a parlare di Heidegger: la sua
ontologia fondamentale, afferma Plessner, si spinge già troppo in là nella definizione dell’esserci
umano.
I    concetti esistenziali di Heidegger sono storicamente indifferenti, e questo è il loro difetto. Per
esempio il concetto stesso di storicità non viene inteso storicamente.
Max Scheler e Martin Heidegger eseguono, secondo Plessner, in modo diverso la loro « sinfonia di
prospettive verso l’assoluto».17 L’uno pone l’assoluto nello spirito creatore, l’altro nei fondamenti
conformi all’esserci.
In Heidegger ciò conduce in fin dei conti a un disprezzo nei confronti di tutta la sfera politica,
considerata come un ambito del « Si » e dell’« inautenticità », separato dall’ambito distinto del se-
stesso autentico. Ma questo non è altro che 1’« interiorità » tedesca, l’ultima fuga metafisica di
fronte alla potenza della storia.
Helmuth Plessner vuole invece che la filosofia venga esposta dall'interno a questa potenza, anche se
è possibile che essa ne rimanga stritolata. La filosofia deve affrontare « la realtà senza fondo »,18
vale a dire: accorgersi che, volente
o nolente, essa stessa si trova nelle « relazioni vitali primitive di amico e nemico».19 Per essa non
esiste alcuna possibilità di starsene rilassata al di fuori, non c’è alcuna posizione al di sopra delle
parti in lotta. Il tempo non consente alcun rilassamento universalistico, non c’è modo di tirare il
fiato; una filosofia che intenda affrontare la realtà deve addentrarsi nei rapporti elementari di
amicizia e inimicizia e cercare di capirli, comprendendo anche se stessa a partire da quelli. Qui
Plessner si richiama esplicitamente alla definizione del politico di Carl Schmitt.
II    saggio di Helmuth Plessner fu scritto in un momento in cui in Germania era già cominciata la
guerra civile. Il successo dei nazionalsocialisti alle elezioni di settembre del 1930; le sa che
marciano e danno battaglia per le strade alla Lega dei combattenti del fronte rosso e ai difensori
della Repubblica: il centro politico, la ragione del confronto, viene stritolato. Lo stile politico è
determinato dalla formazione di fazioni militanti.
In questa situazione Plessner esige che la filosofia si svegli finalmente dal suo sogno che le fa
credere di poter cogliere il «fondamento» dell’uomo. Essa non è più intelligente della politica.
Entrambe hanno il medesimo campo visivo, «che è aperto sul luogo insondabile dal quale la
filosofia e la politi ca, osando anticipare le cose, [...] danno forma al senso della nostra vita ».20
Il concetto della storicità, intesa in senso radicale, conduce Plessner alla convinzione che la filosofia
debba confrontarsi con la sfera rischiosa del politico, non solo a causa di un dovere esteriore, ma a
partire dalla sua stessa logica interna. Ma se la filosofia si mette accanto alla politica, comprende
quanto le sia difficile essere all’altezza dei tempi. Il pensiero filosofico « non è mai arrivato così
lontano come la vita, ed è sempre più avanti della vita ».21 Un presente spirituale, come quello del
momento storico attuale, sembra pretendere costituzionalmente troppo dalla filosofia. Per questo
essa si è limitata di norma, a formulare principi o prospettive future. Essa si mantiene o nell’ambito
dei presupposti o in quello delle aspettative. Essa rifugge dal presente confuso e dall’attimo della
decisione. La politica è invece, secondo Plessner, « l’arte del momento giusto, dell’occasione
propizia. Tutto dipende dall’attimo ».22 Plessner esige dunque una filosofia che si apra all’« attimo
».
Che cosa richiede l’attimo dal filosofo nel 1931? La risposta di Plessner è questa: egli deve cogliere
il significato del «popolo». «L’essere popolo è un tratto fondamentale dell’uomo: come il saper dire
io-e-te, come la familiarità e l’estraneità.»23 È un cattivo idealismo quello che fa semplicemente
sparire questa appartenenza nell’idea di una umanità universale. Ciò che è proprio deve affermarsi,
e ciò vale tanto per il singolo quanto per il popolo. Ma questa autoaffermazione non significa
predominio e gerarchia. Poiché tutti i popoli e tutte le culture scaturiscono dal « fondo di potere »
della « soggettività creatrice », Plessner ammette la « parità democratica dei valori di tutte le culture
»24 e spera nel « lento e progressivo superamento dell’assolutizzazione del proprio popolo ».25
Questo significa, tradotto in termini esplicitamente politici: autoaffermazione nazionale contro le
pretese del trattato di pace di Versailles e contro il pagamento dei danni di guerra, e al tempo stesso
rifiuto dello sciovinismo nazionale o addirittura razzistico. Al tempo stesso l’appartenenza al
proprio « popolo » contiene un « aspetto di assolutezza», dato che il singolo non può disporre della
sua appartenenza, ma si trova già sempre calato in essa. « Per l’uomo tutti i problemi politici sono
racchiusi nell’orizzonte del suo popolo, dato che egli esiste solo in questo orizzonte, nel rifrangersi
casuale di questa possibilità. » Questa situazione non consente all’uomo «alcuna realizzazione pura,
né nel pensiero, né nell’azione [...] ma soltanto relativa a un determinato popolo, al quale già
appartiene per sangue e tradizione ».26
Plessner conclude il suo saggio con una seconda critica a Heidegger, cui rimprovera l’assenza di
riferimento al « popolo». Con la sua filosofia dell’autenticità egli rende più profondo quello «
strappo fra una sfera privata della salvezza dell’anima e una sfera pubblica del potere » che è tipico
della Germania. Egli favorisce 1’«indifferentismo politico». Si tratta, secondo Plessner, di un
pericolo per « il nostro Stato e il nostro popolo ».
Ho parlato così esaurientemente di Plessner perché la sua filosofia, che si rifà a Heidegger, compie
con grande dispendio di riflessione quella politicizzazione e nazionalizzazione che in Heidegger
avvengono invece in maniera piuttosto nascosta. Ma proprio perché questi processi, per quanto
nascostamente, sono avvenuti, quando nel 1931 appare la critica di Plessner, Heidegger non ha più
bisogno di sentirsene colpito. Infatti anch’egli è ormai in procinto di cercare una relazione esplicita
con il « popolo », e quindi anche con la politica, lungo percorsi analoghi a quelli di Plessner.
Ricordo ancora una volta il ragionamento di Essere e tempo su « storicità», « destino » e « popolo
»: in quell’opera il legame con la comunità popolare aveva già rivestito un suo ruolo, anche se non
centrale. L’ideale di esistenza di Essere e tempo si attaglia certo al libero riferimento a se stesso da
parte del singolo, e tuttavia Heidegger non vuole intenderlo come un individualismo. Per questo egli
sottolinea le potenze fattuali dell’esserci proprie della comunità e del popolo, che devono essere
assunte come aspetti della gettatezza nel proprio progetto esistenziale. Chi ha lottato per accogliere
la gettatezza del proprio esserci « senza illusioni »,27 deve anche osservare che non può scegliere il
proprio popolo, cui appartiene, e che è gettato anche nel popolo, perché è nato all’interno della sua
storia, della sua tradizione e cultura. Heidegger chiama « destino-comune » (Geschick) questa
implicazione del singolo esserci nello « storicizzarsi della comunità, del popolo ».28 Questa
coappartenenza può tuttavia - come anche gli altri aspetti della vita - essere vissuta in modo
differente: in modo « autentico » o « inautentico ». L’esserci può « assumersi » consapevolmente
questo « destino-comune » del popolo; esso è pronto a dare il proprio contributo per reggere questo
« destino-comune », a esserne responsabile; fa propri gli interessi del suo popolo, fino a rendersi
disponibile al «sacrificio» della propria vita; esso «si sceglie i propri eroi»29 dal patrimonio di
tradizioni di quel popolo. Ma nel fare tutto ciò il singolo non sacrifica la propria autoresponsabilità.
Il rapporto autentico con il popolo rimane un rapporto con il proprio se stesso. Si comporta invece
in modo inautentico chi cerca la comunità del popolo per sfuggire al proprio se stesso; per costui il
« popolo » non è altro che il mondo del « Si ».
Poiché dunque c’è un modo autentico e uno inautentico di rapportarsi al popolo, il discorso sul
popolo e sull’appartenenza al popolo deve restare in quell’« equivoco » che concerne tutto ciò che è
inteso in senso « autentico ». « Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in
realtà non lo è; oppure non sembra tale, ma in realtà lo è. »30
In Essere e tempo Heidegger non è andato al di là di questo « equivoco ». Si parla di popolo e di
destino comune, ma il pensiero non si sforza ancora di riuscire a capire per che cosa è scoccata
l’ora, che cosa esiga concretamente il momento storico. Heidegger non si è ancora cercato i « propri
eroi». Egli non ha ancora abbandonato l’ambito terminologicamente protettivo dei principi, quello
dell’ontologia fondamentale. La storia concreta è sospettata di inautenticità, oppure viene
formalizzata come « storicità », un guscio vuoto che può accogliere qualsiasi « sostanza » storica,
come anche nessuna. Il pensiero esige da se stesso un’apertura storicopolitica (« destino-comune del
popolo »), ma ancora non la realizza.
La critica contemporanea aveva notato benissimo questo «equivoco », questa posizione oscillante
fra ontologia astorica e postulato della storicità. Ne sono un esempio le osservazioni critiche di
Plessner su Heidegger. E già in precedenza Georg Misch aveva sostenuto l’idea, nel corso di una
esauriente recensione di Essere e tempo, che in Heidegger il pensatore ontologico avesse avuto
partita vinta sull’ermeneutico della vita storica.
Lo stesso Heidegger, che era solito lamentare la presunta incomprensione di Essere e tempo, aveva
visto le cose in maniera simile. Infatti già poco dopo la pubblicazione di Essere e tempo cominciò a
condurre il suo pensiero nella direzione individuata da Plessner e Misch, quella di una storicità più
radicale, del riferimento al momento storico e della decisione politica.
Il 18 settembre 1932 Heidegger scrive a Elisabeth Blochmann di essere ormai lontano da Essere e
tempo e che il sentiero battuto a quell’epoca gli appare ora « coperto di vegetazione» e non più
percorribile. A partire dal 1930 egli parla spesso nelle lettere a Elisabeth Blochmann e a Karl
Jaspers della necessità di un « nuovo inizio », ma anche dei dubbi sulla possibilità di riuscita di
questo nuovo inizio. In una lettera a Jaspers del 20 dicembre 1931 ammette apertamente di « avere
osato troppo, al di là della mia forza esistenziale e senza vedere chiaramente la ristrettezza di quello
che posso oggettivamente domandare ». In questa stessa lettera egli fa riferimento all’« episodio di
Berlino », accaduto ormai da un anno.
Il 28 marzo 1930 Heidegger aveva ricevuto una chiamata a Berlino, per occupare la cattedra di
filosofia più importante della Germania. In un primo tempo la commissione esaminatrice, ancora
sotto la responsabilità di Karl Heinrich Becker, ministro prussiano della cultura, aveva preferito
Ernst Cassirer. È vero che Heidegger rientrava già nella ristretta cerchia dei candidati, ma i suoi
oppositori avevano avuto la meglio. Farias ha condotto un’indagine su questi fatti. Ne risulta che fu
soprattutto Eduard Spranger a schierarsi contro Heidegger. Egli aveva posto la questione se la
popolarità di Heidegger non fosse dovuta più alla sua personalità che alla sua filosofia, peraltro
poco adatta a essere insegnata e studiata. Nel verbale della commissione si scrisse infine: «
Recentemente si fa spesso il nome di Martin Heidegger. Benché la qualità delle sue pubblicazioni
sia molto controversa, è un fatto incontestabile che egli [...] eserciti una forte attrattiva personale.
Tuttavia anche i suoi sostenitori riconoscono che, fra i numerosi studenti che fanno corte attorno a
lui, non ce n’è forse nessuno che lo comprenda veramente. Oggi come oggi, Heidegger sta
attraversando una crisi: converrebbe attenderne l’esito. Farlo venire in questo momento a Berlino
sarebbe cosa nefasta ».3I
La voce che Heidegger fosse in crisi si basava da un lato sul fatto che non era ancora apparso né era
stato annunciato il secondo volume di Essere e tempo. Il libro su Kant del 1929 aveva trovato una
accoglienza contrastante, ma soprattutto non era stato inteso come parte della continuazione di
Essere e tempo. Anche il modo in cui Heidegger si presentò a Davos aveva contribuito a creare
l’impressione di una crisi. Era rimasto il ricordo del modo brusco con il quale aveva liquidato la
filosofia della cultura e aveva annunciato un nuovo inizio, che restava però esso stesso
nell’incertezza.
Nella primavera del 1930 ci fu una sostituzione nel ministero prussiano della cultura. Adolf Grimme
prese il posto di Becker. Grimme, un politico di formazione filosofica (era stato allievo di Husserl),
proveniva dalla cerchia dei socialisti religiosi che si raccoglieva attorno a Paul Tillich. Egli respinse
la lista fornita dalla facoltà, e contro l’esplicito parere di quest’ultima fece inviare la convocazione a
Martin Heidegger. Grimme voleva un professore di spicco. Inoltre l’arrivo di un antiborghese e
rivoluzionario della cultura come Heidegger non poteva spaventare un uomo come Grimme,
proveniente anch’egli dal movimento giovanile antiborghese.
I giornali liberali di Berlino si irritarono per questa imposizione da parte del ministro: « Un ministro
socialista chiama a Berlino un reazionario della cultura ».32
Nell’aprile del 1930 Heidegger si reca a Berlino per trattare, passando per Heidelberg dove vuole
consigliarsi con Jaspers. Questi aveva saputo dai giornali della convocazione e gli aveva scritto: «
Lei assume il posto più in vista e in tal modo potrà esperire e rielaborare impulsi finora non
conosciuti della sua filosofia. Mi pare che non ci possa essere occasione migliore » (29 marzo
1930).33
Poiché egli stesso in passato aveva nutrito speranze di ottenere una cattedra a Berlino, prova un «
leggero dolore [...] ma esso è il più leggero possibile, perché ora è Lei a ricevere quest’incarico ».
Heidegger, che viene informato dal ministro sull’avversione da parte della facoltà, ciò nonostante
conduce in primo tempo trattative serie. Egli richiede ad esempio che si assumano provvedimenti
affinché possa disporre la sua vita « in relativa calma, lontano dai disturbi provenienti dai traffici
della grande città» 34 dato che questa è una « condizione di base » irrinunciabile del suo fare
filosofia.
Ma, ritornato a Friburgo, Heidegger decide di rinunciare all’incarico. « La rinuncia mi è divenuta
gravosa solo in considerazione di Grimme stesso», scrive il 10 maggio 1930 a Elisabeth
Blochmann. Di fronte a Grimme egli spiega così il proprio rifiuto: « Non mi sento oggi, essendo
giunto appena all’inizio di un lavoro solido, attrezzato a sufficienza per adempiere alla cattedra
berlinese nel modo che io stesso devo pretendere da me, come da ogni altro. Solo la filosofia che è
davvero del proprio tempo, vale a dire però padrona del proprio tempo, può diventare una filosofia
che veramente resti ».35
Una frase decisiva: Heidegger ammette apertamente di non sentirsi ancora « attrezzato a sufficienza
», di non essere ancora arrivato alla « filosofia vera », che non è solo espressione del proprio tempo
nel pensiero, alla maniera di Hegel, ma che ne è « padrona », cioè che gli indica la direzione da
seguire o che, come dirà un anno più tardi nel corso su Platone, deve « superare il presente ».
Egli non si sentiva ancora all’altezza di questa esigenza posta da lui stesso, ma scrive anche di
trovarsi in cammino verso un « inizio ».
Sebbene questa prima offerta di un incarico a Berlino avesse destato molto interesse pubblico,
questa volta non c’è ancora da parte di Heidegger una dichiarazione trionfante e programmatica in
favore della « provincia », ma solo un’umile ammissione: non sono ancora pronto! La rinuncia che
Heidegger spedisce a Grimme si conclude con una preghiera di «riconoscere i limiti che sono
tracciati anche per me».36
La vera filosofia deve « essere padrona del proprio tempo », aveva scritto Heidegger. In tal modo
egli aveva posto la filosofia, e se stesso, di fronte a un grande compito: essa deve dimostrare forza
di diagnosi e prognosi del tempo e, oltre a ciò, suggerire determinate decisioni, e non soltanto la
decisione in generale. Sono richieste concezioni filosofiche politicamente pregnanti; le alternative
dell’azione devono essere visibili e, ove possibile, devono essere decise filosoficamente. Heidegger
deve pretendere tutto questo dalla filosofia, se essa vuole essere « padrona del proprio tempo ».
Con questa esigenza egli si trova in linea con la tendenza dell’epoca. Ciò appare in modo
particolarmente chiaro nella disputa sulla sociologia del sapere che animava il mondo spirituale del
tempo e che era stata sollevata dallo spettacolare intervento di Karl Mannheim al congresso
sociologico del settembre 1928. Un partecipante a questo congresso, il giovane Norbert Elias, parlò
allora di una « rivoluzione spirituale»37 che si era appena compiuta, e il sociologo Alfred Meusel
descrive il suo « senso di preoccupazione nel dover viaggiare su una nave insicura sopra un oceano
fortemente agitato».38 Che cosa era successo?
Karl Mannheim aveva parlato, nel suo intervento, del « significato della concorrenza nella sfera
spirituale », e nel far ciò aveva fatto qualcosa che a prima vista appariva come la solita spiegazione
marxistica dei prodotti spirituali a partire dalle condizioni della base sociale. La provocazione per i
marxisti consisteva nel fatto che Mannheim applicava ai marxisti stessi questa accusa di ideologia,
con la quale essi erano soliti attaccare i loro avversari. In tal modo egli metteva in discussione le
loro pretese universalistiche. Ma questa offesa dei marxisti non era sufficiente a destare una grande
attenzione nel mondo scientifico. L’attacco ebbe l’effetto di una provocazione perché egli elevò a
principio la messa fra parentesi della questione della verità nell’analisi dei prodotti spirituali.
Per Mannheim vi sono sul piano spirituale solo differenti «stili di pensiero » che stanno fra loro in
un duplice rapporto (lui stesso definisce « relazionistica » la propria impostazione): essi si
riferiscono direttamente alla realtà della natura e della civilizzazione e stanno in relazione fra loro,
la qual cosa produce un evento estremamente complesso, che consiste nel formarsi di tradizioni, di
consenso collettivo, di concorrenze e schieramenti opposti, e che appare simile a una libera
economia di mercato, se non addirittura identificabile con essa. Tutto questo processo ha
naturalmente una « base », ma questa può essere colta a sua volta mediante uno stile di pensiero.
Ciò in cui il pensiero si radica deve restare esso stesso controverso all'interno della controversia
degli stili di pensiero. Pertanto non ci può essere un concetto definito per questa « base ».
Mannheim fa uso della parola « essere », intendendo con essa la totalità di ciò cui il pensiero può
riferirsi o da cui viene sollecitato. Il pensiero, dice Mannheim, non ha mai a che fare con la nuda
realtà o con la realtà effettiva, ma si muove sempre in una realtà interpretata, intesa e compresa.
Mannheim commenta criticamente l’analisi heideggeriana del « Si ». « Il filosofo scorge questo
’Si’, questo soggetto misterioso, ma non gli interessa il modo in cui esso si genera. Ma proprio qui,
dove il filosofo cessa di interrogarsi, comincia il problema sociologico. L’analisi sociologica mostra
che questa interpretazione pubblica dell’essere non è qualcosa che c’è semplicemente, e non è
nemmeno qualcosa di inventato, bensì è oggetto di contesa. L’interesse non è guidato qui dal
desiderio contemplativo di sapere; l’interpretazione del mondo è per lo più il correlato delle lotte
per il potere da parte di singoli gruppi. »39
Il relazionismo di Mannheim non dà ragione ad alcun partito ideologico, a nessun progetto
interpretativo. Come nelle epoche della storia di Ranke, ogni prodotto culturale è equivalente, non
già davanti a Dio, ma dal punto di vista dell’essere che lo fonda. Non ci sono accessi privilegiati.
Ogni pensiero possiede, a modo suo, un « vincolo all’essere ». Ma soprattutto: è di volta in volta un
essere particolare quello in cui si radica il pensiero del singolo o dei gruppi. Alle fondamenta vi
sono le « esperienze originarie paradigmatiche di determinati settori della vita »,40 che si riflettono
poi nei diversi prodotti spirituali e che possiedono perciò un nucleo di « irriducibilità di tipo
esistenziale ».4I Perciò non ci potrà essere un livellamento completo delle differenze in una
immagine comune del mondo e nei principi dell’agire dedotti da quest’ultima. Ma secondo
Mannheim il compito politico della sociologia del sapere è quello di alleviare le opposizioni e le
tensioni riconoscendo il rispettivo vincolo all’essere a ciascuna delle « parti » che si trovano in lotta
e che concorrono alla soppressione l’una dell’altra. Attraverso quest’atto di comprensione bisogna
sottrarre alla lacerazione dell’intero una parte delle energie di ostilità. Una volta compiuto questo
passo, nella società vi sono differenti visioni del mondo le une accanto alle altre, nessuna delle quali
può avere pretese di assolutezza, e nel migliore dei casi esse portano avanti l’evoluzione storica
attraverso la loro reciproca adesione o opposizione disciplinate dall’autotrasparenza. La sociologia
del sapere dovrebbe sovrintendere alla società, che consta solo delle relazioni fra le sue parti, così
come un terapeuta-supervisore dovrebbe fare nei confronti delle coppie che litigano. Non c’è alcun
vincolo privilegiato all’essere, nessuna verità valida in senso atemporale; soltanto una certa quantità
di «intelligenza in libera sospensione» può qualificare la sociologia del sapere per il compito di
composizione e neutralizzazione politica dei contrasti, per quanto è appunto possibile. Essa sa che
non è né possibile né desiderabile che si raggiunga una totale omogeneità. Il programma politico-
spirituale della sociologia del sapere vuole appianare i contrasti attraverso la comprensione delle
inconciliabili quote di differenze legate all’essere negli « strati profondi della formazione umana del
mondo ».42
La sociologia del sapere di Mannheim è l’imponente tentativo politico-scientifico, compiuto alla
fine della Repubblica di Weimar, di salvare il liberalismo, offrendogli come base una sorta di
pluralismo ontologico. Il pensiero viene invitato a distinguere fra opposizioni conciliabili e
inconciliabili, a cercare dove possibile di operare un livellamento razionale, e altrimenti fare
intervenire il mistero della « inappianabilità di tipo esistenziale ». Karl Mannheim conclude con
queste parole; «Chi vuole trovare l’irrazionale dove ancora de iure devono operare la chiarezza e la
schiettezza dell’intelletto, ha paura di guardare in faccia il mistero laddove esso realmente si cela
».43
Heidegger ha preso atto di questo programma di distensione da parte della sociologia del sapere.
Tuttavia egli non può considerare un simile tentativo di salvare il liberalismo, riconducendolo a un
pluralismo ontologico, come un contributo alla soluzione dei problemi del tempo. Egli contesta
molto semplicemente che la sociologia del sapere si sia avvicinata anche di un solo passo al «
mistero laddove esso realmente si cela ».
Nel corso su Platone del semestre invernale 1931-32, che si occupa per un ampio tratto del mito
della caverna nella Repubblica, egli mette i sociologi del sapere fra i prigionieri nella caverna che
possono solo osservare il gioco di ombre sulla parete di fondo e non possono vedere né gli oggetti
reali né tantomeno il sole che illumina ogni cosa. Chi è stato liberato dalla caverna alla luce della
verità e fa ritorno nell’oscurità per liberare coloro che in precedenza furono prigio-
nieri con lui, non verrebbe accolto bene da costoro: «Gli si direbbe che è unilaterale e che, poiché
proviene da qualche altro posto, sostiene un punto di vista che ai loro occhi è unilaterale; e
probabilmente, anzi certamente, essi hanno laggiù una cosiddetta 'sociologia del sapere’, con il cui
ausilio gli si farà capire che egli lavora con i cosiddetti presupposti ideologici, la qual cosa
infastidisce molto, com’è naturale, la comunità dell'opinare comune all’interno della caverna, e che
perciò dev’essere respinta ». Ma il vero filosofo, che ha scorto la luce, non farà molto caso a questa
« chiacchiera della caverna »; al contrario egli « afferrerà e strapperà fuori con forza » alcuni che ne
sono degni e nel corso di « una lunga vicenda cercherà di condurli fuori dalla caverna ».44
Nel 1930 Heidegger aveva sollevato l’esigenza che la filosofia fosse « padrona del proprio tempo ».
Ma negli anni successivi lo vediamo trincerarsi sempre più a fondo nella storia del pensiero greco.
Cerca forse di sfuggire alla storia? Nel già citato corso su Platone egli respinge da sé questo
sospetto addirittura con stizza: «Nell’autentico ritorno alla storia noi prendiamo quella distanza dal
presente che, sola, ci procura
lo spazio per la rincorsa necessaria per saltare al di là del nostro presente, e considerarlo cioè
nell’unico modo in cui ogni presente in quanto tale merita di essere considerato: esso deve essere
oltrepassato [...] Alla fine solo il ritorno alla storia ci riporta in ciò che oggi propriamente accade
».45
Ma Heidegger corre il rischio di restare bloccato nella storia passata, e se la rincorsa consenta
davvero un salto nel presente gli appare per il momento una cosa incerta. L’impressione che ricava
dalla filosofia di Platone è così schiacciante che continuano a venirgli dei dubbi sul fatto che egli
abbia veramente qualcosa di suo da dire. In una lettera a Jaspers egli si definisce come una sorta di
custode nel museo della grande filosofia, la cui unica preoccupazione è di fare attenzione « che le
tende alle finestre vengano aperte e chiuse nel modo giusto, affinché le poche grandi opere della
tradizione si trovino in un certo senso sotto la luce più opportuna al passaggio degli occasionali
visitatori » (20 dicembre
1931).46
Questa caratterizzazione piuttosto curiosa di se stesso e intesa seriamente, come lascia intuire
un’osservazione contenuta in una lettera a Elisabeth Blochmann: « Quanto più forte mi accingo al
mio proprio lavoro, tanto più sicuramente ogni volta vengo ricondotto a forza al grande inizio
presso i greci. E spesso dubito se non sia più essenziale abbandonare ogni tentativo personale e
operare unicamente affinché questo mondo stia nuovamente davanti ai nostri occhi, non per la
semplice presa in consegna, ma nella sua sconvolgente grandezza ed esemplarità» (19 dicembre
1932).47
Degli inizi greci della filosofia Heidegger si era già occupato dai primi anni ’20. Ma adesso essi
agiscono su di lui con una forza tale che a volte rischia di venirgli meno la sua stessa autocoscienza
filosofica. Egli diventa umile, ma solo nei confronti dei greci, non davanti ai filosofi attuali.
L’intenso interesse di Heidegger per i greci è accompagnato dunque da uno stato d’animo
ambivalente. Si dischiude per lui un orizzonte infinito che lo riempie di slancio e gli dà una grande
sensazione di muoversi liberamente. Ma di fronte a questo orizzonte egli si sente anche piccolo e
insignificante. C’è la forte tentazione a scomparire del tutto in questo passato, ma la sua concezione
della storicità radicale, che esige dalla filosofia il rendersi « padrona » del momento storico, non gli
consente di soffermarsi presso l’« origine». Egli deve giustificare il proprio tuffo appassionato nel
passato come « rincorsa » per saltare dentro il presente. Ma ammette senza illusioni di fronte a se
stesso che, come filosofo accademico, si colloca ancora nella « ristrettezza di ciò che si può
domandare » ed è impedito dallo « sprofondare nel proprio lavoro» (a Elisabeth Blochmann, 10
maggio 1930).48 Nei suoi momenti di depressione Heidegger sa che lui stesso è seduto nella
caverna. Sugli incalzanti problemi attuali egli non ha ancora, a ben vedere, niente di particolare,
niente di proprio da dire. E ciò lo tormenta. L’umore è instabile, talvolta sente la forza di un nuovo
inizio, sente di avere gli stessi diritti di Platone; altre volte si sente vuoto, senza originalità, senza
forza creativa. Le sue intenzioni eccessive talvolta
lo coinvolgono, talaltra lo opprimono. Nei confronti di Jaspers egli riveste queste ultime con la
formula platonizzante: la filosofia ha il compito di « guida e salvaguardia sapiente » all’interno
della «dimensione pubblica autentica» (20 dicembre 1931 ).49
Che cosa trova dunque in Platone di così forte da far sì che «ciò che è proprio» sfumi nell’indefinito
(a Jaspers, 8 dicembre 1932),50 e quali sono i criteri che qualificano come tale questa « guida
sapiente »?
La prima metà del corso su Platone del 1931-32 è dedicata, come si è detto, all’interpretazione del
mito della caverna tratto dalla Repubblica. Egli descrive e spiega esaurientemente le singole fasi
della vicenda. Atto primo: gli abitanti della caverna osservano il gioco di ombre sulla parete di
fronte. Atto secondo: uno di essi viene slegato dalle catene, liberato. Atto terzo: costui può girarsi,
vede gli oggetti e il fuoco che sta dietro; viene portato fuori alla luce del giorno. Accecato,
dapprima non vede proprio niente, poi però gli oggetti risplendono davanti a lui nella luce,
diventano « più essenti », e infine egli guarda il sole, che non solo illumina tutto, ma anche fa sì che
tutto cresca e prosperi. Atto quarto: il prigioniero liberato torna nella caverna per liberare i suoi
compagni, che però si rifiutano di essere strappati via dalle loro abitudini. Il liberatore è per loro un
pazzo, ridicolo, presuntuoso e pericoloso. Lo uccideranno, se riusciranno a prenderlo.
Questo mito appare in un primo tempo chiaro come il sole, anche perché è lo stesso Platone a
interpretarlo ancora una volta. I prigionieri sono incatenati dai loro sensi esteriori, dalla loro
percezione esteriore. La liberazione scioglie il senso interno, il pensiero. Il pensiero è la facoltà
contemplativa dell’anima. Mentre l’appetizione e il coraggio, le altre due facoltà dell’anima,
rimangono impigliate nel mondo sensibile, il pensiero se ne libera e concede una visione delle cose
così come esse sono realmente. Il sole, alla cui visione si eleva il pensiero, è il simbolo della verità
suprema. Ma che cos’è questa verità? Platone dice: il bene. Ma che cos’è il bene? Il bene è come il
sole. Ciò significa due cose: in primo luogo esso fa vedere le cose, rende possibile la loro
conoscibilità, e quindi anche la nostra conoscenza; in secondo luogo esso fa sorgere, crescere e
prosperare tutto ciò che è. Il bene consente il trionfo della visibilità, di cui approfittano gli stessi
abitanti della caverna, dato che il fuoco, che proviene dal sole, fa vedere loro almeno le ombre che
si formano; e il bene fa sì che ci sia in generale qualcosa e che questo qualcosa si mantenga
nell’essere. Questo essere onnicomprensivo, che vive della forza del bene, Platone se lo rappresenta
come un vivere comune giusto e ordinato: la polis ideale.
Questo dialogo aveva preso le mosse dalla domanda sull’essenza della giustizia, e Platone spiega
esplicitamente che è difficile incontrare la giustizia, cioè l'essere ordinato dal bene, sulla via dello
studio dell’anima, e che è meglio osservarla in proporzioni più grandi, quelle appunto della polis.
Una volta che la si sia conosciuta nel makroanthropos della polis, la si potrà riconoscere anche
nell’anima del singolo. Il principio fondamentale della giustizia, che Platone presenta nello Stato
ideale, è la realizzazione della giusta misura e dell’ordine. In un mondo graduato secondo una scala
gerarchica di uomini disuguali, a ciascuno viene assegnato il posto in cui potrà sviluppare le forze
che gli sono peculiari e farle operare in vista del tutto. L’immagine delle forze che cooperano
armonicamente viene ingrandita da Platone al di là della polis, fino a raggiungere la dimensione più
ampia dell’armonia pitagorica delle sfere. Così però anche il cerchio si chiude. L’anima è di origine
cosmica e il cosmo ha natura di anima. Anima e cosmo stanno sospesi entrambi in una sfera di
quiete e immutabilità. Essi sono puro essere, in opposizione al tempo che muta, al divenire.
Ma di questo platonismo Heidegger non sa cosa farsene. Cominciamo dall’ultimo aspetto di cui si è
parlato, quello dell’ideale ontologico dell’eternità che non trapassa.
Per Heidegger il senso dell’essere è il tempo, cioè il passare e l’accadere. Per lui non c’è alcun
ideale ontologico della persistenza, e il pensiero ha per lui proprio il compito di sensibilizzare
l’uomo al trascorrere del tempo. Il pensiero dischiude l’orizzonte temporale dovunque la tendenza
quotidiana alla reificazione faccia irrigidire relazioni e situazioni in una falsa atemporalità. Il
pensiero deve « fluidificare », deve consegnare l’ente, e soprattutto l'esserci stesso, al fluire del
tempo; esso dissolve il mondo metafisico ultraterreno delle idee eterne. Niente deve più durare nel «
vortice del domandare ».
Heidegger deve dunque leggere Platone per così dire « in contropelo», se vuole ricavarne qualcosa.
Questo vale per quanto concerne l'essere, che per Platone è in quiete, e che si oppone al tempo
heideggeriano, e così pure per quanto riguarda la « verità ».
In Platone c’è una «verità» che permane, che attende quindi di essere trovata. Le ombre sulla parete
sono una pallida copia dell’originale, cioè degli oggetti che proiettano ombre e che vengono portati
davanti alla luce del fuoco, alle spalle dei prigionieri. La copia si riferisce a un originale. Ma anche
queste cose « originali » non sono altro che copie imperfette rispetto al gradino immediatamente più
alto, quello delle idee. La conoscenza vera passa attraverso le copie e scopre l’originale, vale a dire
ciò che propriamente «è». La verità è esattezza, conformità di una conoscenza al conosciuto. Le
percezioni degli abitanti della caverna sono non vere, perché colgono soltanto l’apparenza e non già
l’essere che vi appare. Per Platone c’è la verità assoluta delle idee. Essa può essere colta nello
slancio dell’anima, con un pensiero che sta fra la matematica e l'estasi mistica. Ma per Heidegger
non ci può essere alcuna verità di questo genere; per lui c’è solo l'accadere della verità, che si
compie nel rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso e con il mondo. L’uomo non scopre alcuna
verità che esiste indipendentemente da lui; egli progetta, in modo sempre diverso nelle diverse
epoche, un orizzonte ermeneutico entro cui il reale riceve un determinato senso. Questo concetto di
verità era già stato delineato da Heidegger, almeno embrionalmente, in Essere e tempo, ed esposto
nella conferenza Dell' essenza della verità, tenuta nel 1930.
La verità, così egli spiega in quella sede, non c’è né dal lato soggettivo, nel senso dell’affermazione
«vera», né da quello oggettivo, nel senso della correttezza della connotazione; essa è invece un
accadere che si compie in un duplice movimento: un movimento a partire dal mondo, che si mostra,
si evidenzia, appare; e un movimento a partire dall’uomo, che si appropria del mondo e lo
dischiude. Questo duplice accadimento gioca nella distanza in cui l’uomo è posto nei confronti di se
stesso e del mondo. Egli sa di questa distanza, e perciò sa anche che c’è un mondo che gli si mostra,
e uno che gli si sottrae. Lo sa poiché fa esperienza di sé come di un essere che può mostrarsi e
nascondersi. Questa presa di distanza è lo spazio di gioco della libertà. « L’essenza della verità è la
libertà. »5I La libertà intesa in questo senso significa; distanza, spazio di gioco. Questa distanza che
concede spazio di gioco è detta da Heidegger anche « apertura ». Soltanto in questa apertura c’è il
gioco di occultare e rivelare. Se questa apertura non ci fosse, l’uomo non potrebbe distinguersi da
ciò che lo circonda. Egli non potrebbe distinguersi nemmeno da se stesso, e quindi non saprebbe
affatto di esserci. È solo perché c’è questa apertura che l’uomo può giungere all’idea di
commisurare le sue asserzioni sulla realtà a ciò che di essa appare. L’uomo non possiede verità
incrollabili, ma sta incrollabilmente in una relazione con la verità, e questo produce quel gioco di
occultamento e svelamento, di uscita allo scoperto e scomparsa, esser-ci ed esser-via. Heidegger
trova l’espressione più breve per indicare questa concezione della verità nel termine greco che
indica la verità: aletheia, la cui traduzione letterale è s-velatezza. La verità viene strappata alla
velatezza, o perché qualcosa che è essente si mostra, esce allo scoperto, o perché questo qualcosa
viene condotto allo scoperto, svelato. In ogni caso, qui ha luogo una sorta di lotta.
Queste considerazioni devono portare alla conclusione che non ci può essere alcun criterio
metastorico della verità. Non c’è più la storia infinita deH’avvicinamento a una verità, e nemmeno
lo slancio platonico dell’anima nel cielo delle idee; c’è solo un accadimento della verità, vale a dire
una storia dei progetti ontologici. Ma quest'ultima è identica alla storia dei paradigmi-guida delle
epoche culturali e dei modelli di civiltà. Ad esempio, il mondo moderno è determinato dal suo
progetto ontologico della natura. « Il fatto decisivo che è accaduto, è che è stato compiuto un
progetto attraverso il quale si è anticipatamente delimitato che cosa si debba intendere in avvenire
con ’natura’ e 'processo naturale’: una connessione dinamica, determinata in senso spazio-
temporale, di punti materiali. »52 Questo progetto ontologico, che naturalmente non ci si deve
rappresentare come scaturito da una singola testa, ma come sintesi culturale, determina il mondo
moderno in tutti i suoi aspetti. La natura diventa un oggetto di calcolo, e l’uomo guarda a se stesso
come a una cosa fra le cose; l’attenzione si restringe a quegli aspetti del mondo che appaiono in
qualche modo dominabili e manipolabili. Questo atteggiamento strumentale di fondo ha così
provocato lo sviluppo tecnico. Tutta la nostra civiltà, dice Heidegger, è espressione di un
determinato progetto ontologico, nel cui ambito ci muoviamo anche nel « fatto banale di andare a
spasso per la città con il tram a trazione elettrica ».53 Le nostre conoscenze non diventano « più vere
» per il fatto che conducono ad abilità tecniche; bensì la natura dà risposte diverse a seconda del
nostro modo di interrogarla. Essa « svela » di volta in volta, sotto il nostro intervento, aspetti
differenti. E poiché noi stessi apparteniamo alla natura, anche noi stessi veniamo trasformati dalle
modalità del nostro intervento. Anche noi ci sveliamo, attivando aspetti diversi della nostra essenza.
Non c’è alcuna verità nel senso di una grande x incognita, alla quale noi ci avviciniamo in un
progresso infinito e alla quale commisuriamo i nostri enunciati sempre più precisi e più esatti, ma
c’è soltanto il «confronto» attivo con l’ente, che si mostra di volta in volta diversamente, come del
resto anche noi stessi facciamo. E tutto questo è un processo creativo; ogni progetto ontologico
infatti produce un mondo interpretato e organizzato, materialmente e spiritualmente, in un certo
modo.
Se dunque non c’è alcun criterio assoluto di verità, ma so
lo un accadimento dinamico della verità, tuttavia Heidegger trova un criterio di valutazione di
questo accadere della verità che va al di là di esso: è il criterio della riuscita. L’esserci può infatti
riuscire, in base al modo in cui lo incontriamo e Io facciamo essere, più ente o meno ente. « È una
questione a sé stante, se attraverso questa scienza l’ente sia divenuto più ente, oppure se non si sia
inserito qualcosa di totalmente diverso fra l’ente e l’uomo conoscente, a causa del quale il rapporto
con l’ente è stato stritolato, l’uomo è stato privato del suo istinto nei confronti dell’essenza della
natura, mentre l’istinto per l’essenza dell’uomo è stato soppresso. »54
Da queste formulazioni risulta che a Heidegger interessa cogliere, attraverso il criterio del
comparativo «più ente», l’accrescimento o la diminuzione del vivente: se l’ente può mostrarsi nella
pienezza delle sue possibilità, se noi « mettiamo allo scoperto » noi stessi e il mondo, se il nostro
modo di rivolgerci all’ente consente a questo di apparire e prosperare in tutta la sua ricchezza, così
come noi stessi. « Visione essenziale del possibile »,55 così Heidegger chiama questo modo di
rivolgere l’attenzione, che possiede i suoi organi particolari: «la filosofia originaria» e la «grande
poesia». Entrambe fanno essere « l’ente più ente »,56
Dopo il 1933 Heidegger farà filosofia prevalentemente sulle tracce della « grande poesia »;
all’inizio degli anni ’30 è il momento della « filosofia originaria » di Platone.
Ma Platone, questo metafisico per eccellenza di una verità assoluta, non dovrebbe offrire alcun
punto di appoggio per la concezione heideggeriana della verità come accadere della verità. O forse
le cose stanno diversamente?
Heidegger ammette, e sarebbe del resto difficile negarlo, che in Platone questa esperienza
fondamentale dell'aletheia, intesa come accadere aprente della verità (senza verità « oggettiva »), ha
già cominciato « a diventare inoperante » e a trasformarsi nella « concezione corrente dell’essenza
della verità», intesa come «esattezza» di asserzioni.57
Se Heidegger vuole assicurarsi del grande inizio presso i greci, deve comprendere Platone ancora
meglio di quanto Platone stesso abbia fatto. Perciò elimina il punto di riferimento della verità inteso
da Platone, cioè il mondo delle idee con in cima l’idea suprema del bene simboleggiata dal sole, e
volge invece quasi esclusivamente l’attenzione sul processo di liberazione e di ascesa dell’anima
dove, secondo lui, quel
lo che più importa non è la scoperta di un « retromondo spirituale». Piuttosto, in questa liberazione
avviene un cambiamento di comportamento e di atteggiamento che fa essere l’ente « più ente ».
Heidegger differenzia lo slancio di Platone da qualsiasi fuga dalla realtà. È vero invece il contrario:
soltanto chi si libera dalla caverna delle ombre (delle opinioni, delle abitudini, degli atteggiamenti
quotidiani) giunge davvero al mondo, cioè al mondo reale. E che cos’è il mondo reale? Noi lo
sappiamo già, Heidegger lo ha descritto fin troppo spesso: è il mondo visto dalla prospettiva
dell’autenticità, l’arena della gettatezza e del progetto, della cura, del sacrificio, della lotta, un
mondo attraversato e dominato dal destino, minacciato dal niente e dalla nullità; un luogo
pericoloso, nel quale possono resistere solo coloro che sono decisi a rinunciare a ogni riparo, coloro
che sono davvero liberi, senza dover cercare protezione sotto il tetto delle verità precostituite.
Poiché a Heidegger interessa proprio questa immagine del mondo, egli non si sofferma molto a
lungo sul culmine vero e proprio del mito della caverna, l’attimo della redenzione nella
contemplazione estatica del sole, bensì torna in fretta, insieme a colui che è stato liberato,
all’interno della caverna. Per Heidegger soltanto a questo punto avviene il culmine drammatico
della parabola. Infatti colui che è stato liberato per la luce diviene a sua volta liberatore. Ma il
liberatore « deve essere violento »,58 dato che gli incatenati si sono messi a loro agio nel proprio
mondo e non vogliono affatto essere liberati da questa situazione, visto che non conoscono
nient’altro. Heidegger saccheggia due aspetti della vicenda per costruire, estensivamente,
l’immagine del filosofo eroico: questi è chiamato ad assolvere il compito di guida e custode e deve
prepararsi a essere un martire nel tentativo di liberare gli incatenati. Questi infatti si difenderanno e
risponderanno con la violenza a chi usa la violenza. Forse lo uccideranno per essere lasciati in pace.
Il filosofo che sta alla guida è chiamato a mettere in moto per l’intera comunità un nuovo
accadimento della verità e a istituire un nuovo rapporto con la verità. E il filosofo-martire non
muore soltanto, come Socrate, della morte del filosofo, ma forse deve patire persino la morte della
filosofia... L’« avvelenamento » della filosofia, dice Heidegger, avviene soggiacendo alle abitudini e
alle considerazioni sull’utilità da parte di coloro che abitano nella caverna. Heidegger tratteggia uno
schizzo pungente della vita filosofica: la filosofia come forma evanescente di edificazione religiosa,
come ancella gnoseologica delle scienze positive, come chiacchiera ideologica, come giornalismo
da terza pagina alla fiera delle vanità intellettuali. Tutto questo equivale a dire che la filosofia
dovrebbe sopportare «l’annientamento e l’infiacchimento della propria essenza ».59 La filosofia
autentica, che in Platone ha scorto il sole del bene e in Heidegger ha gustato i frutti della libertà, che
in Platone possiede la verità e in Heidegger suscita un accadimento di verità, questa filosofia
autentica si trova senza vie d’uscita; essa infatti non può difendersi da questo « avvelenamento »
dovuto alla strumentalizzazione in vista dell’utile e di ciò che è in voga, e se non collabora verrà
disprezzata e messa da parte. Ma l’ethos della libertà le impedisce anche di sottrarsi al pericolo.
Essa non deve ritirarsi dalla caverna, « essere liberi, essere liberatori è agire insieme nella storia ».60
Heidegger riassume il tutto in queste parole* « L’autentico filosofare è impotente nella sfera
dell’ovvietà dominante; soltanto nella misura in cui quest’ultima si trasforma, la filosofia può
ancora parlare ».6I
Ed ecco tornare il tema della storia. La « ovvietà dominante» deve trasformarsi, prima che la vera
filosofia possa parlare. Che cos’altro rimane, se non aspettare il grande momento storico? Certo,
rimane comunque l’altra possibilità, che una volta o l’altra arrivi Un grande filosofo che, come
aveva detto Heidegger nel suo corso sulla Metafisica del 1929-30, possegga quel carisma che lo
faccia essere il destino degli altri, l’occasione « che li desta alla filosofia ».62 Heidegger, che nel
museo della filosofia si prende cura della giusta illuminazione delle grandi opere, sperimenta già
anche il suo nuovo ruolo: quello dell’anticipatore che, come afferma nel corso su Platone, « prepara
la strada » a colui che deve venire.63 « Si riuscirà », chiede sibillino Heidegger in una lettera dello
stesso periodo a Karl Jaspers, « a creare un terreno e uno spazio per i prossimi decenni della
filosofia? Ci saranno uomini capaci di portare in sé una lontana disponibilità? » (8 dicembre
1932)64
Se ci deve essere un simile grande cambiamento nella storia a opera dei filosofi, se l’autentica
filosofia deve essere considerata come un’opera di liberazione, non si potrà evitare ancora a lungo il
riferimento alla sfera politica. In definitiva anche lo slancio dell’anima, così come lo descrive
Platone nella Repubblica, conduce a una dimensione politica. In quella sede Platone sviluppa, come
è noto, l’idea che la coesistenza comune è bene ordinata soltanto quando i filosofi vi diventano
regnanti. Lo stesso Platone aveva cercato di metterlo in pratica con il tiranno Dionigi di Siracusa, e
come è noto fallì miseramente. Fu venduto come schiavo e riuscì a mettersi in salvo solo con l’aiuto
della fortuna.
Ma Platone resterà sulla sua posizione: il vero filosofo è illuminato dall’idea del bene. Per mezzo di
essa egli ha fatto ordine dentro di sé; in lui le facoltà dell’anima (l’appetizione, il coraggio, la
saggezza) si trovano in armonia, e secondo
il modello di questa armonia interiore egli sarà poi capace di dare ordine alla convivenza comune, la
quale si compone di tre livelli, al pari dell’anima ben ordinata: alla facoltà appetitiva corrisponde la
classe dei lavoratori, al coraggio la classe dei guerrieri e dei guardiani, alla saggezza quella dei
filosofi che detengono il potere. Si tratta di tre ordini ai quali il pensiero politico occidentale resterà
legato per molto tempo; nel Medioevo si parlava della triade contadino-cavaliere-prete, e questo
pensiero tornerà a far aleggiare la sua presenza anche nel discorso di rettorato di Heidegger, dove
egli evoca la triade unitaria di « servizio del lavoro », « servizio delle armi »e « servizio del sapere
».
Il filosofo che ha contemplato il sole e che ritorna nella caverna come liberatore, reca massime
morali nel suo bagaglio. La Repubblica di Platone è senza dubbio un’opera di etica filosofica. È
tanto più sorprendente che Heidegger, il cui pensiero si muove intorno al problema dell’assunzione
di potere da parte della filosofia, affermi d’altra parte che nel caso dell’idea platonica del bene «
non si tratta di etica o di morale » e che ci si deve « liberare da ogni rappresentazione sentimentale
di questa idea del bene ».65
Così la questione diventa alla fine sempre più pressante: se Heidegger mette in ombra la tangibile
etica politica di Platone, in che cosa scopre poi la potenza meravigliosa della filosofia platonica?
Nel mito della caverna colui che viene liberato alla luce non è costretto a tornare come liberatore
nella caverna. Egli potrebbe accontentarsi di essere stato redento alla verità e di avere raggiunto la
forma suprema della vita, il bios theoretikos. Perché torna a mescolarsi fra la gente, perché vuole
insediare lì la sua opera di liberazione, perché la «saggezza» torna indietro sul mercato della
politica? Platone solleva queste domande e distingue l’ideale di virtù della giustizia politica
dall’ideale di affrancarsi da tutti gli intrighi politici. La filosofia pratica e la filosofia della
redenzione stanno l'una di fronte all’altra. Il filosofo può scegliere. « E chi [...] ha gustato come sia
dolce e beato quel possesso » della filosofia e « vedendo d’altra parte abbastanza la follia del volgo,
e come nessuno [...] riesce a combinar nulla di buono nella vita pubblica [...] un tal uomo,
considerato tutto questo, e standosene tranquillo e facendosi i fatti suoi, come uno che dalla bufera
si tragga al riparo sotto un muricciolo da polvere e grandine trasportata dal vento, vedendo gli altri
tutti pieni di morale disordine, è lieto di poter vivere lui questa vita puro di ingiustizia e di opere
empie, e di dipartirsene un giorno sereno e tranquillo, con una bella speranza.»66 Questa possibilità
di redenzione di sé mediante la filosofia rimane sempre per Platone un’attrazione, un’alternativa
all’etica politica.
Se Heidegger mette fra parentesi l’etica politica di Platone, allora il suo entusiasmo si riferisce forse
a questa attra zione di autoredenzione per mezzo della filosofia? No, perché Heidegger riconosce
esplicitamente il dovere filosofico «di agire insieme nella storia ».67 Se non è né per l’etica
platonica concretamente formulata, né per la volontà di autoredenzione filosofica, per che cosa si
accende dunque la filosofia di Heidegger di fronte a Platone?
Molto semplicemente, per l’atto di liberazione, di uscire all’aperto; un’« esperienza originaria » per
la quale tutte le consuetudini, i vincoli e gli orientamenti mondani di una determinata cultura e
civilizzazione perdono il loro definitivo carattere vincolante. Questo non significa comunque fare
esercizio di disimpegno, ma fare esperienza del fatto che ciò che risulta impegnativo si trasforma in
qualcosa che noi stessi abbiamo scelto. L’apertura a cui giunge colui che viene liberato dalla
caverna, gli consente di vedere l’ente « nella sua totalità ». « Nella sua totalità », vale a dire
nell'orizzonte del niente dal quale l’ente scaturisce e rispetto al quale esso si staglia. L’abitante della
caverna che viene liberato ha posto le sue fondamenta sul niente, egli sceglie il suo punto di
osservazione «nella problematicità dell’ente nella sua totalità», e quindi si rapporta « all’essere nel
suo confinare con il niente ».68
La formula di Heidegger per esprimere questo atteggiamento è: « ciò che conferisce potere »
(Ermächtigung).69 Che cosa vuol dire? Heidegger si rifiuta di rispondere. « Che cosa voglia dire
questo, non è più oggetto di discorso, qui bisogna soltanto agire.»70 Con l’esperienza di «ciò che
conferisce potere» si è raggiunto il « limite della filosofia ».
Il pensiero heideggeriano di questo periodo si muove attorno all’idea di « ciò che conferisce potere
». Egli è alla ricerca di una via per varcare i confini della filosofia, ma con mezzi filosofici e per
motivi filosofici.
Profondamente immerso in Platone, inebriato dalla «gigantomachia » che vi scopre, assumendo
posizioni alterne fra l’ebbrezza delle vette raggiunte e il senso di scoraggiamento, Heidegger è in
procinto di trovare il proprio ruolo; egli vuol essere l’araldo di un’epifania a un tempo storico-
politica e filosofica. Arriverà un’epoca degna della filosofia e arriverà una filosofia padrona del
proprio tempo. E in qualche modo egli sarà della partita, come scudiero o come cavaliere. Bisogna
essere desti e non perdere il momento propizio, se la politica può e deve diventare filosofica e la
filosofia può e deve diventare politica.
13. L’inverno 1931-32 alla baita: «A carne di lupo, zanne di cane ». La rivoluzione
nazionalsocialista. L’uscita collettiva dalla caverna. L’essere è arrivato. L’anelito alla politica
impolitica. Il patto fra plebaglia ed élite.
Le « meravigliose mani » di Hitler. Heidegger interviene. L’elezione a rettore.
Il discorso di rettorato. Antichità esplosive.
Il prete senza Vangelo.
PLATONE era spinto verso la politica. Le cause di ciò erano riposte negli elementari istinti politici
degli abitanti della polis, nel fatto che la filosofia poteva essere sedotta da parte del potere e
nell’esigenza di un’organizzazione sociale che consentisse alla filosofìa il piacere indisturbato di
continuare a teorizzare. Per quanto si allontanasse dalla vita comune, Platone restava comunque un
abitante della città e non poteva separarsi da essa. Anche l’Accademia, da lui fondata in seguito, si
mise sotto la protezione e al servizio della polis.
Martin Heidegger, leggendo Platone, non è ancora spinto a occuparsi di politica, ma spera in una
trasformazione storica che magari produca una nuova concezione dell’essere. Egli distingue ancora
le energie creative della storia dalla cosiddetta politica quotidiana. In quest’ultima vede all’opera
solo «macchinazioni», sterile eccitazione, vuoto affaccendarsi, zuffe di partito. La vera storia si
compie per lui in una profondità di cui la politica dominante si presume non sappia nulla.
Questo modo di conferire profondità alla politica, ovvero di superarla in senso storico-filosofico,
era tipico degli anni di Weimar. I diagnostici di quel tempo, che coltivavano ambizioni filosofiche,
erano soliti assidersi di fronte agli avvenimenti politici come se fossero di fronte alla parete di fondo
della caverna platonica e volessero scoprire dietro il gioco d’ombre delle attualità del giorno le
autentiche gigantomachie. Anche nella politica di tutti i giorni ci si doveva occupare di polarità
sublimi: il mito dell’origine contro la profezia (Tillich); l’uomo faustiano contro il fellah (Spengler);
il nuovo Medioevo contro il demonismo dei moderni (Berdjaev); la mobilitazione totale contro il
filisteismo borghese (E. Jünger).
Anche Heidegger predilige questo stile patetico di pittura a grandi campiture. Egli passa
frettolosamente attraverso la concitazione degli accadimenti quotidiani per imbattersi nella storia
«autentica». Il corso su Platone del 1931-32 parla della « rivoluzione di tutto l'essere umano, al cui
principio noi ci troviamo ».1 Ma tutto rimane ancora a livello schematico. L’unica cosa chiara per il
momento è solo l’irruzione e il capovolgimento nell’estasi meditativa e solitaria del mito della
caverna. Questa estasi, la cui formula è « l’ente diventa più ente », deve essere condotta fuori dalla
caverna della mera interiorità, per essere socializzata. Ma come può accadere ciò? Forse facendo sì
che il filosofo estatico diventi il fondatore di una nuova comunità? Per il momento Heidegger si
accontenta ancora di destare lo spirito della filosofia nelle aule dove tiene i suoi seminari, e di
salpare per grandi viaggi verso le immense lontananze delle tradizioni filosofiche. Ma Heidegger sa
che tutto ciò non significa ancora che la filosofia diventi « padrona » del proprio tempo. Ma è
questo che essa deve fare. Heidegger aspetta ancora. Probabilmente dovrà essere la storia a entrare
in scena potentemente, prima che il filosofo si senta autorizzato a farlo.
Anche chi è in attesa della storia e della grande politica ha le sue opinioni sulla politica quotidiana.
Finora Heidegger le aveva espresse raramente, e quando lo aveva fatto era stato per lo più
occasionalmente, quasi con disprezzo. Egli considerava tutto ciò nient’altro che « chiacchiera della
caverna».
Nei giorni intorno al Capodanno fra il 1931 e il 1932, cioè nelle vacanze del semestre dedicato a
Platone, Hermann Mörchen fa visita al filosofo nella sua baita a Todtnauberg. A quel tempo
Mörchen annotò le sue impressioni in un diario: « Lassù si dorme proprio in abbondanza; alle otto e
mezza di sera è già ’ora di ritirarsi in baita’. Tuttavia d’inverno c’è buio a sufficienza perché
rimanga anche il tempo di chiacchierare. Certo non si parlava di filosofia, ma soprattutto di
nazionalsocialismo. Gertrud Bäumers, un tempo così legata ai liberali, è diventata
nazionalsocialista, e suo marito la se-
gue! Non l’avrei mai pensato, ma non c’è proprio niente da meravigliarsi. Lui non ne capisce molto
di politica, e così è il suo disprezzo per la mediocrità che in sostanza gli fa riporre speranze su quel
partito che promette di fare qualcosa di deciso e quindi di contrapporsi efficacemente al
comuniSmo. L’idealismo democratico e la coscienziosità alla Brüning non potevano più far niente
quando ormai si era giunti a tal punto; e così oggi doveva essere approvata una dittatura che non
denigrava i metodi di Boxheimer. Solo attraverso una simile dittatura era possibile evitare la ben
peggiore dittatura comunista che distrugge ogni cultura individuale della personalità e quindi tutta
la cultura in senso occidentale. Lui certo non si interessa di singole questioni politiche. Chi abita
quassù ha ben altri parametri per tutto ciò ».2
Hermann Mörchen fu del tutto sorpreso dalle simpatie politiche di Heidegger. Era in grado di
spiegarsele solo con la sua ignoranza delle « singole questioni politiche ». Un altro studente di
Heidegger, Max Müller, racconta anch’egli quanto grande fosse la sorpresa nella cerchia degli
allievi quando Heidegger si professò seguace del nazionalsocialismo. Infatti «nessuno dei suoi
allievi pensava allora alla politica. In queste esercitazioni non si sentì mai una sola parola di politica
».3
All’epoca della visita di Mörchen a Todtnauberg e del corso su Platone, nell’invemo 1931-32, la
presa di posizione di Heidegger a favore della NSDAP non è nient’altro che un’opinione politica. Egli
vede in questo partito una forza ordinatrice nella miseria della crisi economica e nel caos del crollo
della Repubblica di Weimar, ma soprattutto un baluardo contro il pericolo di una rivoluzione
comunista. « A carne di lupo, zanne di cane », disse a Mörchen. Ma per il momento la sua simpatia
politica per il nazionalsocialismo non trova ancora alcuna via di accesso alla sua filosofia. Un anno
dopo le cose cambieranno radicalmente. Allora infatti arriverà per Heidegger il grande momento
della storia, quella « rivoluzione di tutto l’essere umano » di cui aveva parlato, come per un
presagio, nel corso su Platone. La rivoluzione nazionalsocialista diventerà allora per lui un evento
che si impossessa dell’esserci, che penetra fin nell’intimo della sua filosofia e che spingerà il
filosofo oltre i « limiti della filosofia ». Nel corso su Platone egli aveva interrotto l’analisi
dell’estasi filosofica osservando che « su questo non bisogna continuare a parlare, bisogna agire ».4
Nel febbraio del 1933 è giunto per Heidegger il momento dell’azione. L’estasi appare
improvvisamente possibile anche in politica.
Nel corso su Platone egli aveva annunciato di voler tornare agli inizi greci per guadagnare la
distanza utile a compiere il salto nel presente e al di là di questo. Il salto era stato troppo breve e non
aveva raggiunto il presente. Ma adesso è la storia a venirgli incontro, a sopraffarlo e a coinvolgerlo.
Egli non ha più bisogno di saltare, potrebbe lasciarsi trascinare da coloro che incitano il popolo, se
non avesse l’ambizione di essere lui stesso un incitatore. «Bisogna intervenire», dice Heidegger a
Jaspers nel marzo 1933.
Ormai in là negli anni, rievocando il passato con l’intento di giustificarsi, Heidegger sottolinea la
miseria di quel periodo, che avrebbe reso necessaria un’azione politica decisa. La disoccupazione,
la crisi economica, la questione sempre irrisolta del pagamento dei danni di guerra, la guerra civile
per le strade, il pericolo della rivoluzione comunista. Il sistema politico di Weimar non riuscì a
risolvere tutti questi problemi e produsse solo liti di partito, corruzione e mancanza di
responsabilità. E lui, Heidegger, avrebbe voluto unirsi a quelle forze in cui scorgeva una vera
volontà di ricominciare. Egli aveva sperato, come scriverà il 19 settembre 1960 in una lettera allo
studente Hans-Peter Hempel, « che il nazionalsocialismo riconoscesse e raccogliesse dentro di sé
tutte le forze costruttive e produttive ».5
Lo studente aveva informato il filosofo del conflitto in cui l’aveva spinto l’ammirazione per la sua
filosofia e il disprezzo per la sua politica. Heidegger si sforzò di dargli una risposta esauriente: «
Questo conflitto rimane insolubile fintantoché Lei, ad esempio, un giorno legge al mattino II
principio di ragione e alla sera vede servizi e documentari sugli ultimi anni del regime di Hitler,
fintantoché Lei giudica il nazionalsocialismo solo dal punto di vista di oggi e guardando a quanto è
venuto chiaramente alla luce un poco alla volta dopo il 1934. All’inizio degli anni ’30 le differenze
di classe nel nostro popolo erano diventate insopportabili per tutti i tedeschi che vivevano con senso
di responsabilità sociale, e così anche il pesante ostruzionismo economico nei confronti della
Germania dovuto al trattato di Versailles. Nel 1932 c’erano sette milioni di disoccupati che
vedevano davanti a sé e per le proprie famiglie solo miseria e povertà. Il turbamento dovuto a
queste condizioni, che le odierne generazioni non riescono nemmeno a immaginare, arrivò a
coinvolgere anche le università ».
Heidegger chiama in causa motivi razionali. Ma non menziona il suo entusiasmo rivoluzionario.
Nella sua retrospettiva « non ha più voluto riconoscere la radicalità delle sue intenzioni »6 (Max
Müller).
Quello che accadde con la presa di potere da parte dei nazionalsocialisti fu per Heidegger una
rivoluzione; era per lui molto più che un fatto politico: un atto nuovo della storia dell’essere, un
sovvertimento epocale. Con Hitler egli vede l’inizio di una nuova era. È per questo che nella sua
lettera a Hempel egli ricorda, a propria discolpa, che anche Hölderlin e Hegel si erano « sbagliati »
in maniera analoga: « Simili errori sono già accaduti a figure più grandi: Hegel vide in Napoleone
lo spirito del mondo e Hölderlin scorse in lui il principe della festa, cui erano invitati gli dei e Cristo
».
La presa di potere da parte di Hitler aveva generato uno stato d’animo rivoluzionario nel momento
in cui si capì, con paura, ma anche con ammirazione e sollievo, che la NSDAP era effettivamente
interessata ad abbattere il «sistema di Weimar», ormai sorretto solo da una minoranza. La
risolutezza e la brutalità facevano impressione. Il 24 marzo tutti i partiti, a eccezione dei
socialdemocratici e dei comunisti già in prigione, diedero il loro consenso alla cosiddetta « legge
plenipotenziaria ». Lo scioglimento dei partiti di Weimar non avvenne solo per paura della
repressione, ma anche perché la rivoluzione nazionalsocialista fu in grado di operare un
coinvolgimento di massa. Theodor Heuss, a quel tempo deputato del Partito democratico tedesco,
scrisse il 20 maggio 1933, riconoscendo questo fatto: « Le rivoluzioni intervengono con forza per
mettere sotto tensione l'’opinione pubblica’; è sempre stato così [...] Esse annunciano inoltre anche
l’esigenza storica di plasmare di nuovo lo 'spirito del popolo’ ».7
Vi furono schiaccianti proclami del nuovo senso di comunità, vi furono giuramenti di massa sotto
cattedrali di luci, falò di festa sui monti, discorsi del Führer alla radio, e nei luoghi pubblici raduni
di gente vestita a festa che accorreva ad ascoltarli, nell’Aula magna dell’università e nelle osterie.
Canti corali nelle chiese in onore della presa di potere. Il vescovo della Chiesa evangelica Otto
Dibelius disse il 21 marzo 1933, «giorno di Potsdam», nella Nikolaikirche: «Da nord a sud, da est a
ovest una nuova volontà muove verso lo Stato tedesco, un afflato a non rinunciare un momento di
più, per usare le parole di Treitschke, ’a una delle sensazioni più sublimi nella vita di un uomo’,
quella di volgere lo sguardo entusiastico al proprio Stato».8 È difficile rendere lo stato d’animo di
quelle settimane, scrive Sebastian Haffner, che le visse in prima persona. Esso costituiva la base per
il potere del futuro Stato del Führer. « Era un sentimento - non si può chiamarlo diversamente -
molto diffuso di redenzione e di liberazione dalla democrazia. »9 Non solo i nemici della
Repubblica provarono questo sentimento di sollievo per la fine della democrazia. Anche la maggior
parte dei sostenitori di quest’ultima non credevano più che essa avesse la forza di superare la crisi.
Era come se ci si fosse liberati di un incantesimo paralizzante. Sembrava annunciarsi qualcosa di
veramente nuovo: un dominio da parte del popolo, senza partiti e sotto la guida di un uomo dal
quale ci si aspettava la riunificazione della Germania al suo interno e la sua presa di coscienza
all’esterno. Anche in coloro che osservavano gli eventi in maniera distanziata si destò l’idea che la
Germania fosse ritornata in sé. Il « discorso sulla pace » che Hitler tenne il 17 maggio 1933 e in cui
egli dichiarò « l’amore e la fedeltà sconfinata nei confronti del proprio popolo »,10 che implica il «
rispetto » dei diritti nazionali degli altri popoli, fece il suo effetto. Il Times scrisse che Hitler aveva
«effettivamente parlato per una Germania unita ».11
Persino tra le file della popolazione ebrea ci fu, nonostante il boicottaggio dei negozi ebrei del 1°
aprile e il licenziamento degli impiegati ebrei il 7 aprile, una parziale approvazione della «
rivoluzione nazionale ». Georg Picht ricorda che nel marzo 1933, nel corso di una conferenza,
Eugen Rosenstock-Huessey dichiarò che la rivoluzione nazionalsocialista era il tentativo da parte
dei tedeschi di realizzare il sogno di Hölderlin. A Kiel, Felix Jacoby iniziò il suo corso su Orazio del
semestre estivo 1933 con queste parole: «Come ebreo mi trovo in una situazione difficile. Ma come
storico ho imparato a non considerare gli eventi della storia da un punto di vista privato. Fin dal
1927 ho votato per Adolf Hitler e mi dico
felice di poter fare lezione, nell’anno della sollevazione nazionale, sul poeta di Augusto. Augusto è
infatti l’unica figura della storia universale che si può paragonare ad Adolf Hitler».12
Il desiderio di una politica impolitica sembrava trovare improvvisamente la sua soddisfazione. La
politica era stata infatti per la maggior parte delle persone un’occasione oziosa per conservare e
imporre interessi di parte, un terreno di litigi, di egoismo e di ostilità. Nell’ambiente politico si
vedevano imperversare solo gruppi e federazioni, manovratori e congiurati, bande e combriccole.
Lo stesso Heidegger aveva espresso il proprio risentimento contro la politica, attribuendo a tutta
questa sfera i caratteri del « Si » e della « chiacchiera ». La « politica » era considerata come un
tradimento dei valori della vita « vera », della felicità famigliare, dello spirito, della fedeltà, del
coraggio. « Un uomo politico è per me ripugnante », aveva detto già Richard Wagner. La passione
antipolitica non vuole rassegnarsi al dato di fatto della pluralità delle persone, bensì è alla ricerca
della grande singolarità: il tedesco, il connazionale, il lavoratore manuale e intellettuale, lo spirito.
Quello che era rimasto di assennatezza politica perse dall’oggi al domani qualsiasi credibilità;
adesso contava soltanto il coinvolgimento emotivo. Gottfried Benn scrisse in quelle settimane
all’indirizzo degli intellettuali emigrati: «La grande città, l’industrialismo, l’intellettualismo, sono
tutte ombre che quest’epoca ha gettato sui miei pensieri, sono tutte potenze del nostro secolo, cui mi
sono rivolto nella mia produzione; vi sono momenti in cui tutta questa vita tormentatasi inabissa, e
non rimane nient’altro che la pianura, la distesa, le stagioni, le parole semplici: il popolo ».13
Questi erano anche i sentimenti di Heidegger, della cui ultima visita, nel giugno del 1933, Jaspers ci
dà la seguente descrizione: « Lo stesso Heidegger sembrava cambiato. Già al suo arrivo si creò uno
stato d’animo che ci divise. Il nazionalsocialismo era diventato una ubriacatura del popolo. Andai a
cercare Heidegger di sopra nella sua stanza per salutar
lo. ’È come nel 1914...’, presi a dire, e intendevo continuare dicendo: ’di nuovo questa illusoria
ubriacatura delle masse’, ma di fronte al sorriso di approvazione con cui Heidegger accolse già le
prime parole, non riuscii a procedere oltre. Di fronte a Heidegger, anch’egli preso da quella
ubriacatura, ho rinunciato. Non gli dissi che era sulla strada sbagliata. Non avevo più nessuna
fiducia di lui ora, dopo questa trasformazione. Sentii me stesso minacciato di fronte a quella
potenza, di cui ora Heidegger faceva parte ».14
Per Heidegger stesso era una potenza di redenzione. L’ora della verità era giunta. Heidegger, che
praticava con tanto accanimento l’attività del pensiero, esigeva adesso un tribunale per la filosofia.
Nel suo ultimo colloquio con Jaspers disse, con voce adirata e alterata, « che è stupido che ci siano
così tanti professori di filosofia. In Germania bisognerebbe conservarne solo due o tre ». E quando
Jaspers gli chiese: « Qua
li, allora? », Heidegger molto eloquentemente tacque.15
Si tratta di un salto mortale filosofico nella primitività. In una conferenza per gli studenti di
Tubinga, il 30 novembre 1933, Heidegger lo ammetterà esplicitamente: «Essere primitivi significa
stare per intimo impulso là dove le cose cominciano; essere primitivi, essere spinti da forze
interiori. Proprio per questo, perché il nuovo studente è un primitivo, egli ha la vocazione a
realizzare la nuova esigenza del sapere ».16
Qui c’è qualcuno che vuole tagliare il nodo gordiano della realtà; qualcuno che prende un rabbioso
commiato dalle faticose sottigliezze del proprio pensiero dell’essere. Improvvisa erompe una fame
di concretezza e di realtà solida, e la filosofia solitaria cerca il bagno di folla. E' un periodo difficile
per le differenziazioni, e Heidegger fa piazza pulita anche della sua differenza più prominente,
quella fra essere ed ente, facendo capire che l’essere è finalmente arrivato, «noi stiamo sotto
l’imperio di una nuova realtà».17
Quello che sta succedendo qui, verrà definito in seguito da Hannah Arendt, nel suo ampio saggio Le
origini del totalitarismo, come « patto fra plebaglia ed élite ».l8 Una élite culturale, per la quale i
valori tradizionali del mondo di ieri erano decaduti all’indomani della prima guerra mondiale,
bruciai ponti dietro di sé nel momento stesso in cui i movimenti fascisti arrivano al potere. Era «
nella massa che l’élite del dopoguerra voleva decadere ».19
Nel « vortice del domandare filosofico », così aveva detto Heidegger in precedenza, decadono le
nostre ovvie relazioni con la realtà: la filosofia di Heidegger si abbandona al vortice
della realtà politica. Ma questo egli può farlo solo perché in questo momento ritiene che la realtà sia
un pezzo di filosofia realizzata.
« Il tedesco, scisso in se stesso, interiormente privo di unità, ridotto a brandelli nello spirito e nella
volontà, e quindi impotente a livello della prassi, non ha più la forza di affermare la propria
esistenza. Ciò che è giusto, il tedesco lo cerca tra le stelle, e intanto perde il contatto con la terra [...]
Alla fine, ai tedeschi non è rimasta aperta che la strada dell’interiorità; in quanto popolo di cantori,
poeti e pensatori, il germanico ha quindi sognato un mondo in cui gli altri vivessero, e soltanto
quando il disastro e la miseria lo avessero reso disumano, forse, dall’arte, sarebbe sorto l’anelito a
un nuovo risorgimento, a un nuovo Reich e quindi a una nuova vita. »20
Colui che si presenta qui come realizzazione dei sogni segreti di artisti e pensatori è Adolf Hitler nel
suo discorso tenuto a Potsdam il 21 marzo 1933.
Karl Kraus disse una volta che pensando a Hitler non gli veniva in mente niente. A Heidegger non
solo sono venute in mente molte cose su Hitler, ma anche, come ammise di fronte alla commissione
di epurazione dell’università di Friburgo, aveva « creduto » in Hitler. Il verbale della commissione
di epurazione riassume le deposizioni di Heidegger su questo punto: « Egli credeva che Hitler
sarebbe andato al di là del partito e della sua dottrina e che questo movimento potesse essere
guidato spiritualmente su altre vie, in modo tale da far incontrare tutto sul terreno di un
rinnovamento e di un raccoglimento in vista di una responsabilità per l’Occidente ».2I
Nella sua retrospettiva Heidegger si presenta come uno che agiva in base a sobrie considerazioni di
politica reale e per spirito di responsabilità sociale. Ma effettivamente in quell’anno Heidegger era
ammaliato da Hitler.
«Come è possibile che un ignorante come Hitler possa governare la Germania? » chiedeva
esterrefatto Jaspers a Heidegger in occasione della sua ultima visita nel giugno del 1933. E
Heidegger rispose: « La cultura è del tutto indifferente [...] Basta guardare le sue meravigliose
mani! ».22
Non è una manovra tattica, un adattamento esteriore, ma una questione di cuore che spinge
Heidegger a concludere con queste parole il suo Appello agli studenti tedeschi (Aufruf an die
deutschen Studenten) del 3 novembre 1933, in occasione del referendum popolare per l’uscita dalla
Società delle
Nazioni: « Non teoremi e ’idee’ siano le regole del vostro essere. Il Führer stesso, e solo lui, è la
realtà tedesca dell’oggi e del domani, e la sua legge »,23
Nella lettera a Hans-Peter Hempel, che lo aveva interrogato su questa frase, Heidegger dà la
seguente spiegazione: « Se avessi pensato solo ciò che si coglie a una lettura superficiale, allora
l’espressione ’il Führer’ dovrebbe essere messa in corsivo. Invece in corsivo c’è la 'è' che sta a
significare che 'innanzi tutto e sempre coloro che fanno da duce sono loro stessi condotti’, condotti
dal destino comune e dalla legge della storia ».
Dunque nella lettera del 1960 Heidegger si giustifica osservando che in questa frase scandalosa egli
aveva pensato qualcosa di ben preciso, destinato a sfuggire a una lettura superficiale. Ma questo
alcunché di specifico non è nient’altro se non ciò che lo stesso Hitler ha sempre affermato di se
stesso, cioè di essere l’incarnazione di un destino. E proprio così Heidegger lo ha di fatto vissuto.
Quello che Heidegger non dice, ma che conferisce un senso peculiare e un pathos particolare alle
sue affermazioni e attività di quei mesi, è il fatto che la rivoluzione nazionalsocialista lo aveva
elettrizzato dal punto di vista filosofico, che aveva scoperto nel sovvertimento del 1933 un
avvenimento metafisico fondamentale, una rivoluzione metafisica: una « completa rivoluzione del
nostro esserci tedesco »24 (Discorso di Tubinga, 30 novembre 1933). Per di più una « rivoluzione »
che non concerne solo la vita del popolo tedesco, ma che apre anche un nuovo capitolo della storia
occidentale. Si tratta del «secondo grande scontro armato»25 dopo il «primo inizio» nella filosofia
greca, l’origine della cultura occidentale. Questo secondo scontro armato è diventato necessario
perché nel frattempo l’impulso del primo inizio si è consumato. La filosofia greca aveva posto
l'esserci dell’uomo nell’ampia apertura dell’indeterminatezza, della libertà e problematicità. Ma nel
frattempo l’uomo è tornato ad accovacciarsi nel guscio delle sue immagini del mondo e dei suoi
valori, delle sue macchinazioni tecniche e culturali. Agli albori della grecità ci fu un attimo di
autenticità. Ma poi la storia del mondo è tornata nella luce opaca dell’inautenticità, nella caverna
platonica.
Heidegger interpretò la rivoluzione del 1933 come un’uscita collettiva dalla caverna, come
l’avviarsi in quell’ampia apertura altrimenti dischiusa soltanto dal solitario interrogare e pensare del
filosofo. Con la rivoluzione del 1933 era giunto per lui il momento storico dell’autenticità.
Erano avvenimenti politici quelli a cui Heidegger reagiva, e la sua azione si svolgeva sul piano
politico - tuttavia era la sua immaginazione filosofica a guidare la sua reazione e il suo agire. E
questa immaginazione filosofica trasformò lo scenario politico in un palcoscenico storico-filosofico
sul quale si recitava un pezzo dal repertorio della storia dell’essere, dove la storia vera era
difficilmente riconoscibile; ma non era questo ciò che contava. Heidegger voleva mettere in scena il
proprio pezzo teatrale storico-filosofico, e a tal fine doveva reclutare dei comprimari. E' vero che in
tutti i discorsi di questi mesi egli fa appello all’« imperio della nuova realtà tedesca », ma - e su
questo non c’è alcun dubbio - è la sua filosofia a svelare l’autentico significato degli «imperativi».
La filosofia conduce a tal punto gli uomini negli ambiti di potere di questi imperativi, che essi
possono esserne trasformati dall’interno. Per questo organizza campi di lavoro scientifici, per
questo parla dei disoccupati che egli recluta per l’università, per questo gli innumerevoli richiami, le
invocazioni e gli appelli, tutti miranti a «conferire profondità», nel senso anzidetto, agli eventi della
politica quotidiana, in modo da adattarli a questo immaginario palcoscenico metafisico. La filosofia
esercita questo potere se essa non si limita a parlare sulle situazioni e sugli eventi, bensì a partire
da essi. La filosofia deve diventare essa stessa parte della «realtà rivoluzionaria » della quale parla:
« Essa [la realtà rivoluzionaria] è esperibile solo per colui che ha il senso giusto per esperirla, e non
per l’osservatore [...] infatti la realtà rivoluzionaria non è qualcosa di semplicemente presente, bensì
fa parte della sua essenza il fatto che per prima cosa essa si svolge [...] Una simile realtà esige un
rapporto del tutto diverso rispetto a una situazione di fatto » (Discorso di Tubinga, 30 novembre
1933).
Heidegger aveva sempre lottato per affermare il principio che è lo « stato d’animo » a definire il
nostro essere-nel-mondo, ed è per questo che egli assume anche ora come punto di partenza lo stato
d’animo del capovolgimento, del mettersi in marcia e della nuova comunità. La repressione da parte
dello
Stato, le manganellate alla plebaglia e le azioni antisemite erano per lui fenomeni collaterali che
bisognava accettare.
Vediamo dunque uno Heidegger tutto preso nel suo sogno di una storia dell’essere; le sue mosse sul
palcoscenico della politica sono quelle di un filosofo sognatore. Che politicamente Heidegger abbia
sognato, e perciò si sia ingannato, sarà lui stesso a riconoscerlo successivamente in una lettera a
Jaspers (8 aprile 1950). Ma che egli si sia ingannato politicamente perché sognava filosoficamente,
questo non potrà ammetterlo mai. Infatti, come filosofo che voleva sondare il proprio periodo
storico, egli doveva difendere, anche di fronte a se stesso, la sua competenza filosofica
nell’interpretazione degli accadimenti storico-politici.
Sarebbe stato diverso se si fosse gettato a capofitto nell’avventura politica, senza che gli fosse
venuto in mente qualcosa in proposito dal punto di vista filosofico; se avesse agito senza lasciarsi
ammaestrare o guidare dalla propria filosofia. In questo caso avrebbe agito nonostante la sua
filosofia, oppure nell’azione le sue coperture filosofiche avrebbero preso il volo. Ma tutto ciò non
accadde. Quello che lo aveva colpito di Hitler era qualcosa di filosofico, aveva messo in gioco
motivi filosofici e aveva costruito un intero palcoscenico filosofico per gli accadimenti storici. La
filosofia doveva « diventare padrona del proprio tempo », come aveva scritto nel 1930. Ma per non
dover sacrificare la concezione del potere della filosofia, egli imputa alla propria inesperienza
politica, non però alla sua interpretazione filosofica degli eventi, il fatto di essersi « sbagliato » a
proposito della rivoluzione nazionalsocialista. In seguito tuttavia egli trasformerà anche questa «
svista » in una storia filosofica, nella quale riservare a se stesso un ruolo grandioso: era l’essere
stesso a essersi sbagliato in lui e per suo tramite. Egli ha portato la croce dell’« errore dell’essere ».
« Bisogna intervenire », aveva detto Heidegger a Jaspers. Questo « intervento » comincia nel marzo
del 1933 con l’ingresso di Heidegger nella Comunità di lavoro politico-culturale dei docenti
universitari tedeschi, una sorta di frazione nazionalsocialista all’interno della Federazione
universitaria tedesca, l’organizzazione ufficiale di categoria dei docenti universitari. I membri di
questo gruppo ritenevano di essere i quadri della rivoluzione nazionalsocialista nelle università.
Essi facevano pressione per uniformare quanto prima alla loro attività la Federazione universitaria,
al fine di introdurre nelle università il «principio del Führer» e conferire all’istruzione un
orientamento ideologico, e proprio su questo punto c’erano notevoli differenze fra loro.
Iniziatore e fulcro di questo gruppo era Ernst Krieck, che, da insegnante di scuola elementare, era
riuscito a diventare professore titolare di filosofìa e scienza dell’educazione presso l’Accademia
pedagogica di Francoforte. Krieck aveva l’ambizione di diventare il filosofo di punta di questo
movimento, in concorrenza con Alfred Rosenberg e Baeumler. Con la Comunità di lavoro voleva
procurarsi un potere personale. Krieck aveva fatto propaganda per la NSDAP quando ciò non era
ancora qualcosa che potesse favorire la carriera. Nel 1931 era stato trasferito per ragioni disciplinari
perché accusato di agitazione nazista e nel 1932 era stato sospeso dal servizio. La presa di potere
aiutò quest’uomo a riottenere un posto di professore, prima a Francoforte, poi a Heidelberg. Nel
partito era considerato come il « filosofo della svolta epocale». Krieck rappresentava un realismo
eroico-popolare che si rivolgeva contro l’idealismo della cultura: «La critica radicale insegna a
vedere che la cosiddetta cultura è diventata del tutto inessenziale ».26
A questa « mistificazione culturale » Krieck contrappone la nuova tipologia dell’uomo eroico: «
Egli non vive a partire dallo spirito, ma dal sangue e dalla terra. Non vive della cultura, ma
dell’azione ». L’« eroismo » di cui parla Krieck è simile all’« imbarazzo » heideggeriano nel senso
che la « cultura» viene disprezzata come baluardo dei deboli. Bisogna imparare, dice Krieck, a
vivere senza i cosiddetti valori eterni. La casa della «formazione, della cultura, dell’umanità e dello
spirito puro » è ormai crollata e le idee universalistiche si sono rivelate come un autoinganno.
Ma in questa situazione di desolazione metafisica Krieck offre, a differenza di Heidegger, i suoi
valori legati al sangue e al suolo; al posto della metafisica dall’alto egli propone ora una metafisica
dal basso. Scrive Krieck: « Il sangue si leva contro l’intelletto formale, la razza contro la finalità
razionale, il vincolo contro l’arbitrio chiamato 'libertà’, la totalità organica contro il disfacimento
individualistico [...] il popolo contro il singolo e contro la massa »,27
Nel marzo 1933 Krieck voleva che la Comunità di lavoro deliberasse un programma politico-
culturale basato sulla sua linea ideologica. Heidegger si oppose a questo programma perché non
accettava l’ideologia di sangue-e-suolo. C’era unità di intenti solo nel criticare la Federazione
universitaria e l’idealismo culturale che vi dominava e che si adattava solo superficialmente alla
nuova situazione. Il presidente di questa federazione, il filosofo Eduard Spranger, aveva intanto
indirizzato allo « Stato in lotta » una nota di fedeltà, nella quale però rivolgeva al tempo stesso una
preghiera per la salvaguardia dello « spirito ». Heidegger schernisce questo tentativo di
conciliazione: « modernità funamboliche ». Così egli scrive in una lettera a Elisabeth Blochmann
del 30 marzo 1933, dopo una delle prime riunioni del gruppo di lavoro a Francoforte. In questa
lettera c’è anche una breve descrizione di Ernst Krieck. Egli viene definito un uomo con una
mentalità da « subalterno », cui 1’« odierna fraseologia » impedisce di comprendere « grandezza e
difficoltà effettive del compito ». Il fatto che adesso tutto venga preso in senso « politico» è a suo
parere una caratteristica generale dell’attuale rivoluzione; si tratta di un « incollarsi a ciò che è in
primo piano». Per « molti » ciò potrà essere forse un « primo risveglio »; ma questa può essere solo
una preparazione, cui dovrà seguire « un secondo e più profondo » risveglio. Con questo inquietante
« secondo risveglio » Heidegger vuole distinguersi da un ideologo come Ernst Krieck. Che cosa
esso significhi Heidegger lo dice solo per cenni oscuri nella lettera a Elisabeth Blochmann, che
essendo per metà ebrea un mese dopo perderà il suo posto di docente. Si parla di un « terreno nuovo
», che consente di « abbandonarsi all’essere stesso in una nuova forma e in una nuova
appropriazione ».28 Ma in ogni caso con questo « terreno » (Boden) non ci si riferisce a « sangue e
razza », come accade in Ernst Krieck.
Heidegger voleva coinvolgere nel gruppo di lavoro Alfred Baeumler. Quest’ultimo, con il quale
Heidegger intratteneva in questo periodo ancora rapporti di amicizia, si propose al pari di Krieck nel
ruolo di filosofo-guida del movimento. Il decisionismo politico di Baeumler era vicino al pensiero
di Heidegger. In una conferenza tenuta nel febbraio 1933 agli studenti nazionalsocialisti, Baeumler
contrappose l’«uomo politico» all’«uomo teoretico». Quest’ultimo immagina di abitare in un «
mondo spirituale superiore », mentre quello si realizza come « essere che agisce originariamente ».
In questa dimensione originaria dell’agire le idee e le ideologie non avrebbero più, secondo
Baeumler, alcun ruolo decisivo. «Agire non significa decidersi per..., infatti ciò presuppone che si
sappia ciò per cui ci si decide. Agire significa invece: assumere una direzione, prendere partito, in
forza di un compito del destino, di un 'diritto proprio’ [...] La decisione per qualcosa che io ho
conosciuto è già un fatto secondario. »29
Sono formulazioni, queste, che potrebbero essere sottoscritte anche da Heidegger. La decisione
come atto « puro », questo è l’elemento primario, quella spinta che l’uomo si dà, quello spiccare il
salto al di là delle consuetudini. Il « ciò per cui» della decisione è, di fronte a questo, solo
l’occasione che fa sì che possa manifestarsi la forza rivoluzionaria dell’intero esserci. In Heidegger
è il « Si » che pone domande preoccupate sul « fine », che prova angoscia di fronte alla decisione e
che perciò si ferma a soppesare le « possibilità », le affoga nella chiacchiera e « se l’è già sempre
squagliata » dove si tratta di prendere una decisione.30 Questo timore di fronte alla decisione è per
Heidegger « colpa », e così la vede anche Baeumler, che aveva imparato da Heidegger. E anche
Baeumler connette questo decisionismo, che in Heidegger era rimasto peculiarmente vuoto ancora
negli ultimi anni ’20, con la rivoluzione nazionalsocialista. Baeumler fa propaganda per il
movimento « puro », che è la sostanza esistenziale, mentre l’ideologia è un puro accidente, e chi si
tiene alla larga dal movimento diventa colpevole « di neutralità e tolleranza ».
Heidegger non riesce a far accettare a Krieck la sua proposta di invitare Baeumler a partecipare alla
Comunità di lavoro. Per Krieck, Baeumler è un concorrente troppo pericoloso. Ma questo non
rappresenta un ostacolo per il successo di Baeumler. Egli viene protetto dalla carica di Rosenberg. Il
partito lo nomina « educatore politico » degli studenti di Berlino, dove fa erigere per lui un Istituto
di pedagogia politica. Eduard Spranger, che a Berlino ricopre la cattedra di pedagogia filosofica,
protesta, anche perché vede in Baeumler il responsabile della campagna di diffamazione contro gli
studiosi liberali ed ebrei. Il 22 aprile Spranger pubblica una dichiarazione contro « menzogna,
oppressione della coscienza e atteggiamento ostile allo spirito ».31 Ciò offre a Baeumler l’occasione
per contrattaccare. Il 10 maggio, nel suo discorso per il più importante rogo di libri a Berlino, egli lo
attacca stigmatizzando il « vecchio spirito » universitario. « Ma una università che nell’anno stesso
della rivoluzione parla solo di essere guidata dallo spirito e dall’idea, e non da Adolf Hitler e Horst
Wessel, è apolitica. »32
Heidegger è elettrizzato dalla presa di potere di Hitler, e vuole agire, ma non sa esattamente che
cosa deve fare. Cercheremmo invano in lui idee precise in tal senso. Naturalmente il suo sguardo è
orientato soprattutto all’università. Nella giustificazione di sé che egli redasse in seguito, egli
sosterrà di essersi lasciato convincere ad accettare il rettorato friburghese «per poter contrastare
l’avanzata di personalità inadatte e la minacciosa supremazia dell’apparato e della dottrina del
partito ».33
Ma dai materiali che sono stati raccolti da Hugo Ott, Victor Farias e Bernd Martin risulta però
un’immagine del tutto diversa. Secondo queste testimonianze, a partire dal marzo 1933 un gruppo
di professori e docenti nazionalsocialisti, guidati da Wolfgang Schadewaldt e Wolfgang Aly,
d’accordo con Heidegger, avrebbe mirato espressamente ad assumere quell’incarico. Il documento
chiave in tal senso è una lettera scritta al ministero del Culto da Wolfgang Aly, il più anziano
membro di partito nel corpo insegnante di Friburgo e oratore-istruttore dell’organizzazione di
partito, in data 9 aprile, e cioè tre settimane prima dell’elezione del rettore. In questa lettera Aly
comunica « che il professor Heidegger ha già intrapreso trattative con il ministero prussiano della
Cultura » e che gode della « più ampia fiducia » da parte del gruppo universitario del partito. Inoltre
egli può essere considerato dal ministero come 1’« uomo di fiducia » dell’università. In occasione
del successivo congresso del gruppo di lavoro politicoculturale a Francoforte, tenuto il 25 aprile,
Heidegger avrebbe potuto presentarsi già come « portavoce della nostra università ».34
A questo punto l’elezione di Heidegger a rettore era già cosa fatta per la cerchia di partito. Lo stesso
Heidegger sarà forse stato ancora titubante, non però perché non gradisse l’appoggio e la protezione
dei nazionalsocialisti, ma perché doveva essere in dubbio sulle proprie reali capacità di soddisfare le
aspettative che venivano riposte su di lui da parte delle forze « rivoluzionarie ». La sua volontà era
di agire, di intervenire, ma era ancora alla ricerca « del punto giusto in cui intervenire» (a Jaspers, 3
aprile 1933).
In una lettera a Elisabeth Blochmann del 30 marzo 1933 egli ammette la sua situazione di
imbarazzo e al tempo stesso dissipa le proprie preoccupazioni: « Cosa accadrà delle università
nessuno lo sa [...] A differenza dai pezzi grossi, che ancora poche settimane fa qualificavano il
lavoro di Hitler 'scaltra stupidaggine’ e adesso tremano per i loro stipendi etc., gli assennati devono
convenire che non molto può venir guastato. Perché da tempo non c’è più nulla; già da lungo tempo
l’università non è più un mondo che possieda un’influenza efficace e concentrata in se stessa o che
sia in grado di far da guida. Una coercizione alla meditazione - persino quando sfuggono mosse
sbagliate - può essere solo una benedizione ».35
Non si fanno frittate senza rompere le uova; chi fa un ingresso rivoluzionario in una terra
sconosciuta, deve appunto assumersi il rischio di incorrere in erramenti e in errori. In ogni caso non
si lascerà trarre in inganno dal grido « la scienza è in pericolo! » Inoltre il compito è troppo
importante per lasciarlo in mano soltanto ai « membri di partito », come scrive Heidegger a
Elisabeth Blochmann il 12 aprile 1933, tre settimane prima di entrare lui stesso pubblicamente nel
partito.
Mentre dietro le quinte si prepara l’assunzione del rettorato da parte di Heidegger, l’ufficio è ancora
affidato a Josef Sauer, professore di storia della Chiesa cattolica. L’investitura ufficiale del rettore
designato Wilhelm von Möllendorff, eletto alla fine del 1932, era prevista per il 15 aprile.
Möllendorff, professore di anatomia, era socialdemocratico.
Nella versione di Martin Heidegger e di sua moglie Elfride fu lo stesso Möllendorff, dopo la presa
di potere, a dichiararsi non più disponibile ad assumere il rettorato. Möllendorff era amico di
Heidegger e si rivolse direttamente a lui per discutere delle difficoltà che potevano derivare dal
rettorato. Heidegger, che nell’inverno 1932-33 aveva ottenuto un semestre sabbatico, il 7 gennaio
era tornato da Todtnauberg a Friburgo. Stando a quanto ricorda la signora Heidegger, Möllendorff
manifestò allo stesso Heidegger il « desiderio insi-
stente » che fosse lui, « non vincolato in alcun modo alla politica in senso partitico » ad assumere il
rettorato. « Egli ripetè molte volte questo auspicio nel corso delle sue visite, mattina, mezzogiorno e
sera. »36
Che il socialdemocratico Möllendorff avesse serie preoccupazioni di fronte all’assunzione del
rettorato, è cosa comprensibilissima, dato che a Friburgo era cominciata, come dappertutto, la
persecuzione dei socialdemocratici. Sotto la guida del commissario del Reich Robert Wagner, essa
fu particolarmente accanita. Già all’inizio di marzo ci furono attentati alla sede del sindacato e alla
sede centrale del partito, ci furono arresti e perquisizioni di abitazioni. Nel caso di Nußbaum,
deputato spd al parlamento regionale, ci fu il 17 marzo un brutto incidente. Nußbaum, che aveva
trascorso le settimane precedenti in un reparto psichiatrico, si difende contro due poliziotti e li
ferisce mortalmente, con la conseguenza di acuire ulteriormente in città la caccia spietata contro la
spd. Nella piazza della cattedrale ha luogo una dimostrazione contro il marxismo, che deve essere
estirpato « fino alla radice », come proclamano gli agitatori. Non lontano da Heuberg vengono già
costruiti due campi di concentramento. La stampa locale mostra fotografie della deportazione dei
prigionieri. Adesso la nsdap attacca il borgomastro, dottor Bender, appartenente al partito di centro.
L’accusa è di non avere reagito in modo adeguato all’azione compiuta da Nußbaum. Bender aveva
parlato di « incidente », e pertanto doveva essere cacciato dalla carica di sindaco. Una deputazione
di cittadini assume le sue difese. Uno dei suoi portavoce è appunto Möllendorff. L’11 aprile Bender
viene esautorato. Viene stabilito che il suo successore sia Kerber, governatore distrettuale della
nsdap nonché caporedattore del giornale nazionalsocialista Der Alemanne. In questo giornale
Heidegger pubblicherà un articolo. Con l’affare Nußbaum-Bender, Möllendorff era diventato del
tutto inviso ai nazionalsocialisti del luogo.
Certamente Möllendorff può avere avuto preoccupazioni di fronte all’assunzione del rettorato, ma
era anche un uomo coraggioso e alla fine si mostrò disponibile ad accettare la carica. La cerimonia
ufficiale ebbe luogo, come stabilito, il 15 aprile. La sera precedente Schadewaldt si era presentato a
nome del gruppo di partito al rettore uscente Sauer, cui aveva manifestato i propri dubbi su
Möllendorff quale persona adatta a imprimere all’università il necessario allineamento, e propose al
suo posto Heidegger. Sauer, uomo votato alla Chiesa cattolica, che non vedeva di buon occhio
l’anticlericalismo di Heidegger, mantenne un atteggiamento riservato. Così Möllendorff rimase in
carica per altri cinque giorni. Il 18 aprile, giorno in cui vi fu la prima seduta del senato accademico
presieduta da Möllendorff, Der Alemanne pubblicò un violento attacco contro il nuovo rettore, che
si concludeva con queste parole: « Professor dottor von Möllendorff, la consigliamo di cogliere
l’occasione per non ostacolare la riforma dell’università».37 Adesso fu chiaro per Möllendorff che
non avrebbe resistito più a lungo. Egli convocò per il 20 aprile una seduta del senato accademico,
durante la quale sia lui sia l’intero senato rassegnarono le dimissioni, proponendo Martin Heidegger
come successore. Stando a Elfride Heidegger, egli sarebbe andato a casa loro la sera precedente e
avrebbe detto a Heidegger: « Professore, adesso è Lei a doversi assumere la carica! »38
Heidegger, a favore del quale si era espressa già un mese prima una parte considerevole del corpo
accademico, dichiarò di essere rimasto indeciso fino all’ultimo momento: « Ancora nel corso della
mattinata del giorno in cui doveva svolgersi l’elezione, avevo molte perplessità e volevo ritirare la
candidatura ».39
La riunione plenaria elegge Heidegger quasi all’unanimità. Comunque, dei 93 professori, 13 erano
già esclusi perché ebrei, e dei restanti 80 solo 56 presero parte al voto. Ci furono un voto contrario e
due astensioni.
Nonostante le perplessità che avrebbe avuto, come ebbe a dichiarare in seguito, subito dopo
l’elezione Heidegger mostra un notevole impulso ad agire.
Il 22 agosto egli invita con una lettera Carl Schmitt a collaborare alla nuova situazione.
Quest’ultimo non ha peraltro bisogno di una tale sollecitazione, perché vi fa già parte, anche se per
un motivo opposto: Heidegger voleva la rivoluzione, Schmitt voleva l’ordine. La riunione plenaria
aveva affiancato a Heidegger membri del senato moderati, per lo più vecchi conservatori;
Heidegger doveva essere « accerchiato». Ma Heidegger vi si sottrae, evitando di convocare il senato
accademico. Prima ancora della cerimonia ufficiale di assunzione del rettorato (con il discorso del
27 maggio) egli proclama il principio del Führer e l’allineamento dell’università. Poco dopo il
Primo maggio, « festa nazionale della comunità popolare », egli entra, con gesto dimostrativo, nella
NSDAP. La data del suo ingresso nell’organizzazione era stata da lui concordata con il partito,
considerandone gli aspetti tattici. Egli invita studenti e docenti a prendere parte alle festività del
Primo maggio nello stile di una cartolina precetto. Nella circolare si dice: « La costruzione di un
nuovo mondo spirituale per il popolo tedesco diventa compito fondamenta' le dell’università
tedesca. Questo è compito nazionale, nel senso e al livello più elevato ».40 Quando Robert Wagner,
commissario della polizia del Reich - un famigerato forcaiolo, responsabile della deportazione degli
oppositori nel campo di concentramento di Heuberg -, nei primi giorni di maggio viene nominato
governatore del Reich, Heidegger se ne congratula con parole energiche: « Lietissimo per la nomina
a governatore del Reich, il rettore dell’università di Friburgo in Brisgovia saluta il duce di questa
terra di confine con un combattivo Sieg Heil. Il rettore dell’università di Friburgo. [Firmato:]
Heidegger».41
Il 20 maggio egli sottoscrive un telegramma a Hitler da parte di alcuni rettori nazionalsocialisti. In
esso si prega di procrastinare l’accoglienza di una delegazione della Federazione universitaria con
questa motivazione: « Soltanto un presidente eletto in base all’allineamento gode della fiducia
dell’università. Inoltre, il presidente già in carica ha ricevuto l’esplicita e netta sfiducia da parte
della corporazione degli studenti tedeschi ».42
Il 26 maggio, giorno precedente la cerimonia d’assunzione del rettorato, Heidegger tiene il suo
primo discorso ufficiale per la commemorazione di Leo Schlageter, il militante dei Freikorps che
nel 1923 aveva fatto attentati dinamitardi contro l’occupazione francese del bacino della Ruhr, e che
per questo era stato fucilato secondo la legge marziale. I nazionalisti lo consideravano un martire
per la causa nazionale. Heidegger si sentiva legato a lui anche perché Schlageter era stato, come lui,
allievo del Konradihaus di Costanza. Il 26 maggio ricorreva il decimo anniversario della morte di
Schlageter, che venne celebrato a Friburgo come ovunque con grande fasto.
Nel suo discorso commemorativo Heidegger cerca per la prima volta di utilizzare a fini politici la
sua filosofia dell’autenticità. Egli dà un’immagine stilizzata di Schlageter come figura dalla quale si
può desumere che cosa significhi agire in senso concretamente storico e politico, facendosi incontro
al mistero dell’essere dell’ente. Schlageter, dice Heidegger, ha subito « la morte più dura ». Non
nella lotta assieme ad altri, non protetto e sorretto dalla comunanza, bensì da solo, « rigettato»
interamente su se stesso, nel « fallimento ».43 Schlageter realizza l’ideale esistenziale di Essere e
tempo, egli «assume su di sé» la morte come «possibilità più propria, incondizionata e insuperabile
».44 I partecipanti alla cerimonia commemorativa dovevano « far confluire dentro di sé la durezza e
limpidezza » di questa morte. Ma da dove ricevette Schlageter la sua forza? Essa gli proveniva dai
monti, dai boschi e dal cielo della patria. « Di roccia primitiva, di granito sono i monti [...] Da
tempo forgiano questa tenacia della volontà [...] Il sole autunnale della Selva Nera [...] da lungo
tempo alimenta la limpidezza del cuore. ».45I monti e i boschi comunicano solo ai pigri un
sentimento di sicurezza, sui duri e sui decisi agiscono invece come « chiamata della coscienza». La
coscienza chiama, aveva spiegato Heidegger in Essere e tempo, non a compiere una determinata
azione, ma all’« autenticità ». Che cosa si debba fare concretamente, lo decide poi la situazione. Nel
caso di Schlageter essa ha deciso che nel momento della sconfitta egli dovesse difendere l’onore
della Germania. Egli « dovette » recarsi sul Baltico (combattere contro i comunisti), « dovette »
recarsi sulla Ruhr (combattere contro i francesi). Egli seguì il proprio «destino », che aveva scelto e
da cui era stato scelto. « Posto inerme dinanzi ai fucili, lo sguardo interiore dell’eroe si slanciò oltre
le bocche dei fucili, verso il giorno e le montagne della sua terra natia, per poter morire, guardando
il paese alemanno, per il popolo tedesco e per il suo Reich. »46 Quello fu un istante di verità; infatti
«l’essenza della verità», come aveva detto Heidegger nell’omonima conferenza del 1930 (peraltro
con parole diverse da quelle del testo pubblicato successivamente), è un accadere che avviene sul «
suolo della patria».47 L’importante è aprirsi alle potenze dell’esserci. «radicamento al suolo » ne è
un presupposto. E poi, il giorno successivo, il discorso di rettorato.
Nel periodo che lo precedette c’erano state già notevoli
sollecitazioni. Il 23 maggio il rettore Heidegger aveva diramato una comunicazione a tutti coloro
che appartenevano all’università, concernente l’aspetto esteriore della cerimonia: bisognava cantare
l’inno di Horst Wessel ed esclamare «Sieg Heil». L’intera manifestazione doveva avere l’impronta
di una festa nazionale. Nel corpo docente serpeggiava una certa indignazione. In una circolare
Heidegger spiegò successivamente che « sollevare la mano destra » non sarebbe stato espressione di
attaccamento al partito, ma della sollevazione nazionale. Egli segnalava inoltre la propria
disponibilità a scendere a compromessi: « Dopo il colloquio col capo delle associazioni
studentesche ho limitato l’alzata della mano destra alla quarta strofa dell’inno di Horst Wessel »,48
Heidegger sa che in questo momento lo sguardo del mondo filosofico è rivolto su di lui. Nelle
ultime settimane egli non ha perso occasione per mettere in vista il suo ruologuida; sono giunti da
lui, insieme alle alte delegazioni del partito, ministri, rettori di altre università, giornalisti, e più
camicie brune che uomini in frac. Heidegger si è molto sbilanciato. « Tutto dipende da questo »,
aveva scritto a Jaspers il 3 aprile 1933, « se vogliamo preparare alla filosofia il posto opportuno in
cui intervenire e vogliamo aiutarla a prendere la parola. » Il posto in cui intervenire adesso è stato
trovato, ma riuscirà egli a trovare anche la parola filosofica giusta?
Il tema trattato nel discorso di rettorato è L’autoaffermazione dell' università tedesca (Die
Selbstbehauptung der deutschen Universität). Egli comincia il discorso con questa frase: che cos’è
l’identità dell’università, in che cosa consiste la sua « essenza »?
L’essenza dell’università non è questa: che vi siano dei giovani che ricevono una formazione
professionale e il sapere necessario a tal fine. L’essenza dell’università è la scienza, ma che cos’è
l’essenza della scienza? Con questa domanda Heidegger si ritrova con un colpo di mano presso i
suoi amati « inizi greci della filosofia », cioè là dove era regredito al fine di guadagnare la rincorsa
necessaria per spiccare il salto nel presente.
L’essenza della scienza si è dunque manifestata presso i greci. Qui la volontà, contro la «
strapotenza del destino», si era elevata a sapere, imponendosi con ostinazione. Questa « suprema
ostinazione » vuole sapere che ne è di essa, quali potenze dell’esserci la determinano e che cosa
significa che tutto ciò, in generale, è. Questo sapere apre una radura nel fitto del bosco.
Heidegger drammatizza l’accadere della verità. Di quali verità si tratti nel dettaglio, rimane oscuro.
In cambio assume autonomia la metafora centrale che costituisce il cardine dell’intero testo. È la
metafora della lotta o, più precisamente, delle truppe d’assalto.
L’essenza dell’inizio greco è dunque la conquista attraverso la lotta di alcune visibilità nel mezzo
dell’oscurità dell’ente nella sua totalità. Questo è l’inizio eroico della storia della verità e qui sta
anche la vera identità della scienza e dell’università, dice Heidegger.
Ma da che cosa è minacciata la scienza così intesa? Naturalmente dall’oscurità dell’ente, ma questo
è il suo orgoglio. Il fatto di essere in lotta con l’ente costituisce proprio l’essenza del sapere. Più
minacciosa è la degenerazione dovuta al « tranquillo diletto di una occupazione senza rischi che
risponde all’esigenza di un mero accrescimento di conoscenze ».49
La minaccia proviene dalle retrovie, dalla pratica consueta della scienza, in cui si fa carriera, si dà
sfogo alle vanità e si guadagnano soldi. La vita comoda delle retrovie è tanto più scandalosa perché
là fuori, al fronte del sapere, accadono nel frattempo cose grandi e pericolose. Infatti si è modificata
la posizione dell’esserci nei confronti dell’oscurità dell’ente. L’accadere della verità è entrato in una
fase critica. Presso i greci c’era ancora uno « stupefacente perseverare » di fronte alla problematicità
dell’ente. Erano in gioco il senso di protezione, la fede nell’essere, la fiducia nel mondo. Ma questa
fede nell’essere è scomparsa perché « Dio è morto ». Ma nelle retrovie si è notato ancora poco di
tutto ciò. Lì ci si sarebbe accontentati di una «cultura moribonda» fino a collassare nella «follia» e
nell’« annientamento», se non fosse giunta la rivoluzione, questa « nobiltà della riscossa ».50
Che cosa succede in questa rivoluzione?
Soltanto in essa, stando alle fantasie di Heidegger, sarà compresa rettamente la scoperta di
Nietzsche « Dio è morto», e un intero popolo prenderà consapevolmente su di sé la «solitudine
dell’uomo d’oggi nel cuore dell’essente ».5I Viene superato il grado di degenerazione di quelli che
Nietzsche chiama nello Zarathustra gli « ultimi uomini », che non hanno più nessun « caos » in se
stessi e perciò non possono più partorire nessuna «stella», che si accontentano di aver trovato la
comoda « felicità » e di avere « abbandonato la plaga dove era difficile vivere », e che al posto di
questa si accontentano delle loro « vogliuzze per il giorno e per la notte» e rendono onore alla loro «
salute ».52
La rivoluzione nazionalsocialista è dunque per Heidegger il tentativo di « partorire una stella »
(Nietzsche) in un mondo senza Dio. E per questo Heidegger dà fiato a tutti i registri del suo
romanticismo metafisico dell’orrore per conferire agli eventi una profondità inopinata.
Heidegger parla agli studenti che lo stanno ad ascoltare, come pure ai superiori di partito, ai
professori, ai dignitari, ai funzionari ministeriali e ai capi settore, insieme alle loro consorti, come se
facessero parte della truppa metafisica d’assalto che penetra nella regione « del più alto cimento
dell’esserci nel cuore della strapotenza dell’ente».53
E Heidegger stesso è il comandante delle truppe d’assalto. I comandanti si spingono, come è noto,
più avanti di tutti nell’oscurità, là dove non sono più coperti dai propri soldati; essi non temono «
l’essere esposti senza difesa alcuna nell’ascoso e nell’incerto »54 e dimostrano in tal modo la loro
«forza di poter avanzare soli ».55
Non c’è dubbio: l’oratore vuole dare importanza a se stesso e al proprio uditorio. Tutti insieme,
infatti, appartengono alla truppa d’assalto, alla schiera di audaci. E lui, l’oratore stesso, il
comandante, è forse un po’ più audace di loro, perché dimostra o almeno pretende di avere la «
forza di poter avanzare solo ».
Tutto ruota intorno al pericolo, e qui scompare un fatto elementare: che in questa situazione era
ancora più pericoloso non appartenere a questa infausta truppa d’assalto della rivoluzione.
Ma a quali pericoli sta pensando Heidegger? Si tratta forse del pericolo cui fa riferimento Kant
quando esorta l’uomo, dicendo: « Abbi coraggio di servirti del tuo proprio intelletto »? Il pensare in
proprio esige coraggio, perché comporta la rinuncia alla protezione e alla comodità dei pregiudizi
che creano consenso.    .
Con il suo discorso Heidegger non affronta questo tipo di
pericolo. Certo, durante il banchetto qualcuno mormorerà che egli ha dato voce al suo «
nazionalsocialismo privato », ma questo non cambiava niente nel fatto che egli continuasse anche in
seguito a « essere uno dei loro ». Con questo discorso egli non si era ancora messo fuori gioco.
Si tratta allora del pericolo della conoscenza, come fu formulato una volta in modo così insuperabile
da Schopenhauer, quando paragonò il vero filosofo a Edipo, il quale, « nella ricerca di una
illuminazione sul suo orribile fato, continua senza sosta a indagare, anche se ha il presentimento che
dalle risposte verrà a lui la sciagura più terribile»?56 Con questa «sciagura più terribile»
Schopenhauer si riferiva all’abisso metafisico che si spalanca davanti all’uomo che si interroga sul
senso della vita.
Questo abisso ce l’ha anche Heidegger davanti agli occhi, e lo chiama « solitudine dell’uomo d’oggi
nel cuore dell’essente ». Ma l’esperienza di questo venir meno del senso delle cose non può essere
vissuta e pensata fino in fondo dal singolo in quanto tale, sottratto ai riferimenti di senso collettivi.
Come si potrebbe parlare di questa « solitudine » quando c’è un intero « popolo in marcia »?
Effettivamente Heidegger interpreta la rivoluzione come un’uscita collettiva dalle caverne delle
false consolazioni e delle comode certezze di senso. Un popolo diventa autentico,-si alza in piedi e
pone la domanda inquietante: perché è qualcosa, e non piuttosto un niente? Esso si consegna
orgoglioso alle potenze dell’esserci: «natura, storia, linguaggio; popolo, costume, Stato; poesia,
pensiero, fede; malattia, follia, morte; diritto, economia, tecnica »,57 sapendo che esse non danno
alcun sostegno ultimo, e che anzi conducono nell’oscuro, nell’incerto, nell’avventuroso.
L’uomo che è attivo in questo modo non conquista per sé alcun mondo raffinato dello spirito, che
magari gli procuri sollievo dalle fatiche del giorno. Per questi giochi di prestigio Heidegger non ha
che parole di biasimo. Colui per il quale «l’ente è divenuto problema », non si ritira di fronte a esso,
bensì si spinge oltre, animato dallo spirito dell’assalto. Non si tratta di escogitare qualche cosa che
sta nell’aldilà, si tratta solo di «essere all’opera». Così Heidegger traduce il greco energheia.
Heidegger intende ripetere l’inizio greco della filosofia, ma senza lasciarsi incantare dall’idea della
vita contemplativa, dal sole platonico. Egli la mette da una parte, pretendendo di comprendere i
greci ancor meglio di quanto abbiano fatto essi stessi. La « teoria » in senso greco, dice Heidegger
avviene « soltanto nel pathos che coglie chi si trova in prossimità dell'essente in quanto tale e preda
del suo incalzare».58 Questo non è affatto il senso del mito platonico della caverna. In esso si tratta
di salvezza, di divenire liberi dalle oppressioni della caverna. Heidegger mira a qualcosa di
paradossale: vuole l’estasi platonica senza il cielo platonico delle idee. Vuole uscire dalla caverna,
ma senza credere in un luogo al di fuori della caverna. L’esserci deve essere colto da un pathos
infinito, ma non dal pathos dell’infinito.
Nel 1930 Thomas Mann aveva messo in guardia dai pericoli delle « antichità esplosive » Una di
queste antichità esplosive si trova anche nel discorso di Heidegger, dove egli parla dei tre servizi,
«servizio del lavoro», «servizio delle armi », « servizio del sapere ». Qui toma a presentarsi
l’immagine venerabile dei « tre ordini »: contadini, guerrieri e preti, che è stato il modello di società
dominante per tutto il Medioevo. La definizione medievale di quest’ordine è la seguente: « È
dunque triplice la casa di Dio che abitiamo: qui sulla terra gli uni pregano, gli altri combattono e
altri ancora lavorano; questi tre tipi sono connessi fra loro e non tollerano di essere separati;
cosicché dalla funzione dell’uno dipendono le opere degli altri due, e tutti fanno prendere parte a
tutti del loro rispettivo aiuto » (Adalberto di Laon).59
Nell’immagine medievale dei «tre ordini», i preti congiungono l’organismo sociale con il cielo. Essi
hanno cura che le energie spirituali circolino nel mondo terreno. La posizione dei preti è occupata in
Heidegger dai filosofi o, più precisamente, dalla filosofia che è padrona del proprio tempo. Ma dove
un tempo fu il cielo, adesso c’è l’oscurità dell’ente che si nasconde, c’è la « certezza del mondo »; e
i nuovi preti sono ora diventati effettivamente i « luogotenenti del niente» e si rivelano se possibile
ancora più confusi dei guerrieri. Essi non hanno più alcun Vangelo da predicare, non hanno più
niente da prendere in cielo e dirigere sulla terra, e tuttavia essi rilucono ancora dell’opaco bagliore
di quell’antica potenza sacerdotale che un tempo si fondò sul monopolio delle grandi cose invisibili
ed entusiasmanti.
Heidegger si butta in politica come farebbe un prete, e prende la parola nel momento in cui si tratta
di infliggere alla Repubblica di Weimar il colpo mortale. Quindici anni prima, all’inizio di questa
Repubblica, Max Weber aveva invitato gli intellettuali, nella sua conferenza di Monaco sulla
Scienza come professione, a sopportare il « disincanto del mondo ». In questo contesto anche Max
Weber fece ricorso alla « meravigliosa immagine » del mito platonico della caverna. Ma si tratta
solo di una reminiscenza malinconica, dato che l’unità platonica di conoscenza rigorosa ed
esuberanza di senso era andata per Weber irrimediabilmente perduta. Egli non prevede la grande
liberazione, l’uscita dalla caverna; Max Weber metteva in guardia dai loschi affari dei « profeti in
cattedra », che deliberatamente volevano instaurare un nuovo incanto.
Anche Heidegger non ha simpatia per i « profeti in cattedra». Ma i profeti in cattedra sono sempre
gli altri.
La prima volta che parlò del mito platonico della caverna, nel corso di lezioni dell’estate 1927,
Heidegger aveva descritto la liberazione dalla caverna come un processo che si compie « in tutta
sobrietà e nel completo disincanto di un interrogare puramente rivolto verso le cose ».60
Ma adesso Heidegger è lì, ritto e marziale a sciabolare parole, il prete senza Vangelo, il comandante
della truppa metafisica d’assalto, circondato da bandiere e stendardi; durante il corso su Platone
aveva sognato di identificarsi nella figura del liberatore, che libera dai ceppi i prigionieri della
caverna e li conduce fuori. Adesso si accorge che i prigionieri della caverna sono già tutti in marcia,
e non gli resta altro che mettersi alla loro testa.
14. Il discorso di rettorato e i suoi effetti.
La riforma dell' università. Heidegger antisemita? Le manovre rivoluzionarie di Heidegger.
Analogie con il movimento del ’68. Al servizio del popolo. Il campo di lavoro scientifico.
« Il discorso di rettorato cadde nel modo più totale in oblio e il giorno successivo alla cerimonia era
già dimenticato [...] Ci si muoveva lungo la via, tracciata da decenni, della politica della facoltà. »
Così scrive Heidegger nel suo scritto giustificativo del 1945, intitolato Fatti e pensieri (Tatsachen
und Gedanken).1
Di fatto il discorso non venne dimenticato così rapidamente. Esso conobbe due edizioni a sé stanti
durante il periodo nazista e venne citato e magnificato da parte della stampa di partito. Ad esempio,
nella rivista Kieler Blätter, un articolo del 1938 che fa il punto sul tratto di strada percorso fino
allora dalla politica culturale nazionalsocialista, afferma quanto segue: « Nel suo discorso di
rettorato Martin Heidegger determina l’essenza della scienza, analogamente a Baeumler, a partire
da un atteggiamento di fondo attivistico ed eroico».2
Le reazioni immediate furono entusiastiche. La stampa locale e i giornali a più larga diffusione
presentano questo discorso come un evento grandioso, destinato a dischiudere nuove prospettive. La
rivista degli studenti nazionalsocialisti mette in guardia dall’opportunismo di molti uomini di
scienza che si adeguavano solo superficialmente alla nuova situazione, e sottolinea come eccezione
in senso positivo il discorso di rettorato di Heidegger; in esso, si dice, si esprime realmente Io
spirito di rottura e di rivoluzione. Persino la rivista Volk im Werden pubblica nel 1934, cioè nel
periodo in cui il suo editore, Ernst Krieck, era già un nemico intimo di Heidegger, un articolo di un
certo Heinrich Bornkamm in cui si dice: « Nella fin troppo vasta letteratura dei nostri giorni sulla
riforma dell’università, gli stimoli migliori sono offerti, a quanto mi sembra, dal discorso
friburghese di rettorato di Heidegger ».3
Anche la stampa meno ufficiale reagisce positivamente. Eugen Herrigel, che sarà in seguito taoista
(Lo Zen e il tiro con l'arco), definisce questo discorso un « testo classico », e la Berliner
Börsenzeitung scrive: « Ben pochi sono stati i discorsi di rettorato capaci di produrre un effetto
altrettanto affascinante e di coinvolgere tanto i lettori ».4
Si constata comunque anche una certa perplessità. Karl Lowith disse, riferendosi all’effetto
immediato del discorso di rettorato, che non si sapeva se adesso si doveva mettersi a studiare i
presocratici o entrare nelle SA. Per questo motivo i commentatori contemporanei si concentrano di
buon grado su quelle affermazioni che possono essere riferite senza problemi alla dottrina del
nazionalsocialismo, ad esempio il programma heideggeriano dei « tre doveri »: il servizio del
lavoro, il servizio delle armi e il servizio del sapere.
Presso i commentatori critici stranieri prevale lo stupore incredulo, alcuni sono sconvolti. La Neue
Zürcher Zeitung scrive: « Il discorso di Heidegger rimane, anche alla terza o quarta lettura,
espressione di un abissale e deleterio nichilismo, che non può essere eliminato nemmeno dalla
professione di fede nel sangue e nella terra di un popolo ».5
Benedetto Croce scrive a Karl Vossler in una lettera del 9 settembre 1933: « Ho letto poi per intero
la prolusione dello Heidegger, che è al tempo stesso stupida e servile. Non mi meraviglio del
successo che avrà per qualche tempo la sua filosofia: la vuotaggine e il qualunquismo hanno sempre
successo. Ma non producono niente. Credo però che non potrà avere alcuna influenza politica: ma
disonora la filosofia, e questo è un male anche per la politica, almeno per quella futura ».6
E' sorprendente la reazione di Karl Jaspers. Il 23 agosto 1933 egli scrive a Heidegger: « La
ringrazio per il discorso di rettorato [...] Il grande respiro del Suo avvio sulla grecità degli inizi mi
ha toccato ancora una volta come una nuova e persino ovvia verità. In questo Lei è concorde con
Nietzsche, con la differenza però che, come si può sperare, Lei realizzi nell’interpretazione
filosofica quello che afferma. È per questo che il Suo discorso ha una sostanza credibile. Non sto
parlando dello stile e della densità che fa di questo discorso, come vedo, un documento finora
unico, e destinato a restare nella memoria, di una volontà accademica attuale. La mia fiducia nella
Sua filosofia [...] non viene disturbata da certe caratteristiche di questo discorso, che sono conformi
ai tempi, da qualcosa che in esso mi risulta un po’ forzato e da frasi che mi sembra suonino piuttosto
vuote. Tutto sommato sono contento che ci sia qualcuno che può parlare così, qualcuno che
raggiunga i limiti autentici e le origini ».7
Due mesi prima di questa lettera Heidegger aveva fatto visita a Jaspers per l’ultima volta. In quella
occasione Heidegger aveva tenuto una conferenza sull'Università nel nuovo Reich (Die Universität
im neuen Reich). Era stato invitato dagli studenti nazionalsocialisti di Heidelberg per rinforzare il
fronte contro i professori conservatori e in particolare contro il rettore Willy Andreas, non ancora
allineato. Evidentemente era riuscito nell’intento. Un partecipante a questa manifestazione, lo
storico Gerd Tellenbach, annotò nelle sue memorie: « Uno studente, fanatizzato dalla foga agitatoria
del discorso, si rivolse a un compagno dicendo che [...] ad Andreas non restava che cacciarsi una
pallottola in testa ».8 Effettivamente Heidegger aveva assunto un atteggiamento molto militante,
aveva dichiarato morta l’università tradizionale, aveva respinto con parole dure le «
rappresentazioni cristiane umanizzanti » e aveva sollecitato a « lavorare per lo Stato». Si era parlato
dell’« ardimento » di chi vuole sapere, e del fatto che « solo una stirpe dura » avrebbe potuto
sostenere questa lotta « senza pensare a se stessa ». Chi però « non sostiene la lotta, resta escluso ».9
I professori erano apparsi in alta uniforme in occasione di questo discorso, che la stampa aveva
annunciato con grande pompa. Ma Heidegger vi comparve nell’abbigliamento scoutistico da
movimento giovanile, in pantaloni alla zuava e colletto alla Robespierre. Jaspers scrive nelle sue
memorie: « Ero seduto davanti su un lato con le gambe stese in avanti, le mani in tasca, e non mi
muovevo».10 In occasione di un colloquio privato, dopo la manifestazione, Heidegger gli era
apparso « come preso in un’ebbrezza », e si avvertiva un che di minaccioso provenire da lui. E
tuttavia, due mesi dopo, egli loda il discorso di rettorato. Nelle sue annotazioni personali egli
spiegherà in seguito il suo atteggiamento dicendo che avrebbe voluto dare « la migliore
interpretazione possibile » del discorso per poter mantenere aperto il dialogo con Heidegger, ma che
in realtà provava ribrezzo di fronte « al livello insopportabilmente meschino e straniarne» 11 in cui
si muovevano i discorsi e le azioni di Heidegger.
L’approvazione del discorso di rettorato da parte di Jaspers non aveva solo questo senso tattico che
egli appalesò in seguito. Continuavano a esserci importanti punti di contatto fra i due, e
sorprendentemente anche nel campo della riforma nazionalsocialista dell’università. Nella sua
lettera del 23 agosto 1933 Jaspers nomina la nuova costituzione dell’università appena bandita dal
ministero della Cultura del Baden, il cui punto nodale era l’introduzione del principio del Führer e
l’esautorazione degli organi collegiali, definendola uno «straordinario passo avanti». Egli trova
«giusta la nuova costituzione ». La « grande era » dell’università è a suo parere terminata da tempo,
e perciò è necessario un nuovo inizio.
Nell’estate del 1933 lo stesso Jaspers aveva elaborato delle tesi per la riforma dell’università che
dovevano essere discusse fra i docenti di Heidelberg. Jaspers ne aveva parlato a Heidegger in
occasione della sua ultima visita nella speranza che egli sollecitasse gli uffici governativi a mettersi
in contatto con lui. A tale scopo Jaspers aveva preparato una lettera di accompagnamento nella
quale sottolineava che le proprie idee di riforma non erano « in contrasto » con i « principi esposti
fino a ora da parte del governo », ma che anzi « fanno tutt’uno » con essi.12 Infine Jaspers aveva
rinunciato a presentare le sue tesi. Il motivo di ciò fu annotato da lui su un foglio allegato al
manoscritto delle tesi: « Non posso far niente se non ho una precisa richiesta, in quanto mi è stato
detto che non faccio parte del partito e che come compagno di una donna ebrea vengo soltanto
tollerato e non posso godere di alcuna fiducia ».13
Nelle sue «tesi », che nel 1946 metterà peraltro alla base del suo scritto sulla riforma dell’università,
Jaspers traccia un quadro del degrado dell’università. Nella diagnosi egli concorda con Heidegger. I
danni manifesti sono per lui i seguenti: la frammentazione in discipline settoriali, la sempre
maggiore scolarizzazione e l’orientamento soltanto professionale, il sopravvento dell’aspetto
amministrativo, il crollo del livello complessivo dell’insegnamento, l’abuso della libertà di
apprendimento, che porta all’esclusione «di quello che è il correlato della libertà: l’esclusione di
coloro che falliscono negli studi ».14 Nella situazione attuale, quella dell’estate 1933, sussiste la
possibilità, che forse « non si ripresenterà mai più », di superare tutti gli impedimenti e le
sedimentazioni « per mezzo della decisa deliberazione di un uomo che domina senza limiti
l’università e che può fidare nella potente spinta proveniente da una gioventù consapevole di questa
situazione e dell'insolita disponibilità di coloro che altrimenti sono tiepidi e indifferenti ». Se adesso
non si agisse con decisione, l’università andrebbe incontro alla propria « morte definitiva ».
I piani di riforma di Jaspers prevedono nel dettaglio: la deregolamentazione dello studio,
l’eliminazione dei piani di studio e delle documentazioni formali, lo snellimento amministrativo
attraverso il rafforzamento della responsabilità e delle autorità preposte a comandare. Il rettore e i
decani non devono più dipendere da delibere di maggioranza. Jaspers vuole il principio del Führer,
con la riserva però che coloro che decidono responsabilmente devono anche essere responsabili di
fatto e poter essere eventualmente rimossi. Si tratta insomma di offrire garanzie contro l’abuso del
principio del Führer. Se la rinnovata riforma universitaria del Baden offra queste garanzie, sarà il
tempo a dimostrarlo. In ogni caso egli augura pieno successo al « principio aristocratico »
recentemente instaurato, come scrive nella lettera a Heidegger del 23 agosto 1933.15
Nell’estate del 1933 Jaspers condivideva dunque la convinzione di Heidegger che fosse possibile,
con la rivoluzione nazionalsocialista, realizzare anche un rinnovamento razionale dell’università, se
solo coloro che detenevano il potere avessero prestato ascolto agli scienziati di rango. Anche
Jaspers vuole a suo modo « intervenire ». Egli fa addirittura delle concessioni a concetti come quelli
di servizio del lavoro e di esercitazioni militari. Essi fanno parte per lui della «realtà di
quell’onnicomprensivo» che congiunge con «i fondamenti dell’esistenza e con il popolo nel suo
complesso ». Però Jaspers si schiera esplicitamente contro il primato della politica: « Nessun’altra
istanza al mondo» può decidere le finalità della ricerca e dell’insegnamento «se non il portare allo
scoperto la chiarezza del vero sapere in quanto tale ».16
Ma fino a questo punto nemmeno Heidegger si era espresso diversamente. Nel suo discorso di
rettorato egli non fa discendere lo spirito della scienza dalla politica, bensì al contrario fa conseguire
l’impegno politico dall’atteggiamento dell'interrogare filosofico rettamente inteso. E tuttavia: per
quanto concerne la tonalità emotiva e la modalità dell’intima partecipazione al movimento politico,
c’è un abisso fra Jaspers e Heidegger. Jaspers difende l’aristocrazia dello spirito, mentre Heidegger
vuole abbatterla. Per quest’ultimo è stupido che ci siano così tanti professori di filosofia; ne
basterebbero due o tre, come aveva detto nell’ultimo colloquio con Jaspers.
Per Heidegger, che ancora nell’aprile del 1933 aveva scritto a Jaspers che tutto dipende dal fatto di
trovare nella « nuova realtà» il « giusto punto d’inserimento» della filosofia e di aiutarla a «
prendere la parola », per lui questa « nuova realtà » è diventata nel frattempo la rivoluzione
nazionalsocialista. Ma Jaspers vuole conservare la parola della filosofia, tale che essa non venga
falsificata dalla politica. Con stupore e terrore egli vede Heidegger innalzare quelle potenze che lo
hanno incantato a potenze esistenziali di tipo metafisico. Ma egli intuisce anche che nelle manovre
politiche di Heidegger continua a operare ancora un furore filosofico. E ciò affascina Jaspers. Egli
vuole capire che cosa faccia sì che questa «nuova realtà» possa conquistare presso Heidegger una
simile forza d’urto filosofica e un tale significato. Per questo egli fa la sua inquietante osservazione
sul discorso di rettorato di Heidegger: « che, come si può sperare, Lei realizzi nell’interpretazione
filosofica quello che afferma ».17
Dopo la sua elezione a rettore, Heidegger aveva già introdotto de facto il principio del Führer a
Friburgo, ancora prima che ciò venisse stabilito ufficialmente dalla riforma universitaria del Baden.
Per diversi mesi egli omise di convocare il senato accademico, e in tal modo lo esautorò. Le sue
comunicazioni e le sue circolari alle facoltà e agli organi collegiali erano redatte in un tono stridente
e imperativo. Heidegger, un uomo che non aveva fatto esperienza al fronte nella prima guerra
mondiale, era affascinato dall’idea di introdurre
lo spirito soldatesco nel corpo docente. Egli incaricò il professor Stieler, un ex capitano di corvetta,
di elaborare un collegio di probiviri per il corpo docente, che doveva ispirarsi alle rispettive regole
in vigore presso il corpo ufficiali. Heidegger, che si era rivelato abile nelle trattative per
l’assegnazione delle cattedre, adesso vuole metter fine ai traffici per ottenere maggiorazioni di
stipendio, dotazioni di cattedre etc.; lo spirito di mercato e della concorrenza economica doveva
essere superato. Perciò nell’abbozzo dell’ordinamento dei probiviri si dice: « Vogliamo coltivare e
sviluppare fra noi quello spirito di vero cameratismo e autentico socialismo che fa sì che il collega
non venga considerato un concorrente nella lotta per l’esistenza».18
In questo abbozzo approvato da Heidegger si trova anche questa frase: « Vogliamo ripulire la nostra
corporazione da elementi inferiori e prevenire future campagne di degenerazione ».19
In questo contesto, Heidegger avrà forse inteso per « elementi inferiori » persone non
sufficientemente qualificate sul piano professionale e caratteriale, ma per la rivoluzione
nazionalsocialista erano naturalmente e soprattutto gli ebrei e gli oppositori politici. E questo
Heidegger doveva saperlo.
A Friburgo le SA avevano propagandato già all’inizio di marzo il boicottaggio dei negozi degli ebrei
e fatto circolare liste di avvocati e medici ebrei. Lo studentato nazionalsocialista aveva cominciato a
invitare al boicottaggio dei professori ebrei. Il 7 aprile venne varata la « legge per la ristrutturazione
del pubblico impiego », che escludeva dal servizio statale tutti i « non ariani » assunti dopo il 1918.
Ma a Friburgo il commissario del Reich Robert Wagner aveva emesso il giorno precedente una
disposizione ancora più dura: la provvisoria sospensione finalizzata al licenziamento di tutti gli
impiegati ebrei, anche se in servizio presso lo Stato da prima del 1918. In base a questa disposizione
Husserl venne sospeso il 14 aprile 1933. In quel momento Heidegger non era ancora in carica.
Quando, alla fine di aprile, la disposizione di Wagner venne abolita in favore della legge per la
ristrutturazione del pubblico impiego, la sospensione di Husserl dovette essere ritirata. Questo fu
compito quindi del nuovo rettore, che nel frattempo era entrato in carica. Heidegger unì a questo
suo compito un gesto personale. Incaricò Elfride di mandare dei fiori a Husserl. Husserl aveva
sentito questa sospensione come la « più grande offesa della sua vita »; si sentiva ferito soprattutto
nel suo sentimento nazionale, e in una lettera aveva scritto: « Credo di non essere stato un cattivo
tedesco (di vecchio stampo, naturalmente) e credo che la mia casa sia stata un focolare di sentimenti
autenticamente nazionali, come tutti i miei figli hanno dimostrato con le loro azioni in guerra, come
volontari sul campo di battaglia e prestando servizio all’ospedale militare».20
Il mazzo di fiori e le parole di saluto non furono in grado di modificare la delusione di Husserl nei
confronti di Heidegger. In una lettera del 4 maggio 1933 al suo allievo Dietrich Mahnke egli
definisce l’ingresso « assolutamente teatrale » di Heidegger nel partito come « conclusione di
questa intima amicizia presumibilmente filosofica ». Negli ultimi anni, vi si dice, l’antisemitismo di
Heidegger « si è espresso con sempre maggiore forza, anche nei confronti del gruppo dei suoi
entusiasti allievi ebrei, e nei confronti della Facoltà ».2I
Heidegger antisemita?
Non lo fu nel senso del folle sistema ideologico dei nazionalsocialisti. Risulta infatti evidente che né
nei corsi di lezioni e negli scritti filosofici, né nei suoi discorsi e pamphlets politici si possono
trovare osservazioni antisemite e razziste. Quando ad esempio nella circolare per la festa del Primo
maggio Heidegger connota «come imperativo del momento» la «costruzione di un nuovo mondo
spirituale per il popolo tedesco », egli non vuole escludere da questo compito nessuno che abbia la
volontà di collaborare. Il nazionalsocialismo di Heidegger era decisionistico. Per lui non era
determinante la provenienza, quanto la decisione. Nella sua terminologia questo vuol dire che
l’uomo non deve essere giudicato sulla base della sua « gettatezza », ma del suo « progetto ». In
questo senso egli potè persino essere d’aiuto ai colleghi ebrei oppressi, laddove ne riconoscesse le
qualità. Quando Eduard Fraenkel, ordinario di filologia classica, e Georg von Hevesey, professore
di chimica della fisica, vennero licenziati in quanto ebrei, Heidegger cercò di evitarlo con una
lettera indirizzata al ministero della Cultura. In essa egli presenta un’argomentazione tattica: il
licenziamento di questi due professori ebrei, la cui alta reputazione scientifica è fuori discussione,
danneggerebbe proprio una « università di confine» sulla quale sono puntati in modo particolare gli
sguardi della critica straniera. Inoltre i due erano « ebrei nobili »,22 dal carattere esemplare. Egli
stesso poteva attestare il loro comportamento inappuntabile, « per quello che consente il giudizio di
un uomo ». Fraenkel venne licenziato nonostante l'interessamento di Heidegger; Hevesey per il
momento potè rimanere.
Heidegger si diede da fare anche per il suo assistente ebreo Werner Brock. Non potè trattenerlo
all’università, ma riuscì a fargli avere una borsa di studio per ricerche a Cambridge.
Nel 1945 Heidegger richiamò l’attenzione sul suo impegno a favore di scienziati ebrei e anche sul
fatto che già dopo pochi giorni dal suo ingresso in rettorato aveva rischiato un conflitto con lo
studentato nazionalsocialista quando vietò di appendere nell’università il manifesto antisemita
Contro lo spìrito non tedesco.
Questi comportamenti attestano la riserva di Heidegger nei confronti di un antisemitismo
grossolano e ideologico.
All’inizio del 1933, poco prima di emigrare, Hannah Arendt scrisse a Heidegger. Stando alla
parafrasi della Ettinger, erano giunte alle sue orecchie cattive notizie su di lui; « era vero che
escludeva gli ebrei dal suo seminario, che non salutava più [...] i colleghi ebrei, che mandava via i
suoi laureandi ebrei e che insomma si comportava come un antisemita »?23 Heidegger rispose con
tono furibondo; è la sua ultima lettera a Hannah fino al 1950. «Egli enumerò in serie», secondo la
parafrasi fatta dalla Ettinger, « tutti i favori che aveva fatto agli ebrei, a cominciare dalla sua
apertura mentale nei confronti degli studenti ebrei, ai quali metteva a disposizione il proprio tempo
con generosità, sebbene questo fosse di disturbo al suo lavoro [...] Chi era a venire da lui quando si
trovava in difficoltà? Un ebreo. Chi insiste nel voler parlare quanto prima della propria tesi di
laurea? Un ebreo. Chi gli spedisce un’opera voluminosa perché la recensisca subito? Un ebreo. Chi
gli chiede aiuto per ricevere una sovvenzione? Un ebreo. »24
A prescindere dal fatto che qui Heidegger presenta come « favori » cose che fanno parte dei doveri
del suo servizio, con la sua difesa egli rivela « che divideva effettivamente i tedeschi, tanto i suoi
colleghi quanto gli studenti, in ebrei e non ebrei »25 (Ettinger), e fa inoltre capire che gli ebrei
nell’università erano sentiti da lui come persone insistenti. Da una lettera di Heidegger, scoperta nel
1989 e scritta il 20 ottobre 1929 a Victor Schwörer, vicepresidente della «Comunità di assistenza
alla scienza tedesca » (una organizzazione per la distribuzione di borse di studio), risulta che
Heidegger condivise interamente il cosiddetto « antisemitismo concorrenziale»26 (un’espressione
coniata da Sebastian Haffner), molto diffuso nei circoli accademici. Scrive Heidegger: « Si tratta
della [...] improrogabile riflessione sul fatto che ci troviamo di fronte a una scelta, o di procurare di
nuovo per la nostra vita spirituale tedesca energie ed educatori autentici e radicati al suolo, oppure
di consegnarla definitivamente, in senso ampio e ristretto, alla crescente ebraizzazione ».27
Questo « antisemitismo concorrenziale » in sostanza non accetta l’assimilazione degli ebrei, ma
continua a identificarli come un gruppo particolare, e si oppone al fatto che essi occupino nella
cultura una posizione di dominio, non proporzionale alla loro presenza nella popolazione
complessiva. In questo senso, come informa Max Müller, Heidegger aveva fatto notare in un suo
colloquio del 1933 «che originariamente a Medicina interna erano in servizio solo due medici ebrei,
mentre alla fine in questa specialità si potevano trovare solo due medici non ebrei. Di ciò era un po’
seccato ».28
Quindi non può destare sorpresa che Heidegger, rivolgendosi al ministero della Cultura in favore
dei due colleghi ebrei, Hevesey e Fraenkel, minacciati di licenziamento, riconosca espressamente la
« necessità di una inflessibile applicazione della legge per la ristrutturazione del pubblico impiego
».29
L’« antisemitismo concorrenziale » contempla di norma in ambito culturale l’accettazione di un
particolare «spirito ebraico ». Ma in Heidegger questo « spirito ebraico », dal quale bisogna
guardarsi, non c’è. Egli si è sempre opposto a questa forma di antisemitismo « spirituale ». In un
corso tenuto a metà degli anni ’30 egli prende le difese di Spinoza e spiega che se la sua filosofia è
« ebrea », allora è ebrea anche tutta la filosofia da Leibniz fino a Hegel. Questo rifiuto
dell’antisemitismo « spirituale » sorprende ancora di più se si pensa che altrimenti Heidegger mette
volentieri in evidenza l’elemento « tedesco » in filosofia, separandolo nettamente dal razionalismo
dei francesi, dall’utilitarismo degli inglesi e dall’ossessione tecnologica degli americani. Ma, a
differenza dai suoi compagni di lotta e avversari Krieck e Baeumler, egli non ha mai fatto ricorso a
questo elemento « tedesco » in filosofia per distinguerlo rispetto a quello « ebraico ».
Karl Jaspers, cui nel 1945 viene richiesto di esprimere per iscritto un parere sull’antisemitismo di
Heidegger, arriva a formulare questo giudizio, che Heidegger non fu un antisemita negli anni ’20, e
continua dicendo: « In tale questione egli non si è limitato solo alla riservatezza. Ciò non esclude
che in altre circostanze, come devo supporre, l’antisemitismo abbia contrastato con la sua coscienza
e con il suo gusto».30
In ogni caso, il suo tipo di antisemitismo non fu per lui motivo di adesione alla rivoluzione
nazionalsocialista. Ma è vero anche che l’antisemitismo nazionalsocialista, la cui brutalità venne
ben presto a galla, non l’ha nemmeno indotto ad allontanarsi da questo movimento. Egli non
appoggiò queste azioni, ma le accettò. Quando, nell’estate del 1933, alcuni studenti
nazionalsocialisti presero d’assalto la sede di un’associazione di studenti ebrei, agendo con tanta
efferatezza che
il procuratore non potè fare a meno di avviare dei procedimenti d’indagine e si rivolse per
informazioni al rettore Heidegger, quest’ultimo rifiutò ogni ulteriore indagine, osservando che
nell’assalto non erano coinvolti solo studenti.31 Heidegger coprì quella gentaglia; lo doveva alla
rivoluzione, questa era la sua idea.
Quando Elisabeth Blochmann venne licenziata perché per metà ebrea, in base alla legge per la
ristrutturazione del pubblico impiego, e scrisse una lettera a Heidegger cercando di ottenere aiuto,
egli promette certo di intervenire a Berlino in favore dell’amica - per la verità senza successo - ma
perfino in questo rapporto personale, dove non è necessaria nessuna riserva tattica, egli non trova
parole di indignazione di fronte a questi metodi. Egli esprime il proprio dispiacere a Elisabeth
Blochmann, come le fosse accaduto un incidente. Sembra che non gli sia mai venuto il pensiero che
la sua azione, intrecciata a quella collettiva della rivoluzione, fosse rivolta anche contro la sua
amica, che gli scrive disperata: « Ho già passato giorni molto difficili, ma non avrei potuto
immaginare che una tale proscrizione fosse possibile. Forse ho vissuto troppo ingenuamente nella
sicurezza di una profonda appartenenza allo spirito e alla sensibilità - così inizialmente mi sono
sentita del tutto inerme, e disperatissima» (18 aprile 1933).32 E Heidegger le risponde: «Io sono
prontissimo in qualsiasi momento per ogni Suo desiderio o necessità» (16 ottobre 1933).33
Hannah Arendt, Elisabeth Blochmann, Karl Lowith, persone vicinissime a Heidegger, devono
abbandonare la Germania, ma questo per il momento non ostacola in lui la « comunità del volere »
con i nazionalsocialisti. Egli sente di appartenere al movimento, anche se nella sua terra natale sono
stati costruiti i primi campi di concentramento, anche se gli studenti ebrei sono stati brutalmente
assaliti e in città vengono distribuite le prime liste di proscrizione. E quando poi Heidegger formula
una prima prudente critica alla politica ufficiale, ciò non accade per lo sdegno nei confronti degli
eccessi di antisemitismo, ma per le concessioni fatte alle vecchie forze borghesi.
Quello che era giunto alle orecchie di Hannah Arendt all’inizio del 1933, che cioè Heidegger si
tirava indietro di fronte a colleghi e studenti ebrei, e quello che egli contestò nella sua risposta a
Hannah, tutto ciò accadde effettivamente nei mesi successivi. A partire dal momento in cui fu
rettore, egli interruppe i propri rapporti con i colleghi ebrei e non laureò nessuno dei suoi studenti
ebrei. Li mandò da colleghi della facoltà. « Heidegger volle che i suoi allievi ebrei si laureassero,
ma non più con lui»34 (Max Müller). A Wilhelm Szilasi, uno studioso ebreo suo amico che non
dipendeva dall’università, disse che nella situazione venutasi a creare i loro rapporti dovevano
interrompersi.35
Heidegger interruppe anche i suoi contatti con Edmund Husserl. Che egli abbia impedito al suo
vecchio maestro e amico di entrare nel seminario di filosofia è invece una voce non vera. Ma
Heidegger non fece nulla nemmeno per aprire spontaneamente una breccia nel crescente isolamento
di Husserl. Fu Martin Honecker, collega di Heidegger alla cattedra cattolica, a tenere il
collegamento fra loro e a far regolarmente pervenire a Husserl, attraverso il « messaggero » Max
Müller, i « migliori saluti dal seminario di filosofia », informandolo di quello che succedeva in
istituto. « Aveva per me l’aspetto di un ’saggio’; non gli interessavano le questioni del quotidiano,
anche se era proprio la politica quotidiana a minacciare costantemente lui e sua moglie perché ebrei.
Era come se non sapesse nulla di questa minaccia, o semplicemente non volesse prenderne atto »36
(Max Müller). Husserl era poco partecipe delle faccende dell’istituto, ma voleva sempre sentire
qualcosa di Heidegger. Dopo il primo sdegno per il suo «tradimento» del 1933, il suo giudizio tornò
ad ammorbidirsi. « Egli è certo il più dotato fra tutti coloro che abbiano mai fatto parte della mia
cerchia»,37 disse a Max Müller.
Nel 1938, quando Husserl morì in solitudine, e il 29 aprile quando venne cremato, non era presente
nessuno della facoltà di filosofia, a eccezione di Gerhard Ritter. Non c’era nemmeno Martin
Heidegger, a letto ammalato. Quella stessa sera Karl Diehl, professore di economia nazionale, tenne
un breve discorso commemorativo per Husserl alla presenza di un piccolo gruppo di colleghi. Diehl
era solito definire questo gruppo « la facoltà delle persone oneste ».38
All’inizio degli anni ’40 Heidegger ritirerà, sotto pressione dell’editore, la dedica a Husserl sul
risguardo di Esseree tempo. Ma il ringraziamento nascosto nelle note venne conservato.
Torniamo al 1933.
Ricordiamoci che nel discorso di rettorato Heidegger aveva abbozzato lo scenario di una rottura
epocale, un secondo inizio della storia dell’umanità; tutti erano invitati a essere testimoni
compartecipi di un atto decisivo nella gigantomachia della storia dell’essere. Ma nel suo caso quello
che ne risulta non è molto di più che una battaglia contro l’università dei professori ordinari.
Heidegger scriverà in seguito a Jaspers: « Io 'sognavo’, e in fondo pensavo solo a ’quella’ università
che mi aleggiava davanti agli occhi » (8 aprile 1950).39
Questa lotta per una « nuova » università ha alcune somiglianze con la rivolta studentesca del 1967.
Heidegger si presenta con un aspetto che ricorda spiccatamente il movimento giovanile, come la
punta di giavellotto degli studenti rivoluzionari, che sono « in marcia ». Heidegger con i pantaloni
alla zuava e il colletto alla Robespierre contro i manicotti impellicciati sotto le toghe. Egli fa la
parte del rappresentante nazionalsocialista degli studenti di una certa disciplina, che sono in rivolta
contro gli ordinari, e appoggia l’indipendenza degli assistenti. È il grande momento dei liberi
docenti, che possono coltivare qualche speranza. Heidegger è attento al fatto che anche il restante
personale di servizio venga convocato alle adunanze.
Heidegger non era così presuntuoso da credere di « poter fare il Führer del Führer », come ha
affermato in seguito Jaspers. Ma nell’ambito della politica universitaria egli aspirava effettivamente
a una posizione di comando nella lotta contro il dominio degli ordinari. In occasione del congresso
della Federazione universitaria del giugno 1933, la fazione dei docenti nazionalsocialisti, nella
quale Heidegger aspirava a una posizione di comando, riuscì a costringere i membri del precedente
direttivo a ritirarsi. Durante la conferenza dei rettori, che ebbe luogo subito dopo, egli si adoperò
per sciogliere la federazione. Inoltre Friburgo doveva essere dichiarata un « avamposto » della
rivoluzione nazionalsocialista delle università. Allora Heidegger sarebbe diventato effettivamente
una sorta di duce delle università tedesche. E ne aveva l’ambizione. Ma non riuscì a imporsi contro
gli altri rettori. La fazione nazionalsocialista abbandonò per protesta la riunione. Poiché le attività di
Heidegger sul piano nazionale non avevano il successo desiderato, egli voleva realizzare un
modello esemplare almeno sul piano regionale. È intanto una cosa assodata che durante l'estate del
1933 Heidegger collaborò intensamente all’elaborazione della riforma universitaria del Baden, che
entrò in vigore il 21 agosto, facendo così del Baden il primo Land tedesco che realizzava
l’allineamento dell’università secondo il principio del Führer.
Per Heidegger l’esautoramento del dominio degli ordinari significava continuare la sua lotta contro
l’idealismo borghese e contro lo spirito modernistico delle discipline scientifiche positivistiche.
Anche questo impulso tornerà nella rivolta studentesca del 1967. Ciò contro cui combatteva
Heidegger a quel tempo, veniva chiamato dagli studenti del 1967 « idiozia settoriale ». La critica
del 1967 era questa: la società borghese insegna l’interesse per le scienze come disinteresse per la
società. Ora, anche Heidegger parla di questa responsabilità della scienza nei confronti del corpo
sociale, anche se con altre parole: « La costruzione di un nuovo mondo spirituale per il popolo
tedesco diventa compito fondamentale dell’università tedesca. Questo è compito nazionale, nel
senso e al livello più elevato ».40
Uno degli ideali del movimento giovanile del 1967 era la cosiddetta « eliminazione della divisione
fra lavoro manuale e lavoro intellettuale ». Questo era anche l’ideale di Heidegger. Alla festa delle
matricole del 25 novembre 1933 egli tenne un discorso programmatico sul tema Lo studente
tedesco come lavoratore (Der deutsche Student als Arbeiter). Con formulazioni nelle quali
risuonano pensieri del saggio di Ernst Jünger L’operaio, apparso nel 1932, Heidegger polemizza
contro la presunzione dei dotti. Lo studente non deve voler collezionare tesori spirituali per fame un
uso privato e per la carriera, bensì deve domandarsi in che modo possa servire nel modo migliore il
popolo con le sue ricerche e con il suo sapere: « Questo servizio crea l’esperienza fondamentale
dell’origine dell’autentico cameratismo». Lo studente deve concepire il proprio studio molto
umilmente come « lavoro », ma deve anche effettivamente usare le mani: aiutare nel raccolto, nei
lavori di risanamento nei dintorni di Friburgo, in quelli sul ponte cittadino e dove ce n’è bisogno.
«Lo Stato nazionalsocialista è lo Stato dei lavoratori », così afferma Heidegger, e gli studenti
dovevano sentirsi, ciascuno al proprio posto, « in servizio » con la propria ricerca e il proprio
sapere.
E' strano che Heidegger, il quale finora voleva tenere libero lo spirito della vera scienza e filosofia
da tutte le considerazioni sull’utilità e sull’orientamento immediato alla prassi, adesso dia voce a
una strumentalizzazione della scienza per scopi nazionali. Egli aveva fatto la caricatura della
filosofia che si orienta ai « valori », presentandola come grado zero dell’idealismo borghese, e
adesso tira fuori i valori dell’autoaffermazione nazionale per pretendere in loro nome, con tanto di
legittimazione filosofica, la « disponibilità fino all’estremo» e il «cameratismo fino all’ultimo».
Tutto ciò viene messo in relazione, e con un accento particolare, nel suo discorso per la «
manifestazione della scienza tedesca per Adolf Hitler », tenuta a Lipsia l’ 11 novembre 1933, con
quel principio filosofico secondo cui l’« esigenza originaria » di ogni essere è « di mantenere e
salvare la propria essenza »41.
Heidegger al servizio del popolo. La NSDAP aveva varato all’inizio del 1934 un programma per
l’inserimento sociale dei disoccupati. I disoccupati vengono comandati all’istruzione «politico-
statale» presso l’università. Lì i «lavoratori del pugno » devono essere istruiti dai « lavoratori della
fronte ». Heidegger si era impegnato a favore di questo programma di « rapporto con la base »,
come è stato chiamato nel 1967. Egli tenne il discorso di apertura di fronte a 600 lavoratori.
Per prima cosa Heidegger chiarisce ai lavoratori radunati davanti a lui che cosa significa il loro
essere. Già in questo modo cioè essi servono alla «costruzione e all’edificazione del nuovo avvenire
del nostro popolo ». Ora però, essi sono purtroppo disoccupati - per Heidegger è una occasione
propizia per farci scivolare dentro i primi termini filosofici, definendo la loro incresciosa situazione
come « non capace di esserci ». Essi sarebbero « capaci di esserci » solo se potessero servire lo
Stato e il corpo popolare. Procurare lavoro è dunque il primo compito dello Stato nazionale. Il
secondo compito è quello di procurare sapere: « Ogni lavoratore del nostro popolo deve sapere
perché e a che scopo sta lì dove sta». Soltanto in questo modo il singolo sarebbe «radicato nel corpo
popolare e nel destino del popolo ». Poiché Heidegger non può tenere seduti i disoccupati
raccontando loro della problematicità dell’ente nella sua totalità come di una forma di sapere di cui
il concittadino ha bisogno, e poiché non vuole far notare la loro gettatezza a quelli che sono stati
gettati fuori dal mercato del lavoro, deve offrire e creare qualcosa di concreto. Dal suo discorso si
può notare quanto ciò gli riesca difficile. Non gli viene in mente niente di buono. E così egli parla di
ciò che è necessario sapere, cioè « come il popolo si articola [...]; che cosa ne è del popolo tedesco
in questo Stato nazionalsocialista [...] che cosa significa il futuro risanamento del corpo popolare
[...] che cosa ha portato ai tedeschi l’inurbamento». Per mezzo di questo sapere i disoccupati qui
riuniti potranno diventare « uomini tedeschi chiari e decisi ». I procacciatori di sapere
dell’università li aiuteranno in ciò. Lo faranno volentieri. Infatti gli uomini di scienza sanno che
anch’essi possono diventare dei compatrioti soltanto portando il loro sapere all’uomo che lavora.
L’unità di pugno e fronte è la vera realtà. « Questa volontà di completare il procacciamento di
lavoro con un giusto procacciamento di sapere deve essere la sua intima certezza e la sua fede
incrollabile. » Ma questa fede ha il suo sostegno nella «superiore volontà del nostro Führer». E
pronunciando un «Sieg Heil! » Heidegger conclude il suo discorso.42
In un discorso agli studenti di Tubinga del 30 novembre 1933 egli descrive il processo di «
conquista della nuova realtà » come se si trattasse della nascita di un’opera d’arte. È giunto il
momento di abbandonare lo spazio dell’università tradizionale, essa non è che « l’isola vuota di uno
Stato vuoto ». Ma chi combatte si trova per così dire all’interno di un’opera che sorge. Egli riceve la
pienezza dell’esserci e diventa « comproprietario della verità del popolo nel suo Stato ».
Al posto dell’estasi filosofica è subentrata la mistica della comunità di popolo. La filosofia, intesa
come pensiero che si interroga in solitudine, può per ora dimettersi. Ma naturalmente il tutto resta
una faccenda filosofica, dato che Heidegger si lascia incantare filosoficamente dal movimento, e su
questo stesso piano gli riesce di incantare altri. Uno degli incantati disse a quel tempo: « Quando
Heidegger parla è come se mi cadesse un velo dagli occhi ».43
Un progetto che Heidegger promosse con particolare ambizione fu quello del « Campo di lavoro
scientifico ». L’idea in tal senso era già stata presentata da lui a Berlino il 10 giugno 1933 in
occasione di un congresso didattico dell’Ufficio scientifico degli studenti tedeschi. Doveva essere
una via di mezzo fra un campo scout e l’Accademia platonica. Vivere insieme, lavorare insieme,
pensare insieme, per un certo tempo limitato, nella libertà della natura. Qui la scienza doveva
tornare a destare alla « realtà vitale della natura e della storia», e dovevano essere superati l’«
ideologismo infruttuoso » del cristianesimo e la « cianfrusaglia positivista »,44 I partecipanti si
sarebbero aperti alle nuove potenze dell’esserci. Questi erano i propositi. Furono messi in pratica
dal 4 al 10 ottobre ai piedi della baita di Todtnauberg. Una marcia serrata a partire dall’università.
Per il primo tentativo Heidegger aveva scelto una piccola cerchia di docenti e studenti e aveva
redatto alcune indicazioni di regia: « L’obiettivo viene raggiunto a piedi [...] SA e ss in uniforme, con
tanto di elmetto in acciaio e fascia al braccio ». Programma della giornata: sveglia alle 6 e silenzio
alle 22. « Il vero lavoro di ricerca in comunità consiste nella riflessione su vie e mezzi per realizzare
la futura università consona allo spirito tedesco. »45
I temi scelti per i gruppi di lavoro e per i corsi, fissati da Heidegger, concernevano questioni
universitarie, l’organizzazione delle facoltà, la riforma nazionalsocialista dell’università, il principio
del Führer e così via. Ma l’aspetto decisivo era, come scrive Heidegger, che « attraverso la
comunità al campo » si destassero « la tonalità emotiva e l’atteggiamento fondamentali» dell’attuale
rivoluzione. Heidegger vuole condurre una schiera di giovani nella pacifica Todtnauberg, per fare
falò, appelli con alzabandiera, preparare il rancio, discutere, cantare con la chitarra, e tuttavia egli
annuncia questo proposito come se ci si dovesse recare in terra nemica e affrontare pericoli: «La
riuscita del campo dipende dalla quantità di nuovo coraggio [...] dalla decisione della volontà alla
fedeltà, al sacrificio e al servizio ». L’unico pericolo di questa impresa era che Heidegger facesse
una figuraccia e che la cosa si riducesse a una normalissima vita di accampamento con gente che
ormai aveva superato l’età dei giovani militanti della Hitlerjugend. Heinrich Buhr, uno dei
partecipanti, racconta che Heidegger disse intorno al falò parole impressionanti contro «
svalutazione del mondo, disprezzo del mondo, unificazione del mondo » da parte del cristianesimo,
celebrando « il grande e nobile sapere dello smarrimento dell’esserci ».46 Heinrich Buhr, che in
seguito divenne parroco, sentiva risuonare in queste parole il « cuore avventuroso» di Jünger. Fu
una manifestazione edificante, per alcuni persino coinvolgente, ma non c’era bisogno di coraggio
per superarla. Fu una cosa romantica, ma non pericolosa. A creare un certo malumore ci pensò un
intrigo tra i fedelissimi di Heidegger e un gruppo di studenti delle SA di Heidelberg, che volevano
sostituire all’aspetto scoutistico un tono militaresco e un antisemitismo militante. Nel suo scritto di
autodifesa per il procedimento di epurazione politica del 1945, Heidegger ne fece un importante
conflitto politico. « Il gruppo di Heidelberg aveva il compito di far saltare l’accampamento »,
scrive.
In occasione di questi scontri, il libero docente Stadelmann, che era al seguito di Heidegger,
abbandona su ordine di quest’ultimo l’accampamento. Hugo Ott ha reperito l’epistolario fra
Stadelmann e Heidegger relativo a questo episodio. Se ne ricava un’impressione come se fosse
accaduto qualcosa di drammatico fra un cavaliere e il suo scudiero: fedeltà fino all’ultimo,
sacrificio, tradimento, perfidia, rimorso, contrizione. Heidegger scrive che « La ’prova’ della
comunità» probabilmente non l’aveva superata nessuno. « Ma ognuno ha acquistato la
consapevolezza che la rivoluzione non è ancora giunta al termine, perché l’obiettivo della
rivoluzione universitaria è la formazione dello studente SA. » E Stadelmann, evidentemente risentito
per essere stato escluso a tempo debito dal duello, scrive: « E mai come nella comunità di
Todtnauberg mi sono accorto che faccio parte della rivoluzione [...] La disciplina la vorrò mantenere
ma speravo in qualcosa di più, avevo creduto nella possibilità di una comunità di fedeli ».
Heidegger risponde: « So che la sua devozione, alla quale tengo molto, devo prima
riguadagnarmela».47
Le potenze dell’esserci, che hanno qui evidentemente un loro ruolo, sono di tipo associazionistico
ed escursionistico. Ma Heidegger riesce a erigere un palcoscenico dove le macchinazioni, gli
intrighi e le tensioni fra le dinamiche di gruppo hanno l’aspetto di qualcosa di « grande » che, come
scrive Heidegger nel discorso di rettorato, « è nella tempesta ». Heidegger diventa prigioniero di
significati che lui stesso ripone nella realtà.
Egli riotterrà la libera motilità del suo pensiero quando non vorrà più collaborare all’opera d’arte
totale della comunità di popolo, ma tornerà a dedicarsi alle opere dell’arte e della filosofia.
Heidegger sapeva dare una « lettura » migliore di questo tipo di opere che non della realtà politica.
Egli si sentiva a casa propria solo nella filosofia e in una realtà orientata in senso filosofico. Egli
pretese troppo da sé quando « intervenne » in questo movimento rivoluzionario per fare una politica
reale. Ma tornerà presto ad alloggiare sotto il tetto, relativamente più sicuro, del pensiero filosofico.
15. Il corto circuito tra filosofia e politica. L’uomo al singolare e al plurale. La scomparsa della
differenza. Nessuna ontologia della differenza. Il secondo incarico a Berlino.
La lotta di Heidegger per la purezza del movimento. Il rivoluzionario è una spia.
La filosofìa deve essere « padrona » del proprio tempo, aveva detto Heidegger. Nel tentativo di
soddisfare questa esigenza, egli toglie gli ormeggi alla sua ontologia fondamentale.
Teniamo presente che in Essere e tempo egli aveva descritto l'esserci dell’uomo su un piano
elementare, che sta ancora al di sotto delle differenze storiche e delle opposizioni dei progetti
individuali di vita. Anche le tonalità emotive della noia e dell’angoscia, che egli aveva analizzato
nei suoi corsi dei primi anni ’30, si riferivano in generale all’essere-nel-mondo, e non alle situazioni
emotive individuali dell’esserci indeterminate situazioni.
Sebbene egli abbia occasionalmente affrontato il con-essere, tuttavia il suo pensiero era sempre
rivolto all’uomo, dove il singolare si riferisce al genere umano: l’uomo; l'esserci; anche ciò che sta
di fronte all’uomo è strutturato al singolare: il mondo, l'ente, l'essere.
Ma fra l’uomo e l’intero nel suo complesso - l'essere, lo spirito, la storia - c’è un altro ambito
ancora, quell’« esserci-fra » dove ci sono gli uomini nella loro pluralità, i molti, che si distinguono
fra loro, che coltivano interessi diversi, che si incontrano nelle cose che fanno. È soltanto in
quest’ambito che viene prodotta quella che si può chiamare realtà politica. Tutta questa sfera, il cui
significato ontologico sta nella molteplicità e nelle differenziazioni dei singoli, scompare nel
panorama dell'esserci descritto da Heidegger. Ci sono solo due tipi di esserci, quello autentico e
quello inautentico, il « se stesso » e il « Si stesso ». Naturalmente Heidegger non negherebbe che i
progetti dei singoli esserci sono differenti, ma questa differenza non è per lui una sfida in senso
positivo, anzi egli non la considera fra le condizioni fondamentali dell’esistenza. Noi dobbiamo
convivere col nudo dato di fatto di essere circondati da persone che sono diverse, e che noi non
capiamo affatto, oppure capiamo fin troppo bene; sono persone che amiamo o magari odiamo, o che
ci risultano indifferenti e forse enigmatiche, e rispetto alle quali ci sentiamo separati da un abisso,
oppure da niente. Tutto questo è un universo di relazioni possibili, cui Heidegger non ha prestato
alcuna attenzione, e che egli non ha accolto fra i suoi esistenziali. Heidegger, l’inventore della
differenza ontologica, non ha mai pensato di sviluppare una ontologia della differenza. Differenza
ontologica significa distinguere l'essere dall’ente. Un’ontologia della differenza significherebbe
accettare la sfida filosofica della diversità degli uomini, le difficoltà e le opportunità che ne
risultano per la convivenza.
Nella tradizione filosofica esiste già da tempo questo tipo di mistificazione, per cui si parla sempre
e solo dell’uomo, mentre ci sono solo gli uomini. Sul palcoscenico della filosofia entrano in scena
Dio e l’uomo, l’io e il mondo, l'ego cogito e la res extensa, e adesso in Heidegger Tesserci e
Tessere. Anche il discorso heideggeriano sull’« esserci » mette in ombra, già solo con la
suggestione del linguaggio, l’identità di tutto ciò che è «esserci». L’esserci è «tenuto immerso»
nell’«ente nella sua totalità», dice Heidegger. Ma innanzi tutto il singolo esserci è tenuto immerso
nel mondo degli altri uomini che ci sono.
Anziché pensare la fondamentale pluralità di questo mondo di uomini, Heidegger la elude nel
singolare collettivo: il popolo. E questo singolare popolare viene posto all'interno dell’ideale
esistenziale dell’essere se stessi, un ideale che autenticamente era stato sviluppato in base al singolo
che è ripiegato su se stesso. L’« esigenza originaria di ogni esserci, di conservare e salvare la sua
propria essenza », viene trasferita esplicitamente da Heidegger in occasione del « proclama della
scienza tedesca per Adolf Hitler » (Lipsia, 11 novembre 1933) sul popolo, che deve «conservare e
salvare la propria essenza ». Da che cosa è minacciato? Dalle umiliazioni del trattato di Versailles,
dallo smembramento di territori che un tempo furono tedeschi, dal pagamento dei danni di guerra.
Quale organizzazione sanziona questo torto? La Società delle
Nazioni. E pertanto era giusto che Hitler dichiarasse l’uscita dalla Società delle Nazioni e che
adesso ottenesse dal popolo con un plebiscito (legato all’elezione del parlamento del Reich per
mezzo di una lista unica) l’approvazione a posteriori di questo passo. Con la sua filosofia
dell’autenticità, il cui asse si sposta dal singolo al popolo, Heidegger impartisce la più alta
benedizione a questa manovra politica: « esigenza originaria dell’esserci ».
Questo discorso del novembre 1933 è ontologia fondamental-popolare applicata. Nel corso sulla
Logica dell’estate 1934, che per il momento è pubblicato solo sotto forma di appunti che presentano
lacune, Heidegger ha svolto una riflessione esplicita su questa trasformazione dell’« essere -sempre-
mio» nell’« essere-sempre-nostro ». Il «se stesso», dice, «non è una caratterizzazione distintiva
dell’io». Ciò che è fondante è invece il « noi-stessi ». Concentrando i propri sforzi sull’« io-stesso »
il singolo perde il terreno che gli sta sotto i piedi, « sta nell’abbandono di fronte al sé » perché cerca
il sé nel posto sbagliato, cioè nell’io isolato. Esso va trovato invece nel « noi ». Tuttavia non è detto
che qualsiasi raggruppamento di persone - « una associazione bocciofila, una banda di delinquenti »
- sia già in tal senso un « noi ». La differenza tra autenticità e inautenticità sussiste anche sul piano
del « noi ». Il « noi » inautentico è il « Si », il « noi » autentico è il popolo, che afferma se stesso
come un unico uomo. « Un corpo popolare è dunque un singolo uomo in grande. »1
Il pathos dell’autenticità di Essere e tempo era la solitudine. Ma se il popolo diventa il singolare
collettivo dell’esserci, allora questa solitudine è scomparsa nell’inquietante unità del popolo. Ma
Heidegger non vuole rinunciare al pathos esistenziale, e così sceglie un palcoscenico dove un intero
popolo può sfilare nella sua decisa solitudine. Il popolo tedesco è solitario in mezzo agli altri popoli.
Per mezzo della sua rivoluzione, esso ha osato spingersi più in là, nelle incerte plaghe dell’« ente
nella sua totalità». Queste parole le abbiamo già sentite nel discorso di rettorato: il popolo si è
portato sotto il cielo vuoto di Zarathustra, è una comunità che si è messa in cammino per tentare di
dare un senso a ciò che ne è privo, si è suddiviso in formazioni, organizzazioni delle maestranze di
fabbrica, federazioni. Il popolo tedesco è il popolo metafisico.
Quale sia il vero pensiero politico, sarà Hannah Arendt a dirlo, anche in risposta a Martin
Heidegger: esso scaturisce dall’« essere insieme reciproco dei diversi»2 e resiste alla tentazione di
conferire una profondità gnostica al brulichio dell’accadere storico oppure di elevarsi a una storia
«autentica», che poi possiede quell’automatismo e quella logica che sono destinati a perdere di vista
il caos della storia reale, che consta solo dell'intreccio di infinite storie che si incrociano. Anziché
pervenire a un pensiero politico, Heidegger si è fermato solo a questa gnosi storica. Questo non
sarebbe stato un grosso male, se egli si fosse accorto di essere privo di concetti politici. Ciò che
rende così insidioso il suo ingresso sulla scena politica durante questi mesi, non è tanto il fatto che
egli non fosse un politico, quanto piuttosto che non se ne accorgesse e scambiasse la sua gnosi
storica per pensiero politico. Se egli avesse continuato a raccontare le sue storie « autentiche » in
veste di gnostico della storia, senza volerle immischiare nella « politica », egli sarebbe rimasto
quell’artista della filosofia che effettivamente era; invece, trascinato dalla rivoluzione, volle
diventare il politico della filosofia. E allora si mette accanto al falò della festa per il solstizio
d’estate e lancia appelli a coloro che stanno incantati ad ascoltarlo: « I giorni passano, tornano a
farsi più brevi. Ma il nostro coraggio cresce a infrangere il buio che arriva. Non dobbiamo mai
diventare ciechi nella battaglia. Fiamma, illuminaci e guidaci, mostraci la via dalla quale più non si
toma! Accendetevi, fiamme; cuori, ardete! »
La maggior parte dei professori di Friburgo ritenevano che il rettore fosse un sognatore radicale
inselvatichito. Alle volte lo si trovava anche ridicolo e si raccontava la storia di alcuni studenti che,
sotto la guida del già citato Stieler, professore di filosofia ed ex capitano di corvetta, si stavano
esercitando con finti fucili di legno nella cava d’argilla attigua a una fornace, e che Heidegger,
passando di là in automobile, saltò fuori. Stieler, alto come una pertica, due metri e due centimetri,
si sarebbe messo sull’attenti e avrebbe fatto rapporto in perfetto stile militare a Heidegger, che era
molto basso di statura, e Heidegger, che aveva prestato servizio in guerra solo nell’ufficio della
censura postale e in una postazione meteorologica, ascoltò il rapporto ricambiando il saluto militare,
come un comandante. Queste erano le scene di battaglia che faceva Heidegger.
Nel settembre 1933 Heidegger riceve l’incarico all’università di Berlino, e in ottobre all’università
di Monaco. Victor Farias ha indagato sui retroscena. Ne è risultato che in entrambi i casi l’incarico
gli è stato evidentemente assegnato contro l’opposizione delle rispettive facoltà. A Berlino era stato
Alfred Baeumler ad adoperarsi con particolare vigore in suo favore e a definirlo in una relazione
scritta come un « genio filosofico ».3 Nella contemporanea trattativa con l’università di Monaco,
Heidegger fa osservare che a Berlino gli era stata accordata una cattedra « con uno specifico
incarico politico », e chiede di essere informato se anche a Monaco venga chiamato,
conformemente al suo desiderio, a « riformare l’università ». Egli farà dipendere la sua decisione,
aggiunge, dalla sua possibilità di servire al meglio «l’opera di Adolf Hitler».4 L’opposizione a
Heidegger proveniva da due fronti: i professori conservatori sentivano la mancanza in Heidegger di
un contenuto dottrinale « positivo », mentre gli ideologi nazisti « duri », come Ernst Krieck e
Jaensch, non vedevano in lui un’adesione alla visione del mondo propria del nazionalsocialismo.
Sullo sfondo della candidatura a Berlino e Monaco circolava una relazione scritta redatta dallo
psicologo Jaensch, collega di Heidegger del periodo di Marburgo. In essa Heidegger veniva definito
un « pericoloso schizofrenico », i cui scritti rappresentano in verità « documenti psicopatologici ».
Il pensiero di Heidegger sarebbe in sostanza un forma di ebraismo « avvocatesco-talmudico », e
proprio per questo motivo egli eserciterebbe una simile attrazione sugli ebrei. Heidegger avrebbe
abilmente « adattato la sua filosofia dell’esistenza alle tendenze del nazionalsocialismo ».5 Un anno
dopo, quando Heidegger è in predicato per la direzione dell’Accademia dei docenti
nazionalsocialisti, Jaensch scrive una seconda relazione, nella quale mette in guardia contro le
«ciance schizofreniche» di Heidegger, capaci di avvolgere «delle banalità con la sembianza di cose
significative ». Heidegger viene definito un « rivoluzionario puro e semplice », e nel caso che « la
nostra rivoluzione un giorno si arrestasse », bisogna tener conto che Heidegger « non resterà certo
dalla nostra parte », ma tornerà a « cambiare colore ».6
Ernst Krieck, che pretende per sé il ruolo di filosofo « ufficiale » del movimento, caratterizza la
posizione di Heidegger come « nichilismo metafisico ». Diversamente da Jaensch, Krieck manifesta
pubblicamente la sua critica, nel 1934, nella rivista Volk im Werden da lui diretta: « Il tono
ideologico di fondo della dottrina di Heidegger è determinato dal concetto di cura e di angoscia,
entrambe finalizzate al nulla. Il senso di questa filosofia è un esplicito ateismo e nichilismo
metafisico, altrimenti sostenuto nel nostro ambiente da parte dei letterati ebrei, e quindi è un
fermento di disgregazione e dissoluzione per il popolo tedesco. In Essere e tempo Heidegger fa
consapevolmente e intenzionalmente una filosofia del 'quotidiano’, dove non c’è niente che riguardi
il popolo, lo Stato, la razza e tutti i valori della nostra immagine nazionalsocialista del mondo. Se
nel discorso di rettorato [...] risuona improvvisamente il tono eroico, questa non è che una forma di
adattamento al 1933, in totale contraddizione con l’atteggiamento di fondo di Essere e tempo (1927)
e di Che cos'è metafisica? (1929) e con le dottrine della cura, dell’angoscia e del niente ».7
Il policentrismo degli apparati di potere del nazionalsocialismo ebbe ripercussioni anche nel settore
scientifico-politico e ideologico. Nei ministeri della Cultura della Baviera e di Berlino c’era la
volontà di conquistarsi Heidegger a causa della sua reputazione intemazionale. Si voleva esporre
come un’insegna un personaggio di grande spicco e non si badava molto al fatto che il
nazionalsocialismo « privato » di Heidegger fosse destinato a restare incomprensibile alle cerchie di
partito, o che avrebbe destato persino un’impressione sospetta. Krieck espresse addirittura la
supposizione che Heidegger connettesse la rivoluzione con il nichilismo dell’angoscia per spingere
alla fine il popolo tedesco « fra le braccia salvatrici della Chiesa ».8
Comunque fosse, Heidegger non sarebbe stato idoneo al compito di « conferire al movimento un
nucleo spirituale ed etico ».9
Anche Walter Gross, direttore dell’ufficio politico-razziale della NSDAF, pensava alla versione
heideggeriana del nazionalsocialismo quando, nel 1936, giunse alla conclusione, in una sua
memoria, che « il tradizionale intelletto umano degli scienziati sufficientemente preparati nella loro
disciplina e non gravati né sul piano razziale né su quello politico [...] non contiene assolutamente
nessun [...] elemento utilizzabile in senso nazionalsocialista ».l0 Risultava pertanto senza senso a
quel tempo un « orientamento politico » delle università; sarebbe stato meglio invece accrescere
l’effetto tecnico-economico delle scienze. Gross consiglia una « spoliticizzazione» dell’università
per mettere fine agli « sforzi penosi » da parte degli ordinari dell’epoca « di recitare la parte del
nazionalsocialismo ». A suo parere era meglio che l’evoluzione e la diffusione dell’ideologia
nazionalsocialista venissero affidate piuttosto alle rispettive sedi di partito, che dovevano garantire
che nel giro di circa un decennio potesse via via subentrare una nuova generazione di scienziati «
ideologicamente impeccabili ».
Dunque, nei centri di potere ideologico del nazionalsocialismo Heidegger era considerato come uno
che « recitava la parte del nazionalsocialismo ». Gross fu anche colui che mise subito in guardia da
Heidegger l’ufficio di Rosenberg quando, alla fine dell’estate del 1934, Heidegger venne preso per
un certo tempo in considerazione in seno al partito come direttore di un’Accademia dei docenti
nazionalsocialisti, di prossima istituzione, un organismo preposto all’addestramento delle giovani
leve di scienziati. Gross fece riferimento alle relazioni scritte di Jaensch e di Krieck e si richiamò
alle notizie riservate non positive sulle « attività » 11 di Heidegger a Friburgo.
Nonostante queste opposizioni, Heidegger aveva ricevuto gli incarichi a Monaco e a Berlino. E in
ambedue i casi Heidegger decise alla fine per un rifiuto. Ufficialmente e internamente al partito egli
motivò il suo rifiuto affermando che c’era ancora bisogno di lui a Friburgo per la riforma
dell’università e che non era ancora disponibile un suo successore al rettorato. « Se mi tirassi
indietro », scrive il 19 settembre 1933 a Elisabeth Blochmann, « a Friburgo crollerebbe tutto. »12
All'università di Friburgo le cose venivano viste diversamente. La maggior parte dei professori
sperava che Heidegger lasciasse quanto prima la sua carica, meglio oggi che domani. Non c’era
molta simpatia per quel tono risoluto delle sue circolari, dei suoi appelli e moniti; ma soprattutto il
corpo docente era per la maggior parte disposto a trovare un compromesso con la nuova situazione
politica, a patto però che l’insegnamento e la ricerca non ne venissero coinvolti. Per i professori era
particolarmente irritante la cancellazione di ore di seminario e di lezione a causa delle esercitazioni
militari e dei servizi di lavoro organizzati dagli studenti delle SA. Heidegger dava invece grande
importanza a queste operazioni, nelle quali si manifestava per lui il nuovo spirito della rivoluzione
nazionalsocialista. Erik Wolf, nominato da Heidegger decano della facoltà di giurisprudenza, cercò
con particolare zelo di trasformare il consueto insegnamento di questa disciplina nel senso voluto da
Heidegger, e dovette imbattersi nell’energica opposizione dei professori che avevano un
orientamento conservatore. Il 7 dicembre 1933 Wolf, sentendosi logorato, voleva rinunciare e
consegnò a Heidegger le proprie dimissioni, dicendosi esposto a tormenti psichici e dubbioso di
essere l’uomo giusto per quel posto. Egli scrive però, in tono deferente, di rimettere « al giudizio
della Vostra Magnificenza, che conosce i motivi profondi, di decidere se il fallimento dei miei sforzi
sia stato causato dall’insufficienza delle mie forze, dalla inadeguatezza della mia persona»13 o
dall’ostruzionismo dei colleghi. Heidegger non accetta le dimissioni: « E' implicito nello spirito
della nuova costituzione e dell’attuale situazione di lotta che Lei abbia in primo luogo la mia
fiducia, e non tanto quella della facoltà».14 Heidegger si sente in dovere di aiutare il suo seguace
fedele ma insicuro, e per questo motivo invia ai docenti recalcitranti questo messaggio di
ammonizione per le vacanze natalizie: « Il fondamento determinante e il fine da raggiungere in
realtà solo gradualmente è, fin dal primo giorno della mia assunzione di questa carica, la radicale
trasformazione dell’educazione scientifica a partire dalle forze e dalle esigenze dello Stato
nazionalsocialista. Un allineamento solo caso per caso alle 'condizioni attuali’ ad esempio della
scelta e della suddivisione del materiale su cui fare lezione, non solo non è sufficiente, ma anche
inganna gli studenti e i docenti sugli autentici compiti che ci attendono. Il tempo in più di cui i
docenti possono disporre a causa della soppressione di alcune ore di lezione, deve essere messo
assolutamente al servizio della meditazione sull’intima trasformazione di lezioni ed esercitazioni
[...] Le lotte e le opposizioni che scaturiscono da una effettiva volontà comunitaria di
trasformazione dell'università sono per me più essenziali di qualsiasi soddisfazione per quanto
completa dei colleghi, la quale non porta a nulla, se non a coprire quello che è stato fino a ora. Io
sono grato per il più piccolo degli aiuti che conduca innanzi l’università nel suo complesso. Ma
valuterò anche il lavoro della facoltà e dei singoli docenti nella misura in cui in essi si renderà
visibile e operativa la collaborazione alla realizzazione dell’avvenire. Rimane, certo, che solo la
volontà incrollabile dell’avvenire può dare senso e sostegno agli sforzi del presente. Il singolo,
quale che sia la sua posizione, non vale niente. Il destino del nostro popolo nel suo Stato vale
tutto».15
Heidegger minaccia di « valutare » come si conviene coloro che non vogliono collaborare. Questo
può voler dire molte cose, dall’ammonizione alla denuncia presso le autorità superiori, fino alla
rimozione dall’incarico o all’incarcerazione. Ma per quanto riguarda il servizio del lavoro e
l’esercitazione militare Heidegger era in una posizione debole, dato che nel frattempo era divenuta
predominante negli organi di partito la tendenza a lasciar tornare la normalità nel settore
dell’insegnamento.
Nella giustificazione di se stesso redatta in seguito, Heidegger afferma che il ministero di Karlsruhe
aveva richiesto per motivi politici la destituzione dei decani Wolf e Möllendorff, e che soprattutto
nel caso del socialdemocratico Möllendorff non avrebbe potuto impedirlo, e perciò avrebbe dato le
dimissioni. In base alle ricerche di Hugo Ott e di Victor Farias questa esposizione dei fatti non può
più essere sostenuta. Heidegger si è dimesso non per solidarietà con un socialdemocratico, ma
perché la politica del partito non era abbastanza rivoluzionaria nel senso in cui egli l’intendeva. A
Heidegger non interessava, come affermò in seguito, la difesa dello spirito occidentale
dell’università, non gli stava a cuore l’« universitas », bensì egli difendeva la rivoluzione contro il
conservatorismo erudito e la Realpolitik borghese, interessata solo allo sfruttamento economico e
tecnico dell’università. E' per questo che egli potè dichiarare nel corso della sua conferenza a
Tubinga il 30 novembre 1933 che « la rivoluzione nell’università tedesca non solo non è conclusa,
ma non è nemmeno cominciata »,16 e per questo egli si dimette da rettore il 23 aprile 1934, dopo
che il ministero della Cultura gli aveva consigliato di richiamare Erik Wolf alla sua carica di decano
a causa di « preoccupazioni non del tutto immotivate » della facoltà. Di Möllendorff proprio non si
parlava. Il ministero gli fa dunque capire che l’atteggiamento rivoluzionario della «rivoluzione di
tutto Tesserci tedesco» (Heidegger) nell’università si è spinto troppo oltre.
Quindi le dimissioni di Heidegger dal rettorato sono connesse con la sua lotta per la purezza del
movimento rivoluzionario, così come lo intendeva lui, cioè come rinnovamento dello spirito
occidentale dopo la « morte di Dio ».
Egli difese questa purezza del movimento rivoluzionario anche contro le tendenze clericali che a
Friburgo erano particolarmente potenti. L’associazione studentesca cattolica « Ripuaria » era stata
in un primo tempo sospesa dalle autorità locali del partito, con il benestare di Heidegger, ma
all’inizio del 1934, in seguito alla firma del concordato, era stata riammessa. In quella occasione
Heidegger scrisse irritato a Oskar Stäbel, il Reichsführer degli studenti tedeschi: « Questa pubblica
vittoria del cattolicesimo, specialmente qui da noi, è inammissibile. Si tratta di un danno
inimmaginabile inferto a tutto il lavoro. Io conosco da anni, e fin nei dettagli, i rapporti e le forze
locali [...] Si continua a non conoscere la tattica cattolica. Ma verrà il giorno in cui tutto ciò avrà la
sua pesante vendetta ».17
Il cattolicesimo, con la sua grande influenza organizzativa e spirituale a Friburgo, significava per
Heidegger, il quale pure si era sbarazzato solo con grandi sforzi delle proprie origini cattoliche, un
impedimento da non sottovalutare nella « trasformazione di tutto Tesserci tedesco ». Per questo
nella sua comunità di lavoro scientifico egli aveva diretto i suoi attacchi principali contro il
cristianesimo, così come veniva praticato nelle chiese. Là era dominante, aveva detto, la vera
mancanza di Dio, essendo stato predisposto un Dio per gli indolenti e per i vili, una sorta di
assicurazione sulla vita. Mentre la sua rivoluzione metafisica era qualcosa per i forti, per gli audaci,
per i decisi.
Heidegger non riuscì a imporsi con la sua critica al cattolicesimo presso le autorità di partito, che
per il momento avevano intenzione di scendere a compromessi con i poteri tradizionali.
Fu sempre la lotta per la purezza del movimento rivoluzionario che in due occasioni spinse
Heidegger a denunciare persone invise politicamente.
Eduard Baumgarten, un nipote di Max Weber, aveva cominciato la sua carriera scientifica negli
Stati Uniti, dove si era avvicinato sul piano filosofico al pragmatismo americano. Negli anni ’20
fece amicizia a Friburgo con Heidegger, che fu persino padrino di battesimo di una sua figlia. Dal
punto di vista filosofico c’erano divergenze di opinione, che per il momento venivano composte
ancora amichevolmente. Baumgarten si trasferì a Gottinga, dove aveva ricevuto un incarico per
insegnare cultura americana. Dato che il suo insegnamento aveva riscosso molto successo, nel 1933
egli ottenne un posto di docente con licenza di fare esami. Era disposto ad allinearsi politicamente e
chiese di essere iscritto alle SA e all’organizzazione dei professori nazionalsocialisti. A questo punto
intervenne Heidegger. Il 16 dicembre 1933 questi scrisse una lettera all’organizzazione dei
professori nazionalsocialisti in cui si afferma: « Per affinità spirituale, il dottor Baumgarten
proviene dal circolo intellettuale liberal-democratico di Heidelberg ispirantesi a Max Weber.
Durante il suo soggiorno a Friburgo egli era tutt’altro che un nazionalsocialista [...] Dopo aver
fallito con me, ha frequentato assiduamente l'ebreo Fraenkel, il quale, prima di essere destituito qui
a Friburgo, era stato attivo a Gottinga. Presumo che per questa via Baumgarten abbia trovato
ricovero a Gottinga [...] Al momento ritengo che Baumgarten non possa essere accettato né nelle SA
né nel corpo docente. Baumgarten è un oratore straordinariamente abile. Tuttavia nel campo della
filosofia lo ritengo un mistificatore».18
Anche nei suoi discorsi pubblici Heidegger aveva sempre messo in guardia da coloro che si
adattano solo superficialmente alle nuove condizioni. In tal senso questa diffida da Baumgarten è
assolutamente coerente con il suo atteggiamento rivoluzionario. La lettera di Heidegger venne
giudicata «carica di odio» dal dirigente dell’organizzazione dei professori di Gottinga, e fu allegata
agli atti come documento «inutilizzabile ». Baumgarten potè continuare la sua carriera, con l’aiuto
del partito. In seguito divenne direttore del seminario filosofico di Königsberg, direttore onorario
del suo gruppo locale, e fu invitato a prendere parte a convegni di lavoro da parte dell’ufficio di
Rosenberg.
Nel 1935 Jaspers venne a conoscenza di questa lettera tramite Marianne Weber. Fu una cosa che
non riuscì a dimenticare, faceva parte delle «esperienze più drastiche»19 della sua vita. La frecciata
sul « circolo intellettuale liberal-democratico di Heidelberg ispirantesi a Max Weber » non poteva
non colpire anche lui stesso. Ma quello che gli sembrava ancora peggio era che Heidegger, che
finora egli non aveva conosciuto come antisemita, fosse disposto a diffamare con insinuazioni
antisemite un uomo di scienza che gli era antipatico. Jaspers era sconvolto, ma cominciò anche ad
aver paura di lui e perciò non osò in questa occasione rivolgersi a lui direttamente. Solo alla fine del
1945, quando la commissione di epurazione pregò Jaspers (su proposta di Heidegger) di redigere
una relazione scritta su Heidegger, Jaspers rese pubblico il caso Baumgarten.
Per quanto concerne il caso Hermann Staudinger, professore di chimica e premio Nobel (1953), è
stato Hugo Ott a reperire i documenti decisivi e a ricostruire la vicenda. Durante una visita a
Friburgo dell’ispettore per l’università del Baden, Fehrle, il 29 settembre 1933, in occasione della
nomina di Heidegger a rettore-duce secondo la nuova costituzione universitaria, quest’ultimo
informò l’ispettore del sospetto che Staudinger fosse politicamente inaffidabile. Fehrle fece fare
subito delle indagini con la dovuta celerità, dato che in base alla « legge sulla ristrutturazione del
pubblico impiego» la scadenza dell’istruttoria procedurale era fissata al 30 settembre 1933.
Heidegger aveva cominciato già durante l’estate a raccogliere informazioni su Staudinger. Le
accuse contro Staudinger si riferivano al periodo della prima guerra mondiale. Dal 1912 Staudinger
era professore alla Scuola tecnica superiore di Zurigo, ma era rimasto cittadino tedesco. In un primo
tempo non era stato arruolato in guerra per motivi di salute. Negli anni della guerra pubblicò articoli
pacifisti, in cui esortava a cambiare le idee politiche in considerazione dell’odierno sviluppo della
tecnologia bellica che minacciava l’intera umanità. Nel 1917 aveva chiesto la cittadinanza svizzera.
A quel tempo furono presentati da parte tedesca degli atti su di lui in cui Staudinger veniva
sospettato di aver rivelato alle potenze nemiche importanti informazioni di guerra nel settore
chimico. Questo sospetto cadde per la verità nel vuoto, ma già nel maggio 1919 fu aggiunta agli atti
una annotazione in cui si diceva che durante la guerra Staudinger aveva assunto un atteggiamento «
atto a nuocere gravemente all’immagine della causa tedesca all’estero».20 Nel 1925, quando
Staudinger ricevette l’incarico a Friburgo, si era parlato ancora una volta della questione, ma gli
stessi professori di orientamento nazional-conservatore non se ne erano scandalizzati, perché intanto
Staudinger era già diventato un luminare conosciuto in tutto il mondo.
Adesso dunque, Heidegger fa avviare indagini allo scopo di allontanare Staudinger dal suo incarico.
La Gestapo raccoglie gli atti e il 6 febbraio 1934 li consegna a Heidegger perché esprima un parere
in merito. Egli fa una lista dettagliata delle accuse: il sospetto di aver rivelato al nemico
procedimenti chimici di fabbricazione; poi la richiesta di cittadinanza svizzera, presentata da
Staudinger proprio nel « periodo di massimo bisogno della patria », e la conseguente assunzione
della cittadinanza senza approvazione da parte tedesca; la dichiarazione pubblica di Staudinger
secondo cui egli « non avrebbe mai sostenuto la propria patria con le armi o altri servizi ».2I
C’è materiale accusatorio a sufficienza. « Si dovrebbe quindi prendere in considerazione più il
licenziamento che il pensionamento », scrive Heidegger. L’« assunzione di provvedimenti » risulta
tanto più urgente in quanto Staudinger «oggi si dichiara amico del movimento patriottico al 110 per
cento ».22
Come già nel caso Baumgarten, anche in questa situazione Heidegger è soprattutto interessato a
rintracciare i cosiddetti opportunisti. Qui lo zelo di Heidegger è anche maggiormente sollecitato,
perché egli non vede di buon occhio il patto pragmatico fra lo Stato e le discipline universitarie. A
suo parere la «trasformazione di tutto l'esserci tedesco» è destinata a fallire se le discipline
scientifiche «prive di radicamento» tornassero in primo piano per mezzo del loro asservimento
politico. A ciò è dovuta la sua campagna contro Staudinger, il quale dal canto suo ora punta tutto
sulla dimostrazione della grande importanza delle sue indagini per l’insurrezione nazionale. Nella
settimana in cui viene esposto a tormentosi interrogatori, Staudinger pubblica un articolo in cui
esalta il significato della chimica per la nuova Germania che mira all’autarchia, esprimendo la sua
«grande gioia» per l’«inizio della rivoluzione nazionale ».23 Poiché alti funzionari di partito
intervengono in suo favore, non si giunge al licenziamento. Anche Heidegger fa una ritrattazione, e
il 5 marzo 1934 suggerisce il pensionamento al posto del licenziamento, in «considerazione della
fama di cui lo stesso gode all’estero nell’ambito della sua disciplina ».24 Ma anche con questa
proposta Heidegger non riesce ad avere la meglio. Dopo una complessa trattativa, Staudinger ha il
permesso di restare in servizio.
Questa storia ha un epilogo. Nel 1938, quando Heidegger tiene la sua conferenza sulla Fondazione
dell’immagine moderna del mondo mediante la metafisica {Die Begründung des neuzeitlichen
Weltbildes durch die Metaphysik), nella quale critica il tecnicismo della scienza moderna, la rivista
Der Alemanne, organo del partito nazionalsocialista, pubblica un articolo in cui Heidegger viene
contrapposto come esempio di inutilità (un filosofo che « nessuno comprende e che [...] insegna il
nulla ») al « lavoro realmente importante per la vita » svolto dalle discipline scientifiche. Che
significato avesse questa affermazione, lo indica un’inserzione messa proprio sotto l’articolo:
l’annuncio di una conferenza del professor Staudinger sul tema « Piano quadriennale e chimica ».25
Questo episodio è ricordato da Heidegger nella sua difesa di fronte alla commissione di epurazione
il 15 dicembre 1945. Egli tace però di avere precedentemente denunciato Staudinger.
Si presume che Heidegger abbia taciuto le sue denunce non solo perché non voleva aggravare la sua
stessa situazione. Probabilmente quello che aveva fatto non gli era affatto sembrato una denuncia.
Egli sentiva di appartenere al movimento rivoluzionario e il suo intento era quello di tenere lontani
gli opportunisti dalla sollevazione rivoluzionaria. Questi non dovevano avere il permesso di
infiltrarsi nel movimento e di utilizzarlo a proprio vantaggio. Per Heidegger, Staudinger era uno di
questi uomini di scienza che sono al servizio di qualsiasi scopo, purché ne risulti per loro un utile
personale, e che non cercano nient’altro se non « il tranquillo piacere di un’attività senza pericoli ».
Ironia della storia: di fatto non furono i filosofi come Heidegger a prestare al regime i servigi più
grandi, ma scienziati «apolitici ». Essi soltanto hanno conferito efficacia sul piano pratico a quel
sistema che Heidegger voleva servire alla sua maniera fantastico-rivoluzionaria.
16. Dove siamo quando pensiamo? Todtnauberg a Berlino: il programma di un Accademia dei
docenti. L’addio agli intrighi politici.
« Questo è un corso sulla logica... » Heidegger si sceglie i suoi eroi: da Hitler a Hölderlin.
L’ « oscuramento del mondo » e il nazionalsocialismo realmente esistente.
DOVE SIAMO IN REALTÀ QUANDO PENSIAMO?
Senofonte ci tramanda un bell’aneddoto su Socrate. Quest’ultimo aveva combattuto valorosamente
come soldato nella campagna del Peloponneso, ma in un’occasione, mentre le truppe erano in
marcia, egli era rimasto improvvisamente fermo in piedi, assorto nei suoi pensieri, e così rimase per
una giornata intera, dimenticandosi di sé, del luogo in cui si trovava e della situazione. Gli era
venuto in mente qualcosa,
o qualcosa aveva attirato la sua attenzione, qualcosa che lo faceva pensare, e così era uscito dalla
propria realtà. Egli era finito nel giogo di un pensiero che si era impossessato di lui e che lo
spingeva in una terra di nessuno, dove però gli sembrava, curiosamente, di sentirsi a casa propria.
Questa terra di nessuno del pensiero è la grande interruzione dell’accadere quotidiano, ed è un
altrove che attrae. Da tutto quello che sappiamo di Socrate, questa esperienza dell’essere-altrove
dello spirito è un presupposto del suo trionfo sull’angoscia di fronte alla morte. Afferrato dal
pensiero, Socrate diventa un intoccabile. Potranno uccidere il suo corpo, ma il suo spirito vivrà. Egli
è affrancato dalla lotta per l’esistenza. A questo Socrate, che se ne sta lì immobile e assorto, mentre
le cose fanno il loro corso, pensava Aristotele quando lodò il talento proprio della filosofia, quello
di essere in ogni luogo e in nessun luogo; essa non ha bisogno « né di strumenti né di luoghi
speciali; in qualunque luogo sulla terra uno si dedichi al pensare, ovunque sarà a contatto con la
verità come se essa fosse presente ». 1
Ma Socrate era anche un filosofo della polis, della piazza
del mercato di Atene. Era lì che egli voleva essere presente con il suo essere-altrove, con il suo
essere assente. La filosofia è al tempo stesso senza luogo e vincolata a un luogo.
Ora, Heidegger era un filosofo particolarmente legato al proprio luogo, e nel periodo dei suoi
intrighi politici era sceso in campo con parole dure contro il cosiddetto pensiero «privo di potenza e
di suolo ». Ma adesso egli si accorge che quel suolo della nuova realtà rivoluzionaria, sul quale
voleva mettere piede, vacilla. Mentre sta conducendo trattative per il suo incarico a Berlino, scrive a
Elisabeth Blochmann: « Tutto sarebbe senza una base. Mi sono sentito come alleviato, quando sono
stato di nuovo fuori Berlino» (19 settembre 1933).2
In questa lettera Heidegger dà una formulazione del suo essere trascinato di qua e di là: « Credo di
sapere una sola cosa, che ci stiamo preparando a grandi trasformazioni spirituali, vale a dire che le
dobbiamo condurre assieme a noi alla superficie». E d’altro canto: «Dal mio proprio lavoro [...] per
il momento sono lontanissimo, quantunque io avverta ogni giorno come l’agire quotidiano [...] a
esso prema ».
Verso dove viene sospinto indietro?
I luoghi del suo pensiero possono essere indicati in modo molto preciso, sono uno immaginario e
uno reale: la Grecia della filosofia e la provincia, vicino a Todtnauberg.
Per quanto concerne questo sogno della Grecia, che Heidegger voleva realizzare con la rivoluzione
nazionalsocialista, il necessario era già stato detto da Nietzsche mezzo seco
lo prima: «La filosofia tedesca nel suo complesso [...] è la più radicale forma [...] di nostalgia finora
esistita [...] Non si è più di casa in nessun posto, si finisce per voler ritornare nell’unico luogo in cui
ci si potrebbe sentire in patria, perché solo lì si vorrebbe abitare: e questo è il mondo greco! Ma
proprio andando verso questo mondo, si trova che tutti i ponti sono crollati - tranne gli arcobaleni
dei concetti! [...] Certamente: si deve essere molto fini, molto leggeri, molto sottili per passare sopra
questi ponti! Ma quale gioia si trova subito in questa volontà di spirito, quasi un voler essere spiriti!
[...] Si vuole tornare indietro, attraverso i Padri della Chiesa fino ai greci [...] la filosofia tedesca è
[...] volontà di rinascita, volontà di progredire nella scoperta dell’antichità, nel disseppellimento
dell’antica filosofia, soprattutto di quella presocratica, del tempio greco più profondamente sepolto!
[...] diventiamo di giorno in giorno più greci - dapprima, come è giusto, nei concetti e nelle
valutazioni, in un certo senso come degli spettri grecizzanti: ma un giorno, come è sperabile,
diventeremo tali anche nel nostro corpo! »3
Heidegger voleva, come abbiamo frattanto appreso, il ritorno della grecità nel corpo sociale: la
rivoluzione come ricostituzione della « potenza » originaria dell’« irruzione della filosofia greca »
(Discorso di rettorato).
L’altro luogo: la provincia, Todtnauberg. Sulla sua altura della Selva Nera Heidegger si era sentito
vicino al suo sogno greco, e da là era disceso nella pianura della politica, dalla quale voleva ricavare
qualcosa, perché questa si trovava in sommovimento - infatti « tutto ciò che è grande è nella
tempesta! »
Nei mesi della sua attività politica Heidegger deve fare la dolorosa esperienza di non essere capace
di conciliare come vorrebbe i suoi due mondi, quello in cui vive e quello in cui pensa. Si è molto
sparlato sulla conferenza radiofonica di Heidegger del marzo 1934, che conteneva il rifiuto da lui
pubblicamente opposto a Berlino: Paesaggio creativo: Perché restiamo in provincia?
(Schöpferische Landschaft: Warum bleiben wir in der Provinz?) Si è voluto vedere qui solo un
romanticismo ideologizzato della vita contadina e della terra natia. Invece Heidegger offre qui, a
suo modo, reali informazioni sulla sua semplice esperienza, che per lui fu pero un’esperienza
essenziale: « Tutto il mio lavoro [...] è sostenuto e condotto dal mondo di queste montagne e dei
suoi contadini. Periodicamente ora il lavoro lassù viene interrotto per un lasso di tempo piuttosto
lungo da trattative, viaggi per conferenze, riunioni, e dall’attività di insegnamento quaggiù. Ma non
appena io vi faccio ritorno, già nelle prime ore dell’essere-in-baita (Hüttendasein), irrompe l’intero
mondo delle domande precedenti, e proprio con tutta la pregnanza che possedevano quando le
avevo lasciate. Io vengo semplicemente assorbito dal vortice insito nel lavoro e fondamentalmente
non riesco a padroneggiare la sua legge nascosta»4.
Heidegger osserva, e ammette di fronte a se stesso, che il mondo della sua vita e quello del suo
pensiero possono arrivare ad armonizzarsi nella baita di Todtnauberg, e propriamente soltanto in
quel luogo. Soltanto nell’« essere-in-baita » «l’intero mondo delle domande precedenti », cioè
questa ripresa dell’inizio greco, diventa una realtà vivente; soltanto là esso « viene-alla-presenza »
(anwest), come Heidegger è solito dire. Perciò egli prova anche sollievo, dopo il fallimento del
rettorato, nel tornare in questa « località » del suo pensiero. « Di ritorno da Siracusa? » Così gli
avrebbe chiesto allusivamente Wolfgang Schadewaldt incontrandolo occasionalmente per strada.
Come è noto, a Siracusa Platone aveva voluto realizzare una utopia dello Stato, riuscendo a sfuggire
alla schiavitù solo con grande fortuna.
1123 aprile 1934, quando Heidegger si dimette dalla carica di rettore, egli rinuncia a una posizione
politica esposta, ma per il momento rimane saldo nel suo proposito di procurare alla filosofia il «
giusto punto di inserimento» (a Jaspers, 10 marzo 1933)5 nella nuova realtà rivoluzionaria. Poiché
però non vuole più abbandonare la ritrovata « località » del suo pensiero, non gli rimane nient’altro
se non il tentativo di trapiantare questa « località », cioè di portarla semplicemente con sé come la
chiocciola della sua filosofia. Aveva rifiutato l’incarico a Berlino perché lì tutto procedeva « senza
avere una base», ma nell’estate 1934 egli matura le sue idee per l’allestimento di una Accademia dei
docenti di Berlino e segnala la sua disponibilità a recarvisi a condizione che gli venga offerta la
possibilità di realizzare queste idee. I suoi piani sono finalizzati a creare nel centro di Berlino una
sorta di convento filosofico, un rifugio nello stile di Todtnauberg.
Già dall’autunno del 1933 Heidegger aveva avviato trattative in tal senso con Berlino. Il progetto
dell’Accademia dei docenti del Reich tedesco era stato avviato a Berlino da ambienti di partito e dal
locale ministero della Scienza e dell’Educazione. L’idea era quella di creare una istituzione di
perfezionamento politico, che doveva essere frequentata da tutti i nuovi scienziati che potevano un
giorno diventare professori ordinari; lo scopo era ovviamente quello di dare un orientamento
ideologico legato all’idea di popolo. La concessione della venia legendi doveva essere riservata a
chi portava a termine i suoi studi presso l’Accademia dei docenti, e quindi essere sottratta alle
università. In tal modo si doveva rimediare all’inconveniente, diagnosticato dalle autorità di partito,
che il « materiale umano ereditato », per quanto concerne il mondo scientifico, si allineava in buon
ordine al regime, non presentando però « alcun elemento utilizzabile in senso nazionalsocialista »,6
e creare i presuppósti per poter formare nel giro di circa un decennio una generazione di uomini di
scienza « ideologicamente impeccabili ».
Si parlava di Heidegger come del possibile direttore di questa Accademia dei docenti. Egli prepara
proposte dettagliate e il 28 agosto 1934 le spedisce a Berlino. Non doveva diventare una «
accademia » in senso stretto, un « club di notabili », ma nemmeno una scuola politica popolare,
bensì una « comunità di vita e di educazione ». Egli la descrive come un ordine ecclesiastico, che
sta sotto un « proprio spirito » e che crea un’unica «tradizione», che «rimane vincolante» anche
dopo il periodo della frequenza. Elemento decisivo è «l’effetto inespresso dell’atmosfera ». Perciò
gli insegnanti dovrebbero « agire soprattutto attraverso ciò che sono, chi e che cosa sono, e non
attraverso ciò su cui 'parlano’ ». Gli insegnanti e gli allievi dovrebbero vivere insieme nell’ordine
quotidiano del « naturale alternarsi di lavoro scientifico, rilassamento, raccoglimento, simulazione
di gare, lavoro fisico, marcia, sport e festeggiamenti ». Doveva esserci anche occasione di
«autentica solitudine e vero raccoglimento», poiché ciò che serve alla vita comune non può nascere
soltanto dalla vita comune. L’allestimento dell'Accademia doveva prevedere strutture idonee a
favorire questo alternarsi di solitudine e comunità: aula, refettorio con pulpito per la lettura, locali
dove fare festa e coltivare la vita musicale, dormitori comuni. Per contro devono esserci « celle », in
cui il singolo possa ritirarsi per il lavoro spirituale e per il raccoglimento interiore. La biblioteca
deve essere arredata in modo parco e contenere solo l’essenziale; essa « appartiene alla scuola come
l’aratro al contadino ». Gli allievi devono essere coinvolti nella scelta dei libri, per imparare così
«che cosa significa giudicare autenticamente e scrupolosamente i testi scritti ». Conclusivamente
Heidegger riassume il pensiero centrale di questo convento scientifico: «Se nell’attività scientifica
deve essere superato, e per l’avvenire evitato, l "americanismo’ che, comunque, già oggi è fin
troppo potente, si tratta di dare alla scienza la possibilità di crescere in base alle sue intime
necessità. Ciò può accadere solo e unicamente tramite l’influsso determinante di singole personalità
».7
L’Accademia dei docenti non viene realizzata nel senso in cui la concepisce Heidegger. Sullo
sfondo c’erano stati intrighi e raggiri. L’ufficio di Rosenberg e il ministero erano stati messi in
guardia da altre autorità del partito. Il 14 febbraio 1934 Krieck aveva scritto a Jaensch: « Prendono
consistenza le voci secondo cui verrebbe consegnata nelle mani di Heidegger, con l’Accademia dei
docenti, l’intera nuova leva delle università prussiane. Questo sarebbe, a mio avviso, fatale. La
prego di mettere a punto per gli organi superiori del partito un rapporto sull’uomo, sul suo
atteggiamento, la sua filosofia e la sua lingua tedesca ».8 Jaensch, che era già intervenuto durante le
trattative di Monaco e di Berlino, fornì il rapporto richiesto. In esso si dice: « Se desidera conoscere
la mia opinione [...] a questa vorrei anteporre la frase di Adolf Hitler, che riconosce sempre come
autorità somma le leggi della sana ragione. Un contrasto con la ragione nei passi decisivi della vita
dello Stato conduce necessariamente e immutabilmente a una catastrofe [...] Sarebbe in contrasto
con la sana ragione se l’istituzione forse più importante per la vita spirituale del prossimo futuro
venisse assegnata a uno dei più grandi squinternati e stravaganti solipsisti che abbiamo in tutta la
vita universitaria [...] Nominare come massimo educatore delle nostre nuove leve accademiche un
uomo il cui pensiero tanto solipsistico quanto confuso, schizoide, e già in parte schizofrenico (noto
a tutti), è stato osservato chiaramente sia fra gli studenti, sia qui a Marburgo, eserciterebbe
un’influenza devastante sul piano educativo ».9
Per la verità il ministero respinse questo rapporto, ma si mostrò comunque più interessato a
reclutare un ideologo, e perciò escluse Heidegger dal novero dei candidati. Ma Heidegger continua
a restare un elemento utilizzabile per gli apparati di regime. Nel maggio del 1934 viene chiamato a
far parte della commissione di Filosofia del diritto nell’« Accademia per il diritto tedesco ».
Presidente della commissione è Hans Frank, commissario di giustizia del Reich, che nel discorso .di
apertura definì il carattere e i compiti di questa commissione. Dovevano essere poste nuove basi per
un nuovo diritto tedesco, contemplando i seguenti valori: « razza, Stato, Führer, sangue, autorità,
suolo, fede, difesa e idealismo»;10 la commissione doveva costituirsi come «commissione di lotta
del nazionalsocialismo ». A questa commissione, che si riuniva presso l’Archivio-Nietzsche di
Weimar, Heidegger collaborò fino al 1936. Non si sa niente di più su quale sia stato il suo
contributo. Nel 1936 viene accolto fra i membri Julius Streicher. La cosa suscitò un tale scalpore
che nel 1936 Karl Lowith interrogò in merito Heidegger a Roma. Dopo qualche esitazione,
Heidegger rispose dicendo che « su Streicher non c’era bisogno di sprecare parole, perché lo
Stürmer non era altro che pornografia. Perché mai Hitler non si liberasse di questo figuro, gli
riusciva incomprensibile: evidentemente ne aveva paura».11
Anche se la fede in Hitler e nella necessità della rivoluzione è rimasta intatta in Heidegger, tuttavia
il suo rapporto con la politica si va via via allentando. La sua filosofia si era cercata un eroe, ed era
un eroe politico. Adesso egli è nuovamente in procinto di separare le due sfere. La filosofia viene
collocata a un livello « più profondo », essa diventa l’accadimento fondamentale dello « spirito »,
che certo condiziona la politica, ma che non si risolve in essa. All’inizio del suo corso su Schelling
del 1936 dirà poi: « E dovrebbe presto risultare evidente la profonda non-verità delle parole che
Napoleone disse a Erfurt a Goethe: la politica è il destino. No, lo spirito è il destino e il destino è
spirito. Ma l’essenza dello spirito è la libertà ».12
La svolta dalla politica e il ritorno allo «spirito» si annuncia già nelle lezioni del semestre estivo
1934. Era stato annunciato il tema « Lo Stato e la scienza ». Nella prima ora di lezione si
raccoglievano in aula tutti coloro che avevano un rango e un nome: i vertici di partito, i notabili, i
colleghi; gli studenti erano una minoranza. C’era la curiosità di sapere che cosa avrebbe detto
Heidegger dopo le sue dimissioni da rettore. Queste lezioni furono un evento sociale. Heidegger si
fece strada verso la cattedra in mezzo all’uditorio accalcato, dove prevalevano le camicie brune, e
spiegò di aver cambiato il tema del suo corso: « Questo è un corso sulla logica. Logica deriva da
Logos. Eraclito ha detto... » In questo momento fu chiaro che Heidegger si apprestava a immergersi
nella sua « profondità », che egli non voleva parlare contro la politica, ma che voleva comunque
tenersi alla larga da essa. Già con le prime frasi egli oppone un rifiuto alla « chiacchiera ideologica
indisciplinata », ma anche a quel « ciarpame di formule » che la scienza borghese è solita offrire
sotto il titolo di « logica ». « La logica, per noi, è il passare in rassegna che interroga sui fondamenti
dell’essere, il luogo della problematicità. »13 Già alla seconda ora di lezione sedeva ancora fra il
pubblico solo chi era interessato alla filosofia.
È stato un inizio difficile, scrive Heidegger un anno dopo a Jaspers, ripensando ai primi semestri
dopo il rettorato: «Il mio è un [...] procedere faticosamente a tastoni; soltanto da pochi mesi ho
nuovamente raggiunto il punto di raccordo con il lavoro interrotto [...] nell’inverno ’32-33; ma si
tratta di un debole balbettio; e per il resto ho altre due spine nel cuore: il confronto con la fede delle
origini e il fallimento del rettorato; questo è ciò che veramente vorrei fosse risolto » (1° luglio
1935).14
In questo lavoro diretto a comprendere i propri impulsi religiosi e politici, gli viene in aiuto un altro
« eroe »: Friedrich Hölderlin.
Nel semestre invernale 1934-35 egli tiene il suo primo corso su Hölderlin. D’ora in poi Hölderlin
rimarrà un punto di riferimento costante del suo pensiero. In Hölderlin Heidegger vuole scoprire
che ne è di quel divino che a noi manca e di una « politica » che stia al di sopra delle faccende
quotidiane. Hölderlin, dice Heidegger, è una « potenza della storia del nostro popolo », ma essa non
è ancora veramente venuta alla luce. Le cose devono cambiare, se il popolo tedesco vuole ritrovare
se stesso. Per contribuire in tal senso Heidegger nomina la « ’politica’ nel senso più alto e autentico,
al punto che chi ottiene qualcosa su questo piano non ha bisogno di fare discorsi sul ’politico’ ».15
Quando Heidegger si rivolse a questo poeta, era in corso una Hölderlin-Renaissance. Hölderlin non
è più soltanto, come fu fino all’inizio del secolo, un poeta lirico interessante per la storia della
letteratura, il quale aveva scritto anche un curioso romanzo epistolare, Iperione, e che apparteneva
ai filelleni, come ce n’erano molti all’epoca del classicismo tedesco. Né Dilthey né Nietzsche, che
pure avevano richiamato insistentemente l’attenzione su Hölderlin, furono in grado di farlo entrare
nella coscienza del mondo tedesco. Questa impresa riuscì solo alla vigilia della prima guerra
mondiale al circolo di George e al suo esponente Norbert von Hellingrath, che scoprì e commentò
l’opera tarda di Hölderlin e diede inizio alla pubblicazione di una grande edizione compietà delle
opere. Il circolo di George vedeva in Hölderlin il geniale anticipatore del « simbolismo », ma non
un simbolismo estetizzante, bensì fermamente esistenziale. « È come se fosse stato sollevato un
sipario sul Santissimo, e si offrisse alla vista l’indicibile »16 - questo era il tono dell’entusiasmo per
Hölderlin negli anni ’20 e ’30. Max Kommerell annoverò Hölderlin fra i « poeti-guida »; in
Hölderlin, dice, ci si immedesima in un «flusso di energia tedesca».17 Presso il movimento
giovanile Hölderlin era considerato come il genio del cuore che si spezzò per la Germania.
Venivano ripetutamente citate quelle frasi dell' Iperione che dicono: « Sono parole dure, ma devo
dirle, perché questa è la verità: non posso immaginarmi un popolo più dilacerato di quello tedesco.
Puoi incontrare operai, ma non uomini; pensatori, ma non uomini; sacerdoti, ma non uomini;
padroni e schiavi, giovani e adulti, ma non uomini... Non sembra un campo di battaglia dove mani,
braccia e tutte le membra giacciono alla rinfusa, mentre il sangue vitale versato cola nella sabbia?
»18
Con il suo anelito verso una nuova totalità della vita, Hölderlin divenne un modello nel quale
identificarsi per una moltitudine di persone colte, di diversa ispirazione politica, ma egli lo fu in
modo del tutto particolare per coloro che andavano in cerca di possibilità di fare nuove esperienze
del sacro nella parola poetica. Nella sua poesia A Hölderlin, Rilke scrive:
Ah, quanto bramano i più alti spiriti, tu senza desideri
pietra su pietra l' innalzasti: e resse. Ma nemmeno
la sua rovina ti turbò.,19
La follia che lo colse diede alla poesia di Hölderlin una ulteriore autenticità: che egli fosse
impazzito non dipendeva forse dal fatto che si era spinto più in là di altri in quelle zone della vita
che sono cariche di mistero e di pericolo?
Il poeta dei tedeschi; il poeta che fu sopraffatto dalla potenza della poesia; colui che come un
ostetrico portava alla vita nuove divinità, colui che varca le frontiere e, insieme, il grande fallito. In
questi termini si stilizzava l’immagine di Hölderlin, e Heidegger vi si riallaccia.
La sua esegesi di Hölderlin ha tre capisaldi. Dopo il fallimento della sua politica di « potere »,
bisognava sondare l’essenza del potere e la gerarchia delle potenze dell’esserci. Poesia, pensiero e
politica: in che rapporto stanno fra loro?
In secondo luogo Heidegger vuole trovare con Hölderlin un linguaggio per esprimere ciò che ci
manca. Egli cita Holderlin come testimone, che ha il potere della parola, della nostra carenza di
essere (« la notte degli dei »), e come messaggero di un possibile superamento di questa carenza. In
terzo luogo egli vuole comprendere, attraverso la mediazione di Hölderlin, mediante questo « poeta
del poetare », il proprio stesso operare, il pensiero del pensare. In Hölderlin, e soprattutto nel suo
fallimento, egli rispecchia se stesso: traccia indirettamente un’immagine di sé, di come vede se
stesso e come desidera essere visto.
Nel suo corso egli commenta i due inni tardi di Hölderlin, Germania e II Reno. Come idea guida di
tutta la sua interpretazione Heidegger cita un aforisma di Hölderlin: « Per lo più i poeti si sono
formati al principio o alla fine di un periodo della storia del mondo. Con il canto i popoli escono dal
cielo della loro infanzia alla vita attiva, alla terra della cultura. Con il canto essi fanno ritorno alla
vita delle origini ».20
È la parola del poeta, dice Heidegger, ciò attraverso cui, in ciascun periodo della storia di un popolo
e della sua cultura, «esce finalmente allo scoperto quello di cui noi, in seguito, parliamo e trattiamo
nel linguaggio di ogni giorno ».
È una visione, adulatoria per i poeti, della potenza della parola poetica. I poeti danno a un popolo la
sua identità. Essi conducono al popolo le sue divinità, come fecero Omero ed Esiodo, e istituiscono
in tal modo « usanze e costumi ». I poeti sono i veri inventori della cultura di un popolo. Poiché
Hölderlin nelle sue poesie ha trattato proprio di questa potenza della poesia, Heidegger lo definisce
il « poeta del poetare ».
Ora, Heidegger pone l’atto del poetare, che istituisce cultura, in relazione con le altre grandi forme
di istituzione: l’apertura filosofica del mondo e la fondazione di uno Stato. «La tonalità emotiva
fondamentale (Grundstimmung), vale a dire la verità dell’esserci di un popolo, viene istituita
originariamente dai poeti. L’essere (Seyn) dell’ente, così rivelato, viene compreso però in quanto
essere [...] dal pensatore, e Tessere così compreso viene collocato nella verità storica determinata
facendo sì che il popolo venga condotto a se stesso in quanto popolo. Ciò accade attraverso la
creazione [...] dello Stato da parte del creatore dello Stato. »2I
Il poetare, il pensare e la politica hanno in comune che possono essere « opere » di grande potenza.
In riferimento a Hölderlin, Heidegger afferma: « Può essere che noi un giorno usciamo dalla nostra
quotidianità e dobbiamo entrare nella potenza della poesia, e che non possiamo più tornare nella
quotidianità, così come l’abbiamo lasciata».22
I poeti, i pensatori e gli statisti diventano destino per gli altri perché essi hanno quella « creatività »
per mezzo della quale viene al mondo un qualcosa che crea attorno a sé una « corte » in cui ci sono
nuove condizioni dell’esserci e nuove evidenze. Questa creazione di opere, che poi si instaurano
potentemente e magicamente nel paesaggio dell’ente, Heidegger la chiama anche « lotta ». Nel
corso Introduzione alla metafisica (Einführung in die Metaphysik), tenuto un anno dopo, Heidegger
descrive tale lotta creatrice con queste parole: « La lotta è ciò che delinea ed enuclea inizialmente
l’inaudito, quello che non è stato fino allora né detto né pensato. Questa lotta viene sostenuta, in
seguito, da chi crea: da poeti, pensatori, uomini di Stato. Essi gettano innanzi al preponderante
imporsi la massa compatta dell’opera e avvincono in questa il mondo così dischiuso ».23
Come Heidegger potesse essere «avvinto» dall’azione « creatrice » di uno Hitler, che « fondò » uno
Stato, abbiamo già potuto osservarlo. Adesso è a tema « l’ambito di potere» della poesia di
Hölderlin, per il quale vale lo stesso discorso fatto a proposito della rivoluzione nazionalsocialista.
Nella sua conferenza sull' Università nello Stato nazionalsocialista (Die Universität im
nationalsozialistischen Staat) del 30 novembre 1933, Heidegger aveva messo in guardia dal vedere
la « realtà rivoluzionaria » come qualcosa di « semplicemente presente » o meramente « fattuale ».
In tal modo non si farà mai esperienza di ciò che essa è. Bisogna entrare nella sfera di attrazione di
questa realtà e lasciarsi trasformare. Questo vale anche per Hölderlin e per tutta la grande poesia.
Essa esige una decisione: o ci si vuole esporre al suo «vortice», oppure si vogliono tenere le
distanze di sicurezza. La poesia di Hölderlin si dischiude solo a chi è deciso, e per costui può
diventare poi, al pari della politica o del pensiero, un evento rivoluzionario, una «trasformazione di
tutto Tesserci». Ma soltanto pochi vogliono essere coinvolti in questa avventura. Heidegger indaga
le tattiche per prendere le distanze di sicurezza, le quali mirano tutte a non esporsi affatto alla
potenza della parola poetica. Quando è così, la poesia viene intesa come « espressione » di
esperienze vissute e di fantasia, capace di intrattenere e buona per ampliare l’orizzonte spirituale.
Oppure la poesia come sovrastruttura ideologica, come trasfigurazione o offuscamento delle
condizioni reali. Oppure c’è un’altra rappresentazione della poesia, e qui Heidegger cita l’ideologia
nazionalsocialista: « La poesia è una funzione biologicamente necessaria del popolo ».24 Anche la
digestione, dice Heidegger con scherno, è una funzione necessaria del popolo. Questo
atteggiamento di non affrontare la sfera di potere di un fenomeno, ma di fissarla solo dall’esterno, è
definito da Heidegger l’atteggiamento di fondo « del liberalismo ». « Se qualcosa può e deve essere
definito con l’abusatissimo termine liberalismo’, è proprio questo modo di pensare. Esso si pone
fondamentalmente e fin da principio al di fuori di ciò che intende, ne fa un mero oggetto del proprio
opinare. »25
È un uso bizzarro del termine « liberalistico ». Con esso si intende il rifiuto, privo di pensieri e di
sentimenti, oppure metodico, di affidarsi al senso proprio di una cosa; ci si vuole portare « al di
sopra », « al di sotto » o « dietro » le cose, ma in ogni caso si vuole evitare di essere coinvolti « in »
esse. Con questa critica Heidegger è approdato senza avvedersene a una situazione emotiva che per
Hölderlin è il tratto caratteristico della « notte degli dei ».
Noi « uomini d’oggi »,26 dice Hölderlin, abbiamo invero «molte esperienze », nel senso cioè della
conoscenza scientifica, ma in ciò abbiamo perso la capacità di percepire le cose, la natura e le
relazioni umane nella loro pienezza e vitalità. Noi abbiamo perduto il « divino », vale a dire che lo «
spirito» si è ritirato dal mondo. Abbiamo assoggettato a noi la natura, il « cannocchiale » penetra
nelle distanze più remote dell’universo, e così noi « trascuriamo » il « sorgere festoso » del mondo
fenomenico. Dei « legami amorosi » fra la natura e l’uomo abbiamo fatto « capestri », ci siamo «
presi gioco » dei limiti di ciò che è umano e di ciò che è naturale. Siamo diventati una « stirpe astuta
», persino orgogliosa di poter vedere le cose nella loro « nudità ». E così non si « vede » più la terra,
non si « ascolta » più il canto dell’uccello, e il linguaggio fra gli uomini si è « rinsecchito ».27 Ma
tutto questo per Hölderlin significa « notte degli dei », cioè la perdita della immanente
significatività e della potenza irradiatrice immanente delle relazioni del mondo e dell’uomo.
Nella concezione di Hölderlin il poeta deve ricondurre alla parola questo mondo assolutamente
vivente, ma che intanto è tramontato. In quanto può ricordare solo ciò che è tramontato, egli è un «
poeta nel tempo della povertà ».
Il divino non è per Hölderlin una sfera dell’aldilà, ma connota una realtà trasformata nell’uomo, fra
gli uomini e in relazione alla natura. Esso è una vita aperta al mondo, potenziata, avventurosa,
intensa, desta, sia individualmente sia in generale. È il giubilo, per l’essere-nel-mondo.
Per questo divino, così come lo concepisce Hölderlin, Heidegger aveva coniato negli anni ’20 il
termine « autenticità », e ora trova per esso un nome nuovo: il « riferimento all’essere » (Seyn).
L’esserci, aveva detto Heidegger in Essere e tempo, sta sempre già in qualche riferimento all’essere
(Sein). Anche lo sfuggire nell’inautenticità fa parte di questo riferimento. Il «riferimento all’essere
(Sein)» diventa un « riferimento all’essere (Seyn) » laddove esso venga afferrato esplicitamente,
cioè vissuto « autenticamente ». D’ora in avanti Heidegger scrive essere (Seyn) con la ipsilon tutte
le volte che intende proprio quel riferimento « autentico » che divinizza in questo senso Tesserci. E
l’apertura verso il divino significa nell’esserci proprio questo: aprirsi, osare spingersi fino alla
propria abissalità e fino al miracolo del mondo.
Si potrebbe pensare che questa apertura sia in tutto e per tutto un compito del singolo esserci deciso.
Nella filosofia dell’autenticità di Essere e tempo questo aspetto individuale domina anche di fatto, e
continua a perpetuarsi nell'immagine degli eroi del poetare e del pensare che « istituiscono » le
divinità e il divino per un intero popolo. Tuttavia Heidegger sottolinea ora con maggior forza
l’aspetto storico e collettivo. Ci sono epoche storiche che favoriscono questo riferimento all’essere
(Seyn) e altre che lo ostacolano o lo rendono addirittura impossibile. La «notte degli dei» o, come
altrimenti dice Heidegger, l'« offuscamento del mondo », si posa su epoche intere. Per Heidegger
Hölderlin è così grande proprio perché, in un periodo di cesura epocale, in cui le vecchie divinità
sono scomparse e le nuove non sono ancora arrivate, è stato il solo che, in ritardo e insieme in
anticipo, ha dovuto sopportare fino in fondo il dolore di ciò che è perduto e la potenza di ciò che
viene.
Ma tardi, amico, giungiamo. Vivono certo gli dei,
ma sopra il nostro capo, in un diverso mondo.
[...]
Un ricettacolo fragile non sempre può contenerli.
Così si dice in una poesia tarda di Hölderlin, che Heidegger mette insieme con i versi della poesia
Come al giorno di festa:
Ma è nostro, o poeti,
restare a capo scoperto
sotto la tempesta del Dio,
ma afferrare con la propria mano
il raggio del Padre,
porgere al popolo il dono divino
circonfuso dal canto.28
Questa immagine della « tempesta del Dio » sul capo del poeta è commentata da Heidegger come
un « essere esposti alla strapotenza dell’essere (Seyn) »,29 e cita la lettera di Hölderlin all’amico
Böhlendorff del 4 dicembre 1801, poco prima del viaggio a Bordeaux: « Per il resto posso gioire per
una nuova verità, una veduta migliore di ciò che sta sopra di noi e intorno a noi, e ora temo che a
me succeda alla fine come al vecchio Tantalo, cui gli dei diedero più di quanto non potesse digerire
». E dopo il suo ritorno, confuso e lacerato, 5crive: « L’elemento possente, il fuoco del cielo, e la
quiete degli uomini [...] mi ha commosso profondamente, e come si dice degli eroi, posso certo dire
di me stesso che Apollo mi ha colpito» (a Böhlendorff, novembre 1802).
Hölderlin, questa è l’interpretazione di Heidegger, si è spinto lontano, forse troppo lontano,
«nell'ambito dove si esercita una minaccia complessiva dell’esserci storico-spirituale ».30
Mentre il popolo intorno a lui persiste nella « povertà dell’assenza di povertà » e perciò « non può
servirsi » del proprio poeta, quest’ultimo deve sopportare tutto questo, il dolore e la felicità che lo
schiaccia. La « tonalità emotiva fondamentale », a partire dalla quale Hölderlin vive e fa poesia, non
trova ancora alcuna risonanza nel popolo, che ha ancora bisogno di un « cambio di tonalità ». « Per
questa lotta finalizzata al cambio di tonalità di quelle tonalità emotive che ancora dominano e si
trascinano innanzi, è necessario che le primizie vengano sacrificate. Si tratta di quei poeti che nel
loro dire anticipano il futuro essere (Seyn) di un popolo nella sua storia, e che nel far ciò vengono
necessariamente trascurati. »31
« Si tratta di quei poeti », dice Heidegger, ma intende dire anche « si tratta di quei pensatori... » E in
tal modo è giunto all’autoritratto. Gli sembra infatti che anche a lui le cose siano andate come
andarono a Hölderlin. Anch’egli si era aperto alla « tempesta del Dio », anche su di lui si era
abbattuta la folgore dell’essere (Seyn), anche a lui era toccato il tormento della «povertà della non
povertà» del popolo, anch’egli ha « istituito » un’opera che non è ancora giunta realmente a
termine. « Ma essi non possono servirsi di me », cita Heidegger con duplice significato, e continua
poi, facendo riferimento alla rivoluzione attuale, con queste parole: « Per quanto tempo ancora i
tedeschi continueranno a trascurare queste parole feconde? Se la grande svolta del loro esserci non
si fa evidente, che cos’altro dovranno far loro sentire le loro orecchie?»32
Ecco tornare « la grande svolta », la rivoluzione metafisica dell’irruzione nazionalsocialista. E
questo dovrebbe essere in realtà il momento in cui Hölderlin, questo « istitutore » di un nuovo «
essere » (Seyn), trova finalmente ascolto. Hölderlin ha preceduto il popolo nell’avventura «di osare
ancora una volta accostarsi agli dei per creare così un mondo storico».33
Ancora una volta dunque Heidegger festeggia la grande « irruzione ». Se questa è l’ora cosmico-
storica di Hölderlin, come non potrebbe essere anche l’ora di Heidegger! Ma Heidegger sa, dopo il
fallimento del suo rettorato, che l’azione politica immediata, «l’organizzare e amministrare», non è
cosa per lui. Il suo compito è quello di essere al servizio dell’« irruzione » « per mezzo di un’altra
metafisica, cioè di una nuova esperienza fondamentale dell’essere ».34
Quali siano le grandi tendenze cosmico-storiche che minacciano e che potrebbero far soccombere
questa grande « irruzione », Heidegger lo descrive nel semestre successivo nel corso intitolato
Introduzione alla metafisica. Qui egli si avventura nel campo di una diagnosi filosofica dell’epoca
attuale. Al centro delle sue considerazioni egli pone quello che chiama il « depotenziamento dello
spirito ».35
Lo spirito viene ridotto in primo luogo a ragione strumentale o, come dice Heidegger, a «
intelligenza ». Si tratta solo della «considerazione e valutazione, in senso teorico e pratico, di
determinate cose, in ordine alle loro possibili modificazioni o radicali innovazioni ». Questa «
intelligenza » calcolante viene posta in secondo luogo al servizio di una visione del mondo, di una
dottrina ideologica. A questo proposito egli nomina il marxismo, il fanatismo tecnico, ma anche il
razzismo di popolo. « Poco importa che questa intelligenza, così asservita, sia rivolta alla
regolamentazione e al dominio dei mezzi materiali di produzione (come nel marxismo) o in
generale alla sistematizzazione e alla elaborazione razionale di tutto ciò che è già dato e posto
(come nel positivismo), o si attui nel dirigismo organizzativo di un popolo concepito come massa
vivente e come razza»;36 in ogni caso le «forze dell’accadere spirituale » perdono la loro libera
motilità e la loro dignità che è fine a se stessa. Esse perdono così anche la loro apertura per il
richiamo dell’essere. La mobilitazione totale, economica, tecnica e razzistica, ha come conseguenza
un «oscuramento del mondo », cui Heidegger fa riferimento con espressioni che ricordano le
formule: « la fuga degli dei, la distruzione della terra, la riduzione dell’uomo a massa, il sospetto
gravido d’odio contro tutto ciò che è creativo e libero».37
In questo panorama a tinte fosche Heidegger inscrive anche la realtà tedesca del 1935. Lo spirito
dell’insurrezione del 1933 è minacciato: esternamente dall’America (mobilitazione tecnica) e dalla
Russia (mobilitazione economica). «Questa Europa, in preda a un inguaribile accecamento, sempre
sul punto di pugnalarsi da se stessa, si trova oggi nella morsa dalla Russia da un lato e dall’America
dall’altro. Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa:
la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo
massificato. In un’epoca in cui anche l’ultimo angolo del globo terrestre è stato conquistato dalla
tecnica ed è diventato economicamente sfruttabile, in cui qualunque evento in qualsiasi luogo e
momento è divenuto rapidamente accessibile, [...] in cui il tempo non è più che velocità, istantaneità
e simultaneità mentre il tempo come storicità autentica (Geschichte) è del tutto scomparso dalla
realtà di qualsiasi popolo; in un’epoca in cui un pugile è considerato un eroe nazionale, in cui i
milioni di uomini delle adunate di massa costituiscono un trionfo; allora, proprio allora,
l’interrogativo: a che scopo? dove? e poi? »38
Ma lo spirito dell’insurrezione è minacciato anche dall’interno, dal razzismo (« dirigismo
organizzativo di un popolo concepito come massa vivente e come razza »).
Nella rivoluzione nazionalsocialista egli aveva visto una forza di resistenza contro l’evoluzione
funesta della modernità. Essa costituiva per lui «l’intima verità e grandezza di questo movimento
».39 Ma nel 1935 egli vede il pericolo che i migliori impulsi di questo movimento si esauriscano e
cadano vittima della « desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici
dell’uomo massificato».40 In questa situazione il filosofo deve conservare e difendere l’originaria
verità dell’insurrezione rivoluzionaria. Egli deve però armarsi di pazienza. « La filosofia è per sua
essenza inattuale: essa appartiene infatti a quel genere di cose il cui destino è di non trovare mai una
immediata risonanza nel presente, e anche di non doverla mai incontrare. »4I
Ma Heidegger non spende nemmeno una parola per dire che egli stesso poco tempo prima aveva
ceduto alla tentazione di voler destare una « risonanza immediata ». In ogni caso, dopo la fallita
presa di potere della filosofia, Heidegger fa ritorno alla filosofia solitaria che, sull'esempio di
Hölderlin, cerca di allontanare, combattendo da sola, il « pericolo epocale dell’oscuramento del
mondo». In occasione della sua fallita escursione nel terreno della politica questo lo ha imparato: «
La preparazione del vero » non ha luogo in una notte.
Il « manifestarsi dell’essere (Seyn) » avviene già ora talvolta nella filosofia, nella sua filosofia, ma
prima che questo evento possa irradiarsi in tutta la società e la trasformi fin dalle fondamenta,
passerà ancora « molto tempo », che proprio per questo rimane un « tempo della povertà ». « In
questo luogo della miseria metafisica » gli spiriti devono resistere, tanto che si tratti di Hölderlin o
di Heidegger, per tenere vivo il ricordo di ciò che ancora manca.
Heidegger resta dunque fedele alla sua fantasia filosofica, ma comincia a liberarla dalla sua
implicazione con la politica nazionalsocialista.
Il nazionalsocialismo realmente esistente diventa per lui sempre più un sistema della rivoluzione
tradita, che per lui era invece una rivoluzione metafisica, un « manifestarsi dell’essere (Seyn) » sul
terreno di una comunità di popolo. Così l’autentico nazionalsocialista, quale Heidegger continua a
sentirsi, deve diventare un pensatore nel tempo della povertà.
Del fallimento del suo rettorato Heidegger fa la cosa migliore di tutte: si inscrive nella propria storia
dell’essere come un araldo che è giunto troppo presto e che perciò incorre nel pericolo di essere
stritolato e persino rifiutato dal proprio tempo. Un fratello di Hölderlin.
17. L’epoca dell’immagine del mondo e della mobilitazione totale. Heidegger sulla via del ritorno.
Il porsi-in-opera della verità. Il pragmatismo festoso. Fondatori di Stati, artisti, filosofi. La critica
del pensiero di potenza. Nietzsche e Heidegger: chi supera chi? Costruire zattere in mare aperto.
Nelle ultime elezioni libere, quelle del 6 novembre 1932, i nazionalsocialisti avevano ottenuto il
33,5 per cento dei voti. Nelle elezioni del 5 marzo 1933, dopo l’incendio del Reichstag,
l’eliminazione della kpd e la repressione in massa di quanto restava dell’opposizione, la nsdap
continuava a non avere dalla sua parte la maggioranza del popolo. Nelle elezioni del 12 novembre
1933, quando ci fu una lista unica, legata a un plebiscito per l’uscita dalla Società delle Nazioni, il
92 per cento dei voti furono per la nsdap. Questo risultato elettorale non può certo aver rispecchiato
esattamente lo stato d’animo della popolazione: in quel momento l’adesione a Hitler non era ancora
così grande. Ma bisogna supporre che alla fine degli anni ’30 la stragrande maggioranza del popolo
appoggiasse interamente e in ogni suo aspetto la politica di Hitler. E ciò non perché il terrore,
l’allineamento e la repressione avessero avuto un effetto così potente, ma perché a quel tempo la
politica di Hitler si era rivelata come un successo agli occhi della stragrande maggioranza. Il 28
aprile 1939 Hitler fa un riassunto di questi successi in un suo grande discorso: « Io ho superato il
caos che c’era in Germania, ho ripristinato l’ordine, la produzione della nostra economia nazionale
ha avuto un’ascesa incredibile in tutti i comparti [...] Sono riuscito a reinserire completamente nel
quadro delle produzioni utili quei sette milioni di disoccupati che stavano a cuore a noi tutti [...] Io
ho unito il popolo tedesco non solo sul piano politico, ma l’ho anche armato militarmente, e inoltre
ho cercato di fare accantonare foglio dopo foglio quel trattato che nei suoi 448 articoli contiene la
violenza più per
fida che sia mai stata perpetrata ai danni di popoli e uomini.
Io ho restituito al Reich le province che ci erano state sottratte nel 1919, ho strappato milioni di
tedeschi alla disperazione più profonda, riconducendoli alla patria, ho ricostituito l’unità millenaria
dello spazio vitale tedesco e mi sono [...] sforzato di fare tutto ciò senza versare sangue e senza
arrecare al mio o ad altri popoli la sofferenza della guerra. Ho creato tutto ciò [...] come quando
ventuno anni fa ero ancora un lavoratore sconosciuto e un soldato del mio popolo, con le mie sole
forze ».1
Su questo bilancio di successi poteva essere d’accordo, punto per punto, lo stesso Heidegger. Egli
vedeva con favore l’unità politica interna del popolo ottenuta con metodi dittatoriali. Disprezzando
la democrazia di Weimar, egli non trovò affatto scandalosa l’eliminazione dell’opposizione politica.
Contro il principio di chi comanda e chi obbedisce Heidegger non aveva niente da obiettare. Il
regime nazionalsocialista aveva ridato il lavoro a molte persone e le aveva rese così « capaci di
esserci » (come dice Heidegger, in una conferenza del febbraio 1934). L’uscita dalla Società delle
Nazioni e l’abrogazione unilaterale del trattato di Versailles erano per Heidegger la dimostrazione
della volontà di autoaffermazione del popolo, il soddisfacimento « di quella esigenza originaria
dell’esserci di conservare e salvare la sua propria essenza». La politica hitleriana delle annessioni
trovava il suo appoggio; per lui era uno scandalo « che diciotto milioni di tedeschi appartengano, sì,
al popolo ma, vivendo al di fuori dei confini del Reich, non appartengano anche al Reich ».2 La
politica interna ed estera del regime corrispondeva alle aspettative di Heidegger, che non furono mai
delineate con chiarezza.
Il nazionalsocialismo era « la via tracciata per la Germania»; si trattava «soltanto di ’tener duro’ il
tempo necessario»,3 come disse a Karl Lowith a Roma nell’estate del 1936. Ma questa sua
approvazione era tornata a manifestarsi sotto forma di espressione di opinioni politiche. Il pathos
metafisico era sparito. Gli era rimasta appunto l’opinione che i nazionalsocialisti facessero
un’ottima politica - eliminazione della disoccupazione, pace sociale, revisione del trattato di
Versailles etc. Nel frattempo gli risultava chiaro che quella visione della rivoluzione metafisica, che
lo aveva attratto nell’arena politica, non era divenuta realtà. E mentre cerca di recuperare « andando
tentoni », come scrive a Jaspers il 1° luglio 1935, il filo del « lavoro interrotto » nel semestre
invernale 1932-33, riesce sempre meno a chiudere gli occhi davanti all’idea che il passaggio
dall’epoca moderna all’epoca nuova rimanga appannaggio, per il momento, solo del pensiero
solitario, di un pensiero cioè che voglia mettersi sulle tracce della sconvolgente dinamica dell’epoca
moderna e quindi del motivo profondo che sta alla base del fallimento delle proprie ambizioni
politico-filosofiche. Evidentemente egli aveva sottovalutato questa dinamica quando sentì la
rivoluzione nazionalsocialista come una profonda cesura epocale. Gli anni fra il 1935 e il 1938 sono
dedicati al lavoro di reinterpretazione. Ancora nel 1935, nel suo corso sulla Metafisica
(Metaphysik), egli aveva riconosciuto al nazionalsocialismo « intima verità e grandezza », volendo
così definire il suo aspetto di resistenza contro il mondo moderno. Durante gli anni successivi, in
cui egli esplora la dimensione infinita del progetto della modernità, la sua ottica si modifica, e il
nazionalsocialismo non gli appare più come una uscita dalla modernità, ma come una sua
espressione particolarmente coerente. Scopre che lo stesso nazionalsocialismo è il problema di cui
aveva ritenuto che fosse la soluzione. Vede imperversare nel nazionalsocialismo il furore della
modernità: la corsa pazza del tecnicismo, il dominio e l’organizzazione, cioè l’inautenticità sotto
forma di mobilitazione totale.
Peraltro Heidegger non ha timore di sostituire questa visione successiva alle sue precedenti
affermazioni sul movimento. È quello che succede nel 1953 in occasione della pubblicazione del
corso sulla Metafisica del 1935. Qui egli aggiunge fra parentesi, vicino al passo sull’« intima verità
e grandezza del movimento », una annotazione in cui si dice che era intesa la grandezza di ciò che è
terribile, cioè l’« incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno». Come vedremo subito,
questa è una interpretazione che Heidegger matura soltanto dopo il corso sulla Metafisica, nelle
lezioni su Nietzsche, nelle sue annotazioni filosofiche segrete, i Contributi alla filosofia (Beiträge
zur Philosophie), e nella conferenza La fondazione dell'immagine moderna del mondo mediante la
metafisica, apparsa dopo la guerra con il titolo L'epoca dell'immagine del mondo, uno degli scritti di
Heidegger che ha avuto maggiore risonanza.
Fra il 1935 e il 1938 Heidegger rielabora dunque la sua delusione per la mancata realizzazione sul
piano politico della rivoluzione metafisica; egli cerca di comprendere la potenza sconvolgente del
mondo moderno, e di comprendere che cosa sia stato a impossessarsi di lui stesso, e come si possa
tornare a liberarsi da questa presa.
Che cos’è questo moloc, questo mondo moderno, di fronte al quale le speranze politico-filosofiche
di Heidegger si sono infrante e che lo costringe a cercare nuovamente asilo nel pensiero solitario?
Nel saggio L’epoca dell'immagine del mondo egli descrive il mondo moderno con le immagini della
mobilitazione totale. Si richiama a Ernst Jünger, senza tuttavia citarlo espressamente. La tecnica
meccanica, la scienza e la ricerca si sono unite a formare un potente sistema, un sistema fatto di
lavoro e di bisogni. Il pensiero tecnico domina non solo la ricerca e la produzione in senso stretto,
ma anche l’atteggiamento dell’uomo verso se stesso, verso gli altri e verso la natura è quello di chi
dispone tecnicamente. L’uomo interpreta se stesso mediante concetti di disponibilità tecnica. Ciò
vale anche per l’arte che viene annessa, come «produzione artistica», all’universo produttivo
dell’epoca moderna. La cultura nel suo complesso è considerata un patrimonio di « valori » che
possono essere gestiti, calcolati, instillati e pianificati. Fra questi valori culturali ci sono anche le
esperienze e le tradizioni religiose, che vengono anch’esse ridotte al rango di mezzo per garantire la
consistenza del tutto. Con questa strumentalizzazione della trascendenza viene raggiunto lo stato di
completa « sdivinizzazione ».4
Il mondo moderno è dunque per Heidegger: tecnica meccanica, scienza strumentale, impresa
culturale e sdivinizzazione. Ma questi sono solo i sintomi importanti e appariscenti. Alla base c’è un
« atteggiamento metafisico fondamentale», una visione dell’ente nel suo complesso che determina
tutti i settori della vita e tutte le attività. Si tratta di una decisione su che cosa si debba considerare
ente e che cosa sia importante nel vivere. Questo atteggiamento fondamentale è definito da
Heidegger per mezzo della trasformazione dell’uomo in « soggetto », per il quale il mondo diventa
la quintessenza di « oggetti », cioè di puri oggetti reali e possibili che possono essere padroneggiati,
adoperati, consumati, rifiutati o eliminati. L’uomo si alza in piedi, non fa più esperienza di sé come
inserito in un mondo, bensì questo mondo è qualcosa che gli sta di fronte e che egli fissa nell’«
immagine del mondo». «L’uomo diviene il centro di riferimento dell’ente come tale. »5
Ma non è forse sempre stato così? No, dice Heidegger, un tempo le cose stavano diversamente e
dovranno tornare un giorno a stare diversamente, pena il declino.
Le cose stavano diversamente: nell’antica Grecia. In questa conferenza Heidegger offre una
esposizione concisa della sua immaginazione sul modo « originario » di abitare nel mondo. Per la
grecità antica (e quindi anche per il nostro futuro, se vogliamo ancora averne uno) vale quanto
segue: «L’ente è il sorgente e l’aprentesi, ciò che, come essente-presente, sopravviene all’uomo
quale essente presente, e gli sopravvive come all’ente che si apre all’essente-presente nel mentre lo
apprende. L’ente non diviene essente per il fatto che l’uomo lo intuisca nel corso della
rappresentazione [...] È piuttosto l’uomo a essere guardato dall’ente, cioè dall’autoaprentesi
all’esser-presente in esso raccolto. Guardato dall’ente, compreso e mantenuto nell’aperto dell’ente,
sorretto da esso, coinvolto nei suoi contrasti e segnato dal suo dissidio: ecco l’essenza dell’uomo nel
periodo della grandezza greca ».6
Questa esposizione concisa non è così chiara da rendere superflua l’aggiunta di un commento. Per il
pensiero greco il mondo è uno scenario dove l’uomo compare in mezzo ai suoi simili e alle cose per
agire e vedere in esso attivamente e, insieme, per subire passivamente l’azione e la visione. Il luogo
dell’uomo è una posizione di visibilità in un duplice senso: egli mostra se stesso (e solo se si mostra
egli è davvero, altrimenti è nella caverna del privato, è un « idiota ») ed è quell’essere al quale gli
altri enti possono mostrarsi. L’« apparenza» non è per il pensiero greco una modalità deficitaria
dell’essere. Infatti l’essere è apparenza, e nient’altro. Soltanto ciò che appare, è. Perciò per Platone
l’essere sommo era anch’esso sempre consegnato, come idea, al vedere. L’uomo veniva concepito
come un essere che condivide con il resto del mondo il vedere e il potersi-mostrare. Non soltanto
l'uomo, bensì anche il mondo nel suo complesso vuole apparire; esso non è solo ciò che è guardato
passivamente, non è solo il materiale per la nostra vista e per i nostri interventi. Nel pensiero greco
il mondo per così dire ci guarda a sua volta. L’uomo esprime con particolare purezza il principio
cosmico che spinge ogni cosa a mostrarsi e per questo è il punto di massima visibilità in senso sia
attivo sia passivo. Per questo l’uomo greco ha inventato anche il teatro, che è a sua volta il
palcoscenico del mondo. Era il cosmo, nel suo complesso, ad avere per lui natura di palcoscenico.
L’uomo è il luogo aperto dell’essere.
In tali condizioni, questa è la convinzione di Heidegger, c’è un essere più ricco, più intenso, c’è
un’ampiezza aperta. Al contrario, l’uomo moderno si trova a essere prigioniero dei suoi progetti, ed
esperisce ciò che gli succede come anomalia, incidente, intervento del caso. In tal modo il mistero
scompare dal mondo, scompare la ricchezza, l’abisso, il destino, la Grazia. « Accade infatti che là
dove l’ente sia divenuto oggetto della rappresentazione, perda in certo modo il suo essere. »7
La storia heideggeriana dell’essere si articola così: la grecità agisce su un palcoscenico aperto, dove
l’uomo e il mondo vengono all’apparire e mettono reciprocamente in scena le loro tragedie e
commedie, nella consapevolezza della strapotenza e della sovrabbondanza dell’essere, che rimane
misterioso e nascosto. In epoca cristiana l’essere è custodito in Dio, cui ci si fa incontro con
riverenza, mentre però si va già alla ricerca con curiosità di analogie e corrispondenze fra il Creator
e il creatum e infine si cade vittima dell’orgoglio di ripetere ciò che è stato creato in ciò che si è
creato da sé. Ma il mondo moderno si è risolto interamente nell’« aggressione».8 «
Nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo
raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano della uniformità
organizzata e per installarsi in essa. Questa uniformità è infatti lo strumento più sicuro del dominio
completo, cioè tecnico, della Terra. »9
Riprendendo e rovesciando i pensieri di Max Weber sul mondo disincantato dei moderni, Heidegger
parla del nostro «incanto» determinato dal mondo della tecnica. La storia moderna si muove sotto
l’azione di un incantesimo. C’è una via d’uscita?
Nel 1933 Heidegger aveva creduto che l’uscita collettiva dal guscio d’acciaio del mondo moderno
fosse diventata una realtà storica. Cinque anni dopo egli constata che questa opportunità di una
svolta fondamentale non c’è stata e che non ci potrà essere nemmeno in seguito sul piano politico.
Egli intende ora la rivoluzione, e quello che ne è conseguito, come un processo che soggiace ancora
interamente all’incantesimo moderno della mobilitazione totale, senza svolgere una riflessione
autocritica sul proprio ruolo personale.
La sua diagnosi è la seguente: il mondo moderno entra nello stadio del confronto più duro fra le
diverse concezioni di dominio del mondo che si contendono il campo: l’americanismo, il
comuniSmo, il nazionalsocialismo. I rispettivi « atteggiamenti fondamentali » vengono evidenziati
nettamente e decisi con forza, ma tutto ciò accade sul terreno comune del mondo moderno e del suo
incanto da parte della tecnica. « Per questa lotta [...] l’uomo pone in gioco la potenza illimitata dei
suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tutte le cose. »10
Il « calcolo » sta per americanismo, la « pianificazione » per comuniSmo e il « controllo » per
nazionalsocialismo.
Dalla prospettiva globale di Heidegger, critico della modernità, che nelle sue lezioni su Nietzsche
chiama anche « l’epoca della compiuta mancanza di senso »," tutto ciò non è altro che un unico «
contesto di sventure », come dirà in seguito Adorno in un altro gergo.
Se si guarda a lungo nel buio, si scopre sempre qualcosa dentro di esso. Nell’oscurità generale
Heidegger si sforza di evidenziare delle differenze. Il mondo moderno è, sì, nel suo complesso una
« ascesa del soggetto », ma fa differenza se « l’uomo vuole e deve essere un io ridotto alla propria
gratuità e rimesso al proprio arbitrio o un ’noi’ nella società; se vuole e deve essere isolato o far
parte di una comunità; se vuole e deve essere una persona nell’ambito della comunità o il semplice
membro di un gruppo nella ’corporazione’; se vuole e deve esistere come Stato, nazione e popolo o
come umanità generale dell’uomo moderno; e tutto ciò se vuole e deve esserlo come quel soggetto
che esso, nella sua essenza moderna, già è ».12
È evidente quale sia la preferenza di Heidegger. Egli ce lo dice con sufficiente chiarezza là dove
parla, dopo poche frasi, della « inconsistenza del soggettivismo inteso come individualismo ». Il «
noi », la « personalità nella comunità » e il «popolo» - queste sono le forme dell’essere soggetto
meno corrotte di tutte nel mondo moderno. E in tal modo egli sanziona i propri intrighi politici,
anche se non nel senso inteso originariamente di una rivoluzione metafìsica, ma come quell’opzione
che risulta in fin dei conti migliore nella generale inconsistenza del mondo moderno. Ma
naturalmente nemmeno questo è il « giusto », ciò di cui c’è bisogno.
Heidegger vuole prevenire i fraintendimenti. Non si tratta di «dire di no a un’epoca». Un pensiero
che si sclerotizza sulla « pretesa di potere della negazione » rimane incatenato a ciò che nega e
quindi perde la sua forza di apertura. Non si tratta nemmeno di una mistica « astorica ». L’essere
dell’ente, che si apre al pensiero, non è un Dio senza mondo. Esattamente al contrario: questo
pensiero vuole riconquistare una prospettiva in cui il mondo torni a diventare uno spazio dentro il
quale, come dice Heidegger nelle lezioni del 1935 sulla Metafisica, « ogni singola cosa: un albero,
una montagna, una casa, un grido d’uccello, vi perde completamente il proprio carattere
insignificante e abituale ».13
Quanto questo pensiero sia vicino all’arte, Heidegger ce lo spiega nella sua conferenza L’origine
dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes), tenuta per la prima volta nel 1935. Qui egli
descrive, sull’esempio di un dipinto di van Gogh, che rappresenta le scarpe scalcagnate dell’artista
(e che Heidegger ritiene erroneamente essere scarpe da contadino), il modo in cui l’arte conduce le
cose all’apparenza, sicché esse perdono la loro « indifferenza » e « consuetudine ». L’arte non
descrive, ma rende visibile. Ciò che essa solleva a opera si racchiude in un mondo proprio, che
conserva la sua trasparenza per il mondo in generale, in modo tale però che l’atto che crea un
mondo diviene esperibile come tale. Così l’opera si pone al tempo stesso come una forza donatrice
di senso, che « mondeggia », e attraverso la quale l’ente diventa «più ente ». Perciò Heidegger può
dire che l’essenza dell’arte «spalanca, nel mezzo dell’ente, un luogo aperto, nella cui apertura ogni
cosa è diversa dall’abituale ». 14
L’opera d’arte è anche qualcosa di prodotto. Come delimita Heidegger l'essere-prodotto dell’arte
dalla produzione tecnica analizzata nel saggio sull' Immagine del mondo?
Per connotare la differenza, Heidegger introduce il concetto di « Terra ». La « Terra » è la natura
impenetrabile, autosufficiente. «La Terra è l’autochiudentesi per essenza.»15 L’« oggettivazione
tecnico-scientifica » vuole penetrare la natura, strapparle il segreto del suo funzionamento. Ma
lungo questa via noi non capiremo mai ciò che essa è. C’è questo stare-in-sé della natura, questo
suo modo di sottrarsi a noi. Fare propriamente esperienza di questa «sottrazione» significa aprire se
stessi all’affascinante chiusura, alla « terrosità » della natura. Questo è ciò che cerca l’arte,
nient’altro. Possiamo determinare il peso di un sasso, possiamo scomporre in onde
elettromagnetiche la luce colorata; ma in queste determinazioni non abbiamo dischiuso l’essere
pesante di quel peso, e lo splendore di quel colore. « La Terra destina al fallimento ogni tentativo di
penetrare in essa.»16 L’arte invece rende visibile l’« indischiudibilità »'7 della Terra, essa produce
qualcosa cui altrimenti non perviene alcuna rappresentazione; essa dischiude uno spazio, in cui si
può mostrare proprio « l’autochiudersi » della terra. Essa manifesta un mistero senza intaccarlo.
L’arte non si limita a rappresentare un mondo, bensì dà forma allo stupore, al terrore, alla gioia,
all’indifferenza nei confronti del mondo. L’arte racchiude ciò che è proprio in un mondo a sé stante;
come dice Heidegger: essa « istituisce » un mondo che può opporsi per un momento alla generale «
sottrazione e disgregazione del mondo ». Questo aspetto di creazione di un mondo, e quindi la
particolare potenza dell’arte, è ciò che conta di più. Ad esempio il tempio greco. Per noi esso è oggi
solo un monumento della storia dell’arte, mentre un tempo fu un centro di riferimento intorno al
quale si organizzava la vita di una comunità, che lo riempiva di senso e di significato. « Il tempio, in
quanto opera, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e
morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso
dell’essere umano nel suo destino. »18 In tal modo il tempio dona all’uomo la « visione di se
stesso».19 In questa potente manifestazione l’opera d’arte istituisce il « Dio » della comunità, la sua
più alta attestazione e la sua autorità che conferisce senso. Perciò Heidegger chiama l’arte anche un
« porsi in opera della verità ».20 Da questo punto di vista egli istituisce un parallelo, come già aveva
fatto nel corso su Hölderlin, fra l’arte, il pensiero e 1’« azione che fonda uno Stato ».
Si tratta qui di un pragmatismo festoso, che in primo luogo fonda la storicità delle « verità »
istituite: esse possono essere conservate solo per un certo tempo. In secondo luogo le «verità» non
sono se non nelle opere. «L’istituzione della verità nell’opera è una produzione [traente fuori] un
ente che prima non era ancora e che, successivamente, non sarà mai più. »21
Quando Heidegger descrive la potenza originaria delle verità istituite, si osserva che
quell’eccitazione del 1933, quando egli visse la rivoluzione nazionale come opera d’arte totale
dell’azione che fonda uno Stato, non si è ancora esaurita. «Il porsi in opera della verità apre il
prodigioso, rovesciando l'ordinario e ciò che è mantenuto come tale. La verità, aprentesi nell’opera,
non trova in ciò che è durato finora né fondamento né giustificazione. Ciò che è durato finora non
trova nell’opera che la confutazione della sua realtà esclusiva.»22 Queste frasi si attagliano, dal
punto di vista di Heidegger, tanto all’opera d’arte totale politica, quella della rivoluzione, quanto a
un tempio greco, a una tragedia di Sofocle, a un frammento di Eraclito o a una poesia di Hölderlin.
Ogni volta si tratta di un’azione creativa, che traspone l’uomo in un rapporto modificato rispetto
alla realtà; egli conquista un nuovo orizzonte, un nuovo riferimento all’essere. Tuttavia questo atto
fondativo è soggetto alla legge dell’invecchiamento e dell’assuefazione. Ciò che è stato aperto torna
a richiudersi. Era un’esperienza che Heidegger aveva fatto soprattutto nella rivoluzione politica. « Il
principio è ciò che vi è di più inquietante e di più violento. Ciò che viene in seguito non rappresenta
già uno sviluppo ma una trivializzazione conseguente all’allargarsi, un non potersi mantenere in se
stesso dal principio, un immiserimento e insieme una esagerazione del principio.»23 Così l’uscita
iniziale dal mondo moderno è giunta a un punto morto, e rimane un compito riservato al pensiero,
in alleanza con la poesia, quello di mantenere aperto l’« orizzonte »24 per un riferimento del tutto
diverso all’essere. Per indicare in che cosa consiste questo assolutamente altro, Heidegger conia nel
saggio sull' Immagine del mondo la formula del superamento dell'« esser-soggetto », più
precisamente: della mutata forza del pensiero « che l’esser-soggetto da parte dell’umanità non è
stato e non sarà mai l’unica possibilità dell’essenza iniziale dell’uomo storico ».25
Ma qui Heidegger incontra notevoli difficoltà: il superamento dell’esser-soggetto deve essere
dischiuso attraverso un poetare e pensare che scaturisce dalla volontà di realizzare un’opera. Ma
l’opera è espressione di una disposizione estremamente attivistica. Che cosa fanno infatti i poeti e i
pensatori? « Essi gettano innanzi al preponderante imporsi la massa compatta dell’opera e in essa
bandiscono il mondo così dischiuso. »26 La volontà heideggeriana di realizzare un’opera non è forse
un potenziamento particolarmente estremo della soggettività? Non è fin troppo facile identificare
questa volontà di opera con la volontà di potenza di Nietzsche, anch’essa intendibile come un
potenziamento della soggettività? Non si tratta in entrambi i casi di presunzioni soggettive e di
pretese di potere di contro all’imperversante nichilismo moderno, diagnosticato da entrambi?
Heidegger, che aveva fatto esplicitamente propria nel discorso di rettorato la diagnosi nietzscheana
« Dio è morto », è del tutto consapevole della sua vicinanza a Nietzsche. Nel saggio sull'Immagine
del mondo egli vede in lui un pensatore che sarebbe quasi, ma solo quasi, riuscito nell’intento di
oltrepassare il mondo moderno. In questa sede egli riassume un pensiero centrale delle sue lezioni
su Nietzsche, tenute a partire dal 1936: Nietzsche è rimasto bloccato nella riflessione moderna sui
valori. Quell’epoca che egli voleva oltrepassare aveva avuto in fin dei conti partita vinta su di lui e
gli aveva guastato i suoi pensieri migliori. Heidegger vuole comprendere Nietzsche meglio ancora
di quanto Nietzsche stesso si sia compreso. Egli vuole superarlo sul cammino verso un nuovo
pensiero dell’essere. E qui non può sottrarsi al confronto con l’assunzione di Nietzsche da parte di
ideologi del nazionalsocialismo come Alfred Baeumler. Tale assunzione era messa in discussione
perfino dai più incalliti ideologi nazisti. Ernst Krieck, ad esempio, mette sarcasticamente in guardia
da una simile adozione di Nietzsche: « Tutto sommato Nietzsche era nemico del socialismo, nemico
del nazionalismo e nemico del pensiero razziale. Se si prescinde da questi tre orientamenti spirituali,
egli avrebbe potuto essere un nazista perfetto »,27 Arthur Drews, professore di filosofia a Karlsruhe,
nel 1934 si mostra addirittura indignato di questa Nietzsche-Renaissance. Nietzsche è per lui un «
nemico di tutto ciò che è tedesco »,28 che prende partito a favore dell’educazione del « buon
europeo », attribuendo addirittura agli ebrei « un ruolo-guida nella fusione di tutte le nazioni ».
Nietzsche è poi un individualista convinto, cui niente è più estraneo « del principio nazionalistico:
l’utilità comune precede quella individuale ». Perciò dovrebbe « dopo tutto ciò risultare persino
incredibile che si faccia di Nietzsche il filosofo del nazionalsocialismo, dato che egli predica [...]
proprio in tutte le cose il contrario del nazionalsocialismo ». Il fatto che ciò continui a verificarsi ha
la sua « causa principale [...] certo nel fatto [...] che oggi la maggior parte di coloro che parlano di
Nietzsche sono soliti beccare soltanto l”uvetta’ dalla torta della sua 'filosofia’ e di fronte al suo
modo di scrivere aforistico non ricevono assolutamente alcuna immagine chiara dell’insieme dei
suoi pensieri ».29
Fu Alfred Baeumler, con il suo libro Nietzsche, filosofo e politico (1931), che conobbe un enorme
successo, a compiere il gioco di prestigio sia di beccare soltanto l’« uvetta », sia di tenere d’occhio
un ben preciso « insieme di pensieri ». Egli saccheggia la filosofia della volontà di potenza e gli
esperimenti nietzscheani con il biologismo del proprio tempo. Il darwinismo delle potenze vitali,
l’idea della razza dei dominatori e dell’impulso formatore per il quale i conglomerati umani
diventano materiale plastico, l’abrogazione della morale a opera del decisionismo vitalistico - sono
questi gli elementi dai quali Baeumler progetta la propria filosofìa di Nietzsche, per la quale egli
peraltro non è in grado di servirsi della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale. «In verità», scrive,
«questo pensiero, visto a partire dal sistema di Nietzsche, è privo di importanza.»30 Con Nietzsche
Baeumler vuole mettere sotto processo la metafisica tradizionale: non c’è alcun mondo
sovrasensibile di valori e idee, e naturalmente non c’è nemmeno nessun Dio, c’è solo un
fondamento istintuale. Baeumler ha bisogno solo di radicalizzare l’interpretazione fisiologica di
Nietzsche, per farne risultare infine i pensieri della « razza » e del « sangue ».
Effettivamente, la mistica di sangue e razza è una delle possibili conseguenze della volontà di
potenza intesa in senso fisiologico; anche Heidegger la pensa così, sebbene a differenza di
Baeumler giudichi negativamente questa conseguenza: « Per Nietzsche la soggettività è in modo
incondizionato in quanto soggettività del corpo, cioè degli istinti e delle passioni, ossia della volontà
di potenza [...] Pertanto, l’essenza incondizionata della soggettività si dispiega necessariamente
come la brutalìtas della bestialitas. Alla fine della metafisica sta la tesi: homo est brutum bestiale. Il
fatto che Nietzsche parli della ’bestia bionda’ non è una esagerazione occasionale, ma è il
contrassegno e il termine distintivo di un contesto nel quale egli sapeva di trovarsi, senza scorgerne
i riferimenti storico-essenziali ».3I
L’esaltazione della « bestia bionda » è per Heidegger la conseguenza nichilistica della «sollevazione
del soggetto».
Lo stesso Heidegger aveva dovuto subire accuse di «nichilismo» da parte degli ideologi nazisti. Nel
1934 Krieck scrive, come già citato: « Il senso di questa filosofia è un esplicito ateismo e nichilismo
metafisico, altrimenti sostenuto nel nostro contesto da parte dei letterati ebrei, e quindi è un
fermento di disgregazione e dissoluzione del popolo tedesco ».32 Nei corsi su Nietzsche Heidegger
ritorce le accuse e cerca di provare che la volontà di potenza, cui si richiamano gli ideologi nazisti,
non è oltrepassamento ma compimento del nichilismo, senza che gli adepti di Nietzsche se ne siano
neppure accorti. Così i corsi su Nietzsche diventano un attacco frontale alla metafisica degradata del
razzismo e del biologismo. Heidegger riconosce la parziale utilizzabilità di Nietzsche per
l’ideologia dominante, e perciò stesso ne prende le distanze. Per altro verso egli cerca di
riallacciarsi a Nietzsche, ma in modo tale da presentare il suo proprio pensiero come un
superamento di Nietzsche - sulle tracce di Nietzsche.
Nietzsche voleva far crollare la metafisica tradizionale muovendo da un principio profondamente
metafisico, che nella formulazione schellinghiana suona così: « Il volere è originario essere ».
Tuttavia Nietzsche intende la volontà diversamente dalla tradizione fino a Schopenhauer. La volontà
non è desiderio, impulso oscuro, ma è un « poter dare ordini », è una forza che fa crescere l’essere.
« Il volere non è in generale nient’altro che voler diventare più forti, voler crescere. »
La volontà è volontà di accrescimento della potenza vitale. Per Nietzsche il mantenimento di sé è
possibile solo nella logica dell’accrescimento. Ciò che ha solo la forza di auto-mantenersi, affonda.
Si mantiene solo chi si accresce, si rafforza, si estende. Il vivente non ha alcun senso trascendente,
ma ha un indirizzo di senso che è immanente: è alla ricerca di accrescimento di intensità e di
riuscita. Esso cerca di integrare ciò che è estraneo nella propria sfera di potere e nella propria forma.
Ciò che è vitale domina in quanto predomina e soggioga. Esso è un processo energetico e come tale
è «privo di senso» perché non è riferito ad alcuno scopo preordinato. Si tratta per questo di
nichilismo? Nietzsche presenta la sua dottrina come oltrepassamento del nichilismo per mezzo del
suo compimento.
Egli vuole portare a compimento il nichilismo portando allo scoperto il nichilismo nascosto nella
lunga storia del conferimento di senso da parte della metafisica. Gli uomini hanno sempre
considerato come un « valore », sostiene Nietzsche, tutto ciò che poteva servire al mantenimento e
all’accrescimento della propria volontà di potenza o alla difesa dalle potenze superiori. Alle spalle
di ogni posizione di valori e della loro stima sta quindi la volontà di potenza. E ciò vale anche per i
« valori supremi », Dio, le idee, il sovrasensibile. Ma questa volontà di potenza è rimasta a lungo
non trasparente a se medesima, attribuendo a ciò che lei stessa aveva fatto un’origine sovrumana.
Gli uomini hanno creduto di aver trovato entità autonome, mentre le hanno semplicemente inventate
in forza della loro volontà di potenza. Essi hanno misconosciuto la propria energia creatrice di
valori. Evidentemente preferivano essere vittime passive e destinatari di un dono, anziché essere
loro stessi attori e donatori, forse per paura della propria libertà. Questa fondamentale svalutazione
della propria energia creatrice di valore è stata ulteriormente forzata da parte dei valori
sovrasensibili costituiti. A partire dal sovrasensibile sono stati svalutati l’aldiqua, il corpo e la
finitezza. Mancava evidentemente il coraggio della finitezza. E in questo senso quei valori
sovrasensibili, inventati come baluardo contro la minaccia da parte della nullità e della finitezza,
sono diventati essi stessi la forza della svalutazione nichilistica della vita. Sotto il cielo delle idee gli
uomini non sono mai venuti al mondo effettivamente. E Nietzsche intende far crollare
definitivamente questo cielo delle idee - questo è il compimento del nichilismo - affinché si impari
finalmente che cosa significa « restare fedeli alla terra » - e questo è l’oltrepassamento del
nichilismo.
Dio è morto, ma la rigidezza della remissività è rimasta, questa è la diagnosi di Nietzsche, e quel «
portento » di cui egli parla consiste nello sbarazzarsi di questa rigidezza della remissività passando
attraverso l’ebbrezza e l’euforia di chi dice sì alla vita dionisiaca. A Nietzsche interessa la
santificazione dell’aldiqua. In ciò egli vuole distinguersi dal nichilismo del mero disincanto. Il
nichilismo moderno perde un aldilà senza conquistare un aldiqua. Nietzsche vuole invece insegnare
l’arte del saper vincere quando si perde. Ogni estasi, ogni beatitudine, le ascese al cielo da parte del
sentimento, tutte le intensità che in precedenza restavano attaccate all’aldilà, devono raccogliersi
nella vita dell’aldiqua. Occorre conservare le forze della trascendenza, ma dirigerle
nell’immanenza. Procedere oltre e tuttavia « restare fedeli alla terra », questo è il compito che
Nietzsche affida al suo superuomo, all’uomo dell’avvenire. Il superuomo, così come lo progetta
Nietzsche, non ha religione, ma non nel senso che l’abbia perduta; egli l’ha bensì ricondotta in se
stesso. Allo stesso modo, anche la sua dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale non ha la caratteristica
della rassegnazione e della stanchezza del mondo. Il movimento circolare del tempo non deve
svuotare l’accadere facendone qualcosa di insensato e di vano; in Nietzsche il pensiero del ritorno
ha la funzione di intensificare; il suo imperativo è questo: tu devi vivere l’attimo in modo tale da
poter desiderare che esso ti ritorni senza paura. « Da capo! »
Veniamo a Heidegger: egli segue Nietzsche nella critica all’idealismo, lo segue anche nel motto
«restate fedeli alla terra ». Ma proprio su questo punto egli muove una critica a Nietzsche e gli
rimprovera di non essere rimasto fedele alla terra, proprio con la sua filosofia della volontà di
potenza. Per Heidegger « restare fedeli alla terra » significa: non dimenticare l’essere rimanendo
invischiati nell’ente. Secondo Heidegger, a partire dal principio della volontà di potenza, Nietzsche
trascina tutto nella sfera dell’uomo che conferisce valore. L’essere, con cui l’uomo ha a che fare e
che egli stesso è, viene visto interamente come « valore ». In ciò l’essere si risolve ogni volta,
falsamente, nel fatto di avere « valore » per l’uomo. Nietzsche voleva che l’uomo avesse il coraggio
di se stesso, che si alzasse in piedi. Heidegger dice che in tal modo non c’è stato solo un alzarsi in
piedi, ma una sollevazione, una sollevazione della tecnica e delle masse, che adesso attraverso il
dominio tecnico diventano interamente quello che Nietzsche chiamava l’« ultimo uomo », e che si
raccolgono « ammiccanti » nelle loro dimore e nella loro piccola sorte, difendendosi con estrema
brutalità da qualsiasi cosa possa danneggiarne la sicurezza e il possesso. « L’uomo entra in
sollevazione », dice Heidegger, guardando anche alla situazione tedesca attuale, « il mondo diventa
un oggetto [...] La terra stessa può continuare a mostrarsi solo come oggetto di aggressione [...] La
natura appare ovunque [...] come l’oggetto della tecnica. » Secondo Heidegger, tutto ciò era già
presente in Nietzsche, dato che in lui l’essere viene visto solo nella prospettiva del valore estetico,
teoretico, etico e pratico, e quindi viene perso di vista. Per la volontà di potenza il mondo è solo più
la quintessenza di « condizioni di mantenimento e di accrescimento ».
«Ma l’essere», chiede Heidegger, «può essere valutato più di quanto già avviene quando lo si eleva,
esso stesso, a valore? » La sua risposta è questa: « Però, se l’essere viene stimato come un valore,
esso è già stato ridotto a una condizione posta dalla stessa volontà di potenza », e in tal modo «è
estinta la via verso l’esperienza dell’essere stesso ».
Con « esperienza dell’essere » non si intende, come abbiamo appreso, l’esperienza di un mondo
superiore, bensì l’esperienza dell’inesauribilità del reale e lo stupore sul fatto che, con l’uòmo, si è
creato al centro della realtà un « luogo aperto» in cui la natura apre gli occhi e si accorge di esserci.
Nell’esperienza dell’essere l’uomo si scopre come orizzonte. L’uomo non è prigioniero dell’ente e
costretto a forza in esso. In mezzo alle cose egli invece ha « gioco », così come una ruota deve
avere « gioco » attorno al mozzo, per potersi muovere. Il problema dell’essere, dice Heidegger, è in
ultima istanza « un problema della libertà ».
L’esperienza dell’essere è estinta dovunque i singoli o intere culture si irrigidiscono nei loro
rispettivi rituali di rapporto con la realtà, sul piano teoretico, pratico e morale, dove essi vengono «
irretiti » dal loro proprio progetto, e perdono la consapevolezza della relatività di questo rapporto
con l’essere e quindi anche la forza di trascenderlo. E una relatività in vista del « grande fiume
nascosto » (Heidegger) del tempo, su cui le nostre verità e culture sono sospinte come esili zattere.
L’essere non è dunque un qualcosa di salvifico; l’essere è, per dirlo senza pathos, il concetto-limite
e la quintessenza di tutte le relazioni all’essere che vengono praticate, di tutte quelle che sono
pensabili come di quelle che sono ancora impensabili. Di conseguenza la storia dell’essere è per
Heidegger una sequenza storica di relazioni all’essere che sono fondanti. Nel saggio sull' Immagine
del mondo egli ha offerto un abbozzo di questa sequenza di relazioni all’essere - si potrebbe dire
anche: di paradigmi culturali. Questa sequenza stessa non realizza alcun « senso superiore » che
starebbe ancora più in là. Si tratta piuttosto per Heidegger di un gioco delle possibilità. In uno
scritto posteriore di Heidegger si dice a questo proposito: « L’essere [...] non ha alcun fondo, esso
gioca come abisso (Abgrund) [...] Il pensiero giunge, attraverso un salto, all’ampiezza di quel gioco
in cui ne va del nostro essere umani ».
Il pensiero dell’essere è per Heidegger questo movimento « ludico » del tenere aperto in vista
dell’orizzonte incommensurabile dei rapporti ontologici. Perciò non si può nemmeno chiedere a
Heidegger che cosa sia l’essere; in questo caso infatti si pretenderebbe da lui una definizione di
qualcosa che è a sua volta l’orizzonte di ogni possibile definizione. E poiché la domanda sull’essere
è questa apertura di orizzonte, il suo senso non può risiedere nel fatto di ricevere una risposta. Una
delle formule di Heidegger per respingere questa pretesa di rispondere una volta per tutte alla
domanda sull’essere è contenuta nei corsi su Nietzsche: « Dell’essere non ne è niente... » Vale a
dire: l’essere non è niente a cui ci si possa tener fermi. Esso è ciò che semplicemente dissolve,
contrariamente alle visioni del mondo che fissano e che danno sicurezza. La domanda sull’essere
deve impedire che il mondo diventi immagine del mondo. Quando Heidegger si accorse che questo
« essere » stesso poteva diventare un’immagine del mondo, cominciò a scrivere Seyn con la ipsilon,
e talvolta ricorse
anche all’espediente di tracciare una croce sopra la parola
«essere ».
Per Heidegger lo stesso Nietzsche fu un filosofo dell'immagine del mondo.
In effetti il pensiero di quest’ultimo appare concluso in senso particolarmente figurato dalla dottrina
dell'eterno ritorno dell’uguale. Con questo pensiero la dimensione del tempo viene eliminata,
chiudendone il cerchio; e ciò sebbene Nietzsche, richiamandosi al « divenire » di Eraclito, volesse
in realtà approfondire la dimensione del tempo. Ma questo è certo il punto principale
dell’opposizione fra Nietzsche e Heidegger: Nietzsche pensa il tempo nella dinamica della volontà
di potenza e ne richiude il cerchio all’intemo dell’essere con la dottrina dell’eterno ritorno.
Heidegger cerca invece di mantenere questo pensiero, che il senso dell’essere è il tempo. Nietzsche
fa del tempo un essere, Heidegger dell’essere il tempo.
L’immagine speculativa secondo cui le religioni, i conferimenti di senso e le culture siano esili
zattere che gli uomini costruiscono in mare aperto e su cui essi viaggiano per un trattò attraverso le
epoche, proviene dal filosofo giapponese Nishida. Secondo Heidegger, Nietzsche ha perso di vista,
nell’ebbrezza del suo lavoro ricco di invenzione e per la gioia di aver ultimato la zattera, sia le
maree che il mare aperto. Questo è oblio dell’essere. Ma lo stesso Heidegger vuole guardare in
mare, e perciò, con la domanda sull’essere si fa venire in mente l’altalenare delle cose.
Tuttavia, e su questo aspetto ha richiamato l’attenzione Karl Lowith in una critica ai corsi
heideggeriani su Nietzsche, è destinato a restare dubbio chi dei due, Nietzsche o Heidegger, abbia
pensato più radicalmente l’aperto e chi di loro abbia cercato invece nuovamente sostegno in
qualcosa di onnicomprensivo. Per Nietzsche la vita «dionisiaca», che va al di là di ogni cosa, non fu
un fondamento portante, ma un abisso, minaccioso per i nostri tentativi apollinei di conferire
saldezza a noi stessi. Forse sarebbe stato Nietzsche a poter rimproverare a Heidegger la mancanza
di radicalità nell’oltrepassamento del bisogno di sicurezza. Forse egli avrebbe visto anche l’« essere
» di Heidegger solo come un retro-mondo platonico che ci viene offerto per la nostra sicurezza e
protezione.
Nella discussione della dottrina dell’eterno ritorno Heidegger parla del fatto che Nietzsche avrebbe
tenuto per sé le sue idee migliori, poiché per alcuni dei suoi pensieri non c’era ancora alcun « sito
del loro svilupparsi ».33 Egli cita la frase di Nietzsche: « Non si ama più abbastanza la propria
conoscenza, appena la si comunica ».34
Heidegger appare così partecipe nel commentare il silenzio di Nietzsche, che ci si rende subito
conto di come qui egli stia parlando anche di sé e della propria vicenda. « Se le nostre conoscenze
rimanessero limitate a quanto Nietzsche pubblicò, non potremmo mai arrivare a conoscere quello
che Nietzsche già sapeva e stava preparando e continuamente ripensava, ma che tenne invece per
sé. Solo prendendo visione del lascito manoscritto si ha un quadro più chiaro. »35
Quando Heidegger fece questa osservazione, stava lavorando a un manoscritto che « tenne per sé »
e a pensieri rispetto ai quali non vedeva evidentemente giunto il momento opportuno: i Contributi
alla filosofia, il cui sottotitolo è: Dell'evento (Vom Ereignis).
18. Il diario filosofico di Heidegger: i Contributi alla filosofia. Il rosario filosofico di Heidegger. La
grande nenia. Piccole ascensioni.
Il silenzio eloquente.
Per la versione pubblica del pensiero heideggeriano dell’essere, intorno al 1938, vale l’asserto: «
Dell’essere non ne è niente... » L’essere si sottrae, se vogliamo afferrarlo direttamente. Infatti tutto
ciò che afferriamo, proprio per questo diventa ente. Diventa cioè oggetti che noi trasferiamo
nell’ordinamento del nostro sapere o dei nostri valori, suddividiamo, smembriamo, assumiamo
come metro e che possiamo trasmettere con il loro nome. Tutto ciò non è l’essere, ma c’è perché noi
intratteniamo un rapporto con l’essere. È l’orizzonte aperto in cui l’ente ci si fa incontro. E la
domanda sull’essere non è alla ricerca di un ente sommo, che un tempo venne chiamato Dio; questa
domanda deve invece creare la distanza che ci consenta di fare un’esperienza a sé stante di questo
riferimento. Ma si tratta di un’esperienza che trasforma. L’uomo si accorge di essere « libero » nei
confronti del mondo; egli si è aperto un orizzonte al suo interno.
In un corso su Nietzsche si trova un’oscura allusione che ci mette sulle tracce di un’altra versione
della questione heideggeriana dell’essere. «Non appena l’uomo, nella sua vista dell’essere, si lascia
vincolare da quest’ultimo, viene rapito e trasportato al di là di se stesso, sicché, per così dire, egli si
estende tra sé e l’essere, ed è fuori di sé. Questo ’essere elevato al di là di sé, via da sé, ed essere
attratto dall’essere stesso’, è l’ ’eros’. »1
I Contributi alla filosofia, redatti fra il 1936 e il 1938, e a quel tempo non destinati alla
pubblicazione, costituiscono un documento unico di questo eros. Heidegger vuole essere « rapito e
trasportato al di là di se stesso ». Da che cosa? Dagli esercizi del suo proprio pensiero.
Verso che cosa? Questo è difficile dirlo, se non si vuole avere niente a che fare con le
rappresentazioni del Dio dell’Occidente cristiano. E tuttavia nei Contributi non si fa che
parlare di Dio, anche se di un Dio diverso da quello tradizionalmente inteso. È un Dio che
scaturisce dal pensiero dell’essere. Quel Dio, di cui si crede che abbia creato l’essere dal nulla, è in
Heidegger esso stesso creato dal nulla. È il pensiero estatico a produrlo.
Nei Contributi possiamo osservare Heidegger calarsi in un’« altra condizione » per mezzo di un
delirio di concetti e di una litania di frasi. I Contributi sono un laboratorio per l’invenzione di un
nuovo discorso su Dio. Heidegger fa esperimenti con se stesso per riuscire a scoprire se sia
possibile fondare una religione senza una dottrina positiva.
All’inizio egli procede secondo il modello classico della fondazione di una religione: l’invenzione
di un nuovo Dio comincia con la messa in scena del crepuscolo degli idoli. I falsi dei devono farsi
da parte, al loro posto dev’essere fatta piazza pulita. A tal fine Heidegger ripete la sua critica del
pensiero moderno che ci è in parte già nota. Questa critica sfocia nella constatazione che anche Dio
è diventato un oggetto di cui dispongono l’intelletto o l’immaginazione. Poiché in epoca moderna
queste rappresentazioni di Dio si sono sbiadite, al loro posto sono subentrate rappresentazioni
sostitutive del sommo bene, come la « causa prima » e il senso della storia. Tutto questo deve
sparire, dato che appartiene al repertorio dell’ente; ma l’ente deve « crollare e rovesciarsi», prima
che l’essere (Seyn) possa mostrarsi.
Gli esercizi del pensiero dell’essere cominciano quindi con uno svuotamento. Questo è il modo in
cui anche Meister Eckhart e Jakob Böhme hanno voluto esperire il loro Dio: esso doveva riempire
della sua realtà il vuoto del cuore.
Qual è il Dio che si fa avanti nel pensiero svuotato di Heidegger? Heidegger solleva con cautela il
velo che copre il suo segreto. « Osiamo dunque la parola immediata », scrive, e poi, ancora:
«L’essere (Seyn) è il tremito del divinare».2
Parole. Può Heidegger concepire qualcosa con queste parole? Egli ci prova per diverse centinaia di
pagine. E' difficile che un Dio o un essere (scritto con o senza ipsilon) possano mostrarsi, se non gli
è concesso di presentarsi come un « qualcosa ». Con il dire « ciò che una cosa è » ha inizio, come è
noto, il pensiero che rappresenta, ma proprio questo modo di pensare deve essere precluso al
pensiero dell’essere. Nella religione ebraica dove si vietano le immagini, Dio è pur sempre qualcosa
che si riferisce a sé in prima persona: «Io sono colui che è ». Ma l’essere di Heidegger non è una
forma di io trascendente. Non è niente che stia di fronte all’esserci, bensì è qualcosa che si compie
in esso. Per evitare la rappresentazione di un Dio sostanziale, Heidegger parla del «divinare » nel
senso di un accadimento che ci fa « tremare ». Non si tratta quindi di Dio o degli dei, ma del
divinare. Quando il divino ci dispiega la sua essenza, non ci limitiamo a tremare, ma si genera un
intero repertorio di tonalità emotive: « sgomento », « ritegno », « mitezza », « giubilo », «timore ».
Da questo « macigno » di « tonalità emotive fondamentali » il « pensiero essenziale » attinge i suoi
pensieri e le sue proposizioni. « Se la tonalità emotiva fondamentale rimane esclusa, non resta che
uno strepito forzato di concetti e vuoti gusci fonetici. »3
Heidegger riempie pagine su pagine con le frasi del suo pensiero dell’essere, ma poiché queste
tonalità emotive fondamentali, come lo stesso Heidegger sottolinea, sono rare e momentanee,
accade troppo spesso che tali frasi non scaturiscano dalla tonalità emotiva, ma cerchino al contrario
di produrla. Questa è l’essenza della litania, con la quale Heidegger, cattolico apostata, aveva
familiarità. I Contributi sono il suo rosario. È a questo che dobbiamo quelle ripetizioni di formule,
quelle cantilene che risultano monotone solo a coloro il cui animo non ne viene toccato e «
trasformato ». Quello che conta è la forza di operare una trasformazione, e a tal fine anche alla
sequenza di nenie da organetto può spettare un ruolo importante. Che cosa sono infatti le frasi
cantilenanti se non frasi con le quali non si dice più nulla, e nelle quali perciò può effondersi il
silenzio? Ma la « tacitazione » è detta da Heidegger « la 'logica’ della filosofia », laddove
quest’ultima voglia accostarsi all’essere.4 Non desta quindi meraviglia che in una delle sue lezioni
su Nietzsche dichiari esplicitamente, sull’esempio di Zarathustra, che per coloro che non si sentono
coinvolti la « dottrina » deve diventare un « ritornello ».5 Questo è detto evidentemente dal suo
punto di vista.
Il « ritornello » come strumento di « tacitazione » eloquente.
Nelle considerazioni introduttive ai Contributi Heidegger scrive: «Qui non ci sono descrizioni né
spiegazioni; il dire non sta più di fronte a ciò che deve esser detto, ma è il dire stesso inteso come il
dispiegarsi dell’essenza dell’essere (Wesung des Seyns) ».6 In Heidegger l’essere (Seyn) parla come
aveva fatto in Hegel lo spirito del mondo. È una pretesa audace, che egli esprime in modo così
scoperto soltanto in queste annotazioni tenute segrete.
Ma come parla l’essere (Seyn)? Con la litania solenne del dire, con questo mormorio sulla « fuga
della verità dell’essere (Seyn) » e sul « tremito della sua essenza » e « la rilassata mitezza di una
intimità di quel divinare del Dio degli dei ».7 Tutto questo dadaismo metafisico, dal punto di vista
del suo contenuto semantico, è un niente. Ma ciò non significa che sia una cattiva indicazione su un
Dio che si sottrae e che il pensiero vuole pensare proprio nel suo « sottrarsi ». I Contributi di
Heidegger sono, nella misura in cui si rivolgono direttamente all’essere, espressione di un pensiero
che soffre di fenomeni di sottrazione. Del resto la scuola heideggeriana non ha più questo problema.
È di norma un filone esaurito.
Fintantoché Heidegger demolisce la tradizione filosofica, i suoi pensieri sono, anche nei Contributi,
precisi e avvincenti, e possono essere tali in quanto hanno a che fare con un oggetto che si lascia
afferrare. Ma il vuoto, che si crea e che si deve creare dopo questa distruzione, rimane vuoto.
L’evento di un nuovo riempimento non avviene.
Le cose non andrebbero poi male se Heidegger potesse ritirarsi nella fede. Invece egli vuole far
scaturire dal pensiero l’evento riempitivo. Non assume più la posizione della sua conferenza
marburghese su Fenomenologia e teologia del 1927. A quel tempo egli aveva operato, in perfetto
stile luterano, una netta distinzione fra pensiero e fede. La fede è l’evento indisponibile in cui Dio fa
irruzione nella vita. Il pensiero può soltanto determinare il punto in cui avviene questa irruzione.
Ma l’evento di Dio in quanto tale non è cosa del pensiero.
E tuttavia, nei suoi Contributi, Heidegger si è dedicato proprio all’ambizioso progetto di esperire la
presenza reale del divino a partire dal pensiero. Poiché però il divino non vuole assumere alcuna
figura chiara e univoca nel pensiero, Heidegger deve aiutarsi con questa espressione stringata: « La
vicinanza all’ultimo Dio è la tacitazione ».8 Egli richiama l’attenzione, al pari di Giovanni Battista,
su un Dio che viene e definisce se stesso come un « precursore ». L’attesa di Godot è cominciata già
nei Contributi di Heidegger.
Dell'evento, questo è il sottotitolo. In senso stretto si tratta di due eventi. L’evento della modernità,
epoca dell’immagine del mondo, della tecnica, dell’organizzazione, delle «macchinazioni», in
breve: «l’epoca della compiuta insensatezza». È il contesto fatale dell’oblio dell’essere, i cui
presupposti risalgono addirittura fino a Platone. Il secondo evento, cioè la fine della modernità, la
svolta, si prepara nel pensiero heideggeriano dell’essere. Il primo evento è qualcosa su cui
Heidegger parla, in quanto crede di essersi sottratto a esso, almeno in parte. L’altro evento è
qualcosa a partire da ad Heidegger parla; esso prepara una nuova epoca, ma per ora è l’evento di un
solitario, motivo per cui Heidegger tenta anche una sequenza di allitterazioni che comincia con
Ereignis (evento) e si conclude con Einsamkeit (solitudine): «Ereignis ha sempre il significato di
Ereignis come Er-eignung (appropriazione), Entscheidung (decisione), Ent-gegnung (in-contro),
Entsetzung (spiazzamento), Entzug (sottrazione), Einfachheit (semplicità), Einzigkeit (unicità),
Einsamkeit (solitudine)».9 Con il suo solitario pensiero dell’essere, Heidegger è uscito a caccia di
un Dio. « L’evento e la sua combinazione nell’abisso dello spazio-tempo sono la rete in cui l’ultimo
Dio appende (hängt) se stesso [o «imbriglia se stesso » (fängt), entrambe le letture sono possibili in
base al manoscritto; N.d.A.] per lacerarla e farla finire nella propria unicità, divino e unico, quanto
c’è di più estraneo in ogni ente. »10
Lo stesso Heidegger non si nascondeva la stranezza, anzi l’insensatezza, del suo discorso. Nei suoi
momenti migliori egli era persino in grado di assumere in proposito un atteggiamento ironico. Carl
Friedrich von Weizsäcker gli raccontò una volta la simpatica storiella degli ebrei dell’Est, che narra
di quell’uomo che siede sempre in osteria, e interrogato sul perché risponde: « Già, mia moglie! » -
« Tua moglie che cosa? » - « Lei parla e parla e parla e parla... » - « E di che cosa parla?» - «Questo
non Io dice! » Quando Heidegger sentì questa storia, disse: « Così stanno le cose »."
Così stanno le cose per quanto concerne i Contributi. Nel loro complesso sono articolati
rigorosamente, anche se nel dettaglio contengono certe cose aforistiche e frammentarie. Al posto di
« articolare » Heidegger dice « connettere » (fü-« fuga » (Fuge). Una fuga con due voci principali,
cioè i due « eventi », che suonano insieme e in controcanto, e infine si spengono nell’unisono del
diradare dell’essere. La sequenza delle sezioni ha il compito di demarcare, nel suo complesso, il
cammino di un avvicinamento. La parte intitolata « Sguardo preliminare» (Vorblick) dà già
un’occhiata complessiva all’intero cammino attraverso il fitto del bosco e fino alla radura.
«L’assonanza» (Der Anklang) esamina l’essere nello stadio dell’oblio dell’essere, quello cioè del
presente. «Il gioco di rinvio » (Das Zuspiel) racconta la storia di come nella metafisica occidentale
ci siano sempre state assonanze e presagi dell’essere. « Lo stacco » (Der Sprung) contiene
considerazioni su quali ovvietà e consuetudini di pensiero sia necessario togliere di mezzo prima
che si possa compiere il passo decisivo, che appunto non è un passo, ma un salto pericoloso, uno
stacco. Nella « fondazione » (Die Gründung) Heidegger si occupa prevalentemente della sua analisi
dell'esserci, presente in Essere e tempo, una autointerpretazione che ascrive quest’opera al momento
in cui lo stacco è stato compiuto e in cui si cerca di consolidare la posizione raggiunta. Nelle sezioni
intitolate « I venturi » (Die Zu-künftigen) e « L’ultimo Dio » (Der letzte Gott) avviene una sorta di
ascensione al cielo. Nell’ultima sezione, «L’essere» (Das Seyn), si guarda ancora una volta dall’alto
tutto l’insieme, per vedere quanto lontani ci si sia spinti e quanto in alto si sia saliti. « Su quali vette
dobbiamo salire per poter gettare uno sguardo sull’uomo nella sua miseria essenziale? »12 Per
Heidegger è diventato chiaro nel frattempo che il nazionalsocialismo non è stato capace di cambiare
nulla in questa « miseria essenziale ». Al contrario: esso fa parte delle « macchinazioni » e della
mobilitazione totale del mondo moderno. Ciò che esso offre in più è « il più piatto
’sentimentalismo’ » ed « ebbrezza di esperienze ».13 Ma questa critica si riferisce all’epoca nel suo
complesso. Anche le tendenze spirituali e morali, che si oppongono al nazionalsocialismo, vengono
respinte dalla prospettiva del pensiero dell’essere. L’intero è il non-vero. Che le diverse ideologie
puntino sull’io, sul noi, sul proletariato, sul popolo, tanto che esse vogliano conservare come valore
l’umanesimo illuminato o il cristianesimo della tradizione, e che si spaccino per nazionaliste,
internazionaliste, rivoluzionarie o conservatrici, tutte queste differenze non contano niente, perché
si tratta sempre e solo di questo, che « il ’subiectum’ (l’uomo) » si pone «come centro dell’ente».14
Questa «autolegislazione dell'uomo » è detta da Heidegger « liberalismo », e quindi il biologismo
del popolo e il razzismo possono essere chiamati anche « liberalismo biologico ». In questa notte
del pensiero dell’essere si può dire che, dal punto di vista politico, tutti i gatti sono grigi. La radura
c’è soltanto intorno a Heidegger. Heidegger contro il resto del mondo - così egli si vede nel solitario
colloquio dei Contributi.
Una cosa che balza agli occhi è che Heidegger non si limita a fare filosofia «a partire» dall’evento
del pensiero dell’essere, ma anzi, e ciò accade forse ancora più spesso, fa filosofia « su se stesso »
come su un fatto che appartiene alla storia dell’essere. Egli vede se stesso come attore sopra un
palcoscenico immaginario, nel ruolo del « cercatore, custode e guardiano »,15 annoverando se
stesso nella cerchia di coloro «che recano il sommo coraggio della solitudine, per pensare la nobiltà
dell’essere (Seyn) ».16
Egli si abbandona a fantasie su come il pensiero dell’essere potrebbe un po’ alla volta permeare il
corpo sociale attraverso l’istituzione di una federazione. La cerchia più intima è costituita da « quei
pochi singoli » che « istituiscono anticipatamente i luoghi e i momenti per gli ambiti dell’ente ». La
cerchia più allargata è formata da « quei molti federati » che si lasciano afferrare dal carisma della
grande « figura singolare» e che si mettono al servizio della «trasformazione dell’ente ». E poi ci
sono « quei molti, riferiti gli uni agli altri »che, uniti dalla comune origine storica, si lasciano
inserire deliberatamente nel nuovo ordine delle cose. Questa «trasformazione» deve avvenire in
perfetto silenzio, al di fuori del « rumore delle rivoluzioni ’cosmico-storiche’ », che per Heidegger
non sono tali.17 Heidegger si immagina una storia «autentica» che agisce di nascosto e di cui egli è
insieme testimone e autore.
Sarebbe inutile cercare nei Contributi una visione concreta del nuovo ordine. Heidegger ripiega
sulla metafora. « Le grandi filosofie » che offrono al popolo una dimora spirituale sono come «
monti svettanti. Esse offrono al Paese il suo punto più alto e indicano la sua roccia originaria. Si
ergono come punto di orientamento e indicano di volta in volta un orizzonte. »18
Quando Heidegger sogna, con la propria filosofia, di «stare come una montagna fra le montagne »,
quando vuole «dare consistenza a qualcosa di essenziale », affinché il popolo della pianura abbia
una possibilità di orientarsi verso «ciò che svetta » in filosofia, in questo appare che anche dopo
l’ubriacatura politica la filosofia di Heidegger è inficiata da idee di potere. A questo sono dovute le
immagini della « pietrificazione ». Lo Heidegger degli anni ’20 aveva preferito una metafora
completamente diversa. A quel tempo egli voleva « fluidificare » le costruzioni di pensiero
pietrificate. Adesso egli le fa svettare in alto e anche la sua filosofia viene mandata sulla « montagna
dell’essere (Seyn) ».
Ciò contraddice in realtà l’idea di filosofia che Heidegger aveva maturato prima del 1933. A quel
tempo gli stava a cuore la motilità, libera ma in sé finita, di un pensiero che procede dal fatto
dell’essere-nel-mondo, al fine di rischiarare per un istante Tesserci e tornare a scomparire con esso.
Il pensiero come evento è tanto contingente quanto Tesserci stesso. Ma la metafora della montagna
rinvia senza ombra di dubbio al fatto che Heidegger vuole inscriversi ora con la sua filosofia
all’interno di un mondo duraturo. Vale a dire che egli vuole prender parte a qualcosa che vada al di
là della sua esistenza contingente e della situazione storica. Questa passione per ciò che sovrasta
contraddice la sua filosofia della finitezza. Il processo del diradare diventa un evento epifanico in
cui entra in gioco una sfera che in precedenza era detta dell’« eterno » o del « trascendente ». Il
filosofo che si ossessiona nella sua solitudine e che giorno dopo giorno scrive nel suo quaderno, non
vuole restare solo con i suoi pensieri. Egli cerca collegamenti, non più, certo, con un movimento
politico, ma in compenso con lo spirito inquietante di una storia dell’essere o di un destino
dell’essere. Nell’arena immaginaria dell’essere accadono cose grandi e durature, ed egli vi si trova
in mezzo.
Dunque, mentre Heidegger esplora in lungo e in largo e rispecchia se stesso in questa esplorazione,
non rimane più niente della sua attenzione filosofica nei confronti dei suoi rapporti personali di vita
e per la sua azione effettiva durante gli ultimi anni. Egli non si sottopone più all’esame di se stesso,
un tempo considerato una disciplina filosofica di grande reputazione, e comunque non lo fa nei
Contributi. Riflette sulla grandiosa mostruosità dell’« oblio dell’essere », ma può prescindere dalla
propria situazione contingente, senza nemmeno accorgersene. Rimane per se stesso un punto cieco.
Con la domanda sull’essere vuole portare luce nei rapporti del mondo, ma il suo rapporto con se
stesso rimane oscuro.
Heidegger ha sempre evitato di incalzare il proprio esserci con la domanda sull’essere. È vero che
nella lettera a Jaspers del 1° luglio 1935 confessò a Jaspers di avere «due spine» conficcate nella
carne che lo tormentavano, « il confronto con la fede delle origini e il fallimento del rettorato », ma
i Contributi mostrano quanto egli sia bravo a sfuggire a se stesso nelle vesti di attore principale di
un dramma sulla storia dell’essere. Habermas ha definito questo procedimento come «astrazione per
via di essenzializzazione », e ha colto nel segno. La perdita della fede delle origini viene nobilitata
come destino epocale e il fallimento del rettorato come onorevole sconfitta nella lotta contro la
frenesia del mondo moderno.
L’esame morale di se stesso: forse che il pensatore, sul palcoscenico della storia dell’essere, lo
ritiene qualcosa di non consono al suo livello? Forse anche questa è ancora un’eredità della sua
origine cattolica, cui rimane estraneo quel rimorso della coscienza proprio del mondo protestante.
Per potersi attenere al concetto della totalità e alla « questione» del suo pensiero, egli li separa in
ogni caso dall’aspetto puramente personale. Perciò egli può stare a guardare con singolare
indifferenza come il movimento, per il quale si era entusiasmato, conduca anche nel suo ambiente a
conseguenze sciagurate, per lui assolutamente intollerabili: basti ricordare i destini di Hannah
Arendt, di Elisabeth Blochmann o di Edmund Husserl.
Dopo il 1945, nel loro epistolario, Hannah Arendt e Karl Jaspers si trovarono d’accordo nel dire che
Heidegger era evidentemente un uomo la cui sensibilità morale non era all’altezza della passione
del suo pensiero. Jaspers scrive: « È possibile, a un’anima impura - cioè a un’anima che non avverte
la propria impurità e non compie costanti sforzi per liberarsene, ma continua a vivere distrattamente
nel sudiciume - è possibile a quest’anima, nella sua insincerità, vedere quanto c’è di più puro? [...]
Lo strano è che egli possiede la nozione di qualcosa di cui oggi gli uomini si accorgono a
malapena» (1° settembre 1949).19
Hannah Arendt risponde: « Ciò che Lei chiama impurità io lo chiamerei mancanza di carattere, ma
nel senso che egli non ha, letteralmente parlando, alcun carattere definito, neppure uno
particolarmente cattivo. In tale condizione, egli vive tuttavia con una profondità e una passionalità
che non è facile dimenticare» (29 settembre 1949).20
Però la mancanza di una riflessione morale non è solo questione di carattere, ma anche un problema
filosofico. Quello che manca qui al pensiero è quella accortezza che metta effettivamente in pratica
quella « finitezza » spesso evocata da Heidegger. Essa contempla infatti la possibilità di essere
colpevoli e l’assunzione di questa colpa contingente come sfida per il pensiero. Dunque, nei
Contributi non c’è posto per una disciplina filosofica di antico lignaggio come la meditazione su di
sé e l’esame di sé. In tal modo però viene perso di vista un ideale di « esistenza autentica »: la
trasparenza dell’esser-ci a se medesimo. Il famoso silenzio di Heidegger è anche una tacitazione
interiore, quasi un blocco di fronte a se stessi. Anche questo è un contributo all’oblio dell’essere.
La potenza del pensiero di Heidegger lo sopravanza in un duplice senso: da un lato questo pensiero
prescinde dalla persona del tutto comune del pensatore, e dall’altro esercita una sopraffazione su di
lui.
Come ricorda Georg Picht, Heidegger era pienamente « consapevole che il compito del pensiero gli
era stato per così dire imposto ». A volte si era sentito persino « minacciato da ciò che egli stesso
aveva da pensare ».2I Un altro testimone dell’epoca, Hans A. Fischer-Barnicol, che conobbe
Heidegger dopo la guerra, scrive: « Mi sembrava che il pensiero si impossessasse di quest’uomo
anziano come di un medium. Parlava attraverso di lui ».22 Hermann Heidegger, suo figlio, conferma
questa impressione. Suo padre, racconta, gli avrebbe detto più di una volta: « Il pensiero pensa in
me. Non posso oppormi a ciò ».
Analoghe espressioni furono usate da Heidegger nelle sue lettere a Elisabeth Blochmann. Il 12
aprile 1938 egli le descrive la sua « solitudine ». Non se ne lamenta, ma la considera come la
conseguenza estrema della sua condizione di essere stato segnato, e perciò anche designato, dal «
destino del pensiero ». « La solitudine non sorge e consiste certo nella lontananza di ciò che ci
appartiene, bensì nella venuta di una diversa verità, nell’assalto della pienezza di ciò che provoca
solo stupore (Nur-Befremdlichen) e di ciò che è unico.»23
Egli scrive queste parole in un’epoca in cui sta annotando nei Contributi frasi come questa: «
L’essere (Seyn) è lo stato di bisogno di Dio, nel quale soltanto egli si trova. Ma perché Dio? Donde
lo stato di bisogno? Perché l’abisso è nascosto? Perché è un superamento, e perciò coloro che sono
superati sono ugualmente i più alti. Donde il superamento, l’abisso, il fondo, l’essere? In che cosa
consiste la divinità degli dei? Perché l’essere (Seyn)? L’essere perché gli dei? Perché gli dei? Gli dei
perché l’essere (Seyn)? »24
Egli si aiuta a superare il tratto straniarne delle sue proposizioni avvicinandosi, come fa
sull’esempio di Nietzsche, all’ignorata straneità dei grandi pensatori. « Soprattutto imparo ora a
esperire la vera prossimità di tutti i grandi pensatori solo in ciò che ce li rende più straniati. Questo
aiuta a vedere anche in se stessi ciò che rende stranianti e a valorizzarlo, perché esso è
evidentemente l’origine di ciò che riesce essenziale, quando riesce » (a Elisabeth Blochmann, 14
aprile 1937).25
In un’altra lettera a Elisabeth Blochmann, Heidegger descrive l’andirivieni fra l’attività ufficiale di
insegnamento, dove deve fare concessioni alla comprensibilità e perciò si finisce «fuori binario », e
il « ritorno entusiasta nel « Proprio (Eigene)» e nell’«Originario (Eigentliche)» (20 dicembre
1937).26 I Contributi appartengono per lui sicuramente all’ambito più intimo di questo « Originario
». Ma non si tratta, come si è intanto capito, di un incontro di pensiero con se stesso, bensì di una
cosa completamente diversa: un pensiero dell’essere nel senso del genitivo soggettivo. Non è
l’essere a essere pensato, bensì è l’essere a impossessarsi di chi pensa e a pensare per suo tramite.
Esistenza mediale.
Heidegger si tormenta, ma in gioco c’è anche la gioia. Risulta evidente che nei Contributi si parla di
« gioia » più spesso che in altri scritti di Heidegger. Anche nella « gioia » l’essere ci si fa incontro.
Angoscia, noia e gioia diventano nei Contributi la sacra trinità dell’esperienza dell’essere.
Nella « gioia » Tesserci diventa quel cielo in cui le cose pervengono quando appaiono nel loro
sorprendente « che ».
Per poter conservare questo «luogo aperto» dell’esserci, il pensiero deve ritirarsi e prestare
attenzione al fatto che questa apertura non viene prodotta con rappresentazioni di ogni tipo. Il
pensiero deve dare pace e farsi « silente ». Ma dal paradosso della tacitazione eloquente Heidegger
non riesce a venir fuori. E, oltre a questo, c’è anche la tradizione dei grandi pensatori. C’è un’intera
montagna che si innalza nella radura. Non bisognerebbe cominciare con l’appianarla? Nel compiere
questa operazione egli si rende conto che qui c’è ad attenderlo una montagna di tesori nascosti.
Questo è il suo destino con tutti i « grandi ». Dopo due decenni di intenso studio di Platone, alla fine
degli anni ’30 Heidegger dice a Georg Picht: « Devo confermarLe una cosa: la struttura del pensiero
platonico mi risulta totalmente oscura ».27
In una lettera a Elisabeth Blochmann del 27 giugno 1936 egli descrive il suo dilemma: « Sembra
che la lotta per la preservazione della tradizione ci consumi; produrre qualcosa di proprio e
preservare ciò che è grande - tutte e due le cose assieme vanno oltre le umane forze. E tuttavia quel
preservare non è forse abbastanza, se non proviene da una nuova appropriazione. Non c’è alcuna
via d’uscita da questo circolo, e da questo deriva il fatto che il proprio lavoro appaia ora importante,
ora nuovamente del tutto indifferente e abborracciato ».28
Nelle lettere a Jaspers egli fa riemergere la sensazione di svolgere un lavoro abborracciato. Così
anche il 16 maggio
1936, nell’ultima lettera prima che il loro rapporto si interrompa per un decennio. Nei confronti
della grande filosofia, egli scrive, « il proprio dibattersi diventa davvero indifferente, e serve solo
come rimedio d’urgenza».29
Nelle lettere a Elisabeth Blochmann, e soprattutto nei Contributi, Heidegger annuncia l’altro stato
d’animo: quel sentimento a volte persino euforico di grande riuscita e di alto significato della sua
opera. Qui egli crede di sapere che in lui è avvenuto « l’arrivo di un’altra verità ».
19. Heidegger sotto osservazione. Il congresso parigino di filosofia del 1937. Heidegger prova
risentimento. Idee per un’ intesa franco-tedesca. Heidegger e la guerra. « Il pianeta è in fiamme. »
Il pensiero e il tedesco.
«Lo straordinario incalzare dei fatti esteriori va scemando», scrive Heidegger il 14 aprile 1937 a
Elisabeth Blochmann.1
I fatti esteriori sono questi: a Gottinga la cattedra di Georg Misch, genero di Dilthey messo in
pensione d’ufficio, deve essere nuovamente assegnata. Nel luglio del 1935 la facoltà di filosofia
mette Martin Heidegger al primo posto nella lista dei possibili candidati. Con lui, si dice nel verbale
sottoscritto dal decano, « avremmo in tal modo il privilegio di accogliere, a un tempo, una delle
figure eminenti dell’odierna filosofia tedesca [...] e un pensatore disposto a lavorare nella linea della
concezione nazionalsocialista del mondo ».2
Nel frattempo al ministero si era saputo che Heidegger appoggiava ancora il nazionalsocialismo
nelle questioni politiche importanti (politica estera, economia, servizio del lavoro, principio del
Führer), ma che non sosteneva più in alcun modo la visione del mondo del nazionalsocialismo.
Pertanto il ministero comunicò alla facoltà l’intenzione di nominare, come successore di Misch, il
professor Heyse di Königsberg. La facoltà si affrettò quindi a modificare a favore di Heyse la
precedente proposta di graduatoria. Heidegger, che non aveva alcun interesse a trasferirsi a
Gottinga, si era tuttavia risentito di questo declassamento. Sul piano filosofico Heyse era un
epigono di Heidegger. Ecco le sue parole: « Ma in tal modo tornano a fare irruzione nella filosofia e
nella scienza le domande primordiali dell'esistere. Queste scaturiscono dal fatto che Tesserci umano
è attratto nell’orbita delle potenze primordiali dell’essere ».3 Al tempo stesso Heyse è un
nazionalsocialista risoluto e abile sul piano politico-organizzativo. Era il presidente, imposto
dall’alto, della Kant-Gesellschaft, l’associazione filosofica più grande del mondo e che godeva di
ampio prestigio internazionale. Nel 1937 Heyse sarà anche a capo della delegazione tedesca al
congresso di filosofia tenutosi a Parigi. Su ciò torneremo a parlare in seguito.
Il declassamento subito a Gottinga rafforzò in Heidegger la sensazione di non essere più benvoluto
negli ambienti politici importanti. Ma egli godeva pur sempre (e questo fino alla fine) di intercessori
nell’apparato politico di potere: non sarebbe altrimenti possibile spiegare il fatto che il ministero di
Berlino volesse in quello stesso anno nominarlo decano della facoltà di filosofia a Friburgo. Ciò non
avvenne a causa dell’opposizione dell’allora rettore in carica a Friburgo: « Durante il suo mandato
di rettore il professor Heidegger ha perso la fiducia dei suoi colleghi di Friburgo. Anche la
sovrintendenza del Baden ha avuto con lui dei problemi ».4
Le istituzioni statali volevano sfruttare il prestigio internazionale di Heidegger, anche se crescevano
le riserve nei confronti della sua filosofia. Nell’ottobre del 1935 egli fu chiamato a far parte di una
commissione che doveva preparare una nuova edizione delle opere di Nietzsche. Heidegger
ricevette inviti per conferenze all’estero, e non gli fu impedito di accettarli. All’inizio del 1936 parlò
a Zurigo, e nello stesso anno a Roma; all’inizio degli anni ’40 doveva tenere conferenze in Spagna,
Portogallo e Italia. Egli aveva dichiarato la propria disponibilità e anche già annunciato gli
argomenti, ma aveva procrastinato così a lungo le date, che alla fine, nella fase conclusiva della
guerra, esse dovettero essere annullate.
All’inizio del 1936 Heidegger accolse l’invito a Roma da parte dell’istituto italiano di studi
germanici. Erano previste inizialmente più conferenze a Roma, Padova e Milano. Ma Heidegger si
limitò a Roma, dove rimase per dieci giorni e parlò, di fronte a un vasto pubblico, sul tema
Hölderlin e l’essenza della poesia (Hölderlin und das Wesen der Dichtung). In questa occasione
incontrò Karl Lowith che, pur essendo un emigrante, era stato anch’egli invitato da parte italiana a
tenere una conferenza. Nella sua autobiografia Lowith descrive questo incontro con il suo maestro
di un tempo. Dopo la sua conferenza, Heidegger accompagnò i Lowith alla loro piccola abitazione,
mostrandosi « visibilmente colpito dalla povertà dell’arredamento».5 Il giorno successivo partirono
insieme per una gita a Frascati e Tuscolo. Una giornata splendida, ma piena di intralci. Sembra che
soprattutto Elfride trovasse « penoso » Tessere insieme. Heidegger portava il distintivo del partito. «
Evidentemente non gli era neanche passato per la testa che la croce uncinata era fuori luogo se
trascorreva la giornata con me.»6 Heidegger si comportava amichevolmente, ma evitò qualsiasi
riferimento alla situazione tedesca. Lowith invece, che era stato indotto a espatriare proprio da
questa situazione, ne parlò. Condusse il discorso sul dibattito apertosi sui giornali svizzeri solo
poche settimane prima, in occasione della conferenza di Heidegger a Zurigo.
Heinrich Barth, fratello del grande teologo, aveva introdotto il suo resoconto sulla conferenza
sull'Opera d'arte del 20 gennaio 1936, redatto per la Neue Zürcher Zeitung, con queste parole: «
Dobbiamo evidentemente considerare un onore il fatto che Heidegger prenda la parola in uno Stato
democratico, visto che è ritenuto, almeno da qualche tempo, uno dei portavoce filosofici della
nuova Germania. Ma rimane impresso nella memoria di molti il fatto che Heidegger abbia dedicato
nel 1927 Essere e tempo ’con ammirazione e amicizia’ all’ebreo Husserl, e che nel 1929 abbia
legato per sempre la sua interpretazione di Kant al pensiero di Max Scheler, per metà ebreo. Gli
uomini di regola non sono eroi, neppure i filosofi, benché esistano alcune eccezioni. Non si può
quindi chiedere a qualcuno di nuotare controcorrente; soltanto un certo obbligo verso il proprio
passato rialza il credito della filosofia, che non è soltanto sapere, ma che un tempo era saggezza ».7
Emil Staiger, a quel tempo ancora libero docente, aveva reagito con indignazione: poiché
evidentemente Barth non aveva nulla da spartire con Heidegger, egli avrebbe spiccato un «mandato
di cattura politico » per stigmatizzare la sua filosofia. Ma Heidegger sta « accanto a Hegel, accanto
a Kant, ad Aristotele ed Eraclito. E quando ciò sarà riconosciuto, si deplorerà maggiormente che
Heidegger si comprometta con il presente; è sempre tragico quando si confondono gli ambiti.
Eppure questo venir meno della fiducia non toglie nulla all’ammirazione, così come non può venir
meno il profondo rispetto per la Fenomenologia dello spirito per il fatto che Hegel era un
reazionario prussiano ».8 A ciò risponde ancora una volta Barth, dicendo che non si deve « separare
con un baratro l’aspetto filosofico e quello umano, il pensiero e Tessere ».9
Nella conversazione con Heidegger Lowith spiega di non poter concordare né con l’attacco politico
di Barth, né con la difesa di Staiger; la sua opinione è cioè « che la presa di posizione di Heidegger
a favore del nazionalsocialismo fosse insita nell’essenza della sua filosofia». Heidegger concordò «
senza riserve » e disse « che il suo concetto di 'storicità’ era alla base del suo ’impegno politico’ ».
La « storicità », nel senso in cui la intende Heidegger, dischiude di volta in volta un orizzonte
limitato di possibilità di azione, entro cui si muove anche la filosofia, se vuole diventare « padrona
del proprio tempo ». Come sappiamo, la rivoluzione del 1933 era apparsa a Heidegger come
un’opportunità di uscire dal contesto fatale delle «macchinazioni» del mondo moderno. E anche se
nel frattempo aveva iniziato a vedere le cose diversamente, egli insiste nel dire, di fronte a Lowith,
che l’opportunità di un nuovo inizio non era ancora definitivamente persa; « si trattava solo di ’tener
duro’ il tempo necessario ».10 E tuttavia egli ammette una certa delusione rispetto all’evoluzione
degli eventi politici, ma subito attribuisce agli « uomini di cultura », con il loro atteggiamento
titubante, la colpa del fatto che la rivoluzione non abbia mantenuto ciò che prometteva. « Se questi
signori non si fossero sentiti troppo raffinati per impegnarsi, le cose sarebbero andate diversamente,
ma io ero completamente solo.»11
Hitler continuava ad affascinarlo. Al pari di molti altri lo giustificava per tutte le cose negative,
dicendo « se il Führer soltanto sapesse! » Karl Lowith era deluso, ma la reazione di Heidegger gli
sembrava tipica: « non c’è cosa più facile per i tedeschi che essere radicali sull’idea e indifferenti
sul dato di fatto. Sono capaci di ignorare tutti i singoli dati di fatto per poter insistere tanto più
decisamente sul loro concetto dell'intero e scindere la ’cosa’ dalla ’persona’ ».12
Ma il « concetto dell’intero » che aveva Heidegger si era ulteriormente allontanato con la
progressiva presa di distanze dalla politica quotidiana, dalla storia concreta. Lo si può notare nella
sua conferenza, che presenta uno Hölderlin « gettato fuori » fra i « cenni degli dei » e la « voce del
popolo» -« fuori in quel frammezzo (Zwischen), frammezzo agli dei e agli uomini ».13 È la « notte
degli dei »; essi sono fuggiti e non sono ancora ritornati. È un « tempo di privazione » e bisogna,
come dice Heidegger chiudendo la sua conferenza, persistere con Hölderlin nel « niente di questa
notte », perché
Un ricettacolo fragile non sempre può contenerli
e per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina.
La vita, dopo, è sogno di loro.14
La lettera a Karl Jaspers dopo il soggiorno romano comunica qualcosa dell’atmosfera di quei giorni,
e soprattutto sul modo in cui Heidegger si senta vicino a Hölderlin come a un «poeta nel tempo
della povertà»: «In realtà possiamo ammettere che sia una condizione meravigliosa quella per cui la
'filosofia’ è screditata. Bisogna infatti combattere per essa senza dare nell’occhio » (16 maggio
1936).15
Che Heidegger non riscuotesse più molto credito presso i potenti, potè riscontrarlo egli stesso nelle
reazioni tedesche alla sua conferenza su Hölderlin, che il pubblico romano aveva ascoltato con
devozione. Nella rivista Wille und Macht della Gioventù hitleriana un certo dottor Könitzer osserva
che i giovani conoscono Hölderlin « nella sua peculiarità meglio [...] del professor Heidegger».16
Per essere uno che parteggia per la « notte degli dei » di Hölderlin, Heidegger reagisce in modo che
risulta evidentemente tutt’altro che pacato: «L’asserzione di quel tal critico di Wille und Macht
secondo cui il mio articolo su Hölderlin sarebbe profondamente estraneo alla gioventù, dimostra
soltanto che non ci si può attendere molto da questo tipo di 'tedeschi’. Un ex ss Führer, che conosce
bene la società di Marburgo, m’informa, inoltre, che il dottor K. si segnalava, ancora nell’estate del
’33, come socialdemocratico, mentre adesso è un pezzo grosso del Völkischer Beobachter ».17
Meno innocua di questa critica ricevuta su una rivista della Gioventù hitleriana fu un’altra vicenda
che iniziò dopo il soggiorno romano di Heidegger. Il 14 maggio 1936 ci fu una richiesta dell'uffìcio
Rosenberg alla federazione dei docenti nazionalsocialisti con sede a Monaco, intesa ad accertare
«come fosse valutata la personalità del professor dottor Martin Heidegger ».18
Hugo Ott ha condotto indagini sui retroscena di questa vicenda. Ne risulta che nell’ufficio
Rosenberg era cresciuta la diffidenza nei confronti di Heidegger; le relazioni di Jaensch e di Krieck
avevano avuto il loro effetto. Fece scalpore anche la voce che Heidegger tenesse regolarmente
conferenze presso il monastero di Beuron. Si sospettava che Heidegger facesse attività sovversiva in
accordo con i gesuiti. Perciò nella lettera dell’ufficio alla federazione dei docenti si dice: «La sua
filosofia [di Heidegger] è fortemente legata alla Scolastica, ed è perciò singolare che Heidegger
possa sporadicamente esercitare un influsso non irrilevante sui nazionalsocialisti ».19
Questa accusa di clericalismo occulto fu sollevata proprio in un momento in cui Heidegger aveva
reso ufficiale e ribadito nelle relazioni svolte in occasione di diversi procedimenti di dottorato e di
abilitazione (come nel caso di Max Müller) la sua convinzione che una filosofia « cristiana » fosse
in ultima istanza un « ferro ligneo e un fraintendimento ».
Comunque stiano le cose, le informazioni fomite su Heidegger da parte della federazione dei
docenti devono essere state tali da indurre l’ufficio Rosenberg a trasmettere il dossier in data 29
maggio 1936 all’ufficio generale di sicurezza del Reich, sezione scientifica. In seguito a ciò venne
ordinata la sorveglianza di Heidegger da parte del servizio di sicurezza statale. In Fatti e pensieri
Heidegger racconta che nel semestre estivo 1937 fece la sua comparsa al suo seminario un certo
dottor Hanke di Berlino, il quale prese a collaborare rivelandosi « molto dotato e interessato », e
dopo qualche tempo gli chiese un colloquio personale. In quella occasione, dice Heidegger, « mi
confessò di non poter continuare a nascondermi di lavorare per il dottor Scheel, che allora era alla
guida del partito nel sud-ovest della Germania ».20
Se si ritiene che Heidegger fosse stato al corrente della sorveglianza quando espresse nelle lezioni
su Nietzsche la sua critica contro il biologismo e il razzismo, in questo caso bisognerebbe
riconoscergli di aver avuto del coraggio personale. Anche gli uditori di quelle lezioni ebbero allora
questa sensazione, e furono quindi a maggior ragione sorpresi nel vedere che Heidegger manteneva
più esplicitamente di altri professori il saluto hitleriano.
Alcuni organi importanti del partito avrebbero cercato, a partire dalla metà degli anni ’30, di
ostacolare e «mettere fuori gioco » il suo lavoro filosofico, come scrive Heidegger in Fatti e
pensieri. Ad esempio alcuni organi di governo avrebbero operato per farlo escludere dalla
partecipazione al congresso internazionale su Cartesio, tenutosi a Parigi nel 1937. La direzione
francese del congresso era intervenuta, e soltanto per questo egli era stato invitato all'ultimissimo
momento a far parte della delegazione tedesca. « Il tutto in una forma che mi rendeva impossibile
andare a Parigi con la delegazione tedesca. »21
Ma Victor Farias ha trovato alcuni documenti presso il Berliner Document Center e nell’Archivio di
Potsdam, dai quali risulta che Heidegger fu a Parigi già nell’estate del 1935 per preparare la
partecipazione tedesca al convegno. Heidegger aveva attribuito grande importanza a questa
manifestazione, e tuttavia Cartesio era per lui il padre fondatore di una filosofia moderna contro la
quale era rivolta la sua stessa filosofia. Il congresso di Parigi doveva attirarlo come un’arena nella
quale dovevano confrontarsi grandi forze. A questa sfida egli voleva sottoporsi con grande piacere.
Scopo di Heidegger era di maturare quelle idee che poco tempo dopo, il 9 giugno 1938, espose a
Friburgo nella conferenza La fondazione dell’ immagine moderna del mondo mediante la metafisica
(e, come già ricordato, pubblicata con il titolo: L’epoca dell'immagine del mondo).
Dunque, Heidegger voleva andare a Parigi e attese soltanto, in un primo tempo invano, di esservi
mandato ufficialmente da parte tedesca. L’invito tedesco arrivò tardi, troppo tardi per Heidegger.
Farias ha trovato una lettera che Heidegger scrisse al rettore di Friburgo il 14 luglio 1937 e nella
quale spiegava per quale motivo non era più disposto a far parte a breve scadenza della delegazione
tedesca: « Dell’invito personale che, un anno e mezzo fa, mi fu rivolto dal presidente del congresso
detti notizia a suo tempo al ministero nazionale dell’Educazione. In quell’occasione feci presente
che questo congresso, ideato contemporaneamente come celebrazione del giubileo di Cartesio, si
configurava intenzionalmente come un attacco portato avanti dalla concezione dominante, liberal-
democratica della scienza, e che perciò sarebbe stato opportuno costituire una delegazione tedesca,
adeguata ed efficace. Non avendo ottenuto alcuna risposta, [...] non ha alcuna importanza il
desiderio della direzione francese del congresso. L’unica cosa che conta è l'originaria volontà delle
autorità tedesche circa la mia partecipazione o meno alla delegazione tedesca ».22 È evidente che
Heidegger si sentiva offeso per il fatto che le autorità tedesche non avessero preso subito contatto
con lui per preparare strategicamente il congresso e per la composizione di una delegazione.
Probabilmente egli contava di essere mandato a Parigi come capodelegazione. Ma le autorità di
governo e di partito affidarono a metà del 1936 a Heyse il compito di guidare la delegazione, e
quest’ultimo, in una memoria dell’agosto dello stesso anno, descrisse con queste parole gli intenti
del congresso: evidentemente il razionalismo cartesiano doveva essere identificato con il concetto
della filosofia in quanto tale. In tal modo era stata esclusa « l’odierna volontà filosofica tedesca », la
quale era stata additata come « negazione delle grandi tradizioni europee, come espressione di un
particolarismo naturalistico, e come rinuncia ai valori spirituali »,23 « Isolamento spirituale » della
Germania e « guida spirituale » della Francia: questo era lo scopo strategico della manifestazione. A
ciò bisognava contrapporre qualcosa di molto efficace. La delegazione doveva non solo essere in
grado « di rappresentare e di far valere chiaramente la volontà spirituale nazionalsocialista dei
tedeschi »; non c’era bisogno soltanto di una difesa forte, ma era necessario anche poter passare
all’attacco. Si trattava, scriveva Heyse, « di tentare un’offensiva spirituale tedesca in ambito
europeo». Purtroppo però c’erano davvero pochi filosofi nella nuova Germania che potessero
affrontare la lotta per dare alla filosofia tedesca il «rango dell'internazionalità ».24 Sulla lista
proposta da Heyse c’erano, fra gli altri: Heidegger, Carl Schmitt, Alfred Baeumler.
Le proposte vengono accettate e nella primavera del 1937 Heyse si rivolge a Heidegger, che ora
rifiuta la propria partecipazione. In tal modo gli vengono risparmiate alcune circostanze penose.
Infatti la delegazione era stata composta non solo secondo criteri ideologici, ma anche in base ad
aspetti razziali. Husserl, al quale la direzione del congresso aveva affidato una delle relazioni
principali, non potè accettare l’invito perché « non ariano ». Le autorità tedesche supponevano
giustamente che una partecipazione di Husserl avrebbe relegato « completamente in secondo piano
la delegazione ufficiale »; si temevano « straordinarie ovazioni » per Husserl: una dimostrazione
contro la delegazione tedesca.
La delegazione fece un ingresso marziale a Parigi; alcuni professori portavano l’uniforme del
partito. Un giornale francese si meravigliò che, rispetto ai precedenti congressi internazionali di
filosofia, da parte tedesca non venissero presentati, come sembrava, degli « individui », bensì
rappresentanti di uno spirito collettivo. Che dal Paese dei poeti e dei pensatori anche la filosofia
avanzasse a ranghi serrati, fu sentito in una certa misura come una cosa preoccupante.
Heidegger dunque rimase a casa, dove lavorò al proprio contributo per l’intesa franco-tedesca. Vie
per il confronto (Wege zur Aussprache), questo il titolo che egli diede al proprio contributo per il
volume Terra alemanna. Libro di popolo e di missione, pubblicato nel 1937 e finalizzato al
confronto fra lo spirito tedesco e quello francese.
Il volume collettaneo, edito da Franz Kerber, sindaco di Friburgo ed ex redattore capo del giornale
nazionalsocialista Der Alemanne, apparve in un periodo in cui Hitler, dopo aver marciato sulla
Renania demilitarizzata, diffondeva l’idea di un compromesso con la Francia. Ma il saggio di
Heidegger non era scritto per questi scopi propagandistici del momento. Egli leggeva volentieri
questo testo che, come racconta Petzet, « sembrava stargli straordinariamente a cuore »,25 davanti a
una cerchia di amici, e così venne poi ripreso anche nel volume Esperienze del pensiero
(Denkerfahrungen).
Si tratta della comprensione fra i popoli francese e tedesco. Heidegger non si sofferma su
controversie e conflitti di tipo geopolitico, economico o militare. L’« ora attuale del mondo » ha
destinato « ai popoli occidentali che fanno la storia» un compito molto più grande: «salvare
l’Occidente». La salvezza non si ottiene livellando e mescolando reciprocamente fra i diversi
popoli, per mezzo di compromessi, i diversi modi di pensiero e di cultura, ma soltanto se ciascun
popolo medita su ciò che gli è proprio e peculiare e su questa base offre il proprio contributo alla
salvezza dell’identità occidentale: in Francia domina il cartesianesimo, la visione per cui la ragione
dispone della res extensa. In Germania invece si è formato un forte pensiero storico. L’aspetto
notevole di questa contrapposizione, che presa per sé non risulta particolarmente originale, sta nel
fatto che Heidegger la vede come una differenziazione di tendenze che nella scena primigenia
dell’Occidente, cioè in Grecia, non erano ancora decise e separate. L’essere di Platone e il divenire
di Eraclito, quindi il
razionalismo e la storicità, si contrapponevano l’un l’altro nello spazio comune della polis e
realizzavano così una identità spirituale che poteva affermarsi contro l’elemento «asiatico », dal
quale la Grecia era circondata come un’isola dall’oceano. Qual è l’elemento « asiatico » nel «
momento attuale del mondo »? Heidegger non lo dice espressamente, ma risulta dalla logica della
sua esposizione: l’elemento asiatico dei nostri giorni non è niente di « barbarico », ma è la
modernità nella sua forma scatenata, caratteristica dell’America e della Russia. Poiché però il
cartesianesimo francese è la più recente scaturigine di questa modernità, la collaborazione franco-
tedesca per la salvezza dell’Occidente sarà caratterizzata da una peculiare asimmetria. Il
razionalismo francese dovrà andare alla scuola della storicità tedesca, e più precisamente alla scuola
del pensiero heideggeriano dell’essere. Infatti solo a partire dalla prospettiva di questo pensiero il
razionalismo può superare la sua smania di oggettività e aprirsi alla ricchezza della storia
dell’essere. Di conseguenza si dice che lo spirito tedesco non ha bisogno di quello francese nella
stessa misura in cui questo ha bisogno di quello. Del resto le considerazioni amichevoli di
Heidegger si riferiscono anche al fatto che lo spirito francese si è accorto di che cosa gli manca: un
personaggio come Hegel, Schelling, Hölderlin. Pertanto è possibile venirgli in aiuto.
Non c’è alcun riscontro per sostenere che Heidegger conoscesse il pamphlet del kantiano francese
Julien Benda II tradimento dei chierici. Questo libro, che subito dopo la sua pubblicazione, nel
1927, ebbe in Francia una risonanza straordinaria, può essere letto come una risposta anticipata
della Francia all’offerta di dialogo da parte di Heidegger. Per Benda il tradimento degli intellettuali
comincia proprio nel momento in cui essi si abbandonano ai continui cambiamenti della storia,
sacrificando valori spirituali universali come la verità, la giustizia, la libertà alle potenze irrazionali
dell’istinto, dello spirito del popolo, dell’intuizione etc. I «chierici », questi intellettuali filosofici e
letterari che vengono definiti come chierici laici, avrebbero il compito di affermare questi valori
spirituali dell’umanità contro le aggressioni provenienti dallo spirito storico contingente. Chi
dovrebbe farlo altrimenti, visto che i « laici » sono necessariamente coinvolti in faccende e passioni
mondane? Assistiamo qui all’intervento di un rigoroso razionalismo umanistico contro il canto delle
sirene proprio degli spiriti romantici del popolo. Dallo spirito tedesco, dice Benda, non c’è più nulla
da imparare dopo la morte di Kant, si può solo stare in guardia di fronte a esso. Benda cita una frase
di Renan che suona come una risposta a Heidegger: «L’uomo non appartiene né alla propria lingua
né alla propria razza; non appartiene che a se stesso, perché è un essere libero, vale a dire un essere
morale».26 Benda è convinto che chi caccia lo spirito umano dalla sua patria universale e ne fa
oggetto di lotta fra i popoli, si ritroverà subito fra coloro che spingono alla « guerra delle culture».27
Ma proprio questo è ciò che Heidegger non vuole. Egli vuole attestare a suo modo la possibilità di
una vicinanza feconda. Di questa fa parte « la volontà longanime di prestarsi reciproco ascolto e il
sobrio coraggio di autodeterminarsi ».28 Ma ciò non cambia nulla nel fatto che le « vie per il
confronto » debbano condurre per lui al punto in cui si può decidere quale sia la relazione con
l’essere che meglio corrisponde all’apertura dell’essere, se quella cartesiano-razionale o quella
storica. Non è ammissibile che si «eviti il compito più difficile: la preparazione di un ambito di
decidibilità».29 E qui risulta chiaramente che Heidegger intende il proprio pensiero come un
pensiero che è all’altezza di questo compito. Nel caso dell’intesa franco-tedesca a proposito delle
questioni filosofiche, non ci si dovrà incontrare in un qualche punto al confine tra i due Paesi, ma
sulle alture di Todtnauberg.
Tre anni dopo, la guerra iniziata da Hitler è in pieno svolgimento. Nell’estate del 1940 la Francia è
sconfitta. E nel semestre estivo di quello stesso anno, nel suo corso su Nietzsche e il nichilismo
europeo (Nietzsche und das europäische Nihilismus), Heidegger fa riferimento alla capitolazione
della Francia, giungendo a una conclusione sorprendente: « In questi giorni noi stessi siamo
testimoni di una misteriosa legge della storia, cioè che un giorno un popolo non è più all’altezza
della metafisica scaturita dalla sua stessa storia, e questo proprio nell’attimo in cui tale metafisica si
è mutata nell’incondizionato [...] Non basta possedere carri armati, aeroplani, mezzi di
comunicazione; non basta neanche disporre di uomini in grado di far funzionare tutto ciò [...] C’è
bisogno di un’umanità che sia radicalmente adeguata all’essenza fondamentale, unica nel suo
genere, della tecnica moderna e della sua verità metafisica, cioè che si lasci interamente dominare
dall’essenza della tecnica per guidare e utilizzare così, proprio essa stessa, i singoli processi e le
singole possibilità della tecnica. Alla 'economia macchinale’ incondizionata è adeguato, nel senso
della metafisica di Nietzsche, soltanto il super-uomo, e viceversa: l’uno ha bisogno dell’altra per
l’instaurazione del dominio incondizionato sulla terra».30
Vale a dire che la Germania si è rivelata più cartesiana della nazione cartesiana che è la Francia. La
Germania è riuscita meglio, rispetto alla Francia, a realizzare il sogno cartesiano del dominio sulla
res extensa, cioè il superamento tecnico della natura. La « mobilitazione totale »,31 vale a dire la
strutturazione tecnica e organizzativa di tutta la società e dell’individuo, è riuscita solo in Germania.
Qui sono state tratte tutte le conseguenze dalla metafisica moderna, secondo la quale l’« essere » è
solo « rappresentatività » (Vorgestelltheit) e alla fine solo « produttività » (Hergestelltheit). La
Germania ha vinto perché ha realizzato pienamente, alla maniera del « superuomo », la mostruosità
del mondo moderno. I francesi sono gli apprendisti stregoni: hanno scatenato un processo del quale
non sono più stati «all’altezza». Soltanto nella Germania totalitaria di Hitler si è formata quella «
umanità» che è « conforme » alla tecnica moderna. Qui evidentemente gli uomini stessi sono
diventati proiettili. Del resto Heidegger comunicherà in seguito, con un misto di orrore e di
fascinazione, che uno dei suoi studenti giapponesi si è arruolato come pilota kamikaze.
Ancora nel corso sulla Metafisica del 1935 la Russia e l’America sono le potenze all’avanguardia
della « desolante frenesia della tecnica scatenata »;32 mentre ora vede davanti a tutti, sotto questa
prospettiva, la Germania. È impossibile non avvertire qui un tono di leggera soddisfazione per
questo. Ciò ricorda molto da vicino Diederich Heßling, il subordinato di Heinrich Mannschen, che,
offeso a morte da un brusco luogotenente, osserva con sufficienza: « Quello non ce lo può imitare
nessuno! » Così fa anche Heidegger: la Germania vince perché si abbandona più efficacemente di
altri alla « mostruosità » della tecnica, e tuttavia: questa ferrea conseguenza dell’oblio dell’essere
non ce la può imitare nessuno!
I figli di Heidegger, Jörg e Hermann, vengono arruolati e a partire dal 1940 sono al fronte. A
riempire le aule e i seminari dell'università sono giovani feriti in guerra, soldati in convalescenza e
studenti anziani. La percentuale di studentesse è in aumento. Cresce il numero delle notifiche di
morti e dispersi dalle zone di guerra.
1126 settembre 1941 Heidegger scrive alla madre di un caduto che era stato suo allievo: « Per noi,
che siamo rimasti, è difficile compiere il passo verso la consapevolezza che ciascuno dei molti
giovani tedeschi, che oggi sacrificano la loro vita con uno spirito ancora autentico e un cuore
riverente, può conoscere il destino più bello ».”
Quale « destino più bello » spetterà mai a chi è caduto? Forse il fatto che Heidegger se ne ricorderà?
La maggior parte dei morti era in confidenza solo con pochi amici, ma conservati nel ricordo del
filosofo, dice Heidegger, essi ridesteranno per le generazioni a venire « l’intima vocazione del
tedesco allo spirito e alla fedeltà del cuore ». In tal modo la guerra riceve un senso? Non ha parlato
forse Heidegger, nelle sue lezioni su Nietzsche, del fatto che questa guerra è l’espressione della «
volontà di potenza » dimentica dell’essere?
In effetti questa è una cosa che Heidegger dice ripetutamente nelle sue lezioni, come anche che la
filosofia nell’attuale momento storico di « impiego disincantato del ’materiale umano’ al servizio
dell’incondizionato conferimento alla volontà di potenza del potere»34 rischia di diventare del tutto
superflua. In quanto « simulacro della cultura », essa scompare dal meccanismo pubblico, non
essendo altro che un «essere reclamati dall’essere stesso ».35 Ma per questo essere reclamati non c’è
più tempo. Una delle conseguenze della guerra è che ormai in Germania si crede « di essersi lasciati
alle spalle l’appartenenza a un popolo di poeti e pensatori».-6 Ma allora come può avere ancora un
senso il sacrificio umano per una simile guerra?
Heidegger vede due possibili risposte a questa domanda. La prima è quella nota da tempo, che cioè
al fine di raggiungere l’autenticità della vita quello che conta non è il carattere morale dell’intera
situazione; quello che importa è soltanto («atteggiamento» che si assume. In questo senso
Heidegger, nella lettera a quella madre, loda nel caduto il « fuoco interiore » e il « profondo rispetto
di ciò che è essenziale », anche se non dice che cosa questo significhi sul piano concreto. Lo stesso
Heidegger non lo sa di preciso, poiché non conosce per nulla le circostanze concrete della morte di
quel giovane.
La seconda risposta è che il sacrificio umano ha un senso perché e nella misura in cui la guerra
stessa ha un senso. Su questo punto, però, le valutazioni di Heidegger sono incerte. Da un lato egli
intende la guerra come espressione della volontà di potenza epocale - anche se non rileva mai la
responsabilità esclusiva di ciò da parte della Germania hitleriana -e quindi, nel suo complesso, come
un accadimento della mobilitazione totale dell’epoca moderna che ha perduto ogni senso. Da questo
punto di vista qualunque sacrificio dovrebbe essere insensato. Ma con l’entrata in guerra
dell’America la situazione cambia per lui ancora una volta. Nel corso su Hölderlin dell’estate 1942
egli afferma: « Oggi sappiamo che il mondo anglosassone dell’americanismo è deciso ad annientare
l’Europa, cioè la patria, cioè l’inizio di ciò che è occidentale ».37
Ma dove continua a sopravvivere « ciò che è occidentale »? Non certo nella Germania ufficiale,
dato che qui la vittoria spetta, come Heidegger non si stanca di sottolineare, all’« economia delle
macchine » e alla riduzione dell’uomo a materialità.
Ma c’è ancora quella Germania « non ufficiale » e immaginaria in cui aveva creduto uno come
Hölderlin. La Germania la cui lingua conserva lo spirito filosofico, come altrimenti solo la grecità
ha saputo fare. Nel corso su Eraclito del 1943 Martin Heidegger disse: « Il pianeta è in fiamme.
L’essenza dell’uomo è allo sbando. Solo dai tedeschi - posto che essi trovino ’ciò che è tedesco’ e lo
custodiscano - può venire un ripensamento dell’intera storia del mondo».38 Questa Germania
autentica, che appartiene all’Occidente, e che è circondata dal tradimento, vive forse, in ultima
istanza, solo nella filosofia di Heidegger?
Così stanno le cose, anche se Heidegger non vuole avere niente a che fare con « la coscienza che si
vanta di avere una missione da compiere ».39 Negli ultimi mesi della guerra la sua filosofia si
rivolge interamente alla «rammemorazione» dei grandi fondatori: Hölderlin, Parmenide, Eraclito. In
Heidegger si apre sempre di più la divaricazione fra pensiero e accadimenti esteriori. Mentre gli
eventi procedono verso la loro catastrofica conclusione e i crimini del regime hitleriano
raggiungono con il genocidio degli ebrei un vertice raccapricciante, Heidegger si trincera sempre
più profondamente in ciò che è « iniziale ». « Lo spirito nascosto di ciò che appartiene all’inizio
dell’Occidente non serberà nemmeno Io sguardo di disprezzo per questo processo di
autodevastazione di ciò che è privo di inizio, ma attenderà la propria ora fatale nell’abbandono della
quiete proprio di ciò che sta all’inizio40 »
Ma diversamente dal 1933 Heidegger è ora immune dall’aspettarsi che questo « inizio » provenga
da un grande evento politico-sociale. L’«ora fatale» è quella del poetare e del pensare in solitudine,
che non hanno e non cercano per il momento alcun « appoggio » in qualche movimento politico o
sociale. Il « pensiero essenziale pone attenzione ai lenti segnali di ciò che sfugge a ogni calcolo »,
scrive Heidegger nel 1943 nel poscritto a Che cos'è metafisica?41 Questo pensiero non ottiene alcun
« successo ». Rimane soltanto la speranza che forse qua e là si « accenda » un pensiero analogo
attraverso il quale si crei la fratellanza segreta di coloro che fuoriescono dall’attuale «gioco del
mondo». «Gioco del mondo»: questa stessa espressione viene usata per la prima volta da Heidegger
in un corso del 1941 per connotare la grande miseria. L’attuale « gioco del mondo » conosce
soltanto « lavoratori e soldati ». Ci sono due modi per sfuggire a questa «normalità ». Il primo di
questi è definito da Heidegger, alludendo a Ernst Jünger, come avventurosità: « Chi può
meravigliarsi nel vedere che in una simile epoca, in cui il mondo è completamente allo sbando, si
desti il pensiero che il piacere del pericolo, l'’avventura’, siano il modo attraverso il quale l’uomo si
assicura la realtà? »42 L’avventuroso conferisce colori vivaci e slancio vitale all’oblio dell’essere.
Egli si getta negli ingranaggi del mondo moderno, anche se quest’ultimo lo stritolerà. Egli alza la
sua posta per dare al gioco maggiore attrattiva.
L’altro modo di opporsi al gioco del mondo come contesto fatale è per Heidegger l’« insistenza »
(Inständigkeit) del pensiero meditante. In precedenza ci si riferiva a ciò usando espressioni come «
contemplazione » e « vita contemplativa», che Heidegger non considera adatte a esprimere la
propria impresa. Questa « insistenza » avvicina Heidegger alla vita semplice. Togliete all’uomo
moderno tutto ciò che possiede, dice Heidegger nel corso su Eraclito del 1943, toglietegli tutto ciò
con cui si trattiene e a cui si attiene, « il cinema, la radio, i giornali, il teatro, i concerti, gli incontri
di pugilato, i viaggi»,43 e morirebbe di vuoto, perché le «cose semplici » non sono più in grado di
dirgli nulla. Ma nel pensiero meditante il vuoto diventa occasione di « ricordarsi dell’essere ».44
Anche nel momento in cui la guerra era al culmine - « il pianeta è in fiamme » - Heidegger si
sintonizza su quello che sarà uno dei grandi temi della filosofia del dopoguerra: l’abbandono.
Questo abbandono nel bel mezzo della guerra è dovuto all’arte del prescindere dalla realtà
opprimente. Nel già citato poscritto a Che cos'è metafisica? del 1943 Heidegger scrive una frase
oscura, che «sì, Tessere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente».45 Nell’anno in cui aveva inizio
l’inferno, Heidegger si spinse col pensiero molto in là rispetto all’ente, così lontano che ora l’essere
diventa per lui qualcosa che in precedenza non era: una grandezza di riferimento indipendente
dall’ente. Questa stravaganza rispetto al periodo precedente verrà nuovamente ritrattata
nell’edizione del testo fatta nel 1949; al posto del « sì » egli scriverà « mai », generando così una
frase che non conosce quelle vertigini: « mai l’essere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente».
Ma per il modo in cui l’essere si rende presente in questo brutto periodo, Heidegger trova la
formulazione più sensata e appropriata in un saggio su Hölderlin risalente agli ultimi anni della
guerra: il « caos dello spalancarsi ».46 L’abisso si è aperto, la terra trema.
In contrasto con ciò, Heidegger formula nello stesso periodo, rifacendosi a Hölderlin, il suo inno
alla patria sveva: « La Suevia, la madre, abita vicino ’al focolare della casa’. Il focolare custodisce
l’ardore, sempre in serbo, del fuoco che, una volta infiammato, apre le brezze dell’aria e la luce
nella dimensione serena. [...] Perciò è solo con difficoltà che uno abbandona, quando non può fare
altrimenti, il luogo della vicinanza ».47
20. Heidegger nella milizia popolare.
Friburgo distrutta. L’idillio angosciante: la rocca di Wildenstein. Heidegger davanti alla
commissione di epurazione.
Il parere di Jaspers: « non libero, dittatoriale, privo di comunicativa ». Il divieto di insegnamento.
La Francia scopre Heidegger. Kojève, Sartre e il nulla. Heidegger legge Sartre. L’incontro
mancato. La visita all’arcivescovo.
Il crollo e la guarigione nel bosco innevato.
Nella notte del 27 novembre 1944 le squadriglie di bombardieri anglo-americani distrussero la città
di Friburgo. Poco prima Martin Heidegger è partito per Breisach con un contingente della milizia
popolare. L’intento è quello di impedire il passaggio dell’esercito francese sulla sponda destra del
Reno. Ma è già troppo tardi. Gli uomini della milizia popolare tornano indietro, e con loro anche
Heidegger. Egli era stato reclutato in base al decreto del Führer del 18 ottobre 1944 che imponeva
l’ultima chiamata alle armi di tutti gli uomini fra i sedici e i sessantanni, senza possibilità di
esonero; l’unico criterio che stabiliva l’abilità alle armi era la possibilità di lavorare. E poiché
Heidegger era capace di lavorare, era anche considerato abile alle armi. Ma non tutti i colleghi di
Heidegger furono arruolati. Il reclutamento spettava alle autorità locali del partito. Regnava uria
grande confusione; e così tutti i membri della facoltà di filosofìa si adoperarono per ottenere
l’esonero di Heidegger. Su loro incarico Eugen Fischer, che un tempo era stato il famigerato
direttore del Kaiser-Wilhelm-Institut für Eugenetik a Berlino, e ora era professore emerito a
Friburgo, scrisse una lettera a Kurt Scheel, capo della Federazione dei docenti del Reich, nella quale
egli pregava di esonerare Heidegger e concludeva con queste parole: « Facendo questa preghiera nel
momento più difficile, di fronte al fatto che il nemico si trova nell’Alsazia
402
tedesca a meno di cinquanta chilometri dalla nostra città, noi mostriamo con ciò stesso la nostra
fiducia nel futuro della scienza tedesca». Tre settimane dopo Scheel risponde: «A causa della
situazione non chiara non ho potuto fare niente per Heidegger »; ma nel frattempo la situazione si
era già risolta. Dopo aver fatto rientro dalla missione della milizia popolare, Heidegger aveva
ottenuto un congedo dall ’università per riordinare i propri manoscritti e metterli al sicuro nei pressi
di Meßkirch. Ma prima di abbandonare Friburgo bombardata e in attesa dell’occupazione da parte
delle potenze alleate, egli fece visita al filosofo Georg Picht e a sua moglie, che sarà la celebre
pianista Edith Picht-Axenfeld. Heidegger voleva che lei gli suonasse ancora una volta qualcosa. La
signora Picht eseguì la Sonata postuma in si bemolle maggiore di Schubert. Heidegger guardò Picht
e gli disse: « Questo noi non possiamo farlo con la filosofia».1 In quella notte del dicembre 1944
Heidegger vergò nel libro degli ospiti di Picht queste parole: « Diverso dal giungere alla fine è il
tramontare. Ogni tramonto rimane nascosto nell’alba».
Era dunque una « fine » o un « tramonto » quello che accadeva tutto intorno, e da cui Heidegger
fuggiva? Le parole nel libro degli ospiti di Picht lasciano aperta questa domanda. Ma sei mesi dopo,
il 20 luglio 1945, Heidegger darà una risposta in una lettera a Rudolf Stadelmann, il suo « scudiero»
ai tempi della Comunità di lavoro scientifica, ora decano a Tubinga: « Non si fa altro che pensare al
tramonto. Noi tedeschi non possiamo tramontare, perché non siamo ancora sorti, e dobbiamo ancora
passare attraverso la notte ».2
In questo stesso anno, tra la fuga da Friburgo e il suo ritorno nella città, frattanto occupata dai
francesi, Heidegger vive in un idillio angosciante. A Meßkirch, con suo fratello Fritz, durante
l’inverno riordina i suoi manoscritti. E quando arriva la primavera, lo segue anche tutta la facoltà di
filosofia, ovvero ciò che ancora ne rimane. A Friburgo si era deciso cioè di mettere al sicuro alcune
parti dell’università, e a tal fine era stata scelta la fortezza di Wildenstein, sopra Beuron, vicino a
Meßkirch. Nel marzo del 1945 dieci professori e trenta studenti, prevalentemente di sesso
femminile, percorsero in parte a piedi e in parte in bicicletta, e sotto un pesante fardello di libri, la
Selva Nera e il corso superiore del Danubio, per prendere dimora in questa fortezza, possedimento
dei Für-
stenberg, e nella vicina località di Leibertingen. Da Meßkirch su verso la fortezza di Wildenstein.
Questo sentiero era stato percorso spesso dal giovane Heidegger nelle sue passeggiate, e adesso egli
torna a percorrerlo per tenere un piccolo seminario nell’osteria della fortezza, mentre laggiù, a valle,
le truppe francesi avanzano in direzione di Sigmaringen, dove si erano rifugiati i resti del regime
collaborazionista di Vichy. A fine maggio comincia la fienagione. I professori e gli studenti danno
una mano, ricevendone in cambio generi alimentari. Da Friburgo giungono solo poche notizie. Si sa
soltanto che la città è occupata. Per fortuna intorno a essa non c’è stata nessuna battaglia. Laggiù
nella valle, presso il monastero di Beuron, è stato istituito un ospedale militare; ogni giorno arrivano
soldati feriti. E in alto, sopra le rocce, dove un tempo abitava una stirpe di cavalieri predoni, fra un
raccolto e l’altro si studiano la Critica della ragion pura di Kant, la storia medievale e Hölderlin.
Soprattutto Hölderlin, che nel suo inno L’Istro aveva cantato il corso superiore del Danubio:
Ma gli danno un nome, Istro.
Bella la sua dimora. II fogliame
arde mosso sulle colonne [...]3
Heidegger aveva più volte interpretato questa poesia, e torna a farlo anche in questa occasione.
Ormai Hölderlin è diventato parte integrante della sua genealogia personale. Nel suo corso
universitario su L'Istro del 1942 egli aveva aggiunto, come si è già detto, un’osservazione (non
contenuta nel volume pubblicato): « Forse Hölderlin, il poeta, deve diventare il destino
determinante con cui si confronta un pensatore il cui nonno, nello stesso periodo in cui nasceva
l”inno sull’Istro’ [...] nacque, com’è attestato, nell’ovile di una fattoria posta sotto le rocce lungo il
corso superiore del Danubio, e vicino alla sponda. La storia occulta del dire non conosce casualità.
Tutto è destinazione ».4
Dalla fortezza di Wildenstein si può vedere la vecchia casa sul Danubio, cui apparteneva quella
stalla dove nacque il nonno di Heidegger.
Questo semestre estivo così diverso dai soliti si conclude il 24 giugno con una festa tenuta nella
fortezza. È invitata anche la gente dei dintorni, che porta del cibo. Nel cortile interno c’è una
rappresentazione teatrale e il ballo. Tre giorni dopo, nella vicina residenza di campagna del principe
Bernhard von Sachsen-Meiningen c’è un’altra grande apparizione pubblica di Heidegger, che per
alcuni anni rimarrà l’ultima. La sua conferenza è preceduta da un breve concerto per pianoforte.
Heidegger parlerà sulla frase di Hölderlin che dice: « Da noi tutto si concentra sullo spirituale;
siamo diventati poveri per diventare ricchi ».
A Friburgo, ora occupata, l’amministrazione militare francese prende le prime misure volte a
reperire spazi abitabili. « Heidegger in città è considerato un nazista a causa del suo rettorato. »5
Questa laconica annotazione del borgomastro commissariale contenuta negli atti è sufficiente per
far registrare nella « lista nera » la casa di Heidegger, Am Rötebuck 47, già a metà maggio. Non è
ancora deciso se si tratterà solo di un acquartieramento di soldati o se gli Heidegger dovranno
abbandonare la loro abitazione. C’è persino la minaccia di un sequestro della biblioteca. Elfride
Heidegger, che nelle prime settimane deve condurre da sola le difficili trattative con le autorità, fa
ricorso e prega di attendere il ritorno di suo marito.
Già prima del ritorno di Heidegger essa riceve dal borgomastro commissariale la delibera in base
alla quale, su ordine del governo militare, per far fronte alla gravissima mancanza di alloggi « le
abitazioni da mettere sotto sequestro sono in primo luogo quelle di persone appartenenti al partito
»,6 e Martin Heidegger sarebbe stato appunto, indiscutibilmente, un membro del partito.
All’inizio di luglio, di ritorno da Wildenstein, Heidegger trova una situazione drammaticamente
mutata. Alla fortezza e nella residenza di campagna era stato ascoltato ancora con devozione, e
pochi giorni dopo, a Friburgo, si ritrova nelle vesti di imputato. Le autorità gli fanno capire che può
benissimo rinunciare alla propria biblioteca, dato che in avvenire non potrà certamente più
esercitare la sua professione. Il 16 luglio Heidegger redige una lettera al borgomastro, che
costituisce un primo abbozzo dell’autodifesa degli anni successivi. « Protesto vivamente contro
questa discriminazione rivolta contro la mia persona e il mio lavoro. Per quale motivo devo essere
punito non solo con il sequestro della mia abitazione, ma anche con la confisca totale del mio luogo
di lavoro, ed essere diffamato di fronte alla città, e di fronte all’opinione pubblica mondiale? Non
ho mai detenuto una carica nell’ambito del partito, né ho mai svolto un’attività al suo interno o
all’interno di uno dei suoi reparti. Se si vuole vedere un addebito nel mio rettorato devo esigere che
mi sia data la possibilità di difendermi da ogni obiezione e accusa, da chiunque mi sia stata mossa.
Il che significa che io devo venire per primo a conoscenza di ciò che viene addotto contro di me e la
mia carica pubblica. »7
In un primo tempo si tratta solo della casa e della biblioteca. Heidegger è ancora in servizio. Ma
l’amministrazione militare francese aveva già cominciato a mettere in atto misure di epurazione
politica. L’università, che voleva tornare a porsi come una corporazione indipendente, cercò di
fornire le prove di essere in grado di epurare autonomamente il proprio corpo docente. Così il
senato accademico aveva diffuso l'8 maggio. 1945 un questionario interno e aveva deliberato un
decalogo di criteri con cui valutare il passato politico dei propri dipendenti. Dovevano essere messe
in evidenza soprattutto le attività politiche di particolare spicco. Erano state previste tre categorie di
persone: coloro che avevano lavorato per il servizio di sicurezza o avevano svolto opera di
delazione; quelli che avevano svolto attività di funzionari di partito, e infine chi aveva sostenuto
funzioni direttive o di rappresentanza (rettori, decani). Che Heidegger dovesse essere chiamato a
rispondere del proprio operato era quindi una cosa ovvia anche per l’organismo universitario.
L’amministrazione militare francese non riconosce ancora l’università come corporazione
indipendente, e quindi non è disposta a delegare i procedimenti di epurazione agli organismi
universitari. L’ufficiale francese di collegamento forma una commissione che rappresenta
l’università presso il governo militare e che ha il compito di condurre le indagini. Di tale «
commissione di epurazione » - questa la denominazione che le viene data - fanno parte i professori
Constantin von Dietze, Gerhard Ritter e Adolf Lampe. Questi tre erano implicati nella congiura del
20 luglio ed erano stati appena liberati dal carcere. A essi si aggiungono il teologo Allgeier e il
botanico Friedrich Oehlkers, un amico di Karl Jaspers che, come quest’ultimo, aveva sposato
un’ebrea, motivo per cui aveva dovuto convivere con grandi paure negli ultimi anni.
Di fronte a questa commissione dunque Heidegger deve rispondere per la prima volta il 23 luglio
1945. Nei suoi confronti la commissione ha un atteggiamento piuttosto benevolo. Ad esempio
Gerhard Ritter fa mettere a verbale di sapere, per essere stato in confidenza con Heidegger, che
quest’ultimo era diventato un nemico del nazionalsocialismo a partire dall'eliminazione di Rohm.
Soltanto Adolf Lampe, nella sua veste di membro della commissione, si rivela un avversario deciso
della riabilitazione di Heidegger. Lampe, professore di economia nazionale, aveva dovuto patire
durante il rettorato di Heidegger in quanto questi si era opposto al prolungamento della supplenza
allo stesso Lampe, per motivi di inaffidabilità politica.
Già dalla prima udienza davanti alla commissione, in data 23 luglio, risulta chiaro per Heidegger
che la sua difesa dovrà rivolgersi soprattutto a Lampe. Pertanto due giorni dopo egli chiede di avere
un colloquio personale con lui. Di questo colloquio Lampe presenta alla commissione un esauriente
rendiconto scritto, nel quale, per prevenire una « situazione penosa » e per respingere da sé il
sospetto di essere fazioso, Lampe avrebbe innanzi tutto chiarito che gli eventi del 1934 che lo
riguardavano direttamente non avevano alcuna importanza ai fini della sua valutazione. Dopo di che
egli avrebbe ripetuto le rimostranze della commissione: in primo luogo gli appelli del rettore agli
studenti, redatti nello stile tipico della propaganda nazista, in secondo luogo l’imposizione da parte
di Heidegger del principio del Führer, che anche dal punto di vista formale non scendeva ad alcun
compromesso, e in terzo luogo le circolari del rettore ai membri del corpo docente, il cui contenuto,
secondo Lampe, doveva essere stimato « come una sensibile riduzione dell’autonomia che il
docente universitario deve mantenere ».8 La notorietà internazionale di Heidegger aggrava il peso
delle sue mancanze: per mezzo di questa egli avrebbe contribuito a dare un « appoggio essenziale
alle tendenze evolutive del nazionalsocialismo che a quel tempo erano particolarmente pericolose
».9 Di fronte a Lampe Heidegger matura quella linea di autodifesa alla quale si atterrà negli anni
successivi fino all’intervista con Der Spiegel. Egli avrebbe appoggiato il nazionalsocialismo perché
si aspettava da esso una composizione delle tensioni sociali sulla base di un rinnovato sentimento
nazionale della comunità. Inoltre egli aveva voluto opporre resistenza all’avanzata del comuniSmo.
Egli si sarebbe lasciato eleggere rettore solo « con grandissima ritrosia », e sarebbe rimasto in carica
il primo anno per impedire « qualcosa di peggio » (come ad esempio l’elezione di Aly, un
funzionario del partito). Ma già a quel tempo i suoi colleghi non se ne sarebbero accorti e perciò
avrebbero tralasciato di sostenerlo come si conveniva. A partire dalla metà degli anni Trenta egli
avrebbe poi manifestato pubblicamente, soprattutto nelle sue lezioni su Nietzsche, una critica alla
concezione del potere dei nazionalsocialisti. Il partito avrebbe reagito di conseguenza, mandando
degli informatori ad assistere alle sue lezioni e procurandogli difficoltà nella pubblicazione delle
sue opere.
Lampe era indignato per l’assenza di qualsiasi senso di colpa in Heidegger e parlò di «
responsabilità personale ». Chi aveva imposto il principio del Führer nel modo in cui lo aveva fatto
Heidegger, adesso non aveva diritto di chiamarsene fuori parlando di intrighi e di mancato sostegno.
Per quanto concerne la critica posteriore di Heidegger al nazionalsocialismo, Lampe non ritiene di
poterla considerare come una « compensazione »; questa sarebbe stata raggiunta solo « con una
critica pubblica, pari per fermezza al tono del suo discorso di rettorato, assumendosi al tempo stesso
tutti i pericoli personali che ne derivavano ».
L’autodifesa di Heidegger scaturisce dalla paura. Altri colleghi, gravati di accuse analoghe, fra i
quali anche Hugo Friedrich, professore di filologia romanza a Friburgo, sono già stati imprigionati
dai francesi. Egli teme di poter subire un destino analogo. Ha paura per la sua casa, per la sua
biblioteca. Egli guarda sul fondo di un abisso, non però in quello dei propri errori politici, bensì in
quello del declassamento sociale che lo minaccia e della perdita delle proprie possibilità di lavoro.
Confida a Lampe che un voto negativo da parte della commissione sarebbe per lui « una messa al
bando». Perciò punta tutto sull’autodifesa e sull’autogiustificazione.
Dunque Heidegger non rivela alcun senso di colpa. Ma effettivamente non ne ha. Per lui infatti la
situazione è la seguente: egli ha preso parte attivamente per un breve periodo alla rivoluzione
nazionalsocialista perché l’ha ritenuta una rivoluzione metafisica. Allorché essa non ha mantenuto
quello che gli prometteva - e questo egli non avrebbe mai potuto indicarlo con precisione - egli si è
ritirato e ha svolto il proprio lavoro filosofico senza lasciarsi influenzare dall’approvazione o dal
rifiuto da parte del partito. Egli non ha fatto mistero della propria distanza critica rispetto al sistema,
bensì l’ha annunciata nelle sue lezioni, e in tal senso egli era meno responsabile del sistema di
quanto non lo fosse la stragrande maggioranza degli uomini di scienza che si erano allineati, e
nessuno dei quali era stato chiamato a rispondere. Che cosa aveva a che fare lui con i crimini del
sistema? Heidegger era effettivamente sorpreso del fatto che qualcuno lo chiamasse a rispondere del
suo operato. Come confessò il seguito a Jaspers (8 aprile 1950), provava invero « vergogna» per
avere collaborato per un certo periodo, questo si. Ma si trattava della vergogna per aver compiuto
un errore, per essersi « sbagliato ». Quello che lui stesso aveva voluto, cioè la rottura, il
rinnovamento, aveva dal suo punto di vista poco a che vedere con quelli che furono infine i risultati
sul piano della politica reale. Che successivamente al suo impegno politico motivato
filosoficamente egli avesse nuovamente separato le sfere della politica e della filosofia, gli appariva
ora come la riconquista della purezza dei suoi punti di vista filosofici. La via percorsa dal proprio
pensiero, e che egli aveva riconosciuto pubblicamente, lo riabilitava di fronte a se stesso. E così egli
non sentiva alcuna colpa, né sul piano della giustizia, né tantomeno su quello morale.
Nell’agosto del 1945 la commissione di epurazione formula, con il voto contrario di Lampe, un
giudizio molto indulgente sull’operato politico di Heidegger. Egli si sarebbe posto inizialmente al
servizio della rivoluzione nazionalsocialista, giustificandola con ciò « agli occhi del mondo
culturale tedesco », e ostacolando così l’« autoaffermazione della scienza tedesca nel sovvertimento
politico », ma a partire dal 1934 egli non sarebbe più stato un « nazista ».10 La proposta della
commissione è di mettere anticipatamente Heidegger in pensione come professore emerito, ma di
non allontanarlo dal suo ruolo. Egli dovrebbe poter continuare a fare lezione, ma essere sollevato
dalla partecipazione agli organi collegiali.
Ma il senato accademico (e non ancora il governo militare francese) si oppone a questo responso
così indulgente argomentando che se Heidegger ne fosse uscito pressoché indenne non c’era più
alcun appiglio per procedere contro altri membri del corpo docente gravati di accuse. Pertanto la
commissione viene incaricata di riaprire le indagini relative al caso Heidegger.
Fino a questo punto Heidegger aveva puntato con la sua difesa a ottenere una riabilitazione piena.
Egli voleva far parie del corpo docente con tutti i diritti e tutti i doveri. Ora si accorge che
l’università, per restare credibile agli occhi dell’amministrazione militare, è apertamente disposta a
fare del suo un caso esemplare. La situazione per lui volge al peggio. E per questo egli segnala la
propria disponibilità a essere messo in pensione come professore emerito. Egli vuole difendere solo
la sua facoltà di insegnare e naturalmente la sua retribuzione pensionistica. Propone di richiedere un
parere scritto da parte di Karl Jaspers, aspettandosi da ciò uno sgravio dalle proprie responsabilità.
Tuttavia la lettera che Karl Jaspers scrive nei giorni intorno al Natale del 1945 (Hugo Ott l' ha
riportata alla luce) sortirà l’effetto contrario.
In un primo tempo Jaspers voleva tirarsi indietro, ma poi si sentì in dovere, tanto più che proprio in
quel semestre invernale aveva tenuto un corso sulla necessità di rielaborare la colpa. Se Heidegger
avesse conosciuto il testo di queste lezioni, non avrebbe certamente chiesto a Jaspers di redigere un
parere scritto. Infatti Jaspers pensava anche a Heidegger quando disse in quella occasione: « Molti
intellettuali che hanno collaborato nel 1933 e che hanno cercato per se stessi un ruolo-guida,
assumendo pubblicamente una posizione ideologica a favore del nuovo regime, e che poi, messi da
parte sul piano personale, se ne sono irritati [...] costoro hanno la sensazione di avere patito sotto il
nazismo e perciò di essere chiamati a far parte di ciò che lo seguirà. Essi ritengono di essere loro
stessi degli antinazisti. C’è stata per tutti questi anni una ideologia di questi nazisti intellettuali: essi
pretendono di dire apertamente la verità in tutte le cose; pretendono di avere conservato la
tradizione dello spirito tedesco, di avere stornato la distruzione, e di avere operato nel dettaglio in
modo propizio [...] Chi nel 1933 aveva da persona matura quella convinzione interiore, che non si
radicava solo in un errore politico, ma in un senso dell’esistenza accresciuto a opera del
nazionalsocialismo, non diventa una persona pura, se non in seguito a un processo di rifusione che
deve andare probabilmente molto più a fondo di qualsiasi altro ». 11
Il legame fra Jaspers e Heidegger era stato lacerato nell’estate del 1936. Nell’ultima lettera del
maggio 1936, alla quale Heidegger non diede più riscontro, Jaspers aveva risposto all’invio di un
saggio heideggeriano su Hölderlin con queste parole: « Che io [...] taccia, Le risulterà comprensibile
e perdonabile. La mia anima è ammutolita; infatti in questo mondo non rimango 'screditato’ in
filosofia, come Lei scrive di se stesso, bensì vengo... ma le parole mi si bloccano».12
Nel 1937 Jaspers era stato radiato dal suo incarico, e gli venne proibito di insegnare e pubblicare.
Heidegger non aveva reagito a ciò, non disse nemmeno una parola. Negli anni successivi l’ebrea
Gertrud Jaspers aveva dovuto fare costantemente i conti con la possibilità della deportazione. Per
questa evenienza i coniugi Jaspers portavano con sé capsule di veleno.
Nei primi anni del potere nazista Jaspers si era rimproverato di non essere stato sufficientemente
franco nei confronti di Heidegger e di non averlo interrogato sulla sua evoluzione politica. Perché
non lo abbia fatto, egli lo spiega in una lettera del 1° marzo 1948 che non spedì mai: « Non l’ho
fatto per sfiducia nei confronti di chiunque, nello Stato del terrore, non si fosse dimostrato
positivamente nei miei confronti come un vero amico. Ho seguito il caute di Spinoza e il consiglio
di Platone: in periodi simili bisogna mettersi al riparo come sotto un temporale [...] Di fronte a Lei
io [...] ho sofferto fin dal 1933, fino a quando, come accade di solito con il passare del tempo,
questa sofferenza non è quasi giunta a sparire, già negli anni ’30, sotto l’imperversare di cose molto
più terribili. Ne è rimasto solo un lontano ricordo e, occasionalmente, una sempre nuova
meraviglia».13
Che ora Heidegger, nella sua oppressione alla fine del 1945, si rivolga indirettamente a lui, è una
cosa che sorprende Jaspers, perché subito dopo la liberazione egli si era aspettato una parola di
chiarimento da parte di Heidegger. Ma non era accaduto niente, nemmeno dopo che nell’autunno
del 1945 egli aveva spedito a Heidegger un numero della rivista Wandlung di cui era coeditore.
Nella lettera (non spedita) del 1948 Jaspers commentala sua relazione del 1945: « Nella freddezza
di queste dichiarazioni, Lei non può percepire quello che c’è nel mio cuore. La mia lettera era stata
scritta con l’intento di far risaltare ciò che era inevitabile e di aiutare, nel momento di difficoltà, a
ottenere la cosa migliore per Lei, affinché potesse continuare il Suo lavoro ».14
L’« inevitabile » che Jaspers voleva far risaltare era questo: egli racconta che Heidegger denuncia
Eduard Baumgarten, ma che per altro verso aiuta il suo assistente ebreo, dottor Brock, con buoni
attestati e con il proprio impegno personale, ad andarsene in Inghilterra. Per quanto concerne
l’antisemitismo in Heidegger, argomento su cui la commissione aveva esplicitamente interrogato
Jaspers, quest’ultimo lo riassume in questi termini: negli anni ’20 Heidegger non fu un antisemita,
ma in « certe situazioni », come dimostra il caso Baumgarten, egli si sarebbe lasciato trascinare.
Le frasi della lettera di Jaspers che furono decisive per la decisione del senato accademico, furono
le seguenti: « Nella nostra posizione dobbiamo occuparci con la massima responsabilità
dell’educazione dei giovani. Dobbiamo cercare di ottenere una totale libertà di insegnamento, ma
non possiamo realizzarla immediatamente. Il pensiero di Heidegger mi sembra per sua natura non
libero, dittatoriale, privo di capacità comunicativa; oggi sarebbe nefasto per l’attività didattica. Mi
pare che il pensiero sia più importante del contenuto dei giudizi politici, la cui aggressività può
cambiare facilmente direzione. Finché non ci sarà in lui un vero e proprio rinnovamento, visibile
nella sua opera, un simile insegnante non può essere adatto per la gioventù che oggi è interiormente
quasi priva di resistenza. Prima i giovani devono raggiungere una capacità di pensiero autonoma
».15
Dunque la relazione di Jaspers non si sofferma molto a valutare l’impegno esteriore di Heidegger a
favore del nazionalsocialismo, bensì giudica lo stile filosofico del pensiero di Heidegger dannoso
per la necessaria ricostruzione politico-morale della Germania.
In base a questa relazione il senato accademico delibera in data 19 gennaio 1946 di proporre al
governo militare francese il ritiro della facoltà di insegnare e l’allontanamento di Heidegger
dall’incarico, conservando una corresponsione pensionistica ridotta. Il governo militare farà propria
questa delibera alla fine del 1946, aggravandola con la cancellazione della pensione a partire dal
1947. Questo ulteriore aggravio sarà tuttavia revocato nel maggio 1947.
Tale duro procedimento fu preceduto, come si è già accennato, da improvvisi cambiamenti di umore
sia nell’università sia presso le autorità francesi. Ancora all’inizio dell’autunno Heidegger poteva
sperare di cavarsela a buon mercato. Infatti anche il governo militare francese in quel momento era
ancora relativamente ben disposto nei confronti di Heidegger, nonostante il sequestro già operativo
della sua abitazione; era stato classificato « disponibile », cioè come gravato da accuse minori e
presto reinseribile in ruolo.
Ma gli avversari della riabilitazione di Heidegger furono allarmati soprattutto da notizie e voci che
parlavano di un vero e proprio pellegrinaggio di intellettuali francesi a Friburgo e a Todtnauberg.
Secondo queste voci, nell’ottobre del 1945 ci sarebbe stato persino un incontro fra Heidegger e
Sartre. Heidegger era stato ufficialmente invitato, si diceva, a commentare nei giornali francesi la
situazione in Germania. Come stessero realmente le cose, lo vedremo subito, ma in ogni caso queste
voci bastarono da sole a sortire un effetto decisivo. Gli avversari di Heidegger, soprattutto Adolf
Lampe, avevano quindi chiesto e ottenuto, in novembre, il proseguimento delle indagini e la
formulazione di un giudizio più severo. Questa l’argomentazione di Lampe: se Heidegger è
veramente convinto di essere stato chiamato « a poter dire qualcosa che chiarisca e mostri la via »,
allora o agisce in modo irresponsabile, negando l’evidenza della propria colpa « quando, servendosi
brutalmente del proprio potere, spingeva la nostra Università sulla strada del nazionalsocialismo»,16
oppure egli «è cieco di fronte alla realtà in misura addirittura sconcertante ». In entrambi i casi era
consigliabile che questo filosofo venisse tolto dalla circolazione.
Si creò quindi la situazione per cui l’università e il governo militare francese procedettero
drasticamente contro Heidegger proprio nel momento in cui cominciava la seconda grande carriera
di Heidegger sulla scena culturale francese.
La fortuna di Heidegger in Francia era cominciata all’inizio degli anni ’30 nel contesto di una
corrente culturale cui Jean
Wahl e Gabriel Marcel avevano dato già alla fine degli anni '20 il nome di «esistenzialismo». Nel
1929 era apparsa in Francia una nuova traduzione di Kierkegaard, richiamandosi alla quale Jean
Wahl aveva definito il concetto di esistenza come segue: « esistere significa scegliere; essere
appassionati; divenire; essere isolati e soggettivi; prendersi cura infinitamente di se stessi; sapersi
come peccatori; stare davanti a Dio».17
Al centro del « nuovo pensiero » francese degli anni ’30 c’erano due idee, concepite entrambe in
netto contrasto con il cartesianesimo. L’idea di un’esistenza che veniva concepita come un essere
corporeo, finito, frantumato, svincolato da qualsiasi fondamento portante. Né la razionalità
cartesiana né l’intuizione bergsoniana spianano la via verso questa grande sicurezza. La realtà ha
perduto il suo senso compatto, garantito, l’uomo si trova gettato fra possibilità, fra le quali deve
scegliere. Ed è per questo che esso può anche rendersi colpevole. L’idea dell’esistenza chiude
quindi i conti con le fantasie sul panlogismo del mondo.
L’idea dell’esistenza era legata all’idea della contingenza.
Il singolo uomo fa esperienza di sé come di una incarnazione del caso, nel vero senso della parola.
Gli spetta un certo corpo e quindi un determinato posto nello spazio e nel tempo. Egli non ha alcuna
disponibilità su questo, così come non può disporre sulla maggior parte delle cose. Egli ha sempre
già avuto un inizio, per lui indisponibile, prima che egli stesso potesse iniziare a fare qualcosa di se
stesso. Contingenza significa che quello che c’è potrebbe anche non esserci. L’uomo non può più
essere certo di nessuna finalità superiore, e se ciò nonostante ci crede, deve comunque saltare sopra
un abisso, come diceva Kierkegaard.
L’idea dell’esistenza contingente implicava fin da principio anche l’idea di una libertà intesa in
senso radicale. Per la concezione cristiana dell’esistenza la libertà equivale alla possibilità insita
nell’uomo di decidersi contro Dio e contro l’assoluto, e di separarsene. E per l’esistenza intesa in
senso non cristiano questa libertà ha il significato di essere sbalzati nel vuoto.
Alla formazione di questo ambiente dell’esistenzialismo francese, contro il quale combattè il già
citato Julien Benda, in cui si incontrano su un terreno di comune avversione al cartesianesimo la
mistica dell’essere, il decisionismo della grazia, la filosofia dell’assurdo e il nichilismo, contribuì
un’ulteriore potenza spirituale: la fenomenologia. A partire dagli anni ’20 vengono scoperti in
Francia Husserl e Scheler.
Quando l’esistenzialismo dubita che nella vita umana e nella cultura ci sia una coerenza di senso
garantita a priori, il metodo fenomenologico si offre come integrativo per maturare una sorta di
attenzione gioiosa alle disparate cose del mondo. La fenomenologia opera in Francia come l’arte di
ricavare un piacere dall’attenzione stessa, un piacere che ripaga del fatto che una totalità di senso è
andata in frantumi. La fenomenologia fa sì che anche in un mondo assurdo vi sia il piacere della
conoscenza. Camus ha dato voce a questa relazione fra la passione per la fenomenologia e la
sofferenza per un mondo assurdo nella sua opera intitolata II mito di Sisifo: ciò che rendeva
attrattivo per lui il pensiero di Husserl era la sua rinuncia a un principio esplicativo unitario e la
descrizione del mondo nella sua diversità priva di regole. « Pensare è imparare nuovamente a
vedere, a essere attenti, è dirigere la propria coscienza, fare di ogni idea e di ogni immagine, alla
maniera di Proust, un luogo privilegiato. »18
Quando Raymond Aron, che aveva studiato in Germania e aveva conosciuto la fenomenologia,
all’inizio degli anni ’30 scrive al suo amico Sartre delle proprie « esperienze » fenomenologiche,
Sartre ne rimane come elettrizzato: c’è dunque una filosofia, dice, che ci consente di fare filosofia
su tutto, su questa tazza, sul cucchiaino che vi rigiro dentro, sulla sedia, sul cameriere che attende la
mia ordinazione? La fama della fenomenologia - di questo e di nient’altro si trattava, almeno
all’inizio - spingerà Sartre ad andare a Berlino nell’inverno del 1933 per studiarvi la filosofia di
Husserl. Egli dirà poi sulla fenomenologia: « Erano secoli che non si era sentita in filosofia una
corrente così realistica. Essi [i fenomenologi] hanno rituffato l’uomo nel mondo, hanno restituito
tutto il loro peso alle sue angosce e alle sue sofferenze, e anche alle sue rivolte ».19
In questo scenario esistenzialistico e fenomenologico comincia ad agire, a partire dalla metà degli
anni ’30, anche la filosofia di Heidegger.
Nel 1931 erano apparse in riviste filosofiche francesi le conferenze di Heidegger Dell’essenza del
fondamento e Che cos’è metafisica?: furono le prime traduzioni. Nel 1938 seguì un volume
collettivo contenente due capitoli di Essere e tempo (sulla « cura » e sulla « morte »), un capitolo
dal libro su Kant e il saggio Hölderlin e l'essenza della poesia.
Ma Heidegger divenne il passaparola degli intellettuali parigini non tanto per queste sparute
traduzioni, quanto piuttosto attraverso le lezioni su Hegel, divenute leggendarie, dell’esiliato russo
Alexandre Kojève fra il 1934 e il 1938.
In seguito Roger Caillois parlò del « dominio intellettuale assolutamente straordinario di Kojève su
un’intera generazione». Bataille racconta che ogni suo incontro con Kojève l’aveva lasciato « a
pezzi, stremato, morto dieci volte l’una dopo l’altra: soffocato e schiacciato a terra». Per Raymond
Aron, Kojève era fra i tre spiriti veramente superiori (accanto a Sartre ed Eric Weil) che aveva
incontrato durante la sua vita.
Aleksandr Vladimirovic Kojevnikov, questo il suo nome di origine, essendo discendente da una
famiglia dell’alta nobiltà, era fuggito in Germania nel 1920, in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre.
Viveva della vendita di quanto restava del tesoro di famiglia, da lui esportato clandestinamente.
Possedeva anche alcuni quadri di suo zio, Vasilij Kandinskij, che potevano essere facilmente ceduti
in pegno. Studiò e si laureò da Jaspers a Heidelberg, e durante tutti quegli anni tenne un diario
filosofico sul tema « filosofia del non-ente ». Il suo amico Alexandre Koyré, anch’egli un emigrante
russo, lo portò a Parigi all’inizio degli anni ’30. Kojève lo conobbe quando cominciò una storia
d’amore con la cognata di lui; egli rapì la giovane donna e Koyré venne incaricato dai parenti di
sottrarre nuovamente al seduttore la sua preda d’amore. Ma Koyré fu così impressionato da Kojève
fin dal primo incontro che ammise: « La ragazza ha ragione. Kojève è molto meglio di mio fratello
».20
Kojève era in difficoltà finanziarie: in seguito al crollo della Borsa aveva perduto il suo patrimonio
investito in azioni della ditta casearia « La vache qui rit », e perciò gli giunse propizia l’offerta di
tenere lezioni su Hegel presso l’Ecole pratique des hautes études.
Kojève, questo Nabokov della filosofia europea, presentò uno Hegel assai diverso da quello
conosciuto: uno Hegel che
appariva così simile a Heidegger da poterli persino confondere.
Tutti conoscevano la frase di Hegel « il reale è razionale». Hegel era considerato un razionalista. E a
questo punto Kojève mostrò che questo Hegel non aveva fatto nient’altro se non mettere allo
scoperto l’origine irrazionale della ragione -nelle lotte per il riconoscimento. Un sé esige da un altro
di essere riconosciuto nel suo essere-così. Kojève ricorre alla « cura » heideggeriana e ne fa,
richiamandosi a Hegel, la « cura per il riconoscimento ». La realtà storica che scaturisce da questa
cura per il riconoscimento è la battaglia dell’uomo fino all’ultimo sangue per motivi talvolta
ridicoli: si mette in gioco la propria vita per correggere in un punto il tracciato di un confine, per
difendere una bandiera, per ottenere soddisfazione per un’offesa ricevuta, e così via. Hegel non
deve affatto essere capovolto: sta già con i piedi per terra, e si muove attraverso il fango della storia.
Nel nucleo della ragione è conficcata la contingenza, e sono le contingenze a scontrarsi spesso in
modo così sanguinoso. Questa è la storia.
Richiamandosi a Hegel, ed espressamente anche a Heidegger, Kojève si chiede: qual è il senso
dell’intero essere? Con Heidegger egli risponde: il tempo. Ma il tempo non è reale allo stesso modo
in cui lo sono le cose contingenti, le quali sono pure soggette a invecchiare e hanno il loro tempo.
Soltanto l’uomo vive l’esperienza di come qualcosa che è, poco dopo non è più, e qualcosa che
ancora non è, ora si affaccia all’essere. L’uomo è il punto aperto dell’essere, è il teatro dove l’essere
si rovescia nel nulla e il nulla nell’essere.
I passaggi più stimolanti della lezione di Kojève trattano della morte e del nulla. Kojève dice: la
totalità della realtà include la « realtà umana o parlante », e questo significa che « senza l’uomo
l'essere sarebbe muto, ci sarebbe, ma non sarebbe il vero ».2I
Ma questo « discorso che manifesta il reale » (Kojève) presuppone che l’uomo faccia parte, sì, del
contesto compatto dell’essere, ma al tempo stesso ne sia tagliato fuori, strappato via. Soltanto per
questo egli può errare. L’uomo - questa è la formulazione che ne dà Kojève in senso hegeliano - è «
l’errore che si mantiene nell’esserci e che dura nella realtà ».22 Poi egli interpreta questa frase in
senso heideggeriano: «Pertanto si può anche dire che l’uomo che erra è un niente che nientifica
nell’essere». La base e la fonte della realtà umana è il « niente »; esso si manifesta e si rivela «
come azione negatrice o creatrice, libera e cosciente di se stessa ».23
Infine Kojève cita ancora una volta Hegel: «L’uomo è questa notte, questo niente vuoto che
contiene tutto nella sua semplicità, una ricchezza infinita di rappresentazioni [...] Questa è la notte,
l’intimità della natura che esiste qui - il puro sé [...] Si scorge questa notte quando si guarda l’uomo
negli occhi, quando si guarda dentro una notte che si fa terribile; la notte del mondo si presenta di
fronte a me ».24
Queste frasi formulano il passaggio da Essere e tempo a L'essere e il nulla.
Sartre non aveva ascoltato le lezioni di Kojève, ma si era procurato degli appunti. Nell’inverno
1933-34 aveva studiato a Berlino le filosofie di Husserl e di Heidegger e si era calato a tal punto in
questi studi da prestare scarsa attenzione al regime nazionalsocialista.
Quello che lo affascinava nella fenomenologia era in primo luogo la sua attenzione per la presenza
massiccia e seducente, ma anche spaventosa delle cose; essa riconduceva al cospetto dell’enigma
persistente dell’essere «in sé». In secondo luogo, e in contrasto con ciò, essa rendeva sensibili nei
confronti della ricchezza interiore della coscienza; essa riportava allo scoperto un intero mondo del
« per sé ». E in terzo luogo essa sembrava contenere, anche se in modo non chiaro, la promessa di
saper risolvere in qualche modo la tensione interiore di questo dualismo ontologico dell’« in sé » e
del « per sé ».
Sull’« in sé » delle cose di natura, che si manifestano all'atteggiamento fenomenologico nella loro
presenza prepotente e priva di senso, Sartre aveva dato una impressionante descrizione alla fine
degli anni ’30 nel suo romanzo La nausea, che sarebbe diventato presto un modello classico
dell’esperienza della contingenza: « Dunque, poco fa ero al giardino pubblico. La radice del
castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una
radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui
segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino,
a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi
ho avuto questo lampo d’illuminazione ».25 Ecco l’illuminazione: Roquentin, il narratore, vede le
cose senza quel nesso e quel significato che la coscienza conferisce loro, esse se ne stanno là, nude.
Si distendono davanti a lui in modo addirittura osceno, e gli «confessano la propria esistenza».
Esistenza significa qui: pura presenza e contingenza. « L’essenziale è la contingenza [...] non c’è
alcun essere necessario che può spiegare la contingenza: la contingenza non è una falsa sembianza,
una apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la totale gratuità. Tutto è
gratuito, questo parco, questa città, e io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta
lo stomaco. »26 L’esperienza nel parco è messa a confronto con un essere che sfonda il discorso
razionale. Questa scena è una sequenza letteraria in cui la frase di Kojève: « senza l’uomo l’essere
sarebbe muto: ci sarebbe, ma non sarebbe il vero » viene esaminata sul piano dell’intuizione. Il
narratore esperisce se stesso come cosa fra cose, ridotto all’in-sé vegetativo: « Io ero la radice del
castagno ». Con tutto il suo corpo egli avverte l’essere, un qualcosa di pesante e di impenetrabile, e
ciò lo risospinge angosciato nel mondo della coscienza, il mondo del per-sé, dove farà poi
esperienza della peculiare mancanza di essere. « L’uomo è l'essere per cui il nulla viene al
mondo»;27 così si dice nel libro L'essere e il nulla, fondendo le formulazioni di Kojève e di
Heidegger.
Sartre concepì quest’opera filosofica monumentale, uscita nel 1943, come continuazione
dell’ontologia fondamentale iniziata da Heidegger. Quello che Heidegger chiama esserci (Dasein), è
detto da Sartre, con una terminologia desunta da Hegel e da Kojève, il «per sé». L’uomo è
quell’essere che non riposa sull’essere senza- porre domande, ma che deve sempre innanzi tutto
produrre, progettare, scegliere in una posizione precaria la sua relazione con Tessere. L’uomo è
reale e tuttavia deve ancora realizzarsi. Esso è venuto al mondo e deve continuare costantemente a
venire di nuovo al mondo. La coscienza, come consapevolezza dell’essere, è sempre anche una
mancanza di essere, dice Sartre. L’uomo non potrà mai riposare in se stesso come un Dio o come un
sasso. Il suo carattere distintivo è la trascendenza. Questa trascendenza è intesa da Sartre
naturalmente non nel senso di un regno di idee sovrasensibili, bensì di una trascendenza di sé, di
quel movimento in cui il sé sfugge costantemente a se stesso, è già sempre avanti a se stesso,
prendendosi cura, riflettendo, accogliendo su di sé gli sguardi degli altri. Non è difficile riconoscere
in queste analisi la dottrina heideggeriana degli esistenziali « gettatezza », « progetto », « cura ».
Soltanto che Sartre dispone di un’arte ancora più penetrante per descrivere questi fenomeni. Sartre
segue anche le tesi di Heidegger sulla temporalità dell’esserci. È l’accesso privilegiato al tempo che
non consente all’essere dell’uomo di restare presso di sé. Accesso privilegiato significa che l’uomo
non è nel tempo così come il pesce è nell’acqua, ma che esso realizza il tempo, Io temporalizza.
Questo tempo della coscienza, dice Sartre, è « il nulla che si insinua nella totalità come fermento
detotalizzante ».28
Si tratta in effetti di una continuazione ingegnosa dell’analisi fenomenologica dell’esserci di Essere
e tempo che mette energicamente al centro l’ambito del con-essere, che Heidegger aveva tenuto un
po’ in penombra. Comunque Sartre opera un cambiamento terminologico che condurrà poi a
fraintendimenti carichi di conseguenze e anche a scontri simulati e che offrirà a Heidegger
l’occasione per prendere le distanze da Sartre, dopo una prima adesione. Sartre si serve infatti del
termine «esistenza» secondo l’uso tradizionale cartesiano. Esistenza significa l’essere
empiricamente presente di qualcosa, in contrapposizione alle sue determinazioni soltanto pensate.
Quindi Sartre usa questo termine nel senso di quella che Heidegger chiama « semplice presenza »
(Vorhandenheìt). Dire che l’uomo « esiste » significa pertanto che egli si accorge che innanzi tutto è
semplicemente presente e che fa parte del suo destino il fatto di doversi rapportare nei confronti
della propria semplice presenza. Egli deve farne qualcosa, deve progettarsi etc. In questo senso
Sartre dirà nella sua conferenza L' esistenzialismo è un umanismo (1946) che l’esistenza viene
prima dell’essenza. Il concetto heideggeriano di esistenza in Essere e tempo non intende affatto
questa pura presenza e fatticità, bensì connota il senso transitivo dell’esistere, quindi il rapporto con
sé; vale a dire che l’uomo non si limita semplicemente a vivere, bensì deve «condurre » la propria
vita. Ma naturalmente anche Sartre ha preso in considerazione questo rapporto con se stessi che
Heidegger chiama « esistenza »; ma in lui questo rapporto con se stessi è detto il « per sé ». Al pari
di Heidegger, Sartre cerca di superare la metafisica della presenza in relazione all’uomo, soltanto
facendo ricorso a una terminologia diversa. Al pari di Heidegger, Sartre sottolinea che il discorso
sull’uomo corre sempre il pericolo dell’autoreificazione. L’uomo non è cioè prigioniero della sfera
chiusa dell’essere, bensì è un essere estatico. Per questo Sartre intende la sua filosofìa anche come
una fenomenologia della libertà. E così anche Heidegger vede la capacità che l’uomo possiede di
raggiungere la verità come fondata nella sua libertà. La verità, aveva detto Heidegger nel suo corso
sulla Metafisica del 1935, è libertà, e nient’altro.
Il libro di Sartre L'essere e il nulla fu scritto e pubblicato nella Francia occupata dai nazisti. Esso
sviluppa, attraverso una trama intessuta di sottigliezze, un’intera filosofia dell’antitotalitarismo. Per
il pensiero totalitario l’uomo è una cosa. Un fascista, dice Sartre nel suo saggio La questione
ebraica, è uno che vuole essere « una roccia inesorabile, un torrente in piena che trascina tutto con
sé, una saetta distruttiva», « tutto, ma non un uomo ». La filosofia di Sartre vuole restituire all’uomo
la sua dignità, scoprendo la sua libertà come un elemento in cui si risolve ogni fissità dell’essere. In
tal senso quest’opera è un’apoteosi del nulla, del nulla inteso però come forza creatrice del
nientificare. Ciò che conta è dire di no a ciò che ci annienta.
Nell’autunno del 1945 la fama di Sartre si è già estesa oltre i confini della Francia e la fama di
Heidegger è in procinto di penetrare in Francia. Heidegger riceve visite dalla Francia: vengono da
lui il giovane Alain Resnais, che sarà regista cinematografico, e Frédéric de Towarnicki.
Towarnicki è un giovane soldato della divisione del Reno ed è l’incaricato per la cultura
nell’esercito francese. Aveva letto Che cos'è metafisica? di Heidegger e aveva deciso di fare visita a
Heidegger a Friburgo. Il suo piano ardito era quel
lo di organizzare un incontro fra Heidegger e Sartre. Towarnicki parla con persone vicine a
Heidegger che gli assicurano che Heidegger ha dato protezione a docenti universitari ebrei. Egli ne
dà notizia a Sartre, che viene spinto a mettere da parte la sua iniziale ritrosia nei confronti di questo
incontro. Dal canto suo Heidegger prega Towarnicki di aiutarlo a ripristinare le sue relazioni con la
Francia (una lettera scritta a Émile Bréhier, professore alla Sorbona, era rimasta senza risposta), ma
ammette di non conoscere l’opera di Sartre, se non per qualche breve articolo di rivista che ne
parlava. Towarnicki lascia in prestito a Heidegger un esemplare francese di L’essere e il nulla.
Heidegger inizia subito la lettura. Towarnicki racconta che nel loro colloquio Heidegger si mostrò
impressionato dall’arte descrittiva di Sartre. Egli rimase addirittura stupito dal passo in cui Sartre
riflette filosoficamente sull’atto di sciare. Sartre l’aveva scelto come esempio del fatto che le «
tecniche » determinano in modo fondamentale la percezione del mondo, e che per esempio un
savoiardo che scia alla francese fa un’esperienza dei pendìi montani del tutto diversa da quella ad
esempio di un norvegese. « A seconda che si utilizzerà il metodo norvegese, più adatto ai pendìi
dolci, o il metodo francese, più adatto ai pendìi ripidi, lo stesso pendio apparirà come più o meno
difficile. »29 Fare filosofia sullo sci era una cosa che Heidegger aveva già preso in considerazione,
come ci riferisce Hermann Mörchen a proposito dei periodo di Marburgo, ma non aveva ancora
osato farlo nelle opere pubblicate.
Heidegger è interessato a un incontro con Sartre. Naturalmente egli si aspetta da ciò anche uno
sgravio nel procedimento a suo carico che ha luogo contemporaneamente davanti alla commissione
di epurazione.
Towarnicki aveva dunque l’approvazione di Heidegger e di Sartre; voleva convincere persino
Camus a prendere parte a questo incontro, ma quest’ultimo aveva rifiutato facendo riferimento al
rettorato di Heidegger.
Infine l’incontro non ci fu. Per prima cosa non c’erano documenti di viaggio, e poi nel treno
previsto non c’era posto. Questo lo sappiamo però solo da Towarnicki, che nel 1993 ha pubblicato
la traduzione francese di una lettera di Heidegger a Sartre del 28 ottobre 1945, scritta dunque dopo
la mancata occasione di incontro. Nel frattempo Hugo Ott ha trovato una copia della lettera.
Heidegger informa della sua lettura dell’opera sartriana. «Incontro qui per la prima volta un
pensatore autonomo che ha esposto in termini fondamentali l’ambito dal quale muove il mio
pensiero. La Sua opera è retta da una comprensione così immediata della mia filosofia, quale mai
finora mi era capitato di incontrare. »30 Heidegger accetta espressamente la « sottolineatura
dell’essere-l’uno-per-l'altro » operata da Sartre e si mostra d’accordo anche con la critica sartriana
alla « esplicazione della morte » in Essere e tempo (Sartre aveva obiettato che l’« anticipazione
della morte » di cui parla Heidegger occulta lo scandalo della morte, la sua assurdità e assoluta
contingenza. Sartre dice: la morte non può fare altro se non « togliere alla vita ogni significato »).31
Ma anche queste differenze non possono distogliere Heidegger dal desiderio « di ricondurre insieme
a Lei », come scrive a Sartre, « il pensiero a un punto a partire dal quale esso stesso sia esperibile
come un accadimento fondamentale della storia e conduca gli uomini d’oggi a una relazione
originaria con l’essere». Egli dice di avere atteso con gioia l’incontro a Baden-Baden ed esprime il
proprio rammarico perché quest’ultimo non c’è stato. Ma forse bisognerebbe insistere di più
sull’argomento: « Sarebbe bello se Lei potesse venire qui una volta durante l’inverno. Nel nostro
piccolo rifugio potremo parlare insieme di filosofia e facendovi base potremo intraprendere
escursioni sugli sci nella Selva Nera ».32 Heidegger conclude la sua lettera con un patetico invito, in
cui traccia il quadro di due dioscuri di un unico pensiero dell’essere, dei quali l’uno afferra la cosa a
partire dal nulla, l’altro a partire dall’essere. « Bisogna cogliere ed esprimere questo momento
storico del mondo con la massima serietà, al di là di tutti i meri settarismi, delle correnti di moda e
degli indirizzi scolastici cosicché alla fine si desti l’esperienza decisiva di quanto la ricchezza
dell’essere si nasconde abissalmente nel nulla essenziale. »33
Che Heidegger prendesse davvero sul serio il suo riconoscimento nei confronti di Sartre, che
rasentava l’ammirazione, e che si ripromettesse perciò di collaborare con lui, lo dimostra una
annotazione personale del 5 ottobre 1945, pubblicata come appendice al volume su Kant. Questa
nota, che finora è stata per lo più trascurata, dice: « Effetto su Sartre decisivo; solo da qui ’Essere e
tempo’ è stato capito ».34
Non ci sarà una visita di Sartre alla baita di Heidegger. I due si incontreranno personalmente
soltanto nel 1952 a Friburgo. Ma nel frattempo c’è la critica che Heidegger muove pubblicamente a
Sartre e che viene formulata nella Lettera sull'umanismo (Ober den Humanismus). Torneremo a
parlarne in seguito.
Il traffico filosofico di frontiera tra Germania e Francia non porta per il momento alcuno sgravio per
Heidegger; accade anzi che gli oppositori di una riabilitazione troppo celere di Heidegger ne
vengano, come già detto, intimoriti.
Alla fine del 1945, quando Heidegger sa che le cose si mettono male per lui, e quando ha sperato in
uno sgravio da parte del parere richiesto a Jaspers, egli cerca anche un altro confidente degli anni
passati, l’arcivescovo di Friburgo Conrad Gröber, mentore spirituale della sua giovinezza. All’inizio
del regime nazista Gröber era stato uno zelante fautore della « sollevazione nazionale », e aveva
contribuito in modo determinante alla realizzazione del Concordato. Ma in seguito Gröber aveva
cambiato rotta e assumendo un atteggiamento ecclesiastico conservatore era diventato un nemico
dell’allineamento politico e ideologico al sistema. Per questo dopo il 1945 egli poteva presentarsi
come un’autorità di fronte al governo militare francese. Heidegger sperava di ottenere aiuto da lui, e
perciò nel dicembre del 1945 lo cercò nei suoi uffici. Stando al racconto di Max Müller,
nell’anticamera si sarebbe svolta la seguente scena: la sorella dell’arcivescovo entrò e disse: « Ah,
chi si rivede, Martin! Non veniva qui da dodici anni ». Heidegger rispose imbarazzato: « Marie,
l’ho pagata cara. Per me è quasi finita »,35 Gröber indirizzò già nei giorni attorno a Natale una
lettera al governo militare. Quest’ultima non è ancora stata trovata, ma che Gröber si sia adoperato
per far tornare Heidegger all’università risulta da una lettera di un collaboratore del governo
militare, in cui si dice: «Sarà tuttavia difficile riammettere Heidegger all’università, se il rettore si
dimostrerà contrario. In ogni caso, poiché Lei [Gröber] lo raccomanda, cercherò di fare il
possibile».36 Gli sforzi di Gröber non poterono sortire alcun effetto contro l’opposizione
dell’università. Ma per Gröber la visita di Heidegger significava una grande soddisfazione. In un
resoconto sulla situazione politica redatto l'8 marzo 1946 per un collaboratore di Pio XII, egli
scrive: « Il filosofo Martin Heidegger, un tempo mio allievo e compaesano, è stato messo in
pensione e non può tenere lezioni. Attualmente si trova allo Schloss Haus Baden a Badenweiler, e fa
l'esame di coscienza, come ho sentito dire ieri dal professor Gebsattel. Per me è stata una grande
consolazione quando, all’inizio della sua disgrazia, egli è venuto da me e si è comportato in modo
davvero edificante. Gli ho detto la verità e l’ha ascoltata tra le lacrime. Non interrompo i rapporti
con lui perché spero che si ravveda spiritualmente e che in lui avvenga un mutamento spirituale ».37
Effettivamente nella primavera del 1946 Heidegger subì un crollo fisico e psicologico e affrontò un
trattamento psico-somatico presso il barone Victor von Gebsattel, medico e psicologo appartenente
alla scuola dell’analisi dell’esserci di Binswanger, un indirizzo psicoanalitico che si ispirava alla
filosofia di Heidegger e di cui fece parte anche Medard Boss, amico di Heidegger negli anni della
tarda maturità.
Le informazioni che Heidegger dà sul proprio crollo e sul suo soggiorno in clinica sono vaghe. A
Petzet disse di essere crollato nel dicembre 1945 davanti al «tribunale d’inquisizione» (in realtà fu
nel febbraio 1946). In seguito il decano della facoltà di medicina, Beringer, lo avrebbe indirizzato a
Badenweiler da Gebsattel. « E che cosa faceva? Salimmo insieme una volta sul Blauen attraverso il
bosco innevato. Non fece altro... Ma mi fu d’aiuto sul piano umano. E dopo tre settimane tornai a
casa. »38
Heidegger stava di nuovo bene, ma per un certo periodo molti lo evitarono. Alcuni, che dal canto
loro volevano mantenersi integri sul piano politico, preferirono evitare i contatti con lui. Robert
Heiß, un collega di facoltà ben disposto nei suoi confronti, scrive a Jaspers nel luglio del 1946 che
ormai era evidente che « il signor Heidegger dovesse andare in una sorta di esilio; si può dire che
raccoglie ciò che ha seminato ».39
Quale semina raccoglie? Egli deve rispondere del suo impegno politico del 1933. Ma la sua semina
filosofica tornerà presto a germogliare ancora una volta vigorosa.
21. Che cosa facciamo quando pensiamo? Risposta a Sartre. La Lettera sull'umanismo.
La rinascita dell’ umanismo. Toni elevati. Atmosfere nella Germania del dopoguerra. da
luogotenente del niente a pastore dell’essere. I!autointerpretazione di Heidegger: la « svolta »
(Kehre). Non farsi immagini, né dell’uomo, né di Dio.
CHE COSA FACCIAMO IN REALTÀ QUANDO PENSIAMO?
Noi pensiamo per preparare la nostra azione e in seguito per esaminarla. Noi la ponderiamo in
questo duplice senso. In entrambi i casi il pensiero è riferito all’azione, ma esso stesso è qualcosa
d’altro rispetto a quella. Poiché però è riferito all’agire, è in questo che trova il suo senso e il suo
compimento; altrimenti perché si dovrebbe pensare?
Tuttavia, non è forse pensabile un pensiero che abbia il proprio scopo in se stesso? Un pensiero cioè
che non mira a ottenere un effetto che stia al di fuori di sé? Un pensiero, insomma, che si compie in
se stesso? Un pensiero che ci trascina con sé in un modo un po’ strano, e che quando è tutto finito
uno si strofina gli occhi con sorpresa, e magari controvoglia o sentendosi sollevato fa ritorno al
piano della realtà. E.T.A. Hoffmann racconta la storia di un pedante che andava in cerca della realtà,
e che dopo aver sentito una sinfonia si rivolse al suo vicino, rimastone ammaliato, chiedendogli: « E
questo che cosa dimostra, caro signore?... » Esiste un pensiero nei confronti del quale questa
domanda risulterebbe altrettanto stupida?
Heidegger è convinto che il proprio pensiero sia di questo tipo. Esso non conduce « ad alcun sapere,
al modo delle scienze », non porta « alcuna saggezza di vita di cui ci si possa servire », non risolve
« alcun enigma del mondo », non conferisce « alcuna forza immediata all’agire ».1
Quale inclinazione è mai questa, che vede nella facoltà di pensare qualcosa di più che un semplice
riferimento alla conoscenza e all’azione?
Nella Lettera sull’ umanismo Heidegger racconta un aneddoto su Eraclito riferitoci da Aristotele.
Alcuni stranieri volevano andare da lui per vedere come vive e che aspetto ha un pensatore quando
pensa. Ma lo trovano mentre sta scaldandosi davanti a un fuoco. «S’arrestarono sorpresi, soprattutto
perché, vedendoli esitanti, egli li incoraggiò, invitandoli a entrare, con queste parole: ’Anche qui
sono presenti gli dei’.»2
Heidegger legge questo aneddoto come una informazione sulla cosa del pensiero. Qui c’è « il fatto
privo di attrattiva» che uno ha freddo e si riscalda vicino al fuoco. Che « anche qui » siano presenti
gli dei significa che essi non sono presenti solo in particolari ambiti e in particolari azioni, bensì nel
quotidiano. Ma qui lo sono solo se questa quotidianità viene espressamente meditata. Meditare
qualcosa significa restituirgli la sua dignità. Gli dei sono presenti nella stanza dove è alloggiato
questo fuoco perché e fintantoché Eraclito li conduce alla parola. Questo condurre-alla-parola
significa per Heidegger « pensare ». L’ente viene strappato alla sua chiusura e nello spazio aperto
del linguaggio diviene qualcosa che c’è e che « si offre ». Questo è il primo aspetto del pensiero.
Eraclito, che si riscalda vicino al fuoco, riscalda se stesso e gli stranieri anche in altro modo, con la
parola. Questa dischiude e invita gli stranieri. Il secondo aspetto del pensiero è la comunicazione,
che mira a condividere con altri la situazione dischiusa dalla parola.
Quando Heidegger medita sul pensiero nella Lettera sull' umanismo, scritta nel 1946, la sua
situazione personale è quella di un proscritto. E certo anche per questo motivo gli era tornato alla
mente l’aneddoto di Eraclito, perché esso gli ricordava le sue stesse circostanze di vita. Anche lui
infatti conduceva ora una vita parca, povera. Anche lui avrebbe potuto benissimo ricorrere a un
fuoco per riscaldarsi. A Friburgo non c’era combustibile; la baita di Todtnauberg, intorno alla quale
si poteva tagliare legna, ha bisogno di riparazioni; non è più in grado di far fronte all’inverno, e
mancano i materiali per rimetterla a posto. E tuttavia Heidegger vi si ritira dalla primavera fino
all’autunno inoltrato. La vita nell’abitazione di Friburgo è troppo angustiata dagli acquartieramenti.
Anche il reperimento di generi alimentari è più facile lassù nella Selva Nera. I contadini del vicinato
gli vengono in aiuto.
Molte cose lo opprimono. L’ignominioso allontanamento dall’università, l’attesa dei due figli
ancora prigionieri in Russia. Eppure, nonostante le circostanze opprimenti, la sua filosofia conserva
la tonalità emotiva di fondo, particolarmente rilassata, degli ultimi anni della guerra.
La sua reazione ai provvedimenti discriminanti assunti nei suoi confronti è del tutto diversa da
quella ad esempio di Carl Schmitt. Il giurista di punta del Terzo Reich, coinvolto ben più
profondamente nel sistema criminale, era stato colpito più duramente. Anche lui aveva perduto il
posto, la sua biblioteca era stata sequestrata; internato per un anno intero (dal settembre 1945
all’ottobre 1946), era stato sottoposto nuovamente a carcerazione preventiva per il processo di
Norimberga contro i criminali di guerra (aprile-maggio 1947). Infine si rinunciò a una imputazione
formale, e così Schmitt potè ritirarsi a Plettenberg, nella sua terra natale. In occasione della sua
scarcerazione dal carcere preventivo avvenne il memorabile colloquio fra lui e Robert Kempner,
sostenitore dell’accusa. Kempner: «Che cosa farà adesso?» Carl Schmitt: « Mi ritirerò nella
sicurezza del silenzio ».3 Ma non si trattò di un silenzio rilassato. Come testimoniano le annotazioni
scritte negli anni fra il 1947 e il 1951 (Glossarium), Carl Schmitt era costantemente occupato a
formulare la propria autogiustificazione. In modo penoso e lacrimevole egli lamenta il suo destino
di « selvaggina da caccia ». Vede se stesso come il profeta Giona sputato fuori dal ventre del
Leviatano. Sbava di rabbia contro i « criminalizzatori di Norimberga» e con sarcasmo dice: «I
crimini contro l’umanità vengono compiuti dai tedeschi. I crimini per l’umanità vengono compiuti
sui tedeschi. Qui sta tutta la differenza». Il suo disprezzo va soprattutto a coloro che prendono parte
alla «commedia della baruffa fra predicatori della penitenza». Egli motiva il proprio rifiuto a essere
sottoposto al procedimento di denazificazione dicendo che « chi vuole confessarsi vada a farsi
vedere dal prete ».4 Di fronte al mondo pubblico egli sceglie l’atteggiamento del silenzio eroico, e
nelle sue annotazioni lamenta il fatto che alla sua voce viene sottratto qualsiasi spazio di risonanza,
e che ora è costretto a gridare « senza gola ». Ma è sempre meglio, scrive, far parte dei torturati che
degli « autotorturatori ».
Di questi ultimi non fa parte nemmeno lo stesso Heidegger. Egli pensa se stesso piuttosto nella parte
del « saggio della montagna », che descrive in grandiose prospettive e in grandi panorami la
mostruosità del mondo moderno. In tal senso vengono pensati senz’altro anche i crimini del
nazionalsocialismo, che non sono però oggetto di una riflessione particolare. Così il comportamento
di Heidegger si differenzia anche da quello di Alfred Baeumler che (nelle sue annotazioni) scrive: «
Dichiarare me stesso pubblicamente ’colpevole’, è una cosa che ritengo indegna e insensata», ma
che sulla scena interiore affronta in modo ben più autocritico il tribunale della propria coscienza.
Baeumler diagnostica in se stesso la tendenza a rifuggire le difficoltà della storia, complicata e
contraddittoria, nelle idee « assolute » di popolo, Führer, razza, missione storica. Anziché cercare
una reale « vicinanza alle cose »,5 egli avrebbe lasciato che fossero le « ampie visioni » a trionfare e
a fare violenza alla realtà. Tutto ciò sarebbe espressione dell’« arretratezza nei confronti
dell’Occidente (estraneità al mondo) » da parte dei tedeschi,6 che in un altro passo Baeumler
chiama « astrazione nell’indeterminato ».7 Nelle questioni politiche, afferma, bisogna opporre
resistenza alla smania del sublime. Egli prescrive a se stesso una cura di sobrietà, che alla fine lo
conduce a stimare i valori della democrazia. La democrazia è l'« antisublime ». Essa è priva di
prospettive grandiose per il futuro, in cambio però è « interamente presente », in essa non ci sono
certezze sui compiti storici, ma soltanto una convivenza con « probabilità ».8 Sotto il peso della
catastrofe, anche personale, Baeumler comincia ad apprendere la lezione, per lui difficile da
accettare, di pensare la politica senza metafisica.
Il modo di pensare di Heidegger non è né autocompassionevole e aggressivamente prepotente come
quello di Carl Schmitt, né politico e autocritico come quello di Alfred Baeumler.
Il primo documento del suo pensiero pubblicato dopo il 1945 è la Lettera sull’ umanismo, scritta nel
1946 a Jean Beaufret, l’apostolo più importante di Heidegger sulla scena filosofica francese del
dopoguerra. Proprio il 4 giugno 1944, il giorno in cui fu data notizia dello sbarco degli Alleati in
Normandia, Beaufret aveva fatto per la prima volta, come egli stesso racconta, la propria esperienza
del pensiero di Heidegger: per la prima volta l’aveva capito! E questo fu per lui un momento così
felice che al confronto con esso si appannava la stessa gioia per la liberazione della Francia, che si
andava delineando. Quando i francesi occuparono Friburgo, Beaufret fece recapitare a Heidegger
per mezzo di un ufficiale una lettera dai toni entusiastici. « Sì, con Lei è la filosofia stessa che si
libera con decisione da ogni piattezza e riveste l’essenziale della propria dignità. »9 In seguito a ciò
Heidegger invitò Beaufret a fargli visita. Questa ebbe luogo nel settembre del 1946, e con essa
iniziò tra i due un’intensa amicizia che sarebbe durata per tutta la vita. La prima conseguenza di
questa nuova relazione fu dunque la Lettera sull’umanismo. Beaufret aveva posto a Heidegger
questa domanda: « In che modo è possibile restituire un senso alla parola umanismo? »
Heidegger riprese volentieri questa domanda, perché gli offriva l’occasione di rispondere al saggio
di Sartre L’esistenzialismo è un umanismo che era stato pubblicato pochi mesi prima e che anche in
Germania veniva discusso ovunque. Anche se non era riuscito a incontrarlo personalmente,
Heidegger cercava il dialogo con Sartre. Peraltro, dopo una conferenza del 29 ottobre 1945, che
stava alla base di questo saggio, l’esistenzialismo di Sartre era diventato quasi da un giorno all’altro
un fenomeno di moda per l’Occidente europeo. A sentire questa conferenza, tenuta nella Salle des
Centraux, era affluita una gran massa di persone in attesa che quella sera venisse proclamata
l’enciclica dell’esistenzialismo. E così fu: l’accalcarsi della folla, il parapiglia, sedie rotte, Sartre ci
mise un quarto d’ora per farsi strada fino al podio. Nella sala surriscaldata, sovraffollata,
sovreccitata, Sartre cominciò, tenendo pigramente le mani in tasca, a sciorinare le sue dichiarazioni,
che frase dopo frase destavano l’impressione di una formulazione valida e definitiva. Gli uditori
accalcati, spintonati, quasi soffocati, potevano avere la sensazione di sentire pronunciare delle frasi
che d’ora in poi sarebbero state citate incessantemente. Non soltanto in Francia, dopo questa
conferenza, non ci fu giorno in cui non si facesse parola o citazione di Sartre e dell’esistenzialismo.
Pochi mesi prima Sartre aveva dichiarato: « L’esistenzialismo? Non so che cosa sia. La mia
filosofia è una filosofia dell’esistenza». E già nel dicembre del 1945 erano in circolazione i primi
breviari popolari dell’esistenzialismo. E così si diceva: «Che cos’è l’esistenzialismo? Risposta:
l’esistenzialismo è la fede che l’uomo si crea nel corso della propria vita attraverso le sue azioni
».10
L’espressione più pregnante di Sartre, secondo cui « l’esistenza precede l’essenza», doveva
incontrare proprio nella Germania distrutta il sentimento di vita di coloro che si ritrovarono dopo la
catastrofe sotto le macerie, nella coscienza di averla scampata un’altra volta. Chi aveva salvato la
propria esistenza poteva ancora cominciare da capo. E proprio in tale accezione questa frase,
estremamente sottile sul piano filosofico, ebbe notevole seguito nella Germania del dopoguerra.
Alla fine del 1946, quando Erich Kästner fece ritorno dalla prigionia e trovò Dresda distrutta, si rese
conto, come scrive in un diario, che la maggior parte delle cose avevano perso la loro importanza. «
Nelle più buie tenebre della Germania ci si accorge che l’essenza costituisce l’esistenza. » 11
Nella sua leggendaria conferenza del 29 ottobre 1945 Sartre aveva risposto alla domanda sul destino
dell’umanismo in un’epoca che aveva appena vissuto gli eccessi della barbarie. La risposta di Sartre
è che i valori dell’umanismo, a cui possiamo affidarci, dato che si presume siano saldamente insiti
nella nostra civiltà, non ci sono. Essi ci sono soltanto se di volta in volta li reinventiamo e li
rendiamo reali nella situazione della decisione. L’esistenzialismo pone l’uomo di fronte a questa
libertà e di fronte alla responsabilità che ne deriva. Perciò l’esistenzialismo non è una filosofìa della
fuga dalla realtà, del pessimismo, del quietismo, dell’egoismo o della disperazione. E' una filosofia
dell’impegno. Sartre mette in circolazione delle formulazioni pregnanti, che vengono presto
conosciute in tutta Europa: « L’esistenzialismo definisce l’uomo attraverso il suo agire; -
L’esistenzialismo dice all’uomo che c’è speranza solo nell’azione e che l’azione è l’unica cosa che
consente all’uomo di vivere; - Un uomo si impegna nella sua vita, disegna il proprio volto, e al di là
di questo volto non c’è niente; - Noi siamo abbandonati, senza scusanti. Questo è ciò che intendo
quando dico che l’uomo è condannato alla libertà ».
In Francia, come in Germania, dopo il 1945 era tornato attuale il problema dell’umanismo, della sua
rivitalizzazione o del suo rinnovamento dopo gli anni della barbarie e del tradimento - e perciò
anche Sartre, e poco dopo Heidegger, si videro chiamati a lavorare in tal senso.
Sartre doveva difendersi dall’accusa di comparire in un momento storico in cui si era palesata la
fragilità dei valori della civiltà, come solidarietà, verità e libertà, e di avere operato in questa
situazione precaria indebolendo ulteriormente le norme etiche, affidando al singolo la decisione sul
loro valore. Sartre risponde dicendo che, avendo messo fuori discussione Dio, dobbiamo pure avere
qualcuno che inventi i valori. Bisogna prendere le cose così come esse sono. L’illuminismo ha già
accantonato tutte le ingenuità. Noi ci siamo destati da un sogno: ci troviamo sotto un cielo vuoto, e
non ci possiamo fidare più nemmeno della comunità. E perciò non ci resta altro che collocare i
valori nel mondo per mezzo del nostro agire e della nostra individualità, e difendere la loro validità
senza una benedizione dall’alto, senza la certificazione entusiastica da parte di un Dio o di uno
spirito del popolo o di una idea universale dell’umanità. Il fatto che ciascuno debba inventare per sé
l’« umanità» significa che « la vita non ha senso a priori ».12 Dipende da ciascuno singolarmente
conferirle un senso, scegliendo con il proprio agire determinati valori. Su questa scelta esistenziale
del singolo si fonda la possibilità di una « comunità umana ». Ciascuna di queste scelte è un «
progetto », un atto di oltrepassamento. Sartre dice: un « trascendere ».13 L’uomo non riposa in sé
come una realtà bell’e fatta, è spinto fuori di sé e deve sempre ancora realizzarsi. Ciò che esso
realizza è la sua trascendenza. Questa non è intesa però come un aldilà, bensì come la quintessenza
di possibilità in vista delle quali l’uomo può oltrepassare se stesso. La trascendenza non è qualcosa
in cui si possa trovare quiete, bensì essa stessa è il cuore dell’inquietudine che non dà pace
all’uomo. Così l’esistenzialismo è un umanismo perché «noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro
legislatore che lui e che proprio nell’abbandono egli deciderà di se stesso; e perché noi mostriamo
che, non nel rivolgersi verso se stesso, ma sempre cercando fuori di sé uno scopo, - che è quella
liberazione, quell’attuazione particolare, - l’uomo si realizzerà precisamente come umano ».14
Gabriel Marcel, un umanista cristiano che aveva fatto propri motivi esistenzialistici e che divenne
celebre in Germania insieme a Sartre, osserva contro questa concezione che la trascendenza
sartriana rimane qualcosa di vuoto. E non si tratta solo di un problema filosofico, bensì del fatto che
l’uomo viene esposto alle catastrofi socio-politiche. Nel saggio Che cos’è un uomo libero?, scritto
per la rivista Der Monat del settembre 1950, egli pone la seguente questione: come è stato possibile
che la non-libertà si sia instaurata nei sistemi totalitari fascisti e stalinisti? La sua risposta è: la non-
libertà ha potuto trionfare perché la secolarizzazione non consente la realizzazione di altre finalità
se non quelle intramondane. In tal modo l’uomo è stato consegnato senza residui e senza riserve al
mondo, cosicché non ha saputo fare di meglio, con le sue intenzioni che eccedono rispetto al mondo
nel suo complesso e che lo trascendono, se non dichiarare come assolute le finalità intramondane,
facendone i propri idoli. Quel Dio che ci apre un libero orizzonte di fronte alla realtà diventa l’idolo
che noi stessi abbiamo creato e che ci riduce in schiavitù. Marcel parla dell’« idolatria della razza e
dell’idolatria della classe ».15 II principio di fondo di Marcel è che « l’uomo [può] essere e restare
libero solo nella sfera che lo lega alla trascendenza ».16 Con ciò egli mette in gioco una
trascendenza esperibile negli attimi in cui c’è un’estatica estraneità al mondo. La « capacità
creatrice e inventiva » di cui Marcel parla con lo stesso entusiasmo di Sartre, non produce solo la
civiltà umana; il suo slancio va al di là: essa non vuole soltanto più vita, ma vuole di più della vita.
Soltanto se noi restiamo cittadini di due mondi possiamo conservare il mondo umano nella sua
umanità.
Effettivamente Marcel ricorda un significato fondamentale della religione. La trascendenza è quel
riferimento che sgrava gli uomini dal peso di dover essere tutto gli uni per gli altri. In tal modo essi
possono cessare di scaricarsi l’un l’altro la propria mancanza di essere, accusandosi reciprocamente
per l’estraneità che si prova nei confronti del mondo. Essi non hanno nemmeno più bisogno di
lottare angosciosamente per la propria identità, perché possono credere che soltanto Dio li conosca
realmente. Con tutto ciò questa trascendenza aiuta l’uomo a entrare nel mondo, tenendo desta e
persino santificando la coscienza dell’estraneità. Essa impedisce che l'uomo assuma completamente
la cittadinanza mondana e gli ricorda che è solo un ospite con un permesso di soggiorno limitato. In
tal modo essa pretende da lui il riconoscimento della sua impotenza, della sua finitezza, fallibilità e
colpevolezza. Ma fa sì che questo riconoscimento sia vivibile, e in tal senso costituisce una risposta
spirituale alla limitatezza di ciò che l’uomo è in grado di fare.
Per Marcel, Sartre non può avere ragione quando afferma che «non c’è altro universo che [...]
quello della soggettività umana».17 Se così fosse, il mondo sarebbe l’inferno. Non basta che l’uomo
superi se stesso, egli deve e può oltrepassare se stesso in vista di qualcosa che esso stesso non è e
non potrà mai diventare. Egli non deve solo avere la volontà di realizzarsi; è necessario che lo si
aiuti a riscoprire quella dimensione in cui può realizzarsi.
Nella Germania dei primi anni del dopoguerra gli argomenti dell’umanismo cristiano di un
Reinhold Schneider o di un Romano Guardini sono analoghi a quelli di Gabriel Marcel.
Reinhold Schneider visse a Friburgo a partire dal 1938. Verso la fine del regime nazionalsocialista
fu denunciato per alto tradimento. Aveva fatto circolare privatamente migliaia di copie di
meditazioni religiose, sonetti e racconti di sua produzione, facendole pervenire anche ai soldati al
fronte. In questi scritti Schneider invocava la coscienza religiosa contro la barbarie. A questo tratto
portante del suo pensiero egli resterà fedele anche dopo il 1945. Nel suo scritto intitolato
L'indistruttibile, apparso nel 1945, egli si chiede se sia possibile che nessuno possa essere chiamato
a rispondere per i crimini collettivi. La sua risposta è che non si può né accettare che coloro che
detengono il potere politico si sottraggano alle proprie responsabilità, né che vengano loro imputate
tutte le responsabilità risparmiando al singolo qualsiasi esame di coscienza. Ma questo esame di
coscienza non dovrà sortire solo il fin troppo comodo riconoscimento che tutti quanti siamo
peccatori. Se è un esame serio, ci si accorgerà di quanto bisogno abbiamo dell’esperienza del
peccato. Che ne è della colpa nei confronti dell’umanità quando la comunità degli uomini imbocca
una via criminale? Questa colpa viene meno. Quando la colpa scompare nella collettivizzazione del
crimine, rimane soltanto il peccato davanti a Dio. Soltanto il rapporto con Dio può salvare l’uomo
davanti a se stesso. Questo insegnamento è ricavato da Schneider dalla catastrofe del
nazionalsocialismo. Ma il rapporto con Dio non può esse* re « istituito » da noi. Dio non è un
nostro « progetto ». Reinhold Schneider non è in grado di proporre alcuna terapia, non dispone di
alcuna concezione politica; gli rimane solo la fede in una storia che magari sia misericordiosa nei
nostri confronti. « La storia è il ponte costruito da Dio sopra abissi inauditi. Noi dobbiamo passare
sopra questo ponte. Ma forse un giorno esso si allungherà solo di un passo [...] Noi andiamo in un
altro mondo, un mondo che ci è del tutto estraneo [...] La storia non ha interruzioni, eppure le sue
trasformazioni appaiono come dei trapassi... »18
Come Reinhold Schneider, anche Romano Guardini voleva scorgere la luce nel tramonto. Guardini,
che nel 1946 fu considerato per un certo periodo come possibile successore alla cattedra di
Heidegger, pubblicò nel 1950 un libro molto letto a quel tempo, La fine della modernità, che si
basava sulle sue lezioni tenute a Tubinga nell’inverno 1947-48.
Il mondo moderno, sostiene Guardini, prende le mosse dalla concezione della natura come potenza
protettrice, dalla soggettività umana come personalità autonoma e dalla cultura come un’ambito
intermedio dotato di leggi proprie. Ogni cosa ha ricevuto il proprio senso dalla natura, dalla cultura
e dalla soggettività. Con la fine del mondo moderno, di cui siamo testimoni, queste idee affondano.
La natura perde la sua forza protettrice e diviene estranea e pericolosa. La persona viene scalzata
dall’uomo massificato, e nel malessere culturale muore la vecchia devozione per la cultura. I sistemi
totalitari sono insieme espressione e risposta a questa crisi; la quale però dischiude a sua volta
l’opportunità di un nuovo inizio. Evidentemente l’uomo deve prima aver perduto le ricchezze
naturali e culturali affinché accada che in questa «povertà » torni a scoprire se stesso come persona
« nuda » davanti a Dio. Forse le « nebbie della secolarizzazione » si diradano, e comincia un giorno
nuovo della storia.
Non si può affermare che fosse un umanismo debole quello che prese la parola nei primi anni che
seguirono la catastrofe. C’erano molte dispute e dissensi per quanto riguardava il dettaglio,
soprattutto le questioni concrete della ricostruzione politica, ma era comunque molto diffuso il tratto
della grandezza dell’Occidente, dal quale si attingeva il pathos del nuovo inizio. Nella
presentazione della rivista Die Wandlung, Karl Jaspers scrive (novembre 1945): «Però il fatto che
siamo in vita deve pure avere un senso. Ci tiriamo su davanti al nulla [...] Non abbiamo affatto
perduto tutto se nella rabbia della disperazione non sciupiamo anche ciò che può essere imperdibile
per noi: il fondamento della storia, che per noi è innanzi tutto nel millennio di storia tedesca, poi di
storia occidentale e infine anche di storia dell’umanità nel suo complesso. Aperti nei confronti
dell’uomo in quanto uomo, noi abbiamo il diritto di sprofondarci in questo fondamento, nei ricordi
più prossimi e più remoti ».19
Per alcuni contemporanei scettici queste erano a quel tempo parole troppo grandi, una ripresa della
specialità tedesca di una eccessiva precarietà, come aveva diagnosticato Helmuth Plessner nel suo
esilio a Groningen già nel 1935 nel saggio II destino dello spirito tedesco alla fine della sua epoca
borghese (apparso nel 1959 con il titolo La nazione ritardata). Ma in una Germania che fino alla
fine aveva seguito il suo Führer, che aveva sostituito la politica con l’ubbidienza fedele, che adesso
era divisa in zone di occupazione ed era governata dagli Alleati, che preferiva tenersi lontana dalle
responsabilità politiche, da dove poteva giungere qui un ragionamento politico che non si rifugiasse
subito in domande troppo grandi, un pensiero che potesse controbilanciare uno spirito che spesso
cominciava troppo in basso o troppo in alto, partendo dal nulla o da Dio, dal tramonto o dall’alba?
Dolf Sternberger, curatore con Karl Jaspers di Die Wandlung, manifestò molto presto il suo
disappunto nei confronti di questi toni « elevati » della politica dello spirito. Egli vedeva in ciò il
pericolo che l’antico vizio dello spirito tedesco di darsi arie di superiorità nei confronti della
politica, potesse continuare a vivere. A suo parere è un errore vedere la cultura e lo spirito come un
ambito a sé stante, separato dalla politica, dall’economia, dalla tecnica e dal quotidiano.
Bisognerebbe fare attenzione a trattare tutte le cose della vita con spirito e cultura. Cura e finezza
nelle faccende umane: questa è l'umanità. Nel 1950, in occasione del « Congresso per la libertà
culturale », egli disse: « In Germania sacrificherei tranquillamente certe cose che appartengono alla
sedicente cultura, se vogliamo guadagnarne in cambio la civiltà ».20 Meno « fumosità propria di una
massa indefinita di ideali e di valori superiori », e in cambio un senso maggiore per le cose più
prossime, senso civile. « Non lasciamoci trascinare nella follia della cultura: se vogliamo difendere
la libertà, dobbiamo difenderla nella sua univocità, pienezza e indivisibilità, come libertà politica,
personale e spirituale. Coltiviamo la libertà! E riceveremo tutto il resto. »2I
Ovviamente, come sapeva anche Dolf Sternberger, proprio intorno alla questione di una cultura
della libertà doveva esplodere in terra tedesca la contesa delle opinioni e dei programmi, sia che si
trattasse di programmi liberal-democratici o socialisti o capitalistici, oppure orientati a una terza
via, legati a valori cristiani o al pluralismo radicale. Sternberger dovette continuare a evidenziare
quello che in Germania non era affatto evidente di per sé: che questa lotta appartiene alla cultura e
non significa soltanto schermaglie di partito o tramonto dell'Occidente. Il problema non era questa
lotta, ma il fatto che lo « spirito » credeva di esserne al di sopra ed era già in procinto di consegnarsi
alla propria disperazione gnostica, alle sue ossessioni apocalittiche e alle sue fantasie sui crepuscoli
dell’umanità nel senso tanto dell’alba di un giorno nuovo quanto del tramonto.
Effettivamente la situazione tedesca risultava straordinariamente difficile per un pensiero che
discendesse dalle vette delle spiegazioni globali e si esponesse alle sfide della complessa situazione
attuale. Si poteva per esempio accettare il tribunale che le potenze alleate tenevano aperto sulla
Germania con il processo di Norimberga e con le misure di denazificazione? Non portava tutto
questo a scaricare la responsabilità per la propria storia? Ma chi doveva giudicare la Germania?
L’esperimento di una politica morale non era forse destinato a fallire dato che vi era coinvolta
l’Unione Sovietica, anch’essa una potenza criminale e totalitaria? Che atteggiamento bisognava
assumere dopo la sconfitta del fascismo di fronte alla nuova minaccia rappresentata dal
comuniSmo? La guerra era finita, e già si andava profilando un nuovo pericolo di guerra. La
liberazione e la catastrofe: dove finiva l’una e cominciava l’altra? Come poteva esserci un
ordinamento democratico con un popolo che, nella sua stragrande maggioranza, aveva appena finito
di portare in trionfo il proprio Führer? Le élite economiche del capitalismo e le élite scientifiche:
erano state queste ad appoggiare il sistema. C’era ancora una tradizione della borghesia
democratica? Poteva forse essere di aiuto la rivitalizzazione dell’idealismo tedesco della cultura?
Tornare a Goethe, come propose Meinecke, era una soluzione praticabile? Non era forse meglio
puntare sull’effetto civilizzatore dell’economia di mercato? La merce, una volta che sia di nuovo
presente in abbondanza, non risolverebbe forse il problema della purificazione morale e del vivere
nella verità? Perché compiere un lavoro di contrizione, se questo tiene lontano dal lavoro? L’idea
che un popolo debba svolgere un’opera di contrizione non è solo una fantasia apolitica,
un’inaccettabile applicazione di atteggiamenti individuali su un soggetto collettivo?
La politica quotidiana e reale di quegli anni non si fece distrarre da questa bufera di dubbi, ma
proseguì per la sua via che riscuoteva successo pratico nelle zone occidentali e che era segnata da
riforme valutarie, dalla fusione delle zone occidentali, dalla fondazione della Repubblica federale e
dall’integrazione con l’occidente nel segno dell’incipiente guerra fredda. Si venne stabilendo una
società aperta addomesticata dall'  autorità patriarcale. In una situazione di generale disorientamento
spirituale cominciò dunque la storia del successo dello Stato di Adenauer.
A questo proposito sono molto utili le osservazioni che Hannah Arendt fece nel 1950 in occasione
della sua prima visita in Germania dopo la guerra. Essa descrive come le persone si muovessero fra
le rovine, tornando a spedirsi a vicenda cartoline illustrate di chiese e piazze, edifici pubblici e ponti
che non c’erano più. Lo stato d’animo oscilla fra l’apatia e l’impegno zelante ma sconsiderato; c’è
solerzia nelle piccole cose e indifferenza nei confronti del destino politico della comunità. « La
realtà della distruzione che circonda tutti i tedeschi si risolve in una fatua autocompassione, ma
raramente di profonde radici, e che comunque scompare velocemente quando su alcune larghe
strade vengono costruiti piccoli e brutti edifici piatti che potrebbero provenire da qualche strada
principale americana. »22 Che ne è dell’amore dei tedeschi per il loro Paese, si chiede Hannah
Arendt. Essi strisciano fuori dalle loro rovine, si lamentano della cattiveria del mondo, e quando
hanno fame e freddo dicono: questa dunque è la vostra democrazia che volete portarci! E nel caso
delle persone « colte », le cose non vanno meglio. Anche qui c’è lo stesso rifiuto della realtà.
«L’atmosfera intellettuale è permeata di vaghi luoghi comuni, di concezioni che si sono formate
molto prima degli eventi attuali, ai quali ora devono adattarsi; ci si sente oppressi da una stupidità
politica dilagante. »23 In questa « stupidità » Hannah Arendt annovera anche un certo tipo di
pensosità tedesca che cerca le cause della guerra, della distruzione della Germania e dell’assassinio
degli ebrei non già nelle azioni del regime nazista quanto «negli eventi che hanno condotto alla
cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso ».24
Nella situazione dell’immediato dopoguerra la Lettera sull'umanismo ha l’effetto di un documento
di disorientamento. Certamente vi si cela anche quella « stupidità » che va alla ricerca dell’essenza
e che era stata osservata da Hannah Arendt. Anche Heidegger cerca infatti l’origine della catastrofe,
anche se non in Adamo ed Èva, né in Ulisse, come accade nella Dialettica dell illuminismo di
Adorno e Horkheimer, apparsa nello stesso periodo, ma comunque in un passato oscuro, in Platone
e nei suoi successori.
Sul piano politico questo testo risulta insignificante. Ma Heidegger non ha nemmeno più la pretesa
di dare indicazioni politiche concrete. Dopo il fiasco del suo rettorato ne aveva perso l’abitudine.
Politicamente Heidegger era disorientato al pari di Thomas Mann, che nel suo discorso per l’anno
goethiano 1949 rifiuta espressamente il ruolo del mentore dalle idee chiare, con questa confessione
disarmante: « Se non fosse il rifugio della fantasia, se non fossero i giochi e i ricreamenti
dell’immaginoso novellare, della forma, dell’arte che, compiuta un’opera, sempre seducono a nuove
avventure, a nuovi tentativi eccitanti, io non saprei come vivere e tanto meno dare altrui
ammaestramenti e consigli ».25
Così come Thomas Mann dice « io sono solo un poeta », anche Heidegger dichiara « io sono solo
un filosofo »; anzi, in senso stretto egli non vuole essere nemmeno questo, bensì « solo » un
pensatore. Egli è attratto dalle avventure e dai tentativi eccitanti del pensiero, che ugualmente lo
seducono a « nuovi tentativi eccitanti ». Se egli non potesse dedicarsi a queste vicende del pensiero,
sarebbe costretto a dire, come Thomas Mann, « io non saprei come vivere e tanto meno dare ad altri
ammaestramenti e consigli ».
La Lettera sull’ umanismo è un documento di « nuovi tentativi eccitanti » e al tempo stesso un
bilancio della propria vicenda. Se inteso come una presa di posizione nei tentativi di dare un
orientamento politico alla Germania di quell’epoca, questo scritto dovrebbe apparire ben poca cosa.
Ma il tentativo di ricapitolare il proprio pensiero e di determinare la propria attuale collocazione
come apertura di un orizzonte entro il quale si fanno visibili determinati problemi della vita nella
nostra civiltà fa di questo testo, visto in quest’ottica, un documento grandioso e anche molto
efficace del cammino di pensiero percorso da Heidegger. Inoltre qui è già presente tutta la filosofia
tarda di Heidegger.
Dunque con la sua « lettera » Heidegger risponde indirettamente a Sartre, alla moda esistenzialistica
che ha già raggiunto una fase acuta, e all’altrettanto attuale rinascita dell’umanismo. Beaufret aveva
chiesto « in che modo è possibile dare un senso alla parola umanismo? »
Sartre aveva spiegato il proprio esistenzialismo come un nuovo umanismo della responsabilità
personale e dell’impegno nella situazione di mancanza di saldi riferimenti sul piano metafisico. E
ora Heidegger cerca di spiegare perché l’umanismo stesso sia il problema di cui crede di essere
soluzione, perché il pensiero debba procedere oltre l’umanismo e perché il pensiero abbia già un
compito sufficientemente arduo a impegnarsi per se stesso, per la questione del pensiero.
Heidegger comincia le sue riflessioni da quest’ultimo punto, la questione del pensiero, cioè
dall’intento di pervenire al problema dell’umanismo prendendo le mosse da qui.
Che cos’è dunque il pensiero? E' facile rappresentarsi una differenza e insieme una successione di
teoria e prassi. Prima la riflessione, il modello, l’ipotesi, il progetto teorico, e poi la sua « traduzione
» nella pratica. La prassi così intesa è l’agire in senso proprio, mentre la teoria è comunque una
sorta di prova dell’agire. In questo schema un pensiero che non è riferito all’azione come a qualcosa
di esterno a esso perde la sua dignità e il suo valore, diventa nullo. Un tale vincolo del pensiero
all’agire equivale a sancire il predominio di ciò che è utile. Se si esige che il pensiero debba darsi da
fare, con questo si intende riferirsi a una sua utilità nell’affermazione di determinate istanze pratiche
nella sfera politica, economica e sociale. I caratteri dell’utilità pratica e dell’impegno lodevole sono
funzionali anche alla dimostrazione della legittimità pubblica dell’esistenza del pensiero.
Questo modo di rappresentarsi le cose viene rifiutato da Heidegger. Egli lo definisce una «
interpretazione tecnica del pensiero ».26 Essa affonda le sue radici in un passato remoto e già dai
giorni di Platone è la grande tentazione del pensiero. Si tratta di un modo di perdere la fede in se
stessi, lasciandosi intimorire dalle pretese pratiche della vita, intendendo il pensiero come il «
procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre ».27 Ma sulla filosofia questa attività
intimidatoria da parte della prassi ha sortito effetti catastrofici. Messa in concorrenza con le scienze,
che hanno successo sul piano pratico, la filosofia si trova nell’imbarazzo di dover dimostrare la
propria utilità. La filosofia ha voluto uguagliare le scienze che si sono emancipate da essa. Essa ha
voluto elevarsi « al rango di una scienza »28 e non si è accorta che essa può soltanto perdersi nelle
scienze, o precipitare. E questo non perché essa sia qualcosa di « più elevato » o di sublime, ma
perché dovrebbe cominciare da ciò che è prossimo, cioè da una esperienza che precede qualsiasi
atteggiamento scientifico. Quando il pensiero si allontana da questa, si trova nella stessa situazione
di un pesce fuori dall’acqua. «Già da molto, anzi, da troppo tempo, il pensiero si trova all’asciutto
»,29 dice Heidegger. Ma dove si colloca dunque questo luogo proprio del pensiero, che cos’è questa
esperienza più prossima del pensiero?
La prima cosa che Heidegger può fare per rispondere alla questione della prossimità è di richiamarsi
innanzi tutto a Essere e tempo. In quella sede egli aveva cercato di scoprire che cosa sia più
prossimo e più originario per l'esserci che si trova nel mondo. Il punto culminante di quell’indagine
era stato il seguente: in primo luogo, noi non facciamo esperienza di noi stessi e del mondo in un
atteggiamento quasi scientifico. Il mondo non è in tal senso una nostra « rappresentazione »; bensì
per prima cosa noi facciamo esperienza del nostro essere-nel-mondo. Il momento determinante e
primario è quello dell’in-essere. L’in-essere, intonato in una tonalità emotiva, angosciato, annoiato,
preoccupato, indaffarato, irretito, devoto, estatico. Soltanto su questo sfondo di originario in-essere
può accadere che noi ci separiamo da esso per mezzo della riflessione, facendoci determinate
rappresentazioni e ritagliando certi oggetti dal continuum costituito dal nostro prenderci cura e
rapportarci alle cose. II fatto che ci sia un «soggetto», cui stanno di fronte degli «oggetti», non è
un’esperienza di base; essa è dovuta piuttosto a un esito secondario, di tipo astrattivo. Se ciò che ci
è più prossimo è l’originario in-essere e se in questa prossimità le cose della vita possono ancora
sorgere in tutta la loro ricchezza, e se il pensiero ha il compito di meditare su questa prossimità, ne
risulta una configurazione paradossale. Poiché noi perdiamo l’immediatezza, non da ultimo a causa
del pensiero, il compito che spetta a un pensiero che vuole pervenire alla prossimità è quello di
pensare contro la propria stessa tendenza all’allontanamento e alla distanza. Quel pensiero, che è
consono alla mediazione, deve portarsi in prossimità dell’immediato. Ma in questo modo non viene
a trovarsi proprio «all’asciutto »? Non va forse a finire che il pensiero deve annullare gli effetti del
pensiero stesso? Si tratta forse di un recupero dell’« immediatezza mediatrice » di hegeliana
memoria? È in generale possibile retrocedere con il pensiero fino a questa prossimità? La risposta di
Heidegger è laconica: il pensiero perviene alla sua « cosa » soltanto quando vi si « infrange ». Tra il
« filosofare sul naufragio » attualmente in voga, e ciò di cui abbiamo bisogno, cioè « un pensiero
che naufraga»,30 c’è un abisso. II pensiero che naufraga non è una sventura: in esso si osserva di
essere sulla via giusta. Ma dove conduce questo pensiero? Nella prossimità. Ma che cosa cerca in
questa prossimità, della quale intanto sappiamo il significato, quello di elementare e primario in-
essere? Questo luogo deve la sua attrattiva solo al fatto che la scienza lo «trascura»? Ma la scienza
non è così importante da dover nobilitare solo per questo ciò che essa ignora. Non sarà forse che
Heidegger, che conduce vita da accademico, si sia accanito in una concorrenza ideale nei confronti
della scienza? La differenza ontologica, cui egli diede tanta importanza, non è forse altro che un
modo per ribadire narcisisticamente la differenza rispetto alla pratica scientificizzata della filosofia?
Sappiamo naturalmente già da molto tempo che in questa «prossimità» si cela una grande promessa,
un’istanza che si
spinge effettivamente molto al di là rispetto a quello che si può ottenere in ambito scientifico. Si
tratta deH’esperienza dell’essere.
Con Essere e tempo Heidegger avrebbe imboccato la via di questa esperienza e della sua
formulazione, ma non sarebbe «passato attraverso il varco». L’« intenzione [...] della, ’scienza’ e
della ’ricerca scientifica’ »31 lo avrebbe ostacolato e indotto « in errore ». Già a quel tempo non
sarebbe stata sua intenzione offrire un contributo all’antropologia scientifica; egli aveva bensì a che
fare con il pensare a fondo ciò che va pensato più di ogni altra cosa, l'esserci dell’uomo come luogo
aperto, che si è dischiuso nell’ente. L’esserci inteso come luogo in cui l’ente viene alla parola, e
proprio in tal modo all’essere; vale a dire: l’ente si fa chiaro, si fa incontro, si dischiude anche nella
sua impenetrabilità e nel suo « sottrarsi ».
Effettivamente Heidegger aveva intrapreso la sua analisi dell’esserci con lo sguardo rivolto
all’essere; Tesserci era per lui quell’ente cui ne va del suo (poter) essere. Però egli si era lasciato
coinvolgere troppo nell’esserci, contro le sue intenzioni originarie. Di fronte al puro esserci, infine,
Tessere era stato perso di vista. Ciò appare chiaro nel concetto di « esistenza ». Quando Heidegger
afferma in Essere e tempo: «quell’essere stesso verso cui Tesserci può comportarsi in un modo o
nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza »,32
conferisce qui al concetto di « essere » il significato particolare del proprio essere che ha bisogno di
realizzarsi. Per questo egli parla anche di « aver-da-essere » nel senso del proposito e del progetto.
In tal senso era intesa anche l’affermazione di un «primato dell'existentia sull'essentia»,33 al quale
potrà poi richiamarsi a buon diritto Sartre sottolineando il carattere di progetto proprio dell’esserci:
«L’esistenza precede l’essenza».
Ma adesso, nel momento in cui vuole svincolare la sua intenzione primigenia dalla prigionia della
filosofia scientifica, Heidegger conferisce al concetto di esistenza un altro significato. Esso non
connota più soltanto il modo d’essere di un ente cui ne va del suo (poter) essere, bensì esistenza
(Existenz), che adesso egli scrive con la grafia Ek-sistenz (e-sistenza), e che significa: «Lo stare
nella radura (Lichtung)
dell’essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo. Solo all’uomo appartiene questo modo di essere ».34
Esistenza significa stare fuori, ma anche estasi. Sappiamo anche che a partire dagli anni ’30
Heidegger citava spesso e volentieri la lettera di Hölderlin in cui quest’ultimo confida al suo amico
Böhlendorff di essere stato colpito dal fulmine di Apollo.
L’« esistenza » conduceva nel migliore dei casi alla decisione, ma e-sistenza significa essere aperti a
esperienze pentecostali dei tipi più diversi. La celebre « svolta » (Kehre) heideggeriana, che come è
noto ha scatenato una valanga di interpretazioni, dovrebbe essere vista con la stessa « semplicità»
con cui l’ha concepita Heidegger. Nella prima rincorsa (fino a Essere e tempo) egli è rimasto fermo
all’esserci, a quell’essere che vuole realizzare l’esistenza; nella seconda rincorsa, ovvero
nell’accesso reso possibile dalla «svolta», egli vuole trovare « sbocco » (in senso letterale) in un
essere che si rivolge all’esserci e che lo chiama a sé. Ciò porta con sé tutta una serie di mutamenti
interpretativi, dove le possibilità attivistiche di comportamento progettate dal singolo esserci
cambiano polarità, attestandosi su una gamma di atteggiamenti piuttosto passivi, che lasciano essere
e che accolgono l’essere. La « gettatezza » dell’esserci diventa il suo « invio destinale » (Geschick),
il « prendersi cura » delle proprie faccende diventa un « custodire » ciò che ci è consegnato e
affidato. La « deiezione » nel mondo diventa la sua « irruzione». E nei «progetti » è l’essere stesso
che per loro tramite si « getta ».
Il pensiero dell’essere, che cerca la prossimità, vi trova qualcosa che in Nietzsche era detto ancora
con schiettezza e disinvoltura: « l’attimo del vero sentire ».
Abbiamo così risposto alla domanda su che cosa sia la «cosa» del pensiero, se essa non debba
essere solo al servizio dell’agire? Sì, la risposta c’è: il pensiero è un agire interiore, è un’altra
condizione che viene dischiusa nell’esserci -per mezzo del pensiero e fintantoché esso pensa. Il
pensiero è una modalità modificata dell’essere nel mondo o, con le parole di Heidegger: « questo
pensiero non è né teoretico né pratico. Esso avviene prima di questa distinzione. Per quel tanto che
è, questo pensiero è pensiero che rammemora (Andenken) l'essere e nient’altro [...] Questo pensiero
non approda ad alcun risultato e non ha alcun effetto. Esso soddisfa la sua essenza in quanto è ».35
E poi viene quella frase di cui dobbiamo prendere nota, perché contiene tutta la filosofia tarda di
Heidegger: che cosa fa questo modo di pensare? « Esso lascia essere l’essere ».36
E che rapporto ha con l’umanismo?
Sentendosi superiore al fatto che il nazionalsocialismo ha appena svilito in modo catastrofico
l’umanismo, Heidegger si accinge ora ad « andare oltre » l’umanismo. Nella determinazione
umanistica dell’uomo, tanto che si tratti di quello teocentrico che di quello antropocentrico, « non si
esperisce ancora l’autentica dignità dell’uomo».37 Egli pensa «contro» l’umanismo non perché
predichi la «bestialità», ma perché proprio l’umanismo «non pone l'humanitas dell’uomo a un
livello abbastanza elevato ».38 A che livello bisogna porla? A quello in cui un tempo si parlava di
Dio. L’uomo come «pastore dell’essere» è un ente di cui non dobbiamo farci alcuna immagine. Non
essendo un «animale fissato», non essendo qualcosa di fissabile oggettualmente, bensì un essere che
vive nella ricchezza delle sue relazioni, l’uomo ha invero bisogno di vincoli etici, anche se questi «
tengono assieme l’essere umano in modo così povero e precario»,39 ma in realtà si tratta solo di
ausilii di emergenza, di qualcosa di penultimo, con cui non dobbiamo credere che il pensiero si
esaurisca. Il pensiero si spinge oltre, fino a fare nel suo slancio animato l’autentica «esperienza del
mantenibile (das Haltbare). Il sostegno (Halt) per ogni contegno (Verhalten) lo dona la verità
dell’essere».40
A questo punto Heidegger è effettivamente lontano mille miglia da Sartre: « Bisogna che l’uomo
ritrovi se stesso e si persuada che niente può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida
dell’esistenza di Dio ».4I
Certo, anche Heidegger dichiara che « l'’essere’ non è né Dio né un fondamento del mondo »,42 ma
questo non cambia nulla nel fatto che l’esperienza dell’essere consente un rapporto di devozione
con l’essere meditativo, grato, riverente, confidente. È presente l’intera gamma di effetti che un Dio
genera attorno a sé; solo che Heidegger impone su questo Dio un divieto così rigoroso di farsene
immagini quale le religioni istituzionali non conoscono. Propria del « Dio » di Heidegger è la «
radura » (Lichtung). Non lo si incontra ancora nell’ente che si fa incontro nella « radura ». Lo si
incontra solo laddove si faccia esplicita e grata esperienza di questa «radura» come condizione della
visibilità.
La si può girare e voltare come si vuole: alla fine non resta che la ripetizione di quel meraviglioso
pensiero di Schelling secondo cui la natura apre gli occhi nell’uomo e si accorge di esserci. L’uomo
come luogo dell’autovisibilità dell’essere. «Senza l’uomo l’essere sarebbe muto: ci sarebbe, ma non
sarebbe il vero. » (Kojève)
Che cosa ne consegue? L’abbiamo già sentito. Niente. « In tutto ciò è come se mediante il dire
pensante non fosse accaduto proprio nulla. »43 E tuttavia: l’intero rapporto con il mondo si è
modificato. C’è un’altra situazione emotiva, viene gettato sul mondo uno sguardo diverso.
Heidegger trascorrerà gli anni che ancora gli rimangono a tentare questo sguardo, nella tecnica, nel
costruire e nell’abitare, nel linguaggio e, per quanto sia un tema delicato, anche in Dio. Il suo
pensiero, che ora egli non chiama più «filosofia», si sforzerà di lasciar essere ciò che lascia essere.
«Poiché in questo pensiero c’è da pensare qualcosa di semplice, esso riesce difficile a quel modo di
rappresentarsi le cose tramandato col nome di filosofia. Sennonché, il difficile non consiste nel fatto
che si debba attingere qualche particolare senso profondo o che si debbano costruire concetti
complicati, ma si nasconde nel passo-indietro (Schritt-zurück) che introduce il pensiero in un
domandare capace di esperire, e che lascia cadere l’opinare abituale della filosofia. »44
22. Martin Heidegger, Hannah Arendt e Karl Jaspers dopo la guerra. Una storia di rapporti
personali e filosofici.
« IL suo modo di distoreere le cose è insopportabile, e il solo fatto che egli ora costruisca e articoli
ogni suo discorso come se fosse un’interpretazione di Essere e tempo fa intuire che tutto, ancora una
volta, uscirà da lui distorto. Ho letto la lettera contro l’umanismo, anch’essa molto discutibile e in
molti passi ambigua, ma pur sempre la prima cosa che si collochi di nuovo al livello di un tempo. »1
Questo il giudizio di Hannah Arendt sulla prima pubblicazione di Heidegger dopo la guerra,
formulato in una lettera a Karl Jaspers del 29 settembre 1949. Essa aveva ripreso i contatti con
Jaspers attraverso Melvin Lasky nel tardo autunno del 1945. Dal 1938 Jaspers e la Arendt non
avevano più saputo nulla l’uno dell’altra. Lui non aveva ormai più alcuna speranza che lei fosse in
vita, come le scrisse nella prima lettera dopo la guerra. E Hannah rispose: « Da quando so che voi
due siete usciti sani e salvi da questo spettacolo infernale, sento che esiste di nuovo per me qualcosa
di familiare in questo mondo ».2 Si viveva con la sensazione di averla scampata ancora una volta.
Essa scrisse di continuare a essere una apolide e di non essere diventata « affatto una persona
rispettabile », di essere sempre dell’opinione «che oggi ci si possa assicurare un’esistenza degna di
un essere umano soltanto ai margini della società ».3 Un po’ minimizzava, perché nel frattempo si
era fatta un nome in America come pubblicista politica. Ma viveva in condizioni modeste a New
York, il che non le impediva di far pervenire ogni mese ai coniugi Jaspers tre pacchi dono della care
(Cooperative for American Remittences to Europe).
Dopo la guerra Karl Jaspers era diventato improvvisamente un uomo molto « rispettabile ». La
proscrizione durante il periodo nazista lo fece diventare quasi da un giorno all’altro la coscienza
della nazione, e questo gli sembrò essere in un primo tempo solo una pretesa e una lusinga ipocrita
nei suoi confronti. Egli guardava con sospetto questa fama improvvisa, per lui era una « vita vissuta
nella finzione »,4 cui volle sottrarsi accettando, nell’estate del 1948, una cattedra all’università di
Basilea.
Dunque Hannah riprese subito i contatti con Jaspers. Non fece altrettanto con Heidegger. Poco
prima della sua fuga dalla Germania aveva visto con i suoi occhi il rettore Heidegger diventare un
uomo del sistema. E quello che sentì in seguito in America sembrava suggerire che egli fosse
rimasto tale. Negli anni dell’esilio fu quasi impossibile per Hannah tenere saldo quel tanto di «
indistruttibile » che la legava a Heidegger. Come poteva serbare fedeltà a Heidegger, che sul piano
politico doveva considerare fra i suoi persecutori, senza rinunciare alla coerenza con se stessa? Lei
cerca di liberarsi di lui venendo alla resa dei conti, fino a quando, dopo il primo nuovo incontro,
potrà scrivere rasserenata: « Questa serata e questa mattina sono la conferma di tutta una vita ».5
Ma prima del nuovo incontro viene la resa dei conti.
All'inizio del 1946 Hannah Arendt pubblicò nella Partium Review un saggio intitolato Che cos’è la
filosofia dell' esistenza? In quell’inverno la moda esistenzialista era sbarcata anche in America.
Sartre si trovava proprio là e Hannah l’aveva incontrato. Lei aveva il compito di comunicare al
pubblico un solido sfondo filosofico su cui si stagliava un atteggiamento spirituale che fino a quel
momento doveva la sua notorietà soltanto a slogan che facevano moda. Nelle sue conferenze
americane Sartre aveva sempre sottolineato l’impegno sociale dell’esistenzialismo. Hannah Arendt
sviluppa invece la tesi secondo cui nella versione tedesca dell’esistenzialismo, a partire da Schelling
e attraverso Nietzsche e fino a Heidegger, si è fatta sempre più forte la tendenza a intendere
l’individualità a sé stante del singolo uomo come luogo di verità, contrapponendola alla non verità
del corpo sociale. Soltanto in Jaspers questa tendenza verrebbe superata. Heidegger funge invece
nella sua esposizione da punto culminante del solipsismo esistenzialistico. In Heidegger l’autentico
sé ha assunto l’eredità di Dio. Il comune essere-nel-mondo equivale a una perdita della purezza
originaria. « Di conseguenza quella che in Heidegger appare come una ’caduta’, è l’insieme delle
modalità dell’essere umano che riposano sul fatto che l’uomo non è Dio e che vive con i suoi simili
in un mondo. »6 In tal modo Heidegger perde di vista la conditio humana. L’uomo può essere tutto
ciò che è possibile, ma presumibilmente mai un « sé autentico ». Chi respinge il mondo comune del
« Si », dice la Arendt, sacrifica il terreno dell’umano. Ne rimane un civettare con la propria «nullità
»,7 e ciò, secondo la sua interpretazione, ha reso Heidegger vulnerabile da parte della barbarie. Non
è vero forse che dalla negazione filosofica del concetto di « umanità » è conseguita infine la
negazione dell’umanità sul piano pratico?
Hannah Arendt spedisce questo saggio a Karl Jaspers, con la consueta « paura infantile »8 di fronte
al giudizio severo di colui che un tempo era stato il suo maestro di filosofia. Ma Jaspers, che trova il
manoscritto nel pacco dono fra barattoli di corned beef, latte in polvere e tavolette di cioccolata, ne
è « entusiasta ». Egli obietta solo contro una nota a piè di pagina in cui Hannah Arendt diffonde la
voce che Heidegger avrebbe proibito a Husserl l’ingresso alla facoltà di filosofia. « Sostanzialmente
quello che Lei racconta è vero, ma la descrizione dei fatti potrebbe non essere del tutto esatta. »9
Probabilmente, suppone Jaspers, Heidegger si sarà limitato a sottoscrivere il relativo ordine di
servizio, come fecero anche gli altri rettori. (Anche questo non risponde al vero, come si è già detto.
Heidegger potè comunicare a Husserl l’abolizione della « momentanea sospensione » perché
quest’ultimo non rientrava nella legge per la « ristrutturazione del pubblico impiego ».) Hannah
rimane della sua idea: essa vede in Heidegger un « potenziale assassino »,10 dato che il suo
comportamento aveva spezzato il cuore a Husserl. Karl Jaspers aggiunge: « Condivido pienamente
il suo giudizio su Heidegger ». 11
Nonostante queste affermazioni, Hannah Arendt e Karl Jaspers non hanno ancora « chiuso i conti »
con Heidegger. E' vero che anche due anni dopo Hannah Arendt si oppone alle intenzioni del suo
amico Dolf Sternberger di pubblicare la Lettera sull'umanismo di Heidegger nella Neue Rundschau,
ma quando Jaspers le comunica, il 1° settembre 1949, di essere tornato a intrattenere occasionali
scambi epistolari con Heidegger, lei scrive: « Poiché notoriamente non si riesce a essere coerenti, e
in ogni caso io non lo sono, la cosa mi ha fatto piacere ».12
Karl Jaspers aveva iniziato la sua corrispondenza con Heidegger proprio quando si adoperò per far
abolire il divieto di insegnamento per Heidegger. In questo senso aveva scritto all’inizio del 1949 al
rettore dell’università di Friburgo, Gerd Tellenbach: « Il professor Martin Heidegger è noto in tutto
il inondo, per quello che ha prodotto in filosofia, come uno dei filosofi contemporanei più
importanti. In Germania non c’è nessuno che lo superi. La sua filosofia quasi nascosta, che sta a
contatto con le questioni più profonde, e che nei suoi scritti è riconoscibile solo in maniera indiretta,
fa oggi di lui forse, in un mondo filosoficamente povero, una figura che spicca per la sua unicità».13
Sarebbe necessario d’ora in poi concedere a Heidegger di poter lavorare in pace e, qualora lo
desideri, anche di insegnare.
Da quando il procedimento di denazificazione di Heidegger si era concluso nel marzo del 1949 con
il giudizio « Simpatizzante. Nessuna misura punitiva», presso l’università di Friburgo erano riprese
le consultazioni per far abrogare il divieto di insegnamento. Nel maggio 1949 il senato propose al
ministero, con una maggioranza risicata, di riconoscere a Heidegger i diritti di professore emerito e
di abolire quindi il divieto di insegnamento. Le trattative si trascinarono ancora a lungo. Solo nel
semestre invernale 1951-52 Heidegger tornò a fare lezione.
Nella sua prima lettera a Heidegger del 6 febbraio 1949, Jaspers sonda con cautela la possibilità di
mettere fine alla situazione «del nostro reciproco silenzio». Era certo un’impresa difficile.
«L’infinita tristezza a partire dal 1933 e l'attuale situazione, in cui la mia anima tedesca soffre
sempre più, non ci hanno legati, ma silenziosamente separati. » Anche se fra loro c’era « oscurità »,
si poteva tuttavia cercare di vedere se sul piano privato e filosofico « non sia possibile scambiare
una parola fra di noi ». Jaspers conclude la sua lettera con queste parole: « La saluto come da un
passato lontano, passando sopra un abisso del tempo, tenendomi saldo a qualcosa che fu, e che non
può essere nulla».14
Questa lettera di Jaspers in un primo tempo non arriva a destinazione. Ma Heidegger viene a sapere
in giugno da Rotert Heiß che Jaspers gli ha scritto. Dunque senza conoscere quella lettera,
Heidegger ne scrive una di suo pugno, breve e tale da tradire nettamente la propria insicurezza nella
forzatura del tono. « Attraverso tutti gli erramenti e le confusioni e una temporanea irritazione, il
mio rapporto con Lei è rimasto intatto. » Su quale piano deve essere continuato questo « rapporto »
o come deve essere ripreso? Heidegger decide per ora di scegliere la comunanza nel sublime. « I
custodi del pensiero sono soltanto pochi nella crescente miseria del mondo; tuttavia essi devono
resistere al dogmatismo di ogni tipo, senza contare di avere successo. La dimensione pubblica del
mondo e la sua organizzazione non sono il luogo in cui si decide il destino dell’essere umano. Non
bisogna parlare della solitudine. Ma essa rimane l’unica località in cui pensatori e poeti stanno
vicino all’essere, per quanto è possibile all’uomo. Da questa località La saluto cordialmente. » 15
Jaspers risponde laconico e con diffidenza appena dissimulata: «Quello che Lei chiama
manifestatività dell’essere, è una cosa che fino a ora mi rimane inaccessibile. Forse non sono ancora
mai stato nel ’luogo’ da cui Lei mi saluta; accolgo volentieri, con meraviglia e curiosità, questo
saluto» (10 luglio 1949).16
Scrivendo ad Hannah Arendt egli commenta questa lettera con sospetto: « E' tutto immerso nella
speculazione sull'Essere, e invece di scrivere ’Sein’ scrive ’Seyn’. Venticinque anni fa puntava
sull”esistenza’, falsando il concetto e distorcendolo. Ora punta su qualcosa di ancora più essenziale
[...] Spero che in questo caso non distorca troppo le cose. Ma ne dubito. È possibile a un’anima
impura, [...] nella sua insincerità, vedere quanto c’è di più puro? »17 Ma subito dopo Jaspers ritratta
la durezza del suo giudizio e osserva: « Lo strano è che egli possiede la nozione di qualcosa di cui
oggi gli uomini si accorgono a malapena, ed è impressionante la sua chiaroveggenza ».
Hannah Arendt è altrettanto oscillante nel suo giudizio. Si rallegra quando Jaspers riprende i contatti
con Heidegger, e al tempo stesso conferma i suoi giudizi negativi. «Questo suo vivere a
Todtnauberg imprecando contro la civiltà e scrivendo ’Seyn’ con la ’y’ è davvero, se possiamo
parlare con franchezza, soltanto la tana del topo in cui egli si è ritirato partendo dal presupposto,
peraltro ragionevole, che un personaggio come lui ha bisogno di vedere solo uomini pronti a
compiere un pellegrinaggio e sospinti da incondizionata ammirazione. Non è facile che uno salga
fino a 1200 metri per fare una scenata a quell’uomo. »
Nel novembre 1949 Hannah Arendt viene per quattro mesi in Europa, su incarico della «
Commissione per la ricostruirle culturale ebraica in Europa », per mettere al sicuro e inventariare
quanto restava dei tesori culturali ebraici depredati dai nazisti. Durante questo viaggio, per prima
cosa fa visita, nel dicembre 1949, a Karl e Gertrud Jaspers a Basilea. Jaspers, che prova per Hannah
un affetto paterno, viene ora a conoscenza per la prima volta, come afferma la Ettinger, della storia
d’amore fra lei e Heidegger. « Ah, è davvero una cosa molto emozionante»,19 dice lui. Hannah si
sente sollevata da questa reazione. Avrebbe potuto immaginare anche che Jaspers potesse reagire
con una critica moraleggiante, o anche con gelosia. I due parlano così diffusamente di Heidegger
che lo scrupoloso Jaspers si fa ancora una volta scostante: « Il povero Heidegger: eccoci qua, i
migliori amici che ha, mentre siamo intenti a scrutarlo ».20
Quando Hilde Fränkel, un’amica di Hannah, le chiese poco prima del viaggio se era più felice di
andare a Basilea o a Friburgo, Hannah aveva risposto: « Cara, per ’provare piacere’ a Friburgo ci
sarebbe voluto un coraggio bestiale - ma io non ce l’ho ».2I
Il 3 gennaio 1950, ancora pochi giorni prima del suo viaggio a Friburgo, scrisse a Heinrich Blücher:
«Non so ancora se vedrò Heidegger [...] lascio tutto al caso».22
Le ultime lettere di. Heidegger che Jaspers le aveva mostrato le fecero un effetto ripugnante: « la
stessa mistura di sincerità e mendacia, o meglio di vigliaccheria ».23 Quello che accade poi, quando
Hannah giunge a Friburgo, il 7 gennaio, è stato ricostruito come segue dalla Ettinger sulla base
dell’epistolario: dall’albergo Hannah spedisce un messaggio a Heidegger, che si reca subito sul
posto. Egli consegna una lettera alla reception dell’albergo, con la quale la invita per la sera stessa a
casa sua, aggiungendo pure che Elfride era già stata messa al corrente della loro storia d’amore.
Evidentemente anche Heidegger si sentiva angosciato, dato che per il momento volle procrastinare
l’incontro personale. Ma dopo aver consegnato la lettera pregò un cameriere di annunciarlo a
Hannah Arendt. In una lettera di Hannah, scritta a Heidegger due giorni dopo, si dice: « Quando il
cameriere fece il Tuo nome [...] fu come se all’improvviso il tempo si fosse fermato. Mi resi conto
come in un lampo di ciò che in precedenza non avrei confessato né a me, né a Te, né a nessun altro,
che cioè la costrizione dell’impulso [...] mi ha graziato dal commettere l'unica infedeltà veramente
imperdonabile, e dal perdere la mia vita. Ma è una cosa, devi sapere (dato che il nostro reciproco
rapporto non è stato troppo frequente), che io avrei fatto così, solo per orgoglio, cioè per pura, stolta
stupidità. Non in base a motivazioni ».24 Con le « motivazioni » si intende, secondo la Ettinger, il
passato nazista di Heidegger, che evidentemente non avrebbe potuto distoglierla dall’avere un
incontro con lui. Quello che lei chiama «orgoglio » è certo la paura di essere nuovamente
affascinata da Heidegger. Ma come mostra la lettera che lei gli scrive il 9 febbraio 1950, questo
incantesimo rinasce a nuova vita. Infatti ciò che lei chiama nei confronti di lui la « conferma di tutta
una vita»25 viene descritto, prendendo nuovamente le distanze, in una lettera a Hilde Frankel, come
tragicommedia: « Non si è assolutamente reso conto che sono passati 25 anni, e che sono più di 17
anni che non mi vede ».26 Heidegger se ne sarebbe stato in piedi nella stanza di lei come un « cane
con la coda fra le gambe ».
Heidegger se ne torna a casa e qui attende la visita di Hannah già quella sera stessa, che i due
trascorreranno da soli. Riferendosi a quella sera Hannah scrive a Blücher: « Mi sembra che sia stata
la prima volta nella nostra vita che abbiamo parlato insieme ».27
Hannah non si sente più nei panni di un’allieva. Essa proviene dal mondo, è una persona «dalle
molte esperienze», una sopravvissuta alla catastrofe, una studiosa di filosofia politica che ha appena
ultimato un libro, Le origini del totalitarismo», che poco tempo dopo diverrà un successo mondiale.
Ma non è di questo che si discorre. Heidegger parla, secondo quanto riferisce la Ettinger, del suo
coinvolgimento politico, racconta di come a quel tempo fu il « diavolo » a cavalcarlo, si lamenta
della sua diffamazione. Essa incontra un uomo autoritario, contrito e amareggiato, che le sembra
bisognoso di aiuto. Ed essa è disposta ad aiutarlo. Condurrà trattative per conto di Heidegger con
editori americani, organizzerà conferenze, verificherà traduzioni, spedirà pacchi di generi
alimentari, libri, dischi. E lui scriverà lettere tenere, allegando qualche volta uno stelo di erba
tremolina, scriverà sul suo lavoro, descriverà quello che vede dalla finestra, le ricorderà il vestito
verde che indossava tanto tempo prima a Marburgo. E ci saranno sempre anche i saluti da parte di
Elfride.
In occasione di questo primo incontro, Heidegger voleva istituire un patto a tre. Egli spiegò a
Hannah, come dice la Ettinger, che sarebbe stata Elfride a incoraggiarlo a rinnovare l’amicizia. Per
il secondo giorno di visita Heidegger aveva disposto un incontro a tre. Su questa situazione Hannah
scriverà due giorni dopo a Heidegger: « Sono rimasta e sono sconvolta dalla sincerità e dalla
insistenza con cui [Elfride] si è avvicinata a me».28 L’avrebbe colta un « improvviso sentimento di
solidarietà ». Del tutto diverso è il modo in cui parla di questa situazione scrivendo a Blücher: «
Stamattina c’è stato un altro litigio con sua moglie - sono 25 anni, o da quando in qualche modo ha
scoperto il pasticcio, che lei gli rende la vita un inferno. E lui, che come è noto mente sempre e
dovunque dove può, con altrettanta evidenza non ha mai nascosto in questi 25 anni, come è risultato
da una contorta discussione a tre, che questa è stata la vera passione della sua vita. Temo che sua
moglie sarà sempre pronta, finché io sarò viva, ad affogare chiunque sia ebreo. Purtroppo non è
altro che una persona mortalmente stupida. »29 Se si segue l’interpretazione della Ettinger,
Heidegger avrebbe vissuto in modo diverso questa situazione. Per lui non si trattò di un litigio ma di
una conciliazione. Era commosso quando le due donne si abbracciarono al momento della partenza.
Egli voleva subito coinvolgere anche Heinrich Blücher in questo patto di amicizia, e salutò Hannah
calorosamente mentre se ne andava. Hannah cercò di smorzare un po’ lo slancio di Heidegger e gli
ricordò che se accettava di avere a che fare con Elfride, lo faceva soltanto per lui. Gli disse di
ispirarsi agli stessi principi di prima: « Non rendere niente più difficile di quanto non debba essere.
Se me ne sono andata da Marburgo è stato esclusivamente per causa Tua ».30
Due giorni dopo questa scena del patto a tre Hannah scrive la sua prima e unica lettera a Elfride.
Qui essa mette a punto il capolavoro di richiamarsi alla nuova intimità, ripristinando al tempo stesso
quella distanza che era per lei necessaria. «Lei ha spezzato l’incantesimo», ammette, «e di ciò La
ringrazio di tutto cuore. »3I Tuttavia non ha sensi di colpa per le cose fatte di nascosto in passato. A
causa di questa storia d’amore aveva passato già abbastanza guai in seguito, scrive. « Vede, quando
me ne andai da Marburgo ero fermamente decisa a non amare più nessun uomo, e in seguito mi
sono sposata [con Günther Anders] senza in qualche modo occuparmi di chi fosse, senza amore. »
Essa si dice punita già a sufficienza, quindi per favore niente rimproveri per il passato. E per quanto
riguarda il presente, le sue parole suonano come se l’abbraccio di due giorni prima non ci fosse
stato. « Dunque Lei non ha mai fatto mistero dei Suoi sentimenti, e non ne fa mistero nemmeno
oggi, anche di fronte a me. Ora, questi sentimenti comportano l’impossibilità pressoché totale di un
dialogo, perché ciò che l’altro potrebbe dire è già fin da principio caratterizzato e (scusi se lo dico)
catalogato: ebreo, tedesco, cinese. »32
Quando Hannah Arendt torna a far visita due anni dopo, il 19 maggio 1952, sono scomparsi anche
gli ultimi residui dell’idillio forzato di questo patto a tre. Hannah scrive a Heinrich Blücher: « La
moglie è mezza scema di gelosia, che si è molto accresciuta negli anni in cui lei ha continuato a
sperare che lui semplicemente mi dimenticasse. La cosa si è manifestata nei miei confronti in una
mezza scenata di antisemitismo, mentre lui non c’era. Del resto le convinzioni politiche della
signora [...] sono a prova di tutte le possibili esperienze e sono di una stupidità talmente testarda,
maligna e carica di risentimento, che si può ben comprendere tutto quello che succede contro di lui
[...] In parole povere è finita che io ho fatto a lui una scenata come si conviene, e da allora le cose
vanno decisamente meglio ». 33 Per Hannah Arendt è ben chiaro che è di Elfride la colpa di tutto.
Quello che Hannah e Karl Jaspers nel loro epistolario su Heidegger avevano chiamato la sua «
impurità », per lei non è altro che una « contaminazione » dovuta al contatto con questa donna.
Ma Hannah si sbaglia nel vedere in Elfride solo il demone cattivo nella vita di Heidegger. In effetti
Elfride fu per Heidegger una buona moglie e una fedele compagna di vita. Lo aveva sposato quando
ancora non c’era alcun indizio della sua futura celebrità. Durante gli anni in cui fu libero docente,
lei mantenne la famiglia insegnando in una scuola. Era una donna emancipata, consapevole, un caso
raro di donna che aveva studiato economia nazionale. Fu di sostegno per Heidegger quando egli si
allontanò dalla Chiesa cattolica, quando divenne famoso e nel periodo della proscrizione e del
divieto di insegnamento. Provvide a creare situazioni di vita che permettessero a Heidegger di
lavorare tranquillamente. Su sua iniziativa venne costruita la baita di Todtnauberg. E' vero che
diventò nazionalsocialista ancor prima di Heidegger. Ma Heidegger aveva le sue proprie
motivazioni che gli causarono la sua «ebbrezza di potere». In lei le idee sull’emancipazione
femminile avevano un ruolo importante. Dalla rivoluzione nazionalsocialista si attendeva progressi
in tal senso. Ma diversamente da Heidegger, che non la seguiva in ciò, lei condivideva anche
l’ideologia razzista e antisemita del movimento nazista. Rimase legata al movimento
nazionalsocialista più a lungo di suo marito. Alcuni vicini avevano timore di lei ed evitavano di
pronunciare in sua presenza qualsiasi critica al «sistema». Pare che nell’autunno del 1944 si sia fatta
odiare quando, come militante, « brutalizzò nel peggiore dei modi le donne di Zähringen » e fece
pressione per « mandare in trincea anche quelle malate e incinte »,34 secondo quanto raccontò
Friedrich Oehlkers, membro della commissione di epurazione, a Karl Jaspers. Di fronte alla
commissione, e in occasione del procedimento di denazificazione, Elfride fu considerata come
un’aggravante ulteriore a carico di Heidegger. Ma egli stesso si servì di sua moglie come difesa
contro un ambiente che a suo parere gli era ostile. Elfride assunse questo ruolo di sua spontanea
volontà. Non idealizzava suo marito, ma capiva la sua passione per la «questione del pensiero » e
fece tutto quanto era in suo potere perché lui potesse dedicarsi a questa passione. Heidegger
riconobbe tutto ciò, e gliene fu grato per tutta la sua vita. La cosa che lo impressionava in
particolare era che lei assecondasse il suo bisogno di solitudine, dandogli al tempo stesso la
sensazione di sentirsi a casa propria. La maggior parte delle incombenze quotidiane e
dell’educazione dei figli fu sostenuta da lei, per consentire a lui una comoda ripartizione del lavoro.
In anni giovanili lui le aveva dato talvolta motivo di gelosia, perché Heidegger era un uomo di cui
le donne si innamoravano facilmente. Le piccole tresche erano all’ordine del giorno. Ma egli non
pensò mai, nemmeno quando ebbe la relazione con Hannah Arendt, di separarsi da Elfride. O
almeno, come afferma la Ettinger, l’epistolario non consente di trarre nessun’altra conclusione. E
adesso, quando Hannah tornava a entrare nella sua vita, egli sognava un patto a tre che gli
permettesse di restare saldamente vicino a Elfride e di riconquistare Hannah, certo non più come
amante, ma come amica amata. Ma un simile patto a tre era appunto impossibile, e non Io volevano
né Hannah né Elfride. La gelosia metteva in moto in Elfride tutti i pregiudizi antisemiti. E per
Hannah questo matrimonio altro non era che un « patto fra plebaglia ed élite ».
Come racconta la Ettinger, nelle poche ore che Hannah trascorre da sola con Heidegger in
occasione della sua visita del maggio 1952, essa è nuovamente attratta dal suo filosofo che legge
con lei alcuni passi dal suo corso Che cosa significa pensare? (Was heißt Denken?). In momenti
come questo, scriverà a Blücher, lei ha la « certezza di una bontà di fondo, una familiarità (non
posso trovare un’espressione diversa) che continua a sorprendermi, la totale assenza, non appena
egli mi è vicino, di tutte quelle cose che altrimenti si accalcano con facilità, il suo essere veramente
inerme e indifeso. Fintantoché continua la sua produttività, non c’è pericolo; ho paura soltanto delle
sue depressioni, che continuano a ripetersi. Adesso sto cercando di fare opera di prevenzione in tal
senso. Forse se ne ricorderà quando non sarò più qui ».35
Hannah si vede calata nel ruolo di un angelo custode per
lo Heidegger « migliore ». Vuole aiutarlo a conservare la sua produttività, e Heinrich Blücher le dà
ragione in questo: « Che cosa significa pensare? è una grandiosa domanda su Dio. Aiutalo dunque a
domandare ».36
Ma Hannah Arendt non lo ha solo aiutato a domandare, gli ha anche risposto sul piano filosofico.
Nel 1960, quando esce l’edizione tedesca del suo capolavoro filosofico, Vita activa, ne spedisce a
Heidegger un esemplare e, secondo quanto riferisce la Ettinger, gli scrive nella lettera di
accompagnamento che quest’opera non avrebbe potuto nascere « senza quello che ho imparato da
Te in giovinezza [...] È nata direttamente dai giorni di Marburgo e deve a Te quasi tutto sotto ogni
punto di vista ». 37
In un foglio a parte che non viene spedito, e che la Ettinger ha riportato alla luce, Hannah scrive: «
De Vita Activa/ Ho tralasciato la dedica di questo libro. / Come faccio a dedicarlo a Te, / l’intimo
amico / cui sono e non sono / rimasta fedele, / sempre per amore ».38
In che cosa Hannah Arendt ha serbato filosoficamente «fedeltà» al suo maestro?
Hannah Arendt ha condiviso la rottura rivoluzionaria di Heidegger nei confronti del pensiero
filosofico, cioè si attenne all’idea che il riferimento primario al mondo da parte dell’uomo non è
quello gnoseologico, ma quello dell’agire che si prende cura, e che questo agire è un accadere
dell’apertura, della verità. Per Heidegger, come per Hannah Arendt, l’aperto, che Heidegger chiama
« radura », è un telos interiore dell’esserci. Ma diversamente da Hannah Arendt, Heidegger
distingue questa apertura rispetto alla « dimensione pubblica». In Essere e tempo Heidegger aveva
affermato che « la pubblicità oscura tutto e presenta ciò che risulta così dissimulato come notorio e
accessibile a tutti ».39 Nella pubblicità, ovvero la dimensione pubblica, l'esserci è dominato di
norma dal « Si »: « Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso ».40 A questa dimensione pubblica
Heidegger contrappone, come è noto, l’« autenticità ».
Al pari di Heidegger, anche Hannah Arendt si orienta verso questa idea dell’apertura, ma essa è
disposta a vedere potenzialmente realizzata questa idea anche nella dimensione pubblica. Essa non
si ripromette di ottenere l’apertura da un diverso rapporto del singolo con se stesso, dunque non
dall'« autenticità » di Heidegger, ma dalla coscienza della pluralità, dunque dalla concezione che il
nostro « essere-nel-mondo» significa poter condividere e configurare un mondo insieme a «molti».
L’apertura c’è solo laddove l’esperienza della pluralità degli uomini viene presa sul serio. Ma un
pensiero che presume di essere autentico e che discredita « la moltitudine » non accetta la sfida
della pluralità, che appartiene inalienabilmente alla conditio humana. Un simile pensiero parla
dell’uomo non al plurale, ma al singolare, e per Hannah Arendt rappresenta un tradimento della
filosofia nei confronti della politica. Al pari di Heidegger, anche Hannah Arendt cerca nella Grecia
antica lo sfondo originario di ciò che lei stessa intende. Heidegger ha il suo mito platonico della
caverna, Hannah Arendt trae la sua immagine della democrazia greca dal modo in cui la tramanda
Tucidide: « Nei [loro] colloqui, che vengono costantemente ricominciati, i greci hanno scoperto che
il mondo comune a tutti noi viene considerato da infiniti e differenti punti di osservazione, cui
corrispondono i più diversi modi di vedere [...] I greci hanno imparato a comprendere, non a
comprendersi l’un l’altro come singole persone, ma a considerare il medesimo mondo dal punto di
vista dell’altro e a vedere l’uguale sotto aspetti diversi e spesso contrapposti. I discorsi in cui
Tucidide spiega i punti di vista e gli interessi delle parti in lotta fra loro continuano a essere una
testimonianza vivente dell’alto grado di obiettività di questi confronti ».4I Si potrebbe dire che
Hannah Arendt riabiliti la « chiacchiera della caverna » (Heidegger) di coloro che sono incatenati
nella caverna platonica. Per lei non c’è la luce platonica di una verità perfetta o l’ascesa
heideggeriana dall’ente a ciò che è più ente. Ci sono solo prospettive su un mondo comune, e la
diversa capacità di interagire con questa molteplicità. Alludendo agli anatemi di Heidegger contro la
« chiacchiera » nella dimensione pubblica, Hannah Arendt dichiarò nel suo discorso su Lessing del
1959 che il mondo rimarrebbe disumano « se gli uomini non ne discutessero costantemente ».42
Non è l’autenticità, ma la «virtuosità dell’agire insieme all’altro »43 a conferire al mondo
quell’apertura alla quale anche Heidegger aspira.
Anche a proposito del problema della verità, Hannah Arendt ha imparato da Heidegger e
contemporaneamente ha compiuto un passo avanti rispetto a lui. Essa si richiama alla sua
concezione della verità come svelatezza, ma anziché far svolgere l’accadere della verità soprattutto
nel rapporto dell’uomo con le cose, essa lo scopre fra gli uomini. Soltanto là, nelle tragedie e nelle
commedie della convivenza umana, diventa plausibile per lei la concezione della verità come
svelatezza. Gli scenari originari della verità si giocano nell’arena del sociale. Hannah Arendt scrive:
« Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità
personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano ».44
Poiché il rapporto che gli uomini intrattengono reciprocamente ha il carattere della teatralità, può
accadere che tutto il mondo fenomenico diventi per essi un palcoscenico. Soltanto perché essi
escono sulla scena e possono mostrarsi, ricevono l’impressione che le cose non stiano diversamente
anche per quanto concerne la natura, e che anch’essa voglia «mostrarsi ». La stessa ascesa di
Platone alle idee pure rimane sempre legata a questo gioco sociale dell’apparire e dell’entrare in
scena, dato che queste idee devono essere contemplate, sul palcoscenico interiore del filosofo.
Il « mondo » di cui parla Hannah Arendt si riferisce a questo spazio sociale e aprente, simile a
quello di un palcoscenico. Il mondo si dischiude fra gli uomini, e quindi non deve essere inteso
come somma di tutte le cose, di tutti gli uomini e di tutti gli avvenimenti, ma come luogo in cui le
persone si incontrano e in cui le cose possono apparire loro, e dove infine le persone producono
qualcosa che è di più rispetto alla somma delle attività dei singoli. A questo «fra» Hannah Arendt si
richiama del resto anche nella lettera a Heidegger in cui annuncia la spedizione di Vita activa: « Se
fra noi le cose fossero sempre state corrette - e intendo ’fra’, non Te o me - Ti avrei chiesto di
potertelo dedicare ».45 Comunque Hannah aveva la sensazione che in questa relazione fossero
possibili per lei solo l’abnegazione a Heidegger o l’affermazione di sé contro di lui. In una tale
relazione doveva accadere che il mondo posto « fra » loro venisse in un certo senso bruciato. Non
c’era spazio alcuno per un libero incontro: troppe cose restavano non fatte, non dette, non osservate.
In Vita activa Hannah Arendt si occupa della questione di come questo « mondo » conservi quel «
fra », e di come il mondo possa essere distrutto nella vita del singolo o in proporzioni storiche. Essa
distingue fra « lavorare », « produrre» e « agire ». Anche qui si richiama a Heidegger, facendo
dell’« essere-nel-mondo » una sequenza graduata di attività con le quali gli uomini si portano in un
certo senso all’aperto e con cui creano i presupposti dell’apertura.
«Lavorare» serve, nella prospettiva di Hannah Arendt, esclusivamente alla conservazione biologica
della vita. Qui l’uomo organizza il suo metabolismo con la natura. Lavoro e quiete, lavoro e
consumo si risolvono ritmicamente, e in senso stretto non hanno né principio né fine e sono inscritti
al pari di nascita e morte nel ciclo vitale della specie. Nel lavoro l’uomo consuma la natura, e nel
lavoro l’uomo esaurisce la sua vita. Qui non maturano risultati duraturi, il lavoro non è
propriamente « formatore di mondo ».
Diverso è il « produrre ». Qui nascono prodotti del lavoro artigianale o artistico che vanno al di là di
ciò che serve meramente alla vita: oggetti che non possono essere consumati immediatamente:
attrezzi, edifici, mobili, opere d’arte che devono sopravvivere per generazioni. Tanto più un oggetto
è fatto per durare, tanto più « mondana » è l’attività diretta alla sua fabbricazione. Il processo del
produrre è lineare, orientato a un fine esterno. Si tratta di erigere, installare, fabbricare qualcosa che
afferma il proprio posto nel mondo e fa parte quindi del quadro fisso che gli uomini creano per
trovarvi appoggio, dimora e un punto di riferimento per il cammino della loro vita. La spinta non
proviene qui solo dai bisogni della vita, ma anche dalla necessità di fornire un elemento di durata,
che trascende il tempo, all’esistenza temporale che sta fra la nascita e la morte.
Ma, ancora più duraturo del « produrre », è l’« agire » che eleva l’uomo al di là dei naturali cicli
vitali. L’agire, in greco « praxis », si distingue dal produrre, in greco « poiesis », come già definì
Aristotele, per il fatto di essere presentazione di sé e forma di espressione della libertà umana.
Nell’agire gli uomini si presentano, mostrano chi sono e ciò che vogliono fare di se stessi. Azione è
tutto ciò che accade fra gli uomini, laddove ciò non sia immediatamente al servizio del lavoro o
della produzione. L’agire costituisce il teatro del mondo, e perciò compaiono sul palcoscenico del
mondo i drammi dell’amore, della gelosia, della politica, della guerra, e così il dialogo,
l’educazione, l’amicizia. Gli uomini possono agire solo perché sono liberi. E dalla molteplicità delle
azioni nel loro intersecarsi e intrecciarsi risulta il caos della realtà umana, e perciò c’è una storia
umana che non segue alcuna logica calcolabile. La storia non è qualcosa che viene « prodotto » e
non è nemmeno un « processo lavorativo »; non è anzi affatto un processo di alcun genere, bensì è
un accadimento discontinuo prodotto dalla pluralità ricca di conflitti di uomini che agiscono. Gli
uomini producono macchine e lavorano su di esse, ma né la storia individuale né quella collettiva
sono una macchina, sebbene non siano mancati i tentativi di trasformarle appunto in un
meccanismo. Il fatto che anche Heidegger sia caduto vittima, con la sua «storia dell’essere», di
questo tentativo di scoprire una logica autentica dietro l’intrico del tempo, è una supposizione che
Hannah Arendt formula nel secondo volume del suo scritto postumo La vita della mente. Qui essa
avvicina Heidegger a quei « pensatori di professione » che non si accontentano della libertà e della
sua «ineluttabile arbitrarietà» e che non vogliono «pagare il prezzo della contingenza per il dono
ambiguo della spontaneità »46.
Dal « punto di vista dei processi naturali » e dei « processi automatici che sembrano determinare in
maniera univoca il corso del mondo », l’azione « risulta come qualcosa di curioso o che desta
meraviglia ».47 Agire significa poter assumere l’iniziativa. Initium - l’inizio.
Hannah Arendt, sfuggita all’olocausto, matura in Vita activa i contorni grandiosi di una filosofia
della possibilità di iniziare. E proprio questa filosofia porta le tracce del suo amore per Heidegger.
Quando egli era salito a farle visita nella sua mansarda a Marburgo, aveva ancora nella penna la sua
filosofia della conquista dell’autenticità attraverso l’« anticipazione della morte ». Lei, che è
sfuggita alla morte, risponde in maniera complementare, come fanno gli amanti, con una filosofia
dell’anticipazione dell’inizio, della possibilità di iniziare. « Il prodigio che continua a interrompere
il corso del mondo e il cammino delle cose umane e che le salva dalla rovina [...] è in fin dei conti il
fatto della natalità, dell’essere nati [...] Il ’prodigio’ sta in questo, che gli uomini vengono messi al
mondo, e con essi il nuovo inizio, che essi possono realizzare con la loro azione in forza del fatto di
essere nati. »48
Questa risposta impressionante alla filosofia della mortalità di Heidegger, questa filosofia della
natalità conosce la tonalità emotiva dell’angoscia, ma anche la gioia per il venire al mondo. Dalla
filosofia del poter iniziare Hannah Arendt sviluppa anche il proprio concetto di democrazia. Questa
assicura che nella convivenza comune ciascuno riceva l’opportunità di porre il proprio inizio; essa è
il grande compito di imparare a vivere con la non-unanimità. Infatti, se vogliamo trovare insieme un
punto d’incontro o addirittura un accordo in un mondo comune, ci accorgiamo che ciascuno di noi
proviene da un inizio diverso per cessare in una fine propria di volta in volta diversa. La democrazia
riconosce ciò con la sua disponibilità a riprendere continuamente il confronto sulle questioni della
convivenza comune. Ma questi nuovi inizi individuali e collettivi sono possibili solo a due
condizioni: la promessa e il perdono. Con la nostra azione noi scateniamo processi di cui non siamo
in alcun modo responsabili; ciò che noi poniamo nel mondo diventa sempre anche qualcosa di
irrevocabile e imprevedibile. « Il rimedio contro l’irrevocabilità - contro il fatto che ciò che si è
compiuto non può più essere annullato, sebbene non si sapesse e non si potesse sapere che cosa si
stava facendo — sta nella capacità umana di perdonare. E il rimedio contro l’imprevedibilità, e
quindi contro l’incertezza caotica di tutto l’avvenire, sta nella capacità di fare promesse e di
mantenerle. »49
Hannah Arendt aveva promesso a se stessa di restare fedele a Martin Heidegger, ma fu in grado di
farlo solo perché possedeva la forza di perdonarlo.
Ma lui fece sempre in modo che ciò le riuscisse difficile.
Nel 1955, al suo ennesimo ritorno in Germania, Hannah non va a fargli visita. « Il fatto di non
andare mi sembra un muto appuntamento fra Heidegger e me »,50 scrive a Heinrich Blücher.
Hannah Arendt era stata invitata per presentare il libro sul totalitarismo appena uscito in Germania.
Nel frattempo era diventata un personaggio importante, e sapeva che Heidegger si sarebbe accorto
subito se in mezzo a tutto quel viavai lei non gli avesse potuto rivolgere la propria compieta
attenzione. Il viaggio di Hannah Arendt in Germania fu effettivamente un trionfo. Era il ritorno di
un’ebrea orgogliosa, che presentava il proprio bilancio della tentazione totalitaria di questo secolo,
sottoponendo al pungente giudizio del suo tribunale anche i mandarini della Germania attuale.
«L’immersione volontaria in un processo sovrumano di forze distruttrici sembrò sciogliere in ogni
caso tutti i vincoli a determinate funzioni date nella società e tutti i coinvolgimenti in una banalità
che non dice nulla. La forza di attrazione che i movimenti totalitari esercitarono su queste persone
consisteva e consiste in [...] quell’amalgama solo apparentemente contraddittorio di un’azione pura
e brutale, 'purificata’ da tutte le preoccupazioni, e di fede nella potenza sconvolgente di una pura e
brutale necessità, sottratta a qualsiasi comprensione umana. »51
Heidegger doveva essere colpito duramente da frasi come questa. Certo, aveva dato solo
un’occhiata al libro, ma proprio quei passi già citati sul « momentaneo patto fra plebaglia ed élite»
52 avevano avuto una tale risonanza pubblica che non poterono essergli sfuggiti. Allo stesso modo
non poteva che condividere interamente, dopo le lezioni su Nietzsche, l’idea di fondo del libro, cioè
la tesi della somiglianza e comparabilità dei sistemi totalitari. Ciò nonostante, nel leggere queste
cose egli doveva ricordarsi con disagio che nelle giustificazioni addotte nel periodo
immediatamente successivo alla guerra aveva difeso il proprio impegno a favore del
nazionalsocialismo come un tentativo di salvare l’Occidente dal pericolo del comuniSmo. È
possibile dunque che questa volta Hannah Arendt non abbia fatto visita a Heidegger anche perché
pensava che avrebbe reagito con irritazione a causa del libro.
Nell’estate del 1961 essa aveva appena preso parte al processo Eichmann in qualità di giornalista. I
suoi reportages suscitarono grande scalpore in America, perché in essi si descrive il coinvolgimento
di organizzazioni ebraiche nella deportazione. In quell’anno Hannah Arendt torna ancora una volta
in Germania. Nel frattempo è uscita anche qui la sua opera filosofica principale, Vita activa. Essa fa
tappa anche a Friburgo. « Avevo scritto a Heidegger che sarei venuta in Germania prima o poi, e
che avrebbe potuto raggiungermi. Non si fece vivo, cosa alla quale non diedi importanza poiché non
sapevo se egli fosse in città. »53 Come informa la Ettinger, essa viene invitata a una festa presso il
professor Kaiser, che insegnava giurisprudenza a Friburgo, ed esprime il desiderio di vedere Eugen
Fink, che conosceva dagli anni in cui era studentessa. Quest’ultimo però rifiuta «bruscamente»
l’invito. L’intera vicenda la induce a pensare che ci sia dietro Heidegger, e che sia stato quest’ultimo
a spingere Fink a declinare l’invito a causa di lei.
Tre mesi più tardi essa scrive a Jaspers: «Già, Heidegger - è una storia estremamente spiacevole [...]
La mia spiegazione [...] è che per la prima volta l’inverno scorso gli ho fatto pervenire uno dei miei
libri [...] So che per lui è insopportabile che il mio nome appaia pubblicamente, che io scriva libri,
etc. Di fronte a lui io ho in un certo senso mentito per tutta la vita, ho sempre fatto come se tutto
questo non esistesse e come se, per dir così, non fossi capace nemmeno di contare fino a tre, tranne
che nell’interpretazione delle sue cose; era sempre molto soddisfatto quando risultava che sapevo
contare fino a tre e qualche volta persino fino a quattro. Adesso però mi ero improvvisamente
annoiata di mentire e mi sono buscata un bel colpo. Per un momento sono stata davvero furiosa, ma
ora non lo sono più. Credo piuttosto che in qualche modo me lo sono meritato - sia per quanto
concerne il fatto di avere mentito, sia per quello di avere improvvisamente interrotto il gioco ».54
Ci vorranno altri cinque anni prima che Heidegger torni a scrivere a Hannah Arendt: auguri per il
sessantesimo compleanno. A questa lettera egli allega, come informa la Ettinger, una cartolina
illustrata di Todtnauberg e una poesia intitolata Autunno (Herbst).
All’inizio di quest’anno, è il 1966, in occasione della pubblicazione del libro di Alexander Schwan
Filosofia politica nel pensiero di Heidegger, era apparso un articolo su Der Spiegel che trattava del
nazionalsocialismo di Heidegger. Hannah Arendt e Karl Jaspers si scrissero in proposito. Hannah
Arendt suppone che i « mandanti » siano « i fedelissimi di Wiesengrund Adorno »55 e Jaspers
difende Heidegger contro il sospetto espresso nello Spiegel che Heidegger non gli abbia più fatto
visita a causa della moglie ebrea. « In effetti Gertrud e io siamo divenuti sempre più freddi nei suoi
confronti »,56 scrive Jaspers a Hannah Arendt il 9 marzo 1966. « Heidegger non aveva progettato di
interrompere i rapporti con noi. E accaduto e basta. Dopo il 1945 non mi proponevo di non
rivederlo mai più, eppure è accaduto proprio così, senza alcuna intenzione. [...] Ma un’analogia mi
sembra certa, ed è appunto la non intenzionalità degli eventi. »57
Eppure, anche Karl Jaspers non ha ancora chiuso i conti con Heidegger. Alla morte di Karl Jaspers,
tre anni più tardi, le sue annotazioni saranno a portata di mano sopra la sua scrivania. Ma Jaspers
non pensa più ormai da tempo a un epistolario continuativo o addirittura a un incontro personale,
dopo il breve riaccendersi del loro rapporto negli anni 1949 e 1950.
Fu Jaspers a ritirarsi nuovamente, e ciò accadde dopo la lettera di Heidegger del 7 marzo 1950. Fu
poco dopo la prima visita di Hannah. Essa aveva incoraggiato Heidegger a esprimersi apertamente
nei confronti di Jaspers, e Heidegger aveva quindi scritto a Jaspers: « A partire dal 1933 non sono
più venuto nella sua casa non già perché vi abitasse una donna ebrea, ma perché semplicemente mi
vergognavo ».58 In una breve lettera di risposta Jaspers aveva ringraziato per questa « schietta
spiegazione », ma poi aveva taciuto per due anni.
Quando infine risponde, il 24 luglio 1952, risulta chiaro che egli diffida di tutto il tono oracolare di
Heidegger. Heidegger aveva scritto che « la cosa del maligno » non è ancora giunta alla fine e che
in questa « mancanza di patria » si prepara un «avvento, i cui cenni più lontani possiamo avvertire e
cogliere forse solo in un soffio sommesso, per conservarli per un avvenire» (8 aprile 1950).59
Jaspers rispose: «Non Le sembra che una filosofia, che procede per presagi e poesie, in frasi come
quelle della Sua lettera, e che procura la visione di qualcosa di prodigioso, non sia in realtà essa
stessa una preparazione della vittoria dei principi totalitari per il fatto di separare se stessa dalla
realtà? » A proposito dell’« avvento » di cui parla Heidegger egli osserva che « questo è, per quanto
posso arrivare a pensare, pura fantasticheria, e fa parte di quella serie di numerose fantasticherie che
ci hanno ingannalo in questo mezzo secolo » (24 luglio 1952).60
Dopo questa lettera Heidegger e Jaspers si scambiano solo auguri di compleanno più o meno brevi.
Nel 1956 Jaspers lesse nel saggio La questione dell'essere (Zur Seinsfrage), redatto da Heidegger
come dono di compleanno per Ernst Jünger, queste frasi: «Chi oggi crede di penetrare in modo più
chiaro e di seguire il domandare metafisico nella totalità della sua natura e della sua storia, un
giorno dovrà pensare, visto che si muove così volentieri con tanta superiorità in spazi luminosi,
donde mai ha preso la luce per vedere più chiaramente ».6I A questo proposito Jaspers annota: «
Purtroppo, dalle espressioni adoperate risulta senza dubbio che ci si riferisce a me [...] Qui comincia
una cattiveria nella quale non intendo immischiarmi oltre».62 Quell’anno Hannah Arendt verrà
invitata da Jaspers, in occasione della sua visita in Germania, a una sorta di «discussione generale
su Heidegger». Come riferisce a Blücher, Jaspers le avrebbe posto « quasi un ultimatum a causa di
Heidegger ». Egli le chiese di interrompere i suoi rapporti con lui. « Divenni furiosa e gli dissi che
non mi faccio imporre nessun ultimatum ».63
Heidegger non ha lasciato « appunti su Jaspers ». Nella relazione fra i due era Heidegger a essere
corteggiato. Jaspers aveva avvertito in Heidegger un carisma filosofico nella cui orbita continuò a
essere attratto. Non c’è in Heidegger un’esperienza analoga relativamente a Jaspers. Eppure era
stato Heidegger nei primi anni ’20 a parlare per la prima volta di una « comunità di lotta » nel senso
di una rivolta contro « la filosofia dei professori » in nome dell’esistenza. E fu ancora Heidegger a
parlare per la prima volta di amicizia e persino di amore: « Dal settembre del 1923 vivo con Lei
partendo dal presupposto che Lei sia mio amico. Questa è la fede nell’amore, che tutto sorregge »
(17 aprile 1924).64 Entrambi si impegnarono in questa amicizia, eppure lessero ben poco degli
scritti dell’altro. L’unico libro di Jaspers su cui Heidegger lavorò a fondo in vista di una recensione
fu la Psicologia delle visioni del mondo. Ma Jaspers non aveva praticamente reagito a quella
recensione. Era più interessato alle discussioni con Heidegger che alla lettura dei suoi scritti.
Spesso, durante la lettura, annotava « non lo capisco ». Negli anni ’50 Jaspers annotò con
approvazione una frase di Lowith: « Di fatto nessuno potrà affermare di avere scientemente inteso
che cosa sia l’essere, questo mistero di cui parla Heidegger». 65
Nella sua opera principale, Filosofia, del 1932, Jaspers aveva evidenziato la «ricerca dell’essere»,
analogamente a Heidegger, come il compito più importante della filosofìa. Ma era certamente un
essere diverso quello che cercava Jaspers o, più precisamente: egli lo cercava in un altro modo.
L’essere è per Jaspers 1’« onnicomprensivo », esperibile solo nel movimento della libertà, nella
trascendenza. L'«onnicomprensivo » può essere afferrato anche in modo diverso dal coglimento
diretto tramite il pensiero filosofico.
In una annotazione del 1956 Jaspers contrappone la propria posizione a quella di Heidegger. Si
tratta dell’esito sintetico di un confronto durato una vita: « H: il pensiero stesso è essere - il parlarne
e il riferirvisi girandovi intorno, senza pervenire a esso. J: il pensiero ha rilevanza esistenziale - che
testimonia nell’azione interiore del meditare (preparatorio, che porta a espressione) e che fa
diventare reale nella prassi di vita - senza che ciò possa succedere nell’opera filosofica ». 66 Questa
differenza era stata osservata anche da Heidegger, che la formula nel suo corso su Nietzsche del
semestre invernale 1936-37 (senza tuttavia riprendere questi passi nell’edizione a stampa di quel
corso mentre Jaspers era ancora in vita). Per Jaspers la filosofia sarebbe in sostanza solo una «
illusione finalizzata al chiarimento etico della personalità umana ». Jaspers prenderebbe « non più
sul serio » il sapere filosofico. La filosofia diventa in lui « psicologia moralizzante dell’esistenza
dell’uomo».67
Jaspers suppone che la sopravvalutazione heideggeriana del pensiero sia legata al fatto che,
nonostante la sua polemica contro la scienza, non si sia ancora separato dall’idea di una «filosofia
scientifica». Egli punterebbe troppo sulla rigorosità dimostrativa dei concetti e sull’architettura
puramente inventata e artificiosa della struttura del pensiero. Jaspers aveva sentito Essere e tempo
appunto come un esempio di questo tipo di opera « costruita ». Egli osservava invero nell’opera
tarda la radicale rottura di Heidegger con la scientificità, ma vedeva in ciò l’altro estremo, quello
dell’autonomia conferita al linguaggio. Quest’ultimo si cura di se stesso ediviene esercizio di
un’arte, oppure si spaccia per rivelazione dell’essere e diventa quindi magia. Jaspers rimase scettico
nei confronti della filosofia del linguaggio di Heidegger. Per Jaspers il linguaggio non è la casa
dell’essere perché l’« essere», essendo ciò che è « onnicomprensivo », non rientra in nessun guscio,
nemmeno in quello ampio del linguaggio. In una lettera a Heidegger Jaspers aveva scritto: « Il
linguaggio va tolto però nella comunicazione interna alla realtà stessa, attraverso l’agire, la
presenza, l’amore» (10 luglio 1949).68
Jaspers, per il quale la filosofia raggiungeva il suo scopo quando diventava azione interiore
dell’esistenza, vide molto chiaramente in Heidegger la volontà di filosofia come opera. Ogni «
opera » sottolinea il confine con il resto della vita. Che la sua propria filosofia non si concludesse in
tal senso in un’«opera» era per Jaspers un fatto chiaro, ed egli lo avvertiva come una conquista per
la filosofia. A questo proposito egli annota su Heidegger quanto segue: «È fin dall’inizio una
specifica opera di filosofia che conserva il suo atto linguistico e la sua tematica, e che lo delimita e
lo evidenzia come qualcosa di particolare rispetto al resto della vita [...] Il mio modo di fare
filosofia ha qualcosa di illimitato [...] Per quanto concerne il modo di pensare non c’è alcuna
separazione fra pensiero quotidiano e filosofia, fra discorso ex cathedra e intrattenimento vivente
».69
Eppure, nonostante la critica e la presa di distanza, Karl Jaspers rimane dell’idea che in un «mondo
filosoficamente povero » Heidegger è una « figura straordinariamente unica»,
Nella sua ultima annotazione su Heidegger il vecchio Jaspers scrive: « In alta montagna, su un
ampio altopiano roccioso si sono sempre incontrati i filosofi del proprio tempo. Da lassù lo sguardo
può spaziare sopra le montagne innevate, e più sotto sulle valli abitate dagli uomini, e su tutto ciò
che c’è sotto il cielo, fino al lontano orizzonte. Il sole e le stelle vi appaiono più luminosi che mai.
L’aria è pura, e cancella tutto ciò che è opaco; è così fresca che non permette al fumo di salire; così
chiara che il pensiero si lancia in spazi immensi. L’accesso non è difficile. Colui che vi ascende per
molte vie deve solo essere deciso ad abbandonare di continuo la sua dimora per un attimo, per
esperire in questa altitudine ciò che è autentico. Lì i filosofi ingaggiano una lotta sorprendente e
senza pietà. Sono afferrati da potenze che combattono fra loro attraverso i loro pensieri, i pensieri
umani [...] Sembra che oggi non ci sia più nessuno lassù. Ma a me è sembrato, cercando invano
nelle infinite speculazioni uomini che le trovassero importanti, di averne trovato uno solo, e nessun
altro. Costui però era il mio cordiale nemico. Infatti le potenze che abbiamo servito erano
inconciliabili. Presto sembrò che non ci potesse essere alcun dialogo fra noi. La gioia si fece dolore,
un dolore particolarmente inconsolabile, come quando si perde un’occasione che era a portata di
mano. Questo è quanto mi è successo con Heidegger ».70
23.
L’altro mondo pubblico. La critica heideggeriana della tecnica: « impianto » (Gestell) e
«abbandono » (Gelassenheit).
Il luogo dei sogni: Heidegger in Grecia.
I sogni di un luogo: i seminari di Le Thor, Provenza. Medard Boss. Seminari di Zollikon: l’analitica
dell’esserci come terapia. Il sogno del candidato alla maturità.
ALL’INIZIO degli anni ’50, quando venne ridiscusso il reinserimento di Heidegger nell’università di
Friburgo in qualità di professore emerito (con licenza di insegnamento), vi furono voci che non
chiamavano in causa soltanto preoccupazioni politiche, ma che ponevano la domanda se Heidegger
non fosse un filosofo di moda o addirittura un ciarlatano. Quest’uomo, ancora rispettabile sul piano
scientifico, aveva ancora il necessario prestigio accademico? Si era sparsa la voce che Heidegger
teneva conferenze nell’elegante sanatorio sulla Bühlerhöhe, davanti alle dame e ai signori della
migliore società e di fronte a sensali marittimi, commercianti e capitani nel Club di Brema.
Effettivamente Heidegger, per il quale l’uditorio accademico era per il momento ancora precluso,
aveva cercato un’altra dimensione pubblica. Il contatto con Brema era attivo già dai primi anni ’30.
Era stato instaurato da Heinrich Wiegand Petzet, figlio di ricchi possidenti e poi storico della
cultura, che aveva studiato da Heidegger e che rimase per tutta la vita un suo ammiratore. A quel
tempo Heidegger tenne al Club, in una cornice quasi privata, la conferenza Dell’essenza della
verità. Era nata una vera e propria amicizia con i Petzet. Il padre di Heinrich Wiegand Petzet era un
facoltoso sensale marittimo, e Heidegger era stato alcune volte ospite della famiglia nella residenza
estiva presso Ikking, in Baviera. Alla fine della guerra aveva messo al sicuro proprio in quel luogo
una parte dei suoi manoscritti. Sul finire dell’autunno 1949 Heidegger venne invitato a Brema. Il
primo ciclo di conferenze porta il titolo complessivo Sguardo in ciò che è (Einblick in das was ist).
Le singole conferenze sono intitolate: La cosa (Das Ding), L’impianto (Das Gestell), Il pericolo
(Die Gefahr), La svolta (Die Kehre). Esse si tennero il 1o e il 2 dicembre 1949 nella Sala del
Camino del Municipio nuovo. Vi si raccoglieva un pubblico devoto, e la manifestazione venne
aperta da un discorso del sindaco. Heidegger cominciò con queste parole: « Qui tenni diciannove
anni fa una conferenza in cui pronunciai a quel tempo cose che soltanto ora cominciano lentamente
a essere capite e a sortire i loro effetti. A quel tempo avevo osato qualcosa, e anche oggi voglio
tornare a osare! » 1
Anche il circolo di ricchi possidenti anseatici, che aveva invitato Heidegger, si sentì elevato dal
sentimento orgoglioso di aver « osato » qualcosa. Infatti nei confronti di Heidegger era ancora
ufficialmente vigente il divieto di insegnamento, e ci si prendeva a cuore di contrapporsi
all’ingiustizia e alle ostilità - questo era il loro modo di vedere le cose - concedendo a Heidegger di
parlare liberamente in una città libera. Questo ciclo di conferenze fu il primo di una serie di altre
otto conferenze che Heidegger tenne a Brema negli anni ’50. Nel 1953 Gottfried Benn chiese al suo
amico, il commerciante F.W. Oelze, che cosa legasse così tanto Heidegger a Brema. Oelze, che
come membro della « buona » società di Brema doveva saperlo, rispose: « Credo che la spiegazione
del suo attaccamento a Brema stia nel fatto che qui, e forse soltanto qui, si trova di fronte a un ceto
sociale che nelle città universitarie, nelle città di impiegati e sulla Buhlerhöhe non è presente in così
compatta schiera: grandi commercianti, specialisti d’oltremare, direttori di società di navigazione e
di cantieri navali, tutta gente per cui un famoso pensatore è un personaggio fiabesco o un semidio ».
2

Heidegger si sentiva a suo agio in questo ambiente liberal-conservatore di possidenti. I


commercianti, provvisti di una solida formazione borghese, per lo più di stampo umanistico, non
erano toccati dalle opinioni di scuola proprie dell’ambiente accademico; per loro la filosofìa era una
sorta di religiosità laica che supponevano assolutamente necessaria nel dissesto seguito alla guerra,
anche se non riuscivano a comprenderla fino in fondo. Forse proprio per questo era necessaria.
L’incomprensibile, che impone rispetto, non è sempre stato un contrassegno delle cose elevate?
L’invito proveniva da gente che voleva dimostrare la propria confidenza col mondo anche con
queste escursioni in un mondo filosofico esotico. Che qui Heidegger non venisse compreso molto
bene lo ammette persino Petzet, che pure aveva molto a cuore l'idea di gettare un ponte fra
l’ambiente dal quale proveniva e il filosofo da lui ammirato. Heidegger si era cercato questo
uditorio, dove respirava «aria di libertà», per avviare qui il progetto pilota della sua filosofia tarda.
A Brema diede voce per la prima volta alle sue difficili e stranianti meditazioni sull’« impianto
(Gestell) », su « visione e lampo » e sul « gioco riflesso del quadrato », composto di « terra e cielo,
mortali e divini». In un resoconto pubblicato da Egon Vietta pochi giorni dopo la prima conferenza,
si dice che la città poteva essere orgogliosa che Heidegger fosse venuto a Brema « per osare
l’affermazione finora più ardita del suo pensiero ».3
Un altro uditorio fu per Heidegger quello del sanatorio Bühlerhöhe, posto sulle alture che
sovrastano Baden-Baden, tra le montagne a nord della Selva Nera. Il dottor Gerhard Stroomann lo
aveva fondato nei primi anni ’20 in un edificio Jugendstil che precedentemente ospitava una casa da
gioco. Stroomann era un medico del tipo del consigliere Behrens nella Montagna incantata di
Thomas Mann. Indaffarato, autoritario, con il carisma di medico termale, ordinava ai suoi clienti
benestanti che giungevano da tutta Europa una cura che puntava sull’effetto terapeutico
dell’incontro con lo «spirito creativo». Perciò era buona cosa che gli ingegni creativi non
presenziassero solo come invitati, ma talvolta anche come pazienti. Ernst Toller, Heinrich Mann e
Karoly Kerényi si curarono qui, e negli anni ’20 e ’30 furono invitati molti personaggi che avevano
un’importanza e un nome. Dopo la guerra Stroomann potè riprendere questa tradizione. Nel 1949
istituì le cosiddette « serate del mercoledì », che continuarono fino al 1957. Di fronte a un uditorio
sempre più vasto e con il crescente interesse dei mezzi di comunicazione, vennero affrontate le
grandi questioni del nostro tempo. Scienziati, artisti e politici tenevano conferenze e potevano
essere interrogati dai presenti, per i quali era lecito considerarsi un’élite. Se negli anni ’50 c’è stato
un luogo privilegiato per il «gergo dell’autenticità», questo fu proprio il Bühlerhöhe. Lo si osserva
non da ultimo leggendo le annotazioni di Stroomann sulle serate con Heidegger: « Heidegger ha [...]
parlato quattro volte al Bühlerhöhe, e ne è nata ogni volta una eccitazione davvero eccezionale, che
ha accompagnato come una tempesta le sue lezioni e le sue apparizioni sul pulpito come non è
accaduto con nessun altro [...] Chi può mai chiudersi di fronte all’impeto imperversante del suo
pensiero e del suo sapere, che rivelano con rinnovata creatività in ogni sua parola che vi sono
ancora fonti che restano nascoste».4 Le serate con Heidegger avevano avuto l’effetto « di una
celebrazione, di un divampare. La parola ammutolisce. Ma quando si annuncia discussione, c’è la
massima responsabilità, ma anche estremo pericolo ». Il pubblico del Bühlerhöhe che si
sottoponeva alla massima responsabilità e all’estremo pericolo era composto del fior fiore di quanti
vivevano di rendita a Baden-Baden: capitani d’industria, banchieri, consorti, alti funzionari, politici,
dignitari stranieri e uno sparuto numero di studenti che spiccava per la povertà del vestiario. Qui
dunque Heidegger teneva le sue conferenze e discuteva con il ministro della Cultura afghano
sull’arte astratta e sul significato della parola «permettere». Un’altra volta l’argomento è la poesia e
il ritmo. Heidegger spiega che il ritmo nella vita e nella poesia è il « gioco di opposizione del
Monde’ e del ’verso dove’ ».5 II pubblico è in difficoltà; giungono richieste di spiegazioni. Una
voce chiede bruscamente: « Perché cercare sempre di dare chiarimenti su tutto! » Heidegger
risponde: « E' un errore: noi non vogliamo spiegare (er-klären), ma far luce (klaren)! » La
discussione procede per un po’ a botta e risposta, e poi va arenandosi. Ecco una voce che dice: «
Sarebbe possibile adesso, per ravvivare un po’ il tutto, far parlare una signora? » Silenzio
imbarazzato. Poi si decide a parlare la segretaria personale di Stroomann. C’è un proverbio indiano,
afferma, secondo il quale « chi capisce il mistero dell’oscillazione, capisce tutto». Un’altra signora
si dice d’accordo: il poeta non può portare egli stesso la figura divina, ma tesse un velo sotto il
quale essa può essere indovinata. Adesso la sala torna a vivacizzarsi perché la signora che ha detto
queste parole è una donna considerevolmente attraente. « Possiamo esistere assolutamente senza
opere d’arte? » esclama qualcuno; un altro dice: « Io posso vivere benissimo senza opere d’arte ».
Un terzo: « Trovarsi e oscillare nel ritmo », ciò di cui si è parlato non è che puro dadaismo, allora è
sufficiente balbettare come fanno i bambini piccoli.
Tumulto più o meno sereno. Poi l’entrata in scena successiva: Gustav Gründgens ed Elisabeth
Flickenschildt compaiono sul podio e offrono una scenetta sul tema « Lo spirito del palcoscenico
moderno ». Heidegger abbandona la sala senza attendere la fine dell’esibizione.
Alla fine degli anni ’50 le « serate del mercoledì » vengono concluse il giorno successivo con una
matinée. Una volta Heidegger era già partito, ma suo fratello era rimasto. Una signora che
evidentemente aveva scambiato Fritz per Martin chiese che cosa ne pensasse Heidegger di Mao
Tse-tung. Il fratello scaltro rispose: Mao Tse è « l’impianto » di Lao-tse.
Ciò accadde in un’epoca in cui l’espressione « impianto », che Heidegger aveva posto come
denominazione del mondo tecnico, aveva fatto il giro della Germania. Heidegger ne aveva parlato
per la prima volta a Brema. Ma il termine divenne celebre solo grazie alla conferenza La questione
della tecnica (Die Frage nach der Technik), tenuta nel 1953 presso [Accademia bavarese di belle
arti.
Quest’ultima aveva invitato Heidegger a tenere conferenze fin dall’inizio degli anni ’50.
Inizialmente questi inviti a Monaco furono oggetto di forti contestazioni. C’era stato un dibattito nel
parlamento regionale in occasione del quale il ministro Hundhammer aveva rimproverato
l’Accademia di voler dare la parola a Heidegger, « che un tempo fu il leccapiedi del regime nazista
».6 Mentre gli studenti partivano da Vienna, da Francoforte e da Amburgo per ascoltare Heidegger,
la Kant-Gesellschaft, evidentemente preoccupata per la salvezza dell’anima dei suoi membri,
annunciò una controconferenza per la stessa serata. Heidegger aveva quasi disdetto questa prima
conferenza a Monaco dell’estate 1950. Gli era stato chiesto per telegramma di formulare il titolo
della conferenza. Un errore di battitura fece risultare, anziché «titolo della conferenza»
(Vortragstitel), « stile della conferenza» (Vortragsstil). Così Heidegger dovette credere che si
pretendesse da lui l’uso di uno «stile» adeguato alla situazione. Indignato scrisse a Petzet: « Qui si
comincia a passare il segno [...] Non mi si crede nemmeno capace, per non parlare di tutti gli altri
aspetti di questo gesto, di esporre qualcosa di tanto importante per questa Accademia. Una cosa del
genere non mi era mai accaduta durante tutto il periodo hitleriano».7 Una volta chiarito l’equivoco,
Heidegger si era dichiarato disponibile ad andare a Monaco, ma disse a Petzet: « Questa rimane una
questione dubbia, il tributo inevitabile all’ 'impianto’ ».8 La sera della conferenza la sala
dell’Accademia fu presa d’assalto. Gli ospiti invitati furono pressati da quelli non invitati, che
incalzavano trascinando sedie e sistemandosi su gradini, davanzali, in nicchie e corridoi. Heidegger
parlò su La cosa. Si torna a parlare del « quadrato » del mondo, ma quando Heidegger iniziò il
discorso sul «gioco di rispecchiamento » di « terra e cielo, mortali e divini », un rappresentante del
governo, che sedeva fra i presenti, perse la pazienza e facendosi strada a fatica tra la folla
abbandonò indignato la sala. Era l’estate del 1950. Tre anni dopo venne la conferenza sulla
Questione della tecnica. Quella sera si era data appuntamento tutta l’élite intellettuale della Monaco
degli anni ’50. C’erano Hans Carossa, Friedrich Georg Jünger, Werner Heisenberg, Ernst Jünger,
José Ortega y Gasset. Fu probabilmente il più grande successo pubblico di Heidegger nella
Germania del dopoguerra. Quando egli concluse con la frase divenuta celebre « Perché il
domandare è la pietà del pensiero», non ci fu un silenzio devoto, ma un’autentica ovazione del
pubblico in piedi. L’intervento di Heidegger fu preso come un’aria filosofica di bel canto e gli si
tributarono applausi per aver toccato quei toni elevati che si ascoltavano così volentieri negli anni
’50.
Con le sue riflessioni sulla tecnica Heidegger toccava le angosce dell’epoca, che allora non erano
più così segrete. Non fu il solo a farlo. Nell’epoca della guerra fredda, che in realtà suggeriva l’idea
che la politica fosse il destino, si fecero sentire, moltiplicate e impossibili da non udire, le voci che
criticavano come autoinganno il soffermarsi esclusivamente sulla sfera politica e dicevano che in
verità il nostro destino è diventato la tecnica. Un destino, si diceva, che ormai non possiamo più
dominare sul piano politico, soprattutto se restiamo ancorati alle concezioni tradizionali della
politica, tanto quella della « pianificazione » quanto quella dell’« economia di mercato ». Forse c’è
stata negli anni ’50 quella « incapacità », lamentata in seguito dai due Mitscherlich, di « portare il
lutto» per la complicità generale con i crimini del nazionalsocialismo; forse dunque si sorvolò sulla
terribilità del passalo, ma all’ordine del giorno c’era, nonostante il miracolo economico e lo zelo
della ricostruzione, un disagio di fronte al futuro del mondo tecnicizzato. Vi furono innumerevoli
convegni su questo tema da parte delle associazioni evangeliche; esso aleggiava nei discorsi
domenicali dei politici ed era oggetto di ampie discussioni sulla stampa. Nel movimento «Lotta alla
morte atomica» questa tematica trovò un’espressione politica immediata. A questo proposito erano
stati pubblicati anche libri importanti. La prima ricezione di Kafka era nel segno di una critica
metafisica della tecnica e del mondo da essa dominato. Günther Anders divenne celebre nel 1951
per il suo saggio Kafka. Pro e contro, in cui Kafka viene presentato come un poeta sconvolto dalla «
prepotenza del mondo reificato » e che ha fatto del proprio sconvolgimento un « sacro » terrore: un
mistico nell’era della tecnica. Nel 1953 apparve l’edizione tedesca del romanzo II mondo nuovo di
Aldous Huxley, un successo degli anni ’50. Esso offre la visione orripilante di un mondo in cui la
sorte e la professione degli uomini vengono programmati già in provetta: un mondo il cui destino è
di non avere più alcun destino, e che sbocca in un sistema totalitario, assolutamente privo di politica
e dominato soltanto dalla tecnica. Nello stesso anno apparve il libro di Alfred Weber II terzo o il
quarto uomo. Esso destò grande scalpore perché dipingeva il quadro spaventoso di una civiltà
tecnica di uomini-robot servendosi del linguaggio sociologico e cultural-filosofico che l’autore
padroneggiava con sicurezza. Inoltre il testo dava al lettore la sensazione di assistere nella propria
era a una cesura epocale, la terza nell’intera storia dell’umanità. Prima vi fu l’uomo di Neanderthal,
poi l’uomo primitivo che fece la storia delle orde e delle tribù, e infine l’uomo della cultura elevata,
che aveva prodotto la tecnica in Occidente. Ma in mezzo a questa civiltà altamente evoluta
l’umanità è nuovamente in procinto, secondo Alfred Weber, di retrocedere sul piano psichico e
spirituale. Quello che sta succedendo in mezzo a noi è nientemeno che la sociogenesi di una
mutazione. Alla fine ci saranno due tipi umani: gli animali-cervello, che funzionano come robot, e i
nuovi primitivi che si muovono nel nuovo Mondo artificiale come in una giungla, disinibiti,
inconsapevoli e angosciati. Questi panorami scatenarono una sensazio-
ne di terrore e quindi avevano anche un valore di intrattenimento.
Nello stesso anno, il 1953, apparve anche il libro di Friedrich Georg Jünger, La perfezione della
tecnica. Jünger maturò la sua teoria già negli anni ’30 come risposta all'Operaio, il grande saggio
scritto da suo fratello nel 1932. Qui Ernst Jünger aveva esposto la tesi secondo la quale il mondo
tecnico è destinato ad apparire come una potenza aliena ed estranea fin quando non sarà stata
raggiunta la « perfezione della tecnica» per mezzo della tecnicizzazione dell’interiorità dell’uomo.
Ernst Jünger sognava una « umanità nuova », che egli vedeva realizzata nella «figura dell’operaio».
Questo tipo umano si muove con naturalezza in un paesaggio di « gelida geometria della luce », di «
incandescenza del metallo arroventato ».9 Le sue reazioni sono veloci, il suo sangue è freddo, egli è
preciso, mobile, in grado di adattarsi ai ritmi della tecnica. Ma rimane padrone della macchina
perché possiede una tecnicità interiore: è in grado di giocare con se stesso tecnicamente, così come
Nietzsche aveva immaginato un tempo nella visione dell’« uomo libero» che maneggia le proprie «
virtù » come se fossero « attrezzi » con cui è in grado di fare e disfare, di « toglierli dal chiodo e di
riappenderli »,10 assolutamente a piacimento e in conformità ai propri scopi. Questi uomini non
avvertiranno più come una perdita, secondo Ernst Jünger, la scomparsa degli « ultimi residui di
confortevole familiarità», 11 quando si potrà «attraversare il proprio spazio vitale fatto di zone
vulcaniche e morti paesaggi lunari ». Un cuore avventuroso in cerca di gelo.
In questo gelo noi moriremo, risponde Friedrich Georg Jünger a suo fratello, che nel frattempo non
si trova più peraltro fra gli apologeti, ma fra i dissidenti della tecnica, fra i « ribelli ». La tesi
principale di Friedrich Georg Jünger è questa: la tecnica non è più solo un « mezzo », uno
strumento di cui l’uomo moderno si serve per i propri scopi. Poiché la tecnica ha già trasformato
interiormente l’uomo, gli scopi che esso può porsi sono già determinati tecnicamente. Della
produzione industriale fa parte anche la produzione di bisogni. Il vedere, l’udire, il parlare, il
comportamento e le modalità reattive, l’esperienza dello spazio e del tempo hanno subito una
trasformazione radicale a opera dell’automobile, del cinema e della radio. La dinamica propria di
questo processo non lascia libero nessun orizzonte al di là della tecnica. Il tratto fondamentale della
civilizzazione tecnica non è lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, ma il gigantesco
sfruttamento della Terra. L’industrialismo rintraccia la materia energetica sedimentata nel corso
della storia della natura, la consuma e soggiace in tal modo al destino dell’entropia: «La tecnica nel
suo complesso e il piano universale di lavoro che essa ha messo a punto e che mira alla tecnicità
perfetta, questo piano di lavoro legato al dominio universale delle macchine, soggiace alle leggi
termodinamiche e alle perdite descritte da queste ultime non meno di una qualsiasi macchina».12 In
quanto la tecnica dispone di tutto, e non conosce niente di intangibile e di sacro, distrugge il
fondamento planetario su cui si fonda. Il fondamento è ancora in grado di reggere, una parte della
popolazione della Terra gode ancora dei vantaggi e delle comodità della civilizzazione, e per questo
il prezzo da pagare per la « perfezione della tecnica » appare adeguato. Ma l’apparenza inganna.
Friedrich Georg Jünger afferma: « Non già l’inizio, ma la fine sostiene il peso».13
Queste profezie nefaste lanciate dai critici della tecnica vengono messe in ridicolo da altri. « Nel
museo degli orrori della tecnica »: questo il titolo di un articolo apparso sulla rivista Der Monat nel
quale si sviluppa la tesi per cui il « male» non sta nella tecnica ma negli uomini. Non la tecnica, ma
solo gli scopi per cui essa viene impiegata possono essere «cattivi». Bisogna guardarsi dal
demonizzare la tecnica e prestare invece maggiore attenzione alla « tecnica della demonizzazione
».'4 « Nel terrore di fronte alla tecnica si ripete oggi su un piano spirituale più elevato la credenza
medievale nelle streghe in forma sublimata. »15 La critica alla tecnica, questa è la tesi sostenuta
nell’anticritica, non accoglie la sfida del tempo e rifiuta di sviluppare un ethos che sia appropriato
alla tecnica. Se avessimo questo ethos, non avremmo bisogno di provare terrore. Max Bense fu un
portavoce di questa anticritica: « Noi abbiamo prodotto un mondo, e c’è una tradizione che ha radici
straordinariamente lontane e che testimonia le origini di questo mondo dagli sforzi più antichi della
nostra intelligenza. Ma oggi non siamo in grado di dominare questo mondo sul piano teorico,
spirituale, intellettuale e razionale. Manca la teoria di esso, e quindi manca la chiarezza dell’ethos
tecnico, vale a dire la possibilità di formulare giudizi etici ontologicamente corretti all’interno di
questo mondo [...] Magari perfezioniamo ulteriormente questo mondo, ma non siamo nelle
condizioni di perfezionare per questo mondo l’uomo che vive in esso. Questa è la situazione
opprimente della nostra esistenza tecnica».16 La «discrepanza » fra l’uomo e il mondo tecnico da lui
creato, evidenziata da Bense, sarà definita in seguito da Günther Anders, nel suo libro L'uomo è
antiquato (1956), come la «vergogna prometeica». L’uomo si «vergogna» dei propri prodotti, che
sono migliori e più potenti di lui: di fronte alla bomba atomica, ad esempio, egli non è più in grado
di immaginare gli effetti di ciò che ha prodotto. Al centro della riflessione sulla tecnica sta dunque
la domanda: l’uomo deve adattarsi alla tecnica, come esige Bense, oppure dovrebbe essere la
tecnica a sottomettersi alla misura umana, come volevano Friedrich Georg Jünger e Günther
Anders?
Una cosa sarà chiara a questo punto: che la conferenza sulla Tecnica tenuta da Heidegger nel 1953
non fu una sortita isolata su questo terreno. Egli prende la parola in un dibattito già in corso.
Quando prende le distanze dalla rappresentazione « strumentale » della tecnica e intende la tecnica
come carattere fondante dell’essere-nel-mondo proprio dell’uomo moderno, non dice niente di
nuovo rispetto a Friedrich Georg Jünger (e poi a Günther Anders). Jünger, come pure Anders, lascia
esplicitamente in ombra l’origine di questo processo che ha trasformato il mondo umano in un
universo tecnico. È qui che Heidegger intende far luce sulla questione. Sappiamo già dalla sua
filosofia degli anni ’30 quali siano le tesi da lui sostenute, soprattutto dal suo saggio L’epoca dell’
immagine del mondo. L’origine della tecnica sta nel modo in cui ci accostiamo alla natura: se
lasciamo che essa si disveli da se stessa, come nella rappresentazione della aletheia propria
dell’antica Grecia, oppure se la sfidiamo. La tecnica, dice Heidegger, è « il modo in cui il reale si
disvela ».17 Lo svelamento, che attraversa e domina la tecnica moderna, «ha il carattere dello
Stellen, del ’richiedere’ nel senso della provocazione ».18 Attorno al concetto centrale di « pro-
vocazione» Heidegger raggruppa tutte le modalità dell’impossessamento tecnico. Il concetto
opposto è quello di « produzione»,19 inteso nel senso di ciò che lascia venir fuori. Michelangelo
disse una volta che la scultura sta già nella pietra, bisogna soltanto liberarla. È questo all’incirca che
bisogna immaginare quando Heidegger parla di pro-vocare e lasciare venir fuori.
Questi due modi di atteggiarsi nei confronti della natura, il pro-vocare e il lasciare venir fuori, erano
stati caratterizzati da Heidegger in modo pregnante in una lezione tenuta qualche tempo prima e
intitolata Che cosa significa pensare? Si è di fronte a un albero in fiore. Soltanto in un momento
non sorvegliato scientificamente e disinteressato si farà correttamente esperienza del suo fiorire.
Nell’ottica scientifica si lascerà cadere questa esperienza del suo fiorire come qualcosa di ingenuo.
« Finalmente si tratta », dice Heidegger, « prima di ogni altra cosa, di non lasciar cadere l’albero in
fiore, ma lasciarlo stare là dov’è. Perché diciamo ’finalmente’? Perché il pensiero finora non ha
ancora mai lasciato l’albero là dove esso è.»20 Dunque noi non lasciamo venir fuori la natura, bensì
la pro-vochiamo e la attacchiamo in modo tale che essa «si dia in un qualche modo definibile in
base al calcolo e rimanga impiegabile come un sistema di informazioni ».2I
Dopo la « pro-vocazione », l’« impiegare » (Bestellen) è il secondo termine centrale. Ciò che «
viene impiegato », diventa una « risorsa » {Bestand) disponibile. Un ponte collega una sponda con
l’altra e con il gesto dell’inarcarsi rispetta il fiume, lo lascia essere. Ma una centrale idrica, a causa
della quale il fiume viene deviato o livellato, fa del fiume una « risorsa». Non è la centrale elettrica
a essere incorporata nel fiume, ma al contrario è il fiume che « viene incorporato nella centrale
elettrica ».22 Per dare un’idea della « mostruosità » che accade, Heidegger istituisce qui una
contrapposizione fra il «Reno » che viene incorporato in una centrale elettrica e il «Reno»
dell’omonimo inno di Hölderlin. Ma, si potrebbe dire, il Reno rimane comunque un fiume del
paesaggio. Può darsi, ma in che modo rimane? « Solo come oggetto ’impiegabile’ per le escursioni
organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su un’industria delle vacanze. »23
L’aggressione tecnica trasforma la natura in una « risorga» reale o potenziale. E affinché questa non
ci cada in testa è necessario predisporre una sicurezza calcolante e pianificante della risorsa. La
tecnica richiede ancora più tecnica. Le conseguenze della tecnica possono essere controllate a loro
volta solo con i mezzi della tecnica. La natura è stata sfidata, e ora la natura sfida a continuare, pena
la rovina. Così il cerchio si chiude a formare un circolo vizioso dell’oblio dell’essere. Pro-
vocazione, risorsa, sicurezza della risorsa: questo insieme viene chiamato da Heidegger « l’impianto
», termine con cui egli connota l’epoca della civiltà tecnica in cui tutto è interconnesso alla maniera
di un sistema cibernetico autoregolato con azione e reazione. « La società industriale esiste sulla
base della sua chiusura dentro al suo stesso dominio. »24 L’impianto è qualcosa che l’uomo ha
realizzato, ma nei cui confronti noi abbiamo perduto la libertà. L’impianto è diventato il nostro «
destino collettivo ». L’aspetto pericoloso di tutto ciò è che la vita minaccia di diventare
unidimensionale, priva di alternative, e che venga cancellato il ricordo di un altro modo di
incontrare il mondo e di soggiornare in esso. « La minaccia per l’uomo non viene anzitutto dalle
macchine e dagli apparati tecnici, che possono anche avere effetti mortali. La minaccia vera ha già
raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio dell’impianto minaccia fondando la possibilità che
all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di
esperire così l’appello di una verità più principiale. »25
Con la « verità più principiale » di Heidegger abbiamo già una certa familiarità. E la verità del
libero sguardo sulle cose che le lascia essere. Lasciar fiorire l’albero o trovare la via d’uscita dalla
caverna platonica, affinché sotto il sole, nell’aperta radura dell’essere, l’ente possa diventare più
ente. È l’ora angosciante del meriggio della verità, l’attesa che la natura possa rispondere
diversamente, se noi la interroghiamo diversamente. Nella Lettera sull’ umanismo Heidegger dice: «
Potrebbe essere che la natura occulti la sua essenza proprio in quell’aspetto che essa offre alla
dominazione tecnica da parte dell’uomo».26
Ma Heidegger non si accontenta dell’idea che il pensiero « meditante » potrebbe lasciar stare gli
alberi in fiore là dove sono e che nel pensiero potrebbe avvenire qui o lì un altro essere-nel-mondo,
bensì egli proietta nella storia quel cambio di atteggiamento che si compie nel pensiero. A partire
dalla svolta che è avvenuta nella testa del filosofo nasce la supposizione di una svolta nella storia. E
così Heidegger trova un buon finale per l’effetto scenico della sua conferenza celebrativa, un finale
che congeda gli uditori con il sentimento festoso di aver sentito discorsi seri, ma in un certo senso
anche edificanti. Heidegger cita Hölderlin: « Ma dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva... »
Certamente, il pensiero che pensa l’insieme catastrofico dell’impianto ha proprio per questo già
compiuto un passo in avanti oltre esso e dischiude un orizzonte, uno spazio di gioco, nel quale
soltanto è possibile vedere a che gioco si sta giocando. In tal senso già nel pensiero è insita
effettivamente una «svolta». È quell’atteggiamento di «abbandono» (Gelassenheit) che nel 1955, in
occasione di una conferenza tenuta a Meßkirch, Heidegger ha descritto così: « Si tratterà infatti di
lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di
lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende
esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no
al mondo della tecnica con un’antica parola: l'abbandono di fronte alle cose ».27 Ma questo «
abbandono di fronte alle cose», inteso come svolta del pensiero, non rende plausibile supporre una
svolta nella storia reale.
All’accusa di mancanza di plausibilità Heidegger risponderebbe che «plausibilità» è una categoria
del pensiero tecnico-calcolante; chi pensa in termini di « plausibilità » rimane nell’impianto, anche
nel tentativo di trovarne la via d’uscita. Per Heidegger è semplicemente impossibile qualsiasi
soluzione « fattibile » del problema della tecnica. « Nessun calcolare e fare da parte dell’uomo è in
grado di portare da se stesso e solo per mezzo di se stesso una svolta dell’attuale condizione del
mondo; non lo è già per il fatto che la macchinazione umana è improntata a questa condizione del
mondo e si è dissolta in essa. Come potrà mai raggiungerne la padronanza?» (24 dicembre 1963)28
La svolta avverrà come un evento del « destino collettivo », oppure non avverrà assolutamente. Ma
questo evento proietta anticipatamente la sua ombra sul pensiero meditante. Per la « svolta » vera e
propria vale ciò che Paolo ha detto sul ritorno di Cristo: essa viene come un ladro di notte. « La
svolta del pericolo avviene all’improvviso. Nella svolta si dirada all’improvviso la radura
dell’essenza dell’essere. L’improvviso diradarsi è il lampeggiare. »
Questi sono i sogni del futuro destino collettivo. Altra cosa è quando Heidegger si lascia muovere
da questi sogni sul piano autobiografico e infine parte per quel luogo dove essi sono invero già «
stati » per lui, e dove tuttavia continuano a « essere presenti ».
Dopo lunga esitazione (Medard Boss, Erhart Kästner e Jean Beaufret lo avevano già invitato da anni
a farlo) Heidegger intraprende nel 1962 un viaggio in Grecia con la moglie che gliene fece dono.
Quello che vi cercava, lo aveva detto ripetutamente, anche nella conferenza sulla Tecnica: «
All’inizio del destino dell’Occidente, in Grecia, le arti raggiunsero la massima altezza del
disvelamento loro concesso. Esse fecero risplendere la presenza degli dei, il dialogo del destino
divino e del destino umano ».30
La prima volta che Heidegger programmò un viaggio in Grecia fu nel 1955 con Erhart Kästner, che
Heidegger aveva conosciuto a Monaco in occasione della conferenza sulla Tecnica, e con il quale
allacciò da allora rapporti di amicizia. All’ultimo momento, quando erano già arrivati i biglietti
della nave e del treno, Heidegger rinunciò al viaggio. Cinque anni dopo, lo stesso gioco. Era già
stato fatto un programma sulle cartine ed era stato fissato un itinerario di viaggio, e Heidegger si
tirò indietro un’altra volta. « Rimane il fatto che posso pensare alcune cose sulla ’Grecia’ senza
vederla. Adesso devo pensare a fissare ancora in un dire appropriato ciò che sta di fronte alla
visione interiore. Il necessario raccoglimento suggerisce piuttosto il luogo patrio.» (21 febbraio
I960).31 Due anni dopo, nella primavera del 1962, Martin Heidegger è infine pronto a varcare la «
soglia del sogno » (Erhart Kästner) e a intraprendere il viaggio. Gli appunti di questo viaggio, cui dà
il titolo di Soggiorni (Aufenthalte), furono dedicati da Heidegger a sua moglie per il settantesimo
compleanno.
Durante una giornata piovosa e fredda trascorsa a Venezia prima dell’imbarco gli vengono
nuovamente i dubbi «che ciò che è stato pensato sulla terra degli dei fuggiti non possa essere che
mera invenzione e che il cammino di pensiero debba rivelarsi un errore ».32 C’è in gioco molto,
Heidegger lo sa. Forse la Grecia lo accoglierà allo stesso modo di Vene-
zia, come un morto « oggetto della storia » e una « rapina dell’industria turistica»? Dopo la seconda
notte di viaggio appare di primo mattino l’isola di Corfù, l’antica Kephallenia. Che sia la terra dei
Feaci? Stando in coperta Heidegger legge ancora una volta il sesto libro dell'Odissea e non trova
nessuna conferma. Ciò che si aspettava non appare. Il tutto assomiglia piuttosto a un paesaggio
italiano. Anche Itaca, la patria di Ulisse, non gli suscita particolari sentimenti. Heidegger dubita che
la ricerca di ciò che è « originariamente greco » sia il vero modo di scoprire la Grecia; non si guasta
forse in tal modo l’« esperienza immediata »?33 La nave getta l’ancora davanti alla costa, e in un
assolato mattino di primavera si parte in autobus per Olimpia. Ai bordi della strada c’è un paesetto
disadorno, con nuovi edifìci in via di costruzione: un albergo per turisti americani. Heidegger si
prepara al peggio. Della sua Grecia rimane dunque soltanto il peculiare «arbitrio del
rappresentare»?34 Sulle rovine di Olimpia il canto mattutino dell’usignolo, «i tamburi monchi delle
colonne» conservano ancora il loro «ergersi che sorregge». Lentamente penetra in lui un mondo. A
mezzogiorno si sta distesi sull’erba e presso gli alberi; grande quiete. Ora si accorge che potrebbe
riuscire « un minuscolo presagio dell’ora di Pan ».
La tappa successiva è la zona di Micene. Appare «come un unico stadio che invita al gioco festoso
».35 Su un’altura vi sono tre colonne di quello che fu il tempio di Zeus: «nell’ampiezza del
paesaggio sono come tre corde di una lira invisibile sulla quale suonano forse, non udibili dai
mortali, i venti dei canti funebri, echi della fuga degli dei ».36 Heidegger comincia a calarsi nel suo
elemento. La nave si avvicina alle isole greche davanti alle coste dell’Asia minore. Ecco Rodi,
l’isola delle rose. Heidegger non scende a terra: «il raccoglimento in una rinnovata meditazione
reclamava i suoi diritti ».37 A quel tempo l’elemento greco dovette combattere con quello « asiatico
», era totalmente preso dalle contese di allora. E noi oggi veniamo sfidati dalla tecnica. Imparare dai
greci, non significherà forse far fronte alle proprie sfide attuali? La « rammemorazione » dei greci
non è forse una « attività estranea al mondo » che tradisce addirittura lo spirito aperto al presente
della grecità? « Così sembra, almeno. »'* Con queste parole Heidegger chiude provvisoriamente
questa considerazione.
Nel frattempo si è giunti all’isola di Deio. Il nome dell’isola dice già tutto, esso significa «l’aperto,
ciò che appare ».39 È una giornata radiosa, sulla riva ci sono donne che stendono per terra tessuti e
lavori a maglia variopinti in vendita, una « gaia visione ». Per il resto l’isola è quasi deserta, ma
disseminata di rovine di templi e di edifici antichi. « Da ogni cosa parlava l’occulto di un grande
inizio che fu. » Passando sulla roccia primitiva ricoperta di vegetazione, attraversando rovine e
affrontando il soffio del vento si sale su fino alla cima scoscesa di Kynthos. Adesso arriva il grande
momento: i monti, il cielo, il mare, le isole tutto intorno «sorgono», si mostrano nella luce. «Che
cos’è che appare così in loro? Verso dove va il loro cenno? » Essi accennano alla festa della
visibilità facendo sì che ciò che appare « si riveli all’apparenza come ciò che è presente in questo o
in quel modo ».40 Sulle alture di Delo, con la loro vista panoramica sul mare aperto e sulle isole
disseminate, Heidegger celebra il suo arrivo nella terra promessa. Perché proprio Delo? Dalle
descrizioni si riesce soltanto a presagire che cosa abbia questo posto in più rispetto agli altri. Forse è
solo la magia del nome? Oppure Heidegger è in grado di darci informazioni più chiare? Egli parla
cautamente della presenza del divino, ma al tempo stesso si tira indietro, vuole evitare il «
panteismo confuso». E così riprende le sue formule dell’accadere della verità, che già conosciamo;
esse però non si limitano in questo contesto a ricapitolare ciò che già è stato un tempo pensato, ma
indicano il luogo cui questo pensiero deve rendere grazie. Egli rinuncia « a fissare ciò che è
avvistato in un racconto puramente descrittivo »,41 e sceglie per dare espressione al suo sentimento
estatico di felicità queste parole: « Ciò che in apparenza è solo rappresentato si riempì, si empì di
presenza, di ciò che, una volta diradato, ha concesso ai greci la presenza ».42
Il viaggio procede verso Atene, dove si sale all’Acropoli di primo mattino, prima che arrivino le
schiere di turisti, e poi verso Delfi, dove l’area sacra brulica di gente che, anziché recarsi a una «
festa del pensiero »,43 non fa che fotografare incessantemente. Hanno perso il loro ricordo, la loro
facoltà di « rammemorazione ».
Ma l’esperienza di Delo rimane il culmine indimenticabile, Sei mesi dopo Heidegger scriverà da
Friburgo a Erhart Kästner: «Io ’sono’ spesso su quell’isola». Tuttavia «non c’è una parola adeguata
su di essa ». Ciò che rimane è conservare nella memoria « il sorprendente della pura presenza » (23
agosto 1962).44
Questa fu la prima visita nel luogo dei sogni; ne seguiranno altre nel 1964, 1966 e 1967.
In questi anni Heidegger scopre la Provenza, la sua seconda Grecia. In seguito a un congresso
tenuto nel 1955 a Cerisy-la-Salle, in Normandia, egli conobbe attraverso Jean Beaufret il poeta
francese René Char. Questa conoscenza divenne presto un’amicizia con un uomo che era famoso
non solo come poeta, ma anche come capo partigiano della Résistance. Le poesie di Char sono, per
sua stessa dichiarazione, « una avanzata nell’indicibile», e vanno però sempre alla ricerca dello
scenario della sua patria amata, la Provenza. Qui egli invita Heidegger nella sua casa di Le Thor,
nella zona della Vaucluse. Beaufret si accorda con Heidegger per collegare alla visita a Le Thor un
piccolo seminario per un selezionato gruppo di amici e per la cerchia più ristretta di allievi di
Beaufret, fra i quali Fédier e Vazin, che in seguito tradurrà Essere e tempo in francese. Questi
seminari ebbero luogo negli anni 1966, 1968 e 1969. Si venne a creare un rituale fisso. Al mattino ci
si sedeva sotto i platani davanti alla casa, e, accompagnati dal frinire delle cicale, si discuteva
Eraclito o la frase di Hegel che dice: « una calza lacerata è meglio di una cucita. Lo stesso non vale
per l’autocoscienza »; si discuteva il concetto greco di destino o, come accadde nel 1969,
l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach: « I filosofi si sono limitati a interpretare diversamente il
mondo. Ora bisogna cambiarlo». In queste mattinate sotto l’ombra gigantesca degli alberi, tutti sono
concordi: dobbiamo interpretare il mondo in modo da poterlo alla fine salvaguardare. Si redigevano
protocolli anche se il maestrale, di quando in quando, faceva volare via i fogli. Questi venivano
raccolti e redatti da tutti collegialmente. Uno di questi protocolli comincia con la frase: «Qui, fra gli
ulivi addossati al pendio che scende fino alla pianura dove, in lontananza, scorre ancora invisibile il
Rodano, riprendiamo la lettura del frammento 2 [di Eraclito]. Alle nostre spalle giace un massiccio
montuoso delfico. E' il paesaggio di Le Rebanqué. Chi trova il cammino per arrivarvi è ospite degli
dei ».45
Nel pomeriggio si partiva per escursioni nei dintorni, in direzione Avignone, nella zona dei vigneti
della Vaucluse e soprattutto sulla montagna di Cézanne, la Sainte-Victoire. Heidegger amava questa
via dalla cava di pietra di Bibemus fino al punto in cui, dopo aver compiuto una svolta, compariva
improvvisamente davanti agli occhi il massiccio della Sainte-Victoire. È la via di Cézanne, e a essa
corrisponde, diceva Heidegger, « in modo tutto suo, dall’inizio alla fine, il mio proprio cammino di
pensiero ».46
Heidegger poteva sedersi per un po’ su una roccia di fronte alla montagna, e osservare. È un «
attimo di equilibrio del mondo », aveva detto una volta Cézanne, riferendosi a questo luogo.
Naturalmente agli amici veniva in mente anche quel racconto che narra di come Socrate, immobile
e assorto nei suoi pensieri, potesse restare fermo per ore. Alla sera ci si sedeva di nuovo insieme a
casa di René Char, del quale Heidegger disse che il suo modo di parlare, i suoi gesti e il luogo in cui
viveva facevano rivivere la Grecia antica. E René Char era grato a Heidegger per avere reso di
nuovo possibile scorgere l’essenza della poesia, che altro non è se non « il mondo nel suo luogo
migliore ».47 Ogni volta che tornava a casa, egli dava al filosofo erbe a piene mani, lavanda e salvia
dal suo giardino, timo ed erbe della zona, e inoltre olio d’oliva e miele.
«È davvero impossibile riferire l’atmosfera di quelle luminose giornate », scrive uno degli amici, «
il rispetto e la venerazione discreti che i partecipanti nutrivano verso Heidegger, - tutti
profondamente pervasi dalla portata storica di questo pensiero rivoluzionario; ma anche il rapporto
diretto, sciolto e amichevole, con l’insegnante, - in una parola: la luce del Sud, cioè la pacata
serenità di questi giorni indimenticabili. »48
Nella seconda metà degli anni ’60 cade anche la fase più feconda e intensa dei seminari di Zollikon,
nella casa di Medard Boss. Vi prendevano parte medici e psicoterapeuti, allievi e collaboratori di
Medard Boss, che insegnava presso la clinica psichiatrica universitaria di Zurigo, il Burghölzli,
dove un tempo aveva lavorato Jung. Durante la guerra Medard Boss fu medico di un battaglione di
truppe alpine dell’esercito svizzero. Aveva poco da fare, e per combattere la noia studiò Essere e
tempo. Un po’ alla volta gli venne l’idea che in quest’opera « giungevano alla parola idee
fondamentalmente nuove, inaudite circa l’esistere umano e il suo mondo »,49 che potevano essere
messe opportunamente a frutto per la psico-terapia. Nel 1947 scrisse la sua prima lettera a
Heidegger, il quale rispose cortesemente, pregandolo di inviargli « qualche pacchettino di
cioccolata». Nel 1949 Medard Boss andò per la prima volta a Todtnauberg. Dalla corrispondenza
epistolare nacque una sincera amicizia. Heidegger si riprometteva molto da questo rapporto con un
medico che sembrava comprendere il suo pensiero. « Egli vedeva la possibilità », racconta Medard
Boss, « che le sue idee filosofiche non restassero relegate solo nelle stanzette dei filosofi, ma che
potessero raggiungere e aiutare un numero molto maggiore di persone, soprattutto quelle bisognose.
»50 La serie dei seminari cominciò nel 1959 e finì nel 1969. All’inizio i partecipanti ebbero la
sensazione « che un marziano avesse incontrato per la prima volta un gruppo di abitanti della Terra
e volesse intendersi con essi ».5I Con pazienza, ricominciando sempre da capo, Heidegger spiegò il
suo «principio di fondo» secondo cui esserci significa essere aperti al mondo. Nella prima ora di
seminario egli disegnò dei semicerchi sulla lavagna, che dovevano rappresentare questa apertura
primaria nei confronti del mondo. In questi seminari Heidegger cercò per la prima volta di spiegare
i disturbi psichici con l’aiuto dei concetti fondamentali dell’analitica dell’esserci di Essere e tempo.
Vennero discusse vicende di malattia. La questione di fondo era se e fino a che punto fosse
danneggiato il riferimento aperto al mondo. Riferimento aperto al mondo significa: « sopportare » il
presente senza ritirarsi nell’avvenire o nel passato. Heidegger rimprovera alla psicoanalisi freudiana
di avere piuttosto reso più difficile questo riferimento al presente per mezzo di teorie artificiose
sulla preistoria della sofferenza. Inoltre, riferimento aperto al mondo significa conservare quello
spazio intermedio in cui gli uomini e le cose possono apparire. Il maniaco depressivo, ad esempio,
non conosce questo stare di fronte libero e aperto, sul piano spazio-temporale non è in grado di
lasciare né le cose né il prossimo nel luogo che spetta loro; cose e persone gli sono o troppo vicine o
troppo lontane: egli le inghiotte e ne viene inghiottito, oppure esse scompaiono in un grande vuoto,
un vuoto interiore ed esteriore. Egli non è più in grado di percepire e di fissare ciò che gli si rivolge
dal mondo. Non è più in grado di mantenere una prossimità che tiene le distanze nei confronti delle
cose e delle persone. Manca l’abbandono che fa essere lui stesso e il prossimo. Heidegger torna
sempre a ripetere che la maggior parte delle malattie psichiche può essere intesa come un disturbo
dell’« esistere» nel senso letterale del termine: è lo « stare-fuori » del riferimento aperto al mondo
che non riesce. Fra malattia e normalità non c’è per Heidegger alcuna frattura. Egli parla ancora di
un maniaco depressivo o di un malinconico, e con poche frasi è di nuovo a Cartesio e al generale «
ottenebramento del mondo» nella modernità. Nell’atteggiamento del maniaco, per il quale il mondo
appare come qualcosa che bisogna arraffare, violentare e ingoiare, secondo Heidegger giunge a
toccare una vetta patologica la comune volontà di potenza del mondo moderno. Nei seminari di
Zollikon si parla sempre di due cose: le malattie psichiche degli individui e la patologia della civiltà
moderna. Nella pazzia del singolo Heidegger riconosce le folli condizioni del mondo moderno.
In Medard Boss Heidegger aveva trovato un amico, ma non si servì di lui come terapeuta. Tuttavia
gli confessò quello che a suo dire fu il suo unico sogno, che si ripeteva spesso. Sognava di dover
sostenere ancora una volta l’esame di maturità di fronte agli stessi insegnanti di un tempo. « Questo
sogno stereotipato scomparve definitivamente », informa Medard Boss, « allorquando egli, nel
pensiero vigile, fu capace di esperire l'essere alla luce dell'evento (Ereignis).»52
24. Profezie nefaste. Adorno e Heidegger. Amorbach e Feldweg. Dal gergo dell’autenticità all’
autentico gergo degli anni ’ 60. Parlare e tacere su Auschwitz. L’intervista allo Spiegel. Paul Celan
a Friburgo e a Todtnauberg.
NEL 1965 ebbe luogo un colloquio radiofonico, divenuto leggendario, fra due interlocutori, dei quali
uno assunse la parte del grande inquisitore e l’altro quella del filantropo. Il grande inquisitore era
Gehlen, la sua controparte Adorno. Gehlen: «Signor Adorno, Lei vede naturalmente qui ancora una
volta
il problema della emancipazione. Mi piacerebbe sapere se Lei crede davvero che si debba addossare
a tutti gli uomini il peso della problematica dei princìpi, del dispendio di riflessione, dei profondi
errori che abbiamo commesso nella vita perché per la prima volta abbiamo cercato di nuotare in alto
mare ». 1
Adorno: «La mia risposta può essere semplicemente: sì! Io ho un’idea della felicità oggettiva e della
disperazione oggettiva, e direi che finché gli uomini vengono sgravati invece di essere gravati delle
responsabilità e dell’autodeterminazione, anche il loro benessere e la loro felicità in questo modo
sono una pura apparenza. È un’apparenza che un giorno si dissolverà. E quando ciò accadrà, le
conseguenze saranno terrificanti ». Gehlen risponde che questo è un bel pensiero, ma che purtroppo
è valido solo per un’antropologia utopistica. Adorno, dal canto suo, sostiene che il bisogno di
sgravio da parte dell’uomo non è, come afferma Gehlen, una costante antropologica naturale, ma
una reazione ai pesi che gli uomini hanno imposto a se stessi per mezzo delle loro istituzioni sociali.
Di fronte a questi pesi essi cercano rifugio proprio in quel potere che procura loro il « male » di cui
soffrono. Questa « identificazione con l’aggressore » deve essere spezzata. Ecco la risposta di
Gehlen, con cui finisce il dibattito: «Signor Adorno, [...] anche se ho la sensazione che siamo
d’accordo sulle premesse di fondo, mi rimane l’impressione che sia pericolosa la tendenza da Lei
mostrata di ritenere
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l’uomo alquanto insoddisfatto di ciò che ancora gli è rimasto tra le mani dopo tutte le catastrofi che
gli sono piombate addosso ».
L’intero è il non vero. Questa è la posizione sostenuta da entrambi. Ed è anche la posizione di
Heidegger. La cosa migliore è, dice Gehlen, aiutare gli Uomini a seguire le proprie vicende « in un
modo che resiste alle critiche e che è immune dalle obiezioni », risparmiando loro un dispendio di
riflessione con il quale essi vengono soltanto sospinti nella situazione catastrofica della totalità. No,
dice Adorno, in nome della liberazione noi dobbiamo incoraggiarli ad affrontare questa riflessione,
affinché si rendano conto di quanto stanno male. L’uno vuole preservare gli uomini dalla riflessione,
e ciò per motivi di alta riflessione, perché non vede alcuna alternativa praticabile allo status quo;
l’altro vuole spingerli a riflettere, sebbene sia in grado di ricordare soltanto le delicate promesse di
redenzione che si conservano nelle esperienze dell’infanzia, nella poesia, nella musica e nella «
metafisica nell’attimo della sua caduta ».
È degno di nota che filosofi come Gehlen, Adorno, e appunto lo stesso Heidegger, possano trovarsi
d’accordo sul fatto che la situazione, dove si guardi a essa nel suo insieme, è catastrofica. Ma a
questa catastrofe manca il tratto allarmante. È possibile convivere benissimo con essa. Per Adorno
questa è una delle conseguenze del fatto che gli uomini sono doppiamente alienati: sono alienati e
hanno perduto la consapevolezza della loro alienazione. Per Gehlen la civiltà non è altro che la
catastrofe nello stadio della sua vivibilità. E per Heidegger V« impianto » è un «destino comune» su
cui l’uomo non ha potere. I problemi fondamentali del mondo tecnico non possono essere risolti
tecnicamente. « Solo un Dio ci può salvare », dice Heidegger.
Le Cassandre sulle alte cime dei cattivi auspici proclamano le loro oscure visioni sui bassopiani
dove domina l’abilità tecnica e l'« avanti di questo passo ».
Gli anni ’50 e i primi anni ’60 generarono un discorso di catastrofi che potè convivere serenamente
con lo zelo della ricostruzione, gli agi del benessere e l’ottimismo nelle cose piccole e a breve
termine. Le voci della critica culturale accompagnano come una triste tonalità in minore la gaia
frenesia della prosperante Repubblica federale. Al coro di queste voci appartennero tanto Adorno e
Gehlen quanto Heidegger.
Essi prendono parte, ciascuno a suo modo, a quella mostruosità che essi stessi criticano. Gehlen
vuole proteggere la società dagli intellettuali servendosi di mezzi intellettuali; Adorno dipinge un
quadro orripilante dell’alienazione capitalistica e per dare nuova rinomanza all’istituto per la ricerca
sociale svolge indagini, su incarico della direzione del gruppo industriale, relative al clima
aziendale della Mannesmann; Heidegger rifiuta i discorsi edificanti contro la tecnica ricorrendo ad
altri discorsi edificanti.
Heidegger, come critico della propria epoca, ebbe un destino analogo a quello di Adorno: venne
ascoltato come un oracolo artistico. Non furono le accademie delle scienze, ma quelle di belle arti a
fare la corte a Heidegger, come poi faranno con Adorno. La critica fondamentale, che non vuole
diventare politica e che tiene un atteggiamento morbido nei confronti della religione, viene recepita
per forza di cose in senso estetico. Nel 1957, quando l' Accademia di belle arti di Berlino discusse
l’ammissione di Heidegger, la maggior parte dei votanti fu concorde con Gertrud von Le Fort, la
quale affermò che l’opera di Heidegger doveva essere letta come «grande poesia».2 Questo genere
di risonanza non era sgradito a Heidegger. Infatti per lui poetare e pensare erano sempre più
contigui l’uno all’altro, e in tal modo lo tenevano lontano dalle zuffe del tempo. « I pastori abitano
invisibili e al di fuori del deserto della terra devastata, che può servire soltanto a garantire il
dominio dell’uomo. »
La fortuna di Heidegger già negli anni ’20 non si limitava solo all’ambiente universitario, e ancor
meno lo è adesso, sebbene negli anni ’50 un gran numero di professori ordinari e di coloro che
aspiravano a diventarlo si richiamassero a Heidegger. Le cattedre tedesche cominciano a occuparsi
diligentemente di Heidegger, si è in procinto di svolgere sul Maestro un lavoro minuzioso, si fanno
stentate considerazioni su « getto » e « gettatezza », si mette a punto, partendo dalla grandiosa
filosofia heideggeriana della noia, una filosofia noiosa, divampano dispute scolastiche sulla
successione degli esistenziali. Ma non fu tutto questo a fare di Heidegger il geniale pensatore e
maestro degli anni ’50 e ’60. Quando il giovane Habermas, in un articolo sulla Frankfurter
Allgemeine Zeitung scritto per celebrare il settantesimo compleanno di Heidegger, descrive la
fortuna della sua filosofia, mette particolarmente in evidenza i «collegi dei fratelli laici»3 che si
vanno formando ovunque in Germania e soprattutto nella « quiete campestre », circoli di
meditazione che si raccolgono attorno alla parola di Heidegger. Pochi anni dopo, nel suo pamphlet
intitolato Il gergo dell'autenticità, Adorno ricondurrà lo schema della fortuna di Heidegger a questa
formula: « L’irrazionalità entro la realtà razionale è il clima aziendale dell’autenticità».4 Da
studioso del clima aziendale qual era, Adorno doveva saperlo. « In Germania si parla, e ancor più si
scrive, un gergo dell’autenticità, simbolo del privilegio socializzato, nobile e familiare al tempo
stesso; un dialetto quale linguaggio d’élite. Esso ha una diffusione che si estende dalla filosofia e
dalla teologia, non solo nelle accademie evangeliche, fino alla pedagogia, alla Volkshochschule e
alle organizzazioni giovanili, per giungere al modo distinto di parlare degli esponenti del mondo
economico e dell’amministrazione pubblica. Sebbene pretenda di sgorgare da una commozione
umanamente profonda, il gergo si è nel frattempo standardizzato come il mondo da esso negato solo
a parole. »5 Effettivamente il materiale e gli ingredienti terminologici della filosofia heideggeriana
si prestavano molto bene a mettere in gioco discorsi toccanti senza che la reputazione accademica
dovesse rimetterci. Nel discorso sulla morte, ad esempio, era possibile scegliere una via di mezzo
fra la serietà esistenziale e una erudizione filosofica che vuole mostrare come non le sia estraneo
nulla di ciò che riguarda l’uomo. Chi trovava penoso parlare di Dio, e tuttavia non voleva rinunciare
a una spiritualità anonima, ricorreva volentieri al discorso sull’« essere », scrivendo «Sein» con o
senza la ipsilon. Il significato rivestito da Camus e da Sartre per le giovani generazioni era incarnato
da Heidegger per quelle più anziane, dal passo più pesante e dal tono spesso più serioso.
Per lo sguardo critico di Adorno nei confronti dell’« ideologia tedesca » di questi anni, il gergo
dell’autenticità e Martin Heidegger come suo creatore di slogan erano qualcosa di molto più
pericoloso: espressione di una mentalità colta che predisponeva al fascismo. Adorno comincia col
prendere in esame espressioni che a tutta prima suonano innocue, come «incarico, chiamata,
incontro, dialogo autentico, affermazione, intento, legame ». Si tratta di parole con le quali, secondo
Adorno, è possibile mettere in scena in contesti opportunamente selezionati « l’Ascensione della
parola ».6 Chi accoglie la chiamata, sceglie l’incontro, annuncia il proprio intento e non teme il
legame, appare come qualcuno che è chiamato a compiti più elevati, perché ha in mente qualcosa di
più elevato. Si tratta di quel superuomo, per il momento ancora docile, che si leva al di sopra delle
vicende del mondo amministrato. Il gergo nobilita l’abilità negli affari a elezione superiore. Chi è
autentico dimostra capacità di imporsi col cuore, egli suona « l’organo Wurlitzer dello spirito ».7
Il gergo dell' autenticità fa i conti con uno spirito del tempo, il cui tempo era già finito quando il
libro apparve alla metà degli anni ’60. Erano gli anni in cui fu cancelliere Ludwig Erhard. Questo
gergo solenne prosperò nell’epoca patriarcale di Adenauer, ma quando appare il pamphlet di Adorno
si sta già affermando una nuova oggettività. La « casa dell’incontro » lascia spazio alla « sala
polifunzionale », la zona pedonale conquista le città e in architettura trionfa la costruzione di bunker
e prigioni. Si scopre il fascino dei fatti nudi e crudi, tanto in filosofia quanto nei sex-shop, e non ci
vorrà molto tempo perché la discussione sia dominata dallo smascheramento, dalla « critica della
critica » e dalla domanda sui retroscena.
Tipico della tecnica del gergo è che le sue parole suonano «come se dicessero qualcosa di più
elevato di ciò che significano ».8 Ma così suona a volte anche il testo di Adorno; soltanto che
Adorno non mette in scena nessuna ascensione, bensì una discesa agli inferi. L’intenzione eccessiva
di Adorno è il suo sospetto di fascismo, che carica di significato più i dati comici che quelli
pericolosi. Così ad esempio Adorno fa delle osservazioni sulla minuziosa suddivisione in paragrafi
del capitolo di Heidegger sulla morte: « Persino la morte viene trattata in base a un filo conduttore
nei decreti delle ss e nelle filosofie esistenziali; il formalismo burocratico viene cavalcato come
Pegaso, in extremis come il cavallo dell’Apocalisse ».‘} In un altro passo Adorno fa di Heidegger
un filosofo delle virtù secondarie: «Tuttavia, in nome dell’autenticità conforme ai tempi, anche un
carnefice potrebbe avanzare una qualsiasi pretesa ontologica di risarcimento nella misura in cui non
è stato altro che un buon carnefice Ma questi sono solo i preliminari della critica di Adorno. Adorno
vuole rintracciare il fascismo nell’intimo dell’ontologia fondamentale di Heidegger. L’ontologia,
almeno quella heideggeriana, ha elevato a sistema la « disponibilità a sanzionare un ordine
eteronomo, sottratto alla giustificazione nei confronti della coscienza », come scrive Adorno nella
Dialettica negativa, il suo opus magnimi filosofico, cui appartiene dal punto di vista programmatico
anche Il gergo dell’autenticità.
Nel 1959 Adorno aveva dichiarato: «Io considero la sopravvivenza del nazionalsocialismo nella
democrazia come potenzialmente più minacciosa della sopravvivenza di tendenze fasciste contro la
democrazia». 11 Qui egli si riferiva in particolare al fatto che l’anticomunismo della guerra fredda
permetteva allo spirito degenere del fascismo di restare in incognito. Gli bastava soltanto fare la
parte del difensore dell’Occidente contro 1’« ondata rossa», potendo così riallacciarsi alla tradizione
dell’antibolscevismo nazionalsocialista. Questo anticomunismo dell’epoca Adenauer pescava
effettivamente nel torbido della « paura dei russi », che aveva anche sfumature di tipo razziale e si
appellava a sollecitazioni autoritarie, talvolta addirittura sciovinistiche. Per rafforzare il fronte
contro l’Oriente, negli anni ’50 ci si era affrettati ad accelerare il processo di riabilitazione e
reintegrazione dell’élite nazionalsocialista. Adenauer aveva ripetutamente sollevato l’esigenza che
la distinzione fra « due classi di persone », quelle politicamente ineccepibili e quelle non
ineccepibili, scomparisse quanto prima. Già nel maggio 1951 era stata varata una legge che riapriva
a coloro che si erano macchiati di colpe politiche l’accesso al pubblico impiego. Nel 1952 venne
votata una legge complementare « sul dovere di fedeltà » che provvedeva ad allontanare dal
pubblico impiego i membri dell’« Associazione dei perseguitati dal regime nazista» sospettati di
comuniSmo. Anche l’antisemitismo si ridestò. Adorno, che nel 1949, dopo l’emigrazione, era
tornato con Horkheimer all’università di Francoforte, lo provò sulla propria pelle. Nel 1953
ricevette l’incarico per una « cattedra straordinaria di filosofia e sociologia », che venne chiamata in
maniera del tutto ufficiale « cattedra di risarcimento » - una denominazione che prestava il fianco
alle diffamazioni. La speranza di Adorno di ricevere un ordinariato solo sulla base della sua statura
scientifica rimase a lungo disattesa. Quando infine la facoltà mise all’ordine del giorno, nel 1956, la
nomina di Adorno a professore ordinario, Hellmut Ritter, professore di orientalistica, parlò
prontamente di «losche manovre»,12 dicendo che a Francoforte bastava stare sotto la protezione di
Horkheimer ed essere ebrei per poter fare carriera. E non fu la sola osservazione di questo genere.
La cosa fu presa così male che persino Horkheimer, la cui posizione era ben salda per essere stato
rettore e decano, nel 1956 chiese di andare prematuramente in pensione a causa dell’« odio
dilagante contro gli ebrei». Adorno e Horkheimer dovettero rifare ancora una volta l’antica
esperienza degli ebrei, quella di essere stigmatizzati e di restare facilmente vulnerabili, pur avendo
raggiunto posizioni privilegiate. «Come ministro sarà un ministro ebreo, eccellenza e paria al tempo
stesso »:13 con queste parole Sartre aveva espresso questa esperienza nel suo saggio sulla questione
ebraica. Adorno era « vulnerabile » negli anni ’50 e nei primi anni ’60 anche a causa del suo
background marxista. Nel 1955 il settimanale Die Zeit lo definì un « propagandista della società
senza classi ».l4
Comunque, anche se Adorno cercava nella filosofia di Heidegger una continuità con il fascismo,
questo non succedeva solo perché egli volesse trovare in Heidegger il filisteismo spirituale dell’era
Adenauer. C’era di più in gioco, cioè una pericolosa vicinanza filosofica con l’avversario. In
Adorno c’era anche un rancore nei confronti di un filosofo che faceva una philosophia perennis
come se non ci fossero affatto né la sociologia né la psicoanalisi, queste due grandi avversarie dello
spirito filosofico. Questa ignoranza doveva indignare Adorno, che dal canto suo si concedeva con
diligenza a queste grandi potenze del disincanto, opponendosi al proprio eros filosofico, che ne
pativa i danni. Il fatto che Heidegger non si preoccupasse per nulla di questo standard «scientifico »
di modernità, e che addirittura lo disprezzasse, era denunciato da Adorno come il « provincialismo »
di Heidegger. Adorno, che sul piano storico-filosofico aveva le idee così chiare su che cosa « non
funzionasse più », rinunciò a presentarsi con una salda dottrina filosofica. Per la sua passione
filosofica non gli restavano che la durevole, magistrale ! riflessione e, naturalmente, l’arte. Ma già
questa dedizione all’arte come rifugio della filosofia costituiva nuovamente motivo di comunanza
fra i due. Certo, Adorno non avrà invidiato a Heidegger la pesantezza del suo incedere: la danza gli
riusciva più congeniale, ma il punto sul quale probabilmente ebbe a invidiare Heidegger era il fatto
che quest’ultimo non si vergognava della sua attività metafisica non dissimulata. Adorno scrisse una
volta: « Il pudore si ribella a esprimere immediatamente intenzioni metafisiche; se lo si osasse, si
verrebbe dati in pasto a un giubilante fraintendimento».15 Così Adorno divenne un maestro nella
danza filosofica dei sette veli. Quando alla metà degli anni ’50 Herbert Marcuse voleva pubblicare
il suo libro Eros e civiltà (cui la Suhrkamp darà in seguito il titolo estremamente attraente di
Struttura istintiva e società) come numero speciale della Zeitschrift für Sozialforschung, Adorno
scrisse a Marcuse che non gli garbava «un certo stile diretto e ’immediato’ ».16 Adorno, che anche
in altre circostanze si era difeso con i denti dalla dannosa concorrenza presso Horkheimer, riuscì
con successo a mandare a monte la pubblicazione del volume nella collana bibliografica
dell’istituto. L’errore imperdonabile di Marcuse fu quello di avere spiattellato in maniera troppo
palese un segreto di fabbrica della teoria critica, l’idea di una civiltà che si afferma sulla base di una
sessualità liberata nell’erotismo. Comunque Adorno potè coltivare le sue « intenzioni metafisiche »
solo sotto la protezione di un grosso dispendio di dissimulazioni di ogni genere.
In ogni caso il vero intento di Adorno (la parola « intento » sarebbe l’espressione giusta nel suo «
gergo »), come già detto, era molto affine a quello di Heidegger. E lui ne era consapevole. Nel 1949
Adorno aveva fatto pressione su Horkheimer affinché facesse una recensione per la rivista Der
Monat a Sentieri interrotti (Holzwege) di Heidegger, che era stato appena pubblicato. Aveva scritto
a Horkheimer che Heidegger, per i « sentieri interrotti », « non è poi tanto lontano da noi ».17
Adorno e Heidegger formulano una diagnosi simile della malattia del mondo moderno. Heidegger
parla della moderna « insurrezione del soggetto », per il quale il mondo diventa oggetto delle «
macchinazioni », un processo che si ripercuote sul soggetto, con la conseguenza che questo può
ancora intendere se stesso solo come cosa fra le cose. Nella Dialettica dell’illuminismo di Adorno e
Horkheimer si trova il medesimo pensiero di fondo: la violenza che l’uomo moderno infligge alla
natura si rivolta contro l’intima natura dell’uomo. «Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale
spezzando la natura, cade tanto più profondamente nella coazione naturale. E' questo il corso della
civiltà europea. » In Heidegger si dice che il mondo diventa l’oggetto di cui disporre, l’immagine, la
rappresentazione per il produrre. Adorno e Horkheimer parlano del « destarsi del soggetto », che
viene acquistato « attraverso il riconoscimento del potere come del principio di tutte le relazioni », e
ancora: gli uomini pagano la « percezione del loro potere » con l'« alienazione di ciò su cui hanno
potere ».19 Per Adorno questo principio del potere del mondo borghese alienato conduce come
conseguenza ultima agli orrori del genocidio degli ebrei, perpetrato su scala industriale. Adorno: « Il
genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove gli uomini vengono resi uguali,
livellati [...] finché [...] vengono letteralmente sterminati ».20 Quando Heidegger, in occasione della
conferenza di Brema del 1949, dichiarò: « L’agricoltura è adesso industria alimentare motorizzata,
ed è nella sua essenza identica alla fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas », questa
affermazione, quando in seguito divenne nota, scatenò grande indignazione proprio in coloro che
non si erano affatto scandalizzati di fronte agli analoghi pensieri di Adorno. Inoltre l’affermazione
di Heidegger era intesa assolutamente nel senso di quell’imperativo categorico che Adorno formulò
dicendo che era necessario strutturare il pensare e l’agire in modo «che Auschwitz non si ripeta e
non succeda niente di simile ».2I Heidegger intendeva il suo pensiero dell’essere come superamento
della moderna volontà di potenza, che aveva condotto alla catastrofe. Questo pensiero dell’essere
non è troppo lontano da quello che Adorno cercava sotto il titolo « il pensiero della non-identità ». Il
« pensiero della non-identità » era inteso da Adorno come un pensiero che fa valere le cose e gli
uomini nella loro unicità e non li violenta e li soggioga alla regola per mezzo dell’« identificazione
». La conoscenza non estraniante, e quindi non identificante, «vuol dire che cosa una cosa è, mentre
il pensiero dell’identità dice sotto quale categoria ricade, ciò di cui essa è esemplare o
rappresentante, cioè quello che essa non è ». 22
Il significato che ha per Adorno il « pensiero non identificante » è in Heidegger quello del pensiero
aprente in cui l’ente può mostrarsi senza essere violentato. Tuttavia Adorno non ha fiducia di questo
pensiero dell’essere. Egli solleva l’antica accusa di irrazionalismo: « Il pensiero non può
conquistare alcuna posizione in cui scompaia immediatamente quella separazione di soggetto e
oggetto che giace in qualsiasi pensiero, nel pensare stesso. Perciò il momento di verità di Heidegger
viene livellato a visione irrazionalistica del mondo ».23 Adorno si esprime riconoscendo in
Heidegger dei « momenti di verità », e con ciò intende il suo rifiuto di piegarsi ai « fatti » ordinati
positivisticamente, sacrificando il bisogno ontologico-metafisico. Anche Adorno conosce e approva
il « desiderio di non accontentarsi del verdetto kantiano sul sapere dell’assoluto ».24 Ma dove
Heidegger trascende con ieratica meditazione, Adorno mette in scena il gioco della dialettica
negativa, che rimane fedele alla metafisica attraverso la negazione della sua negazione. Perciò
Adorno può definire questa dialettica anche come un organo della «trascendenza del desiderio ». 25
I due si distinguono nel modo in cui si muovono, ma non nella direzione che imboccano. Tuttavia
questa vicinanza a Heidegger stimola in Adorno il narcisismo della piccola differenza. Egli rifugge
la comunanza solidale con i metafisici più o meno mascherati. Ecco la somiglianza della direzione
intrapresa: anche Adorno invoca Hölderlin come testimone metafisico, e guarda verso la Germania
meridionale, cioè verso la zona di Heidegger, come a una terra promessa. Nel Discorso su lirica e
società, in occasione di un’interpretazione di Mörike, Adorno dice: « Sorge qui imperiosa
l’immagine di quella promessa di felicità che oggi ancora nelle giornate tristi viene concessa
all’ospite delle cittadine della Germania meridionale, ma senza la minima concessione a un
medievalismo da damigelle e menestrelli, all’idillio di paese »,26
Verso la fine delle sue Meditazioni sulla metafisica (nella Dialettica negativa) Adorno spiega dove
si possono trovare i luoghi dell'esperienza metafisica ancora accessibili nel mondo moderno. Non li
troviamo più nella totalità, nel grande sguardo d’insieme; e sono scomparsi anche nel pellegrinaggio
dello spirito attraverso la storia, in cui Hegel li richiamava alla memoria. Là c’è solo il grigiore, ma
non c’è epifania, non c’è alcuno spirito del mondo dai tratti edificanti, c’è solo il cuore
dell’oscurità. Ma dove vive la metafisica, come si può essere « solidali » con essa « nell’attimo
della sua caduta»? Ecco la risposta di Adorno: « Che cosa sia l’esperienza metafisica riuscirà a
rappresentarselo al meglio chi disdegna di ricavarlo da presunte esperienze religiose, ricordando
con Proust la felicità che ci promette il nome di certi paesi, come Otterbach, Watterbach, Reuenthal,
Monbrunn. Quando si va in questi posti si crede di essere di fronte alla realizzazione di quanto
promesso, come se questo fosse davvero ».27
Adorno ha presentato la sua ricerca del luogo della metafisica perduta e ritrovata nel suo abbozzo
intitolato Amorbach. Nell’omonima cittadina dell’Odenwald egli visse la sua infanzia. In quel luogo
egli vede raccolti molti dei suoi motivi che in seguito sono sorti potentemente in lui. Il giardino
lacustre di un convento diventa per lui l’archetipo di una bellezza « su cui mi chiedo invano la
ragione dinanzi al tutto ».28 Egli continua a sentire il brusio di un vecchio traghetto sul Meno,
l’emblema acustico del passaggio a una nuova sponda: così si traghetta da un mondo all’altro.
Stando su un’altura egli fece l’esperienza di assistere a come, all’arrivo del tramonto, laggiù in
paese si accendesse ovunque in un sol colpo la luce elettrica appena introdotta: un prudente
esercizio in vista del futuro shock della modernità, a New York come altrove. « La mia cittadina mi
aveva difeso così bene da prepararmi anche a ciò che era il suo opposto totale ».29 Adorno percorre
le vie di Amorbach come Heidegger il suo «sentiero tra i campi (Feldweg) »; per entrambi si tratta
di luoghi reali e al tempo stesso immaginari dell’esperienza metafisica che vivono del ricordo e
della forza evocativa del linguaggio. Heidegger: « Di tanto in tanto il pensiero torna [...] sul sentiero
che la via fra i campi traccia attraverso i prati [...] L’ampiezza di tutte le cose che vi crescono e che
si soffermano attorno a essa, è donatrice di mondo. Solo nel non detto del loro linguaggio, come
dice l’antico maestro di parola e di vita Eckehardt, Dio è Dio ».30
Per Adorno, che trae dall Odenwald i suoi lirismi metafisici, il « sentiero tra i campi » di Heidegger
è « merce estetica dozzinale ».31 Dalla frase di Heidegger che dice « crescere significa: aprirsi
all’ampiezza del cielo e insieme radicarsi nell'oscurità della terra »,32 Adorno fa scattare subito
l’accusa di fascismo: questa, dice, è ideologia di sangue e suolo.
Si ricava l’impressione che il temporaneo coinvolgimento di Heidegger nel nazionalsocialismo sia
giunto opportuno per Adorno: in tal modo quest’ultimo, che altrimenti era solito procedere
cautamente, ha potuto filosofare con il martello nei confronti di Heidegger e instaurare una distanza
che nei contenuti del pensiero non era poi così grande.
Con le scenate di Adorno contro Heidegger (i due non si incontrarono mai dopo il 1945, e
Heidegger non ha mai detto pubblicamente una parola su Adorno) comincia la marcia trionfale del
gergo della dialettica che con la sua posposizione del « sé » si è affermato fino agli anni ’70 come
autentico gergo delle grandi ambizioni. Quando, alla metà degli anni ’70, Ludwig Marcuse fu
interrogato da un giornale su quale libro a suo parere fosse necessario scrivere, rispose: «Propongo
un titolo assolutamente serio: ’Del tutto senza dialettica la faccenda non va - Sulla patologia dello
spirito del tempo’ ». 33 Questa «dialettica» nasce dal tentativo di superare discorsivamente la
complessità del tempo. La volontà di superamento scaturisce non solo dall’angoscia di fronte alla
banalità, ma dallo sforzo di rintracciare, nel generale « contesto di accecamento» (Adorno),
l’assolutamente altro, la traccia della vita riuscita, senza tuttavia cadere vittima della suggestione
del concetto di progresso proprio della dialettica di Hegel o di Marx. La teoria critica fu il tentativo
«di assumersi l’eredità della dialettica senza inventarsi fantasie di vittoria » (Sloterdijk).34 Ma con
questa dialettica vennero comunque raggiunte delle vittorie, sebbene soltanto nel mondo dei
discorsi. Al di sopra e al di sotto della linea del Meno andò diffondendosi un atteggiamento
arrogante e di rimprovero, che si bardava di misteri impronunciati. Ad esempio Ulrich Sonnemann
scrive sul male della banalità e sottolinea che la banalità « è conscia del vero, ma non riesce a
sopportarne la consapevolezza, e quindi a partire dalla tensione di una coscienza perversa, è sia ciò
che essa è, e al tempo stesso non sopporta la certezza che proprio questo non è niente; e il suo
essere consiste in questo non-sopportare se stessa, che nel suo ruolo mondano si manifesta poi, al
tempo stesso, come un non-sopportare il vero e come insopportabilità per questo ».35 Jean Améry,
che ha stigmatizzato questa frase, la traduce « in cattivo banale » così: « che l’uomo, che si
accontenta di cliché di pensiero, anziché distruggerli, diventa nemico della verità perché colpevole
di omissione ».36
Il linguaggio della dialettica era in Adorno ancora un capolavoro di estrema perspicacia: « L’utopia
della conoscenza sarebbe dischiudere ciò che non è concettuale per mezzo di concetti, senza
renderlo simile a quelli » (Adorno).37 Si trattava, come disse Jean Améry, di una « non-chiarezza
che giocava a essere fin troppo chiara »,38 ma il gergo assunse atteggiamenti più solidi e chiari,
soprattutto quando la dialettica negativa tornò a essere positiva e intorno al 1968 cominciò a
scoprire uno dopo l’altro il lavoratore scientifico collettivo, l’eros non repressivo, il codice ristretto,
il potenziale marginalizzato e infine la vecchia classe operaia come soggetto cui attribuire «
tendenzialmente », come recita la formula del gergo, la ricostruzione del processo sociale che
trascende il sistema di emancipazione. In questi contesti la dialettica amena di Adorno non era più
richiesta. La sostituzione dei paradigmi, orientata verso la « operatività » e la « rilevanza della
prassi » condusse a Francoforte (e non soltanto là) alla collisione: quando gli studenti occuparono
l’istituto di sociologia, Adorno chiamò in aiuto la polizia. Un anno dopo morì. Si può supporre che
quegli eventi gli abbiano spezzato il cuore.
Quelli erano gli anni in cui Heidegger cercava in Provenza l’asilo della sua filosofia, mentre alcuni
già lo consideravano il taoista svevo, ed era fermamente convinto di essere ormai un uomo « morto
» per il mondo pubblico attuale. L’amorevole saggio di Hannah Arendt per l’ottantesimo
compleanno di Heidegger nel 1969 suona quasi come un necrologio: « La tempesta che soffia
impetuosa nel pensiero di Heidegger - simile a quella che ancora dopo millenni soffia dall’opera di
Platone - non proviene da questo secolo. Essa proviene dai primordi, e ciò che lascia dietro di sé è
qualcosa di compiuto che, al pari di ogni cosa compiuta ritorna ai primordi ».39
Alcuni anni prima c’era stato ancora una volta un gran polverone. Il 7 febbraio 1966 era apparso su
Der Spiegel un articolo relativo al libro di Alexander Schwan La filosofia politica nel pensiero di
Heidegger, intitolato Heidegger. La mezzanotte della notte del mondo, in cui erano contenute alcune
affermazioni false, per esempio quella secondo cui Heidegger avrebbe proibito a Husserl l’ingresso
in università e avrebbe interrotto le sue visite a Jaspers a causa della moglie ebrea. Jaspers si era
arrabbiato per questo articolo e aveva scritto a Hannah Arendt: « Ci sono momenti in cui lo Spiegel
ricade nelle sue vecchie cattive abitudini » (9 marzo 1966).40
Hannah Arendt reagì con una esplosione di rabbia contro Adorno, il quale però non aveva davvero
niente a che vedere con l’articolo sullo Spiegel del 1966. «C’è un fatto che non posso dimostrare,
ma di cui sono abbastanza convinta: chi tira veramente le fila, in questa faccenda, sono i fedelissimi
di Wiesengrund Adorno a Francoforte. E ciò è tanto più grottesco se si pensa a quel che ora sta
venendo alla luce (l’hanno scoperto gli studenti): Wiesengrund, mezzo ebreo e uno degli uomini più
ripugnanti che io conosca, aveva tentato a suo tempo di chiedere l’assimilazione. Lui e Horkheimer,
per anni, hanno tacciato di antisemitismo qualsiasi persona che in Germania si ponesse in contrasto
con loro, o hanno minacciato di dar fiato a tale accusa. Una compagnia davvero disgustosa. » (18
aprile 1966)41
Heidegger fu sollecitato da amici e conoscenti a difendersi dalla critica sullo Spiegel. Erhart Kästner
gli scrisse il 4 marzo: « La cosa che desidero più ardentemente [...] è che Lei rinunci a non
difendersi. Lei non sa quanto dispiacere procura ai Suoi amici per essersi testardamente rifiutalo di
farlo. È uno degli argomenti più forti: [...] le calunnie, se non ci si difende da esse in maniera palese
e pubblica, diventano fatti ».42 A Kästner non bastava che Heidegger scrivesse una breve lettera al
direttore dello Spiegel. Egli desiderava una difesa più esaustiva ed energica. Poco tempo prima era
uscito dall’Accademia di belle arti di Berlino perché non voleva farvi parte assieme a Günther
Grass, che in un episodio di Anni di cani aveva sferrato un attacco a Heidegger (« Ascoltami bene,
cane. È nato a Meßkirch. Vicino a Brunau am Inn. Lui e quell’altro sono stati scodellati nello stesso
anno dei berretti a punta. Lui e quell’altro si sono inventati l’un l’altro »).43 Kästner aveva scoperto
che lo Spiegel era interessato ad avere un colloquio con Heidegger, e cercò di convincere Heidegger
ad accettare. Ma in un primo tempo Heidegger rifiutò. « Se lo Spiegel fosse davvero interessato al
mio pensiero, il signor Augstein avrebbe potuto anche farmi visita in occasione della sua conferenza
qui all’università lo scorso
semestre invernale, così come ha fatto con Jaspers a Basilea, dopo avervi tenuto una conferenza »
(11 marzo 1966).44 Kästner non demorde. Il 21 marzo scrive: « Nessuno ama il tono dello Spiegel,
né sopravvaluta il suo livello. Ma credo che non bisogna sottovalutare il vento propizio che soffia in
questo momento, in cui il signor Augstein è adirato e indispettito contro Grass. Sento vociferare [...]
che i pensieri preferiti del signor Augstein sono il rifiuto contro la moderna idolatria della scienza, e
un profondo scetticismo. In realtà non vedo nessun motivo per non desiderare questa visita ».45
Il colloquio ebbe luogo perché la redazione dello Spiegel accettò la condizione posta da Heidegger
di non pubblicare nulla finché lui era ancora in vita. L’intervista con lo Spiegel ebbe luogo il 23
settembre 1966 nella casa di Heidegger a Friburgo. Accanto a Heidegger, ad Augstein, al redattore
del
lo Spiegel Georg Wolf e alla fotografa Digne Meller Marco-vicz, vi prendeva parte anche Heinrich
Wiegand Petzet in qualità di « secondo » di Heidegger, come semplice uditore. Petzet racconta che
poco prima del colloquio Augstein gli confessò la sua «paura matta»46 di fronte a quel «celebre
pensatore ». In tal modo Augstein, nel quale si aspettava di vedere una sorta di « carnefice
interrogante », gli era diventato subito simpatico. Anche Heidegger era agitato. Aspettava i
partecipanti sulla porta del suo studio. « Mi spaventai un po’», racconta Petzet, «guardandolo e
notando lo stato di eccessiva tensione in cui si trovava [...] Le vene delle tempie e della fronte erano
visibilmente rigonfiate, e gli occhi erano un po’ fuori dalle orbite per l’agitazione. »47
La «paura matta» di Augstein emerge soprattutto all’inizio del colloquio. Con estrema cautela, in
modo contorto e in punta di dita, egli afferra il « ferro incandescente » dicendo: «Professor
Heidegger, abbiamo ripetutamente constatato che alla Sua opera filosofica fanno un poco ombra
eventi, sia pure di breve durata, che sono accaduti durante la Sua vita e che non sono mai stati
chiariti, o perché Lei è stato troppo orgoglioso, o perché non ha ritenuto utile esprimersi in
proposito ».48 Heidegger contava sul fatto che il colloquio vertesse soprattutto sul suo
coinvolgimento nel nazionalsocialismo. Fu quindi alquanto sorpreso che Augstein si affrettasse
persino a lasciarsi alle spalle questa tematica per condurre il discorso sull’interpretazione che
Heidegger dava del mondo
moderno e soprattutto sulla sua filosofìa della tecnica. Augstein e Georg Wolf si scusano
ripetutamente per il fatto di riportare citazioni dal discorso di rettorato o da quello per la
commemorazione di Schlageter, nonché di mettere Heidegger a confronto con le voci sulla sua
presunta partecipazione al rogo dei libri o sul suo atteggiamento rispetto a Husserl. Gli intervistatori
sono così cauti nel definire l’impegno politico di Heidegger, che quest’ultimo propone lui stesso
una versione più forte. Augstein e Wolf chiedono a Heidegger di spiegare la frase secondo cui
durante il discorso di rettorato egli avrebbe dovuto dire « certe cose ad usum Delphini ». Ma
Heidegger sottolinea a questo proposito «che l’espressione ad usum Delphini dice troppo poco. A
quel tempo avevo fede che nel confronto con il nazionalsocialismo potesse aprirsi una via nuova,
l’unica possibile, verso un rinnovamento».49 Ma questa versione continua a non essere abbastanza
forte. Infatti: non il «confronto con il nazionalsocialismo», ma la stessa rivoluzione
nazionalsocialista, così come egli la intendeva a quel tempo, significava per lui «rinnovamento».
Inoltre egli non dice che questo « rinnovamento » era stato inteso da lui come un evento secolare,
come rivoluzione metafisica e «rivoluzione di tutto l'esserci tedesco», anzi, di tutto l’Occidente.
Non dice di essere caduto in una ebbrezza di potere, di aver voluto difendere la purezza della
rivoluzione e che per questo era diventato anche un delatore, e che aveva avuto attriti con funzionari
del partito e con i suoi colleghi e che era fallito come rettore per aver voluto condurre avanti la
rivoluzione. Al posto di tutto questo, egli desta l’impressione di aver collaborato per attuare una
sorta di resistenza. Egli sottolinea il suo orientamento apolitico prima del 1933 e presenta la sua
decisione a favore del rettorato come un sacrificio al fine di evitare qualcosa di peggio, cioè
l’assunzione del potere sull’università da parte di funzionari di partito. In breve: Heidegger
nasconde in questo colloquio
il rivoluzionario nazionalsocialista, quale egli fu per un certo tempo, e sottace gli impulsi filosofici
che lo avevano spinto a questo.
Se Heidegger da un lato presenta il suo ruolo nel periodo nazista in modo più innocente di quanto
realmente fu, dall’altro non è disposto a fare la parte del « democratico purificato », come molti
fecero nella Germania del secondo dopo-
guerra. Quando la conversazione tocca il problema « che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre
più dalla terra»,50 Heidegger osserva che il nazionalsocialismo in origine aveva voluto combattere
contro questa evoluzione, diventandone però in seguito il motore. Heidegger ammette la propria
perplessità a proposito di « come si possa attribuire un sistema politico - e quale - all’età della
tecnica [...] Non sono convinto che sia la democrazia ».51 Fu a questo punto del colloquio che
Heidegger disse: « Ormai solo un Dio ci può salvare».52 Questa frase divenne il titolo con cui il
colloquio venne pubblicato sullo Spiegel nel 1976, dopo la morte di Heidegger.
Questo colloquio doveva porre fine alla discussione sull’impegno politico di Heidegger, e tuttavia
era destinato a riaccenderla. Infatti Heidegger si difese come faceva a quel tempo la maggior parte
degli « accusati », a proposito dei quali peraltro Carl Schmitt annotò sarcasticamente nel suo
Glossarium, che questi avevano scoperto la collaborazione come una forma di resistenza. Quello
che « si » fa comunemente doveva fare un’impressione indegna riferita a un filosofo
dell’autenticità, che aveva preteso dall’« esserci deciso» anche il coraggio della responsabilità. Però
la responsabilità non si estende solo all’ambito delle proprie intenzioni, ma anche alle conseguenze
non previste del proprio agire. Ma Heidegger doveva essere corresponsabile dei crimini mostruosi
del nazionalsocialismo, ai quali davvero non prese parte in alcun modo, nemmeno per mezzo di
comuni presupposti di pensiero? Heidegger non era mai stato razzista.
Il silenzio di Heidegger: se n’è già parlato molto. Che cosa ci si attende da lui? Herbert Marcuse,
che aveva scritto a Heidegger il 28 agosto 1947, attendeva una « parola » che liberasse Heidegger
«definitivamente dall’identificazione »53 con il nazionalsocialismo; egli desiderava « una
dichiarazione pubblica » del « suo cambiamento e della sua trasformazione ». Nella sua risposta
Heidegger fece notare che questo cambiamento era stato compiuto da lui pubblicamente (nelle sue
lezioni) già durante il nazionalsocialismo, e che nel 1945 gli era impossibile una ritrattazione
ostentata delle sue precedenti convinzioni perché non voleva ritrovarsi nella cattiva compagnia di
quegli « adepti del nazismo » che « annunciarono nel modo più schifoso il loro cambiamento di
opinione » per ripulirsi in vista della loro carriera nel dopoguerra. Che lui dovesse prendere le
distanze dall’assassinio di milioni di ebrei, era una richiesta che Heidegger sentiva giustamente
come una mostruosità. In tal modo egli avrebbe dovuto riconoscere implicitamente un giudizio
pubblico che gli attribuiva la complicità con quell’assassinio. Il suo rispetto per se stesso gli
imponeva di opporre un rifiuto a questa pretesa.
Se Heidegger respinse la richiesta di difendersi come potenziale complice dell'assassimo, questo
non significava che egli si sottraesse alla sfida di « pensare Auschwitz ». Quando Heidegger parla
della perversione della moderna volontà di potenza, per la quale la natura e l’uomo non sono che
mero materiale per le sue « macchinazioni », il riferimento è sempre, esplicito o implicito, ad
Auschwitz. Per lui, come anche per Adorno, Auschwitz è un tipico crimine della modernità.
Se dunque si concepisce la critica di Heidegger alla modernità anche come un fare filosofia su
Auschwitz, risulta chiaro che il problema del silenzio heideggeriano non sta nel fatto che egli abbia
taciuto su Auschwitz. Egli ha taciuto filosoficamente su qualcosa d’altro: su se stesso, sul fatto che
il filosofo possa essere sedotto dal potere. Anche lui, come così spesso accade nella storia del
pensiero, ha omesso di porre quest’unica domanda: chi sono io, propriamente, quando penso? Il
pensatore ha dei pensieri, ma talvolta accade anche il contrario: sono i pensieri ad avere lui. Ciò che
muta è il « chi » del pensiero. Chi pensa le grandi questioni può facilmente cadere nella tentazione
di ritenere se stesso un grande evento; egli vuole corrispondere all’essere e presta attenzione a come
egli si presenta nella storia, ma non a come si presenta a se stesso. La contingenza della propria
persona scompare nel sé che pensa e nelle sue grandi relazioni. La visione ontologica che guarda
lontano finisce per non mettere a fuoco ciò che è onticamente vicino. C’è una conoscenza carente di
se stessi, delle proprie contraddizioni, condizionate dall’epoca, delle casualità e delle idiosincrasie
dovute all’impronta biografica. Chi ha conoscenza del proprio sé contingente è meno incline a
confondersi con gli eroi del suo sé pensante e a far affondare le proprie piccole storie nella grande
storia. In una parola: la conoscenza di se stessi è una difesa contro le lusinghe del potere.
Il silenzio di Heidegger. Nell’incontro con Paul Celan esso giocherà ancora un ruolo importante. Il
poeta Paul Celan, nato nel 1920 a Czernowitz, riuscì a fuggire soltanto per un caso ai campi di
sterminio, dove i suoi genitori furono uccisi, e dal 1948 visse a Parigi. Egli trovò una via d’accesso
soprattutto alla filosofia tarda di Heidegger. Il filosofo Otto Pöggeler informa che Celan difese nei
suoi confronti proprio quelle tarde formulazioni di Heidegger, così difficili linguistica-mente, e che
nel 1957 voleva spedire a Heidegger la sua poesia Striature, che fu pubblicata in seguito nel volume
Grata di parole. La poesia parla di un occhio il cui ferimento dischiude il mondo e conserva la
memoria:
Striature nell’occhio:
sia conservato
un segno portato dentro l’oscurità.
Probabilmente questa stessa poesia doveva essere segno dello sforzo di allacciare una relazione che
conservi la memoria di quella « ferita » che divide i due, Heidegger e Celan. Non è certo che Celan
abbia effettivamente spedito questa poesia. Dopo i numerosi intensi colloqui sul filosofo, Otto
Pöggeler chiese a Celan se gli poteva dedicare il suo libro su Heidegger. Celan rifiutò « non a cuor
leggero ».54 Egli deve aver insistito « che il suo nome non venisse legato a quello di Heidegger
prima che vi fosse una spiegazione con lui ». Nondimeno, Celan studiò a fondo l’opera di
Heidegger; nella sua copia di Essere e tempo si trovano numerose esaurienti annotazioni; conosceva
le interpretazioni heideggeriane di Hölderlin, Trakl, Rilke. Nella sua poesia Largo egli parla di
«heidegängerisch Nahe » (« vicinanza dell’andare per la brughiera»). Dal canto suo Heidegger
aveva seguito con attenzione l’opera di Celan a partire dagli anni ’50. Nell’estate del 1957, quando
il germanista Gerhart Baumann preparò una lettura con Celan a Friburgo, e ne diede comunicazione
per lettera a Martin Heidegger, quest’ultimo rispose: «Già da tempo ho il desiderio di conoscere
Paul Celan. Egli si è spinto più avanti di tutti, e si tiene più indietro di tutti. Conosco tutto di lui, so
anche della difficile crisi dalla quale ha condotto fuori se stesso, per quanto ciò sia possibile a un
uomo
[...] Sarebbe utile mostrare a Paul Celan anche la Selva Nera». 55
In occasione della lettura friburghese, il 24 luglio 1967, nell’Aula magna dell’università, Celan si
trovò di fronte al più vasto uditorio della sua vita. Si erano dati appuntamento più di mille
ascoltatori. Fra questi Heidegger sedeva in prima fila. In precedenza Heidegger era passato dalle
librerie, e aveva pregato di riservare un posto di riguardo in vetrina al volumetto con le poesie di
Celan. E così fu. In occasione della sua prima passeggiata per la città il poeta vide ovunque nelle
vetrine delle librerie il suo volumetto di poesie, e raccontò la cosa con gioia durante un incontro con
alcuni conoscenti nel foyer dell’albergo, un’ora prima dell’inizio della lettura. Heidegger, che era
presente, non rivelò di essere intervenuto in tal senso presso i librai. In occasione di questo primo
incontro fra Heidegger e Celan si svolse la seguente scena. Dopo un attimo di concitato colloquio
tra i due, qualcuno espresse il desiderio di fare una fotografia. Celan si alzò di scatto e disse di non
voler essere fotografato con Heidegger. Heidegger rimase tranquillo, si fece prudentemente da parte
e osservò con Gerhart Baumann: « Lui non vuole, bene, accontentiamolo ».56
Celan si allontanò per un momento, e quando tornò fece capire che le sue precedenti riserve
sull’essere fotografato con Heidegger erano venute meno. Ma il rifiuto opposto in precedenza
continuò a perpetrare il suo effetto, e nessuno riprese quella proposta. Ora Celan si mostrava
dispiaciuto per le conseguenze del suo comportamento e cercò di ritirare l’offesa. Dopo la lettura ci
si ritrovò per un bicchiere di vino. Heidegger propose di salire il mattino presto sulla Selva Nera, di
visitare una torbiera e di sostare alla baita di Todtnauberg. La proposta venne accolta. Heidegger se
n’era appena andato quando Celan cominciò a sollevare con Gerhart Baumann obiezioni e difficoltà
contro la proposta, che poco prima aveva approvato. Gli riusciva difficile, disse, incontrarsi con un
uomo di cui non poteva dimenticare il passato. « Il disagio divenne rapidamente rifiuto », come
racconta Baumann, il quale ricordò a Celan il suo espresso desiderio di incontrare Heidegger e di
stare insieme a lui. Celan non fece alcun tentativo di risolvere le contraddizioni. Le sue riserve
restavano tali, e d’altro canto egli era impressionato dall’opera e dalla persona di Heidegger. Si
sentiva attratto, e al tempo stesso se lo rimproverava. Cercava la sua vicinanza, e se la proibiva. Il
giorno successivo Celan intraprende la gita a Todtnauberg. Trascorrerà una mattinata con Heidegger
alla baita. Non sappiamo di che cosa i due abbiano parlato. Ecco le parole che Celan appuntò sul
libro degli ospiti: « Nel libro della baita, con lo sguardo rivolto alla stella nel pozzo, con la speranza
di una parola che viene nel cuore ».57 La « parola che viene » - potrebbe significare molte cose.
Forse Celan si aspettava un’ammissione di colpa ed era deluso perché Heidegger non l’aveva
ancora fatta? Ma Celan non apparve affatto deluso, racconta Baumann, che incontrò i due in una
trattoria qualche ora dopo. « Fui piacevolmente stupito nel trovare il poeta e il pensatore in uno
stato d’animo di ritrovata serenità. Essi riandarono agli eventi delle ore precedenti; la passeggiata
alla ’baita’ venne menzionata con enfasi. Dal volto di Celan era scomparsa ogni ombra. »58 Il
giorno successivo Celan partì di buon umore per Francoforte. Qui Marie Luise Kaschnitz incontra
con sua sorpresa uno Celan completamente trasformato. Disse agli amici: «Che cosa hanno fatto di
lui quelli di Friburgo? Che cosa gli sarà accaduto laggiù? È irriconoscibile ».59 In questo stato
d’animo sereno Paul Celan scrive il 1° agosto 1967 la poesia Todtnauberg:
Arnica, Eufrasia, il
sorso della fonte con sopra
il dado stellato,
nella
malga,
la riga nel libro
- quali nomi accolse
prima del mio? -
la riga, in quel libro
inscritta,
d’una speranza, oggi,
dentro il cuore,
per la parola
ventura
di un uomo di pensiero...60
La « parola ventura »: questa espressione risponde anche all’avventismo metafisico di Heidegger, al
« Dio che viene »
di Heidegger e al « cammino verso il linguaggio », che è in grado di portare una « svolta ». In ogni
caso la « parola ventura » non è solo una parola di assoluzione politica di Heidegger.
Nella prima stesura della poesia, che Celan spedisce a Heidegger nel 1968, si parla di «parola che
viene senza indugi ». Nella raccolta di poesie intitolata Luce coatta del 1970, Celan cancella la
speranza espressa fra parentesi di una parola « che viene senza indugi ».
Nel frattempo c’erano stati altri incontri, ci fu uno scambio epistolare. Il legame si fece amichevole.
Nell’estate del 1970 Heidegger voleva condurre Celan attraverso il paesaggio hölderliniano del
Danubio superiore. Aveva già intrapreso i preparativi. Ma non se ne fece più nulla. Nella primavera
del 1970 Paul Celan si tolse la vita a Parigi.
Nei confronti di Celan, Heidegger si comportò cercandone il favore, dedicandogli la propria
attenzione e a volte anche le proprie cure premurose. In occasione del loro ultimo incontro, il
Giovedì santo del 1970, si verificò ancora una volta un piccolo putiferio. Celan aveva recitato delle
poesie, e si era parlato di esse. Heidegger aveva seguito la lettura così attentamente che era in grado
poi di citare parola per parola interi versi. Ciò nonostante, nel corso della conversazione, Celan lo
accusò di essere disattento. I due si separarono con il morale a terra. Baumann accompagnò
Heidegger verso casa. Quando si salutarono presso il Gartentor, Heidegger disse «con sgomento» a
Baumann: «Celan è malato - è disperato ».6I
Che cosa si era aspettato Celan da Heidegger? Probabilmente Io stesso Celan non lo sapeva. Il
termine heideggeriano « radura » (Lichtung) era per lui una promessa, egli ne aspettava
l’adempimento. Forse il termine «luce coatta» (Lichtzwang) usato da Celan contiene la risposta
impaziente.
25. Il vespero della vita. Ancora una volta Hannah. Heidegger e Franz Beckenbauer. Gli onori, gli
oneri, i canti di commiato. Quello che non si dimenticherà. Il senso della domanda sull’essere e il
senso dell’essere: due storie Zen. Il ponte. Il tatuaggio. Il gufo. La morte. Ritorno sotto il cielo di
Meßkirch.
ACCANTO al campanello della casa sul Rötebuckweg 47 era appeso un cartellino: «Visite dopo le
17». Venivano molti visitatori. Heidegger doveva tenersi libero del tempo per lavorare. Petzet
racconta un fatto divertente: una domenica pomeriggio giunse una famiglia sudamericana numerosa
che chiese di entrare, esprimendo stentatamente quest’unico desiderio: « Seulement voir Monsieur
Heidegger».1 Heidegger si fece vedere, la famiglia guardò impietrita la bestia rara, poi lui se ne
andò senza dire una parola fra numerosi inchini.
I visitatori che erano invitati nello studio di Heidegger, la qual cosa equivaleva a un particolare
privilegio, dovevano salire per una tortuosa scala di legno al primo piano, dove, accanto a un
gigantesco armadio di famiglia si apriva la porta che dava nello studio. Una camera oscurata dagli
scaffali di libri che la circondavano, e che riceveva luce da una finestra su cui si abbarbicavano
tralci d’edera. Davanti a essa stava la scrivania. Da quella finestra si vedeva la torre della rovina
della fortezza di Zähringen. Accanto alla scrivania c’era una poltrona in pelle su cui si erano sedute
intere generazioni di visitatori, Bultmann, Jaspers, Sartre, Augstein. Sopra la scrivania c’era una pila
di cartelle contenenti manoscritti, che Fritz Heidegger aveva chiamato, con amorevole ironia «le
stazioni di smistamento di Martin ».
In questa camera tornò a sedersi ancora una volta Hannah Arendt nel 1967, per la prima volta dopo
un intervallo di quindici anni. Dopo la sua ultima visita, nel 1952, c’era stato soltanto uno scambio
di lettere. Nel 1966 Heidegger le aveva spedito per il suo sessantesimo compleanno la poesia
Autunno. Hannah vi aveva sentito il tono elegiaco, lo stato d’animo del vespero della vita. Ora
vuole vedere ancora una volta Heidegger, che ormai va verso gli ottant’anni; l’augurio di
compleanno le serve da incoraggiamento. Dopo i dissensi degli anni precedenti, ancora una
conciliazione. Hannah ed Elfride decidono di chiamarsi reciprocamente per nome. Due anni dopo,
nell’agosto del 1969, poco prima dell’ottantesimo compleanno di Heidegger, Hannah Arendt porta
con sé anche suo marito, Heinrich Blücher. L’atmosfera è accorata e rilassata. Se soltanto Hannah
non fumasse così tanto! Elfride dovrà poi arieggiare per giornate intere. Heidegger fa dono di un
libro che, come informa la Ettinger, reca questa dedica: «Per Hannah e Heinrich - Martin ed
Elfride».2 Per l’anno successivo si voleva rinnovare questo incontro a quattro. Ma nell’ottobre del
1970 Heinrich Blücher muore. Hannah Arendt dedica i suoi ultimi anni a lavorare alla sua grande
opera rimasta incompiuta La vita della mente. Il pensare - il volere - il giudicare. Nelle idee
sviluppate in quest’opera essa è vicina a Heidegger come non mai. La sua conclusione è che
Heidegger avrebbe « riconquistato un pensiero che esprime la gratitudine per il fatto di avere
ottenuto il ’nudo che’ ».3 Anche per il resto il suo legame con Heidegger non conosce altre
interruzioni. Ogni anno torna a fargli visita e si prende energicamente cura dell’edizione e della
traduzione delle sue opere in America. Heidegger riconosce con gratitudine il suo aiuto; era
l’ennesima conferma, scrive, che nessuno capiva meglio di lei il suo pensiero.
La Ettinger riporta anche il seguente significativo episodio: poiché l’infermità di Heidegger andava
progressivamente aggravandosi, bisognava costruire nel giardino di casa un piccolo edificio che gli
servisse da comodo domicilio per la vecchiaia. Per finanziare la costruzione Heidegger è
intenzionato a vendere il manoscritto di Essere e tempo a una fondazione, a una biblioteca o anche a
un collezionista privato. In questa occasione è Elfride che chiede consiglio a Hannah, nell’aprile del
1969. Quanto si può chiedere e dove si otterrebbe il prezzo migliore? In America o in Germania?
Hannah Arendt si rivolge subito per informazioni a personale specializzato, venendo a sapere che la
cifra più alta è senz’altro quella offerta dall’Università del Texas, che ammonterebbe certamente a
una somma di 100.000 marchi.
Il manoscritto di Essere e tempo non giunse mai in Texas, nel nuovo mondo, bensì rimase in
Europa: lo Schiller-Literaturarchiv di Marbach comunicò di essere interessato. In quel luogo venne
infine raccolto tutto il materiale del lascito manoscritto di Heidegger. La casetta in giardino venne
costruita, e per l’inaugurazione Hannah fece recapitare dei fiori.
Heidegger potè conservare il suo consueto ritmo di vita. Al mattino lavoro, dopo pranzo riposo, poi
ancora al lavoro fino al tardo pomeriggio; le passeggiate lo conducevano spesso allo Jägerhäusle, un
ristorante sul pendio con vista sulla città. Là si incontrava volentieri con conoscenti e amici a bere
un « quartino ». In primavera e in autunno trascorreva sempre un po’ di tempo a Meßkirch dal
fratello. Il giorno di san Martino, l'11 novembre, Heidegger tornava a sedersi ogni anno al suo solito
posto sui sedili del coro della chiesa, come faceva quando era il piccolo campanaro. Gli abitanti di
Meßkirch sapevano apprezzare la sua presenza. Anche se alcuni che lo conoscevano fin
dall’infanzia, adesso erano un po’ in imbarazzo di fronte al celebre professore con il berretto basco.
Una volta una sua ex compagna di scuola alle elementari, che era diventata soltanto una donna delle
pulizie, lo incontrò per strada, e non sapeva come rivolgersi a lui, se con il solito « tu » o dandogli
più delicatamente del « Lei »; trovandosi in imbarazzo si decise per il « Si » heideggeriano, egli
disse: «Si è ancora qui, eh?» («Isch me au do?») I compleanni a cifra tonda venivano festeggiati
nella sala ricevimenti del municipio. Un musicista svizzero aveva composto una marcia per
Heidegger servendosi della figura h-e-d-e-g-g-e, secondo la notazione musicale anglosassone; la
composizione fu accolta nel repertorio della banda comunale di Meßkirch per queste occasioni di
festa. Il detto secondo cui non si è mai profeti in patria non vale per Meßkirch, dove Heidegger
ricevette nel 1959 anche la cittadinanza onoraria.
Adesso Heidegger era un vecchio signore che imponeva rispetto, ma il suo lato rude e severo andò
ammorbidendosi. Andava dai vicini a seguire le trasmissioni televisive delle grandi partite del
campionato europeo di calcio. In occasione di un leggendario incontro fra l’Amburgo e il
Barcellona, all’inizio degli anni ’60, per la grande eccitazione rovesciò la sua tazza di tè. Il
sovrintendente teatrale di Friburgo una volta lo incontrò in treno e voleva intavolare con lui una
conversazione sulla letteratura e il teatro, ma non vi riuscì, perché Heidegger, che aveva appena
assistito a una partita di calcio del campionato europeo e ne era rimasto entusiasta, preferì parlare di
Franz Beckenbauer. Coltivava una particolare ammirazione per il suo delicato tocco di palla, e nel
dire questo cercò di dare all’interlocutore interdetto persino un’immagine visiva delle finezze del
suo gioco. Definì Beckenbauer un «giocatore geniale» e ne esaltò l’« insuperabilità » nello scartare
gli avversari. Heidegger presumeva di saper giudicare come un vero esperto: a Meßkirch non si era
infatti limitato a suonare le campane, ma aveva anche giocato con successo nel ruolo di ala sinistra.
Negli ultimi anni di vita Heidegger si occupò soprattutto della preparazione dell’edizione completa
delle sue opere. In realtà egli voleva chiamarle « vie », ma poi ne risultarono appunto delle « opere
».
Arthur Schopenhauer disse una volta, verso la fine della sua vita: « L’umanità ha imparato da me
alcune cose che non dimenticherà mai ». Di Heidegger non è tramandata un’analoga affermazione.
Egli non ha creato alcuna filosofia costruttiva nel senso di una certa immagine del mondo o di una
dottrina morale. Non ci sono « risultati » del pensiero di Heidegger, così come ci sono risultati della
filosofia di Leibniz, di Kant o di Schopenhauer, La passione di Heidegger era il porre domande, non
il rispondervi. Il domandare poteva valere per lui come « pietà del pensiero » perché dischiudeva
nuovi orizzonti, così come aveva fatto un tempo la religione; quando era ancora viva, essa aveva
ampliato gli orizzonti e aveva santificato ciò che appariva in essi. Per Heidegger possiede forza
aprente soprattutto un'unica domanda che egli tornò a formulare per tutta la sua vita di filosofo: la
domanda sull’essere. Il senso di questa domanda non è altro se non questo tenere aperto, questo
rapire ed estasiare in una radura dove ciò che è ovvio riceve improvvisamente il miracolo del suo «
ci »; dove l’uomo fa esperienza di sé come di un luogo in cui qualcosa si spalanca, dove la natura
apre gli occhi e osserva di esserci, e in cui quindi, nel mezzo dell’ente, c’è un luogo aperto, una
radura, e dove è possibile la gratitudine per il fatto che tutto questo c’è. Nella domanda sull’essere
si cela la disponibilità al giubilo. La domanda sull’essere in senso heideggeriano significa sollevare
le cose così come si leva l’ancora, per partire liberi in mare aperto. È una triste ironia della storia
che la ricezione di Heidegger abbia per lo più perduto questa capacità di dischiudere e alleggerire e
abbia piuttosto intimidito, annodato e rattrappito il pensiero. Di fronte alla domanda sull’essere
accade a molti ciò che accadde a un discepolo in una storia Zen. Egli si era a lungo lambiccato
intorno a questo problema: come far uscire l’oca troppo cresciuta dalla bottiglia dal collo sottile,
senza uccidere l’animale o rompere la bottiglia. L’allievo, che già era curvo per il tanto pensare,
venne dal maestro e lo pregò di dargli la soluzione del problema. Il maestro si allontanò un
momento, poi batté con forza le mani e chiamò per nome l’allievo. «Sono qui, maestro!», rispose
l’allievo. «Vedi», disse il maestro, « l’oca è fuori! » Questo è tutto sul senso della domanda
sull’essere.
Anche sul senso dell’essere, su cui ci si interroga in quella domanda, c’è una bella storia Zen, che
riflette esattamente il discorso di Heidegger. In essa si parla di uno che prima di occuparsi di Zen
vede i monti in quanto monti e le acque in quanto acque. Una volta che ha raggiunto una certa
visione interiore della verità dello Zen, vede che i monti non sono più monti e le acque non sono più
acque. Ma quando raggiunge l’illuminazione, allora vede i monti di nuovo come monti e le acque di
nuovo come acque.
Lo Heidegger degli anni ’20 si serviva volentieri di una espressione che aveva un suono astratto: «
indicazione formale ». Gadamer ricorda che gli studenti a quel tempo avevano difficoltà con questa
espressione, perché supponevano che avesse un significato astratto; e Heidegger spiegava loro
questa espressione dicendo che significa « assaporare e realizzare».4 Un’indicazione si tiene nella
distanza propria dell’indicare ed esige che l’altro, cui qualcosa viene indicato, guardi lui stesso. Egli
deve vedere lui stesso ciò che è « indicato », secondo i crismi della fenomenologia, e deve «
realizzarlo » attraverso la propria intuizione. E nel realizzarlo egli assapora quello che c’è da
vedere. Ma, come si è detto, bisogna vedere da sé, per conto proprio.
Quando Heidegger una volta definì se stesso in una lettera a Jaspers come un custode di museo che
scosta le tende per lasciar vedere meglio le grandi opere della filosofia, egli aveva in mente la
versione più umile della sua attività. Infatti in realtà egli voleva aiutare a guardare nella vita, e non
solo nella filosofia, come se fosse la prima volta. Chiarire le cose significava per Heidegger
riprodurre l’aurora del sorprendente e perciò sconvolgente arrivo dell'esserci nel mondo. Questo fu
il grande pathos dell’« iniziare » di Heidegger: mettere da parte ciò che occulta, ciò che è consueto,
ciò che è diventato astratto e irrigidito, decostruire. E che cosa deve apparire poi? Nient’altro se non
ciò che ci circonda senza angustiarci, questo « ci » del nostro esserci. E questo che deve essere
assaporato e realizzato. La filosofia di Heidegger non ha mai dismesso questo esercizio del lasciar
vedere. Può trattarsi di montagne e di acque, come nella storia Zen, ma anche ad esempio di un
ponte. Su ciò Heidegger ebbe a fare una meravigliosa considerazione.5
Noi facciamo uso del ponte senza pensarci troppo. Uno sguardo nell’abisso sotto il ponte può
metterci paura, e in ciò si annuncia il sentore del rischio dell’esserci, si mostra quel niente su cui noi
siamo in equilibrio. Il ponte è teso sopra l’abisso. Entrambe le estremità del ponte riposano
saldamente sulla terra. Il ponte continua il tratto portante della terra, al quale restiamo legati,
nell’atto del sostenere. Così il suo progetto, il suo slancio, garantisce il passaggio. La congiunzione
per mezzo del ponte si erge sopra l’abisso nell’aperto del cielo. Il ponte, che riposa sulla terra
ferma, non congiunge perciò soltanto due sponde fra loro, ma ci mantiene nell’aperto e in esso ci dà
sostegno. Heidegger dice che il ponte congiunge nel transito dei « mortali » la terra con il cielo. Nei
ponti antichi l’ardimento della congiunzione, questo piacere rischioso di stare e di andare
nell’aperto fra il cielo e la terra, viene ancora rappresentato e celebrato espressamente: nelle statue
sul ponte, quelle statue di santi che incoraggiano ad affidarsi e nelle quali troviamo espressa la
gratitudine per il dono della vita, per questo soggiorno nell’ampio orizzonte fra cielo e terra, per
questa guida nel transito.
È una fantasticheria poetica, una metafora? No. L’analisi heideggeriana dell’esserci è un tentativo
unico di mostrare che noi siamo esseri che possono costruire ponti perché sono in grado di esperire
ampi orizzonti, distanze e soprattutto abissi, sopra di sé, intorno a sé e in sé, e che perciò sanno che
vivere significa gettare un ponte sopra gli abissi e mantenersi nel transito. Così l'esserci è un essere
che guarda al di là verso se stesso e che si spinge al di là, da un capo all’altro del ponte. E il punto
cruciale del discorso è questo: che il ponte cresce soltanto sotto i nostri piedi, quando lo
percorriamo.
Fermiamoci qui.
Il vecchio Heidegger ha fatto alcune altre considerazioni svagate, oscure, arzigogolate, che magari
fanno pensare, ma che non fanno vedere: « Lo squadrare si dispiega come il facente-avvenire-
traspropriante gioco di specchi dei Quattro che sono affidati l’uno all’altro nella semplicità. Lo
squadrare si dispiega come mondeggiare del mondo. Il gioco di specchi del mondo è la danza
circolare del far-avvenire traspropriante ».6 Non bisognerebbe prendersi gioco di queste cose, ma
non è nemmeno necessario sprofondare in una falsa pensosità. Di fronte a queste frasi è come nel
caso del tatuaggio sul corpo del ramponiere Queequeg nel Moby Dick di Melville. Sul corpo di
questo Queequeg, un uomo pio e selvaggio dei mari del Sud, una volta venne incisa un’intera
dottrina occulta della sua origine attraverso cielo e terra, un trattato mistico, e da allora in poi lui
stesso era la scrittura che egli stesso non sapeva decifrare, « sebbene fosse il sangue del suo cuore a
batterci contro ». Tutti, anche Queequeg stesso, sapevano che questi messaggi sarebbero periti,
senza essere decifrati, insieme alla pelle su cui erano stati incisi. Queequeg, sentendosi vicino alla
fine, si fa preparare dal falegname di bordo una bara e ricopia sul legno di questa i segni che reca
sul corpo.
Certi enigmi nell’enorme opera complessiva di Heidegger devono certo essere letti allo stesso modo
delle scritte riportate sul sarcofago del selvaggio dei mari del Sud.
Il 4 dicembre 1975 muore Hannah Arendt. Anche Heidegger adesso si prepara a morire, sereno,
calmo, rilassato. Quando Karl Fischer, suo compagno nei giochi d’infanzia, gli fa gli auguri per il
suo ottantaseiesimo compleanno, che sarà l’ultimo, Heidegger risponde: «Caro Karl [...] Ora
ripenso spesso alla nostra infanzia e anche alla casa dei Tuoi genitori, dove c’erano molti animali
sul terrazzo, e fra gli altri c’era un gufo ».7 Al calar del tramonto si fanno visibili gli albori. Si può
supporre che Heidegger abbia rivisto molto chiaramente questo gufo davanti a sé. Era giunta l’ora
in cui questo uccello comincia il suo volo. Forse in questa occasione Heidegger si ricordò anche di
quello che in seguito mi raccontò Karl Fischer, con il quale ho avuto occasione di parlare: che il
piccolo Martin aveva una sciabola, così lunga che doveva trascinarsela dietro. Non era di latta, ma
di acciaio. « Lui era infatti il comandante », disse Karl Fischer, conservando la stessa ammirazione
per quei giorni vissuti insieme da monelli.
Nell’inverno del 1975 cade l’ultima visita di Petzet a Heidegger. « Come sempre dovetti
raccontargli molte cose; egli si informò con interesse di persone e cose, di esperienze e lavoro, con
uno spirito lucido e assai partecipe come sempre. Quando poi al calar della sera volevo andar via, e
la signora Heidegger aveva già lasciato la stanza, mi voltai ancora una volta, stando sulla porta. Il
vecchio mi guardò, alzò la mano e gli sentii dire piano: ’Eh sì, Petzet, adesso si va verso la fine'. I
suoi occhi mi salutarono un’ultima volta. »8
Nel gennaio 1976 Heidegger pregò Bernhard Weite, suo conterraneo di Meßkirch e professore di
teologia a Friburgo, di raggiungerlo per un colloquio e gli comunicò che quando, fra non molto,
fosse giunta la sua ora, voleva essere sepolto nel cimitero di Meßkirch, la loro patria comune.
Chiese di essere sepolto secondo il rito religioso e che fosse lo stesso Weite a parlare sulla sua
tomba. In quest’ultimo colloquio che vi fu fra i due si parlò dell’esperienza che la vicinanza della
morte include in sé la vicinanza alla terra natia. « Aleggiava nella stanza », racconta Weite, « anche
il pensiero eckhartiano che Dio è uguale al nulla. »9 Il 24 maggio, due giorni prima della sua morte,
Heidegger scrive ancora una volta a Weite; si tratta di un augurio in occasione del conferimento al
teologo della cittadinanza onoraria di Meßkirch. Questo augurio è l’ultima testimonianza di pugno
di Martin Heidegger: « Al nuovo cittadino onorario della nostra città di Meßkirch - Bernhard Weite
- giunga oggi il saluto di quello più anziano Sia lieto e stimolante questo giorno di festa e di onore,
sia unanime lo spirito di riflessione di tutti coloro che vi prendono parte. C’è bisogno infatti di
riflettere se e come nell’epoca della civiltà planetaria tecnicizzata e uniforme, vi possa essere ancora
una patria ».l0
Il 26 maggio, dopo un repentino risveglio al mattino, Martin Heidegger si riaddormenta poco dopo
e muore.
Le esequie hanno luogo a Meßkirch il 28 maggio. Heidegger è tornato in seno alla Chiesa? Max
Müller racconta che
Heidegger durante le passeggiate, quando si giungeva a chiese o a cappelle, prendeva sempre
dell’acquasanta e faceva una genuflessione. Una volta ebbe a chiedergli se non fosse una cosa
incoerente, dato che aveva preso le distanze dai dogmi della Chiesa. Heidegger avrebbe risposto: «
Bisogna pensare storicamente. E dove si è pregato tanto, il divino è vicino in modo tutto particolare
». 11
In che modo possiamo concludere?
La cosa migliore a tal fine è la frase che Martin Heidegger disse prima di una lezione a Marburgo in
occasione della morte di Max Scheler nel 1928: « Ancora una volta una via della filosofia ripiomba
nel buio ».12
Note
Per i rimandi bibliografici delle opere e delle traduzioni italiane citate si vedano la Tavola delle
abbreviazioni e la Bibliografìa.
1.
1.    SuZ, p. 228; trad. it. p. 280.
2.    D, p. 38; trad. it. p. 7.
3.    Cit. da O. Pöggeler, Heideggers politisches Selbstverständnis, ρ. 41.
4.    C. Gröber, Der Altkatholizismus in Meßkirch, p. 158.
5.    D, p. 37.
6.    Ivi, p. 65 sg.
7.    Ivi, p. 38.
8.    Cit. da A. Müller, Der Scheinwerfer, p. 11.
9.    Cit. da L. Braun, Da-Da-dasein.
10.    Cit. da A. Müller, op. cit., p. 32.
11.    Cit. da ivi, p. 9.
12.    Cit. da ivi, p. 11.
13.    G. Dehn, Die alte Zeit, die vorigen Jahre. Lebenserinnerungen, p. 37.
14.    Ivi, p. 38.
15.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, p. 39; trad. it. p. 52.
16.    G. Dehn, op. cit., p. 39.
17.    Cit. da W. Kiefer, Schwäbisches und alemannisches Land, p. 324.
18.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 39; trad. it. p.
59.
19.    Cit. da ivi, p. 86; trad. it. p. 78.
2.
1.    H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 86; trad. it. p. 79.
2.    Z, p. 82; trad. it. p. 190.
3.    C. Braig, Was soll der Gebildete von dem Modernismus wissen?, p. 37.
4.    Ivi.
5.    D, p. 1.
6.    Ivi, p. 3.
7.    Cit. da V. Farias, Heidegger und der Nationalsozialismus, p. 88. [I riferimenti di pagina
all’edizione italiana di quest’opera, diversa da quella originale, vengono dati laddove esistenti.
N.d.C.]
8.    Cit. da ivi, p. 89.
9.    Cit. da ivi, p. 88.
10.    Cit. da ivi.
11.    Cit. da ivi, p. 86.
12.    Cit. da ivi.
13.    D, p. 39.
14.    Z, p. 81; trad. it. p. 190.
15.    GA 1, p. 22.
16.    F. Nietzsche, Sämtliche Werke, I, p. 245 sgg.
17.    Cit. da F.A. Lange, Geschichte des Materialismus, vol. 2, p. 557
18.    Ivi.
19.    W. James, La volontà di credere, trad. it. p. 146.
20.    Cit. da A. Hermann, « Auf eine höhere Stufe des Daseins erheben » p 812.
21.    P. Natorp, Philosophie und Pädagogik, p. 235.
22.    Ivi. p. 237.
23.    H. Rickert, Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft, p. 18.
24.    G. Simmel, Philosophie des Geldes, p. 385; trad. it. p. 419.
25.    Ivi, p. 305; trad. it. p. 345.
26.    GA 1, p. 15.
3.
1.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 71; trad. it. p. 65
(modificata).
2.    Cit. da ivi, p. 70; trad. it. p. 64.
3.    Cit. da ivi, p. 73; trad. it. p. 67.
4.    Cit. da ivi, p. 75; trad. it. p. 69.
5.    Cit. da ivi, p. 76; trad. it. p. 69.
6.    Cit. da ivi.
7.    FS, p. 120.
8.    Ivi, p. 112.
9.    Ivi, p. 125.
10.    WM, p. 29; trad. it. p. 72.
11.    FS, p. 126; trad. it. p. 151.
12.    FS, p. 127; trad. it. p. 151.
13.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 81; trad. it. p.
74 (modificata).
14.    Cit. da ivi.
15.    Cit. da ivi.
16.    Cit. da ivi.
17.    Cit. da ivi, p. 80; trad. it. p. 73.
18.    Cit. da ivi.
19.    Cit. da ivi.
20.    V. Farias, op. cit., p. 97.
21.    H. Rickert, Die Philosophie des Lebens, p. 155.
22.    W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften.
23.    M. Scheler, Vom Umsturz der Werte, p. 323; trad. it. p. 135.
24.    Cit. da ivi; trad it. pp. 136 sg.
25.    Cit. da ivi; trad. it. p. 137.
26.    FS, p. 128.
27.    M. Scheler, Vom Umsturz der Werte, op. cit., p. 339; trad. it. p. 152.
4.
1.    L. Marcuse, Mein zwanzigstes Jahrhundert, p. 30.
2.    M.
3.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 97; trad. it. p. 51.
4.    Cit. da W. Falk, Literatur vor dem Ersten Weltkrieg, p. 247.
5.    Cit. da C. v. Krokow, Die Deutschen in ihrem Jahrhundert, p. 101.
6.    Cit. da F. Ringer, Die Gelehrten, p. 171.
7.    Th. Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen, p. 1421.
8.    M. Scheler, Der Genius des Krieges, p. 136.
9.    E. Troeltsch, Deutscher Geist und Westeuropa, p. 39.
10.    Cit. da H. Glaser, Sigmund Freuds zwanzigstes Jahrhundert, p. 187.
11.    M. Scheler, Der Genius des Krieges, op. cit., p. 144.
12.    Cfr. M. Weber, « La politica come professione ».
13.    Cfr. C. Schmitt, Romanticismo politico.
14.    FS, p. 202.
15.    Ivi, p. 243.
16.    Ivi, p. 160.
17.    Ivi, p. 194.
18.    Ivi, p. 199.
19.    Ivi, p. 278.
20.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit. p. 82; trad. it. p. 75.
21.    Cit. da ivi, p. 87; trad. it. p. 80.
22.    Cit. da ivi, p. 91; trad. it. p. 83.
23.    FS, p. 341; trad. it. p. 244.
24.    Ivi, p. 348.
25.    Ivi, p. 353; trad. it. p. 253.
26.    Ivi, p. 195.
27.    Ivi, p. 141.
28.    Ivi, p. 353: trad. it. p. 253.
29.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 92; trad. it. p.
85.
30.    Cit. da ivi, p. 94; trad. it. p. 87.
31.    Cit. da ivi, p. 90; trad. it. p. 82 (leggermente modificata).
32.    D, p. 7.
33.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 99; trad. it. p.
91.
34.    Cit. da ivi, p. 101; trad. it. pp. 92 sg.
35.    Cit. da ivi, p. 116; trad. it. p. 107.
5.
1.    Cit. da H.R. Sepp (a cura di), Edmund Husserl und die Phänomenologische Bewegung, p. 13.
2.    Cit. da E. Enders, Edith Stein, p. 87.
3.    H. v. Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, trad. it. p. 41.
4.    Cit. da H.R. Sepp (a cura di), Edmund Husserl..., op. cit., p. 42.
5.    Cit. ivi, p. 61.
6.    Cit. ivi, p. 42.
7.    S. Zweig, Die Welt von Gestern, ρ. 14; trad. it. ρ. 10.
8.    Cit. da H.R. Sepp (a cura di), Edmund Husserl..., op. cit., p. 66.
9.    R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, p. 9; trad. it. p. 5.
10.    E. Husserl, Cartesianische Meditationen, p. 183; trad. it. p. 172.
11.    Cit. da H. Rombach, Phänomenologie des gegenwärtigen Bewußtseins, p. 48.
12.    J.-R Sartre, La trascendenza dell'Ego, trad. it. pp. 14 sgg.
13.    Cit. da H.R. Sepp (a cura di), Edmund Husserl..., op. cit., p. 63.
14.    H.G. Gadamer, ivi, ρ. 15.
15.    E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie, p. 118; trad. it. p. 135.
16.    Cit. da H. Rombach, Phänomenologie..., op. cit., p. 52.
17.    Cit. ivi, p. 71.
18.    Mayumi Haga, cit. da H.R. Sepp (a cura di), Edmund Husserl..., op. cit., p. 18.
19.    M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. it., vol. I, p. 8.
20.    GA 20, p. 37; trad. it. p. 37.
21.    Ivi, p. 118; trad. it. p. 109.
22.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 102; trad. it. p.
94.
23.    Cit da ivi, p. 104; trad. it. p. 95.
24.    Cit. da ivi.
25.    E. Stein, Briefe an Roman Ingarden, p. 108.
26.    BwHB, p. 9; tr. it. p. 24.
27.    Ivi, p. 7; tr. it. pp. 21 sg.
28.    Ivi, p. 12; tr. it. pp. 28 sg.
29.    Ivi, p. 9; tr. it. p. 25.
30.    Ivi, p. 10; tr. it. p. 26.
31.    Ivi, p. 15; tr. it. p. 33.
32.    Ivi, p. 12; tr. it. p. 30.
6.
1.    K. Lowith, Mein Leben in Deutschland, p. 17; trad. it. p. 37.
2.    M. Weber, Soziologie - Weltgeschichtliche Analysen - Politik, p. 322; trad. it. « La scienza come
professione », ρ. 25.
3.    Ivi, ρ. 338; trad. it. ρ. 41.
4.    Cit. in RK. Ringer, op. cit., p. 320.
5.    Cfr. U. Linse, Barfüßige Propheten, p. 27.
6.    Cfr. ivi.
7.    Cit. da F.K. Ringer, op. cit., p. 328.
8.    GA 56/57, p. 10.
9.    Ivi, p. 109.
10.    Ivi, p. 110.
11.    Ivi, pp. 71 sg.
12.    Ivi, p. 88.
13.    Ivi, p. 89.
14.    Ivi, p. 91.
15.    Ivi, p. 117.
16.    GA 61, p. 91; trad. it. p. 124.
17.    Ivi, p. 101; trad. it. p. 133.
18.    Ivi, p. 45.
19.    H. Ball, Die Flucht aus der Zeit, p. 100.
20.    GA 12, p. 94; tr. it. p. 91.
21.    GA 56/57, p. 110.
22.    Ivi, p. 63.
23.    BwHB, p. 4; trad. it. p. 33.
24.    E. Bloch, Geist der Utopie, p. 245.
25.    Ivi, p. 19.
26.    GA 56/57, p. 113.
27.    W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, p. 10.
28.    GA 56/57, p. 102.
29.    Ivi, p. 63.
30.    Ivi, p. 115.
31.    W. Wundt, Sinnliche und übersinnliche Welt, p. 147.
32.    E. Bloch, Spuren, p. 284; trad. it. p. 232.
7.
1.    Cit. da H. Ott. Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 106 sg.; trad. it.
p. 97 sg.
2.    1 Ts. 5, 1-12.
3.    2 Cor. 12, 9.
4.    DJ, p. 246.
5.    E. Husserl, Cartesianische Meditationen, op. cit., p. 183; trad. it. p. 172.
6.    K. Barth, Römerbrief\ p. 315; trad. it. p. 313 (modificata).
7.    Ivi, p. 279; trad. it. p. 277.
8.    GA 61, p. 35; trad. it. p. 69.
9.    Ivi, p. 88; trad. it. p. 121.
10.    Ivi, p. 72; trad. it. p. 103.
11.    Ivi, p. 109; trad. it. p. 140.
12.    Ivi, p. 107; trad. it. p. 138.
13.    Ivi p. 145; trad. it. p. 174.
14.    Ivi, p. 148; trad. it. p. 177.
15.    K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, p. 92.
16.    Ivi, p. 34; trad. it. p. 46.
17.    BwHJ, p. 25.
18.    W, p. 42; trad. it. pp. 469 sg.
19.    Ivi; trad. it. p. 470.
20.    BwHJ, p. 23.
21.    Ivi, p. 25.
22.    Ivi, p. 52.
23.    Ivi, p. 33.
24.    Ivi, p. 36.
25.    Ivi, p. 41.
26.    Ivi
27.    DJ, p. 238; trad. it. p. 497.
28.    Ivi, p. 238; trad. it. pp. 497 sg.
29.    Ivi, p. 245; trad. it. p. 502.
30.    K. Lowith, Mein Leben in Deutschland, op. cit., p. 30; trad. it. p. 54
31.    GA 63, p. 15.
32.    DJ, p. 238; trad. it. p. 497.
33.    GA 63, p. 19.
5.
1.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit. p. 121; trad. it. p.
111.
2.    Cit. da ivi, p. 122; trad. it. p. 112.
3.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 104; trad. it. p. 58 (modificata).
4.    BwHJ, p. 34.
5.    Ivi, p. 41.
6.    Ivi, p. 39.
7.    Ivi, p. 96.
8.    H. Mörchen, Aufzeichnungen.
9.    BwHJ, 69.
10.    H.G. Gadamer, Philosophische Lehrjahre, p. 22.
11.    Cit. da G. Neske (a cura di), Erinnerung an Martin Heidegger, ρ. 112.
12.    H.G. Gadamer, «Gli 85 anni di Martin Heidegger», in I sentieri di Heidegger, trad. it. p. 101.
13.    Th. Mann, Doktor Faustus, p. 162; trad. it. p. 153.
14.    A. v. Buggenhagen, Philosophische Autobiographie, ρ. 134.
15.    Ivi, ρ. 11.
16.    Ivi.
17.    H. Mörchen, Aufzeichnungen, op. cit., p. 4.
18.    H.G. Gadamer, Martin Heidegger und die Marburger Theologie, p. 169; trad. it. p. 25.
19.    Cit. da H. Zahrnt, Die Sache mit Gott, p. 245.
20.    BZ, p. 12; trad. it. p. 27.
21.    Ivi, p. 13; trad. it. p. 28.
22.    H. Arendt, « Martin Heidegger wird achtzig Jahre alt », in Menschen in finsteren Zeiten, pp.
235 sgg; trad. it. pp. 255 e 258 (modificata).
23.    B. v. Wiese, Ich erzähle mein Leben, p. 88.
24.    E. Young Bruehl, Hannah Arendt, p. 108; trad. it. p. 91.
25.    E. Ettinger, Hannah Arendt - Martin Heidegger, p. 20.
26.    Ivi, p. 20.
27.    Ivi.
28.    BwHB, p. 7, trad. it. p. 22.
29.    E. Ettinger, Hannah Arendt - Martin Heidegger, op. cit., p. 21.
30.    Ivi, p. 24.
31.    Ivi, p. 25.
32.    E. Young Bruehl, op. cit., p. 97; trad. it. p. 80.
33.    H. Arendt, Vita activa, p. 237; cfr. trad. it. p. 178.
34.    E. Young Bruehl, op. cit., p. 95; trad. it. p. 81.
35.    Ivi, p. 97; trad. it. p. 83.
36.    Cit. da E. Ettinger, Hannah Arendt - Martin Heidegger, op. cit., p. 111.
37.    Cit. da ivi, p. 31.
38.    Ivi.
39.    Ivi, p. 33.
40.    H. Arendt, Rahel Varnhagen, p. 54.
41.    Cit. da E. Young Bruehl, op. cit., p. 348; trad. it. p. 289.
42.    Cit. da BwHJ, p. 232.
43.    Ivi, p. 73.
44.    W. 66; trad. it. p. 22.
9.
1.    H. Mörchen, op. cit.
2.    SuZ, p. 15; trad. it. p. 33.
3.    Ivi, p. 228; trad. it. p. 280.
4.    Ivi, p. 12; trad. it. p. 28.
5.    Ivi, p. 188; trad. it. p. 236.
6.    C. Bry, Verkappte Religionen, p. 33.
7.    S. Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1971, p. 280.
8.    SuZ, p. 327; trad. it. p. 393.
9.    GA 20, p. 204; trad. it. pp. 183 sg.
10.    Ivi, p. 205; trad. it. p. 184.
11.    SuZ, p. 43; trad. it. p. 66.
12.    Ivi, p. 198; trad. it. p. 247.
13.    Ivi, p. 134; trad. it. p. 172.
14.    Ivi, p. 136; trad. it. p. 174.
15.    Ivi, p. 134; trad. it. p. 172.
16.    Ivi, p. 135; trad. it. p. 173.
17.    H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, p. 288.
18.    Ivi, p. 292.
19.    A. Gehlen, Studien zur Anthropologie und Soziologie, p. 245.
20.    SuZ, p. 128; trad. it. p. 164.
21.    Ivi.
22.    R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, op. cit., p. 217; trad. it. p.
209.
23.    SuZ, p. 128; trad. it. p. 164.
24.    Ivi, p. 129; trad. it. p. 166.
25.    Ivi, p. 253; trad. it. p. 308.
26.    Ivi.
27.    Ivi, p. 310; trad. it. p. 375.
28.    K, 290; trad. it. p. 231.
29.    SuZ. p. 273; trad. it. p. 331.
30.    Ivi, p. 121; trad. it. pp. 156 sg.
31.    Ivi, p. 122; trad. it. p. 158.
32.    Ivi, p. 298; trad. it. p. 361.
33.    Cfr. F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, pp. 3 sgg.; trad. it. pp.
45 sgg.
34.    SuZ, p, 127; trad. it. ρ. 164.
35.    Cit. da ivi, ρ. 403; trad. it. ρ. 481.
36.    Ivi, ρ. 385; trad. it. ρ. 462 (leggermente modificata).
37.    Ivi, p. 298; trad. it. p. 361.
38.    Ivi, p. 384; trad. it. p. 460.
10.
1.    GA 26, p. 201; trad. it. p. 189.
2.    GA 29/30, p. 224; trad it. p. 197.
3.    H. Ball, Die Flucht aus der Zeit, ρ. 156.
4.    W. Benjamin, Das Passagenwerk, p. 1250.
5.    O. Spengler, Der Mensch und die Technik, p. 27.
6.    F. Nietzsche.
7.    C. Schmitt, Politische Theologie, p. 14; trad. it. p. 41.
8.    Ivi, p. 31 ; trad. it. p. 56.
9.    P. Tillich, Die Sozialistische Entscheidung, p. 252.
10.    C. Schmitt, Politische Theologie, op. cit., ρ. 11; trad. it. p. 33.
11.    Ivi, p. 35; trad. it. p. 61.
12.    GA 29/30, p. 244; trad. it. p. 216.
13.    BwHB, p. 34; trad. it. p. 63 (modificata).
14.    GA 26, p. 172; trad. it. p. 163 (modificata).
15.    Ivi, ρ. 176; trad. it. p. 167.
16.    H. W. Petzet, Auf einen Stern zugehen, p. 18.
17.    WM, p. 37; trad. it. p. 72.
18.    Ivi, p. 9; trad. it. pp. 67 sg.
19.    Ivi, p. 32; trad. it. p. 68.
20.    Ivi, p. 38; trad. it. p. 74.
21.    Ivi.
22.      Ivi, ρ. 37; trad. it. ρ. 73.
23.    Ivi, ρ. 35; trad. it. ρ. 71.
24.    Cit. da E. Ettinger, Hannah Arendt - Martin Heidegger, op. cit., p. 41.
25.    BwHB, p. 32; trad. it. pp. 59 sg.
26.    E. Jünger, Der Arbeiter, p. 42; trad. it. p. 39.
27.    Neue Zürcher Zeitung, 30 marzo 1929, edizione del mattino.
28.    O.F. Bollnow, Gespräche in Davos, p. 28.
29.    BwHB, p. 30; trad. it. p. 56.
30.    Cit. da G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger, p. 4.
31.    Cit. da ivi, p. 7.
32.    BwHB, p. 30; trad. it. p. 56.
33.    K, p. 278; trad. it. p. 222.
34.    Ivi, p. 285; trad. it. p. 221.
35.    Ivi, p. 291; trad. it. p. 232.
36.    Ivi, p. 286; trad. it. p. 228.
37.    Ivi, p. 287; trad. it. pp. 228 sg.
38.    Ivi, p. 288; trad. it. p. 230.
39. Ivi, p. 290; trad. it. p. 231.
11.
1.    BwHJ, p. 104.
2.    Ivi, p. 123.
3.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 118; trad. it. p. 69.
4.    BwHJ, p. 103.
5.    BwHB, p. 32; trad. it. 60.
6.    GA 29/30, p. 12; trad. it. p. 15.
7.    Ivi, pp. 29 sg.; trad. it. p. 29.
8.    Ivi, p. 9; trad. it. p. 13.
9.    Ivi, p. 29; trad. it. p. 30.
10.    Ivi, p. 66; trad. it. pp. 61 sg.
11.    SuZ, p. 385; trad. it. p. 462.
12.    GA 29/30, p. 19; trad. it. p. 21.
13.    BwHJ, p. 114.
14.    Ivi, p. 129.
15.    GA 29/30, p. 119; trad. it. p. 107.
16.    Ivi, p. 137; trad. it. p. 122 (modificata).
17.    Ivi, p. 112; trad. it. p. 101.
18.    Ivi.
19.    Ivi, p. 113; trad. it. p. 102.
20.    Ivi, p. 214; trad. it. p. 188.
21.    Ivi, p. 201; trad. it. p. 177.
22.    Ivi, p. 223; trad. it. p. 197.
23.    Ivi, p. 224; trad. it. p. 197.
24.    Ivi, p. 243; trad. it. p. 215.
25.    Ivi.
26.    Ivi, p. 246; trad. it. p. 218.
27.    Ivi, p. 244; trad. it. p. 216.
28.    Ivi.
29.    Ivi, p. 255; trad. it. p. 225 (modificata).
30.    Ivi, p. 19; trad. it. p. 21.
31.    Ivi, p. 257; trad. it. p. 226.
32.    Ivi, p. 258; trad. it. p. 227.
33.    Ivi, p. 35; trad. it. p. 35.
34.    GA 29/30, p. 347; trad. mia (N.d.T.).
35.    Cit. da ivi, pp. 375 sg.; trad. it. p. 330.
36.    Ivi, p. 529; trad. it. p. 467.
37.    Ivi, p. 531; trad. it. p. 468.
12.
1· Cit. da K. Sontheimer, Antidemokratisches Denken in der Weimarer Republik, p. 53.
2. W. Rathenau, Zur Kritik der Zeit, p. 17.
3.    R. Musil, Bücher und Literatur. Essays.
4.    K. Sontheimer, op. cit., p. 181.
5.      Ivi, p. 145.
6.    N. Berdjaev, Das Neue Mittelalter, p. 107.
7.    K. Sontheimer, op. cit., p. 41.
8.    Th. Mann, Das essayistische Werk, vol. 2, p. 192.
9.    S. Reinhardt (a cura di), Lesebuch. Weimarer Republik, p. 173.
10.    M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, p. 92; trad. it p 242.
11.    Ivi; trad. it. p. 224.
12.    H. Plessner, Macht und menschliche Natur, p. 286.
13.    Ivi, p. 284.
14.    Ivi, p. 304.
15.    Ivi, p. 321.
16.    Ivi, p. 319.
17.    Ivi, p. 286.
18.    Ivi, p. 345.
19.    Ivi, p. 281.
20.    Ivi, p. 362.
21.    Ivi, p. 349.
22.    Ivi.
23.    Ivi, ρ. 361.
24.    Ivi, ρ. 318.
25.    Ivi, ρ. 361.
26.    Ivi.
27.    SuZ, ρ. 391; trad. it. ρ. 468.
28.    Ivi, ρ. 384; trad. it. ρ. 461.
29.    Ivi, ρ. 385; trad. it. ρ. 462.
30.    Ivi, ρ. 173; trad. it. ρ. 218.
31.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 123; trad. it. p. 75.
32.    Cit. da ivi.
33.    BwHJ, p. 130.
34.    Cit. da ivi, p. 124.
35.    BwHB, p. 144; trad. it. p. 219.
36.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 125.
37.    Cfr. V. Meja - N. Stehr (a cura di), Der Streit um die Wissenssoziologie, vol. I, p. 388.
38.    Ivi, p. 403.
39.    Ivi, p. 335.
40.    Ivi, p. 345.
41.    Ivi, p. 356.
42.    Ivi, p. 350.
43.    Ivi, p. 369.
44.    GA 34, p. 86.
45.    Ivi, p. 10.
46.    BwHJ, p. 144.
47.    BwHB, p. 55; trad. it. p. 94.
48.    Ivi, p. 35; trad. it. p. 65.
49.    BwHJ, p. 144.
50.    Ivi, p. 149.
51.    WW, p. 13; trad. it. p. 142.
52.    GA 34, p. 61.
53.    Ivi, p. 121.
54.    Ivi, p. 62.
55.    Ivi, p. 64.
56.    Ivi.
51.      Ivi, p. 17.
58.    Ivi, p. 81.
59.    Ivi, p. 84.
60.    Ivi, p. 85.
61.    Ivi, p. 84.
62.    GA 29/30, p. 19; trad. it. p. 21.
63.    GA 34, p. 85.
64.    BwHJ, p. 149.
65.    GA 34, p. 100.
66.    Platone, Repubblica, voi. ii, pp. 221 sg.
67.    GA 34, p. 85.
68.    Ivi p. 78.
69.    Ivi.
70.    Ivi, p. 106.
13.
1.    GA 34, p. 324.
2.    H. Mörchen, op. cit.
3.    M. Müller, Martin Heidegger. Ein Philosoph und die Politik, ρ. 193; trad. it. ρ. 219.
4.    GA 34, ρ. 78.
5.    Lettera (inedita) a Hans Peter Hempel.
6.    M. Müller, Martin Heidegger. Ein Philosoph und die Politik, op. cit., ρ. 198; trad. it. p. 224.
7.    Cit. da J. e R. Becker (a cura di), Hitlers Machtergreifung, p. 311.
8.    Cit. da ivi.
9.    S. Haffner, Von Bismarck zu Hitler, p. 219.
10.    Cit. da J. e. R. Becker (a cura di), Hitlers Machtergreifung, p. 307.
11.    Cit. da ivi, p. 308.
12.    Cit. da G. Picht, Die Macht des Denkens, p. 199; cfr. trad. it. p. 203.
13.    G. Benn, Werke, vol. 4, p. 246.
14.    K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, op. cit., p. 101.
15.    Ivi.
16.    Cfr. B. Martin (a cura di), Martin Heidegger und das « Dritte Reich », p. 180.
17.    Ivi, p. 181.
18.    H. Arendt, Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, p. 528.
19.    Ivi, p. 532.
20.    Cit. da J.C. Fest, Hitler, p. 525; trad. it. p. 471.
21.    B. Martin (a cura di), op. cit., p. 177.
22.    K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, op. cit., p. 101.
23.    B. Martin (a cura di), op. cit., p. 202.
24.    Ivi, p. 178.
25.    Ivi
26.    E. Krieck, Volk und Werden, pp. 328 sgg.
27.    Ivi.
28.    BwHB, p. 60; trad. it. pp. 102 sg.
29.    Cit. da T. Laugstien, Philosophieverhältnisse im deutschen Faschismus, p. 45.
30.    SuZ, p. 127; trad. it. p. 164.
31.    Cit. da T. Laugstien, op. cit., p. 41.
32.    Cit. da ivi p. 47.
33.    R, p. 24; trad. it. p. 34.
34.    B. Martin (a cura di), op. c/V., p. 165.
35.    BwHB, p. 61; trad. it. p. 103.
36.    H. Tietjen, Verstrickung und Widerstand.
37.    H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 142; trad. it. p. 129.
38.    H. Tietjen, op. cit.
39.    R, p. 21; trad. it. p. 31.
40.    H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 165; trad. it. p. 149.
41.    Ivi, p. 166; trad. it. p. 149.
42.    Cit. da B. Martin (a cura di), op. cit., p. 166.
43.    S, p. 48.
44.    SuZ, p. 250; trad. it. p. 306.
45.    S, p. 48.
46.    Ivi, p. 49.
47.    V. Farias, op. cit., p. 121; trad. it. p. 73.
48.    H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 149; trad. it. p. 135
(modificata).
49.    R, p. 13; trad. it. p. 22.
50.    Ivi, p. 19; trad. it. pp. 29 sg.
51.    Ivi, p. 13; trad. it. p. 22.
52.    F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in Sämtliche Werke, vol. 40, p. 20; trad. it. pp. 10 sg.
53.    R, 16; trad. it. p. 26.
54.    Ivi, p. 13; trad. it. p. 22.
55.    Ivi, p. 14; trad. it. p. 24.
56.    A. Schopenhauer, Der Briefwechsel mit Goethe, p. 15; trad. it. p. 122.
57.    R, p. 14; trad. it. pp. 22 sg.
58.    Ivi, p. 12; trad. it. p. 20.
59.    Cit. da U. Haß, Militante Pastorale, p. 31.
60.    GA 24, p. 404; trad. it. p. 273.
14.
1.    R, p. 34; trad. it. p. 46.
2.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 167.
3.    Cit. da ivi, p. 165; cfr. trad. it. p. 112.
4.    Cit. da ivi; trad. it. p. 113.
5.    Cit. da ivi, p. 167; cfr. trad. it. pp. 113 sg.
6.    Cit. da ivi; trad. it. ρ. 114 (modificata).
7.    BwHJ, p. 155.
8.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 201; trad. it. pp. 146 sg.
9.    S, p. 75.
10.    K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, op. cit, ρ. 101.
11.    Id., Notizen zu Martin Heidegger, p. 182.
12.    BwHJ, p. 260, nota.
13.    Ivi.
14.    Documentato in ivi, pp. 159 sgg.
15.    Ivi, ρ. 156.
16.    Ivi, ρ. 260.
17.    Ivi, ρ. 155.
18.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 152; trad. it. p.
137.
19.    Cit. da ivi.
20.    Cit. da ivi, p. 171; trad. it. p. 155.
21.    Cit. da ivi, p. 178; trad. it. p. 161.
22.    Cit. da ivi, p. 171; trad. it. p. 155.
23.    E. Ettinger, Hannah Arendt - Martin Heidegger, op. cit., p. 42.
24.    Ivi.
25.    Ivi, ρ. 43.
26.    S. Haffner, Anmerkungen zu Hitler, p. 91.
27.    In Die Zeit, n. 52 (22 dicembre 1989), pubblicata da Ulrich Sieg.
28.    M. Müller, Martin Heidegger. Ein Philosoph und die Politik, op. cit., p. 205; trad. it. p. 231.
29.    H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 199; trad. it. p. 180.
30.    BwHJ, p. 271.
31.    Cfr. V. Farias, op. cit., p. 172; trad. it. pp. 117 sg.
32.    BwHB, p. 64; trad. it. p. 107.
33.    Ivi, p. 77; trad. it. p. 127.
34.    M. Müller, Martin Heidegger. Ein Philosoph und die Politik, op. cit., p. 205; trad. it. p. 231.
35.    Cit. da ivi; trad. it. p. 232.
36.    Id., Erinnerungen an Husserl, p. 37.
37.    Ivi, p. 38.
38.    H. Ott, Edmund Husserl und die Universität Freiburg, p. 102.
39.    BwHJ, p. 200.
40.    H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 165; trad. it. p. 149.
41.    S, p. 149.
42.    Cit. da V. Farias, op. cit., pp. 185 sgg.; cfr. trad. it. pp. 131 sgg.
43.    Cit. da ivi, p. 203; trad. it. p. 149 (modificata).
44.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 216; trad. it. p.
195.
45.    Ivi, p. 218; trad. it. p. 199.
46.    H. Buhr, Der weltliche Theologe, p. 53.
47.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., pp. 221 sg.; trad.
it. pp. 200 sg.
15.
1.    L, pp. 26 sgg.
2.    H. Arendt, Was ist Politik?, p. 9.
3.    V. Farias, op. cit., p. 227; trad. it. p. 174.
4.    Cit. da ivi, p. 228; trad. it. p. 175.
5.    Cit. da ivi, p. 232; trad. it. p. 179.
6.    Cit. da ivi cfr. trad. it. pp. 179 sg.
7.    Cit. da G. Schneeberger, op. cit., p. 225.
8.    V. Farias, op. cit., p. 234; trad. it. p. 181.
9.    Cit. da T. Laugstien, op. cit., p. 49.
10.    Cit. da ivi, p. 88.
11.    In L. Poliakov - J. Wulf (a cura di), Das Dritte Reich und seine Denker, p. 548.
12.    BwHB, p. 73; trad. it. p. 122.
13.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 228; trad. it. p.
206.
14.    ivi.
15.    Cit. da A. Schwan, Politische Philosophie im Denken Heideggers, p. 219.
16.    Cit. da B. Martin (a cura di), op. cit., p. 179.
17.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 247; trad. it. p. 193.
18.    Cit. da ivi, p. 283; trad. it. p. 234
19.    K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger, p. 15.
20.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 204; trad. it. p.
184.
21.    Cit. da ivi, p. 205; trad. it. p. 185.
22.    Ivi, trad. it. pp. 185 sg.
23.    Cit. da ivi; p. 207; trad. it. p. 187.
24.    Cit. da ivi, p. 208; trad. it. pp. 187 sg.
25.    Cit. da ivi, op. cit., p. 211; trad. it. p. 191.
16.
1.    Cit. da H. Arendt, Vom Leben des Geistes. Das Denken, p. 196; trad. it. p. 294.
2.    BwHB, p. 74; trad. it. p. 122.
3.    F. Nietzsche, Der Wille zur Macht, pp. 297 sg.; trad. it. pp. 229 sg.
4.    D, p. 11; trad. it. in Tellus, n. 8, p. 3 (leggermente modificata).
5.    BwHJ, p. 150.
6.    Cit. da T. Laugstien, op. cit., p. 88.
7.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 273; trad. it. p. 222.
8.    Cit. da ivi, p. 274; trad. it. pp. 224 sg. (leggermente modificata).
9.    Cit. da ivi, p. 276; cfr. trad. it. pp. 226 sg.
10.    Cit. da ivi, p. 278; trad. it. p. 229.
11.    K. Lowith, Mein Leben in Deutschland, op. cit., p. 58; trad. it. p. 87.
12.    GA 42, p. 3.
13.    L, p. 2.
14.    BwHJ, p. 157.
15.    GA 39, p. 214.
16.    Cit. da E. Salin, Hölderlin im Georgekreis, ρ. 13.
17.    M. Kommerell, Der Dichter als Führer in der deutschen Klassik, p. 5.
18.    F. Hölderlin, Iperione, trad. it. p. 164.
19.    R.M. Rilke, Poesie (1908-1926), vol. n, p. 239.
20.    GA 39, p. 20.
21.    Ivi, p. 144.
22.    Ivi, p. 22.
23.    EM, p. 47; trad. it. pp. 72 sg. (leggermente modificata).
24.    GA 39, p. 27.
25.    Ivi, p. 28.
26.    F. Hölderlin, Iperione.
27.    Il riferimento è all’inno II Reno; cfr. F. Hölderlin, Le liriche, vol. II, ρ. 219.
28.    F. Hölderlin, Le liriche, vol. II, p. 169. Per la precedente citazione, tratta da Pane e vino, cfr.
ivi, p. 119.
29.    GA 39, p. 31.
30.    Ivi, p. 113.
31.    Ivi, p. 146.
32.    Ivi, p. 136.
33.    Ivi, p. 221.
34.    Ivi, p. 195.
35.    EM, p. 34; trad. it. p. 55.
36.    Ivi, p. 36; trad. it. p. 57.
37.    Ivi, p. 29; trad. it. p. 48.
38.    Ivi.
39.    Ivi, p. 152; trad. it. p. 203.
40.    Ivi, p. 28; trad. it. p. 48.
41.    Ivi, p. 6; trad. it. p. 20.
17.
1.    Cit. da S. Haffner, Anmerkungen zu Hitler, op. cit., p. 36.
2.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 186.
3.    K. Lowith, Mein Leben in Deutschland, op. cit., p. 57; trad. it. p. 86.
4.    H, p. 74; trad. it. p. 72.
5.    Ivi p. 86; trad. it. p. 86.
6.    Ivi, p. 88; trad. it. pp. 89 sg.
7.    Ivi, p. 99; trad. it. p. 88.
8.    Ivi, p. 106; trad. it. p. 95.
9.    Ivi, p. 109; trad. it. p. 97.
10.    Ivi, p. 92; trad. it. p. 99.
11.    N II, p. 9; trad. it. p. 545.
12.    H, p. 90; trad. it. pp. 96 sg.
13.    EM, p. 20; trad. it. p. 37.
14.    H, p. 58; trad. it. p. 56 (leggermente modificata).
15.    Ivi, ρ. 33; trad. it. ρ. 32.
16.    Ivi, ρ. 32; trad. it. ρ. 32.
17.    Ivi.
18.    Ivi, p. 27; trad. it. p. 27.
19.    Ivi p. 28; trad. it. p. 28.
20.    Ivi, p. 48; trad. it. p. 46.
21.    Ivi; trad. it. p. 47.
22.    Ivi, p. 61; trad. it. p. 59.
23.    EM, p. 119; trad. it. p. 163.
24.    H, p. 110; trad. it. p. 99.
25.    Ivi, p. 109; trad. it. p. 97.
26.    EM, p. 47; trad. it. p. 73.
27.    Cit. da W. Müller-Lauter, Über den Umgang mir Nietzsche, p. 845.
28.    Cit. da ivi.
29.    Cit. da ivi.
30.    A. Baeumler, Nietzsche, der Philosoph und Politiker, p. 80.
31.    N II, p. 200; trad. it. pp. 698 sg.
32.    Cit. da G. Schneeberger, op. cit., p. 235.
33.    N I, p. 264; trad. it. p. 225.
34.    Ivi, p. 265; trad. it. p. 225.
35.    Ivi, p. 266; trad. it. p. 226.
18.
1.    N I, p. 226; trad. it. p. 192.
2.    GA 65, p. 239.
3.    Ivi, p. 21.
4.    Ivi, p. 78.
5.    N I, p. 310; trad. it. p. 262.
6.    GA 65, p. 4.
7.    Ivi, p. 4.
8.    Ivi, p. 12.
9.    Ivi, p. 471.
10.    Ivi, p. 263.
11.    C.F. v. Weizsäcker, Begegnungen in vier Jahrzehnten, p. 244.
12.    GA 65, p. 491.
13.    Ivi, p. 67.
14.    Ivi, p. 443.
15.    Ivi, p. 17.
16.    Ivi, p. 11.
17.    Ivi, p. 96.
18.    Ivi, p. 187.
19.    BwAJ, p. 177; trad. it. p. 91.
20.    Ivi, p. 178; trad. it. p. 92.
21.    G. Picht, Die Macht des Denkens, p. 181; trad. it. p. 206.
22.    H.A. Fischer-Barnicol, Spiegelungen - Vermittlungen, p. 88.
23.    BwHB, p. 91; trad. it. p. 148.
24.    GA 65, p. 508.
25.    BwHB, p. 90; trad. it. p. 146.
26.    Ivi, p. 87; trad. it. p. 142.
27.    G. Picht, Die Macht des Denkens, op. cit., p. 181; trad. it. p. 207.
28.    BwHB, p. 89; trad. it. pp. 144 sg.
29.    BwHJ, p. 161.
19.
1.    BwHB, p. 90; trad. it. p. 145 (leggermente modificata).
2.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 289; trad. it. p. 237.
3.    Cit. da ivi, p. 290.
4.    Cit. da ivi, p. 311; trad. it. p. 247.
5.    K. Lowith, Mein Leben in Deutschland, op. cit., p. 57; trad. it. p. 85.
6.    Ivi; trad. it. p. 86.
7.    H. Barth, Vom Ursprung des Kunstwerks, p. 265. Cfr. H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu
seiner Biographie, op. cit.; trad. it. p. 229. La trad. it. dell’intero articolo (« Sull’origine dell’opera
d’arte. A proposito di una conferenza di M. Heidegger ») è in G. Neske - E. Kettering (a cura di),
Risposta..., op. cit., pp. 285-287.
8.    E. Staiger, Noch einmal Heidegger, p. 269. Cfr. H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner
Biographie, op. cit.; trad. it. p. 229. La trad. it. dell’intero articolo («Ancora Heidegger»), apparso
sulla Neue Zürcher Zeitung del 23 gennaio 1936, è in G. Neske - E. Kettering (a cura di),
Risposta..., op. cit., pp. 289-292.
9.    Ivi.
10.    K. Lowith, Mein Leben in Deutschland, op. cit., p. 57; trad. it. p. 86.
11.    Ivi, p. 58; trad. it. p. 87.
12.    Ivi.
13.    EH, p. 47; trad. it. p. 56.
14.    Trad. it. p. 119 (n).
15.    BwHJ, p. 162.
16.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 315; trad. it. p. 250.
17.    Cit. da ivi; trad. it. pp. 250 sg.
18.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, p. 253; trad. it. p. 231.
19.    Ivi; trad. it. pp. 231 sg.
20.    R, p. 41; trad. it. p. 54 (leggermente modificata).
21.    Ivi, p. 43; trad. it. p. 56.
22.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 330; trad. it. p. 274.
23.    Cit. da ivi, p. 335; trad. it. p. 275 (modificata).
24.    Cit. da ivi; trad. it. p. 276.
25.    H.W. Petzet, op. cit., p. 47.
26.    J. Benda, Il tradimento dei chierici, trad. it. p. 109.
27.    Ivi, p. 84.
28.    D, p. 21.
29.    Ivi, p. 20.
30.    N II, pp. 165 sg.; trad. it. pp. 670 sg.
31.    Ivi, p. 21; trad. it. p. 555.
32.    EM, p. 28; trad. it. p. 48.
33.    Cit. da R. Mehring, Heideggers Überlieferungsgeschick, ρ. 91.
34.    Ν II, ρ. 333; trad. it. ρ. 807.
35.    GA 54, ρ. 179.
36.    Ivi.
37.    GA 53, p. 68.
38.    GA 55, p. 123; trad. it. p. 83.
39.    GA 54, p. 114.
40.    GA 53, p. 68.
41.    WM, p. 51; trad. it. p. 265.
42.    GA 51, p. 36.
43.    GA 55, p. 84; trad. it. p. 59.
44.    Ivi.
45.    WM, p. 46; trad. it. p. 260.
46.    GA 4, p. 62; trad. it. p. 77.
47.    Ivi, p. 23; trad. it. p. 28.
20.
1.    G. Picht, op. cit., p. 205; trad. it. p. 208.
2.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Untewegs zu seiner Biographie, op. cit., ρ. 22; trad. it. p. 22
(modificata).
3.    F. Hölderlin, Le liriche, vol. n, p. 283.
4.    Cit. da O. Pöggeler, Heidegger politisches Selbstvertändnis, p. 41.
5.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 295; trad. it. p.
268.
6.    Ivi, trad. it. p. 269.
7.    Ivi, p. 296; trad. it. p. 270.
8.    B. Martin (a cura dì), op. cit., p. 187.
9.    Ivi, p. 188.
10.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 306; trad. it. p.
279.
11.    K. Jaspers, Die Schuldfrage, p. 46.
12.    BwHJ, p. 162.
13.    Ivi, p. 167.
14.    Ivi.
15.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 316; trad. it. pp.
288 sg.
16.    Ivi, p. 310; trad. it. pp. 282 sg.
17.    Cit. da B. Waldenfels, Phänomenologie in Frankreich, p. 24.
18.    A. Camus, Il mito di Sisifo, trad. it. ρ. 27.
19.    J.-P. Sartre, La trascendenza dell’Ego, op. cit., trad. it. p. 72.
20.    Cit. da M. Lillà, Das Ende der Philosophie, p. 19.
21.    A. Kojève, La dialettica e l'idea della morte in Hegel, trad. it. p. 59 (modificata).
22.    Ivi, ρ. 57.
23.    Ivi, ρ. 202.
24.    Ivi, ρ. 203 (modificata).
25.    J.-P. Sartre, La nausea, trad. it. p. 193.
26.    Ivi, p. 199.
27.    Id., L'essere e il nulla, trad. it. p. 61.
28.    Ivi, p. 202.
29.    Ivi, p. 619.
30.    Frankfurter Allgemeine Zeitung del 19 gennaio 1994, ρ. 27 (cfr. anche
lo stesso quotidiano del 30 novembre 1993).
31.    J.-P. Sartre, L'essere e il nulla, op. cit., trad. it. p. 649.
32.    Trad. it. in appendice al volume M. Heidegger, Lettera sull’« umanismo », a cura di F. Volpi,
Adelphi, Milano, 1995, p. 110.
33.    Ivi, p. 109.
34.    K, p. 251; trad. it. in M. Heidegger, Lettera sull’ « umanismo », op. cit., p. 109.
35.    M. Müller, Martin Heidegger. Ein Philosoph und die Politik, op. cit., ρ. 212; trad. it. p. 240.
36.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 320; trad. it. p.
292.
37.    Ivi, p. 323; trad. it. pp. 294 sg.
38.    H.W. Petzet, op. cit., p. 52.
39.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, p. 319; trad. it. p. 291.
21.
1.    WHD, p. 161.
2.    HB, p. 45; trad. it. p. 306.
3.    Cit. da P. Noack, Carl Schmitt. Eine Biographie, p. 246.
4.    Ivi, p. 77.
5.    A. Baeumler, Hitler und der Nationalsozialismus, p. 172.
6.    Ivi, p. 160.
7.    Ivi.
8.    Ivi, ρ. 174.
9.    Cit. da J. Altwegg (a cura di), Heidegger in Frankreich - und zurück?, p. 33.
10.    Cit. da A. Cohen-Solal, Sartre, trad. it. p. 309.
11.    Cit. da H. Glaser, Kleine Kulturgeschichte der Bundesrepublik, p. 19.
12.    J.-P. Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo, trad. it. p. 82.
13.    Ivi, p. 85.
14.    Ivi, p. 86.
15.    Der Monat, η. 24, 1950, ρ. 502.
16.    Ivi.
17.    J.-P. Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo, op. cit., trad. it. p. 85.
18.    R. Schneider, Das Unzerstörbare, ρ. 12.
19.    Cit. da H. Glaser (a cura di), Bundesrepublikanisches Lesebuch, pp. 166 sg.
20.    Der Monat, n. 24, 1950, p. 379.
21.    Ivi.
22.    H. Arendt, « Besuch in Deutschland », in Zur Zeit. Politische Essays, p. 46.
23.    Ivi, p. 50.
24.    Ivi, p. 45.
25.    Th. Mann, «Ansprache im Goethejahr», in Das essaystische Werk, vol. in, p. 313; trad. it.
«Discorso per il bicentenario goethiano» (1949), in Saggi su Goethe, a cura di R. Fertonani,
Mondadori, Milano, 1982, p. 368.
26.    HB, p. 6; trad. it. p. 268.
27.    Ivi.
28.    Ivi; trad. it. p. 269.
29.    Ivi, p. 7; trad. it. p. 269.
30.    Ivi p. 34; trad. it. p. 296.
31.    Ivi, p. 47; trad. it. p. 308.
32.    SuZ, p. 12; trad. it. p. 28.
33.    Ivi, p. 43; trad. it. p. 65.
34.    HB, p. 15; trad. it. p. 277.
35.    Ivi, p. 48; trad. it. p. 309.
36.    Ivi.
37.    Ivi, ρ. 21; trad. it. p. 283.
38.    Ivi.
39.    Ivi, ρ. 43; trad. it. p. 305.
40.    Ivi, p. 51; trad. it. p. 313.
41.    J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, op. cit., trad. it. p. 87.
42.    HB, p. 22; trad. it. p. 284.
43.    Ivi, p. 52; trad. it. p. 313.
44.    Ivi, p. 33; trad. it. pp. 295 sg.
22.
1.    BwAJ, p. 178; trad. it. p. 92 (leggermente modificata).
2.    Ivi, ρ. 58; trad. it. ρ. 41.
3.    Ivi, ρ. 65; trad. it. ρ. 49.
4.    Ivi, ρ. 70; trad. it. ρ. 54.
5.    Cit. da E. Ettinger, op. cit., p. 86.
6.    H. Arendt, Was ist Existenzphilosophie?, p. 35.
7.    Ivi, p. 37.
8.    BwAJ, p. 73.
9.    Ivi, p. 79; trad. it, pp. 61 sg., nota.
10.    Ivi, ρ. 84; trad. it. p. 62.
11.    Ivi, p. 99.
12.    Ivi, p. 178; trad. it. p. 92 (modificata).
13.    Cit. in BwHJ, p. 275.
14.    Ivi, p. 170.
15.    Ivi, p. 171.
16.    Ivi, p. 176.
17.    BwAJ, p. 177; trad. it. p. 91 (leggermente modificata).
18.    Ivi, ρ. 178; trad. it. ρ. 92.
19.    Cit. da E. Ettinger, op. cit., p. 85.
20.    Cit. da E. Young Bruehl, Hannah Arendt, trad. it. p. 287.
21.    Cit. da ivi, p. 288.
22.    Cit. da E. Ettinger, op. cit., p. 86.
23.    Cit. da ivi.
24. Cit. da ivi.
25. Cit. da ivi, p. 86.
26. Cit. da E. Young Bruehl, op. cit., trad. it. p. 288.
27.    Cit. da ivi.
28.    Cit. da E. Ettinger, op. cit., p. 90.
29.    Cit. da ivi, p. 88.
30.    Cit. da ivi, p. 90.
31.    Cit. da ivi, p. 92.
32.    Cit. da ivi.
33.    Cit. da ivi, p. 97.
34.    Cit. da H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, op. cit., p. 135; trad. it. p.
123.
35.    Cit. da E. Ettinger, op. cit., p. 98.
36.    Cit. da ivi.
37.    Cit. da ivi, p. 122.
38.    Cit. da ivi.
39.    SuZ, p. 127; trad. it. p. 164.
40.    Ivi, p. 128; trad. it. p. 164.
41.    Cit. da J.A. Barash, Die Auslegung der «Öffentlichen Welt », p. 126.
42.    H. Arendt, Menschen in finsteren Zeiten, p. 41.
43.    Id., Freiheit und Politik, p. 681.
44.    Id., Vita activa, p. 169; trad. it. p. 130.
45.    Cit. da E. Ettinger, Hannah Arendt - Martin Heidegger, op. cit., p. 122.
46.    H. Arendt, Vom Lehen des Geistes. Das Wollen, op. cit., p. 189; trad. it. p. 526.
47.    Id., Vita activa, op. cit., p. 242; trad. it. p. 182 (modificata).
48.    Ivi, ρ. 167; trad. it. p. 129 (modificata).
49. Ivi, ρ. 231; trad. it. ρ. 175 (modificata).
50.    Cit. da E. Ettinger, op. cit., p. 113.
51.    H. Arendt, Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, op. cit., p.534.
52. Ivi, p. 528.
53. BwAJ, p. 484; trad. it. p. 194.
, 54. Ivi, p. 494.
55. Ivi, p. 670; trad. it. p. 225.
56. Ivi, p. 665; trad. it. p. 223.
57. Ivi, p. 666; trad. it. p. 224.
58. BwHJ, p. 196.
59. Ivi, pp. 202 sg.
60. Ivi, p. 210.
61. W, p. 416; trad. it. p. 365.
62. K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger, op. cit., p. 189.
63.    Cit. da E. Ettinger, op. cit., p. 118.
64.    BwHJ, p. 46.
65.    K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger, op. cit., p. 82.
66.    Ivi, p. 194.
67. GA 43, p. 26. i 68. BwHJ, p. 179.
i 69. K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger, op. cit., p. 140.
70. Ivi, p. 264.
23.
1.    Cit. da H.W. Petzet, op. cit., p. 62.
2.    In: G. Benn, Briefe an FW. Oelze, vol. 2, ρ. 342.
3.    Cit. da H.W. Petzet, op. cit., p. 62.
4.    Cit. da ivi, p. 71.
5.    Cit. da ivi, pp. 72 sgg.
6.    Cit. da ivi, p. 78.
7.    Cit. da ivi, p. 77.
8.    Cit. da ivi, p. 75.
9.    E. Jünger, Der Arbeiter, p. 173; trad. it. p. 154.
10. F. Nietzsche, Sämtliche Werke, vol. 2, p. 20.
11.E. Jünger, Der Arbeiter, p. 173; trad. it. p. 154.
12.    F.G. Jünger, Die Perfektion der Technik, p. 354.
13.    ivi, p. 157.
14.    J.G. Leithäuser, Im Gruselkabinett der Technik, p. 475.
15.    Ivi, p. 478.
16.    M. Bense, Technische Existenz, p. 202.
17.    TK, p. 13; trad. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo,
Mursia, Milano, 1976, p. 9.
18.    Ivi, p. 16; trad. it. p. 12.
19.    Ivi, p. 27; trad. it. p. 23.
20.    WHD, p. 18; trad. it. p. 61.
21.    TK, p. 22; trad. it. p. 17.
22.    Ivi, p. 15; trad. it. p. 12.
23.    Ivi, p. 16; trad. it. p. 12.
24.    Ivi, p. 19.
25.    Ivi, p. 28; trad. it. p. 21.
26.    HB, p. 16; trad. it. p. 278.
27.    G, p. 23; trad. it. p. 38.
28.    BwHK, p. 59.
29.    TK, p. 43; trad. it. La svolta, a cura di M. Ferraris, Il melangolo, Genova, p. 23 (modificata).
30.    Ivi, p. 34; trad. it. La questione della tecnica, op. cit., p. 26.
31.    BwHK, p. 43.
32.    A, p. 3.
33.    Ivi, p. 5.
34.    Ivi, p. 8.
35.    Ivi, p. 12.
36.    Ivi.
37.    Ivi, p. 16.
38.    Ivi.
39.    Ivi, p. 19.
40.    Ivi, p. 21.
41.    Ivi, p. 5.
42.    Ivi, p. 21.
43.    Ivi, p. 32.
44.    BwHK, p. 51.
45.    VS, p. 13; trad. it. pp. 24 sg.
46.    Cit. da H.W. Petzet, op. cit., p. 151.
47.    R. Char, op. cit.
48.    VS, p. 147; trad. it. p. 222.
49.    ZS, p. viii; trad. it. p. 26.
50.    Ivi, p. x; trad. it. pp. 27 sg. (modificata).
51.    Ivi, p. xii; trad. it. ρ. 30.
52.    Ivi, ρ. 308; trad. it. ρ. 354.
24.
1.    Cit. da R. Wiggerhaus, Die Frankfurter Schule, p. 653; trad. it. p. 603.
2.    Cit. da BwHK, p. 32.
3.    J. Habermas, Philosophisch-politische Profile, p. 73.
4.    Th. W. Adorno, Jargon der Eigentlichkeit, p. 43; trad. it. p. 36.
5.    Ivi, p. 9; trad. it. pp. 8 sg.
6.    Ivi, p. 13; trad. it. p. 12.
7.    Ivi, p. 18; trad. it. p. 16.
8.    Ivi, p. 11; trad. it. p. 11 (modificata).
9.      Ivi, ρ. 74; trad. it. p. 62.
10.    Ivi, p. 105; trad. it. p. 87.
11.    Th. W. Adorno, Eingriffe. Neun Kritische Modelle, p. 126.
12.    Cfr. R. Wiggerhaus, Die Frankfurter Schule, p. 521; trad. it. p. 481.
13.    J.-R Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica.
14.    Cit. da R. Wiggerhaus, Die Frankfurter Schule, p. 568; trad. it. p. 524.
15.    Th.W. Adorno, Noten zur Literatur, II, ρ. 7; trad. it. ρ. 123.
16.    Cit. da R. Wiggerhaus, Die Frankfurter Schule, p. 555; trad. it. p. 512.
17.    Cit. da ivi, p. 658; trad. it. p. 607.
18.    Th.W. Adorno - M. Horkheimer, Dialektik der Aufklärung, p. 15; trad. it. p. 21.
19.    Ivi, p. 15; trad. it. p. 21.
20.    Th.W. Adorno, Negative Dialektik, p. 355; trad. it. p. 327.
21.    Ivi, p. 358; trad. it. p. 330.
22.    Ivi, p. 152; trad. it. pp. 133 sg. (modificata).
23.    Ivi, p. 92; trad. it. p. 76 (modificata).
24.    Ivi, p. 69.
25.    Th.W. Adorno, Kierkegaard. Konstruktion des Ästhetischen, p. 251.
26.    Id., Noten zur Literatur, I, p. 93; trad. it. p. 58.
27.    Ivi, p. 366; trad. it. p. 337 (modificata).
28.    Th.W. Adorno, Ohne Leitbild. Parva Ästhetica, p. 20; trad. it. p. 18.
29.    Ivi, p. 22; trad. it. p. 20.
30.    D, p. 39; trad. it. Il sentiero di campagna, pp. 7 e 9.
31.    Th.W. Adorno, Jargon der Eigentlichkeit, op. cit., p. 47; trad. it. p. 42.
32.    D, p. 38; trad. it. p. 7.
33.    Cit. da J. Améry, Jargon der Dialektik, ρ. 598.
34.    R Sloterdijk, Kritik der Zynischen Vernunft, p. 687.
35.    Cit. da J. Améry, Jargon der Dialektik, op. cit., p. 604.
36.    Cit. da ivi, p. 605.
37.    Th.W. Adorno, Negative Dialektik, p. 21; trad. it. p. 9.
38.    Cit. da J. Améry, Jargon der Dialektik, op. cit., p. 600.
39.    H. Arendt, « Martin Heidegger ist achtzig Jahre alt », in Menschen in finsteren Zeiten, op. cit.,
p. 184; cfr. trad. it. p. 265.
40.    BwAJ, p. 655; trad. it. p. 223.
41.    Ivi, p. 670; trad. it. p. 225.
42.    BwHK, p. 80.
43.    G. Grass, Hundejahre, p. 330.
44.    BwHK, p. 82.
45.    Ivi, p. 85.
46.    H.W. Petzet, op. cit., p. 103; trad. it. p. 146.
47.    Ivi; trad. it. p. 146.
48.    Das Spiegel-Interview, in G. Neske - E. Kettering (a cura di), Antwort. Martin Heidegger im
Gespräch, p. 81; trad. it. p. 103.
49.    Ivi, p. 87; trad. it. p. 113.
50.    Ivi, p. 98; trad. it. p. 134.
51.    Ivi, p. 96; trad. it. p. 131.
52.    Ivi, p. 99; trad. it. p. 136.
53.    Cit. da V. Farias, op. cit., p. 373; cfr. trad. it. p. 307.
54.    O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, p. 340; trad. it. p. 407.
55.    Cit. da G. Baumann, Erinnerungen an Paul Celan, p. 60.
56.    Ivi, p. 62.
57.    Cit. da O. Pöggeler, Spur des Wortes. Zur Lyrik Paul Celans, p. 259.
58.    G. Baumann, Erinnerungen an Paul Celan, op. cit., p. 70.
59.    Ivi, p. 72.
60.    Trad. it. in Luce coatta, ρ. 29.
61.    G. Baumann, op. cit., p. 80.
25.
1.    H.W. Petzet, op. cit., p. 198.
2.    E. Ettinger, op. cit., p. 130.
3.    H. Arendt, Vom Leben des Geistes. Das Wollen, op. cit., p. 176; trad. it. p. 512.
4.    H.G. Gadamer, Der eine Weg Martin Heideggers, in Id., Gesammelte Werke, vol. 3, p. 429.
5.    VA, p. 146; trad. it. p. 101.
6.    Ivi, p; 173; trad. it. p. 120.
7.    Il mago di Meßkirch. Un film di Rüdiger Safranski e Ulrich Boehm.
8.    H.W. Petzet, op. cit., p. 230.
9.    B. Welte, Erinnerung an ein spätes Gespräch, p. 251.
10.    D, p. 187.
11.M.    Müller, op. cit., p. 213; trad. it. p. 241.
12.    H.G. Gadamer, Philosophische Lehrjahre, op. cit., p. 78.
Cronologia
1889 26 settembre: nasce Martin Heidegger, figlio di Friedrich (7.8.1851 - 2.5.1924), mastro bottaio
e sacrestano a Messkirch, e Johanna Kempf (21.3.1858 - 3.5.1927).
1903-1906 Frequenta il liceo di Costanza. Riceve una borsa di studio che gli consente di frequentare
il collegio cattolico « Konradihaus ». Preparazione alla carriera ecclesiastica.
1906-1909 Liceo e collegio arcivescovile a Friburgo.
1909 30 settembre: entra nel noviziato gesuita di Tisis presso Feldkirch (Vorarlberg). Il 13 ottobre
viene congedato per disturbi cardiaci.
1909-1911 Studia teologia e filosofia a Friburgo. Articoli antimodernisti su riviste cattoliche.
1911-1913 Interrompe la formazione sacerdotale. Crisi. Studia filosofia, discipline umanistiche e
scientifiche a Friburgo. Riceve una borsa di studio per filosofia cattolica. Amicizia con Ernst
Laslowski. Studia Husserl. La logica come valore escatologico della vita.
1913 Si laurea con una tesi sulla Dottrina del giudizio nello psicologismo.
1915 Abilitazione con il saggio: La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto.
1915-1918 Arruolato nel servizio militare (viene destinato al controllo postale e a una postazione
del servizio meteorologico).
1917 Matrimonio con Elfride Petri.
1919    Gennaio: rottura con il « sistema del cattolicesimo ». Nasce
il figlio Jörg.
1920    Nasce il figlio Hermann.
1918-1923 E' a Friburgo come libero docente e assistente di Husserl. Amicizia con Elisabeth
Blochmann.
1920 Inizio dell’amicizia con Karl Jaspers.
1922    Le interpretazioni heideggeriane di Aristotele suscitano grande attenzione a Marburgo.
1923    Incarico a Marburgo. Il corso sull' Ontologia gli merita la fama di « segreto monarca della
filosofia». Inaugurazione della baita di Todtnauberg. Amicizia con Bultmann.
1924    Inizio della storia d’amore con Hannah Arendt.
1925    Hannah Arendt lascia Marburgo.
1927    Essere e tempo.
1928    Incarico a Friburgo come successore di Husserl.
1929    Lezione inaugurale Che cos'è metafisica? Marzo: conferenze presso i corsi accademici di
Davos. Dibattito con Ernst Cassirer.
1929-1930 Corso universitario: I concetti fondamentali della metafisica.
1930    Rifiuta una prima volta l’incarico a Berlino.
1931-1932 Capodanno alla baita: Heidegger prende posizione a favore del nazionalsocialismo.
1933    Elezione a rettore. 1° maggio: si iscrive alla nsdap. 27 maggio: discorso di rettorato.
Organizzazione del campo di lavoro scientifico. Discorsi propagandistici a Lipsia, Heidelberg,
Tubinga. Collabora al progetto di riforma universitaria del Baden (introduzione del principio del
Führer). Ottobre: rifiuta per la seconda volta l’incarico a Berlino. Estate: ultima visita a Karl
Jaspers.
1934    Dissidi interni alla facoltà e divergenze con gli esponenti del regime e del partito conducono
in aprile alle dimissioni dalla carica di rettore. Estate: elaborazione dei progetti per una Accademia
dei docenti a Berlino.
1936    Si interrompe lo scambio epistolare con Jaspers. Conferenza a Zurigo: L'origine dell’opera
d’arte. Conferenza a Roma: Hölderlin e l’essenza della poesia. Incontro con Karl Lowith.
1936-1940 In diversi corsi universitari su Nietzsche si confronta criticamente con la filosofia del
potere propria del nazionalsocialismo. Viene sorvegliato dalla Gestapo.
1936-1938 Scrive i Contributi alla filosofia (Dell’ evento), prevedendo di pubblicarli soltanto molto
più tardi.
1937    Rifiuta di prendere parte al congresso intemazionale di filosofia a Parigi.
1944    Novembre: viene arruolato nella milizia popolare.
1945    Gennaio-febbraio: è a Meßkirch per ordinare i propri manoscritti e metterli al sicuro.
1945    Aprile-giugno: la facoltà di filosofia viene trasferita nella fortezza di Wildenstein (presso
Beuron, nella valle del Danubio). Luglio: viene interrogato dalla commissione di epurazione.
Ufficiali di occupazione francesi, interessati alla filosofia, prendono contatto con lui. Fallisce il
progetto di un incontro con Sartre, con il quale avvia uno scambio epistolare. Inizia l’amicizia con
Jean Beaufret.
1946    La perizia scritta di Jaspers. Gli viene proibito d’insegnare (fino al 1949). Inizia l’amicizia
con Medard Boss. Lettera a Beaufret Sull’umanismo.
1949    Dicembre: quattro conferenze al Club di Brema (La cosa -L’impianto - Il pericolo - La
svolta).
1950    Varie conferenze al sanatorio Bühlerhöhe e all’Accademia bavarese di belle arti. Febbraio:
riceve la visita di Hannah Arendt, con la quale riprende lo scambio epistolare e l’amicizia.
Ricomincia anche l’epistolario con Karl Jaspers.
1951-1952 Riprende l’insegnamento.
1952    Seconda visita di Hannah Arendt.
1953    La questione della tecnica, conferenza all’Accademia di Monaco. Amicizia con Erhärt
Kästner.
1955 L’abbandono: discorso celebrativo tenuto a Meßkirch in onore di Conradin Kreutzer.
Conferenza a Cérisy-la-Salle.
1957 Conferenza a Aix-en-Provence. Conosce René Char.
1959 Inizio dei seminari di Zollikon con Medard Boss. 27 settembre: viene nominato cittadino
onorario di Meßkirch.
1962 Primo viaggio in Grecia.
1964 Appare il pamphlet di Adorno contro Heidegger intitolato Il gergo dell’autenticità.
1966    Primo seminario di Le Thor. Ne terrà altri nel 1968 e nel 1969; nel 1973 a Zähringen.
Colloquio con Der Spiegel (che verrà pubblicato dopo la sua morte).
1967    Nuova visita di Hannah Arendt. D’ora in poi lo andrà a trovare ogni anno.
1975    Esce il primo volume della Gesamtausgabe (edizione completa delle opere).
1976    Muore il 26 maggio e due giorni dopo viene sepolto a Messkirch.
Tavola delle abbreviazioni
Le edizioni delle opere utilizzate (che non sempre fanno riferimento alla prima) sono state citate
secondo la seguente tavola delle abbreviazioni:
Martin Heidegger, Gesamtausgabe. Ausgabe letzter Hand (curatore generale dell’edizione:
Hermann Heidegger), Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt a.M., 1975-... = GA 1 sgg.
Tra i volumi di questa edizione (insieme ad altri che appaiono fra le abbreviazioni) vengono citati in
traduzione italiana:
GA 12 Unterwegs zur Sprache (1984); trad. it. In cammino verso il linguaggio, di A. Caracciolo e
M. Caracciolo Perotti, a cura di A. Caracciolo, Gruppo Ugo Mursia Editore, Milano, 1973 e 1988.
GA 20 Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs (1979); trad. it. Prolegomeni alla storia del
concetto di tempo di R. Cristin e A. Marini, Il melangolo, Genova, 1991.
GA 24 Die Grundprobleme der Phänomenologie ( 19892); trad. it. I problemi fondamentali della
fenomenologia, a cura di A. Fabris, Il melangolo, Genova, 1989.
GA 26 Metaphysische Angfangsgründe der Logik (1978); trad. it. Principi metafisici della logica, di
G. Moretto, Il melangolo, Genova, 1991.
GA 29/30 Die Grundbegriffe der Metaphysik (1983); trad. it. Concetti fondamentali della
metafisica, di P. Coriando, a cura di C. Angelino, Il melangolo, Genova, 1992.
GA55 Heraklit (19872); trad. it. Eraclito di F. Camera, Gruppo Ugo Mursia Editore, Milano, 1993.
GA61 Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische
Forschung (1985); trad. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca
fenomenologica, di M. De Carolis, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1990.
Singole pubblicazioni di Martin Heidegger:
A Aufenthalte, Klostermann, Frankfurt a.M., 1989;
BZ Der Begriff der Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1989; trad. it. Il concetto di tempo, a cura di F. Volpi,
Gallio, Ferrara, 1989.
D Denkeifahrungen, Klostermann, Frankfurt a.M., 1983. In questo volume sono compresi Feldweg
(trad. it. « Il sentiero di campagna», di E. Landolt, in Teoresi, 1961) e Schöpferische Landschaft:
Warum bleiben wir in der Provinz? (trad. it. « Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia? »,
in Tellus, n. 8).
DJ « Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. (Anzeige der hermeneutischen Situation)
», in Dilthey-Jahrbuch für Philosophie und Geschichte der Geisteswissenschaften, Bd. 6, Göttingen
1989; trad. it. «Interpretazioni fenomenologiche di Ari-
stotele. Prospetto della situazione ermeneutica», a cura di V. Vitiello, in Filosofia e teologia, a. iv, n.
3, settembre-dicembre 1990.
EH Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt a.M., 1981; trad. it. La poesia
di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano, 1988.
EM Einführung in die Metaphysik, Niemeyer, Tübingen, 1987; trad. it. Introduzione alla metafisica,
di G. Masi, Gruppo Ugo Mursia Editore, Milano, 1968.
FS Frühe Schriften, Klostermann, Frankfurt a.M., 1972; trad. it. Scritti filosofici 1912-1917, a cura
di A. Babolin, La Garangola, Padova, 1972.
G Gelassenheit, Neske, Pfullingen, 1985; trad. it. L’abbandono, a cura di A. Fabris, Il melangolo,
Genova, 1983.
H Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M., 1950; trad. it. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La
Nuova Italia, Firenze, 1968.
HB Über den Humanismus, Klostermann, Frankfurt a.M., 1981; trad. it. in Segnavia, a cura di F.
Volpi, Adelphi, Milano, 1987, pp. 267-315.
HK « Die Herkunft der Kunst und die Bestimmung des Denkens », in Petra Jäger e Rudolf Lüthe (a
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Indice a
Abraham a Sancta Clara (Johann Ulrich Megerle) 13, 28, 30-32
Adalberto di Laon 300
Adenauer, Konrad 437, 493-495
Adorno, Theodor Wiesengrund 360, 438, 464, 489-502, 506
Agostino Aurelio 135-136, 222 Allgeier, Artur 405 Aly, Wolfgang 290, 407
Améry, Jean (Hans Mayer) 500-501
Anassagora 44
Anders, Günther (Günther Stern) 172-173, 175, 207, 454, 475, 478
Andreas, Willy 304
Arendt, Hannah 7, 156, 169-176, 187, 207, 221, 227, 282, 310, 313, 324, 381-382, 437-438, 446-
448, 450-465, 501-502, 511-513, 517 Aristotele 11, 22, 37-38, 136, 138-140, 150, 152, 153, 156,
164, 182, 185, 203-204, 210, 216, 233, 336, 387, 426, 460
Aron, Raymond 414-415 Asburgo (casata) 30 Augstein, Rudolf 502-504, 511
Augusto, Cesare Ottaviano 281
Baeumker, Clemens 58
Baeumler, Alfred 287-290, 302, 311, 325, 364-366, 392, 428 Bahr, Hermann 68
Ball, Hugo 68, 124, 143, 213 Barth, Heinrich 387-388 Barth, Karl 133, 137-138, 165, 220, 387
Bataille, Georges 415 Baum, Vicki 199 Baumann, Gerhart 507-510
Bäumers, Gertrud 89, 276 Baumgarten, Eduard 331-333, 411 Beaufret, Jean 428-429, 439, 482, 485
Beckenbauer, Franz 511, 514 Becker, Cari Heinrich 177, 256-257
Becker, Oskar 150 Benda, Julien 394-395, 413 Bender (borgomastro) 292 Benjamin, Walter 213
Benn, Gottfried 204, 281, 470 Bense, Max Otto 477-478 Berdjaev, Nikolaj 249, 276 Bergson, Henri
56, 67, 70-72, 103 Beringer, Kurt 424 Binswanger, Ludwig 424 Bloch, Ernst 1 12, 128-129, 132,
212, 213 Blochmann, Elisabeth 92, 108-111, 128, 170-171, 216, 221-222, 227-228, 233, 256, 258,
262-263, 288, 291, 312-313, 327, 337, 381-384, 385 Blücher, Heinrich 173-174, 176, 451-454, 456,
462, 465, 512 Böhlendorff, Casimir Ulrich 349, 443
Böhme, Jakob 374 Boisseré, Sulpiz 26 Bollnow, Otto Friedrich 227 Borgia, Cesare 35
Bornkamm, Heinrich 302 Boss, Medard 424, 469, 482, 486-488
Braig, Carl 28-30, 34, 36 Brandhuber, Camillo 20-21, 25 Brecht, Bertolt 213 Bréhier, Émile 421
Brentano, Clemens Maria 37 Brentano, Franz 28, 37-39, 104 Brock, Werner 310, 411 Brüning,
Heinrich 277 Bry, Carl Christian 188-189 Büchner, Ludwig 44 Buggenhagen, Arnold von 163-164
Buhr, Heinrich 319 Bultmann, Rudolf 160-161, 165-171, 182, 511 Buytendijk, F.J.J. 244
Caillois, Roger 415 Camus, Albert 414, 421, 492 Carnap, Rudolf 61 Carossa, Hans 474 Cartesio
(René Descartes) 44, 70, 102, 210, 391, 395, 488 Cassirer, Ernst 204, 210, 225-231, 256
Cassirer, Toni 228 Celan, Paul (Paul Antschel) 10, 489, 507-510 Cézanne, Paul 486 Char, René
485-486 Cohen, Hermann 52 Conrad-Martius, Hedwig 93 Croce, Benedetto 303 Curtius, Ernst
Robert 161 Cusano, Nicola (Nikolaus Chrypffs) 54 Czolbe, Heinrich 44
Darwin, Charles Robert 50,52, 135 Dehn, Günther 22, 24 Democrito 44 Dibelius, Otto 280 Diehl,
Karl 314 Dietze, Constantin von 405 Dilthey, Wilhelm 56, 67, 69-70, 88, 106, 157, 179-180, 184,
343, 385 Dionigi di Siracusa 271 Drews, Arthur 365 Duns Scoto, Giovanni 74, 79-82, 85-86
Eckhart, Johannes detto Meister Eckhart 10, 84, 374, 499 Eich, Günther 125 Eichmann, Adolf 463
Elias, Norbert 259 Eliner, Christoph 25 Eraclito di Efeso 9, 68, 342, 363, 371, 387, 393, 398, 400,
426, 485-486 Erhard, Ludwig 493 Esiodo 345
Ettinger, Elzbieta 170-172, 174-175, 310, 451-453, 455-456, 463- 464,512
Falkenfeld, Helmuth 74-75 Farias, Victor 33, 256, 290, 325, 329, 391 Fehrle, Eugen 332 Fédier,
Francois 485 Feuerbach, Ludwig 485 Fichte, Johann Gottlieb 44, 102 Finckenstein (conte) 175-176
Fink, Eugen 463
Finke, Heinrich 57, 62-63, 76, 79, 84
Fischer, Eugen 401-402 Fischer, Karl 517-518 Fischer-Barnicol, Hans A. 382 Flickenschildt,
Elisabeth 473 Foerster, Friedrich Wilhelm 34 Fraenkel, Eduard 309-311, 331 Frank, Hans 341
Frankel, Hilde 451-452 Freud, Sigmund 68, 135, 188-189 Friedrich, Hugo 407 Fürstenberg (casata)
17, 402-403
Gadamer, Hans Georg 92, 101, 117, 150, 161-162, 165, 515 Galilei, Galileo 153 Gebsattel, Victor
von 424 Gehlen, Arnold 179, 196-198, 489-491 Geiger, Afra 145
George, Stefan 68, 93, 123-124, 160, 162, 343-344 Gesù Cristo 115, 182, 212, 223,
279, 481 Geyser, Josef 88-89 Gierke, Otto von 78 Giovanni Battista 376 Goethe, Johann Wolfgang
23, 26, 227, 342, 437 Gorkij, Maksim (Aleksej Maksimovic Peskov) 33 Grabbe, Christian Dietrich
185 Grass, Günther 502-503 Grimme, Adolf 257-258 Gröber, Conrad 13, 15-16, 21, 25, 37, 423-
424 Gröber, Marie 423 Gross, Walter 326-327 Gründgens, Gustaf 473 Guardini, Romano 169, 433-
434
Guglielmo ιι 49 Gutenberg, Johann 49
Habermas, Jürgen 381, 491-492 Haeckel, Ernst Heinrich 52 Haeusser, Ludwig 115 Haffner,
Sebastian 280, 311 Hamann, Richard 160 Hamsun, Knut 132 Hanke 390
Hartmann, Eduard von 22 Hartmann, Nicolai 157-158, 161-162, 176-177 Hebel, Johann Peter 13
Hecker, Friedrich Franz Karl 14,22 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 28, 29-30, 44, 86-88, 144, 163,
203, 229, 279, 31 1, 376, 387, 394, 415-418, 485, 498, 500 Heidegger, Elfride 89-91, 108-109, 134,
157, 159, 163, 168, 171-174, 291-292, 293, 308, 387, 404, 451, 453-456, 482, 512, 518 Heidegger,
Friedrich (padre di Martin) 12, 16-18, 20-21, 57, 90-91
Heidegger, Fritz 17-20, 402, 473, 511, 513 Heidegger, Hermann 382, 397, 427
Heidegger, Johanna (madre di Martin) 12, 17, 20-21, 90-91, 156, 178, 230 Heidegger, Jörg 91, 397,
427 Heisenberg, Werner 130, 474 Heiß, Robert 424, 449 Hellingrath, Norbert von 343-344 Hempel,
Hans-Peter 278-279, 284 Herrigel, Eugen 303 Heuss, Theodor 279 Hevesey, Georg von 309-311
Heyse, Hans 385-386, 392 Hitler, Adolf 188, 275, 278-281, 283-284, 286, 290, 291, 294, 316, 322-
323, 325, 336, 341-
342, 346, 354-355, 388, 393, 395-396 Hobbes, Thomas 44, 46 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus
425
Hofmannsthal, Hugo von 93 Hölderlin, Friedrich 13, 116, 279
280, 336, 343-350, 352-353 363, 386, 388-389, 394, 398,
400, 403-404, 410, 415, 443 479,481,498,507 Honecker, Martin 313 Horkheimer, Max 150, 438,
494-497, 502 Hundhammer, Alois 473 Hus, Jan 21
Husserl, Edmund 28, 37, 39, 41, 55, 60, 65, 81, 87, 91, 92, 94-108, 117, 121, 134, 137, 144-145,
156-159, 177, 184, 190, 192, 215, 232. 233, 257, 308-309, 313-314, 381, 387, 392, 414, 417, 448,
502, 504 Husserl, Malwine 108, 145 Huxley, Aldous 474
Ibsen, Henrik 22
Igino (l’astronomo) 193-194
Ingarden, Roman Witold 108
Jacoby, Felix 280 Jaensch, Erich 325-327, 341, 389-390
James, William 49-50 Jaspers, Gertrud 145, 148, 305, 405, 410, 446, 451, 464, 502 Jaspers, Karl
126, 127, 133, 144-149, 156-160, 163, 174, 176-178, 220, 232, 235, 256, 257, 262-263, 271, 278,
281-282, 283, 286, 291, 296, 303-307, 312, 314-315, 332, 339, 343, 356, 381-382, 384, 389, 401,
405, 408-411, 415, 423, 424, 435, 446-451, 454, 455, 463-468, 502-503, 511, 515 Jonas, Hans 150,
168, 170, 174 Jorgensen, Jens Johannes 33, 35 Jung, Carl Gustav 487 Jünger, Ernst 212, 213, 224-
225, 250, 276, 316, 319, 357, 399, 465, 474, 476 Jünger, Friedrich Georg 474, 476-478
Kafka, Franz 175, 213,475 Kaiser, Joseph 463 Kandinskij, Vasilij 415 Kant, Immanuel 9, 29, 46,
52, 70, 79, 151, 164, 169, 183, 210, 222, 226, 227, 233, 257, 298, 387, 395, 403, 415, 422, 514
Kaschnitz, Marie Luise 509 Kästner, Erhart 7, 482, 485, 502-503
Kästner, Erich 430 Kaufmann, Fritz 150 Kelsen, Hans 248 Kempf, Jakob 12
Kempf, Johanna vedi Heidegger, Johanna Kempner, Robert 427 Kerber, Franz 292, 393 Kerényi,
Käroly 471 Kierkegaard, S0ren 92, 106, 135-136, 145-146, 169, 188, 212, 214-215, 413 Kimming,
Otto 22 Klages, Ludwig 236 Knecht, Justus 64 Kojève, Alexandre (Aleksandr Vladimiroviò
Kojevnikov) 7,
401, 415-418, 445 Kommerell, Max 344 Koyré, Alexandre 415 Kracauer, Siegfried 232 Kralik,
Richard von 30 Kraus, Karl 283
Krebs, Engelbert 59, 62-63, 76, 84-85, 88, 91, 133-134 Kreutzer, Konstantin 13 Krieck, Ernst 115,
287-289, 302, 311, 325-327, 341, 364-366, 390
Kroner, Richard 157-158
Lagarde, Paul Anton de 32 Lampe, Adolf 405-408, 412 Lang, Matthäus 23 Langbehn, Julius 32
Lange, Friedrich Albert 45-48 Lao-tse 473 Lask, Emil 55, 75-76 Lasky, Melvin 446 Laslowski,
Ernst 57-60, 84, 85, 88-90
Le Fort, Gertrud von 491 Leibniz, Gottfried Wilhelm 44-45, 199, 226, 311, 514 Lern, Stanislaw 100
Leopoldo (granduca del Baden) 14 Lessing, Gotthold Ephraim 22, 458
Lipps, Theodor 60 Lotze, Hermann 44 Lowith, Karl 112, 117, 154, 181, 207, 243, 303, 313, 342,
355, 371, 386-388, 466 Lueger, Karl 33 Lukäcs, György 121 Lutero, Martin 135-136, 145, 171, 222
Mahnke, Dietrich 309 Mann, Heinrich 471 Mann, Thomas 10, 77, 162, 226-227, 249-250, 300,
438-439, 471
Mannheim, Karl 247, 259-261 Mao Tse-tung 473 Marcel, Gabriel-Honoré 413, 432-433
Mareks, Erich 77 Marcuse, Herbert 150, 207, 496, 505
Marcuse, Ludwig 74, 77, 500 Martin, Bernd 290 Marx, Karl 45, 92, 135, 144, 191-192, 485, 500
Mehring, Walter 199 Meinecke, Fried 437 Meister Eckhart vedi Eckhart, Johannes
Melantone, Filippo (Philipp Schwarzerd) 22 Meller Markovicz, Digne 503 Melville, Herman 517
Merleau-Ponty, Maurice 100 Meusel, Alfred 259 Michelangelo Buonarroti 479 Misch, Georg 157,
255-256, 385 Mitscherlich, Alexander 474 Mitscherlich, Margarete 474 Moleschott, Jacob 44
Möllendorff, Wilhelm von 291-293, 329-330 Montaigne, Michel Eyquem de 167
Mörchen, Hermann 160, 163, 164-165, 169, 171, 182, 276-277, 421
Mörike, Eduard 498 Mühsam, Erich 112, 116 Müller, Max 277, 279, 311, 313-314, 390, 423,518-
519 Musil, Robert 96, 198-199, 247-248
Nabokov, Vladimir 415 Napoleone i 279, 342 Natorp, Paul 51-52, 150, 156-157 Newton, Isaac 71
Nietzsche, Friedrich Wilhelm 22, 33, 42-43, 45, 47, 56, 67-70, 84, 130, 135, 181, 195, 214-215,
297-298, 303, 337-338, 343, 354, 360, 364-372, 373, 375, 383, 386, 390, 395-397, 407, 443, 447,
463, 466, 476
Nishida, Kitaro 371 Novalis (Friedrich von Hardenberg) 30 Nußbaum (deputato) 292
Oehlkers, Friedrich 405, 455 Oelze, F.W. 470 Omero 345
Orazio Fiacco, Quinto 280 Ortega y Gasset, José 474 Ott, Hugo 27, 57, 290, 319, 329, 332, 389,
409, 421 Otto, Rudolf 91, 134, 213, 220, 240
Pacius (insegnante) 22 Palestrina, Giovanni Pierluigi da 48
Paolo 135-136, 222, 481 Parmenide 163, 398 Peirce, Charles Sanders 49 Petri, Elfride vedi
Heidegger, Elfride
Petzet, Heinrich Wiegand 218,
393, 424, 469, 471, 473-474, 503, 511, 518
Pfänder, Alexander 92 Picht, Georg 280, 382, 384, 402 Picht-Axenfeld, Edith 402 Pio XII 423
Platone 7, 9, 22, 26, 44, 103, 182 183, 203, 247, 258, 261-266’ 269-273, 275-278, 301, 339* 358,
377, 384, 393, 410, 438 440, 458-459, 501 Plessner, Helmuth 179, 196-198 242-243, 247, 250-256,
435 Pöggeler, Otto 135-136, 507 Proust, Marcel 71, 92, 103-104, 120,414, 499
Raffaello Sanzio 48 Ranke, Leopold von 260 Rathenau, Walther 247 Reinach, Adolf 94 Renan,
Ernest 395 Resnais, Alain 420 Rickert, Heinrich 47, 52, 53, 65, 74-75, 83-84, 123, 152, 184 Riezler,
Kurt 227 Rilke, Rainer Maria 76, 344, 507 Ritter, Gerhard 314, 405-406 Ritter, Hellmut 495
Robespierre, Maximilien de 304, 314
Rohde, Erwin 84 Rohm, Emst 406
Rosenberg, Alfred 287, 289, 327, 332, 341, 389-390 Rosenstock-Huessey, Eugen 280
Sachsen-Meiningen, Bernhard von 404
Sartre, Jean-Paul 99, 107, 185, 207, 401, 412, 414-415, 417-423, 425, 429-433, 439, 442, 444, 447,
492, 495, 511 Sauer, Josef 58-59, 291-293 Schadewaldt, Wolfgang 290, 292, 339
Schätzler (famiglia) 63 Scheel, Kurt 390, 401-402 Scheler, Max 56, 67, 70, 72, 77-78, 92, 95, 177,
195-196, 236, 242-243, 245, 247, 249-252, 387, 414, 519 Schelling, Friedrich Wilhelm Jo-
seph 28, 164, 224, 245, 342,
394, 445, 447 Schiller, Friedrich von 116 Schlageter, Leo 294-295, 504 Schleiermacher, Friedrich
Daniel Ernst 36
Schmitt, Cari 78-79, 210, 212, 214-215, 252, 293, 392, 427-428, 505 Schneider, Arthur 62
Schneider, Reinhold 433-434 Schnurre, Wolfdietrich 125 Schopenhauer, Arthur, 70-71, 135, 299,
366,514 Schubert, Franz 402 Schwan, Alexander 464, 501-502 Schworer, Victor 310 Senofonte 336
Siemens, Werner von 50-51 Simmel, Georg 53-54, 108 Sloterdijk, Peter 500 Socrate 42, 150, 167,
270, 336-337, 486 Sofocle 363
Sonnemann, Ulrich 500 Spengler, Oswald 115, 138, 214, 236, 276 Spinoza, Baruch 44, 311, 410
Spranger, Eduard 116, 256, 288, 289-290 Stäbel, Oskar 330 Stadelmann, Rudolf 319-320, 402
Staiger, Emil 387-388 Staudinger, Hermann 332-334 Stein, Edith 94, 101, 106-108 Sternberger,
Dolf 435-436, 448 Stieler, Georg 307, 324-325 Stifter, Adalbert 30 Streicher, Julius 342 Stroomann,
Gerhard 471-472 Struve, Gustav von 14 Szilasi, Wilhelm 313
Talete di Mileto 151 Tellenbach, Gerd 304, 449 Tepl, Johannes 201 Thurneysen, Eduard 165 Tillich,
Paul 210, 212, 215, 220, 257, 276 Toller, Ernst 112, 116, 471 Tolstoj, Lev Nikolaevic 113
Tommaso d’Aquino 21, 63
Tommaso di Erfurt 79-80
Tönnies, Ferdinand 206
Towarnicki, Frédéric de 420-421
Trakl, Georg 507
Treitschke, Heinrich von 280
Troeltsch, Ernst 78, 158 Tucidide 457-458
Ubbelohde, Otto 162 Uexküll, Jacob von 244
Vaihinger, Hans 22, 48 Van Gogh, Vincent 361
Varnhagen, Rahel 175-176 Vazin, François 485 Verlaine, Paul-Marie 33 Vietta, Egon 471 Vogt, Karl
44 Vossler, Karl 208, 303
Wagner, Richard 49, 281 Wagner, Robert 292, 294, 308 Wahl, Jean 413 Weber, Alfred 475-476
Weber, Marianne 332 Weber, Max 78-79, 92, 112-117, 122-123, 145-146, 184, 301, 331-332, 359
Weil, Erich 415
Weizsäcker, Carl Friedrich von 377
Welte, Bernhard 518 Werfel, Franz 68 Wessel, Horst 290, 296 Wiese, Benno von 169, 175 Wilde,
Oscar 33
Windelband, Wilhelm 52, 151, 184
Wolff, Christian von 226 Wolf, Erik 328-330 Wolf, Georg 503-504 Wolters, Friedrich 160 Wundt,
Wilhelm Max 60, 131
Yorck von Wartenburg (conte) 208
Ziegler, Leopold 236 Zweig, Stefan 95
Indice delle opere di Martin Heidegger
CORSI
Le date fra parentesi quadra si riferiscono all’anno di pubblicazione dell’opera. Il numero di pagina
seguito dal rimando, fra parentesi tonde, al numero di nota è riferito alle pagine che, prive di
esplicito riferimento al titolo dell’opera, ne contengono però una o più citazioni testuali.
Concetti fondamentali (Grundbegriffe, 1941, GA 51) 399 (n. 42)
Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine, I (Die Grundbegriffe der
Metaphysik. Welt - Endlichkeit - Einsamkeit, 1929-30, GA 29/30) 212 (n. 2) 215, 232-246, 271
Dell’essenza della verità - Platone (Vom Wesen der Wahrheit - Platon, 1931-32, GA 34) 258, 261-
273, 276-278, 301
Eraclito (Heraklit 1943, GA 55) 398, 400
Idea della filosofia e il problema della visione del mondo, L’ (Die Idee der Philosophie und das
Weltanschauungsproblem, 1919, GA 56/57; prima parte del corso intitolato La determinazione della
filosofia [Zur Bestimmung der Philosophie]) 116-131,133, 135, 139 Inni di Hölderlin « Germania »
e « Il Reno » (Hölderlins Hymnen « Germanien » und « Der Rhein », 1934-35, GA 39) 343-351,
363 Inno di Hölderlin « L’Istro », L’ (.Hölderlins Hymne « Der Ister », 1942, GA 53) 13, 398, 403
Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica
(Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische
Forschung, 1921-22, GA 61) 122-123 (nn. 16-18), 135, 138-144
Logica (Logik, 1934, a cura di V. Farias) 323, 342
Nietzsche e il nichilismo europeo (Nietzsche und das europäische Nihilismus, 1940, GA 48) 395-
397 Nietzsche: la volontà di potenza come opera d’arte (Nietzsche: Der Wille zur Macht als
Kunstwerk, 1936-37, GA 43) 466
Ontologia (Ontologie, 1923, GA 63) 133, 150, 152, 154, 159
Parmenide (Parmenides, 1942-43, GA 54) 397-398 (nn. 35-36, 39) Principi metafisici della logica
(Metaphysische Anfangsgründe der Logik, 1928, GA 26) 211, 216 Problemi fondamentali della
fenomenologia (Die Grundprobleme der Phänomenologie, 1927, GA 24) 210, 301
Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, 1925,
GA 20) 104-105, 191
Schelling: dell’essenza della libertà umana (Schelling: Vom Wesen der menschlichen Freiheit, 1936,
GA 42) 342
OPERE E SCRITTI VARI
Abbandono, L’ (Gelassenheit, 1955) 481 Abraham a Sancta Clara (1910, GA 13) 31-33
Appello agli studenti tedeschi (Aufruf an die deutschen Studenten, 1933) 283-284
Autoaffermazione dell’università tedesca, L’ (Die Selbstbehauptung der Deutschen Universität,
1933) 272, 275, 295-301, 302-307, 314, 326, 338, 364, 290 (n. 33), 504 Autunno (Herbst, 1966)
464, 511-512
Che cosa significa pensare? (Was heißt Denken?, 1951-52, GA 8) 425 (n. 1), 456, 479
Che cos’è metafisica? (Was ist Metaphysik?, 1929, GA 9) 61, 200, 215, 218-224, 326, 399-400,
414-415, 420 Concetto di tempo, II (Der Begriff der Zeit, 1924, GA 64) 166-167, 205
Considerazioni sulla « Psicologia delle visioni del mondo » di Karl Jaspers (Anmerkungen zu Karl
Jaspers « Psychologie der Weltanschauungen», 1919-21, GA 9) 147-148 Contributi alla filosofia -
Dell’evento (Beiträge zur Philosophie - Vom Ereignis, 1936-38, GA 65) 356, 372, 373-384 Cosa, La
(Das Ding, 1949, GA 7) 470, 474, 516-517 (nn. 5-6)
Dell'essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes, 1929, GA 9) 215, 414
Dell’essenza della verità (Vom Wesen der Wahrheit, 1930 [1943], GA 9) 33, 215, 266, 295, 469
Dottrina del giudizio nello psicologismo, La (Die Lehre vom Urteil im Psychologismus, 1913
[1914], GA I) 60-62, 72 Dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (Die Kategorien-
und Bedeutungslehre des Duns Scotus, 1916, GA 1) 74, 79-88
Epoca dell’immagine del mondo, L’ (Die Zeit des Weltbildes, 1938, GA 5: titolo con il quale venne
pubblicata la conferenza La fondazione dell'immagine moderna del mondo mediante la metafisica
[Die Begründung des neuzeitlichen Weltbildes durch die Metaphysik]) 210, 334, 356-364, 370,
391,478 Esperienze del pensiero (Denke) fahrungen, GA 13) 393 Essere e tempo (Sein und Zeit,
1927, GA 2) 12, 133, 142, 144, 150, 154, 156, 166-167, 173, 176-178, 179-209, 210, 216, 232-233,
241-243, 254-257, 266, 295, 314, 321, 323, 326, 348, 378, 387, 415, 417, 419, 422, 440-443, 446,
457, 467, 485, 487, 507, 512-513
Fatti e pensieri (Tatsachen und Gedanken, 1945), 302, 390 Fenomenologia e teologia
{Phänomenologie und Theologie, 1927 [1970], GA 9) 178, 376
Hölderlin e l’essenza della poesia (Hölderlin und das Wesen der Dichtung, 1936, GA 4) 386, 388-
389, 410, 415
Impianto, L’ (Das Gestell, 1949) 470
In cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache, 1950-59, GA 12) 125 (n. 20)
Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica
(Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Anzeige des hermeneutischen Situation, 1922
[1989]) 136-137, 150-157 Introduzione alla metafisica (Einführung in die Metaphysik, 1935, GA
40) 346, 351-353, 356, 361, 396, 420
Kant e il problema della metafisica (Kant und das Problem der Metaphysik, 1929, GA 3) 210, 229-
230 (nn. 33-39), 233, 257, 415, 422
Lettera sull’umanismo (Über den Humanismus, 1946, GA 9) 423, 425-426, 428-429, 438-445, 446,
448, 480
Mio cammino di pensiero e la fenomenologia, Il (Mein Weg in die Phänomenologie, 1963, GA 14)
28 (n. 2), 39 (n. 14)
Nietzsche (1936-37, GA 6, 2 voli.) 356, 360, 364-372, 373, 375, 390, 396-397 (nn. 30-31, 34), 462
Nuove indagini sulla logica (Neuere Forschungen über Logik, 1912, GA 1) 55, 56, 58
Ore sul Monte degli Ulivi (Ölbergstunden, 1911) 56-57 Origine dell’opera d’arte, L’ (Der Ursprung
des Kunstwerkes, 1935, GA 5) 361-364,387
Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia? (Schöpferische Landschaft: Warum beiben wir in
der Provinz?, 1933, GA 13) 338 Passeggiata serale a Reichenau (Abendgang auf der Reichenau,
1916) 90 Pericolo, II (Die Gefahr, 1949) 470
Poesia di Hölderlin, La (Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, GA 4) 388 (n. 13)
Poesie giovanili (Frühe Gedichte, GA 13) 90 (n. 32)
Problema della realtà nella filosofia moderna, Il (Das Realitätsproblem in der modernen
Philosophie, 1912, GA 1) 39 (η. 15), 56, 58
Quattro seminari (Vier Seminare - Le Thor, 1966-69, GA 15) 485-486 Questione della tecnica, La
(Die Frage nach der Technik, 1953, GA 7) 473, 474, 478-482 Questione dell’essere, La (Zur
Seinsfrage, 1955 [1956], GA 9) 465
Saluto di Martin Heidegger (Grußwort von Martin Heidegger, 1976, GA 13) 518 (n. 10)
Seminari di Zollikon (Zollikoner Seminare, 1959-69) 486-488 Sentieri interrotti (Holzwege, 1950,
GA 5) 496
Sentiero tra i campi, Il (Der Feldweg, 1949, GA 13) 13 (n. 2), 18, 39 (n. 13)
Soggiorni (Aufenthalte) 482-485
Studente tedesco come lavoratore, Lo (Der deutsche Student als Arbeiter, 1933) 316
Sul segreto del campanile (Vom Geheimnis des Glockenturms, 1954, GA 13) 17
Svolta, La (Die Kehre, 1949) 470
Università nel nuovo Reich, L' (Die Universität im neuen Reich, 1933) 304
Università nello Stato nazionalsocialista, L’ (Die Universität im national· sozialistischen Staat,
1933) 346
Vie per il confronto (Wege zur Aussprache, 1937, GA 13) 393-395
Indice generale
Prefazione
1.    Gettatezza. II cielo sopra Meßkirch. Lo scisma sul posto. Ruolo-chiave. I piccoli campanari. Al
fratello unico. Da-da-dasein. I genitori. Sotto la protezione della Chiesa. I laici e gli altri. Al liceo di
Friburgo. Quasi gesuita.
2.    Fra gli antimodernisti. Abraham a Sancta Clara. Il valore escatologico della vita. La logica
celeste. Heidegger scopre Brentano e Husserl. L’eredità filosofica del xix secolo. L’inaridirsi
dell’idealismo tedesco. La filosofia del «come se ». La fuga dai valori culturali. I valori e il valore
dei soldi.
3.    Ore sul Monte degli Ulivi. La pianificazione della carriera. La dissertazione. C’è il nulla? Il
giudizio impersonale. Le preghiere al Reverendissimo. Al di là della filosofia della vita. L’irruzione
della vita nella filosofia. L’esperienza vissuta di Dilthey e la vita vissuta di Nietzsche. La grande
corrente di Bergson. Il giardino fiorito di Max Scheler.
4.    Lo scoppio del conflitto. Le idee del 1914. La filosofia di Heidegger nonostante la storia.
Fluidificare la scolastica. Duns Scoto. L’abilitazione. Servizio militare in guerra. Il fallimento della
carriera rapida. Un sodalizio maschile. II matrimonio.
5.    II trionfo della fenomenologia. I sensi aperti. Il mondo nella testa. Husserl e la sua comunità.
L’orologiaio pazzo. Il lavoro alle fondamenta. La poesia come segreta aspirazione della filosofia.
Proust fenomenologo. Husserl e Heidegger, padre e figlio. Elisabeth Blochmann. Heidegger, la sua
voglia di vivere, e la « situazione folle ».
6.    Tempo di rivoluzione. Max Weber contro i profeti in cattedra.
I    santi dell’inflazione. La cattedra di Heidegger. Dalla preistoria della « Seinsfrage ». Vissuto e
devitalizzazione. Mondeggia. La filosofia del disboscamento totale. Il dadaismo di Heidegger. La
trasparenza della vita. L’oscurità dell’attimo vissuto. Spiriti affini: Heidegger e il giovane Ernst
Bloch.
7.    Il commiato dal cattolicesimo. La «vita fattizia» e la «mano levata contro Dio». I lavori di
decostruzione. Il Dio di Karl Barth. Studiare, cadendo, le leggi della caduta. L’inizio dell’amicizia
con Karl Jaspers. Il corso del 1923 sull' Ontologia.
II    preludio a Essere e tempo.
8.    La chiamata a Marburgo. La « comunità di lotta con Jaspers ». Gli spiriti di Marburgo. Fra i
teologi. Hannah Arendt. La grande passione. La lotta di Hannah per uscire dall'ombra. L’occulta
vittoria di Heidegger. « La vita giace pura, semplice e grande davanti all’anima. » La nascita di
Essere e tempo. Alla madre sul letto di morte.
9.    Essere e tempo. Il « Prologo in Cielo ». Quale essere? Quale senso? Dove cominciare?
L’esserci come colonia di alghe: tutto è connesso. L’in-essere. L’angoscia. La cura attraversa il
fiume. Quanta autenticità sopporta l’uomo? L’alternativa di Plessner e Gehlen. La filosofia morale
di Heidegger. Il destino e la libertà. Esserci collettivo: comunità o società?
10.    La tonalità emotiva del tempo: l’attesa del grande momento. Cari Schmitt, Tillich e altri. La
presenza di spirito. La decisione e il niente. La liberazione dagli obblighi scolastici. L’evocazione
dell’esserci. La compieta di Beuron. Preghiera e imbarazzo. Il male. Il grande dibattito di Davos:
Heidegger e Cassirer sulla montagna incantata. La notte e il giorno.
11.    Un capolavoro nascosto: il corso sulla Metafisica del 1929-30. Sulla noia. II mistero e il suo
sgomento. Heidegger tenta una filosofia della natura. Dal sasso alla coscienza. La storia di una
apertura.
12.    Bilanci alla fine della Repubblica. Plessner. Il crollo delle « volte ». Amico e nemico.
L’equivoco di Heidegger: il singolo o il popolo? La prima chiamata a Berlino. Karl Mannheim. La
disputa sulla sociologia del sapere, il tentativo di salvare il liberalismo. Vivere con V« inappianabile
». Heidegger nella caverna di Platone. L’idea di ciò che fa essere. Come l’ente diventa più ente.
13.    L’inverno 1931-32 alla baita: « A carne di lupo, zanne di cane ». La rivoluzione
nazionalsocialista. L’uscita collettiva dalla caverna. L’essere è arrivato. L’anelito alla politica
impolitica. Il patto fra plebaglia ed élite. Le « meravigliose mani » di Hitler. Heidegger interviene.
L’elezione a rettore. Il discorso di rettorato. Antichità esplosive. Il prete senza Vangelo.
14.    Il discorso di rettorato e i suoi effetti. La riforma dell’università. Heidegger antisemita? Le
manovre rivoluzionarie di Heidegger. Analogie con il movimento del ’68. Al servizio del popolo. Il
campo di lavoro scientifico.
15.    Il corto circuito tra filosofia e politica. L’uomo al singolare e al plurale. La scomparsa della
differenza. Nessuna ontologia della differenza. Il secondo incarico a Berlino. La lotta di
Heidegger per la purezza del movimento. Il rivoluzionario è una spia.
16.    Dove siamo quando pensiamo? Todtnauberg a Berlino: il programma di un’Accademia dei
docenti. L’addio agli intrighi politici. « Questo è un corso sulla logica... » Heidegger si sceglie i suoi
eroi: da Hitler a Hölderlin. L’« oscuramento del mondo » e il nazionalsocialismo realmente
esistente.
17.    L’epoca dell’immagine del mondo e della mobilitazione totale. Heidegger sulla via del ritorno.
Il porsi-in-opera della verità. Il pragmatismo festoso. Fondatori di Stati, artisti, filosofi. La critica
del pensiero di potenza. Nietzsche e Heidegger: chi supera chi? Costruire zattere in mare aperto.
18.    Il diario filosofico di Heidegger: i Contributi alla filosofia. Il rosario filosofico di Heidegger.
La grande nenia. Piccole ascensioni. Il silenzio eloquente.
19.    Heidegger sotto osservazione. Il congresso parigino di filosofia del 1937. Heidegger prova
risentimento. Idee per un’intesa franco-tedesca. Heidegger e la guerra. « Il pianeta è in fiamme. » Il
pensiero e il tedesco.
20.    Heidegger nella milizia popolare. Friburgo distrutta. L’idillio angosciante: la rocca di
Wildenstein. Heidegger davanti alla commissione di epurazione. Il parere di Jaspers: « non libero,
dittatoriale, privo di comunicativa ». Il divieto di insegnamento. La Francia scopre Heidegger.
Kojève, Sartre e il nulla. Heidegger legge Sartre. L’incontro mancato. La visita all’arcivescovo. Il
crollo e la guarigione nel bosco innevato.
21.    Che cosa facciamo quando pensiamo? Risposta a Sartre. La Lettera sull'umanismo. La
rinascita dell’umanismo. Toni elevati. Atmosfere nella Germania del dopoguerra. Da luogotenente
del niente a pastore dell’essere. L’autointerpretazione di Heidegger: la «svolta» (Kehre). Non farsi
immagini, né dell'uomo, né di Dio.
22.    Martin Heidegger, Hannah Arendt e Karl Jaspers dopo la guerra. Una storia di rapporti
personali e filosofici.
23.    L’altro mondo pubblico. La critica heideggeriana della tecnica: « impianto » (Gestell) e «
abbandono » (Gelassenheit). Il luogo dei sogni: Heidegger in Grecia. I sogni di un luogo: i seminari
di Le Thor, Provenza. Medard Boss. Seminari di
Zollikon:, l’analitica dell’esserci come terapia. Il sogno del candidato alla maturità.
24.    Profezie nefaste. Adorno e Heidegger. Amorbach e Feldweg. Dal gergo dell'autenticità
all'autentico gergo degli anni '60. Parlare e tacere su Auschwitz. L’intervista allo Spiegel. Paul Celan
a Friburgo e a Todtnauberg.
25.    Il vespero della vita. Ancora una volta Hannah. Heidegger e Franz Beckenbauer. Gli onori, gli
oneri, i canti di commiato. Quello che non si dimenticherà. Il senso della domanda sull’essere e il
senso dell’essere: due storie Zen. Il ponte. Il tatuaggio. Il gufo. La morte. Ritorno sotto il cielo di
Meßkirch.
Note
Cronologia
Tavola delle abbreviazioni
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice delle opere di Martin Heidegger

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