Sei sulla pagina 1di 84

Introdurre il pensiero di Martin Heidegger (18891976) ad un pubblico specialistico e non si delinea

come un’impresa molto difficile. Al contrario di altre introduzioni, tuttavia, Günter Figai riesce a
concepire e a realizzare un’opera che mette l'intero percorso di pensiero e di vita del grande filosofo
tedesco sotto una luce nuova ed unitaria senza ridurne la portata, banalizzarne la presa, sminuirne la
statura. Come scrive Adriano Fabris nell'Introduzione, si tratta qui «non solo di un’utile
introduzione al pensiero di Heidegger, [...] non solo di un’indagine nella quale le diverse fasi della
riflessione heideggeriana sono legate da un filo conduttore persuasivo e generale, ma anche del
modello di un’interpretazione non già succube di ciò che vuole interpretare, bensì capace di
coniugare consapevolezza teorica e rigore nell’indagine. Il tutto allo scopo di andare, insieme a
Heidegger, oltre Heidegger». A ben vedere il merito di questa introduzione e del suo autore è
proprio quello di soddisfare le aspettative che si hanno davanti ad un testo di filosofia, ovvero la
capacità di condurre al pensiero.
Günter Figai, (1949) ha studiato a Heidelberg filosofia e germanistica. Finito il dottorato nel 1976
sotto la guida di Michael Theunissen, si è abilitato nel 1987 con Hans-Georg Gadamer. Dal 1989 al
2001 è stato professore presso l'Università di Tübingen, dal 2002 è professore ordinario di filosofia
presso l’Università di Freiburg e direttore della rivista Internationalen Jahrbuchs für Hermeneutik.
Tra le sue pubblicazioni: Martin Heidegger. Phänomenologie der Freiheit (1988),
Gegenständlichkeit. Das Hermeneutische und die Philosophie (2006).

FIGAL. La metafora della luce può essere interpretata come una metafora della libertà
dell’esistenza.
FIGAL. Non tutto ciò che si sottrae all’esperienza è stato o è avveniente; ogni tentativo di
comprendere si scontra con quello che resiste alla comprensione e, proprio in questa assenza, è
«presente».
Annamaria Lossi (Pisa 1973), laureata in estetica a Pisa (1998), ha conseguito il dottorato di ricerca
a Pisa e Freiburg (2005) con una tesi su Nietzsche e Platone (Nietzsche und Platon. Begegnung auf
dem Weg der Umdrehung des Platonismus, K&N 2006). Scrive e collabora con diverse riviste
filosofiche italiane e straniere ed è traduttrice di testi di fenomenologia ed ermeneutica. Attualmente
sta lavorando ad un progetto sul concetto di “immagine” in collaborazione con l’Università di
Freiburg.
parva philosophica [4]
parva philosophica
1.    ILARIO Bertoletti, Metafisica del redattore. Elementi di editoria, 2005, pp. 64.
2.    FELIX Duque, Terrore oltre il postmoderno. A cura di Lucio Sessa, 2006, pp. 98.
3.    Lorenzo Calabi, Il caso che disturba. Spunti e appunti sul naturalismo darwiniano, 2006, pp.
104.
4.    GÜNTER Figal, Introduzione a Martin Heidegger. A cura di Annamaria Lossi, 2006, pp. 216.
5.    GÜNTER Figal, Il mostruoso e l’amore. Saggi su Platone. A cura di Annamaria Lossi, 2006,
pp. 158.
6.    ADRIANO Fabris, Senso e indifferenza. Un clusterbook di filosofia. In preparazione.
Günter Figal
Introduzione Martin Heidegger
a cura di Annamaria Lossi
Traduzione di Annamaria Lossi
Education et culture
Culture 2000
with the support of the Culture 2000 programme of the European Union

www. edizioniets. com


Titolo originale:
Günter Figal
Martin Heidegger zur Einführung
Junius, Hamburg 19921; 19993
© Copyright 2006 EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19,1-56126 Pisa
info@edizioniets. com
www.edizioniets.com
Distribuzione
PDE, Via Tevere 54,1-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]
ISBN-13: 978-884671627-9
ISBN-10: 884671627-2
PREMESSA di Adriano F abris
In questo libro Günter Figal ci offre una lettura complessiva del pensiero di Heidegger. Si tratta di
una lettura nella quale l’itinerario heideggeriano viene ripercorso dedicando esplicita attenzione, e
approfondendo adeguatamente, le sue diverse fasi. Si va dunque da un’analisi degli anni di
formazione del pensatore di Meßkirch -e dei suoi interessi per le forme dell’esistenza cristiana e per
l’ontologia aristotelica - a un’interpretazione di Essere e tempo: il trattato che viene qui visto, in
maniera originale, come «un intermezzo ricco di conseguenze». Si passa da una ricostruzione del
controverso periodo heideggeriano degli anni Trenta - concepito non solo come l’epoca della
tentazione politica, ma soprattutto come il tentativo di ripensare il rapporto tra filosofia e storia - a
una lettura della meditazione dell'ultimo Heidegger in termini di rassegnata indisponibilità, per il
pensiero, dell’origine del pensare stesso, con la conseguente elaborazione del motivo
dell’«abbandono».
Come si vede, il libro si presenta come un’introduzione generale al pensiero di Heidegger, che può
essere davvero utile per avviare e orientare lo studio di tutti coloro che sono interessati alla filosofia
di questo autore. Una tale funzione, per di più, viene adeguatamente assolta in quanto il libro è
scritto in maniera chiara e piana. Ciò va propriamente sottolineato. Non è facile, infatti, scrivere su
Heidegger, perché permane, costante, la tentazione di imitare il suo stile e il suo vocabolario. Figal
evita questo rischio e, pur non rinunciando al rigore dell’esposizione e alla precisione concettuale,
propone
un’interpretazione che ci consente di decodificare e di trasporre nell’odierno dibattito filosofico ciò
che, nei suoi tratti fondamentali, Heidegger ha pensato.
L’interpretazione che Figai presenta gli consente di collegare le differenti fasi del pensiero
heideggeriano in un percorso unitario. Essa è animata da un problema teorico di fondo, che viene
mostrato essere anche la questione decisiva di Heidegger stesso: il rapporto tra filosofia e storia. E'
questo tema, infatti, a costituire il filo conduttore della ricostruzione che Figai dà del pensiero
heideggeriano: dalle prime prove, nelle quali viene elaborata una nuova interpretazione dei filosofi
del passato, alla concezione della storicità articolata in Essere e tempo; dal progetto di ricostruzione
della tradizione del pensiero come «storia della metafisica» al tentativo di cogliere, attraverso la
nozione di Ereignis, il legame fra questa storia e l’inizio che la istituisce.
Su tutto ciò, più nei dettagli, si diffonde Annamaria Lossi nella sua Postfazione. In essa Lossi
mostra altresì che l’ulteriore problema teorico che sta sullo sfondo di una tale interpretazione
complessiva del pensiero heideggeriano è la questione della libertà. Si tratta di una libertà intesa
come ciò che sta alla base, ultimativamente, del rapporto tra essere, uomo e storia. E questo viene
mostrato anche da un altro importante volume di Figai: quello che approfondisce il pensiero di
Heidegger nell’ottica di una fenomenologia della libertà.
Non voglio tuttavia approfondire in questa sede una tale questione. Desidero invece soffermarmi,
concludendo, su di un aspetto non secondario che è proprio del libro qui tradotto: quello che
riguarda non tanto i temi che nella sua interpretazione di Heidegger Figai privilegia, quanto lo stile
e la metodologia che, nella sua lettura, egli consapevolmente adotta. Si tratta infatti di un approccio
interpretativo da cui dobbiamo imparare molto, al fine di evitare quelle derive fuorvianti che, in
special modo nella lettura di Heidegger, sembra fin troppo facile imboccare.
Heidegger è un grande pensatore: è fin troppo banale, ormai, affermarlo. Ma i grandi pensatori si
onorano imparando dal loro pensare, pensando insieme a loro, discutendoli, interpretandoli,
proseguendo sulla scia di quanto hanno elaborato. Il peggior servizio che ad essi si può fare è quello
di trasformarli in un monumento, fissando in maniera ideologica solo alcuni aspetti della loro
riflessione, ripetendo quello che essi hanno detto, magari con le loro stesse parole. Insomma: il
maggior torto che si può fare a un pensatore, e a maggior ragione a un grande pensatore, è quello di
non pensare ciò che egli ha pensato, per volere a tutti i costi pensare come lui.
Ebbene: uno dei non piccoli meriti di Figai - e anche questo libro ne è un’importante testimonianza
- è dato dalla dimostrazione di come, anche rispetto a Heidegger, si possa elaborare un confronto
adeguato e intelligente. Il che significa: si possa non solo proporre una lettura complessiva a partire
dai problemi di fondo che sono propri di Heidegger stesso, e che appartengono, prima che a lui,
all’intera tradizione filosofica, ma soprattutto discutere Heidegger a partire appunto da tali
questioni. Come fa Figai, privilegiando il nesso teorico tra filosofia, storia e libertà. Il tutto,
certamente, senza rinunciare a un apparato filologico di prim’ordine e a un’invidiabile conoscenza
del pensiero heideggeriano, considerato in tutti i suoi aspetti.
Ecco dunque ciò che ci offre questo testo. Non solo un’utile introduzione al pensiero di Heidegger,
ma anche un suo inquadramento nell’ambito di problemi filosofici generali, a partire dalla cui
trattazione Heidegger stesso dev’essere compreso e valutato. Non solo un’indagine nella quale le
diverse fasi della riflessione heideggeriana sono legate da un filo conduttore persuasivo e generale,
ma anche il modello di un’interpretazione non già succube di ciò che vuole interpretare, bensì
capace di coniugare consapevolezza teorica e rigore nell’indagine. Il tutto allo scopo di andare,
insieme a Heidegger, oltre Heidegger. Ecco perché, salutiamo con gioia l’edizione italiana di questo
libro di Günter Figai.
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
Il pensiero di Martin Heidegger è da tempo internazionale. Innumerevoli traduzioni in molte lingue
hanno mostrato che il significato di questo pensiero non può più essere messo in discussione -
indipendentemente dal fatto che lo si voglia o meno seguire. Heidegger appartiene ai classici della
filosofia al pari di Kant, Hegel, Schelling e Nietzsche.
Le traduzioni che si danno dei suoi scritti e delle sue lezioni confermano che tale pensiero non può
rimanere soltanto in lingua tedesca. Esse raggiungono il loro scopo tanto meglio, quanto più
decisamente si presentano come traduzioni - non ci deve essere alcun tentativo di imitazione
schiavizzante dell’originale tedesco, bensì un vero spostamento in un’altra lingua. La traduzione dà
conferma della tesi ermeneutica fondamentale per cui sia necessario allontanarsi dal testo per
ritrovare la vicinanza con i pensieri. Solo nella misura in cui si dice diversamente ciò che è stato
detto o scritto, è possibile incontrare un dire e un pensare. Solo così è possibile l’incontro: esso
presuppone sempre una distanza.
Ciò che vale per la traduzione, riguarda ancor più da vicino l’introduzione. Essa deve allontanarsi
dal testo originale, ma anche dal solco originale del pensiero, per poter ricondurre proprio a questo.
In tal caso sono inevitabili le abbreviazioni. Un’introduzione riesce laddove mette in evidenza i
motivi centrali e le più marcate linee di sviluppo e laddove può essere terreno di nuances, varianti e
finezze. Nel caso dell’opera di una vita, come quella di Martin Heidegger, questo può risultare
particolarmente illuminante. Nessuno può misurare sulle prime il continente di un pensiero che è
aperto dai settanta volumi già usciti della Gesamtausgabe e dai trenta che ancora rimangono. E per
sapere più o meno come poter misurare precisamente questo continente, è necessario l’ausilio di un
orientamento che possegga una visione d’insieme: di una sorta di mappa filosofica che indichi le
località importanti e le strade principali. Questa introduzione intende essere una tale carta
toponomastica.
Si ottiene un accesso a Heidegger attraverso i suoi inizi filosofici e attraverso il punto tematico
iniziale della sua unica opera principale: Essere e tempo. Tutto ciò che viene dopo, per quanto
grandioso possa essere, ne è uno sviluppo ulteriore e una trasformazione, che è dunque
comprensibile a partire dall’approccio iniziale del pensiero. Perciò è stata qui rivolta maggiore
attenzione al primo Heidegger piuttosto che al secondo. Tuttavia non si collega a questo fatto una
svalutazione dell’opera successiva. Al contrario il pensiero heideggeriano successivo attende ancora
di essere scoperto. Non è più incomprensibile dell’opera iniziale - è possibile che ci si debba
abituare a pensare in modo così inusuale per ogni rigorosità così come ha fatto il tardo Heidegger.
Ma questo può riuscire soltanto se si rende conto di ciò che ha mosso Heidegger a partire dai suoi
inizi.
In questa introduzione si tratta soltanto del pensiero di Heidegger. Si è attinto alla biografia solo nel
caso in cui è stato utile o addirittura necessario per la comprensione del pensiero. La biografia è
stata utile soprattutto per il breve, ma intenso coinvolgimento di Heidegger con la politica. Per il
resto ci si può attenere a quello che Heidegger ha scritto di Aristotele: «Per la personalità di un
filosofo solo questo ha interesse: nacque, visse e morì» (GA 18,5). Chi legge le lettere
heideggeriane non comprende meglio Essere e tempo.
Mi fa molto piacere che questo libro esca adesso in italiano. Senza l’Italia, la patria delle università
e dell’umanesimo, non ci sarebbe alcuna filosofia europea. Ringrazio Adriano Fabris per il suo
contributo e Annamaria Lossi per il suo impegno e la bella collaborazione.
Freiburg im Breisgau, Aprile 2006
Günter Figal
1. INTRODUZIONE
Di rado si è assunta con serenità l’opera di Martin Heidegger. Essa ha suscitato tanto ammirazioni
quanto critiche, talvolta amare. In quest’ultimo caso i critici hanno discusso con ferocia il
coinvolgimento, nel 1933, di Heidegger con il nazionalsocialismo; si è ampiamente tentato di
accostare la sua filosofia al “fascismo”, in modo da prendere distanza una volta per tutte dalla sua
filosofia. Ci si voleva liberare di Heidegger e, anzi, sarebbe stato ancora meglio potersi indignare
con lui. Tuttavia tale tentativo è destinato al fallimento. E' indiscutibile infatti che la filosofia del
XX secolo sarebbe stata diversa senza Heidegger. Senza di lui non sarebbe stato possibile tanto
l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre quanto l’etica di Emmanuel Lévinas; senza Heidegger Hans-
Georg Gadamer non avrebbe sviluppato la sua ermeneutica filosofica, Michel Foucault, senza gli
stimoli ricevuti da Heidegger, avrebbe scritto in un altro modo e il decostruttivismo di Jacques
Derrida non sarebbe nato senza il confronto con Heidegger. Non si può comprendere la filosofia del
XX secolo, dopo Heidegger, senza Heidegger.
Ma nei termini di unico filosofo del XX secolo Heidegger ha ancora di più aperto una visione nuova
sulla storia della filosofia nella sua totalità: si deve a lui il fatto che classici come Platone e
Aristotele, Kant e Hegel possono essere letti in modo nuovo - e debbono essere letti in modo nuovo.
Senza di lui i frammenti di Parmenide ed Eraclito sarebbero probabilmente rimasti oggetti di una
ricerca specialistica. Il fatto che si prenda Nietzsche seriamente come filosofo è da ricondurre alle
interpretazioni heideggeriane. Senza Heidegger Kierkegaard e Dilthey avrebbero avuto difficoltà ad
essere ammessi alla corte della filosofia accademica.
Ed infine: nelle sue intense interpretazioni della tradizione filosofica Heidegger si è sempre posto la
domanda su che cosa sia la filosofia e su come si possa ancora fare filosofia in generale, e lo ha
fatto senza diventare egli stesso un mero amministratore della tradizione. Heidegger ha preso sul
serio il carattere storico della filosofia; gli era chiaro il fatto che una filosofia che ignora la sua
tradizione rimane fuori dalle proprie possibilità, già per il fatto di non riuscire a guardare dentro il
proprio legame con la tradizione stessa. Tuttavia, d’altra parte, Heidegger ha sempre affermato che
la filosofia è qualcosa più della sua stessa storia; può evitare di trasformarsi in ricerca storiografica
solo se essa si pone una domanda concreta. Secondo la sua stessa autocomprensione Heidegger
crede che tale domanda sia quella dell’essere.
In generale non si sa che cosa si intenda precisamente con questa domanda ed è anche facile, perciò,
liquidare le formulazioni heideggeriane, spesso enigmatiche, come mere magie fatte con le parole,
come incantesimi vuoti. Per comprendere Heidegger si deve innanzitutto dimenticare la «questione
dell’essere». Si trova più facilmente un accesso alla sua filosofia se si segue lo sviluppo dei suoi
pensieri. Iniziando dalle sue prime riflessioni autonome, si nota che presto si sedimentano motivi e
figure di pensiero centrali.
Sebbene Heidegger rimanga continuamente fedele a questi motivi e a queste figure, il suo pensiero
non offre, tuttavia, uno sviluppo progressivo del programma che aveva progettato precedentemente.
Si tratta piuttosto di un gigantesco abbozzo: egli ricomincia sempre da capo, cambia i suoi concetti
o, cosa ancora più difficile da tener presente, impiega con significati nuovi i concetti che ha
introdotto. I suoi scritti e le sue lezioni testimoniano nel loro approccio filosofico una
sperimentazione senza sosta; Heidegger tenta di trovare sempre nuove messe in scena, sempre
nuove versioni dei propri pensieri. Cercando di portare avanti il proprio programma Heidegger
approda a soluzioni che non si possono affatto ridurre le une alle altre, bensì permangono nella loro
diversità e provvisorietà. Lo mostra il titolo di due raccolte, curate da lui stesso: Sentieri interrotti e
Segnavia.
Chi intende comprendere la filosofia di Heidegger, deve entrare nel carattere sperimentale della sua
opera. Un accesso a tale carattere lo si trova soprattutto nelle fratture e nei punti di rottura. Lì si
vede con quale coerenza Heidegger insista nel suo domandare e sia pronto, nel contempo, a dare ad
esso formulazioni diverse, qualora le risposte risultino insoddisfacenti.
Chi intende capire la filosofia heideggeriana non può tuttavia accontentarsi di voler comprendere
Heidegger. Molto spesso i pensieri decisivi di Heidegger sono ottenuti nel confronto con altri
filosofi e presentati attraverso l’interpretazione di testi. E' caratteristico della filosofia heideggeriana
il fatto di aver sviluppato procedimenti propri e molto particolari nell’interpretazione di testi. Non si
dà un’introduzione a Heidegger trascurando di parlare di Hegel, di Husserl e di Dilthey, di
Aristotele e di Platone, di Hölderlin e di Nietzsche, nonché di Ernst Jünger. In questo caso i
pensatori più importanti sono Aristotele e Platone. Ogni tentativo di voler comprendere Heidegger
senza considerare la filosofia classica dei Greci è senza speranza.
Un’introduzione a Heidegger dovrà dunque parlare non solo dei testi heideggeriani. D’altra parte,
come ogni introduzione, anzi come ogni presentazione di un contesto di pensieri, anche questa
risulta necessariamente ridotta ad una prospettiva: dev’essere guidata da determinate decisioni
preliminari per poter strutturare il ricco ambito dei pensieri in generale. E deve lasciare da parte
molto di quello che, da un’altra prospettiva, sarebbe invece degno di attenzione. Il confronto di
Heidegger con la filosofia del suo maestro Edmund Husserl non verrà qui discusso; la sua
interpretazione di Kant non rivestirà alcun ruolo importante e nemmeno l’interesse per Schelling;
l’intenso confronto con Nietzsche sarà trattato solo marginalmente; i lavori su Parmenide ed
Eraclito risulteranno variamente dispersi in queste pagine così come gli scritti tardi sul linguaggio e
sulla poesia. Si tratterà soltanto di seguire la nascita dei pensieri fondamentali di Heidegger e di
renderli comprensibili nel loro contesto, spesso ricco di tensioni. L’immagine che se ne ricava è già
abbastanza complessa. Tuttavia essa non potrebbe essere ulteriormente semplificata senza diventare
troppo dissimile dalla filosofia che deve invece mettere in scena.
2. FILOSOFIA E STORIA
Il inizio con Hegel e con Kierkegaard
Se Heidegger fosse morto durante la prima guerra mondiale, così come è morto Emil Lask, il
filosofo di Heidelberg stimato molto da Heidegger, oggi lo avremmo visto solo come una figura
marginale all’interno del dibattito filosofico di inizio secolo. La sua dissertazione del 1913,
pubblicata nel 1914, dedicata alla Dottrina del giudizio nello psicologismo, non lascia ancora
trasparire alcuna autonomia filosofica, ed anche la tesi di abilitazione sulla Dottrina delle categorie
e del significato in Duns Scoto del 1915, pubblicata nel 1916, rimane, almeno ad un primo sguardo,
un solido lavoro accademico senza caratteri originali. Tuttavia, se si legge questo lavoro partendo
dalle opere heideggeriane successive, è già possibile riconoscervi alcuni motivi centrali:
l’esperienza della storia e l’esperienza non mascherata della propria vita o, come dirà in seguito
Heidegger: dell’esserci. L’efficacia di questi motivi caratterizza la peculiarità della filosofia
heideggeriana.
Heidegger non doveva diventare filosofo, bensì teologo. Nato nel 1889 a Meßkirch nel Baden,
figlio di un sagrestano e cresciuto in un ambiente severamente cattolico, il promettente allievo è
dichiaratamente destinato al sacerdozio. Studia infatti teologia, ma subito cede alle sue tendenze
filosofiche ed entra nell’ambito delle discussioni del tempo all’università di Friburgo: secondo una
testimonianza (SD, 81; p. 189) già al primo semestre (1909/10) si occupa delle Ricerche logiche di
Husserl; è soprattutto attraverso il suo maestro Heinrich Rickert
che Heidegger si familiarizza con il neokantismo.
Nella sua tesi di abilitazione Heidegger utilizza le nuove ricerche del suo tempo per poter lavorare
in modo più originale sui problemi della dottrina medievale delle categorie e del significato. Si può
addirittura supporre che in Heidegger il dominio del cosiddetto problema categoriale della filosofia
a lui contemporanea lo abbia fatto rivolgere a quelli che furono gli eroi medievali del suo lavoro. Di
per sé questo non rappresenterebbe ancora un fatto particolarmente originale; già nelle Lezioni di
storia della filosofia Hegel mostra come, a partire da un’interpretazione che coglie la problematicità
della prospettiva terminologica del suo tempo, possano essere dischiusi i testi della tradizione;
l’esempio di Hegel riguarda da vicino anche Heidegger. È interessante, tuttavia, l’impostazione
della tesi di abilitazione di Heidegger perché introduce una diversa accentuazione del problema di
cui si era occupato anche Hegel. Si tratta di una diversa accentuazione del problema che riguarda il
rapporto tra filosofia e storia.
Heidegger fa capire chiaramente la funzione di modello che ha svolto Hegel, richiamandosi
esplicitamente ed enfaticamente a quest’autore in chiusura del suo lavoro di abilitazione. Heidegger
è portato a questa considerazione finale riepilogando la discussione sul problema delle categorie.
«Le categorie» sono determinazioni universali di un oggetto nella sua oggettualità. Ma si può porre
ed elaborare adeguatamente la domanda sulle categorie, in quanto «determinatezza più generale
dell’oggetto» (GA 1, 403; p. 247), solo se, dice Heidegger, si tiene conto del ruolo essenziale del
«soggetto»: «oggetto e oggettualità hanno, come tali, senso unicamente per un soggetto» (GA 1,
403; p. 247). I soggetti sono essenzialmente caratterizzati dal fatto di essere «diretti» agli oggetti.
Con questo pensiero Heidegger si trova interamente sotto l’influenza delle Ricerche logiche di
Husserl. Insieme a Husserl Heidegger rimarca la struttura intenzionale degli atti di coscienza.
Ma il soggetto degli atti intenzionali non può essere compreso soltanto in quanto «soggetto nel
senso della teoria della conoscenza» (GA 1, 407; p. 251), come Heidegger rileva criticamente
contro il neokantismo e già anche contro Husserl: la teoria della conoscenza tenta di concepire il
riferimento all’oggetto riducendo tale riferimento a «pure funzioni del pensiero» (GA 1,403; p.
247). La comprensione degli oggetti è sempre anche un’«azione viva, significativa e realizzatrice di
significato» (GA 1, 406; p. 249), vale a dire che ciò che ogni volta viene esperito come oggetto
della coscienza può essere compreso a partire dal modo di vivere del soggetto conoscente.
La questione teorico-conoscitiva delle categorie deve dunque essere collocata in un contesto più
ampio; colui che intende discuterne adeguatamente deve prendere in considerazione determinazioni
della soggettività più ricche di quelle meramente teorico-conoscitive. Tali determinazioni, a loro
volta, devono essere storiche, se la modalità di vivere in cui deve stare una determinata concezione
delle categorie non è più la propria, bensì risulta essere passata. E ciò che è passato non può essere
considerato per sé, a prescindere dal proprio presente, perché viene appunto compreso nel presente.
Più tardi, prendendo spunto da Husserl, Heidegger con questo pensiero ha lasciato il contesto dei
lavori husserliani: la storia non rappresentava per Husserl il tema di una filosofia “rigorosa”1. Per
determinare la nuova posizione raggiunta, Heidegger riprende il concetto hegeliano di “spirito” in
modo programmatico: «Lo spirito vivente è, come tale, per essenza spirito storico nel senso più
ampio del termine. La vera Weltanschauung è molto lontana dalla pura esistenza puntuale di una
teoria avulsa dalla vita. Lo spirito è comprensibile solo se in esso viene assunta tutta la ricchezza
delle sue prestazioni, cioè la sua storia, con la quale crescente ricchezza, quando sia
concettualizzata filosoficamente, viene fornito un mezzo di continuo potenziantesi per la
comprensione viva dell’assoluto spirito di Dio» (GA 1, 407 segg.; p. 251)
Sulle prime sembra che lo stesso Hegel abbia scritto questo pezzo. Poiché la concezione hegeliana
di una storia della filosofia è sorretta dalla convinzione per cui i «fatti» passati «del pensiero» non
risiedono al di là della realtà effettiva presente, bensì questa dev’essere compresa come il «risultato
[...] del lavoro di tutte le generazioni passate del genere umano»2. La filosofia presente si
concepisce nella sua realtà effettiva per il fatto di elaborare la sua propria storia e di essere, in
questo, storica.
Questa visione della storicità del filosofare non conduce tuttavia, secondo Hegel, ad una
relativizzazione storiografica della filosofia presente. Poiché nel presente si può soltanto essere
sicuri di ciò che è stato pensato nel passato, nel presente ci si può soltanto concepire come risultato
del passato, perché per i pensatori passati si è trattato della stessa cosa. La storia della filosofia
riceve la sua continuità e unità grazie a «ciò che di comune rimane invariato3», a ciò che certamente
si è andato a for
mare nel tempo e col tempo, ma che non è tuttavia essenzialmente temporale. I fatti passati del
pensiero sarebbero rimasti incompresi nei loro oggetti, nella loro verità, se il pensiero non fosse
stato anche «veritiero al di là del suo tempo»4. Il pensiero presente è perfino del tutto determinato
dal fatto di essere al di là della propria epoca e del tempo in generale: nella misura in cui nel
pensiero presente sono compresi, e così «superati», tutti i pensieri passati dello spirito, il pensiero
presente non è soggetto ad alcun condizionamento né ad alcuna relatività. E' diventato
«autocoscienza assoluta»5, e può perciò essere caratterizzato anche come «svelamento divino, come
esso conosce stesso»6.
Il progetto hegeliano di una storia della filosofia è al contempo il progetto di una filosofia della
storia filosofica: la filosofia è storica per il fatto di dover creare la sua forma reale e di avere la sua
propria realtà effettiva concependo il suo stesso sviluppo. Tuttavia questo concepire è al di là del
tempo;  concependo il proprio sviluppo, la filosofia mostra al contempo il suo essere slegata dal
tempo ed esibisce la storia nella sua verità; è la verità dello spirito assoluto, dello spirito che si
riconosce incondizionatamente e chiaramente. Sebbene si esiti nel definire teologica la filosofia di
Hegel, si deve tuttavia ammettere che la sua comprensione del pensiero filosofico può essere
tranquillamente tradotta nel linguaggio di una teologia speculativa.
Soprattutto il pensiero che tutto domina in Hegel, quello di uno spirito completamente trasparente a
se
stesso, può offrire un punto di riferimento per fare chiarezza sullo spostamento d’accento che
Heidegger opera nelle sue frasi hegelianizzanti. Se si leggono ancora una volta le frasi di Heidegger,
colpisce subito il fatto che in esse il pensiero della realtà effettiva dello spirito assoluto viene
certamente avanzato, ma viene tuttavìa anche ritirato. Heidegger non comprende più il presente
come la realtà effettiva di uno spirito assoluto, assolutamente trasparente a se stesso, bensì parla di
«un mezzo di continuo potenziantesi per la comprensione viva dell’assoluto spirito di Dio» (GA 1,
408; p. 251): nel concepire la storia della filosofia non si trova la realtà effettiva dell’assoluto, bensì
soltanto un avvicinamento progressivo all’assoluto stesso. Lo sviluppo storico dello spirito è una
«ricchezza crescente eternamente» e perciò il presente non è più la sua meta, il suo compimento. La
rinuncia di Heidegger a tradurre la filosofia in una teologia speculativa trasforma la comprensione
della filosofia così come quella della storia della filosofia.
Si tratta di una trasformazione a favore di ciò che è particolare ed individuale: la vitalità del
contemplare e del comprendere filosofici non hanno per Heidegger i tratti di un’autocoscienza
assolutamente trasparente a se stessa, ma il carattere dell’unicità e dell’individualità temporali; è
ogni volta sempre il pensiero presente quel
lo a cui è affidato il compito di comprendere la storia. Mentre per Hegel «il punto di vista
dell’individuo» viene caratterizzato dal fatto che gli individui sono «all’interno del tutto [...] come
ciechi»7, Heidegger determina la «strutturazione fondamentale» dello «spirito vivente» dicendo che
in essa sono incluse «singolarità, individualità degli atti [...] con l’universalità, con il sussistere per
sé del significato in un’unità vivente» (GA 1, 410; p.
253).    Il pensiero ed il vivere reali sono sempre unici ed individuali nel loro attuarsi o nei loro
«atti»; e se il «significato» di questi atti è universalmente valido, si tratta pur sempre
dell’universalmente valido di ciò che ogni volta è unico e individuale. Il significato della vita
individuale è qui ancora, per Heidegger, l’assoluto, Dio. Nonostante la sua validità universale, trova
accesso all’assoluto soltanto l’individuale, e non già un pensiero speculativo sovraindividuale.
L’esperienza dell’assoluto, di cui Heidegger parla nei termini di avvicinamento, «riposa
sull’individuo» (GA 1,409; p. 252).
Con l’individualizzazione dell’esperienza di Dio, dell’esperienza dell’assoluto, Martin Heidegger è
debitore al critico forse più radicale di Hegel: lo scrittore religioso S0ren Kierkegaard. Ancora nel
semestre invernale 1921/22 Heidegger apre le sue lezioni con una citazione tratta dagli Esercizi sul
cristianesimo di Kierkegaard, che Heidegger stesso segnala con un’«indicazione della fonte con
implicito ringraziamento» (GA 61, 182; p. 211). Tuttavia Heidegger intende collegare l’insistenza
kierkegaardiana sull’individualità della fede con il programma hegeliano di una filosofia storica:
intende allacciarsi a Hegel, ponendosi il compito di una storia filosofica della filosofia e
orientandosi all’idea kierkegaardiana dell’individualità religiosa e della particolare esperienza
cristiana. Laddove Heidegger, nelle ultime frasi del suo scritto di abilitazione, s’impegna nel
programma di una «filosofia dello spirito vivente, dell’amore operante e dell’adorante intimità con
Dio» (GA 1, 410; p.
254),    qui parla la voce di Kierkegaard insieme a quella di Hegel.
Heidegger non dà una risposta chiara su come le due voci debbano essere sostenute. Ma a partire
dalle linee del suo progetto, tracciate ancora debolmente, tale risposta può almeno essere tentata. Ci
si deve soltanto rammentare dell’idea di Heidegger per cui la «ricchezza crescente» dello spirito
storico deve significare un avvicinamento allo spirito assoluto di Dio, e questo deve collegarsi
all’idea kierkegaardiana per cui la filosofia può soltanto indicare nella direzione dell’esperienza
autentica, seria ed individuale della fede. Allora si offre il pensiero di una filosofia storica in senso
hegeliano, che è l’indicazione di un’esperienza autentica ed esistenziale della fede; comprendendo e
compiendo la filosofia storicamente si deve determinare anche il luogo dell’esperienza religiosa.
Che cosa ciò significhi nel dettaglio viene fuori leggendo lo scritto di abilitazione di Heidegger.
Non è estrinseco il fatto che Heidegger si occupa qui di «Weltanschauung medievale» (GA 1, 409;
p. 253). In questa e nel suo rapporto essenziale con Dio Heidegger vede un’immagine contraria al
proprio tempo: verso la fine del suo scritto egli pone nei confronti della vita attuale la «possibilità e
la ricchezza dell’esperienza vissuta», le quali sono «condizionate da quella dimensione della vita
dell’anima che si dilata verso la realtà trascendente» che Heidegger fa valere come
caratterizzazione di una «vastità contenutistica destinata a perdersi». Ed aggiunge: «In un simile
atteggiamento orizzontale dell’esistenza odierna sono assai più grandi, e addirittura illimitate, le
possibilità di un’insicurezza crescente o di un completo disorientamento; mentre al contrario la
strutturazione fondamentale della forma di vita dell’uomo medievale già a priori non è destinata a
perdersi nella vastità contenutistica della realtà sensibile, né ad ancorarvisi, ma questa stessa viene,
in quanto essa medesima bisognosa di ancoraggio, subordinata a una necessità di un finalismo
trascendente» (GA 1,409 segg.; p. 253). Sembra essere una variante di quella critica conservatrice
alla cultura che, contro la miseria del presente, rievoca l’immagine di una vita passata ricolma di
senso. Apparentemente sembra possibile trovare qui, nelle riflessioni del giovane Heidegger, tutti
quei fattori che si ritrovano anche nella sua filosofia matura: antimodernismo, avversione alla
civilizzazione, irrazionalismo, riserve contro l’autonomia di una vita divenuta emancipata grazie
all’illuminismo.
Tuttavia nel giovane Heidegger le cose non stanno in modo così semplice. Egli si rende conto che la
Weltanschauung medievale non può rappresentare un modello per il tempo attuale; comunque
questa «Weltanschauung» è oggetto di una ricerca storica e Heidegger sa che essa è soggetta a
particolari condizioni di accesso; sa, inoltre, che i modi di pensare moderni si distinguono
radicalmente da quelli precedenti. Ciò lo esime dalla necessità di schierarsi a favore di una rinascita
dell’esperienza religiosa. Ciò che gli interessa è, piuttosto, una «mancanza della vera e propria
fondazione concettuale e culturale-filosofica » (GA 1, 408; p. 251) della discussione storica del
Medioevo, che viene raggiunta solo se si riesce a costituire una «apertura di intelligenza
simpatetica che sia conforme» al tempo passato (GA 1, 408; p. 252). Ciò sarebbe a sua volta
impossibile se il tempo passato si distinguesse totalmente da quello presente. Certamente il «mondo
concettuale» del presente è diverso da quello del passato; ma c’è un «elemento imperituro comune»,
per dirla con le parole di Hegel, e questo è la «struttura fondamentale» dello spirito vivente.
Tuttavia, si tratta della struttura fondamentale dell’individualità storica.
Heidegger attribuisce all’eroe medievale del suo scritto di abilitazione il possesso di «una
disposizione a una sicura attenzione per la vita immediata della soggettività e per i contesti di
significato in essa immanenti, senza che si sia conquistato un netto concetto del soggetto» (GA 1,
401; p. 245). A prima vista sembra che qui si riprenda la concezione hegeliana: se si deve
comprendere il pensiero presente come risultato di quello precedente, allora ciò che nel presente
può essere «compreso in modo sottile» lo si deve aver già scorto anche in precedenza, sebbene solo
in modo approssimativo. Tuttavia, se Heidegger parla della «crescente ricchezza » dello spirito
storico, per lui il presente non costituisce la meta e il compimento del pensiero passato. Il pensiero
presente non ha la trasparenza assoluta di un’autocoscienza che si può tradurre in un linguaggio
religioso e che può caratterizzarsi come disvelamento del sapere di Dio verso se stesso. Ci si può
soltanto avvicinare all’assoluto e a questo corrisponde l’idea per cui il lavoro filosofico dev’essere
una «fatica che sempre riprende» (GA 1, 196; p. 8): la fatica, evidentemente, di doversi trovare
sempre nell’«immediatezza della vita soggettiva».
Per una fatica filosofica di questo tipo Heidegger considera il «mondo concettuale» del suo presente
come un tempo particolarmente propizio: «Nell’energica volontà di affrontare problemi propri della
attuale filosofia teoretica e nella sua corrispondente forza del dominare i problemi stessi si
arricchisce e insieme si approfondisce la comprensione del senso della storia della filosofia, ma si
accresce pure l’urgenza di un adempimento di compiti», e questo precisamente in rapporto al fatto
«di sciogliere dalla sua rigidità il contenuto sistematico della scolastica medievale almeno nei
principali gruppi di problemi» (GA 1, 204; p. 16). Ciò indica nuovamente l’impegno di doversi
situare nell’immediatezza della vita soggettiva; e se Heidegger giudica le possibilità della filosofia
nel modo descritto, nonostante ogni affinità con Kierkegaard, egli non può essere dell’avviso di
inquadrare il compito della filosofia soltanto all’interno di quella possibilità, che è propria della
filosofia stessa, di andare al di là di sé. La filosofia per Heidegger, a differenza che in Kierkegaard,
non deve essere una guida alla visione della necessità della fede per la vita, una guida che si annulla
allorché si è pronti a compiere realmente il salto nella fede. Nel lavoro filosofico si fa piuttosto
valere quella vita individuale nella cui struttura fondamentale, secondo la formulazione
heideggeriana, si trova il rapporto della fede con la trascendenza. E in un’epoca che non è più quella
della fede, una tale vita individuale non può farsi valere altrimenti. L’interesse per la fede e per la
religione, collegato alla convinzione per cui non esiste più un accesso diretto alla fede, diventa
portante per l’interesse della «soggettività», poiché quest’ultima ha potuto articolarsi nella fede
durante il corso della storia. Nella discussione filosofica della storia della filosofia si mostra la
serietà della vita e, con ciò, quella posizione che è stata una volta quella della fede. La posizione del
filosofare stesso apre un accesso nella storia a ciò che si era articolato diversamente, ovvero in
modo religioso.
Per Heidegger, dunque, la relazione tra filosofia e storia si è spostata radicalmente rispetto alla
concezione hegeliana: nel pensiero filosofico non si articola più semplicemente l’universale, in
modo che ogni particolare e individuale sia visto nella sua limitatezza e possa essere superato e
inghiottito nell’universale, nell’assoluto. Non c’è più posto, dunque, per la traduzione della filosofia
in teologia speculativa. Nel pensiero filosofico si articola piuttosto il particolare, e le possibilità di
spiegazione della filosofia sono tanto più grandi quanto più la filosofia prende ogni volta coscienza
in modo decisivo della propria particolarità. Tale particolarità, però, è sempre storica, è la
particolarità di una ben precisa situazione storica, ed anche la filosofia è sempre e soltanto
articolabile storicamente. La filosofia diventa essa stessa una spiegazione sempre storica della
struttura storica del comprendere; la filosofia è un’articolazione della vita particolare in cui ne va
del rischiaramento della struttura universale di questa sua particolarità.
Rispetto a tale questione Heidegger ha certamente compiuto un lavoro preparatorio. Ciò che
Kierkegaard, in La malattia per la morte, ricerca con il concetto di «sé» non è altro che la struttura
fondamentale dell’individualità. Ed anche la visione del comprendere storico, non più inteso come
il superamento di una particolarità passata nell’universalità di un’autocoscienza assoluta, non si
affaccia a Heidegger per la prima volta. Heidegger lo sapeva e lo ha ammesso apertamente. Nelle
lezioni del semestre estivo 1919 Heidegger sottolinea che è stato Wilhelm Dilthey a «vedere
chiaramente il significato del singolare» (GA 56/57, 164; p. 151) per la trattazione della storia. E
poco dopo egli cita un passo tratto dall’Introduzione alle scienze dello spirito di Dilthey (1883) che
avrebbe dovuto essere letto come formulazione programmatica dell’approccio heideggeriano ad una
storia filosofica: «E' solo nell’autoriflessione che troviamo l’unità vitale e la sua continuità in noi, la
quale sopporta e mantiene tutte queste relazioni» (GA 56/57, 164; p. 150). Questa autoriflessione
sta per Heidegger, tuttavia, nel segno di un confronto con la serietà e unità di una vita condotta nella
fede e nel segno della visione del proprio tempo, di un tempo diverso da quello della fede. Il lavoro
filosofico di Martin Heidegger scaturisce dunque dalla domanda rivolta ad una filosofia che si
articola storicamente e che rimane legata all’esperienza religiosa.
Una domanda retrospettiva ad Aristotele
Per vedere come Heidegger sviluppa i motivi concettuali e come approda ad una posizione
autonoma della
questione, dobbiamo indagare la cronologia e, precisamente, risalire fino al 1922. In quell’anno
nasce un testo programmatico dal titolo Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, di cui vale la
pena approfondire brevemente la storia. Heidegger lo scrisse perché aveva ragione di sperare di
essere chiamato alla cattedra di filosofia di Marburgo o di Gottinga. Ciò che rendeva difficile la sua
nomina era il fatto che Heidegger non aveva pubblicato più niente dopo la sua tesi di abilitazione.
Per superare questo ostacolo Heidegger scrisse la bozza di un libro su Aristotele, che aveva in
mente da tempo, il cui titolo venne dato alla bozza stessa. Gottinga non scelse Heidegger, mentre
venne chiamato a Marburgo: nell’estate del 1923 occupò il posto vacante ed diventò addirittura
Ordinario a tutti gli effetti nel semestre successivo.
Nel testo della bozza Heidegger rimette mano alle lezioni tenute fino ad allora, ma il tutto diventa
concettualmente più articolato. Rielaborando e riesaminando la connessione dei vari pensieri
presenti nelle lezioni, egli riesce a raggiungere una considerevole accuratezza e una forma più
compiuta. Ma il nuovo testo non guarda indietro: i pensieri riassunti in esso non sono altro che i
germi di Essere e tempo. Leggendo la bozza su Aristotele si ritrovano già quelle determinazioni
essenziali che sono poi riprese nel grande progetto sistematico di Essere e tempo, in cui esse
vengono sviluppate in modo più articolato. D’altro canto, però, l’impostazione di Essere e tempo si
distingue considerevolmente da quella della bozza: le particolarità della prima opera heideggeriana
si comprendono perciò tanto meglio quanto più si approfondisce la concezione da cui sono partite.
Alla domanda su come Heidegger abbia potuto metter mano ad un grande lavoro su Aristotele, non
è difficile rispondere, almeno superficialmente: stando al resoconto, spesso citato, di Heidegger
stesso sul suo «cam-
mino nella fenomenologia», sarebbe stato Franz Brentano con il suo Sui molti significati
dell’essente in Aristotele (1862) a servire da «unico appoggio» dei suoi «primi maldestri tentativi di
introdur[lo] alla filosofia» (SD, 81; trad. it. p. 189). Non c’è dubbio che per lo Heidegger studente
di teologia cattolica Aristotele e l’aristotelico Tommaso d’Aquino devono aver costituito un punto
centrale negli studi. A Heidegger, ricercatore della dottrina delle categorie e del significato in Duns
Scoto, era chiaro il significato della filosofia aristotelica. Stando alle parole della sua abilitazione,
l’interesse di Heidegger è quello d’indagare ciò che sta dietro l’articolazione del pensiero scolastico
per renderlo comprensibile come interpretazione dello «spirito vivente». Su questo le parole della
bozza su Aristotele sostengono:
La dottrina di Dio, della Trinità, dello stato naturale, del peccato e della grazia, propria della tarda
scolastica, era stata elaborata con i mezzi concettuali che Tommaso d’Aquino e Bonaventura
avevano fornito alla teologia. Ciò significa però che l’idea dell’uomo e dell’esserci vivente, che è
stata presupposta in tutti questi ambiti della problematica teologica, si fonda nella “Fisica”, nella
“Psicologia”, nell'“Etica” e nell’“Ontologia” di derivazione aristotelica, e cioè in dottrine nelle quali
le teorie vengono elaborate secondo una determinata scelta ed una particolare interpretazione
(Auslegung). [...] L’indagine del Medioevo, seguendo le prospettive dominanti, si è stabilizzati entro
gli schemi di una teologia neoscolastica e nella cornice di un aristotelismo riveduto in senso
neoscolastico. Innanzitutto si tratta di comprendere in generale la struttura scientifica della teologia
medievale, la sua esegesi e il suo modo di commentare come interpretazioni (Lebensauslegungen)
della vita soggette a particolari mediazioni (PA, 250; pp. 511-512).
Diversamente dallo scritto di abilitazione Heidegger non intende indagare la «visione medievale del
mondo» nella prospettiva della sua apertura per «l’immediatezza della vita soggettiva». Certamente
a Heidegger interessa la scolastica tarda, a cui appartiene anche l’eroe del suo scritto di abilitazione,
nei termini di un’«interpretazione della vita», e cioè, in questo caso, come una modalità della vita
vissuta di articolarsi in un determinato modo; ma l’accento di quest’interpretazione della vita viene
posto sul fatto che essa è «mediata in modo determinato». Tale interpretazione non viene fuori
semplicemente dal
lo stare nell’immediatezza della vita soggettiva, bensì l’interpretazione della vita è debitrice
essenzialmente ad una tradizione ben precisa. Al fine di comprendere il legame di una forma di
pensiero con una tradizione non ci si può avvalere di quelle modalità di pensiero che sono
caratteristiche di tale forma: è invece necessario andare ad indagare al di là di esse.
Se però il pensiero medievale è un pensiero mediato dalla tradizione, ecco che è evidente dover
comprendere l’articolazione della vita presente come un’interpretazione interrotta ed inautentica
della vita. Per quanto riguarda la bozza del progetto heideggeriano è caratteristico il fatto che in
essa vengono ripresi con fermezza l’ottimismo in relazione all’«energica volontà problematica della
filosofia teoretica attuale» e la sua forza. La «filosofia della situazione odierna» si trova nella stessa
situazione di quella medievale, nella misura in cui anch’essa si muove «in gran parte in modo
inautentico», «e in un contesto di concetti greci, che sono stati però alterati da una serie di
interpretazioni eterogenee». Qui, come dice Heidegger, i «fenomeni fondamentali» hanno «perduto
le loro originarie funzioni espressive, plasmate su regioni di oggetti, frutto di ben determinate
esperienze» (PA, 249; trad. it. p. 510). I fenomeni fondamentali non sono più articolazioni
immediate della vita nella sua vitalità; tramandandoli, essi si sono resi autonomi e conducono
una vita propria nell’incertezza.
Se la si vede così, non sarà più possibile affidarsi alla filosofia del presente per cogliere la struttura
fondamentale della vita. E se la «concettualità greca», in cui si muove la filosofia attuale, è
«inautentica», allora non sarà nemmeno possibile caratterizzare una concezione post-greca della
filosofia senza rimanere nel regno delle ombre dei concetti tramandati. Allo stato della bozza su
Aristotele diventa impossibile per Heidegger ogni richiamo a Hegel. Forse è necessario mettere
radicalmente in questione la tradizione post-greca, a cui appartiene anche la filosofia del presente. E
nella misura in cui questo richiede di rivolgersi ad Aristotele, è possibile una filosofia del presente
che non intenda rimanere ciecamente soggetta alla sua tradizione, muovendo soltanto
dall’interpretazione di Aristotele.
Non è tuttavia ovvio il fatto che la scelta heideggeriana ricada su Aristotele e non, come sarà in
seguito, su Platone. Sarebbe stato ovvio, semmai, far dipendere la filosofia aristotelica da quella
platonica. Forse Aristotele è stato «il compimento e il reale coronamento della filosofia precedente»
(PA, 251; p. 513), al punto che il pensiero greco ha ricevuto nei testi aristotelici l’articolazione più
completa; ma può anche darsi che Aristotele «nella sua Fisica [abbia raggiunto] una nuova
fondamentale posizione problematica, che poi dominerà [...] la storia dell’antropologia filosofica»
(PA, 251; p. 513). È indubbiamente decisivo il fatto che Aristotele, con la sua «nuova fondamentale
posizione problematica», abbia raggiunto per Heidegger una visione della struttura fondamentale
della vita. Aristotele, e nessun altro filosofo, è per Heidegger quel pensatore che ha forgiato concetti
fondamentali adatti a cogliere questa struttura, nella quale essi non hanno ancora perso «le loro
originarie funzioni espressive, plasmate su regioni di oggetti, frutto di ben determinate esperienze».
Aristotele è per Heidegger quel filosofo dai cui testi emerge l’«idea dell’uomo e della vita umana»
in modo immediato ed autentico.
La concezione aristotelica dell’uomo e dell’esserci ha per oggetto la vita nella sua struttura
fondamentale. Quest’ultima si esprime nelle determinazioni e nelle descrizioni aristoteliche in cui la
vita si mostra a partire da se stessa. Ciò che si mostra a partire da sé si dice in greco «phainómenon,
e, vista così, la filosofia aristotelica è «antropologia fenomenologica radicale» (PA, 251; p. 513). I
testi aristotelici sono, cioè, quei testi appartenenti al passato, tramandati dalla tradizione, la cui
interpretazione fa comprendere lo stesso filosofare del presente come un’articolazione della vita.
Se si riflette più attentamente sul programma della bozza, rimane, tuttavia, ancora da chiarire come
il lettore successivo possa comprendere nei testi aristotelici ciò che deve esservi compreso. Infatti,
ciò che rende possibile la comprensione, ovvero la struttura fondamentale della vita, deve venir già
compreso in modo autentico, per poter poi considerare i testi aristotelici come la determinazione e
la descrizione, anch’esse autentiche, di tale struttura. Se la filosofia presente, come ogni altra
tradizione post-aristotelica, si muove nel regno delle ombre concettuali, nell’ambito di ciò che ha
perso la propria funzione espressiva, una tale comprensione della struttura fondamentale della vita
risulterà impossibile; il fatto è che i concetti tramandati dalla tradizione, nel loro rendersi autonomi,
hanno mantenuto una traccia del loro riferimento oggettuale.
Questa è, di fatto, la convinzione di Heidegger: i concetti fondamentali della filosofia hanno
certamente perso le loro funzioni espressive originarie; la vita non trova più espressione in essi, così
che non riesce più ad articolarsi attraverso tali concetti nella sua struttura fondamentale. Tuttavia,
continua Heidegger, «nonostante le analogie, e le formalizzazioni cui sono stati sottoposti, questi
concetti conservano una precisa impronta dell’origine, recano ancora con sé una parte della genuina
tradizione del loro senso originario, se ancora può provarsi che il loro significato rinvia alle loro
fonti oggettive» (PA, 249; p. 510). La «fonte oggettiva», di cui parla Heidegger, non è come
potrebbe sembrare, la vita nella sua stessa struttura fondamentale. E' piuttosto l’articolazione di
quest’ultima, quale si trova negli stessi scritti aristotelici. Anche i futuri concetti fondamentali
riguardano la filosofia di Aristotele nella misura in cui ne derivano. Il significato peculiare che
Heidegger assegna ad Aristotele, nella bozza del suo progetto, dipende dal fatto che la filosofia
aristotelica segna l'inizio di ogni altra filosofia successiva. All’inizio non c’è ancora una tradizione;
i concetti fondamentali di una filosofia agli albori non possono ancora rendersi autonomi e non
possono aver ancora perso la loro funzione espressiva. L’oggettività di una sua «nuova
fondamentale posizione problematica» è già garantita dal suo principiare. Solo ciò che inizia può
essere vera espressione della vita e descrizione genuina della sua struttura fondamentale.
Questo pensiero risulta determinante per la relazione tra filosofia e storia. Una filosofia che deve
essere compresa come articolazione della vita nella sua struttura fondamentale è possibile soltanto
come filosofia storica. Heidegger dice in modo programmatico che «la ricerca filosofica» è «in
senso radicale conoscere “storico”», (PA, 249; p. 510) e, precisamente, «se ha compreso il carattere
oggettivo e il modo d’essere del suo verso-che tematico». Ma questo «verso-che tematico» è la vita
nella sua struttura fondamentale.
Il «conoscere storico» che la filosofia diventa, secondo la bozza del progetto heideggeriano su
Aristotele, è «storico» in un modo del tutto particolare. Non ha niente a che fare con lo sguardo
filosofico che si rivolge al passato o a qualunque altro oggetto. E non è nemmeno possibile un
conoscere storico di questo tipo, nel senso in cui Hegel ne parla nella sua Storia della filosofia; anzi:
si può addirittura affermare che la concezione heideggeriana della relazione tra filosofia e storia si
profila adesso in netta opposizione al modello hegeliano. Stando alla concezione heideggeriana il
presente è caratterizzato proprio dalla sua imperscrutabilità: un’affermazione che rovescia lo stesso
modello hegeliano. Il passato non può dipendere da un’autocoscienza del presente che è trasparente
a se stessa, bensì il presente può sperare di ricevere uno spiraglio di luce dentro la sua propria
oscurità soltanto rivolgendosi al passato. Ci si deve assicurare l’inizio della filosofia lasciando che
la tradizione stessa ci rimandi a questo inizio. La ricerca storico-filosofica si vede «posta davanti al
compito di scomporre il dominante contesto interpretativo tradizionale nei suoi motivi nascosti,
nelle sue tendenze e noi suoi indirizzi inespressi, e di inoltrarsi, con un’opera di distruzione, in
cammino all’indietro verso le motivazioni originarie dell’esplicazione» (PA, 249; p. 510). La ricerca
storicofilosofica distrugge l’autonomizzarsi dei concetti fondamentali nella tradizione,
ripercorrendo all’indietro questa tradizione fino ad arrivare al suo stesso inizio. Heidegger chiama
tale procedimento «distruzione». Esso risulterà determinante in tutto il suo lavoro filosofico.
Nel suo progetto di una storia della filosofia come distruzione di ciò che è stato tramandato,
risalendo fino al suo inizio, Heidegger fa i conti con le posizioni passate che avevano già trovato
una loro articolazione nello scritto di abilitazione; qui egli aveva affermato che il comprendere della
tradizione doveva essere sempre concepito come particolare ed individuale. Tuttavia la particolarità
e l’individualità del comprendere sono tali da far emergere ogni volta un non-comprendere: la vita
presente, plasmata dalle modalità di pensiero e dai concetti tramandati dalla tradizione e divenuti
autonomi, non si è ancora compresa nella sua struttura fondamentale; stando a come anzitutto si
presenta, la vita viene modellata dalla condizione, ogni volta diversa, in cui essa si trova nella
tradizione. Non si possono affatto definire necessarie le diverse situazioni della tradizione, dunque
le modalità in cui si articola la vita presente nei concetti tramandati e negli schemi concettuali, bensì
le diverse situazioni vengono considerate soltanto nella loro storicità contingente. Su questo punto
si legge nella bozza del progetto su Aristotele: «La ricerca filosofica, nel suo carattere ontologico,
non è qualcosa che un’“epoca” possa prendere a prestito da un’altra - nei limiti in cui se ne occupi
non semplicemente da un punto di vista culturale neppure, però, è qualcosa che possa presentarsi
con la pretesa di potere e voler sottrarre alle epoche future l’onere e l’assillo delle domande
radicali» (PA 238; p. 497). La filosofia è determinata storicamente dalla sua presenza radicalmente
temporale.
Perciò la storia della filosofia, nel senso heideggeriano, non è puramente la sequenza delle
articolazioni di ciò che viene tramandato, ogni volta con accenti diversi. Una tale sequenza non è
essenziale quando esiste filosoficamente la possibilità d’interrogare retrospettivamente e nel
presente l’inizio della tradizione e quando la filosofia presente si riappropria dei concetti filosofici
nelle loro funzioni espressive grazie a questa domanda retrospettiva. Con l’interrogazione
retrospettiva sull’inizio della tradizione quest’ultima non viene cancellata nelle varie epoche, come
se non importasse più nulla della tradizione stessa. Per Heidegger il programma di una distruzione
della tradizione include sì una critica della tradizione, ma questa critica non s’indirizza alla
tradizione stessa, bensì al ruolo che essa ha nella vita presente: «La critica, che nasce con la
concreta attuazione della distruzione, riguarda poi non il fatto che noi in generale ci troviamo in una
tradizione, ma il modo in cui ci troviamo» (PA, 249 e segg.; p. 511). Il ritorno «distruttivo»
all’inizio della tradizione è dunque una critica non già in vista del passato, ma in vista del presente:
la «critica della storia», dice Heidegger «è sempre solo critica del presente» (PA, 239; pp. 498-499).
In questo caso il rapporto «distruttivo» con la tradizione e con il suo inizio è al contempo il criterio
con cui viene commisurato criticamente il presente: solo tornando all’inizio del filosofare è
possibile la critica del presente, impigliato in una tradizione rimasta imperscrutata. Con
l’articolazione di questa critica, che rivela nel contempo il proprio criterio, il presente viene
svincolato dalla tradizione in modo che la vita, che in esso si articola, diventi trasparente a se stessa:
«[La distruzione] è piuttosto il vero cammino, lungo il quale il presente deve ritrovarsi nelle sue
proprie motilità fondamentali, e ritrovarsi invero in modo tale che dalla storia gli venga incontro
costante la domanda, sono a che punto esso (il presente) si preoccupi di appropriarsi in modo
radicale delle possibilità fondamentali d’esperienza e delle loro interpretazioni (Auslegungen)» (PA,
249; p. 511).
Se si legge questa frase con sufficiente attenzione, si noterà che essa è particolarmente istruttiva nel
riassumere il contenuto della concezione heideggeriana della storia della filosofia nella sua totalità:
distruggendo la tradizione fino al suo proprio inizio, ci si svincola dal legame con i concetti della
tradizione che si sono resi autonomi. Qui non si trova, tuttavia, soltanto un accesso ai concetti nelle
loro funzioni espressive e nel loro contenuto, ma si comprende anche che sono possibili entrambe le
cose: rimanere, da un lato, intrappolati nella tradizione e, dall’altro, potersene liberare. Alla
reciprocità, che intercorre tra legame e liberazione dalla tradizione, punta il discorso di Heidegger
delle «motilità fondamentali». Con questo discorso si afferma che il rimanere intrappolati nella
tradizione e la liberazione da essa non sono semplicemente condizioni, ma modalità di attuazione
della vita stessa.
Quando Heidegger comprende l’esperienza del rimanere intrappolati nella tradizione, interrogando
retrospettivamente l’inizio di quest’ultima, egli interpreta la distruzione nei termini di quell’atto in
cui si fa esperienza di se stessi. A ciò corrisponde il fatto che la domanda retrospettiva sull’inizio
non è ancora il passo che conduce ad una teoria filosofica, la quale è nota nella sua genuina
funzione espressiva e di cui si devono assumere le formulazioni. La domanda retrospettiva
sull’inizio mette piuttosto in questione colui che domanda; essa lo confronta con la preoccupazione
«di appropriarsi in modo radicale delle possibilità fondamentali d’esperienza e delle loro
interpretazioni»: getta, in altri termini, la sfida di un filosofare in cui la vita possa esprimersi senza
mediazioni di sorta e il cui contenuto sia la descrizione che le corrisponde.
Heidegger non ha dunque abbandonato il suo tema iniziale, quello di ascoltare l’immediatezza della
vita soggettiva. Ma adesso un tale ascolto è per lui possibile soltanto come un ascolto dell’inizio
della tradizione. Un tale prestare ascolto [Hinhören], a sua volta, non è una servitù [Hörigkeit] nei
confronti del pensiero iniziale; non lo si distinguerebbe altrimenti da un legame con la tradizione. Si
tratta, piuttosto, di un passo verso il pensiero vivente autonomo. Dal fatto che il filosofare passato
riesce a parlare realmente con un presente a lui vicino, e non trasformi le sue articolazioni soltanto
in concetti indipendenti, dipende essenzialmente la sfida che la filosofia passata getta a quella
successiva perché diventi pensiero autonomo e vivente. Se tale sfida sarà vinta e se il pensiero
futuro sarà interrogato da quello passato in modo autentico, quest’ultimo riguadagnerà anche la
propria funzione espressiva.
Là dove la filosofia con i suoi concetti è in grado di dar voce ad una tale funzione espressiva, essa si
articola nella propria particolarità. Ma ciò che è particolare, considerato come tale, è ciò che è
diviso e diverso dal resto. Dove si esprime questa differenza a livello temporale, il particolare è il
passato che di distingue dal presente. Dalla particolarità del passato non è escluso neanche
Aristotele, l’inizio della tradizione; anzi: proprio il filosofo greco non può essere escluso da tale
particolarità se Heidegger assegna enfaticamente alla filosofia dell’inizio una funzione espressiva.
Nella misura in cui la filosofia di Aristotele dev’essere compresa in questa sua funzione, essa è
passata e non può essere assunta con facilità. Anche la visione della particolarità dell’inizio della
tradizione costituisce per Heidegger un aspetto addirittura essenziale dell’«appropriazione della
storia»; dice Heidegger:
La comprensione radicale di ciò che di volta in volta una determinata ricerca filosofica - svolta nel
passato, nella sua situazione e quindi secondo la sua inquietudine di fondo - ha posto; è dunque
comprensione non semplicemente nel significato del conoscere constatativo, ma nel senso che essa
riprende quanto si è già compreso, muovendo dalla situazione ad esso propria, e quindi
originariamente. Il che però non accade affatto facendo propri e in qualche modo rinnovando
teoremi, proposizioni, concetti fondamentali e principi. Nell’assumere modelli ideali - di questo si
tratta - la comprensione li sottoporrà alla critica più radicale e tagliente in vista di una possibile
feconda opposizione. L’esserci fattuale è ciò che è, sempre e solo in quanto esserci determinato, e
non un esserci in generale di una qualche umanità universale, per la quale bisogna preoccuparsi
unicamente di compiti immaginari (PA, 239; p. 498; trad. modificata, ndt).
Se si prendono sul serio queste frasi, allora non è lecito aspettarsi che Heidegger legga le
determinazioni generali della struttura fondamentale della vita semplicemente a partire da quelle
che sono proprie di Aristotele. L’articolazione “autonoma”, nel vero senso del termine, di questa
struttura, la formazione di concetti fondamentali autonomi, è piuttosto necessaria se si vuol essere in
grado di corrispondere alla particolarità dell’«esserci fattuale» in questione.
E, tuttavia, un tale «esserci fattuale» ha una sua struttura fondamentale, è universalmente
descrivibile e determinabile; ci si deve chiedere, allora, come debba manifestarsi questa universalità
se ogni determinazione è particolare solo per il fatto che l’«esserci fattuale» parla e si esprime in
essa. Se si seguono le indicazioni della bozza su Aristotele, esse non sono ancora attuabili in quel
rinnovamento dei concetti passati tanto auspicato da Heidegger. La domanda retrospettiva rivolta ad
Aristotele non ha il significato di difendere l’aristotelismo, sebbene esso sia concepito da Heidegger
nella maniera più libera possibile. Piuttosto, alle descrizioni e alle determinazioni aristoteliche si
può rispondere soltanto con la «critica più sottile», trasformata in una «proficua inimicizia». Una
tale inimicizia non avrebbe voluto avere il carattere di un’alternativa concettuale o di una proposta
concettuale di più ampio respiro: secondo Heidegger in tutta la sua particolarità la filosofia
aristotelica rimane, tutto sommato, determinante, in quanto con essa coincide l’inizio della
tradizione. Nella sua bozza del progetto su Aristotele Heidegger non aveva, ancora, l’intenzione di
sviluppare una concezione propria della struttura fondamentale dell’esserci fattuale, in cui poter
inserire la concezione aristotelica. La «proficua inimicizia» di cui parla Heidegger può allora
consistere in quella tensione irrisolta del «primo inizio» e del «nuovo inizio». È necessario
«ripetere» il primo inizio con un nuovo inizio.
Il «primo inizio» e il «nuovo inizio» sono momenti dinamici del conoscere storico: si tratta dell’atto
del domandare in cui la «cosa» del primo inizio ha una sua responsabilità come quella del nuovo. Il
domandare, a sua volta, diventa necessario allorché non ci si voglia, e non ci si possa, più
accontentare della situazione presente, perché essa è una provincia nel regno delle ombre dei
concetti. Si può comprendere, alla fine, la situazione presente come tale provincia, nella misura in
cui le ombre stesse rimandano a ciò che le ha prodotte: i concetti divenuti autonomi sono
responsabili, infatti, di «una parte della genuina tradizione nel loro senso originario» (PA 249; p.
510). Essi riconducono indietro fino al loro inizio. Nel domandare filosofico stesso si mostra
dunque la «motilità fondamentale» della vita: Heidegger giunge alle determinazioni della struttura
fondamentale della vita rendendo conto dell’attuarsi del conoscere storico. Il metodo, l’attuarsi del
conoscere storico, è l’oggetto, e l’oggetto, l’attuarsi del conoscere storico, è il metodo. Hegel
avrebbe ragionato allo stesso modo. Tuttavia la concezione di Heidegger si distingue da quella
hegeliana per il fatto che passato e presente, inizio e ripetizione, rimangono nella loro particolarità
e, per il fatto di essere diversi, costituiscono la tensione che caratterizza il conoscere storico stesso.
Nel gioco dei particolari, e soltanto in esso, risiede l’universale.
Se Heidegger, rendendo conto del conoscere storico, giunge a determinare la struttura della vita così
come viene sviluppata nella bozza del progetto aristotelico, allora anche i concetti da lui introdotti
sono resi comprensibili nella misura in cui si riferiscono all’attuarsi dello stesso conoscere storico.
Il più importante di questi concetti è quello di un'«ermeneutica fenomenologica della fatticità» (PA,
247; p. 507).
Poiché nella bozza del progetto questo concetto non viene articolato nei dettagli, è necessario
rimandare alle lezioni che Heidegger tenne nel semestre estivo 1923, ovvero quasi un anno dopo la
stesura della bozza su Aristotele, e che sono intitolate Ontologia (ermeneutica della fatticità) (GA
63). Se si paragonano le lezioni del semestre estivo 1923 con la bozza e con le lezioni ancora
precedenti, intitolate Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele (GA 61), è sorprendente vedere
come Heidegger sia riuscito a compiere un’elaborazione dei contesti di quei pensieri, che prima
avevano la forma di mere intuizioni.
Ermeneutica fenomenologica della fatticità: questo concetto è compreso nel modo migliore se si
comincia dall’ultima parola, tanto più che questa è già nota al lettore dal discorso sull’«esserci
fattuale». Quasi all’inizio del ciclo di lezioni Heidegger dice:
Fatticità è la denominazione del carattere di essere del “nostro” “proprio” esserci. Più esattamente
l’espressione significa: di volta in volta questo esserci (fenomeno dello “essere-di-volta-in-volta”;
cfr. permanere, non scorrer via dappresso, esserci), nella misura in cui esso, “conformemente
all’essere” nel suo carattere di essere, “ci” è. Esserci conformemente all'essere significa: non, e mai
primariamente come oggetto della intuizione sensibile e della determinazione intuitiva, della
semplice presa di conoscenza e dell’avere conoscenza di esso; piuttosto l'esserci ci è per se stesso
nel Come del suo esser più proprio (GA 63, 7; p. 17).
Da quello che abbiamo detto fino ad ora, non dovrebbe essere troppo difficile decifrare la
determinazione “ermeneutica fenomenologica della fatticità”, che viene qui accennata nelle sue
singole componenti, e renderla esplicita. Heidegger discute il concetto “fatticità” attraverso il
concetto del “di volta in volta”, e in tal modo si collega al pensiero già noto della situazione che è
volta a volta, che è nel tempo, volta a volta determinato, della propria vita. Noi non «siamo»
anzitutto, e poi ancora in un momento particolare: il fatto di essere in un momento preciso del
tempo costituisce il nostro vero essere. Il termine “fatticità” rimanda, dunque, alla particolarità della
propria vita da un punto di vista temporale, ed anche all’idea che tale particolarità non è
ulteriormente riconducibile ad altro; essa è un fatto [Faktum], non già nel senso del fatto concreto
[Tatsache] che è possibile stabilire, bensì nel senso della particolarità della vita che ogni volta non è
né una scelta, né è una possibilità da rigettare. Strettamente legato a questo aspetto si comprende
anche il significato del concetto di «esserci», che, nelle prime lezioni e nella bozza del progetto su
Aristotele, non ha il carattere chiaro di un termine individuabile, ma viene impiegato pressoché con
lo stesso significato del termine «vita». Tuttavia le lezioni, da cui è tratta la citazione, danno già a
conoscere una chiara preferenza del termine «esserci» rispetto a «vita»: una preferenza che si
imporrà definitivamente con le lezioni del semestre estivo 1925 Prolegomeni alla storia del
concetto di tempo (GA 20). L’«esserci» è il concetto heideggeriano che esprime la nostra modalità
di essere e, per l’esattezza, lo fa con accenti ben determinati. Anzitutto: l'esserci deve essere letto
come un verbo all’infinito e — se si vuole ritornare all’espressione «vita», per rendere
comprensibile il senso di questo infinito - si può affermare che l’infinito deve voler dire che c’è vita
soltanto nella misura in cui essa viene vissuta. In altri termini il significato del verbo all’infinito
mira al fatto che noi, nella nostra modalità di essere non siamo primariamente qualcosa come un
sostrato che è stabile, bensì come qualcosa che è in movimento, come una motilità. Si rammenti a
questo proposito la formulazione heideggeriana che ricorre già nella bozza su Aristotele delle
«motilità fondamentali» della vita.
Tuttavia se Heidegger avesse voluto dire soltanto questo, avrebbe potuto mantenere perfettamente
l’espressione «vita» [Leben], poiché anche questa parola in tedesco può essere letta come un
infinito e può perciò essere usata per indicare una «motilità». Come comprovano le frasi citate dalle
lezioni Ontologia (ermeneutica della fatticità), non si tratta solo di questo: Heidegger associa
piuttosto all'«esserci» il «soffermarsi», il «non andar via» e l’espressione particolare «essere-presso,
esserci» [Da-bei-sein]. «Esserci» significa «esser presente», «non essere assente», nel senso che con
ciò è segnalata l’attenzione in opposizione alla disattenzione. Non si deve dimenticare che la parola
«esserci» è un’esemplificazione della fatticità, cosa che ci dice anche dove deve dirigersi questa
supposta attenzione, ovvero alla propria particolarità temporale. «Esserci» significa allora «essere
presso di sé» e questo è, a sua volta, da comprendere in opposizione all’eventualità che qualcuno
«non sia presso di sé». Ciò riporta al senso dell’associazione di «esserci», «trattenersi» e «non
andare via»: nel senso usato da Heidegger si è «qui» [da] o «presso di sé» [bei sich], quando non si
va via da sé, e ciò che significa «andare via da sé» viene già detto nella bozza su Aristotele:
significa essere intrappolato nel regno delle ombre dei concetti e nelle modalità concettuali
appartenenti alla tradizione. Tuttavia, se si comprende questo essere intrappolati ed impigliati come
un «andarsene», si fa riferimento nel contempo al fatto di non avere a che fare con alcuna
condizione di immobilità, ma con un movimento della vita stessa. Nella bozza del progetto
aristotelico Heidegger chiama già tale movimento della vita «decadimento». «Decadimento» è il
mantenere, il voler mantenere il legame vincolante con la tradizione.
Tuttavia, è possibile soltanto voler mantenere tale legame vincolante con la tradizione quando la
propria situazione particolare è situata nel presente. Anche il decadimento è una modalità
dell’esserci, nella misura in cui essa fa sì che si debba essere «presso di sé» proprio perché non si
vuol essere presso di sé: «Nell’allontanarsi-da-sé la vita è presente a sé stessa; “lontano-da-sé” [...]
la vita si realizza. Il “perdersi in”, come ogni motilità della temporalità di fatto, ha in se stesso un
più o meno esplicito e inconfessato riguardo nei confronti di ciò davanti a cui fugge» (PA, 244; p.
505). Trasponendo questo pensiero nel contesto problematico della storia della filosofia si ottiene
quanto segue: l’inizio della tradizione rimane all’interno della tradizione e nel rapportarsi ad essa
nel presente; laddove s’intenda semplificare e rimanere attaccati semplicemente ai concetti ed alle
modalità concettuali già elaborati e tramandati, si sa anche che questi concetti e modalità,
rimandando al loro stesso inizio, devono lanciare una sfida al loro stesso pensiero. Ma essi possono
sfidare, a loro volta, il proprio pensiero solo se noi ci allontaniamo da tali concetti e modalità
concettuali, e se non siamo più «preoccupati» di prendercela comoda con essi. In tal modo comincia
la domanda che interroga retrospettivamente l’inizio.
Ma poiché l’inizio è sempre e soltanto l’inizio, nella misura in cui non rimane presso di sé, è
impossibile giungere al proprio filosofare autentico senza rimanere impigliati nella tradizione e
senza poi distaccarsene. Un tale movimento viene già concepito nella bozza del progetto
heideggeriano su Aristotele attraverso quei concetti che circoscrivono la struttura della vita storica:
«L’essere della vita, accessibile nella fatticità stessa, e tale da divenire visibile e raggiungibile solo
indirettamente attraverso il contromovimento che si oppone alla tendenza decadente della cura. [...]
Questo contromovimento, che è proprio dell’inquietudine del vivere che non smarrisce se stesso, è
il modo in cui l’essere autentico della vita, colto nella sua possibilità, si sviluppa
temporalizzandosi» (PA, 245; p. 505; trad. modificata, ndt). Si equivocherebbe Heidegger se si
pensasse che, quando egli parla di «essere accessibile», considera e descrive tale essere, che è
sempre soltanto proprio, e dunque dell’esserci, in modo da comprenderlo sulla base di una tale
considerazione e descrizione. Non s’intende però un essere accessibile in questo senso, ma
s’intende l’essere nella sua accessibilità diretta. «Esistenza» è la parola che Heidegger usa in questo
contesto; tale termine fa capire la distanza dalla tradizione e la domanda che si rivolge
retrospettivamente al suo inizio, nella misura in cui tale termine articola entrambe le «motilità
fondamentali» della fatticità, in cui noi stessi siamo.
Heidegger pensa ad una tale articolazione, che fa comprendere il proprio essere, quando parla di
ermeneutica: «Il termine, in connessione con il suo significato originario, indica [...]: una
determinata unità nell’esecuzione dell’hermeneüein (del comunicare), ossia dell'interpretare la
fatticità che porta all’incontro, alla vista, alla presa e al concetto» (GA 63, 14; p. 24)8.
L’ermeneutica è autointerpretazione dell’esserci ed è, con ciò, l’espressione della sua particolarità
nella domanda retrospettiva sull’inizio; l’ermeneutica è, prendendo un’altra formulazione
heideggeriana, «l’esser-desto dell’esserci nei con-
fronti di se stesso» (GA 63,15; p. 25).
Sappiamo già che la relazione della tradizione, presente compreso, con il proprio inizio può essere
spiegata soltanto grazie ad una storia della filosofia intesa come distruzione. Con quest’ultima viene
ammesso il carattere vincolante della tradizione e, andando ad interrogare retrospettivamente
l’inizio, si è «presso di sé» nella propria situazione presente particolare. Nell’articolazione di questo
aspetto si chiarisce la motilità della vita e, per l’esattezza, si chiariscono le sue «motilità
fondamentali»: si esplicitano, cioè, sia il decadimento nel regno delle ombre dei concetti e delle
modalità concettuali, sia il domandare genuino. O, detto in modo più generale e con la terminologia
heideggeriana: la fatticità diventa esplicitamente «ermeneutica».
A questo punto si comprende perché Heidegger caratterizzi l’ermeneutica della fatticità come
ermeneutica «fenomenologica». Heidegger ha ripreso sicuramente il termine «fenomenologia» da
Husserl e, in un certo senso, ciò che Heidegger intende ora con fenomenologia assomiglia a quello
che con esso intendeva anche il suo maestro. Nelle sue Ricerche logiche Husserl aveva preparato il
programma di una «logica pura» e con ciò aveva inteso il tentativo di descrivere «gli oggetti veri e
propri dell’indagine logica»9, che secondo la sua concezione erano i concetti e le connessioni tra
giudizio e conclusioni, così come si danno originariamente. Ma tali concetti e connessioni si danno
nella coscienza in modo tale che la fenomenologia deve occuparsi dei processi a loro corrispondenti
nella coscienza, e li deve descrivere. Si tratta
qui, come sottolinea Husserl, «non di discussioni grammaticali in senso empirico, che si riferiscono
ad una lingua qualsiasi storicamente determinata, ma di discussioni di tipo ben più generale in
quanto riguardano la sfera più ampia di una teoria oggettiva della conoscenza e, in stretta
connessione con essa, di una fenomenologia pura dei vissuti del pensiero e della conoscenza»10. La
«fenomenologia pura» non si attiene ai concetti di un linguaggio determinato, bensì intende dirigere
l’attenzione ai processi della coscienza, a ciò che i concetti di una lingua particolare «intendono», e
mostrarli: la fenomenologia è «intuitiva» e «descrittiva».
Si vede, allora, come Heidegger abbia tratto insegnamento da questo programma: a ciò che Husserl
chiama «intuizione» corrisponde già, nello scritto di abilitazione, il prestare ascolto
all’immediatezza della vita soggettiva; ad essa corrisponde la parola «esserci», con il significato che
abbiamo illustrato poco fa, nella misura in cui anche questa parola indica l’attenzione colta
immediatamente. E ciò che, invece, Husserl comprende con il termine «descrizione» corrisponde in
Heidegger all’ermeneutica. Heidegger assume il programma husserliano e traspone la
fenomenologia delle esperienze concettuali e conoscitive in una fenomenologia della conoscenza
storica e dell’esserci.
Tali argomentazioni non ci hanno ancora detto, tuttavia, che cosa rende adatto il termine
«fenomenologia» alla caratterizzazione del programma husserliano e che cosa lo fa apparire così
appropriato anche per Heidegger, il quale lo riprende direttamente da Husserl. Heidegger stesso ci
dà una risposta:
Il vocabolo fenomeno ha la sua orieine nel termine areco
phainómenon, che deriva da phainestai, mostrarsi. Il fenomeno è dunque ciò che si mostra, come
mostratesi. Questo significa innanzitutto: esso è come sé stesso, non rappresentato in qualche modo
oppure in una riflessione indiretta, e non ricostruito in qualche forma. Il fenomeno è il modo
dell’esser-oggettuale di qualcosa e cioè un modo eminente: l’esser-presente da sé stesso di un
oggetto (GA 63, 67; pp. 75-76).
Se si seguono queste argomentazioni, la «datità» del senso, di dò che è pensato e conosciuto nella
coscienza, era per Husserl ciò che caratterizzava il suo programma in termini fenomenologici. Tutti
gli atti della coscienza sono diretti verso qualcosa, sono «intenzionali» e ciò verso cui sono diretti è
presente direttamente in loro stessi. Se l’intenzionalità è una determinazione essenziale degli atti di
coscienza, questi allora possono essere descritti soltanto in modo fenomenologico, perché la datità
di ciò verso cui sono diretti è per loro essenziale. Per Heidegger la fenomenologia si presta
benissimo al suo scopo per il semplice fatto che la vita, intesa come esserci, è caratterizzata dalla
«autodatità». Esserci significa esser presente e per questo motivo l'esserci è l'«oggetto» perfetto,
unico della fenomenologia.
La presenza che il termine «esserci» dà a comprendere è, tra l’altro, una presenza di tipo particolare:
essa è caratterizzata dal fatto di essere impenetrabile e può essere colta solo storicamente attraverso
la «deviazione» della distruzione. Questo pensiero è tanto estraneo a Husserl quanto centrale in
Heidegger. Con questo pensiero il concetto di fenomenologia acquisisce il suo significato
heideggeriano specifico. In relazione a tale concetto fenomenologico Heidegger elabora il nucleo
delle sue lezioni intitolate Ontologia (ermeneutica della fatticità), dicendo:
Se dovesse ora risultare che del carattere di essere dell’essere che è oggetto della filosofia fa parte
un essere-chiuso nel modo del nascondersi e del velarsi - e questo non accessoriamente, ma in
ragione del suo carattere di essere -, allora si fa veramente sul serio con la categoria di fenomeno. Il
compito di portare al fenomeno diventa qui radicalmente fenomenologico (GA 63,76;p. 83).
E ancora più chiaramente in Essere e tempo:
Che cos’è che merita il nome di “fenomeno” in senso caratteristico? Qual è, nella sua essenza, il
tema necessario di un procedimento che mostri esplicitamente? Si tratterà, evidentemente, di
qualcosa che innanzitutto e per lo più, e nel contempo di qualcosa che appartiene, in linea
essenziale, a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più, in modo da esprimere il senso e il
fondamento (GA 2,47/35; pp. 55-56)11.
L’indicazione heideggeriana di «ciò che si mostra esplicitamente», di ciò di cui la fenomenologia
deve dar prova, fa anche capire lo stesso termine «fenomenologia»: la filosofia è «lògos», discorso
che mostra, in cui ciò che non si «mostra anzitutto e per lo più viene superato e reso esplicito»;
questo discorso dirige l’attenzione verso ciò che costituisce «il senso e il fondamento» di quanto si
mostra. E se entrambi gli aspetti sono identificabili con noi, allora il «lògos» della filosofia è un
parlare attraverso cui siamo dati a comprendere proprio a noi stessi. Come poi Heidegger in Essere
e tempo dice esplicitamente, «il lògos della fenomenologia ha il carattere dello hermenéuein» (GA
2, 50/37; p. 58). Fenomenologia ed ermeneutica della fatticità sono in definitiva la stessa cosa.
In quanto Heidegger riprende il termine «fenomenologia» da Husserl, egli si costruisce anche un
ponte verso
quelle questioni filosofiche a cui deve rifarsi se intende tener fede al suo programma, che prevede
una filosofia come conoscenza storica. Tali questioni non sono altro che le stesse questioni
aristoteliche. A partire dalla «nuova fondamentale posizione problematica», che Heidegger ravvisa
in Aristotele, «crescono logica e ontologia». A questo punto Heidegger comprende «ontologia» e
«logica» come caratterizzazioni delle concezioni aristoteliche dell’ente che si mostra, così come del
parlare che mostra questo stesso ente; in questo caso la «logica» non ha niente a che fare con la
dottrina del pensiero e dell’argomentare deduttivo e conseguente. Ma «ontologia» e «logica» sono
anche i titoli che, nella bozza del progetto su Aristotele, rimandano ad entrambi gli aspetti
dell’ermeneutica della fatticità. Su questo punto si dice:
La problematica della filosofia riguarda l’essere della vita fattuale. La filosofia è, in questa
prospettiva, l’ontologia prima, nel senso che le ontologie regionali, determinate nella loro
individualità e mondanità, ricevono dall’ontologia della fatticità il fondamento e il senso dei loro
problemi. La problematica della filosofia riguarda l’essere della vita fattuale secondo il modo in cui
volta a volta ci si appella ad essa e la si interpreta. La filosofia cioè, in quanto ontologia della
fatticità, è allo stesso tempo interpretazione categoriale dell’appellarsi a... e dell’interpretare
(Auslegen), è dunque logica (PA, 246 e segg.; p. 507).
Qui salta immediatamente agli occhi il fatto che la filosofia, dal punto di vista della «logica», non
viene più concepita semplicemente come espressione e descrizione della fatticità, bensì come
«interpretazione dell’appellarsi a... e dell’interpretare». Con ciò s’annuncia uno spostamento nella
concezione heideggeriana, che ci occuperà ancora più dettagliatamente. Per dare già una
caratterizzazione di questo spostamento possiamo affermare quanto segue: con il tentativo di
condurre la filosofia al suo carattere storico come distruzione, come domanda che interroga
retrospettivamente l’inizio, il fenomeno dell’esserci si mostra in un modo che conduce ad una crisi
della comprensione filosofica di Heidegger; e, con ciò, ad una crisi della sua concezione storica.
Può sembrare paradossale il fatto che il libro, considerato normalmente e a pieno diritto la sua opera
sistematica principale, Essere e tempo, segni nel pensiero heideggeriano la presenza di una violenta
irritazione, gravida di conseguenze.
Tuttavia, anche sotto un altro profilo, il progetto su Aristotele è il germe dell’irritazione che
Heidegger elaborerà solo negli anni Trenta. Il concetto, a cui Heidegger giunge con il progetto su
Aristotele, non può più accogliere quello che era il fattore dominante dello scritto di abilitazione,
cioè una relazione tra filosofia e religione. E, tuttavia, questo fattore non viene abbandonato, bensì
afferma la sua efficacia portandosi in primo piano. Laddove Heidegger progetta il programma di
un’esposizione della fatticità, che è l’articolazione in termini ermeneutici di un’autocomprensione,
il pensiero, per cui una tale autocomprensione debba riportare ad una vita condotta nella serietà
della fede, viene tralasciato, non tacitamente, ma con decisione. Adesso non si parla più di una
«filosofia dell’adorante intimità con Dio» (GA 1, 410; p. 254). Nella bozza del progetto si dice
invece che una filosofia, decisa a «cogliere la vita fattuale nella sua determinante possibilità
ontologica», dev’essere «fondamentalmente atea» (PA, 246; pp. 505-507), e deve farlo
comprendere.
Questa caratterizzazione della filosofia era così importante per Heidegger al punto da discuterne in
una nota a piè di pagina. «Atea» non è la filosofia «nel senso di una teoria come il materialismo o
simili», ma
Ogni filosofia, che si comprende per quello che è, deve, in quanto rappresenta un modo fattuale di
interpretazione della vita, sapere che, proprio quando ha ancora un'“idea” di Dio, il ritrarsi in sé
della vita allontanandosi da tale idea è, per esprimersi in termini religiosi, come levare la mano
contro Dio. Ma solo così la filosofia sta davanti a Dio rettamente, cioè in modo conforme alla
possibilità per lei disponibile; ateo significa qui: tenersi liberi dalla allettante occupazione di parlare
soltanto di religiosità (PA, 246; p. 507).
Sebbene in un primo momento possa sembrare che qui Heidegger si attenga al suo iniziale tentativo
di mettere in relazione la filosofia e la serietà della vita, che la filosofia aiuta con l’interpretazione,
con la religione, Heidegger afferma invece la radicale inconciliabilità tra filosofia e religione. E
tuttavia non sembra affatto che le cose stiano in questi termini. Quando Heidegger dice che una
filosofia che ha ancora un’idea di Dio si dovrebbe comprendere come un «levare la mano» contro
Dio e che starebbe perciò davanti a Lui, la relazione tra filosofia e religione sembra ancora
sussistere e stabilirsi di nuovo su un piano diverso rispetto a quanto avveniva nello scritto di
abilitazione. In esso la filosofia veniva compresa in una prospettiva religiosa e Heidegger aveva
probabilmente imparato a considerarla in tal modo da Kierkegaard: l’analisi del «sé» dell’uomo e
delle forme della sua disperazione, che Kierkegaard affida al suo pseudonimo Anti-Climacus nella
Malattia per la morte, deve, da un lato, stare accanto alla possibilità della fede, la sola che possa far
uscire dalla disperazione; ma, dall’altro, Anti-Climacus sa benissimo che questa considerazione
rappresenta cristianamente il peccato. Al posto di una condizione umiliante nella fede si fa strada
una discutibile ostinazione a rimanere nella disperazione.
Proprio questo pensiero viene ripreso da Heidegger; tuttavia, la caratterizzazione della filosofia
come «levare
la mano» è essenzialmente più radicale della sua caratterizzazione che in Kierkegaard era condotta
nei termini di peccato. Levare la mano contro qualcuno significa attaccarlo e volerlo uccidere;
l’onestà della filosofia nei confronti di Dio è l’onestà di una rinuncia che minaccia la vita per Dio:
per la serietà e l’unitarietà di una vita condotta nella fede, la vita filosofica è un’alternativa tra vita e
morte. E Heidegger si sente necessitato, evidentemente, da questa alternativa perché il programma
della distruzione, che egli appronta nella bozza del progetto aristotelico, comprende anche
l’«antropologia teologica»: la teologia di Agostino, il cui significato centrale viene ribadito da
Heidegger, rimanda per lui con la «sua idea dell’uomo e dell’esserci [...] alla filosofia greca, alla
teologia patristica fondata sul pensiero greco, all’antropologia paolina e a quella del Vangelo di
Giovanni» (PA, 251; trad. it. p. 513). Tutto ciò ricade nel raggio di azione del programma di
distruzione, anche l’antropologia paolina, secondo cui ciò che cercavano i Greci è diventato una
follia al cospetto della croce (1. Cor. 1, 19-25), e, precisamente, proprio qualora si mantengano
anche «le tendenze antigreche nelle stesse prospettive e modalità interpretative», che sono state rese
possibili dall’inizio della tradizione filosofica. L’ateismo che caratterizza il programma di
distruzione non s’indirizza contro un’«allettante occupazione di parlare soltanto di religiosità». E,
tuttavia, è significativo il fatto che Heidegger arrivi a discutere di queste cose; questo significa che
esse sono importanti per lui. Anche questo tema lo induce a cambiare notevolmente il suo
programma di distruzione. Alla fine, egli approderà ad una visione del carattere problematico che
investe una filosofia concepita come contromovimento rispetto alla religione.
1Cfr. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, in Logos, Bd. I (1910/11), Neuausgabe,
hrsg. v. W. SZILASI, Frankfurt a.M. 1965 [La filosofia come scienza rigorosa, trad. it. a cura di F.
Costa, Edizioni ETS, Pisa 1992],
2G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, I, in HEGEL, Werksausgabe in
zwanzig Händen, Bd. 18, redaktion E. Moldenhauet e K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
1971, p. 21.
3 Ivi, p. 21.
4 Ivi, p. 74.
5G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, III, in Hegel, Werksausgabe in
zwanzig Bänden, Bd. 20, redaktion E. Moldenhauer e K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M.,
1971, p. 460.
6 Ivi, p. 21.
7 Ivi, p.461.
8 «Hermenéuem» è scritto in greco nell’originale. In seguito tutte le espressioni greche verranno
traslitterate.
9E. Husserl, Logische Untersuchungen II. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der
Erkenntnis, Teil 1, Tübingen 1913, p. 2. [Le ricerche logiche, traduzione italiana a cura di G. Piana,
EST, Milano 2001, p.268].
10 Ivi, p. 2 [trad it. op. cit., p. 268].
11Il secondo numero di pagina dopo la barra trasversale (/) si riferisce all’edizione di Sein und Zeit
uscita per l’editore Niemeyer, Tübingen 1986.
3. L’ONTOLOGIA FONDAMENTALE:
UN INTERMEZZO RICCO DI CONSEGUENZE
La distruzione di Aristotele
Prima facìe non è certamente condivisibile l’affermazione secondo cui il libro heideggeriano che ha
avuto più effetti e sistematicamente più elaborato, ovvero Essere e tempo uscito nel 1927,
rappresenta una crisi nella filosofia del filosofo tedesco.
Ma tale affermazione corrisponde alla comprensione che Heidegger stesso ha della propria opera;
egli ne parla nel 1942 in una lettera al letterato Max Kommerell: «Essere e tempo è stato un
incidente»1. E in una lettera a Elisabeth Blochmann del 1935 dice: «Secondariamente, si
moltiplicano i fogli in una cartella che ha l’intestazione: Critica a Essere e tempo. Lentamente
comprendo questo libro, la cui domanda ora afferro più chiaramente; vedo la grande imprudenza
che sottende al libro, ma forse bisogna fare simili “balzi”, per fare poi il gran balzo. Ora è solo
necessario porre ancora una volta la stessa domanda, molto più originaria e molto più libera dai
dotti ed esperti contemporanei» (HBBr, 87 e segg; p. 143).
Non si deve tuttavia ricorrere alle auto-testimonianze heideggeriane per mostrare che Essere e
tempo è stato un «incidente». Il libro è rimasto nella forma di un frammento: Heidegger aveva
previsto una sua divisione in due parti, ognuna delle quali doveva essere a sua volta composta da tre
sezioni con un titolo. Alla fine sono sta-
1MAX KOMMERELL, Briefe und Aufzeichnungen 1919-1944, hrsg. v. I. Jens, Olten - Freiburg i. Br.
1967, p. 405.

58      Introduzione a Martin Heidegger


te pubblicate soltanto le prime due sezioni appartenenti alla prima parte.
La pubblicazione è stata indotta da ragioni esterne: la «grande imprudenza», di cui parla Heidegger
nella lettera ad Elisabeth Blochmann, era dettata da una necessità, perché la facoltà di filosofia
dell’università di Marburgo aveva proposto Heidegger come professore ordinario, nonché
successore di Nicolai Hartmann. Come documenta Heidegger stesso (SD, 88; p. 196), la proposta
era stata rifiutata dal Ministero di Berlino, in quanto Heidegger non aveva pubblicato più niente dal
suo scritto di abilitazione; e niente era cambiato dalla sua chiamata a Marburgo. Sebbene entrambe
le bozze in pagina del libro, spedite nel 1926 al Ministero, fossero tornate indietro con la dicitura
“insufficienti”, nondimeno nel 1927 a Heidegger venne assegnato l’ordinariato.
Perciò Essere e tempo, e con ciò verrà sempre intesa qui di seguito la parte pubblicata, è nato sotto
una notevole pressione esterna, dovuta a motivi di tempo, e questo è evidente nel libro stesso.
Sebbene contenga numerosi passaggi elaborati con cura, il libro presenta, tuttavia, il carattere di
progetto programmatico. Infatti, accade che problemi, anche sostanziali, vengano soltanto accennati
e rimandati talvolta alla seconda parte; è questa che avrebbe dovuto presentare le argomentazioni
decisive.
Possiamo avere un’idea esatta della seconda parte del libro considerando due delle sezioni previste.
Il materiale per una delle due era stato preparato da Heidegger in vista di un libro a sé, pubblicato
poi nel 1929 con il titolo Kant e il problema della metafisica (GA 3). Il materiale dell’altra sezione,
prevista come ultima delle due parti, è accessibile sotto forma di lezioni datate semestre estivo
1927, che si intitolano I problemi fondamentali della fenomenologia (GA 24). Da queste lezioni, che
avrebbero dovute essere sviluppate nella terza sezione della prima
parte, possono venire estrapolate importanti indicazioni circa la questione di cui Heidegger si
occupa.
Tuttavia, non sono state certamente motivazioni esterne a trattenere Heidegger dal pubblicare la
seconda parte del suo progetto di Essere e tempo e a fargli concepire un vero e proprio libro a parte,
con un’altra impostazione, riguardante Kant. La motivazione del fallimento del progetto sistematico
risiede, piuttosto, nel fatto che esso non poteva essere condotto così come Heidegger lo aveva,
invece, pianificato. Per discutere questo aspetto, e per giungere alla questione trattata nel progetto di
Essere e tempo, è utile considerare in modo più approfondito la sistematica elaborata da Heidegger.
Secondo uno «schema dell’opera», delineato al § 8 di Essere e tempo (GA 2, 52 e segg./39 e segg.;
p. 60 e segg.), l’intero lavoro avrebbe dovuto presentare la seguente disposizione:
I.    L’interpretazione dell’esserci nella temporalità [Zeitlichkeit] e l’esplicazione del tempo come
orizzonte trascendentale della domanda sull’essere.
1.    L’analisi preparatoria fondamentale dell’esserci.
2.    Esserci e temporalità.
3.    Tempo e essere.
II.    Tratti fondamentali di una distruzione fenomenologica della storia dell’ontologia sul filo della
problematica della temporalità dell’essere [Temporalità].
1.    La dottrina di Kant dallo schematismo e del tempo come fase preparatoria di una problematica
della temporalità dell’essere.
2.    Il fondamento ontologico del «cogito sum» di Descartes e l’assunzione dell’ontologia
medievale nella problematica della «res cogitans».
3.    L’opera di Aristotele sul tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti
dell’ontologia antica.
Dopo esserci occupati approfonditamente dell’analisi del progetto su Aristotele, alcune cose a
questo punto risultano probabilmente note, ed altre meno. Se ci soffermiamo su ciò che è noto, il
nuovo emergerà in modo ancora più netto. Noto è sicuramente il discorso dell’«esserci» nella prima
parte del progetto, così come l’associazione di esserci e tempo, la quale rimanda infatti al
programma della «conoscenza storica».
Ma nel quinto capitolo del libro, che porta il titolo «Temporalità e storicità», la «conoscenza
storica» della filosofia viene espressa, al massimo, in modo marginale. E se si rammenta il progetto
su Aristotele, deve anche sorprendere il fatto che la «storicità» dell’esserci non viene compresa
come attuazione della tecnica di distruzione, ma la distruzione della tradizione deve essere condotta
solo nella seconda parte. Anche altre differenziazioni vanno nella medesima direzione: Heidegger
distingue nel suo schema «tempo», «temporalità» e «temporalità dell’essere», e se ci si attiene alle
elaborazioni delle lezioni sui problemi fondamentali della fenomenologia, il «tempo» è qui inteso
come concetto superiore e comprendente sia la «temporalità» che la «temporalità dell’essere» (GA
24, 389; p. 263). Al tema «temporalità dell’essere» Heidegger riserva la seconda parte del progetto,
anche se il ruolo di collegamento era assegnato, evidentemente, alla prima sezione: nel titolo
assegnatogli si parla infatti di una «fase preparatoria per la problematica della temporalità».
«Temporalità» non è altro che la latinizzazione di «Zeitlichkeit» e perciò si potrà ammettere che la
«temporalità» [«Zeitlichkeit»] e la «temporalità dell’essere» [«Temporalität»] non sono due tempi
diversi e nemmeno due forme di tempo diverse. Le lezioni su I problemi fondamentali della
fenomenologia dicono a riguardo che «temporalità» e «temporalità dell’essere» sono due diversi
modi di fare esperienza del tempo che Heidegger qui distingue; in questo senso si parla «della
temporalità [Zeitlichkeit] dell’esserci, nella prospettiva della sua funzione temporale (temporalen)»
(GA 24,465; p. 314).
Ad una prima analisi l’intenzione sistematica che esprime queste differenziazioni rimane ancora
oscura. Tuttavia essa lascia affermare che l’impresa, che Heidegger si accinge a compiere, non mira
a realizzare la filosofìa nei termini di «ermeneutica della fatticità», cioè a riguadagnare la funzione
espressiva e descrittiva della filosofia grazie alla domanda retrospettiva dell’inizio e a mettere a
nudo la struttura fondamentale dell’esserci. Quest’ultima operazione, che adesso ha il nome di
«analisi fondamentale dell’esserci», è «preparatoria» e, per l’esattezza, è propedeutica alla
distruzione della tradizione che deve essere condotta nella seconda parte dell’intero progetto. Il
discorso, che tratta il carattere «preparatorio» dell’analisi fondamentale, è tuttavia ambiguo: una
volta tale analisi è «soltanto preparatoria», ovvero non costituisce ancora ciò che è davvero
importante; un’altra volta, invece, è l’argomento principale.
La distinzione tra un’analisi preparatoria fondamentale dell’esserci e la distruzione ha conseguenze
sulla comprensione della distruzione stessa: quest’ultima conduce sì ad Aristotele, a cui doveva
essere dedicata l’ultima sezione della seconda parte; conduce fino a lui partendo da Kant e passando
per Descartes che, a sua volta, dipende dall’«ontologia medievale». Heidegger rimane fedele al suo
modello di una storia della filosofia che va all’indietro, così come era anche definita nella bozza su
Aristotele. Tuttavia, Aristotele non è più l’inizio, evidentemente, che si deve andare ad interrogare
retrospettivamente per liberarsi dal regno delle ombre dei concetti e delle modalità concettuali,
tramandati dalla tradizione. La trattazione aristotelica del tempo (Fisica, libro IV) viene
caratterizzata come «discrimine della base fenomenica e dei limiti dell’ontologia antica»; essa
costituisce dunque «la linea di separazione», in cui i limiti dell’ontologia antica vengono in
evidenza così come la loro «base» propriamente «fenomenica», ovvero il modo in cui era impostata
l’ontologia antica; l’enfasi con cui Heidegger si era rivolto al filosofo greco nella bozza si è
dissipata. Aristotele cade adesso vittima della distruzione.
E' un’ironia del destino che il cambiamento della considerazione heideggeriana di Aristotele si sia
compiuto proprio grazie a quei presupposti che la filosofia aristotelica ha messo a disposizione di
Heidegger. Le prime tracce di questo cambiamento si ritrovano già nel progetto su Aristotele, a cui
dobbiamo perciò rivolgerci nuovamente. In tal modo guadagniamo la possibilità di comprendere le
ricerche, svolte in Essere e tempo, in modo migliore di quanto non faremmo se ci confrontassimo
direttamente con quest’ultime. Non si tratta di un confronto con un blocco ieratico di definizioni;
siamo, bensì, in grado di osservare come Heidegger sviluppa qui, a poco a poco, le sue
determinazioni.
I rimandi all’interpretazione aristotelica, che era stata programmata e di cui Heidegger rende conto
nella bozza su Aristotele, seguono fedelmente la direzione della questione indicata dalla nozione di
distruzione: se la filosofia è sostanzialmente espressione e descrizione dell’esserci, allora essa, che
non può ancora muoversi nel regno delle ombre della tradizione perché è l’inizio della tradizione
stessa, deve essere espressione e descrizione dell’esserci.
Heidegger non ha avuto difficoltà a ritrovare in Aristotele testimonianze dell’espressione e della
descrizione dell’esserci. Le trova, soprattutto, nel sesto libro dell'Etica Nicomachea, le cui
argomentazioni, importanti per Heidegger, iniziano con le frasi seguenti: «Poniamo che siano queste
le disposizioni con le quali l’anima dice il vero, affermando o negando, siano in numero di cinque.
Queste sono l’arte, la scienza, la saggezza, la sapienza e l’intelletto. Col giudizio e l’opinione è
infatti possibile cadere in errore» (EN 1139b 1518)2. Aristotele nomina cinque forme del sapere e
dà indicazioni, al contempo, sul perché esse possano essere chiamate forme del sapere: chi si sente a
proprio agio in una di queste forme, o in più di una, quando parla delle cose di cui si intende, allora
non dirà niente di sbagliato; piuttosto, affermerà o negherà in modo giusto una qualche proprietà di
una cosa. Se, invece, qualcuno esprime un’opinione o fa una supposizione, allora dobbiamo metter
in conto che egli può dire anche una cosa sbagliata.
Heidegger traduce la frase aristotelica come segue:
Stabiliamo dunque che cinque sono i modi - che si attuano affermando e negando - con cui l’anima
intende e custodisce l’ente in quanto non velato: l’agire tecnico-produttivo, il determinare che-
dimostra-osservando-e-giudicando, il guardarsi intorno proprio dell’aver cura (l’avvedutezza), il
comprendere che in senso proprio vede, il puro percepire. (Solo questi sono in questione) poiché il
congetturare e l’«avere un’opinione» non necessariamente presentano l’ente come non velato, ma di
ciò che assumono esibiscono solo l’aspetto che, portandosi davanti all’ente, inganna (PA, 255; p.
517).
Abbiamo qui a che fare con un esempio delle famose, famigerate, traduzioni heideggeriane di cui i
filologi prendono atto scuotendo la testa. I filologi hanno ragione quando, scuotendo la testa,
intendono far capire che non farebbero redigere nessuna traduzione che potesse essere letta al posto
dell’originale. Questo, tuttavia, non è lo scopo di Heidegger. Egli stesso dice delle proprie
traduzioni, nel progetto su Aristotele, che sono «derivate dall’interpretazione concreta» e la
contengono «per così dire in nuce» (PA, 252; p. 514). Le traduzioni di Heidegger sono
interpretazioni, e intendono anche esserlo; sono interpretazioni che, abbastanza spesso, superano il
testo originale o, come Heidegger stesso dice nel progetto su Aristotele, «illuminano» (PA, 252; p.
513), per far spiccare più chiaramente nel testo ciò che questo da solo non dice in modo immediato.
Se si considerano più precisamente le «illuminazioni» heideggeriane, si deve tener ferma per prima
cosa che la formulazione aristotelica «trovano la verità affermando e negando», che ho così tradotto
dal greco, viene distinta in due momenti differenti: «prendere e portare l’ente come svelato in
custodia - e affermando o negando». Secondo questa lettura l’ente può essere «preso e portato in
custodia» senza che questo accada nel «modo di attuare» l’affermazione o la negazione. Il «modo di
attuarsi» dell’affermare e del negare spiega ed argomenta soltanto ciò che primariamente non viene
compiuto con il linguaggio. In Essere e tempo Heidegger sviluppa la distinzione delle forme del
sapere e della loro articolazione linguistica. Si ritornerà su queste nell’argomentazione che riguarda
l’«inautenticità».
Tuttavia, Heidegger è anzitutto interessato all’intelligenza pratica (phrónesis) ed alla saggezza
(sophia) che, a loro volta, si trovano in connessione con l’intelletto (noùs). La determinazione della
relazione tra phrónesis e sophia è una delle più importanti scoperte di Aristotele. Con questa
determinazione Aristotele ha scoperto niente meno che la corrispondenza tra il sapere, che guida
l’agire quotidiano, e la filosofia. Heidegger attinge a questa scoperta, anche se mette in atto la
trasformazione, già annunciata, del suo programma di distruzione. Per comprendere questa
trasformazione è necessario spiegare in che cosa consiste la scoperta aristotelica.
Secondo Aristotele la phronesis è data dal riflettere su ciò che è bene e vantaggioso per se stessi e,
per l’esattezza, non soltanto in relazione ad un particolare aspetto della vita, bensì al vivere bene in
senso totale (ΕΝ 1140a 26-28). Possedere la phronesis significa sapere come vivere nel bene in
modo da sapere come si deve agire ogni volta. La phronesis non è una riflessione sull’agire, ma è la
comprensione che si mostra nell’agire stesso.
La comprensione o intelligenza della phronesis deve essere caratterizzata dalla presenza della
necessità dell’agire, senza eccezioni, in una vita condotta nel bene. La presenza di ciò attraverso cui
si riflette su se stessi e si prendono singole decisioni non può essere dello stesso tipo della
conoscenza di ciò che si deve fare o lasciare in singoli casi: la conoscenza si acquisisce infatti
attraverso l’esperienza. La presenza del senso delle riflessioni e delle decisioni è invece immediata;
questo senso viene semplicemente percepito. Questo significa che il nous, il puro percepire,
interviene nella phronesis.
Si tratta, più precisamente, di qualcosa che corrisponde soltanto al puro percepire; per Aristotele il
puro percepire, che può essere così caratterizzato senza limitazioni, esiste soltanto nella filosofia.
Volendo, la strategia di Aristotele nell 'Etica Nicomachea consiste nel valorizzare il sapere che
guida e domina l’agire quotidiano, in modo tale da rendere chiara la sua corrispondenza con il
sapere filosofico. La strategia di Aristotele consiste nel far dipendere il filosofare dalla vita stessa
nonostante il «distacco» che opera la filosofia.
Il sapere filosofico, così come viene descritto soprattutto nelle opere che prenderanno dopo il titolo
di Metafisica, ha come oggetto l’ente in quanto esso è (Met. 1003 a 21). L’essentità dell’ente
[Seiendheit] - così come si può tradurre qui la parola, centrale per Aristotele, «ousia» - è per questo
anche ciò che nel sapere filosofico dev’essere già presente, affinché possa darsi, in generale, la
filosofia. L’essentità è ciò che viene esperito immediatamente nel sapere filosofico e viene
articolato in modo essenziale dalla filosofia. Il sapere filosofico è un insieme di intelletto e scienza,
di nous ed episteme (EN 1141a 16-20).
Ma la comunione di phrónesis e sophia non è dovuta soltanto al fatto che in esse agisce il nous. Sia
phrónesis che sophia hanno in comune un’attuarsi simile. Da un lato, è vero il fatto che nella
phrónesis si è ogni volta confrontati con determinate possibilità di azione, tra le qua
li si deve scegliere ogni volta; in questo senso, la phronesis riguarda un agire che ogni volta è ben
circoscritto, che ha un inizio ed una fine. Ma, d’altro lato, le varie azioni non costituiscono il vivere
all’insegna del bene. In tal senso è molto più importante formulare la phrónesis nei termini di un
atteggiamento costantemente in atto nei confronti della vita; la phrónesis è allora l’attuarsi continuo
dell’anima, caratterizzato da una comprensione così articolata (EN 1098a 7). In questo senso anche
il filosofare è attuarsi continuo, sebbene nel senso di un attuarsi che non si svolge nell’ambito di ciò
che può essere diversamente. Il filosofare è distaccato dalla quotidianità, è compiuto puramente per
amore di se stesso e si indirizza a ciò che costituisce il mondo totalmente nella sua essentità.
Fa parte di una delle più importanti visioni heideggeriane il fatto di aver intuito nelle determinazioni
aristoteliche della phrónesis e della sophia il loro comune carattere di movimento: phrónesis e
sophia sono forme del movimento della vita. Nella scoperta del «fenomeno centrale» della motilità
risiede per Heidegger la «nuova fondamentale posizione problematica» (PA, 251; p. 513) della
filosofia aristotelica. Tuttavia, Heidegger non solo interpreta Aristotele, ma ne propone un nuovo
significato: Heidegger accentua la relazione tra phronesis e sophia in modo radicalmente diverso da
Aristotele e ne prepara in tal modo la distruzione. Cercando di comprendere questo radicale
spostamento di accenti, si comprende anche l’impostazione heideggeriana di Essere e tempo.
Poiché il nous è in atto nella phronesis, Aristotele non aveva concluso che la phronesis ha a che fare
in ultima istanza con lo stesso fenomeno della sophia·, nonostante gli elementi comuni, proprio per
il fatto che nella phronesis e nella sophia si mostra anche qualcosa di diverso, ha senso la
distinzione aristotelica tra filosofia pratica e teoretica. Questo aspetto viene letteralmente
trasformato da Heidegger. La phronesis, dice Heidegger, «custodisce, nel loro essere autentico, il
verso-che della pratica moderna del vivere umano ed insieme il modo in cui si attua tale pratica»
(PA, 259; p. 521). Ma questo significa, usando il termine che sarà di Essere e tempo: la phronesis è
essa stessa un’«autocomprensione». E come una comprensione della vita umana a cui toccano alla
fine le singole riflessioni e le decisioni dell’agire.
Con questo tratto è caratterizzato il proseguo del brano. Heidegger deve ancora mostrare che lo
stesso Aristotele, nei primi due capitoli del primo libro della Metafisica, spiega questo aspetto
sviluppando la filosofia teoretica dal sapere pratico, per poter affermare poi il primato di
quest’ultimo. Heidegger deve ancora giungere alla conclusione secondo cui l’essere della vita
umana, così come lo concepisce Aristotele nell'Etica Nicomachea, non è più determinato dal
mostrarsi «innanzitutto», ma viene compreso solo orientandolo verso le determinazioni che sono
sviluppate nella filosofia teoretica. Le frasi decisive a questo proposito sono le seguenti:
Nell’avvedutezza dell’agire pratico [si deve ricordare che questa è la traduzione heideggeriana di
phrónesis] la vita è concretamente in rapporto ad un con-che. L’essere di questo con-che - e ciò è
decisivo - viene determinato dal punto di vista ontologico non positivamente ma solo formalmente,
come ciò che può essere anche diversamente, come ciò che non necessariamente né sempre è come
è. A questa definizione ontologica si giunge contrapponendo negativamente tale con-che ad altro ed
autentico essere. Il quale, d’altro canto, per il suo carattere fondamentale, non può essere spiegato a
partire dall’essere della vita umana come tale, derivando la sua struttura categoriale da una
radicalizzazione ontologica, compiuta in un determinato modo, dell’idea dell’ente in movimento
(PA, 260; p. 523).
Ciò significa: il sapere pratico viene determinato da Aristotele solo negativamente, in quanto ha a
che fare con il possibile e non con ciò che è in atto, ovvero con ciò con cui ci troviamo ad aver a che
fare, e non con ciò che è semplicemente. L’«essere», dice Heidegger argomentando questo pensiero,
è per Aristotele «essere compiuto, quell’essere cioè in cui il movimento è giunto al suo
compimento» (PA, 260; p. 523). Aristotele si orienta rispetto a questo pensiero dell’essere compiuto
quando ha in mente la vita umana, dove essa, «presa nella sua possibilità di movimento più propria,
[...] è giunta al suo compimento» (PA, 260; p. 523), e precisamente nella pura motilità continua del
«puro percepire» (PA, 260; p. 523), non più soggetta a possibilità diverse.
Se si rammenta, ancora una volta, la determinazione aristotelica della relazione tra phrónesis e
sophia, sarà allora più chiaro in che cosa consiste il tratto decisivo dell’interpretazione
heideggeriana di Aristotele. Il filosofo greco riconosce alla sophia un ordine superiore rispetto alla
phrónesis perché nella sophia si rivela in modo puro e compiuto ciò che nella phrónesis rimane
incompiuto: la percezione di qualcosa che permane. Se si considera la sua rappresentazione delle
articolazioni del sapere all’inizio della Metafisica, Aristotele segue una «logica di sviluppo»
secondo la quale questo rappresenta il risultato a partire dal quale si deve giudicarne e
comprenderne la genesi; su questo punto il suo allievo più significativo dell’età moderna, Hegel, gli
è rimasto fedele. Heidegger segue, di contro, la sua «logica dell’origine», orientandosi alla forma
originaria del sapere della vita e della vitalità, e facendo dipendere la forma sviluppata della
filosofia teoretica dalla forma originaria della filosofia pratica. La filosofia pratica è anche quella
propriamente teoretica.
Questo movimento di pensiero retrospettivo definisce, quindi, anche il programma della distruzione.
Ma ora la logica dell’origine riconduce al di là di ciò che era stato considerato come inizio. Nelle
sue interpretazioni di Aristotele Heidegger guadagna con la phrónesis un inizio verso il quale
adesso non è più possibile dirigersi in una «conoscenza storica»: l’inizio dell’«autocomprensione»
quotidiana. L’ermeneutica storicamente distruttiva della fatticità diventa l’«analisi fondamentale
dell’esserci», e, precisamente, dell’esserci non filosofico o preontologico. Da questo esserci deve
poter essere compresa la possibilità della filosofia; nella sua impostazione l'esserci preontologico
possiede già la «comprensione dell’essere», che si forma poi nella filosofia, e la possiede in modo
originario.
In un’ottica sistematica l’analisi fondamentale dell’esserci non filosofico è l’elaborazione
heideggeriana che ha prodotto più conseguenze dal punto di vista della storia degli effetti; e,
tuttavia, tale elaborazione rimane «un incidente»: essa porta il programma della distruzione verso
nuove grandi difficoltà.
L' analisi fondamentale dell’esserci
L’analisi dell’esserci è fondamentale per Heidegger da vari punti di vista: per un verso, essa
interessa per l’elaborazione delle «strutture fondamentali dell’esserci» (GA 2, 28/21; p. 39). Ecco
che qui si riconosce di nuovo il discorso precedente sulle «strutture fondamentali» della soggettività
o della vita: si devono rielaborare quei fattori dell’esistenza che costituiscono questo «ci», dunque il
modo di essere per noi autentico.
L’analisi dell’esserci è fondamentale, però, anche per il fatto di fondarsi sulla sua stessa
conduzione: l’analisi dell’esserci si compie nell’esserci stesso; compiendosi, Tesserci scopre le sue
proprie possibilità, cioè dà prova di ciò che mette a nudo come suo proprio «fondamento».
L’analisi dell’esserci è fondamentale, inoltre, per il fatto di mostrare il fondamento della scienza e
della filosofia in generale, perché «le scienze sono maniere di essere dell’esserci, nelle quali
Tesserci si rapporta anche all’ente difforme da esso» (GA 2, 17/13; p. 29). E se la filosofia, al più
tardi a partire da Aristotele, acquisisce la sua determinatezza definendo l’«essentità dell’ente»,
allora essa può essere compresa nel suo attuarsi soltanto a partire dalle strutture fondamentali
dell’esserci: originariamente Tesserci preontologico è caratterizzato dalla comprensione dell’esserci.
L’analisi dell’esserci è, infine, fondamentale in quanto chiarisce, al contempo, la filosofia con la
scoperta del fondamento di ogni filosofia e le dà così una forma visibile. L’analisi dell’esserci ha il
carattere di un’«ontologia fondamentale», di un’ontologia che motiva effettivamente ogni altra
ontologia. In questo senso Heidegger dice «che l’analitica ontologica dell’esserci è in generale
l’ontologia fondamentale» (GA 2, 19/14; p. 31).
Alla luce di questa posizione appare sorprendente l'affermazione di Heidegger, alla fine della parte
pubblicata di Essere e tempo, in cui egli dice che «il chiarimento della costituzione dell’essere
dell’esserci resta soltanto una via» e il fine «è l’elaborazione del problema dell’essere in generale»
(GA 2, 575/436; p. 518). Il discorso di una «domanda dell’essere in generale» non può essere
finalizzato a ritrovare e ad assicurarsi in ogni ontologia tradizionale soltanto la struttura dell’esserci
e a dover comprendere, alla fine, ogni ontologia come articolazione dell’esserci. I concetti
ontologici tramandati devono essere piuttosto interrogati in vista di ciò che costituisce la loro
singolarità ontologica: con la «domanda sull’essere in generale» si affaccia la singolarità della
sophia nei confronti della phrónesis, Heidegger tocca qui un punto importante, ovvero la questione
se sia possibile comprendere sufficientemente il pensiero filosofico nella sua peculiarità solo
riflettendo sulla sua genesi a partire dal sapere pratico, cioè movendo dall’esserci non filosofico. Si
insinua qui un primo dubbio, ovvero se vi sia la possibilità di ricondurre la distruzione della
filosofia tradizionale all’inizio della comprensione che l'esserci ha dell’essere. Heidegger tocca la
questione se sia mai possibile scrivere la seconda parte del suo progetto editoriale sulla base della
prima. La seconda parte non sarà mai pubblicata.
Ma prima si poter capire come mai il progetto su essere e tempo non ha potuto essere completato, si
deve studiare la «struttura fondamentale dell’esserci». Si mostrerà che Heidegger è tentato di
inscrivere ogni istanza dell’esserci, che egli elabora, in una struttura tripartita. In ciò sembra che
Heidegger abbia raggiunto il fine provvisorio dell’analisi fondamentale dell’esserci, ovvero
«l’interpretazione dell’esserci in riferimento alla temporalità». La tripartizione di ogni momento
strutturale rispecchia la tripartizione della temporalità in essere stato, presente e futuro.
L'esserci in un mondo
Sappiamo già che l’«esserci» in Heidegger è un termine che sta per il nostro modo di essere e
sappiamo anche che a questo modo di essere appartiene essenzialmente «la comprensione
dell’essere». Abbiamo anche già un’idea di ciò che qui significa «comprensione dell’essere»: con
questo concetto Heidegger indica il valore ontologico del sapere pratico. Il sapere pratico in
Aristotele è sempre anche un sapere immediato della necessità di condurre la vita nell’azione; è un
sapere immediato della propria vita, il che vuol dire per Heidegger, del proprio essere.
Nell’analisi dell’esserci di Essere e tempo questo pensiero viene elaborato nei minimi particolari e
viene considerevolmente raffinato. Per sviluppare questo lavoro di raffinatura nei suoi tratti
fondamentali3, parto da un’osservazione ancora molto aristotelica: per poter riflettere e decidere su
come agire si deve conoscere tutto quello di cui ci serviamo nell’agire, e si deve sapere come si può
esercitare un’influenza sulle cose con cui si ha a che fare, nella misura in cui ciò risulta necessario
per una determinata azione. All’agire appartengono, dunque, un saper usare, un saper cambiare e un
produrre.
Quando Heidegger riprende questo pensiero, si concentra sulla descrizione del saper usare e sulla
descrizione delle cose con cui si ha che fare in un tale saper usare e che egli chiama «mezzo»
[Zeug]. Questo aspetto rappresenta già un punto di differenza da Aristotele: le descrizioni
aristoteliche non sono orientate al saper usare,
bensì al saper produrre. Se Aristotele descrive il sapere e l’attività di un artigiano è perché per
Aristotele è importante il sapere che si mostra come risultato di un’attività, di un’opera (érgon). Ed
anche gli strumenti che servono alla realizzazione dell’opera vengono inquadrati soltanto nell’ottica
della loro idoneità alla realizzazione di quest’ultima. L’attenzione di Heidegger, invece, si sposta sul
sapere dell’artigiano, che è visto come l’aver a che fare con gli strumenti che ha a disposizione;
nella fattispecie ciò risulta centrale: la modificazione o la produzione di qualcosa è regolarmente
soggetta all’uso; colui che produce qualcosa, lo produce normalmente per usarlo.
Se si considera questo saper usare in modo più preciso, si vede che non si tratta soltanto di saper
usare una cosa isolata. Ogni mezzo dell’artigiano appartiene ad un contesto: la scrivania, la
lampada, lo scaffale dei libri, la penna e altro ancora costituiscono un ambiente di lavoro. Saper
usare è dunque sempre sapere un contesto, e decisivo è il fatto che, durante una qualsiasi
operazione, non si presti attenzione a tale contesto: scrivendo, infatti, non si pensa alla penna
stilografica e dello scrivere è proprio molto di ciò che non si usa in quel momento; l’inchiostro per
caricare la penna sta lì la maggior parte del tempo inusato. Il saper usare non consiste dunque nella
conoscenza delle singole cose, e non si riferisce nemmeno soltanto a ciò con cui ogni volta si ha
effettivamente a che fare. Saper usare è avere familiarità con un contesto.
Ma anche aver familiarità con un determinato contesto non è una caratteristica isolata dal resto.
Nella quotidianità, piuttosto, ci sono familiari molti contesti determinati che la maggior parte delle
volte non si manifestano direttamente. Essi sono, per così dire, ovvi. Tuttavia, la loro ovvietà non
dipende soltanto dal fatto di conoscerli bene e di poter avere a che fare con questo o quel
«mezzo» senza problemi. La loro ovvietà dipende anche dal comprendere noi stessi nei diversi
contesti della quotidianità. Con l’aver a che fare con determinate cose in un contesto possiamo
essere in una certa maniera, e le cose divengono importanti per noi perché possiamo essere in un
certo modo, avendo a che fare con esse. Considerando che le cose si trovano sempre in un contesto,
non è il nostro aver a che fare con esse, alla fine, ma è il contesto stesso in cui si trovano che ci fa
essere in un certo modo. E se si considera che molti contesti abituali, o ovvi, ci sono familiari,
l’insieme di tali contesti è quello che costituisce il nostro essere in un certo modo.
Heidegger chiama «mondo» il contesto in cui si ha familiarità con le cose, in cui è possibile
differenziare i singoli ambiti, a loro volta, e in cui possiamo essere in un certo modo. E poiché non
possiamo che essere nel mondo, è chiaro anche che esserci e mondo si coappartengono: l'esserci è
sempre essere-nel-mondo.
La determinazione di ciò che vogliamo essere si compie nell’azione; secondo l’analisi
heideggeriana l’agire viene compiuto sempre nel contesto del mondo. Nella misura in cui questo
contesto è determinato, le possibilità del nostro agire sono già prestabilite; nondimeno, dobbiamo
anche dire, il contesto del mondo è lo spazio libero del nostro agire. Ciò accade perché il mondo ci
mette davanti a possibilità sempre nuove d’interazione con le cose. Se il mondo è un siffatto spazio
di possibilità, non siamo nel mondo primariamente quando afferriamo, volta a volta, una di queste
possibilità; ci sono sempre molte più possibilità di quante possiamo pensarne in quell’attimo: in
quanto non possiamo aver a che fare con tutte le cose, rimane sempre aperta per noi la possibilità di
aprirci ad un rapporto. Ciò che noi lasciamo stare ha «la sua appagatività» nella rilevanza che le
cose hanno per noi, nella misura in cui esse possono «appagar[ci]». Questi due aspetti, il fatto che
qualcosa è rilevante per noi ed il fatto che essa è tale in quanto ha in sé il «suo appagamento»,
vengono riassunti da Heidegger quando chiama il mondo con il nome di «contesto di appagatività».
In quanto tale il mondo è per noi, a sua volta, «significativo» per il fatto che siamo in esso e
possiamo agirvi. «Appagatività» e «significatività» sono le determinazioni fondamentali del mondo.
Essendo consapevoli ancora una volta del fatto che ciò con cui abbiamo ogni volta a che a fare
realmente sta sempre nel contesto di ciò che noi lasciamo stare così com’è, e che per il fatto che lo
lasciamo stare così com’è contribuisce a formare il nostro mondo, allora possiamo dire che noi
siamo nel mondo in un modo determinato, ma non solo: in questa determinatezza si esprime anche
una certa indeterminazione. Infatti non è possibile focalizzare completamente la nostra attenzione
su ciò che lasciamo stare così com’è. E' davvero al di là delle nostre possibilità essere veramente
attenti a qualcosa, tanto più che ci sono molte possibilità e non possiamo essere attenti a qualcosa da
ogni punto di vista; infatti si lasciano stare le cose così come sono da infiniti punti di vista, che sono
perciò indeterminati. Visto così, lo spazio libero del mondo, di cui facciamo esperienza stando
attenti a qualcosa di determinato, è l’indeterminato e l’inespresso. Se così non fosse, non potremmo
prestare attenzione a qualcosa propriamente, non lo potremmo «scoprire», come dice Heidegger.
Dato che stiamo nel mondo in questo modo, non siamo soltanto determinati, ma anche
indeterminati. L’indeterminazione del mondo è la nostra propria indeterminazione e poiché il
mondo è lo spazio libero del nostro agire, l’indeterminazione del mondo costituisce la nostra libertà.
Nell’analisi dell’esserci in Essere e tempo Heidegger ha elaborato un concetto di libertà che è
superiore al concetto della libertà dell’agire (Aristotele) e al concetto della libertà del volere (Kant),
nella misura in cui fa comprendere la libertà del volere e dell’agire a partire dal loro contesto.
Tuttavia, queste argomentazioni non esauriscono ancora l’analisi heideggeriana dell’essere-nel-
mondo. La maggior parte delle nostre attività non sono concepibili in modo isolato, poiché
dipendono essenzialmente dagli altri individui. Spesso si fanno cose per amore degli altri e, anche
se non è sempre così, le nostre attività sono possibili per lo più perché si accordano alle attività
degli altri completandole, sostenendole o perfino affrancandole. Secondo l’analisi heideggeriana
dell’esserci il mondo è essenzialmente un «mondo condiviso». Anch’esso in quanto tale offre
naturalmente uno spazio libero di plurime possibilità di esser«ci» per o contro gli altri.
Ma per Heidegger tale aspetto del mondo condiviso non è tuttavia l’elemento più importante.
Importante è piuttosto, il fatto che gli altri hanno un ruolo essenziale rispetto a come possiamo e
vogliamo essere in quanto esseri determinati: nessuno inventa interamente ciò che è e fa, ma si
orienta sempre a possibilità di essere e di agire che sono già state realizzate da altri. E non solo
questo: nello scegliere ciò che vogliamo essere e come intendiamo agire, dipendiamo gli uni dagli
altri nella misura in cui giudichiamo le stesse possibilità di essere ed agire. Anche per questa
descrizione Heidegger ha ricevuto importanti stimoli da Aristotele; nell 'Etica Nicomachea si
determina come scopo della vita «politica» (e ciò significa: della vita comune in generale) l’onore
di stare nella considerazione degli altri (EN 1095b 22-30). Aristotele richiama già l’attenzione sulla
dipendenza che si cela in questo rimando all’altro: l’essere considerati da parte degli altri non può
essere il vero scopo, perché lo scopo della vita viene raggiunto solo nella conduzione della propria
vita in modo autonomo, in cui esso è presente a buon diritto. Ma Heidegger radicalizza questo
aspetto ulteriormente: già per il fatto di condurre la propria vita in un modo determinato dipendiamo
dagli altri; grazie a loro si conoscono le possibilità di essere in un modo determinato, ma si dipende
veramente da loro in quanto non possiamo fare a meno di orientarci alle loro stime ed alle loro
valutazioni. Questo vale tanto per l’opportunista che per l’oppositore; sebbene in modi diversi,
entrambi risultano infatti dipendere dagli altri.
In quanto il mondo condiviso dà forma a determinate possibilità di essere e d’agire, esso è un
ambito caratterizzato dalla non libertà: è sì il campo della determinatezza che si apre a diverse
alternative per orientarci in questa o quella relazione determinata, già realizzata, ma esso non lascia
veramente spazio alla domanda su come vogliamo essere. Ogni decisione quotidiana, infatti, segue
percorsi già indicati e si muove nell’ambito di movimenti già determinati. Poiché il mondo
condiviso, nella sua totalità, propone anticipatamente indicazioni sulla relazione e sulle diverse
possibilità in cui possiamo instaurare un rapporto, che non deve instaurarsi necessariamente con
persone determinate, la non libertà del mondo condiviso è anonima in un modo del tutto particolare.
Heidegger la caratterizza perciò con un termine divenuto famoso: con il «si». Con ciò Heidegger
pensa a quando si dice normalmente che «si» fa o non «si» fa qualcosa.
Tutto ciò che in Essere e tempo viene detto del «si» rimane incomprensibile se in primo luogo si
intende così una critica alla cultura. Nelle descrizioni heideggeriane sono certamente presenti
motivi che richiamano il discorso della «vastità piatta» della vita «moderna», presenti nello scritto
di abilitazione. Ma si tratta al massimo di motivi d’accompagnamento; con l’esigenza sistematica di
Essere e tempo l’orientamento all’«oggi» fa un passo indietro. Il riferimento al presente storico, che
sparisce a poco a poco, costituisce, in parte, l’«incidente» del progetto di Essere e tempo.
Naturalmente la descrizione heideggeriana del mondo condiviso ricorda la sua comprensione della
tradizione così come essa si dà nella bozza del progetto su Aristotele: il regno delle ombre, che lì
era dei concetti e delle modalità di pensiero, è diventato ora quello delle valutazioni e dei giudizi
quotidiani. Se si prende questo parallelismo come punto di orientamento si comincia già a delineare
il fatto che la libertà, che corrisponde alla non libertà del «si», non può consistere nel voler essere
«al di fuori» del «si»; la possibilità che ciò accada è tanto bassa quanto quella di riuscire nel
tentativo di cancellare la tradizione. Analogamente al movimento della distruzione, è necessario,
piuttosto, spiegare il mondo condiviso determinato e determinante, e ripercorrerne l’origine. Il
carattere determinante del mondo condiviso sorge dall’indeterminazione dell’esserci stesso; sorge
dalla possibilità che abbiamo di porci, in generale, la domanda di come vogliamo essere e dal non
poter ottenere, tuttavia, una risposta definitiva. L’indeterminazione dell’esserci viene vissuta come
una minaccia, in quanto non è mai possibile tradurla pienamente in determinatezza, che viene perciò
relativizzata. L’esperienza esplicita di questa indeterminazione ha
lo stesso significato dell’esperienza «autentica» dell’esserci. L’esperienza apparente del mondo
condiviso deve perciò esplicitarsi in vista dell’indeterminazione dell’esserci, affinché la
determinatezza venga considerata limitata dall’indeterminazione e in modo da poter «liberare»
anche gli altri, anziché esigere troppo da loro per la stabilità dell’interpretazione autonoma della
vita.
Ciò che si deve intendere con il discorso dell’indeterminazione dell’esserci è ormai chiaro: siamo
indeterminati nel nostro essere nella misura in cui lasciamo sempre così com’è ciò che si trova nel
mondo. E siamo indeterminati anche per il fatto di non avere una visione di tutte le possibilità delle
azioni e delle relazioni, poiché esse sono infinite. Alla fine, però, anche i nostri rapporti
interpersonali sono caratterizzati dall’indeterminazione, ovvero da quanto possiamo venire a sapere
«in modo determinato» o «determinante» di noi stessi. In tal modo è anche vero che nessuno di noi
non è soltanto quella determinatezza, in cui si dà ed in cui viene visto. Heidegger riassume questi
tre aspetti dell’indeterminazione introducendo un concetto che può anche sostituirsi all’esserci:
quello di «apertura» [«Erschlossenheit»]. L’indeterminazione è dunque propriamente l’«essere»
dell’esserci.· l’«esserci», dice Heidegger «è la sua apertura» (GA 2,177/133; p. 170).
Il perché Heidegger scelga questo termine lo si capisce molto bene considerando il fatto che egli
può usare, anziché «apertura», «disvelamento» [«Aufgeschlossenheit».1 (GA 2, 101/75; p. 102). Noi
siamo «disvelati», nel senso corrente del termine, laddove siamo aperti nei confronti del nuovo e
dell’ignoto. Il disvelamento è un senso della possibilità, un senso della possibilità che si mostra, per
come lo comprende Heidegger, quando intendiamo aprirci al possibile. In tal modo ci siamo già
avvicinati al significato terminologico di «apertura». Il valore centrale di tale termine in Heidegger
si spiega considerando che tale termine viene discusso in Essere e tempo in relazione alla
concezione aristotelica del nous (GA 2, 177/133; p. 170). L’apertura è sapere immediato, il
percepire dell’essere possibile. Questo sapere non ci determina, non lo possediamo, bensì lo siamo.
L’apertura è l’essere e, insieme, la comprensione diretta dell’essere.
Ciò rimarrebbe nei termini di una mera assicurazione, se Heidegger non potesse anche mostrare in
che cosa consiste nei dettagli il senso di possibilità nominato nell’«apertura». E, spiegandolo,
riprende le tre determinazioni del mondo già sviluppate, ovvero l’appagatività, la significatività e il
con-essere; Heidegger mostra come vengono esperiti ogni volta nella loro indeterminazione il
contesto delle cose, con cui possiamo avere a che fare, le possibilità autonome di essere e la nostra
relazione con gli altri.
Le tre forme di apertura che Heidegger indaga sono «la situazione emotiva», il «comprendere» e il
«discorso». Con «situazione emotiva» Heidegger intende in primo luogo il modo in cui si è nella
misura in cui «siamo situati» emotivamente. Nelle tonalità emotive facciamo esperienza dello
spazio libero del mondo, nella misura in cui il mondo ci fa sperimentare la sua apertura per noi
[Offenheit], ciò con cui possiamo avere a che fare. Ciò viene reso particolarmente esplicito con la
noia, concetto a cui Heidegger dedica successivamente un’analisi dettagliata e penetrante in un ciclo
di lezioni (GA 29/30): quando ci si annoia si esperisce ciò da cui si potrebbe essere occupati in
modo tanto più intenso, quanto più ci si annoia, nella misura in cui non ci occupiamo in quel
momento di niente. Ma anche nella cosiddetta «tonalità emotiva sollevata» le cose stanno in modo
simile: quando le cose riescono facilmente, ecco che si esperisce l’apertura del mondo in quanto si è
liberi da impedimenti. Fondamentalmente nella tonalità emotiva si fa esperienza del fatto che si è
nell’apertura del mondo e non si può non essere nel mondo. Per questo Heidegger impiega qui il
termine «fatticità», che aveva già usato.
La «comprensione» è il senso della possibilità da un altro punto di vista. Heidegger ne discute il
tema nuovamente orientandosi, anzitutto, al significato corrente dell’espressione·, comprendere
qualcosa può significare «intendersi di qualcosa», «sapere fare qualcosa»; esiste, in altre parole, la
possibilità di avere a che fare con ciò che si comprende. Nel caso del significato terminologico del
termine «comprensione», questo aspetto viene generalizzato e, al contempo, accentuato in modo
determinato: l’accento è posto sul «sapere fare»; la «comprensione» è, anzitutto, il percepire
immediato, il conoscere immediato della possibilità e delle possibilità di essere, senza che queste
siano già comprese nel dettaglio e ponderate in modo tale da sapere quale si voglia scegliere alla
fine. A quest’ultimo aspetto Heidegger ha riservato il termine «interpretazione». Per la
comprensione che viene articolata in Essere e tempo, è essenziale che le possibilità di essere non
siano «tematicamente conosciut[e]» (GA 2, 193/145; p. 185). La conoscenza diretta delle possibilità
di essere è, piuttosto, la conoscenza diretta del fatto che esistono possibilità di essere, precisamente
per il singolo: tale conoscenza include perciò anche l’esperienza di noi stessi, sempre nell’essere
possibile. Nella comprensione si fa esperienza dello stare davanti all’essere e dell’indeterminazione
radicale di questo essere; si sa immediatamente di non sapere come saremo. Questo sapere
immediato dell’essere che ci sta davanti viene caratterizzato da Heidegger come «progetto». La
comprensione è sempre un’autocomprensione, ovvero autocomprensione immediata senza il
riferimento riflessivo a se stessi: facendo esperienza dell’indeterminazione dell’essere che sta
davanti si fa anche esperienza di sé senza dover riflettere su se stessi.
E' forse sorprendente che Heidegger introduca il «discorso» come terza forma dell’apertura: in che
misura il discorso sia un senso della possibilità non lo si comprende immediatamente. Tuttavia lo si
capisce quando Heidegger, nei relativi passaggi di Essere e tempo, caratterizza il discorso non come
l’atto, ogni volta diverso, del parlare, ma come la struttura del linguaggio nelle sue diverse
possibilità di comunicare se stesso agli altri e di essere in tal modo con essi. E, leggendo più avanti,
si trova che l’ascolto è «costitutivo» del discorso, in quanto in esso ha sede l’essere aperto
dell’esserci nei termini di «con-essere con gli altri» (GA 2,217/163; p. 207); in base a ciò diventa
anche chiaro perché Heidegger può comprendere il discorso come lo spazio dello stare insieme. A
questo aspetto si aggiunge il fatto che il silenzio viene considerato come «la possibilità essenziale
del parlare» (GA 2, 218/164; p. 208): soltanto colui che tace può ascoltare gli altri e, nel silenzio
comune, possono mostrarsi un accordo ed una comprensione della modalità essenziale dell’altro:
ciò che non accade nel vortice della comunicazione.
L’analisi dell’apertura nelle sue forme diverse rispecchia anche l’architettura di Essere e tempo,
nella misura in cui essa si presenta come tripartita. Ma non bisogna lasciarsi ingannare da questa
tripartizione e pensare così di rendere autonome le tre forme dell’apertura. Il fatto di coappartenersi
e di costituire soltanto insieme l’esperienza immediata del proprio essere si mostra subito riflettendo
che l’esperienza dell’essere che sta davanti è pervasa sempre da una tonalità emotiva e riguarda
perciò anche l’apertura verso gli altri; nel modo in cui si è aperti verso gli altri si decide anche,
d’altra parte, la posizione verso quell’essere che ci sta davanti e che risulta proprio. Nell’esserci
nessuna forma dell’apertura fa esperienza per sé, bensì le forme costituiscono, nella loro
strutturazione, un’esperienza unitaria.
Quest’esperienza non è assolutamente esplicita. Nella misura in cui siamo «ci», siamo sì
nell’apertura, ma non in modo da essere soltanto questo. Piuttosto, portiamo avanti il nostro essere e
l’apertura senza volerlo riconoscere. Siamo indotti a chiudere l’apertura nella «motilità»
dell’esserci.
Ciò che questo significa viene spiegato dalla caratterizzazione secondo cui l’apertura è la
conoscenza immediata e la certezza del proprio essere possibile, della propria indeterminazione: la
chiusura dell’apertura significa voler essere il più possìbile determinati, ed in questo significa dare
conferma sempre e soltanto della propria indeterminazione. Per determinare questa tendenza
Heidegger riprende un concetto dalla bozza del progetto su Aristotele, il concetto di decadimento. Il
decadimento è il movimento dell’esserci dalla sua indeterminazione alla determinatezza, che si
compie soprattutto nel legame con il già detto, con la «chiacchiera». A questo punto si spiega il
perché Heidegger nella bozza del progetto su Aristotele avesse distinto le forme del sapere dalla
loro articolazione linguistica: prese per sé, tali forme sono neutrali e costituiscono semplicemente la
quotidianità dell’esserci. Tuttavia la loro articolazione e spiegazione linguistica si trovano
tendenzialmente nel predominio del «si»; tale articolazione è spesso soggetta alla tendenza di
volersi definire rispetto agli altri o di adattarsi a loro; e così accade che il definirsi e l’adattarsi agli
altri diventano man a mano più importanti di ciò che si fa o che si può fare. In tali casi si è decaduti
nella «chiacchiera».
Secondo la concezione di Essere e tempo non può più essere la filosofia che porta fuori dal regno
delle ombre del detto, rendendo visibile il determinato come fenomeno dell’indeterminato,
rendendo visibile il già detto, ed il già scritto, a cui ci si attiene come riflesso dell’esperienza
originaria di apertura. La nuova dischiusura dell’essere possibile nel suo spazio aperto e
nell’indeterminazione non è più la semplice ripetizione di un domandare originario, ma è l’analisi
fondamentale dell’esserci, che intende rendere comprensibile la possibilità di un tale domandare
filosofico. Questa è l’esperienza della «risolutezza» con cui, però, non si deve pensare ad un atto
della volontà o a cose simili. Il termine «risolutezza» è piuttosto da intendere come la negazione di
quella «chiusura» che caratterizza il decadimento. La «risolutezza» è ripetizione, recupero
dell’«apertura».
Secondo l’architettura di Essere e tempo anche la risolutezza viene elaborata in una struttura
tripartita. Come Heidegger intende mostrare, si tratta di una particolare tonalità emotiva, di una
particolare comprensione e di una particolare articolazione del discorso che costituiscono insieme la
risolutezza; si tratta, cioè, della tonalità emotiva dell’angoscia, della comprensione «precorritrice»
della morte e della «chiamata» che si realizza nel silenzio della coscienza.
Le analisi dell’angoscia, il precorrimento della morte e la coscienza hanno attirato l’attenzione dei
lettori di Heidegger più di ogni altra cosa in Essere e tempo; hanno dato molto da pensare agli
interpreti ed hanno messo le ali ai giudizi più forti dei critici, fino alla polemica. Ciò è
comprensibile perché è con tali disamine che si attua il programma dell’analisi fondamentale
dell’esserci e in ciò essa cade, in quanto è qui che Heidegger promette di riscattare la sua tesi di una
«comprensione preontologica dell’essere». Che cosa ci sia da aspettarsi da un tale riscatto non
necessita più alcuna spiegazione dettagliata: l’angoscia, il precorrimento della morte e la chiamata
della coscienza devono essere esperienze radicali dell’esser-possibile, dell’apertura e
dell’indeterminazione dell’esserci, ma in un modo così radicale da poter causare un’interruzione del
decadimento nella determinatezza, dell’«inautenticità».
In relazione all’angoscia non dovrebbe essere troppo difficile comprendere che essa è un’esperienza
di questo tipo. L’angoscia è un’esperienza della possibilità: lo ha già sottolineato Kierkegaard nel
suo scritto Il concetto di angoscia, a cui Heidegger deve molto. Chi è angosciato non può dire che
lo minacci qualcosa di determinato. Non si possono superare le vertigini dicendosi dì non poter
sicuramente cadere nel precipizio quando si sta proprio sul ciglio di questo. La mera possibilità di
cadere penetra dentro di noi al punto da paralizzarci: si è incapaci di fare altro e di andare oltre,
passando a qualcosa che ci sottrarrebbe dalla paura della profondità. E' soprattutto questa incapacità
ad agire che è significativa per l’analisi heideggeriana: il mondo e ciò con cui, in esso, abbiamo a
che fare è aperto ed evidente; si comprende che ci si potrebbe comportare così e così, ma si è
tuttavia incapaci di farlo. Nell’angoscia l’apertura al mondo viene esperita grazie al fatto di non
riuscire ad afferrare alcuna possibilità di essere nel mondo.
Con l’analisi del «precorrimento della morte», che Heidegger sviluppa, le cose non stanno così e
Heidegger stesso lo ha documentato con uno straordinario intreccio delle sue riflessioni riguardo a
questi temi. Si vede subito come sia importante per Heidegger che l’esperienza diretta e radicale del
proprio essere che ci sta davanti, dunque, l’esperienza diretta e radicale della risolutezza nella forma
della comprensione, abbia a che fare con la certezza della propria morte: l’indeterminazione del
proprio essere che ci sta di fronte si mostra in modo radicale con la questione che si interroga sul
fatto di esserci, in generale, nel futuro; ed una tale indeterminazione radicale non si può spostare
nella condizione di un’età più avanzata, bensì si pone in ogni momento della vita. Nell’analisi del
«precorrimento della morte» la cosa importante per Heidegger è l’incertezza radicale della morte
prima di ogni certezza: sappiamo che dobbiamo morire, ma non sappiamo quando.
Il fatto che l’interesse di Heidegger alla problematica della morte abbia qui la sua radice, lo mostra
già il motto delle lezioni del semestre invernale 1921/22, che recita: «l’indicazione della fonte con
implicito ringraziamento». Qui si trova accanto al riferimento a Kierkegaard, una frase tratta
dall’esegesi luterana al libro della Genesi: statini einim ab utero matris mori incipimus»4 (GA 61,
182; p. 211). Non c’è da discutere: sappiamo che è così, ma il modo in cui lo esperiamo in relazione
al nostro proprio esserci è meno chiaro. Ciò che sappiamo della morte lo sappiamo a partire dalla
morte degli altri e, seguendo le analisi heideggeriane, questo sapere non dev’essere essenziale per il
«precorrimento della morte», ma nemmeno rilevante. La morte, come s’apprende dalle analisi di
Heidegger, è piuttosto una pura possibilità, e nient’altro. Ma dato che sappiamo della morte sempre
soltanto attraverso la morte altrui, non si può comprende come debba essere determinata ancora la
propria esperienza del puro esser possibile come «precorrimento della morte». Di fronte a questo
fatto si potrebbe al massimo affermare che l’esperienza della morte altrui ci confronta con
possibilità ed indeterminazione radicali, perché quest’esperienza non è trasferibile a noi stessi e non
è nemmeno immaginabile. Heidegger ha pensato lo stesso a quest’esperienza, ma poi il
«precorrimento della morte» è in realtà il «precorrimento» dell’indeterminazione dell’essere che sta
davanti, anche se questa esperienza può essere portata agli estremi in situazioni terribilmente
pericolose. Ma l’esperienza che interessa a Heidegger viene sempre fatta quando ciò che sta davanti
si sottrae in modo particolare alla rappresentazione. In tal caso si comprende il proprio essere che
sta davanti nella sua indeterminazione e si comprende che ogni progetto determinato, ogni piano
determinato e ogni rappresentazione possono essere ogni volta soltanto una risposta a questa
indeterminazione. Le difficoltà immanenti dell’analisi della morte non mostrano, in ultima istanza,
il fatto che Heidegger rimandi all’analisi della coscienza un riscatto di ciò che tale analisi deve
garantire.
Come Kierkegaard in relazione alla paura e Lutero in relazione alla morte e alla mortalità, così
Aristotele è stato per Heidegger in relazione all’analisi della coscienza una fonte, forse la fonte
decisiva. Più precisamente la fonte è l’osservazione nell 'Etica Nicomachea secondo cui non c’è
dimenticanza della phronesis (EN 1140b 29 e segg.). Diversamente dall’attuazione casuale di
un’azione, non si può dimenticare la phronesis perché in essa è presente la necessità dell’agire in
generale per la vita.
Se si ricorda che la coscienza è correlata alla forma di apertura del discorso, diventa subito chiaro il
suo ruolo centrale nel contesto della risolutezza: la chiusura del decadimento consiste nel fatto di
volersi rendere sicuri, nella «chiacchiera», di una determinatezza, che deve far dimenticare
l’indeterminazione dell’esserci. E se non può esserci alcuna dimenticanza di questa
indeterminazione, allora la sua «indimenticabilità» deve diventare primariamente decisiva anche nel
discorso. Ma al discorso appartiene il silenzio, come una delle sue espressioni essenziali. Il silenzio,
a sua volta, può essere tale da far sì che in esso le spiegazioni e gli acquietamenti passeggeri, i
tentativi di paragonarsi con gli altri, e quindi di ignorare l’unicità e la singolarità di ogni uomo,
vengano interrotti; la «chiamata della coscienza» rappresenta una cesura nella chiacchiera.
Se si mettono insieme le tre forme della risolutezza, si può dire: la risolutezza è la comprensione nel
segno dell’angoscia, che è stata liberata dalla chiacchiera grazie alla chiamata della coscienza. E'
una comprensione in cui ogni proposito di esser nel contesto del mondo in modo
determinato viene visto nella sua indeterminazione e tenuto presente come tale. La vicinanza di
questo pensiero alla determinazione della phronesis aristotelica si rende subito evidente. Soltanto
che qui non si tratta più della conduzione della vita nella sua totalità, in cui l’agire di ogni volta è
visibile, si tratta invece del proprio essere nella sua indeterminazione. Come nella concezione
aristotelica, nella comprensione «autentica» le singole riflessioni e decisioni non dipendono più
dalla realtà della vita, ma l’agire, ogni comportamento determinato in generale, si evidenza piuttosto
quando s’inserisce nell’apertura dell’esserci. Ciò che è determinato si trova nell’apertura del
possibile che è, in questo, anche indeterminato. Ciò che è determinato è possibile, in generale, solo
nello spazio dell’indeterminato; esso gli deve il fatto di potersi mostrare e, laddove si mostra, il
determinato dà conferma dell’apertura di tale spazio. Ciò che è determinato è un fenomeno
dell’indeterminato, l’indeterminato è l'essere del determinato. L’«essere»: questo intende sempre
Heidegger con l’indeterminazione dell’aperto. Determinato e indeterminato sono differenti perché il
determinato deve stare nell’indeterminato e, tuttavia, si distingue da questo. La conseguenza di
questa coappartenenza e distinzione al contempo dà forma all'esserci nella sua motilità, sia nel
decadimento che nella risolutezza; tuttavia soltanto nella risolutezza questa conseguenza è una
comprensione esplicita del proprio essere.
Con la sua concezione dell’essere e della comprensione dell’essere Heidegger compie uno
spostamento d’accento decisivo nei confronti dell’ontologia aristotelica. Rovescia il rapporto di
possibilità e realtà, d’indeterminazione e determinatezza, e riconosce alla possibilità e
all’indeterminazione un ordine più alto. Con il risultato della sua «analisi fondamentale
dell’esserci» Heidegger libera la strada per una distruzione non soltanto di Aristotele, bensì
dell’intera tradizione in cui essa viene determinata dalla gerarchia rovesciata di possibilità e realtà,
ovvero: dall’intera tradizione da Platone a Nietzsche ed all’allestimento tecnico-scientifico del
mondo, come Heidegger indicherà in seguito. Questa tradizione, più oltre, si chiamerà «metafisica»
a partire dai Beiträge zur Philosophie (1936-1938) e dalle lezioni che hanno accompagnato la loro
stesura. Ma non siamo ancora a quel punto; la concezione che Heidegger sviluppa negli anni Trenta,
ha la sua origine nell’«incidente» del progetto su essere e tempo. Ma per comprenderlo si deve aver
compreso il progetto nella sua totalità.
Il tempo: temporalità e temporalità dell’essere
Il fatto che l’«analisi fondamentale dell’esserci» viva del pensiero della composizione temporale
dell’esserci diventa particolarmente chiaro con la determinazione heideggeriana della
comprensione: se la comprensione è il percepire immediato dell’essere che sta davanti nella sua
indeterminazione, allora il suo futuro si mostra immediatamente. Ma non è molto più difficile da
considerare anche il carattere temporale della situazione emotiva: si è sempre presenti in una
situazione emotiva. Tuttavia, se in essa viene esperita l’apertura del mondo, allora vi si mostra lo
spazio libero del comportamento, essendo già «stati» in tale spazio. In relazione a questa
formulazione si comprende anche perché Heidegger parli di «esser stato» anziché di «passato»:
l’«esser stato» riguarda l'esserci, mentre il «passato» è la forma temporale dei risultati precedenti
che vengono visti in modo isolato. Nell’agire di ogni volta siamo sempre anche ciò che siamo
«stati», e siamo «stati» soprattutto nello spazio di possibilità del mondo.
Più difficoltoso è cogliere il carattere temporale del discorso, in quanto esso sembra, da un lato,
condividere con la comprensione il carattere di futuro, nella misura in cui quest’ultimo viene
determinato come apertura verso gli altri e quindi come possibilità del nostro rapporto con gli altri;
dall’altro, però, sono date anche le possibilità del nostro rapporto con gli altri attraverso il discorso.
Esso è uno spazio della possibilità e mette a disposizione, perciò, delle possibilità di essere
espressamente con gli altri. Si tratta delle possibilità che vengono poi realizzate nelle comunicazioni
determinate o negli «atti linguistici» come promesse, favori, comandi, desideri o asserzioni.
Tuttavia, il discorso possiede essenzialmente la peculiarità di rendere presente tutto ciò di cui si
parla, e quindi non è così strano che Heidegger dica del discorso che la «presentazione vi ha una
funzione privilegiata e costitutiva» (GA 2, 462/349; p. 419). Ma anche questo non può soddisfare
pienamente; l’associazione tra discorso e presente sembra ottenuta forzatamente. Heidegger stesso
ne è poco soddisfatto, e lo mostra il fatto che, dopo Essere e tempo, Heidegger imposta una nuova
concezione del linguaggio e del discorso.
Se si evidenzia il carattere temporale delle tre forme di apertura, diventa chiaro nuovamente come
non si debbano intendere separatamente: futuro, passato e presente si coappartengono
essenzialmente; la loro interazione costituisce ciò che chiamiamo «esperienza temporale». Questa
interazione, a sua volta, può far comprendere le tre forme dell’apertura: l’essere che sta davanti,
compreso nella sua indeterminazione, presenta la questione di come si voglia essere, e a questa
questione si deve rispondere soltanto attraverso l’agire nel presente con gli altri in quell’apertura del
mondo, in cui si è già stati.
Le tre forme di tempo (futuro, passato e presente), dunque, si coappartengono: non stiamo in
nessuna di esse senza essere rimandati anche alle altre. Le tre forme si escludono tra loro, ognuna di
loro è radicalmente diversa dalle altre, e nessuna passa nelle altre. Heidegger intende cogliere
questa coappartenenza non mediata delle forme temporali, caratterizzandole come «estasi». Questo
è un concetto che Heidegger ha sviluppato in relazione ad un’osservazione aristotelica della Fisica.
Ogni cambiamento immediato (metabolé), dice Aristotele, ha il carattere di un «ekstatikón» (Fisica
222b 16); «ekstatikón» significa dividersi da qualcosa, poter andare oltre se stessi e questo può dirsi
effettivamente delle forme temporali: ognuna di esse è, infatti, tale anche da essere oltre se stessa e
«trasformarsi» nelle altre forme temporali; nessuna è senza le altre.
A ben vedere non si può dire, tuttavia, che le forme temporali «sono»; se tutto ciò che è è nel tempo,
allora il tempo stesso non è. Nella sua trattazione dedicata al tempo, nel quarto libro della Fisica,
Aristotele aveva già discusso la questione se il tempo appartenga o meno all’ente, ed era arrivato
alla conclusione che il tempo non è, poiché un essere non poteva essere assegnato né ad un passato,
né ad un futuro (Fisica, 217b-218a 3). Heidegger può seguire questa argomentazione, ma non
condividerne la motivazione: per lui il tempo non è poiché l’essere, l'esserci, può essere compreso
solo in modo temporale. Non è che siamo e poi, successivamente, sperimentiamo il tempo, ma
siamo al modo del tempo. Questo impone di modificare il significato del concetto di «esserci»
rispetto a come veniva discusso nelle prime lezioni: a ben vedere il «ci» del nostro essere non è
«presenza», bensì noi siamo questo «ci» essendo stati, essendo presenti ed essendo nel futuro.
Nel corso della sua trattazione Heidegger fornisce già una determinazione della relazione tra esserci
e temporalità, caratterizzando la prima parte come «interpretazione dell’esserci in riferimento alla
temporalità». Questo si riferisce alle prime due sezioni, mentre «l’esplicazione del tempo come
orizzonte trascendentale del problema dell’essere» doveva essere riservata alla terza sezione della
prima parte. Ma, come mostra la strutturazione della prima parte, l’argomentazione della
temporalità non appartiene più alla «analisi fondamentale preparatoria dell’esserci», bensì le è
dedicata una sezione a sé, che intraprende una vera e propria «interpretazione dell’esserci in
riferimento alla temporalità».
Un'«interpretazione» è più dell’esplicita, attenta e approfondita lettura di un testo; chi interpreta un
testo, dice sempre di più ed altro rispetto al testo stesso. Se si comprende l’interpretazione
dell’esserci in questo senso, è chiaro che l’argomentazione che collega «esserci e temporalità» non
segue più definitivamente la comprensione dell’essere come è stato caratterizzato per Tesserci nella
sua quotidianità, per l'esserci prefilosofico e «preontologico». Naturalmente è sì già filosofica anche
l'«analisi fondamentale » dell’esserci, ma essa intende rendere esplicitamente comprensibili soltanto
strutture che si conoscono anche in modo prefilosofico, secondo la concezione di Essere e tempo;
altrimenti non si comprenderebbe ciò che Heidegger ha da dire sulla risolutezza. Rispetto a ciò
l’interpretazione dell’esserci in riferimento alla temporalità ha il carattere di una comunicazione che
per se non è possibile seguire nella comprensione quotidiana dell’essere.
Questo non può dipendere dal fatto che la temporalità è completamente inaccessibile all'essercii
quotidiano. Se Heidegger parla di un’«interpretazione» dell’esserci in riferimento alla temporalità,
egli intende porre l’attenzione soltanto sulla diversità di un’esperienza prefilosofica del tempo
rispetto ad una sua concezione filosofica. E Heidegger intende porre l’accento sul fatto che nella
concezione filosofica il tempo non viene nemmeno sperimentato allo stesso modo dell’esserci
prefilosofico.
Per capire questo aspetto, iniziamo ancora una volta dal carattere di futuro che presenta il
comprendere: si è detto che il comprendere è un sapere immediato, un percepire immediato sia delle
possibilità di essere, che del proprio essere possibile. Questo percepire è la condizione affinché una
di queste possibilità venga intesa come determinata e considerata una risposta alla domanda su
come s’intende l’essere; Heidegger la chiama «interpretazione» [Auslegung della comprensione.
Anche nell’interpretazione si esibisce il carattere di futuro dell’esserci: laddove prendiamo una
possibilità determinata di essere, ci decidiamo per un futuro determinato, sia nella forma di una
risoluzione che conduce poi all’agire, sia anche soltanto nella forma di una rappresentazione di
come vogliamo essere. Non ci mettiamo a realizzare, o a poterlo fare, la possibilità che abbiamo
immaginato. Per questo motivo il futuro è tanto indeterminato quanto, d’altra parte, determinato.
Dovrebbe essere chiaro che qui spetta un primato al futuro indeterminato: se il futuro non fosse
indeterminato, non avremmo bisogno di riflettere su come intendiamo essere.
Ma il futuro determinato e quello indeterminato si relazionano anche in un altro modo e questo
perché il futuro indeterminato, nei termini di temporalità del nostro essere che ci sta davanti, appare
sempre nell'esserci quotidiano come una domanda a cui dobbiamo rispondere. Il futuro
indeterminato non è, perciò, soltanto la condizione di quello determinato, ma quotidianamente, nella
sua possibilità di essere messo in discussione, è anche legato alla risposta che proviene dalla scelta
di una possibilità determinata.
Nell’esserci quotidiano si tratta di questo gioco tra domanda e risposta non in modo secondario, ma
essenzialmente. Non si deve dimenticare una cosa: l’analisi dell’esserci quotidiano è stata
sviluppata a partire dall’analisi aristotelica della phronesis, e la phronesis era la forma del sapere
operante nell’agire stesso. Per quanto possano differenziarsi la concezione heideggeriana
dell’esserci quotidiano e la concezione aristotelica della phronesis, tale rapporto di domanda e
risposta è rimasto, tuttavia, inalterato.
Il futuro, primario, indeterminato viene esperito quotidianamente sempre in relazione al futuro,
secondario, determinato. Ciò costituisce la direzione specifica in cui l’esistenza quotidiana, in
riferimento al futuro, deve guardare; e le cose stanno esattamente così anche in relazione ad
entrambe le altre estasi temporali: l’esser-stato nel mondo appare sempre in relazione ad una
possibilità determinata del rapportarsi, la quale viene afferrata dal futuro dell’essere che sta davanti
nel mondo: essa è lo spazio di possibilità per questo rapportarsi: il discorso, infine, è la possibilità
della presentificazione linguistica: nella misura in cui l’essere con gli altri, che è aperto nel
discorso, ha il suo senso in una tale presentificazione, è chiaro che il discorso è legato ad un
determinato atto.
In questo gioco di determinatezza ed indeterminazione è propria del discorso una posizione
particolare: per coloro che parlano nel discorso sussiste la possibilità di una presentificazione
apparentemente illimitata; nel linguaggio si trova perciò anche la condizione di poter vedere al
modus della determinatezza. Il discorso è il medio del decadimento. La liberazione dal
decadimento, però, non mette da parte la determinatezza; nella risolutezza il determinato
nell’esserci viene ricollocato, piuttosto, nell’indeterminazione. Poiché l’indeterminazione viene
considerata qui anche insieme alla determinatezza da lei relativizzata, la risolutezza è conforme
proprio alla direzione peculiare in cui guardare l’esistenza quotidiana, prefilosofica. Il punto di
orientamento per l’esperienza dell’indeterminazione rimane, anche in questo caso, la
determinatezza.
Se questa è la direzione peculiare in cui guardare all’esistenza quotidiana, si può supporre che
l’interpretazione (filosofica) dell’esserci in riferimento alla temporalità non sia più soggetta alla
quotidianità. Forse si è titubanti, ad un primo momento, nel seguirla e, quando si pensa alla genesi
della concezione heideggeriana di autenticità e inautenticità a partire dalla concezione della
relazione tra filosofia e tradizione, sembra che valga anche per la filosofia il fatto di non poter
dominare l’apertura del domandare e del pensare, senza rimanere legata, al contempo, nella sua
determinatezza ai concetti e alle modalità di pensiero tramandati. Con l’apertura del pensiero, che
torna ad interrogare l’inizio, i concetti e le modalità di pensiero tramandati ricevono alla fine il loro
senso nella misura in cui sono posti nel contesto di appartenenza che è loro proprio.
Tuttavia, non si deve dimenticare che la concezione heideggeriana è cambiata su un punto
sostanziale: non si tratta più d’interrogare retrospettivamente l’inizio della storia, bensì l’inizio che
è l’esistenza quotidiana. Secondo Heidegger la filosofia sorge dall’esistenza quotidiana (GA 2,
51/38; p. 47). Tuttavia, una volta che è sorta, rimane separata radicalmente dalla sua origine, in
modo tale da non essere più soggetta alla prospettiva d’azione dell’esistenza quotidiana, ma di
comprenderla nella sua motilità. La filosofia è certamente anche un rapporto nell’esistenza; per
colui che la pratica, si tratta nella filosofia di dare una risposta alla domanda su come s’intende
vivere. Ma la filosofia non si esaurisce con questo: il comprendere filosofico non è essenzialmente
un agire quotidiano. Nell’interpretazione dell’esserci in riferimento alla temporalità la filosofia va
oltre l’esistenza quotidiana e la sua peculiare direzione in cui guarda. Essa anzi deve farlo se
intende distruggere fenomenologicamente la «storia dell’ontologia». Essere e tempo intende essere
più di una filosofia pratica nel senso dell’Etica Nicomachea·, per poter redigere la seconda parte di
Essere e tempo, Heidegger deve modificare la concezione filosofica della temporalità in modo che
in essa possano essere comprese anche le ontologie tradizionali: ma l’ontologia non appartiene più
alla prospettiva dell’azione dell’esistenza quotidiana. Nella filosofia - si ricordi forse la conclusione
di Essere e tempo - non si tratta alla fine dell’esserci, bensì dell’«essere in generale».
Approfondendo la questione della peculiare concezione filosofica del tempo, ci si immette su un
terreno complicato; si lascia la struttura costruita nelle prime due sezioni del progetto su essere e
tempo e ci si rivolge alla parti, rimaste inespresse, dell’edificio progettato da Heidegger. Questo lo
si può fare, naturalmente, solo perché si entra su un terreno che non è vuoto, incolto, ma che è come
una rovina, la quale permette di ricostruire un’immagine del tutto, come era stato progettato, e di
comprendere perché la costruzione non è stata più eseguibile.
La rovina da considerare è quella dell’ala filosofica progettata per la costruzione complessiva di
Essere e tempo. Per comprendere il progetto esecutivo si procede in modo da paragonare le colonne
e le pareti erette in parte con le colonne e le pareti della parte completata, e da poter intravedere,
attraverso la somiglianza, anche la differenza di entrambe le ali dell’edificio. Per chiarire come
debba essere compreso il tempo nella filosofia, è opportuno riprendere la questione di come la
filosofia venga compresa nell’esistenza quotidiana. Abbiamo già la risposta heideggeriana a questa
domanda e, nonostante ogni difficoltà, essa è pur sempre condivisibile.
Per prima cosa dobbiamo considerare ancora una volta le tre «estasi» della temporalità. Le «estasi»
sono le forme del tempo per il fatto che si trasformano le une nelle altre direttamente, dunque per il
fatto che il futuro, in quanto tale, rimanda al passato e quest’ultimo al presente.
Se dovessimo dire ora che cosa siano le tre estasi della temporalità, ricorreremmo alle tre forme
dell’apertura; dalla direzione in cui l’esistenza quotidiana guarda si comprende il futuro, se lo si
caratterizza come il «tempo dell’essere indeterminato che sta davanti». Lo si comprende molto
meglio così che non definendolo come «il tempo degli anni ancora a venire»; in questo caso ci si
orienta al conteggio del tempo e si dà, a ciò che è indeterminato, cioè il futuro, il carattere di
qualcosa di determinato quantitativamente. In Essere e tempo Heidegger mostra come il conteggio
del tempo sia già una determinata articolazione della temporalità dell’esserci, e la presuppone.
Laddove si comprende il futuro come il tempo dell’essere indeterminato che sta davanti, non si è
più inseriti in una tale articolazione determinata. La risposta secondo cui il futuro è il tempo
dell’essere indeterminato e che sta davanti, testimonia già un alto grado di trasparenza dell’esistenza
quotidiana.
Ciononostante, questa risposta è ancora forgiata completamente dalla direzione in cui guarda
l’esistenza quotidiana e Heidegger intende mettere in evidenza proprio questo aspetto quando parla
degli «schemi orizzontali» delle estasi: ciò che nell’esistenza quotidiana si comprende con la
temporalità è limitato dall’esserci nei suoi aspetti; perciò gli schemi si dicono «orizzontali». E gli
«schemi» significano i limiti della comprensione della temporalità, perché con essi è fornita una
determinata «idea» della temporalità. Heidegger ha ripreso il concetto di «schema» dalla Critica
della ragion pura di Kant: «schematica» è in Kant la modalità in cui ci rappresentiamo i concetti
della ragione5.
Con il pensiero degli schemi orizzontali della temporalità si guadagna il presupposto per
comprendere il pensiero del tempo nella filosofia: se la filosofia deve differenziare la sua
comprensione del tempo dall’esistenza quotidiana, non può essere soggetta agli schemi orizzontali
di questa comprensione della temporalità. Questo può a sua volta significare due cose: o la
comprensione del tempo nella filosofia, in generale, non può essere schematica oppure gli schemi
della comprensione filosofica del tempo devono esser diversi da quelli dell’esserci quotidiano.
Per quale alternativa Heidegger si sia deciso deriva, in parte, già dal titolo della prima parte di
Essere e tempo·. «L’interpretazione dell’esserci in riferimento alla temporalità e l’esplicazione del
tempo come orizzonte trascendentale del problema dell’essere». Qui si viene a sapere che «il
tempo» dev’essere concepito come «orizzonte trascendentale» del «problema» filosofico
«dell’essere», ma non si parla di un carattere schematico di questo orizzonte.
La risposta alla domanda sul carattere schematico dell’orizzonte del tempo orizzontale è data dalle
lezioni tenute nel semestre estivo 1927, dunque immediatamente dopo la pubblicazione di Essere e
tempo, intitolate I problemi fondamentali della fenomenologia. Heidegger stesso ha caratterizzato
queste lezioni, probabilmente in un secondo tempo, nei termini si una «nuova elaborazione della
terza sezione della prima parte di Essere e tempo» (GA 24, 1; p. 23), ed anche nella sua copia di
lavoro di Essere e tempo Heidegger rimanda a questa lezione per indicare dove ha condotto
l’«esplicazione del tempo come orizzonte trascendentale del problema dell’essere». Le lezioni sui
problemi fondamentali della fenomenologia danno corso ai pensieri che dovevano essere sviluppati
nella terza sezione della prima parte di Essere e tempo, non alla sua conclusione; essi, tuttavia,
spiegano che Heidegger voleva attuare il passaggio dall’analisi dell’esserci quotidiano alla
discussione della filosofia con una revisione dello schematismo temporale. Ciò conduce alla
concezione della temporalità.
Ricordiamo che «temporalità dell’essere» è il nome che Heidegger usa per la temporalità nella
misura in cui essa è il tempo nella filosofia. La filosofia, a sua volta, «interpreta» la comprensione
dell’essere dell’esserci quotidiano «in riferimento alla temporalità» e perciò la temporalità, da un
lato, deve essere esperita nella filosofia in modo tale da essere ancora riconoscibilecome temporalità
dell’esserci quotidiano e, dall’altro, deve potersi distinguere da questa. Heidegger intende tener
conto di entrambe le cose, sviluppando gli schemi orizzontali da cui quelli dell’esserci quotidiano
sono soltanto forme più particolari.
Nel caso di cui parliamo questo aspetto è approfondito fino in fondo soltanto in relazione allo
schema orizzontale del presente, e cioè con una riflessione che ricorda la determinazione
dell’esserci, sviluppata nelle lezioni sull’ontologia. Heidegger vuol mostrare che tutto ciò che
s’incontra nel presente sottosta allo schema orizzontale della «presenza», anche se la «presenza»
[Praesenz] comprende tanto l’«esser presente» [Anwesenheit] quanto l’«esser assente»
[Abwesenheit]. Oggettivamente questo quadra: «Tesser assente» non significa semplicemente che
qualcosa non c’è, ma è un modo particolare che qualcosa ha di essere scoperto. Se per una
determinata attività manca un qualche arnese, quest’ultimo è «presente» nella sua assenza; non è
presentificato, non si presenta, ma, nonostante ciò sembri paradossale, proprio in questa assenza
esso si presentifica, è presente. Vista così la comprensione della presenza invade anche il presente
dell’esserci quotidiano: l’agire determinato con gli altri, che si articola nella riflessione, forma in
altre parole, nell’esserci quotidiano, lo schema per la comprensione del presente; tuttavia, a ben
vedere, si tratta di una forma peculiare della presenza.
Un’altra forma della presenza è data dall’ontologia tradizionale. Per mostrarlo Heidegger dirige
l’attenzione delle lezioni sui Problemi fondamentali della fenomenologia, sul fatto che la parola
centrale dell’ontologia aristotelica, «ousia», deve essere resa con «esser presente»; «ousia indica
ancora, al tempo di Aristotele, in un senso prefilosofico e quotidiano, la proprietà fondiaria
(Anwesen) e, in quanto termine filosofico specifico, l’esser-presente (Anwesenheit)». E continua
Heidegger:
Tuttavia i Greci, così come Kant, non hanno avuto la minima consapevolezza del fatto che
interpretavano l’essere [...] a partire dal tempo e che compivano questa interpretazione dell’essere
movendo da un contesto più originario. Essi seguirono piuttosto la tendenza immediata dell’esserci
esistente, che nel suo modo d’essere quotidiano, comprende [...] l’essere dell’ente in modo
implicitamente temporale (temporal). Quest’accenno al fatto che i Greci compresero l’essere a
partire dal presente, a partire cioè dalla presenza, è bensì conferma, certo non da sopravvalutare,
della nostra interpretazione riguardante la possibilità di comprendere l’essere movendo dal tempo,
ma non ne è una fondazione (GA 24,449; p. 303).
La traduzione di «ousia» con «essere presente» indica l’intuizione che soggiace al programma di
distruzione di Essere e tempo. Si può lasciare aperta la questione se questa traduzione sia
giustificata o meno. Perché decisivo è il fatto di poter tirar fuori dal concetto aristotelico un accenno
alla «presenza», ma non al «tempo», nel senso della temporalità tripartita. Heidegger aveva già
affermato nel suo progetto che il concetto aristotelico di essere era stato sviluppato come «tratto
contrario» alla sua analisi della phronesis. Tuttavia, se questo è vero, non è sufficiente a far valere
Tesserci come origine della concezione aristotelica dell’ente. Per questo Heidegger avrebbe dovuto
mostrare che la temporalità forma nella sua piena struttura T«orizzonte» della concezione
aristotelica dell’ente.
Ma nelle lezioni del 1927 si cercano invano degli accenni agli schemi per passato e futuro, analoghi
a quelli del presente. Questo non può essere un caso, se si riflette sul fatto che qui era in gioco
niente meno che la continuazione del programma di Essere e tempo. A quanto pare il pensiero della
presenza tende a mettere seriamente in pericolo l’impostazione della temporalità tripartita.
Perché questo potesse essere così e, per volendo anticipare il risultato, perché è stato veramente
così, si può vedere innanzitutto cercando di comprendere ciò che può aver indotto Heidegger a
sviluppare la questione della temporalità dell’essere proprio orientandola al presente, e non al
futuro. Nell’analisi dell’esserci in Essere e tempo ciò era palese nel fatto che Tessere indeterminato
che sta davanti aveva il primato. Nella questione della temporalità si tratta del tempo nella filosofia,
e quest’ultima, nel corso sui Problemi fondamentali della fenomenologia, viene caratterizzata nei
termini di «oggettivazione dell’essere»; con tale oggettivazione «si esplica Tatto fondamentale
grazie al quale si costituisce l’ontologia come scienza» (GA 24, 898; p. 269). Heidegger riprende
qui un pensiero che risuona già nelle ultime pagine di Essere e tempo. Lì si parla del fatto che
l'«ontologia antica opera con “concetti di cosa”» e Heidegger chiede che cosa significhi questa
cosalizzazione e da dove venga fuori (GA 2, 576/437; p. 519). Le lezioni sui Problemi fondamentali
della fenomenologia danno una risposta a questa domanda: cosalizzazione od oggettivazione
significano presentificazione linguistica e, in quanto tali, hanno origine dal presente. Il presente, e lo
schema temporale che gli corrisponde, sono al centro dell’argomentazione della temporalità
dell’essere perché Heidegger considera la filosofia soprattutto nella sua linguisticità e tutto ciò che
diventa linguaggio può essere presente per il fatto che il discorso viene compreso dall’inizio a
partire dal tempo e in riferimento alla presenza. Ma anche ciò è «presente», e non passato o futuro.
Alla presenza sono soggette anche le determinazioni concettuali di Essere e tempo. Il concetto di
presenza comprende anche il passato e il futuro, l’essere indeterminato che sta davanti è
concettualmente «presente» quanto l’apertura al mondo, così che il pensiero di una presenza, che
comprende Tesser presente e Tesser assente, minaccia la stessa concezione della temporalità: questo
pensiero suggerisce di concepire futuro e passato come modificazioni della presenza e, in tal modo,
avrebbe dovuto essere scavalcata anche la temporalità stessa elaborata per Tesserci quotidiano; la
sua tripartizione si sarebbe rivelata peculiarità dell’esserci quotidiano, così da rendere impossibile la
continuazione del programma di distruzione, orientato all’analisi fondamentale dell’esserci,
progettato per la seconda parte di Essere e tempo. La tripartizione della temporalità non sarebbe
stata più il tempo nella filosofia, non sarebbe stato più possibile comprenderla. Ma così l’analisi
fondamentale dell’esserci nell’ambito del programma heideggeriano sarebbe andata perduta.
Ciò che mette in difficoltà Heidegger, in relazione al
programma si Essere e tempo, è dunque la visione dell’impossibilità che corrisponde alla logica
dell'origine propria del suo programma, di comprendere la filosofia a partire dalla quotidianità
dell’esserci, la quale viene pensata analogamente alla phronesis aristotelica. Su questo la
temporalità tripartita avrebbe dovuto potersi interpretare come il tempo della filosofia: ma
l’impostazione delle lezioni sui Problemi fondamentali della fenomenologia è del tutto inutile a
questo scopo. L’introduzione dello schema orizzontale della presenza riforma la struttura della
temporalità nella sua tripartizione e senza questa non è possibile spiegare la filosofia a partire dalla
struttura dell’esserci quotidiano. Questo segna il fallimento del programma dell’«ontologia
fondamentale».
Ciò non significa che i concetti e le analisi sviluppati in Essere e tempo non abbiano avuto alcun
ruolo nel prosieguo del pensiero di Heidegger. Ma egli intraprende una revisione dei concetti
sviluppati in Essere e tempo: reinterpreta i risultati dell’analisi dell’esserci in modo che la filosofia
venga ora compresa nella struttura dell’esserci. L’esserci non è più differente nell’ambito della
quotidianità e in quello della filosofia, ma è in sé sostanzialmente filosofico. Solo così Heidegger
può rimanere attaccato al pensiero che ha accompagnato il suo lavoro filosofico dal suo inizio
autonomo: il pensiero, cioè, di una filosofia storica. Secondo il progetto di Essere e tempo, il tempo
sta nel segno di un ritorno ad una storia filosofica.
2Le indicazioni delle pagine degli scritti aristotelici sono tratte dall’impaginazione dell’edizione
ormai standard1. Aristotelis opera, ex rec. I Bekkeri, Berlin 1831-1870 (Edizione dell’Accademia
delle Scienze di Berlino).
3Essere e tempo è un libro strutturato molto chiaramente. Rinuncerò quindi a documentarne i
passaggi argomentati. Ho già interpretato dettagliatamente Essere e tempo in: Martin Heidegger.
Phänomenologie der Freiheit, Frankfurt a.M. 1988, di prossima pubblicazione presso II Melangolo,
Genova.
4La traduzione italiana del passo latino è: «Non appena fuori dal grembo materno cominciamo a
morire».
5 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, secondo libro, prima parte (B 176-187/A 137-148).
4. IL RITORNO ALLA STORIA FILOSOFICA
La formazione del mondo a partire dall’al di là dell’essere
Affermare che solo dopo l’interruzione del progetto di Essere e tempo è possibile per Heidegger
riprendere il pensiero di una filosofia storica risulta sorprendente se si riflette sul fatto che la
problematica della temporalità viene introdotta nel quinto capitolo di Essere e tempo nei termini di
«Temporalità e storicità». Tuttavia, proprio questo capitolo conferma tale affermazione: la storicità
appartiene allesserci prefilosofico, per come Heidegger ne parla qui, e non può quindi rappresentare
un elemento costitutivo per la filosofia. Secondo la concezione di Essere e tempo la filosofia è sì
ancora una liberazione dai vincoli dei concetti e delle modalità di pensiero del passato, ma, se
questa liberazione non conduce più al libero rivolgimento verso l’inizio della storia, bensì alla
struttura autentica dell’esserci, la filosofia non è più essenzialmente storica. Si libera, piuttosto,
dalla tradizione per mettere a disposizione una struttura la quale, nonostante la sua temporalità, non
è più storica, né temporale; la struttura dell’esserci sussiste fintanto che esiste Tesserci. Il filosofare
stesso non ha un tempo determinato, non ha più una situazione storica determinata, ma si mantiene
in una «presenza» comprensiva, in quanto esprime la struttura temporale dell’esserci. Non era nelle
intenzioni di Heidegger arrivare a questo punto. E' perciò necessario iniziare ad indagare il suo
cammino di pensiero a partire dall’«incidente» rappresentato da Essere e tempo.
Il punto di rottura è segnato dal semestre invernale 1931/32, quando Heidegger tiene delle lezioni la
cui prima parte è dedicata all’interpretazione del cosiddetto mito della caverna di cui Platone parla
nella Repubblica. Pensieri analoghi a quelli di cui Heidegger tratta delle lezioni si ritrovano già
nella conferenza heideggeriana dal titolo Dell'essenza della verità, scritta nel 1930; tuttavia, questa
conferenza venne data alle stampe solo nel 1943, e Heidegger vi apportò considerevoli modifiche,
anche successivamente, per la sua ripubblicazione nella Gesamtausgabe. Già questo mostra la
necessità di tener presenti le lezioni su Platone per comprendere lo sviluppo della nuova concezione
heideggeriana.
Nella prima parte delle lezioni su Platone Heidegger segue passo passo il racconto del mito della
caverna come lo si legge nella Repubblica; per comprendere l’interpretazione heideggeriana è
perciò necessario ricapitolar
lo brevemente. Il mito parla di uomini che siedono come dei prigionieri in una caverna e che sono
incatenati in modo tale da poter guardare soltanto verso le pareti della caverna e vedere le ombre
degli oggetti, che vengono portati dietro di loro e che proiettano le loro ombre sulla parete grazie
alla luce di un fuoco; il mito prosegue narrando che cosa accade allorché uno dei prigionieri viene
liberato dalle catene: egli vede anzitutto gli oggetti, di cui prima aveva sempre visto soltanto le
ombre, e quando viene portato fuori dalla caverna vede anche gli oggetti naturali, che non sono
prodotti artificialmente come gli oggetti nella caverna. Ma soprattutto vede il sole, che fa vedere
tutto ciò che è nella luce diurna e che deve venir compreso come la luce originaria, a differenza del
fuoco che viene prodotto nella caverna in modo artificiale.
Ebbene: Heidegger indaga sulla modalità di comprensione della metafora della luce in questa storia.
Le sue argomentazioni inquadrano innanzitutto ciò che è noto dall’analisi dell’esserci condotta in
Essere e tempo col nome di «apertura» [«Erschlossenheit»]. La «luce» sta per quello spazio aperto
[Offenheit] in cui solo si può incontrare qualcosa e, analogamente, la metafora della luce può essere
interpretata come metafora della libertà dell’esserci.
Per la comprensione della libertà come apertura secondo Heidegger è poco importante il fatto che
qualcosa si manifesti alla luce; è decisiva, piuttosto, la penetrabilità della luce: «Usiamo
l’espressione Waldlichtung, “chiaro di bosco”, “radura”; con essa intendiamo un posto libero da
alberi che offre via libera al passaggio e allo sguardo. Lichten significa quindi sgomberare, liberare.
La luce rischiara e dirada, rende liberi e lascia penetrare» (GA 34, 59; pp. 84-85). Il discorso di un
«offrire» non è nuovo in Heidegger. In Essere e tempo esso riguarda il dover «lasciar appagare»
qualcosa in modo da potersi intendere e rapportare nel suo contesto in generale. Ma proprio per
questo il passo citato è ancor più degno di nota: mentre in Essere e tempo l'esserci veniva
caratterizzato, «in quanto essere-nel-mondo, [come] luminoso in se stesso» (GA 2,177/133; p. 170)
e veniva esso stesso compreso come ciò che dona e rende libero, adesso si dice che è la luce a
offrire e a fornire lo spazio aperto per un passaggio e per uno sguardo.
Questa differenza d’accento non può essere spiegata dicendo che il passo citato si trova in
un’interpretazione del mito della caverna e che Heidegger segue soltanto ciò che il testo platonico
gli pone già sotto gli occhi. L’interpretazione della luce come metafora della libertà non si ritrova
nel testo platonico; è chiaro, cioè, che il mito narrato da Platone tratta della libertà: in fin dei conti si
tratta della liberazione da una prigionia e, dato che il motivo della liberazione è centrale per
Heidegger, si comprende facilmente perché lo abbia interessato proprio il mito della caverna.
Tuttavia, Heidegger non si attiene soltanto al mito; è centrale il fatto che, alla fine della sua
interpretazione del mito, egli affermi che la coappartenenza di luce e libertà viene soltanto
suggerita, nel migliore dei casi, dal testo platonico e sia una prerogativa dell’interpretazione l’averla
messa in evidenza e l’averla determinata più particolarmente (GA 34, 125; pp. 150 e segg.).
Nell’interpretazione del mito che si ritrova anche nella Repubblica non si parla della
coappartenenza di luce e libertà, e Heidegger coglie l’occasione per rinnovare il suo programma di
distruzione e per far assumere a Platone il ruolo decisivo: la liberazione dalle catene è un mero
«essere svincolati» e necessita di essere fondata nella libertà «positiva» dell’«essere liberi-per
(verso...) »: «Il rapportarsi a ciò che mette in libertà (in luce) è esso stesso un divenire liberi». Il
fatto che Heidegger sviluppi qui il suo pensiero autonomo diventa lampante quando aggiunge:
«L’autentico divenire-liberi è un vincolarsi progettante, - non la mera accettazione di un
incatenamento, ma un dare-a se-stessi-per-se-stessi-un-vincolo, tale che rimane vincolante fin da
principio, anticipatamente, in modo che così ogni comportamento successivo possa diventare ed
essere libero nelle singole situazioni» (GA 34, 59; p. 84). Con queste frasi si compiono le
trasformazioni decisive rispetto alla concezione di Essere e tempo.
Volendo formulare con la terminologia di Essere e tempo il cambiamento che è in atto, si potrebbe
dire che Heidegger offre una nuova determinazione della risolutezza: la «risolutezza» non ottiene il
suo significato soltanto a partire dalla chiusura del decadimento, dal raggiungimento della
trasparenza nell’esserci e dal rimanere così come si è «autenticamente», ma indica il «dar[si] un
legame» in rapporto a ciò che rende liberi, alla luce.
Anche la vecchia concezione conduce, cioè, ad un «vincolo», nella misura in cui con la risolutezza
non si agisce più in nome del «si», ma la possibilità determinata dell’agire viene assunta nello
spazio aperto del proprio esserci e con ciò diventa vincolante. Ma nelle lezioni su Platone non si
tratta più delle singole azioni o modalità di rapporto. Il legame che ci diamo, piuttosto, è tale da far
«diventare ed essere liberi» in esso e, grazie ad esso, di rendere tale «ogni comportamento
successivo». Il legame non riguarda anzitutto l’agire o il rapportarsi stesso, ma il contesto dell’agire
e in un modo particolare: soltanto nella misura in cui un tale contesto viene progettato nei termini di
contesto vincolante si instaura un’analogia con il «liberante» della luce, che fa «essere
autenticamente liberti]» (GA 34, 59; p 85). La luce rende possibile la libertà autentica o positiva che
si assume nel progettare un contesto. Ciò che viene in tal modo progettato non è più il proprio
essere che sta innanzi, ma il mondo. E la luce è una metafora del tempo.
Il fatto che Heidegger voglia, di fatto, andare oltre questo pensiero è mostrato ancora più
chiaramente quando, nel contesto della sua concezione di libertà, egli introduce il concetto di
comprensione e, più precisamente, di comprensione dell’essere: «Comprendere l’essere significa:
progettare anticipatamente la legalità e la struttura essenziali dell’ente. Divenire liberi per l’ente,
vedere-nella-luce, significa compiere il progetto d’essere in cui viene pro-gettata e tenuta davanti
una veduta (immagine) dell’ente, per rapportarsi, con lo sguardo rivolto ad essa, all’ente in quanto
tale» (GA 34, 61; p. 86).
Questo può essere illustrato da alcuni esempi prodotti da Heidegger stesso. Egli cita come esempi
per il suo progetto d’essere la scienza moderna della natura, la storiografia come «scienza della
storia» (GA 34, 62; p. 88) e l’arte: ambiti, dunque, che non hanno avuto alcun ruolo degno di nota
in Essere e tempo. La scienza moderna della natura è subordinata alla già citata determinazione
della comprensione dell’essere, nella misura in cui in essa viene compiuto «un progetto tramite il
quale è stato preventivamente definito che cosa si sarebbe inteso in seguito con “natura” e “processo
naturale”: una determinata relazione spazio-temporale di punti di massa in movimento» (GA 34, 61;
p. 87). Questo «progetto» rende possibile la ricerca nei suoi dettagli; solo nel suo contesto «la
natura ha potuto essere interrogata circa la conformità a leggi dei suoi singoli processi ed essere
messa per dir così alla prova nell’esperimento» (GA 34, 61; p. 87).
Per la storia le cose stanno in modo analogo: «Un uomo della statura di Jacob Burckhardt», dice
Heidegger, «è un grande e autentico storico, anziché un semplice erudito, non per il fatto di avere
letto e trascritto diligentemente le fonti, e nemmeno per aver scoperto da qualche parte un
manoscritto, ma per aver lasciato agire in sé la visione anticipatrice essenziale del destino, della
grandezza e della miseria dell’umanità, della condizionatezza e del limite dell’agire umano-,
insomma per aver fatto agire in sé la comprensione che anticipa l'accadere di ciò che noi
chiamiamo storia, cioè dell'essere di questo ente» (GA 34,62 e segg.; p. 88).
L’arte, infine, non è né «espressione del vissuto» (GA 34, 63; p. 89), né copia della realtà e
nemmeno «qualcosa che procuri ad altri un piacere o un godimento di tipo più o meno elevato».
L’essenza dell’arte consiste piuttosto nel fatto che l’artista «possiede una visione essenziale di ciò
che è possibile, mette in opera le nascoste possibilità dell’ente e in tal modo fa sì che gli uomini
vedano quell’ente reale in mezzo al quale si aggirano ciecamente». E Heidegger riassume le sue
argomentazioni sull’arte dicendo: «Ciò che è essenziale nella scoperta della realtà è accaduto e
accade non già per opera delle scienze, ma grazie alla filosofia originaria, alla grande poesia e ai
suoi progetti poetici (Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Goethe) » (GA 34, 64; p. 89). In questa
frase si cela il punto saliente, nella misura in cui adesso c’è nuovamente posto per la filosofia: gli
accenni fatti alla scienza naturale, alla storia e all’arte sono posti in un climax calcolato e formulato
in modo discreto, in cui la filosofia riceve la posizione proporzionalmente più alta in quanto è citata
alla fine dell’argomentazione sull’arte.
Il fatto che la scienza naturale, la storia e l’arte non vengono trattate in questo contesto allo stesso
modo, emerge probabilmente già alla prima lettura delle argomentazioni heideggeriane sul progetto
dell’essere. La scienza naturale «definisce» soltanto «che cosa si sarebbe inteso in seguito con
“natura” e “processo naturale”», mentre la storia di un certo valore è caratterizzata da una «visione
essenziale» dell’«accadere» storico. All’artista, infine, viene attribuita una «visione essenziale di ciò
che è possibile», la quale si articola «[mettendo] in opera le nascoste possibilità dell’ente reale e
[facendo così] in modo che gli uomini vedano quell’ente reale». Della scienza naturale vale
anzitutto il fatto di fornire un «idea» o un’«immagine», un’immagine a cui attenersi come
orientamento e a cui potersi orientare nell’agire. L’allusione al mito della caverna non è da
tralasciare, così come non è da tralasciare lo spostamento di accento effettuato nei confronti del
mito della caverna: nell’orientarsi verso un’immagine si è ancora in una condizione di immobilità
come la condizione dei prigionieri nella caverna; tuttavia, la scienza della natura è già un «progetto
d’essere»: anch’essa deve se stessa allo «spiraglio di luce» (GA 34, 60; p. 86) della libertà, a cui
risponde in modo da rendere possibile soltanto nella libertà anche la prigionia della propria
condizione di immobilità.
La «storia di un certo valore» segna uno stadio più alto rispetto alla scienza della natura: non ha a
che fare con l’ente, con cui ci si rapporta nell’esserci, bensì con l'«accadere» dell’esserci nella
storia; essa ha già fatto «operare in sé l’essere di questo ente» - che significa in questo caso:
dell’uomo - e può essere compresa come un’articolazione di questo essere. Paragonata alla scienza
della natura la storia di valore si trova in una condizione di minore immobilità, perché non si tratta
dell’ente di cui la scienza della natura «progetta» un’immagine; la sua libertà maggiore consiste
nell’essere più vicina all'esserci.
Rispetto all’arte anche la storia di valore è, tuttavia, caratterizzata dalla condizione di immobilità:
con la sua «visione essenziale di ciò che è possibile» l’artista non lascia agire in sé Tesserci, bensì lo
sposta nelle possibilità, scoprendole, e lo libera dal nascondimento. L’artista fa vedere agli uomini
anche «l’ente reale», differenziandolo nella rappresentazione da ciò che è possibile e mantenendo in
tal modo gli uomini in quella differenza, che essi stessi sono, tra possibile e reale, tra determinato ed
indeterminato. Questo aspetto è, a sua volta, pensabile soltanto in quanto l’artista stesso si trova
nella differenza ed è tale da esser«ci» autenticamente. Tuttavia, Tesserci autentico è di un altro tipo
rispetto a quello di cui Heidegger parla in Essere e tempo e che era concepito in relazione alla
phronesis: Tesserci autentico si esprime adesso nell’arte, nella poesia, e gli è essenziale,
evidentemente, proprio il fatto di esprimersi. L’arte è la più libera delle forme di «progetto d’essere»
finora citate, poiché nell’arte, e attraverso di questa, Tesserci si «risolve» per la libertà.
Se è giusto dire che l’argomentazione heideggeriana della scienza naturale, della storia e dell’arte,
nei termini di stadi o gradini della libertà, è diretta alla filosofia stessa, peraltro non discussa qui,
allora la filosofia dev’essere quella forma di «progetto d’essere» che corrisponde più di ogni altra
cosa allo «spiraglio di luce» ed è la forma più alta di libertà. Come forma più alta della libertà, a sua
volta, essa costituirebbe anche la risolutezza più marcata. A questo punto la filosofia occupa
sicuramente una posizione suprema, in quanto presenta la scienza naturale, la storia e l’arte come
gradi della libertà; ma questo non può costituire il fatto decisivo, perché in questo modo non si
darebbe prova del perché anche la filosofia possa essere chiamata un «progetto d’essere».
Ma la filosofia può essere più di una visione di quei gradi di libertà che ha già alle spalle: la
filosofia può essere più di questo, se senza di essa non è possibile mantenersi liberi su di un altro
livello, che non è il livello ulteriore all’arte.
Quando i gradi di libertà non sono messi al riparo da interpretazioni sbagliate, le cose stanno in
modo analogo; l’arte rappresenta non a caso l’esempio più lampante. Heidegger conclude la sua
determinazione dell’arte con la frase: «Ma per comprendere che cosa siano l’opera d’arte e la poesia
come tali, la filosofia deve perdere l’abitudine di concepire il problema dell’arte nei termini di
un’estetica» (GA 34, 64; p. 89). Deve perdere l’abitudine d’interpretare l’arte come «godimento di
tipo più o meno elevato»; solo quando la filosofia trova il suo compimento «originariamente», viene
anche aperto un accesso all’arte in modo che si possa essere nell’articolazione dell’esserci
autentico, aperta dall’arte stessa. Ma la filosofia trova il suo compimento originariamente come
progetto dell’essere in riferimento al tempo.
Che cos’è un progetto dell’essere in riferimento al tempo? Ciò rimane ancora oscuro anche nel caso
in cui ci si attenga a come Heidegger determinava il «progetto» in Essere e tempo. «Progetto» aveva
qui lo stesso significato di «comprensione» e caratterizzava dunque il percepire diretto del proprio
essere possibile, del proprio essere che sta innanzi, nella sua indeterminazione, cosi come il
percepire quelle possibilità con cui si rispondeva alla domanda sul proprio essere possibile. Questa
concezione del «progetto» si distingue fondamentalmente dal «progetto d’essere» che è in atto nella
scienza naturale, nella storia e nell’arte. Qui non si ha più a che fare con il percepire tali possibilità,
ma con il fatto che soltanto adesso si può aprire lo spazio del possibile; e non viene più percepito
nemmeno il proprio essere che sta innanzi nella sua indeterminazione, ma il tempo stesso.
Come si debba comprendere il tempo possiamo spiegarlo avvalendosi, ancora una volta,
dell’interpretazione heideggeriana di Platone e seguendo la questione di come si debba capire più
precisamente il liberante che caratterizza la metafora della luce. La metafora della luce, o meglio
del sole, è in Platone l’idea del bene. Essa viene discussa nella Repubblica come ciò che rende
possibile il pensiero e il pensato, così come il sole fa essere con la sua luce il vedere ed il visibile.
L’idea del bene è, secondo la traduzione heideggeriana della frase decisiva di questo passo, ciò «che
concede la svelatezza all’ente conoscibile e che conferisce al conoscente la facoltà di conoscere
(GA 34, 103; p. 130). «Svelatezza» è qui un termine particolarmente appropriato per rendere il
senso del greco «alétheia»; si intende dire, infatti, che ciò che deve venir conosciuto diventa
accessibile, diventa dunque svelato, grazia all’idea del bene.
Per Heidegger ciò che in Platone era chiamato «l’idea del bene» è il tempo: senza la visione del
tempo non è possibile alcun progetto d’essere, perché il tempo è ciò che rende possibile, in
generale; niente è senza tempo e fuori dal tempo, e niente diviene in modo atemporale. Lo
«spiraglio di luce» è allora un’esperienza pura della possibilità e rende liberi da ogni vincolo, è
l’esperienza della possibilità in generale. E' possibile corrisponderle, a sua volta, soltanto
nell’apertura di un nuovo spazio della possibilità. Lo «spiraglio di luce», in riferimento al tempo,
può essere temporale soltanto in un modo autentico, esplicito. Lo «spiraglio di luce» è dunque
l’esperienza del tempo, semplicemente, e, in un certo modo, Heidegger riprende qui il suo pensiero
della «presenza» sviluppato nei Problemi fondamentali della fenomenologia: il tempo non è
suddiviso semplicemente nelle tre forme, ma la loro esperienza si rovescia comunque in un progetto
d’essere, che è strutturato temporalmente.
Questo non significa, però, che il progetto d’essere sia subordinato alle estasi della temporalità.
Esso progetta piuttosto uno spazio di possibilità da cui non viene soltanto caratterizzato in anticipo
il rapportarsi futuro, ma anche ciò che si è stati. In relazione al liberante del tempo il progetto
d’essere è una nuova determinazione dell’esserci: l’irrompere del tempo con un «nuovo» tempo; il
progetto è un «accadimento fondamentale» (GA 39, 109; p. 115), come dirà Heidegger nel semestre
invernale 1934/35 o, come si dirà poi dal 1936, è l’«even-to». Con il sorgere di un «nuovo tempo»,
dall’esperienza del tempo, come possibilità in generale, eviene il tempo stesso.
In questo caso non è importante stabilire un nuovo spazio di possibilità: è invece importante che
questo spazio conservi il suo carattere di possibilità. In un passo dell’argomentazione heideggeriana
della scienza della natura, che non avevamo finora preso in considerazione, è mostrato proprio
questo carattere di possibilità. Sul progetto della scienza della natura Heidegger dice che questo è «a
tutt’oggi in linea di principio il medesimo». E continua:
Eppure qualcosa è mutato; non tanto le possibilità del contenuto e le rivoluzioni di metodo, quanto
soprattutto il fatto che il progetto ha perso il suo originario carattere essenziale di liberazione, come
mostra il fatto che oggi l’ente che è oggetto ad esempio della fisica teorica e della fisica in genere
non è diventato né diventa per noi, attraverso questa scienza moderna, più ente, bensì il contrario: lo
vediamo dallo stato di depressione in cui si trova quella che oggi viene chiamata “filosofia della
natura” (GA 34, 62; p. 87).
Un progetto d’essere ha un suo «originario carattere essenziale di liberazione», che può anche
perdere. Ogni progetto ha evidentemente «il suo tempo», nella misura in cui deve stare nel contesto
dell’accadere fondamentale del tempo. Questo tempo non lo si deve immaginare nel senso di
un’epoca databile storicamente. Al contrario: non appena viene realizzato un progetto d’essere
considerato da un punto di vista storico, tale progetto si rivela come il segno più sicuro del fatto che
«il suo tempo» è ormai passato. Ogni progetto d’essere ha in tal senso «il suo tempo», per il fatto
che con esso si origina in un tempo e, in tal modo, il tempo stesso «accade» fintanto che ci si
mantiene nello spazio originariamente aperto e reso possibile da esso stesso. Tale spazio è quel
lo in cui si produce il «vincolo» ad ogni e per ogni «rapporto successivo» (GA 34, 59; p. 105). Si
tratta di uno spazio aperto in cui ci si può comprendere. In Essere e tempo Heidegger aveva
chiamato proprio questo spazio «il mondo». Lo spazio di possibilità messo in atto nel progetto
d’essere rappresenta un mondo.
Anche da questo punto di vista la nuova concezione si distingue in modo sostanziale dalla
precedente: le analisi di Essere e tempo riguardavano soltanto la motilità dell’esserci in un mondo in
cui si poteva esser«ci» in modo autentico o inautentico, senza che il mondo, in quanto tale, per
questo mutasse. Rispetto a tale analisi, si tratta adesso della possibilità di «nuovi mondi», si tratta di
pensare il carattere temporale del mondo in un modo diverso dall’orientamento verso la temporalità
dell’esserci, in quanto adesso è in gioco la temporalità dell’essere-nel-mondo. Ora per Heidegger è
importante che il mondo scaturisca in modo nuovo dal tempo.
Il progetto d’essere è dunque progetto del mondo. Ma il progetto del mondo è formazione del
mondo. Ciò che questo significa viene discusso da Heidegger nelle lezioni del semestre invernale
1929/30 che, tra le altre cose, tematizzano la «formazione di mondo come accadimento
fondamentale nell’esserci» (GA 29/30, 507, p. 448). Qui si deve comprendere in tre sensi la
«formazione del mondo»: «L’esser-ci nell’uomo forma il mondo: 1. lo produce; 2. dà un’immagine,
una visione di esso, lo rappresenta; 3. lo costituisce, è ciò che lo circonda, che lo abbraccia» (GA
29/30, 414; p. 365). Qui la «rappresentazione» del mondo in un’«immagine» è compresa in modo
ancora fondamentale, mentre nelle lezioni su Platone la rappresentazione era riservata ad un
determinato modo in cui si formava il mondo. Si vede qui come la concezione heideggeriana
subisca continuamente dei cambiamenti; neanche le lezioni su Platone rappresentano l’ultimo stadio
di tale concezione.
In queste lezioni rimane ancora da sviluppare la determinazione che, a paragone del concetto di
mondo di Essere e tempo, è la più diversa: la determinazione, cioè, secondo cui il mondo viene
«prodotto». Non è inverosimile che Heidegger si sia ripromesso di dare una risposta alla domanda
sul significato di questo aspetto, confrontandosi nuovamente con Aristotele: egli annuncia infatti per
il semestre estivo 1931 il corso su Interpretazioni della filosofia antica (GA 33, 225; p. 155) e fa
lezione sui primi tre capitoli del IX libro della Metafisica di Aristotele. Le argomentazioni
approfondite di questo ci-
do di lezioni conducono ad un punto che Heidegger manterrà anche in seguito: il mondo viene
prodotto nel momento in cui diventa linguaggio. E basta pensare all’arte, alla poesia, nei termini di
uno stadio della libertà, per aggiungere che il mondo è prodotto nella misura in cui viene poetato.
Con ciò è compiuto il passo decisivo verso una nuova comprensione del linguaggio, una
comprensione che nelle interpretazioni heideggeriane di Hölderlin e nei saggi de L'origine
dell'opera d’arte (1936) riceve le sue prime formulazioni significative.
Nelle lezioni su Aristotele risuona la prima nuova comprensione heideggeriana del linguaggio, ed è
proprio richiamandosi a tali lezioni che è possibile spiegarla. Le lezioni sono dedicate, tra le altre
cose, all’interpretazione del termine «lògos». Parlare nel senso del lògos è, come dice Heidegger,
«un Auslesen [operare una cernita], un raccogliere, selezionandole, le cose che nei loro reciproci
riferimenti formano un insieme» (GA 33, 142; 101). Con un lògos si indica ciò che appartiene ad
una cosa e solo così trova espressione la sua unitarietà. Ora, Heidegger aveva compreso il discorso
in Essere e tempo come l’apertura [Erschlossenheit] dello stare insieme; se si unisce questo
pensiero alla nuova comprensione del linguaggio, diventa chiaro ciò che si deve comprendere con
l’espressione “produzione di un mondo”: laddove il contesto dell’esserci si esprime nuovamente
dicendo che cosa appartiene a questo contesto, si fonda anche un mondo comune. Laddove si apre
un nuovo mondo, la comunanza nell’esserci può anche darsi sotto forma di «chiacchiera» del «si».
Allora domina la «l’insieme dell’ente raccolto in qualcosa di “unitario”» e, come aggiunge
Heidegger, «nell’esserci, che è al tempo stesso distrazione» (GA 33, 128; p. 92). Mentre in Essere e
tempo il discorso poteva essere «autentico» solo nel mondo del silenzio, qui viene riabilitata
l’articolazione linguistica.
Il discorso dell’esserci, «che è al tempo stesso distrazione», può da un lato risultare noto, dall’altro,
tuttavia, è anche sorprendente. Può apparire noto se si è letta l’argomentazione di Essere e tempo
sull’inautenticità e se si sa che «la continua possibilità della distrazione» (GA 2, 229/172; p. 217;
trad. modificata, ndt) risiede nell’orientamento alla chiacchiera e nelle possibilità ivi annunciate.
Colui che si interessa a tutto ciò che si dice sia interessante e si perde nella «curiosità» (GA 2, 226 e
segg./170 e segg.; p. 215 e segg.) non si raccoglie in qualcosa, ma è «distratto» da e nei plurimi
interessi che non sono percepibili in modo autentico. Questo aspetto si trova già nello scritto di
abilitazione, quando Heidegger parla della piattezza della vita moderna. Tuttavia, il discorso
dell’esserci nei termini di «distrazione» è sorprendente, poiché si riferisce all’esserci, e non fa
valere soltanto una possibile modalità d’essere dell’esserci.
Le lezioni heideggeriane dell’estate 1928 danno in proposito delle importanti informazioni. Qui
Heidegger riassume «il problema di essere e tempo» nuovamente e conduce ad una svolta radicale il
suo concetto di esserci: la «neutralità dell’espressione ‘l'esserci’’», si legge, «è essenziale perché
l’interpretazione di questo ente va attuata prima di ogni effettiva concrezione» (GA 26, 171 e segg.;
p. 162). In Essere e tempo Heidegger aveva espresso delle riflessioni simili: l’«esserci» caratterizza
il nostro modo di essere, mentre la parola «uomo» indica un ente (GA 2, 16/11; p. 28), e quindi è
inutilizzabile per l’impresa di Essere e tempo, così come la disciplina dell’«antropologia». Tuttavia,
dopo aver indicato la «neutralità» del termine «esserci», Heidegger conclude che con esserci non
intende più un modo di essere ogni volta mio, bensì una neutralità che può anche rendere possibile
il «con-essere»: «L’esserci» non soltanto «reca in sé l’interiore possibilità dell’effettiva dispersione
nella corporeità e, quindi, nella sessualità» (GA 26, 173; trad. it. p. 163), ma anche «nel cospirare
insieme e [nella] generica unificazione» (GA 26,175; trad. it. p. 165). L’«esserci» è diventato un
concetto che può anche caratterizzare una comunità.
Vale la pena considerare ancor più approfonditamente la svolta radicale che Heidegger dà qui al
concetto di esserci. E' ovvio che anche in Essere e tempo il termine «esserci» non intendeva un
esistere isolato; Heidegger aveva infatti detto che al «mio» modo di essere appartiene il fatto di
rapportami agli altri in modo più o meno esplicito. Ma il movimento di inautenticità ed autenticità
consisteva, tuttavia, nell’essere liberato dalla comunanza oscura della chiacchiera e di liberare gli
altri nel loro «poter essere autentico». L’«esserci» caratterizzava dunque il modo di essere
dell’individuo e l’argomentazione dell’autenticità e dell’inautenticità tematizzava il movimento tra
la copertura inautentica dell’individualità nella chiacchiera e la sua liberazione.
Heidegger aveva parlato, cioè, anche in Essere e tempo dello «storicizzarsi della comunità» e lo
aveva caratterizzato nei termini di uno storicizzarsi «del popolo», ma era tuttavia importante non
chiudersi «al destino che l'esserci ha in comune con la sua generazione e nella sua “generazione”»
(GA 2, 508/384 e segg.; p. 461): con «generazione» non si deve intendere la comunità, bensì,
secondo la formulazione diltheyana, a cui Heidegger rimanda propriamente in una nota, «un cerchio
molto stretto di individui che, attraverso la dipendenza dagli stessi grandi fatti e trasformazioni,
come quelli che hanno agito nell’età della loro formazione, malgrado la diversità degli altri fattori
aggiuntivi, sono uniti in un tutto omogeneo»1. Con l’appartenenza ad una generazione si
caratterizza un’appartenenza a cui non è possibile sottrarsi e che perciò può essere chiamata un
«destino che l’esserci ha in comune con la sua generazione»; «destino» è la storicizzazione
dell’appartenenza generazionale, in cui si dovrebbe stare come un fatto dell’esserci ogni volta
proprio. Ma la nuova concezione heideggeriana si distingue considerevolmente da questa: in quanto
Heidegger non comprende più l’«esserci» come «ogni volta mio», egli guadagna la possibilità di
pensare la comunità come qualcosa che si forma con un progetto d’essere in relazione al mondo che
si fa linguaggio. La formazione del mondo è la formazione di un mondo comune.
Al centro della concezione heideggeriana, quale è stata sviluppata dopo Essere e tempo, vi è una
nuova determinazione della filosofia. La filosofia non è più «interpretazione» dell’esserci, bensì
forma esplicita del progetto d’essere. In questo senso, già nelle lezioni del 1928, Heidegger
determina la filosofia come una «metafisica» che appartiene alla «natura dell’uomo» (GA 26, 274;
p. 250). Diversamente dalla concezione della metà degli anni Trenta, l’espressione «metafisica»
possiede ancora un significato positivo. Nella lezione inaugurale, che Heidegger tiene a Friburgo il
29 luglio 1929, egli riprende questo aspetto e dice che la «metafisica» è «l’accadimento
fondamentale nell’esserci» (GA 9, 122; p. 77). Seguendo le argomentazioni delle lezioni su Platone,
diventa chiaro che la metafisica è progetto di essere in relazione al tempo. Sappiamo già che con ciò
non è caratterizzata soltanto la filosofia, e, in corrispondenza di questo, nella sua lezione inaugurale
Heidegger chia-
ma la filosofia «il mettersi in moto soltanto attraverso un particolare salto della propria esistenza
dentro le possibilità fondamentali dell’esserci nella sua totalità» (GA 9, 122; p. 77). La filosofia è la
forma suprema del progetto d’essere perché comprende l’essere espressamente a partire dal tempo e
mette in evidenza altre forme di progetto d’essere come «affidate» all'esserci. E' la forma suprema
della risolutezza, perché grazie a lei può essere frainteso un progetto d’essere in quanto tale e
preservato dal suo decadere nella routine dell’agire intramondano; la filosofia mantiene un progetto
d’essere nella sua autenticità e può farlo in quanto ogni progetto d’essere è essenzialmente
filosofico, «metafisico». Nella misura in cui con un progetto d’essere irrompe anche un nuovo
tempo, che così eviene, la filosofia indica che cosa è nel tempo. La filosofia dà notizia di un nuovo
mondo e della comunità che si è formata con lui; essa si pone al servizio di un nuovo tempo e di un
nuovo mondo, perché in essi l'esserci si rivela nella sua «originaria positività e potenza
dell’essenza» (GA 26, 172; p. 162), e tuttavia Tesserci deve essere espresso e, al contempo, messo
in luce fuori da ogni fraintendimento. In tal modo la filosofia di Heidegger si apre già, in modo
fondamentale, alla politica.
La politica: irruzione e non inizio
Il 21 aprile del 1933 Heidegger viene eletto, quasi all’unanimità, Rettore dell’Università di Friburgo
e si inscrive al NSDAP il primo maggio dello stesso anno2. Il suo incarico è segnato dall’impegno
politico. Egli tenta, soprattutto, di contribuire ad affermare la nuova costituzione dell’università nel
senso del «principio del
Führer»3; anche le sue comunicazioni ufficiali di quel periodo non fanno ben sperare: egli dà il
benvenuto a chiare lettere all’avvento della «rivoluzione nazionalsocialista»4. Ma non ce ombra di
dubbio sul fatto che Heidegger avesse simpatie per il nazionalsocialismo anche prima del 1933. Una
lettera a Elisabeth Blochmann del 22 giungo 1932 mostra che Heidegger non aveva alcuna
posizione politica tradizionale: rifiutava il centro cattolico e il comuniSmo così come il liberalismo;
nella lettera dice esplicitamente di pensare nella direzione di una politica nazionale. Il
nazionalsocialismo era evidentemente per Heidegger, così come per molti altri intellettuali,
un’alternativa politica, anche per le sue tendenze anticlericali e anticomuniste alla debole repubblica
di Weimar. Oggi tutto questo appare inconcepibile. Ma si dovrebbe pensare un po’ più in una
prospettiva storica, ovvero al fatto che la repubblica di Weimar non era ritenuta una forma di
anticipazione della vecchia Repubblica federale della Germania occidentale, ed evitare di svincolare
Heidegger dalle circostanze e dalle condizioni del suo tempo. E non si dovrebbe nemmeno
dimenticare che all’inizio degli anni Trenta non si poteva ancora sapere che cosa sarebbe diventato
definitivamente il nazionalsocialismo come dopo il 1945. Questo non giustifica in alcun modo le
simpatie politiche di Heidegger, ma le pone nel contesto storico in cui si trovavano.
Anche questo aspetto è importante, perché Heidegger non è stato un fiancheggiatore opportunista.
Ha accolto la rivoluzione nazionalsocialista con il suo piglio antibor-
ghese, nella misura in cui essa gli era già familiare dai tempi del movimento giovanile, con le sue
tendenze riformatrici della vita e per il fatto che, come scrive a Elisabeth Blochmann nel 1918, «la
vita dello spirito deve nuovamente divenire per noi una vera, effettiva realtà» (HBBr, 7; p. 21).
Questo era lo «spirito dell’epoca» per coloro che pensavano in modo anticlericale. Per gli stessi
motivi altri si sono aspettati dal comuniSmo cose simili a quelle che Heidegger si aspettava dal
nazionalsocialismo.
Le sue simpatie per il nazionalsocialismo sono state definite spesso non politiche, e questo è
sicuramente giusto. Heidegger non si era mai schierato prima di allora, non si era mai confrontato
con la filosofia politica prima del 1933; egli non aveva assegnato alcun ruolo centrale alla politica
in nessuna delle due interpretazioni approfondite che aveva compiuto di Aristotele e di Platone.
Heidegger non possedeva nello specifico alcun concetto filosofico di politica; le questioni dell’arte
dello stato, la questione delle diverse forme di potere, la questione della giustizia di una comunità
politica, ogni problematica che Platone e Aristotele, e non solo loro, avevano affrontato nel
dettaglio, non si ritrovano in Heidegger.
Tuttavia, questo fatto non coglie il punto decisivo delle ambizioni politiche di Heidegger, perché
egli avrebbe potuto starne fuori. Decisivo è il fatto che la rivoluzione nazionalsocialista venne
accolta negli anni successivi all’uscita di Essere e tempo, anni in cui Heidegger si preoccupava di
ripensare le proprie posizioni filosofiche; la sua concezione della «metafisica» come «evento
fondamentale nell’esserci» è andata in secondo piano in modo evidente, allorché una settimana
dopo l’approvazione della «legge sui pieni poteri» al parlamento, egli scrive a Elisabeth
Blochmann:
Gli eventi attuali hanno su di me e sulla mia concentrazione - proprio perché molto rimane oscuro e
incompiuto - un insolito potere. Accrescono la volontà e la sicurezza di agire al servizio di una
grande missione e di cooperare alla costruzione di un mondo fondato su un popolo. Da lungo tempo
il pallore e l’umbratilità di una nuda “cultura” [Kultur] e la irrealtà dei cosiddetti “valori” sono
decadute ai miei occhi fino allo zero, e mi hanno fatto cercare nell’Esser-ci la nuova base. E la
troveremo, e insieme ad essa la vocazione dell’uomo tedesco nella storia dell’occidente, solo se ci
abbandoneremo all’Essere stesso in una nuova forma e in una nuova appropriazione. In questo
modo io percepisco il presente interamente a partire dal futuro. Solo così può crescere un’autentica
partecipazione e quell’insistenza [Inständigkeit] nella nostra storia, che rimane naturalmente il
presupposto per un veridico operare (HBBr, 60; pp. 101-102).
Soprattutto quest’ultima frase mostra che Heidegger, sebbene non fosse un fiancheggiatore, non era
nemmeno un compagno di partito ortodosso. Se l’«insistenza nella nostra storia» è la precondizione
per raggiungere degli effetti, allora gli eventi politici di per sé non sono sostanziali; sostanziale è
piuttosto il fatto che la costruzione di un «mondo fondato su un popolo» deve appartenere al
contesto di un progetto d’essere. Tuttavia, questo progetto d’essere non è ancora posto; la «base
nell’esserci» e la «vocazione dell’uomo tedesco nella storia dell’occidente» devono ancora essere
trovate.
Quando Heidegger scrive all’inizio che «gli eventi attuali» gli rimangono, per molti aspetti, «oscuri
ed incompiuti», non si tratta semplicemente di un riflesso sulla mancanza di chiarezza della
situazione politica. L’ambiguità degli «eventi attuali» ha il suo fondamento nel fatto che il presente
non è ancora illuminato da un progetto d’essere. Perciò, al presente è offerta niente più che una
chance.
Se si fa esperienza del presente «a partire dal futuro», allora, in quanto presente, quest’ultimo
rimane oscuro. Heidegger non ravvisa ciò che è effettivamente reale nel presente. E' cieco davanti al
presente perché lo esperisce soltanto come momento di passaggio. Il «passaggio», si diceva già
nelle lezioni del semestre invernale 1929/30, è «l’essenza fondamentale dell’accadere» (GA 29/30,
531; p. 468). Laddove il presente è un passaggio, non è possibile riporvi alcuna fiducia; tuttavia,
dandogli un futuro, non è possibile porsi nei suoi confronti da «inattuali».
Assegnare o meno un futuro ad un determinato presente è certamente una questione di capacità
politica di giudizio. Ma la capacità politica di giudizio può essere, per così dire, schiacciata, o
perfino resa inerte, da altri modelli di pensiero, e un modello di questo tipo è la concezione
heideggeriana del progetto d’essere. Quest’ultima è estremamente «dirompente», necessita
dell’interpretazione del presente, per sapere se esistono i margini per definirlo primariamente
un’irruzione. E poiché il progetto d’essere comprende anche passato e futuro, anche il passato è
disponibile; delle riserve di tipo conservativo sono escluse dalla situazione dell’irruzione. Il fascino
suscitato su Heidegger dall’irruzione nazionalsocialista risiede nella logica rivoluzionaria della sua
filosofia e specialmente della sua filosofia, e specialmente della sua filosofia da Essere e tempo in
poi.
Ciononostante si deve ritenere fondamentalmente inesistente la questione del carattere «fascista»,
come alcuni la definiscono con piacere, della filosofia heideggeriana. La sua concezione è, cioè, un
discorso che chiaramente si rivolge al particolare, non è «internazionalistico»: il progetto d’essere
non riguarda l’universale, perché quest’ultimo, per Heidegger, si deve sempre ad un’«astrazione»
(GA 26, 172; p. 163); ciò che si può discutere e che si può «produrre» è sempre e soltanto un
determinato spazio di possibilità, un mondo determinato; non c’è una lingua universale, e con ciò,
tra l’altro, è escluso anche l'imperialismo a danno di altre lingue. Ma se fosse possibile pensare in
modo anacronistico, si potrebbe immaginare Heidegger interprete, con i propri mezzi concettuali,
anche della rivoluzione nazionale del 1848.
Per quanto riguarda il giudizio sui modelli heideggeriani di pensiero si mostrerà che Heidegger può
sviluppare una critica radicale al nazionalsocialismo senza separarsi dal modello di pensiero del
progetto d’essere. In tal modo, il modello di pensiero in quanto tale non diventa meno problematico,
ma mostra, tuttavia, che il suo carattere problematico non è da ricercare sul piano politico.
Heidegger ha articolato nondimeno la sua concezione, sviluppata dopo Essere e tempo, in relazione
anzitutto alla politica. L’articolazione politica della «metafisica» è esposta nel discorso di rettorato
intitolato L’autoaffermazione dell’università tedesca.
Tale discorso non è una comunicazione politica, ma un testo filosofico: è un testo filosofico che
cerca di porre la filosofia in relazione alla politica. Se questa affermazione è giusta, allora è da
escludere la giustezza di un’altra affermazione: Heidegger intende inquadrare, o addirittura
sottomettere, la filosofia alla politica.
Questo diventerà più chiaro se si legge il discorso a partire dalla conclusione: «Ma comprenderemo
interamente la nobiltà e la grandezza di questa irruzione allorché e solo allorché avremo iscritto nei
nostri cuori quella profonda e ampia riflessione da cui l’antica saggezza greca trasse la sentenza: tà
megala panta episphalè... “Tutto ciò che è grande ... è nella tempesta”» (SddU, 19; p. 30).
Spesso è stato detto che Heidegger, con la sua traduzione di questa citazione dal greco, ne ha falsato
il senso.
La traduzione heideggeriana è insolita e molto libera; letteralmente dovremmo rendere l’aggettivo
«epiphalés» con «ciò che tende a cadere in avanti» o anche con «insicuro». Ma bisogna chiedersi se
Heidegger dica qualcosa di diverso: ciò che «è in tempesta» «tende a cadere» e per questo è
«insicuro», o anche «in pericolo». Ma più interessante è la questione di che cosa sia qui
propriamente «tutto ciò che è grande». Nel contesto della citazione il discorso di Heidegger sembra
offrire una risposta chiara, è l’«irruzione» nella sua «nobiltà e grandezza» (trad. modificata, ndt).
Nel contesto della Repubblica di Platone, da cui è tratta la citazione, le cose stanno diversamente.
Heidegger non ha tirato fuori dal proprio contesto una citazione a caso per farne la fine del discorso.
Chi si prende la briga di rileggere il testo di Platone può stabilire che l’argomentazione della
Repubblica centra precisamente il contesto nell’insieme della citazione che anche Heidegger ha in
mente. Si tratta della relazione tra filosofia e politica, o meglio: della relazione della filosofia nei
confronti di una possibile costituzione (politéia) dello stato. Socrate descrive dettagliatamente come
le nature filosofiche, gli uomini quindi, che sono tagliati per la filosofìa negli Stati che hanno una
costituzione cattiva, corrono il pericolo di essere rovinati e, se essi intendono sfuggire a questo
pericolo, hanno solo la possibilità di ritirarsi dalle questioni politiche. Tuttavia, questo è solo un lato
della questione: laddove la filosofia venga praticata in modo marginale, nella più bella delle ipotesi,
all’interno di uno Stato, questo fatto rappresenta un pericolo per lo Stato stesso. In uno Stato cattivo
la filosofia è minacciata; senza la filosofia lo Stato è in pericolo. Poi segue la frase: “Tutto ciò che è
grande”; più precisamente: «Tutte le grandi cose sono pericolose e realmente, secondo il proverbio,
il bello è difficile» (Repubblica 497d 9 e segg.). Il grande e il bello, di cui parla qui Socrate, sono
l’equilibrio tra filosofia e politica. Solo in uno Stato giusto la filosofia può svilupparsi realmente, e
senza la filosofia uno Stato giusto sarebbe impossibile. Se si ammette che Heidegger abbia chiaro il
contesto della sua citazione, allora ciò che «è nella tempesta» è l’equilibrio tra filosofia e politica.
Il discorso di rettorato deve mostrare come sia possibile questo equilibrio. Esso si divide in due
parti, di cui la prima è dedicata alla filosofia e alla scienza, la seconda alla politica. Filosofia e
scienza sono viste qui in modo unitario: «Ogni scienza è filosofia, che lo sappia o lo voglia, oppure
o no», e questo perché «rimane vincolata all’inizio della filosofia» (SddU, 11; p. 19). Questa tesi è
già nota dai passaggi delle lezioni su Platone discussi prima. La scienza può preservare
l’originarietà del suo progetto solo se è esplicitamente collocata nel tempo da un punto di vista
filosofico. Dato che la scienza nasconde l’originarietà del proprio progetto, è compito della filosofia
adoperarsi per eliminare questo nascondimento e per liberare nuovamente la scienza nello spazio
della sua verità. Su questo punto Heidegger può riprendere l’«inizio»: l’inizio offre la misura di un
progetto d’essere.
Se ogni scienza è, in verità, filosofia, allora può essere determinata nella sua essenza nella misura in
cui la si autodetermina e la modalità in cui Heidegger considera questa determinazione indica già
come le due partì del discorso siano strettamente collegate: Heidegger determina la filosofia in
relazione alla comprensione greca di quest’ultima come «theoria». Secondo il discorso
heideggeriano la praxis ha, invece, una natura soprattutto politica, è «servizio del lavoro», «servizio
delle armi» e «servizio del sapere» (SddU, 15; p. 25). Questa sembra un’affermazione complessiva
sulle relazioni politiche; ma non bisogna tralasciare il fatto che introdurre il «ser-
vizio del sapere» deve aver sbalordito gli ascoltatori di allora. Con la sua tripartizione Heidegger
ritorna a Platone e riprende le tre classi della polis fondate sull’esperimento mentale della
Repubblica da Platone: gli artigiani, i custodi e i filosofi-governanti. Heidegger interpreta le tre
classi nel senso della sua concezione della libertà come obblighi nello spazio di possibilità dello
stato, come obblighi in cui lo stato si apre e al contempo viene assunto come libero.
Questi «obblighi» politici devono ora essere «uguali per necessità e rango» (SddU, 16; p. 26)
secondo il discorso heideggeriano. Tuttavia non possiamo prendere sul serio questa rassicurazione
poiché le lezioni su Platone, in cui si muove ancora il contesto teorico di Heidegger, non lasciano
alcun dubbio circa la posizione di primato che occupa la filosofia; inoltre la rassicurazione di
Heidegger contrasta con l’immagine della polis giusta, quale viene illustrata nel dialogo platonico a
cui fa riferimento la suddivisione suddetta: artigiani, sorveglianti e governanti-filosofi costituiscono
qui una gerarchia vera e propria. Una filosofia che si comprende come «servizio del sapere» pone se
stessa all’apice dello stato. Heidegger compie quindi un’identificazione ambigua: comprendendo la
filosofia nei termini di «servizio del sapere» a partire dalla politica, subordina la politica alla
filosofia.
Questo fatto ha conseguenze decisive per ciò quanto riguarda la nobiltà e la grandezza
dell’irruzione di una tale irruzione. Il destino dello stato dipende dalla filosofia ed esso si trova per
questo in una tempesta minacciosa. La scienza, e cioè: la filosofia, riesce da sola ad imborghesire
l’essenzialità dello stato; se la filosofia ne sia capace, rimane, a sua volta, da vedere. La filosofia
può allora, dice Heidegger, «esistere veramente [...] alla condizione di porre noi stessi, di nuovo,
alla potenza
dell 'inizio del nostro essere storico-spirituale». E continua dicendo: «Questo inizio è l’irruzione
della filosofia greca. In quel punto della sua storia, per la prima volta l’uomo occidentale sulle salde
fondamenta della sua stirpe in virtù del suo linguaggio fronteggia Tessente nella sua totalità e lo
interroga e lo comprende come Tessente che esso è» (SddU, 11, p. 19). Da notare che l’inizio è qui
l’irruzione della filosofia greca; «irruzione» e «inizio» caratterizzano qui entrambi gli aspetti del
progetto d’essere e dello sguardo sul liberante, il tempo, che rende possibile tale progetto.
L’«inizio» è l’accadere temporale, «l’evento», e l'«irruzione» è l’apertura dello spazio di possibilità
che accade temporalmente. Nella filosofia greca «inizio» e «irruzione» coincidono. Ma allora non
potremo più leggere soltanto, e in primo luogo, il discorso della nobiltà e della grandezza
dell’irruzione presente nei termini di un’espressione di entusiasmo, perché l’irruzione presente è
senza inizio. Tuttavia, poiché un progetto d’essere è possibile solo a partire dall’inizio, l’irruzione
presente non è un progetto d’essere, bensì, nel migliore dei casi, essa lo permette. Heidegger ne
parla poco più avanti con chiarezza:
L’inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di
fronte, davanti a noi. L’inizio, in quanto è ciò che vi è di più grande, precede tutto ciò che è sul
punto di accadere e così è già passato oltre noi, al di sopra di noi. L’inizio è iscritto nel nostro
futuro, ci è di fronte come l’ingiunzione che da lontananze remote ci chiama a riconquistare di
nuovo la sua grandezza.
Solo se, obbedendo a tale ingiunzione, ci disponiamo a riconquistare la grandezza dell’inizio, la
scienza diviene la più intima necessità dell’esserci. Diversamente essa resta un fatto del tutto
casuale in cui siamo coinvolti, oppure il tranquillo diletto di una occupazione senza rischi che
risponde all’esigenza di un mero accrescimento di conoscenze.
Ma se ci disponiamo alla remota ingiunzione dell’inizio, allora la scienza deve essere l’evento
fondamentale del nostro esserci spirituale-patriottico (SddU, 12 e segg.; pp. 21-22).
L’inizio è davanti a noi e nell'«irruzione» presente è evidentemente del tutto indeciso se la sua
«grandezza» possa essere riconquistata. Nel discorso di rettorato non è cambiato niente rispetto
all’espressione che Heidegger usa nella lettera, secondo cui il presente sarebbe ancora «molto
oscuro e incompiuto».
Quando Heidegger comprende l’irruzione a lui contemporanea come un’irruzione senza inizio,
diventa anche più chiaro perché tutto «ciò che è grande è in tempesta»: l’irruzione politica si trova
in pericolo di fallimento se essa, introdotta dalla filosofia, non conduce ad un progetto d’essere; e la
filosofia si trova in pericolo di fallimento se non riesce ad operare politicamente nei termini di una
«più grande realizzazione della praxis» e a condurre ad un progetto d’essere. Heidegger ha legato la
filosofia nel suo destino con la politica, ma anche la politica nel suo destino alla filosofia.
Ciò porta alla questione di come pensi Heidegger un tale operare della filosofia. Per parlare
anzitutto in modo generico, Heidegger ha in mente un ruolo dell’università nella conduzione dello
Stato e commisura l’università con la società dei filosofi e dei loro allievi, come Platone li lascia
descrivere a Socrate nell’esperimento mentale della Repubblica. Nella misura in cui l’università
tiene conto di quest’esigenza, essa si autoafferma nel senso del titolo che Heidegger ha dato al suo
discorso; questo significa anche che essa si afferma contro le istanze che mirano a subordinarla alla
politica. Il fatto che l’università sia necessitata ad una tale autoaffermazione indica quanto sia
precario per Heidegger l’equilibrio tra filosofia e politica.
D’altra parte è chiaro che l’autoaffermazione dell’università non può essere quella di isolarsi dalla
sfera politica. Piuttosto una tale autoaffermazione deve consistere nella sfida che l’università
accoglie, nei termini di luogo di filosofia e scienza, dalla sfera politica e, a sua volta, questa
rappresenta anche una sfida per la sfera politica. Questa duplice sfida può avere luogo proprio
nell’università, perché quest’ultimo è il luogo d’incontro di politica e filosofia; solo se l’università
mantiene la sfida, grazie alla politica come università, nel contesto delle sue possibilità, essa può
affermarsi come tale.
Verso la fine del suo discorso Heidegger giunge a discutere la sfida duplice tra filosofia e politica,
parlando della «comunità in lotta di professori e studenti». Tale discorso è lontano da ogni pathos
marziale. Heidegger non edulcora affatto le sue parole quando nel 1945, considerando
retrospettivamente il discorso di rettorato, indica che la parte riguardante la lotta è qui da intendere
nel senso di Eraclito, ovvero nel senso in cui il filosofo greco ne parla nel frammento 53 (SddU, 28
e segg.; pp. 39 e segg.). Heidegger ripropone qui lo stesso pensiero del frammento, in quanto «la
comunità in lotta» non è la truppa di professori e studenti che volontariamente si subordinano
all’«irruzione»: è bensì il confronto tra professori e studenti. Il confronto è il senso della parola
«pólemos» nella citazione eraclitea, spesso fraintesa, della lotta come madre di tutte le cose.
Come Heidegger fa capire, si tratta di un confronto in cui i professori prendono il posto della
filosofia e gli studenti quello della politica: «La volontà essenziale del corpo studentesco», dice
Heidegger, «deve obbligare se stesso alla suprema chiarezza e disciplina del sapere e deve
introdurre la scienza che riguarda il popolo e il suo stato nell’essenza della scienza» (SddU, 18; p.
28). Il «corpo studentesco» sfida dunque il «corpo insegnante» con il suo diritto politico e ne è, al
contempo, sfidato; il corpo insegnante si deve sottoporre a questa sfida, e ne è in grado se giunge
«alla semplicità e ampiezza che sono proprie dell’essenza della scienza» (SddU,18; p. 28), cioè se
comprende la scienza nel suo inizio venturo come filosofia e si assume, al contempo, la sfida con
gli studenti politicizzati. La relazione tra filosofia e politica è in tempesta, perché essa è lotta nel
senso che filosofia e politica devono prima rivelarsi nella loro essenzialità attraverso la loro sfida
duplice. Come Heidegger circa un anno e mezzo più tardi dirà del concetto di lotta, professori e
studenti devono trovarsi nel confronto affinché «vengano in primo piano gli uni contro gli altri»,
affinché possano manifestarsi a partire dal confronto5.
Il confronto tra filosofia e politica, quale quello tra professori e studenti, che deve essere condotto
all’università come luogo che è loro proprio, è tuttavia di tutt’altro genere. Nel discorso di rettorato
il confronto si mostra soltanto timidamente, ma si può comprendere il corso dei pensieri del
discorso e giudicarlo pienamente soltanto quando si tenta d’interpretare le scarse e deboli allusioni a
tale confronto. Heidegger s’interroga per la prima volta dicendo: «Scienza e destino tedesco devono
giungere alla potenza. E ciò diverranno l’uno e l’altra allorché e solo allorché noi stessi - professori
e studenti -per un verso affideremo la scienza alla sua più intima necessità e per l’altro
fronteggeremo il destino tedesco nella sua estrema indigenza» (SddU, 10; p 18). Il discorso del
«destino tedesco nella sua più estrema indigenza» sembra sorprendente, se lo si mette in relazione
con la formulazione della nobiltà e della grandezza dell’irruzione. Tuttavia, anche nel pathos di
questa formulazione, ci si deve accontentare di poco perché l’irruzione non è, appunto, un inizio.
Ciò che con il discorso dell’«estrema indigenza» s’intende dire si apre qui quando si mette in
relazione questo passo del discorso di rettorato con un altro brano. Riguardo alla frase secondo cui
«la scienza» deve diventare «l’evento fondamentale del nostro esserci spirituale-patriottico», se «ci
disponiamo alla remota ingiunzione dell’inizio», dice Heidegger:
E se il nostro proprio esserci si trova davanti a un mutamento grandioso, se è vero che ciò che ha
detto l’ultimo filosofo tedesco che appassionatamente ha cercato Dio nel dolore, F. Nietzsche: “Dio
è morto” - se noi non possiamo esimerci dal compito di prendere sul serio questa solitudine
dell’uomo d’oggi nel cuore dell’essente, in quale situazione si trova la scienza? Nel frattempo
l’iniziale stupefacente preservare dei greci nello stupore di fronte all’essente è mutato in esser-
esposti senza difesa alcuna nell’ascoso e nell’incerto, cioè nel problematico. L’interrogare non è più
l’inevitabile premessa alla risposta intesa come sapere, ma diviene esso stesso la forma suprema del
sapere. L’interrogare produce e sviluppa la forza che gli è propria, di dischiudere l’essenziale di
ogni cosa. L’interrogare incalza e obbliga alla estrema semplicità dello sguardo di che si volge
all’inaccessibile (SddU, 13; p. 22).
L’«estrema indigenza» è la solitudine dell’uomo dopo la morte di Dio. Essa rende necessario un
altro inizio, come lo era stato quello greco, un inizio che non deve essere pensato come
l’allontanamento già realizzato dal primo inizio. Non si tratta, alla fine, dell’inizio greco che sta
«davanti a noi», ma piuttosto il primo inizio passato e quello nuovo futuro sono divisi da un
lunghissimo lasso di tempo; con tale inizio l’essere sarebbe progettato in riferimento al tempo. Ma il
medio di questo lasso di tempo dovrebbe essere il presente; solo quando si chiarisce l’irruzione
presente si «confrontano [i due inizi] l’uno con l’altro». L’inizio futuro si determina solo a partire da
quello passato, e il passato del primo necessita di un nuovo inizio. Il presente è ancora oscuro e
incompiuto.
Il «destino tedesco» è il destino di un «popolo giunto alla piena coscienza di sé nel suo stato»
(SddU, 10; p. 18). Quando questo sapere, però, non sa niente della «solitudine dell’uomo d’oggi»,
non ne è nemmeno tanto lontano; non può essergli tanto lontano se Heidegger deve ancora esigere
che il destino, in cui deve stare questo sapere, «resista»: la questione heideggeriana, «se non
possiamo esimerci dal prendere sul serio questa situazione dell’uomo di oggi», ha senso soltanto se
non si è ancora fatto sul serio. La nobiltà e grandezza dell’irruzione nasconde il problema vero e la
filosofia lo fa riemergere. La nobiltà e la grandezza dell’irruzione rischiano l’inautenticità.
Che Heidegger abbia ragionato proprio in questo modo, lo si evince dalla lettera a Elisabeth
Blochmann del 30 marzo 1933. Nella situazione presente, scrive Heidegger, si deve «accettare in
tutta calma quel correre dietro alle nuove cose che cresce ovunque e troppo frettolosamente». E
inoltre si dice:
Quell’incollarsi a ciò che è in primo piano, che ora improvvisamente prende qualunque cosa in
senso “politico”, senza considerare che ciò può rimanere solo una via della prima rivoluzione. Certo
questo per molti può divenire ed essere divenuto una via verso il primo risveglio - posto che siamo
intenzionati a prepararci per un secondo, e più profondo. La discussione critica sul “marxismo” e
sullo “Zentrum” dovrà andare a fondo nel vero senso della parola, se non muterà verso una
discussione critica sull’anti-spirito del mondo comunista e non meno sullo spirito morente del
cristianesimo. Altrimenti tutto rimarrà assolutamente casuale[,] gravato dal pericolo che noi -
naturalmente con debite differenze - si incappi in un’epoca come quella segnata dalle date 1871-
1900. Attraverso questi timori, tuttavia, non dobbiamo né sminuire oggi di fronte a noi stessi
l’impeto degli eventi, né prendere gli eventi come assicurazione che il nostro popolo con questo
abbia già compreso la sua segreta missione - alla quale noi crediamo - e abbia trovato le forze
risolutive per il suo nuovo cammino (HBBr, 60; p. 102).
In relazione a questo passo citato si deve trovare una risposta chiara alla domanda su come
Heidegger abbia ragionato nel 1933. C’è solo ancora da discutere come sia da interpretare il
giudizio sulla situazione allora presente. Il passo della lettera, sopra citato, dà l’occasione di farlo in
modo riassuntivo.
Heidegger vede il pericolo di un’autonomizzazione dell’istanza politica; la rivoluzione politica può
essere ora occasione per un «risveglio», in cui ci si deve comprendere in quello spazio temporale
che intercorre tra i due inizi. Ma ancora di più: quando Heidegger dice che il presente «può essere»
soltanto «una via della prima rivoluzione», è chiaro che non si sente ideologicamente obbligato a
rimanere su questa via. Non si potrà più dire, perciò, che Heidegger elevi il nazionalsocialismo a
filosofia; si potrà affermare tutt’al più che egli permette un’interpretazione filosofica dell’irruzione,
ovvero del fattore rivoluzionario presente nel nazionalsocialismo: altre vie «della prima
rivoluzione» sarebbero evidentemente possibili e, in questo, si esprime almeno una certa distanza
dalla forma storica della via che è stata invece percorsa.
D’altra parte è possibile anche vedere, dal passo citato, quanto il giudizio politico sul
nazionalsocialismo sia profondamente errato: Heidegger vede in esso il perico
lo di «incappare] in un’epoca come quella segnata dalle date 1871-1900». Allude, dunque, al
pericolo per il proprio presente di tornare ad una restaurazione nel senso dell’impero di Bismarck e
della rivoluzione industriale tedesca, un’idea, vista con gli occhi di oggi, che non può essere più
errata. I timori di Heidegger sono quelli di un rivoluzionario sui generis. Come mostra chiaramente
la lettera, è importante per lui una «seconda e più profonda» rivoluzione. Nei confronti della realtà
politica del nazionalsocialismo Heidegger è stato, a quanto pare, cieco o l’ha completamente
rimossa; la sottigliezza delle sue riflessioni sulla relazione tra filosofia e politica, che emerge sotto
la superficie retorica del discorso di rettorato, non lo ha preservato da questo errore. Le sue
riflessioni avrebbero infatti potuto portare, alla fine, alla domanda se i nazionalsocialisti fossero in
grado di riflettere veramente sulla sfida filosofica.
Tuttavia Heidegger non sacrifica la filosofia alla politica, non la subordina alla politica e non la
mette al suo servizio. Nei confronti delle possibilità della politica egli è rimasto scettico, senza
tuttavia imporre il suo scetticismo contro il fascino dell’irruzione. Nella misura in cui
il discorso di rettorato esprime entrambi, cioè scetticismo e fascino, risulta un discorso ambiguo;
Karl Jaspers lo ha mostrato in modo lampante reagendo con una lettera. Il 23 agosto 1933 scrive a
Heidegger:
La ringrazio per il Suo discorso di rettorato. Mi stava a cuore conoscerlo nella sua versione
autentica dopo averlo letto sui giornali. Il tratto che prevale nella Sua impostazione, a partire
dall’antica Grecia, mi ha toccato nuovamente come una verità nuova e altrettanto ovvia. Su questo
Lei concorda con Nietzsche, ma, con la differenza, che con Lei è possibile sperare di trovare un
compimento filosofico dell’interpretazione di ciò che Lei esprime. Il Suo discorso presenta, in
questo, una sostanza credibile. Non parlo dello stile e dello spessore del discorso che - per quanto io
veda - ne fanno il documento, finora unico, di una volontà accademica presente che persisterà. La
fiducia, che ripongo nella Sua filosofia con ancora più fermezza dalla primavera e dai nostri
colloqui di allora, non è turbata dalle qualità di questo discorso che sono conformi al loro tempo, da
qualcosa in questo discorso che mi incoraggia, un po’ forzatamente, e dalle frasi che suonano a
vuoto. In fin dei conti sono lieto, adesso, che qualcuno possa parlare così, che possa toccare i veri
limiti e le origini (HJBr, 155).
L’ambiguità di Heidegger nel determinare la situazione filosofico-politica risiede nel fatto che egli,
come si è visto, comprende l’irruzione politica come il primo passo possibile verso un nuovo inizio.
Questa valutazione è correggibile: è possibile rilevare che l’irruzione non ha avuto il senso di un
altro inizio. Tuttavia, questo non basta a prevenire errori del genere; risulta infatti impossibile
mettersi al sicuro da ogni dubbio di principio sul fatto di comprendere l’irruzione nei termini di un
nuovo inizio o meno.
Nel proseguo si mostrerà che Heidegger ha rivisto la sua concezione del progetto d’essere proprio
in questo senso e, cioè, certamente a partire dall’intuizione del suo disastro politico. Ma soprattutto
il fallimento delle proprie fatiche nell’ambito della riforma accademica durante il periodo del
rettorato lo hanno convinto che l’irruzione del 1933 non è stata quella liberazione dalle catene dei
prigionieri nella caverna, così da poter essere provata adesso la scalata alla libertà. La distanza dal
presente politico, e con essa un’altra diagnosi del presente, è chiara nel 1936, ma è già percepibile
nel 1934. Tuttavia, se anche il motivo dell’autorevisione heideggeriana risiede nell’ambito
dell’esperienza politica, le conseguenze di questa revisione sono essenzialmente filosofiche.
Se si pensa, ancora una volta, al pensiero centrale del discorso di rettorato, diviene chiaro a che
punto far iniziare tale revisione. Lo svolgimento dei pensieri nel discorso sta e coincide con
l’assumere come equivalenti irruzione ed inizio; per Heidegger questo è testimoniato dall’irruzione
greca, che è stata al contempo un inizio. Tuttavia, l’irruzione greca e l’inizio sono un segno
preliminare per ciò che è venturo [das Zukünftige], non nel senso di avveniente [das Kommende],
ma nel senso di affidato come compito [das Aufgegebene], che Heidegger intende esprimere con il
suo discorso. Ciò che è affidato come compito, a sua volta, può e deve essere colto, laddove se ne
offre la possibilità; può e deve essere domato con la sua propria forza.
Già nel suo discorso Heidegger parla di questo con un linguaggio ambiguo. Da un lato, offre
un’articolazione all’esigenza di prendere sul serio la sentenza nietzscheana della morte di Dio e con
ciò riprende il pensiero che era già dello schizzo del progetto su Aristotele. Ricordo la formulazione
secondo cui la filosofia, in quanto tale, è una «mano levata» contro Dio. Heidegger considera questa
«mano levata» un fatto compiuto e, come tale, deve essere «presa» ancora «sul serio». Ma d’altro
lato, e anche questo si mantiene all’interno del circolo dei pensieri appartenenti allo schizzo del
progetto su Aristotele, Heidegger cita Nietzsche come il filosofo che ha cercato appassionatamente
Dio. Per quanto riguarda la prima questione, essa s’inserisce in una comprensione della filosofia che
il titolo del discorso ha già nominato. La filosofia è autoaffermazione, e cioè, non autoaffermazione
nel già contesto istituzionale accademico, bensì affermazione dell’esserci, in primo luogo, dopo la
morte di Dio; l’università tedesca ne è solo il luogo. Per quanto riguarda la seconda questione,
l’affermazione secondo cui gli abitatori dell’oggi dovrebbero «dispor[si]» a disposizione dell'inizio,
risiede nello stesso circolo. Un tale dispor-si sembra conciliarsi difficilmente con
l’autoaffermazione. Il primo inizio e l’altro inizio si trovano in uno strano contrasto, se il primo
deve essere ripreso e se l’altro consiste nell’autoaffermazione. Ma il pensiero dell'autoaffermazione
rende possibile a Heidegger un’interpretazione che si accorda con l’irruzione politica. L’irruzione è
l’irruzione di un inizio da intraprendere.
Questo rientra nella concezione del progetto d’essere. Tuttavia, la mancanza di chiarezza del
presente costringe Heidegger a pensare diversamente anche il tempo. L’accenno al primo inizio
passato e a quello nuovo futuro ha il proprio luogo nel presente, che si trova dentro la temporalità;
la mancanza di chiarezza della situazione politica costringe Heidegger a tornare alla concezione
temporale di Essere e tempo. Tuttavia, questa concezione rimane sovrapposta a quella del progetto
d’essere: passato e futuro sono adesso determinati dai due inizi. Se il «confronto» dei due inizi apre
uno spazio temporale, in cui diviene chiaro il presente, viceversa la chiarezza del presente dipende
dall’apertura di questo spazio temporale. Ma esso rimane aperto solo fintanto che l’altro inizio è e
rimane futuro. L’autoaffermazione del nuovo inizio e l’apertura dello spazio temporale tra i due
inizi non stanno insieme. Laddove è aperto uno spazio temporale, irruzione ed inizio non possono
nemmeno coincidere. Un’irruzione, un progetto d’essere, non potrebbe più «confrontare» i due
inizi. L’irruzione greca non era un inizio e non lo è nemmeno quella attuale. L’inizio non può essere
nemmeno «riconquistato» (SddU, 13; p. 21) da alcuna irruzione. Esso non è disponibile per nessuna
autoaffermazione.
E' un ulteriore segno di ambiguità che caratterizza il discorso di rettorato il fatto che questo aspetto
si ritrovi già nel discorso stesso: Heidegger può dire del sapere filosofico, che esso deve, «per fallire
realmente, trarre da sé e dispiegare la suprema ostinazione e caparbietà, grazie alla quale l’intera
potenza dell’ascosità dell’essente insorge e si dischiude» (SddU, 11; p. 20); più avanti, do-
ve si dice di dover prendere sul serio la morte di Dio, può aggiungere che «l’iniziale stupefacente
perseverare dei Greci nello stupore di fronte all’essente è mutato in un esser-esposti senza difesa
alcuna nell’ascoso e nell’incerto, cioè nel problematico» (SddU, 13; p. 22); e può infine esigere
dalla scienza, che vuole la propria essenza, di «occupare realmente gli avamposti del fronte, dove
estremo è il rischio che proviene dall’incertezza costante del mondo (SddU, 13; p. 23). Questo però
significa: la scienza, la filosofia si deve difendere dal consolidamento di un nuovo mondo; deve
negarsi a quell’irruzione che si presenta con la pretesa di spiegare ciò che al presente è ancora
indeciso ed incompiuto. Non può puntare su irruzioni politiche. Heidegger trarrà questa
conseguenza. L’equilibrio di filosofia e politica non regge all’imperversare della tempesta.
1 W. DILTHEY, Über das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der
Gesellschaft und dem Staat (1875), in W. Dilthey, Gesammelte Schriften, Bd. V, Göttingen 1982, p.
37 (36-41) [trad. it. Lo studio delle scienze umane, sociali e politiche, a cura di G. Cacciatore,
Morano, Napoli 1975, p. 58].
2 Per i dettagli si veda Η. Ott, Martin Heidegger. Vnterwegs zu sei
ner Biographie, Frankfurt a.M. - New York 1988 [trad. it. Martin Heidegger, sentieri biografici, a
cura di F. Cassinari, Sugarco, Milano 1990],
3 Ivi, p. 191 [trad. it. op.cit. pp. 172-173].
4 Ivi, p. 196 [trad. it. op. cit., p. 178].
5 Cfr. M. HEIDEGGER, Hölderlins Hymnen „Germanien“ und „Der Rhein", hrsg. von S. Ziegler,
Frankfurt a.M. 1980, p. 125 e segg. e Einführung in die Metaphysik, hrsg. von P. Jaeger, Frankfurt
a.M. 1983, p. 66 e p. 122 e segg. [trad. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1986, p. 72 e
p. 124],
5. L’IMPOSSIBILITÀ DI DISPORRE DELL’INIZIO
Lo Hölderlin di Heidegger: gli dèi, Dio e la povertà del tempo
Con una lettera del 12 Aprile 1934 indirizzata al ministro in carica all’epoca, Heidegger presenta le
proprie dimissioni da rettore dell’università di Friburgo1. Quali che siano stati i disaccordi interni
all’università che hanno indotto queste dimissioni, uno studioso come Hugo Ott, la cui visione di
Heidegger non è offuscata da una grande simpatia, dà per certo che il vero motivo che ha indotto
Heidegger alle dimissioni è stato il fallimento del suo programma filosofico-politico2. Se si crede
alla testimonianza che Heidegger stesso dà di sé, egli avrebbe riscoperto il lavoro filosofico solo nel
1935. Il primo luglio 1935 scrive a Karl Jaspers di aver ripreso «solo da alcuni mesi il lavoro dove
lo avev[a] interrotto nell’inverno 1932/33 (semestre libero)» (HJBr, 157; Nr. 120). Si allude qui alle
lezioni dal titolo Introduzione alla metafisica (GA 40), che Heidegger tiene nel semestre estivo del
1935 e con cui intraprende di fatto un nuovo corso per l’articolazione della propria domanda.
Nella sua lettera Heidegger tralascia di citare le lezioni del semestre invernale 1934/35 intitolate Gli
inni di Hölderlin “Germanien” und "Der Rhein" (GA 39). Si comprende questa omissione
considerando il fatto che queste lezioni non andavano contro quelle spiegazioni
filosofiche di cui Heidegger avrebbe potuto ritenersi soddisfatto. Come si legge nella lettera ad
Elisabeth Blochmann del 21 dicembre 1934, Heidegger aveva anzitutto intenzione di continuare le
sue lezioni su Hölderlin nell’estate del 1935 (HBBr, 84; p. 137), ma evidentemente non era riuscito
a dar loro una versione compiuta, come invece avrebbe voluto, e si era così ripromesso di farne
seguire una continuazione. O almeno così scrive nella lettera suddetta: «Ad una pubblicazione [su
Hölderlin] non penso. Non sono ancora sufficientemente all’altezza della poesia» (HBBr 84, p.
137). Solo nel 1936 Heidegger riassume alcuni punti fondamentali delle sue lezioni su Hölderlin in
una conferenza intitolata Hölderlin e l’essenza della poesia, che tiene a Roma il 2 aprile dello stesso
anno.
Ciononostante le lezioni su Hölderlin occupano un posto particolare nello sviluppo heideggeriano.
Il fallimento del suo programma filosofico-politico conduce Heidegger ad occuparsi dell’arte e
questa secondo lui s’innesta, a sua volta, nella poesia di Hölderlin. Dalla propria prospettiva
Heidegger avrebbe voluto che il primo ciclo di lezioni - il secondo sarà tenuto solo nel 1941 e 1942
- rappresentasse soltanto la prova di un primo tentativo di orientamento ancora incompleto. Per il
lettore di domani il primo ciclo di lezioni su Hölderlin si rivelerà come il testo in cui i tentativi
heideggeriani, volti a raggiungere un nuovo orientamento, si comprendono come quelli più riusciti
per comprendere la nascita del nuovo. I motivi decisivi sono oggi evidenti ed è possibile
riconoscervi le linee che Heidegger ha poi seguito. Con il primo ciclo di lezioni su Hölderlin si
delineano già chiaramente i contorni della sua filosofia dei tardi anni Trenta, radicalmente critica
verso il presente.
Ma ancora di più la costellazione dei pensieri fondamentali e dei motivi di pensiero non cambierà
più essenzialmente. Heidegger elaborerà i motivi del primo ciclo di lezioni su Hölderlin in modo
più approfondito e le modificherà; anche il gesto del suo filosofare si trasformerà. Il linguaggio
espressivo e spesso violento cede, con l’età, ad uno stile trattenuto, in cui si evitano sempre più le
affermazioni concettuali. Tuttavia i testi del secondo Heidegger non devono essere compresi o
ricostruiti nei loro pensieri senza leggerli nel contesto delle lezioni e degli scritti che Heidegger ha
composto tra il 1934 e il 1938. Se la costellazione dei pensieri heideggeriani non si è più
sostanzialmente modificata da questo periodo, allora è possibile rimandare ai testi che le
appartengono per comprendere anche quelli successivi.
La lettera di Heidegger a Jaspers, sopra citata, non esprime la soddisfazione di Heidegger per una
continuità di lavoro riconquistata, ma è il segno di una depressione. Ciò che Heidegger fa capire, è,
come egli stesso dice, «un tentare a fatica», «un lieve balbettare»; ed aggiunge: «e altrimenti si
tratta di due spine - il confronto con la fede nella provenienza e il fallimento del rettorato - che sono
di per sé abbastanza per ciò che si vorrebbe superare» (HJBr, 157). La metafora della «spina nella
carne» deriva dalla seconda lettera paolina ai Corinzi, in cui tale metafora indica l’«angelo di
Satana», che ostacola la superbia e rimanda da solo alla grazia divina (2. Cor. 12, 7). Heidegger
parla di due spine, ma a ben vedere i momenti della sua vita qui nominati si coappartengono: «il
fallimento» è il rettorato, o meglio: il programma filosofico-politico per il quale sta la formulazione
«rettorato», ed anche il tentativo di un «confronto con la fede del passato». Heidegger ha fallito nel
«fare sul serio» con la morte di Dio e nel tradurre l’esperienza dell’«abbandono degli uomini di
oggi» all’«incertezza mondiale costante» in un’irruzione politica; non si è riusciti a conservare il
tentativo di localizzare nell’irruzione politica il possibile inizio di una «discussione critica [...] sullo
spirito morente del cristianesimo» (HBBr, 60; p. 102). In tal modo ci è stato precluso il cammino
per un nuovo inizio, al di là del vecchio mondo. E' anche precluso, inoltre, il ritorno ad una «fede
del passato» che appartiene proprio a quel vecchio mondo; ma l’esigenza, che esprime questa fede,
non può essere semplicemente annunciata senza decadere nel gesto critico della propria
autoaffermazione.
Il nuovo orientamento che Heidegger mostra di avere per Hölderlin intende andare proprio incontro
a questa situazione; tale orientamento è un nuovo tentativo che si rapporta all’autenticità della storia
volta all’indietro. Hölderlin rappresenta per Heidegger, come lui stesso afferma in un intervento del
1936, il poeta «degli dèi fuggiti e del Dio che viene» (GA 4, 47; p. 57); Hölderlin è così, al
contempo, il poeta di un tempo senza Dio e perciò «povero»; Hölderlin è il poeta del presente nei
termini di epoca di mezzo, del tempo che sta tra la ricusa degli dèi e l’avvento anticipante del Dio.
La poesia di Hölderlin dice adesso per Heidegger ciò che è ora.
Ha sempre avuto un effetto irritante il fatto che Heidegger parli a questo punto in modo diretto e
senza riserve «degli dèi» e «del Dio». Si è inteso vedere in questo l’amara caduta nella «mitologia»
di un attento analista dell’esistenza. Contro questa interpretazione si potrà non soltanto obiettare che
Heidegger, laddove parla in questo modo, interpreta poesie anziché sviluppare pensieri filosofici. I
Contributi alla filosofia, la principale opera di Heidegger degli anni Trenta, si concludono con un
capitolo il cui titolo nomina già «l’ultimo Dio» e anche nei testi heideggeriani successivi si parla
direttamente del «Dio» e degli «dèi»3. Parlare di «Dio» e «degli dèi» o «dei divini» è da intendersi
evidentemente in modo filosofico serio. Ma come lo si debba intendere può chiarirsi soltanto
approfondendo l’interpretazione heideggeriana di Hölderlin nelle sue linee fondamentali.
Come se avesse ancora nelle orecchie la critica di Jaspers al suo discorso di rettorato, Heidegger
ammette all’inizio delle sue lezioni su Hölderlin ciò che c’è da aspettarsi da queste e cosa no: «Non
si vuole offrire qualcosa di pratico e praticabile per i bisogni giornalieri, e con ciò mettere a
disposizione le lezioni, così da far nascere l’opinione dannosa per cui vorremmo procurare a
Hölderlin un’attualità a buon mercato. Non vogliamo rendere Hölderlin conforme al tempo, bensì al
contrario: vogliamo portare noi e i venturi alla misura del poeta» (GA 39, 4). Come si dice, poco più
avanti, «il nostro esserci» deve diventare «il reggitore vivente della potenza della poesia»
(GA39,19).
Heidegger formula una rigida alternativa: o la poesia viene resa «conforme al proprio tempo» o ci
riportiamo alla sua misura; o ci si orienta ai «bisogni giornalieri» o si diventa nell’essere reggitori
viventi della poesia e della sua potenza. Quest’ultimo caso è appropriato solo se una poesia nella
sua particolarità si oppone ai bisogni quotidiani ed ai tentativi interpretativi che vi si orientano; e
quest’ultimo caso si dà se non è ancora possibile articolare la propria epoca senza la poesia.
Ma per Heidegger le cose stanno nel modo seguente: «Non conosciamo il nostro proprio tempo
storico. L’ora mondana del nostro popolo ci è nascosta. Non sappiamo chi siamo noi, se
interroghiamo il nostro essere,
quello autenticamente temporale» (GA 39, 50). Allora non conosciamo il nostro «proprio tempo
storico» se appartiene essenzialmente ad esso un avvenire con cui si determina anche l'esser stato;
non lo conosciamo se si lascia conoscere soltanto nel suo progetto d’essere e laddove sia divenuto
impossibile un progetto d’essere sovrano che auto-afferma se stesso. Bisogna, allora, rifarsi alla
poesia «inattuale» per avere il progetto d’essere.
Il fatto che per Heidegger la poesia sia da comprendersi con il progetto d’essere è noto dalle lezioni
su Platone. Tuttavia, da allora è mutato il valore della poesia, così come la concezione
heideggeriana del progetto d’essere. La poesia non fa più soltanto «l’ente più ente», rivelando
lo propriamente nel contesto dell’indeterminato. Essa rappresenta ora il progetto autentico
dell’essere in riferimento al tempo. La poesia di Hölderlin, a cui rimandano tutte queste
caratterizzazioni, è «una decisione del tempo nel senso del tempo originario dei popoli» (GA 39,
51). Tuttavia la poesia di Hölderlin è «decisione del tempo» o progetto d’essere, non già nel senso
di progetto di un mondo nuovo, bensì nel senso di apertura del presente come tale, all’esser-stato e
all’avvenire.
Ciò accade, a sua volta, quando la poesia di Hölderlin esprime il ritrarsi degli dèi o l’avvento
riservato del Dio. Il ritrarsi degli dèi rimanda all’esser stato e l’avvento riservato del Dio
all’avvenire. Si può anzitutto supporre che ciò sia per Heidegger decisivo: gli dèi e il Dio sono cifre
per l'esser stato e per l’avvenire.
Tuttavia rimane da indagare perché Tessere stato e l’avvenire debbano essere discussi attraverso la
cifra degli dèi e del Dio veniente. Il motivo di questo costituisce il carattere problematico
dell’autoaffermazione: il fatto che gli dèi siano stati non significa attribuire loro un’epoca
determinabile storicamente, ma significa non potersi ancora comprendere in modo ateistico senza
parlarne; il discorso degli dèi costituisce un momento integrale dell’autocomprensione anche
quando non si crede più agli dèi. Se si intende fare sul serio con la «morte di Dio» in
un’autoaffermazione dell’uomo, tale autoaffermazione sarebbe inconsistente qualora rimanesse
legata a qualcosa a cui non intende più riferirsi. Il fatto che il venire «del Dio» sia riservato
all’avvenire, non significa doverci in qualche modo fare i conti o crederci. Quando Heidegger parla
del «dio venturo» non è un discorso che ha il senso di un annuncio. Il «dio venturo» è anonimo, non
è il dio di una rivelazione, e non può nemmeno esserlo, perché ogni rivelazione appartiene all’esser
stato; agli dèi passati appartiene, per Hölderlin e per Heidegger, anche quello cristiano. All’avvento
futuro, riservato del dio non corrisponde, perciò, neanche l’aspettativa di una profezia. Il discorso
del «dio venturo» deve soltanto far comprendere un aspetto del presente: il fatto che il presente non
debba essere pensato ed esperito autenticamente senza la «ritenzione» dell’avvenire, e neanche
senza la «ricusa» dell’«essere stato», cioè senza ciò che è impedito o si rifiuti di sottoporsi ancora
agli «antichi dèi». In una conferenza successiva, che riprende il titolo del progetto fallito, Tempo ed
essere del 1962 (SD), Heidegger determinerà l’essere stato stesso come «ricusa» e l’avvenire stesso
come «ritenzione».
Ricusa e ritenzione però vengono discusse nella poesia di Hölderlin in modo tale da trovarsi in
relazione alla problematica dell’autoaffermazione dell’esperienza di Dio. Nella misura in cui gli dèi
vengono chiamati ciò che è ricusato e il dio venturo viene chiamato ciò che è ritenzione, la poesia
esprime esplicitamente l’assoluta mancanza di un terreno per l’autoaffermazione. Questo riesce alla
poesia, a sua volta, in quanto ricusa e ritenzione corrispondono alla sua forma linguistica peculiare.
Quando Hölderlin mette in poesia gli dèi e il dio venturo, non evoca un’immagine traducibile in
concetti o spiegabile in questo modo; la poesia non è una religione dell’arte nel senso dell’estetica
hegeliana. Non c’è in essa un assoluto espresso nelle immagini che possa anche essere articolato
filosoficamente. Invece il linguaggio delle immagini poetiche esprime in quanto tale ciò che è
sottratto.
Perciò nelle sue lezioni Heidegger rimanda a un non dover cercare «con lo sguardo le connessioni
di immagini della nostra poesia alla ricerca della sua forza più grande possibile di chiarimento;
bensì viceversa» dobbiamo «tentare di appropriarcene nella sua forza valente» (GA 39,119); e
prima si dice: «L’immagine non deve chiarire, bensì velare, non deve rendere comune, bensì
insolito, non deve avvicinare, ma porre nella lontananza» (GA 39,116). Questo non è evidentemente
possibile per la filosofia: le determinazioni concettuali, per quanto possano essere difficili da
comprendere, esigono di essere capite e non possono così esprimere in modo davvero appropriato
ciò che si sottrae. E se ciò che si sottrae è ciò che viene rifiutato e ciò che è nella ritenzione, questo
significa che la filosofia non riesce a tirar fuori una determinata esperienza del tempo; è
filosoficamente impossibile trasporle in un tempo determinato, perché la filosofia può fornire
soltanto determinazioni temporali generali. Può, cioè, mettere il luce la necessità di comprendersi
nel tempo e nella storia sempre e di nuovo. Ma in tal modo la filosofia introduce soltanto una nuova
esperienza temporale o indica un’esperienza del tempo che è invece aperta dalla poesia. La poesia
riesce a trasporre in un tempo determinato perché la «voce» del «dire deve essere intonata» e «il
poeta parla a partire da una tonalità, la quale ne determina totalmente il fondamento e il terreno e
armonizza lo spazio sul quale e nel quale il dire poetico istituisce un essere» (GA 39, 79).
Heidegger non intende dire che la poesia sia espressione di sentimenti e di altre situazioni emotive.
Quando parla della tonalità emotiva egli utilizza piuttosto il doppio senso del termine: tonalità
emotiva significa sia «stato d’animo» che «tonalità». Quando si dice che la «voce» del poeta deve
essere «intonata» si deve anche pensare al suono di uno strumento, al fatto che le corde tese di
violino devono stare in una relazione ben precisa le une con le altre, affinché il suono possa vibrare
adeguatamente. In questo senso Heidegger parla anche di «congiuntura ritmica del dire» (GA 39,
15) e intende con ciò il suono, tanto difficile da cogliere quanto inconfutabile, di un componimento
poetico, il ritmo della sua lingua, l’accordo delle sue immagini con la loro sequenza. Se si ha un po’
di orecchio per il linguaggio poetico non si discuterà che, per esempio, l’esametro ha una musicalità
diversa dal giambo o dal trocheo; non si discuterà nemmeno sul fatto che la particolare musicalità
viene ogni volta esperita diversamente, sul fatto che essa traspone ogni volta una «tonalità» diversa.
Ma ancora di più: un componimento poetico non evoca semplicemente immagini determinate,
esprime bensì delle posizioni; un componimento poetico è lamento o lode, incoraggiamento o
aspettativa. Ed è tanto più componimento poetico tanto meno la posizione qui articolata si trova nel
contesto della vita; un componimento poetico è, per così dire, una partitura di posizioni che
permette ed esige addirittura sempre nuove esecuzioni e rappresentazioni. Certamente un
componimento poetico può esprimere più di una posizione, e questo accade spesso. Poi, però,
l’interazione delle posizioni espresse nel componimento si trova nella «congiuntura ritmica», anzi
tale interazione costituisce tale congiuntura addirittura in modo essenziale.
Nella misura in cui le posizioni hanno in sé un carattere temporale, nel lamento e nell’aspettativa lo
si può
vedere immediatamente, un componimento poetico ha anche il carattere di una partitura
dell’esperienza temporale in quanto partitura di posizioni. Un componimento poetico articola una
determinata possibilità dell’esperienza temporale certamente spesso complessa. E, articolandola
come partitura di posizioni, deve anche esprimere ciò verso cui sono dirette tali posizioni. Lode e
lamento si riferiscono sempre a qualcosa o a qualcuno.
Ciò riporta al discorso poetico che Hölderlin compone sugli dèi e diventa chiaro definitivamente
che tale discorso è totalmente diverso dall’evocazione di un modello di pensiero e di discorso
sorpassato: si tratta piuttosto di una possibilità di esprimere il presente, il proprio presente, nel
contesto di un’epoca storica. Esprimendo la ricusa che risiede nel presente e la ritenzione che
costituisce l’avvenire con il nome degli dèi e del dio è possibile una disposizione conforme al
tempo, e cioè una disposizione che fa i conti con l’impossibilità di disporre del divino,
l’impossibilità di disporre dell’avvenire e dell’esser stato. Esprimendo il tempo con le cifre degli dèi
e del dio, il tempo stesso è articolato ed esperito in un modo determinato.
Ciò che nella poesia di Hölderlin conforta la posizione di Heidegger è «l’oppressione sacralmente
luttuosa, ma pronta» (GA 39, 139). Si tratta della rinuncia agli dèi stati, la quale mantiene la loro
«divinità» ed è in tal modo la «prontezza risoluta per l’esperire il divino». Ciò è decisivo per
Heidegger: la lontananza degli dèi, espressa nella poesia di Hölderlin, è un’esperienza propria del
«divino» ed è perciò possibile chiamare «sacra» la sua tonalità fondamentale. La tonalità
fondamentale della poesia di Hölderlin dischiude la disposizione dell’autoaffermazione in modo
radicale. Heidegger ha trovato una possibilità per sviare il problema fondamentale del discorso di
rettorato.
Ma non solo questo. Heidegger ha anche trovato una possibilità per formulare in modo adatto il
rapporto con la religione, che lo aveva già impegnato nello scritto di abilitazione e nello schizzo del
progetto su Aristotele, è riuscito a conciliare la ricusa di un’immediatezza dell’esperienza religiosa
con la sua conservazione. La centralità di questo aspetto per la filosofia heideggeriana dei tardi anni
Trenta viene documentata dai Contributi alla filosofia. Essi sono composti in riferimento al capitolo
intitolato “L’ultimo Dio”, e già nel secondo capoverso di questo capitolo si dice:
Ci introduciamo nello spaziotempo in cui si decide circa il ritrarsi e l’avvento degli dèi. E che? Ci
sarà l’uno e l’altro accadimento a-venire, sarà l’uno e l’altro a determinare l’attesa che costruisce?
Oppure decidere è inaugurare uno spaziotempo totalmente altro per una verità, per la prima fondata
verità dell’essere, per l’evento? Ma come: e se quell’ambito decisivo interno al tutto, che verte sul
ritrarsi o l’avvento degli dèi; fosse proprio la fine? Come: e se, al di là di questo, bisognasse appena
comprendere l’essere nella sua verità come l’evento che s’appropria, che come tale da avvenire
Quello che nominiamo ricusa? Non è né un ritrarsi, né un avvento, e neppure un ritrarsi e un
avvento insieme, ma alcunché di originario, il pieno concedersi dell’essere che si ricusa. Qui si
fonda l’origine dello stile a-venire, ossia del contegno nella verità dell’essere (GA 65,405; pp. 64-
65).
Il pensiero decisivo viene in evidenza se si comprende ogni dettaglio del passo citato: il ritrarsi e
l’avvento non sono alternative che si trovano prima dell’avvenire, bensì il ritrarsi è esso stesso la
modalità dell’avvento. Gli dèi «arrivano» ritraendosi e questo costituisce propriamente
lo «spazio-tempo della decisione». Rimanendo aperta la questione «ritrarsi o avvento», il ritrarsi
può essere un avvento. Il ritrarsi è un avvento se viene esperito e mantenuto espressamente come
ritrarsi. In tal caso, come scrive Heidegger poco dopo nei Contributi, l'esser stato si estende al
veniente (GA 65, 411); il mantenere Tesser stato si trasforma nel modo dell’avvenire, così che la
«ricusa» dell’esser stato lascia essere oramai l’avvenire per
il presente e rimane vincolante nell’avvenire. L’«ambito di decisione nella sua totalità» è «esso
stesso la fine»: non si tratta si attendere la manifestazione futura di un Dio, ma di esperire la perdita
degli dèi e l’eterno carattere futuro del divino che è insito in essa. Poiché Tesser stato degli dèi
viene mantenuto, il proprio futuro non è altro che un mantenersi del divino; esso corrisponde alla
ritenzione futura.
Nel fatto che Heidegger cerchi di rielaborare la perdita degli dèi nella sua temporalità, si vede che il
tempo qui entra in modo duplice: il tempo è, da un lato, lo «spazio-tempo», cioè costituisce, come
in Essere e tempo, l’apertura dell’esserci, e cioè, attraverso la relazione con gli dèi, quest’apertura è
un’apertura determinata; si tratta di un’apertura storica, l’apertura nell’esser stato degli dèi, nel
mantenimento presente del loro ritrarsi e della ritenzione futura del divino. Il tempo è, dall’altro, in
quanto spazio-tempo, l’intreccio di presenza e assenza: gli dèi stati sono presenti e assenti, la loro
presenza non è diversa nella loro assenza. Heidegger riprende qui il problema che aveva formulato
nelle lezioni sui Problemi fondamentali della fenomenologia con la discussione della temporalità
dell’essere e che era rimasta ancora in secondo piano nella sua concezione del progetto d’essere a
partire dall’esperienza del tempo in generale. E il tempo in generale può essere concepito in modo
più determinato di quanto non lo sia nelle lezioni su Platone. Il tempo non è più soltanto ciò che
rende possibile una decisione temporale, ma diventa evidente anche come questo, il fatto che ciò
rende possibile una decisione temporale, interviene nell’esperienza temporale stessa; a questo punto
Heidegger può dire che il tempo «accade» nei termini di intreccio di presenza e assenza. Questo
intreccio è «l’evento»; è la «verità dell’essere» nella misura in cui l’apertura dell’«essere» stesso è
s-velatezza, ossia apertura in cui opera la velatezza. Heidegger scrive adesso più spesso nei termini
di Essere [Seyn] l’essere che «eviene», per distinguerlo dall’«essere» [Sein] dell’ontologia
tradizionale, ma per distinguerlo anche dall’ontologia fondamentale di Essere e tempo.
A questo corrisponde il cambio di accento nella concezione del progetto d’essere, nei termini in cui
Heidegger l’ha ripresa occupandosi di Hölderlin. Il progetto d’essere è la poesia non più nel senso
di irruzione storica, ma ancora nel senso di un irruzione del tempo in cui si trova già, comunque, ciò
che è presente. Il presente non è un «tempo nuovo» in cui si realizza una frattura con il vecchio, ma
il presente può essere visto diversamente grazie alla poesia; esso si trova nel contesto dell’essere
stato e dell’avvenire non disponibili. Con la «decisione temporale» di Hölderlin non è cambiato poi
molto, l’irruzione che accade nel tempo è assolutamente non spettacolare e, soprattutto, non è
«conforme al tempo». Non istituisce alcun tempo nuovo, bensì istituisce il tempo, di nuovo. Il
progetto d’essere non rappresenta più alcun compito: esso stesso è già compiuto. E' importante
soltanto comprendere tale compito nel progetto d’essere.
In tal modo cambia, secondo Heidegger, anche il compito della filosofia. Non è più importante, da
un punto di vista filosofico, esigere una vera irruzione a partire dall’inizio. Ciò è diventato
impossibile nella visione del carattere problematico dell'autoaffermazione. La filosofia, nei termini
in cui Heidegger la comprende nelle lezioni su Hölderlin, deve ancora rappresentare un «indicare
inapparente verso una direzione che dovrebbe ricomparire non appena viene colto dallo sguardo e
dal cuore in modo sicuro ciò verso cui il cenno intende indicare. Ciò che facciamo è tutt’al più
come le impalcature che si erigono anche per costruire una cattedrale, le quali ci sono per poi essere
di nuovo smantellate» (GA 39,23).
Nonostante ogni riserva che una tale caratterizzazione della filosofìa presenta, quest’ultima è in
ogni caso sufficientemente impegnativa. Il riferimento della poesia di Hölderlin al presente non è
evidente e l’indicare filosofico non è tanto «inapparente» quando il presente dev’essere posto nella
misura della poesia; soltanto la poesia fa riferimento alla decisione temporale che si attua nella
poesia di Hölderlin. In questo si riconoscono anche le linee di un programma politico. La filosofia
rimanda alla poesia come ad una partitura dell’essere-nel-mondo, la cui esecuzione politica è ancora
in sospeso. In quanto la filosofia si fa dire dalla poesia che cosa sia il tempo, la filosofia dice il
tempo nel proprio presente e, cioè, in modo tale che questo tempo possa essere inserito
nell’esperienza dello spazio di possibilità della poesia come spazio proprio.
Se la posizione del discorso di rettorato risuona, ancora qui, in un certo modo, non si parla più ora,
però, di una seconda rivoluzione veramente decisiva. Heidegger non vede alcuna possibilità nel
presente di far valere una seconda rivoluzione. Le osservazioni critiche rivolte al presente, che si
trovano nelle lezioni su Hölderlin, non si avvertono più e, a volte, sono di un’acutezza
inconfondibile. Hölderlin, dice Heidegger, è «il poeta dei Tedeschi», ma non nel senso di un
genitivo soggettivo: «Il solo poeta che fa poesia dei Tedeschi» (GA 39, 220). E più avanti aggiunge:
«ma noi siamo ancora senza poesia» (GA 39, 221). Hölderlin è il poeta dei Tedeschi: è il poeta che
ha progettato di nuovo il tempo nella lingua,
grazie alla quale i Tedeschi sono ciò che sono, e ha quindi aperto la possibilità di un nuovo mondo,
di un mondo in cui è possibile una nuova «comunità originaria». Questo perché la poesia è «il
risveglio e il profilo comune dell’essenza più propria del singolo, attraverso cui egli arriva nel fondo
della propria esistenza. Se ogni singolo viene da lì allora il vero raccoglimento dei singoli è già
previsto in una comunità originaria. Nel rozzo attivarsi dei fin troppi in una cosiddetta
organizzazione è solo un provvedimento ausiliario, ma non rappresenta l’essenza» (GA 39, 8).
Questo è di certo un appello affinché il presente rifletta sulla poesia di Hölderlin per riscoprire una
comunità originaria, una comunità dunque che ha origine dal tempo, come la determina la poesia.
La comunità di cui si parla qui, tuttavia, non può determinarsi semplicemente nelle relazioni
politiche esistenti: non ha il proprio luogo nel «rozzo attivarsi dei fin troppi nella cosiddetta
organizzazione». Ciò che Heidegger fa capire con ciò è la necessità di una politica diversa, che può
essere messa in risalto soltanto con una critica al presente. Ma così viene anche escluso un effetto
politico diretto della filosofia. La filosofia può soltanto rimandare alla poesia come al terreno di
un’altra politica. Nelle lezioni su Hölderlin si dice a questo proposito:
La tonalità fondamentale, e ciò significa la verità dell’esserci di un popolo, viene istituita
originariamente dal poeta. L’essere (Seyn) dell’ente così svelato viene concepito e strutturato come
essere (Seyn) e in tal modo viene aperto dal poeta, e l’essere (Seyn) così concepito viene posto nella
prima e nell’ultima serietà dell’ente, vale a dire nella verità nella verità storica de-terminata per il
fatto che il popolo è diventato se stesso in quanto popolo. Ciò accade grazie alla creazione di uno
Stato destinato alla sua essenza dal creatore dello Stato (GA 39,144).
Heidegger aggiunge, cioè, che la poesia, il pensiero e la creazione dello stato agiscono «in avanti e
indietro» e non sono «calcolabili», così da poter funzionare «per lungo tempo in modo sconosciuto
e senza collegamento tra loro, e tuttavia avere effetti su loro stessi», «ogni volta secondo il diverso
dispiegamento della potenza del poetare, del pensiero e dell’azione dello stato ed nell’ambito
pubblico ogni volta diverso» (GA 39, 144). Tuttavia, questo non significa che l’organizzazione
politica può avere effetti nel senso della poesia e del pensiero. Il pensiero del presente ha piuttosto
effetti all’«indietro», riferendosi alla poesia di Hölderlin, e la poesia così come il pensiero hanno
effetti «in avanti», in riferimento all’azione dello stato che è ancora in sospeso.
La fondazione di una comunità a partire dalla poesia, non importa da quale istituzione politica
venga concepita, può sembrare, almeno a prima vista, il prodotto della fantasia. Ma essa perde un
po’ del suo carattere fantastico se si pensa che qui la poesia viene compresa come determinazione
dello spazio-tempo della storia e che le comunità politiche fanno bene ad avere una relazione chiara
con la storia o, come si dovrebbe dire con le parole di Heidegger, a comprendersi nella loro storicità
ogni volta determinata. Se essa possa costituirsi in comunità autentiche, se anzi possano darsi come
comunità autentiche in senso heideggeriano, è un’altra questione. Resta il fatto che è possibile
ammettere che una comprensione della storicità determinata sia inimmaginabile senza
l’articolazione della certezza e dell’avvenire in modo determinato, e questo, a sua volta, non
significa primariamente che si racconti ciò che è stato e che si sviluppino idee su ciò che potrà
essere. Racconti ed idee di questo tipo presuppongono, piuttosto, un determinato schema temporale
in cui possono essere collocati. Quando ci si sente minacciati dall’avvenire si racconta ciò che è
stato in modo
diverso rispetto a quando s’interpreta l’avvenire nell’aspettativa di un progresso.
In fin dei conti ciò che Heidegger intende nella sua interpretazione di Hölderlin non è altro che un
tale schema della storia. Esso non deve essere un «modello» per il presente, perché altrimenti il
presente non comprenderebbe se stesso. Il fatto che il presente si comprenda è racchiuso già nel
discorso dell’«attivarsi» e dell’«organizzazione», Il presente non ha solo una comprensione di sé,
ma è nella sua struttura autonoma addirittura temporale; è solo che il presente si chiude alla libera
alternanza di presenza e assenza, considerati al tempo stesso, dunque, e tuttavia il presente
dev’essere pensato guardando al tempo. Sebbene il presente non si sia ancora adattato al progetto
d’essere della poesia, esso stesso ha il carattere di un progetto d’essere.
Se con quanto si è detto si coglie nel segno, allora deve essere cambiata nel frattempo la concezione
del progetto d’essere. Heidegger, dunque, non può più comprendere ogni progetto d’essere nei
termini di liberazione, ma deve distinguere tra progetto «autentico» ed «inautentico». Le cose
stanno di fatto così. La scienza della natura, come Heidegger aveva argomentato nelle sue lezioni su
Platone, costituisce ora l’aggancio necessario con la determinazione del presente.
L’autocomprensione del presente ha il carattere di un progetto d’essere che fornisce anticipatamente
un’immagine dell’essere in riferimento al quale, poi, l’ente viene inglobato nella «macchinazione».
Tuttavia, la scienza della natura si trova in un contesto più ampio: l’autocomprensione del presente
è il progetto d’essere della mobilitazione totale.
La mobilitazione totale e il nichilismo: il pericolo e ciò che salva
La mobilitazione totale è il titolo di un saggio di Ernst Jünger del 1930. Nel suo nucleo questo
saggio è la diagnosi sottile di un cambiamento nel condurre la guerra, che è venuto per la prima
volta alla ribalta con la prima guerra mondiale. Mentre prima le guerre, seguendo la classica tesi,
spesso citata, di Clausewitz, si ritenevano la continuazione della politica con altri mezzi ed erano
soggette ai piani e alle decisioni di politici, adesso si osserva che gli stati come totalità si
organizzano dal punto di vista delle loro capacità di attacco e dì difesa; questo, a sua volta, viene
interpretato da Jünger come sintomo di un cambiamento profondo di tutte le relazioni umane della
vita:
I fenomeni che portarono a ciò sono di varia natura. Così ad esempio, con il venir meno
dell’ordinamento in tre stati e la riduzione dei privilegi della nobiltà svanisce anche il concetto di
una casta guerriera: la difesa armata della nazione non è più dovere e prerogativa del soldato di
professione ma diventa un compito per tutti i cittadini idonei alle armi. E così l’enorme aumento dei
costi fa sì che non sia più possibile provvedere alle spese di guerra con il solo patrimonio della
Corona: per mantenere la macchina in attività è necessario dar fondo a tutte le risorse del credito,
fino all’ultimo centesimo di risparmio. L’immagine stessa della guerra come azione armata finisce
per sfociare in quella, ben più ampia, di un gigantesco processo lavorativo. Accanto agli eserciti che
riscontrano sui campi di battaglia nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del
vettovagliamento, dell’industria militare: l’esercito del lavoro assoluto. Nell’ultima fase già
adombrata verso la fine della Guerra mondiale, non vi è più alcun movimento - fosse anche quello
di una lavoratrice a domicilio dietro la sua macchina da cucire - che non possieda almeno
indirettamente un significato bellico. In questo impiego assoluto dell’energia potenziale, che
trasforma gli stati industriali belligeranti in fucine vulcaniche, si annuncia nel modo forse più
evidente il sorgere dell’età del lavoro: esso fa della Guerra un evento storico più significativo della
Rivoluzione francese4.
Non si discuterà sul fatto che tale diagnosi coglie nel segno, almeno per una fase del XX secolo; per
questo motivo tale diagnosi esercitò su Heidegger una forte influenza, così da rielaborarla per la
propria filosofia.
Nella seconda parte dei Contributi alla filosofia Heidegger ha dedicato a Jünger riflessioni
profonde. Heidegger ha potuto far riferimento non soltanto al saggio suddetto, bensì anche al libro,
uscito nel 1932, intitolato L’operaio, in cui Jünger sviluppa ulteriormente le sue osservazioni e le
riassume nella tesi secondo cui, nelle evoluzioni d’epoca moderna, si ha a che fare con la
formazione di un tipo nuovo di uomo, l’operaio appunto. I punti di vista politici, che danno
un’organizzazione a questa formazione, sono per Jünger del tutto secondari. In fin dei conti, non fa
alcuna differenza per lo sviluppo complessivo se gli stati nazionalisti operai siano di stampo
bolscevico o liberale; essi rappresentano manifestazioni di passaggio nel contesto di un
cambiamento del pianeta Terra e non è da escludere, in questo caso, che la mostruosa scarica di
lavoro ed energia conduca alla fine ad un nuovo ordine, di cui non è possibile farsi alcuna idea se ci
si orienta a ciò che è ci è familiare.
Si deve conoscere questo contesto della diagnosi jüngeriana se si intende comprendere la replica
heideggeriana dei Contributi. Con il titolo La “mobilitazione totale” come conseguenza della
dimenticanza originaria dell’essere si dice:
Il puro mettere-in-movimento e il rilasciamento di ciò che fino ad ora era stato contenuto della
formazione ancora sussistente. Il primato del procedere e dell' istituire, nel suo complesso, della
messa a punto e messa-in-servizio delle masse - a che scopo? Qual è il significato di questo primato
della mobilitazione? Che si venga necessariamente costretti alla conseguenza contraria di questo
accadere, ma non è mai il “fine”. Ma ci sono ancora “fini”? Come sorge la posizione-fine?
Dall’inizio. E che cos’è l’inizio? (GA 65,143).
Jünger non ha detto che la formazione di un «nuovo corso dell’uomo» sia il fine dello sviluppo; il
fine dello sviluppo è per lui «la scoperta di un mondo nuovo e sconosciuto - una scoperta più
distruttiva e più ricca di conseguenze di quanto non sia stata la scoperta dell’America»5. Il fatto che
Heidegger s’interroghi su un fine «del puro mettere-in-movimento» e che sottolinei che la
«costrizione» di un nuovo corso dell’uomo non possa essere questo fine, fornisce, piuttosto, delle
precise indicazioni sul suo proprio interesse. Tale interesse presenta, a sua volta, due aspetti, ovvero
la questione se ci siano ancora dei fini e la questione dell’origine della posizione-fine [Zielsetzung].
Mentre la prima questione è soggetta al tentativo di dare una diagnosi del presente, nella seconda si
tratta di comprendere la versione finale e più radicale del programma heideggeriano di distruzione.
La questione se ci siano ancora dei fini ha per Heidegger, chiaramente, una risposta negativa, e il
perché si debba rispondere in questo modo lo si vede facilmente: se si può veramente parlare di un
«primato della mobilitazione», allora ogni fine individuato in anticipo ha soltanto il senso di portare
avanti una mobilitazione e di-
venta insensato non appena non soddisfa più questa condizione. Allo stesso modo, si deve escludere
il pensiero della mobilitazione che soddisfa in sé il fine; in tal caso, essa sarebbe una motilità che
ritorna oscillando in ogni momento nel proprio compimento. Detto questo, non ci sono più fini «nel
presente». Anche se ciò contraddice le apparenze.
A ben vedere, la circostanza per cui si hanno dei fini anche «al presente» non va contro al fatto che
ci siano davvero dei fini. Secondo Heidegger «non ci sono più fini» (GA 65, 138), da quando
Nietzsche ha introdotto il concetto di nichilismo quale diagnosi del suo presente. Ma la diagnosi
nietzscheana si è «ritenuta apertamente e tacitamente diabolica» (GA 65, 139). Ma proprio questa,
tuttavia, è la questione a partire dalla quale Heidegger chiarisce l’orientarsi ai «fini» del presente:
«non si ha la sensazione che proprio questa riflessione riguardo al contegno e all’atteggiamento nei
confronti dell’ente sia il nichilismo autentico: non vogliamo ammettere a noi stessi che non ci sono
più fini. E perciò si “hanno” improvvisamente “dei fini” nuovamente, e anche soltanto ciò che può
essere ad ogni modo un mezzo per l’istituzione e il conseguimento di fini viene innalzato a fine: per
esempio il popolo» (GA 65,139). Il carattere «popolare» del nazionalsocialismo non è dunque
nient’altro che un sintomo nichilistico: con ciò Heidegger stabilisce definitivamente una posizione
che lo porta radicalmente in disaccordo con la politica dell’epoca6.
La questione di come Heidegger ponga nel contesto della sua concezione filosofica la diagnosi
temporale accennata nelle lezioni su Hölderlin, ed elaborata nei Contributi, risulta decisiva. Questo
tema è preparato nella
replica a Ernst Jünger, sopra citata, con la domanda sull’origine della posizione-fine e con
l’indicazione dell’origine come inizio.
L’inizio, come sappiamo, è il tempo stesso, il tempo che è caratterizzato dal gioco di alternanza tra
presenza ed assenza, il quale, a sua volta, viene esperito nella ricusa dell’esser stato e nella
ritenzione dell’avvenire. Il tempo, in questo senso, può essere facilmente considerato come origine
della posizione-fine: se l’avvenire non fosse ritenzione non dovrebbe essere progettato alcun fine.
Qui è presente un pensiero noto sin dai tempi di Essere e tempo: il pensiero dell’avvenire come
estasi temporale dell’essere indeterminato che sta innanzi. Ma tale pensiero assume adesso un
valore nuovo. Mentre l’analisi dell’esserci individuale aveva evidenziato che non era possibile
concepire determinate mete di azioni e comportamenti come risposte all’essere indeterminato che
sta innanzi, ed era importante vederle nella luce del suo essere possibile, adesso la nuova
concezione di Heidegger esclude di far comprendere la relazione tra fine e ritenzione attraverso il
modello di domanda e risposta. Il fatto di avere «improvvisamente di nuovo fini» si origina, infatti,
dalla propria «mancanza di fini», si origina dal fatto che «i fini non ci sono». Non ci sono più fini e
quindi anche la visione per cui «il progettare» fini ha la sua origine nel tempo non serve a molto. Si
deve, piuttosto, fare su serio con «[l’assenza] di fini» e attenersi «al sapere del nichilismo» (GA 65,
141). Esso è «ciò che è più necessario e più difficile, in generale, nel superamento del nichilismo»
(GA 65,141).
I fini che «non ci sono» nel nichilismo, sono «i fini che crescono in sé e i fini che trasformano
l’uomo (verso dove?)» (GA 65, 138). Ciò che questo significa più precisamente, viene detto da
Heidegger nelle lezioni su Nietzsche del semestre invernale 1937/37: «Non c’è più alcun fine nel
quale, e mediante il quale, tutte le forze dell’esistenza storica dei popoli possano essere raccolte e
per il quale possano essere portate a svilupparsi; non c’è nessun fine del genere, ossia che abbia al
tempo stesso e soprattutto una tale potenza da costringere unitamente, in forza di essa, l’esistenza
nel proprio ambito e da portarla allo sviluppo creativo» (GA 43, 194; p. 160). Questo significa, a
sua volta: non c’è più alcun Dio; Dio, «come causa ultrasensibile e come fine di ogni realtà»
(GA5,217; p. 198), è morto.
Tutte le forme di nichilismo, la scienza in senso estensivo e la tecnica, ma soprattutto la
«mobilitazione totale» dei grandi stati industriali, che le abbraccia tutte, non devono essere
comprese, secondo Heidegger, come risposte veritiere e, per questo, catastrofiche all’esperienza
della morte di Dio. Con ciò Heidegger non revoca la sua distruzione della religione cristiana quale
aveva intrapreso nello scritto del progetto su Aristotele. Il discorso sulla morte di Dio deve stare
piuttosto nel contesto di una distruzione che viene compiuta contro voglia dal presente stesso. Con
il nichilismo è diventato evidente che ogni tentativo di dare un fine alla vita, prendendo Dio come
riferimento, non è stato altro che un camuffamento dell’esperienza divina.
Heidegger allude a questo quando nomina il Dio, «la causa ultrasensibile e fine di ogni realtà», la
cui morte viene annunciata dall’«uomo folle» dell’aforisma 125 della Gaia scienza. «Causa» e
«fine», questa è la traduzione di due parole fondamentali della filosofia greca che si
coappartengono: «arché» e «télos». In Aristotele le due parole fondamentali non solo si
coappartengono perché caratterizzano, per così dire, il pilastro di un movimento, nominando con il
primo termine, arché, ciò in cui il movimento ha il suo inizio, mentre il secondo, télos, dice dove
tale movimento va a compiersi; piuttosto, il loro fine deve trovarsi già all’inizio di un movimento,
affinché tale movimento possa dirigersi verso il proprio fine, ed in un movimento del tipo della
energeia, un movimento dunque che oscilla in ogni momento nella sua compiutezza, arché e télos
sono la stessa cosa. Tali termini fondamentali si coappartengono per Platone, almeno secondo
l’interpretazione heideggeriana (GA 9, 203 e segg.; pp. 159 e segg.), in quanto, da un lato, è
nominata la «causa di tutto» con l’idea del Bene e, dall’altro, è indicato il fine della formazione
dell’essenza umana. Ma, come Heidegger scrive nei Contributi, con ciò si prende la causa di tutto
come qualcosa a cui e con cui ci si può «indirizzare». La causa di tutto si è già, per così dire,
trasformata in «valore», «“senso”, ideale» (GA 65, 210), che deve essere sostituito da altri.
Nella misura in cui la tradizione cristiana si costruisce sulla filosofia greca, Dio è compreso in essa
come ciò a cui e con cui ci si può indirizzare (GA 65,211). La tradizione cristiana non si distingue,
in fin dei conti, dai tentativi nichilistici di porre un fine; piuttosto, tali tentativi sono sviluppi
ulteriori rovesciati, deviati e non autonomi della tradizione anche là dove vivono della morte di Dio.
Per entrambi Heidegger usa il termine «metafisica». Con questo accento, esclusivamente negativo,
con cui si parla di «metafisica» viene operato uno spostamento dell’interpretazione della presenza,
che è in sé al contempo assenza, in pura presenza.
Sapere della morte di Dio diventa, però, l’occasione per mettere in discussione l’intera tradizione
dell’Occidente o, più precisamente: diventa l’occasione di prendere sul serio ciò che di questa
tradizione è messo in discussione dal nichilismo stesso e, cioè, un aspetto diverso da quello che si
pretendeva d’interrogare nel discorso di rettorato. La determinazione heideggeriana del presente,
nei termini di nichilismo, si accorda con l’interpretazione di Hölderlin: il nichilismo è «il tempo
della povertà». Ma ancora di più, a partire dalla metà degli anni Trenta, Heidegger ha impiegato le
sue energie per un rinnovamento del programma di distruzione della tradizione e, come all’inizio
degli anni Venti, esso è dato dalla «situazione ermeneutica» del presente in cui egli imposta la
distruzione della tradizione. Tuttavia, non esiste soltanto la possibilità di una filosofia particolare,
bensì è in gioco il destino dell’Occidente stesso.
Il destino dell'Occidente è in gioco così da poter essere realmente assunto nella crisi del nichilismo.
Laddove il sapere della morte di Dio diventa visione della fine della «metafisica», il divino può
essere nuovamente conservato, poiché, per il tentativo «metafisico» di «stabilire» il divino, non ci
sono più possibilità. Solo con la fine della «metafisica» si manifesta nuovamente l’essenza degli
dèi. Heidegger dice già nelle lezioni su Hölderlin che l’essenza degli dèi è la «caducità»: il «passare
è il modo della presenza degli dèi, la fugacità di un cenno, che può essere colto a malapena, e che
nel passare può mostrare ogni beatitudine e sgomento» (GA 39, 111).
Se l’essenza degli dèi può mostrarsi «nuovamente» nel protrarsi del nichilismo, allora deve essersi
mostrata già altre volte. Ciò che Heidegger mette in gioco con «la fugacità di un cenno, che può
essere colto a malapena» viene ripreso più avanti nelle sue lezioni, quando egli rimanda ad un
frammento di Eraclito che nomina «l’arte del dire, propria degli dèi». Heidegger traduce e sviluppa
il frammento 93 nel modo seguente: «“Il signore, il cui oracolo è a Delfi, [il dio Apollo] non dice,
né nasconde, bensì accenna”. Il dire originario non rende immediatamente manifesto, né vela
semplicemente, bensì un tale dire è le due cose alla volta e, in quanto una, è un accennare in cui il
detto rimanda al non detto ed il non detto al detto; il discordante all’unisono che esso è e
l’unisono al discordante in cui vibra» (GA 39, 127 e segg,). La caratterizzazione del «cenno» divino
non ricorda in modo impreciso ciò che Heidegger aveva detto del linguaggio poetico. Nella misura
in cui detto e non detto rimandano l’un l’altro nell’alternanza, tale linguaggio può essere
l’articolazione di un’esperienza che non può fare i conti in ogni determinatezza secondo i criteri
umani.
Il linguaggio poetico, in questo senso, non è per Heidegger soltanto il linguaggio di Hölderlin, ma è
anche il linguaggio di Parmenide e di Eraclito. In Hölderlin «quella comprensione dell’essere
[Seyn], che era al potere all’inizio della filosofia occidentale, è vicina e di nuovo potente» (GA 39,
123), e perciò gli dèi stati, su cui Hölderlin compone poesie, nel loro esser stato sono per Heidegger
gli dèi dell’inizio della filosofia: Artemide ed Apollo in Eraclito, la dea «Verità» in Parmenide (GA
54, 163; p. 203). I nomi di questi dèi stanno per quell’esperienza di pensiero che si sottrae al calcolo
dei criteri umani.
Tuttavia, nei Contributi, Heidegger inserisce i Presocratici nel suo programma di distruzione.
Heidegger può, infatti, dire che «in nessun luogo incontriamo un pensiero che pensa la verità
dell’essere stesso e quindi la verità stessa come essere»: «l’essere non è pensato neppur là dove il
pensiero preplatonico dà inizio al pensiero occidentale, preparando lo sviluppo della metafisica ad
opera di Platone ed Aristotele. L’èstin (eòn) gàr einai nomina certamente l’essere stesso. Ma non
pensa il suo esser-presente a partire dalla sua verità. La storia dell’essere ha inizio, e certo
necessariamente, con l’oblio dell’essere» (GA 5, 263; p. 242), perché il pensiero all’inizio è
«comprensione e raccoglimento» (GA 65, 198): è, cioè, caratterizzato dal fatto di portare al lògos
l’esperienza del pensiero. Ma con ciò è già posto un primato della presenza sul gioco di alternanza
tra presenza ed assenza: légein è il termine contrario a kryptein, nascondere, secondo il frammento
che Heidegger prende in considerazione nelle lezioni su Hölderlin (GA 9, 279; p. 234). In altre
parole, il pensiero all'inizio è ancora «poetico» (GA 40, 153; p. 152), ma è appunto anche l’inizio
della filosofia. La filosofia è il decadimento del suo stesso inizio, inizia come «storia dell’essere»,
necessariamente, con l’«oblio» dell’essere.
Non si deve prescindere dalla fine di un tale oblio, in quanto l’«altro inizio», il «passaggio»
dell’ultimo Dio (GA 65, 412 e segg.), è infatti soltanto la ritenzione che sta innanzi a ciò che è
ricusato come essere stato. Se così non fosse potremmo fargli corrispondere, in un
«contromovimento», ciò che si originato dal primo inizio e, come in ogni contromovimento, si
rimarrebbe legati alla dipendenza di ciò a cui il contromovimento si indirizza. «Contro-movimenti»,
dice Heidegger nei Contributi, «si imprigionano nella propria vittoria, cioè si chiudono dentro ciò
che è vinto» (GA 65, 186). Questa è la versione heideggeriana della «dialettica dell’illuminismo».
Per evitare questa contrapposizione Heidegger non contrappone il pensiero dell’altro inizio al
primo. L’altro inizio, piuttosto, sta «come altro al di là del contro e della comparabilità diretta» (GA
65, 187). Il primo e l’altro inizio si rapportano l’un l’altro in modo tale da essere il contrastante
nell’unisono e l’unisono del contrastante. La metafisica, e la sua fine nel nichilismo, sono la
«contrapposizione» di entrambi gli inizi in quanto nell’allontanamento dal primo inizio
quest’ultimo libera e viene «chiamato in gioco» dall’altro inizio: «L’altro inizio è d’ausilio al primo
inizio a partire dalla nuova originarietà per la verità della sua storia e quindi per la sua propria
diversità non esteriore che diviene matura nel dialogo storico dei pensatori (GA 65,187).
Tuttavia, è l’«originarietà» dell’avvenire che è d’ausilio al primo inizio passato per la sua «verità».
Laddove l’«irruzione» avveniente sia impossibile, anche il comprendersi in una realtà determinata,
nei termini di una realtà autentica, è da escludere. Qui Heidegger riprende la sua concezione di
Essere e tempo: l’indeterminazione dell’avvenire impedisce la fissazione, inautentica, a progetti
determinati della vita. Ma a questo pensiero iniziale di un futuro indeterminato si unisce il concetto
storico dell’inizio. L’«altro inizio» è un inizio a cui si giunge.
Il primo inizio è stato e l’altro inizio è avveniente. La storia «tra» i due inizi è un unico tramonto
[Untergang] e passaggio [Übergang]. Essa è un unico intermezzo. Con la visione del carattere
problematico del contromovimento Heidegger ha di fatto rinunciato al pensiero di istituire un nuovo
mondo, perché la storia, che è l’intermezzo, è anche l’unico intermezzo. E' l’immenso spazio
temporale della storia occidentale e deve rimanere e rimarrà in tale spazio. L’altro inizio non può
giungere se
lo    spazio-tempo della storia deve rimanere aperto. Con
il    «passaggio» dell’«ultimo Dio» non è innanzi altro che la sua stessa ritenzione. Ma allora non
rimane altra possibilità che tenersi nel presente, compreso come intermezzo, in modo da assumerne
tale carattere e da non tentare di oltrepassarlo con la dinamica infondata del nichilismo. Soltanto
così può «passare l’ultimo Dio».
Questo pensiero guida gli ultimi lavori di Heidegger. Essi sono «etici», nel senso che con questi
lavori si rimanda ad un atteggiamento che si dà forma mantenendo lo spazio-tempo della storia e
corrispondendogli in una tale formazione. Lo stesso Heidegger ha sviluppato questo aspetto etico
del suo pensiero nel modo più chiaro nella Lettera sull’Umanesimo del 1946, in uno scritto che, ad
una prima lettura, sembra proprio il rifiuto di un’etica filosofica. Esso è significativo, perché
Heidegger ricapitola qui la sua filosofia e collega le sue minuziose osservazioni
sull’autointerpretazione di Essere e tempo con gli accenni alle interpretazioni di Hölderlin e,
indirettamente, anche ai Contributi alla filosofia. Non c’è da meravigliarsi che la cosiddetta lettera
sull’umanesimo dovesse avere effetti estranianti dopo la sua uscita nel 1947. Essa infatti offre solo
scarse informazioni sulla nozione di filosofia, sviluppata nei minimi particolari nei Contributi, cosi
che solo dal 1989, anno della pubblicazione dei Contributi, si può comprendere meglio il testo della
Lettera.
L’etica della lettera dell’umanesimo è di tipo molto particolare. Anzitutto Heidegger rifiuta il
discorso di un’«etica» perché solo il termine dà a conoscere la sua appartenenza alla storia della
«metafisica». Il discorso di un’«etica», che condivida la sua appartenenza con quello di una
«logica» e di una «fisica», documenta già una divisione della filosofia in singole discipline e quindi
la sua scientificizzazione: «Nel passare attraverso la filosofia così intesa [cioè: suddivisa in diverse
discipline] nasce la scienza, perisce il pensiero» (GA 9, 354; p. 305). Quindi non viene negata la
cosa a cui rimanda il discorso di un’«etica». Ma questa cosa si mostra molto più chiaramente per
Heidegger in un frammento di Eraclito più che in altri scritti aristotelici o kantiani del genere:
Un detto di Eraclito, che si compone di sole tre parole, dice qualcosa di così semplice che ne viene
immediatamente in luce l’essenza dell’ethos. Il detti di Eraclito (fr. 119) suona: èthos anthropò
daimon. In genere si è soliti tradurre: «il carattere proprio per l’uomo il suo demone». Questa
traduzione pensa in modo moderno e non greco. Èthos significa soggiorno, luogo dell’abitare. La
parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò
che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il
soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua
essenza. Secondo la parola di Eraclito, questo è daimon, il dio. Il detto, allora, significa: l’uomo, in
quanto è uomo, abita nella vicinanza di Dio (GA 9,354 e segg.; pp. 305-306).
E un po’ più avanti si dice: «Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola èthos, il
termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero
che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé
l’etica originaria» (GA 9, 356; trad. it. pp. 307-308). Non sembra difficile dischiudere il significato
in cui Heidegger legge il temine èthos: si riferisce all’apertura dello spazio-tempo storico, esperito
in forza di quell’apertura che la poesia di Hölderlin ci offre. E se il pensiero, il pensiero proprio di
Heidegger, è «in sé l’etica originaria», allora la particolarità di questo pensiero non è più costituita
dal fatto di rimandare ad una istituzione del mondo che corrisponde all’apertura poetica, bensì di
avviare all’apertura di questo stesso mondo. In un certo modo Heidegger ritorna alla sua concezione
«aristotelica» della filosofia. Comprende la filosofia a partire dalla phronesis o meglio: da una
modalità della meditazione, che deve concepire se stessa come azione e che entra al posto della
phronesis. Diversamente da prima, non gli si pone più il problema di mettere di fronte alla
phronesis la filosofia nei termini di teoria o di sophia. Il pensiero che ora rappresenta Heidegger
non dice che la filosofia scaturisce dal «sapere pratico» e che si rende poi autonoma nei suoi
confronti, così da porre la questione della stranezza di questa autonomizzazione, la questione
dunque che nel progetto di Essere e tempo aveva condotto alle difficoltà sopra illustrate. Siamo
davanti, ora, ad una ripresa della filosofia nel «sapere pratico»: un sapere pratico, però, di tipo
molto particolare.
Poiché Heidegger assume interamente la filosofia in un sapere pratico, egli parla adesso anche di
«pensiero», anziché di filosofia. Il «pensiero» è la filosofia nella misura in cui smette di essere
«metafisica»; è un atteggiamento nell’apertura dello spazio-tempo aperto dai due inizi, per il quale è
caratteristica la sua transitorietà. Il «pensiero» è una filosofia che si comprende nel suo presente
meglio del tramonto e del passaggio. Con i suoi accenni ad Eraclito Heidegger non risolve l’etica
nel pensiero, bensì, al contrario, questo «pensiero» può esser compreso soltanto come etico.
Nel contesto del rivolgimento etico del «pensiero» deve stare anche la tarda modificazione della
diagnosi heideggeriana del presente. Questa può essere espressa nel motto di un verso tratto
dall’inno di Hölderlin Patmos: «Ma là dove c’è il pericolo, cresce/ anche ciò che salva». Heidegger
cita questo verso in un passo significativo della sua conferenza La questione della tecnica del 1953,
il cui significato è a sua volta messo in risalto dal fatto di essere il primo saggio della raccolta Saggi
e discorsi (1954).
Argomentando sulla tecnica, Heidegger si riallaccia, da un lato, alle riflessioni sulla diagnosi del
presente degli anni Trenta e particolarmente ai Contributi. L’essenza della tecnica, l’«impianto»,
non è altro che la dinamica del dominio del mondo e dello sfruttamento della natura, dinamica che
pone la sfida e che non trova compimento in alcun fine. E, tuttavia, quando Heidegger argomenta la
costitutività del presente non con il nome di nichilismo, ma appunto nella questione della tecnica, si
tratta di due cose diverse. Il fatto che, adesso, l’essenza della tecnica venga concepita come essenza
del presente, dà a Heidegger la possibilità di porre anche il mondo reso mobile nel contesto dello
spazio-tempo storico.
Ciò che questo significhi precisamente lo fa capire
Heidegger stesso, quando tematizza il «ciò che salva» ed il «pericolo». «Salvare» non significa qui:
«afferrare all’ultimo momento ciò che è minacciato dalla rovina, assicurandolo nella conservazione
del suo esser presente» (VA 32; p. 22). In tal modo, potremmo interpretarlo anche così, non
salveremmo veramente qualcosa, ma questo qualcosa sarebbe comunque consegnato alla possibilità
della sua rovina, perché il suo sussistere non esclude, infatti, tale possibilità; altrimenti non
avremmo dovuto «salvarlo». «Salvare» significa «portare finalmente l’essenza alla sua
manifestazione autentica» (VA 32; p. 22). La salvezza di cui parla Heidegger non consiste soltanto
nel conservare «ciò che è minacciato dalla rovina» (e questo è il mondo contemporaneo), nella
misura in cui viene portato alla sua «essenza», è invece anche una salvezza dell’«essenza»:
l’essenza deve essere portata alla sua manifestazione autentica.
Che cosa significa tutto questo? In breve questo vuol dire che il mondo contemporaneo come tale
deve essere portato nello spazio-tempo storico ed esso si manifesta in tal modo come presente. Con
ciò si dice anche che l’arte abbandona il suo ruolo precedente, quello di formare lo spazio-tempo
storico soltanto nella sua determinatezza. Heidegger adesso mette in dubbio la possibilità dell’arte
di risvegliare e fondare «lo sguardo e la confidenza» nello spazio-tempo della storia. «Se all’arte sia
concessa, in mezzo all’estremo pericolo, questa suprema possibilità della sua essenza, è cosa che
nessuno può sapere. Ma possiamo almeno meravigliarci, Di che cosa? Della possibilità opposta,
quella per cui dovunque si installa la frenesia della tecnica, fino a che un giorno, attraversando tutto
ciò che è tecnico, l’essenza della tecnica dispieghi il suo essere nell’evento della verità» (VA 39; p.
27). L’arte non diventa superflua: «Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che
la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che
da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto».
E: «Un tale ambito è l’arte» (VA 39; p. 27). Heidegger mira alla possibilità di far acquietare il
«movimento furioso» della tecnica a partire da se stesso e riprende in ciò un pensiero che Ernst
Jünger aveva sviluppato attentamente nel libro L'operaio. Il fatto che la tecnica si acquieti da sola, a
partire da se stessa, significa soltanto che essa è «artistica». Ciò è sua volta possibile perché ha la
stessa origine dell’arte, perché l’arte e la tecnica sono modi della poiesis, sono, come dice
Heidegger, modalità «del disvelamento pro-ducente» (VA, 38; p. 26). La tecnica è una modalità
determinata, e diversa dall’arte, di portare alla presenza l’ente e, ascoltando precisamente la
formulazione «portare alla presenza», è chiaro che essa porta con sé l’esperienza dell’assenza. Ciò
che deve essere «portato» alla presenza non può essere prima presente, un pensiero che è presto già
coniato da Heidegger con il concetto di «scoprire».
Per come Heidegger caratterizza la tecnica, con essa si tratta di un portare-alla-presenza che si
compie nei termini di contromovimento dell’assenza. L’istituzione tecnica di ciò che chiamiamo
«mondo» conta sulla presenza totale e ciò permette a Heidegger di comprendere la tecnica come
«fine della metafisica»; la «metafisica» è per lui la filosofia della presenza. Quando la tecnica
finisce, cessa di essere un contromovimento in questo senso. Essa diventa un portare-alla-presenza
che fa essere e permette espressamente l’assenza a cui è legata. Quindi la tecnica diventa
«artistica»: in essa si esprime quel «ritegno» di cui si parlava già nei Contributi. Il mondo tecnico
diventa un’epoca di mezzo e quindi è legato allo spazio-tempo, quale era aperto nei termini di
spaziotempo determinato dell’«occidente» dalla ricusa e dalla ritenzione del divino. Entrambi i
momenti, il gioco di presenza e assenza e quello di ricusa e ritenzione, si alternano a vicenda.
Il loro alternarsi conduce allo specifico concetto di mondo della tarda filosofia di Heidegger.
Quando nella sua conferenza intitolata La cosa egli chiama il mondo «il facente-avvenire-
traspropriante gioco di specchi della semplicità di terra e cielo, divini e mortali» (VA, 172; p. 119),
vengono ripresi entrambi i momenti dell’«evento»: «cielo e terra» stanno per l’esperienza originaria
del tempo come presenza/assenza e «i divini e i mortali» sono le cifre per lo spazio-tempo storico.
1    H. OTT, op. cit.,p. 2}6 [trad. it. op. cit., p. 214].
2     Ivi, p. 239 e segg. [trad. it. op.cit., pp. 217 e segg.].
3 Cfr. M. HEIDEGGER, Das Ding (1950); in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954, p. 170 e
segg. [trad. it. La cosa, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 109 e segg.].
4 E. JÜNGER, Die totale Mobilmachung, in ID., Sämtliche Werke, Zweite Abteilung, Essays I, Bd.
7, Stuttgart 1980, p. 125 e segg. [trad. it. La mobilitazione totale, pp. 113-138, in Id. Foglie e pietre,
a cura di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, p. 118],
5Id., Der Arbeiter, in Id., Sämtliche Werke, Zweite Abteilung, Essays, II, Bd. 8, Stuttgart 1981, p.
311 [trad. it. L’operaio. Dominio e forma, a cura di Q. Principe, Longanesi, Milano 1981, p. 269],
6Questo punto viene affrontato nei dettagli da: S. VIETTA, Heideggers Kritik am
Nationalsozialismus und an der Technik, Tübingen 1989.
6. CONCLUSIONE
Nelle sue opere tarde Heidegger ritorna all’inizio del suo pensiero in triplice modo: dal programma
di una filosofia che sapeva del passato della fede e che, ciononostante, voleva essere «intima con
Dio», è scaturito un pensiero sul cammino di un «levare la mano» contro Dio, un pensiero che può
parlare di Dio e degli dèi e collocarsi al di là della teologia e dell’ateismo (GA 65, 439). Dal
programma di una filosofia storica che voleva assicurarsi del proprio presente non senza uno
sguardo su ciò che è stato, si è sviluppato un pensiero sul cammino verso l’inizio filosofico che ha
toccato le stazioni intermedie dell’ontologia fondamentale e della politica, un pensiero che si
comprende sulla base della mancanza di disponibilità di ogni inizio stesso a essere esercizio di
tramonto e di passaggio. Infine anche il programma storico-filosofico delle stazioni intermedie del
concetto di Essere e tempo e del confronto tra filosofia e politica si è trasformato in un pensiero che
comprende la filosofia come storia del passaggio dell’Occidente e l’Occidente come storia del
passaggio della filosofia.
Le argomentazioni heideggeriane sulla dinamica della «mobilitazione totale» e della tecnica
dovrebbero anche avergli recato e assicurato un grande esito. Esse fanno capire che da una filosofia
dell’epoca presente ci si deve aspettare di più della tematizzazione di questioni che sono in grado di
fornire una stima delle conseguenze tecniche ed etiche, che alla fine risultano essere soltanto una
reazione alla tecnica stessa, rimanendo così intrappolate nel pensiero tecnico. Di contro Heidegger
ha sviluppato una diagnosi del tempo che merita veramente di essere chiamata tale. Ha reso chiaro
che nello stile del mondo attuale si esprime un’esperienza del tempo e si dà la possibilità di
comprendere tale stile nel contesto del tempo.
Ma la diagnosi heideggeriana del mondo tecnico non può essere già convincente perché descrive
tale mondo in modo giusto. La sua forza di persuasione sta e risiede, alla fine, nella forza di
persuasione della sua filosofia del tempo. E non si dovrebbe seguire Heidegger ciecamente su
questo punto. Inquadrando il presente nella storia generale dell'Occidente e determinando a sua
volta tale storia come una gigantesca epoca di mezzo, non rimane altro che il presente; l'esser stato
e l’avvenire sparirebbero nell’indeterminato se non fossero definiti come i due inizi. Essi, a loro
volta, sono nella misura in cui si può parlare di loro e determinarli come presenti. Appartengono al
presente come ciò che si sottrae nel presente e, in tal modo, si arriva di nuovo al pensiero di una
presenza che è in sé anche assenza. Già nelle lezioni sui Problemi fondamentali della
fenomenologia si mostrava che questo pensiero dell’orientamento heideggeriano alla temporalità
tripartita, che è anche il tempo della storia, non quadra pienamente. Questo si rivela nuovamente
nella sua concezione più matura, nella misura in cui ci si chiede perché si debba determinare il
gioco di presenza-assenza del tempo in riferimento ai due inizi. Certamente entrambi gli inizi, tra i
quali si estende lo spazio-tempo della storia, costituiscono per la storia un correttivo; orientandosi ai
due inizi, ci si deve dare un «ritegno», o come dirà Heidegger più tardi, ci si deve disporre
all’«abbandono» (GA 13, 37-74), il quale promette un rapporto con il mondo tecnico non più
dominato dalla tecnica. Questo sembra essere convincente. Tuttavia si deve essere chiari su quale
prezzo si paghi nel voler seguire Heidegger su questo punto: si deve pensare l’intera storia come
decadimento, come tramonto e volerla comprendere come passaggio senza fine.
Se questo prezzo a qualcuno sembra troppo alto, non si deve tuttavia rigettare il pensiero di una
presenza che è caratterizzata dall’assenza; tale pensiero può essere pensato al di là dello schema di
un tempo tripartito. Non tutto quello che si sottrae all’esperienza è, perciò, stato o avveniente; ogni
tentativo di comprendere si scontra con quanto resiste alla comprensione e che proprio in questa
assenza rimane «presente». Se la visione centrale di Heidegger è legata al gioco di presenza e
assenza, determinatezza e indeterminazione, ma non essenzialmente allo schema della temporalità e
della storia, allora Heidegger stesso conduce al di là delle sue affermazioni problematiche del suo
filosofare. Solo con Heidegger si comprende ciò che si vuol pensare in modo diverso. Non si può
dire più di questo sul significato dell’essere un filosofo.
POSTFAZIONE
Günter Figal: filosofia e libertà
Günter Figal, direttore dal 2002 del seminario di filosofia dell’università Albert Ludwig di Friburgo
in Brisgovia, Germania, e Presidente della Martin-Heidegger-Gesellschaft, inserisce
l’interpretazione di Martin Heidegger in un quadro ermeneutico, nel senso più stretto del termine,
che ha contribuito a fare di lui uno dei più originali interpreti di questo pensatore. La particolarità
della sua introduzione consiste in qualcosa di più di una diversa disposizione di accenti rispetto
all’impostazione di altre introduzioni al pensiero del grande filosofo del Novecento: la visione, per
certi versi acquisita ed indiscussa, della centralità del pensiero di Heidegger per la filosofia
successiva e a lui contemporanea viene valutata attraverso una ricognizione originale e precisa, che
fa emergere sullo sfondo di una nuova luce filosofica aspetti e passaggi che sono stati talvolta
esagerati ed esasperati, tal altra non adeguatamente inseriti nella storia degli effetti. La tanto
discussa esperienza politica, la questione dell’arte e della tecnica, il rapporto tra teologia e filosofia
sono gli snodi tematici che Figai rielabora nel seguire lo sviluppo del pensiero del filosofo di
Meßkirch.
L’approccio filosofico, che Figai segue in tutta la sua disamina, viene scandito ed impostato dalle
analisi heideggeriane sul concetto di tempo e di storia in generale, ma soprattutto sul rapporto tra
storia e filosofia. Questo è mostrato dalla ripartizione stessa dell’introduzione: la parte relativa
all’ontologia fondamentale è quella che segna il cambiamento della concezione del tempo in
Heidegger, quella relativa alla discussione di Essere e tempo.
Nell’operazione compiuta da Figai la tematica fondamentale di una storia della filosofia dev’essere
compresa nel suo senso particolare. Fin dall’inizio, infatti, il rapporto tra filosofia e storia in
Heidegger viene illuminato dall’idea della «Lebensweise»1. Lo spostamento di prospettiva che
Heidegger realizza rispetto alla “teologia speculativa” di Hegel e che Figai analizza
dettagliatamente sulla scorta dei testi heideggeriani e delle lezioni, mette la filosofia in rapporto con
la sua origine e non con la propria fine, con il sé individuale piuttosto che con l’universale. La storia
della filosofia non è hegelianamente Γ autosviluppo di una coscienza, la quale diventa una volta per
tutte chiara e trasparente a se stessa nel suo dispiegarsi nel tempo. La storia della filosofia in
Heidegger è invece, secondo Figai, l’impegno del pensiero nella comprensione storica di se stesso,
proiettato in una comprensione del presente che va alla ricerca dell’origine. Questo aspetto
fondamentale caratterizza tanto lo Heidegger dello scritto di abilitazione quanto lo Heidegger del
cosiddetto Natorp-Bericht, in cui si opera la necessaria revisione dell’inizio del filosofare, della
vitalità perduta dei concetti che animano la filosofia greca come approccio alla vita attraverso la
distruzione. E' necessario partire proprio da Aristotele per comprendere come poi Heidegger
sviluppa in Essere e tempo la ricerca dell’origine nei termini di ricerca che va oltre la
determinatezza del quotidiano fino a diventare analisi fondamentale dell’esserci.
La filosofia diventa l’esperienza dell’assoluto, ma non più come ciò che, kierkegaardianamente,
costituisce la guida per quel salto che fa compiere soltanto la fede a livello individuale; la filosofia è
invece il compito costante, insuperabile ed insostituibile di comprendere se stes-
si, che si pone sempre e di nuovo come qualcosa di diverso. In tal senso la filosofia rappresenta la
forma più alta di libertà.
Per andare a fondo nella comprensione della posizione figaliana circa il rapporto tra libertà e
filosofia in Heidegger è necessario tener presente un ambito più ampio in cui la comprensione di sé
e della vita, come accadere ogni volta diverso, rappresentano il centro della “filosofia ermeneutica”
di Figai nel suo complesso, e vanno oltre l’interpretazione heideggeriana stessa. E' per questo
motivo che Figai può considerare, nella fattispecie, l’idea della vita del singolo come centro
dell’accadere filosofico in Heidegger e può far girare intorno a lui l’intera ricostruzione
ermeneutica.
Alla luce di questo aspetto fondamentale, indagare i motivi e la genesi di Essere e tempo,
interpretando la profonda crisi che l’opera stessa incarna all’interno dell’impianto concettuale del
filosofo tedesco, conduce Figai ad Aristotele. Le analisi filosofiche della vita e della storia fanno
curvare il percorso di pensiero verso il filosofo greco come colui che, con il suo nuovo approccio,
ha sintetizzato il pensiero greco e ha prodotto la prima vera analisi filosofica della vita nella sua
totalità. L’interpretazione heideggeriana di Aristotele è più e altro rispetto al confronto con un
grande filosofo: essa segna l’inizio del ripensamento della storia della tradizione occidentale nei
termini di una “distruzione”. Da questo punto di vista si può affermare con Figai che Heidegger dà
vita ad un vero e proprio rovesciamento della concezione hegeliana della storia: il concetto
heideggeriano di Destruktion diventa centrale per tutto il suo cammino di pensiero.
Un ritorno all’inizio è, per così dire, il segno di una rielaborazione del presente: è la capacità e la
necessità di ripensare il legame con il passato e, più avanti, anche
con il futuro. È per questo che Figai sottolinea il rapporto con la storia che caratterizza l’idea-base
della formulazione heideggeriana di un’«ermeneutica fenomenologica della fatticità»2, sviluppata
poi nel corso del semestre estivo 1923, intitolato Ontologia (ermeneutica della fatticità) (GA 63),
ma già accennata nella bozza Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, - un testo che condusse
Heidegger alla nomina di professore presso l’università di Marburgo grazie all’interessamento di
Paul Natorp e che per questo è anche noto come il “Natorp-Bericht”. Per Figai il Natorp-Bericht
rappresenta letteralmente il manifesto della filosofia heideggeriana, quale si realizzerà in Essere e
tempo, e la chiave di lettura per comprendere la centralità di Aristotele, che verrà poi sviluppata, tra
l’altro, nel ciclo di lezioni intitolato Platon: Sophistes (GA 19).
E' questo uno dei nodi interpretativi più interessanti dell’intera ricostruzione heideggeriana che
Figai propone: reputare come essenziale per la comprensione della genesi di Essere e tempo il breve
scritto su Aristotele significa indagare la crisi di Essere e tempo attraverso la centralità del filosofo
greco. E' infatti a partire dalla diversa lettura, rispetto ad Aristotele, del rapporto tra phronesis e
sophia che Heidegger sviluppa la “distruzione” della tradizione; ma Figai sottolinea come,
paradossalmente, proprio questo utilizzo di Aristotele segna anche il rovesciamento della posizione
heideggeriana nei confronti dello stesso filosofo greco. La phronesis, la saggezza, che in Heidegger
diventa “autocomprensione”, riporta in primo piano l’idea filosofica della vita e del suo accadere
come «analisi fondamentale dell’esserci», di quell’esserci preontologico che ha già,
originariamente,
la comprensione dell’essere. L’esserci preontologico, cioè posto prima dell’analisi filosofica, è
originariamente comprensione di sé e dell’essere. Potremmo dire che Heidegger è più interessato,
adesso, ad una logica dello sviluppo più che ad una logica dell’origine, quella che caratterizza
invece il pensiero del filosofo greco. Figai analizza le plurime ed incessanti trasformazioni
dell’ottica heideggeriana a partire da Aristotele, e poi rispetto a Platone, sia in relazione al tema
della storia, con riguardo alle problematiche relative alla mancata prosecuzione del progetto
originario di Essere e tempo, sia in rapporto al fallimento dell’analisi quotidiana dell’esserci.
Tuttavia, come mostra Figai, Heidegger rimane fedele al pensiero che lo ha spinto ad elaborare un
tale programma sui temi dell’essere e del tempo. Una sostanziale continuità, con accenti e sviluppi
talvolta inaspettati, segna il cammino di pensiero di Martin Heidegger secondo l’interpretazione
figaliana. Una tale continuità ha caratteri propri, è un’interpretazione che si fa carico delle
contraddizioni e dei contorni spigolosi, che mette in risalto tappe e snodi del pensiero heideggeriano
e dei suoi temi (la storia e l’essere, l’arte e la vita) sotto la luce ermeneutica, consapevole fino in
fondo delle differenze tra i cosiddetti “primo” e “secondo” Heidegger, ma rileggendole alla luce del
costante dialogo con la Grecità.
Le tappe che segnano la “svolta” del pensiero heideggeriano, rispetto all’impostazione di Essere e
tempo, sono da ricercare, secondo la tesi di Figai, non tanto nella conferenza del 1930 Sull’essenza
della verità, a cui Heidegger lavorerà a più riprese, né nelle lezioni su Nietzsche, considerato
tradizionalmente con Hölderlin la figura centrale del cammino di pensiero heideggeriano degli anni
Trenta. Sono invece le lezioni su Platone del semestre invernale 1931/32, contenute nel volume 34
della Gesamtausgabe, a mostrare la nuova prospettiva elaborata da Heidegger. Qui si evidenzia
l’apparente distacco da Aristotele, e il ritorno a Platone. E' qui che si gioca il rapporto tra filosofia e
libertà. L’esperienza filosofica dell’esserci, come la forma più alta di libertà in Heidegger,
s’inserisce nella cornice interpretativa più ampia dell’ermeneutica figaliana. Essa collega, a nostro
avviso, la figura di Martin Heidegger, così delineata già nello scritto di abilitazione di Figal3, con
gli altrettanto fondamentali e radicati interessi per la dialettica adorniana che caratterizzano la sua
riflessione già a partire dagli anni della sua tesi di dottorato4.
Ma come viene tematizzato il fondamentale rapporto tra libertà e filosofia? Esso è giocato
essenzialmente sulla possibilità di rovesciamento che la filosofia attua per definizione: il filosofare
attualizza la libertà dell’esserci più di qualsiasi altra forma di conoscenza. Si rammenti brevemente
la tematizzazione della scienza naturale, della storia e dell’arte nelle lezioni su Platone del 1931/32,
in cui la filosofia è apice di un climax che coinvolge l'esserci, nella misura in cui la sua “autenticità”
viene espressa nei termini di espressione artistica e poetica, che dà forma alla sua libertà. Con ciò
Figai si sofferma sulla differenza tra la concezione heideggeriana dell’“autenticità” degli anni
Trenta e quella sviluppata precedentemente in Essere e tempo, un’opera in cui l’autenticità
dell’esserci era invece giocata in relazione alla phronesis di origine aristotelica. Figai può scrivere
che, nello Heidegger degli anni Trenta, «la filosofia è forma suprema del progetto d’essere [...] e
della risolutezza5».
«Progetto», a sua volta, non ha qui il senso di “comprensione”, come in Essere e tempo, ma il senso
di apertura dello spazio del possibile, del tempo. Heidegger lo riprende esplicitamente dalla sua
interpretazione di Platone: la funzione che Platone assegna all’idea del bene, ovvero la modalità di
«vedere le cose» (di disvelarle in senso heideggeriano), è rappresentata in Heidegger dal tempo6.
Mettendo in luce le novità della concezione heideggeriana del tempo rispetto a Essere e tempo7,
Figai ricostruisce ed interpreta ogni cambiamento del pensiero heideggeriano sulla base
dell’evolversi della concezione heideggeriana della filosofia nei termini di «progetto d’essere»8.
A questo si collega anche il problema spinoso della politica nello Heidegger degli anni Trenta. Figal
tematizza esplicitamente l’“irruzione”, e non “l’inizio”, del te-
ma politico in Heidegger, contestualizzandolo storicamente. Anche per questo aspetto delicato della
vicenda storico-biografica di Martin Heidegger, Figai mostra una pacatezza e una capacità di analisi
che caratterizzano la sua filosofia ermeneutica, sempre attenta al contesto storico e all’evoluzione
dei suoi effetti sul presente in cui accade. Ma ciò che interessa a Figai è mostrare in proposito la
lontananza del pensiero heideggeriano dalla formulazione di una vera e propria filosofia politica.
Come egli indica esplicitamente, si tratta della «costruzione di un mondo» che si trova nel contesto
di un «progetto d’essere»; per questo Figai può dire che il fascino che ha esercitato il
nazionalsocialismo su Heidegger risiede nell’apparente “logica rivoluzionaria”. L’articolazione
politica della sua «metafisica» è esposta nel discorso, intitolato L' autoaffermazione dell’università
tedesca, che Heidegger tiene in occasione del suo insediamento come rettore dell’università di
Freiburg.
Il discorso di rettorato del 1933 viene analizzato nei dettagli in senso filosofico e non già politico,
mettendo in evidenza, attraverso Platone, la vicinanza, anche in Heidegger, di filosofia e politica, e
anzi ricavando una sostanziale subordinazione della politica al progetto filosofico stesso. Ma questa
lettura ci riporta anche alla concezione classica della filosofia come theoria che guida la praxis,
ovvero riconduce ancora una volta ad Aristotele e alla Grecità classica.
Il fallimento delle idee nazionalsocialiste, ovvero la crisi filosofica e umana di Martin Heidegger,
testimoniata anche dagli scambi epistolari con Elisabeth Blochmann e Karl Jaspers, vengono aperti
e al contempo sanati dalla figura di Hölderlin, a cui Heidegger dedica alcuni dei suoi corsi di
lezione. Il ripensamento della temporalità, della storia, che accompagna come un filo rosso il
pensiero heideggeriano, viene messo in risalto da Figai fino ai Contributi alla filosofia e oltre, e
nella conferenza del 1953 dal titolo La questione della tecnica. Figal sottolinea come l’inizio del
pensiero è al contempo l’inizio del poetare e del filosofare, è l’inizio della storia della filosofia,
dell’essere e della sua dimenticanza, che hanno come “destino” la scientificizzazione della filosofia
e del sapere, nonché la tecnica come manifestazione dell’oblio dell’essere nel presente.
Le ultime considerazioni di Figai toccano la questione della tecnica e le influenze della
“mobilitazione totale” di Ernst Jünger sul pensiero di Heidegger nonché il problema “etico”, solo
accennato nella sua problematicità, soprattutto in relazione alla Lettera sull’umanesimo del 1947.
Così si chiude il cerchio dell’interpretazione figaliana della figura di Martin Heidegger. Questo
lavoro interpretativo ha il merito di delineare nuovamente e produttivamente un articolato profilo di
Heidegger, sottolineando la continuità del suo pensiero, ma soprattutto riportandolo al sentiero della
storia della filosofia. Si tratta, letteralmente, di un modo di ripercorrere il cammino heideggeriano
nel suo tempo, biografico e filosofico, con gli occhi del presente. Ed esso porta là dove Heidegger
non è ancora mai stato.
A.L.
1 Infra, p. 21.
2 PA, 247, p. 507 [cfr. la Bibliografia per le sigle delle opere heideggeriane e le relative traduzioni
italiane].
3   Cfr. G. FIGAL, Martin Heidegger, Phänomenologie der Freiheit, Beltz Athenäum Verlag,
Frankfurt a.M. 20003, in uscita presso II Melangolo, Genova.
4   Cfr. G. FIGAL, Theodor W. Adorno. Das Naturschöne als spekulative Gedankenfigur, Bouvier,
Bonn 1977.
5    Infra, p. 122. Per una discussione sui temi libertà e filosofia in Hei-
degger rimandiamo a: G. FIGAL, Martin Heidegger. Phänomenologie der Freiheit, op.cit., in cui la
questione del linguaggio in Essere e tempo, e nello Heidegger a partire dalle lezioni del 1931/32,
viene messa in evidenza proprio in relazione alla questione della libertà dell’esserci nella sua
Erschlossenheit e nella costante possibilità del Verfallen, viene cioè giocata all’interno di un
concetto di libertà che caratterizza l’Esserci nel suo rapporto inevitabile con la Welt.
6    «Anche da questo punto di vista la nuova concezione si distingue in modo sostanziale dalla
prima: le analisi di Essere e tempo riguardavano soltanto la motilità dell’esserci in un mondo in cui
si poteva esser “ci” in modo autentico o inautentico, senza che il mondo, in quanto tale, mutasse per
questo. Rispetto a questa analisi adesso si tratta della possibilità di “nuovi mondi”, si tratta di
pensare il carattere temporale del mondo diversamente dall’orientamento alla temporalità
dell’esserci, in quanto è la temporalità dell’essere-nel-mondo. Ora per Heidegger è importante che il
mondo scaturisca in modo nuovo dal tempo», Infra, pp. 116-117.
7    In Essere e tempo «l’“esserci” caratterizzava [...] il modo di essere dell’individuo e
l’argomentazione dell’autenticità e dell’inautenticità tematizzava il movimento tra la copertura
inautentica dell’individualità nella chiacchiera e la sua liberazione». Infra p. 120.
8    Infra, p. 122.
NOTA DEL TRADUTTORE
Anche un’introduzione a Heidegger presenta le ormai note difficoltà di traduzione che sempre
intervengono ogni qualvolta ci si avvicini al complesso linguaggio di questo pensatore. Abbiamo
seguito le scelte linguistiche per lo più condivise dai traduttori italiani di Heidegger (soprattutto
quelle di Franco Volpi, Ugo M. Ugazio, Adriano Fabris ed Eugenio Mazzarella) e abbiamo
segnalato le eventuali variazioni o modificazioni in nota. Un esempio è la scelta della traduzione di
Zeitlichkeit e Temporalität, rese rispettivamente con “temporalità” e “temporalità dell’essere”, che
abbiamo operato seguendo le indicazioni riportate nel glossario della traduzione de I problemi
fondamentali della fenomenologia (GA 24). Le citazioni che Figai trae dalle opere heideggeriane
sono state riprese, laddove possibile, dalle traduzioni italiane; per le citazioni dai volumi della
Gesamtausgabe non ancora tradotti (come ad esempio i Beiträge zur Philosophie) o di altri testi
(come l’epistolario Heidegger-Jaspers), abbiamo tradotto il testo direttamente.
Per quanto riguardano, infine, le citazioni che Figai riprende dalle Vorlesungen über die Geschichte
der Philosophie di Hegel (tratte da: G.W.F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, Redaktion E.
Moldenhauer e K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1971 e segg.), abbiamo dovuto tradurle
direttamente, in quanto il testo tedesco non corrisponde all’edizione italiana (cfr. Id., Lezioni di
storia della filosofia, traduzione e cura di E. Codignola e G. Sanna, Vol. I e III, La Nuova Italia,
Firenze. 1981), che è stata redatta sulla base del manoscritto tedesco dal titolo Vorlesungen über die
Geschichte der Philosophie, e curato da K.L. Michelet, Duncker und Humboldt, Berlin 1833-36.
A.L.
OPERE DI MARTIN HEIDEGGER E RELATIVO SIGLARIO*
a) La Gesamtausgabe, ovvero l’edizione completa delle opere di Heidegger che esce dal 1975 per
l’editore Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M., è suddivisa in quattro sezioni e prevista in 102
volumi. Nella prima sezione sono raccolti gli scritti fatti uscire da Heidegger stesso, nella seconda
sezione le lezioni tenute dal filosofo, nella terza le sue opere non ancora edite; per la quarta sezione
è prevista la pubblicazione delle note e degli appunti. Si trovano anche edizioni separate di alcune
delle opere pubblicate nella Gesamtausgabe.
Vengono segnalati di seguito i volumi della Gesamtausgabe da cui si traggono citazioni o a cui si
rimanda nel testo; accanto all’indicazione bibliografica del testo tedesco è stato riportato anche il
riferimento all’edizione italiana, laddove esistente:
GA 1    Frühe Schriften, hrsg. v. F.-W. von Herrmann,
Frankfurt a.M. 1978 [La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di A.
Babolin, Laterza, Roma-Bari 1974 e Scritti filosofici (1912-1917), a cura di A. Babolin, La
Garangola, Padova 1972],
GA2    Sein und Zeit, hrsg. v. F.-W. von Herrmann,
Frankfurt a.M. 1976 [Essere e tempo, traduzione di P. Chiodi, cura di F. Volpi, Longanesi, Milano
2005],
GA 3 Kant und das Problem der Metaphysik, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M. 1991
[Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 19892].
GA 4 Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M. 1981 [La
poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 19942].
GA 5

Holzwege, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M. 1977 [Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi,
La Nuova Italia, Firenze 19966].
GA 9    Wegmarken, hrsg. v. F.-W. von Herrmann,
Frankfurt a.M. 1976 [Segnavia, a cura e con un glossario di F. Volpi, Adelphi, Milano 20024].
GA 13 Aus der Erfahrung des Denkens, hrsg. v. H. Heidegger, Frankfurt a.M. 1983. [parziale trad.
it. pp. 37-74 in Id., L’abbandono, a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1989],
GA 17 Einführung in die phänomenologische Forschung, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Frankfurt
a.M. 1994.
GA 18 Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (SS 1924). Marburger Vorlesungen 1924,
hrsg. v. M. Michalski, Frankfurt a.M. 2002.
GA 19 Platons: Sophistes, hrsg. v. I. Schüßler, Frankfurt a.M. 1992.
GA 20 Prolegomenit zur Geschichte des Zeitbegriffs, hrsg. v. P. Jaeger, Frankfurt a.M. 1976
[Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, a cura di R. Cristin - A. Marini, Il Melangolo,
Genova 1991],
GA 24 Die Grundphänomene der Phänomenologie, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M.
1975 [I fenomeni fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova
1990]
GA 26 Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, hrsg. v. K. Held,
Frankfurt a.M. 1978 [Principi metafisici di logica, a cura di G. Moretto, Il Melangolo, Genova
1990].
GA 29/30 Grundbegriffe der Metaphysik. Welt - Endlichkeit - Einsamkeit, hrsg. v. F.-W. von
Herrmann, Frankfurt a.M. 1983 [I concetti fondamentali della metafisica. Mondo - Finitezza -
Solitudine, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1992].
GA 33 Aristoteles, Metaphysik Θ 1-3. Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft, hrsg. v. H. Hüni,
Frankfurt a.M. 1981 [Aristotele Metafisica Θ 1-3. Sull’essenza e la realtà della forza, a cura di U.
Ugazio, Mursia, Milano 1992].
GA 34 Von Wesen der Wahrheit. Zu Platons Höhlengleichnis und Theätet, hrsg. v. H. Mörchen,
Frankfurt a.M. 1988 Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul “Teeteto” di Platone, a
cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 19972].
GA 39 Hölderlins Hymnen »Germanien« und »Der Rhein«, hrsg. v. S. Ziegler, Frankfurt a.M. 1980.
GA 40 Einführung in die Metaphysik, hrsg. v. P. Jaeger, Frankfurt a.M. 1983 [Introduzione alla
metafisica, a cura di G. Masi, Mursia, Milano 1988].
GA43 Nietzsche: Der Wille zur Macht als Kunst, hrsg. v. B. Heimbüchel, Frankfurt a.M. 1985 [in
Id., Nietzsche, a cura e con un glossario di F. Volpi, Adelphi, Milano 19952, pp. 21-215].
GA54 Parmenides, hrsg. v. M. S. Frings, Frankfurt a.M. 1982 [Parmenide, a cura di F. Volpi, trad.
di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999].

GA 56/57Zur Bestimmung der Philosophie, hrsg. v. B. Heimbüchel, Frankfurt a.M. 1987.


PGA61hänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische
For-
schung, hrsg. v. W. Bröcker/K. Bröcker-Oltmanns, Frankfurt a.M. 1985 [Interpretazioni
fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologia, a cura di M. De Carolis,
introduzione di E. Mazzarella, Edizioni Guida, Napoli41990],
GA 63 Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), hrsg. v.
K. Bröckel/Oltmanns, Frankfurt a.M. 1988. [Ontologia (ermeneutica dell’effettività), a cura di E.
Mazzarella, Guida, Napoli 1998],
GA 65 Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), hrsg. v.
F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M. 1989 [parziale trad. it. L’ultimo Dio, a cura di P. Kobau, in:
«Aut Aut», Marzo-Aprile 1990,236, pp. 64-72],
b) Pubblicazioni importanti non ancora uscite nel contesto della Gesamtausgabe fino al 1999:
VA Vorträge und Aufsätze, Pfulligen 1954. Trad it.
Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976.
SD Zur Sache des Denkens, Tübingen 1976. Trad. it.
Tempo e essere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 19914.
SddU    Die Selbstbehauptung der deutschen Universität.
Rede, gehalten bei der feierlichen Übernahme des Rektorats der Universität Freiburg i. Br. Am
27.5.1933. Das Rektorat 1933/34. Tatsachen und Gedanken, Frankfurt a.M. 1983. Trad. it.
L'autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, a cura di C. Angelino, Il
Melangolo, Genova 1988.
PA Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutischen Situation),
hrsg. von F. Rodi, Bd. 6, Göttingen 1989, pp. 237-

269. Trad. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele (Prospetto della situazione


ermeneutica), a cura di V. Vitiello-G.Cammarota, in: «Filosofia e teologia», IV, 1990, pp. 489-532.
Der Satz vom Grund, Neske, Pfullingen 1957. Trad. it. Il principio di ragione, a cura di F. Volpi,
trad. di G. Gurisatti, Adeplhi, Milano 1991.
Identität und Differenz, Neske, Pfullingen 1957.
Nietzsche. Zwei Bände, Neske, Pfullingen 1961. Trad. it. Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi,
Milano 19952.
Was heißt Denken?, Tübingen 1971. Trad. it. Che cosa significa pensare?, a cura di G. Vattimo,
Sugarco, Milano 1994.
Zollikoner Seminare. Protokolle - Gespräche - Briefe, hrsg. v. M. Boss, Frankfurt a. M. 1987. Trad.
it. I seminari di Zollikon: Protocolli seminariali-colloqui-lettere, a cura di A. Giugliano - E.
Mazzarella, Giuda, Napoli 1991.
C) Gli epistolari
HBBr Martin Heidegger - Elisabeth Blochmann, Briefwechsel 1918-1969, hrsg. v. J.W. Storck,
Marbach am Neckar 1989. Trad. it. a cura di R. Brusotti, Il Nuovo Melangolo 1991.
HJBr Martin Heidegger - Karl Jaspers, Briefwechsel 1920-1963, hrsg. von W. Biemel/H. Saner,
Frankfurt a.M. - München - Zürich 1990.
LETTERATURA SECONDARIA*
In seguito alla pubblicazione della maggior parte delle lezioni heideggeriane all’interno della
Gesamtausgabe molte interpretazioni antecedenti a tale pubblicazione sono considerate superate,
nella misura in cui i loro autori non hanno avuto modo di accedere direttamente ai testi
heideggeriani originali. Citiamo di seguito i contributi più recenti ed alcuni di quelli più datati,
inseriti nel presente elenco in quanto, per la loro particolare ricerca, non sono considerati sorpassati
dalle pubblicazioni successive, o in quanto documentano uno stadio importante della storia degli
effetti del grande filosofo tedesco.
Bibliografie e strumenti di comprensione
R.A. BAST - H. DELFOSSE, Handbuch zum Textstadium von Martin Heideggers »Sein und Zeit«, vol.
1, Frommann-Holzboog, Stuttgart - Bad Canstatt 1979.
H. FEICK, Index zu Heideggers »Sein und Zeit«, Niemeyer, Tübingen 1968; quarta ed. 1991.
H.M. SASS, Heidegger-Bibliographie, Hain, Meisenheim am Glan 1968.
Id., Martin Heidegger. Bibliography and Glossary, Philosophy Documentation Center, Bowling
Green (Ohio) 1982.
Id. (a cura di), Materialen zur Heidegger-Bibliographie 1917-1972, Hain, Meisenheim am Glan
1975.
Bibliografie
E. ETTINGER, Hannah Arendt - Martin Heidegger. Eine Geschichte,, Piper, München 1994; terza
ed. 1998.
G.    NESKE (hg.), Erinnerung an Martin Heidegger, Neske, Pfullingen 1977.
Id. - E. KETTERING (hg.), Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Neske, Pfullingen 1988.
H.    OTT, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, Campus Verlag, Frankfurt a.M.-
New York 1988; Martin Heidegger, sentieri biografici, a cura di F. Cassinari, Sugar-co, Milano
1990.
H.W. PETZET, Auf einen Stern zugehen. Begegnungen und Gespräche mit Martin Heidegger 1929-
1976, Societaets-Verlag, Frankfurt a.M. 1983.
S. SAFRANSKI, Ein Meister aus Deutschland. Heidegger und seine Zeit, Fischer Taschenbuch
Verlag, München 1994 [edizione rivista 1997].
Introduzioni
W. BIEMEL, Martin Heidegger in Selbstzeugnissen und Dokumenten, Rowolt, Reinbeck 1973.
R. BRANDNER, Heidegger, Sein und Wissen. Eine Einführung in sein Denken, Passagen-Verlag,Wien
1993.
W. FRANZEN, Martin Heidegger, Metzler, Stuttgart 1976.
T. RENTSCH, Martin Heidegger - Das Sein und der Tod. Eine kritische Einführung, Piper,
München-Zürich 1989.
G. STEINER, Martin Heidegger. Eine Einführung, Hanser, München 1989.
Letteratura secondaria
K.H. VOLLKMANN-SCHLUCK, Die Philosophie Martin Heideggers. Eine Einführung in sein
Denken, Königshausen & Neumann, Würzburg 1996.

Raccolte
J. ALTWEGG (hg.), Die Heidegger Kontroverse, Athenäum, Frankfurt a.M. 1988.A. ARDOVINO (a cura
di), Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica: etica, estetica, politica, religione, Guerini,
Milano 2003.
B.W.    BIEMEL - F.-W. VON HERRMANN (hg.), Kunst und Technik, Gedächtnisschrift zum 100.
Geburtstag von Martin Heidegger, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989.
C.    BONALDI - C. ESPOSITO (a cura di), Dialogo su essere e tempo, Albo, Milano 2003.
H. BÜCHNER (hg.), Japan und Heidegger. Gedankenschrift der Stadt Meßkirch zum hundersten
Geburtstag Martin Heideggers, Thorbecke, Sigmaringen 1989.
G.    FIGAL (hg.), Dimensionen des Hermeneutischen: Heidegger und Gadamer, Klostermann,
Frankfurt a.M. 2005 (Schriftenreihe der Martin-Heidegger-Gesellschaft; Bd. 7).
FORUM FÜR PHILOSOPHIE BAD HOMBURG (hg.), Heidegger: Innen· und Außenansichten, Suhrkamp,
Frankfurt a.M. 1989.
H.-H.    GANDER, Europa und die Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993 (Schriftenreihe der
Martin-Heidegger-Gesellschaft, Bd. 2).
Id. (hg.), «Verwechselt mich vor allem nicht!» Heidegger und Nietzsche, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
1994 (Schriftenreihe der Martin-Heidegger-Gesellschaft, Bd. 3).
A. GETHMANN-SIEFERT - O. POGGELER (hg.), Heidegger und die praktische Philosophie, Suhrkamp,
Frankfurt a.M. 1988.
C.B. GuiGNON (hg.), The Cambridge Companion to Heidegger, Cambridge University Press,
Cambridge 1993.
C. JAMME - K. HARRIES (HG.), Martin Heidegger. Kunst - Politik - Technik, Fink, München 1992.
P. KEMPER (hg.), Martin Heidegger - Faszination und Erschrecken. Die politische Dimension einer
Philosophie, Campus-Verlag, Frankfurt a.M. - New York 1990.
C.    MACANN (hg.), Martin Heidegger. Criticai assessments, 4 Bde, Routledge, London 1992.
Martin Heidegger - Fragen an sein Werk. Ein Symposion, Reclam, Stuttgart 1977.
B. MARTIN (hg.), Martin Heidegger und das «Dritte Reich». Ein Kompendium, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt 1989.
D.    PAPENFUSS - O. PÖGGELER (hg.), Zur philosophischen Aktualität Martin Heideggers.
Bd. 1: Im Gespräch der Zeit, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991.
Bd. 2: Philosophie und Politik, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990.
Bd. 3: Im Spiegel der Welt: Sprache, Übersetzung Auseinandersetzung, Klostermann, Frankfurt
a.M. 1992.
O. PÖGGELER (hg.), Martin Heidegger. Perspektiven zur Deutung seines Werks, Kiepenheuer
& Witsch, Köln 1969 (Neuauflage Athenäum, Frankfurt a.M. 1984).
T.J. SHEEHAN (hg.), Heidegger. The Man and the Thinker, Chicago University Press, Chicago
1981.
Wirkungen Heideggers. Neue Hefte für Philosophie, Heft 23, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen
1984.
H. VETTER (Hg.), Nach Heidegger: Einblicke - Ausblicke, Lang, Frankfurt a.M. - Berlin - Bern -
Bruxelles - New York 2003.
Id. (hg.), Hermeneutische Phänomenologie - phänomenologische Hermeneutik, Lang, Frankfurt a.
M.-Berlin-Bern-Wien 2005 (Reihe der österreichischen Gesellschaft zur Phänomenologie).
F. VOLPI (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma Bari 1997.
B. WELTE (hg.), Briefe und Begegnungen, Mit e. Vorwort von Bernhard Casper, Klett-Cotta,
Stuttgart 2003.
Monografie
R.A. BAST, Der Wissenschaftsbegriff Martin Heideggers im Zusammenhang seiner Philosophie,
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Canstatt 1986.
J. VAN BUREN, The young Heidegger. Rumor of hidden king, Indiana University Press, Bloomington
1994.
A. CAPUTO, Heidegger e le tonalità emotive fondamentali, Franco Angeli, Milano 2005.
A. CIMINO, Ontologia, storia, temporalità: Heidegger, Platone e l’essenza della filosofia, Edizioni
ETS, Pisa 2005.
V. COSTA, La verità del mondo: giudizio e teoria del significato in Heidegger, V&P Università,
Milano 2003.
F.    DASTUR, Heidegger et la question anthropologique, Peeters, Louvain 2003.
H. EßELING, Ober Freiheit zum Tode, Diss., Freiburg i. B. 1967.
C.    ESPOSITO, Heidegger: storia e fenomenologia del possibile, Levante, Bari 1992; 2. ed.
riveduta e ampliata 2003.
A. FABRIS, Essere e tempo. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2000.
V. FARIAS, Heidegger und der Nationalsozialismus, Verlag FAZ, Frankfurt a.M. 1989.
G.    FIGAL, Martin Heidegger. Phänomenologie der Freiheit, Beiz Athenäum, Frankfurt a.M. 1988
[edizione speciale 1991; terza edizione 2000],
D.    FRANCK, Heidegger et le christianisme: l’explication silencieuse, Presses Universitaires de
France, Paris 2004.
H.-G.    GADAMER, Heidegger im Rückblick. Teil I von: Hermeneutik im Rückblick (=
Gesammelte Werke, Bd. 10), Mohr Siebeck, Tübingen 1995.
Id., Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, Tübingen 1983 [edizione ampliata in Gesammelte
Werke, Bd. 3, Mohr Siebeck, Tübingen 1987].
A. GARCIA DÜTTMANN, Das Gedächtnis des Denkens. Versuch über Heidegger und Adorno,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991.
C.F. GETHMANN, Verstehen und Auslegung. Das Methodenproblem in der Philosophie Martin
Heideggers, Bouvier, Bonn 1974.
A. GETHMANN-SIEFERT, Das Verhältnis von Philosophie und Theologie bei Martin Heidegger,
Alber Verlag, Freiburg i.
B. - München 1974.
I. GÖRLAND, Transzendenz und Selbst. Eine Phase in Heideggers Denken, Klostermann, Frankfurt
a.M. 1981.
F.-W.    VON HERRMANN, Der Begriff der Phänomenologie bei Husserl und Heidegger, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1981 [trad. it. Il concetto di fenomenologia in Heidegger e Husserl, a cura di R.
Cristin, Il melangolo, Genova 1997].
Id., Hermeneutische Phänomenologie des Daseins. Eine Erläuterung von «Sein und Zeit», Bd. 1
(Einleitung. Die Exposition der Frage nach dem Sinn von Sein), Klostermann, Frankfurt a.M. 1987.
G.    HOFFMANN, Heideggers Phänomenologie: Bewusstsein, Reflexion, Selbst (Ich) und Zeit im
Frühwerk, Königshausen & Neumann, Würzburg 2005.
A. JÄGER, Gott. Nochmals Martin Heidegger, Mohr Siebeck, Tübingen 1978.
K. JASPERS, Notizen zu Martin Heidegger, hrsg. von H. Saner, Piper, München-Zürich 1978.
E. KETTERING, NÄHE. Das Denken Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1987.
T. KISlEL, The genesis of Heidegger’s Being and Time, University of California Press,
Berkeley/Los Angeles - London 1993.
P. LACOUE-LABARTHE, Die Fiktion des Politischen. Heidegger, die Kunst und die Politik, Schwarz,
Stuttgart 1990 [trad. it. La finzione del politico, Il Nuovo Melangolo 1991],
C.    LAFONT, Sprache und Welterschließung. Zur linguistischen Wende der Hermeneutik
Heideggers, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994.
K. LEIDLMAIR, Künstliche Intelligenz und Heidegger. Über den Zwiespalt von Natur und Geist,
Fink, München 1991.
K. LOWITH, Heidegger - Denker in dürftiger Zeit, Frankfurt a.M. 1953 [con altri testi è stato
pubblicato in: Sämtliche Schriften, Bd. 8, hrsg. v. B. Lutz, Metzler, Stuttgart 1984].
W. MARX, Heidegger und die Tradition, Kohlhammer, Stuttgart 1961.
B.    MERKER, Selbsttäuschung und Selbsterkenntnis. Zu Heideggers Transformation der
Phänomenologie Husserls, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988.
M. MICHLASKI, Fremdwahrnehmung und Mitsein. Zur Grundlegung der Sozialphilosophie im
Denken Max Scheler und Martin Heideggers, Bouvier, Bonn 1997.
H. MÖRCHEN, Adorno und Heidegger. Untersuchung einer philosophischen
Kommunikationsverweigerung, Klett-Cotta, Stuttgart 1981.
D.    NEU, Die Notwendigkeit der Gründung im Zeitalter der Dekonstruktion. Zur Gründung in
Heideggers «Beiträgen zur Philosophie» unter Hinzuziehung der Derridaschen Dekonstruktion,
Duncker und Humblot, Berlin 1997.
C.    NiELSEN, Die entzogene Mitte. Gegenwart bei Heidegger, Königshausen & Neumann,
Würzburg 2003.
E.    NOLTE, Heidegger. Politik und Geschichte im Leben und Denken, Propyläen, Berlin 1992.
O. PöGGELER, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1963 [3. edizione ampliata
1990],
Id., Heidegger und die hermeneutische Phänomenologie, Alber, Freiburg i. Br. 1983.
Id., Neue Wege mit Martin Heidegger, Alber, Freiburg i. Br. -München 1992.
G. PöLTNER (hg.), Heidegger und die Antike, Lang, Frankfurt a.M. 2005.
M. POLTRUM, Schönheit und Sein hei Martin Heidegger, Passagen, Wien 2005.
G. PRAUSS, Erkennen und Handeln in Heideggers «Sein und Zeit», Alber, Freiburg i. Br. -
München 1977.
W.J. RICHARDSON, Heidegger. Through Phenomenology to Thought, Nijhoof, Den Haag 1963.
S. ROSEN, The Question of Being. A Reversai of Heidegger, Yale University Press, New Haven -
London 1993.
R.G. RUBIO, Zur Möglichkeit einer Philosophie des Verstehens: das produktive Scheitern
Heideggers, Attempto-Verl., Tübingen 2006.
T. SHIKAYA, Logos und Zeit: Heideggers Auseinandersetzung mit Aristoteles und der
Sprachgedanke, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004.
R. SCHÜRMANN, Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir, Editions du Seuil,
Paris 1982.
A. SCHWAN, Politische Philosophie im Denken Heideggers, Westdt. Verlag, Opladen 1989.
M. STUMPE, Geviert, Gestell, Geflecht: die logische Struktur des Gedankens in Martin Heideggers
späten Texten, Books on Demand, Norderstedt 2002.
D.    ThOMÄ, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textgeschichte Martin
Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1990.
E.    TUGENDHADT, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, de Gruyter, Berlin 1970.
Id., Selbstbewusstsein und Selbstbestimmung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979 [seconda edizione
1991].
Letteratura secondaria
S. VIETTA, Heideggers Kritik am Nationalsozialismus und an der Technik, Niemeyer, Tübingen
1989.
207

F. VOLPI, Heidegger e Brentano. L’aristotelismo e il problema dell’univocità dell’essere nella


formazione filosofica del giovane Martin Heidegger, Cedam, Padova 1976.
ID., Heidegger e Aristotele, Padova 1984.
Id., Il nichilismo, Biblioteca Universale Laterza, Laterza, Roma-Bari 1999.
T.R. WOLF, Hermeneutik und Technik: Martin Heideggers Auslegung des Lebens und der
Wissenschaft als Antwort auf die Krise der Moderne, Königshausen & Neumann, Würzburg 2005.
M.E. ZIMMERMANN, Heidegger’s Confrontation with Modernity, Indiana University Press,
Bloomington 1990.
* La letteratura secondaria della presente edizione è stata ampliata dal curatore rispetto alle quattro
edizioni del testo originale. Sono stati aggiunti titoli di recenti contributi su Heidegger, sia in lingua
italiana che in altre lingue, di particolare rilievo per la ricerca internazionale contemporanea.
TAVOLA CRONOLOGICA DI MARTIN HEIDEGGER
1889 Nasce a Meßkirch (Germania) il 26 settembre
1909 Termina gli studi liceali. Inizia a studiare teologia a Friburgo in Brisgovia
1911 Studia filosofia, scienze della natura e dello spirito
1913 Dottorato
1915 Abilitazione
1917    Sposa Elfride Petri
1918    Assistente di Edmund Husserl a Friburgo i.B.
1923 Chiamata alla cattedra di filosofia a Marburgo
1927    Pubblicazione di Essere e tempo
1928    Chiamata alla cattedra di filosofia di Friburgo i.B.
1933    Rettore dell’università di Friburgo i.B.
1934    Dimissioni dalla carica di Rettore
1946 Divieto di insegnare per l’occupazione (fino al 1949)
1951 Pensionamento: ripresa dell’attività di insegnamento
1975    Pubblicazione del primo volume della Gesamtausgabe
1976    Muore a Friburgo i.B. il 26 maggio e viene sepolto due giorni dopo a Meßkirch, la sua città
natale.
INDICE
Premessa [di Adriano Fabris]
Prefazione all’edizione italiana [di Günter Figai]
1.    Introduzione
2.      Filosofia e storia
L’inizio con Hegel e con Kierkegaard
Una domanda retrospettiva ad Aristotele
3.    L’ontologia fondamentale: un intermezzo ricco di conseguenze
La distruzione di Aristotele
L’analisi fondamentale dell’esserci
L’esserci in un mondo
Il tempo: temporalità e temporalità dell’essere
4.    Il ritorno alla storia filosofica
La formazione del mondo a partire dall’al di là dell’essere
La politica: irruzione e non inizio
5.    L’impossibilità di disporre dell’inizio
Lo Hölderlin di Heidegger: gli dèi, Dio e la povertà del tempo
La mobilitazione totale e il nichilismo: il pericolo e ciò che salva
6. Conclusione
Postfazione
Nota del traduttore
Opere di Martin Heidegger e relativo siglario
Letteratura secondaria
Tavola cronologica di Martin Heidegger

Potrebbero piacerti anche