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0101 Gigon
PROBLEMI FONDAMENTALI
DELLA FILOSOFIA ANTICA
)
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GUIDA EDITORI
I Grundprobleme der antiken Philosophie, che ora appaiono per la
prima volta in edizione italiana, sono forse l'opera più originale
e certo di maggiore efficacia didattica di alof Gigon. Accolta,
fin dal suo apparire, dal generale favore della critica, essa è una
storia della filosofia antica per problemi rimasta finora unica nel
suo genere. Pur essendo il frutto di una rara competenza specia
listica, l'opera è soprattutto destinata al vasto pubblico dei non
specialisti ai quali si offre come prezioso manuale introduttivo
allo studio dei fondamentali problemi del pensiero antico.
Nato a Basilea nel 1912, alof Gigon compl gli studi classici
presso le università di Basilea, Friburgo, Monaco e Parigi. Pro
fessore universitario a ventidue anni, Gigon ha insegnato nelle
università di Basilea, Friburgo, Monaco e attualmente ricopre la
cattedra di filologia classica e di storia della filosofia antica
nell'università di Berna. Tra le sue principali opere si ricordano:
Untersuchungen zu Heraklit (1935); Der Ursprung der griechischen
Philosophie. Von Hesiod bis Parmenides (1945); Sokrates. Sein
Bild in Dichtung und Geschichte (1947); Die antike Kultur und
das Christentum (1966); Die antike Philosophie als Massstab und
Realitiit (1977).
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Olof Gigon
PROBLEMI FONDAMENTALI
DELLA FILOSOFIA ANTICA
Traduzione di Luciano Montoneri
Guida editori
Napoli
Titolo originale dell' opera:
O. GIGON, Grundprobleme der antiken Philosophie, A. Francke Verlag, Bern 1959, pp.336.
considerazione della fase per cosi dire «aurorale» del pensiero filosofico
antico, col rischio - anche qui - di deformare, per eccesso di analiticità,
l'immagine complessiva di una realtà storico-culturale caratterizzata in
senso fortemente unitario?
Obiezioni siffatte, e altre ancora che si potrebbero muovere nella
medesima direzione, anche a non volerle contestare nel merito, appaiono in
qualche misura «scontate» per libri come questo che non possono fare a
meno - nella trattazione di una materia cosi vasta e complessa - di punti
di vista generali, di schemi inevitabilmente semplificator� di classificazioni
fatalmente cristallizzanti_ È evidente che, a lasciarsi dominare, in sede
critica, da preoccupazioni del genere al di là di un certo limite, si dovrebbe
coerentemente concludere per l'impossibilità di trattazioni generali siffatte,
comprese le stesse «storie» del pensiero filosofico-
Ci sembra pertanto piu proficuo svolgere - a proposito di questo libro
- un discorso in positivo, che miri a favorirne una comprensione piu
adeguata, muovendo (come finora non è stato fatto) dai presupposti teorici
di fondo che sembrano sorreggere il lavoro storiografico del suo A utore e
che stanno alla base della sua personale maniera d'intendere e interpretare
il significato e il valore globale del pensiero antico per entro lo svolgimento
storico della filosofza occidentale.
A tale scopo ci sembrano utili due saggi teorici pubblicati dal Gigon in
anni immediatamente precedenti l'uscita dei Grundprobleme. Intendiamo
riferirci al saggio intitolato Die Geschichtlichkeit der Philosophie bei
Aristoteles 1 e all'altro dal titolo Compiti attuali della storia della
filosofia antica 2, nei quali vengono enunciati alcuni concetti storiografici
che sono stati poi ripresi e sviluppati dall'Autore, in tutte le loro implica
zioni, nella stesura del suo libro.
In particolare ci sembra importante il concetto della essenziale «stori
cità» della filosofia, in forza del quale Gigon crede di poter accogliere la
tesi storicistica che non si può avere comprensione adeguata di una qualun
que filosofza, se questa viene estrapolata dal contesto storico d'appartenenza,
se non se ne considerano gli antecedenti culturali che l'hanno condizionata
e gli influssi e condizionamenti da essa, a sua volta, esercitati sul successivo
svolgimento del pensiero. Ciò tuttavia non comporta, a giudizio del Gigon,
l'applicabilità del moderno concetto psicologico di sviluppo al pensiero dei
Citiamo la trad. ital. a cura di P.M. Nobile Ventura, compresa nel medesimo volume,
p. 151.
5 O. Gigon, Compiti attuali della storia della filosofia antica cit., pp. 356-7.
8 LUCIANO MONTONERI
zione che sembra legittimare una concezione del filosofare come philosophia
perennis, come riflessione cioè su un insieme di problemi che sono sempre
gli stessi pur nella varietà delle soluzioni che di volta in volte ne sono state
date.
Punto di vista, questo, che è chiaramente ribadito dall'Autore nella
Vorbemerkung ai Grundprobleme: «Si devono considerare i problemi
giacché, in ultima analisi, la storia della filosofta non è che la storia di un
numero non grande di problemi, originariamente dati» 6.
Tuttavia questa dichiarazione di principio non impedisce al Gigon di
sottolineare continuamente le distinzioni e le differenze (a volte anche
radicalij che separano il pensiero antico dal moderno. In tale compito egli è
grandemente agevolato dalla vasta e profonda conoscenza della civiltà ano
tica, nella varietà dei suoi aspetti (storici, letterari, scientifici, religiosi, etc.)
che gli fa scrivere pagine assai efficaci e puntuali sul ruolo della filosofia
nella cultura antica, sui suoi rapporti con la poesia, la religione e la
politica, sul ritratto del filosofo che si costrui la società del tempo, etc.
Un ultimo concetto storiografico, che Gigon fa suo senza riserve, è
quello relativo all'origine storica della filosofta a partire dai Greci. Si
tratta, com'è noto, di un concetto tradizionale della storiografia filosofica -
teorizzato per primo dallo Hegel e reso poi canonico da E. Zeller nella sua
classica opera Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen
Entwicklung ma che oggi può ragionevolmente apparire bisognoso di
-
nella sorprendente vastità della sua cultura «classica» che conferisce alla
ricostruzione storiografica una grande ricchezza e varietà di notazioni e di
richiami agli ambiti piu diversi della scienza dell'antichità, col risultato di
costruire un orizzonte assai ampio e arioso nel quale i «problemi» del
pensiero antico - ovviamente nella selezione fattane dal Gigon - mostrano
tutta la loro vitalità e capacità di sviluppo.
Su queste considerazioni si fonda il nostro convincimento - che ci ha
costantemente sorretti nell'intraprendere e nel portare a termine la tradu
zione italiana dell'opera - che i Grundprobleme der antiken Philosophie
restino un libro tuttora vivo e stimolante, la cui lettura non potrà non
riuscire proficua, oltre che allo studioso specialista, anche e soprattutto a quei
lettori che nutrono un reale interesse alla conosce�za della filosofia antica, la
cui eredità spirituale è ancora ogg� in misura cosi rilevante - come giusta
mente crede Gigon - lievito fecondo operante nel pensiero contemporaneo.
LUCIANO MONTONERI
Premessa
Nel corso del tempo non mutano solo le filosofie ma anche i modi di
intenderne la storia. Una volta si era soliti disporre i sistemi filosofici
l'uno accanto all'altro, in scrupolosi quadri sinottici, cosicché l'osserva
tore poteva muovere su di essi l'occhio, nella loro interminabile teoria,
come in un museo nel quale fossero esposti alla vista, in serie ordinate,
dei congegni meccanici ben luccicanti, assai ingegnosi e complicati, ma
da lungo tempo ormai fuori uso. Osserviamo peraltro che siffatte costru
zioni hanno aperto la strada a importanti scoperte e perciò dobbiamo
ben guardarci dal sottovalutarne l'importanza. Tuttavia l'osservatore non
ha modo di apprendere, da nessuna parte, ciò che ha dato impulso alla
loro formazione, che cosa ne hanno pensato gli uomini del tempo, né
l'uso che ne hanno potuto fare. E sono per l'appunto queste le questioni
che oggi ci interessano.
Oggi non ci basta piu essere informati su questi sistemi di pensiero,
ma vorremmo piuttosto seguire la riflessione filosofica nel suo divenire e
nel suo agire storici: vorremmo sapere donde essa viene e dove conduce;
come è avvenuto che un dato pensiero è stato per la prima volta
espresso da un certo filosofo in un determinato contesto storico; e come
a questo pensiero, una volta espresso, hanno reagito sia gli stessi filosofi
che gli altri uomini ai quali il pensatore si è rivolto; quale influenza in
generale ha esercitato (o non ha esercitato) la filosofia sul corso del
divenire storico.
Queste sono all'incirca le questioni che appaiono oggi particolar
mente importanti. Certamente noi non vorreJT.Imo essere annoverati tra
coloro ai quali nulla importa né della validità né della possibile giustezza
di un enunciato filosofico, e che riducono il faticoso progredire dell'in
telligenza a uno spettacolare naufragio, per poi finire nella vuota desola
zione di una mera �toricità. D'altra parte è ancor meno possibile elimi
nare l'elemento «storicità» dalla più perfetta delle filosofie, giacché appar
tiene all'essenza stessa di ogni filosofia mostrare quel che essa ha saputo
realizzare, per la sua parte, nell'operare concreto.
Noi vorremmo quindi vedere i sistemi filosofici, per così dire, in
aZIOne.
12 PREMESSA
LA POSIZIONE STORICA
Considerazioni definitorie
Quel che tuttavia rende difficile tale compito è il fatto che per i
filosofi greci l'opinione volgare non si esprime soltanto nella forma di
tradizioni, presunzioni o di stati d'angoscia infinitamente frammentari,
ma prende corpo piuttosto, in certa misura, nelle monumentali creazioni
della poesia. Ma la poesia, notoriamente, non ricerca la verità delle cose.
Essa inventa, anche quando le sue invenzioni hanno tutta l'apparenza
della realtà. La poesia non procura conoscenza ma piacere; essa racconta
ciò che l'uomo ama sentir raccontare, ciò che può avvincerlo, eccitarlo,
sedurlo. I suoi contenuti, come la sua forma espressiva, agiscono per una
sorta d'incantesimo. Ma la verità le resta indifferente. Ora non si dimen
tichi che all'inizio della storia greca sta un poeta, Omero, la cui opera
non è certo una sorta di balbettamento da primitivo di cui i posteri
avrebbero conservato il ricordo con vergogna e commozione insieme
(come avvenne, per esempio, con le prime produzioni della poesia
latina). La sua opera, al contrario, fu giudicata dalla posterità come
l'inizio e insieme la vetta irraggiungibile di tutta la poesia greca. Nulla
può essere messo a confronto con l'autorità e l'influenza di Omero,
neppure la tragedia attica che spiritualmente fu una sua creatura. In tutti
i tempi la filosofia greca ha avvertito, in questa potenza della poesia
omerica, la sua più autentica e pericolosa nemica. Essa intende opporre
alle belle menzogne dei poeti la verità e null'altro che la verità; non
vuole incantare i suoi uditori, ma mostrar loro le cose come realmente
sono.
Siamo giunti cosÌ a un terzo punto che necessita di un chiarimento.
La poesia è antifilosofica non solo perché inventa, ma anche perché
cerca consapevolmente di conquistare la gente. Essa mira al successo, ed
ottiene il successo ciò che piace. La poesia ha in comune questa caratteri
stica con un altro potere: la politica. Il filosofo ha di fronte a sé da un
lato il poeta, dall'altro il politico. Per quanto reciprocamente distinte
siano l'attività del poeta e quella del politico, esse tuttavia sono insieme
alleate contro il filosofo nel cercare non la verità ma il dominio delle
anime, e perciò poesia e politica restano legate alle opinioni e ai desideri
degli uomini. CosÌ il conflitto tra politica e filosofia si protrae lungo il
corso dei secoli, forse non cosÌ ininterrottamente come quello tra filoso
fia e poesia, ma certo non meno violento.
Ora, sia nell'uno che nell'altro caso, non si tratta per la filosofia di
opporre una semplice resistenza, quanto piuttosto del tentativo, spesse
volte da lei compiuto, di sottomettere l'avversaria. E cosÌ la filosofia ha
prodotto programmi di poesia filosofica e di politica filosofica, pur
riconoscendo - è vero - di volta in volta l'inattuabilità di tali pro
grammi. Tra la pretesa di conoscere le cose come realmente sono e l'arte
di ottenere il successo tra gli uomini, ogni compromesso si rivelava alla
CONSIDERAZIONI DEFINITORIE 17
Nel concetto di «ordine» acquista rilievo ciò che, con una non molto
bella espressione, si suole chiamare il «carattere razionale» della filosofia
antica. Per il Greco la verità si fa riconoscere dall'«organicità», onde
per lui la perfezione è sempre qualcosa di delimitato e perciò la filosofia
greca si sente strettamente imparentata alle scienze matematiche. Ciò
vale anzitutto per Platone, ma non solo per lui. Al contrario, si può dire
che quei sistemi che ammettono l'illimitato e quanto di arbitrarietà esso
comporta - come, ad esempio, la dottrina di Democrito - e che
vogliono ignorare le matematiche, possono essere tutti definiti, senza
eccezione, come sistemi di rassegnazione: se lo spirito umano non è
evidentemente in grado di scoprire l'ordine che esso cerca e che di
diritto dovrebbe esistere nelle cose, allora onestamente non gli resta che
rassegnarsi al disordine manifesto.
Dal problema del «tutto » scaturiscono infine due conseguenze;
una di ordine sostanziale, l'altra di ordine metodologico. Dal punto di
vista sostanziale non c'è dubbio che la nozione di un «tutto» che in sé
comprende l'insieme delle cose, legata all'altra di «principio» che è il
fondamento di quest'insieme, conduce a una terza nozione che viene
semplicemente a costituire il nocciolo di ogni filosofia: la nozione di
«essere». Là dove - come in Parmenide - si tratta dell'essere e
dell'essente, si tratta anche, in senso stretto, del «tutto» oltre il quale
nulla esiste; cosÌ come si tratta anche della nozione di «principio» alla
luce della quale va spiegato perfino il nostro mondo dell'opinione.
Dal punto di vista metodologico il problema del tutto costituisce
l'essenza della filosofia come scienza universale, che si distingue come
tale dalle scienze particolari. Va certamente detto che nell'antichità i
loro confini reciproci sono rimasti sempre fluttuanti: Aristotele, per fare
un solo nome, ha attribuito alla filosofia una quantità di problemi che
oggi appartengono a scienze speciali. In generale tuttavia vale per i Greci
il principio che la filosofia comincia là dove si indaga sull'essere onni
comprensivo, sui primi principi e sul valore supremo. Nell'ambito di
svariate discipline come la medicina, la geografia o la retorica, sono sorte
vivaci discussioni sui rapporti delle medesime con la filosofia. Secondo
alcuni, la filosofia dovrebbe limitarsi a dare a queste discipline il fonda
mento teorico e l'indirizzo giusto, mentre, a giudizio d'altri, la filosofia
in pratica non può che essere loro d'intralcio, giacché ogni disciplina
può svilupparsi in maniera feconda solo se rimane autonoma dal punto
di vista dell'oggetto specifico e dei metodi d'indagine.
Inoltre, la pretesa della filosofia di essere la scienza del tutto, rac
chiudeva in sé dei rischi: infatti si poteva credere che per principio il
filosofo fosse tenuto a conoscere ogni cosa, in una totalità enciclopedica;
il che era praticamente impossibile. L'unica via d'uscita dalla difficoltà
CONSIDERAZIONI DEFINITORIE 19
poteva esser data dalla formula, alquanto precaria, che il filosofo dovesse
conoscere « fino a un certo grado» i particolari settori del reale dei quali
- sempre in un certo senso - risulta costituito il tutto. Egli doveva, ad
esempio, conoscere la struttura del corpo umano o i problemi dell'eco
nomia domestica nelle loro grandi linee, senza la pretesa di voler
rivaleggiare con lo specialista. Per assolvere adeguatamente al suo com
pito specifico di filosofo, consistente nella conoscenza del tutto e dei
suoi principi, gli sarebbe bastata una conoscenza ridot>t:a dei particolari.
Emergono, a questo punto, difficoltà che restano attuali fino ai 90stri
gIOrm.
A ciò si aggiunge che, nella filosofia greca, al problema cosmologico
se ne collega immediatamente un secondo. Ci si riferisce a questo
quando in Platone e in altri si legge che la meraviglia è l'inizio del
filosofare. Il che significa: all'uomo si presentano talvolta - nella natura
come nella storia - fenomeni strani, sorprendenti o addirittura inquie
tanti, perché egli non è in grado di spiegarseli: eclissi, terremoti, esseri
mostruosi, costumanze strane appartenenti a epoche trascorse o a popoli
stranieri. Egli riflette su queste cose e a volte è portato a supporre, non
senza timore, che in tutto ciò agisca la mano di un dio. Ma, se
quest'uomo è un greco, egli si sente soprattutto indotto a cercare una
spiegazione razionale che possa liberarlo dalla meraviglia e dal timore.
Fornire tali spiegazioni fu uno dei compiti principali della filosofia
nell'antichità.
Noi possiamo denominare il primo fondamentale ordine di pro
blemi e di compiti della filosofia, con l'espressione « costruzione sistema
tica»; mentre carattere precipuo del secondo è 1'« indagine problema
tica». Infatti in questo caso non si tratta più dell'ordinamento di una
totalità cosmica, ma dell'approfondimento, da parte della filosofia, di un
problema isolato. Essa deve risolvere, con freddo acume di pensiero, i
misteri e i prodigi apparenti, riportandoli a cause razionalmente com
prensibili. È superfluo scender qui in particolari per dimostrare come a
questi due tipi fondamentali di lavoro filosofico corrispondano anche
differenti stili letterari e umani. La costruzione sistematica conserva, fino
a tarda epoca, qualcosa della sublimità delle teogonie arcaiche. Al
contrario, l'indagine problematica si disperde in una serie poco coerente
di problemi (come quelli trasmessici dalla scuola di Aristotele) ed ha
indiscutibilmente carattere di chiarificazione razionale. Essa inoltre non
teme di occuparsi anche delle inezie più singolari e di discutere sulle
possibili cause non solo delle stelle filanti e dei terremoti, ma anche
degli starnuti o della caduta dei capelli. Di filosofico in cose del genere
c'è solo, a nostro avviso, il presupposto fondamentale che non esiste
fenomeno del quale non si possa e non si debba trovare una causa
20 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
plausibile. Del concetto di causa come tale, che qui entra in gioco,
parleremo più avanti.
Naturalmente l'indagine problematica riveste sempre un ruolo se
condario rispetto alla costruzione sistematica, ma dal punto di vista
storico anch'essa appare fin dalle origini presso i Greci e non può essere
trascurata in un quadro generale della filosofia antica. E questa osserva
zione, per marginale che sia, vale per i due ambiti nei quali, dal lato del
contenuto, si divide la filosofia e che noi, per comodità, indichiamo con
gli stessi nomi di « fisica» ed « etica».
Di tale suddivisione della filosofia dovremo parlare, in modo più
particolareggiato, nel prossimo capitolo: Ora basta soltanto rilevare
esplicitamente ciò che finora è rimasto un tacito presupposto. Nell'am
bito della fisica, il cui oggetto - secondo l'antico uso linguistico - è
costituito dall'insieme degli esseri animati e inanimati compresi nell'uni
verso, si riscontrano naturalmente sia costruzioni sistematiche della tota
lità come anche ricerche su problemi particolari. Non diversamente
accade nell'ambito dell'etica, dove la ricerca filosofica comincia col deli
neare sistemi conclusi; ma ben presto - anche se ormai non possiamo
farcene che un'idea frammentaria - vi si aggiunge lo studio di certi
problemi particolari, l'interpretazione di situazioni etiche particolar
mente paradossali, complesse, o estreme. In un'opera ampia come l'Etica
Nicomachea di Aristotele, il punto di vista sistematico e quello proble
matico s'intrecciano insieme di continuo.
Ma lasciamo da parte queste considerazioni e ritorniamo ancora al
punto di partenza del nostro disegno storico. Abbiamo sottolineato il
fatto che l'ispirazione originaria della filosofia greca si rivolse a quella
realtà naturale che è ignota all'ingenua opinione degli uomini. Pertanto,
agli occhi di costoro la filosofia appare in una situazione particolarmente
ambigua: da un lato infatti essa si mostra, nei confronti della gente
comune, nella veste del signore di fronte ai sudditi, o addirittura come la
divinità di fronte agli uomini. Infatti, l'intelligenza che pe'netra l'essenza
reale del tutto è indubbiamente un privilegio spettante alla divinità.
Nulla di strano quindi se a partire dalla Socratica, viene propugnata la
tesi secondo la quale il filosofo è il vero re e nell'età ellenistica emerge
ripetutamente l'idea che il filosofo possa rivendicare a sé stesso una
perfezione pari a quella della divinità. Dall'altro lato però la lotta contro
l'opinione corrente assume il significato di un rifiuto del complesso delle
tradizioni storiche, dei costumi e dei modi di pensare nei quali storica
mente si svolge la vita della comunità sociale. Conseguentemente il
filosofo si isola dalla società. La sua attività appare strana, a volte anche
scandalosa: egli diventa a poco a poco un tipo originale che vive la
propria vita in disparte e in contrasto con tutte le regole del gioco
CONSIDERAZIONI DEFINITORIE 21
cerca di render ragione sia della filosofia presocratica - il cui oggetto era
principalmente rappresentato dal cosmo e dai suoi fenomeni - sia della
Socratica che si concentrava invece sui problemi umani. 3. La filosofia è
meditazione della morte. 4. Ca filosofia è imitazione di dio, per quanto
ciò è possibile all'uomo. Queste due definizioni, alquanto arbitrarie per
il nostro modo di pensare, sono tratte dai Dialoghi di Platone). Esse
intendono porre in rilievo il fatto che la filosofia potrà svolgersi libera
mente solamente quando l'uomo avrà lasciato la sua esistenza corporea e
le relazioni sociali per passare nel mondo dell'essere originario. 5. La
filosofia è l'arte delle arti e la scienza delle scienze. Questa definizione è
tratta probabilmente dall'opera già citata di Aristotele Sulla filosofia: arte
delle arti, in quanto la filosofia guida tutte le altre arti, essendo l'arte di
ben condurre la propria vita; e scienza delle scienze, in quanto il suo
oggetto non può essere solamente il tutto ma anche quei principi da cui
derivano tutte le altre scienze specialistiche. 6. La filosofia è amore della
sapienza. Questa definizione non si riferisce soltanto alla ben nota
etimologia della parola greca philo-sophia ma allude anche, dai tempi di
Platone in poi, a un perspicuo disegno di costruzione storiografica,
secondo il quale i più antichi filosofi naturalisti avrebbero avuto la
presunzione di chiamarsi « sapienti», mentre Pitagora sarebbe stato il
primo a capire che solo a dio spetta la vera conoscenza dell'universo,
mentre l'uomo deve accontentarsi dell'amore della sapienza 4.
Aristotele: « Quello di fare senza costrizione ciò che gli altri uomini
fanno solo per paura della legge o del castigo».
Diogene « Quello di essere premuniti contro i colpi del destino ».
In tal modo si ribatte alle due obiezioni contro la fisica: alla prima,
secondo la quale la fisica conduce all'empietà; alla seconda, più tarda,
secondo la quale essa non contribuisce a migliorare moralmente l'uomo.
4. L'ultima obiezione non è, nella sostanza, diversa dalle altre. Noi
la riferiamo nel suo tenore, perché essa ha trovato a volte formulazioni
particolarmente efficaci. Il suo concetto fondamentale è questo: è scanda
loso interessarsi delle cose più lontane e nascoste e poi trascurare la cosa
più vicina, la propria anima. A quanto sembra, già l'antico filosofo
ionico Eraclito aveva espresso tale pensiero, richiamandosi alla più fa
mosa e veneranda formula della saggezza greca, l'iscrizione delfica « Co
nosci te stesso», cosÌ da lui interpretata: nostro dovere è conoscere non
il mondo esterno ma noi stessi 8. Per lo spirito alquanto pedantesco di
Senofonte, questo pensiero assume la forma seguente: Socrate si sarebbe
chiesto se i filosofi della natura erano convinti di saperne abbastanza
6 EPIC. Ratae sent. XI, tr. it. Isnardi Parente, In: Opere di Epicuro, a cura di M.
ISNARDI PARENTE, Torino 1974, pp. 197·198.
7 CIc. Defin. IV 11-12; ARISTOX. fr. 53 Wehrli.
8 HERACL. frr. 101, 116 Diels·Kranz.
DIVISIONE DELLA FILOSOFIA ANTICA 29
9 XENOPH.Mem. I 1, 11-15.
lO ARISTOX. fr. 53 Wehrli.
11 DIOG. LAERT. VI 27-28.
30 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
che rilevare un altro aspetto del medesimo fenomeno quando si dice che
una tale etica possiede e rivendica solo una particolare validità nell'am
bito di una comunità sociale storicamente determinata.
Viceversa, l'etica filosofica pretende di costruire un sistema coerente
di prescrizioni, muovendo da un principio assoluto per giungere a un
fine supremo, identico per tutti gli uomini.
Ora, com'è stata possibile un'etica di questo tipo presso i Greci?
Innanzitutto bisogna prendere in esame i fattori che hanno preparato la
dissoluzione dell'etica prefilosofica. Tre di essi sono facilmente indivi
duabili:
1. Per ogni etica «ingenua» di tipo nobiliare - adoperiamo qui
una definizione facilmente equivocabile - i valori hanno un carattere
decisamente sociologico: ognuno si comporta disciplinatamente in ogni
circostanza della vita, parla o tace al momento giusto; se è un amico
merita fiducia, se è un nemico è un uomo pericoloso. Domina il
convincimento generale che la nobiltà d'origine, la ricchezza ereditata, la
forza fisica, la bellezza e ancora la liberalità, la fortezza e altre qualità
del genere siano in fondo tra loro inscindibili e strettamente congiunte.
Chi possiede tutto ciò pretende di aver diritto a un potere e a un
rispetto adeguati.
La poesia greca delle origini presuppone, sia pure in maniera fram
mentaria, un'etica di questo tipo, ma già ne fa anche intravedere la
decadenza. Da quando li conosciamo, i Greci sono stati un popolo
straordinariamente irrequieto. Proprio gli stati civilmente più avanzati
sono precipitati in lotte intestine interminabili che scossero l'ordina
mento sociale: ricchi signori furono ridotti, con l'esilio, nella condizione
di miseri emigranti, mentre individui di estrazione popolare, rozzi e
incolti, grazie alla loro astuzia e vivacità d'intelligenza, giunsero a pro
cacciarsi potenza e ricchezza. Sia per gli uni che per gli altri la conclu
sione inevitabile fu la seguente: gli esiliati scoprirono che né la ricchezza
né la potenza erano valori sicuri, ché altrimenti non sarebbero passate
nelle mani di individui di nessun conto; mentre costoro, una volta
divenuti potenti, dimostravano col loro successo che era possibile pro
gredire anche senza nobiltà, bellezza, buona educazione. Come risultato
generale si ebbe una fuga dei valori nella sfera dell'interiorità e un
ripiegarsi dell'uomo su sé stesso e su quei valori che i rivolgimenti
sociali non fossero in grado di scalfire. Questo ripiegamento assunse
forme diverse: ci si poteva cosÌ attaccare a valori interiori, indefettibili,
quelli che successivamente formarono il gruppo delle virtù morali. Fu
rono coniate massime che forse si potrebbero chiamare «formule rifles
sive », come ad esempio: «Bisogna dominare non gli uomini ma sé
stessi », «Bisogna temere non gli uomini ma sé stessi », «Bisogna ben
GENESI STORICA DELLE PARTI DELLA FILOSOFIA 37
2. Una delle qualità fondamentali e più splendide dei Greci sta nel
naturale interesse da loro dimostrato per i diversi aspetti della vita umana.
Non solo essi hanno saputo da sempre di essere un popolo formato da
numerose stirpi, ciascuna delle quali dotata di un proprio modo di vivere)
ma hanno rivolto ben presto la loro attenzione ai popoli stranieri, hanno
viaggiato, raccolto informazioni, hanno conosciuto le costumanze altrui,
mostrando spesso meraviglia ma giammai presunzione. All'inizio del V
secolo a.c. nacque la scienza dell'etnologia: si fecero descrizioni dei
popoli dell'Egitto, dell'Asia Minore, della Mesopotamia, etc. In esse si
poteva leggere che in questi paesi venivano severamente proibite molte
cose che presso i Greci erano invece considerate convenienti, e viceversa.
E i Greci erano abbastanza obiettivi per concludere che evidentemente i
loro costumi, come quelli degli stranieri, si fondavano esclusivamente
sulla consuetudine e non potevano in nessun modo pretendere a un'asso
luta validità. Il problema che portò a compimento il processo di dissolu
zione dell'etica tradizionale e che aprì la strada alla riflessione filosofica fu
quello di sapere se esiste in generale una moralità assoluta e, in caso
affermativo, dove era possibile trovarla.
3. Difficile da cogliere ma, con ogni probabilità, molto importante
dovette essere l'influenza esercitata dalle condizioni particolari della de
mocrazia ateniese del V secolo a.c. Si è chiamata l'Atenè di allora una
« repubblica di avvocati». È giusto dire che l'attività giudiziaria e la
giurisprudenza vi giocarono un ruolo di straordinaria importanza (e qui
non intendiamo stabilire se Atene, sotto questo riguardo, avesse avuto o
meno dei precursori nelle grandi città siciliane).
Non solo l'attività giudiziaria ma anche la discussione teorica di casi
giuridici importanti, complessi o stravaganti divenne una passione vera e
Alle origini della logica antica stanno due distinte componenti. Una
è l'analisi linguistica in quanto tale. Per poter distinguere tra loro
termini di significato affine, si procedette alla loro definizione e classifi
cazione sistematica. Si classificarono le parti del discorso, si organizza
rono le declinazioni dei sostantivi e le coniugazioni dei verbi. Il che
diede luogo a una gran quantità di osservazioni di natura logica.
L'altra componente è costituita dall'arte della dimostrazione che si
rivolge alla logica dal momento in cui, non contentandosi più dei soli
dati di fatto, inferisce da questi e assume il caso particolare entro regole
generali. Il che si verificò nel V secolo sia nel campo della giurispru
denza che in quello della filosofia della natura.
Possiamo fornire un bell'esempio dell'impiego, pur rozzamente ar
caico ma già perfettamente consapevole, di strumenti logici nell'ambito
della filosofia della natura. Si tratta di un'argomentazione di Gorgia che
si può considerare in senso lato un discepolo di Parmenide: « Se qualcosa
è, non può esser nato. Infatti, se qualcosa nasce, bisogna che nasca o
dall'essere o dal non essere. Ma anzitutto non può nascere dall'essere:
infatti se l'essere si trasforma in qualcosa d'altro, cessa di essere 1'essere.
Inoltre esso non può trasformarsi in essere, perché già è, né in non
essere, perché il -non essere non può nascere. In secondo luogo 1'essere
non può nascere dal non essere, perché dal non essere nulla può na
scere... » 8. Appar chiaro come argomentazioni di questo genere doves
sero stimolare i filosofi a distinguere e a perfezionare sia i concetti che i
metodi. Il che è precisamente avvenuto con Platone e Aristotele.
1 Resti di questo discorso sono rintracciabili in: ATHEN. Deipn. V 187 d, 215 c; XI
508 f; XIII 610 f; EUSEB., Praep. evo XV 2, 6.
'
LA CONDIZIONE DELLA FILOSOFIA NELL ANTICHITÀ 45
1 Lucrezio è un filosofo che scrive in poesia, come Empedocle: non può pertanto
essere menzionato in questo contesto.
52 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
b) Influenza dell'etica
che su queste linee di tendenza l'etica filosofica dei Sofisti abbia agito
come una forza propulsiva. Ma in generale non possiamo ancor oggi dir
nulla dell'influenza della filosofia - nel grandi secoli della grecità -
sulla persona di media cultura.
Tuttavia è possibile dimostrare, in modo particolareggiato, l'in
fluenza esercitata dalla filosofia su un gran numero di storici importanti:
è così che Tucidide si apparenta alla Sofistica, come Senofonte a un
socratismo certamente dai contorni assai vaghi.
Negli ultimi anni del IV secolo a.c. esercitò una notevole influenza
l'opera di Teopompo di Chio, della quale purtroppo ci sono pervenuti
solo scarsi frammenti 7. Essa si ispirava alla morale cupamente pessimi
stica, ma perciò appunto anche attivistica, del socratico Antistene. An
che uno storico alessandrino, Onesicrito, simpatizzò per i Cinici. Egli
non solo ci ha informato dei riconoscimenti che i Ginnosofisti dell'India
avrebbero espressi su Socrate, Pitagora e Diogene, ma ha anche descritto
un preteso regno dell'India meridionale i cui abitanti vivevano secondo
la purezza della morale cinica 8. Dobbiamo anche presumere che parec
chi storici abbiano trovato in Aristotele e nei suoi discepoli vedute
importanti, anche se le testimonianze in proposito sono scarse. A partire
da Aristotele, l'analisi dei fatti morali, la caratterologia, la fisiologia e
patologia della vita statale appartennero agli interessi specifici del Peri
pato e sarebbe paradossale che gli storici non vi avessero attinto abbon
dantemente. Uno degli avversari più accaniti del Peripato fu çertamente
Timeo di Tauromenio (Taormina), storico della Magna Grecia, la cui
opera ebbe grande diffusione 9. Timeo nutrì grande simpatia per il
filosofo «italico» Pitagora e, come sembra, . anche per i discepoli di
Socrate. In lui si fondono insieme patriottismo e interesse per la filoso
fia: infatti, a quanto pare, egli annotò con particolare diligenza i vari
viaggi compiuti dai Socratici da Atene in Sicilia. L'opera storica di
Timeo - che giungeva fino al 264 a.c. - fu continuata da Polibio, uno
scrittore che mirò soprattutto a mettere in ombra il lavoro del suo
predecessore. Egli volle passare per politico attivo e in parte lo fu. Nella
sua opera - che non va molto al di là di un livello medio - egli si
colloca sulla linea del Peripato, la cui dottrina offriva, a suo avviso, i
maggiori vantaggi al politico pratico. Tutte le volte che tratta di teoria
dello stato o di etica, egli attinge dalle opere, a lui accessibili, di
Aristotele e dei suoi scolari. Stoico e peripatetico insieme fu infine
dare a questa domanda, furono tutte formulate già nel periodo presocra
tico. Il filosofo può ripetere il suo sapere da una superiore rivelazione; ma
può anche, contro ogni verosimiglianza, considerare il suo spirito sovrano
come la fonte delle sue stesse idee. Infine, procedendo in senso inverso,
può affermare l'impossibilità di un qualsiasi sapere sicuro, e in tal caso la
sua legittimazione si fonda sul fatto che egli rispetta i limiti dell'uomo più
fedelmente di quanti nutrono, in proposito, pretese eccessive.
Il filosofo che fa discendere il proprio sapere dalla divinità, resta sulla
linea delle antiche teogonie. Questa è la posizione di Parmenide il quale
racconta il viaggio da lui compiuto sul carro del sole verso la dea che lo
ha istruito l. Il suo poema intorno all'essere, non è altro in senso stretto
che il discorso della dea, così come la Teogonia di Esiodo non è altro che
il canto delle Muse. Questo atteggiamento è invece superato da Eraclito e
da Empedocle i quali si vantano di una loro originaria comunione con la
divinità. Solo così si può comprendere l'atteggiamento di Eraclito che
solennemente si dichiara il solo sapiente nei confronti degli altri uomini e
formula le sue massime nello stile oracolare 2. Empedocle poi, sulla base
delle credenze pitagoriche, presenta sé stesso come un dio esiliato sulla
terra che benevolmente partecipa ai mortali il proprio sapere 3.
Ma dopo il V secolo a.c. un tale atteggiamento certamente non potè
più essere preso sul serio. La legittimazione attraverso la forza del proprio
logos personale trovò nell'antichità il più risoluto sostenitore in Epicuro,
come possiamo arguire dai magnifici versi nei quali Lucrezio ci rappre
senta Epicuro che col suo spirito ha percorso il tutto infinito, appren
dendo in esso le leggi del divenire e del trapassare di tutte le cose 4.
Si potrebbe ammettere che, sotto questo riguardo, Epicuro ha avuto
dei precursori tra i Presocratici. Sarebbe infatti difficilmente credibile che
un Anassimandro, un Anassagora, gli Atomisti abbiano potuto mettere
per iscritto le loro ardite costruzioni cosmogoniche, senza spiegare in una
qualche maniera che cosa li autorizzasse a tali formulazioni: poiché essi
non si sono fondati su un'ispirazione divina, resta solo che si siano
affidati alla competenza del proprio logos.
Il terzo atteggiamento si sviluppa come reazione a quello dei primi
Milesi: Senofane consapevolmente non insegna altro se non ciò che l'opi
nare umano è capace di supporre. La sua superiorità nei confronti della
massa gli deriva dal fatto di intendere l'opinione come opinione S. La
l D-K 28 B 1.
2 D-K 22 BI.
3 D-K 31 B 112.
4 LUCR. De rer. nat. I 73-79.
S D-K 21 B 34.
IL RITRATTO DEL FILOSOFO 65
8 Fr. I A 1 Giannantonio
9 PLAToApoL 21 a.
68 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
14 Fr. I A 12 Giannantoni.
IL RITRATTO DEL FILOSOFO 69
Quale idea dunque si ebbe dei filosofi nei tempi antichi? Non ne
sappiamo molto, ma è tuttavia evidente che due motivi hanno avuto
un'importanza fondamentale. Il filosofo è anzitutto l'uomo che può
predire gli avvenimenti futuri; poi è il giramondo che visita i paesi
lontani esclusivamente per conoscerne gli aspetti. Non sarebbe difficile
rintracciare questi due tratti caratteristici fin nell'ambito del racconto
popolare. Quando Talete predice un'eclisse, altri un terremoto, una
tempesta e così via, codesta arte del pronostico è affine non solo a quella
del medico ma ha anche qualcosa in comune con ciò che faceva la gloria
del taumaturgo dei tempi più remoti. D'altra parte, alcuni dei filosofi
più famosi sono descritti come dei giramondo: Talete, Pitagora, Demo
crito e Platone. La biografia di quest'ultimo vuole che egli abbia intra
preso il suo primo viaggio in Sicilia per studiare i fenomeni vulcanici
dell'Etna 19. Del fatto poi che in tutta l'opera di Platone non vi sia il
minimo accenno alla cosa, i biografi non si danno pensiero.
Nondimeno già nello stesso periodo presocratico sorse un'immagine
opposta del filosofo. E ciò non soltanto nel senso che venne svalutata
l'utilità dell'arte del pronostico e si rifiutarono i viaggi come il prodotto
di una curiosità superficiale. Il filosofo esce definitivamente fuori dalla
sfera dell'attività politica e professionale. Egli rappresenta cosÌ un'attività
totalmente estranea al lavoro di un guerriero, di un proprietario, di un
commerciante; un'attività certo meno appariscente, ma in realtà più
preziosa di tutto ciò che fanno gli altri. Parados�almente il filosofo
s'avvicina ora al poeta, dal quale pure così radicalmente si distingue.
Quando Aristotele - che pur non è stato il primo a farlo - distingue
tre o quattro forme di vita, rispettivamente dedite all'ambizione, al
piacere, al guadagno, alla contemplazione della verità, dando a quest'ul
tima la superiorità sulle altre per essere la sola ragionevole, egli si
riferisce ad antiche elencazioni nelle quali la saggezza del poeta veniva
ugualmente contrapposta ad altre attività professionali 20. Lo stesso Ora
zio, in una famosa ode 21 nella quale si proclama poeta dinanzi al suo
amico Mecenate, si ispira ancora a qualche antichissima lista del genere.
Due cose sono comuni al poeta e al filosofo: anzitutto il fatto che la
loro vita si svolge lontano dalla folla e dai suoi desideri volgari; e poi
che essi, proprio in questa lontananza dagli uomini, si trovano partico
larmente vicini alla divinità. Ciò ci permette di fare ancora qualche
passo avanti: infatti l'attività filosofica è stata sempre più ricondotta a
quella specificamente religiosa. Gli stessi filosofi non sono stati restii a
esaltare con enfasi la loro attività, attraverso locuzioni attinte dal domi
nio delle idee religiose.
Non penso con ciò a u�a forma di legittimazione tramite la rivela
zione religiosa, della quale si è già detto, giacché questa appartiene a un
altro ordine di considerazioni. Si deve piuttosto parlare del confronto
oltremodo produttivo tra metodo di conoscenza filosofica e iniziazione
ai misteri. La conoscenza della verità diventa visione di una realtà divina
e misteriosa, alla quale è ammesso solo colui che vi si è conveniente
mente preparato e purificato attraverso un'iniziazione preliminare. Il
filosofo che guida su questo cammino il discepolo, diventa un ierofante e
la stessa visione viene descritta come un'illuminazione improvvisa che
succede a un lungo periodo di tenebre. Nella filosofia dell'età classica
espressioni simili sono in generale ancora rare e hanno sempre un
carattere simbolico. Nella tarda antichità esse si fanno però sempre più
frequenti: si parla sempre più di « mistero», di « mistica », di « catarsi »
22 OR. Cam!o I 1.
IL RITRATTO DEL FILOSOFO 73
della « cultura animi ", della cura dell'anima, ossia della cultura. L'educa
zione filosofica viene infine paragonata all'allevamento degli animali. Si
mostrano, in questo paragone, aspetti differenti: se si riesce ad addome
sticare degli animali selvatici, allora dovrebbe riuscire anche più facile
ricondurre a ordine la vita di un uomo dal carattere difficile. E come si
sottomettono a disciplina cavalli troppo focosi attraverso un severo
addestramento, cosÌ bisogna agire con uomini troppo ostinati; viceversa
bisogna pungolare sia i cavalli che gli uomini tardi. In un senso diverso,
la Socratica e particolarmente il Cinismo (il cui nome deriva appunto
dalla parola « cane » ), si sono sforzati a volte di dimostrare che il cane è
un animale particolarmente dotato per la filosofia, raccomandandone
l'imitazione.
Un accenno sia pur marginale merita infine il ruolo dell'eros in
Platone e nei suoi seguaci. Non è facile peraltro vederci chiaro al
riguardo, per l'intrecciarsi reciproco di due elementi: il carattere erotico
del rapporto tra il filosofo e l'allievo (fenomeno originariamente di
natura sociale) e la descrizione del processo conoscitivo nel linguaggio
proprio dell'eros. La verità diventa allora oggetto del desiderio amoroso
e il filosofo va alla sua conquista come a quella di una donna amata. Ma
l'ellenismo per la verità disapprovò del tutto questa erotica platonica.
CAPITOLO SETTIMO
cosa si dica anche dei due iniziatori della filosofia, l'ionico Talete e
l'italico Pitagora. Si vuole con ciò intendere che questi due filosofi - se
altri mai lo ha fatto - hanno esercitato nel modo più autentico l'attività
filosofica in senso socratico. Certamente questo rifiuto dello scrivere
resta sempre qualcosa di precario, giacché seppure Socrate non ha scritto
nulla, tuttavia hanno scritto i suoi discepoli; e anche Carneade, Pirrone
ed altri ancora hanno avuto discepoli che hanno scritto per loro. Il
principio dunque è in una certa misura insincero, per il fatto che esso
non è stato mai applicato nella sua purezza e conserva piuttosto il valore
di esigenza o di gesto dimostrativo.
Per quanto riguarda le opere scritte, noi poniamo al primo posto i
dialoghi, non perché storicamente siano stati i primi ad apparire, ma
perché si propongono appunto lo scopo di rappresentare una conversa
zione vivente. In quanto conversazione essi offrono la possibilità di
mostrare concretamente come un ignorante di filosofia si rivolge ad essa
e come si respingono le obiezioni che le muovono i suoi avversari; essi
inoltre consentono - quando si tratta di problemi controversi - di
sviluppare senza difficoltà i vari punti di vista.
Non è facile tratteggiare la storia del dialogo. Si potrebbe indivi
duarne l'origine nelle composizioni poetiche a carattere simposiaco ri
guardanti la cerchia dei Sette Sapienti, nelle quali si discute una que
stione difficile o capziosa e ogni interlocutore espone la sua opinione e
cerca di avere la meglio su chi lo ha preceduto. Origine popolare si può
attribuire anche ai dialoghi del « Saggio col Re », come quelli che pos
siamo trovare in età classica: dialoghi del saggio Solone col re di Lidia
Creso J, di Simonide con lerone tiranno di Siracusa., poi di Platone con
Dionisio I di Siracusa S, e infine del re Alessandro coi Ginnosofisti
dell'India 6.
J HEROD. 130-33.
4 XENOPH. Hiero.
5 OLYMP. Vita Plat. ed. Hermann, p. 193.
6 ONESICR. FGrHist 134 F 17; PWT. VitaAlex. 64.
78 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
una forma elementare. Il testo era destinato a una vasta diffusione che
dovette in realtà esserci, come dimostra il fatto che esso ci è pervenuto
in due diverse redazioni.
In forma di manuale si presenta anche un altro testo che dall'anti
chità in poi si è sempre accompagnato alle opere di Platone: una lista di
« definizioni» di concetti fondamentali lO. Essa ci è pervenuta in uno
stato di grande disordine per il fatto che, nel corso dei secoli, lettori
zelanti l'hanno corredata di aggiunte più o meno appropriate.
Possiamo supporre che l'antica Stoa abbia prodotto opere del ge
nere, anche se nulla di chiaro sappiamo in proposito. In ogni caso è da
osservare che una tradizione particolarmente sfruttata da Cicerone ci
presenta le dottrine fondamentali della Stoa nella forma di serie di
sillogismi condensate al massimo. Dietro queste potevano stare quei
manuali che avevano per l'appunto il compito di servIre da
« catechismi ».
lO ·'Op
OL. Operetta pseudoplatonica. Cf. PLATON., Oeuvres complètes, T. XIII, 3" P.
(Dialogues apocryphes), par J. Souilhé, Paris, Les belles letres 1962, pp. 161·173.
'
LA FORMA DELL OPERA FILOSOFICA 83
Le scuole filosofiche
l Cf. K. SCHEFOLD, Die BiJdnisse der antiken Dichter, Redner und Denker, Basel 1943,
p.118.
88 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
La storiografia filosofica
fede nel progresso, per la quale la sua stessa filosofia non è altro che il
naturale ed evidente punto di arrivo di tutti i precedenti tentativi.
A noi, lettori moderni di Aristotele, - sia detto di passaggio - le
cose appaiono un po' più complicate. Per fare un esempio, noi cono
sciamo i filosofemi di un Anassimandro esclusivamente dalle informa
zioni che ce ne danno Aristotele e i suoi discepoli. Questi si rifanno
certamente all'opera originale che avevano ancora a disposizione, ma ne
interpretano gli enunciati pregiudizialmente, come se questi costituissero
elementi dello sviluppo storico di un problema che marcia verso la
soluzione che ne dà il Peripato. In ciò si ricorre spesso ad artifici
sospetti, per cui non si lascia dire, ad esempio, a un Anassimandro (o ad
altri) semplicemente quel che di fatto ha detto, ma invece quel che
ragionevolmente « deve aver inteso dire» con la sua enunciazione. Non
c'è bisogno di mostrare quante false interpretazioni siano state allora
possibili, che oggi non siamo più in grado di correggere.
Tuttavia non si apprezzerà mai abbastanza il lavoro svolto in questo
campo da Aristotele, Teofrasto ed Eudemo. Sotto lo stimolo e la dire
zione del maestro, Teofrasto raccolse in 18 libri un repertorio delle
dottrine dei « filosofi della natura». A complemento di esso, Eudemo
compose una storia della geometria, dell'aritmetica e dell'astronomia
dalle origini ai suoi tempi. Questi lavori ebbero un'importanza decisiva.
Soprattutto l'opera di Teofrasto è rimasta per le epoche successive il
testo autorevole da cui si attinsero le informazioni sulla filosofia preso
cratica. Di esso si fecero estratti riassuntivi, che furono altresì corredati
di aggiunte risalenti al periodo posteriore a Teofrasto. Noi possediamo
ancora oggi, sia pure disarticolato in molteplici varianti l, un estratto
guida di questo genere che potrebbe risalire essenzialmente all'epoca di
Posidonio.
C'è da rammaricarsi che l'interesse storico dimostrato da Aristotele
non sia stato d'alcun profitto nei riguardi dell'etica e della logica. Certo,
nelle opere aristoteliche non mancano accenni in proposito: Aristotele
mostra di conoscere ampiamente certe dottrine etiche e logiche più
antiche, le discute e le richiama; tuttavia non ha fatto scrivere una storia
complessiva di queste discipline, forse perché convinto che non ne
valesse la pena, dato che - a suo modo di vedere - un'etica e una
logica filosofiche, da prendere sul serio, non erano praticamente esistite
l Cf. H. DIELS, Doxographi graec� Berlin 1879, pp. 267-444. Si tratta dei Vetusta
Placita, raccolta dossografica non pervenutaci, compilata - secondo Diels (op. cit., Proleg.,
p. 178 ss.) - nell'età di Posidonio, verso l'inizio del I sec. a.c. Cf. M. DAL PRA, La
storiografia filosofica antica, Milano 1950, p. 165 ss.
LA STORIO GRAFIA FILOSOFICA 93
cano i filosofi. Finché si tratta della semplice successione dei capi delle
scuole fondate nel IV secolo a.c., la cosa non presenta alcuna difficoltà.
Le difficoltà nascono invece quando si tratta d'interpretare gli elenchi
dei nomi secondo le categorie storico-evolutive introdotte da Aristotele,
ossia quando si cerca di determinare cronologicamente l'origine, la fiori
tura e la decadenza di una scuola; e ancora, quando si vogliono collegare
tra loro, in un rapporto storico, le scuole; e infine quando si cerca di far
rientrare in un tale albero genealogico, filosofi che non sono assoluta
mente riconducibili a una classificazione per scuole. Gli antichi storici
della filosofia hanno spesso fatto ricorso alle costruzioni più sospette per
stabilire tra i filosofi le filiazioni desiderate. A volte non restava loro
miglior soluzione che quella di registrare, accanto agli elenchi dei filosofi
di scuola, un gruppo di pensatori « isolati».
In fondo è ancora una volta Aristotele che deve considerarsi l'inizia
tore di un tale metodo di trattazione. In lui si trovano infatti tre forme
di raggruppamento che sono state determinanti anche per le epoche
succeSSIve:
a) Un certo numero di filosofi, da Talete fino ai discepoli di
Anassagora e di Democrito, vengono riuniti da lui sotto la denomina
zione di « filosofi della natura». Il che è oggettivamente giustificato. Ma
Aristotele in definitiva non sapeva, come non lo sappiamo noi, se questa
unità si fosse manifestata anche a livello personale, ossia nei rapporti
reciproci di maestri e scolari.
b) Aristotele ha accolto la tesi, enunciata anzitutto da Antistene e
da Aristippo, secondo la quale con Socrate ebbe fine la filosofia della
natura e s'iniziò l'etica filosofica; ed è stato un discepolo di Aristotele il
primo a coniare il termine classificatorio di « Socratici » 5 per tutti
coloro che nelle opere si rappresentavano come amici di Socrate. Per
designare il rapporto personale la denominazione era giusta, mentre da
un punto di vista oggettivo essa lo era solo in modo assai approssima
tivo. In seguito, ad eccezione degli Epicurei, tutti gli indirizzi filosofici
attribuirono particolare importanza al collegamento con Socrate, scaval
cando i Socratici: il che era ovvio per l'Accademia platonica e per il
Peripato che da quella derivava; mentre è assai più difficile stabilire
quanto legittimamente Aristippo, Antistene, Euclide e Fedone siano stati
indicati come fondatori di scuole e come tali considerati da filosofi più
tardi. Lo stoico Zenone si considerò un lontano scolaro di Antistene.
Da Aristippo derivarono, nella prima metà del III secolo a.c., non meno
di quattro diverse « scuole », e cosÌ via.
da Epicuro. La ragione sta nel fatto che lo schema costruito collega gli
Ionici a Socrate e pertanto Democrito non poteva esservi inserito;
inoltre lo schema è chiaramente disposto in favore di Epicuro e perciò
Diogene tiene conto, per quanto può, dell'affermazione dello stesso
Epicuro, secondo la quale egli non avrebbe avuto alcun maestro. Con
questa affermazione Epicuro entrava in concorrenza col Socrate plato
nico che notoriamente dichiarava di non aver avuto maestri. E ancora
contro la rappresentazione platonica di Socrate è disposto l'ordinamento
di Diogene Laerzio che attribuisce a questi, come maestro, il filosofo
della natura Archelao.
•
Paradosso ed evidenza
1 D-K 59 A 30.
2 DIOG. LAERT. VI 64.
102 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
agIsce come colui che con l'aiuto di una lampada vuole provare che
esiste il sole » 11. Il convincimento che le verità fondamentali sono
evidenti è l'esatto contrario di quello che in verità tutto « sta diversa
mente » .
Tuttavia il vero campo dei paradossi è l'etica. Qui i filosofi si sono
trovati a discutere sui valori della vita da tempo riconosciuti e sperimen
tati, con una passione e un impeto che andavano molto al di là di
quanto si era osservato nel campo della filosofia della natura.
V a certamente rilevato che nel corso del divenire storico si possono
distinguere due e persino tre ondate successive di tesi paradossali. Una
prima ondata prende corpo con la Sofistica e il primo Socratismo. A
questa segue una reazione con Platone e Senofonte, i due discepoli
probabilmente più giovani della cerchia di Socrate; per quanto diversi
tra loro, essi hanno tuttavia in comune il rifiuto di ogni radicalismo
eccentrico. Anche là dove - come nel Gorgia e nella Repubblica
-sostiene tesi assai insolite, Platone resta tuttavia assai lontano dall'at
teggiamento pesantemente provocatorio degli altri Socratici. Sia nell' etica
come nella filosofia della natura Aristotele si mostra nemico dichiarato
di ogni paradosso. Ma furono proprio la prudente disponibilità al com
promesso e la rispettabilità borghese dei Peripatetici e del tardo Platone
a provocare una seconda ondata di tesi paradossali. In ciò Epicuro e lo
stoico Zenone cercarono di superarsi a vicenda, il secondo col palese
intento di ricongiungersi - oltre Platone e Aristotele - al più antico
Socratismo. Ma qualche tempo dopo subentrò la calma: e cosÌ gli Stoici
e gli Epicurei greci, che Cicerone frequentava, furono persone assoluta
mente normali con le quali si potevano intrattenere i più tranquilli
rapporti sociali. Nell'età imperiale infine il paradosso sembra aver tro
vato, ancora una volta, una certa forza d'attrazione. È significativa, in
proposito, la notevole ripresa, in sé difficilmente comprensibile, del
Cinismo, ossia di quell'indirizzo socratico che spinse all'estremo la
sperimentazione coi paradossi morali.
Consideriamo alcuni particolari. Le più antiche forme di etica filo
sofica . mirano palesemente a porsi in stridente contraddizione con le
tradizioni borghesi e, nello stesso tempo, a colpire e insieme affascinare
il lettore. C'è in primo luogo l'etica della « volontà di potenza » 12,
l'esaltazione dell'uomo violento che hH ragione perché è più forte.
Codesta etica si arena ben presto, contrariamente all' etica del piacere che
ebbe un enorme successo. Questa, nelle sue formulazioni, ebbe un
meno. Non vi sono azioni più o meno virtuose. L'uomo possiede la virtù
tutta intera oppure non la possiede, e in ogni azione è presente la virtù
nella sua interezza; donde la tesi che tutte le azioni buone da una parte e
tutte le cattive dall'altra, sono tra loro assolutamente uguali. In questo
contesto dottrinale rientra infine anche l'idea che l'uomo non può acqui
stare la virtù per gradi ma tutta in una volta e che è impossibile che la
perda, una volta acquistatala. Questo imponente complesso di paradossi è
indubbiamente suggestivo. L'influenza considerevole esercitata dalla Stoa
nella tarda antichità è dovuta, oltre che alla sua dottrina della Provvi
denza, all' enfasi e alla consequenzialità dei suoi paradossi. Parecchi inter
preti non hanno esitato ad attribuirne il merito anche a Platone, mentre
gli Epicurei e i Peripatetici si erano ridotti in una posizione difensiva, non
sempre facile a sostenersi.
Tuttavia non si devono lasciare inosservati anche gli aspetti discuti
bili di questi paradossi. Paradosso significa contrapposizione a ciò che è
riconosciuto e tramandato. Esso trae la sua forza dall'accentuazione di
questa contraddizione: ma ciò non basta né dal punto di vista pratico né
da quello dei principi. Non basta dal punto di vista pratico, perché il
paradosso col radicalismo della sua contraddizione non impedisce al
l'uomo di morire ma non gli consente di vivere. Quando entra in gioco la
vita, si arriva inevitabilmente a un punto in cui il paradosso si riduce a un
gesto privo di senso. Non basta dal punto di vista dei principi, perché si
può sempre obiettare che contraddire ciò che esiste per sé stesso non è
prova sufficiente della giustezza di una posizione teorica. Anche la più
sublime delle esigenze morali deve fondarsi su una base sicura.
Il paradosso viene cosÌ a trovarsi limitato da due lati. Nel primo caso
abbiamo una situazione assolutamente parallela a quella della dottrina
della conoscenza. Alle tesi radicali vengono apportate integrazioni che ne
modificano considerevolmente il carattere originario. Particolarmente si
gnificativo in proposito è l'esempio dell'edonismo epicureo. Epicuro
completa senza esitazioni le sue formule provocatorie delle quali si è già
detto, per giungere alla fine a un'etica irreprensibile di saggia modera
zione. Pur tenendo assolutamente fermo il principio del piacere, egli
riconosce tuttavia che in molti casi un piccolo piacere può avere per
conseguenza un grande dolore; la saggezza filosofica esige pertanto di
rinunciare a un tale piacere 20. Il che vuoI dire rinunciare all'audacia del
paradosso, per un ritorno alla tranquillità borghese.
Lo Stoicismo si è reso un po' meno facile il compito. Esso ha difeso
strenuamente l'etica dell'autosufficienza della virtù e quella dei paradossi.
Ragione e autorità
anche gli altri parenti, dicendo che i malati o gli accusati in tribunale
non li aiutano i parenti, ma quelli i dottori, questi quanti sono capaci di
assistere in giudizio. Affermava pure che degli amici Socrate diceva: « A
nulla vale che siano affettuosi se non possono aiutare » 24.
Aggiungiamo ancora alcuni esempi dello stesso genere. Un aneddoto
sul socratico Diogene narra che questi, divenuto schiavo, fu venduto a
un nobiluomo. A scanso d'equivoci Diogene gli dichiarò subito che
d'allora in poi avrebbe dovuto seguire i suoi ordini; infatti come egli,
nobiluomo, avrebbe obbedito a un medico o a un pilota, anche se questi
fossero stati schiavi, cosÌ doveva ubbidire a lui, Diogene, che era
filosofo 25.
Abbiamo anche due note massime aristoteliche dello stesso tenore.
La prima non è autentica, ma sorta assai per tempo: « Chi educa i fanciulli
merita maggior rispetto di chi soltanto li genera: questi infatti dà ad essi
solo la vita, l'altro dà la vita perfetta » 26. E noi intuiamo che con queste
parole Aristotele doveva pensare da una parte ai rapporti di Alessandro
col padre Filippo e dall'altra a quelli col suo maestro Aristotele.
La seconda massima si trova nell'Etica Nicomachea, e forse è stata
ripresa da un dialogo di Aristotele. Intendendo confutare la dottrina
platonica dell'idea del bene, Aristotele dichiara il suo disappunto per
questa discussione, perché egli deve rivolgersi contro persone amiche. Ma
di fronte all' alternativa tra amicizia e verità, egli deve assumersi la respon
sabilità di anteporre questa a quella 27.
Tuttavia è dato anche registrare il punto di vista opposto, come
mostrano certe espressioni di un dialogo ciceroniano. In una discussione
tra Platone e i suoi avversari, un interlocutore dichiara di preferire
l'errore in compagnia di Platone anzicché il possesso della verità con gli
avversari di lui 2 8.
Ma torniamo alla Socratica. Il polemista che sopra abbiamo citato da
Senofonte, naturalmente non aveva torto. Uno dei problemi centrali della
Socratica è quello riguardante il sapere certo e il possesso di questo sapere,
cioè la competenza. In ogni circostanza a decidere è sempre l'individuo
competente, chiunque egli sia, anche se il resto degli uomini è di diverso
avviso. Socrate non esita, in nome del sapere competente, a dichiarar nulle
tutte quelle istanze che non si fondano su un sapere verificabile ma su
un'autorità storicamente costituita: padri e amici, maggioranze democrati
che, governanti all'apice della potenza e, infine, i poeti. Per quanto grande
possa essere il loro prestigio, costoro tuttavia non sono ili grado di render
conto di ciò che dicono. Non resta quindi che la sola giustezza del logos.
Chi ne è in possesso ha tutto ciò che gli occorre e può agire corretta
mente.
Tuttavia la Socratica non è riuscita a svolgere questa tesi fino alle sue
ultime conseguenze. E, dicendo ciò, non pensiamo anzitutto al fatto che
ogni socratico si è fatto per suo conto un ritratto del maestro, al quale
riferirsi in appoggio alle proprie dottrine. Più importante mi sembra
piuttosto quel che segue e che viene alla luce soprattutto in Platone.
31 SENEC. Ep. ad Lucil. Il, 8. Tr. it. di M. Isnardi Parente in Opere di Epicuro cit., p.
470 (= fr. 222 Arrighetti).
32 ID. [bUi. 25, 5. Tr. it. di M. Isnardi Parente in Opere di Epicuro cit., p. 471 (= fr.
223 Arrighetti).
33 SVF I 3 19.
3. SVF I 612.
RAGIONE E AUTORITÀ 1 19
Universale e singolare
non può bastare. Ci si accorge ben presto che non basta contrapporre
semplicemente universale a singolare, invariabile a variabile, ripetizione
a casualità. Nello stesso singolare è immanente in parte l'universale e
lo stesso cambiamento avviene sempre secondo regole generali. CosÌ
Aristotele giunge all'acuta definizione del divenire come il processo
attraverso il quale l'individuo perviene all'attuazione dell'essenza univer
sale nella quale fin dal principio è compreso. Questa definizione gli
consente di costruire il vasto edificio della sua filosofia della natura,
senza tuttavia dover rinunciare, in linea di principio, alla nozione plato
nica della scienza come conoscenza dell'universale. Questo però non è
più l'idea posta al di là del mondo sensibile, ma l'essenza medesima
calata nella sfera della sensibilità.
In secondo luogo: molto più radicale appare l'obiezione che nessuna
etica si può costruire sulla scienza dell'universale. Se la filosofia della
natura può rinunciare alla considerazione del particolare in senso stretto,
ciò è impossibile per l'etica. Infatti il luogo dell'azione pratica è dato
sempre da una situazione particolare, il che ci riconduce alle riflessioni
svolte nel capitolo precedente. Aristotele si esprime con ene�gia e forza
polemica in questi termini: « Se infatt� il bene fosse uno e qualcosa di
predicabile in comune e sussistente separato di per sé, è evidente che
non sarebbe realizzabile né acquistabile per l'uomo; ma è proprio ciò
che invece noi cerchiamo. E certo si può pensare che sia meglio cono
scerlo in rapporto a quei beni che si possono acquistare e realizzare:
avendo infatti questo come modello, conosceremo meglio anche i beni
che ci riguardano, e se li conosciamo, li potremo più facilmente otte
nere. Questo ragionamento ha · pure qualcosa di persuasivo, appare tutta
via essere in disaccordo con le scienze; tutte infatti mirano a un certo
bene e, pur ricercando ciò che ad esse manca per realizzarlo, trascurano
la sua conoscenza. E tuttavia è cosa non ragionevole che tutti gli
artigiani trascurino e non ricerchino un cosÌ importante sussidio. Ma
anche è incerto in che cosa si possa giovare un tessitore o un carpentiere
per la sua arte della conoscenza del bene, o come un medico o un
generale possa divenire migliore nella sua arte attraverso la contempla
zione di questa idea. Sembra infatti che il medico non abbia di mira la
salute in sé, bensÌ quella dell'uomo, o meglio, anzi quella di un uomo
particolare. Egli infatti cura individui particolari » 37.
In un contesto affine Aristotele giunge ad ammettere la possibilità
che al medico riesca più utile l'empiria, cioè la conoscenza storica di casi
37 A RIST. Eth. Nic. I 1096 b 32 . 1097 a 1 3 . Tr. it. di A. Plebe in: A RISTOTELE, Opere, a
cura di G. Giannantoni, Bari 1973, voI. 7°, pp. 1 1·12.
UNIVERSALE E SINGOLARE 125
38 SVF III 4.
126 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
Una conferma di quanto s'è detto sta nel fatto che fino al tardo
ellenismo i filosofi assai di rado sembrano richiamarsi espressamente a
osservazioni ed esperienze personali. Naturalmente non possiamo essere
sicuri di ciò, poiché non possediamo che qualche frammento o informa
zione indiretta. Tuttavia non possiamo escludere la possibilità che Anas
simandro abbia narrato per iscritto di aver visitato Sparta e di aver fatto
questa o quella osservazione in occasione della fondazione di una colonia
milesia sul Mar Nero alla quale avrebbe partecipato. E si può dare per
certo che egli abbia da qualche parte dichiarato di avere l'età di 64
anni J. La sua intenzione non era certamente solo quella di far sapere ai
suoi lettori di avere quell'età quando compose il suo libro. Più probabil
mente avrà voluto accennare al fatto che, quando egli aveva l'età di 64
anni, si era verificato questo o quel fenomeno in una data maniera e
frequenza.
Ma in generale le indicazioni di questo genere sono assai rare.
Sorprende particolarmente il constatare che nell'insieme più consistente
di testi di filosofia naturale che noi possediamo, costituito dalle opere di
Aristotele e Teofrasto, sono assai pochi i passi che consentono di arguire
con sicurezza l'osservazione diretta dell'autore. Si deve anche considerare
significativo il fatto che nel dominio dell' etica politÌca Aristotele non
spende una parola sulle sue esperienze in Atene e alla corte macedone o
sulla spedizione militare in Asia di Alessandro il Grande che fu, dal
principio alla fine, a lui contemporanea.
Solo verso la fine dell'età ellenistica - forse per l'influenza di Roma
- le cose cominciano palesemente a cambiare. Sembra che lo stoico
Pane zio e, soprattutto, Posidonio abbiano fornito notizie relativamente
copiose sulle loro personali vicende. Sotto questo aspetto Varrone, tra i
Romani, li ha in certo modo imitati, mentre in Cicerone la situazione è
più complessa: questi infatti è interessato non tanto a fornire - trae n
dola dalla sua esperienza personale - materia di riflessione alla filosofia,
quanto piuttosto a dimostrare come i problemi filosofici formulati dai
Greci conservassero ancora la loro piena attualità per lui e i Romani del
suo tempo.
In ogni caso, in tutta la letteratura filosofica dell'antichità sono rare
le pagine in cui i .filosofi si mostrano in immediato contatto « con le
cose stesse ». Prevale invece la riflessione sui dati di seconda mano.
Richiamiamo qui alcuni casi particolari che in parte confermano in
parte completano quanto già si è detto.
3 FGrHist 244 F 29. Cf. O. GIGON, Der Ursprung der griechischen Philosophie von
Hesiod bis Parmenides, Basel 1945, p. 59.
134 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
s D-K 1 1 B I.
136 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
QUANTO ora verremo a dire non ha nulla a che vedere con l'opposizione
- già da noi discussa - tra costruzione sistematica e indagine problema
tica. Intendiamo invece trattare la questione che Karl J aspers una volta
ha formulato in questi termini: « La scienza moderna è per principio
incompiuta. I Greci non conobbero l'idea di una scienza che progredisse
all'infinito, neanche quando realizzarono per un certo periodo effettivi
progressi in matematica, astronomia, medicina. La stessa ricerca ebbe
presso di loro il carattere di attività operativa all'interno di una realtà
compiuta. Questo carattere di compiutezza non conosce né l'universale
desiderio di sapere, né la forza esplosiva della volontà del vero... La
scienza moderna è mossa dalla passione di raggiungere i limiti, di spez
zare ogni forma definitiva di sapere per procedere oltre e di riesaminare
sempre ogni problema dai suoi fondamenti \ .
Viene qui formulata da Jaspers, anche se con qualche esagerazione,
un'idea fondamentale. Si potrebbe infatti obiettare che ogni sforzo di
pensiero - nella misura in cui esso non è un puro gioco di sperimenta
zioni - mira in definitiva a cogliere la verità all'interno di una totalità
compiuta che si può ben chiamare « sistema »; ma è altrettanto vero che
nessun pensatore desidera ripetere il pensiero altrui e non piuttosto
tentare di dire qualcosa di nuovo o di dir meglio quel che già s'è detto.
Nondimeno rimane il problema di sapere in quale misura gli antichi
filosofi fossero consapevoli del fatto che i loro giudizi avevano una
validità soltanto provvisoria e che bisognava andare oltre e proseguire la
ricerca ancora più in profondità e in estensione. Per un verso il pro
blema si può formulare in maniera ancor più precisa: fino a che punto i
filosofi antichi, molti dei quali lo furono per tutta la vita e scrissero
opere di filosofia, hanno avuto di loro stessi l'impressione che gli scritti
della loro giovinezza fossero stati ripresi da quelli della vecchiaia e che
certe dottrine da loro espressamente professate nella vecchiaia si rifaces
sero a quelle una volta sostenute?
l K. ]ASPERS, Vom Ursprung Un4 Ziel der Geschichte, Ziirich 1949, p. 1 09.
140 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
potevano avanzare solo con grande riserva. È questo, più che ogni altro,
il momento in cui l'antichità si è avvicinata maggiormente all'atteggia
mento proprio della ricerca scientifica moderna. Certo, questa specie di
« skepsis » non è durata a lungo. Il dogmatismo, sia positivo che nega
tivo, passò ben presto sotto silenzio questi primi accenni di Teofrasto, e
duecento anni più tardi i Pirroniani si appropriarono la nozione di
« skepsis » con un significato ben diverso, uguale a quello che ancora
OggI conserva.
CAPITOLO SESTO
Il concetto di natura
I D.K 68 B 33.
IL CONCETTO DI NATURA 147
4 F r. 240 Arrighetti.
150 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
Causa e fine
J Sulla dottrina delle cause nel platonismo cf. SENEC. Ep. ad Luci!' LXV 4-10; SIMPL.
In A riSI. phys. p. 3 , 1 6; 26, 5 ss. ed. Diels.
CAUSA E FINE 153
sono cose che in generale sono volute solo in quanto mezzi, ossia in
vista di altre cose. Inoltre esistono cose che si desiderano sia in vista di
altre cose che per sé stesse. Infine devono essercene altre che si deside
rano solo per sé stesse e che pertanto sono esclusivamente fini e in
nessun senso mezzi. Anche qui vale l'assioma che esclude pregiudizial
mente il progresso all'infinito della catena.
Entro questa formula di una semplicità ammirevole, Aristotele rac
chiude tutta la sua etica filosofica. Al centro di essa sta il concetto di
bene supremo, riconoscibile dal fatto che esso è cercato unicamente per
sé stesso e non per un altro bene. Anche Platone conosce già questa
formula. Ma si vedrà più tardi che sorprendentemente egli ne ha fatto
un uso assai limitato. Platone pone in primo piano con tanta energia il
legame tra il bene sommo e l'essere, - e dunque un concetto statico e
trascendente del bene, - da dare scarso rilievo al concetto pratico dello
scopo finale che ogni azione deve proporsi. Aristotele invece all'inizio
della sua Etica in maniera programmatica fornisce la definizione del bene
come fine ultimo, ossia come fine in sé 6. Così egli si distingue da
Platone, divenendo l'autore di un concetto fecondo del fine morale
(tÉÀoç) che fu ripreso per primo da Epicuro in una delle sue principali
opere intitolata Sul fine ultimo (1tEpl tÉÀouç) e successivamente da tutta la
filosofia ellenistica. E ancor oggi il concetto di «fine in sé» è di uso
corrente.
Noi ignoriamo le vicende storiche di queste due serie, quella delle
cause e quella dei fini e non sappiamo se una delle due sia stata
concepita per prima e poi integrata dall'altra. Platone è stato il primo a
darci, nei suoi dialoghi giovanili, una scala dei fini, dando l'impressione
che essa gli fosse nota e tuttavia si sentisse in dovere di spiegarla ai suoi
lettori come qualcosa di non ancora familiare.
Resta da esaminare il problema del finalismo universale ossia del
campo d'azione del principio teleologico. Come già s'è accennato, il suo
luogo naturale è nella biologia. Gli occhi son fatti per vedere, le orecchie
per udire e questi organi sono, a ragion veduta, protetti da eventuali
pericoli, etc. Non sappiamo quando questa veduta è stata per la prima
volta applicata in modo sistematico. La nostra ignoranza, in questo
come in altri casi affini, si spiega con la perdita quasi completa della
letteratura sofistica del V secolo a.c. Vedute teleologiche è dato cogliere
per la prima volta in Senofonte il quale dipende, a sua volta, da un
socratico più antico, non più identificabile 7. Platone occasionalmente le
l�ecessità e libertà
4 THEOGNIS I 535·538.
160 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
perché solo essa rende possibili le connessioni degli atomi che poi per
tappe successive arrivano a formare un universo. Questa possibilità di
libera deviazione che sta nell'atomo, conduce anche alla libertà dell'agire
umano.
Noi non conosciamo nei particolari il modo in cui Epicuro ha
esposto lo stupefacente percorso compiuto dall'atomo libero nel cosmo,
per giungere alla libertà dell'uomo, né come egli si è rappresentato
questa libertà.
Per concludere dobbiamo ritornare ancora una volta allo Stoicismo.
Abbiamo visto che gli Stoici non ponevano limitazioni alla loro teoria
secondo la quale ogni evento è determinato dal destino. Ma essi non
sono riusciti a portare questa loro tesi fino alle estreme conseguenze.
Troppo forte era l'influenza esercitata dall'etica. E l'etica stoica poneva
per rappunto una contrapposizione netta tra il sapiente e lo stolto. In
tal modo la Stoa, con tutta la sottigliezza di cui era capace, trovò una via
che garantiva un minimo di libera responsabilità, senza il quale ogni
etica perde il suo fondamento. Restano subordinati al destino sia gli
scopi dello sforzo dell'uomo, sia lo sforzo medesimo e infine ciò che
consegue come risultato pratico dell'azione. Ma l'uomo ha la possibilità
di dare o negare il suo assenso a questo meccanismo in sé immutabile.
Egli non cambia in nulla il corso delle cose, ma può seguirlo o meno.
Certo è assai difficile descrivere in modo più preciso la natura di questo
assenso (cru'YxCX'tcX9�O'Lç). Questo non agisce verso l'esterno né può in alcun
modo opporsi alle previsioni e ai disegni della divinità, ma costituisce la
base su cui può essere costruita un'etica sostanziale 5 .
Il problema nel suo insieme prende una nuova piega col cristiane
simo, per l'ampiezza e la profondità che in esso assumono da una parte
l'onnipotenza di dio e dall'altra la responsabilità dell'uomo per la pro
pria anima. Ma qui esula dal nostro compito dimostrare come nel
cristianesimo si sia reso drammatico il problema della libertà.
Problemi fondamentali
della filosofia antica
CAPITOLO PRIMO
J D.K 1 1 A 15.
168 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
4 D.K 13 A 6, 7, 20.
5 D-K 12 A Il.
6 D.K 68 A 95; B 5.
7 D-K 12 A lO.
NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 169
8 D-K 13 A 20.
9 D-K 28 A 37.
IO PLAT. Tim. 63 a (CIC. Luc. 1 23).
170 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
12 A RlST. De caelo I 279 a 11 ss.; LUCR., De rer. nato III 18-24; V 146-154.
\3 D-K 12 A 11.
NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 17 1
dedurre che anche il cosmo reale era stato costruito m modo simile.
Nacque cosi l'idea, riscontrabile già in Senofonte e assai diffusa partico
larmente nella Stoa, secondo la quale dio, artigiano perfetto, avrebbe
costruito il cosmo secondo un piano, come una macchina perfetta.
Ritorneremo, in un altro capitolo, su questa interpretazione del rap
porto tra dio e il mondo.
Per quanto riguarda l'interna struttura del cosmo, non intendiamo
qui affrontare le innumerevoli questioni particolari attorno alle quali si
sono sviluppate l'astronomia, la meteorologia, l'idrologia e la geologia
antiche. Intendiamo invece soffermarci sull'essenziale.
Le parti del cosmo sono visibilmente strutturate in modo che i
corpi più pesanti occupano i luoghi più bassi, mentre i più leggeri
occupano lo spazio superiore. Ci si chiede allora come si spiega il fatto.
Due teorie si fronteggiano in proposito. Secondo la prima, tutti i corpi
sono più o meno pesanti e cadono verso il basso, quando trovano la via
libera. Tuttavia, per una ragione puramente meccanica, accade che i
corpi più pesanti si ammassino nella caduta, mentre i meno pesanti si
spostino verso l'alto. La salita di aria e fuoco non è altro che un siffatto
spostamento, come ha insegnato soprattutto l'atomismo. Aristotele segue
invece un'altra via. Come abbiamo già spiegato, ogni elemento ha un
suo moto connaturato che lo conduce al suo «luogo naturale ». Per il
fuoco questo luogo naturale è la periferia del cosmo, per la terra invece
il centro del medesimo. Secondo questa teoria, la salita del fuoco non è
dovuta a una spinta meccanica violenta dal basso in su, ma a una
tendenza naturale verso l'alto.
La rivoluzione degli astri presenta ovviamente particolari difficoltà.
Come avviene, nelle più elevate regioni del cosmo, questo movimento a
tutti visibile? Della spiegazione fornita dall'atomismo abbiamo avuto già
occasione di parlare: il cosmo nascerebbe da un vortice di atomi. Questo
moto vorticoso, che peraltro non ha una causa intellegibile, continua
anche nel cosmo già compiuto, dove esso ha forza massima nelle regioni
più alte; mentre, andando verso il basso, questa forza diminuisce sempre
più fino ad arrestarsi completamente al centro del cosmo. Dal canto suo
Aristotele, sempre fedele alla sua concezione fondamentale, arriva all'i
potesi seguente: accanto ai quattro elementi dotati - come ha dimo
strato - di un moto di salita o di discesa, deve esistere un quinto
elemento, dotato per natura di moto circolare. Esso costituisce la so
stanza del mondo astrale e il suo moto naturale è continuo ed eterno:
ecco perché questo elemento può essere caratterizzato come portatore
del divino. Questa tesi di Aristotele fu molto discussa e - cosa davvero
singolare - respinta unanimemente da tutte le scuole, a eccezione del
Peripato. In verità la tesi che, ad esempio, veniva contrapposta dalla
172 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
14 D-K 68 A 40.
NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 173
15 PLAT. Phileb. 30 a.
degli dèi. Di qui è breve il passo all'idea che il nostro mondo sia una
comunità comprendente uomini e dèi. Il cosmo diventa una casa abitata
in comune da dèi e da uomini o ancora uno stato retto da una legge e
protetto dalla giustizia contro il disordine e la decadenza. È stato in
particolare Eraclito a prediligere questa rappresentazione e a parlare
espressamente di una legge che governa non soltanto gli stati storici ma
anche l'universo. In lui si trova pure l'idea di una giustizia universale,
dopo che Anassimandro l'aveva introdotta nella sua cosmologia. Per la
terza volta quest'idea appare in Parmenide, ed è significativo il fatto che
per questi tre pensatori la giustizia deve anzitutto vigilare sulla regolare
successione dei giorni e delle notti. Un'irregolarità come un'eclissi di sole
viene da loro considerata come una violazione del diritto e un'ingiustizia.
Nell'ellenismo tuttavia questa raffigurazione non mostra più di avere
alcuna rilevanza.
Ben diverso è il caso del terzo grande modello intuitivo che noi già
conosciamo: si tratta dell'interpretazione del cosmo come un meccanismo
o un'opera d'arte. Come già s'è detto, quest'ipotesi è già confermata dal
fatto che Anassimandro avrebbe tentato di rappresentare il suo cosmo
attraverso un modello. Per il pensiero antico è un punto fermo che la
perfezione dell'opera d'arte e la rispondenza dell'edificio cosmico ai suoi
fini, postulano l'esistenza di un artefice. Giungiamo cosÌ alla più autore
vole delle prove dell'esistenza di dio formulate nell'antichità. Essa si trova
chiaramente espressa in Senofonte: « Se noi ammiriamo un quadro nel
quale sono rappresentate, nella maniera più viva, creature viventi e da
esso risaliamo alla valentia del pittore che lo ha dipinto, a maggior
ragione dobbiamo ammirare i veri esseri viventi e riconoscere, dietro di
essi, l'artefice che li ha creati nel modo migliore» 1 8. Questo testo di
Senofonte, in sé poco importante, è stato reso celebre dalla Stoa la quale
ha inteso contrapporre a Platone Senofonte come il più fedele dei Socra
, tici. È certamente curioso che la cosmologia e la teologia stoiche non
abbiano esitato a combinare tra loro questi diversi modelli intuitivi. Le
testimonianze di cui disponiamo ci mostrano che la Stoa ha parlato
indifferentemente del cosmo ora come d'un organismo vivente retto
dall'anima del mondo, ora come di una dimora comune agli dèi e agli
uomini, ora infine come d'un'opera costruita al più alto livello di perfe
zione da parte di un artefice divino. Ma gli Stoici non si sono preoccupati
delle relazioni assai diverse implicite in queste concezioni.
Ma si può anche dare un significato ben diverso all'idea di un cosmo
meccanico, là dove si prescinda dal pensiero di un'anima che lo governi e
Gli elementi
NELLA vasta opera del peripatetico Teofrasto sulle dottrine degli antichi
filosofi della natura, sembra che il capitolo dedicato alle teorie degli
elementi sia stato uno dei più ampi ed anche dei più letti. Ciò non deve
meravigliare: infatti nella costruzione di un sistema di filosofia naturale,
tutto dipende dal punto di partenza prescelto. E in verità, già il primo
pensiero presocratico riconosceva che esso deve soddisfare due condi
zioni fondamentali: in primo luogo un tale sistema deve avere una
struttura così semplice che non sia possibile risalire a qualcosa di ancor
più semplice e dunque di più originario. In secondo luogo, muovendo
da esso, si deve poter sviluppare una visione complessiva e intellegibile
dell'universo che si offre alla nostra esperienza.
Vediamo che la prima di queste condizioni è già soddisfatta da
Esiodo. Il Caos che egli pone in cima alla sua Teogonia è il vuoto
spalancato che resta quando noi col pensiero facciamo astrazione dai
limiti dati al mondo, dalla volta del cielo e dal suolo terrestre e soprat
tutto quando risaliamo al di là della differenziazione dello spazio a opera
del giorno e della notte, ossia della luce e delle tenebre.
Sulla stessa linea di pensiero, ma in maniera più radicale, Anassi
mandro designa come principio l'illimitato. Evidentemente per lui è
fondamentale l'opposizione speculativa tra la sfera cosmica, limitata e
differenziata, e ciò che è assolutamente informe, indifferenziato, infinita
mente esteso. Dal punto di vista linguistico è già significativo il fatto che
il sostantivo fin allora impiegato per esprimere il concetto di caos viene
ora da lui sostituito con un aggettivo neutro, 1'«infinito» etÒ IÌbtEtpOV).
Ma a questo punto si pone il difficile problema di spiegare come
dall'infinito scaturisca il finito.
Anassimandro si limita a dire che dall'infinito si sono «separate» in
primo luogo la luce e le tenebre. Ma egli non ha ulteriormente chiarito
come si dovesse intendere la cosa.
Questo problema ha per l'appunto indotto Anassimene a compiere
un altro passo avanti. Egli identifica l'infinito con l'aria, la quale tra
tutti gli elementi empirici è innegabilmente quello che più si avvicina
alla condizione della pura assenza di forma. Ma nel contempo l'aria è,
180 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
1 D-K 22 B 30.
2 D-K 22 B 3 1 .
GLI ELEMENTI 18 1
J D-K 31 B 96.
4 D-K 59 B 10.
GLI ELEMENTI 1 83
5 PLAT. Tim. 48 b 8 .
GLI ELEMENTI 185
tum " . Possiamo qui accennare alla struttura di questi elementi per
mostrare un esempio del modo in cui Platone può costruire un singolare
sistema speculativo combinando insieme, senza esitare, molteplici tradi
zioni di pensiero. Poiché il cosmo riprodotto dall'artefice è corporeo -
dice Platone - esso deve essere visibile e tangibile. La prima di queste
qualità corrisponde all'elemento fuoco, la seconda all'elemento terra. In
mezzo a questi due deve starne un terzo che li congiunga. E poiché
l'unione migliore è quella della proporzione matematica, questo terzo
elemento deve stare in rapporto proporzionale con gli altri due. Se si
trattasse di superficie, occorrerebbe un solo termine medio; ma poiché
fuoco e terra sono elementi corporei, occorrono due intermediari, e
dunque l'acqua e l'aria. E precisamente: il fuoco sta all'aria, come l'aria
all'acqua, come l'acqua alla terra. A questa prima deduzione se ne
aggiunge una seconda. Esistono cinque corpi matematici elementari,
ciascuno dei quali corrisponde a un elemento, tranne l'ultimo. Al fuoco
corrisponde il tetraedro, all'aria l'ottaedro, all'acqua l'icosaedro, alla
terra il cubo. A questi s'aggiunge l'ultimo corpo regolare, il dodecaedro
il quale tuttavia non corrisponde ad alcun elemento fisico definibile.
Ciascuno di questi corpi è costituito da superficie e queste, a loro volta,
si possono scomporre in triangoli regolari. Si raggiunge così il punto
estremo in cui il principio informatore e la materia formata costitui
scono ancora un'unità organica. È la figura geometrica più elementare
che, senza possedere ancora una corporeità nel senso della massa fisica,
ha tuttavia una sua realtà nell'ambito dell'intuizione. In ultima analisi
sono i triangoli bidimensionali gli elementi costruttivi di tutto il cosmo
visibile. Al di là di essi non c'è che dio, la pura forma, e la pura assenza
di forma.
Di più non aggiungiamo su questo singolare genere di speculazione
filosofica.
Aristotele su questo punto mostra chiaramente di aver attinto da
Platone elementi dottrinali che poi trasforma completamente. Sembra
che in un'opera perduta egli abbia distinto espressamente tra principi
(&px�) ed elementi (ITtOLXdov) 6.
Fra i tre principi che egli nomina, la materia la forma e la priva
zione, manca tuttavia la divinità. Ciò gli consente di rilevare come al di
fuori della materia che per sé stessa è inconsistente e priva di forma, non
esista soltanto la forma e il processo di formazione, ma anche la dissolu
zione, la perdita e l'insufficienza di formazione, insomma la negazione
della forma che si oppone alla sua affermazione. Il concetto particolare
La teolo gia
IN QUESTO, più che in ogni altro campo, la filosofia della natura ha subÌto
l'influenza di concezioni precedenti ed esterne alla filosofia stessa.
Fin dalla sua forma più antica a noi nota, la religione greca mostra
una sorprendente ricchezza di motivi. Da un lato permane in essa costan
temente un nucleo di autentica, innegabile religiosità. Per essa la divinità è
semplicemente la potenza che viene in soccorso a ciascun uomo che si
trovi in una particolare situazione di difficoltà. Retrospettivamente, della
divinità si sa soltanto che si è mostrata, dietro la preghiera del singolo, in
un dato luogo e in una data maniera. Perciò la preghiera comprende
quattro parti: essa invoca la divinità, le presenta le sue richieste, si
richiama alle opere compiute dal supplicante in suo onore e infine ad
analoghe manifestazioni di potenza date precedentemente da lei, onde
�asce la speranza che essa si comporti anche questa volta allo stesso modo.
Intorno a questi concetti fondamentali se ne raccolgono dapprima alcuni
altri molto generali. È divino tutto ciò che sta al di là della terra
conosciuta dagli uomini e dunque - negli stadi molto antichi del pensiero
- agli estremi confini della terra a oriente, a occidente, a sud e a nord.
Queste regioni sono abitate o dagli stessi dèi o da popoli di un genere
particolare che hanno cogli dèi una perpetua familiarità, a noi ignota. È
divino soprattutto ciò che è al di sotto e al di sopra della terra. Bisogna
certamente distinguere: solo gli dèi che stanno in alto, sopra la terra,
intervengono attivamente nella vita dell'uomo. Infine, secondo un'idea
molto antica ma che ha resistito a lungo nel tempo, esistono anche sulla
terra dei luoghi dove gli dèi amano abitare, dove sono addirittura a casa
loro. Essi possono essere ugualmente molto lontani o vicini a noi. Per
loro natura questi dèi sono semplicemente gli esseri più forti. Essi rie
scono in ciò che l'uomo non può fare e hanno tutto ciò che l'uomo
desidera.
Sono, per cosÌ dire, degli uomini « superlativi »: ciò che l'uomo
possiede in modo manchevole, sporadico e precario, la divinità lo pos
siede sempre e pienamente. Questa concezione ha giocato un ruolo consi
derevole anche nel pensiero di Aristotele. La divinità è libera da preoccu-
) ')2 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
1 ARIST. Eth. Nic. VII 1154 b 20·31; Met. XII 1072 b 24-26.
LA TEOLOGIA 193
Talete secondo cui la terra, come una nave, galleggia sull'acqua primor
diale. E forse lo stesso Talete - com'è verosimile - ha assegnato
perfino un pilota a codesta nave. Con gli dèi della fede e del mito questo
infinito designato come immortale non ha proprio nulla in comune.
Le testimonianze pervenuteci ci inducono a credere che Anassiman
dro sia stato il primo a distinguere due gradi del divino. Crediamo
senz'altro che egli chiamasse divina l'aria infinita; ma da quest'aria
faceva nascere anche gli dèi. In essi non si possono scorgere che gli astri
i quali percorrono lo spazio aereo 3. Caratteristica è la concezione di
Parmenide: vi troviamo una divinità che rivela al poeta una verità che
egli, in quanto uomo, non è in grado di scoprire. Questa divinità ha
quindi, principalmente, lo stesso compito della Musa in Omero ed
Esiodo. In Parmenide essa si chiama Dike e dimora presso la porta per
la quale si passa dalla notte al giorno. La notte è l'opinione fallace, il
giorno è la verità; ma bisogna anche richiamarsi all'alternanza cosmica di
notte e giorno che è il paradigma di ogni ordine. Quest'alternanza si
compie entro limiti fissi che è letteralmente ingiusto violare. Questa era
già stata la concezione di Anassimandro e di Eraclito. Parmenide vi
aggiunge una divinità che deve evidentemente vigilare al mantenimento
di qu�st'ordine 4.
Entro il mondo dell'opinione troviamo poi altre divinità. Una
prima divinità governa il nascere e il perire in generale. È ovvio che essa
abiti nella r!:gione della luna, poiché quest'astro partecipa visibilmente
dell'immut;"bilità delle cose celesti come della mutevolezza delle terre
stri. Da questa divinità infine derivano tutte le altre forze divine. Qui
Parmenide assume consapevolmente lo stile teogonico di Esiodo e biso
gna riconoscere che divinità di questo tipo sono del tutto fittizie, come
il cosmo nel quale agiscono 5 .
È importante allora che l'essere vero si chiami ingenerato ed eterno,
ma non necessariamente diyino.
Possiamo ora passare direttamente ad Anassagora. L'intelligenza
che, secondo lui, mette in moto le particelle d'essere, sa tutto e tutto
domina, ma non è divina. Non andremo errati se supponiamo che anche
Anassagora ha evitato intenzionalmente questo concetto troppo gravoso.
La sua concezione astronomica lo aveva messo in conflitto con lo stato
ateniese. La sua teoria secondo la quale il sole e la luna derivano da
masse staccatesi dalla materia terrestre, divenute incandescenti per effetto
3 D-K 12 A 17.
4 D-K 28 B I .
5 D-K 28 B 12.
LA TEOLOGIA 195
non vuole essere chiamato Zeus 8. Che solo dio è sapiente (aocp6ç) è una
massima formulata con chiarezza, per la prima volta, ai tempi di Eraclito,
dal racconto dei Sette Savio Ad esso Platone attinge l'espressione tante
volte ricorrente presso il discepolo suo Eraclide, il quale narra che sarebbe
stato Pitagora il primo a chiamarsi «amico della sapienza» (cptÀ6aocpoç),
dato che il vero sapiente è soltanto dio 9.
II. La teologia di Senofane e di Eraclito porta la filosofia a un aperto
conflitto con le rappresentazioni cultuali della divinità. Da una parte sta
una teologia, tanto nuova quanto astratta nel suo rigore, che si sforza ad
ogni costo di costruire la più pura immagine dell'essere supremo; dall'al
tra abbiamo tutto il peso di una tradizione primitiva ricorrente, nei suoi
tratti essenziali, presso tutti i popoli. Non ci si deve dunque meravigliare
se, qualche tempo dopo Senofane, si cercò una via di compromesso. Essa è
data dalla teologia di Democrito che, a quanto pare, fu ripresa nei suoi
motivi di fondo da Epicuro. Democrito considera espressamente come
un'opinione aberrante di generazioni primitive l'esistenza di dèi nel cielo
stellato e quella di un mondo sotterraneo. Ciò tuttavia non esclude
assolutamente per lui l'esistenza in generale degli dèi. Que� i sono compo
sti atomici immortali, o almeno particolarmente durevoli; hanno figura
umana ma sono più grandi e più belli degli uomini. Essi vengono da
qualche parte per entrare nel mondo degli uomini ai quali si manifestano
sia nella veglia che nel sogno. Molte di queste apparizioni hanno conse
guenze favorevoli, altre no. Bisogna quindi pregare gli dèi di farci parte
cipi di apparizioni fauste lO.
8 D.K 22 B 32.
9 Cf. supra, p. 22, n o t a 4.
l O D-K 68 A 74.
LA TEOLOGIA 197
1 1 D.K 64 B 3 .
198 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
1 4 ARIST. De philos., in panicolare il fr. 16 Ross. Cf. anche Met. XII, capp. 6·10.
200 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
insieme esseri viventi, animati, che percorrono le loro orbite per libera
determinazione. Ma non ci è affatto chiaro come Aristotele accordasse
insieme, negli dèi astrali, l'aspetto fisico con quello personale.
Infine resta ancora molto importante il rapporto tra l'intelligenza
divina e quella dell'uomo. Sembra che Aristotele abbia tenuto ferma, per
tutta la vita, l'idea che l'intelligenza umana derivi dalla divina regione
sopralunare e che entri nel corpo « dall'esterno ».
Quanto a Epicuro, è innegabile che il suo pensiero, almeno in
alcuni tratti fondamentali, risulti da una sintesi di dottrine democritee e
aristoteliche. Epicuro si ispira a Democrito quando respinge ogni inter
pretazione teleologica dell'universo. Per lui il cosmo non è né eterno né
divino né costruito alla massima perfezione da un artefice divino, ma è
invece transitorio e nato spontaneamente dall'aggregarsi degli atomi. Per
Platone e Aristotele la regolarità matematica dei moti astrali era la prova
più efficace del ruolo svolto da un'intelligenza divina. Questa prova è
respinta da Epicuro per il quale la matematica è un'arte illusoria che
tende solo a ingannarci sulla reale irrazionalità di quei moti. Il cosmo
nel suo insieme è assolutamente imperfetto e in nessun modo può essere
messo in rapporto con la divinità.
Certo, quando Epicuro polemizza contro la dottrina platonica
dell'artefice divino, è chiaro che egli utilizza non solo gli argomenti
critici di Democrito contro il « Nous » di Anassagora, ma anche quelli
di Aristotele contro il Timeo di Platone. È ancora l'influenza di Demo
crito che spinge Epicuro a dimostrare con decisione che gli dèi hanno
forma umana. Certo, egli non ama parlare delle apparizioni diurne e
notturne degli dèi alle quali si era richiamato Democrito, ma preferisce
mostrare che . una teoria siffatta è fondata sul consenso universale di tutte
le epoche e di tutti i popoli e che la forma umana non solo è la più bella
che si possa concepire ma anche, nei limiti della nostra esperienza, la
sola adatta a portare e a contenere in sé il pensiero. Ma si riscontrano
anche influenze aristoteliche: Aristotele infatti, contro la teoria pitago
rica della trasmigrazione delle anime, aveva espressamente sottolineato il
fatto che tra tutti gli esseri della terra solo il corpo umano è organizzato
in modo da poter servire come strumento al pensiero. Epicuro ha
semplicemente portato alle estreme conseguenze questa concezione.
Ampiamente influenzata da Aristotele è infine la dottrina di Epi
curo sulla vita degli dèi. Egli porta cosÌ a pieno compimento una
tendenza che era sicuramente presente sulla via seguita da Aristotele.
Questi infatti aveva descritto il dio supremo come pensiero in sé sussi
stente che pensa sé stesso. Epicuro spezza ogni legame tra dio e il
mondo venuto all'essere. Gli dèi dimorano assolutamente per conto
proprio in uno spazio extracosmico, interessati soltanto alla propria
LA TEOLOGIA 201
felicità. Come per Aristotele anche per Epicuro la vita della divinità
deve intendersi come il modello dellà più alta forma di vita umana. Solo
che la nota saliente in Epicuro non è il pensiero del singolo pensatore
ma quello di una serena comunità di filosofi amici. Questo spirito
comunitario riempie anche la vita degli dèi.
Quanto detto non toglie naturalmente che certe impressioni ci
provengano dagli dèi, e a noi tocca tenerle nel debito conto. Ma esse in
nessun caso devono farci credere che gli dèi rinuncino alla loro autosuf
ficienza per rivolgersi agli uomini o anche per accogliere le loro pre
ghiere. Epicuro afferma ancor più energicamente di Platone che dio non
conosce né favore né collera e che giammai si lascia influenzare dalle
preghiere e dai sacrifici t5.
prende un tentativo audace e ricco di risultati: esso introduce tra gli dèi
della filosofia - il dio supremo e gli dèi astrali - e gli uomini, una
regione abitata da esseri aerei, i dèmoni che sono immortali come gli dèi
superiori e nello stesso tempo sensibili - come gli uomini - a tutte le
passioni come odio, amore, collera, compassione. A questi dèmoni si
rivolge la religione cultuale, giacché sono essi a parlare negli oracoli, a
rallegrarsi dei ricchi sacrifici o ad adirarsi se si trascura di pregarli. Più
tardi i cristiani hanno utilizzato a loro modo questa dottrina. Per altro
verso c'è da osservare con quale facilità Platone, Aristotele e i loro
discepoli hanno accolto nelle loro opere filosofiche il pathos del linguag
gio religioso. Basti ricordare i miti dell'aldilà o ancora il modo come
Aristotele descrive l'uomo perfetto amico degli dèi, dove non è facile
dire che cosa resti, in senso stretto, di filosofico 19.
In secondo luogo si è cercato piuttosto di riconoscere, puramente e
semplicemente, tinesistenza di un metro comune tra concezioni filosofi
che e concezioni religiose. Si distinguono teologie diverse, ciascuna delle
quali ha la propria legittimazione. Questa dottrina appare per la prima
volta compiutamente formata in un contemporaneo di Cicerone 20, ma
essa è indubbiamente più antica. Secondo questa dottrina, esistono tre
tipi di teologia: prima è la teologia filosofica, che non è accessibile a
chiunque e che pertanto non può essere partecipata a tutti per la
possibilità che essa offre di facili fraintendimenti; seconda è la teologia
politica, cioè il culto di stato consacrato dalla sua stessa antichità e
indispensabile per l'efficacia pedagogica; infine c'è la teologia dei poeti i
quali, secondo un famoso detto di Platone 21, non sanno in fondo quel
che fanno. Essi non conoscono la verità, e tuttavia può accadere che
nelle loro parole sia compresa qualche verità, quando il filosofo sappia
interpretarla.
La terza maniera è quella seguita da Epicuro il quale, pur attri
buendo ai suoi dèi figura umana, non lascia poi alcuno spazio alla
religione cultuale nel suo sistema filosofico. È notorio tuttavia che egli e
i suoi' seguaci osservavano i doveri imposti dalla religione dello stato
ateniese. La loro argomentazione, a quanto sembra, era la seguente: il
filosofo non ha alcun motivo di dare scandalo con la sua condotta, né di
scuotere la fedeltà ai doveri religiosi da parte dei profani. Un tale
argomento si collega a riflessioni che ci sembrano curiose ma che si
ritrovano persino in Platone. Ciò si spiega col fatto che la filosofia,
23 D.K 68 B 30.
24 ARlST. De philos. fr. 10 Rose.
25 I frammenti di Evemero sono raccolti in:JAcoBY FGrHist. Nr. 63.
208 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
spondente animale: i ladri nei lupi, i dissoluti nei porci e cosÌ via.
Vengono cosÌ introdotte nella dottrina antichissime qualificazioni popo
lari date agli animali. Conseguentemente all'uomo non è lecito utilizzare
nella sua alimentazione siffatti animali e piante, altrimenti potrebbe
diventare cannibale senza neanche saperlo o possibilmente - come
nell'efficace descrizione di Empedocle 4 - uccidere e mangiare sotto
forma di animale un suo prossimo congiunto.
Questa dottrina poteva dunque portare a un rovesciamento radicale
dei rapporti dell'uomo con gli animali e le piante. Per essa ogni specie
vivente corrisponde a una categoria di uomini e può essere virtualmente
composta da siffatti individui umani che hanno assunto quella tal forma.
Certo, non ci è possibile vedere in quale misura una dottrina cosÌ
singolare abbia potuto di fatto sopravvivere né fino a che punto essa
non rappresenti semplicemente un pio mito religioso o addirittura un
gioco di spirito. Platone la riprende di quando. in quando, cosÌ come il
tardo Pitagorismo che nel II secolo a.c. si rinnova sul piano sentimen
tale a contatto coi Romani e, in età imperiale, si unisce definitivamente
al Platonismo parimenti rinnovato. Ma a cercare di prendere sul serio
questa dottrina dovettero essere dei circoli molto ristretti e chiusi.
Una confutazione di essa si trova già in Aristotele. Egli sostiene
infatti che l'anima e il corpo essendo reciprocamente connessi, non può
una qualunque anima umana entrare in un corpo qualunque 5. Solo il
corpo umano è strutturato in modo da poter accogliere un'anima
umana. Questa confutazione appare semplice e convincente: essa certa
mente comporta numerose conseguenze che tratteremo però nel pros
simo capitolo. Qui basta solo rilevare che la dottrina della trasmigra
zione delle anime non ha in alcun modo contribuito all'approfondi
mento della conoscenza della particolare struttura e dei modi di vita
degli animali e delle piante.
Un interessante problema filosofico di genere tutt'affatto diverso è
quello riguardante la possibilità - all'origine dei tempi o anche al
presente - della generazione spontanea di animali da ciò che è inani
mato. Il che equivale a domandarsi in che modo, nel corso del processo
cosmologico, sia sorta la vita. Chi credeva all'eternità del cosmo non
aveva ovviamente bisogno di porsi questo problema, e tanto meno quei
filosofi che credevano a un'evoluzione del cosmo a partire da un punto
zero. Essi avevano aperte sostanzialmente due possibilità di spiegazione:
o far nascere la vita, a un determinato momento, dall'opportuna unione
4 D-K 31 B 137.
5 ARIST. De ano 1407 b 13-26.
214 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
l PLAT. ApoL 40 c 41 c.
-
'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 217
entra nel corpo per imitare dio, governando per la sua parte le cose
terrene. Una siffatta concezione che stabilisce un'analogia tra l'agire
umano e quello divino, non è antica. In epoca anteriore si riscontra una
sola spiegazione: l'anima è stata esiliata nel corpo per espiare una colpa.
Ma resta oscuro l'ultimo punto: come cioè un'anima che vive nella
beatitudine degli dèi, ossia in una condizione a lei conforme, possa
diventare colpevole. Problema, questo, che né Platone né i Platonici sono
riusciti a risolvere, proprio perché esso non ammette soluzione. Trove
remo molto più avanti un'altra specie di analogia, in riferimento alla
dottrina dello stato. Se - come fa chiaramente Platone - si descrive il
mutamento delle forme politiche come un processo conéreto che va dal
perfetto all'imperfetto, com'è possibile che lo stato perfetto e dunque
felice arrivi da sé stesso alla decadenza? Là dove si deve supporre una
debolezza o una tendenza allo scadimento, ciò implica una carenza di
perfezione.
Non c'è da meravigliarsi allora che si sia sempre manifestata l'oppo
sta tendenza ad unire il più possibile l'anima al corpo. Essa poteva
richiamarsi a ogni sorta di dati di fatto incontestabili.
Anzitutto ci si richiama, come si è già notato, alla fisiologia degli
organi di senso, nei quali si distingue una componente psichica e una
fisica. Queste componenti sfociano nel dominio dello psichico, ma è
chiaro che esse sono assegnate a d�terminati organi corporei. Fin da
Democrito il loro numero è stabilito in cinque. Successivamente si sono
raggruppati in modi diversi. Nella platonica filosofia della natura, il senso
« superiore » e 1'« inferiore » , ossia la vista e il tatto, hanno una posizione
privilegiata, giacché la corporeità è primariamente costituita dalla pre
senza dei caratteri della visibilità e della tangibilità. In Aristotele troviamo
una ripartizione molto vicina alla precedente la quale, rifacendosi all'an
tico, pone in primo piano una gerarchia in cui si distinguono nettamente
tre organi di senso superiori dai due inferiori (gusto e tatto). I due organi
inferiori infatti funzionano nell'uomo, in principio, esattamente come
nell'animale. Viceversa, solo i tre organi superiori sono finalizzati a un
piacere puro e perfetto. Ma tutti sono localizzati nel corpo. È naturale che
il Platonismo si sia posto il problema se gli organi fisici siano assoluta
mente indispensabili alla genesi della percezione sensoriale; e talvolta si
ammette che gli organi funzionano soltanto da canali o « finestre » , men
tre in realtà è l'anima che vede, sente e cosÌ via. Ciò lascerebbe pensare
che l'anima, per quanto concerne le percezioni, non è interamente desti
nata ad assistere il corpo. Tuttavia questa teoria difficilmente poteva
essere sostenuta di fronte alle apparenze.
Più complessi ma anche più convincenti sono quei fatti che sembrano
provare che un notevole numero di impulsi specificamente psichici agi-
'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 223
o 6 SVF II 827-828.
7 LUCR. De rer. nato III 94-4 16.
'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 225
1 D-K 82 B 3 .
LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA 231
2 D-K 80 A 21 a, 23; B 1.
232 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
3 Fr. I B 1 Giannantoni.
LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA 233
loro, dell'albero e della pianta, queste idee devono stare tra loro in un
rapporto determinato; il che, di nuovo, non è facile da capire.
Tutti questi problemi, se considerati piu da vicino, si rivelano assai
difficili. Il pensiero, originariamente semplice, di Platone che al di là di
tutto ciò che è mutevole, esiste una realtà immutabile e eterna alla quale
devono riferirsi la conoscenza e l'azione, rischia ben presto di essere
sottoposto a un'eccessiva esigenza sistematica e di disperdersi alla fine in
una quantità di sottigliezze. Si comprende perciò come l'ellenismo non
abbia potuto gran che utilizzare la dottrina delle idee. Ciò che di essa
rimase fu il principio teorico di ordine gnoseologico secondo il quale
scienza è possibile solo dell'universale e di ciò che è sempre identico a sé
stesso. Ma già Aristotele aveva cercato quest'universale non piu in un
mondo di paradigmi in sé sussistente, ma nel mondo degli oggetti sensi
bili. Per lui l'universale è l'essenza su cui si fonda ogni essere concreto, il
quale tende a realizzarla per quanto gli è possibile. L'idea trascendente si
trasforma nella « vera natura » di ciascun individuo.
Ciò viene anche a significare che per Aristotele non si dà alcun
contrasto sostanziale tra la percezione sensoriale fluttuante e priva di
valore conoscitivo e la conoscenza dell'essere. Qui possiamo solamente
accennare ai punti fondamentali della sua dottrina. In primo piano sta una
successione di gradi. Si comincia coi dati isolati delle percezioni sensoriali.
La somma di un certo numero di dati similari permette di costituire un
fatto d'esperienza. L'esperienza infine si chiarifica, divenendo sapere
scientifico quando, da una parte, si pone la domanda del perché e,
dall'altra, quella dell'essenza universale cui tendono i fenomeni sensibili.
Questo schema generalissimo comporta anch'esso una quantità di
problemi.
Anzitutto, le percezioni sensoriali vi assumono un'importanza pre
ponderante: esse infatti ci comunicano il materiale dei dati, senza il quale,
di norma, non si può avere alcuna conoscenza. Aristotele in effetti si è
anche dedicato a ricerche minuziose sulla maniera in cui si producono i
fenomeni della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto e del tatto che qui
non possiamo esaminare piu da vicino.
L'esperienza (empeiria) è il grado prefilosofico del sapere. Essa regi
stra soltanto fatti ed eventi che sempre si ripetono, senza porsi il pro
blema della causa né determinare l'essenza che essi designano. Ciò tuttavia
non impedisce che nella vita pratica la conoscenz� empiri�a soddisfi
largamente e a volte sia anche piu utile dell'intelligenza filosofica la quale
non sempre riesce a farci agevolmente scorgere la via da seguire per agire
correttamente nelle circostanze concrete.
Indipendentemente da ciò, il problema dominante nella filosofia e
nella scienza della natura è quello del perché dei fatti, mentre nell'etica è
LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA 235
quello dei fatti stessi. Era certamente inevitabile che nella scuola peripa
tetica il peso dei dati empirici diventasse sempre piti preponderante.
Quando infine si cominciò a trattare una quantità incalcolabile di feno
meni zoologici, botanici ma anche sociali e politici, le ricerche si limita
rono quasi inevitabilmente a registrare e ordinare fatti analoghi, senza
pretendere di studiarne le cause né l'essenza.
Ma il problema decisivo, dal punto di vista filosofico, resta sempre
quello dell'universale. Esso si diversifica in una serie di problemi partico
lari, il primo dei quali è quello dell'essenza (O,)O"LO(, essentia) seguito da
quelli della qualità, quantità, etc. La dottrina classica del Peripato li ha
riassunti nello schema delle dieci categorie.
Come questo universale è contenuto nei singoli esseri concreti e
come, dall'altro lato, l'intelletto è capace di astrarlo dal particolare e di
dimostrare e descrivere le essenze immutabili? Sono, tutti questi, dei
problemi che neanche Aristotele è riuscito propriamente a risolvere;
similmente, la funzione dell'intelletto, nelle opere di Aristotele in nostro
possesso, è esposta con accenni in parte assai imprevedibili. Solo l'intel
letto è eterno ed entra « dal di fuori » nel corpo umano. Il suo compito
è la conoscenza dell'universale, sia per mezzo della dimostrazione che di
una « visione » immediata dei principi primi evidenti per sé stessi. Esso è
il luogo dove si conservano le essenze, in quanto sapute e riconosciute;
ed esso è immortale. Tuttavia non si riesce a capire come tutto ciò si
connetta insieme.
Non possiamo qui parlare della tecnica della dimostrazione, propria
della logica aristotelica. Si tratta di una creazione particolarmènte gran
diosa, ma in età ellenistica essa non svolse certamente un ruolo di
rilievo: allora infatti primeggiò li logica stoica che, a suo modo, non fu
meno importante, mentre in Aristotele si vide soprattutto il naturalista
enciclopedico e il moralista. Cionondimeno, nella filosofia della tarda
antichità la logica di Aristotele ebbe dominio incontrastato e tale rimase
sino alla fine del nostro Medioevo.
Su Epicuro non c'è molto da dire. Egli sviluppa ulteriormente la
dottrina di Democrito. Contro Platone, Epicuro difende, con la massima
veemenza, la tesi che le percezioni sensoriali sono l'unica fonte di tutto
il nostro sapere e che sono assolutamente veraci. Su questo punto egli si
è indubbiamente giovato della relativa riabilitazione delle percezioni
sensoriali compiuta da Aristotele. Epicuro ha preso le mosse dalla teoria
democritea dei « simulacri » che si distaccano ininterrottamente da tutti
gli oggetti. Ma poiché non si poteva negare la realtà delle illusioni dei
sensi, a lui non restava altra via che quella di far dipendere la certezza
dei dati sensibili da determinate condizioni, al fine di poter ridurre cOSI,
entro limiti accettabili dal punto di vista dell'esperienza, la radicalità
236 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
della tesi sostenuta. Per Epicuro i sensi ci danno la verità quando sono
sani e quando anche le altre circostanze esterne sono « normali » .
Infine la dottrina della Stoa si oppone sia al Platonismo che all'Epicu
reismo. Anche per essa i dati sensoriali sono il primo e solo punto di
partenza per ogni sapere. Ma essa oltrepassa ben presto le percezioni
sensoriali per giungere alla « rappresentazione » (phantasia), ossia all'im
magine percepita, accolta dalla coscienza. Questa immagine può essere
vera o falsa, ossia può corrispondere o meno alla prima impressione
sensoriale. Su ciò è la ragione a decidere, dando o rifiutando l'assenso alla
rappresentazione.
Se la ragione accetta la rappresentazione, si ha un giudizio vero. Dalla
somma di queste verità si costituisce l'esperienza, attraverso la quale la
ragione attinge i concetti universali che evidentemente non possono
essere considerati come essenze reali.
La ragione accetta una rappresentazione quando ha la certezza -
secondo che dice la salda formula di Zenone - che « la rappresentazione
proviene da un oggetto reale e si forma e s'imprime nell'anima in modo
adeguato all'oggetto, e cioè in modo tale che l'immagine non avrebbe
potuto formarsi se l'oggetto non esistesse o fosse diverso da come in
effetti è » 4.
Se si raggiunge questa certezza, la rappresentazione diventa « com
prensiva », cioè una rappresentazione che viene mantenuta nella sua tota
lità con incrollabile sicurezza. Il nostro termine moderno « compren
dere », è la traduzione latina - comprehendere - del verbo x�'t�À�!L�cXVEt\I,
che è il termine tecnico proprio della Stoa.
La formula di Zenone presenta, a tutta prima, un carattere assai
complesso. Da una parte essa intende l'atto conoscitivo in un senso
assolutamente fisico, ossia come l'imprimersi di ciò che rappresenta gli
oggetti su una « tavoletta di cera » inizialmente vuota; dall'altra è innega
bile l'influenza platonica: intellegibile è soltanto ciò che è reale e invaria
bilmente identico a sé stesso. Si tratta di aspetti della dottrina delle idee
assunti in una curiosa metamorfosi.
Non ci si meraviglierà dunque di vedere l'Accademia dell'età elleni
stica sollevare contro questa teoria difficoltà alla maniera di Platone,
spiegando che nel mondo sensibile non si danno assolutamente oggetti
siffatti immutabilmente identici a sé stessi. E in generale la dottrina stoica
della conoscenza è riuscita a imporsi solo su punti particolari. Il suo
aspetto ispirato alla fisiologia le conferiva un carattere troppo primitivo,
mentre il meccanismo della rappresentazione e dell'assenso veniva assu
mendo, soprattutto in Crisippo, forme troppo artificiose.
4 SVF I 59-61.
CAPITOLO SETTIMO
J Particolarmente M imnermo (inizio VI sec. a.c.) e Anacreonte (2 ' metà del VI sec.).
240 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
4 Fr. I B I Giannantoni.
'
IL FINE DELL AZIONE 241
5 EpIC. Ep. ad Menoec. 129 (= fr. 4 Arrighetti). c.c. Defin. 132 55.
6 ARIST. Eth. Nic. VII 1 152 b 33 · 1 153 a 7.
242 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
IO SVF I 179.
248 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
segue ancora che anche le azioni contrarie alla virtù si equivalgono tra
loro I l . Da un punto di vista strettamente speculativo non esiste pertanto
la più piccola differenza qualitativa tra il furto di un borsaiolo e il
delitto di un uxoricida.
Ciò significa infine che non si può giungere a poco a poco alla
virtu, non ci si può innalzare per gradi a un agire sempre piu perfetto.
Dall'abiezione l'uomo passa, d'un sol colpo, alla perfezione morale.
Quarto: se quel che la Stoa definisce come l'unico valore supremo
non è essenzialmente irraggiungibile come il bene di Platone, esso tutta
via è ai limiti estremi dello storicamente possibile: infatti, solo due o tre
uomini, nel corso dei secoli, sono riusciti a raggiungere la vita perfetta;
cosÌ insegnava Crisippo. Tutti gli altri uomini sono, in senso stretto, dei
reprobi. Tuttavia la Stoa non è potuta restare su questa posizione
radicale e schematica; essa non poteva rinunciare a dare, anche all'indivi
duo di media cultura e di buona volontà un orientamento per la propria
condotta pratica. CosÌ, al di sotto della sfera della virtù, si sviluppa
un'etica del conveniente, dalle molteplici diramazioni, la quale, nelle
diverse situazioni dell'esistenza, raccomanda un comportamento che -
senza mai essere quello della virtù - ne rappresenta tuttavia una sorta di
adombramento. Vi si trovano, come in Aristotele, distinzioni, quantifi
cazioni e un sistema di valori.
Quest' etica, significativamente, si è venuta costituendo soprattutto
nell'epoca in cui i Romani cominciarono a interessarsi di filosofia. Ad
essi piaceva l'alto pathos morale della Stoa; ma i Romani richiedevano
altresÌ indicazioni concrete su quel che, in ogni situazione particolare,
andava fatto o meno. Rispondendo a questa duplice esigenza, gli Stoici
del II secolo a.c. elaborarono quei sistemi di morale che noi conosciamo
soprattutto dall'importante opera di Cicerone Sui doveri (De officiis). In
essa il dominio della virtù è messo da parte, per cedere il posto a
un'etica realistica e sistematica che, conformemente allo scopo perse
guito, si costituisce sul piano del conveniente.
Le virtù
I Per il concetto aristotelico di vinù cf. ARIST. Eth. Nic. I 1 098 a 7-1 7.
250 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
6 SVFm 264-273.
7 SVFm 295.
2 56 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
8 SVFm 237.238.
9 EPIC. Ratae sent. V, tr. it. di M. Isnardi P arente in: Opere di Epicuro cit., p. 196.
CAPITOLO NONO
Il saggio
ABBIAMO già in precedenza rilevato che sul piano dell' etica due atteggia
menti entrano continuamente in concorrenza reciproca. Il primo è di
natura strettamente filosofica e consiste nel chiedersi se è possibile dimo
strare l'esistenza di un principio normativo universalmente valido, dedu
cendo da alcune riflessioni razionali i supremi valori etici. L'altro è quello
dell'etica tradizionale che, guardando all'uomo paradigmatico, cerca di
individuarlo in figure storiche oppure lo costruisce come figura ideale.
Indubbiamente questo secondo atteggiamento è, dal lato speculativo,
meno rigoroso, ma è di tanto superiore al primo in efficacia pedagogica
che nessuna etica vi può rinunciare del tutto.
Quest'etica dell'esemplarità ha avuto un ruolo importante dal punto
di vista storico-filosofico, rilevabile anzitutto nelle raffigurazioni, che ci
ha trasmesse, dei grandi cosmologi che, trascurando i loro interessi mate
riali, visitarono tutti quei paesi dove speravano di poter apprendere
qualcosa: T alete, Pitagora, Anassagora, Democrito, e, infine, lo stesso
Platone. Ma quest'etica ha esercitato un'influenza incomparabilmente
maggiore nella Socratica.
È sicuro che gli studiosi non si accorderanno mai nello stabilire fino
a che punto il ritratto di Socrate che viene presentato nelle opere di
Platone, di Senofonte e nei resti delle opere degli altri Socratici, corri
sponda al personaggio storico che porta questo nome. Certamente nes
suno vorrà negare che certi particolari della sua vita, del suo aspetto
esteriore e della sua condotta, riportati in quelle opere, siano storici.
Dall'altro lato si ha la netta impressione che quel ritratto nel suo insieme
e l'interpretazione dei dati storici hanno lo scopo di disegnare l'immagine
ideale del filosofo, dell'uomo perfetto in generale. A lui non possono
nuocere né la povertà, né l'inimicizia, né lo scherno, né la persecuzione,
né la morte. Pur conoscendo le passioni dell'anima, egli non se ne lascia
mai vincere; né si lascia accecare dalla potenza, né dalla ricchezza, né dalla
bellezza. Egli trova, in ogni situazione, la parola giusta; dice infine, con
assoluta chiarezza, ciò che sa e ciò che non sa.
In questo ritratto ideale i Socratici hanno sottolineato ora questo ora
quel tratto. Così, ad esempio, Senofonte ha creduto di scorgere il carattere
2 58 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
l Sul valore di ese mplarità della figura del saggio, cf. ARIST. Eth., Nic. III 113 a 30·35.
IL SAGGIO 2 59
Abbiamo qui fatto parlare più ampiamente del solito gli stessi testi
antichi, perché essi ci consentono di capire nel modo più chiaro quale
impressione dovette esercitare nell'antichità e nelle età successive questo
ritratto scevro di compromessi dell'uomo perfetto e di quello malvagio.
Appar chiaro che la figura del saggio mostra alcuni tratti ricavati dal
ritratto di Socrate, mentre quella dello stolto ne possiede altri, propri del
4 ID. [bUi. II 7, 11 m.
5 ID. [bUi. II 7, 11 s.
6 ID. [bUi. II 7, 11 k.
IL SAGGIO 261
sofista e del tiranno. Certo, può anche accadere che questo ritratto a
volte si contrapponga al Socrate platonico, ma ancor più evidente è il
rifiuto di quell'umanità sobria che rappresenta l'ideale di Aristotele; si
osservi, ad esempio, che il saggio rifiuta ogni pietà e indulgenza. Ed è
appunto questo rigore che lo stoico romano Catone si sforzò di
realizzare nella sua vita, con grande rammarico del suo amico Cicerone.
Questi infatti non poteva non ammirare l'inflessibile virtù di Catone,
ma non poteva nello stesso tempo dimenticare che essa era stata respon
sabile di molti e gravi errori politici.
Incomparabilmente più vicina a quella di Aristotele è l'immagine
del saggio che troviamo in Epicuro, nella quale tuttavia non mancano
alcuni tratti di un radicalismo tipicamente ellenistico che rimanda alla
prima Socratica e alla Sofistica.
Ci rifacciamo ancora a una fonte antica, certo meno ricca d'infor
mazioni rispetto ai testi di cui disponiamo per la Stoa. L'essenza del
saggio vi è descritta con le seguenti espressioni:
1. Chi è divenuto saggio una volta, non cesserà mai di esserlo (come
voleva la Stoa) e non si atteggerà volutamente a ignorante (contro
l'ironia socratica).
2. Il saggio avrà sempre saldi convincimenti e non s'appagherà mai
dell'incertezza - il che è evidentemente rivolto contro il Socrate plato
mco.
3. Il saggio conserverà il suo carattere anche durante il sonno;
similmente, egli non perderà il controllo di sé neanche nello stato
d'ebbrezza. Naturalmente non è escluso che in certi casi anche il saggio
possa turbarsi.
4. Il saggio, con l'aiuto della sua riflessione, allontana da sé il danno
che possono arrecargli gli uomini con l'odio, l'invidia e il disprezzo. In
altri testi si afferma (contro la Stoa) che il saggio avrà cura della sua
reputazione, per non rischiare il disprezzo.
5. Anche il saggio è soggetto a certe emozioni, principalmente al
dolore, ma senza che ne possa essere turbato nella sua saggezza. Epicuro
sottolinea ancor più decisamente questo concetto in una sua massima
assai citata e che rivela una sorprendente somiglianza coi ragionamenti
degli Stoici; il saggio è felice anche quando è messo al supplizio o è
tormentato a morte nel toro di bronzo di Falaride. Certo, egli si
lamenterà e gemerà, ma senza che ciò possa arrecare pregiudi:zio alla sua
felicità che è perfetta, come quella di Zeus, padre degli dèi.
6. Non si può diventar saggi con qualsiasi costituzione fisica o
presso qualsiasi popolo. Viene precisato che solo i Greci hanno attitu
dini per la filosofia; tesi, questa, che sembra ispirarsi a certe affermazioni
di Aristotele.
262 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
Le passioni
L'AZIONE morale dipende dalla decisione tra ciò che si deve e qualcos'al
tro che non si deve fare. Questo tipo di decisione è esistito da sempre.
Lo stesso non può dirsi invece della tendenza a considerare la decisione
come un conflitto tra forze antagoniste, un conflitto cioè nel quale alla
fine il « bene » vince sul « male ».
Una tale considerazione del fatto morale è ancora estranea all' epos
omerico. L'antica lirica greca parla sì di contraddizioni nell'uomo -
l'uomo che desidera intensamente e insieme ha paura, e così via - ma
non riconduce queste contraddizioni all'azione di forze contrapposte.
Sorprendente mente ciò avviene, per la prima volta, nella tragedia attica
di Euripide. Fedra, la sposa di Teseo, innamoratasi del figliastro, sa come
dovrebbe agire, ma non riesce a farlo. La passione in lei ha la meglio
sulla ragione. È questo il nocciolo del problema. L'uomo avverte in sé
stesso una pluralità di forze delle quali - come in uno stato ben
organizzato - le une devono governare, le altre obbedire; tuttavia può
accadere una rivolta e un rovesciamento dell'ordine.
Non sappiamo donde Euripide abbia tratto questa concezione; se
condo le nostre attuali conoscenze, è stato il primo a esprimerla. Da
alcune indicazioni che troviamo in Platone dobbiamo concludere che
accanto e dopo Euripide questa concezione è stata rappresentata dalla
Sofistica, e ciò non solo perché Platone l'ha già palesemente attaccata in
uno dei suoi primi dialoghi, il Protagora, ma soprattutto perché già il
Lachete - che è anteriore allo stesso Protagora - conosce quella sistema
tizzazione delle passioni che costituirà più tardi per la Stoa e per altre
scuole un punto fermo sul piano dottrinale.
Fra le passioni, come mostra l'esempio di Fedra, quella amorosa ha
sempre tenuto, in un certo senso, un ruolo preminente. Ma essa non è
la sola. Accanto se ne aggiungono altre tre, così da costituire un ben
equilibrato sistema di quattro passioni: paura, tristezza, desiderio, pia
cere. Presumibilmente si può attribuire già all' età della Sofistica una più
attenta caratterizzazione di tali passioni, anche se i primi ad averla
tramandata sono stati gli Stoici: in primo luogo, due passioni negative si
oppongono a due positive; e, in secondo luogo, abbiamo due passioni
266 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
l D .K 82B 1 1.
LE PASSIONI 267
caso, un fenomeno patologico che non può essere tollerato. Ma cosÌ non
si chiarisce se l'essenza della passione debba essere definita con Zenone
« uno straripamento dell'istinto che fa deviare la ragione verso opinioni
e decisioni sconsiderate » 4, o piuttosto, con Crisippo, una perversione
della stessa ragione che si smarrisce in giudizi errati sul bene e sul male.
Singolare è certamente la conclusione di Crisippo secondo il quale né il
bambino né l'animale possono avere passioni, proprio perché la passione
non è altro che ragione pervertita. Ora, né il bambino né l'animale
posseggono la ragione.
L'estirpazione della passione è, per lo stoico, uno dei compiti prin
cipali della filosofia. In quest' opera il filosofo deve dimostrare di essere
medico dell'anima che egli sa ricondurre alla salute grazie a un metodo
ben ponderato. Ma prima di considerare l'aspetto terapeutico del pro
blema, dobbiamo dare un rapido sguardo al sistema stoico delle passioni.
Esattamente come per le virtù, la Stoa, rifacendosi a precedenti tentativi
che si possono far risalire all'età dei Sofisti, ha compilato degli ampi
elenchi, fondati sulle quattro passioni fondamentali già ricordate: deside
rio, piacere, paura e tristezza.
Il desiderio (epithymia), si distingue in: 1. Collera (orge), che è il
desiderio di vendicare un torto presunto. 2. Rabbia (thymos), che è la
collera repressa. 3. Furore (cholos), che è la collera esorbitante. 4. Ama
rezza (pikria), che è la collera che esplode all'improvviso. 5. Rancore
(menis), che è la collera a lungo frenata. 6. Odio (kotos), collera che
attende l'occasione della vendetta. 7. Amore (eros), che è il desiderio
dell'unione fisica, ovvero desiderio di amicizia o impulso al rapporto
amichevole suscitato dalla vista della bellezza. 8. Nostalgia (himeros), che
è il desiderio del rapporto con un amico assente. 9. Struggimento
(pothos), che è il desiderio dell'amato assente. lO. Astio (dysmeneia), che
è il desiderio che cerca l'occasione di far male a qualcuno. Il. Malvagità
(dysnoia), che è il desiderio di far male a qualcuno per amore di sé. 12.
Litigiosità (eris), che è il desiderio di far male nei contrasti. 13. Disgusto,
(hapsikoria), che è il desiderio subito appagato. 14. Rammarico (spanis),
desiderio inappagato. 15. Rudezza (trachytes), che è il desiderio inco
stante. 16. Lo sguardo bramoso (hripsophthalmia), che è l'impazienza di
vedere l'oggetto dei nostri desideri. 17. L'agitazione (prospatheia), che è il
desiderio asservito. 18. Desiderio sfrenato di piacere (philedonia). 19. Di
ricchezza (philochrematia). 20. Di onore (philotimia). 21. Della vita (phi.
lozoia). 22. L'intemperanza (gastrimargia). 23. L'ubriachezza (oinoflygia).
24. La cupidigia (lagneia) s.
4 SVF I 205-207.
s SVF III 397.
270 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
6 SVF III 40 1 .
7 S VF III 409.
LE PASSIONI 271
saper come venir fuori da una situazione presente. 21. Il lamento (goos),
pianto violento pieno di tristezza. 22. L'oppressione (barythymia), tri
stezza che deprime e toglie il respiro. 23. La tristezza che si estrinseca in
pianti disperati (klausis). 24. L'inquietudine (phrontis), riflessione piena di
tristezza. 25. La compassione, (oiktos), tristezza per l'altrui infelicità 8.
Questo lo schema delle passioni che si legge in un manuale scola
stico stoico di non eccezionale qualità. Cionondimeno l'abbiamo voluto
riportare, non solo perché esso consente di farsi un'idea adeguata del
gusto classificatorio proprio dell' età ellenistica, ma anche perché, dietro
quelle povere formule, si riesce a intuire il considerevole lavoro svolto
sulla fenomenologia delle passioni.
Leggendolo, non ci si deve dimenticare che per lo stoico tutta la
sfera delle passioni umane è assolutamente riprovevole e patologica. Con
ciò evidentemente si dà anche un giudizio sulla gran parte della poesia
classica dei Greci, sia drammatica che lirica. Euripide, e già prima Saffo,
non fanno altro che descrivere tali passioni.
Presupposto di ogni terapia delle passioni è l'esatta diagnosi di ogni
singolo caso. Non basta identificare la passione dalla quale l'anima è
affetta; è importante anche stabilire con quale intensità essa viene col
pita. Anche per questo la Stoa possiede uno schema e non c'è da stupirsi
che esso si attenga strettamente a categorie mediche.
Oltre alle crisi acute, esistono tre stati morbosi della passione. Il
primo è la disposizione a una determinata malattia. Un uomo può avere
la disposizione ad andare facilmente in collera, un altro tende piuttosto
alla golosità. In secondo luogo possono instaurarsi stati morbosi dure
voli. Frequenti crisi di collera provocano irritabilità, il bere ripetuta
mente provoca l'ubriachezza. Certo, possono anche esserci malattie della
ragione, dovute non a desiderio ma a repulsione aberrante. Esempio
tipico ne è la misoginia e, più in generale, la misantropia.
.
In terzo luogo, si danno stati morbosi che sono accompagnati da
una particolare debolezza e che costituiscono pertanto, in certa misura,
delle invalidità acquisite.
Misure terapeutiche per tutti questi casi sono state formulate soprat
tutto da Crisippo 9. Per prima regola, come in medicina, egli distingue la
profilassi dalla cura del malato. La profilassi si fonda su due principi: il
primo, attinto all'antica saggezza greca, suggerisce che bisogna sempre
tener fermo il convincimento della fragilità, mutevolezza e caducità delle
cose umane; e dunque che bisogna aspettarsi in ogni tempo tutto ciò che
lO EPIC. Ratae sento XXIX, tr. it. di M. Isnardi Parente in Opere di Epicuro cit., p. 20 I .
11 ID. Ibid. XXVI, tr. it. cit., p. 200.
12 ID. Ibid. XV, tr. it. cit., p. 198.
274 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
La comunità umana
CIò che noi oggi chiamiamo amicizia riveste già nella riflessione prefiloso
fica dei Greci un ruolo di eccezionale importanza. A partire dalla fine del
VII secolo a.c., epoca dalla quale comincia la nostra conoscenza storica
del mondo greco, questo presenta dal punto di vista politico e sociale
continui mutamenti. Gli stati greci sono in lotta gli uni contro gli altri e,
al loro interno, le rivoluzioni si succedono alle rivoluzioni. Le fondazioni
di colonie e le guerre contro i popoli non greci finiscono per accrescere
l'agitazione. Quando il singolo vuoI farsi valere, cerca anzitutto di fare
esclusivo assegnamento su sé stesso ed è indotto a costituirsi da sé la base
della sua potenza. In questa situazione si formano due poli contrapposti
di valori dei quali dobbiamo ora occuparci. Il primo di essi è l'unione
liberamente scelta di uomini accomunati dagli stessi sentimenti (ossia da
ciò che si chiama amicizia), la cui fidatezza tanto più viene apprezzata
quanto più confusi si fanno tutti i rapporti esterni. Dall'altro lato sta
l'ideale dell'autarchia per il quale l'individuo organizza la propria vita in
modo da non dover dipendere né dover ricorrere a nessuno.
Per quanto riguarda l'autarchia, si pone la questione se essa sia
attuabile nei fatti. Nessuno dei Greci ha mai dubitato che essa fosse un
bene inestimabile, nel caso che si potesse effettivamente realizzare.
Quanto all'amicizia, essa dà luogo ad una quantità di problemi.
Come nasce e che cosa è propriamente l'amicizia? Come si conserva?
Fino a che punto essa può e deve spingersi? Come si distinguono i veri
dai falsi amici? E cosÌ via.
Quest'ultimo problema ha occupato un posto straordinariamente
importante nella riflessione prefilosofica. Questa contrapponeva all'amico
l'adulatore come pericoloso antagonista. L'adulatore dice solo ciò che
piace (ragion per cui si è potuto fare la caricatura, ad esempio, della poesia
o dell'etica del piacere quali « arti adulatorie » ) , mentre il vero amico si
riconosce dal fatto che ha il coraggio di dire anche le verità spiacevoli.
L'intrepida franchezza è uno dei più nobili tratti distintivi dell'amico
autentico e, più tardi, del filosofo autentico.
Non sappiamo se e in che maniera la Sofistica ha trattato questo
tema. Viceversa dalla Socratica ci sono pervenuti numerosi scritti sull'ar-
276 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
bene. Il che vale non solo per il Liside ma anche per l'assai più celebre
Simposio.
Queste prospettive si dovevano qui necessariamente richiamare, per
ché esse derivano da un complesso di problemi che è d'importanza
centrale nel dominio dell'etica. Si parte anzitutto dalla premessa che è
assolutamente impossibile l'amicizia con un malvagio o tra un malvagio
ed altri malvagi (il che porta tra l'altro alla conseguenza che uomini
malvagi non possono formare tra loro una comunità politica durevole) .
La Stoa professa la stessa dottrina, mentre la posizione di Aristotele è
più sfumata. In secondo luogo Platone sembra stabilire il principio che
tra due esseri perfetti non può esistere amicizia, giacché ciò che è
perfettamente buono basta a sé stesso. Inoltre può esistere un'amicizia di
A imperfetto verso B perfetto, ma non il contrario (il che solleva
evidentemente difficoltà di ordine teologico) . In terzo luogo infine,
l'amicizia di A imperfetto non è semplicemente espressione della sua
manchevolezza; essa non esiste soltanto perché e nella misura in cui A
ha bisogno di completamento e di aiuto. Abbiamo piuttosto a che fare
con un'inclinazione originaria, all'amore verso il perfetto che sfocia non
in un desiderio ma in un puro atto di omaggio.
A differenza di Platone che, nella sua dottrina dell'amicizia e dell'a
more, trapassa costantemente nell'ontologia - mentre, come abbiamo
visto, nella cosmologia egli dà, per cosÌ dire, un posto di centralità alle
categorie etiche - Senofonte rimane rigorosamente nell'ambito dell'e
tica. Quando egli fa parlare Socrate sull'amicizia - il che capita spesso
- gli mette in bocca il linguaggio dell' ateniese di buona famiglia, consa
pevole del valore della tradizione, che dà grande importanza ai corretti
rapporti sociali; e anche ·quello dell'ufficiale che sa apprezzare il valore
dei compagni fidati e onesti e che ha molto riflettuto sul modo di
conqui ;tarseli e conservarseli.
Presupposto di ogni amicizia è naturalmente la virtù. In Senofonte
essa di preferenza comprende il dominio di sé, la resistenza fisica e
l'autosufficienza; a queste virtù si aggiungono, in particolare, la libertà
dall'avarizia e dalla prodigalità, come anche la volontà di beneficare gli
altri e di contraccambiare, per gratitudine, il bene ricevuto.
Il significato di ogni amicizia consiste nel rendersi utile. Si sceglie
come amico colui al quale si può riuscir utili, e si è degni dell'altrui
amicizia nella misura in cui si può esser utili. Con questo concetto di
« utilità », che Platone sfugge ma che la Stoa ha fatto proprio, Senofonte
intende sia la capacità di educare alla virtù o di rimettere sulla giusta via
. l'uomo soggetto a sbagliare, sia la disposizione ad assistere col consiglio
e con l'opera chi trova difficoltà a prendere una decisione o versa in uno
stato di bisogno senza sua colpa. Utile riesce pertanto l'uomo prudente e
278 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
7 EPIC. Ratae sento XXVII, tr. it. di M. Isnardi P arente in Opere di Epicuro cit., p 200 . .
Tra i saggi tutti i beni sono comuni. Il saggio è anche il solo a poter
realmente fare e ricevere regali. È naturalmente escluso che possa esserci
amicizia tra lui e lo stolto. Il saggio non sopporterà neppure di passare
per compagno di viaggio, collaboratore o concittadino dello stolto.
La Stoa ha tuttavia integrato queste massime sul saggio che è il solo
realmente capace di amicizia, con un'etica del perfezionamento per la
quale l'uomo può agire se non secondo la virtù almeno secondo la
convenienza. Saggi sulla corretta maniera di dare e di ricevere, ispirati in
parte da Senofonte, furono composti da Cleante, Crisippo e da stoici
più tardi. La loro dottrina è stata accolta in un'ampia opera, a noi
pervenuta, dello stoico romano Seneca I O. Essa dimostra come la stessa
Stoa non si sia potuta sottrarre all'obbligo di fornire consigli per una
sfera dell'esistenza che sta al confine tra l'etica e le regole della conve
nienza sociale.
Stranamente negli scritti degli Stoici che ci sono pervenuti non si fa
mai parola del conflitto tra autarchia e amicizia, del quale già tanto si
era occupato Aristotele. Colpisce anche l'affermazione della Stoa contro
Aristotele, secondo la quale per il saggio è desiderabile il possesso del
maggior numero possibile di amici. Questa tesi è in certo modo con
nessa col fatto che gli Stoici attribuiscono al loro saggio un genere di
perfezione che Aristotele respinge, perché essa oltrepassa i limiti che
l'esperienza assegna all'uomo.
Lo stato
spiegare come sia possibile un tale distacco. In realtà esso resta inspiega
bile, così come inspiegabile resta la caduta dell'anima, che vive in compa
gnia: degli dèi, nel mondo corporeo. Uno stato di perfetta felicità è infatti
anche invulnerabile, ed una condizione felice che porta in sé i germi della
decadenza non è, per l'appunto, perfetta. Insomma, Platone ammette che,
una volta o l'altra, nello stato perfetto vengano trasgredite le prescrizioni
relative alla procreazione dei figli. Così vengono al mondo individui
degeneri, che si rivoltano contro la generazione precedente. Si giunge
pertanto alla formazione della proprietà privata, le cui conseguenze sono
le inclinazioni bellicose e l'avidità occulta. Non si ha più il dominio dei
migliori (aristocrazia) ma quello degli ambiziosi (timocrazia) . Questa
seconda forma costituzionale è distrutta da una terza nella quale conta
solo la ricchezza. Diventano allora capaci di governare solo quelli che
possono dimostrare di avere grandi ricchezze. Platone designa questa
forma di governo col nome di « oligarchia » (propriamente « governo dei
pochi » ) . Essa è distrutta a sua volta da una quarta forma, ancora peggiore.
La ricchezza genera avari che si fanno sempre più ricchi e scialacquatori
che vanno in rovina. Quando la massa dei poveri e di quelli ridotti in
miseria è troppo grande, essi si uniscono insieme in un movimento
rivoluzionario e spodestano i ricchi. N asce la democrazia, cioè il governo
delle maggioranze costituite da nullatenenti, forma costituzionale nella
quale ciascuno in piena libertà può fare e lasciar fare quel che gli piace. N e
risulta un eccesso di libertà che sfocia nell'anarchia, che adduce a rovina
questo regime e dà luogo alla quinta e ultima forma costituzionale, la
peggiore di tutte: la tirannide. Essa sorge per il fatto che il popolo,
sebbene sovrano, non si sente mai pienamente sicuro di sé e fa allora
appello a un capo che lo guidi e lo protegga. Questi ottiene dal popolo
una fiducia cieca ed è sufficientemente privo di scrupoli per non esitare a
rafforzare la sua posizione. Egli comincia pertanto come mandatario del
popolo, per diventare infine il suo signore assoluto. Così questo processo
giunge al termine. Il tiranno è, sotto tutti gli aspetti, l'assoluto contrario
del reggitore filosofo dello stato perfetto; egli è l'uomo nel quale i desideri
sfrenati hanno distrutto ogni forma di virtù.
Platone ha cercato, in questo quadro, di fondere insieme in una
sintesi grandiosa esperienze storiche e speculazione filosofica. Nella de
scrizione del regime democratico egli ha evidentemente pensato alla sua
patria Atene, alla cui rovina ha personalmente assistito. Nelle sue conside
razioni sull' oligarchia e la timocrazia si colgono allusioni a Sparta, ma
tutto l' insieme è dominato dal contrasto sconvolgente tra stato dei filosofi
e tirannide.
Vanno menzionati ancora due problemi. In primo luogo appare
strano che in questo quadro non figuri la monarchia, poiché non può
LO STATO 291
dirsi affatto che essa s' identifichi con la tirannide. È lecito allora sup
porre che lo stato perfetto possa essere inteso o come il dominio di un
gruppo costituito dai migliori o come il dominio dell'unico migliore;
oppure ancora che Platone - come a volte è accaduto in epoca succes
siva - abbia considerato la monarchia di tipo omerico, quella dell'antica
Persia o della Macedonia, come una forma di governo in certo modo
preistorica.
In secondo luogo vorremmo sapere quale significato dare a questo
quadro nel suo insieme: se esso intende rappresentare un processo sto
rico necessario che trova il suo sbocco inevitabile nella tirannide, o se si
tratta solo di un moto evolutivo possibile in linea di principio. E
ancora: esiste una via di ritorno dalla tirannide? Platone lascia senza
risposta tutti questi interrogativi. Interviene a questo punto il lavoro dei
suoi discepoli, interpreti e critici, i quali si sforzano di chiarire, semplifi
care, integrare. Nel De republica di Cicerone troviamo uno dei possibili
sviluppi di queste questioni. In quest'opera viene delineato un ciclo
evolutivo che passa attraverso le tre forme costituzionali buone e le tre
cattive, e cioè: monarchia-tirannide; aristocrazia-oligarchia; democrazia
oclocrazia. In esse si cerca anche di definire, più realisticamente di
quanto abbia fatto Platone, lo stato perfetto come commistione equili
brata delle tre forme di governo: monarchia, aristocrazia, democrazia.
All'inizio dell'età ellenistica questo modello di stato fu identificato con
l' antica Sparta; nella tarda antichità con Roma.
Dobbiamo rinunciare a riferire particolareggiatamente sulla seconda
grande opera politica di Platone. I dodici libri delle Leggi, nonostante la
loro enorme complessità, hanno esercitato nel mondo antico un'in
fluenza quasi altrettanto grande di quella della Repubblica. Ciò potrebbe
spiegarsi col fatto che Platone in essa abbandona stranamente e in parte
inspiegabilmente la base antologica del suo pensiero, ossia la scienza del
bene, a tutto favore di un serio sforzo di comprensione dei dati di fatto
reali. L'accento batte non più sulla costruzione dello stato ottimo, ma
sulla giusta educazione del buon cittadino. In questa prospettiva Platone
vi tratta minutamente le più svariate questioni della vita quotidiana.
L'opera rappresenta pertanto uno dei più importanti documenti delle
teorie pedagogiche antiche.
Le ricerche politiche di Aristotele che ci sono pervenute, costitui
scono un complesso faticosamente messo assieme di progetti diversi. Per
alcuni aspetti egli è vicino a Platone. Anche Aristotele infatti ha cercato
di costruire il disegno di uno stato perfetto, ma nella sostanza la distanza
da Platone è certamente assai grande: meno in ciò che dice che in ciò
che pensa. Aristotele fin da principio tiene conto dell' esperienza storica
in tutta la sua ampiezza. Con l' aiuto di quest'esperienza egli intende
292 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA
Accademia, scuola di P latone: 69, 76, 8 1 , 68, 7 1 , 78, 79, 80, 8 1 , 86, 87, 88, 89, 9 1 ,
86, 87, 8 8 , 93, 94, 9 5 , 1 05, 1 1 4, 1 1 8 , 1 2 1 , 92, 94, 9 5 , 96, 1 02 , 104, 105, 1 06, 1 1 0,
1 2 3 , 142, 1 5 1 , 1 69 , 1 7 3 , 1 7 5 , 2 1 1 , 2 3 3 , 1 1 1 , 1 1 4, 1 1 5 , 1 1 6, 1 1 7, 1 1 8, 1 22, 1 2 3 ,
236, 24 1 , 293 1 24, 126, 1 3 3 , 1 34, 1 36, 1 40, 1 4 1 , 1 42,
Agostino, platonico c ristiano, 3 54-430 d.C.: 1 47, 1 48 , 1 49, 1 50, 1 5 1 , 1 52, 1 53 , 1 54,
79. 1 5 5 , 1 56, 1 57, 1 5 8 , 1 60, 1 67, 1 68 , 1 70,
Alcibiade, statista ateniese, ca. 450-404: 3 1 , 1 7 1 , 1 73 , 1 74, 175, 1 76, 178, 1 83 , 1 8 5 ,
45, 56, 77 1 86, 1 87, 1 88 , 1 9 1 , 195, 1 9 9 , 200, 20 1 ,
Alcmeone, pitagorico, ca. 520-450: 1 37. 202, 203, 204, 206, 207, 208, 2 1 0, 2 1 1 ,
Alessandro il Grande, re macedone, 3 56- 2 1 3 , 2 1 7, 2 1 8 , 2 19 , 220, 222, 223, 224,
323: 47, 56, 58, 77, 1 1 5 , 1 3 3 , 1 3 6 225, 228, 230, 235, 237, 24 1 , 242, 244,
Anassagora, filosofo ionico, c a . 5 1 0-430: 27, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 2 5 1 , 252,
43, 64, 95, 1 0 1 , 103, 105, 1 34, 148, 1 52, 254, 255, 256, 258, 26 1 , 262, 263, 266,
1 73 , 1 8 1 , 182, 1 83 , 1 84, 194, 1 9 5 , 1 96, 273, 277, 280, 28 1 , 282, 284, 286, 289,
1 99, 229, 257 29 1 , 292, 293
A nassarco, filosofo ionico, ca. 3 70-3 1 0 : 56 Aspasia, amica di Peride e di Socrate, ca.
A nassimandro, filosofo ionico, ca. 6 1 0-540: 470-420: 48
32, 33, 56, 63, 64, 92, 96, 1 02 , 1 3 1 , 1 33 , Atlante, personaggio mitico: 47
1 34, 1 66, 1 68 , 1 70, 1 72 , 1 7 3 , 1 77, 1 79 , Atomismo: 1 52 , 1 54, 168, 1 7 1 - 1 73 , 178,
1 80, 1 8 1 , 1 9 3 , 1 94 1 82, 1 83 , 1 88, 2 1 6
Anassimene, filosofo ionico, ca. 580-520: Augusto, imperatore romano, 6 3 a.C.- 1 4
33, 1 66 1 68 , 1 69, 1 73 , 1 79, 1 80 d . C . : 5 7 , 60, 6 1
A ntigono, scrittore di ritratti di filosofi, ca.
320-250: 94 Bellerofonte, personaggio mitico: 47
Antistene, discepolo di Socrate, ca. 440- Bione, peri patetico, filosofo popolare, ca.
370: 22, 29, 59, 7 1 , 78, 8 3 , 93, 95, 96, 320-250: 75
107, 2 5 1 , 256
Arcesilao, accademico, ca. 3 20-240: 76, 1 1 4, Callide, amico di Socrate: 107
1 42 Carneade, accademico, ca. 2 1 0-230: 76, 77,
Archelao, filosofo ionico, ca. 480-4 1 0 : 1 42
96,97 Catone il Censore, statista e scrittore roma
Archita, pitagorico, ca. 440-360: 94 no, 234- 1 49: 60
Aristippo, discepolo di Socrate, ca. 430- Catone Uticense, stoico romano, 94-46: 60,
360: 22, 27, 29, 67, 68, 7 1 , 83, 95, 96, 2 6 1 , 263
232, 240, 2 4 1 , 242, 243, 258, 274, 276, Cesare, statista e scrittore romano, ca. 1 00-
278, 279 44: 60
Aristofane, commediografo ateniense, ca. Cicerone, statista, oratore e filosofo roma
445-380: 44 no, 1 06-43: 44, 56, 60, 78, 79, 80, 82, 8 8 ,
Aristone, stoico, ca. 330-260: 45 89, 93, 1 06, 1 19, 1 26, 1 3 3 , 2 4 8 , 261 , 263 ,
Aristosseno, pitagorico e peripatetico, ca. 268, 278, 280, 2 9 1 , 293
370-300: 94 Cleante, stoico, ca. 330-230: 88, 89, 1 1 8 ,
Aristotele, 3 8 4-32 1 : 1 2 , 18 19, 20, 2 1 , 22, 1 58 , 202, 2 8 3
25, 26, 27, 2 8 , 29, 33, 40, 4 1 , 43, 44, 45, Cratete, cinico, c a . 360-300: 2 2 , 4 8 , 68, 8 3 ,
46, 47, 49, 52, 53, 55, 5 8 , 59, 65, 66, 67, 108
296 INDICE DEI NOMI ANTICHI
Cratilo, seguace di Eraclito, ca. 470-400: 1 74, 177, 180, 1 8 1 , 1 87, 1 8 8 , 194, 195,
103, 105 1 96, 20 1 , 202, 203, 2 1 2
Creso, re di Lidia, ca. 6 1 0-540: 77 Ermippo, autore d i biografie d i filosofi, ca.
270-200: 94
Dario, re di Persia, ca. 550-485: 49 Erodoto, storico ionico, ca. 480-420: 34,
Democare, politico ateniese, ca. 3 50-300: 43 1 32, 286
Democrito, filosofo ionico, ca. 460-390: 1 8 , Eschilo, poeta tragico ateniese, ca. 530-455:
32, 4 7 , 53, 6 5 , 7 0 , 85, 9 1 , 9 5 , 9 6 , 97, 1 48
103, 1 1 4, 132, 1 40, 1 5 1 , 1 69 , 172, 1 73 , Eschine, discepolo di Socrate, ca. 430-360:
1 83 , 1 86, 193, 1 9 6 , 200, 206, 2 0 7 , 2 1 0, 77, 78, 96, 289
2 1 9, 222, 229, 230, 235, 257, 262, 268, Esiodo (VIII-VII sec. a.C): 32, 33, 63, 64,
274 1 1 4, 1 3 1 , 1 3 5 , 165, 1 67, 1 79, 1 80, 1 8 1 ,
Demostene, politico ateniese, ca. 3 80-32 1 : 1 84, 193, 1 94, 202, 203, 260
43, 60 Euclide, discepolo di Socrate, ca. 430-370:
Deucalione, personaggio mitico: 1 73 95, 96
Dicearco, peri patetico, ca. 360-300: 5 8 Eude mo, filosofo peripatetico, ca. 3 70-300:
Diogene di Apollonia, filosofo ionico, ca. 88, 92, 1 3 6
450-3 70: 197 Euripide, poeta tragico ateniese, c a . 480-
Diogene Laerzio, storico della filosofia (II 407: 136, 148, 1 9 3 , 220, 265, 2 7 1
sec. d.C): 96, 97 Evemero, filosofo popolare ellenistico, ca.
Diogene di S inope, cinico, ca. 3 80-320: 2 1 , 3 30-270: 207
22, 27, 29, 59, 68, 8 3 , 94, 1 0 1 , 1 07, 108,
1 1 4, 1 1 5, 1 47, 1 49, 262 Falaride, signore di Agrigento (VI sec.):
Diomede, eroe dell'Iliade: 1 07 137, 2 6 1
Dionisio I, ca. 440-368 e D. II, ca. 400-340, Fedone, discepolo di Socrate, c a . 420-360:
re di Siracusa: 23, 58, 77 69, 95, 96
Diotima, sacerdotessa di Mantinea e mae Ferecide, presunto filosofo greco delle ori
stra di Socrate: 48 gini (VI sec.): 96
Fetonte, personaggio mitico: 47, 1 73
Eleati, gruppo di filosofi presocratici (Par Filippo, re macedone, ca. 3 80-336: 1 1 5
menide, Zenone, Melisso): 232
Empedocle, filosofo siciliano, ca. 500-430: Gorgia, sofista, ca. 480-390: 4 1 , 66, 103,
64, 71, 1 0 3 , 1 26, 127, 148, 1 74, 1 8 1 , 1 82, 230, 23 1 , 266
1 84, 1 85 , 203, 2 1 1 , 2 1 3 , 2 1 9, 225, 229,
230 Ierone, re di S iracusa, ca. 530-460: 77
Eolo, personaggio mitico: 47 Ione di Chio, pitagorico (V sec.): 76, 1 02
Epic uro ( 3 4 1 -2 7 1 ) e la sua scuola: 2 8 , 48,
64, 65, 68, 79, 80, 8 1 , 8 3 , 87, 93, 94, 96, Leucippo, filosofo ionico, ca. 500-420: 1 40,
97, 104, 1 06, 1 07, 1 09, 1 1 1 , 1 1 8 , 1 1 9, 1 72, 1 83
1 2 3 , 126, 1 4 1 , 1 4 8 , 1 49, 1 55 , 1 56, 1 60, Licurgo, legislatore spartano: 205
1 6 1 , 1 67, 1 70, 172, 173, 1 74, 175, 1 7 8 , Luciano, scrittore greco, 1 20- 190 d.C: 76
1 86, 1 87, 1 92, 1 9 3 , 1 96, 1 99, 200, 20 1 , Lucrezio, poeta e filosofo romano, ca. 1 00-
202, 204, 205, 2 1 0, 2 1 2 , 223, 224, 225, 55: 64, 1 48
230, 235, 236, 239, 24 1 , 242, 243, 246,
256, 26 1 , 262, 263, 272, 273, 274, 279, Marco Aurelio, i mperatore romano e filo
280, 282, 293 sofo, ca. 120- 1 80 d.C: 1 58, 247
Epitteto, stoico, ca. 60- 1 30 d.C: 158 Mecenate, cavaliere romano, ca. 69-8: 70
Eracle, eroe mitico: 72, 1 37, 203, 2 1 7 Menandro, com mediografo ateniese, 343-
Eraclide, platonico, ca. 400-320: 196 29 1 : 60
Eraclito, filosofo ionico, ca. 540-460: 28, Menippo, cinico, ca. 300-230: 75
32, 48, 64, 88, 93, 96, 1 03 , 1 1 4, 127, 1 58, Minosse, mitico legislatore di Creta: 205
INDICE DEI NOMI ANTICHI 297
Moco, presu nto filosofo fenicio delle origi Polibio, statista e storico, ca. 220- 1 30: 59,
ni: 47 60, 292, 293
Mosè, personaggio biblico (XIII sec.): 205 Pompeo, statista romano, 107- 1 48 : 60
Museo, poeta mitico e filosofo ateniese del Posidonio, stoico ca, 1 30-50: 26, 29, 30, 47,
le origini: 63 60, 89, 92, 1 1 4, 1 2 5 , 133, 1 66, 1 75 , 1 76,
202, 203, 205, 2 1 2 , 224, 225, 225
Neoplatonismo: 126, 263 Prometeo, semidio greco: 47
Numa Pompilio, presu nto re di Roma
Protagora, sofista, ca. 490-420: 66, 207, 230,
(VIII sec.): 205 23 1 , 232
Odisseo, eroe dell' Odissea: 29, 7 1 , 1 37, 240 Romolo, presunto re di Roma (VIII sec.):
Omero (IX-VIII sec.): 16, 54, 55, 1 1 3 , 1 1 4, 1 19
1 76, 194, 195, 197, 203 , 2 1 5 , 2 1 6, 2 1 7,
2 1 8, 225 Saffo, poetessa greca, ca. 640-5 80: 2 7 1
Onesicrito, storico e filosofo cinico, ca. Sallustio, storico romano, 86-35 : 60
3 70-3 1 0 : 59 Santippe, moglie di Socrate: 268
Orazio, poeta romano, 65-8 : 5 1 , 70, 240 Sardanapalo, ultimo re assiro secondo la
Oreste, eroe greco: 40, 1 36, 1 3 7 tradizione greca (VII sec.): 1 37, 242
Orfeo, cantore e poeta mitico: 63, 2 1 8 Satiro, scrittore di biografie, ca. 250- 1 70: 94
Scepsi: 1 05
Panezio, stoico, c a . 1 70- 1 10: 1 2 5 , 1 3 3 Scipione Emiliano, statista romano, ca.
Parmenide, filosofo presocratico, c a . 500- 1 80-129: 60
440: 1 8 , 25, 4 1 , 64, 85, 1 02 , 103, 1 57 , Seneca, scrittore e filosofo romano, 4-65
1 66, 1 69 , 1 7 3 , 1 77 , 1 80, 1 8 1 , 1 82 , 1 8 3 , d.C.: 7 1 , 8 1 , 1 5 8
1 94, 1 96, 2 1 9, 229, 340 Seniade, filosofo eleatico ( V sec.): 103
Pericle, statista ateniese, ca. 4 80-428 : 3 1 Senocrate, accademico, ca. 3 8 0-320: 69
Peripato: 59, 89, 92, 9 3 , 95, 1 2 3 , 1 2 5 , 1 36,
Senofane, filosofo e teologo ionico, ca. 560-
142, 1 69 , 1 7 1 , 1 7 3 , 209, 2 1 0, 2 1 6, 223,
470: 32, 53, 64
2 3 5 , 244, 253, 263, 292, 293
Senofonte, storico e scrittore, amico di So
Pirrone, ca. 3 50-270: 66, 76, 77, 94, 96, 1 42
crate, ca. 425-350: 2 8 , 29, 59, 68, 69, 78,
Pitagora, ca. 5 70-500: 22, 46, 47, 49, 70, 75, 96, 106, 1 1 4, 1 1 5 , 1 5 5 , 165, 1 7 1 , 1 76,
76, 77, 8 3 , 85, 94, 96, 1 65, 1 96, 2 1 8 , 225, 1 77, 1 97, 239, 2 5 1 , 257, 276, 277, 278,
257, 268 283
Platone, 428-347: 12, 1 8, 1 9 , 22, 2 3 , 25, 26, Simonide, poeta lirico, ca. 530-460: 77
27, 2 8 , 29, 40, 4 1 , 44, 47, 4 8 , 5 3 , 5 8 , 65, Sisifo, personaggio mitico: 207
66, 67, 69, 70, 7 1 , 73, 75, 76, 77, 7 8 , 79, Smindriride, gaudente sibarita (VI sec.):
80, 8 1 , 8 3 , 86, 88, 89, 9 1 , 94, 96, 104, 1 37, 242
106, 107, 1 09, 1 1 5 , 1 1 6, 1 1 7 , 1 1 8 , 1 1 9 , Socrate, ca. 470-399: 25, 28, 29, 30, 43, 45,
1 2 1 , 1 2 2 , 1 2 5 , 126, 1 4 1 , 1 42 , 1 4 8 , 1 5 1 48, 56, 58, 59, 66, 67, 68, 69, 75, 76, 77,
1 52, 1 54, 1 55, 1 58 , 1 59 , 1 67, 1 69 , 1 70, 78, 8 3 , 86, 94, 95, 96, 97, 106, 1 07, 108,
1 7 3 , 174, 1 75, 1 77, 178, 1 83 , 1 84, 1 85 , 1 1 4, 1 1 5, 1 1 6, 1 1 7 , 1 4 8 , 1 52 , 1 58 , 1 9 5 ,
1 86, 1 87 , 1 9 3 , 1 96, 197, 1 9 8 , 199, 200, 2 1 6, 238, 2 5 0 , 253, 257, 258, 2 6 0 , 2 6 1 ,
2 0 1 , 202, 203, 204, 205, 2 1 0, 2 1 1 , 2 1 3 , 2 6 2 , 2 6 3 , 268, 2 7 6 , 2 7 7 , 2 7 8
2 1 7, 2 1 8 , 2 1 9 , 220, 222, 224, 225, 232, Sofistica: 59, 6 6 , 72, 77, 93, 1 0 6 , 1 59, 195,
2 3 3 , 234, 235, 236, 239, 240, 24 1 , 242, 207
243, 244, 248, 250, 252, 255, 257, 2 5 8 , Sofocle, poeta tragico ateniese, 470-406: 1 4 8
2 6 2 , 265, 2 6 6 , 2 6 7 , 268, 2 7 6 , 2 7 7 , 2 7 8 , Solo n e , statista e poeta greco, c a . 640-570:
286, 287, 2 8 8 , 289, 2 9 0 , 29 1 , 2 9 2 , 293
77
Plutarco, scrittore e filosofo, ca. 40- 1 20 Speusippo, accade mico, ca. 390-3 3 8 : 86, 1 1 8
d.c.: 7 8 , 1 2 5 , 1 40, 1 4 1 , 253
Sto a: 26, 28, 52, 65, 82, 89, 93, 94, 108,
Polemone, accademico, ca. 3 50-2 80: 45, 69 1 09, 1 1 0, 1 1 4, 1 1 9, 1 2 3 , 1 26, 127, 1 5 1 ,
298 INDICE DEI NOMI ANTICHI
1 56, 158, 1 59 , 1 6 1 , 1 6 5 , 1 66, 1 67, 168, Temistocle, statista ateniese, ca. 530-470:
1 69, 1 70, 1 7 1 , 1 72, 1 73 , 1 7 5 , 1 76, 1 77, 268
1 78, 1 87, 1 88 , 197, 20 1 , 202, 203, 2 10, Teodoro, cirenaico, ca. 360-2 80: 279
2 12, 2 1 4, 2 1 6, 220, 223, 236, 242, 246, Teofrasto, peripatetico, ca. 360-280: 47, 48,
247, 250, 253, 254, 255, 256, 259, 26 1 , 8 8 , 92, 93, 125, 1 26, 1 32, 1 3 3 , 1 36, 1 42 ,
262, 265, 268, 269, 272, 277, 282, 283, 143, 1 5 1 , 1 79, 2 1 0, 2 1 1 , 2 1 4 , 292
293 Teopompo, storico, ca. 390-320: 59
Stratone, peripatetico, ca. 320-250: 225 Timeo, storico, ca. 3 30-250: 59
Tucidide, storico, ca. 470-403 :59, 286
Talete, filosofo ionico, ca. 630-570: 3 1 , 33,
34, 46, 47, 63, 70, 77, 95, 96, 1 1 4, 132,
135, 1 4 8 , 1 65 , 1 67, 1 94, 228, 257 Varrone, erudito e filosofo romano, 1 1 6-
Premessa 11
PARTE PRIMA
Capitolo primo
Considerazioni definitorie 13
Capitolo secondo
Divisione della filosofia antica 25
Capitolo terzo
Genesi storica delle parti della filosofia 31
Capitolo quarto
La condizione della filosofia nell'antichità 43
Capitolo quinto
L'influenza della filosofia sulla cultura antica 51
Capitolo sesto
Il ritratto del filosofo 63
Capitolo settimo
La forma dell'opera filosofica 75
Capitolo ottavo
Le scuole filosofiche 85
Capitolo nono
La storiografia filosofica 91
PARTE SECONDA
Capitolo primo
Paradosso ed evidenza 101
Capitolo secondo
Ragione e autorità 113
JCO INDICE
Capitolo terzo
Universale e singolare 121
Capitolo quarto
La provenienza del materiale filosofico 131
Capitolo quinto
Filosofare aperto e chiuso 139
Capitolo sesto
Il concetto di natura 145
Capitolo settimo
Causa e fine 151
Capitolo ottavo
Necessità e libertà 157
PARTE TERZA