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ESPERIENZE

0101 Gigon

PROBLEMI FONDAMENTALI
DELLA FILOSOFIA ANTICA

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GUIDA EDITORI
I Grundprobleme der antiken Philosophie, che ora appaiono per la
prima volta in edizione italiana, sono forse l'opera più originale
e certo di maggiore efficacia didattica di alof Gigon. Accolta,
fin dal suo apparire, dal generale favore della critica, essa è una
storia della filosofia antica per problemi rimasta finora unica nel
suo genere. Pur essendo il frutto di una rara competenza specia­
listica, l'opera è soprattutto destinata al vasto pubblico dei non
specialisti ai quali si offre come prezioso manuale introduttivo
allo studio dei fondamentali problemi del pensiero antico.

Nato a Basilea nel 1912, alof Gigon compl gli studi classici
presso le università di Basilea, Friburgo, Monaco e Parigi. Pro­
fessore universitario a ventidue anni, Gigon ha insegnato nelle
università di Basilea, Friburgo, Monaco e attualmente ricopre la
cattedra di filologia classica e di storia della filosofia antica
nell'università di Berna. Tra le sue principali opere si ricordano:
Untersuchungen zu Heraklit (1935); Der Ursprung der griechischen
Philosophie. Von Hesiod bis Parmenides (1945); Sokrates. Sein
Bild in Dichtung und Geschichte (1947); Die antike Kultur und
das Christentum (1966); Die antike Philosophie als Massstab und
Realitiit (1977).

In copertina Tavole dimostrative dei modi di lavorazione della sta­


tuaria in avorio di A.C. Quatremére de Quincy.

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ESPERIENZE

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Olof Gigon

PROBLEMI FONDAMENTALI
DELLA FILOSOFIA ANTICA
Traduzione di Luciano Montoneri

Guida editori
Napoli
Titolo originale dell' opera:

O. GIGON, Grundprobleme der antiken Philosophie, A. Francke Verlag, Bern 1959, pp.336.

Opera pubblicata col contributo del CNR.

© Copyright 1983 Guida editori s.p.a. Napoli


Grafica di Sergio Prozzillo
ISBN 88-7042-315-8
Introduzione all' edizione italiana

Fin dal loro apparire, nell'ormai lontano 1959, i Grundprobleme der


antiken Philosophie di Olof Gigon furono accolti dal generale favore della
critica che non mancò di sottolineare l'originalità dell'opera (una storia
della filosofia antica per problemi della quale non si avevano fin allora -
e non si hanno tuttora - esempi comparabili per qualità scientifica e
vastità di trattazione, la ricchezza e varietà dell'informazione culturale, la
prospettiva rigorosamente storica nella quale vengono costantemente consi·
derati la genesi e lo sviluppo dei «problemi» del pensiero antico). Venne
inoltre riconosciuto senza riserve all'Autore - specialista di fama interna·
zionale nel campo della filologia classica e della scienza dell'antichità - il
merito di aver scritto un'opera di divulgazione nel senso piu valido e
positivo del termine, atta ad aprire alla fruizione di un piu vasto pubblico
di lettori un settore tra i piu interessanti e vivi dell'odierna ricerca
storiografica, generalmente considerato di competenza esclusiva di una ri·
stretta cerchia di studiosi specialisti.
Certo, libri come questo del Gigon sono destinati a suscitare problemi
e interrogativi innumerevoli sul piano della riflessione critica; e i Grund­
probleme non si sono sottratti a tale destino.
Cost, ad esempio, ci si è interrogati sulla legittimità di una trattazione,
come quella del Gigon, che per un verso pretende, in certo modo, a un
carattere di completezza e di totalità e che per l'altro non può non imporsi
dei limiti che necessariamente vengono a escludere dal quadro d'insieme
parti che possono a buon diritto ritenersi essenziali (alcune delle «assenze»
maggiormente rilevate e lamentate riguardano il pitagorismo e il neoplato·
nismo).
Altri rilievi sono stati mossi nei confronti della struttura dell'opera, la
quale si divide in tre parti, rispettivamente intitolate: l. Posizione storica
della filosofut antica; 2. Nozioni fondamentali della filosofia antica; 3.
Problemi fondamentali della filosofia antica. Le «nozioni» - si è obiettato
- non pongono già per sé stesse «problemi» e questi non implicano anche
le «nozioni? È accettabile dunque un criterio che divide artificiosamente
ciò che nella realtà è inscindibilmente connesso, o che introduce distinzioni
sistematiche (jìlosofut della natura, etica, logica), sorte piu tard� nella
6 LUCIANO MONTONERI

considerazione della fase per cosi dire «aurorale» del pensiero filosofico
antico, col rischio - anche qui - di deformare, per eccesso di analiticità,
l'immagine complessiva di una realtà storico-culturale caratterizzata in
senso fortemente unitario?
Obiezioni siffatte, e altre ancora che si potrebbero muovere nella
medesima direzione, anche a non volerle contestare nel merito, appaiono in
qualche misura «scontate» per libri come questo che non possono fare a
meno - nella trattazione di una materia cosi vasta e complessa - di punti
di vista generali, di schemi inevitabilmente semplificator� di classificazioni
fatalmente cristallizzanti_ È evidente che, a lasciarsi dominare, in sede
critica, da preoccupazioni del genere al di là di un certo limite, si dovrebbe
coerentemente concludere per l'impossibilità di trattazioni generali siffatte,
comprese le stesse «storie» del pensiero filosofico-
Ci sembra pertanto piu proficuo svolgere - a proposito di questo libro
- un discorso in positivo, che miri a favorirne una comprensione piu
adeguata, muovendo (come finora non è stato fatto) dai presupposti teorici
di fondo che sembrano sorreggere il lavoro storiografico del suo A utore e
che stanno alla base della sua personale maniera d'intendere e interpretare
il significato e il valore globale del pensiero antico per entro lo svolgimento
storico della filosofza occidentale.
A tale scopo ci sembrano utili due saggi teorici pubblicati dal Gigon in
anni immediatamente precedenti l'uscita dei Grundprobleme. Intendiamo
riferirci al saggio intitolato Die Geschichtlichkeit der Philosophie bei
Aristoteles 1 e all'altro dal titolo Compiti attuali della storia della
filosofia antica 2, nei quali vengono enunciati alcuni concetti storiografici
che sono stati poi ripresi e sviluppati dall'Autore, in tutte le loro implica­
zioni, nella stesura del suo libro.
In particolare ci sembra importante il concetto della essenziale «stori­
cità» della filosofia, in forza del quale Gigon crede di poter accogliere la
tesi storicistica che non si può avere comprensione adeguata di una qualun­
que filosofza, se questa viene estrapolata dal contesto storico d'appartenenza,
se non se ne considerano gli antecedenti culturali che l'hanno condizionata
e gli influssi e condizionamenti da essa, a sua volta, esercitati sul successivo
svolgimento del pensiero. Ciò tuttavia non comporta, a giudizio del Gigon,
l'applicabilità del moderno concetto psicologico di sviluppo al pensiero dei

1 Apparso in «Archivio di filosofia », 1954, Quaderno I, dal titolo: La filosofza della


storia della filosofia (Dir. E. Castelli), Milano-Roma 1954, pp. 129-150.
2 Apparso sulla Rivista interno di scienze umane «Diogene »; pubblicato in italiano
nell'edizione italiana dello stesso periodico, 1954, N° 3, pp. 355-368, Fratelli Bocca
Editori, Milano-Roma.
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INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 7

filosofi antichi, dato che questi non possedettero l'idea di «svolgimento


spirituale» e pertanto non furono consapevoli del fatto che il loro stesso
filosofare potesse subire mutamenti piu o me' no
renziate fasi di sviluppo. Al contrario, per Gigon «l'uomo antico ha un
concetto assolutamente unitario di sé stesso e della sua opera, intesi come la
totalità omogenea di una 'vita'; se dunque Platone non ha rinnegato e
distrutto i suoi primi dialoghi, è perché non ha visto in essi nulla che
contrastasse in maniera veramente sostanziale con le opere della
maturità» 3. (Il che ovviamente non significa che uno sviluppo spirituale,
in termini oggettivi, non si sia avuto nel pensiero dei filosofi antichi, ma
solo che essi non ne ebbero adeguata consapevolezza).
Un secondo concetto caratterizzante la prospettiva storiografica del­
l'Autore è quello della «contemporaneità» o «attualità» del pensiero an­
tico e della sua presenza significativa nel pensiero contemporaneo. In propo­
sito cosi si esprime l'Autore: «È un fatto che la filosofia è, piu essenzial­
mente e piu costantemente di qualsiasi altra scienza, legata alla propria
storia. Ne risulta che l'interpretazione della filosofut antica sarà tanto piu
adeguata quanto piu si farà guidare dalla situazione filosofica del
presente» 4.
Questo concetto, la cui affinità con quello crociano della «contempora­
neità» della storia è del tutto evidente, influenza in larga misura la
trattazione che nei Grundprobleme vien fatta della filosofia antica come
fenomeno storico che racchiude in sé le chiavi per la comprensione della
filosofia presente. Su questo punto, particolarmente importante, il linguag­
gio del Gigon è perentorio: «In ultima analisi, la filosofia antica non
soltanto ha espresso concetti sulla conoscenza del mondo e dell'io di cui
anche la moderna filosofia deve tener conto; essa ha già formulato, anche su
punti di valore decisivo, quei quesiti che ancor oggi permangono tali. È
vero che il nostro pensiero è divenuto in parte piu differenziato e in parte
piu radicale ma ciò non impedisce che l'essenza di esso sia restata immu­
tata, dall'antichità sino ad oggi, con una costanza sorprendente. Può citarsi
in proposito, come un esempio grandioso tratto dai tempi piu vicini a noi,
l'opera di Nicolai Hartmann» 5.
Si può anche in parte dissentire da questi giudizi. Uno storicista
ortodosso, ad esempio, arriccerebbe il naso di fronte all'ultima afferma-

3 O. Gigon,Compiti attuali della storia della filosofia antica cit., p. 361.


4 O. Gigon, Die Geschichtlichkeit der Philosophie bei A ristoteles cito in La filosofia della
storia della filosofia cit., p. 129: «Dass die Philosophie wesentlicher und dauerhafter an
ihre eigene Geschichte gebunden ist als irgendeine andere Wissenschaft, ist eine Tatsache.
Daraus ergibt sich, dass die Interpretation der antiken Philosophie dann angemessesten
sein wird, wenn sie sich von der philosophischen Situation der Gegenwart leiten lasst ».

Citiamo la trad. ital. a cura di P.M. Nobile Ventura, compresa nel medesimo volume,
p. 151.
5 O. Gigon, Compiti attuali della storia della filosofia antica cit., pp. 356-7.
8 LUCIANO MONTONERI

zione che sembra legittimare una concezione del filosofare come philosophia
perennis, come riflessione cioè su un insieme di problemi che sono sempre
gli stessi pur nella varietà delle soluzioni che di volta in volte ne sono state
date.
Punto di vista, questo, che è chiaramente ribadito dall'Autore nella
Vorbemerkung ai Grundprobleme: «Si devono considerare i problemi
giacché, in ultima analisi, la storia della filosofta non è che la storia di un
numero non grande di problemi, originariamente dati» 6.
Tuttavia questa dichiarazione di principio non impedisce al Gigon di
sottolineare continuamente le distinzioni e le differenze (a volte anche
radicalij che separano il pensiero antico dal moderno. In tale compito egli è
grandemente agevolato dalla vasta e profonda conoscenza della civiltà ano
tica, nella varietà dei suoi aspetti (storici, letterari, scientifici, religiosi, etc.)
che gli fa scrivere pagine assai efficaci e puntuali sul ruolo della filosofia
nella cultura antica, sui suoi rapporti con la poesia, la religione e la
politica, sul ritratto del filosofo che si costrui la società del tempo, etc.
Un ultimo concetto storiografico, che Gigon fa suo senza riserve, è
quello relativo all'origine storica della filosofta a partire dai Greci. Si
tratta, com'è noto, di un concetto tradizionale della storiografia filosofica -
teorizzato per primo dallo Hegel e reso poi canonico da E. Zeller nella sua
classica opera Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen
Entwicklung ma che oggi può ragionevolmente apparire bisognoso di
-

una revisione o riformulazione critica. Tuttavia tale convincimento non


impedisce all'Autore di evidenziare, nel corso della sua esposizione, i molte­
plici contatti culturali avuti dai Greci con le civiltà straniere e gli influssi e
stimoli da essi esercitati sulla genesi del pensiero filosofico greco. Cost, ad
esempio, i primi filosofi ionici poterono esercitare la loro riflessione su
importanti fenomeni naturali come le inondazioni del Nilo o le eclissi,
utilizzando una serie di informazioni e di conoscenze in possesso dei popoli
orientali. E i richiami all'oriente, per spiegare il sorgere di determinate idee
filosofiche e scientifiche nella cultura greca (come, ad esempio, l'idea dell'u­
niversalità della filosofta o quella della molteplicità e relatività dei sistemi
moralij sono, nell'opera del Gigon, piuttosto frequenti.
Ma la ragione fondamentale della validità scientifica e dell'interesse
culturale che i Grundprobleme a nostro avviso ancora conservano, sta
nella solidità del metodo gigoniano - ancorato a una consumata perizia
filologica - col quale l'Autore tende a una le.ttura e a un'interpretazione
dei testi antichi, il piu possibile aderenti al pensiero dei rispettivi autori e
all'intelligenza che dovettero averne i contemporanei lettori 7; come anche

6 Cf. infra, p. 12.


7 O. Gigon, Compiti attuali della stona della filosofia antica cit., p. 358.
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INTRODUZIONE ALL EDIZIONE ITALIANA 9

nella sorprendente vastità della sua cultura «classica» che conferisce alla
ricostruzione storiografica una grande ricchezza e varietà di notazioni e di
richiami agli ambiti piu diversi della scienza dell'antichità, col risultato di
costruire un orizzonte assai ampio e arioso nel quale i «problemi» del
pensiero antico - ovviamente nella selezione fattane dal Gigon - mostrano
tutta la loro vitalità e capacità di sviluppo.
Su queste considerazioni si fonda il nostro convincimento - che ci ha
costantemente sorretti nell'intraprendere e nel portare a termine la tradu­
zione italiana dell'opera - che i Grundprobleme der antiken Philosophie
restino un libro tuttora vivo e stimolante, la cui lettura non potrà non
riuscire proficua, oltre che allo studioso specialista, anche e soprattutto a quei
lettori che nutrono un reale interesse alla conosce�za della filosofia antica, la
cui eredità spirituale è ancora ogg� in misura cosi rilevante - come giusta­
mente crede Gigon - lievito fecondo operante nel pensiero contemporaneo.

La presente traduzione è stata condotta sull'edizione originale tedesca: O.


Gigon, Grundprobleme der antiken Philosophie, Francke Verlag, Bern und Miin­
chen 1959.
Ci siamo sforzati di rendere in una forma italiana che fosse il piti possibile
limpida e scorrevole alla lettura il testo gigoniano, sempre perspicuo ma spesso
stilisticamente denso e concettoso, anche per il peculiare carattere della lingua
tedesca che tende, per effetto delle numerose parole composte, all'espressione
fortemente sintetica e abbreviata del pensiero.
Abbiamo tenuto altresl presente la traduzione francese dell'opera, curata
dall'abate M. Lefèvre (O. Gigon, Les grands problèmes de la philosophie antique,
Paris, Payot 1961), pur con la cautela imposta dalle non infrequenti sviste e
omissioni in essa ricorrenti. Oltre a quelle già rilevate dai recensori (come, ad
esempio, da R. Joly su «L'Antiquité classique", XXXI (1962), pp. 496-7), ne
ricordiamo alcune altre, tra quelle da noi riscontrate:
P. 12: « ... l'opinion du peuple ne s'exprime pas que sous la forme de
traditions... ». Dove, l'indebita presenza della particella « que » altera gravemente
il senso della frase.
P. 66, r. 1.: lacuna. Non viene tradotta l'espressione dell'originale (p. 62):
«Wie weit schon 150 Jahre vor Sallust im Geschichtswerk... ».
P. 84, r. 32: lacuna. Non viene tradotta la frase dell'originale (p. 79): «Es
bleibt ein Anspruch und eine Geste».
P. 86, r. 32: « aux dernièrs temps de l'hellénisme», trad. inesatta dell'origi­
nale (p. 81): « ... des friihen Hellenismus ».
P. 95, rr. 15-17: « Par ailleurs, on ne peut discuter le fact qu'Aristote a donné
à l'école une forme toute différente de celle que lui avait donnée Platon», che è
trad. inesatta e fuorviante della frase originale (pp. 89-90): « Auf der andern Seite
ist es ein nicht zu bestreitendes Faktum, dass Aristoteles die Schule Platons in
aller Form verlassen hat ", da noi resa: «Dall'altro lato è un fatto indiscutibile
che Aristotele abbandonò in tutta regola la scuola di Platone» (p. ).
P. 104, r. 28: « C'est un elève d'Aristippe... », trad. inesatta dell'originale (p.
99): «Ein Schiiler des Aristoteles... ».
E l'elenco potrebbe ancora continuare.
lO LUCIANO MONTONERI

Per quanto ci riguarda, abbiamo cercato di compiere un'attenta reVISIOne


della nostra traduzione, discutendo con l'Autore i punti del testo che potevano
presentare - quanto meno a un lettore italiano - qualche difficoltà interpreta­
tiva. Non ci illudiamo di aver evitato del tutto mende o inesattezze, ma
nutriamo la speranza che esse siano contenute in limiti accettabili.
Una delle lamentele piti diffuse e giustificate, mosse dalla critica ai Grund·
probleme der antiken Philosophie fin dal loro primo apparire, riguardava l'asso­
luta insufficienza dei riferimenti testuali. L'intero volume, che supera le 300
pagine, contiene infatti solo 26 citazioni di fonti. Tale carenza riusciva tanto
piti grave e fastidiosa, se commisurata alla ricchezza dei richiami ai testi antichi
che caratterizza l'intera trattazione.
Consapevoli di ciò, Autore e Traduttore hanno insieme collaborato ad
approntare un apparato di note di richiamo che - pur senza essere esaustivo in
assoluto - è tale da soddisfare in larga misura l'esigenza di documentazione di
un lettore interessato. Rispetto a quello dell'originale, il numero delle note
dell'edizione italiana appare infatti piti che decuplicato. Crediamo di aver
compiuto cOSI un lavoro utile alla completezza dell'opera.

LUCIANO MONTONERI
Premessa

Nel corso del tempo non mutano solo le filosofie ma anche i modi di
intenderne la storia. Una volta si era soliti disporre i sistemi filosofici
l'uno accanto all'altro, in scrupolosi quadri sinottici, cosicché l'osserva­
tore poteva muovere su di essi l'occhio, nella loro interminabile teoria,
come in un museo nel quale fossero esposti alla vista, in serie ordinate,
dei congegni meccanici ben luccicanti, assai ingegnosi e complicati, ma
da lungo tempo ormai fuori uso. Osserviamo peraltro che siffatte costru­
zioni hanno aperto la strada a importanti scoperte e perciò dobbiamo
ben guardarci dal sottovalutarne l'importanza. Tuttavia l'osservatore non
ha modo di apprendere, da nessuna parte, ciò che ha dato impulso alla
loro formazione, che cosa ne hanno pensato gli uomini del tempo, né
l'uso che ne hanno potuto fare. E sono per l'appunto queste le questioni
che oggi ci interessano.
Oggi non ci basta piu essere informati su questi sistemi di pensiero,
ma vorremmo piuttosto seguire la riflessione filosofica nel suo divenire e
nel suo agire storici: vorremmo sapere donde essa viene e dove conduce;
come è avvenuto che un dato pensiero è stato per la prima volta
espresso da un certo filosofo in un determinato contesto storico; e come
a questo pensiero, una volta espresso, hanno reagito sia gli stessi filosofi
che gli altri uomini ai quali il pensatore si è rivolto; quale influenza in
generale ha esercitato (o non ha esercitato) la filosofia sul corso del
divenire storico.
Queste sono all'incirca le questioni che appaiono oggi particolar­
mente importanti. Certamente noi non vorreJT.Imo essere annoverati tra
coloro ai quali nulla importa né della validità né della possibile giustezza
di un enunciato filosofico, e che riducono il faticoso progredire dell'in­
telligenza a uno spettacolare naufragio, per poi finire nella vuota desola­
zione di una mera �toricità. D'altra parte è ancor meno possibile elimi­
nare l'elemento «storicità» dalla più perfetta delle filosofie, giacché appar­
tiene all'essenza stessa di ogni filosofia mostrare quel che essa ha saputo
realizzare, per la sua parte, nell'operare concreto.
Noi vorremmo quindi vedere i sistemi filosofici, per così dire, in
aZIOne.
12 PREMESSA

Ciò comporta tre prospettive fondamentali. La prima è quella indi­


cata da questo libro: si devono considerare i problemi, giacché, in ultima
analisi, la storia della filosofia non è che la storia· di un numero non
grande di problemi, originariamente dati. Alcuni di questi s'impongono
con forza fin dai primordi; altri vengono alla luce più tardi, per vie
inconsuete e tortuose e solo nel corso di generazioni si chiarificano e si
differenziano tra loro, collegandosi ad altri problemi e possono essere da
questi offuscati o sembrare addirittura risolti ed eliminati come «falsi
problemi».
Parecchi dei problemi più importanti si presentano nella forma di
nOZlOnI.
Si pensi a termini come «natura», «fine», «causa», etc. La loro storia
verrà trattata nella seconda parte di questo libro. Nella terza parte,
infine, ci porremo il problema della forma storica della filosofia: che
cosa le varie epoche hanno inteso per filosofia, quali i limiti posti ad
essa, quale il suo ruolo nella costruzione dell'operare umano, quale la
sua influenza effettiva e quale è stata infine la posizione del filosofo nei
confronti della realtà sociale e politica.
La storia dei problemi è esistita già nell'antichità, accanto alla
esposizione dei sistemi filosofici; mentre solo nell'età moderna ha acqui­
stato rilevanza il problema della situazione storica della filosofia. In
passato la questione è stata accennata solo di rado e in osservazioni
occasionali: pertanto tenteremo qui di trattarla nalla dimensione ade­
guata. La nostra esposizione si articolerà cosÌ in tre parti. Nell'ordine
parleremo della filosofia antica come fenomeno storico, dei suoi concetti
e infine dei suoi problemi fondamentali.
Ancora un'osservazione. Al giorno d'oggi non è superfluo sottoline­
are con energia il fatto che la filosofia (sia come nome che come
contenuto oggettivo) è nata presso i Greci e che non si dà filosofia, nel
senso autentico del termine, se non ed esclusivamente all'interno della
tradizione che ci viene dai Greci.
Certo, a nessuno si potrà impedire di indicare come filosofia la
saggezza cinese o le speculazioni indiane, cosÌ come non si può vietare a
nessuno di far l'uso che crede del concetto greco di democrazia. Ma se si
vuole conservare al nostro patrimonio di concetti il suo giusto signifi­
cato, allora bisogna attenersi al contenuto che la storia ha dato agli stessi
e che ha messo a nostra disposizione. Noi certo non impediremmo a
nessuno di tenere nella più alta stima, per convinzione personale o
politica, i classici indiani o cinesi, ma si deve pur dire che questi non
hanno nulla in comune con ciò che noi - a partire da Platone e da
Aristotele - chiamiamo, per necessità storica, filosofia.
PARTE I

LA POSIZIONE STORICA

DELLA FILOSOFIA ANTICA


CAPITOLO PRIMO

Considerazioni definitorie

LA PRIMA questione che dobbiamo porci è quella di sapere che cosa


l'antichità ha chiamato col nome di filosofia. Tale questione è tanto più
legittima e stringente, quanto meno determinabile appare, fin dal princi­
pio, il dominio proprio della filosofia. La medicina, l'astronomia, l'arte
poetica sono attività la cui sfera di competenza è chiara a chiunque: essa
può estendersi o ridursi, ma nella sostanza non si presta ad alcun equi­
voco ed è fuori di ogni discussione. Si potrebbe perfino andar oltre e dire
che la medicina, l'astronomia e l'arte poetica sono esistite probabilmente
fin da quando esistono gli uomini; mentre la filosofia non è esistita da
sempre e la formulazione del suo oggetto è un'impresa tanto difficile
quanto scabrosa.
Se poi ci riferiamo ai Greci, dobbiamo procedere con molta cautela.
È vero che essi ci hanno lasciato tutta una serie di definizioni della
filosofia, ma prima di rivolgerci ad essi è bene tentar di determinare
l'elemento comune a queste definizioni. Nel significato più generale del
termine, questo elemento consiste nella pretesa di conoscere e insegnare la
verità su tutte le cose: il filosofo vuoI sapere ciò che il tutto realmente e
propriamente è. Pertanto non è filosofia l'opinione degli uomini che si
contentano delle impressioni più superficiali, ignorano i problemi più
importanti e rimangono in uno stato d'ingenua meraviglia dinanzi al
fenomeni più semplici.
Per tutta l'antichità la polemica dei filosofi si è rivolta contro la
moltitudine degli uomini che s'immaginano di sapere quel che in realtà
non sanno e che prendono a cuore cose di cui il filosofo già da tempo ha
compreso la futilità. Infatti, compito precipuo di costui è di penetrare
nella trama delle cose che sono oggetto di cieca credenza, per scoprire la
realtà che vi sta dietro. Questo concetto di realtà, sottolineato fin dall'ini­
zio in una ininterrotta polemica, è chiamato dalla filosofia greca col
termine «natura» (cpu(nç). La natura è il dominio che, comunque, sta
sempre dinanzi all'uomo e di fronte al quale ogni opinione appare vana ed
ogni artificio impotente. Essa è l'oggetto della filosofia che cerca infatica­
bilmente d'illuminarla.
16 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Quel che tuttavia rende difficile tale compito è il fatto che per i
filosofi greci l'opinione volgare non si esprime soltanto nella forma di
tradizioni, presunzioni o di stati d'angoscia infinitamente frammentari,
ma prende corpo piuttosto, in certa misura, nelle monumentali creazioni
della poesia. Ma la poesia, notoriamente, non ricerca la verità delle cose.
Essa inventa, anche quando le sue invenzioni hanno tutta l'apparenza
della realtà. La poesia non procura conoscenza ma piacere; essa racconta
ciò che l'uomo ama sentir raccontare, ciò che può avvincerlo, eccitarlo,
sedurlo. I suoi contenuti, come la sua forma espressiva, agiscono per una
sorta d'incantesimo. Ma la verità le resta indifferente. Ora non si dimen­
tichi che all'inizio della storia greca sta un poeta, Omero, la cui opera
non è certo una sorta di balbettamento da primitivo di cui i posteri
avrebbero conservato il ricordo con vergogna e commozione insieme
(come avvenne, per esempio, con le prime produzioni della poesia
latina). La sua opera, al contrario, fu giudicata dalla posterità come
l'inizio e insieme la vetta irraggiungibile di tutta la poesia greca. Nulla
può essere messo a confronto con l'autorità e l'influenza di Omero,
neppure la tragedia attica che spiritualmente fu una sua creatura. In tutti
i tempi la filosofia greca ha avvertito, in questa potenza della poesia
omerica, la sua più autentica e pericolosa nemica. Essa intende opporre
alle belle menzogne dei poeti la verità e null'altro che la verità; non
vuole incantare i suoi uditori, ma mostrar loro le cose come realmente
sono.
Siamo giunti cosÌ a un terzo punto che necessita di un chiarimento.
La poesia è antifilosofica non solo perché inventa, ma anche perché
cerca consapevolmente di conquistare la gente. Essa mira al successo, ed
ottiene il successo ciò che piace. La poesia ha in comune questa caratteri­
stica con un altro potere: la politica. Il filosofo ha di fronte a sé da un
lato il poeta, dall'altro il politico. Per quanto reciprocamente distinte
siano l'attività del poeta e quella del politico, esse tuttavia sono insieme
alleate contro il filosofo nel cercare non la verità ma il dominio delle
anime, e perciò poesia e politica restano legate alle opinioni e ai desideri
degli uomini. CosÌ il conflitto tra politica e filosofia si protrae lungo il
corso dei secoli, forse non cosÌ ininterrottamente come quello tra filoso­
fia e poesia, ma certo non meno violento.
Ora, sia nell'uno che nell'altro caso, non si tratta per la filosofia di
opporre una semplice resistenza, quanto piuttosto del tentativo, spesse
volte da lei compiuto, di sottomettere l'avversaria. E cosÌ la filosofia ha
prodotto programmi di poesia filosofica e di politica filosofica, pur
riconoscendo - è vero - di volta in volta l'inattuabilità di tali pro­
grammi. Tra la pretesa di conoscere le cose come realmente sono e l'arte
di ottenere il successo tra gli uomini, ogni compromesso si rivelava alla
CONSIDERAZIONI DEFINITORIE 17

fine impossibile. E tutte le volte che,nell'antichità, certi filosofi hanno


voluto screditare i loro avversari con l'accusa di essere falsi filosofi, lo
hanno sempre fatto sostenendo che costoro sacrificavano la verità al
successo del pubblico.
Tuttavia non ogni sforzo verso la verità può prendere senz'altro il
nome di filosofia. Basta qui semplicemente ricordare la storiografia an­
tica la quale in ogni tempo ha perseguito lo scopo, espressamente
dichiarato, di riferire i fatti come erano realmente accaduti, rinunciando
a lodare, a biasimare, a favoleggiare. Ora qual è la differenza tra la verità
dello storico e quella a cui guarda il filosofo?
La filosofia greca, dall'inizio alla fine, è stata dominata da due tipi
di problemi. In primo luogo si è posto il problema della «totalità». La
filosofia cerca d'intendere la molteplicità delle cose date come un tutto,
nel senso che in esse si debba scoprire un contesto significativamente
ordinato. L'individuo non esiste autonomamente per sé stesso, ma ha in
verità il suo posto determinato in un sistema chiuso. Se si tratta del
mondo degli oggetti, questo sistema si dispiega nello spazio e nel tempo;
se si tratta dei valori, abbiamo a che fare con una gerarchia spirituale.
Facciamo ancora un passo avanti: riella categoria del tempo, la filosofia
greca si domanda che cosa è esistito ai primordi e dopo; essa cerca
d'illuminare il cammino che dalle origini conduce allo stato di differen­
ziazione attuale del mondo, per inferirne una sorta di processo genealo­
gico. Nella categoria dello spazio, essa intende il mondo come un corpo
finito che viene tenuto entro limiti determinati. Al suo interno questo è
organizzato o come un'opera d'arte o come un organismo vivente.
Non altrimenti accade per il mondo dei valori. Anche qui la filoso­
fia comincia con l'ordinare i valori in un sistema, sforzandosi di trovare
un valore originario in rapporto al quale si ordinano, secondo la relativa
distanza, tutti gli altri valori.
Come appare evidente, sono tre i concetti continuamente ricorrenti:
quello di «tutto», quello di «ordine» e quello di «principio ». Sono
essi a guidare la ricerca filosofica verso la verità.
Ancora qualche osservazione in proposito: il concetto di «princi­
pio» è quello sul quale - potremmo dire - cade più forte l'accento
polemico. Il principio non è solo il primo anello di una serie, ma anche
ciò che ha la più lunga durata e che esiste in senso proprio. Cercare il
«principio» significa sempre risalire all'indietro, andando al di là di
tutto ciò che per ogni uomo possiede esistenza attuale. Nel mondo
oggettivo il principio è ciò che sta a fondamento di ogni cosa e che
tuttavia resta nascosto all'uomo comune. Nel mondo dei valori il princi­
pio è quel valore che esiste da sempre, indipendentemente dalle opinioni
e dai desideri degli uomini, in quanto fondato sulla reale nat�ra umana.
18 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Nel concetto di «ordine» acquista rilievo ciò che, con una non molto
bella espressione, si suole chiamare il «carattere razionale» della filosofia
antica. Per il Greco la verità si fa riconoscere dall'«organicità», onde
per lui la perfezione è sempre qualcosa di delimitato e perciò la filosofia
greca si sente strettamente imparentata alle scienze matematiche. Ciò
vale anzitutto per Platone, ma non solo per lui. Al contrario, si può dire
che quei sistemi che ammettono l'illimitato e quanto di arbitrarietà esso
comporta - come, ad esempio, la dottrina di Democrito - e che
vogliono ignorare le matematiche, possono essere tutti definiti, senza
eccezione, come sistemi di rassegnazione: se lo spirito umano non è
evidentemente in grado di scoprire l'ordine che esso cerca e che di
diritto dovrebbe esistere nelle cose, allora onestamente non gli resta che
rassegnarsi al disordine manifesto.
Dal problema del «tutto » scaturiscono infine due conseguenze;
una di ordine sostanziale, l'altra di ordine metodologico. Dal punto di
vista sostanziale non c'è dubbio che la nozione di un «tutto» che in sé
comprende l'insieme delle cose, legata all'altra di «principio» che è il
fondamento di quest'insieme, conduce a una terza nozione che viene
semplicemente a costituire il nocciolo di ogni filosofia: la nozione di
«essere». Là dove - come in Parmenide - si tratta dell'essere e
dell'essente, si tratta anche, in senso stretto, del «tutto» oltre il quale
nulla esiste; cosÌ come si tratta anche della nozione di «principio» alla
luce della quale va spiegato perfino il nostro mondo dell'opinione.
Dal punto di vista metodologico il problema del tutto costituisce
l'essenza della filosofia come scienza universale, che si distingue come
tale dalle scienze particolari. Va certamente detto che nell'antichità i
loro confini reciproci sono rimasti sempre fluttuanti: Aristotele, per fare
un solo nome, ha attribuito alla filosofia una quantità di problemi che
oggi appartengono a scienze speciali. In generale tuttavia vale per i Greci
il principio che la filosofia comincia là dove si indaga sull'essere onni­
comprensivo, sui primi principi e sul valore supremo. Nell'ambito di
svariate discipline come la medicina, la geografia o la retorica, sono sorte
vivaci discussioni sui rapporti delle medesime con la filosofia. Secondo
alcuni, la filosofia dovrebbe limitarsi a dare a queste discipline il fonda­
mento teorico e l'indirizzo giusto, mentre, a giudizio d'altri, la filosofia
in pratica non può che essere loro d'intralcio, giacché ogni disciplina
può svilupparsi in maniera feconda solo se rimane autonoma dal punto
di vista dell'oggetto specifico e dei metodi d'indagine.
Inoltre, la pretesa della filosofia di essere la scienza del tutto, rac­
chiudeva in sé dei rischi: infatti si poteva credere che per principio il
filosofo fosse tenuto a conoscere ogni cosa, in una totalità enciclopedica;
il che era praticamente impossibile. L'unica via d'uscita dalla difficoltà
CONSIDERAZIONI DEFINITORIE 19

poteva esser data dalla formula, alquanto precaria, che il filosofo dovesse
conoscere « fino a un certo grado» i particolari settori del reale dei quali
- sempre in un certo senso - risulta costituito il tutto. Egli doveva, ad
esempio, conoscere la struttura del corpo umano o i problemi dell'eco­
nomia domestica nelle loro grandi linee, senza la pretesa di voler
rivaleggiare con lo specialista. Per assolvere adeguatamente al suo com­
pito specifico di filosofo, consistente nella conoscenza del tutto e dei
suoi principi, gli sarebbe bastata una conoscenza ridot>t:a dei particolari.
Emergono, a questo punto, difficoltà che restano attuali fino ai 90stri
gIOrm.
A ciò si aggiunge che, nella filosofia greca, al problema cosmologico
se ne collega immediatamente un secondo. Ci si riferisce a questo
quando in Platone e in altri si legge che la meraviglia è l'inizio del
filosofare. Il che significa: all'uomo si presentano talvolta - nella natura
come nella storia - fenomeni strani, sorprendenti o addirittura inquie­
tanti, perché egli non è in grado di spiegarseli: eclissi, terremoti, esseri
mostruosi, costumanze strane appartenenti a epoche trascorse o a popoli
stranieri. Egli riflette su queste cose e a volte è portato a supporre, non
senza timore, che in tutto ciò agisca la mano di un dio. Ma, se
quest'uomo è un greco, egli si sente soprattutto indotto a cercare una
spiegazione razionale che possa liberarlo dalla meraviglia e dal timore.
Fornire tali spiegazioni fu uno dei compiti principali della filosofia
nell'antichità.
Noi possiamo denominare il primo fondamentale ordine di pro­
blemi e di compiti della filosofia, con l'espressione « costruzione sistema­
tica»; mentre carattere precipuo del secondo è 1'« indagine problema­
tica». Infatti in questo caso non si tratta più dell'ordinamento di una
totalità cosmica, ma dell'approfondimento, da parte della filosofia, di un
problema isolato. Essa deve risolvere, con freddo acume di pensiero, i
misteri e i prodigi apparenti, riportandoli a cause razionalmente com­
prensibili. È superfluo scender qui in particolari per dimostrare come a
questi due tipi fondamentali di lavoro filosofico corrispondano anche
differenti stili letterari e umani. La costruzione sistematica conserva, fino
a tarda epoca, qualcosa della sublimità delle teogonie arcaiche. Al
contrario, l'indagine problematica si disperde in una serie poco coerente
di problemi (come quelli trasmessici dalla scuola di Aristotele) ed ha
indiscutibilmente carattere di chiarificazione razionale. Essa inoltre non
teme di occuparsi anche delle inezie più singolari e di discutere sulle
possibili cause non solo delle stelle filanti e dei terremoti, ma anche
degli starnuti o della caduta dei capelli. Di filosofico in cose del genere
c'è solo, a nostro avviso, il presupposto fondamentale che non esiste
fenomeno del quale non si possa e non si debba trovare una causa
20 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

plausibile. Del concetto di causa come tale, che qui entra in gioco,
parleremo più avanti.
Naturalmente l'indagine problematica riveste sempre un ruolo se­
condario rispetto alla costruzione sistematica, ma dal punto di vista
storico anch'essa appare fin dalle origini presso i Greci e non può essere
trascurata in un quadro generale della filosofia antica. E questa osserva­
zione, per marginale che sia, vale per i due ambiti nei quali, dal lato del
contenuto, si divide la filosofia e che noi, per comodità, indichiamo con
gli stessi nomi di « fisica» ed « etica».
Di tale suddivisione della filosofia dovremo parlare, in modo più
particolareggiato, nel prossimo capitolo: Ora basta soltanto rilevare
esplicitamente ciò che finora è rimasto un tacito presupposto. Nell'am­
bito della fisica, il cui oggetto - secondo l'antico uso linguistico - è
costituito dall'insieme degli esseri animati e inanimati compresi nell'uni­
verso, si riscontrano naturalmente sia costruzioni sistematiche della tota­
lità come anche ricerche su problemi particolari. Non diversamente
accade nell'ambito dell'etica, dove la ricerca filosofica comincia col deli­
neare sistemi conclusi; ma ben presto - anche se ormai non possiamo
farcene che un'idea frammentaria - vi si aggiunge lo studio di certi
problemi particolari, l'interpretazione di situazioni etiche particolar­
mente paradossali, complesse, o estreme. In un'opera ampia come l'Etica
Nicomachea di Aristotele, il punto di vista sistematico e quello proble­
matico s'intrecciano insieme di continuo.
Ma lasciamo da parte queste considerazioni e ritorniamo ancora al
punto di partenza del nostro disegno storico. Abbiamo sottolineato il
fatto che l'ispirazione originaria della filosofia greca si rivolse a quella
realtà naturale che è ignota all'ingenua opinione degli uomini. Pertanto,
agli occhi di costoro la filosofia appare in una situazione particolarmente
ambigua: da un lato infatti essa si mostra, nei confronti della gente
comune, nella veste del signore di fronte ai sudditi, o addirittura come la
divinità di fronte agli uomini. Infatti, l'intelligenza che pe'netra l'essenza
reale del tutto è indubbiamente un privilegio spettante alla divinità.
Nulla di strano quindi se a partire dalla Socratica, viene propugnata la
tesi secondo la quale il filosofo è il vero re e nell'età ellenistica emerge
ripetutamente l'idea che il filosofo possa rivendicare a sé stesso una
perfezione pari a quella della divinità. Dall'altro lato però la lotta contro
l'opinione corrente assume il significato di un rifiuto del complesso delle
tradizioni storiche, dei costumi e dei modi di pensare nei quali storica­
mente si svolge la vita della comunità sociale. Conseguentemente il
filosofo si isola dalla società. La sua attività appare strana, a volte anche
scandalosa: egli diventa a poco a poco un tipo originale che vive la
propria vita in disparte e in contrasto con tutte le regole del gioco
CONSIDERAZIONI DEFINITORIE 21

conosciute. Si pensi a Diogene il Cinico, per fare il nome di colui che,


sotto questo aspetto, superò tutti gli altri filosofi.
Il filosofo antico presenta dunque queste due facce: quella dell'uomo
« regale» e l'altra dell'uomo paradossalmente isolato. L'una e l'altra
rappresentano due forme di reazione nei confronti dell'indifferenza della
gente comune.
Siamo ora in grado di prendere in esame alcune antiche definizioni
della filosofia, atte a colorire in qualche modo lo schema che abbiamo
tracciato.
Verosimilmente è stato Aristotele nell'antichità a darci - nel primo
libro della sua opera ormai perduta Sulla filosofia - la più ampia e
accurata illustrazione dell'essenza della filosofia. Di essa ci sono perve­
nuti alcuni scarsi frammenti e soprattutto due estratti molto importanti,
redatti dallo stesso Aristotelel• Nel primo si trova un passo che intende
mostrare come la definizione della filosofia, propria di Aristotele, quale
scienza delle cause prime, si accordi perfettamente con quelle reperibili
in altri pensatori. Aristotele elenca, illustrandole, sei definizioni, che
sono le seguenti: 1. La filosofia è scienza del tutto, non in senso
enciclopedico, ma in quello di conoscenza dei principi; 2. È scienza delle
cose più difficili e dunque delle più remote dagli uomini comuni, legati
alle percezioni sensoriali; 3. È il sapere metodologicamente più esatto, il
che per Aristotele riconduce alla scienza dei prinCipi; 4. È il sapere più
compiutamente partecipabile e in proposito Aristotele osserva che l'inse­
gnamento più importante è appunto quello relativo alle cause dei feno­
meni; 5. La filosofia è il sapere che possiede in sé stesso il suo valore e
che non si acquisisce in vista di altri fini; il che di nuovo ci riporta alla
scienza delle cause prime; 6. La filosofia infine ha il compito di gover­
nare e di comandare: essa può far ciò in quanto e nella misura in cui è
scienza non solo delle cause prime, ma anche dei fini ultimi.
Fin qui Aristotele. Lasciamo al lettore di trovare le coincidenze
esistenti tra queste sei definizioni e quei lineamenti della filosofia che
noi sopra abbiamo tracciato. Le scuole della tarda antichità hanno ri­
preso in seguito tutta la storia della filosofia per formulare, dal loro
canto, un elenco di sei definizioni 2, che qui presentiamo con alcune
brevi osservazioni: 1. La filosofia è la conoscenza dell'essere in quanto
essere. È, questa, la definizione che già in Aristotele si trova in concor­
renza con l'altra, testé citata, di conoscenza della cause prime. 2. La
filosofia è la conoscenza della cose divine e umane. Questa definizione

l Cf. ARI5T. Met. 1982 a4-b7; Eth. Nic. VI 7.


2 AMMON. In Porph. Isag. ed. Busse, p. 1 55.
22 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

cerca di render ragione sia della filosofia presocratica - il cui oggetto era
principalmente rappresentato dal cosmo e dai suoi fenomeni - sia della
Socratica che si concentrava invece sui problemi umani. 3. La filosofia è
meditazione della morte. 4. Ca filosofia è imitazione di dio, per quanto
ciò è possibile all'uomo. Queste due definizioni, alquanto arbitrarie per
il nostro modo di pensare, sono tratte dai Dialoghi di Platone). Esse
intendono porre in rilievo il fatto che la filosofia potrà svolgersi libera­
mente solamente quando l'uomo avrà lasciato la sua esistenza corporea e
le relazioni sociali per passare nel mondo dell'essere originario. 5. La
filosofia è l'arte delle arti e la scienza delle scienze. Questa definizione è
tratta probabilmente dall'opera già citata di Aristotele Sulla filosofia: arte
delle arti, in quanto la filosofia guida tutte le altre arti, essendo l'arte di
ben condurre la propria vita; e scienza delle scienze, in quanto il suo
oggetto non può essere solamente il tutto ma anche quei principi da cui
derivano tutte le altre scienze specialistiche. 6. La filosofia è amore della
sapienza. Questa definizione non si riferisce soltanto alla ben nota
etimologia della parola greca philo-sophia ma allude anche, dai tempi di
Platone in poi, a un perspicuo disegno di costruzione storiografica,
secondo il quale i più antichi filosofi naturalisti avrebbero avuto la
presunzione di chiamarsi « sapienti», mentre Pitagora sarebbe stato il
primo a capire che solo a dio spetta la vera conoscenza dell'universo,
mentre l'uomo deve accontentarsi dell'amore della sapienza 4.

In terzo luogo va infine ricordato un piccolo gruppo di aneddoti,


ossia di enunciazioni filosofiche molto antiche le quali, dalla Socratica in
poi, hanno assunto un particolare rilievo. Un certo numero di filosofi
rispondono alla domanda « Quale vantaggio traete realmente dalla filo­
sofia? », nel modo seguente:
Aristippo: « Quello di poter vivere in pace e senza' timori con tutti
gli uomini ».

Antistene, invece: « Quello di poter stare con sé stessi».


Pitagora: « Quello di non meravigliarsi di nulla».
Platone: « Quello di starsene al sicuro sulla riva e vedere come gli
uomini si affannano sul mare in tempesta ».

Aristotele: « Quello di fare senza costrizione ciò che gli altri uomini
fanno solo per paura della legge o del castigo».
Diogene « Quello di essere premuniti contro i colpi del destino ».

Cratete, compagno di fede filosofica di Diogene: « Quello di conten­


ta�si di un piatto di verdura e di non darsi pensiero degli uomini ».

) Cf. PLAT. Phaid. 64 a; Theaet. 176 a-b.


4 Secondo HERACUD. PONTIC. frr. 87-88 Wehrli.
CONSIDERAZIONI DEFINITORIE 23

Infine Dionisio, il tiranno di Siracusa amico di Platone, quando -


in esilio a Corinto - gli fu chiesto a che cosa gli servisse la filosofia,
rispose: «A sopportare agevolmente un tale cambiamento di fortuna ».

In tutti questi detti s'esprime anzitutto la sovranità interiore del


filosofo. A differenza degli altri uomini, egli sa quali sono i veri valori,
non conosce né l'inquietudine né il malumore, agisce correttamente
senza esservi costretto, non si meraviglia di nulla perché sa come vanno
realmente le cose. E da tutte quelle espressioni traspare un non celato
disprezzo per la massa degli uomini che per ignoranza continuano a
vivere la loro vita nell'abbandono e nella caparbietà. Da questo sforzo
appassionato di vincere l'opinione volgare nasce la filosofia antica e ad
esso continuamente ritorna.
CAPITOLO SECONDO

Divisione della filosofia antica

QUI il criterio più pratico è quello di rifarsi fin da princIpIO alla


divisione generalmente accolta nella tarda antichità, e che ancor oggi è
d'uso corrente. La filosofia si divide in tre parti: fisica, etica e logica.
Non si conosce con certezza l'autore di questa divisione. Probabilmente
va ricercato tra i discepoli di Platone, se non è stato addirittura Aristo­
tele nel primo libro della sua opera già citata Sulla filosofia. In ogni caso
potrebbe risalire allo stesso Aristotele lo schema storico secondo il quale
dapprima si sarebbe coltivata la fisica, alla quale Socrate successivamente
avrebbe aggiunto l'etica e infine Platone la dialettica, antesignana della
logica l.

Più avanti dovremo chiederci se questo schema corrisponda alla


realtà, se le tre parti siano apparse successivamente nella storia e fino a
che punto codesta classificazione abbia storicamente significato. Qui ci
limitiamo a considerare il punto di vista della dottrina antica su questa
tripartizione, sulla sua legittimità, sul rapporto gerarchico e sull'interno
collegamento delle tre parti. Va da sé che si è cercato anche di suddivi­
dere ulteriormente ciascuna delle tre parti. Accenniamo a qualcuna di
queste suddivisioni. La fisica è anzitutto la teoria dell'universo e del
suo ordinamento nello spazio e nel tempo. Abbiamo già menzionato il
termine « natura» (cpu(n�) nel significato di totalità delle cose reali date
all'uomo. Tuttavia in Parmenide il concetto di natura ha un significato
peculiare, derivante dalla considerazione degli esseri organici e del loro
processo di acccrescimento, per estendersi infine al mondo in quanto
realtà diveniente· e in movimento. Questo mondo comprende in sé
l'insieme degli esseri inanimati, si estende agli esseri animati viventi sulla
terra e giunge fino agli dèi che abitano le regioni celesti. Ma questo
mondo esclude, almeno in alcuni sistemi, proprio la divinità, alla cui
essenza appartengono l'immutabilità e l'immobilità eterne. Pertanto la

l DIOG. LAERT. III 56.


26 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

filosofia della natura si suddivide in una fisica propriamente detta, che


studia il cosmo in movimento e in una seconda parte, la teologia o - se
si vuole evitare l'ambiguità del termine - la metafisica. Questo secondo
termine fu coniato assai per tempo nella scuola di Aristotele e significa
lo studio delle cose che stanno « al di là della fisica ».

Sorvoliamo qui sull'ulteriore divisione della fisica in studio dei


corpi inanimati che stanno al di sotto, al di sopra e sulla terra, e studio
degli esseri viventi sulla terra: piante, animali, uomo.
L'etica viene a volte divisa in tre parti: la teoria della giusta con­
dotta del singolo, della buona amministrazione della casa e, infine, la
teoria dello stato giusto. Soprattutto in età ellenistica la prima parte è
stata suddivisa in una serie di capitoli, come si può vedere, ad esempio,
dall'elenco fornito dal grande filosofo stoico Posidonio, del quale do­
vremo ancora parlare 2: 1. Dell'istinto. 2. Dei beni e dei mali. 3. Delle
passioni. 4. Della virtù. 5. Del fine ultimo dell'azione. 6. Del valore
primario e delle azioni particolari. 7. Dei doveri positivi e negativi.
Infine, per quanto concerne la logica, possiamo attenerci alla divi­
sione fondamentale in dialettica e retorica. La prima tratta dei metodi
della dimostrazione filosofica, la seconda fornisce le regole della presen­
tazione letteraria di un dato argomento.
Passando a considerare il problema della legittimità della suddetta
tripartizione della filosofia, possiamo cominciare dalla logica, la cui
utilità, in generale, è stata raramente contestata. Sono stati soprattutto
gli avversari di Platone e di Aristotele, i due creatori della logica, a
formulare occasionalmente delle riserve. Ci si chiede tuttavia qual è la
funzione della logica nell'organismo sistematico della filosofia. Per Ari­
stotele la filosofia si divide, secondo il suo oggetto, in due parti: la teoria
(fisica) e la pratica (etica). La logica serve esclusivamente come stru­
mento. Viceversa la Stoa ha posto la logica su un piano di sostanziale
parità con le altre due discipline.
Non discutiamo ulteriormente questo problema, giacché incompara­
bilmente più importante è il contrasto tra fisica ed etica o, a dir meglio,
la battaglia che, a partire dalla fine del V secolo a.c., la Socratica ha
intrapreso per togliere terreno alla filosofia naturale, giunta in Atene
dalla Ionia. Le conseguenze di questa battaglia hanno lasciato traccia fin
negli ultimi filosofi dell'antichità. Ecco, in sintesi, gli argomenti addotti
dai Socratici:
1. L'indagine sull'universo è inamissibile, perché essa s'intromette
illecitamente nella sfera del divino e c�nduce all'empietà. È noto il

2 POSID. fr. 404 Theiler.


DIVISIONE DELLA FILOSOFIA ANTICA 27

processo contro Anassagora al quale S1 rImproverò, non senza ragione,


che la sua dottrina sulla natura dei corpi celesti comportava che il sole e
la luna non fossero divinità, come invece una tradizione religiosa obbli­
gava allora a credere.
2. L'indagine sull'universo è impossibile, perché essa trascende di
gran lunga le possibilità dell'intelligenza umana. È stolta presunzione
credere che l'uomo in quanto tale possa arrivare a conoscere qualcosa di
certo sull'origine, i confini e la struttura del cosmo. Tale convincimento
è espresso incisivamente in un detto di Diogene il quale così apostrofa
un oratore che aveva tenuto una conferenza sulla filosofia naturale: « Da
quanti giorni sei ritornato giù dal cielo? ». Non c'è da meravigliarsi che
questo atteggiamento scettico abbia incontrato più tardi molte simpatie
presso i Romani.
3. Anche se l'indagine sull'universo dovesse essere possibile, essa
non può che riuscirci indifferente giacché, nella pratica della vita, non ci
rende né più accorti né migliori. Già prima di Platone era stato dise­
gnato quel ritratto del filosofo estraniato dal mondo, disperatamente
p
inca ace nella vita pratica, che ancor oggi ci è familiare. Il filosofo si
considera un uomo che, nei fatti, non �i cura delle faccende mondane né
dell'attività umana, poiché egli è rivolto a una realtà che è nascosta
dietro tutte le cose; la scienza, a cui egli è votato, ha il suo valore in sé
stessa e non vuole avere alcun'altra utilità. Il nemico della filosofia vede
pertanto in tutto ciò nient'altro che stravaganze, delle più infantili e
assurde. Egli si vergogna - come si legge in Platone - nel vedere come
il filosofo, a forza di lambiccarsi inutilmente il cervello, non riesca
neanche a far valere i propri diritti dinanzi all'assemblea del popolo o in
tribunale J. Per la stessa ragione si attribuisce al socratico Aristippo
(secondo un'altra tradizione, significativamente, a un re di Sparta) il
detto che i giovani devono apprendere ciò di cui potranno avere bisogno
quando saranno divenuti uomini 4.
Più grave è l'accusa d'inutilità rivolta alla fisica, perché essa non
renderebbe migliori gli uomini. Infatti solo la virtù sarebbe importante
al riguardo, ma in rapporto ad essa la filosofia della natura non sarebbe
di nessun aiuto. Aristotele c'informa, a proposito del già citato Ari­
stippo, che questi avrebbe.respinto la matematica perché in essa non si
tratta mai né del bene né del male 5. E si potrebbero citare, in gran
numero, espressioni consimili. Ma più importa rilevare il fatto che la

J PLAT. Gorg. 486 b.


4 DIOG. LAERT. II 80 (= Giannantoni, l Cirenaic� Firenze 1958, fr. 1 A 1, p. 185).
5 ARIST. Met. III 996 a 30 b 1 (= fr. 1 B 13 Giannantoni).
-
28 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

filosofia ellenistica si è occupata con la più grande serietà di codesta


accusa. E invero gli Stoici e gli Epicurei mostrano di concedere senz'al­
tro ai Socratici che una filosofia della natura, incapace di contribuire
all'educazione morale degli uomini, è priva di valore. E tuttavia non è
'
vero, per loro, che essa non dia alcun contributo al riguardo. La Stoa ed
Epicuro si mostrano sempre impegnati a dimostrare che l'uomo, senza
una conoscenza della struttura dell'universo, non può raggiungere lo
scopo della sua vita. Secondo la dottrina stoica, un solo e medesimo
destino, una sola e medesima legge divina governano sia il cosmo che il
singolo individuo e dalla conoscenza di questa legge dipende ogni cosa.
Ed Epicuro ha accolto nel suo « catechismo» filosofico questa caratteri­
stica espressione: « Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e
della morte, ch'essa possa essere qualcosa che ci tocchi da vicino e il non
conoscere il confine dei piaceri e dei dolori, non avremmo bisogno della
scienza della natura» 6. Il che, in termini positivi, equivale a dire che la
filosofia naturale è indispensabile, perché solo essa può consentire al­
l'uomo di porsi nel giusto rapporto con dio e la morte da un lato, col
dolore e il desiderio dall'altro. Osserviamo in margine che, nell'età
ellenistica, si rafforza per le stesse ragioni, nelle scuole di Platone e di
.Aristotele, la tendenza a considerare la filosofia della natura come una
sorta di scuola di pietà religiosa: l'ordine dell'universo - si pensa -
deve necessariamente condurre alla venerazione del divino 7.

In tal modo si ribatte alle due obiezioni contro la fisica: alla prima,
secondo la quale la fisica conduce all'empietà; alla seconda, più tarda,
secondo la quale essa non contribuisce a migliorare moralmente l'uomo.
4. L'ultima obiezione non è, nella sostanza, diversa dalle altre. Noi
la riferiamo nel suo tenore, perché essa ha trovato a volte formulazioni
particolarmente efficaci. Il suo concetto fondamentale è questo: è scanda­
loso interessarsi delle cose più lontane e nascoste e poi trascurare la cosa
più vicina, la propria anima. A quanto sembra, già l'antico filosofo
ionico Eraclito aveva espresso tale pensiero, richiamandosi alla più fa­
mosa e veneranda formula della saggezza greca, l'iscrizione delfica « Co­
nosci te stesso», cosÌ da lui interpretata: nostro dovere è conoscere non
il mondo esterno ma noi stessi 8. Per lo spirito alquanto pedantesco di
Senofonte, questo pensiero assume la forma seguente: Socrate si sarebbe
chiesto se i filosofi della natura erano convinti di saperne abbastanza

6 EPIC. Ratae sent. XI, tr. it. Isnardi Parente, In: Opere di Epicuro, a cura di M.
ISNARDI PARENTE, Torino 1974, pp. 197·198.
7 CIc. Defin. IV 11-12; ARISTOX. fr. 53 Wehrli.
8 HERACL. frr. 101, 116 Diels·Kranz.
DIVISIONE DELLA FILOSOFIA ANTICA 29

sulle cose umane, cosÌ da potersi tranquillamente rivolgere allo studio


delle cose divine; oppure se essi erano dell'avviso che dovessero trascu­
rare le cose umane per indagare invece le cose divine 9. Pochi decenni
più tardi, un filosofo della scuola di Aristotele a queste due domande
ironiche rispondeva col seguente aneddoto: un indiano, avendo incon­
trato Socrate, gli obiettò che era ridicolo credere che si potessero com­
prendere le cose umane, senza nulla sapere delle cose divine lO.

Altrove si racconta che un filosofo fu presente a una discussione


nella quale ci si chiedeva se l'universo fosse animato o meno e avesse o
no la forma di una palla. Questo filosofo avrebbe osservato: « Vi date
molto da fare intorno all'ordine dell'universo, ma non pensate al disor­
dine che avete dentro». Alla stessa maniera Diogene ha formulato la sua
critica all'insieme delle scienze teoretiche. Egli si meravigliava, come
sembra, dei filologi che s'interessavano delle sofferenze di Odisseo, di­
menticando cosÌ lo �tato miserevole della loro anima; dei musicisti che
accordavano i loro strumenti e non si davano pensiero della loro inte­
riore dissonanza; e infine degli astronomi che osservavano il sole e la
luna, ma non vedevano la terra sotto i loro piedi Il.

Esortazioni pressanti - espresse in formule analoghe - a non


dimenticare ciò che è vicino a vantaggio di ciò che è lontano, si
riscontrano in tutti i rappresentanti della Socratica. Esse si trovano
anche in Platone, sebbene egli - contrariamente a un Aristippo, a un
Antistene o a un Senofonte - si sia sempre guardato dal prendere una
posizione netta e radicale nei confronti della filosofia della natura.
L'ellenismo, come s'è detto, si decide a un compromesso. Esso
intende la filosofia della natura in un modo tale che anche l'inchiesta
socratica per la cura dell'anima e il « Conosci te stesso» conservino
tutto il loro buon diritto. Solo pochi indirizzi filosofici si attennero
stabilmente a un assoluto rifiuto della filosofia della natura.
Quanto al rapporto gerarchico e all'interna connessione delle tre
parti della filosofia, la cosa più istruttiva è citare un breve testo che,
assai verosimilmente, appartienee al grande filosofo stoico Posidonio (I
sec. a.c.): « Alcuni, però, accettando la tripartizione della filosofia, asse­
gnano la prima parte alla fisica, perché l'indagine fisica precede le altre
non solo cronologicamente - tanto che, fino ai nostri giorni, i filosofi
più antichi vengono chiamati « fisici» - , ma anche nell'ordine naturale
delle cose, in quanto è conveniente occuparsi in primo luogo dell'intero

9 XENOPH.Mem. I 1, 11-15.
lO ARISTOX. fr. 53 Wehrli.
11 DIOG. LAERT. VI 27-28.
30 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

universo e in seguito mettersi a indagare sulle sue determinazioni specifi­


che e sull'uomo. Altri, invece, hanno cominciato dall'etica, ritenendola
più indispensabile e capace di menarci alla felicità, proprio come anche
Socrate annunciava di non ricercare altro se non

«Quanto di male e di bene si trovi nel centro di casa» 12.

Gli Epicurei, poi, pongono come punto di partenza la logica, giac­


ché essi esaminano in primo luogo e con diligenza la «canonica»,
conducendo la loro indagine sulle cose evidenti, sulle non evidenti e
sulle cose che a queste tengono dietro. Anche gli Stoici, da parte loro,
dicono che il primo rango spetta alla logica, il secondo all'etica e che,
invece, la fisica va schierata sull'ultima fila. Difatti, a parer loro, è
anzitutto indispensabile solidificare l'intelletto per una ferma vigilanza di
quanto gli viene trasmesso, e questa sicurezza può essere conferita al
pensiero solo dalla sezione dialettica; il secondo luogo va assegnato alla
dottrina etica per il miglioramento dei costumi, giacché questa può
essere recepita senza alcun rischio, quando poggi su basi logiche già
consistenti; alla fine, poi, va aggiunta l'indagine fisica, perché questa è
più divina e pretende un impegno più profondo.
Da qui probabilmente deriva quell'accostamento immaginoso della
filosofia ad un orto pieno di frutti, in cui all'altezza delle piante è
paragonabile la fisica, all'abbondanza dei frutti l'etica, alla solidità delle
mura la logica» H.

Posidonio ha certamente riconosciuto che le parti della filosofia


erano assolutamente inseparabili, a differenza dalle cime degli alberi, dai
frutti e dalle mura del giardino. Perciò egli ha preferito paragonare la
filosofia a un organismo vivente. Al sangue e alla carne corrisponde la
fisica, alle ossa e ai muscoli la logica, all'anima l'etica.

12 HOM. Od. IV 392.


H SEXT. EMP., A dv. math. VII 20-23 e 17-19. Tr. it. di A. Russo (Sesto Empirico,
Contro i logic� Bari 1974, pp. 7-9) ( = POSID., fr. 404 Theiler).
CAPITOLO TERZO

Genesi storica delle parti della filosofia

ABBIAMO testé citato la tesi tradizionale secondo la quale prima a nascere è


stata la fisica, poi l'etica e infine la logica (dialettica). Essa corrisponde; in
linea di principio, ai dati di fatto finora constatabili.
Una caratteristica peculiare della speculazione antica è che questa
non si ricollega ai problemi direttamente coinvolgenti l'esistenza umana,
e prende le mosse non dalle cose più vicine, bensl da quelle più lontane,
poste ai limiti del mondo sia in senso spaziale che temporale; oppure, se si
rivolge a problemi particolari, questi sono tali da meravigliarci per la loro
singolarità. Solo gradualmente e quasi a tappe determinate la filosofia si
accosta al mondo dell'uomo e della sua vita quotidiana. Tra Talete,
fondatore della filosofia naturale, e la Socratica che nei suoi scritti dialo­
gici intende dimostrare come la vita quotidiana ponga una quantità di
problemi filosofici, corrono circa duecento anni.
Non c'è da meravigliarsi che i fatti si siano svolti in questo modo. Se
la filosofia, come sopra abbiamo spiegato, si è posta fin dall'inizio lo
scopo di superare l'opinione comune, essa poteva raggiungerlo solo rivol­
gendosi anzitutto a problemi relativamente « distanti ». Solo a poco a
poco, a misura che cresceva la sua forza, la filosofia poté tentare una più
profonda penetrazione nella massa compatta delle concezioni e dei co­
stumi tradizionali. Le speculazioni sull'origine dell'universo non tocca­
vano gran che la vita quotidiana dei Greci; esse rimanevano nell'ambito
delle idee interessanti e solo occasionalmente potevano provocare per la
loro stranezza: mentre chi, ad esempio, metteva in discussione il concetto
di giustizia, entrava immediatamente in conflitto con le più elementari e
rispettate regole della comunità politica. In questo compito poteva impe­
gnarsi solo una filosofia già sicura di sé all'interno di una tradizione in
piena decadenza, cioè nella situazione in cui noi ci rappresentiamo l'A­
tene di Peride e di Alcibiade.

a) Genesi della filosofza della natura


Dobbiamo ora riprendere e sviluppare, dal punto di vista storico, la
distinzione fondamentale, illustrata sopra, tra costruzione dei sistemi e
storia dei problemi.
32 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

La filosofia greca della natura presenta due distinti aspetti. Il primo


le deriva dalle antiche teogonie, ossia dai poemi epici che tentavano di
disporre in un ordine realmente o apparentemente genealogico l'insieme
delle divinità.
In un senso generale si sono avute teogonie presso tutti i popoli.
Dappertutto noi troviamo racconti più o meno fantastici sull'origine e le
sorti degli dèi, fino alla vittoria delle potenze in atto dominanti; spesso
le teogonie sono servite semplicemente da modello divino alla storia
delle dinastie regnanti sulla terra. Tuttavia presso i Greci, e soprattutto
nel poema di Esiodo, rimasto un modello nel suo genere (VIII sec. a.c.),
emerge qualcosa di nuovo. Esso ci fa conoscere il patrimonio di idee
generali contenuto in siffatte narrazioni. E ciò avviene precisamente
nelle tre direzioni che abbiamo indicate, e cioè:
1. Sul problema del principio. Nella Teogonia di Esiodo il poeta
chiede espressamente alle Muse che cosa esisteva in principio l. Esse
rispondono: il Caos, uno spazio vuoto tra il cielo e la terra. Nella
risposta si coglie già il carattere peculiare della questione posta. Il princi­
pio, in relazione a ciò che segue, è sia il « pieno assoluto ", del quale ciò
che viene dopo è un semplice derivato (dal Caos, secondo Esiodo,
nascono la Notte e il Giorno), sia il «vuotQ» e il «nulla» assoluti da
cui si svolge il molteplice in atto in tutta la sua varietà. Questa fonda­
mentale equivocità del termine « principio» (cipxTj) si è fatta ben presto
chiara nella filosofia greca. Basti qui ricordare 1'« illimitato» di Anassi­
mandro, che deriva direttamente dall'idea del « Caos» esiodeo. Con
queste due nozioni s'intende in primo luogo lo spazio vuoto dal quale
derivano il giorno e la notte, l'informe che non ha nessuna affinità con
le cose visibili. Nel contempo esso è anche l'Uno, eterno e annicom­
prensivo, che si contrappone all'infinita molteplicità dei mondi che
nascono e penscono.
2. Sul problema del tutto. La serie genealogica degli dèi, costruita
da Esiodo, pretende di rappresentare una totalità in sé compiuta. Essa
intende trattare dell'insieme degli esseri e delle forze soprannaturali.
Questa pretesa è passata dalle teogonie alle cosmogonie costruite dalla
filosofia della natura. Ragionare « sul tutto» è il programma di un
Senofane, un Eraclito, un Democrito.
3. Sul problema dell'ordine. La via che dal principio, simile a un
punto, conduce alla realtà presente tutta dispiegata, è retta da un ordine,
e ciò in. un duplice significato. In primo luogo la Teogonia di Esiodo si
presenta come un sistema di famiglie divine. Questo si costituisce,

l HESIOD. Theog. 11655.


GENESI STORICA DELLE PARTI DELLA FILOSOFIA 33

muovendo dal principio, in una sempre più ampia successione di genera­


zioni, secondo l'immagine di una piramide in sé compiuta almeno
secondo l'intenzione dell'autore: ogni singola divinità ha, in questo
sistema, il suo posto determinato. Dall'altro lato tuttavia il poema di
Esiodo non si esaurisce in un catalogo genealogico, ma persegue una
linea epico-drammatica: esso non vuole soltanto mostrare un sistema
perfettamente ordinato, ma narrare altresì le lotte attraverso le quali
l'attuale re degli dèi è riuscito a imporre quest'ordine. La vittoria di
Zeus e degli abitatori dell'Olimpo sui Titani è la vittoria dell'ordine
attuale, definito e legittimo, sul selvaggio disordine primordiale.
Ora le cosmogonie presocratiche sono dominate esattamente dalla
stessa idea di ordine. Come in Esiodo, questo stato ordinato degli
elementi, degli astri e del divenire cosmico pretende di essere non solo
preciso ma anche giusto. Nella loro concezione fondamentale le opere
dei più antichi filosofi della natura, Anassimandro, Anassimene e altri,
devono essere state molto simili alla Teogonia di Esiodo e hanno assunto
anch'esse la forma di trattati rigorosamente scientifici.
Meno chiaro è invece il primo avvio dell'indagine sui problemi
della filosofia naturale, il che dipende dalla natura stessa della cosa. I
problemi, insieme alle motivazioni che si avevano di studiarne i fonda­
menti, erano fin da principio di ordine assai diverso. Tre esempi, .parti­
colarmente antichi, valgono a dimostrarlo: il problema del magnetismo,
quello delle inondazioni del Nilo, quello delle eclissi di sole.
Il magnetismo fu per gli antichi una mera curiosità. L'impulso a
occuparsi di questo fenomeno, da principio inesplicabile, fu dato dal fatto
che in alcune regioni dell'entroterra montuoso della lonia si trovò
grande abbondanza di magnetite, e ancor oggi il fenomeno prende il
nome dalla principale città di quella regione, Magnesia. Ora è molto
probabile che, prima del sorgere della riflessione filosofica, i Greci di
quei luoghi avessero esercitato la loro fantasia e il loro acume mentale
nella spiegazione dell'enigma. Ma a partire da Talete la filosofia s'impa­
dronì del problema e nel corso dei secoli ne ricercò le probabili cause.
Per quanto riguarda le inondazioni del Nilo, tutti i Greci che
soggiornarono più o· meno a lungo in Egitto, dovettero conoscere il
fenomeno; e nel VII secolo a.c. essi non erano pochi. Le inondazioni
del Nilo erano qualcosa di più che una semplice curiosità, giacché da
esse dipendeva la prosperità di un intero paese degno, sotto ogni ri­
guardo, del massimo rispetto e del più vivo interesse. Certamente al
Greco che non aveva mai oltrepassato i confini della lonia o dell'Attica,
le inondazioni potevano riuscire del tutto indifferenti; ma i visitatori
dell'Egitto, già al principio del VI secolo a.c. avevano posto il problema
ai filosofi, e alla fine del IV secolo Aristotele scrive una monografia
34 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

sull'argomento e fornisce l'elenco completo delle spiegazioni tentate fino


ai suoi giorni, affermando per parte sua che recenti esplorazioni nel
Sudan lasciavano presumere che la causa del fenomeno fosse stata defini­
tivamente scoperta 2. Si deve aggiungere che il problema appariva ai
filosofi della natura non solo interessante per sé stesso ma consentiva
anche di trarre �onclusioni di ordine generale sulla forma della superficie
terrestre.
Dì genere essenzialmente diverso è il problema delle eclissi di sole e
di luna. Questi sono infatti fenomeni di dimensione cosmica e quando si
verificavano doveva insorgere nell'animo ingenuo, pieno di un arcaico
sentimento religioso di quanti vi assistevano, il timore che ci fosse di
mezzo l'ira degli dèi. Anzi, possiamo tranquillamente ammettere che la
maggior parte dei Greci e dei Romani, sino alla fine dell'antichità,
credet�ero fermamente al carattere demoniaco delle eclissi. Pure, Talete
ha considerato il fenomeno come un argomento di studio e un problema
da risolvere per la filosofia della natura. È rimasto celebre il racconto
dello storico Erodoto secondo cui i Lidi e i Medi posero fine a una
guerra perché nel corso di una battaglia il sole si era oscurato. «Talete»
invece - prosegue Erodoto - aveva predetto agli Ioni già un anno
prima ciò che sarebbe accaduto» J. Possiamo datare l'eclisse al 28 maggio
del 585 a.c., ma non sappiamo quale spiegazione ne diede Talete.
Tuttavia ciò non importa gran che. Più importante è invece il fatto che
già Erodoto, centocinquant'anni dopo quell'avvenimento, sottolineava in
modo discreto ma inequivocabile il contrasto esistente tra i barbari
superstiziosi, che erano stati presi dal panico alla vista del fenomeno, e i
colti Ioni che, grazie agli insegnamenti del loro filosofo, se ne rendevano
conto e non vedevano in esso alcun motivo di inquietudine. Il tratto più
significativo dell'aneddoto è che Talete ha «previsto» l'avvenimento. Il
filosofo prende allora la figura di «saggio» e cosÌ dappertutto e fin dai
tempi più remoti il popolo ama raffigurarselo. È saggio colui che è
capace di predire, da indizi invisibili, eventi futuri. La stessa arte progno­
stica degli antichi medici appare, al confronto, ben al di sotto, e simili
aneddoti sui filosofi della natura sono assai numerosi.
Il problema delle eclissi è stato trattato ininterrottamente da Talete
in poi ed è rimasto uno dei temi principali dell'indagine cosmologica.
Concludendo, i punti d'avvio dell'indagine sui problemi della na­
tura sono stati di vario genere. Parecchi di essi non erano che «enigmi»
destinati a esercitare l'acume mentale (in età ellenistica essi costituirono

2 ARIST. fr. 248 Rose.


J HEROD. I 74.
GENESI STORICA DELLE PARTI DELLA FILOSOFIA 35

di preferenza materia di conversazione nei simposi dei dotti); altri pote­


vano realmente far progredire la ricerca, altri infine avevano un esplicito
carattere istruttivo.
È bene a questo punto domandarsi fino a che punto la filosofia
della natura ha soddisfatto in generale ai bisogni pratici o se invece non
sono stati questi bisogni - come, ad esempio, quelli di un marinaio o di
un agricoltore - a stimolarne lo sviluppo. Su questo terreno si deve
essere molto cauti nelle affermazioni. Era naturale che un contadino
s'interessasse all'origine e alle particolari caratteristiche delle ore del
giorno e delle stagioni, mentre un marinaio doveva apprendere volen­
tieri qualcosa di più preciso sugli astri che guidavano la sua rotta e sulle
proprietà dei venti e dell'acqua. Ma, per quanto ci è dato sapere, tutto
ciò resta assolutamente marginale. La filosofia della natura è stata fin dal
principio essenzialmente concepita come pura teoria. Essa tende a cono­
scere il sistema dell'universo e le cause dei fenomeni, perché questo
sapere ha valore in sé stesso, mentre alla sua utilizzazione pratica essa
pensa poco o niente.

b) Genesi dell'etica filosofica


Qui le cose sono realmente più complicate e se ne è vista la ragione
di fondo. Diversamente dalla filosofia della natura, l'etica filosofica in­
cide direttamente sulla vita quotidiana di ogni individuo, ponendogli
dinanzi la spinosa questione di giustificare sul piano intellettuale le
massime secondo le quali egli vive. Di fatto questa incidenza è possibile
a partire dal momento in cui le concezioni tradizionali si sono forte­
mente indebolite. Tuttavia, prima di delineare questo processo, dob­
biamo chiederci quali sono le fondamentali differenze tra l'etica filoso­
fica e l'etica prefilosofica. Nel campo dell'etica, infatti, questa questione
è, per la natura stessa della cosa, incomparabilmente più importante che
in quello delle rappresentazioni cosmologiche - benché anche riguardo
a queste sarebbe possibile porre ed affrontare la stessa questione - .
Intanto due differenze fondamentali vanno rilevate: in primo luogo ogni
etica prefilosofica è costituita da un complesso di precetti, poco coerente
nella forma, al fine di una giusta e conveniente condotta pratica nelle
varie circostanze della vita. Essa intende certamente riferirsi, in generale,
a una determina forma di vita, ma non presenta espressamente alcun
sistema ordinato di regole, derivante da un'unica idea centrale. In se­
condo luogo l'etica prefilosofica, per la sua stessa natura, fonda la sua
validità sulla tradizione. Per essa un comportamento pratico è giusto
perché è stato seguito da molte generazioni e perché uomini illustri del
passatp io hanno esemplarmente incarnato nella loro vita. E non si fa
36 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

che rilevare un altro aspetto del medesimo fenomeno quando si dice che
una tale etica possiede e rivendica solo una particolare validità nell'am­
bito di una comunità sociale storicamente determinata.
Viceversa, l'etica filosofica pretende di costruire un sistema coerente
di prescrizioni, muovendo da un principio assoluto per giungere a un
fine supremo, identico per tutti gli uomini.
Ora, com'è stata possibile un'etica di questo tipo presso i Greci?
Innanzitutto bisogna prendere in esame i fattori che hanno preparato la
dissoluzione dell'etica prefilosofica. Tre di essi sono facilmente indivi­
duabili:
1. Per ogni etica «ingenua» di tipo nobiliare - adoperiamo qui
una definizione facilmente equivocabile - i valori hanno un carattere
decisamente sociologico: ognuno si comporta disciplinatamente in ogni
circostanza della vita, parla o tace al momento giusto; se è un amico
merita fiducia, se è un nemico è un uomo pericoloso. Domina il
convincimento generale che la nobiltà d'origine, la ricchezza ereditata, la
forza fisica, la bellezza e ancora la liberalità, la fortezza e altre qualità
del genere siano in fondo tra loro inscindibili e strettamente congiunte.
Chi possiede tutto ciò pretende di aver diritto a un potere e a un
rispetto adeguati.
La poesia greca delle origini presuppone, sia pure in maniera fram­
mentaria, un'etica di questo tipo, ma già ne fa anche intravedere la
decadenza. Da quando li conosciamo, i Greci sono stati un popolo
straordinariamente irrequieto. Proprio gli stati civilmente più avanzati
sono precipitati in lotte intestine interminabili che scossero l'ordina­
mento sociale: ricchi signori furono ridotti, con l'esilio, nella condizione
di miseri emigranti, mentre individui di estrazione popolare, rozzi e
incolti, grazie alla loro astuzia e vivacità d'intelligenza, giunsero a pro­
cacciarsi potenza e ricchezza. Sia per gli uni che per gli altri la conclu­
sione inevitabile fu la seguente: gli esiliati scoprirono che né la ricchezza
né la potenza erano valori sicuri, ché altrimenti non sarebbero passate
nelle mani di individui di nessun conto; mentre costoro, una volta
divenuti potenti, dimostravano col loro successo che era possibile pro­
gredire anche senza nobiltà, bellezza, buona educazione. Come risultato
generale si ebbe una fuga dei valori nella sfera dell'interiorità e un
ripiegarsi dell'uomo su sé stesso e su quei valori che i rivolgimenti
sociali non fossero in grado di scalfire. Questo ripiegamento assunse
forme diverse: ci si poteva cosÌ attaccare a valori interiori, indefettibili,
quelli che successivamente formarono il gruppo delle virtù morali. Fu­
rono coniate massime che forse si potrebbero chiamare «formule rifles­
sive », come ad esempio: «Bisogna dominare non gli uomini ma sé
stessi », «Bisogna temere non gli uomini ma sé stessi », «Bisogna ben
GENESI STORICA DELLE PARTI DELLA FILOSOFIA 37

conoscere non le cose esteriori ma sé stessi», e cosÌ via. A volte assistiamo


addirittura a una contestazione esasperata di tutti i valori consacrati dalla
tradizione, con l'affermazione che i veri valori non sono la nobiltà, la
bellezza, la reputazione, l'agiatezza, la distinzione, ma esattamente i loro
contrari. Ne derivarono esibizioni di sordidezza e di grossolanità, ideale
perseguito e attuato fino alle estreme conseguenze da alcuni Socratici, con
grande meraviglia dell'ambiente circostante.Ne nacque infine l'ideale della
rassegnazione, che si riassume in questa massima varie volte ricordata:
« L'uomo non deve chiedere alla divinità dei beni determinati, perché egli
non sa ciò che è realmente un bene, ma deve chiedere « il bene in
generale » e lasciare alla divinità di concedergli il bene che vuole » 4.

2. Una delle qualità fondamentali e più splendide dei Greci sta nel
naturale interesse da loro dimostrato per i diversi aspetti della vita umana.
Non solo essi hanno saputo da sempre di essere un popolo formato da
numerose stirpi, ciascuna delle quali dotata di un proprio modo di vivere)
ma hanno rivolto ben presto la loro attenzione ai popoli stranieri, hanno
viaggiato, raccolto informazioni, hanno conosciuto le costumanze altrui,
mostrando spesso meraviglia ma giammai presunzione. All'inizio del V
secolo a.c. nacque la scienza dell'etnologia: si fecero descrizioni dei
popoli dell'Egitto, dell'Asia Minore, della Mesopotamia, etc. In esse si
poteva leggere che in questi paesi venivano severamente proibite molte
cose che presso i Greci erano invece considerate convenienti, e viceversa.
E i Greci erano abbastanza obiettivi per concludere che evidentemente i
loro costumi, come quelli degli stranieri, si fondavano esclusivamente
sulla consuetudine e non potevano in nessun modo pretendere a un'asso­
luta validità. Il problema che portò a compimento il processo di dissolu­
zione dell'etica tradizionale e che aprì la strada alla riflessione filosofica fu
quello di sapere se esiste in generale una moralità assoluta e, in caso
affermativo, dove era possibile trovarla.
3. Difficile da cogliere ma, con ogni probabilità, molto importante
dovette essere l'influenza esercitata dalle condizioni particolari della de­
mocrazia ateniese del V secolo a.c. Si è chiamata l'Atenè di allora una
« repubblica di avvocati». È giusto dire che l'attività giudiziaria e la
giurisprudenza vi giocarono un ruolo di straordinaria importanza (e qui
non intendiamo stabilire se Atene, sotto questo riguardo, avesse avuto o
meno dei precursori nelle grandi città siciliane).
Non solo l'attività giudiziaria ma anche la discussione teorica di casi
giuridici importanti, complessi o stravaganti divenne una passione vera e

4 Sul concetto socratico dell'indeterminabilità del bene cf.: XENOPH., Mem. I 2, 3;


VALER. MAX. VII, 2 ext. 1.
38 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

propria; e la composizione di arringhe per casi del genere, un'arte assai


stimata. Era inevitabile che l'etica ne risentisse. I «casi» si moltiplica­
rono rapidamente e alla loro risoluzione non bastarono più le massime
tradizionali, anche se apparentemente chiare. Citiamo qui solo due degli
esempi comunemente ricorrenti.
Il primo. Un padre ha un figlio mortalmente ammalato e vuole
dargli una medicina che lo salverebbe, ma sa che il figlio la rifiuterebbe
se venisse a sapere di che cosa è composta. Può mentirgli?
Il secondo. Un amico mi ha,dato in consegna un'arma. Un giorno,
colpito da un accesso di follia, mi richiede l'arma, probabilmente per
usarla contro sé stesso o contro altri. Posso rifiutarmi di restituirgliela?
La conclusione generale che se ne ricava è che precetti apparente­
mente universali, come quello del rispetto della verità, della fedeltà ai
patti e cosÌ via, debbono essere in realtà diversamente interpretati a
seconda dei casi o, eventualmente, addirittura disapplicati. L'etica si
ridurrà allora a una casistica senza fine nella quale sarà impossibile
trovare alcun solido punto fermo.
Queste considerazioni portano alla dissoluzione della primitiva etica
prefilosofica, sulle cui rovine la filosofia cerca ora di erigere il suo nuovo
edificio. Essa si propone un duplice scopo: trovare una base sulla quale
non incidano le contingenze storiche e ordinare i dati dell'etica in modo
da costituire un sistema scientifico.
Il primo scopo fu raggiunto sulla base dell'etnologia e - bisogna
rilevarlo - anche della medicina. Il concetto di natura che noi sopra
abbiamo definito come la «vera realtà », acquista ora un significato
pregnante. Deve esistere, al di là di ogni costume particolare, storico,
un'etica fondata semplicemente sulla natura umana. Come nell'ambito
della realtà corporea esiste, - �l di là delle deformazioni provocate da
infortuni, malattie, attività professionali e abitudini di vita - una costi­
tuzione «normale» che rappresenta la natura, qualcosa di analogo deve
anche esistere nell'ambito dell'etica. Il problema è allora di sapere dove è
possibile trovare quest'etica secondo natura. I più antichi abbozzi di
etica filosofica danno in proposito una risposta assai semplice: la natura
dell'uomo si deve cogliere, o nello stadio precedente le sue differenzia­
zioni storiche o addirittura nell'animale il quale è un essere vivente che
agisce come l'uomo, ma il cui comportamento non conosce alcuna
differenziazione storica. Più avanti considereremo nei particolari le con­
seguenze di questa tesi. Qui basti accennare alle due dottrine particolari
che anzitutto ne sono scaturite. La prima, muovendo dalla constatazione
che il lattante è originariamente sensibile sia al dolore che al sentimento
di benessere, approda a quella che sinteticamente può definirsi un'etica
del «piacere». La seconda invece, considerando l'animale ma utilizzando
GENESI STORICA DELLE PARTI DELLA FILOSOFIA 39

anche - paradossalmente - l'esperienza storica, perviene a quella che


altrettanto sinteticamente può definirsi un'etica della « volontà di po­
tenza». Questa seconda dottrina tuttavia si è dimostrata, a differenza
della prima, poco costruttiva. Comune ad ambedue è il tentativo di
stabilire un principio etico valido per tutti gli uomini.
Più complesso è invece il cammino che conduce all'etica sistematica.
Bisogna intanto partire dal fatto che il V secolo a.c. è un'epoca in cui lo
spirito scientifico è diventato, per cosÌ dire, una moda. Una quantità di
mestieri e di attività che fino allora erano vissuti all'interno di tradizioni
di famiglia o di corporazione all'interno di tradizioni non scritte, comin­
ciarono improvvisamente a interessare un pubblico più largo, grazie alla
pubblicazione di pregevoli trattazioni nelle quali venivano brevemente
ed efficacemente illustrati il fine, il significato e gli elementi di ciascuna
di queste discipline. CosÌ abbiamo dei trattati di medicina, di ginnastica
(ivi compresa la ginnastica curativa), di vari generi di sport, di culinaria,
di architettura, di giardinaggio,' di scultura, di arte poetica, di economia
domestica, e cosÌ via. Allo stesso modo nasce una scienza della giusta ed
efficace condotta del cittadino e, alla fine, dell'uomo in generale. I
rappresentanti di questa scienza indicano con slogans lo scopo che inten­
dono metodicamente perseguire: 'per uno è il « buon consiglio» 5, per un
altro la « condotta bene ordinata», per un terzo il « buon animo» 6.

Nella Socratica un posto centrale occupa una nozione formatasi esatta­


mente alla stessa maniera di quelle or ora ricordate e che originaria­
mente significava « benevolenza delle potenze divine»: 1'« eudaimonia».
Pur con tutti i mutamenti di significato che ha potuto avere, essa è
rimasta un concetto basilare dell'etica filosofica fino ai nostri giorni.
Intanto bisogna ricordare ancora due forme particolari attraverso
cui l'etica ha assunto veste scientifica. La prima si è prodotta quasi
spontaneamente: un'etica che si considera come restauratrice e conserva­
trice dello stato normale dell'anima, si pone immediatamente in paral­
lelo con la medicina che nello stesso senso si prende cura dello stato
normale del corpo. Questo parallelo, lungo i secoli dell'antichità, è stato
sviluppato dall'etica in tutte le direzioni. Il filosofo è il medico dell'a­
nima, suo compito è diagnosticare le malattie dello spirito (che, come
quelle del corpo, possono essere acute o croniche, semplici sta�i di
debolezza o predisposizioni a determinate sofferenze) e somministrare i
rimedi appropriati, naturalmente sotto forma di istruzione filosofica. Si
vede bene come fosse possibile all' etica, seguendo il modello della medi-

5 Euboulia, Cf. PLAT, Prot. 318 e,


6 Euthymia. Cf. Democr. fr. 2 c D-K.
40 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

cina, costituirsI un completo apparato tecnico. L'ellenismo è andato


molto avanti su questa strada, ma l'origine di questi metodi è indubbia­
mente molto antica. D'altra parte si deve ricordare quella massima di
saggezza, già citata, secondo la quale si deve chiedere agli dèi semplice­
mente il bene in generale, poiché solo essi conoscono ciò che per l'uomo
è bene sicuro e durevole. Quest'idea è stata collegata, forse da Platone
forse poco prima di lui, in modo sorprendente e straordinario, alla
nozione fondamentale dell'ontologia parmenidea 7. Come in questa al
mondo dell'essere uno, eterno, immutabile, accessibile solo all'intelletto,
se ne contrappone un altro - il nostro mondo - nel quale l'essere e il
non-essere sono incessantemente confusi insieme; così, nel dominio dell' e­
tica, accanto al bene uno, eterno, immutabile, oggetto di. una scienza
suprema, sta la massa sterminata delle cose empiriche che sono tutte
insieme buone e cattive. Così l'etica si trasforma, sulla falsariga dell'onto­
logia, in scienza sistematica. Il disegno platonico è, al riguardo, il più
importante, ma non è l'unico: si è avuta anche un'etica. del piacere,
strutturata secondo categorie ontologiche. Ma di questa parleremo più
avanti.
Aggiungiamo ancora un'osservazione: come si è già detto, accanto a
una costruzione di sistemi si è avuta anche un'indagine su problemi etici
avente per oggetto sia situazioni « limite» della vita, sia l'interpretazione
di casi forniti dalla poesia epica e tragica. Un mito, come quello del
matricidio di Oreste, provocò una quantità di discussioni su problemi che
si possono chiamare filosofici nella misura in cui non si risolvevano in
mere esercitazioni di casistica, ma adducevano alla formulazione di norme
universalmente valide.

c) Genesi della logica

Su questo tema possiamo essere brevi per due ragioni: anzitutto


perché conosciamo male i primordi della logica classica, ossia le tappe
della logica anteriore a Platone e Aristotele. Inoltre perché non si può
disconoscere il fatto che l'influsso esercitato dalla logica in senso stretto
sul corso del pensiero filosofico è stato assai limitato. Infatti, per quanto
raffinati siano potuti essere gli schemi logici di Aristotele o degli Stoici,
questi filosofi ne hanno tenuto ben poco conto nella loro filosofia della
natura come anche nell'etica. Così, per chi legge l'Etica Nicomachea, la
conoscenza della logica aristotelica è indispensabile solo in pochissimi
pasSI.

7 DIOG. LAERT. II 106.


GENESI STORICA DELLE PARTI DELLA FILOSOFIA 41

Alle origini della logica antica stanno due distinte componenti. Una
è l'analisi linguistica in quanto tale. Per poter distinguere tra loro
termini di significato affine, si procedette alla loro definizione e classifi­
cazione sistematica. Si classificarono le parti del discorso, si organizza­
rono le declinazioni dei sostantivi e le coniugazioni dei verbi. Il che
diede luogo a una gran quantità di osservazioni di natura logica.
L'altra componente è costituita dall'arte della dimostrazione che si
rivolge alla logica dal momento in cui, non contentandosi più dei soli
dati di fatto, inferisce da questi e assume il caso particolare entro regole
generali. Il che si verificò nel V secolo sia nel campo della giurispru­
denza che in quello della filosofia della natura.
Possiamo fornire un bell'esempio dell'impiego, pur rozzamente ar­
caico ma già perfettamente consapevole, di strumenti logici nell'ambito
della filosofia della natura. Si tratta di un'argomentazione di Gorgia che
si può considerare in senso lato un discepolo di Parmenide: « Se qualcosa
è, non può esser nato. Infatti, se qualcosa nasce, bisogna che nasca o
dall'essere o dal non essere. Ma anzitutto non può nascere dall'essere:
infatti se l'essere si trasforma in qualcosa d'altro, cessa di essere 1'essere.
Inoltre esso non può trasformarsi in essere, perché già è, né in non
essere, perché il -non essere non può nascere. In secondo luogo 1'essere
non può nascere dal non essere, perché dal non essere nulla può na­
scere... » 8. Appar chiaro come argomentazioni di questo genere doves­
sero stimolare i filosofi a distinguere e a perfezionare sia i concetti che i
metodi. Il che è precisamente avvenuto con Platone e Aristotele.

8 D.K 12 82 B 3, p. 280, 27-31.


CAPITOLO QUARTO

La condizione della filosofia nell'antichità

Dopo aver esaminato il problema della genesi storica della filosofia,


dobbiamo ora logicamente considerare quello della sua collocazione
storica. Quale funzione i Greci hanno assegnato alla filosofia nel quadro
complessivo della cultura e nella vita del singolo?
Si può supporre fin da ora che ciascuna delle tre fondamentali
concezioni possibili della filosofia, delle quali si è parlato, abbia avuto i
suoi sostenitori.
Naturalmente la filosofia ha avuto anche avversari decisi, che a
volte sono stati anche numerosi. Purtroppo nella maggior parte li cono­
sciamo solo in modo indiretto. Li vediamo nella caratterizzazione che ne
fanno i filosofi che li combattono - si tratta prevalentemente di avver­
sari di determinati indirizzi filosofici, non della filosofia in quanto tale.
Nella tarda antichità possiamo osservare da vicino la maniera in cui i
cristiani utilizzarono, secondo l'occasione, loro argomenti. Ma ciò non
basta a darci un'immagine coerente dell'ostilità contro i filosofi ner
mondo antico.
Particolarmente spiacevole è per noi la carenza d'informazione sulle
varie misure prese ad Atene prima e a Roma poi, contro l'attività dei
filosofi. Sappiamo che contro di essi vi fu tutta una serie di processi tra i
quali i più noti sono quelli contro Anassagora, Socrate e Aristotele.
Purtroppo per nessuno di essi possediamo una documentazione aderente
ai fatti. Certo conosciamo bene il testo dell'accusa scritta contro Socrate,
ma esso è redatto in termini cosÌ generali che non sappiamo a quale
situazione concreta si riferisca. Chiaro è solo il fatto che in questi
processi un ruolo decisivo giocava il disprezzo dei culti riconosciuti
dallo stato. CosÌ ad Anassagora si mossse il rimprovero che le sue
dottrine favorivano l'ateismo, mentre, viceversa, a Socrate e ad Aristo­
tele sembra sia stata rinfacciata la pratica di culti illeciti e scandalosi.
Altro motivo di rammarico per noi è la conoscenza frammentaria
dei violenti attacchi rivolti contro i filosofi dai pubblicisti dell'Atene
classica. Esiste un discorso, pronunciato da Democare, nipote di Demo­
stene, nell'anno 306 a.c., contro i filosofi più in vista nell'Atene del
44 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

tempo 1. Qualche rara allusione ci fa sapere che i discepoli di Platone, e


anche quelli di Aristotele, passavano per perfidi nemici della democrazia.
Si conosce anche il detto significativo in proposito: «Non si possono fare
giavellotti con le erbe aromatiche, come non si possono fare uomini
capaci con le lezioni di filosofia». Si tratta dello stesso rimprovero che un
secolo prima Aristofane aveva così formulato: la filosofia non sa fare altro
degli uomini che dei pallidi sognatori, dei cavillatori morti di fame, e
degli effeminati smidollati. In età romana Cicerone ha dovuto difendersi
dal medesimo sospetto. Ciò significa che le discussioni filosofiche sembra­
vano incompatibili con la dignità di un cittadino romano appartenente al
rango di magistrato. In generale si può ritenere che nell'antichità le accuse
contro la filosofia si muovevano, grosso modo, su due piani. Per un verso
si giudicava la filosofia come un pericoloso rischiaramento dell'intelli­
genza, come distruttrice della pietà religiosa e dei buoni costumi; per un
altro essa era disprezzabile in quanto occupazione di maestri di scuola,
indegna del cittadino consapevole dei suoi doveri come dell'uomo di
mondo.
Accanto a questo si deve tuttavia rilevare un altro atteggiamento che
accettava la filosofia come una partI; della cultura generale: si reputava
utile perciò che un giovane, accanto alle altre cose, apprendesse anche un
po' di filosofia. Si trattava di un dovere per chi volesse allargare il proprio
orizzonte culturale e consolidare i suoi principi morali; inoltre la filosofia
poteva far acquisire un'apprezzabile capacità nel discutere problemi diffi­
cili. Questo atteggiamento divenne manifesto e predominante fin dai
tempi di Aristotele. La maggior parte degli uditori delle lezioni e delle
dispute filosofiche erano già a quell'epoca dei profani che intendevano
completare la loro formazione culturale senza per questo voler divent�re
degli «specialisti». Si frequentavano le lezioni di filosofi dei più svariati
indirizzi. Ai tempi di Cicerone si era arrivati al punto che si poteva
addirittura parlare di ben quattro università esistenti ad Atene (degli
Accademici, dei Peripatetici, degli Stoici e degli Epicurei) che venivano
frequentate per alcuni anni da giovani studenti. Gli stessi filosofi si erano
resi conto di questa situazione e noi possiamo osservare come già nella
Socratica i «giovani» fossero considerati i veri destinatari dell'insegna­
mento filosofico. Essi dovevano più degli altri essere indirizzati· allo
studio della filosofia e ciò significava implicitamente che non s'intendeva
farne dei filosofi in senso stretto, ma dar loro piuttosto una formazione
filosofica di base per la loro futura attività, qualunque essa sarebbe stata.

1 Resti di questo discorso sono rintracciabili in: ATHEN. Deipn. V 187 d, 215 c; XI
508 f; XIII 610 f; EUSEB., Praep. evo XV 2, 6.
'
LA CONDIZIONE DELLA FILOSOFIA NELL ANTICHITÀ 45

I filosofi pubblicavano anche, a tal fine, libri, guide e manuali 2, per


coloro che, per mancanza di tempo o di opportunità, dovevano accon­
tentarsi della conoscenza dei principi fondamentali di un sistema filoso­
fico. Accanto alla filosofia degli « addetti ai lavori» si poneva quella per
le persone colte, distinzione che si ritrova già in Aristotele. Quel che
serve alla persona colta è la conoscenza di alcune dottrine fondamentali
che la orientino nella vita e di alcune regole metodiche che le consen­
tano di distinguere, almeno alla grossa, le affermazioni vere dalle false.
Tuttavia i filosofi, ancora a partire dall'età di Socrate, malgrado tali
concessioni, non rinunciavano alla pretesa che la filosofia per principio
dovesse informare l'intera vita dell'uomo: senza la filosofia, dicevano, è
assolutamente impossibile vivere un'esistenza degna dell'uomo. Tutti,
uomini e donne, giovani e vecchi, devono filosofare; e non si è mai
troppo giovani o troppo vecchi per incominciare. Uno degli interlocu­
tori di Socrate fa la solenne affermazione che, se è vero quel che Socrate
dice, allora si è obbligati a cambiare radicalmente la propria condotta di
vita J. Quest'affermazione viene illustrata da una serie di racconti che
dimostrano la profonda trasformazione subìta da un uomo di mondo
attraverso il contatto con la filosofia: come Alcibiade, come il platonico
Polemone e altri ancora.
Un diverso modo di provare la pretesa universalistica della filosofia
è dato dal carattere pubblico della sua azione pratica: così Socrate tiene
le sue conversazioni nelle piazze e nelle strade, poiché quel che ha da
dire interessa ogni uomo. Questa pubblicità senza riserve viene mante­
nuta anche dalla maggior parte delle scuole filosofiche dell'età ellenistica,
anche se non si può negare che col tempo essa si ridusse a una mera
finzione. Tuttavia in alcuni casi la pubblicità veniva intesa nel suo senso
originario, come per esempio da Aristone, uno dei più antichi filosofi
stoici, il quale a chi gli rimproverava di discutere inconsideratamente col
primo venuto, diede questa risposta: « lo desidererei al contrario che
anche gli stessi animali fossero capaci di comprendere le esortazioni della
filosofia » 4.

Tuttavia un'obiezione ben più grave si para a questo punto: se la


filosofia è realmente indispensabile per la condotta di una vita degna
dell'uomo, bisogna allora presumere che gli uomini abbiano avuto sem­
pre e dovunque la possibilità di accedere ad essa. Il che non sembra

2 Katekismen: ossia manuali didattici contenenti i principi fondamentali di una dot­


trina filosofica espressi in formule concise. Cf. infra p. 81.
J PLAT. Gorg. 481 c.
4 Cf. S(toicorum) V(eterum) F(ragmenta) ed. v. Arnim I 382.
'l'' l'R08I.EMII'ONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

vero. La storia infatti ci insegna che la filosofia è una conquista non


molto antica né particolarmente diffusa nel mondo. Essa esiste solo
presso i Greci e, anche qui, non presso tutte le loro stirpi. Talete l'ha
introdotta tra gli Ioni, Pitagora tra i Dori dell'Italia meridionale.
I filosofi non hanno preso tale obiezione alla leggera, ed hanno
cercato di confutarla in due modi diversi.
Da una parte essi hanno infatti ammesso senza riserve che la filoso­
fia è una produzione molto recente e precaria dello spirito umano. E la
ragione è semplice: in ogni sviluppo organico, il prodotto più perfetto è
l'ultimo a nascere. La filosofia è l'opera più nobile e raffinata di cui
l'uomo sia capace e perciò essa non poteva nascere che alla fine dell'evo­
luzione dell'umanità. Quest'idea è ben illustrata in un'esposizione som­
maria risalente con tutta probabilità ad Aristotele, nella quale questi
segue l'evoluzione semantica del concetto di « sapienza» 5. In origine la
sapienza consistette nell'invenzione delle arti necessarie alla conserva­
zione della vita. In secondo momento furono considerati sapienti coloro
che con la loro arte rendevano lieta e piacevole la vita come i pittori, i
musicisti e simili. In una terza fase lo furono piuttosto coloro che
organizzarono le comunità statali. In una quarta fase la sapienza s'identi­
ficò con l'indagine ragionata sul mondo visibile e infine nella quinta,
raggiunta con Pitagora, con lo studio del mondo invisibile e con la
conoscenza di dio. La teologia filosofica è dunque il coronamento e il
fine di questo processo storico-culturale, raggiunto dopo un lungo pe­
riodo preparatorio.
Non meno importante è la tesi opposta la quale contesta la fonda­
tezza dell'obiezione precedente e cerca di dimostrare che in realtà la
filosofia è esistita da sempre e ovunque; infatti solo cosÌ risulta evidente
la sua necessità, ma la prova non è certo semplice ed incorre in tali
forzature da sconfinare addirittura nello stravagante.
CosÌ il problema dell'origine temporale della filosofia ha spinto alla
ricerca di una filosofia primordiale dell'umanità, ed è significativo il
fatto che lo stesso Aristotele, testé ricordato, ha svolto delle ricerche in
questa direzione. Egli ha fatto riferimento ai proverbi, interpretandoli
comè avanzi di un'antichissima filosofia i quali si sarebbero salvati
attraverso tutte le catastrofi dell'umanità per la loro rarità e saggezza.
Altri hanno carcato di dimostrare, attraverso le etimologie e i significati
delle parole, che alle origini della storia i creatori delle lingue sono stati
filosofi. Questo genere di dimostrazione, proprio dei Greci, fu a volte
ripreso dai Romani i quali speravano cosÌ di poter dimostrare di non

5 ARIST. De philos. fr. 13 Rose.


LA CONDIZIONE DELLA FILOSOFIA NELL' ANTICHITÀ 47

aver appreso da quelli la filosofia ma di averla posseduta fin da princi­


pio, almeno nei suoi rudimenti. Più curioso è il fatto che i Greci
abbiano cercato di far rientrare nella filosofia certi personaggi apparte­
nenti alla loro preistoria mitica. Secondo Teofrasto, discepolo di Aristo­
tele, la leggenda di Prometeo che ruba il fuoco dal cielo voleva signifi­
care che questi è stato il primo a donare agli uomini la filosofia 6. Altri
interpretavano in modo analogo certi racconti fantastici: così, ad esem­
pio, il racconto del gigante Atlante che reggeva sulle spalle la volta
celeste, adombrava � semplice fatto che questi era stato un astronomo e
un filosofo. Similmente Eolo sarebbe stato un astronomo e un meteoro­
logo, e perciò la leggenda ne avrebbe fatto il re dei venti; e affermazioni
analoghe si facevano anche a proposito di Tantalo, Bellerofonte, Fetonte
e altri. Queste costruzioni, che ci sembrano abbastanza ingenue, non
sono affatto il prodotto di riflessioni tardive, giacché in parte risalgono
fin all'età di Platone e sembravano plausibili ai Greci soprattutto perché
rispondevano a una duplice esigenza: da una parte riducevano racconti
fantastici a storie credibili; dall'altra procuravano alla filosofia quella
tradizione storica alla quale, per la sua dignità, essa aspirava.
Per quanto riguarda il problema dell'universalità della filosofia,
bisognava anzitutto guardare ai popoli non greci. Sotto questo riguardo
gli Egiziani si trovavano in una condizione privilegiata: la loro civiltà,
così compiutamente originale e ambiziosa nelle sue pretese, era stata
sempre per i Greci oggetto d'ammirazione. Si credeva senza difficoltà
che la casta dei sacerdoti egiziani si fosse consacrata, da tempo immemo­
rabile, alla filosofia e si raccontava di viaggi compiuti da famosi filosofi
greci in Egitto a scopo d'istruzione: Talete e Pitagora, Democrito e
Platone ed altri ancora. Accanto agli Egiziani si mettevano a volte i
Persiani per la teologia e i Caldei per l'astronomia, scienze delle quali la
filosofia ·ha potuto avvalersi. Lo stoico Posidonio ha annoverato tre
fondatori della filosofia, accuratamente ripartendoli fra i tre continenti
noti nell'antichità: ùno è il fenicio Moco per l'Asia; l'altro è il tracio
Zamolside per l'Europa; il terzo, per l'Africa, è il già ricordato Atlante 7.
Per il problema che c'interessa, straordinaria importanza acquistò, a
partire dall'età di Alessandro il Grande, l'India coi suoi «filosofi nudi»
o Ginnosofisti. Circolavano racconti su conversazioni filosofiche avute
da Alessandro con uno di questi sapienti e sulla profonda impressione
suscitata dal loro modo intrepido di darsi volontariamente la morte col
fuoco. In riferimento a ciò, lo stoico Zenone pronunciò il detto che

6 cf. Sch�L in Apollon. Rhod. 2, 1250.


7 POSID. fr. 57 Theiler.
48 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

avrebbe preferito vedere un Indio darsi fuoco anziché imparare a memo­


ria tutti gli argomenti che dimostrano l'indifferenza del dolore fisico 8.

Dove è da vedere implicita la tesi che la filosofia dei popoli barbari, -


come in parte anche quella degli antichi Greci, - non è un'astratta
filosofia di scuola ma una filosofia dell'azione.
Vanno infine ricordati i Druidi che, presso i Celti, coltivavano la
filosofia. In proposito c'è da dire che gli etnologi non sanno con
certezza se si trattasse di una filosofia genuinamente celtica o non
piuttosto di una semplice irradiazione del pitagorismo dell'Italia meridio­
nale. Tutte queste «annessioni» ci sembrano oggi particolarmente inge­
nue, ma la cosa essenziale in esse non sono le interpretazioni sconside­
rate di singoli dati dell'etnologia, sibbene l'idea fondamentale che la
filosofia, se è veramente indispensabile all'uomo, deve potersi in qualche
modo rintracciare presso tutti i popoli della terra.
Certo, altre volte è stata sostenuta la tesi opposta. Pare che Epicuro
abbia espressamente riconosciuto al solo popolo greco l'attitudine alla
filosofia 9. Ma si tratta di un'eccezione.
Dobbiamo ora tornare a una questione già precedentemente toccata.
Che la filosofia si rivolga sia ai giovani che ai vecchi è idea quasi ovvia.
Questa idea per la posterità è stata rappresentata dalla figura di Socrate
che discuteva anche coi ragazzi e spontaneamente dichiarava di essere
rimasto scolaro anche da vecchio. Non altrettanto chiaro è se la filosofia
si rivolga anche alle donne e agli schiavi. Certo, non esiste al riguardo
alcuna obiezione di fondo: nessuno ha mai seriamente negato che le
donne avessero un'anima uguale a quella degli uomini e che la differenza
tra liberi e schiavi si fondasse non sulla natura ma per lo più su
circostanze fortuite. Tuttavia donne filosofe come Aspasia o la figura
che le si appaia, Diotima, e più tardi Ipparchia, moglie del cinico
Cratete, sono apparizioni assolutamente inconsuete. La storia della filo­
sofia ha registrato come eccezionale il fatto che tra gli scolari di Platone
si trovassero due donne, tra quelli di Teofrasto uno schiavo, e che
Epicuro annoverasse tra i suoi amici donne e schiavi che erano ammessi
senza difficoltà e ben accetti.
Si deve infine rilevare che fin dall'età dei Presocratici la filosofia ha
rapporti specifici con le due classi che, per così dire, rappresentano gli
estremi della scala sociale: i principi e i mendicanti. Il filosofo viene
chiamato per servire, coi suoi ammonimenti ed esortazioni, da consi­
gliere al principe; nello stesso tempo egli è il solo a non piegarsi a lui in
nessuna circostanza e a non farsi accecare dalla sua forza brutale. L'anti­
chità ci dà notizia di molti filosofi che avrebbero respinto con fierezza
gli inviti dei principi - così ad esempio si sarebbe comportato Eraclito

8 SVF 1241.' EPIC.fr.143Arrighetti


LA CONDIZIONE DELLA FILOSOFIA NELL' ANTICHITÀ 49

nei confronti del re persiano Dario - e che sarebbero entrati 10 pole­


mica con loro. Dall'altro lato però il filosofo, per essere signore di sé
stesso e indipendente da chiunque, veniva a volte fatalmente considerato
assai vicino al vagabondo e al mendicante. Oppure, in una prospettiva
diversa: è il principe, malgrado gli si offrano tutte le possibilità, a
rivelarsi un essere sciocco e dissennato, mentre il semplice cittadino può
essere facilmente guadagnato alla filosofia. Così lo stoico Zenone, par­
lando di uno scritto filosofico inviato da Aristotele a un re di Cipro,
osservava maliziosamente che ad Atene il ciabattino dell'angolo della
strada aveva più talento filosofico del gran signore. Viceversa, si è potuta
a volte porre anche la caustica domanda: se per essere considerati degni
di un colloquio da parte dei filosofi non bisognasse prima diventare
commercianti o piccoli borghesi.
CAPITOLO QUINTO

L'influenza della filosofia sulla cultura antica

Dopo aver esaminato il problema delle fondamentali pretese avanzate in


linea di diritto dalla filosofia, dobbiamo ora considerare l'altro, conse­
guente, della dimensione in cui essa è riuscita storicamente a esercitare
un'azione formativa sul pensiero e sull'attività pratica del mondo antico.
Per dare una risposta a questa domanda noi disponiamo di due princi­
pali gruppi di fonti: le opere dei poeti e quelle degli storici. Maggiore
importanza hanno soprattutto le seconde, sia perché rilevano l'influenza
esercitata dalla filosofia sulla politica e sulla storia della cultura, sia
perché ispirate esse stesse da concezioni.filosofiche. Tra le fonti poetiche
si deve in primo luogo ricordare la commedia attica che ci fornisce
preziose indicazioni sulle opinioni che il cittadino ateniese del V e del
IV secolo a.c. aveva sulla filosofia e sull'interesse che nutriva nei suoi
confronti. Incomparabilmente più difficile è invece l'individuazione e la
valutazione degli elementi filosofici presenti nella tragedia: sono sorpren­
dentemente pochi i poeti che possono definirsi poeti-filosofi nel vero
senso della parola. Tra i più grandi di essi, un poeta romano occupa un
posto a sé: Orazio 1.

L'indagine scientifica ha trattato finora questi argomenti in modo


assai frammentario; pertanto le considerazioni che seguono non rappre­
sentano che un primo tentativo al riguardo.

a) Influenza della filosofta della natura

Quest'influenza raggiunge il massimo grado quando si tratta di


stabilire il posto della divinità e quello dell'uomo nella concezione
filosofica dell'universo.
Risalendo alle origini della religione greca, fin dove è consentito
giungere nella comprensione delle sue forme cultuali, si deve rilevare che

1 Lucrezio è un filosofo che scrive in poesia, come Empedocle: non può pertanto
essere menzionato in questo contesto.
52 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

il suo tratto carattenstlco è la concretezza immediata. Questa religione


resta legata al suo significato storico che è quello di soccorrere l'uomo in
situazioni difficili. L'uomo sa anzitutto della divinità soltanto ciò che
deve sapere per poterne ricevere aiuto. Egli conosce il luogo dove essa
dimora e donde possa invocarla. Egli sa il suo nome ed anche quel che
deve fare affinché la divinità sia disposta ad aiutarlo; infine conosce i
segni dai quali può arguire i sentimenti della divinità nei suoi con­
fronti e se essa gli è vicina. A questa fede, legata a un'esperienza storica,
corrisponde inoltre l'idea che non è sempre una sola e medesima divinità
a venire in aiuto nelle varie difficoltà della vita: nella malattia, nella
guerra, in viaggio, nelle doglie del parto. Questa religione si è completa­
mente dissolta a opera della filosofia della natura. Il che è certamente
avvenuto per vie diverse e in certo modo contrapposte.
Innanzitutto bisogna ricordare quel tipo di spiegazione razionale
che è essenzialmente legato allo studio scientifico dei problemi. La
filosofia mostra che il lampo, il tuono e fenomeni del genere non sono
per nulla segni divini ma dipendono da cause naturali comprensibili.
Così viene interrotto il ponte - indispensabile al sentimento religioso
primitivo - tra dio e l'uomo. E ancora: l'indagine scientifica s'impadro­
nisce di tutto il campo prima riservato all'arte profetica che
nell'antichità costituì notoriamente un sistema quasi scientifico con nu­
merose diramazioni. Profetici potevano essere i sogni o le frasi dette in
stato di trance; e ancora il volo degli uccelli, l'aspetto delle vittime
durante i sacrifici, determinate parole, gesti e così via. Certe dottrine
filosofiche hanno radicalmente respinto tali credenze; altre invece -
come la dottrina di Aristotele - hanno incluso nella loro antropologia,
dando loro una giustificazione, i sogni profetici e le estasi; e la Stoa è
giunta perfino a elaborare una teologia che le consentiva di ammettere
tutte le forze immaginabili di divinazione. Ma siffatte reazioni nei con­
fronti di antiche e troppo audaci spiegazioni razionali non poterono
impedire che la filosofia in generale portasse alla progressiva dissolu­
zione - almeno nelle persone colte - della fede nelle antiche, venerande
pratiche religiose. Ci si rese conto che, con sufficiente sagacia, i feno­
meni più impressionanti o sconvolgenti potevano essere ricondotti a
cause naturali.
U n secondo pericolo per la religione tradizionale era costituito dalla
costruzione dei sistemi scientifici. L'ordinamento spazio-temporale
dell'universo non lasciava ormai posto agli dèi. Le concezioni religiose
delle origini avevano assegnato agli dèi le regioni al di sopra e al di sotto
della terra abitata dagli uomini. In alto si trovavano non solo gli astri,
considerati di natura divina, ma anche l'Olimpo sede di Zeus e dei suoi
dèi. In basso c'era l'Ade ed era probabilmente diffusa la credenza che,
'
L INFLUENZA DELLA FILOSOFIA SULLA CULTURA ANTICA 53

dopo la morte, i malvagi continuassero a vivere sotto terra e gli eroi in


qualche luogo superiore. La filosofia della natura nell'età dei Presocratici
tendeva anzitutto a distruggere tutte queste concezioni. Tuttavia si conti­
nuò a credere - come in particolare vedremo più avanti - che gli spazi
al di là della luna servissero da dimora a esseri divini che invero non
avevano più nulla in comune coi vecchi dèi del culto e della leggenda.
Comunque la credenza in un mondo sotterraneo si rilevò definitiva­
mente insostenibile. E anche se Platone e Aristotele, ispirati da celebri
modelli della poesia epica, rappresentarono nei loro dialoghi mondi
sotterranei popolati da esseri tenebrosi e strani, tuttavia la filosofia della
natura in senso rigoroso - da Democrito in poi - tenne per fermo che
regioni siffatte non potevano esistere al di sotto della nostra terra e che
quel che si narrava in proposito non erano che fantasie di poeti che
nessuna persona colta doveva prendere sul serio, come in effetti avvenne
dalla fine del V secolo a.c.
Per quanto riguarda il divenire temporale dell'universo, non va
ignorato il fatto che in tutta l'antichità gli dèi non furono mai concepiti
come creatori ma semplici ordinatori del cosmo. Ora, nel VI secolo a.c.
la filosofia della natura cominciò a intendere il processo cosmogonico in
una maniera che rendeva superfluo ogni intervento degli dèi. CosÌ si
pensava che da una medesima origine derivasse la separazione del chiaro
e dell'oscuro, del pesante e del leggero e cosÌ via dicendo. Gli elementi si
ordinano da sé stessi e in modo conforme alla loro natura. La divinità
conserva invece la sua importanza in quei sistemi che includono il
principio teleologico nella spiegazione del mondo. Chi sottolineava la
bellezza o la funzionalità dell' edificio cosmico, era portato a inferirne
l'esistenza di una mente ordinatrice che avesse appunto voluto e creato
questa bellezza. Nasce cosÌ un concetto filosofico di dio come ordinatore
del mondo e come provvidenza. Ma è sintomatico che questo concetto
sia rimasto sempre povero e scialbo; e per quanto gli Stoici esaltassero
una provvidenza sommamente saggia, la cui azione ravvisavano perfino
nei vermi e alla quale a volte si rivolgevano con la preghiera, tuttavia
essa non si personificò mai e un abisso la separò sempre dagli dèi dei
vecchi culti.
Siamo cosÌ giunti a considerare il terzo pericolo: questo non deriva
più dalle discussioni sui fenomeni prodigiosi o sui sistemi cosmogonici
che non danno posto alla divinità, ma dalla teologia speculativa.
Da Senofane in poi la filosofia si è sforzata, in conflitto con la
tradizione, di elaborare una rappresentazione «pura» della divinità e in
ciò il successo non le è mancato. Nacque cosÌ la religione dei filosofi:
religione piena di significato ma anche di rappresentazioni astratte. I
Greci credevano a una pluralità di dèi che di regola eran� tutti antropo-
54 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

morfi. Antiche leggende religiose narravano la nascita della maggior


parte degli dèi e come essi potevano adirarsi e anche beneficare i loro
favoriti. La filosofia cominciò anzitutto a mettere in discussione la loro
figura umana. La concezione antropomorfica degli dèi si mostrò come
una conclusione assurda, seppur comprensibile, di una psicologia inge­
nua. Alla divinità si poteva soltanto attribuire una forma radicalmente
diversa da quella umana o infine, semplicemente, l'assenza di qualsiasi
forma.
Successivamente venne attaccato il politeismo. Se la divinità è l'es­
sere più potente - come si dice già in Omero - essa è una sola, giacché
una pluralità di esseri singolarmente potentissimi è impensabile: esiste
pertanto, in senso stretto, una sola divinità 2. Ma proprio su questo
punto la mosofia si mostrava in flagrante contraddizione con la tradi­
zione cultuale, e per parte sua nella più grande incertezza. Ci si
continuò a domandare se la solitudine potesse per sé considerarsi uno
stato di perfezione anche per una divinità e se fosse giusto accollare a un
solo dio l'intero peso del governo del mondo. CosÌ la maggior parte dei
sistemi filosofici dell'età ellenistica ammisero l'ipotesi abbastanza preca­
ria che, accanto a un dio supremo, esistesse tutta una gerarchia di
divinità di secondo ordine; e nella tarda antichità i cristiani ebbero facile
gioco nel dimostrare l'inconseguenza della filosofia proprio in materia di
monoteismo.
Inoltre la teologia filosofica considerava necessaria l'eternità di dio:
il che comportava la dissoluzione di tutte le leggende sulla nascita e la
fanciullezza degli dèi, come anche di quelle sulla loro morte, per la
verità assai rare nella mitologia greca. Eternità significa immutabilità
immune da vecchiaia. Accanto a questa, quasi inevitabilmente subentra
l'immutabilità spirituale. La volontà e il pensiero di dio sono eterna­
mente gli stessi, da lui sono escluse le vicissitudini dell'amicizia come
dell'inimicizia, della benevolenza come dell'ira. Se poi consideriamo,
come ultima conseguenza, che la divinità, non avendo forma definita, è
presente dovunque e che, in quanto spirito onnipresente, è anche onni­
sciente; appar subito chiaro che una siffatta teologia, speculativamente
inoppugnabile, toglie ogni fondamento alle forme tradizionali della reli­
gione. Perché pregare, se la divinità conosce già da tempo e meglio di
noi stessi i nostri desideri? Far sacrifici, nel senso di offrire doni alla
divinità, è cosa risibile, poiché essa, nella sua onnipotenza, può disporre
di ogni cosa.

2 Cf. il trattateIlo pseudo-aristotelico De Melisso Xenophane Gorgia 977 a (= D-K 21


A 28).
'
L INFLUENZA DELLA FILOSOFIA SULLA CULTURA ANTICA 55

Ma anche in ogni altro senso la preghiera e il sacrificio diventano


problematici, giacché essi mirano a suscitare la benevolenza degli dèi nei
nostri confronti. Ma essendo la divinità immutabile, già il desiderio di
influenzarla la offende e diventa del tutto irragionevole l'erezione di
statue degli dèi o di templi, come se la divinità si lasciasse rinchiudere in
abit�zioni. Così non restava più nulla del culto tradizionale.
Si deve però subito aggiungere che gli attacchi dei filosofi contro la
preghiera, i sacrifici, le statue, le immagini cultuali e' i templi, malgrado
la loro frequenza, rimasero sempre allo stato di formulazioni teoriche.
Proprio in età ellenistica le grandi scuole filosofiche attribuirono manife­
stamente grande importanza al fatto che i loro aderenti partecipassero in
modo corretto alle feste religiose, ai sacrifici, alle processioni e alle altre
cerimonie prescritte dalle leggi e dai buoni costumi. È anche significa­
tivo che la scuola che più aveva esperienza della vita e del mondo e che
era anche, in generale, la più prudente - la scuola di Aristotele -
nell'enumerazione dei vizi umani condannasse la superstizione più seve­
ramente della stessa miscredenza.
Quali furono gli effetti di queste vedute filosofiche sulla religiosità
dei Greci? Senza scendere nei particolari, possiamo dire che, ad esempio,
fu reciso ogni residuo legame che originariamente univa mito e reli­
gione. Già dai tempi di Omero si sapeva che il poeta aveva la libertà di
rielaborare a suo piacimento le leggende tradizionali. Il mito era �rmai
completamente nelle mani dei poeti. Dal punto di vista filosofico esso
non racchiudeva in sé più verità di qualsiasi altro genere di poesia. La
religione cultuale rimase intatta, ma si ridusse a un insieme di atti
formali che si compivano per pura convenienza.
Quel che restava era anzitutto una vaga religiosità che riconosceva,
genericamente, l'esistenza di un potere divino e supponeva un intervento
diretto della divinità in certi fatti straordinari e per il resto parlava
sempre più del caso come forza assolutamente imprevedibile. Nell'età
ellenistica il forte sviluppo di una credenza rassegnata nella Tyche­
Fortuna non mancò d'influenzare la filosofia. Bisogna in primo luogo
ricordare Aristotele, il quale aveva distinto esplicitamente un mondo
sopralunare, retto da un ordine divino, da quello sublunare, abitato dagli
uomini e sul quale non regnava alcun ordine ma solo una imprevedibile
contingenza. Non a torto la tarda antichità rimproverò ad Aristotele di
aver negato la provvidenza in senso proprio e di aver abbandonato al
caso l'esistenza umana.
Non sorprende poi di vedere questa religiosità ellenistica, anche se
non filosofica certamente assai intrisa di filosofia, divenir pericolosa­
mente preda di nuove religioni di diverso livello. L'ellenismo è l'età in
cui comincia ad apparire la magia, mentre dall'oriente affluiscono i culti
56 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

più rozzi ed eccitanti. Solo in un esiguo ceto di persone colte la filosofia


riesce a produrre e conservare una religiosità pura, ma sempre più fiacca.
Negli altri, nella misura in cui ne hanno una qualche cognizione gene­
rale, la filosofia non produce che il vuoto. Molti si contentano di questo
vuoto, mentre altri passano a nuove religioni che però - a differenza
dall'antica religione greca - non vengono sottomesse dalla filosofia ma
al contrario si sforzano di sottometterla a sé.
Con le nozioni di destino e di caso noi abbiamo già in parte
accennato al secondo fondamentale problema che ora dobbiamo affron­
tare. Dopo aver esaminato quello dell'influenza della filosofia sull'idea
della divinità, bisogna ora affrontare il problema della posizione del­
l'uomo nel cosmo.
Qui entrano in gioco due aspetti ben individuabili, anche se non
molto appariscenti.
Il primo. Già dai tempi di Anassimandro si afferma la tesi che il
nostro cosmo visibile non è l'unico ma che, accanto, prima e dopo di
esso, devono esistere infiniti altri mondi. Fin d'allora si cerca di determi­
nare le dimensioni spazio-temporali del nostro mondo. Si dimostra cosÌ
che le regioni note a ogni singolo uomo rappresentano solo un fram­
mento della superficie terrestre e che l'età del cosmo rappresenta un
multiplo del tempo storico da noi percepibile. Tutto questo provocò
una massiccia svalutazione del significato delle vicende umane. La gloria
e la potenza si riducevano - al cospetto del cosmo - a miserevoli
nullità. Anche il nome più celebre non arriva che a ben poche nazioni e
già dopo un paio di secoli viene dimenticato. Rivolgendosi alla posterità,
Cicerone ha parlato nel modo più efficace degli effetti demistificatori
della filosofia della natura sulle nostre rappresentazioni del cosmo J. Ma
queste idee risalivano certamente a parecchi secoli prima. Alle origini
della Socratica deve risalire questo racconto: Socrate, vedendo Alcibiade
andar superbo delle sue molte terre, lo condusse dinanzi a una carta
geografica e lo invitò a cercare lì l'Attica e, in questa, le sue proprietà
terriere. Alcibiade riuscì appena a trovare l'Attica, ma non i suoi posse­
dimenti. Al che Socrate gli chiese: « Vai dunque superbo per inezie tali
che non sono neanche segnate sulla carta geografica?» �. Di tre genera­
zioni più recente è il racconto di Alessandro il Grande che scoppiò in
pianto nell'ascoltare una conferenza del filosofo Anassarco sull'infinita
pluralità dei mondi; e quando gliene fu chiesto il motivo, il re cosÌ
rispose: « Come non aver motivo di piangere, quando penso che di
questi mondi infiniti non sono riuscito a conquistarne per intero neppur
uno?» s.

J CIc. Hortens. frr. 78-80 Grilli; De rep. VI 20.

� AELIAN. Varo hist. III 28.


5 VALER. MAX. VIII 14 ext. 2.
'
L INFLUENZA DELLA FILOSOFIA SULLA CULTURA ANTICA 57

Il secondo. Rientra nei metodi di pensiero della filosofia delle origini


spiegare le cose non evidenti attraverso il confronto e il paragone con
ciò che è evidente. Ne nascono uguaglianze che si possono sfruttare da
ambedue i lati del confronto. Tra le più feconde di risultati possiamo
ricordare quella in cui sono collegati l'uomo, lo stato e il cosmo.
L'uomo, per la sua interna struttura - sia corporea che spirituale -
viene concepito come uno stato: cosÌ la malattia fisica come il vizio
morale sono paragonabili a una rivoluzione. Viceversa, anche lo stato
può essere inteso come un organismo vivente, comprendente un gran
numero di membri. Un'equazione può essere ancora stabilita tra l'uomo
e il cosmo, nel senso che l'uomo viene considerato come un universo in
miniatura e questo come un compiuto organismo vivente. E alla fine
non fu difficile concepire il cosmo come uno stato con forze dominani e
forze dominate.
Studieremo più avanti i risultati di queste varie comparazioni sia
nella cosmol;gia che nell'atropologia. Qui ci preme soltanto rilevare che
in questo modo un certo numero di concetti relativi alla realtà umana
venivano ad acquistare una dignità cosmica che in principio non posse­
devano. Accanto alla legge politica appariva una legge cosmica che ben
presto pretenderà di essere il modello e la radice delle leggi umane,
accanto all'eros della poesia lirica compare l'eros cosmogonico, e cosÌ
via. Particolarmente interessante e ancora poco studiata è la veduta -
che si fa strada a partire dal tardo ellenismo - secondo la quale il
monarca terreno sta in rapporto diretto col monarca cosmico. Questa
idea era già stata espressa da tempo, ma soltanto un secolo prima di
Augusto si cominciò a teorizzare - con rinnovata passione - la fonda­
zione della monarchia in senso cosmologico.
CosÌ la filosofia della natura contribuÌ a dare un significato nuovo
alla condizione umana.

b) Influenza dell'etica

Su questo tema possiamo distinguere due questioni: 1) Fino a che


punto i filosofi hanno inciso nella vita pratica? 2) In che misura gli
uomini d'azione si sono lasciati influenzare dall'etica filosofica?
La prima questione ha fortemente impegnato il pensiero antico.
Abbiamo già rilevato che nell'antichità è esistito uno stato di tensione
tra filosofia e politica. Il primo atteggiamento del filosofo è stato sempre
quello di un rigoroso distacco dalla politica, considerata come un'arena
di successi sleali e di gloria facile. Tuttavia non sono stati pochi i filosofi
che hanno quanto meno abbozzato un ritorno ad essa, nella consapevo-
58 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

lezza che non si potesse cosÌ semplicemente abbandonare a sé stessa la


comunità politica. Noi riscontriamo questo secondo atteggiamento anzi­
tutto in una serie di progetti di stati ideali - che qui tralasciamo di
menzionare - ma soprattutto in un lungo elenco di filosofi che lavora­
rono come legislatori o che si misero a disposizione dello stato come
magistrati o soldati o incaricati di delicate missioni diplomatiche. Alcuni
di essi si distinsero come statisti, altri come precettori e consiglieri di
principi, altri ancora come combattenti contro la tirannide.
Non è qui il luogo di riportare questi elenchi, anche perché in
molti casi non sappiamo ancora fino a che punto siano storicamente
attendibili le notizie in essi pervenuteci. Com'è comprensibile infatti, la
maggior parte di questi elenchi hanno un esplicito intento apologetico:
essi mirano cioè a dimostrare che il filosofo non è sempre un tipo
originale, estraneo al mondo, ma che egli può anche fornire buoni
servigi allo stato. Tra i fatti sicuri citiamo rapidamente solo questi: il
vivo interesse dimostrato dai tiranni di Siracusa, Dionisio I e Dionisio
II, per la filosofia di Socrate e dei suoi discepoli e soprattutto per quella
di Platone; l'attività di Aristotele come precettore di Alessandro il
Grande 6; un libro del discepolo di Aristotele, Dicearco, nel quale l'au­
tore ricostruiva l'antico stato spartano sotto forma di stato ideale: e ogni
anno, in un dato giorno festivo, questo libro veniva letto a Sparta come
testo educativo per la gioventù; infine, nel 156 a.c. lo stato ateniese, in
seguito a un incidente politico, inviò a Roma una delegazione della quale
facevano parte i principali rappresentanti delle tre grandi scuole filosofi­
che degli Accademici, dei Peripatetici e degli Stoici. Il che fece sensa­
zione a Roma.
Passiamo ora alla seconda questione: fino a che punto si è esercitata
l'influenza dell'etica filosofica al di fuori delle scuole?
Per il mondo greco è estremamente difficile dare una risposta a tale
quesito. Notiamo semplicemente questo: se, per Atene, confrontiamo il
secolo precedente la morte di Socrate con il successivo, si ha l'impres­
sione che si sia verificato un grande mutamento. Per un lato si è passati
da una vitalità spensierata e addirittura licenziosa a un pedantesco senso
del decoro; per l'altro, da uno stile di vita spiccatamente politicizzato a
un disinteresse verso la stes,sa
considerata come un'occupazione ingrata e in sostanza volgare, dalla
quale la persona colta fa bene a prendere le distanze. È lecito presumere

6 I rapporti di Aristotele con Alessandro hanno scarsissima documentazione - il che


spesso si dimentica - nella letteratura dell' epoca. Solo nel tardo ellenismo essi vengono
rappresentati in modo romanzesco. Cf. DICAEARCH. fr. 1 Wehrli.
'
L INFLUENZA DELLA FILOSOFIA SULLA CULTURA ANTICA 59

che su queste linee di tendenza l'etica filosofica dei Sofisti abbia agito
come una forza propulsiva. Ma in generale non possiamo ancor oggi dir
nulla dell'influenza della filosofia - nel grandi secoli della grecità -
sulla persona di media cultura.
Tuttavia è possibile dimostrare, in modo particolareggiato, l'in­
fluenza esercitata dalla filosofia su un gran numero di storici importanti:
è così che Tucidide si apparenta alla Sofistica, come Senofonte a un
socratismo certamente dai contorni assai vaghi.
Negli ultimi anni del IV secolo a.c. esercitò una notevole influenza
l'opera di Teopompo di Chio, della quale purtroppo ci sono pervenuti
solo scarsi frammenti 7. Essa si ispirava alla morale cupamente pessimi­
stica, ma perciò appunto anche attivistica, del socratico Antistene. An­
che uno storico alessandrino, Onesicrito, simpatizzò per i Cinici. Egli
non solo ci ha informato dei riconoscimenti che i Ginnosofisti dell'India
avrebbero espressi su Socrate, Pitagora e Diogene, ma ha anche descritto
un preteso regno dell'India meridionale i cui abitanti vivevano secondo
la purezza della morale cinica 8. Dobbiamo anche presumere che parec­
chi storici abbiano trovato in Aristotele e nei suoi discepoli vedute
importanti, anche se le testimonianze in proposito sono scarse. A partire
da Aristotele, l'analisi dei fatti morali, la caratterologia, la fisiologia e
patologia della vita statale appartennero agli interessi specifici del Peri­
pato e sarebbe paradossale che gli storici non vi avessero attinto abbon­
dantemente. Uno degli avversari più accaniti del Peripato fu çertamente
Timeo di Tauromenio (Taormina), storico della Magna Grecia, la cui
opera ebbe grande diffusione 9. Timeo nutrì grande simpatia per il
filosofo «italico» Pitagora e, come sembra, . anche per i discepoli di
Socrate. In lui si fondono insieme patriottismo e interesse per la filoso­
fia: infatti, a quanto pare, egli annotò con particolare diligenza i vari
viaggi compiuti dai Socratici da Atene in Sicilia. L'opera storica di
Timeo - che giungeva fino al 264 a.c. - fu continuata da Polibio, uno
scrittore che mirò soprattutto a mettere in ombra il lavoro del suo
predecessore. Egli volle passare per politico attivo e in parte lo fu. Nella
sua opera - che non va molto al di là di un livello medio - egli si
colloca sulla linea del Peripato, la cui dottrina offriva, a suo avviso, i
maggiori vantaggi al politico pratico. Tutte le volte che tratta di teoria
dello stato o di etica, egli attinge dalle opere, a lui accessibili, di
Aristotele e dei suoi scolari. Stoico e peripatetico insieme fu infine

7 Cf. F.]ACOBY FrGrHist Nr. 1 15.


8 lo. FrGrHist Nr. 134.
9 lo. FrGrHist Nr. 566.
60 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

l'atteggiamento dello storico che, a sua volta, fu continuatore di Polibio:


Posidonio, amico e ammiratore di romani come Pompeo e Cicerone.
L'ispirazione filosofica in lui, che era anche filosofo di professione, è
molto più profonda di quella di Polibio. Il suo pathos è a volte stoico,
mentre la larghezza degli interessi e l'acutezza d'osservazione sono ari­
stoteliche.
Presso i Romani Sallustio fu l'erede di questi storici filosofanti. Per
lui indubbiamente la filosofia ha, in larga misura, valore di mezzo per
un fine determinato: la sua morale pessimistica ha lo scopo di accrescere
l'effetto letterario. I frammenti che ce ne sono rimasti non ci consen­
tono di conoscere fino a che punto si siano fatti sentire sull'opera
storiografica e sulle orazioni di Catone il Censore - già 150 anni prima
di Sallustio - le suggestioni filosofiche della letteratura socratica. La
cosa è comunque possibile.
Resta ora l'ultima questione: quale fu l'influenza della filosofia sulla
vita ordinaria della società. Dobbiamo riconoscere che nell'antichità solo
due brevi periodi ci consentono la possibilità di dare una parziale
risposta a questa domanda. Ad Atene è all'incirca la seconda metà del IV
secolo a.c., l'epoca degli ultimi grandi oratori e della commedia di
Menandro; a Roma è l'età di Cicerone e di Augusto. Per Atene, in
verità, non abbiamo molto da aggiungere a quel che si è già detto:
crediamo di riconoscere tracce dell'influenza della filosofia nell'affievo­
lirsi del sentimento religioso da una parte, e nella ricerca di una non
sempre onesta rispettabilità dall'altra. Un uomo come Demostene dà
l'impressione di non aver praticamente subito alcun influsso da parte
della filosofia.
A Roma la situazione è diversa. Il ruolo della filosofia nella vita del
« civis romanus » era a quei tempi oggetto di serie discussioni. Si poteva
combattere la filosofia come un corpo estraneo, ma la si poteva anche
utilizzare sia per trasformare la rozza durezza del romano in signorile
mitezza, sia per preservare le austere virtù degli antenati dalla corru­
zione e dalla mollezza dei costumi. La filosofia si mostra operante in
Scipione quando questi, nel 146 a.c., davanti alle rovine di Cartagine da
lui stesso espugnata, medita sulla fugacità di tutto ciò che è terreno IO. Lo
stesso può dirsi di un Catone che si tolse la vita per non cadere nelle
mani di Cesare e che, al momento del suicidio, si considerava come il
Socrate romano. Anche Cicerone fu filosofo e - nonostante le appa­
renze - non solo nei momenti di ozio. Similmente, la maggior parte
degli uomini illustri che egli ci fa conoscere, studiarono da giovani

IO Secondo la notizia di un testimone oculare: POLYB. XXXVIII 22.


'
L INFLUENZA DELLA FILOSOFIA SULLA CULTURA ANTICA 61

filosofia e di ciò qualcosa rimase in loro, anche quando divennero


magistrati romani. Se possedessimo le memorie di Augusto, vi scopri­
remmo con ogni probabilità che nella sua concezione del governo poli­
tico era presente una componente filosofica, anche se forse non molto
rilevante e non sempre autentica. Le sue ultime parole, rimaste celebri:
« Ed ora, amici, applaudite se ho recitato bene la mia parte ", richiamano
la saggezza di vita propria della filosofia greca.
Sarebbe tuttavia un compito per sé stesso imponente studiare l'in­
fluenza della filosofia sullo spirito, lo stile di vita e la politica dei
Romani: ci si troverebbe di fronte a situazioni assai complesse ed istrut­
tive. Non si potrebbe in ogni caso negare che a Roma la filosofia,
proprio perché dovette essere acquisita come un elemento di prove­
nienza straniera, fu presa molto più alla lettera, cioè più sul serio, di
quanto non fosse avvenuto presso i Greci. E questa tesi meriterebbe
qualche volta di essere dimostrata in modo particolareggiato.
CAPITOLO SESTO

Il ritratto del filosofo

Dopo aver trattato dell'ambito e dell'influenza della filosofia, bisogna


ora parlare del filosofo come rappresentante personale della medesima.
Egli infatti si pone in un rapporto ben preciso con ciò che rappresenta.
Si possono distinguere cosÌ quattro aspetti del problema: Come si legit­
tima il filosofo? Qual è la sua ricompensa? Come i grandi filosofi sono
giunti alla filosofia? E infine: come appare « dall'esterno» il lavoro del
filosofo?
Quando T alete ed Anassimandro scrivevano delle 9pere sul sistema
del mondo e sulle cause di fenomeni misteriosi, lo facevano perché
persuasi di poter insegnare qualcosa di nuovo e di più esatto rispetto alle
credenze dell'epoca.
A prima vista il fatto potrebbe sembrare banale, dato che ogni
discorso si propone d'istruire. E tuttavia questo stesso fatto può assu­
mere un significato più radicale: colui che insegna acquista l'autorità del
sapiente che vuole vincere la generale ignoranza degli uomini. E a
questo punto si pone il problema: con quale diritto colui che insegna
rivendica a sé stesso il possesso esclusivo di un tale sapere?
Già i poeti delle antiche teogonie erano consapevoli della necessità
di una loro legittimazione. L'uomo da sé non è in grado di conoscere
l'origine degli dèi o l'aspetto che può avere l'Olimpo o l'Ade. Egli deve
aver quindi ricevuto, al riguardo, un insegnamento che trascende la
misura umana. CosÌ Esiodo afferma esplicitamente il fatto inverosimile
di essere stato richiamato dalla sua condizione di pastore e di aver avuto
dalle Muse l'incarico di descrivere il nascere degli dèi; e ciò che egli
racconta non è propriamente discorso suo, ma piuttosto delle Muse che,
avendo il ricordo di tutto, parlano per suo tramite. Altri poeti sono
andati più in là con siffatte legittimazioni, presentandosi con molta
audacia come figli di dèi, come Orfeo e Museo. Nelle cosmogonie
filosofiche si ripeteva la stessa situazione. Secondo la regola della verosi­
miglianza, alla quale i Greci da Omero in poi riconobbero importanza,
l'uomo non è capace di conoscere da sé i limiti temporali e spaziali
dell'universo. Che cosa autorizza dunque il filosofo a pronunciarsi su
questi argomenti? Le tre risposte che, fondamentalmente, si possono
64 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

dare a questa domanda, furono tutte formulate già nel periodo presocra­
tico. Il filosofo può ripetere il suo sapere da una superiore rivelazione; ma
può anche, contro ogni verosimiglianza, considerare il suo spirito sovrano
come la fonte delle sue stesse idee. Infine, procedendo in senso inverso,
può affermare l'impossibilità di un qualsiasi sapere sicuro, e in tal caso la
sua legittimazione si fonda sul fatto che egli rispetta i limiti dell'uomo più
fedelmente di quanti nutrono, in proposito, pretese eccessive.
Il filosofo che fa discendere il proprio sapere dalla divinità, resta sulla
linea delle antiche teogonie. Questa è la posizione di Parmenide il quale
racconta il viaggio da lui compiuto sul carro del sole verso la dea che lo
ha istruito l. Il suo poema intorno all'essere, non è altro in senso stretto
che il discorso della dea, così come la Teogonia di Esiodo non è altro che
il canto delle Muse. Questo atteggiamento è invece superato da Eraclito e
da Empedocle i quali si vantano di una loro originaria comunione con la
divinità. Solo così si può comprendere l'atteggiamento di Eraclito che
solennemente si dichiara il solo sapiente nei confronti degli altri uomini e
formula le sue massime nello stile oracolare 2. Empedocle poi, sulla base
delle credenze pitagoriche, presenta sé stesso come un dio esiliato sulla
terra che benevolmente partecipa ai mortali il proprio sapere 3.
Ma dopo il V secolo a.c. un tale atteggiamento certamente non potè
più essere preso sul serio. La legittimazione attraverso la forza del proprio
logos personale trovò nell'antichità il più risoluto sostenitore in Epicuro,
come possiamo arguire dai magnifici versi nei quali Lucrezio ci rappre­
senta Epicuro che col suo spirito ha percorso il tutto infinito, appren­
dendo in esso le leggi del divenire e del trapassare di tutte le cose 4.
Si potrebbe ammettere che, sotto questo riguardo, Epicuro ha avuto
dei precursori tra i Presocratici. Sarebbe infatti difficilmente credibile che
un Anassimandro, un Anassagora, gli Atomisti abbiano potuto mettere
per iscritto le loro ardite costruzioni cosmogoniche, senza spiegare in una
qualche maniera che cosa li autorizzasse a tali formulazioni: poiché essi
non si sono fondati su un'ispirazione divina, resta solo che si siano
affidati alla competenza del proprio logos.
Il terzo atteggiamento si sviluppa come reazione a quello dei primi
Milesi: Senofane consapevolmente non insegna altro se non ciò che l'opi­
nare umano è capace di supporre. La sua superiorità nei confronti della
massa gli deriva dal fatto di intendere l'opinione come opinione S. La

l D-K 28 B 1.
2 D-K 22 BI.
3 D-K 31 B 112.
4 LUCR. De rer. nat. I 73-79.
S D-K 21 B 34.
IL RITRATTO DEL FILOSOFO 65

stessa idea affiora in Democrito e occasionalmente nei suoi discepoli, per


affermarsi poi decisamente con Platone. Basta ricordare le famose parole
dell'Apologia di Socrate: «lo so solo di non sapere nulla» 6. Da questo
momento in poi fu considerato come uno dei compiti fondame'ntali
della filosofia evitare la confusione tra opinione e scienza. Perciò in
Platone troviamo soltanto l'amico della sapienza e non il sapiente; e per
la stessa ragione la Stoa si rappresentò il «sapiente» in modo enfatico e
suggestivo ma pur sempre come figura ideale che non ricorre nella realtà
storica.
Ad assumere un quarto atteggiamento, molto sfumato, è stato Ari­
stotele. Da un lato, per lui, non esiste una contrapposizione radicale tra
il sapere del filosofo e l'opinione della massa. Le credenze popolari dei
tempi più remoti non sono puramente e semplicemente false, ma sola­
mente frammentarie e confuse. Il filosofo ha il compito di completarle e
chiarirle e la sua dottrina si legittima per il fatto che essa, nei suoi punti
decisivi, esprime proprio ciò che l'umanità ha presentito da sempre.
Dall'altro lato questa dottrina resta sempre alcunché di umano e dunque
incapace di raggiungere la certezza su tutto. In moltissimi casi noi
dobbiamo accontentarci di ipotesi provvisorie, nella speranza di poter
compiere ulteriori progressi attraverso un nuovo esame del problema.
Siamo cosÌ in presenza dell'atteggiamento «quantificante» tipico di Ari­
stotele: il filosofo non sa né tutto né nulla, ma qualcosa.
Quanto si è detto riguarda essenzialmente la competenza del filo­
sofo nell'ambito della filosofia della natura; ma le cose stanno diversa­
mente per quanto riguarda l'etica. Che il filosofo sia legittimato a
formulare i suoi asserti in questa materia, non può essere contestato. Ma
il problema in tal caso è un altro: fino a che punto l'etica filosofica può
realizzarsi nella pratica e, soprattutto, fino a che punto il filosofo la
attua nella sua stessa esistenza?
Sul primo aspetto del problema si può in generale rispondere: noi
non sappiamo in che misura Platone ha creduto nella possibilità di
attuare le sue teorie politiche. Aristotele ed Epicuro erano certamente
convinti che le loro dottrine etiche fossero attuabili e potessero servire
da filo conduttore nella vita pratica. Viceversa la Stoa, pur descrivendo
la condotta del saggio, è consapevole che questi non esiste. È evidente
che la forza stessa delle cose ha spinto i filosofi stoici a muoversi su due
piani: cosÌ, accanto a un'etica riservata al saggio in quanto uomo per­
fetto, ne subentra un'altra per l'uomo che aspira a diventarlo, cioè per
tutti noi. In un certo senso questa duplicità di piani è già prefigurata in

6 PLAT. ApaL 23 b. Ma non si tratta di citazione letterale.


66 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Aristotele il quale, come abbiamo visto, distingue una filosofia - e


dunque anche un'etica - per i filosofi da una filosofia per le persone
colte.
Per quanto riguarda il secondo aspetto del problema, sappiamo bene
che, fin dal sorgere dell'etica filosofica, si è mosso ai filosofi il naturale
rimprovero di saper ideare precetti sublimi ma di non attuarli nella loro
stessa vita. È altrettanto evidente che questo rimprovero è stato rivolto
soprattutto ai rappresentanti di dottrine radicali, dunque contro gli
Stoici la cui condotta pratica veniva maliziosamente messa a confronto
con la loro immagine ideale del sapiente. Ma anche in altri casi, la via
più facile e gratuita per contestare in questo campo la legittimazione di
un filosofo era sempre quella di insistere sulle debolezze della sua
condotta personale - inclinazione alla mollezza, alla superstizione, alla
sregolatezza, oppure alla pedanteria e alla presunzione -. I filosofi erano
costretti o a respingere queste accuse o ad adottare la posizione presa
dallo scettico Pirrone, di cui si parla in un grazioso aneddoto. Pirrone,
dunque, insegnava che il filosofo non deve lasciarsi turbare da alcunché.
Ma quando una volta un cane gli si avventò contro, egli quasi morì dalla
paura. A sua scusante osservò che è assai difficile spogliarsi completa­
mente dall'essere uomo 7.
Dobbiamo a questo punto considerare rapidamente un problema
molto particolare. È noto a ogni lettore di Platone che il suo Socrate in
nulla si contrappone così irriguardosamente ai Sofisti come nel fatto che
- contrariamente ad essi - egli non si fa pagare per le sue prestazioni.
A giustificazione di ciò Socrate fa valere il principio che la filosofia non
si può ridurre sullo stesso piano di una merce commerciabile e che colui
il quale accetta una retribuzione in denaro, perde la sua libertà perché
deve piacere a chi lo paga. Questo problema, in sé considerato, è
anteriore alla Socratica: esso si poneva già per i primi poeti. In ultima
analisi si tratta di una questione di gerarchia sociale. Poetare e filosofare
disinteressatamente è proprio dell'uomo aristocratico; chi cerca invece di
guadagnarsi il pane, agisce da mestierante. L'ironia maliziosa con la
quale il Socrate platonico parla dei favolosi onorari di un Protagora, di
un Gorgia e di altri, non ha mai mancato di esercitare una profonda
impressione anche nei suoi più tardi lettori.
Ma con ciò il problema non è definitivamente risolto. Quando
Aristotele parla del genere di vita del filosofo, osserva senza alcuna
enfasi che il filosofo, pur non riconoscendo valore ai beni del corpo e
della società, non può tuttavia assicurare la propria esistenza senza un

7 PIRRONE Testimonianze a cura di F. Decleva Caizzi, Napoli 1981; frr. 15 A, 15 B.


IL RITRATTO DEL FILOSOFO 67

minimo vitale. E ancor più chiaramente si esprime al riguardo Aristippo


in un motto di spirito che è manifestamente rivolto, tra l'altro, contro
l'immagine platonica di Socrate. Una volta fu rimproverato ad Aristippo
di accettare un onorario per le sue lezioni, pur essendo egli discepolo di
Socrate. Al che egli osservò: «Perché non dovrei farlo? Gli amici man­
davano a Socrate farina e vino, cosicché egli poteva permettersi di
tenersene un poco e rimandare indietro il resto. A darsi pensiero di lui
erano gli Ateniesi più eminenti, mentre nessuno si cura del mio mante­
nimento, tranne il mio servo Eutichide» 8. Ciò basta a dimostrare che il
rifiuto dell'onorario poteva anche essere un gesto nobile ma non sempre
adeguato alla realtà delle cose. Fu in questo senso che anche in età
ellenistica si continuò a discutere sulla questione dell'onorario del filo­
sofo e tutto lascia credere che, per esempio, gli Stoici abbiano resistito
alla pressione esercitata dal Socrate platonico, cercando di stabilire le
condizioni in cui anche per il filosofo è lecito il guadagno.
Era d'altronde naturale che la situazione cambiasse nel momento in
cui si organizzarono le scuole filosofiche. Allora il filosofo non venne
più remunerato a titolo individuale, ma sia gli allievi che gli occasionali
frequentatori pagavano i loro contributi alla scuola.
Esistono essenzialmente due situazioni-limite in cui per i con­
temporanei, come per i posteri, si rivela la personalità di un filosofo:
esse sono il momento della morte e quello del suo ingresso nella
filosofia. Di molti filosofi ci è stato tramandato il modo in cui sono
morti, ma purtroppo le notizie al riguardo sono così sommarie che esse
hanno per noi un mero valore di curiosità. Raramente ci sono stati
filosofi che - come Socrate - hanno affrontato la morte da martiri
della verità. Si sottolinea spesso il fatto che essi hanno affrontato l'inevi­
tabile con grande dignità. Più copiosi sono i racconti sulla vocazione alla
filosofia. Raramente essi fanno a meno di un momento drammatico, nel
senso che di solito si tratta di un salto imprevedibile che fa passare
l'uomo da un'esistenza oscura, gretta o mondana e dissipata, alla vita
filosofica. Ricordiamo qui solo alcuni esempi.
Secondo il celebre racconto di Platone, fu l'oracolo di Delfi - che
paradossalmente lo dichiarò l'uomo più sapiente - a fare di quel mode­
sto e inesperto piccolo borghese che era Socrate, un filosofo 9. Aristotele
arricchisce il racconto platonico, spiegando che fu piuttosto l'impres­
sione suscitatagli dal motto del tempio delfico «Conosci te stesso» a
o

8 Fr. I A 1 Giannantonio
9 PLAToApoL 21 a.
68 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

spingere Socrate alla filosofia. In ambedue i racconti è un avvertimento


del dio a dare l'impulso l O.

Una storia analoga si racconta a proposito di Diogene. Egli chiese


all'oracolo di Delfi a che cosa dovesse dedicarsi nella vita, e l'oracolo gli
rispose che doveva « rù::oniare la moneta». Diogene intese questo detto
enigmatico - che apparentemente gli consigliava di fare il falsario - nel
senso giusto, e cosl da allora si dedicò al compito di riformare, con la
sua filosofia, i costumi che « avevano corso» al suo tempo 11. Qualcosa
del genere si narra anche di Zenone, il fondatore della Stoa. Anch'egli
interrogò l'oracolo su quel che dovesse fare per vivere nel modo mi­
gliore la propria vita e quello gli rispose che doveva « unirsi ai morti».
Anch'egli intese il detto nel senso giusto, e si dedicò allo studio dei libri
degli antichi filosofi, divenendb cosl egli stesso filosofo. Per la verità
sembra che Zenone abbia raccontato la cosa diversamente. Egli faceva
prima il mercante e aveva acquistato in Fenicia della porpora; ma la sua
nave naufragò col carico nei pressi del Pireo. Recatosi allora ad Atene, si
sedette nel negozio di un libraio che stava appunto leggendo il secondo
libro dei Memorabili di Senofonte. Zenone si mise a leggerlo insieme a
lui, se ne entusiasmò e chiese alla fine dove poteva trovare uomini come
quelli che Senofonte descriveva. Un caso fortunato volle che passasse di
il il cinico Cratete. Il libraio lo indicò a Zenone, dicendogli: « Unisciti a
lui» 12. Da allora Zenone divenne filosofo. Secondo un altro curioso
racconto, anche Aristotele si sarebbe rivolto alla filosofia per un detto
dell'oracolo di Apollo. Viceversa Epicuro, opponendosi a questa tradi­
zione, afferma di essere giunto alla filosofia non per volontà di dio né
per caso, ma obbedendo alla propria inclinazione, esattamente all'età di
quattordici anni 1J.
Numerose sono peraltro le storie di conversione alla filosofia nella
cerchia di Socrate. Suggestiva è quella di Aristippo, originario della ricca
città di Cireneo Egli incontrò a Olimpia un amico di Socrate e gli chiese
con quali mezzi questi riuscisse a esercitare una cosl profonda influenza
sui giovani. L'interrogato rispose riferendogli qualcosa delle conversa­
zioni del maestro, il che provocò su questo ricco giovane una tale
impressione, che impallidl tutto e quasi svenne per il desiderio strug­
gente di conoscere Socrate. Si mise subito in viaggio per Atene e andò
da Socrate il quale lo iniziò alla filosofia 14.

lO ARIST. De philos. fr. 1 Rose.


11 DIOG. LAERT. VI 21.
12 DIOG. LAERT. VII 2-3.
Il EPIC. fr. 1 Arrighetti.

14 Fr. I A 12 Giannantoni.
IL RITRATTO DEL FILOSOFO 69

A questa aggiungiamo anche la storia di Senofonte. Una volta


Socrate lo incontrò in una viuzza e, sbarrandogli il passo col bastone in
modo che non potesse passare, gli chiese dove si potevano acquistare i
vari generi alimentari. Senofonte gli rispose e Socrate gli chiese ancora
dove gli uomini possono acquistare virtù e nobiltà d'animo. A questa
domanda Senofonte non seppe rispondere e allora Socrate aggiunse:
«Seguimi dunque e lo saprai ». Da quell'istante Senofonte divenne
discepolo di Socrate 15. Ancora diversa è la storia di Fedone. Essa
dimostra come un uomo può giungere alla filosofia, sollevandosi dalla
più abietta condizione di vita. Fedone era originario d'Elide e, fatto
prigioniero in guerra dagli Ateniesi, fu venduto come schiavo e costretto
a esercitare il più disonorevole dei mestieri 16. Ma Socrate, avendo
scoperto le sue capacità, gli permise di riscattarsi e ne fece un suo
discepolo.
È nota la storia di Platone che da giovane aveva cominciato a
scrivere tragedie e stava già per far rappresentare una tetralogia com­
pleta, quando incontrò Socrate. Diede subito alle fiamme le sue compo­
sizioni poetiche e lo seguì 17.
Concludiamo con la storia dell'accademico Polemone (ca. 300 a.c.).
Da giovane egli era incredibilmente dissoluto. Una volta, accordatosi
con alcuni suoi amici, entrò di furia nell'Accademia col capo coronato
ed ebbro di vino. Ma lo scolarca Senocrate, che stava allora tenendo la
sua lezione, non si lasciò confondere e la portò tranquillamente a
termine. L'argomento era: il dominio di sé. Il giovane ne rimase colpito,
ascoltò attentamente, ne fu conquistato e si dedicò così seriamente alla
filosofia che più tardi divenne egli stesso capo dell'Accademia 18.
Numerosi sono gli aneddoti di questo genere nei quali l'elemento
storico rappresenta una piccola parte. Tuttavia queste narrazioni sono
significative perché rivelatrici della maniera d'intendere il conflitto tra la
filosofia e la vita ordinaria del cittadino, del gaudente o dello schiavo.
Allo stesso modo bisogna avere una veduta d'insieme dei modelli
ideali che consentivano di rappresentarsi concretamente l'azione del
filosofo. Infatti la ricerca della realtà vera è, in sé, qualcosa di astratto,
ond'è assolutamente necessario descriverla attraverso le immagini.

15 DIOG. LAERT. II 48.


16 DIOG. LAERT. II 105: « Fedone di Elide, degli Eupatridi, fu catturato insieme con la
caduta della sua patria e fu costretto a stare in una casa di malaffare» (D.L., Vite dei
filosofi tr. it. di M. Gigante, Bari 1962, p. 101).
17 DIOG. LAERT. II 60.
18 DIOG. LAERT. IV 16.
70 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Quale idea dunque si ebbe dei filosofi nei tempi antichi? Non ne
sappiamo molto, ma è tuttavia evidente che due motivi hanno avuto
un'importanza fondamentale. Il filosofo è anzitutto l'uomo che può
predire gli avvenimenti futuri; poi è il giramondo che visita i paesi
lontani esclusivamente per conoscerne gli aspetti. Non sarebbe difficile
rintracciare questi due tratti caratteristici fin nell'ambito del racconto
popolare. Quando Talete predice un'eclisse, altri un terremoto, una
tempesta e così via, codesta arte del pronostico è affine non solo a quella
del medico ma ha anche qualcosa in comune con ciò che faceva la gloria
del taumaturgo dei tempi più remoti. D'altra parte, alcuni dei filosofi
più famosi sono descritti come dei giramondo: Talete, Pitagora, Demo­
crito e Platone. La biografia di quest'ultimo vuole che egli abbia intra­
preso il suo primo viaggio in Sicilia per studiare i fenomeni vulcanici
dell'Etna 19. Del fatto poi che in tutta l'opera di Platone non vi sia il
minimo accenno alla cosa, i biografi non si danno pensiero.
Nondimeno già nello stesso periodo presocratico sorse un'immagine
opposta del filosofo. E ciò non soltanto nel senso che venne svalutata
l'utilità dell'arte del pronostico e si rifiutarono i viaggi come il prodotto
di una curiosità superficiale. Il filosofo esce definitivamente fuori dalla
sfera dell'attività politica e professionale. Egli rappresenta cosÌ un'attività
totalmente estranea al lavoro di un guerriero, di un proprietario, di un
commerciante; un'attività certo meno appariscente, ma in realtà più
preziosa di tutto ciò che fanno gli altri. Parados�almente il filosofo
s'avvicina ora al poeta, dal quale pure così radicalmente si distingue.
Quando Aristotele - che pur non è stato il primo a farlo - distingue
tre o quattro forme di vita, rispettivamente dedite all'ambizione, al
piacere, al guadagno, alla contemplazione della verità, dando a quest'ul­
tima la superiorità sulle altre per essere la sola ragionevole, egli si
riferisce ad antiche elencazioni nelle quali la saggezza del poeta veniva
ugualmente contrapposta ad altre attività professionali 20. Lo stesso Ora­
zio, in una famosa ode 21 nella quale si proclama poeta dinanzi al suo
amico Mecenate, si ispira ancora a qualche antichissima lista del genere.
Due cose sono comuni al poeta e al filosofo: anzitutto il fatto che la
loro vita si svolge lontano dalla folla e dai suoi desideri volgari; e poi
che essi, proprio in questa lontananza dagli uomini, si trovano partico­
larmente vicini alla divinità. Ciò ci permette di fare ancora qualche
passo avanti: infatti l'attività filosofica è stata sempre più ricondotta a

19 DIOG. LAERT. III 18.


20 ARIST. Eth. Nic. A 3.
21 OR. Carm. I 1.
IL RITRATTO DEL FILOSOFO 71

quella specificamente religiosa. Gli stessi filosofi non sono stati restii a
esaltare con enfasi la loro attività, attraverso locuzioni attinte dal domi­
nio delle idee religiose.
Non penso con ciò a u�a forma di legittimazione tramite la rivela­
zione religiosa, della quale si è già detto, giacché questa appartiene a un
altro ordine di considerazioni. Si deve piuttosto parlare del confronto
oltremodo produttivo tra metodo di conoscenza filosofica e iniziazione
ai misteri. La conoscenza della verità diventa visione di una realtà divina
e misteriosa, alla quale è ammesso solo colui che vi si è conveniente­
mente preparato e purificato attraverso un'iniziazione preliminare. Il
filosofo che guida su questo cammino il discepolo, diventa un ierofante e
la stessa visione viene descritta come un'illuminazione improvvisa che
succede a un lungo periodo di tenebre. Nella filosofia dell'età classica
espressioni simili sono in generale ancora rare e hanno sempre un
carattere simbolico. Nella tarda antichità esse si fanno però sempre più
frequenti: si parla sempre più di « mistero», di « mistica », di « catarsi »

e simili. Queste espressioni vennero riprese dai cristiani e in esse si deve


individuare una delle fonti della mistica medievale che più di una volta
ha interpretato alla lettera formule che in origine servivano semplice­
mente di ausilio all'intuizione.
L'affinità tra linguaggio religioso e linguaggio filosofico si mostra
anche in un'altra direzione. Si ammette che il filosofo ricerca una realtà
posta al di là dell'opinione corrente; ma egli non può raggiungerla,
perché troppo legato a questo opinare. Nel linguaggio della religione ciò
significa che l'anima dimora nel mondo terrestre come in un luogo
d'esilio, dove è condannata a restare per scontare una pena. La sua mèta
è di abbandonare questo luogo e pervenire in un beato aldilà che forse è
la sua stessa patria d'origine. I suoi due stati dell'ignoranza e del sapere
vengono allora equiparati rispettivamente al soggiorno dell'anima sulla
terra e a quello nell'aldilà che ora viene descritto come le « isole dei
beati» poste in un mitico oceano dell' occidente, ora come la regione
delle stelle e del cielo donde l'anima potrà anche guardare giù verso la
terra. Non potremo mai dire con sicurezza fino a che punto in filosofi
come Empedocle, Platone, Aristotele ed altri, espressioni siffatte possano
essere intese alla lettera e fino a che punto invece abbiano significato
simbolico. Indubbiamente la parte di simbolismo in esse contenuta è
assai più rilevante di quanto non abbiano pensato i Neoplatonici e i loro
successori. Ma un'interpretazione esclusivamente allegorica dei grandiosi
quadri dell'aldilà dipinti da Platone e Aristotele va forse troppo oltre.
Quando si parla della fuga da questo mondo, il discorso natural­
mente riguarda in primo luogo la filosofia della natura, dato che il suo
oggetto costringe fin da principio a uscire dal dominio delle opinioni
72 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

comuni. Diversamente stanno le cose con l'etica. Per i suoi compiti


s'impone l'uso di altre immagini ed allegorie.
Anzitutto si tratta di rappresentare il filosofo come l'uomo perfetto
che viene in conflitto con le potenze avverse alla filosofia; e si pensa in
primo luogo di paragonarlo a due figure mitiche: Eracle, l'uomo dei
primordi, che si è meritato l'accesso al mondo degli dèi combattendo
per tutta la vita contro esseri mostruosi e malvagi. Già alcuni sofisti, ma
poi soprattutto il socratico Antistene e i Cinici suoi discepoli, avevano
fatto di Eracle l'ideale del filosofo. Il filosofo è semplicemente un
combattente che cerca di abbattere le stolte opinioni, le assurde conven­
zioni e, più tardi, di vincere le passioni. La parola che riassume la vita di
Eracle, il lavoro faticoso (1t6\1oç), viene a significare il più alto valore
della vita. Più tardi, in Seneca, l'immagine ricorrerà in una forma più
scolorita e, nello stesso tempo, romanizzata come «philosophia mili­
tans». Lo spirito filosofico è un soldato che resta continuamente al suo
posto contro il nemico interno ed esterno.
La figura antagonista è quella di Odisseo, l'uomo prudente che sa
sempre adattarsi, con superiorità, a ogni situazione. Egli resta sempre
fedele a sé stesso, sia che le circostanze ne facciano un re o un mendi­
cante. Tra i Socratici è stato Aristippo, il grande avversario di Antistene,
a intendere in tal modo la filosofia. In lui l'ideale di Odisseo mostra di
evolversi in un senso sempre più attuale. Il filosofo diventa allora un
perfetto attore sulla scena della vita; egli interpreta brillantemente ogni
ruolo, sino alla fine, con la sicura coscienza che d'altro non si tratta
appunto che di un ruolo. E anche Orazio riferisce con ammirazione un
magnifico complimento che, secondo la tradizione, Platone avrebbe
rivolto ad Aristippo: «A te solo è consentito di andare in giro con ugual
22.
dignità, sia avvolto in stracci che in un mantello di porpora»
C'è infine da descrivere l'attività educativa e didattica del filosofo
nei riguardi dell'allievo. Abbiamo già avuto modo di accennare al para­
gone che a questo proposito veniva addotto più di frequente: il filosofo
è assimilato a un medico che coi rimedi della sua arte - le esortazioni
filosofiche - intraprende la cura di un'anima ammalata. Altri paragoni
che vengono istituiti si richiamano alla coltivazione dei campi e all'alle­
vamento del bestiame. L'anima del giovane è paragonata a un campo
che, dopo essere stato liberato dalle cattive erbe, deve essere perfetta­
mente preparato per la semina. Più tardi si dovranno apprestare le cure
opportune al grano che cresce, perché giunga a far frutto. Questo
paragone è particolarmente importante perché da esso è derivata l'idea

22 OR. Cam!o I 1.
IL RITRATTO DEL FILOSOFO 73

della « cultura animi ", della cura dell'anima, ossia della cultura. L'educa­
zione filosofica viene infine paragonata all'allevamento degli animali. Si
mostrano, in questo paragone, aspetti differenti: se si riesce ad addome­
sticare degli animali selvatici, allora dovrebbe riuscire anche più facile
ricondurre a ordine la vita di un uomo dal carattere difficile. E come si
sottomettono a disciplina cavalli troppo focosi attraverso un severo
addestramento, cosÌ bisogna agire con uomini troppo ostinati; viceversa
bisogna pungolare sia i cavalli che gli uomini tardi. In un senso diverso,
la Socratica e particolarmente il Cinismo (il cui nome deriva appunto
dalla parola « cane » ), si sono sforzati a volte di dimostrare che il cane è
un animale particolarmente dotato per la filosofia, raccomandandone
l'imitazione.
Un accenno sia pur marginale merita infine il ruolo dell'eros in
Platone e nei suoi seguaci. Non è facile peraltro vederci chiaro al
riguardo, per l'intrecciarsi reciproco di due elementi: il carattere erotico
del rapporto tra il filosofo e l'allievo (fenomeno originariamente di
natura sociale) e la descrizione del processo conoscitivo nel linguaggio
proprio dell'eros. La verità diventa allora oggetto del desiderio amoroso
e il filosofo va alla sua conquista come a quella di una donna amata. Ma
l'ellenismo per la verità disapprovò del tutto questa erotica platonica.
CAPITOLO SETTIMO

La forma dell' opera filosofica

NON è affatto irrilevante conoscere la maniera in cui il filosofo si rivolge


al suo pubblico. La forma che egli sceglie, per comunicare il suo pen­
siero, consente di trarre delle conclusioni sugli intendimenti che egli
effettivamente persegue.
A questo punto si prospetta un'alternativa di fondo: la filosofia deve
rivolgersi a tutti indistintamente e operare con la più larga pubblicità o,
viceversa, essa è riservata solo ai pochi in possesso dei necessari requisiti?
In questo secondo caso si fa valere il principio che - come ad esempio
in teologia - esistono delle verità filosofiche che non sono adatte ad
orecchie non preparate, perché corrono il pericolo di essere fraintese o
manipolate; o ancora, che ci sono problemi così difficili da essere accessi­
bili solo a pochi, mentre la moltitudine non sarebbe in grado di vedere
in essi altro che. sottigliezze sofistiche.
La storia ci testimonia che non si è mai scelta esclusivamente una
sola di queste possibilità, né fino alle sue ultime conseguenze: ché, al
contrario, la filosofia pretende anzitutto di partecipare conoscenze rite­
nute indispensabili agli uomini. Pertanto essa deve rendersi accessibile a
chiunque, non soltanto per ciò che riguarda il suo oggetto ma anche per
la sua organizzazione sistematica. Proprio per essere accessibile, il filoso­
fare di Socrate si svolge alla luce del sole, in piena pubblicità; e anche
più tardi, in Atene, la maggior parte delle scuole filosofiche trovano la
loro sede in sale ed edifici pubblici. Per altro verso però ogni filosofia,
in quanto mette in discussione opinioni e costumi tradizionali, ha biso­
gno della protezione di un certo esoterismo, e ciò indipendentemente
dal fatto, già rilevato, che l'insegnamento pubblico trova dei limiti
naturali nella complessità di parecchi problemi. La filosofia non può
evidentemente, per amore di una sua universale comprensione, ·rinun­
ciare a una trattazione del proprio oggetto d'indagine che sia conve­
niente alla sua natura.
Indubbiamente all'interno della Socratica vi sono stati alcuni filosofi
che hanno esagerato nella ricerca di una volgarizzazione della filosofia:
così, ad esempio, gli scritti del cinico Menippo o quelli di Bione, filosofo
che viene stranamente annoverato tra gli Accademici, hanno cercato la
76 PROBLEMI fONDAMENTALI DELLA fILOSOfIA ANTICA

popolarità fino al punto da risultare volgari, ridicoli e urtanti; di conse­


guenza essi hanno incontrato la disapprovazione delle scuole più serie e,
in fondo, non hanno ottenuto quella diffusione che forse ci si sarebbe
potuti attendere. Una certa idea di tali opere ci è data dai saggi filosofici
di Luciano.
In direzione opposta, la filosofia è caduta a volte in un vero e
proprio esoterismo. Si sono sempre avute nella storia - sia presso i
Greci che altrove - dottrine segrete e sètte che ad esse si richiamavano.
Sono esistite corporazioni di mestieri che, per ragioni pratiche, custodi­
vano scrupolosamente i loro segreti professionali. Allo stesso modo si
sono avute associazioni religiose con le loro cerimonie segrete, e, infine,
anche c/ubs politici segreti. La filosofia ha spesso simpatizzato con cose
del genere. La tradizione - per quanto scarsa nei particolari - c'induce
a credere che Pitagora e i suoi discepoli ebbero delle dottrine segrete che
venivano da loro comunicate soltanto a scolari accuratamente selezio­
nati. Anche Platone ha ripetutamente espresso il convincimento che
certe dottrine filosofiche possono essere accessibili solo a pochi e si può
ben dire che l'immagine delle dottrine esoteriche aleggia come un fanta­
sma su tutta la storia dell'Accademia platonica I.

Con la suddetta alternativa non va confusa una seconda che ci


avvicina all'oggetto proprio del nostro discorso. Questa seconda alterna­
tiva riguarda la differenza gerarchica esistente tra parola scritta e parola
detta. A tale riguardo bisogna partire da un famoso quanto difficile
passo del Fedro platonico nel quale Socrate mette in guardia il suo amico
nei confronti del testo scritto 2. Lo scritto infatti sarebbe sempre un
mezzo ausiliario e, per giunta, sospetto perché ucciderebbe il confronto
vivo delle. idee. Rilevante dal lato filosofico sarebbe solo e sempre la
discussione concreta con l'interlocutore nella quale si decide hic et nunc
chi è capace di render conto del proprio cori�incimento e chi no.
Questa idea ricompare continuamente in seguito e si può dire che il
Platonismo vi si è sempre richiamato. Il modello in proposito è rappre­
sentato da Socrate il quale non ha scritto nulla e questo fatto riceve, dal
passo del Fedro già ricordato, un significato programmatico. Parecchi
filosofi dell'età ellenistica - fra i quali due dei più eminenti successori di
Platone, Arcesilao e Carneade - hanno seguito questo modello e, per la
loro parte, non hanno scritto nulla. A questi si aggiungono, come figure
concorrenziali, Pirrone di Elide, forse anche lo stoico Ione di Chio e
alcuni altri ancora. È significativo il fatto che occasionalmente la stessa

I PLAT. Ep. VI/341 c.e.

2 PLAT. Phaidr. 274 b 277


- a.
'
LA FORMA DELL OPERA FILOSOFICA 77

cosa si dica anche dei due iniziatori della filosofia, l'ionico Talete e
l'italico Pitagora. Si vuole con ciò intendere che questi due filosofi - se
altri mai lo ha fatto - hanno esercitato nel modo più autentico l'attività
filosofica in senso socratico. Certamente questo rifiuto dello scrivere
resta sempre qualcosa di precario, giacché seppure Socrate non ha scritto
nulla, tuttavia hanno scritto i suoi discepoli; e anche Carneade, Pirrone
ed altri ancora hanno avuto discepoli che hanno scritto per loro. Il
principio dunque è in una certa misura insincero, per il fatto che esso
non è stato mai applicato nella sua purezza e conserva piuttosto il valore
di esigenza o di gesto dimostrativo.
Per quanto riguarda le opere scritte, noi poniamo al primo posto i
dialoghi, non perché storicamente siano stati i primi ad apparire, ma
perché si propongono appunto lo scopo di rappresentare una conversa­
zione vivente. In quanto conversazione essi offrono la possibilità di
mostrare concretamente come un ignorante di filosofia si rivolge ad essa
e come si respingono le obiezioni che le muovono i suoi avversari; essi
inoltre consentono - quando si tratta di problemi controversi - di
sviluppare senza difficoltà i vari punti di vista.
Non è facile tratteggiare la storia del dialogo. Si potrebbe indivi­
duarne l'origine nelle composizioni poetiche a carattere simposiaco ri­
guardanti la cerchia dei Sette Sapienti, nelle quali si discute una que­
stione difficile o capziosa e ogni interlocutore espone la sua opinione e
cerca di avere la meglio su chi lo ha preceduto. Origine popolare si può
attribuire anche ai dialoghi del « Saggio col Re », come quelli che pos­
siamo trovare in età classica: dialoghi del saggio Solone col re di Lidia
Creso J, di Simonide con lerone tiranno di Siracusa., poi di Platone con
Dionisio I di Siracusa S, e infine del re Alessandro coi Ginnosofisti
dell'India 6.

Fu la Socratica a introdurre il dialogo nell'alta letteratura. La situa­


zione di partenza, dalla quale ha avuto inizio tutto lo sviluppo succes­
sivo, sembra chiaramente essere questa: un semplice e oscuro cittadino,
Socrate, comincia un giorno a umiliare un giovane aristocratico, Alci­
biade, e altre volte i sofisti, orgogliosi della loro presunta scienza e che
hanno molto viaggiato. Certamente il dialogo socratico ha subìto nume­
rose modifiche delle quali ben poco sappiamo. Platone ed Eschine hanno
composto dialoghi molto estesi, pieni di vita e ispirati a un'elevata

J HEROD. 130-33.
4 XENOPH. Hiero.
5 OLYMP. Vita Plat. ed. Hermann, p. 193.
6 ONESICR. FGrHist 134 F 17; PWT. VitaAlex. 64.
78 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

umanità, accreditando in vari modi la finzione che Socrate stesso ne


fosse il relatore. Senofonte ha preferito la conversazione breve nella
quale si rinuncia a ogni accessorio scenico per mirare direttamente a
quel principio di saggezza pratica che s'intende impartire. Indubbia­
mente egli non è stato né il primo né il solo a coltivare questa forma
che, seppure artisticamente imperfetta, non era tuttavia meno comoda a
usarsi. I dialoghi di Antistene, a quanto sembra, furono molto estesi,
molto vari e sovraccarichi di notizie storiche e mitologiche. Egli non ha
disdegnato di descrivere scene come quella nella quale si vedono dei
discepoli piangenti, seduti accanto alla tomba di Socrate, e questi appa­
rire ad essi in sogno nella figura di un eroe che li ammaestra 7.

A quanto pare, questi dialoghi di Antistene riuscirono ben presto


insipidi ai lettori, il che spiega la ragione della loro scomparsa: così la
tarda antichità ha potuto leggere solo quelli di Platone, Senofonte ed
Eschine.
L'ulteriore storia del dialogo ci è nota solo in modo frammentario.
Sembra che questa forma letteraria in genere sia stata utilizzata solo
occasionalmente e cioè, quasi senza eccezione, in parte nella scuola di
Platone, in parte da Aristotele e dai suoi scolari. Ma nessun dialogo del
periodo ellenistico ha potuto affermarsi, reggendo il confronto con la
perfezione artistica di quelli di Platone.
Verso la fine dell'ellenismo, il genere letterario del dialogo ha
conosciuto un rinnovamento grazie all'abilità e al gusto del romano
Cicerone. Indubbiamente certi modelli post-platonici, come certi indi­
rizzi teoretici e infine il radicale mutamento intervenuto nella posizione
dei problemi filosofici rispetto al IV secolo a.c. hanno - ciascuno per la
sua parte - indotto Cicerone a comporre non più libere conversazioni
nello stile di Platone, ma delle vere e proprie esposizioni dottrinali.
Generalmente sono personaggi colti della società romana che reciproca­
mente si tengono discorsi sulle loro idee filosofiche. Quanto ai dialoghi
del greco Plutarco, scritti cinque generazioni più tardi, essi danno l'im­
pressione di una maggiore scioltezza stilistica. L'impressione di vivacità
che essi suscitano non deriva da una forma di conversazione più libera
(sotto questo profilo infatti non differiscono sostanzialmente da quelli di
Cicerone), quanto piuttosto dalla capacità di questo scrittore greco,
dotato d'ingegno agile e di una grande cultura enciclopedica, di arric­
chire ogni discussione con citazioni poetiche, piccoli racconti e aneddoti.
E non pochi dialoghi, ormai perduti, del primo ellenismo dovettero
avere le stesse caratteristiche.

7 SUID. s.v. :Ewxpa't"t\" ele. Ep. adAtto XII 38.


'
LA FORMA DELL OPERA Fll.OSOFICA 79

Alla fine dell'antichità si collocano gli originalissimi dialoghi filoso­


fici coi quali Agostino inaugurò la sua carriera letteraria. Per quanto
riguarda la loro sostanza filosofica, essi sono meno ricchi delle opere di
Cicerone, ma per la vivacità scenica gareggiano coi migliori dialoghi di
Platone. A ciò si aggiunge il fatto singolare che, fra tutti i dialoghi
trasmessici dall'antichità, quelli di Agostino sono i primi a voler ripro­
durre per esteso conversazioni realmente tenute.
Per il resto, i dialoghi antichi non sono che opere poetiche, anche se
fingono di essere opere storiche. Certo, un sostrato storico non manca
mai, ma esso viene completamente trasformato dal filosofo-poeta. Il loro
valore scenico e il contenuto filosofico trascendono di gran lunga i dati di
fatto reali. Essi sono pertanto delle opere d'arte.
In contrapposizione a questa, si pongono altre e ben diverse forme di
espressione del pensiero filosofico.
Già precedentemente abbiamo parlato della radicale contrapposizione
tra lo sforzo filosofico di ricerca della verità e l'attività poetica. Questa
contrapposizione viene fatta valere contro l'arte dialogica di Platone e
Aristotele. Epicuro e Zenone rifiutano il dialogo in quanto considerano
questa forma espositiva incompatibile con la veridicità del filosofo e col
rigore scientifico del suo operare. Il filosofo ha il dovere di formulare le
sue teorie con la maggiore obiettività ed esattezza possibile e poi lasciarle
agire da sé.
Indubbiamente quest'esigenza non è stata sollevata soltanto dopo
Platone. Quando gli antichi Milesi, nel VI secolo a.C., scrissero i loro
trattati in prosa, molto verosimilmente lo fecero per distinguersi cosl dai
poeti: essi non miravano né a dilettare né a commuovere, ma cercavano
semplicemente di far conoscere i fatti da loro scoperti. Può darsi che,
all'inizio, questi trattati abbiano dato l'impressione di una grande sempli­
cità; ma a poco a poco si formò, inevitabilmente, uno stile scientifico,
riconoscibile dal rigore schematico della composizione e da una termino­
logia particolare. Nacque cosl un linguaggio tecnico della filosofia. Nel
periodo ellenistico, ogni grande scuola dispone di una quantità di concetti
specifici da essa coniati e che più o meno restano la sua caratteristica.
Retrospettivamente dobbiamo osservare che il genere letterario del dia­
logo, nella misura in cui pr�tende di riprodurre conversazioni dal vero,
deve rinunciare a questo genere di schematizzazione scientifica del pen­
siero e alla precisione terminologica. Ogni attento lettore di Platone sa
bene quanto ciò sia d'ostacolo alla chiarezza dei concetti e dell'imposta­
zione dei problemi.
Le opere principali di tutti i grandi filosofi dell'età ellenistica sono
invece dominate dall'esigenza più sofferta dell'oggettività scientifica.
80 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

L'opera di Aristotele rappresenta un caso particolare. Egli appartiene,


in primo luogo, a quella schiera di discepoli di Platone che più di tutti
hanno scritto dialoghi. Inoltre egli ha praticato in larga misura la ricerca
scientifica e ha svolto attività d'insegnamento. A rigore noi non sappiamo
proprio se egli stesso abbia pubblicato opere in forma di trattati. Quel che
ci risulta è il fatto che l'antico ellenismo ha conosciuto i libri filosofici di
Aristotele in una redazione diversa da quella nota alla tarda antichità e a
noi stessi, e che l'attuale redazione presenta tracce evidenti di rimaneggia­
menti; questo redattore deve essere certamente appartenuto alla prima
generazione dei discepoli di Aristotele. Bisogna quindi ammettere che
tutto quello che praticamente possediamo di Aristotele, a eccezione dei
frammenti dei dialoghi, - dunque le celebri opere sulla metafisica, sull'e­
tica etc. - risale a dei manoscritti lasciati incompiuti dal loro autore e
che, dopo la sua morte, furono rimaneggiati per la pubblicazione. In
realtà vi fu una prima pubblicazione in epoca antica e una seconda ai
tempi di Cicerone. Questa si distingueva dalla prima per una concentra­
zione indiscriminata sui testi più importanti e per un nuovo raggruppa­
mento di essi secondo le materie trattate. È questa la pubblicazione che
noi oggi possediamo quasi per intero.
Da questo fatto dobbiamo dunque trarre la conclusione di massima
che le opere di Aristotele pervenuteci, pur possedendo un carattere rigo­
rosamente obiettivo, non sono tuttavia ordinate alla stessa maniera che
noi possiamo supporre per quelle di un Epicuro o di un Crisippo.
Il trattato scientifico, nella forma che abbiamo testé delineata, non è
certamente al riparo da ogni obiezione da parte della critica.
Lo spirito scientifico porta alla specializzazione. La terminologia di
scuola comincia ad arricchirsi e rischia di diventare un linguaggio specia­
lizzato che non ha più molto in comune con quello della vita ordinaria.
Ma successivamente il numero di coloro che avevano tempo e attitudini
per dedicarsi a un tal genere di filosofia si assottiglia sempre di più e alla
fine si fa troppo esiguo: di qui la necessità - della quale abbiamo parlato
in un altro contesto - di integrare le esposizioni e le pubblicllzioni
destinate ai filosofi di professione, con altre destinate alle persone colte
alle quali in un linguaggio relativamente semplice vengono esposti i
lineamenti di una data filosofia.
Da un altro lato vi è stata una corrente di socratismo la quale
sosteneva che l'uomo avesse bisogno soltanto di convincersi della giu­
stezza di una tesi che fosse razionalmente dimostrabile, per aderirvi
interiormente. Tuttavia si sviluppò anche l'opposto punto di vista se­
condo cui per una tale adesione non fosse sufficiente la sola comprensione
razionale, ma fosse indispensabile anche qualcos'altro, come la simpatia,
'
LA FORMA DELL OPERA FILOSOFICA 81

la gioia, l'ammirazione. Accanto alla prova teoretica occorreva dunque


presentare anche l'esemplificazione storica.
Si creano così nuove forme espositive della filosofia. Considerate in
sé, queste forme non hanno l'altezza e il valore rappresentativo del
dialogo o dell'opera scientifica; tuttavia sono quelle che maggiormente
hanno contribuito alla diffusione della filosofia. Per indicarne il carattere
possiamo classificarle in: scritti d'iniziazione, manuali (Katechismen) e
raccolte di aneddoti.
1. Che non basti la semplice informazione dottrinale sui problemi
filosofici ma sia anche necessaria l'iniziazione allo spirito della filosofia
in generale è un'idea che, dalla Socratica in poi, si ripresenta costante­
mente. Bisogna richiamare l'attenzione dell'uomo e prepararlo a lungo,
prima di presentargli un dato sistema filosofico. Questo lavoro prende il
nome di «protrettica», ed è esistita tutta una letteratura di scritti
«protrettici». Platone in uno dei suoi dialoghi più felici, l'Eutidemo, ha
inserito una composizione di questo tipo; vi fu un Prottrettico di Aristo­
tele e successivamente molti altri ne furono composti. A questo stesso
genere appartengono due opere latine, andate perdute alla fine dell'anti­
chità: il dialogo ciceroniano Ortensio e una Esortazione (Exhortationes) di
Seneca.
L'ellenismo costruì inoltre una metodologia propria a questo ge­
nere, discutendo il problema del modo in cui un «protrettico» doveva
essere composto, del suo contenuto appropriato affinché raggiungesse il
suo scopo, etc.
2. Più importanti sono naturalmente i manuali (Katechismen), per­
ché riassumevano per gli appassionati della filosofia una determinata
dottrina in formule concise. La scelta di queste formule doveva esser tale
da poter dare sia una visione d'insieme come anche consiglio e aiuto nei
momenti critici della vita. Il «manuale » più celebre, giunto fino a noi, è
quello di Epicuro dove, in quarante massime, vengono stabiliti i fonda­
menti dell'etica 8. Esse rappresentano il minimo indispensabile che può e
deve inprimersi nella memoria chiunque non sia in grado di studiare a
fondo la grande opera Sul fine della vita o i trentasette libri Sulla natura.
Dell'Accademia post-platonica possediamo un libretto che si può
considerare un manuale. Esso porta il titolo di Distinzion� ed è un
catalogo delle più importanti distinzioni concettuali (varie specie di beni,
differenti forme di sapere, di costituzioni politiche, etc.) 9. In realtà vi
sono ammassate alla rinfusa parti essenziali della filosofia platonica in

8 EpIC. Ratae sententiae (= fr. 5 Arrighetti).


9 DIOG. LAERT. III 80-109.
82 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

una forma elementare. Il testo era destinato a una vasta diffusione che
dovette in realtà esserci, come dimostra il fatto che esso ci è pervenuto
in due diverse redazioni.
In forma di manuale si presenta anche un altro testo che dall'anti­
chità in poi si è sempre accompagnato alle opere di Platone: una lista di
« definizioni» di concetti fondamentali lO. Essa ci è pervenuta in uno
stato di grande disordine per il fatto che, nel corso dei secoli, lettori
zelanti l'hanno corredata di aggiunte più o meno appropriate.
Possiamo supporre che l'antica Stoa abbia prodotto opere del ge­
nere, anche se nulla di chiaro sappiamo in proposito. In ogni caso è da
osservare che una tradizione particolarmente sfruttata da Cicerone ci
presenta le dottrine fondamentali della Stoa nella forma di serie di
sillogismi condensate al massimo. Dietro queste potevano stare quei
manuali che avevano per l'appunto il compito di servIre da
« catechismi ».

Nella tarda antichità si ebbe un gran numero di tali opere che In


parte servirono da modello ai catechismi cristiani.
3. Esiste infine un singolare genere letterario, ma la cui importanza
non va trascurata, e che è in relazione con la Socratica. In esso le
dottrine etiche non vengono trattate in maniera teorica, ma presentate
sotto forma di un ritratto composto da una serie di aneddoti. Aneddoti
e motti di spirito - com'è ovvio - ce ne sono sempre stati e costitui­
scono una forma elementare di memoria storica. Ma essi vengono prefe­
riti là dove si tratta di personalità che non si distinguono per azioni
rappresentative nella vita pubblica, ma per qualità più intime e meno
appariscenti: arguzia, presenza di spirito, stravaganza, coraggio, dominio
di sé, etc. Si fissano così delle immagini istantanee che servono a
rasserenare, istruire, ammonire o edificare i filosofi che verranno dopo.
A partire dal IV secolo a.c., aneddoti del genere su personaggi interes­
santi vengono raccolti e presentati in testi letterari. In essi non si tratta
sempre di filosofi, ma anche di letterati, musicisti, etc. Tuttavia alcuni
filosofi, grazie a questo genere di raccolte (inizialmente il loro titolo era
Apomnemoneumata, ricordi) - hanno esercitato un influsso maggiore
che attraverso i loro scritti teorici. Sebbene infatti il contenuto filosofico
di questi aneddoti sia modesto, in compenso tanto più notevole è la loro
efficacia pedagogica. Solo in pochi casi noi conosciamo gli editori di tali
raccolte. Viceversa abbiamo ragione di credere che, nella maggior parte
dei casi, esse siano state composte poco tempo dopo la morte del loro

lO ·'Op
OL. Operetta pseudoplatonica. Cf. PLATON., Oeuvres complètes, T. XIII, 3" P.
(Dialogues apocryphes), par J. Souilhé, Paris, Les belles letres 1962, pp. 161·173.
'
LA FORMA DELL OPERA FILOSOFICA 83

eroe. Di particolare importanza sono le raccolte che si riferiscono al


socratico Aristippo, a Diogene il Cinico, a Cratete il maestro di Zenone;
notevoli sono anche quelle su Antistene, sullo stesso Socrate e su altri
ancora.
In aggiunta vanno anche ricordate due forme letterarie collaterali
alle raccolte di aneddoti, perché intendono servire - più che a trasmet­
tere una dottrina - a rappresentare un modello vivente.
La prima di queste forme è la biografia, nel senso stretto del
termine. Non è questo il luogo per affrontare i problemi posti dalla
biografia antica. È importante per noi il fatto che i Greci hanno comin­
ciato a scrivere biografie nel momento in cui s'interessarono non più
all'azione rivolta verso l'esterno, ma alla persona considerata come
un'«opera d'arte» in sé compiuta. Il primo grande esempio di questo
genere fu Socrate, uomo insignificante per la storia dello stato ateniese,
ma di tanto maggior rilievo come personalità dotata di un suo partico­
lare stile di vita, coerente con sé stesso fin nei minimi particolari. È
questa la ragione per la quale fu scritta la biografia di Socrate e, dopo,
quella di altri filosofi - non di tutti, si badi - ma solo di quelli la cui
vita poteva pretendere, nel complesso, a un valore di esemplarità: Pla­
tone, Pitagora, etc.
La seconda forma è rappresentata dalle epistole didattiche, genere
letterario largamente utilizzato in alcuni casi. La cosa è comprensibile,
dato che esse consentivano di mettere in risalto sia la dottrina che la
personalità dello scrivente, come non sarebbe stato mai possibile in un
trattato. Il filosofo, come modello vivente, esercita un'influenza partico­
larmente sottile e penetrante. Fra i Greci bisogna soprattutto ricordare
Epicuro il quale ha lasciato una ricca corrispondenza. Quel che di essa ci
è rimasto mostra che questo filosofo fu, nel senso più alto, modello di
vita, consigliere e consolatore dei suoi amici.
CAPITOLO OTTAVO

Le scuole filosofiche

È DIFFICILE formulare giudizi sulla nascita e la storia complessiva delle


scuole filosofiche, per la ragione che siamo abbastanza informati sulle
fasi tarde del loro sviluppo, ma sappiamo assai poco sul periodo delle
OrIgInI.
Ecco, al riguardo, i fatti essenziali:
a) Noi possiamo con ogni probabilità considerare una vera e
propria scuola, - cioè un circolo chiuso di persone, articolato gerarchi­
camente con precise condizioni di accesso, con corsi e finalità d'insegna­
mento, - quella dei Pitagorici dell'Italia meridionale nel VI secolo a.c.
A dire il vero le testimonianze, considerate isolatamente, sono per la
maggior parte assai problematiche e non consentono di ricostruire una
storia coerente di questa scuola; tuttavia la sua tendenza generale è così
unitaria, che si deve supporre alla sua base un nucleo storico. Da ciascun
pitagorico si esigeva - e altrettanto ci si aspettava dagli esterni alla sètta
- che si dedicasse a una precisa riforma della sua vita e che riconoscesse,
come per lui vincolanti, dottrine più o meno definite.
b) Altro fatto importante - anche se non ancora sufficiente­
mente apprezzato dagli storici - è la tendenza generale, che si manifesta
nel V secolo, a collegarsi con determinati filosofi e a denominarsi col
loro nome. Nascono così, se non proprio delle « scuole », dei gruppi che
si riconoscono nell'adesione a una determinata dottrina. Abbiamo così
non solo gli anzidetti Pitagorici, discepoli di Pitagora, ma anche gli
Eraclitei, i Parmenidei, gli Anassagorei, i Democritei. Non sappiamo
fino a che punto arrivasse, caso per caso, la coesione di questi gruppi.
Facevano apparizioni anche in pubblico, come ad esempio in adunanze
ufficiali, per leggere insieme, spiegare e commentare le opere del mae­
stro? O per continuare le ricerche nello spirito del maestro? Esisteva
un'ortodossia alla quale erano più o meno tenuti ad aderire? Non è
escluso che un gruppo di tal genere si sia costituito attorno a Parmenide
e al suo poema ontologico, e possiamo con sufficiente certezza ammet­
tere che la stessa cosa si sia verificata per Democrito.
c) Vengono poi i Socratici i quali presentano una situazione del
tutto particolare. Quel che li univa era esclusivamente il legame perso-
86 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

naie con Socrate e l'esercizio del dialogo come metodo filosofico. Ma in


pratica, nel loro caso, non si è mai posto il problema di una dottrina
comune, di un'ortodossia.
Ma ai Socratici appartiene anche Platone; ed è sorprendente il fatto
che con lui c'imbattiamo di colpo in una quantità d'informazioni storiche
che si riferiscono a un'attività di scuola saldamente organizzata. Tuttavia
non abbiamo la più pallida idea delle intenzioni di Platone, quando fondò
l'Accademia. Non sappiamo neanche quando prese questa decisione. Sap­
piamo però di determinati locali che servivano al lavoro filosofico, dun­
que in parte ai corsi di lezioni, in parte alle discussioni. Sembra che,
conformemente alla tradizione socratica, si trattasse in parte di edifici
pubblici; altri erano proprietà privata dello stesso Platone e, più tardi,
della scuola nel suo insieme. Ciò che offriva ai discepoli un quadro
appropriato di riferimento era il culto comune delle Muse, la cui effettiva
importanza non va tuttavia esagerata. A capo dell'attività della scuola sta
lo scolarca, con attribuzioni ufficiali: egli organizza infatti l'attività d'inse­
gnamento, ma anche le manifestazioni sociali, i simposi; amministra il
patrimonio della scuola e la rappresenta di fronte allo stato ateniese. In
caso di sua assenza da Atene, egli nomina un sostituto. Alla sua morte, il
successore veniva nominato o sulla base delle ultime disposizioni dello
scolarca, oppure i « giovani », cioè gli allievi, si riunivano per eleggere a
maggioranza il successore da una rosa di possibili candidati. Platone avev:a
designato da sé, per suo successore, Speusippo. Il successore di questi fu
invece eletto, il che avvenne non senza grave malumore dei candidati
sconfitti. Molti punti però non ci sono chiari: per esempio, poteva essere
ammesso nella scuola chiunque' lo volesse, oppure c'erano delle condi­
zioni al riguardo? E se sÌ, quali erano e chi le stabiliva? I corsi erano tenuti
dal solo scolarca o anche da altri membri della scuola? Ancora: lo scolarca
stabiliva un piano di lavoro e c'erano direttive per l'inizio e lo svolgi­
mento delle discussioni? Detto in termini più netti: si era stabilita un' « or­
todossia » entro i cui limiti dovevano mantenersi i lavori orali e scritti di
ogni membro della scuola, di modo che veniva escluso da essa chiunque li
oltrepassasse? Se scorriamo l'elenco degli scolari di Platone a noi noti e
facciamo il confronto con ciò che conosciamo delle loro dottrine, rile­
viamo un'impressionante distanza di vedute. Solo poche idee fondamen­
tali sembrano essere diventate possesso comune di tutti gli allievi. Dall'al­
tro lato è un fatto indiscutibile che Aristotele abbandonò in tutta regola la
scuola di Platone. L'iniziativa partÌ da lui stesso; ma non sappiamo se ad
essa sia corrisposta un' espulsione formale da parte della scuola e quali
furono i motivi determinanti di questa scissione.
Sotto un altro rispetto sarebbe interessante sapere se Platone aveva
già organizzato nella sua Accademia una biblioteca e disposto un esame
LE SCUOLE FILOSOFICHE 87

sistematico, in riferimento a dati problemi, di tutta la letteratura filoso­


fica precedente. Cosa che senza dubbio avvenne nella scuola di Aristo­
tele. È impressionante constatare come la nostra conoscenza di alcuni
filosofi greci, e in primo luogo dei primi Milesi, si fondi esclusivamente
sul lavoro sistematico di ricerca degli antichi testi filosofici, organizzato
da Aristotele sia in Atene che nella Ionia. In questo modo pervennero
nelle sue mani, come fossero oggetti rari, alcune copie delle opere ormai
del tutto dimenticate dei primi Presocratici.
d) Aristotele fondò la sua scuola nel 335 a.c. Nel 307 seguÌ
Epicuro con la fondazione della sua, é alcuni .anni dopo Zenone con la
Stoa. Nella stessa epoca si organizzarono un po' più solidamente comu­
nità più piccole, per dissolversi, nella maggior parte dei casi, nell'arco di
alcune generazioni. Sappiamo poco sull'organizzazione interna di queste
scuole, che in principio dovette essere simile a quella dell'Accademia.
È evidente che l'epoca delle grandi fondazioni delle scuole fu anche
quella delle più aspre lotte concorrenziali tra di esse. Abbiamo in
proposito una gran quantità d'informazioni della prima metà del III
'
secolo a.c., sul modo in cui i capiscuola si sottraevano a vicenda gli
scolari e sulle insinuazioni maliziose che facevano nei confronti di
coloro che erano passati a una scuola concorrente. CosÌ, ad esempio,
vediamo che una scuola si rallegra dell'afflusso massiccio di allievi,
mentre un'altra lo critica come un segno di volgarità e preferisce per sé
un gruppo ristretto ma selezionato di scolari, e cosÌ via.
Il principio dell'ortodossia, per altro, è praticato in maniera note­
volmente diversa nei vari casi. I più rigidi furono gli Epicurei, per i
quali il fondatore della scuola era un modello valido in ogni circostanza
e la sua opera la somma di tutta la verità. Pertanto la sua dottrina fu
modificata solo in pochi punti. I successori della scuola si limitarono
essenzialmente a commentare la dottrina di Epicuro e, occasionalmente,
a completarla, ma soprattutto a difenderla contro i numerosi attacchi di
altre ortodossie. Nell'abitazione di ogni epicureo vi era il ritratto del
maestro, e si tratta per altro del ritratto più suggestivo che l'antichità ci
abbia trasmesso di un filosofo l.

Viceversa, l'Accademia ha una storia ricca di vicissitudini, e ciò


anche a causa dello stesso Platone, la cui opera vasta e polimorfa
consentiva le più svariate interpretazioni. Se è vero infatti che l'Accade­
mia, in tutte le fasi dei suoi novecento anni di storia, si è sempre
richiamata a Platone, è anche vero che essa non ha fatto alcuna diffe-

l Cf. K. SCHEFOLD, Die BiJdnisse der antiken Dichter, Redner und Denker, Basel 1943,
p.118.
88 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

renza nel richiamarsi all'Apologia, o al Parmenide, o al Timeo. Pertanto,


nel corso del tempo, sono emersi vari indirizzi al suo interno, che si
sono reciprocamente rimproverati il distacco dal vero pensiero del mae­
stro. Un primo periodo comprende le prime tre generazioni dopo
Platone ed è caratterizzato in senso nettamente dogmatico-teologico,
secondo la dottrina del tardo Platone. Successivamente si ha un ritorno
alla libera aporetica dei primi dialoghi, e questo periodo è chiamato dalla
tarda antichità «Nuova Accademia». Ai tempi di Cicerone essa cedette
il posto a un indirizzo moderatamente dogmatico che, a sua volta, a
metà del III secolo d.C., fu soppiantato da un'interpretazione fortemente
speculativa e teologica di Platone, che noi chiamiamo «Neoplatonismo».
In generale è significativo il fatto che fino all'età di Cicerone il
pensiero di Platone, anche se non più creativo, continua però a svilup­
parsi con una certa vitalità, mentre in seguito prevarrà sempre più
l'esegesi delle sue opere.
La storia della scuola di Aristotele ci è malamente nota. Abbiamo
anzitutto due scolari, Teofrasto ed Eudemo, i cui scritti sono manifesta­
mente destinati a completare e a interpretare l'opera del maestro, oltre
che a riassumerla con intendimenti scolastici. Poi s'inizia un ulteriore
intenso sviluppo che, se non è particolarmente significativo nei risultati,
tuttavia è in parte di una sorprendente originalità. Ai tempi di Cicerone
si ebbe una reazione che rifiutò le dottrine dei due secoli precedenti
come un'inammissibile deviazione dall'ortodossia. Venne fatta una
nuova edizione delle opere di Aristotele 2 e da allora i Peripatetici
cominciarono a commentare il maestro. La massa dei commentari ad
Aristotele del periodo tardo-antico, che ci sono pervenuti, non trova
riscontro, per l'acutezza ed intensità dello sforzo esegetico, in nessun'al­
tra epoca dell'antichità.
Del tutto oscure sono le vicende della scuola stoica. Certamente
Zenone è sempre considerato con rispetto, come il fondatore e princi­
pale ispiratore della scuola che pretendeva di essere l'autentica erede
dell'antica Socratica, tradita - secondo lui - da Platone e da Aristotele.
Ma già nella sua stessa cerchia di discepoli Zenone dovette combattere
con tutta una serie di teorie eterodosse; e il fatto che il suo successore
nella direzione della scuola, Cleante, si riferisse assai meno alla Socratica
che all'antico filosofo della natura Eraclito, ha contribuito in modo
essenziale a dare alla dottrina stoica un carattere sincretistico alquanto
opprimente. Successivamente Crisippo, grazie alla sua immensa cultura e

2 Quella, pervenutaci, di Andronico di Rodi, platonico e contemporaneo di Cice·


rone.
I.E SCUOLE FILOSOFICHE 89

al vigore della sua logica, ha sviluppato un imponente sistema di pen­


siero che va ben oltre Zenone e Cleante. Tuttavia egli non è riuscito a
diventare un'autorità dominante.Si può dire, senza troppo esagerare, che
nel periodo che va da Zenone ai contemporanei di Cicerone, Posidonio
ha dato, della dottrina stoica, quasi altrettante varianti di quanti sono
stati i suoi capiscuola. La critica moderna ha cercato di raggrupparle,
distinguendo dall'Antica Stoa una « Media Stoa ». Questa distinzione è
giusta solo entro certi limiti e non è lecito dimenticare che essa era
ignota all'antichità stessa.
L'età di Cicerone rappresenta per l'Accademia, il Peripato e la Stoa,
un taglio netto. In un certo senso essa pone termine all'evoluzione
organica delle dottrine di scuola. Si ritorna ai capiscuola e ci si sforza di
essere ortodossi platonici, aristotelici e così via. Ma questa nuova orto­
dossia « classicista » non ha nulla di virulento. Essa al contrario si lega al
cònvincimento che anzitutto le tre scuole di Platone, Aristotele e Ze­
none sono tra loro, in fondo, assai vicine. S'inizia così un processo di
fusione che sfocia alla fine in un platonismo arricchito in larga misura di
elementi stoici e peripatetici.
Non è qui il luogo di scendere nei particolari. Si è voluto soltanto
dimostrare che il concetto dell'ortodossia di scuola e dunque della con­
formità alla dottrina del fondatore, pur emergendo continuamente e
venendo richiamato, in caso di bisogno, nelle discussioni, rimane tutta­
via una nozione assai vaga. Pertanto non si può parlare di fanatismo
neanche là dove - come nel caso degli Epicurei e dei Neoplatonici -
s'invoca un'incrollabile fedeltà alla parola del maestro.
CAPITOLO NONO

La storiografia filosofica

I PRIMI filosofi pensarono in prima persona, astoricamente. Essi si consi­


derarono come i rappresentanti della verità in mezzo alla moltitudine
degli ignoranti.
Col tempo si distinse dalla polemica contro il « volgo» una partico­
lare polemica contro gli altri filosofi che si assumevano, in senso speci­
fico, come rappresentanti dell'errore.
Di una coscienza storica in senso stretto non si può parlare prima
di Platone; ma forse_qualche labile traccia è già presente in Democrito.
Platone cita i filosofi più antichi come precursori e compartecipi delle
sue idee, che già si trovavano sulla via giusta.
Solo a partire da Aristotele si ha una vera e propria storia della
filosofia. Di essa occorre distinguere fin da principio tre tipi: la storia
dei problemi, la biografia dei singoli filosofi e infine la storia delle scuole
filosofiche nel loro insieme.
a) Più importante di tutte è la storia dei problemi che s'inizia e
giunge al suo punto alto con Aristotele e i suoi immediati scolari. E la
ragione è evidente: per Aristotele infatti la storia del pensiero umano ha
molta più importanza che per i suoi predecessori. Le credenze popolari e
le opinioni dei primi filosofi non sono affatto per lui semplicemente
false, ma contengono invece, sotto forma di spunti e di intuizioni, quelle
vedute che il filosofo del presente può esplicitare con chiarezza. Perciò è
del più alto interesse conoscere le dottrine degli antichi: esse rappresen­
tano infatti, pur nella loro imperfezione, le premesse del sapere attuale.
Aristotele vede le sue proprie tesi confermate dagli antichi filosofi, e
questa conferma è ancora una volta la prova della sua concezione della
storia come sviluppo razionale che da una forma primitiva di pensiero
confuso perviene alla chiarezza e alla differenziazione del pensiero pre­
sente.
Naturalmente non troviamo in Aristotele una storiografia filosofica
in senso stretto. Egli registra le opinioni degli antichi su un determinato
problema e le interpreta pregiudizialmente in modo che esse appaiano in
evidente connessione con la soluzione che egli ne dà. L'inventario del
materiale storico, da lui fornitoci, viene così dominato dalla sua salda
92 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

fede nel progresso, per la quale la sua stessa filosofia non è altro che il
naturale ed evidente punto di arrivo di tutti i precedenti tentativi.
A noi, lettori moderni di Aristotele, - sia detto di passaggio - le
cose appaiono un po' più complicate. Per fare un esempio, noi cono­
sciamo i filosofemi di un Anassimandro esclusivamente dalle informa­
zioni che ce ne danno Aristotele e i suoi discepoli. Questi si rifanno
certamente all'opera originale che avevano ancora a disposizione, ma ne
interpretano gli enunciati pregiudizialmente, come se questi costituissero
elementi dello sviluppo storico di un problema che marcia verso la
soluzione che ne dà il Peripato. In ciò si ricorre spesso ad artifici
sospetti, per cui non si lascia dire, ad esempio, a un Anassimandro (o ad
altri) semplicemente quel che di fatto ha detto, ma invece quel che
ragionevolmente « deve aver inteso dire» con la sua enunciazione. Non
c'è bisogno di mostrare quante false interpretazioni siano state allora
possibili, che oggi non siamo più in grado di correggere.
Tuttavia non si apprezzerà mai abbastanza il lavoro svolto in questo
campo da Aristotele, Teofrasto ed Eudemo. Sotto lo stimolo e la dire­
zione del maestro, Teofrasto raccolse in 18 libri un repertorio delle
dottrine dei « filosofi della natura». A complemento di esso, Eudemo
compose una storia della geometria, dell'aritmetica e dell'astronomia
dalle origini ai suoi tempi. Questi lavori ebbero un'importanza decisiva.
Soprattutto l'opera di Teofrasto è rimasta per le epoche successive il
testo autorevole da cui si attinsero le informazioni sulla filosofia preso­
cratica. Di esso si fecero estratti riassuntivi, che furono altresì corredati
di aggiunte risalenti al periodo posteriore a Teofrasto. Noi possediamo
ancora oggi, sia pure disarticolato in molteplici varianti l, un estratto­
guida di questo genere che potrebbe risalire essenzialmente all'epoca di
Posidonio.
C'è da rammaricarsi che l'interesse storico dimostrato da Aristotele
non sia stato d'alcun profitto nei riguardi dell'etica e della logica. Certo,
nelle opere aristoteliche non mancano accenni in proposito: Aristotele
mostra di conoscere ampiamente certe dottrine etiche e logiche più
antiche, le discute e le richiama; tuttavia non ha fatto scrivere una storia
complessiva di queste discipline, forse perché convinto che non ne
valesse la pena, dato che - a suo modo di vedere - un'etica e una
logica filosofiche, da prendere sul serio, non erano praticamente esistite

l Cf. H. DIELS, Doxographi graec� Berlin 1879, pp. 267-444. Si tratta dei Vetusta

Placita, raccolta dossografica non pervenutaci, compilata - secondo Diels (op. cit., Proleg.,
p. 178 ss.) - nell'età di Posidonio, verso l'inizio del I sec. a.c. Cf. M. DAL PRA, La
storiografia filosofica antica, Milano 1950, p. 165 ss.
LA STORIO GRAFIA FILOSOFICA 93

prima della Socratica. Noi naturalmente non sappiamo se egli abbia


ragionato in questo modo, ma constatiamo le conseguenze di questa
lacuna: la nostra conoscenza delle dottrine dei Sofisti e dei Socratici - che
in realtà non furono filosofi della natura ma logici e moralisti - è di una
scarsezza addirittura disastrosa. Ad esempio, del socratico Antistene pos­
sediamo, è vero, un ricchissimo catalogo di opere, ma, per quanto ri­
guarda il suo pensiero, le informazioni utilizzabili sono non più che la
decima parte di quelle di cui disponiamo per Eraclito, pensatore più
vecchio di un secolo. L'ellenismo ha cercato indubbiamente, per il suo
tempo, di colmare questa lacuna. Le scuole ellenistiche si dedicarono cosÌ
intensamente allo studio dei sistemi morali, che fu necessario tentare di
questi un inventario critico comparativo. Un titolo che ricorre di fre­
quente, nel periodo tardo-ellenistico, «Sulle sètte filosofiche» (1ttpL
cxtpÉO'tc.o.l\I), sembra riferirsi a esposizioni storiche dell'etica. Cicerone do­
vette soprattutto utilizzare libri di questo genere, nessuno dei quali tutta­
via ci è pervenuto.
Al riguardo bisogna infine osservare quanto segue: Teofrasto, come si
è detto, ha raccolto un abbondante materiale di opinioni dottrinali,
ordinandole in modo che per ogni singolo problema si potesse chiara­
mente seguire il progresso del pensiero dalle prime concezioni dei tempi
più antichi fino a quella presente, del Peripato. La costruzione dell'opera
teofrastea si resse ed entrò in crisi insieme al convincimento che la dotta
filosofia della natura, elaborata dal Peripato, rappresentasse più o meno la
soluzione definitiva di tutti i problemi. Questo convincimento però si
rivelò ben presto fragile: l'Accademia, la Stoa e la scuola epicurea gareg­
giarono nel dimostrare l'insostenibilità delle posizioni della scuola aristo­
telico-teofrastea, e lo stesso Peripato, nel corso delle generazioni succes­
sive a Teofrasto, in parte cedette a questo attacco. Il che significava che le
linee di sviluppo indicate da Teofrasto nell'opera Le dottrine dei filosofi
della natura, erano false. Non rimase cosÌ che una massa enorme di
opinioni dottrinali, senza alcun nesso di pensiero. Ne seguì una svolta
clamorosa: lo scetticismo s'impadronì di questa massa. L'opera di Teofra­
sto, che era servita a dimostrare la giustezza della dottrina peripatetica,
ora fu al contrario adoperata per dimostrare la radicale impossibilità di
una conoscenza della verità. La massa enorme delle dottrine che si con­
traddicevano a vicenda mostrava che la filosofia della natura era un'im­
presa votata al pieno fallimento.
Questa fu l'argomentazione degli Scettici e anche, in parte, quella di
Epicuro, almeno per quanto riguarda l'astronomia e la meteorologia.
Epicuro sfruttò l'opera di Teofrasto per mostrare che, in fondo, su
questioni come la grandezza e la costituzione fisica del sole e simili, nulla
94 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

di certo è possibile sapere: l'una dottrina poteva essere altrettanto giusta


dell'altra.
b) Sulla biografia dei filosofi abbiamo già detto. Ora bisogna
anzitutto rilevare che tali biografie in epoca greca sono sorprendente­
mente rare. Si narra la vita solamente di quei filosofi che hanno avuto
un destino non comune e che, soprattutto, hanno mostrato uno stile di
vita esemplare, nel senso più concreto del termine: abbigliamento, vitto,
divisione della giornata, atteggiamento verso lo sport, i classici, la fami­
glia, gli amici, i superiori e gli inferiori e cosÌ via. Narrazioni del genere
si ebbero naturalmente sui quattro grandi fondatori di scuola, Platone,
Aristotele, Epicuro e Zenone, le quali occasionalmente fornivano anche
notizie sui loro immediati discepoli, e poi su Pitagora, Socrate e Dio­
gene. Dei quattro grandi autori di biografie di filosofi che l'antichità
conobbe, due - Aristosseno e Ermippo - si sono mantenuti esclusiva­
mente entro questo quadro ristretto. Da Ermippo 2 proviene la biografia
di Aristotele più autorevole per la tarda antichità, mentre Aristosseno 3 è
anzitutto l'autore di una notissima biografia di Pitagora e poi anche di
biografie di Socrate, Platone, e del più importante discepolo di Pitagora,
Archita di Taranto che era peraltro compatriota dello stesso Aristosseno.
Il terzo di questi autori, Antigono di Caristo 4, ha composto una
galleria di ritratti, tanto singolare quanto divertente, di filosofi del III
secolo a.c. Vi compaiono non soltanto Zenone, fondatore della Stoa,
ma anche Pirrone di Elide, creatore dello Scetticismo antico, un tipo
assolutamente originale; poi tutta una serie di capi rispettabili dell'Acca­
demia platonica e altri personaggi ancora. Ciò che resta di questo libro
non ci consente di coglierne chiaramente l'intendimento. Il più delle
volte vi si nota una tendenza alla caricatura malevola. Può anche darsi
che Antigono abbia voluto stabilire un contrasto tra la viziosità, le
stravaganze e i maneggi dei filosofi contemporanei da una parte e la
mirabile purezza di costumi di quelli delle antiche generazioni dall'altra.
Del quarto autore di biografie, Satiro, sappiamo troppo poco per
poterne dare un giudizio. Carattere peculiare della sua opera era la
forma dialogica, ma dal lato sostanziale il suo livello sembra essere
notevolmente inferiore a quello dei suoi tre predecessori.
c) Incomparabilmente più importanti furono, infine, le storie
delle scuole. Esse si collocano in una correlazione con le esposizioni
storiche dei problemi, ma invece di classificare i problemi, esse classifi-

2 HERMIP. frr. 1-63 Wehrli.


3 ARISTOX. frr. 10-68 Wehrli.
4 U. v. WILAMOWITZ, A ntigonos von Karystos, Berlin 1881.
LA STORlOGRAFIA FILOSOFICA 95

cano i filosofi. Finché si tratta della semplice successione dei capi delle
scuole fondate nel IV secolo a.c., la cosa non presenta alcuna difficoltà.
Le difficoltà nascono invece quando si tratta d'interpretare gli elenchi
dei nomi secondo le categorie storico-evolutive introdotte da Aristotele,
ossia quando si cerca di determinare cronologicamente l'origine, la fiori­
tura e la decadenza di una scuola; e ancora, quando si vogliono collegare
tra loro, in un rapporto storico, le scuole; e infine quando si cerca di far
rientrare in un tale albero genealogico, filosofi che non sono assoluta­
mente riconducibili a una classificazione per scuole. Gli antichi storici
della filosofia hanno spesso fatto ricorso alle costruzioni più sospette per
stabilire tra i filosofi le filiazioni desiderate. A volte non restava loro
miglior soluzione che quella di registrare, accanto agli elenchi dei filosofi
di scuola, un gruppo di pensatori « isolati».
In fondo è ancora una volta Aristotele che deve considerarsi l'inizia­
tore di un tale metodo di trattazione. In lui si trovano infatti tre forme
di raggruppamento che sono state determinanti anche per le epoche
succeSSIve:
a) Un certo numero di filosofi, da Talete fino ai discepoli di
Anassagora e di Democrito, vengono riuniti da lui sotto la denomina­
zione di « filosofi della natura». Il che è oggettivamente giustificato. Ma
Aristotele in definitiva non sapeva, come non lo sappiamo noi, se questa
unità si fosse manifestata anche a livello personale, ossia nei rapporti
reciproci di maestri e scolari.
b) Aristotele ha accolto la tesi, enunciata anzitutto da Antistene e
da Aristippo, secondo la quale con Socrate ebbe fine la filosofia della
natura e s'iniziò l'etica filosofica; ed è stato un discepolo di Aristotele il
primo a coniare il termine classificatorio di « Socratici » 5 per tutti
coloro che nelle opere si rappresentavano come amici di Socrate. Per
designare il rapporto personale la denominazione era giusta, mentre da
un punto di vista oggettivo essa lo era solo in modo assai approssima­
tivo. In seguito, ad eccezione degli Epicurei, tutti gli indirizzi filosofici
attribuirono particolare importanza al collegamento con Socrate, scaval­
cando i Socratici: il che era ovvio per l'Accademia platonica e per il
Peripato che da quella derivava; mentre è assai più difficile stabilire
quanto legittimamente Aristippo, Antistene, Euclide e Fedone siano stati
indicati come fondatori di scuole e come tali considerati da filosofi più
tardi. Lo stoico Zenone si considerò un lontano scolaro di Antistene.
Da Aristippo derivarono, nella prima metà del III secolo a.c., non meno
di quattro diverse « scuole », e cosÌ via.

5 PHANIAS ERESIUS frr. 30-31 Wehrli.


96 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

c) Un terzo raggruppamento ci riconduce al periodo delle origini.


Esso distingue tra filosofia ionica e filosofia italica. La prima ha per
fondatore Talete, la seconda Pitagora, due personaggi che in questo
schema vengono presentati come figure in certo modo concorrenziali.
Non era difficile costruire per Talete una catena di successori, mentre
ciò era assai più difficoltoso per gli Italici. Aristotele comprende sotto
questa denominazione solo i Pitagorici in senso stretto. Più tardi fu
naturale aggiungere ad essi tutti coloro la cui attività si era esercitata in
Occidente - e dunque Senofane, Parmenide, etc. - o, ancora più
sommariamente, coloro che non potevano annoverarsi né tra gli lonici,
né tra i Socratici.
In ogni caso era impossibile trovare uno schema unitario e storica­
mente convincente. Noi conosciamo parecchi storici di scuole filosofi­
che, particolarmente del periodo tardo-ellenistico. Ognuno ha tentato
raggruppamenti propri, ma nessuno vi è riuscito senza forzature e
combinazioni arbitrarie. Non scendiamo qui nei particolari - ancora
poco studiati - ma ci limitiamo a scegliere una sola classificazione tra
tutte le altre, non perché sia la più importante ma perché, dal punto di
vista empirico, è per noi la più interessante: è quella su cui si fonda
l'unica storia della filosofia antica che ci è integralmente pervenuta, i
dieci libri di Diogene Laerzio (II sec. d.C.) su Le vite e le opinioni dei
filosofi illustri. Ecco, nelle grandi linee, l'ordine seguito da Diogene:
1. I sette Sapienti e figure affini, da Talete a Ferecide, presunto
maestro di Pitagora.
2. Gli lonici derivanti da Talete, a partire da Anassimandro fino ad
Archelao, presunto maestro di Socrate.
3. Socrate e i Socratici che non hanno fondato scuole: Senofonte ed
Escbine.
4. Aristippo e la sua scuola, Fedone e la sua scuola, Euclide e la sua
scuola.
5. Platone e la sua scuola.
6. Aristotele e la sua scuola.
7. Antistene e la sua scuola che, attraverso la scuola di Zenone,
prosegue con gli Stoici. Qui finiscono i Socratici.
8. Pitagora e la sua scuola, parallela al gruppo 2.
9. I filosofi isolati, tra i quali spiccano Eraclito, Senofane e disce­
poli, Democrito e discepoli, poi Pirrone e i primi filosofi scettici, per
finire con Epicuro e la sua scuola.
Quest'ultimo gruppo risulta pertanto di un'estensione ed impor­
tanza sorprendenti, segno evidente della grande forzatura schematica
insita negli otto gruppi precedenti. Limitiamoci a un solo caso partico­
lare: Democrito viene qui separato per un verso dagli lonici, per l'altro
LA STORIOGRAFIA FILOSOFICA 'II

da Epicuro. La ragione sta nel fatto che lo schema costruito collega gli
Ionici a Socrate e pertanto Democrito non poteva esservi inserito;
inoltre lo schema è chiaramente disposto in favore di Epicuro e perciò
Diogene tiene conto, per quanto può, dell'affermazione dello stesso
Epicuro, secondo la quale egli non avrebbe avuto alcun maestro. Con
questa affermazione Epicuro entrava in concorrenza col Socrate plato­
nico che notoriamente dichiarava di non aver avuto maestri. E ancora
contro la rappresentazione platonica di Socrate è disposto l'ordinamento
di Diogene Laerzio che attribuisce a questi, come maestro, il filosofo
della natura Archelao.

Il raggruppamento per scuole mostra dunque un notevole grado di


sistematicità, uguale a quello che si riscontra nella composizione delle
storie dei proble'mi. In ambedue i casi i dati storici sono connessi con
intendimenti decisamente dommatici e sistematici; il che comporta una
deformazione del quadro storico. D'altro canto, per la stessa ragione le
opere di storia di filosofia hanno esercitato una non trascurabile in­
fluenza sulla stessa speculazione filosofica.
PARTE SECONDA

Nozioni fondamentali della filosofia antica

È CHIARO che si possono avere opinioni diverse su ciò che si può e si


deve intendere per «nozione fondamentale ». Siamo pertanto consape­
voli del carattere soggettivo della nostra scelta. E una scelta era d'altra
parte inevitabile. Intendiamo infine trattare di proposito nozioni che
appartengono ad ambiti diversi. Cominciamo con tre coppie di concetti
che saremmo indotti ad annoverare tra le antinomie fondamentali che
percorrono l'intero svolgimento della filosofia antica: 1. Paradosso ed
evidenza delle enunciazioni filosofiche. 2. Fondazione di queste enuncia­
zioni sulla ragione e sull'autorità. 3. Universale e singolare come oggetto
delle enunciazioni. Seguono due coppie che riguardano il procedimento
metodico: 1. Origine del materiale filosofico dalla tradizione e dall'osser­
vazione. 2. Tendenza al sistema chiuso o alla problematica aperta.
Vanno infine illustrate alcune nozioni concettuali nel senso più rigoroso
del termine: 1. Natura. 2. Causa e fine. 3. Necessità e libertà.
CAPITOLO PRIMO

Paradosso ed evidenza

OGNI enunciazione filosofica, com'è ovvio, si pone con forza come


alcunché di nuovo. Essa muove dal presupposto che le cose stanno
diversamente da come l'opinione volgare per lo più, di primo acchito, le
intende. L'efficacia più irresistibile della filosofia nasce dalla sicurezza
con la quale essa sa e annuncia che tutto « è in modo diverso ». A un
profano che gli chiedeva quale fosse lo scopo della filosofia, Anassagora
rispose: « Uno scopo che ti parrebbe totalmente assurdo, se lo cono­
scessi » 1.
Più sferzante è l'aneddoto che si racconta su Diogene. Questi arrivò
in teatro quando la gente già ne usciva. Poiché gliene fu chiesta la
ragione, rispose: « CosÌ per l'appunto mi comporto in ogni circostanza
della vita » 2 .
In questo profondo convincimento che tutto stia diversamente e che
nella vita si debba agire in modo assolutamente diverso, è insito il germe
di ogni possibile paradosso, ossia di una forma di pensiero che ha
costantemente attirato su di sé l'attenzione ma che, nel contempo, è
stata anche particolarmente contestata.
In verità queste dottrine presentano spesso un'inquietante
ambiguità: è la ricerca della realtà che conduce il filosofo involontaria­
mente al paradosso? O, viceversa, è il paradosso in quanto tale che viene
fin da principio ricercato e la realtà ridotta con forza ad esso? Il
paradosso in ogni tempo ha rivendicato a sé il merito di un'audacia
geniale. I suoi avversari, non senza ragione, hanno sospettato che esso
fosse esclusivamente una posa e che si fondasse su conclusioni in parte
pericolose, in parte troppo gratuite e affrettate.
Sono comprensibili le ragioni per le quali, nell'ambito della filosofia
della natura, la tendenza al paradosso non è particolarmente rilevante.
La prima avversaria della filosofia della natura è la poesia, con le sue
fantasticherie e la sua visione del mondo spensieratamente priva di ogni

1 D-K 59 A 30.
2 DIOG. LAERT. VI 64.
102 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

regola. Occorreva la riflessione razionale e una chiara idea dell' ordine


per vincere questa avversaria. Con la volontà del nuovo, di trovare una
realtà non ancora scoperta, s'intreccia in una certa misura l'intenzione di
demolire da cima a fondo l'universo fantastico costruito dal mito. Come
che sia, una dottrina come quella di Anassimandro che pone, prima e
dopo il nostro, ancora innumerevoli altri mondi, tradisce già una certa
tendenza al paradosso. Tuttavia il paradosso, con tutti i problemi che
pone, appare con forza un po' più tardi. Penso con ciò all' ontologia di
Parmenide (della quale parleremo più avanti). La teoria secondo la quale
l'essere è uno in sé omogeneo, paragonabile nella forma a una sfera,
accessibile alla sola intelligenza, porta con sé un radicale capovolgimento
di tutti i rapporti ordinari. Quello che noi percepiamo come mondo
nostro, nel quale agiamo, si riduce a una mera apparenza, mentre l'essere
vero è interamente altrove. Quel che si mostra come verità alla rifles­
sione sul concetto di essere, non ha nulla a che fare con le cose in
mezzo alle quali viviamo.
È difficile immaginare che lo stesso Parmenide non fosse consape­
vole dell'enorme paradossalità delle sue tesi; in ogni caso essa non è
sfuggita ai lettori del suo poema. Siamo anche in grado di seguire il'
rapido sviluppo delle tre posizioni possibili che si assunsero nei suoi
confronti: quella del rifiuto, quella dell' adesione e infine quella del
compromesso.
Coloro che rifiutarono la dottrina di Parmenide e dei suoi discepoli,
la intesero come un puro esperimento di pensiero, condotto forse corret­
tamente dal punto di vista logico, ma il cui risultato non poteva esser
preso in seria considerazione. Aristotele, anche se non è stato il primo,
ha espresso il giudizio più tagliente: sul piano puramente ideale la tesi di
Parmenide appare plausibile, ma dal punto di vista dei fatti la si deve
giudicare poco meno che un'assurdità, dato che essa, in fondo, non è di
alcun aiuto alla loro spiegazione J. Aristotele aveva i suoi particolari
motivi per reagire in maniera cosÌ violenta; ma, prima di lui, il letterato
Isocrate aveva formulato un giudizio analogo: accomunando a molti altri
i discepoli di Parmenide, egli li caratterizzò come individui che ripone­
vano il loro orgoglio nel costruire e insegnare teorie assurde e parados­
sali 4.
Parleremo più avanti dei tentativi fatti per trovare un compromesso
tra la dottrina parmenidea dell'essere e i fatti dell'esperienza. Compro­
messi di questo genere sono in effetti i grandi sistemi cosmologici di

J ARIST. De gen. et corro 1325 a 15-20.


• IsocR. Or. X 3; Or. XV 268.
PARADOSSO ED EVIDENZA 103

Empedocle, Anassagora, Democrito. Qui c'interessa invece menzionare


coloro che, sotto l'impulso di Parmenide, svilupparono ulteriormente le
sue tesi e tentarono di superarlo con tesi contrarie dello stesso tipo.
Scegliamo tre esempi. Alla dottrina dell' essere immobile e immutabile
viene dapprima contrapposta quella del continuo divenire, secondo la
quale nulla è stabile o può essere identico a sé stesso. Questa concezione
è stata attribuita ad Eraclito, il quale indubbiamente ne ha stabilito i
principi basilari, dato che il suo libro mostrava una spiccata tendenza al
paradosso. Ma la classica formula « tutto scorre » è nata dopo Eraclito,
nel corso del conflitto con Parmenide. Chi è andato più avanti in questa
direzione è stato Cratilo, che si definÌ eracliteo e che, secondo la
tradizione, avrebbe sostenuto in definitiva l'impossibilità di qualunque
giudizio, limitandosi a indicare col solo dito le cose e criticando inoltre
lo stesso Eraclito per il suo detto « Non ci si può bagnare due volte
nella stessa corrente », dato che per lui non ci si poteva bagnare neppure
una volta 5.
In un'altra direzione Gorgia cercò di demolire la dottrina parmeni­
dea dell' essere. Utilizzando il metodo dimostrativo di Parmenide, egli
provò: a) che l'essere non è; b) che anche se fosse, non sarebbe conosci­
bile; c) che anche se fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. Noi
conosciamo molto bene la sua opera grazie a due antichi estratti che ne
possediamo 6. Le progressioni delle prove sono abilmente costruite e
toccano problemi molto seri, anche se appare evidente il proposito di
cimentarsi in un « nichilismo » paradossale.
Affine a quello di Gorgia dovette essere il libro di Seniade, che noi
conosciamo solo attraverso il confronto polemico con Democrito. Egli
affermava che non esiste né l'essere né la verità, che ogni giudizio è falso
e che esiste il solo divenire che nasce dal non essere e in questo
svanisce 7.
Quest'ultima teoria mostra che, accanto ai paradossi sull'essere, il
non essere e il divenire, ve ne sono altri di simili nell'ambito della
conoscenza, i quali sono persino più importanti dei primi, per la rile­
vanza che hanno avuto nella filosofia dell'ellenismo e anche oltre. In
Parmenide il pensiero è subordinato all'essere, mentre le altre forme di
conoscenza, la percezione come anche la tradizione orale, restano nel­
l'ambito del non essere. Ma già subito dopo Parmenide, l'opposizione si

5 ARIST. Met. IV 5, 1010 a 10-15 (= D-K 65 4).


6 Rispettivamente, di Sesto Empirico, A dv. math. VII 65-87 (= D-K 82 B 3) e
dell' Anonimo autore del De Melissa Xenophane Gorgia 979 a Il 980 b 21.
-

7 SEXT. EMP. Adv. math. VII 53 (= D-K 81).


104 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

semplifica e si riduce alla formula classica: pensiero-percezione sensoriale.


Il dibattito procede poi in due direzioni.
La prima: se l'essere appartiene al pensiero, allora il non essere non
può essere pensato. Ora, se si può far rientrare nel non essere l'errore e
la non verità, ne segue che ogni pensiero è rivolto al vero e che non si
può né pensare né esprimere la non verità. Se infine tutti i giudizi sono
veri, ne segue che ogni dottrina, come anche la sua confutazione, risul­
tano impossibili.
Se poi si nega l'essere ·e si ammette soltanto il puro divenire, ne·
segue che ogni specie di giudizio sull' essere è inammissibile. Il verbo
« essere » va allora eliminato dal lihguaggio.

Si afferma ancora che l'essere è uno, cosicché il molteplice non può


mai diventare uno, né l'uno molteplice. Ne segue che si.possono avere
solo giudizi d'identità e nient'altro. Allora è solamente ammissibile il
giudizio: « un albero è un albero », ma non l'altro: « l'albero è verde »;
giacché, in questo secondo caso, si cerca di costituire un'unità di due
elementi diversi ( ( albero » e « verde »). Contro tentativi di questo ge­
nere sono insorti Platone e soprattutto Aristotele. Una buona parte della
logica aristotelica è nata dall'opposizione a queste argomentazioni 8 .
Incomparabilmente più importante è la seconda direzione. Questa
volta la discussione verte sulla contrapposizione di pensiero e percezione
sensoriale. Si giunge ben presto alle due tesi possibili: o il pensiero
soltanto perviene alla verità e la percezione sensoriale è ingannevole; o
viceversa è questa a giungere alla verità, mentre il pensiero rimane da
parte o infine per nessuna di queste due vie, né quella del pensiero né
quella della percezione, è possibile giungere alla verità.
È significativo, oltre che istruttivo, il fatto che se anche ciascuna di
queste tesi paradossali nella sua radicalità ha trovato dei sostenitori, pure
tutti questi si sono visti costretti, sotto il peso dell' esperienza quoti­
diana, ad aggiungere alla loro tesi tanti di quegli schiarimenti, integra­
zioni e limitazioni, che si è giunti alla fine a questa quarta, banale
possibilità: entro determinati limiti, sia il pensiero che la percezione
sensoriale conducono alla verità.
Ci limitiamo qui ad alcune considerazioni generali: Platone ha
sempre insegnato la capacità del solo pensiero a conoscere la verità,
senza riuscire tuttavia a svolgere compiutamente questo principio. Infatti
la teleologia naturalistica da lui esposta nel Timeo, lo costringeva a
riconoscere anche alle percezioni sensoriali una certa adeguatezza a quel
fine. Epicuro, ponendosi consapevolmente in netto contrasto con PIa-

8 C f. F. DECLEVA CAIZZI,Antisthenisfragmenta, Milano-Varese 1966, frr. 44-49.


PARADOSSO ED EVIDENZA 105

tone, considera le percezioni sensoriali come assolutamente attendibili e


unica fonte di tutta la conoscenza. Tuttavia per un verso egli è stato
costre�to - dal riconoscimento del fatto incontestabile delle illusioni
sensoriali - a far dipendere la validità delle percezioni da determinate
condizioni. Il che significava un disconoscimento nei fatti del suo princi­
pio; dall' altro lato la stessa ontologia atomistica presentava dei settori
nei quali era possibile penetrare soltanto ricorrendo a una forma di
conoscenza diversa dalla percezione sensoriale. Infine la cosiddetta
Nuova Accademia e, in maniera molto più rozza, la Scepsi pirroniana
affermavano l'assoluta incapacità dell'uomo di conoscere la verità: né il
pensiero né, a maggior ragione, i sensi potevano fornire dati sicuri.
Tuttavia si sollevò l'obiezione che un tale nichilismo rendeva impossi­
bile non solo il pensiero ma anche l'azione. L'agire morale e quello
immorale presuppongono infatti l'esistenza di criteri della cui validità
l'uomo può esser reso consapevole. L'una e l'altra dottrina hannt> dun­
que dovuto fare delle concessioni elaborando, a completamento del loro
nichilismo di fondo, una teoria del « credibile » e del « non credibile », il
cui risultato finale è stato comunque l'attenuazione di quel nichilismo.
L'atteggiamento sopra ricordato di un Cratilo che in definitiva aveva
rinunciato a ogni forma di espressione verbale, in età ellenistica non
appariva più che una mera curiosità, malgrado la sua intrinseca coerenza,
e gli Aporetici dell' Accademia, come gli Scettici di indirizzo pirroniano,
si guardarono bene dall'imitarla.
Come abbiamo già detto, Aristotele fu l'avversario più risoluto di
ogni posizione radicale sfociante poi nel paradosso. Non che per la sua
parte egli vi abbia rinunciato del tutto: è Aristotele per l'appunto a
citare, per consentirvi, il detto di Anassagora che apre questo capitolo 9;
e se possedessimo i suoi dialoghi, ci accorgeremmo forse che egli, allo
scopo di influenzare il pubblico profano delle persone colte, ricorreva
una volta o l'altra ai paradossi. Ma in fondo egli non amava procedi­
menti del genere. Nelle opere pervenuteci Aristotele sostenne risoluta­
mente il principio che le teorie devono anzitutto adattarsi ai fenomeni
reali. E, per citare un solo particolare, è significativo il fatto che egli sia
stato il primo a formulare con chiarezza la nozione di « evidenza »
(evidentia, tV�P'Y&LOt) IO. Per lui esistono delle verità che si impongono a
tal punto nei confronti dei fatti dell' esperienza, che sarebbe addirittura
assurdo volerne dare ancora una dimostrazione. Forse da uno dei suoi
dialoghi deriva questa frase: « Chi cerca di dimostrare verità evidenti,

9 Cf. supra, n. 82.


IO Vita Arist. Marciana, rr. 211-212.
106 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

agIsce come colui che con l'aiuto di una lampada vuole provare che
esiste il sole » 11. Il convincimento che le verità fondamentali sono
evidenti è l'esatto contrario di quello che in verità tutto « sta diversa­
mente » .
Tuttavia il vero campo dei paradossi è l'etica. Qui i filosofi si sono
trovati a discutere sui valori della vita da tempo riconosciuti e sperimen­
tati, con una passione e un impeto che andavano molto al di là di
quanto si era osservato nel campo della filosofia della natura.
V a certamente rilevato che nel corso del divenire storico si possono
distinguere due e persino tre ondate successive di tesi paradossali. Una
prima ondata prende corpo con la Sofistica e il primo Socratismo. A
questa segue una reazione con Platone e Senofonte, i due discepoli
probabilmente più giovani della cerchia di Socrate; per quanto diversi
tra loro, essi hanno tuttavia in comune il rifiuto di ogni radicalismo
eccentrico. Anche là dove - come nel Gorgia e nella Repubblica
-sostiene tesi assai insolite, Platone resta tuttavia assai lontano dall'at­
teggiamento pesantemente provocatorio degli altri Socratici. Sia nell' etica
come nella filosofia della natura Aristotele si mostra nemico dichiarato
di ogni paradosso. Ma furono proprio la prudente disponibilità al com­
promesso e la rispettabilità borghese dei Peripatetici e del tardo Platone
a provocare una seconda ondata di tesi paradossali. In ciò Epicuro e lo
stoico Zenone cercarono di superarsi a vicenda, il secondo col palese
intento di ricongiungersi - oltre Platone e Aristotele - al più antico
Socratismo. Ma qualche tempo dopo subentrò la calma: e cosÌ gli Stoici
e gli Epicurei greci, che Cicerone frequentava, furono persone assoluta­
mente normali con le quali si potevano intrattenere i più tranquilli
rapporti sociali. Nell'età imperiale infine il paradosso sembra aver tro­
vato, ancora una volta, una certa forza d'attrazione. È significativa, in
proposito, la notevole ripresa, in sé difficilmente comprensibile, del
Cinismo, ossia di quell'indirizzo socratico che spinse all'estremo la
sperimentazione coi paradossi morali.
Consideriamo alcuni particolari. Le più antiche forme di etica filo­
sofica . mirano palesemente a porsi in stridente contraddizione con le
tradizioni borghesi e, nello stesso tempo, a colpire e insieme affascinare
il lettore. C'è in primo luogo l'etica della « volontà di potenza » 12,
l'esaltazione dell'uomo violento che hH ragione perché è più forte.
Codesta etica si arena ben presto, contrariamente all' etica del piacere che
ebbe un enorme successo. Questa, nelle sue formulazioni, ebbe un

Il Forse dal De philos. Cf. STOB. Fior. III 4, 86 ed. Wachsmuth-Hense.


12
Incarnata in modo incomparabile da Callide nel Gorgia di Platone.
PARADOSSO ED EVIDENZA 107

carattere doppiamente paradossale. In quanto fondamento dell'agire, il


piacere - come sempre del resto lo si considera - è una componente
della sfera del privato e chi lo pone come fine di tutti gli sforzi
dell'uomo, rovescia nel suo contrario il tradizionale rapporto tra vita
pubblica e privata. Inoltre tale etica consente di scandagliare, alla profon­
dità desiderata, la sfera biologica e animale. Proprio perché ricerca il
paradosso, quest' etica ama mostrarsi in un atteggiamento di consapevole
« spregiudicatezza » che certo non può essere scambiato con un comune

lassismo, ché al contrario il filosofo dà prova della sua coerenza e del


suo coraggio nell'esser pronto a sostenere le conseguenze più assurde e
scandalose della propria tesi. Platone nel Gorgia fa seguire a Socr:lte
questo procedimento nei confronti di Callide il quale alla fine è con­
dotto dal suo interlocutore al punto che non può più sostenere la sua
« spregiudicatezza », e l'onestà borghese riesce vittoriosa sulla pura coe­

renza logica u. Viceversa Epicuro non si è fatto assolutamente intimidire


dal Gorgia, quando spiega: « Principio e radice di ogni bene è il piacere
del ventre; tutto ciò ch'è saggio e tutto ciò ch'è eccellente deve sempre
riferirsi ad esso » 14.
Tuttavia l'etica del piacere non è la sola ad esercitare questo genere
di provocazione. Accanto ad essa si colloca, quale suo appropriato
antagonista, il Cinismo, già da noi menzionato, la cui dottrina morale è
assai vaga, mentre tanto più chiara è la sua sperimentazione pratica. Il
Cinismo rivendica a sé il venerando concetto della virtù ma lo intende
come opposizione radicale a tutti i valori riconosciuti. L'idea fondamen­
tale del Cinismo è che ogni azione si giustifica in circostanze determi­
nate e che la maggior parte delle cose che si giudicano immorali, lo sono
soltanto perché così vuole l'opinione tradizionale; la cosa fondamentale
è che l'uomo ritorni a una condizione primitiva nella quale ritrovi la
semplicità e tranquillità proprie dell'animale. Lo stesso Antistene che
combatte aspramente l'etica del piacere ed afferma con una pomposa
similitudine che, se fosse stato l' omerico Diomede, avrebbe non solo
ferito ma colpito a morte Afrodite 15, ha anche esplicitamente consigliato
come cosa saggia, di placare quando si avvertono, gli impulsi erotici nel
più vicino lupanare 16. Il discepolo di Antistene, Diogene, ha ancora
spinto più oltre questa « spregiudicatezza ». Egli difende intenzional­
mente atti che in genere vengono considerati immorali, come l'incesto e

\3 PLAT. Gorg. 494 c· d.


14 EplC. Opere, tr. it. di M. Isnardi Parente, p. 417 (= fr. 227 Arrighetti).
15 Fr. 109 A Decleva Caizzi.
16 Fr. 117 Decleva Caizzi.
108 NOZIONI FONDAMENTALI D ELLA FILOSOFIA ANTICA

il cannibalismo. Egli fa letteralmente tutto al cospetto di tutti 17 . Quello


che particolarmente lo caratterizza è il disegno premeditato di esercitarsi
a subire, agendo in tal modo, ingiurie e a esporsi a situazioni umilianti;
di esser costretto a mendicare senza remore e a ricambiare volgarità con
volgarità; comportamenti tutti che - singolarmente presi - possono
difficilmente giudicarsi come filosoficamente rilevanti ma che, conside­
rati nel loro insieme, rivelano uno stile di vita e una coerenza innegabili.
Diogene tenta, con mezzi estremi, la totale distruzione di tutte le norme
convenzionali di onestà, fierezza, discrezione, cavalleria. Ciò che rimane
è un'esistenza da primitivo, tanto scandalosa quanto tesa nell'impegno,
nella quale il paradosso volge spesso al grottesco.
Ma questo ritratto di Diogene, tramandatoci da abbondanti raccolte
di aneddoti, ha esercitato la sua influenza. Una tale « spregiudicatezza »
non poteva certamente che urtare gli Accademici e i Peri patetici; ma essa
fu accettata, in una certa misura, dallo stoico Zenone. Egli compose
un' opera sullo stato perfetto, che dispiacque molto agli ultimi stoici,
nella quale si diffondeva tranquillamente a trattare del cannibalismo,
della pederastia e così via dicendo. Pare che sia stato ancora lui a
raccontare come il suo maestro Cratete l'avesse esercitato a sopportare
situazioni umilianti: così una volta Cratete gli aveva ordinato di attraver­
sare il mercato di Atene con una pentola piena di lenticchie. Ma quando
si accorse che Zenone si vergognava e cercava di nascondere la pentola,
la ruppe con un colpo di bastone. Zenone allora avrebbe voluto fuggire,
mentre le lenticchie gli scorrevano lungo le gambe. E Cra'tete gli gridò:
« Perché scappi, piccolo fenicio? Non ti è accaduto nulla di male! » 1 8 .
La Stoa tuttavia ha considerato più importante un altro aspetto
dell'antica Socratica, riprendendo una tendenza indubbiamente presente
nello stesso Socrate: quella di voler ridurre interamente l'uomo alla sua
interiorità e di intendere questa come una qualità autentica. Di qui sono
nati quegli assiomi dottrinali che gli stessi Stoici e con loro tutta
l'antichità hanno chiamato « paradossi » in senso specifico.
Essi si dividono in due gruppi. Il primo sviluppa l'idea che chi
possiede la virtù possiede con ciò tutti gli altri valori, ovvero che è
impossibile possedere tutti gli altri valori senza la virtù. Perciò solo il
virtuoso è felice, sapiente, libero, potente, bello; è il solo vero cittadino,
il vero uomo politico e così via 19.
Il secondo gruppo di paradossi rifiuta ogni quantificazione nel do­
minio della virtù. Non vi sono più virtù, non si possono enumerare né
distinguere le une dalle altre; esiste invece una sola virtù con molteplici
aspetti. Inoltre nel dominio del bene e del male non si dà il più e il

17 Usava, ad esempio, masturbarsi in pubblico. Cf. DIOG. LAERT. VI 46.


18 DIOG. LAERT. VIII 3 (= SV7' I 2).
19 SV7' III 589-603; CIC. Parad. Stoico
PARADOSSO ED EVIDENZA 109

meno. Non vi sono azioni più o meno virtuose. L'uomo possiede la virtù
tutta intera oppure non la possiede, e in ogni azione è presente la virtù
nella sua interezza; donde la tesi che tutte le azioni buone da una parte e
tutte le cattive dall'altra, sono tra loro assolutamente uguali. In questo
contesto dottrinale rientra infine anche l'idea che l'uomo non può acqui­
stare la virtù per gradi ma tutta in una volta e che è impossibile che la
perda, una volta acquistatala. Questo imponente complesso di paradossi è
indubbiamente suggestivo. L'influenza considerevole esercitata dalla Stoa
nella tarda antichità è dovuta, oltre che alla sua dottrina della Provvi­
denza, all' enfasi e alla consequenzialità dei suoi paradossi. Parecchi inter­
preti non hanno esitato ad attribuirne il merito anche a Platone, mentre
gli Epicurei e i Peripatetici si erano ridotti in una posizione difensiva, non
sempre facile a sostenersi.
Tuttavia non si devono lasciare inosservati anche gli aspetti discuti­
bili di questi paradossi. Paradosso significa contrapposizione a ciò che è
riconosciuto e tramandato. Esso trae la sua forza dall'accentuazione di
questa contraddizione: ma ciò non basta né dal punto di vista pratico né
da quello dei principi. Non basta dal punto di vista pratico, perché il
paradosso col radicalismo della sua contraddizione non impedisce al­
l'uomo di morire ma non gli consente di vivere. Quando entra in gioco la
vita, si arriva inevitabilmente a un punto in cui il paradosso si riduce a un
gesto privo di senso. Non basta dal punto di vista dei principi, perché si
può sempre obiettare che contraddire ciò che esiste per sé stesso non è
prova sufficiente della giustezza di una posizione teorica. Anche la più
sublime delle esigenze morali deve fondarsi su una base sicura.
Il paradosso viene cosÌ a trovarsi limitato da due lati. Nel primo caso
abbiamo una situazione assolutamente parallela a quella della dottrina
della conoscenza. Alle tesi radicali vengono apportate integrazioni che ne
modificano considerevolmente il carattere originario. Particolarmente si­
gnificativo in proposito è l'esempio dell'edonismo epicureo. Epicuro
completa senza esitazioni le sue formule provocatorie delle quali si è già
detto, per giungere alla fine a un'etica irreprensibile di saggia modera­
zione. Pur tenendo assolutamente fermo il principio del piacere, egli
riconosce tuttavia che in molti casi un piccolo piacere può avere per
conseguenza un grande dolore; la saggezza filosofica esige pertanto di
rinunciare a un tale piacere 20. Il che vuoI dire rinunciare all'audacia del
paradosso, per un ritorno alla tranquillità borghese.
Lo Stoicismo si è reso un po' meno facile il compito. Esso ha difeso
strenuamente l'etica dell'autosufficienza della virtù e quella dei paradossi.

20 EPIC. Ep. ad Menoec. (= fr. 4, 129 Arrighetti).


1 10 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Ma col tempo è arrivato ad aggiungervene un'altra, valida non per il


sapiente ma per l'uomo di buon senso che non può sperare di giungere
alla virtù e tuttavia vuole agire responsabilmente 2 1 . Nascono cosÌ quelle
regole della convenienza, lontana imitazione della conformità alla virtù,
che hanno trovato la loro più degna ed efficace esposizione nel De
officiis di Cicerone. Probabilmente la Stoa, nel tracciare questo disegno
di un' etica a due livelli, ha obbedito a una suggestione di Aristotele.
Questo filosofo infatti ha certamente provato una decisa avversione al
paradosso e non è favorevole all'etica dell'autosufficienza della virtù.
Malgrado ciò non si può disconoscere che anche la sua etica presenta
due livelli: c'è un'etica superiore che culmina nella perenne contempla­
zione delle cose eterne, e un'etica della convenienza che certo può essere
coordinata con la prima, ma può anche sussistere senza quella. Essa si
rivolge all'uomo che, nelle più varie circostanze della vita, vuole dimo­
strarsi di animo nobile e onesto (a1tOVOoti'oç). L'opposizione tra un' etica
della perfezione che, senza essere addirittura paradossale, pure può essere
approssimativamente praticata solo da pochi, e un' etica per la vita quoti­
diana, è avvertibile anche se i testi rimastici evitano di richiamare
espressamente su di essa l'attenzione.
Il paradosso trova ancora un limite in un'altra direzione. Ogni
regola morale postula una fondazione e questa non può essere ricercata
che nella natura umana. È nell'agire morale che si realizza la vera,
originaria aspirazione dell'uomo. Il paradosso si muta allora in evidenza.
Da un punto di vista oggettivo esso non ha più bisogno di condurre
necessariamente a una contraddizione. Un'esigenza morale può essere in
contrasto con la verosimiglianza e la consuetudine, ed essere tuttavia
conforme alla vera natura dell'uomo. Ma nascono serie difficoltà quando
si tratta di sapere su quale punto mettere l'accento nella realtà concreta
e, per cosÌ dire, esistenziale dell'uomo. Proclamare da un lato solenne­
mente che il sommo bene è qualcosa di « assolutamente altro » e tenere
in non cale l'opinione volgare e tradizionale; e dimostrare dall'altro che
l'uomo deve attenersi esclusivamente all'impulso incorrotto della sua
natura per poter scorgere questo bene: ecco due tesi che difficilmente
potevano conciliarsi tra loro.
Questa difficoltà si presenta con tutta la sua forza nel pensiero
stoico. Gli Stoici cercavano di far derivare l'assoluta autosufficienza della
virtù da un istinto di conservazione constatabile già nel bambino e che
abbraccia la realtà umana in tutta la sua estensione. Ma già gli avversari
ellenistici dello Stoicismo avevano definito questa derivazione come una

21 ele. Defin. I 37 ss.


PARADOSSO ED EVIDENZA 111

forzatura priva di efficacia persuasiva. Si poteva - osservavano - affer­


mare il paradosso oppure l'esistenza dell'istinto di conservazione, ma
non ambedue le cose insieme.
Lo stesso conflitto si riscontra, a guardar bene, anche in Epicuro e
nello stesso Aristotele. Epicuro oppone polemicamente il concetto di
piacere alle chiacchiere dei Socratici, dei politici e infine di tutti i
fanatici della virtù; ma nello stesso tempo dimostra che il piacere è il
valore al quale l'uomo manifestamente tende fin dall'infanzia. In Aristo­
tele la contemplazione degli enti eterni, anche se non è certo un para­
dosso nel senso stoico o epicureo, è tuttavia un fine esclusivo accessibile
solo a pochi. Malgrado ciò, Aristotele non ha rinunciato a rifarsi all'os­
servazione della natura infantile per poter fondare almeno in parte
l'aspirazione a quel fine sull'inesauribile curiosità e sul desiderio di
sapere propri del bambino. La realtà del valore più alto che sembrava
cosÌ lontano dall'uomo, diventa inaspettatamente e senza difficoltà verifi­
cabile anche nei più semplici dati di fatto.
Naturalmente questi conflitti sono tutt'altro che casuali. Probabil­
mente ogni sistema etico che si rispetti, tende a trarre dal paradosso la
sua forza d'attrazione, ma nello stesso tempo cerca di raccomandarsi agli
uomini con la conferma di ciò che da sempre è stato l'oggetto del loro
volere 22.

22 ID. [bUi. V 48 5S.


CAPITOLO SECONDO

Ragione e autorità

Q UESTO problema ci è noto anzitutto dalle diverse varianti sotto le quali


è entrato, fin dall'età della Patristica, nella teologia cristiana. Ma esso si
rintraccia anche in tutto il mrso del pensiero antico in una forma non
meno caratteristica di quella, già descritta, dell'antinomia di paradosso ed
evidenza.
La prima preoccupazione della filosofia, fin dal suo nascere, è stata
quella di rivendicare una validità autonoma che esiste e va difesa, senza
darsi pensiero di sapere se qualcuno se ne faccia garante e chi sia questo
qualcuno. Il filosofo è portatore di una verità che gli è pervenuta e che è
legittimato a comunicare, prescindendo dal suo valore rappresentativo in
quanto personalità storica. Una dottrina filosofica non è un procedi­
mento giudiziario e pertanto non deve ricorrere a testimoni. E tuttavia
un tale atteggiamento non potrebbe essere mantenuto, nel mondo della
storia, in tutto il suo rigore.
D'altro canto il conflitto è meno acuto nella filosofia della natura
che nell'etica. È vero che la prima si rivolge contro l'autorità di Omero
e contro l'immagine del mondo ingenua e tradizionale che se n'è fatto il
volgo; ma essa assai di rado incide cosÌ a fondo nella situazione storica
dei suoi uditori da dover non solo difendere la giustezza delle sue tesi
ma anche rivendicare per sé un'autorità o richiamarsi ad autorità
esterne. Gli aneddoti a noi noti sulla vita dei Presocratici hanno
certamente lo scopo, in gran parte, di conferire ad essi autorità. Essi
vengono rappresentati ora come individui che hanno consacrato senza
riserve la loro vita alla ricerca filosofica; ora come quelli che, malgrado
questa ricerca, non hanno trascurato la vita pratica, a volte infine come
persone che, malgrado il razionalismo della loro teologia, hanno devota­
mente partecipato ai riti religiosi secondo il costume degli antichi padri.
E quando fanno appello a un'autorità, si tratta in primo luogo di quella
di Omero, che pure in altre circostanze mmbattono. Alcuni versi di
questo poeta - come ad esempio quelli che parlano di Oceano 23 -

23 HOM. Il. XIV 201.


1 14 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

passano già in epoca antica come anticipazione di certe vedute filosofi­


che.
Più tardi, come abbiamo visto, Aristotele e i Peripatetici hanno
addotto, a sostegno delle loro tesi, la testimonianza dei Presocratici.
Comunque, la tendenza a rafforzare il peso delle proprie dottrine attra­
verso la requisizione del consenso di personalità rispettabili e autorevoli
è solo un aspetto del fenomeno. Oltre a ciò per Aristotele è anche
importante la concezione del divenire storico come sviluppo razionale
finalisticamente orientato.
Gli Stoici hanno avuto ancor meno scrupoli dei Peripatetici nel
ricercare, per la loro filosofia della natura, appoggi autorevoli. Si ha
l'impressione che non sia frutto del caso il loro richiamarsi più ai poeti
che ai pensatori presocratici. L'esegesi di Omero e di Esiodo ha avuto
per loro una grande importanza: ne sono nati i più strani metodi
d'interpretazione allegorica e tendenziosa.
Certamente vi è stata anche un'interpretazione stoica dei Presocra­
tici. Ma sembra che solo per Eraclito essa appartenga all'antica Stoa. Le
altre interpretazioni dei Presocratici, spesso così fastidiose per noi mo­
derni, risalgono tutte al tardo Posidonio, pensatore stoico-aristotelico.
Curiosamente anche l'Accademia scetticheggiante di Arcesilao si è
sentita in obbligo di fondare il motto socratico « So di non sapere »
sull'autorità dei Presocratici. Si riscontrano tracce di interpretazioni in
chiave aporetica dei pensatori presocratici, a cominciare da T alete fino
alla scuola di Democrito, le quali riportano scrupolosamente le loro -
reali o presunte - professioni d'ignoranza.
Incomparabilmente più importante è il problema dell'autorità nel­
l'ambito dell'etica. E qui bisogna subito cominciare con la Socratica che
immediatamente ci colloca in uno dei punti centrali e nevralgici del
problema. Ecco un passo che Senofonte cita da un antico libello contro
Socrate, ma in realtà diretto soprattutto contro il Socratismo:' « Socrate
[ .. ] screditava agli occhi dei suoi frequentatori non solo i genitori ma
.

anche gli altri parenti, dicendo che i malati o gli accusati in tribunale
non li aiutano i parenti, ma quelli i dottori, questi quanti sono capaci di
assistere in giudizio. Affermava pure che degli amici Socrate diceva: « A
nulla vale che siano affettuosi se non possono aiutare » 24.
Aggiungiamo ancora alcuni esempi dello stesso genere. Un aneddoto
sul socratico Diogene narra che questi, divenuto schiavo, fu venduto a
un nobiluomo. A scanso d'equivoci Diogene gli dichiarò subito che

24 XENOPH.Mem. I 2, 51. Tr. it. di R. Laurenti in: Socrate, tutte le testimonianze, a


cura di G. Giannantoni, Bari 1971, p. 88.
RAGIONE E AUTORITÀ 1 15

d'allora in poi avrebbe dovuto seguire i suoi ordini; infatti come egli,
nobiluomo, avrebbe obbedito a un medico o a un pilota, anche se questi
fossero stati schiavi, cosÌ doveva ubbidire a lui, Diogene, che era
filosofo 25.
Abbiamo anche due note massime aristoteliche dello stesso tenore.
La prima non è autentica, ma sorta assai per tempo: « Chi educa i fanciulli
merita maggior rispetto di chi soltanto li genera: questi infatti dà ad essi
solo la vita, l'altro dà la vita perfetta » 26. E noi intuiamo che con queste
parole Aristotele doveva pensare da una parte ai rapporti di Alessandro
col padre Filippo e dall'altra a quelli col suo maestro Aristotele.
La seconda massima si trova nell'Etica Nicomachea, e forse è stata
ripresa da un dialogo di Aristotele. Intendendo confutare la dottrina
platonica dell'idea del bene, Aristotele dichiara il suo disappunto per
questa discussione, perché egli deve rivolgersi contro persone amiche. Ma
di fronte all' alternativa tra amicizia e verità, egli deve assumersi la respon­
sabilità di anteporre questa a quella 27.
Tuttavia è dato anche registrare il punto di vista opposto, come
mostrano certe espressioni di un dialogo ciceroniano. In una discussione
tra Platone e i suoi avversari, un interlocutore dichiara di preferire
l'errore in compagnia di Platone anzicché il possesso della verità con gli
avversari di lui 2 8.
Ma torniamo alla Socratica. Il polemista che sopra abbiamo citato da
Senofonte, naturalmente non aveva torto. Uno dei problemi centrali della
Socratica è quello riguardante il sapere certo e il possesso di questo sapere,
cioè la competenza. In ogni circostanza a decidere è sempre l'individuo
competente, chiunque egli sia, anche se il resto degli uomini è di diverso
avviso. Socrate non esita, in nome del sapere competente, a dichiarar nulle
tutte quelle istanze che non si fondano su un sapere verificabile ma su
un'autorità storicamente costituita: padri e amici, maggioranze democrati­
che, governanti all'apice della potenza e, infine, i poeti. Per quanto grande
possa essere il loro prestigio, costoro tuttavia non sono ili grado di render
conto di ciò che dicono. Non resta quindi che la sola giustezza del logos.
Chi ne è in possesso ha tutto ciò che gli occorre e può agire corretta­
mente.
Tuttavia la Socratica non è riuscita a svolgere questa tesi fino alle sue
ultime conseguenze. E, dicendo ciò, non pensiamo anzitutto al fatto che
ogni socratico si è fatto per suo conto un ritratto del maestro, al quale
riferirsi in appoggio alle proprie dottrine. Più importante mi sembra
piuttosto quel che segue e che viene alla luce soprattutto in Platone.

25 DIOG. LAERT. VI 29, 36.


26 Gnom. Vatic. 743 ed. Sternbach, n. 87.
27 ARIST. Eth. Nic. I 1 096 a Il 17.
.

28 CIc. Tusc. disp. 139.


1 16 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

In Platone per l'appunto si mostrano chiari i limiti dell'esattezza


dimostrativa. Da un lato si pone il problema della sopravvivenza dell'a­
nima nell'aldilà, che viene postulata dal principio della giustizia commu­
tativa. Ma la sopravvivenza è dimostrabile solo come principio, non
nelle sue conseguenze etiche. Pertanto non resta che affidarsi all'autorità
di antiche tradizioni religiose, nella speranza che i saggi delle origini
fossero in possesso di una sapienza superiore a quella concessa agli
epigoni. Dall'altro lato c'è la determinazione etica del singolo, della
quale diremo più avanti. Quel che ora ci preme rilevare è soltanto il
fatto che l'azione può condurre l'uomo a un punto in cui egli non è più
in grado di dare una giustificazione chiara e razionale della sua condotta.
Infatti l'esattezza dimostrativa resta sempre confinata nella sfera dell'uni­
versale e non può prevedere in anticipo tutte le componenti di una
determinata situazione storica. Solo il comportamento paradigmatico di
un personaggio autorevole può venire in aiuto di chi si trovi in una
situazione affine. Ora, nessuna situazione si ripete mai identicamente.
Tuttavia la distanza che separa una data situazione da un'altra affine, che
si considera come paradigmatica nei confronti della prima, è minore di
quella esistente tra la situazione data e la norma universale e facilmente
intellegibile dell'esatto agire. Per esprimere ciò Platone si serve a volte di
questa formula: la legge - nel senso dell'esatto agire in generale - è
gerarchicamente inferiore al principe ideale il quale è « la legge
vivente » 29, la cui condotta deve essere imitata. Solo quando egli fallisce
deve subentrare la legge come strumento ausiliario.
Possiamo andare ancora oltre. Il dialogo socratico di Platone, come
quello degli altri Socratici, non ha il solo scopo di mostrare che qualun­
que uomo, in qualunque situazione data, può giungere alla filosofia ma
mira altresl a presentare Socrate come quest'unico uomo. Tutte le assicu­
razioni che questi ci dà, non possono indurci nell'inganno di farci
credere che tutto dipende esclusivamente dal logos che egli svolge nel
dialogo e non dal suo personale rapporto col medesimo. Come deve
essere giusto il logos, cosl il rapporto con esso deve esercitare l'influenza
di un modello autorevole. E ogni lettore di Platone sa che in parecchi
dialoghi la personalità di Socrate schiaccia addirittura i suoi interlocu­
tori. I dialoghi di Aristotele non pare abbiano sortito effetti di questo
genere. Ma al riguardo è di estremo interesse il procedimento dell'Etica
Nicomachea. L'opera tende a stabilire, per quanto possibile, norme piena­
mente intellegibili e universalmente valide sia per la morale dell'uomo
colto, come anche per quella della contemplazione speculativa. Ma que-

29 PLAT. Politico 294 a.


RAGIONE E AUTORITÀ 1 17

sta legislazione, se cosÌ si può dire, trova dinanzi a sé un limite invalica­


bile, a partire dal quale diventa norma l'uomo perfetto. Per Aristotele
infatti noi dobbiamo agire, in primo luogo, secondo le regole della virtù;
ma, dopo, nel modo in cui l'uomo virtuoso agirebbe al posto nostro.
Stranamente a questo punto l'etica ritorna al suo stadio prefilosofico
originario. Allora infatti l'uomo modellava il suo comportamento pra­
tico sull'esempio dei genitori e degli antenati. Ma l'etica passa allo stadio
filosofico nel momento in cui sostituisce la validità del modello con
quella di una teoria dimostrabile. In Aristotele riscontriamo un parziale
ritorno all'antica eti<;a del modello. Questo ritorno ha prodotto effetti di
vario ordine. La figura ideale del saggio, di cui parla cosÌ ampiamente
l'ellenismo, in verità solo alla lontana è comparabile con quella
dell'« uomo dabbene » (cmollOOti'oç, cpp6vtfJ.oç) di cui parla Aristotele. Tutta­
via la nozione aristotelica di esemplarità potrebbe avere connessione con
la fioritura di letteratura aneddotica che ha luogo alla fine del IV secolo.
L'aneddoto intende appunto mostrare, in forma icastica e concisa, un
modello di comportamento in una situazione particolare. Ma la nozione
arisotelica di esemplarità trova per la prima volta terreno fertile nelle
scuole filosofiche sorte subito dopo la morte del filosofo. Le scuole sono
soltanto in parte istituzioni destinate all'insegnamento e alla ricerca
scientifica in senso stretto. Per un altro verso esse costituiscono delle
comunità il cui capo rappresenta, sotto ogni riguardo, un'autorità e un
modello di comportamento.
In linea di principio ciò è vero già per le scuole anteriori ad
Aristotele. Nella più antica di esse, quella pitagorica, sembra - se
possiamo fidarci delle nostre fonti - che il principio della sottomissione
del discepolo all'autorità del maestro fosse stato spinto fino al limite
estremo di sopportazione per un greco. Presso i Pitagorici sembra che
la prova decisiva della verità di una dottrina sia stata quella - come
spesso si dice - dell'« ipse dixit » 30. Gli adepti dovevano attendere per
anni, prima di essere ritenuti degni di vedere il Maestro in persona.
Anche la scuola di Platone mostra, sotto questo riguardo, caratteristiche
che a prima vista ci sorprendono: cosÌ ad esempio, la scuola - al più
tardi subito dopo la morte di Platone - cominciò a festeggiare il
genetliaco del suo fondatore e quello di Socrate. Il che non era affatto
una pratica usuale, anche per la ragione che non esisteva al riguardo
alcuna prescrizione ufficiale. Si fissò il genetliaco di Socrate il sei del
mese .attico di Targelione, giorno che, secondo la leggenda, doveva
corrispondere a quello nel quale si celebrava a Delo la nascita della dea

30 Cle. De nato deor. I 10.


1 18 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Artemide; il genetliaco di Platone si celebrava il giorno successivo, nel


quale la medesima leggenda aveva stabilito la nascita di Apollo. È facile
cogliere il duplice significato simbolico di queste date: esse ponevano in
rilievo non solo la relazione tra Socrate e Platone ma anche quella dei
due filosofi con la coppia delle divinità di Delo. A noi fa un certo
effetto dover constatare come si sia inventato un mito al fine di onorare
i due fondatori dell' Accademia. Ma ciò non è tutto. Alla morte di
Platone, un certo numero di discepoli composero degli scritti comme­
morativi sul maestro, e particolarmente Speusippo, nipote di Platone e
suo successore nella direzione della scuola. Ora questi affermò, senza
alcuna esitazione, che Platone non era figlio di un uomo, ma che sua
madre l'aveva concepito a opera di Apollo. Ma una tale glorificazione di
un caposcuola rappresenta, per il nostro modo di pensare, quasi una
mostruoslta.
. \

Epicuro e Zenone non arrivarono fino a questo punto. Nelle loro


scuole la forza del modello ideale ha dimensioni più modeste, come in
Aristotele. Ma le espressioni impiegate, nell'uno come nell'altro caso,
sono press'a poco le stesse: « Dobbiamo scegliere un uomo buono e
averlo costantemente sotto i nostri occhi, per vivere come se quello ci
guardasse e fare tutto come se esso sempre ci vedesse 31. Infine in una
lettera Epicuro - o un suo discepolo - arriva a dire: « Fa' tutto come
se Epicuro ti vedesse » 32. Non è possibile esprimere in modo più chiaro
l'essenza autentica dell'etica dell'esemplarità (Vorbildethik).
N elIo Stoicismo si riscontrano proposizioni affini. Quando una
volta a Zenone fu chiesto quale fosse per un giovane il modo migliore di
evitare di commettere errori, pare che abbia dato questa risposta:
« Tenendo sempre dinanzi agli occhi coloro che egli più onora e
teme » 33. E il suo successore Cleante rispondeva senza esitare: « Cre­
dendo che io lo veda in tutto ciò che fa » 34.
Peraltro si possono rilevare in proposito significative differenze di
sfumature. L'autorità di Epicuro sui suoi discepoli non era inferiore a
quella esercitata da Platone nell' Accademia. I suoi scritti costituivano il
fondamento incrollabile della dottrina e veniva anche festeggiato il suo
giorno natalizio. Ma su Zenone nulla del genere ci è stato tramandato. È
significativo al riguardo che mentre possediamo numerosi ritratti di

31 SENEC. Ep. ad Lucil. Il, 8. Tr. it. di M. Isnardi Parente in Opere di Epicuro cit., p.
470 (= fr. 222 Arrighetti).
32 ID. [bUi. 25, 5. Tr. it. di M. Isnardi Parente in Opere di Epicuro cit., p. 471 (= fr.
223 Arrighetti).
33 SVF I 3 19.
3. SVF I 612.
RAGIONE E AUTORITÀ 1 19

Platone e un buon numero di ritratti di Epicuro, ne abbiamo assai pochi


di Zenone. Il clima spirituale della Stoa non era favorevole alla forma­
zione di autorità dominanti. Si può anche ricordare il fatto che la massa
di ciò che ci è stato tramandato come dottrina stoica complessiva è ben
superiore al numero dei detti tramandatici di singoli filosofi stoici.
In Cicerone infine la coppia concettuale ragione-autorità si mostra
in una duplice forma. Anzitutto egli innalza ad autorità, con una forza
fin allora inconsueta, gli « antichi », ossia i classici della filosofia greca,
contrapponendoli ai meno apprezzati « moderni ». Egli si propone addi­
rittura l'intendimento programmatico di un ritorno alla dottrina degli
antichi. In secondo luogo, la coppia ragione-autorità serve - sul piano
religioso - al superamento del conflitto tra la teologia dei filosofi e il
culto degli dèi romani. Sia Cicerone che Varrone si sono sforzati infatti
di distinguere tra il concetto della divinità, fornito dalla ragione e che è
il solo valido sul piano dei principi razionali, e la fede religiosa che
nessun vero romano ha mai contestata, facendo essa parte integrante di
quella tradizione che ha fatto la grandezza di Roma. L'autorità di questa
fede - che era già stata quella di Romolo - non verrà mai contrapposta
alla filosofia alla quale essa non creerà difficoltà con obiezioni impro­
prie 35.
Queste considerazioni ci inducono a domandarci come il medesimo
problema si sia posto nella prima letteratura cristiana dell'Occidente
latino.

35 CIc. De nato deor. III 5-6.


CAPITOLO TERZO

Universale e singolare

COME il problema del rapporto ragione-autorità s'intrecciava in parte


con quello del rapporto paradosso-evidenza, cosÌ il problema del rap­
porto universale-singolare s'intreccia con quello relativo a ragione­
autorità. Tuttavia il centro problematico si sposta, quando si passa da un
argomento all'altro.
C'è da osservare anzitutto che sul piano della storia si danno
sempre fatti singoli e irripetibili sia nel tempo che nello spazio. Esiste
inoltre una categoria storica, quella della somiglianza, che è il fonda­
mento di quell'esemplarità della quale abbiamo testé parlato. Viceversa
la ripetizione ci fa uscire dalla dimensione storica. Ora, nel concetto di
ripetizione rientra quello di universale. L'universale si mostra per il fatto
che esso si ripete sia in una serie di singoli esemplari, sia come regola in
una serie di eventi.
Quando e dove, nell'antichità, sono apparse queste due forme di
universale? Un rapido esame c'induce a una constatazione di ampia
portata: dovunque si viene a dar rilievo all'universale, sotto forma di
ripetizione di un ente o di un evento, ciò è sempre sottolineato con
particolare energia. L'universale ha una preminenza che né l'individuo
né altro può mai pretendere di possedere. Si potrebbe dire che questo è
quasi un atteggiamento di fondo dell'antichità; in ogni caso tale premi­
nenza dà luogo a una netta separazione tra pensiero greco e pensiero
moderno. Ciò che si ripete e resta sempre identico a sé stesso attraverso
tutti i mutamenti, ha per gli antichi il carattere dell' eterno e partecipa
del divino. Naturalmente questa veduta s'afferma là dove la filosofia
crede di affrontare per la prima volta il tema dell'immutabile: da una
parte nel campo dell'astronomia, in cui si attribuisce ai corpi celesti
un'assoluta e infrangibile regolarità di movimenti; dall'altra in quello
dell'etica, dove Platone, superando la pericolosa ambiguità di ciò che gli
uomini chiamano bene, coraggio, giustizia, scopre le forme immutabili
(lòÉClL) del bene, del coraggio e della giustizia in sé.
A ciò si aggiunge un ulteriore elemento. La polarità di universale e
singolare presenta dapprima, a quanto pare, nella scuola di Platone, un
aspetto gnoseologico che, tutto sommato, è quello che ha assunto valore
122 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

e importanza maggiori. In altri termini, appar chiaro che la possibilità


dell'enunciazione verbale, della comunicazione linguistica e, infine, di
quel genere di conoscenza che si può trarre da un'espressione verbale si
ammette o si nega sulla base dell'universale, comunque qualificato. Co­
noscenza e scienza si danno solo dell'universale. Solo ciò che è rigorosa­
mente identico a sé stesso e che si ripete sia come ente che come evento
particolare, può essere compreso nel senso pieno del termine. Viceversa
non si dà conoscenza di ciò che accade una sola volta o dell'individuale
che può essere ora in un modo ora in un altro. Tutto ciò resta pertanto
confinato nella sfera della percezione sensoriale.
Le conseguenze sono facilmente deducibili. Se l'universale partecipa
del divino, anche la sua conoscenza è a questo preordinata; e tale
conoscenza è concepibile solo se il suo portatore, l'intelletto, rimane
anch' esso in comunione col divino.
Perveniamo così, con Platone, al mondo delle essenze eterne che
rappresentano anzitutto sia l'essere che l'universale, di cui gli individui
sono copie imperfette. In Platone dunque ontologia e logica sono indis­
solubilmente legate grazie alla nozione di « idea »; nozione peraltro
troppo spesso fraintesa e che solo assai di rado fu da lui adoperata.
Approdiamo così alla tesi che i corpi celesti - il cui moto circolare
si svolge secondo la più rigorosa uniformità - devono essere di natura
divina. Questa è soprattutto la tesi di Aristotele il quale non distingue,
come Platone, un mondo visibile e mutevole. degli enti individuali da un
mondo ideale delle forme universali e immutabili, ma con una forzatura
che la stessa antichità disapprovò per la sua eccessiva audacia, divise
questo nostro mondo in due piani: la zona che va dalla luna al cielo
stellato è il mondo divino nel quale tutto si ripete eternamente, mentre
la zona sottostante alla luna è quella in cui tutto muta continuamente e
nulla è mai stabile né può essere rigorosamente considerato. Certamente
anche in questa sfera è possibile una certa conoscenza, .nella misura in
cui il mutevole assume forme determinate che posseggono il carattere
dell'universale.
Comune a Platone e ad Aristotele è il convincimento che la facoltà
dell'uomo, capace di conoscere da una parte le idee, dall'altra almeno in
qualche misura il moto degli astri, dev'essere anch'essa di natura e
origine divine. I dialoghi di Platone le danno nomi diversi, mentre
Aristotele la chiama coerentemente « intelletto » (vouç).
Non possiamo tuttavia contentarci di indicazioni schematiche sul
particolare ruolo che la filosofia attica attribuisce all'universale. Resta da
vedere quali difficoltà quest'attribuzione ha provocato nel pensiero an­
tico e in quale rapporto essa si pone coi principi fondamentali del
pensiero moderno. Infatti la nozione di universale, come oggi la inten-
UNIVERSALE E SINGOLARE 123

diamo, sancisce effettivamente una distinzione fondamentale che qUi


conviene rilevare.
Atteniamoci anzitutto alla problematica da essa posta allo stesso
pensiero antico.
L'idea che gli astri si muovano secondo un ordine immutabile è
singolarmente meno diffusa nell'antichità di quanto si possa supporre.
Più avanti esamineremo il problema nei particolari. Qui basta solo
stabilire una distinzione essenziale: i filosofi antichi si dividono in due
campi. I Presocratici ionici non hanno ancora consapevolezza del pro­
blema. Per loro gli astri non sono che una parte di quel mondo che
nasce e perisce secondo un ordine approssimativo. Solo gli astronomi
della fine del V secolo riusciranno a dare una spiegazione prevalente­
mente matematica dei fenomeni celesti. Ecco un punto essenziale. Si
stabilisce un'uguaglianza di tre termini scambiabili a piacere: le traietto­
rie percorse dagli astri sono assolutamente regolari e si possono determi­
nare matematicamente, il che dimostra la natura divina dei corpi celesti.
Si può anche argomentare che gli astri devono avere traiettorie che si
ripetono eternamente perché sono divini, e l'essenza del divino è mate­
matica. Infatti il giudizio matematico è la forma più alta di enunciato
universalmente valido. Questa uguaglianza è stata riconosciuta, pur con
diversità d'accento, dall'Accademia platonica, dal Peripato di Aristotele e
dalla Stoa; è stata invece respinta da Epicuro il quale nega la divinità
degli astri e, conseguentemente, giudica tutta quanta l'astronomia mate­
matica un'assurdità manifesta 36.
Incomparabilmente più importante per noi è la forma che la sco­
perta dell'universale trova nella dottrina platonica delle idee. Affascina il
pathos con cui Platone, prima nel dominio dei valori morali, poi gra­
dualmente in tutti gli ambiti dell'universo morale e fisico, cerca l'Uno
che, in quanto universale, si colloca al di sopra degli individui ai quali è
preordinato sia dal punto di vista gerarchico che da quello della priorità
temporale. Infatti il sistema di quelle unità forma un cosmo intellegibile
di paradigmi del quale il cosmo visibile è solo una stentata imitazione. Il
cosmo intellegibile è anche il solo oggetto possibile di ciò che Platone
chiama scienza. Tuttavia già in lui è dato vedere come questa dottrina
cominci a disarticolarsi su singoli punti.
In primo luogo: una scienza che si concentra esclusivamente sulle
forme universali, accessibili soltanto all' occhio dello spirito, non può
render conto del mondo sensibile. Essa potrà, al più, utilizzarlo per
trame delle conclusioni circa il contenuto del mondo delle idee. Ma ciò

36 CIc. Defin. I 21, 71 ss. (= fr. 227 Usener).


124 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

non può bastare. Ci si accorge ben presto che non basta contrapporre
semplicemente universale a singolare, invariabile a variabile, ripetizione
a casualità. Nello stesso singolare è immanente in parte l'universale e
lo stesso cambiamento avviene sempre secondo regole generali. CosÌ
Aristotele giunge all'acuta definizione del divenire come il processo
attraverso il quale l'individuo perviene all'attuazione dell'essenza univer­
sale nella quale fin dal principio è compreso. Questa definizione gli
consente di costruire il vasto edificio della sua filosofia della natura,
senza tuttavia dover rinunciare, in linea di principio, alla nozione plato­
nica della scienza come conoscenza dell'universale. Questo però non è
più l'idea posta al di là del mondo sensibile, ma l'essenza medesima
calata nella sfera della sensibilità.
In secondo luogo: molto più radicale appare l'obiezione che nessuna
etica si può costruire sulla scienza dell'universale. Se la filosofia della
natura può rinunciare alla considerazione del particolare in senso stretto,
ciò è impossibile per l'etica. Infatti il luogo dell'azione pratica è dato
sempre da una situazione particolare, il che ci riconduce alle riflessioni
svolte nel capitolo precedente. Aristotele si esprime con ene�gia e forza
polemica in questi termini: « Se infatt� il bene fosse uno e qualcosa di
predicabile in comune e sussistente separato di per sé, è evidente che
non sarebbe realizzabile né acquistabile per l'uomo; ma è proprio ciò
che invece noi cerchiamo. E certo si può pensare che sia meglio cono­
scerlo in rapporto a quei beni che si possono acquistare e realizzare:
avendo infatti questo come modello, conosceremo meglio anche i beni
che ci riguardano, e se li conosciamo, li potremo più facilmente otte­
nere. Questo ragionamento ha · pure qualcosa di persuasivo, appare tutta­
via essere in disaccordo con le scienze; tutte infatti mirano a un certo
bene e, pur ricercando ciò che ad esse manca per realizzarlo, trascurano
la sua conoscenza. E tuttavia è cosa non ragionevole che tutti gli
artigiani trascurino e non ricerchino un cosÌ importante sussidio. Ma
anche è incerto in che cosa si possa giovare un tessitore o un carpentiere
per la sua arte della conoscenza del bene, o come un medico o un
generale possa divenire migliore nella sua arte attraverso la contempla­
zione di questa idea. Sembra infatti che il medico non abbia di mira la
salute in sé, bensÌ quella dell'uomo, o meglio, anzi quella di un uomo
particolare. Egli infatti cura individui particolari » 37.
In un contesto affine Aristotele giunge ad ammettere la possibilità
che al medico riesca più utile l'empiria, cioè la conoscenza storica di casi

37 A RIST. Eth. Nic. I 1096 b 32 . 1097 a 1 3 . Tr. it. di A. Plebe in: A RISTOTELE, Opere, a
cura di G. Giannantoni, Bari 1973, voI. 7°, pp. 1 1·12.
UNIVERSALE E SINGOLARE 125

simili, anziché la scienza dell'essenza dell'uomo e della malattia in gene­


rale. Nello stesso senso lo stoico Crisippo, più tardi, con una definizione
che per la sua scuola avrebbe assunto il valore di una regola, dirà che
l'etica è un fatto di pura empiria J8•
Le conseguenze di ciò sono facili a scorgersi e si possono in parte
rintracciare negli ultimi dialoghi di Platone, che potremmo definire
« aristotelizzanti » : dall'idea, in quanto universale, non si possono trarre

indicazioni in ordine a ogni singola decisione etica. Pertanto l'uomo


singolo deve trovare da sé la giusta via; egli può tutt' al più - come
abbiamo già detto - prendere a modello della propria condotta, in una
data situazione, la decisione assunta da un altro individuo in una situa­
zione analoga. Questa decisione può anche avere per lui il valore di una
norma. Ma l'analogia di cui si tratta in questi casi non ha nulla a che
fare con l'universale che si ripete identicamente e che ha, per questo,
natura divina. Naturalmente è possibile inculcare all'individuo, mediante
l'educazione, quei principi universali che gli consentano di assumere le
giuste decisioni in ogni particolare circostanza, e questo è in definitiva il
pensiero di Aristotele, malgrado il radicalismo delle sue affermazioni
poco fa ricordate. Ma resta il fatto che nessuno può assumere una
particolare decisione derivandola direttamente e univocamente da un
principio universale.
L'etica è dunque costretta entro due diversi procedimenti metodici.
Essa può partire dall'universale, cioè dal concetto universale o idea del
bene e dedurne un sistema molto elastico di norme generali, senza
naturalmente perdere di vista il fatto che tale sistema non può compren­
dere in sé il caso particolare in quanto tale. Ma essa può anche procedere
empiricamente e collezionare le descrizioni di certi comportamenti tipici
che possono servire da modelli o avvertimenti, non nel senso che siano
riproduci bili ma in quello che possano indurre il singolo ad assumere
una determinata decisione. Se la scienza ha per oggetto l'universale, una
tale etica non è scienza; ma bisogna chiudere un occhio! I Peripatetici e
in parte gli Stoici - soprattutto gli ultimi Stoici aristotelizzanti come
Posidonio e Panezio - hanno appunto chiuso un occhio, scrivendo
trattati morali di questo tipo, che noi conosciamo bene soprattutto per
merito di Plutarco. In essi il maggior rilievo è dato alla rappresentazione
di casi concreti diversi: ad esempio, la forma giusta e ingiusta della
curiosità, dell'ira, della loquacità. Ancor più famosi sono certamente i
Caratteri di T eofrasto, che rappresentano i resti pervenutici casualmente
di un genere letterario assai in voga nel Peripato. Il fascino di quest' ope-

38 SVF III 4.
126 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

retta sta nella ricchezza di osservazioni acute, con le quali vengono


abilmente costruiti i ritratti dei diversi tipi umani.
Tuttavia lo stesso Teofrasto non ha trascurato completamente la
parte scientifica dell' etica. Quel che sappiamo della sua opera Sulla
felicità mostra che anche lui, come Aristotele, si attenne al concetto di
« vita contemplativa », la forma di vita più alta in assoluto, la quale
realizza compiutamente il suo significato se ha per contenuto non l'inda­
gine dei fatti contingenti ed empirici ma la considerazione delle cose
eterne che per i Peripatetici sono in modo preminente i corpi celesti
eternamente ruotanti nelle loro orbite H.
Non sappiamo se Epicuro abbia preso in considerazione la polarità
universale-singolare. Neanche la Stoa, a quel che sembra, ha dedicato
particolare attenzione al problema: certo essa riconosce alle idee generali
un loro ruolo, ma ciò fa senza un particolare sforzo di pensiero. È già
molto se si accenna a una qualche discussione sulla forma universale di
Platone. Si sarebbe indotti a credere che la polemica aristotelica contro
la dottrina delle idee ne abbia compiuto per intero l'opera di demoli­
zione e che i filosofi dell' età ellenistica - aristotelici o meno - abbiano
considerato definitivamente chiusa la questione. Ma nell'età di Cicerone
la dottrina delle idee viene ripresa in una forma un po' modificata e il
Neoplatonismo la professa con entusiasmo: ma in esso la dottrina delle
idee si è trasformata in un imponente sistema di entità spirituali.
Si può quindi a buon diritto affermare che la connessione dell'uni­
versale col ripeti bile e col divino è un tratto distintivo del pensiero
antico in generale; e a questo punto s'impone il confronto col pensiero
moderno. Notiamo anzitutto che l'universale, nel senso platonico dell'u­
niversale-forma o dell'essenza, sulla cui base si costituisce e s'intende la
nozione di individuo, praticamente non svolge più alcun ruolo nel
pensiero del nostro tempo. Oggi non si fa più nessuna considerazione di
un' « essenza » sussistente in questo senso e resa intellegibile da una
definizione: come ad esempio, l'essenza dell'uomo o della pietra. Già da
alcuni secoli si attribuisce invece maggiore importanza alla seconda
forma nella quale l'universale può manifestarsi, quella della ripetizione
di eventi, ossia quella che comunemente si chiama una legge naturale.
Dal secolo XVIII in poi la scoperta e la formulazione di tale complesso
di leggi è, per riconoscimento generale, il fine principale della scienza
della natura. È vero che viene accantonato il problema di sapere se
queste leggi rimandino o meno a un legislatore e dunque se possano
avere, in qualche misura, rilevanza teologica. Tuttavia è altrettanto vero

39 CIc. Defin. V 1 2; 86 55.


UNIVERSALE E SINGOLARE 127

che peraltro qualcosa da esse dipende. In fisica, in chimica, in botanica,


in zoologia, in psicologia etc., ha importanza nei fenomeni l'elemento
che si ripete e che si può far ripetere. Invece la componente storica, ossia
il dato che in ogni fenomeno si verifica una sola volta, può essere
trascurata senza alcun danno, anzi deve esserlo, dato che la veduta
platonica secondo la quale del fatto particolare e irripetibile non si dà
scienza, conserva un'immutata validità.
Ci si domanderà ora quale sia stata la posizione del pensiero antico
nei confronti di questo concetto di legge di natura. Non a caso abbiamo
rinviato fino ad ora l'esame di questo problema.
A prima vista sembrerebbe che il concetto di legge naturale sia cosÌ
congeniale allo stile del pensiero antico, che ci si aspetterebbe di consta­
tarne un'ampia diffusione. Esso infatti serve, in definitiva, da contrap­
peso all' altro, assai antico, di essenza. Ma, sorprendentemente, esso si
riscontra assai di rado, giacché quando Eraclito, qualche volta Empedo­
cle e più tardi la Stoa parlano di una legge del destino alla quale sia il
mondo che l'uomo sono soggetti, si tratta di cosa ben diversa. Per
trovare delle enunciazioni che abbiano più o meno il carattere di legge
naturale, bisogna rivolgersi anzitutto alla biologia peripatetica; ma anche
qui non si tratta che di accenni.
Come si spiega questa singolare lacuna? Si possono sommariamente
indicare due cause convergenti. La prima, volendo, si può ricondurre al
sentimento che i Greci ebbero del mondo in generale: ciò che accade nel
mondo umano è imprevedibile e inaspettato. Ciò che il domani porterà,
buono o cattivo tempo, salute o malattia, felicità o sventura, è ignoto.
Questo sentimento d'insicurezza è profondamente radicato nello spirito
greco. La sicurezza esiste solo presso gli dèi. Di conseguenza avviene che
solo nel mondo del divino si può dimostrare un'assoluta certezza degli
eventi, fondata sul carattere matematico dei moti astrali. Ma il greco,
per pnncipIO, non si attende una siffatta regolarità matematica negli
eventi terrestri.
Arriviamo cosÌ alla seconda causa. Legalità naturale significa anche
possibilità di previsione e di calcolo, almeno nella maggioranza dei casi:
a uno stato A succede - secondo un rapporto di necessità sempre
verificabile - sotto l'azione di B, uno stato C; dove A, B e C sono
grandezze determinate sia in senso qualitativo che quantitativo. Proce­
dendo oltre, questo processo può essere provocato artificialmente in
proporzioni considerevoli. L'uomo può - spesso volontariamente -
provocare l'azione di B su A e cosÌ produrre C sia per via sperimentale
che con l'ausilio della tecnica.
Ma l'antichità non arrivò a tanto. Non si avevano allora sistemi
esatti per la misurazione delle velocità, delle temperature, etc. Non
128 NOZIONI FONDAMENTALI D ELLA FILOSOFIA ANTICA

c'erano statistiche e si può parlare di esperimenti solo in forma assai


rudimentale, senza che si fosse peraltro in grado di ricavare - attraverso
la loro ripetizione a volontà - delle conclusioni più ampie. Ecco perché
non potè sorgere neanche una tecnica nel senso moderno della parola.
Naturalmente l'industria greca, come ogni industria del mondo, conobbe
parecchi metodi e procedimenti di lavorazione che di fatto erano « tec­
nici ». Ma, a parte qualche rara eccezione, non si trovano riflessioni
scientifiche sulle condizioni che rendono possibili tali tecniche e neppure
si riflette su quei fenomeni regolati da leggi naturali che potrebbero
essere sfruttati dall'uomo secondo un piano razionale.
A che debba attribuirsi questa lacuna nel pensiero greco non è facile
dire né, in questa sede, spiegare. Dire che i Greci non ebbero sufficiente
talento per inventare strumenti esatti di misurazione, costruire statisti­
che, organizzare esperimenti e trarne risultati utili sul piano tecnico, è
affermazione che non spiega nulla. Diciamo piuttosto che i Greci non
s'interessarono di queste cose. La loro concezione del mondo agiva
piuttosto in senso contrario; inoltre essi erano decisamente inclini a
considerare i fatti quotidiani come ovvi e a concentrare invece la loro
attenzione sull' avvenimento raro e isolato; infine, sotto un aspetto del
q,1ttO diverso, essi non avevano la possibilità di migliorare il rendimento
delle loro industrie, ossia di perfezionare la tecnica dei loro metodi di
lavorazione. Certamente vi furono cambiamenti nei costumi e negli
assetti sociali ed epoche che conobbero condizioni di vita più raffinate
rispetto ad altre, ma · i Greci non pensarono mai che lo scopo della vita
consistesse in un miglioramento, progrediente all'infinito, delle condi­
zioni materiali dell'esistenza. Il loro comportamento corrispondeva piut­
tosto alla massima che forse deriva da un dialogo di Aristotele: « Poiché
le circostanze non si conformano alla nostra volontà, que�ta deve con­
formarsi alle circostanze » 40.
Il che ci porta a un'ultima importante considerazione: per i Greci
l'universale, in quanto si ripete immutabilmente, è un aspetto .dell'e­
terno. Viceversa, per la filosofia che si può chiamare in senso specifico
contemporanea, vale il principio opposto: il più alto grado di dignità
tocca al singolo nella sua irripetibilità e unicità inesplicabile. Il cammino
che da Kierkegaard porta alla filosofia dell'esistenza non lascia alcun
dubbio in proposito. E non è difficile trovare la ragione di questo
mutamento d'interesse. Per il pensiero contemporaneo la ripetizione e la
sua possibilità sono necessariamente legate a quelle leggi naturali che
consentono alla tecnica il dominio sulla natura. L'antichità pensa che

40 STOB. EcL III 1, 19 ed. Wachsmuth-Hense.


UNIVERSALE E SINGOLARE 129

senza l'universale e la ripetizione è impossibile la comunicazione lingui­


stica; per essa inoltre la parola è una delle proprietà che distinguono
l'uomo dall'animale e l'avvicinano alla divinità. I moderni pensano
invece che, senza l'universale e la ripetizione, qualunque tecnica è impos­
sibile. Ma è questo per l'appunto che degrada la ripetizione. Noi iso­
liamo dal fluire degli eventi storici ciò che si ripete, non perché esso
abbia un valore più alto, ma perché ci consente di ridurre questi eventi
in nostro potere. Maggior valore ha quindi, per la filosofia odierna, ciò
che rimane, il residuato storico: ciò che distingue il singolo uomo dal
suo simile, ciò che nell'evento è irripetibile.
Dal che sicuramente deriva un'altra conseguenza: la filosofia non è
più scienza nel senso platonico del termine. La scienza, in quanto
conoscenza dell'universale è, per il pensiero moderno, coordinata alla
tecnica. La filosofia invece è comprensione dell'individuale, ma a questo
proposito ci sia lecito non rispondere al difficile problema di sapere
come si arriva - e se si arriva - a una tale comprensione, e di quale
strumento linguistico disponiamo per comunicarla.
Siamo ben consapevoli di aver molto semplificato i problemi ai
quali prima si è accennato. Sarebbe giusto ad esempio rilevare che
l'utilizzazione, sul piano della tecnica, dei fenomeni che si ripetono, non
è il solo motivo di questo mutamento d'interesse. Bisognerebbe anche
tenere nel giusto conto la componente cristiana, il confronto del singolo
con la persona di Dio e altro ancora. Tuttavia queste osservazioni non
modificano sostanzialmente la validità della constatazione di fondo: il
rapporto gerarchico tra universale e singolare è concepito nell'antichità
in termini esattamente opposti a quanto, in modo esplicito o implicito,
avviene nel pensiero moderno.
CAPITOLO QUARTO

La provenienza del materiale filosofico

BISOGNA cominciare col porsi la domanda: come un filosofo antico si


procurava il materiale documentario dal quale enucleava i problemi della
sua speculazione?
Se prendiamo in considerazione una qualunque successione di filo­
sofi del periodo classico o post-classico, non può sfuggire la forte in­
fluenza esercitata dalla tradizione. Certi problemi, una volta formulati,
vengono incessantemente ripresi nel corso del tempo e ricevono solu­
zioni sempre più adeguate, chiare, penetranti. L'antica storia della filoso­
fia, di stile teofrasteo, ha spesso registrato, per un solo e medesimo
problema, cinque, dieci o ancora più soluzioni proposte dai filosofi. È
vero che un tale parallelismo a volte si fonda su interpretazioni assai
forzate, ma spesso corrisponde a situazioni di fatto. Non si vogliono
indagare nuovi problemi quanto piuttosto mettere - per così dire -
fuori combattimento il filosofo avversario � concorrente, dando risposte
più valide delle sue ai problemi da lui stesso posti.
Accade tuttavia che ogni problema, una volta o l'altra, si rinnovi.
Qual è l'inizio di questo rinnovamento?
Dobbiamo anzitutto lasciare da parte quanto da noi detto sopra per
caratterizzare le costruzioni sistematiche dei filosofi naturalisti. Qui
infatti non sorgono difficoltà: quando il filosofo si propone il compito
di una costruzione ' cosmologica nella dimensione spazio-temporale, egli
intende opporsi alle costruzioni teogoniche di un Esiodo o di altri. Quel
che in Esiodo era mito, e dunque azione convergente di potenze perso­
nificate, diventa in Anassimandro filosofia, ossia costruzione gerarchiz­
zata di forze oggettivamente impersonali. Il passaggio da un sistema
all'altro si compie, nell'insieme, agevolmente.
Ben diversamente stanno le cose con gli innumerevoli problemi par­
ticolari, alcuni dei quali sono stati inglobati ben presto in un sistema
speculativo, mentre altri vi' si connettono parallelamente a guisa di
aggiunte. Diversamente vanno le cose anche coi problemi e i temi
dell' etica filosofica.
In quest'ambito l'elemento sistematico svolge un ruolo meno rile­
vante che nella cosmologia. Per quanto concerne la filosofia della natura,
132 NOZIONI FONDAMENTALI D ELLA FILOSOFIA ANTICA

si deve ammettere che il filosofo osservi in modo autonomo gli astri e


rivolga la sua attenzione ad animali, piante e minerali? E che il morali­
sta, a sua volta, analizzi i fatti che si verificano nel suo ambiente e si
riferisca alla sua esperienza personale?
Si può dire in generale che nell'antichità ciò avveniva assai più
raramente di quanto non potremmo credere. E ciò per due motivi. Il
primo è stato accennato nel precedente capitolo. La filosofia greca ha
mostrato in ogni tempo la tendenza a interessarsi preferibilmente di
fenomeni rari e sorprendenti. T eofrasto ha detto, con una espressione
lapidaria: « Ciò che sorprende induce a ricercarne la causa; mentre ciò
che appare ragionevolmente, è ammesso dagli uomini anche senza che se
ne indichi loro la causa, giacché ad essi non sembra difficile poterla
aggiungere da soli » l . In ciò sta la ragione dell'invito al filosofo a non
indugiare troppo a lungo sui fenomeni familiari e comprensibili a tutti.
Oggetto della sua indagine sono invece le cose che stanno al limite
estremo dell'ordinario.
Ma la loro osservazione non è così semplice: più un fenomeno è
sorprendente, meno verosimilmente il filosofo può prenderne cono­
scenza per visione diretta. La durata della vita è limitata e i viaggi in
paesi lontani, se non del tutto impossibili, sono ostacolati da grandi
difficoltà. Ne consegue che una gran parte del materiale dell'indagine
giunge sotto forma d'informazioni di seconda mano e per lo più attra­
verso documenti scritti.
Alle medesime conclusioni arriviamo riflettendo sul carattere fonda­
mentalmente « letterario » della cultura greca in generale. L'opera esege­
tica sull'epica comincia in età assai antica, e per esegesi non s'intendeva
soltanto l'interpretazione dei versi di significato oscuro, ma anche la
spiegazione del pensiero del poeta. Ci si chiede ad esempio se la psicolo­
gia dei suoi personaggi è verosimile e se le notizie di carattere geografico
e meteorologico da lui date sono corrette, per non parlare dei problemi
posti dalla sua « teologia ». La quantità di problemi filosofici sorti nei
primi tempi dalle discussioni sull'epica e, più tardi, sulla tragedia, è assai
considerevole e apparirebbe certamente ancor più grande se possedes­
simo i testi dei Presocratici, per limitarci a questi soltanto. Noi non
sappiamo su quali dati Talete abbia fondato la sua affermazione che la
terra galleggia sull'acqua, dato che ai tempi di Erodoto il suo libro
doveva già essere andato perduto. Ma per Democrito era evidente che
quella tesi doveva interpretarsi come esegesi e correzione di versi ome­
rici 2 .

l THEOPHRAST. De ventis 59 ed. Coutant - Eichenlaub, London 1975, pp. 58-60.


2 ARIST. Met. 1983 b 27-3 3 potrebbe rimontare tutt'al piu a Democrito.
LA PROVENIENZA DEL MATERIALE FILOSOFICO 133

Una conferma di quanto s'è detto sta nel fatto che fino al tardo
ellenismo i filosofi assai di rado sembrano richiamarsi espressamente a
osservazioni ed esperienze personali. Naturalmente non possiamo essere
sicuri di ciò, poiché non possediamo che qualche frammento o informa­
zione indiretta. Tuttavia non possiamo escludere la possibilità che Anas­
simandro abbia narrato per iscritto di aver visitato Sparta e di aver fatto
questa o quella osservazione in occasione della fondazione di una colonia
milesia sul Mar Nero alla quale avrebbe partecipato. E si può dare per
certo che egli abbia da qualche parte dichiarato di avere l'età di 64
anni J. La sua intenzione non era certamente solo quella di far sapere ai
suoi lettori di avere quell'età quando compose il suo libro. Più probabil­
mente avrà voluto accennare al fatto che, quando egli aveva l'età di 64
anni, si era verificato questo o quel fenomeno in una data maniera e
frequenza.
Ma in generale le indicazioni di questo genere sono assai rare.
Sorprende particolarmente il constatare che nell'insieme più consistente
di testi di filosofia naturale che noi possediamo, costituito dalle opere di
Aristotele e Teofrasto, sono assai pochi i passi che consentono di arguire
con sicurezza l'osservazione diretta dell'autore. Si deve anche considerare
significativo il fatto che nel dominio dell' etica politÌca Aristotele non
spende una parola sulle sue esperienze in Atene e alla corte macedone o
sulla spedizione militare in Asia di Alessandro il Grande che fu, dal
principio alla fine, a lui contemporanea.
Solo verso la fine dell'età ellenistica - forse per l'influenza di Roma
- le cose cominciano palesemente a cambiare. Sembra che lo stoico
Pane zio e, soprattutto, Posidonio abbiano fornito notizie relativamente
copiose sulle loro personali vicende. Sotto questo aspetto Varrone, tra i
Romani, li ha in certo modo imitati, mentre in Cicerone la situazione è
più complessa: questi infatti è interessato non tanto a fornire - trae n­
dola dalla sua esperienza personale - materia di riflessione alla filosofia,
quanto piuttosto a dimostrare come i problemi filosofici formulati dai
Greci conservassero ancora la loro piena attualità per lui e i Romani del
suo tempo.
In ogni caso, in tutta la letteratura filosofica dell'antichità sono rare
le pagine in cui i .filosofi si mostrano in immediato contatto « con le
cose stesse ». Prevale invece la riflessione sui dati di seconda mano.
Richiamiamo qui alcuni casi particolari che in parte confermano in
parte completano quanto già si è detto.

3 FGrHist 244 F 29. Cf. O. GIGON, Der Ursprung der griechischen Philosophie von
Hesiod bis Parmenides, Basel 1945, p. 59.
134 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Per quanto riguarda ad esempio la cosmologia dei Presocratici, non


bisogna considerare la scoperta della sfericità della terra come un risul­
tato dell' osservazione sperimentale. Questa infatti subentra dopo che la
pura speculazione ha postulato questa sfericità. Che la volta celeste abbia
la forma di semisfera sembra al pensiero primitivo il risultato dell'osser­
vazione diretta. Ma subentra la speculazione non appena la semisfera
viene completata in una sfera perfetta e ancor più quando, per amore di
una costruzione d'insieme la più armoniosa possibile, s'immagina la
terra come una sfera concentrica a quella celeste e quando, successiva­
mente, si definiscono i moti elementari come quelli aventi luogo tra il
centro e la periferia della sfera celeste. In definitiva è qui evidente lo
schematismo di una geometria puramente teorica.
La constatazione empirica della curvatura della superficie terrestre è
venuta dopo.
Per quanto riguarda la meteorologia, si ha l'impressione che i
fenomeni che essa studia siano, in larga misura, presagi « secolarizzati » .
Le eclissi, le comete, le stelle filanti, i parelii e altri fenomeni meteorolo­
gici dalle forme spesso strane, dovuti alla luce, sono stati interpretati
come segni provenienti dagli dèi e sono stati come tali registrati negli
annali sacri e dagli storici. Tutto questo ci è ben noto dai Romani. Ma
abbiamo ragione di credere che nella Grecia arcaica le cose non stessero
diversamente. Le cronache civili e religiose, per l'idea che ce ne pos­
siamo fare, come anche i primi storici hanno dovuto raccogliere, nel
corso delle generazioni, una considerevole massa di osservazioni. La
filosofia della natura cominciò con l'accantonare le interpretazioni reli­
giose ma conservò i fatti, sforzandosi di trovare per essi delle cause
comprensibili. Si spiega cosÌ l'interesse suscitato da tali fenomeni, effetti­
vamente assai rari, dai tempi di Anassimandro fino ad Aristotele.
Naturalmente a queste osservazioni vanno aggiunte le esperienze
fatte da contadini e marinai i quali se ne servivano come regole meteoro­
logiche. Fin dai tempi più remoti fenomeni meteorologici e terrestri -
come i comportamenti degli animali, delle piante, etc. - sono serviti per
le previsioni del tempo. Ora un simpatico aneddoto mostra fino a qual
punto fosse diffuso il convincimento che il filosofo s'intendesse anche di
cose del genere. Assistendo una volta ai giochi olimpici, Anassagora
provocò lo stupore degli astanti per essere il solo a portare indosso un
pesante mantello; ma poco dopo si mise a piovere ed egli fu il solo a
restare asciutto 4. Il senso definitivo dell'aneddoto è certamente questo:
come nel caso dei fenomeni celesti il filosofo, abbandonando le interpre-

4 DIOG. LAERT. II lO (= D-K 59 A l).


LA PROVENIENZA D EL MATERIALE FILOSOFICO 135

tazioni religiose osservava i fenomeni per sé stessi, cosÌ ha anche regi­


strato i numerosi segni meteorologici non per finalità pratiche ma
perché la natura del vento, della pioggia, della grandine, e della neve, le
·
reazioni particolari di certi animali lo interessavano per sé stesse e lo
spingevano a ricercarne le cause. Il trattato teofrasteo Sui venti, che ci è
pervenuto, si basa sulle osservazioni fatte da contadini e marinai, spesso
uguali a quelle cui accennano i poeti, e tuttavia quest' opera non è un
manuale per agricoltori.
Lo stesso si può dire dell' astronomia: il sorgere e il tramontare di
certi astri avevano importanza per la suddivisione del lavoro nei campi,
mentre altri astri servivano d'orientamento al marinaio. L'antichità greca
ha posseduto una vecchia opera ionica, attribuita a T alete, dal titolo
Astronomia per marinai s. Non era un'opera filosofica, come non era
opera d'astronomia il poema di Esiodo; e tuttavia i filosofi traevano di
qui il loro materiale d'informazione.
Se passiamo all'antropologia, alla zoologia, alla botanica, abbiamo a
che fare anche qui in primo luogo con l'utilizzazione del complesso di
esperienze fornite dai pratici. Esisteva nella religione una pratica che si
occupava di mostruosità e deformità d'ogni tipo, poi ce n'era una nella
medicina che rappresentava un campo assai esteso. La filosofia traeva da
queste fonti quei problemi di carattere generale e di principio riguar­
danti le cause della nascita, della morte, del sonno, della differenziazione
dei sessi, della nutrizione e della crescita. Contadini, cacciatori, erboristi
fornivano il loro contributo di esperienze. Ricordiamo che, a partire dal
V secolo a.c., abbiamo notizia di speciali trattati su questi argomenti:
dietetica, agricoltura, caccia, pesca, etc.
Si deve anche dare particolare rilievo alla letteratura di carattere
geografico ed etnologico. Essa comincia tra la fine del VI e l'inizio del V
secolo a.c. e fin da principio ha in comune con la filosofia il disinte­
resse nei confronti di ogni scopo pratico e l'esclusivo desiderio di fornire
informazioni importanti e degne d'interesse. Nelle descrizioni dell'E­
gitto, della Mesopotamia e più tardi dell'India o dell'Europa occidentale,
un posto importante è occupato dal mondo animale e vegetale e dal
comportamento dei loro abitanti o dalle caratteristiche climatiche. Non
si corre il rischio di esagerare l'ampiezza delle suggestioni che ne deriva­
vano per la filosofia.
Il materiale documentario su cui si fondava l'antica filosofia della
natura era dunque assai eterogeneo. Raramente noi possiamo rendercene
conto, dato che i testi riportano per lo più le sole conclusioni generali

s D-K 1 1 B I.
136 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

dei filosofi e spesso in formulazioni assai concise. Ma appena cerchiamo


di sapere da che parte il filosofo attingesse i dati di fatto sui quali
esercitava la sua riflessione, troviamo che le fonti utilizzate erano delle
più diverse specie.
Un caso a sé è certamente rappresentato dall'opera gigantesca di
Aristotele e da quella dei suoi immediati discepoli, Teofrasto e Eudemo.
La raccolta del materiale storico e biologico in esse accumulato non può
essere il risultato di una compilazione più o meno casuale di estratti da
testi poetici, manuali, opere storiche o etnologiche. Dobbiamo invece
supporre che si sia trattato di un lavoro sistematico. Un'antica notizia
c'informa che Alessandro il Grande aveva ordinato a tutti gli abitanti
del suo impero che per ragioni di mestiere si occupavano di animali, di
mettere a disposizione di Aristotele le lo"ro esperienze 6. Questa notizia
può anche avere un fondo di verità storica, giacché senza l'aiuto organiz­
zato di specialisti di vario genere - come allevatori di bestiame, caccia­
tori, pescatori etc. - difficilmente Aristotele, come sembra anche a noi,
avrebbe potuto scrivere le sue opere zoologiche. In certi casi ci si
potrebbe persino chiedere se nel Peripato non esistesse qualcosa come un
giardino zoologico o un orto botanico, dove animali e piante fossero
sottoposti a uno studio intenso e ininterrotto. Si tratta di problemi che
in fut�ro la ricerca dovrà chiarire.
Nel dominio dell'etica la situazione è fondamentalmente la stessa.
La poesia, come la storiografia, prospettano situazioni morali-limite che
bisogna inquadrare in un sistema compiuto e verificare nella loro legitti­
mità o esemplarità. Particolarmente importanti sono, ovviamente, quelle
situazioni dove nasce un conflitto tra doveri diversi: verso la patria o
verso gli amici; oppure, come nel caso di Oreste, verso il padre e la
madre e cosÌ via. Le tragedie di Euripide spesso sembrano invitare a
discutere a fondo i principi a cui si ispira l'azione drammatica. Anche in
questo caso vale quanto già detto. Nelle discussioni etiche della Socra­
tica, di Aristotele, dei pensatori ellenistici, il numero dei casi tratti dalla
poesia sembra essere notevolmente più grande di quanto oggi ci è
consentito di sapere.
A ciò si aggiunge naturalmente il ruolo giocato dalla pratica giudi­
ziaria non in modo diretto ma tramite la letteratura oratoria che, a
partire dalla seconda metà del V secolo, è un genere particolarmente
coltivato ad Atene. Vengono allora pubblicati discorsi di buona fattura
su interessanti casi giudiziari. Ma si composero anche discorsi-modello
che, com'è naturale, trattavano di preferenza situazioni-limite. Anche da

6 PLIN. Nat. Hist. VIII 16, 44.


LA PROVENIENZA DEL MATERIALE FILOSOFICO 137

questa produzione letteraria si poteva ricavare abbondante materia di


riflessione sul problema della responsabilità e sulla differenziazione delle
azioni delittuose secondo il loro carattere e la loro gravità.
Per quanto riguarda la filosofia politica non c'è bisogno di dire che
essa si fondava sui dati forniti dagli storici. Poeti e storici infine hanno
offerto all'etica determinate figure « tipiche » , illuminandone con la do­
vuta franchezza o addirittura brutalità, le strutture morali. Basti pensare
alle figure di Odisseo e di Eracle, o a quelle del principe siciliano
Falaride, del re orientale Sardanapalo, del gaudente sibarita Smindiride,
etc. Sotto questo riguardo può sembrare strano che la discussione filoso­
fica sugli stati psichici anormali - come allucinazioni, follia - si sia
rivolta preferibilmente alle figure degli eroi tragici colpiti dalla demenza:
Oreste, Alcmeone, Eracle.
N aturalmente neanche il peso di tali considerazioni va esagerato. È
fuori dubbio infatti che su determinati temi di etica come di filosofia
naturale i filosofi antichi si sono fondati sull' osservazione personale e
che certi problemi vennero da loro risolti andando direttamente « alle
cose stesse ». Tuttavia il loro numero è verosimilmente più esiguo di
quanto a prima vista si potrebbe credere.
CAPITOLO QUINTO

Filosofare aperto e chiuso

QUANTO ora verremo a dire non ha nulla a che vedere con l'opposizione
- già da noi discussa - tra costruzione sistematica e indagine problema­
tica. Intendiamo invece trattare la questione che Karl J aspers una volta
ha formulato in questi termini: « La scienza moderna è per principio
incompiuta. I Greci non conobbero l'idea di una scienza che progredisse
all'infinito, neanche quando realizzarono per un certo periodo effettivi
progressi in matematica, astronomia, medicina. La stessa ricerca ebbe
presso di loro il carattere di attività operativa all'interno di una realtà
compiuta. Questo carattere di compiutezza non conosce né l'universale
desiderio di sapere, né la forza esplosiva della volontà del vero... La
scienza moderna è mossa dalla passione di raggiungere i limiti, di spez­
zare ogni forma definitiva di sapere per procedere oltre e di riesaminare
sempre ogni problema dai suoi fondamenti \ .
Viene qui formulata da Jaspers, anche se con qualche esagerazione,
un'idea fondamentale. Si potrebbe infatti obiettare che ogni sforzo di
pensiero - nella misura in cui esso non è un puro gioco di sperimenta­
zioni - mira in definitiva a cogliere la verità all'interno di una totalità
compiuta che si può ben chiamare « sistema »; ma è altrettanto vero che
nessun pensatore desidera ripetere il pensiero altrui e non piuttosto
tentare di dire qualcosa di nuovo o di dir meglio quel che già s'è detto.
Nondimeno rimane il problema di sapere in quale misura gli antichi
filosofi fossero consapevoli del fatto che i loro giudizi avevano una
validità soltanto provvisoria e che bisognava andare oltre e proseguire la
ricerca ancora più in profondità e in estensione. Per un verso il pro­
blema si può formulare in maniera ancor più precisa: fino a che punto i
filosofi antichi, molti dei quali lo furono per tutta la vita e scrissero
opere di filosofia, hanno avuto di loro stessi l'impressione che gli scritti
della loro giovinezza fossero stati ripresi da quelli della vecchiaia e che
certe dottrine da loro espressamente professate nella vecchiaia si rifaces­
sero a quelle una volta sostenute?

l K. ]ASPERS, Vom Ursprung Un4 Ziel der Geschichte, Ziirich 1949, p. 1 09.
140 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Cominciamo con un problema particolare che consente una risposta


un po' più facile. Indubbiamente i filosofi hanno concepito le loro
opere, nell'insieme, come un tutto unitario intrinsecamente coerente e
privo di contraddizioni. Quest'unità era naturalmente un'unità organica,
nel senso che una certa opera era destinata agli « specialisti » , un'altra al
più vasto pubblico delle persone colte; una si rivolgeva ai principianti,
un'altra a lettori più progrediti; certe opere trattavano di questioni
fondamentali, certe altre di questioni accessorie. E tuttavia tali differen­
ziazioni non mettevano in pericolo l'unità della dottrina.
In generale il segno rivelatore del presupposto che l'opera di un
filosofo debba contenere una dottrina conclusa è dato, in primo luogo,
dalle polemiche. A partire da Aristotele al più tardi, si svilupparono
pienamente due metodi fondamentali nelle discussioni tra i filosofi: o si
contestavano all' avversario errori oggettivi - contraddizioni coi principi
della logica o con fatti verificabili - o si mostrava che egli cadeva in
contraddizione con sé stesso, sia perché nella stessa opera sosteneva
punti di vista contraddittori, sia perché in opere diverse insegnava
dottrine diverse. Il secondo metodo è il più elegante, nella misura in cui
il polemista può rinunciare a presentare la propria opinione. Egli può
contentarsi di accertare le contraddizioni intrinseche all'avversario. An­
che questo metodo ha ottenuto un grande favore. S'intende che esso era
tanto più vantaggioso quanto più vasta era l'opera scritta del filosofo del
quale ci si occupava.
Risulta chiaro pertanto il presupposto che la dottrina di un filosofo
doveva essere in sé esente da contraddizioni.
Allo stesso risultato ci porta la constatazione che l'antichità non ha
mancato di notare espressamente i pochi casi nei quali un filosofo
dichiarava di essere costretto a dover ritrattare un'opinione precedente­
mente espressa, sulla base di un più maturo discernimento. Sappiamo
che Aristotele, Democrito e Leucippo hanno più tardi abbandonato, in
modo aperto e franco, alcune dottrine iniziali. E Plutarco, che ce ne
informa, ascrive il fatto a loro grande merito, in quanto avrebbero così
dimostrato, a suo giudizio, l'obiettività del loro pensiero 2 . Ma pare che
questi siano stati gli unici casi che vanno distinti da quelli, un po' più
frequenti anche se non numerosi, nei quali un filosofo in piena attività
passava da una scuola a un'altra o ripudiava nella vecchiaia ciò che aveva
scritto in gioventù. E i suoi avversari non mancavano di trarne la
conclusione che un uomo il quale rompe in tal modo col suo pensiero
precedente non meritava evidentemente alcuna fiducia !

2 PWTARCH. De curiosit. 447 f 448 a.


-
FILOSOFARE APERTO E CHIUSO 141

Queste considerazioni assumono una particolare rilevanza se si ap­


plicano ai due soli filosofi dei quali ci è pervenuta l'intera opera,
costituitasi nel corso di parecchi decenni; intendiamo parlare di Platone
e Aristotele. Il lettore moderno fa presto ad accorgersi della distanza che

separa i brevi dialoghi platonici, che si considerano abitualmente opere


giovanili, da quelli particolarmente complessi ed estesi della vecchiaia del
filosofo. La moderna ricerca crede anche di poter stabilire una distin­
zione tra un Aristotele giovane, platonizzante e un Aristotele vecchio,
ormai lontano dal maestro. In ambedue i casi i termini « giovane » e
« vecchio » denotano non soltanto differenze di metodo e di centri
d'interesse, ma anche mutamenti significativi e profondi della dottrina
filosofica. Come abbiamo già detto, sappiamo da Plutarco che Aristotele
nei suoi ultimi anni abbandonò apertamente alcune sue teorie che pur­
troppo non sappiamo quali fossero. Tuttavia possiamo esser sicuri che si
trattava non di fondamenti dottrinali, ma di singole teorie isolate, relati­
vamente poco importanti. Sembra in complesso fuor di dubbio che noi,
armati dei nostri sottili metodi ermeneutici, possiamo certamente riu­
scire a trovare nell' opera di Platone e di Aristotele considerevoli muta­
menti dottrinali. Ma possiamo con buona ragione negare che essi ne
avessero consapevolezza. Tutto lascia credere che Platone e Aristotele,
guardando retrospettivamente la loro opera, pur potendovi riscontrare
diversità di metodo e di tematiche, la considerassero tuttavia nella so­
stanza come un tutto perfettamente omogeneo. In particolare è difficile
ammettere che negli ultimi anni essi abbiano messo da parte certe loro
opere, ritenendo le saggi giovanili insufficienti e ormai non pienamente
validi. La prova più evidente è data dal fatto che un discepolo di
Epicuro compose un libro contro il Liside di Platone, cioè contro un
dialogo appartenente certamente al periodo giovanile del suo autore e
che lo stoico Zenone avanzò critiche malevole al Protrettico aristotelico
anch'esso verosimilmente opera giovanile. I polemisti - se la cosa fosse
stata nota - si sarebbero certamente avvantaggiati del fatto che i due
filosofi avevano preso le distanze da quelle loro opere, e anche noi ne
sapremmo certamente qualcosa.
Più difficile è rispondere al primo quesito. Da qualche indizio si
può arguire che anche gli antichi furono coscienti del fatto che tutte le
conoscenze sono provvisorie e riformabili e che devono essere riesami­
nate di continuo. Ma raramente il pensiero antico si pose in tale stato di
pura attesa. N ella maggior parte dei casi questo stato si risolse in una
co'iitestazione dogmatica di ogni possibilità di conoscenza. Oppure le
riserve, quando tengono conto dei progressi della ricerca, si riducono a
vuota retorica e non giungono a portare pregiudizio all' esposizione
dogmatica delle dottrine.
142 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Si pensi ai primi dialoghi di Platone che spesso si concludono con


una dichiarazione d'ignoranza ma anche col proposito dichiarato di
riprendere, in una prossima occasione, la discussione su nuove basi e di
condurla avanti con maggiore energia. Che cosa significano tali formule?
Che il lettore deve essere lasciato di fatto con un risultato negativo e
con la prospettiva di un seguito che non ci sarà mai? Oppure la
dichiarazione d'ignoranza vale solo per una determinata parte del dia­
logo e per questa in maniera assolutamente definitiva, mentre per un'al­
tra parte si attendono dei fatti che, a dispetto di ogni aporetica, offri­
ranno risultati sicuri? La risposta a questi interrogativi è destinata, in
definitiva, a restare per sempre incerta. È un fatto che all'opera di
Platone hanno inteso richiamarsi sia un dogmatismo eccezionalmente
rigido e chiuso, sia un'aporetica tutta intesa a dimostrare che l'uomo
non può sapere nulla.
Si pensi ancora a quella dottrina filosofica del tardo ellenismo che
pretendeva di rinnovare il messaggio di Pirrone d'Elide. Questa filosofia
si diceva scettica e divideva in tre gruppi tutte le possibili « ortodossie »
filosofiche: i primi sono i Dogmatici i quali affermano di avere scoperto
la verità; i secondi, loro oppositori, dichiarano invece che è impossibile
conoscerla; i terzi, gli Scettici, che lasciano indeciso il problema della
verità, perché essendo ancora occupati a esaminarlo, non sono in condi­
zione di pronunciarsi su di esso in maniera definitiva. Sembrerebbe qui
di cogliere in un certo senso quell'atteggiamento di cui parlava Jaspers.
Ma in realtà si tratta di un'illusione: infatti quel che afferma lo scettici­
smo, al di là delle sue dichiarazioni di principio, è la pura distruzione
della filosofia dogmatica e un procedimento che mutua ampiamente
metodo e contenuti dall' Accademia di Arcesilao e di Carneade, cioè da
un derivato del socratismo del primo Platone.
E tuttavia siamo indotti in tal modo alla considerazione dell'unico
fatto realmente importante al riguardo. Le nozioni di scepsi, scettico,
etc. non sono state introdotte nel linguaggio filosofico né da Pirrone né
dai suoi eredi. Per sé presi, questi termini sono antichi: essi assumono
uno specifico significato filosofico nel Peripato, in Aristotele e soprat­
tutto in Teofrasto. Qui essi designano l'esame scientifico e filosofico di
tesi date. Il verbo corrispondente, aXÉ'It't&a6OCL, s'impiega preferibilmente a
proposito di problemi che non possono considerarsi definitivamente
risolti, sia nel senso che essi trovano una più appropriata collocazione in
altra sede, sia in quello che esigono ulteriori ricerche prima che su di
essi ci si possa pronunciare con sicurezza. E anche se di T eofrasto
possediamo pochi testi - troppo pochi in rapporto all'influenza da lui
esercitata - tuttavia pare che egli annotasse con particolare cura i
problemi sui quali bisognava ancora indagare in avvenire e le tesi che si
FILOSOFARE APERTO E CHIUSO 143

potevano avanzare solo con grande riserva. È questo, più che ogni altro,
il momento in cui l'antichità si è avvicinata maggiormente all'atteggia­
mento proprio della ricerca scientifica moderna. Certo, questa specie di
« skepsis » non è durata a lungo. Il dogmatismo, sia positivo che nega­

tivo, passò ben presto sotto silenzio questi primi accenni di Teofrasto, e
duecento anni più tardi i Pirroniani si appropriarono la nozione di
« skepsis » con un significato ben diverso, uguale a quello che ancora

OggI conserva.
CAPITOLO SESTO

Il concetto di natura

COME già si è accennato, il concetto più importante e peculiare della


filosofia greca in particolare e del pensiero greco in generale, è quello di
« natura » ((j)ucrtç). Per noi esso è diventato un termine del linguaggio
ordinario, ma storicamente parlando si può dire che esso è potuto
sorgere con tutte le sue particolari sfumature solo presso i Greci.
Dall'inizio e per tutto il corso della sua storia esso ha avuto
un'ampia gamma di significati. La ricerca etimologica ha trovato in
proposito delle difficoltà, costituite dal fatto che, accanto ai significati
assunti dal termine nel suo uso ordinario, estraneo all'ambito filosofico,
altri se ne sono avuti fin da principio, ricavati più o meno artificiosa­
mente dall' etimologia della parola.
Abbiamo già dato il significato più generale di questo termine: esso
denota la vera realtà di contro a ciò che è invenzione, presunzione,
apparenza, casualità dispersiva. Esso guarda in ogni caso a ciò che è
primario e si contrappone a ciò che è secondario. Le relazioni tra
primario e secondario possono essere indubbiamente assai diverse, ma
sono fondamentalmente le seguenti.
« Natura » può significare la realtà in opposizione alle invenzioni
giocose ed eccessive dei poeti o alle fantasticherie e millanterie dell'uomo
comune. Non di rado il termine significa un ritorno alla realtà, una
deliberata distruzione delle illusioni e delle rappresentazioni gradite agli
uomini, per ricondurli a una realtà di fatto più o meno sgradevole e
disincantata.
U n significato affine al precedente, ma riconducibile a determinate
vedute filosofiche, mostra l'uso del termine quando designa, nell'uomo,
1'« essenza » in contrapposizione alla parola e all'azione. Da quel che
l'uomo è « essenzialmente » derivano infatti le sue manifestazioni e
spesso queste sono in contraddizione rispetto a quella.
Un significato più ampio è il seguente: « natura » vuoI dire anzitutto
una data maniera d'essere e date attitudini. Si tratta qui di quelle
particolari qualità individuali che si devono accettare come immutabili
sia nell'uomo che nell'animale e in tutti gli esseri di cui si può avere
esperienza. In altre parole si tratta di tutte quelle cose che non si deve
146 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

far fatica ad apprendere perché si sanno e si posseggono fin da principio.


Detto con altre parole ancora, si tratta di quel nucleo essenziale del
proprio essere al quale si deve restar fedeli e che non si può né è lecito
falsificare.
Certo si può anche porre l'accento in senso contrario e vedere nella
« natura » quelle semplici disposizioni destinate a svilupparsi e a comple­
tarsi attraverso lo sforzo. Può anche accadere che le qualità che si
producono con l'insegnamento metodico e l'abitudine, si imprimano
cosÌ profondamente da diventare una « seconda natura » I .
Ancor di più ci avviciniamo alla filosofia quando con « natura »
intendiamo quel desiderabile stato di normalità che rappresenta, per cosÌ
dire, una condizione intermedia tra le diverse forme dell' eccesso da una
parte e del difetto dall'altra. Possiamo aggiungere che si tratta di quello
stato che ogni organismo vivente cerca spontaneamente di raggiungere e
nel quale permane finché non ne venga impedito con la violenza.
È evidente che questa nozione di natura dovette rivelarsi feconda
soprattutto nel campo della medicina: lo stato conforme a natura è
quello della salute, nel quale il corpo desidera mantenersi e che può
conservare se esso non viene perturbato da sfavorevoli o impreviste
interferenze esterne, da casi accidentali o da eccessi.
Intorno al concetto di natura viene cosÌ a raccogliersi e a organiz­
zarsi un primo sistema di nozioni estremamente importanti. Anzitutto i
concetti di « naturale » e « innaturale » vengono a trovarsi in opposi­
zione reciproca: è naturale ciò che consente alle potenzialità date di
svolgersi liberamente; innaturale è invece ciò che esercita su di esse una
qualsiasi violenza per farle deviare dal loro corso. Inoltre alla « natura »
si contrappone quel complesso di concetti che noi moderni designiamo
col termine « civiltà ». Con ciò sia gli antichi che i moderni hanno
potuto esprimere di volta in volta la loro preferenza per l'uno o l'altro
termine dell' opposizione. Si può intendere per natura quel puro germe
che si sviluppa quando interviene la civiltà sotto forma di educazione
consapevole. Ma la si può concepire, enfaticamente, come quell' essere
autentico che viene semplicemente corrotto e degradato a opera della
civiltà. Nel corso del V e IV secolo a.c. si sono avute correnti di
pensiero nelle quali questa contrapposizione tra natura e convenzioni
della civiltà è stata svolta fino alle estreme conseguenze. Singoli sofisti
hanno a volte provocatoriamente contrapposto all'idea abituale di giusti­
zia, fondata su convenzioni antiquate e su consuetudini discutibili, la
« giustizia di natura », il diritto del più forte. Secondo una certa tradi-

I D.K 68 B 33.
IL CONCETTO DI NATURA 147

zione storica il cinico Diogene avrebbe personalmente praticato una vita


esclusivamente « secondo natura ». Egli abitava, mangiava, beveva, si
vestiva e si comportava ordinariamente « come un animale », muovendo
dal presupposto che l'animale è il rappresentante di una naturalità non
toccata da alcuna influenza della civiltà. Ma, come fu fatto notare con
una leggera canzonatura, Diogene non riuscì pienamente nel suo in­
tento: infatti quando tentò, come una bestia, di mangiare la carne cruda,
il suo organismo si mise a scioperare!
Di tutti questi significati della parola « natura » noi conserviamo
quelli che, per quanto possiamo saperne, hanno fin da principio e
anzitutto il carattere di termini tecnici del linguaggio filosofico. Tra
questi va annoverato quello che il glottologo considera come il signifi­
cato originario del termine. Etimologicamente infatti la parola cpucnç
designa il processo della crescita (cputcr9ott) biologica e particolarmente di
quella vegetativa. Questo significato si riscontra anche in alcuni docu­
menti antichi, ma si tratta in tal caso di un voluto ripristino di quel
significato primitivo. La valenza semantica che a partire dal V secolo
rileviamo nella parola cpucrtç non può in nessun modo farsi derivare
semplicemente dal significato fondamentale della parola « crescere » . Tut­
tavia restano sempre importanti, dal punto di vista filosofico, quei
luoghi nei quali la parola cpucrtç ha il significato di « crescita » . Infatti ad
essi sembra collegarsi un uso del termine che ha avuto un'influenza
straordinaria, perpetuantesi fino ai nostri giorni.
Nel suo sforzo di delimitare chiaramente l'ambito dei vari gruppi di
problemi, Aristotele ha distinto la fisica dalle questioni che travalicano il
suo dominio, sia che egli abbia coniato o meno il concetto di metafisica.
Principio di questa distinzione è un concetto assai pregnante di « na­
tura » . Nel mondo della « natura » infatti rientra tutto ciò che si muove
e che possiede in sé stesso l'origine del movimento. È quindi escluso da
questo concetto da un lato il dominio della tecnica nel quale rientrano
gli oggetti che ricevono il movimento da un impulso esterno; dall'altro
lato è soprattutto esclusa la realtà immobile alla quale appartiene l'intel­
ligenza sia divina che umana.
Al riguardo è importante sapere che per Aristotele fanno parte degli
esseri che posseggono in sé stessi il principio del movimento non solo le
piante, gli animali e l'uomo - indipendentemente dalla sua intelligenza
- ma anche gli elementi: terra, acqua, aria, fuoco ed etere che si trovano
cosÌ stranamente assimilati agli esseri viventi. La terra, per esempio, si
muove « per natura » verso il basso, etc.
Aggiungiamo cosÌ al termine un altro significato che, se certamente
deriva da quel complesso semantico che abbiamo testé illustrato, sembra
tuttavia trovare in Aristotele delle sfumature particolari. « Natura » ,
148 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

come SI e visto, è quell'essere autentico che si contrappone alle diverse


forme di deformazione e d'impoverimento. Il pensiero filosofico è por­
tato di primo acchito a indagare quell'essere dal punto di partenza del
suo sviluppo biologico: esso si può conoscere, in tutta la sua purezza,
nell'età dell'infanzia, prima ancora che l'influenza della civiltà e delle
vicende individuali faccia sentire i suoi effetti. Tuttavia si può anche
partire dal punto di vista opposto. L'essere vivente ancor giovane, in sé
considerato, in nessun modo può essere ancora ciò che, secondo la sua
essenza, può diventare. La sua grandezza, la sua capacità di moto, le sue
funzioni psichiche sono ancora manchevoli. Solo a metà del suo svi­
luppo biologico esso realizza tutte le sue possibilità: pertanto il suo
sviluppo s'indirizza verso uno stato conforme a natura. Così Aristotele
intende il divenire biologico e, in definitiva, ogni divenire nell'ambito
della fisica - come appunto l'abbiamo descritto - come il movimento
di una « natura » allo stato di pura potenzialità verso una « natura »
come compiutezza. Questa seconda nozione di natura è incomparabil­
mente più importante. Pertanto nell'uomo la « natura » come essere vero
non esiste nel bambino ma nell'adulto pienamente sviluppato.
Aristotele applica questo punto di vista a delle realtà storiche che
per lui obbediscono, per così dire, a leggi biologiche. In un passo famoso
egli spiega che la tragedia si è sviluppata a partire da Eschilo, attraverso
Sofocle, fino a Euripide e che ai tempi di quest'ultimo essa ha raggiunto
la sua « natura »: solo allora essa ha realizzato tutte le possibilità inerenti
al suo genere 2 . Allo stesso modo Aristotele ha considerato la filosofia:
questa, dopo aver preso le mosse da Talete, Socrate e Platone, ha
raggiunto nel suo pensiero personale la sua « natura » J.
Del tutto diverso è il significato, molto antico e difficile da interpre­
tare, del titolo « Sulla natura », che noi incontriamo negli scritti dei
Presocratici. In epoca più tarda Epicuro ha dato questo stesso titolo alla
sua opera principale e l'espressione « De rerum natura » del poema
dell'epicureo romano Lucrezio non è che la traduzione latina di quel
titolo. Che cosa significa qui « natura »? Che significa ancora il nome
« physiologos » che si riferisce a quel titolo programmatico? Noi cono­

sciamo ancor oggi il termine « fisiologia » anche se in un significato


molto più circoscritto. Ma originariamente « fisiologia » e « fisiologo » si
riferivano a quel dominio più vasto abbracciato dagli scritti di un
Empedocle, Anassagora, etc. Non sappiamo come si sia giunti a questo
più ampio, oggettivo concetto di natura. Notiamo che la fisiologia si

2 ARIST. Poeto 4, 1 449 a 1 1-15.


J DIOG. LAERT. III 56.
IL CONCETTO DI NATURA 149

distingue dalla teologia e che rimane estranea al dominio dell' etica. Ma


quando e in quali circostanze questa nozione sia stata formulata non
siamo in grado di stabilirlo con sicurezza.
Lo stesso dicasi dell'ultimo significato che abbiamo menzionato in
questa rassegna. In Aristotele, e forse anche prima, si vede emergere una
nozione di « physis » che non è più uno stato qualitativo, né un ambito
oggettuale ma una forza attiva, ordinatrice e legislatrice. La « physis »
viene ipostatizzata. Bisogna obbedirle, affidarsi alla sua guida, ricono­
scere e rispettare il suo efficace potere in tutte le cose. Già in Aristotele
si trovano pagine nelle quali l'azione della « physis » comincia a soppian­
tare quella della divinità. Certo essa non diventa mai un soggetto, nel
senso più proprio del termine; non è un essere vivente che si possa
incontrare, in un modo o nell'altro, quaggiù o nell'aldilà, come forse
può accadere con dio. Ma essa è descritta come se già lo fosse. Dopo
Aristotele, i Peripatetici gli Epicurei e gli Stoici si richiamano alla
« physis » che tutto ordina per il meglio, ai cui consigli ed esortazioni si
deve obbedire, se si vuole conseguire la felicità. Ma il suo stato ontolo­
gico resta sempre nella penombra. Quando Epicuro afferma che si deve
lodare e ringraziare la natura perché essa ha fatto in modo che noi
possiamo facilmente trovare ciò di cui abbiamo bisogno, ma con diffi­
coltà invece ciò che non ci serve 4 , non è agevole indicare quel che egli
ha inteso col termine « natura ». Si tratta semplicemente di una locu­
zione poetica, quando egli ci invita a ringraziare la provvidente natura, o
di qualcosa di più? Non lo sappiamo e dobbiamo accontentarci soltanto
di registrare questo impiego del termine. Basti rilevare come questa non
chiara ipostatizzazione del concetto di natura sia rimasta fino a oggi
nell'uso corrente.
Quel che invece l'antichità sconosce del tutto è la natura nel suo
significato sentimentale. Certo, Diogene cerca di vivere come un uomo
allo stato di natura e il romano dell'ultimo secolo avanti Cristo ama
trovare rifugio dal traffico intenso della capitale nella campagna e sdra­
iarsi all'ombra di un albero su un morbido prato accanto a un ruscello
mormorante. Ma ciò non ha nulla a che vedere con la sentimentale fuga
nella natura, come noi moderni la conosciamo. L'antichità ignora l'espe­
rienza di una natura che dà pace sui monti o al mare col suo fascino
senza problemi. Essa inoltre considera per un verso la natura come
troppo pericolosa e per l'altro avverte troppo intensamente le esigenze
morali perché possa credere nella capacità dell'uomo di raggiungere la
pace dell'anima coi suoi soli mezzi.

4 F r. 240 Arrighetti.
150 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Ma si può anche supporre che nel suo significato sentimentale l'idea


di natura sia potuta sorgere in seguito all'ipostatizzazione del concetto di
natura che noi riscontriamo da Aristotele in poi.
Essenzialmente greca è più che ogni altra la concezione generale
della natura come realtà perfetta, non prodotta né dagli dèi né dagli
uomini, ma che esiste « da sé stessa ».
CAPITOLO SETTIMO

Causa e fine

IN OGNI tempo e nelle più diverse situazioni ci si è sempre chiesti da che


cosa sia provocato un fenomeno e a che serva un dato comportamento.
Tuttavia il problema acquista un nuovo significato quando vi si riflette a
fondo e se ne indaga il senso e la portata.
In precedenza abbiamo più volte rilevato come la filosofia greca, fin
dai Presocratici, considerasse tra i suoi compiti fondamentali il supera­
mento della meraviglia e del timore degli uomini di fronte a fenomeni
strani, col disvelarne le cause. Se Platone e Aristotele indicano la meravi­
glia come principio del filosofare, ne segue necessariamente che scopo
della filosofia è la conoscenza delle cause. Questa idea non deriva da
Platone, ma è stata da lui ripresa in un dato momento e vi sono molti
indizi per credere che essa risalga in definitiva a Democrito; anche la
letteratura medica che si occupava dell'eziologia delle malattie può aver
esercitato una certa influenza al riguardo. Per Aristotele e Teofrasto la
causa (otl-dot) è una delle categorie fondamentali, se non la categoria
fondamentale di ogni sforzo di ricerca nel dominio della filosofia della
natura. L'antichità si era già resa conto che la ricerca delle cause era
un'indagine tipicamente peripatetica e nella biografia di Aristotele si
raccontava che una volta il filosofo, essendo ammalato, aveva dichiarato
al medico che prima di seguire le sue prescrizioni, avrebbe voluto
conoscerne le ragioni l.

Bisogna ora chiedersi qual è la natura e il campo d'azione delle


cause.
A quanto sembra, è ancora Aristotele il primo ad aver insegnato
che vi sono diverse specie di cause. Il problema è stato poi indubbia­
mente ripreso dalla Stoa e dall'Accademia e ha dato luogo a un vivace
dibattito 2 nel corso del quale sono state sviluppate una molteplicità di
serie causali. Qui possiamo, a titolo di esempio, ricordarne alcune parti­
colarmente importanti.

l AELlAN. Varo hist. IX 23.


2 Questo dibattito è già presente in PLAT. PhaUi. 96 a 105 b.
-
152 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

In Aristotele noi troviamo due serie causali. La prima è la più


famosa e la sua trattazione, nell'antica edizione delle opere aristoteliche
che ci è pervenuta, è stranamente spezzata in due parti. Nella sua forma
sistematica essa è sviluppata nel secondo libro della Fisica, mentre la sua
fondazione storica si trova all'inizio della Metafisica.
Per qualsivoglia fenomeno Aristotele distingue quattro fattori cau­
sali: primo, la materia da cui qualcosa diviene; secondo, la forma se­
condo la quale la materia è plasmata; terzo, la causa efficiente che mette
in moto il processo di formazione; quarto, la causa finale che indica la
giusta via al processo. Ci troviamo pertanto di fronte a un sistema che
mostra la sua affinità con l'analisi, fatta da Platone e forse anche in
'
generale da Socrate : del lavoro creativo dell'artigiano, come anche la sua
vicinanza al concetto tipicamente aristotelico di movimento. Ogni movi­
mento, sia di luogo che di sviluppo, va da un punto A a un punto B;
occorre che in A esso riceva un impulso per essere diretto in modo da
raggiungere B. Donde l'esistenza dei quattro fattori causali.
Vi è poi una seconda serie causale sulla quale Aristotele dà indica­
zioni assai più scarse e che assume un diverso significato. Essa com­
prende quattro forze che possono produrre e governare un fenomeno:
l'intelligenza che si manifesta nell'arte (-cixv,,), la natura e inoltre il caso
e la necessità. Vengono qui raggruppate quattro nozioni che già prima di
Aristotele hanno avuto un importante significato storico. Della natura
come forza reggitrice abbiamo già detto; l'intelligenza comincia ad avere
con Anassagora un ruolo importante in cosmologia. Della necessità, che
è concetto particolarmente familiare all'atomismo, parleremo più avanti.
Il caso infine, considerato come mera inintellegibilità, si oppone sia
all'arte che alla natura e alla necessità.
Ma torniamo alla prima serie. Il platonismo le ha opposto altre serie
causali J. Una prima comprende tre cause, indicandole per mezzo di
preposizioni chiave: la prima è il «per mezzo di », ossia l'agente; la
seconda è il «da che», ossia la materia; la terza è 1'«a che», ossia la
forma. Un'altra serie arriva fino a cinque cause e anche a sei, che sono:
la materia, la forma, l'agente, il fine, il modello e, infine, lo strumento.
Queste sei cause sono ancora suddivise in due gruppi. Le cause di ordine
superiore sono l'agente, il fine e il modello; cause di secondo ordine
sono la materia, la forma e lo strumento. Non intendiamo qui esaminare
nei particolari come si combinino tra loro le nozioni aristoteliche e le
platoniche. Il concetto teologizzante dell'«agente» sostituisce quello, più

J Sulla dottrina delle cause nel platonismo cf. SENEC. Ep. ad Luci!' LXV 4-10; SIMPL.
In A riSI. phys. p. 3 , 1 6; 26, 5 ss. ed. Diels.
CAUSA E FINE 153

accentuatamente fisico, di «impulso motore »; la «forma» e il «mo­


dello» sono reciprocamente accostati in maniera piuttosto singolare, e
COSi Via.
, .

Importante è poi la distinzione tra cause di grado diverso. Anzitutto


si deve ricordare quella tra causa vera e propria e condizione (conditio
sine qua non). Essa si trova già in Aristotele. Che l'uomo viva e sia sano
è una condizione perché egli filosofi, non la causa. Gli Stoici sono andati
ancora più avanti, ma qui non si tratta di entrare nel merito della loro
sistematica peraltro tanto sottile quanto mal nota. Può bastare un solo
esempiO.
La Stoa distingue cause occasionali, efficienti e cooperanti, come
anche le condizioni sine qua non e chiarisce questa distinzione pren­
dendo a esempio il processo d'apprendimento. La causa occasionale
perché un fanciullo studi, è il padre; la causa agente è il maestro; la causa
cooperante sono le attitudini dell'allievo; il tempo infine è una delle
condizioni sine qua non.
È ragionevole in tutti Casi ncercare la causa? A pnma vista
sembrerebbe di sì. Tuttavia, a un esame piU attento, si mostrano delle
zone-limite dove la domanda appare inadeguata. Facciamo tre esempi. Il
primo è rappresentato dal dominio della morale che è il più vicino alle
situazioni concrete e particolari della vita. Esistono qui delle regole di
comportamento giusto e corretto, di cui sarebbe ozioso ricercare le cause
nel significato filosofico del termine. È sufficiente sapere che ci si deve
comportare in un dato modo.
Domandare perché ciò si deve, è un'inutile pedanteria. Aristotele ha
più volte toccato questo problema nella sua etica, senza trattarlo pur­
troppo in maniera sistematica da nessuna parte. Oggi noi non possiamo
più fare altro che constatare il fatto, degno di nota, che lo stesso filosofo
ha posto dei limiti alla domanda sul «perché» 4.
Connesso e subordinato al primo è il secondo esempio che occasio­
nalmente riscontriamo nella teologia del tardo ellenismo. Questa parla di
diverse forme sotto le quali la divinità comunica agli uomini i suoi segni
sul futuro. Vi sono buone ragioni per credere che l'anima umana in certi
stati di sogno o d'estasi diventi profetica: giacché quando i legami tra
l'anima e il corpo si allentano, essa diventa capace di vedere anche oltre
i limiti della corporeità. Ma cosa avviene con le altre forme di segni
divini? Come può il comportamento degli uccelli essere profetico? Ec­
coci ricaduti in terreno estremamente concreto e anche qui la risposta è
che non bisogna porre la domanda sul «perché». Deve bastare la

4 ARIST. Eth. Nic. I 1095 b 6-8.


154 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

constatazione che un tale comportamento è già di fatto avvenuto e che


si è potuto leggere l'avvenire dal volo degli uccelli. Ci si deve tenere a
questo « che» e lasciar correre sul « perché» s.

Incomparabilmente più importante è il terzo caso, sul quale ritorne­


remo ancora più tardi. Ora ci limitiamo a enunciarlo: se tutto ha una
causa, allora - come sembra - non può esserci decisione libera e
consapevole.
Per ultimo bisogna parlare di un aspetto particolarmente importante
della teoria della causalità. La nozione di causa non può avere solamente
un'estensione orizzontale, cioè comprendere semplicemente delle distin­
zioni fra tipi di cause differenti e di diverso valore. L'estensione verticale
è, quanto meno, altrettanto importante. La causa è legata al causato che
può diventare, a sua volta, causa di un terzo fatto. Si forma cosÌ una
catena, l'ultimo anello della quale è soltanto causato ma non è più causa.
Gli anelli precedenti sono sia effetti che cause e il primo è una causa che
è soltanto causa. A questa è sospesa tutta quanta la catena. L'essenziale è
che la catena non si prolunghi, dalla parte superiore, all'infinito. Bisogna
che essa abbia inizio da un punto qualunque, se non si vuole che diventi
una totalità non rappresentabile né comprensibile nel suo insieme.
Purtroppo non sappiamo quando questo schema, che ha esercitato
tanta influenza, sia stato per la prima volta costruito. Sia l'idea di una
catena di cause e di effetti, come anche l'assioma che esclude a priori un
processo all'infinito, devono risalire all'epoca di Platone. In Aristotele
infatti troviamo l'una e l'altro compiutamente sviluppati. Di più al
riguardo non possiamo dire.
Accanto alle cause stanno i fini. Noi abbiamo trovato già in Aristo­
tele dei fini sotto forma di causa finale o intenzionale. Oggettivamente il
fine sta su un piano del tutto diverso rispetto alla causa. In un senso
rappresenta il polo opposto: la causa fa guardare all'indietro, il fine in
avanti. In un altro senso la coppia causa-effetto si apparenta alle cosmo­
logie meccanicistiche - perciò ha assunto soprattutto nell'atomismo un
significato programmatico - mentre il concetto di fine presuppone
un'istanza che persegue appunto intenzionalmente questo fine. L'esi­
stenza delle cause sembra evidentemente dimostrabile su tutti i piani
dell'essere, mentre i fini sono evidenti solo ai livelli della vita organica,
psichica e spirituale.
Se si concepiscono le cause e i fini come categorie complementari, ci
si trova in presenza di una teoria filosofica fondamentale. Alla catena
delle cause e degli effetti si contrappone quella dei fini e dei mezzi. Vi

s ele. De div in. I 12 55.


CAUSA E FINE 155

sono cose che in generale sono volute solo in quanto mezzi, ossia in
vista di altre cose. Inoltre esistono cose che si desiderano sia in vista di
altre cose che per sé stesse. Infine devono essercene altre che si deside­
rano solo per sé stesse e che pertanto sono esclusivamente fini e in
nessun senso mezzi. Anche qui vale l'assioma che esclude pregiudizial­
mente il progresso all'infinito della catena.
Entro questa formula di una semplicità ammirevole, Aristotele rac­
chiude tutta la sua etica filosofica. Al centro di essa sta il concetto di
bene supremo, riconoscibile dal fatto che esso è cercato unicamente per
sé stesso e non per un altro bene. Anche Platone conosce già questa
formula. Ma si vedrà più tardi che sorprendentemente egli ne ha fatto
un uso assai limitato. Platone pone in primo piano con tanta energia il
legame tra il bene sommo e l'essere, - e dunque un concetto statico e
trascendente del bene, - da dare scarso rilievo al concetto pratico dello
scopo finale che ogni azione deve proporsi. Aristotele invece all'inizio
della sua Etica in maniera programmatica fornisce la definizione del bene
come fine ultimo, ossia come fine in sé 6. Così egli si distingue da
Platone, divenendo l'autore di un concetto fecondo del fine morale
(tÉÀoç) che fu ripreso per primo da Epicuro in una delle sue principali
opere intitolata Sul fine ultimo (1tEpl tÉÀouç) e successivamente da tutta la
filosofia ellenistica. E ancor oggi il concetto di «fine in sé» è di uso
corrente.
Noi ignoriamo le vicende storiche di queste due serie, quella delle
cause e quella dei fini e non sappiamo se una delle due sia stata
concepita per prima e poi integrata dall'altra. Platone è stato il primo a
darci, nei suoi dialoghi giovanili, una scala dei fini, dando l'impressione
che essa gli fosse nota e tuttavia si sentisse in dovere di spiegarla ai suoi
lettori come qualcosa di non ancora familiare.
Resta da esaminare il problema del finalismo universale ossia del
campo d'azione del principio teleologico. Come già s'è accennato, il suo
luogo naturale è nella biologia. Gli occhi son fatti per vedere, le orecchie
per udire e questi organi sono, a ragion veduta, protetti da eventuali
pericoli, etc. Non sappiamo quando questa veduta è stata per la prima
volta applicata in modo sistematico. La nostra ignoranza, in questo
come in altri casi affini, si spiega con la perdita quasi completa della
letteratura sofistica del V secolo a.c. Vedute teleologiche è dato cogliere
per la prima volta in Senofonte il quale dipende, a sua volta, da un
socratico più antico, non più identificabile 7. Platone occasionalmente le

6 ARIST. Eth. Nic. I 1094 a 1 SS.


7 XENOPH. Mem. 14; IV 3.
156 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

fa sue ma esse diventano importanti per Aristotele, in rapporto alla sua


filosofia della natura. Tuttavia la prima creazione di una teleologia
universale è opera della Stoa. Sembra a prima vista che il principio
teleologico, per sé preso, consenta un suo impiego pressoché illimitato;
ma poi si arriva certamente a un punto in cui quest'uso minaccerà di
cadere nel ridicolo. Crisippo non ha esitato a dimostrare il finalismo dei
pesci e degli uccelli, del vino e del miele, scendendo fin nei particolari: il
finalismo del pavone consiste nella bellezza delle sue penne, quello dei
topi nel renderci attenti a tenere in ordine le nostre provviste. Non c'è
da meravigliarsi che gli avversari della Stoa abbiano ridicolizzato tali
esageraZlOnt.
Una sola scuola ha sempre respinto incondizionatamente il princi­
pio teleologico: la scuola epicurea. Ma ciò non avvenne senza difficoltà.
Gli Epicurei potevano indubbiamente fondare su tutta una serie di fatti
la loro tesi generale secondo cui il cosmo, lungi dall'essere un organismo
in cui regnino l'ordine migliore e la ragione, è il risultato assai imper­
fetto di svariati eventi fisici: ciononostante resta vero il fatto che gli
organismi viventi hanno una struttura finalistica. Epicuro spiegava inol­
tre che all'origine si era automaticamente prodotto un numero illimitato
di combinazioni atomiche le più diverse, delle quali - sempre secondo
un processo automatico - si erano conservate quelle rivelatesi capaci di
vivere. E tuttavia se si considera, ad esempio, l'alto grado di differenzia­
zione e di equilibrio strutturale degli organi di senso nell'uomo -
argomento questo che nell'antichità fu sempre addotto a sostegno della
concezione teleologica - la spiegazione di Epicuro sembra un po'
troppo sommaria e inadeguata.
Nella tarda antichità si professò un finalismo generale dei fenomeni
naturali ma ci si guardò bene dal sovraccaricare codesta veduta alla
maniera degli Stoici.
CAPITOLO OTTAVO

l�ecessità e libertà

NEL pensiero moderno il problema della libertà della decisione occupa


un posto d'importanza centrale. Dalla libertà dipende infatti la responsa­
bilità dell'individuo sia nel tempo che nell'eternità. Ad essa la minaccia
più grande viene dalle leggi di natura come dalla dimostrazione che
l'uomo è determinato dalla nascita, dall'educazione e dall'ambiente. La
filosofia dell'esistenza s'impone come compito primario la difesa della
libertà dell'uomo come scelta di un'esistenza possibile. Concezioni del
genere si riscontrano anche nell'antichità, ma esse sono rimaste prive di
quel pathos intenso che ispira invece le concezioni moderne. Certo, la
libertà politica come autonomia verso l'esterno e democrazia all'interno
dello stato è una parola d'ordine che viene costantemente usata dalla
storiografia della fine del V secolo a.c.; essa passa poi dai Greci ai
Romani e ancor oggi non ha perduto, nel bene come nel male, il suo
peso. Ma ciò non ha nulla a che fare col concetto filosofico della libertà
il quale ha un'importanza notevolmente ridotta nel pensiero antico. Per
esprimerci con chiarezza, possiamo dire che per l'antichità la distinzione
essenziale tra l'uomo e l'animale non si fonda sul fatto che il primo
possiede un'incoercibile libertà di decisione mentre il secondo agisce
« legato all'istinto »; ma piuttosto sull'uso del linguaggio, grazie al quale
l'uomo può farsi capire e giungere alla conoscenza dell'universale, dell'e­
terno e infine di dio. La sfera della volontà è opposta a quella della
conoscenza per il motivo che la volontà inevitabilmente ha a che fare
con ciò che è particolare, materiale, effimero; essa inoltre è infinitamente
più esposta alle accidentalità esterne che non la conoscenza, della quale
Aristotele fa l'elogio dicendo che essa può attingere la verità, in qualun­
que luogo della terra l'uomo si rechi.
Il concetto filosofico della necessità ha nell'antichità tre aspetti
fondamentali.
La necessità (cXvayxTl) si rivela anzitutto nella dimostrazione logica,
cosÌ come Parmenide l'ha introdotta nella sua ontologia. Poi essa serve a
fondare il sillogismo, del quale Aristotele ha svolto la teoria e che infine,
soprattutto presso gli Stoici, diviene la forma di pensiero logico adope­
rata fino alla noia. Proposizioni come: « L'essere animato è più perfetto
158 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

dell'inanimato. Ma il cosmo è l'essere più perfetto. Dunque il cosmo è


animato», fanno parte del consueto armamentario stoico in tema di
filosofia della natura e dimostrano come quella necessità caratterizzi il
cosmo sia nella sua realtà che nella sua interpretazione filosofica. Con­
vergente nel significato ma di origine ben diversa è la necessità del
destino (dfLCXPfLÉVTJ): idea attinta dalle antiche locuzioni del linguaggio
epico e che non ha mai perduto la sua risonanza tra poetica e sacrale. In
filosofia essa, come sembra, compare per la prima volta e certo non a
caso in Eraclito, un filosofo che ha intenzionalmente formulato i suoi
pensieri nello stile dei detti oracolari. L'heimarmene significa per lui il
ritmo ineluttabile degli stati del cosmo rappresentati come conflagra­
zioni ed estinzioni del fuoco fornito di ragione. Essa si riscontra
occasionalmente anche in Platone, nel suo significato tradizionale deno­
tante l'ineluttabilità della morte. Interessanti ma finora scarsamente
comprensibili sono alcune notizie trasmesseci dall'antichità, che attribui­
scono all'heimarmene una particolare importanza nella filosofia d'Aristo­
tele I. Viceversa nessuna meraviglia che la Stòa la quale - accanto a
Socrate - considera Eraclito come la più alta autorità, abbia assunto da
questi l'idea di heimarmene, attribuendole un'estensione straordinaria 2.
Per gli Stoici infatti la vita dell'universo, come quella dell'uomo, è
dominata in tutto il suo corso dall'heimarmene. L'uomo può e deve
conoscerla, conformarvisi, essendo impossibile opporsi ad essa. Poche
dottrine stoiche sono diventate cosÌ popolari come quelle dell'«heimar­
mene» e del «fato», grazie soprattutto agli Stoici dell'età imperiale:
Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. Com'è noto, Oswald Spengler ha
usato, come motto per un suo famoso libro, una frase di Cleante,
tradotta da Seneca: «Ducunt fata volentem, nolentem trahunt» 3.

L'uomo ha dinanzi a sé solo l'alternativa: o seguire liberamente il


destino o farsi trascinare da esso.
A questa idea del destino è stata connessa, in modo certamente
artificioso ma efficace, la teoria della catena causale, della quale si è già
detto. Gli Stoici non hanno esitato a ricorrere, in appoggio alla loro tesi,
a un giochetto etimologico, dando a heimarmene il significato di «conca­
tenazione causale». Tutto è compreso nella catena delle cause, che
dipende a sua volta dalla causa prima, al punto che non si dà alcun
evento che non sia fin da principio condizionato e determinato da cause
preordinate.

I AET. 129,2 (Diels, Dox. gr., p. 325).


2 SVF II 9 13-927.
3 SVF I 527.
NECESSITÀ E LffiERTÀ 159

A questo punto va sollevato il problema della responsabilità dell'agire


umano. Questo problema era già emerso da varie parti, prima che la Stoa
provocasse una reazione col radicalismo della sua teoria del destino.
Bisogna anzitutto rifarsi al concetto di natura. Già in epoca prefiloso­
fica esisteva la convinzione che l'uomo pensa e agisce conformemente alla
sua « natura», alle sue proprie attitudini; dove per attitudini, ancora fino
all'età classica, si possono intendere la nascita e tutto ciò che essa com­
porta. Chiunque è di nobile famiglia, pensa nobilmente. Questo concetto
trova adeguata espressione in alcuni versi dell'inizio del V secolo a.c.:
« Giammai crebbe diritta la testa di uno schiavo, ma essa è sempre curva e
tiene la nuca inclinata. Giammai dall'erba cattiva sono nati rose e giacinti
e giammai una schiava genera un figlio dall'animo nobile» 4. Ma questa è
certo un'affermazione esagerata e del tutto isolata. Le rivoluzioni con i
conseguenti rivolgimenti sociali da una parte e i programmi educativi dei
Sofisti dall'altra, portarono ben presto all'affermarsi della tesi opposta
secondo la quale ogni uomo è passibile di educazione e può essere
trasformato se non in tutto almeno in gran parte.
Sorge poi nella Socratica un problema del tutto particolare: si tratta
della dottrina secondo la quale « nessuno fa il male volontariamente». La
fiducia nel potere della conoscenza è così salda che « chiunque ha com­
preso ciò che è il bene, agisce anche bene per necessità». Tutto si
riconduce dunque all'insegnamento. Chi agisce ingiustamente lo fa per
ignoranza e per nessun'altra ragione. In tal modo la decisione veniva
trasferita dalla sfera della volontà a quella della conoscenza, perdendo così
il suo carattere etico. L'atto ingiusto, compiuto per ignoranza, non è
moralmente imputabile.
Platone menziona occasionalmente questa dottrina - la cui paternità
è presumibilmente di altri - e la condivide. Ma, accanto ad essa, egli
conserva disinvoltamente le categorie puramente etiche. Quando presenta
il tiranno come la contrapposizione estrema del filosofo, egli lo considera
non come un uomo che abbia, più degli altri, bisogno di educazione, ma
soprattutto come un individuo dalla volontà decisamente malvagia, e
dunque come un criminale. Inoltre, nelle sue opere politiche, Platone
discute spesso dei compiti e delle branche dell'attività giurisdizionale.
Così l'espressione « Nessuno fa il male volontariamente» rimane un
paradosso tipicamente socratico che non era possibile seguire coerente­
mente.
Abbiamo infine la teoria aristotelica delle cause, alla quale manca
certo la passione che vi infusero gli Stoici. Ma anche per essa si pone il

4 THEOGNIS I 535·538.
160 NOZIONI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

problema di sapere come s'inquadra l'attività umana nella gerarchia delle


cause e degli impulsi motori; qual è il rapporto tra l'uomo come causa e
la causa prima di tutte le cose; qual è il rapporto tra il movimento
messo in atto dall'uomo col suo agire pratico e quello che proviene dal
primo motore. Possiamo dare una risposta a questi interrogativi attenen­
doci all'interpretazione dottrinale che è propria della tradizione aristote­
lica giunta fino a noi.
L'Etica Nicomachea tratta per disteso il problema della responsabi­
lità umana e si riferisce con evidenza a situazioni giuridiche concrete:
un'azione illecita può trovare una scusante solo se si compie in determi­
nate condizioni, quali la pressione di un potere superiore o di passioni
troppo violente o per ignoranza. Aristotele afferma il principio che
l'uomo è libero di determinarsi ad agire in un modo o in un altro. Solo
in via subordinata egli osserva che l'uomo deve essere considerato come
« la causa» del suo agire.
Tuttavia la tradizione che si riferisce alle opere perdute di Aristotele
ci offre un quadro diverso. Aristotele, fondandosi su concezioni tradizio­
nali in parte di origine popolare, avrebbe diviso l'universo in due piani
diversi: in quello superiore, che va dalla luna in su, regna senza solu­
zione di continuità la gerarchia delle cause. Ciò che lì si muove ha
ricevuto l'impulso al suo moto dal primo motore immobile. Ma al di
sotto della luna l'influenza del primo motore, in un modo o nell'altro,
cessa e non determina il moto delle cose. La gerarchia delle cause non
esiste più. Le cose possono muoversi in un senso o nell'altro, senza
possibilità di previsione. È questo lo spazio aperto alla libera decisione
dell'uomo. Gli Stoici, nella loro polemica contro Aristotele, non hanno
certo esitato a trarne certe conseguenze: Aristotele avrebbe limitato al
mondo sopralunare l'azione della provvidenza divina che - secondo la
tesi stoica - veniva soppiantata dal destino, mentre privava il mondo
sublunare della provvidenza, facendone il trastullo del caso. Senza dub­
bio questa critica non era del tutto infondata.
Gli Stoici avevano anche qualche ragione di affermare che la dot­
trina di Aristotele si accostava a quella di Epicuro. Quest'ultimo era
stato il più deciso difensore della libertà, come gli Stoici erano i rappre­
sentanti di un assoluto determinismo fatalistico. Spesso l'antichità si è
presa gioco del modo, pur cosÌ ragionevole e consequenziale, in cui
Epicuro ha fondato ontologicamente la libertà. Il moto originario che
spinge le particelle indivisibili e corporee della realtà è la caduta verti­
cale, condizionata dal loro peso. Tuttavia questa caduta subisce una
perturbazione. Epicuro osa sospendere la necessità causale in un punto
decisivo: egli arriva a concepire una deviazione libera dal moto verticale
che non è né può essere motivata. Da questa deviazione nasce il cosmo,
NECESSITÀ E LIBERTÀ 161

perché solo essa rende possibili le connessioni degli atomi che poi per
tappe successive arrivano a formare un universo. Questa possibilità di
libera deviazione che sta nell'atomo, conduce anche alla libertà dell'agire
umano.
Noi non conosciamo nei particolari il modo in cui Epicuro ha
esposto lo stupefacente percorso compiuto dall'atomo libero nel cosmo,
per giungere alla libertà dell'uomo, né come egli si è rappresentato
questa libertà.
Per concludere dobbiamo ritornare ancora una volta allo Stoicismo.
Abbiamo visto che gli Stoici non ponevano limitazioni alla loro teoria
secondo la quale ogni evento è determinato dal destino. Ma essi non
sono riusciti a portare questa loro tesi fino alle estreme conseguenze.
Troppo forte era l'influenza esercitata dall'etica. E l'etica stoica poneva
per rappunto una contrapposizione netta tra il sapiente e lo stolto. In
tal modo la Stoa, con tutta la sottigliezza di cui era capace, trovò una via
che garantiva un minimo di libera responsabilità, senza il quale ogni
etica perde il suo fondamento. Restano subordinati al destino sia gli
scopi dello sforzo dell'uomo, sia lo sforzo medesimo e infine ciò che
consegue come risultato pratico dell'azione. Ma l'uomo ha la possibilità
di dare o negare il suo assenso a questo meccanismo in sé immutabile.
Egli non cambia in nulla il corso delle cose, ma può seguirlo o meno.
Certo è assai difficile descrivere in modo più preciso la natura di questo
assenso (cru'YxCX'tcX9�O'Lç). Questo non agisce verso l'esterno né può in alcun
modo opporsi alle previsioni e ai disegni della divinità, ma costituisce la
base su cui può essere costruita un'etica sostanziale 5 .
Il problema nel suo insieme prende una nuova piega col cristiane­
simo, per l'ampiezza e la profondità che in esso assumono da una parte
l'onnipotenza di dio e dall'altra la responsabilità dell'uomo per la pro­
pria anima. Ma qui esula dal nostro compito dimostrare come nel
cristianesimo si sia reso drammatico il problema della libertà.

5 SVF II 6 1-70; III 172, 177.


PARTE III

Problemi fondamentali
della filosofia antica
CAPITOLO PRIMO

Natura e divenire del cosmo

IL PENSIERO filosofico dei Greci ha per punto di partenza l'universo.


Come Esiodo organizza la totalità del mondo degli dèi, cosÌ i filosofi
intendono anzitutto comprendere in una veduta unitaria la totalità degli
oggetti dell'esperienza. Il concetto di totalità (oÀov) ha giocato in questo
senso un ruolo essenziale in tutti i tempi. Esso, ad esempio, ha dato il
titolo a una delle opere più importanti di Zenone, il fondatore della
Stoa '. Ma questo concetto rimane astratto. Esso ha invece dato in certo
modo origine a un concetto incomparabilmente più concreto, quello di
cosmo.
Non sappiamo quando il termine «cosmo» assunse il significato di
universo organizzato avvolgente la nostra terra. Che Pitagora sia stato il
primo a usarlo è una chiara invenzione di quella tendenza, manifestatasi
nel III secolo a.c., che opponeva Pitagora a Talete e che faceva del
primo il fondatore di ogni vera filosofia naturale. Senofonte conosce il
concetto, ma lo considera come concetto tecnico della filosofia, che non
gli è ancora familiare. Come tale, esso si è dovuto formare nel corso del
V secolo a.c. Viceversa noi possiamo dire con assoluta certezza ciò che
il termine x6afloç significa. Esso indica un bell'ordinamento, una perfetta
disposizione di cose come ad esempio un discorso ben composto o
l'ornamento aureo d'una donna artisticamente lavorato e portato con
eleganza, oppure la compostezza morale di una comunità politica. Que­
sto ampio significato del termine «cosmo» è ancora vivo, e ciò dimostra
che anche nella filosofia della natura esso non designa mai un semplice
stato di fatto ma mette sempre in rilievo un valore.
Quando noi chiamiamo «cosmo» il nostro mondo, intendiamo
significare un ordine ben visibile, conforme al fine perseguito e degno
d'ammirazione. Vedremo più avanti le conseguenze che si dovranno
trarre da ciò.
La prima caratteristica del cosmo è quella di poter essere colto in
una visione d'insieme. Tutto ciò che è ordinato ha una forma e un
limite. Inoltre, ancor prima di qualsiasi veduta filosofica, gli uomini

, DIOGo LAERTo VII 1430


166 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOS.OFIA ANTICA

hanno avuto una generale e consolidata opinione di vivere su una terra


circondata da ogni parte dalla volta celeste, immaginata come un emisfero
solido; e anche se qualche volta si è arrivati ad ammettere che la terra
ferma fosse tutt'attorno ai suoi confini bagnata dal fiume Oceano, ciò non
cambia nulla nella sostanza. La filosofia della natura non ha avuto diffi­
coltà a completare l'emisfero celeste, facendone una sfera completa. CosÌ
il cosmo è stato in primo luogo concepito come una sfera dentro la quale
si trova tutto ciò che noi conosciamo. Questa rappresentazione elemen­
tare è rimasta immutata per tutta l'antichità, quali che fossero le teorie
sulla natura di questo corpo onniavvolgente, sulla forma di ciò che in esso
è contenuto (in particolare della terra) e sull'origine di tutto l'insieme.
Se restiamo alla considerazione della struttura del cosmo, da quanto
si è detto emergono due problemi: in primo luogo se esiste qualcosa al di
fuori della sfera celeste e che cosa è; secondariamente in che rapporto sta
la terra - relativamente alla sua posizione e alla sua forma - con la sfera
celeste.
Per quanto riguarda il primo problema, noi possiamo senza esita­
zione considerare come dottrina dei più antichi Presocratici (Anassiman­
dro, Anassimene) quella che è più strettamente legata a questa comune
riflessione: al di là di questa sfera formata e limitata, si estende l'informe e
l'illimitato. Questo, per sua natura, rappresenta l'antitesi estrema del
cosmo, ma nello stesso tempo l'illimitato circonda il cosmo come l'ele­
mento nel quale esso riposa. L'illimitato può dunque diventare addirittura
il principio onniavvolgente dal quale il cosmo dipende e riceve la vita.
Questo problema assume una piega più grave dal momento in cui
l'opposizione tra il cosmo e l'esterno si trasforma in opposizione tra il
«pieno» e il «vuoto». Di qui non è poi grande il passo per arrivare
all'opposizione estrema tra 1'«essere» e il «non essere ». Dal problema
del vuoto e del non essere nasce nell'età successiva a Parmenide quello di
sapere quel che c'è all'esterno della sfera celeste.
Le relative dottrine si trovano in un manuale di storia dei problemi
dell'età tardo-ellenistica che possediamo in estratto. Esse vi sono cosÌ
raggruppate.
I Pitagorici si rappresentano il cosmo, con intuizione arcaica, come
un essere vivente. Il vuoto è lo spazio dal quale il cosmo trae il suo fiato e
nel quale lo rimanda.
Lo Stoicismo classico ammette al di là del cosmo un vuoto illimitato
nel quale il cosmo si dissolve nel corso di periodiche conflagrazioni
universali.
Posidonio, filosofo stoico di tendenze aristotelizzanti, ha cercato
invece di stabilire limiti al vuoto 2. A suo giudizio, intorno al cosmo si

2 POSID. fr. 302 Theiler; EUDEM. fr. 65 Wehrli.


NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 167

trova solamente tanto vuoto quanto è necessario a ricevere le rovine del


cosmo, dopo che questo si è dissolto al momento della conflagrazione.
Si tratta, com'è chiaro, di un compromesso fra la tesì dello Stoicismo
antico e quella di Platone e di Aristotele, i quali hanno recisamente
negato l'esistenza del vuoto. Per essi il problema di sapere quel che c'è
oltre la sfera celeste è, in certo modo, senza significato dato che il cosmo
comprende in sé tutto ciò che esiste nel tempo e nello spazio. Il cosmo
s'identifica col tutto, al di fuori del quale non c'è nulla. In tal modo il
problema è trasferito dal piano fisico a quello logico e ontologico.
Nessuna meraviglia che lo Stoicismo non fosse soddisfatto di una
tale soluzione. Dello stesso avviso è Epicuro il quale resta fermo alla
veduta dei Presocratici che al di là del cosmo ci sia un vuoto illimitato e
in questo vuoto la materia dalla quale un cosmo può nascere, se si
danno determinate condizioni.
Ma su Aristotele e Platone continua sempre a gravare la domanda
insidiosa: in che senso il cosmo può essere una totalità di forma limitata,
se esso non è limitato nei confronti di alcunché?
Per quanto riguarda il secondo problema, si ammette anzitutto che
la terra stia al centro della sfera circondata dal cielo. Solo raramente ci si
discosta da questo modo di vedere, quando cioè si postula una corri­
spondenza tra i due luoghi privilegiati della sfera: se la periferia, come
anche il centro, sono costituiti dalla materia più nobile - il fuoco - la
terra deve necessariamente ruotare attorno al centro del cosmo. Ma dalla
comune sensibilità degli antichi questa teoria fu considerata solo come
una curiosa stravaganza.
Del resto i problemi relativi alla posizione e alla forma sono reci­
procamente connessi. Dall'osservazione che ogni zolla di terra cade
immancabilmente al suolo, si era indotti a chiedersi perché non si
sarebbe potuta concepire anche la terra come un tutto che precipita in
una caduta inarrestabile. Essa non sembra muoversi in alcuna direzione:
Esiodo l'aveva già considerata come una massa solida e immobile.
Talete sembra aver semplificato le cose. Per lui la terra assomiglia
manifestamente a un disco più o meno piatto che galleggia, come un
vascello, sull'oceano. I terremoti si spiegano pertanto come dondola­
menti della terra sull'acqua J. Può anche darsi che Talete si sia in primo
luogo interessato solo della spiegazione dei terremoti in quanto feno­
meno particolarmente impressionante e inquietante e che solo seconda­
riamente si sia occupato del persistere immobile della terra al centro
dell'universo.

J D.K 1 1 A 15.
168 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Ma l'insufficienza di questa spiegazione appariva evidente. CosÌ


Anassimene la corresse, paragonando la terra non più a un vascello
galleggiante sull'acqua, ma piuttosto a una foglia sottile fluttuante nell'a­
ria 4. Questa raffigurazione ha esercitato la sua influenza fin sull'atomi­
smo. Ma se essa poteva bastare a spiegare il fatto che la terra non
precipitava, viceversa non spiegava perché questa conservasse sempre la
stessa posizione rispetto al cielo e alle stelle fisse. Nascono cosÌ altre tre
teorie. La prima è assai antica e risale già ad Anassimandro, secondo il
quale la terra è immobile perché sta esattamente al centro della sfera
cosmica e pertanto è, da tutte le parti, ugualmente distante dalla
periferia 5. Conseguentemente la terra non riceve nessuna spinta che possa
muoverla verso l'alto anziché verso il basso, verso destra anziché verso
sinistra. Si tratta di una tesi speculativa notevolmente ardita ed è un
peccato che noi non ne conosciamo il retroterra culturale.
La seconda tesi sembra essere stata formulata dagli Atomisti in
connessione a osservazioni empiriche. Il cosmo nel suo insieme compi­
rebbe un movimento vorticoso per effetto del quale le regioni vicine alla
periferia, cioè i pianeti, si muoverebbero a una velocità folle, mentre il
centro del moto vorticoso, cioè la terra, resterebbe fermo 6.
La terza tesi infine è quella di Aristotele, ripresa poi anche dalla Stoa.
Essa risolve il problema collegando in partenza gli elementi con
determinati tipi di moto e definendo questi ultimi a partire da un
«mezzo» posto in maniera ugualmente aprioristica e assoluta: ogni movi­
mento si compie tra due punti estremi, uno dei quali è il «luogo natu­
rale» dell'elemento. La terra ha il suo luogo naturale al centro del cosmo,
e ciò che è terra cade finquando raggiunge questo centro; dopodiché si
ferma. Il corpo terrestre nel suo insieme è immobile, perché esso occupa
come un tutto il centro del cosmo e dell'universo. È innegabile che questa
tesi, anch'essa eminentemente speculativa, è abilmente costruita, ma si
deve anche riconoscere che essa elimina semplicemente il problema. La
dottrina del «luogo naturale» degli elementi toglie di mezzo ogni altra
questione.
Per quanto riguarda in particolare la forma della terra, l'antichità ci
ha trasmesso una serie di ipotesi che sembrano in parte fantasiose, perché
non conosciamo più le riflessioni che le hanno provocate.
Quando Anassimandro attribuisce alla terra la forma di una colonna
cilindrica il cui diametro è grande tre volte la sua altezza 7, noi ne

4 D.K 13 A 6, 7, 20.
5 D-K 12 A Il.
6 D.K 68 A 95; B 5.
7 D-K 12 A lO.
NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 169

deduciamo che a lui chiaramente importava esprimere la forma del cosmo


in rapporti numerici. Inoltre si è portati a credere che egli abbia effettiva­
mente rappresentato la terra cosÌ descritta, fabbricando il modello di un
cilindro di proporzioni corrispondenti. Questa ipotesi è confermata dal
fatto che egli sarebbe stato il primo, a quanto si dice, a tracciare una carta
della terra. Ma ritorneremo presto su questo punto.
Anassimene ha descritto la terra come un disco, sottile come una
foglia, non tuttavia di forma circolare ma somigliante a una «tavola »,
cioè a un trapezio 8. Non sappiamo perché sia stato indotto a una tale
concezione. Per Democrito la terra ha la forma di un disco rotondo,
relativamente sottile.
Sembra che Parmenide sia stato il primo a trarre una conseguenza
che si imponeva alla riflessione filosofica: per lui la forma della terra
doveva corrispondere a quella del cielo. La terra diventa una sfera piena al
centro della sfera cava, ossia del cielo che è la periferia del cosmo 9. Solo
ora la simmetria nell'edificio del cosmo è perfetta. Evidentemente questa
tesi si è fatta strada non senza difficoltà. Infatti, in primo luogo, la
superficie della terra conosciuta non mostrava convessità apprezzabili
(Democrito aveva, dal canto suo, parecchie ragioni per ammettere che il
disco terrestre sul quale viviamo fosse piuttosto concavo). In secondo
luogo, se per il nostro mondo abitato si voleva ammettere una convessità
corrispondente alla sua sfericità, si arrivava a una superficie terrestre assai
più grande di quanto non si potesse credere sulla base dell'esperienza fin
allora compiuta. E ciò, in terzo luogo, doveva spingere a chiedersi co­
m'era fatta l'enorme parte della superficie terrestre che ci era sconosciuta.
Platone fu il primo ad ammettere senza esitazione che anche lì ci fossero
degli uomini che camminavano agli antipodi rispetto a noi I O. Ma questa
ipotesi non fu presa sul serio. Si preferì puntare su altro e fondare le
proprie considerazioni sul fatto che - come sembrava - solo una piccola
parte della superficie terrestre era abitata e abitabile.
La sfericità della terra come tale fu ugualmente ammessa dall'Accade­
mia, dal Peripato e dalla Stoa. Al di fuori di queste scuole si constata
chiaramente una sfiducia di fondo nei confronti di tali speculazioni e
questa sfiducia veniva costantemente alimentata dagli Epicurei.
Il quadro d'insieme che abbiamo delineato sulla forma generale del
mondo, ci induce a trarre due conseguenze di rilievo.
Da una parte si dà la possibilità di rendere immediatamente evidente

8 D-K 13 A 20.
9 D-K 28 A 37.
IO PLAT. Tim. 63 a (CIC. Luc. 1 23).
170 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

la contrapposizione tra il mondo umano, oggetto di esperienza e un


aldilà divino. Il che significa la dissoluzione della vecchia concezione di
un Ade orrido, senza luce e senza vita, che deve esistere da qualche parte
nelle profondità della terra. Nessuno ha mai seriamente pensato di
situare l'Ade nelle profondità terrestri, né di identificare la regione degli
antipodi con l'Ade omerico. Viceversa le cose stanno altrimenti con
l'Olimpo. Già nell'epica esso non è più un monte ma un luogo situato a
un'altezza somma, al di là del vento e delle nuvole. Quest'Olimpo può
allora essere in un certo modo trasportato al margine estremo della sfera
celeste o ancora oltre. Lo spazio cosmico, seppur vuoto per Epicuro e la
Stoa, e inesistente in senso .fisico per Platone e Aristotele, può diventare
la regione del divino. In Epicuro questa tesi è espressa con grande
perspicuità. Per lui esiste un luogo « tra i mondi » riservato al soggiorno
beato degli dèi 11. In Platone e Aristotele noi osserviamo in proposito
delle affermazioni particolarmente ambigue. Per essi infatti il mondo del
divino si trova anzitutto all'interno di un unico cosmo onniavvolgente:
è il mondo degli astri e del puro etere, dell'etere superiore. Ma esiste
inoltre un divino superiore e dell'aldilà che in Platone si esprime, in
molte enunciazioni, come l'unico dio supremo e in Aristotele come
motore immoto. Egli dimora al di là del cosmo e di ogni corporeità 12.

Questo aldilà è a volte concepito come qualcosa da cercare in uno spazio


'
oltre la sfera del tutto. Si sarebbe tentati di credere che solo un'esigenza
di chiarezza abbia potuto indurre alla formulazione di un'ipotesi in sé
inconseguente, dato che per principio non può esserci un aldilà nell'uni­
verso-cosmo.
Dall'altro lato appare evidente che Anassimandro ha potuto accom­
pagnare alle sue teorie la costruzione di modelli. Egli non si sarà
limitato a rappresentare la terra per mezzo di un effettivo tronco di
colonna. Quando noi apprendiamo che, secondo lui, le stelle fisse, la
luna e il sole ruotano attorno alla terra a distanza di nove, diciotto e
ventisette diametri terrestri, è assai verosimile che egli abbia anche
riprodotto per mezzo di un modello questa struttura del mondo astrale,
a fini dimostrativi \3. La stessa cosa può pensarsi di molti degli ultimi
Presocratici.
Questi modelli in sé non presentano molto interesse, ma poterono
avere conseguenze per gli sviluppi della cosmologia. Se il modello del
cosmo poteva essere costruito dall'uomo artigianalmente, se ne poteva

11 H. D IELSDox. gr., p. 572, 5 fr. 359 Usener.


=

12 A RlST. De caelo I 279 a 11 ss.; LUCR., De rer. nato III 18-24; V 146-154.
\3 D-K 12 A 11.
NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 17 1

dedurre che anche il cosmo reale era stato costruito m modo simile.
Nacque cosi l'idea, riscontrabile già in Senofonte e assai diffusa partico­
larmente nella Stoa, secondo la quale dio, artigiano perfetto, avrebbe
costruito il cosmo secondo un piano, come una macchina perfetta.
Ritorneremo, in un altro capitolo, su questa interpretazione del rap­
porto tra dio e il mondo.
Per quanto riguarda l'interna struttura del cosmo, non intendiamo
qui affrontare le innumerevoli questioni particolari attorno alle quali si
sono sviluppate l'astronomia, la meteorologia, l'idrologia e la geologia
antiche. Intendiamo invece soffermarci sull'essenziale.
Le parti del cosmo sono visibilmente strutturate in modo che i
corpi più pesanti occupano i luoghi più bassi, mentre i più leggeri
occupano lo spazio superiore. Ci si chiede allora come si spiega il fatto.
Due teorie si fronteggiano in proposito. Secondo la prima, tutti i corpi
sono più o meno pesanti e cadono verso il basso, quando trovano la via
libera. Tuttavia, per una ragione puramente meccanica, accade che i
corpi più pesanti si ammassino nella caduta, mentre i meno pesanti si
spostino verso l'alto. La salita di aria e fuoco non è altro che un siffatto
spostamento, come ha insegnato soprattutto l'atomismo. Aristotele segue
invece un'altra via. Come abbiamo già spiegato, ogni elemento ha un
suo moto connaturato che lo conduce al suo «luogo naturale ». Per il
fuoco questo luogo naturale è la periferia del cosmo, per la terra invece
il centro del medesimo. Secondo questa teoria, la salita del fuoco non è
dovuta a una spinta meccanica violenta dal basso in su, ma a una
tendenza naturale verso l'alto.
La rivoluzione degli astri presenta ovviamente particolari difficoltà.
Come avviene, nelle più elevate regioni del cosmo, questo movimento a
tutti visibile? Della spiegazione fornita dall'atomismo abbiamo avuto già
occasione di parlare: il cosmo nascerebbe da un vortice di atomi. Questo
moto vorticoso, che peraltro non ha una causa intellegibile, continua
anche nel cosmo già compiuto, dove esso ha forza massima nelle regioni
più alte; mentre, andando verso il basso, questa forza diminuisce sempre
più fino ad arrestarsi completamente al centro del cosmo. Dal canto suo
Aristotele, sempre fedele alla sua concezione fondamentale, arriva all'i­
potesi seguente: accanto ai quattro elementi dotati - come ha dimo­
strato - di un moto di salita o di discesa, deve esistere un quinto
elemento, dotato per natura di moto circolare. Esso costituisce la so­
stanza del mondo astrale e il suo moto naturale è continuo ed eterno:
ecco perché questo elemento può essere caratterizzato come portatore
del divino. Questa tesi di Aristotele fu molto discussa e - cosa davvero
singolare - respinta unanimemente da tutte le scuole, a eccezione del
Peripato. In verità la tesi che, ad esempio, veniva contrapposta dalla
172 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Stoa, si rivelò come un rozzo espediente. Per la Stoa esistono quattro e


non cinque elementi, ma il fuoco si distingue in due specie: quello
terrestre che brucia e sale verso l'alto e il celeste che riscalda e ruota in
circolo.
Tuttavia ben più importanti per noi sono le questioni filosofiche di
fondo che un cosmo cosÌ organizzato pone. Ne ricordiamo solo tre, pur
nella consapevolezza della reciproca connessio�e che tutte strettamente
le unisce: 1. Esiste uno o più mondi? 2. Il mondo è o no eterno? 3. Il
mondo va pensato come un meccanismo o come un organismo?
Il pensiero primitivo ha sempre considerato come un fatto ovvio
l'esistenza di un mondo degli uomini e di un mondo di dèi oltre i quali
non c'è nulla. O piuttosto: che non ci fosse ragione alcuna di porsi
problemi oltrepassanti questo nostro mondo. Pertanto è estremamente
significativo che già il primo dei Presocratici a noi meglio noto, Anassi­
mandro, abbia cominciato a dubitare di questa pretesa evidenza e spie­
gato come nell'infinito che circonda il nostro cosmo esista un numero
illimitato di mondi. Questi mondi nascerebbero e morirebbero in parte
insieme col nostro, altri prima, altri ancora dopo. Per Anassimandro
tuttavia questi mondi non sarebbero né i pianeti né le stelle fisse: egli
crede piuttosto che ciascuno di questi mondi abbia un proprio sistema
astrale. Il suo intendimento di fondo è verosimilmente duplice: in primo
luogo egli vuole evitare la sproporzione che presenterebbe l'esistenza di
un mondo unico e finito nei confronti di uno spazio e di un tempo
infiniti; in secondo luogo vuole richiamare energicamente l'uomo alla
consapevolezza della propria insignificanza. Il mondo in cui egli vive è
solo uno in mezzo a infiniti altri.
Questa teoria fu ripresa dagli atomisti Leucippo e Democrito, e
infine da Epicuro. Esiste in proposito una redazione della formula di
Democrito che suona cosÌ: «Esistono infiniti mondi e di diversa gran­
dezza. In alcuni non c'è né sole né luna; in altri questi corpi sono più
grandi che nel nostro, in altri ancora ve ne sono più d'uno. Alcuni
mondi sono completamente privi di animali, di piante, d'umidità. Le
distanze tra i mondi sono disuguali, alcune più grandi altre più piccole.
In un luogo i mondi sono in crescita, in un altro sono in pieno
sviluppo, altrove in declino; ve ne sono anche alcuni parzialmente in via
di formazione, altri in via di estinzione. Essi potrebbero anche distrug­
gersi, se si scontrassero reciprocamente 14 ». Altrove vien detto, a com­
pletamento di ciò, che più mondi possono anche essere tra loro uguali
fin nei minimi particolari.

14 D-K 68 A 40.
NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 173

Il significato di queste speculazioni nell'insieme è chiaro. A Demo­


crito non interessa la dimostrazione di certi fenomeni cosmologici, ma
egli vuole piuttosto rendere evidente che nel concetto d'infinito si deve
comprendere non solo l'estensione spaziale e temporale ma anche l'illimi­
tata possibilità di sempre nuove formazioni. In definitiva siamo al co­
spetto di un atteggiamento di rassegnato scetticismo. Poiché l'essere fi­
nito, sostenuto da Parmenide, non si trova, resta soltanto l'essere infinito
che si-dissolve in innumerevoli differenze.
Tuttavia il pensiero antico tenne fermo il convincimento che l'uni­
verso potesse essere concepito come una realtà limitata. Per Parmenide il
cosmo - misto di essere e non essere e contrapposto all'essere puro - è
unico; e cosÌ anche per Platone esiste un solo universo creato dalla
divinità secondo un paradigma eterno. Aristotele si sforza di dimostrare
espressamente che non può esistere che un solo universo, e lo stesso dicasi
della Stoa.
Possiamo pertanto cosÌ riassumere: l'Accademia, il Peripato e la Stoa
professano la dottrina del cosmo unico, dato che l'universo a noi visibile è
nello stesso tempo la forma più perfetta che si possa pensare, e la perfe­
zione non può esistere che in un solo esemplare. Per Epicuro invece il
nostro universo è assai imperfetto, essendo una composizione prodotta
dai vortici atomici in modo accidentale. Formazioni di questo tipo pos­
sono naturalmente prodursene e se ne sono di fatto prodotte in numero
illimitato.
Il pensiero greco, anteriormente al sorgere della filosofia, ha ritenuto
come del tutto ovvio che il nostro mondo, come una volta è nato cosÌ
possa un giorno svanire nel nulla. Le teogonie insegnano che le schiere
delle forze divine, che noi conosciamo, non sono esistite da sempre ma
che invece derivano da un piccolo numero di archetipi; e se è vero che gli
dèi non possono morire, tanto più viva in compenso è nei Greci la
cognizione della caducità di tutto ciò che non è divino. Secondo una nota
leggenda, Deucalione non è semplicemente il primo uomo, ma anche il
solo che abbia dato un nuovo inizio alle cose, dopo la distruzione di
un'intera umanità. Questa distruzione fu provocata da un diluvio. Forse
relativamente presto si pensò di dare un pendant a questo diluvio, imma­
ginando una distruzione a opera del fuoco e in questo senso s'interpretò
la leggenda di Fetonte.
Nell'età presocratica si sviluppano tre tesi caratteristiche. Cono­
sciamo già quella di Anassimandro e degli Atomisti: il nostro non è che
uno degli innumerevoli mondi che nascono e si dissolvono. Per altri,
come Anassimene o Anassagora, il mondo nasce ma, una volta nato, esso
permane per un tempo senza fine.
174 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Particolarmente interessante è la teoria del terzo gruppo: quella di


Eraclito, come sembra, e soprattutto di Empedocle. Per essi esiste un
solo mondo, eternamente sottomesso a un ritmo continuo di nascite e di
distruzioni. E se Eraclito è stato manifestamente indotto a questa teoria
dal fenomeno della continua successione del giorno e della notte, vice­
versa sulla complessa e sottile costruz�one ritmica di Empedocle ha agito
tutta una serie di motivi, tra i quali si può anche pensare al fiorire e allo
sfiorire della natura nell'alternarsi delle stagioni.
Tuttavia l'intero problema si complica nel momento in cui si fa
espressamente intervenire una divinità ordinatrice del mondo: giacché
sembra a tutta prima comprensibile che la divinità tragga un cosmo
ordinato da una massa caotica disorganizzata. Ma se si svolge all'estremo
l'idea che dio, in quanto essere assolutamente perfetto, non può far
nascere che un mondo proporzionato alla sua propria perfezione, è
difficile spiegare come l'opera di dio possa poi perire. Dio stesso non
può arbitrariamente voler distruggere l'opera sua che ha voluto perfetta.
E al di fuori di lui non esiste altra potenza che sia capace di distruggere
la sua opera. Viceversa se l'opera di dio può di fatto essere distrutta, ciò
vuoI dire che essa non era così perfetta come ci si doveva attendere.
Giungiamo così alla tesi di Platone la quale strutturalmente è para­
gonabile all'immagine del cosmo propria della teogonia esiodea: secondo
Platone, il cosmo è nato come opera di dio, da lui costruita, e dopo esso
dura eternamente per sua volontà.
Pure, questa concezione non è esente da difficoltà. Aristotele le ha
rilevate con decisione: innanzitutto essa compromette la simmetria onto­
logica tra generazione e distruzione. Ciò che è nato deve anche morire e
viceversa. Poi la nozione filosofica di dio porta a nuove difficoltà: se dio,
in quanto essere perfetto, non può avere ragione alcuna per distruggere
la sua stessa opera, ci si deve inversamente domandare quale motivo
abbia potuto spingerlo a intraprendere, in un dato momento, una tale
opera. Forse egli era insoddisfatto della condizione preesistente? Aveva
bisogno - egli essere perfetto - di diversità e di cambiamento? Nessuna
di queste ipotesi è soddisfacente e tutte arrecano pregiudizio al principio
della perfezione divina.
Certamente Aristotele non segue, su questo punto, la via che poi
prenderà Epicuro, per quanto utili siano stati a quest'ultimo gli argo­
menti aristotelici per combattere Platone. Aristotele non recide comple­
tamente i rapporti tra la divinità e il mondo, ma segue piuttosto una via
intermedia che gli è propria: da un lato egli considera il· mondo come
perfetto ed eterno. Esso, in quanto è un tutto, non è nato né può perire.
La regione che sta tra la luna e i confini del cielo è con tutta evidenza
divina ed eternamente immutabile. Anche se nel mondo sublunare si
NATURA E DIVENIRE DEL COSMO 175

verifica un continuo scambio di generazione e distruzione, ciò non arreca


tuttavia alcun pericolo alla stabilità dell'insieme. Dall'altro lato però esiste
ancora un dio al di là del mondo, il motore immoto del quale dovremo
ancora parlare. Da lui il cosmo dipende, anche se esso non è una sua
creatura. Questo motore infatti suscita il movimento col semplice fatto di
esistere e senza mai averlo provocato intervenendo nell'ordine temporale.
Non c'è da meravigliarsi se questa teologia cosÌ complicata sia stata
da tutte le parti utilizzata ma anche combattuta. Epicuro riprese, come si
è detto, gli argomenti aristotelici per combattere la divinità di Platone
creatrice del mondo; ma egli combatterà la tesi secondo cui il cosmo
visibile è divino.
Viceversa la Stoa - e ancora più l'Accademia platonica - un po'
accosta Aristotele a Epicuro, un po' si serve delle argomentazioni del
primo sulla divinità del cosmo, a sostegno della propria dottrina sulla
divina provvidenza reggitrice dell'universo. Del resto si ha l'impressione
che la Stoa con la propria concezione del mondo si esponesse, non
meno di Platone, a obiezioni. Essa ha introdotto il concetto di «provvi­
denza ». Il mondo è l'essere più perfetto che possa esistere, e ciò vale
anche per i vermi che stanno nel fango. Il mondo è retto da una forza
onnipotente e divina che penetra in tutto l'universo il quale tuttavia è
attraversato da un ritmo incessante di nascite e distruzioni. Esso perisce
nel fuoco originario, per rinascere di nuovo. Ma non si vede bene come
provvidenza e conflagrazione cosmica possano armonizzarsi tra loro. Si
crede di poter rintracciare nello stoico aristotelizzante Posidonio le diffi­
coltà che questo problema sollevava.
Bisogna infine chiedersi come veniva rappresentata l'immagine del
cosmo. Il pensiero antico è stato fortemente incline a raffigurarsi il cosmo
intuitivamente, e ciò ha potuto fare ricorrendo all'aiuto di modelli intui­
tivi (Leitbilder). Ricordiamone alcuni.
Una raffigurazione assai antica e discussa sembra essere, in primo
luogo, quella che concepisce il mondo come un essere vivente, metten­
dolo in parallelo con l'uomo. Anche se la coppia di concetti macrocosmo­
microcosmo non gioca, come tale, alcun ruolo nella grande tradizione
filosofica, pure la realtà da essa rappresentata è presente fin nei primi
Presocratici. All'inizio tale concezione dà l'impressione di un gioco da
non prendere sul serio: si paragonano i minerali alle ossa, la terra molle
alla carne, i fiumi alle vene e il mare alla cavità addominale. E poiché
l'uomo ha anche un'anima, l'animale-cosmo deve pure averne una, s'in­
tenda per anima il soffio vitale o lo spirito che governa il corpo dall'in­
terno.
L'influenza di questa interpretazione organicistica del cosmo è stata
enorme. In primo luogo essa conduce ad ammettere l'esistenza di un'a-
176 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

nima universale immanente nel mondo. La dimostrazione datane da un


tardo Presocratico è stata cosÌ efficace da essere ripresa non solo da
Senofonte ma dallo stesso Platone in una delle sue ultime opere 1 5 e,
infine, dalla Stoa: « N ai ci accorgiamo di avere nel nostro corpo una
piccola parte della terra che si trova nel cosmo, cosÌ come una piccola
parte dell'umidità e degli altri elementi. Bisogna concluderne che anche
il nostro spirito non è che una piccola parte dello spirito che vivifica il
cosmo» 1 6.
Quest'idea ne contiene una seconda: esiste un'affinità originaria tra
anima umana (o spirito umano) e anima del mondo (o spirito del
mondo). Ambedue sono della stessa natura. L'anima umana non è che
un frammento separato dell'anima del mondo e si è portati a pensare
che, dopo la morte, essa ritorni al tutto. Ma, indipendentemente da
questa prospettiva, una tesi come quella di Anassagora si mostra estre­
mamente importante e ricca di implicazioni: il cosmo è mosso da una
mente universale (vouc;) della quale è partecipe anche l'uomo 1 7.
In terzo luogo si può anche procedere oltre in una diversa dire­
zione. L'essenza dell'organismo è quella di essere un tutto differenziato
nel quale ogni parte ha la sua funzione, vive e sente con le altre. Un
dolore al piede influisce su tutto il corpo e cosÌ via. Se trasferiamo al
cosmo fatti del genere, possiamo dire che tutte le sue parti concorrono
insieme a farlo vivere.
Tutto è legato a tutto in simpatia e su tutto interagisce. E ancora: si
può concludere per l'esistenza di uno scambio di materia nel cosmo,
come un fatto ad esso peculiare. Ciascuna delle parti cosmiche elemen­
tari s'alimenta delle altre e respinge quella che non può assimilare. Tutte
queste parti, anche là dove un osservatore non lo abbia ancora notato,
sono in un incessante moto vivente. Questa è la dottrina di Posidonio il
quale accoglie le più diverse suggestioni non solo dai suoi predecessori
Stoici e da Aristotele, ma anche dai Presocratici, per costruirsi un'imma­
gine del mondo che s'impose per la sua coerenza e per la sua solida,
anche se arcaicizzante chiarezza. La tesi secondo cui il cosmo è un
organismo vivente è da lui svolta, senza esitazioni, fino alle estreme
conseguenze.
Esiste un secondo modello intuitivo, altrettanto antico, ma che ha
esercitato un'influenza più limitata. In Omero Zeus è chiamato padre
degli dèi e degli uomini, e in qualità di re egli regge una sorta di città

15 PLAT. Phileb. 30 a.

1 6 XENOPH. Mem. 1 4, 8; ele. de nat. deor. II 1 8.


17 D-K 59 B 1 1-14.
NA TURA E DNENIRE DEL COSMO 177

degli dèi. Di qui è breve il passo all'idea che il nostro mondo sia una
comunità comprendente uomini e dèi. Il cosmo diventa una casa abitata
in comune da dèi e da uomini o ancora uno stato retto da una legge e
protetto dalla giustizia contro il disordine e la decadenza. È stato in
particolare Eraclito a prediligere questa rappresentazione e a parlare
espressamente di una legge che governa non soltanto gli stati storici ma
anche l'universo. In lui si trova pure l'idea di una giustizia universale,
dopo che Anassimandro l'aveva introdotta nella sua cosmologia. Per la
terza volta quest'idea appare in Parmenide, ed è significativo il fatto che
per questi tre pensatori la giustizia deve anzitutto vigilare sulla regolare
successione dei giorni e delle notti. Un'irregolarità come un'eclissi di sole
viene da loro considerata come una violazione del diritto e un'ingiustizia.
Nell'ellenismo tuttavia questa raffigurazione non mostra più di avere
alcuna rilevanza.
Ben diverso è il caso del terzo grande modello intuitivo che noi già
conosciamo: si tratta dell'interpretazione del cosmo come un meccanismo
o un'opera d'arte. Come già s'è detto, quest'ipotesi è già confermata dal
fatto che Anassimandro avrebbe tentato di rappresentare il suo cosmo
attraverso un modello. Per il pensiero antico è un punto fermo che la
perfezione dell'opera d'arte e la rispondenza dell'edificio cosmico ai suoi
fini, postulano l'esistenza di un artefice. Giungiamo cosÌ alla più autore­
vole delle prove dell'esistenza di dio formulate nell'antichità. Essa si trova
chiaramente espressa in Senofonte: « Se noi ammiriamo un quadro nel
quale sono rappresentate, nella maniera più viva, creature viventi e da
esso risaliamo alla valentia del pittore che lo ha dipinto, a maggior
ragione dobbiamo ammirare i veri esseri viventi e riconoscere, dietro di
essi, l'artefice che li ha creati nel modo migliore» 1 8. Questo testo di
Senofonte, in sé poco importante, è stato reso celebre dalla Stoa la quale
ha inteso contrapporre a Platone Senofonte come il più fedele dei Socra­
, tici. È certamente curioso che la cosmologia e la teologia stoiche non
abbiano esitato a combinare tra loro questi diversi modelli intuitivi. Le
testimonianze di cui disponiamo ci mostrano che la Stoa ha parlato
indifferentemente del cosmo ora come d'un organismo vivente retto
dall'anima del mondo, ora come di una dimora comune agli dèi e agli
uomini, ora infine come d'un'opera costruita al più alto livello di perfe­
zione da parte di un artefice divino. Ma gli Stoici non si sono preoccupati
delle relazioni assai diverse implicite in queste concezioni.
Ma si può anche dare un significato ben diverso all'idea di un cosmo
meccanico, là dove si prescinda dal pensiero di un'anima che lo governi e

18 XENOPH. Mem. 1 4, 4. Non si tratta di citazione letterale.


178 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

di una divinità che lo crei, come accade ad esempio negli Atomisti. In


tal caso si può dire che il cosmo è un meccanismo solo nel senso che
esso viene all'esistenza grazie al fatto che, tra le innumerevoli combina­
zioni di atomi possibili, se ne trovano anche alcune che «per sé stesse»
mostrano un'adeguata capacità di resistenza e di funzionamento. Ciò che
in Platone e nella Stoa è disegno provvidenziale, in Epicuro diventa
selezione automatica dell'essere che è capace di vivere. Queste combina­
zioni si realizzano «da sé», grazie alle proprietà geometriche e fisiche
degli atomi.
Su Aristotele resta poco da dire su quest'ultimo punto. Possiamo
supporre che egli sia riuscito a dare del cosmo una descrizione perspicua
nelle opere pubblicate per i lettori filosoficamente educati. Allo stesso
modo siamo autorizzati a credere che il modello intuitivo di un ar�efice
divino abbia notevolmente arretrato nei confronti di quello dell'organi­
smo vivente o anche dell'altro della dimora comune agli uomini e agli
dèi. Ma al riguardo nulla di preciso ci è dato sapere. Nei manoscritti
pervenutici si parla poco di siffatte concezioni fondamentali. Vi si trova
infatti l'analisi di certi fenomeni ma non il profilo di tali rappresenta­
zioni del mondo, e non perché queste non potessero essere delineate, ma
perché Aristotele non ha inteso parlarne in una trattazione di carattere
scientifico.
CAPITOLO SECONDO

Gli elementi

NELLA vasta opera del peripatetico Teofrasto sulle dottrine degli antichi
filosofi della natura, sembra che il capitolo dedicato alle teorie degli
elementi sia stato uno dei più ampi ed anche dei più letti. Ciò non deve
meravigliare: infatti nella costruzione di un sistema di filosofia naturale,
tutto dipende dal punto di partenza prescelto. E in verità, già il primo
pensiero presocratico riconosceva che esso deve soddisfare due condi­
zioni fondamentali: in primo luogo un tale sistema deve avere una
struttura così semplice che non sia possibile risalire a qualcosa di ancor
più semplice e dunque di più originario. In secondo luogo, muovendo
da esso, si deve poter sviluppare una visione complessiva e intellegibile
dell'universo che si offre alla nostra esperienza.
Vediamo che la prima di queste condizioni è già soddisfatta da
Esiodo. Il Caos che egli pone in cima alla sua Teogonia è il vuoto
spalancato che resta quando noi col pensiero facciamo astrazione dai
limiti dati al mondo, dalla volta del cielo e dal suolo terrestre e soprat­
tutto quando risaliamo al di là della differenziazione dello spazio a opera
del giorno e della notte, ossia della luce e delle tenebre.
Sulla stessa linea di pensiero, ma in maniera più radicale, Anassi­
mandro designa come principio l'illimitato. Evidentemente per lui è
fondamentale l'opposizione speculativa tra la sfera cosmica, limitata e
differenziata, e ciò che è assolutamente informe, indifferenziato, infinita­
mente esteso. Dal punto di vista linguistico è già significativo il fatto che
il sostantivo fin allora impiegato per esprimere il concetto di caos viene
ora da lui sostituito con un aggettivo neutro, 1'«infinito» etÒ IÌbtEtpOV).
Ma a questo punto si pone il difficile problema di spiegare come
dall'infinito scaturisca il finito.
Anassimandro si limita a dire che dall'infinito si sono «separate» in
primo luogo la luce e le tenebre. Ma egli non ha ulteriormente chiarito
come si dovesse intendere la cosa.
Questo problema ha per l'appunto indotto Anassimene a compiere
un altro passo avanti. Egli identifica l'infinito con l'aria, la quale tra
tutti gli elementi empirici è innegabilmente quello che più si avvicina
alla condizione della pura assenza di forma. Ma nel contempo l'aria è,
180 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

per sé stessa, la più atta ad accogliere una forma. Anassimene introduce


poi le due nozioni di condensazione e rarefazione che consentono di
mostrare il processo per il quale, attraverso un cambiamento qualitativo,
dall'aria è potuto nascere il cosmo visibile.
Dopo Anassimene dobbiamo ricordare tre nuove teorie che hanno
assunto in seguito grande importanza. La prima è quella di Eraclito il
quale non ha posto, in senso stretto, il problema dell'origine degli
elementi cosmici nel significato di un inizio genealogico. Il suo modello
intuitivo è piuttosto quello che, per così dire, rappresenta il secondo
gradino in Esiodo e in Anassimandro, cioè la successione della luce e
delle tenebre. Questa successione è, per sé stessa, quanto di più origina­
rio possa esistere. Essa si compie non solo all'interno del cosmo, nel
corso del giorno e della notte, ma anche sul cosmo in generale. In una
delle sue espressioni volutamente allusive egli chiama addirittura il co­
smo «fuoco che con misura s'accende e con misura si spegne » 1 .
Quando il fuoco s i spegne, noi abbiamo i l mondo interamente dispie­
gato.
Tuttavia il fuoco si riaccende e si arriva a uno stato in cui tutto è
fuoco; e così questo ritmo si ripete all'infinito. Eraclito descrive a grandi
linee e senza alcuna precisione il modo in cui dal fuoco si generano gli
elementi del nostro mondo 2. Il che dimostra che il problema non lo
interessava molto. Più importante è per lui un'altra cosa. Se noi, come
pur dobbiamo, portiamo fino in fondo il paragone con la successione del
giorno e della notte, ne consegue che il nostro cosmo interamente svolto
corrisponde alla notte, ma che lo stato in cui c'è il puro fuoco corri­
sponde al giorno. Vi è qui implicito, indubbiamente, un giudizio di
valore: il giorno è più perfetto della notte e lo stato del mondo in cui
tutto è trasformato in puro fuoco è più perfetto dello stato attuale.
Qui si trova anche il punto di contatto tra Eraclito e Parmenide,
l'altro filosofo che dobbiamo menzionare. La sua teoria si potrebbe
riassumere dicendo che il rapporto tra un'origine elementare e il cosmo
attuale è completamente reciso. Parmenide parla infatti di due «mondi »
che ontologicamente non hanno nulla o quasi in comune tra loro.
Da una parte c'è il puro essere, che altro non è che essere. Dal concetto
di essere egli deduce che esso è immutabile, immobile e indifferenziato,
ma anche limitato, «simile a una sfera ». Ad esso si contrappone il
mondo visibile che è misto di essere e non essere e in continuo movi­
mento. Parmenide assimila l'essere « visibile » alla luce, il non essere alla

1 D-K 22 B 30.
2 D-K 22 B 3 1 .
GLI ELEMENTI 18 1

tenebra; il che dimostra chiaramente la sua vicinanza a Esiodo, Anassi­


mandro ed Eraclito. Ciò che invece lo caratterizza è l'aver stabilito, per
i futuri cosmologi, le condizioni che consentono di definire qualcosa
come realmente « essente ». Essente è anzitutto ciò che è in sé e per sé,
immutabile e indistruttibile. A questo principio gli ultimi Presocratici
restano incrollabilmente fermi. Ciò che invece si vedranno costretti ad
abbandonare è l'unità, l'immobilità e l'assenza di qualità dell'essere. Non
sappiamo come Parmenide facesse derivare il mondo visibile dalla luce e
dalle tenebre che egli interpreterà ancora, nel senso di Anassagora, come
« leggero» e « pesante». Può darsi tuttavia che egli non abbia attribuito
particolare importanza alla cosa.
Dopo quella di Parmenide, la teoria che in terzo luogo va ricordata
è quella dei Pitagorici, della quale finora non è stato possibile avere una
comprensione storicamente attendibile nei particolari. Sembra comunque
che essi abbiano considerato il numero come l'essenza elementare del
cosmo e delle cose in esso comprese. Non sappiamo quali riflessioni li
abbiano indotti a questa ipotesi: se di teoria musicale o biologiche o
addirittura giuridiche. Checché sia di ciò, l'importante per noi è consta­
tare un mutamento complessivo di prospettiva rispetto alle teorie finora
menzionate. Il numero, come i Pitagorici fin dall'origine lo hanno
inteso, non è un inizio in senso genealogico, ma un principio di organiz­
zazione. I toni musicali formano un sistema esprimibile numericamente;
le diverse età biologiche sono graduate secondo numeri indicanti una
serie di anni; allo stesso modo i moti del sole e della luna stanno tra
loro in rapporti numerici fissi, e così via. Anche a rischio di dare una
descrizione un po' anacronistica del fatto, potremmo dire che il numero
non è l'elemento primo dal quale si sviluppa il cosmo, ma il principio
formale secondo cui il cosmo si organizza.
Passiamo ora a quei filosofi che nelle loro teorie degli elementi
hanno cercato di giustificare l'ontologia parmenidea.
Importanza e influenza notevoli fin nella tarda antichità ha avuto
l'opera di Empedocle. Sembra che da essa derivi la teoria dei quattro
elementi, divenuta canonica fino al nostro Medio Evo: terra, acqua, aria,
fuoco. Ciascuno di questi elementi « è», nel senso che è ingenerato,
incorruttibile, immutabile. Se il cosmo è nato da questi quattro ele­
menti, ne segue necessariamente che ciò non è potuto avvenire alla
maniera in cui, ad esempio, pensava Anassimandro, ossia per via di
rarefazione e condensazione.
Un ente non può subire alcun mutamento qualitativo: resta per­
tanto solo la via della mescolanza quantitativa. TaIe idea è già accennata
da Parmenide nella sua costruzione del mondo apparente e il principio
della mescolanza è sostenuto per la prima volta, in modo magistrale, da
1 82 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Empedocle; poi da Anassagora e dagli Atomisti. La qualità degli ele­


menti resta invariabilmente la stessa, mentre sono infinitamente diverse
le proporzioni in cui essi quantitativamente si mescolano. Empedocle,
forse sotto l'influenza del Pitagorismo, non ha esitato a determinare con
esatezza, in singoli casi, tali proporzioni: cosÌ le ossa derivano da quattro
parti di fuoco, due di acqua e due di terra J. Inoltre egli è stato il primo
a isolare il momento del moto, che i filosofi precedenti avevano intro­
dotto nelle loro cosmogonie senza porsene il problema, e a dargli una
collocazione propria tra gli elementi. Esistono per lui due forze da cui
derivano il divenire del cosmo, ogni mescolanza degli elementi e in
generale ogni movimento: l'amore che unisce e la contesa che divide.
Affine a quella di Empedocle, ma più rigorosamente costruita è la
dottrina degli elementi di Anassagora. Egli non si limita alla considera­
zione dei quattro elementi e delle loro qualità, ma compie il tentativo -
a prima vista singolare - di attribuire a tutte le qualità empiricamente
constatabili il carattere dell'essere immutabile. L'essere che in Parmenide
era uno e privo di qualità, viene ora frantumato in una quantità illimi­
tata di particelle che presentano qualità infinite di numero, ma in sé
costanti. Celebre è in proposito la dimostrazione che Anassagora traeva
dalla dietetica: del pane che mangiamo come dell'acqua che beviamo si
nutrono i nostri capelli, il nostro sangue, i nostri muscoli, e ancora le
nostre ossa, etc. Ma poiché non è ammissibile che nell'essere una qualità
possa derivare da una qualità diversa: che ad esempio il capello possa
derivare da qualcosa che prima capello non era, non resta altra conclu­
sione che ammettere la presenza, nel pane come nell'acqua, di particelle
di capello, di sangue, etc., che poi semplicemente si uniscono alle corri­
spondenti particelle esistenti nel corpo umano 4. Così" Anassagora giunge
a stabilire il principio generale che in ogni corpo esistono particelle di
ogni specie, ma in maggiore o minor quantità. La fisionomia di un
corpo è determinata dalla specie di particelle che sono presenti in
maggior quantità.
Ma c'è un aspetto della dottrina di Anassagora assai più importante
di questo. Anch'egli, come Empedocle, isola il fatto del movimento che
intende tuttavia non come un processo di separazione e di unione, ma
come un impulso intenzionale. CosÌ Anassagora chiama «intelligenza l>

(vouç) il principio del movimento. Egli è stato pertanto il primo a


pensare di far muovere la massa dell'essere a opera di un'intelligenza
sovrana ed esistente per sé. È questo l'aspetto della sua dottrina che fu

J D-K 31 B 96.
4 D-K 59 B 10.
GLI ELEMENTI 1 83

particolarmente apprezzato da Aristotele. Certo, già Parmenide aveva


stabilito un reciproco legame tra pensiero ed essere; ma lì si era sempli­
cemente trattato della conoscenza dell' essere uno, immobile, da parte del
pensiero; mentre Anassagora, genialmente innovando, attribuisce all'in­
telligenza il compito di dominare e di reggere la quantità illimitata delle
particelle d'essere e di spingerla in un moto circolare, conforme alla
ragione. Si ha così la genesi del cosmo.
Questa teoria viene palesemente corretta, in seguito, dal sistema
atomistico di Leucippo e Democrito. Anch' essi, rifacendosi al mondo
sensibile, frantumano l'essere in un numero infinito di particelle indivisi­
bili. Ma mentre le particelle di Anassagora sono dotate di tutte le qualità
che a noi si mostrano nelle percezioni sensoriali, Democrito fa un passo
indietro verso Parmenide. Le sole qualità che le particelle d'essere pos­
seggono sono di natura geometrica.
Esse hanno forme determinate che le rendono adatte ad aggregarsi
s�lidamente tra loro e a costruire così strutture visibili. Per il resto sono
prive di tutte le qualità sensibili come colore, sapore, etc., le quali non
sono propriamente che pura apparenza, com'era per l'appunto il se­
condo mondo di Parmenide, misto di essere e non essere.
Le particelle d'essere sono assolutamente indistruttibili e presero in
seguito il nome di «atomi» per la ragione che non possono essere
«tagliate ». Nella dottrina del movimento Democrito si oppone decisa­
mente ad Anassagora. Per lui gli atomi si muovono ad a�terno, le loro
combinazioni si realizzano «da sé », secondo un principio che si può
chiamare Necessità o Caso, a seconda dell'aspetto che si vuole sottoline­
are. Ogni intelligenza motrice è esclusa, non perché un'intelligenza in
generale non esista, ma perché essa è ridotta a quella relazione che già
aveva in Parmenide: l'intelligenza conosce l'essere e, nel caso di Demo­
crito, le particelle d'essere che, in quanto tali, non sono raggiungibili
dalla percezione sensoriale. Una sorta di ritorno a Parmenide si riscontra
ancora in Democrito quando questi pone, accanto alle particelle d'essere,
il vuoto come non essere. L'universo nel suo insieme è un composto di
essere e non essere, il primo identificandosi col «pieno», il secondo col
«vuoto » . L'uno e l'altro sono infiniti ed eterni. Sembra a volte di
avvertire, nella forma che Democrito dà alle sue argomentazioni, lo
sforzo di salvare il salvabile dell'ontologia parmenidea al cospetto della
forza cogente dell'esperienza sensibile.
Con Platone entriamo in un mondo nuovo, anzitutto perché il
problema del cosmo è per lui subordinato ad altri, più importanti
prob�emi, come già abbiamo osservato nel capitolo precedente. Il cosmo
lo interessa non in quanto opera prodotta, in un modo o nell'altro, d a l
concorso d i diversi elementi, m a in quanto risultato d i un'azione ind i r i ,
184 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

zata al bene sommo. Anche se già Empedocle e Anassagora possono aver


introdotto delle forze che raccolgono insieme - in modo intenzionale
- gli elementi, tuttavia in Platone l'accento batte altrove. Il suo pro­
blema prioritario è quello del retto agire, che egli definisce come un
agire in vista del bene, e in forza della scienza del bene eterno. Chi
conoscesse questo bene e lo imitasse perfettamente nell'azione, sarebbe
un uomo perfetto. Ma quel che non può l'uomo, lo può dio. Il cosmo è
l'opera di dio. Se a ciò aggiungiamo il modello intuitivo della produ­
zione artigianale che Platone segue decisamente nel descrivere ogni agire,
è facile comprendere i fondamenti della dottrina platonica. Al vertice sta
dio. Poi viene il bene, verso il quale la divinità si orienta, in questo caso
il cosmo paradigmatico, il solo veramente reale. Infine viene la materia,
in sé informe, che dio plasma per farne una copia del cosmo paradigma­
tico; essa accoglie cosÌ, per quanto è possibile, una forma, giacché non
può assolutamente diventare realtà vera. Ma questo informarsi della
materia resta sempre precario, in divenire, mutevole e transeunte nella
misura in cui la volontà di dio ne arresta il processo di annientamento.
Ma non ci si ferma alla sola composizione di un cosmo corporeo: poiché
l'essere animato è più perfetto dell'inanim�to, il cosmo riceverà anche
un amma.
.
,

Dal punto di vista storico decisivo è, in questa costruzione, non


tanto il ruolo attribuito alla divinità - ruolo che in età postplatonica
viene diversamente configurato se non abolito - quanto piuttosto l'im­
portanza data alla coppia materia-forma. Platone ha costruito - non
linguisticamente ma sostanzialmente - il concetto di materia come
sostrato che esige di essere informato. Indubbiamente questo concetto di
materia corrisponde a quello che, da Esiodo in poi, designiamo col
termine di « origine» e di « uno», precedenti ogni differenziazione e da
cui ogni differenziazione deriva. Tuttavia non si tratta di concetti iden­
tici. I Presocratici partono dal modello intuitivo dell'albero genealogico,
mentre Platone parte da quello dell'artigiano che da un pezzo di legno
informe costruisce un mobile. Ma la differenza tra le due immagini non
sta soltanto nella forma espressiva, bensÌ riguarda, nell'uno come nell'al­
tro caso, la linea complessiva di pensiero. Quando i Presocratici cercano
l'origine da cui tutto deriva, ciò non significa assolutamente che essi si
siano occupati « soltanto» della materia delle cose.
Dio, forma e materia sono per Platone gli elementi di tutte le cose.
Ma a ciò si aggiunge, per cosÌ dire, un secondo livello elementare. Sul
piano della materia formata abbiamo anzitutto l'anima del mondo e poi
gli elementi in senso stretto, a designare i quali Platone è stato il primo
a impiegare il termine « cr'tOLXdov» 5, tradotto dai Romani con « elemen-

5 PLAT. Tim. 48 b 8 .
GLI ELEMENTI 185

tum " . Possiamo qui accennare alla struttura di questi elementi per
mostrare un esempio del modo in cui Platone può costruire un singolare
sistema speculativo combinando insieme, senza esitare, molteplici tradi­
zioni di pensiero. Poiché il cosmo riprodotto dall'artefice è corporeo -
dice Platone - esso deve essere visibile e tangibile. La prima di queste
qualità corrisponde all'elemento fuoco, la seconda all'elemento terra. In
mezzo a questi due deve starne un terzo che li congiunga. E poiché
l'unione migliore è quella della proporzione matematica, questo terzo
elemento deve stare in rapporto proporzionale con gli altri due. Se si
trattasse di superficie, occorrerebbe un solo termine medio; ma poiché
fuoco e terra sono elementi corporei, occorrono due intermediari, e
dunque l'acqua e l'aria. E precisamente: il fuoco sta all'aria, come l'aria
all'acqua, come l'acqua alla terra. A questa prima deduzione se ne
aggiunge una seconda. Esistono cinque corpi matematici elementari,
ciascuno dei quali corrisponde a un elemento, tranne l'ultimo. Al fuoco
corrisponde il tetraedro, all'aria l'ottaedro, all'acqua l'icosaedro, alla
terra il cubo. A questi s'aggiunge l'ultimo corpo regolare, il dodecaedro
il quale tuttavia non corrisponde ad alcun elemento fisico definibile.
Ciascuno di questi corpi è costituito da superficie e queste, a loro volta,
si possono scomporre in triangoli regolari. Si raggiunge così il punto
estremo in cui il principio informatore e la materia formata costitui­
scono ancora un'unità organica. È la figura geometrica più elementare
che, senza possedere ancora una corporeità nel senso della massa fisica,
ha tuttavia una sua realtà nell'ambito dell'intuizione. In ultima analisi
sono i triangoli bidimensionali gli elementi costruttivi di tutto il cosmo
visibile. Al di là di essi non c'è che dio, la pura forma, e la pura assenza
di forma.
Di più non aggiungiamo su questo singolare genere di speculazione
filosofica.
Aristotele su questo punto mostra chiaramente di aver attinto da
Platone elementi dottrinali che poi trasforma completamente. Sembra
che in un'opera perduta egli abbia distinto espressamente tra principi
(&px�) ed elementi (ITtOLXdov) 6.
Fra i tre principi che egli nomina, la materia la forma e la priva­
zione, manca tuttavia la divinità. Ciò gli consente di rilevare come al di
fuori della materia che per sé stessa è inconsistente e priva di forma, non
esista soltanto la forma e il processo di formazione, ma anche la dissolu­
zione, la perdita e l'insufficienza di formazione, insomma la negazione
della forma che si oppone alla sua affermazione. Il concetto particolare

6 AET. Placo 1 2.2 1 (H. DIELS, Dox. gr., p. 275).


186 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

elaborato da Aristotele a tale SCO pO (<Tt"ÉPTlcrtç) è servito anche al pensiero


medievale. Esso, fin dall'antichità, è stato tradotto col termine « pnva­
tio ».
La divinità, nei suoi due gradi dell'eterno mosso e del motore
immoto. non compare negli elenchi pervenutici dei principi formulati da
Aristotele, sebbene la materia acquisti e perda la forma soltanto a opera
del movimento. Aristotele nomina cinque elementi. Da una parte ci
sono i quattro elementi di Empedocle, ciascuno dei quali occupa, nel
cosmo, il suo luogo naturale o se ne allontana. Peraltro i quattro
elementi non cessano di compenetrarsi reciprocamente. In netta contrap­
posizione a Democrito, Aristotele ritiene che al di là della mescolanza
quantitativa, l'ipotesi di un cambiamento qualitativo degli elementi sia
possibile e necessaria.
I quattro elementi trasformabili occupano lo spazio fino alla luna.
Al di là della luna si stende lo spazio del quinto elemento che, secondo
la sua natura, si muove di moto circolare, senza mai abbandonare il suo
luogo naturale (salvo forse nella misura in cui qualcosa di esso entra
nell'anima umana). Questo elemento è l'etere divino che non solo è
spazialmente separato dagli altri elementi, ma non si trasforma mai in
nessuno di essi. Questa teoria del quinto elemento il quale, a partire
dalla tarda antichità, assume il nome latino di « quinta essentia », unita­
mente alla connessa teoria dell'eternità del cosmo, è stata considerata
dagli storici della filosofia antica come la parte più originale dell'aristote­
lica filosofia della natura.
Sulla teoria degli elementi di Epicuro non c'è molto da dire. L'anti­
chità le ha mosso il rimprovero di aver semplicemente copiato quella di
Democrito, il che è, in larga misura, certamente vero. Cionondimeno
esistono delle differenze che, se considerate in sé stesse, non hanno
grande importanza, ma che tuttavia dimostrano come fosse diverso
l'orientamento generale del pensiero di Epicuro. A Democrito impor­
tava stabilire, per quanto possibile, un compromesso tra l'ontologia
parmenidea e i fenomeni del mondo visibile. Cento anni più tardi per
Epicuro la dottrina di Parmenide era assai meno attuale di quelle svolte,
poco tempo prima, da Platone e soprattutto da Aristotele. Per quanto
frammentaria sia, allo stato attuale, la nostra conoscenza del pensiero di
Epicuro, siamo autorizzati a supporre che le correzioni da lui apportate
al sistema di Democrito cercassero di corrispondere alla mutata imposta­
zione del poblema. Esse riguardano soprattutto la natura dell'atomo il
quale non ha più né forme né moti qualunque. In particolare, il movi­
mento originario degli atomi è esclusivamente la caduta verticale. Questa
viene perturbata dalla deviazione casuale di un singolo atomo, e cosÌ SI

arriva alle combinazioni atomiche e alla formazione di interi mondi.


GLI ELEMENTI 187

Di non facile comprensione è infine la dottrina della Stoa. La tradi­


zione antica parla stranamente di «concezioni stoiche» in generale, senza
informarci se si tratti di teorie della prima Stoa che, come sembra, si
fondava solidamente sulla Socratica non platonica da una parte e su
Eraclito dall'altra; oppure di teorie della Stoa aristotelizzante del tardo
ellenismo. Anche quando si fanno i nomi come quelli di Zenone o di
Crisippo, noi non siamo sicuri che questi riferimenti scaturiscano da una
reale conoscenza dell'evoluzione dei problemi. Accenniamo soltanto ad
alcuni concetti essenziali e particolarmente perspicui.
La Stoa stabilisce una distinzione fondamentale tra essere in senso
proprio ed essere in senso improprio. L'essere propriamente detto è
quello che è capace di agire e di patire. L'essere dotato di questa capacità è
chiamato dagli Stoici «corpo " ; mentre sono incorporee, e dunque esseri
impropriamente detti, tre cose: il tempo, lo spazio in parte riempito di
corporeità in parte vuoto e dunque disponibile a ricevere corpi, e infine i
contenuti dei pensieri e delle parole dell'uomo che sono le proposizioni e
i concetti generali.
A queste tre cose non si possono attribuire né attività né passività e
dunque neanche una vera realtà. Viceversa sono corporei non solo gli
elementi i quali si percepiscono sensibilmente, ma anche la divinità e
l'anima e ancora le passioni e le virtù che producono incontestabilmente
determinati effetti. La Stoa ha spinto questa sua tesi fino alle più strane
conseguenze.
È evidente che la nozione stoica di «corpo» o, se si vuole, la
distinzione tra essere in senso proprio ed essere in senso improprio, è nata
dalla contrapposizione a Platone e al Platonismo. La Stoa si concentra
interamente su un solo problema che presenta tre diversi aspetti: come ci
si può rappresentare e rendere intellegibile l'azione delle idee platoniche
sulla materia, quella della divinità incorporea sul cosmo visibile e infine
l'azione dell'anima incorporea sul corpo umano? La Stoa giunge cosÌ a
stabilire due principi fondamentali: 1. Ciò che agisce e ciò che patisce
devono essere entità della stessa specie; 2. L'azione e i suoi effetti sono
ammissibili e constatabili solo nella sfera della realtà corporea. CosÌ i
paradigmi e le idee di Platone si riducono a vaghe nozioni generali prive
di realtà in senso proprio.
Viceversa la nozione di corporeità riceve una tale estensione e acqui­
sta un tale grado di dignità da diventare, com'è noto, arma di polemica
contro Platone (e in parte contro Aristotele). E cosÌ Epicuro e gli Stoici,
pur combattendosi accanitamente tra loro, si sono trovati uniti nel co­
mune sforzo di superare Platone. Ma in quest'impresa la Stoa si è rivelata
incontestabilmente più ardita e insieme scrupolosa.
188 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

L'essere, come si è visto, è caratterizzato - secondo gli Stoici -


dall'agire e dal patire. Ne segue che il divenire del cosmo si deve
intendere come l'azione di un principio formatore e causale su una
materia passiva e formabile. La Stoa chiama questo principio « natura » ,
intendendo con ciò una forza che governa razionalmente (idea, questa,
che emerge di quando in quando già in Aristotele). Inoltre questa natura
è uguagliata all'artefice divino dei Socratici, e poi al fuoco fornito di
ragione della cosmologia di Eraclito; e ancora all'anima del mondo
concepita dai Pitagorici e, comunque, dai Presocratici; infine allo Zeus
della poesia e della fede religiosa.
Dalla materia, in sé priva di qualità, derivano i quattro elementi
qualitativamente determinati sotto l'influsso del principio attivo: il fuoco
caldo, l'aria fredda, l'acqua umida e la terra secca. Viene rigettato il
quinto elemento di Aristotele, ma il fuoco' ottiene un posto particolare:
esso è il portatore materiale del principio demiurgico naturale. La Stoa è
talmente influenzata dal pensiero di Aristotele da distinguere espressa­
mente, come s'è visto, un fuoco celeste e un fuoco terrestre.
La Stoa segue ancora Aristotele quando ammette la reciproca tra­
sformazione qualitativa degli elementi. Ma essa, significativamente, in­
tende sottolineare un diverso aspetto della dottrina. Per Aristotele l'in­
cessante trasformazione reciproca degli elementi è espressione dell'insta­
bilità di tutto ciò che è terrestre, mentre alla Stoa importa piuttosto
dimostrare l'unità organica del cosmo. Tutto è intimamente unito a
tutto e, laddove gli Atomisti parlavano di una combinazione meccanica
delle diverse particelle d'essere, gli Stoici svolgono una teoria, certa­
mente poco chiara e macchinosa, secondo la quale tutto può mescolarsi
a tutto, cosicché le singole qualità non sono più giustapposte ma si
compenetrano reciprocamente senza residui.
Alla Stoa di Crisippo si deve infine un'articolazione della teoria del
fuoco destinata ad avere un peso notevole. Non bastava più distinguere
due specie di fuoco elementare, poiché sia per la sensibilità comune
come per la teoria di certe scuole mediche, il calore era certamente
portatore della vita organica, ma non nella forma del fuoco, sibbene in
quella del soffio caldo (1tVEUfLOt) dapprima uguagliato all'aria respirata, poi
distinto da questa in quanto « pneuma» interno, innato nell'uomo.
Questa nozione di pneuma ha acquistato in seguito estensione e impor­
tanza sempre maggiori. Alla fine si penserà che il pneuma pervada, a
diversi livelli, l'intero universo. Le qualità delle cose diventano infine
flussi di pneuma che, grazie alla sua forza di coesione, realizza l'unità
interna dell'organismo vivente.
Non aggiungiamo altro su queste dottrine. Possiamo dire che la
Stoa classica, per la conoscenza che finora ne abbiamo, ha accolto
GLI ELEMENTI 189

suggestioni che in larga misura le provenivano dai più diversi indirizzi


di pensiero, sforzandosi di conciliare tra loro le vedute più disparate. Ne
è risultato un sistema alquanto confuso e pertanto non c'è da meravi­
gliarsi che la tarda antichità lo abbia semplificato. In esso domina un
platonismo integrato dall'apporto di componenti aristoteliche e stoiche.
CAPITOLO TERZO

La teolo gia

IN QUESTO, più che in ogni altro campo, la filosofia della natura ha subÌto
l'influenza di concezioni precedenti ed esterne alla filosofia stessa.
Fin dalla sua forma più antica a noi nota, la religione greca mostra
una sorprendente ricchezza di motivi. Da un lato permane in essa costan­
temente un nucleo di autentica, innegabile religiosità. Per essa la divinità è
semplicemente la potenza che viene in soccorso a ciascun uomo che si
trovi in una particolare situazione di difficoltà. Retrospettivamente, della
divinità si sa soltanto che si è mostrata, dietro la preghiera del singolo, in
un dato luogo e in una data maniera. Perciò la preghiera comprende
quattro parti: essa invoca la divinità, le presenta le sue richieste, si
richiama alle opere compiute dal supplicante in suo onore e infine ad
analoghe manifestazioni di potenza date precedentemente da lei, onde
�asce la speranza che essa si comporti anche questa volta allo stesso modo.
Intorno a questi concetti fondamentali se ne raccolgono dapprima alcuni
altri molto generali. È divino tutto ciò che sta al di là della terra
conosciuta dagli uomini e dunque - negli stadi molto antichi del pensiero
- agli estremi confini della terra a oriente, a occidente, a sud e a nord.
Queste regioni sono abitate o dagli stessi dèi o da popoli di un genere
particolare che hanno cogli dèi una perpetua familiarità, a noi ignota. È
divino soprattutto ciò che è al di sotto e al di sopra della terra. Bisogna
certamente distinguere: solo gli dèi che stanno in alto, sopra la terra,
intervengono attivamente nella vita dell'uomo. Infine, secondo un'idea
molto antica ma che ha resistito a lungo nel tempo, esistono anche sulla
terra dei luoghi dove gli dèi amano abitare, dove sono addirittura a casa
loro. Essi possono essere ugualmente molto lontani o vicini a noi. Per
loro natura questi dèi sono semplicemente gli esseri più forti. Essi rie­
scono in ciò che l'uomo non può fare e hanno tutto ciò che l'uomo
desidera.
Sono, per cosÌ dire, degli uomini « superlativi »: ciò che l'uomo
possiede in modo manchevole, sporadico e precario, la divinità lo pos­
siede sempre e pienamente. Questa concezione ha giocato un ruolo consi­
derevole anche nel pensiero di Aristotele. La divinità è libera da preoccu-
) ')2 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

pazioni, malattie e morte 1 ; un'idea, questa, che viene ancora sottolineata


da Epicuro nella sua teologia. I rapporti tra questa divinità e l'uomo
sono - forse fin da principio - ambigui.
E infatti da un lato l'uomo si rivolge a dio perché ha bisogno del
suo aiuto e confida che egli lo possa e voglia aiutare. Dall'altro lato però
l'uomo è consapevole del fatto che la divinità può fare ciò che vuole,
grazie alla superiorità del suo potere. Dio innalza e umilia come gli
piace; egli dà agli uomini segnali su ciò che debbono fare; ma questi
segnali non sono mai univoci né dati direttamente, non solo perché la
lingua degli dèi è diversa da quella degli uomini, ma anche perché gli dèi
vogliono espressamente rendersi conto se l'uomo comprende esatta­
mente o meno i loro segnali.
Si deve in conclusione rilevare che gli dèi posseggono un'individua­
lità. di grado diverso. Grandi divinità come Atena e Ermete, Apollo e
Artemide, hanno una personalità spiccata, mentre altre restano scialbe,
come ad esempio gli dèi astrali che sono in una condizione singolare per
il fatto che, nonostante la loro natura divina, sono legati a un'orbita
fisica che non possono mai abbandonare. CosÌ, ad esempio, è impossibile
chiamare in aiuto il dio del sole.
Altri dèi stanno al limite tra l'individualità personale e una forza
divina anonima della quale si può avvertire la presenza ma che non
riesce a prendere forma definita: le Muse, le Cariti, le Erinni, le Ninfe e
cosÌ via. Si può anche rinunciare del tutto a dar loro un nome e in
questo caso si parla del divino in generale. Viceversa, si può certamente
spingere l'individualizzazione molto al di là di quanto non possa sco­
prire la pia credenza religiosa. Esistono racconti sulla vita e le gesta degli
dèi che non hanno più nulla a che fare con le speranze e i timori degli
uomini. Si ha allora il mito, una creazione la cui diffusione resta un
fatto assai singolare. I Romani e i Germani ne hanno posseduti in
numero molto limitato. I rapporti tra il mito e la religione dei Greci
rimarranno per noi, in definitiva, un enigma insolubile. La maggior
parte dei racconti vivaci e licenziosi sugli amori e i litigi degli dèi non
sono notoriamente compatibili con l'immagine del divino su cui si
fonda la religione. Cionondimeno i Greci hanno lasciato tranquillamente
coesistere ambedue le cose insieme. Anzi c'è di più: i Greci sapevano
perfettamente che quelle narrazioni erano dovute per la gran parte a
invenzioni di poeti molto autorevoli. Tuttavia esse posseggono autorevo­
lezza e vi si fa riferimento nelle discussioni, in quanto vengono a buon
diritto considerate espressioni di autentica teologia. Si possono perfino

1 ARIST. Eth. Nic. VII 1154 b 20·31; Met. XII 1072 b 24-26.
LA TEOLOGIA 193

dare situazioni estreme, come quella di Trezene, città del Peloponneso,


che fondò un culto in onore dell'eroe Ippolito, unicamente sulla base
delle indicazioni date dal poeta Euripide nel dramma omonimo, che
erano in gran parte pure invenzioni. CosÌ non è stato probabilmente il
culto del dio Eros nella città di Tespi, in Beozia, a ispirare Esiodo, ma
esso è stato piuttosto fondato successivamente, dopo la Teogonia di
questo poeta.
La filosofia viene ora a porsi di fronte a questo mondo ambiguo e
polimorfo il quale tuttavia, di fronte alla forza della ragione critica, era
destinato a dissolversi 2. D'altra parte esso era stato reso familiare agli
uomini da una lunga tradizione, ed era sempre presente nelle feste e
nelle rappresentazioni poetiche. Attentare alla sua esiste'nza non era
impresa esente da pericoli. Se noi guardiamo anzitutto ai Presocratici,
appar chiaro che il loro primo intendimento è quello di costruire una
concezione dell'universo dalla quale fosse esclusa ogni manifestazione
individuale e storica. Ciò che la fede considerava miracolo e segno
divino, come il fulmine, il terremoto, la nascita di esseri deformi, etc., è
ricondotto a caùse razionalmente comprensibili, naturali. In questo
senso non è stato certamente Epicuro il primo ad assegnare alla filosofia
il compito di liberare gli uomini dalla paura degli dèi, sia inferi che
celesti, con l'aiuto della scienza. Noi possiamo sicuramente attribuire
questo programma già a Democrito, se non addirittura agli antichi
filosofi di Mileto.
Dall'altro lato tuttavia rimane uno spazio aperto al divino. Non
certo il mondo sotterraneo: l'idea di un mondo siffatto, collocato al di
sotto di quello popolato dagli uomini, è stata abolita per sempre dalla
cosmologia di Anassimandro. Solo occasionaimente i miti di Platone e
dei suoi discepoli tentano di delineare - per fini di esortazione e di
edificazione - malinconiche raffigurazioni del mondo sotterraneo, atti­
randosi i motteggi maliziosi degli Epicurei. Diversamente accade per il
mondo superiore e per lo spazio che avvolge il cosmo nel suo insieme.
Qui la presenza del divino può ammettersi: di un divino certamente
inserito e subordinato all'organizzazione visibile dell'universo. Le qualità
che gli competono sono, in primo luogo, l'immutabilità e la perfezione,
ambedue constatabili sensibilmente nel cielo puro, posto in alto sopra le
nuvole e nell'inviolabile regolarità dei moti astrali. Possiamo senz'altro
credere che Anassimandro abbia chiamato divino l'infinito che avvolge i
mondi; ma è strano che egli abbia potuto dire di esso che governa le
cose. Se ciò è vero, la cosa si spiega per l'influenza della dottrina di

2 Questo problema è già stato brevemente trattato a p. 51 S5.


194 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Talete secondo cui la terra, come una nave, galleggia sull'acqua primor­
diale. E forse lo stesso Talete - com'è verosimile - ha assegnato
perfino un pilota a codesta nave. Con gli dèi della fede e del mito questo
infinito designato come immortale non ha proprio nulla in comune.
Le testimonianze pervenuteci ci inducono a credere che Anassiman­
dro sia stato il primo a distinguere due gradi del divino. Crediamo
senz'altro che egli chiamasse divina l'aria infinita; ma da quest'aria
faceva nascere anche gli dèi. In essi non si possono scorgere che gli astri
i quali percorrono lo spazio aereo 3. Caratteristica è la concezione di
Parmenide: vi troviamo una divinità che rivela al poeta una verità che
egli, in quanto uomo, non è in grado di scoprire. Questa divinità ha
quindi, principalmente, lo stesso compito della Musa in Omero ed
Esiodo. In Parmenide essa si chiama Dike e dimora presso la porta per
la quale si passa dalla notte al giorno. La notte è l'opinione fallace, il
giorno è la verità; ma bisogna anche richiamarsi all'alternanza cosmica di
notte e giorno che è il paradigma di ogni ordine. Quest'alternanza si
compie entro limiti fissi che è letteralmente ingiusto violare. Questa era
già stata la concezione di Anassimandro e di Eraclito. Parmenide vi
aggiunge una divinità che deve evidentemente vigilare al mantenimento
di qu�st'ordine 4.
Entro il mondo dell'opinione troviamo poi altre divinità. Una
prima divinità governa il nascere e il perire in generale. È ovvio che essa
abiti nella r!:gione della luna, poiché quest'astro partecipa visibilmente
dell'immut;"bilità delle cose celesti come della mutevolezza delle terre­
stri. Da questa divinità infine derivano tutte le altre forze divine. Qui
Parmenide assume consapevolmente lo stile teogonico di Esiodo e biso­
gna riconoscere che divinità di questo tipo sono del tutto fittizie, come
il cosmo nel quale agiscono 5 .
È importante allora che l'essere vero si chiami ingenerato ed eterno,
ma non necessariamente diyino.
Possiamo ora passare direttamente ad Anassagora. L'intelligenza
che, secondo lui, mette in moto le particelle d'essere, sa tutto e tutto
domina, ma non è divina. Non andremo errati se supponiamo che anche
Anassagora ha evitato intenzionalmente questo concetto troppo gravoso.
La sua concezione astronomica lo aveva messo in conflitto con lo stato
ateniese. La sua teoria secondo la quale il sole e la luna derivano da
masse staccatesi dalla materia terrestre, divenute incandescenti per effetto

3 D-K 12 A 17.
4 D-K 28 B I .
5 D-K 28 B 12.
LA TEOLOGIA 195

della velocità, era incompatibile col culto religioso di Helios e Selene.


Anche il Socrate platonico che peraltro non era un nemico della filosofia
della natura, ha preso discretamente ma con chiarezza le distanze da una
siffatta teoria 6. Ciò naturalmente non impedì ai contemporanei di avver­
tire una corrispondenza tra il processo di Anassagora e quello di Socrate.
Se vogliamo tenerci ancora ai Presocratici, bisogna - oltre quel che
s'è detto - rilevare particolarmente tra diverse forme di pensiero teolo­
gICO.
I. Da Senofane parte un attacco diretto contro la concezione. cul­
tuale e mitologica della divinità. Lungi dal contentarsi, come gli Ionici,
d'incorporarla nell'edificio del cosmo, Senofane s'interroga sull'essenza
del divino in sé. La divinità è per lui radicalmente diversa dall'uomo e
ciò è vero sia dal punto di vista etico che fisico. Di lui sono rimaste
celebri le invettive contro l'immoralità degli dèi di Omero, che fanno
tutto ciò che è proibito agli uomini: furti, adulteri, inganni reciproci.
Gli dèi devono in realtà possedere tutte le virtù; tesi, questa, destinata a
suscitare nell'età dei Sofisti le più accese controversie: giacché, se la virtù
consiste nel vincere i difetti, e se gli dèi sono virtuosi - ad esempio,
coraggiosi - ciò significa chiaramente ch essi sono portati alla viltà, che
devono per l'appunto vincere con la virtù del coraggio. Ma tutto ciò è
in contraddizione con l'idea che noi abbiamo dell'incontestabile perfe­
zione divina. Vedremo ancora come Aristotele risponderà a questa obie­
ZIOne.
Sul piano fisico Senofane ha espressamente respinto l'idea che gli dèi
abbiano forma umana. Dio non rassomiglia agli uomini né nella figura
né nel pensiero. Egli è un essere unico (Senofane appartiene a quel
ristretto numero di filosofi antichi che professavano un rigoroso mono­
teismo. Gli altri restano invece legati al politeismo cultuale e distin­
guono, come abbiamo già visto, un dio superiore da un gruppo di
divinità subalterne). Dio, per Senofane, ha forma sferica. Per lui pensare,
volere, eseguire sono una sola cosa. Senza fatica egli attua ciò che vuole.
In una testimonianza antica, anche se non assolutamente sicura, del dio
di Senofane si dice perfino che sta oltre il moto e l'immobilità, oltre il
finito e l'infinito 7.

Eraclito è stato presumibilmente influenzato da Senofane in maniera


decisa. Egli si scaglia contro i culti che misconoscono l'essenza della
divinità, attribuendole figura umana e il piacere per i sacrifici cruenti.
Egli parla di un essere unico, che è il solo sapiente e che ora vuole ora

6 PLAT. Phaid. 98 b-d.


7 D-K 2 1 A 28.
196 PROBLEMI FONOAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

non vuole essere chiamato Zeus 8. Che solo dio è sapiente (aocp6ç) è una
massima formulata con chiarezza, per la prima volta, ai tempi di Eraclito,
dal racconto dei Sette Savio Ad esso Platone attinge l'espressione tante
volte ricorrente presso il discepolo suo Eraclide, il quale narra che sarebbe
stato Pitagora il primo a chiamarsi «amico della sapienza» (cptÀ6aocpoç),
dato che il vero sapiente è soltanto dio 9.
II. La teologia di Senofane e di Eraclito porta la filosofia a un aperto
conflitto con le rappresentazioni cultuali della divinità. Da una parte sta
una teologia, tanto nuova quanto astratta nel suo rigore, che si sforza ad
ogni costo di costruire la più pura immagine dell'essere supremo; dall'al­
tra abbiamo tutto il peso di una tradizione primitiva ricorrente, nei suoi
tratti essenziali, presso tutti i popoli. Non ci si deve dunque meravigliare
se, qualche tempo dopo Senofane, si cercò una via di compromesso. Essa è
data dalla teologia di Democrito che, a quanto pare, fu ripresa nei suoi
motivi di fondo da Epicuro. Democrito considera espressamente come
un'opinione aberrante di generazioni primitive l'esistenza di dèi nel cielo
stellato e quella di un mondo sotterraneo. Ciò tuttavia non esclude
assolutamente per lui l'esistenza in generale degli dèi. Que� i sono compo­
sti atomici immortali, o almeno particolarmente durevoli; hanno figura
umana ma sono più grandi e più belli degli uomini. Essi vengono da
qualche parte per entrare nel mondo degli uomini ai quali si manifestano
sia nella veglia che nel sogno. Molte di queste apparizioni hanno conse­
guenze favorevoli, altre no. Bisogna quindi pregare gli dèi di farci parte­
cipi di apparizioni fauste lO.

Tutto ciò assomiglia sorprendentemente alle vedute tradizionali pro­


prie del culto religioso e del mito. Si ha l'impressione che qui intervenga
una sorta di rassegnazione. Il dio di Senofane è irraggiungibile. Non si
poteva pertanto, in nome di un dio siffatto, scavalcare cosÌ semplicemente
la credenza universale nelle ripetute apparizioni degli dèi in forma umana.
Ma, stranamente, accanto a questa troviamo un'altra veduta teolo­
gica, tutt'affatto diversa. Tra le forme atomiche ce n'è una che occupa una
posizione di privilegio: la forma sferica. Essa è associata al jJl oco e
all'intelligenza è, in più, può rappresentare il divino. Anche se c�fuggono
i particolari, abbiamo l'impressione che questa tesi risulti da una nuova
combinazi0!1e di dottrine di Parmenide e di Anassagora.
III. Come formula di compromess.o può, in un certo senso, essere
considerato anche un ultimo aspetto della teologia presocratica. Ponendo

8 D.K 22 B 32.
9 Cf. supra, p. 22, n o t a 4.
l O D-K 68 A 74.
LA TEOLOGIA 197

in secondo piano il problema dell'essenza della divinità e del luogo in


cui dimora, esso concentra la sua attenzione sulla maniera del suo agire.
Nasce così il pensiero teleologico che, sulla base dei testi, si sarebbe
tentati di ricondurre a tre diverse fonti. Della prima abbiamo già par­
lato: le costruzioni di modelli del cosmo da parte degli Ionici postulano
l'idea di un costruttore divino che tutto organizza secondo un piano
superiore. La seconda fonte è rappresentata dall'idea molto antica, che si
può quasi definire come un tema da favola, secondo cui l'uomo, in
rapporto agli altri animali, sarebbe per natura in uno svantaggio assai
spiacevole. Per confutare questa veduta si dimostra al contrario che la
struttura fisica dell'uomo è cOSI eccellente che se ne può concludere che
egli è oggetto di particolare cura da parte della divinità. Bisogna infine
richiamare una credenza generale che si riscontra implicitamente in
Omero, quando questi chiama Zeus «padre degli dèi e degli uomini».
Che gli dèi proteggano e sorveglino il genere umano è certo una
credenza assai diffusa, anche se il mito vi allude molto raramente. Da
questi presupposti nasce la teleologia filosofica. Tutto è ordinato in
modo che meglio non si potrebbe. Per quanto ne sappiamo, il primo ad
avere espresso quest'idea sarebbe stato Diogene d'Apollonia Il. È dubbio
però che egli ne sia stato l'inventore, visto che, tutto sommato, si tratta
di un presocratico minore. Ma l'influenza esercitata da essa su Seno­
fonte, Platone e più tardi sulla Stoa è stata enorme.
Parlare della teologia di Platone non è compito facile. Nei pnmI
dialoghi il divino rappresenta un elemento marginale. Socrate si affida
alla volontà di dio con una devozione schietta e senza problemi. Il
dèmone gli sta accanto come consigliere; ma sulla natura di esso sembra
che Platone abbia voluto intenzionalmente restare nel vago. L'Eutifrone
si presenta come un dialogo dedicato alla pietà religiosa. Ma al lettore
attento non sfugge che in esso gli argomenti teologici non sono più che
un materiale che consente di spiegare determinate questioni di logica e
di ontologia. Anche nei grandi dialoghi classici il problema teologico
resta per lo più avvolto in una sorta di penombra che è tipica di
Platone. Il discorso teologico viene fatto preferibilmente attraverso i
miti, ossia in esposizioni dove il pensiero oltrepassa l'ambito della
dimostrazione scientifica, per spaziare in regioni dove solo tradizioni
venerande offrono un appiglio. Non potremo mai sapere fino a che
punto Platone abbia considerato i celebri miti del Gorgia, della Repub­
blica e del Fedro - per citare solo questi - come fondamenti validi per
una costruzione filosofica.

1 1 D.K 64 B 3 .
198 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Tuttavia è possibile ricavare da ciò tre fondamentali concetti com­


plessivi. Nella Repubblica Platone ha fissato delle « direttive teologiche»
alle quali i poeti devono attenersi. Esse sono due: 1. Dio è buono e
dunque può essere solo causa del bene. Donde venga il male resta
incerto, ma in nessun caso esso può venire da dio. 2. Dio ha natura
semplice e immutabile: egli pertanto non entrerà mai in forme a lui
estranee e non ingannerà né svierà mai gli uomini con apparizioni del
genere 12.

Questo secondo principio toglie ogni fondamento a tutte le « epifa­


nie» di esseri divini, di cui sono pieni i culti e i miti della religione. Il
primo principio, da una parte, accosta la divinità al Bene, idea
centrale dell'ontologia platonica; dall'altra parte può anche favorire una
tesi che converte i due concetti l'uno nell'altro: non è dio ad essere
buono, ma gli uomini chiamano dio ciò che considerano buono e
profittevole. Torneremo più avanti su questa tesi.
Inoltre, anche se il Timeo è un mito, il più esteso di tutti, esso
tuttavia contiene tante e cosÌ importanti enunciazioni che non possono
essere qui trascurate. Vi troviamo l'idea dell'artefice divino - di cui già
si è detto - che costruisce il cosmo visibile guardando al paradigma
ideale eterno. Qui la divinità si mostra nel suo carattere essenziale e
dominante: la bontà. Proprio perché è buona, essa costruisce il cosmo.
Di più non è possibile chiedere sulla natura di questo dio supremo e sul
posto che esso occupa. Accanto ad esso esistono altri esseri divini:
l'anima del mondo e la gerarchia degli astri.
Ma l'elemento teologico è particolarmente rilevante nell'ultima
opera di Platone, le Leggi. Qui lo stato giusto viene addirittura fondato
sul corretto esercizio del culto divino e sulle giuste opinioni che i
cittadini hanno della divinità. Tra queste giuste opinioni vanno intesi tre
punti essenziali: primo, che esistono gli dèi (di ciò torneremo a parlare);
secondo, che gli dèi hanno cura degli uomini; terzo, che non possono
essere influenzati né dalle preghiere né dalle offerte umane. La pura
immutabilità sta alla pari con la sollecitudine che, con piena confidenza,
ci si deve attendere dagli dèi.
Oltre a queste, altre enunciazioni di Platone hanno avuto grande
importanza. Più che parlare della giustizia distributiva che la divinità è
chiamata a esercitare sulla vita dell'anima nell'aldilà, ricordiamo come
esempio un celebre passo del Simposio in cui Eros è definito come un
« dèmone», ossia come un essere intermedio tra gli dèi e gli uomini 13.

12 PLAT. Resp. II 379 a 383 c .


-

1 3 PLAT. Symp. 202 e.


LA TEOLOGIA 199

A questo passo è collegata - soprattutto nell'età imperiale di Roma -


l'origine di una vera e propria demonologia. Per essa i dèmoni sono
esseri invisibili che abitano l'atmosfera, che hanno in comune con gli dèi
l'eternità e con gli uomini, a causa delle passioni, la mutevolezza. Sono
essi che si mostrano agli uomirÌi per far sentire ad essi ora la loro collera
ora il loro favore. Questa teoria è potuta nascere poco dopo Platone, ma
ha assunto importanza ed efficacia nella particolare atmosfera culturale
della tarda antichità.

La dottrina di Aristotele dovette essere, a grandi tratti, una corre­


zione esplicita di quella platonica. Egli espose la sua teologia e.ssenzial­
mente in un dialogo oggi per noi perduto 1 4. Da un suo estratto appren­
diamo anzitutto che anche Aristotele distingueva nell'universo due di­
versi piani del divino. Solo nei particolari si possono rilevare le diffe­
renze rispetto a Platone.
Abbiamo anzitutto un dio supremo, pura intelligenza (vouç) - è qui
innegabile l'influenza di Anassagora - che permane eternamente immo­
bile in sé stesso. Sua vita è il puro pensiero, che è rivolto all'oggetto più
perfetto, cioè a sé medesimo. Egli è pertanto il pensiero che pensa sé
stesso, la perfetta realizzazione del precetto delfico « Conosci te stesso»
e, insieme, il modello di quella forma di vita che per Aristotele è la più
alta sua piano umano: la vita del pensiero che contempla e che ricerca.
Ma nella sua immobilità questa intelligenza è insieme motrice, non nel
senso che essa, come l'artefice platonico, sia un'attività produttrice, ma
perché essa è, per essenza, il bene al quale ogni cosa tende. Per il fatto di
essere semplicemente il bene, essa fa sÌ che tutto si sforzi di assomigliarle
e questa tensione si traduce nei vari movimenti del cosmo. Il moto
dunque, a parlar propriamente, non proviene da dio - che nella sua
perfetta autosufficienza può essere paragonato più alla divinità epicurea
che a quella di Platone - ma tende a Lui. Con ciò resta pur sempre un
legame con esso, che Epicuro invece non ammetteva.
Al di sotto di questo dio supremo si trova la regione divina del
cosmo, rappresentata in primo luogo dagli astri eternamente ruotanti e
poi, soprattutto, dal « quinto elemento », l'etere divino al quale è con­
nesso il movimento circolare che è il suo movimento naturale. In
quanto l'etere avvolge tutt'intorno il cosmo, questo può considerarsi
divino.
Certamente questa concezione del divino non si esaurisce completa­
mente nella proprietà fisica dell'eterno moto circolare. Gli astri sono

1 4 ARIST. De philos., in panicolare il fr. 16 Ross. Cf. anche Met. XII, capp. 6·10.
200 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

insieme esseri viventi, animati, che percorrono le loro orbite per libera
determinazione. Ma non ci è affatto chiaro come Aristotele accordasse
insieme, negli dèi astrali, l'aspetto fisico con quello personale.
Infine resta ancora molto importante il rapporto tra l'intelligenza
divina e quella dell'uomo. Sembra che Aristotele abbia tenuto ferma, per
tutta la vita, l'idea che l'intelligenza umana derivi dalla divina regione
sopralunare e che entri nel corpo « dall'esterno ».
Quanto a Epicuro, è innegabile che il suo pensiero, almeno in
alcuni tratti fondamentali, risulti da una sintesi di dottrine democritee e
aristoteliche. Epicuro si ispira a Democrito quando respinge ogni inter­
pretazione teleologica dell'universo. Per lui il cosmo non è né eterno né
divino né costruito alla massima perfezione da un artefice divino, ma è
invece transitorio e nato spontaneamente dall'aggregarsi degli atomi. Per
Platone e Aristotele la regolarità matematica dei moti astrali era la prova
più efficace del ruolo svolto da un'intelligenza divina. Questa prova è
respinta da Epicuro per il quale la matematica è un'arte illusoria che
tende solo a ingannarci sulla reale irrazionalità di quei moti. Il cosmo
nel suo insieme è assolutamente imperfetto e in nessun modo può essere
messo in rapporto con la divinità.
Certo, quando Epicuro polemizza contro la dottrina platonica
dell'artefice divino, è chiaro che egli utilizza non solo gli argomenti
critici di Democrito contro il « Nous » di Anassagora, ma anche quelli
di Aristotele contro il Timeo di Platone. È ancora l'influenza di Demo­
crito che spinge Epicuro a dimostrare con decisione che gli dèi hanno
forma umana. Certo, egli non ama parlare delle apparizioni diurne e
notturne degli dèi alle quali si era richiamato Democrito, ma preferisce
mostrare che . una teoria siffatta è fondata sul consenso universale di tutte
le epoche e di tutti i popoli e che la forma umana non solo è la più bella
che si possa concepire ma anche, nei limiti della nostra esperienza, la
sola adatta a portare e a contenere in sé il pensiero. Ma si riscontrano
anche influenze aristoteliche: Aristotele infatti, contro la teoria pitago­
rica della trasmigrazione delle anime, aveva espressamente sottolineato il
fatto che tra tutti gli esseri della terra solo il corpo umano è organizzato
in modo da poter servire come strumento al pensiero. Epicuro ha
semplicemente portato alle estreme conseguenze questa concezione.
Ampiamente influenzata da Aristotele è infine la dottrina di Epi­
curo sulla vita degli dèi. Egli porta cosÌ a pieno compimento una
tendenza che era sicuramente presente sulla via seguita da Aristotele.
Questi infatti aveva descritto il dio supremo come pensiero in sé sussi­
stente che pensa sé stesso. Epicuro spezza ogni legame tra dio e il
mondo venuto all'essere. Gli dèi dimorano assolutamente per conto
proprio in uno spazio extracosmico, interessati soltanto alla propria
LA TEOLOGIA 201

felicità. Come per Aristotele anche per Epicuro la vita della divinità
deve intendersi come il modello dellà più alta forma di vita umana. Solo
che la nota saliente in Epicuro non è il pensiero del singolo pensatore
ma quello di una serena comunità di filosofi amici. Questo spirito
comunitario riempie anche la vita degli dèi.
Quanto detto non toglie naturalmente che certe impressioni ci
provengano dagli dèi, e a noi tocca tenerle nel debito conto. Ma esse in
nessun caso devono farci credere che gli dèi rinuncino alla loro autosuf­
ficienza per rivolgersi agli uomini o anche per accogliere le loro pre­
ghiere. Epicuro afferma ancor più energicamente di Platone che dio non
conosce né favore né collera e che giammai si lascia influenzare dalle
preghiere e dai sacrifici t5.

U n numero ancor più grande di correnti tradizionali confluiscono


nella teologia della Stoa. A prima vista si ha l'impressione che i singoli
aspetti non vi siano nettamente distinti né pienamente fusi. Inoltre noi
conosciamo per lo più una dottrina stoica comune, senza sapere con
esattezza che cosa dobbiamo intendere con questa espressione: se uno
« spaccato » più o meno fedele di tutto l'insieme della tradizione della

scuola ovvero la dottrina di uno stoico autorevole innalzata a modello


canonico. Il partito migliore è dunque di attenerci a una delle poche
fonti che ci fornisce notizie di prima mano e senza eccessiva deforma­
zione polemica sulla teologia di Zenone prima e su quella di Crisippo
poi. Zenone ci dà cinque diverse formulazioni della nozione di dio 16.
Anzitutto dio si manifesta come la legge che, attraverso l'intera natura,
ci �rdina quel che si deve fare e non fare. Questa concezione risale
evidentemente a Eraclito che, in modo analogo, è stato il primo a
parlare espressamente di una legge divina dalla quale dipendono tutte le
leggi umane; e dall'altro lato si aggiunge a ciò l'idea che dio, ancora al
di là del re terreno, rappresenta per tutti la legge che ha un corpo e
un amma.
.
,

In un secondo significato dio è l'etere. Si tratta qui della ripresa e,


insieme, della correzi�ne di una tesi aristotelica. Infatti l'etere della Stoa
non è il quinto elemento che troviamo in Aristotele, �a soltanto un
genere particolare di fuoco; di quel fuoco per l'appunto che abbiamo già
trovato in Eraclito. E come Eraclito, anche gli Stoici pensano che il
fuoco, all'atto della conflagrazione universale, riconduca a sé il cosmo
per farlo poi rinascere da sé medesimo. E poiché dio è il fuoco, esso

15 EPIC. Ratae sent. 1 (= fr. 5 Arrighetti).


16 CIc. de nat. deor. I 36 (= SVF I 154, 161, 162, 165, 1 67).
202 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

esiste alternativamente per sé solo e poi nell'universo tutto dispiegato ed


è visibile solo nella regione degli astri.
In un terzo significato dio è il logos che pervade tutta la natura.
Anche se questa idea potrebbe rinviare probabilmente a Eraclito, tutta­
via più tardi divenne caratteristica dello Stoicismo chiamare col nome di
logos il principio razionale che ordina e governa tutte le cose. L'accento
è interamente posto su quella razionalità che è legittimata a porsi come
guida universale di condotta per chiunque. La dottrina generale dello
Stoicismo evidentemente, su questo punto, associa a sé altre idee: poiché
ogni essere, come s'è visto, dev'essere corporeo, il logos è identificato
col pneuma che pervade e anima tutto. Esso viene anche identificato col
Destino al quale nulla può sottrarsi e infine con la Provvidenza che per
l'intero cosmo e per l'uomo in particolare ha tutto preordinato al
meglio. Ora tutti questi non sono che aspetti differenti dell'unica divi-
mta.
. ,

In un quarto significato il divino sono gli astri. Qui è ripresa


manifestamente la dottrina platonica e aristotelica secondo cui la regola­
rità matematica dei moti astrali può essere spiegata soltanto col .fatto che
gli astri sono esseri animati e divini.
In un quinto significato infine Zenone ha tentato un'impresa a suo
modo poderosa: disciplinare da un punto di vista filosofico l'opera
classica della teologia dei poeti, la Teogonia di Esiodo. Egli conserva i
nomi degli dèi ma dà ad essi un significato completamente nuovo: Era
diventa l'aria, Poseidone l'acqua, Zeus - sulla base di un'etimologia
fantasiosa -diventa il « pneuma » portatore della vita; Atena, sua primo­
genita, diventa l'etere celeste, e così via. In tal modo Zenone riesce,
quanto meno in apparenza, a superare l'aspro conflitto, perennemente
'rinascente a partire dagli Ionici fino a Platone, tra filosofia e poesia.
Su un punto bisogna ancora richiamare l'attenzione. Per Epicuro gli
dèi hanno forma umana. Per Platone e Aristotele il dio supremo è
un'intelligenza incorporea, cosicché non si pone il problema della sua
forma; le divinità della regione celeste hanno forma sferica. La Stoa
segue una terza via: per essa dio è corporeo ma non ha una sua forma
propria. La sua natura divina si manifesta proprio nel fatto che può
tramutarsi in tutte le forme che vuole.
Questa dottrina è formulata, nella maniera più perspicua, dallo
stoico Posidonio il quale - come per altri aspetti del suo pensiero -
tramite Cleante risale ad Eraclito: « Dio è un pneuma spirituale e igneo
che non ha per sé alcuna forma ma si tramuta in ciò che vuole e
s'identifica col tutto » 17.

17 POSID. fr. 349 Theiler:


LA TEOLOGIA 203

Tra Zenone e Posidonio sta Crisippo, del quale ci è pervenuto un


ricco elenco di definizioni diverse dell'essere divino 18. Purtroppo non
sappiamo né come si siano formate le singole definizioni né come si
siano tra loro combinate. Pertanto non ha molto senso discuterle qui nei
particolari. Così, a differenza di Zenone, è una strana novità ad esempio
il fatto che Crisippo metta espressamente nel novero degli dèi quegli
uomini che, come Eracle o' i Dioscuri, grazie alle loro imprese si sono
meritati - come la fede religiosa insegna - un'immortalità pari a quella
degli dèi.
Ma gli aspetti della dottrina stoica del divino che hanno esercitato
maggiore influenza sono la teleologia che scorge su tutto l'azione della
Provvidenza, e ancora quello che viene chiamato, con espressione poco
felice, il panteismo stoico; ossia la tesi secondo cui il divino, in quanto
logos e pneuma, penetra l'universo da una parte all'altra; e infine la
riabilitazione forzata dei poeti classici Omero ed Esiodo per mezzo delle
interpretazioni allegoriche.

Dopo questa esposizione sintetica delle dottrine teologiche, men­


tano attenzione ancora due punti particolari.
Il primo riguarda il conflitto tra filosofia e religione cultuale al
quale si è già accennato, ma che qui conviene ancora esporre sintetica­
mente. Ogni forma di riflessione filosofica è costretta a entrare in
conflitto con la religione, ed è evidente che tale conflitto non è mai
esente da p�ricoli. Anche a voler pensare che la maggior parte dei
processi di ateismo intentati a determinati filosofi siano pure invenzioni,
ciò non cambia nulla al fatto che un tale conflitto è stato sempre
possibile e che così si è sempre ritenuto. Pertanto i filosofi hanno
cercato una via d'uscita che consentisse loro di rimanere fedeli alle loro
dottrine, pur osservando la religione tradizionale. Il che è avvenuto
essenzialmente in tre modi.
In primo luogo si è cercato di assimilare puramente e semplice­
mente i dati della religione. Empedocle, Eraclito e altri ancora hanno
recepito i nomi degli dèi forniti dal culto e dalla mitologia, per applicarli
alle loro potenze cosmiche. In Platone, Aristotele e nella Stoa si trovano
due generazioni di dèi o due piani del divino; dove, la seconda genera­
zione resta, almeno in parte, a disposizione degli dèi del culto. In
particolare la Stoa s'ingegna ad addomesticare, come abbiamo visto, le
vedute religiose di Omero ed Esiodo, attraverso estese e sistematiche
interpretazioni allegoriche. Il Platonismo della prima età imperiale intra-

18 ele. De nato deor. I 39 ( = SVF II 1077).


204 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

prende un tentativo audace e ricco di risultati: esso introduce tra gli dèi
della filosofia - il dio supremo e gli dèi astrali - e gli uomini, una
regione abitata da esseri aerei, i dèmoni che sono immortali come gli dèi
superiori e nello stesso tempo sensibili - come gli uomini - a tutte le
passioni come odio, amore, collera, compassione. A questi dèmoni si
rivolge la religione cultuale, giacché sono essi a parlare negli oracoli, a
rallegrarsi dei ricchi sacrifici o ad adirarsi se si trascura di pregarli. Più
tardi i cristiani hanno utilizzato a loro modo questa dottrina. Per altro
verso c'è da osservare con quale facilità Platone, Aristotele e i loro
discepoli hanno accolto nelle loro opere filosofiche il pathos del linguag­
gio religioso. Basti ricordare i miti dell'aldilà o ancora il modo come
Aristotele descrive l'uomo perfetto amico degli dèi, dove non è facile
dire che cosa resti, in senso stretto, di filosofico 19.
In secondo luogo si è cercato piuttosto di riconoscere, puramente e
semplicemente, tinesistenza di un metro comune tra concezioni filosofi­
che e concezioni religiose. Si distinguono teologie diverse, ciascuna delle
quali ha la propria legittimazione. Questa dottrina appare per la prima
volta compiutamente formata in un contemporaneo di Cicerone 20, ma
essa è indubbiamente più antica. Secondo questa dottrina, esistono tre
tipi di teologia: prima è la teologia filosofica, che non è accessibile a
chiunque e che pertanto non può essere partecipata a tutti per la
possibilità che essa offre di facili fraintendimenti; seconda è la teologia
politica, cioè il culto di stato consacrato dalla sua stessa antichità e
indispensabile per l'efficacia pedagogica; infine c'è la teologia dei poeti i
quali, secondo un famoso detto di Platone 21, non sanno in fondo quel
che fanno. Essi non conoscono la verità, e tuttavia può accadere che
nelle loro parole sia compresa qualche verità, quando il filosofo sappia
interpretarla.
La terza maniera è quella seguita da Epicuro il quale, pur attri­
buendo ai suoi dèi figura umana, non lascia poi alcuno spazio alla
religione cultuale nel suo sistema filosofico. È notorio tuttavia che egli e
i suoi' seguaci osservavano i doveri imposti dalla religione dello stato
ateniese. La loro argomentazione, a quanto sembra, era la seguente: il
filosofo non ha alcun motivo di dare scandalo con la sua condotta, né di
scuotere la fedeltà ai doveri religiosi da parte dei profani. Un tale
argomento si collega a riflessioni che ci sembrano curiose ma che si
ritrovano persino in Platone. Ciò si spiega col fatto che la filosofia,

19 ARIST. Eth. Nic. X 1178 b 8-30.


20 M.T. VARRO A ntiq. rer. div. frr. 7-10 ed. Cardauns.
21 PLAT. ApoL 22 a - c.
LA TEOLOGIA 205

come la teoria politica classica, non hanno esitato a servIrsI della


religione come di uno strumento per assicurare l'ordine statuale. Viene
pertanto ritenuto legittimo affermare, di determinate istituzioni o addi­
rittura di un'intera legislazione, che esse risalgono al decreto di dio,
giacché solo a queste condizioni esse acquistavano il grado desiderato di
autorità. Legislatori come Minosse, Licurgo o il romano Numa, ven­
gono lodati per aver fatto credere al popolo che la loro opera era
direttamente ispirata da una divinità. Lo stesso Platone non trova nulla
da obiettare in questa materia a una pia menzogna, purché essa rag­
giunga lo scopo 22. Certamente questo è un caso limite ma tuttavia
sintomatico della difficile e particolare situazione nella quale la filosofia
greca si è trovata in tutti i tempi nei confronti della religione.
Una cosa è, in effetti, incontestabile. Una teologia pura, in senso
speculativo, è per la religione esistente più pericolosa di qualunque
polemica razionalistica, il più delle volte semplicistica. Se è vero che la
divinità è profondamente diversa dall'uomo, che la sua forma è total­
mente diversa da quella umana o che è addirittura priva di forma, e che
è inoltre onnipotente, onnipresente e onnisciente, le conseguenze appa­
iono subito evidenti.
Per prima cosa cade il culto delle immagini degli dèi. Già per tempo
la religione persiana. era divenuta celebre per il suo culto che ignorava
sia le immagini che i templi degli dèi. Posidonio ha creduto di ricono­
scere le tracce della religione primitiva, pura e senza immagini, presso i
Giudei dei tempi di Mosè e presso i più antichi Romani. Ma l'età
classica abbonda di immagini di dèi, alle quali la. filosofia nega ogni
significato.
Già in epoca anteriore al sorgere della riflessione filosofica si
commCIa a dubitare del reale significato dei sacrifici cultuali. Ci si
cominciò a scandalizzare del fatto che il ricco, grazie ai suoi ricchi
sacrifici, potesse sperare di essere esaudito più sollecitamente del povero.
Se ne dedusse facilmente che l'uomo, per principio, non ha bisogno di
offrire agli dèi più di quanto possa e che in definitiva quel che importa
non è l'offerta materiale ma soltanto il. suo sentimento religioso. Peral­
tro sembra assurdo voler donare qualcosa agli dèi che pur sono onnipo­
tenti e padroni di tutto. Fare delle offerte non può pertanto significare
che l'uomo dà agli dèi qualcosa che essi non hanno, nella speranza di
poter ottenere ciò che egli stesso non può procacciarsi. Stranamente
questa pur così semplice riflessione non compare in Platone. Il primo ad
averla chiaramente formulata è stato Epicuro per il quale il sacrificio ha

22 P LAT. Resp. II 382 c.


206 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

il significato di un semplice omaggi?, non collegato ad alcuna idea di


scambio.
Gli stessi problemi si presentano a proposito della preghiera. Dio sa
"
tutto e sa perciò, anche meglio dell'uomo, ciò che per lui è bene.
Pregare dunque non ha alcun senso; anzitutto perché la divinità, essendo
onnisciente, non ha bisogno di essere informata, e poi perché è preferi­
bile affidare completamente a dio di concederci ciò che vuole.
Qui tocchiamo certamente un problema assai complesso. Dio, in
quanto è l'essere più perfetto, è anche il dispensatore dei beni più
perfetti, ai quali appartiene senza dubbio la virtù. E tuttavia sembra che
un carattere essenziale della virtù consista nel non essere ricevuta in
dono dall'uomo ma di essere da lui acquisita con lo sforzo personale. Si
dà cosÌ il paradosso che dio può concedere i doni meno importanti,
come la salute e la ricchezza, ma non quello che è il bene più alto per
l'uomo. Questo problema ha dato molto da riflettere ad Aristotele come
agli Stoici.
Restano infine i miracoli, ai quali non la sola cosmologia scientifica
ha tolto ogni fondamento. In essi c'è anche un altro aspetto da conside­
rare: un carattere essenziale del miracolo consiste nel suo verificarsi
inaspettatamente. Esso accade, non si sa quando né dove, a un individuo
qualunque. E sta qui appunto l'incongruenza: come possono i segni e
le apparizioni divine accadere non all'uomo più pio e degno, ma al
primo che capita? Non potrebbe la divinità scegliere i destinatari dei
suoi segni un po' meglio di quanto non appaia dai racconti tradizio­
nali? È ancora Aristotele a porre il problema e a dare l'attesa risposta:
non esistono in effetti segni del genere.
È difficile confutare la validità di queste argomentazioni la cui
logica adduce inevitabilmente alla distruzione della religione tradizionale
a vantaggio di un concetto astratto, ma giusto, della divinità. Ma se
nessuno può dubitare della chiarezza di questo concetto, esso tuttavia
non serve all'uomo che chiede un aiuto dall'altro: giacché l'uomo, nel
bisogno, vuole incontrare una persona alla quale poter parlare e non
un'astrazione onnipotente, onnisciente, onnipresente. In questo senso la
filosofia porta la piena responsabilità della dissoluzione in età ellenistica
dell'antico sentimento religioso.
Resta ancora un ultimo, importante nodo di problemi.
Se le vedute religiose tradizionali si rivelano insufficienti e false, si
pone per il pensiero storico il problema della spiegazione della loro
origine. Per quanto possiamo saperne, Democrito è stato il primo a
porsi questo problema. Egli osserva infatti che nell'età primitiva ci
sarebbero stati degli uomini che, alzando gli occhi al cielo, avrebbero
pensato che lì stesse Zeus il quale dall'alto vedrebbe e governerebbe
LA TEOLOGIA 207

tutto 23. Sembra pertanto che Democrito abbia considerato la teologia


celeste e astrale come la via che ha condotto il pensiero primitivo agli
errori del passato. Diversamente orientata e assai più accuratamente ela­
borata è la tesi di Aristotele. Egli individua due fonti dell'idea di dio: lo
spettacolo dell'ordine cosmico che postula un ordinatore e, in secondo
luogo, la facoltà che ha l'anima di prevedere nei sogni il futuro. Ora, se
l'anima umana è capace, in misura limitata, di conoscere il passato, il
presente e il futuro, deve esistere un essere che ha la stessa facoltà di
conoscere in misura illimitata. Arriviamo cosÌ all'idea di una divinità
nella quale il perfetto agire - ossia il governo del cosmo - è unito al
perfetto conoscere: in altre parole, all'unione di teoria e prassi 24.
Nell'età ellenistica le diverse risposte date al problema del modo in
cui gli uomini sono giunti alla rappresentazione degli dèi ci sono perve­
nute raggruppate in sistemi. Uno di questi comprende sette diverse
ipotesi: 1. La contemplazione del cielo stellato; 2. La divinizzazione dei
beni necessari alla vita umana, come ad esempio il grano, il vino, etc.; 3.
La divinizzazione di tutto ciò che è temibile e pericoloso; 4. La diviniz­
zazione delle passioni (Afrodite, Eros, etc.); 5. La divinizzazione dei
principi dell'accadere e dell'agire (speranza, giustizia, destino, etc.); 6. Le
invenzioni dei poeti; 7. La divinizzazione degli uomini che sono stati
benefattori dei popoli o dell'intera umanità.
Altri schemi insistono particolarmente sui punti l, 2 e 7 di questo
sistema: il meraviglioso, l'utile e i grandi uomini sono le cose che
istintivamente si è portati a innalzare al rango del divino.
A questo punto cade opportuno il discorso sull'ateismo. Il libro di
Evemero 25 il quale nella maniera più conseguenziale presentava le
grandi divinità come i re divinizzati delle epoche primitive, pretendeva
di essere, secondo l'intenzione del suo autore, addirittura un'opera di
edificazione religiosa. Ma i suoi contemporanfi, e non a torto, hanno
inserito l'autore nella schiera dei grandi atei.
In generale tuttavia l'ateismo dichiarato è assai raro nell'antichità.
L'elenco degli atei che fu compilato nel tardo ellenismo non com­
prende più di una mezza dozzina di nomi. L'ateismo sembra aver
raggiunto un livello filosofico solo in una breve epoca che chiamiamo
età della Sofistica. Protagora scrisse un libro Su gli dèi che probabilmente
dimostrava come gli argomenti addotti contro l'esistenza dei veri dèi
fossero altrettanto validi degli argomenti addotti a favore. Lo scrittore
Crizia, verso la fine del V secolo, scrisse un dramma nel quale poneva in
bocca a Sisifo, spregiatore degli dèi, la tesi di un ignoto sofista secondo
la quale l'esistenza di dèi onniscienti e giustizieri sarebbe stata inventata

23 D.K 68 B 30.
24 ARlST. De philos. fr. 10 Rose.
25 I frammenti di Evemero sono raccolti in:JAcoBY FGrHist. Nr. 63.
208 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

da un saggio legislatore dei tempi primitivi il quale aveva compreso


che non era altrimenti possibile venire a capo della malvagità degli uomini.
Si potrebbero far risalire all'età dei Sofisti gli argomenti che si
trovano in un autore della tarda antichità 26. Essi sono i seguenti. Primo:
se la divinità è onnisciente e capace di agire, deve possedere gli organi
della conoscenza che sono affetti, nei modi più diversi, dai fatti del
mondo fisico; ma allora questi organi partecipano inevitabilmente della
mutevolezza e instabilità delle cose di questo mondo. Secondo: se dio è
perfetto, deve possedere tutte le virtù. Ma la virtù significa vittoria sui
vizi: dunque, se, ad esempio, la divinità è coraggiosa, ciò implica che essa
è incline alla viltà ma che riesce a dominarsi. Il che è assurdo.
Bisogna quindi negare alla divinità sia l'onniscienza che la perfezione
morale. Ma allora del concetto di divinità non resta più quasi nulla.
Sembra che Aristotele abbia combattuto questa teoria. Infatti il suo
dio, la cui attività non è rivolta verso l'esterno né ha carattere etico, ma
consiste nel puro « pensiero di sé », non è esposto a critiche di questo
genere. Come che sia, è chiaro che sono state le riflessioni degli atei a
porre in primo piano le prove dell'esistenza di dio. Le epoche arcaiche
non hanno prodotto tali prove; ciò si rese necessario nel momento in cui
tale esistenza fu espressamente negata. Tutte e quattro le grandi scuole
dell'età ellenistica hanno fornito prove dell'esistenza di dio. Certo, allo
stato attuale delle ricerche, non si è ancora riusciti a determinare con
chiarezza la parte spettante a ciascuna epoca e a ciascuna scuola. Ci
limitiamo ad alcuni cenni.
A più scuole è comune la prova tratta dalla storia: tutte le epoche e
tutti i popoli hanno creduto nell'esistenza degli dèi e questo consenso
universale non può essere effetto del caso. Altre prove definiscono dio
come il primo indispensabile anello della catena delle cause oppure come
l'ultimo anello della catena dei fini. Dall'ordine dell'universo si deduce
l'esistenza di un ordinatore, dal moto infinito l'esistenza di un motore.
Più sottile è la prova che dall'esperienza dell'imperfezione conclude all'e­
sistenza del perfetto: poiché sia gli uomini che gli altri esseri viventi si
distinguono tra loro per un grado maggiore o minore di forza, di longe­
vità, di sapere e di potenza, dove esistere un essere che possieda tutte
queste qualità al massimo grado. Giacché, tutto ciò che è frammentario,
parziale e temporaneo presuppone l'esistenza di ciò che è totale, intero,
eterno.
Va rilevato tuttavia che nel pensiero antico ricorre a volte la tesi
secondo cui la superstizione è peggiore dell'incredulità. Quest'ultima
infatti fa piazza pulita per lasciare spazio a una visione più valida;
mentre l'uomo che si affida ai sacerdoti, ai maghi e alle religioni orien­
tali di ogni tipo si trova in una condizione quasi disperata.

26 SEXT. EMP. A dv. math. IX 137-193.


CAPITOLO QUARTO

Uorno, animale, pianta

NON può essere qui nostro compito la trattazione degli innumerevoli


problemi particolari di cui si è occupata l'antica filosofia della natura a
partire dal V secolo a.c. Bisogna rilevare che i filosofi d'allora avevano già
stabilito un netto confine tra l'oggetto di loro specifica competenza e
quello proprio delle scienze matematiche - aritmetica, geometria, astro­
nomia, armonia -; viceversa il confine tra la filosofia e la fisiologia
medica, la zoologia e la botanica restava ancor sempre indefinito. Il
Peripato è stato il primo a incorporare, nella misura più larga possibile,
tutte queste materie nel quadro dei propri studi, sia perché servissero di
dimostrazione alla sua universale concezione teleologica sia per applicare,
contro il meccanismo democriteo, la propria interpretazione organicistica
della natura, fondata sulla trasformazione delle qualità.
Ci limitiamo qui a riassumere alcuni concetti essenziali.
L'analogia tra l'uomo e l'animale si è stabilita anzitutto sul piano, per
così dire, della filosofia della civiltà ed ha portato alle tesi più estremiste.
L'animale, analogamente al bambino, può essere considerato in primo
luogo come l'espressione di una natura allo stato puro, intatta ed esem­
plare. In esso si mostra ciò che l'uomo sarebbe se egli non fosse stato
corrono continuamente dall'influenza della civiltà (gli antichi dicono:
dell'educazione, della scienza, della società). Le più antiche forme dell'e­
tica filosofica, sorte nell'età dei Sofisti, si fondavano sull'osservazione
dell'animale nel quale il piacere e il dolore si mostrano chiaramente come
gli impulsi più elementari. E se si osserva che negli animali gregari
l'esemplare più forte detiene regolarmente la funzione di guida e che, per
il resto, le specie animali più deboli cadono vittima delle più forti, se ne
deduce facilmente un' etica della « volontà di potenza » . Quest' etica presso
i Greci si esprime nell'affermazione che quel che conta in sommo grado è
essere più forti, dato che il più forte ha sempre ragione.
In un altro ordine di considerazioni l'animale viene assunto come
modello della sobrietà naturale. Esso conosce i limiti dei suoi bisogni e
non commette eccessi: possiede dunque delle qualità che si potrebbero
quasi definire etiche. La credenza popolare ha sempre chiamato corag­
gioso il leone, pauroso il cervo, superbo il cavallo e testardo l'asino. Sono
210 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

queste, indubbiamente, categorie etiche e la filosofia si domanda fino a


che punto esse si possano logicamente applicare all'animale.
Le risposte non sono affatto univoche. Se virtù come il coraggio,
l'autodisciplina, etc., si fondano sulla conoscenza del sommo bene, esse
non possono naturalmente essere attribuite né al bambino, che non
possiede ancora una tale conoscenza, né all' animale che di tale cono­
scenza è assolutamente incapace. Sul piano empirico appare evidente che
il cosiddetto coraggio dell' animale scaturisce in definitiva dall'impulso
del tutto irrazionale all' autoconservazione. In questo senso il primo
Platone, e più tardi la Stoa, hanno sottolineato energicamente la contrap­
posizione tra l'uomo dotato di ragione e l'animale che ne è privo.
Nessuna meraviglia che Aristotele e gli Epicurei fossero di diverso
avviso. Epicuro 1 riprende un'idea che Democrito aveva già attinto alle
vecchie concezioni popolari: per lui l'imitazione degli animali è alla base
di importanti conquiste della civiltà, come ad esempio il canto, la
tessitura, la costituzione di comunità politiche nelle quali non è sempli­
cemente l'individuo più forte a governare, ma dove si realizza un'orga­
nizzazione assai complessa. L'esempio delle api e delle formiche era alla
portata di tutti e, ricercando, molti altri se ne potevano trovare. L'antica
letteratura zoologica è piena di esempi relativi all'intelligenza degli ani­
mali: essi sanno difendersi con molta abilità dai pericoli, vanno a caccia
della preda e intrattengono rapporti sociali. Inevitabilmente si presen­
tano anche casi nei quali l'abilità tecnica si converte in qualità etiche: gli
animali posseggono il senso della famiglia, vivono monogamicamente e
si dedicano, fino al sacrificio di sé stessi, alla cura della loro prole, e cosÌ
via. Dall'altro lato sembra che ci siano animali che addirittura sanno
quale vantaggio l'uomo può trarre da loro e che glielo rifiutano, cer­
cando in tutti i modi di ingannarlo. Nientemeno che un discepolo di
Aristotele, Teofrasto, ha raccolto in un suo trattato esempi di siffatti
« animali gelosi » .

I n effetti seppure il Peripato ha con ogni probabilità accolto sugge­


stioni dall' atomismo ionico, ha dato tuttavia un proprio contributo di
punti di vista originali e assai differenziati. Il concetto fondamentale al
riguardo è quello di « gradazione». Aristotele, muovendo dall'idea di
vita in generale, perviene a un concetto di vitalità e animalità che
abbraccia ugualmente la totalità degli esseri viventi: piante, animali,
uomini. Ciò lo conduce alla celebre definizione dell'anima come princi­
pio che porta a perfezione il corpo che le è proprio 2. Questa definizione

1 LUCR. De re?". nato V 1033 55.

2 ARI5T. De ano II 412 al - 412 b 5.


UOMO, ANIMALE, PIANTA 211

è stata spesso fraintesa: essa include in sé certamente anche quella


dell'anima umana, e tuttavia non si riferisce specificamente a questa, ma
a quell'anima che è presente anche nella pianta e nell'animale. Si tratta
cioè di una definizione-quadro nella quale devono ancora iscriversi le
qualità particolari. La pianta dispone soltanto degli impulsi vitali più
elementari - crescita e nutrizione -; nell'animale l'impulso più impor­
tante è quello del movimento e della percezione; nell'uomo infine ab­
biamo l'intelligenza sia in senso pratico che teorico.
Ma vi sono anche forme di transizione tra i diversi piani. Probabil­
mente lo sviluppo dottrinale a opera di Teofrasto ha portato a insistere
su queste forme di « transizione »: cosÌ esistono degli animali nei quali
sono presenti, in modo rudimentale, caratteri specifici dell'uomo sotto
forma di tracce o di gradi preparatori. Allo stesso modo del resto - e
Aristotele lo rileva - possono esistere uomini che di fatto sono
« ferini», sia perché in essi è assente l'intelligenza a causa di una malfor­

mazione, o perché è stata distrutta in seguito a maltrattamento. Si tratta


certamente di fenomeni marginali ma che tuttavia dimostran9 come i
confini tra l'animale e l'uomo debbano essere concepiti non in modo
rigido ma elastico.
Bisogna inoltre notare che i tentativi di ordinamento gerarchico tra
le piante, gli animali e l'uomo risalgono a epoca anteriore ad Aristo­
tele. Accenni ne troviamo in Empedocle e in Platone, nei quali riscon­
triamo a volte il singolare tentativo di sussumere le piante nel genere
animale e di considerarle cosÌ una specie particolare di animali immo­
bili J.
Dall'altro lato qui non possiamo fare più che un cenno generale
della classificazione del mondo animale e vegetale che la tarda antichità
non a torto ha considerato come l'opera più ardita e durevole dei due
più antichi peripatetici, Aristotele e Teofrasto. Essi avevano raccolto un
abbondante materiale per le loro osservazioni (ignoriamo come vi fos­
sero riusciti, ma sappiamo in compenso che la tarda antichità l'ha
ampiamente utilizzato, pur senza arricchirlo ulteriormente). Questo ma­
teriale venne analizzato e ordinato secondo categorie sistematicamente
elaborate. La speculazione poi n� ha tratto spesso delle conclusioni
affrettate, ma questa è una peculiarità del pensiero antico. Compito del
filosofo è infatti quello di provare in tutti i modi l'ordine finalistico dei
fenomeni. L'Accademia platonica, per quanto riguarda le classificazioni
orientate in senso ontòlogico, aveva compiuto un certo lavoro prepara­
torio. E la teleologia della tarda Stoa, in particolare quella di Posidonio,

J AET. Placo V 26, 1-4 (H. DIELS, Dox. gr., p. 438).


212 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

ha probabilmente attinto, senza esitazioni, alle opere aristoteliche, gli


studi zoologici e botanici restano, come tali, opera peculiare della scuola
peripatetica.
Per ritornare a considerazioni più generali, la più antica concezione
che ci si è fatta dell'animale è che la natura o la divinità l'ha meglio
dotato rispetto all'uomo. Un vecchio racconto ci fa sapere che l'uomo
era rimasto svantaggiato nella distribuzione del vestiario, delle armi e
così via. Quest'idea ritorna sempre nell'antichità; particolarmente, com'è
ovvio, negli Epicurei che la utilizzarono per combattere la nozione
antropocentrica di provvidenza, cara agli Stoici. Questi, a loro volta,
obiettarono: in compenso delle armi e del vestiario forniti dalla natura,
l'uomo possiede la ragione tecnica che vale assai più di quelli. O addirit­
tura controbattevano dicendo che anche dal punto di vista fisico l'uomo
è meglio equipaggiato dell'animale, anche se all'apparenza può sembrare
il contrario: egli infatti cammina eretto e possiede nelle mani uno
strumento al quale l'animale non ha nulla da mettere a confronto.
I vantaggi indiscutibili che l'uomo ha sull'animale vengono collocati
su un piano più alto. Essi sono principalmente tre: in rapporto all'anda­
tura eretta, la capacità di sollevare gli occhi al cielo e di riconoscervi gli
dèi; poi la capacità di farsi capire con la parola e infine - quasi come
risultato dei due vantaggi precedenti - la capacità di formare una
comunità grazie alla comprensione reciproca del giusto e dell'ingiusto.
Fin dai tempi più remoti, sia a livello di pensiero filosofico che di
polemica popolare, è enormemente diffuso il riferimento all'animale
come rappresentante di una forma di vita mirante esclusivamente ai
piaceri più bassi, come il mangiare, il bere, la voluttà ovvero - per
usare il linguaggio sistematico di Aristotele - le due specie di piacere
corrispondenti ai due organi sensoriali inferiori: il gusto e il tatto. La
polemica volgare contro gli Epicurei ha sostenuto fino all' esagerazione la
tesi che l'ideale di vita epicureo era uguale a quello degli animali; ma
espressioni analoghe si trovano, già molto prima di Epicuro, ad esempio
in Eraclito.
In aggiunta a quanto si è detto, vogliamo accennare brevemente a
quattro problemi particolari. Il primo è posto dalla dottrina pitagorica
della trasmigrazione delle anime. È certamente difficile venire anche solo
parzialmente in chiaro di questa famosissima dottrina. A volte infatti si
dice che le anime, nel volgere dei tempi, passano continuamente da un
individuo umano all'altro (cosa che qui non c'interessa); a volte invece
che passano in animali e in piante. Ora si ha l'impressione che qualsiasi
animale o pianta possa albergare anime umane, ora che siffatte reincarna­
zioni avvengano secondo certe regole. Conformemente alla condotta
tenuta dall' anima quando era nel corpo umano, essa trasmigra nel corri-
UOMO, ANIMALE, PIANTA 213

spondente animale: i ladri nei lupi, i dissoluti nei porci e cosÌ via.
Vengono cosÌ introdotte nella dottrina antichissime qualificazioni popo­
lari date agli animali. Conseguentemente all'uomo non è lecito utilizzare
nella sua alimentazione siffatti animali e piante, altrimenti potrebbe
diventare cannibale senza neanche saperlo o possibilmente - come
nell'efficace descrizione di Empedocle 4 - uccidere e mangiare sotto
forma di animale un suo prossimo congiunto.
Questa dottrina poteva dunque portare a un rovesciamento radicale
dei rapporti dell'uomo con gli animali e le piante. Per essa ogni specie
vivente corrisponde a una categoria di uomini e può essere virtualmente
composta da siffatti individui umani che hanno assunto quella tal forma.
Certo, non ci è possibile vedere in quale misura una dottrina cosÌ
singolare abbia potuto di fatto sopravvivere né fino a che punto essa
non rappresenti semplicemente un pio mito religioso o addirittura un
gioco di spirito. Platone la riprende di quando. in quando, cosÌ come il
tardo Pitagorismo che nel II secolo a.c. si rinnova sul piano sentimen­
tale a contatto coi Romani e, in età imperiale, si unisce definitivamente
al Platonismo parimenti rinnovato. Ma a cercare di prendere sul serio
questa dottrina dovettero essere dei circoli molto ristretti e chiusi.
Una confutazione di essa si trova già in Aristotele. Egli sostiene
infatti che l'anima e il corpo essendo reciprocamente connessi, non può
una qualunque anima umana entrare in un corpo qualunque 5. Solo il
corpo umano è strutturato in modo da poter accogliere un'anima
umana. Questa confutazione appare semplice e convincente: essa certa­
mente comporta numerose conseguenze che tratteremo però nel pros­
simo capitolo. Qui basta solo rilevare che la dottrina della trasmigra­
zione delle anime non ha in alcun modo contribuito all'approfondi­
mento della conoscenza della particolare struttura e dei modi di vita
degli animali e delle piante.
Un interessante problema filosofico di genere tutt'affatto diverso è
quello riguardante la possibilità - all'origine dei tempi o anche al
presente - della generazione spontanea di animali da ciò che è inani­
mato. Il che equivale a domandarsi in che modo, nel corso del processo
cosmologico, sia sorta la vita. Chi credeva all'eternità del cosmo non
aveva ovviamente bisogno di porsi questo problema, e tanto meno quei
filosofi che credevano a un'evoluzione del cosmo a partire da un punto
zero. Essi avevano aperte sostanzialmente due possibilità di spiegazione:
o far nascere la vita, a un determinato momento, dall'opportuna unione

4 D-K 31 B 137.
5 ARIST. De ano 1407 b 13-26.
214 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

di due qualità elementari - come ad esempio il caldo e l'umido - o


ammettere una derivazione più o meno fantasiosa della vita a partire
dalla regione degli dèi: allora sarebbero caduti dei « semi» di vita dal
cielo sulla terra.
Può darsi benissimo che questa seconda spiegazione si sia a volte
fondata su puri miti o forse anche su leggende religiose. La prima invece
cercava di dimostrare che, ancora nel presente, era possibile osservare, in
condizioni date, la nascita del vivente dalla materia inanimata. Teofrasto
in un suo trattato ha discusso casi di questo tipo. In particolare si
sosteneva che nella carne putrefatta di animali morti e nella melma calda
del Nilo nascono ancora « spontaneamente» diversi animaletti come
vermi, moscerini e simili. Per concludere accenniamo a due questioni
particolari riguardanti l'ordinamento teleologico del mondo animale. Fin
dall'inizio l'antichità ha sempre considerato come elementare la distin­
zione degli animali in selvatici e domestici. Essa è dell'avviso che esi­
stono certe specie - bovini, ovini, porci, polli, etc. - che per natura
sono destinate all'uomo e che morirebbero senza le sue cure: questi
animali dunque per natura sono obbligati a servirlo, il loro destino è
quello di esistere per l'uomo. E può farsi risalire fino al IV secolo a.c. il
principio generale che le piante esistono per gli animali, gli animali per
l'uomo, l'uomo per la divinità. Più tardi esso è stato accolto dalla Stoa
come parte della sua dottrina della provvidenza universale; ma e�sa ha
per lo più omesso l'ultimo termine di quella successione in quanto
adducente a una visione teleologica troppo decisamente antropocentrica.
Ma restano pur sempre gli animali selvatici e tra questi, in primo
luogo, quelli notoriamente nocivi come i serpenti velenosi e simili. La
Stoa non ha risparmiato fatica per dimostrare - magari con argomenti
in parte stravaganti - che anche l'esistenza di questi animali ha un
significato teleologico e che anch'essi sono dunque in certo modo utili
all'uomo.
Viceversa gli Epicurei hanno utilizzato queste stesse idee sugli ani­
mali per confutare le teorie stoiche. Abbiamo già ricordato sopra l'im­
portante trattato dedicato da Teofrasto agli animali che si credeva rifiu­
tassero intenzionalmente all'uomo quei servigi che egli si aspettava di
avere da loro. Si rileva anche qui l'intrusione di vecchi motivi di
carattere semileggendario nel dibattito filosofico e in quello della zoolo­
gia scientifica.
CAPITOLO QUINTO

La dottrina dell' anima

IL PROBLEMA della natura e del destino dell'anima umana emerge gradual­


mente nella filosofia antica. Nei primi tempi l'attenzione è rivolta al
tutto e all'onniavvolgente, a ciò che è lontano nello spazio, e solo col
volgere del tempo essa si rivolge a ciò che è più vicino e anche pros­
simo, cioè all'uomo stesso. Ma a questo punto l'attenzione s'imbatte in
una quantità imponente di idee prefilosofiche. Infatti l'avvenimento
decisivo, il più inevitabile ed enigmatico che si presenta nella vita
umana, è in primo luogo la morte; e il problema della morte trascina
automaticamente con sé quello dell'anima. D'altra parte il pensiero
primitivo conosce stati di estraniamento da sé nei quali certi individui
partecipano di un'insolita chiaroveggenza. Il problema della natura di
questi stati conduce parimenti al problema dell' anima. Conseguente­
mente la filosofia antica presenta una tradizione ininterrotta rappresen­
tata da opere che cercano di penetrare il « senso » della morte; si tratta
di una lunga e importante serie di scritti che comincia col Fedone
platonico a che possiamo considerare grosso modo conclusa con la
« consolazione » che Cicerone compose per sé stesso in occasione della

morte della figlia. Un secondo indirizzo della tradizione suddetta ha per


oggetto l'estensione, la natura e l'articolazione delle facoltà conoscitive
dell'uomo; esso adduce alla dottrina della conoscenza della quale ci
occuperemo nel capitolo seguente.
Qui si tratta di esaminare gli aspetti fondamentali del problema che
c'interessa.
Se guardiamo anzitutto a Omero, appar chiaro che in lui il termine
« anima » (�uxTj, psiche) significa il principio vitale dell'uomo, che fugge

al momento della morte. Essa sembra di preferenza legata al respiro, che


si arresta al momento della morte, oppure al sangue che, versandosi,
lascia sfuggire la vita. Ciò che rimane nell'aldilà non è che una parvenza
d'uomo a cui propriamente mancano sia la corporeità che l'animazione:
un'immagine che esteriormente rassomiglia al vivente, ma tuttavia inaf­
ferrabile, umbratile, fievole e muta. L'esistenza di queste immagini corri­
sponde a quella degli abitanti dell' Ade ai quali insieme con la luce del
216 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

sole manca anche la vita. Non vi è certo da temere una sopravvalutazione


dell'influenza esercitata più tardi da siffatte idee sulla filosofia. Certo,
l'Ade in quanto tale scompare a opera delle teorie cosmologiche. Resta
tuttavia il significato del mito: ciò che dell'uomo rimane dopo la morte è
nulla. Non si può parlare di una vita reale dopo la morte. Questa è in
realtà la fine. L'età arcaica si consola con la gloria postuma che conserva
viva la memoria dei morti tra gli uomini. Ma, a partire da Socrate, questa
gloria postuma non ha più alcun significato per il filosofo. Non restano
allora che due soluzioni possibili: o che l'anima, dopo la morte, sale agli
dèi immortali - soluzione questa decisamente post-omerica ed essenzial­
mente filosofica -, ovvero che tutto finisce con la morte fisica. Nell'Apo·
logia di Socrate Platone esamina pacatamente queste due possibilità l. E si
deve rilevare che in generale la filosofia antica fino all' età imperiale non
ha mai smesso di pensare, spregiudicatamente, che con la morte tutto
finisce e l'uomo giunge al suo totale annientamento. Si accenna appena
alla paura della morte, che si rileva invece nei secoli più tardi. Si racconta
spesso di filosofi che si son dati la morte, ma non ci viene mai detto che
essi l'abbiano fatto per rifugiarsi in un aldilà migliore. L'idea che dopo la
morte la parte migliore dell'uomo continui a vivere, è familiare al Platoni­
smo, in parte anche al Peripato, solo occasionalmente si riscontra nella
Stoa, mentre è espressamente respinta da Epicuro. Il punto di vista
dell' epopea omerica ha esercitato la sua influenza fino alla tarda antichità.
E se Omero ha fornito agli Atomisti la nozione di « simulacro» (El'OwÀov),
questa tuttavia assume in loro una diversa funzione che qui non è il caso
di esaminare.
Dall'altro lato , come ci si può attendere, resta un'altra componente
,fondamentale nell'antica dottrina dell'anima: la nozione dell'anima come
principio di vita. Da questo punto di vista essa viene descritta sia come
principio della mobilità organica - ed allora essa è costituita dalla so­
stanza più mobile - sia come caldo elementare, affine al fuoco e alla luce
delle stelle. Nella Stoa questo secondo aspetto è spesso contrastato dai
. tentativi rischiosi di restare fedeli all'etimologia della parola psyché. Inne­
gabilmente questa parola ha affinità con altre che significano « esalazione
fredda», o semplicemente « freddo». Ma la lingua parlata non ha mai
avuto consapevolezza di questo significato. Viceversa la Stoa ha tentato di
stabilire in che senso anche l'anima può essere detta « fredda».
Meraviglia meno il vedere che l'anima in quanto principio vitale è
stata sempre messa in rapporto col respiro e col sangue e che il pensiero
filosofico ha cercato di sfruttare, per quanto possibile, questa nozione. Si

l PLAT. ApoL 40 c 41 c.
-
'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 217

può identificare l'anima con l'aria cosmica e, viceversa, si può conside­


rare l'aria cosmica come portatrice dell'an'ima del mondo; tesi questa
che, come si è visto, è stata già ammessa con altre motivazioni da alcune
forme di pensiero speculativo. Bisogna rilevare che la nozione di anima
del mondo come principio di vita (e di organizzazione) presente nel
corpo del cosmo è apparsa assai per tempo nel pensiero filosofico; essa,
se da una parte conferiva alla dottrina dell'anima suggestione e dignità
cosmiche, dall'altra provocava spesso oscurità e confusioni spiacevoli. A
Platone più che a ogni altro vanno addebitate straordinarie complica­
zioni, nel tentativo, da lui compiuto, di descrivere la natura dell'anima
in modo da comprendere sia l'anima umana che quella cosmica all'in­
terno di siffatte concezioni.
Ricordiamo, come antitetica a queste teorie, la psicologia biologica
di Aristotele, della quale abbiamo fatto breve cenno nel capitolo prece­
dente. Aristotele distingue nell' anima piani diversi. Nelle opere pervenu­
teci egli ha particolarmente messo in evidenza l'aspetto biologico. L'a­
nima è il principio vitale nel senso che è in primo luogo principio del
movimento per ogni essere vivente. E così la sua descrizione dell'anima
è tale da comprendere in sé l'anima delle piante, dell'animale, dell'uomo
e forse anche quella degli astri. Ma Aristotele ci ha anche dato dell'a­
nima descrizioni tutt'affatto diverse. A questo punto dobbiamo ritornare
ancora a Omero. Non in tutta la sua opera è presente la concezione che
l'uomo, dopo la morte, sia ridotto a una forma di esistenza umbratile e
inconsistente. A fianco dell'Ade c'è il Tartaro che originariamente era
solo la prigione nella quale Zeus aveva precipitato i Titani, e che più
tardi diverrà il luogo di pena per tutti i nemici degli dèi. Altrove
troviamo ancora il riferimento a un mondo separato, riservato ai beati.
In questi luoghi di dannazione e di beatitudine non abitano ombre vane,
ma piuttosto il vero « io» degli uomini che deve espiare i suoi crimini o
avere la ricompensa per una vita virtuosamente e gloriosamente vissuta.
Passiamo così, in certo modo, dal campo della biologia a quello
dell'etica. Nell'uomo si distingue un soggetto responsabile che anche al
di là della morte deve render conto dei suoi atti. La riflessione morali­
stica sulla vita di grandi malfattori che pure sono stati favoriti dalla
fortuna, esige a volte compensazioni di tal genere. Viceversa appare
ingiusto che uomini i quali hanno compiuto imprese eccezionali siano
destinati, dopo la morte, allo stesso annientamento riservato al comune
mortale. Vanno inoltre considerate le suggestioni fornite dai miti e dai
culti religiosi con le rappresentazioni dei « campi elisi» e particolar­
mente delle « isole dei beati», ma anche con le figure mitologiche come
Eracle, Dioniso e altri i quali erano uomini che vennero innalzati al
rango di divinità grazie ai loro meriti.
218 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Si capisce bene come una riflessione filosofica orientata in senso etico


abbia avuto interesse a utilizzare tali prospettive per rispondere alle
obiezioni e dare maggior peso alle proprie esigenze. Ma non sono soltanto
i poemi omerici a darci tali descrizioni. Fra l'età di Omero e quella di
Platone videro la luce, come sembra, un gran numero di poemi che
narravano di viaggi nel mondo sotterraneo; alcuni apparvero sotto il
nome di Orfeo, altri sotto quello di Pitagora. Ne sono stati stimolati
dapprima Platone, poi Aristotele e altri ancora. Vi si parlava di un
tribunale dei morti: le anime si vedono assegnare, ciascuna secondo il
tenore di vita condotto sulla terra, luoghi di soggiorno differenti. Alcune
restano solo per un periodo di tempo determinato in tal luogo e poi
possono reincarnarsi; altre sono abbastanza pure per non dover più
lasciare il soggiorno dei beati; altre infine sono cosÌ irrimediabilmente
malvage da non poter lasciare mai più il luogo di pena.
Da un punto di vista filosofico tutto ciò resta alquanto oscuro. A
volte si è tentato di fondare scientificamente tali rappresentazioni dell'al­
dilà: questo è stato cercato non più sottoterra - cosa in nessun modo
possibile - ma nelle gigantesche cavità che si trovano all'interno della
terra oppure nelle isole dell'estremo occidente, ai confini del mondo
umano. Il fenomeno della morte apparente assume una particolare impor­
tanza: l'anima abbandona il corpo, ritorna in esso dopo qualche tempo e
dopo è forse in grado di raccontare ciò che ha vissuto durante la sua
assenza. Il guerriero panfilio apparentemente morto, di cui parla Platone
nella Repubblica 2, è solo uno di tutto un gruppo di falsi morti che si
credevano ritornati dall'aldilà. Ma questi particolari per metà realistici
non eliminano il carattere eminentemente fantastico e inverificabile di
questi racconti. Resta anche oscuro il modo in cui ci si deve rappresentare
l'anima in una tal forma di sopravvivenza. Essa dev'essere, a quel che
sembra, immortale se può essere destinata a un'eterna dannazione o a un
eterno gaudio. Dev'essere anche sensibile al dolore e alla gioia. Ma se gli
dèi non possono sentire né ira, né odio, né amore, né dolore, perché
altrimenti la loro immortalità sarebbe necessariamente compromessa, lo
stesso deve valere anche per le anime umane. L'immortalità e la capacità
di soffrire sono due qualità che si escludono a vicenda, almeno secondo i
concetti della filosofia greca classica. Tutto ciò resta oscuro e non ci si
può meravigliare di vedere più tardi l'ellenismo farsi gioco, più o meno
scopertamente, delle fantasie di Platone e compagni sull'aldilà e sul tribu­
nale dei morti.
Ma ancora più fantastica è la dottrina sopra ricordata della reincarna-

2 PLAT. Resp. X 614 b 55.


'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 219

zione dell'anima negli animali e nelle piante. Aristotele ha dimostrato in


modo rigoroso che una siffatta concezione non poteva reggere di fronte a
una filosofia fondata su basi realistiche. Cosi noi non vi ritorneremo più.
Esiste un terzo gt:uppo di problemi che sono essenzialmente diversi.
La filosofia della natura e anche l'epica pretendono di trattare di cose delle
quali nulla può sapere l'uomo che rimane entro i limiti della vita naturale.
Perciò viene anzitutto invocata la Musa che dà la memoria o un'altra
divinità che rivela all'uomo ciò che lo trascende. Inoltre certi uomini
possono essere messi in condizione di conoscere il futuro: si pensi alle
visioni del sogno o agli stati d'estasi. Si riflette allora sul problema se
l'uomo possieda in sé un organo capace di tali poteri conoscitivi. Se, senza
anticipare in particolare sul problema della conoscenza, noi ci esprimiamo
secondo il pensiero arcaico, dobbiamo dire che l'uomo, conoscendo, può
trascendere i limiti del qui e dell'ora, in quanto una parte di sé stesso non
è di fatto legata al qui e all'ora. Egli conosce il divino con l'aiuto del
divino che è in sé stesso. Nel sogno e nell'estasi esso si libera in lui, ma è
ancora il divino a dar fondamento alla calma riflessione del filosofo sulle
cose eterne. Da Parmenide in poi si afferma il principio che il vero essere
può essere conosciuto solo da un essere altrettanto vero, e questo è
chiamato il pensiero (vouc;).
Se, come in Empedocle, per essere s'intendono i quattro elementi
primordiali, l'uomo conosce perché il suo organo conoscitivo è anch'esso
costituito dei quattro elementi. In modo simile doveva compiersi anche
per Democrito la conoscenza delle particelle d'essere, gli atomi. Viceversa
in Platone troviamo: da una parte, la divinità costruttrice del cosmo e,
dall'altra, le forme eterne, essenze che è assolutamente impossibile vedere
perché radicalmente distinte da ciò che è corporeo. Per conoscerle occorre
un'intelligenza, anch'essa eterna e che non ha nulla in comune con ciò
che è corporalmente visibile. In linea di principio lo stesso può dirsi di
Aristotele: per lui il pensiero dell'uomo è collegato al motore immoto che
è if pensiero nel senso più alto.
Le conseguenze di queste teorie sulla concezione dell'uomo sono
evidenti: L'uomo nel suo insieme si divide in due parti; da un lato la parte
che si riferisce a dio, all'essere e alla verità eterna; dall'altro la parte che si
serve del corpo come di strumento per l'azione e il cui compito consiste
nel sostentamento del corpo medesimo. Verso la metà del IV secolo
questa contrapposizione si semplifica nella formula corrente fino ai nostri
giorni, secondo cui da un lato abbiamo lo spirito rivolto verso l'esiere
vero e immutabile, dall'altro i sensi rivolti al divenire e al gioco mutevole
dei fenomeni. Platone e Aristotele hanno spesso descritto in immagini
assai suggestive la condizione di servaggio dello spirito rinchiuso nel
carcere corporeo.
220 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA A NTICA

La riflessione filosofica non poteva certamente appagarsi di questa


scissione dell'uomo, gravida certo di conseguenze ma pur sempre discuti­
bile. Nel prossimo capitolo accenneremo ai tentativi fatti per chiarire i
rapporti tra pensiero e sensibilità. Qui dovevamo soltanto mostrare che se
l'uomo aveva la possibilità di trascendere l'hic et nunc fino a giungere alla
conoscenza del divino, bisognava necessariamente ammettere un'interna
scissione dell'uomo stesso in una parte divina e in un'altra terrena. La
morte diventa allora la liberazione dello spirito verso la piena conoscenza
della verità.
Bisogna infine affrontare un quarto gruppo di problemi essenziali.
L'uomo non sa sempre con sicurezza come decidersi all'azione. Gli si
possono presentare possibilità contrapposte. Non sappiamo quando si è
affermata l'idea - o, per meglio dire, quando si è espressa sul piano
letterario - che in casi siffatti s'ingaggia nell'uomo un conflitto tra forze
e parti dell'anima contrapposte, per ottenere la supremazia. A partire da
una certa epoca si aveva esperienza di questo conflitto che veniva descritto
come una « sommossa » nell'anima. Contro il principio superiore dell'in­
telligenza si rivolta un principio inferiore: il desiderio, la paura, la collera,
insomma tutto ciò che si chiama passione (1t<x9oç). Noi troviamo per la
prima volta questa psicologia pienamente sviluppata nelle tragedie di
Euripide, ma non sappiamo fino a quale epoca, a lui anteriore, essa risalga.
S'intende che in seguito non si tardò ad accostare l'intelligenza alla
conoscenza della verità e la passione alle mutevoli opinioni dei sensi. Si
fecero inoltre diverse classificazioni delle passioni. Platone, fondandosi su
riflessioni proprie, perviene a una tripartizione dell'anima in ragione,
coraggio e desiderio 3. Aristotele preferisce una soluzione più semplice,
distinguendo soltanto la parte razionale da quella irrazionale 4. La Stoa,
dal canto suo, solleva un problema che già era stato posto dalla Socratica:
se ammettiamo che l'intelligenza è la parte superiore dell'anima e la
passione la parte inferiore, com'è possibile dal punto di vista teleologico
che ciò che è superiore sia vinto da ciò che è inferiore? Un siffatto
disordine dentro l'uomo sembra alla Stoa inconcepibile. Per tale motivo
essa preferisce considerare la ragione come l'essenza esclusiva dell'anima e
le passioni come stati patologici della medesima 5. Ma di ciò parleremo
ancora più avanti.
Se consideriamo nell'insieme i quattro gruppi di problemi esaminati,
appare subito che il primo gruppo si contrappone agli altri tre in un

3 Si vedano in panicolare i libri II-IV della Repubblica.


4 ARIST. Eth. Nic. I 1098 a 3-5; VI 1 139 a 3-17.
5 SVFI 205-207.
'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 221

punto decisivo. Se l'anima è il prinCipiO vitale, essa è essenzialmente


unita al corpo al quale dà la vita; la cosa importante è dunque l'adempi­
mento di questo suo compito nei confronti del corpo. Quel che essa
possa essere oltre a ciò e se possa esistere al di fuori di questa funzione,
resta un questione secondaria. Ma negli altri tre gruppi di problemi
l'anima è concepita in modo del tutto diverso. Essa è, in rapporto al
corpo, un'essenza di ordine superiore: o continua, dopo la morte, a esser
sempre responsabile delle azioni buone o cattive, oppure è il solo organo
che permette all'uomo di conoscere le cose eterne; o infine, per la sua
essenziale diversità dal corpo, essa è il luogo dove le forze psichiche
superiori e inferiori collaborano o confliggono. In tutti questi casi l'a­
nima assolve a compiti che nulla hanno a che vedere col corpo.
Appaiono subito evidenti le difficoltà che emergono da tali teorie.
Della prima abbiamo già detto. Che cosa, dell'anima, è propria­
mente immortale? Se ci riferiamo a ciò che sappiamo delle realtà eterne,
immortale è solo un pensiero che resta in sé stesso immutabile ed
identico, come l'essere al quale è affine. Ma se ci riferiamo alla felicità o
infelicità che l'anima ottiene dopo la morte come compimento di ciò
che ha cominciato nella sua esistenza terrena, allora è evidente che essa,
nella sua vita dell'aldilà, deve conservare una parziale capacità di sentire
e di soffrire e quindi, in definitiva, una parziale mutevolezza. Ora, una
siffatta conclusione è difficilmente compatibile con l'immortalità del
puro pensIero.
Secondariamente se l'anima, nei confronti di un corpo corruttibile,
è immortale, non v'è dubbio che una siffatta concezione, anche se di
innegabile efficacia edificante ed entusiasmante, sul piano filosofico dà
luogo a non poche confusioni. Se l'anima deve abitare nel corpo come
in un carcere, ciò significa che l'unità di corpo e anima è qualcosa di
forzato, di accidentale, di innaturale. Quanto all'azione combinata di
corpo e anima quale si mostra nell'ambito delle percezioni sensoriali,
essa o rimane incomprensibile o bisogna darne una diversa interpreta­
zione, così come del resto è più volte avvenuto nel Platonismo. E anche
chi rifiuta le fantasie dei Pitagorici sulla trasmigrazione delle anime,
dovrà in tal caso riconoscere che il loro principio è giusto: infatti se
l'unione dell'anima col corpo è contro natura, poco importa se l'anima
immortale è incatenata al corpo di un uomo o a quello di un cane.
In terzo luogo resta da chiarire il vero e proprio enigma della
discesa dell'anima immortale nella prigione corporea. Sembra difficile
ammettere che ciò avvenga per sua libera scelta, oppure bisogna accet­
tare la spiegazione che, per quanto ne sappiamo, è stata elaborata nel
tardo ellenismo: come il demiurgo governa il mondo fisico, perché
rientra nella sua natura l'azione in vista del bene, così l'anima umana
222 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

entra nel corpo per imitare dio, governando per la sua parte le cose
terrene. Una siffatta concezione che stabilisce un'analogia tra l'agire
umano e quello divino, non è antica. In epoca anteriore si riscontra una
sola spiegazione: l'anima è stata esiliata nel corpo per espiare una colpa.
Ma resta oscuro l'ultimo punto: come cioè un'anima che vive nella
beatitudine degli dèi, ossia in una condizione a lei conforme, possa
diventare colpevole. Problema, questo, che né Platone né i Platonici sono
riusciti a risolvere, proprio perché esso non ammette soluzione. Trove­
remo molto più avanti un'altra specie di analogia, in riferimento alla
dottrina dello stato. Se - come fa chiaramente Platone - si descrive il
mutamento delle forme politiche come un processo conéreto che va dal
perfetto all'imperfetto, com'è possibile che lo stato perfetto e dunque
felice arrivi da sé stesso alla decadenza? Là dove si deve supporre una
debolezza o una tendenza allo scadimento, ciò implica una carenza di
perfezione.
Non c'è da meravigliarsi allora che si sia sempre manifestata l'oppo­
sta tendenza ad unire il più possibile l'anima al corpo. Essa poteva
richiamarsi a ogni sorta di dati di fatto incontestabili.
Anzitutto ci si richiama, come si è già notato, alla fisiologia degli
organi di senso, nei quali si distingue una componente psichica e una
fisica. Queste componenti sfociano nel dominio dello psichico, ma è
chiaro che esse sono assegnate a d�terminati organi corporei. Fin da
Democrito il loro numero è stabilito in cinque. Successivamente si sono
raggruppati in modi diversi. Nella platonica filosofia della natura, il senso
« superiore » e 1'« inferiore » , ossia la vista e il tatto, hanno una posizione
privilegiata, giacché la corporeità è primariamente costituita dalla pre­
senza dei caratteri della visibilità e della tangibilità. In Aristotele troviamo
una ripartizione molto vicina alla precedente la quale, rifacendosi all'an­
tico, pone in primo piano una gerarchia in cui si distinguono nettamente
tre organi di senso superiori dai due inferiori (gusto e tatto). I due organi
inferiori infatti funzionano nell'uomo, in principio, esattamente come
nell'animale. Viceversa, solo i tre organi superiori sono finalizzati a un
piacere puro e perfetto. Ma tutti sono localizzati nel corpo. È naturale che
il Platonismo si sia posto il problema se gli organi fisici siano assoluta­
mente indispensabili alla genesi della percezione sensoriale; e talvolta si
ammette che gli organi funzionano soltanto da canali o « finestre » , men­
tre in realtà è l'anima che vede, sente e cosÌ via. Ciò lascerebbe pensare
che l'anima, per quanto concerne le percezioni, non è interamente desti­
nata ad assistere il corpo. Tuttavia questa teoria difficilmente poteva
essere sostenuta di fronte alle apparenze.
Più complessi ma anche più convincenti sono quei fatti che sembrano
provare che un notevole numero di impulsi specificamente psichici agi-
'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 223

scono direttamente sul corpo. Ira, paura, amore, tristezza si leggono


facilmente nell'espressione del volto e si manifestano con sintomi fisici
inconfondibili: pallore, rossore, sensazione di caldo e di freddo, batti­
cuore, etc. Il Peripato aristotelico ha studiato questi fenomeni per dimo­
strare cosÌ che l'anima, in quanto sede di tali affezioni e sentimenti, è
indissolubilmente legata al corpo. Solo che qui non è preso in considera­
zione il puro pensiero la cui attività si esercita senza il concorso del
corpo. Ma si arriva molto lontano se si ammette, ad esempio, che
l'anima capace di sentire paura non può essere separata dal corpo. E in
effetti, se è cosÌ, si può dire propriamente che anche la virtù del
coraggio, che si contrappone alla paura, è legata alla corporeità; e cosÌ
anche il dominio di sé e altre virtù. Ma questa è già dottrina aristotelica,
non platonica.
Abbiamo infine il fenomeno dell'animazione (Belebtheit) in generale.
Se la funzione principale dell'anima umana è quella di vivificare il corpo
umano, allora non solo il corpo è predisposto a ricevere l'anima, ma
evidentemente anche l'anima è formata per adempiere il suo compito
specifico. E che succede quando l'anima non è più in grado di compiere
la sua funzione, ossia quando il corpo viene a mancare? Se non c'è più
nulla, che cosa dovrebbe vivificare l'anima? Che senso avrebbe, a questo
punto, una sopravvivenza dell'anima stessa? 'Il problema è evidente.
Aristotele ne ha tratto la conseguenza - anche per questo motivo - che
l'immortalità è strettamente limitata al pensiero, il cui compito non è
l'animazione ma la conoscenza: e questa conoscenza è la vita nel senso
più alto e proprio del termine.
Per Epicuro - che per il resto si allontana considerevolmente da
Aristotele - l'anima, come il corpo, è costituita di atomi e con la morte
si dissolve come quello. Per la Stoa l'anima è ugualmente « corporea » ,
nel significato particolare che questa parola possiede presso gli Stoici.
Essa vivifica il corpo ma non è, in senso stretto, immortale. Immortale è
invece, nella dottrina stoica, esclusivamente il dio supremo, identico alla
ragione che governa il mondo, al « pneuma » creatore di vita e soprat­
tutto al fuoco dal quale periodicamente l'universo deriva per poi ritor­
narvi. Le anime dei sapienti sopravvivono fino al momento in CUI
l'intero universo si trasforma di nuovo in fuoco divino.
Per concludere, accenniamo ancora a due problemi particolari dei
quali la filosofia antica si è molto occupata. Uno è il problema dell'in­
terna divisione dell'anima. Abbiamo già ricordato una divisione fonda­
mentale che separa il pensiero o la ragione dal resto. Questa divisione in
due parti può avere evidentemente diversi significati. Essa può separare
la sfera della riflessione da quella dell'affettività, oppure la conoscenza
pura dall'attività pratica. La divisione compiuta da Aristotele è caratteri-
224 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

stica. Egli distingue, entro la parte razionale dell'anima, la ragione


teoretica da quella pratica - dove la prima, sotto un altro riguardo, è
identica al puro pensiero -; e dentro la parte irrazionale, quella che è
capace di seguire la ragione - e dunque l'affettività che può esser
guidata dalla ragione pratica - e quella che non ne è capace.
Platone fa un'altra divisione. In alcune celebri pagine egli ha stabi­
lito un'analogia fra la struttura di uno stato perfetto e quella dell'anima.
Ambedue hanno tre parti: al reggitore dello stato corrisponde la ragione,
al suo difensore il coraggio e infine al suo nutritore il desiderio. Questa
divisione dal punto di vista psicologico sembra alquanto forzata. Gli
stessi Platonici hanno talvolta unificato le due parti inferiori, giungendo
così alla semplice divisione in due di ragione (À6jOç) e passione (&ÀOjov).
Tuttavia la grandezza del nome di Platone ha fatto sì che si conservasse
sino alla fine dell'antichità la divisione tripartita.
Lo stesso Aristotele conosce anche una seconda divisione che non
parte dall'uomo, come la prima che abbiamo sopra descritta, ma dall'a­
nima intesa come principio di vita nel senso più largo. Egli giunge così a
distinguere cinque parti: l'anima che nutre, che desidera, che percepisce;
e poi quella che guida il moto locale, e infine quella che pensa. La pianta
possiede solo la parte inferiore, mentre nell'animale si aggiungono altre
tre parti ancora, infine l'uomo le possiede tutte e cinque.
Sembra che gli Stoici abbiano preso da Aristotele lo spunto per una
divisione analoga ed anche più articolata. Crisippo arriva a distinguere
fino a otto parti dell'anima: ciascuna di esse corrisponde alle cinque
percezioni sensoriali; le altre alla voce e al seme; infine, al di sopra di
tutte, egli pone la parte « dominante » (<< Egemonico ») 6 . Posidonio in­
fine, unificando alla sua particolare maniera elementi stoici e aristotelici,
giunge ad ammettere ben diciassette parti dell'anima.
Epicuro resta fermo a quattro: una rappresenta la forza vitale (il
caldo), due governano il moto locale (aria e pneuma) e la quarta - che
non ha nome, come il quinto elemento di Aristotele - è il principio
della percezione e, con ciò, della conoscenza 7.
L'ultimo problema riguarda il luogo occupato dall'anima nel corpo
umano. Per chi crede nella natura incorporea dell'anima, il problema è
in certo modo capzioso, giacché l'essenza dell'incorporeo è di essere
inafferrabile in generale e di non esistere in alcun luogo. Tuttavia
nessuna delle grandi scuole filosofiche ha tralasciato di esprimere il
proprio punto di vista in proposito, fondandosi su argomenti sia empi-

o 6 SVF II 827-828.
7 LUCR. De rer. nato III 94-4 16.
'
LA DOTTRINA DELL ANIMA 225

rici che speculativi. Lo stesso Platone ha voluto collocare la ragione nella


testa, il coraggio nella regione cardiaca e il desiderio nel basso ventre. Di
Aristotele, sorprendentemente, non possediamo alcuna espressa dichiara­
zione su questo punto. Si può supporre che egli concentrasse l'anima
essenzialmente nella testa e nel cuore. La stessa teoria è attribuita - non
sappiamo da chi - a Pitagora. Un tardo peripatetico, Stratone, ha
cercato la sede della ragione nella fronte, tra i due sopracciglio
Epicuro colloca la funzione percettiva nel petto, mentre distribuisce
le altre parti dell'anima in tutto il corpo. Per gli Stoici il cuore è il
centro dell'elemento psichico. A dimostrazione di ciò essi hanno ad­
dotto una gran quantità di argomenti di vario genere, dalle osservazioni
di carattere fisiologico alle citazioni da Omero. Più tardi Posidonio
considererà, in modo analogo, il sole come il centro e il cuore dell' orga-
msmo cosmlCO.
. .

Empedocle infine ha considerato il sangue che circola attorno al


cuore come la sede del pensiero. Questa tesi suscitò, nel suo tempo,
grande interesse e si riscontra fin nella tarda antichità nelle compilazioni
stoiche di problemi filosofici.
CAPITOLO SESTO

La dottrina della conoscenza

Q UESTO capitolo risulta ovviamente di particolare interesse dal punto di


vista della filosofia odierna. Infatti, da Kant in poi, la teoria della
conoscenza occupa in essa un posto centrale e preminente. Il pensiero
attuale parte dal principio secondo cui ogni oggetto che conosco è
oggetto per me.
. È da escludere che la mia facoltà conoscitiva sia in partenza costi­
tuita in modo da conoscere gli oggetti come realmente sono. L'atto del
conoscere deve essere concepito come una presa di possesso che, attra­
verso la nostra apprensione, modifica l'oggetto, e il problema che allora
si pone è solo quello di sapere di che tipo sia questa modificazione.
Questa specie di risoluzione del conoscere nel fare, di riduzione
dell'oggetto alla sua apprensione e della teoria alla prassi, è del tutto
estranea al pensiero antico, al quale una siffatta problematica sarebbe
parsa assurda. L'antichità pone in tutt'altro modo questi problemi. In
generale possiamo distinguere tre fondamentali prospettive problemati­
che.
Il primo problema, al quale si è già avuto modo di accennare, è
quello che possiamo chiamare della « competenza ». Poiché la filosofia si
occupa di oggetti che trascendono i limiti dati all'esperienza umana e su
questi formula giudizi che pretendono di essere sicuramente veri, si pone
il problema di sapere donde le derivi una tale competenza. Qual è
l'organo che le consente di formulare questi giudizi ed enunciazioni? E
come spiegare il fatto che alcuni uomini, i filosofi per l'appunto, sanno
servirsi di quest'organo, mentre gli uomini comuni non sembrano posse­
derlo o non lo posseggono che in maniera del tutto insufficiente?
In secondo luogo, i filosofi discutono di fenomeni per i quali il
normale processo della conoscenza e della percezione appare inadeguato.
Si tratta di fenomeni che, come tali, dovevano essere già noti da lungo
tempo e che costituirono oggetto d'indagine filosofica all'epoca dei
Presocratici. Riferendoci all'antichità, dobbiamo distinguerli in tre
gruppi. In primo luogo abbiamo gli stati nei quali la vita psichica non
funziona normalmente, come ad esempio il sonno coi suoi sogni - un
gran numero dei quali, ma non tutti, attraggono l'attenzione dei veg-
228 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

genti -; così anche lo stato d'ubriachezza - su cui, a partire da


Aristotele, è sorta un'abbondante letteratmra - e infine la follia e tutti i
casi di allucinazione.
In secondo luogo abbiamo le illusioni dei sensi, sempre frequenti: il
remo immerso nell'acqua e che sembra spezzato, una torre quadrata che
a grande distanza sembra cilindrica; quando - stando sulla riva -
vediamo passare una nave, crediamo che essa sia immobile e che noi
invece ci muoviamo, e così via. Sono fenomeni che per secoli nell'anti­
chità sono stati continuamente studiati.
Esiste infine un terzo gruppo, molto particolare, di fenomeni che si
ricavano dal materiale delle osservazioni empiriche dei medici e che per
questa sola ragione sono degni della nostra attenzione. Esistono malattie
nel corso delle quali le impressioni sensoriali sono alterate, senza che gli
organi di senso subiscano essi stessi una lesione visibile. Tale è, ad
esempio, il daltonismo. L'antichità ha spesso parlato di malattie durante
le quali il miele ha un sapore non più dolce ma amaro, e così di seguito.
I Greci che, in queste cose, amavano presto generalizzare e che pertanto
erano sempre alla ricerca delle analogie, hanno notato che certe categorie
di percezioni sono soggette a straordinarie oscillazioni, oltrepassanti di
gran lunga i limiti normali: quel che, ad esempio, è di gusto gradevole
per uno, è ripugnante per un altro; ciò che ad uno sembra scottante al
tatto, sembra invece tiepido ad un altro. Giungiamo così a una relativiz­
zazione dei dati sensoriali che può essere facilmente estesa all'infinito.
Il terzo gruppo di problemi si riferisce fondamentalmente al mecca­
nismo del pensiero e della percezione. Come funziona la vista? Come si
realizza il pensiero e, soprattutto, come può l'uomo conservare in sé
quel che ha pensato e portare così in sé stesso una sorta di riduzione
dell'intero universo? Questi problemi - che naturalmente interessano in
parte la medicina - seppur vengono affrontati relativamente tardi, por­
tano poi rapidamente a straordinarie complicazioni.
Cerchiamo ora di vedere un po' lo sviluppo storico di questi
problemi.
In cima sta il problema della « competenza ». Già si è detto come
esso. era stato risolto sul piano prefilosofico: con l'invenzione della
divinità. Degna d'attenzione è una particolare concezione che si trova
già alle soglie della filosofia: i fenomeni celesti, così remoti da noi, si
possono spiegare mettendoli a raffronto coi fatti usuali. Così il fracasso
del tuono si produce nelle stesse condizioni in cui scoppia un'otre piena
d'aria. Pare che Talete abbia spiegato i terremoti paragonando il disco
terrestre a una nave che oscilla sulle onde, etc. Non si può disconoscere
che questo metodo è molto vicino alla similitudine omerica il cui
significato, tra l'altro, consiste nell'avvicinare i fatti delle grandi e re-
LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA 229

mote età eroiche ad avvenimenti semplici e familiari. Questo procedi­


mento è ancora particolarmente avvertibile nelle similitudini di Empedo­
cle, anche se in lui si avverte altresÌ lo sforzo autenticamente filosofico
di accostare tra loro due fatti in linea di massima analoghi e cosÌ
illuminare l'uno per mezzo dell'altro.
Il problema vero e proprio della conoscenza sorge con Parmenide.
Egli pone un essere che sta al di là di ogni possibile esperienza, al quale
è collegato il pensiero, mentre il non essere si fonda sui sensi della vista,
dell'udito e sul linguaggio degli uomini. CosÌ l'opposizione tra cono­
scenza intellegibile e percezione sensoriale si può dire quasi raggiunta ma
non ancora pienamente realizzata.
Anassagora considera l'intelligenza guida del cosmo come del­
l'uomo, anche se non appare chiaro quale sfera di realtà egli concreta­
mente le attribuisca. Egli parla di percezioni sensoriali - che avvengono
sempre accompagnate dal dolore, in quanto questo nasce dai contrari.: il
caldo che è in noi sente il freddo dell'oggetto, il dolce sente l'amaro, e
cOSI via - ma Anassagora non ci fa sapere in quali rapporti esse stiano
con l'attività del pensiero.
Democrito se da un lato combatte la dottrina anassagorea dell'intel­
ligenza, dall'altro costruisce una teoria della conoscenza interessante
nella sua semplicità. Le particelle d'essere (atomi) di cui - a suo avviso
- è costituito l'universo, non sono percepibili dagli organi di senso. Per
conoscerli occorre una forma di conoscenza « piu sottile " , della quale
tuttavia non conosciamo il nome impostole da Democrito: certo non si
tratta della nozione di pensiero. Inoltre gli atomi, pur essendo di natura
corporea, posseggono tuttavia solo alcune qualità proprie del senso tat­
tile (durezza, scabrosità o levigatezza, configurazione geometrica). Vice­
versa, coi quattro sensi superiori la percezione non può cogliere l'essere,
ma rimane nell'ambito del contingente e dell'infinitamente mutevole.
Tutti i giudizi fondati sui sensi della vista, dell'udito, dell'odorato e del
gusto non oltrepassano i limiti della mera opinione. A sostegno di
questa tesi hanno apportato un notevole contributo i fatti dell'esperienza
psicologica come quelli da noi già ricordati.
Ma qual è, in particolare, la concezione che i Presocratici hanno del
fatto conoscitivo? Sembra che, a partire da Parmenide, un principio sia
comune a tutti: la conoscenza, come la percezione, si fonda su un
rapporto di somiglianza o di opposizione tra soggetto conoscente e
oggetto conosciuto. In Parmenide questo principio si esprime con su­
blime semplicità: nel dominio della verità il pensiero conosce l'essere,
perché esso medesimo è essere; in quello dell'opinione noi siamo in
presenza di un cosmo costituito da una mescolanza di luce e tenebre;
perciò l'organo del nostro opinare risulta anch'esso di una mescolanza di
230 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

luce e tenebre e l'opinione del singolo si forma secondo i diversi modi di


mescolanza.
In Empedocle il principio si sviluppa ulteriormente. Noi conosciamo
i quattro elementi, come anche l'amore e la discordia, perché essi sono in
noi stessi. La conoscenza è un contatto dell'uguale con l'uguale. Tuttavia
Empedocle fu il primo - per quanto ce ne riferisce Aristotele - ad
affrontare un problema piu complesso: la nostra conoscenza non si riferi­
sce soltanto all' elemento materiale e alle particelle elementari di cui
'
risultano costituiti gli oggetti, ma alla loro struttura formale che Empedo­
cle fa derivare dalle differenti proporzioni in cui di volta in volta i singoli
elementi si mescolano tra loro. Bisogna dunque che questi rapporti, ossia
le proporzioni matematiche delle mescolanze, siano conoscibili all'uomo
perché egli possa percepire l'oggetto come un tutto.
Una teoria piu sviluppata, originale e destinata a esercitare notevole
influenza si trova in Democrito. Anzitutto egli distingue, come già ab­
biamo notato, ciò che è reale da ciò che è soltanto pensato. Le particelle
d'essere, gli atomi, sono accessibili esclusivamente alla percezione « piu
sottile » . I cinque organi d i senso ordinari restano limitati a ciò che è
indefinitamente variabile e relativo: colori, suoni, odori, etc. Ma questo è
solo un aspetto del problema. Per quanto riguarda l'altro aspetto, ossia la
conoscenza delle forme, Democrito risponde affermando che da tutti gli
oggetti si distaccano continuamente delle immagini ridotte. Questi « si­
mulacri » (ElowÀOt) sottili e impalpabili percorrono velocemente qualsiasi
distanza e penetrano nei meati degli organi di senso, producendo COSt la
percezione dell'oggetto. Naturalmente questa teoria introduce tutta una
serie di problemi nuovi, che l'atomismo di Democrito e di Epicuro ha
trattato in modo approfondito. Come possono questi simulacri staccarsi
ininterrottamente dagli oggetti senza che questi, a poco a poco, non
finiscano per consumarsi? E come possono ancora attraversare veloce­
mente l'aria senza esserne distrutti o almeno perturbati? Certo, si può
sempre ammettere che essi subiscano delle perturbazioni, il che spieghe­
rebbe le illusioni dei sensi. Ma come è possibile rappresentarsi concreta­
mente l'ingresso di questi simulacri nel corpo umano?
Se questa teoria, nel suo insieme, dà l'impressione di una certa
rozzezza, essa tuttavia ha il vantaggio di impostare il problema della
conoscenza nella maniera piu perspicua.
Un importante contributo è quello apportato dalla Sofistica e, in
particolar�" da Gorgia e da Protagora.
Il singolare scritto di Gorgia Sul non essere 1 non è soltanto l'opera del

1 D-K 82 B 3 .
LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA 231

pensiero sofistico che noi meglio conosciamo, dato che ne possediamo


due ampi estratti, ma è anche quella che ci permette, malgrado la sua
eccessiva sottigliezza, di farci un'idea adeguata della problematica del
tempo. La prima parte di essa, in cui si dimostra la tesi che nulla è, può
essere lasciata da parte. La seconda parte intende dimostrare che, se pur
qualcosa fosse, non potrebbe esser pensato. Infatti: 1. Se tutto ciò che è
pensato fosse, esso dovrebbe esistere nella realtà. Ma ciò non si dà: infatti,
se si immagina che un uomo vola o che un carro naviga sul mare, non ne
deriva che ciò realmente accade. Dunque ciò che si pensa non è. 2. Se ciò
che si pensa fosse, il non essere non potrebbe pensarsi. Ma ciò non si dà:
infatti noi pensiamo Scilla, la Chimera e altri esseri immaginari, che
tuttavia non esistono.
La terza parte dell'opera vuole infine dimostrare che, seppure qual­
cosa esistesse e fosse accessibile al pensiero, non sarebbe tuttavia comuni­
cabile ad altri.
Per dimostrare questa tesi, Gorgia parte dal principio che i vari
organi di senso non possono né giudicarsi, né integrarsi, né sostituirsi a
vicenda. Pertanto non si puo esprimere con una parola ciò che viene
sentito dall'olfatto, né si puo intendere per mezzo di una parola - cioè di
un suono - un oggetto che cade entro il dominio dell'occhio. E ancor
piu acute sono le considerazioni ulteriori. Primo: anche se ciò che si
conosce si potesse esprimere, chi ascolta non intenderebbe la stessa cosa di
colui che parla, altrimenti ciò che è uno - la parola detta - diverrebbe
due (in colui che parla e in colui che ascolta). Il che è impossibile.
Secondo: anche se la stessa parola e la stessa enunciazione potessero
esistere in piu persone, esse non potrebbero significare una sola e mede­
sima cosa per i molti individui che sono l'uno diverso dall'altro. Infatti, se
due individui concepissero la stessa cosa allo stesso modo, anch'essi sareb­
bero tra loro identici.
Inoltre è chiaro, come Gorgia rileva nella sua conclusione, che le
percezioni in un singolo individuo non sono né omogenee né costanti:
con gli occhi si avverte una cosa, con le orecchie un'altra; oggi in un
modo, domani in un altro. Ora, è piu che mai inverosimile che un altro
. individuo possa avere esattamente le stesse percezioni ch� ho io.
È sorprendente constatare con quale autentico, mirabile rigore Gor­
gia formuli problemi la cui importanza è attuale fino ai nostri giorni.
Le ultime considerazioni di Gorgia si possono collegare a quelle di
Protagora. La tesi fondamentale di questo sofista prende le mosse - per
quanto ne sappiamo - da esperienze di ordine fisiologico 2: dolce-amaro,

2 D-K 80 A 21 a, 23; B 1.
232 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

freddo-caldo e simili sono sensazioni che non solo variano da uomo a


uomo, ma anche, nello stesso uomo, da un giorno all'altro. È dunque
impossibile affermare che una sensazione sia piu giusta di un'altra; cia­
scuna di esse ha ragione nella situazione sua propria e per l'uomo che la
prova e per tutto il tempo che la prova. Di qui la fo'rmula che Platone
iptendeva come manifesto programmatico di Protagora e che, dopo di lui,
è stata riportata isolatamente dal suo contesto, ragione per cui si sono
potute avanzare le piu disparate interpretazioni: « L'uomo è misura di
tutte le cose; di quelle che sono, in quanto e come sono; di quelle che non
sono, in quanto e come non sono » . L'uomo è il singolo che è il solo a
sapere di sé medesimo, a ogni istante, ciò che percepisce e ciò che non
percepisce e che non dispone di alcun criterio che gli consenta di conte­
stare la verità di ogni sua percezione.
A queste considerazioni della Sofistica si collega infine direttamente
un ramo della Socratica, rappresentato dalla dottrina di Aristippo di
Cireneo Questi afferma recisamente che l'uomo può avvertire soltanto i
suoi stati interni, ma che egli non sa da quali oggetti o condizioni esterne
essi vengano provocati 3: Il mondo esterno, nella sua mutevolezza, gli
sfugge. Certo è soltanto l'interno sentire e soprattutto quello del piacere e
del dolore.
Si potrebbe affermare che una siffatta teoria mostri delle affinità con
alcune moderne problematiche speculative. Tuttavia bisogna sempre ri­
cordare che le enunciazioni astratte sono assai meno importanti delle
vedute d'insieme donde una teoria trae origine e in cui essa trova la sua
collocazione. Un confronto al riguardo tra il pensiero dell' antichità e
quello che deriva dalla tradizione kantiana - dalla quale non si possono
eliminare le influenze del pensiero della Riforma - non è proponibile.
Dopo viene Platone nel quale - come in tutti i filosofi dell'Eleati­
smo - la dottrina della conoscenza è sempre strettamente legata all'onto­
logia. Per Platone esiste una contrapposizione radicale tra il pensiero,
rivolto all'essere eterno, immutabile, sempre uguale a s� stesso e le perce­
zioni sensoriali che si riferiscono a qualcosa che sempre trascorre e
diviene. Qui non possiamo ovviamente esporre come Platone identifica
anzitutto il concetto di « bene » con quello parmenideo di « essere », e fa
cOSI del bene l'oggetto di una scienza, della piu alta e vera scienza; né
come gradualmente l'accento passa dal bene - che possiede l'eternità,
l'unità e l'immutabilità dell'essere, ma in maniera ancora piu perfetta di
quest'ultimo - all'essere del quale il bene è una forma, la piu alta forma.

3 Fr. I B 1 Giannantoni.
LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA 233

L'essere si dispiega nel regno delle forme pnme, le idee. Al cosmo


sensibile sta di fronte il cosmo intellegibile.
Dal punto di vista gnoseologico ciò significa che oggetto della cono­
scenza scientifica e della comunicazione può essere soltanto ciò che è
durevole e identico a sé stesso, giammai il sempre mutevole individuo.
Platone è stato il primo a chiarire pienamente questo principio la cui
validità, ben inteso, è rimasta intatta fino ai nostri giorni. Solo che oggi
noi parliamo di leggi di natura, di fatti che si ripetono, mentre Platone
pensava alle forme paradigmatiche, raccolte in un cosmo, la cui maniera
d'essere è paragonabile a quella dell'essere cosmico di Parmenide: accessi­
bile al solo pensiero, ma indubbiamente oggettivo.
Da questo cosmo intellegibile dipende quello sensibile. Noi compren­
diamo che un fatto della storia è giusto in quanto partecipa della « giusti­
zia in sé », realmente vera, che esso cerca d'imitare. Noi possiamo stabi­
lire che questo o quell'oggetto è un albero, perché esso partecipa allo
stesso modo della forma prima, dell'« idea » di albero; nessun albero
sensibile incorpora totalmente in sé questa forma prima, ma ogni albero è
in rapporto con essa e tale è chiamato in virtù di questa relazione.
Quando parliamo scientificamente dell'albero, noi ci riferiamo a questa
forma prima. Infatti non si dà scienza degli alberi sensibili, dei quali l'uno
non è mai interamente uguale all'altro, né ciascuno resta uguale a sé stesso
e che nessun individuo può percepire all'identica maniera di un altro.
Naturalmente questa « dottrina delle idee » - per servirci di un'e­
spressione corrente che tuttavia lo stesso Platone adopera solo rare volte
- implica tutta una serie di difficili problemi. Ne ricordiamo qui solo tre.
Primo: quali sono le relazioni di fatto tra il mondo sensibile e quello
ideale? È, quest'ultimo, il modello al quale si è attenuto l'Artefice del
mondo? Quale posto occupa allora, dal punto di vista gerarchico, il
modello nei confronti dell'Artefice del mondo? E se, in altre parole, le
cose sensibili « partecipano » delle idee e sono quel che sono grazie alla
« presenza » di quelle, cosa vogliono dire esattamente queste espressioni?

Secondo: se paradigma di tutte le idee è l'idea del Bene uno ed eterno,


in sé sussistente, si danno allora solo idee di cose che in qualche senso
sono « buone », cosicché il male, il nocivo, l'inutile e il brutto sarebbero
conosciuti sensibilmente senza che ci si riferisca a un'idea? Al che si
aggiunge un problema particolarmente imbarazzante, che riguarda i pro­
dotti dell'abilità e dell'arte umane. Esiste l'idea di un vaso o di un tavolo?
Questo problema ha dato molto filo da torcere a Platone e all'antica
Accademia.
Terzo: quante sono le idee e quali sono i loro rapporti reciproci? A
prima vista sembra che esse debbano essere infinite di numero, il che non
è esente da difficoltà. E se c'è un'idea della quercia, del cipresso, dell'al-
234 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

loro, dell'albero e della pianta, queste idee devono stare tra loro in un
rapporto determinato; il che, di nuovo, non è facile da capire.
Tutti questi problemi, se considerati piu da vicino, si rivelano assai
difficili. Il pensiero, originariamente semplice, di Platone che al di là di
tutto ciò che è mutevole, esiste una realtà immutabile e eterna alla quale
devono riferirsi la conoscenza e l'azione, rischia ben presto di essere
sottoposto a un'eccessiva esigenza sistematica e di disperdersi alla fine in
una quantità di sottigliezze. Si comprende perciò come l'ellenismo non
abbia potuto gran che utilizzare la dottrina delle idee. Ciò che di essa
rimase fu il principio teorico di ordine gnoseologico secondo il quale
scienza è possibile solo dell'universale e di ciò che è sempre identico a sé
stesso. Ma già Aristotele aveva cercato quest'universale non piu in un
mondo di paradigmi in sé sussistente, ma nel mondo degli oggetti sensi­
bili. Per lui l'universale è l'essenza su cui si fonda ogni essere concreto, il
quale tende a realizzarla per quanto gli è possibile. L'idea trascendente si
trasforma nella « vera natura » di ciascun individuo.
Ciò viene anche a significare che per Aristotele non si dà alcun
contrasto sostanziale tra la percezione sensoriale fluttuante e priva di
valore conoscitivo e la conoscenza dell'essere. Qui possiamo solamente
accennare ai punti fondamentali della sua dottrina. In primo piano sta una
successione di gradi. Si comincia coi dati isolati delle percezioni sensoriali.
La somma di un certo numero di dati similari permette di costituire un
fatto d'esperienza. L'esperienza infine si chiarifica, divenendo sapere
scientifico quando, da una parte, si pone la domanda del perché e,
dall'altra, quella dell'essenza universale cui tendono i fenomeni sensibili.
Questo schema generalissimo comporta anch'esso una quantità di
problemi.
Anzitutto, le percezioni sensoriali vi assumono un'importanza pre­
ponderante: esse infatti ci comunicano il materiale dei dati, senza il quale,
di norma, non si può avere alcuna conoscenza. Aristotele in effetti si è
anche dedicato a ricerche minuziose sulla maniera in cui si producono i
fenomeni della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto e del tatto che qui
non possiamo esaminare piu da vicino.
L'esperienza (empeiria) è il grado prefilosofico del sapere. Essa regi­
stra soltanto fatti ed eventi che sempre si ripetono, senza porsi il pro­
blema della causa né determinare l'essenza che essi designano. Ciò tuttavia
non impedisce che nella vita pratica la conoscenz� empiri�a soddisfi
largamente e a volte sia anche piu utile dell'intelligenza filosofica la quale
non sempre riesce a farci agevolmente scorgere la via da seguire per agire
correttamente nelle circostanze concrete.
Indipendentemente da ciò, il problema dominante nella filosofia e
nella scienza della natura è quello del perché dei fatti, mentre nell'etica è
LA DOTTRINA DELLA CONOSCENZA 235

quello dei fatti stessi. Era certamente inevitabile che nella scuola peripa­
tetica il peso dei dati empirici diventasse sempre piti preponderante.
Quando infine si cominciò a trattare una quantità incalcolabile di feno­
meni zoologici, botanici ma anche sociali e politici, le ricerche si limita­
rono quasi inevitabilmente a registrare e ordinare fatti analoghi, senza
pretendere di studiarne le cause né l'essenza.
Ma il problema decisivo, dal punto di vista filosofico, resta sempre
quello dell'universale. Esso si diversifica in una serie di problemi partico­
lari, il primo dei quali è quello dell'essenza (O,)O"LO(, essentia) seguito da
quelli della qualità, quantità, etc. La dottrina classica del Peripato li ha
riassunti nello schema delle dieci categorie.
Come questo universale è contenuto nei singoli esseri concreti e
come, dall'altro lato, l'intelletto è capace di astrarlo dal particolare e di
dimostrare e descrivere le essenze immutabili? Sono, tutti questi, dei
problemi che neanche Aristotele è riuscito propriamente a risolvere;
similmente, la funzione dell'intelletto, nelle opere di Aristotele in nostro
possesso, è esposta con accenni in parte assai imprevedibili. Solo l'intel­
letto è eterno ed entra « dal di fuori » nel corpo umano. Il suo compito
è la conoscenza dell'universale, sia per mezzo della dimostrazione che di
una « visione » immediata dei principi primi evidenti per sé stessi. Esso è
il luogo dove si conservano le essenze, in quanto sapute e riconosciute;
ed esso è immortale. Tuttavia non si riesce a capire come tutto ciò si
connetta insieme.
Non possiamo qui parlare della tecnica della dimostrazione, propria
della logica aristotelica. Si tratta di una creazione particolarmènte gran­
diosa, ma in età ellenistica essa non svolse certamente un ruolo di
rilievo: allora infatti primeggiò li logica stoica che, a suo modo, non fu
meno importante, mentre in Aristotele si vide soprattutto il naturalista
enciclopedico e il moralista. Cionondimeno, nella filosofia della tarda
antichità la logica di Aristotele ebbe dominio incontrastato e tale rimase
sino alla fine del nostro Medioevo.
Su Epicuro non c'è molto da dire. Egli sviluppa ulteriormente la
dottrina di Democrito. Contro Platone, Epicuro difende, con la massima
veemenza, la tesi che le percezioni sensoriali sono l'unica fonte di tutto
il nostro sapere e che sono assolutamente veraci. Su questo punto egli si
è indubbiamente giovato della relativa riabilitazione delle percezioni
sensoriali compiuta da Aristotele. Epicuro ha preso le mosse dalla teoria
democritea dei « simulacri » che si distaccano ininterrottamente da tutti
gli oggetti. Ma poiché non si poteva negare la realtà delle illusioni dei
sensi, a lui non restava altra via che quella di far dipendere la certezza
dei dati sensibili da determinate condizioni, al fine di poter ridurre cOSI,
entro limiti accettabili dal punto di vista dell'esperienza, la radicalità
236 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

della tesi sostenuta. Per Epicuro i sensi ci danno la verità quando sono
sani e quando anche le altre circostanze esterne sono « normali » .
Infine la dottrina della Stoa si oppone sia al Platonismo che all'Epicu­
reismo. Anche per essa i dati sensoriali sono il primo e solo punto di
partenza per ogni sapere. Ma essa oltrepassa ben presto le percezioni
sensoriali per giungere alla « rappresentazione » (phantasia), ossia all'im­
magine percepita, accolta dalla coscienza. Questa immagine può essere
vera o falsa, ossia può corrispondere o meno alla prima impressione
sensoriale. Su ciò è la ragione a decidere, dando o rifiutando l'assenso alla
rappresentazione.
Se la ragione accetta la rappresentazione, si ha un giudizio vero. Dalla
somma di queste verità si costituisce l'esperienza, attraverso la quale la
ragione attinge i concetti universali che evidentemente non possono
essere considerati come essenze reali.
La ragione accetta una rappresentazione quando ha la certezza -
secondo che dice la salda formula di Zenone - che « la rappresentazione
proviene da un oggetto reale e si forma e s'imprime nell'anima in modo
adeguato all'oggetto, e cioè in modo tale che l'immagine non avrebbe
potuto formarsi se l'oggetto non esistesse o fosse diverso da come in
effetti è » 4.
Se si raggiunge questa certezza, la rappresentazione diventa « com­
prensiva », cioè una rappresentazione che viene mantenuta nella sua tota­
lità con incrollabile sicurezza. Il nostro termine moderno « compren­
dere », è la traduzione latina - comprehendere - del verbo x�'t�À�!L�cXVEt\I,
che è il termine tecnico proprio della Stoa.
La formula di Zenone presenta, a tutta prima, un carattere assai
complesso. Da una parte essa intende l'atto conoscitivo in un senso
assolutamente fisico, ossia come l'imprimersi di ciò che rappresenta gli
oggetti su una « tavoletta di cera » inizialmente vuota; dall'altra è innega­
bile l'influenza platonica: intellegibile è soltanto ciò che è reale e invaria­
bilmente identico a sé stesso. Si tratta di aspetti della dottrina delle idee
assunti in una curiosa metamorfosi.
Non ci si meraviglierà dunque di vedere l'Accademia dell'età elleni­
stica sollevare contro questa teoria difficoltà alla maniera di Platone,
spiegando che nel mondo sensibile non si danno assolutamente oggetti
siffatti immutabilmente identici a sé stessi. E in generale la dottrina stoica
della conoscenza è riuscita a imporsi solo su punti particolari. Il suo
aspetto ispirato alla fisiologia le conferiva un carattere troppo primitivo,
mentre il meccanismo della rappresentazione e dell'assenso veniva assu­
mendo, soprattutto in Crisippo, forme troppo artificiose.

4 SVF I 59-61.
CAPITOLO SETTIMO

Il fine dell' azione

L'ETICA filosofica, come già abbiamo avuto modo di spiegare, si distingue


dall' etica prefilosofica per la sua pretesa di intrinseca validità nei confronti
degli uomini e per il suo sforzo di organizzare attorno a un valore
centrale la molteplicità dei suoi precetti.
Come abbiamo altresì ricordato, le prime forme di determinazione
filosofica del fine morale si possoqo scorgere nei programmi educativi del
V secolo a.c. Gli scopi di quest'educazione sono: il « buon consiglio »
(eubulia), cioè la capacità di sapersi orientare nella vita pratica e di aver
successo; poi l'eupraxia, concetto questo che in quell'epoca comprendeva
sia la « prosperità » che la « buona condotta »; inoltre, la « vita virtuosa »
(euzoia) e « il prospero corso della vita » (eurhoia), e ancora « il buon
ordine » (eukosmia) e il « buon animo » (euthymia).
Particolare importanza riveste la nozione di eutychia, la quale signi­
fica che tutto nella vita concorre al nostro successo e che noi sappiamo
sfruttare la nostra buona fortuna. Essa è, in ultima analisi, la capacità che
ha l'uomo di conseguire il valore più alto, ridotta all'attenzione e alla
disponibilità con cui egli sa far fronte alle circostanze. Un significato
affine a questo possedeva in origine l'ultima nozione di questo gruppo,
quella di eudaimonia la quale significa che tutto dipende dal favore del
dèmone e che è dovere dell'uomo fare di tutto per guadagnarselo e
conservarselo.
L'eudaimonia - attraverso la notevolissima reintrerpretazione com­
piutane dalla Socratica che ne ha fondamentalmente e forzatamente tra­
sposto il significato originario - è poi diventata quel valore dal quale in
certo modo dipende tutta l'etica: infatti è il solo valore che tutti gli
uomini, senza distinzione alcuna, giudicano incontestabilmente il più alto.
Infine abbiamo anche sottolineato l'importanza fondamentale che
per la costituzione dell'etica filosofica ha la coppia dei concetti mezzo­
fine. A partire da Aristotele il valore supremo viene definito come il solo
vero fine in sé, che non è mai mezzo e in confronto al quale tutti gli altri
fini non sono che mezzi.
Le più antiche forme di etica specificamente filosofica sono l'etica del
« piacere » e quella della « volontà di potenza » ; nell'un caso come nell'al-
238 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

tro le traduzioni di tali termini hanno un valore solamente approssima­


tivo. Probabilmente i creatori di queste due forme di etica dovettero
essere « sofisti » della fine del V secolo, che noi ora non siamo in grado
d'identificare in maniera più precisa. Queste due forme di etica presen­
tano una commistione di tendenza al paradosso sfacciato con elementi
manifestamente tradizionali.
L'etica della volontà di potenza - in greco, all'incirca, 1tÀtoVtç\Qt -
è non soltanto espressione dell'ambizione smisurata che caratterizzò, in
tutti i tempi, i Greci, ma anche dell'assenza di sentimentalismo che a
volte manifestò lo stesso Socrate senofonteo: in guerra tutto spetta di
diritto al vincitore e il vinto perde per diritto tutto ciò che possedeva;
nella vita privata l'uomo dabbene fa di tutto per essere onorato dagli
amici e temuto dai nemici. E bisogna anche tenere nel giusto conto il
fascino provato sempre dai Greci al cospetto del potere del principe,
esercitato in modo autocratico.
Siffatte tendenze vengono colte dalla riflessione filosofica e sistema­
ticamente fondate e sviluppate fino alle estreme conseguenze. Dalla
storia si ricava la lezione che il più forte riesce sempre e ha sempre
ragione e che, dunque, è manifestamente il migliore. Come tale, egli ha
tutto il diritto di pensare soltanto al proprio interesse particolare e
all'accrescimento della sua potenza. Infatti, come si constata anche nel
regno animale, gli individui più deboli obbediscono senza discussione al
più forte l .
CosÌ esagerando, quest'etica cade nel paradosso di un egoismo senza
limiti che l'antica tradizione non aveva mai concepito, ' malgrado la
brutalità di certe sue isolate enunciazioni.
Nella sua forma estrema quest'etica non è andata mai oltre la fase
dei tentativi sperimentali. Praticamente essa era inattuabile e sul piano
teorico fu decisamente combattuta dalla maggior parte dei Socratici.
CosÌ in un frammento di dialogo pervenutoci, Socrate, discutendo con
un suo amico preso da un'indebita volontà di potenza, gli fa elegante­
mente notare, anche se con aria ingenua, che in caso di rivoluzione i
potenti devono per primi credere in essa, mentre la gente umile gode
della prospettiva più favorevole di poterne uscire illesa. « Anche nella
tragedia - egli soggiunge - solo i protagonisti di solito vengono uccisi.
E io non conosco nessun poeta tragico che sia stato cosÌ barbaro da far
massacrare tutti i componenti del coro » 2. Ma incomparabilmente più
gravido di conseguenze fu il ritratto del tiranno - dipinto in modo

l PLATo Gorgo 482 c 484 co


-

2 AELo Varo histo II 1 1 .


'
IL FINE DELL AZIONE 239

tanto accurato e raccapracciante - che ci hanno lasciato Platone, Seno­


fonte e altri scrittori. Più il tiranno è potente, più è esposto al pericolo e
più è costretto a esercitare durezza e continua vigilanza, per non essere
rovesciato da un momento all'altro. Egli non ha amici. Nessuno gli dà
consigli sinceri né gli dice la verità. E così egli non è solo il più scellerato,
ma anche il più infelice degli uomini. Questo ritratto ha esercitato la più
profonda influenza su una gran parte delle notizie pervenuteci sui principi
di Sicilia e di Macedonia, sui racconti relativi ai più antichi re di Roma e
sulle descrizioni degli imperatori romani.
Così non c'è da meravigliarsi se questo sistema di etica filosofica
crollò ben presto, e in età ellenistica - come sembra - sopravvisse in
certo modo solo nella forma di qualche isolata teorizzazione. Infatti si
trova a volte sostenuta la tesi che il sapiente, essendo un uomo perfetto,
ha il diritto di agire sempre a vantaggio della propria persona, poiché
sarebbe assurdo che egli si interessasse di altri uomini, che si adoperasse o
si sacrificasse addirittura per loro che sono di rango inferiore al suo. In
queste teorizzazioni sembra ancora sopravvivere in parte quell'egoismo
esasperato della volontà di potenza proprio della Sofistica.
Ben diverso è il caso dell'etica del piacere, la cui influenza è stata
notevolissima sino alla fine dell'antichità. Anch'essa ha trovato inizial­
mente un certo appoggio nella tradizione. Si pensi in primo luogo alla
poesia preclassica J - ma anche all'ideale di saggezza pratica - della Ionia,
che ha espresso in forme molteplici la predilezione per una serena vita di
piaceri, libera da ogni cura, remota dalla politica e dal fragore della guerra.
Ciondimeno quest'etica è, tutto sommato, rispetto alla precedente, ancor
più fortemente cont�assegnata dal paradosso. Infatti l'etica del piacere
proclama - in qualunque modo s'intenda il termine « piacere » - innan­
zitutto la predominanza del privato rispetto alla sfera del politico e del
militare; in una parola, rispetto alla vita pubblica. Quest'etica esige espres­
samente il distacco dalla comunità statale e dunque la rinuncia a una
tradizione secolare. Solo attraverso questo distacco è possibile raggiungere
il piacere e la felicità. In secondo luogo, il fenomeno del piacere possiede
una straordinaria ampiezza di forme e di significati, cosicché in esso
possono rientrare non soltanto le più raffinate gioie dello spirito ma
anche tutta la moltitudine dei piaceri propri della sfera animale. A volte
Epicuro si è preso il gusto di proclamare, in modo provocatorio, le gioie
del ventre come la forma più autentica di piacere.
In effetti l'etica edonistica trae, per una parte essenziale, la sua forza
di persuasione dal fatto difficilmente contestabile che le più elementari

J Particolarmente M imnermo (inizio VI sec. a.c.) e Anacreonte (2 ' metà del VI sec.).
240 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

reazioni sia del bambino che dell'animale sono collegate al piacere e al


dolore. Sembra un fatto evidente, al di là di ogni altra considerazione,
che si ricercano gioia e piacere e che si rifuggono pena e dolore.
Tuttavia val la pena osservare che la prima etica del piacere a noi
meglio nota, quella del socratico Aristippo, non si fonda esclusivamente
- e forse neanche principalmente - su questo argomento biologico.
Quel che in essa colpisce è piuttosto una nota di rassegnazione nel
sentimento che essa ha della vita; Per essa infatti è assurdo far progetti,
intraprendere un'opera la cui realizzazione richiede fatica e il cui esito è
incerto. Saggio è solo colui che sa adattarsi alle circostanze del momento
e trame il maggior piacere possibile. I racconti sulla vita di Aristippo
sottolineano sempre questa sua capacità di adattamento alle circostanze e
l'abilità con la quale egli, come Odisseo, sapeva svolgere in ogni situa­
zione il ruolo più appropriato e conveniente e approfittare dell'attimo
presente, senza darsi pensiero del futuro. È questo - sia detto di
passaggio - il carattere che Orazio scoperse e si appropriò di Aristippo.
Il secondo punto importante è la rassegnazione che Aristippo dimo­
stra per ciò che riguarda la teoria della conoscenza. Ciò che l'uomo
percepisce con certezza è soltanto il proprio sentire individuale. Ogni
uomo sente solo per sé stesso, ragion per cui non possiamo sapere ciò
che corrisponde oggettivamente alle nostre sensazioni né ciò che le
provoca. Questa tesi era stata già sostenuta dalla Sofistica, che ne traeva
gli elementi di prova soprattutto dalle sensazioni gustative, la cui sogget­
tività è la più evidente di tutte, dato che esse sono più rapidamente
alterate dagli stati morbosi. Va infine osservato che per i Greci la
nozione di piacere gustativo s'identifica con quella di « piacere » in
generale. Aristippo pertanto poté insegnare che i soli dati per noi certi,
sui quali possiamo conseguentemente orientare il nostro comporta­
mento, sono le nostre sensazioni di piacere e di dolore.
A ciò infine si aggiunge, in terzo luogo, una componente di ordine
ontologico. Piacere e dolore sono stati mutevoli e dunque movimenti.
Aristippo, quasi a volersi opporre a Parmenide e a Platone, dichiara che
noi possiamo conoscere solo le due forme della nostra interna mobilità:
il movimento tranquillo del piacere e quello brusco del dolore 4. Lo
stato d'immobilità completa è uno stato neutro, simile alla morte.
Costituita di componenti diverse, quest'etica del piacere intesa come
aspirazione e opzione per il piacere di ogni possibile momento, ha
occupato un posto importante tra i sistemi morali fino alla tarda anti­
chità.

4 Fr. I B I Giannantoni.
'
IL FINE DELL AZIONE 241

Ovviamente non sono mancati a quest'etica gli attacchi. Nelle opere


di Platone e di Aristotele si trovano passi in cui si criticano e si
confutano posizioni di pensiero ad essa affini. Due sono gli argomenti
critici di maggior rilievo. Primo: se il piacere è realmente il valore più
alto, ciò equivale a dire che bisogna godere di ogni genere di piacere,
con la maggiore intensità possibile. Il che adduce a conseguenze assurde:
esistono infatti piaceri che o notoriamente danneggiano la salute o che il
giudice più imparziale giudicherebbe non appetibili e indecorosi per
l'uomo. Come si vede, esiste dunque una gerarchia di piaceri. Secondo:
se si riduce il piacere al godimento momentaneo del presente, si dimen­
tica che l'uomo non è soltanto corpo, ma che possiede anche un'anima
la quale - tra le sue caratteristiche essenziali - ha anche quella di
protendersi nel passato e nel futuro.
Quando Epicuro, due generazioni dopo Aristippo, costruÌ la sua
morale edonistica, tenne conto di queste riserve. Alla prima obiezione
egli replica sostenendo che si deve distinguere tra il piacere da una parte
e le condizioni preliminari e le conseguenze dall'altra. Può accadere
infatti che un piacere in sé di poca importanza, arrechi dolori e fastidi
notevoli; o, viceversa, che piccole contrarietà aprano la strada a un
grande piacere. A questo punto, secondo Epicuro, deve intervenire il
retto giudizio in forza del quale si eviterà quel piacere che arreca dopo
di sé dolore, e si accetterà quel dolore che viene remunerato col
piacere 5.
Per quanto riguarda la seconda obiezione, Epicuro riconosce che il
piacere ha sempre per fondamento il corpo, ma aggiunge che esso passa
nello spirito dove attinge la sua particolare intensità. Il che in concreto
significa che non si dà piacere solo nel presente, ma che esiste anche un
piacere del ricordo e della speranza ragionevolmente fondata. E il pia­
cere più alto è quello che è arricchito dalle gioie del ricordo e dell'attesa.
In Epicuro predomina un atteggiamento di sicurezza che è del tutto
estraneo ad Aristippo. Ed è ancora Epicuro a dichiarare che l'uomo il
quale realizza il piacere completo del corpo e dello spirito, uguaglia nella
felicità gli stessi dèi.
A ciò aggiungiamo ancora un'altra considerazione. Aristotele aveva
già distinto due forme principali di piacere. La prima si ha quando cessa
il dolore o l'afflizione, ovvero - per dirla in termini filosofici - quando
l'uomo passa da uno stato contrario alla sua natura a un altro ad essa
conforme. La seconda forma di piacere nasce dalla stessa attività con­
forme a natura 6 . Anche Epicuro conosce queste due forme, ma non

5 EpIC. Ep. ad Menoec. 129 (= fr. 4 Arrighetti). c.c. Defin. 132 55.
6 ARIST. Eth. Nic. VII 1 152 b 33 · 1 153 a 7.
242 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

sappiamo se le ha direttamente mutuate da Aristotele: l'essenziale è che


ciò gli ha permesso di modificare la dottrina di Aristippo. Egli conserva la
definizione di piacere come movimento tranquillo, e dunque come sensa­
zione di piacere positivo, prodotta preferibilmente dagli organi sensoriali;
ma chiama anche piacere lo stato di interna immobilità, ottenuta dopo la
vittoria sul dolore. A volte egli arriva persino a esaltare questa seconda
forma, questo' piacere della tranquillità, come il più alto ed autentico
piacere e stabilisce una distinzione rigorosa tra quest'ultimo e i comuni
« pruriti » dei sensi, come egli dice con una punta polemica contro

Aristippo 7. Ma ciò non ha evidentemente impedito ai suoi avversari di


rimproverargli continuamente il carattere equivoco della sua nozione di
pIacere.
Epicuro rimane certamente discepolo di Aristippo quando respinge,
al pari di questi, ogni piacere ottenuto con preparativi complicati o
faticosamente con mezzi artificiali. Il vero piacere si contenta dei beni che
sono a portata di mano e che la natura stessa ha preparato. Il piacere del
filosofo non nasce dalle gozzoviglie, ma da uri pasto frugale in serena
compagma.
Il problema della collocazione del piacere nella costruzione dell'etica
ha notevolmente preoccupato anche gli altri grandi filosofi: Platone,
Aristotele e gli Stoici. Due aspetti di esso emergono con particolare
rilievo.
Primo: bisogna distinguere tra il piacere come vano godimento e il
piacere come gioia che si può provare in ogni atto, anche il più necessario.
Aristotele, ad esempio, respinge decisamente il primo, e probabilmente
nelle opere perdute ha disegnato con molta durezza il ritratto del re assiro
Sardanapalo, immerso nella depravazione, e di Smindiride, il mangione
ridicolo delle ricca città di Sibari. Viceversa, Aristotele afferma, con non
minor decisione, il secondo tipo di piacere: tutto ciò che l'uomo fa, lo fa
bene se vi prova piacere. Anche il compimento del dovere da parte del
soldato e lo studio della filosofia si attuano favorevolmente solo se si
accompagnano a piacete. In questo senso il piacere dell'azione è indissolu­
bilmente legato alla realizzazione del valore più alto ed è un aspetto dello
stato di perfezione, anche se non l'aspetto determinante. Con questa
argomentazione di Aristotele ha dovuto fare i conti la stessa Stoa, cosÌ
avversa per principio all'etica del piacere: essa ha ammesso che il piacere è
un « fenomeno concomitante » dell'azione virtuosa.
Secondo: il piacere, 'ìn quanto primariamente legato alle impressioni
sensoriali, deve differenziarsi secondo gli organi di senso. È ancora Aristo-

7 ele. Defin. 1 37·39.


'
IL FINE DELL AZIONE 243

tele a sviluppare vedute a lui anteriori - di Platone e di altri - e a


distinguere nettamente i tre sensi superiori - vista, udito, odorato - dai
due inferiori. I primi sono i soli a poter produrre il piacere e la gioia
come fine a sé stessi, mentre negli altri due sensi il piacere serve ai fini
animali della conservazione e della riproduzione: questi ultimi dunque
non vengono assolutamente in considerazione come fini possibili dell'a­
ZIOne umana.
È un fatto abbastanza singolare che, a partire dall'età di Platone e
anche più tardi, s'incontra ripetutamente, in accenni isolati, una dottrina
etica che sembra affine all'etica del piacere e che spesso viene perfino
espressamente accoppiata a quest'ultima. Questa dottrina ruota sempre
attorno alla formula « libertà dal bisogno e dal turbamento » , in greco
espressa, tra l'altro, col termine ÒtVox,À7jO'(<X. Essa si può naturalmente
equiparare al secondo genere di piacere di cui parla Epicuro, consistente
nella soppressione del dolore, anche se in origine non vi si identificava.
Questa dottrina infatti esprime, ancor più vigorosamente di Epicuro e
dello stesso Aristippo, il sentimento profondamente greco della vita,
contraddistinto dall'insicurezza e dalla rassegnazione. La vita dell'uomo
è piena d'inquietudine, il passato ha ben poco di consolante e il futuro
rischia di essere ancora peggiore. Bisogna dunque rallegrarsi quando si è
lasciati in pace e quando ci si può dare da sé stessi questa tranquillità. Il
termine greco sopra citato ha, significativamente, un senso negativo. Lo
stesso dicasi di un altro, affine e ancor più diffuso, che significa « assenza
di turbamento », in greco Òt't<xp<x�(<x; in latino vi corrisponde a volte il
termine « securitas » che vuoI dire « libertà dalle preoccupazioni ».
Se ci rifacciamo indietro, al periodo greco-classico, il problema che
anzitutto si pone riguarda Platone; a proposito del quale si deve dire che
i suoi interessi solo in parte si riferiscono all'etica. Certo, egli si sforza
di dare larghissimo spazio all'uomo che agisce responsabilmente e all'i­
dea dello stato perfetto. Ma, nel profondo, ciò che gl'importa di più è la
ricerca dell'essere vero, eterno, certo. È significativo il fatto che già i
compilatori della tarda antichità erano riusciti a ricavare da Platone una
filosofia delle natura e un'ontologia sufficientemente compiute, mentre
hanno dovuto faticare moltissimo per rifondere in un'etica sistematica
tutta la massa dei dialoghi, dal Lachete fino alle Leggi. Quel che anzitutto
si rivela è il posto preminente dato da Platone alla « scienza del bene ».
La conquista di essa è il compito più alto della vita. Tale scienza tratta
del bene, ossia del valore più comprensivo di tutti, a cui ogni azione
deve mirare. Ma, nello stesso tempo, questo bene è oggetto di scienza,
ond'esso non è nulla di particolare che si possa concepire e realizzare hic
et nunc. È un'essenza eterna, assolutamente identica a sé stessa, che solo
il puro pensiero può conoscere. Fin quando l'uomo è prigioniero del
244 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

corpo, egli resta assolutamente incapace di conoscere il bene nel senso


pieno del termine. Egli comprende soltanto che esso dev'essere eterno,
unico e identico a sé stesso, segretamente affine a quell'unità dalla quale
procede la scienza matematica.
Se rivolgiamo la nostra attenzione al concetto di scienza, possiamo
dire che Platone ha sempre dinanzi agli occhi, come scopo dell'esistenza,
una « vita contemplativa » che, lontana da tutte le vanità terrene, si
consacra esclusivamente alla meditazione sulle realtà eterne. Viceversa, se
si pensa alla nozione di bene, sembra che, al di là della contemplazione, vi
sia la pratica, il fare il bene, allo stesso modo in cui la bontà di dio si
manifesta formando il mondo il più possibile buono e perfetto. Ma
Platone non sa dirci che cosa sia, in concreto, il bene che l'uomo deve
fare. Si capisce pertanto perché Aristotele affermi che il concetto plato­
nico del bene è assolutamente al di fuori dell'ambito delle possibilità
umane: esso non può essere realizzato e non serve neanche come termine
di orientamento. Noi abbiamo certo l'impressione che tanto Platone
quanto Aristotele abbiano ragione. Platone è giunto a superare i valori
mutevoli, limitati e condizionati e a raggiungere la certezza della realtà di
un bene immutabile. Per Aristotele ciò non costituisce più un problema.
Egli richiede dei valori che possano realizzarsi nel mondo della .storia,
anche a rischio di far perdere ad essi qualcosa del loro carattere di
assolutezza. Per Aristotele l'etica non è scienza alla maniera della matema­
tica. Le sue enunciazioni hanno in massima parte - come diremmo noi
moderni - solo un valore statistico, ma nessuna validità assoluta. Le
regole dell'etica valgono « nella maggior parte dei casi ».
Volgiamoci ora ad Aristotele. Mentre Platone ricerca la scienza del
bene, senza darsi gran che pensiero della sua costituzione e dei limiti
della natura umana, Aristotele pone questa al centro dell'indagine. Per lui
l'etica consiste nel dare all'uomo la possibilità di sviluppare, nel modo più
pieno possibile, le sue attitudini naturali. L'uomo è un essere complesso,
costituito di anima e di corpo, e destinato a vivere in comunità coi suoi
simili. Conseguent�mente, esistono valori a tre livelli diversi: valori dell'a­
nima, valori del corpo, valori esterni. Per illustrarli ci serviamo di uno
schema già adoperato dall'antico Peripato. I valori dell'anima sono soprat­
tutto il dominio di sé, il coraggio, la prudenza e la giustizia. I valori del
corpo sono la salute, la forza, la capacità percettiva e la bellezza. Infine, i
valori esterni sono la ricchezza, la potenza, il successo, l'amicizia 8.
Elenchi di . questo genere esistono già nella tradizione anteriore alla
nascita della filosofia e si riscontrano a volte anche in Platone. Ma l'antica

8 STOB. Ec!. II 7, 1 4 ed. Wachsmuth-Hense.


'
IL FINE DELL AZIONE 245

storiografia filosofica aveva ragione quando attribuiva specificamente ad


Aristotele questa dottrina « dei tre beni » . Essa infatti corrisponde, senza
alcun dubbio, al suo modo di pensare, alla sua preoccupazione di render
conto, nel miglior modo possibile, della nostra natura cosÌ come è, e dei
fatti storici, e alla sua profonda avversione per il paradosso e per i facili
estremismi. Si è raggiunta la vita perfetta quando, da ogni punto di vista,
si vive costumatamente.
Ma occorre far subito tre osservazioni. Aristotele è consapevole del
fatto che l'elenco delle qualità desiderabili si potrebbe allungare a piaci­
mento e proseguire all'infinito. CosÌ, ad esempio, si potrebbe richiedere
- come egli stesso fa notare - che l'uomo perfettamente felice non
abbia soltanto molti figli ben costumati e amici fedeli, ma che questa
costumatezza si estenda anche alla più vasta cerchia dei parenti e cono­
scenti e inoltre - nel caso in cui si creda in una vita dell'aldilà - che
tutti i morti che furono familiari del vivo, siano sicuramente entrati in
una felice esistenza oltremondana, e cosÌ via. Insomma, l'idea rischia di
cadere nell'assurdità di esigenze assolutamente inappagabili. A questo
punto, secondo il parere di Aristotele, non vi è che una sola via d'uscita:
avere il coraggio di imporsi freddamente dei limiti. Per quanto lungo
possa essere l'elenco, esso . deve per principio rimanere nei limiti delle
possibilità. Quest' elenco trova il suo limite in un principio di razionalità
non teorico ma praticamente verificabile. Secondo: ovviamente, i tre
gruppi di beni stanno tra loro in ordine gerarchico 9. In ogni circostanza
i beni dell'anima hanno una preminenza sui beni del corpo e su quelli
esterni - mentre il rapporto reciproco dei beni del corpo con quelli
esterni non è del tutto chiaro -. L'uomo può, all'occorrenza, vivere
soltanto coi primi, ma giammai soltanto coi secondi. Colui che non
possiede i beni dell'anima, non possiede neanche la' felicità; chi, vice­
versa, possiede soltanto questi, gode pur sempre di una felicità ridotta.
Arriviamo cosÌ al terzo punto: appare evidente che l'uomo con le
sue forze può procurarsi soltanto i beni dell'anima; per contro, l'acquisi­
zione e conservazione della salute o della ricchezza dipendono in larga
misura da circostanze esterne e fortuite. Di qui la tesi che, nelle opere di
Aristotele che possediamo, appare soltanto accennata ma che tuttavia
deve, in linea di principio, risalire a lui. Esistono due gradi di felicità: vi
è un grado minimo al quale si riduce la felicità nelle condizioni più
avverse, consistente in quel nucleo di valori spirituali che non possono
essere intaccati né dal caso né dal destino. Ed esiste, dall'altro lato, il
grado massimo consistente nella pienezza di tutti quei beni ai quali

9 DIOG. LAERT. V 30.


246 P ROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

l'uomo naturalmente aspira. Si può infatti, senza salute né ricchezza, aver


parte di una felicità eroicamente rassegnata; ma voler sostenere - come
hanno fatto, prima di Aristotele, alcuni Socratici e, dopo di lui, gli Stoici
- che la felicità non si accresce quando si aggiungono salute, ricchezza e
simili è - a giudizio dello Stagirita - un puro sofisma.
Resta infine da considerare un ultimo punto. Aristotele ha introdotto
una distinzione anche tra i valori spirituali. Egli pone a fronte delle virtù
pratiche una virtù puramente contemplativa. La più alta forma di vita, in
senso assoluto, è quella che si rivolge all'indagine sulle realtà eterne e
dunque sulla divinità e sulle ragioni divine del cosmo. Solo essa ha il fine
in sé stessa e corrisponde all'intima essenza della natura umana: il sapere
infatti è il fine a cui l'uomo originariamente aspira. Tale forma di vita può
svolgersi senza dover ricorrere né a collaboratori né ad aiuti esterni.
Certamente essa non è conseguibile da tutti, e si ha così una seconda
forma di vita, quella pratica, che si realizza come prudenza, valore,
autocontrollo e così via. Il possesso dei beni del corpo e di quelli esterni è
desiderabile per queste due forme di vita, anche se va detto che la vita
contemplativa può fare a meno di questi beni più facilmente della vita
pratica. Da ciò consegue che la vita della divinità consiste esclusivamente
nella contemplazione, nella suprema realizzazione del motto delfico « Co­
nosci te stesso » . In essa rientrano sia le virtù pratiche come anche i beni
del corpo ed esterni.
Se infine passiamo alla Stoa, ci si può chiedere contro chi, nel corso
della sua storia, essa ha combattuto più aspramente: forse contro Epicuro,
che con la sua teoria del piacere abbandonava l'uomo alla pura animalità;
o contro Aristotele che con la sua teoria tripartita dei beni riduceva
l'uomo, ineluttabilmente, a zimbello del caso?
Anche la Stoa, naturalmente, muove dalla considerazione della na­
tura umana. Il primo impulso dell'uomo è la percezione della natura che
gli è propria e lo sforzo che egli compie per svilupparla e conservarla.
L'uomo impara ben presto a distinguere ciò che gli è proprio, a cui dedica
ogni cura, da ciò che gli è estraneo e che cerca di evitare. Questa
« appropriazione di ciò che appartiene » riguarda anzitutto le facoltà
fisiche, poi quelle spirituali e, infine, la ragione e la sua manifestazione: la
virtù. Ma qui si compie un salto. Nel momento in cui la virtù si fa ­
visibile, essa si dimostra non solo il valore più alto, ma anche l'unico.
Tutto il resto affonda nell'indifferenza. Il senso di questo salto è chiaro.
Esso conduce l'uomo dal piano dei beni caduchi, condizionati e in parte
attribuibili anche all'animale, al piano di ciò che è specificamente umano,
incondizionato, inattaccabile.
Si sviluppa così un'etica che quasi si potrebbe chiamare dell'« unum
necessarium ». Esiste un solo valore che è indivisibilmente uno, o - detto
'
IL FINE DELL A ZIONE 247

altrimenti - un valore che rappresenta la pura qualità che non può


ammettere un più o un meno in senso quantitativo.
Indubbiamente, in questa costruzione, il salto, come lo abbiamo
chiamato, adduce con sé non poche difficoltà. Come si deve intendere, ad
esempio, il fatto che l'uomo comincia con lo sforzo inteso ad appropriarsi
e a conservare una natura che, estensivamente, non è in nulla inferiore al
concetto che ne ha Aristotele: una natura umana cioè gerarchicamente
articolata; mentre, in segreto, la natura alla quale l'uomo deve corrispon­
dere, per raggiungere la sua perfezione, si limita strettamente alla ragione
e alla virtù e tutto il resto diventa indifferente?
Il termine « natura » significa due cose ben diverse: sia tutto ciò che
nell'essere umano si può biologicamente constatare come anche :- e qui
nasce il paradosso - l'unica realtà che sola importa all'uomo. Gli avver­
sari della Stoa non hanno mancato di mettere in rilievo questa difficoltà,
senza tuttavia riuscire a infirmare la suggestiva tesi stoica secondo cui la
virtù è il valore unico il cui possesso basta pienamente alla felicità.
Consideriamo in particolare i punti seguenti.
Primo: l'etièa stoica, come già s'è detto, opera un richiamo dei valori
verso l'interiorità. Salute, forza, prestigio, ricchezza e simili diventano
cose del tutto indifferenti. Chi possiede la virtù, è felice anche nel letto
dell'infermo, nell'esilio, nel carcere o sotto i tormenti. Anche la vita è
assolutamente indifferente. La Stoa è la sola scuola dell'antichità ad aver
approvato espressamente il suicidio. L'uomo perfetto, al quale la vita
riesce gravosa, deve liberarsene.
Secondo: l'essenza della virtù è definita da Zenone come « la vita in
accordo con sé stessa » e dai suoi successori come « la vita in accordo con
la natura » , intendendosi sia la natura umana che quella universale I O . Tra
gli stoici più tardi è stato soprattutto Marco Aurelio a parlare della
collaborazione obbediente della ragione umana con la ragione universale.
Nei confronti di Aristotele bisogna ritenere che per la Stoa la distin­
zione tra forma di vita teoretica e pratica non ha alcun senso. L'agire
virtuoso e la conoscenza del corso dell'universo costituiscono un'inscindi­
bile unità. Perciò nella Stoa non si dà studio scientifico della natura che
abbia per fine esclusivo la conoscenza; viceversa, l'etica stoica presenta un
carattere non solo paradossale ma anche fortemente speculativo.
Terzo: la Stoa ha sviluppato con particolare coerenza il principio
secondo il quale il valore più alto è una pura qualità indivisibile. Ciò
significa che tutte le azioni virtuose sono tra loro assolutamente equiva­
lenti. La virtù non ammette un più o un meno, ma solo un aut·aut. Ne

IO SVF I 179.
248 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

segue ancora che anche le azioni contrarie alla virtù si equivalgono tra
loro I l . Da un punto di vista strettamente speculativo non esiste pertanto
la più piccola differenza qualitativa tra il furto di un borsaiolo e il
delitto di un uxoricida.
Ciò significa infine che non si può giungere a poco a poco alla
virtu, non ci si può innalzare per gradi a un agire sempre piu perfetto.
Dall'abiezione l'uomo passa, d'un sol colpo, alla perfezione morale.
Quarto: se quel che la Stoa definisce come l'unico valore supremo
non è essenzialmente irraggiungibile come il bene di Platone, esso tutta­
via è ai limiti estremi dello storicamente possibile: infatti, solo due o tre
uomini, nel corso dei secoli, sono riusciti a raggiungere la vita perfetta;
cosÌ insegnava Crisippo. Tutti gli altri uomini sono, in senso stretto, dei
reprobi. Tuttavia la Stoa non è potuta restare su questa posizione
radicale e schematica; essa non poteva rinunciare a dare, anche all'indivi­
duo di media cultura e di buona volontà un orientamento per la propria
condotta pratica. CosÌ, al di sotto della sfera della virtù, si sviluppa
un'etica del conveniente, dalle molteplici diramazioni, la quale, nelle
diverse situazioni dell'esistenza, raccomanda un comportamento che -
senza mai essere quello della virtù - ne rappresenta tuttavia una sorta di
adombramento. Vi si trovano, come in Aristotele, distinzioni, quantifi­
cazioni e un sistema di valori.
Quest' etica, significativamente, si è venuta costituendo soprattutto
nell'epoca in cui i Romani cominciarono a interessarsi di filosofia. Ad
essi piaceva l'alto pathos morale della Stoa; ma i Romani richiedevano
altresÌ indicazioni concrete su quel che, in ogni situazione particolare,
andava fatto o meno. Rispondendo a questa duplice esigenza, gli Stoici
del II secolo a.c. elaborarono quei sistemi di morale che noi conosciamo
soprattutto dall'importante opera di Cicerone Sui doveri (De officiis). In
essa il dominio della virtù è messo da parte, per cedere il posto a
un'etica realistica e sistematica che, conformemente allo scopo perse­
guito, si costituisce sul piano del conveniente.

11 SVF III 524-534.


CAPITOLO OTTAVO

Le virtù

NEL capitolo precedente abbiamo fatto un uso continuo del concetto di


virtù. Essa ha assunto nella lingua tedesca, da un secolo a questa parte,
un significato retorico. E tuttavia, tra le innumerevoli traduzioni propo­
ste del termine greco « &pt'tij » e del latino « virtus » , la parola « virtù » è
sempre quella che meno si presta ai fraintendimenti. Noi pertanto la
manteniamo. Se consideriamo in sé stessi i termini antichi, constatiamo
che in tutte le epoche il termine latino « virtus » è strettamente connesso
col termine « vir » (uomo), e che pertanto esso ha designato in origine il
comportamento conveniente all'uomo. Dal punto di vista storico
quest'etimologia ci aiuta poco, per la ragione che i testi più antichi nei
quali ricorre il termine, sono sotto l'influenza del greco, in particolare
del termine greco « &pt'tij », che è di assai più difficile comprensione.
Esso può significare, come gli stessi Greci hanno più volte fatto rilevare,
la specifica capacità di una cosa o di un essere. L'&pt'ti} di un coltello è
quella di tagliare netto; quella di un cavallo sta nella sua velocità e
resistenza; la virtù del guerriero è di essere valoroso, quella del calzolaio
di fare calzature solide. Questa nozione esprime pertanto la capacità
propria di un essere e al grado più alto. Quando si tratta degli uomini, il
termine esprime ovviamente l'orgoglio del singolo per la sua capacità e
la sua opera e il diritto di attendersi e di ricevere dal suo ambiente
l'adeguato riconoscimento. Ma fondamentale resta sempre l'idea di una
capacità specifica al suo massimo grado. Tra i tentativi fatti di una
definizione più rigorosa dell'essenza della virtù, quello di Aristotele è il
più importante I. Ispirandosi a precedenti tentativi preliminari e assu­
mendo a modello ideale quello della salute fisica, egli definisce la virtù
come lo stato di equilibrio naturale che sta in mezzo tra due estremi.
Come l'uomo, nel nutrirsi e nel soddisfare le sue esigenze fisiche, deve
evitare sia l'eccesso che il difetto, lo stesso può dirsi che avvenga nel
dominio dell'etica. Aristotele riesce a dimostrarlo con tre esempi parti­
colarmente efficaci: il coraggio è il giusto mezzo tra la paura e la
temerità; il dominio di sé sta nel mezzo tra l'apatia e l'indisciplinatezza;
la generosità infine sta nel mezzo tra avarizia e prodigalità. La formula
era seducentè, anche se non poteva applicarsi a tutti i casi (si pensi, ad
esempio, alla giustizia) · e sebbene lo stesso Aristotele fosse consapevole
del fatto che non poteva fornire più che un semplice schema generale.

I Per il concetto aristotelico di vinù cf. ARIST. Eth. Nic. I 1 098 a 7-1 7.
250 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Cionondimeno essa ha reso i più preziosi servigi nella classificazione dei


fatti morali .
. Due questioni si pongono inoltre in particolare rilievo. La prima sta
. nel chiedersi qual è la via che conduce alla virtù e quali sono le energie
fisiche che concorrono alla sua genesi. La seconda riguarda il sistema
delle virtù stesse e i loro rapporti reciproci.
Alla prima questione Aristotele risponde che la virtù ha tre fonda­
menti: o la natura, o l'educazione, o l'esercizio. Quest' alt�rnativa esi­
steva già nel V secolo e successivamente è divenuta classica.
Se si riconduce la virtù alla « natura », ciò significa che tutto di­
pende dalla nascita, dalla disposizione e dal talento e che l'educazione
non può cambiar nulla. In altre parole: la virtù non può essere inse­
gnata. Dai più famosi dialoghi di Platone apprendiamo con quale inten­
sità questa tesi venne discussa all'inizio del IV· secolo. Il più valido
argomento in suo favore era dato dal fatto che spesso padri assai merite­
voli hanno avuto figli inetti; evidentemente, malgrado i loro sforzi,
questi padri non sono riusciti a trasmettere ai figli le loro capacità. Al
che naturalmente si obiettava che, quanto meno, esiste l'educazione e
che per mezzo di questa la comunità statale si attende che i suoi
membri siano condotti alla virtù.
Ma come insegnare la virtù? Bisogna a questo punto ricordare la tesi
di Socrate, dianzi richiamata, che la virtù è sapere. L'educazione è
insegnamento e chi sa che cosa è il bene, agirà bene. La malvagità è
ignoranza. Si può anzi dire che, in senso stretto, non si dà altra malva­
gità al di fuori dell'ignoranza. Questa tesi si fonda su una duplice
convinzione che si può così schematicamente enunciare: anzitutto il
bene è sempre, in definitiva, ciò che è vantaggioso e nessuno sciente­
mente agisce contro il suo proprio interesse; in secondo luogo, il sapere
e l'intelligenza sono, nell'uomo, il valore più alto; ed è dunque impensa­
bile che la facoltà più alta e nobile possa essere sopraffatta da forze ad
essa subalterne. Questa fu la concezione di Socrate e poi, in larga
misura, anche quella di Platone. Essa venne ripresa, in linea di principio,
dalla Stoa per la quale virtù e ragione coincidono e la malvagità non è
che una sorta di degenerazione della ragione.
Ma Aristotele la combattè, facendo valere il principio che la virtù
non può assolutamente essere appresa allo stesso modo, poniamo,
della matematica. Il matematico è colui che conosce le leggi matemati­
che; ma si può benissimo sapere che cosa è il valore, senza tuttavia agire
da valoroso. Detto in altre parole: la virtù non risiede soltanto nell'intel­
ligenza e nella parte razionale dell'anima, ma anche in qualche altra
parte. E la malvagità non consiste solo nell'ignoranza e nella perversione
della parte razionale dell'anima - sebbene anche questo indubbiamente
LE VIRTU 2 51

si verifichi - ma principalmente nell'assoggettamento della parte razio­


nale a quella irrazionale, cosicché l'uomo, pur sapendo bene che cosa
dovrebbe fare, non ha la forza di farlo realmente.
In tal modo Aristotele elabora una nozione di virtù ben articolata e
psicologicamente fondata. Esiste nell'anima umana una parte razionale e
una irrazionale, ciascuna delle quali ha, a sua volta, due parti. La parte
razionale si divide in ragione contemplativa - che è la forma più alta di
razionalità presente nell'uomo, fondamento della vita perfetta - e la
ragione che fa progetti e dà precetti, ossia la ragione pratica. A sua volta,
la parte irrazionale comprende una metà puramente animale - noi forse
diremmo: subcosciente - mentre l'altra ha la capacità e il compito di
intendere la ragione e di seguirne gli ordini. Conseguentemente si hanno
due fondamentali tipi di virtù. L'una è propria della ragione pratica e
consiste nella capacità di conoscere prontamente, chiaramente e sicura­
mente il bene. Aristotele la chiama virtù dianoetica. L'altra appartiene
alla metà superiore della parte irrazionale dell'anima e si consegue
quando questa parte si sottomette di buon grado alla ragione pratica 2.
La virtù dianoetica è per principio un fatto connesso con l'insegna­
mento. Viceversa, la parte irrazionale dell'anima può essere indotta alla
virtù solo grazie all'esercizio e all'abitudine, perciò Aristotele chiama
questa virtù « etica »; e quando noi parliamo di etica, adoperiamo ancor
oggi una nozione che Aristotele ha introdotto programmaticamente per
stabilire che partecipano al divenire della virtù non solo l'insegnamento
ma anche il lavoro condotto a un livello più elementare dell'anima. La
ragione sa che cosa è la giustizia, ma l'uomo è giusto quando agisce
sempre con giustizia e finisce per abituare la parte irrazionale dell'anima
alle azioni giuste. Infatti, se viene a mancare l'abitudine, questa parte
dell'anima, alla prima occasione, ritornerà ai suoi propri erramenti e
porterà l'uomo ad agire in senso contrario al suo miglior sapere.
Fin qui la dottrina di Aristotele. Bisogna aggiungere però che già
prima di lui si era avuta una dottrina che, certamente in un senso ancora
primitivo, aveva attribuito esclusiva importanza all'esercizio della virtù.
Questa dottrina la troviamo anzitutto in Senofonte, ma il suo rappresen­
tante principale fu probabilmente il socratico Antistene. Essa non solo
respinge l'idea infruttuosa che tutto dipenda dalla natura che ci è data,
ma si rivolge anche chiaramente contro il concetto �< intellettualistico »
di virtù. Non è difficile sapere ciò che è la virtù, e pertanto non occorre
discutere molto al riguardo. Quel che conta invece è la dimostrazione
concreta di essa nella pratica. Ciò spiega perché, ad esempio, Senofonte

2 ARlST. Eth. Nic. I 1103 al-IO.


252 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

dà la maggiore importanza ai giusti rapporti con la società: poiché tutto


dipende dall'abitudine, il buono o cattivo esempio che l'individuo trova
nel suo ambiente può esercitare la più forte influenza.
Passiamo ora a considerare il secondo fondamentale problema, quello
del sistema delle virtù. In età ellenistica domina il sistema delle quattro
virtù: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Il medesimo sistema
viene accolto dai Romani (prudentia, iustitia, fortitudo, continentia), è
ancora in vigore nel Medioevo e dura sino alla fine dell'« Ancien régime »;
e ancor oggi l'arte plastica - almeno quando si abbandona all' allegoria -
non ha rinunciato del tutto alle quattro virtù cardinali. Non sappiamo chi
ha introdotto nella filosofia questa serie di virtù, alla cui fortuna nella
storia universale è stato decisivo il fatto che Platone l'abbia posta a base
della sua monumentale opera: La Repubblica. Ma questo pensatore l'aveva
già attinta da una tradizione più antica. In un dialogo anteriore alla
Repubblica, egli parla di una serie di cinque virtù, aggiungendo, dopo la
quarta, la pietà religiosa 3. Più tardi, non senza forzatura, questa serie fu
subordinata alla giustizia. Bisogna osservare che questo elenco di virtù è,
in sé stesso, alquanto artificioso; la scelta che viene fatta delle virtù è
alquanto discutibile e suscettibile di interpretazioni assai diverse. La Re­
pubblica di Platone, per esempio, considera la prudenza come la virtù
propria della classe reggitrice dello Stato e della parte superiore dell'anima
umana; la fortezza come la virtù della seconda classe e della seconda parte
dell'anima; la temperanza come la virtù della terza classe e della terza
parte dell'anima. La giustizia è la virtù comprensiva di tutte ed è responsa­
bile dell' ordinata collaborazione delle classi e delle parti dell' anima: essa
pertanto assurge a virtù suprema. È vero tuttavia che altrove la prudenza
prende il primo posto e la fortezza il quarto, e cosÌ via.
Ancor più importante è il fatto che questi elenchi di virtù che, per
quanto è possibile, cercano di abbracciare in sé l'intera vita etica, devono
necessariamente fuoriuscire dal sistema delle virtù cardinali o compiono
delle sussunzioni assai forzate.
Richiamiamo qui i due elenchi più rappresentativi di virtù, quello
dell'Etica Nicomachea di Aristotele e quello degli Stoici.
Il primo è il seguente. 1. Tra la paura e la temerità, la fortezza; 2.
Tra l'apatia e l'indisciplina, il dominio di sé; 3. Tra l'avarizia e la prodiga­
·
lità, la generosità; 4. Tra la meschinità e l'arroganza, la signorilità; 5. Tra
l'indegnità e la vanagloria, la nobiltà d'animo; 6. Tra l'indifferenza e
l'ambizione, il senso dell'onore; 7. Tra l'indolenza e l'irascibilità, la calma
superiore; 8. Tra l'ironia (il sottostimarsi di Socrate) e la millanteria, la

3 PLAT. Prot. 329 c - 330 a.


LE VIRTÙ 2 53

veridicità; 9. Tra la goffagine e la sfrontatezza, la gentilezza; lO. Tra la


tetraggine e la blandizia, l'amabilità; 11. Tra la leziosaggine e l'impudenza,
il pudore; 12. Tra l'invidia per l'altrui felicità e la gioia maligna per
l'altrui sfortuna, il rammarico per la felicità o l'infelicità immeritate del
proprio prossimo; 13. Infine, le virtù che non rientrano nello schema del
« mezzo tra eccesso e difetto »: la giustizia, che si distingue - secondo
criteri qualitativi e quantitativi - in giustizia distributiva e giustizia
remunerativa, come anche: 14. Le virtù della ragione contemplativa e
imperativa 4.
Considerate dal punto di vista della Repubblica platonica, le quattro
virtù cardinali vengono cosÌ completate da non meno di dieci altre virtù
che stanno tutte al limite della convenienza etica e della correttezza
sociale. Il che mette in rilievo l'urbanità dell'etica artistotelica la quale
vuole attrarre a sé non solo gli uomini decisi ad agire in vista del valore
etico supremo, ma anche quelli che intendono procacciarsi nella società
rapporti di simpatia. I saggi morali del tardo Peripato e anche alcuni
trattati di Plutarco che ne hanno subito l' influenza, rivelano la stessa
finalità.
Assai più lungo e pedantesco è l'elenco delle virtù compiuto dalla
Stoa, che possiamo conoscere in più varianti. Non dobbiamo tuttavia
perdere di vista il fatto che in senso stretto per la Stoa non esiste che una
sola virtù, la ragione, e una sola malvagità, l'irragionevolezza. Pertanto la
molteplicità delle virtù e dei vizi non è che l'apparenza fenomenica di
un'unica e identica realtà.
Bisogna anzitutto distinguere tra virtù superiori e virtù subordinate.
Le prime sono le quattro virtù cardinali:
1. La ragione (phronesis) è la conoscenza di ciò che si deve o non si
deve fare e di ciò che né si deve né non si deve fare.
2. Il dominio di sé (sophrosyne) è la conoscenza di ciò che si deve
desiderare e di ciò che si deve evitare e di ciò che non si deve né
desiderare né evitare.
3. La giustizia (dikaiosyne) è la conoscenza che a ogni individuo
assegna ciò di cui è meritevole.
4. La fortezza (andreia) è la conoscenza di ciò che si deve o non si
deve temere e di ciò che né si deve né non si deve temere 5.
Si noti come in queste quattro definizioni ricorra sempre l'idea della
conoscenza; il che viene a significare che ogni virtù, alla maniera di
Socrate, si fonda sul sapere. Vediamo inoltre come, ad eccezione della
giustizia, ogni virtù si riferisca a tre possibili casi: uno positivo, uno

4 ARIST. Eth. Nic. II 1107 a 30 1108 b 10.


5 SVF III 262·263.


254 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

negativo, uno neutro. La Stoa mostra la tendenza a estendere il più


possibile la zona neutra, quella cioè del moralmente indifferente, per
mettere cosÌ maggiormente in luce il rango dell'unico valore o disvalore
dal quale tutto dipende. Questo atteggiamento è esattamente l'opposto di
quello di Aristotele il quale ha allargato a tal punto il dominio del
moralmente rilevante che in esso vengono considerati persino gli aspetti
marginali della vita sociale.
Anche nella Stoa troviamo certamente il lungo elenco delle virtù
subordinate.
A. Alla ragione sono subordinate le seguenti virtù:
1. Il buon consiglio (euboulia): conoscenza del modo come bisogna
agire per riuscire utili.
2. Il calcolo (eulogistia): che consiste nel saper ponderare e abbrac­
ciare d'un sol colpo i fatti e le loro conseguenze.
3. La presenza di spirito (anchinoia): che consiste nel saper scoprire
all'istante ciò che è giusto fare.
4. Il discernimento (nounecheia): che è la conoscenza del meglio e del
peggio (relativi).
5. La sicurezza della mira (eustochia): che consiste nel saper raggiun-
gere l'essenziale in ogni cosa. .
6. L'abilità (eumechania): che consiste nel saper trovare le vie d'uscita.
B. Al dominio di sé sono subordinate:
1. La regolatezza (eutaxia): che consiste nel saper quando e in quale
ordine e successione si deve agire.
2. La convenienza (kosmiotes): che consiste nella conoscenza dei
movimenti decorosi e indecorosi.
3. Il pudore (aidemosyne): che consiste nel sapersi guardare dal giusto
biasimo.
4. L'autocontrollo (enkrateia): che consiste nel non lasciarsi in nessun
modo distogliere, a causa del piacere, da ciò che si riconosce esser giusto.
C. Alla fortezza sono subordinate:
1. L'ostinatezza {karteria): che consiste nel saper perseverare in ciò
che si è riconosciuto giusto.
2. La fiducia (tharraleotes): che consiste nel sapere che nulla di perico­
loso ci può capitare.
3. La grandezza d'animo (megalopsychia): che consiste nel sapersi
tenere al di sopra di tutto ciò che si può trovare sia negli uomini di valore
che negli stolti.
4. La fermezza (eupsychia): che consiste nel sapere- che l'anima è
preparata a non lasciarsi vincere.
5. L'operosità (philoponia): che consiste nel saper adempiere il pro­
prio compito, senza stancarsi per la fatica.
LE VIRTU 2 55

D. Alla giustizia sono subordinate:


1. La pietà religiosa (eusebeia): che è la conoscenza del culto degli
dèi.
2. La fidatezza (chrestotes): che consiste nel saper fare il bene.
3. La socievolezza (eukoinonesia): che consiste nel saper conservare
l'uguaglianza nella comunità sociale.
4. La trattabilità (eusynallaxia): che consiste nel sapersi comportare
in maniera irreprensibile nei rapporti d'affari col prossimo 6.

Questa è la lista stoica delle virtù, nella quale si crede di ritrovare


utilizzato, in larga misura, il precedente lavoro preparatorio compiuto
da Aristotele - e forse anche dai Sofisti i quali, in effetti, furono i primi
a distinguere con nettezza i concetti etici. Ma questa lista testimonia
altresì un'imperiosa esigenza sistematica. Ciascuna virtù è solo un
aspetto particolare del sapere. La loro molteplicità è una pura apparenza.
Ciò appare in modo assai netto in tre teorie stoiche particolari che
qui, per concludere, ricordiamo.
La prima afferma che tutte le virtù sono indissolubilmente legate tra
loro 7. Chi possiede una sola virtù, possiede necessariamente tutte le
altre. In sé il problema non è nuovo. Già nell' età dei Sofisti, come
sembra, si discusse molto intorno alla questione se un solo e medesimo
individuo potesse essere insieme valoroso e dissoluto, saggio e ingiusto, e
così via. Si addussero in gran numero argomenti pro e contro. Solo la
Stoa, per quel che ne sappiamo, prese una posizione netta, contestando
col massimo rigore che una singola virtù potesse essere separata dalla
totalità delle virtù, anche se - per dimostrarlo - essa si contentava di
mere argomentazioni logico-formali.
La seconda teoria è, in ultima analisi, una conseguenza della prima.
Se tutte le virtù sono soltanto aspetti di un'unica totalità, ciò significa
che tutti gli uomini sono destinati a un'unica specie di virtù. Non
esistono virtù diverse secondo le età, i sessi, i ceti sociali, i popoli. La
dottrina stoica rappresenta anche l'espressione ultima e definitiva di una
questione già da tempo dibattuta. Anteriormente al sorgere della filoso­
fia, e al di fuori di essa, dominava sempre il convincimento che le virtù
del giovane si pongono su un piano diverso da quelle dell'adulto, come
da quello del vecchio; la donna doveva praticare virtù diverse da quelle
dell'uomo, e così via. La Socratica rivelò la tendenza a operare un'unifi­
cazione su alcuni punti essenziali. Platone e altri Socratici sottolinearono
il fatto che le virtù della donna sono, in linea di principio, identiche a

6 SVFm 264-273.
7 SVFm 295.
2 56 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

quelle dell'uomo. Aristotele invece tende a stabilire una differenziazione


secondo le situazioni di fatto storicamente constatabili. La Stoa infine
conosce semplicemente l'uomo e l'unica virtù perfetta.
Per concludere richiamiamo una tesi nella quale, in maniera esem­
plare, si urtano reciprocamente paradosso ed empiria. Già la Socratica,
certamente a opera di Antistene, aveva formulato il profondo principio
che la virtù non si può perdere. Una volta entrato realmente in suo
possesso, l'uomo non può più esserne privato, giacché alla virtù, come
alla divinità, nulla può resistere. La Stoa inizialmente aveva accolto
questo principio senza riserve 8. Ma le difficoltà cominciarono quando
Crisippo fu costretto, nella polemica coi suoi avversari, a perseguirne le
applicazioni concrete. Pur potendosi ammettere che un uomo in carne
ed ossa sia realmente in possesso di una tale virtù, appare tuttavia
evidente che anche l'uomo più perfetto può a volte venirsi a trovare in
situazioni di fatto in cui la virtù non è più presente. Non è questo, ad
esempio, il caso del sonno o del sogno, giacché i sogni del virtuoso sono
per necessità - secondo la dottrina stoica - parimenti virtuosi. Ci si
vuole piuttosto riferire agli stati morbosi come l'ubriachezza, l'aliena­
zione mentale, la follia. Devono pertanto ammettersi delle eccezioni al
principio precedente: si tratta sempre di stati che colpiscono l'uomo
senza sua colpa, e dunque di stati accidentali. Per il resto il principio
resta valido. Ma esso, come era naturale, fu decisamente avversato dai
Peripatetici.
Non abbiamo parlato, in questo contesto, di Epicuro. Per quanto
finora sappiamo della sua dottrina, non sembra che abbia prestato parti­
colare attenzione al sistema delle virtù. Egli riprende le quattro virtù
cardinali e stabilisce in proposito due cose: anzitutto che esse sono
soltanto un mezzo per raggiungere il valore più alto, il piacere. Una
delle massime maggiormente citate del suo « catechismo » suona: « Non
è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e
giustamente, x né saggiamente e bene e giustamente x senza anche vivere
felicemente » 9.

8 SVFm 237.238.
9 EPIC. Ratae sent. V, tr. it. di M. Isnardi P arente in: Opere di Epicuro cit., p. 196.
CAPITOLO NONO

Il saggio

ABBIAMO già in precedenza rilevato che sul piano dell' etica due atteggia­
menti entrano continuamente in concorrenza reciproca. Il primo è di
natura strettamente filosofica e consiste nel chiedersi se è possibile dimo­
strare l'esistenza di un principio normativo universalmente valido, dedu­
cendo da alcune riflessioni razionali i supremi valori etici. L'altro è quello
dell'etica tradizionale che, guardando all'uomo paradigmatico, cerca di
individuarlo in figure storiche oppure lo costruisce come figura ideale.
Indubbiamente questo secondo atteggiamento è, dal lato speculativo,
meno rigoroso, ma è di tanto superiore al primo in efficacia pedagogica
che nessuna etica vi può rinunciare del tutto.
Quest'etica dell'esemplarità ha avuto un ruolo importante dal punto
di vista storico-filosofico, rilevabile anzitutto nelle raffigurazioni, che ci
ha trasmesse, dei grandi cosmologi che, trascurando i loro interessi mate­
riali, visitarono tutti quei paesi dove speravano di poter apprendere
qualcosa: T alete, Pitagora, Anassagora, Democrito, e, infine, lo stesso
Platone. Ma quest'etica ha esercitato un'influenza incomparabilmente
maggiore nella Socratica.
È sicuro che gli studiosi non si accorderanno mai nello stabilire fino
a che punto il ritratto di Socrate che viene presentato nelle opere di
Platone, di Senofonte e nei resti delle opere degli altri Socratici, corri­
sponda al personaggio storico che porta questo nome. Certamente nes­
suno vorrà negare che certi particolari della sua vita, del suo aspetto
esteriore e della sua condotta, riportati in quelle opere, siano storici.
Dall'altro lato si ha la netta impressione che quel ritratto nel suo insieme
e l'interpretazione dei dati storici hanno lo scopo di disegnare l'immagine
ideale del filosofo, dell'uomo perfetto in generale. A lui non possono
nuocere né la povertà, né l'inimicizia, né lo scherno, né la persecuzione,
né la morte. Pur conoscendo le passioni dell'anima, egli non se ne lascia
mai vincere; né si lascia accecare dalla potenza, né dalla ricchezza, né dalla
bellezza. Egli trova, in ogni situazione, la parola giusta; dice infine, con
assoluta chiarezza, ciò che sa e ciò che non sa.
In questo ritratto ideale i Socratici hanno sottolineato ora questo ora
quel tratto. Così, ad esempio, Senofonte ha creduto di scorgere il carattere
2 58 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

essenziale di Socrate fondamentalmente nella indipendenza dai bisogni


materiali, nella temperanza rispetto al mangiare, al bere, alla passione
amorosa, nella sopportazione del freddo, del caldo e simili, come anche
nella capacità d'insegnare ai suoi amici queste stesse virtù. Per Platone,
invece, Socrate è anzitutto il ricercatore instancabile della scienza del
bene. Altro fu ancora il Socrate di Aristippo. Ma, in ciascun caso, al di
là di Socrate si guardava sempre al ritratto del filosofo.
Per Aristotele Socrate non svolge più alcun ruolo. Si può addirittura
dubitare che la figura di lui, tracciata da Platone e dagli altri Socratici,
gli riuscisse particolarmente simpatica. Per questo, nella sua opera, di
Socrate emerge l'essenziale. Aristotele ha compreso, una volta per tutte,
che l'azione morale ha sempre a che fare con una situazione concreta,
qui e ora; ma situazioni siffatte non sono prevedibili e non consentono
che nei loro confronti si possano stabilire regole generali di comporta­
mento. Situazioni analoghe possono solo fornire qualche indicazione
generica. E qui cade opportuno insistere, ancora una volta, sulla nozione
specificamente storica di analogia come fondamento di quella
esemplarità. In ciascun caso particolare si agirà come hanno agito, in casi
analoghi, uomini importanti del passato, o come si può supporre che
agirebbe l'uomo perfetto in un caso analogo.
In secondo luogo Aristotele ha sempre posto in rilievo che le virtù
etiche non si fondano esclusivamente sull'insegnamento, ma sulla sotto­
missione della parte irrazionale dell'anima all'imperativo della ragione.
Ora, questa parte irrazionale risponde essenzialmente non all'insegna­
mento ma al piacere e al dolore. Ciò che conta, per essa, è trarre piacere
dal retto agire. Però, questo scopo non è conseguibile per mezzo di
precetti, ma solo attraverso il riferimento a un modello ideale atto a
suscitare ammirazione o amore. Pertanto Aristotele ha dato un posto di
spicco, nella sua etica, all'" uomo dabbene » (crnouòai'oç ÒtvTjp), come egli
ama chiamarlo. Pur non avendone delineato da nessuna parte il ritratto,
egli vi si riferisce incessantemente: « Bisogna agire - egli dice - come
agirebbe l'uomo dabbene » l.

La filosofia ellenistica ha tratto le conseguenze dal ritratto di So­


crate tracciato dai Socratici e dalle riflessioni di Aristotele. Stoici ed
Epicurei gareggiano nel disegnare il ritratto dell'uomo perfetto, o del
« saggio » (o aocp6ç), come viene chiamato presumibilmente in polemica
con Platone. Neanche la storiografia resta indietro su questo punto: essa
infatti non esita a ridurre le enunciazioni etiche degli antichi Socratici,
di Platone e di Aristotele, a enunciazioni sul « saggio ». Ne sono risul-

l Sul valore di ese mplarità della figura del saggio, cf. ARIST. Eth., Nic. III 113 a 30·35.
IL SAGGIO 2 59

tate molteplici semplificazioni e generalizzazioni inammissibili. Il ri­


tratto più efficace e meglio comprensibile che del « saggio » sia stato
disegnato, è quello lasciatoci dalla Stoa.
Riportiamo alcuni passi da una fonte greca sull'etica stoica: « Ze­
none e gli Stoici insegnano che esistono due specie di uomini: i saggi e
gli stolti. I saggi praticano, per tutta la loro vita, la virtù; gli stolti il
vizio. Perciò i primi fanno sempre ciò che è giusto in tutto quello che
intraprendono, i secondi invece sbagliano sempre. Il saggio si attiene alla
conoscenza che può avere della vita e fa bene tutto ciò che fa, nel senso
cioè della prudenza, della temperanza e delle altre virtù. Lo stolto, al
contrario, fa tutto male.
Il saggio è grande, potente, sublime e forte. Grande, perché rag­
giunge tutto ciò che meditatamente si è proposto e che si è dato come
scopo; potente, perché tutto concorre ad accrescere la sua forza; sublime,
perché è partecipe di quella sublimità che è propria dell'uomo nobile e
prudente; forte, perché dispone di una forza che gli appartiene di diritto
e che è invincibile e indomabile.
Egli da nessuno è costretto e nessuno costringe; da nessuno è
impedito e nessuno impedisce. Nessuno gli può fare violenza e a nes­
suno fa violenza. Egli non domina né è dominato. A nessuno fa male e
nessuno gliene può fare. Egli non cade nell'avversità né vi fa cadere altri.
Non si lascia ingannare né inganna. CosÌ egli è, più di tutti gli altri,
felice, degno di lode, pio, caro agli dèi, degno di stima; egli è il vero re,
il vero duce, il vero politico, il vero amministratore, il vero uomo
d'affari. Lo stolto è il totale contrario » 2.

« Il saggio non concederà a nessuno il perdono, poiché chi perdona


pensa che il colpevole non abbia agito responsabilmente, mentre la fonte
di ogni fallo è la malvagità stessa. È giusto pertanto non perdonare il
colpevole.
Il saggio non sarà neanche indulgente, poiché l'indulgenza implica
la remissione della giusta pena; e l'uomo indulgente è, conseguente­
mente, dell' opinione che le pene previste dalla legge per i malfattori
siano troppo dure e che il legislatore non le abbia commisurate alla
gravità dei crimini. Tuttavia la legge si fonda sul diritto. Essa è una
prescrizione fondata su un giusto giudizio concernente ciò che l'uomo
deve fare e non fare. Pertanto il saggio sarà scrupoloso osservante della
legge, come anche suo giusto interprete » J. « Il saggio è socievole, abile,
incoraggiante. La sua socievolezza gli procura benevolenza e amicizia.

2 STOB. Ec!. II 7, 11 g ed. Wachsmuth-Hense.


J lo. [bid. II 7, 11 d.
260 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Egli sa adattarsi, per quanto è possibile, agli uomini. È degno d'essere


amato, è gradito e suadente, gentile, dotato d'intuito sicuro e di presenza
di spirito, schietto e senza complicazioni, semplice e senza artifici. Lo
stolto è il totale contrario.
Solo gli stolti coltivano l'ironia. Il saggio infatti è liberale e non
userà mai un linguaggio ironico. Lo stesso dicasi del sarcasmo, cioè
dell'ironia pungente.
Solo tra i saggi esiste l'amicizia: solo tra essi esiste infatti un
sentimento concorde sulle cose della vita. Questa concordia di sentire è
la conoscenza dei beni ad essi comuni. Inoltre una vera amicizia, un'ami­
cizia non semplicemente apparente, non può esistere senza fedeltà e
senza costanza. Gli stolti, viceversa, sono infedeli e incostanti e hanno
tra loro opinioni contraddittorie. Pertanto essi sono incapaci di amicizia
e a loro non resta altro che le relazioni e i legami che si intrattengono in
modo puramente esteriore per costrizione o per opinione. Conseguente­
mente anche l'affezione, la simpatia e l'amore sono esclusiva prerogativa
del saggio. Il saggio è anche il miglior medico di sé stesso: infatti egli
studia la sua stessa natura, la osserva e sa bene ciò che è utile alla sua
salute » 4.

« Il saggio inoltre non rimanderà mai nulla a più tardi: giacché il


rimandare significa rinunciare, per pigrizia, all'azione. Rinunciare è giu­
stificato solo per ragioni inoppugnabili. Pure, già il poeta Esiodo ammo­
niva a non rimandare, perché questo significa il rifiuto di fare ciò che si
deve » 5.
« Gli stolti sono tutti zotici e incolti, e non sanno come compor­
tarsi nella città. Inoltre essi sono incivili, nemici della vita legalmente
ordinata, brutali e malefici; ancora, sono rozzi e tirannici, avidi di
dominio, crudeli, violenti e, quando se ne presenta l' occasione, infran­
gono la legge. Sono anche irriconoscenti e non pensano né a ricambiare
il bene ricevuto né a far partecipi gli altri dei loro beni, poiché essi non
conoscono l'amicizia » 6.

Abbiamo qui fatto parlare più ampiamente del solito gli stessi testi
antichi, perché essi ci consentono di capire nel modo più chiaro quale
impressione dovette esercitare nell'antichità e nelle età successive questo
ritratto scevro di compromessi dell'uomo perfetto e di quello malvagio.
Appar chiaro che la figura del saggio mostra alcuni tratti ricavati dal
ritratto di Socrate, mentre quella dello stolto ne possiede altri, propri del

4 ID. [bUi. II 7, 11 m.
5 ID. [bUi. II 7, 11 s.
6 ID. [bUi. II 7, 11 k.
IL SAGGIO 261

sofista e del tiranno. Certo, può anche accadere che questo ritratto a
volte si contrapponga al Socrate platonico, ma ancor più evidente è il
rifiuto di quell'umanità sobria che rappresenta l'ideale di Aristotele; si
osservi, ad esempio, che il saggio rifiuta ogni pietà e indulgenza. Ed è
appunto questo rigore che lo stoico romano Catone si sforzò di
realizzare nella sua vita, con grande rammarico del suo amico Cicerone.
Questi infatti non poteva non ammirare l'inflessibile virtù di Catone,
ma non poteva nello stesso tempo dimenticare che essa era stata respon­
sabile di molti e gravi errori politici.
Incomparabilmente più vicina a quella di Aristotele è l'immagine
del saggio che troviamo in Epicuro, nella quale tuttavia non mancano
alcuni tratti di un radicalismo tipicamente ellenistico che rimanda alla
prima Socratica e alla Sofistica.
Ci rifacciamo ancora a una fonte antica, certo meno ricca d'infor­
mazioni rispetto ai testi di cui disponiamo per la Stoa. L'essenza del
saggio vi è descritta con le seguenti espressioni:
1. Chi è divenuto saggio una volta, non cesserà mai di esserlo (come
voleva la Stoa) e non si atteggerà volutamente a ignorante (contro
l'ironia socratica).
2. Il saggio avrà sempre saldi convincimenti e non s'appagherà mai
dell'incertezza - il che è evidentemente rivolto contro il Socrate plato­
mco.
3. Il saggio conserverà il suo carattere anche durante il sonno;
similmente, egli non perderà il controllo di sé neanche nello stato
d'ebbrezza. Naturalmente non è escluso che in certi casi anche il saggio
possa turbarsi.
4. Il saggio, con l'aiuto della sua riflessione, allontana da sé il danno
che possono arrecargli gli uomini con l'odio, l'invidia e il disprezzo. In
altri testi si afferma (contro la Stoa) che il saggio avrà cura della sua
reputazione, per non rischiare il disprezzo.
5. Anche il saggio è soggetto a certe emozioni, principalmente al
dolore, ma senza che ne possa essere turbato nella sua saggezza. Epicuro
sottolinea ancor più decisamente questo concetto in una sua massima
assai citata e che rivela una sorprendente somiglianza coi ragionamenti
degli Stoici; il saggio è felice anche quando è messo al supplizio o è
tormentato a morte nel toro di bronzo di Falaride. Certo, egli si
lamenterà e gemerà, ma senza che ciò possa arrecare pregiudi:zio alla sua
felicità che è perfetta, come quella di Zeus, padre degli dèi.
6. Non si può diventar saggi con qualsiasi costituzione fisica o
presso qualsiasi popolo. Viene precisato che solo i Greci hanno attitu­
dini per la filosofia; tesi, questa, che sembra ispirarsi a certe affermazioni
di Aristotele.
262 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

7. Solo il saggio è riconoscente. Solo lui è sempre lo stesso, nelle


parole e nelle opere, verso gli amici, siano questi presenti o assenti. In
certe circostanze egli è pronto persino a morire per loro.
8. Il saggio si asterrà rigorosamente da ogni rapporto illecito con le
donne. L'amore, in generale, per il saggio è riprovevole; così Epicuro (in
contrapposizione a Platone) non crede assolutamente che Eros sia un
inviato degli dèi. Egli cita espressamente la sentenza di Democrito: « I
rapporti carnali non sono mai giovevoli e si deve esser contenti quando
non riescono nocivi » 7. Peraltro egli prevede che in certi casi il saggio
possa contrarre matrimonio e aver figli.
9. Il saggio all'occasione punirà i suoi servitori. Tuttavia, quando si
tratta di uomini onesti, egli sarà anche pronto ad avere pietà di loro e a
perdonare. Su questo punto Epicuro si mette chiaramente dalla parte di
Aristotele, contro gli Stoici.
lO. Il saggio, come Socrate, non si darà pensiero della sua sepoltura.
D'altra parte egli non seguirà il modello di vita cinico, né andrà a
mendicare come Diogene; anche se dovesse divenir cieco, egli resterà
legato alla vita.
11. Il saggio non si preoccuperà dei suoi beni né del suo avvenire.
Egli non cercherà il guadagno, se non costretto dal bisogn o , e cercherà
di trarlo esclusivamente dalla sua saggezza (tesi nettamente antisocratica.
Tuttavia anche la Stoa, su questo punto, ha la stessa dottrina di Epicuro.
L'ellenismo ha lasciato cadere il rifiuto socratico del guadagno pecunia­
rio) .
12. Il saggio non si preoccuperà di apprendere l'eloquenza, né di
fare politica, né vorrà essere re. Al contrario, egli accetterà l'incarico di
giudice e si porrà, a seconda delle circostanze, a disposizione di un
sovrano. Egli consentirà che gli si innalzino statue, ma gli sarà indiffe­
rente se ciò accade o meno.
13. Il saggio (a differenza di Socrate) lascerà opere scritte, ma non le
leggerà nelle pubbliche riunioni, in occasione di feste; preferirà vivere
nel silenzio della campagna. Fonderà una scuola, ma non per attirare a
sé molta gente. Terrà lezione dinanzi a un grosso uditorio solo se ne
sarà pregato, mai di sua iniziativa.
14. Più di ogni altro uomo il saggio troverà la sua gioia nella
meditazione scientifica. Egli è anche il solo a poter dare un corretto
giudizio sulla musica e la poesia; ma in nessun modo comporrà egli
stesso poesia 8.

7 EpIC. fr. I 1 1 8 , 12 Arrighetti.


8 Per i tratti su elencati del« saggio» epicureo, cf. DIOG. LAERT. X 1 1 7-1 20_
IL SAGGIO 263

Questo il ritratto del saggio epicureo, secondo gli estratti che la


storiografia ellenistica ha ricavati dalla gran massa delle opere di Epicuro
e dei suoi scolari. Vi si riscontra una sintesi peculiare di elementi as�ai
diversi. Da una parte abbiamo la saldezza del sapere filosofico e della
felicità; dall'altra la rinuncia al potere politico, al matrimonio, al pub­
blico delle conferenze cittadine; dall' altra parte ancora lo sforzo di fare i
conti con la realtà della vita e di assumere un atteggiamento di umana
ragionevolezza.
Così val la pena osservare che, ad esempio, un Cicerone si è
opposto agli Epicurei del suo tempo in maniera del tutto diversa rispetto
al suo amico stoico Catone. Nulla negli Epicurei si prestava a suscitare
ammirazione. Essi non si distinguevano né per atti eroici, né per rigo­
rosa consequenzialità. Ma erano amabili, senza ambizioni personali, vive­
vano sobriamente e appartati; se peccavano di dottrinarismo dal lato
teorico, erano tuttavia indulgenti nella pratica e i migliori amici che si
potessero desiderare. Se il ritratto epicureo del saggio si fonda su una
fusione di elementi ionico-democritei e di altri attinti dalla prima Socra­
tica e da Aristotele, tuttavia il conflitto con la Stoa contribuì indubbia­
mente al suo sviluppo.
n Peripato dell'età ellenistica ha ulteriormente accentuato le posi­
zioni aristoteliche: il saggio diventa il perfetto uomo di mondo che trova
un equilibrio fra la teoria, che è il fine proprio e supremo dell'uomo, e
la prassi che lo mette insieme coi suoi simili; egli sa che raramente un
uomo è completamente malvagio o perfetto e si sforza, per la sua parte,
di trarre tutto il meglio che può dalle circostanze date.
Infine per il Platonismo dell'età ellenistica il saggio non è che il
Socrate dell'Apologia platonica: l'implacabile inquisitore, abile nel demo­
lire ogni dogmatismo, perché sa che un sapere sicuro esiste solo per dio.
n saggio del Neoplatonismo presenta invece alcuni tratti del Socrate
platonico, così come lo conosciamo dal Fedone, e ancora di più: il
filosofo è il puro spirito che è esiliato o si è fatto esiliare nella
corporeità, al fine di rivelare la verità intorno alle cose eterne. Ma è
dubbio che qui si possa ancora parlare dell'idea del saggio propria
dell' ellenismo.
CAPITOLO DECIMO

Le passioni

L'AZIONE morale dipende dalla decisione tra ciò che si deve e qualcos'al­
tro che non si deve fare. Questo tipo di decisione è esistito da sempre.
Lo stesso non può dirsi invece della tendenza a considerare la decisione
come un conflitto tra forze antagoniste, un conflitto cioè nel quale alla
fine il « bene » vince sul « male ».
Una tale considerazione del fatto morale è ancora estranea all' epos
omerico. L'antica lirica greca parla sì di contraddizioni nell'uomo -
l'uomo che desidera intensamente e insieme ha paura, e così via - ma
non riconduce queste contraddizioni all'azione di forze contrapposte.
Sorprendente mente ciò avviene, per la prima volta, nella tragedia attica
di Euripide. Fedra, la sposa di Teseo, innamoratasi del figliastro, sa come
dovrebbe agire, ma non riesce a farlo. La passione in lei ha la meglio
sulla ragione. È questo il nocciolo del problema. L'uomo avverte in sé
stesso una pluralità di forze delle quali - come in uno stato ben
organizzato - le une devono governare, le altre obbedire; tuttavia può
accadere una rivolta e un rovesciamento dell'ordine.
Non sappiamo donde Euripide abbia tratto questa concezione; se­
condo le nostre attuali conoscenze, è stato il primo a esprimerla. Da
alcune indicazioni che troviamo in Platone dobbiamo concludere che
accanto e dopo Euripide questa concezione è stata rappresentata dalla
Sofistica, e ciò non solo perché Platone l'ha già palesemente attaccata in
uno dei suoi primi dialoghi, il Protagora, ma soprattutto perché già il
Lachete - che è anteriore allo stesso Protagora - conosce quella sistema­
tizzazione delle passioni che costituirà più tardi per la Stoa e per altre
scuole un punto fermo sul piano dottrinale.
Fra le passioni, come mostra l'esempio di Fedra, quella amorosa ha
sempre tenuto, in un certo senso, un ruolo preminente. Ma essa non è
la sola. Accanto se ne aggiungono altre tre, così da costituire un ben
equilibrato sistema di quattro passioni: paura, tristezza, desiderio, pia­
cere. Presumibilmente si può attribuire già all' età della Sofistica una più
attenta caratterizzazione di tali passioni, anche se i primi ad averla
tramandata sono stati gli Stoici: in primo luogo, due passioni negative si
oppongono a due positive; e, in secondo luogo, abbiamo due passioni
266 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

che si riferiscono al presente e due all'avvenire. Risulta così che la paura


si riferisce a un male futuro, la tristezza a uno presente; il desiderio si
rivolge a un bene futuro e il piacere a uno presente.
Un passo di uno scritto del sofista Gorgia mostra come già nell' età
della Sofistica le conseguenze pratiche delle passioni fossero diventate
oggetto di discussione l. Egli s'interroga sulla responsabilità morale della
bella Elena che aveva causato la guerra di Troia, per essersi fatta rapire
dal principe troiano Paride. Elena dev' essere scagionata, se ha agito sotto
la potenza dell'amore, cioè se è stata vinta da una passione divina e
dunque non era padrona di sé stessa. Questo scritto lascia credere che a
quell'epoca in Atene l'indagine giuridica si occupasse di siffatti problemi.
Certo, in molti casi le quattro passioni suddette possono avere avuto
un'importanza minore rispetto a una quinta che nell'antichità ha tenuto
un posto di particolare rilievo: l'ira. Essa divenne str.aordinariamente
importante non solo perché nel temperamento dei popoli antichi en­
trava in gioco più facilmente di qualunque altra passione, ma anche
perché fin da principio essa presentava notoriamente un'ambivalenza sul
piano morale che le altre passioni non possedevano allo stesso modo:
esiste infatti un'ira giusta e una ingiusta e la religione parla dell'ira degli
dèi.
Dal punto di vista della storia della filosofia colpisce il fatto che né
Platone né Aristotele abbiano prestato particolare attenzione al pro­
blema delle passioni. Quando vi alludono, ciò avviene incidentalmente.
Ma con l'ellenismo la situazione cambia quasi all'improvviso. La lotta
contro le passioni diventa l'istanza di fondo dell'etica stoica come dell'e­
picurea. Le passioni appaiono come il nemico mortale della vita perfetta,
come la malattia che porta l'anima alla rovina, se non interviene tempe­
stivamente a salvarla -: come un medico - la filosofia. Non è qui il
luogo di vedere come si sia giunti a questo mutamento d'interesse. Può
darsi che uno studio più attento del pensiero di Aristotele possa un
giorno farcelo sembrare meno repentino di quanto oggi non ci appaia.
Ma lasciamo da parte questo problema. La posizione di Platone nei
'confronti delle passioni è sostanzialmente espressa nel Protagora. Egli
reputa impossibile che un essere umano, come la mitica Elena, possa
essere stato vinto da una passione, giacché l'ordine che egli presuppone
nell'uomo non ammette che l'elemento inferiore possa in lui avere la
meglio sul superiore. Pertanto ciò che volgarmente chiamiamo vittoria
delle passioni sulla ragione, deve in realtà essere diversamente interpre­
tato, come un errore della stessa ragione. Le due forze antagoniste

l D .K 82B 1 1.
LE PASSIONI 267

diventano cosÌ la conoscenza e l'ignoranza. L'unico vero male che può


traviare l'uomo è l'ignoranza la quale - come dice il suo stesso nome -
non è una forza autonoma, ma una pura deficienza di sapere ner con­
fronti del vero bene. Chiunque conosce realmente il bene, lo fa, e
nessuna volontà malvagia, dominata dalla passione, riesce a prevalere
nell'uomo.
Platone non è mai espressamente uscito da questa posizione, anche
se in lui si trovano affermazioni denotanti una diversa direzione di
pensiero. Nel suo grande dialogo sulla Repubblica, che insieme presenta
una teoria dello Stato e una dottrina dell' anima, egli stabilisce dei
singolari collegamenti tra le classi dello stato e le tre parti dell'anima
raziona�e, irascibile e concupiscibile che vengono reciprocamente coordi­
nate. La virtù della prima è la prudenza, della seconda la fortezza, della
terza la temperanza. Ma di più non si dice sul conflitto fortezza-paura e
temperanza-desiderio; e neanche sull'ira, sebbene sia chiaro che tanto la
'
classe de llo stato quanto la parte dell'anima che posseggono la virtù della
fortezza abbiano un rapporto specifico con questa passione.
D'altra parte, quando Platone descrive la dissoluzione dello stato
perfetto, quella che entra in gioco non è, ad esempio, la serie delle
passioni alla quale si riferisce il Lachete, ma un'altra parte di forze
emotive che, seppur antica, si pone accanto a quella delle passioni senza
tuttavia coordinarvisi. Queste forze emotive sono: il desiderio di onori
(<ptÀO'tt(J.LCX), il desiderio di denaro (<ptÀoXPTj(J.CX'tLCX) e il desiderio di piacere
(<ptÀTjOOVLCX). Probabilmente esse furono insieme collegate già molto
tempo prima di Platone e successivamente, in quanto riprovevoli, fu­
rono contrapposte al « desiderio » nobile, l'amore della sapienza (<ptÀo­
crO<pLCX). Questo gruppo di forze giuoca un ruolo importante nel morali­
smo edificante di Aristotele e degli Stoici, ma non ha nulla a che vedere
con la teoria delle passioni.
In Aristotele la situazione è assai confusa. L'Etica Nicomachea non
conosce una vera e propria teoria delle passioni ma ne raccoglie insieme
soltanto gli elementi costitutivi. In essa Aristotele esamina fino a che
punto singole passioni possono limitare la responsabilità morale. Le serie
di concetti temerità-fortezza-viltà o indisciplina-dominio di sé-apatia ven­
gono interpretate soltanto dal punto di vista dell'ubbidienza o disubbi­
dienza della parte irrazionale dell'anima alla ragione. Quel che più
importa è la distinzione, operata da Aristotele, tra due specie di trasgres­
sione del dominio di sé. La prima è l'indisciplina, che si ha quando la
ragione stessa ì! pervertita ed ha il convincimento che è giusto rinunciare
al dominio di sé; la seconda è l'incapacità di dominarsi per la quale
l'uomo, pur sapendo perfettamente quel che dovrebbe fare, n�m è capace
di far prevalere la ragione sugli impulsi eccessivi della parte irrazionale.
268 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFiA ANTICA

Sembra tuttavia che Aristotele abbia trattato più approfonditamente


il problema nelle opere perdute. Egli aveva dinanzi una dottrina che
richiedeva dall'uomo perfetto la totale estirpazione delle passioni, ossia la
soppressione di ogni paura, tristezza, desiderio, piacere e, naturalmente,
dell'ira; solo così si potevano assicurare il dominio della ragione e l'imper­
turbata tranquillità dell'anima. Furono forse i rappresentanti di tale dot­
trina a preparare il seguente aneddoto: dopo la morte di Socrate, la moglie
Santippe raccontava che il marito, in mezzo a tutte le vicissitudini della
fortuna di Atene, era rimasto sempre lo stesso ed aveva conservato
immutata l'espressione del volto, sia quando usciva di casa al mattino che
quando vi tornava la sera. Egli infatti si adattava di buon animo a ogni
situazione, conservando sempre la cordialità del suo temperamento e
stando al di sopra di ogni tristezza o paura 2.

L'ideale di una ferrea impassibilità, che nulla può turbare né intac­


care, che non si lascia vincere dall'ira, si va sempre più affermando in età
ellenistica. Ma Aristotele, che già conosceva questo ideale, non sarebbe
stato quello che fu, se non lo avesse giudicato inumano e, in ultima
analisi, aberrante. Il suo intendimento in proposito era di guidare le
passioni, non di estirparle. È dunque verosimile che egli abbia coniato
quel motto che la sua scuola ha poi contrapposto alle dottrine dell'impas­
sibilità; conforme a natura non è l'apatia ma la metriopatia che consiste
nel lasciar agire misuratamente le passioni.
Leggiamo la giustificazione di questo principio in un'esposizione che
ne fa Cicerone J. In primo luogo la fortezza sul campo di battaglia o nella
lotta politica è impensabile senza la collera; inoltre Temistocle non sa­
rebbe diventato mai grande uomo senza un appassionato desiderio di
gloria, mentre il desiderio del sapere ha spinto uomini come Pitagora,
Democrito e Platone a compiere i loro viaggi di studio. Allo.stesso modo
'
la tristezza ha i suoi lati positivi: chi ha commesso delle colpe e si è
attirato un giusto biasimo, deve essere rattristato; viceversa, un dolente
sentimento di solidarietà rientra nei doveri dell'umanità verso gli infelici.
Infine, anche della paura non si può fare a meno; l'ordinato svolgimento
della vita sociale richiede che l'uomo tema le leggi e le autorità, la povertà
e il disonore, il dolore e la morte. Gli eccessi di queste passioni vanno
indubbiamente combattuti, ma esse sono legittime entro i limiti conve­
nienti. Non è possibile né ragionevole estirparle dall' anima.
Si comprende facilmente perché la Stoa abbia attaccato con vigore
questa dottrina della « metriopatia ». Per essa infat ti la passione è, in ogni

2 AEL. Varo hist. IX 7.


J Cic. Tusc. disp. IV 3 8-46.
LE PASSIONI 269

caso, un fenomeno patologico che non può essere tollerato. Ma cosÌ non
si chiarisce se l'essenza della passione debba essere definita con Zenone
« uno straripamento dell'istinto che fa deviare la ragione verso opinioni
e decisioni sconsiderate » 4, o piuttosto, con Crisippo, una perversione
della stessa ragione che si smarrisce in giudizi errati sul bene e sul male.
Singolare è certamente la conclusione di Crisippo secondo il quale né il
bambino né l'animale possono avere passioni, proprio perché la passione
non è altro che ragione pervertita. Ora, né il bambino né l'animale
posseggono la ragione.
L'estirpazione della passione è, per lo stoico, uno dei compiti prin­
cipali della filosofia. In quest' opera il filosofo deve dimostrare di essere
medico dell'anima che egli sa ricondurre alla salute grazie a un metodo
ben ponderato. Ma prima di considerare l'aspetto terapeutico del pro­
blema, dobbiamo dare un rapido sguardo al sistema stoico delle passioni.
Esattamente come per le virtù, la Stoa, rifacendosi a precedenti tentativi
che si possono far risalire all'età dei Sofisti, ha compilato degli ampi
elenchi, fondati sulle quattro passioni fondamentali già ricordate: deside­
rio, piacere, paura e tristezza.
Il desiderio (epithymia), si distingue in: 1. Collera (orge), che è il
desiderio di vendicare un torto presunto. 2. Rabbia (thymos), che è la
collera repressa. 3. Furore (cholos), che è la collera esorbitante. 4. Ama­
rezza (pikria), che è la collera che esplode all'improvviso. 5. Rancore
(menis), che è la collera a lungo frenata. 6. Odio (kotos), collera che
attende l'occasione della vendetta. 7. Amore (eros), che è il desiderio
dell'unione fisica, ovvero desiderio di amicizia o impulso al rapporto
amichevole suscitato dalla vista della bellezza. 8. Nostalgia (himeros), che
è il desiderio del rapporto con un amico assente. 9. Struggimento
(pothos), che è il desiderio dell'amato assente. lO. Astio (dysmeneia), che
è il desiderio che cerca l'occasione di far male a qualcuno. Il. Malvagità
(dysnoia), che è il desiderio di far male a qualcuno per amore di sé. 12.
Litigiosità (eris), che è il desiderio di far male nei contrasti. 13. Disgusto,
(hapsikoria), che è il desiderio subito appagato. 14. Rammarico (spanis),
desiderio inappagato. 15. Rudezza (trachytes), che è il desiderio inco­
stante. 16. Lo sguardo bramoso (hripsophthalmia), che è l'impazienza di
vedere l'oggetto dei nostri desideri. 17. L'agitazione (prospatheia), che è il
desiderio asservito. 18. Desiderio sfrenato di piacere (philedonia). 19. Di
ricchezza (philochrematia). 20. Di onore (philotimia). 21. Della vita (phi.
lozoia). 22. L'intemperanza (gastrimargia). 23. L'ubriachezza (oinoflygia).
24. La cupidigia (lagneia) s.

4 SVF I 205-207.
s SVF III 397.
270 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Il piacere (hedone) si divide così: 1. La soddisfazione (asmenismos),


piacere di una fortuna inattesa. 2. La gaiezza (terpsis), piacere degli occhi
e degli orecchi. 3. L'incantamento (kelesis), piacere che affascina attra­
verso l'ascolto di parole o musica. 4. La gioia maligna (epichairekakia),
piacere per la sfortuna del prossimo. 5. La suggestione (goeteia), piacere
provocato da mezzi ingannatori e ammalianti 6.

La paura (Phobos) si divide così: 1. La contrarietà (oknos), paura di


una fatica sopravveniente. 2. La vergogna (aischyne), paura della disi­
stima. 3. L'apprensione (deima), paura fondata sul mero presentimento.
4. L'angoscia (deos), paura spasmodica. 5. Lo spavento (ekplexis), paura
provocata da un'insolita impressione di minaccia. 6. Il terrore (kataple·
xis), paura provocata da un'impressione opprimente. 7. L'ansietà (psopho·
deeia) paura immaginaria. 8. Il tormento (agonia), paura di una disfatta o
paura di aspettarci il contrario del desiderato. 9. L'esitazione (mellesis),
'
che è il non voler mettere in atto ciò che si è deciso. lO. L'orrore
(orhrodia), paura provocata da determinati pensieri. 11. Il panico (thory­
bos), paura che esplode in crisi violenta. 12. La superstizione (deisidaimo­
nia) paura del divino 7.
La tristezza (lype) si divide così: La compassione (eleos), tristezza per
una sfortuna immeritata che colpisce il prossimo. 2. L'invidia (phthonos),
tristezza per l'altrui fortuna. 3. La gelosia (zelos), tristezza di vedere gli
altri ottenere ciò che si desidererebbe avere per sé. 4. Invidia (zelotypia),
tristezza di vedere che anche altri ha ciò che noi abbiamo. 5. L'abbatti­
mento (dysthymia), tristezza per una condizione difficile o addirittura
immodificabile. 6. La desolazione (symphora), tristezza provocata da
un'improvvisa disgrazia. 7. L'affanno (achthos), tristezza opprimente. 8.
La tristezza che è divenuta incapace di esprimersi (achos). 9. Il dolore
((sphakelismos), tristezza violenta. lO. L'afflizione
(penthos), tristezza per
una morte prematura. 11. Il corruccio (dyscheransis), tristezza provocata
da riflessioni che ci contrariano. 12. L'oppressione (ochlesis), tristezza per
non trovare alcuna via d'uscita. 13. Il dolore acuto e penetrante (odyne).
14. La preoccupazione che nasce dalla riflessione (ania). 15. Il penti­
mento (metameleia), tristezza delle proprie colpe. 16. Lo smarrimento
(synchysis), tristezza che ci rende incapaci di pensare all'avvenire. 17. La
disperazione (athymia), tristezza che dubita di poter raggiungere lo
scopo desiderato. 18. L'irritazione (ase), tristezza che si estrinseca in
movimenti convulsi. 19. L'avversione (nemesis), tristezza per gli immeri­
tati successi altrui. 20. L'abbattimento (dysphoria), tristezza per non

6 SVF III 40 1 .
7 S VF III 409.
LE PASSIONI 271

saper come venir fuori da una situazione presente. 21. Il lamento (goos),
pianto violento pieno di tristezza. 22. L'oppressione (barythymia), tri­
stezza che deprime e toglie il respiro. 23. La tristezza che si estrinseca in
pianti disperati (klausis). 24. L'inquietudine (phrontis), riflessione piena di
tristezza. 25. La compassione, (oiktos), tristezza per l'altrui infelicità 8.
Questo lo schema delle passioni che si legge in un manuale scola­
stico stoico di non eccezionale qualità. Cionondimeno l'abbiamo voluto
riportare, non solo perché esso consente di farsi un'idea adeguata del
gusto classificatorio proprio dell' età ellenistica, ma anche perché, dietro
quelle povere formule, si riesce a intuire il considerevole lavoro svolto
sulla fenomenologia delle passioni.
Leggendolo, non ci si deve dimenticare che per lo stoico tutta la
sfera delle passioni umane è assolutamente riprovevole e patologica. Con
ciò evidentemente si dà anche un giudizio sulla gran parte della poesia
classica dei Greci, sia drammatica che lirica. Euripide, e già prima Saffo,
non fanno altro che descrivere tali passioni.
Presupposto di ogni terapia delle passioni è l'esatta diagnosi di ogni
singolo caso. Non basta identificare la passione dalla quale l'anima è
affetta; è importante anche stabilire con quale intensità essa viene col­
pita. Anche per questo la Stoa possiede uno schema e non c'è da stupirsi
che esso si attenga strettamente a categorie mediche.
Oltre alle crisi acute, esistono tre stati morbosi della passione. Il
primo è la disposizione a una determinata malattia. Un uomo può avere
la disposizione ad andare facilmente in collera, un altro tende piuttosto
alla golosità. In secondo luogo possono instaurarsi stati morbosi dure­
voli. Frequenti crisi di collera provocano irritabilità, il bere ripetuta­
mente provoca l'ubriachezza. Certo, possono anche esserci malattie della
ragione, dovute non a desiderio ma a repulsione aberrante. Esempio
tipico ne è la misoginia e, più in generale, la misantropia.
.
In terzo luogo, si danno stati morbosi che sono accompagnati da
una particolare debolezza e che costituiscono pertanto, in certa misura,
delle invalidità acquisite.
Misure terapeutiche per tutti questi casi sono state formulate soprat­
tutto da Crisippo 9. Per prima regola, come in medicina, egli distingue la
profilassi dalla cura del malato. La profilassi si fonda su due principi: il
primo, attinto all'antica saggezza greca, suggerisce che bisogna sempre
tener fermo il convincimento della fragilità, mutevolezza e caducità delle
cose umane; e dunque che bisogna aspettarsi in ogni tempo tutto ciò che

8 SVF III 414.


9 SVF III 421-430.
272 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

può accadere inopinatamente all'uomo, secondo la sua natura. Il secondo


principio, strettamente connesso alla dottrina stoica, insegna che esiste
un solo bene, la virtù, e un solo male, la malvagità. Ogni altro giudizio
di valore riposa soltanto su opinioni preconcette.
Questa stessa convinzione - che tutte le passioni non sono che il
risultato di opinioni erronee - costituisce anche lo scopo della terapeu­
tica morale. Solo che non è possibile perseguire questo scopo in presenza
di un'anima ammalata. Crisippo si attiene alla massima medica secondo
la quale nei momenti di crisi acuta ci si deve astenere dall'intervenire e
bisogna invece attendere il momento in cui l'eccitazione comincia da sé
stessa a decrescere. Si hanno allora a disposizione i rimedi che erano già
stati indicati nelle epoche più remote e cioè: far comprendere l'inutilità
del dolore (Crisippo sembra aver esposto la sua terapia soprattutto in
relazione al caso dell'uomo triste per la dipartita dei propri cari), la
sconvenienza di un comportamento non controllato e poco virile, e far
rilevare la condotta esemplare di altri uomini. Soltanto dopo - con
un'analisi razionale della situazione data - si deve dimostrare che i
motivi della passione non sono validi e che si fondano su un falso
giudizio.
Si ristabilisce cosÌ la serenità, che è il segno distintivo di una sana
ragiOne.
La Stoa non ha ovviamente ignorato l'obiezione che si- poteva
facilmente muovere al suo ideale dell'« apatia »: quella di ridurre l'uomo
all'insensibilità di una pietra. Essa ha certo combattuto l'ideale peripate­
tico della « metriopatia » , ma bisogna anche rilevare che, al di là delle
passioni, essa ha ammesso tre impulsi di natura razionale che, pur
possedendo i tratti delle passioni, tali in realtà non sono. Se è vero che
la ragione del saggio, consapevole della sua perfezione, non prova alcun
piacere, tuttavia conosce la gioia; se pur ignora la concupiscenza, tuttavia
conosce il desiderio razionale; se ignora la paura, tuttavia sa evitare
ragionevolmente i mali. Solo la tristezza non ha un corrispettivo, es­
sendo escluso che esista un male per il quale il saggio possa provare
dolore. Detto alla rovescia, lo stesso principio suona cosÌ: secondo la
dottrina stoica delle quattro passioni fondamentali, la tristezza è la
peggiore e la più pericolosa, poiché essa nasce dalla presenza di un male,
negando cosÌ la fondamentale qualità del saggio, che è l'interiore invul­
nerabilità.
Resta ora da esaminare la dottrina di Epicuro, nella quale troviamo
naturalmente una situazione particolare. Piacere e dolore, sia per il
corpo che per l'anima, sono i due poli tra cui si muove l'azione morale.
Se il dolore e la tristezza sono i due mali più grandi - e qui Epicuro è
in certo modo d'accordo con la Stoa - il piacere, nelle due forme sopra
LE PASSIONI 273

menzionate, è il fine supremo. Su un piano del tutto diverso stanno le


altre due passioni del vecchio schema: la paura e il desiderio. Una
differenza può forse trovarsi nel fatto che dolore e tristezza non possono
mai essere evitati del tutto, mentre la filosofia, dal suo canto, s'incarica
di assoggettare completamente paura e desiderio. Ora questi due termini
significano qui esattamente: paura della morte, dell' al di là e degli dèi, e
desiderio dei piaceri corporei (mangiare, bere, piaceri sessuali) e dei beni
esteriori (ricchezze, onori, potenza, etc.) .
È possibile estirpare completamente la paura. La riflessione sulla
natura dell'anima, dell'universo e degli dèi non ha, in senso stretto, altro
scopo che quello appunto di vincere questa passione. Chi sa che l'anima
è mortale, che nel cosmo non c'è posto per l'Ade e che gli dèi hanno
altro da fare che darsi pensiero delle faccende umane, non ha più motivo
di aver paura.
Per quanto riguarda il desiderio, Epicuro nel suo « catechismo »
introduce una distinzione che sembra essergli stata suggerita da Aristo­
tele: « Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non
necessari, altri né naturali né necessari, ma nati solo da vana
opinione » l 0. E a completamento di questa si possono ancora citare altre
due massime del « catechismo ». La prima dice: « tutti quei desideri che,
se non esauditi, non arrecano vera sofferenza, non sono necessari: il loro
stimolo è tale da potersi aumentare facilmente quando appaiano indiriz­
zati a cose difficili a ottenersi, o siano tali da recar danno » 1 1.

La seconda dice: « La ricchezza secondo natura ha confini ben


precisi ed è facile a procacciarsi, quella secondo le vane opinioni cade in
un processo all'infinito » 1 2. Epicuro quindi non intende estirpare i
desideri ma disciplinarli rigorosamente. Sono legittimi quei desideri che
servono a mantenere la vita im mune dal dolore. Ma egli è persuaso - e
lo ha detto in molte sentenze - che questi desideri possono essere
soddisfatti facilmente e senza difficoltà, dato che l'uomo ha bisogno di
poco per la sua tranquillità. Il superfluo è scusabile, per quel tanto che
esso rientra nei limiti della natura umana; viceversa è ingiustificabile ciò
che è contrario alla natura e soprattutto la dissolutezza insensata per la
quale l'uomo si autodistrugge.
Non si deve dimenticare che Epicuro ha combattuto passioni come
la paura e il desiderio non necessario, non perché esse minaccino il
dominio della ragione. Non è questo per lui il motivo determinante.

lO EPIC. Ratae sento XXIX, tr. it. di M. Isnardi Parente in Opere di Epicuro cit., p. 20 I .
11 ID. Ibid. XXVI, tr. it. cit., p. 200.
12 ID. Ibid. XV, tr. it. cit., p. 198.
274 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Quel che gli importa invece è la tranquillità e la pace interiore, il riparo


dai tumulti interni ed esterni a noi. Si devono respingere i piaceri non
comuni, perché la loro fruizione comporta fatica, agitazione e disagi; ed
essi non ne valgono la pena. Sotto questo riguardo Epicuro è l'erede di
una saggezza che risale agli antichi Ioni e che noi conosciamo soprat­
tutto attraverso le sentenze che, a torto o a ragione, gli antichi attribui­
vano a Democrito. Queste sentenze sono ancora ben lontane dal consi­
derare le passioni come un problema filosofico appartenente a una sfera
specifica dell'anima, ma esaltano esclusivamente uno stato di tranquilla
soddisfazione nel quale l'uomo non è turbato né da sé stesso né dalle
cose esteriori, lo stato dell'atarassia, dell'imperturbabilità. Queste rifles­
sioni influirono in parte su Aristippo ma maggiormente e più diretta­
mente su Epicuro. Per amore di una tale tranquillità egli ha combattuto
la paura e ha imposto limiti ristretti ai desideri.
CAPITOLO UNDICESIMO

La comunità umana

CIò che noi oggi chiamiamo amicizia riveste già nella riflessione prefiloso­
fica dei Greci un ruolo di eccezionale importanza. A partire dalla fine del
VII secolo a.c., epoca dalla quale comincia la nostra conoscenza storica
del mondo greco, questo presenta dal punto di vista politico e sociale
continui mutamenti. Gli stati greci sono in lotta gli uni contro gli altri e,
al loro interno, le rivoluzioni si succedono alle rivoluzioni. Le fondazioni
di colonie e le guerre contro i popoli non greci finiscono per accrescere
l'agitazione. Quando il singolo vuoI farsi valere, cerca anzitutto di fare
esclusivo assegnamento su sé stesso ed è indotto a costituirsi da sé la base
della sua potenza. In questa situazione si formano due poli contrapposti
di valori dei quali dobbiamo ora occuparci. Il primo di essi è l'unione
liberamente scelta di uomini accomunati dagli stessi sentimenti (ossia da
ciò che si chiama amicizia), la cui fidatezza tanto più viene apprezzata
quanto più confusi si fanno tutti i rapporti esterni. Dall'altro lato sta
l'ideale dell'autarchia per il quale l'individuo organizza la propria vita in
modo da non dover dipendere né dover ricorrere a nessuno.
Per quanto riguarda l'autarchia, si pone la questione se essa sia
attuabile nei fatti. Nessuno dei Greci ha mai dubitato che essa fosse un
bene inestimabile, nel caso che si potesse effettivamente realizzare.
Quanto all'amicizia, essa dà luogo ad una quantità di problemi.
Come nasce e che cosa è propriamente l'amicizia? Come si conserva?
Fino a che punto essa può e deve spingersi? Come si distinguono i veri
dai falsi amici? E cosÌ via.
Quest'ultimo problema ha occupato un posto straordinariamente
importante nella riflessione prefilosofica. Questa contrapponeva all'amico
l'adulatore come pericoloso antagonista. L'adulatore dice solo ciò che
piace (ragion per cui si è potuto fare la caricatura, ad esempio, della poesia
o dell'etica del piacere quali « arti adulatorie » ) , mentre il vero amico si
riconosce dal fatto che ha il coraggio di dire anche le verità spiacevoli.
L'intrepida franchezza è uno dei più nobili tratti distintivi dell'amico
autentico e, più tardi, del filosofo autentico.
Non sappiamo se e in che maniera la Sofistica ha trattato questo
tema. Viceversa dalla Socratica ci sono pervenuti numerosi scritti sull'ar-
276 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

gomento: Platone, Senofonte, Aristippo e i -suoi discepoli hanno trattato


ampiamente la questione.
Nel Liside Platone mostra già di aver portato molto avanti l'impo­
stazione del problema nei suoi termini essenziali. Ne ricaviamo i due
più importanti nodi problematici. Anzitutto si pone l'alternativa se
l'amicizia si fondi sulla somiglianza o sull' opposizione. Quando si dice
che l'uomo di animo nobile è amico del suo simile, appar chiaro che
l'amicizia è fondata sulla somiglianza. Ma a questo punto sorgono due
importanti obiezioni: 1. L'amicizia significa possibilità di riuscire reci­
procamente utili: ma se gli amici A e B sono tra loro simili o uguali,
non possono aiutarsi l'un l'altro; infatti B non può dare ad A nulla che
questi già non abbia o che non riesca a procacciarsi. 2. Se tuttavia B
riesce utile ad A, ciò significa che egli dà ad A qualcosa di cui questi è
privo. Allora A non è certamente un uomo nobile né perfetto, perché
chi è tale non manca di nulla, tanto meno della virtù: egli basta a sé
stesso.
Ma può verificarsi il caso inverso, che cioè gli uomini simili si
respingano reciprocamente e che i contrari si attirino. Ciò appare credi­
bile fin quando non ci si pone sul piano dell' etica, dove sembra assurdo
ammettere che il giusto possa essere amico dell'ingiusto e che l'onesto
possa essere amico del dissoluto.
Ecco perché nel secondo gruppo di questioni le cose procedono in
modo diverso. Socrate gradualmente arriva a formulare la seguente defi­
nizione: l'amicizia esiste tra due individui A e B, quando A non è né
buono né cattivo e B è buono. Ma bisogna introdurre ancora due
importanti distinzioni: 1. B è amato o perché è buono o perché conduce
ad un altro bene. Entra cosÌ in giuoco la gerarchia dei mezzi e dei fini.
Pertanto la nostra amicizia si rivolgerà anzitutto a un bene che guarda
oltre sé stesso - il Simposio enumera tutta una gerarchia di tali beni -
e, in definitiva, a quell'unico vero bene che ha in sé stesso il suo
significato e il suo fine. 2. A ama il bene perché e nella misura in cui
non lo possiede ed è minacciato dal male. Allora è la sola presenza del
male a motivare l'amore verso il bene? E l'amore si estingue quando il
male non è più presente? Quest'ipotesi è manifestamente inadeguata.
Dunque l'amicizia che Platone ha di mira è quella di A che non è né
buono né malvagio verso B che è in sé buono e perfetto, e ciò non per
poter cosÌ scacciare il male, ma perché il bene ha in sé il potere di
attrarre tutto ciò che non è completamente cattivo. B dunque è diverso
da A e tuttavia ad esso « affine » . L'amicizia che Platone descrive è
dunque, in ultima analisi, la stessa filosofia come amore dell'uomo verso
il bene eterno. E ciò che qui caratterizza il suo pensiero è il fatto che
un'esigenza originariamente di natura etica si risolve in un'ontologia del
LA COMUNITÀ UMANA 277

bene. Il che vale non solo per il Liside ma anche per l'assai più celebre
Simposio.
Queste prospettive si dovevano qui necessariamente richiamare, per­
ché esse derivano da un complesso di problemi che è d'importanza
centrale nel dominio dell'etica. Si parte anzitutto dalla premessa che è
assolutamente impossibile l'amicizia con un malvagio o tra un malvagio
ed altri malvagi (il che porta tra l'altro alla conseguenza che uomini
malvagi non possono formare tra loro una comunità politica durevole) .
La Stoa professa la stessa dottrina, mentre la posizione di Aristotele è
più sfumata. In secondo luogo Platone sembra stabilire il principio che
tra due esseri perfetti non può esistere amicizia, giacché ciò che è
perfettamente buono basta a sé stesso. Inoltre può esistere un'amicizia di
A imperfetto verso B perfetto, ma non il contrario (il che solleva
evidentemente difficoltà di ordine teologico) . In terzo luogo infine,
l'amicizia di A imperfetto non è semplicemente espressione della sua
manchevolezza; essa non esiste soltanto perché e nella misura in cui A
ha bisogno di completamento e di aiuto. Abbiamo piuttosto a che fare
con un'inclinazione originaria, all'amore verso il perfetto che sfocia non
in un desiderio ma in un puro atto di omaggio.
A differenza di Platone che, nella sua dottrina dell'amicizia e dell'a­
more, trapassa costantemente nell'ontologia - mentre, come abbiamo
visto, nella cosmologia egli dà, per cosÌ dire, un posto di centralità alle
categorie etiche - Senofonte rimane rigorosamente nell'ambito dell'e­
tica. Quando egli fa parlare Socrate sull'amicizia - il che capita spesso
- gli mette in bocca il linguaggio dell' ateniese di buona famiglia, consa­
pevole del valore della tradizione, che dà grande importanza ai corretti
rapporti sociali; e anche ·quello dell'ufficiale che sa apprezzare il valore
dei compagni fidati e onesti e che ha molto riflettuto sul modo di
conqui ;tarseli e conservarseli.
Presupposto di ogni amicizia è naturalmente la virtù. In Senofonte
essa di preferenza comprende il dominio di sé, la resistenza fisica e
l'autosufficienza; a queste virtù si aggiungono, in particolare, la libertà
dall'avarizia e dalla prodigalità, come anche la volontà di beneficare gli
altri e di contraccambiare, per gratitudine, il bene ricevuto.
Il significato di ogni amicizia consiste nel rendersi utile. Si sceglie
come amico colui al quale si può riuscir utili, e si è degni dell'altrui
amicizia nella misura in cui si può esser utili. Con questo concetto di
« utilità », che Platone sfugge ma che la Stoa ha fatto proprio, Senofonte
intende sia la capacità di educare alla virtù o di rimettere sulla giusta via
. l'uomo soggetto a sbagliare, sia la disposizione ad assistere col consiglio
e con l'opera chi trova difficoltà a prendere una decisione o versa in uno
stato di bisogno senza sua colpa. Utile riesce pertanto l'uomo prudente e
278 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

virtuoso e conformemente a ciò nascono anche le amicizie. Chi vuoI farsi


un amico, deve anzitutto badare ad essere egli stesso virtuoso e, in
secondo luogo, a scegliere un uomo virtuoso; infine se ne conquisterà
l' amicizia, se riconosce sinceramente la sua virtù. Non l'adulazione ma la
lode fondata sul rispetto della verità è, per Senofonte, la via giusta che
porta all' amicizia.
Apparentemente alla stessa maniera di Platone, Senofonte discute tre
casi possibili: esiste amicizia tra i malvagi? Evidentemente no. Oppure:
tra buoni e malvagi? Neanche. 0, infine: tra i buoni?
Gli interrogativi che Platone s'era posto sull'autosufficienza del bene
e sui rapporti del bene con l'amicizia, non toccano Senofonte. Questi
invece, come soldato e come storico, è interessato a un altro problema:
l'esperienza dimostra che molto spesso i « buoni » sono tra loro in
conflitto. Esistono rivalità tra i singoli come tra gli stati, e spesso un
contendente è altrettanto onesto dell'altro. I buoni possono dunque essere
tra loro nemici. Senofonte non lo nega. Egli cerca allora di distinguere tra
inimicizia buona e cattiva: anche tra i buoni, in determinate circostanze,
possono nascere conflitti e tensioni, ma giammai arroganza né invidia. Il
problema è, in sé stesso, più importante di quanto non appaia dalla
esposizione sempre troppo semplificativa che ne fa Senofonte: fino a che
punto possono andare i conflitti senza nuocere alla virtù e, in definitiva,
senza mettere a repentaglio il germe di una potenziale amicizia? In questa
forma il problema è l'esatto contrario dell'altro, di cui più tardi si è
principalmente occupato Cicerone: fino a che punto può giungere la
solidarietà tra gli amici, senza porre in pericolo i più alti valori della
virtù?
Bisogna infine rilevare la maniera in cui Senofonte considera le
diverse specie di rapporti umani. Al centro sta l'amicizia che Socrate
dimostra verso i giovani o anche verso gli adulti, educandoli e consiglian­
doli. Sul valore dell'amicizia erotica tra uomini e ragazzi Senofonte non
sembra avere le idee molto chiare. I suoi giudizi in proposito oscillano tra
il rifiuto indignato e l'approvazione esitante. Platone invece si era mo­
strato, sulla questione, assai meno prevenuto. Senofonte infine ha dedi­
cato grande attenzione ai rapporti tra uomo e donna, tra madre e figlio e
tra fratelli.
Dopo Platone e Senofonte, bisogna ricordare il socratico Aristippo
con i suoi discepoli, i Cirenaici. Secondo le fonti antiche essi hanno
dedicato particolare attenzione al problema dell'amicizia. Disponiamo, in
proposito, di due distinti gruppi d'informazioni.
Troviamo anzitutto l'affermazione - assolutamente in linea col so­
cratismo di Senofonte - che l'amicizia si fonda sull'utilità. Si attribuisce
ad Aristippo questa espressione drastica, che leggiamo anche in Senofonte:
LA COMUNITÀ UMANA 279

come tagliamo e buttiamo via i capelli o le unghie che, divenuti troppo


lunghi, ci danno impedimento, così dobbiamo fare con l'uomo - anche
il più vicino a noi - che non ci è di nessuna utilità I.

Un discepolo d i Aristippo n e h a tratto l a conclusione che l'amicizia,


la benevolenza e la gratitudine non hanno in sé alcuna realtà, dato che
esse sono prive d'oggetto nel momento in cui perdono la loro utilità 2.

Altri discepoli, viveceversa, hanno difeso la tesi secondo la quale l'amici­


zia si fonderebbe non sulla sola utilità ma anche sulla benevolenza che
nasce dai rapP9rti umani. In nome di questa benevolenza si accetterebbe
per l'amico persino la sofferenza J.
Un'altra maniera di considerare il problema muove dal concetto del
saggio come uomo perfetto. Ecco come viene riferita, in proposito, la
dottrina di un discepolo d'Aristippo: « Il saggio agisce sempre per sé
stesso, giacché è convinto che nessun altro lo eguaglia in valore; e anche
quando sembra che il saggio tragga da un altro uomo il maggior
vantaggio, questo è in realtà ben lungi dall'uguagliare il vantaggio che
egli procura all'altro » 4. Muovendo da un punto di vista completamente
diverso, un altro discepolo di Aristippo giunge a un risultato analogo:
« Non si può considerare come un fine proprio la felicità di un amico,
perché questa felicità non può essere provata da un altro uomo » 5.
Questo pensiero ci richiama la teoria soggettivistica della conoscenza,
della quale si è già brevemente discorso.
Teodoro, l'ultimo importante esponente della dottrina di Aristippo,
sembra - secondo le fonti - aver sintetizzato nel seguente argomento le
due fondamentali prospettive del problema: « L'amicizia non esiste,
perché non si trova né negli stolti né nei saggi. Non è negli stolti,
perché essa è legata all'utilità e insieme con questa finisce; non è nei
saggi, perché questi bastano a sé stessi e non hanno bisogno dell'utilità
che gli amici potrebbero loro apportare » 6.

Cade a questo punto opportuno - in rapporto a quel che si è detto


- richiamare la dottrina di Epicuro. Già l'antichità aveva rilevato in lui
una singolare discrepanza tra il pensiero e la vita. Le amicizie degli
Epicurei erano celebri e lo stesso Epicuro nel suo « catechismo » aveva
scritto: « Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice,

I XENOPH. Mem. 1 2 , 52-54.


2 S i tratta di E gesia Cirenaico. Cf. frr. VI 1 -2 Giannantoni.
J È dottrina di A nniceri C irenaico e seguaci. Cf. fr. VII 3 Giannantoni.
4 Cf. fr. VI 1 Giannantoni.
5 Cf. fr. VII 3 Giannantoni.
6 Cf. frr. VIII 23; 2 5 Giannantoni.
280 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

il bene più grande è l'acquisto dell'amicizia » 7. Similmente Epicuro è


stato il primo uomo dell'antichità le cui lettere sono state intenzional­
mente raccolte e più tardi pubblicate, per servire da libro consolatorio
ed edificante ai suoi discepoli.
Viceversa, la dottrina dell'amicizia ha in Epicuro un carattere deci­
samente razionalistico, in tutto conforme al suo pensiero filosofico. Nel
compendio di etica epicurea utilizzato da Cicerone (forse si trattava
addirittura di un parziale commentario al « catechismo » ), si menzionano
tre tesi sull'amicizia. La prima dice: per il singolo uomo, il piacere che
può provare è il fine supremo. E anzitutto, il piacere dell'amico non
può mai essere per lui fine allo stesso modo. Viceversa, il piacere
personale ha consistenza solo se è assicurato da una cerchia di amicizie
sicure. Perciò il piacere dell'amico deve starci altrettanto a cuore del
nostro, poiché questo senza quello è destinato a correre i più grandi
pericoli. La seconda tesi cerca di ridurre la portata della prima: essa
distingue tra inizio e sviluppo di un'amicizia. Questa com incia, secondo
la prima tesi, in quanto mezzo necessario al fine di favorire il piacere
proprio. Tuttavia il progredire dell'amicizia dà luogo alla consuetudine e
alla familiarità e l'individuo finisce per amare i suoi amici per sé stessi.
La terza tesi infine sembra voler limitare l'amicizia solamente ai saggi:
« L'amicizia è un contratto tra i saggi, per il quale essi si impegnano ad
amarsi vicendevolmente come amano sé stessi » 8.
Prima di Epicuro, Aristotele aveva già trattato sulla base più larga il
problema dell'amicizia. Nella sua Etica Nicomachea egli dà all'amicizia
uno spazio più ampio rispetto a qualunque altro particolare problema
etico. Anche la trattazione che ne fa è, oggettivamente, di un'ampiezza
sorprendente 9. Egli discute i più semplici fatti dell'esperienza come le
prospettive teologiche. Qui ci limitiamo a trattare solo pochi punti
essenziali.
Per prima cosa Aristotele decide la questione se l'amicizia esista tra
uguali o disuguali con la formula metodica che gli è propria: « Non
solo . . . ma anche ». L'amicizia esiste non solo tra individui uguali per
condizioni esterne e qualità intrinseche, ma anche tra disuguali come, ad
esempio, tra genitori e figli, uomo e donna e, più in generale, tra vecchi
e giovani o tra governanti e governati. Qui ogni membro apporta alla
comunità il suo particolare contributo. Il che giustifica la norma se­
condo cui i doveri dell'amicizia sono tra loro assai diversi. Non si è

7 EPIC. Ratae sento XXVII, tr. it. di M. Isnardi P arente in Opere di Epicuro cit., p 200 . .

8 CIC. Defin. 1 65-70.


9 A l problema dell'amicizia A ristotele dedica infatti gli interi libri VIII e IX dell'opera.
LA COMUNITÀ UMANA 281

tenuti a d obbedire a l padre i n una faccenda che spetta a l competente; n � i


confronti di un compagno di viaggio incontrato casualmente non si
hanno gli stessi obblighi che verso il proprio fratello, e cosÌ via.
Inoltre Aristotele distingue tre tipi fondamentali di amicizia. Il
valore che si tenta di trovare nell'amicizia può essere sia il bene, e
dunque la virtù, sia la soddisfazione e il piacere, sia infine l'utile e il
profitto. È evidente che solo il primo tipo di amicizia è durevole ed è
protetto contro le rovine e gli attacchi dall'esterno. Il secondo tipo è
quello ricercato probabilmente dai giovani e che, per lo più, finisce
insieme con la giovinezza. Il terzo tipo è proprio dei vecchi che pensano
soltanto alla salvaguardia dei loro interessi. Nella sua forma concreta
non la si può più chiamare amicizia. Aristotele distingue ancora l'amici­
zia che si fonda su un'aperta inclinazione reciproca, dalla simpatia che si
può provare per un uomo del tutto sconosciuto e dalla concordia che
denota il particolare sentimento della solidarietà politica. Questa no­
zione di « ÒfL6\10LCX » è divenuta, già nell' Atene del V secolo, una parola
d'ordine di grande importanza politica. I Romani l' hanno ripresa chia­
mandola « concordia » e in questa forma essa ha avuto ancora una sua
importanza nella rivoluzione francese.
Questioni particolari sono poi, ad esempio, le seguenti: come ci si
deve comportare con un amico il cui carattere cambia cogli anni, al
punto che l'amicizia non trova più una base comune? Si deve amare più
sé stessi che gli altri? A questa questione si risponde che nel dominio
delle virtù e dei beni spirituali si ha il dovere di amare e di favorire sé
stessi al massimo, mentre cosÌ non va fatto per gli altri beni. Si devono
avere quanti più amici è possibile o invece pochi e ben scelti? Evidente­
mente bisogna scegliere la seconda alternativa, non fosse altro perché la
virtù, su cui si fonda la vera amicizia, è un bene estremamente raro. Si
ha bisogno di amici più nella fortuna che nella sfortuna? A ben vedere,
se ne ha bisogno in ambedue i casi.
Per concludere, accenniamo al problema di gran lunga più impor­
tante: l'uomo perfetto ha bisogno o no di amici? In questo capitolo la
questione si è presentata più volte, e nessuno tra i filosofi antichi l'ha
studiata più a fondo di Aristotele. Riassumiamo qui le sue argomenta-
;
zioni che ci sono pervenute in molteplici varianti. Da una parte sembra
che l'uomo perfetto basti a sé stesso, come basta a sé stesso dio.
Dall'altra parte, tuttavia, bisogna tener conto di due fatti: 1. Proprio
nella misura in cui la perfezione può chiamarsi divina, essa sente il
bisogno di comunicarsi agli altri per far del bene; ad essa occorrono
amici, non per ricevere alcunché da loro ma per partecipare ad essi il
bene. Inoltre essa ha coscienza del suo valore e desidera scorgere attorno
a sé altra perfezione simile. 2. Aristotele tuttavia non dimentica mai che
282 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

di fatto si tratta sempre di una perfezione umana, e dunque limitata, che


non può uguagliare quella divina. Ciò avviene invece, in una maniera del
tutto particolare, sul piano della contemplazione. L'oggetto della medita­
zione, adeguato a un essere perfetto, è la stessa perfezione. Perciò l'attività
dell' intelligenza divina consiste nel « pensiero di sé », nella più piena
realizzazione del motto delfico « Conosci te stesso » . Ma l'uomo non è
capace di una tale conoscenza di sé, egli non può contemplare la perfe­
zione stessa se non riflessa in un altro uomo. Come dio contempla sé
stesso, così l'uomo perfetto contempla l'amico perfetto. Lo stesso avviene
nel dominio della prassi. Anche la conteplazione è un'attività che si
svolge in dio ininterrottamente ed eternamente con uguale purezza, men­
tre l'uomo può infiacchirsi o desistere. Ma se l'uomo resta solo, questo
pericolo diventa maggiore che se ha attorno a sé degli amici di ugual
valore.
Si dimostra così che anche l'uomo perfetto ha bisogno di amici, sia
per mettere alla prova la sua stessa perfezione sia per renderla più sicura.
Il « Conosci bene te stesso >: che dio realizza nella sua pura riflessione, lo
realizza anche l'uomo nel contempaare l'amico.
Resta infine la Stoa. Nella sua polemica contro Epicuro essa ritiene la
comunità umana saldamente ancorata alla natura. L'amicizia non va misu­
rata dalla sua capacità di accrescere o di difendere il piacere. Essa cresce
per un impulso originario alla socievolezza. La familiarità naturale spinge
l'uomo verso il suo simile. La Stoa riprende, con tutta evidenza, la
formula aristotelica - della quale parlere� nel prossimo capitolo -
secondo cui l'uomo è per natura un essere che forma delle comunità
sociali e politiche. Gli Stoici, andando oltre Aristotele, vedono nella
disposizione a trasmettere e a ricevere cultura uno dei tratti distintivi
della natura umana.
Naturalmente ci troviamo dinanzi a una ben diversa situazione, non
appena passiamo dalla sfera della conformità alla natura a quella della
'
conformità alla virtù. A questo punto viene formulata nella maniera più
decisa la contrapposizione tra saggi e stolti. Solo i saggi conoscono
l'amicizia; gli stolti sono per necessità ostili ai buoni e ai loro simili: essi
sono addirittura intimamente discordi con sé stessi. Gli stolti si danneg­
giano a vicenda, mentre i saggi sono l'uno utile all'altro. Ma la Stoa si
spinge ancora oltre, fino alla sorprendente affermazione che esiste una
specie di « comunità invisibile » dei saggi, in virtù della quale ciascun
saggio si rende utile con ogni sua azione - anche la più insignificante - a
tutti gli altri saggi del mondo abitato, anche se essi nulla sanno di ciò e
non si conoscono a vicenda. La virtù infatti è la cosa più degna di essere
amata; chi la possiede è perciò amato dovunque si trovi.
LA COMUNITÀ UMANA 283

Tra i saggi tutti i beni sono comuni. Il saggio è anche il solo a poter
realmente fare e ricevere regali. È naturalmente escluso che possa esserci
amicizia tra lui e lo stolto. Il saggio non sopporterà neppure di passare
per compagno di viaggio, collaboratore o concittadino dello stolto.
La Stoa ha tuttavia integrato queste massime sul saggio che è il solo
realmente capace di amicizia, con un'etica del perfezionamento per la
quale l'uomo può agire se non secondo la virtù almeno secondo la
convenienza. Saggi sulla corretta maniera di dare e di ricevere, ispirati in
parte da Senofonte, furono composti da Cleante, Crisippo e da stoici
più tardi. La loro dottrina è stata accolta in un'ampia opera, a noi
pervenuta, dello stoico romano Seneca I O. Essa dimostra come la stessa
Stoa non si sia potuta sottrarre all'obbligo di fornire consigli per una
sfera dell'esistenza che sta al confine tra l'etica e le regole della conve­
nienza sociale.
Stranamente negli scritti degli Stoici che ci sono pervenuti non si fa
mai parola del conflitto tra autarchia e amicizia, del quale già tanto si
era occupato Aristotele. Colpisce anche l'affermazione della Stoa contro
Aristotele, secondo la quale per il saggio è desiderabile il possesso del
maggior numero possibile di amici. Questa tesi è in certo modo con­
nessa col fatto che gli Stoici attribuiscono al loro saggio un genere di
perfezione che Aristotele respinge, perché essa oltrepassa i limiti che
l'esperienza assegna all'uomo.

IO Si tratta del De beneficiis.


CAPITOLO DODICESIMO

Lo stato

ANCOR più che la riflessione sull'amicizia la dottrina dello stato risente


dell'influenza delle condizioni storiche reali. Perché esista una dottrina
dello stato, occorre che esista prima uno « stato ». Detto in altre parole,
occorre che si sia formata l'idea secondo la quale le comunità politiche
organizzate - che, come tali, sono sempre esistite - si fondano su certi
principi formali, suscettibili di essere isolati, teoricamente analizzati e
manipolati, per essere poi ricondotti dalla teoria alla pratica politica.
Questa condizione dovette verificarsi in Atene verso l' inizio del V
secolo e probabilmente ancor prima nella Ionia. Quella che fin allora era
stata una pura prova di forza di gruppi politici e di ceti sociali diversi
per il dominio sulla comunità politica, si tramutò in confronto teorico
sui principi. Similmente i Greci cominciarono a sentire la loro guerra
contro i sovrani d'Asia come un conflitto di strutture politiche diffe­
renti.
In concreto la teoria dello stato prende l'avvio da due questioni
fondamentali: il potere deve essere esercitato da una persona sovrana o
da una legge uguale per tutte le persone, in guisa che i governanti
eseguono non già la propria volontà ma soltanto quella della legge? E
inoltre: il potere, fondato sulla legge o da questa indipendente, deve
essere esercitato - nella comunità politica - da un singolo che sia il
migliore, ovvero da un gruppo formato dai migliori o infine da altri?
Sono queste le enunciazioni più antiche che si conoscono in propo­
sito, ancor prima che la filosofia in senso stretto affrontasse questa
materia. Atene, nel corso del V secolo, ha sempre più ribadito il princi­
pio che « tutti », ossia l'universalità del popolo, devono governare. Per
quanto seducente fosse in teoria questa formula, nella pratica essa dava
luogo a difficoltà e suscitava per più versi opposizioni. All'ideologia
democratica di Atene venivano contrapposti altri stati, nei quali sembra­
vano realizzarsi strutture politiche più efficienti, quali ad esempio i
regimi aristocratici della Tessaglia, di Creta e più tardi anche di Carta­
gine e soprattutto lo stato spartano, dove si credeva di veder realizzato
un equilibrio molto sapiente tra la struttura monarchica, l'aristocratica e
la democratica.
286 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Si devono inoltre considerare le fondazioni di colonie compiute dai


Greci. Nei primi tempi le colonie furono naturalmente organizzate se­
condo le forme costituzionali della madrepatria che erano familiari ai
colonizzatori. Probabilmente nel V secolo si cominciò a dare alle colonie
di nuova fondazione delle « costituzioni », ossia delle strutture politiche
stabilite prioritariamente sulla base di riflessioni teoriche di ordine gene­
rale. Nasce cosÌ la figura del legislatore che possiede la competenza a
ordinare lo stato nel modo che egli considera giusto e conforme al fine
prefissosi; il che fa anche capire che si pone ormai il problema generale
del fine dello stato, al quale si aggiunge l'altro, riguardante la sua origine
storica e i suoi limiti costituzionali: lo stato deve inglobare totalmente in
sé l'individuo ovvero va riconosciuta a quest'ultimo una sfera privata,
libera da ogni ingerenza statale? Furono, questi, problemi che non pote­
rono mai essere dibattuti negli stati dell'antico oriente, nei quali essi non
avrebbero addirittura avuto alcun senso.
Con ogni probabilità fu per prima la Sofistica a occuparsi espressa­
mente di problemi di teoria politica. A questa conclusione ci inducono
Platone e Aristotele, ma anche alcune indicazioni fornite dagli storici
Erodoto e Tucidide. L'apporto della Sofistica appare evidente nel più
antico documento greco di teoria politica a noi pervenuto: si tratta -
secondo Erodoto - di una discussione che si suppone avvenuta fra tre
principi persiani, sui rispettivi vantaggi della democrazia, dell'aristocrazia
e della monarchia. È tuttavia difficile trame conclusioni sicure, e d'impor­
tanza decisiva per l'epoca posteriore sono i monumentali progetti politici
di Platone e Aristotele, dei quali dobbiamo ora soprattutto occuparci.
Per il quadro d'insieme che intendiamo delineare, è opportuno l'e­
same del complesso dialogo di Platone sulla Repubblica, per mettere in
rilievo i seguenti gruppi di problemi: origine e fine dello stato, sua
divisione in classi, formazione dell'unità interna nello stato perfetto e
successione delle forme di stato.
Il concetto fondamentale è, nell'insieme, quello di giustizia. All'ini­
zio del dialogo si pone il problema della sua essenza. La sua sede è
nell'anima, ma anche nell'immagine ingrandita dell'anima che è lo stato.
Platone ricerca lo stato perfetto, a proposito del quale resta sempre aperta
la questione se esso sia realizzabile o meno.
Quel che Platone dice sulla genesi della comunità statale è certa­
mente valido per tutti gli stati. Egli ci fornisce in proposito un saggio di
filosofia della civiltà che indubbiamente si rifà a teorie più antiche.
La sua dottrina si fonda sul presupposto che l'uomo, nella sua vita,
non può bastare a sé stesso, essere cioè autosufficiente. Pertanto i singoli
devono aiutarsi a vicenda e, con la loro attività, soddisfare anzitutto i
bisogni fondamentali dell' esistenza: nutrimento, abitazione; vestiario. E
LO STATO 287

poiché nessuno può provvedere a tutto CIO m mIsura sufficiente, sor­


gono lavoratori specializzati che lavorano per l'intera comunità, cia­
scuno nel proprio settore di competenza. Ciò può accadere perché ogni
individuo possiede una sua particolare attitudine. Col tempo i settori di
specializzazione crescono di numero: vengono falegnami e fabbri come
anche coltivatori specializzati. Si scopre poi che non soltanto il singolo
ma neanche un intero insediamento coloniale può bastare a sé stesso;
bisognerà pertanto importare e esportare coi relativi specialisti. Sorgono
cosÌ le finanze e il commercio al minuto, cose delle quali Platone parla
con palese disprezzo ma che, malgrado tutto, è costretto ad ammettere '
fin dalla prima fase di sviluppo dello stato.
Platone considera poi compiuto un importante passo avanti quando
la comunità comincia a passare da una forma di esistenza elementare,
fondata sui bisogni immediati del presente e ancora assai vicina a quella
animale, a un'altra più raffinata dalla quale la natura umana trae soddi­
sfazione: compaiono i profumi e l'arte culinaria; e poi pittori, scultori,
poeti, musicisti e tutte le altre specie di artisti. Nello stesso tempo le
malattie si fanno più frequenti, e cosÌ sono necessari i medici, e quando
infine il tenore di vita ha raggiunto un certo livello, scoppiano le guerre
tra le diverse comunità: occorrono allora anche gli specialisti della
guerra. Fedele al principio della specializzazione, secondo il quale cia­
scuno deve fare ciò per cui possiede attitudine e può riuscire utile alla
comunità, Platone non pensa a un esercito nazionale ma a un esercito
mercenano.
Lo stato è cosÌ giunto alla piena compiutezza. Quel che gli manca è
soltanto un governo. Ma qui ci troviamo dinanzi a un'alternativa di
fondo. Secondo la scelta che facciamo, giungiamo o allo stato perfetto o
a una delle sue forme inferiori.
Qual è il fine ultimo dello stato? In linea di massima è lo stesso di
quello dell'uomo singolo, ossia la virtù, l'attuazione della vita filosofica e
la felicità che ne consegue. Più esattamente, è il dovere dello stato di
guidare il singolo al conseguimento del suo fine proprio. Lo stato è
dunque educatore nel senso più rigoroso. Ancor più dei genitori e dei
maestri, lo stato ha la responsabilità di far raggiungere al singolo la virtù
per quanto è possibile. Ne consegue che esso possiede una sfera mag­
giore di competenze. Se infatti compito dello stato è non solo la difesa
della comunità dagli attacchi esterni, l'accrescimento del suo territorio,
della sua potenza e ricchezza oltre che la cura della pace e dell' ordine -
in guisa che nessuno inganni o danneggi l'altro - se dunque lo stato,
oltre ai doveri tradizionali della comunità politica, ha la pretesa di
condurre il singolo al fine più alto della vita, esso ha il diritto di
intervenire in tutte le sfere dell'esistenza umana.
288 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

Platone fa esercitare al suo stato tale diritto fino ai limiti estremi:


non si può negare che ne risulti uno stato totalitario. Nello stato
perfetto di Platone le leggi fissano la scelta degli sposi, l'età adatta al
matrimonio, il periodo di tempo nel quale si possono procreare i figli, e
ancora il modo di averne cura, di allevarli e istruirli fin dalla nascita.
Nulla dev'essere lasciato al caso. Dappertutto lo stato deve servirsi della
legge per ordinare ciò che va fatto in vista del fine supremo. Può darsi
che Platone in questo dialogo si sia in parte ispirato a certe situazioni
verificatesi nello stato ateniese dove, in certi momenti, si manifestò un
gusto singolare per le regolamentazioni. Dall'altro lato non bisogna
dimenticare che Platone ha completamente trascurato la marcata ten­
denza degli Ateniesi a un individualismo apolitico. Non erano certo i
peggiori tra essi a proclamare, come loro ideale, il « vivere liberi come
piace a ognuno » ; un ideale che comprensibilmente Platone ha condan­
nato con forza. Lo stato da lui vagheggiato, in quanto onnipotente
organizzazione educativa, non aveva assolutamente nulla in comune con
la struttura dello stato romano.
Esaminiamo adesso la formazione dello stato platonico. Abbiamo
già parlato della maniera rigorosa con cui Platone ha applicato il princi­
pio della specializzazione. Da tutt'altra parte agli attingeva l'idea che la
struttura dello stato dovesse corrispondere a quella dell' anima. Ci tro­
viamo cosÌ dinanzi a una gerarchia divenuta classica, malgrado i nume­
rosi enigmi che essa presenta ad un esame più approfondito: i reggitori
corrispondono alla ragione, i guerrieri - chiamati da Platone « guar­
diani » - al coraggio, mentre la rimanente popolazione - ossia la massa
delle categorie professionali che devono provvedere al benessere mate­
riale del tutto - corrisponde al desiderio. Tutto l'interesse di Platone è
rivolto alle prime due classi sociali: soltanto i loro compiti, il loro modo
di vivere, la loro educazione sotto il controllo dello stato, sono fatti
oggetto di descrizione; mentre della terza classe Platone parla solo
occasionalmente e in modo puramente marginale. Fondamentale è, ov­
viamente, la formazione dei governanti. Nello stato perfetto i capi
devono identificarsi con gli uomini perfetti. A questo proposito Platone
ha formulato uno dei suoi più famosi principi, tra i pochi che dai suoi
dialoghi siano passati nelle raccolte di sentenze cosÌ care agli antichi: « Se
i . filosofi non diventano re ovvero coloro che ordinariamente si chia­
mano re o principi non cominciano a filosofare in modo autentico e
radicale, cosÌ che potere politico e filosofia si riuniscano nella stessa
persona, non vi potrà essere tregua alcuna ai mali dell'umanità » 1.

1 PLAT. Resp. V 473 c-d.


LO STATO 289

Non è qui il luogo di esporre il sistema educativo progettato da


Platone per i suoi guardiani e reggitori. I guardiani devono ricevere
un'educazione « musiva » accuratamente programmata e un'altrettanto
accurata educazione fisica. Ai reggitori è riservato lo studio della filoso­
fia, cioè della scienza del bene. Esso comincia col « quadrivio » delle
scienze matematiche (aritmetica, geometria, astronomia, e armonia musi­
cale), passa per la dialettica - termine finora non del tutto esplicabile,
che designa l' ontologia in senso parmenideo - per giungere alla contem­
plazione del Bene in sé che dimora al di là dell' essere.
Sono rimaste celebri e hanno dato luogo a infinite discussioni due
norme che Platone stabilisce trattando della condizione dei guardiani. La
prima muove dalla tesi secondo cui l'uomo e la donna sono pienamente
uguali per quanto riguarda attitudini e capacità, e che non esiste alcuna
sostanziale differenza tra i sessi. Ne consegue che le donne, come gli
uomini, devono essere educate al servizio dello stato e, in particolare, al
servizio militare.
La seconda norma ha lo scopo di favorire la concordia tra i cittadini
come il bene più prezioso dello stato. Bisogna dunque che tra i cittadini,
come tra gli amici, tutto sia comune: le proprietà come le mogli e i figli.
Tutti possono ugualmente possederli e i fanciulli, che non conosceranno
né il padre né la madre, onoreranno come genitori tutti gli adulti;
viceversa, ogni adulto si prenderà cura di ogni fanciullo, come se fosse il
suo, poiché potrebbe per l'appunto esserlo.
Queste due norme certamente solo in parte derivano dal pensiero di
Platone. La provocatoria singolarità, specie della seconda, tradisce chiara­
mente la sua provenienza da quell'indirizzo sofistico e socratico che
cercava di opporsi alla tradizione con stimolanti paradossi. E la tesi della
piena uguaglianza dell'uomo e della donna, proprio sul piano politico e
militare, era stata ampiamente sviluppata, prima di Platone, dal socratico
Eschine in un suo dialogo 2. Nessuna meraviglia che Aristotele su questi
temi si sia dichiarato deciso avversario di Platone. Grazie soprattutto
alla sua polemica, la teoria della « comunanza delle donne e dei figli » è
rimasta per sempre legata al nome di Platone.
Resta infine da parlare della trasformazione delle costituzioni politi­
che. Platone ha disegnato lo stato perfetto, lo stato cioè nel quale il
filosofo governa con l'occhio rivolto al Bene eterno e nel quale le due
classi inferiori gli obbediscono conformemente ai loro compiti. Tutte le
altre forme di costituzione politica nascono dal distacco da quella condi­
zione felice. Platone non ha dato più che qualche cenno nel tentativo di

2 È il dialogo intitolato A spasia (frr. 1 5-3 3 Dittmar).


290 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

spiegare come sia possibile un tale distacco. In realtà esso resta inspiega­
bile, così come inspiegabile resta la caduta dell'anima, che vive in compa­
gnia: degli dèi, nel mondo corporeo. Uno stato di perfetta felicità è infatti
anche invulnerabile, ed una condizione felice che porta in sé i germi della
decadenza non è, per l'appunto, perfetta. Insomma, Platone ammette che,
una volta o l'altra, nello stato perfetto vengano trasgredite le prescrizioni
relative alla procreazione dei figli. Così vengono al mondo individui
degeneri, che si rivoltano contro la generazione precedente. Si giunge
pertanto alla formazione della proprietà privata, le cui conseguenze sono
le inclinazioni bellicose e l'avidità occulta. Non si ha più il dominio dei
migliori (aristocrazia) ma quello degli ambiziosi (timocrazia) . Questa
seconda forma costituzionale è distrutta da una terza nella quale conta
solo la ricchezza. Diventano allora capaci di governare solo quelli che
possono dimostrare di avere grandi ricchezze. Platone designa questa
forma di governo col nome di « oligarchia » (propriamente « governo dei
pochi » ) . Essa è distrutta a sua volta da una quarta forma, ancora peggiore.
La ricchezza genera avari che si fanno sempre più ricchi e scialacquatori
che vanno in rovina. Quando la massa dei poveri e di quelli ridotti in
miseria è troppo grande, essi si uniscono insieme in un movimento
rivoluzionario e spodestano i ricchi. N asce la democrazia, cioè il governo
delle maggioranze costituite da nullatenenti, forma costituzionale nella
quale ciascuno in piena libertà può fare e lasciar fare quel che gli piace. N e
risulta un eccesso di libertà che sfocia nell'anarchia, che adduce a rovina
questo regime e dà luogo alla quinta e ultima forma costituzionale, la
peggiore di tutte: la tirannide. Essa sorge per il fatto che il popolo,
sebbene sovrano, non si sente mai pienamente sicuro di sé e fa allora
appello a un capo che lo guidi e lo protegga. Questi ottiene dal popolo
una fiducia cieca ed è sufficientemente privo di scrupoli per non esitare a
rafforzare la sua posizione. Egli comincia pertanto come mandatario del
popolo, per diventare infine il suo signore assoluto. Così questo processo
giunge al termine. Il tiranno è, sotto tutti gli aspetti, l'assoluto contrario
del reggitore filosofo dello stato perfetto; egli è l'uomo nel quale i desideri
sfrenati hanno distrutto ogni forma di virtù.
Platone ha cercato, in questo quadro, di fondere insieme in una
sintesi grandiosa esperienze storiche e speculazione filosofica. Nella de­
scrizione del regime democratico egli ha evidentemente pensato alla sua
patria Atene, alla cui rovina ha personalmente assistito. Nelle sue conside­
razioni sull' oligarchia e la timocrazia si colgono allusioni a Sparta, ma
tutto l' insieme è dominato dal contrasto sconvolgente tra stato dei filosofi
e tirannide.
Vanno menzionati ancora due problemi. In primo luogo appare
strano che in questo quadro non figuri la monarchia, poiché non può
LO STATO 291

dirsi affatto che essa s' identifichi con la tirannide. È lecito allora sup­
porre che lo stato perfetto possa essere inteso o come il dominio di un
gruppo costituito dai migliori o come il dominio dell'unico migliore;
oppure ancora che Platone - come a volte è accaduto in epoca succes­
siva - abbia considerato la monarchia di tipo omerico, quella dell'antica
Persia o della Macedonia, come una forma di governo in certo modo
preistorica.
In secondo luogo vorremmo sapere quale significato dare a questo
quadro nel suo insieme: se esso intende rappresentare un processo sto­
rico necessario che trova il suo sbocco inevitabile nella tirannide, o se si
tratta solo di un moto evolutivo possibile in linea di principio. E
ancora: esiste una via di ritorno dalla tirannide? Platone lascia senza
risposta tutti questi interrogativi. Interviene a questo punto il lavoro dei
suoi discepoli, interpreti e critici, i quali si sforzano di chiarire, semplifi­
care, integrare. Nel De republica di Cicerone troviamo uno dei possibili
sviluppi di queste questioni. In quest'opera viene delineato un ciclo
evolutivo che passa attraverso le tre forme costituzionali buone e le tre
cattive, e cioè: monarchia-tirannide; aristocrazia-oligarchia; democrazia­
oclocrazia. In esse si cerca anche di definire, più realisticamente di
quanto abbia fatto Platone, lo stato perfetto come commistione equili­
brata delle tre forme di governo: monarchia, aristocrazia, democrazia.
All'inizio dell'età ellenistica questo modello di stato fu identificato con
l' antica Sparta; nella tarda antichità con Roma.
Dobbiamo rinunciare a riferire particolareggiatamente sulla seconda
grande opera politica di Platone. I dodici libri delle Leggi, nonostante la
loro enorme complessità, hanno esercitato nel mondo antico un'in­
fluenza quasi altrettanto grande di quella della Repubblica. Ciò potrebbe
spiegarsi col fatto che Platone in essa abbandona stranamente e in parte
inspiegabilmente la base antologica del suo pensiero, ossia la scienza del
bene, a tutto favore di un serio sforzo di comprensione dei dati di fatto
reali. L'accento batte non più sulla costruzione dello stato ottimo, ma
sulla giusta educazione del buon cittadino. In questa prospettiva Platone
vi tratta minutamente le più svariate questioni della vita quotidiana.
L'opera rappresenta pertanto uno dei più importanti documenti delle
teorie pedagogiche antiche.
Le ricerche politiche di Aristotele che ci sono pervenute, costitui­
scono un complesso faticosamente messo assieme di progetti diversi. Per
alcuni aspetti egli è vicino a Platone. Anche Aristotele infatti ha cercato
di costruire il disegno di uno stato perfetto, ma nella sostanza la distanza
da Platone è certamente assai grande: meno in ciò che dice che in ciò
che pensa. Aristotele fin da principio tiene conto dell' esperienza storica
in tutta la sua ampiezza. Con l' aiuto di quest'esperienza egli intende
292 PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ANTICA

stabilire la miglior combinazione organica delle forze politiche, quella


cioè che sia in grado di garantire un massimo di stabilità e di soddisfa­
zione della comunità umana. Il pensiero politico di Aristotele presenta
un aspetto tecnico accentuato, che è del tutto estraneo al pensiero di
Platone.
Ne rileviamo solo alcuni punti.
Aristotele ha dedicato particolare attenzione alle unità sociali su cui
si fonda lo stato. In un primo progetto egli le colloca nel seguente
ordine gerarchico: famiglia, unione delle famiglie, comunità rurale e
comunità statale, la sola che sia autosufficiente. Un secondo progetto
muove da tre relazioni fondamentali donde nascono, secondo lui, tre
forme di governo: i rapporti tra l'uomo e la donna prefigurano una
forma di governo aristocratica; quelli tra genitori e figli, la forma mo­
narchica; quelli infine tra signore e servo, la forma dispotica.
Più tardi compare il quadro comprendente i due gruppi di tre
forme costituzionali che abbiamo già menzionati; poi ancora un altro,
diversamente strutturato, che distingue solo tre forme: l'oligarchia, ossia
lo stato degli eccessivamente ricchi; la democrazia, ossia lo stato degli
eccessivamente poveri e infine lo stato intermedio in cui ricchi e poveri
si equilibrano reciprocamente. Aristotele esamina il regime monarchico
in uno studio particolare. La monarchia è per lui la forma di governo
conforme a ragione, quando compare un personaggio d'eccezione. Resta
il problema di sapere quale debba essere il comportamento di questo
personaggio nei confronti della legge: se egli è sottoposto alla legge o se
invece la fa egli stesso attraverso la sua azione esemplare, cosÌ come - su
un altro piano - l'azione è guidata in definitiva non da regole generali
ma dall'esempio fornito dall'uomo perfetto.
Il pensiero di Aristotele è caratterizzato inoltre dal fatto che esso
ricerca non lo stato migliore in senso assoluto, ma quello che in certe
situazioni date è o il migliore o il più facilmente realizzabile. Fondan­
dosi su un abbondante materiale storico, Aristotele studia i modi di
dissoluzione dei diversi regimi politici ed i mezzi - ma a volte anche gli
espedienti - coi quali possono essere conservati. Aristotele distingue
non meno di undici possibili cause di rivoluzione, nel senso più ampio
del termine. Non gli è difficile dimostrare come i regimi la cui struttura
è particolarmente imperfetta, quali l'oligarchia e soprattutto la tirannide,
sono anche quelli che hanno più breve durata.
Dopo Aristotele, T eofrasto ha continuato questa analisi empirica
della vita degli stati. Da essa scaturivano prospettive estremamente im­
portanti per politici e storici. Polibio ha utilizzato le conoscenze accu­
mulate dal Peripato per mostrare in maniera perspicua ai suoi lettori
greci - come anche agli stessi Romani - il processo di formazione dello
LO STATO 293

stato romano. Ispirandosi a Platone, ai Peripatetici e a Poli bio, Cicerone


ha svolto la sua teoria dello stato in un'opera che potrebbe forse passare
per il suo capolavoro se la possedessimo per intero: i sei libri De
republica.
Su Epicuro non abbiamo nulla da dire in proposito. Egli rappre­
senta quella tendenza al distacco totale dalla politica che, iniziatasi nella
Ionia del VI secolo, si era venuta sempre più accentuando nell' Atene del
V secolo. Soprattutto la storia della democrazia ateniese sembrava dare
la dimostrazione che la politica non porta çon sé altro che turbamento,
gloria incerta e molti pericoli e che in definitiva è soltanto un sordido
affare col quale il saggio non deve contaminarsi. Verso la fine del V
secolo il cittadino ateniese colto considera spesso molto importante il
poter affermare che in tutta la sua vita non si è mai occupato di politica.
La posizione di Epicuro al riguardo è radicale: il saggio si asterrà dalla
politica per quanto gli è possibile. Conseguentemente Epicuro ha anche
rinunciato per principio a svolgere una sua propria dottrina politica.
Diverso è il caso della Stoa: Zenone scrisse un'opera Sulla repub­
blica, la cui palese finalità era quella di riprendere le teorie estremiste e
patadossali della prima Socratica, per abbattere cosÌ le teorie di Platone e
Aristotele. Non vi riuscì: lo stato di Zenone, dove regnava la « comu­
nanza delle donne, e non dovevano esserci templi, tribunali, ginnasi non
interessò i posteri se non a titolo di curiosità.
Nel tardo ellenismo la filosofia politica, più che ogni altra branca
della filosofia, divenne esclusivo dominio di ricerca del Peripato, asse­
condato spesso dall'Accademia platonica. Ciò risulta tra l'altro da un
curioso insieme di scritti del II secolo a.c. Sono dei trattati di teoria
politica apparsi sotto il nome di antichi Pitagorici del VI e V secolo, il
cui oggetto principale è la descrizione della monarchia come la forma di
stato perfetta. Vi si istituisce un paragone tra monarca celeste - la
divinità che governa il mondo - e monarca terreno. Sembra che questi
scritti contengano dottrina peripatetica, ma piuttosto involgarita e intrisa
di sentimentalismo. Ancor oggi non è possibile stabilire fino a che
punto essa abbia influenzato i fondamenti ideologici del cesarismo ro­
mano.
INDICE DEI NOMI ANTICHI

Accademia, scuola di P latone: 69, 76, 8 1 , 68, 7 1 , 78, 79, 80, 8 1 , 86, 87, 88, 89, 9 1 ,
86, 87, 8 8 , 93, 94, 9 5 , 1 05, 1 1 4, 1 1 8 , 1 2 1 , 92, 94, 9 5 , 96, 1 02 , 104, 105, 1 06, 1 1 0,
1 2 3 , 142, 1 5 1 , 1 69 , 1 7 3 , 1 7 5 , 2 1 1 , 2 3 3 , 1 1 1 , 1 1 4, 1 1 5 , 1 1 6, 1 1 7, 1 1 8, 1 22, 1 2 3 ,
236, 24 1 , 293 1 24, 126, 1 3 3 , 1 34, 1 36, 1 40, 1 4 1 , 1 42,
Agostino, platonico c ristiano, 3 54-430 d.C.: 1 47, 1 48 , 1 49, 1 50, 1 5 1 , 1 52, 1 53 , 1 54,
79. 1 5 5 , 1 56, 1 57, 1 5 8 , 1 60, 1 67, 1 68 , 1 70,
Alcibiade, statista ateniese, ca. 450-404: 3 1 , 1 7 1 , 1 73 , 1 74, 175, 1 76, 178, 1 83 , 1 8 5 ,
45, 56, 77 1 86, 1 87, 1 88 , 1 9 1 , 195, 1 9 9 , 200, 20 1 ,
Alcmeone, pitagorico, ca. 520-450: 1 37. 202, 203, 204, 206, 207, 208, 2 1 0, 2 1 1 ,
Alessandro il Grande, re macedone, 3 56- 2 1 3 , 2 1 7, 2 1 8 , 2 19 , 220, 222, 223, 224,
323: 47, 56, 58, 77, 1 1 5 , 1 3 3 , 1 3 6 225, 228, 230, 235, 237, 24 1 , 242, 244,
Anassagora, filosofo ionico, c a . 5 1 0-430: 27, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 2 5 1 , 252,
43, 64, 95, 1 0 1 , 103, 105, 1 34, 148, 1 52, 254, 255, 256, 258, 26 1 , 262, 263, 266,
1 73 , 1 8 1 , 182, 1 83 , 1 84, 194, 1 9 5 , 1 96, 273, 277, 280, 28 1 , 282, 284, 286, 289,
1 99, 229, 257 29 1 , 292, 293
A nassarco, filosofo ionico, ca. 3 70-3 1 0 : 56 Aspasia, amica di Peride e di Socrate, ca.
A nassimandro, filosofo ionico, ca. 6 1 0-540: 470-420: 48
32, 33, 56, 63, 64, 92, 96, 1 02 , 1 3 1 , 1 33 , Atlante, personaggio mitico: 47
1 34, 1 66, 1 68 , 1 70, 1 72 , 1 7 3 , 1 77, 1 79 , Atomismo: 1 52 , 1 54, 168, 1 7 1 - 1 73 , 178,
1 80, 1 8 1 , 1 9 3 , 1 94 1 82, 1 83 , 1 88, 2 1 6
Anassimene, filosofo ionico, ca. 580-520: Augusto, imperatore romano, 6 3 a.C.- 1 4
33, 1 66 1 68 , 1 69, 1 73 , 1 79, 1 80 d . C . : 5 7 , 60, 6 1
A ntigono, scrittore di ritratti di filosofi, ca.
320-250: 94 Bellerofonte, personaggio mitico: 47
Antistene, discepolo di Socrate, ca. 440- Bione, peri patetico, filosofo popolare, ca.
370: 22, 29, 59, 7 1 , 78, 8 3 , 93, 95, 96, 320-250: 75
107, 2 5 1 , 256
Arcesilao, accademico, ca. 3 20-240: 76, 1 1 4, Callide, amico di Socrate: 107
1 42 Carneade, accademico, ca. 2 1 0-230: 76, 77,
Archelao, filosofo ionico, ca. 480-4 1 0 : 1 42
96,97 Catone il Censore, statista e scrittore roma­
Archita, pitagorico, ca. 440-360: 94 no, 234- 1 49: 60
Aristippo, discepolo di Socrate, ca. 430- Catone Uticense, stoico romano, 94-46: 60,
360: 22, 27, 29, 67, 68, 7 1 , 83, 95, 96, 2 6 1 , 263
232, 240, 2 4 1 , 242, 243, 258, 274, 276, Cesare, statista e scrittore romano, ca. 1 00-
278, 279 44: 60
Aristofane, commediografo ateniense, ca. Cicerone, statista, oratore e filosofo roma­
445-380: 44 no, 1 06-43: 44, 56, 60, 78, 79, 80, 82, 8 8 ,
Aristone, stoico, ca. 330-260: 45 89, 93, 1 06, 1 19, 1 26, 1 3 3 , 2 4 8 , 261 , 263 ,
Aristosseno, pitagorico e peripatetico, ca. 268, 278, 280, 2 9 1 , 293
370-300: 94 Cleante, stoico, ca. 330-230: 88, 89, 1 1 8 ,
Aristotele, 3 8 4-32 1 : 1 2 , 18 19, 20, 2 1 , 22, 1 58 , 202, 2 8 3
25, 26, 27, 2 8 , 29, 33, 40, 4 1 , 43, 44, 45, Cratete, cinico, c a . 360-300: 2 2 , 4 8 , 68, 8 3 ,
46, 47, 49, 52, 53, 55, 5 8 , 59, 65, 66, 67, 108
296 INDICE DEI NOMI ANTICHI

Cratilo, seguace di Eraclito, ca. 470-400: 1 74, 177, 180, 1 8 1 , 1 87, 1 8 8 , 194, 195,
103, 105 1 96, 20 1 , 202, 203, 2 1 2
Creso, re di Lidia, ca. 6 1 0-540: 77 Ermippo, autore d i biografie d i filosofi, ca.
270-200: 94
Dario, re di Persia, ca. 550-485: 49 Erodoto, storico ionico, ca. 480-420: 34,
Democare, politico ateniese, ca. 3 50-300: 43 1 32, 286
Democrito, filosofo ionico, ca. 460-390: 1 8 , Eschilo, poeta tragico ateniese, ca. 530-455:
32, 4 7 , 53, 6 5 , 7 0 , 85, 9 1 , 9 5 , 9 6 , 97, 1 48
103, 1 1 4, 132, 1 40, 1 5 1 , 1 69 , 172, 1 73 , Eschine, discepolo di Socrate, ca. 430-360:
1 83 , 1 86, 193, 1 9 6 , 200, 206, 2 0 7 , 2 1 0, 77, 78, 96, 289
2 1 9, 222, 229, 230, 235, 257, 262, 268, Esiodo (VIII-VII sec. a.C): 32, 33, 63, 64,
274 1 1 4, 1 3 1 , 1 3 5 , 165, 1 67, 1 79, 1 80, 1 8 1 ,
Demostene, politico ateniese, ca. 3 80-32 1 : 1 84, 193, 1 94, 202, 203, 260
43, 60 Euclide, discepolo di Socrate, ca. 430-370:
Deucalione, personaggio mitico: 1 73 95, 96
Dicearco, peri patetico, ca. 360-300: 5 8 Eude mo, filosofo peripatetico, ca. 3 70-300:
Diogene di Apollonia, filosofo ionico, ca. 88, 92, 1 3 6
450-3 70: 197 Euripide, poeta tragico ateniese, c a . 480-
Diogene Laerzio, storico della filosofia (II 407: 136, 148, 1 9 3 , 220, 265, 2 7 1
sec. d.C): 96, 97 Evemero, filosofo popolare ellenistico, ca.
Diogene di S inope, cinico, ca. 3 80-320: 2 1 , 3 30-270: 207
22, 27, 29, 59, 68, 8 3 , 94, 1 0 1 , 1 07, 108,
1 1 4, 1 1 5, 1 47, 1 49, 262 Falaride, signore di Agrigento (VI sec.):
Diomede, eroe dell'Iliade: 1 07 137, 2 6 1
Dionisio I, ca. 440-368 e D. II, ca. 400-340, Fedone, discepolo di Socrate, c a . 420-360:
re di Siracusa: 23, 58, 77 69, 95, 96
Diotima, sacerdotessa di Mantinea e mae­ Ferecide, presunto filosofo greco delle ori­
stra di Socrate: 48 gini (VI sec.): 96
Fetonte, personaggio mitico: 47, 1 73
Eleati, gruppo di filosofi presocratici (Par­ Filippo, re macedone, ca. 3 80-336: 1 1 5
menide, Zenone, Melisso): 232
Empedocle, filosofo siciliano, ca. 500-430: Gorgia, sofista, ca. 480-390: 4 1 , 66, 103,
64, 71, 1 0 3 , 1 26, 127, 148, 1 74, 1 8 1 , 1 82, 230, 23 1 , 266
1 84, 1 85 , 203, 2 1 1 , 2 1 3 , 2 1 9, 225, 229,
230 Ierone, re di S iracusa, ca. 530-460: 77
Eolo, personaggio mitico: 47 Ione di Chio, pitagorico (V sec.): 76, 1 02
Epic uro ( 3 4 1 -2 7 1 ) e la sua scuola: 2 8 , 48,
64, 65, 68, 79, 80, 8 1 , 8 3 , 87, 93, 94, 96, Leucippo, filosofo ionico, ca. 500-420: 1 40,
97, 104, 1 06, 1 07, 1 09, 1 1 1 , 1 1 8 , 1 1 9, 1 72, 1 83
1 2 3 , 126, 1 4 1 , 1 4 8 , 1 49, 1 55 , 1 56, 1 60, Licurgo, legislatore spartano: 205
1 6 1 , 1 67, 1 70, 172, 173, 1 74, 175, 1 7 8 , Luciano, scrittore greco, 1 20- 190 d.C: 76
1 86, 1 87, 1 92, 1 9 3 , 1 96, 1 99, 200, 20 1 , Lucrezio, poeta e filosofo romano, ca. 1 00-
202, 204, 205, 2 1 0, 2 1 2 , 223, 224, 225, 55: 64, 1 48
230, 235, 236, 239, 24 1 , 242, 243, 246,
256, 26 1 , 262, 263, 272, 273, 274, 279, Marco Aurelio, i mperatore romano e filo­
280, 282, 293 sofo, ca. 120- 1 80 d.C: 1 58, 247
Epitteto, stoico, ca. 60- 1 30 d.C: 158 Mecenate, cavaliere romano, ca. 69-8: 70
Eracle, eroe mitico: 72, 1 37, 203, 2 1 7 Menandro, com mediografo ateniese, 343-
Eraclide, platonico, ca. 400-320: 196 29 1 : 60
Eraclito, filosofo ionico, ca. 540-460: 28, Menippo, cinico, ca. 300-230: 75
32, 48, 64, 88, 93, 96, 1 03 , 1 1 4, 127, 1 58, Minosse, mitico legislatore di Creta: 205
INDICE DEI NOMI ANTICHI 297

Moco, presu nto filosofo fenicio delle origi­ Polibio, statista e storico, ca. 220- 1 30: 59,
ni: 47 60, 292, 293
Mosè, personaggio biblico (XIII sec.): 205 Pompeo, statista romano, 107- 1 48 : 60
Museo, poeta mitico e filosofo ateniese del­ Posidonio, stoico ca, 1 30-50: 26, 29, 30, 47,
le origini: 63 60, 89, 92, 1 1 4, 1 2 5 , 133, 1 66, 1 75 , 1 76,
202, 203, 205, 2 1 2 , 224, 225, 225
Neoplatonismo: 126, 263 Prometeo, semidio greco: 47
Numa Pompilio, presu nto re di Roma
Protagora, sofista, ca. 490-420: 66, 207, 230,
(VIII sec.): 205 23 1 , 232

Odisseo, eroe dell' Odissea: 29, 7 1 , 1 37, 240 Romolo, presunto re di Roma (VIII sec.):
Omero (IX-VIII sec.): 16, 54, 55, 1 1 3 , 1 1 4, 1 19
1 76, 194, 195, 197, 203 , 2 1 5 , 2 1 6, 2 1 7,
2 1 8, 225 Saffo, poetessa greca, ca. 640-5 80: 2 7 1
Onesicrito, storico e filosofo cinico, ca. Sallustio, storico romano, 86-35 : 60
3 70-3 1 0 : 59 Santippe, moglie di Socrate: 268
Orazio, poeta romano, 65-8 : 5 1 , 70, 240 Sardanapalo, ultimo re assiro secondo la
Oreste, eroe greco: 40, 1 36, 1 3 7 tradizione greca (VII sec.): 1 37, 242
Orfeo, cantore e poeta mitico: 63, 2 1 8 Satiro, scrittore di biografie, ca. 250- 1 70: 94
Scepsi: 1 05
Panezio, stoico, c a . 1 70- 1 10: 1 2 5 , 1 3 3 Scipione Emiliano, statista romano, ca.
Parmenide, filosofo presocratico, c a . 500- 1 80-129: 60
440: 1 8 , 25, 4 1 , 64, 85, 1 02 , 103, 1 57 , Seneca, scrittore e filosofo romano, 4-65
1 66, 1 69 , 1 7 3 , 1 77 , 1 80, 1 8 1 , 1 82 , 1 8 3 , d.C.: 7 1 , 8 1 , 1 5 8
1 94, 1 96, 2 1 9, 229, 340 Seniade, filosofo eleatico ( V sec.): 103
Pericle, statista ateniese, ca. 4 80-428 : 3 1 Senocrate, accademico, ca. 3 8 0-320: 69
Peripato: 59, 89, 92, 9 3 , 95, 1 2 3 , 1 2 5 , 1 36,
Senofane, filosofo e teologo ionico, ca. 560-
142, 1 69 , 1 7 1 , 1 7 3 , 209, 2 1 0, 2 1 6, 223,
470: 32, 53, 64
2 3 5 , 244, 253, 263, 292, 293
Senofonte, storico e scrittore, amico di So­
Pirrone, ca. 3 50-270: 66, 76, 77, 94, 96, 1 42
crate, ca. 425-350: 2 8 , 29, 59, 68, 69, 78,
Pitagora, ca. 5 70-500: 22, 46, 47, 49, 70, 75, 96, 106, 1 1 4, 1 1 5 , 1 5 5 , 165, 1 7 1 , 1 76,
76, 77, 8 3 , 85, 94, 96, 1 65, 1 96, 2 1 8 , 225, 1 77, 1 97, 239, 2 5 1 , 257, 276, 277, 278,
257, 268 283
Platone, 428-347: 12, 1 8, 1 9 , 22, 2 3 , 25, 26, Simonide, poeta lirico, ca. 530-460: 77
27, 2 8 , 29, 40, 4 1 , 44, 47, 4 8 , 5 3 , 5 8 , 65, Sisifo, personaggio mitico: 207
66, 67, 69, 70, 7 1 , 73, 75, 76, 77, 7 8 , 79, Smindriride, gaudente sibarita (VI sec.):
80, 8 1 , 8 3 , 86, 88, 89, 9 1 , 94, 96, 104, 1 37, 242
106, 107, 1 09, 1 1 5 , 1 1 6, 1 1 7 , 1 1 8 , 1 1 9 , Socrate, ca. 470-399: 25, 28, 29, 30, 43, 45,
1 2 1 , 1 2 2 , 1 2 5 , 126, 1 4 1 , 1 42 , 1 4 8 , 1 5 1 48, 56, 58, 59, 66, 67, 68, 69, 75, 76, 77,
1 52, 1 54, 1 55, 1 58 , 1 59 , 1 67, 1 69 , 1 70, 78, 8 3 , 86, 94, 95, 96, 97, 106, 1 07, 108,
1 7 3 , 174, 1 75, 1 77, 178, 1 83 , 1 84, 1 85 , 1 1 4, 1 1 5, 1 1 6, 1 1 7 , 1 4 8 , 1 52 , 1 58 , 1 9 5 ,
1 86, 1 87 , 1 9 3 , 1 96, 197, 1 9 8 , 199, 200, 2 1 6, 238, 2 5 0 , 253, 257, 258, 2 6 0 , 2 6 1 ,
2 0 1 , 202, 203, 204, 205, 2 1 0, 2 1 1 , 2 1 3 , 2 6 2 , 2 6 3 , 268, 2 7 6 , 2 7 7 , 2 7 8
2 1 7, 2 1 8 , 2 1 9 , 220, 222, 224, 225, 232, Sofistica: 59, 6 6 , 72, 77, 93, 1 0 6 , 1 59, 195,
2 3 3 , 234, 235, 236, 239, 240, 24 1 , 242, 207
243, 244, 248, 250, 252, 255, 257, 2 5 8 , Sofocle, poeta tragico ateniese, 470-406: 1 4 8
2 6 2 , 265, 2 6 6 , 2 6 7 , 268, 2 7 6 , 2 7 7 , 2 7 8 , Solo n e , statista e poeta greco, c a . 640-570:
286, 287, 2 8 8 , 289, 2 9 0 , 29 1 , 2 9 2 , 293
77
Plutarco, scrittore e filosofo, ca. 40- 1 20 Speusippo, accade mico, ca. 390-3 3 8 : 86, 1 1 8
d.c.: 7 8 , 1 2 5 , 1 40, 1 4 1 , 253
Sto a: 26, 28, 52, 65, 82, 89, 93, 94, 108,
Polemone, accademico, ca. 3 50-2 80: 45, 69 1 09, 1 1 0, 1 1 4, 1 1 9, 1 2 3 , 1 26, 127, 1 5 1 ,
298 INDICE DEI NOMI ANTICHI

1 56, 158, 1 59 , 1 6 1 , 1 6 5 , 1 66, 1 67, 168, Temistocle, statista ateniese, ca. 530-470:
1 69, 1 70, 1 7 1 , 1 72, 1 73 , 1 7 5 , 1 76, 1 77, 268
1 78, 1 87, 1 88 , 197, 20 1 , 202, 203, 2 10, Teodoro, cirenaico, ca. 360-2 80: 279
2 12, 2 1 4, 2 1 6, 220, 223, 236, 242, 246, Teofrasto, peripatetico, ca. 360-280: 47, 48,
247, 250, 253, 254, 255, 256, 259, 26 1 , 8 8 , 92, 93, 125, 1 26, 1 32, 1 3 3 , 1 36, 1 42 ,
262, 265, 268, 269, 272, 277, 282, 283, 143, 1 5 1 , 1 79, 2 1 0, 2 1 1 , 2 1 4 , 292
293 Teopompo, storico, ca. 390-320: 59
Stratone, peripatetico, ca. 320-250: 225 Timeo, storico, ca. 3 30-250: 59
Tucidide, storico, ca. 470-403 :59, 286
Talete, filosofo ionico, ca. 630-570: 3 1 , 33,
34, 46, 47, 63, 70, 77, 95, 96, 1 1 4, 132,
135, 1 4 8 , 1 65 , 1 67, 1 94, 228, 257 Varrone, erudito e filosofo romano, 1 1 6-

Tantalo, personaggio mitico: 47 26: 1 1 9, 1 3 3


Indice

Introduzione all'edizione italiana 5

Premessa 11

PARTE PRIMA

La posizione storica della filosofia antica

Capitolo primo
Considerazioni definitorie 13

Capitolo secondo
Divisione della filosofia antica 25

Capitolo terzo
Genesi storica delle parti della filosofia 31

Capitolo quarto
La condizione della filosofia nell'antichità 43

Capitolo quinto
L'influenza della filosofia sulla cultura antica 51

Capitolo sesto
Il ritratto del filosofo 63

Capitolo settimo
La forma dell'opera filosofica 75

Capitolo ottavo
Le scuole filosofiche 85

Capitolo nono
La storiografia filosofica 91

PARTE SECONDA

N ozioni fondamentali della filosofia antica

Capitolo primo
Paradosso ed evidenza 101

Capitolo secondo
Ragione e autorità 113
JCO INDICE

Capitolo terzo
Universale e singolare 121
Capitolo quarto
La provenienza del materiale filosofico 131
Capitolo quinto
Filosofare aperto e chiuso 139
Capitolo sesto
Il concetto di natura 145
Capitolo settimo
Causa e fine 151
Capitolo ottavo
Necessità e libertà 157

PARTE TERZA

Problemi fondamentali della filosofia antica


Capitolo primo
Natura e divenire del cosmo 165
Capitolo secondo
Gli elementi 179
Capitolo terzo
La teologia 191
Capitolo quarto
Uomo, animale, pianta 209
Capitolo quinto
La dottrina dell'anima 215
Capitolo sesto
La dottrina della conoscenza 227
Capitolo settimo
Il fine dell' azione 237
Capitolo ottavo
Le virtù 249
Capitolo nono
Il saggio 257
Capitolo decimo
Le passioni 265
Capitolo undicesimo
La comunità umana 275
Capitolo dodicesimo
Lo Stato 285

Indice dei nomi antichi 295


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Stampa: Istituto Grafico Italiano - Cercola (Napoli)

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