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Mia cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ai documenti personali 

dei loro
autori è davvero il pensiero di una «mente sorella»: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso
la storia della filosofia antica, e amavo dire a quanti mi ascoltavano: «Questo sistema è stato
confutato ed è morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la persona non può
considerarsi morta» — Platone, ad esempio [...]. Per quanto concerne la Sua «Caratterizzazione di
ine stesso » che, come Lei scrive, risponde a verità, mi ha fatto venire in mente quei miei versi della
Gaia scienza, [...] dal titolo «Richiesta». Indovini un po', mia cara Lou, quel ch’io richiedo? [...]
Ieri pomeriggio ero felice: il cielo era azzurro, l'aria mite e tersa, ero nella Rosenthal, richiamatovi
dalla musica della Carmen. Sono rimasto seduto là per tre ore, e ho bevuto il secondo cognac di
quest’anno, in ricordo del primo (ah! com’era cattivo!), e intanto meditavo, in tutta innocenza e
malizia, se non avessi una qualche predisposizione alla follia. Alla fine mi sono detto: no. Poi
è iniziata la musica della Carmen e per una mezz’ora sono stato sopraffatto dalle lacrime e dal
batticuore. Quando leggerà queste cose, Lei concluderà di certo: sì! e prenderà un appunto per la
«Caratterizzazione di me stesso».
Venga presto a Lipsia, ma presto davvero! Perché soltanto il 2 ottobre? Adieu, mia cara Lou!
(Lettera di Friedrich Nietzsche a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibilmente il 16 settembre
1882)
A CURA DI ENRICO DONAGGIO E DOMENICO M. FAZIO
In copertina: Friedrich Nietzsche nel 1882. (Fotografia di Gustav Schnitze)
TESTI E DOCUMENTI 188

Lou von Salomé nel 1882. (Fotografia di Heinrich Wirth)


LOU ANDREAS-SALOME

FRIEDRICH NIETZSCHE

A CURA DI ENRICO DONAGGIO E DOMENICO M. FAZIO

© 2009 SE SRL
VIA MANIN 13 - 20121 MILANO
INDICE
Nota al testo
FRIEDRICH NIETZSCHE
Una lettera di Nietzsche a mo’ di prologo
1.    La sua natura
2.    Le sue trasformazioni
3.    Il « sistema Nietzsche »
POSTFAZIONE di Domenico M. Fazio
Appendice iconografica
NOTA AL TESTO
La presente edizione è stata realizzata sulla base dell’esemplare appartenuto al Nietzsche-Archiv di
Weimar dell’edizione originale, pubblicata a Vienna nel 1894. L’esemplare, catalogato il 21.X.1908
con la segnatura Kat/15, è oggi conservato presso la Herzogin Anna Amalia Bibliothek di Weimar,
con la segnatura Ma. 487, e reca ancora alcune glosse di pugno di Elisabeth Förster-Nietzsche. Nel
corso della traduzione, tuttavia, si è tenuta presente anche la precedente edizione italiana Nietzsche.
Una biografia intellettuale, traduzione di A. Barbaranelli e G. Maragliano, con un saggio
introduttivo di M. Ciampa e N. Fusini, pubblicata a Roma dalla casa editrice Savelli nel 1979 e
ormai da tempo fuori commercio.
I termini che nell’edizione originale erano evidenziati con il carattere spaziato sono stati resi con il
corsivo. Sono stati conservati, fra parentesi tonda, i rimandi agli scritti di Nietzsche contenuti nel
testo, ed eventuali riferimenti mancanti sono stati aggiunti fra parentesi quadra. I numeri arabi sono
quelli degli aforismi, i numeri romani corrispondono invece ai paragrafi. Le note, salvo quelle
racchiuse tra parentesi quadra, sono dell’autrice. I numeri tra parentesi quadra che ricorrono nel
testo corrispondono alle pagine dell’edizione originale. Per i testi di Nietzsche si è fatto riferimento
all’edizione italiana delle Opere, condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari,
Milano 1964. Per Omero e la filologia classica è stata utilizzata l’edizione degli Appunti filosofici
1867-1869. Omero e la filologia classica, a cura di G. Campioni e E Gerratana, Milano 1993. Per le
lettere di Nietzsche a Rèe anteriori al 1880 è stata adoperata l’edizione dell 'Epistolario 1875-1879,
condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, traduzione italiana di M.L.
Pampaioni Fama, «Notizie e note» a cura di F. Gerratana e G. Campioni, Milano 1995.
E.D.
D.M.F.
A uno sconosciuto, in fedele ricordo

Le due fotografie riprodotte da Lou Andreas-Salomé nel suo volume Friedrich Nietzsche in seinen
Werken.
Mia cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ai documenti personali dei loro
autori è davvero il pensiero di una « mente sorella »: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso
la storia della filosofia antica, e amavo dire a quanti mi ascoltavano: « Questo sistema è stato
confutato ed è morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la persona non può
considerarsi morta » - Platone, ad esempio [...].
Qui, nel frattempo, il professor Riedel, il presidente dell’Associazione musicale tedesca, si è
infiammato per la mia «musica eroica» (mi riferisco alla Sua Preghiera alla vita) -la vuole
assolutamente e non è impossibile che la possa arrangiare per il suo splendido coro (uno dei primi
in Germania, la «Associazione di Riedel»), Potrebbe essere, per così dire, un piccolo sentiero lungo
il quale giungere entrambi insieme fino ai posteri - fatte salve altre vie.
Per quanto concerne la Sua « Caratterizzazione di me stesso» che, come Lei scrive, risponde a
verità, mi ha fatto venire in mente quei miei versi della Gaia scienza, a p. io, dal titolo «Richiesta».
Indovini un po’, mia cara Lou, quel ch’io richiedo? [...]
Ieri pomeriggio ero felice: il cielo era azzurro, l’aria mite e tersa, ero nella Rosenthal, richiamatovi
dalla musica della Carmen. Sono rimasto seduto là per tre ore, e ho bevuto il secondo cognac di
quest’anno, in ricordo del primo (ah! com’era cattivo!), e intanto meditavo, in tutta innocenza e
malizia, se non avessi una qualche predisposizione alla follia. Alla fine
mi sono detto: no. Poi è iniziata la musica della Carmen e per una mezz’ora sono stato sopraffatto
dalle lacrime e dal batticuore. Quando leggerà queste cose, Lei concluderà di certo: sì! e prenderà
un appunto per la « Caratterizzazione di me stesso ».
Venga presto a Lipsia, ma presto davvero! Perché soltanto il 2 ottobre? Adieu, mia cara Lou!
Suo F.N.
1 [La lettera, scritta da Lipsia in risposta a una missiva di Lou Salomé andata perduta e risalente
presumibilmente al 16 settembre 1882, è ora in F, Nietzsche, Briefwechsel, Kritische
Gesamtausgabe hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Berlin-New York 1975, vol. III, tomo 1,
Briefe von Nietzsche 1880-1884, lettera n. 305 a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibilmente
il 16 settembre 1882, pp. 259-260. I versi di La gaia scienza a cui si fa riferimento nella lettera
recitano: « So il cuore di uomini molti / E non so, di me, quel ch’io sono! / Troppo il mio occhio
m’è presso - / Quel che vedo e che vidi non sono. / Più d’aiuto a me stesso sarei, / Se potessi
situarmi più lontano. / Non sì lontano come il mio nemico, / Che già l’amico mio troppo è distante
- / Ma a metà strada tra me stesso e lui! / Indovinate voi quel ch’io richiedo? » («Scherzo, malizia e
vendetta», 25).]
1. LA SUA NATURA
Per quanto l’uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso obiettivo: alla
fine non ne ricava nient’altro che la propria biografia.
Umano, troppo umano, 1,513
[3]    «Mihi ipsi scripsi!» esclama ripetutamente Friedrich Nietzsche nelle sue lettere, dopo aver
portato a termine un’opera. E la frase deve certo avere la sua importanza se a pronunciarla, riguardo
a se stesso, è il primo stilista vivente, l’uomo a cui, come a nessun altro, è riuscito di dare
espressione compiuta a ciascuno dei suoi pensieri, anche alle sfumature più sottili. Ma per chi sa
leggere gli scritti di Nietzsche si tratta anche di una frase rivelatrice che rimanda all’oscurità in cui
si trovano tutti i suoi pensieri, al velo mosso che li avvolge in mille forme; che rimanda al fatto che
egli in fondo pensava soltanto per sé, scriveva per sé, giacché descriveva soltanto se stesso, volgeva
in pensieri il proprio io.
[4]    Se il compito principale del biografo è quello di far luce sul pensatore attraverso l’uomo, ciò
vale in modo particolare per Nietzsche poiché in lui, come in nessun altro, si è verificata una piena
coincidenza tra le sue opere e la sua biografia. Anche nel suo singolo caso vale dunque quanto da
egli affermato in generale sui filosofi nella lettera sopra menzionata: i loro sistemi andrebbero
passati al vaglio sulla base dei « documenti personali» degli autori. Un’idea che avrebbe poi trovato
espressione nelle parole: « Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad ora ogni grande
filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite
mémoires» (Al di là del bene e del male, 6).
Questo pensiero faceva da guida anche alla mia descrizione del carattere di Nietzsche, citata nella
lettera precedente, che ebbi modo di leggere e discutere con lui nell’ottobre del 1882. Il lavoro
conteneva un abbozzo della prima parte di questo libro e alcune sezioni della seconda; il contenuto
della terza parte, il «sistema Nietzsche» vero e proprio, non aveva ancora visto la luce. Con il
trascorrere degli anni, sulla scia delle opere che si susseguivano veloci, questo ritratto è venuto
assumendo dimensioni sempre più estese e alcune sue parti sono già state pubblicate in forma di
saggio.1 [5]
Per quanto mi riguarda si trattava esclusivamente di delineare i tratti salienti della fisionomia
spirituale di Nietzsche, quelli sulla cui base soltanto possono essere intese la sua filosofia e la sua
evoluzione.
A tal fine mi posi volontariamente dei limiti sia dal punto di vista della considerazione puramente
teoretica, sia da quello della descrizione di vicende biografiche puramente personali. Né l’uno né
l’altro aspetto dovevano essere trattati in forma troppo ampia se si voleva che le linee di fondo della
natura nietzscheana venissero distintamente alla luce. Chi intendesse valutare Nietzsche sulla base
della sua importanza teoretica, sulla base di ciò che la filosofia a venire può imparare da lui, si
allontanerà deluso senza cogliere la sostanza del suo valore. Il valore dei suoi pensieri, infatti, non
risiede nell’originalità teoretica, né in ciò che può essere fondato o confutato per via dialettica,
bensì soltanto nella forza interiore con cui, nelle sue pagine, una personalità parla in quanto
personalità, in ciò che, secondo le sue stesse parole, può esser sì confutato ma non «considerato
morto». Chi, d’altro canto, intendesse muovere dalle vicende esteriori della vita di Nietzsche per
cogliere il suo animo, si troverebbe tra le mani soltanto un vuoto involucro da cui lo spirito si è
dileguato. Si può infatti affermare che Nietzsche non abbia mai vissuto volgendosi verso l’esterno:2
ogni esperienza della sua vita era così profondamente interiore da riuscire a esprimersi soltanto nel
dialogo a quattr’occhi o nei pensieri racchiusi nelle sue opere. L’insieme di monologhi di cui [6]
sono in sostanza composte le sue raccolte di aforismi in più volumi forma un solo grande libro di
memorie con al fondo l’immagine del suo spirito. E' proprio quest’immagine che io cerco di
tratteggiare: l’esperienza del pensiero nel suo significato per l’animo di Nietzsche - quel che di sé
egli confessa nella sua filosofia.
Sebbene da alcuni anni il nome di Nietzsche venga citato più di frequente di quello di qualsiasi altro
pensatore, e ben-
che siano in molti a prendere la penna sia per procacciargli adepti sia per polemizzare contro di lui,
ciò nondimeno egli è rimasto pressoché uno sconosciuto per quel che riguarda i tratti di fondo della
sua personalità spirituale. Da quando infatti la sparuta e dispersa schiera dei suoi lettori - quella
che egli ha sempre avuto, composta da quanti lo sapevano leggere davvero - si è ingrossata fino a
diventare una vasta schiera di seguaci, da quando ampie cerehie si sono impadronite di lui, a
Nietzsche è toccato il destino che incombe su ogni autore di aforismi; alcune delle sue idee, estratte
dal contesto e rese dunque interpretabili a piacere, sono divenute formule e parole d’ordine buone
per tutte le tendenze che riecheggiano nella battaglia delle opinioni, nello scontro tra i partiti da
cui Nietzsche si è tenuto del tutto alla larga. E' vero che egli deve la sua fama, acquisita con
rapidità, a questa situazione, allo strepito che improvvisamente si è levato intorno al suo
nome rimasto fino ad allora nel silenzio; ma proprio per questa ragione, ciò che di meglio, di
assolutamente unico e incomparabile egli aveva da offrire non è forse stato notato né preso in
considerazione, o è stato addirittura risospinto in un’oscurità ancora più fitta di quella in cui si
trovava in precedenza. Molti tuttavia lo esaltano ancora con voce più forte, con tutta l’ingenuità di
una credula mancanza di senso critico, riportando involontariamente alla mente una sua amara
sentenza: «Parla il deluso: “Ho teso l’orecchio per udire l’eco e ho sentito soltanto lodi”» (Al di là
del bene e del male, 99). Nessuno di loro lo ha veramente seguito, lontano [7] dagli altri e dalle
scaramucce di ogni giorno, da solo nella commozione del suo animo; nessuno è stato al fianco di
questo spirito solitario, difficile da scrutare, comune e straordinario, che osò farsi carico di cose
mostruose e che crollò sotto il peso di una mostruosa follia.
Nietzsche sembra dunque stare in mezzo a quelli che lo elogiano come uno straniero o un eremita
che in quella cerchia smarrisca soltanto la via e a cui nessuno ha ancora tolto il manto per cogliere
la sagoma nascosta; sembra stare in quella compagnia con il monito del suo Zarathustra sulle
labbra: « Tutti costoro parlan di me la sera, seduti intorno al fuoco essi parlano di me, ma nessuno
pensa - a me! Questo è il silenzio nuovo che ho imparato: il loro strepito intorno a me stende un
manto sui miei pensieri» [Così parlò Zarathustra, « Della virtù che rende meschini »].
Friedrich Wilhelm Nietzsche è nato il 15 ottobre 1844, unico figlio maschio di un pastore
protestante, a Röcken nei
pressi di Lützen, da dove suo padre venne successivamente trasferito a Naumburg. Ricevette la sua
prima formazione nella vicina scuola di Pforta e poi si iscrisse come studente di filologia classica
all’università di Bonn, dove allora insegnava il noto filologo Ritschl. Frequentò quasi
esclusivamente le lezioni di quest’ultimo, a cui si legò molto anche dal punto di vista personale e lo
seguì a Lipsia nell’autunno 1865. Al periodo di studi in questa città risale il primo incontro con
Richard Wagner - le cui opere erano già note a Nietzsche -, conosciuto nel 1868 in casa della
sorella, moglie del professor Brockhaus. Nel 1869, ancor prima della laurea, l’università di Basilea
chiamò il ventiquattrenne Nietzsche alla cattedra del filologo Kiessling, trasferitosi allo Johanneum
di Amburgo. Nietzsche fu dapprima [8] professore straordinario e, di lì a poco, ottenne l’ordinariato
in filologia classica; l’università di Lipsia gli concesse il titolo di dottore senza che dovesse
sostenere l’esame finale. Oltre ai corsi universitari, prese a tenere lezioni di greco nella terza e
ultima classe del Pädagogium di Basilea - un istituto intermedio tra ginnasio e università -, presso
cui insegnavano anche altri professori universitari come lo storico della cultura Jacob Burckhardt e
il filologo Mähly. In questa scuola egli ebbe un grande ascendente sui suoi allievi; la sua rara dote
di avvincere e far crescere i giovani, stimolandoli, potè dispiegarsi appieno. Burckhardt ebbe a dire
una volta di lui: « Basilea non ha mai avuto finora un insegnante del genere». Burckhardt faceva
parte della cerchia più ristretta degli amici di Nietzsche, che comprendeva anche lo storico della
chiesa Franz Overbeck e il filosofo kantiano Heinrich Romundt. Con questi ultimi Nietzsche
condivise un alloggio che dopo la pubblicazione delle Considerazioni inattuali fu soprannominato,
nella buona società di Basilea, la « casa dei veleni ».
Sul finire del suo soggiorno a Basilea Nietzsche visse per un certo periodo insieme alla sorella
Elisabeth, quasi sua coetanea, che avrebbe successivamente sposato l’amico di gioventù Bernhard
Forster e si sarebbe recata con lui in Paraguay. Nel 1870 Nietzsche prese parte come infermiere
volontario alla guerra franco-prussiana; non molto tempo dopo comparvero i primi minacciosi
sintomi di un’emicrania che si manifestava con dolori e malesseri acuti e periodicamente ricorrenti.
A voler prestare fede alle dichiarazioni dello stesso Nietzsche, erano questi dolori di origine
ereditaria gli stessi da cui il padre fu ucciso. All’inizio del 1876 si sentiva così malato agli occhi e al
capo da doversi [9] far sostituire al Pädagogium; da
quel momento le sue condizioni peggiorarono al punto da fargli sfiorare più volte la morte.
«Scampato un paio di volte alla soglia della morte, ma terribilmente sofferente - vivo alla giornata,
e ogni giorno ha la sua storia clinica ». Sono queste le parole con cui Nietzsche descrive, in una
lettera a un amico, i dolori in mezzo ai quali egli trascorse circa quindici anni.3
Passò invano l’inverno 1876-1877 nel mite clima di Sorrento, dove si trovava in compagnia di
alcuni amici: da Roma era giunta a trovarlo Malwida von Meysenbug, amica di lunga data (autrice
del celebre Memorie di un’idealista e discepola di Wagner); dalla Prussia occidentale, il dottor Paul
Rèe, a cui fin da allora lo legavano amicizia e affinità di aspirazioni. Alla piccola compagnia si era
unito anche un giovane di Basilea, malato di petto, di nome Brenner, che tuttavia morì di lì a poco.
Poiché nemmeno il soggiorno al Sud produsse effetti benefici sui suoi dolori, nel 1878 Nietzsche
pose fine al suo insegnamento al Pädagogium e, nel 1879, alla sua docenza universitaria. Da allora
condusse esclusivamente una vita solitaria, in parte in Italia - per lo più a Genova - in parte tra le
montagne svizzere, specialmente nel piccolo villaggio di Sils-Maria, in Engadina, non lontano dal
Passo del Maloja.
Il corso esteriore della sua vita pare dunque concluso e, per così dire, giunto alla fine, mentre la sua
esperienza di pensatore comincia veramente solo in questo momento: il pensatore Nietzsche, del
quale ci occuperemo in queste pagine, ci viene distintamente incontro soltanto al termine di questa
serie di vicende biografiche. Nondimeno, allorché prenderemo in esame i diversi periodi della sua
evoluzione intellettuale, [10] dovremo nuovamente tornare con maggior precisione sulle esperienze
e sui mutamenti, per ora soltanto abbozzati, che il destino gli aveva tenuto in serbo.
La sua vita e la sua produzione si dividono fondamentalmente in tre periodi, ciascuno della durata
di un decennio, che s’innestano l’uno sull’altro.
L’insegnamento di Nietzsche a Basilea durò dieci anni, dal 1869 al 1879; l’attività di filologo
coincide quasi per intero con il decennio del suo discepolato presso Wagner è con la pubblicazione
di quelle opere che sono sotto l’influsso della metafisica di Schopenhauer; questo secondo decennio
durò
dal 1868 al 1878, anno in cui, quale segno di un mutamento di rotta filosofica, egli inviò a Wagner
la sua prima opera positivistica: Umano, troppo umano.
All’inizio degli anni settanta risale il suo legame con Paul Rèe, che si sarebbe interrotto
nell’autunno del 1882 contemporaneamente alla conclusione di La gaia scienza, l’ultima tra le
opere di Nietzsche che ancora poggi su di una base positivistica.
Nell’autunno 1882 Nietzsche prese la decisione di rinunciare per dieci anni a ogni attività letteraria.
In quel periodo di assoluto silenzio intendeva vagliare l’esattezza della sua nuova filosofia, che si
volgeva in direzione della mistica, per quindi, nel 1892, far ritorno sulla scena come suo profeta.
Ma egli non tenne fede a questo proposito e, proprio negli anni ottanta, dispiegò una produttività
pressoché ininterrotta per poi ridursi al silenzio ancor prima dello scadere del decennio da lui
prospettato: un violento attacco di emicrania pose fine all’improvviso, nel 1889, a ogni forma di
lavoro intellettuale.
Ma il lasso di tempo compreso tra la rinuncia alla cattedra di Basilea e la fine di ogni attività [11]
durò a sua volta un decennio, dal 1879 al 1889. A partire da quel momento Nietzsche visse malato
presso la madre a Naumburg, dopo un breve soggiorno nella clinica del professor Binswanger a
Jena.
Le due foto che compaiono in questo libro ritraggono Nietzsche nel suo ultimo decennio di
sofferenze. Ed è certo questo il periodo in cui la sua fisionomia e tutto il suo aspetto esteriore
paiono ricevere l’impronta più caratteristica: il periodo in cui ogni sua espressione era già tutta
pervasa da una vita interiore profondamente agitata, che si dava a vedere anche in ciò che egli
cercava di trattenere o di nascondere. Vorrei dire che questo elemento nascosto, il presentimento
di una solitudine silenziosa, era quel che in un primo momento e con forza colpiva nell’aspetto di
Nietzsche, ciò che affascinava in lui. All’osservatore frettoloso la sua figura non presentava infatti
nulla che desse nell’occhio: l’uomo di media statura, dagli abiti estremamente semplici, ma anche
estremamente curati, dai tratti distesi e dai capelli castani pettinati all’indietro, poteva facilmente
passare inosservato. Il contorno della bocca, sottile e quanto mai espressivo, veniva quasi
interamente nascosto dai grossi baffi pettinati in avanti; aveva una risata sommessa, un modo di
parlare senza fragore, un’andatura cauta e meditabonda con le spalle che un po’ s’incurvavano; era
difficile immaginarsi un uomo del genere in mezzo a una folla: portava su di sé il segno di chi re-
sta in disparte, di chi sta da solo. Di incomparabile bellezza e di tale nobiltà di forma da attirare
involontariamente lo sguardo erano invece le mani di Nietzsche, delle quali egli stesso credeva che
rivelassero il suo spirito. In Al di là del bene e del male (288) si trova un’annotazione a riguardo:
«Esistono uomini che inevitabilmente hanno spirito, [12] comunque vogliano tergiversare e tenere
le mani dinanzi agli occhi rivelatori (- come se la mano non fosse rivelatrice! -) ».4
Anche gli occhi di Nietzsche erano rivelatori. Benché semiciechi, non possedevano nulla di quel
carattere indagatore, ammiccante, involontariamente importuno che è proprio di molti miopi;
parevano semmai i custodi e i guardiani di autentici tesori, di muti segreti che nessuno sguardo
indiscreto avrebbe dovuto violare. La debolezza della vista conferiva ai suoi tratti un incanto del
tutto particolare poiché, invece di riflettere le impressioni esteriori e cangianti, restituiva soltanto
quel che egli traeva da dentro di sé. Questi occhi guardavano verso l’interno e al tempo stesso - ben
oltre gli oggetti più vicini - lontano o, meglio, al suo interno come in una lontananza. In fondo tutta
la sua ricerca altro non fu che un esplorare l’anima umana in direzione di mondi da scoprire, verso
«le sue non ancora fino in fondo esaurite possibilità» (Al di là del bene e del male, 45) che egli,
inesausto, creava e ricreava di continuo. Quando poi si dava a vedere così com’era, nel corso di una
conversazione a quattr’occhi che lo agitava, allora una luce commovente poteva comparire e poi
sparire nei suoi occhi; ma se era di umore tetro allora era la solitudine cupa, quasi minacciosa, che
parlava da quegli occhi come da profondità inquietanti - quelle profondità in cui restò sempre solo,
che non poteva dividere con nessuno, innanzi alle quali anche lui stesso talvolta provava orrore e in
cui, alla fine, sprofondò il suo animo.
Anche il contegno di Nietzsche suscitava la stessa impressione di segretezza e riservatezza. [13]
Nella vita di ogni giorno era di una grande cortesia e di una mitezza quasi femminile, di
un’equanimità duratura e benevola; traeva diletto da forme signorili di relazione con gli altri e vi
attribuiva una grande importanza. Ma vi era sempre in ciò anche il gusto del travestimento -
mantello e maschera per una vita interiore quasi mai messa a nudo. Mi ricordo che quando parlai
per la
prima volta con Nietzsche — era un giorno di primavera, nella chiesa di San Pietro a Roma - nei
primi istanti fui colpita e tratta in inganno dalla sua compitezza ricercata. Ma una tale compitezza
non poteva ingannare a lungo in quel solitario che portava la maschera con gli stessi modi maldestri
con cui chi viene dai monti o dal deserto indossa la giacca dell’uomo di mondo. Ben presto si
affacciò la domanda che egli stesso avrebbe poi compendiato nelle parole: « In occasione di tutto
quello che un uomo rende manifesto, si può domandare: che cosa nasconderà? Da che cosa deve
distogliere lo sguardo? Quale pregiudizio deve suscitare? E poi ancora: fino a che punto giunge la
sottigliezza di questa dissimulazione? E, così facendo, in che cosa costui s’inganna?» [Aurora, 523].
Questo aspetto rappresenta soltanto l’altro lato di quella solitudine alla cui luce deve essere intesa
tutta la vita interiore di Nietzsche - un autoisolamento e un relazionarsi soltanto a se stesso che
crescevano di continuo.
Con l’aumentare della solitudine, ogni forma di esteriorità si muta in parvenza, in semplice velo
ingannatore che la profondità solitaria tesse intorno a sé per farsi superficie che lo sguardo umano
possa intendere. « Gli uomini che pensano profondamente appaiono a se stessi commedianti nei
rapporti con gli altri, perché allora, per essere capiti, devono sempre simulare una superficie»
(Umano, troppo umano, II, 232). Persino i pensieri di Nietzsche, [14] nella misura in cui vengono
formulati in guisa teoretica, potrebbero essere messi in conto a questa superficie dietro la quale,
profonda e muta come l’abisso, sta la vita interiore da cui sono emersi, simili a una « scorza che
tradisce l’esistenza di qualcosa, ma ancor di più la nasconde» (Al di là del bene e del male, 32);
infatti, egli scrive: « O si nascondono le proprie opinioni o ci si nasconde dietro le proprie opinioni»
(Umano, troppo umano, LI, 338). TROVA POI UNA BELLA DEFINIZIONE DI SE STESSO ALLORCHÉ PARLA DI QUANTI
STANNO «NASCOSTI SOTTO MANTELLI DI LUCE» (Al di là del bene e del male, 44), di chi si fa velo della
chiarezza dei propri pensieri.
In ogni fase della sua evoluzione intellettuale noi troviamo Nietzsche alle prese con qualche forma
di mascheramento, ed è sempre una di queste forme a caratterizzare effettivamente il livello di
sviluppo che le corrisponde: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera. [...] Ogni spirito
profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce
continuamente una maschera » (Al di là del bene e del male, 40).
«- Chi sei tu, viandante? [...] Riposati qui. [...] Ristorati! [... ] Che cosa ti serve per ristorarti? [...]-
“Per ristorarmi? Per ristorarmi? Oh curioso che sei, che vai mai dicendo? Ma dammi ti prego...” -
Cosa? Cosa? Parla! - “Una maschera ancora! Una seconda maschera!”...» (Al di là del bene e del
male, 278).
E non potrà non colpirci il fatto che nella misura in cui la sua solitudine e la sua arzigogolata
relazione con se stesso si fanno esclusive, anche il significato del travestimento si fa più profondo e
la vera natura e il vero essere si rendono sempre meno visibili, retrocedendo dietro le forme
esteriori o l’apparenza che sta in primo piano. Già in II viandante e la sua ombra Nietzsche tratta
de «La mediocrità come maschera». [15] «La mediocrità è la maschera più felice che lo spirito
superiore possa portare, poiché essa non fa pensare alla gran massa, cioè ai mediocri, che si tratta di
mascheramento: e tuttavia egli la mette su proprio per loro, per non irritare loro, anzi non di rado
per compassione e bontà» (175). Questa maschera innocua si sarebbe poi mutata in una
maschera tremenda che avrebbe nascosto cose ancora più tremende: « E talvolta la follia stessa è la
maschera per un sapere infelice troppo certo » (Al di là del bene e del male, 270), - e infine in
un’ingannevole istantanea della risata divina che anela a trasfigurare il dolore in bellezza. Nel
quadro della sua ultima mistica filosofica Nietzsche è così andato gradualmente affondando in
un’estrema solitudine nel cui silenzio ci è impossibile seguirlo, di cui null’altro ci resta - quali
simboli e accenni - se non le maschere ridenti dei suoi pensieri e la loro interpretazione; Nietzsche,
invece, è già divenuto per noi ciò che una volta si firmò in una lettera: « Smarrito per sempre»
(lettera dell’8 luglio 1881 da Sils-Maria).5
Questa intima solitudine, questo isolamento, rappresentano la cornice immutabile dalla quale,
attraverso tutte le sue metamorfosi, il volto di Nietzsche ci guarda. Per quanto si travesta, egli porta
sempre con sé « il deserto e la sacra invalicabile zona di frontiera, dovunque vada » (Il viandante e
la sua ombra, 337). E in una lettera dall’Italia del 31 ottobre 1880, indirizzata a un amico,6 trova
espressione anche il biso-
gno che la sua esistenza esteriore possa corrispondere a quest’intima solitudine: «La solitudine, la
perfetta solitudine, mi si mostra con sempre maggior evidenza come il rimedio, così come una
passione naturale [16] - e la condizione in cui possiamo realizzare le nostre cose migliori la
dobbiamo creare anche a costo di molti sacrifici ».
Fu però la sofferenza fisica che lo costrinse a mutare la sua solitudine interiore in una esteriore quasi
altrettanto perfetta, che lo allontanò dagli uomini e che rese possibile solo a grandi intervalli anche
lo scambio con amici - raro e sempre a quattr’occhi.
Sofferenza e solitudine, sono dunque questi i due grandi segni del destino nell’evoluzione
intellettuale di Nietzsche, segni che si fanno tanto più marcati quanto più ci si approssima alla fine.
E sino alla fine essi mostrano un singolare e duplice aspetto che li fa apparire come un caso della
vita, ma anche come una necessità intimamente voluta e condizionata da quanto accadeva nella sua
anima. Anche la sua sofferenza fisica infatti, non diversamente dalla sua riservatezza e dalla sua
solitudine, era il riflesso e il simbolo di qualcosa di profondo - e ciò in modo così immediato da far
sì che egli Faccettasse, anche nelle sue vicende esteriori, come un buon amico o un compagno di
strada che il destino gli aveva tenuto in serbo. In una lettera di condoglianze da Sils-Maria, di fine
agosto 1881, scrisse queste parole: «Mi affligge sempre sapere che Lei soffre, che Le manca
qualcosa, che ha perso qualcuno: in me, invece, la sofferenza e la privazione fanno parte della
sostanza e non, come nel Suo caso, di quel che di non necessario e di non ragionevole vi è nella
vita».7
A questo motivo sono da ricondurre i singoli aforismi, sparsi nelle sue opere, sul valore del dolore
per la conoscenza. In essi Nietzsche descrive l’influsso sul pensiero degli stati d’animo dell’uomo
malato e dell’uomo tornato alla salute, segue [17] con finezza il trascorrere di questi stati
d’animo nella più alta sfera spirituale. Una malattia che torna periodicamente a manifestarsi, quale
era quella di Nietzsche, divide costantemente un momento della vita dall’altro, una fase speculativa
da quella che la precede. Questa doppia vita consente di conoscere e avere consapevolezza di una
duplice natura delle cose. Fa sì che ogni cosa possa apparire sempre
nuova allo spirito - prenda «un nuovo sapore» come Nietzsche ebbe a dire una volta in modo quanto
mai appropriato [Crepuscolo degli idoli, «Morale come contronatura», 3] - e consente uno sguardo
del tutto nuovo su ciò che è più consueto e quotidiano. Quel che esiste da sempre acquista
così qualcosa della freschezza e della lieve rugiada dell’aurora, poiché una notte lo separa dal
giorno precedente. Ogni guarigione diventa dunque per Nietzsche una palingenesi di se stesso e al
contempo della vita attorno a lui e sempre di nuovo la sofferenza viene «inghiottita nella vittoria».
Se è lo stesso Nietzsche ad accennare al fatto che la natura della sua sofferenza fisica si riflette in
certa misura nelle sue opere e nei suoi pensieri, lo stretto legame tra pensiero e sofferenza emerge in
modo ancor più chiaro quando si prende in esame l’insieme della sua produzione e del suo
sviluppo intellettuale. Qui non ci si trova infatti di fronte a quei graduali cambiamenti della vita
intellettuale attraverso i quali passa chiunque cresca fino a raggiungere la forma che gli è naturale,
ai mutamenti di una normale crescita, bensì a mutamenti e variazioni repentine, ad alti e bassi della
condizione mentale che paiono quasi seguire un loro ritmo e che, in ultima istanza, non sembrano
corrispondere ad altro che a un ammalarsi e a un guarire del pensiero.
Solo muovendo dall’indigenza più estrema di tutta la sua indole, soltanto prendendo le mosse dalla
più tormentata brama di guarigione, gli si schiudono nuove conoscenze. Ma non appena [18] vi si
consacra per intero, appena trova in esse un attimo di requie e le assimila alle proprie energie, allora
viene colto come da un nuovo attacco febbrile, come da un inquieto e impellente eccesso di energia
interiore che volge in ultimo il suo aculeo contro di sé e fa di lui stesso la sua malattia. « Soltanto
una sovrabbondanza di forza è la dimostrazione della forza», afferma Nietzsche nella prefazione
del Crepuscolo degli idoli; in questa sovrabbondanza la sua forza si cagiona sofferenza, si sfoga in
lotte dolorose, si eccita in tormenti e commozioni di cui il suo animo vuole divenire fecondo.8
Affermando con orgoglio: «Quel che non mi uccide, mi rende più forte » (Crepuscolo degli idoli, «
Sentenze e frec-
ce», 8) egli si flagella non fino a uccidersi, non fino alla morte, ma proprio fino a quelle febbri e a
quelle ferite di cui ha bisogno. Questa esigenza del dolore corre attraverso l’intera evoluzione di
Nietzsche e ne costituisce l’autentica fonte spirituale-, essa trova l’espressione più adeguata nelle
parole: « Spirito è la vita che taglia nella propria carne: nel suo patire essa accresce il suo sapere - lo
sapevate? E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato dalle lacrime come vittima del
sacrificio - lo sapevate? [...] Voi conoscete dello spirito solo le scintille: ma non avete occhi per
l’incudine che
lo    spirito è, e nemmeno per la crudeltà del suo maglio! » (Cosi parlò Zarathustra, «Dei saggi
illustri»), «Quel tendersi dell’anima nella [19] sventura, [...] il suo brivido allo spettacolo della
grande rovina, la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel perseverare, nell’interpretare,
nell’utilizzare la sventura, e tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia,
grandezza a essa toccò in dono - non lo ricevette forse in mezzo ai dolori e alla disciplina
plasmatrice del grande dolore? » (Al di là del bene e del male, 225).
In questo modo di procedere viene ancora una volta alla luce con particolare evidenza qualcosa di
duplice: da un lato l’intimo nesso, nella natura nietzscheana, tra vita speculativa e vita interiore, la
dipendenza della sua mente dai bisogni e dalle emozioni della sua sfera intima; dall’altro, però, la
peculiarità per cui da questa stretta connessione devono nascere sempre nuovi patimenti; ogni volta
che si deve attingere la somma chiarezza, la chiara luce della conoscenza, l’anima deve prendere ad
ardere di un fuoco che, tuttavia, non può mai defluire in calore benefico, ma deve invece ferire
con vampate abbacinanti e fiamme che guizzano; anche in questo caso, come ebbe a dire nella
lettera menzionata in precedenza, vi è « la sofferenza come sostanza » della vita.
Come la sofferenza fisica fu all’origine dell’isolamento esteriore di Nietzsche, così è nella sua
sofferenza psichica che va colta una delle cause più profonde del suo spiccato individualismo, della
sua tenace insistenza sul «singolo» come « solitario » nella specifica accezione nietzscheana. La
storia del «singolo» è senz’altro una storia di dolore e non può essere paragonata ad alcuna forma di
individualismo generico.
Il    suo contenuto mira assai meno all’« autosufficienza » che all ’«autosopportazione». Nei
dolorosi alti e bassi del suo spirito, si può leggere la storia di altrettante ferite [20] che egli si
infligge; Nietzsche tenta di occultare quest’eroica lotta con se stesso allorché pone al di sopra della
propria filosofia que-
stc audaci parole: « Questo pensatore non ha bisogno di nessuno che lo confuti: a ciò gli basta se
stesso» (Il viandante e la sua ombra, 249).
La sua straordinaria capacità di venire ogni volta a capo del più duro superamento di sé, di sentirsi
sempre a casa in mezzo a nuove conoscenze, sembra esistere soltanto per rendere ancora più
impressionante la separazione da quel che ha appena acquisito. «Arrivo! Abbatti la tua capanna e
vienimi incontro! » gli impone lo spirito; e con mano caparbia egli si priva del rifugio e si pone di
nuovo in cerca delle tenebre, dell’avventura e del deserto, con il lamento sulle labbra:
«Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso per le
più belle cose che non mi seppero trattenere uno sguardo irato - giacché non mi seppero trattenere»
(La gaia scienza, 309). Non appena un modo di considerare le cose gli diviene congeniale, eccolo
porre in pratica le sue stesse parole: « Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa» (Al
di là del bene e del male, 73).9
Il mutamento delle opinioni e l' impulso alla trasformazione sono dunque profondamente radicati
nella filosofia di Nietzsche, sono d’importanza decisiva per il tipo di conoscenza a cui essa
perviene. Non a caso, nel canto finale di Al di là del bene e del male, egli si definisce come « un
lottatore che troppe volte se stesso [21] ha domato [...]. Troppe volte ha conteso con la sua stessa
forza, ferito e impedito dalla sua stessa vittoria » [« Da alti monti. Epodo »].
Nel quadro di questa eroica disponibilità a rinunciare alle proprie convinzioni, questo impulso al
mutamento prende addirittura il posto, nell’animo nietzscheano, della fedeltà alle proprie
convinzioni.10 In II viandante e la sua ombra egli afferma: « Noi non ci faremmo bruciare per le
nostre opinioni: non siamo abbastanza sicuri di esse. Ma ci faremmo forse bruciare per poter avere e
per poter cambiare le nostre opinioni» (333). E nelle pagine di Aurora questo proposito viene
espresso con le belle parole: «Mai trattenere o tacere a te stesso qualcosa che può essere pensato
contro il tuo pensie-
ro! Promettilo a te stesso! Ciò rientra nella prima rettitudine del pensare. Ogni giorno devi anche
muovere contro te stesso la tua campagna di guerra. Una vittoria e una trincea conquistata non sono
più faccende tue, ma della verità, - ma anche la tua sconfitta non è più affar tuo! » (370). Le frasi
sono precedute dal titolo « In che senso il pensatore ama il suo nemico». Ma questo amore per il
nemico nasce dall’oscuro presentimento che in quello possa essere celato un amico futuro e che
nuove vittorie attendano soltanto colui che cade sconfitto; nasce dal presentimento che questo
processo psichico di autotrasformazione, sempre uguale e sempre doloroso, rappresenti per
Nietzsche l’inaggirabile presupposto di ogni energia creatrice: « E' lo spirito che ci salva, perché
non bruciamo e ci carbonizziamo completamente [...]. Liberati dal fuoco, procediamo allora,
sospinti dallo spirito, di opinione in opinione [...] come nobili traditori di tutte le cose» {Umano,
troppo umano, 1, 637); [22] «noi dobbiamo diventare traditori, commettere infedeltà; abbandonare
sempre di nuovo i nostri ideali» {Umano, troppo umano, 1, 629).
Nella misura in cui si chiudeva in se stesso, questo solitario doveva per così dire moltiplicarsi,
smembrarsi in una miriade di pensatori; soltanto così egli riusciva ad avere una vita spirituale.
L’istinto che lo spingeva a ferirsi era solo un aspetto del suo istinto di autoconservazione: soltanto
gettandosi sempre di nuovo nella sofferenza riusciva a sottrarsi al proprio dolore. « Solo al tallone
io sono invulnerabile. [...] E solo dove sono sepolcri, sono anche resurrezioni. - Così cantò
Zarathustra » {Così parlò Zarathustra, « Il canto dei sepolcri»); lui, a cui una volta la vita «ha
confidato questo segreto»: «Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa»
(Così parlò Zarathustra, «Della vittoria su se stessi»).11
Su null’altro Nietzsche ha invero meditato più a lungo e più a fondo che su questo autentico enigma
della sua natura, e su null’altro le sue opere ci informano con altrettanta dovizia come su questo
tema: per lui, in fondo, tutti gli enigmi della conoscenza non erano null’altro che ciò. Tanto più a
fondo si conosceva, tanto più palesemente [23] tutta la sua filosofia diventava un gigantesco riflesso
del suo autoritratto - e tanto più ingenuamente egli attribuiva ciò all’immagine riflessa. Come tra i
filosofi gli astratti autori di sistemi hanno universalizzato i propri concetti sino a farne un sistema di
leggi che regola il mondo, cosi Nietzsche universalizza la sua anima ad anima del mondo. Ma per
tratteggiare l’immagine di quest’anima non c’è prima bisogno di ricondurre l’insieme delle
sue teorie a lui stesso, come si farà nelle parti successive di questo libro. Una certa comprensione di
essa è già possibile a questo punto dell’esposizione, dove Nietzsche viene considerato soltanto in
riferimento alle sue doti intellettuali. La ricchezza di queste predisposizioni era troppo variegata
perché a Nietzsche riuscisse di conservarla secondo un ordine preciso: la vitalità e la volontà di
potenza di ciascun talento e degl: impulsi del suo spirito condussero necessariamente a una
rivalità mai messa a tacere tra le diverse doti. Fianco a fianco, senza mai conoscere pace e
tiranneggiandosi a vicenda, conviveva; no in Nietzsche un musicista di grande talento, un
pensatore dallo spirito libero, un genio religioso e un poeta nato. Egli stesso tentò di spiegare su
questa base la particolarità della sua personalità intellettuale e si pronunciò spesso sul tema
nel corso di approfondite conversazioni.
Nietzsche distingue due grandi insiemi di caratteri: quello in cui i diversi sentimenti e i diversi
istinti si trovano in armonia tra loro, formando una sana unità, e quello in cui gli istinti e i
sentimenti si reprimono e si combattono vicendevolmente. Paragona la situazione del primo insieme
- a livello del singolo individuo - a quella dell’umanità al tempo del branco, prima dell’emergere di
una forma di stato: come in quella situazione l’individuo possiede la propria individualità e il
proprio sentimento di potenza solo nella cerchia ristretta del branco, [24] così avviene per i singoli
istinti nel chiuso della personalità di cui costituiscono la quintessenza. Le nature che appartengono
al secondo insieme, invece, vivono nella propria interiorità così come vivrebbero gli uomini durante
una guerra di tutti contro tutti: la personalità stessa, in certa misura, si dissolve in un aggregato di
personalità istintuali dispotiche, in una molteplicità di soggetti. Questa
condizione può essere superata soltanto se si riesce a istituire dall’esterno una forza superiore,
un’autorità più forte in grado di dominare tutte le altre, come fa la legge di un organismo statale per
la quale esistono solamente poteri a essa sottoposti. Infatti, quel che nei caratteri che abbiamo
descritto per primi accade da sé, in modo istintivo - l’inquadramento del singolo nella totalità -, qui
deve essere conquistato e strappato alle singole brame tiranniche creando una gerarchia
inesorabilmente rigida degli istinti tra loro.12
E' a questo punto che Nietzsche scorge la possibilità di un 'autoaffermazione complessiva
attraverso la sofferenza di ogni singola parte. Qui sta rinchiuso in nuce il significato originario
della dottrina della décadence, che egli svilupperà in seguito, insieme al pensiero fondamentale
secondo cui esiste la possibilità che si diano capacità e azioni eminenti attraverso una sopportazione
e un patimento continui. In una parola, qui gli si mostra il significato dell’eroismo come ideale.
A strapparlo all’ideale e alla sua tirannia fu la sua straziante imperfezione: « Le nostre
manchevolezze sono gli occhi con cui vediamo l’ideale » (Umano, troppo umano, II, 86).
[25] «Che cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e insieme alla propria
suprema speranza» (La gaia scienza, 268). E vorrei aggiungere ancora tre aforismi che egli mi
scrisse una volta13 e che mi paiono chiarire in modo più netto la sua concezione: «Il contrario
dell’ideale eroico è l’ideale dell’armonico sviluppo onnilaterale - un opposto bello e assai
desiderabile! Ma un ideale soltanto per uomini profondamente buoni. (Ad esempio: Goethe) ».14
Quindi: «Eroismo - è il convincimento di un uomo che aspira a un obiettivo rispetto al quale egli
non tiene conto di
sé. Eroismo è la buona volontà nei confronti del tramonto assoluto di se stessi ».
E infine il terzo aforisma: « Gli uomini che aspirano alla grandezza sono normalmente uomini
cattivi; è il solo modo che hanno di sopportarsi».
Il termine «cattivo», così come il termine «buono» che compare negli aforismi precedenti, non deve
essere assunto in questo contesto secondo il suo significato corrente, né in un’accezione valutativa,
ma solo come la designazione di uno stato di fatto; in quanto tale, esso designa costantemente
per Nietzsche la « guerra interna » a un animo umano, quella stessa condizione che egli avrebbe
definito più tardi con l’espressione «anarchia negli istinti». Nella sua ultima fase di creatività, dopo
avere ormai assunto un determinato orientamento teorico, questa condizione della singola anima si
estende fino a diventare un’immagine dell’intera civiltà umana; le parole d’ordine recitano allora:
[26] guerra interna = décadence, e vittoria = tramonto dell’umanità in vista della creazione
di un’umanità superumana; in origine, però, si trattava soltanto di un’immagine della sua propria
anima.
Nietzsche distingue la natura armonica o unitaria e la natura eroica o scissa secondo i due tipi
dell’uomo dell’azione e dell’uomo della conoscenza; in altre parole: il tipo di natura opposta alla
sua e la sua propria natura. Uomo dell’azione può diventarlo, a suo avviso, l’uomo non diviso e non
frammentato, l’uomo dell’istinto, la natura signorile. Se questi segue la propria evoluzione naturale,
il suo carattere si farà sempre più sicuro e nettamente pronunciato, la sua forza compressa
avrà modo di scaricarsi in azioni sane. Gli ostacoli che il mondo esterno potrà forse mettergli di
fronte, conterranno sempre per lui anche una sfida e una sollecitazione: nulla è infatti più consono
alla sua natura della lotta coraggiosa con la realtà esterna, in nulla l’integrità della sua salute si dà
tanto a vedere come nella sua abilità bellica. Per grande o piccolo che possa essere il suo intelletto,
esso è a ogni modo al servizio di questa fresca forza naturale e di ciò che le fa bene e le giova - non
intralcia i suoi fini, non la disperde, non se ne va per la sua strada.
Le cose stanno in modo del tutto diverso per l’uomo della conoscenza. Invece di cercare una salda
unione dei propri istinti, che li protegga e li conservi, egli lascia che si sparpaglino nel modo più
ampio possibile; quanto più ampio è lo spazio che riescono ad abbracciare, tanto meglio; quante
più sono le cose verso cui tendono i loro tentacoli, e che toccano, vedono, ascoltano, annusano,
tanto più adatti essi risultano ai
suoi fini, ai fini della conoscenza. La vita, infatti, è ormai per lui un «mezzo della conoscenza» (La
gaia scienza, 324) ed egli grida ai suoi compagni: [27] « Vogliamo essere noi stessi i nostri
esperimenti e le nostre cavie! » (La gaia scienza, 319). Rinuncia così volontariamente all’unità di se
stesso: quanto più il suo soggetto è polifonico, tanto più gli è caro:
Tagliente e mite, rozzo e delicato,
Alla mano e bizzarro, sozzo e mondo,
Un convegno di saggi e di buffoni:
Tutto ciò voglio essere e son io,
Colomba a un tempo e serpente e porco !
(La gaia scienza, « Scherzo, malizia e vendetta», 11)
Noi uomini della conoscenza - egli afferma - dobbiamo infatti essere riconoscenti « a Dio, al
diavolo, alla pecora e al verme dentro di noi [...], con anime manifeste e occulte, di cui difficilmente
si potrebbero scorgere le intenzioni ultime, con prosceni e quinte che nessun piede riuscirebbe a
percorrere sino alla fine [...], noi siamo dalla nascita gli amici giurati e gelosi della solitudine» (Al
di là del bene e del male, 44). L’uomo della conoscenza possiede un’anima che «ha la scala più
lunga e può giungere alla maggiore profondità [...], l’anima dall’estensione più ampia, che dentro di
sé può correre ed errare e vagare [...]; che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta;
l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto: — la più capace di amare se stessa, in
cui tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso» (Così parlò Zarathustra, « Di
antiche tavole e nuove »).
Con un’anima di questo genere si diventa un «mille-piedi e un mille-tentacoli» (Al di là del bene e
del male, 205), sempre in procinto di sfuggire a se stessi per raggiungere cose diverse: « Una volta
che si sia trovato se stesso, bisogna essere capaci di tempo in tempo di perdersi - e poi di
ritrovarsi; presupposto che si sia un pensatore. [28] A questo è infatti dannoso essere legato sempre
a una stessa persona » (Il viandante e la sua ombra, 306). Lo stesso intendono dire i versi:
Già guidare me stesso m’è odioso!
Mi piace, come gli animali del bosco e del mare,
Smarrirmi per un buon tratto di tempo,
Almanaccando intanarmi in un labirinto soave,
E finalmente, dalle lontananze, attirare me stesso a casa,
E sedurre me stesso a me stesso!
(La gaia scienza, «Scherzo, malizia e vendetta», 33)
Questi versi sono intitolati II solo, vale a dire colui che se ne sta il più possibile appartato dalle
pretese e dalle battaglie ilei mondo; chi conduce una vita del genere diventa sempre meno bellicoso
nei confronti del mondo esterno, nella misura in cui la sua sfera interiore viene stordita e scossa
dalle guerre, le vittorie, le sconfitte e le conquiste che hanno luogo nei suoi istinti. Nell’isolamento
di chi è immerso in se stesso e nell’ampliamento dei propri confini, questa vita cerca invece un
manto che la risparmi e la protegga dalle vicende della vita esteriore con il loro clamore e il loro
pericolo - ma ciò nondimeno essa si trova sempre in lotta e viene sempre ferita; a quest’uomo della
conoscenza ben si attaglia la descrizione: «Un uomo che costantemente vive, vede, ascolta,
sospetta, spera, sogna cose fuori dall’ordinario; che viene colto dai suoi stessi pensieri quasi dal di
fuori [...], come da quel genere di avvenimenti e di fulmini che è suo proprio » {Al di là del bene e
del male, 292).
Al suo interno, infatti, l’atteggiamento bellicoso degli istinti non è venuto meno, ma si è caso mai
accresciuto: « Ma chi considera i fondamentali istinti umani, per vedere fino a che punto proprio
essi possano qui essere entrati in giuoco come geni ispiratori (oppure demoni e coboldi), si
accorgerà che [...] [29] ognuno di questi, nella sua singolarità, sarebbe disposto anche troppo
volentieri a presentare precisamente se stesso come l’ultimo fine dell’esistenza e come il più
legittimo signore di tutti gli altri istinti. Ogni istinto infatti è bramoso di dominio: e come tale cerca
di filosofare». Proprio per questo motivo la conoscenza dell’uomo di conoscenza offre una «
decisiva testimonianza di quel che egli è - vale a dire in quale disposizione gerarchica i più intimi
istinti della sua natura siano posti gli uni rispetto agli altri » {Al di là del bene e del male, 6).
Nonostante ciò, attraverso la conoscenza, in questa guerra interna ha luogo una metamorfosi che le
conferisce un nuovo significato - un significato salvifico e redentore; nella conoscenza, infatti, tutti
gli istinti trovano un fine comune, una direzione verso cui tendere nella misura in cui è proprio
la conoscenza quel che ciascun istinto vuole conquistare. La dispersione del capriccio e la tirannia
dell’arbitrio sono così infranti. Gli istinti tengono ferma la loro « molteplicità di soggetto », ma la
sottomettono a un potere più elevato che li comanda come dei servitori o degli strumenti;
rimangono bellicosi e selvaggi, ma rispetto allo scopo della loro guerra divengono all’improvviso
degli eroi chiamati a combattere e a
versare il loro sangue; l’ideale eroico campeggia sul loro egoismo e indica l’unica via possibile
verso la grandezza. I pericolo dell’anarchia è così scampato a tutto vantaggio d' una sicura «
struttura sociale degli istinti e degli affetti ».
Mi torna ora alla mente una frase pronunciata da Nietzsche che esprime in modo assai caratteristico
la gioia dell'uomo della conoscenza per l’ampiezza e la profondità che la sua natura è in grado di
abbracciare - il piacere che ne deriva di poter intendere la sua vita come un « esperimento di chi è
volte alla conoscenza» (La gaia scienza, 324): [30] «Somiglio a una vecchia fortezza, resistente alle
intemperie, con molte cantine e sotterranei nascosti; non mi sono ancora insinuato fino a] fondo dei
miei cunicoli bui, non sono ancora giunto alle mie cavità sotterranee. Non dovrebbero reggere il
peso dell’intero edificio? Non dovrei potermi arrampicare dalle mie profondità sino a tutte le
superfici della terra? Non potremmo fare ritorno a noi stessi attraverso ogni cunicolo buio? ». 15
Lo stesso stato d’animo è reso anche dall’aforisma 249 di La gaia scienza intitolato «Il sospiro
dell’uomo della conoscenza»: «Oh, questa mia cupidigia! In quest’anima non dimora alcun
disinteresse; ma, piuttosto, un sé bramoso di tutto, che vorrebbe vedere attraverso molti individui
come attraverso i suoi stessi occhi e mercé loro vorrebbe afferrare, come per mezzo delle sue stesse
mani - un sé che va sempre a riprendersi anche tutto il passato, che niente vuole perdere di quel che
potrebbe appartenergli. Oh, questa fiamma della mia cupidigia. Oh, se potessi rinascere in cento
esseri! ».
In tal modo il carattere avvolgente e vorace di una natura disarmonica e «senza stile» risulta un
enorme vantaggio: «Se noi volessimo ed osassimo un’architettura secondo la modalità delle nostre
anime [...], nostro modello dovrebbe essere il labirinto» (Aurora, 169); non un labirinto, però, in cui
l’anima si smarrisce, ma un labirinto attraverso il cui intrico essa giunge alla conoscenza. « Bisogna
avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante» (Cosi parlò Zarathustra,
«Prologo di Zarathustra»): questa sentenza di Zarathustra vale per quell’anima che è nata per
un’esi-
stcnza stellare, per la luce come suo autentico nume tutelare, per la sua autentica trasfigurazione.
Nietzsche ha descritto questo con il titolo di «Una specie luminosa di ombra»: [31] « Proprio
accanto agli uomini affatto notturni si trova quasi regolarmente, come a essi attaccata, un’anima di
luce. Essa è per così dire l’ombra negativa che quelli gettano» {Il viandante e la sua ombra, 258).
Quest’anima di luce risulta tanto più luminosa quanto più possente e notturna, e dunque quanto più
tirannica e pericolosa, è la natura che, per così dire, si lascia bruciare in essa, che getta tutte le sue
doti come materiale infiammabile dentro il sacro fuoco. Il modo in cui ciò accade varia secondo
la prospettiva gnoseologica adottata dall’uomo della conoscenza: la concezione nietzscheana della
«conoscenza» cambia nei diversi periodi della sua evoluzione intellettuale e, di conseguenza, anche
quel che egli definisce la « gerarchia interna degli istinti » si riassesta nel movimento della lotta
che ha luogo all’interno di questa ricca natura geniale. Si può dire che la storia dell’evoluzione
spirituale di Nietzsche sia costituita nell’essenziale dalle figure cangianti di questi riassestamenti
finché, nel suo ultimo periodo, l’intera sua vita interiore prende a riflettersi in teorie filosofiche -
finché l’anima d’ombra e l’anima di luce non divengono rappresentanti dell’umano e del
superumano.
Il processo psicologico descritto nelle pagine precedenti permane tuttavia lo stesso, nei suoi tratti di
fondo, attraverso tutte le metamorfosi. Con le parole di Nietzsche: « Se si ha del carattere, si ha
anche una propria tipica esperienza interiore, che ritorna sempre» {Al di là del bene e del male,
70). Ora, è proprio questa la sua tipica esperienza interiore, che sempre ritorna, da cui egli sempre si
risollevò, innalzandosi sopra di sé, nella quale infine sprofondò e andò in rovina.
Ma in una tale esperienza non poteva che rovinare. Nel medesimo processo che sempre di nuovo gli
assicurava guarigione ed esaltazione, si celava già infatti il momento patologico [32] di questo tipo
di evoluzione intellettuale. Ciò non balza subito all’occhio. Si poteva anzi supporre che, in
una forza capace di curarsi in questo modo, dovesse essere racchiusa tanta salute quanta se ne trova
nella pacata tranquillità con cui le forze si dispiegano armoniose. O addirittura una salute ancora più
grande, giacché è in grado di rafforzarsi e dare prova di sé anche in quelle situazioni che
cagionano febbri e ferite; poiché è in grado di trasformare lotte e malattie in uno stimolo per la vita
e per la conoscenza, in sprone e
perspicacia rispetto ai suoi scopi: una salute dunque che abbraccia, senza ricevere danno, lotta e
malattia.
E così Nietzsche, soprattutto in ultimo, soprattutto nel momento in cui era più malato, avrebbe
voluto che la storia della sua sofferenza venisse intesa come la storia di una guarigione. Questa
natura possente riusciva senz’altro a curarsi e a ritrovarsi nel suo ideale conoscitivo anche tra dolori
e contrasti. Appena raggiunta la guarigione, essa aveva però nuovamente bisogno di lotte e
sofferenze, di febbre e ferite. Era lei che, dopo essere riuscita a guarire, le chiamava di nuovo a sé,
si volgeva contro se stessa, quasi traboccando, per scivolare in una nuova situazione di malattia.
Sopra ogni obiettivo della conoscenza raggiunto, sopra ogni gioia legata a una guarigione, stavano
le parole: « Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa », infatti « troppa fu la sua
gioia per non mutarsi in fastidio » (La gaia scienza, « Scherzo, malizia e vendetta», 47); e Nietzsche
si sentiva «ferito dalla sua gioia» (Così parlò Zarathustra, «Il fanciullo con lo specchio»),
«Causarsi dolori. [33] La spregiudicatezza di pensiero è spesso segno di uno stato interno agitato
che desidera stordimento» (Umano, troppo umano, 1, 581).
La salute non è dunque l’istanza superiore e soverchiante che trasforma l’elemento patologico, in
quanto secondario, in un suo strumento, ma entrambe - salute e malattia - si condizionano e sono
addirittura racchiuse l’una nell’altra: insieme rappresentano una peculiare scissione di se stessi
all’interno di un’unica vita spirituale.
È quest intima scissione che si trova alla base del processo spirituale descritto finora. All’apparenza,
la poliedricità, la « molteplicità di soggetto » della natura che desidera in modo disarmonico
dovrebbe venire superata [aufgehoben] in una unità superiore, in un fine che indichi la direzione.
Ma all’interno dell’anima multiforme questo processo si attua in modo tale per cui è un solo istinto
a sottomettere tutti gli altri; per dirla altrimenti: la poliedricità viene ridotta a una scissione che si fa
sempre più profonda. Come la salute riesce solo in misura ridotta a contenere, soverchiandolo,
l’elemento malato, altrettanto poco l' istinto dominante riesce a contenere e controllare
effettivamente tutta la sfera interiore nel momento in cui la pone al servizio della conoscenza: con i
suoi occhi spirituali, l’uomo della conoscenza guarda certamente a se stesso come a una seconda
natura, ma resta pur sempre prigioniero della propria; è soltanto in grado di scinderla, non
di coglierla nel suo insieme. Ben lungi dall’essere un potere che
unisce, quello della conoscenza è quindi piuttosto un potere che divide, ma la profondità della
scissione crea l’apparenza che la meta di tutti gli impulsi si trovi al loro esterno. A causa di questa
autoillusione, tutte le forze premono con entusiasmo in direzione della conoscenza, come se in tal
modo potesse riuscir loro di sottrarsi a se stesse e alla loro scissione.
[34] A ogni modo si potrebbe credere che almeno una sorta di unità della vita nel suo complesso
venga raggiunta per il fatto che da un lato la vita istintuale, con lo sguardo della conoscenza rivolto
su di lei, attinge una straordinaria consapevolezza, mentre dall’altro il pensiero riceve un inusuale
vitalità dal mondo delle emozioni e degli istinti. Il risultato, tuttavia, è esattamente l’opposto, poiché
il pensiero dissolve l’immediatezza di tutti gli impulsi interiori e d’altro canto i moti dell’interiorità
mitigano costantemente il rigore del pensiero. In tal modo, di fatto, la scissione complessiva penetra
sempre più a fondo in ogni singola parte.
Ma, nonostante una gratificazione elevata, addirittura liberatrice, che cosa si ricava da una forma di
autoinganno così palese? Che cosa fa sì che un’illusione sia in grado di rendere felice e trasfigurare
l’intero esistente nonostante continue malattie e ferite? Con questa domanda siamo giunti
all’autentico «problema Nietzsche»; essa ci rimanda innanzi tutto alla segreta relazione esistente in
lui tra l’elemento sano e quello patologico.
Mentre infatti la pluralità dei singoli istinti non legati tra loro si scinde, per così dire, in due entità
che si fronteggiano a vicenda delle quali una domina e l’altra serve - per l’uomo viene a crearsi la
possibilità di percepire se stesso non soltanto come un essere diverso, ma anche come un essere
superiore. Nel momento in cui sacrifica a se stesso una parte del proprio io, egli si trova a un passo
da un ’esaltazione religiosa. Nei turbamenti del suo spirito, in cui immagina di realizzare l’ideale
eroico della rinuncia e della dedizione autentiche, fa erompere in se stesso un afflato religioso.
[35] Fra tutte le grandi doti di Nietzsche non ve n’era nessuna, più di quella del genio religioso, che
fosse legata in modo tanto inesorabile e profondo alla totalità del suo spirito. In un’altra epoca, in
un altro periodo culturale, una dote simile non avrebbe certo consentito a questo figlio di un pastore
protestante di diventare un pensatore. Ma sotto le spinte del nostro tempo, il suo spirito religioso
prese la via della conoscenza, pur riuscendo a realizzare ciò che desiderava con l' urgenza
dell’istinto, quale espressione naturale della sua salute, soltanto in modo malato; vi riuscì cioè
soltanto attraverso una relazione con se stesso, invece che con una potenza vitale esterna e più
grande di lui. In tal modo egli ottenne esattamente il contrario di ciò a cui aspirava: non una più alta
unità del suo essere, ma la sua più intima scissione, non la fusione di tutti i sentimenti e gli istinti in
un individuo indiviso, ma il loro dissidio in un « dividuo ». Aveva pur sempre raggiunto una salute,
ma con i mezzi della malattia; una vera forma di adorazione, ma con i mezzi dell’inganno; una vera
autoaffermazione e autoesaltazione, ma solo arrecando a se stesso delle ferite.
Nel potente afflato religioso da cui origina ogni conoscenza di Nietzsche si trovano dunque
indissolubilmente intrecciati in un nodo sacrificio di sé e autoapoteosi, crudeltà che vuole
l'annientamento e brama di autodivinizzazione, infermità dolente e convalescenza vittoriosa,
ebbrezza di fuoco e fredda consapevolezza. Si avverte in esso la connessione degli opposti che
dipendono senza tregua l’uno dall’altro; si avverte il traboccare e lo spontaneo precipitare [36] nel
caos, nelle tenebre e nell’orrore, di forze eccitate e tese allo spasimo e poi ancora un insistere verso
la luce, la tenerezza: l’insistere di una volontà che « si libera dall’oppressione della pienezza e della
sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compressi» («Tentativo di autocritica», nuova
edizione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica) - un caos che vorrebbe far nascere
il Dio, che lo deve far nascere.
«Nell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c è materia, frammento,
sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il plasmatore, la
durezza del martello, la divinità di chi guarda e c’è anche un settimo giorno... » {Al di là del bene e
del male, 225). E in queste parole si dà a vedere come una continua sofferenza e una continua
autodivinizzazione si condizionino a vicenda, come luna crei sempre da capo il suo opposto,
non diversamente da quello che Nietzsche trova espresso nella storia del re Vigvamitra, «che da
millenarie martirizzazioni di sé acquistò un tale senso di potenza e una tale fiducia in se stesso da
intraprendere la costruzione di un nuovo cielo [...]. Chiunque abbia mai una volta edificato un
“nuovo cielo” trovò la potenza per questa impresa unicamente nel suo proprio inferno»
{Genealogia della morale, III, 10). Un altro luogo in cui egli ricorda questa leggenda si trova in
Aurora, immediatamente dopo la descrizione di quei sofferenti assetati di potere che hanno eletto se
stessi a oggetto più degno della loro brama di violenza: « Il trionfo dell’asceta su se stesso, il suo
occhio che, volto in tal modo all’interiorità, vede l’uomo scisso in un essere che soffre e in un
essere che fa da spettatore, e soltanto a partire da quel momento s’affisa nel mondo esteriore per
raccogliere da esso il legno, per così dire, [37] del proprio rogo, quest’ultima tragedia dell’istinto
dell’eccellere, in cui continua ancora ad esistere soltanto una persona che si carbonizza in se stessa
[...]». Questo brano, che contiene la descrizione di ogni ascesi quale finora si è data e dei suoi
motivi, si conclude con l’osservazione: « Sì, realmente, con l’asceta, il circolo di questa aspirazione
ad eccellere è forse pervenuto alla sua fine, esaurendo quindi in sé il suo svolgimento? Non
potrebbe questo cerchio ancora una volta essere ripercorso a partire dal suo principio, con la salda
fondamentale disposizione interiore dell’asceta e, al tempo stesso, del dio compassionevole? »
(Aurora, 113).
In Umano, troppo umano egli afferma al riguardo: «Si dà un atteggiamento di sfida verso se stessi,
alle cui più sublimate manifestazioni appartengono varie forme di ascesi. Certi uomini hanno cioè
un bisogno così grande di esercitare la loro forza e la loro sete di dominio che [...] finiscono col
tiranneggiare certe parti del proprio essere. [...] Questo spezzare se stesso, questo scherno per la
propria natura, questo spernere se sperni, così apprezzato dalle religioni, è propriamente un
altissimo grado di vanità. [...] L’uomo prova una vera voluttà nel violentarsi con pretese eccessive e
nel divinizzare poi nella sua anima questo qualcosa che tirannicamente esige» (1, 137); e ancora:
«Propriamente, cioè, a lui importa solo di scaricare la sua emozione; allora, per alleviare la
sua tensione, afferra magari le lance dei nemici e se le affonda nel petto» (1, 138); e infine: «Egli
flagella la sua divinizzazione di sé col disprezzo di sé e la crudeltà, si allieta al selvaggio insorgere
delle cupidigie [...], sa tendere un laccio al suo affetto, ad esempio a quello dell’estrema sete di
potenza, sicché esso trapassi in quello dell’estrema [38] umiliazione e la sua anima maltrattata
venga strappata con questo brusco contrasto da tutti i suoi cardini [...]; è questa in fondo una rara
specie di voluttà che egli desidera, ma forse quella voluttà in cui sono intrecciate in un nodo tutte le
altre. Novalis, per esperienza e per istinto una delle autorità in fatto di santità, svela una volta con
ingenua gioia l’intero segreto: “E' assai stupefacente che l’associazione di voluttà, religione e
crudeltà non abbia già da gran tempo attirato l’attenzione degli uomini sulla loro intima parentela e
comune tendenza”» (1, 142).
Un’indagine corretta su Nietzsche è in effetti nella sostan-
za un’indagine di psicologia religiosa; è solo nella misura in cui si riesce a far luce sull’ambito
della psicologia della religione che partono chiari fasci di luce sul significato del suo carattere, sulla
sua sofferenza e sulla sua autobeatificazione. Tutta la sua evoluzione procede in certa misura dal
fatto che egli perse la fede, dall’« emozione per la morte di Dio », questa emozione tremenda che
riecheggia ancora fin nell’ultima opera che Nietzsche compose già sulla soglia della follia, fin nella
quarta parte cioè del suo Così parlò Zarathustra. [39] La possibilità di trovare nelle forme più
diverse della divinizzazione di se stesso un surrogato16 «per il Dio perduto»: è questa la storia del
suo spirito, delle sue opere, della sua malattia. E' la storia dell ' «inclinazione religiosa nel
pensatore», che conserva la sua forza anche dopo la distruzione del Dio a cui era rivolta e alla quale
possono essere applicate queste parole di Nietzsche: «Il sole è già tramontato, ma il cielo della
nostra vita arde e risplende ancora di esso, sebbene non lo vediamo più» {Umano, troppo umano, 1,
223). O si legga invece il toccante sfogo sentimentale dell’«uomo folle»; «Dove se n’è andato Dio?
- gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo'. voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini!
[...] Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non
fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto!
Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli
assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi si è dissanguato
sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci?
[...] Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare
dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che
verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai
siano state tutte le storie fino ad oggi! » (La gaia scienza, 125).
Nel suo ultimo periodo di creatività, Nietzsche fornisce a se stesso la risposta a questo sfogo di
tormento e nostalgia, con
le parole di Zarathustra: [40] «Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva » (Così
parlò Zarathustra, « Della virtù che dona»); parole queste con cui diede espressione al più intimo
fondamento spirituale della sua filosofia.
La nostalgia di Dio, con il suo tormento, divenne un impulso alla creazione di Dio, e ciò dovette
necessariamente esprimersi nella divinizzazione di se stesso. Con sguardo felice Nietzsche colse nel
fenomeno religioso l’eccezionale soddisfacimento dell’aspirazione più individuale, la volontà
di trarre da sé la più sublime felicità. Questo individualismo, che è il cuore nascosto di ogni
fenomeno religioso, questo « sublime egoismo », che fluisce in modo libero e spontaneo in tutto
quel che è religioso nel momento in cui crede di essere in relazione con una forza vitale o divina
che proviene dall’esterno, in Nietzsche, l’«uomo della conoscenza», fu risospinto su di sé. Egli
giunse così a far propria nel suo intimo l’empietà che l’intelletto gli imponeva con forza
insieme alla sua ardita conclusione: «Se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere
dio! Dunque non vi sono dèi» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»). A queste parole della
seconda parte dello Zarathustra si possono collegare le altre: «E' persino nella tua vanità sarà
adorazione! » {Così parlò Zarathustra, «Dei sublimi»). In esse trova espressione il pericolo che
aleggia sul « solitario » e sul « singolo » che deve dividersi e sdoppiarsi: «Uno è sempre troppo
intorno a me [...]. Sempre uno per uno - finisce per fare due! » (Così parlò Zarathustra, «
Dell’amico »).
La posizione che Nietzsche assunse nei confronti di questo dualismo, il modo in cui si difese o
cedette di fronte a esso, e i fenomeni in cui ne cercò le tracce - tutto ciò condiziona il variare delle
sue conoscenze come i tratti peculiari delle sue diverse fasi intellettuali, finché alla fine questo
dualismo divenne per lui un’allucinazione e una visione, una realtà dotata di vita che gli offuscò lo
spirito e gli soffocò l’intelletto. [41] Non riuscì più insomma a difendersi a lungo da se stesso: fu
questo il dramma dionisiaco del « destino dell’anima » {Genealogia della morale, «Prefazione») in
Nietzsche stesso. La solitudine della vita interiore nella quale lo spirito vuole giungere al di là di se
stesso non è mai più profonda e dolorosa di quanto lo sia nella sua fase conclusiva. Si potrebbe dire
che il muro più compatto tra quelli che Nietzsche costruì intorno a sé sia quello di una parvenza
dolce, divina, scintillante che gli aleggia attorno, un miraggio che ne sfuma e dilegua i confini. Ogni
via verso l’esterno torna sempre alle profondità di questo io che alla fine deve diventare Dio
e mondo, paradiso e inferno - ogni via conduce un passo più in là, verso l’ultima profondità e il
tramonto.
Questi tratti di fondo della natura di Nietzsche danno conto di quell’elemento, al contempo
raffinato ed esaltato, che al pari di una spezia piccante è mescolato a ciò che di grande e
significativo vi è nella sua filosofia. Esso viene gustato nel modo più intenso dai palati non corrotti
di menti giovani e sane o anche da chi, nella pace tranquilla di concezioni fideistiche, non ha mai
sperimentato sulla propria pelle tutte le lotte infuocate e tremende di uno spirito libero con aneliti
religiosi. Ma è anche questo, in buona misura, che ha fatto di Nietzsche il filosofo del nostro tempo.
In lui ha infatti assunto una forma tipica ciò che agita nel profondo la nostra epoca, quell’« anarchia
negli istinti » delle forze creatrici e religiose che vogliono saziarsi con troppa irruenza per potersi
accontentare delle briciole che cadono per loro dal tavolo della conoscenza moderna. Che non
possano accontentarsi delle briciole, [42] ma che al tempo stesso non possano venir meno nel loro
atteggiamento nei confronti della conoscenza - insaziabili nella loro brama appassionata,
quanto instancabili nello stento e nella privazione: ciò costituisce il tratto maestoso e
impressionante della filosofia di Nietzsche. Questo è anche ciò che essa esprime in formulazioni
sempre nuove: una serie di poderosi tentativi di risolvere questo problema della tragedia moderna,
questo enigma della sfinge moderna per poi gettarla nell’abisso.
Ma proprio per questa ragione è sull’uomo e non sul teoreta che dobbiamo indirizzare il nostro
sguardo al fine di trovare una via tra le opere di Nietzsche; l’acquisizione, il risultato delle nostre
considerazioni non consisterà perciò in una nuova immagine teorica del mondo che ci si darà a
vedere nella sua verità, ma nell’immagine di un’anima umana nella sua combinazione di grandezza
e malattia. La rilevanza filosofica delle metamorfosi nietzscheane sembra in un primo momento
venire ridotta dal fatto che in esse avviene esattamente ogni volta lo stesso processo. Essa viene
invece rafforzata e accentuata dal fatto che il mutare delle concezioni coinvolge sempre la sua
natura. A mutare non sono cioè soltanto le linee di fondo di una teoria, ma anche ogni suo
stato d’animo, l’aria, la luce, mutano insieme a loro. Mentre intendiamo pensieri confutarsi l’un
l’altro, scorgiamo mondi sprofondare e mondi nuovi emergere. Proprio su ciò riposa l’autentica
originalità dello spirito di Nietzsche: attraverso il me-
dium della sua natura, che riferisce ogni cosa a se stessa e ai suoi bisogni piti intimi, ma che pure a
ogni cosa si abbandona, gli si schiudono esperienze e fatti di universi speculativi che noi invece
sfioriamo soltanto con l’intelletto senza mai coglierne l’autentica profondità, [43] né dunque trarne
impulsi creativi. Da un punto di vista teoretico egli si richiama a maestri e modelli a lui estranei, ma
i loro elementi fecondi e le loro acquisizioni sono per lui soltanto lo stimolo per dispiegare la sua
vera produttività.17 Il minimo turbamento avvertito dal suo spirito basta a produrre in lui una
pienezza di vita interiore e di esperienza di pensieri. Una volta ebbe a dire: «Esistono due specie del
genio; quello che soprattutto procrea e vuole procreare e quello che si lascia volentieri fecondare e
partorisce» (Al di là del bene e del male, 248). Nietzsche apparteneva senza dubbio alcuno alla
seconda specie. Nella sua natura spirituale vi era - in notevoli dimensioni - qualcosa di femminile,18
ma egli era in certa misura un genio perché gli risultava quasi indifferente da dove provenisse lo
stimolo. Se noi proviamo a raccogliere tutto quel che ha fecondato la sua terra, [44] allora ci
ritroviamo davanti a qualche modesto seme di grano; ma se entriamo nella sua filosofia, allora
prende a stormirci attorno una foresta di alberi che regalano ombra, ci avviluppa la prodiga
vegetazione di una natura grandiosa e selvaggia. La sua superiorità consisteva nel fatto di offrire a
ogni singolo seme che cadeva sul suo terreno interiore quel che egli stesso aveva indicato come
il contrassegno dell’autentico genio: «Un nuovo e fecondo terreno germogliante con una forza
fresca di foresta vergine e non sfruttata» (Il viandante e la sua ombra, 118).
1Una caratterizzazione complessiva di Nietzsche, in cui vengono per la prima volta individuati e
definiti con precisione i tre periodi della sua evolu-
zione intellettuale, apparve sul supplemento domenicale della «Vossische Zeitung», numeri 2, 3 e 4,
1891. La «Freie Bühne» presentò inoltre una esposizione più dettagliata di singoli punti con il titolo
di Zum Bilde Friedrich Nietzsches, fascicoli 3, 4 e 5, anno 11, 1891 e fascicoli 3 e 5, anno III, 1892;
«Das Magazin für Litteratur» dell’ottobre 1892 con quello di Ein Apokalyptiker e «Der Zeitgeist»,
20, 1893, con quello di Ideal und Askese.
2 «Per quanto riguarda la vita, le cosiddette “esperienze” - chi di noi ha anche soltanto una
sufficiente serietà per queste cose? O abbastanza tempo? A questo proposito temo che non si sia mai
stati veramente “dentro la faccenda”: appunto non abbiamo là il nostro cuore - e neppure il nostro
orecchio» (Genealogia della morale, «Prefazione», 1).
3 [F.
Nietzsche, Epistolario 1875-1879, edizione condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M.
Montinari, trad. it. di M.L. Pampaloni Fama, «Notizie e note» a cura di F. Gerratana e G. Campioni,
Milano 1995, lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 383.]
4 Un’importanza analoga egli assegnava alle sue orecchie eccezionalmente piccole e ben modellate,
di cui ebbe a dire che erano le vere « orecchie per le cose inaudite» (Così parlò Zarathustra,
«Prologo di Zarathustra».)
5    [Si tratta di una cartolina indirizzata a Paul Rèe, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III,
tomo I, lettera n. 124 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, 8 luglio 1881, pp. 101-102.]
6   [Si tratta ancora una volta di Rèe; la cartolina inviata da Stresa è ora in F. Nietzsche,
Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1, lettera n. 59 a Paul Rèe a Stibbe, Stresa, 31 ottobre 1880, p. 44.]
7 [Si tratta nuovamente di una lettera a Rèe; per il passo in questione: F. Nietzsche, Briefwechsel,
cit., voi. III, tomo I, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, fine agosto 1881, p. 124.]
8 «C’è un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e
problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza
dell’esistenza? [... ] Ci sono forse - un problema per psichiatri - nevrosi della salute? ». (« Tentativo
di autocritica », nuova edizione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica [1886].)
9    Si veda anche questo aforisma: «Quando, un giorno, arriviamo a toccare la nostra meta -
mostriamo con orgoglio quali lunghi viaggi abbiamo fatto per giungervi. In verità non c’eravamo
accorti d’essere in viaggio. Ma appunto per questo c’eravamo spinti tanto lontano da illuderci di
essere, in ogni luogo, a casa nostra » (La gaia scienza, 253).
10   Per questo motivo egli definisce le convinzioni «nemici della verità»: «Le convinzioni sono
nemici della verità più pericolosi delle menzogne» (Umano, troppo umano, 1, 483).
11 Fu questo istinto a fare di lui, più di quanto egli stesso volesse ammettere, quel «don Giovanni
della conoscenza» che descrive come segue: «Nella caccia e negli intrighi della conoscenza - su su
fino alle stelle più alte e lontane della conoscenza - è ingegnoso, formicolante di desiderio e
ne gode, finché non gli resta più nulla cui dar la caccia se non quel che nella conoscenza è
l'assolutamente nocivo, come fa il bevitore, che finisce per darsi all’assenzio e all’acquavite. Così,
alla fine, s’incapriccia dell’inferno - è l’ultima conoscenza, quella che lo seduce. Forse anch’essa lo
delude, come ogni cosa quando è conosciuta! E allora dovrebbe starsene immobile per
tutta l’eternità, inchiodato alla delusione, trasformato lui stesso nel convitato di pietra, con un
desiderio di un’ultima cena della conoscenza che non gli toccherà mai più - poiché l’intero mondo
delle cose non avrà più un boccone da offrire a questo affamato» (Aurora, 327).
12   «Dover combattere gli istinti - questa è la formula della décadence; fintantoché la vita è
ascendente, felicità e istinto sono eguali» (Crepuscolo degli idoli, «Il problema di Socrate», 11):
questo egli afferma e così egli distingue un décadent da una natura signorile.
13    [Si tratta di tre dei sei aforismi che Nietzsche scrisse durante il soggiorno a Tautenburg con Lou
Salomé nell’agosto 1882; l’autrice ha trascritto soltanto tre di essi non rispettando la successione e
la numerazione proposte da Nietzsche: F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1, lettera n.
287 a Lou von Salomé a Tautenburg, Tautenburg 8-24 agosto 1882, pp. 242-243.]
14    Nietzsche, sia qui detto di passaggio, intende la figura di Goethe in modo del tutto differente da
come la intenderà alcuni anni dopo (nel Crepuscolo degli idoli). In questo aforisma egli vede ancora
in Goethe l’opposto della sua natura priva di armonia; successivamente, invece, uno spirito a
lui profondamente affine che non conosceva armonia, ma che aveva rimodellato se stesso in modo
armonico attraverso l’esercizio e il talento.
15 [Nel diario per Rèe scritto a Tautenburg nell’agosto 1882, nel quale sono annotati i suoi colloqui
con Nietzsche, l’autrice aveva scritto: «Vi sono, nel carattere di Nietzsche, come in una vecchia
fortezza, molti sotterranei oscuri e molti trabocchetti segreti che sfuggono all’osservatore
superficiale e tuttavia costituiscono la sua vera natura »; cfr. Friedrich Nietzsche, Paul Ree, Lou
von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegtiung, hrsg. von E. Pfeiffer, Frankfurt 1970, p. 185.]
16 Si veda in La gaia scienza quanto viene detto sull’adempimento della missione umana attraverso
la creazione di Dio da parte dell’uomo: «Parla l’uomo pio. Dio ci ama perché ci ha creato! /
“L’uomo creò Dio” - ribattete voi, o sottili. / E amar non deve quel che lui ha creato? / Perché l’ha
creato, perfin negarlo dovrebbe? / Ciò zoppica, ha lo zoccolo del diavolo » (« Scherzo, malizia e
vendetta», 38).
17    Pur prescindendo da quei pensatori che hanno determinato direttamente le varie fasi
dell’evoluzione nietzscheana, molti dei suoi pensieri si possono già rinvenire in filosofi precedenti.
Su questa circostanza, del tutto inessenziale rispetto all’autentico valore di Nietzsche, hanno
recentemente insistito, con il più grande clamore, persone a cui soltanto il caso ha messo tra le mani
questo o quel libro di filosofia. In questo mio scritto non si fa espressamente riferimento alcuno alla
posizione di Nietzsche nella storia della filosofia, poiché ciò avrebbe presupposto un esame
dettagliato e sistematico delle sue singole tesi in base al loro valore oggettivo, il che deve essere
affidato a un lavoro specifico.
18    A volte, quando lo avvertiva in modo particolare, era propenso a ritenere quello femminile
come l’autentico genio: « Gli animali la pensano diversamente dagli uomini riguardo alle donne:
per loro la femmina è un essere che produce [...]. La gravidanza ha reso le femmine più miti, più
caute, più timorose, più contente di soggiacere: allo stesso modo la gravidanza dello spirito genera
il carattere del contemplativo che è affine a quello femminile: sono le madri maschili» (La gaia
scienza, 72).
2. LE SUE TRASFORMAZIONI
Il serpente che non può disquamarsi, perisce. Così pure gli spiriti ai quali si impedisce di mutare le
loro idee: cessano di essere spirito.
Aurora, 573

[47] La prima trasformazione a cui approdò Nietzsche nella sua vita spirituale risale agli albori della
sua infanzia o, quanto meno, della sua fanciullezza.
Si tratta della rottura con la fede cristiana, una separazione di cui si parla di rado nelle sue opere.
Ciò nonostante essa può essere considerata come il punto di partenza delle sue trasformazioni
poiché getta una luce particolare sugli aspetti caratteristici della sua evoluzione. Le affermazioni in
materia, che ho avuto modo di discutere con lui in modo particolarmente approfondito,
riguardavano principalmente i motivi che provocarono questa rottura. Nella maggior parte dei casi,
infatti, sono motivi intellettuali quelli che spingono gli uomini di inclinazione religiosa ad
abbandonare, attraverso dolorosi conflitti, la loro fede. Ma allorché, in casi più rari, il distacco
origina dalla vita interiore, il processo si svolge allora senza conflitti né sofferenze: l’intelletto
disgrega infatti solo quel che è già morto da tempo, un cadavere. Nel caso di Nietzsche ebbe luogo
un singolare intreccio di queste due possibilità: non furono soltanto motivi intellettuali a liberarlo
dalle idee inculcategli fin dai primi anni di vita, né la vecchia fede svanì in risposta ai bisogni del
suo animo. Egli invece insisteva sempre sul fatto che [48] il cristianesimo della parrocchia dei suoi
genitori avesse aderito alla sua anima in modo « liscio e morbido » « come una pelle sana », e che
l’osservanza di ogni precetto cristiano gli fosse risultata facile come il seguire una propria
predisposizione. Nietzsche considerava questo suo « talento » per ogni religione, quasi innato e
inalienabile, come una delle ragioni della simpatia che i cristiani seri gli riservavano ancora quando
un profondo abisso spirituale già lo separava da loro.
L’istinto oscuro che per la prima volta lo spingeva fuori da una cerchia di pensieri che gli stavano a
cuore si risvegliò proprio in seno a questa calda sensazione di «sentirsi a casa» da cui l’indole di
Nietzsche si sentiva avvolta. Per conquistare se stesso attraverso una poderosa evoluzione, il
suo spirito richiedeva lotte dell’anima, dolori ed emozioni; aveva bisogno che il suo animo attuasse
la separazione da questa quieta situazione di pace perché la sua forza creatrice dipendeva
dall’eccitazione e dall’esaltazione della sua sfera interiore: l'esigenza del dolore nella «natura
decadente» si manifesta per la prima volta nella vita di Nietzsche.
«In tempi di pace l’uomo guerriero si scaglia contro se stesso » (Al di là del bene e del male, 76) e
si esilia nell’estraneità di pensieri in cui egli, da quel momento in poi, è destinato a vagare
eternamente senza sosta né requie. Ma in questa irrequietezza prende a vivere per Nietzsche
un’insaziabile nostalgia che guarda indietro al paradiso perduto, mentre la sua evoluzione
intellettuale lo spinge ad allontanarsi sempre più da esso in linea retta.
Discutendo dei mutamenti che si era già lasciato alle spalle, Nietzsche ebbe a dire una volta quasi
scherzando: [49] « Sì, così adesso inizia e va avanti il cammino - fino a dove? Quando sarà stato
percorso fino in fondo, dove si andrà allora? Se si esaurissero tutte le possibili combinazioni, cosa
ne seguirebbe? E in che modo? Non si dovrebbe giungere di nuovo alla fede? Magari a una fede
cattolica? ». E il pensiero nascosto che faceva da sfondo a questa affermazione uscì dall’ombra con
le parole che egli aggiunse in seguito, seriamente: «A  ogni modo il circolo potrebbe essere più
probabile della stasi».
Un movimento che ritorna su di sé, che non giunge mai a un punto d’arresto: è questo in verità il
tratto distintivo dello spirito nietzscheano. Le combinazioni possibili non sono affatto infinite, ma al
contrario alquanto limitate, poiché l’impulso che sospinge in avanti, che ferisce se stessi, che non fa
giungere i pensieri allo stato di quiete, scaturisce in tutto e per tutto dall’intima natura della
personalità: per lontano che paiano vagare, anche i pensieri permangono costantemente legati ai
medesimi processi dell’animo che li costringono ogni volta al servizio dei bisogni dominanti.
Avremo modo di vedere in quale misura la filosofia di Nietzsche descriva realmente un circolo e di
come alla fine, in alcune delle sue più intime e segrete esperienze di pensiero, l’adulto si riaccosti al
fanciullo, sicché per il corso della sua filosofia valgono le parole: « Ecco un fiume che di rigiro in
rigiro rifluisce alla sorgente! » (Così parlò Zarathustra, «Della virtù che rende meschini»). Non è
dunque un caso se Nietzsche, nel suo ultimo periodo di creatività, sia pervenuto alla sua mistica
dottrina dell’eterno ritorno: l’immagine del circolo - di un eterno cambiamento in un’eterna [50]
ripetizione - sta come un simbolo miracoloso e un segno segreto sulla porta di accesso alle sue
opere.
Quale suo primo «giuoco d’infanzia letterario» {Genealogia della morale, «Prefazione»), Nietzsche
nomina un saggio della sua fanciullezza - dal titolo Sull’origine del male - in cui «com’è logico»
fece di Dio «il padre del male». Anche nel corso delle conversazioni menzionava questo saggio
per dimostrare il fatto di essersi dedicato a lambiccamenti filosofici già in un periodo in cui si
trovava ancora stretto nell’insegnamento filologico della scuola di Pforta.
Se seguiamo Nietzsche dalla sua infanzia ai suoi anni di formazione e quindi al lungo periodo della
sua attività di filologo, vediamo chiaramente anche in questo caso come fin dall’inizio la sua
evoluzione, persino da un punto di vista meramente esteriore, si svolgesse all’insegna di una certa
autocostrizione. Già la rigorosa formazione filologica doveva costituire una costrizione per l’ardore
di questo giovane spirito la cui copiosa creatività non trovava di che nutrirsi. Questo vale in
particolare per l’indirizzo seguito dal suo maestro Ritschl. Questi rivolgeva principalmente
l’attenzione, tanto dal punto di vista del metodo che da quello dei problemi, sulle relazioni formali e
sui nessi esteriori, mentre l’intimo significato delle opere letterarie restava sullo sfondo. Ciò lasciò
tuttavia un segno sul particolare modo di procedere di Nietzsche il quale, successivamente, trasse
esclusivamente i suoi problemi dal mondo interiore, con la propensione a subordinare l’elemento
logico a quello psicologico.
Ciò nondimeno fu proprio qui, con questa rigida disciplina e su questo terreno pietroso, che il suo
spirito produsse così precocemente frutti maturi e prodotti eccezionali. Una serie [51] di eccellenti
ricerche filologiche1 costella la sua strada dagli anni di formazione fino alla cattedra di
Basilea. Non è inverosimile supporre che uno scatenamento troppo precoce di tutto il patrimonio
intellettuale di Nietzsche attraverso lo studio della filosofia o delle arti lo avrebbe da subito
sviato verso quella sfrenatezza a cui sembrano approssimarsi alcune delle sue ultime opere. Il
freddo rigore della scienza filologica gli offrì invece, per un certo lasso di tempo, quel legame che
univa e teneva insieme i suoi « molteplici impulsi», pur rivelandosi anche una catena per molte
delle cose che in lui stavano assopite.
Proseguendo nei suoi studi specialistici egli ebbe però modo di avvertire in che misura la forza di
talenti fino ad allora trascurati lo tormentasse e lo inquietasse non meno di un profondo dolore. Era
in particolare l’impulso verso la musica da cui non riusciva a distogliersi e spesso gli capitò
di tendere l’orecchio verso note musicali, mentre avrebbe voluto porsi in ascolto di pensieri. Le note
lo accompagnarono lungo gli anni come un lamento in musica, finché la sua emicrania gli rese
impossibile ogni esercizio musicale.
[52] Ma per quanto grande possa essere stato il contrasto tra il Nietzsche filologo e quello che si
occupa di filosofia, non mancano certo numerosi elementi di mediazione che da un periodo
conducono all’altro. Proprio la direzione di ricerca seguita da Ritschl, che pareva rendere più acuto
questo contrasto, veniva invece incontro a una certa particolarità dello spirito di Nietzsche,
rafforzando e consolidando la sua propensione a produrre. Nell’indirizzo del maestro si rinveniva
l’aspirazione a una certa perfezione artistica dal punto di vista formale e a una trattazione
virtuosistica delle questioni scientifiche resa possibile da una loro rigorosa delimitazione e dal
soffermarsi su di un aspetto ben determinato. In Nietzsche, l’esigenza di limitarsi volontariamente e
di concentrarsi su di un compito, di portarlo a termine in modo puramente artistico, è in stretto
rapporto con l’impulso fondamentale della sua natura, quello cioè di andare ogni volta al di là di ciò
che egli ha prodotto, di allontanarlo da sé come una faccenda sbrigata, come qualcosa che
appartiene al passato. Un tale alternarsi di compiti e problemi è ovvio per il filologo; la tipica
affermazione nietzscheana: «Una cosa, quando è spiegata, cessa di interessarci» (Al di là del bene
e del male, 80) potrebbe averla scritta un filologo; per costui, infatti, fare luce su di una questione
oscura significa effettivamente mutare quest’ultima in una faccenda già sbrigata di cui non è più
necessario occuparsi. Ma i motivi che condizionano il frequente mutamento di pensieri
nietzscheano sono profondamente diversi, ed è perciò quanto mai interessante osservare come in
questo punto gli estremi della filologia e della filosofia paiano toccarsi e come Nietzsche [53] sia
riuscito a imporre la propria soggettività anche in questo travestimento per lui estraneo - quello del
sobrio filologo - in questo assoggettamento quanto mai spirituale.
Il filologo non si occupa mai di qualcosa mettendo in gioco ciò in cui crede, la sua umanità, non lo
assimila in alcun modo e vi rimane vincolato solo finché gli è di qualche utilità per risolvere il suo
problema. Per Nietzsche, al contrario, occuparsi di un problema significa prima di ogni altra cosa
conoscere, cioè, farsi scuotere; e convincersi di una verità vuol dire per lui venire sopraffatto da
un’esperienza, « essere mandato gambe all’aria», come ebbe a dire in un’occasione. Egli si faceva
carico di un pensiero come di un destino che coinvolge tutta la persona e la tiene in sua balia;
viveva il pensiero molto più di quanto non lo pensasse, ma lo faceva con un fervore così
appassionato, con una dedizione così smisurata, che finiva per esaurirvi tutto se stesso; e, al pari di
un destino vissuto fino in fondo, il pensiero si staccava nuovamente da lui. Soltanto in quella
dimensione di sobrio distacco che segue naturalmente a emozioni di questo genere egli consentiva a
una conoscenza ormai lasciata alle spalle di agire su di lui in modo puramente intellettuale, soltanto
allora le si consacrava con la lucidità e la calma del suo intelletto indagatore. Il suo notevole
impulso al mutamento nell’ambito delle conoscenze filosofiche era condizionato dall’impulso
smisurato verso emozioni sempre nuove di natura oltre modo spirituale; la somma chiarezza era
così per lui soltanto il fenomeno che sempre si accompagna alla sazietà e all’estenuazione.
Ma i suoi problemi non lo abbandonavano nemmeno in questa estenuazione, e la sazietà concerneva
soltanto le soluzioni che occultavano temporaneamente la fonte dell’inquietudine. [54] La soluzione
a cui perveniva era quindi ogni volta il segno di un mutamento di stato d’animo; soltanto così,
infatti, il problema poteva essere conservato e la soluzione cercata ogni volta da capo. Se la
prendeva allora con autentico odio contro tutto quel che stava dietro la soluzione, che lo aveva
condotto a essa, che gli era stato d’aiuto per trovarla. Dal momento che « una cosa, quando è
spiegata, cessa di interessarci», Nietzsche, in fondo, non voleva sapere nulla della soluzione
definitiva di un problema, e qualsiasi parola esprimesse all’apparenza la completa risoluzione di un
pensiero valido rappresentava per lui la tragedia della sua vita; non voleva infatti che un giorno i
problemi della sua ricerca potessero smettere di interessarlo; voleva invece che continuassero a
smuoverlo nel più profondo dell’animo ed era in certa misura adirato verso la soluzione che lo
derubava del problema; quindi le si gettava ogni volta addosso con tutta la finezza e la raffinatezza
della sua scepsi e la costringeva, provando gioia per il male altrui - contento della propria
sofferenza e del danno che così si arrecava! - a restituirgli di nuovo il suo problema.
Si può perciò affermare fin da ora con un certo diritto che ciò che tratteneva a lungo lo spirito
appassionato di Nietzsche all’interno di un indirizzo speculativo, di un modo di considerare le cose,
ciò che ne rendeva impossibile un ulteriore cambiamento e trasformazione, doveva restare per
lui, in ultima istanza, qualcosa di inspiegabile; doveva resistere alla forza di tutti i tentativi di
trovare una soluzione, estenuare la sua intelligenza con enigmi mortali, quasi crocifiggerlo a questi
enigmi. Allorché infine, procedendo lungo questa via, l’eccitazione del suo animo era divenuta più
intensa della forza intellettuale che essa spronava con violenza, soltanto a quel punto non vi era più
per lui alcuna via di scampo [55 ] e di fuga. La fine del cammino si perdeva allora necessariamente
nell’oscurità, nel dolore e nel segreto, con i sentimenti mossi che assillavano i pensieri, abbattendosi
su di essi come un mare in tempesta.
Chi intenda seguire fino in fondo il sentiero zigzagante di Nietzsche, giungerà al punto in cui questi,
colto da orrore innanzi all’ultima spiegazione e all’ultima soluzione del problema, si getta al fondo
dell’eterno enigma della mistica.
Ma lo spirito di Nietzsche si distingueva per due altre doti che, in ugual misura, tornarono utili al
filologo e, in seguito, al filosofo. La prima era il suo talento per le sottigliezze, la sua genialità nel
trattare le cose più fini, quelle che richiedono una mano delicata e sicura per non essere distrutte
o deturpate. È questa la dote che, a mio avviso, avrebbe fatto successivamente di lui uno psicologo
ancor più raffinato che grande, o meglio: il più grande nel cogliere e dar forma alle finezze. Quanto
mai significativa è l’espressione che egli utilizzò una volta {Il caso Wagner, 3) per indicare il modo
in cui le cose si presentano agli occhi dell’uomo della conoscenza: «La filigrana delle cose».
Connessa a questo aspetto è l’inclinazione a seguire le tracce di ciò che è nascosto e recondito, a
portare alla luce quel che si cela; il colpo d’occhio per ciò che è oscuro insieme all’intuizione e alla
sensibilità che colmano istintivamente le lacune lasciate dal sapere: su ciò poggia gran parte della
genialità di Nietzsche e questo è strettamente legato alla sua gran-
de potenza artistica in cui lo sguardo su quel che è unico e distinto si slarga magnificamente in
un’ampia e libera visione del contesto generale, del quadro d’insieme. [56] Egli ha posto questo
talento al servizio di una critica rigorosamente filologica, per leggere con scrupolo2 tra le righe dei
testi quel che di sbiadito e dimenticato essi contenevano; in questo sforzo si spinse tuttavia oltre
l’ambito dei suoi studi eruditi. Il modo in cui ciò avvenne ci introduce al suo più significativo
lavoro filologico, quello sulle Fonti di Diogene Laerzio.
Dedicarsi alla stesura di questo scritto costituì per Nietzsche l’occasione di studiare a fondo la vita
degli antichi filosofi greci e la sua relazione con la vita dei greci nel suo complesso. Nelle sue opere
successive, segnatamente in Umano, troppo umano, sarebbe ritornato una volta sul tema. Leggendo
queste pagine si può osservare come egli abbia potuto installarsi e lambiccarsi il cervello tra le
macerie della tradizione, volgendo in poesia le figure andate perdute negli spazi vuoti, nelle parti
deturpate, ricreandole e aggirandosi entusiasta « fra creazioni del tipo più potente e più puro ».
Scruta dentro al tramonto di quell’epoca « come nel laboratorio di uno scultore di tali tipi ». E lo
avvince mirabilmente immaginarsi che in esso si siano potute abbozzare le prime prove di un tipo di
filosofo ancora più elevato, quale forse gli sarebbe parso Platone « rimasto immune dalla malia di
Socrate ». Ma tutto ciò è tuttavia qualcosa di più di un mero passaggio dall’atteggiamento del
filologo a quello del filosofo. Quel che si rivela nella nostalgia creatrice dei suoi pensieri, mentre
egli è costretto a esercitare una critica sobria, mette già a nudo [57] il punto sommo e conclusivo
della sua ambizione; non a caso Nietzsche ha fatto il suo ingresso nella filosofia non grazie a studi
specialistici, ma attraverso una profonda comprensione della vita filosofica nel suo significato più
intimo. E se volessimo indicare il fine per cui furono ingaggiate, attraverso tutte le metamorfosi, le
lotte di questo spirito insaziabile, non si potrebbero trovare parole più indicative di quelle
dell’agognata scoperta « di una nuova possibilità di vita filosofica rimasta fino allora ignorata»
(Umano, troppo  umano, 1, 261).
Questo scritto puramente filologico si colloca così imme-
diatamente a ridosso di tutta la serie delle opere successive, -simile a una piccola porta seminascosta
nelle mura che danno accesso al grande edificio. Aprendola il nostro sguardo sfiora la lunga fuga
degli spazi interni, fino all’ultimo, fino al più buio. E chi si arresta sulla soglia e getta uno sguardo
all’interno non può non pensare senza meraviglia alla forza possente che ha disposto pietra su pietra
in un disegno complessivo: una forza che ha adornato ogni singolo elemento profondendo
ricchezza, che ha costruito innumerevoli corridoi e nascondigli segreti, quasi avesse in mente la
realizzazione di un labirinto - e che pure con ferrea coerenza ha sempre tirato diritto nella sua opera.
Gli studi greci non solo fecero presagire a Nietzsche le sue aspirazioni più intime e vedere per la
prima volta in modo distinto la meta della sua recondita nostalgia, ma gli indicarono anche il
cammino lungo cui avrebbe potuto avvicinarsi a questa meta. Furono infatti questi lavori a
mostrargli il quadro culturale complessivo dell’ellenismo antico, [58] a dispiegargli le immagini di
un’arte e di una religione tramontate contemplando le quali, con avidi sorsi, poteva bere « una vita
fresca e piena ». Pose così la propria erudizione filologica al servizio di ricerche di storia della
cultura, di estetica e di filosofia della storia, superandone il formalismo.
Il significato della filologia diventò così ai suoi occhi qualcosa di diverso e di più profondo; essa
«non è né una Musa né una Grazia, ma una messaggera degli dèi; e come le Muse scesero in mezzo
ai contadini beoti afflitti e tormentati, così essa viene in un mondo di colori e immagini cupi, pieno
dei dolori più profondi e incurabili e racconta consolatrice delle figure di dèi belle e luminose in un
lontano paese incantato, azzurro e felice».
Sono, queste, parole della prolusione di Nietzsche all’università di Basilea, Omero e la filologia
classica, che venne stampata soltanto per gli amici (Basilea 1869). Due anni più tardi fu pubblicato
(Basilea 1871) un altro piccolo scritto che seguiva lo stesso indirizzo intellettuale, Socrate e la
tragedia, che confluì poi quasi per intero, soltanto con alcune variazioni marginali nello sviluppo
dei pensieri, nella prima grande opera filosofica di Nietzsche, data alle stampe nel 1872: La nascita
della tragedia dallo spirito della musica (Lipsia, E.W. Fritsch, ora C.G. Naumann).3 [59] In questi
due lavori
Nietzsche fondò le sue tesi di filosofia della cultura ancora su basi strettamente filologiche; essi
contribuirono perciò a far circolare il suo nome nell’ambiente dei filologi. Nondimeno questi scritti
mostrano il cammino che egli si è già lasciato alle spalle muovendo da studi specialistici, attraverso
l’arte e la storia, per approdare alla circoscritta visione del mondo di una determinata posizione
filosofica: si tratta della visione del mondo di Richard Wagner e dell’intreccio della sua aspirazione
artistica con la metafisica di Schopenhauer: sfogliando quest’opera ci ritroviamo in mezzo al
cerchio incantato del maestro di Bayreuth.
Attraverso Wagner, Nietzsche riuscì a fondere appieno tra loro filologia e filosofia e a inverare per
la prima volta la frase con cui, rovesciando una sentenza di Seneca, aveva chiuso il suo studio su
Omero e la filologia classica: «Philosophia  facta est [60] quae philologia fuit»; « con ciò si vuole
dire che ogni attività filologica deve essere racchiusa e circondata da una concezione filosofica del
mondo in cui ogni elemento singolo e isolato si volatilizza come qualcosa di riprovevole, finché
rimane solo il tutto, quel che è unitario».
L’incantesimo che per anni fece di Nietzsche il discepolo di Wagner può essere effettivamente
spiegato rammentando il fatto che Wagner intendeva realizzare, all’interno della vita tedesca, quello
stesso ideale di cultura artistica che Nietzsche aveva incontrato, come ideale, all’interno della vita
greca. La metafisica di Schopenhauer, in ultima istanza, non aggiunge
null’altro se non una sublimazione di questo ideale nella sfera mistica, nell’imperscrutabile
pienezza di senso, quasi un’accentuazione che la vita e la conoscenza artistica ricevono in virtù dell
'interpretazione metafisica. Questa accentuazione può essere avvertita nel modo più netto se si
opera un confronto tra Socrate e la tragedia e l’integrazione e l’ampliamento di questo scritto nelle
pagine di La nascita della tragedia dallo spirito della musica. In questo libro Nietzsche tenta di
ricondurre ogni evoluzione dell’arte all’azione di due «impulsi artistici della natura » contrapposti,
che egli, rifacendosi alle due divinità artistiche dei greci, chiama dionisiaco e apollineo. Il primo
impulso comprende l’elemento orgiastico quale aveva modo di erompere nelle estasi gioiose, nella
mescolanza di dolore e piacere, gioia e sgomento, nell’ebbrezza immemore delle feste dionisiache
in cui i limiti e i consueti confini della vita venivano annullati; in queste situazioni l’individuo pare
tornare a fondersi nella totalità della natura, mandando in frantumi il principium individuationis,
[61] «e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose ». Attraverso il
fenomeno fisiologico dell’ebbrezza ci accostiamo ancor di più all’essenza di questo impulso. L’arte
che le corrisponde è la musica. Il suo opposto è rappresentato dall’impulso che conferisce forma,
incarnato in Apollo, il dio di tutte le capacità figurative. In lui si trovano riunite la moderata
limitazione, la libertà da ogni emozione violenta e la calma piena di saggezza. Deve essere
considerato come « la magnifica immagine divina del principium individuationis», «della cui legge
l’individuo, vale a dire l’osservanza dei limiti dell’individualità» è «la misura nel senso ellenico».
La potenza dell’impulso da esso simboleggiato si palesa fisiologicamente nella bella parvenza del
mondo onirico. La sua arte è quella plastica della scultura.
Nella conciliazione e nell’unione di questi due impulsi inizialmente in conflitto, Nietzsche
riconosce l’origine e l’essenza della tragedia attica, la quale, come frutto della conciliazione delle
due divinità artistiche avverse, è un’opera d’arte tanto dionisiaca quanto apollinea. Nata dal coro
ditirambico, che celebrava le sofferenze del dio, essa è in origine soltanto un coro in cui i cantanti
venivano a tal punto incantati e trasformati dall’eccitazione dionisiaca da sentirsi servitori della
divinità, Satin, e da considerare Dioniso come loro signore e padrone. Con questa visione, che nasce
dal suo interno, il coro raggiunge uno stato di perfezione apollinea. Il dramma, inteso come «la
rappresentazione apollinea sensi-
bile di conoscenze e moti dionisiaci», è compiuto. «Quelle parti corali di cui la tragedia è intrecciata
sono dunque in certo modo la matrice [...] del vero e proprio dramma»; ne sono [62] l’elemento
dionisiaco, mentre il dialogo ne costituisce la componente apollinea. In esso gli eroi del
dramma parlano dalla scena come immagini apollinee in cui si oggettiva l’originario eroe tragico
Dioniso, semplici maschere dietro cui si nasconde la divinità.
Nelle ultime pagine di questo mio libro potremo vedere in che modo Nietzsche, proprio nei suoi
ultimi anni, riprese ancora una volta questi pensieri tentando di presentare le diverse fasi della sua
evoluzione e il mutare delle sue idee non come immediate produzioni della sua mente ma, in certa
misura, soltanto come maschere indossate arbitrariamente, «immagini apollinee » dietro le quali il
suo ego dionisiaco, con divina superiorità, era rimasto eternamente uguale. Comprenderemo alla
fine le ragioni di quest’illusione.
Il valore che Nietzsche assegna all’elemento dionisiaco è caratteristico della sua natura spirituale:
da filologo egli ha cercato, attraverso l’interpretazione della cultura dionisiaca, una nuova via
d’accesso al mondo degli antichi; da filosofo ha posto quest’interpretazione alla base della sua
prima visione unitaria del mondo. Nel suo ultimo periodo di attività, alla fine di tutte le sue
successive trasformazioni, questa concezione del mondo fa nuovamente la sua comparsa: essa
è certamente cambiata in quanto è venuto meno il suo rapporto con la metafisica di Schopenhauer e
di Wagner, ma è anche rimasta uguale a se stessa in quel che i suoi più riposti impulsi spirituali
cercavano di esprimere; mutata sembra esserlo nelle immagini e nei simboli della sua ultima
esperienza, la più intima e la più solitaria. E il motivo di ciò è che Nietzsche ha trovato
nell’ebbrezza dionisiaca qualcosa di affine alla sua [63] propria natura: quella nascosta unità
essenziale di sofferenza e godimento, di vulnerabilità e divinizzazione di se stesso - gli eccessi a cui
si innalza la vita dello spirito, in cui tutti i contrasti si condizionano e si annullano e su cui ancora
una volta dovremo soffermarci.
L’indirizzo intellettuale seguito dall’uomo teoretico ed estraneo a ogni forma di intuizione, che si
inaugura con la figura di Socrate, rappresenta la forma di opposizione più netta all’elemento
dionisiaco e alla cultura artistica nata da esso. Nella Nascita della tragedia Nietzsche tenta di
descrivere a grandi linee lo sviluppo di questo atteggiamento spirituale muovendo da Socrate,
attraverso secoli di scienza e filosofia, fino ai giorni nostri. Con Socrate, la cui dottrina della
ragione si rivolge contro gli istinti ellenici originari al fine di imbrigliarli, «si capovolge il gusto
greco per la dialettica» e inizia quella marcia trionfale del teoreta che intende indagare i fondamenti
ultimi dell’essere attraverso la considerazione razionale e, per suo tramite, presume di poterli anche
correggere. Soltanto la critica kantiana ha segnato la fine di questo ottimismo, indicando i limiti
della conoscenza teoretica e, come Nietzsche ha poi osservato in tono scherzoso, riducendo la
filosofia a una «dottrina dell’astinenza [...] che non sa varcare la soglia e ricusa meschinamente a se
stessa il diritto d’accesso » (Al di là del bene e del male, 204). In tal modo essa creò, secondo
Nietzsche, lo spazio per la rigenerazione della filosofia a opera di Schopenhauer che, lungo la via
della conoscenza intuitiva, dischiuse infine un accesso all’essere insondabile e alle sue varie forme.
Tra il 1873 e il 1876 Nietzsche dà alle stampe, nello spirito della sua opera precedente e con [64] il
titolo complessivo di Considerazioni inattuali, quattro piccoli scritti destinati ad agire « contro il
tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo futuro » [Sull’utilità e il danno
della  storia per la vita, «Prefazione»]. Il primo di essi, intitolato David Strauss: l’uomo di fede e lo
scrittore, consiste in una critica distruttiva del libro, oltremodo elogiato all’epoca, La  vecchia e
nuova fede e in una lotta energica all’intellettualismo unilaterale della cultura moderna. Di più
duraturo interesse è il secondo pregevolissimo scritto, Sull’utilità e il danno della storia per la vita,
la cui tesi fondamentale ricompare nelle ultime opere nietzscheane, in forma modificata ma non per
questo meno evidente della sua concezione del dionisiaco. Il termine « storia » [Historie] designa in
queste pagine il concetto di vita intellettuale, inteso in senso del tutto generale, in opposizione a
quello di vita degli istinti; conoscenza del passato, scienza di ciò che è stato, in opposizione alla
piena forza vitale del presente e del divenire. Lo scritto affronta la questione: «Come è possibile
subordinare il sapere alla vita? » e precisa il punto di vista dell’autore con l’affermazione: « Solo in
quanto la storia serve la vita, vogliamo servire la storia ». Ma essa la serve fintanto che la più
importante funzione spirituale dell’uomo rimane del tutto integra di fronte agli influssi dissolventi,
opprimenti e onnipervasivi del pensiero: «La forza plastica di un uomo, di un popolo o di
una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e
incorporare cose passate ed estra-
nee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate». In caso
contrario si forma nel nostro animo [65] un caos di ricchezze estranee, che affluiscono in noi senza
che siamo in grado di controllarle e assimilarle, e la cui molteplicità mette perciò in serio pericolo il
carattere organico e unitario della nostra personalità. Diventiamo allora il passivo campo di
battaglie confuse in cui si scontrano senza tregua i pensieri, gli stati d’animo e le valutazioni più
diverse; soffriamo per le vittorie degli uni e per le sconfitte degli altri senza essere capaci di fare di
noi stessi il signore di tutte queste vicende.
Qui viene fatto per la prima volta un accenno al tanto discusso concetto nietzscheano di decadenza,
che svolgerà un ruolo così importante nelle opere successive. Non a caso questa prima illustrazione
del pericolo insito nella decadenza ci riporta alla mente il modo in cui abbiamo
precedentemente descritto la condizione psichica di Nietzsche; in questo luogo ne possiamo già
riconoscere l’origine: si tratta del tormento nascosto che a questo spirito appassionato cagionava il
costante accalcarsi di conoscenze e flussi di pensiero travolgenti, la violenza con cui ogni suo
pensiero e ogni sua conoscenza agivano sulla sua vita interiore, sicché la pienezza di esperienze in
intimo contrasto tra loro rischiava di mandare in frammenti i chiusi confini della sua personalità. È
lui stesso a riconoscerlo nella prefazione allo scritto in questione: « Non dev’essere taciuto che le
esperienze che suscitarono in me quei sentimenti tormentosi, io le ho attinte per lo più da me stesso
e dagli altri le ho attinte solo per paragonarle».4
Quel che egli [66] scopriva in se stesso diveniva così per lui il pericolo generale per tutta un’epoca
e si dilatava poi fino a diventare il pericolo mortale per tutta l’umanità che lo invocava come
liberatore e salvatore. Da questa circostanza deriva però una peculiare ambiguità che attraversa tutto
lo scritto e che balza immediatamente all’occhio di un esperto lettore di Nietzsche: infatti, proprio
ciò che suscitava le sue perplessità nei confronti dell’imperante spirito del tempo, e che certo era
qualcosa di fondamentalmente diverso dai problemi del suo animo, viene poi rivolto da Nietzsche,
senza fare distinzione di sorta, contro due cose del tutto diverse tra
loro. In primo luogo contro l’atrofìa di una vita spirituale ricca e piena provocata dall’influsso
frigido e paralizzante di un’unilaterale istruzione dell’intelletto: «Da ultimo l’uomo moderno si
porta in giro un’enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all’occorrenza
rumoreggiano puntualmente dentro di noi, come avviene nella favola». «Allora sì che il sentimento
all’interno riposa simile a quel serpente che ha ingoiato conigli interi e si stende poi
tranquillamente al sole, evitando tutti i movimenti tranne quelli necessari. [...] Tutti quelli che
passano di là hanno solo il desiderio che una tale cultura non perisca di indigestione». In
secondo luogo, invece, proprio contro l’influsso eccessivamente violento, eccitante e perturbante
del pensiero sulla vita psichica, contro il conflitto da esso innescato tra forze pulsionali primordiali
e sconnesse.
La differenza è simile a quella tra ottusità e follia. In Nietzsche stesso i pensieri più astratti erano
soliti mutarsi in forze emotive che prendevano a trascinarlo in modo immediato e imprevedibile.
Nel quadro della nostra epoca da lui abbozzato, [67] le due azioni contrapposte dell’intelletto
dovevano dunque necessariamente confondersi e, per quanto riguarda una di esse - lo scatenarsi
caotico della vita psichica -furono due cause diverse a fondersi l’una nell’altra. Non si tratta infatti
soltanto di semplici influssi dell’intelletto, del pericolo che l’elemento razionale rappresenta per
quello istintivo, ma anche degli influssi di epoche quanto mai remote che abbiamo ereditato e fatto
nostri, i quali, scaturiti un tempo da una fonte intellettuale, vivono oggi in noi soltanto in forma di
istinti e di valutazioni del sentimento.
La personalità chiusa in se stessa non sta dunque solo sotto la minaccia che proviene dall’esterno,
ma anche sotto quella che essa porta dentro di sé, che è nata insieme a lei, di quella «
contraddittorietà degli istinti » che è ciò che eredita ogni epigono giacché gli epigoni non sono mai
di sangue puro.
Il superamento del danno che la storia - appresa o vissuta -può in questo senso arrecare può
avvenire rivolgendosi in direzione di « ciò che non è storico ». Con questa espressione Nietzsche
intende il ritorno all’inconscio, alla volontà di non sapere, alla chiusura d’orizzonte senza cui non
c’è vita: « Ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo entro un orizzonte ». « Ciò che non
è storico assomiglia ad una atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi ». « E' vero,
solo per il fatto che l’uomo pensando, ripensando, paragonando, separando, unendo, limita
quell’elemento non storico, solo per il fatto che dentro quell’avvolgente nuvola di vapore nasce un
chiaro e lampeggiante raggio di luce -cioè solo per la forza di usare il passato per la vita e [68] di 
trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo: ma in un eccesso di storia
l’uomo viene nuovamente meno».
La sua forza si misura in base alla quantità di storia che egli sopporta e supera, in base alla forza
dell’elemento non storico in lui: « Quanto più la natura intima di un uomo ha radici forti, tanto più
egli si approprierà o impadronirà del passato; e se si immaginasse la natura più potente e
immane, essa si potrebbe riconoscere dal fatto che per lei non ci sarebbe nessun limite del senso
storico, ove questo agisse in modo soffocante e dannoso; ogni cosa passata, propria
ed estraneissima, essa l’attirerebbe a sé, l’introdurrebbe in sé, trasformandola per così dire in
sangue. Una tale natura, ciò che non vince, lo sa dimenticare; esso non esiste più, l’orizzonte chiuso
e completo, e niente può rammentare che al di là di esso ci sono ancora uomini, passioni, dottrine e
scopi ».
Uno spirito di questo tipo si rapporta alla storia nei tre modi in cui, in generale, ci si può rapportare
a essa senza caderne preda: la considera come storia monumentale, posando il suo sguardo sulle
grandi figure del passato, mettendole in relazione con la sua opera e la sua volontà senza
tuttavia perdersi in esse, ma considerandole come entusiasmanti precursori e compagni di strada.
S’immerge nella storia antiquaria nel momento in cui si aggira per tutto il passato come chi si
muove tra i luoghi di una vita precedente, tra i luoghi della sua infanzia in cui anche il minimo
dettaglio sembra molto importante e significativo: « Egli concepisce le mura, la porta turrita,
l’ordinanza municipale, la festa popolare come un [69] diario illustrato della sua gioventù, e in tutte
queste cose ritrova se stesso, la sua forza, la sua diligenza, il suo piacere, il suo giudizio, la
sua follia e le sue cattive maniere. Qui si poteva vivere, egli si dice, giacché si può vivere; qui si
potrà vivere, giacché siamo tenaci e non ci si può spezzare da un giorno all’altro. Così, con questo
“noi”, egli guarda oltre la caduca e peregrina vita individuale, e sente se stesso come lo spirito della
casa, della stirpe e della città».
Guarderà infine anche alla storia in modo critico, per dissodare il passato al fine di edificare il
futuro, fine per cui ha bisogno della più grande forza vitale poiché più grande del pericolo di
diventare un sognatore o un collezionista, è il pericolo di rimanere un distruttore: «È sempre un
processo pericoloso, pericoloso cioè per la vita stessa. [...] Infatti, dato che noi siamo i risultati di
generazioni precedenti, [...] non è possibile staccarsi del tutto da questa catena. [...] Arriviamo nel
miglior caso a un conflitto fra la natura ereditaria e avita e la nostra conoscenza; [...] noi piantiamo
una nuova abitudine, un nuovo istinto, una seconda natura, sicché la prima natura rinsecchisce. È un
tentativo di darsi per così dire a posteriori un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con
quello da cui si deriva. [...] Ma qua e là la vittoria arride lo stesso, e c’è [...] una notevole
consolazione: quella cioè di sapere che anche tale prima natura è stata una volta, quando che sia,
una seconda natura, e che ogni seconda natura che vinca diventa una prima natura».
In certa misura si possono applicare questi tre modi di considerare la storia ai tre periodi
dell’evoluzione di Nietzsche, prendendo [70] l’avvio da quello antiquario, che coincide con la sua
attività di filologo, facendogli seguire la concezione monumentale, che lo vide sedere come
discepolo ai piedi di grandi maestri, per giungere infine al positivismo del suo periodo maturo che
può essere definito come quello critico. Ma dopo aver superato quest’ultima fase, le tre prospettive
si fusero in una, nella quale, come si avrà modo di vedere, i pensieri contenuti in questo scritto
torneranno di nuovo in forma misteriosa e commovente, nell’accentuazione estrema e paradossale
della tesi secondo cui l’elemento storico è subordinato alla vita individuale, la cui condizione
costante è l’elemento non storico.
La natura forte, che egli descrive come al contempo storica e non storica, è così un erede di tutto il
passato, ed è dunque fuori dal comune per la pienezza della sua esperienza, ma è un erede che sa
rendere davvero feconda la sua ricchezza perché la possiede effettivamente, ne è il signore e non
ne risulta posseduto e dominato. Un erede o un epigono di tale sorta è poi sempre, al contempo, il
capostipite di una nuova civiltà e, quale detentore del passato, un creatore dell’avvenire: la
ricchezza che egli diffonde porta anche con sé i frutti di tempi futuri. E' uno dei grandi «inattuali»
che sono immersi in un lontano passato, che additano a un lontano futuro, ma che stanno nel loro
tempo sempre come stranieri, benché il presente concentri e produca in loro la sua massima forza.
In queste considerazioni si trova la prima formulazione di pensieri dell’ultimo periodo creativo di
Nietzsche: un singolo, il genio di tutta l’umanità, è in grado di interpretare,
muovendo dal presente, l’intero passato e con ciò anche di determinare il senso e la finalità
dell’avvenire inteso come un tutto.
[71] Osservate esclusivamente dall’esterno, le radici di questa intuizione mostrano di risalire fino
all’attività di filologo di Nietzsche che lo indusse a impadronirsi, attraverso la conoscenza, di altre
civiltà. Sapere ed essere furono sempre un’unica cosa per il suo spirito; e così, per Nietzsche,
essere filologo classico equivaleva a essere greco. Ciò doveva di certo rinforzare quella
contraddittorietà degli istinti che lo angustiava e il cui culmine era ai suoi occhi la
contrapposizione di antico e moderno - ma doveva anche racchiudere in sé gli strumenti per
combatterla, e cioè la possibilità di costruire il futuro attraverso un passato superiore al presente, di
mutarsi da uomo del suo tempo in epigono di più antiche civiltà e in primogenito di una civiltà
nuova.5
Le ultime due Considerazioni inattuali di Nietzsche - Schopenhauer come educatore e Richard
Wagner a Bayreuth - sono dedicate a due di questi individui « inattuali » il cui tempo è il passato e
il futuro. Queste due statue erette con traboccante entusiasmo in onore del genio mostrano con
particolare chiarezza in quale misura la nuova civiltà dell’individuo inattuale, a cui Nietzsche
aspira, culmini in un culto del genio stesso. In lui l’umanità non trova infatti soltanto il suo
educatore, la sua guida, il suo profeta, ma anche la sua autentica ed esclusiva meta finale. L’idea
secondo cui « tutte le produzioni della natura non esistono se non in funzione degli individui
isolati» è uno di quei pensieri schopenhaueriani che Nietzsche non ha mai abbandonato. Qualcosa
nella parte più riposta del suo animo [72] fremeva insaziabilmente per innalzare l’elemento
egoistico al rango di ideale del sé, così come anelava in direzione del lato oscuro di questo sublime
destino dell’uomo, verso la solitudine e l’eroismo.
Nel suo periodo intermedio egli prese apparentemente le distanze da questa prima concezione del
genio, perché essa aveva visto venire meno lo sfondo metafisico su cui solo il profilo del grande «
singolo » poteva stagliarsi nella sua sovrumana importanza come una figura di un mondo superiore
e più vero. Ma l’idea del culto del genio conteneva uno
spunto in direzione di ciò che Nietzsche, alla fine del suo percorso intellettuale, avrebbe
nuovamente rielaborato con un colpo di geniale follia. Il valore positivo del genio assunse infatti per
lui un’importanza talmente superiore a quella della concezione schopenhaueriana - in funzione di
sostituto di un’interpretazione metafisica della vita - che questa finì per rappresentarne solo un
debole contraltare.
Fintanto che il culto del genio rimane un culto da metafisico nel quadro della physis umana, esso
comprende una serie continua, una catena di « singoli » che possiedono pari valore e dignità sia per
quanto riguarda la loro natura, sia per quanto attiene alla loro importanza. Essi non vengono
considerati come segmenti di una linea evolutiva dell’essere umano, essi « non continuano magari
un processo, ma vivono simultaneamente e fuori dal tempo », formano « una specie di ponte sul
selvaggio fiume del divenire. [...] Un gigante grida all’altro attraverso i desolati intervalli dei tempi,
e l’alto colloquio degli spiriti prosegue, non disturbato dai nani petulanti e chiassosi che strisciano
sotto di loro». Dal momento che è questo «nano» a determinare tutta la storia dell’evoluzione, [73]
le sue vicende così come le sue leggi, una cosa soltanto è allora certa: « Lo scopo dell’umanità non
può trovarsi alla fine, ma solo nei suoi più alti esemplari » [Sull’utilità e il danno della storia per la
vita, ix].
Ma dal momento che anche gli esemplari più alti esprimono soltanto quel che sta al fondo
dell’essere umano, quale sua essenza metafisica, essi si distinguono dalla massa degli uomini meno
per una differenza che non per uno svelamento essenziale, per una nudità divina, mentre l’uomo
della massa ha migliaia di veli che coprono la sua vera natura - veli che appartengono tutti al mondo
e alla superficie della vita e che possono qua e là rendersi impenetrabili. « Il grande pensatore,
quando disprezza gli uomini, disprezza la loro pigrizia: poiché per causa sua essi appaiono come
merce di fabbrica [...]. L’uomo che non vuole appartenere alla massa non deve far altro che cessare
di essere accomodante verso se stesso »
(Schopenhauer come educatore, 1). L’educazione amorevole e la premura nei confronti di tutti sono
dunque la conseguenza di questo modo di vedere le cose il quale, nel senso più profondo, pone tutti
sullo stesso piano poiché rende onore al nucleo metafisico avvolto in ogni velo; da nulla esso
risulta quindi più distante come dalle tarde richieste nietzscheane di schiavitù e tirannia.
Ma allorché, come accade nella matura riflessione di Nietzsche, questo sfondo metafisico si
dissolve, quando l’essere sovrasensibile si perde nell’infinito divenire del reale, allora il singolo può
sollevarsi al di sopra della massa soltanto in virtù di una differenza essenziale che equivale a una
superiore differenza di grado: incarnando la quintessenza di questo processo, egli lo ingloba in sé
per quanto possibile nella sua totalità, mentre l’uomo della massa è in grado di viverlo e incarnarlo
soltanto in modo cieco e frammentato. [74] Questo singolo sarebbe dunque in certa misura il solo in
grado di dare un senso a quella lunga evoluzione che si chiama storia; egli non sarebbe composto di
materia sovrasensibile, come l’uomo schopenhaueriano, ma sarebbe in tutto e per tutto un creatore
e, come tale, sarebbe in grado di fungere da sostituto di quel significato delle cose in cui il
metafisico ripone la sua fede. In luogo di molte singolarità di pari rango, che si elevano sopra le
vicende umane come una catena di monti più alti e uniti tra loro, nell’ultima filosofia di Nietzsche si
ritrova soltanto il grande Solitario, che intende se stesso come la vetta del tutto; verso l’alto egli
risulta ancora più solo degli altri poiché, come punto conclusivo dell’evoluzione, è l’esemplare
supremo del genere umano; verso il basso, però, è molto più duro e dispotico di quelle singolarità
giacché la massa e la vita, considerate in loro stesse o da un punto di vista metafisico, non
significano nulla. Egli deve soltanto fornire loro, su, fino al vertice, un determinato ordine
gerarchico. Risulta facile comprendere perché solamente con questa figura il culto del genio assuma
dimensioni straordinarie: venuta meno l’interpretazione metafisica che innalzava di principio
l’uomo schopenhaueriano in un ordine di cose superiore, ora il genio può soltanto convincere
ricorrendo a mezzi straordinari.
Quattro sono i problemi della prima fase filosofica di Nietzsche con cui egli, seppure in forma
sempre differente, si è confrontato fino all’ultimo: il dionisiaco, la decadenza, l’inattuale, il culto
del genio. Li ritroveremo sempre, e insieme ritroveremo Nietzsche: come egli infatti esprime
sempre se stesso nella sua filosofia, così anche modella in modo caratteristico questi pensieri.
Considerati nel [75] loro mutare e nella loro varietà, essi paiono quasi imperscrutabili ed
eccessivamente complessi; se si tenta al contrario di giungere al nucleo di ciò che, in ogni
mutamento, permane identico, si rimarrà allora sorpresi della semplicità e della costanza dei suoi
problemi. «Sempre un altro e sempre lo stesso», avrebbe potuto dire Nietzsche di sé.
Che la visione del mondo di Wagner e Schopenhauer abbia potuto acquisire una simile importanza
per Nietzsche e che più tardi, dopo tante battaglie e da posizioni intellettuali del tutto opposte, abbia
potuto ancora una volta riaccostarsi ai pensieri fondamentali di quella, indica in che misura
essa andasse incontro a tutta la sua natura ed esprimesse ciò che in lui stava assopito. Elevato dalla
sua occupazione di filologo a quella di filosofo, si dovette senza dubbio sentire come un prigioniero
a cui vengono tolte le catene. In precedenza le sue migliori energie erano infatti legate; adesso
poteva respirare, adesso tutto in lui era libero. I suoi impulsi d’artista potevano ora godere appieno
delle rivelazioni della musica di Wagner; la sua forte inclinazione verso le esaltazioni religiose e
morali trovava una costante possibilità di accrescimento nell’interpretazione metafisica di
quest’arte. L’ampiezza e la solidità del suo sapere si posero al servizio della nuova visione del
mondo che si rifletteva nella sua concezione della grecità. Poiché nella persona di Wagner il genio
era divenuto realtà, poiché egli era per così dire «il salvatore che redime », a Nietzsche toccò il
ruolo dell’uomo della conoscenza, del sensale della scienza: in tal modo non venne meno
al compito del filosofo. Ma la conoscenza così acquisita fu solo l’occasione per dispiegare per
intero la sua natura artistica e religiosa e proprio questo fatto dimostra l’importanza che ciò aveva
per il suo spirito. Quello a cui aveva già [76] aspirato durante i suoi anni di formazione filologica,
allorché studiava la vita degli antichi filosofi, era adesso una verità: il pensiero un’esperienza, la
conoscenza un lavorare e un creare insieme in vista di una nuova civiltà; nel pensiero tutte le forze
dell’anima dovevano agire insieme: era di tutto l’uomo che vi era bisogno. Nietzsche esprime
soltanto l’estasi liberatoria in cui è assorto, allorché, alla fine del suo Socrate e la filologia classica,
prorompe nelle parole: «Ahimè! Il fascino di queste lotte sta nel fatto che chi le guarda deve anche
combatterle! ». 6
Come i diversi talenti della sua natura possono ora vivere appieno e svilupparsi, così questo periodo
della vita di Nietzsche appaga completamente anche quel bisogno profondo, quasi femminile, di
adorazione personale, di levare gli occhi al cielo; un appagamento che in seguito, e con dolore, egli
tro-
vera in se stesso. Per quanto profonda fosse la gioia che traeva dalla filosofia di Schopenhauer e
Wagner, con tutto il suo modo di considerare le cose, quel che però più contava per lui era il suo
rapporto personale con Wagner, lo sguardo incondizionato che questi gli rivolgeva. Il suo
entusiasmo si accendeva per una personalità in cui credeva di vedere incarnato l’ideale della sua
propria natura. La gioia prodotta da una simile fede spande sui pensieri contenuti nei suoi primi
scritti filosofici qualcosa di sano, quasi di ingenuo, che si differenzia in modo netto da ciò che
contraddistingue le opere successive. E' come se lo si vedesse capire e decifrare se stesso soltanto
attraverso l’immagine del suo maestro Wagner e del suo filosofo Schopenhauer. Con timore
istintivo egli respinge ancora quell’arte di fare di se stesso, in modo consapevole, l’oggetto e
l’«esperimento di chi è volto alla conoscenza» [La gaia scienza, 324], [77] l’arte che lo avrebbe
successivamente reso così grande e così malato. « Come può l’uomo conoscersi? Egli è una cosa
oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli, l’uomo può trarsene settanta volte sette e non potrà dire:
“Ecco, questo tu sei realmente, questa non è più corteccia”. Inoltre è un inizio tormentoso,
rischioso, scavare se stessi in tal modo e discendere con violenza per la via più breve nel pozzo del
proprio essere. Quanto facilmente, nel far ciò, egli può ferirsi in modo tale che nessun medico riesca
a guarirlo» (Schopenhauer come educatore, 1). E perciò egli lancia un appello ai giovani che
desiderano scrutare dentro se stessi: «Che cosa ti ha attratto, che cosa ti ha dominato e in pari tempo
ti ha reso felice? Metti davanti a te la serie di questi oggetti venerati e forse essi ti mostreranno [...]
una legge, la legge fondamentale del tuo te stesso vero e proprio. Confronta questi oggetti, guarda
[...] in che modo essi formano una scala sulla quale fino ad ora ti sei arrampicato verso te
stesso; giacché la tua vera essenza non sta profondamente nascosta dentro di te, bensì
immensamente al di sopra di te ».
Con una schiettezza che in seguito, all’epoca della più dolorosa autoanalisi, andrà smarrita,
Nietzsche mette in mostra i motivi per cui fin dall’inizio egli ha ardentemente agognato questa
condizione di discepolo, una «guida e in pari tempo un maestro severo»: «Devo indugiare un poco
in una rappresentazione che nella mia giovinezza era frequente ed urgente come nessun’altra.
Quando un tempo mi abbandonavo come volevo ai desideri, pensavo che il terribile sforzo
e l’impegno di educare me stesso mi sarebbe stato risparmiato dalla sorte, [78] se al momento
giusto avessi trovato come
educatore un filosofo, un vero filosofo, cui si potesse obbedire senza ulteriori esitazioni, perché di
lui mi sarei fidato più che di me stesso» [Schopenhauer come educatore, 11].
E' interessante notare come, a tal fine, Nietzsche cerchi di scoprire dietro al pensatore
Schopenhauer, lo Schopenhauer uomo ideale,7 e come, nei confronti di Wagner, muova da una
profonda affinità delle loro nature. Sorprende, in effetti, la consonanza tra le doti naturali e spirituali
di Wagner, così come Nietzsche le descrive, e la « polifonicità » delle sue proprie doti quale risulta
dalla prima parte di questo libro. Nelle pagine di Richard Wagner a Bayreuth, infatti, egli
scrive: «Ciascuno dei suoi impulsi tendeva allo smisurato, tutte le qualità che procuravano la gioia
di vivere volevano scatenarsi e soddisfarsi ciascuna per conto proprio; quanto più grande era il loro
numero, tanto più grande era il tumulto, tanto più ostile il loro incrociarsi» (III).
Appena Wagner raggiunse la «virilità spirituale e morale», questa «molteplicità» riuscì a comporsi
e, al contempo, subì una peculiare scissione: «La sua natura appare semplificata in maniera terribile,
lacerata in due impulsi e sfere. Giù in fondo ribolle, in impetuosa corrente, una volontà violenta, che
per tutte le vie, cavità e gole, vuole per così dire uscire alla luce e aspira alla potenza». [79]
«L’intero fiume si precipita ora in questa, ora in quella valle, e si sprofonda nelle gole più oscure: -
nella notte di questo semisotterraneo ribollire, apparve, alta su di lui, una stella ». Diamo uno
sguardo all’altra sfera di Wagner: «È l’esperienza originaria più peculiare, che Wagner vive in sé e
venera come un segreto religioso: [...] quella meravigliosa esperienza e conoscenza, secondo cui
l’una sfera del suo essere rimaneva fedele all’altra; [...] la sfera creativa, innocente e più luminosa a
quella oscura, indomabile e tirannica» (II).
«Nel comportamento reciproco delle due forze più profonde, nella devozione dell’una all’altra,
risiedeva la grande necessità, per la quale soltanto egli poteva rimanere intero e se stesso» (III).
Verso la fine di questo scritto, Nietzsche tenta di com-
prendere anche la musica di Wagner muovendo da questa peculiarità che gli risulta così affine e
concepisce il genio musicale wagneriano come una sorta di rispecchiamento dello stato della sua
anima: « Come la sua musica si assoggetti, con una certa crudeltà di risoluzione, all’andamento del
dramma, che è inesorabile come il destino, mentre l’anima ardente di quest’arte è avida di vagare
senza redini nella libertà e nella solitudine» (ix).
« Sopra tutti gli individui sonori e la lotta delle loro passioni, sopra tutto il vortice dei contrasti, si
libra [...] uno strapotente intelletto sinfonico, che genera continuamente la concordia dalla guerra».
« Mai Wagner è più Wagner di quando le difficoltà si decuplicano ed egli può dominare in
situazioni veramente grandi [80] con la gioia del legislatore. Domare impetuose masse contrastanti,
trasformandole in ritmi semplici, attuare una sola volontà attraverso una sconcertante molteplicità di
esigenze e desideri».
Ma proprio questa affinità delle loro nature bifronti avrebbe alla fine sospinto l’evoluzione
intellettuale di Nietzsche su di una propria strada solitaria che lo avrebbe prima o poi separato da
Wagner. Appena raggiunto il punto più alto del suo percorso, Nietzsche accenna però il primo passo
che lo avrebbe inevitabilmente fatto cadere verso il basso. Egli sembra dunque rovesciare del tutto
la realtà dei fatti quando, anni dopo, nel suo ingiusto libello intitolato II caso Wagner, sostiene: « La
più grande esperienza della mia vita fu una guarigione. Wagner appartiene semplicemente alle mie
malattie» {Il caso Wagner, «Prefazione»), La sua evoluzione assume infatti un carattere patologico
soltanto molto tempo dopo la sua rottura con Wagner; del suo periodo wagneriano si potrebbe anzi
dire, in un certo senso, che appartiene ai suoi momenti alti di salute. Ciò nondimeno, non si può non
prestare ascolto a quanto di vero contiene l’affermazione precedente, vale a dire al fatto che
Nietzsche, in quell’epoca, non aveva ancora raggiunto il punto più alto della sua evoluzione per
quanto sano e felice avesse potuto essere in quegli anni.
Una tale salute poteva però essere mantenuta soltanto a costo della grandezza. Perché il discepolo
divenisse maestro, doveva fare ritorno a se stesso; ma poiché nel suo intimo egli desiderava, con
l’urgenza della necessità, diventare un discepolo nel senso religioso del termine, non gli restò altra
possibilità se non quella di riunire in se stesso discepolo e maestro, non fosse altro che per trame
sofferenza e per precipitare in una patologica fusione dei due ruoli. [81] Per questo suo sentiero
della grandezza valgono le parole dello Zarathustra: « Vetta e abisso - è ora saldato in unità! » [Così
parlò Zarathustra, «Il viandante»].
Il distacco di Nietzsche da Wagner è stato interpretato nei modi più vari, andando alla ricerca di
motivazioni puramente ideali - un irresistibile anelito di verità - o sulla base di motivi umani, troppo
umani. In questa vicenda, in realtà, le due cause s’intrecciano in modo del tutto analogo a
quanto già riscontrato in occasione del suo distacco dalla fede. Proprio il fatto di aver trovato un
pieno soddisfacimento, la quiete dell’anima e una patria per il suo spirito, proprio il fatto che la
visione del mondo di Wagner gli risultava morbida e liscia come una «pelle sana», lo stuzzicava a
togliersela di dosso, gli faceva apparire « la sua somma felicità come un disagio », lo faceva sentire
« ferito dalla sua felicità ». Alla nascita del suo « spirito libero » può così essere applicata in
generale la sua «supposizione sull’origine del libero pensiero» umano da un eccesso di beatitudine
dei sensi nel quadro di una visione del mondo già data: «Come i ghiacciai ingrossano quando nelle
zone equatoriali il sole dardeggia sui mari con più ardore di prima, così può ben darsi che anche un
assai forte e dilagante libero pensiero sia testimonianza del fatto che in qualche punto l’ardore del
sentimento è straordinariamente cresciuto» (Umano, troppo umano, I, 232).
Soltanto in mezzo alla sofferenza cercata e voluta il suo spirito si formò la dura e pugnace corazza,
armato della quale sarebbe poi sceso in campo contro i suoi antichi ideali. Rinunciando a ciò che è
bello e edificante, [82] e sciogliendo al contempo l’ultima forma di dipendenza, egli provò
senz’altro un senso di liberazione, una liberazione che rappresentava tuttavia anche un gesto di
rinuncia di cui ebbe a soffrire come di una ferita, pur essendosela inferta da sé.
Del tutto inattesa per Wagner, la rottura si compì in forma definitiva allorché questi, con il suo
Parsifal, approdò a orientamenti cattolicheggianti, mentre l’evoluzione spirituale di Nietzsche, con
un repentino mutamento di rotta, si era indirizzata verso la filosofìa positivistica degli autori inglesi
e francesi. Il distacco da Wagner non fu soltanto una separazione di spiriti, ma anche la lacerazione
di un rapporto in cui entrambi erano stati così vicini come solo padre e figlio, o come due fratelli
soltanto possono esserlo. Nessuno dei due poteva dimenticarlo del tutto, nessuno dei due poteva
completamente rassegnarsi. Ancora nell’autunno 1882, sei mesi prima della
morte di Wagner, durante il festival di Bayreuth e in occasione della prima rappresentazione del
Parsifal, si fece il tentativo di pronunciare il nome di Nietzsche di fronte al maestro. Nietzsche
risiedeva allora vicino a Bayreuth, nel paesino turingio di Tautenburg nei pressi di Dornburg, e la
sua vecchia amica Malwida von Meysenbug pensava, seppure a torto, che si sarebbe riusciti a
convincere Nietzsche a recarsi a Bayreuth per riconciliarsi con Wagner. Ma il tentativo fallì; Wagner
abbandonò pieno di irritazione la sua stanza e proibì di pronunciare ancora il nome di Nietzsche in
sua presenza. La lettera di Nietzsche che qui riproduciamo8 risale all’incirca allo stesso periodo e
descrive in modo abbastanza convincente la sua posizione riguardo alla rottura con Wagner:
[83] Dunque, mia cara amica, finora tutto procede bene e sabato, tra otto giorni, ci si vedrà di
nuovo.
Forse la mia ultima lettera non è giunta nelle Sue mani? La scrissi domenica, quattordici giorni or
sono. Ciò mi addolorerebbe; in essa Le descrivevo un momento molto felice; mi sono toccate
tante cose buone tutte in una volta, e la «più buona» di queste era la Sua lettera di assenso ! -
Intanto: quando ci si fida di qualcuno, allora possono andare smarrite perfino le lettere.
L’ho pensata molto e nella mia mente ho diviso con Lei tante di [84] quelle cose che esaltano,
commuovono e rasserenano, che è come se avessi vissuto insieme alla mia venerabile amica. Se Lei
sapesse quanto è strano e nuovo tutto ciò per un vecchio eremita come me! - Quante volte ho
dovuto ridere di me stesso!
Per quel che riguarda Bayreuth, sono felice di non dover essere là; eppure, se potessi starLe accanto
come uno spirito, sussurrandola all’orecchio questo e quello, allora riuscirei a sopportare perfino la
musica del Parsifal (altrimenti non riesco a sopportarla).
Gradirei che Lei prima leggesse ancora il mio piccolo scritto Richard Wagner a Bayreuth; l’amico
Rèe lo possiede di certo. Ho vissuto [85] così legato a quell’uomo e alla sua arte - è stata una lunga,
totale passione: non riesco a trovare nessun’altra parola. La necessaria rinuncia, quel ritrovare-me-
stesso che diventava infine necessario, fanno parte delle cose più aspre e melanconiche del mio
destino. Le ultime parole che Wagner mi ha scritto si trovano in un bell’esemplare con dedica del
Parsifal: « Al mio caro amico Friedrich Nietzsche. Richard Wagner, Consigliere ecclesiastico
superiore». Esattamente nello stesso periodo gli giunse tra le mani, speditogli da me, Umano,
troppo umano - tutto fu chiaro, ma fu anche tutto finito.
Quante volte, in ogni possibile [86] cosa, ho fatto esperienza proprio di questo: «tutto chiaro, ma
anche tutto finito»,
E quanto sono fortunato, mia amata amica Lou, di poter pensare riguardo a noi due: “tutto all’inizio,
e tuttavia tutto chiaro!”. Si fidi di me! Fidiamoci di noi!
Con i più cordiali auguri per il Suo viaggio Il Suo amico
Nietzsche
[87] Quando rileggo questa breve descrizione, allora me lo rivedo davanti allorché, durante un
viaggio che facemmo insieme dall’Italia attraverso la Svizzera, visitò con me la tenuta di Tribschen,
vicino a Lucerna, il luogo in cui aveva trascorso con Wagner un periodo indimenticabile. A
lungo, molto a lungo sedette in silenzio sulla sponda del lago, immerso in grevi ricordi; quindi,
disegnando con la punta del bastone sulla sabbia umida, parlò con voce sommessa di quei tempi
andati. Quando alzò lo sguardo, stava piangendo.
La sofferenza fisica più intensa di Nietzsche venne a coincidere con il suo distacco interiore ed
esteriore dal wagnerismo e dalla filosofia di Schopenhauer. In quegli anni visse tra crisi e dolori
fisici e psichici che lo condussero vicino alla «morte del corpo e dell’anima». La sua malattia si
manifestò negli anni di massima produttività, di un confronto eccessivamente variegato ed
estenuante con ricerche scientifiche e problemi filosofici, con i movimenti culturali a lui
contemporanei, con l’arte di Wagner e la sua musica. Non è certo un caso che anche l’ultimo e
fatale attacco di emicrania si sia manifestato sul finire degli anni ottanta, ancora una volta dopo un
incredibile periodo di creatività e produttività intellettuale. Quando si sentiva in forma e in salute, in
possesso di tutte le sue forze vitali, allora si trovava sempre a un passo dalla malattia; e i periodi di
ozio e di quiete involontaria gli procuravano sempre sollievo e rallentavano l’incombere della
catastrofe. Da un punto di vista puramente fisico, in ciò si rispecchia qualcosa di quegli aspetti
tipicamente patologici dell’«eccesso di salute» della sua vita intellettuale che, [88] dopo aver
raggiunto il suo apice, era solita traboccare nella malattia. Da questa condizione, tuttavia, con la
forza tenace della sua natura fuori dal comune, egli riusciva sempre a riconquistare la salute.
Finché riusciva a dominare i dolori e a sentirsi in pieno possesso della sua capacità di lavorare, la
sofferenza non riusciva ancora a essere di detrimento alla sua resistenza vitale e
alla sua capacità di affermarsi. Ancora il 12 maggio 1878, egli scriveva con animo tranquillo in una
lettera da Basilea: « La salute è malferma e pericolante, ma - stavo quasi per dire: “che m’importa
della mia salute?”».9
Il 14 dicembre dello stesso anno, tuttavia, segue un accenno al ritiro dall’insegnamento, che egli
reputa necessario: « La mia condizione è un limbo misto ad atroci tormenti, non posso negarlo.
Probabilmente è finita la mia attività accademica, forse anche qualsiasi attività, e possibilmente...
ecc.».10 
E quindi l’amaro lamento: « Sembra che non ci sia più rimedio, i dolori sono stati davvero
pazzeschi».11 «Ma l’ordine è sempre questo: “Sopporta! Rinuncia!”. Ahimè, viene a noia anche la
pazienza. Ci vuole pazienza ad aver pazienza! ».12
Da ultimo, con il tono di una resa tranquilla, una lettera da Ginevra del 15 maggio 1879: «Io non sto
bene, ma sono allenato da tempo a sopportare il dolore e continuerò a trascinare il mio fardello - ma
non più per molto, spero! ». 13
Poco dopo rinunciò al suo incarico di professore e la solitudine lo avvolse per sempre. La rinuncia
all’attività didattica gli riuscì penosa - era in fondo la rinuncia a ogni lavoro scientifico in senso
stretto. [89] Testa e occhi - egli si definisce « un malato che ora è anche cieco per nove decimi e
che non riesce più a leggere se non per un breve quarto d’ora e soffrendo» -14 gli impedirono
d’allora in poi di sviluppare quantitativamente i suoi pensieri attraverso studi di più vasta portata.
L’ampiezza e la molteplicità del suo campo d’indagine è testimoniata dalla grande varietà delle sue
lezioni tenute all’università e al Pädagogium di Basilea.
È vero che in quegli anni Nietzsche si limitò allo studio dell’ellenismo e che restò filosoficamente
legato alle catene di un determinato sistema metafisico. Ma il successivo liberarsi
dai vincoli di questo sistema avrebbe potuto avere effetti ben più benefici se le sue condizioni di
salute fossero state diverse. Il quadro della vita greca, in cui allora riteneva di leggere, con gli occhi
del metafisico, i tratti fondamentali dell’immagine del mondo e della vita degli uomini, avrebbe
potuto gradualmente ampliarsi, con il proseguire dell’attività scientifica, in direzione di un quadro
complessivo dell’evoluzione del mondo. Grazie al genio della sua sensibilità raffinata e
alla capacità artistica di creare immagini, era quasi predestinato a realizzare grandi cose nel campo
della storia della filosofia. Il suo impulso a produrre avrebbe così potuto non smarrirsi nella sfera
della soggettività. Aveva poi spesso avuto modo di constatare che quanto più alati, impellenti e
appassionati sono i pensieri, tanto più vasta e severa deve essere la materia a cui essi vanno legati e
subordinati. Nelle sue opere c’imbattiamo così, fino all’ultimo, in sforzi sempre nuovi e
infecondi di espandersi verso l’esterno e di fornire un fondamento scientifico al suo pensiero - e in
tutto ciò vi è qualcosa del vano [90] colpo d’ala dell’aquila prigioniera. Egli era costretto dalle sue
condizioni di salute a fare di se stesso la materia dei propri pensieri, a porre il suo io alla base della
propria visione filosofica del mondo, ricavandola così dalla propria interiorità. In condizioni diverse
non avrebbe forse prodotto qualcosa di tanto particolare e dunque di così assolutamente unico. Ma
ciò nonostante non si può tornare con lo sguardo su questo punto di svolta del destino nietzscheano
- su questa inconsueta coazione all’isolamento e alla segregazione -senza il più profondo
rammarico, non si può sfuggire alla sensazione che egli qui non colga una grandezza che gli
era riservata.
A questo punto su Nietzsche calò la notte. I suoi ideali di un tempo, la sua salute, la sua capacità di
lavorare, la sua cerchia d’influenza - tutte le cose che avevano regalato calore, luce e splendore alla
sua vita, svanirono una dopo l’altra. Fu un crollo spaventoso, sotto le cui macerie rimase come
sepolto. Fu l’inizio dei suoi «tempi bui» (Il viandante e la sua ombra!, 191).
Gli scritti che seguono non nascono, come i precedenti, da una pienezza accumulata e accessibile al
suo animo, non sono composti muovendo da una meta che egli crede di avere raggiunto; narrano
piuttosto di come egli si orienti nella notte, di come proceda lentamente a tastoni; sono i passi
tormentati, combattuti e infine vittoriosi in direzione di una meta oscura.
«Mentre proseguivo da solo,» avrebbe confessato anni dopo a proposito di questo periodo
«tremavo; non passò molto e fui malato, più che [91] malato, ossia stanco, per l’incontenibile
delusione di fronte a tutto ciò che a noi uomini moderni restava per entusiasmarci... ». Ma non lo
vediamo farsi largo tra le rovine lamentandosi - e a ragione egli indica l’elemento d’interesse di
quegli scritti « nel fatto che qui parla uno che soffre e rinuncia come se non soffrisse e non
rinunciasse» {Umano, troppo umano, 11, «Prefazione»),
Ancora una volta egli si trasforma in qualcuno che crea e che scopre sempre del nuovo. S’immerge
in profondità sotto questo mondo di macerie, mina e scalza ancora una volta le sue fondamenta, e
scruta con occhi avvezzi alle tenebre i tesori nascosti e i segreti del sottosuolo. Un secondo
Trofonio che con astuzia entra ed esce sgattaiolando e che riesce ancora a far luce sul mondo là
fuori e sui suoi enigmi. Così lo vediamo, «all’opera [...] un essere sotterraneo, uno che perfora,
scava, scalza di sottoterra. [...] Lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente
implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce e di aria
comporta ». E a tal proposito ci giunge quella domanda fiduciosa, con cui egli stesso tornerà a
guardare a questi anni e a cui l’esame della sua evoluzione successiva fornirà una risposta; «Non
sembra forse che» questo essere voglia «avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo
incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua
aurora?... » (Aurora, «Prefazione alla nuova edizione» [1886]).
[92] Mia cara amica, il cielo è ora chiaro sopra di me! Ieri a mezzogiorno era come se fosse il mio
compleanno: Lei inviò il Suo assenso, il regalo più bello che qualcuno potesse mai farmi - e mia
sorella mi spedì delle ciliegie. Teubner mi mandò le prime bozze della Gaia scienza; e inoltre era
giunta a compimento l’ultimissima parte del manoscritto, e quindi il lavoro di sei anni (1876-1882),
tutto il mio «spirito libero»! Oh, che anni! [93] Che tormenti d’ogni sorta, che solitudine e che
disgusto della vita! E contro tutto questo, in certo qual modo contro la morte e la vita, mi sono
preparato questo farmaco, questi miei pensieri con le loro piccole strisce di cielo senza nubi sopra di
loro: - oh, amica cara, penso così spesso a tutto ciò, sono scosso e toccato e non so come la cosa
possa essere riuscita: compassione per me stesso e sentimento di vittoria mi riempiono interamente.
Poiché è una vittoria, e una vittoria totale - è riapparsa perfino la salute del corpo, non so come, [94]
e tutti mi dicono che sembro più giovane che mai. Il cielo mi protegge dalle follie! -Ma d’ora in poi,
se Lei vorrà consigliarmi, allora io sarò consigliato bene e non avrò più nulla da temere. -

Per quel che riguarda l'inverno, ho pensato seriamente ed esclusivamente a Vienna; i progetti
invernali di mia sorella sono del tutto indipendenti dai miei, e non vi è quindi nessun pensiero
recondito. Il Sud Europa non è ora nei miei pensieri. Non voglio più essere solo e voglio imparare
di nuovo a diventare un uomo. Ah, in questa materia ho ancora quasi tutto da imparare! -
[95] Riceva il mio ringraziamento, amica cara! Tutto andrà bene, come Lei ha detto.
Al nostro Rèe, con tutto il cuore!
Interamente Suo
F.N.
Tautenburg presso Dornburg Turingia.15
È con questi sentimenti di pena e di ammirazione per se stesso che Nietzsche ritorna su quella fase
del suo sviluppo intellettuale di fronte alla quale noi ora ci troviamo. Possiamo subito notare come
il suo elemento caratteristico siano fin dall’inizio le lotte e le ferite messe in conto per appropriarsi
di una nuova visione del mondo, la profonda malattia da cui [96] egli infine plasmò la sua nuova
salute. La sua originalità dovette perciò palesarsi molto meno nelle idee e nelle teorie che andava
elaborando che nella forza con cui si separò dal vecchio ideale per poterle concepire. Non
arrivò cioè, come succede a molti, alla consapevolezza di una maggiore autonomia e di un’attività
spirituale più personale attraverso un’evoluzione intellettuale fredda e indifferente nei confronti dei
pensieri acerbi che essa si lascia alle spalle. Ci arrivò soltanto attraverso una ribellione violenta
contro il proprio passato, in cui i fattori intellettuali furono un elemento concomitante più che
decisivo. Notiamo perciò come, in un primo momento, Nietzsche accetti sempre i nuovi pensieri
così come li trova, con una certa mancanza di autonomia, accogliendoli cioè dapprima in modo
acritico. Nel frattempo, infatti, tutta la sua energia è assorbita dalle esperienze più intime, e le
nuove teorie in quanto tali - per ricorrere a un’espressione a lui cara - costituiscono soltanto una
provvisoria « filosofia di proscenio » [Al di là del bene e del male, 289], mentre dietro le quinte,
nascosta, si svolge la lotta dell’anima, il vero processo che conta.
Quanto più saldamente egli è legato al passato, e quanto maggiore è la forza con cui il balzo verso il
nuovo esige uno sradicamento totale dal vecchio terreno spirituale, tanto più profondo è il
significato interiore della metamorfosi. Si può dunque affermare, in un certo senso, che proprio
l’apparente mancanza di autonomia interiore con cui Nietzsche si abbandona a un nuovo modo di
pensare che gli è estraneo testimonia la forza di un’autonomia eroica. Mentre i pensieri che gli sono
più cari lo tengono ancora avvinto, egli si lascia andare inerme [97] in sfere di pensieri di fronte alle
quali si sente ancora un estraneo, anzi, segretamente, un avversario, ma con queste belle parole nel
cuore: «Una vittoria e una trincea conquistata non sono più faccende tue, ma della verità, - ma
anche la tua sconfitta non è più affar tuo! » (Aurora, 370, «In che senso il pensatore ama il suo
nemico»),
È questo un elemento da non perdere di vista se si vuole rendere giustizia al brusco mutamento
d’opinione di Nietzsche e se si vuole comprendere l’origine della sua prima opera positivistica,
un’opera nata dal suo spirito in modo così sorprendente e inaspettato. Ancora nel 1876 era infatti
apparsa l’ultima delle Considerazioni inattuali, il libretto Richard Wagner a Bayreuth scritto con
traboccante entusiasmo, e già nell’inverno 1876-1877 uscì la prima delle sue raccolte di aforismi,
Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (« Consacrato alla memoria di Voltaire in
occasione della celebrazione dell’anniversario della sua morte, il 30 maggio 1778»), insieme a
un’appendice, Opinioni e sentenze diverse (Ernst Schmeitzner editore, Chemnitz 1878). Per nessun
altro libro valgono con maggior diritto le parole che egli ebbe a scrivere sulle opere di questo
periodo: « I miei scritti parlano solo dei miei superamenti: dentro ci sono “io”, con tutto ciò che mi
fu nemico. [...] Solitario ormai [.,.] presi [...] partito contro di me e per tutto ciò che mi faceva male
e mi riusciva duro» (Umano, troppo umano, LI, «Prefazione alla nuova edizione » [1886]).
Quest’opera riflette con tale chiarezza il suo stato d’animo di quel periodo, che essa pare contenere
due parti del tutto diverse tra loro: da una parte il Nietzsche positivista, ancora lontano dal
raggiungere una posizione autonoma, [98] che non ci offre quasi nulla di suo nelle nuove teorie che
ha appena acquisito, ma che può soltanto indicarci il luogo in cui ora si trova, da quale nuova
«pelle» egli si è fatto passivamente ricoprire. Dall’altra il Nietzsche che lotta e patisce, che si libera
con risolutezza dei vecchi ideali e che, in questa

lotta, ci mostra la commovente pienezza della più originale vita speculativa attraverso l’ardore con
cui si volge contro il suo vecchio io e si procura ferite. Su questa base deve anche essere intesa la
passione e la mancanza di riguardi con cui egli muove contro Wagner e le posizioni che questi
sostiene. Nessuno è meno capace di una giustizia calma e ponderata di chi ha appena mutato le
proprie opinioni e lo ha fatto non per motivi puramente intellettuali, bensì muovendo dall’elemento
« umano, troppo umano » che sta al fondo della sua propria indole. Non scagliamo nessun pensiero
tanto lontano da noi, e con maggiore forza, di quello da cui ci siamo appena separati attraverso un
doloroso conflitto e innanzi al quale ancora stiamo, feriti e sconvolti, pieni di oscure lacerazioni
che il nostro orgoglio cerca di tenere nascoste: vi è in tutto ciò un odio, come l’eco di un amore che
non potremo mai scordare.
Quanto mai indicativo della rapidità e della profondità di questo mutamento è il fatto che anche in
questa occasione esso prese le mosse da un rapporto personale. Come il rovello maggiore nella
lotta contro il vecchio ideale di conoscenza fu la rottura di un’amicizia, così anche la nuova forma
di conoscenza ebbe a incarnarsi per Nietzsche in una persona. Quanto più dolorosa era stata la
solitudine in cui la rottura dell’amicizia lo aveva sospinto, tanto più intimo divenne il rapporto che
Nietzsche strinse con Paul Rèe, poiché, come gli scrisse una volta, [99] «per il solitario l’amico è un
pensiero più prezioso che per chi sta in mezzo a molti » (31 ottobre 1880, dall’Italia).16
Se il rapporto con Richard Wagner fu caratterizzato dall’esclusività con cui Nietzsche gli si
dedicava e lo ammirava, da una forma di discepolato, il suo legame di amicizia con Rèe costituì più
una sorta di comunanza intellettuale che non trovava un ostacolo nel fatto che i due amici vivevano
lontani e che Rèe poteva lasciare solo di tanto in tanto la sua residenza nella Prussia occidentale per
incontrarsi con Nietzsche in luoghi diversi. Anche se, a dire il vero, già il 19 novembre 1877 da
Basilea, dove viveva ancora tra i suoi compagni di idee, Nietzsche si lamentava per la distanza che
a causa di una malattia di Rèe lo separava da molto dall’amico: « Spero di sentire presto da Lei,
amico mio, che i maligni spiriti della malattia se ne sono andati del tutto: allora, per il Suo
nuovo anno, non avrei altro da augurare a me stesso se non che Lei
rimanga quello che è, e che continui ad essere per me quel che è stato in questo ultimo anno. [...]
Cèrto però debbo dirLe che nella mia vita non avevo mai avuto tante gioie dall’amicizia quante ne
ho avute quest’anno per merito Suo, per tacere di quel che ho imparato da Lei. Quando sento
parlare dei Suoi studi, mi viene sempre l’acquolina in bocca per la voglia della Sua compagnia; noi
siamo fatti proprio per intenderci bene, ci incontriamo, io credo, sempre a metà strada, come buoni
vicini ai quali viene in mente sempre nello stesso momento di farsi visita, e si incontrano quindi al
confine dei loro possedimenti. Forse è più nelle sue possibilità [100] che nelle mie superare la
grande distanza tra Stibbe e Basilea; posso sperare in questo senso per l’anno nuovo? Quanto a me,
sono troppo sofferente e malandato perché non mi sia lecito chiedere il più grande piacere che
esista, anche se la richiesta è immodesta - una bella conversazione tra noi due su cose umane, una
conversazione personale e non epistolare, che sono sempre meno in grado di sostenere».17
Quanto più le sofferenze fisiche costringevano Nietzsche alla solitudine, e quanto più doveva vivere
isolato, lontano da tutti gli uomini per potere sopportare queste sofferenze, tanto più struggente era
il desiderio di vedere l’amico capace di fare della sua solitudine una « solitudine a due »
[Zweisamkeit]: «Dieci volte al giorno vorrei essere da Lei, con Lei» (lettera da Basilea, dicembre
1878).18 In spirito continuo a legare il mio futuro al Suo» (da Ginevra, maggio 1879).19 «Ho dovuto
rinunciare a molti desideri, ma non ancora a quello di vivere insieme a Lei - non ho rinunciato al
mio “giardino di Epicuro”» (da Naumburg, l’ultimo giorno d’ottobre del 1879).20
I violenti dolori e le crisi di cui Nietzsche soffriva risvegliarono in lui pensieri di morte che
conferivano a ogni incontro un significato profondo; « Quanta felicità mi ha regalato, mio amico
caro, straordinariamente caro ! » esclama dopo uno di questi incontri. « L’ho dunque ancora vista e
trovata un’altra volta, come il mio cuore me ne aveva serbato il ricordo; quei giorni furono come
un’ebbrezza continua, pia-

cevole. Le confesso che spero di non rivederLa più, la mia salute ne risulta scossa troppo in
profondità, il tormento troppo persistente, a che mi giovano tutti gli sforzi per dominarmi e la mia
pazienza? Sì, a Sorrento c’era ancora da sperare, [101] ma è tempo passato. Così mi ritengo
fortunato di averLa avuta, amico mio, cordialmente amato».21
In questi anni i due svilupparono opinioni tanto più concordanti, quanto più comuni erano i loro
studi. Per lo più Rèe procurava a Nietzsche i libri di cui aveva bisogno, leggeva a voce alta per
l’amico dagli occhi dolenti e viveva con lui una relazione e un continuo scambio di pensieri sia
epistolare, sia diretto.
«Mio carissimo amico [...] » - scrive Nietzsche dopo una separazione piuttosto lunga - «Per quando
saremo insieme - se m’è dato provare ancora questa felicità - ho pronte molte cose dentro di me. E
per quel momento è pronta anche una cassettina di libri intitolata Réealia, ci sono anche delle buone
cose che Le faranno piacere. Può mandarmi un libro istruttivo, possibilmente di autore inglese,22
ma tradotto in tedesco e con bei caratteri grandi? Io vivo assolutamente senza libri, cieco per nove
decimi come sono, ma dalle Sue mani accetterò volentieri il frutto proibito. - Evviva la
coscienza, ora che avrà una sua storia e che il mio amico se ne è fatto lo storico! Fortuna e
prosperità sul suo cammino. Vicino a Lei con tutto il cuore, il Suo Friedrich Nietzsche ».23
[102] E una volta ancora, variando le espressioni: «Con tutte le cose buone che Lei fa e che ha in
animo di fare, la tavola sarà imbandita anche per me, e il mio appetito di Réealismo è molto vivo,
Lei lo sa ».24
Il Réealismo fu dunque la prima forma in cui Nietzsche accettò il realismo filosofico e seppellì il
vecchio idealismo. Non apprezzò soltanto, ma sopravvalutò addirittura - come documenta una
lettera all’autore ancora conservata -15 la prima piccola opera di Rèe, apparsa anonima, le
Osservazioni psicologiche (Carl Duncker, Berlino 1875), delle sentenze secondo lo stile e lo spirito
di La Rochefoucauld. Gli autori preferiti di Rèe divennero ora anche i suoi preferiti: gli scrittori di
aforismi francesi, La Rochefoucauld, La Bruyère, Vauvenargues, Chamfort, influenzarono in questo
periodo lo stile e il pensiero di Nietzsche in modo straordinario. Degli scrittori filosofici francesi,
d’intesa con Rèe, prediligeva Pascal e Voltaire, dei romanzieri Stendhal e Mérimée. Di importanza
più profonda fu tuttavia per lui la seconda opera di Rèe, L’origine dei sentimenti morali (Ernst
Schmeitzner, Chemnitz 1877),26 che in certa misura costituì, nel periodo successivo, la professione
di fede positivistica di Nietzsche. Il libro lo avvicinò ai positivisti inglesi, a cui anche Rèe si
era accostato, che egli prese tosto a preferire alle opere tedesche dello stesso genere. Il principale
elemento d’attrazione del positivismo era rappresentato per Nietzsche dalla risposta alla domanda
che Rèe affrontava nel suo libro, vale a dire la domanda intorno all’origine del fenomeno morale.
[103] Per Rèe essa coincideva con la domanda sui fondamenti della sanzione di sentimenti
altruistici; le sue ricerche si indirizzavano in primo luogo contro i sistemi etici della metafisica
tradizionale. E poiché l’etica di Wagner e di Schopenhauer poggiava sull’altruismo e sul suo valore
come sentimento metafisico, Nietzsche aveva trovato proprio nel libro di Rèe le armi più adatte per
la sua lotta contro la visione del mondo che aveva
abbandonato. «L’origine dei sentimenti morali» diventò così il vero oggetto della sua ricerca e il suo
nuovo scritto può essere definito, in breve, come il tentativo di giungere a piena consapevolezza
intorno alla nullità dei suoi ideali di un tempo attraverso uno sguardo sulla storta della loro
origine. Lungo questa via tutto il suo filosofare si trasforma in una analisi e in una storia dei
pregiudizi e degli errori umani; il metafisico si trasforma in psicologo e in storico, ponendosi sul
terreno di un positivismo disincantato e coerente.
Nietzsche aderì nel modo più rigoroso alla scuola positivistica inglese e alla sua nota posizione che
riconduce i giudizi di valore e i fenomeni morali all'utilità, alla consuetudine e all’oblio delle
originarie motivazioni utilitaristiche; non è perciò necessaria alcuna spiegazione specifica delle sue
teorie, è sufficiente indicare il luogo da cui le ricava. Si leggano ad esempio passi come questo di
Umano, troppo umano: « La storia dei [...] sentimenti morali si svolge nelle seguenti fasi principali.
Prima si dicono buone o cattive singole azioni senza alcun riguardo ai loro motivi, ma solo per le
loro conseguenze utili o dannose. Presto però si dimentica l’origine di queste designazioni e ci si
immagina che [104] la qualità di “buono” o “cattivo” inerisca alle azioni in sé, senza riguardo alle
loro conseguenze» (1, 39). «Quanto poco morale apparirebbe il mondo senza la dimenticanza! Un
poeta potrebbe dire che Dio ha posto la dimenticanza come custode sulla soglia del tempio della
dignità umana» (1,92). Il cammino percorso dalla cosiddetta moralità delle azioni può
essere indicato con le parole: « Ora per abitudine, eredità e educazione, originariamente perché il
vero - come anche l’equo e il giusto - è più utile e procura più onore del non vero» (11, 26). Quindi,
nell’aforisma 40 di II viandante e la sua ombra: «L’importanza del dimenticare nel sentimento
morale. Le stesse azioni che nella società originaria furono in un primo tempo ispirate dallo scopo
dell’utilità comune, furono successivamente compiute da altre generazioni per altri motivi: per
paura o per rispetto di coloro che le esigevano e raccomandavano, oppure per abitudine, in quanto
sin dall’infanzia le si erano viste fare intorno a sé, oppure per benevolenza, in quanto il compierle
creava dappertutto gioia e volti consenzienti, o per vanità, in quanto venivano elogiate. Tali azioni,
in cui il motivo principale, quello dell’utilità, sia stato dimenticato, si chiamano poi morali».
« Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci fu regolarmente
richiesto senza motivo »
(Il viandante e la sua ombra, 52), mentre quel che è sorto nel corso della storia dell’umanità nel
modo testé descritto, viene tramandato al singolo uomo come un insieme di concetti morali rigorosi
e sanzionati dalla religione. «Il costume rappresenta le esperienze di uomini passati su quanto si
presumeva utile e dannoso, - ma il sentimento del costume (eticità) non si ricollega a quelle
esperienze come tali, bensì all’età, [105] alla santità, alla indiscutibilità del costume» (Aurora, 19).
L’intera opera risulta così pervasa da ciò a cui già il titolo allude in modo caratteristico: un lavoro
concettuale di distruzione, la messa a nudo senza riguardi del carattere «troppo umano» di tutto quel
che fino a ora veniva ritenuto sacro, eterno e sovrumano. Per cogliere la rigida unilateralità e
l’esagerazione con cui in queste pagine Nietzsche si rivolge contro se stesso, vale la pena di
esaminare la sua nuova posizione rispetto a quei quattro punti che erano stati oggetto
di un’interpretazione opposta nel suo precedente periodo filosofico: l’«elemento dionisiaco», il
«concetto di decadenza», l’«inattuale» e il «culto del genio».
Al posto di Dioniso, quale custode e protettore del nuovo tempio della verità troviamo ora quel
Socrate tanto denigrato in precedenza. « Se tutto va bene, verrà il tempo in cui, per promuovere il
proprio avanzamento spirituale e morale, si prenderanno in mano i Memorabili di Socrate a
preferenza della Bibbia, e in cui Montaigne e Orazio saranno utilizzati come messaggeri, e guide
per la comprensione del più semplice e imperituro mediatore-saggio, Socrate. A lui riconducono le
strade delle più diverse maniere filosofiche di vita, che sono in fondo le maniere di vita dei diversi
temperamenti, stabiliti dalla ragione e dall’abitudine, e tutti quanti rivolti con la loro punta verso la
gioia di vivere e di se stessi [...]» (Il  viandante e la sua ombra, 86). Questa vittoria
dell’elemento socratico, della ragione e dell’impassibilità del saggio sull’elemento dionisiaco,
l’esaltazione degli istinti e l’ebbrezza vitale dimentica di se stessa, culmina nella frase:
«L’uomo scientifico è l’ulteriore sviluppo dell’uomo artistico» [106] (Umano, troppo umano, 1,
222) e di tutto quel che si basa sull’intelligenza invece che sull’ebbrezza, infatti « l’artista è già di
per sé un essere rimasto indietro» (Umano, troppo umano, 1, 159). La nascita dello spirito socratico
rappresenta perciò un eccezionale progresso per la Grecia: «Prendere le forme dagli altri popoli,
non crearle, ma trasformarle col dar loro il più bell’aspetto - ciò è greco: imitare, non per l’uso,
bensì per l’illusione artistica, [...] ordinare, abbellire, appianare - così
si procede da Omero fino ai sofisti del terzo e quarto secolo dell’era volgare; e questi ultimi non
sono altro che facciata, parola pomposa e gesto entusiastico e si rivolgono solamente ad anime
svuotate e avide di apparenza, di suono e di effetto. Ed ora si apprezzi la grandezza di quei greci
d’eccezione che crearono la scienza! Chi racconta di loro, racconta la storia più eroica dello spirito
umano! » (Umano, troppo umano, II, 221; si veda anche Aurora, 544, riguardo al «tripudio
sulla nuova invenzione del pensiero razionale» di allora).
La tesi secondo cui tutto ciò che attiene alla sfera del sentimento origina dai giudizi e dalle
deduzioni concettuali viene contrapposta a quanti sostengono che la vita istintuale è la più alta
forma di vita: « I sentimenti non sono niente di ultimo, di originario; dietro ai sentimenti stanno
giudizi e apprezzamenti di valore che abbiamo ereditato nella forma di sentimenti [...]. L’ispirazione
che discende dal sentimento è nipote di un giudizio - e spesso di un falso giudizio! In ogni caso non
del tuo proprio giudizio! Aver fiducia nel proprio sentimento, significa obbedire al proprio nonno e
alla propria nonna e [107] ai loro progenitori, più che agli dèi che sono in noi\ la nostra ragione cioè
e la nostra esperienza » (Aurora, 35). I «nobilmente entusiasti», che tentano di impedire che il
sentimento venga subordinato alla ragione, inducono a un «pervertimento intellettuale» (Aurora,
543). «A questi entusiasti ubriaconi l’umanità deve gran parte dei suoi mali [...]. Oltre a ciò quegli
esaltati impiegano tutte le loro forze nel radicare dentro la vita la loro fede nell’ebbrezza quasi fosse
la fede nella vita stessa: un’orribile fede! Come i selvaggi vengono oggi rapidamente guastati
dall’“acqua di fuoco” e periscono, così l’umanità è stata lentamente e fino in fondo guastata per tutti
i versi dalle spirituali acquaviti di sentimenti inebrianti [...] » (Aurora, 50). « [...] Non pensano che
anche la conoscenza della più brutta realtà è bella [...]. La gioia degli uomini della conoscenza
accresce la bellezza del mondo [...]: due uomini tanto fondamentalmente diversi come Platone e
Aristotele concordavano su ciò che costituisce la suprema felicità [...]: lo trovavano nel conoscere,
nell’attività di un intelletto bene esercitato, che sa rinvenire e inventare (non già, semmai,
nell’“intuizione” [...], non nella visione, [...] e neppure nel fare, [...])!» (Aurora, 550). ,
Così tramonta il precedente culto del genio:27 « Ah, la glo-
ria a buon mercato del “genio” ! Come hanno fatto presto a erigergli il trono, a trasformare
l’adorazione in una consuetudine! Si continua sempre a star proni dinanzi alla forza 1108] -
secondo un’antica abitudine da schiavi - eppure, se deve essere stabilito il grado di venerabilità, è
decisivo, nella forza, soltanto il grado di ragione» {Aurora, 548). E' iniziata l’epoca degli spiriti
forti e schietti, la smodata venerazione della genialità artistica è di ostacolo alla « progressiva,
virile  educazione dell’umanità» {Umano, troppo umano, 1, 147). All’apparenza, il genio lotta sì
«per la superiore dignità e importanza dell’uomo», ma «non vuole a nessun costo farsi privare delle
interpretazioni che alla vita conferiscono splendore e profondità, e si ribella contro metodi e risultati
freddi e schietti », invece di fare un passo indietro di fronte alla più importante « dedizione
scientifica al vero in ogni forma, per spoglio che possa apparire» {Umano, troppo umano, 1, 146).
Se si analizza la cosiddetta «ispirazione», si nota come l’opera d’arte non sia tanto il prodotto del
miracolo di una fantasia creativa, ma del « giudizio » che osserva, ordina, sceglie - « come ora, dai
taccuini di Beethoven, si vede che egli ha composto le più belle melodie a poco per volta e quasi
trascegliendo da molteplici spunti. [...] L’improvvisazione artistica rimane molto in basso rispetto al
pensiero d’arte scelto con serietà e sforzo» {Umano, troppo umano, 1, 155). Il genio è dunque
qualcosa che può essere appreso in misura assai maggiore di quanto per lo più non si ritenga: « Non
parlate di doni naturali, di talenti innati! Si possono nominare grandi uomini di ogni specie, che
furono poco dotati. Ma essi acquistarono grandezza, divennero “geni” [...]: essi avevano tutti quella
solida serietà di mestiere, che impara a formare perfettamente le parti [109] prima di osar comporre
un gran tutto; a tal fine essi prendevano tempo, perché provavano un piacere maggiore nel far bene
il piccolo, il secondario, che nel mirare all’effetto di un insieme abbagliante» {Umano, troppo
umano, 1, 163). In queste pagine - in cui Nietzsche pensa al miracolo di Wagner - l’impulso a
spiegare e a sminuire il miracolo della genialità è così forte quanto lo sarà, nella sua ultima fase
intellettuale, quello di parlare in favore del genio - questa volta del vero genio - e di glorificarlo.
In questo momento ogni vera grandezza gli appare addirittura come un destino, poiché essa tenta di
« soffocare molte forze e germi più deboli », mentre sarebbe auspicabile e giusto che a vivere non
fossero soltanto i grandi uomini, ma che venisse insieme « concessa aria e luce anche alle nature più
deboli e delicate »( Umano, troppo umano, I, 158). «Il pregiudizio a favore della grandezza. Gli
uomini sopravvalutano manifestamente ogni cosa grande ed eminente. [...] Le nature
estreme attirano troppo l’attenzione degli altri; ma è altresi necessaria una cultura molto più
meschina per lasciarsi avvincere in questo caso» {Umano, troppo umano, 1, 260).
Nietzsche non trova mai sufficienti parole per fustigare l’orgoglio di chi si ritiene un’eccezione
rispetto alla generalità: «E' fantasticheria credere di essere un miglio di strada avanti e che l’intera
umanità segua la nostra via. [...] Non bisogna pronunciare così facilmente la parola
dell’orgoglioso isolamento» {Umano, troppo umano, 1, 375). Il più delle volte, infatti, questa
fantasticheria si basa su di una fatua illusione riguardo ai motivi di quel che facciamo e non
facciamo; il vero pensatore sa che un’accentuazione tanto marcata [110] delle differenze di rango
tra gli uomini non è giustificata e che l’« umano », anche nei suoi sentimenti più nobili e alti,
resta pur sempre qualcosa di «troppo umano». Forte di questa idea egli è in grado di porsi allo
stesso livello di tutti gli altri e, proprio perciò, di sollevarsi con il pensiero al di sopra della sua
natura inadeguata. « Verrà forse un tempo in cui questo coraggio del pensiero sarà così radicato, che
come l’estrema superbia esso si sentirà al di sopra degli uomini e delle cose, - un tempo in cui il
saggio, essendo l’uomo più di chiunque altro coraggioso, vedrà, più di chiunque altro, se stesso
e l’esistenza sotto di sé?» {Aurora, 551). Il saggio tende perciò a valutare le azioni degli uomini in
base al loro carattere « troppo umano »: « Si sbaglierà di rado se si ricondurranno le azioni estreme
alla vanità, quelle mediocri all’abitudine e quelle meschine alla paura» (Umano, troppo umano, 1,
74).
L’importanza della vanità quale motivo principale delle azioni umane viene costantemente
sottolineata e valorizzata da Nietzsche, e nel libro di Rèe le era dedicato tutto un capitolo. « Chi
nega la vanità in sé la possiede di solito in forma così brutale, da chiudere istintivamente gli occhi
di fronte ad essa, per non doversi disprezzare» (Umano, troppo umano,  11, 38). «Come sarebbe
povero lo spirito umano senza la vanità! » (Umano, troppo umano, 1, 79). La vanità, la «cosa in sé
umana» (Umano, troppo umano, II, 46). «La peste peggiore non potrebbe nuocere tanto all’umanità
quanto se un giorno si dileguasse in quest’ultima la vanità » (Il viandante e la sua ombra, 285).
Infatti, anche ciò che siamo soliti considerare come forza o come il potere consapevole di chi
vale più di ogni altro è per lo più soltanto una manifestazione del-
la vanità di mettersi in mostra. [111] L’uomo vuole valere più di quanto la sua forza gli consenta
effettivamente di valere. « Egli nota per tempo che non ciò che è, ma ciò che viene considerato, lo
sorregge o lo perde: ecco l’origine della vanità» {Il viandante e la sua ombra, 181, «La vanità come
la grande utilità»). In quest’ultimo aforisma Nietzsche equipara l’individuo forte a quello vanitoso,
astuto, furbo, che nasconde la propria paura e la propria mancanza di difese accrescendo la
considerazione in cui viene tenuto dagli altri. Le affermazioni a tal riguardo si trovano in spiccato
contrasto con la sua più tarda teoria delle nature servili e di quelle signorili, così come con quella
dell’originaria natura sociale dell’individuo (cfr. al riguardo anche l’aforisma «Vanità come
sopravvivenza di uno stato non sociale », in II viandante e  la sua ombra, 31). La vanità si dilegua
nella misura in cui l’uomo superiore prende consapevolezza dell’uguaglianza o della somiglianza
delle motivazioni umane e si riconosce nel carattere « troppo umano » dei suoi impulsi che lo pone
sullo stesso piano di tutti gli altri uomini.
L’unica differenza che davvero conta tra gli uomini è quella relativa al tipo e al grado delle loro
facoltà intellettuali; nobilitare gli uomini non significa altro che portare l’intelligenza tra loro.
Anche ciò che da un punto di vista morale può essere definito cattivo, nella maggior parte dei casi si
dimostra condizionato da abiezione e abbrutimento spirituale. « Molte azioni vengono dette cattive,
mentre sono soltanto stupide, perché il grado di intelligenza che si decise per esse era molto basso»
{Umano, troppo umano, 1, 107). L’incapacità di valutare correttamente il danno o la sofferenza che
si arreca ad altri fa sì che il cosiddetto delinquente, colui che è rimasto arretrato nel proprio sviluppo
intellettuale, possa sembrare particolarmente [112] crudele e spietato. «Se l’individuo combatte
questa lotta in modo che gli uomini lo dicano buono, o in modo che lo dicano cattivo, di ciò decide
la misura e la conformazione del suo intelletto» {Umano, troppo umano,  1, 104). «Gli uomini che
ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà precedenti [...]. Sono
uomini arretrati il cui cervello, per tutti i possibili casi nel decorso del processo ereditario, non ha
continuato a svilupparsi così delicatamente e molteplicemente» {Umano, troppo umano, 1,43).
Sono gli uomini del declino. Quanto più progredito è infatti un uomo, tanto più si raffina, si
mitiga, anzi in certa misura si assottiglia la grezza forza istintuale delle passioni primitive dalla
quale ancora sgorgano le azioni
dell’uomo arretrato. « Buone azioni sono cattive azioni sublimate; cattive azioni sono buone azioni
imbruttite e abbrutite. [...] I gradi della capacità di giudizio decidono da che parte uno si lasci trarre
[...]. Anzi, in un determinato senso, tutte le azioni sono ancor oggi stupide, perché il più alto grado
di intelligenza umana [...] sarà sicuramente ancora superato: e allora [...] si compie il primo
tentativo di vedere se l’umanità possa trasformarsi da un’umanità morale in un 'umanità saggia»
(Umano, troppo umano, I, 107). Suo tratto distintivo sarà che negli uomini «l’istinto di violenza» si
farà «più debole », « la giustizia in tutti più grande », mentre cesseranno «violenza e schiavitù»
(Umano, troppo umano, 1,452). Da invidiare sono gli uomini a cui le consuetudini di
generazioni hanno trasmesso in eredità un animo mite, compassionevole e amorevole: « L’origine
da antenati buoni costituisce la vera [113] nobiltà di nascita; un’unica interruzione di quella catena,
cioè un antenato cattivo, sopprime la nobiltà di nascita. Bisogna chiedere a chiunque parli della
propria nobiltà: non hai nessun uomo violento, avaro, dissoluto, malvagio o crudele fra i tuoi
antenati? Se egli in buona scienza e coscienza può rispondere di no, se ne ricerchi l’amicizia »
(Umano, troppo umano, 1, 456). «Il mezzo migliore per cominciare bene ogni giornata è,
svegliandosi, pensare se non si possa in questa giornata procurare una gioia almeno a una persona.
Se ciò potesse valere come un sostitutivo dell’abitudine religiosa della preghiera, il prossimo
trarrebbe vantaggio da questo cambiamento» [Umano, troppo umano, 1, 589]. E questa
magnificazione dei sentimenti delicati e compassionevoli a discapito non solo della brutale
rozzezza, ma anche della passione entusiastica dell’ebbrezza religiosa o artistica, risuona altresì in
questa bella giustificazione dell’irreligiosità: « Nel mondo non c’è abbastanza amore e bontà per
poterne far dono anche a esseri immaginari» (Umano, troppo umano, 1, 129).28
Avremo modo di vedere in seguito con quanta forza l’ultima filosofia nietzscheana si scagli contro
questo modo d’intendere la morale della compassione e questo indebolimento della vita degli istinti,
e di come Nietzsche riservi il nome di uomo superiore soltanto a chi conserva in sé tutta la pienez-
za delle passioni [114] e degli istinti — quindi all’uomo « cattivo». A questo punto della sua
evoluzione, invece, non riesce a concepire alcun valore umano al di fuori della bontà e del
disinteresse, poiché essi soltanto rappresentano il superamento del nostro passato di animali.
E' soltanto l’uomo saggio, dunque, che si dovrebbe chiamare «buono», non perché sia di natura
diversa dall’uomo che saggio non è, ma perché la condizione umana originaria si è in lui
spiritualizzata e, in virtù di ciò, si è « addolcita ogni intemperanza nella sua costituzione» (Umano,
troppo umano, 1, 56). «La piena risolutezza del pensare e del ricercare, ossia il libero pensiero
divenuto proprietà del carattere, rende moderati nell’agire giacché indebolisce la cupidigia»
(1, 464). «In tal modo [...] si dilegua sempre più [...] l’eccessiva eccitabilità dell’animo. Egli [il
saggio] si aggira alla fine tra gli uomini come un naturalista fra le piante e percepisce se stesso
come un fenomeno che eccita fortemente solo il suo istinto conoscitivo» (1, 254). Ogni grandezza
umana si basa su di un affinamento di quel che è legato all’istinto; l’uomo superiore nasce soltanto
dalla cancellazione dell’elemento animale, come un «non-più-animale», pensato in modo
meramente negativo; in quanto «essere dialettico e razionale», egli è il « superanimale » (1,40), in
cui può a poco a poco mettere radici « una nuova abitudine, quella di comprendere, di non amare, di
non odiare, di guardare dall’alto» (1, 107).
Un « superuomo », al contrario, un essere dalle qualità positive, nuove e superiori, era in
quell’epoca per Nietzsche una fantasticheria totale, e l’escogitarla, la dimostrazione più forte della
vanità umana. « Ci dovrebbero essere creature dotate di spirito più di quanto non siano gli uomini,
anche solo per gustare a fondo l’umorismo insito nel fatto [iij] che l’uomo si considera lo scopo
dell’intera esistenza del mondo, e l’umanità è veramente soddisfatta solo se può assegnarsi una
missione mondiale» (Il viandante e la sua ombra, 14). « Una volta si cercava di pervenire al
sentimento della sovranità dell’uomo, indicando la sua origine divina: questa è ora divenuta una via
proibita, poiché alla sua porta c’è la scimmia accanto ad altri orribili animali, e digrigna
intelligentissima i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione
opposta: la strada verso cui va l’umanità deve servire a dimostrare la sua sovranità [...]. Ahimè,
anche così non si arriva a niente! [...] Per quanto alto possa risultare lo sviluppo dell’umanità - che
forse finirà per essere assai più in basso di quanto non fosse al principio -non c’è per essa alcun
trapasso in un ordine più elevato, come non potrebbero la formica e il verme auricolare innalzarsi,
al termine della loro “carriera terrestre”, all’affinità con Dio e all’eternità. Il divenire si strascica
dietro l’essere stato: perché mai in questa eterna commedia ci dovrebbe essere un’eccezione [...]?
Basta con questi sentimentalismi!» (Aurora, 49). Se un uomo riuscisse a penetrare a fondo nella
vita, allora dovrebbe « disperare del valore della vita; se riuscisse ad abbracciare e sentire in sé
l’intera coscienza dell’umanità, egli proromperebbe in una maledizione contro l’esistenza; giacché
in complesso l’umanità non ha mete, e per conseguenza l’uomo [...] può trovare in essa non la sua
consolazione e il suo sostegno, ma la sua disperazione» (Umano,  troppo umano, 1, 33). Quindi «il
primo principio della nuova vita » recita: « Bisogna organizzare la vita su ciò che è più sicuro e
dimostrabile: [116] non, come finora si è fatto, su ciò che è più lontano, più indeterminato e che ha
l’orizzonte più nuvoloso» (Il viandante e la sua ombra, 310). Si deve diventare di nuovo «buoni
vicini delle cose prossime» (Il viandante e la sua ombra, 16) e, invece di bearsi nell’« inattualità »
del passato e del futuro più remoti, incarnare i pensieri più alti della conoscenza del proprio tempo.
L’umanità, infatti, può ora avere di mira, in luogo di tutti quegli obiettivi fantastici, «la conoscenza
della verità quale unica immensa meta» (Aurora, 45). «Verso la luce - l’ultimo tuo movimento; un
giubilo di conoscenza - l’ultimo tuo accento» (Umano, troppo umano, 1, 292).
È possibile che un intellettualismo così eccessivamente sviluppato risulti di danno alla felicità e alla
capacità di vivere dell’umanità, che sia in un certo senso un « sintomo di decadenza», - ma in
questo periodo il concetto di decadenza coincide per Nietzsche con quello della più nobile
grandezza: «Forse potrà anche darsi che l’umanità perisca per questa passione della conoscenza
[...]. Non sono amore e morte fratello e sorella? [...] Piuttosto che retroceda la conoscenza noi tutti
preferiamo che l’umanità perisca! » (Aurora, 429). Un tale «epilogo tragico della conoscenza»
(Aurora, 45) sarebbe giustificato, poiché nessun sacrificio è troppo grande per essa: « Fiat veritas,
pereat vita! ». Questo motto riassumeva allora l’ideale conoscitivo nietzscheano - lo stesso motto
contro cui, ancora poco tempo prima, egli si era scagliato con il più grande accanimento e che,
soltanto pochi anni dopo, avrebbe combattuto con pari violenza: il rovesciamento di questo motto
può dunque essere considerato la quintessenza della sua prima, così come della sua tarda dottrina.
La volontà di vita a ogni costo, anche a quello della conoscenza della vita: [117] è questa la «nuova
dottrina» che Nietzsche avrebbe successivamente contrapposto a quell’infiacchimento della vita la
cui comprensione culmina nel riconoscimento della mancanza di valore di ogni cosa creata; «Nella
maturità della vita e dell’intelligenza l’uomo è colto dal sentimento che suo padre ebbe torto a
generarlo» (Umano, troppo umano, 1, 386); infatti « ogni fede nel valore e nella dignità della vita è
basata su un pensiero non puro» (Umano, troppo umano, 1, 33).
Seguendo i pensieri di Nietzsche in questo gruppo di opere, si può distintamente avvertire la
costrizione interna che lo portò ad accentuarli fino a conseguenze sempre più aspre e il grado di
autocontrollo con cui ciò avvenne. Ma proprio in virtù del contrasto tra questa idea di conoscenza e
i suoi desideri e bisogni più intimi, la conoscenza della verità divenne per lui un ideale - assunse ai
suoi occhi il valore di una forza più alta, distinta, superiore. La costrizione, a cui in tal modo si
sottomise, gli fece assumere nei confronti di questo ideale un atteggiamento entusiastico, quasi
religioso, e gli rese possibile quella scissione di se stesso, motivata religiosamente, di cui Nietzsche
aveva bisogno; quella scissione grazie alla quale l’uomo della conoscenza può osservare dall’alto i
propri sentimenti e i propri impulsi come se fossero una seconda natura. Sacrificandosi, per così
dire, per la verità come per una potenza ideale, egli pervenne a una liberazione dagli affetti di tipo
religioso che accese in lui un fuoco, quale nessuna liberazione calda e pacifica dai suoi intimi
desideri e inclinazioni avrebbe potuto far divampare. In modo alquanto paradossale, tutta la sua
lotta contro l’ebbrezza, tutta la sua magnificazione [118] della mancanza di passioni, sembrano così,
in questo periodo, soltanto un tentativo di giungere all’ebbrezza attraverso una violenza su se stesso.
La sua metamorfosi si compie perciò in modo estremo; si potrebbe addirittura affermare che
l’energia impiegata per pronunciare un sonoro e spregiudicato «Sì!» all’indirizzo del nuovo modo
di pensare, rappresenti solamente l’atto di violenza di un «No! » con cui egli cerca di soggiogare la
sua natura e i suoi bisogni più profondi. La « spregiudicata freddezza e la tranquillità dell’uomo
della conoscenza » - il suo ideale in questa fase della sua evoluzione - rappresentavano una specie
di supplizio sublime che egli riuscì a sopportare grazie alla risolutezza con cui concepiva le
sofferenze della vita dell’anima come una delle « malattie per le quali occor-
rono cataplasmi ghiacci» (Umano, troppo umano, I, 38) - e che fanno anche bene, poiché «il freddo
pungente è uno stimolante altrettanto efficace di un grado di calore più elevato ».
Il suo accordo con l’indirizzo speculativo di Rèe non si palesa perciò mai con tanta evidenza come
nella prima opera, Umano, troppo umano, all’epoca in cui, dunque, egli soffriva nel modo più
intenso per la separazione da Wagner e dalla sua metafisica. E fu il carattere di Rèe a fargli spesso
da guida nel suo eccessivo intellettualismo; sulla sua base modellò un’immagine ideale che gli servì
da regola: la superiorità del pensatore sull’uomo, l’indifferenza per ogni valutazione proveniente
dalla vita affettiva, la dedizione incondizionata e senza riguardi alla ricerca scientifica si profilarono
innanzi a lui come un nuovo e superiore tipo di uomo della conoscenza e conferirono alla sua
filosofia la sua impronta peculiare.
[119] Mosso dal bisogno di vedere incarnati in una forma umana i pensieri puramente scientifici che
desumeva dal positivismo, Nietzsche restò tuttavia preso al laccio dall’immagine di una personalità
specifica e determinata, che gli riusciva del tutto contraria, tormentandosi per poterne
accentuare ancor di più i tratti. Il fatto che, per evolversi, avesse sempre bisogno di negare se stesso,
e che per crescere intellettualmente avesse bisogno di sofferenza volontaria, chiarisce anche in
questo caso l’apparente contraddizione per cui, per salvare la propria autonomia dall’influsso di
Wagner e della metafisica, cadde ancora una volta in balia di un potere estraneo, cercò di rinunciare
al suo io. Né nella natura dell’indirizzo filosofico seguito, né nel suo rapporto con Rèe vi erano
motivi perché ciò avvenisse: le ragioni erano legate esclusivamente alla sua natura. Fu questa
soltanto a spingerlo in direzione di un rapporto stretto con un’altra persona e i suoi pensieri; lo
spinse, per così dire, a pensare e creare uno «spirito collettivo» (Umano, troppo umano, 1,180). È in
questo senso che, inviandogli il suo Umano, troppo umano, Nietzsche potè scrivere all’amico: « A
Lei appartiene, agli altri viene regalato! » 29 - per poi aggiungere: «Tutti i miei amici ritengono
concordemente che il mio libro sia stato scritto e provenga da Lei: mi congratulo perciò per questo
nuovo lavoro [...]. Evviva il Réealismo [...]! ».30
In questo modo, tra i due amici nasce una peculiare forma di complementarietà del tutto opposta a
quella che si era avuta un tempo tra Nietzsche e Wagner. Per Wagner - il genio dell’arte - Nietzsche
avrebbe dovuto essere il pensatore e l'uomo della conoscenza, l’intermediario scientifico
della nuova cultura artistica. Ora, al contrario, era Rèe il teoreta 1120] e Nietzsche lo completava
ricavando le conseguenze pratiche dalle sue teorie e cercando di stabilirne il significato per la
cultura e per la vita. Su questo punto, intorno al problema del valore, le personalità intellettuali dei
due amici prendevano strade diverse. Là dove l’uno smetteva, l’altro cominciava. Come pensatore
dall’approccio rigidamente unilaterale, Rèe non si fece mai influenzare da simili questioni; era
lontano dalla ricchezza spirituale, artistica, filosofica e religiosa di Nietzsche, ma, dei due, era la
mente più acuta. Guardava con stupore e interesse il modo in cui i fili dei suoi pensieri, orditi con
rigore e precisione, si mutavano, tra le mani incantate di Nietzsche, in tralci vivi e fiorenti.
Tipico delle opere di Nietzsche è il fatto che anche gli errori e le inesattezze che esse contengono
schiudano una pienezza di stimoli tale da accrescerne il significato complessivo, anche là dove ne
diminuisce il valore scientifico. Caratteristico delle opere di Rèe è invece il fatto che esse
contengano più carenze che errori; ciò viene espresso con la massima chiarezza dalla frase
conclusiva della breve prefazione a L'origine dei sentimenti morali; « In questo scritto vi sono delle
lacune, ma le lacune sono meglio dei riempitivi! ». La geniale poliedricità di Nietzsche apre invece
nuovi scorci proprio su regioni di cui la logica non possiede la chiave d’accesso, in cui si vede cioè
costretta a lasciare alla conoscenza le sue lacune.
Se il fondersi appassionato della vita speculativa con la vita interiore nel suo complesso era un tratto
peculiare di Nietzsche, un tratto di fondo dell’indole spirituale di Rèe era invece la scissione netta e
portata all’estremo di pensiero e sentimento. Alla genialità di Nietzsche corrispondeva il fuoco
[ 121] che ardeva vivace dietro i suoi pensieri e che li faceva brillare di una luce la cui potenza essi
non avrebbero mai potuto acquisire grazie soltanto alla comprensione logica; la forza intellettuale di
Rèe si basava invece sulla fredda imperturbabilità della dimensione logica di fronte a quella
psichica, sull’acutezza e il limpido rigore del suo pensiero scientifico. Il pericolo per Rèe era
rappresentato dall’unilateralità e dalla chiusura di questo pensiero, dalla mancanza di quel fiuto
raffinato e lungimirante che richiede più comprensione
che comprendonio; per Nietzsche, diversamente, il pericolo stava in quella sconfinata capacità di
sentire e nella dipendenza dei prodotti del suo intelletto dai sentimenti e dai moti dell’animo. Anche
quando il suo modo di pensare pareva trovarsi in momentanea contraddizione con i desideri e
gli impulsi segreti del suo cuore, era proprio da questa lotta e da questo scontro brutale con quei
desideri e quegli istinti che egli traeva la sua più elevata capacità conoscitiva. L’indole spirituale di
Rèe, per contro, pareva escludere ogni contributo della vita affettiva a questioni attinenti la sfera
della conoscenza, una volta che l’esito del processo gnoseologico corrispondeva al suo sentimento
personale. Il pensatore che era in lui guardava infatti dall’alto, con senso di superiorità e
di estraneità, l’uomo che era in lui, suggendogli così, in un certo senso, parte della sua energia e,
insieme a essa, del suo egoismo. In luogo di questo, nel carattere di Rèe, non vi era null’altro se non
una profonda, notevole e illimitata bontà d’animo, le cui manifestazioni rappresentavano
un’interessante e toccante antitesi alla fredda sobrietà e al rigore del suo pensiero. Nietzsche, al
contrario, possedeva quell’alato amor proprio che si riversava nei suoi ideali gnoseologici fino al
punto da confondersi quasi con essi e porsi di fronte al mondo [122] con l’entusiasmo dell’apostolo
e di colui che converte.
Dietro all’intesa teoretica, nascosta sotto il velo dei pensieri, vi è dunque una profondissima
diversità di sentire dei due amici. Quel che per l’uno costituiva l’espressione naturale della propria
indole, era tutto il contrario dell’indole dell’altro; ma proprio per questo i due avevano lo stesso
ideale. Nietzsche stimava e sopravvalutava in Rèe ciò che gli riusciva più difficile, giacché l’intimo
significato della sua trasformazione consisteva ancora una volta per lui in una costrizione di se
stesso: «Mio caro amico e perfezionatore! » lo chiama infatti in una lettera « come potrei tener duro
senza osservare di tanto in tanto la mia natura, per così dire, in un metallo puro o in una forma più
elevata, io, che sono a mia volta un frammento, [...] se, in quei rari, rari e buoni momenti, non
scrutassi di fuori la terra migliore dove si aggirano le nature complete e perfette! ». 31
Ma questa abnegazione incurante di sé non è che la via
lungo cui egli, nel quadro di una nuova visione del mondo, si in largo verso un nuovo sé; non è che
la dolorosa condizione in cui egli crea e modella ancora una volta i frutti dello spirilo altrui che ha
preso su di sé, per trarne uno spirito suo, originale e colmo di vita. Sono, come sempre, le doglie
che accompagnano la nuova creazione, garantendogli di vivere appieno e di rinnovarsi in essa con
tutto il suo essere e le sue energie.
La storia dell’evoluzione di Nietzsche in questa metamorfosi e del suo liberarsi di essa, è in fondo la
storia della sua esperienza interiore, la storia delle lotte della sua anima. Nei lavori che
appartengono a questo periodo - dal suo [123] primogenito, che gli diede molte preoccupazioni,
Umano, troppo umano, fino all’atmosfera profondamente commossa e gioiosa di ha gaia scienza,
che in certa misura appartiene già al periodo successivo - questa evoluzione si dispiega di fronte a
noi. In tutte queste opere, in una serie di raccolte di aforismi, egli ha voluto innalzare «l’immagine e
l’ideale dello spirito libero », 32 dello spirito libero nei suoi pensieri riguardo ogni ambito del sapere
e della vita, e ancor più nella pienezza stessa delle sue esperienze speculative. La tonalità emotiva in
cui ciascuno di questi libri è venuto alla luce s’imprime ogni volta in essi come ciò che hanno
davvero di caratteristico già a partire dal titolo. I titoli di Nietzsche non sono mai ricavati in modo
casuale da una materia astratta o indifferente; sono in tutto e per tutto immagini di processi interiori,
ma sono in tutto e per tutto dei simboli. Così, sul finire degli anni settanta, riassunse in poche parole
il contenuto fondamentale della sua solitaria esistenza di pensatore, allorché sul frontespizio del suo
secondo lavoro scrisse: Il viandante e la sua ombra (Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1880).
Con quest’opera egli ha fatto ritorno nella solitudine di se stesso dall’ardore delle sue prime,
appassionate lotte: il guerriero si è fatto viandante il quale, invece di portare attacchi astiosi alle
abbandonate contrade del suo spirito, esamina la terra del suo esilio volontario per vedere se il
terreno pietroso non si lasci coltivare e se non possegga anch’esso, in qualche luogo, uno strato di
terra fertile. Lo scontro roboante con l’avversario si è dissolto nel tranquillo dialogo con se stesso: il
solitario presta ascolto ai propri pensieri come in una conversazione a più voci, vive in loro
compagnia come fossero
un’ombra che lo accompagna ovunque. Ma gli appaiono foschi, monotoni e spettrali, [124] anzi
tanto grandi e minacciosi come lo sono soltanto le ombre, quando il sole è al tramonto. Non a
lungo, però, poiché la sua vicinanza li priva progressivamente di ciò che hanno di umbratile: quel
che era pensiero e pallida teoria acquista sonorità e sguardo, forma e vita. Ma questo è il processo
interiore attraverso cui Nietzsche si appropria e dà nuova forma a quel che è nuovo e inconsueto:
infondendogli vita, aiutandolo a raggiungere una pienezza vitale. Si potrebbe affermare che
Nietzsche si sceglie le più malinconiche ombre del pensiero per nutrirle con il proprio sangue, per
vederle infine mutarsi - sia pure tra perdite e ferite - nella propria persona, nel proprio doppio.
Nella misura in cui i pensieri di cui si attornia accolgono in loro tutta la ricchezza del suo essere,
nella misura in cui si saziano lentamente di tutta la sua magnifica forza e del suo ardore, la tonalità
d’animo di Nietzsche si fa più alta e fiduciosa. Si avverte come egli percorra passo a passo la strada
verso se stesso, cominci a sentirsi a suo agio nella sua nuova «pelle», cominci a vivere appieno la
sua singolarità, come un viandante che dopo dure fatiche torni finalmente a casa. Non vuole più
raggiungere la meta speculativa del suo compagno Paul Rèe, vuole la sua meta. Questo lo si capisce
perfino dalle lettere in cui egli ammira pur sempre il teoreta: « Fra l’altro sono sempre più ammirato
di come si dimostra agguerrita la Sua esposizione sotto l’aspetto logico. Ecco, di una cosa del
genere io non sono capace, tutt’al più sospirare un poco o cantare - ma dimostrare in modo da dare
al cervello un senso di piacere, questo sa farlo Lei, ed è cento volte più importante».33
[125] In questo «cantare e sospirare» è proprio la sua genialità a imporsi sulla sua coscienza come il
talento per i più bei lamenti e i più begl’inni di vittoria che abbiano mai accompagnato una battaglia
del pensiero, come il talento creativo di volgere in musica interiore anche il pensiero più freddo e
ripugnante. Se il musicista che era in lui avesse cessato di sfogarsi a sue spese, allora egli sarebbe
svanito, una singola nota nella nuova grande melodia della totalità.
E, in effetti, quel che conferisce alle opere e ai pensieri di questo periodo un significato del tutto
particolare è la nuova unità che il suo carattere ha acquistato grazie al fatto che tutti i suoi istinti e i
suoi talenti si sono progressivamente posti
al servizio dell’unica grande meta della conoscenza. Il Nietzsche artista, poeta, musicista,
inizialmente represso e sottomesso con violenza, prende a farsi sentire, subordinato tuttavia al
pensatore e ai suoi scopi; ciò gli ha consentito di « candire e sospirare» le sue nuove verità in modo
tale da elevarlo al rango di primo stilista del tempo presente.34
[126] Prendere in esame il suo stile per quanto concerne le sue cause e i suoi presupposti è dunque
qualcosa di più di un’indagine sulla semplice forma in cui vengono espressi i suoi pensieri: significa
ascoltare in segreto la più intima natura di Nietzsche. Lo stile di queste opere trae infatti
origine dalla dissipazione, fatta di sacrificio ed entusiasmo, di grandi doti artistiche a vantaggio di
una conoscenza rigorosa, dall’aspirazione ad esprimere questa conoscenza rigorosa, e null’altro che
essa, ma non in un’universalità astratta, [127] ma nella sfumatura più individuale, così come essa si
riflette in ogni sentimento di un’anima commossa e inquieta. Già nelle opere del suo primo periodo
Nietzsche era riuscito a riversare in forma compiuta l’interiorità e la pienezza più vive; solo
ora, però, egli apprese a congiungerle all’acutezza e al rigore di un sapere spassionato: come un
anello d’oro esso cinge la pienezza della vita in ciascuno dei suoi aforismi, conferendo loro, proprio
grazie a ciò, un incanto particolare. Nietzsche creò così, in certa misura, un nuovo stile nella
filosofia che fino a quel momento aveva inteso soltanto il tono della trattazione scientifica o il
discorso poetante dell’entusiasta: egli creò lo stile del caratteristico, che esprime il pensiero non
soltanto in quanto tale, ma con tutta la ricchezza di tonalità emotive della risonanza della sua anima,
con tutti i nessi del sentimento, sottili e segreti, che una parola o un pensiero possono risvegliare.
Con questa sua particolarità Nietzsche non padroneggia soltanto il linguaggio, ma si innalza anche
al di sopra dei limiti di quel che non può essere espresso in maniera adeguata attraverso di esso,
facendo risuonare nella tonalità emotiva quel che altrimenti sarebbe rimasto muto nella parola.
In nessun altro spirito, come in quello di Nietzsche, il mero contenuto del pensiero riusciva a
mutarsi in modo così completo in qualcosa di veramente vissuto, giacché la vita di nessun altro
individuo si risolse così integralmente nell’idea di diventare creativo nell’ambito del pensiero, ma
con tutta la propria interiorità di uomo. I suoi pensieri non si distinguevano, come accade di solito,
dalla vita reale e dalle sue vicende: costituivano piuttosto l’autentico e il solo evento della vita di
questo solitario. E, di fronte a questo fatto, anche l’espressione più viva che egli riusciva a trovare
per descriverlo, gli sembrava pallida e fiacca: «Ahimè, che cosa siete [128] mai voi, miei pensieri
scritti e dipinti! » si lamenta nel bell’aforisma finale di Al di là del bene e del male (296). « Or non
è molto eravate ancora così versicolori, giovani e maliziosi, così colmi di spine e di droghe segrete,
che mi facevate starnutire e ridere - e ora? [...] Che cosa, infatti, scriviamo e dipingiamo noi,
mandarini del pennello cinese, eternizzatori delle cose che si lasciano scrivere, che cosa soltanto
siamo capaci di dipingere? Ahimè, sempre unicamente quel che appunto è destinato ad appassire e
comincia a perdere il suo profumo! Ahimè, sempre tempeste dileguanti e affievolite e tardi
sentimenti ingialliti! Ahimè, sempre soltanto uccelli che presero stanchi il volo e fuggirono via, e
che ora si lasciano acchiappare dalla mano - dalla nostra mano! [...] Ed è soltanto per il vostro
meriggio, o miei pensieri scritti e dipinti, che io possiedo colori, molte variopinte dolcezze e
cinquanta gialli e marroni e verdi e rossi: - ma questo non basta a far indovinare quale aspetto
avevate nel vostro mattino, voi

improvvise faville e prodigi della mia solitudine, voi, miei vecchi, amati — malvagi pensieri! ».
E' dunque essenziale immaginarsi Nietzsche, nelle sue passeggiate calme e solitarie, portarsi a
spasso un paio di aforismi, il risultato di una lunga conversazione muta con se stesso, - non ricurvo
sullo scrittoio, non con la penna in mano: «lo non scrivo soltanto con la mano: / Anche il piede
vuol scrivere sempre» canta in La gaia scienza («Scherzo, malizia e vendetta», 52). Mare e monti
gli stanno attorno durante le sue passeggiate tra i pensieri, come lo sfondo più produttivo 1129] per
questa figura di solitario. Al porto di Genova fece un sogno, vide un mondo nuovo spuntare su di un
orizzonte velato, nell’aurora, e trovò la frase del suo Zarathustra-. « Bello è guardare verso mari
lontani, dalla sovrabbondanza» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»). Tra i monti
dell’Engadina riconobbe se stesso, come in un riflesso di gelo e di ardore, dal cui connubio erano
originate tutte le sue lotte e le sue trasformazioni: «In molti paesaggi di natura scopriamo di nuovo
noi stessi, con piacevole brivido; è la più bella rassomiglianza», afferma egli a tal proposito, «[...] in
tutto il [...] carattere [...] di quest’altopiano, che si è accampato senza paura accanto agli orrori delle
nevi eterne, qui dove Italia e Finlandia si sono strette in alleanza e dove sembra esserci la dimora di
tutti i toni argentei della natura » {Il viandante e la sua ombra, 338). Di questo luogo, con i suoi
«piccoli laghi appartati» da cui «la solitudine in persona pareva guardarlo con i suoi occhi», egli
parla anche in una lettera: « La sua natura è affine alla mia, non ci stupiamo l’uno dell’altro, e anzi
ci sentiamo familiari».35
L’emicrania e il dolore agli occhi costringevano Nietzsche a lavorare per aforismi; ciò
corrispondeva però in misura sempre maggiore anche alla sua indole spirituale, che non vedeva i
propri pensieri di fronte a sé in una concatenazione continua, così come li si fissa su carta quando si
lavora in modo sistematico, ma prestava invece loro ascolto come in un dialogo a due, un dialogo
sempre interrotto e ripreso che prendeva spunto da singoli dati di fatto e che il suo [130] «orecchio
per le cose inaudite» (Così parlò Zarathustra, « Prologo di Zarathustra ») riusciva a percepire come
una parola effettivamente pronunciata.
« Non riesco a scrivere, anche se lo farei davvero volentieri » appunta in una cartolina (gennaio
1881, dall’Italia). «Ahimè, gli occhi! Non so più cosa fare, mi tengono letteralmente lontano, a
forza, dalla scienza - e cosa posseggo oltre a essi? Già, le orecchie! si potrebbe dire». Egli prese
tuttavia con grande serietà questo tendere l’orecchio e questo prestare ascolto, e non vi è nessuna
frase dei suoi libri a cui non possa venire applicato quel che egli scrisse una volta, in una delle sue
lettere: « Sono sempre occupato in questioni linguistiche molto sottili; l’ultima decisione riguardo a
un testo obbliga all’“ascolto” più scrupoloso della parola e della frase. Gli scultori chiamano
quest’ultimo lavoro ad unguem ». 36
Quando Nietzsche, nel 1881, portò a termine la sua terza opera su basi positivistiche, Aurora (Ernst
Schmeitzner, Chemnitz 1881), il processo di vitalizzazione e di individualizzazione delle teorie che
aveva fatto proprie era giunto a piena conclusione. Quest’opera e, in pari misura, quella successiva,
mi paiono quindi le più importanti e ricche di contenuto di questo periodo intermedio. Nelle loro
pagine, infatti, a Nietzsche è riuscito il superamento pratico di quell’eccesso di intellettualismo a
cui, senza dubbio, ancora sottostava, in una sorta di martirio volontario, in Umano, troppo umano; è
riuscito cioè a integrare questo intellettualismo con la sua interiorità e la sua individualità e ad
approfondirlo in modo umano, senza che il terreno scientifico su cui esso poggiava gli crollasse
sotto i piedi - senza che il rigore con cui indagava i suoi problemi venisse meno. [131] La sua natura
gli era stata d’aiuto nel confutare le unilateralità e le asprezze della sua filosofia pratica e a
plasmare, dalle battaglie intellettuali degli ultimi anni, un tipo più vitale di uomo della conoscenza.
La subordinazione della vita degli affetti al pensiero si era compiuta in Nietzsche - come abbiamo
avuto modo di vedere - attraverso una dedizione all’ideale di verità di una potenza interiore tale da
far sì che, proprio per suo tramite, l’importanza della vita affettiva per il pensiero gli si dovesse
rivelare. In modo impercettibile, l’accento fondamentale si spostò dunque per lui dal procedimento
puramente intellettuale alla potenza del sentimento che è in grado di porsi al servizio anche delle
verità più fredde e sgradevoli, semplicemente perché sono delle verità. Al posto della forza dell’in-

telletto, è la forza dell’anima che comincia a diventare ciò che determina il valore di un pensatore
come uomo. Ed è facile vedere come, lungo questa via, il valore di un nuovo mollo di pensare
dovesse progressivamente aumentare agli occhi di Nietzsche, quello di una filosofia maldisposta
verso tutto ciò che attiene alla sfera dell’intelletto.
In nessuno dei suoi libri, come in Aurora, si possono intravedere i passaggi sottili e i nessi
concettuali che conducono dal suo periodo positivistico a quello successivo, a una filosofia mistica
della volontà. Il passaggio dall’antico al nuovo costituisce l’elemento di grande attrattiva e il valore
del libro, così come era il caso di Umano, troppo umano. In modo del tutto contrario da quelle
pagine, però, dove, dal punto di vista teoretico, venivamo posti di fronte al fatto compiuto di un
mutamento di opinione, in cui il sentimento dolente cerca lentamente di ritrovarsi. Qui, invece,
[132] ogni possibilità di un mutamento di prospettiva teorica viene ancora respinta con forza come
la « tentazione dell’uomo scientifico », mentre l’anima, ancora bramosa e procedendo a tastoni,
allunga i suoi tentacoli verso ciò che è proibito, sebbene l’intelletto ancora glielo vieti. Sono dunque
espressioni di un lieve oscillare, singole esplosioni di una vita psichica profondamente agitata,
quelle da cui noi, colmi di presagi, deduciamo quel che accadrà dal momento che esse, in uno stato
d’animo del genere, posseggono un’ingenuità involontaria e un’immediatezza che Nietzsche
altrimenti disdegna. In queste pagine egli si tradisce di continuo, senza supporre di mettere a nudo,
vagliando e censurando ogni possibilità di «tentazione », quel che di segreto e nascosto vi è nella
sua vita interiore, sicché noi crediamo di vedere come il suo io passato e quello futuro si confessino
l’un l’altro desideri e speranze recondite all’insaputa di una filosofia dell’intelletto all’apparenza
ancora integra. Ribellandosi contro questi desideri e queste speranze, egli grida a se stesso
nell’aforisma «Non fare della passione l’argomento della verità»; «O voi [...] nobilmente entusiasti,
io vi conosco! [...] Vi accanite [...] fino ad odiare la critica, la scienza, la ragione. [...] Immagini
colorate in cui occorrerebbero fondamenta razionali! Fuoco e potenza di espressioni! [...] Voi sapete
creare luci ed ombre ed oscurare con la luce! [...] Quanto siete assetati di trovare uomini [...] in
questa condizione - che è quella del pervertimento intellettuale - e di accendere le vostre fiamme al
loro tizzone! » (Aurora, 543). È soltanto con l’ultima filosofia nietzscheana che si comprende del
tutto come sia proprio lui
stesso, [133] quello a cui rivolge questo monito: «Niente sarebbe più assurdo del voler aspettare ciò
che la scienza stabilirà un giorno definitivamente sulle prime e ultime cose [...]. L’impulso a voler
assolutamente avere in questo campo solo  sicurezze, è un rigurgito religioso, niente di meglio» (Il
viandante e la sua ombra, 16).
In mezzo alle tante ribellioni contro se stesso, fa tuttavia anche capolino, isolato, il tedio per la
severa moderazione che la conoscenza intellettuale impone a se stessa e per la « tirannide del vero»:
«Non saprei per quale ragione l’egemonia e l’onnipotenza della verità dovrebbero essere
desiderabili; [...] ci si deve poter riposare di essa nella non verità: altrimenti ci diventerà noiosa
[...]» (Aurora, 507). E agli artisti contro cui rivolge le proprie ingiurie, egli grida addirittura con
nostalgia: «Oh, se i poeti volessero ridiventare quel che devono essere stati una volta: - veggenti,
che ci raccontano qualcosa del possibile! [...] Se volessero farci sentire anzitempo qualcosa delle
virtù future ! O di virtù che non esisteranno mai sulla terra, benché potrebbero esistere in
qualche luogo del mondo - di astri dalla purpurea fiamma e di intere vie lattee della bellezza! Dove
siete voi, astronomi dell’ideale?» (Aurora, 551).
Nelle pagine di Aurora noi vediamo così non solo come Nietzsche lotti contro le brame segrete che
stanno crescendo in lui, ma come anche vi ceda, abbandonandosi all’anelito di qualcosa di nuovo,
nel presentimento di uno scopo della conoscenza che va profilandosi innanzi ai suoi occhi. I due
momenti si confondono in modo significativo, in quanto proprio il più grande ardore dell’anima che
[134] Nietzsche impiega in vista dell’ideale della conoscenza, indica sempre che in lui ha già avuto
inizio il tramonto di quell’ideale a cui si era arreso solo con riluttanza al tempo in cui era
fermamente convinto della sua verità e della sua necessità. E' questa l’« orbita solare dell’idea»,
così come lui stesso l’ha descritta sulla base della propria esperienza: « Quando un’idea sta
appena salendo all’orizzonte, la temperatura dell’anima è di solito molto fredda. Solo a poco a poco
l’idea sviluppa il suo calore, e questo diventa massimo [...], quando la fede nell’idea si sta già di
nuovo abbassando» (Il viandante e la sua ombra,  207). Nello stesso scritto, tuttavia, egli
caratterizza se stesso con queste parole: «Quelle persone che cominciano lentamente e solo con
difficoltà si familiarizzano con una cosa, hanno talvolta successivamente la qualità
dell’accelerazione costante, - sicché da ultimo nessuno sa dove la corrente possa portarli» (ivi, 331).
La forza di un’interiorità che s’infiamma lentamente e a fatica, ma in modo tanto più ineluttabile e
irresistibile, - questa traboccante pienezza doveva infine allontanarlo dal positivismo e condurlo
verso nuovi orizzonti concettuali. In aperto contrasto con quella «mancanza di affetti» che
aveva magnificato in precedenza, egli intravede ora il suo ideale nel fatto che l’uomo della
conoscenza sia l’uomo di « un unico, alto sentimento, che sia l’incarnazione di un unico,
grande stato d’animo»; il suo «stato d’animo abituale» deve essere « quello che fino a oggi è entrato
solo una volta ogni tanto nelle nostre anime, come un qualcosa d’eccezionale avvertito con un
brivido: un movimento continuo tra l’alto e il basso, e il sentimento dell’altezza e della profondità,
un costante salire come su delle scale e al tempo stesso un abbandonarsi come su nubi» {La gaia
scienza, 288). Un «uomo della conoscenza» di questo tipo ha ora davanti a sé, come una tentazione,
quel che una volta [135] rappresentava per lui un pericolo: «Librarsi! Vagabondare! Folleggiare! »
{La gaia scienza, 46). E in Aurora, con il titolo «La disposizione d’animo festiva», si afferma:
«Proprio per quegli uomini che bruciano del loro anelito di potenza, è indescrivibilmente
gradevole sentirsi soggiogati. Affondare, d’improvviso, giù negli abissi di un sentimento come in un
vortice! Lasciarsi strappare le briglie di mano e starsene a guardare un movimento per chissà dove!
» (271).
È con questo stato d’animo di festa, di sovrabbondanza e di dovizia, ricavata e acquisita dalle
conoscenze più sobrie, in quest’incanto di quiete e riposo dopo una lunga giornata di lavoro, che
Nietzsche scivola dentro al mondo della mistica. E' la « felicità del contrasto » ciò che egli cerca al
suo interno, del contrasto rispetto alla freddezza, al rigore e all'intellettualismo del modo di pensare
positivistico: fondare da capo la conoscenza sui moti entusiastici del sentimento, della vita affettiva,
e subordinarla agli slanci creativi della volontà.
Questa «aurora» non è più una luce pallida, fredda, che illumina soltanto dietro di sé; alle sue spalle
già si va levando un sole che riscalda e dà vita; e mentre Nietzsche si trova ancora nella grigia
penombra del crepuscolo, i suoi occhi guardano ormai all’orizzonte, a quell’apparizione chiara e
promettente. «Vi sono tante aurore che ancora devono risplendere»: egli scrisse queste parole del
Rgveda quale motto sul frontespizio del suo libro, senza ancora l’ardire di credere di
essere lui stesso chiamato ad accendere quella luce nel cielo della conoscenza. Il libro contiene
Pensieri sui pregiudizi morali - [136] un’aggiunta al titolo a mo’ d’integrazione - e pare volere
ancora partecipare di quello spirito dissolvente e negatore delle opere precedenti; sulle sue pagine
aleggia però ormai uno spirito sognante e speranzoso, che certo solo qua e là riesce a esprimersi
appieno, ma che in silenzio riflette su come sia possibile giungere, prescindendo da tutti i
pregiudizi, a nuovi giudizi di valore, su come sia possibile diventare il creatore di nuovi valori. «
Quando infine saranno annientate anche tutte le consuetudini e i costumi sui quali si sostiene la
potenza degli dèi, dei sacerdoti, dei redentori, quando dunque sarà morta la morale nel suo antico
significato: verrà allora... sì, che cosa verrà allora?» (Aurora, 96).
La caduta e il rovesciamento dell’antico non sono più un punto d’arrivo, piuttosto una prospettiva,
un inizio, un appello a tutte le migliori forze spirituali. «Qualcosa ancora verrà - la cosa più
importante ancora verrà » promette l’aurora, rosseggiando e illuminandosi sempre più.
Un anno dopo aver dato alle stampe Aurora, Nietzsche mi scrisse per la prima volta delle sue nuove
speranze filosofiche e dei suoi nuovi progetti: « Dunque, mia carissima amica, Lei tiene sempre in
serbo per me una buona parola e piacerLe mi dà una gran gioia. La spaventosa esistenza di rinunce
che mi tocca condurre, e che è dura come una restrizione ascetica della vita, conosce alcuni modi
per consolarsi che me la rendono sempre più preziosa del non essere. Alcune grandi prospettive
dell’orizzonte spirituale e morale sono le mie più possenti fonti vitali. Sono proprio contento che la
nostra amicizia affondi le sue radici e le sue speranze proprio in questo terreno. Nessun altro può
rallegrarsi così di cuore [137] per tutto quello che Lei ha fatto e ha in progetto di fare! Il Suo fedele
amico F.N. ». 37
Poco tempo dopo, nelle ultime righe di un’altra lettera, egli esclamava: «Anch’io adesso ho delle
aurore intorno a me, e non quelle del libro! Ciò a cui non credevo più [...] mi sembra ora possibile -
come l’aurora dorata sull’orizzonte di tutta la mia vita futura... ».38

Questa atmosfera, che con la violenza della nostalgia evoca un nuovo mondo spirituale, lontano,
all’orizzonte, a offrire una compensazione per tutto quel che la critica e il dubbio hanno distrutto,
risuona nel modo più limpido nelle parole finali di Aurora, quelle in cui Nietzsche tenta di intendere
il suo modo di pensare critico e negatore come un segnale in direzione di nuovi ideali: « Perché
proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un
giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere
un’India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?»
(Aurora, Conclusione [575, «Noi, aerei naviganti dello spirito»]).
Quando nel 1882 portò a termine la sua Gaia scienza, per Nietzsche la sua India era già diventata
una certezza: credeva di essere approdato sulle coste di un mondo sconosciuto, ancora privo di
nome, enorme, del quale non si sapeva nient’altro se non che doveva trovarsi al di là di tutto quel
che il pensiero può contestare, di tutto quel che il pensiero può distruggere. Un mare ampio,
apparentemente sconfinato, tra lui e ogni [138] possibilità di una nuova critica mediante concetti: al
di là di ogni critica, egli pensava di aver raggiunto la terraferma.
L’esultanza spavalda di questa certezza risuona nei versi che scrisse sull’esemplare di La gaia
scienza che mi dedicò:
Amica - disse Colombo - più non fidarti di alcun genovese! Nell’azzurro egli sempre si affisa,
Troppo lo attrae ciò che è più lontano!
Chi lui ama, gli piace allettarlo Al di fuori dello spazio e del tempo Sopra a noi con stelle sfavillano,
Attorno a noi freme l’eternità.39
Ma rispetto alla totale novità di quel continente e al suo trovarsi al di là di ogni possibile critica,
Nietzsche era caduto in inganno; si trattava dell’errore opposto a quello di Colom-
bo che, cercando il Vecchio, trovò il Nuovo. Poiché Nietzsche, in effetti, dopo una
circumnavigazione del globo, era approdato, senza accorgersene e giungendo dal lato opposto,
proprio sulla costa di quel continente da cui era originariamente salpato e che credeva di essersi
lasciato alle spalle per sempre nel momento in cui si era allontanato dalla metafisica. Avremo modo
di vedere come tutte le opere del suo ultimo periodo nascano da questo vecchio terreno,
sebbene sulla loro crescita e sulle loro caratteristiche abbiano influito le esperienze degli ultimi
anni.
E' indiscutibile che uno degli elementi che Nietzsche apprezzò maggiormente nell’indirizzo di
pensiero positivistico era rappresentato dallo spazio di tolleranza che esso, entro certi limiti, poteva
offrire a tutti i suoi cambiamenti di umore e alle oscillazioni del suo sentimento: per questo vi
restò legato per un certo periodo. Non lo chiudeva in catene, come aveva inevitabilmente fatto la
metafisica, ma gli indicava solamente una direzione di marcia; non gli imponeva un sistema della
conoscenza, ma gli metteva a disposizione, nella [139] sostanza, soltanto un nuovo metodo
conoscitivo. Per questa ragione anche la sua emancipazione dal positivismo non fu così violenta e
repentina come la sua svolta wagneriana; non fu uno spezzarsi di catene, ma un perdersi e un andar
fuori rotta - «E tutto il mio peregrinare e ascendere montagne: non era altro che una necessità e un
ripiego per uno che non sapeva come aiutarsi: - la mia volontà tutta non vuole se non volare» (Così
parlò Zarathustra, «Prima che il sole ascenda»). «Ho imparato ad andare: da quel momento mi
lascio correre» (Così parlò Zarathustra, «Del leggere e scrivere»). Ma anche questa trasformazione
nietzscheana si verificò in modo così irresistibile e irrevocabile come la precedente. Prima o poi,
infatti, egli si sarebbe dovuto spingere oltre una considerazione puramente empiristica delle
sue problematiche, oltre la limitazione di principio all’ambito dell’esperienza; data la sua forma
mentis, non poteva rinunciare per molto, in una forma o nell’altra, a una «filosofia delle cose ultime
e supreme ». In fondo non si trattava che di vedere lungo quale silenziosa via secondaria sarebbe
tornato di soppiatto là dove abitano gli dèi e i superuomini.
Nietzsche scrisse una volta a Rèe: « Ahimè, mio buon amico carissimo [...] leggo, con mio sommo
dispiacere, che Lei è malato. Che cosa sarà di noi, se ora, nei nostri “anni migliori”, appassiamo
così miseramente [...]. Che il destino voglia riservarci una bella vecchiaia perché forse il nostro mo-

do di pensare si attaglia a quell’età nel modo più naturale, come una pelle sana? Ma se almeno non
dovessimo attendere tanto! Il pericolo sarebbe che perdessimo la pazienza».40
E Nietzsche la perse del tutto. «Già la pelle mi si raggricchia e si fende», canta infatti poco tempo
dopo in un brutto verso41 di La gaia scienza, e [140] sotto la «pelle da vecchio» dello «spassionato
uomo della conoscenza» si agita possente quell’impulso al ringiovanimento mosso dal quale
Nietzsche, già al tramonto, scrisse un’apoteosi della vita, della vita eterna.
Il destino non ebbe bisogno di tenergli in serbo nessuna vecchiaia.
Ma quale base della nuova dottrina che intendeva annunciare, quale unico fondamento affidabile su
cui questa potesse venire edificata, Nietzsche pensava ancora in quegli anni a una giustificazione
scientifica. Proprio in questa fase di transizione lo vediamo colto dal più vivace desiderio di
dedicarsi a quelle ricerche di ampio respiro a cui aveva dovuto rinunciare per lunghi anni. Seguì,
con instancabile interesse e partecipazione, gli studi che Rèe aveva intrapreso a partire dal 1878 per
ampliare e consolidare i pensieri del suo primo libro di filosofia morale. Quando Rèe, nel 1881,
comunicò a Nietzsche che sperava di portare a termine la sua opera ancora prima della fine
dell’anno, ricevette questa risposta colma di gioia: « Questo stesso anno [... ] deve anche dare alla
luce l’opera in cui io, nell’immagine del legame [Zusammenhang] e della catena dorata, posso
dimenticare la mia povera, frammentata filosofia! Che magnifico anno il 1881! ». 42
Lo scritto in questione, La nascita della coscienza (Berlino 1885), fu tuttavia portato a termine da
Rèe soltanto quattro anni più tardi, dopo che Nietzsche, frattanto, si era da tempo levato di dosso
l’ultimo lembo del suo « spirito libero » e aveva già dato alle fiamme, con la consueta energia, la
vecchia pelle. Ma a causa del vivo interesse con cui aveva preso parte agli studi di Rèe per quel
libro, questo assunse un valore particolare per [141] la sua vita intellettuale. Egli non si
basò tuttavia su La nascita della coscienza nello stesso modo in cui, precedentemente, in Umano,
troppo umano, si era basato sull'Origine dei sentimenti morali. La differenza tra l’ultimo pe-

riodo intellettuale di Nietzsche e quello positivistico che lo precede consiste nel fatto che nella sua
ultima fase egli non si limitò più a esprimere il significato riposto di alcune teorie già esistenti, ma
si consacrò all’audacissimo sviluppo di un suo proprio sistema, aspirando ad abbandonare lo stile
aforistico e frammentario. Se l’atteggiamento da « spirito libero » lo aveva spinto a interiorizzare le
proprie conoscenze nella grande profondità dell’esperienza e del sentimento, era la forza
appassionata di quest’esperienza interiore che lo spingeva ora a sgravarsi in determinati pensieri e
teorie; lo spingeva a realizzarsi in visioni del mondo nuove e conchiuse.
Nell’estate del 1882 Nietzsche prese la decisione di dedicarsi per un certo numero di anni a quel
genere di studi che gli sembrava indispensabile per la costruzione sistematica della sua « filosofia
dell’avvenire », lo studio delle scienze naturali. A tal fine intendeva rinunciare alla sua vita al Sud,
per poter seguire delle lezioni a Parigi, Vienna o Monaco. Qualsiasi attività letteraria avrebbe
dovuto interrompersi per dieci anni, finché il nuovo non fosse soltanto giunto a piena maturazione
in lui, ma avesse anche trovato il modo di fornire dimostrazione scientifica della sua esattezza.
Qualche tempo dopo, anche Rèe avvertì il bisogno di confrontarsi con le scienze della natura, che
fino a quel momento erano rimaste estranee tanto a lui quanto a Nietzsche. Egli, tuttavia, non
intendeva utilizzarle come materiale per la costruzione [142] delle sue ipotesi filosofiche, ma aveva
invece il desiderio, dopo avere terminato il suo libro, di lasciar liberamente agire su di sé dei nuovi
pensieri e di uscire completamente dal suo ristretto ambito specialistico. Si rivolse così alla
medicina, tornò a studiarla, e sostenne l’esame di stato con l’idea di dedicarsi per un lungo periodo
alla psichiatria per poi fare ritorno, lungo questa via traversa, alle scienze umane. Dal punto di vista
intellettuale i due amici non furono mai tanto lontani come allora, quando, in apparenza,
sembravano ancora una volta tendere verso la stessa cosa: erano giunti ai poli opposti della loro
indole e del loro spirito.43 Ciò si esprime in modo significativo anche nel fatto che i dieci anni di
silenzio che Nietzsche aveva in programma furono quelli della sua maggiore produttività, mentre
Rèe non ha ancora oggi raggiunto il punto in cui la sua vecchia

produzione e le sue nuove conoscenze riescono a fondersi insieme e a spronarlo verso una nuova e
più elevata attività.
L’emicrania impedì a Nietzsche di mettere in pratica le sue decisioni; l’inverno 1882, alle porte, lo
trova già nella sua cella da eremita a Genova. Ma anche in migliori condizioni di salute, il progetto
non sarebbe stato portato a termine. Nietzsche, infatti, non era più in quella situazione di attesa
in cui lo spirito può accogliere stimoli esterni e accettare spontaneamente idee che lo turbano; era
già stato troppo intensamente sollecitato a produrre per potere ancora essere sconvolto da qualcosa
che avrebbe potuto porre un freno al suo impulso creativo. [143] Infatti, mentre per sprigionare le
sue forze creative aveva bisogno — sia pure tra sofferenze e vittorie su se stesso - di un influsso
fecondo proveniente dall’esterno, e anche se nel momento in cui si consacrava a una nuova
conoscenza rinunciava a se stesso nell’entusiasmo di un istinto di fusione, una volta che la
«fecondazione» era avvenuta egli pareva rendersi inaccessibile e chiuso rispetto a ogni nuovo
possibile influsso, tutto preso dalla sua condizione e da quel che la vita voleva ottenere da lui. E
quando rivolgeva la sua attenzione verso l’esterno, era solo per fare spazio, quale che fosse il prezzo
da pagare, alla vita che doveva nascere in lui, mai, invece, per esaminare ancora una volta e per
mettere in questione la propria condizione esistenziale.
Il secondo rifiuto forzato, per motivi di salute, a studi scientifici di ampio respiro, lo condusse
questa volta a un risultato opposto a quello dell’epoca della rottura con Wagner e del suo periodo
positivistico. Allora, infatti, esso fu il motivo per cui, invece di fondare nuove teorie, Nietzsche
cercò di far fruttare per la propria interiorità quelle altrui di cui si era appropriato e di verificare i
loro effetti sul suo animo. Adesso, invece, questa rinuncia lo spinge a volgere in certa misura in
poesia le basi teoretiche di cui risulta sprovvisto. E proprio in questo consiste uno dei tratti
fondamentali dell’ultima filosofia nietzscheana: il bisogno di ampliarsi in modo sistematico, come
se si trattasse di ricavare dai più svariati ambiti del sapere la prova dell’esattezza del suo pensiero
creativo, rappresenta in realtà un tentativo violento di creare uno spazio per esso; un godere appieno
della propria dimensione interiore con una sovranità tale da far sì che la sua immagine del mondo si
trasformi involontariamente in una culla per la propria opera.
A ciò corrisponde il fatto che, a partire da questo momen-

to, tutte le sue teorie, per paradossali che possano sembrare, acquistano un carattere tanto più [144]
personale, quanto più universale è il modo in cui paiono concepite, quanto più generale è il valore a
cui esse aspirano. E il loro nucleo si nasconde però dietro a un tal numero di veli, e il segreto del
loro significato ultimo dietro a un tal numero di maschere, da far sì che le dottrine che dovrebbero
esprimerli risultino in ultimo quasi soltanto immagini e simboli di un’esperienza interiore. Manca,
infine, qualsiasi intenzione di accordarsi e di intendersi con altri: « Il mio giudizio è il mio giudizio:
difficilmente anche un altro potrà vantare un diritto su di esso » (Al di là del bene e del male, 43) —
e al contempo il suo giudizio diviene, per decreto, legge universale,- un ordine per l’umanità intera.
In conclusione, per Nietzsche, intima ispirazione e rivelazione al mondo esterno si fondono insieme
al punto che egli ritiene che la sua vita interiore racchiuda l’intero universo e crede che il suo spirito
contenga in sé, in forma mistica, la quintessenza di ciò che esiste e la metta al mondo: « Per me -
come potrebbe esistere un al-di-fuori-di-me? Non esiste un fuori! » (Così parlò Zarathustra, «Il
convalescente»).
A conferma del fatto che l’ultimo periodo di attività di Nietzsche consiste interamente
nell’interpretazione filosofica della vita della sua anima, in una sua lettera egli definisce La gaia
scienza - l’opera che inaugura questa fase - « il più personale tra i miei libri»44 e, in un’altra lettera,
di poco precedente alla pubblicazione di quest’opera, si lamenta: « Il manoscritto risulta, come
accade di rado, impubblicabile. Ciò discende dal principio del mihi ipsi scribo! ».45
In effetti Nietzsche non ha mai scritto così esclusivamente per se stesso come in questo periodo in
cui si accingeva ad attribuire al proprio io l’intera sua concezione del mondo, a spiegare ogni cosa a
partire da esso. Il momento mistico delle nuove dottrine nietzscheane [145] è già dunque
presente, sebbene ancora nascosto nell’elemento puramente personale da cui origina. Questi
aforismi rappresentano perciò dei monologhi - monologici come mai lo furono gli scritti di
Nietzsche -, delle digressioni a mezza voce addirittura, spesso concepite come una muta pantomima
di uno spirito che deve occultare più che far vedere. Da essi, i pensieri della « filo-

sofia dell’avvenire» ci rivolgono già la parola, ma ci stanno ancora attorno come figure velate, il cui
sguardo cupo ed enigmatico si posa su di noi, non perché, come in Aurora, e sprimano soltanto dei
presagi e siano ancora privi di tratti consolidati e di contorni sicuri, ma perché a bella posta gli
è sialo messo un velo e raccomandata riservatezza. Nietzsche pare starci di fronte con il dito sulle
labbra e proprio da ciò noi capiamo che desidera confessarci molto, che desidera confessarci tutto.
Ma gli è difficile parlare senza riserve, poiché anche in questo caso è ancora una volta dolore quel
che egli deve confessare. E in un senso assai più profondo e doloroso di quanto non fosse fino a ora,
anche questa volta la filosofia di Nietzsche ci dà accesso ai tormenti e ai supplizi della sua
esperienza, ma in modo tale che persino i duri scontri e le rinunce del suo periodo positivistico ci
paiono ora ingenui e innocui. Ciò può sembrare a prima vista contraddittorio, poiché
l’ultima filosofia di Nietzsche nasce proprio dall’impulso a costruire, al posto di teorie positivistiche
per cui ormai provava avversione, una concezione del mondo che corrispondesse appieno alle sue
più intime aspirazioni. La sua ultima trasformazione ha dunque inizio tra l’esultanza e la gioia.
[146] Ma non si può dimenticare il fatto che questa forma estrema di raccoglimento in se stesso,
questo tentativo di costruire una visione del mondo a propria immagine e somiglianza, porta
in piena luce il dolore che Nietzsche provava per se stesso, la sostanza più profonda del suo essere.
Nelle sue trasformazioni gnoseologiche egli aveva finora tentato di sottrarsi a questo dolore di se
stesso, tiranneggiando e torturando una parte del proprio sé attraverso l’altra; in tutte le
trasformazioni dell’uomo teoretico, tuttavia, l’uomo concreto era rimasto immutato ed eternamente
uguale a se stesso, con tutte le sue pene. Soltanto ora che Nietzsche non si costringe e non si
mortifica più, soltanto ora che dà piena voce al suo struggimento, si comprende appieno in quale
tormento egli vivesse, si avverte finalmente il grido di liberazione da se stesso, per una natura
opposta alla sua, per una metamorfosi completa e definitiva, per un cambiamento non delle singole
conoscenze, ma di tutto l’uomo e della sua interiorità. Si può pienamente vedere come egli tendesse
la mano, disperato, al di fuori di sé, verso l’esterno, verso un ideale che potesse salvarlo e che
cercava muovendo dall’antitesi di se stesso. Si poteva dunque prevedere che non appena Nietzsche
avesse liberamente trasformato il contenuto della sua anima nel contenuto del mon-
do, che non appena avesse ricavato le leggi del mondo dalla sua esperienza più intima, la sua
filosofia avrebbe tratteggiato una visione tragica del mondo: egli doveva infatti concepire il genere
umano come una specie ibrida, sofferente di se stessa, dall’evoluzione disperatamente patologica, la
cui esistenza non trova alcuna giustificazione in sé, ma in una specie assolutamente diversa,
superiore di superuomini verso cui poteva costituire soltanto un ponte. La meta finale dell’umanità
era dunque il tramonto e il sacrificio in nome di questo ideale a essa antitetico.
[147] Soltanto all’inizio dell’ultima filosofia nietzscheana si mostra dunque con assoluta chiarezza
fino a qual punto l’impulso fondamentale che domina la sua natura e la sua conoscenza sia quello
religioso. Le diverse filosofie sono per Nietzsche altrettanti surrogati di Dio che lo devono aiutare
a poter fare a meno di un ideale mistico di Dio al di fuori di se stesso. Le sue ultime dottrine
confessano che non vi riuscì. E proprio per questo motivo nelle sue ultime opere noi ci imbattiamo
ancora una volta in una lotta tanto appassionata contro la religione, la fede in Dio e il bisogno di
salvezza: perché egli era così pericolosamente vicino a tutto questo. Nelle sue parole trova
espressione un astio per l’angoscia e l’amore con cui vorrebbe convincersi della sua forza divina,
non facendo parola della sua miseria umana. Scorgiamo allora attraverso quale autoillusione e quale
astuzia segreta Nietzsche riesca a risolvere il tragico conflitto della sua vita, - il conflitto di avere
bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare. Modellando cioè dapprima, con fantasia ebbra di
struggimento, sognando estasiato come in una visione, il mistico ideale del superuomo per poi, al
fine di salvarsi da se stesso, tentare con un balzo mostruoso di identificarvisi. Egli finisce così per
diventare una figura doppia, per metà uomo malato e sofferente, per metà superuomo redento e
sorridente. L’uno lo è come creatura, l’altro come creatore, l’uno come realtà, l’altro come una
realtà superiore misticamente concepita. Sovente però, ascoltando i suoi discorsi, si avverte con
orrore che egli ha elevato a oggetto di culto qualcosa che in verità non esiste nemmeno per lui, e si
riflette sulla sua frase: « ...E chissà che fino a oggi in tutti i grandi avvenimenti non si sia
verificata appunto la stessa cosa: che la moltitudine [148] abbia adorato un dio - e che il “dio” sia
soltanto una povera vittima sacrificale! » {Al di là del bene e del male, 269).
« Dio come vittima sacrificale » è davvero un titolo che potrebbe essere apposto sull’ultima
filosofia di Nietzsche, rivelando nel modo più palese l’intima contraddizione che essa contiene,
quell’esaltazione di gioia e dolore che confluiscono l’ima nell’altra senza distinguersi. Abbiamo
avuto modo di osservare in precedenza come Nietzsche avesse compiuto la sua ultima
trasformazione muovendo da uno stato d’animo di festa, di ebbrezza sognante e di sovrabbondanza:
ora osserviamo il punto in cui la violenza dell’eccitazione interiore si rovescia in dolore. Per tutto
quel periodo, anche nella vita fi ogni giorno, il suo animo fu interamente pervaso da quello stato di
estremo sconvolgimento psichico in cui si è persino capaci di un’allegria smodata, ma solo perché
tutti i nervi fremono, quella condizione in cui si riesce facilmente a ridere e a scherzare, ma solo con
le labbra che tremano. Nietzsche aveva però ogni volta bisogno di questo intreccio di gioia e dolore,
di esaltazione e sofferenza, per andare incontro a una rinascita. La sua felicità doveva prima
diventare una «ultrafelicità» e, in questo eccesso, divenirgli nemica e avversa; la quiete e la
sensazione di sentirsi a casa, conquistate a fatica all’interno di un ambito del sapere, lo spingevano a
ferirsi e ad allontanarsi da se stesso, affinché il suo spirito potesse deliziarsi e alleviarsi in nuove
creazioni.
È significativo il fatto che nel giubilo del suo cuore egli chiamasse la propria opera la lieta novella,
La gaia scienza, ma che al contempo, sopra l’aforisma finale, apponesse le oscure parole
enigmatiche: «Incipit tragoedia! ».
[149] Questa unione di profonda inquietudine e di giocosa baldanza, di tragedia e serenità, che è
tipica dell’insieme delle ultime opere, trova riscontro nel fatto che La gaia scienza, in marcato
contrasto con l’oscuro segreto delle parole finali, contiene un «preludio» in versi dal titolo
«Scherzo, malizia e vendetta». È la prima volta che troviamo dei versi nelle opere di Nietzsche, ma
essi compaiono con più frequenza nella misura in cui egli crede di approssimarsi al tramonto. Il suo
spirito si spegne cantando. Questi versi sono sorprendentemente diversi nel loro valore; in parte
compiuti, pensieri che nella loro bellezza e pienezza si volgevano in poesia; in parte di
un’incompiutezza così stupefacente quale sola poteva nascere da un estro scherzoso. Su tutti i versi
incombe però qualcosa che commuove in modo singolare: sono infatti fiori che un solitario sparge
sulla propria via crucis  per suscitare l’impressione che sia una via della gioia. Come rose appena
colte che il suo piede vuole calpestare, mentre egli è già occupato a intrecciare, con le sue
conoscenze più dolorose, la corona di spine per il suo capo.

Questi versi suonano come un preludio allo spettacolo impressionante della sua massima elevazione
e del suo tramonto. Nemmeno la filosofia di Nietzsche alza del tutto il sipario su questo spettacolo.
Quel che ci lascia vedere, come un’immagine su questo sipario, è solo una variopinta ghirlanda
di fiori su cui, nascoste a metà, spiccano brillando, grandi e tristi, le parole: « Incipit tragoedia! ».
1 I lavori filologici di Nietzsche sono i seguenti: Per la storia della silloge teognidea, in
«Rheinisches Museum», voi. 22; Contributi alla critica dei lirici  greci. 1. Il lamento di Danae di
Simonide, in «Rheinisches Museum», voi. 23; De Laertii Diogenis Fontibus, in «Rheinisches
Museum», voll. 23-24; Analecta Laertiana, in «Rheinisches Museum», voi. 25; Contributi alla
storia delle  fonti e alla critica di Diogene Laerzio, Scritto augurale del Pädagogium di Basilea,
1870; Certamen quod dicitur Homeri et Hesiodi e codice Fiorentino post H. Stephanum denuo ed.
F.N., in « Acta societatis philologae Lipsiensis », a cura di F. Ritschl, voi. 1; inoltre II trattato
fiorentino su Omero ed Esiodo, la loro stirpe e il loro agone, in «Rheinisches Museum», voll. 25 e
28. È opera di Nietzsche anche l’indice dei primi ventiquattro volumi del « Rheinisches Museum»
(1842-1869), compilato su disposizione di Ritschl.
2La sua lettura era quella che egli una volta definì il «leggere bene» e cioè «lentamente, in
profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini, lasciando porte aperte, con dita ed
occhi delicati...» (Aurora, «Prefazione alla nuova edizione» [1886]).
sue affermazioni non soltanto sulle tesi del riprovevole filosofo Arthur Schopenhauer, ma anche
sulle intuizioni artistiche dell’allora parimenti oltraggiato «musicista dell'avvenire» Richard
Wagner. Un giovane filologo di spicco, Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, che oggi è uno dei
rappresentanti più prestigiosi della filologia classica in Germania, divenne, in modo non
particolarmente felice ed elegante, il portavoce della posizione unilaterale della congrega. Senza
render in alcun modo giustizia stila peculiarità del libro di Nietzsche, lo attaccò con la massima
violenza da una prospettiva strettamente filologica nell’opuscolo Filologia dell’avvenire! Risposta
alla «Nascita della tragedia» di F.N., Berlino 1872. In difesa dell’attaccato scesero in campo coloro
ai quali il libro era principalmente rivolto: Richard Wagner, l’artista, con una lettera aperta a
Nietzsche apparsa sulla «Norddeutsche Allgemeine Zeitung» del 23 giugno 1872, ed Erwin Rohde,
che già a quell’epoca aveva fornito validissima dimostrazione della sua profonda conoscenza
dell’antichità greca. Nello scritto polemico dallo stile eccellente Filologia deretana. Lettera di un
filologo a Richard Wagner, Lipsia 1872, egli si pose sul terreno scelto dall’avversario e respinse al
mittente le obiezioni e le accuse avanzate da questi; a ciò Wilamowitz rispose poi con una replica,
Filologia dell’avvenire! Atto secondo. Risposta al tentativo di salvataggio della  «Nascita della
tragedia» di F.N., Berlino 1873.
3 Al suo apparire questo libro suscitò la più vivace disapprovazione da parte della congrega dei
filologi; l’autore aveva avuto l’ardire di fondare le
4 Si veda la « Prefazione » che introduce la nuova edizione del secondo volume di Umano, troppo
umano [1886] dove si afferma: «Ciò che dissi contro la “malattia storica”, lo dissi come uno che di
essa imparava lentamente, faticosamente a guarire ».
5 «Non dev’essere taciuto che [...] solo in quanto sono allievo di epoche passate, specie della greca,
giungo a esperienze così inattuali su di me come figlio dell’epoca moderna» (Sull’utilità e il danno
della storia per la vita, «Prefazione»).
6 [Si tratta, evidentemente, di un errore dell’autrice, giacché uno scritto di Nietzsche che porti come
titolo Socrate e la filologia classica non esiste. E difatti la citazione di Nietzsche si trova in La
nascita della tragedia, xv.]
7 « Presentivo di aver trovato in lui quell’educatore e filosofo che da tanto tempo cercavo. Certo
soltanto come libro e questa era una grande mancanza. Tanto più mi sforzai di vedere attraverso il
libro e di rappresentarmi l’uomo vivente, il cui grande testamento dovevo leggere e che prometteva
di fare suoi eredi soltanto coloro che volevano e potevano essere qualcosa di più che suoi semplici
lettori: vale a dire suoi figli e discepoli» [Schopenhauer come educatore, 11].
8[Si tratta di una lettera da Tautenburg del 16 luglio 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit.,
vol. III, tomo 1, lettera n. 269 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 16 luglio 1882, pp. 228-
229.]
9    [Si tratta di una lettera a Paul Rèe, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 720
a Paul Rèe, Basilea, 12 maggio 1878, p. 291.]
10    [Si tratta ancora di una lettera a Rèe, scritta il 23 aprile 1879 e non il 14 dicembre 1878, ora in
F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 844 a Paul Rèe, Basilea, 23 aprile 1879, p. 365.]
11[Nietzsche si esprime così ancora con Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n.
613 a Paul Rèe, Sorrento, 7 maggio 1877, p. 210.]
12[Così Nietzsche a Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 781 a Paul Rèe,
Basilea, 14 dicembre 1878, p. 330.]
13[Nietzsche scrive a Rèe da Ginevra il 15 aprile e non il 15 maggio 1879: F. Nietzsche,
Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 842 a Paul Rèe, Ginevra, 15 aprile 1879, p. 363.]
14[Si tratta ancora di una lettera a Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n, 879 a
Paul Rèe, St. Moritz, settembre 1879, pp. 391-392.]
15 [Si tratta di una lettera del luglio 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1,
lettera n. 256 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 3 luglio 1882, pp. 216-217.]
16[Si tratta di una lettera da Stresa, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo I, lettera n.
59 a Paul Rèe a Stibbe, Stresa, 31 ottobre 1880, p. 44.]
17   [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 671 a Paul Ree, Basilea, 19 novembre
1877, p. 261.]
18    [Ivi, lettera n. 781 a Paul Rèe, Basilea, 14 dicembre 1878, p. 330.]
19[Si tratta della lettera da Ginevra del 15 aprile 1879 citata in precedenza: F. Nietzsche,
Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 842 a Paul Rèe, Ginevra, 15 aprile 1879, p. 364.]
20 [Ivi, lettera n. 899 a Paul Rèe, Naumburg, 31 ottobre 1879, p. 408.]
21[F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo I, lettera n. 5 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, fine
gennaio 1880, p. 7.]
22A quei tempi Nietzsche viveva in un’ammirazione per gli studiosi e per i filosofi inglesi che,
tempo dopo, si mutò nel suo opposto; in Umano, troppo umano, II, 184, egli li definisce ancora le
«nature integre, complete e completanti » e in una lettera a Rèe definisce la filosofia inglese
contemporanea «l’unica di buon livello filosofico che oggi esista». Coerentemente, l’unica cosa che
in questo periodo egli ancora stimi nel suo antico maestro Schopenhauer è « il suo duro senso dei
fatti, la sua onesta volontà di cose chiare e razionali, che lo fa spesso apparire così inglese» (La
gaia scienza, 99). [Per la lettera a Rèe cfr. F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 643
a Paul Rèe, Rosenlaui, primi di agosto 1877, p. 240.]
23[F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p.
384. Il riferimento alla storia della coscienza allude alla nuova opera di Rèe, La nascita iella
coscienza, Berlino 1885.]
24[F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 737 a Paul Rèe, Basilea, verso la fine di luglio
1878, p. 305.]
25[Si tratta di una lettera di Nietzsche a Rèe dell’ottobre 1875, ora in F. Nietzsche, Epistolario
1875-1879, cit., lettera n. 492 a Paul Rèe, Basilea, 22 ottobre 1875, pp. 112-113, che terminava con
queste parole: «[...] Con la preghiera di accogliere benevolmente il mio ringraziamento per aver
pubblicato le Sue massime - dimostrando così che la salute spirituale del Suo prossimo Le sta a
cuore».]
26 L’opera viene citata da Nietzsche in Umano, troppo umano, 1, 37. [Il passo in questione recita: «
Qual è comunque la proposizione principale a cui giunge, attraverso le sue penetranti e taglienti
analisi dell’umano agire, uno dei più arditi e freddi pensatori, l’autore del libro Sull’origine dei
sentimenti  morali? “L’uomo morale” egli dice “non è più vicino al mondo intelligibile (metafisico)
dell’uomo fisico”. Questa proposizione [...] potrà forse un giorno, in un qualche futuro, servire
come l’accetta che reciderà alla radice il “bisogno metafisico” degli uomini: [...] ma in ogni caso
come una proposizione dalle più importanti conseguenze, feconda e terribile insieme, e che scruta
il mondo in quel modo bifronte, proprio di tutte le grandi conoscenze».]
27 Si vedano in Umano, troppo umano, I, gli aforismi 162: « Culto del per vanità» e 164: «Pericolo
e guadagno nel culto del genio».
28Questo possesso di « amore e bontà » come le erbe e le forze più salutari nel commercio degli
uomini (Umano, troppo umano, I, 48) possiede un valore ancora maggiore del grande e celebrato
sacrificio del singolo; ancora «più potentemente » ha contribuito « alla formazione della civiltà »
quella benevolenza continua, amichevole, che crea i « momenti piacevoli » della vita.
29   [F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 717 a Paul Rèe, Basilea, 24 aprile 1878, p.
290.]
30    [Ivi, lettera n. 743 a Paul Rèe, Grindelwald, 10 agosto 1878, pp. 308-309.]
31[Si tratta di una lettera a Rèe dell’agosto 1881, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III,
tomo I, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, fine agosto 1881, p. 124.]
32 [Ivi, lettera n. 251 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 27-28 giugno 1882, p. 213.]
33 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n, 627 a Paul Rèe, Rosenlauibad, seconda metà di
giugno 1877, p. 222.]
34Si vedano i seguenti aforismi che Nietzsche annotò una volta per me [in una lettera dell’agosto
1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1, lettera n. 288 a Lou von Salomé a
Tautenburg, Tautenburg, 8-24 agosto 1882, pp. 243-245]:
La dottrina dello stile
1.    La prima cosa che conta è la vita: lo stile deve vivere.
2.    Lo stile ti si deve adeguare in funzione di una persona ben precisa alla quale vuoi comunicare te
stesso (Legge della doppia relazione).
3.    Prima di poter scrivere, bisogna sapere esattamente: «Questo lo direi o lo reciterei in questo e
questo modo». Scrivere deve essere un’imitazione.
4.    Poiché a chi scrive mancano molti mezzi della recitazione, in generale egli deve prendere a
modello un tipo di recitazione molto espressivo: la copia di ciò, lo scrivere, risulterà
necessariamente molto più pallida.
5.    La ricchezza di vita si rivela nella ricchezza di gesti. Bisogna imparare a sentire ogni cosa -
lunghezza e brevità delle frasi, le interpunzioni, la scelta dei vocaboli, le pause, la successione degli
argomenti - come un gesto.
6.    Attenzione al periodo! Hanno diritto al periodo soltanto gli uomini che, anche nel discorrere,
posseggono un ampio respiro. Nei più, il periodo è un’affettazione.
7.    Lo stile deve fornire la dimostrazione del fatto che si crede ai propri pensieri, che non li si
pensa soltanto, ma li si sente.
8.    Quanto più è astratta la verità che si vuole insegnare, tanto più si devono sedurre a essa
solamente i sensi.
9.    Il tatto del buon scrittore di prosa quando sceglie i suoi strumenti sta nell’accostarsi a ridosso
della poesia, ma nel non sconfinare mai in essa.
10.    Non è cortese e avveduto anticipare al proprio lettore le obiezioni più facili. È molto cortese e
molto avveduto far sì che il proprio lettore esprima da solo la quintessenza della nostra saggezza.
35[Si tratta di una lettera a Rèe scritta da St. Moritz nel 1879, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-
1879, cit., lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, P- 383.]
36[Si tratta di una lettera all’autrice del giugno 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III,
tomo 1, lettera n. 251 a Lou von Salomé, Tautenburg, 27-28 giugno 1882, p. 213.]
37    [Si tratta di una lettera da Naumburg, scritta nel giugno 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel,
cit., voi. III, tomo 1, lettera n. 240 a Lou von Salomé ad Amburgo, Naumburg, presumibilmente 12
giugno 1882, p. 204.]
38   [In realtà si tratta di una lettera da Naumburg del 7 giugno dello stesso anno, quindi di poco
precedente quella appena citata da Andreas-Salomé: F.
Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo i, lettera n. 237 a Lou von Salomé ad Amburgo,
Naumburg, 7 giugno 1882, pp. 200-201, in cui tuttavia si parla della « possibilità dorata
sull’orizzonte di tutta la mia vita futura...».] 
39 [La dedica, che risale all’inizio del novembre 1882, è ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi.
III, tomo 1, lettera n. 321 a Lou von Salomé a Lipsia, Lipsia, inizio di novembre 1882, p. 271, trad.
it. in F. Nietzsche, Opere, Milano 1964, voi. vi, tomo 4, pp. 74-77.]
40   [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 762 a Paul Ree, Basilea, 20 ottobre 1878,
pp. 317-318.]
41    [« Scherzo, malizia e vendetta », 8.]
42 [F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria,
fine agosto 1881, p. 124.]
43 Vedinell’aforisma 279 di La gaia scienza, intitolato «Amicizia stellare», le belle parole con cui
Nietzsche si accomiatò allora da questa comunanza spirituale.
44    [E Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo I, lettera n. 292 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg,
fine agosto 1882, p. 247.]
45    [Ivi, lettera n. 235 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, 29 maggio 1882, p. 199.]
3. IL «SISTEMA NIETZSCHE»
Voi volete ancora creare il mondo, davanti al quale possiate inginocchiarvi.
Così parlò Zarathustra, « Della vittoria su se stessi »
16[Si tratta di una lettera da Stress, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo I, lettera n.
59 a Paul Rèe a Stibbe, Stresa, 31 ottobre 1880, p. 44.]
[153] Spirito? Che cos’è per me lo spirito! Che cos’è per me la conoscenza! Non apprezzo nulla
come gli impulsi, - e giurerei che sono quello che abbiamo in comune. Ma guardi attraverso
questa fase in cui sto vivendo da alcuni anni, - guardi alle spalle di essa! Non si lasci trarre in
inganno riguardo a me - non creda che lo « spirito libero » sia il mio ideale ! ! Io sono -
Perdono! Carissima Lou! [...]
F.N.
In questo modo misterioso s’interrompe una lettera1 che Nietzsche scrisse nel periodo tra la
pubblicazione di La gaia scienza e quella del suo poema mistico Così parlò Zarathustra. In queste
poche righe sono già abbozzati i tratti essenziali dell’ultima filosofia nietzscheana: nel campo della
logica, il commiato per questioni di principio dall’ideale conoscitivo puramente logico osservato
fino a quel momento, dal rigore teoretico dello « spirito libero » legato all’intelletto; nel campo
dell’etica, in luogo della critica negatrice condotta fino ad allora, la dislocazione del fondamento
della verità nel mondo degli impulsi, inteso come fonte di una nuova valutazione di tutte le cose; e,
in ultimo, una sorta di ritorno alla prima fase dell’evoluzione filosofica, [154] quella che precedeva
lo spirito libero positivistico, vale a dire alla metafisica dell’estetica di Wagner e Schopenhauer e
alla loro dottrina del genio superumano. Su quest’ultima infine, quale nucleo della nuova filosofia
dell’avvenire, poggia il mistero di una gigantesca autoapoteosi che egli ha ancora timore di
esprimere in quella frase esitante, «io sono».
L’ultimo periodo intellettuale di Nietzsche raccoglie cinque opere: il poema in quattro libri Così
parlò Zarathustra (Ernst Schmeitzner, Chemnitz, I e II, 1883; in, 1884; C.G. Naumann, Lipsia, iv,
1891); Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (C.G. Naumann, Lipsia
1886; seconda edizione, 1891); Genealogia della morale. Uno scritto polemico (CG. Naumann,
Lipsia 1887); Il caso Wagner, un problema per amatori di musica (C.G. Naumann, Lipsia 1888) e
infine la piccola raccolta di aforismi Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello
(C.G. Naumann, Lipsia 1889). Non ci è possibile seguire passo passo il dispiegarsi del suo pensiero
filosofico sulla base di queste opere, poiché esse non rappresentano, come accadeva nei periodi
precedenti, altrettanti gradi evolutivi del suo pensiero bensì, per la prima volta, sono tutte destinate
a servire all’esposizione di un sistema, sebbene si tratti di un sistema che poggia più su di una
tonalità emotiva generale che sulla chiara compattezza della deduzione concettuale. Il carattere
aforistico che questi libri ancora mantengono si dimostra in questo caso come un innegabile limite
della forma espositiva e non come un pregio peculiare della stessa, come era stato fino a ora. Quel
che Nietzsche ha raggiunto attraverso il perfetto controllo [155] della forma aforistica - la capacità
cioè di sfruttare appieno quel che ogni pensiero significa per l’animo umano e di restituirlo in tutte
le sue tenui e riposte implicazioni secondarie - non risulta sufficiente per una fondazione sistematica
delle sue teorie, che si disperde così nel gioco ingegnoso di ipotesi abbacinanti. La malattia agli
occhi, insieme all’abitudine a un pensiero che procede per balzi, costrinsero Nietzsche a conservare
in generale il modo di scrivere adottato in precedenza, sebbene - tanto in Al di là del bene e del
male come nella Genealogia della morale - egli tenti costantemente di andare al di là di uno stile
puramente aforistico, di ordinare e presentare in modo sistematico i propri pensieri, dal momento
che ciò che aveva in mente era un tutto unitario.
Per la prima volta, dunque, in questi scritti rinveniamo una sorta di teoria della conoscenza, un
tentativo di confrontarsi con i problemi della gnoseologia dopo averli sempre scansati fino a quel
momento, così come in genere egli evitava volentieri ogni problema a cui riusciva ad accostarsi
soltanto per vie puramente concettuali. Ora però Nietzsche non si limita più alla filosofia pratica,
ma ritiene necessario indicare gli strumenti con cui ha forzato la piccola porta della teoria della
conoscenza attraverso la quale è giunto alle sue ipotesi. Osservazioni alquanto particolareggiate al
riguardo si trovano sparse nei più svariati luoghi delle sue opere. Assai caratteristico sembra però
essere il fatto che sia dato rinvenirle soltanto ora che Nietzsche ha dichiarato la sua ostilità di
principio al mondo della logica astratta, ed è fermamente
deciso a tagliare con un colpo di spada tutti i difficili nodi concettuali in cui potrebbe inciampare:
[156] si confronta con la teoria della conoscenza soltanto per mandarla a gambe all’aria.
Ai tempi del suo wagnerismo, Nietzsche, discepolo di Schopenhauer, aveva seguito il suo maestro
nella nota interpretazione e variazione di Kant, in base alla quale le questioni intorno alle cose
ultime e supreme non trovano certo la loro risposta attraverso l’intelletto, ma grazie alle sublimi
ispirazioni e alle illuminazioni della volontà. In seguito Nietzsche, protestando vivacemente contro
questa assunzione della metafisica schopenhaueriana, aveva aderito alla rigorosa autodelimitazione
della scienza empirica che si accontenta della conoscenza intellettuale all’interno dell’ambito di
sua competenza. Ma egli rinnovò questa adesione solo fino a quando, sulla scorta di un
intellettualismo da fanatico, riuscì a crearsi, muovendo da questo moderato sapere dell’intelletto, un
ideale di verità capace di entusiasmarlo e a cui sottomettere ciecamente la sua volontà e la vita della
sua anima. Non appena il suo fanatismo si esaurì, e non appena il suo entusiasmo smise di vedere
gli scopi e i valori della conoscenza alla luce di un idealismo così esasperato, egli fu però colto da
disgusto e prese a desiderare nuovi ideali. Un’idea gli si parò allora innanzi nell’ambito del
positivismo, l’idea della relatività di ogni pensiero, la riduzione di ogni conoscenza intellettuale alla
base assolutamente pratica della vita istintuale da cui essa è originata e da cui seguita a dipendere.
Non gli restava che seguire con la consueta esaltazione questa via, tracciata in precedenza dai suoi
compagni di strada filosofici, per fare finalmente ritorno alla sua originaria valorizzazione degli
affetti. [157] Giacché quel che per altri era soltanto una conseguenza naturale della moderna
teoria della conoscenza, che non alterava affatto i metodi e i risultati della scienza empirica in
quanto tale, per Nietzsche fu l’occasione di un totale mutamento di opinioni. Con la
stessa esagerazione estrema e con lo stesso fanatismo con cui aveva adorato il pensiero
rigorosamente concettuale come il sommo ideale di verità, prese ora a farsene beffe come
qualcosa di modesto e volgare in confronto agli istinti che in verità lo governano.
A cambiare, nel frattempo, era stato solo il suo stato d’attimo, soltanto la sua comprensione
sentimentale della situazione; ma proprio questo era tutto per lui e ciò lo spinse progressivamente
verso conclusioni di portata sempre più am-
pia, per poi diventare, in ultimo, il punto di partenza di una nuova visione del mondo.
È questo il tipico modo in cui nascono tutti i concetti fondamentali della «filosofia dell’avvenire» di
Nietzsche; lo incontreremo di nuovo nella sua teoria della conoscenza come nella sua dottrina
morale, nella sua estetica come nella sua ultima mistica, e sempre avremo modo di registrare la
presenza di queste tre fasi evolutive: dapprima il collegamento a singole estreme conseguenze della
scienza empirica moderna, quindi un capovolgimento del suo stato d’animo nel modo di concepire
questi risultati - una loro esasperazione ed esagerazione fino all’estremo - e infine, derivanti da ciò,
le sue nuove teorie.
Ma sotto questo rispetto si devono distinguere due aspetti: da un lato l’effettivo contenuto filosofico
di queste teorie, dall’altro il mero riflesso dell’anima di Nietzsche in esse, dal momento che egli
esprime nei suoi pensieri la sua indole più profonda. Questo riflesso ci riconduce all’immagine di
Nietzsche [158] che abbiamo tratteggiato nella prima parte di questo lavoro. Il contenuto teoretico
vi risulta invece essere una congiunzione artistica delle due fasi dell’evoluzione intellettuale
nietzscheana; un esempio di due tessuti intrecciati tra loro dalla mano di un genio: la dottrina
schopenhaueriana della volontà e la dottrina positivistica dell’evoluzione.
Il libro che si deve prendere in considerazione più di ogni altro, occupandosi della teoria della
conoscenza di Nietzsche e della sua lotta contro l’importanza dell’elemento logico e la riduzione di
quest’ultimo all’elemento illogico per antonomasia, è Al di là del bene e del male che, in certe sue
parti, avrebbe potuto benissimo intitolarsi Al di là del vero e del falso. In quest’opera, infatti, egli
discute nel modo più esauriente la non giustificabilità della contrapposizione di valore tra « vero e
non vero » che, considerata nella sua origine, non risulta meno instabile della contrapposizione di
valore tra « buono e cattivo ». Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi [...]. Che cosa
in noi tende propriamente alla “verità”? [...] Posto pure che noi vogliamo la verità: perché non,
piuttosto, la non verità? » (Al di là del bene e del male, 1). «Sì, che cosa ci costringe soprattutto ad
ammettere che esista una sostanziale antitesi di “vero” e “falso”? Non basta forse riconoscere
diversi gradi di illusorietà...? » (ivi, 34). «In quale curiosa semplificazione e falsificazione vive
l’uomo! [...] E soltanto su queste basi d’ignoranza, ormai salde e granitiche, ha potuto levarsi fino
ad oggi la nostra scienza; la vo-
lontà di sapere sul fondamento di una volontà molto più possente, la volontà cioè di non sapere,
d’incertezza, di non verità! Non già come sua antitesi, bensì - come suo affinamento! » (ivi, 24).
L’«esser cosciente» non è «contrapposto, in una qualche maniera decisiva, all’istintivo, - il [159]
pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in
determinati binari» (ivi, 3). Tutta la logica, in fondo, altro non è che una mera « convenzione di
segni» (Crepuscolo degli idoli, «La “ragione” nella filosofia», 3), ogni pensiero una sorta di
«linguaggio segnico degli affetti », poiché non ci è dato « discendere o salire ad alcuna altra
“realtà”, salvo appunto quella dei nostri istinti - il pensare, infatti, è soltanto un rapportarsi
reciproco degli istinti» (Al di là del bene e del male, 36). E da ciò segue che « quanti più affetti
lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare
in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra
“obiettività”. Ma eliminare in generale la volontà, sospendere tutte quante le passioni, ammesso che
di questo fossimo capaci: come? non significherebbe castrare l’intelletto?... » (Genealogia della
morale, III, 12).
È questo il punto in cui la posizione di Nietzsche si stacca all’improvviso da quella che aveva
assunto precedentemente, sospingendolo in direzione di quella contraria. Se in precedenza, infatti,
aveva messo in guardia dal prestare fiducia a un affetto qualsiasi, poiché poteva trattarsi soltanto del
«nipote » di antichi giudizi caduti in oblio e probabilmente errati, ora si appella agli antichissimi
fondamenti del sentimento da cui originano tutti i giudizi, che vengono in tal modo degradati a
«nipoti» privi di autonomia e alle dipendenze del sentimento stesso. Trova ancora la giustificazione
di entrambe le posizioni nella concezione positivistica del mondo, ma ciò che in questa convive
pacificamente fianco a fianco - la relatività del pensiero e quella della vita affettiva - si scinde per
lui in due opposti inconciliabili: da un lato, nell’intellettualismo portato all’estremo, [160] al quale
si era finora consacrato e attraverso cui intendeva subordinare tutta la vita al pensiero e tutto il
sentimento all’intelletto; dall’altro, in una esaltazione del sentimento parimenti spinta all’eccesso,
che si vendica per essere stata a lungo repressa e che nel suo entusiasmo vitale trova soddisfazione
soltanto in un fanatico: « Fiat vita, pereat veritas! ».
E dunque: «La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un’obiezione contro di esso [...]. La
questione è fino a
che punto questo giudizio promuova e conservi la vita [...]; rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un
rinunciare alla vita, una negazione della vita» (Al di là del bene e del male, 4). «Nonostante il valore
che può essere attribuito al vero, al verace [...], c’è la possibilità che debba ascriversi all’apparenza,
alla volontà d’illusione [...] un valore superiore e più fondamentale per ogni vita. Sarebbe inoltre
persino possibile che quanto costituisce il valore di quelle buone e venerate cose consista proprio
nel fatto che esse sono capziosamente imparentate, annodate, agganciate a quelle cattive,
apparentemente antitetiche, e forse anzi sono a queste essenzialmente simili» (Al di là del bene e
del male, 2). « [...] Fondamentalmente, fin da tempo immemorabile noi siamo abituati
alla menzogna. Oppure, per esprimerci più virtuosamente e più ipocritamente, insomma in maniera
più gradevole: si è molto più artisti di quanto non si immagini» (ivi, 192). E quel che nella
menzogna conserva la vita è ciò che pone l’artista al di sopra dello scienziato e della sua ricerca
della verità. «[...] L’arte, in cui appunto la menzogna si santifica e la volontà d’illusione ha dalla sua
la tranquilla coscienza » (Genealogia della morale, III, 25) e questo è anche il motivo per cui,
[161] all’improvviso, i metafisici, un tempo così denigrati, sembrano ora più nobili e degni di stima
dei «filosofastri della realtà», con la loro sobrietà e il loro «aspetto cencioso» (Al di là del bene e
del male, 10).
Questa rinnovata glorificazione dell’artisticità e della metafisica ci fa capire in che misura
Nietzsche si sia spinto in direzione di un tipo di uomo della conoscenza nuovo e opposto, e quanto
si sia già allontanato dai «filosofastri della realtà» del positivismo. Infatti, ciò che questi
considerano come un’inevitabile aggiunta al pensiero che conosce, e cercano quindi di ridurre al
minimo nel compimento dell’atto conoscitivo - vale a dire la dipendenza del pensiero dalla vita
istintuale dell’uomo -, è proprio ciò che, a detta di Nietzsche, andrebbe massimamente accresciuto.
Il riconoscimento della relatività del pensiero, dei confini angusti assegnati alla conoscenza della
verità, gli serve soltanto per proclamare una nuova illimitatezza del conoscere che deve restituire
a quest’ultimo il suo carattere assoluto.
Poiché Nietzsche aveva bisogno di ideali assoluti per poterli adorare e per potervisi dedicare con
tutto se stesso, non appena il suo ideale di verità si contrasse sino ad assumere dimensioni
eccessivamente modeste, egli cercò aiuto nell’ideale opposto, nella smodatezza della vita affettiva
più esasperata.
Se in precedenza aveva preso le mosse dal tentativo di liberare l’impulso alla verità da un’ultima
illusione, concependolo come qualcosa di relativo, ora egli si schiude una nuova via d’accesso a
nuove illusioni trasferendo l’ambito della conoscenza in quello dei moti del sentimento e delle
ispirazioni della volontà. Tutti gli argini che ponevano un freno e un limite sono così abbattuti e la
vita affettiva può straripare senza ritegno.
O non vi è certezza o vi è sempre certezza: [162] ciò dipende più o meno dalla stessa cosa; quando
il pensiero ha perduto ogni autonomo diritto alla conoscenza, allora esso prende a vagare, come un
giocattolo o uno strumento di istinti nascosti che lo governano, fin nelle lontananze più remote, fin
nelle profondità più fonde. Se Nietzsche, in origine, era passato dai misteriosi bagliori del giardino
incantato della metafisica al sobrio mondo intellettuale della ricerca empirica, adesso si smarrisce
nel labirinto di una vegetazione selvaggia, buia e impenetrabile che circonda questo mondo
dell’intelletto. E proprio il fatto che in essa non sia ancora tracciato alcun sentiero - che tutto sia
ancora senza legge né padrone, e che il poderoso verdetto della volontà abbia spazio per qualsiasi
creazione -, è proprio questo carattere di avventura pericolosa ad apparirgli come la migliore
conferma di avere imboccato la retta via, quella che conduce al cuore della vita, al cuore delle sue
forze primitive. « Ebbri di enigmi e lieti alla luce del crepuscolo », così chiamava infatti Zarathustra
i suoi discepoli, «voi, le cui anime suoni di flauto inducono a perdersi in baratri labirintici: - giacché
voi non volete con mano codarda seguir tentoni un filo; e dove siete in grado di indovinare vi è in
odio il dedurre » (Così parlò Zarathustra, « La visione e l’enigma »). « Anche nel conoscere
io sento solo la mia volontà che gode di generare e di divenire » (ivi, « Sulle isole Beate »); «
Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito» (ivi, «Dei dispregiatori del corpo»), giacché la vita
dice: « E anche tu, uomo della conoscenza, non sei che un sentiero e l’orma della mia volontà: in
verità, la mia volontà di potenza cammina anche sulle gambe della tua volontà di verità» (ivi,
«Della vittoria su se stessi»).
Nietzsche, che aveva così a lungo fatto uso di un modo di pensare freddo e sobrio per acquietare e
tenere a freno una vita interiore profondamente agitata, [163] sperimenta ora su di sé quel che un
tempo aveva descritto a mo’ di monito e presagio: « Se si è applicato lo spirito ad acquistare il
dominio sulla smoderatezza delle passioni, ciò accade magari con
la spiacevole conseguenza che si trasferisce la smoderatezza nello spirito e che si eccede in avvenire
nel pensare e nel voler conoscere» (Umano, troppo umano, II, 275). 2 Nell’impeto di un tale
bisogno di eccedere, [164] egli crea per sé un nuovo motto: «Nulla è vero, tutto è permesso!»
(Genealogia
della morale, III, 24) ed esalta il valore dell’illusione, della finzione volontaria, di quel che non è
logico e «non è vero» in quanto forze che in fondo sostengono la vita e accrescono la volontà.
Nietzsche si delizia dell’idea che siamo noi stessi, come creatori, a introdurci dentro all’immagine
del mondo che ci siamo costruiti intorno, con tutta la particolarità del nostro animo - e che il nostro
conoscere non sia in ultimo altro che una «umanizzazione delle cose» - fino al punto in cui il mondo
si dilegua in un’immagine di sogno che ciascun individuo può ideare in base al proprio arbitrio. E si
chiede: «Per quale ragione mai il mondo, che in qualche maniera ci concerne, - non potrebbe essere
una finzione? » (Al di là del bene e del male, 34), [165] con il pensiero recondito: e perché dunque
non potrebbe essere ricreato con un atto di forza?
A dò si riferisce il breve e interessante quarto capitolo del Crepuscolo degli idoli, il cui intento
risulta tuttavia pienamente comprensibile soltanto se viene messo in relazione con le altre
annotazioni nietzscheane riguardo al medesimo tema che si trovano sparse negli scritti del nostro
autore. Il suo titolo recita «Come il “mondo vero” finì per diventare favola. Storia di un errore» e
contiene un abbozzo del processo evolutivo della filosofia dall’antichità fino a oggi.
La filosofia antica concepiva già, seppure in modo ingenuo, l’uomo della conoscenza e la sua
immagine del mondo, la persona e la verità, come identici; essa culminava nella trascrizione della
tesi: «Io, Platone, sono la verità». «Il mondo vero », in antitesi a quello falso, apparente, in cui
vivono gli uomini che non sono saggi, è «attingibile dal saggio, [...]- egli vive in esso, lui stesso è
questo mondo ». Con il cristianesimo l’idea del «mondo vero» si separa progressivamente dalla
personalità; disumanizzandosi e facendosi più sottile, s’invola sopra agli uomini come un annuncio
dell’avvenire, come una promessa. Infine, attraverso una serie di sistemi metafisici, l’idea
impallidisce e, con Kant, diventa una semplice ombra, « inattingibile, indimostrabile,
impromettibile » fino a che, con il commiato definitivo da ogni metafisica, non dilegua interamente
nel nulla: « Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo ».
Salgono le quotazioni del mondo fino ad allora ingiuriato in quanto non vero e apparente, dal
momento che è l'unico mondo che rimane: «Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e
della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi». Ma
prendendo in esame ¡’origine della favola del «mondo vero», abbiamo al contem-
po esaminato il modo in cui è sorta l’immagine del mondo della [166] nostra conoscenza in
generale. Adesso che la fede in un mistico «vero» mondo dietro a quello apparente,
nato dall’illusione e dall’errore, ha smesso di consolarci, che cosa ci rimane? « Col mondo vero
abbiamo eliminato anche quello apparente», che era possibile soltanto come antitesi di quello.
L’uomo è nuovamente risospinto a se stesso come a colui che crea da sé tutte le cose. La vecchia
concezione: « Io, Platone, sono il mondo» è divenuta nuovamente possibile e si pone quale ultima
saggezza al principio di ogni filosofia; non più, tuttavia, nell’identificazione ingenua e ancora
integra di persona e verità, di soggetto e oggetto, bensì come azione creatrice, lucidamente
consapevole e voluta, di chi ha riconosciuto se stesso come il titolare del mondo. « Io, Nietzsche-
Zarathustra, sono il mondo; esso è perché io sono; esso è come io voglio ». Un simile risultato viene
soltanto accennato nelle misteriose parole finali: « Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta;
fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA».
Si può già osservare chiaramente come i nuovi pensieri di Nietzsche, quelli che compiono il balzo
nella mistica, si mescolino e si congiungano con elementi che egli ricava ancora dalla moderna
teoria della conoscenza. È questo il punto in cui nasce la nuova dottrina nietzscheana e non si ha più
a che fare con una mera esagerazione sentimentale di alcune idee e di alcune intuizioni
universalmente riconosciute. Dalla limitatezza e dalla relatività di ogni conoscenza umana, così
come dalla priorità della vita istintuale rispetto alla conoscenza stessa, prende forma in modo
improvviso il nuovo tipo di filosofo: una figura di grandezza superiore al naturale, la cui volontà
possente decide del vero e del falso [167] e nelle cui mani la conoscenza intellettuale è un semplice
giocattolo. Si potrebbe affermare che tutto quel che costringe lo spirito a una rigorosa moderazione
- e ciò che lo condiziona e lo influenza da ogni lato - sia visto incarnarsi da Nietzsche, nel segno di
ima sfrenata onnipotenza, in una singolarità superumana. In essa tutti gli istinti e le energie
dell’umanità devono essere immaginati in una forma talmente libera e accresciuta da far sì che la
quintessenza della vita, il concentrato di energia dell’intera realtà, diventino per così dire in lei una
persona, la quale è anche in grado di lasciare il proprio segno sulle norme della conoscenza. Ciò
non avviene però con un atto contemplativo, ma con un atto creativo, un’azione e un comando che
vengono impartiti al mondo. « [...] I veri filosofi
sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano “così deve essere!”, determinano in primo
luogo il “dove” e l’“a che scopo” degli uomini [...], protendono verso l’avvenire la loro mano
creatrice Il loro “conoscere” è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è -
volontà  di potenza » (Al di là del bene e del male, 211). La loro filosofia « crea sempre il mondo a
sua immagine, non può fare altrimenti; la filosofia è questo stesso istinto tirannico, la più spirituale
volontà di potenza, di “creazione del mondo”, di una causa prima» (ivi, 9). Gli «educatori cesarei e
i violentatori della cultura» (ivi, 207): è con loro che la filosofia dell’avvenire di Nietzsche si
confronta - con la loro interpretazione e con la loro descrizione -, la loro figura, anzi, ne costituisce
l’intero contenuto. Nella sua teoria della conoscenza viene soltanto preparato loro il terreno, nella
sua etica e nella sua estetica essi crescono [168] sempre più in direzione di una mistica religiosa in
cui Dio, uomo e mondo si fondono in un unico immenso essere superiore.
Si può facilmente osservare in quale misura, con questa figura del filosofo-creatore, Nietzsche si
riavvicini alle sue concezioni metafisiche precedenti, ma come tenti anche, allo stesso tempo, di
modificarle sulla scorta delle sue posizioni scientifiche più mature. Non accoglie più, infatti, le
verità « ideali » della metafisica con le loro interpretazioni edificanti e consolatorie dell’enigma del
mondo, ma, introducendo la scepsi nell’ambito della conoscenza e ponendosi nella prospettiva del «
tutto è falso », si crea lo spazio per rimpiazzare quelle verità ideali perdute e quei motivi di
consolazione.
Con un gesto di forza, con un atto della volontà, si pone dentro alle cose il significato che queste, in
se stesse, non possiedono; da scopritore della verità, quale è stato considerato finora, il filosofo
diventa in certa misura un inventore della verità, un « ricco quant’altri mai di volontà» {Al di là del
bene e  del male, 212), che esprime sì falsità e illusioni, ma che sa tuttavia rendere vere con la sua
volontà creatrice, che sa cioè trasformare in realtà convincenti. «Chi non sa porre la propria volontà
nelle cose, se non altro ci mette dentro un senso» {Crepuscolo degli idoli, «Sentenze e frecce», 18).
Egli se la prende dunque con i metafisici, ma come loro si sente in diritto di reinterpretare e di
ricreare le cose sulla base di moti dell’animo che vanno al di là della semplice forza dell’intelletto.
In questa superiorità, intesa in senso personale, della vita degli affetti su quella dell’intelletto, in
base alla quale [169] il contenuto di verità di una conoscenza viene ritenuto in ulti-
ma istanza trascurabile rispetto al suo contenuto di volontà e di sentimento, si riflette senza riserve
l’indole spirituale di Nietzsche, la sua natura e il suo desiderio più profondo. Dopo essersi a lungo
costretto al servizio di una rigorosa conoscenza del vero, giunge ora questa reazione e
un’ebbrezza che lo trascina in una vertigine mistica. Egli dona allora la propria anima a quel
filosofo-creatore, dalla grandezza sovrumana, in cui si affollano pienezza e sovrabbondanza di vita
e che brama per realizzarsi in modo creativo nei pensieri; è l’uomo «tropicale» [Al di là del bene e
del male, 197] a cui si attagliano le parole che abbiamo già utilizzato, nella prima parte di questo
libro, per descrivere la profonda inquietudine della vita interiore di Nietzsche: «L’anima
dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare [...]; che fugge se stessa,
raggiungendosi nell’orbita più vasta; l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto: - la
più capace di amare se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso »
(Cosi parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove»).
Ma questa reazione violenta e spontanea nei confronti del periodo intellettuale precedente si spinge
ancora più in là, e il rispecchiamento inconsapevole nelle teorie arriva a coinvolgere anche i
sentimenti più personali di Nietzsche. In queste dottrine incontriamo infatti anche quel tratto sinistro
della sua vita spirituale che faceva sì che egli trovasse il proprio appagamento e la propria
soddisfazione soltanto nel sacrificio e nella violenza che esercitava su di sé. Come in precedenza si
era sottomesso alle costrizioni di un rigido intellettualismo, così ora, al contrario, costringe
l’intelletto e l’impulso verso un sapere puramente intellettuale a sottomettersi alla poderosa volontà
delle passioni. Se prima aveva fatto violenza all’uomo dell’anima, [170] ora fa violenza all’uomo
della conoscenza che è in lui: e non si arresta fino a quando il trionfo della volontà non si muta in
un dileggio dell’intelletto; alla fine la conoscenza più alta trae origine, in modo sospetto, dalla
rinuncia a se stessa da parte di ogni conoscenza logica, - e per quanto riguarda il pensatore - «è la
sua crudeltà ad attirarlo e a incalzarvelo tal sacrificio dell’intelletto] segretamente, è quel pericoloso
brivido di una crudeltà rivolta contro se stesso» - egli deve esercitare il proprio potere « come artista
e come trasfiguratore della crudeltà» (Al di là del bene e del male, 229). Lo spirito umano si getta
così a capofitto in ciò che lo annienta poiché solo in tal modo accede alla rivelazione più alta, - si
getta a capofitto in ciò che è
sconfinato, smisurato, in ciò che si abbatte su di lui, perché solo in tal modo raggiunge la sua meta.
In tutta l’ultima filosofia nietzscheana, nell’etica come nell’estetica, ritroveremo il pensiero
fondamentale che la innerva: che il declino in virtù di un eccesso è la condizione di una somma e
nuova creazione; anche la teoria della conoscenza di Nietzsche sfocia così in una sorta di mistica
personale e terrifica, in cui i concetti di illusione e di verità sono indissolubilmente concatenati e in
cui il « superumano » si abbatte come un lampo che colpisce e uccide lo spirito, come una follia con
cui il suo senso della verità deve essere vaccinato: «Perché io vorrei che essi avessero una demenza
che li facesse perire [...]! Davvero, io vorrei che la loro demenza si chiamasse verità [...]» [Così
parlò Zarathustra, «Del pallido delinquente»]. «E la felicità dello spirito è questa: essere unto e
consacrato dalle lacrime come vittima del sacrificio - lo sapevate? E anche la cecità del cieco e il
suo cercare e brancolare deve testimoniare la possanza del sole in cui egli guardò - lo sapevate? »
(Così parlò Zarathustra, «Dei saggi illustri »).
[171] Quest’ultimo mistero, così come la figura del filosofo-creatore, risulta gradualmente
comprensibile nell’etica e nell’estetica di Nietzsche, allorché esso, muovendo dalle astratte linee di
fondo, acquista tratti sempre più concreti fino a mostrarsi ai nostri occhi, nell’unicità della sua
figura, come una trasfigurazione mistica della natura stessa di Nietzsche.
Il fatto che soltanto l’etica sia in grado di fornire una spiegazione corretta e una giustificazione della
teoria della conoscenza risulta già chiaro se si considera l’uomo della conoscenza come il titolare
dell’autentica volontà di vita, come colui che agisce e crea. Per la filosofia di Nietzsche vale dunque
in sommo grado ciò che egli aveva affermato riguardo ai sistemi filosofici in generale: «Le
intenzioni morali [...] hanno costituito [...] il vero e proprio nocciolo vitale, da cui si è sviluppata
ogni volta l’intera pianta » (Al di là del bene e del male, 6). Questo stretto legame del filosofo con la
vita in quanto tale, e con le sue finalità più umane e personali, è ciò che lo deve separare nel modo
più risoluto da coloro che guardano alla vita con ostilità e pessimismo. Egli deve essere l’apologeta
nato della vita e la sua filosofia eo ipso deve esserne un’apoteosi, poiché questa, a se stessa, non
può che dire sempre di « sì ». E, tuttavia, è stato quasi sempre il contrario: « In ogni tempo
i saggissimi hanno giudicato la vita allo stesso modo: essa non  vale niente... Sempre e ovunque si è
udito dalla loro bocca lo stesso accento - un accento pieno di dubbi, di melanconie, di
stanchezza della vita, un accento pieno di opposizione alla vita» (Crepuscolo degli idoli, «Il
problema di Socrate», I).
Sebbene questa fiacca volontà di vita [172] fosse una conseguenza dell’affinamento e della
sublimazione della natura animale di questi saggi, del tratto contemplativo e intellettuale della loro
indole, essa era comunque in certa misura, secondo la precedente concezione nietzscheana, il segno
di nobiltà che li distingueva dagli uomini spiritualmente rozzi, dalla plebe, e che legittimava la loro
funzione di guide. Ora, invece, la concezione è mutata e l’accento non viene più posto sulla
spiritualizzazione della vita, ma sul suo infiacchimento. Gli uomini spirituali risultano ora malati e
spossati, i tipi della decadenza di ogni epoca. Il filosofo tanto amato e ammirato da Nietzsche, colui
che sostenne presso i greci la dottrina del dominio della ragione sugli istinti naturali, Socrate,
si muta ancora una volta nella figura pericolosa e denigrata del tentatore, quel che egli era stato per
Nietzsche nel suo periodo schopenhaueriano. Socrate il brutto, il malformato tra i greci nobili e ben
riusciti, fa la sua comparsa in mezzo a loro come il primo grande décadent che corrompe e castra
l’originario istinto ellenico per la vita assoggettandolo alla sua dottrina della ragione (cfr.
Crepuscolo degli idoli, «H problema di Socrate»). In ciò egli è l’archetipo di tutti i pensatori
che vogliono dominare la vita con il pensiero ma che, esattamente come loro, non riesce a
dimostrare nulla contro di essa, ma qualcosa contro il pensiero. Infatti, sebbene tutti i filosofi
abbiano fino a oggi dato il loro contributo per disprezzare la vita, per rammollire gli istinti che la
sostengono, in ciò non si palesa una verità su questa vita così disprezzata, ma soltanto la
contraddizione con se stessi in cui si trovano i filosofi, un sintomo tipico [173] di una condizione
malata. Ciò insegna soltanto che gli uomini dall’intelletto superiore hanno voltato le spalle a quella
fonte di vita che nutre anche il loro intelletto; che sono decrepiti e stanchi, ultimi frutti di culture
al tramonto; che non posseggono più in sé quella forza che vince, sana e modella, che trionfa sui
danni e le manchevolezze dell’esistenza e la conduce a uno sviluppo più alto. È soltanto a loro che è
rivolta la domanda sospettosa: « Forse non erano più, tutti quanti, saldi nelle gambe? Forse erano
stagionati? Tentennanti? Décadents? Forse la saggezza era apparsa sulla terra a somiglianza di un
corvo, che un tenue odore di carogna manda in estasi?...» (Crepuscolo degli idoli, «Il problema di
Socrate», 1).
L’interrogativo, tuttavia, non si rivolge soltanto a loro, poi-
ché essi rappresentano solo il punto più elevato in cui culmina l'intero sviluppo dell’umanità.
Sottrattosi alla unitarietà sorda e ottusa della sua consapevolezza animale, e seguitando ad affinare
le proprie facoltà spirituali, l’uomo è entrato in conflitto con la base naturale in cui affonda le radici
la sua forza. E' così diventato un essere incompleto, un ibrido che non può evidentemente ricavare
da se stesso la spiegazione e la giustificazione della propria esistenza, - l’incarnazione del
passaggio verso qualcosa che non è stato ancora scoperto, che non è stato ancora creato e, proprio
perché è un tale passaggio, l’uomo è il più malato degli animali, « l’animale non ancora
stabilmente determinato » (Al di là del bene e del male, 62). Il tratto della decadenza inerisce
dunque all’umanità nel suo insieme e non soltanto a sue singole forme o a suoi singoli aspetti.
Già nelle fasi iniziali di ogni civiltà possiamo dunque rinvenire le prime tracce di decadenza, del
declino della vita intatta, laddove l’animale selvaggio uomo, [174] l’« animale da rapina umano »,
inizia a sentirsi limitato nella sua libertà senza freno dalle prime forme di costrizione sociale. «Quei
terribili bastioni con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti di libertà [...]
fecero sì che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si
rivolgessero contro l’uomo stesso». «Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono
all’interno - questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si
sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua “anima”. L’intero mondo interiore,
originariamente sottile come fosse teso tra due epidermidi, [...] ha acquistato profondità, latitudine,
altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno». «L’uomo che in mancanza di
nemici esterni e di resistenze, rinserrato in un’opprimente angustia e normalità di costumi, faceva
impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava,
quest’animale che si vuole “ammansire” e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di
piaghe, [...]. Con lui fu però introdotta la più grande e la più sinistra delle malattie, di cui fino a oggi
l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta
separazione dal suo passato d’animale, [...] di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti,
sui quali fino allora riposava la sua forza, il suo . piacere e la sua terribilità» (Genealogia della
morale, 11, 16).
Se la malattia è dunque in certa misura la normale condizione dell’uomo, la sua natura
specificamente umana, e se i
concetti di malattia e di evoluzione possono essere intesi in modo pressoché identico, allora, anche
alla fine [175] del lungo processo di evoluzione culturale noi dovremmo ritrovare, quale suo
risultato, proprio la decadenza: a mutare è solo il suo aspetto esteriore. Sono le epoche di abitudini
lunghe e pacifiche quelle in cui essa emerge nella sua forma nuova, quelle in cui il legame rigido, la
disciplina severa e la sottomissione dei singoli individui non paiono più necessari, poiché gli
strumenti per godersi fino in fondo la vita sono copiosamente a portata di mano. La rigida
uniformità nel cui segno tutti sono stati cresciuti, con un’educazione vecchia di secoli, comincia a
venire meno e a lasciare spazio al gioco delle individualità. « La variazione, sia come tralignante
deviazione (in qualcosa di superiore, di più raffinato e raro), sia come degenerazione e mostruosità,
è comparsa improvvisamente in scena nella sua massima pienezza e magnificenza, il singolo osa
essere singolo e campeggiare da solo ». « Soltanto fini nuovi, soltanto mezzi nuovi, non più formule
comuni, fraintendimento e dispregio alleati tra loro, decadenza, corruzione e le bramosie estreme
strette in un nodo spaventevole, il genio della razza traboccante da tutte le cornucopie del bene e del
male, una funesta contemporaneità di primavera e autunno » (Al di là del bene e del male, 262).
Se nella forma originaria di decadenza che è stata precedentemente descritta le passioni dell’uomo
si rivolgono contro di lui, minacciandolo e lacerandolo, poiché egli non riesce a scaricarsi verso
l’esterno e risulta dunque indifeso, ora, per il motivo opposto, esse si trovano in una sorta di
guerra civile tra loro, essendo venute meno le situazioni esterne da cui l’uomo avrebbe dovuto
proteggersi, non essendoci più nulla che gli consenta di indirizzare verso l’esterno le
energie destinate alla guerra. Nella pace tranquilla della vita ordinata, all’uomo, che nel frattempo
[176] si è fortemente «interiorizzato », non resta altro campo di battaglia per i propri impulsi
selvaggi al di fuori di se stesso. Appena questi iniziano ad agitarsi, egli prende di nuovo a soffrire di
se stesso « grazie agli egoismi rivolti selvaggiamente gli uni contro gli altri » che la sua natura,
complicatasi oltremodo, comprende in sé, e per mezzo dei quali viene a poco a poco smarrendo
di nuovo tutta la compattezza della sua personalità. In questo stadio l’uomo rappresenta l’anello
finale di un’unica catena evolutiva di enorme lunghezza, che incorpora in sé ogni singolo anello,
poiché è la summa di tutta quell’«umanità» morale e sociale, progressivamente acquisita insieme a
tutti i ri-
cordi, legati all’istinto e ancora troppo vivi, della sua passata animalità.
Ma se queste due forme di decadenza scaturiscono necessariamente dalla natura umana e
costituiscono delle inaggirabili fasi di passaggio nella sua evoluzione verso qualcosa di superiore, vi
è poi anche un terzo tipo di decadenza che minaccia di rendere incurabile la condizione patologica
appena descritta e di impedire la possibilità di una nuova guarigione. Si tratta della falsa
interpretazione del mondo, dell’errata concezione della vita che matura in quel dolore e in quella
malattia: è l’invito a una forma di ascesi di qualsiasi sorta, al distacco dalla vita e dalle sue
sofferenze, al lasciarsi andare all’infiacchimento, che compare quale conseguenza dell’etema
«guerra che si è». Un ideale ascetico di questo tipo non viene predicato soltanto da ogni religione e
da ogni morale, ma anche da ogni intellettualismo che sostiene il pensiero a spese della vita e che
contrappone l’ideale della «verità» a quello del massimo accrescimento possibile della vita stessa.
L’autentico rimedio per questa [177] corruzione dilagante sarebbe proprio costituito
dall’abbandonarsi per intero alla vita, affinché una forma nuova e superiore di salute possa nascere
dalla caotica ricchezza di elementi opposti in conflitto tra loro.
« Si è fecondi soltanto a prezzo d’essere ricchi di contrasti» (Crepuscolo degli idoli, «Morale come
contronatura», 3), posto che vi sia ancora forza sufficiente per reggerli, per sopportarli. Quel che
può sembrare dissoluzione e decadenza, la cosiddetta corruzione, è « solo un epiteto offensivo per i
tempi autunnali », - per i tempi cioè delle foglie cadenti, ma anche dei frutti maturi. Nella misura in
cui decadenza e progresso possono significare la stessa cosa, il progresso verso una conclusione
necessaria « non giova a nulla: si deve andare avanti, voglio dire un passo dopo l’altro più in là
nella décadence [...]. Si può intralciare questo sviluppo e, intralciandolo, arginare, concentrare,
rendere più veemente e più improvvisa la degenerazione stessa: di più non si può » (Crepuscolo
degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 43). Una simile conclusione, un tale tragico intreccio di
avanzamento e regresso, si spiega in base al fatto che l’uomo non trova in sé il proprio compimento,
ma aspira a qualcosa che si trova al di là di se stesso, a qualcosa di superiore a quel che egli è. «Col
fatto di un’anima animale rivolta contro se stessa, [...] si era presentato sulla terra qualcosa di tanto
nuovo, profondo, [...] colmo di contraddizioni e colmo di avvenire», che da ciò poteva nascere la
speranza di una possibile, nuova
specie superiore di umanità. E come se con ciò «qualcosa si annunciasse, qualcosa si preparasse,
come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una via, un episodio, un ponte, una grande
promessa...» (Genealogia della morale, I, 16). «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo,
- un [178] cavo al di sopra di un abisso. [...] La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno
scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto » (Così parlò
Zarathustra, «Prologo di Zarathustra»). Nei tempi del tramonto incipiente e della nuova nascita che
si annuncia, i fenomeni di decadenza possono essere risparmiati all’umanità tanto poco quanto
possono esserlo « a una donna incinta i disgusti e le stranezze della gravidanza [...] delle quali ci si
deve dimenticare per rallegrarsi del bambino».
L’idea di un carattere « troppo umano » comune agli istinti, che Nietzsche aveva sottolineato con
grande enfasi nel suo periodo precedente, non viene dunque abbandonata, ma se possibile viene
sottolineata con forza ancora maggiore e assunta quale punto di partenza di una nuova teoria
dell’uomo. Da fredda idea dell’intelletto essa si è elevata a passione dell’anima e, in quanto tale, ha
acquisito un’importanza così enorme da sconvolgere tutte le energie psichiche e intellettuali
di Nietzsche, fino a che nell’ira, nella stizza e nd raccapriccio non gli crescono « ali e [... ] energie
presaghe di sorgenti » (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove») con cui si solleva al di
sopra di esse. Dall ’enfasi che egli pone su questa sua vecchia idea, dalle estreme conseguenze che
ne ricava, sgorga la potentissima brama di nuove teorie, del pensiero di un sacrificio del troppo
umano a vantaggio del superumano.
Come nella parte gnoseologica della nuova dottrina nietzscheana si riflette la dipendenza
dell’elemento logico da quello psichico, della vita del pensiero da quella del sentimento, così, nella
figura umana di una pienezza dolente che mira [179] a una rinascita, c’imbattiamo nell’illustrazione
della natura di Nietzsche: il sacrificio di impulsi in lotta per mettere al mondo una suprema forza
creatrice. La sua dottrina della decadenza è il frutto del sentimento profondo, avvertito di continuo,
della propria malattia, della propria sofferenza. Anche per essa vale quel che vale per ogni dottrina
della sua ultima filosofia: i dolorosi andamenti della psiche, che finora erano stati cause e fenomeni
concomitanti dei vari processi gnoseologici, ne divengono ormai il contenuto conoscitivo vero e
proprio.
L’idea di un’umanità ricchissima che s’immola in sacrificio è quella a partire da cui Nietzsche,
volgendo lo sguardo al-
l’indietro, comprende tutto il corso dell’evoluzione umana. Solo per questo fine fu necessario quel
lungo e penoso ammansimento dell’originaria animalità selvaggia dell’uomo, benché esso finisca
per farne un decadente e questi in conclusione sia diventato già troppo adulto per essere
addomesticato. Il senso di questo processo era infatti quello di arricchire l’uomo di tutta la pienezza
della sua interiorità, per renderlo poi padrone di questa ricchezza e di se stesso. E ciò poteva
avvenire soltanto attraverso una lunga e dura coercizione in cui la sua volontà, come quella di un
individuo ancora minorenne, veniva fatta accedere alla maggiore età a suon di percosse e punizioni.
L’uomo imparò così ad avere una volontà più durevole e tenace dell’animale smemorato, dominato
dall’istante e in balia dell’impulso del momento. Imparò a rispondere della sua volontà - diventò
«l’animale cui sia consentito fare delle promesse». Tutta l’educazione dell’umanità è in fondo una
sorta di mnemotecnica: la soluzione del problema di come si possa incorporare una memoria in una
volontà imprevedibile. «Poter farsi mallevadori di se stessi e con [180] orgoglio, dunque poter dire
di sì anche a se stessi - questo [...] è [...] un frutto tardivo: - quanto a lungo questo frutto dovette
pendere aspro e acerbo dall’albero! » (Genealogia della morale, II, 3). «Mettiamoci invece al
termine dell’immenso processo, là dove l’albero finalmente fa maturare i suoi frutti, dove la società
e la sua eticità di costumi porta infine alla luce lo scopo per il quale essa fu unicamente il mezzo:
troveremo il più maturo frutto, [...] l'individuo sovrano, l’individuo eguale soltanto a se stesso, [...]
insomma l’uomo dalla propria, indipendente, durevole volontà, al quale è consentito promettere»
(ivi, 11, 2). A questa consapevolezza dell’individuo divenuto libero e padrone corrisponde un nuovo
tipo di coscienza morale, secondo cui l’uomo si è fatto ormai troppo adulto per le concezioni morali
e per gli ideali della tradizione - i suoi educatori severi e ormai superflui -, e la vecchia
consapevolezza morale ha così perduto le sue radici e la sua giustificazione.
La dottrina della volontà di Nietzsche presenta una fusione delle sue concezioni metafisiche
precedenti con un determinismo di tipo scientifico. Come allievo di Schopenhauer, Nietzsche
distingue, non diversamente dal maestro, tra la misteriosa volontà «in sé», che costituisce il
fondamento della metafisica schopenhaueriana, e la volontà così come essa si presenta alla nostra
percezione umana. Essa viene ritenuta libera, poiché i fondamenti ultimi del suo essere e della
sua essenza si trovano al di là del nostro comune mondo d’esperienza, al di là del principio di
causalità che vige in esso; viene invece ritenuta non libera in quanto le sue singole manifestazioni
possono essere da noi percepite soltanto all’interno dell’indistruttibile trama del generale nesso di
relazioni causali. Dopo aver osservato per vari anni un determinismo coerente, [181] ancora adesso
Nietzsche si attiene all’idea che la «volontà» si renda degna del suo nome solo sotto la tutela degli
istinti che la determinano. Ma quel che egli nega, da determinista, riguardo alla misteriosa origine e
provenienza della volontà, tenta poi di fissarlo come scopo o fine dell’evoluzione della volontà
stessa. Se infatti, in seguito al lungo processo di ammansimento da lui descritto, è
venuta  progressivamente a crearsi attraverso costrizioni e influssi esterni una volontà matura,
consapevole, superiore all’impulso del momento e in grado di padroneggiare la vita, questa risulta
«libera» in un senso a cui i deterministi non riescono a rendere giustizia: i suoi atti non possono più
infatti essere fatti derivare da ima determinata epoca o da un determinato ambiente; essa risulta ora
determinata da null’altro che da se stessa, cioè dalla sua forza enormemente accresciuta che
esplode senza riguardi - essa è consapevolezza di una potenza allo stato puro, libera dal tempo.
Questo suo carattere non è più di natura metafisica, giacché essa è divenuta quel che è, è il risultato
di una sequenza evolutiva, e la raggiunta libertà del volere è figlia della necessità e del più rigido
condizionamento della volontà. Ma attorno a questa libertà vi è nondimeno qualcosa di
mistico, poiché si volge ora come una potenza incondizionata, che rimodella e ricrea, proprio contro
le condizioni naturali da cui è sorta. Nel suo periodo positivistico Nietzsche aveva imparato a
considerare il mondo della realtà, nel suo sviluppo accessibile e comprensibile a noi soltanto, come
ciò che vi è di più apprezzabile; egli si era rivolto contro i metafisici con le parole: [182] «Ogni
cosa finita, perfetta, viene ammirata; ogni cosa in divenire, sottovalutata» (Umano, troppo
umano, I, 162) - semplicemente perché non si possono più indagare e passare al vaglio le cause che
hanno originato la prima. Ora egli approda alla medesima ammirazione per ciò che è finito e in
apparenza perfetto; e tutto ciò che è in divenire gli sembra apprezzabile soltanto nella misura in cui
si muove in quella direzione. Continua ad ammettere che tutte le cose sono condizionate, ma
soltanto perché, muovendo da questa considerazione, gli si dovrà prima o poi rivelare un significato
mi-
stico che trascende ogni condizionatezza e ogni esperienza. Una condizionatezza che dipende dalla
forza poderosa della volontà divenuta libera, poiché è lei a crearla dentro alle cose; al posto del
volere « libero » o « non libero » dei deterministi, Nietzsche vuole perciò vedere impiegata
l’espressione « forte e debole volere» (Al di là del bene e del male, 21) e tutta quanta la psicologia
deve essere concepita come « morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza» (ivi, 23).
Colui che è dotato della volontà più potente è dunque in ogni epoca l’individuo in sommo grado «
inattuale », colui nel quale è divenuto genio quel che per lungo tempo si è preparato nell’umanità.
Nel genio fluisce in modo libero ciò che l’umanità ha appreso in una condizione di illibertà e
servitù. I geni sono come « materie esplosive in cui è accumulata una forza enorme; il loro
presupposto, storicamente e filosoficamente, è sempre lo stesso: che si sia lungamente raccolto,
accumulato, risparmiato e conservato in vista di loro [...]. L’epoca in cui appaiono è accidentale; se
diventano quasi sempre signori di quest’ultima, ciò dipende dal fatto che sono più forti, sono più
antichi, [183] e che per più lungo tempo si sono andate raccogliendo molte cose in vista di loro. [...]
Relativamente parlando, l’epoca è sempre molto più giovane, più gracile, più lontana dalla maggior
età, più insicura, più infantile». «Il grande uomo è una fine; [...]. Il genio - nell’opera e nell’azione -
è necessariamente un dissipatore: lo spendersi è la sua grandezza... L’istinto dell’autoconservazione
è, per così dire, sospeso; la strapotente pressione delle forze erompenti gli inibisce ogni
salvaguardia e ogni cautela in questo senso» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale»,
44).
Nel genio viene dunque alla luce, in misura straordinaria e almeno in una determinata direzione, ciò
che dovrebbe consentire all’uomo di progredire dalla sua specie verso una specie superiore, una
dissipazione di se stesso a favore di una nuova creazione, una ricchezza prodiga nei cui doni si è
accumulato l’intero passato e in cui esso è diventato quanto mai fecondo, fecondo dell’avvenire. Si
pensi adesso a un genio che, a differenza di altri, non sia tale solo in questo o in quel campo, ma in
rapporto all’intera coscienza dell’umanità, sicché in lui scorre, viva e attiva, la materia che ha
sempre vissuto e agito nel genere umano: un simile genio potrebbe essere l’immagine dell’uomo da
cui nascerà il superuomo. Raccoglierebbe e controllerebbe in sé l’intero passato, anzi, conterrebbe
«l’intera linea uomo, fino a sé»; il cammino e la meta dell’avvenire dell’umanità dovrebbero quindi
rivelarsi in lui
all’improvviso. Grazie alla poderosa volontà di colui che annuncia questa rivelazione, l’evoluzione
dell’uomo riceverebbe per la prima volta una direzione, uno scopo e un avvenire, ogni cosa un
significato proprio e definitivo: in una parola, per la prima volta [184] il filosofo assurgerebbe al
ruolo di creatore, così come Nietzsche lo immagina: il più dotato di volontà di potenza, il genio
dell’umanità che comprende in sé la vita, in cui si rivela quel che Nietzsche afferma in generale del
pensare: « In realtà molto meno uno scoprire che un rinnovato conoscere, un rinnovato ricordare, un
procedere a ritroso e un rimpatriare in una lontana, primordiale economia complessiva dell’anima,
da cui quei concetti sono germogliati una volta: - in questo senso filosofare è una specie d’atavismo
di primissimo rango» (Al di là del bene e del male, 20).
Prima di ogni altra cosa, una specie d’atavismo: è questo il carattere sorprendentemente reazionario
di tutta l’ultima filosofia di Nietzsche, ciò che la distingue nella maniera più netta da quella dei suoi
periodi precedenti. H suo tentativo è infatti quello di sostituire alla venerazione metafisica di
determinati oggetti e di determinati pensieri quella della loro età e della loro origine remota.
Nietzsche non fa propri il « rammemorare » e il « riconoscere » nel senso inteso da Platone, soltanto
perché ritiene di poterli concepire in modo altrettanto significativo e superumano in virtù del lasso
di tempo straordinariamente lungo da cui il pensiero esiste. Vale quindi per lui il principio che di
tutti gli enti di specie elevata, sia solo il più antico a determinare il futuro,3 che il valore
e la nobiltà delle cose [185] siano legati esclusivamente alla loro età: soltanto alla fine, infatti, esse
rivelano i loro tesori, si mostrano nella loro potenza, nella loro libertà e nella loro autonoma forza. «
Chi le possiede (le cose buone) è diverso da chi le acquista. Ogni bene è eredità: quel che non è
ereditato, è incompiuto, è cominciamento...» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale»,
47); nobile è «ciò che non si lascia improvvisare ». Nulla è perciò più plebeo, meno nobile, di ciò
che è in divenire e di colui che porta mutamento e novità: l’uomo e lo spirito moderno, quello
determinato in tutto e per tutto dal suo tempo e che perciò è in tutto e per tutto uno spirito da
schiavo. Spirito signorile può diventarlo solo dopo aver incorporato secoli e millenni, ed essere così
diventato anche lui un «inattuale», una «genialità senza tempo».
« La democrazia è stata in ogni tempo la forma di declino della forza organizzatrice: [...] affinché ci
siano delle istituzioni, deve esistere una specie di volontà, d’istinto, d’imperativo, [186] antiliberale
fino alla malvagità: volontà di tradizione, di autorità, di responsabilità sui secoli futuri, di
solidarietà  espressa da catene di generazioni, in avanti e in indietro, in infinitum » (Crepuscolo
degli idoli, « Scorribande di un inattuale», 39). E' interessante osservare attraverso un confronto
dei rispettivi passi nelle opere precedenti di Nietzsche quale mutamento nel modo di concepire la
teoria possa aver prodotto in lui un semplice capovolgersi del sentimento, e di come le antitesi si
acuiscano rapidamente in modo inconciliabile.4 Ora
egli fustiga il «livellamento plebeo» [187] di tutti gli uomini e la mite condizione di pace in cui non
possono più nascere crude forze barbariche che apporterebbero la forza sana di epoche antiche in un
presente infiacchito e debilitato. Barbari sono « gli uomini più interi (la qual cosa, a ogni grado,
significa anche lo stesso che “bestia più intera”) » (Al di là del bene e del male, 257). Questi uomini
e queste bestie più intere risultano malvagi e pericolosi in una condizione sociale pacifica, vengono
bollati come criminali e trattati come tali - anzi, grazie ai loro impulsi naturali più forti, essi sono i
criminali nati e quelli che infrangono l'ordinamento sociale esistente. «Il tipo criminale: è il tipo
dell’uomo forte posto in condizioni sfavorevoli [...]. Gli mancano le vaste foreste, ima certa natura e
forma d’esistenza più libera e più perigliosa, in cui ha forza di diritto tutto quanto è arma di difesa e
d’offesa nell’istinto dell’uomo forte. Le sue virtù sono messe al bando dalla società» (Crepuscolo
degli idoli, « Scorribande di un inattuale», 45).
L’ideale di libertà secondo cui a ciascuno spetta una parte di questa, e che quindi concede libertà di
azione anche ai più deboli e ai più miserabili, si contrappone dunque esattamente a quello di
quest’uomo: il suo modo di vivere fino in fondo, senza riguardi, richiede sempre che si faccia
violenza agli altri, la sua forza si esprime spontaneamente e necessariamente nel travolgere
qualunque forma di debolezza gli stia intorno. Ma la causa di questa prorompente forza degli istinti
che alberga in lui risiede nel fatto che egli, per così dire, proviene da un più antico stadio di civiltà,
[188] rappresenta ima parte più antica di umanità: in una parola, che egli, al pari del genio e di chi è
dotato di una volontà poderosa, possiede in sommo grado doti ataviche. Per ignobile che
possa ancora essere la natura della forza istintuale che alberga in
lui fin dall’antichità, essa risulta già nobile poiché rappresenta una crepa in una compattezza
accumulata da tempo, un potente materiale esplosivo con cui il passato feconda l’avvenire. Là dove
il criminale è assai forte, dove è quasi un genio del suo genere e un « uomo del libero volere », là
egli riesce talora a indirizzare il corso dei tempi secondo il suo peculiare atavismo e a piegare sotto
il suo volere tirannico l’epoca che gli oppone resistenza.
Un esempio in materia è Napoleone, che Nietzsche interpreta in modo analogo a Taine. Anche a lui
sembra quanto mai significativo il fatto che Napoleone sia un discendente dei geni-tiranni
dell’epoca rinascimentale il quale, trapiantato in Corsica, nella natura selvaggia e primitiva degli usi
locali, poté conservare intatto dentro di sé il retaggio dei suoi precursori, per poi soggiogare con la
loro violenza l’Europa moderna, che gli offriva, per scaricare le sue forze, un teatro del tutto diverso
da quello che l’Italia di un tempo aveva offerto ai suoi avi. L’ammirazione di Nietzsche per il
grande corso appartiene al suo ultimo periodo intellettuale; in precedenza anche il Rinascimento
italiano era stato concepito in maniera sostanzialmente diversa.5
[189] Nella salute primordiale della forza violenta dei suoi istinti e nel suo egoismo senza riguardi,
Napoleone diventa
ora per Nietzsche l'immagine ideale della natura signorile, come deve essere e come ancora oggi
servirebbe per sradicare tutte quelle delicatezze morali e quei sentimenti effeminati che hanno
potuto prosperare grazie alla natura da schiavi degli uomini moderni. E giungiamo così alla
distinzione tanto discussa e tante volte sopravvalutata tra morale dei signori e morale degli schiavi.
Anche in questo caso, Nietzsche prese inizialmente le mosse da stimoli che gli provenivano dal
positivismo. Come già ricordato, fu l’opera di Rèe allora in preparazione, La nascita della
coscienza, che [190] offrì l’occasione per discutere a fondo con l’amico tutto il materiale di cui
questi aveva bisogno per i suoi scopi - in particolare anche il nesso etimologico e storico tra i
concetti « nobile-forte-buono» e «umile-debole-cattivo» nella morale più antica o, per così dire,
nello stadio premorale della civiltà. Il modo in cui i due amici condussero queste discussioni e
questi studi in comune è indicativo dell’atteggiamento che Nietzsche aveva ora assunto nei
confronti delle concezioni positivistiche: prestò ancora pazientemente ascolto alle riflessioni di Rèe,
ne trasse qua e là degli stimoli o del materiale per il proprio pensiero, ma prese a rivolgersi in modo
ormai ostile verso il compagno di un tempo.
Nel libro di Rèe lo spostamento storico del giudizio a favore di tutti i sentimenti benevoli ed
egualitari veniva inteso come un trapasso naturale e progressivo in direzione di forme sociali
maggiormente sviluppate: la glorificazione iniziale della forza predatoria e dell’egoismo cede il
campo all’introduzione di costumi e leggi più miti, finché, nella morale cristiana, la compassione e
l’amore per il prossimo non vengono sanzionati come il sommo precetto morale. Nella sua
valutazione personale del fenomeno morale, Rèe era dunque ben lungi dallo schierarsi al fianco
degli utilitaristi inglesi, a cui pur si avvicinava moltissimo nelle sue concezioni scientifiche. Per
Nietzsche, al contrario, sulla scorta della sua nuova concezione del fenomeno morale, la differenza
storicamente data tra le due distinte valutazioni di quel che si definisce «buono» culmina in
un’antitesi inconciliabile, in un conflitto tra [191] morale dei signori e morale degli schiavi che si
protrae irrisolto fino ai giorni nostri.
Lo straordinario significato che aveva acquisito ai suoi occhi qualsiasi forma di potenza della
volontà e di forza dell’istinto lo portò a scorgervi l’unica possibile fonte di ogni morale sana; nella
sanzione dei sentimenti benevoli, egli ravvisava invece un micidiale malanno di cui l’umanità aveva
soffer-
to fino ad allora. L’idea sostenuta in precedenza di ricondurre ogni valutazione morale all’utilità,
alla consuetudine e all’oblio degli originari motivi di interesse, gli sembrò ormai errata. Un’origine
di questo tipo poteva ai massimo toccare in sorte alla morale degli schiavi; per l’altra morale si
doveva invece trovare un’origine più nobile: è infatti nobile definire una cosa buona o cattiva senza
curarsi della sua utilità, ed è questo il modo in cui procede la natura signorile: percepisce se stessa
come « buona » in tutti i moti del suo animo e guarda con superiorità - con disprezzo involontario e
semiconsapevole - come qualcosa di « cattivo » tutto quel che non corrisponde ai suoi istinti, tutto
quel che è debole, dipendente, pavido. La morale degli schiavi, di questi disprezzati, di questi
«cattivi», nasce in modo del tutto diverso: non spontaneamente da se stessa, ma sul terreno del
ressentiment, quasi come un atto di vendetta: chiama «malvagio», detestabile, quel che appartiene ai
ceti dominanti e solo muovendo da ciò escogita, come qualcosa di derivato, il proprio concetto
di «buono» per l’insieme di tutte le qualità opposte, cioè per ciò che è debole, sottomesso,
sofferente.
Da un lato vi è dunque l’« innocenza della coscienza propria di un animale da preda», il «mostro
giubilante», forte, che compie anche le azioni peggiori con una «tracotanza e un intimo equilibrio»
[192] come se si trattasse di una «zuffa studentesca » (Genealogia della morale, I,11); dall’altro il
sottomesso, uso all’odio, la cui anima impotente è assetata di vendetta, mentre sembra predicare la
morale della compassione e del commovente amore per il prossimo. Quest’ultimo tipo umano si è
trasformato in un’immagine ideale compiuta nel cristianesimo, che Nietzsche intende senz’altro
come un mostruoso atto di vendetta del giudaismo nei confronti del dispotico mondo dell’antichità.
L’autentica raffinatezza di questo piano di vendetta risiede nel fatto che gli ebrei misero in croce il
fondatore del cristianesimo e ripudiarono la sua religione affinché gli altri popoli « abboccassero a
quest’amo » senza esitare.6
Non è tuttavia necessario seguire Nietzsche in tutte le sue spiegazioni e nella sua interpretazione
della storia talvolta arrischiata, perché il vero significato di questa concezione per la sua filosofia si
trova in luoghi diversi da quelli in cui lo si cerca d’abitudine. Spinto dal bisogno di generalizzare il
più possibile e di trovare un fondamento scientifico, Nietzsche ha tentato [193] di ricavare dalla
storia del genere umano e di introdurre in essa qualcosa la cui importanza risiedeva per lui in una
recondita problematica psicologica. Il fatto che si confonda il corso dei pensieri nietzscheani,
insistendo oltre il dovuto sull’aspetto errato della questione - quello della scientificità - è perciò
degno di riprovazione. Anche per queste ipotesi di Nietzsche infatti, e in modo quanto
mai particolare per esse, vale il principio in base a cui non è lecito appropriarsene per via teoretica
per poi ricavarne il nucleo originale. La questione fondamentale di Nietzsche non riguardava la
storia dell’anima umana, ma il modo in cui la storia della sua propria anima poteva essere intesa
come quella dell’umanità intera. In nettissimo contrasto con lo scrupolo filologico con cui nel suo
primo periodo, e per l’essenziale anche nel periodo successivo, aveva interpretato la storia e la
filosofia, la precisione della ricerca scientifica non svolgeva adesso più alcun ruolo accanto alle sue
idee e alle sue intuizioni geniali - e non poteva peraltro più svolgerne alcuno, dal momento che
qualsiasi lavoro scientifico gli risultava ormai impossibile.
Per tutti i lavori che ancora avrebbe voluto vergare, valgono dunque le parole tratte da La gaia
scienza, secondo cui noi restiamo « sempre in nostra compagnia » anche quando presumiamo di
estrarre dalle cose qualcosa di estraneo: « Tutto ciò che è della mia specie nella natura e nella storia,
mi parla, mi loda, mi spinge innanzi, mi consola: il resto non lo intendo o lo dimentico subito»
(166). «Limiti del nostro udito. Si odono solo le domande alle quali si è in condizione di trovare una
risposta» (ivi, 196). «Per quanto grande sia l’avidità della mia conoscenza, non potrò estrarre dalle
cose null’altro che già non mi appartenga - mentre ciò che appartiene ad altri resta nelle cose» (ivi,
242).
[194] Trattando in modo così arbitrario il materiale delle sue ipotesi filosofiche, egli si allontanò
alquanto dall’osserva-
zione spassionata e dalla fondazione scientifica, divenne più soggettivo nelle sue conclusioni e nelle
sue deduzioni di quanto non fosse stato negli anni in cui si limitava ancora consapevolmente alla
propria esperienza vissuta. Quel che assume significato nella sfera intima diventò quel che decide e
impone le sue leggi sul mondo esterno, e Nietzsche stesso divenne il «grande despota», il «mostro
accorto che, esercitando la sua clemenza e inclemenza, costringe e fa violenza a tutto il passato: fino
a farlo diventare il suo ponte, e presagio e araldo e canto del gallo » (Così parlò Zarathustra, « Di
antiche tavole e nuove»).
Nell’ambito della problematica psicologica, a Nietzsche fin dall’inizio interessa meno stabilire in
modo storicamente esatto l’antitesi tra morale dei signori e morale degli schiavi di quanto non gli
importi constatare il dato di fatto che l’uomo, quale è stato fino a ora, reca in se stesso entrambi i
poli dell’antitesi, che egli è il risultato dolente di una contraddittorietà degli istinti, questo duplice
modo di valutare fatto persona. Se ci rammentiamo della descrizione nietzscheana della decadenza,
in essa ritroviamo allora l’uomo in quanto natura signorile, nella sua forza primordiale indomita e
nella sua indocilità, asservito e reso però schiavo ubbidiente dalla costrizione sociale, dal fatto
stesso della nascita della civiltà. Ogni civiltà, in quanto tale, si basa per Nietzsche sul fatto di fare
dell’uomo un essere malato, uno schiavo, ed egli nota espressamente che se questo processo non
fosse avvenuto, se l’anima umana non si fosse rivolta con violenza contro se stessa, allora sarebbe
rimasta « piatta » e « sottile ». La primordiale natura da signore dell’essere umano non è infatti
diversa da [195] quella di uno splendido animale che diviene capace di evolversi soltanto attraverso
le ferite che vengono inferte alla sua forza; nel dolore che esse producono egli deve imparare a
dilaniarsi, a vendicarsi di sé, a sfogare la propria impotenza rivolgendo verso l’interno le proprie
passioni: tutto ciò esclusivamente sul terreno del ressentiment degli schiavi. «L’essenziale [...] è, a
quanto sembra, per dirla ancora una volta, che si ubbidisca a lungo e in una sola direzione:
ne risulta [...] a lungo andare sempre qualcosa per cui vale la pena di vivere sulla terra » (Al di là
del bene e del male, 188).
Questa situazione di decadenza non è per Nietzsche soltanto qualcosa che deve essere superato, ma
addirittura il presupposto necessario dell’uomo dalle passioni durevoli, dagli affetti stabili e sicuro
di sé che da essa crescerà. Ma si noti bene: questo uomo compiuto, con la sua natura signori-
le profonda e individuale, non deve in nessun modo vivere per il suo ingenuo egoismo, non deve
eliminare i pregiudizi e e sue catene di schiavo per diventare il fine della propria esistenza, ma deve
diventare il capostipite di una specie umana superiore e immolarsi in sacrificio per la nascita di essa
poiché, come abbiamo visto, l’apice dell’evoluzione coincide per Nietzsche con il tramonto
dell’umanità, giacché questa è solo il passaggio verso qualcosa di più elevato, un ponte, un mezzo.
Quanto più grande perciò è un uomo, tanto più è genio e vetta in ogni senso, tanto più è anche una
fine, una dissipazione di se stesso, un defluire delle ultime forze - «pronto a distruggere nella
vittoria! » (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove»). Deve soltanto diventare
«qualche cosa di perfetto, di compiutamente riuscito, di beato, di possente, di trionfante », per
essere pronto « al nuovo, al più difficile ancora, al più lontano ancora, come archi cui ogni angustia
dà sempre [196] soltanto una tensione ancor più forte » (Genealogia della morale, 1,12), un arco la
cui freccia mira al superuomo.
L’uomo diventa così il campo di battaglia di istinti in contrasto e in guerra tra loro, dalla cui
dolorosa sostanza soltanto risulta ogni sviluppo; in lui si palesa ancora una volta quell’intreccio di
volontà di dominio e di obbligo all’ubbidienza, di sopraffazione dell’uno sull’altra, da cui un
tempo nacque ogni civiltà e da cui ora deve nascere una civiltà superiore quale ultima e suprema
creazione. Non è qualcuno che desidera la pace o che gode di se stesso, ma un lottatore e uno che
vuol tramontare. Così, grazie alla sua personalità dall’individualità perfetta e dallo spirito libero, si
ripete in lui proprio ciò che un tempo agì sull’umanità, dall’esterno e mediante la servitù, come uno
strumento pedagogico imposto; in lui noi ritroviamo « questa segreta tirannide su se stessi, questa
crudeltà di artisti, questo piacere di dare a se stessi, quasi greve, riluttante, sofferente materia, una
forma, di marchiare a fuoco una volontà, una critica, una contraddizione, un disprezzo, un no,
questo sinistro e orrendamente gioioso travaglio di un’anima docilmente scissa in se stessa, che si
cagiona dolore per gusto di cagionare dolore» (Genealogia della morale, II, 18). Proprio l’anima
più perfetta e più ampia deve infatti esprimere in sé, nel modo più chiaro e irrevocabile, la legge
fondamentale della vita, quella che recita: «Io sono il continuo, necessario superamento di
me  stessa » (Così parlò Zarathustra, «Della vittoria su se stessi»). Non si può non riconoscere in
quale misura Nietzsche ab-
bia posto la propria situazione psichica a fondamento di queste teorie, con quanta forza egli rifletta
in esse la propria natura e come infine abbia tratto dal suo bisogno più profondo [197] la legge
fondamentale della vita. La sua dolorosa « molteplicità di anime », la sua violenta « scissione » in
una parte che si sacrifica e che adora e in un’altra che domina e viene divinizzata, stanno alla base
del suo quadro complessivo dell’evoluzione del genere umano. Ovunque parli di schiavi e signori,
bisogna tener bene a mente che egli parla di se stesso, mosso dallo struggimento di una natura
dolente disarmonica per un’indole opposta alla sua, e dal desiderio di poter guardare a essa come al
proprio Dio. E' il suo io quello che descrive, quando dice dello schiavo: « Il suo spirito
ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi
fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio » (Genealogia della morale, I, 10); e
nella natura signorile, nel primordiale uomo dell’azione, attivo, felice, sicuro dei propri istinti,
incurante, egli descrive la figura contraria alla sua. Ma facendo dell’uno il presupposto dell’altro,
facendo della natura umana in quanto tale lo scenario su cui si incontrano ogni volta questi due
elementi opposti per superarsi a vicenda, egli li concepisce come stadi evolutivi all’interno dello
stesso essere, i quali, dal punto di vista storico, permangono antitetici, ma nel singolo ente, dal
punto di vista psicologico, risultano come una scissione essenziale all’interno dell’uomo che si
evolve. La sua concezione della lotta storica tra schiavi e signori, in tutta la sua portata, non è
dunque altro che una grossolana illustrazione di quel che accade in ogni uomo superiore, del
crudele processo psichico attraverso cui questi deve scindersi in Dio del sacrificio e in animale del
sacrificio.
[198] Soltanto ora si è in grado di stabilire cosa significhi effettivamente la «trasvalutazione di tutti
i valori», di tutte le concezioni morali e ideali che sono esistite finora, e quale rapporto la leghi all
'ideale ascetico in cui per Nietzsche vengono adesso a riassumersi tutti gli ideali religiosi e
morali. Questa trasvalutazione comincia con una dichiarazione di guerra a ogni forma di ascesi, con
una canonizzazione dell’elemento «troppo umano» nell’uomo, finora denigrato e sottomesso
giacché ciò che è naturale e sensibile intralciava la via verso il soprannaturale e il soprasensibile a
cui si prestava fede come a un dato di fatto inconcusso. Ma il Nietzsche filosofo dell’avvenire non è
più disposto a credere a lungo al fatto che una superumanità sia qualcosa di dato: essa deve

infatti venir creata attraverso l’uomo stesso, e a tal fine egli non dispone di altro materiale al di
fuori dell’elementare forza vitale della natura così come essa è. Non si tratta dunque più di
dissolvere nel modo più completo possibile l’al di qua in un al di là più elevato, ma di carpire -
nell’al di qua - tutta la pienezza di un al di là ricco, inatteso, stupendo.7 Egli assegna perciò
nuovamente il diritto di esistere agli impulsi di-
sprezzati, temuti, [199] maltrattati, alle passioni dell’uomo «naturale» non ancora messo in riga da
nessuna morale. Convinto del fatto che [200] ciò non conduca a una divisione in forze buone e
cattive, ma a un rafforzamento e al massimo incremento della forza vitale in generale - sicché la
vita possa realizzare da sé il suo scopo supremo -, egli è disposto a concedere che « all’uomo sono
necessarie le sue cose peggiori per le migliori, — che tutto quanto è peggiore in lui è anche la sua
migliore energia e la pietra più dura per il supremo artefice; e che l’uomo deve diventare migliore e
peggiore» (Così parlò Zarathustra, «Il convalescente»).
Quale portavoce della vita, l’uomo deve immedesimarsi, abbandonarsi, disperdersi nella sua virtù;
ma se ribattezza il proprio sé come la propria virtù, deve allora lasciarla crescere in se stesso fino a
una potenza tale da farlo esplodere come un contenitore troppo angusto: deve soltanto possederla,
per essere posseduto da lei. Crescendo fino a un eccesso che sprigiona una simile forza, essa
inghiotte l’uomo e la sua volontà individuale nella fiamma e nel sentimento del tutto, si trasforma
per lui nel ponte sul quale egli procede verso il tramonto: «L’uomo è qualcosa che deve essere
superato: e perciò devi amare le tue virtù, - giacché di esse perirai» (Così parlò Zarathustra, «Delle
gioie e delle passioni»). «Io amo colui l’anima del quale trabocca da fargli dimenticare se stesso, e
tutte le cose sono dentro di lui: tutte le cose divengono così il suo tramonto» (ivi, «Prologo di
Zarathustra»).
Sebbene godimento egoistico della forza e virtù possano apparire al primo sguardo dei sinonimi, in
verità essi rimangono profondamente distinti tra loro. La differenza di valore tra [201] le forze e le
qualità umane, che ogni morale intende solo come una differenza qualitativa, si è certo ora
interamente trasferita nell’ambito della quantità, ma la dedizione volontaria ed entusiasta a questo
incremento di forza che distrugge il sé contiene nondimeno una differenza di
valore nell’atteggiamento. L’infamia di un determinato comportamento viene messa in rilievo
allorché si afferma che non è la cattiveria la peggiore nemica della grandezza umana, ma «perché le
sue cose peggiori sono così piccole! Ah, perché le sue cose migliori sono così piccole!» (ivi, «Il
convalescente»). L’eccesso è la via verso il superumano, e per questo lo anticipa il grido: « Ma
dov’è il fulmine che vi lambisca con la sua lingua! Dov’è la demenza che dovrebbe esservi
inoculata? Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è quel fulmine e quella demenza! -» (ivi, «Prologo
di Zarathustra»).
Ma la via che Nietzsche sceglie per raggiungere la sua meta ideale non può essere confusa con
questa meta stessa; egli considera infatti il dominio degli «istinti terribili» soltanto come un mezzo
di cui ha bisogno per il supremo scopo finale. Del tutto a torto e con un fraintendimento grossolano
gli è stato rimproverato il fatto che il suo «superuomo» possiede i tratti di un Cesare Borgia o di un
depravato essere inumano, invece di quelli di un Gesù. Ma l’essere «inumano» non è in verità il
modello, ma soltanto il piedistallo per il «superuomo»; rappresenta, per così dire, il blocco di
granito grezzo necessario all’innalzamento della statua di una divinità. Ma nella forma e nella
sostanza questa statua divina dell’ideale del superuomo non è soltanto diversa, bensì è anche
l’opposto del piedistallo. E l’antitesi è concepita in modo così profondo e marcato come non accade
nemmeno nel caso della morale ascetica. Ogni morale aspira soltanto a un [202] miglioramento e a
un abbellimento di ciò che è umano, mentre Nietzsche muove dal presupposto che debba
essere creata una nuova specie, ima specie superiore.
Concepisce perciò come una rottura completa, come la lotta di elementi opposti ostili, quel che
finora era stato inteso come un passaggio da qualcosa di più basso a qualcosa di più alto in cui
l’immagine ideale che fungeva da meta conservava i tratti tipici di ciò che è umano: quel che era
soltanto una differenza di grado tra l’uomo «naturale» e l’uomo « morale » all’interno di una
comune essenza umana, diventa per Nietzsche un contrasto assoluto di essenze tra l’uomo di natura
e il superuomo. Si può dunque affermare che se si considera la via morale imboccata da Nietzsche,
il tratto che la connota più di ogni altro è quello antiascetico, dal momento che essa non è simile al
sentiero erto e pietroso della rinuncia a se stessi, ma conduce in mezzo a una foresta tropicale di
godimento spensierato di sé. Se invece si osserva con attenzione la meta morale di Nietzsche, allora
essa si rivela di natura interamente ascetica, dal momento che non intende soltanto elevare l’uomo,
ma oltrepassarlo completamente, non soltanto purificarlo, ma superarlo [aufheben] del tutto. Da un
lato dunque Nietzsche combatte la morale corrente per via del suo fondamentale carattere ascetico,
per via del suo disprezzo e della sua condanna dei bassi desideri umani, a cui assegna invece un
valore alto in quanto fonti di forza per l’uomo; dall’altro, tuttavia, combatte con impeto non minore
la morale dominante laddove essa non è ancora per lui sufficientemente ascetica. Si rivolta contro la
sua fede ottimi-
stica secondo cui l’uomo potrebbe essere fatto avvicinare a una meta ideale attraverso una
determinata forma di purificazione: l’uomo infatti, secondo Nietzsche, non ne è capace, [203] e
ogni tentativo di nobilitarlo poggia su di un mero indebolimento della forza vitale elementare. «Li
avevo visti nudi una volta ambedue, il più grande e il più piccolo degli uomini: troppo simili l’uno
all’altro, — anche il più grande, ancora troppo umano! » (Così parlò Zarathustra, «Il
convalescente»). Il tentativo compiuto da ogni morale per rendere l’essere umano simile a un essere
ideale si rivela soltanto un’imitazione fittizia a danno della vera forza; ogni trasformazione morale è
perciò solo ima sorta di camuffamento estetico di una natura umana infiacchita, ma peraltro
completamente immutata. « Come? Un grand’uomo? Ma io non vedo che un commediante del suo
proprio ideale» (Al di là del bene e del male, 97). « Cercavo uomini grandi e trovai soltanto le
scimmie del loro ideale» (Crepuscolo degli idoli, « Sentenze e frecce», 39).
A questa concezione pessimistica dell’uomo corrisponde il tratto di fondo radicalmente ascetico
posseduto dalla meta ideale della filosofia nietzscheana: essa può infatti essere raggiunta soltanto
attraverso il tramonto dell’uomo. E questo tratto fondamentale emerge in modo tanto più estremo
quanto più Nietzsche si sforza di sconfessare e di ripudiare ogni forma di ascetismo. Quanto più
esclusivamente si richiede fin dall’inizio la crescita della forza egoistica, tanto più immane appare,
alla fine di questa evoluzione, la richiesta di rinunciare al proprio sé perché possa crearsi spazio per
il superuomo. Se prima si diceva: l’uomo è qualcosa che deve diventare cattivo, selvaggio e crudele,
alla fine si dice: «l’uomo è qualcosa che deve essere superato » - ogni forma di crudeltà e
ferocia esiste solo per rivolgersi contro l’uomo e annientarlo.
I due aspetti dell’etica di Nietzsche divergono in modo tanto inconciliabile da far sì che egli li
raccolga in un unico precetto, [204] nella prima e unica legge morale che deve essere incisa sulle
nuove tavole di valori: «Divenite duri! » (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove» e
Crepuscolo degli idoli, «Parla il martello»). Nella esortazione: «Divenite duri! » si mostra
chiaramente il carattere ancipite della morale di Nietzsche, con i suoi tratti di crudeltà totalmente
tirannica e di rinuncia ascetica. Diventare duri vuole infatti dire, in un caso, forza di resistenza
contro tutti i moti dell’animo teneri e benevoli, impietrirsi in un godimento egoistico, insomma:
durezza contro gli altri, buona volontà per l'eserci-
zio di un potere dispotico; nell’altro caso, invece, significa durezza verso se stessi, vuol dire: la
durezza vi rende nobili così come nobilita la pietra che l’artista trasforma in una grande opera
d’arte. Tutto vi è concesso tranne una cosa: non potete cedere, non potete sbriciolarvi durante il suo
lavoro altrimenti tutta la vostra umanità, per quanto in alto possa risultare agli occhi della vecchia
morale, è buona solo per l’immondezzaio, è da spazzare via, è rifiuto e materiale guasto.
In questa prospettiva la cosa più infame sembra la spaurita tenerezza del sentimento, la tentennante
esitazione di fronte a ciò che è terribile e decisivo. Infatti, così canta Zarathustra, il creatore
dell’avvenire: « La mia ardente volontà creatrice mi spinge sempre di nuovo verso l’uomo; così
il martello viene spinto verso la pietra. Ah, uomini, nella pietra è addormentata un’immagine,
l’immagine delle mie immagini! Ah, che essa debba dormire nella pietra più dura e più informe! E
ora il mio martello infuria crudelmente contro la sua prigione. Dalla pietra un polverio di
frammenti: che mi importa? » (Così parlò Zarathustra, « Sulle isole Beate»).
[205] Siamo così giunti di fronte all’enigma e al mistero delle dottrine di Nietzsche, di fronte alla
questione: come è in generale possibile la nascita dell’essere superumano da quello inumano se
entrambi devono essere concepiti come due opposti inconciliabili. La risposta a questo
interrogativo ricorda involontariamente una vecchia ricetta per la salute morale che recita più o
meno così: «Per liberarsi da un difetto, gli si ceda e lo si esageri finché esso non prenda a
spaventarci con la sua esagerazione e il suo eccesso». La ricetta per la salute morale che Nietzsche
prescrisse all’umanità, giacché per se stesso non conosceva nulla di più efficace, presenta una certa
somiglianza con essa. In effetti, attraverso lo scatenamento di tutti gli impulsi più selvaggi, egli
voleva fare approdare l’uomo a ima situazione in cui il godimento egoistico, per eccesso ed
esagerazione, si mutasse in un dolore per se stessi. Dal tormento di questo dolore avrebbe dovuto
nascere un anelito di illimitata potenza per l’opposto di se stessi, l’anelito di quel che è forte,
eccessivo, violento, per ciò che è tenero, mediocre e mite; l’anelito della bruttezza e delle brame
oscure per la bellezza e la purezza luminosa, l’anelito dell’uomo straziato, posseduto dai suoi
impulsi selvaggi, per il suo Dio. Nietzsche riteneva possibile che da un tale stato d’animo potesse
effettivamente erompere il suo opposto attraverso lo strapotere di una passione. H magnanimo
gli pare così « un uomo immensamente assetato di vendetta, al
quale si mostra un vicino soddisfacimento cui egli già nell'immaginazione dà fondo bevendoselo a
pieni sorsi, interamente, fino all’ultima goccia, a tal punto che a questa precipitosa gozzoviglia
[206] segue un’enorme immediata nausea: egli ormai s’innalza “al di sopra di sé” - come si dice - e
perdona il suo nemico, anzi lo benedice e gli rende onore. Con questa violenza esercitata su di sé,
con questa derisione del suo ancora così potente impulso di vendetta, non fa altro che arrendersi al
nuovo impulso» (La gaia scienza, 49).
Ma la condizione fondamentale per potersi fare una rappresentazione attraverso il proprio sé
dell’essere apparentemente superumano è che quello mantenga la forza selvaggia della sua
straziante smodatezza, che non si infiacchisca, non si freni, non si mitighi o si « purifichi », per
privare gli opposti della loro dolorosa tensione. Quanto più in alto si vuole giungere - fino ai fiori
delicati di ciò che è bello e divino -tanto più a fondo si devono affondare le radici della
propria forza nel più oscuro regno ctonio, nel proprio elemento inumano, disumano. Il superumano
prodotto dall’uomo diventa così la rappresentazione di una mera parvenza divina, di una immagine
istantanea per così dire, non quella della sua natura vera e propria: ma esso è realizzabile soltanto in
questo modo. Dal momento che nessuna evoluzione graduale, nessuna transizione avvicina tra loro
gli opposti, dal momento che essi piuttosto si condizionano e si producono proprio in virtù della
loro opposizione, tra loro resterà in eterno un abisso insormontabile: da un lato la realtà degli
impulsi umani spaventosamente accresciuta, caoticamente agitata; dall’altro una semplice immagine
illusoria, un tenue riflesso, quasi una maschera divina dietro a cui non vi è alcuna realtà autonoma.
Contro questa teoria di Nietzsche si può avanzare la stessa obiezione che egli muove alla morale
corrente, di [207] accontentarsi cioè di rendere l’uomo simile a un’immagine ideale che essa gli
pone davanti agli occhi: l’obiezione di avere di mira soltanto un camuffamento estetico e non una
metamorfosi radicale, di abbassare così l’uomo a un semplice « commediante del suo proprio ideale
». Si tratta esattamente dello stesso aspetto che ci aveva stupito allorché esaminammo la posizione
di Nietzsche nei riguardi del fenomeno ascetico: quel che egli sembra combattere fin nei suoi
fondamenti, lo assume poi a fondamento delle sue teorie, ma soltanto nelle sue conseguenze e nel
suo significato più estremi. Ciò che egli respinge nel modo più risoluto lungo il suo cammino, alla
fine lo utilizza per annetterlo alla sua meta finale, al
suo scopo. Si può anzi essere certi del fatto che dove Nietzsche si accanisce e disprezza qualche
cosa con un astio tutto particolare, là vi è qualcosa che in un modo o nell’altro si nasconde nel
profondo, nel cuore della sua filosofia o della sua vita. E questo vale sia per le persone, sia per le
teorie.
È lo stesso Nietzsche, peraltro, ad ammettere che l’oggetto con cui ingaggia la sua lotta ha
posseduto un qualche valore come momento dello sviluppo verso la concezione da lui proposta, Nel
caso in questione, ad esempio, egli ammette che l’uomo ha acquisito solo gradualmente la capacità
di farsi una rappresentazione del superuomo, nell’ambito della sua evoluzione all’interno della
morale dominante, dell’arte e della religione. Soltanto facendogli credere alla possibilità
di nobilitare la sua natura, queste gli hanno insegnato a «divenire a tal punto arte, superficie, giuoco
di colori, [...] che la sua vista non è più insopportabile» (Al di là del bene e del male, 59); gli hanno
«insegnato ad apprezzare l’eroe che si cela in ognuno di tutti questi uomini quotidiani, [208] nonché
l’arte di poter fissare in noi stessi, di lontano e quasi fossimo semplificati e trasfigurati, degli eroi -
l’arte di “comparire sulla ribalta” in faccia a noi medesimi. Soltanto in tal modo c’è dato tirar di
lungo davanti ad alcuni ignobili dettagli che sono in noi! » (La gaia scienza, 78). La differenza
tra l’uomo così quale è stato finora e quello a cui Nietzsche aspira consisterebbe dunque nel fatto
che quest’ultimo non si abbandona alla fede che il suo essere si sia trasformato dal momento in cui
ha sviluppato in sé tratti morali, artistici e religiosi; egli rimane consapevole del fatto che, nel
momento in cui conferisce visibilità all’ideale, sta creando qualcosa come farebbero un poeta o un
attore. Ma questa idea può venirgli soltanto se ha raggiunto il livello di forza previsto da Nietzsche,
se è « divenuto abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista» (Al di là del bene e del male,
59]; altrimenti non sarebbe in grado di reggere la verità che la sua natura è immutabile, che il suo
ideale superumano è soltanto un’immagine contemplata, che la sua massima opera morale è solo
un’opera d’arte. Bisogna dunque intendersi quando Nietzsche afferma: « Si potrebbe annoverare gli
homines religiosi tra gli artisti, come il loro ordine più elevato » (ibidem).
infatti dal principio artistico che sgorgano le differenze di valore etiche e religiose dotate di maggior
vitalità; e l’« al di là del bene e del male » nietzscheano, come anche il suo « al di là del vero e del
falso », si arresta di fronte all’« al di là del bello e del brutto » senza riuscire ad avervi accesso.
Il superuomo è possibile e concepibile soltanto come opera d’arte dell’uomo. Volendosene fare
un’immagine, non ve ne è forse ima migliore di quella impiegata da Nietzsche nella Nascita della
tragedia dallo spirito della musica, [209] dove egli parla del rapporto tra il dionisiaco e l’apollineo
nella creazione artistica. In quel passo paragona le visioni apollinee, nate dalla forza vitale
orgiastica del dionisiaco, a quel noto fenomeno ottico in cui, tenendo fisso lo sguardo sul sole,
davanti ai nostri occhi abbagliati si producono scure macchie colorate, quasi come un rimedio;
capovolgendo questo fenomeno, Nietzsche narra di come gettando lo sguardo nell’oscurità dolorosa
dell’eccesso scatenato, delle forze primordiali che si divorano l’un l’altra, in virtù di un simile
effetto curativo si forma di fronte a noi l’immagine tenue e scintillante del superuomo. E come nella
tragedia greca, a cui Nietzsche applica il suo paragone, le luminose immagini apollinee, cioè le
figure eroiche della scena ellenica, erano in fondo soltanto maschere dell’unico dio Dioniso, così
anche questa immagine del superuomo prodotta nello slancio creativo è soltanto l’incarnazione di
una parvenza divina, un simbolo in senso artistico. Dietro a essa, in profondità abissali e in «
tenebre purpuree », sta l’essere dionisiaco, la forza elementare della vita di cui questa ha sempre
bisogno per rigenerarsi.
Osserviamo dunque come nella filosofia di Nietzsche l’etica sconfini impercettibilmente
nell’estetica - in una sorta di estetica religiosa - e come la dottrina del bene sia resa possibile dalla
divinità del bello. La linea sottile lungo cui l’apparenza deve unirsi all’essere per dare forma
all’ideale, fa del mondo del bello e della sua fantastica illusione un « autentico grembo materno di
eventi ideali e immaginari » che ricevono l’impulso più profondo proprio dal fatto che essi restano
eternamente irrealizzabili, [210] che il desiderio non può conferire loro alcuna verità o realtà
essenziale.
Si tratta della stessa condizione descritta da Nietzsche quando afferma che l’artista trae dalle « sue
incompiutezze [...], piuttosto che dall’abbondanza della sua forza [...], un’immensa avidità di questa
visione, e da questa avidità egli attinge l’altrettanto immensa eloquenza del suo desiderio e della sua
fame divorante» (La gaia scienza, 79). Si deve dunque pensare alla nascita dell’illusione
superumana, al mistero dell’improvvisa rinuncia e negazione di sé [Selbstaufhebung], a questa
fondamentale immagine ascetica da cui procede l’etica nietzscheana, come a un fenomeno estetico,
come a uno
sprofondare così intenso nei tormenti dell’eccesso da far sì che da esso scaturisca il desiderio
dell’opposto come una visione già contemplata e vissuta.
«E da nessun altro come da te, o possente, io voglio appunto la bellezza», si dice dell’uomo forte,
dotato di affetti strapotenti, « ma proprio per l’eroe la bellezza è di tutte le cose la più ardua.
Irraggiungibile è la bellezza per ogni volontà violenta. [...] Questo infatti è il segreto dell’anima:
solo quando l’eroe l’ha lasciata, le si avvicina, in sogno, - il super-eroe» (il superuomo) (Così parlò
Zarathustra, «Dei sublimi»). In sogni beati essa balbetta: «Un’ombra venne [...] a me - la più
silenziosa e lieve di tutte le cose è venuta una volta da me! La bellezza del superuomo venne a me
come un’ombra» (ivi, «Sulle isole Beate»). Infatti «ogni cosa divina si muove su piedi delicati! » -
«Infatti, che cosa sarebbe bello, se prima non fosse venuta a coscienza la contraddizione, se il brutto
non avesse prima detto a se stesso: io sono brutto?». Nella bruttezza di questo eccesso caotico,
[211] che rappresenta per l’uomo la meta dello scatenamento delle sue forze più selvagge, egli
giunge infine a emettere un verdetto di condanna contro se stesso come contro colui che è brutto per
natura. «È un odio che qui prorompe: [...]. Il suo odio scaturisce dal più profondo istinto della
specie; in quest’odio c’è orrore, prudenza, profondità, lontananza di sguardo - è il più profondo odio
che esista. E, a cagion sua, profonda è l’arte... » (Crepuscolo degli idoli, « Scorribande di un
inattuale», 20). E l’arte è profonda perché attraverso quest’odio insegna all’uomo lo sconfinato
struggimento per il bello e rende così possibile la nascita della bella parvenza dalla pienezza
scatenata dell’essere reale; è profonda perché risveglia un enorme impulso verso l’idealizzazione e,
attraverso la visione della bellezza, stimola la volontà umana a «procreare », sicché essa si
congiunge al suo proprio opposto nell’entusiasmo della passione. La forza sfrenata viene dunque
portata all’eccesso supremo soltanto perché trabocchi in un’ebbrezza entusiasta che è la condizione
per la produzione creativa del bello. « L’essenziale nell’ebbrezza è il senso dell’aumento di forza e
della pienezza. Di questo sentimento si fanno partecipi le cose, le si costringono a prendere da noi,
le si violentano - questo processo si chiama idealizzare» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un
inattuale», 8). «In questo stato di ebbrezza si arricchisce tutto con la propria pienezza: ciò che si
vede, ciò che si vuole, lo si vede turgido, compresso, vigoroso, sovraccarico di forza. L’uomo in
que-
sto stato trasforma le cose, sino a che esse rispecchiano la sua potenza [...]. Questo dover
trasformare in ciò che è perfetto è - arte» (ivi, 9).
Se l’etica di Nietzsche assume un carattere in prevalenza estetizzante - giacché la metamorfosi nella
perfezione risulta soltanto una bella parvenza -, [212] la sua nascita dall’impulso a divinizzare gli
uomini e le cose, a risolverli nell’elemento divino al fine di sopportarli, fa sì che essa si approssimi
molto alla sfera della simbologia religiosa. Intorno a questo processo psichico, Nietzsche non ha
soltanto sviluppato una teoria e fornito indicazioni in diversi suoi aforismi, ma anche compiuto il
tentativo di creare da sé la fondamentale opera prima in cui viene portato a compimento per la
prima volta quell’alto atto creativo dell’uomo, la produzione del superuomo. Quest’opera è il suo
poema Così parlò Zarathustra.
La figura di Zarathustra, come una trasfigurazione di Nietzsche, come un rispecchiamento e una
metamorfosi della pienezza della sua natura in una luminosa immagine divina, deve rappresentare
una perfetta analogia con la nascita da lui sognata del superuomo dall’uomo. Zarathustra è, per così
dire, il «super-Nietzsche». Per questa ragione l’opera possiede un ingannevole doppio carattere: da
un lato essa è un poema in un senso puramente estetico e come tale può essere intesa e valutata;
dall’altro vuole essere un poema solo in un senso puramente mistico, nel senso di un atto di
creazione religiosa in cui l’esigenza più alta dell’etica nietzscheana trova per la prima volta la sua
realizzazione. Si spiega così il fatto che, tra i libri di Nietzsche, lo Zarathustra sia quello che viene
più facilmente frainteso, anche perché si ritiene che esso contenga una volgarizzazione di quel che
gli altri scritti offrono in forma rigorosamente filosofica. Ma in verità, tra le sue opere, questa è
quella concepita in modo meno popolare; se mai infatti [213] vi fu in Nietzsche una filosofia
«esoterica» che non avrebbe mai dovuto risultare pienamente accessibile a nessuno, allora essa si
trova in queste pagine, e a suo confronto tutto quel che di altro egli ha scritto appartiene alla parte
più essoterica della sua dottrina.
A una comprensione più profonda dello Zarathustra si giunge dunque meno seguendo la filosofia di
Nietzsche che la sua psicologia, seguendo le tracce dei moti nascosti del suo animo che determinano
le idee etiche e religiose che sono alla base della sua mistica singolare. In tal modo si vede
allora come le teorie nietzscheane scaturiscano tutte dal bisogno di una redenzione di se stesso
[Selbsterlösung], dall’anelito di
fornire alla propria interiorità dolente e inquieta quel sostegno che il credente trova nel suo Dio.
Questo desiderio e questa aspirazione violenti ottengono infine, a forza, il loro soddisfacimento: si
crea il Dio, o comunque una divina entità superiore in cui viene proiettato e trasfigurato il
rovescio della propria immagine.
L’immagine duplice che Nietzsche fornì di se stesso, e in cui egli si contemplava come in un «
secondo io », è incarnata nel suo Zarathustra, cammina con lui, per così dire, sulle sue gambe. In
alcuni luoghi del poema traspare in modo bizzarro la segreta ammissione che Zarathustra non
possegga una propria verità essenziale, ma che sia soltanto una creazione poetica, che sia lui stesso
un poeta e un inventore: «Ma che ti disse una volta Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? - Ma
anche Zarathustra è un poeta» (Così parlò Zarathustra, «Dei poeti»). Eppure è già implicito nella
concezione nietzscheana dell’ideale supremo che l’apparenza abbia il diritto di manifestarsi come
essere e come essenza, anzi, che ogni verità suprema consista in un effetto apparente, nell’effetto
sugli altri. Nella sua metamorfosi mistica l’uomo [214] cerca di diventare in tutto e per tutto
un’illusione che seduce, che evoca struggimento e che ammaestra, a cui non si possa contrapporre
nulla di superiore. Per lui vale il detto: « Chi è fondamentalmente un maestro prende sul serio
ogni cosa soltanto in relazione ai suoi scolari - perfino se stesso» (Al di là del bene e del male, 63).
In questo modo viene consapevolmente fornita ima giustificazione della «santa illusione», e non a
caso Nietzsche afferma varie volte che il problema di cui egli si è occupato più a lungo e in maniera
più approfondita è quello della pia fraus. Ma il grande « inattuale », chi dispone liberamente delle
virtù di tutte le civiltà, deve lasciarsi alle spalle anche l’onestà, una virtù relativamente tarda del
moderno uomo della verità, e deve farlo in vista dei suoi fini che non tollerano una coscienza
indebolita. Ciò si trova espresso in modo significativo già in La gaia scienza: «In chi è ora
intransigente è la stessa sua onestà a far conoscere spesso rimorsi di coscienza: l’intransigenza
infatti è la virtù di un’epoca diversa da quella dell’onestà» (139). Ma a Zarathustra, il gobbo saggio
che gli presta ascolto e che legge nei suoi pensieri, dice: «Ma perché Zarathustra parla a noi in
modo diverso che ai suoi discepoli? » (Così parlò Zarathustra, «Della redenzione»). E
Zarathustra stesso grida loro: «In verità, io vi consiglio: andate via da me e guardatevi da
Zarathustra! Ancora meglio: vergognatevi di
lui! Forse vi ha ingannato. [...] Voi mi venerate; ma che avverrà, se un giorno la vostra venerazione
crollerà? Badate che una statua non vi schiacci» (ivi, «Della virtù che dona»).
Ma quanto più ogni forma di realtà e di verità si dileguarono, quanto più l’ideale venne
consapevolmente concepito come apparenza, tanto più grande divenne il desiderio nietzscheano di
accordargli una verità per via religiosa, [215] di farne una divinizzazione mistica di se stesso. A
questo punto possiamo osservare come il suo pensiero descriva un singolare cerchio intorno a se
stesso: per sottrarsi all’annientamento ascetico di ogni morale egli risolve il fenomeno morale in
un fenomeno estetico in cui la natura fondamentale dell’uomo permane immutata accanto alla sua
luminosa figura estetica; per conferire a questa figura luminosa un significato positivo egli la
innalza nella sfera del mistico, del religioso, ma è poi costretto, per dare rilievo a questa chiara
antitesi, a dipingere con le tinte più fosche e dolenti la reale natura dell’uomo. Affinché l’essere
superiore che redime risulti credibile, si deve inasprire al massimo il contrasto, lo si deve
differenziare il più possibile dall’essere umano naturale. Ogni passaggio che possa fungere da
mediazione distruggerebbe l’illusione e rinvierebbe l’uomo a se stesso; l’essere superiore
diventerebbe allora un semplice sviluppo ulteriore di se stesso. Da un lato - quello umano - l’ombra
deve dunque essere infittita nella stessa misura in cui dall’altro - quello superumano - la luce deve
risaltare più chiara, dando a credere di essere di un genere del tutto diverso. Così nacque la dottrina
secondo cui l’essere inumano è necessario per la creazione del superuomo, e soltanto dall’eccesso
delle brame più selvagge emerge il desiderio del proprio opposto.
A questa forma di creazione divina può essere mossa la stessa obiezione che Nietzsche ha avanzato
contro la creazione divina ascetico-cristiana:_ in essa la volontà umana ha inteso «erigere un ideale
[...], per acquistare una tangibile certezza della propria assoluta indegnità di fronte a lui». [216] E
dunque: « Tutto ciò è di uno smisurato interesse, ma anche di una tristezza nera, fosca, sfibrante
[...]. Qui c’è malattia, non v’è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata sino a oggi
nell’uomo - e chi ancora riesce a udire [...] come in questa notte di martirio e di assurdità ha
echeggiato il grido amore, il grido del più struggente rapimento, della redenzione nell’amore, si
volge altrove, colto da un raccapriccio incoercibile... Nell’uomo v’è tanto di terribile!...»
(Genealogia della morale, 11, 22).
Questa tendenza verso l’elemento ascetico e mistico, che proprio nella lotta contro di essi si palesa
con forza come il tratto segreto della filosofia di Nietzsche, mostra nel modo più evidente come egli
torni a volgersi in direzione della sua prima concezione filosofica del mondo, quella di
Schopenhauer e di Wagner. E come pur ribellandosi per questioni di principio a ogni forma di
mistica e di ascesi finora esistita, egli si abbandoni tuttavia in misura non minore all’influsso della
scienza sperimentale e della teoria positivistica: anche in questo caso vengono alla luce in modo
inconfondibile le due linee fondamentali della sua ultima filosofia. Nel suo sistema il significato
mistico e ascetico della dimensione estetica non è inferiore che in quello di Schopenhauer; in
entrambi esso coincide con la più profonda esperienza etica e religiosa, e non a caso Nietzsche, per
spiegarlo in modo più esauriente, si richiama a pensieri e immagini della Nascita della tragedia.
In Schopenhauer la contemplazione estetica viene concepita come uno sguardo mistico sullo sfondo
metafìsico delle cose, [217] sull’essenza della «cosa in sé», il che presuppone che la vita dell’anima
si sia acquietata e che, in certa misura, ogni elemento terreno sia stato tolto di mezzo. In Nietzsche -
in cui lo sfondo metafisico viene meno, e in cui si tratta di crearne un sostituto muovendo
dall’esuberanza delle forze vitali terrene - il presupposto psichico è esattamente il contrario: il bello
deve eccitare fin nel profondo la volontà di vita, deve scatenare tutte le forze, «renderle
incandescenti e stimolarle a generare »: non si tratta infatti della rivelazione metafisica di qualcosa
che esiste in eterno, bensì della creazione mistica di qualcosa che non è presente; il « mistico »,
in Nietzsche, è dunque qualcosa di simile a una forza vitale accresciuta in modo enorme e quindi
superumano. Ma proprio come in Schopenhauer l’elemento ultraterreno è il
risultato dell’annullamento ascetico di quello terreno, così in Nietzsche l’esuberanza mistica della
vita è possibile solo quale conseguenza del declino, dovuto a un eccesso, di tutto quel che esiste ed
è umano. Ed è questo il principale punto di contatto delle due concezioni: entrambe approdano alla
beatitudine della loro mistica attraverso l’elemento tragico. La  nascita della tragedia dallo spirito
della musica8 si è mutata in una nascita della tragedia dallo spirito della vita. La vita, come «il
continuo, necessario superamento di se stessa», esige
sempre il declino quale condizione fondamentale di sempre più alte creazioni. Quel che appare
tragico nella prospettiva di chi è destinato al declino, viene invece colto come la beatitudine
dell’inesauribile pienezza della vita dal punto di vista dell’esistenza stessa o di chi vi si [218]
identifica, di chi vince su di sé, accrescendo la vita in se stesso fino alla smodatezza. Questa nuova
concezione dell’elemento tragico si mostra in modo peculiare nel Crepuscolo degli idoli,
dove Nietzsche discute ancora una volta il vecchio problema della Nascita della tragedia, cioè il
significato dei misteri dionisiaci e il sentimento tragico dei greci.
Originariamente, a suo avviso, l’orgiasmo dionisiaco era il mezzo per scaricare le passioni grazie al
quale veniva creata la quiete dell’anima necessaria per contemplare le figure apollinee; ora esso è
l’atto creativo della vita stessa che richiede la furia e la sofferenza per formare da essi la luce e
il divino.9 Originariamente il dionisiaco testimoniava della natura profondamente pessimistica - in
senso schopenhaueriano - dei greci, dal momento che nell’orgiasmo l’aspetto più intimo della vita si
rivelava come oscurità, dolore e caos; ora esso gli appare come il più assetato di vita degli istinti
ellenici, che poteva trovare il proprio soddisfacimento soltanto nell’eccesso, e la felicità della vita
anche nel dolore, nella morte e nel caos: «Nei misteri dionisiaci [...] si esprime il fatto fondamentale
dell’istinto ellenico - la sua “volontà di vivere”. Che cosa si garantivano i greci con questi misteri?
La vita eterna, [219] l’eterno ritorno della vita; l’avvenire promesso e consacrato nel passato; il
trionfante sì alla vita oltre la morte e la tramutazione [...]. Nella dottrina dei misteri il dolore è
santificato: le “sofferenze della partoriente” santificano il dolore in generale -[...]. Affinché esista il
piacere del creare, affinché la volontà di vita affermi se stessa eternamente, deve esistere
eternamente anche il “tormento della partoriente”... Tutto questo significa la parola
Dioniso...» (Crepuscolo degli idoli, «Quel che devo agli antichi», 4).
«Che ogni bellezza stimola alla generazione» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un
inattuale», 22), è quel che di
religioso vi è nell’arte, giacché essa insegna a creare ciò che è perfetto. L’arte più alta, cioè più
religiosa, è l’arte tragica: in essa, infatti, l’artista genera il bello da ciò che è spaventoso: « Che
cosa partecipa di sé l’artista tragico? Non è appunto una condizione impavida dinanzi allo
spaventoso e al problematico, quella che egli manifesta? [...] Il coraggio e la libertà del sentimento
di fronte a un possente nemico, di fronte a una superiore avversità, di fronte a un problema che
desta raccapriccio - questa condizione vittoriosa è quella che l’artista tragico elegge e glorifica.
Dinanzi alla tragedia quel che v’è di guerriero nella nostra anima celebra i suoi saturnali; chi è
adusato al dolore, l’uomo eroico esalta con la tragedia la sua esistenza - a lui solo il poeta tragico
offre il beveraggio di questa dolcissima crudeltà» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un
inattuale», 24).
«La psicologia dell’orgiasmo concepito come uno straripante senso di vita e di forza, all’interno del
quale persino il dolore agisce come uno stimolante, mi dette la chiave per la concezione del
sentimento tragico. [...]!! dire sì alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e più gravi, la volontà
di vivere [220] che, nel sacrificio dei suoi tipi più elevati, si allieta della propria inesauribilità -
questo io chiamai dionisiaco, questo io divinai come il ponte verso la psicologia del poeta tragico.
Non per affrancarsi dal terrore e dalla compassione, [...] bensì per essere noi stéssi, al di là del
terrore e della compassione, l’eterno piacere del divenire - quel piacere che comprende in sé anche
il piacere dell’annientamento... » (Crepuscolo degli idoli, «Quel che devo agli antichi», 5).
Questa concezione dell’elemento tragico e del sentimento della vita determinato da esso fece sì che
Nietzsche, proprio facendo ritorno alla filosofia schopenhaueriana del pessimismo e dell’ascesi,
creasse la sua dottrina più gioiosa - la dottrina dell’eterno ritorno di tutte le cose. Per quanto il
sistema nietzscheano esigesse, sia dal punto di vista filosofico sia da quello psicologico, un
fondamentale tratto ascetico, esso esigeva altrettanto il suo contrario, l’apoteosi della vita, poiché in
mancanza di una fede metafisica non vi era null’altro che potesse essere glorificato e divinizzato al
di fuori della vita stessa, dolente e ricolma di dolore.
La dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno non è mai stata messa in rilievo e apprezzata a
sufficienza, sebbene in certa misura costituisca sia le fondamenta sia il coronamento dell’edificio
concettuale di Nietzsche, e sia stata l’idea da cui egli ha preso le mosse nella sua concezione della
filosofia del-
l’avvenire, così come quella con cui la concluse. Se viene presa in esame solo adesso, ciò dipende
dal fatto che essa risulta comprensibile soltanto in un quadro globale e perché, di fatto, la logica,
l’etica e l’estetica nietzscheane possono essere considerate come pietre per costruire la dottrina
dell’eterno ritorno. In La gaia scienza, nel penultimo aforisma intitolato « Il peso più grande»,
Nietzsche aveva già espresso [221] come una congettura il pensiero di un possibile ritorno di tutte le
cose nell’eterno ciclo dell’essere: « Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse
furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai
vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente
di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e
grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così
pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna
clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”.
Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure
hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un
dio e mai intesi cosa più divina”? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora,
farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: “Vuoi
tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più
grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa
che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? » (La gaia scienza, 341).
Il pensiero fondamentale viene qui alla luce in modo chiar o- in modo più chiaro e palese di quanto
mai lo sarebbe stato in seguito, giacché Nietzsche non sopportava il fatto di mantenere un silenzio
totale su quel che riempiva e agitava la sua mente. Ma parlare di questa nuova conoscenza lo
inquietava al punto da inserire il suo pensiero del ritorno [222] come un’idea innocua tra le altre,
senza dare affatto nell’occhio, sicché chi lo legge non coglie il nesso con la solenne considerazione
finale: Incipit tragoedia - « così segretamente che nessuno vi badi, che nessuno badi a noi»
(Aurora, «Prefazione alla nuova edizione»). Esso sta dunque in mezzo agli altri pensieri - avvolto
da un velo più fitto di quello degli altri - e lo spirito di Nietzsche, così ricco e felice di segreti, ha
trovato di che divertirsi, malgrado la profonda inquietudine, con un raffinato scherzo di carnevale:
nascondere al meglio qualcosa lasciandolo scoperto e senza veli.
Già a quel tempo, di fatto, egli rimuginava quel pensiero come una fatalità inevitabile che voleva
«fargli subire una metamorfosi e stritolarlo »; cercava affannosamente il coraggio di confessarlo a
se stesso e agli uomini, in tutta la sua portata, come una verità irrefutabile. Non potrò mai
dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte
alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce
sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche in effetti soffriva così
profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di
raccapricciante. La quintessenza della dottrina del ritorno, la sfavillante apoteosi della vita che
Nietzsche enunciò più tardi, costituisce un’antitesi così profonda al suo tormentato modo di sentire
la vita stessa, da darci l’impressione di una maschera sinistra.
Diventare l’annunciatore di una dottrina che risulta sopportabile solo nella misura in cui l’amore per
la vita prende il sopravvento, che può avere un effetto esaltante solo laddove il pensiero umano
[223] s’innalza fino alla divinizzazione della vita, doveva in verità rappresentare una
contraddizione tremenda per il suo più intimo modo di sentire - una contraddizione che in ultimo lo
ha stritolato. Tutto quel che Nietzsche ha pensato, sentito e vissuto dalla nascita del pensiero del
ritorno in poi, origina da questo dissidio del suo animo, oscilla tra il « maledire digrignando i denti
il demone dell’eternità della vita » e l’attesa di quell’« attimo immenso » che dà la forza di dire: «
Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina! ».
Quanto più in alto egli si spingeva, come filosofo, esaltando in modo totale la magnificazione della
vita, tanto più profondamente soffriva, come uomo, della sua stessa dottrina. Questa lotta nel suo
animo, la vera fonte di tutta la sua ultima filosofia, che i suoi libri e le sue parole lasciano
immaginare soltanto in parte, riecheggia forse nel modo più toccante nella musica dell ’Inno alla
vita che egli compose nell’estate del 1882, mentre si trovava con me in Turingia, nei pressi di
Dornburg. Lavorando a questa musica fu interrotto da un attacco della sua malattia e ancora una
volta il « dio » si mutò per lui in « demone », l’entusiasmo per la vita in tormento. «A letto. Attacco
violento. Disprezzo la vita. F.N.». Così re-
citava uno dei biglietti10 che mi inviò quando era incatenato al suo letto. E lo stesso stato d’animo
trova espressione in una lettera11 che mi scrisse poco dopo avere ultimato quella composizione:
«Mia cara Lou, tutto quello che mi dice mi fa molto bene. Del resto, ho bisogno di qualcosa che mi
faccia bene! [224] Il mio critico d’arte veneziano ha scritto una lettera sulla mia musica per la Sua
poesia; la accludo - Lei avrà modo di pensarci. Continua a volermici la più grande risolutezza per
accettare la vita. Ho molto davanti a me, su di me, dietro di me [...]. Avanti, [...] e in alto! ».
A quell’epoca, come già detto, l’idea del ritorno non era ancora diventata una convinzione per
Nietzsche, ma solo un timore. Aveva intenzione di darne l’annuncio nel caso fosse riuscito a
fornirne una giustificazione scientifica. Ci scambiammo una serie di lettere a questo proposito e
dalle affermazioni di Nietzsche emergeva sempre l’opinione erronea che fosse possibile acquisire
un saldo fondamento scientifico basandosi su studi di fisica e sulla dottrina degli atomi. Fu allora
che decise di studiare per dieci anni esclusivamente scienze naturali, all’università di Vienna o di
Parigi. Soltanto dopo anni di silenzio assoluto, nel caso avesse riportato il temuto successo, avrebbe
voluto fare la sua comparsa tra gli uomini come il maestro dell’eterno ritorno.
È risaputo che le cose andarono in modo del tutto diverso. Motivi di natura interna ed esterna
impedirono il lavoro che Nietzsche aveva progettato e lo spinsero di nuovo verso il Sud, nella
solitudine. Ma il decennio di silenzio diventò il decennio più eloquente e fecondo di tutta la sua
vita. Uno studio superficiale bastò a mostrargli che la fondazione scientifica della dottrina del
ritorno sulla base della teoria atomistica non era realizzabile; il suo timore - che si potesse fornire
una dimostrazione inconfutabile [225] dell’esattezza del pensiero fatale - non pareva trovare
conferma e Nietzsche sembrò liberato dal compito di doverne dare l’annuncio, da questo destino
atteso con orrore. Ma a questo punto accadde qualcosa di particolare: lungi dal sentirsi liberato da
ciò che era riuscito a scoprire, adottò addirittura un comportamento op-
posto; nel momento in cui la paventata fatalità parve allontanarsi da lui, se ne fece risolutamente
carico e portò la sua dottrina tra gli uomini; nel momento in cui la sua allarmata congettura risultò
indimostrabile e insostenibile, come per magia essa acquistò per lui la solidità di una convinzione
inconfutabile. Quella che doveva diventare una verità dimostrata scientificamente assunse il
carattere di una rivelazione mistica, e da allora in poi Nietzsche assegnò alla sua filosofia, quale
fondamento definitivo, invece di una base scientifica, l’ispirazione interiore, la sua personale
ispirazione.
Che cosa, nonostante le resistenze opposte dalla paura da un lato, e la mancanza di una
dimostrazione dall’altro, esercitò su di lui un’influenza tale da fargli mutare avviso? Soltanto la
soluzione di questo enigma ci consente di gettare uno sguardo sulla vita spirituale recondita di
Nietzsche, sulle cause che originarono le sue teorie. Una nuova e più profonda significatività delle
cose, un nuovo mettersi in cerca e porre domande intorno ai problemi ultimi e sommi: tutto ciò
che Nietzsche come metafisico aveva avuto modo di conoscere e di cui come essere empirico
avvertiva dolorosamente la mancanza, fu questo a spingerlo dentro alla mistica della sua dottrina
dell’eterno ritorno. Per quanto essa potesse risultare collegata a nuovi tormenti dell’animo, per
quanto potesse addirittura stritolarlo, egli preferì farsi carico del dolore della vita piuttosto che
seguitare a privarla del suo aspetto divino e spirituale. [226] Al di là di questo, riusciva a venire a
capo di tutti i suoi dolori: non li sopportava soltanto, ma era anche in grado di stimolare e incitare il
suo spirito verso di loro poiché gli insegnavano a indagare e a cercare in modo incessante un senso,
il più profondo senso recondito della vita. « Se si possiede il nostro perché della vita, si va
d’accordo quasi con ogni domanda sul come» (Crepuscolo degli idoli,  «Sentenze e frecce»). Ma il
suo perché, lo struggimento di fondo della sua vita, non si accontentava di una risposta qualsiasi e
non tollerava alcuna limitazione.
Il filosofo che era in lui non bramava dunque nemmeno di venire salvato dal tormento di una
dottrina che suscitava i suoi timori, bensì soltanto di divenire fecondo al suo interno, sapiente e
indovino - e lo bramava con ardore tale che, anche venute meno le prove scientifiche, quell’intimo
motivo seguitava a possedere forza sufficiente a fare di una vacillante supposizione una convinzione
entusiasta.
Anche il profilo teoretico del pensiero dell’eterno ritorno non viene davvero mai tracciato in modo
netto; rimane tenue
e vago, completamente defilato rispetto alle conclusioni pratiche, alle conseguenze etiche e religiose
che Nietzsche apparentemente ne fa derivare, mentre in realtà esse ne costituiscono la premessa
interna.
In una delle sue prime opere, nella seconda delle Considerazioni inattuali (Sull’utilità e il danno
della storia per la vita), Nietzsche cita una volta, di passaggio, la filosofia del ritorno dei pitagorici
come un mezzo adeguato per assegnare un significato imperituro a «ogni fatto nella sua particolarità
e unicità esattamente formate» [II], [227] aggiungendo però che una dottrina del genere potrebbe
aspirare a un autentico spazio nel nostro pensiero solo quando l’astronomia tornasse nuovamente a
farsi astrologia. Le difficoltà teoretiche di riportare modernamente in vita questa idea antica non gli
sono certo parse minori negli ultimi anni di quanto non gli parvero al tempo della sua fede nella
metafisica di Schopenhauer. Ma proprio questa metafisica gli forniva allora una
possente spiegazione delle cose della vita, rendendo superfluo ogni lambiccamento mistico.
L’essere eterno, dietro all’enorme processo di mutamento del mondo fenomenico, che si oggettiva
in ognuna delle sue forme e che in certa misura traluce quale suo senso supremo attraverso ciascuna
di esse, non faceva sorgere il desiderio di assegnare a questo stesso processo un significato che
andasse al di là dell’effimero, per mezzo di un’eterna ripetizione nel ciclo dell’essere.
Soltanto successivamente, allorché Nietzsche rinunciò a una spiegazione metafisica del mondo e
prese istintivamente a desiderarne un surrogato, quel pensiero tornò a imporsi. All’apparenza esso
non attenuò affatto il pessimismo della concezione positivistica della vita, ma anzi lo accentuò
ulteriormente; in virtù delle sue innumerevoli e recondite possibilità future, l’insensatezza di un
divenire che procede in linea retta all’infinito parve infatti meno avvilente di una costante
ripetizione di ciò che è in se stesso insensato. Ma è proprio da qui che nacque in modo caratteristico
la nuova filosofia della redenzione [Erlösungsphilosophie] di Nietzsche. Proprio attraverso una
messa in risalto di quel che di avvilente e sconfortante si trova in un modo sobrio e freddo di
considerare la vita, proprio dalla dura costrizione a dovere ritornare ogni volta a una vita di questo
genere, lo spirito umano dovrebbe risultare spronato al suo atto supremo: [228] come sferzato dal
tedio e dal raccapriccio, con volontà possente esso dovrebbe dare un senso alla vita insensata, uno
scopo alla contingenza del divenire, creando in
questo modo da sé quei valori della vita che in effetti non sussistono.
Si può così dunque affermare che Nietzsche, invece di allontanarsi dal pessimismo dello « spirito
libero » e fare ritorno a una metafisica consolatoria, abbia intensificato al massimo questo
pessimismo - ma che lo abbia fatto soltanto per utilizzare l’estremo disgusto e il dolore di fronte alla
vita come un trampolino da cui tuffarsi nelle profondità della sua mistica.
Il pensiero dell’eterno ritorno sembra in effetti particolarmente adatto a svolgere una simile
funzione poiché si riferisce alla vita reale di ogni singolo essere umano, rivolgendosi non soltanto al
pensiero che filosofeggia, ma ancor più alla volontà che crea. Porsi con il pensiero di fronte alla vita
nel suo insieme come a una totalità insensata e casuale, è qualcosa di diverso dal doverla ripetere
sempre di nuovo nella propria singola esistenza, in modo insensato, senza mai poterle sfuggire; la
riflessione puramente astratta prende con ciò a rivolgersi alla persona, e la teoria filosofica viene
fatta entrare a forza nella carne viva e sensibile come un pungolo doloroso che deve incitare alla
creazione a ogni costo di una nuova speranza, di un nuovo senso, di un nuovo scopo della vita.
In relazione a questo ottimismo, l’ultima filosofia di Nietzsche rappresenta l’esatto contrario della
sua prima visione filosofica del mondo: la metafisica schopenhaueriana con la sua magnificazione
dell’ideale buddistico dell’ascesi, dell’annientamento della volontà e del rifiuto della vita.
[229] L’antica dottrina indiana di un’eterna rinascita nella trasmigrazione delle anime, come
maledizione che si abbatte su chi non sia giunto sino alla negazione di se stesso, viene addirittura
rovesciata da Nietzsche. Non la liberazione dalla costrizione del ritorno, ma la felice conversione a
essa è infatti per lui la meta della suprema aspirazione morale; non nirvana, ma samsara è il nome
dell’ideale supremo. Questa correzione dell’elemento pessimistico in uno ottimistico è la vera
differenza tra il primo pensiero di Nietzsche e quello della maturità, e rappresenta nell’evoluzione di
questo solitario dolente un’eroica vittoria del superamento di sé. Dal punto di vista filosofico essa è
stata tuttavia preparata dal periodo positivistico intermedio in cui egli considerava sì l’esistenza in
modo pessimistico, ma imparava al tempo stesso a limitarsi alla realtà della vita e a rifiutarne tutti i
significati metafisici secondari. Il suo ottimismo, inteso come dottrina filosofica della vita, deriva
infatti dall’accentuazione e dall’eternizza-
zione del fatto stesso della vita come principio supremo; ponendo sulla vita un accento così marcato
da raggiungere la dimensione mistica, Nietzsche riesce a divinizzarla.
Inesorabilmente presi al laccio dal ciclo della vita, legati a esso per l’eternità, noi dobbiamo
imparare a dire di «sì» a tutte le sue manifestazioni per poterle sopportare; soltanto attraverso la
forza e la gioia di un simile « sì» ci riconciliamo con la vita identificandoci con essa. Allora
prendiamo a sentirci come una parte creativa del suo essere, anzi come questo essere stesso nella
sua forza e nella sua pienezza insaziabili e traboccanti. Lamore senza riserve per la vita, basato
sulla forza vitale, è quindi l’unica sacra legge morale del nuovo legislatore; l’esaltazione della vita
scatenata fino all’ebbrezza [230] prende il posto dell’innalzamento religioso, anzi di un culto della
divinità.
A proposito di questo rovesciamento del pessimismo in ottimismo e del nuovo ideale del dire di sì
al mondo, Nietzsche si esprime in questi termini in Al di là del bene e del male: « Chi come me, si è
sforzato a lungo, in una specie di enigmatica bramosia, di pensare sino in fondo il pessimismo e
di liberarlo dalla ristrettezza e dall’ingenuità, metà cristiana e metà tedesca, con cui esso si è
recentemente presentato a questo secolo, vale a dire nella forma della filosofia schopenhaueriana:
chi realmente [...] ha scrutato una volta ben addentro e a fondo in questo modo di pensare che è
quello, tra tutti i modi possibili, più annientante riguardo al mondo - [...] costui ha forse, senza
propriamente volerlo, aperto proprio con ciò gli occhi sull’ideale opposto: l’ideale dell’uomo più
tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a
rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l'eternità, tutto questo,
così come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente: da capo non soltanto a se stesso, ma
all’intero dramma e spettacolo, e non soltanto a uno spettacolo, ma fondamentalmente a colui che
proprio di questo spettacolo ha bisogno - e lo rende necessario: poiché egli ha sempre di nuovo
bisogno di se stesso - e si rende necessario — Come? e non sarebbe questo - circulas vitiosus deus?
» (Al di là del  bene e del male, 56).
Queste parole non mostrano soltanto come per Nietzsche l’ottimismo sia in tutto e per tutto risultato
dall’inasprimento e dall’esagerazione del pessimismo, ma anche in quale misura la sua nuova
filosofia possegga un carattere di innalzamento religioso.
Da un lato l’uomo si sente dunque misticamente aperto al mondo e alla vita intera, sicché [231]
tanto la sua morte quanto la tragedia della sua vita smettono di esistere per lui; dall’altro egli
personalizza e spiritualizza la totalità della vita, in sé contingente e priva di senso, elevandola così
alla divinità. Mondo, Dio e Io si fondono in un unico concetto dal quale ora, come da un qualunque
tipo di metafisica, di etica o di religione, il singolo individuo può far derivare una norma dell’azione
e una venerazione suprema. A fare da sfondo a questo modo di vedere le cose, vi è tuttavia il
pensiero che il mondo sia una finzione dell’uomo che lo crea e che nella sua divinità, vale a dire
nella sua unità essenziale con la pienezza della vita, lo sa dipendente da sé e dalla propria volontà
creatrice e valutante. Si chiarisce in tal modo la misteriosa affermazione contenuta nell'aforisma 150
di Al di là del bene e del male: « Intorno all’eroe tutto diventa tragedia » (vale a dire: è proprio nel
momento di sua massima evoluzione che l’uomo è colui che tramonta e si immola in sacrificio); «
intorno al semidio tutto diventa dramma satiresco » (vale a dire: nella sua piena dedizione alla
totalità della vita l’uomo ride con superiorità del proprio destino); «e intorno a Dio tutto diventa -
che cosa? “mondo”, forse? » (vale a dire: grazie alla sua completa identificazione con la vita,
l’uomo non viene soltanto accolto - conciliato - nella totalità della vita stessa, ma anche questa
viene tratta assolutamente in lui, sicché egli diventa il Dio che rimette a sé il mondo ed estrinseca
incessantemente il proprio essere nella creazione di quello).
E qui d imbattiamo ancora ima volta nel pensiero fondamentale della filosofia di Nietzsche, quello
che ha permesso la nascita della dottrina dell’eterno ritorno così come di tutte le altre: la colossale
divinizzazione del filosofo-creatore. [232] In esso si trovano l’inizio e la fine della filosofia
nietzscheana, e si può affermare che anche gli dementi più astratti del suo sistema rappresentino un
tentativo di abbozzare i tratti possenti di questa figura superumana. Abbiamo avuto modo di vedere
come, tanto nella logica quanto nell’etica, il filosofo-creatore venisse elevato a quintessenza della
totalità della vita, come il super-genio che porta in sé ogni altra cosa. Abbiamo inoltre visto come
nell’estetica di Nietzsche il suo significato venisse innalzato sino alle vette dell’elemento mistico-
religioso, in modo tale da distinguersi da ciò che è meramente umano e da comprendere in sé, in
quanto essere divino, l’essere dell’uomo. Ma è soltanto sulla base della dottrina dell’eterno ritorno
che tutto si riunisce in un’unica gi-
gantesca figura; solo il fatto che il corso del mondo non sia infinito, ma torni costantemente a
ripetersi all’interno dei suoi limiti, offre infatti la possibilità di costruire un essere superiore in cui
l’intero corso del mondo si svolge e si conclude. Solo grazie a un essere di questa sorta il corso del
mondo acquisisce definitivamente un senso, una meta e un verso in direzione della creazione
liberatrice del superuomo: soltanto così quest’ultima diventa qualcosa di più di un’ipotesi, diventa
un fatto. In questo modo vediamo anche come Nietzsche non porti avanti la più fondamentale e al
tempo stesso la più mistica delle sue dottrine, per così dire, a proprio nome, ma a nome del suo
Zarathustra; non sono il pensatore e l’uomo che la devono sostenere, ma colui a cui è stato conferito
il potere di tramutarla in una redenzione che riempie di gioia.12 E se mai una volta, nei suoi
aforismi, Nietzsche sfiora [233] il
pensiero del ritorno, allora si fa muto con un gesto di sgomento e timore reverenziale: [234] «- Ma
che cosa sto dicendo ora? Basta! Basta! A questo punto una cosa sola a me si conviene, il silenzio:
altrimenti mi arrogherei ciò che unicamente a chi è più giovane è consentito, a un “venturo”, a uno
più forte di quanto sia io - ciò che unicamente è consentito a Zarathustra, a Zarathustra il senza
Dio... » (Genealogia della morale, II, 25).
Anche l’importanza della figura di Zarathustra per l’animo di Nietzsche si palesa interamente nel
momento in cui questa fa la sua comparsa per affermare la dottrina dell’eterno ritorno; egli la
credeva contenuta in se stesso come un essere mistico, separata però dalla sua forma di esistenza
naturale e umana in quanto Nietzsche. Nel suo aspetto esteriore contingente, legato al tempo,
condizionato dalle circostanze e dalle peripezie della sua vita transitoria, Nietzsche si considerava
infatti un «decadente» come gli altri, meritevole di perire e quindi a ciò destinato. [235] D’altro
canto, però, si riteneva il medium, necessariamente predisposto alla malattia, attraverso cui l’eternità
di tutti i tempi diventa consapevole di se stessa e del proprio senso, il genio dell’umanità fattosi
carne in cui il passato scioglie per il presente l’enigma di ogni futuro. Credeva così di
impersonificare ciò che aveva descritto come il significato più alto della decadenza umana: si
sentiva malato dei dolori del parto che spettano a un essere superumano, a qualcuno che deve
tramontare e spezzarsi
in favore di una nuova e suprema creazione che avrebbe redento il mondo: « Per essere il figlio di
nuovo generato, colui che crea non può non volere essere anche la partoriente e non volere i dolori
della partoriente» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»).
Zarathustra è quindi il fanciullo e al contempo il Dio di Nietzsche, l’atto o la creazione artistica di
un singolo individuo così come l’unione di questo singolo con tutta l’evoluzione dell’uomo, con il
senso stesso dell’umanità. Zarathustra è «creatura e creatore», «il più forte, il più venturo», colui
che sovrasta le dolenti sembianze umane di Nietzsche -è il «super-Nietzsche». Dalla sua bocca,
perciò, non parla soltanto l’esperienza e l’intelligenza di un singolo uomo, ma la coscienza stessa
dell’umanità fin dalle sue origini più remote; di qui le sue parole: « Io non sono di quelli a cui si
possa chiedere il loro perché. Forse che l’esperienza della mia vita risale a ieri? E' un pezzo che ho
vissuto i motivi delle mie opinioni. Non dovrei essere un tino colmo di memoria, se volessi avere
con me anche i miei motivi? » (Così parlò Zarathustra, «Dei poeti»).
Nasce così un affascinante gioco intellettuale in cui Nietzsche e il suo Zarathustra sembrano
trascorrere senza tregua l’uno nell’altro [236] e poi separarsi di nuovo. Ciò risulta pienamente
chiaro a chi è a conoscenza di quanti siano i dettagli assolutamente personali in cui Nietzsche ha
introdotto di soppiatto se stesso nel suo Zarathustra, e fino a quale estasi visionaria s’innalzasse per
lui tutto questo mistero. Su questa base si spiega anche l’inaudita consapevolezza con cui egli parla
di questo suo libro e che gli fece una volta proclamare queste parole: « Un libro così profondo, così
estraneo, che averne comprese, vale a dire vissute, sei frasi, eleva a un rango superiore tra i
mortali».13
Se il poema di Zarathustra era per Nietzsche l’opera attraverso cui da un essere umano era nato un
essere superuma-
no, allora egli può ben avere pensato che il suo capolavoro rimasto inedito e portato a compimento
solo per la prima parte, La volontà di potenza, fosse stato in certo qual modo creato dalla figura di
Zarathustra, creato cioè da un essere eterno e libero, al quale solo può riuscire una « trasvalutazione
di tutti i valori », poiché si trova al di fuori di ogni tempo e di ogni sorta di influsso, come colui che
è indipendente per antonomasia, che comprende e abbraccia in sé ogni cosa. In questo modo
soltanto deve essere intesa l’affermazione di Nietzsche: «Ho dato all’umanità il libro più profondo
che essa possegga, il mio Zarathustra: e tra breve le darò il libro più indipendente» (Crepuscolo
degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 51). Nel caso del primo libro l’essere superumano è sorto
dagli abissi dell’umanità di Nietzsche, nel caso del secondo aleggia già libero, creando al di sopra di
essa.
Quanto la figura di Zarathustra è concepita in modo mistico e misterioso anche per quel che
riguarda il suo significato mondano, tanto rigorosa è invece la logica con cui essa aderisce con le
sue forme alle argomentazioni di Nietzsche sulla natura del genio, della libertà del volere e del
carattere atavico come ciò che determina l’avvenire. [237] L’esame di queste teorie ha mostrato
come esse abbiano tutte di mira la possibile creazione di un essere superiore; ed è interessante
osservare come già in precedenza si fossero destati in Nietzsche pensieri affini che
successivamente, dopo avere attraversato il suo primo periodo filosofico ed essersi fatti
largo all’interno della sua concezione positivistica del mondo, sono infine tornati a nuova vita nella
sua ultima fase.
Già secondo Schopenhauer il genio dell’etica e dell’estetica coglie il senso e il fondamento
essenziale del mondo intero e dell’umanità: ogni genio che riesce in questo possiede lo stesso
valore. Senso e fondamento essenziale significano però in questa prospettiva il tralucere dell’essere
eterno, la cosa in sé metafisica completamente staccata dalla storia reale dell’evoluzione del mondo
e degli uomini. Nietzsche, al contrario, che prescinde da queste concezioni metafisiche, ha
bisogno che il genio si manifesti in un essere superiore unico e isolato, che esclude una gran
quantità di suoi simili e che comprende in sé le manifestazioni effettive del mondo e dell’umanità.
A proposito del pensiero di Schopenhauer - e variandolo in senso positivistico - Nietzsche dichiara:
« Se la genialità, secondo l’osservazione di Schopenhauer, consiste nel ricordare in modo organico e
vivo ciò che si è vissuto, allora nello sforzo di conoscere l’intera evoluzione storica [...] potrebbe es-
sere da individuare uno sforzo verso la genialità dell’umanità nel suo complesso. Il completo
ripensamento della storia sarebbe autocoscienza cosmica» (Umano, troppo umano, 11, 185). A ciò
vanno anche affiancate alcune affermazioni di La gaia scienza. Innanzi tutto l’aforisma «Historia
abscondita»; «Ogni uomo grande è dotato di una [238] forza agente a ritroso: in virtù sua tutta la
storia è rimessa sulla bilancia e mille segreti del passato strisciano fuori dai loro nascondigli
per insinuarsi nel suo sole» (La gaia scienza, 34). Quindi: « Chi sa sentire la storia degli uomini
nella sua totalità come la sua propria storia, prova, generalizzando enormemente, tutto
quell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa alla salute, del vegliardo che rammemora i
sogni giovanili, dell’amante che è strappato all’amata, del martire che assiste al tramonto del
proprio ideale, dell’eroe, la sera della battaglia che non ha deciso nulla, e che tuttavia gli ha recato
ferite e la perdita dell’amico; ma portare questo cumulo immenso d’afflizioni d’ogni specie, poterlo
portare, ed essere pur sempre ancora l’eroe che, allo spuntar di un secondo giorno di battaglia,
saluta l’aurora e la sua felicità, essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni davanti e dietro di
sé, l’erede di ogni tratto aristocratico di tutto lo spirito passato, erede gravato di obblighi; essendo il
più nobile di tutti i nobili dell’antichità, e al contempo il capostipite di una nobiltà nuova, di cui
nessun tempo vide e sognò l’eguale: prendere tutto questo sulla propria anima, il più antico come il
più nuovo, le perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie dell’umanità, possedere infine tutto ciò in
una sola anima e tutto insieme stringerlo in un unico sentimento - questo dovrebbe avere come
risultato una felicità, che finora l’uomo non ha mai conosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza
e d’amore, di lacrime e di riso, una felicità, che, come il sole alla sera, non si stanca di
effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora
si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro! Questo
sentimento divino si chiamerebbe allora - umanità! » (La gaia scienza, 337).
[239] Ma la genialità umana, secondo Nietzsche, viene cagionata in misura sempre minore dalla
conoscenza o dall’avere acquisito una sensibilità per ciò che è storicamente avvenuto; la pienezza
degli eventi si trova già nell’uomo e può essere rievocata e riportata alla coscienza attraverso una
più profonda immersione in se stessi. Già in Umano, troppo umano Nietzsche menziona quella
proprietà delle passioni di ri-
destare in noi cose assopite che appartengono a vicende passate: «Tutti gli stati d’animo più forti
portano con sé una risonanza di sentimenti e disposizioni affini: essi sommuovono per così dire la
memoria» (I, 14). Ma ciò non vale soltanto per il passato individuale con le sue passioni, ma anche
per pensieri e sensazioni andate perdute nel corso dell’evoluzione dell’umanità; l’individuo ne è
infatti un prodotto e ne contiene in sé i differenti gradi in modo duraturo. A ciò si riferisce
l’aforisma «La coscienza dell’apparenza», contenuto in La gaia scienza: «In che modo
meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza
dinanzi all’esistenza tutta! Ho scoperto per me che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il
tempo dei primordi e l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a
poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni, - mi sono destato di colpo in mezzo a
questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a
sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il sonnambulo deve continuare a sognare, per
non piombare a terra. Che cos’è ora, per me, “apparenza”! In verità, non l’opposto di una qualche
sostanza: che cos’altro posso asserire di una qualche sostanza, se non appunto i [240] soli predicati
della sua apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una x
sconosciuta, e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive, che va tanto
lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di
spiriti e niente di più; che tra tutti questi sognatori anch’io, l’“uomo della conoscenza”, danzo la mia
danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in
questo senso fa parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e
concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità
delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò
appunto la  durata del sogno» (La gaia scienza, 54).
Qui Nietzsche ha già operato quella svolta che rappresenta il passaggio alla sua mistica. In questa
nuova prospettiva il mondo è diventato per lui una finzione dell’uomo della conoscenza il quale, se
si desta come da un sogno di sonnambulo e diventa consapevole della finzione, può ben sentirsi
il signore e il creatore che decide imperiosamente il senso di questa apparenza e di questo sogno.
Trasformato dall’imma-
gine mistica che il ridestarsi dal sogno della vita sia come un’azione creatrice che redime il mondo,
lo stesso pensiero ritorna in seguito in veste magnificamente poetica nel canto dell’«antica pesante
campana dal cupo rimbombo» che, a mezzanotte in punto, annuncia con dodici rintocchi il
nuovo giorno di chi si è ridestato:
Uno!
Uomo! Sii attento!
Due!
Che dice la mezzanotte profonda?
[241] Tre!
«Io dormivo, dormivo -,
Quattro!
Da un sogno profondo mi sono risvegliata: -
Cinque!
Profondo è il mondo,
Sei!
E più profondo che nei pensieri del giorno.
Sette!
Profondo è il suo dolore -,
Otto!
Piacere - più profondo ancora di sofferenza:
Nove!
Dice il dolore: perisci!
Dieci!
Ma ogni piacere vuole eternità -,
Undici!
Vuole profonda, profonda eternità! ».
Dodici!
(Così parlò Zarathustra, «La seconda canzone di danza»).
L’elaborazione finale di queste idee presenta nuovamente forti reminiscenze del periodo
schopenhaueriano di Nietzsche e della filosofia indiana, ma sempre con la tipica variazione in base
alla quale la meta finale, così come la via per raggiungerla, devono essere ricercate nell 'incremento
della  vita invece che nell’esaurimento della vita stessa. Ma che questi due modi di avvertire il
problema dell’esistenza risultino tuttavia vicini tra loro, dipende non da ultimo dal fatto
che, secondo le interpretazioni più recenti, anche la filosofia in-
diana - questa espressione estrema di una filosofia che annienta il mondo - [242] non aspira
propriamente alla liberazione dalla vita, ma soltanto alla redenzione dal dover-morire-sempre-di-
nuovo che segue dalla trasmigrazione delle anime. Essa in fondo non è se non una forma di paura
della morte che nelle altre religioni ha trovato espressione nel motivo della fede nell’immortalità;
una paura che può essere placata altrettanto bene se si viene sollevati all’eternità della vita
attraverso ima piena identificazione del singolo con la forza e la pienezza della vita stessa nel suo
insieme, così come se vengono meno e si dileguano tutti gli istinti vitali a cui sono
indissolubilmente legati morte, estinzione, trapasso.14
Ma il fascino che possedevano per Nietzsche un’interpretazione mistica della condizione onirica e
una concezione della coscienza cosmica come coscienza onirica, [243] aveva anche una
motivazione personale. Per lui, infatti, si trattava di qualcosa di più di una semplice metafora o di
un’analogia, giacché era convinto del fatto che, specialmente nelle situazioni di ebbrezza e di
sogno, potesse essere ridestata al presente la gran quantità di passato racchiusa nell’uomo. I
sogni ebbero sempre un ruolo importante nella sua vita e nel suo pensiero, e negli ultimi anni di
attività ricavò sovente da essi, come decifrando un enigma, il contenuto delle sue dottrine. In questo
modo utilizza ad esempio il sogno narrato in Così  parlò Zarathustra («L’indovino»), un sogno che
egli aveva fatto a Lipsia nell’autunno del 1882 e che non si stancava mai di rimuginare e di
interpretare. Un’interpretazione acuta o che si sposava felicemente al sentimento del sognatore
era quindi in grado di farlo contento e addirittura di redimerlo.
Si spiega dunque così il fatto che avesse cominciato a interessarsi presto a questo tema, pur
rifiutando quelle interpretazioni azzardate che avrebbe in seguito prediletto. Di ciò egli ha parlato in
diversi passi di Umano, troppo umano, come ad esempio nell’aforisma «Sogno e civiltà» (I, 12) e in
quello «Logica del sogno» (1, 13). In queste pagine ritiene ancora che l’intrico e il disordine delle
rappresentazioni nel sogno, la mancanza di chiarezza, di logica e di una corretta successione delle
cause che contraddistinguono la nostra maniera di dedurre e di valutare mentre dormiamo,
rammentino la condizione dell’umanità primitiva che, così come ancora ai giorni nostri i selvaggi,
ha agito anche nello stato di veglia come noi oggi nel sogno. In Aurora, al contrario, egli non fa più
menzione di una simile analogia, ma addirittura della possibile riproduzione nel sogno di un pezzo
di passato. E in La gaia scienza il sogno s’innalza qua e là [244] a rappresentazione positiva della
vita e del passato del mondo nel singolo individuo.
A questo punto bastava un passo per giungere a un terzo pensiero che riassumesse in sé i due che lo
precedevano, quello secondo cui nel sogno viene riprodotto il passato e quello che vuole che il
mondo intero e l’evoluzione della vita siano filosoficamente da paragonare a una finzione
onirica. Dalla unione di questi due pensieri risultò che il sogno era, in determinate occasioni, il
tornare a vivere di tutta la vita che fu - e la vita, a sua volta, nella sua natura più recondita, un sogno
il cui senso e significato spetta a noi, che siamo desti, determinare. La stessa cosa vale per tutte le
situazioni affini a quella onirica, per tutte quelle situazioni che possono condurre sufficientemente
in profondità nel caos, nell’oscurità e nell’imperscrutabilità del fondo della vita, - e non
solo dell’umanità finora esistita, ma ancora più a fondo fino a ciò da cui essa è originata. E poiché a
tal fine la quiete del sogno non è sufficiente, vi è bisogno di vivere un’esperienza più reale e
tremenda, quale il caos di passioni sconvolte e di orge dionisiache; persino la follia, come uno
sprofondare di nuovo nell’intrico dei sentimenti e delle immagini, pare a Nietzsche l’ultima via per
raggiungere profondità primordiali di strati trascorsi di umanità che giacciono in noi.
Nietzsche aveva cominciato presto a lambiccarsi il cervello sull’importanza della follia come
possibile fonte di conoscenza e sul significato che poteva essere riposto nel fatto che gli antichi
vedessero in essa un segno di elezione. A tal riguardo, in La gaia scienza egli dichiara: « Solo chi
spaventa -
dirige», e in Aurora si trovano queste parole degne di nota che riportano alla mente la sua
successiva idea di un genio dell’avvenire [245] che incarna in sé tutto il passato dell’umanità: «
Nelle esplosioni della passione e nei vaneggiamenti del sogno e della follia, l’uomo riscopre la sua
preistoria e quella dell’umanità [...]; la sua memoria affonda, allora, abbastanza lontano nel passato,
mentre la sua condizione di civilizzato si evolve a partire dall’oblio di quelle esperienze originarie,
dunque dall’indebolirsi di quella memoria. Chi, come un immemore di altissima schiatta, è restato
sempre molto lontano da tutto questo, non comprende gli uomini » (Aurora, 312).
A quel tempo, tuttavia, anche Nietzsche desiderava essere un « immemore », giacché cercava
ancora la grandezza umana nell’«uomo della conoscenza privo di passioni» e in quel che è « nato
dalla ragione ». A quel tempo riteneva ancora un equivoco crudele dei tempi passati il fatto che a
essi la follia fosse così sovente parsa inseparabile dalle grandi conoscenze: «Se [...] nonostante tutto
questo irruppero sempre, ancora una volta, pensieri, valutazioni, istinti nuovi ed irregolari, ciò
avvenne con un accompagnamento che mette i brividi: quasi ovunque è la follia che ha aperto la
strada al nuovo pensiero, che ha infranto il potere di una venerabile consuetudine e di una
superstizione. Comprendete voi perché dovette essere la follia? Qualcosa nella voce e nei gesti, così
raccapricciante e imprevedibile [...]? Qualcosa che portava il segno di un’assoluta irresponsabilità
[...], qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetoscopio di una
divinità? [...] Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano
irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò
nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o [246] farsi passare per tali [...]
». «“Come si può fare i pazzi, se non lo si è [...]?”. Di questo terribile ordine di idee erano preda
quasi tutti gli uomini importanti della civiltà più antica [...]. Chi osa gettare uno sguardo nello
squallore delle più amare e più inutili tribolazioni interiori, nelle quali probabilmente sono andati
languendo gli uomini più fecondi di tutti i tempi? Chi osa ascoltare quei sospiri degli uomini solitari
e sconvolti? “Ahimè, datemi dunque la follia, voi celesti! Follia, perché possa finalmente credere in
me stesso! Datemi deliri e spasimi, luci e tenebre improvvise, terrorizzatemi con gelo ed arsura,
quali nessun mortale ha ancora mai provato, con frastuoni e giro-
vaganti fantasmi, lasciatemi urlare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede
in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho assassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere
tormenta un uomo vivo; se io non sono più che la legge, sono il più reietto di tutti gli
uomini (Aurora, 14).
Come in Aurora vengono spesso chiariti o confutati pensieri che hanno già preso ad agire in segreto
su Nietzsche, così anche questa descrizione mostra in quale misura gli stati di ebbrezza gli
sarebbero successivamente sembrati la prova di una condizione eletta. Egli muoveva dallo sconforto
e dall’orrore per tutto ciò che esiste, da una caricatura della realtà che era nata in lui da una
caricatura del positivismo, e voleva creare al loro posto qualcosa di nuovo e di magnifico. Ma
dal momento che questa creazione poggiava esclusivamente su Nietzsche, essa stava e cadeva
insieme alla sua fiducia - in sé non aveva alcuna sussistenza. I dubbi che lo angustiavano dovevano
perciò essere migliaia, [247] non appena si perdeva d’animo anche solo per un momento;
implacabile purtuttavia il desiderio, in questa umanità vacillante e dubbiosa, di distinguere se stesso
da un essere sicuro di sé da un’eternità, di distinguere Nietzsche da Zarathustra: se al primo
potevano toccare in sorte anche le cose più tremende nel tramonto che il tempo gli assegnava, per il
secondo ciò era un segno di elezione e di innalzamento; se il primo poteva dover sprofondare in una
condizione di terribile caos sino a divenire una bestia, per il secondo ciò era soltanto l’espressione
di una capacità di tenere tutto in sé, anche quel che è infimo e profondissimo. E' questo il senso in
cui, nel Crepuscolo degli idoli («Sentenze e frecce», 3), si afferma che il filosofo di rango più alto è
una sorta di unione di bestia e di dio, e un pensiero simile si trova anche nell’affermazione
sull’uomo della conoscenza come filosofo-creatore: «Ogni uomo della conoscenza desidererebbe
volentieri sentirsi l’imbestialimento di un dio» (Al di là del bene e del male, 101). Ebbene sì,
questa infima maschera potrebbe essere la forma più adeguata con cui ciò che è più alto si presenta
agli uomini, giacché in essa non si umilierebbe e riuscirebbe a nascondere in modo efficace il
proprio splendore: «Non dovrebbe essere soprattutto l’antitesi il giusto travestimento con cui incede
il pudore di un dio? » (Al di là del bene e del male, 40).
Qui ci imbattiamo nell’ultimo tentativo di nascondersi da parte di Nietzsche - per un’ultima volta il
suo desiderio di una maschera. All’apparenza essa dovrebbe nascondere il
Dio sotto una veste troppo umana, mentre in realtà essa poggia sul commovente bisogno di
interpretare in modo diverso il destino terribile che minacciava lo spirito umano di Nietzsche, di
farne un destino divino al fine di sopportarlo, Nell’aforisma «Ecco una libera prospettiva»
Nietzsche accenna al fatto che [248] può significare grandezza d’animo «non aver paura di quanto
vi è di più indegno [...] Una donna che
ama sacrifica il suo onore: un uomo della conoscenza che “ama”, sacrifica forse la sua umanità; un
dio, che amava, divenne ebreo...» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 46).
Vediamo così il sacrificio e la violenza su di sé, il voluto tormento della discordia, non soltanto
elevati fino alle sommità dello spirito, ma tratti dentro a quel che vi è di più personale. L’intero
corso dei pensieri di Nietzsche culmina sempre più in un atto di autodistruzione tramite il quale,
agendo e soffrendo di persona, ha luogo la redenzione. Se era possibile seguire distintamente il
modo in cui la vita interiore di Nietzsche si esprimeva in forme filosofiche nella sua
dottrina dell’avvenire, siamo ora invece giunti al punto in cui la sua filosofia torna a mutarsi nella
più personale delle sue esperienze, in ossequio alla frase: «Io ribevo in me stesso le fiamme che da
me erompono » (Così parlò Zarathustra, « Il canto della notte»). E se i tratti di fondo del suo
pensiero erano soltanto linee che, invece che in un sistema astratto, andavano a congiungersi nei
colossali contorni di una figura divina, in un’autoapoteosi mistica, la felicità di chi ha fatto di se
stesso un dio si rovescia ora nella tragedia di una vita semplicemente umana. L’atto con cui
Zarathustra redime il mondo è al contempo quello del tramonto di Nietzsche; il diritto divino con
cui Zarathustra interpreta la vita e compie una trasvalutazione di tutti i valori viene acquisito
soltanto al prezzo di penetrare in quel fondo primordiale della vita che nell’esistenza umana di
Nietzsche si configura come l’oscuro abisso della follia. «Ma chi è della mia specie,» dice
Zarathustra «non sfugge a una tale ora: l’ora che gli dice: “Soltanto adesso ti incammini per il tuo
sentiero della grandezza! [249] Vetta e abisso - è ora saldato in unità!”» (Così parlò Zarathustra,
«Il viandante»). L’orrore di Zarathustra dinanzi a questo imperscrutabile affondare, di fronte a
questo « pensiero abissale », è al contempo l’orrore di Nietzsche di fronte al suo personale destino;
senza più possibilità di distinzione, entrambi si fondono in quel poema che altro non è se non la
descrizione trasfigurata della vita di Nietzsche, del supernietzscheanesimo.
«Così tutto mi gridava con segni: “è tempo! Ma io - non sentivo: finché il mio abisso sussultò e il
mio pensiero mi morse. Ah, pensiero abissale, che sei il mio pensiero! Quando troverò la forza di
sentirti scavare, senza più tremare? Il cuore mi batte fino in gola, quando ti sento scavare! E anche il
tuo silenzio vuol strangolarmi, tu che taci dall’abisso! Mai ho tentato fino ad oggi di evocarti in
alto: è già molto che io ti abbia - portato con me! » (Così parlò Zarathustra, «Della beatitudine non
voluta»).
Bisogna tenere a mente queste parole toccanti quando si legge la descrizione dell’«ora senza voce»,
in cui è la vita stessa che ordina a Zarathustra di vivere e annunciare i suoi pensieri - la vita
sorridente e contenta di sé, che ride del dolore del singolo poiché nella sua pienezza è beatitudine: «
Fino alla punta dei piedi egli è spaventato, perché sente mancargli il terreno sotto i piedi e il sogno
incomincia. Questo vi dico come una similitudine. Ieri, nell’ora senza voce, sentii mancarmi il
terreno sotto i piedi: il sogno incominciò. La sfera avanzava, l’orologio della mia vita riprendeva
respiro mai avevo udito un tale silenzio attorno a me: tanto che il mio cuore ne fu atterrito. Allora
sentii parlarmi senza voce: “Lo sai Zarathustra?”. E io urlai atterrito da questo sussurro, esangue si
fece [250] il mio viso [...]. Ecco che sentii risate intorno a me. Ahi, come queste risate mi
dilaniavano le viscere e spaccavano il cuore! [...] E di nuovo risate che si dileguavano: e tutto
divenne silenzioso intorno a me, in un silenzio duplice. Ma io giacevo a terra, le membra madide
di sudore» (Così parlò Zarathustra, «L’ora senza voce»).
A ciò si lega il capitolo intitolato «Il convalescente»: «Un mattino [...] Zarathustra saltò dal suo
giaciglio come un folle, gridando con voce terribile e comportandosi come se nel giaciglio fosse
qualcun altro,15 che non voleva alzarsi [...]. Ma Zarathustra disse queste parole: “Vieni su, pensiero
abissale, dalla mia profondità! Io sono il tuo gallo nel grigiore dell’alba, insetto dormiglione: su! su!
La mia voce dovrà pure svegliarti col suo canto del gallo! Togli i chiavistelli ai tuoi orecchi: ascolta!
Perché io ti voglio ascoltare! Su! Su! Qui sono tuoni abbastanza, perché anche i sepolcri16 imparino
ad ascoltare! E stropiccia via dai tuoi occhi il sonno e ogni ottusità e cecità! Ascoltami anche con gli
occhi: la mia voce è una medicina anche per ciechi nati. E quando sarai sveglio, mi ri-
marrai sveglio in eterno. Non è alla mia maniera, svegliare dal loro sonno le bisnonne, perché poi
dica loro di - continuare a dormire!17 [251] Tu ti agiti, ti stiri, rantoli? Su! Su! Non rantolare -
parlare, invece, tu devi a me! È Zarathustra che ti chiama, il senzadio! Io, Zarathustra, l’avvocato
della vita, l’avvocato del dolore, l’avvocato del circolo — io chiamo te, il più abissale dei miei
pensieri! Salute a me! Tu vieni - io ti odo! Il mio baratro parla, la mia estrema profondità io
l’ho rovesciata alla luce! Salute a me! Avanti! Qua la mano — ah! lascia! ah, ah! — Schifo, schifo,
schifo - - - guai a me! ».
L’immagine della follia si trova alla fine della filosofia di Nietzsche come un’illustrazione
abbagliante e tremenda delle argomentazioni gnoseologiche da cui egli aveva preso le mosse nella
sua filosofia dell’avvenire. Il suo punto di partenza era infatti rappresentato dalla dissoluzione di
ogni elemento intellettuale attraverso il predominio della dimensione caotica e istintuale che ne
costituisce la base e il senso; ma le conseguenze della gnoseologia nietzscheana si spingono fino
alla scomparsa dell’uomo della conoscenza quale condizione affinché si possa comprendere la
suprema rivelazione della vita, fino alla « demenza che dovrebbe essere inoculata » in ogni forma di
conoscenza intellettuale. Nelle parole di Zarathustra si confondono così in modo toccante il
presentimento del destino personale che lo attende e la concezione mistica della vita spirituale e del
suo significato in generale: « Spirito è la vita che taglia nella propria carne: nel suo patire essa
accresce il suo sapere - lo sapevate? E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato
dalle lacrime come vittima del sacrificio - lo sapevate? E anche la cecità del cieco e il suo cercare e
brancolare deve testimoniare la possanza del sole in cui egli guardò - lo sapevate? » (Così parlò
Zarathustra, «Dei saggi illustri»).
[252] La follia doveva dunque testimoniare ancora della potenza della verità della vita, il cui
splendore acceca lo spirito umano. Nessun intelletto conduce infatti nelle profondità della pienezza
vitale - né ci si può arrampicate fino a essa grado per grado, pensiero per pensiero: «E se ormai ti
sono venute a mancare tutte le scale, bisogna che tu sappia salire sul tuo capo: come potresti
altrimenti salire in alto? [...] Tu però, Zarathustra, hai voluto vedere il fondo e il sottofondo di tutte
le cose: e già questo ti obbliga salire al di so-
ora di te stesso - sempre più in alto, finché anche le tue stelle si trovino al di sotto di te!» (Così
parlò Zarathustra, «Il viandante»).
Con ciò sembra che si sia giunti alla fine e che tutta l’evoluzione si sia necessariamente conclusa: lo
slancio appassionato e insaziabile che muoveva e spingeva verso l’alto questo spirito lo ha infine
consumato e inghiottito di nuovo. Per noi, che lo osserviamo dall’esterno, lo avvolge da ora in
poi la completa oscurità della notte; egli fa il suo ingresso in un mondo di esperienze
esclusivamente individuali dinanzi al quale anche i pensieri che lo accompagnavano devono
arrestarsi: su tutto prende a regnare per noi un silenzio che ci tocca nel profondo. Ma non si tratta
soltanto del fatto che non possiamo più seguire il suo spirito nell’ultima metamorfosi che egli
realizza con il sacrificio di sé; noi non dobbiamo più seguirlo: proprio in ciò risiede per lui la
conferma della sua verità che è diventata un tutt’uno con i segreti e i misteri della sua vita interiore.
Si è ritirato nella sua ultima solitudine chiudendosi la porta alle spalle. Su di essa risplendono le
parole: « Ora è diventato tuo estremo rifugio ciò che in passato si chiamò il tuo pericolo estremo!
[...] Ora bisogna che [253] il tuo coraggio migliore consista nel non esserci alle tue spalle più alcun
altro sentiero! [...] Qui nessuno deve venirti dietro di nascosto! Il tuo piede stesso ha cancellato
dietro di te il sentiero, sul quale sta scritto: impossibilità» (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»).
E quale unica prova che anche dietro a quella porta vi sia un mondo di metamorfosi spirituali a noi
inaccessibile, dall’interno si ode smorzarsi un lamento: «Ahimè, ahimè sono obbligato a salire su
per il più duro dei sentieri! Ahimè, ho dato inizio alla più solitaria delle peregrinazioni! [...] Or ora è
cominciata l’ultima mia solitudine. Ah, il mare nero e mesto sotto di me! Ah, la gravida
irrequietezza della notte! Ah, destino e mare! A voi ora devo discendere, in basso\ [...] - più a fondo
nel dolore di quanto non sia mai disceso, fin dentro il suo flutto più nero! Così vuole il mio destino:
orsù! Io sono pronto! Donde vengono le montagne più alte? chiedevo in passato. E allora imparai
che esse vengono dal mare. Questa testimonianza sta scritta nelle loro rocce e nelle pareti delle loro
cime. Dall’abisso più fondo, la vetta più alta deve giungere alla sua altezza» (Così parlò
Zarathustra, «Il viandante»).
Profondità e altezza, abisso della follia e vetta del senso della verità sono ora saldati tra loro: « Il
monte dalla cima più
alta [...] mi attende: per questo debbo, prima ancora, discendere più in basso di quanto non sia mai
disceso» (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»). La suprema divinizzazione di sé festeggia la sua
completa vittoria mistica solo nell’annientamento più profondo, nella resa e nel tramonto dell’uomo
della conoscenza. Dei due animali simbolici che sono intorno a Zarathustra, il serpente della
conoscenza e dell’intelligenza e l’aquila dell’ambizioso orgoglio regale, soltanto quest’ultimo gli
resta fedele: «Fossi più intelligente! Più intelligente in ogni fibra, come [254] il mio serpente! Ma
ciò che chiedo è impossibile: perciò prego il mio orgoglio di seguire sempre la mia intelligenza! E
se un giorno la mia intelligenza mi abbandonerà [...] possa almeno il mio orgoglio volar via con la
mia follia! - Così cominciò il tramonto di Zarathustra»
(Così parlò Zarathustra, «Prologo di Zarathustra»).
Lo spirito di Nietzsche si dilegua così per noi in un mistero di tramonto e di elevazione, in
un’oscurità solcata dal volo delle aquile.
In tutto questo c’è qualcosa che tocca e commuove, come in un bimbo stanco che fa ritorno alla
patria della sua fede perduta dove non ha bisogno di alcun discernimento per prendere parte alle
benedizioni e alle rivelazioni più alte. Dopo avere percorso ogni circolo ed esaurito ogni
possibilità senza trovare contento, lo spirito ne entra infine in possesso attraverso il sacrificio
supremo, il sacrificio di se stesso. Rammentiamoci allora di quelle parole di Nietzsche citate
nella seconda parte di questo mio libro: « Quando tutto sarà stato percorso fino in fondo, dove si
andrà allora? E in che modo? Non si dovrebbe giungere di nuovo alla fede? Magari a una fede
cattolica? A ogni modo il circolo potrebbe essere più probabile della stasi ».
Tornando a ripetersi, Nietzsche descrive effettivamente un cerchio. Ed è interessante notare come,
nella misura in cui si approssima al punto da cui era originariamente partito - e l’intelletto in quanto
tale gli pare insignificante dinanzi a un mistico essere superiore che esige la fede -, la sua filosofia
assuma tratti sempre più assoluti e reazionari, contrapponendo al suo individualismo di un tempo la
restaurazione di una tradizione valida in assoluto e facendo sfociare la sua divinizzazione in un
assolutismo religioso. [255] L’aspetto interessante in questo decorso, nonostante le sue premesse
patologiche, è che esso possiede qualcosa di addirittura tipico dal punto di vista psicologico:
allorché l’istinto religioso - costretto dal libero pensiero a sfogarsi in modo rigorosamente
individuale - riesce infine a creare, come nel caso di Nietzsche, qualcosa di divino muovendo dal
proprio sé, esso ottiene allora immediatamente i poteri più assoluti e più reazionari che mai siano
spettati a un Dio concepito in modo oggettivo, fino a sbarazzarsi dello stesso intelletto - il cui
impulso conoscitivo gli indicò in origine la direzione - impedendogli ogni possibile rimostranza.
Dall’uomo deve nascere il Dio, anche se all’uomo ciò dovesse essere possibile soltanto attraverso
un ritorno all’infanzia e all’immaturità. Solo in questa scissione, che egli realizza in sé a qualsiasi
costo, l’uomo celebra la festa della propria redenzione e del ricongiungimento mistico con se stesso
nella fede:
Fu a mezzodì che l’uno divenne due...
Certi di una congiunta vittoria celebriamo ora
La festa delle feste:
È venuto l’amico Zarathustra, l’ospite degli ospiti!
Ride ora il mondo, l’orrendo velario si squarcia,
Sono giunte le nozze per luce e tenebra...
come è detto alla fine di Al di là del bene e del male, nello splendido epodo « Da alti monti ».
Il destino personale di Nietzsche si inserisce come chiave di volta in questo edificio concettuale,
sicché non è lecito dubitare dell’influsso che i suoi oscuri presentimenti possono avere avuto sulla
formazione della sua filosofia dell’avvenire. Con mano ferma egli ha [256] inserito a forza nel
progetto generale quel che lo attendeva e lo ha posto al servizio dell’ultimo segreto della sua
filosofia. Da qui, volgendosi all’indietro, ha abbracciato per la prima volta con lo sguardo tutta la
sua vita e il suo pensiero nell’alternarsi delle sue trasformazioni, e ha attribuito a posteriori una
coerenza dal significato mistico all’evoluzione del proprio sé, esattamente come fa il filosofo-
creatore con l’intera vita dell’umanità. Divenne così il Dio presago il quale, seppure in modo un po’
violento, volge al meglio, cioè in direzione dello scopo supremo, tutte le cose passate. Rendere «il
passato presago del futuro», questo è adesso il suo motto, l’esatto contrario quindi di quel che in
precedenza aveva desiderato, vale a dire sbarazzarsi in fretta del passato al fine di separarlo nel
modo più completo possibile da un futuro sempre nuovo.
Qui trova già una motivazione il forte influsso della sua prospettiva precedente sui pensieri della
filosofia dell’avvenire. Un tempo egli vedeva nella capacità di abbandonare ogni volta le proprie
verità una dimostrazione di indipendenza in-
tellettuale, e non gli sembrava dunque essenziale cercare l’appoggio altrui nell’appropriarsene. La
sua indipendenza totale richiede però adesso che il proprio sé e il suo senso vengano tenuti fermi in
tutti i pensieri passati e confutati; ma perché ciò sia possibile, essi devono essere stati
promossi soltanto da questo sé, non da altri. Di fronte alle ultime opere di Nietzsche - quelle in cui
all’apparenza egli erige con la massima indipendenza il proprio sistema - si ha così spesso la
sensazione che egli stia con lo sguardo e il volto rivolti all’indietro, che si riaccosti [257] di nuovo
ai luoghi andati delle sue antiche metamorfosi, sebbene se ne allontani il più possibile
nell’autonomia di ipotesi raggiunte in modo del tutto individuale. La chiave di questa
contraddizione sta nel fatto che egli trae dalle sue convinzioni precedenti solo ciò in cui trova
espressione la sua natura individuale, il suo segreto volere, ciò che in tutte le teorie ricavate da altri
pensatori era dovuto in fondo servire a questo spirito appassionato come pretesto inconsapevole,
come opportunità involontaria per la sua evoluzione interiore. Giunto alla fine, egli si concentra sul
carattere unitario della sua vita interiore, la scruta e la osserva in trasparenza mettendone in risalto
la coerenza sottesa a tutte le sue trasformazioni, con la stessa enfasi con cui un tempo sottolineava
soltanto la sua capacità di trasformazione. Come qualcuno che abbia in mente d’intraprendere un
viaggio senza ritorno, come qualcuno che intenda accomiatarsi e che perciò raduni attorno a sé tutto
quel che un tempo era suo, così vediamo ora Nietzsche raccogliere dalle varie fasi spirituali che ha
attraversato ciò che gli appartenne. Egli compie una «valutazione di quel che si è raggiunto
e voluto, una somma della vita» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 36): « Ecco
che toma indietro, ecco che finalmente toma a casa - il mio me stesso, e insieme tutto quanto per
lungo tempo era stato in terra straniera e disperso tra tutte le cose e le casualità » (Così parlò
Zarathustra, «Il viandante»).
Questo lo rende ingiusto nei confronti dei suoi compagni di un tempo e dei loro convincimenti;
voleva dimenticare quanto spesso avevano determinato la direzione del suo pensiero: « Quando la
casa è costruita, bisogna togliere le impalcature» (Il viandante e la sua ombra, 335). [258] È questa
la «Morale per costruttori di case»: questo egli pensava, ignorando che per la sua costruzione
c’erano sempre volute delle impalcature. Questa ingiustizia è dunque esattamente antitetica a quella
precedente, che scaturiva dall’alternarsi appas-
sionato dei pensieri, dall’energia con cui ogni volta distruggeva la pelle concettuale che si era tolto
di dosso. Ora Nietzsche non vuole più credere al fatto che una pelle estranea abbia potuto crescere
forte insieme a lui. Nei riguardi del positivismo questa ingiustizia si palesa in modo del tutto
peculiare nella prefazione alla Genealogia della morale, come in singoli passi di altre opere; nei
riguardi di Wagner, nel piccolo scritto II caso Wagner. Quest’ultima opera consente un confronto
interessante tra il modo in cui Wagner viene combattuto nelle sue pagine e in quelle di Umano,
troppo umano, tra l’astio con cui egli aveva gettato lontano da sé il wagnerismo e l’astio con cui gli
si riaccosta di nuovo per ricavarne la sua proprietà spirituale senza rinunciare alla sua autonomia.
Il suo desiderio di essere considerato fin dall’inizio autonomo e coerente lo spinse in ultimo fino al
punto che, nella prefazione al secondo volume della seconda edizione di Umano, troppo umano (del
settembre 1886), spiegò come tutti i suoi scritti precedenti fossero da «retrodatare», di
come parlassero soltanto di ciò che all’epoca della loro stesura egli aveva già superato, aveva già
lasciato dietro di sé; l’autore, che stava al di sopra di essi, si era dato a vedere in un travestimento
volontario. La quarta considerazione inattuale, Richard Wagner a Bayreuth, doveva dunque essere
stata, con là sua esaltazione di Wagner, solamente « un atto di omaggio e [259] di riconoscenza
verso un brano del mio passato », e anche gli scritti positivistici, con la loro accettazione delle
concezioni di Rèe, dovevano fornire soltanto la rappresentazione postuma di qualcosa di cui si è già
fatto esperienza. Á questo tentativo nietzscheano di coniare nuovamente il senso delle sue opere, di
coniarle per così dire con una nuova data, si possono applicare le sue stesse parole: «Forse mi si
potrebbe a questo riguardo contestare molta “arte”, molta sottile arte di battere moneta falsa»
(Umano, troppo umano, I, «Prefazione» alla seconda edizione del primo volume, primavera 1886).
E uno dei molti travestimenti di questo solitario sarebbe anche quello di assegnarsi una maschera
che non ha mai indossato; ma ciò può essere compreso e perdonato se con quella maschera egli
avesse voluto intendere, anche in cuor suo, soltanto se stesso, vale a dire l’uomo Nietzsche
in contrapposizione a Zarathustra, al mistico super-Nietzsche. Il Nietzsche umano poteva infatti non
saperne nulla, nelle sue incessanti trasformazioni, del suo carattere di maschera; lo poteva soltanto il
super-Nietzsche, che Nietzsche in seguito volle avere presagito e avvertito in sé fin dall’inizio. Il
super-
Nietzsche non sarebbe così null’altro se non un’interpretazione mistica dell’indole e del desiderio
più intimi di Nietzsche, di quella recondita «volontà fondamentale» la quale, come abbiamo avuto
modo di vedere, ritaglia per sé, in modo del tutto inconsapevole, le teorie altrui per poi affermarsi in
esse con tutta la sua forza.
Nell’autunno del 1888, dopo aver portato a termine il primo libro della Trasvalutazione di tutti i
valori (La volontà di potenza), che non è ancora stato pubblicato, Nietzsche credette di aver
concluso, almeno in via provvisoria, il proprio lavoro. Il Crepuscolo degli idoli, infatti, la cui
prefazione [260] porta la data del 30 settembre 1888, è stato palesemente scritto in uno stato
d’animo di compiutezza e di attesa della fine. Indicativo di ciò è il fatto che il primo titolo di questo
scritto recitasse Ozio di uno psicologo e che nella prefazione esso venga addirittura definito « uno
svago ». Si tratta tuttavia di un ozio quanto mai interessante, uno di quei libri di Nietzsche in cui
egli si rivela maggiormente e spiattella i segreti della sua anima. Sotto questo rispetto esso
risulta simile a Umano, troppo umano e ad Aurora, sebbene sia molto meno significativo dal punto
di vista del contenuto. Se nella prima di queste due opere Nietzsche mette a nudo qualcosa della sua
vita interiore attraverso il modo in cui si rassegna, con tutto il suo animo, a un mutamento
repentino ma definitivo, e se nella seconda ci consente di gettare uno sguardo nel suo intimo, dal
momento che passa al vaglio e combatte desideri e pensieri comparsi da poco, prima di farsi
trascinare da questi nella sua nuova filosofia dell’avvenire, nel Crepuscolo degli idoli a tradirlo è
uno stato d’animo completamente diverso: la passione vibrante di una realizzazione colossale, una
spossatezza in cui si mescola l’attesa di ciò che verrà.18 In questa commozione [261] lo vediamo
sci-
volare dal Crepuscolo degli idoli al crepuscolo del proprio spirito.
La stessa tonalità emotiva contraddistingue anche la quarta e ultima parte dello Zarathustra, apparsa
già nel 1885, ma resa accessibile a tutti soltanto dal 1891. Dalle sue pagine risuona il riso del
superuomo, qua e là tuttavia già stridulo e con dissonanze sinistre. Da un punto di vista puramente
personale, questi ultimi discorsi di Zarathustra sono la cosa più commovente che Nietzsche abbia
mai scritto, poiché lo mostrano come chi sta tramontando e nasconde il suo tramonto dietro a una
risata. Soltanto giunti a questo punto ci si fa chiara in tutta la sua grandiosità la contraddizione
inconciliabile [262] che risiede nel fatto che Nietzsche ha introdotto la sua filosofia dell’avvenire
con una Gaia scienza, definendola una buona novella, deciso a giustificare per sempre la vita in
tutta la sua pienezza, la sua forza e la sua eternità - e che ha poi formulato quale suo pensiero
supremo quello dell’eterno ritorno della vita. Soltanto ora riconosciamo appieno il vittorioso
ottimismo che aleggia sopra le sue ultime opere, come il sorriso commovente di un fanciullo che
mostra tuttavia quale rovescio il volto di un eroe che nasconde i tratti deformati dal terrore. «“Non è
ogni pianto un lamento? E ogni lamento un’accusa?”. Così parli a te stessa, e perciò, anima
mia, preferisci sorridere che sfogare il tuo dolore» canta Zarathustra (Così parlò Zarathustra, «Del
grande anelito»), e perciò va, come «lo scarlatto principe d’ogni tracotanza» (Ditirambi di Dioniso,
«Tra uccelli di rapina»). «La corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: io stesso ho
posto sul mio capo questa corona, io stesso ho santificato la mia risata» (Così parlò Zarathustra,
«Dell’uomo superiore»).
Grande è il fatto che egli sapeva di essere al tramonto, eppure si congedò - con la bocca che
sorrideva, «incoronato di rose» - discolpando, giustificando, trasfigurando la vita. Nei ditirambi
dionisiaci la vita del suo spirito si spense; quel che il suono del loro giubilo doveva soverchiare era
un grido di dolore. Sono l’ultima violenza su Nietzsche da parte di Zarathustra.
Nietzsche ha pronunciato una volta la frase paradossale: «Ridere significa essere maligni con
tranquilla coscienza» (La gaia scienza, 200). Una malignità superiore, che si allieta del proprio
male, che è anzi in grado di infliggerselo, corre attraverso tutta la vita e tutta la sofferenza di
Nietzsche come un’eroica autocontraddizione e [263] un’eroica risata. Ma nella possente forza
d’animo con cui riuscì a porsi così in al-
to sopra di sé, vi era, a volerla vedere da psicologi, un’intima giustificazione del suo considerarsi
come una dualità mistica: in ciò è racchiuso per noi il senso e il valore più profondo della sua opera.
Dal suo sorriso giunge anche a noi un duplice suono che ci commuove: la risata di un folle e il riso
del vincitore.
1[Si tratta di una lettera scritta da Santa Margherita Ligure nel novembre 1882, ora in F. Nietzsche,
Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1, lettera n. 335; a Lou von Salomé a Berlino, Santa Margherita
Ligure, probabilmente 24 novembre 1882, p. 282.]
2 Si vedano al riguardo le seguenti affermazioni di Nietzsche contenute in opere del periodo
precedente: «Fra le verità ricavate metodicamente e simili cose “presentite” rimane l’invalicabile
abisso che quelle sono dovute all’intelletto e queste al bisogno... [...] Si ha soltanto il desiderio
intimo che possa essere così - ossia che ciò che fa felici sia anche vero. Questo desiderio ci induce a
prendere per buone ragioni cattive» (Umano; troppo umano, I, 131). FARSI INDURRE IN ERRORE OPPURE
NO - CIÒ DETERMINAVA ALLORA PER LUI ADDIRITTURA LA GERARCHIA TRA GLI UOMINI: « CHE COSA È PER ME [...]
FINEZZA DI SENSIBILITÀ E GENIO, SE L’UOMO [...] TOLLERA IN SÉ FIACCHI SENTIMENTI NEL CREDERE E NEL
GIUDICARE, SE l’esigenza della certezza non costituisce per lui la più intima delle sue brame e la più
profonda delle sue necessità - essendo questo ciò che distingue gli uomini superiori da quelli
inferiori! » (La gaia scienza, 2). E in Aurora egli celebra ancora come segno che contraddistingue la
vera grandezza del pensatore, in antitesi alla genialità piena di temperamento, «l’occhio puro,
purificante, che non sembra germinato dal loro temperamento e carattere » (aforisma 497), ma non
influenzato da essi rispecchia le cose. « Se non vi fosse stato in tutti i tempi un gran numero di
uomini a sentire nel rigore della mente - nella loro “razionalità” - un motivo di orgoglio, di
obbligazione morale, di virtù, uomini cui recò offesa e vergogna tutto il fantasticare e il divagare
tortuoso del pensiero, [...] l’umanità sarebbe perita già da un pezzo! Sopra di essa era sospeso e
continua ancora ad esserlo quel che è il suo pericolo più grande, l’erompere della follia, cioè,
appunto, l’erompere del proprio capriccio nel sentire, nel vedere e nell’udire, il godimento di
una dissolutezza della mente, il piacere di una negazione dell’intelletto. Non la verità e la certezza
costituiscono l’antitesi del mondo del dissennati, ma l’universalità e obbligatorietà universalmente
imposta di una credenza, insomma la non arbitrarietà nel giudicare. E il più grande lavoro degli
uomini fino ad oggi fu quello di mettersi d’accordo gli uni con gli altri su moltissime cose
e d’imporsi una legge dell’armonia [...]. E quel tempo di adagio che essa (la credenza
universalmente accettata) richiede [...] già trasforma artisti e poeti in apostati - questi sono gli spiriti
impazienti in cui erompe un risoluto godimento della follia, poiché la follia ha un tempo così
allegro! » (La gaia  scienza, 76). E viene da pensare che Nietzsche se la prenda contro quel che era
stato in precedenza allorché rimprovera alle donne e agli artisti quella mancanza di scientificità
dello spirito che lo rende un fanatico di tutte le ipotesi che «fanno l’impressione dell’intelligenza,
del fascino, della vitalità e della forza». Analogamente i più vogliono «essere trascinati fortemente
per ottenere in tal modo essi stessi un aumento di forza», soltanto pochi «hanno questo interesse
oggettivo, che prescinde da vantaggi personali, anche da quello del menzionato aumento di forza.
Quella classe, di gran lunga preponderante, si può essere sicuri di trovarla ovunque il pensatore si
comporti e si definisca come genio, cioè se ne stia a guardare gli altri come un essere superiore, al
quale spetti l’autorità. In quanto il genio di questa specie alimenta l’ardore delle convinzioni e
suscita diffidenza verso il prudente e modesto senso della scienza, esso è un nemico della verità,
quand’anche dovesse credersene innamorato» (Umano, troppo umano, 1, 635).
3 Si veda invece in Umano, troppo umano la protesta di Nietzsche contro «l’arte come evocatrice di
morti», poiché vuole influenzare il presente con rappresentazioni del passato: «Essa allaccia [...] un
legame intorno a epoche diverse e ne fa ritornare gii spiriti. Per la verità è solo una vita di
larva, come sopra delle tombe, quella che in tal modo sorge» (I, 147), eppure esercita un influsso
nocivo e retrogrado. «Quelli che risuscitano i morti» e «quelli che evocano i morti» Nietzsche li
considera «persone vanitose» poiché «stimano maggiormente un frammento di passato, a
principiare dal momento in cui riescono ad averne una sensibilità postuma» (Aurora, 159). E'
dell’idea che ci si debba opporre il più possibile al trasporto sentimentale che ci giunge
progressivamente e nei modi più svariati da ogni civiltà del passato: abbandonarvisi, sarebbe come
approssimarsi alla follia o all’infermità: «Il peso totale della civiltà è diventato così grande che una
sovreccitazione delle forze nervose e di pensiero è oggi il pericolo generale; anzi, le classi colte dei
paesi europei sono diventate completamente nevrotiche e quasi ciascuna delle loro famiglie si è
avvicinata, in qualche membro, alla pazzia. [...] Ma principalmente rimane necessario diminuire la
tensione del sentimento e il peso schiacciante della civiltà, [...] dobbiamo evocare lo spirito della
scienza, che rende in complesso alquanto più freddi e scettici
[...] » (Umano, troppo umano, I, 244). «Se questa esigenza di una superiore cultura non verrà
soddisfatta, si può predire quasi con sicurezza quale sarà l’ulteriore corso dell’evoluzione umana:
l’interesse per la verità verrà meno, tanto più quanto meno procurerà piacere; l’illusione, l’errore e
la fantasticheria si riconquisteranno [...] il terreno su cui un tempo dominavano: la rovina delle
scienze e il ripiombare nella barbarie saranno la conseguenza più immediata» (ivi, 1,251).
4 Si veda ad esempio in II viandante e la sua ombra: « Le istituzioni democratiche sono istituti di
quarantena contro l’antica peste delle voglie tiranniche» (289). « Impossibilità per l’avvenire che i
campi della civiltà vengano di nuovo distrutti da un giorno all’altro da selvagge e insensate acque di
montagna! Dighe e baluardi contro i barbari, contro le epidemie, contro l’asservimento materiale e
spirituale! » (ivi, 275). E ancora in Umano, troppo umano: «Le forze più selvagge aprono la strada
[...] perché più tardi dei costumi più miti stabiliscano qui la loro sede. Le terribili energie - ciò che
si dice il male - sono i ciclopici architetti e pionieri dell’umanità» (1, 246), fino a che « sono i
buoni, utili impulsi, le abitudini del cuore nobile diventati così sicuri e generali, che non ci sia più
bisogno di [...] durezze e violenze, come dei mezzi più potenti onde unire gli individui e i popoli tra
loro» (I, 245).
Proprio come in seguito, per Nietzsche l’uomo violento è qualcuno che è rimasto arretrato, un uomo
atavico, ma proprio per questo un residuo da
estirpare, non una guida per l’avvenire. «Il carattere sgradevole, che [...] è violento e collerico
contro le opinioni divergenti, mostra di appartenere a un grado precedente di civiltà, cioè di essere
ima sopravvivenza; giacché la maniera in cui si comporta con gli uomini è quella giusta e adatta alle
condizioni di un’età in cui vigeva il diritto del più forte: è un uomo rimasto indietro. Un altro
carattere, che è ricco di simpatia per le gioie altrui, che si acquista amici dappertutto, che sente con
amore tutto ciò che cresce e diviene, che [...] non rivendica affatto la prerogativa di conoscere da
solo il vero, ed è anzi pieno di una modesta diffidenza - costui è un anticipatore, che
muove incontro a una superiore civiltà degli uomini. Il carattere sgradevole proviene dai tempi in
cui le rozze fondamenta dell’umana convivenza erano ancora da costruire, l’altro vive ai piani più
alti di essa, il più possibile lontano dall’animale selvaggio, che infuria e urla nelle cantine, rinchiuso
sotto le fondamenta della civiltà» (I, 614).
5 Così egli afferma in Umano, troppo umano: «Il Rinascimento italiano racchiuse in sé tutte le forze
positive a cui si deve la cultura moderna: ossia liberazione del pensiero, disprezzo dell’autorità,
vittoria dell’istruzione contro l’alterigia della schiatta, entusiasmo per la scienza» (I, 237).
Parimenti antitetica era la sua concezione del genio di Napoleone e del suo impulso ad agire, come
mostra un passo della stessa opera: «È in ogni caso un sintomo pericoloso, il fatto che l’uomo venga
colto da quel brivido di fronte a se stesso, sia che si tratti del famoso brivido cesareo, sia che si tratti
del brivido del genio [...]; sicché egli comincia a vacillare e a tenersi per qualcosa di sovrumano.
[...] In certi rari casi questo elemento di follia può essere stato il saldo tessuto connettivo di una tal
natura, eccessiva sotto ogni rispetto: anche nella vita degli individui le fissazioni, che di per sé
sono veleno, hanno spesso il valore di rimedi; tuttavia in ogni “genio” che crede alla sua divinità, il
veleno finisce per rivelarsi a misura che il “genio” diventa vecchio: si ricordi ad esempio
Napoleone, la cui personalità, certo proprio grazie alla sua fede in se stesso e nella sua stella e al
disprezzo degli uomini da essa derivante, crebbe fino alla possente unità che lo innalza al di sopra di
tutti gli uomini moderni, e in cui però da ultimo questa stessa fede si trasformò in un fatalismo quasi
folle, lo privò del suo sguardo rapido e acuto e divenne la causa della sua rovina» (I,164).
In Aurora, 549, egli riconduce l’egoismo senza riguardi dell’impulso ad agire di Napoleone alla sua
predisposizione ad ammalarsi di epilessia invece che, come avrebbe fatto in seguito, al prorompente
«eccesso di salute» di chi ha in corpo tutti gli istinti violenti di una civiltà passata.
6 Di contro al successivo disprezzo nietzscheano per il carattere ebraico, si legga in Aurora
l’aforisma 205, «Del popolo d’Israele»; «E dove è diretta tutta questa sovrabbondanza di grandi
impressioni accumulate, [...] questa sovrabbondanza di passioni, di virtù, di decisioni, di rinunce, di
lotte, di vittorie d’ogni specie - dove troverà sbocco, se non, infine, in grandi personalità ed opere
dello spirito? Quando gli ebrei avranno mostrato l’opera loro in tali pietre preziose e intarsi dorati,
quali i popoli europei, di più breve e meno profonda esperienza, non sono né furono capaci di
produrre [...],
sarà giunto allora ancora una volta quel settimo giorno in cui il vecchio Dio degli ebrei potrà
rallegrarsi di se stesso, della sua creazione e del suo popolo eletto, - e tutti, tutti noi, ci rallegreremo
con lui».
7 Per questa situazione di libero godimento dell’individualità Nietzsche ha trovato le parole più
belle nel suo poema Zarathustra, che potrebbe essere definito come il Cantico dei cantici
dell’individualismo moderno. Particolarmente caratteristiche possono considerarsi le seguenti
sentenze:
« Quando siete i volenti di un’unica volontà e questa svolta culminante di ogni fatalità ha per voi il
nome di necessità: lì è l’origine della vostra virtù.
In verità, essa è un nuovo bene e male! In verità, un nuovo profondo fremito e la voce di una nuova
sorgente! [..,]
Rimanetemi fedeli alla terra, fratelli, con la potenza della vostra virtù ! [... ] Fate che essa non voli
via dalle cose terrene e vada a sbattere con le ali contro muri eterni! Ahimè, vi è stata sempre tanta
virtù volata via!
Riportate, come me, la virtù volata via sulla terra - sì, riportatela al corpo e alla vita: perché dia un
senso alla terra, un senso umano! [...]
Mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e
non scoperto è ancor sempre l’uomo e la terra dell’uomo» («Della virtù che dona»).
«Vuoi cercare la via verso te stesso? [...]
Fammi vedere che ne hai la forza e il diritto! [...]
Libero, ti chiami? Voglio sentire il tuo pensiero dominante e che non sei sfuggito a un giogo. [...]
Libero da che cosa? Che importa questo a Zarathustra? Ma il tuo occhio deve limpidamente
annunciarmi: libero per che cosai
Sei capace di dare a te stesso il tuo male e il tuo bene e affiggere su di te la tua volontà come una
legge? » (« Del cammino del creatore »).
« Sia il vostro Sé nell’azione, come la madre è nel figlio: questo sia per me la vostra parola sulla
virtù» («Dei virtuosi»).
«È il vostro più caro Sé, la vostra virtù» («Dei virtuosi»).
« Si ama fino in fondo solo il proprio figlio, l’opera propria; e dove è un grande amore per se stessi,
là è il segno della gravidanza: così trovai » (« Della beatitudine non voluta»).
«Fratello, se hai una virtù, ed è la tua virtù, allora non l’hai in comune con alcuno. [...] Così di’ e
balbetta: “[...] Nonio voglio [il mio bene] come la legge di un dio, non lo voglio come un canone e
una stretta necessità degli uomini: [...]
Ma questo uccello ha costruito presso di me il suo nido: perciò lo amo e lo stringo al petto, - e ora
esso cova presso di me le sue uova d’oro”. [...] Una volta avevi delle passioni e le chiamavi cattive.
Ma adesso non hai altro che le tue virtù: esse sono cresciute dalle tue passioni.
Nel cuore di queste passioni ha posto la tua meta più alta: così sono diventate le tue virtù e le tue
gioie.
Sia che tu fossi della schiatta dei collerici o dei lussuriosi o dei fanatici di una fede o dei
vendicativi:
Alla fine tutte le tue passioni sono diventate virtù e tutti i tuoi diavoli angeli» («Delle gioie e delle
passioni»).
8 «Musica» intesa, secondo Schopenhauer, come la rappresentazione sonora della cosa in sé.
9 Un pensiero affine risuona in La gaia scienza, allorché Nietzsche coglie l’effetto dei culti
orgiastici nel fatto che gli uomini venivano placati e liberati dalle loro passioni «spingendo innanzi
tutto al colmo il delirio e il disfrenamento dei loro affetti, rendendo quindi furibondo il delirante,
ebbro di vendetta chi la febbre di essa consumava: tutti i culti orgiastici vogliono sgravare [...] la
ferocia di una divinità e portarla all’orgia perché dopo essa si senta più libera e più quieta e lasci
l’uomo in pace» (La gaia scienza, 84).
10 [Si tratta di un biglietto dell’agosto 1882, ora in F. Nietzsche, Brief-Wechsel, cit., vol. III, tomo 1,
lettera n. 290 a Lou von Salomé a Tautenburg, Tautenburg, 25 agosto 1882, p. 245.]
11 [Si tratta di una lettera del settembre 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I,
lettera n. 298 a Lou von Salomé a Stibbe, Naumburg, 8 settembre 1882, pp. 251-252.]
12In riferimento a queste considerazioni si legga la rappresentazione dell’eterno ritorno nelle
pagine intitolate «La visione e l’enigma» in Cosi parlò Zarathustra:
«“Guarda questa porta carraia! [...]: essa ha due volti. Due sentieri convergono qui: nessuno li ha
mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e
in avanti - è un’altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta
carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’.
Ma, chi ne percorresse uno dei due - sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu [...] che questi
sentieri si contraddicano in eterno? [...].
[...] Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa
via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una
volta?
E se tutto è già esistito: che pensi [...] di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia -
esserci già stata?
E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo
trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - -anche se stesso?
Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori - deve
camminare ancora una volta!
E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu
bisbigliami a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un’altra
volta?
- e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non
dobbiamo ritornare in eterno? ”. -
Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri
reconditi». A questo punto segue il racconto di un cane che ulula e chiede aiuto per un uomo.
All’uomo, un giovane pastore, era strisciato in gola un serpente e si era abbarbicato mordendo.
«La mia mano tiro con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente
dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi!
Staccagli il capo! Mordi!” così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio • odio, il mio schifo, la
mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. -
[•••]- Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé
sputò la testa del serpente e balzò in piedi. -
Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva ! Mai prima al
mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, — e ora mi consuma una sete, un desiderio
nostalgico, che mai si placa ».
Il serpente dell’eterno ritorno che ruota in circolo è quello da cui Zarathustra libera l’uomo,
staccandogli il capo con un morso: superando l’insensatezza e l’orrore e facendo dell’uomo un
signore - un trasformato, un circonfuso di luce, un superuomo:
«Sciogliete dunque l’enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra
gli uomini!
Giacché era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che
un giorno non potrà non venire? ».
Cfr. anche: «[...] - e come la bestiaccia mi è strisciata dentro le fauci per strozzarmi! Ma io ne ho
morso il capo e l’ho sputato lontano da me» (Così  parlò Zarathustra, «Il convalescente»).
13 [Si tratta di un’affermazione che ricorre testualmente in un frammento postumo: F. Nietzsche,
Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., vol. viii, tomo 3, trad. it. di S. Giametta, frammento
19/1, ;, p. 334; nonché, con interpolazioni, in Ecce homo, «Perché scrivo libri così buoni», I,
dove Nietzsche dichiara: «Quando una volta il dottor Heinrich von Stein si lamentò onestamente di
non capire una parola del mio Zarathustra, gli dissi che mi sembrava naturale: aver capito sei frasi
di quel libro, cioè averle vissute, innalza i mortali a un grado più alto di quello che gli uomini
“moderni’’ potrebbero raggiungere». Entrambi i testi non potevano essere noti ad Andreas-Salomé:
è probabile, perciò, che la fonte diretta sia lo stesso von Stein, il quale era stato un frequentatore del
salotto berlinese di Lou e Rèe.]
14 Il caso volle che forse uno degli ultimi lavori scientifici di cui Nietzsche si è intensamente
occupato fosse quello sulla filosofia indiana di uno schopenhaueriano di stretta osservanza, e che
ciò lo riportasse ancora una volta vicino all’ambito concettuale della sua precedente concezione del
mondo. Si tratta dell’eccellente libro di Paul Deussen, II sistema del Vedanta secondo il Brahma-
Sùtra del Bädaräyana e il Commento del Çankara sui medesimi (Brockhaus, Lipsia 1883) in cui
l’autore presenta e interpreta il tema in modo certo obiettivo, ma lo giudica al contempo dal proprio
punto di vista. È impossibile non riconoscere l’influsso di questo libro sugli scritti composti da
Nietzsche a partire dal 1883, in special modo per quel che riguarda la divinizzazione del filosofo
creatore e la sua assimilazione al principio vitale più alto e onnicomprensivo, come anche per l’idea
che esso raccolga in sé la successione di tutti gli eventi in una sorta di coesistenza psichica, in una
metempsicosi spaziale invece che temporale. Se si raccolgono le affermazioni sparse di Nietzsche
sui singoli stati d’animo, nel loro significato semimistico, si è a volte tentati di scriverci a fianco «
Atman » e «Brahmán».
15    Nietzsche-Zarathustra.
16    I sepolcri del passato, di tutto quel che è stato.
17 In contrapposizione alla semplice ricerca e alla conoscenza intellettuale del passato attraverso la
scienza, che non è in grado di redimere nulla.
18 Questo stato d’animo si rispecchia, ancora privo di veli, nei Ditirambi di Dioniso, nati nello
stesso periodo (autunno 1888) e stampati alla fine della quarta parte di Così parlò Zarathustra.
Particolarmente significativi sono tra gli altri i seguenti versi:
« Adesso - / da solo con te, / in due col tuo proprio sapere, / in mezzo a cento specchi / falso di
fronte a te, / in mezzo a cento ricordi / incerto, / di ogni ferita stanco, / per ogni gelo freddo, /
strozzato dai tuoi propri lacci, / conoscitore di te, / carnefice di te stesso !/[...] Un malato ora, / che
il veleno del serpente rese infermo; / un prigioniero ora, / che trasse la sorte più dura, / che lavora
nel proprio pozzo / rannicchiato, / che apre in sé una caverna, / che scava in se stesso, / maldestro, /
rigido, / un cadavere - [...] In agguato, / aggomitolato, / uno che più non si regge in piedi! / Già ti
aggrovigli alla tua tomba, / spirito rattrappito!... » [«Tra uccelli di rapina»].
POSTFAZIONE
DI DOMENICO M. FAZIO
I. TAUTENBURG, SELVA TURINGIA, AGOSTO 1882
Nell’appendice alla seconda edizione del suo celebre Nietzsche e l'eterno ritorno, a proposito del
libro di Lou Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche nelle sue opere,1 del quale presentiamo la nuova
edizione italiana,2 Karl Lowith ha scritto: « Questo studio fu pubblicato nel 1894, dunque ancor
prima dell’autorappresentazione fornita da Nietzsche in Ecce homo, e perciò è tanto più
sorprendente la prudenza e la maturità della caratterizzazione. Nei cinquantanni che seguirono non
fu pubblicata nessuna interpretazione più centrata di questa, ma anche nessuna che al giorno d’oggi
venga tenuta in minor conto».3 L’autorevole giudizio di Lowith risale al 1956. Vent'anni dopo, un
altro grande studioso di Nietzsche, Mazzino Montinari, a sua volta ha affermato che il libro
dedicato a Nietzsche da Lou Andreas-Salomé « ancora oggi è uno dei migliori che siano mai stati
scritti su di lui, perché nato da uno scambio di idee breve ma intensissimo tra la giovane Lou e
Nietzsche stesso».4 In un contributo apparso più di recente, infine, Sossio Giametta ha commentato
che sull’evoluzione spirituale di Nietzsche « ragguaglia ottimamente, nel suo libro Friedrich
Nietzsche in seinen Werken, la Russa che era stata sua amica e di cui egli si era innamorato ». 5
Friedrich Nietzsche e Lou Salomé si erano conosciuti a Roma alla fine di aprile del 1882 in casa
dell’idealista Malwida von Meysenbug. Nietzsche, allora trentottenne, una volta professore di
filologia e a quel tempo fugitivus errans, aveva da poco pubblicato Aurora e stava portando a
termine ha gaia scienza. Lou Salomé era una studentessa di lettere di appena ventun anni.6 Nata a
Pietroburgo il 12 febbraio 1861 da una famiglia di ebrei francesi che si erano messi al

servizio degli zar, Louise von Salomé aveva compiuto i suoi studi sotto la guida di un precettore di
grande valore, il pastore Hendrik Gillot. Questi aveva saputo suscitare in lei l’interesse per la
cultura e l’aveva avviata non soltanto alla lettura dei classici della letteratura francese e tedesca, ma
anche allo studio delle opere di alcuni dei maggiori filosofi del Sette e dell’Ottocento: Leibniz,
Rousseau, Voltaire, Kant, Fichte, Kierkegaard e Schopenhauer. Dal settembre del 1880 la
diciannovenne Lou, accompagnata dalla madre, la vedova del generale von Salomé, si era trasferita
a Zurigo per completare i suoi studi nell’università della città sulle rive della Limmat, una delle
poche in Europa che concedessero anche alle donne il diritto all’immatricolazione. Nella città
svizzera ella aveva frequentato, tra le altre, le lezioni dello storico dell’arte Gottfried Kinkel, uno
dei leader della rivoluzione tedesca del 1848, il quale aveva avuto modo di apprezzarne le non
comuni doti intellettuali. Ed era stato proprio Kinkel a metterla in contatto con Malwida von
Meysenbug quando, forse per l’eccessiva fatica intellettuale, la ragazza si era ammalata gravemente
e le era stato consigliato un radicale cambiamento di clima.
Nata nel 1816, Malwida von Meysenbug era una paladina delle lotte per l’emancipazione femminile
e una fervida sostenitrice degli ideali umanitari: amica di rivoluzionari come Garibaldi e Mazzini, di
scrittori come Alexander Herzen e, poi, Romain Rolland, scrittrice di un certo successo ella stessa,7
faceva parte della cerchia più intima di Richard Wagner. In quest’ambito, il 22 maggio 1872, in
occasione del cinquantanovesimo compleanno del maestro e della storica cerimonia della posa della
prima pietra del teatro di Bayreuth, aveva avuto modo di fare la conoscenza di Nietzsche, il
professore di filologia che con la pubblicazione della Nascita della tragedia era divenuto
l’intellettuale di punta del movimento wagneriano in Germania, e in breve aveva stretto con lui un
saldo vincolo di amicizia. Così, quando la malattia di Nietzsche aveva fatto la sua comparsa, ella si
era offerta di prendersi cura di lui e, dall’ottobre 1876 al maggio 1877, aveva vissuto a Sorrento con
Nietzsche, con il suo allievo Albert Brenner e con Paul Rèe, il giovane autore delle
Osservazioni psicologiche,8 in una sorta di comunità di studi e di ideali, « una specie di convento
per spiriti liberi».9 Durante l’inverno sorrentino a Villa Rubinacci, Rèe si era dedicato alla stesura
della sua seconda

opera filosofica, L'origine dei sentimenti morali, 10 e Nietzsche aveva portato a compimento il suo
distacco dalla concezione metafisica dell’arte di Schopenhauer e di Wagner e aveva elaborato i
materiali del suo libro per spiriti liberi, Umano, troppo umano.11 L’anno seguente Malwida si era
stabilita definitivamente a Roma, in via della Polveriera, non lontano dal Colosseo, e il suo
appartamento era ben presto divenuto uno dei salotti culturali della città. Fu così che, quando la
vedova del generale von Salomé e sua figlia Lou giunsero a Roma e si presentarono da lei munite di
una calorosa lettera di presentazione del suo vecchio amico Kinkel, Malwida non esitò ad
accoglierle nella sua cerchia. Era il febbraio 1882.
In marzo giunse a Roma anche Paul Rèe. Molti anni più tardi, ma con intatta vivacità, nello sguardo
retrospettivo alla sua vita, la stessa Lou ha narrato il suo arrivo inatteso: «Una sera di marzo
del 1882, in casa di Malwida von Meysenbug, si erano riuniti alcuni amici quando si sentì suonare il
campanello di casa. Poco dopo Trina, fedele factotum di Malwida, si precipitò nella stanza e, tutta
agitata, le bisbigliò qualcosa nell’orecchio; al che Malwida in fretta e furia raccolse dalla sua
scrivania un po’ di soldi che con altrettanta fretta portò fuori. Al suo ritorno nella stanza
l’eccitazione le faceva svolazzare intorno alla testa lo scialle nero di seta. Accanto a lei c’era il
giovane Paul Rèe, il suo amico da tempo, amato da lei come un figlio che, essendo partito
precipitosamente da Montecarlo, aveva premura di restituire a un cameriere di lì i soldi per il
viaggio che si era fatto prestare dopo aver perso tutto al gioco. Nonostante l’inizio un po’ insolito,
ma divertente, la nostra amicizia fu presto fatta; probabilmente lo stupore iniziale può aver
contribuito a farmi apparire Rèe in una luce più accentuata, facendolo risaltare rispetto agli altri. Ad
ogni modo' il suo profilo tagliente, il suo sguardo intelligente, mi furono subito familiari nel
momento in cui ad una costernazione divertita si mescolò, nell’espressione del suo
volto, un’inconfondibile bontà. Già la sera stessa ebbe inizio la nostra abitudine quotidiana di finire
le animate discussioni solo sulla strada di ritorno per casa mia». 12
Rimasto affascinato, e non soltanto dalle doti intellettuali della giovane russa, Rèe ne scrisse a
Nietzsche, che si trovava a Genova. La lettera di Rèe non è tramandata: il suo tenore, tuttavia, si
può indovinare dalla risposta di Nietzsche, che porta la data del 21 marzo 1882: «Saluti da parte mia
questa Russa, se la cosa ha in qualche modo un senso: sono avido di questo genere di anime. Anzi,
ne andrò a caccia assai presto - ne ho bisogno in vista di quello che intendo fare nei prossimi dieci
anni. Un capitolo assolutamente diver-

so è il matrimonio - potrei accondiscendere al massimo a un matrimonio di due anni, e anche in tal


caso solamente in considerazione di quello che ho da fare nei prossimi dieci».14 È giunta invece
fino a noi la lettera che, sempre a proposito di Lou, Malwida scrisse a Nietzsche qualche giorno
dopo: «Una fanciulla molto singolare (credo che Rèe Gliene abbia già scritto), [...] mi sembra
giunta nel pensiero filosofico agli stessi risultati a cui è giunto Lei, cioè all’idealismo pratico, con
l’eliminazione di ogni presupposto metafisico e di qualsiasi preoccupazione per la spiegazione dei
problemi metafisici. Rèe ed io concordiamo nel desiderare di vederLa un giorno insieme con questo
essere straordinario, ma purtroppo non mi sento di consigliarLe di venire a Roma, poiché qui le
condizioni di vita non dovrebbero essere favorevoli per lei ».15
Alla fine di marzo, Nietzsche si imbarcò alla volta di Messina. Qui
lo    raggiunse una nuova lettera di Rèe nella quale si legge: «Roma non sarebbe adatta per Lei. Ma
bisogna assolutamente che conosca la Russa».16 Così, il 23 o il 24 aprile, quando Nietzsche arrivò
finalmente a Roma, era pieno di aspettative per la giovane Lou. Anche il loro primo incontro è
narrato nelle memorie di Lou Andreas-Salomé: « Eravamo allegri e spensierati perché tutti
volevamo bene a Malwida, e Nietzsche era spesso così animato da far dimenticare il suo carattere
riservato, o meglio un po’ solenne. Ricordo questa solennità già dal nostro primo incontro, avvenuto
a San Pietro dove Paul Rèe stava lavorando seduto in un confessionale particolarmente luminoso, e
dove Nietzsche era stato perciò mandato. Mi salutò con queste parole: “Da quali stelle siamo caduti
per incontrarci qui?’».17
Gli avvenimenti che seguirono sono assai noti: gli anticonformistici progetti di vita e di studio in
comune dei tre amici, ossia la « trinità », come scherzosamente li chiamavano;18 la maldestra
proposta di matrimonio rivolta a Lou da Nietzsche, per il tramite di Rèe, che della donna era
innamorato e neppure tanto segretamente; il rifiuto di Lou; la partenza da Roma della comitiva
composta dalla vedova del generale von Salomé, dalla piccola Lou, dal giovane Rèe

e dal professor Nietzsche; la sosta sul lago d’Orta e il «mistero» del Monte Sacro, se cioè Lou,
quella volta, abbia veramente baciato Nietzsche;19 la visita a Lucerna; il celeberrimo dagherrotipo
del fotografo Jules Bonnet, che ritrae Lou assisa su un carretto nell’atto di frustare Rèe e Nietzsche;
il pellegrinaggio all’«isola dei beati», la casa di Wagner a Tribschen dinanzi alla quale, stando a
quanto la stessa Lou ha narrato, Nietzsche pianse al ricordo dell’amico di un tempo;20 la seconda
proposta di matrimonio, anch’essa respinta.
A Lucerna, dopo aver confermato i progetti della loro « trinità », gli amici si separarono: Rèe
accompagnò Lou e la madre a Zurigo e proseguì verso la tenuta di famiglia a Stibbe, facendosi
promettere da Lou che l’avrebbe raggiunto quanto prima; Nietzsche, fatta una breve sosta a Basilea,
continuò il viaggio per Naumburg, non prima di aver a sua volta strappato a Lou la promessa che,
dopo essersi recata al festival di Bayreuth per incontrare Malwida, avrebbe trascorso qualche giorno
anche presso di lui.
Così, dopo aver soggiornato per qualche tempo dai Rèe a Stibbe e dopo aver assistito in compagnia
di Malwida e della sorella di Nietzsche alla prima rappresentazione del Parsifal, che aveva
avuto luogo a Bayreuth, il 7 agosto, accompagnata da Elisabeth Nietzsche, Lou giunse finalmente a
Tautenburg, nella Selva Turingia, dove Nietzsche la attendeva. Vi rimase fino al 26 agosto.
Fu in quei giorni di straordinaria intimità spirituale, fatta di passeggiate solitarie nella pace dei
boschi e di colloqui e discussioni interminabili, che Lou ebbe modo di conoscere la personalità e il
pensiero di Nietzsche come forse nessun altro. Ed è da quei colloqui che nacque, qualche tempo
dopo, il primo nucleo del profilo che ella avrebbe successivamente dedicato al filosofo di
Zarathustra.
Del soggiorno a Tautenburg, Lou ha tenuto un diario per Paul Rèe che in gran parte ci è tramandato.
Nelle sue memorie, poi, è tornata a narrare di quella che indubbiamente dev’essere stata per lei
un’esperienza intellettuale indimenticabile, ma lo ha fatto quasi con reticenza, limitandosi a
ricordare di essere riuscita, allora, « a

penetrare molto più profondamente nel pensiero di Nietzsche di quanto non fosse riuscita a Roma o
in viaggio », e informandoci di particolari che appaiono oggi poco significativi. Dal diario per
Rèe ha estrapolato, per inserirlo nelle sue memorie, soltanto il seguente brano: «Da tre settimane
siamo immersi in una interminabile discussione e ora è capace di passare anche dieci ore parlando.
È strano che le nostre conversazioni ci portino involontariamente di fronte a quegli abissi vorticosi
dove ci si era spinti a volte da soli per guardare in basso. Abbiamo scelto di camminare sui sentieri
dei camosci e se qualcuno ci avesse ascoltato avrebbe potuto credere che fossero due diavoli a
parlare».21 Nel diario per Rèe, invece, Lou si sofferma lungamente a narrare di Nietzsche
tratteggiandone la personalità con fine comprensione psicologica.
Scrive Lou Salomé, descrivendo a Rèe l’atmosfera delle sue discussioni filosofiche con Nietzsche:
« Mi ero ripromessa di annotare ogni nostro colloquio, ma è praticamente impossibile; i nostri
discorsi spaziano dalle più lontane alle più vicine regioni del pensiero e non si prestano a
formulazioni singole e precise. In realtà il contenuto dei nostri discorsi non è tanto in quello che
viene espresso a parole, ma proprio in quel misterioso venirsi incontro dello spirito dell’uno e
dell’altro ».22 L’osservazione dei ritratti fotografici di Rèe e di Nietzsche le fornisce, poi,
l’occasione per una sorta di raffinata indagine di psicologia comparata sui due amici: «Il tuo
aspetto esteriore dice di più di quello di Nietzsche: è difficile cogliere i tratti del suo carattere da
uno studio del suo ritratto. Ciò che vi differenzia, innanzi tutto, è la presenza, in Nietzsche, di una
aspirazione senza riserve alla conoscenza che costituisce in qualche modo la forza unificatrice di
tutto il suo essere, in grado di tenere in pugno tutti i suoi impulsi e le sue qualità più diverse - una
sorta di forza religiosa che rivolge l’uomo tutto intero in una direzione in cui egli si abbandona a
questo dio della conoscenza che è il suo. [...] Nietzsche continua a comportarsi nei confronti della
conoscenza alla quale aspira come il credente nei confronti del suo dio e il metafisico nei confronti
della sua entità metaempirica: mette la sua mente e la sua forza di carattere al suo servizio. Perciò
egli si sforza di vedersi e di conoscersi come egli amerebbe essere di fronte al suo dio della
conoscenza. Ed è perciò che egli è lontano dall’essere sincero con se stesso come te. [...] È vero che
ciò che frena Nietzsche su questo punto è nient’altro che la ricchezza di una sensibilità intensa e
violenta che abbraccia con forza e potenza tutti i sentimenti religiosi e tutti i grandi sentimenti. [...]
Ma, come ho detto, una tale sensibilità è una ricchezza, e una ricchezza filosofica. [...] La differenza
tra di voi che ho richiamato sopra si esprime molto distinta-

mente nei piccoli tratti. Ad esempio nella vostra concezione dello stile. Il tuo stile vuol convincere
l'intelletto del lettore, e perciò possiede una chiarezza e un rigore scientifici, evitando ogni
emozione. Nietzsche vuole convincere l’individuo tutto intero, egli vuole che la sua parola si
immerga nell’anima e ne restituisca le profondità, non cerca di insegnare, ma di convertire. Tutte le
vostre differenze di vedute risultano dalle differenze tra i vostri interessi, differenze che procedono
dalla diversità delle vostre nature. Lui incomincia dove la tua opera si ferma: dalla morale pratica.
[... ] Il vostro diverso modo di lavorare è anche caratteristico di questa diversità delle vostre nature.
Come me, Nietzsche è posseduto dal suo lavoro [...]. Tu, invece, lo possiedi».23 Sempre nel diario
per Rèe, Lou si sofferma, poi, sulle sofferenze che Nietzsche doveva sopportare a causa dei
ricorrenti attacchi della sua malattia: « Questo dolore è in Nietzsche la vita stessa. [...] Ma se la
parola eroismo è ancora ammissibile senza il suo significato morale, io vedrei il suo eroismo nella
forza di autoconservazione - questa forza che assume volontariamente la sofferenza della vita
perché ritrova sempre in essa la potenza creatrice che gli permette di fare di questa sofferenza il
mezzo in vista di un fine, grazie al quale egli si sente portato al di là della sofferenza
e dell’infelicità. [...] Per noi, liberi pensatori, che non abbiamo più niente di sacro al quale possiamo
annettere un valore religioso e morale, nondimeno sussiste ancora una grandezza che suscita la
nostra ammirazione e perfino la nostra venerazione. Avevo già intravisto questa grandezza in
Nietzsche quando, sulle rive dei laghi italiani, ti dissi: il suo riso è un’azione».24 Inoltre, già nel
diario per Rèe, Lou avanza quella che sarà poi l’idea guida del suo profilo di
Nietzsche: l’interpretazione in senso religioso di tutta la sua personalità filosofica: «All’inizio dei
miei rapporti con Nietzsche, quand’ero in Italia, scrissi a Malwida che egli era una natura religiosa,
cosa che la lasciò assai scettica. Oggi, sottolineerei doppiamente questa formula. Il carattere
fondamentalmente religioso delle nostre nature è il nostro punto in comune e può darsi che esso sia
in noi così pronunciato perché noi siamo dei liberi pensatori nel senso più estremo del termine. Nel
libero pensatore, il sentimento religioso non può riferirsi a un principio divino o a un cielo, nel
quale possano venir adattate le forze costitutive della religione come la debolezza, la paura, la
cupidigia, Nel libero pensatore il bisogno religioso creato dalle religioni - questo discendente più
nobile delle forme particolari della fede -, ripiegato su se stesso può diventare una forza eroica
della sua natura, un bisogno di donarsi a una nobile causa. Questo tratto eroico esiste nel carattere
di Nietzsche. È l’elemento essenziale del suo io, ciò che dà, all’insieme di tutte le sue qualità e dei
suoi impulsi, l’impronta dell’unitarietà. Lo vedremo un giorno apparire come il profeta di una
nuova religione, una religione i cui discepoli saranno de-

gli eroi». 25 Infine, nel diario di Tautenburg, Lou Salomé descrive il carattere di Nietzsche
adoperando la metafora di una vecchia fortezza: «Vi sono, nel carattere di Nietzsche, come in una
vecchia fortezza, molti sotterranei oscuri e molti trabocchetti segreti che sfuggono all’osservatore
superficiale e tuttavia costituiscono la sua vera natura». E si tratta, quasi, delle stesse parole che ella
adopererà, dodici anni dopo, nel suo libro sul filosofo di Zarathustra.26
Anche Nietzsche ha raccontato delle giornate di Tautenburg, in una lettera scritta dopo la partenza
di Lou che contiene un importante accenno alle reazioni scandalizzate provocate in famiglia
dal soggiorno in Turingia della giovane russa e ancor più dai progetti della «trinità», inconcepibili
per la rigida morale del tempo: «Ma la cosa più utile di quest’estate sono state le mie conversazioni
con Lou. Le nostre intelligenze e i nostri gusti sono affini nel modo più profondo - e, d’altra parte,
vi sono tra noi talmente tanti punti di disaccordo che siamo l’uno per l’altro oggetti e soggetti di
osservazione dei più istruttivi. Non avevo mai conosciuto nessuno capace di ricavare una tale
quantità di vedute obiettive dalle proprie esperienze, nessuno in grado di trarre tanto profitto dalle
cose imparate. Ieri Rèe mi ha scritto: “A Tautenburg Lou è indubbiamente cresciuta di qualche
pollice” - e forse lo sono anch’io. Mi chiedo se sia mai esistita una franchezza filosofica come
quella che c’è tra di noi. Lou ora è tutta immersa nei libri e nel lavoro [...]. Tautenburg ha dato a
Lou una meta. Ella mi ha lasciato una poesia toccante, Preghiera alla vita. Purtroppo mia sorella è
diventata nemica mortale di Lou: dal primo all’ultimo giorno fu piena di indignazione morale, e ora
pretende di sapere dove va la mia filosofia. Ha scritto a mia madre di “aver visto nascere a
Tautenburg la mia filosofia e di esserne sconvolta: io amo il male, mentre lei ama il bene. Se lei
fosse una buona cattolica andrebbe in convento per espiare tutto il male che ne risulterà”. In breve,
ho contro di me la “virtù di Naumburg”, c’è una vera rottura tra noi - e anche mia madre una volta
si è lasciata andare a tal punto con le parole che ho fatto preparare la valigia e di primo mattino sono
partito per Lipsia ». 27

La prima e la seconda parte del libro di Lou Salomé su Nietzsche erano già pronte, almeno nelle
loro linee generali, quando, agli inizi di ottobre, Nietzsche, Lou e Rèe si incontrarono nuovamente a
Lipsia. Il nucleo originario dell’opera, ha scritto l’autrice, consisteva in una «descrizione del
carattere di Nietzsche [...] che ebbi modo ili leggere e discutere con lui nell’ottobre del 1882. Il
lavoro conteneva un abbozzo della prima parte di questo libro e alcune sezioni della seconda».28 Le
vicende personali dei tre amici, però, fecero sì che il libro dovesse attendere ancora dodici anni
prima di poter essere portato a termine e pubblicato. Dopo sole tre settimane di vita in comune,
infatti, la «trinità» fu sciolta. Lou e Rèe andarono ad abitare insieme a Berlino, dove diedero vita a
un vivace cenacolo culturale frequentato da personalità del calibro di Hermann Ebbinghaus,
il fondatore della psicologia sperimentale, e Ferdinand Tönnies, uno dei padri della giovane
sociologia tedesca. Nietzsche, deluso e ferito, riprese la via del Sud, stabilendosi a Rapallo e
immergendosi nuovamente nelle sue meditazioni solitarie dalle quali nacque il primo libro dello
Zarathustra. Non si rividero mai più.29
Quando, molti anni dopo, Lou Andreas-Salomé riprese in mano i suoi appunti per un profilo
dell’amico di un tempo, si era già diffuso in Germania quello che di lì a poco Ferdinand Tönnies
avrebbe definito II culto di Nietzsche. 30 Nel volgere di pochissimo tempo,

forse anche a causa del crollo psichico che ne aveva avvolto la figura in un alone tragico, l’autore di
Cosi parlò Zarathustra era divenuto, da semisconosciuto che era, il filosofo più in voga del
momento. Così, Tönnies, interrogandosi su un fenomeno di sociologia della cultura così nuovo e
insolito, avrebbe scritto: « Uno scrittore di cose filosofiche che viene letto da molti è già per questo
qualcosa di notevole. E che dire quando viene letto con entusiasmo, quando il lettore si proclama
suo seguace, quando i suoi pensieri vengono recepiti e diffusi come una liberazione e una
rivelazione, quando si crede di aver trovato in un pensatore una guida nelle peregrinazioni della
vita?».31
Se si deve prestar fede alla testimonianza di Andreas-Salomé, furono proprio la nascita improvvisa
del culto nietzscheano, l’esigenza di sottrarre il filosofo di Zarathustra a equivoci, fraintendimenti e
strumentalizzazioni, e il desiderio di contribuire alla corretta conoscenza della sua personalità
filosofica a far sì che ella decidesse di riprendere il suo vecchio progetto di un libro su Nietzsche.
Infatti, ha scritto Lou Andreas-Salomé descrivendo il rapido diffondersi della moda di Nietzsche,
«sebbene da alcuni anni il nome di Nietzsche venga citato più di frequente di quello di qualsiasi
altro pensatore e benché siano in molti a prendere la penna sia per procacciargli adepti sia per
polemizzare contro di lui, ciò nondimeno egli è rimasto pressoché uno sconosciuto per quel che
riguarda i tratti di fondo della sua personalità spirituale».32
Così, tra il 1891 e il 1893, Lou Andreas-Salomé dedicò a Nietzsche un profilo sistematico e ben otto
contributi parziali, nei quali anticipò quello che, rimaneggiato e opportunamente
modificato, sarebbe stato poi il contenuto della sua opera maggiore. Nel 1891 pubblicò sul
supplemento domenicale della «Vossische Zeitung» un primo ritratto di Nietzsche in tre puntate,
che conteneva già la caratteristica suddivisione in tre fasi della riflessione nietzscheana e anticipava
specialmente quella che sarebbe stata l’ultima parte del suo libro. Tra il 1891 e il 1892 diede alle
stampe sulla « Freie Bühne » cinque articoli dedicati allo studio psicologico di Nietzsche nei quali
rese note per la prima volta alcune delle lettere che il filosofo aveva indirizzato a lei e a Paul Rèe e
sottolineò l’importanza dell’influsso esercitato da Rèe nel periodo di passaggio dalla metafisica
d’artista di Schopenhauer e di Wagner alla fase positivistica del pensiero nietzscheano. Ancora nel
1892, sul «Magazin fur Litteratur», anticipò le parti del suo libro dedicate alla dottrina nietzscheana
dell’eterno ritorno, illustrandola sulla base di altre lettere inedite. Infine, nel 1893, nel supplemento
culturale del «Berliner Tageblatt », diede in anteprima le pagine dedicate alla dottrina morale
dell’ultimo Nietzsche e alla sua polemica contro la morale ascetica. 33 Friedrich
Nietzsche nelle sue opere, infine, uscì a Vienna nel 1894, presso l’editore Karl Konegen, con la
significativa dedica: «A uno sconosciuto, in fedele ricordo».
2. UNA STORIA DI DOLORE
Basato in gran parte su materiali allora inediti come l’epistolario con Rèe e con la stessa Lou,
corredato da due fotografie di Nietzsche e suddiviso in tre capitoli dedicati rispettivamente alla
personalità, alle metamorfosi e al sistema nietzscheano, il libro di Lou Andreas-Salomé Friedrich
Nietzsche nelle sue opere si apre con la riproduzione di una lettera del filosofo che fa da prefazione
al volume e contiene l’idea che funge da motivo conduttore di tutta l’opera. Scrive Nietzsche: «Mia
cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ai documenti personali dei loro autori è
davvero il pensiero di una “mente sorella”: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso la storia
della filosofia antica, e amavo dire a quanti mi ascoltavano: “Questo sistema è stato confutato ed è
morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la persona non può considerarsi
morta”».34 Si tratta di un’idea che Nietzsche aveva ripreso ancora nel 1886 in Al di là del bene e del
male dove, adoperando una formulazione efficacissima, aveva scritto: « Mi si è chiarito poco per
volta che cosa è stata fino ad ora ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore,
nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires». 35
Se l’osservazione che ogni filosofia non è altro che una sorta di inavvertita autoconfessione vale per
tutti quanti i filosofi che hanno eretto sistemi con l’illusione di poter dare una spiegazione oggettiva
della realtà in grado di risolvere tutti gli enigmi del mondo, a maggior ragione deve valere per un
pensatore come Nietzsche, il quale non solo non coltivava affatto simili illusioni, ma
«pensava soltanto per sé, scriveva per sé, giacché descriveva soltanto se stesso, volgeva in pensieri
il proprio io».36 Questo suo personalissimo stile di pensiero fa sì che tutta quanta la sua opera
filosofica, con i

suoi numerosi volumi di aforismi, appaia come « un solo grande libro di memorie», 37 e, nel
contempo, rende vana l’impresa di chi voglia esaminare il filosofare nietzscheano alla ricerca del
suo contributo teoretico alla visione del mondo del futuro: « Il valore dei suoi pensieri, infatti, non
risiede nell’originalità teoretica, né in ciò che può essere fondato o confutato per via dialettica,
bensì soltanto nella forza interiore con cui, nelle sue pagine, una personalità parla in quanto
personalità, in ciò che, secondo le sue stesse parole, può esser sì confutato, ma non “considerato
morto”».38
La filosofia di Nietzsche è, dunque, secondo Andreas-Salomé, una sorta di autobiografia, il «
gigantesco riflesso del suo autoritratto»,39 e gli avvenimenti veramente importanti della sua vita
sono sempre vicende ed esperienze di carattere interiore. Si tratta - è questa la tesi dell’autrice -
della sofferenza causata dalla malattia, la quale rende tutta la sua vita paragonabile a una grande «
storia di dolore »,40 e si tratta dell’« emozione per la morte di Dio », la quale fa sì che «la possibilità
di trovare nelle forme più diverse della divinizzazione di se stesso un surrogato “per il Dio
perduto”» sia «la storia del suo spirito, delle sue opere, della sua malattia».41 Sono, queste, idee e
intuizioni che avevano avuto la loro prima formulazione già nel diario per Rèe e che assurgono ora
a criterio metodologico che guida Andreas-Salomé nel corso della sua ricostruzione della
personalità e del pensiero di Friedrich Nietzsche.
La scrittrice si sofferma senza reticenze sulla malattia, che si era manifestata con attacchi ricorrenti
sin dagli anni settanta, costringendo il brillante professore di filologia ad abbandonare la
cattedra universitaria, e che alla fine aveva privato il filosofo delle sue facoltà intellettuali. Ella non
solo riferisce di una affermazione dello stesso Nietzsche, il qual era convinto che si trattasse
dell’eredità del medesimo male di cui era stato affetto suo padre,42 ma pone anche in relazione la
malattia dell’autore di Così parlò Zarathustra con l’evolu-

zione del suo pensiero, sottolineandone il ruolo propulsivo. Scrive, infatti, Andreas-Salomé: « Una
malattia che torna periodicamente a manifestarsi, quale era quella di Nietzsche, divide
costantemente un momento della vita dall’altro, una fase speculativa da quella che la precede».43
Ed è proprio l’alternanza di salute e malattia, che rappresentava l’elemento caratteristico e sempre
ritornante dell’esperienza interiore di Nietzsche e lo obbligava a continui autosuperamenti, a
conferire alla sua personalità quel tratto eroico che Andreas-Salomé aveva già avuto modo di
mettere in risalto nel diario di Tautenburg. Eppure, alla fine, Nietzsche «sprofondò e andò in rovina.
Ma in una tale esperienza egli non poteva che rovinare. Nel medesimo processo che sempre di
nuovo gli assicurava guarigione ed esaltazione, si celava già infatti il momento patologico ».44
L’altro aspetto essenziale della personalità di Nietzsche, sul quale pure Andreas-Salomé aveva già
insistito nel suo diario, è l’elemento di carattere religioso che, secondo la scrittrice, risulta
predominante nella sua natura. Si tratta, tuttavia, di un impulso religioso che, dopo la morte di Dio,
non poteva più trovare il suo pieno soddisfacimento in una divinità di tipo tradizionale. Nietzsche lo
avrebbe rivolto allora al proprio interno, trasformandolo in una esaltazione e in una divinizzazione
dell’individuo in generale e di se stesso in particolare: « La nostalgia di Dio, con il suo tormento,
divenne un impulso alla creazione di Dio, e ciò dovette necessariamente esprimersi nella
divinizzazione di se stesso».45 Ma questa forma di compensazione, questo simulacro del Dio
perduto non poteva riuscire a soddisfare appieno il suo impulso religioso dominante. Perciò, «nel
potente afflato religioso da cui origina ogni conoscenza di Nietzsche si trovano [...]
indissolubilmente intrecciati in un nodo sacrificio di sé e autoapoteosi, crudeltà che vuole
l’annientamento e brama di autodivinizzazione, infermità dolente e convalescenza vittoriosa,
ebbrezza di fuoco e fredda consapevolezza ».46
Delineati in questi termini i tratti essenziali della personalità di Nietzsche, Andreas-Salomé passa
all’illustrazione dei motivi fondamentali del suo pensiero, proponendo la suddivisione
dell’itinerario speculativo del filosofo in tre fasi caratteristiche. L’autrice descrive l’evoluzione del
pensiero nietzscheano come «un movimento che ritorna su di sé, che non giunge mai a un punto
d’arresto».47 «Non è dunque un caso» ella afferma «se Nietzsche, nel suo ultimo periodo di
creatività, sia pervenuto alla sua mistica dottrina dell’eterno ritorno: l’immagine del circolo - di un
eterno cambiamento  in un’eterna ripetizione - sta come un simbolo miracoloso e un segno segreto
sulla porta di accesso alle sue opere».48

La prima trasformazione di Nietzsche si compie negli anni della sua infanzia o della sua prima
giovinezza. È la rottura con la fede cristiana, un’esperienza analoga a quella che la stessa Salomé
adolescente aveva vissuto,49 ma che in Nietzsche rimase apparentemente senza conseguenze finché
egli si sottopose a quella forma di autocostrizione che indubbiamente dovettero essere per lui gli
studi filologici. Ma fu proprio lo studio dei greci, della loro arte e della loro religione, a indicargli
quella che doveva essere la sua strada: «Egli pose così la propria erudizione filologica al servizio di
ricerche di storia della cultura, di estetica e di filosofia della storia »,50 rinnovando radicalmente, sin
dalla prolusione basileese su Omero e la filologia classica, l’idea stessa della filologia, del suo
metodo e del suo compito. Il nuovo modello della scienza filologica trovò poi la sua geniale
applicazione nella Nascita della tragedia, l’opera con la quale culmina la fase wagneriana e
schopenhaueriana del pensiero di Nietzsche: «Wagner intendeva realizzare, all’interno della vita
tedesca, quello stesso ideale di cultura artistica che Nietzsche aveva incontrato, come ideale,
all’interno della vita greca. La metafisica di Schopenhauer, in ultima istanza, non aggiunge
null’altro se non una sublimazione di questo ideale nella sfera mistica, nell’imperscrutabile
pienezza di senso, quasi un’accentuazione che la vita e la conoscenza artistica ricevono in virtù
dell’interpretazione metafisica ». 51 Allo stesso periodo schopenhaueriano e wagneriano del
filosofare di Nietzsche appartengono anche le quattro Considerazioni inattuali. Andreas-Salomé si
sofferma in particolare sulla Terza e sulla Quarta Inattuale, Schopenhauer come educatore e
Richard Wagner a Bayreuth, definendole entrambe altrettante «Statue erette [...] in onore del
genio»,52 educatore, guida e meta finale dell’umanità. L’autrice ha modo così di osservare come,
specialmente nel caso della tematica del genio, il pensiero nietzscheano mostri con chiarezza il suo
caratteristico sviluppo di tipo circolare. Infatti, secondo Andreas-Salomé, il culto del genio, che
Nietzsche aveva appreso da Schopenhauer, sopravvive nella sua filosofia anche dopo l’abbandono
della metafisica schopenhaueriana ripresentandosi, nell’ultimo periodo della sua meditazione, nella
forma visionaria dell’anelito verso il superuomo: « Nel suo periodo intermedio egli prese
apparentemente le distanze da questa prima concezione del genio, perché essa aveva visto venire
meno lo sfondo metafisico su cui solo il profilo del grande “singolo” poteva stagliarsi nella sua
sovrumana importanza come una figura di un mondo superiore e più vero. Ma l’idea del culto -del
genio conteneva uno spunto in direzione di ciò

che Nietzsche, alla fine del suo percorso intellettuale, avrebbe nuovamente rielaborato con un colpo
di geniale follia». 53
La scrittrice descrive poi il periodo che precede la seconda trasformazione del pensiero di
Nietzsche, il passaggio alla fase positivistica del suo filosofare. È il momento della rottura del
sodalizio con Wagner, che ella spiega sì con motivi puramente ideali, ma anche alludendo a ragioni
«umane, troppo umane»; ragioni che vanno ricercate, forse, nella malattia di Nietzsche che proprio
a partire da questo momento incomincia a manifestarsi in tutta la sua virulenza. E, a proposito dei
rapporti tra Nietzsche e Wagner, Andreas-Salomé rivela due particolari dei quali era stata testimone
diretta nell’estate del 1882: il pianto di Nietzsche dinanzi alla casa di Wagner a Tribschen e il fallito
tentativo di riconciliazione compiuto da Malwida von Meysenbug a Bayreuth, sei mesi prima della
morte di Wagner, in occasione della prima esecuzione del Parsifal.54
L’insorgere della malattia gioca, in ogni caso, un ruolo decisivo nella seconda metamorfosi di
Nietzsche. Egli, infatti, sempre secondo la tesi di Andreas-Salomé, fu costretto sempre più dagli
attacchi del suo male ad assumere solo se stesso a materia delle proprie riflessioni. Ne deriva che «
gli scritti che seguono non nascono, come i precedenti, da una pienezza accumulata e accessibile al
suo animo, non sono composti muovendo da una meta che egli crede di avere raggiunto; essi
narrano piuttosto di come egli si orienti nella notte, di come proceda lentamente a tastoni; sono i
passi tormentati, combattuti e infine vittoriosi in direzione di ima meta oscura ».55 Da questo
momento in poi, si può dire che gli scritti di Nietzsche non siano altro che una grande autobiografia
del dolore.
Ma un ruolo altrettanto decisivo, nel passaggio dalla prima alla seconda fase del pensiero
nietzscheano, Andreas-Salomé lo attribuisce all’amicizia di Nietzsche con Paul Rèe. Il rapporto di
Nietzsche con Wagner era stato il rapporto di un discepolo nei confronti di un maestro. Il vincolo
con Rèe fu, invece, un vincolo di cameratismo intellettuale, fatto soprattutto di studi in comune:
«Tra i due amici nasce una peculiare forma di complementarietà del tutto opposta a quella che si era
avuta un tempo tra Nietzsche e Wagner. Per Wagner - il genio dell’arte - Nietzsche avrebbe dovuto
essere il pensatore e l’uomo della conoscenza, l’intermediario scientifico della nuova cultura
artistica. Ora, al contrario, era Rèe il teoreta e Nietzsche lo completava ricavando le conseguenze
pratiche dalle sue teorie e cercando di stabilirne il significato per la cultura e per la vita. Su questo
punto, intorno al problema del valore, le personalità intellettuali dei due amici prendevano strade
diverse. Là dove l’uno smetteva, l’altro cominciava. Come pensatore dall’approccio rigidamente
unilaterale, Rèe non si fece mai influenzare da simili

questioni; era lontano dalla ricchezza spirituale, artistica, filosofica e religiosa di Nietzsche, ma, dei
due, era la mente più acuta».56
Gli autori di Ree, gli scrittori francesi di aforismi e i positivisti inglesi, i Réealia, come Nietzsche li
definisce in una lettera,57 divennero i suoi autori. La compagnia di Rèe, stando a quanto afferma
l’autrice, fu l’unica a dargli conforto durante i più violenti attacchi della malattia. Nacque così, dal
loro sodalizio intellettuale, il primo volume di Umano, troppo umano. «L’intera opera risulta [...]
pervasa da ciò a cui già il titolo allude in modo caratteristico: un lavoro concettuale di distruzione,
la messa a nudo senza riguardi del carattere “troppo umano” di tutto quel che fino a ora veniva
ritenuto sacro, eterno e sovrumano».58 La radicalità della metamorfosi che in Nietzsche si compie è
illustrata da Andreas-Salomé attraverso il confronto delle posizioni espresse nelle opere del periodo
positivistico - Umano, troppo umano, le sue due appendici, Opinioni e sentenze diverse  e II
viandante e la sua ombra, e Aurora -, con quelle appartenute alla fase precedente della sua
riflessione. Così, mentre nella Nasata della tragedia Nietzsche aveva esaltato l’ebbrezza dionisiaca,
ora abbraccia l’ideale socratico della conoscenza; mentre nelle Inattuali aveva eretto monumenti al
genio, ora propone il nuovo ideale dello spirito libero; mentre in precedenza aveva esaltato ciò che è
inattuale, ossia fuori dal tempo ed eterno, ora afferma che è necessario tornare vicini alle cose
prossime. 59
Ma l’innovazione che maggiormente salta agli occhi, rispetto agli scritti del periodo precedente e
grazie alla quale «Nietzsche creò [...] un nuovo stile nella filosofia»,60 è l’adozione
dell’aforisma: «L’emicrania e il dolore agli occhi costringevano Nietzsche a lavorare per aforismi;
ciò corrispondeva però in misura sempre maggiore anche alla sua indole spirituale, che non vedeva i
propri pensieri di fronte a sé in una concatenazione continua, così come li si fissa su carta quando si
lavora in modo sistematico, ma prestava invece loro ascolto come in un dialogo a due, un dialogo
sempre interrotto e ripreso [...]». 61

Con La gaia scienza, l’opera che Nietzsche terminò proprio nei memorabili giorni di Tautenburg, si
compie quella che Andreas-Salomé considera la terza trasformazione del filosofare nietzscheano.
Essa, secondo l’autrice, coincide anche con l’allontanamento da Rèe, l’amico dal quale Nietzsche
avrebbe preso commiato nella nuova opera dedicandogli, stando a quanto la scrittrice erroneamente
afferma, l’aforisma intitolato «Amicizia stellare».62 Rispetto alla fase precedente, il nuovo indirizzo
del pensiero di Nietzsche si caratterizza, da un lato, per il fatto che egli « scivola dentro al mondo
della mistica »,63 e dall’altro, per il fatto che egli « si consacrò all’audacissimo sviluppo di un suo
proprio sistema, aspirando ad abbandonare lo stile aforistico e frammentario». 64 Ma l’ultima fase
del pensiero nietzscheano appare ad Andreas-Salomé soprattutto rivelatrice di quello che, secondo
la sua interpretazione, era stato sin dal principio il tratto caratteristico della personalità di Nietzsche
e del suo filosofare: l’impulso religioso. Scrive a questo proposito Lou

Andreas-Salomé, in quella che è una delle pagine centrali della sua opera: « Soltanto all’inizio
dell’ultima filosofia nietzscheana si mostra [...] con assoluta chiarezza fino a qual punto l’impulso
fondamentale che domina la sua natura e la sua conoscenza sia quello religioso. Le diverse filosofie
sono per Nietzsche altrettanti surrogati di Dio che lo devono aiutare a poter fare a meno di un ideale
mistico di Dio al di fuori di se stesso. Le sue ultime dottrine confessano che egli non vi riuscì. E
proprio per questo motivo nelle sue ultime opere noi ci imbattiamo ancora una volta in una lotta
tanto appassionata contro la religione, la fede in Dio e il bisogno di salvezza: perché egli era così
pericolosamente vicino a tutto questo. [...] Scorgiamo allora attraverso quale autoillusione e quale
astuzia segreta Nietzsche riesca a risolvere il tragico conflitto della sua vita, -il conflitto di avere
bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare. Modellando cioè dapprima, con fantasia ebbra di
struggimento, sognando estasiato come in una visione, il mistico ideale del superuomo per poi, al
fine di salvarsi da se stesso, tentare con un balzo mostruoso di identificarvisi».65
All’esposizione del « sistema » di Nietzsche è dedicato il terzo e ultimo capitolo dell’opera.
L’odierna critica nietzscheana nega che si possa considerare Nietzsche come un pensatore
sistematico e tende, anzi, a considerare come una caratteristica positiva la programmatica
asistematicità di un pensiero che rifiuta di rinchiudere in una sola formula tutta quanta la realtà e
preferisce piuttosto tentare di rendere conto della sua caotica complessità attraverso un difficile
approccio prospettivistico, e perciò aforistico. Al tempo in cui Andreas-Salomé scriveva il suo
profilo di Nietzsche, tuttavia, sottolineare la sistematicità del pensiero nietzscheano rispondeva a
uno scopo ben preciso: in un’epoca in cui il pensiero filosofico non veniva concepito se non nella
forma di un sistema chiuso e ben architettato, voleva dire rivendicare la filosoficità del pensiero di
Nietzsche e la sua appartenenza a pieno titolo alla storia della filosofia nei confronti di tutti coloro i
quali consideravano l’autore di Zarathustra un letterato: magari un grande letterato, ma soltanto un
letterato. Il giudizio di Andreas-Salomé andrebbe dunque storicizzato, soprattutto se si considera
che ella chiarisce subito come, a proposito di Nietzsche, si possa parlare solo « di un sistema che
poggia più su di una tonalità emotiva generale che sulla chiara compattezza della deduzione
concettuale».66
Di pari passo con lo sforzo di costruire un sistema e di superare la forma aforistica, nell’ultimo
periodo creativo di Nietzsche si assiste, sempre secondo Andreas-Salomé, al tentativo di
formulazione di una vera e propria teoria della conoscenza, che del sistema avrebbe dovuto
costituire l’ossatura. E anche in questo caso il pensiero nietzscheano presenterebbe il suo
caratteristico sviluppo circolare.

Nella fase schopenhaueriana della sua meditazione, infatti, Nietzsche aveva aderito all’idea secondo
la quale soltanto la volontà, e dunque gli istinti, erano in grado di garantire la risposta ai
problemi metafisici. Nel periodo positivistico della sua riflessione egli aveva poi abbandonato
questa concezione, per esaltare la conoscenza scientifica, pur nella sua ineliminabile limitatezza e
relatività. Nell’ultima fase del suo filosofare egli propone, invece, una sorta di sintesi tra le due
posizioni precedenti: « L’idea della relatività di ogni pensiero, la riduzione di ogni conoscenza
intellettuale alla base assolutamente pratica della vita istintuale da cui essa è originata e da cui
seguita a dipendere».67 Ma quello della teoria della conoscenza, soggiunge Andreas-Salomé, non è
che un caso particolare di un fenomeno più generale al quale si assiste in tutta la terza fase del
pensiero nietzscheano, nell’etica, nell’estetica e nella sua ultima mistica. Così, nello sviluppo del
pensiero di Nietzsche, «sempre avremo modo di registrare la presenza di queste tre fasi evolutive:
dapprima il collegamento a singole estreme conseguenze della scienza empirica moderna, quindi un
capovolgimento del suo stato d’animo nel modo di concepire questi risultati - una loro
esasperazione ed esagerazione fino all’estremo - e infine, derivanti da dò, le sue nuove teorie. [...] Il
contenuto teoretico vi risulta invece essere una congiunzione artistica delle due fasi dell’evoluzione
intellettuale nietzscheana».68
Così è, ad esempio, per il nuovo ideale del filosofo che Nietzsche teorizza nelle sue ultime opere il
quale, riconosciuta la limitatezza e la relatività di ogni conoscenza umana e la sua base
meramente istintuale, diviene ima sorta di figura sovrumana la cui volontà decide del vero e del
falso come del bene e del male.69 Così è per il concetto di decadenza che, condotto alle sue estreme
conseguenze, diviene l’anelito verso il sacrificio spontaneo dell’umano al sovrumano.70 Così è per
il concetto della volontà che, superato il determinismo del periodo positivista, è per lui ridivenuta
libera, in vista del grande compito che deve affrontare. 71 Così è, infine, per la famigerata antitesi
tra la morale degli schiavi e la morale dei signori, in cui gli «istinti terribili» delle caste dominatrici
divengono per Nietzsche il mezzo per il suo scopo finale, la nascita del superuomo 72.
L’antitesi tra la morale dei signori e la morale degli schiavi è, secondo Andreas-Salomé, una
distinzione molto discussa e spesso sopravvalutata dagli interpreti dell’etica di Nietzsche, i quali se
ne sono serviti per bollare come disumano il suo ideale di superumanità: « Del tutto a torto e con un
fraintendimento grossolano gli è stato rimproverato il fatto che il suo “superuomo” possiede i tratti
di un Cesare Borgia o di un depravato essere inumano, invece di quelli di

un Gesù. Ma l’essere “inumano” non è in verità il modello, ma soltanto il piedistallo per il


“superuomo”; egli rappresenta, per così dire, il blocco di granito grezzo necessario all’innalzamento
della statua di una divinità».73
Ma, come osserva Andreas-Salomé, il limite della dottrina nietzscheana del superuomo è ben altro e
di ben più grave portata: consiste nel fatto « che il suo ideale superumano è soltanto un’immagine
contemplata, che la sua massima opera morale è solo un’opera d’arte». 74 L’etica, in tal modo,
sconfina impercettibilmente nell’estetica e questa, a sua volta, si esprime, soprattutto nello
Zarathustra, in una simbologia che si avvicina molto a quella di tipo religioso. Emerge, in tal
modo, ancora una volta, la scaturigine segreta di tutta l’ultima filosofia di Nietzsche, il fatto, cioè,
che essa nasca «dal bisogno di una redenzione di se stesso, dall’anelito di fornire alla propria
interiorità dolente e inquieta quel sostegno che il credente trova nel suo Dio. Questo desiderio e
questa aspirazione violenti ottengono infine, a forza, il loro soddisfacimento: si crea il Dio, o
comunque una divina entità superiore in cui viene proiettato e trasfigurato il rovescio della propria
immagine». 75 In tal modo, nella figura di Zarathustra è da vedere soltanto una trasfigurazione di
Nietzsche stesso e cioè, secondo l’interpretazione dell’autrice, una sorta di «super-Nietzsche».76
La sopravvivenza nell’ultima filosofia di Nietzsche di motivi schopenhaueriani, coniugati adesso
con la dottrina della metempsicosi appartenuta alla tradizione dell’antica filosofia indiana,
si manifesta ancora una volta, secondo l’interpretazione di Andreas-Salomé, nella concezione che
costituisce «sia le fondamenta sia il coronamento dell’edificio concettuale di Nietzsche»:77 la
dottrina dell’eterno ritorno. Si tratta, infatti, di un tentativo di superare il sentimento tipicamente
schopenhaueriano della tragicità dell’esistenza, attraverso la beatitudine del mistico. L’autrice narra
con queste parole la maniera in cui Nietzsche, all’epoca di Tautenburg, le aveva rivelato il pensiero
che per lui costituiva indubbiamente il peso più grande: «Non potrò mai dimenticare le ore in cui
me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e
conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i
segni del più profondo sgomento. E Nietzsche in effetti soffriva così profondamente della vita che
la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante ». 78 Perciò,
stando alla testi-

monianza di Andreas-Salomé, egli aveva deciso di rendere nota la nuova dottrina solo nel caso di
una sua incontrovertibile dimostrazione scientifica e aveva progettato di dedicarsi per alcuni anni
allo studio della fisica, della chimica e della biologia, prima di presentarsi come il maestro
dell’eterno ritorno. Le cose, tuttavia, andarono in modo del tutto diverso: «Quella che doveva
diventare una verità dimostrata scientificamente, assunse il carattere di una rivelazione mistica, e da
allora in poi Nietzsche assegnò alla sua filosofia, quale fondamento definitivo, invece di una base
scientifica, l’ispirazione interiore, la sua personale ispirazione».79
Nietzsche, di conseguenza, prosegue Andreas-Salomé, non ha dato, né poteva dare, una chiara
formulazione della sua idea dell’eterno ritorno. Chiare sono, invece, le conseguenze etiche che egli
ne trasse: «L’antica dottrina indiana di un’eterna rinascita nella trasmigrazione delle anime, come
maledizione che si abbatte su chi non sia giunto sino alla negazione di se stesso, viene addirittura
rovesciata da Nietzsche. Non la liberazione dalla costrizione del ritorno, ma la felice conversione a
essa è infatti per lui la meta della suprema aspirazione morale; non nirvana, ma samsara è il nome
dell’ideale supremo. Questa correzione dell’elemento pessimistico in imo ottimistico è la vera
differenza tra il primo pensiero di Nietzsche e quello della maturità, e rappresenta nell’evoluzione di
questo solitario dolente un’eroica vittoria del superamento di sé».80
Ma questa vittoria poté essere conseguita da Nietzsche solo a prezzo della perdita di se stesso, solo
a prezzo dello smarrirsi nell’oscura profondità della follia. Nell’autunno del 1888, osserva Andreas-
Salomé, Nietzsche terminava il primo libro della Volontà di  potenza: il Crepuscolo degli idoli. Lo
scritto rivelava uno stato d’animo di spossatezza e di attesa della fine: Nietzsche passava, infatti,
in quei giorni, « dal Crepuscolo degli idoli al crepuscolo del proprio spirito».81

Germania e il suicidio per debiti di suo marito Bernhard Forster. 83 L’esemplare dell’opera a lei
appartenuto, conservato presso la Herzogin Anna Amalia Bibliothek di Weimar, ove sono confluiti i
volumi che un tempo costituivano la biblioteca del Nietzsche-Archiv, reca ancora le tracce della sua
lettura.84
Come si è accennato in precedenza, il libro di Andreas-Salomé si apre con due fotografie di
Nietzsche. La prima di esse ritrae il filosofo di profilo agli inizi degli anni ottanta.85 La seconda è
un’immagine di Nietzsche sofferente, che presumibilmente risale alla fine degli anni settanta, dove
egli ha scritto di suo pugno: «Friedrich Nietzsche: già professore, ora fugitivus errans ». 86 Ed è
accanto a questa seconda immagine che si trova la prima chiosa a matita, decifrabile soltanto in
maniera lacunosa. Un «brutto scherzo», commenta Elisabeth Förster-Nietzsche riferendosi alla
pubblicazione di quella fotografia. Con quale disposizione d’animo abbia poi continuato la lettura si
può indovinare dal fatto che ella si impegnò a trovare e correggere tutti gli errori e le inesattezze,
non molti in verità, nei quali era incorsa l’autrice. Così, là dove Andreas-Salomé parla di Aurora
come della terza opera positivistica di Nietzsche, Elisabeth ha corretto: «La quarta». 87 E dove Lou
ha affermato che l’aforisma della Gaia scienza che ha per titolo «Amicizia stellare» era dedicato a
Paul Rèe, Elisabeth ha commentato: «Assurdo! Si riferisce a Wagner».88 Le sono sfuggiti, invece,
l’errore commesso dalla scrittrice di origini russe nel narrare della fanciullezza di
Nietzsche, allorché ella afferma che suo padre era stato pastore prima a Röcken e poi a
Naumburg,89 e il riferimento a uno scritto nietz-

scheano intitolato Socrate e la filologia classica che, com’è noto, non è mai esistito.90
La parte del volume che reca il maggior numero di segni di lettura è quella nella quale Andreas-
Salomé si sofferma sul rapporto tra Nietzsche e Paul Rèe. Così, là dove l’autrice sostiene che Rèe
aveva avuto un influsso decisivo nel passaggio di Nietzsche dalla prima alla seconda fase del suo
pensiero, Elisabeth Förster-Nietzsche commenta sarcastica: «Lui?».91 Lo stesso commento ricorre
altre due volte, sempre a proposito dell’amicizia con Rèe: quando la scrittrice afferma che la
compagnia di Rèe era l’unica che Nietzsche gradisse durante gli attacchi più violenti della sua
malattia,92 e quando scrive dell’accordo sussistente tra le posizioni filosofiche di Rèe e quelle
di Nietzsche, all’epoca di Umano, troppo umano . 93 Ma tutta l’opera è stata letta e studiata con
attenzione, come dimostrano le molte sottolineature. Elisabeth si preparava, infatti, a sferrare il suo
attacco contro colei che una volta aveva definito « una creatura bassa, sensuale, crudele e sporca ».
94

In un primo momento Elisabeth si limitò a polemizzare indirettamente con la scrittrice di origini


russe, e lo fece nel primo volume della sua Vita di Friedrich Nietzsche, uscito nel 1895, a
proposito della malattia che aveva colpito il filosofo e che, sulla base di una dichiarazione dello
stesso Nietzsche, Andreas-Salomé aveva attribuito a un retaggio paterno. Si rischiava, così, di
screditare tutta l’opera filosofica di Nietzsche, riconducendola a una tara ereditaria e questo
Elisabeth non poteva certo permetterlo. Scrisse, allora, che suo padre, il pastore Carl Ludwig
Nietzsche « alla fine di agosto del 1848 [...] accompagnò degli amici a casa; tornando alla sua
dimora gli capitò tra i piedi, sulla soglia, il nostro cagnolino: inciampò e cadde all’indietro su sette
scalini di pietra fin sul selciato del cortile. In tal modo fu colto da commozione cerebrale, cominciò
ad avere dei disturbi e morì dopo undici mesi di malattia ». 95 Il male che aveva condotto suo padre
alla morte aveva avuto, insomma, un’origine traumatica. Qualsiasi ereditarietà doveva, così,
ritenersi da escludere.
L’attacco in grande stile fu sferrato, invece, nel febbraio del 1895, dalle colonne del popolare
«Magazin für Litteratur»: si tratta di un articolo intitolato Friedrich Nietzsche e la signora Lou
Andreas-Salomé, firmato dal giovane collaboratore del Nietzsche-Archiv Fritz Kögel, ma che molto
probabilmente venne ispirato dalla Förster-

Nietzsche: un buon numero degli argomenti che vi sono prospettati, infatti, coincide con le
annotazioni che «la sorella di Zarathustra » aveva registrato sulla sua copia del libro della odiata
Lou.
Kögel la prese per così dire alla lontana, introducendo il discorso con una carrellata sulla letteratura
nietzscheana in Germania, tutta di scarsa qualità e di seconda mano. Dai pulpiti conservatori
delle chiese cristiane, dalle tribune rivoluzionarie dei socialisti, dalle cattedre universitarie degli
idealisti, afferma Kögel, tutti hanno preteso di dire l’ultima parola su Nietzsche. Fraintendendolo.
Vicini, scolari, conoscenti, colleghi, amici hanno poi pubblicato ricordi, testimonianze, racconti,
descrizioni, che servono molto di più a conoscere i loro autori che non a conoscere Nietzsche. A
questo genere di letteratura appartiene anche Friedrich Nietzsche in seinen Werken. Con
un’aggravante, però: il fatto che l’autrice non si è accontentata di dare la sua immagine di
Nietzsche, ma ha preteso che essa fosse «la prima, anzi l’unica immagine di Nietzsche». Ma,
esclama il collaboratore del Nietzsche-Archiv, «Io voglio dire chiaramente: considero questa
immagine non veritiera», e soggiunge: «Il lettore di questo libro mi capirà quando dico che
l’immagine che la signora Lou ha dipinto somiglia alla vera immagine di Nietzsche, come la
seconda delle due fotografie che ella antepone al volume somiglia alla prima». 96
Di fronte a un libro come Friedrich Nietzsche in seinen Werken, prosegue Kögel, occorre porsi due
quesiti preliminari: «Primo: era la signora Lou Andreas-Salomé donna in grado di scrivere il
libro che contiene l’immagine di Nietzsche? Secondo: quando ella lo fece, era già giunto il
momento di scrivere questo libro? ». 97
L’autrice suggerisce al lettore che la sua amicizia con Nietzsche le imponeva quasi il dovere di
scrivere quel libro e le dava anche il diritto di divulgare delle lettere private, di raccontare di viaggi
e soggiorni estivi, di narrare di colloqui sui pensieri e sulle esperienze più segrete del filosofo. Il
lettore, in tal modo, è portato a credere che si sia trattato di un’amicizia molto intima e profonda
quando, invece, correttezza avrebbe voluto che ella dicesse apertamente di aver conosciuto
Nietzsche a Roma nel maggio 1882 e che, dopo un breve viaggio dal lago Maggiore a Basilea, e
alcune settimane trascorse insieme, a Tautenburg nella Selva Turingia in estate e a Lipsia in
autunno, « era scomparsa dalla vita di Nietzsche ».
« La conoscenza - insomma - era stata di breve durata, e la separazione immediata e definitiva».
Perciò: «La signora Lou ha da dare poco più che fantasie soggettive. L’immagine che ella fornisce
scaturisce dalla sua fantasia, e meno da stati d’animo personali e torbidi ricordi, e per niente da
studi fatti sulla sua vita. Senza conoscenza della sua vita precedente e successiva, in possesso di un
assai
scarso materiale epistolare, ella tappa le falle della sua conoscenza con congetture forse argute, ma
sicuramente false». 98
Al secondo interrogativo, se cioè fosse giunto il momento di scrivere quel libro, Kögel risponde:
«Chi costruirebbe ima casa le cui fondamenta poggino sulla sabbia? ». È noto a tutti, egli
argomenta, che gran parte del materiale che avrebbe potuto consentire una corretta ricostruzione
della personalità di Nietzsche, dei suoi rapporti umani, delle sue amicizie, dei suoi studi e del suo
sviluppo spirituale è ancora inedita. Ma è noto, altresì, che essa non rimarrà inaccessibile agli
studiosi ancora a lungo: la signora Elisabeth Förster-Nietzsche, infatti, ha già cominciato a
pubblicare una biografia di suo fratello basata su materiali di famiglia, lettere e documenti di ogni
genere e anche gli studi, gli abbozzi e gli scritti inediti di Nietzsche, ivi compreso « il suo
capolavoro »,99 la Volontà di potenza,  stanno per essere pubblicati. Stando così le cose, non si
capisce perché la signora Andreas-Salomé si sia affrettata a pubblicare il suo profilo di Nietzsche.
Voleva precedere qualcuno o temeva di arrivare troppo tardi? Certo, scrivere un libro «è difficile e
per la maggior parte delle donne addirittura impossibile». Ma con materiali così scarsi era
inevitabile che il suo lavoro risultasse « unilaterale, frammentario e falso».100
Così, ad esempio, sostiene Kögel, la ricostruzione che Andreas-Salomé propone del periodo di
Basilea risulta assai lacunosa. All’autrice manca innanzi tutto la conoscenza di alcuni importanti
scritti di quel periodo come La filosofia dell’epoca tragica dei greci e Lo stato greco, nei quali
Nietzsche ha legato insieme filologia e filosofia. Ella, inoltre, ignora lo scritto degli anni settanta
intitolato Su verità e menzogna in senso extramorale, e perciò può affermare che Nietzsche ha
elaborato un abbozzo di teoria della conoscenza soltanto nel suo ultimo periodo creativo.
Del tutto unilaterale è, invece, la parte del libro dedicata al passaggio dalla prima alla seconda fase
dell’itinerario speculativo di Nietzsche: «Questa lunga sezione del suo libro» scrive Kögel «sembra
scritta in maiorem Réei gloriam». 101 La «signora Lou» afferma, infatti, che Nietzsche ha compiuto
questa sua metamorfosi sotto l’influsso di Paul Rèe. Ella ignora, però, che in una lettera del maggio
1878 lo stesso Nietzsche ha dichiarato che nella concezione della sua nuova filosofia Rèe non ha
esercitato la benché minima influenza. 102 Il «Réealismo» di cui parla la «signora Lou» è, in realtà,

frutto della sua fantasia: «Rèe non ha mai esercitato alcun influsso su Nietzsche; positivista, nel
senso in cui la sola signora Lou lo ritiene, Nietzsche non lo è mai stato »; l’evoluzione del suo
pensiero è avvenuta non a causa di influssi esterni, bensì unicamente per «necessità interna ». La «
signora Lou » commette poi un altro grave errore quando afferma che Nietzsche aveva preso
commiato da Rèe dedicandogli l'aforisma della Gaia scienza intitolato «Amicizia stellare». Con
quelle parole, invece, Nietzsche aveva voluto ricordare il suo legame di un tempo con Richard
Wagner. Ma, prosegue Kögel, « questo esempio è solo uno dei tanti di come la signora Lou spieghi i
pensieri di Nietzsche in maniera sovranamente arbitraria, seguendo il capriccio delle sue costruzioni
». 103
Pertanto - è questo il tenore del giudizio di Kögel - si può dire che « questo ritratto non è un ritratto,
ma una fantasia »: secondo la «signora Lou», Nietzsche non sarebbe altro che un debole malato, la
sua vita consisterebbe unicamente in ima storia di dolore e la sua filosofia metterebbe capo a una
mistica che doveva necessariamente sfociare nella follia. Ella, in tal modo, riduce Nietzsche a una
specie di «idiota», a una «marionetta», a una «caricatura». Interi aspetti della sua personalità
vengono invece passati sotto silenzio: la nobiltà del suo carattere, l’imperturbabilità del suo animo,
il calore dei suoi sentimenti di amicizia, ma soprattutto ciò che vi è di vivo e vitale nella sua
personalità e nella sua opera e che assicura effetti duraturi al suo pensiero. Perciò, « questo libro di
una “amica” è il libro più pericoloso che potesse essere scritto non su Nietzsche, bensì contro
Nietzsche».104 Ma, conclude Kögel con un ultimo accento di misoginia, «noi, noi uomini, non
vogliamo farci sottrarre l’uomo Nietzsche, il lottatore e il combattente, questa fiera e libera figura,
dagli artifici di ima nevrotica psicologia da donne».105
Fin qui Kögel-Elisabeth. L’opera di Andreas-Salomé, tuttavia, continuava a riscuotere i favori della
critica.106 Il fuoco di fila contro

Friedrich Nietzsche in seinen Werken, perciò, proseguì di lì a poco a opera di un altro studioso
all’epoca collaboratore del Nietzsche-Archiv, quel Rudolf Steiner che più tardi sarebbe divenuto il
capo del movimento antroposofico. Questi, nel 1895, pubblicò un libretto intitolato Friedrich
Nietzsche. Un lottatore contro il suo tempo, nella cui prefazione non si lasciò sfuggire l’occasione
per rinfocolare le polemiche a proposito del libro di Lou Andreas-Salomé, prendendo di mira, oltre
alla ormai usuale questione dei rapporti tra Nietzsche e Rèe, l’interpretazione in chiave mistica del
concetto di superuomo. Scrisse infatti: «Lo scopo finale dell’opera di Nietzsche è la descrizione del
tipo del Superuomo. Alla caratterizzazione di questo tipo mi sono dedicato come a uno degli scopi
principali del mio scritto. La mia immagine del Superuomo è l’esatto contrario della caricatura che
è contenuta nel libro su Nietzsche, attualmente diffusissimo, della signora Lou Andreas-Salomé.
Nulla al mondo è più contrario allo spirito di Nietzsche che il mostro mistico che la signora Salomé
ha fatto del Superuomo. Il mio libro dimostra che in nessun luogo, nelle idee di Nietzsche, si trova
la benché minima traccia del mistico. Non mi sono impegolato, invece, nella confutazione dell’idea
della signora Salomé secondo la quale il pensiero di Nietzsche, in Umano, troppo umano, è stato
influenzato dalle argomentazioni di Paul Rèe, l’autore delle Osservazioni psicologiche e dell'
Origine dei sentimenti morali. Teste come Paul Rèe non possono aver esercitato alcun significativo
influsso su Nietzsche. Non avrei menzionato qui queste cose, se il libro della signora Salomé non
avesse contribuito così tanto a diffondere opinioni addirittura ripugnanti a proposito di
Nietzsche».107
Ma non era ancora abbastanza. Infatti, alla fine, anche Elisabeth Förster-Nietzsche in persona diede
di mano alla penna per criticare quella che considerava una ricostruzione falsa e menzognera
della personalità di suo fratello e un’interpretazione completamente fuorviante delle sue dottrine
filosofiche. E lo fece nel testo che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere il riferimento
fondamentale per tutti coloro i quali si fossero accostati a Nietzsche: la Vita di Nietzsche, giunta nel
1897 al secondo volume. Così, nella prefazio-

ne ebbe a scrivere: «Nessuno faccia il tentativo, del tutto infruttuoso, di accordare qualche aspetto
di questa biografìa con il libro della signora Lou Andreas, Friedrich Nietzsche nelle sue opere. Il
libro suddetto è una falsificazione della personalità, del carattere, ma prima di tutto dello sviluppo
spirituale e della dottrina di mio fratello. È uscito un gran numero di scritti su mio fratello, ma ciò
che rende così ripugnante il libro della signora Andreas è che essa vi si comporta come la Pizia che
deve annunciare i segreti divini che le sono stati affidati. Quanti errori ne sono scaturiti, poiché
amici e nemici credono che in questo libro parlino a loro veramente i pensieri più intimi di
Nietzsche e invece le idee fondamentali della signora Andreas su mio fratello sono del tutto
sbagliate e anzi contrarie alla verità. In particolare ella crea di testa sua la verità secondo la
quale cerca di ricondurre il nucleo fondamentale del carattere e dello sviluppo di mio fratello a
cause puramente patologiche e dimostra di non possedere la minima sensibilità per la sua vera
personalità. L’effetto di questa falsa rappresentazione è ovvio: infatti la signora Andreas con questa
concezione viene incontro a una corrente di quest’epoca, che vorrebbe spiegare ogni grandezza
spirituale a partire dalla patologia».109
Nel 1904, infine, pubblicando una nuova edizione della seconda parte della sua vita di Nietzsche,
«la sorella di Zarathustra» soppresse quella prefazione, ma realizzò quello che è indubbiamente un
piccolo capolavoro di perfidia. Infatti, nel narrare gli avvenimenti della vita di Nietzsche nell’anno
1882, non solo ebbe modo di ribadire il suo giudizio liquidatorio a proposito del libro di Andreas-
Salomé, ma soprattutto colse l’occasione per raccontare la sua verità a proposito di tutto l’affaire
Lou.
Al nome di Lou Andreas-Salomé, esordiva Elisabeth con il tono di chi si appresta a rivelare al
lettore chissà quali segreti, «sono collegate esperienze molto penose sia per la vita di mio fratello,
sia per la mia stessa vita ».110 In effetti, ella scriveva, «non avrei assolutamente pensato di parlarne
così dettagliatamente se la signora Lou Andreas non avesse pubblicato un libro su Nietzsche che io
debbo additare come una presentazione totalmente falsa e non veritiera dall’inizio alla fine, anzi
come un atto di vendetta della vanità femminile ferita contro Nietzsche malato, che non poteva più
difendersi. Perciò sono proprio costretta a mostrare nella sua vera luce la presunta amicizia della
signora Andreas». 111
Erano stati Paul Rèe e Malwida von Meysenbug a suggerire a Nietzsche di prendere come sua
allieva la signorina Salomé, «ma
tutta la faccenda, da tutte le parti e sin dall’inizio era stata uno spiacevole equivoco ». Nietzsche,
infatti, in quel periodo di profondissima solitudine, desiderava più di ogni altra cosa di avere dei
discepoli, «ma la signorina Salomé non era minimamente in grado di diventare allieva e discepola
di Nietzsche», sia per il suo carattere, sia per l’ambiente nel quale aveva vissuto sino a quel
momento.112I consigli di Rèe e di Malwida erano stati dati in perfetta buona fede, « ma il più
ingenuo di tutti fu mio fratello ».113
Elisabeth proseguiva il suo attacco rendendo noto il testo di una lettera di Nietzsche alla madre di
Lou, in realtà un abbozzo forse mai spedito, nella quale a suo dire era espresso il vero giudizio
di Nietzsche a proposito della sua aspirante discepola: «Mi avevano parlato e mi avevano scritto
della signorina Sua figlia come se ella fosse troppo buona per questo mondo, una martire della
conoscenza sin dall’infanzia, che sacrificava qualsiasi felicità e qualsiasi piacere della vita, anzi, la
salute, per un unico scopo: la verità; totalmente altruista e sperimentata da una lunga scuola di
sacrificio. Io non voglio dire in quale misura mi sia dato da fare per conservare anche l’ultima
ombra di questa immagine, e quante cose abbia per questo dovuto ignorare e perdonare [...]. Mia
sorella e io - abbiamo entrambi tutte le ragioni per cancellare in nero dal calendario della nostra vita
la conoscenza della signorina Sua figlia».114 Quando erano partiti da Roma alla volta della
Germania, tuttavia, Nietzsche nutriva ancora l’illusione di fare della ragazza una sua allieva e fu
per questo che accettò il consiglio di Rèe e di Malwida di dedicare le sue vacanze a una prima
iniziazione filosofica della sua nuova scolara.
Noi sappiamo che le cose erano andate ben diversamente: che Nietzsche già a Roma si era invaghito
della giovane russa e che era stato lui a insistere perché ella lo raggiungesse nella Selva
Turingia. Ma questo Elisabeth non poteva ammetterlo. Così prosegue il suo racconto con altre
falsità: «Dopo alcuni giorni a Bayreuth, dove ascoltammo insieme il Parsifal, e io con mia sorpresa
scoprii che la

signorina Salomé aveva inclinazione più per i nemici di mio fratello che per i suoi amici, cominciò
a Tautenburg l’iniziazione alla sua filosofia — come sembra, non con reciproca soddisfazione di
entrambi».115 Fu per questo motivo che, nonostante il desiderio di Nietzsche di avere dei discepoli e
dei seguaci, il rapporto fu interrotto già nel novembre successivo.
La tesi di Elisabeth, dunque, era che non si fosse trattato di una amicizia e men che meno di una
faccenda sentimentale, bensì esclusivamente di un rapporto di discepolato, oltretutto d’assai
breve durata, dal momento che, una volta preso atto delle reali capacità della sua aspirante allieva,
Nietzsche aveva interrotto ogni relazione con lei. Perciò, dichiarava Elisabeth, « ciò che io respingo,
è che ella, dopo che Nietzsche fu divenuto celebre e malato, abbia avuto l’ardire, per usare una
parola forte, di presentarsi come l’amica di Nietzsche e come tale di scrivere un libro falso su di lui.
E che cosa ha scoperto in questo libro! Colloqui che mai hanno avuto luogo, confidenze da lettere
che non sono mai esistite, fatti che non sono mai accaduti [...]. La signora Andreas descrive solo una
costruzione di fantasia, della quale si può essere sicuri di una cosa sola: che non è Nietzsche ».116
Per una critica più puntuale del libro, Elisabeth rinviava agli scritti di Kögel e di Steiner. Coglieva,
tuttavia, l’occasione per ripetere ancora una volta che l’aforisma « Amicizia stellare» non era
dedicato a Paul Rèe, bensì rappresentava il tributo alla memoria del sodalizio con Wagner e per
ribadire nuovamente che Rèe non poteva aver esercitato il benché minimo influsso sull’evoluzione
del pensiero di Nietzsche. Ma, in realtà, «tutto il libro non è scritto su Friedrich Nietzsche, bensì in
onore del dottor Paul Rèe, che viene anzi esaltato in maniera abbastanza strana a spese di
Nietzsche».117 Eppure, concludeva la Förster-Nietzsche, proprio Rèe, poco prima di morire, aveva
scritto al Nietzsche-Archiv allo scopo di prendere le distanze da Lou Andreas-Salomé e precisare di
non aver avuto alcun rapporto con lei da più di dieci anni.118
Lou Andreas-Salomé non rispose a quella che aveva tutti i connotati di una vera e propria campagna
di diffamazione scatenata non soltanto nei confronti del suo libro ma anche, e forse soprattutto, nei
confronti della sua persona. Solo nelle sue memorie, pubblicate postume, troviamo una sommessa
allusione a quelle polemiche. Scrisse, infatti, Andreas-Salomé nello sguardo retrospettivo alla sua
vita: «II mio libro Friedrich Nietzsche nelle sue opere è stato scritto con assoluta spregiudicatezza,
per smentire l’interpretazione equivoca che alcuni critici letterari di dubbia fama avevano dato alla
sua opera. Anche io avevo capito appieno l’immagine spirituale
di Nietzsche solo dopo la mia relazione personale con lui; ero solo preoccupata di rendere
comprensibile la sua figura mediante queste impressioni obiettive».119
Gli attacchi, le polemiche e le stroncature, alla fine, sortirono l’effetto desiderato, Il libro di
Andreas-Salomé venne per lungo tempo dimenticato o preso in considerazione solamente come
un episodio dei rapporti personali tra Nietzsche e la scrittrice di origini russe. Negli anni settanta, la
cultura d’ispirazione femminista ebbe il merito di riproporlo all’attenzione non solo degli studiosi,
ma anche del grande pubblico.120 Oggi esso appare non soltanto come l’atto di omaggio, a tratti
accorato e commosso, dell’amica nei confronti dell’amico, non solo come un documento che può
incuriosire lo storico delle alterne vicende della «fortuna» di Nietzsche nella cultura europea tra
Otto e Novecento, ma soprattutto come un contributo che, nonostante alcuni giudizi inevitabilmente
datati, risulta ancora assai utile alla comprensione della personalità e del pensiero del filosofo di
Zarathustra.
Lecce-Urbino, 1998
1 Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, Wien 1894.
2 Una prima traduzione italiana, ormai da tempo fuori commercio, era apparsa nel 1979: cfr. L.
Andreas-Salomé, Nietzsche. Una biografia intellettuale, con un saggio introduttivo di M. Ciampa e
N. Fusini, trad. it. di A. Barbaranelli e G. Maragliano, Roma 1979.
3 K. Lowith, Nietzsche e l’eterno ritorno, trad. it. di S. Venuti, Bari 1985, Per una storia delle
interpretazioni di Nietzsche (1894-1954), p. 200.
4    M. Montinari, Che cosa ha veramente detto Nietzsche, Roma 1975, p. 138.
5    S. Giametta, Saggi nietzschiani, Napoli 1998, p. 13.
6   Per la biografia di Lou Andreas-Salomé cfr. H.F. Peters, Mia sorella, mia sposa. La vita di Lou
Andreas-Salomé, prefazione di R. Fertonani, Milano 1979. In proposito cfr. anche W. Ross, Lou
Andreas-Salomé. L'incontro con Nietzsche, Rilke e Freud, trad. it. di M. Ferrando, Bologna 1994.
7 Cfr. M. von Meysenbug, Mémoires d’une idéaliste. Entre deux revolutions 1830-1848, Genève-
Bâle 1869, poi in edizione tedesca ampliata, Memoiren einer Idealistin, 3 Bde., Stuttgart 1875-
1876; inoltre, Lebensabend einer Idealistin, Berlin 1898.
8 Cfr. [P. Rèe,] Psychologische Beobachtungen. Aus dem Nachlass von..., Berlin 1875.
9F. Nietzsche, Epistolario 1873-1879, edizione condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M.
Montinari, trad. it. di M.L. Pampaioni Fama, «Notizie e note» a cura di F. Gerratana e G. Campioni,
Milano 1995, lettera n. 554 a Reinhart von Seydlitz, Basilea, 24 settembre 1876, p. 172.
11    Cfr. P. Rèe, Der Ursprung der moralischen Empfindungen, Chemnitz 1877.
12   Cfr. F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister. Dem Andenken
Voltaire’s geweiht zur Gedächtnis-Feier seines Todestages, des 30. Mai 18/8, Chemnitz 1878.
13 L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, a cura di U. Olivieri, Firenze-Rimini 1975, pp. 69-70.
14   F. Nietzsche, Briefwechsel, Kritische Gesamtausgabe hrsg. von G. Colli und M. Montinari,
Berlin-New York 1975, voi. III, tomo 1, Briefe von Nietzsche 1880-1884, lettera n. 215 a Paul Rèe a
Roma, Genova, 21 marzo 1882,
pp. 185-186.
15
   F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 2, Briefe an Nietzsche 1880-1884, lettera n. 115,
Malwida von Meysenbug a Nietzsche a Genova, Roma, 27 marzo 1882, pp. 247-248.
16 Ivi, lettera n. 118, Paul Rèe a Nietzsche a Messina, Roma, 20 aprile 1882, p. 251.
17 L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, cit., p. 74.
18 Cfr. Friedrich Nietzsche, Paul Rèe, Lou von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegnung, hrsg. von
E. Pfeiffer, Frankfurt 1970, lettera di Malwida von Meysenbug a Lou von Salomé ad Amburgo,
Roma, 6 giugno 1882, p. 133. Cfr. anche F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1, lettera n.
237 a Lou von Salomé ad Amburgo, Naumburg, 7 giugno 1882, p. 201, dove anche Nietzsche parla
della «nostra trinità».
19    Molti anni più tardi, intervistata in proposito dal suo vecchio amico Ernst Pfeiffer, pare che ella
si fosse trincerata dietro un femminilissimo e civettuolissimo «non ricordo». Cfr. W. Ross, Loti
Andreas-Salomé. L’incontro  con Nietzsche, Rilke e Freud, cit., p. 20.
20    Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 87: «[...] me lo rivedo
davanti allorché, durante un viaggio che facemmo insieme dall’Italia attraverso la Svizzera, visitò
con me la tenuta di Tribschen, vicino a Lucerna, il luogo in cui aveva trascorso con Wagner un
periodo indimenticabile. A lungo, molto a lungo egli sedette in silenzio sulla sponda del lago,
immerso in grevi ricordi; quindi, disegnando con la punta del bastone sulla sabbia umida, parlò con
voce sommessa di quei tempi andati. Quando alzò lo sguardo, stava piangendo». «Tribschen - una
lontana isola dei beati »: con quest’epiteto Nietzsche ricorda la casa di Wagner sul lago di Lucerna
ancora in Ecce homo: E Nietzsche, Ecce homo, trad. it. di R. Calasso, in Opere, edizione condotta
su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano 1964, voi. vi, tomo 3, p. 332.
21L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, cit., pp, 78-79. Nell’immagine del «sentieri del
camosci» è chiaramente percepibile l’eco delle metafore montane di Nietzsche.
22Friedrich Nietzsche, Paul Rèe, Lou von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegnung, cit., p. 182,
Tagebuch für Paul Rèe.
23    Ivi, pp. 186-187.
24    Ivi, pp. 189-190.
25 Ivi, p. 184.
26 Ivi, p. 185. Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 30.
27 F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 301 a Franz Overbeck a Basilea,
Lipsia, 9 settembre 1882, pp. 255-256. Per il testo della Preghiera alla vita cfr. ivi, lettera n. 295 a
Heinrich Köselitz a Venezia, Naumburg, i° settembre 1882, p. 249: «Certo così un amico ama
l’amico, / come io amo te, vita piena di enigmi! / Che io per te abbia gioito o pianto, / che tu mi
abbia donato sofferenza o piacere, / ti amo, con la tua felicità e col tuo affanno, / e se devi
annientarmi, / mi strapperò con dolore dal tuo abbraccio, / come l’amico dal petto dell’amico. / Mi
stringo a te con tutte le mie forze, / lascia che la tua fiamma incendi il mio spirito / e nell’ardore
della lotta io trovi la soluzione del tuo enigma! / Millenni per pensare e per vivere! colmali della tua
pienezza. - / Non hai più altra felicità da darmi, / bene - dammi la tua pena». La Preghiera alla vita,
musicata da Nietzsche, verrà pubbli-
cata con il titolo Inno alla vita dall’editore musicale Fritsch, nel 1887. Oggi si può ascoltare in F.
Nietzsche, Lieder, Philips Classics Production, 1995.
28 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 4. A questo testo, che
originariamente si intitolava Caratterizzazione di me stesso,  fa riferimento anche Nietzsche in una
lettera a Lou Salomé scritta nel settembre 1882 e cioè prima di averlo letto. Cfr. F. Nietzsche,
Briefwechsel, cit., voi. ni, tomo i, lettera n. 305 a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibilmente
16 settembre 1882, p. 260.
29 Lou Salomé e Paul Ree vivranno insieme a Berlino in una libera unione che provocherà lo
scandalo dei benpensanti tra i quali Elisabeth Nietzsche, che giungerà a minacciare di denunciare i
due concubini alla polizia. Il loro rapporto tuttavia non durerà a lungo: nel 1885 Lou si fidanzerà
con l’orientalista Friedrich Carl Andreas, che sposerà nel 1887, divenendo la signora Lou Andreas-
Salomé. D matrimonio durerà fino al 1930, anno della morte di Andreas. Nel frattempo Lou vivrà
un’intensa passione e una lunga amicizia con il poeta Rainer Maria Rilke e parteciperà, con
Sigmund Freud, all’avventura della nascita della psicanalisi; morirà a Göttingen nel 1937. Rèe, pur
non abbandonando gli interessi filosofici, si dedicherà agli studi di medicina. Laureatosi nel 1890,
svolgerà un’intensa e disinteressata attività di filantropo, dapprima a favore dei contadini della
tenuta di Stibbe e successivamente per le popolazioni montane dell’Alta Engadina; morirà nel 1901,
cadendo in un dirupo, in circostanze poco chiare. Nietzsche precipiterà nell’abisso della follia nel
gennaio 18 89. La comune amica Malwida von Meysenbug morirà a Roma nel 1903.
30Cfr. F. Tönnies, Il culto di Nietzsche [1897], a cura di E. Donaggio e D.M. Fazio, Roma 1998.
Sulla «fortuna» di Nietzsche in Germania sino all’anno della sua morte, cfr. R.F. Krummel,
Nietzsche und der deutsche Geist. Ausbreitung und Wirkung des Nietzscheschen Werkes im
deutsche Sprach-
raum bis zum Todesjahr des Philosophen. Ein Schrifttumsverzeichnis der Jahre 1867-1900, Berlin-
New York 1974.
31 F. Tönnies, Il culto di Nietzsche, cit., p. 47.
32 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 6.
33    Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche, in «Vossische Zeitung», II, 18 e 25 gennaio 1891;
Zum Bilde Friedrich Nietzsches. Eine psychologische Studie, in «Freie Bühne», II, gennaio e
febbraio 1891, pp. 64-68, 88-91, 109-112; in, marzo e maggio 1892, pp. 249-258, 483-496; Ein
Apokalyptiker. Über die Wiederkunftslehre Friedrich Nietzsches nebst Beigabe
ungedruckter Briefe, in «Das Magazin für Litteratur», lxi, 19 e 26 novembre 1892; Ideal und
Askese. Ein Beitrag zur Philosophie Friedrich Nietzsches, in «Berliner Tageblatt », supplemento «
Der Zeitgeist »,15 maggio 1893.
34    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., pagine non numerate. La lettera
di Nietzsche a Lou von Salomé, scritta da Lipsia verosimilmente il 16 settembre 1882, è in F.
Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo i, lettera n. 305, pp. 259-260.
35
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, trad. it. di F.
Masini, in Opere, cit., voi. vi, tomo 2, af. 6, p. 11.
36 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 3-
37 Ivi, p. 6.
38 Ivi,p. 5.
39 Ivi, p. 23.
40 Ivi, p. 19.
41 Ivi,pp. 38-39
42 Cfr. ivi, p. 8. In proposito cfr, anche quanto afferma lo stesso Nietzsche in una lettera del 1876:
«[...] Ormai non potevo avere alcun dubbio di essere torturato da una grave malattia al cervello Mio
padre è morto a 36 anni di infiammazione cerebrale, ed è possibile che per me ciò avvenga ancor
prima» (F. Nietzsche, Epistolario 1873-1879, cit., lettera n. 498 a Carl von Gersdorff, Basilea, 18
gennaio 1876, pp. 121-122), nonché le pagine di Ecce homo in cui Nietzsche scrive: «Mio padre
morì a trentasei anni: era dolce, amabile e morboso, come un essere fatto per passare oltre - un
ricordo benevolo della vita, più che la vita stessa. Nell’anno stesso in cui era declinata la sua vita,
declinò anche la mia »; e dove parla di « quella brutta eredità paterna - in fondo la predisposizione a
una morte precoce» (F. Nietzsche, Ecce homo, cit., pp. 271 e 335). Si tratta, tuttavia, di testi che
Andreas-Salomé non poteva conoscere perché, all’epoca, ancora inediti.
43    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 17.
44    Ivi, p. 31.
45    Ivi, p. 40.
46 Ivi, p. 35.
47 Ivi, p. 49.
48    Ivi, pp. 49-50.
49   Cfr. L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, cit., pp. 31-32; nonché, sotto lo pseudonimo di
Henri Lou, Im Kampf um Gott, Leipzig-Berlin 1885, e, infine, Die Stunde ohne Gott und andere
Kindergeschichten, Jena 1922.
50    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen "Werken, cit., p. 58.
51    Ivi, p. 60.
52    Ivi, p. 71.
53    Ivi, p. 72.
54    Cfr. ivi, pp. 82-87.
55    Ivi, p. 90.
56   Ivi, pp. 119-120. Cfr. in proposito il passo del già citato diario per Rèe, dove Andreas-Salomé,
confrontando le personalità dei due amici, adopera gli stessi concetti e, quasi, le stesse parole.
57    Cfr. F. Nietzsche, Epistolario 1873-1879, cit., lettera n. 689 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio
1879, p. 384.
58 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 105.
59 Cfr. F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra, trad. it. di S. Giametta in Opere, cit., voi. iv, tomo
3, af. 16, « In che cosa è necessaria l’indifferenza», p. 144: «Noi dobbiamo ridivenire buoni vicini
delle cose prossime e non distogliere da esse lo sguardo così sprezzantemente come finora si è fatto,
mirando alle nuvole al di là da esse e ai mali spiriti della notte».
60    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 127.
61    Ivi, p. 129. Cfr. quanto Nietzsche scrive sulla gestazione de II viandante e la sua ombra, in una
lettera che, tuttavia, Andreas-Salomé non poteva conoscere: « Tutto, eccettuate poche righe, è stato
concepito cammin facendo e appuntato a matita su 6 piccoli taccuini: il trascriverlo mi faceva star
male
quasi ogni volta. Ho dovuto lasciar perdere una ventina di concatenazioni di pensieri un po’ più
estese, purtroppo veramente essenziali, perché non trovavo mai il tempo di estrarle da quegli orribili
scarabocchi a matita: proprio come mi è successo già l’estate scorsa. In seguito il nesso dei pensieri
mi esce di mente: mi tocca mettere insieme i minuti e i quarti d’ora di “quella energia cerebrale” di
cui Lei parla, sottraendoli a un cervello sofferente»: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit.,
lettera n. 889 a Heinrich Köselitz, Naumburg, 5 ottobre 1879, p- 400.
62 Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 142, nota. In realtà,
essendo stato scritto quando Nietzsche, Lou e Rèe coltivavano ancora il loro progetto della
«trinità», «Amicizia stellare» non può essere dedicato a Rèe. E infatti è dedicato a Wagner. Scrive
Nietzsche: «Amicizia stellare. Eravamo amici e ci siamo diventati estranei. Ma è giusto così e non
vogliamo dissimularci e mettere in ombra questo come se dovessimo vergognarcene. Noi siamo due
navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci e celebrare
una festa tra di noi, come abbiamo fatto: allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente
all'ancora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già alla meta,
una meta che era stata la stessa per tutti e due. Ma proprio allora l’onnipossente violenza del nostro
compito ci spinse di nuovo l’uno lontano dall’altro, in diversi mari e zone di sole e forse non
ci rivedremo mai - forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e soli
ci hanno mutati! Che d dovessimo divenire estranei è la legge incombente su noi: ma appunto per
questo dobbiamo diventare più degni di noi! Appunto per questo il pensiero della nostra trascorsa
amicizia deve diventare più sacro. Esiste verosimilmente un’immensa invisibile curva e orbita
siderale, in cui potrebbero essere ricomprese, quasi esigui tratti di strada, le nostre diverse vie e
mete, innalziamoci a questo pensiero! Ma la nostra vita è troppo breve, troppo scarsa la nostra
facoltà visiva per poter esser più che degli amici nel senso di quella nobile possibilità. E così
vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri nemici l’un
l’altro»: F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, in Opere, cit., voi. v, tomo 2, af. 279, p.
189.
63 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 135.
64 Ivi, p. 141.
65    Ivi, p. 147.
66    Ivi, p. 154.
67    Ivi, p. 156.
68    Ivi, pp. 157-158.
69 Cfr. ivi, pp. 166-167.
70    Cfr. ivi, p. 178.
71    Cfr. ivi, p. 181.
72    Cfr. ivi, p. 201.
73    Ibidem.
74    Ivi, p. 208.
75 Ivi, p. 213.
76 Ivi, p. 212.
77 Ivi, p. 220.
78Ivi, p. 222. « Il peso più grande » è il titolo dell’aforisma di La gaia scienza nel quale Nietzsche
per la prima volta prospetta l’ipotesi dell’eterno ri torno: cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af.
341, pp. 236-237,
79 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit,, p. 225.
80 Ivi, p. 229.
81 Ivi, p. 261.
82 L’anonimo recensore del «Literarisches Centralblatt für Deutschland», 1° dicembre 1894, coll.
1756-1757, lo definì «il più serio e fondato tentativo di chiarire l’impostazione, gli influssi esercitati
su di esso e i mutamenti » del pensiero di Nietzsche.
83    Tomata in Germania nel settembre del 1893, Elisabeth Förster-Nietzsche assunse
immediatamente nelle proprie mani la gestione del lascito letterario di Nietzsche. Il 2 febbraio 1894
fondò a Naumburg, in un locale a pianterreno della casa materna, il Nietzsche-Archiv, con lo scopo
di coordinare la riedizione delle opere del fratello e curare la pubblicazione degli inediti. Divenuta
nel 1895 l'unica erede di tutti i diritti letterari, nel settembre 1897 trasferì la sede dell’archivio a
Weimar, nella Villa Silberblick. Per la biografia di Elisabeth Förster-Nietzsche cfr. H.F. Peters, La
sorella di Zarathustra. Biografia di Elisabeth Förster-Nietzsche, trad. it. di B. Baumbusch, Firenze
1977. Per la storia del Nietzsche-Archiv, cfr. D.M. Hoffmann, Zur Geschichte des Nietzsche-
Archivs, Berlin-New York 1991.
84    Weimar, Herzogin Anna Amalia Bibliothek, Ma. 487.
85 Cfr. F. Nietzsche. Le parole e le immagini, a cura di P.G. Carizzoni, Milano 1995.
86 Nietzsche conclude con queste stesse parole una lettera del luglio 1879. È probabile, quindi, che
la lettera e la fotografia siano coeve. Cfr. F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 896 a
Paul Ree, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 384.
87 Weimar, Herzogin Anna Amalia Bibliothek, Ma. 487, cit., p. 130.
88    Ivi, p. 148.
89    Cfr. ivi, p. 7. Il pastore Cari Ludwig Nietzsche, in effetti, era morto a Röcken nel 1849 e solo
nel 1850 la vedova Nietzsche si era trasferita a Naumburg con i due figli, Friedrich ed Elisabeth, di
sei e quattro anni.
90    Cft. ivi, p. 76.
91    Ivi, p. 90.
92 Cfr. ivi, p. 100.
93    Cfr. ivi, p. 118.
94    Friedrich Nietzsche, Paul Rèe, Lou von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegnung, cit., lettera
di Elisabeth Nietzsche a Ida Overbeck a Basilea, Naumburg, 29 gennaio 1883,p. 289
95    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche’s, Bd. I, Leipzig 1895, p. 5.
96   F. Kögel, Friedrich Nietzsche und Frau Lou Andreas-Salomé, in «Das Magazin für Litteratur»,
23 febbraio 1895, col. 228.
97    ibidem.
98    Ivi, col. 229.
99    Ivi, col. 233.
100    Ivi, col. 230.
101    Ivi, col. 232.
102 Cfr. ivi, col. 231. La lettera di Nietzsche a cui Kögel fa riferimento risale non al maggio 1878,
bensì al giugno dello stesso anno e il suo contenuto andrebbe contestualizzato. Si tratta, infatti, di
una risposta a una lettera di Erwin Rohde il quale, dopo aver letto Umano, troppo umano, aveva
scritto a Nietzsche: «La mia sorpresa per quest’ultimo Nietzschianum è stata, come
puoi bene immaginarti, grandissima: è inevitabile quando dal calidarium si viene cacciati
direttamente in un gelido frigidarium. Ti dico ora, in tutta sincerità, amico mio, che questa sorpresa
non è stata priva di sensazioni dolorose. Come ci si può svestire in questo modo della propria anima
e prendere quella di un altro? Invece di Nietzsche, diventare improvvisamente Rèe? ». Ed ecco la
risposta di Nietzsche: «Tra parentesi: cerca sempre me nel mio libro e non l’amico Ree. Sono fiero
di aver scoperto le sue splendide qualità e aspirazioni, ma sulla concezione della mia “philosophia
in nuce” lui non ha esercitato la benché minima influenza: questa era pronta e in buona parte
già affidata alla carta quando lo conobbi più da vicino nell’autunno del 1876»: E Nietzsche,
Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 727 a Erwin Rohde, Basilea, poco dopo il 16 giugno 1878, p.
279 e, per la lettera di Rohde, le «Notizie e note» allo stesso volume, p. 568.
103 E. Kögel, Friedrich Nietzsche und Frau Lou Andreas-Salomé, cit., col. 232.
104 Ivi, col. 234.
105 Ivi, col. 235.
106Cfr. Nietzsche und seine Bedeutung, in «Der Kunstwart», marzo 1895, pp. 177-181; P.L., Zur
Nietzsche Litteratur, in «Allgemeine Zeitung», 94,
1895. Le difese del libro di Andreas-Salomé nei confronti delle critiche di Kögel vennero prese da
quel Heinrich Romundt che era stato collega di Nietzsche all’università di Lipsia e,
successivamente, tra i frequentatori del salotto berlinese di Lou e Rèe. Cfr. H. Romundt, Noch
einmal Friedrich Nietzsche und Frau Lou Andreas-Salomé, in «Das Magazin für Littérature, 27
aprile 1895, coll. 523-526.
108 R. Steiner, Friedrich Nietzsche. Ein Kämpfer gegen seine Zeit, Weimar 1895, pp. VIII-IX. Il
titolo dell’opera, che in italiano suona Friedrich Nietzsche. Un lottatore contro il suo tempo, è una
reminiscenza della Seconda Inattuale, nella quale Nietzsche aveva scritto: « E se desiderate
biografie, allora che non siano quelle col ritornello “Il signor Taldeitali e il suo tempo”, ma quelle
sul cui frontespizio si dovrebbe leggere: “Un lottatore contro il suo tempo”»: E Nietzsche,
Considerazioni Inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di S. Giametta in
Opere, cit., voi. III, tomo 1, p. 312.
109    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche’s, Bd. II, Leipzig 1897, Vorwort, p. vn.
La tesi del legame strettissimo fra genio e follia era stata sostenuta da Max Nordau nelle pagine
dedicate a Nietzsche di Entartung, z Bde., Berlin 1892-1893, Bd. II, pp. 272-357.
110    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche’s, Bd. II, Leipzig 1904, p. 402.
111 Ivi, p. 403.
112    Ibidem.
113    Ivi, p. 404.
114 Ivi, pp. 404-405. Cfr. F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. III, tomo 1, lettera n. 436 a Louise
von Salomé a Pietroburgo, abbozzo, Sils-Maria, metà luglio 1883, pp. 402-403. Per la verità,
Nietzsche si era spinto tanto oltre da giungere ad apostrofare la donna, che evidentemente ancora
amava, con questo genere di epiteti: « Quella scimmietta magra e sudicia e nauseabonda con i suoi
seni falsi» (ivi, lettera n. 435 a Georg Rèe, abbozzo, Sils-Maria, metà luglio 1883, p. 402). Tuttavia,
secondo Mazzino Montinari (M. Montinari, Lou o dell’egoismo, in Su Nietzsche, Roma 1981, p. 46)
il giudizio più sereno e sincero di Nietzsche su Lou Salomé si trova in una lettera successiva,
indirizzata proprio a sua sorella Elisabeth, nella quale il filosofo scrive: « Una cosa è certa: di tutte
le conoscenze che ho fatto, quella con Lou è una delle più preziose e delle più feconde. Solo a
partire da questo rapporto divenni maturo per il mio Zarathustra» (F. Nietzsche, Briefwechsel, cit.,
lettera n. 481 a Elisabeth Nietzsche a Naumburg, abbozzo, Nizza, gennaio-febbraio 1884, p. 467).
115    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche's, Bd. II, Leipzig 1904, p. 406.
116    Ivi, p. 408.
117 Ivi, pp. 410-411.
118 Cfr. ivi, p. 411.
119 L. Andreas-Salomé, II mito di una donna, cit., p. 81.
120 Cfr. la già citata edizione: L. Andreas-Salomé, Nietzsche. Una biografia intellettuale.
Friedrich Nietzsche, settembre 1882. (Fotografia di Gustav Schultze)
In alto: il padre, Carl Ludwig Nietzsche, nel 1848, un anno prima della sua morte. In basso: la casa
a Röcken, presso Lützen, dove Friedrich Nietzsche nasce il 15 ottobre 1844.
In alto: la madre, Franziska Nietzsche, nata Oehler, nel 1850. In basso: la casa di Naumburg
(Weingarten 18), dove la madre si stabilisce con i figli nel 1850 e dove vivrà sino alla morte.
Elisabeth Nietzsche, nata il 10 luglio 1846, a quattordici anni. Il terzogenito, Joseph, nato il 27
febbraio 1848, muore il 9 gennaio 1850.
Nietzsche nel 1861. (Fotografia di Gustav Schultze)
Nietzsche nel giugno del 1862, all’epoca in cui è studente alla scuola di Pforta. (Fotografie di
Ferdinand Henning)
Arthur Schopenhauer. Nietzsche legge il suo capolavoro, II mondo come volontà e
rappresentazione, a Lipsia, alla fine di ottobre del 1865. Il 15 ottobre 1874 gli dedicherà la terza
Considerazione Inattuale: Schopenhauer come educatore.
Friedrich Nietzsche nel dicembre 1864, studente all’università di Bonn, prima di trasferirsi
all’università di Lipsia, per seguire il suo professore di filologia classica Friedrich Ritschl.
In alto: l’Associazione filologica di Lipsia nel 1866: in primo piano, a sinistra, Friedrich Nietzsche,
a destra, Erwin Rohde. In basso: la casa dei Wagner a Tribschen, presso Lucerna, dove Nietzsche si
reca ripetutamente in visita, dal 1869 al 1872.
In divisa da artigliere a cavallo, 1868. Nell’ottobre 1867 Nietzsche inizia il servizio militare a
Naumburg. Viene congedato, in seguito a una caduta da cavallo, nel marzo 1868.
In alto: Cosima e Richard Wagner con il figlio Siegfried nel 1873. In basso: il teatro di Bayreuth in
costruzione. La prima pietra fu posta il 22 maggio 1872.
Nietzsche con gli amici Erwin Rohde e Carl von Gersdorff, ottobre 1871. (Fotografia di Ferdinand
Henning)
Jacob Burckhardt nel 1892.
Nietzsche nel 1872. (Fotografia di F. Hartmann)
In alto: Peter Gast, pseudonimo di Heinrich Köselitz. In basso: la cartolina postale che Nietzsche gli
inviò l’11 febbraio 1882 da Genova.
Nietzsche nel 1874. (Fotografia di F. Hartmann)
Franz e Ida Overbeck nel 1875. Sarà Overbeck a raggiungere l’amico a Torino, l’8 gennaio 1889,
dopo aver ricevuto uno dei «biglietti della follia», e a condurlo, due giorni dopo, nella clinica
psichiatrica di Basilea. (Fotografia di Louis Zipfel)
Frontespizio manoscritto di Umano, troppo umano, del 1878, che segna la definitiva rottura con
Richard Wagner.
Malwida von Meysenbug nel 1880.
Lou von Salomé, Paul Rèe e Friedrich Nietzsche, maggio 1882. (Fotografia di Jules Bonnet)
In alto: Elisabeth Nietzsche nel 1875.
In basso: la madre, Franziska Nietzsche, nel 1869.
Lou von Salomé, nel 1886, quando, dopo una convivenza di alcuni anni con Paul Rèe, è fidanzata
con Friedrich Carl Andreas, che sposerà l’anno successivo.
In alto: la macchina per scrivere di Nietzsche. In basso: una pagina dattiloscritta datata 17 febbraio
1882.
Nietzsche nel 1882.
La copia di Nietzsche del libretto del Parsifal di Richard Wagner, che muore a Venezia il 13
febbraio 1883,
Lettera da Rapallo a Peter Gast del 1° febbraio 1883, in cui Nietzsche gli annuncia la nascita di
quella che sarà la « prima parte» di Così parlò Zarathustra.
In alto: una veduta di Sils-Maria, dove nel luglio 1883 Nietzsche compie la stesura della «seconda
parte» di Così parlò Zarathustra. In basso: Casa Durisch (oggi Casa Nietzsche) a Sils-Maria, dove
Nietzsche alloggiava, in una stanza, durante i lunghi soggiorni estivi, dal 1881 al 1888,
Il canto del nottambulo » di Così parlò Zarathustra. Il titolo fu modificato da Nietzsche sul suo
esemplare personale in «Il canto ebbro».
In alto: August Strindberg, con cui Nietzsche stabilisce un rapporto epistolare alla fine del 1888. In
basso: la famiglia Fino, che gli affittò una stanza a Torino, dal 30 settembre 1888 al 10 gennaio
1889.
Manoscritto del Crepuscolo degli idoli, del 1888.
I «biglietti della follia »: a Cosima Wagner, 3 gennaio 1889, e a Franz Overbeck, 5-6 gennaio 1889.
I «biglietti della follia»: a Peter Gast, 3 gennaio 1889, e a Jacob Burckhardt, 6 gennaio 1889.
Elisabeth Förster-Nietzsche nel 1894. (Fotografia di F. Hertel)
Nietzsche nel maggio 1891 con la madre, a cui viene affidato dopo essere stato dimesso, l’anno
precedente, dalla clinica psichiatrica di Jena. La madre lo assisterà nella loro casa di Naumburg,
sino alla sua morte, avvenuta il 20 aprile 1897.
Nietzsche nel maggio 1899. (Fotografie di Hans Olde)
In alto: Lou Andreas-Salomé con Rainer Maria Rilke in Russia nel 1899. In basso: il frontespizio di
Friedrich Nietzsche in seinen Werken.
In alto: Villa Silberblick a Weimar, acquistata nel 1897 da Elisabeth con l’aiuto di Meta von Salis,
dove Friedrich Nietzsche muore, il 25 agosto 1900, In basso: una stanza del Nietzsche-Archiv a
Weimar.
Curt Stoeving, Friedrich Nietzsche tra le fronde, 1896.

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