Sei sulla pagina 1di 110

Heidegger ha voluto che la raccolta completa dei suoi scritti recasse il motto: «Sentieri, non opere».

L’essere in cammino lungo piste che conducono nel fitto del bosco, ma che ad ogni svolta possono
immettere nella radura, nella Lichtung dove nuova e inattesa luce si fa incontro a chi si è
avventurato lungo il difficile percorso: è questa la metafora che Heidegger ha privilegiato per
esprimere il senso del suo pensare.
Gadamer, che ha seguito fin dagli anni marburghesi il Denkweg, il rigoroso e radicale itinerario di
pensiero del suo grande maestro, ritorna in questo libro a ripercorrerne le tappe principali. Ma può
ritornarvi in modo fruttuoso e illuminante solo perché ha saputo seguire fino in fondo il compito del
proprio autonomo pensiero. Intende così i «sentieri» del maestro come «cenni», come «segnali» che
indicano una direzione solo per colui che sa rischiare di persona.
Gadamer interpreta Heidegger alla luce del proprio sviluppo ermeneutico della fenomenologia
ontologica, offrendo una lettura unitaria, pur nella varietà degli spunti e delle occasioni. Nei diversi
momenti vengono riconosciute le tappe di un cammino rivolto verso un’unica meta: pensare
l'essere, aprirsi all'orizzonte originario dove la verità dell’essere non è occultata da fraintendimenti
oggettivanti, ma appare come evento e linguaggio.
HANS GEORG GADAMER
I SENTIERI DI HEIDEGGER
edizione italiana a cura di
Renato Cristin
MARIETTI

Titolo originale:
Heideggers Wege. Studien zum Spatwerk
© Hans Georg Gadamer - J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1983.
Traduzione di Renato Cristin e (per il solo cap. 8) di Giovanni Moretto Copertina di Giancarlo
Cancelli
I Edizione 1987 I Ristampa, agosto 1988
© Casa Editrice Marietti S.p.A.
Via Palestro 10/8 - Tel. 010/891254 16122 Genova
ISBN 88-211-8638-5
INDICE
Nota introduttiva di Renato Cristin
Prefazione all'edizione italiana
Prefazione
Avvertenza
1. Esistenzialismo e filosofia dell'esistenza
2.    I 75 anni di Martin Heidegger
3.    La teologia di Marburgo
4.    «Che cos’è metafisica? »
5.    Kant e la svolta ermeneutica
6.    Il pensatore Martin Heidegger
7.    Il linguaggio della metafisica
8.    Platone
9.    La verità dell’opera d’arte
10.    Gli 85 anni di Martin Heidegger
11.    Il sentiero verso la svolta
12.    I Greci
13.    La storia della filosofia
14.    La dimensione religiosa
15.    Essere, Spirito, Dio
NOTA INTRODUTTIVA
Interpretando Heidegger, Gadamer manifesta simultaneamente anche le linee essenziali del proprio
disegno filosofico. L’intensità con cui la genesi e lo sviluppo del suo pensiero si legano
all’insegnamento del maestro si rivela sia nell’elaborazione, personalissima, di stimoli teorici
heideggeriani, sia nella vicinanza biografica in cui egli è venuto a trovarsi, a partire dagli anni Venti,
con Heidegger. Con il quale egli si è incamminato fin dai propri inizi filosofici: questa serie di
saggi, tra i quali il primo in ordine di tempo risale al 1960, conferma e precisa infatti il significato di
una frase rivelatrice, anche se piuttosto ermetica, con cui Gadamer ribadiva l’importanza di questo
incontro: « per parte mia, a mio modo, ho continuato a trarre ausilio dal pensiero di Heidegger » 1.
L’aiuto di cui si parla si riflette direttamente in questi scritti, nei quali Gadamer esercita l’arte
ermeneutica al suo massimo livello stilistico, applicandola con un’esuberanza teorica che convoglia
le esperienze concettuali in un vero e proprio Erlebnis di pensiero. In esso la figura di Heidegger
risalta a tutto tondo, assumendo un profilo quasi vivente, in cui testimonianze dirette ormai sempre
più rare e preziose si incuneano nella struttura teorica che fa da scenario a questo incontro.
Nel costante e paziente dialogo con il maestro, Gadamer valorizza una precisa ipotesi metodica,
secondo la quale « il comprendere, che si articola linguisticamente, ha intorno a sé uno spazio libero
che esso riempie rispondendo costantemente alla parola che lo interpella, senza tuttavia esaurirlo.
“Molto resta ancora da dire”: ecco la relazione erme-
neutica fondamentale » 2. È evidente che interpretare non significa redigere un lessico o compilare
un indice, ma la frase: « molto resta ancora da dire » racchiude un senso più sconcertante,
un’audacia forse insospettata nell'ermeneutica: non solo Gadamer si oppone a qualsiasi tentativo di
classificazione o di schedatura, ma rifiuta anche l’idea di procedere a una ricostruzione esplicativa
della meditazione heideggeriana. Diventa così un critico severo di tutti gli approcci che, « spesso
con scrupolosa acribia, cercano di portare ordine nel pensiero di Heidegger e di ricostruirne
sistematicamente la “dottrina”, [...] sia nell'intento onesto di comprenderlo sia in quello di rifiutarlo
» 3. Accogliendo un desiderio che Heidegger aveva spesso formulato, la raccomandazione cioè di
non sclerotizzare gli sforzi filosofici concentrandosi sulla ricostruzione scolastica del suo percorso
teorico, ma di aprirsi, a partire dall'interrogare fondamentale, alla cosa stessa del pensiero, Gadamer
può dunque affermare: « scrivere la summa del suo pensiero mi pare sia non solo inutile, ma
addirittura dannoso » 4. L’intento antisistematico influenza infatti tutta la struttura di quest’opera.
I

Nella sua lettura egli asseconda e rispetta un monito del maestro, secondo cui la sua produzione
filosofica deve essere considerata come « sentieri, non opere » (Wege, nicht Werke), È in primo
luogo in questo motto, che funge da exergo alla Gesamtausgabe heideggeriana, che bisogna
ritrovare l’ispirazione del titolo di questo libro. Sulla scorta di questa frase si può comprendere
perché Heidegger abbia chiamato Denkweg il proprio meditare: non un semplice pensare, ma un
sentiero sul quale il pensiero avanza. Consapevole dell’importanza di questa immagine, Gadamer la
riprende, cogliendo dunque l’essenza stessa della mens auctoris e realizzando così il modello
autentico dell'ermeneutica filosofica.
Ma come si riconosce un sentiero? Come si può distinguere un sentiero, poniamo da una tesi teorica
ben consolidata? Solo la vicinanza, la comunicazione, l'Einfühlung direbbe Husserl, consente di
scoprirlo: « soltanto chi cammina insieme sa che si tratta di un sentiero » 5. Procedere lungo i
sentieri di Heidegger significa quindi camminare con Heidegger, ponendosi nella condizione,
l’unica possibile per comprendere davvero, di ascoltare e domandare, di dialogare e fare la stessa
strada.
Grazie alla figura del sentiero Gadamer può affrontare i problemi del pensiero heideggeriano senza
applicare ad essi alcuno schema. Non c’è dunque alcuna rigidezza formale, alcuna scansione
tematica precisa all'interno di questi saggi, ma soltanto la tortuosità e la sinuosità del sentiero.
Sembra quasi che Gadamer voglia presentare Heidegger nella sua complessità vitale, più che nella
sua struttura concettuale: « nel pensiero di Heidegger c’era e c’è tutt’ora vita », scrive infatti,
aggiungendo: « vita significa tentativo e tentazione, avventura, sentiero » 6. Del resto, da Essere e
tempo fino alle ultime riflessioni, Heidegger conserva alla metafora del sentiero un posto
privilegiato. Quasi a confermare questa persistenza, egli giunge a dire, durante il suo ultimo
Seminario (Zahringen, 1973): « nella filosofia ci sono solo sentieri » 7.
Seguendo le tracce di questa immagine, Gadamer può ritrovare in esse le parole fondamentali del
pensiero di Heidegger. Nel saggio che più degli altri si impegna sul terreno genetico del suo
itinerario 8, egli rievoca la « tappa » fenomenologica di questo percorso, rivelando a questo
proposito una profondità ermeneutica esemplare. Quando parla del « sentiero nella svolta », intende
forse dire che la fenomenologia avrebbe mantenuto la posizione di guida anche nella Kehre, nella
virata che il pensiero heideggeriano subisce negli anni Trenta? No di certo. Sarebbe impossibile
sostenere che i sentieri che lo solcano confluiscano tutti in quello fenomenologico: il senso di tale
rapporto va invece ricercato in una presenza intermittente e talvolta impercettibile dell’arte
fenomenologica nelle pieghe del Denkweg, in sintomi poco appariscenti, in sfumature operative ed
espressive. Gadamer richiama l’attenzione sulla forza di intuizione fenomenologica di cui i sentieri
heideggeriani conserverebbero le impronte: « si è soliti riconoscere che per esempio l’analisi del
mondo sviluppata in Essere e tempo rappresenta un capolavoro di analisi fenomenologica, mentre si
ritiene che gli scritti posteriori si impiglino in trame sempre più indimostrabili e di mitologia
concettuale. C’è qualcosa di vero in ciò, nella misura in cui tutti questi scritti sono testimonianza di
una povertà linguistica, che spesso costringe ad afferrare strumenti di salvezza che sembrano
disperati. Ci si dovrà però ben guardare dal credere che ciò provi l’esistenza in Heidegger di una
diminuzione della forza fenomenologica » 9. Que-
sto ammonimento si rafforza e si convalida proprio alla luce di alcune espressioni heideggeriane:
durante la preparazione del Seminario di Zàhringen, definito anche « un piccolo seminario sul
“vedere” fenomenologico », egli scrisse a Roger Munier che per lui si trattava proprio di
raggiungere e « di praticare il “vedere” fenomenologico » 10. Come ai tempi delle sue esercitazioni
sulle Ricerche logiche, quando era assistente di Husserl. Ma da allora erano trascorsi quasi
sessant'anni.
Quindi Gadamer non solo interpreta in modo originale il rapporto fra Heidegger e la
fenomenologia, solitamente dato per interrotto alla fine degli anni Venti, ma mostra anche di leggere
in modo fedele e penetrante le intenzioni heideggeriane inespresse o poco appariscenti. Leggere la «
svolta » in questa prospettiva non significa appiattirla sulla via maestra inaugurata da Husserl: al
contrario, l'interpretazione gadameriana ci aiuterebbe, proprio mettendo in luce importanza e
inadeguatezza della fenomenologia, a scoprire il senso autentico della svolta, l'unica « stella » a cui
Heidegger vuole avvicinarsi, il problema di tutta la sua riflessione. Interrogandoci sulla sua
trasformazione della fenomenologia siamo quindi in grado di chiederci: « In quale compito egli si è
imbattuto? In mezzo a quale povertà egli cerca di trovare salvezza? » 11.
Si ricava quasi l’immagine di un viandante che, pur nella varietà delle peregrinazioni, tenga ben
stretta la sua meta. Oppure l’immagine di un rabdomante, alla ricerca di giacimenti sotterranei: vaga
in molte direzioni, ma « improvvisamente la bacchetta si mette a oscillare e il cercatore diventa
ricco » 12. In ogni caso la metafora del sentiero non rappresenta un viaggio, simile a quello della
fenomenologia dello spirito, che custodisca il significato e i confini di un sistema. Quando Gadamer
arrischia l’espressione: der eine Weg Martin Heideggers [L'unico sentiero di Martin Heidegger] 13,
intende presentare il sentiero nella unicità del suo orientarsi verso l’essere, verso la Lichtung.
Proprio il dirigersi verso la radura lo rende riconoscibile, facendolo apparire fin dal momento in cui
« Heidegger scelse il proprio sentiero, o meglio: il suo proprio sentiero lo trascinò via dagli altri
sentieri ».
La tesi di fondo di questi « studi sull’opera matura » di Heidegger è che la direzione del suo
pensiero si mantenga costantemente rivolta verso un unico obiettivo: pensare l'essere. Per
Heidegger l’esperienza dell’essere può avvenire solo distanziandosi dai procedimenti oggettivanti,
solo liberando « il carattere di sentiero ( Wegcharakter) del pensare, Punico che potrebbe assicurare
un’esperienza dell’oblio dell'essere » 14, uno sguardo nella nostra epoca che, per mezzo della
tecnica, occulta e dimentica l’essere. Questo Wegcharakter schiude la possibilità di gettare uno «
sguardo in ciò che è », svelando la situazione ontologica del nostro tempo 15. Ma « cogliere il
carattere di sentiero del pensare riesce difficile a causa della consuetudine, oggi dominante, del
rappresentare. Infatti il carattere di sentiero del pensare è troppo semplice e perciò inaccessibile per
il “pensiero” dominante, invischiato in un’infinità di metodi » 16.
Se il pensiero come cammino è Punica via per accedere all’essere e se comprendere oggi l’essere
significa capire l’epoca stessa in cui viviamo, si può ragionevolmente ritenere che il cammino verso
l’essere rappresenti la massima penetrazione filosofica nella realtà effettuale. Per questo motivo
sembra possibile vedere nell’ascolto dell’essere, tema dominante della meditazione del « secondo »
Heidegger, una declinazione dell’analisi esistenziale circa la fatticità dell’esserci, tema di Essere e
tempo. A unire le due fasi, simbolicamente ma anche di fatto, è il Wegcharakter, che si imprime su
tutto Parco heideggeriano, svolta compresa. Lo « sguardo in ciò che è » accomunerebbe quindi
l’inizio e l’altro inizio; i due momenti che scandiscono questo itinerario. E' in tal senso che
bisognerebbe leggere, e condividere, la provocazione gadameriana: « Punico sentiero di Martin
Heidegger ».
Oltre all’unitarietà del pensiero heideggeriano, Gadamer evidenzia qui l’incontro fra sentiero e
linguaggio, sempre sfiorato e spesso descrit
to anche a chiare lettere da Heidegger. Si pensi per esempio ai versi con i quali si apre lo scritto Aus
der Erfahrung des Denkens: « sentiero ed equilibrio / viottolo e dire / si incontrano in uno stesso
cammino » 17. Qui il dire (Sage) non è un procedimento, né una dimostrazione: il linguaggio — il
dire— diventa sentiero assorbendone tutto il profilo antimetodico: « sentiero è sentiero in cammino,
/ che conduce e illumina, / che porta, perché poeta » 18. Su questa analogia Gadamer costruisce il
ponte che in senso ermeneutico, dovrebbe collegare le riflessioni heideggeriane sul linguaggio alla
sfera linguistica creata dai poeti con i quali Heidegger si confronta e nei quali scorge l'originarietà
del dire. A suo avviso, di fronte all'indigenza che il linguaggio esperisce quando tenta di portare alla
parola l'essere, Heidegger avrebbe ricevuto dai poeti, da Hòlderlin soprattutto, uno « scioglimento »
della lingua, un sostegno nella sua corsa verso Pattimo aurorale del pensiero, verso la dicibilità della
Lichtung.
Gadamer non esita a scrivere che Heidegger « collega il linguaggio del pensiero [...] con il
linguaggio del poeta » 19. Ma quando si cerca di esplicitare questo nesso ci si espone al rischio di
assumere la sfera poetica in quella filosofica, creando una gerarchia tutto sommato fuori moda,
oppure a quello di sgretolare la filosofia nel magma dell'evocazione lirica. In Heidegger poi questo
rapporto è più che mai complicato, tenuto in una mezza luce che lo sottrae alla vista completa.
L'intervento di Gadamer è dunque delicato, per non spezzare i fili che reggono questa connessione,
ed esperto, per non distruggere l'equilibrio teorico che rende possibile questo incontro. Egli insiste
sull'inestinguibilità dell'apporto della metafisica, ma non scorda le lacerazioni che la violenza
heideggeriana ha lasciato sul terreno della tradizione: su questo bilanciamento si fonda la sua
proposta (si vedano qui in particolare i saggi II linguaggio della metafisica e La storia della
filosofia). L'avanzata di Heidegger nei territori ancora pressoché sconosciuti in cui filosofia e poesia
confinano reciprocamente non porterebbe quindi a un'esclusione dell'una o dell'altra, ma si
gioverebbe della forza linguistica originaria che alimenta le radici di entrambe. Ne scaturirebbe un
linguaggio che soffre, che anela alla distanza (questo sarebbe secondo Gadamer il senso ultimo
della Gelassenheit) e si immerge nel misterioso abisso dell'essere, nell'Abgrund originario. Sembra
che Gadamer veda il linguaggio heideggeriano come un enigma, di cui soltanto l'essere possiede la
soluzione. Tentando di definirlo, presenta alcune approssimazioni molto suggestive: « questo
linguaggio non fissa. [...] In definitiva è tanto intraducibile quanto la parola della poesia lirica [...] e
tuttavia non è linguaggio della poesia [...] [ma] linguaggio della meditazione » 20. Viene sottolineata
la sorprendente capacità del linguaggio heideggeriano di sfuggire al consolidamento concettuale
metafisico, riparando nella radura poetica, senza però perdere mai di vista l’esigenza dell'Andenken,
del pensiero meditante che riflettendo sull’essere rimemora se stesso, corrispondendo
all’avvertimento di Parmenide.
Indicando nell’equilibrio fra pensiero filosofico e creazione poetica la condizione necessaria per la
vita di entrambi, Gadamer sembra afferrare l’essenza dell’intenzione heideggeriana, che ha trovato
formulazioni ermetiche ma illuminanti: « la poesia e il pensiero si incontrano soltanto quando e
soltanto per il tempo in cui essi sono nel Medesimo, soltanto nella misura in cui dimorano,
dichiarandosi liberamente essi stessi, nella diversità del loro dispiegamento » 21. Quando scopre in
questo incontro « una svolta audace, attraverso la quale nuovi sentieri si aprivano al pensiero »,
Gadamer ritiene che il canto poetico liberi un nuovo orizzonte linguistico a « ciò che Heidegger
aveva cercato fin dall’inizio ». Si tratta — aveva detto Heidegger — della possibilità di un nuovo
rapporto con l‘'essere: « e la svolta che conduce a questo rapporto, cioè pensarlo, prepararlo (e non
annunciarlo con un tono da profeta), questo è il senso inespresso di tutto il mio pensiero » 22.
All’elucidazione di questo senso nascosto Gadamer si applica con una comprensione forse
insuperata: « Heidegger è qui. Non si può tranquillamente passargli davanti né — purtroppo —
superarlo nella direzione della sua domanda. Così, egli cammina, in maniera sconcertante, sul suo
sentiero. Un masso erratico, che i flutti di un pensiero rivolto alla perfezione tecnica lambiscono,
ma non riescono a smuovere » 23.
1H.-G. Gadamer, Maestri e compagni nel cammino del pensiero, tr. it. di G. Moretto, Queriniana,
Brescia 1980, p. 144.
2 H.-G. GADAMER, I sentieri di Heidegger, p. 39. D’ora in avanti abbreviato:
SH.
3 Ivi, p. 17.
4 Ivi.
5 Ivi, p. 105.
6 Ivi, p. 17.
7M. HEIDEGGER, Seminar in Zahringen 1973, in ID., Vier Seminare, a cura di C. Ochwadt,
Klostermann, Frankfurt/Main 1977, p. 137.
8 Cfr. il saggio II sentiero verso la svolta, in SH, pp. 107 ss.
9 SH, p. 18.
10 Così si esprime Heidegger in una lettera dell'11 agosto 1973 indirizzata a R. Munier e pubblicata
in AA. VV., Martin Heidegger, a cura di M. Haar, L’Herne,
Paris 1983, pp. 112-113.
11 SH, p. 18.
12 Ivi, p. 145.
13E' il titolo di una conferenza pronunciata da Gadamer il 25 maggio 1986 a Messkirch in
occasione del X anniversario della morte di Heidegger.
14M. HEIDEGGER, Der Fehl heiliger Namen, in ID., Denkerfahrungen (1910-1976), Klostermann,
Frankfurt/Main 1983, p. 179.
15 Con il titolo Einblick in das was ist [Sguardo in ciò che è] Heidegger tenne nel 1949 a Brema
quattro conferenze, dedicate all’analisi e alla comprensione filosofica della nostra epoca. La prima è
stata pubblicata con il titolo La cosa, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo,
Mursia, Milano 1976, pp. 109-124. La seconda, intitolata La questione della tecnica, ivi, pp. 5-27;
la terza è ancora inedita e si intitola Die Gefahr [Il pericolo]; la quarta è apparsa, con il titolo Die
Kehre [La svolta], in M. Heidegger, Die Technik und die Kehre [La tecnica e la svolta], Neske,
Pfullingen 1962, pp. 37-47. Si veda anche H.-G. Gadamer, La ragione nell'età della scienza, tr. it. di
A. Fabris, intr. di G. Vattimo, il Melangolo, Genova 1982.
16 M. Heidegger, Denkerfahrungen, cit., p. 179.
M. Heidegger, AUS der Erfahrung des Denkens, Neske, Pfullingen 1954, p. 5.
M, HEIDEGGER, Denkerfahrungen, cit., p. 179.
SH p. 58.
20 Ivi, p. 121.
21M. Heidegger, Séminaire de Zurich (1931), presentato da F. Fédier, in « Poesie », Paris, n. 13,
1980, p. 57.
22 Ivi, p. 56.
23 SH, p. 24.
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
I lavori riuniti nel 1983 sotto il titolo Heideggers Wege [I sentieri di Heidegger], pur essendo stati
composti tutti per occasioni particolari, sono tuttavia tenuti assieme da un comune obbiettivo. Il
quale risale alla sensazione di un vero e proprio distacco avvertito da molte parti dopo il primo
successo su scala mondiale di Essere e tempo. Lo stesso Heidegger sembrò fornire conferma a
questo senso di distacco, quando, successivamente, parlò della « svolta » e, dopo il nefasto episodio
del suo rettorato, ripartì da un luogo completamente diverso, con le conferenze su Hòlderlin,
sull’opera d’arte e su Nietzsche, destinate al pubblico accademico. Non era del tutto una sorpresa.
Quando Essere e tempo non riuscì a trovare la predisposta continuazione, chiunque poteva già trarre
le proprie conclusioni e chi era ben informato poteva non essere del tutto convinto che quell’appello
all'essere-sempre-mio e all’autenticità dell'esserci, che doveva servire al compito di pensare l’essere
nell’orizzonte del tempo, rappresentasse una base sufficiente per questo grandioso compito. Il
messaggio dell’arte, superiore a qualsiasi volontà di sapere, doveva ora schiudere l’orizzonte. Era in
grado di farlo ?
Non c’era da meravigliarsi che dal gran numero di ammiratori di Heidegger si formasse un numero
non piccolo di delusi, i quali rifiutavano, per i più disparati motivi, di aderire alla svolta. Tra costoro
c’erano i teologi cristiani, che si vedevano defraudati dei fondamenti della loro nuova esegesi
esistenzialistica. Ormai lo Heidegger successivo alla svolta non aveva per nulla l’aria di una
radicalizzazione di Kierkegaard. C’erano poi i difensori della « logica » e della « filosofia della
scienza », che si erano sentiti offesi già da Essere e tempo. Ora si vedevano messi completamente in
imbarazzo dal nuovo tono mistico.
C’erano infine i vecchi fenomenologi, che avevano accettato la fuoriuscita di Heidegger dalla
fondazione ultima di tipo teoretico-coscienziali-stico di Husserl, perché in Essere e tempo la
fenomenologia aveva acquisito un ulteriore nuova dimensione. Adesso però non riuscivano più a
raccapezzarsi e giudicavano tutto ciò una ricaduta in un funesto irrazionalismo. Tanto più quando,
dopo il 1945, apparvero i lavori scritti nel frattempo e Heidegger affascinò di nuovo una intera
generazione di giovani, ai suoi antichi ammiratori sembrò che dopo la « svolta » tutte le regole della
razionalità scientifica fossero gettate a mare e si verificasse una caduta senza speranza nella
mitologia, nella gnosi e nella pseudopoesia. L'ondata di nuovo illuminismo e di ossessione social-
rivoluzionaria, subentrata negli anni sessanta, poteva solo rafforzare questo rifiuto e, in questo
modo, sia in Germania sia, in un’estensione sempre crescente, in tutto il mondo, alle enigmatiche
sentenze heideggeriane poteva essere rifiutata l’accoglienza nell’ambito della scienza. Diversa era
l’accoglienza tra gli artisti e i cercatori di Dio di ogni genere, e in particolare anche nelle culture
extraeuropee che, pur subendo l’influsso dell’illuminismo scientifico europeo, non ne erano
realmente compenetrate. Si formò così una nuova schiera di sostenitori, che alla fine rifiutò ogni
legame con la civiltà scientifica dell’Europa e, in più, proprio come fanno le sette religiose, si
identificò completamente con le visioni dell’ultimo Heidegger.
La raccolta di questi miei brevi lavori è stata realizzata nella coscienza di questa situazione. In
considerazione del fatto che sia il primo sia l’ultimo Heidegger hanno trovato proprio in Italia
un’eco entusiastica, guardo ora con attenzione all’uscita di questa traduzione. Alcuni miei accenni
al fatto che i nuovi tentativi del pensiero heideggeriano fossero scaturiti coerentemente, seppur
arrischiati e indifesi, dall’impostazione di Essere e tempo, possono essere qua e là di aiuto. Va
aggiunto che nel frattempo, grazie alla nuova edizione completa delle sue Opere, diventano via via
sempre più accessibili le lezioni di Heidegger, il cui linguaggio semplice e l’intensa forza di
intuizione aprono nuove vie d’accesso. Di recente questa grande edizione ha reso disponibili anche
alcune lezioni friburghesi del pensatore, che all’epoca era molto giovane e ancora in fase di ricerca.
Nel terzo volume delle mie Opere complete, che uscirà pure entro il 1987, si trovano perciò tre
nuovi lavori, che sono dedicati agli esordi di Heidegger e che, in base al nuovo materiale,
sostengono la tesi che la svolta di Heidegger non fu un abbandono del sentiero imboccato, ma
rappresenta piuttosto un progredire nella direzione delle sue domande più proprie e saggia sentieri
sempre nuovi, anche se forse destinati a finire tutti nel fitto del bosco, privo di sentieri, come gli
Holzwege, i « sentieri interrotti ».
Il mio contributo autonomo ai « sentieri di Heidegger » non intende elaborare di nuovo la sua opera
complessiva, nella misura in cui oggi si presenta. Il mio procedere insieme con il pensiero di
Heidegger vorrebbe favorire, secondo le mie forze, l'appropriarsi di questo pensiero.
L’appropriazione esige certamente molto. Non consiste nella ripetizione, né nell’imitazione dello
stile. Se lo stesso Heidegger, per allontanare il fraintendimento secondo cui egli avrebbe rinvenuto
la grande parola liberatrice dalla indigenza del nostro pensiero, ha voluto usare il titolo: « Sentieri,
non opere » [« Wege, nìcht Werke »], io avrei quasi preferito che egli avesse scritto: « Cenni, non
opere » [« Winke, nicht Werke »]. I sentieri che uno ha già battuto infondono in chi li ripercorre la
fiducia che la meta si trovi in una prossimità sicura. I cenni sono invece dei segnali; seguirli
significa anche rischiare di persona. Proprio questo è necessario per accogliere l’ultima fase del
pensiero di Heidegger. Solo se uno cerca i suoi propri sentieri, troverà aiuto lungo i sentieri di
Heidegger e riceverà da lui l’indicazione della direzione. Alla fine dovranno essere sempre i propri
sentieri, quelli sui quali uno procede.
Ora qui si tratta di una traduzione. In questo caso la situazione è particolarmente difficile. L’ultimo
Heidegger pensa infatti in forma ancora più secca e più chiusa nello spirito della lingua tedesca e
dalla lingua tedesca pretende anche molto. Tutto ciò risulta a malapena ritraducibile. Tuttavia, per il
lettore italiano di Heidegger e della mia descrizione dei suoi sentieri, può non essere così grande la
tentazione di porsi in una sbagliata dipendenza dallo stile di pensiero e dal contegno linguistico di
Heidegger. Il lettore italiano è infatti particolarmente ben preparato, perché sia il primo sia l’ultimo
Heidegger hanno trovato in Italia una recezione notevole e notevolmente autonoma. Possa essere
benvenuto il mio piccolo contributo a un tale libero pensare-insieme.
Heidelberg, settembre 1987
H.-G. GADAMER
PREFAZIONE
Gli studi su Heidegger contenuti nella presente raccolta — si tratta di saggi, conferenze, discorsi —
hanno visto la luce nel corso degli ultimi 25 anni e sono già stati pubblicati separatamente. Il fatto
che tutti questi lavori siano di data relativamente recente non significa che io non abbia cercato di
seguire fin dall’inizio gli impulsi filosofici di Heidegger, nei limiti delle mie possibilità e nella
misura della mia adesione. Grazie a questo impulso, che ho ricevuto da Heidegger fin dalla mia
giovinezza, ho potuto disporre di un criterio al quale dovevo imparare a corrispondere. Era
necessario raggiungere quella distanza che presuppone la conquista di una propria posizione, fino
ad essere in grado di separare il mio procedere con Heidegger sui sentieri di Heidegger dalla mia
ricerca di un autonomo sentiero, per poter infine presentare il sentiero del pensare heideggeriano
come tale.
Questo percorso prese l’avvio con l’invito rivoltomi da Heidegger di scrivere un’introduzione
all’edizione Reclam del suo saggio sull’opera d’arte. In fondo, con tutti i lavori qui raccolti, credo
di non aver fatto altro che continuare ciò che avevo intrapreso con quella introduzione del 1960. In
fin dei conti si trattava di cose che mi appartenevano intimamente. Infatti, quando negli anni Trenta
Heidegger introdusse nel suo pensiero il problema dell’opera d’arte, per me fu come una conferma e
un incoraggiamento a proseguire nei miei sforzi. La breve introduzione del 1960 al saggio
sull’opera d’arte non fu quindi scritta su commissione, non più di quanto io riconoscessi nei sentieri
filosofici di Heidegger gli stessi problemi che avevo cercato di esprimere proprio in Verità e
metodo. Ma anche in tutti i miei saggi successivi su Heidegger ho cercato di rendere visibile il
compito di pensiero cui egli ubbidiva, partendo sempre dalle mie premesse e dalle mie possibilità.
Per me si trattava di mostrare che, specialmente lo Heidegger che dopo Essere e tempo fece
l’esperienza della « svolta », continuava in realtà a camminare sul sentiero che aveva già
incominciato a percorrere
quando intraprese a interrogare retrospettivamente la metafisica fin nei suoi retroscena e a pensare
anticipatamente un avvenire ancora ignoto.
I lavori riuniti in questo volume perseguono fondamentalmente tutti il medesimo scopo: introdurre
cioè al pensiero heideggeriano, tenace e distante da qualsiasi consuetudine di pensiero e di
linguaggio fino a quel momento conosciuta. Questo però significa soprattutto mettere in guardia il
lettore dall’errore di ritenere che il distacco di Heidegger dalla convenzionalità e dalla consuetudine
sia mitologia o gnosi poetizzante. Il fatto che questi studi si concentrino in questo modo su un unico
compito implica che contengono tutti un momento occasionale. Si tratta di variazioni su un unico
tema, che si poneva a un testimone oculare in qualsiasi momento egli cercasse di rendere conto del
pensiero di Martin Heidegger. Dovevo perciò rassegnarmi alle inevitabili ripetizioni.
Il saggio iniziale intende immettere nella situazione storica e culturale che vide gli esordi di
Heidegger. I saggi successivi sono disposti prevalentemente secondo l’ordine cronologico della loro
apparizione, ma in parte anche secondo una loro connessione tematica. La conclusione riproduce il
discorso commemorativo che ho tenuto a Friburgo dopo la scomparsa di Heidegger.
AVVERTENZA
Si indicano, qui di seguito, le sedi di anteriore pubblicazione dei saggi che compongono questo
volume:
1.    Existenzialismus und Existenzpbilosophie, in « Neue Deutsche Hefte », 28 (1981), pp. 675-688.
2.      Martin Heidegger -75 Jahre, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung », 26.9.1964; poi in Kleine
Schriften III. Idee und Sprache, Mohr, Tübingen 1967, pp. 202-211.
3.    Die Marburger Theologie, in Aa. Vv., Zeit und Geschichte. Dankesgabe an Rudolf Bultmann
zum 80. Geburtstag, a c. di E. Dinkler, Mohr, Tübingen 1964, pp. 479-490; poi in Kleine Schriften
I. Philosophiscbe Hermeneutik, Mohr, Tübingen 1967, pp. 82-92 (col titolo: Martin Heidegger und
die Marburger Theologie).
4.    « Was ist Metaphysik? », prima pubblicazione come Prefazione a M. HeiDEGGER, Che cos’è
metafisica?, tr. it. di H. Künkler, A. Martone, G. Raio, Pironti, Napoli 1978-1982, pp. IX-XIII;
prima pubblicazione in tedesco in Heideggers Wege.
5.    Kant und die hermeneutische Wendung, in « Kant-Studien », 66 (1975), pp. 395-403; poi in
Kleine Schriften IV. Variationen, Mohr, Tübingen 1977, pp. 196-204 (col titolo: Kant und die
philosophische Hermeneutik ).
6.    Der Denker Martin Heidegger, in Aa. Vv., Die Frage Martin Heideggers. Bei trage zu einem
Kolloquium mit Heidegger aus Anlass se ine s 80. Geburtstags, a cura di H.G. Gadamer,
Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften (Philosophisch-historische Klasse,
4, 1969), Heidelberg 1969.
7.    Die Sprache der Metaphysik, in Aa. Vv., Natur und Geschichte. Festschrift fur Karl Lowith, a c.
di H. Braun e M. Riedel, Kohlhammer, Stuttgart 1968, pp. 123-131 (col titolo: Anmerkungen zum
Thema « Hegel und Heidegger »); poi in Kleine Schriften III, cit., pp. 212-220 (col titolo:
Heidegger und die Sprache der Metaphysik).
8.    Piato, in Aa. Vv., Der Idealismus und seine Gegenwart. Festschrift fur Werner Marx zum 65.
Geburtstag, a c. di U. Guzzoni e altri, Meiner, Hamburg 1976, pp. 166-175 (col titolo: Plato und
Heidegger).
»
9.    Die Wahrheit des Kunstwerks, in M. HEIDEGGER, Der Ursprung des Kunstwerkes, Reclam,
Stuttgart 1960, pp. 102-125 (col titolo: Zur Einführung ).
10.    Martin Heidegger - 85 Jahre, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung », 28.9.1974 (col titolo:
Nur wer mitgeht, weiss, dass es ein Weg ist. Begegnungen mit Martin Heidegger); poi in
Philosophische Lehrjahre, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977, pp. 210-221.
11.    Der Weg in die Kebre, prima pubblicazione (col titolo Soggettività e intersoggettività nella
prospettiva di Heidegger', tr. it. di P. Tomasi, rivista da V. Verrà) in « Metaphorein », 4 (1978), pp.
31-42; prima pubblicazione in tedesco in Heideggers Wege.
12.    Die Griechen, prima pubblicazione in « Verifiche », 8 (1979), pp. 4-32 (col titolo: Heidegger
und die Griechen).
13.    Die Geschichte der Pbilosopbie, in «The Monist », 64 (1981), pp. 423-433 (col titolo:
Heidegger und die Geschichte der Philosopbie).
14.    Die religióse Dimensión, in «Archives de Philosophie », 34 (1981), pp. 271-286 (col titolo:
Die religiose Dimensión in Heidegger).
15.      Sein Geist Gott, conferenza tenuta a Friburgo per la commemorazione solenne di Martin
Heidegger il 16 dicembre 1976; prima pubblicazione in Aa. Vv., Heidegger. Freiburger
Universitàtsvortrage zu seinem Gedenken, a c. di W. Marx, Alber, Freiburg 1977, pp. 43-62; poi in
Kleine Schriften IV, cit., pp. 74-85.
1. ESISTENZIALISMO E FILOSOFIA DELL’ESISTENZA
(1981)
Nel dibattito filosofico odierno si parla di esistenzialismo come di una cosa ovvia, intendendo con
questo termine svariate cose, certo non prive di un denominatore comune, né di una interna
connessione. Si pensa quindi a Jean-Paul Sartre, ad Albert Camus e a Gabriel Marcel, si pensa a
Martin Heidegger e a Karl Jaspers, forse anche ai teologi Bultmann e Guardini. In verità la parola
esistenzialismo è anzitutto una creazione francese. È stata infatti introdotta da Sartre, che elaborò la
propria filosofia negli anni quaranta, nel periodo dunque in cui Parigi era occupata dai tedeschi,
presentandola successivamente nell’importante libro intitolato L'essere e il nulla. Sartre raccolse
così gli impulsi che aveva ricevuto negli anni trenta durante i suoi studi in Germania. Si può dire
che è stata una particolare costellazione a suscitare il suo interesse per Hegel, per Husserl e per
Heidegger nella stessa misura e nello stesso momento, interesse che lo portò a nuove e produttive
risposte.
Bisogna però rendersi conto che l'impulso tedesco retrostante, collegato in primo luogo al nome di
Heidegger, era in sostanza compieta-mente diverso da ciò che ne ha ricavato Sartre. In Germania, a
quell’epoca, si definiva la cosa con l’espressione « filosofia dell’esistenza ». Nei tardi anni venti il
termine « esistentivo » era addirittura una parola alla moda. Ciò che non era esistentivo non contava
nulla. Erano soprattutto Heidegger e Jaspers a essere conosciuti come rappresentanti di questa
corrente. Tuttavia nessuno dei due si è lasciato qualificare in questo modo con reale convinzione e
approvazione. Dopo la guerra, nella Lettera sull’umanismo, Heidegger ha opposto
all’esistenzialismo di stampo sartriano un rifiuto preciso e dettagliatamente fondato. Jaspers, verso
la metà degli anni trenta, accortosi con sgomento delle conseguenze disastrose di un incontrollato
pathos esistenziale che si smarriva negli isterismi di massa della « sollevazione » nazional-
socialista, si affrettò a porre il concetto di esistentivo per così dire al secondo posto e a restituire alla
ragione il primo. Ragione ed esistenza: così si intitolava una tra le più belle ed efficaci
pubblicazioni di Jaspers degli anni trenta, dove evocava le esistenze eccezionali di Kierkegaard e
Nietzsche e tracciava la sua dottrina dell’onnicomprensivo (Umgreifendes), che racchiude appunto
ragione ed esistenza. Ma cosa infondeva in quel periodo al termine « esistenza » una tale forza d
urto? Certo non luso scolastico consueto e normale della parola « esistere » o « esistenza », come la
si conosce da locuzioni quali per esempio la questione dell'esistenza di Dio o dell’esistenza del
mondo esterno. Era invece una locuzione particolare a conferire al termine « esistenza » il nuovo
carattere concettuale. Questo comunque avveniva in una situazione ben precisa, che deve essere
illustrata. Luso del termine nel nuovo ed enfatico senso risale al pensatore e scrittore danese Soren
Kierkegaard, le cui opere risalgono agli anni quaranta del XIX secolo ma il cui influsso nel mondo e
in particolare in Germania si ebbe solo all’inizio di questo secolo. Un pastore luterano svevo di
nome Christian Schrempf aveva condotto presso l’editore Diederichs una traduzione, molto libera
ma ottimamente leggibile, dell’intera opera di Kierkegaard: la divulgazione di questa versione diede
un grosso contributo al nuovo movimento che in seguito fu definito filosofia dell’esistenza.
La situazione personale di Kierkegaard durante gli anni quaranta del secolo scorso era caratterizzata
dalla critica da lui mossa, dal punto di vista cristiano, all’idealismo speculativo di Hegel. È stato
proprio questo contesto a infondere alla parola « esistenza » il suo specifico pathos. Tuttavia già il
pensiero di Schelling aveva valorizzato a livello concettuale un nuovo momento, stabilendo,
attraverso profonde speculazioni sul rapporto fra Dio e la sua creazione, una differenza in Dio
stesso: Schelling parlava del fondamento in Dio e dell'esistenza in Dio, per svelare nell’assoluto il
radicamento autentico della libertà e per comprendere più profondamente l’essenza della libertà
umana. Kierkegaard riprese questo motivo di pensiero e lo trasferì nel contesto polemico della sua
critica alla dialettica speculativa di Hegel, in cui tutto è mediato e unificato in sintesi.
Era soprattutto la pretesa hegeliana di aver elevato la verità del cristianesimo al concetto pensante e
di aver conciliato definitivamente fede e sapere, a rappresentare per il cristianesimo e in particolare
per le chiese protestanti una sfida raccolta da molte parti. Si pensi per esempio a Feuerbach, Ruge,
Bruno Bauer, David Friedrich Strauss e infine a Marx. Kierkegaard è stato colui che in quegli anni
ha ricavato dal più personale tormento religioso la più profonda comprensione del paradosso della
fede. La sua famosa opera prima recava il provocatorio titolo di Enten-Eller. Essa portava a
espressione programmatica ciò che mancava alla dialettica speculativa di stile hegeliano: e cioè la
decisione aut-aut, sulla quale si dovrebbe fondare in verità l'esistenza umana, e quella cristiana in
particolare. In tale contesto oggi si usa involontariamente la parola « esistenza », come ho fatto
appunto io, con un’enfasi che l'ha completamente staccata dalle sue origini scolastiche. Lo stesso
uso linguistico è noto anche in altra forma, per esempio quando si parla di lotta per resistenza, che
ciascuno deve condurre, oppure quando si dice: « è in gioco l’esistenza ». Sono espressioni di
particolare energia, che certamente sembrano più conformi alla religione dei duri talleri che al
timore e tremore del sentimento cristiano. Ma se uno come Kierkegaard rimproverava con polemico
sarcasmo al più famoso filosofo del suo tempo, a Hegel, il professore assoluto di Berlino, di avere
dimenticato resistere, vi si ritrova il riferimento chiaro ed energico alla situazione umana
fondamentale dello scegliere e del decidere, la cui serietà cristiana e religiosa non dovrebbe essere
confusa e minimizzata dalla riflessione e dalla mediazione dialettica.
Ma come ha potuto questa critica a Hegel, dalla prima metà del XIX secolo rinascere nel nostro?
Per capire il problema bisogna tenere presente il significato che la catastrofe rappresentata dallo
scoppio e dallo svolgimento della prima guerra mondiale ha avuto per la coscienza culturale
dell'umanità europea. La fede nel progresso propria di una società borghese rammollita da un lungo
periodo di pace, una società il cui ottimismo culturale aveva dominato l’età liberale, crollò nelle
tempeste di una guerra che alla fine risultò essere completamente diversa da tutte le precedenti. Non
furono infatti il valore dei singoli o il genio militare a decidere degli eventi bellici, ma la
competizione fra le industrie pesanti delle singole nazioni belligeranti. Gli orrori delle « battaglie di
materiali », nelle quali fu devastata la natura innocente, campi e foreste, villaggi e città, alla fine
non lasciarono spazio, per l’uomo in trincea e nel rifugio, a nessun altro pensiero se non a quello cui
allora diede voce Carl Zuckmayer: « Un giorno, quando tutto sarà finito ».
Le proporzioni di questo folle avvenimento superarono la capacità di comprensione della gioventù
di allora. Sospinti nella battaglia con l’entusiasmo di un idealismo pronto al sacrificio, i giovani si
accorsero ovunque che le antiche forme della rispettabilità cavalleresca, sebbene crudele e
sanguinaria, non trovavano più alcuno spazio. Ciò che rimaneva era un evento insensato e irreale —
e al tempo stesso fondato sull’irrealtà della sovraeccitazione nazionalistica, che era riuscita a
sbaragliare anche l’Internazionale del movimento operaio. Non c’era quindi nulla da meravigliarsi
che in quegli anni le menti più significative si domandassero: cosa c'è di falso in questa fede nella
scienza, in questa fede nell'umanizzazione e nell'incivilimento del mondo; cosa c'è di falso nella
fede nel presunto sviluppo della società verso il progresso e la libertà?
E' naturale che questa profonda crisi della cultura, che aleggiava sulla civiltà europea, dovesse
trovare anche una sua espressione filosofica; ed è naturale che questo accadesse specialmente in
Germania, il cui sovvertimento e il cui collasso erano l'espressione più evidente e più catastrofica
dell'assurdità generale. Ciò che prevalse e che tolse alla filosofia accademia tutta la sua credibilità
fu la critica all'idealismo che dominava la cultura del tempo, basato innanzitutto sulla
sopravvivenza della filosofia kantiana nell'ambito universitario. La coscienza di una completa
mancanza di orientamento dominava la situazione spirituale degli anni attorno al 1918, durante i
quali io stesso cominciavo a guardarmi attorno.
Ci si può quindi ben immaginare come Jaspers e Heidegger, che si erano conosciuti a Friburgo nel
1920 in occasione del sessantesimo compleanno di Edmund Husserl, il fondatore della
fenomenologia, considerassero con atteggiamento distante e critico sia l'attività accademica che li
circondava sia lo stile filosofico scolastico, e si può ben immaginare come si avvicinassero l'uno
all'altro. Nacque allora un’amicizia filosofica — o forse era piuttosto il tentativo di un'amicizia che
non doveva mai riuscire del tutto? Era comunque motivata da una comune opposizione e da una
comune volontà di raggiungere forme di pensiero nuove e più radicali. Jaspers stava appunto
incominciando a delineare la propria posizione filosofica: in un libro, intitolato Psicologia delle
visioni del mondo, aveva tra l'altro concesso un ampio spazio a Kierkegaard. Heidegger reagì nei
confronti di Jaspers con la sua tipica fosca energia — e al tempo stesso lo radicalizzò: scrisse una
lunga discussione critica, che nel frattempo è stata pubblicata ma che allora era rimasta inedita,
della Psicologia delle visioni del mondo, portando Jaspers, con la sua interpretazione, ad audaci ed
estreme conseguenze.
In questo libro Jaspers aveva analizzato le diverse visioni del mondo esaminando numerose figure
rappresentative. La sua tendenza dunque era di mostrare come nella prassi della vita si delineino
differenti itinerari di pensiero, appunto perché la visione del mondo supererebbe l'universalità
vincolante dell'orientazione scientifica nel mondo. Le visioni del mondo sono posizioni della
volontà che si fondano, come diciamo oggi, su decisioni esistenziali. Per mezzo del concetto di
situazione-limite Jaspers descrisse gli elementi che le diverse forme di esistenza hanno in comune,
pur differenziandosi. Per situazioni-limite egli intendeva quelle situazioni il cui carattere di
radicalità dimostra il limite del dominio scientifico del « mondo ». Una situazione-limite è qualcosa
che non si può più comprendere come caso di una legalità universale e in cui non si può più fare
affidamento sul controllo scientifico di processi calcolabili. Una situazione di questo tipo è la morte,
che ciascuno indistintamente deve subire, o la colpa, che ciascuno deve portare, oppure il
complesso del modo di vita personale, in cui ognuno deve realizzarsi come quello che lui è, lui
come unico. E' sensato affermare che sulla base di queste situazioni-limite appare effettivamente
proprio ciò che uno è. Questo manifestarsi, questo uscire dalle reazioni controllabili e calcolabili e
dai modi di comportamento dell’esserci sociale costituisce il concetto di esistenza.
Jaspers fu spinto a tematizzare le situazioni-limite appropriandosi criticamente della scienza e
riconoscendone i limiti. Ebbe la grande fortuna di avere vicino a sé una figura scientifica di levatura
veramente straordinaria, da lui seguita con ammirazione e, alla fine, con domande critiche e
autocritiche: e cioè Max Weber. Questo grande sociologo e poligrafo ha rappresentato, non solo per
Jaspers ma anche per la mia generazione, tutta la grandezza e tutta l’assurdità dell’ascesi
intramondana dello scienziato moderno. La sua incorruttibile coscienza scientifica e il suo impeto
appassionato lo costrinsero a un’autolimitazione addirittura donchisciottesca, che consisteva cioè
nel separare per principio l’uomo che agisce, l’uomo che prende decisioni estreme, dall’ambito
conoscitivo oggettivabile scientificamente, ma allo stesso tempo nel vincolarlo con giuramento
all’obbligo di conoscere, vale a dire all’« etica della responsabilità ». Max Weber divenne così
sostenitore, fondatore e annunciatore di una sociologia libera dai valori.
In verità questo non significava che un erudito incolore ed esangue praticasse qui i suoi giochi di
metodologia e di oggettivazione, ma che un uomo dal temperamento eccezionale e di indomabile
passionalità politica e morale esigesse da sé una tale autolimitazione, pretendendone altrettanta
dagli altri. La cosa più terribile in cui, agli occhi di questo grande studioso, uno potesse smarrirsi,
era la profezia proclamata dalla cattedra. Ora, Max Weber rappresentava per Jaspers un modello che
era contemporaneamente la sua immagine rovesciata, che spingeva Jaspers ad approfondire i limiti
dell'orientazione scientifica nel mondo e a elaborare, se così posso dire, la ragione che eccede questi
limiti. Nella Psicologia delle visioni del mondo e successivamente nei tre volumi della sua opera
principale, intitolata Filosofia, egli presentava, sia pure affidandosi interamente al suo pathos
personale, una impressionante ripetizione filosofica e un dispiegamento concettuale di ciò che
l’enorme figura di Max Weber gli aveva schiuso, sia in positivo che in negativo. La domanda che lo
accompagnava era: come si possono cogliere e misurare nel medium del pensiero l’incorruttibilità
della ricerca scientifica e l’irremovibilità della volontà e dell’animo che egli aveva incontrato nello
slancio esistenziale di Max Weber?
Heidegger proveniva invece da premesse completamente diverse. Non si era formato, a differenza
di Jaspers, nello spirito delle scienze naturali e della medicina, anche se il suo genio, cosa che in
genere non si supporrebbe, gli aveva consentito da giovane di mantenersi al livello accademico
delle scienze della natura. All’esame di laurea aveva portato come materie complementari
matematica e fisica! Ma il suo vero baricentro si trovava altrove: nel mondo storico, soprattutto
nella storia della teologia, da lui praticata intensamente, nella filosofia e nella storia della filosofia.
Allievo del neokantismo di Heinrich Rickert e di Emil Lask, subì poi l’influsso della formidabile
capacità descrittiva della fenomenologia di Edmund Husserl e del maestro prese come modello la
straordinaria tecnica analitica e il concreto sguardo verso le cose. Ma frequentò anche la scuola di
un altro grande maestro: Aristotele. Con lui Heidegger aveva presto familiarizzato, ma chiaramente
l’interpretazione moderna di Aristotele fornita dalla neoscolastica cattolica, la prima interpretazione
da lui conosciuta, gli era apparsa subito, dal punto di vista delle proprie domande religiose e
filosofiche, discutibile quanto ad adeguatezza al suo oggetto. Fu così che, con Aristotele, si trovò a
dover andare di nuovo a scuola, fino ad acquisire una diretta comprensione vivente degli esordi del
pensiero greco e dell'interrogare greco, nei modi di una evidenza immediata e di una semplicità
stringente, che andavano oltre ogni erudizione. Il giovane che lentamente si stava liberando dal suo
ristretto ambiente regionale, allargandolo, si sarebbe confrontato con il clima del nuovo spirito che
nelle tempeste della guerra mondiale cercava impetuosamente di portarsi ad espressione. Bergson,
Simmel, Dilthey, non direttamente Nietzsche ma certo la filosofia al di là dell’orientamento
scientifico del neokantismo, confluirono in lui: così, con tutto l’armamentario dell’erudizione
acquisita ed ereditata e con una innata e profonda passione per l’interrogare, egli diventò il
portavoce autentico del nuovo pensiero che si stava formando nell’ambito della filosofia.
Certamente Heidegger non era il solo. La reazione all’evanescente idealismo culturale dell’epoca
prebellica si sviluppava in molti campi. Si pensi alla teologia dialettica, che con Karl Barth
problematizzò nuovamente il discorso di Dio e che con Franz Overbeck respinse il tranquillo
compromesso, espresso dalla teologia liberale, fra annuncio cristiano e ricerca storica. Si pensi poi
in generale alla critica dell’idealismo, coincidente con la riscoperta di Kierkegaard.
Si avvertivano però anche altre crisi, in tutta la vita scientifica e culturale. Ricordo che apparve
allora il carteggio di Van Gogh e che Heidegger amava citare proprio Van Gogh. Un ruolo
importante giocò in quel periodo anche l'acquisizione di Dostoevskij: la radicalità della sua
rappresentazione dell’uomo, la passionalità del suo porre in questione la società e il progresso,
l’incantesimo suggestivo e l’intensa raffigurazione delle ossessioni umane e dei labirinti della
psiche - e si potrebbe continuare all’infinito, mostrando come l’idea filosofica che si era condensata
nel concetto di esistenza esprimeva una nuova coscienza del proprio essere esposti, un diffuso
sentimento dell’esistenza. Si pensi anche alla poesia contemporanea, si pensi al balbettio della
parola espressionistica o agli audaci esordi della pittura moderna, che allora reclamavano una
risposta. Si pensi all’effetto addirittura rivoluzionario che Il tramonto dell’Occidente di Oswald
Spengler esercitò sugli animi. C’era dunque per così dire qualcosa nell’aria e parlava il linguaggio
del momento, quando Heidegger, radicalizzando le idee di Jaspers, focalizzò di nuovo l’esistenza
umana in generale, a partire dal suo carattere di
situazione-limite.
In verità erano due punti di partenza e due impulsi di pensiero del tutto differenti, quelli da cui
mossero Jaspers da un lato e Heidegger dall’altro per elevare al concetto filosofico la sensibilità,
che in quegli anni affiorava, verso l’esistenza. Jaspers fu psichiatra e, come è risaputo, lettore
straordinario e completo. Quando, come suo successore, giunsi a Heidelberg, mi mostrarono nella
Libreria Koester il tavolo al quale Jaspers trascorreva ogni venerdì pomeriggio, puntualmente, tre
ore, facendosi mostrare tutte le novità, non senza ordinare ogni settimana un voluminoso pacco di
libri che gli veniva recapitato a casa. Con il fiuto sicuro di uno spirito illustre e di un esperto
osservatore critico, egli trovava il proprio nutrimento in tutto il vasto territorio della ricerca
scientifica di qualche significato dal punto di vista filosofico. Alla consapevolezza di tenere il passo
della ricerca reale riusciva a coniugare anche la coscienza, o meglio: la coscienziosità del proprio
pensiero. Ne ricavava l’idea che la ricerca debba sottostare a limiti invalicabili quali l’individualità
dell’esistenza e l’impegno delle decisioni.
In sostanza Jaspers sviluppò nuovamente, applicandola alla situazione del nostro tempo, l’antica
distinzione kantiana che aveva tracciato in senso critico i confini della ragione teoretica e fondato
nella
ragione pratica e nelle sue implicazioni il regno autentico delle verità filosofico-metafisiche.
Anch’egli contribuì a rifondare la possibilità della metafisica, collegando la grande tradizione della
storia occidentale, la sua metafisica, la sua arte e la sua religione, all’appello che richiamava
l’esistenza umana a prendere coscienza della sua finitezza, del suo essere-esposta nelle situazioni-
limite e del suo essere affidata alle proprie decisioni esistenziali. Nei tre voluminosi tomi,
Orientazione filosofica nel mondo, Chiarificazione dell'esistenza e Metafisica egli disegnò l’intero
ambito della filosofia attraverso meditazioni di tonalità personale ed eleganza stilistica
incomparabili. Un capitolo si intitola « La legge del giorno e la passione per la notte »: sono toni a
cui in verità non si era abituati, almeno non a sentirli da una cattedra filosofica nell’epoca della
gnoseologia. Ma anche l’ampio inventario del presente, esposto da Jaspers nel 1930 con il titolo La
situazione spirituale del tempo come volume 1000 della Collezione Goschen, affascinava per
pregnanza e capacità di osservazione. Quando ero studente si diceva di lui che nel condurre le
discussioni fosse di una superiorità sovrana. Lo stile delle sue lezioni dava invece l’impressione
quasi di una conversazione non impegnativa, di un colloquio spontaneo con un anonimo
interlocutore. Più tardi, quando dopo la guerra si era trasferito a Basilea, osservava gli eventi con
atteggiamento da moralista, indirizzando il suo appello esistentivo alla coscienza pubblica e
prendendo posizione, con argomenti filosofici, nei confronti di problemi così controversi quali la
colpa collettiva o la bomba atomica. Tutto il suo pensiero era come un trasferimento di esperienze
estremamente personali sulla scena comunicativa.
Del tutto diversi furono la comparsa e l’atteggiamento del giovane Heidegger: un contegno
addirittura drammatico, un impeto nella dizione, una tale concentrazione nel discorso che tutti gli
ascoltatori cadevano in preda al suo fascino. Questo maestro di filosofia non aveva alcuna
intenzione di fare appelli morali all’autenticità dell’esistenza. Certo, condivideva questo appello e
molta della sua quasi magica efficacia proveniva dalla forza appellativa del suo temperamento e del
suo discorso. Ma la sua intenzione vera e propria era un’altra. Come dire? Il suo interrogare
filosofico nasceva certamente dal desiderio di chiarire la profonda inquietudine a cui lo aveva
condotto l’interpellare religioso, e che rappresentava un’insoddisfazione tanto verso la teologia
quanto verso la filosofia contemporanea. Fin dall’inizio Heidegger mirò a un impegno di pensiero
completamente diverso, radicale e riferito all’esistenza: di qui tutto il suo impeto rivoluzionario. La
domanda che lo turbava e nella quale poneva tutto il tormentato sentimento di sé di quegli anni, era
la più antica e la più importante della metafisica: la domanda sull'essere, la domanda su come
questo esserci umano finito, effimero, sicuro di morire, possa comprendersi, malgrado la
temporalità che gli è propria, nel suo essere e cioè come un essere che non è una privazione, una
mancanza, un semplice e fuggevole pellegrinaggio compiuto dall’abitante della terra attraverso
questa vita per partecipare all'eternità del divino, ma che è esperito come la prerogativa del suo
essere uomo. Sorprende come molti contemporanei di Heidegger non abbiano affatto compreso, al
suo primo apparire, l'intento fondamentale del suo interrogare nella sua direzione filosofica, che
presupponeva un dialogo continuo con la metafisica, con il pensiero dei Greci e con quello di
Tommaso, di Leibniz, di Kant e di Hegel. Anche l'amicizia fra lui e Jaspers si fondava certamente
assai più sul loro comune rifiuto dell'insegnamento accademico tradizionale, dell'affaccendarsi nella
« chiacchiera » e nella responsabilità anonima. Infatti, quando il loro rispettivo pensiero cominciò a
esprimersi in modo più forte, si manifestarono in forma sempre più acuta le tensioni fra
Patteggiamento intellettuale del tutto personalizzato di Jaspers e il compito del « pensare », dedito
completamente alla « cosa » da pensare, di cui si faceva carico Heidegger. Contro tutte le
solidificazioni del pensiero, Jaspers usava spesso l’espressione critica della « gabbia » in cui il
pensiero si immobilizza, non esitando a mettere in campo quella locuzione anche contro la ripresa
heideggeriana della questione dell’essere: in questo senso Heidegger ha rappresentato per Jaspers
una sfida contro la quale ha lottato per tutta la vita. Tutto ciò è documentato con efficacia dalla
recente pubblicazione dei suoi Appunti su Heidegger1.
Ora, è vero che Essere e tempo, la prima grande opera di Heidegger, presentava due aspetti molto
diversi tra loro. Il suo effetto rivoluzionario era suscitato dal timbro della critica del proprio tempo e
dall’impegno esistentivo, espressi nella terminologia da seguace di Kierkegaard. D’altra parte
Heidegger si ispirava allora all’idealismo fenomenologico di Husserl in forma già così ampia da
rendere comprensibile la resistenza di Jaspers. Il suo successivo itinerario di pensiero lo condusse in
verità oltre qualsiasi dogmatica « gabbia ». Egli ha anche parlato della « svolta » verificatasi nel suo
pensiero: questo pensiero infatti fece saltare ogni misura accademica, a partire da quando Heidegger
cercò per esso un nuovo linguaggio, tematizzando Parte, interpretando Hòlderlin e analizzando
criticamente l’estrema figura di pensiero rappresen-
tata da Nietzsche. Non ha mai preteso di annunciare una nuova dottrina: quando, sotto le sue
personali disposizioni, i suoi scritti cominciarono ad essere pubblicati in edizione completa, assegnò
ad essa il seguente motto: « sentieri, non opere ». In effetti la sua opera tarda rappresenta sentieri
sempre nuovi e sempre nuovi tentativi di pensiero. Aveva iniziato a percorrere queste vie molti anni
prima di impegnarsi politicamente e, dopo il breve episodio del suo « erramento » politico, le
riprese proseguendole senza rottura visibile nella direzione che aveva intrapreso già in precedenza.
Di sicuro il fatto più sorprendente nel grande influsso esercitato da Heidegger è stato che negli anni
venti e nei primi anni trenta, prima di cadere in disgrazia politica, riusciva a generare un entusiasmo
incredibile tra i suoi ascoltatori e lettori, e che dopo la guerra questo influsso si ripresentò
nuovamente. E questo accadeva dopo un periodo di vita relativamente ritirata. Durante la guerra
non aveva potuto pubblicare nulla perché, dopo essere caduto in disgrazia, non gli veniva concesso
alcuno spazio, mentre dopo la guerra non poté insegnare perché sospeso in quanto ex rettore
nazista. E tuttavia, negli anni in cui si ricostruiva la vita materiale e spirituale della Germania, la sua
presenza fu di nuovo avvertita con una intensità addirittura travolgente. Non come docente: infatti
parlava solo poco e di rado davanti agli studenti. Ma con le sue conferenze e con le sue
pubblicazioni avvinse ancora una volta un’intera generazione nel suo incantesimo. Era addirittura
pericoloso — e poneva gli organizzatori di fronte a problemi quasi insolubili — quando Heidegger
annunciava da qualche parte una delle sue criptiche conferenze. Allora, negli anni cinquanta,
nessuna sala era abbastanza grande. L’eccitazione che prorompeva in questo pensiero si comunicava
a tutti, anche a quelli che non lo comprendevano. Una cosa è certa: ciò che egli dava ad udire nella
profondità delle sue ultime speculazioni o nel pathos solenne delle sue interpretazioni dei poeti
(Hòlderlin, George, Rilke, Trakl, ecc.) non poteva più essere definito filosofia dell’esistenza. La già
citata Lettera sull'umanismo rappresentava un rifiuto ufficiale dell'irrazionalismo del pathos
esistenziale, che un tempo aveva accompagnato la drammatica efficacia del suo pensiero, senza
però essere mai il suo vero proposito. Quello che egli vedeva all’opera nell'esistenzialismo francese
gli era distante. La Lettera sull'umanismo parla un linguaggio chiaro. In essa i lettori francesi di
Heidegger, e certamente anche Jaspers, avvertirono la mancanza del tema dell’etica. Heidegger però
si oppose a questa pretesa e a questa esigenza. Non perché sottovalutasse la questione dell’etica o la
costituzione sociale dell’esserci, ma perché il compito del pensiero cui doveva corrispondere lo
costringeva a domande più radicali. « Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza deciso
l'essenza dell agire »: così suona la prima fase della lettera. Il suo significato, nell’epoca
dell’utilitarismo sociale e completamente « al di là del bene e del male », è chiaro: il compito del
pensatore non può consistere nel rincorrere, con il dito ammonitore alzato, come un dogmatico,
vincoli che si sciolgono e solidarietà che si indeboliscono. Il suo compito è piuttosto di pensare ciò
che sta a fondamento di queste dissoluzioni prodotte dalla rivoluzione industriale e di richiamare a
sé il pensiero, decaduto a calcolare e a fare.
La stessa cosa accade per l’asserita mancanza in Heidegger dei problemi sociali del « noi », cioè di
quello che in filosofia è conosciuto come problema dell’intersoggettività. Heidegger invece ha
scoperto per primo, criticandolo ontologicamente, il pregiudizio inerente al concetto di soggetto,
accogliendo così nel proprio pensiero la critica della coscienza sviluppata da Marx, Nietzsche e
Freud. Ma ciò significa: l'esserci è co-originariamente con-esserci e « con-esserci » non significa
l'essere-insieme di due soggetti, ma un modo originario dell’essere-noi, un modo che non completa
l’io tramite un tu, ma racchiude una comunanza primaria, che certo non si accontenta di essere
pensata alla maniera hegeliana, cioè come « spirito ». « Solo un dio può salvarci ».
Domandiamoci infine: cosa è vivo e cosa è morto nel pensiero di quest uomo? Il presente deve
sempre rivolgere questa domanda alle voci del passato. È vero, il sentimento della vita delle giovani
generazioni, quelle comparse sulla scena spirituale a partire dagli anni sessanta, è caratterizzato da
un nuovo pathos del disincanto, da una nuova propensione per l'accertamento e il controllo tecnico,
da una tendenza a evitare i rischi e le incertezze. Il pathos esistenziale suona loro così estraneo
come quello del grande gesto poetico di Hòlderlin o di Rilke: la latenza della figura ideale della
cosiddetta filosofia dell’esistenza è oggi quasi assoluta. La raffinata struttura dei movimenti della
riflessione di Jaspers e il suo personale pathos possono comunque incontrare difficoltà
nell’esercitare il loro influsso nell’epoca dell’esistenza di massa e della solidarietà emotiva.
Heidegger invece, nonostante tutto, rimane presente in un modo che lascia sempre sorpresi. E cioè:
viene preso in considerazione per lo più con un senso di « meditato » rifiuto — oppure celebrato in
forme di ripetizione quasi rituali, ma questo dimostra proprio che non si può passare davanti a lui
così facilmente. La sua presenza infatti non dipende tanto dal pathos esistenziale dei suoi esordi,
quanto dalla costante perseveranza con la quale questo genio naturale del pensiero continuò a
sviluppare le proprie domande filosofiche e religiose, spinte spesso, nella loro singolare forma
espressiva, fino all’incomprensibilità e tuttavia sempre all'insegna inconfondibile della genuinità di
un coinvolgimento pensante. Se si vuole scoprire realmente la presenza di Heidegger, bisogna
pensare su scala mondiale. Sia negli Stati Uniti che in Estremo Oriente, sia in India che in Africa o
in America Latina, dovunque si può percepire l’impulso di pensiero da lui emanato. Il destino
globale della tecnicizzazione e dell'industrializzazione ha trovato in lui il proprio pensatore, ma al
tempo stesso la molteplicità e la polifonia del patrimonio del genere umano, che è riposto nel
colloquio planetario del futuro, hanno acquistato grazie a Heidegger una nuova presenza.
Concludendo possiamo quindi dire: la grandezza delle figure spirituali si misura proprio in base alla
loro capacità di superare, mediante le idee che esprimono, la resistenza e la distanza stilistica che le
separa dal presente. Non la filosofia dell'esistenza, ma gli uomini che sono passati attraverso la fase
del pathos esistenziale, superandola, sono tra i partner del dialogo filosofico, che non è certo nato
ieri, ma continuerà anche domani e dopodomani.
1 K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger Piper, München 1978 (N.d.T.).
2. I 75 ANNI DI MARTIN HEIDEGGER
(1964)
Il 26 settembre 1964 Martin Heidegger ha compiuto 75 anni. Quando un uomo, che già da giovane
aveva ottenuto fama mondiale, raggiunge una simile età biblica, il corso del tempo si misura su di
lui. E quasi mezzo secolo da quando è iniziata l’attività di questo grande spirito. Come accade di
solito nel ritmo delle epoche, anche nel caso di Heidegger l’impulso rivoluzionario che da lui
emanava è sprofondato sotto la superficie della coscienza. Nuove tendenze della coscienza della
nostra epoca salgono sulla scena e si oppongono alla potenza e al diffuso influsso di uno spirito che
un tempo dominava ovunque. L’effetto di stimolo da lui emanato raggiunge ora una sensibilità
sempre più ottusa, pronta a reagire in un’altra direzione, una sensibilità alla quale la parola un
tempo più viva appare manieristica, artefatta e irrigidita. Così va di solito. Così l’elemento spirituale
è solito scomparire, per rinascere forse un giorno e parlare nuovamente in un mondo trasformato.
Quanto più ci addentriamo nella seconda metà del nostro secolo, tanto più chiaramente si forma una
coscienza epocale che separa con un taglio netto il proprio presente, e ciò che per esso è valido, da
quel passato. L’intero pianeta è afferrato da una nuova fase della rivoluzione industriale, introdotta
dalla scoperta, gravida di futuro e tuttavia per esso minacciosa, dell’energia atomica da parte della
fisica moderna. Lo spirito del nostro tempo è determinato da regolamentazioni razionali in politica e
in economia, nella vita in comune degli uomini, dei popoli, dei grandi gruppi politici di potere che
affollano il panorama attuale. Attese e speranze di coloro che oggi sono giovani non si dirigono
verso l’indefinito, lo smisurato o l’immenso, bensì verso il corretto funzionamento di
un’amministrazione razionale del mondo. Piatta progettazione, freddo calcolo, osservazione
oggettiva: tutto ciò esercita anche sulle forme espressive spirituali del nostro tempo una pressione
stilistica costante ed efficace, al punto da bandire la profondità speculativa, l'oscuro linguaggio
oracolare, il pathos profetico, tutte cose che un tempo avvolgevano i cuori nel loro incantesimo.
Nella filosofia questo fatto si rivela nella crescente tendenza alla chiarezza logica, alla precisione e
alla verificabilità di tutti gli enunciati. Ancora una volta una fede incondizionata nella scienza, sia
nel segno dell’ateismo marxista, sia nel segno del perfezionismo tecnico del mondo occidentale,
interroga la filosofia circa la sua legittimità di esistenza.
Bisogna prendere coscienza di ciò, se non si vuole intendere l'opera di Martin Heidegger
semplicemente dal punto di vista storico, cioè come un movimento di pensiero, appartenente al
passato più recente, che diventa a poco a poco sempre più estraneo. Allora si potrà comprendere
quest’opera nella sua prossimità al presente, o meglio: come una domanda rivolta al presente. In
verità il perfezionismo tecnico della nostra epoca rappresenta in così scarsa misura una
controistanza rispetto alla filosofia di Heidegger, da essere pensato invece da quest’ultima con una
conseguenza e radicalità che non hanno uguali nella filosofia accademica del nostro secolo.
Certamente, molto, sia nel giovane che nell ultimo Heidegger, suona come critica della civiltà.
Questo è senz’altro uno dei più curiosi fenomeni che accompagnano l’epoca della tecnica: la
coscienza del progresso viene rimessa in discussione dalle proteste per il livellamento,
l’uniformazione, l’appiattimento, che abbraccerebbero l’intera vita. La critica della civiltà
attribuisce alla civiltà presente la perdita di libertà e la soppressione della libertà, dimostrando però
con la propria esistenza esattamente il contrario. In Heidegger invece è presente una certa
ambivalenza. La sua acuta e feroce critica al « si », alla « curiosità » e alla « chiacchiera », dunque
alla sfera pubblica (Öffentlichkeit) e alla medietà in cui si trova « innanzitutto e per lo più » l'esserci
umano, era da sempre solo un accento secondario (anche se certamente non può essere ignorato). Il
suo suono così penetrante ha probabilmente coperto, almeno in un primo momento, il tono
fondamentale, il tema generale del pensiero heideggeriano. Ma il suo compito gli imponeva di
pensare la coappartenenza di autenticità e inautenticità, di essenza e inessenzialità, verità ed errore.
In realtà Heidegger non può essere inserito nella schiera dei critici romanticheggianti della tecnica
— egli cerca di coglierne l’essenza, anzi di pensarla anticipatamente, perché cerca di pensare ciò
che è.
Chi ha conosciuto il giovane Heidegger troverà conferma di questo perfino nel suo aspetto esteriore.
Il suo aspetto non corrispondeva proprio per nulla all’immagine che ci si faceva di un filosofo.
Ricordo come lo conobbi per la prima volta, nella primavera del 1923. Già quando mi trovavo
ancora a Marburgo, mi aveva raggiunto l’eco di ciò che si mormorava in tutto l’ambiente
accademico, e cioè che a Friburgo era comparso un giovane genio: documenti, ricopiati o riassunti,
dell’originale modo di esprimersi dell’allora assistente di Husserl venivano passati di mano in
mano. Stavo dunque cercandolo nel suo studio all’Università di Friburgo. Proprio mentre svoltavo il
corridoio, vidi qualcuno che usciva dalla sua stanza, accompagnato fino alla porta da un’altra
persona, un uomo basso di statura e scuro di capelli; aspettai dunque pazientemente, perché pensavo
che ci fosse ancora qualcun altro là dentro con Heidegger. Ma quest’altro era Heidegger stesso.
Certamente un altro rispetto a coloro che finora avevo conosciuto come professori di filosofia. A me
sembrava più un ingegnere, un tecnico: conciso, oggettivo, riservato, dall’energia concentrata e
privo di quella versatile raffinatezza propria dell'homo literatus.
Tuttavia, volendo rimanere all’elemento fisiognomico, il primo incontro con il lampo dei suoi occhi
rivelava all’interlocutore chi era e rivela ancora oggi chi è: uno che sa vedere. Un pensatore che
vede. In effetti questo aspetto costituisce, secondo me, l’unicità di Heidegger tra tutti i maestri
filosofici del nostro tempo: le cose che egli presenta in un linguaggio estremamente originale, che
spesso disattende tutte le aspettative « colte », devono sempre essere viste in forma intuitiva. Questo
non accade solo in evocazioni istantanee, che sono esito della parola felice e provocano uno
sfuggente balenare della visione: l’intera analisi concettuale esposta non procede in senso
argomentativo da un’idea all’altra, ma giunge dalle più diverse parti sempre allo stesso luogo,
conferendo per così dire plasticità alla descrizione concettuale, conferendole dunque la terza
dimensione del reale tangibile.
Che conoscenza sia in primo luogo intuizione, che essa trovi cioè il proprio riempimento nella
visione in grado di abbracciare la cosa con uno sguardo, questa era la dottrina fondamentale della
fenomenologia di Husserl. La percezione sensibile, il cui oggetto le sta davanti agli occhi con la sua
corposa datità, rappresenta il modello in base a cui bisogna pensare anche qualsiasi conoscenza
ottenuta tramite concetti. Si tratta del riempimento intuitivo dell’oggetto intenzionale. In effetti
l’onesto artigianato filosofico di Husserl aveva già insegnato l’arte della descrizione, un’arte che
con pazienza, differenziandolo dalle più svariate parti, confrontandolo, variandolo, portava il
fenomeno intenzionato a una rappresentazione globale, con una tecnica di tratteggio da grande
maestro. Sembrava qualcosa di nuovo quello che allora veniva introdotto dal metodo di lavoro
fenomenologico di Husserl, qualcosa di nuovo perché tentava di riacquisire con nuovi mezzi un
elemento antico dimenticato (e disimparato). Non c’è dubbio che le età gloriose del filosofare, per
esempio l’Atene del quarto secolo o Jena tra il Settecento e l’inizio dell’Ottocento, avevano saputo
congiungere i concetti filosofici con la pienezza dell’intuizione e risvegliarla nell ascoltatore o nel
lettore. Quando Heidegger, sulla cattedra, esponeva i suoi pensieri preparati fin nei minimi
particolari e, al momento della lezione, li presentava in forma vivente, alzando ripetutamente lo
sguardo e rivolgendolo di lato verso la finestra, egli allora vedeva ciò che pensava — e faceva
vedere. Husserl aveva pienamente ragione quando, in quegli anni immediatamente successivi alla
prima guerra mondiale, interrogato riguardo alla fenomenologia, soleva rispondere: « La
fenomenologia, siamo io e Heidegger ».
Non credo che Husserl, seguendo una consuetudine borghese, abbia detto « Heidegger e io ».
Sentiva troppo il suo compito con rigore missionario. Inoltre può darsi che sia sorto abbastanza
presto in lui, nel corso degli anni Venti, il presentimento che il suo allievo, Heidegger, non poteva
diventare collaboratore e continuatore del paziente lavoro di pensiero di tutta la sua vita. La rapida
ascesa di Heidegger, il fascino ineguagliabile che egli esercitava, il suo temperamento impetuoso,
dovevano essere guardati con sospetto da Husserl, uomo paziente, analogamente al modo in cui gli
era sempre stato sospetto il vulcanico fuoco di Max Scheler. In effetti l’allievo di questa magistrale
arte del pensiero era completamente diverso dal maestro, era assillato dalle grandi domande e dalle
cose ultime, scosso fin nelle estreme fibre della sua esistenza, assalito da Dio e morte, da essere e
nulla, e chiamato al compito di pensiero della sua vita. Le domande che incalzavano una
generazione turbata, sconvolta nella sua tradizione formativa, nel suo orgoglio culturale, paralizzata
dagli orrori causati dalle « battaglie di materiali » della prima guerra mondiale, erano anche le sue
domande.
In quel tempo era appena apparso il carteggio di Van Gogh, il cui furore pittorico corrispondeva al
sentimento della vita proprio di quegli anni. Passi di queste lettere si trovavano sotto il calamaio
della scrivania di Heidegger, che ogni tanto li citava a lezione. Eravamo turbati anche dai romanzi
di Dostoevskij. I volumi rossi di Piper luccicavano come segnali di fuoco su tutte le scrivanie. Nelle
lezioni del giovane Heidegger si avvertiva lo stesso tormento: questo costituiva la loro
incomparabile forza di suggestione. Nel vortice delle domande radicali che Heidegger poneva, che
gli si ponevano, alle quali egli si esponeva, sembrava che la frattura aperta da un secolo tra la
filosofia accademica e il bisogno di una visione del mondo venisse a ricomporsi.
Di nuovo è un elemento esteriore dell’aspetto di Heidegger a svelarne uno estremamente intimo: la
sua voce, questa voce che nei suoi registri bassi un tempo era molto energica e molto sonora, nei
toni alti sembrava, nell’eccitazione del discorso, stranamente compressa e, senza essere troppo
forte, affaticata. Sembrava sempre sul punto di precipitare, di cadere nel falsetto, angosciante e, a
sua volta, angosciata. Poiché chiaramente non si trattava di una carenza nella tecnica respiratoria e
vocale del suo linguaggio, ciò che lo spingeva a questo modo fino al limite massimo e al confine
estremo della parola, sembrava piuttosto una spinta fino all’ultimo limite e all'estremo confine del
pensiero, una spinta che gli toglieva in questo caso il fiato e la voce.
Oggi, da quanto ho saputo, la sua voce e la sua inconfondibile maniera di parlare possono essere
ascoltate su dischi. Posso certamente capire che, per chi ha la possibilità di ascoltare in questo modo
la voce dell’autore, la parola scritta acquisti una intera nuova dimensione e grazie a ciò ne venga
facilitato l’intendimento pensante. Tuttavia mi si perdonerà, come uomo anziano che ha conosciuto
l’emozionante realtà del discorso heideggeriano, se la riproducibilità tecnica dell’avventura di
pensiero che vi si esprimeva mi appare come un processo di mummificazione alla maniera egiziana.
Nella mummia del pensiero non c’è vita. Ma nel pensiero di Heidegger c’era e c’è tuttora vita. Vita
significa tentativo e tentazione, avventura, sentiero. Mi sembra che uno tra i più strani paradossi
dell’influenza esercitata dal pensiero heideggeriano consista nel fatto che a lui sia dedicata una
marea costantemente crescente di rappresentazioni che, spesso con scrupolosa acribia, cercano di
portare ordine nel pensiero di Heidegger e di ricostruirne sistematicamente la « dottrina », e questo
può accadere sia nell’intento onesto di comprenderlo sia in quello di rifiutarlo, in forma esasperata o
esitante. Scrivere la summa del suo pensiero mi pare sia non solo inutile, ma addirittura dannoso.
Da quando, nel 1927, Essere e tempo ha posto un problema e ha introdotto ad esso, tutti i lavori
successivi di Heidegger non possono più essere rapportati in generale a un piano unitario. Essi
appartengono a piani sempre diversi. Sono come una salita continua, in cui ogni vista e ogni
panorama si spostano in continuazione, una salita in cui spesso ci si può smarrire e in cui ci si deve
salvare dallo smarrimento riportandosi sul terreno concreto dell’intuizione fenomenologica, per
prepararsi ancora a una nuova ascesa.
Forza di intuizione fenomenologica — si è soliti riconoscere che per esempio l’analisi del mondo
sviluppata in Essere e tempo rappresenta un capolavoro di analisi fenomenologica, mentre si ritiene
che gli scritti posteriori si impiglino in trame sempre più indimostrabili di mitologia concettuale.
C’è qualcosa di vero in ciò, nella misura in cui tutti questi scritti sono testimonianza di una povertà
linguistica, che spesso costringe ad afferrare strumenti di salvezza che sembrano disperati. Ci si
dovrà però ben guardare dal credere che ciò provi resistenza in Heidegger di una diminuzione della
forza fenomenologica. Per correggersi immediatamente si legga almeno una volta il capitolo su
affetto, passione e sentimento dell'opera su Nietzsche. Invece bisogna chiedersi piuttosto: perché la
forza di intuizione fenomenologica di Heidegger, la cui integrità rappresenta fino ai giorni nostri la
sorprendente esperienza di qualsiasi incontro con Heidegger, non è più sufficiente? In quale
compito egli si è imbattuto? In mezzo a quale povertà egli cerca di trovare salvezza?
I suoi critici usano dire che il suo pensiero, dopo la cosiddetta « svolta » (Kehre), avrebbe perduto il
terreno sotto i piedi. Essere e tempo avrebbe costituito una grandiosa liberazione, grazie a cui si
sarebbe esortato all’« autenticità » dell’Esserci e l’attività del pensiero filosofico sarebbe stata
investita da una nuova intensità e responsabilità. Ma dopo la « svolta », che abbraccerebbe anche
l’insensatezza del suo orribile smarrimento politico in ambizioni di potere e nelle manovre del
Terzo Reich, egli non avrebbe più parlato di cose che devono essere mostrate, ma si sarebbe
espresso come un iniziato ai misteri del suo Dio: dell’« essere ». Un mitologo e uno gnostico, che si
esprime come un saggio, senza sapere quello che dice. L’essere si nasconde. L’essere è presente. Il
nulla nullifica (das Nichts nichtet). Il linguaggio parla. Che tipo di esseri (Wesen) agiscono qui?
Sono nomi, pseudonimi di qualcosa di divino? È un teologo che parla qui? Oppure no: un profeta,
che predice l’avvento dell’essere? E con quale legittimità? Dov e, in questi discorsi indimostrabili,
la scrupolosità del pensiero?
Ci si pongono queste domande e probabilmente non si vede che tutte queste espressioni di
Heidegger parlano per antitesi. Vengono contrapposte con provocatoria incisività a una determinata
consuetudine di pensiero che sostiene: è la spontaneità del nostro pensiero che « pone » qualcosa
come essente, che nega qualcosa, che « conia » una parola. La famosa « svolta », di cui parla
Heidegger per sottolineare l’inadeguatezza della propria autocomprensione trascendentale in Essere
e tempo, è tutt’altro che rovesciamento di una consuetudine di pensare che sia scaturito a suo
piacimento, prodotto grazie a una libera decisione, ma è qualcosa che gli è accaduta. Non
un’illuminazione mistica, bensì una semplice « cosa » (Sache) del pensare, qualcosa di così
semplice e plausibile come può appunto accadere a un pensiero che osa spingersi fino ai margini.
Occorre perciò riattualizzare, in un proprio atto originale, la « cosa » del pensare che ha avvinto
Heidegger.
Nella « svolta » si parte dall’essere, anziché dalla coscienza che lo pensa o dall'esserci per il quale
ne va del suo essere, che si comprende in base al suo essere e che del suo essere ha cura. In Essere e
tempo, Heidegger non aveva posto in maniera completa il problema dell’essere, bensì l’aveva
soltanto preparato. Ora, dopo il 1930, egli parla della « svolta ». Ne parla pubblicamente per la
prima volta dopo la seconda guerra mondiale nella Lettera sull’umanismo, forse il suo scritto più
bello, perché il più soffice, quello che maggiormente pensa a un tu. A dire il vero lo aveva già
preceduto una serie di interpretazioni di Hölderlin, che attestavano indirettamente che il suo
pensiero era alla ricerca di un linguaggio adeguato alle sue nuove idee. Infatti queste interpretazioni
delle ardue poesie o parole hölderliniane erano identificazioni. È una ben misera fatica stare a
calcolare gli arbìtri per mezzo dei quali si realizzano tali identificazioni. L'esito di un simile calcolo
non può che essere scontato se si segue il pensiero di Heidegger: e cioè egli riesce a sentire solo ciò
che viene incontro al suo compito, solo ciò che gli risuona incontro, ciò che promette risposta alla
sua domanda, proprio come uno che è posseduto dalla propria « cosa ». Molto sorprendente è
piuttosto che in questo caso l’opera di Hölderlin contenga, per un pensatore, una tale attualità da
spingerlo a tentare di pensarla come se fosse una cosa che gli appartenga, pensandola secondo il
proprio criterio. Dai tempi di Hellingrath, nessun incontro con Hölderlin mi sembra eguagliare in
intensità, e quindi anche in forza aprente, nonostante tutte le alterazioni e le distorsioni, quello di
Heidegger. In realtà deve essere stata per Heidegger una liberazione, come uno sciogliersi della sua
lingua, se ora, come interprete di Hölderlin, poteva cercare nuove vie del pensiero, parlando di cielo
e terra, di mortali e divini, di congedo e avvento, di deserto e terra natia (Heimat), come di qualcosa
di pensato e da pensare. Quando poi apparvero le conferenze su L'origine dell'opera d’arte, già
ascoltate da molti nel 1936 a Friburgo, Zurigo e Francoforte, c’era in effetti un nuovo tono cui
bisognava prestare attenzione. Il termine « Terra » (Erde) dava all essere dell’opera d’arte una
determinazione concettuale che dimostrava come le interpretazioni heideggeriane di Hölderlin
(come del resto queste conferenze) fossero tappe del suo itinerario di pensiero.
Da dove veniva questo sentiero? Dove andava? Era un sentiero interrotto? Oppure portava a una
meta? Certamente non sulla sommità del monte, in modo da procurare un libero giro d orizzonte
tutt’intorno, che svela agevolmente l’ondulata conformazione del paesaggio. E certamente anche
compiendo giri viziosi, tornando sui suoi passi e prendendo sentieri sbagliati. Tuttavia l'opera tarda
di Heidegger non si presenta come una sequenza di tentativi senza meta, che provano alla fine il suo
fallimento, nella misura in cui non viene espresso in termini chiari cosa veramente è « Tessere »,
che non deve essere l'essere di un ente e che ora può essere senza Tente, ora non può esserne senza
(o dovremmo dire che non può « essere »?). Poiché su un sentiero c’è sempre un inizio e una; serie
di passi.
Il primo problema, sollevato fin dall'inizio, era: cos’è l'essere dell’esserci umano? Certamente non
semplice coscienza. Ma allora, che tipo di essere è quello che non ha né la stessa durata né lo stesso
valore delle stelle eterne o delle verità matematiche, ma è sempre evanescente come ogni vita tesa
tra nascita e morte? E che tuttavia nella sua finitezza e storicità è un « Ci », un qui, un ora, presente
nell'istante, non un punto vuoto ma pienezza del tempo e raccoglimento della totalità? L’essere
dell'esserci umano consiste in questo « Ci », in cui avvenire e passato non sono istanti che rotolano
via qui e là, ma sono il sempre proprio avvenire e la propria storia, che costituisce il proprio essere,
a partire dal caso della nascita. Poiché Tesserci che si progetta a questo modo sul suo avvenire deve
assumersi nella sua finitezza, ritrovandosi come gettato nell’essere, la parola chiave per affrontare
inizialmente il problema dell’essere è per Heidegger fatticità e non autocoscienza, ragione o spirito.
Cos’è però questo « Ci » che Heidegger, come con una parola gnostica e misterica, doveva definire
subito « Tesserci nell’uomo »? Certamente questo « Ci » non significa un semplice essere-presente,
ma un accadere. Lo scomparire, il trapassare, il dimenticare non solo strappano via qualsiasi « Ci »
come ogni cosa terrena — piuttosto è solo un « Ci », poiché è finito, vale a dire si trova in mezzo
alla sua propria finitezza. Ciò che accade qui, ciò che si storicizza come « Ci », Heidegger lo
avrebbe chiamato in seguito la « Lichtung dell’essere ». Lichtung significa la radura in cui uno entra
quando procede incessantemente nell’oscurità del bosco e all'improvviso gli alberi si diradano e
lasciano penetrare la luce del sole — fino a quando non l’ha oltrepassata e l’oscurità si chiude di
nuovo attorno a lui. Certamente non è male come illustrazione del destino finito dell’uomo. Quando
nel 1928 morì Max Scheler, Heidegger tenne a lezione un elogio funebre che terminava con le
parole: « Un sentiero della filosofia sprofonda nuovamente nell’oscurità ».
Ma ciò a cui si riferiva la domanda sull'essere dell'esserci sollevata da Heidegger, non era una
nuova « determinazione delPuomo », né una antropologia filosofica rifondata in senso ontologico.
Un tale problema non potrebbe certamente essere posto solo sulla base dell’angoscia e della morte,
della noia e del nulla. Dovrebbe prendere in considerazione anche affetti più piacevoli e
disposizioni d’animo costruttive. Ma poiché la domanda è rivolta all’« essere », deve attenersi a
quei fenomeni in cui, nella sfuggevolezza (Entgänglichkeit) di ogni ente, il « Ci » diventa
esperibile, come per esempio nel nulla dell’angoscia e nel vuoto della noia. L’illuminarsi (Sich-
Lichten) dell'essere nel « Ci », che è nell'uomo, non è però solo in esso. Mi sembra un passo
importante, Paver affermato che anche l’opera d’arte sia un evento della verità. Heidegger mostra
che l’opera d’arte non è solo il prodotto di un geniale procedimento creativo, ma un’opera che
contiene in sé una propria luminosità, che è qui, « così vera, così essente ». Chi ha visto una volta
un tempio greco nell’imponente paesaggio montuoso della Grecia, potrà seguire Heidegger quando
afferma che nelle piccole, addirittura delicate dimensioni di questi templi, che sembrano strappati a
un mondo elementare di schiacciante grandezza, terra e cielo, pietra e luce sono più autentici,
poiché sono emersi nel « Ci » della loro vera essenza.
Ed è come se entrassimo in un nuovo altopiano che schiude il panorama, quando, nel saggio Das
Ding [La cosa], non solo all’opera d’arte, all’evento che fonda e apre un mondo, ma anche a ciò
che è usato dall’uomo viene attribuito l'esser-ci e l’essere vero. Anche la cosa, che sta in sé e non è
spinta a nulla, è solo perché c'è una Lichtung nel bosco originario dell’essere, nel bosco che si
chiude in se stesso.
Infine, la parola. « Nessuna cosa, dove manca la parola ». Anche questa poesia di George è stata
torturata da Heidegger nella sua autoinquisizione, per interrogare « la parola », questo enigmatico
elemento che è il più proprio e il più intimo dello spirito umano, circa l'« essere ». Si possono anche
avversare tutte le creazioni heideggeriane, come destino dell'essere, sottrarsi dell'essere,
dimenticanza dell’essere ecc., ma quello che egli vede deve tuttavia poter essere visto da chi non è
cieco, e non da ultimo nella parola stessa. Poiché tutti vediamo che ci sono parole che funzionano
come un semplice segnale (anche se ciò che è segnalato è, a volte, un bel nulla) e altre ancora che
— e non solo nella poesia — manifestano la stessa cosa che comunicano, per così dire stanno per
qualcosa che è, che non è sostituibile, che non è scambiabile, un « Ci » che si schiude nell’atto del
proprio parlare. Ognuno sa cosa significa qui « vuoto » e « pieno ». Che ciò che manca o è presente
sia « essere », lo si può realizzare a partire da quello che ci insegna il cammino di pensiero di
Heidegger.
Certamente bisogna cercare di vedere pensando, se si deve percepire il sentiero percorso dal
pensiero di Heidegger non come uno sconsolato brancolare nel crepuscolo buio della metafisica
abbandonata da Dio, ma come la domanda, tenacemente perseguita, di un pensatore. E' vero: a
questo pensiero manca il linguaggio. Questa « mancanza » manifesterà completamente a lui stesso
che il pensiero cerca di pensarsi in mezzo alla dimenticanza dell’essere, che, in quanto la nostra è
età della tecnica, considera anche il linguaggio come un mezzo tecnico. Esso decade a « teoria
dell’informazione », In fondo, la povertà linguistica che si avverte in Heidegger e che Heidegger
sente, non è solo la povertà del pensatore che cerca di pensare l’inusitato e l’impensato. Si tratta
piuttosto di un processo che viene da lontano, in cui noi tutti siamo coinvolti.
Le parole non crescono come i fiori. I modi di parlare si propagano schematicamente come le
situazioni che essi devono controllare. Il più astratto linguaggio del simbolismo matematico sembra
corrispondere solo al compito del dominio tecnico del mondo e della sua amministrazione. La
povertà linguistica non è assolutamente avvertita come tale. Evidentemente c’è un oblio della
povertà del linguaggio, che rappresenta una sorta di pendant dell’oblio dell'essere di cui parla
Heidegger, se non addirittura la sua espressione e la sua testimonianza, che tutti possono avvertire.
E' forse necessario che il linguaggio di questo pensatore, che cerca di ridestarsi dall’oblio
dell’essere, per poter pensare finalmente ciò che è degno di essere pensato, appaia spesso come un
tormentato balbettio. Lo stesso uomo, le cui parole ed espressioni possono essere di una forza e di
un’energia immaginifica senza pari tra i filosofi contemporanei e che fanno pensare a fenomeni di
materializzazione — a tal punto
lo    spirito diventa qui afferrabile—, lo stesso uomo estrae dal pozzo del linguaggio i più insoliti
frammenti, sgretola le pietre estratte, in modo che perdano del tutto il loro profilo consueto, e alla
fine si muove in un mondo di pietre-parole scheggiate, cercando e saggiando. Su questo tipo di
sfaccettature, artificialmente ottenute, egli applica poi il suo messaggio. Qualche volta si verifica
una scoperta. Allora c’è un luccichio improvviso e si vede con gli occhi ciò che egli dice. Talvolta
ciò che pervade l’opera di Heidegger e a cui egli costringe chiunque voglia pensare con lui, è un
tragico lottare per il linguaggio appropriato e per
il    concetto parlante.
Da dove viene questa povertà? Il linguaggio adoperato abitualmente dai filosofi è quello della
metafisica greca e del suo sopravvivere, del suo perfezionamento, oltre il latino antico e medievale,
fino alle moderne lingue nazionali. Molti concetti della filosofia sono quindi parole straniere. Ma i
grandi pensatori hanno per lo più la forza di inventare nuovi mezzi per esprimere quello che
vogliono dire, mezzi che la loro lingua materna è pronta a fornire loro. In questo senso Platone e
Aristotele hanno creato un linguaggio concettuale che attinge da quello, vivo e duttile, dell'Atene
del loro tempo. In questo senso Cicerone ha proposto termini latini per rendere concetti greci. In
questo senso, Meister Eckhart alla fine del Medioevo, Leibniz, Kant e soprattutto Hegel, hanno
procurato nuovi mezzi espressivi al linguaggio concettuale della filosofia. Anche il giovane
Heidegger ha liberato energie linguistiche dal suolo della sua natia terra alemanna, in cui è
profondamente radicato, arricchendo il linguaggio filosofico.
L'ultimo Heidegger però si trova in una situazione molto più difficile. Non solo le consuetudini
linguistiche e di pensiero altrui, ma anche le proprie, determinate dalla tradizione del pensiero
occidentale, si rivelano consuetudini che cercano di spingerlo costantemente fuori direzione rispetto
al proprio problema. Infatti il suo problema è realmente nuovo. Non viene posto all’interno della
metafisica occidentale, ma è comunque diretto a questa metafisica. Non problematizza la questione
della metafisica circa l’ente supremo (Dio) e circa l'essere di ogni ente. Si interroga piuttosto circa
ciò che, solo, apre la sfera di questo domandare e forma lo spazio in cui si muove il domandare
della metafisica. Heidegger dunque si interroga circa qualcosa che la tradizione della metafisica
presupponeva come problematico: cosa significa in generale essere? A questa domanda nessuno dei
grandi metafisici può rispondere: perché essi si interrogarono sempre circa ciò che è Tessere
dell’ente, ciò che è in massimo grado essente. Ogni mezzo concettuale da essi elaborato per le loro
risposte può aiutare solo in parte il problema heideggeriano. Tutti questi mezzi recano con loro una
falsa apparenza. Come se si trattasse di assicurarsi di un ente che diventerebbe visibile dietro a tutto
ciò che è finora conosciuto, e non si trattasse invece di prendere coscienza di ciò che soprattutto
rende possibile il conoscere stesso, il domandare stesso, il pensare stesso. Chi voglia pensare la
prima sfera in cui il rapporto tra pensiero e pensato si scioglie, apparirà come uno che stia
smarrendosi nell’impensabile. Che ci sia in generale qualcosa e non il nulla, questa acutizzazione
estremamente radicale del problema della metafisica parla tuttavia dell’essere come di qualcosa di
noto. C’è un pensiero in grado di raggiungere questo impensabile? Heidegger lo chiama « pensiero
rimemorativo » (Andenken), e il richiamo dubbioso al « raccoglimento » (Andacht) può in ogni caso
essere intenzionale, nel senso che l'esperienza della religione tocca sempre prima del pensiero della
metafisica questa dimensione immemorabile dell'essere, che non è previamente pensabile
(Unvordenklich). E ciò che vale per il pensiero, vale a buon diritto anche per il linguaggio del
pensiero. Esso nomina il pensabile e
il pensato e non ha alcuna parola, per ciò che dell'essere non è previamente pensabile. « L'essere è
se stesso », ha detto Heidegger, a dispetto di quanti mostrano troppa curiosità per l’essere. L’«
essere » è nulla? Il « nulla » è nulla? I sentieri percorsi da Heidegger, alcuni dei quali sono stati
descritti più sopra, lasciano pensare ciò che egli chiama « essere ». Ma come dirlo?
Heidegger si ingegna con violenza. Egli forza la comprensione naturale delle parole consuete e
impone loro un nuovo senso, spesso richiamandosi a connessioni etimologiche che nessuno avverte.
Ne scaturiscono modi di parlare di estremo manierismo, provocazioni nei confronti delle nostre
aspettative linguistiche.
È proprio necessario? I linguaggi naturali, nella loro universale duttilità, non offrono forse sempre
una via per dire ciò che si deve dire? E ciò che non si lascia dire, non è pensato in modo
insufficiente? Forse. Ma non abbiamo scelta. Da quando Heidegger ha posto un determinato
problema, dobbiamo porre le nostre domande nella direzione di questo problema e farci aiutare da
ciò che della sua opera possiamo comprendere. È facile deridere ciò che è insolito o forzato. Fare di
meglio, invece, è difficile. Certamente, al gioco con le piastrine d’avorio che vengono spostate qua
e là, sulle quali sono tracciate le curiose coniazioni concettuali di Heidegger — una forma frequente
di imitazione di Heidegger—, non si dovrebbe partecipare. In questo modo ritorna qualcosa di una
nuova scolastica che sbarra la via verso l'apertura del problema posto in questione, non meno della
polemica più risentita.
Ma così o non così, Heidegger è qui. Non si può tranquillamente passargli davanti né — purtroppo
— superarlo nella direzione della sua domanda. Così, egli cammina, in maniera sconcertante, sul
suo sentiero. Un masso erratico, che i flutti di un pensiero rivolto alla perfezione tecnica lambiscono
ma non riescono a smuovere.
3. LA TEOLOGIA DI MARBURGO
(1964)
In questo saggio ci trasferiamo negli anni venti, in quel grande periodo ricco di tensioni durante il
quale a Marburgo si è realizzato, nel campo teologico, l’allontanamento dalla teologia storica e
liberale. È l’epoca in cui, sul piano filosofico, si verificano il distacco dal neokantismo, la
dissoluzione della Scuola di Marburgo e l'avvento di nuovi astri nel firmamento filosofico. Fu
proprio allora che Eduard Thumeysen tenne alla facoltà teologica di Marburgo una conferenza, che
per noi giovani rappresentava un primo annuncio della teologia dialettica, ricevendo congratulazioni
più o meno esitanti da parte dei teologi marburghesi. In quella discussione prese la parola anche il
giovane Heidegger. Era appena giunto a Marburgo come professore straordinario, e per me è ancora
oggi indimenticabile il modo con cui concluse il suo intervento nella discussione seguita alla
conferenza di Thurneysen. Infatti, dopo aver evocato lo scetticismo cristiano di Franz Overbeck,
disse che il vero compito della teologia, al quale essa deve sempre ricondursi, è di cercare la parola
che sia in grado di chiamare alla fede e di conservare nella fede. Un’autentica frase heideggeriana,
piena di ambiguità. Quando Heidegger la pronunciò, suonò come un’assegnazione di compiti per la
teologia e, forse ancora più dell’attacco di Franz Overbeck alla teologia del suo tempo, citato da
Heidegger, significò mettere in dubbio la possibilità della teologia stessa.
Si stava aprendo una tempestosa epoca di controversie filosofico-teologiche: da un lato la dignitosa
freddezza di Rudolf Otto, dall’altro l’esegesi energica e tagliente di Rudolf Bultmann; da un lato
l’acuto lavoro di cesello di Nicolai Hartmann, dall’altro il radicalismo sconvolgente delle
interrogazioni heideggeriane, che trascinava anche la teologia nel suo incantesimo. Per esempio, il
nucleo originario di Essere e tempo è costituito da una conferenza tenuta nel 1924 alla facoltà
teologica di Marburg.
Quello che si preannunciava nell’intervento di Heidegger alla conferenza di Turnheysen, può essere
ancora oggi indicato come uno dei motivi centrali del suo pensiero: il problema del linguaggio. Per
questo problema mancava a Marburgo qualsiasi terreno preparato. La Scuola di Marburgo, che per
decenni si era distinta all’interno del neokantismo contemporaneo per il suo rigore metodico, si
orientava verso la fondazione filosofica delle scienze. Per essa era scontato, e completamente ovvio,
che nelle scienze fosse generalmente contenuto il sapere nella sua vera compiutezza e che
l'oggettivazione dell'esperienza attraverso la scienza realizzasse pienamente il senso della
conoscenza. La purezza del concetto, l'esattezza della formula matematica, il trionfo del metodo
infinitesimale: tutto ciò, e non il regno intermedio delle configurazioni linguistiche oscillanti,
caratterizzava la posizione filosofica della Scuola di Marburgo. Anche quando Ernst Cassirer inserì
il fenomeno del linguaggio nella tematica dell’idealismo neokantiano di Marburgo, ciò avvenne in
base all’idea metodica fondamentale dell'oggettivazione. La sua filosofia delle forme simboliche
non aveva certo a che fare con la metodologia delle sciente, e anzi vedeva nel mito e nel linguaggio
delle forme simboliche, considerandole tuttavia come figure dello spirito oggettivo e insieme come
tali da avere la loro base metodica in una delle direzioni fondamentali della coscienza
trascendentale.
Fu allora che la fenomenologia incominciò a far epoca a Marburgo. Il lavoro di Max Scheler attorno
alla fondazione dell’etica materiale dei valori, collegata a una furibonda critica al formalismo della
filosofia morale kantiana, aveva prodotto in Nicolai Hartmann, l'uomo di avanguardia all’interno
della Scuola di Marburgo di allora, fin dall'inizio una profonda impressione 1. Costoro erano
convinti — come lo era stato Hegel un secolo prima — che a partire dal fenomeno del dovere
morale, cioè nella forma imperativa dell’etica, non si potesse giungere alla totalità dei fenomeni
etici. Si manifestava così nel campo filosofico-morale una prima delimitazione della base di
partenza soggettiva della coscienza trascendentale: la coscienza del dovere non poteva riempire
l’ampiezza di ciò che vale sul piano etico. Ma la scuola fenomenologica ebbe un’influenza ancora
più forte per il fatto che non condivideva l’orientamento scontato della Scuola di Marburgo verso il
« fatto » delle scienze, risaliva alle spalle dell’esperienza scientifica e
dell’analisi categoriale dei suoi metodi, riportando in primo piano, nella sua indagine
fenomenologica, l’esperienza vitale naturale — vale a dire ciò che, nell’ultima fase del suo
pensiero, Husserl avrebbe definito, con un’espressione diventata famosa, « mondo-della-vita »
(Lebenswelt). Tanto il distacco filosofico-morale dall’etica imperativa, quanto la presa di distanza
dal metodologismo della Scuola di Marburgo trovavano la loro corrispondenza nell’ambito
teologico. Nel momento in cui si prende coscienza in forma nuova della problematica del discorso
di Dio, le fondamenta della teologia sistematica e storiografica cominciano a vacillare. La critica di
Rudolf Bultmann al mito, il suo concetto dell’immagine mitica del mondo, proprio nella misura in
cui quest’ultima domina ancora nel Nuovo Testamento, rappresentava al tempo stesso una critica
alla pretesa di totalità del pensiero oggettivante. Il concetto di disponibilità (Verfügbarkeit), con cui
Bultmann cercava di abbracciare simultaneamente il procedere della scienza storica e il pensiero
mitico, costituiva addirittura il concetto antitetico all’enunciato teologico vero e proprio.
La comparsa di Heidegger a Marburgo risale dunque a questo periodo: indipendentemente
dall’argomento delle sue lezioni, che fosse Descartes, Aristotele, Platone o Kant a costituire il punto
di riferimento, la sua analisi giungeva sempre alle più originarie esperienze dell’esistenza, che egli
scopriva dietro i mascheramenti dei concetti tradizionali. Ed erano problemi teologici quelli che fin
dall’inizio lo sollecitavano. Ne è testimone un manoscritto che Heidegger aveva spedito già nel
1922 a Paul Natorp e che io allora ebbi modo di leggere. Si trattava di un’introduzione
fondamentale alle interpretazioni di Aristotele messe a punto da Heidegger, e parlava soprattutto del
giovane Lutero, di Gabriel Biel e di Agostino. Sembra che Heidegger considerasse allora questo
lavoro un’elaborazione della situazione ermeneutica: egli cercava di far comprendere con quali
domande e con quale volontà di opposizione intellettuale noi affrontiamo Aristotele, il maestro della
tradizione. Oggi nessuno dubiterebbe che, nel suo approfondimento del pensiero di Aristotele,
Heidegger fosse guidato da un’intenzione di fondo critico-distruttiva. Ma a quel tempo non era così
chiaro. La grandiosa forza dell’intuizione fenomenologica, che Heidegger introdusse nelle sue
interpretazioni, liberò in modo radicale ed efficace il testo aristotelico originario dalle sovrastrutture
aggiunte dalla tradizione scolastica e dalla deplorevole caricatura che il criticismo di allora faceva
di Aristotele — Cohen per esempio amava dire: « Aristotele era un farmacista » —, tanto che egli
cominciò a parlare in modo inatteso. Forse allora, non soltanto per gli studenti, ma anche per
Heidegger stesso, fu
come se la forza dell’avversario, anzi il rafforzamento dell'avversario, rischiato costantemente
dall'interpretazione heideggeriana, fedele in questo al principio platonico di rendere l'avversario più
forte 2, di tanto in tanto prendesse il sopravvento 3. Infatti, cosa significa interpretare in filosofia, se
non osare confrontarsi con la verità del testo ed esporsi ad essa?
Me ne resi conto per la prima volta quando nel 1923 conobbi Heidegger — era ancora a Friburgo —
e partecipai a un suo seminario sull'Etica Nicomachea. Stavamo studiando l'analisi della phronesis.
Ad un tratto Heidegger ci fece notare nel testo aristotelico che ogni techne possiede una sua
limitazione interna: il suo sapere non sarebbe un completo disvelamento (Entbergen), poiché
l’opera che essa intende produrre viene lasciata nelPincertezza di un uso non disponibile. Così mise
in discussione la differenza che separa ogni sapere di questo tipo, in particolare anche la semplice
doxa, dalla phronesis: λήθη τής μέν τοιαύτης- εξεως- εστιν, φρονήσεος- δέ ούκ εστιν (1140 b 29).
Mentre noi, incerti e completamente disorientati in mezzo ai concetti greci, tentavamo di
interpretare, egli dichiarò bruscamente: « Ecco la coscienza morale [Gewissen] ». Non è qui il caso
di ridurre alla sua giusta misura l'esagerazione pedagogica contenuta in questa affermazione, e
neppure, di evidenziare la pressione logica e ontologica che in verità pesava sull'analisi della
phronesis in Aristotele. Quello che qui Heidegger ha scoperto e che gli ha reso così affascinante la
critica aristotelica all’idea platonica del bene e la nozione aristotelica del sapere pratico, è oggi
chiaro: qui era descritta una forma di sapere (un είδος γνώσεως·)4 che non si lascia facilmente
ricondurre a una oggettivabilità ultima nel senso della scienza, un sapere dunque posto nella
situazione concreta dell’esistenza.
Forse che Aristotele poteva aiutare a superare persino i pregiudizi ontologici del concetto greco di
logos, che più tardi Heidegger interpretò in senso temporale come semplice presenza e presenzialità
( Vorhandenheit und Anwesenheit)? Di fronte a questo tentativo di forzare il testo aristotelico a
rispondere alle proprie questioni, viene da pensare all’appello della coscienza in Essere e tempo,
che doveva rendere visibile per la prima volta P« esserci nell’uomo » (Dasein im Menschen) nella
sua struttura di evento legato all’essere e alla temporalità. In realtà è stato solo molto più tardi che
Heidegger ha liberato il suo concetto di esserci, nel senso di Lichtung, da qualsiasi riflessione
trascendentale 5. Alla fine dunque poteva forse anche la parola della fede trovare una nuova
legittimazione filosofica attraverso la critica al logos e alla comprensione dell’essere della semplice
presenza, come in seguito l'Andenken (memoria, ricordo) heideggeriano non avrebbe del tutto
dimenticato la sua antica prossimità, osservata già da Hegel, all' Andacht (meditazione,
raccoglimento)? Era stato forse questo il senso ultimo dell’ambiguo intervento di Heidegger alla
discussione sulla conferenza di Thurneysen?
In seguito, a Marburgo, ci fu un momento analogo, a cui noi prestammo attenzione. Heidegger
affrontò un’opposizione risalente alla scolastica e parlò della differenza tra actus signatus e actus
exercitus. Questi concetti scolastici corrispondono più o meno ai concetti reflexive e directe e
indicano per esempio la differenza che c’è tra un interrogare e la possibilità di rivolgersi
esplicitamente all’interrogare in quanto tale. L'uno può essere tradotto nell’altro. Si può sottolineare
l’interrogare in quanto interrogare, non solo dunque domandare ma anche dire che si domanda e che
qualcosa è suscettibile di essere problematizzato. Revocare questo passaggio dall’intenzione
immediata, diretta, all’intenzione riflessiva ci sembrava allora come un cammino verso la libertà:
prometteva infatti di liberare il pensiero dall’inevitabile circolo della riflessione, di riconquistare il
potere evocativo del pensiero concettuale e del linguaggio filosofico, il quale, accanto al linguaggio
della poesia, è in grado di garantire al pensiero il posto che gli compete.
Certamente già la fenomenologia husserliana, nella sua analisi trascendentale della costituzione,
aveva consentito di scavalcare la sfera delle oggettivazioni esplicite. Husserl parlava di
intenzionalità anonime, vale a dire di intenzioni concettuali nelle quali qualcosa viene intenzionato
e posto in validità d’essere, qualcosa di cui nessuno è cosciente, che nessuno intenziona e realizza in
forma tematica e singolare, ma che nonostante ciò è determinante per tutti. In questo modo per
esempio si costruisce nella coscienza interna del tempo ciò che definiamo la corrente di coscienza
(Bewusstseinsstrom). Analogamente anche l'orizzonte del mondo-della-vita è un prodotto di queste
intenzionalità anonime. In realtà sia la distinzione scolastica citata da Heidegger, sia l'analisi
husserliana sulla costituzione delle operazioni anonime della coscienza trascendentale, partivano
dall universalità illimitata della ragione, che può chiarire qualsiasi oggetto intenzionale nell'analisi
costitutiva, può renderlo cioè oggetto di un’intenzionare esplicito, può dunque oggettivarlo.
Invece Heidegger andò decisamente in un'altra direzione. Perseguì l'intima indissolubilità di
autenticità e inautenticità, di verità ed errore, di occultamento e disvelamento, che sono legati nella
loro essenza, al punto da contraddire dal loro stesso interno l'idea di una oggettivabilità totale. Verso
che cosa lo spingesse la propria concezione, è indicato molto bene dalla sua idea, che allora ci
illuminò e ci colpì profondamente, che la forma più originaria in cui il passato è presente non è il
ricordo ma l’oblio 6. Qui l’obiezione che Heidegger muove dal punto di vista ontologico alla
soggettività trascendentale di Husserl si manifesta completamente nel punto centrale della
fenomenologia della coscienza interna del tempo. In verità, di fronte al ruolo esercitato dal ricordo
nell'analisi di Brentano attorno alla coscienza del tempo, l'analisi husserliana ha sviluppato la
precisa distinzione fenomenologica tra rimemorazione esplicita, che cointenziona sempre un «
essere stato percepito », e l’esistenza di ciò che è attuale, che viene così trattenuta dal risprofondare,
definita da Husserl « coscienza ritenzionale » e sulle cui operazioni poggia qualsiasi coscienza del
tempo e qualsiasi coscienza dell'ente nel tempo 7. Operazioni certamente « anonime », ma appunto
operazioni che cercano di fermare il presente, di trattenere per così dire il tempo che scorre. L'« ora
» (Jetzt), che si dispiega dal passato e si sviluppa nel futuro, rimane comprensibile a partire dalia «
semplice presenza attuale ». Heidegger al contrario aveva in mente l’originaria dimensionalità
ontologica del tempo, situata nella motilità fondamentale dell’esserci. Con questa prospettiva non
solo si getta luce sull’enigmatica irreversibilità del tempo, in virtù della quale esso non ha mai
inizio ma sempre solo trascorre, ma si mette anche in evidenza che il
tempo non ha il suo essere nell’istante o nella successione degli istanti, ma nell’essenziale futurità
(Zukünftigkeit) dell’esserci. È evidente che questa è la reale esperienza della storia, il modo in cui la
storicità accade in noi stessi. Qui, più che qualcuno faccia qualcosa, ce qualcosa che accade a
qualcuno. Lo testimonia l’oblio, una forma in cui passato e trascorrere dimostrano la loro realtà e la
loro potenza. Chiaramente il pensiero di Heidegger spingeva a superare i confini della direzione
assunta dalla riflessione filosofica trascendentale, che in Husserl tematizzava le strutture della
temporalità come coscienza interna del tempo, elaborando la sua autocostruzione avvalendosi
dell’ausilio delle intenzionalità anonime. La critica al pregiudizio ontologico della nozione
aristotelica di essere e di sostanza e della nozione moderna di soggetto doveva, in ultima analisi,
portare alla dissoluzione dell’idea stessa della riflessione trascendentale.
L’actus exercitus, in cui la realtà viene esperita in modo totalmente irriflesso, per esempio come
quella dello strumento nel suo inappariscente servire a qualcosa, non si trasforma in un actus
signatus se non con un nuovo occultamento. Questo piuttosto c’è nell’analisi heideggeriana
dell’esserci come essere-nel-mondo; e cioè che l’essere dell’ente così esperito, in particolare la
mondità del mondo, non si incontra « oggettualmente », ma si nasconde in un modo del tutto
specificio. Già Essere e tempo parlava del « mantenersi-in-se-stesso » dell’utilizzabile, su cui si
baserebbe in definitiva l’essere-in-sé (che non può essere chiarito in base alla semplice presenza 8).
L’essere dell’utilizzabile non è semplicemente occultamento e nascondimento da cui scaturirebbero
disoccultamento e disvelamento. La sua « verità », il suo essere autentico e naturale si trova
evidentemente proprio in questa sua non-appariscenza, non-importunità, non-impertinenza. Qui in
Essere e tempo ce già un preannuncio di un radicale distacco dalla Lichtung e dell’apertura
(Erschlossenheit) orientate verso l’autocomprensione dell’esserci. Infatti, anche se questo «
mantenersi-in-se-stesso dell’utilizzabile » si fonda in ultima analisi nell’esserci come l’« in-vista-di-
cui di ogni appagatività » (Worumwillen aller Bewandtnis), tuttavia il fatto che « apertura » non sia
una totale trasparenza dell’esserci, ma intenda anche un essere essenzialmente pervasi
dall’indeterminazione 9, significa che appartiene in ultima analisi all’essere-nel-mondo. Il «
mantenersi-in-se-stesso » dell’utilizzabile non è tanto un privare e occultare, quanto un essere
incluso e custodito nel rapporto con il mondo, in cui risiede il
suo essere. L’intima tensione che oppone il « disvelare » non solo all'occultare ma anche alla «
custodia » (Bergung), misura alla fine anche la dimensione in cui il linguaggio può diventare
visibile nell’autenticità del suo essere e può tornare utile al teologo stesso per comprendere la parola
di Dio.
Nell’ambito teologico è stato il concetto di autocomprensione a sperimentare una trasformazione
analoga. Il fatto che l’autocomprensione della fede, problema fondamentale della teologia
protestante, non possa essere adeguatamente compreso mediante il concetto trascendentale
dell’autocoscienza, è di evidenza immediata. Questo concetto deriva dall’idealismo trascendentale.
In particolare è stato Fichte a proclamare la dottrina della scienza l’unica realizzazione coerente
dell'idealismo trascendentale autocomprendentesi. Si rammenti per esempio la sua critica al
concetto kantiano di cosa in sé 10. Con la sprezzante scortesia che lo contraddistingueva, Fichte
dice: se Kant ha compreso se stesso, allora con l’espressione « cosa in sé » può essere inteso questo
e soltanto questo. Se Kant non dovesse aver pensato ciò, allora sarebbe stato un pensatore soltanto
per tre quarti e non un pensatore intero 11. Alla base del concetto di autocomprensione sta dunque il
fatto che tutte le premesse dogmatiche vengono dissolte per mezzo dell’autoproduzione interna
della ragione, in modo che alla fine di questa autocostruzione del soggetto trascendentale si riesca a
trovare la totale autotrasparenza. E' sorprendente come l’idea husserliana della fenomenologia
trascendentale si avvicini a questa esigenza espressa da Fichte e da Hegel.
La teologia non poteva mantenere un simile concetto senza una qualche modificazione. Infatti, se
nell’idea di rivelazione c’è qualcosa che non è cancellabile, è proprio il fatto che l’uomo non è in
grado di giungere con i suoi mezzi a una comprensione di se stesso. Che sia destinato a fallire ogni
tentativo dell’uomo di capire se stesso partendo da sé e dal mondo che gli appartiene e di cui
dispone, è un antichissimo motivo dell’esperienza della fede, che pervade già lo sguardo
retrospettivo con cui Agostino osservava la vita. In effetti sembra proprio che il termine e il
concetto di « autocomprensione » debbano il loro primo conio a un’esperienza cristiana. Ritroviamo
traccia di questo approccio nel carteggio fra Hamann e l’amico Jacobi, dove Hamann, partendo
dalla prospettiva della certezza pietistica della fede, cercava di convincere l’amico che egli non
sarebbe potuto mai giungere a una
autentica autocomprensione impiegando i soli mezzi della propria filosofia e il ruolo che in essa
gioca la fede 12. Hamann pensa qui chiaramente a qualcosa di più della completa autotrasparenza
posseduta da un pensiero che rimane, senza contraddizioni, in consonanza con se stesso.
L’autocomprensione comporta piuttosto la storicità (Geschichtlichkeit) come momento
determinante. Per colui che giunge alla vera autocomprensione, qualcosa per lui accade, cioè si
storicizza (gèschicht), e qualcosa è accaduto, cioè si è storicizzato (ist geschehen). Il senso quindi
del discorso moderno dellautocomprensione della fede è contenuto nel fatto che il credente diventa
cosciente della sua relazione con Dio. Capisce finalmente che è impossibile comprendersi in base a
ciò che è a disposizione.
Con il concetto di « disporre » e con il necessario fallimento di un’autocomprensione fondata su di
esso, Rudolf Bultmann ha rivolto all'ambito teologico la critica ontologica di Heidegger alla
tradizione filosofica. Conseguentemente alla propria estrazione scientifica, Bultmann definì la
posizione cristiana della fede in antitesi all'autocoscienza della filosofia greca. Ma per lui,
interessato alle prese di posizione esistenziali e non ai fondamenti ontologici, quest ultima era la
filosofia dell’età ellenistica e in particolare l’ideale stoico di autarchia, che egli interpretava come
ideale della piena autodisponibilità, criticandolo co-
me insostenibile nell’ottica del cristianesimo. Da questo punto di partenza Bultmann esplicito il suo
pensiero, sotto l'influsso di quello heideggeriano, per mezzo dei concetti di inautenticità e
autenticità. L’esserci nella sua deiezione nel mondo, l'esserci che si comprende in base al
disponibile, viene chiamato alla conversione e nel naufragare della sua autodisponibilità esperisce la
svolta verso l’autenticità. Per Bultmann l’analitica trascendentale dell’esserci sembrava descrivere
una costituzione antropologica di fondo dai toni neutrali, partendo dalla quale l’appello della fede si
lasciava interpretare indipendentemente dal suo contenuto, entro il movimento fondamentale
dell’esistenza, in maniera « esistenziale ». La concezione filosofico-trascendentale di Essere e
tempo si inseriva quindi nel pensiero teologico. Certamente, a rappresentare l'a-priori
dell’esperienza non era più il vecchio concetto idealistico dell’autocomprensione, né il suo
compimento nel « sapere assoluto ». Infatti, ciò che doveva rendere possibile l’interpretazione
concettuale dell’accadere della fede era piuttosto l'a-priori di un accadere, l'a-priori della storicità e
della finitezza dell’esistenza umana. Ed era proprio questo il prodotto dell’interpretazione
heideggeriana dell’esser-ci in relazione alla temporalità.
Esaminare qui la fecondità esegetica dell’impostazione di Bultmann è qualcosa che supera la mia
competenza. Credo comunque che l’aver interpretato Paolo e Giovanni con i metodi rigorosi della
filologia storica in relazione alla loro autocomprensione della fede, individuando in essi, proprio
con questa interpretazione, la massima pienezza del significato kerigmatico dell’annunciazione
neotestamentaria, sia stato certamente un trionfo della nuova esegesi esistenziale.
Nel frattempo l’itinerario di pensiero di Heidegger prendeva la direzione inversa.
L’autointerpretazione in senso filosofico-trascendentale si dimostrava sempre più inadeguata a
quell’interna sollecitazione che aveva mosso il pensiero heideggeriano fin dall'inizio. Il successivo
discorso della svolta, che estirpava qualsiasi senso esistenziale dal discorso dell’autenticità
dell’esserci, estirpando quindi il concetto stesso di autenticità, non poteva più, a mio parere, essere
unificato con il proposito teologico fondamentale di Bultmann. Quindi, soltanto adesso Heidegger si
avvicinava veramente alla dimensione in cui la sua iniziale richiesta rivolta alla teologia — trovare
cioè la parola che sia in grado non solo di chiamare alla fede, ma anche di custodire nella fede —
poteva essere esaudita. Se l’appello della fede, la pretesa che sfida l’autosufficienza dell’io e lo
costringe a rinunciare a se stesso nella fede, poteva essere interpretabile come autocomprensione,
allora si era in presenza di un linguaggio della fede che poteva custodire
l'uomo in essa. Tuttavia forse c'era anche qualcos’altro per cui nel pensiero di Heidegger si
delineava con sempre maggior chiarezza un nuovo fondamento: la verità come un evento che
racchiude in sé il proprio errore, disvelamento che è occultamento e quindi al tempo stesso custodia
e copertura; anche la nota locuzione tratta dalla Lettera sull'umanismo, secondo la quale il
linguaggio sarebbe la « casa dell’esse' re » — tutto ciò non faceva altro che rinviare oltre l’orizzonte
di qualsiasi autocomprensione, per quanto fosse un’autocomprensione storica e destinata al
fallimento.
Nel frattempo egli proseguiva nella stessa direzione partendo anche dall’esperienza del
comprendere e dalla storicità dell’autocomprensione: i miei tentativi autonomi verso l’ermeneutica
filosofica trovano proprio qui il loro inizio. Anzitutto l’esperienza dell’arte rappresentava una
testimonianza inoppugnabile del fatto che l’autocomprensione non esprime un orizzonte
interpretativo sufficiente. Per questo tipo di esperienza non era senz’altro una scoperta nuova e
originale. Tuttavia anche il concetto di genialità, su cui si fonda la moderna filosofia dell’arte da
Kant in poi, conteneva il momento essenziale dell’inconsapevolezza. L’intima corrispondenza con
la natura creatrice, le cui configurazioni ci rendono felici grazie al miracolo della bellezza e ci
confermano sotto il profilo umano, si trova già in Kant, e precisamente nel fatto che il genio crea
qualcosa di esemplare senza alcuna consapevolezza e senza applicare alcuna regola, quasi fosse un
favorito della natura. Che all'autointerpretazione dell’artista venga sottratta la sua legittimazione, è
una conseguenza necessaria di questa autocomprensione. Le espressioni autointerpretative risultano
da un atteggiamento di riflessione susseguente, in cui all’artista non va accordato alcun privilegio
rispetto a qualsiasi altro che si ponga dinanzi alla sua opera. Si tratta senz’altro di espressioni che
costituiscono documenti e talvolta punti d’appoggio per interpreti posteriori, ma che non
possiedono un rango canonico.
Ma le conseguenze diventano ancora più decisive se si guarda oltre i confini dell’estetica del genio
e dell’arte dell’esperienza vissuta (Erlebnis-kunst) e si prende in considerazione l’interna
appartenenza dell’interprete al movimento di senso dell’opera. In questo modo infatti viene
abbandonato anche il metro di un canone inconscio, che è stato scorto nel miracolo dello spirito
creativo. Dietro l’esperienza dell’arte si affaccia tutta l'universalità del problema ermeneutico.
A questo conduce di fatto il penetrare più profondamente nella storicità di ogni comprensione. Una
visione densa di conseguenze si impone in particolare nello studio della vecchia ermeneutica dei
secoli
XVII e XVIII. La mens auctoris, ciò che l’autore ha inteso, può essere riconosciuta senza alcun
limite come metro per la comprensione di un testo? Se si dà un’interpretazione ampia e magnanima
a questo principio ermeneutico fondamentale, si vedrà allora che esso possiede qualcosa di
persuasivo. Se infatti la frase: « ciò che l’autore ha inteso » viene compresa come: « ciò che in
generale egli avrebbe potuto pensare », vale a dire ciò che si trovava nel suo proprio orizzonte
individuale e storico, se così facendo si esclude dunque « ciò che in generale egli non avrebbe
potuto concepire », allora questo sembra essere un sano principio 13. Questo principio preserva
infatti gli interpreti da anacronismi, da inserimenti arbitrari e applicazioni illegittime. Sembra che
tale principio possa formulare la morale della coscienza storica, la coscienziosità del senso storico.
Nel contempo questo principio conserva ancora una problematicità di fondo, se si guarda
l’interpretazione dei testi assieme alla comprensione e all’esperienza dell’opera d’arte. In questo
caso si possono dare modi di esperire l’opera d’arte storicamente adeguati e perciò autentici. Ma
l’esperienza artistica non si lascia certo restringere ad essi. Anche chi non voglia dare pieno credito
a un’estetica pitagorizzante, attenendosi quindi al compito di integrazione storica che qualsiasi
esperienza dell’arte, in quanto esperienza umana, si trova sempre ad affrontare, dovrà tuttavia
riconoscere che l’opera d’arte rappresenta una struttura di senso del tutto particolare, la cui idealità
è prossima alla astorica dimensione della sfera matematica 14. Chiaramente l’esperienza e
l’interpretazione dell’opera d’arte non sono limitate in nessun senso dalla mens auctoris.
Aggiungiamo ancora che l’unità interna tra comprendere e interpretare, ravvisata già dal
romanticismo tedesco, porta l’oggetto della comprensione nel movimento del presente, sia che si
tratti di opera d’arte, di testo o di qualsiasi altra cosa tramandataci, inducendo nuovamente a parlare
il suo linguaggio. Penso allora che a questo punto si possano profilare conseguenze teologiche
precise.
Il senso kerigmatico del Nuovo Testamento, che conferisce al Vangelo la forma applicativa del pro
me, non può alla fine contraddire al
legittimo accertamento di senso della scienza storica. Si tratta, a mio parere, di una indispensabile
esigenza della coscienza scientifica. Non è possibile concepire una contraddizione esclusiva tra
senso letterale e senso salvifico di un testo della Sacra Scrittura. Ma si può trattare qui davvero di
contraddizione esclusiva? L’intenzione di senso degli scrittori neotestamentari, qualunque cosa essi
possano pensare nei singoli casi, non tende forse al senso salvifico su cui punta anche il lettore della
Bibbia? Con ciò non è detto che sia da riconoscere ai loro enunciati un’autocomprensione adeguata
e appropriata. Essi appartengono infatti al genere della « letteratura originaria », come è stata
definita da Franz Overbeck. Se sotto il significato di un testo si comprende la mens auctoris, vale a
dire l'« effettivo » orizzonte di comprensione dello scrittore cristiano che di volta in volta viene
affrontato, allora si attribuisce agli autori del Nuovo Testamento una falsa gloria. La loro gloria
autentica potrebbe invece risiedere nel fatto che essi annunciano qualcosa che oltrepassa il loro
proprio orizzonte di comprensione, anche se si chiamano Giovanni o Paolo.
Questo discorso non deve assolutamente avere il significato di una teoria incontrollabile
dell’ispirazione e dell’esegesi pneumatica. Così facendo si dilapiderebbe il patrimonio conoscitivo
di cui si è debitori alla scienza neo testamentaria. Qui in verità non si tratta di una teoria
dell’ispirazione. Ci si rende conto di questo se si prende in considerazione la situazione ermeneutica
della teologia assieme a quella della giurisprudenza, delle scienze dello spirito e dell’esperienza
dell’arte, come ho cercato di fare nella mia ricerca per un’ermeneutica filosofica. Comprendere non
significa in nessun caso semplicemente riacquisire ciò che l’autore « pensava », sia che si tratti del
creatore di un’opera d’arte, dell’autore di un’azione, del compilatore di un codice o di qualunque
altro autore. La mens auctoris non limita l’orizzonte di comprensione in cui l’interprete deve
muoversi, in cui anzi egli deve necessariamente muoversi se vuole realmente comprendere anziché
semplicemente ripetere.
Mi sembra che la dimostrazione più sicura di queste considerazioni ci provenga dal campo
linguistico. Ogni interpretazione non si verifica solo nel medium del linguaggio, nella misura in cui
è valida per le produzioni linguistiche; l'interpretazione trasferisce al tempo stesso il prodotto,
elevandolo alla propria comprensione, all’interno del proprio mondo linguistico. In questo caso non
si tratta affatto di un atto secondario di fronte al comprendere. L’antica differenza tra « pensare »
(νοεΐν) e « parlare » (λέγειν), sempre valida dai Greci in poi — istituita per la prima volta nel
poema didascalico di Parmenide 15 — non può più, dopo Schleiermacher, trattenere l'ermeneutica
nel terreno neutro dell'occasionalità. In fondo non si tratta nemmeno di una traduzione, in ogni caso
non di una versione da una lingua in un'altra. L’inadeguatezza senza speranza di qualsiasi
traduzione è in grado di chiarire bene la differenza. Chi comprende non si trova nella non-libertà del
traduttore, che si deve subordinare parola per parola ad un testo ben preciso, se vuole esplicitarne la
comprensione. Egli partecipa alla libertà che è propria della lingua realmente parlata, di quella
libertà che significa: dire ciò che è intenzionato. Certamente ogni comprensione è soltanto
transitoria. Non giunge mai completamente alla fine.
Nonostante ciò, nel libero atto del dire ciò che si pensa, e anche in ciò che pensa l'interprete, è
presente una totalità di senso. Il comprendere, che si articola linguisticamente, ha intorno a sé uno
spazio libero che esso riempie rispondendo costantemente alla parola che lo interpella, senza
tuttavia esaurirlo. « Molto resta da dire »: ecco la relazione ermeneutica fondamentale.
Interpretazione non significa un fissaggio supplementare di opinioni sfuggenti, come non è qualcosa
del genere il parlare. Ciò che perviene al linguaggio non sono — e questo vale anche nella
tradizione letteraria — pensieri qualsiasi come tali, ma, per loro tramite, l’esperienza stessa del
mondo, che include sempre la totalità della nostra tradizione storica. Tradizione è sempre un filtro
per ciò che in essa viene tramandato. Non solo la parola che la teologia deve ricercare, ma anche
ogni risposta all'interpellarci della tradizione è una parola che custodisce.
1Si veda la recensione di N. HARTMANN al primo volume dello « Jahrbuch für Philosophie und
phänomenologische Forschung », in « Die Geisteswissenschaften », 1 (1914), 35, pp. 971 ss., poi in
Kleine Schriften, III, de Gruyter, Berlin 1958, pp. 365 ss.
2    Platone, Sofista, 246 d.
3   Si tenga presente al riguardo il rimando ad ARISTOTELE, Etica Nicomachea VI e Metafisica XII,
contenuto in M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Halle 1927, Tübingen 197915, p. 225, nota 1
[Essere e tempo, tr. it. di P. Chodi, UTET, Torino 1969, p. 343, nota a].
4    Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 9, 1141b 33 ss.
5 Che anche in questo caso il concetto aristotelico di φύσις· fosse importante per Heidegger, ce lo
insegna la sua interpretazione di Aristotele, Fisica, B 1, in Vom Wesen und Begriff der φΥΣΙΣ, in «
Il pensiero », 3 (1958), 2-3, pp. 131-156, 265-290; poi in M. HEIDEGGER, Wegmarken, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1967, pp. 309-371; ora in Gesamtausgabe, voi. 9, Klostermann, Frankfurt a.M.
1976, pp. 239-301 [Dell’essere e del concetto della φΥΣΙΣ, tr. it. di G. Guzzoni, Biblioteca de « Il
pensiero », Milano 1960, pp. 61-109],
6    Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit., p. 339 [tr. it. cit., p. 493].
7    Cfr. E. HUSSERL, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, a cura di M. Heidegger, in
«Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung », 9 (1928), pp. 395 ss. [Per la
fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. it. di A. Marini, Angeli, Milano 1981].
8    M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit., p. 75 [tr. it. cit., p. 1501.
9    Ivi, p. 308 [tr. it. cit., p. 453],
10    J.G. FICHTE, Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre, in Sämtliche Werke, a cura di I.H.
Fichte, Berlin 1844 ss., vol. I, pp. 471 ss., 474 ss., 482 ss.
11    Ivi, p. 486.
12 Cfr. R. KNOLL, J.G. Hamann und F.H. Jacobi, Heidelberg 1963. Si veda anche il mio saggio Zur
'Problematik des Selbstverstandnisses, in Kleine Schriften I, Mohr, Tubingen 1967, pp. 70-81. Il
percorso di pensiero, sia nel presente lavoro che nel saggio citato, indica che mi ero occupato
proprio della novità della locuzione « autocomprensione » (Selbstverstandnis) e della problematica
su cui si fonda. Tuttavia nel testo della prima edizione mi sono espresso in modo sbagliato e mi
sono quindi corretto di conseguenza. La parola « autocomprensione » è in effetti recente. F.
Tschirch (in Aa. Vv., Festschrift Eggers, 1972) ha presentato al riguardo un’ampia raccolta. Ma
chiaramente egli non ha letto o non ha capito i miei lavori. Altrimenti avrebbe corretto tacitamente
l'errore in cui ero incorso. Anche un lessicologo puro dovrebbe prendere conoscenza delle seguenti
osservazioni storicoconcettuali;
1.    La raccolta terminologica presentata da Tschirch conferma indirettamente l’origine pietistica
del concetto da me sostenuta: sia Erwin Metzke che Hans R.G. Gunther sono ricercatori che si sono
occupati del pietismo (Hamann, Jung-Stilling).
2.    Tschirch non ha ragione a ricondurre l'uso teologico moderno della parola soltanto a Friedrich
Karl Schumann. « Autocomprensione » era già negli anni Venti una delle parole preferite da Rudolf
Bultmann, come risulta dal mio saggio citato sopra.
3.    Per il resto ha ragione Theodor Litt quando nel 1938 scrive: « L’“autocomprensione” viene
cercata quando viene meno l' “ovvietà” dell’esistenza ».
13Cfr. Chladenius citato in H.G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Mohr, Tubingen 1960, p. 172
[Verità e Metodo, tr. it. di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972, p. 223].
14 Anche se Oskar Becker intende metter in gioco la verità « pitagorica » contro il mio tentativo di
interpretare in senso ermeneutico anche l’esperienza estetica (cfr. « Philosophische Rundschau », 10
(1962), pp. 125 ss.; in particolare p. 237), egli non coglie secondo me il vero punto centrale della
discussione.
15 PARMENIDE, Fr. 2, 7 ss., fr. 8, 8, 35 s. (Diels5).
4. « CHE COS’È METAFISICA? »
(1978)
La lezione inaugurale tenuta da Heidegger nel 1929 a Friburgo assume all’interno della sua opera
un posto privilegiato. Si tratta di una lezione accademica che si rivolge ai docenti e agli studenti
della sua antica università da cui una volta egli aveva preso l’avvio e dove ora, nel 1929, faceva
ritorno — allora studente, assistente, libero docente ed ora, dopo il clamoroso successo di Essere e
tempo, il pensatore più famoso della sua epoca. Perciò anche la risonanza della prolusione fu
straordinaria. Ben presto si succedettero le traduzioni in francese, giapponese, italiano, spagnolo,
portoghese, inglese e turco, e non so quante altre ancora si siano nel frattempo aggiunte a queste.
Ma già la prima rapida e ampia diffusione in altre tradizioni culturali è notevole. Una traduzione di
Essere e tempo, già a causa dell’ampiezza dell’opera, non poteva certamente essere altrettanto
rapida. Non si può tuttavia non riconoscere che la risonanza di Che cos’è metafisica? fu
particolarmente fulminea e vasta. E' significativa soprattutto la tempestività delle traduzioni in
giapponese e persino in turco, in lingue cioè che non rientrano nell’ambito linguistico dell’Europa
cristiana. Il tentativo heideggeriano di pensare oltre la metafisica sembra dunque riscontrare una
particolare disponibilità ad essere recepito proprio nelle culture in cui la metafisica greco-cristiana
non rappresenta l’unico sfondo su cui si basa il pensiero. Per contro la stessa prolusione, con il suo
discorso sul nulla, divenne il bersaglio di una critica radicale dal punto di vista logico, sostenuta da
Rudolf Carnap nel 1932 su « Erkenntnis », che ripeteva e acuiva criticamente tutte le obiezioni
esaminate da Heidegger stesso nella prolusione, dove preparava il terreno per il problema circa il
nulla elencando i dubbi contro la posizione di tale problema.
Ma anche lo stesso Heidegger ha dato a questa breve pubblicazione un particolare risalto,
arricchendola in successive riedizioni per due volte con un ampio commento: la postfazione quindi
del 1943 e la più lunga introduzione del 1949. Il testo attuale ha una dimensione più che
raddoppiata rispetto alla prima edizione. Inoltre è significativo che nella raccolta Wegmarken
[Segnali lungo il sentiero], una serie di scritti brevi apparsi tra il 1929 e il 1964, Heidegger abbia
inserito tutti e tre i testi, appunto come segnali lungo il sentiero ( Wegmarken).
In effetti qui si delinea per la prima volta il grande tema dell’oltrepassamento della metafisica e del
pensiero metafisico, cui sono dedicati i tentativi filosofici che caratterizzano l'ultima fase del
pensiero di Heidegger. Ma nella prolusione questo intento si esprime ancora interamente nel
linguaggio della metafisica. Il problema circa il nulla viene introdotto esplicitamente come un
problema metafisico in cui si è coinvolti non appena ci si decida a rinunciare ai ben noti mezzi di
difesa della logica.
In questo modo si solleva il problema del nulla e dell’esperienza del nulla come esperienza
fondamentale di pensiero, affinché il pensiero sia costretto a pensare il Ci dell'esserci. Questo è il
compito che Heidegger ha fatto suo, distanziandosi sempre più consapevolmente dal problema
metafisico circa l'essere dell’ente e dal linguaggio stesso della metafisica. Questo compito lo ha
impegnato per tutta la sua vita. Nel memorabile intrico e nella completa estrinsecazione della
povertà che riscontrava nel linguaggio, Heidegger arrischiò, nella postfazione nel 1943, una
proposizione di sfida: « alla verità dell’essere è essenziale che l'essere sosti senza l'ente, e che però
un ente non sia mai senza l'essere », mentre nella quinta edizione del 1949 trasformò questa frase
addirittura nel suo contrario: « alla verità dell’essere è essenziale che l'essere non sosti mai senza
l'ente, e che un ente non sia mai senza l'essere » (quest’ultima è la versione su cui è condotta la
traduzione italiana) 1. Le due versioni contrastanti consentono di misurare l’ampiezza di tensione in
cui si muove il suo interrogare. Ambedue hanno un loro senso. In entrambe è espressa l'interna
inseparabilità tra l’ente e la dimensione essenziale dell’essere, ma per contro che l'essere sia rimesso
all’ente viene detto solo nella seconda e definitiva versione. E una questione di prospettiva, se si
voglia pensare come tale la dimensione dell’« essenza » (Wesen) in cui l'essere « sosta » (west),
come se essa « avesse essere » (prescindendo da qualsiasi ente), — o se invece la si pensi come
semplice dimensione in cui l'essere « è », ossia se si
pensi che l'essere è solo nella misura in cui vi è l'ente. Pensare l'essere stesso: qui si sente la
pressione del pensiero oggettivante.
L’« essere », che non « è qualcosa » ma « sosta » (west), è in generale oggetto possibile del pensare
e del dire? Non è allora di necessità un ente « per sé »? Questa è l'antichissima seduzione del
χωρισμός-, che Platone ha intravisto come seduzione del pensiero eidetico e da cui non ha saputo
districarsi del tutto, nella quale rimane qui impigliato anche il tentativo heideggeriano di interrogare
la metafisica oltre se stessa.
La modifica del testo dalla quale siamo partiti è stata apportata nella quinta edizione (1949), a cui
Heidegger ha aggiunto l’altra nuova introduzione. È un fatto già di per sé abbastanza significativo.
Il tono di questa nuova introduzione si differenzia da quello della precedente postfazione del 1943
non meno di quanto differiscono le due varianti tra loro.
La postfazione del 1943 si presenta come se intendesse eliminare solo alcuni ostacoli che si
frappongono alla comprensione del testo e che riguardano il pensiero del « nulla, che dispone
l’angoscia nella sua essenza ». Interrogandosi sul nulla, la prolusione si interroga sull’essere, che
non è un « che cosa », un τί, e che quindi non è stato pensato dalla metafisica come « essere ». La
postfazione distingue questo nuovo modo di interrogare, definito « pensare essenziale », dalla
logica e dal pensiero « calcolante ». L’apologia si trasforma in appello, che cerca di descrivere, per
così dire, partendo dall’essere stesso, il pensare determinato dall'« altro dell’ente », rendendolo in
parole e immagini nelle quali vibra il pathos escatologico degli anni della catastrofe tedesca. Vi si.
parla della necessità del sacrificio, della « riconoscenza » (Dank) che pensa l'essere e ne custodisce
il ricordo, dell’« eco della grazia dell’essere », dell'« insistere » nell'esserci, che cerca la parola per
l'essere; ed è come una conferma di questa metaforica sonora il fatto che la postfazione stessa
accosti alla fine il dire del pensatore e il nominare del poeta, unendoli strettamente.
La successiva introduzione del 1949 si sforza invece di presentare la prolusione come una
conseguenza interna del nuovo sentiero filosofico aperto da Essere e tempo e che conduce,
oltrepassando la prolusione, ai tentativi di pensiero seguenti alla cosiddetta svolta. Nel frattempo
non solo le interpretazioni heideggeriane di Holderlin avevano ottenuto una generale recezione, ma
la Lettera sull’umanismo e i Sentieri interrotti avevano reso visibili gli itinerari che il pensiero di
Heidegger stava seguendo. Con precisi riferimenti a Essere e tempo e alla storia della metafisica,
soprattutto ad Aristotele e a Leibniz, l’introduzione svilup-
pa quel compito di oltrepassare la metafisica che a partire dalla « svolta » teneva totalmente avvinto
il pensiero di Heidegger. Egli prende di nuovo l’avvio da una metafora: quella dell'arbor
scientiarum, l’immagine dell’albero, che si innalza allontanandosi dal suo suolo. Con questa
immagine Heidegger vuole mostrare che la metafisica non pensa il suo proprio fondamento, e si
prefigge di chiarire l’essenza della metafisica ritornando al fondamento che le rimane occultato. Qui
egli si oppone esplicitamente alla pretesa della metafisica di pensare l’essere, facendo oggetto di
riflessione la metafisica stessa, il fatto che la metafisica ci sia stata, che con essa sia iniziato il
pensare. Quale significato assume il problema metafisico circa l’essere dell’ente per l’essere stesso
e per il suo rapporto con l’uomo? La domanda della metafisica: « Perché vi è in generale l'essente e
non piuttosto il nulla? » si capovolge quindi nella domanda: perché il pensiero si interroga più
riguardo all’ente che riguardo all’essere? Certamente questo non è più un problema metafisico,
come si proponeva la prolusione quando poneva la domanda circa il nulla, ma è una domanda
rivolta alla metafisica stessa. Non: cosa pensa, ma cos’è propriamente la metafisica. Qual è il suo
destino (Geschick)? E in che modo questo evento determina il nostro destino? L’introduzione
aggiunta alla prolusione nel 1949 non introduce più alla situazione della scienza e ai compiti della
universìtas literarum, come invece faceva la lezione programmatica del 1929, ma alla situazione del
mondo contemporaneo e dell’umanità intera, quale si delinea all'inizio del dopoguerra e con
l’avanzata esplosiva della rivoluzione industriale nella seconda metà del XX secolo.
1 Cfr. M. HEIDEGGER, Was ist Metaphysik?, Cohen, Bonn 1929, Klostermann, Frankfurt a.M. 19434,
19495 [Che cos’è metafisica?, tr. it. di H. Kunkler, A. Mattone, G. Raio, prefazione di H.G.
Gadamer, Pironti, Napoli 1978, p. 48: va ricordato che il presente capitolo riproduce appunto il testo
di questa prefazione (N.d.T.) ].
5. KANT E LA SVOLTA ERMENEUTICA
(1975)
La posizione di Kant nel pensiero moderno è estremamente singolare. Egli è diventato più o meno
una premessa comune di tendenze filosofiche contrapposte, degli empiristi da un lato, i quali
reclamano per sé la distruzione kantiana della « metafisica dogmatica », l’opera del « grande
demolitore » — come lo chiamava Mendelssohn — anche se non sono soddisfatti da qualche
residuo dogmatico del pensiero razionalistico, per esempio nella deduzione kantiana della
tridimensionalità dello spazio. Mentre dall’altro lato gli aprioristi, che si ritengono trascendentalisti
e si richiamano a Kant, si trovano tutti alla fine annoverati tra i seguaci di Fichte, desiderosi di
abbandonare il residuo dogmatico della cosa in sé in favore della deduzione di ogni validità dal
principio supremo dell’ego. Anche il conflitto tra idealisti e materialisti, quale si configura
nell'ottica marxista, viene ridefinito attraverso Kant nel senso che ogni materialismo prekantiano è
visto, come è noto, da Marx stesso come dogmatico. Sta di fatto però che la parola d’ordine del «
ritorno a Kant », proclamata verso il 1860 in opposizione al dominio esercitato dall’idealismo
speculativo della scuola hegeliana, ma anche in contrasto con i suoi vittoriosi avversari:
materialismo, naturalismo, psicologismo, e che diede avvio al cosiddetto neokantismo, si trovava
nella scia di Fichte e di Hegel molto più di quanto non sospettassero coloro che la seguivano.
Ma anche in altro punto la tendenza empirista, insieme all’apriorismo neokantiano, ha modificato
l’immagine che di Kant aveva l’epoca postkantiana e posthegeliana: la costruzione della metafisica
morale, fondata sul fatto razionale della libertà, fu lasciata in secondo piano dalla distruzione della
metafisica dogmatica operata dalla kantiana Critica della ragion pura. La fondazione kantiana della
filosofia morale in base all’idea dell’autonomia della ragion pratica e all’imperativo categorico era
— a buon diritto — considerata una delle massime conquiste della filosofia di Kant, ma fu tenuto in
poco conto il fatto che si trattasse di una fondazione della metafisica dei costumi e valorizzasse di
nuovo una « metafisica morale ».
Certamente, per la comprensione del mondo storico, l’orientamento di Kant verso la scienza
naturale pura nel senso di Newton poteva offrire poco, in confronto alla tanto grandiosa quanto
forzata costruzione filosofica della storia universale di uno Hegel. La filosofia morale di Kant
rigettava addirittura ogni fondazione antropologica e pretendeva espressamente di essere valida per
l'essere razionale in generale. In un epoca che era orgogliosa di aver superato la metafisica, si
cercava tuttavia di trasferire la metodologia trascendentale anche ad altri settori, interpretando Kant
in senso « gnoseologico » e così anche il geniale momento della filosofia morale kantiana fu
interpretato in chiave gnoseologica, con la ricerca di una teoria in grado di fondare sia la
conoscenza del mondo storico sia la scienza della natura. L ambizione nutrita da Dilthey, di porre al
fianco della critica di Kant la sua critica della ragion storica, e la teoria neokantiana formulata da
Windelband e Rickert, secondo la quale la conoscenza storica doveva svilupparsi alla luce dell'idea
sistematica di un regno dei valori, testimoniano dunque a modo loro la supremazia del criticismo
kantiano. Ma tutto ciò era molto distante dal corrispondere alla concezione che Kant aveva della
propria filosofia, secondo la quale egli avrebbe mostrato al sapere i suoi limiti per trovare alla fede
il suo spazio.
Era quindi un Kant singolarmente ridotto quello che, nell’età del neokantismo, sotto forma di
criticismo o di filosofia trascendentale, diveniva l’iniziatore dell’idea di un sistema universale. È il
caso di quel neokantismo che, in particolar modo nella sua versione marburghese, sviluppò l’idea di
una psicologia trascendentale (Natorp) come componente collaterale di una « logica universale », e
che così fornì un punto d’appoggio alla fenomenologia husserliana, che proprio allora stava facendo
i suoi primi passi, per comprendere filosoficamente se stessa.
Il ventesimo secolo, e in particolare il movimento filosofico successivo alla prima guerra mondiale,
è legato al concetto di fenomenologia. Ciò che oggi si chiama « filosofia ermeneutica » poggia in
buona parte su un fondamento fenomenologico. Che cos’è infatti la fenomenologia quale si presenta
oggi ad uno sguardo storico retrospettivo? Non è certo in primo luogo una variazione — e
nemmeno la più conseguente prosecuzione — del neokantismo di impronta marburghese. Come
indica già la parola, fenomenologia era un atteggiamento metodico per descrivere senza pregiudizi i
fenomeni, rinunciando per metodo a spiegarne l’origine fisiologico-psicologica o a ricondurli a
principi preconcetti. La meccanica delle sensazioni (Mach), l’utilitarismo dell’etica sociale inglese
(Spencer), il pragmatismo americano di James e la teoria edonistica delle pulsioni della psicologia
freudiana del profondo furono quindi sottoposti alla critica fenomenologica di Husserl e di Scheler.
Nei confronti di tali schematismi della spiegazione l’intera ricerca fenomenologica, come anche la
psicologia descrittiva e analitica di Dilthey, orientata alle scienze dello spirito, potevano essere
definite « ermeneutiche » — certo in un senso molto ampio —, in quanto il contenuto di senso, il
tenore essenziale o la struttura di un fenomeno non dovevano essere spiegati, ma interpretati. In
effetti si trova quindi nel linguaggio husserliano, fin dall’inizio, il termine « interpretare »
(auslegen) nel senso di una dettagliata illustrazione descrittiva, e la formazione della teoria
diltheyana delle scienze dello spirito è completamente basata in ultima analisi sul carattere «
ermeneutico » della comprensione del senso e dell’espressione.
Nel contempo, il consapevole rifarsi di Husserl al neokantismo, utilizzato al fine di giustificare
teoreticamente la sua arte descrittiva e la sua teoria dell’evidenza, riproponeva una concezione
sistematica estremamente unilaterale, che non risale tanto a Kant quanto piuttosto a Fichte e a
Hegel. Se è vero che all’insegna del motto: come divengo un filosofo onesto? Husserl compiva uno
sforzo trascendentale di giustificazione, la riduzione trascendentale all’apoditticità
dell’autocoscienza, che doveva fare della filosofia una « scienza rigorosa », e il programma di una
fenomenologia « costitutiva », impiantato sull’evidenza dell’ego trascendentale, non
corrispondevano affatto al senso della deduzione trascendentale, come l’aveva impiegata Kant a «
dimostrazione » della validità delle categorie, dopo che la deduzione metafisica aveva fatto derivare
la tavola delle categorie dalla « tavola del giudizio ». La fenomenologia « costitutiva » di Husserl
era assai più affine all’ideale fichtiano della « deduzione », cioè della derivazione delle categorie
dall’atto-azione (Tat-Handlung) dell’io. Husserl poteva certamente essere cosciente del fatto che
l’idea sistemica dell’idealismo speculativo fichtiano-hegeliano o, per contro, del neokantismo di
Marburgo, era priva di una vera fondazione « dal basso » e che solo la chiarificazione
fenomenologica della correlazione tra atto intenzionale e oggetto intenzionale poteva realizzare
l’idea trascendentale della « produzione » o della « costituzione ». L’esempio paradigmatico e noto
di un’indagine sulla correlazione tra atto e oggetto intenzionali era la fenomenologia della
percezione. In essa compare chiaramente il progresso decisivo rispetto al concetto di correlazione
impiegato da Natorp: la ricca differenziazione della vita dell’atto (Akt-Leben) intenzionale che, di
fronte allo stesso oggetto, si offre come tema dell’analisi fenomenologica. Questa differenziazione
condusse a un nuovo chiarimento fenomenologico delle prospettive kantiane nel senso di un
neokantismo coerentemente prossimo a Fichte.
Si prenda come esempio l’antica crux del kantismo, la dottrina della « cosa in sé » che Fichte
considerava una metafora da eliminare nell’interpretazione e che il neokantismo marburghese
(Natorp) aveva tramutato nel « compito infinito » teso a definire l’oggetto della conoscenza.
Husserl aveva intravisto chiaramente l’ingenuità di coloro che in questo caso pensavano di poter
riscontrare in Kant un momento « realistico » all’interno della sua filosofia idealistica, e chiarì
appunto questo momento « realistico » dell'essere-in-sé con la sua magistrale analisi della
fenomenologia della percezione. Il continuum degli adombramenti (Abschattungen) che un oggetto
di percezione per essenza ci offre è implicato in qualsiasi atto intenzionale di percezione: questo è
per l’appunto il senso dell'essere-in-sé della cosa.
Husserl poteva considerarsi pienamente il vero realizzatore dell'idea trascendentale, in quanto
impegnato a dimostrare, con brillanti analisi fenomenologiche sulla « fenomenologia della
coscienza interna del tempo », la sintesi trascendentale dell’appercezione e il suo nesso con il «
senso interno ». Impostando il problema in forma sempre più raffinata, abbozzò, partendo da questo
fondamento, Pintero sistema di una filosofia come scienza rigorosa e fondata
fenomenologicamente. Affrontò dal punto di vista dell’io trascendentale i più ardui problemi: la
coscienza del corpo proprio (Leibbewusstsein), la costituzione dell’altro
Io (problema dell’intersoggettività) e dell’orizzonte storicamente mutevole del « mondo-delia-vita
». Senza dubbio queste sono le tre istanze che oppongono la resistenza apparentemente più tenace
alla costituzione nell’autocoscienza. Proprio al superamento di queste resistenze era dedicata
l’ultima fase del lavoro di Husserl. Chi, partendo da queste controistanze, si lasciava fuorviare nella
realizzazione della fenomenologia trascendentale, secondo Husserl non aveva compreso la
riduzione trascendentale (cosa che Husserl ebbe modo di rimproverare non solo ai fenomenologi di
Monaco e a Scheler, ma infine anche allo Heidegger di Essere e tempo). Ciò non potè risultare
chiaro al primo momento a causa dell’autointerpretazione trascendentale di Heidegger. Infatti
ancora nel 1929, un anno dopo la pubblicazione di Essere e tempo, Oskar Becker inquadrava l’«
analitica trascendentale dell’esserci », come dimensione ermeneutica del mondo-della-vita, nel
programma della fenomenologia trascendentale di Husserl.
Nel frattempo si impose rapidamente l’intenzione autentica di Heidegger, che correva di pari passo
con il suo riferimento alla problematica ermeneutica della scienza storica e teologica,
riattualizzando cosi in modo sorprendente il Kant originario contro i suoi continuatori speculativi.
L’inserimento di Essere e tempo nella fenomenologia trascendentale di Husserl doveva in realtà
spezzarne i confini; Husserl stesso non potè infatti nascondersi più a lungo che l’opera profonda e di
successo di Heidegger non rappresentava più un contributo alla « filosofia come scienza rigorosa ».
Il discorso della storicità dell'esserci introdotto da Heidegger seguiva una direzione completamente
diversa. La tradizione della scuola storica, che si rifletteva nell’opera filosofica di Dilthey e del
conte Yorck, era in verità molto distante dal trascendentalismo della filosofia neokantiana. Sotto
l’influsso della scuola storica, ma anche della reinterpretazione schopenhaueriana di Kant in una
metafisica della volontà cieca, nel corso del XIX secolo la base della filosofia si era spostata
dall’autocoscienza al « lavoro ideale della vita ». All’inizio del nostro secolo la nozione di « vita »
fu sospinta in primo piano soprattutto dall’influsso allora incipiente di Nietzsche, mediato dai
grandi romanzieri, ma anche dalla presenza di Bergson, di Simmel, di Scheler. Analogamente
emergeva il concetto di inconscio nella psicologia. Quindi non erano più le datità fenomeniche
dell’autocoscienza, ma l’interpretazione dei fenomeni, che emergevano dalla mobilità ermeneutica
della vita, a dover essere sottoposta a sua volta all’interpretazione.
Era dunque una complessa costellazione a conferire all’impresa di pensiero di Heidegger la sua
caratteristica efficacia. Cresciuto all’ombra dell’apriorismo neokantiano di Rickert e sviluppatosi
poi alla scuola della fenomenologia di Husserl interpretata in senso neokantiano, il giovane
Heidegger recuperò tuttavia proprio quest’altra tradizione « ermeneutica » delle scienze dello spirito
ai problemi fondamentali del pensiero contemporaneo. In particolare l’irrazionalità della nozione di
vita rappresentava una sorta di controistanza nei confronti del neokantismo. La stessa scuola di
Marburgo tentò allora di spezzare l’incantesimo del pensiero trascendentale, e il vecchio Natorp si
spinse dietro a ogni logica, risalendo al « concreto originario » (Urkonkrete). Il giovane Heidegger
ci riporta una frase delle sue prime lezioni: « la vita è nebulosa [diesig] ». Questa frase, in cui
diesig non ha nulla a che fare con dies (questo), ma significa appunto nebbioso, nebuloso, significa
dunque che il carattere essenziale della vita è di non aprire alcun rischiaramento totale
nell’autocoscienza, ma di annebbiarsi costantemente e ricorrentemente. Questo era pensato molto
più nello spirito di Nietzsche, mentre la coerenza interna del neocriticismo, come si manifestava
allora, poteva riconoscere l’irrazionale e la validità extrateoretica tutt’al più come una sorta di
concetto-limite della propria sistematica logica. Infatti Rickert dedicò alla « filosofia della vita »
una sua critica resa dei conti. E l’idea husserliana della « filosofia come scienza rigorosa » si
differenziava per principio, decisamente e totalmente, da qualsiasi corrente irrazionalistica alla
moda, in particolare anche dalla filosofia della visione del mondo. Ciò che fu realizzato da
Heidegger con il richiamo alla storicità dell'esserci era dunque in ultima analisi un distacco radicale
dall'idealismo. Si ripeteva così nel nostro secolo la medesima critica alPidealismo che era stata
esercitata dopo la morte di Hegel dai giovani hegeliani, critici verso l’enciclopedia speculativa del
sistema hegeliano. Questa ripresa era stata mediata specialmente dall'influsso di Kierkegaard. Era
stato lui a rimproverare a Hegel, il professore assoluto di Berlino, di aver dimenticato l'« esistere ».
In Germania l'opera di Kierkegaard, nella libera traduzione tedesca di Christoph Schrempf, fece
davvero epoca negli anni che precedettero e seguirono la prima guerra mondiale. Jaspers ne aveva
trasmesso la teoria attraverso un'eccellente « esposizione di Kierkegaard », da cui prese avvio la
cosiddetta filosofia delPesistenza. La critica all'idealismo in essa contenuta dilagò in ampi circoli,
diffusa da filosofi e teologi. Ecco la situazione in cui l'opera di Heidegger trovò la sua risonanza.
Questa critica alPidealismo era palesemente ben più radicale di tutte le differenze critiche esistenti
tra neotomisti, kantiani, fichtiani, hegeliani e fautori dell'empirismo logico. Anche in conflitto tra
l’ideale sistematico neokantiano e il tentativo diltheyano di critica della ragione storica si
manteneva nel quadro di premesse in ultima analisi comuni, per quel che riguardava il compito
della filosofia. La nuova impostazione heideggeriana era l'unica che condivideva con i giovani
hegeliani la radicalità della critica alla filosofia. È chiaro che, non a caso, anche la ripresa del
pensiero marxista non poteva facilmente eludere l'impostazione filosofica di Heidegger. Herbert
Marcuse cercò perfino di collegare queste due dimensioni.
In realtà la parola d'ordine annunciata dal giovane Heidegger si presentava alquanto paradossale,
critica in ogni direzione. La parola d’ordine era: ermeneutica della fatticità. Bisogna rendersi conto
che è come dire un ferro di legno, una contraddizione in termini. Infatti la parola fatticità significa
proprio la resistenza irremovibile opposta dal fattuale a qualsiasi afferrare e comprendere. E nella
particolare versione che Heidegger diede al concetto, fatticità significava una determinazione
fondamentale dell’esserci umano, che non è appunto soltanto coscienza o autocoscienza. La
comprensione dell’essere, che distingue l'esserci da ogni altro ente e che ne costituisce la struttura
ermeneutica, non si esaurisce nel progetto per la sua costituzione spirituale, attraverso la quale si
eleva al di sopra di qualsiasi ente di natura. La comprensione dell'essere che contraddistingue
l'esserci umano, in quanto egli si interroga circa il senso dell’essere, è anche in sommo grado un
paradosso. Infatti il problema del senso dell'essere non è, come altri interrogativi intorno al senso di
qualcosa, di natura tale da poter comprendere una cosa data in relazione a ciò che ne costituisce il
senso. L’esserci umano, interrogandossi sul senso del proprio essere, si vede piuttosto confrontato
con l'inconcettualizzabilità della sua propria esistenza. Per quanto Tuomo possa accertarsi, nel
comprendere, che tutto e ogni cosa siano dotati di senso, tuttavia nel suo proprio esserci e per la sua
propria capacità di comprendere se stesso, la sua domanda sul senso, che egli deve porsi,
rappresenta un limite invalicabile. L'esserci è per se stesso non solo l'orizzonte aperto delle sue
possibilità, in vista delle quali egli si progetta, ma incontra in sé anche il carattere di
un’insormontabile fatticità. Esserci può significare scegliere l'essere, come Kierkegaard aveva
evidenziato nell’idea dell' aut aut della scelta l'autentico carattere etico dell’esserci, ma in verità
assume così solo la sua propria esistenza, in cui è « gettato » (geworfen). Gettatezza (Geworfenheit)
e progetto (Entwurf) rappresentano la costituzione unitaria fondamentale dell'esserci umano.
Ne scaturisce una critica in due direzioni: all’idealismo trascendentale di Husserl e alla filosofia
della vita nel senso di Dilthey e dello stesso Max Scheler. Questa doppia direzione della critica si
rivelerà alla fine come apertura di un nuovo accesso al Kant originario.
La critica che Heidegger rivolge a Husserl si indirizza soprattutto contro l'infondatezza ontologica
del carattere della coscienza. Formatosi su Aristotele, Heidegger scoprì la sconosciuta eredità del
pensiero greco che agiva ancora nella filosofia moderna della coscienza. L’analisi del vero esserci
umano, con la quale Heidegger inizia ad esporre il problema dell'essere, rigetta esplicitamente il «
soggetto idealizzato fantasticamente », a cui la moderna filosofia della coscienza si richiama per
giustificare ogni oggettività. È chiaro che la critica esercitata da Heidegger non è una critica
immanente; infatti egli pensa a una mancanza ontologica allorché rivela criticamente che anche
l'analisi husserliana dell'autocoscienza e della coscienza del tempo è piena di pregiudizi. Alle spalle
di questa posizione si trova la critica ai Greci stessi, alla loro « superficialità », all’unilateralità del
loro sguardo, che ha colto sì contorno e figura delTente, pensando in questo « essere » immutabile
l'essere dell’ente, ma non ha posto affatto la questione circa l'essere, la quale precede ogni questione
circa l'essere delTente. Espresso nell’orizzonte del tempo, « essente » (seiend) significa qui ciò che
è presente e attuale (Gegenwärtig-Anwesende) — e questa definizione non riesce chiaramente a
cogliere la costituzione ontologica dell’esserci umano, che non è presentita (Gegenwärtigkeit), sia
pure quella dello spirito, ma futurità (Zukünftigkeit) e cura (Sorge), nonostante ogni fatticità.
Dall’altro lato la nuova impostazione heideggeriana non può facilmente collocarsi sul terreno del
concetto di vita formulato da Dilthey. Nella costante ricerca diltheyana di una fondazione ultima
nella vita, Heidegger riconosce certo la tendenza a concepire in modo più profondo ciò che si
chiama spirito o coscienza, ma se ne differenzia perché la sua propria intenzione è ontologica.
Heidegger vuole concepire la costituzione ontologica dell’esserci umano nella sua unitarietà interna,
che non è una semplice tensione dualistica tra oscuro impulso vitale e chiarezza dello spirito
autocosciente. Anche quando critica Scheler, gli rimprovera di arenarsi in un dualismo simile.
Improvvisamente poi, percorrendo questo suo approfondimento ontologico dell’impostazione della
filosofia della vita e immerso nella critica alla moderna filosofia della coscienza, Heidegger scopre
Kant. E in Kant scopre per la precisione ciò che era stato occultato dal neokantismo e dalla sua
trasformazione fenomenologica: la dipendenza dal dato. Proprio perché l'esserci umano non è libero
autoprogettarsi, né autorealizzazione dello spirito, ma essere-per-la-morte (Sein zum Tode), vale a
dire essenzialmente finito, Heidegger può ritrovare nella dottrina kantiana dell’azione combinata tra
intuizione e intelletto, e della restrizione dell’uso dell’intelletto nei limiti dell’esperienza possibile,
un’anticipazione della propria prospettiva. È in particolare l’immaginazione trascendentale,
quell’enigmatica facoltà intermedia dell’animo umano in cui cooperano intuizione e intelletto,
recettività e spontaneità, a indurlo a interpretare la filosofia di Kant come una metafisica finita. In
essa infatti l'essere dell’oggetto non è definito dal ritorno a uno spirito infinito (come accade nella
metafisica classica). L’oggetto del conoscere è determinato dall’intelletto umano dipendente
dall’accettazione del dato.
Applicando liberamente l’impulso proveniente da Heidegger, Gerhard Krüger ha successivamente
fornito un’interpretazione anche della filosofia morale di Kant. Secondo questa interpretazione la
famosa autonomia della ragion pratica non sarebbe tanto un’autolegiferazione dell’eticità, quanto
una libera accettazione della legge, anzi, l’obbediente sottomissione ad essa.
In seguito Heidegger ha certamente determinato la posizione della filosofìa kantiana accentuandone
il senso dell’oblio dell’essere e ha abbandonato il tentativo di considerare come metafisica la
propria nuova esposizione del problema dell’essere sulla base della finitezza
KANT E LA SVOLTA ERMENEUTICA
V
dell'esserci umano. Questo accadeva con la rinuncia all’idea della riflessione trascendentale,
rinuncia legata alla « svolta ». Da quel momento scomparve dai suoi tentativi filosofici il tono
kantiano e tanto più ogni ripresa della critica di Kant alla metafisica razionalistica. Nel contempo
tuttavia l'idea della filosofia critica rimane, anche in seguito, un costante correttivo metodico che la
filosofia non deve dimenticare.
Se si seguono infatti le intenzioni dell ultima fase della filosofia heideggeriana, come ho fatto io
nella mia filosofia ermeneutica, e se si tenta di esplicitarle nell'esperienza ermeneutica, si piomba
nuovamente nella zona di pericolo della moderna filosofia della coscienza. Si può certamente
dimostrare che l'esperienza dell’arte comunica più di quanto la coscienza estetica possa concepire.
Arte è qualcosa di più di un oggetto di gusto, sia pure del gusto artistico più raffinato. L’esperienza
della storia, che noi stessi facciamo, coincide solo per una minima parte con ciò che definiremmo
coscienza storica. Ciò che ci determina storicamente è proprio la mediazione tra passato e presente,
la realtà e l’efficacia del passato. Storia è più dell’oggetto di una coscienza storica. L’unico piano di
riferimento che si colloca alla base di tali esperienze è rappresentato quindi da ciò che, riflettendo
fino in fondo sul procedere delle scienze ermeneutiche, possiamo delineare come coscienza della
storia degli effetti (wirkungsgeschichtliches Bewusstsein), che è più essere che coscienza, cioè più
influenzata e determinata storicamente che non consapevole di essere influenzata e determinata.
È del tutto inevitabile che tale riflessione sull’esperienza ermeneutica si veda esposta alla pretesa di
riflessione della dialettica speculativa hegeliana, soprattutto se non la si confina alle scienze
ermeneutiche ma si riconosce che la struttura ermeneutica è presente nella nostra intera esperienza
del mondo e nella sua interpretazione nel linguaggio. Il motivo originario che si concentra nel
termine tecnico « coscienza della storia degli effetti » è definito addirittura dalla finitezza dell’esito
della riflessione, cui la coscienza che riflette sulla sua condizionatezza è in grado di giungere.
Sempre qualcosa rimane alle nostre spalle, nonostante tutto quello che ci poniamo di fronte. Essere
storicamente significa non essere mai uscito fuori dell’accadere con la riflessione tanto da avere
tutto ciò che accade di fronte a me. In questo senso ciò che Hegel chiama la cattiva infinità è un
elemento strutturale dell’esperienza storica come tale. La pretesa di Hegel di ritrovare in fondo la
ragione anche nella storia e di gettare ogni semplice contingenza nel cumulo di rifiuti dell’essere,
corrisponde precisamente a una tendenza di movimento immanente al pensiero riflettente. Un
movimento verso una meta che non è assolutamente possibile pensare come conseguibile sembra
essere in realtà una cattiva infinità, alla quale il pensiero non può arrestarsi. Ma la storia può essere
pensata come diretta verso qualche meta, fosse anche la storia dell’essere o dell’oblio dell’essere,
senza finire nuovamente col perdersi nel regno delle semplici possibilità e delle fantastiche irrealtà?
Per quanto grande possa essere la tentazione implicita nel movimento di riflessione del nostro
pensiero, di superare con esso tutti i limiti conoscitivi e ogni condizionatezza, e di porre come reale
solo ciò che può essere pensato come possibilità, allora in ultima analisi proprio qui l’avvertimento
kantiano trova la sua validità. Kant ha esplicitamente distinto le idee verso le quali la ragione
guarda da ciò che possiamo realmente conoscere e per la cui conoscenza i concetti insiti nel nostro
intelletto possiedono significato costitutivo. La coscienza critica dei limiti della ragione umana, che
egli fece valere nella critica della metafisica dogmatica, serviva certamente a fondare una «
metafisica pratica » sul « fatto razionale » della libertà, ma tutto ciò significa: per la ragion pratica.
La critica di Kant alla ragione « teoretica » conserva la sua verità anche contro ogni tentativo di
sostituire la tecnica alla prassi, di scambiare la razionalità del nostro pianificare, la certezza del
nostro calcolare e l’affidabilità delle nostre previsioni con ciò che siamo in grado di sapere con
certezza assoluta: e cioè quello che dobbiamo fare e in che modo possiamo giustificare ciò a cui ci
decidiamo. Anche la filosofia ermeneutica non dimentica dunque la svolta critica di Kant, sebbene
trovi il proprio fondamento nella recezione heideggeriana di Dilthey. Kant è presente in essa come
presente è Platone, il quale concepì ogni filosofare come dialogo infinito dell’anima con se stessa.
6. IL PENSATORE MARTIN HEIDEGGER
(1969)
L’ottantesimo compleanno di un uomo il cui pensiero esercita da mezzo secolo il suo influsso tra
noi, è un’occasione per ringraziare. Ma come possiamo farlo? Parlando a Martin Heidegger? —
Quando si sa che la cosa da pensare lo ha afferrato molto più di quanto egli possa accettare
l’interesse per la sua persona. Parlando insieme a Martin Heidegger? — Sembra piuttosto
presuntuoso considerarsi a questo modo in un rapporto di partecipazione. Oppure addirittura
parlando di Martin Heidegger davanti a Martin Heidegger? Escluso. Non resta altro che uno di noi,
che è stato presente fin dall’inizio, diventi il testimone per tutti gli altri. In questo caso il testimone
che parlerà ora potrà dire ciò che hanno provato tutti coloro che hanno incontrato Martin Heidegger:
egli è un maestro del pensiero, un maestro della sconosciuta arte del pensare.
Questo pensiero è diventato improvvisamente presente già quando
il giovane Heidegger è salito per la prima volta, dopo la prima guerra mondiale, sulla cattedra di
Friburgo. Era qualcosa di nuovo, di inaudito. Avevamo imparato che pensare è porre in relazione:
sembrava davvero giusto che pensando si ponga una cosa in una determinata relazione e riguardo a
questa relazione si esprima un enunciato, che si chiama giudizio. Così il pensiero sembra procedere
di relazione in relazione, di giudizio in giudizio. Ora però facevamo esperienza di qualcos’altro:
pensare significa mostrare e portare-a-mostrarsi. Nella parola di Heidegger, nella sua parola che
insegnava, si verificava un evento istintivo: la piattezza dello sviluppo del pensiero veniva superata
di un’intera dimensione. L’inconcepibile talento di Heidegger, in cui l’eredità fenomenologica di
Husserl diventava efficace con accresciuta forza, fece sì che la cosa che di volta in volta veniva
trattata dal pensiero diventasse quasi corporea, piena, plastica, presente. Ci si trovava proprio
davanti ad essa, poiché qualsiasi cambiamento dell’idea rimandava solo a una e a una medesima
cosa. Dove altrimenti siamo soliti passare continuamente nel pensiero da un’idea a un’altra, qui si
rimaneva immobili presso la stessa cosa. E qui non venivano sviluppate per esempio semplici
intuitività, come nella famosa analisi husserliana della cosa percepita e del suo adombramento
(Abschattung). L’audacia e la radicalità delle domande, da cui si era incalzati, toglievano
completamente il fiato.
Uno poteva sentirsi proiettato con la memoria all’Atene della fine del quinto secolo, quando la
nuova arte del pensiero, la dialettica, stava facendo il proprio ingresso, precipitando i giovani
dell’Attica in un’entusiasmante follia. Tutto ciò ci è stato magnificamente raccontato da Aristofane,
che vi ha accomunato anche Socrate. Ora, l’inebriante influsso dell’arte di interrogare che, nei primi
anni di Friburgo e in quelli di Marburgo, proveniva da Martin Heidegger, sembrava proprio
analogo. Non mancavano infatti gli allievi e gli imitatori che, girando a vuoto attorno a domande
che superavano se sl'esse, fornivano la caricatura dell’impeto appassionato che caratterizzava il
domandare e il pensare di Heidegger. Ma in realtà, con l’apparizione di Heidegger, nella vita del
pensiero entrò per così dire una nuova serietà. La tecnica sottile degli esercizi concettuali
accademici ci apparve improvvisamente un semplice gioco e non si esagera se si dice che il suo
influsso sulla vita universitaria tedesca rimane a lungo visibile. Quando da giovani facevamo i primi
tentativi di insegnare, avevamo un modello. Al posto dello svolgimento, che aveva carattere di
routine, della lezione, in cui si avevano in mente i suoi « libri », era subentrata una nuova dignità
della vox viva, assieme alla completa integrazione dell’insegnamento e della ricerca nell’avventura
del radicale interrogare filosofico. Questo era il vero avvenimento degli anni Venti, il cui significato
consisteva nel fatto che Martin Heidegger aveva superato di gran lunga la « disciplina » della
filosofia.
Non si trattava quindi di una pura e semplice nuova arte, di una forza dell’intuizione nel dimostrare
il proprio mestiere concettuale. Nel pensiero di Heidegger agiva anche e soprattutto un nuovo
stimolo, uno stimolo che trasformava tutto: si trattava di un pensare fin dall’inizio e a partire dagli
inizi. Non certamente nello stile in cui il neokantismo e la fenomenologia di Husserl, « come
scienza rigorosa », cercavano un inizio « che rappresentasse il fondamento ultimo », trovandolo nel
principio della soggettività trascendentale, in base alla quale si doveva far acquisire a ogni
proposizione filosofica un ordine sistematico e una deduzione. Il radicale domandare heideggeriano
mirava a una originarietà più profonda di quella che veniva cercata nel principio dell’autocoscienza.
In questo egli era un figlio del nuovo secolo, quello
dominato da Nietzsche, dallo storicismo, dall’atmosfera della filosofìa della vita, quello che
guardava con sospetto, giudicandole illegittime, le espressioni dell'autocoscienza. In una delle
prime lezioni friburghesi, di cui sono a conoscenza grazie agli appunti presi da Walter Bròcker, al
posto del principio della perceptio chiara e distinta dell'ego cogito, Heidegger ha parlato della «
nebulosità » (Diesigkeit) della vita. Che la vita sia nebulosa non significa assolutamente che la
navicella della vita non veda attorno a sé alcun orizzonte chiaro e libero. Nebulosità non significa
semplicemente offuscamento della vista, ma descrive la costituzione fondamentale della vita come
tale, il movimento in cui essa si realizza. La vita annebbia se stessa. In questo annebbiamento
risiede la sua caratteristica antiteticità, come ha insegnato Nietzsche: non solo tendere e conoscere
nella chiarezza, ma anche nascondersi e obliarsi nell'oscurità. Quando Heidegger chiamava non-
nascondimento l’esperienza fondamentale dei Greci, l'άλήθεια, non intendeva solo che la verità non
è evidente e deve essere strappata dal nascondimento, come in una rapina, ma intendeva anche che
la verità rischia costantemente di risprofondare nell’oscurità e lo sforzo del concetto deve appunto
essere diretto a preservare il vero dall'inabissamento, e inoltre, pensare questo sprofondare come
l'accadere della verità.
Heidegger chiamava « ontologia » il suo primo tentativo di pensare in maniera originaria. «
Ontologia » era il titolo della prima lezione che, nel 1923, ho ascoltato presso di lui. Ma ontologia
non era qui intesa nel senso della tradizione della metafisica occidentale, che aveva fornito alla
domanda sull’essere una prima risposta, decisiva per la storia universale. Il termine aveva qui
l’unica pretesa di produrre una primissima preparazione della posizione del problema. Cos’è una
posizione del problema? Porre un problema sembra un po’ come tendere una trappola, in cui l’altro
cade con la sua risposta, e in questa egli cade a causa di come gli è stata posta la domanda. In
questo caso però non si tratta di porre la domanda in vista di una risposta. Quando si pone la
questione circa l’« essere », non si va con la domanda al di là di nulla, e « porre » il problema
dell’essere significa piuttosto consegnarsi al problema, al solo problema grazie al quale l'« essere »
in generale è e senza il quale « essere » rimarrebbe una vuota nebbia terminologica. È dunque in
tutt’altro senso che Heidegger pone il problema circa l’inizio della metafisica occidentale, un altro
senso da come lo porrebbe uno storico. Occasionalmente — nel contesto del superamento della
metafisica occidentale, che si tratta non tanto di portare dietro di sé quanto davanti a sé —
Heidegger ha detto, a proposito di questo inizio, che esso sarebbe già sempre passato al di là di
noi. Significa che un interrogare retrospettivo riguardo all’inizio è un interrogare circa noi stessi e il
nostro futuro.
In realtà, alla domanda retrospettiva, che Heidegger pone circa l’inizio si sono collegati i
fraintendimenti più assurdi, come se Heidegger, di fronte alla cattiva decadenza in cui la storia è
progressivamente piombata, cercasse di andare a riprendere la priorità del momento iniziale e
originario. Questo significa non riconoscere la serietà con cui egli pone il problema riguardo a ciò
che è. Non è proprio nulla di mistico quello che ci ha colpito come « destino dell'essere », ma si
presenta davanti a tutti come la conseguenza del cammino del pensiero occidentale fino alla civiltà
tecnica dei giorni nostri, che ricopre il globo terrestre come una rete in grado di catturare tutto.
Perciò i toni consueti della critica della civiltà suonano qui con una singolare ambiguità: esprimono
l’angosciato riconoscimento di una fatalità e al tempo stesso una attesa del futuro che si attiene alla
radicale sfida rivolta all’essere da parte di un « fare » che tenta ogni possibilità.
In ogni caso, però, non nell'illusione che potremmo sottrarci a ciò che è, in una presunta libertà,
nella nostalgia dell’originario che potrebbe ritornare.
Qui si radica il secondo dei fraintendimenti comuni, l’accusa di storicismo: insegnando la storicità
della verità come il destino dell’essere, si finirà per perdere di vista il problema della verità.
Si rinnova così la problematica dello storicismo di Dilthey, che si logorava lavorando attorno al
problema della riflessione incessantemente impigliata in se stessa; oppure si propone, con un pathos
etico-sociale, la riflessione sociologica, che prende coscienza dei pregiudizi ideologici insiti in ogni
sapere, pretendendo l’apparente libertà della dialettica ed esigendo l’impegno sociale.
Tutto ciò sembra piuttosto ridicolo di fronte a un pensiero che non condivide tali preoccupazioni,
poiché non vede nel pensare uno strumento per raggiungere determinati fini, un mezzo in cui conta
l’abilità fino alla saccenteria, ma lo vive come una passione autentica. Qui nessuna saccenteria può
essere d’aiuto. Si deve riconoscere che il pensare — da sempre — è, in un profondo e inappellabile
senso, disinteressato, non nel senso che nel pensare non venga preso di mira alcunché, alcun utile
individuale o sociale, ma nel senso che anche il Sé proprio di colui che pensa sia come dissolto nel
suo condizionamento personale o storico. E' vero, un simile pensiero è raro — e deve sopportare poi
di essere accusato di irresponsabilità sociale, di non mettere le carte in tavola —, ma possiede
grandi modelli e convincenti esempi. I maestri in questa grande e sconosciuta arte del pensiero
disinteressato sono stati i
Greci. Avevano perfino una parola per esprimerlo: νους, che nel lessico dell'idealismo tedesco
significa il razionale e lo spirituale (in approssimativa analogia), pensiero in cui non viene
intenzionato nulla se non ciò che è. Hegel è stato l’ultimo Greco: proprio grazie all’esigenza, da lui
espressa nella sua dialettica, di un pensiero disinteressato, che non faccia sfoggio di idee proprie o
di saccenteria.
Se Martin Heidegger, nolens-volens, si inserisce nella schiera di questi classici del pensiero, non è
solo perché egli ha accolto e fatto propri i grandi problemi di questa tradizione di pensiero senza
qualsiasi distanza « storicistica », ponendo il problema del senso dell’essere, ma perché era
dominato da questo problema a tal punto che non sussisteva più alcuna distanza tra ciò che egli
pensava e insegnava e ciò che egli era per se stesso. La sconosciuta arte del pensare si fonda su
questo disinteresse, che non si sa implicato, e non lo è, nella dialettica del progressivo sapere di sé.
Arrivo dunque all’ultimo punto con cui desidero testimoniare l’istintivo impeto del pensare che si
manifestava in Martin Heidegger. Si tratta di un punto che è sulla bocca di tutti e tuttavia, proprio
per questo, attira in particolar modo su di sé il fraintendimento. Si tratta del linguaggio
heideggeriano. Infatti, in maniera più esclusiva che per la grande tradizione di pensiero della
metafisica, la materia del pensare heideggeriano è linguaggio, questo che è il più visibile
disinteresse del pensiero. La bizzarria del peculiare linguaggaio di Heidegger è stata criticata
volentieri: può dunque accadere, anzi, deve accadere che chi non pensa con lui non possa
dimenticare che qui non si tratta di percorrere vie consuete di combinazione linguistica. E in realtà
non si tratta nemmeno del linguaggio dell'informazione. Il linguaggio di Heidegger, il linguaggio
del pensiero, non trasmette semplicemente, per mezzo degli strumenti linguistici, qualcosa che
sarebbe conosciuto per quello che è anche senza la linguisticità, poiché in linea di principio può
essere conosciuto da ciascuno. Per lo sguardo obliquo dei sociologi o dei politologi, il «
direttamente » di questo pensiero non è certo intuitivamente comprensibile e sembra un ricercato
manierismo. Ma questo sguardo viene sfidato in maniera ancora più intensa quando Heidegger,
sempre più, va a cercare fin nelle fondamenta sl'esse del linguaggio, portando alla luce, come un
cercatore di tesori, oggetti splendenti e brillanti estraendoli da oscuri pozzi. Ciò che balena qui nella
strana luce oscura (Dunkel-Licht), molto spesso in modo sorprendente e inusitato, e talvolta tuttavia,
alla fine, come un reperto prezioso universalmente convincente e degno di un'incastonatura che lo
valorizzi, non può certamente essere rinvenuto percorrendo le sicure vie
delle parole e delle espressioni levigate e consunte in cui depositiamo la nostra esperienza del
mondo. E non si tratta nemmeno di cose nuove che in questo modo vengono portate alla luce e
accrescono la ricchezza dell’esperienza. In ogni costrutto, per quanto duro e violento, di questo
pensiero, ciò che deve essere pensato è sempre « lo stesso »: l'essere, che deve pervenire al
linguaggio. Certamente l’operazione non riesce sempre in modo da far acquisire al pensiero che
ripercorre i passi compiuti la consapevolezza di legittimare la necessità di evadere dai binari
linguistici consueti. Il linguaggio, anche quello più forzante, possiede costantemente qualcosa di
vincolante. Nel linguaggio un elemento comune è pervenuto all’essere. Anche la radicale domanda
heideggeriana circa l'« essere » non è un’attività esoterica e privata, ma vuole costringere, con
violenza linguistica, a ricercare assieme la parola che definisce « l’essere stesso ». Perciò egli tenta
di chiarire i fondamenti nascosti del linguaggio. Ma il consueto rapporto tra il linguaggio e ciò che
esso designa è fuorviante. Non è che qui ci sia il linguaggio e là ci sia l’essere, qui un’intenzione e
là un oggetto intenzionale, ma nell’effrazione violenta e nel rivolgimento stesso con cui inizia il
linguaggio di Heidegger, si avvicina ciò su cui si pone la domanda: P« essere ».
L’essere collega il linguaggio del pensiero, che Heidegger cerca di parlare, con il linguaggio del
poeta. Non perché vi siano in lui espressioni poetizzanti, con cui lo spoglio linguaggio concettuale
si abbellirebbe. Anche il linguaggio di una poesia che sia realmente tale non è poetico. Il linguaggio
del pensiero ha in comune con quello poetico il fatto che anche qui non vi è nulla che sia
semplicemente inteso e perciò possa essere descritto in un certo modo ma anche diversamente. Sia
il linguaggio poetico che il linguaggio del pensiero non « intendono » nulla. In una poesia non viene
inteso nulla che non sia presente nella sua formazione linguistica e non possa essere presente in
alcun’altra figura linguistica. Certamente la parola del filosofo non è l’essere in carne ed ossa
dell’idea allo stesso modo di come la parola della poesia è ciò che è stato poetato. Ma nel suo
parlare non si realizza semplicemente il pensiero stesso, ma viene autenticata l’idea. Questa non la
si può incontrare altrove se non nel movimento del pensare, che è un dialogo del pensiero con se
stesso. Nel pensiero della filosofia il pensiero diventa completamente chiaro nell’idea. Ci si deve
raffigurare la comparsa di Heidegger sulla cattedra, la serietà emozionata e quasi irritata con cui qui
è stato arrischiato il pensiero, con lo sguardo obliquo che sfiora appena gli ascoltatori e guarda alla
finestra, e la voce che si alza fino al limite della propria emozione: non si potrà sfuggire al
linguaggio di Heidegger, scritto e parlato: bisogna prenderlo così come e come in esso si dà il
pensare stesso. Poiché in questo modo il pensiero diventa presente. Di ciò dobbiamo ringraziare
oggi Martin Heidegger: non solo di aver pensato e di aver da dire qualcosa di importante, ma anche
del fatto che, in un’epoca totalmente sottomessa al calcolare e al misurare, grazie a lui ci troviamo
di fronte a qualcosa che ha nuovamente istituito per noi tutti un criterio del pensiero.
7. IL LINGUAGGIO DELLA METAFISICA
(1969)
All'inizio degli anni Venti, la concentrata energia di Heidegger sprigionava una forza che trascinava
con sé l'intera generazione che ritornava dalla prima guerra mondiale e che proprio allora
cominciava gli studi. A tal punto che con la comparsa di Heidegger — molto prima che nel suo
pensiero ciò si esprimesse completamente — si ebbe l'impressione che fosse avvenuta una rottura
totale con la filosofia accademica tradizionale. Fu come una nuova irruzione nell’ignoto, che
contrapponeva qualcosa di nuovo a tutte le forze della cultura occidentale cristiana. Una
generazione sconvolta dal crollo di un epoca voleva ricominciare tutto da capo, senza conservare
nulla di ciò che aveva avuto valore fino a quel momento. Fin nel linguaggio, nello sforzo di
innalzare la lingua tedesca verso il concetto, Heidegger sembrava aver vinto ogni confronto con ciò
che fino ad allora era stata chiamata filosofia — nonostante l'impegno interpretativo incessante e
intenso che caratterizzava particolarmente il suo insegnamento accademico, volto ad approfondire
Aristotele e Platone, Agostino e Tommaso, Leibniz e Kant, Hegel e Husserl.
Sotto questi nomi erano presentate ed espresse cose troppe insolite. Ciascuna di queste figure della
nostra tradizione filosofica classica era come completamente trasformata e sembrava pienamente
una verità immediata e stringente, che si identificava con il pensiero dell'energico interprete. La
distanza che separa la nostra coscienza storica dalla tradizione sembrava venir meno: anche la
distanza tranquilla e sicura di sé con cui la storia dei problemi (Problemgeschichte), sviluppata dal
neokantismo era solita analizzare la tradizione, come pure l'intero pensiero contemporaneo che
proveniva dalle cattedre universitarie, improvvisamente sembravano ora un puro gioco.
In realtà, la rottura con la tradizione realizzata dal pensiero di Heidegger ne rappresentava al tempo
stesso un incomparabile rinnovamento: solo lentamente gli allievi compresero quanta critica
comportasse questa appropriazione, e quanta appropriazione si annidasse in questa critica. Per lungo
tempo, nel pensiero di Heidegger, due tra i più grandi classici del pensiero filosofico, Platone e
Hegel, sono rimasti confinati in una strana penombra, caratterizzandosi sia per la loro affinità sia
per la loro radicale distanza. Fin dall’inizio Platone si è trovato, nel pensiero di Heidegger, sotto una
luce critica, poiché Heidegger aveva recepito e trasformato fruttuosamente la critica aristotelica
all’idea del bene e, in particolare, aveva sottolineato il concetto aristotelico di analogia, e
nonostante ciò Platone aveva potuto fornire l'exergo di Essere e tempo. L’ambiguità in cui Platone
era ancora avvolto è cessata solo dopo la seconda guerra mondiale, quando Heidegger
lo inserì decisamente nella storia dell’essere. Ancora oggi, invece, il pensiero di Heidegger ruota
attorno a Hegel, in un tentativo di delimitazione sempre rinnovato. La sua dialettica del pensiero
puro si poneva con una forza vitale rinnovata di fronte al lavoro fenomenologico, di nuovo
dimenticato e disimparato troppo rapidamente dalla coscienza della nostra epoca. Così, se per un
verso Hegel suscitava in Heidegger una continua reazione di difesa, per un altro verso tutti coloro
che cercavano di difendersi a loro volta dalle pretese filosofiche di Heidegger, lo vedevano
confluire proprio nella stessa direzione di Hegel. La figura conclusiva della metafisica occidentale
doveva realmente essere superata dalla nuova radicalità con cui Heidegger aveva risvegliato a
nuova attualità il più antico problema della filosofia? E doveva essere realizzata una nuova
possibilità metafisica che Hegel aveva trascurato? Oppure il circolo della filosofia della riflessione
paralizzava ogni simile speranza di libertà e di liberazione e costringeva anche il pensiero di
Heidegger a rientrare nelle sue spire?
Si può dire che lo sviluppo della più recente filosofia di Heidegger non ha quasi mai incontrato una
critica che in ultima analisi non ritornasse sulla posizione hegeliana, sia che si trattasse di associare
negativamente Heidegger al fallimento della titanica impresa speculativa di Hegel — questo è stato
il giudizio di Gerhard Kruger 1 e di molti altri dopo di lui —, sia che, in un altro senso,
positivamente hegelianizzante questa volta, si trattasse di mettere in evidenza come Heidegger non
avesse pienamente compreso la sua prossimità a Hegel e, di conseguenza, non avesse realmente
reso giustizia alla posizione radicale della logica speculativa.
Questa critica si giocava soprattutto su due ambiti problematici. Per un verso l'integrazione della
storia in una peculiare posizione filosofica che Heidegger sembrava condividere con Hegel;
dall'altra parte la dialettica segreta e inconscia che inerisce a tutte le affermazioni essenziali di
Heidegger. Se, da un lato, Hegel cercava, a partire dal punto di vista del sapere assoluto, di
penetrare filosoficamente la storia della filosofia, vale a dire di elevarla al livello della scienza,
dall'altro lato ciò che Heidegger descriveva come storia delPessere e in particolare come storia
dell'oblio dell'essere, manifestava una pretesa analogamente ampia. Certamente non si riscontra in
Heidegger assolutamente nulla della necessità del progresso storico, che costituisce lo splendore e la
miseria della filosofia hegeliana. Per Heidegger invece la storia « interiorizzata » e « tolta » nel
sapere assoluto, vale a dire nel presente assoluto, è addirittura il segno precursore del radicale oblio
dell'essere in cui la storia universale dell'Europa è entrata nel corso del secolo seguito a Hegel. È
destino, non storia (rammemorata e comprensibile), ciò che è iniziato con il pensiero dell'essere
sviluppato dalla metafisica greca e che sta portando al massimo livello l'oblio dell'essere nella
scienza e nella tecnica moderna. Tuttavia — anche se la costituzione temporale propria dell'uomo è
tale da essere esposta all'imprevedibilità del destino — questo non esclude la possibilità di sollevare
e legittimare sempre di nuovo la pretesa di pensare, alla luce del corso storico occidentale, ciò che è.
Sembra così che Heidegger pretenda per sé una genuina autocoscienza storica, addirittura anche una
dimensione escatologica.
Il secondo motivo di critica parte dall'indeterminazione e dalTindeterminabilità di ciò che
Heidegger definisce « l'essere », e cerca di spiegare la presunta tautologia dell'essere, secondo cui
l'essere è l'essere stesso, con i mezzi di Hegel, interpretandola come una seconda immediatezza
camuffata proveniente dalla totale mediazione dell'immediato. Ma, oltre a questo, non sono in gioco
realmente opposizioni dialettiche quando Heidegger esplicita se stesso? Vi ritroviamo la tensione
dialettica tra la gettatezza e il progetto, tra autenticità e inautenticità, la tensione dialettica del nulla
come velo dell'essere, infine e soprattutto il contrapporsi di verità ed errore, nascondimento e non-
nascondimento, che costituiscono l'evento dell'essere come evento della verità. La mediazione,
intrapresa da Hegel, tra essere e nulla nella verità del divenire, vale a dire nella verità del concreto,
non ha forse già tracciato l'unico quadro filosofico all'interno del quale può collocarsi questa teoria
heideggeriana della antiteticità della verità (Gegenwen-digkeit der Wahrbeit)? È possibile superare
tout-court il punto in cui
Hegel supera il pensiero dell'intelletto portando al parossismo dialettico-speculativo le opposizioni
che nell'intelletto risiedono, e arrivare al tempo stesso a superare la logica e il linguaggio della
metafisica nel loro complesso?
Senza dubbio l’accesso al nostro problema si trova nella questione del nulla e della sua
soppressione da parte della metafisica, questione che Heidegger ha formulato nella sua prolusione
di Friburgo. In questa prospettiva si vede che il nulla in Parmenide e in Platone, ma anche la
definizione aristotelica del divino come energeia senza dynamis, tolgono qualsiasi potenza al nulla.
Dio, come sapere infinito che l’ente ha di se stesso, viene inteso, a partire dall’esperienza personale
dell'essere-uomo che ha luogo nel sonno, nella morte e nelPoblio, come presenza illimitata di tutto
ciò che è presente. Ora accanto a questo tema del depotenziamento del nulla, che arriva fino a Hegel
e a Husserl, si inserisce un’altra serie di motivi che sono in gioco nel pensiero della metafisica.
Mentre la metafisica aristotelica culminava nella domanda: « Che cos’è l'essere dell’ente? », la
domanda posta da Leibniz e da Schelling, definita da Heidegger addirittura come la domanda
fondamentale della metafisica: « Perché vi è, in generale, l'essente e non piuttosto il nulla? »,
istituisce esplicitamente il confronto con il problema del nulla. L’analisi del concetto di dynamis in
Platone, in Plotino, nella teologia negativa, in Nicola Cusano, in Leibniz, fino a Schelling, concetto
da cui partono Schopenhauer, Nietzsche e la metafisica della volontà (e nel nostro secolo il
dualismo tra conato e spirito elaborato da Max Scheler, la filosofia del non-ancora di Ernst Bloch,
ecc.), ma anche fenomeni della dimensione ermeneutica quali la domanda, il dubbio, lo stupore
(Verwunde-rung)y e così via: tutto ciò può mostrare che la comprensione dell'essere pensata a
partire dalla presenza è costantemente minacciata dal nulla. Pertanto la posizione di Heidegger
risente di una preparazione interna alla metafisica stessa.
Per rendere comprensibile la necessità immanente del movimento di pensiero che Heidegger chiama
« la svolta » e per mostrare che quest’ultima non ha niente a che fare con un rovesciamento
dialettico, bisogna partire dal fatto che già la comprensione di sé, di tipo fenomenologico-
trascendentale, sviluppata in Essere e tempo, è essenzialmente diversa da quella sviluppata da
Husserl. In particolare l’analisi della costituzione della coscienza del tempo in Husserl mostra che
l'autocostituzione della presenza originaria (che Husserl certo poteva descrivere come una sorta di
potenzialità originaria) è fondata interamente sul concetto delToperazione costitutiva ed è quindi
riferita all’essere del-
l'oggettività valida. L’autocostituzione dell'ego trascendentale, un problema che risale alla quinta «
ricerca logica », risiede quindi interamente entro la comprensione tradizionale dell'essere,
nonostante, o addirittura grazie alla storicità assoluta che deve costituire il fondamento
trascendentale di ogni oggettività. Ora bisogna concedere che il punto di partenza trascendentale di
Heidegger, ossia l'ente per il quale ne va del suo essere, e la dottrina degli esistenziali contenuta in
Essere e tempo, recano con sé un’apparenza di trascendentalità, come se il pensiero di Heidegger,
per parlare con Oskar Becker 2, non fosse che l'elaborazione di orizzonti ulteriori e non ancora
fissati della fenomenologia trascendentale, riguardo alla storicità delPesserci. Ma in verità l’impresa
di Heidegger ha un significato completamente diverso. Certamente essa ha trovato nel concetto di
situazione-limite formulata da Jaspers un primo punto di partenza per approfondire la finitezza
dell’esistenza nel suo significato di principio. Ma ciò è servito a preparare il problema delPessere in
un senso radicalmente trasformato, che non ha nulla a che fare con Pelaborazione di una ontologia
regionale nel senso di Husserl.
Anche il concetto di « ontologia fondamentale », elaborato in base a quello di « teologia
fondamentale », può creare confusione. E' invece l’interna coappartenenza di autenticità e
inautenticità delPesserci, di disoccultamento e occultamento, che in Essere e tempo compariva più
nel senso di un rifiuto di un pensiero legato a un sentimento etico, ciò che sempre più si rivela come
il nucleo vero e proprio del problema delPessere. Ek-sistenza e in-sistenza come sono formulate da
Heidegger in Vom Wesen der Wahrheit, sono ancora pensate a partire dall'esserci umano, ma quando
Heidegger, nella stessa opera, dice: la verità dell'essere è la non-verità, vale a dire il nascondimento
dell’essere nell ’« errare » (Irre), non si può più ignorare il cambiamento decisivo nel concetto di «
essenza » (Wesen) conseguente alla distruzione della tradizione metafisica greca, mentre lascia
dietro di sé sia il concetto tradizionale di essenza, sia quello di fondamento essenziale
(Wesengrund).
Il significato dell’intreccio reciproco tra occultamento e disoccultamento e l’importanza del nuovo
concetto di « essenza », possono essere dimostrati senz’altro con strumenti fenomenologici in
alcune essenziali esperienze di pensiero di Heidegger: nell’essere del mezzo (Zeug),
la cui essenza non si trova nella sua sussistenza oggettiva, ma nel suo essere a disposizione della
mano, che fa sì che sia già sempre trasceso nel lavoro; oppure nell’essere dell’opera d’arte, che
nasconde in sé la propria verità a tal punto che questa non può manifestarsi in alcun altro modo se
non nell’opera stessa — all’« essenza » corrisponde qui da parte dell’osservatore o del fruitore
l’indugiare presso l’opera—; ó, ancora, nella « cosa », che essendo unica, e l’unica che sussiste in
se stessa, non essendo « costretta a nulla » (zu nichts gedràngt), è radicalmente staccata, grazie alla
sua insostituibilità, dal concetto di oggetto di consumo inerente alla produzione commerciale. E
infine nella parola: anch’essa trova la propria « essenza » non nella totale espressione del suo senso,
ma in ciò che essa lascia inespresso, come può essere facilmente dimostrato dal mutismo e dal
silenzio. La struttura comune dell’essenza che appare in tutte queste quattro esperienze di pensiero,
è un « Esserci », che abbraccia sia l'essere-assente (Abwesend-Sein) sia l'essere-presente
(Anwesend-Sein). Una volta, durante una lezione risalente ai primi anni di Friburgo, Heidegger
aveva detto: « Non si può perdere Dio come si perde il proprio temperino da tasca ». In verità, non
si può neanche perdere il proprio temperino semplicemente « così », nel senso che semplicemente
non c’è più. Se si è perduto uno strumento usato da lungo tempo e a cui si è abituati, come il proprio
temperino, allora questo dimostra la sua esistenza proprio perché fa sentire costantemente la sua
mancanza. Anche la « mancanza degli Dei » in Hòlderlin o il silenzio del vaso cinese in Eliot non
sono mero non-esserci, ma sono, nel senso più pregnante, perché più silenzioso, « essere ». La falla
prodotta da ciò che manca non è un luogo, nel semplicemente-presente, che rimane vuoto, ma
appartiene all’esistenza di colui al quale manca qualcosa; è « presente » (an-wesend) in lui. Così T«
essenza » può essere concretizzata e così può essere dimostrato come ciò che è presente sia al
tempo stesso un occultamento dell’essere-presente.
Se si parte da simili esperienze, diventano comprensibili problemi che dovevano sottrarsi
alTimpostazione della problematica trascendentale e che si presentarono come semplici fenomeni-
limite. In primo luogo la « natura ». Qui il postulato di Becker di una para-ontologia è realmente
giustificato, in quanto la natura non è più solo « un caso-limite dell’essere del possibile ente
intramondano » — solo che Becker stesso non ha mai riconosciuto che il suo concetto antitetico
della para-esistenza, che pure racchiude fenomeni così essenziali come quelli dell’esistenza
matematica e dell’esistenza onirica, è una costruzione dialettica, che Becker ha pensato assieme al
suo contrario, delineando una terza posizione, senza considerare la corrispondenza tra questa
posizione e la teoria heideggeriana successiva alla « svolta ». Un secondo grande complesso di
problemi che si presenta oggi sotto una nuova luce, è costituito dal Tu e dal Noi. Conosciuto a
partire dalla continua discussione che la problematica delTintersoggettività trova in Husserl,
interpretato in Essere e tempo a partire dal mondo della cura, ciò che costituisce qui il modo
d'essere dell’essenza diventa concretamente comprensibile nel dialogo, cioè nella capacità reciproca
di ascoltare, per esempio quando si avverte ciò che domina nel dialogo o quando, nel dialogo
inquietante, si avverte la sua assenza. Ma soprattutto viene posto in un nuovo senso il problema
smisurato della vita e della corporeità. Il concetto dell’essere vivente, come è usato con insistenza
nella Lettera sull'umanismo, solleva nuovi problemi, in particolare quello del suo rapporto con
l’essenza delPuomo e con l’essenza del linguaggio. Alle spalle c’è però il problema dell’essere-sé
(Selbstsein), facilmente determinabile a partire dal concetto di riflessione dell’idealismo tedesco,
ma che diventa enigmatico nel momento in cui non si parte più dal Sé dell’autocoscienza o — con
Essere e tempo — dal Sé dell’esser-ci, ma dall’essere essenziale (Wesen). Che nella Lichtung
l’essere sia presente e che l’uomo pensante sia in questo modo il rappresentante dell’essere, ciò
rinvia a una originaria coappartenenza di essere e uomo. Il mezzo, l’opera d’arte, la cosa, la parola
— in tutto ciò si manifesta chiaramente nell’essenza il rapporto con l’uomo. Ma in che senso?
Difficilmente nel senso che così facendo l'essere-sé delPuomo conosca la sua determinazione, come
infatti insegna l’esempio del linguaggio, del quale Heidegger dice, non senza senso, che esso ci
parla nella misura in cui nessuno di noi ne è realmente « padrone » (anche se nessuno contesta che
siamo noi che lo parliamo).
Si evocheranno qui modi di pensiero neoplatonici — ma dobbiamo scartarli se vogliamo porci il
problema del Sé in Heidegger. Infatti un dramma cosmico, che consiste nell'uscita dall’Uno e nel
ritorno all'Uno, e che disegna il Sé come il punto di svolta verso il ritorno, si trova al di là di ciò che
è possibile qui. Si potrebbe allora pensare che ciò che Heidegger intende con il termine di «
insistenza » contenga la soluzione. Certamente ciò che Heidegger ha chiamato l'in-sistenza
delPesserci e l'errare, devono essere pensati a partire dall’oblio dell'essere. Ma questo oblio è
Punico modo dell'essere presente? Grazie ad esso diventa comprensibile che PEsserci umano
occupa il posto dell'essere?
Il concetto dell’essere-presente e del -Ci possono essere mantenuti in un esclusivo rapporto con
l'esserci umano, qualora si pensi al germogliare delle piante e all’essere vivente? Il concetto di in-
sistenza, che in
Vom Wesen der Wahrheit era ancora concepito solo a partire dall’ente che « solleva la testa » per la
prima volta, non deve essere preso in un senso più ampio? E non è lo stesso, quindi, con l'ek-
sistenza? Certamente il fatto che l'essere vivente sia imprigionato nel suo ambiente circostante,
come dice la Lettera sull'umanismo, significa che questo non è aperto per l'essere come l’uomo che
è interiormente conscio del suo non-poter-essere. Ma non abbiamo forse imparato da Heidegger che
l'essere proprio dell’essere vivente non è il suo proprio esser-ci individuale, ma il genere, e il genere
non è « qui » per l'essere vivente - anche se non allo stesso modo in cui per l’uomo l'essere è qui
nell'insistenza dell’oblio dell’essere? Ciò che costituisce l'essere del genere non è forse quel
reciproco « riconoscersi » tra i suoi appartenenti, secondo la profonda espressione della Bibbia di
Lutero, che certo, come « riconoscere » a loro stessi è nascosto e che tuttavia è tale che l'essere
diventa riconoscere? L’in-sistenza non è anche nell’animale, che pensa solo a se stesso (conservatio
sui) preoccupandosi appunto cosi della riproduzione della specie? Analogamente si può porre lo
stesso problema a proposito della crescita di una pianta: la presenza vale solo per l’uomo? Non c’è
forse in ogni vivente come tale la tendenza a mantenersi nel suo essere, a irrigidirsi, anche? La sua
finitezza non consiste proprio nel voler dimorare in questo modo? Non è proprio dell’uomo, che
l’esistenza « in lui », come dice Heidegger, non deve assolutamente essere pensata come una forma
di possesso supremo di sé che fa uscire l’uomo, come un dio, dalla corrente circolare della vita?
Tutta la nostra teoria dell’uomo non è forse deformata dal soggettivismo metafisico moderno e non
è forse rimessa in ordine grazie alla comprensione che l’essenza dell’uomo è la società (ζώον
πολιτικόν)? Non è proprio questo ciò che viene espresso da quella « antiteticità », che l'essere stesso
è? E questo non significa che diventa privo di senso opporre la natura all’« essere »?
In questi contesti è costantemente difficile evitare il linguaggio della metafisica, che pensa tutto ciò
a partire dalla teoria della potenza della riflessione. Ma cosa significa linguaggio della metafisica? E
evidente che l’esperienza dell’« essenza » non è quella del concettualizzare (Begreifen) per tenere
poi a disposizione. Il concetto del « pensiero rimemorante » (An-denken) ha in quest’ottica qualcosa
di naturale. È vero che il pensiero rimemorante stesso è qualcosa, che in esso la storia ha una sua
realtà e che però non è la storia quel che per suo tramite viene ricordato. Ma cosa accade in esso? È
davvero convincente aspettarsi che in esso accada qualcosa come una conversione, come la
repentinità
del destino? Mi pare che l’importanza nel fenomeno del pensiero rimemorante sia che grazie ad
esso qualcosa viene fissato e salvaguardato nel « Ci » (im Da), in modo che, per tutto il tempo in cui
il pensiero rimemorante rimane vivente, non possa mai non essere. Tuttavia il pensiero rimemorante
non consiste nel fissare qualcosa che sta per svanire, irrigidendolo: in effetti la sua non-esistenza
non è nascosta né contestata tenacemente, al contrario, vi è qualcosa come un’adesione (di cui le
Elegie duinesi di Rilke sanno qualcosa). Non vi è affatto insistenza.
Invece il fascino esercitato dal poter-fare e dalla potenza della tecnica scaturisce dall’insistenza,
vale a dire dall’oblio delPessere da parte delPuomo. A questo genere di esperienza delPessere, che
dopo Nietzsche chiamiamo nichilismo, di per sé non è posto alcun limite. Ma se è un fascino che
nasce da questo irrigidimento sempre crescente, non trova forse in se stesso la propria fine
precisamente perché il nuovo diventa continuamente qualcosa di sorpassato, e proprio senza che si
presenti un evento particolare o si verifichi una conversione? Il peso naturale delle cose non resta
percepibile e non si rende percepibile, nella misura in cui risuona con più monotonia il rumore di
ciò che è costantemente nuovo? Certamente l’idea hegeliana del sapere, concepito come
un’autotrasparenza assoluta, ha qualcosa di fantastico, se deve restaurare un completo essere-in-
patria nell’essere. Ma non potrebbe darsi una restaurazione nel senso in cui il ritrovarsi-in-patria nel
mondo non ha mai smesso di realizzarsi: come l’autentica realtà, non stordita dalla follia del poter-
fare. Quando l’aspetto illusorio della tecnocrazia, la paralizzante indifferenza di ciò che si può fare,
diventa sensibile e libera nuovamente l’uomo in relazione al dato più profondamente sconcertante
del suo essere finito? Certamente questa libertà non si acquista nel senso di una trasparenza assoluta
o di un essere-in-patria che niente può minacciare. Ma, come il pensiero di ciò che è previamente
impensabile (Unvordenklich) salvaguarda anche ciò che nella nostra finitezza non è previamente
pensabile, ciò che è suo (das Seine), per esempio la « terra natia » (Heimat), così è unito con se
stesso nel continuo divenire-linguaggio del nostro esserci e, nel suo andare su e giù, nel nascere e
nel morire, è « qui » (ist « da »).
Tutto questo è l’antica metafisica? È solo il linguaggio della metafisica che produce questo continuo
diventare-linguaggio del nostro essere-nel-mondo? Certamente è il linguaggio della metafisica, e
più ancora dietro ad esso il linguaggio della grande famiglia indoeuropea, che ha formulato questo
pensiero. Ma è giusto chiamare linguaggio del pensiero metafisico un linguaggio o una famiglia
linguistica solo perché in esso la metafisica è stata pensata o magari, per usare un'espressione
ancora più forte, anticipata? Il linguaggio non è sempre linguaggio della terra natia e della
realizzazione del ritrovarsi-in-patria nel mondo? E questo non significa che il linguaggio non
conosce limiti e non fallisce mai perché tiene pronte infinite possibilità del dire? Qui a mio avviso si
introduce la dimensione ermeneutica, che prova la sua interna infinità nella parola del dialogo.
Sicuramente il linguaggio scolastico della filosofia è stato segnato dalla struttura grammaticale del
linguaggio greco e, nella sua storia greco-latina, ha stabilito implicazioni ontologiche di cui
Heidegger ha scoperto i pregiudizi. Ma l’universalità della ragione oggettivante e la struttura
eidetica del significato del linguaggio sono realmente legate alle particolari interpretazione di sub-
jectum, species e actus generate dall'Occidente? O valgono per ogni lingua? Non si può negare che
ci sono elementi strutturali della lingua greca e un’autocoscienza grammaticale, soprattutto della
lingua latina, che fissano in una determinata direzione interpretativa la gerarchia di genere e specie,
la relazione tra sostanza e accidente, la struttura della predicazione e il verbo come parola che
esprime l’attività. Ma non c'è la possibilità di elevarsi al di sopra di questa pre-schematizzazione del
pensiero? Quando si contrappone per esempio all’enunciato occidentale del giudizio predicativo
l'uso orientale delle immagini, che traggono la loro potenza verbale dal reciproco rispecchiare ciò
che viene inteso e ciò che viene detto, non si tratta in verità solo di differenti modi di parlare
all’interno di un unico ambito universale, vale a dire entro l’essenza del linguaggio e della ragione?
Concetto e giudizio non rimangono forse inseriti nella vita significativa della lingua che parliamo e
nella quale sappiamo esprimere ciò che pensiamo 3? E viceversa, ciò che rimane al di sotto della
soglia del rispecchiarsi di tali enunciati orientali, così come l’espressione dell'opera d'arte, non si
lascia forse inserire sempre nel movimento ermeneutico che produce un’intesa reciproca? In questo
movimento il linguaggio si realizza costantemente: e si può veramente immaginare che ci sia
linguaggio in un altro senso
che nella realizzazione di tale movimento? Anche la dottrina hegeliana della proposizione
speculativa mi sembra rientri in questo movimento, giacché toglie sempre in sé il proprio
esasperarsi nella dialettica della contraddizione. Nel linguaggio c’è sempre la possibillità di togliere
la tendenza oggettivante; come Hegel toglie la logica dell'intelletto, Heidegger toglie il linguaggio
della metafisica, gli orientali tolgono la diversità delle sfere dell'essere e i poeti tolgono ogni dato in
generale. Ma qui togliere significa: assumere e usare.
1 Martin Heidegger und der Humanismus, in « Theologische Rundschau », 18 (1950), pp. 148-178.
2Von der Hinfalligkeit des Schónen und der Abenteuerlichkeit des Kunstlers, in Aa. Vv., Festschrìft
Husserl, Niemeyer, Halle 1929; ripubblicato in O. BECKER, Daseìn und Dawesen. Gesammelte
Aufsatze, Neske, Pfullingen 1963, pp. 25 ss.
3 Sicuramente J. Derrida non concorderebbe con questa domanda retorica. Egli vi ravviserebbe
piuttosto un’estrema mancanza di radicalità, che ricaccerebbe anche Heidegger nella « metafisica ».
Agli occhi di Derrida solo Nietzsche rappresenta colui che ha veramente superato il pensiero
metafisico, subordinando di conseguenza il linguaggio alla écrìture [cfr. La scrittura e la differenza,
tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1982]. Per quanto riguarda il contrasto tra l’ermeneutica e i
successori post-strutturalisti di Nietzsche, rinvio al mio lavoro: Text und Interpretation, Fink,
Munchen 1983.
I
8. PLATONE (1976)
Heidegger ci ha insegnato soprattutto a prendere coscienza dell’unità pervasiva della metafisica,
fondata dai Greci, e della sua persistenza nelle mutate condizioni del pensiero moderno. Il problema
aristotelico di una scienza prima, che lo stesso Aristotele definisce espressamente come la scienza
ricercata, ha dato inizio alla tradizione del pensiero occidentale, nella quale il problema dell’essere
dell’ente viene avanzato in funzione dell’Ente supremo ed eminente, vale a dire il Divino. Se ora
l'impresa di Heidegger si presentava come un nuovo tentativo di porre il problema dell’essere, è
ovvio che la metafisica tradizionale, iniziata con Aristotele, apparisse sfornita di un’esplicita
coscienza della necessità di interrogarsi sul senso dell’essere. Questa era una sfida per
l'autocomprensione di una metafisica che non vuole riconoscersi nelle proprie conseguenze: nel
radicale nominalismo dell’età moderna e nella trasformazione del moderno concetto di scienza in
una direzione, la cui conseguenza estrema è rappresentata dall’odierno imperversare della
tecnologia. Il compito principale di Essere e tempo era proprio questo: indurre la metafisica e le sue
nuove figure a riconoscere queste conseguenze. Nel contempo, la distruzione heideggeriana della
metafisica introduceva il problema degli inizi del pensiero greco, anteriori al dispiegarsi della
problematica metafisica, e, come noto, Heidegger, simile su questo punto a Nietzsche, ha posto un
accento particolare sull’origine più antica del pensiero greco. Per lui, Anassimandro, Eraclito e
Parmenide non erano affatto fasi preliminari dell’indagine metafisica, bensì testimonianze
dell’apertura dell’origine, nella quale l'aletheia non esprimeva ancora la correttezza di una
proposizione, anzi non denotava neppure la semplice rivelazione dell’ente.
Ma come stavano le cose con Platone? Il suo pensiero non si collocava in mezzo tra il pensiero delle
origini e la figura scolastica della metafisica, che ebbe la sua prima forma negli scritti didattici di
Aristo-
tele? Come determinarne la posizione? Il risalire di Heidegger, nell’interrogazione sulla metafisica,
fino all’essere dell'ente non si concepiva certamente come il ritorno a una mitica età anteriore e
tanto meno voleva essere una critica presuntuosa della metafisica da un punto di vista superiore.
Heidegger non ha mai inteso « superare » la metafisica come un’aberrazione del pensiero, egli l’ha
piuttosto vista come il cammino storico dell’Occidente, cammino che ne avrebbe determinato il
destino - il termine « destino » viene qui preso nel senso di ciò che capita a una persona
determinandone irrevocabilmente la situazione e tutte le possibile vie future. Non esistono
pentimenti storici. Perciò è proprio in base alla storia della metafisica e alle sue tensioni immanenti,
e non a prescindere da essa, che Heidegger ha cercato di trovare la via del suo proprio interrogare.
In tale impresa, Aristotele non fu soltanto il suo antagonista, ma anche, per molti aspetti, il suo
alleato. Furono soprattutto il ripudio, da parte di Aristotele, della platonica idea universale del bene,
il suo richiamarsi al concetto di analogia e il suo approfondimento dell’essere e della physis e,
quindi, in particolare il VI libro dell'Etica Nicomachea e il II della Fisica, a venire interpretati in
maniera feconda da Heidegger. Ora è evidente che proprio questi due aspetti « positivi » del
pensiero aristotelico rappresentano il documento più importante della critica avanzata da Aristotele
nei confronti di Platone: da una parte, la separazione del problema del bene, che gli uomini devono
porsi in vista della loro prassi, dalla posizione teoretica del problema dell'essere — dall’altra, la
critica rivolta da Aristotele alla dottrina platonica delle idee, critica che, con il primato ontologico
del movimento, valorizza il concetto aristotelico di physis e ha la pretesa di superare l’orientarsi
delle idee verso la matematica, proprio della visione pitagorica del mondo. In entrambi i casi si ha a
che fare con un riferimento obbligato a Platone, e sotto tutti e due gli aspetti Aristotele si presenta
quasi come un precursore del pensiero heideggeriano. La dottrina della phronesis in quanto sapere
pratico si contrappone a tutte le tendenze oggettivanti della scienza, e nel concetto di physis, con il
suo primato ontologico, si ha per lo meno l’eco di una dimensione di « dischiudimento », superiore
ad ogni opposizione di soggetto-oggetto.
Questi erano certamente acquisti fecondi, e sarebbe ridicolo parlare di un’« influenza » di Aristotele
su Heidegger. Come Aristotele abbia rappresentano il primo impulso nel cammino del proprio
pensiero, lo ha narrato lo stesso Heidegger là dove descrive il ruolo svolto in questo cammino dal
libro di Franz Brentano sui diversi significati che l’essere assume in Aristotele 1. Questa accurata
delineazione delle diverse accezioni, annesse da Aristotele al concetto di essere, doveva indurre
Heidegger a chiedersi che cosa si nasconda dietro questa verità non unificata. In ogni caso, il suo
prendere le mosse da Aristotele implicava un orientamento critico nei confronti della dottrina
platonica delle idee.
Quando però apriamo Essere e tempo, nella prima pagina incontriamo la famosa citazione dal
Sofista relativa al problema dell’essere, problema che viene posto da sempre, ma sempre invano. La
citazione non contiene, certamente, una dettagliata articolazione del modo in cui qui ci si interroga
sull’essere, senza dire che il superamento del concetto eleatico di essere, avviato in questo modo dal
Sofista, segue una direzione totalmente diversa da quella seguita dalla ricerca dell’unità segreta dei
diversi significati dell'essere, che tanto doveva appassionare il giovane Heidegger. Ce però anche un
altro passo nel medesimo dialogo platonico, che Heidegger non cita, ma che, in verità, sia pure in
maniera non così formale, denuncia il costante imbarazzo nei confronti dell’essere, al quale si
richiama Heidegger e che, in quanto tale, si rivela uguale nel IV secolo a.C. come nel nostro secolo
XX.
Lo Straniero di Elea presenta la quiete e il movimento come i due modi fondamentali di
manifestazione dell’ente. Questi sono due modi di essere che si escludono a vicenda. Essi però
sembrano essere anche le possibilità esaustive del manifestarsi dell’essere. Se perciò non ci si vuole
concentrare sullo stato di quiete, si deve guardare al movimento, e viceversa. Dove si deve allora
rivolgere lo sguardo quando, invece di questi due stati, si voglia vedere l’« essere »? In questo caso
sembra non esista nemmeno una possibilità aperta di interrogazione. Infatti, non è certamente
intenzione dello Straniero eleate comprendere l’essere come il genere universale, che si differenzia
in questi due ambiti dellessere. Platone pensa piuttosto che, nel discorso sull’essere, sia implicita
una differenziazione, che non distingue diversi ambiti ontologici, ma piuttosto suggerisce una
strutturalità interna all’essere stesso. Ad ogni discorso sull’essere sono essenziali tanto la
medesimezza o identità quanto l’alterità e la diversità. E questi due aspetti si escludono così poco
che, piuttosto, si condizionano a vicenda. Ciò che è identico a se stesso, si distingue, proprio per
questo, da tutto il resto. In quanto è quello che è, esso non è tutto il resto. L’essere e il non
essere sono indissolubilmente intrecciati tra di loro. Anzi, la caratteristica del filosofo rispetto alle
pseudotecniche sofistiche sembra consistere proprio nel fatto che il sì dell'essere e il no del nulla
soltanto insieme costituiscono la determinatezza dell'ente.
Ora è proprio di qui che prende le mosse l'ultimo Heidegger: la determinatezza, che costituisce la
verità delPente in relazione alPessere, è preliminare ad ogni posizione del problema del senso
delPessere. In effetti, Heidegger descrive la storia della metafisica come la storia della crescente
dimenticanza del problema delPessere. La rivelazione dellente, il mostrarsi delPeidos nei suoi
lineamenti immutabili, ha lasciato da sempre dietro di sé il problema del senso delPessere. Ciò che
viene in luce come eidos, cioè come determinatezza immutabile del suo essere un quid, assume,
implicitamente, l'« essere » come presenza costante, determina lo stesso senso della svelatezza, cioè
della verità, e stabilisce il criterio di correttezza o erroneità di ogni asserzione sull’essenza delPente.
La proposizione « Teeteto vola » è errata perché gli uomini non possono volare. In questo modo,
con la sua reinterpretazione della dottrina eleatica delPessere come dialettica di essere e non essere,
Platone fonda il significato del « sapere » nel logos, che esprime Pentita, l'essere uh quid delPente, e
in tal modo prelude alPimpostazione del problema centrale della metafisica aristotelica, che si
raccoglie nella dottrina del τί ήν εΐναι. In questo senso è con Platone che ha inizio lo stravolgimento
del problema delPessere, e tutti i motivi critici, addotti da Aristotele contro la dottrina platonica
delle idee, non mutano per nulla il fatto che la ricercata scienza aristotelica dell’essere si mantenga
all’interno di questa decisione preliminare, senza risalire, con l’interrogazione, al di là di essa.
Non è il caso di sviluppare qui la problematica della filosofia moderna, cui il ritorno critico di
Heidegger alla metafisica greca si propone di dare una risposta. Basterà ricordare come lo stesso
Heidegger abbia formulato il compito di una « distruzione » dei concetti filosofici fondamentali
dell’età moderna, in particolare dei concetti di « soggettività » e di « coscienza ». Ma è stato
soprattutto il modo impressionante con cui Husserl cercava, con infinite variazioni, di definire la
costituzione dell’autocoscienza come coscienza del tempo, a indurre Heidegger a prendere le
mosse, per contrasto, dalla struttura temporale del Dasein - senza dire che la sua familiarità con
l’eredità greca della filosofia doveva essergli di grande utilità nel tentativo di distaccarsi in maniera
critica dal programma neokantiano-idealistico, proprio della fenomenologia di Husserl. In ogni caso
è una rozza semplificazione interpretare l’accentuazione heideggeriana della storia e della storicità
come una
svolta puramente tematica rispetto al pensiero di Husserl. Non soltanto la discussione polemica di
Husserl con Dilthey, nel noto saggio apparso sulla rivista « Logos » 2, ma anche e soprattutto il
secondo volume delle Ideen, rimasto inedito, ma naturalmente noto a Heidegger da molto tempo,
sconfessano chi volesse contestare l’interesse di Husserl per il problema della storia e della storicità.
Si spiega così in qualche modo perché Oskar Becker, nella miscellanea del 1928 in onore di
Husserl, potesse compiere l’infelice tentativo di sistemare Essere e tempo di Heidegger nel quadro
della fenomenologia husserliana 3. Indubbiamente era chiaro da sempre anche a Husserl che il «
pericolo mortale » dello scetticismo, da lui scorto nel relativismo storico, non poteva venire
eliminato senza aver prima chiarito la costituzione della struttura storica della vita sociale umana.
Nondimeno, quello che Heidegger si proponeva in Essere e tempo non era soltanto un
approfondimento dei principi di una fenomenologia trascendentale; in quell’opera si veniva altresì
annunciando la svolta radicale, che doveva travolgere l’intero progetto della fondazione di tutti i
possibili valori dell’Ego trascendentale, ma soprattutto quello dell’autocostituzione dell’Ego.
Analizzando la temporalità della corrente della coscienza, Husserl concepiva l’automanifestazione
del fluire o la presenza originaria come il fattore ultimo dell' Ego, fino al quale noi possiamo
scendere. Egli perciò non considerava affatto un’aporia la struttura di iterazione, che compare
nell'autocostituzione dell’io, ma piuttosto la postulava come una descrizione positiva. Ciò però
significava che, in fondo, egli non riusciva a superare l’ideale hegeliano della totale autotrasparenza
del sapere assoluto.
Heidegger non si è limitato a contrapporre a questo ideale l’impredicabilità dell’esistenza, come in
molteplici forme era già stato fatto dai giovani hegeliani e da Kierkegaard in opposizione a Hegel.
Non è questa la vera novità della sua impostazione filosofica. Se così fosse egli rimarrebbe
dialetticamente dipendente da un antihegelismo hegelianizzante - ed è già abbastanza strano che
Adorno, nella sua Dialettica negativa, non si sia mai reso conto di quanto egli stesso finisca per
avvicinarsi a Heidegger; sarebbe stato sufficiente considerare quest’ulti
mo alla luce della sua critica a Hegel. La verità è che Heidegger, in quanto scolaro e interlocutore
del primo pensiero greco, si poneva il problema della fatticità in un senso più radicale e originario.
Poiché, ai suoi inizi, la metafisica era interessata a indagare, nel logos, la svelatezza dell’ente, la sua
presenza e conservazione nel pensiero e nel discorso, era inevitabile che l’autentica dimensione
della temporalità e della storicità dell’essere entrasse in un’ombra lunga e profonda.
Ora Heidegger, con i suoi interrogativi, risaliva al di là degli inizi della metafisica e cercava di
dischiudere una dimensione che non potesse venire più considerata, ad analogia della storicità nello
« storicismo », come un impedimento limitativo sulla strada della verità e dell’oggettività della
conoscenza. L’analitica esistenziale di Heidegger però non può nemmeno venire concepita come un
colpo di mano, che cercherebbe di eliminare, radicalizzandolo, il problema del relativismo storico.
Mi sembra significativo che l’ultimo Heidegger, nella sua autointerpretazione, non annetta più
alcuna importanza al problema dello storicismo. 4 La storicità è piuttosto la costituzione ontologica
della « temporalizzazione » del Dasein nel progetto e nella gettatezza, nell’illuminazione e nel
sottrarsi all’essere, essa interessa un ambito che sta « dietro » a ogni indagine sull’ente.
Sull’esempio di Heidegger si può riconoscere questa dimensione del problema dell’essere soltanto
ai suoi inizi, e cioè nel detto enigmatico di Anassimadro, nel monumentale singolare della « Verità »
parmenidea, ne « l’unico, il solo saggio » di Eraclito 5. Ma ci si può anche chiedere se ciò non
venga attestato dagli stessi fondatori del pensiero metafisico e se l’ambito in cui trovano il loro
spazio tutte le forme di interrogazione e di discorso non venga in luce anche nel logos della
dialettica platonica o nell’analisi aristotelica del nous, che percepisce l’essenza e la definisce come
ciò che è. L’interrogazione iniziale della metafisica sul « quid » dell’ente distorce realmente il
problema dell’essere così come, senza dubbio, fanno i modi di esprimersi elaborati dalle scienze,
che la logica eleva a proprio tema analitico?
Come noto, nella dottrina platonica dell 'eidos Heidegger ha visto il primo passo verso la
trasformazione della verità da svelatezza, non nascondimento, ad adeguatezza e correttezza della
proposizione 6. Che questa interpretazione sia unilaterale, in seguito lo ammetterà egli stesso.
Questa autocorrezione però si limita a dire che Platone non fu il primo a ravvisare nell'άλήθεια la
correttezza della rappresentazione e dell’affermazione, in quanto fin dairinizio essa è stata
sperimentata unicamente come όρθότης7. Ora io vorrei piuttosto chiedermi se lo stesso Platone non
sia andato oltre questa ipotesi e abbia cercato di pensare, per lo meno nell’idea del bene, il dominio
della svelatezza e ciò non soltanto in virtù di certe complicazioni e difficoltà interne provocate dalla
tesi delle idee, bensì fin dall’inizio. In tal senso, a mio avviso, parlano alcuni particolari.
Non si può, certamente, leggere gli scritti di Platone con gli occhi della critica ad essi rivolta da
Aristotele. Questa critica si propone di confutare il chorismos delle idee, un punto sul quale
Aristotele ritorna di continuo e che da lui è stato addirittura elevato a criterio di discriminazione tra
le interrogazioni di Socrate, volte alla ricerca di una definizione, e Platone (Met. M 4). In effetti,
questa tesi aristotelica è gravata dall’ipoteca, lamentata in particolare da Hegel e dal neokantismo
marburghese, che lo stesso Platone, nei dialoghi dialettici dell’ultimo periodo, abbia esposto in
maniera radicale e respinto criticamente questo chorismos. L’autentico senso profondo della
dialettica è costituito dal fatto che essa pretenda di essere in grado di tirare fuori dal dilemma di
chorismos o partecipazione ignorando la separazione tra il partecipante e ciò di cui esso partecipa.
Ora però che questo non sia semplicemente uno sviluppo tardivo del pensiero platonico risulta, a
mio avviso, evidente appena ci si renda conto del ruolo eccezionale svolto fin dall’inizio, negli
scritti di Platone, dall’idea del bene. Infatti neppure l’idea del bene si adatta facilmente allo schema
della critica aristotelica del chorismos, e la sua critica in Aristotele, come si può dimostrare, solo tra
mille esitazioni e cautele viene collegata alla critica generale delle idee: la critica vera e propria
dell’idea del bene viene esercitata dal punto di vista pratico. Il suo problema teoretico però rimane
fino alPultimo il seguente: non sono delle equivocazioni puramente casuali a far sì che le cose più
diverse vengano dette « buone », ma dietro a questo fatto si accampa il fondamentale problema
aristotelico dell 'analogia entis. Ma ritorniamo a Platone.
Inizialmente il problema del bene in sé si presenta come la costante istanza negativa, che fa fallire la
comprensione dell'areté, propria degli interlocutori di Socrate. L’idea fondamentale del sapere, che
rinviene la propria norma nell’attività artigianale e denota il dominio delle situazioni pratiche, si
rivela inapplicabile quando si tratti dell’idea del bene. È ovvio che le affermazioni platoniche sul
bene in sé esercitano qualcosa di più di un’arte letteraria quando tendono a ritirarsi, in maniera
caratteristica, in un aldilà. Nella Repubblica la particolare posizione dell’idea del bene rispetto ai
concetti di areté, determinati oggettivamente, viene sottolineata in maniera esplicita, mentre del
bene si parla soltanto servendosi di un’analogia sensibile, quella del sole.
In questa analogia dovrebbe svolgere un ruolo essenziale il fatto che il sole venga presentato come
il distributore della luce e che sia la luce a rendere visibile ai veggenti il mondo visibile. E
significativo che l’idea del bene - seguendo l’analogia spesso usata — si rifletta, come il sole, su
tutte le cose. Nel contesto dei ragionamenti della Repubblica ciò significa che la costituzione
ordinata dell’anima, dello Stato e - nel Timeo - del mondo è fondata sull’uno, cioè sul bene, alla
stessa maniera che il sole è all’origine della luce, che tutto unisce. Il bene, più che essere esso stesso
l’uno, è ciò che conferisce unità. Esso, anzi, si colloca al di là di ogni essere.
Ora non c’è dubbio che questo super-essere non può venire pensato, alla maniera neoplatonica,
come l’origine di un dramma cosmico e neppure come il termine finale dell’estasi e dell’unione
mistica. È vero, invece, che questo uno, che è il bene, non è, come dimostra il Filebo, comprensibile
in alcun modo come uno, ma soltanto come una triade di misura, proporzione, « verità », simile a
quella che definisce l’essenza del bello. Se il bene « è » da qualche parte, perché non dovrebbe
esserlo nella figura del bello? E ciò non significa che esso è pensato, non come un ente, bensì come
lo svelamento implicito nel venire alla luce (το έκφανέστατον, Phaedr. 250 d)?
Pure l’interpretazione aristotelica di Platone rende indirettamente conto di questa posizione speciale
del bene. Si è già ricordato come Aristotele, nel quadro della filosofia pratica, abbia negato ogni
rilevanza all’idea del bene, idea che, d’altra parte, non farebbe la sua comparsa nella critica generale
della dottrina delle idee. Egli però tiene così strettamente congiunto il problema dell’unità del bene
con quello dell’unità dell’essere che diventa legittimo separare totalmente i suoi meto-
di, quello dell’analogia e quello dell’attribuzione, dalla prospettiva generale entro cui egli considera
la dottrina platonica delle idee. L’opera stessa di Aristotele dimostra quanto egli sappia distinguere
tra, da una parte, l’ipotesi generale delle idee e la sua inadeguatezza logica e ontologica, da lui
sottolineata, e dall’altra i principi di questa ipotesi, il che costituisce l’oggetto del cap. 6 del libro A
della Metafisica. Per esprimerci in maniera aristotelica, il bene - come l’essere — non è, quindi,
un’idea tra le altre, ma un primum, un’arche, e non è del tutto chiaro se « il bene in sé » sia l’uno,
che insieme alla diade costituirebbe l'arché di ogni determinatezza delle idee, oppure addirittura
l’uno anteriore a questa dualità di uno e di molteplicità indeterminata. Una cosa comunque è
pacifica: come l’uno non è un numero, cosi l’idea del bene non è un’idea nel senso dell' eidos, la cui
ipotesi Aristotele critica come vuoto raddoppiamento del mondo.
Ora dell’idea del bene non si parla più quando, in seguito, si incomincia a discutere il problema
centrale della dialettica platonica, cioè del λόγος ουσίας. Ciò vale già per il Filebo, anche se esso ha
a che fare esplicitamente con il bene, sia pure con il bene della vita umana, in modo però, come
abbiamo visto, da non poter non prendere in considerazione il criterio del bene, che si definisce
nella figura del bello. Ciononostante la fondamentale discussione sui quattro generi viene condotta
senza caratterizzare l’idea del bene. Nel Sofista e nel Parmenide poi la discussione della dialettica
platonica sembra andare molto oltre la cosiddetta dottrina delle idee; in effetti, questi dialoghi sono
stati interpretati addirittura come un abbandono di tale dottrina. La dottrina del logos dell’essere,
sviluppata in questi dialoghi dialettici, viene in realtà colpita dalla critica aristotelica del chorismos
altrettanto poco che l’idea del bene. Il « platonismo dogmatico », sul quale insiste la critica di
Aristotele, non trova qui appoggi validi. Al contrario. Lo schema della diairesis, che in questi
dialoghi Platone presenta come il proprio metodo dialettico, è stato compreso per lungo tempo
come un tentativo, riuscito, di risolvere il problema della methexis (Natorp, N. Hartmann, J,
Stenzel), in grado cioè di frustrare la critica aristotelica. Molto più essenziale è il fatto che la
giustificazione della possibilità della dialettica in quanto diairesis non sia attuabile a sua volta con il
metodo diairetico. La dottrina dei generi sommi si propone anzi di spiegare come siano in generale
possibili la distinzione e l’unione di realtà affini. Ma ciò, come ovvio, viene presupposto in ogni
discorso sul molteplice o sull’uno. La partecipazione del molteplice all’uno, quale che sia il piano
sul quale viene posto il problema, ha, in quanto separazione (chorismos) come in quanto
superamento della separazione
(dialettica), un fondamento comune nell’essere stesso, nel fatto cioè che esso sia insieme essere e
non essere.
Ora in questo contesto fa la sua comparsa il problema dello pseudos, che vi svolge un ruolo
costantemente sconcertante. Esso può venire compreso all'incirca così: se pensare equivale a
distinguere, si può anche distinguere in maniera errata — per usare l'immagine platonica: non si
colgono le giunture nello smembramento dell'animale sacrificale, dimostrando così di essere uno
che non domina la vera dialettica, per cui, come i sofisti, si cade vittima della confusione del logos.
Resta però oscuro come sia propriamente possibile questa confusione quando si comprenda l’essere
dell'eidos come παρουσία, come presenzialità pura. Perciò nel Teeteto platonico il problema dello
pseudos si ingarbuglia in maniera disperata. Non sono in grado di far compiere al discorso un passo
avanti né il paragone della tavoletta cerata né quello della piccionaia. In caso di errore, che cosa si
deve intendere con l’espressione « presenza dell’errore »? Che cosa ci viene incontro nel caso di
una proposizione falsa? Un piccione dell’errore?
Ora si può dire che il Sofista cerca di avviare questo problema verso una soluzione positiva
dimostrando che il non essere « è » ed è indissolubilmente legato all’essere, come la diversità
all’identità. Se però il non essere non denota altro che la diversità, che, come l’identità, sta alla base
di ogni discorso differenziatore, si può sì comprendere come sia possibile un vero discorso, non
però come siano possibili lo pseudos, la falsità, l’illusione. La coesistenza del diverso con l’identico
è lontana dallo spiegare l’esistenza di qualcosa come qualcosa che esso non è, spiega invece
soltanto ciò che esso è, cioè questo e nient’altro. La semplice critica del concetto eleatico di essere
non è sufficiente a invalidarne realmente le premesse, che lo portano a pensare l’essere come
presenza nel logos. Se anche la diversità è una sorta di visibilità, un eidos del non essere, il
problema dello pseudos rimane enigmatico. Poiché l’esistenza del « non » si presenta come l'eidos
dell’alterità, è naturale che la nullità dello pseudos si celi.
Si può tutt’al più arrivare a riconoscere con Platone un limite fondamentale nel modo di presentarsi
del « non ». Poiché l’alterità si presenta sempre intrecciata con l’identità, e quindi, il non-essere-
tutto-il-resto segue sempre come un’ombra ciò che di volta in volta viene identificato, noi in quanto
pensanti siamo condannati al discorso senza fine. Non solo c’è un regresso infinito in cui il
differente si smarrisce, ma in ogni singola differenziazione, essendovi implicato il medesimo, è
presente al tempo stesso l’infinita indeterminatezza, che i pitagorici chiamavano apeiron: anche
tutto il resto impone la sua presenza. In questo
1M. HEIDEGGER, Mein Weg in die Phänomenologie, in Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen
1969, p. 81 [Tempo ed essere, tr. it. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, p. 183].
2 E. HUSSERL, Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», (1910-11), pp. 289-341 [La
filosofia come scienza rigorosa, tr. it. di F. Costa, Paravia, Torino 1958].
Cfr. O. BECKER, Von der Hinfälligkeit des Schönen und der Abenteuerlichkeit des Künstlers, Husserl-
Festschrift, Ergänzungsband des « Jahrbuchs für Philosophie und phänomenologische Forschung »,
Niemeyer, Halle 1929.
4 Cfr. Mein Weg in die Phänomenologie, cit.
5Cfr. M. HEIDEGGER, Der Spruch des Anaxim ander, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M.
1950, pp. 296-343 [tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 299-348]; Logos (Heraklit
Fragment 50), Moira (Parmenides, Fragment VIII, 34-41), Aletheia (Heraklit, Fragment 16), in
Vorträge und Aufsätze, III, Neske, Pfullingen 1954 [Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo,
Mursia, Milano 1976, pp. 141-192].
6 Cfr. M. HEIDEGGER, Platons Lehre von der Wahrheit, Francke, Bern 1954 [La dottrina dì Platone
sulla verità, tr. it. di A. Bixio e G. Vattimo, S.E.I., Torino 1978].
7 M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens, cit., p. 78 [tr. it. cit., p. 178].
senso nella « presenza » c'è anche il « non ». Questa situazione viene addirittura formulata (Soph,
258 e) in questi termini: il non-essere sussiste nella contrapposizione all’essere. In quanto natura
delPaltro, ovvero dell alterità, il non-essere è di volta in volta ripartito in base al rapporto reciproco
che gli enti assumono gli uni verso gli altri. Solo in questa ripartizione si incontra il non-essere e
solo così è non-essere.
Sembra un non senso pensare la totalità di tutte le differenze come il « ci » in generale — e, quindi,
come una presenta totale del non essere. In questo senso il « non » dell’alterità è più che la diversità
- è un « non » reale delPessere. A mio avviso, è questo « non » fondamentale dell’essere che Platone
aveva in mente quando nel corso « Sul bene », come sembra, accanto all’uno determinante poneva
la dualità indeterminabile. Con il semplice riconoscimento del « non » dell’alterità e della diversità
viene in realtà minimizzata la nullità, che si manifesta nell’errore e continua il velamento che ha
avuto inizio con la soppressione eleatica del nulla. Si può ricordare anche come nella costruzione
del mondo, descritta dal Timeo, l’identità e la diversità fungano da fattori cosmologici e
costituiscano il sapere e la « doxa » -s’intende, naturalmente, l'άληϑής δόξα. Manca una
giustificazione cosmologica della ψευδής δόξα.
Ora abbiamo sicuramente raggiunto il punto in cui Heidegger ha individuato il limite del concetto
metafisico di aletheia e, quindi, l’inizio della deformazione del problema dell’essere.
Si può però anche dire, al contrario, che, siccome nel pensiero platonico non viene realmente risolta
la questione ontologica dello pseudos, cosa della quale si dovrebbe alla fine prendere coscienza, ci
si trova rinviati a una dimensione nella quale il non essere non significa semplice diversità e l’essere
semplice identificabilità; in essa si ha invece l’uno, il più originario, che antecede e insieme rende
possibile tale distinzione. La grandiosa unilateralità del poema didascalico parmenideo e della sua
insistenza sull’essere, nel quale non c’è nessun « non », aveva a sua volta messo in luce l’abisso del
nulla. Il riconoscimento platonico del « non » implicito nell’essere minimizza sì il « non »
riducendolo all’altro dall’essere, in questo modo però si prende indirettamente coscienza della sua
nullità. La soppressione del nulla, in quanto concepito come diversità, viene compiuta in un
contesto dialogico che, in realtà, richiede il riconoscimento e l’approfondimento ontologico della
nullità del nulla. Infatti, si sa che cosa sia il sofista unicamente quando si comprenda non soltanto la
diversità, ma anche l’« apparenza ». L’apparenza non è diversità dell’essere, bensì il suo « aspetto ».
Mi sembra innegabile che Platone fosse cosciente della più pròfonda problematica ontologica, che
qui viene in luce e si ricollega alla possibilità della « sofistica ». Né la diversità né l’errata
distinzione e neppure la volontaria confusione o la stessa falsa asserzione del mentitore esauriscono
il fenomeno della sofistica, la cui illustrazione sta a cuore a Platone. E ancor meno l'imbroglione
può essere addotto come esempio per spiegare chi sia il sofista - un bugiardo dalla testa ai piedi, al
quale manca ogni senso di verità. Nel dialogo platonico il sofista viene, non senza esitazione,
inserito nella classe degli imitatori ignoranti. Ma neppure questa è una spiegazione sufficientemente
illuminante. Soltanto l'ultima distinzione, che viene ancora operata all’interno degli imitatori
ignoranti, - cioè la distinzione tra quanti pensano davvero di sapere, senza che realmente sappiano, e
quanti sono nel complesso coscienti della propria ignoranza, ma la nascondono per paura e nel
desiderio di difendere la propria superiorità, e perciò si avvolgono nel fascino ingannevole del
discorso — evoca tutta la potenza della nullità. Si distingue di nuovo. Esistono due forme di un
simile discorrere, le quali possiedono entrambe qualcosa di strano proprio perché il parlante avverte
la propria nullità. Platone chiama tale gente « imitatori che simulano ». Tale, da una parte, è il
demagogo, che vive dell’applauso (nel Gorgia la retorica viene in generale caratterizzata come una
tecnica delPadulazione), e, dall’altra, il sofista, che nel discutere e nell’argomentare deve risultare
vincitore e avere l’ultima parola. Il demagogo e il sofista non sono dei mentitori, bensì figure
plastiche del discorso.
E' soltanto per questa via indiretta che il riconoscimento del « non » da parte dello « Straniero »
accenna, alla fine, al carattere illusorio e alla nullità della sofistica. Naturalmente rimane sottinteso
che lo pseudos non è semplicemente un errore, ma racchiude in sé la stranezza dell’apparenza.
Nella teoria aristotelica dell'aletheia e dello pseudos, enunciata nel libro I della Metafisica (cap. 10),
non si trova più assolutamente traccia di ciò.
Si deve guardare all’indietro, oltre Parmenide o, in avanti, oltre Hegel se si vuole pensare la vera
appartenenza della nullità dell’apparenza all’essere e non si ritiene di poterla più esorcizzare come
una semplice confusione prodotta dall’errore. È stato Heidegger a tentare questo passo all’indietro,
compiendo così contemporaneamente il passo in avanti, che permette alla moderna civiltà planetaria
di fare l’esperienza del limite dell’idea greca di aletheia nonché della sua forza plasmatrice. Il
pensiero non può evitare questo limite.
9. LA VERITÀ DELL’OPERA D'ARTE (1960)
Se oggi guardiamo indietro al periodo compreso tra le due guerre mondiali, questa pausa di respiro
negli avvenimenti vorticosi del nostro secolo si presenta come un’epoca di straordinaria fecondità
spirituale. Segni premonitori di ciò che sarebbe sopraggiunto potevano essere visti già prima della
grande catastrofe rappresentata dalla prima guerra mondiale, in particolare nell’ambito della pittura
e dell’architettura. Ma la coscienza generale di quel tempo si è trasformata, nell’insieme, solo con il
grande sconvolgimento che le « battaglie di materiali » della prima guerra mondiale hanno
abbattuto sulla coscienza culturale e sulla fede nel progresso che caratterizzava l’età liberale. Nella
filosofia di quel periodo, la trasformazione del generale sentimento della vita si è esplicata nel fatto
che la filosofia dominante, sorta nella seconda metà del XIX secolo dal rinnovamento
dell’idealismo critico di Kant, è apparsa improvvisamente inattendibile. « Il crollo dell’idealismo
tedesco», come aveva annunciato Paul Ernst in un libro che aveva avuto molto successo, fu
collocato in un orizzonte storico mondiale dal Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler. Le
forze che esercitavano di fatto la critica al neokantismo dominante avevano due potenti antesignani:
da un lato la critica di Friedrich Nietzsche al platonismo e al cristianesimo e, dall’altro, il brillante
attacco di Soren Kierkegaard alla filosofia della riflessione elaborata dall’idealismo speculativo.
C’erano due nuove parole d’ordine, che venivano contrapposte alla coscienza metodica del
neokantismo: quella dell’irrazionalità della vita e in particolare della vita storica, per la quale ci si
poteva richiamare a Nietzsche e a Bergson, ma anche a Wilhelm Dilthey, il grande storico della
filosofia - e la parola d’ordine dell'esistenza, che echeggiava dalle opere di Soren Kierkegaard, il
filosofo danese della prima metà del XIX secolo che solo in quegli anni cominciava a esercitare il
suo influsso, grazie alla traduzione pubblicata dall’editore
Diederichs. Come Kierkegaard aveva criticato Hegel, definendolo come il filosofo della riflessione,
che si era scordato dell'esistere, così si criticava ora l'autosufficiente coscienza sistematica del
metodologismo neokantiano, che avrebbe completamente sottomesso la filosofia a una fondazione
della conoscenza scientifica. E come Kierkegaard era comparso in veste di pensatore cristiano
contro la filosofia dell'idealismo, così anche adesso era l'autocritica radicale della cosiddetta
teologia dialettica a schiudere la nuova epoca.
Tra gli uomini che fornivano espressione filosofica alla diffusa critica nei confronti della devozione
liberale per la « civiltà » e della dominante filosofia della cattedra, c'era il genio rivoluzionario del
giovane Martin Heidegger. La sua comparsa, nei primi anni del dopoguerra, come giovane docente
universitario a Friburgo, fece veramente epoca. Che qui stesse nascendo una forza originaria del
filosofare, lo rivelava già il linguaggio inusitato, energico e impetuoso che risuonava dalla cattedra
friburghese. Dal contatto fecondo e ricco di tensione con la coeva teologia protestante, che
Heidegger allacciò nel 1923 grazie alla sua chiamata a Marburgo, nacque Essere e tempo, il
capolavoro heideggeriano che nel 1927 fornì in un sol colpo a vaste cerchie di pubblico qualcosa
del nuovo spirito che, in seguito agli sconvolgimenti della prima guerra mondiale, era penetrato
nella filosofia. A quelPepoca, ciò che accomunava la filosofia e animava i cuori era definito
filosofia dell’esistenza. La prima opera sistematica di Heidegger trasmetteva infatti con veemenza
al lettore contemporaneo emozioni critiche, legate alPappassionata protesta contro il ben garantito
mondo culturale del passato, emozioni che si rivolgevano contro l’appiattimento di ogni forma
individuale di vita generato dalla società industriale, che si stava uniformando in modo sempre più
intenso, dalla sua politica dell’informazione, che stava manipolando tutto, e dal suo processo di
formazione dell’opinione. Al « si », alla chiacchiera, alla curiosità come forme deiettive
delPinautenticità, Heidegger contrapponeva il concetto dell’autenticità delP« esserci », che è
cosciente della propria finitezza e la assume con decisione. La serietà esistentiva con cui qui
l’enigma della morte, che fin dall’antichità ha afflitto l’umanità, è stato spinto al centro della
riflessione filosofica; l’energia con cui l’appello all’autentica « scelta » della propria esistenza
aveva frantumato i mondi apparenti della Bildung e della Kultur, erano come un’irruzione nella ben
protetta pace accademica. E tuttavia non si trattava della voce di un intemperante outsider del
mondo accademico, non era la voce di una audace esistenza eccezionale nello stile di Kierkegaard o
di Nietzsche, ma era l’allievo della più retta e scrupolosa scuola filosofica allora presente nelle
Università tedesche, l’allievo della ricerca fenomenologica di Edmund Husserl, il cui fine,
perseguito con tenacia, era la fondazione della filosofia come scienza rigorosa.
Anche il nuovo prodotto dell’ingegno filosofico di Heidegger si presentava sotto la parola d’ordine
fenomenologica: « alle cose stesse! ». Questa « cosa » era però il più nascosto problema della
filosofia, cioè il problema più dimenticato di tutti: che cosa significa essere? Per imparare a porre
questo problema, Heidegger scelse di determinare positivamente in senso ontologico ’ l’essere
dell’esserci umano in se stesso, anziché comprenderlo, associandosi alla metafisica fino a quel
momento imperante, a partire da un essere infinito e sempre assente, come ciò che è soltanto finito.
La priorità ontologica che l’essere dell’esserci umano ha acquistato per Heidegger, ne ha
determinato la filosofia come « ontologia fondamentale ». Per definire le determinazioni
ontologiche dell’esserci umano finito, egli ha usato l’espressione determinazioni dell’esistenza, «
esistenziali » (Existenzialien).
Heidegger ha contrapposto, con metodica risolutezza, questi concetti fondamentali a quelli della
metafisica che aveva dominato fino a quel momento, cioè alle categorie del semplicemente-
presente. Ciò che Heidegger, risollevando l’antichissimo problema del senso delPessere, non voleva
perdere di vista, era il fatto che l'esserci umano non trova il proprio essere autentico nella
constatabile semplice-presenza, ma nella mobilità della cura, con cui l’esserci, prendendosi cura del
suo essere, è il proprio avvenire. L’esserci umano è quindi caratterizzato dal comprendere se stesso
in relazione al suo essere. A causa della finitezza della temporalità dell’esserci umano, che non può
cessare di porsi la domanda sul senso del proprio essere, il problema del senso dell’essere si
determina per lui nell’orizzonte del tempo. Ciò che la scienza, soppesando e misurando, stabilisce
come essente, vale a dire il semplicemente-presente, deve lasciarsi comprendere, analogamente
all’eterno che si trova al di là di qualsiasi umanità, a partire dalla centrale certezza d’essere della
temporalità umana. Questa era la nuova impostazione di Heidegger. Ma la sua meta, pensare
l’essere come tempo, rimase nascosta al punto che Essere e tempo fu definito addirittura
fenomenologia ermeneutica, perché il comprendersi rappresenta il fondamento autentico di questo
interrogare. Vista a partire da questo fondamento, la comprensione dell’essere attuata dalla
metafisica tradizionale si rivela come una forma deiettiva della comprensione originaria dell’essere,
realizzata nell’esserci umano. L’essere non è solo pura presenzialità (Gegenwartigkeit) e semplice-
presenza (Vorhandenheit). Nel senso autentico, « è » l'esserci finito e storico. Nel suo progetto del
mondo ha poi il proprio posto l’utilizzabile, e soltanto alla fine il semplicemente-presente.
Ma a partire dal fenomeno ermeneutico del comprendersi, alcune forme d’essere non hanno ora una
giusta collocazione: forme né storiche né solo semplicemente-presenti. L’atemporalità dei fatti
matematici, che non possono essere facilmente fissati come semplicemente-presenti; l’atemporalità
della natura che si ripete sempre nella sua circolarità e che domina anche noi stessi determinandoci
fin dall’inconscio; infine l’atemporalità dell’arcobaleno artistico, che si inarca sopra ogni distanza
storica: tutto ciò sembra definire i confini della possibilità di interpretazione ermeneutica aperta
dalla nuova impostazione heideggeriana. L’inconscio, il numero, il sogno, l’azione della natura, il
prodigio dell’arte - tutto ciò sembra essere afferrabile solo al margine dell’esser-ci che si conosce
nella sua storicità e si comprende in funzione di se stesso, sembra concepibile come in una sorta di
concetti-limite 1.
Fu quindi una sorpresa, quando nel 1936 Heidegger prese in esame in alcune conferenze l’origine
dell’opera d’arte. Anche se questo lavoro è diventato accessibile al pubblico solo nel 1950 come
primo saggio della raccolta Sentieri interrotti, tuttavia il suo influsso aveva cominciato a farsi
sentire già molto prima. Da tempo, infatti, le lezioni e le conferenze di Heidegger incontravano
dovunque un ansioso interesse e trovavano un’ampia diffusione in copie trascritte e resoconti, che
lo immettevano in quella chiacchiera di cui egli stesso aveva fatto una feroce caricatura. In realtà le
conferenze sull’origine dell’opera d’arte rappresentavano un vero e proprio avvenimento filosofico.
Non si trattava solo del fatto che ora l’arte veniva inserita nell’impostazione ermeneutica
fondamentale dell’autocomprensione dell’uomo nella sua storicità, perché in queste conferenze essa
era addirittura intesa — analogamente alla fede poetica di Hòlderlin e di George — come l’atto di
fondazione di interi mondi storici. Ciò per cui l’inedito tentativo filosofico di Heidegger faceva
scalpore, era propriamente costituito dalla concettualità sorprendentemente nuova che osava
esternarsi in questa tematica. Si parlava in esse di Mondo e di Terra. Ora, il concetto di Mondo era
stato da sempre uno dei concetti-guida ermeneutici di Heidegger. Il Mondo, in quanto totalità di
riferimento del progetto dell’esserci, formava l’orizzonte precedente a ogni progetto della cura
dell’esserci umano. Lo stesso Heidegger ha tracciato la storia del concetto di
Mondo e in particolare ne ha ben differenziato, legittimandolo storicamente, il senso antropologico
neotestamentario, da lui stesso usato, dal concetto della totalità del semplicemente-presente.
L’aspetto sorprendente era che questa nozione di Mondo trovava un polo antitetico nel concetto di
Terra. Infatti, mentre la nozione di Mondo poteva essere portata a intuizione evidente, in quanto
idea della totalità in cui, a partire dall’autocomprensione dell’esserci umano, ha luogo
l'autointerpretazione umana, il concetto di Terra aveva invece l’aria di essere un suono ancestrale,
mitico e gnostico, che poteva avere diritto di cittadinanza al massimo nel mondo della poesia.
Evidentemente era dalla poesia di Hòlderlin, cui in quegli anni si era applicato con appassionata
intensità, che Heidegger aveva tratto il concetto di Terra introdotto nel proprio filosofare. Ma con
quale diritto? L’esserci che si comprende nel suo essere, l’essere-nel-mondo, questo nuovo e
radicale punto di partenza di ogni interrogazione trascendentale, come avrebbe potuto entrare in una
relazione ontologica con un concetto come quello di Terra?
Ora, la nuova impostazione di Essere e tempo sviluppata da Heidegger non era certamente una
semplice ripetizione della metafisica spiritualista dell’idealismo tedesco. Il comprendersi nel
proprio essere, caratteristico dell’esserci umano, non è il sapere-di-sé proprio dello spirito assoluto
hegeliano. Non è affatto un autoprogettarsi, quanto piuttosto un sapere, nella propria
autocomprensione, di non essere padrone di se stesso e del proprio esserci, ma di ritrovarsi in mezzo
all’essente e di doversi accettare come si ritrova. Egli è progetto gettato. È stata una tra le più
brillanti analisi fenomenologiche di Essere e tempo, quella in cui Heidegger ha analizzato questa
esperienza-limite dell’esistenza, ritrovarsi cioè in mezzo all’essente, come situazione emotiva e ha
assegnato ad essa, alla tonalità emotiva, l’apertura autentica dell’essere-nel-mondo. Ciò che di tale
situazione emotiva può essere trovato rappresenta però evidentemente il confine estremo fin cui
poteva spingersi l’autocomprensione storica dell’esserci umano in generale. Non ce alcun sentiero
che conduca da questo concetto-limite ermeneutico della situazionalità affettiva e della tonalità
emotiva a un concetto come quello di Terra. Qual è allora la legittimità di questo concetto? Come
può trovare legittimazione? L’idea fondamentale offerta dal saggio heideggeriano sull’origine
dell’opera d’arte è che « Terra » è una necessaria determinazione dell’essere dell’opera d’arte.
Per riconoscere il significato sostanziale del problema circa l’essenza dell’opera d’arte e il modo in
cui questo problema si collega ai problemi fondamentali della filosofia, è necessario però
comprendere i pregiudizi insiti nel concetto di estetica filosofica. È necessario superare il concetto
stesso di estetica. È noto come l'estetica filosofica sia la più recente tra le discipline filosofiche.
Infatti, solo nel XVIII secolo, entro una esplicita restrizione del razionalismo illuministico, fu fatto
valere il diritto autonomo della conoscenza sensibile e quindi la relativa indipendenza del giudizio
di gusto rispetto all’intelletto e ai suoi concetti. Come il nome, anche l’autonomia sistematica di
questa disciplina ha inizio a partire dall’estetica di Alexander Baumgarten. Successivamente, nella
sua terza critica, la Critica del giudizio, Kant ha consolidato il significato sistematico del problema
estetico. Nell’universalità soggettiva del giudizio di gusto estetico, Kant ha scoperto la legittima
pretesa che il giudizio estetico può sollevare nei confronti delle pretese dell’intelletto e dell’etica.
Né il gusto dell’osservatore né il genio dell’artista, possono essere intesi come l’applicazione di
concetti, norme o regole. Ciò che contraddistingue il bello non può essere dimostrato al pari di
determinate qualità conoscibili in un oggetto, ma si manifesta per mezzo dell’elemento soggettivo: è
la crescita del sentimento vitale nella corrispondenza armonica tra immaginazione e intelletto. Ciò
di cui facciamo esperienza quando ci troviamo di fronte al bello in natura e in arte, è una
vivificazione dell'insieme delle nostre energie spirituali: il loro libero gioco. Il giudizio di gusto non
è conoscenza e tuttavia non è casuale. Contiene una pretesa di universalità su cui si può fondare
l’autonomia della sfera estetica. Bisogna riconoscere che questa giustificazione dell’autonomia
dell’arte nei confronti della stretta osservanza delle regole e nei confronti della fede morale,
caratteristiche dell’età dell’illuminismo, ha rappresentato un’operazione di grande portata.
Soprattutto all’interno del processo evolutivo tedesco, che proprio in quel periodo aveva raggiunto
il punto in cui l’epoca classica della sua letteratura cercava, a partire da Weimar, di costituirsi come
uno stato estetico. Queste fatiche avevano trovato nella filosofia di Kant la loro giustificazione
concettuale.
D’altra parte aver fondato l’estetica nella soggettività delle energie dell’animo rappresentava
l’inizio di una pericolosa soggettivizzazione. Per lo stesso Kant era certamente ancora determinante
l’armonia misteriosa che sussiste tra la bellezza della natura e la soggettività del soggetto che
giudica. Il genio creativo che, superiore a qualsiasi regola, realizza il prodigio dell’opera d’arte,
viene interamente concepito da Kant come un favorito dalla natura. Questo però presuppone nel
complesso la validità aproblematica dell’ordine naturale, il cui fondamento ultimo è la creazione
dell’idea teologica. Con la scomparsa di questo orizzonte, una simile fondazione dell’estetica
doveva condurre a una soggettivizzazione radicale, perfezionando la teoria della sregolatezza del
genio. L’arte, non più riferita al completo insieme dell'ordine dell’essere, viene contrapposta, come
potenza trasfigurante della poesia, alla realtà, alla ruvida prosa della vita. Solo nel regno estetico
della poesia si avvererà la conciliazione tra idea e realtà. E' l’estetica idealistica, che parla dapprima
con Schiller e trova poi il proprio compimento nella grandiosa estetica di Hegel. Anche in questo
caso la teoria dell’opera d’arte si trova ancora in un orizzonte ontologico universale. Nella misura in
cui nell’opera d’arte si realizza in generale l’accordo e la conciliazione tra finito e infinito, si tratta
del pegno di una verità suprema, che alla fine deve essere recuperato dalla filosofia. Come la natura
è per l’idealismo non solo l’oggetto della moderna scienza calcolante, ma anche l’azione di una
grande potenza creatrice, legata al mondo, che si innalza al proprio compimento nello spirito
autocosciente, così anche l’opera d’arte, agli occhi di questi pensatori speculativi, è
un’oggettivazione dello spirito — non è il suo compiuto concetto di se stesso, ma la sua apparizione
nel modo di vedere il mondo. Arte è, nel senso letterale del termine, visione del mondo.
Volendo determinare il punto di partenza da cui Heidegger inizia a riflettere sull’essenza dell’opera
d’arte, deve essere ben chiaro che l’estetica idealistica, che aveva attribuito all’opera d’arte, in
quanto organo di una comprensione aconcettuale della verità assoluta, un significato eccezionale, è
stata a lungo occultata dalla filosofia del neokantismo. Questo movimento filosofico predominante
aveva rinnovato la fondazione kantiana della conoscenza scientifica, senza riacquistare l’orizzonte
metafisico di un ordine teologico dell’essere, che invece stava a fondamento della descrizione
kantiana del giudizio estetico. Il pensiero del neokantismo era quindi gravato, riguardo al problema
estetico, da particolari pregiudizi. Questo fatto è rispecchiato chiaramente nell’esposizione del tema
nello scritto heideggeriano: esso si apre con il problema della delimitazione dell’opera d’arte
rispetto alla cosa (Ding). Che l’opera d’arte sia anche una cosa e possa avere un ulteriore significato
solo al di là del suo essere-cosa, come simbolo che rinvia a qualcosa o come allegoria che lascia
intendere qualcos’altro, proprio questo descrive il modo d’essere dell’opera d’arte a partire dal
modello ontologico offerto dal primato sistematico della conoscenza scientifica. Ciò che è
realmente, è il « cosale » (das Dinghafte), il fatto, ciò che si dà ai sensi, ciò che la scienza naturale
eleva ad oggetto di conoscenza oggettiva. Il significato che gli compete, il valore che ha, sono al
contrario forme di apprensione aggiuntive che hanno validità esclusivamente soggettiva e non
appartengono né alla datità originaria stessa, né alla verità oggettiva che da essa deve essere
ottenuta. Presuppongono la cosalità (das Dinghafte) come l’unico elemento oggettivo in grado di
diventare portatore di tali valori. Per l’estetica, tutto ciò doveva significare che l’opera d’arte
possiede, in un primo e superficiale aspetto, un carattere cosale, che ha la funzione di una struttura
di base su cui si eleva, come sovrastruttura, l’autentica creazione estetica. Ancora Nicolai Hartmann
descrive in questo modo la struttura dell’oggetto estetico.
Interrogandosi sulla cosalità (Dinglichkeit) della cosa, Heidegger si collega a questa
precomprensione ontologica. Distingue tre concezioni della cosa sviluppate nella tradizione: la cosa
è portatrice di qualità, è unità di una varietà di sensazioni ed è materia plasmata. Soprattutto la terza
di queste concezioni, quella in base a forma e materia, contiene qualcosa di immediatamente
evidente. Perché segue il modello del produrre, per mezzo del quale viene fabbricata una cosa che
deve servire ai nostri scopi. Heidegger definisce questa cosa « mezzo » (Zeug). A partire dal
prototipo di questo modello, le cose nel loro complesso appaiono dal punto di vista teologico come
produzioni, vale a dire come creazioni di Dio, dal punto di vista umano invece appaiono come «
mezzi » che hanno perso la loro strumentalità (Zeughaftigkeit). Le cose sono le semplici cose, sono
cioè qui, senza alcuno sguardo retrospettivo alla loro possibile utilità. Heidegger mostra ora che tale
concetto dell'essere-semplicemente-presente, corrispondente al procedere dimostrativo e calcolante
della scienza moderna, non consente di pensare né la cosalità della cosa, né la strumentalità del
mezzo. Per scorgere la strumentalità del mezzo, Heidegger si collega perciò a una rappresentazione
artistica, un dipinto di van Gogh che raffigura delle scarpe da contadino. Ciò che si può vedere in
quest’opera d’arte è il mezzo stesso, vale a dire non un ente qualunque che può essere utilizzato per
uno scopo qualsiasi, ma qualcosa il cui essere consiste nell’essere servito e nel servire a qualcuno
cui queste scarpe appartengono. Quello che emerge nell’opera del pittore e che è raffigurato con
insistenza, non è un paio di casuali scarpe da contadino, ma la vera essenza del mezzo che esse
sono. L’intero mondo della vita contadina è in queste scarpe. E' dunque l’opera dell’arte che
dischiude la verità sull’ente. Questo scaturire della verità che qui accade deve essere pensato
esclusivamente a partire dall’opera e in nessun caso a partire dalla sua struttura cosale.
Si pone così il problema di cosa sia un'opera, perché in essa possa emergere la verità. In contrasto
con la comune impostazione che muo ve dalla cosalità e dall'oggettualità dell’opera d’arte, un opera
d’arte è caratterizzata proprio dal non essere oggetto, bensì dallo stare in se stessa. Grazie al suo
stare-in-sé (ln-sich-stehen), non solo essa appartiene al suo Mondo, ma in essa è presente il Mondo.
L'opera d'arte apre il Mondo che le è proprio. Oggetto è solo qualcosa in cui qualcosa non si trova
più nella struttura del suo Mondo, perché il Mondo di cui fa parte si è disgregato. Così un'opera
d'arte è un oggetto solo se è in commercio. Infatti a quel punto è senza Mondo e senza terra natia.
Caratterizzare l’opera d’arte mediante lo stare-in-sé e l'aprire-il-mondo, come fa Heidegger
all’inizio del saggio, evita con evidente consapevolezza qualsiasi ricorso al concetto del genio,
come faceva l’estetica classica. Preoccupandosi di comprendere la struttura ontologica dell’opera
indipendentemente dalla soggettività del suo creatore o dell'osservatore, Heidegger, accanto al
concetto di Mondo a cui l'opera appartiene e che espone e apre l'opera, impiega ora il concetto
contrapposto di « Terra ». Terra è un controconcetto rispetto a Mondo nella misura in cui delinea, in
contrasto con l'aprirsi, il riparare-in-sé e la chiusura. Entrambi, l'aprir-si e il chiuder-si, sono
evidenti nell'opera d’arte. Un'opera d’arte non intenziona qualcosa, non rinvia come un segno a un
significato, ma si rappresenta nel proprio essere, in modo da costringere l’osservatore a soffermarsi
su di essa. È a tal punto presente essa stessa, che solo in essa il materiale di cui è fatta, pietra,
colore, suono, parola, perviene all’esistenza autentica. Finché dunque qualcosa è semplice materia,
che aspetta di essere lavorata, non è realmente presente, non è cioè emersa in una presenza
autentica, ma si manifesta davvero solo quando viene usata, cioè quando è vincolata nell’opera. I
suoni di cui consiste un capolavoro musicale sono per così dire più sonori di qualsiasi altra
vibrazione e suono; i colori dei dipinti costituiscono una colorazione più autentica anche del più alto
ornamentò cromatico della natura; le colonne dei templi fanno apparire, innalzando e sostenendo, in
forma più autentica la loro essenza di pietra che non il blocco ancora grezzo. Ciò che in questo
modo emerge ora nell'opera è proprio l'essere-chiuso e il chiudersi: è ciò che Heidegger chiama
l'essere-Terra (.Erde-Sein). Terra, in verità, non è materia, ma ciò da cui tutto emerge e in cui tutto
finisce.
A questo punto si rivela l'inadeguatezza dei concetti riflessivi di forma e materia. Se si può dire che
in una grande opera d’arte « sorge » un Mondo, allora il sorgere di questo Mondo è al tempo stesso
il suo entrare nella sua quieta figura: standosene lì, la figura ha per così dire trovato la propria
esistenza legata alla Terra. Da ciò l’opera d’arte riceve la quiete che le è propria. Il suo essere
autentico non si trova solo in un io dall’esperienza vissuta, un io che dice, che intenziona o indica e
il cui detto, intenzionato o indicato sarebbe il significato dell’opera d’arte. Il suo essere non consiste
nel diventare esperienza vissuta, ma è esso stesso, mediante la sua esistenza propria, un evento, un
urto che rovescia tutto ciò che era valso fino a quel momento e tutto ciò che era consueto; un urto
con cui si apre il Mondo, che non era mai stato presente così. Questo urto però è accaduto
nell’opera in modo da essere, al tempo stesso, celato nel rimanere. L’elemento che così si schiude e
così si nasconde realizza nella sua tensione la figura dell’opera. Questa tensione è definita da
Heidegger come la lotta tra Mondo e Terra. In questo modo non viene solo descritta la maniera
d’essere dell’opera d’arte, così da evitare i pregiudizi dell'estetica tradizionale e del moderno
pensiero della soggettività. Quindi Heidegger non rinnova semplicemente l’estetica speculativa, che
ha definito l’opera d’arte come l’apparire sensibile dell’idea. Questa definizione hegeliana del bello
condivide, in realtà, con il tentativo filosofico heideggeriano il superamento di principio
dell’opposizione tra soggetto e oggetto, tra io e oggetto, non descrivendo l’essere dell’opera d’arte a
partire dalla soggettività del soggetto. E tuttavia lo descrive anche in funzione della soggettività.
Infatti l’opera d’arte deve realizzare la manifestazione sensibile dell’idea pensata nel pensiero
autocosciente. Nel pensiero dell’idea sarebbe dunque « tolta » l’intera verità dell’apparenza
sensibile. La verità ottiene nel concetto l’autentica figura di se stessa. Se invece Heidegger parla
della lotta fra Mondo e Terra e descrive l’opera d’arte come l’urto grazie al quale una verità diviene
evento appropriante (Ereignis), allora questa verità non è « tolta » e compiuta nella verità del
concetto filosofico. E' una autonoma manifestazione di verità, quella che avviene, nell’opera d’arte.
Il richiamo all’opera d’arte, in cui emerge la verità, deve testimoniare appunto in Heidegger che è
sensato parlare di un accadere (Geschehen) della verità. Il saggio heideggeriano non si limita perciò
a fornire una più adeguata descrizione dell’essere dell’opera d’arte. Il suo intento filosofico centrale
è piuttosto quello di comprendere l’essere stesso come un accadere della verità, che si fonda su
questa analisi.
E' stato spesso rimproverato alla formazione concettuale sviluppata da Heidegger nella sua
produzione più recente, di non essere più legittimabile. Non è possibile portare per così dire a
compimento nella soggettività del nostro intendere ciò che Heidegger ha in mente, per esempio,
quando parla di essere nel senso verbale del termine, di accadere dell’essere, di Lichtung
dell’essere, di scoprimento dell’essere e di oblio dell’essere. La formazione concettuale che domina
gli ultimi lavori filosofici di Heidegger non può chiaramente essere legittimata dal punto di vista
soggettivo, in modo analogo a come il processo dialettico di Hegel è precluso a ciò che Hegel
definisce pensiero rappresentativo. Essa incontra perciò una critica analoga a quella che ha
incontrato la dialettica hegeliana da parte di Marx: viene definita « mitologica ». Mi sembra invece
che il significato fondamentale del saggio sull'opera d’arte consista nel fornire una precisa
indicazione dell’autentico proposito dell’ultimo Heidegger. Nessuno può rifiutarsi di riconoscere
non solo che nell’opera d’arte, in cui sorge un Mondo, diventa esperibile un aspetto ricco di senso
che prima non era conosciuto, ma anche che con essa qualcosa di nuovo entra nell’esistenza. Non è
soltanto l’apertura (Offenlegung) di una verità, ma anche un evento appropriante. Si offre quindi
una via per seguire da vicino la critica di Heidegger alla metafisica occidentale e al suo sfociare nel
moderno pensiero della soggettività. È noto come Heidegger abbia riprodotto il termine greco usato
per definire la verità, aletheia, con non-nascondimento (Unverborgenheit). La forte accentuazione
del senso privativo contenuta in aletheia non significa però solo che la conoscenza della verità ha
strappato, come con un atto di rapina - privatio significa « spoliazione » -, il vero dal suo incognito
(Ùnerkanntheit) o dal nascondimento nell’errore. Non si tratta solo del fatto che la verità non si
trova in mezzo alla strada e non è già sempre praticabile e accessibile. Questo è certamente vero —
e i Greci hanno voluto esprimerlo manifestamente, definendo l’ente, così com’è, come il non-
nascosto. Sapevano che qualsiasi conoscenza è minacciata dall’errore e dalla menzogna e che si
tratta di non sbagliarsi e di pervenire alla giusta rappresentazione dell’ente così com’è. Se nella
conoscenza si tratta di lasciarsi alle spalle l’errore, allora la verità è il puro non-nascondimento
dell’ente. Questo ha in mente il pensiero greco: esso è quindi già sulla via, che la scienza moderna
doveva del resto percorrere fino alla fine, di realizzare l’esattezza della conoscenza, grazie a cui
l’ente viene custodito nel suo non-nascondimento.
Heidegger obietta che il non-nascondimento non è il carattere dell’ente solo quando viene
correttamente conosciuto. In un senso più originario, il non-nascondimento « accade » ossia « si
storicizza » (geschieht) e solo questo accadere rende possibile in generale che l’ente sia non-
nascosto e sia conosciuto correttamente. Il nascondimento che corrisponde a tale originario non-
nascondimento non è errore, ma appartiene originariamente all’essere stesso. La natura, che ama
nascondersi (Eraclito), è quindi caratterizzata non solo riguardo alla sua conoscibilità, ma anche
secondo il proprio essere. Essa non è solo il sorgere nella luce, ma è altrettanto il nascondersi
nell’oscurità, lo schiudersi del fiore al sole così come il radicarsi nella profondità della terra.
Heidegger parla della Lichtung dell’essere, che rappresenta l'unica sfera in cui lente viene
conosciuto come dis-occultato (ent-borgen) e nel suo non-nascondimento. Tale emergere dell’ente
nel « Ci » del suo esserci presuppone chiaramente una sfera dell’apertura in cui questo « Ci » può
accadere e storicizzarsi. E tuttavia è altrettanto palese che questa sfera non sussiste senza che in essa
si mostri l’ente: senza cioè che ci sia un aperto che occupi l’apertura. Questa è senza dubbio una
assai strana situazione. E ancora più strano è che nel « Ci » di questo mostrarsi dell’ente si
rappresenti proprio anche il nascondimento dell’essere. È la manifestatività del « Ci » che rende
possibile il conoscere corretto. L’ente che emerge dal non-nascondimento si presenta a colui che lo
percepisce. Tuttavia non si tratta di un atto arbitrario del dis-occultare, dell’esercizio di una rapina,
per mezzo del quale qualcosa viene strappato dal nascondimento. Tutto ciò deve piuttosto essere
reso possibile solo dall’unione tra disoccultamento (Entbergung) e occultamento (Verbergung)
nell’accadere dell’essere stesso. A comprendere questo fatto ci aiuta l’ormai acquisita comprensione
dell’essenza dell’opera d’arte. L’essere dell’opera è chiaramente costituito da una tensione tra lo
schiudersi e il celarsi. L’intensità di questa tensione costituisce il livello formale di un’opera d’arte e
produce la rilucenza attraverso cui l’opera irradia ogni cosa. La sua verità non è la piatta rivelazione
dell’essere, ma l’impenetrabilità e la profondità del suo senso. Così essa, secondo la sua essenza, è
lotta tra Mondo e Terra, tra lo schiudersi e il celarsi.
Ciò che in questo modo trova la sua legittimazione nell’opera d’arte deve però costituire l’essenza
dell’essere in generale. Lotta tra disoccultamento e occultamento è non solo la verità dell’opera, ma
quella di ogni ente. Infatti verità, in quanto non-nascondimento, è sempre una simile
contrapposizione tra disoccultamento e occultamento. I due momenti sono necessariamente
intrecciati l’uno all’altro. Ciò significa evidentemente che la verità non è semplicemente assoluta
presenzialità dell’ente, in modo che esso si trovi per così dire di fronte al rappresentare corretto. Un
tale concetto dell’essere-non-nascosto presupporrebbe piuttosto la soggettività dell’esserci che
rappresenta l’ente. Ma l’ente non è determinato correttamente nel suo essere, se è definito
esclusivamente come oggetto del rappresentare possibile. All’essere dell’ente è proprio piuttosto il
fatto di rifiutarsi, di non concedersi. La verità come non-nascondimento è in se stessa antitetica.
Nell’essere c’è, come dice Heidegger, qualcosa come una « natura oppositoria dell’esser-pre-sente »
2. Ciò che Heidegger cerca così di descrivere può essere riconosciuto da tutti. Ciò che è, offre non
solo, come superficie, un profilo riconoscibile e familiare, ma possiede anche una interna profondità
di autonomia, che Heidegger definisce « stare-in-sé » (In-sich-stehen). Il completo non-
nascondimento di ogni ente (per mezzo di un rappresentare pensato nella sua perfezione),
toglierebbe lo stare-in-sé delPente e significherebbe un livellamento totale. In questa oggettivazione
totale si rappresenterebbe qualcosa che non sarebbe più per nulla un ente che sta nel proprio essere.
Verrebbe piuttosto rappresentata, in tutto ciò che è, la stessa cosa: la possibilità della sua
utilizzabilità. Ma questo significa: ciò che si manifesterebbe in tutte le cose sarebbe la volontà di
impossessarsi dell’ente. D’altra parte, con l’opera d’arte ognuno esperisce che contro tale volontà di
possesso c’è un fattore di resistenza per eccellenza, non nel senso della rigida resistenza contro la
pretesa della nostra volontà di essere utile, ma nel senso di un superiore imporsi di un essere che
riposa in sé. Così la compattezza e la chiusura dell’opera d’arte rappresentano il pegno e la
legittimazione della tesi universale della filosofia heideggeriana, secondo cui l’ente trattiene se
stesso mentre si pone nell’Aperto dell’essere-presente. Lo stare-in-sé dell’opera garantisce al tempo
stesso lo stare-in-sé dell’ente in generale.
Già nell’analisi dell’opera d’arte si schiudono così prospettive che delineano anticipatamente
l’ulteriore itinerario del pensiero di Heidegger. È stato solo passando attraverso l’esame dell’opera
che si è potuto mostrare la strumentalità del mezzo e, alla fine, anche la « cosità » (Dingheit) della
cosa. Come l'onnicalcolante scienza moderna provoca la perdita delle cose, il cui « stare-in-sé che
non è costretto a nulla » si dissolve in fattori di calcolo del suo progettarsi e del suo trasformarsi,
viceversa l’opera d’arte rappresenta un’istanza che salvaguarda dalla perdita generale delle cose.
Come Rilke, in mezzo alla generale scomparsa della cosità, trasfigura poeticamente l’innocenza
della cosa, mostrandola all’angelo, analogamente il pensatore pensa la stessa perdita della cosità,
riconoscendone al tempo stesso la salvaguardia nell’opera d’arte. Ma la salvaguardia presuppone
che il salvaguardato sia ancora nella verità. Questo discorso implica la verità della cosa stessa, se
nell’opera d’arte la sua verità è ancora in grado di emergere. Per questo motivo il saggio
heideggeriano su La cosa (Das Ding) rappresen
ta un necessario passo avanti sul sentiero del suo pensare. Ciò che un tempo non raggiungeva
neppure l'utilizzabilità del mezzo, ma rimaneva pensato come semplicemente-presente per il
semplice fissare o stabilire, ora, proprio perché non serve a nulla, viene riconosciuto nel suo essere
« salvo e integro » (heil).
Ma, a partire da qui, possiamo riconoscere ancora un ulteriore passo in questa direzione. Heidegger
sottolinea che l’essenza dell'arte è il poetare (Dichten). Con questa affermazione vuole dire che
l’essenza dell’arte non è costituita dalla trasformazione del preformato, né dalla rappresentazione
dell'ente preesistente, ma dal progetto grazie al quale qualcosa di nuovo emerge come vero: lo «
spalancarsi di un luogo aperto » 3 costituisce l’essenza dell'accadere della verità che si trova
nell’opera d’arte. Ora però l’essenza della poesia, nel consueto senso ristretto del termine, è
caratterizzata dalla specifica linguisticità, grazie alla quale la poesia si differenzia da tutti gli altri
generi artistici. Anche se in qualsiasi arte, anche nell’architettura e nella scultura, il progetto
autentico e l’elemento veramente artistico possono essere definiti « poesia », tuttavia il tipo di
progetto che accade e si storicizza nell’opera poetica reale è decisamente diverso. Il progetto
dell’opera d’arte poetica è legato a un elemento già tracciato, che non può essere progettato di
nuovo a partire da sé: le direttrici già tracciate del linguaggio. Il poeta dipende a tal punto da esse,
che il linguaggio dell’opera d’arte poetica può raggiungere solo coloro che possiedono la stessa
lingua. In certo senso dunque la poesia, che in Heidegger deve simbolizzare il carattere di progetto
di ogni creazione artistica, è progetto in misura inferiore di quanto non lo siano le forme secondarie
dell’architettura e della scultura che derivano da pietra, colore e suoni. In verità qui il poetare è
come diviso in due fasi: in un progetto che è già sempre accaduto e storicizzato, in cui domina una
lingua, e in un altro progetto che fa sorgere dal primo la nuova creazione poetica. La priorità del
linguaggio sembra non solo costituire la caratteristica particolare dell’opera d’arte poetica, ma
sembra anche avere valore, oltre che per ogni opera, per qualsiasi essere-cosa delle cose stesse.
L’opera del linguaggio è la più originaria poesia dell’essere. Il pensiero che ogni arte essendo
poesia pensa, e che l'essere-linguaggio dell’opera d’arte svela, è, a sua volta, ancora in cammino
verso il linguaggio.
3 Ivi, p. 59 [tr. it. cit., p. 56] (N.d.T.).
1È stato soprattutto OSKAR BECKER, come Heidegger allievo di Husserl, a dubitare, partendo da
queste sfere di fenomeni, dell’universalità della storicità. Cfr. Dasein und Dawesen, Neske,
Pfullingen 1963.
2 M. HEIDEGGER, Der Ursprung des Kunstwerkes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 1950,
p. 42 [L'origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze
1968, p. 38] (N.d.T.).
10. GLI 85 ANNI DI MARTIN HEIDEGGER (1974)
Quando nel 1974 Heidegger ha festeggiato il suo ottantacinquesimo compleanno, per alcuni della
generazione più giovane deve essere stata una vera sorpresa. Infatti da tanti decenni il pensiero di
quest'uomo appartiene alla coscienza universale e la sua presenza nelle alterne vicende del nostro
secolo, pur con tutte le variazioni, è del tutto incontestata. Si alternano periodi di maggiore
prossimità o di maggiore distanza da Heidegger, come accade solo agli astri veramente grandi che
determinano le epoche. Ci fu dapprima il periodo immediatamente successivo alla prima guerra
mondiale, durante il quale prese l'avvio l’attività del giovane assistente di Husserl a Friburgo. Già
allora egli emanava un influsso ineguagliabile.
Sopraggiunse poi, nei cinque anni in cui insegnò a Marburgo, la rapida ascesa della sua attività
accademica, diventata di pubblico dominio nel 1927 con l'uscita di Essere e tempo, e per lui fu di
colpo fama mondiale.
A quei tempi, in un'Europa che dal 1914 si stava sempre più provincializzando e nella quale soltanto
le scienze naturali potevano suscitare una rapida eco internazionale - si pensi ai nomi di Einstein,
Planck e Heisenberg, oltre naturalmente ai teologi, come per esempio Karl Barth, che la Chiesa si
incaricava di far conoscere al di là delle frontiere nazionali - la fama del giovane Heidegger, che si
stava espandendo in tutto il mondo, rappresentava qualcosa di singolare. Quando poi, dopo la
caduta del Terzo Reich, Heidegger non potè più esercitare la docenza a Friburgo, a causa della sua
iniziale adesione a Hitler, un vero e proprio pellegrinaggio internazionale incominciò a dirigersi
verso Todtnauberg, dove trascorreva gran parte dell'anno nella sua Hùtte (rifugio), una
modestissima casetta sui monti della Foresta Nera.
Gli anni cinquanta rappresentarono di nuovo un punto alto della sua presenza, sebbene avesse
appena ripreso ad insegnare. Di questo periodo ricordo una sua venuta a Heidelberg per una
conferenza su Hòlderlin, e il problema tecnico per prevenire in qualche modo i rischi costituiti
dall’enorme affluenza nell'aula magna della nuova università. E la stessa cosa si verificava ad ogni
sua apparizione in pubblico.
Fecero poi la loro comparsa nuovi e disincantati modelli di pensiero, che irruppero tra la gioventù
universitaria assieme allo sviluppo impetuoso dell'economia e della tecnica, del benessere e del
comfort. Le forze culturali determinanti erano la tecnologia e la critica marxista dell'ideologia,
mentre il pensiero di Heidegger spariva nella « chiacchiera », che egli stesso aveva un tempo così
ferocemente descritto, nell’attesa che ai nostri giorni una nuova generazione di giovani lo
riscoprisse lentamente, come un classico che era stato dimenticato.
Qual è il mistero di questa perdurante presenza? In realtà a Heidegger non sono mancati i nemici e
non gliene mancano a tutt’oggi. Negli anni venti ha dovuto imporsi contro la resistenza di
innumerevoli forme di filisteismo accademico, e i dieci anni dal 1935 al 1945 non gli furono
davvero favorevoli, come non gli fu favorevole l’apparato di formazione dell’opinione pubblica dal
dopoguerra fino a oggi. La « distruzione della ragione » (Lukàcs), il « gergo dell’autenticità »
(Adorno), l’abbandono del pensiero razionale per una mitologia pseudopoetica, la battaglia
donchisciottesca contro la logica, la fuga dal tempo nell’« essere » — questa serie di accuse e di
attacchi potrebbe essere allungata notevolmente. E tuttavia, se in questi giorni l’editore
Klostermann annuncia un’edizione completa in settanta volumi delle opere di Martin Heidegger,
può essere certo che tutti saranno interessati all’iniziativa. Neppure colui che non sa più nulla di
Heidegger potrà rimanere indifferente se gli capitasse davanti agli occhi la fotografia del vecchio
uomo solitario, che spia dentro di sé, ascoltando le voci che gli giungono e meditando su ciò che lo
trascende. Se uno è convinto di essere « contro » Heidegger — o anche se crede semplicemente di
essergli « favorevole » — si renderebbe ridicolo. Non è così semplice passare davanti al pensiero.
Come succede tutto questo? Come è successo? Ricordo ancora esattamente quando ho sentito il suo
nome per la prima volta. Fu nel 1921 a Monaco, quando durante un seminario di Moritz Geiger, uno
studente parlò in modo estremamente strano e patetico, con uno stile insolito. Quando alla fine
chiesi a Geiger di cosa si trattasse, mi rispose con la massima naturalezza: « Ah, quello è
heideggerizzato » [verheideggert\ ». Non dovevo forse esserlo presto anch’io? Appena un anno più
tardi il mio maestro Paul Natorp mi diede da leggere un manoscritto di Heidegger, in tutto una
quarantina di pagine: si trattava di un’introduzione alle interpretazioni di Aristotele. Per me fu come
essere colpito da una scossa elettrica. Qualcosa di analogo mi era accaduto quando, diciottenne, mi
capitarono dinanzi per la prima volta i versi di Stefan George (il cui nome mi era allora del tutto
sconosciuto). Certamente non era una comprensione sufficiente quella con cui affrontavo l’analisi
heideggeriana della « situazione ermeneutica » per un’interpretazione filosofica di Aristotele. Mi è
però rimasto impresso, ed è presente ancor oggi nel mio ricordo, che vi si parlava del giovane
Lutero, di Gabriel Biel e Pietro Lombardo, di Agostino e Paolo, e che Aristotele veniva preso in
considerazione proprio in questo modo; e tutto ciò era espresso in un linguaggio estremamente
inconsueto e vi si parlava dell'Um-zu (in-vista-di), del Woraufhin (ciò-rispetto-a-cui), del Vorgriff
(anticipazione) e del Durchgriff (penetrazione). Non si trattava di una semplice impresa erudita o di
una tranquilla analisi dal punto di vista della storia dei problemi. Aristotele incalzava il lettore in
tutta la sua interezza; e gli occhi mi si aprirono quando più tardi a Friburgo ricevetti la prima
iniziazione.
Proprio di questo si trattava: ti venivano aperti gli occhi. Si è soliti oggi rimproverare a Heidegger la
mancanza di precisione concettuale e la vaghezza poetizzante. È vero, il linguaggio di Heidegger è
distante dallo strano mezzo-inglese che domina oggi lo stile filosofico, quanto
lo era dai simbolismi matematici o dai giochi con categorie e modalità che io avevo praticato nella
neokantiana Marburgo. Quando Heidegger insegnava, si vedevano le cose dinanzi a sé, come se
fossero afferrabili fisicamente.
La stessa cosa si poteva dire anche di Husserl, anche se in forma più limitata e ristretta alPambito
elementare della fenomenologia della percezione. La sua terminologia infatti non poteva dirsi
l’elemento fenomenologicamente produttivo del suo linguaggio. Non a caso il giovane Heidegger
preferiva tra tutti i lavori di Husserl la sesta delle Ricerche logiche, dove era sviluppato il concetto
di « intuizione categoriale ».
Oggi questo aspetto della teoria di Husserl è ritenuto da molte parti insufficiente e gli viene opposta
la logica moderna. Ma la sua prassi, come quella di Heidegger, non si lascia così facilmente
confutare. Era l’incontro, nella filosofia, con il linguaggio vivente, che non può essere ottenuto da
nessuna precisione tecnica degli strumenti logici.
Heidegger si trasferì a Marburgo nell’autunno del 1923 come giovane professore. Si accomiatò
dalla natia Friburgo invitando un gran numero di amici, colleghi e studenti a una serata estiva a casa
sua nella Foresta Nera. Lassù, sul prato di casa, fu accesa un’enorme catasta di legna e Heidegger
tenne un discorso che ci impressionò tutti e che iniziava con le parole: « Vegliare al fuoco della
notte », cui faceva seguito l'appellativo: « I Greci... ». Certamente traspariva il romanticismo del
movimento giovanile [Jugendbewegung] ma era anche qualcosa di più. Era la risolutezza di un
pensatore che riusciva ad abbracciare con lo sguardo l'oggi e il passato, il futuro e la filosofia greca.
Non ci si può fare un’idea sufficientemente drammatica della comparsa di Heidegger a Marburgo.
Non che egli mirasse a suscitare scalpore. Il suo arrivo a lezione aveva certamente anche qualcosa
della consapevole sicurezza del suo effetto, ma l’aspetto autentico della sua persona e del suo
insegnamento stava piuttosto nel fatto che egli era totalmente immerso nel suo lavoro: questo
costituiva la sua influenza. Con lui la lezione diventò qualcosa di completamente nuovo; non era più
lo spettacolo didattico di un professore che riservava il meglio delle sue energie alla ricerca e alle
pubblicazioni.
Con Heidegger i lunghi monologhi libreschi perdettero la loro superiorità. Ciò che egli dava era
qualcosa di più: era il pieno impiego di tutta la forza, e di quale geniale forza, di un pensatore
rivoluzionario che addirittura si spaventava lui stesso di fronte all’audacia delle sue domande
sempre più decisamente radicalizzanti e che era talmente avvinto dalla passione del pensare, da
trasmetterla al suo uditorio con un fascino che nulla poteva esorcizzare. Chi potrà dimenticare la
polemica furiosa con cui attaccava l’esercizio della cultura e della formazione che accompagnava
quegli anni, la « follia alle porte », il « si » dell’impersonalità, la « chiacchiera », « tutto ciò senza
significato dispregiativo » — anche questo! —, chi potrà dimenticare il sarcasmo con cui egli
considerava colleghi e contemporanei, chi tra coloro che lo seguirono dimenticherà il frenetico
vortice di domande che egli sviluppava nelle lezioni introduttive del semestre, per poi avvilupparsi
lui stesso nella seconda o nella terza di queste domande - mentre solo nelle ultime ore del semestre
si addensavano le oscurissime nubi di frasi dalle quali guizzavano lampi che ci lasciavano semi-
storditi?
Quando Nicolai Hartman udì per la prima (e unica) volta una lezione di Heidegger — la prima che
egli tenne a Marburgo —, mi disse poi che non ricordava un tale impeto nel comportamento dai
tempi di
Hermann Cohen. Si trattava realmente di due antipodi: il freddo, riservato originario del Baltico,
che si comportava come un signore borghese, e il piccolo uomo, dagli occhi scuri, mezzo contadino
e mezzo montanaro, il cui temperamento, nonostante tutto l’autocontrollo, emergeva costantemente.
Una volta potei osservare un loro incontro sulla scalinata delPUniversità di Marburgo: Hartmann si
stava recando a lezione, vestito come sempre con pantaloni a righe, giacca nera e colletto bianco
fuori moda, Heidegger invece stava ritornando dalla lezione, vestito da sciatore. Hartmann si fermò
e disse: « E' mai possibile che Lei vada a lezione vestito così? ». La risata divertita di Heidegger
aveva le sue buone ragioni. Infatti quella sera egli aveva tenuto una conferenza sullo sci come
introduzione a un corso, allora nuovo, su questo sport. La conferenza ebbe inizio nel più autentico
stile heideggeriano: « A sciare si impara solo sul campo e per il campo ». Il tipico colpo di mazza
con cui venivano disattese le aspettative alla moda, e al tempo stesso l' apertura a nuove attese. «
Chi mi fa uno stemmcristiania decente, lo prendo con me in ogni escursione sciistica! ».
Heidegger, sciatore fin dall'infanzia, aveva un certo tono vagamente sportivo, e la scuola
heideggeriana ne è rimasta contagiata. Noi eravamo la seconda squadra di palla a pugno di
Marburgo, che arrivava sempre alla finale e alle cui partite di allenamento partecipava durante
l’anno anche Heidegger, sebbene in questo campo non fosse così superiore a noi come lo era in
tutto il resto.
Naturalmente non andava in giro sempre in tenuta da sciatore, ma nemmeno lo si vide mai in giacca
nera. Indossava invece un particolare vestito — che noi chiamavamo il vestito « esistenziale » — un
nuovo modello da uomo, disegnato dal pittore Otto Ubbelohde e che in qualche modo si rifaceva ai
costumi dei contadini. In effetti così vestito Heidegger assumeva l'umile sfarzo di un contadino con
l'abito della domenica.
Heidegger iniziava la sua giornata molto presto e già di buon mattino ci rimpinzava, quattro volte
alla settimana, di Aristotele. Si trattava di interpretazioni memorabili, sia per quanto riguardava la
forza della loro raffigurazione intuitiva, sia anche riguardo alle prospettive filosofiche che vi
venivano dischiuse. Nelle lezioni di Heidegger le cose ti si avvicinavano, incalzandoti a tal punto
che noi ci domandavamo, smarriti, se stesse parlando della propria problematica o degli argomenti
di Aristotele. È una grande verità ermeneutica quella che in quegli anni noi tutti incominciavamo a
sperimentare in noi stessi, e che, per parte mia, dovevo, più tardi, giustificare e sostenere
teoreticamente.
Noi studenti eravamo una piccola popolazione molto superba e ci lasciavamo montare
tremendamente la testa dall’orgoglio per il nostro maestro e per il suo ethos del lavoro. Ed ora ci si
può fare l’idea di cosa succedeva agli heideggeriani di secondo e terzo grado, che possedevano un
talento scientifico inferiore o il cui livello di formazione non era ancora ben progredito. Su costoro
Heidegger agiva come una droga. Il vortice di domande radicali in cui Heidegger ti avvolgeva, nella
bocca degli imitatori assumeva dimensioni caricaturali. Sinceramente non avrei voluto trovarmi nei
panni di un collega di Heidegger a quel tempo. Dovunque comparivano studenti che del maestro
sapevano perfettamente « come si schiarisce la voce e come sputa ». Questi giovani, con le loro «
domande radicali », il cui girare a vuoto era pari alla loro presunzione, creavano scompiglio nei
seminari, e quando esibivano il loro oscuro tedesco-heideggeriano, qualche professore poteva avere
l’impressione di essere capitato nella situazione descritta nella commedia di Aristofane, in cui la
gioventù attica, edotta da Socrate e dai sofisti, metteva alla corda gli interlocutori. Come allora non
era possibile muovere un’accusa a Socrate, adesso non era possibile accusare Heidegger perché
accadevano questi fatti e perché non tutti i suoi allievi si dedicavano a un lavoro serio. Resta
tuttavia uno dei drammi più curiosi il fatto che Heidegger, che pure aveva coniato l’espressione «
cura liberante », nonostante tutta la libertà, o meglio: con tutta la libertà, non abbia evitato che molti
perdessero irrimediabilmente la loro libertà dopo essere entrati in rapporto con lui. Le farfalle sono
attratte dalla luce.
Ce ne rendemmo conto al tempo in cui Heidegger stava scrivendo Essere e tempo. Osservazioni
occasionali fornivano anticipazioni dell’opera. Un giorno, mentre stava tenendo un seminario su
Schelling, ci lesse la frase: « L’angoscia della vita stessa espelle l’uomo dal centro », aggiungendo:
« Citatemi una sola frase di Hegel che uguagli questa in profondità». È noto come il primo effetto di
Essere e tempo - in particolare sulla teologia — sia stato quello di un appello esistentivo
all’anticipazione della morte, di un richiamo alP« autenticità ». Dalle sue pagine si sentiva più
Kierkegaard che Aristotele. Ma già nel libro su Kant, apparso nel 1929, non si parlava più
dell’esserci (Dasein) dell’uomo, ma improvvisamente dell’« esser-ci [Da-sein] nell’uomo ». Ora si
avvertiva chiaramente il problema circa l’essere e il suo « Ci », che Heidegger aveva ricavato dal
concetto greco di aletheia, o non-nascondimento. Non si trattava di un Aristoteles redivivus, bensì
di un pensatore il cui predecessore non era soltanto Hegel, ma anche Nietzsche, e che rifletteva sulle
origini, su Eraclito e Parmenide, perché aveva scoperto l’incessante contrasto tra disvelamento e
nascondimento, scoprendo il mistero del linguaggio, in cui accade, cioè si storicizza (geschieht), sia
la chiacchiera sia la « custodia » (Bergung) del vero.
Heidegger concretizzò completamente tutta questa problematica so
lo dopo il suo ritorno nella terra d’origine, cioè a Friburgo e nella Foresta Nera, quando, come allora
mi scrisse, cominciò « a sentire le energie del suolo antico ». « Tutto cominciò a franare ». E definì
questa esperienza di pensiero come « svolta » (Kehre), non nel senso teologico di conversione, ma
nel significato che gli proveniva dal suo dialetto.
La Kehre è la curva della strada che si inerpica sulla montagna. Percorrendola non ci si gira, ma è la
strada stessa che si volge nella direzione opposta, per condurci verso l'alto. Dove? Nessuno potrà
rispondere così facilmente. Non a caso Heidegger ha intitolato Holzwege (Sentieri interrotti) una
delle sue più importanti raccolte di lavori tardivi. Gli Holzwege sono sentieri che non proseguono e
costringono
il viandante a salire verso l’inesplorato o a ritornare sui suoi passi. Ma la sommità rimane.
Del periodo friburghese di Heidegger, del 1933 e degli anni seguenti, non so nulla per visione
diretta. Ma anche a distanza divenne presto evidente che, dopo l’episodio politico, Heidegger seguì
con rinnovato slancio la passione del pensare e che il suo pensiero lo conduceva verso contrade
nuove e inesplorate. Ci fu allora una conferenza sulle parole fondamentali di Hòlderlin, che fu
pubblicata, caso abbastanza strano, sulla rivista « Das innere Reich ». Sembrava che Heidegger
avesse rivestito il suo pensiero con le parole poetiche di Hòlderlin sul divino e sugli dei.
Poi un giorno (nel 1936) ci recammo a Francoforte per ascoltare una lezione di Heidegger, che durò
tre ore, su « L’origine dell’opera d’arte ». « Il paesaggio deserto », così Sternberger intitolò il suo
resoconto sulla « Frankfurter Zeitung ». Certo il rigore esigente di questa peregrinazione
intellettuale era estraneo al recensore, amico del panorama offerto dall’attività umana. In realtà era
anche inusitata, perché vi si udiva parlare della Terra, e del Cielo, e della lotta tra loro, come se si
trattasse di concetti del pensiero quali erano, nella tradizione della metafisica, materia e forma. Si
trattava di metafore? Di concetti? Enunciazioni del pensiero o annuncio di un nuovo mito pagano?
Il nuovo modello sembrava essere lo Zarathustra di Nietzsche, il maestro dell’eterno ritorno
dell’uguale. In effetti Heidegger si stava allora applicando a un’interpretazione profonda di
Nietzsche, che alla fine si sarebbe condensata in un’opera in due volumi, vero pendant di Essere e
tempo.
Ma non si trattava di Nietzsche. E non c’era in tutto ciò neppure qualcosa delPeccentricità religiosa.
Anche se risuonavano qua e là tonalità escatologiche, anche se, in forma abbastanza oracolare, vi si
parlava « del Dio » che « probabilmente all’improvviso » potrebbe fare la sua comparsa, si trattava
di estrapolazioni del pensiero filosofico e non di parole profetiche. Era in corso una lotta spossante
per la conquista di un linguaggio filosofico che, al di là di Hegel, ma anche al di là di Nietzsche,
fosse in grado di ripetere il più remoto inizio del pensiero greco, andando nuovamente a riprenderlo.
Ricordo che un giorno, lassù nella Hutte, eravamo durante gli anni della guerra, Heidegger iniziò a
leggermi un saggio su Nietzsche a cui stava lavorando. Ad un certo punto si interruppe
improvvisamente, batté così forte sul tavolo che le tazze del tè tintinnarono, esclamando con
emozione e disperazione: « Ma tutto questo è cinese! ». Era dinanzi alla povertà del linguaggio,
come solo può esperirla colui che ha qualcosa da dire. Heidegger tentò con tutte le sue energie di far
fronte a questa indigenza linguistica e di non lasciarsi distogliere dal suo problema dell’essere,
difendendosi da qualunque offerta che gli fosse giunta dalla tradizionale metafisica onto-teologica e
dalla sua concettualità. Questa ostinata energia di pensiero si imponeva ogni volta che teneva una
conferenza: come quella su « Costruire, abitare, pensare », tenuta nella grande sala dei colloqui di
Darmstadt; o quella su « La cosa », che terminava in una enigmatica ridda di parole; oppure quando
interpretava una poesia di Trakl o ancora un testo dell’ultimo Hòlderlin - come accadeva spesso nel
troppo raffinato stabilimento di cura di Buhlerhòhe, dove una volta lo seguì persino Ortega y
Gasset, attratto da questo cercatore doro del linguaggio e del pensiero.
In seguito si adattò nuovamente agli ordinamenti della vita accademica. In una delle regolari sedute
di lavoro dell Accademia delle Scienze di Heidelberg, parlò su « Hegel e i Greci ». In occasione del
giubileo dell’Università di Friburgo tenne una conferenza commemorativa, lunga e difficile, su «
Identità e differenza » — e nella stessa circostanza tenne persino, come ai vecchi tempi, un
seminario con i suoi antichi allievi, centrato su un’unica frase di Hegel: « Die Wahrheit des Seins ist
das Wesen » [« La verità dellessere è l’essenza »], proprio tutto come una volta. Questo significa:
avvinto al proprio interrogare e pensare, tastando in avanti col piede alla ricerca di un fondamento
solido, infastidito se non si indovinava dove cercava l’appoggio, e incapace di aiutare gli altri se
non attraverso l’impeto del suo originale impegno intellettuale. Spesso l’ho invitato a degli incontri
con il circolo dei miei allievi di Heidelberg. Talvolta si avviava un colloquio, si veniva cioè
coinvolti in una peregrinazione del pensare senza per questo smarrire il sentiero. Soltanto chi
cammina insieme sa che si tratta di un sentiero.
Oggi invece i più si comportano diversamente. Non vogliono procedere insieme, ma sanno già
prima dove si va, o addirittura sanno meglio degli altri dove si dovrebbe andare. Rispetto a
Heidegger non hanno quindi altro interesse se non quello di voler classificarlo, situandolo per
esempio nella crisi del mondo borghese nell’epoca del tardo capitalismo: fuga dal tempo nelPessere
o in un intuizionismo irrazionalistico, noncuranza nei confronti della logica moderna. Forse gli
uomini di oggi si ingannano pensando che non avrebbero qualcosa da situare né sarebbero in grado
di superare criticamente qualcosa, se questo filosofare non fosse semplicemente qui, più irriflesso di
quello di tutti i contemporanei, che si rifiuta di riflettere semplicemente su queste cose. Due cose
però dovrebbero risultare innegabili per chiunque: nessuno prima di Heidegger ha pensato così a
fondo, fino a rendere comprensibile lo sbocco della storia umana nella civiltà tecnica di oggi e nella
lotta per il dominio della terra, partendo direttamente dal pensiero dei Greci, dalla fondazione della
scienza e dalla costruzione della metafisica che ad essi vanno ascritte. E, secondo fatto, nessuno si è
avventurato sull'instabile terreno di concetti non convenzionali spingendosi tanto avanti da
intravedere da lontano, per la prima volta, esperienze umane appartenenti ad altre culture, in
particolare asiatiche, come nostre proprie possibilità d’esperienza.
Tra i molti pellegrini che si recarono a Todtnauberg ci fu un giorno anche il poeta Paul Celan: dal
suo incontro con il pensatore nacque una poesia. Si pensi: un perseguitato ebreo, un poeta che non
viveva in Germania, ma a Parigi, ma pur sempre un poeta tedesco, osava compiere, angosciato,
questa visita. Deve averlo colpito il piccolo ridente podere di campagna con la fonte scrosciante («
con sopra il dado stellato ») e il piccolo uomo, rustico anche lui, dagli occhi sfavillanti. Ha scritto il
suo nome nel libro della Hutte, come molti altri, con una riga di speranza, quella che conservava nel
cuore. È poi salito più in alto con il pensatore camminando sui teneri prati, tutti e due solitari, come
i fiori che crescono isolati (« orchidee selvatiche »). Solo più tardi, sulla via del ritorno, gli si fece
chiaro ciò che Heidegger gli era andato sussurrando, quello che prima gli sembrava ancora crudo:
incominciava a comprendere. Capì il rischio di un pensiero che un altro (« l’uomo ») può ascoltare
senza comprendere, il rischio di un incedere
su un terreno instabile come su « viottoli di tronchi », che non possono essere percorsi fino in
fondo. Ecco la poesia:
Todtnauberg 1
1 P. CELAN, Luce coatta, tr. it. di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1983, pp. 28-31 [NdT].
Arnica, eufrasia, il
sorso della fonte con sopra
il dado stellato,
nella
malga,
la riga nel libro
- quali nomi accolse
prima del mio? -
la riga, in quel libro
inscritta,
duna speranza, oggi,
dentro il cuore,
per la parola ventura
di un uomo di pensiero,
umidi prati silvestri, non spianati,
orchidee selvatiche, sparsamente,
più tardi, in viaggio, parole crude,
senza veli,
chi guida, l’uomo,
che anche lui ascolta,
percorsi a
mezzo, i viottoli
di tronchi sulla torbiera gonfia,
umidore,
forte.
11. IL SENTIERO VERSO LA SVOLTA (1979)
L’opera filosofica di Martin Heidegger appartiene in un certo senso già alla storia: ha cioè superato
di gran lunga la prima e anche la seconda ondata della sua risonanza e possiede il suo preciso posto
tra i classici del pensiero filosofico. Ciò implica che in ogni momento la coscienza del tempo dovrà
definire sempre di nuovo la propria posizione nei confronti della sua opera. Chi poi ha avuto modo
di partecipare, in prima persona e da contemporaneo, allo sviluppo e alla diffusione dell’interrogare
filosofico di Heidegger, in questa impresa non solo dovrà determinare nuovamente il luogo del
pensiero heideggeriano, ma sarà costretto a ridefinire anche la propria collocazione. Non pretenderà
di voler giudicare il significato storico di Martin Heidegger, ma, al contrario, si preoccuperà di
prendere ulteriormente parte a ciò che Heidegger ha avviato con il suo interrogare.
Si può tuttavia affermare con una certa sicurezza che il luogo occupato da Heidegger sia da
determinarsi partendo da due aspetti totalmente differenti: a partire dunque dalla sua posizione nella
filosofia accademica del nostro secolo, specialmente all’interno della scena tedesca, e dal suo
influsso e significato nella coscienza universale della nostra epoca. La sua importanza sembra
determinata in primo luogo dal fatto che in lui questi due aspetti non devono affatto essere separati,
come non possono essere separati nel caso di grandi classici del pensiero quali Descartes o Leibniz,
Hume, Kant, Hegel, Nietzsche.
All'interno della filosofia accademica del nostro secolo, sembra legittimo, in base alle stesse
dichiarazioni di Heidegger, inserire il suo pensiero nell’ambito del movimento fenomenologico. Chi
conosce lo sviluppo della fenomenologia husserliana, ed è a questa che Heidegger pensa, sa che
questa collocazione doveva valere nei confronti del neokantismo allora dominante. Entrambi questi
movimenti non possono certamente essere presi in un senso rigorosamente scolastico. In entrambi
gli orientamenti, il pensiero di Heidegger si presenta sotto un profilo accentuatamente critico.
Egli è stato per lunghi anni assistente e poi giovane collega del fondatore della scuola
fenomenologica ed ha indubbiamente appreso qualcosa di decisivo dalla magistrale arte descrittiva
che contraddistingueva Edmund Husserl. Il suo primo grande tentativo di pensiero, Essere e tempo,
nella veste linguistica e nell’orientamento tematico, perfino nel luogo di edizione, si presentava
come un'opera fenomenologica. L’espressione « fenomenologia », come era impiegata da Husserl,
conteneva una punta polemica nei confronti di ogni costruzione teoretica che fosse scaturita da una
coercizione sistematica non smascherata. La forza dell’intuizione fenomenologica aveva dato buoni
risultati proprio nel rifiuto e nella critica di qualsiasi pregiudizio costruttivo presente nel pensiero
contemporaneo. Lo testimonia in particolare la sua celebre critica dello psicologismo e del
naturalismo. Si dovrà anche concedere che l’accuratezza descrittiva di Husserl si accompagnava a
un’autentica coscienza metodica. I fenomeni da lui privilegiati non erano datità ingenue, ma
correlati alla sua analisi delle intenzionalità di coscienza. Solo il ritorno (Rückgang) agli atti
intenzionali era in grado di assicurare il concetto dell’oggetto intenzionale, dell’intenzionato come
tale e, di conseguenza, del fenomeno.
Quando, nell’introduzione alla sua prima opera, Heidegger spiegò e fece proprio il concetto di
fenomenologia, la sua prospettiva poteva quindi essere interpretata quasi come una semplice
variazione del programma metodico di Husserl. E tuttavia un nuovo e originale accento vi era
contenuto, se Heidegger, acutizzando il paradosso, introduceva il concetto di fenomeno non
partendo dalla sua datità, quanto piuttosto dalla sua non-datità e dal suo occultarsi.
Pur evitando, in questa prima esposizione delle proprie intenzioni, di criticare esplicitamente il
programma fenomenologico di Husserl, anche se già da tempo nelle sue lezioni aveva cercato di
formulare una posizione critica verso la fenomenologia, Heidegger assunse una distanza rispetto
all’impostazione fenomenologica husserliana che non poteva più essere travisata nell’ulteriore
sviluppo di Essere e tempo. Non era certo casuale il fatto che nel § 7 di Essere e tempo Heidegger
avesse compreso l’idea della fenomenologia a partire dall’occultarsi del fenomeno e dal
corrispondente disvelamento che lo strappa dal suo nascondimento. Non era solo una conseguenza
della consueta certezza di vittoria, con cui il fenomenologo provava la propria superiorità nei
confronti delle costruzioni teoretiche della filosofia contemporanea. L’occultarsi di cui qui si
trattava era racchiuso, per così dire, a un livello più profondo. Anche lanalisi classica della
percezione della cosa, che Husserl aveva elaborato portandola alla massima raffinatezza, come
cavallo di battaglia della sua arte della descrizione fenomenologica, poteva nel suo complesso
essere accusata di pregiudizio occultante. In effetti, la prima mossa di Heidegger fu di ritorcere
contro la struttura descrittiva di Husserl il contesto pragmatico funzionale in cui percezioni e giudizi
di percezione si incontrano. Quello che egli andava elaborando nel concetto di utilizzabilità
(Zuhandenheit), non rappresentava più una dimensione di livello più elevato nell’ampio campo
tematico della ricerca husserliana sull’intenzionalità. Al contrario, la semplice percezione che coglie
qualcosa come semplicemente presente ( Vorhandenes) e lo rende attuale (präsent), si rivelava, a
partire da questi presupposti, un’astrazione, fondata su un pregiudizio dogmatico, secondo il quale
ciò che è, in quanto semplice presenza ( Vorhandenheit), dovrebbe ricevere la sua determinazione
ultima per mezzo della pura presenza (Präsenz) nella coscienza. Per giungere a questo il giovane
Heidegger, che si era esercitato alla logica dei giudizi impersonali quando seguiva i corsi di
Heinrich Rickert, doveva aver ricevuto un oscuro impulso, che ora si elevava alla chiarezza
teoretica. Il risultato della tesi che il grido « fuoco! » opponesse resistenza alla sua trasformazione
logica in un giudizio predicativo, e che solo con una forzatura potesse essere subordinato allo
schema logico, non poteva apparire allo Heidegger degli anni successivi altro che una conferma
della sua intuizione iniziale: la logica deve essere sottomessa a una restrizione ontologica.
Nel frattempo, grazie a una geniale e originale interpretazione della metafisica e dell’etica
aristoteliche, Heidegger si era procurato per così dire l’attrezzatura necessaria per scoprire, in se
stesso, in Husserl e nell’intero neokantismo i persistenti pregiudizi ontologici che continuavano a
operare nel concetto di coscienza e quindi nell’intera posizione fondamentale del concetto della
soggettività trascendentale. Aver riconosciuto la soggettività come una trasformazione della
sostanzialità e quindi come un estremo derivato ontologico dei concetti aristotelici di essere e di
essenza, infondeva alla sua critica, di tono pragmatistico, dell’analisi husserliana della percezione
un impeto tale da sovvertire tutte le prospettive husserliane e specialmente i rapporti su cui il
programma husserliano si fondava. Allorché parlò di « esserci », Heidegger non usò semplicemente
un vocabolo nuovo e di elementare potenza denominativa, con il quale sostituire i concetti di
soggettività, autocoscienza ed ego trascendentale. Elevando al concetto l’orizzonte temporale
dell’esserci umano, consapevole della propria finitezza e sicuro della propria fine, scavalcò la
comprensione dell’essere su cui si fondava la metafisica greca. Allo stesso modo i concetti-guida
della moderna filosofia della coscienza, soggetto e oggetto, ma anche la loro identità entro il
pensiero speculativo, si rivelarono costruzioni dogmatiche.
Questo non significa che anche la coscienziosità fenomenologica dello stesso Husserl non
impiegasse tutti i mezzi possibili per vincere il dogmatismo del tradizionale concetto di coscienza.
Anzi, la pointe del concetto di intenzionalità era costituita proprio dalla tesi che coscienza è sempre
« coscienza di qualche cosa ». Anche il postulato di evidenza dell’apoditticità assoluta, che solo
l'ego cogito era in grado di soddisfare, non rappresentava affatto per Husserl un reale salvacondotto.
Egli risolse piuttosto, in un lavoro analitico che durò per tutta la sua vita e che si andò sempre più
raffinando, il concetto fondamentale kantiano della sintesi trascendentale dell’appercezione in
un’analisi costitutiva della coscienza interna del tempo, elaborando in forma sempre più accurata la
processualità dell’autocostituzione dell’« io penso ». Con la medesima tenacia perseguì,
accomunandole sotto il titolo « intersoggettività », le aporie della costituzione dell'alter ego, del «
noi » e dell’universo monadologico, mostrando quindi, con l’esplicazione della problematica del
mondo-della-vita contenuta negli studi appartenenti al periodo della Krisis, la propria completa
disponibilità verso obiezioni che potevano essergli mosse a partire dalla problematica della storia.
Senza dubbio le analisi che egli stava svolgendo attorno alla tematica del mondo-della-vita si
trovavano, secondo il suo punto di vista, in netta e totale contrapposizione rispetto all’insistenza
critica con cui Heidegger ribadiva la storicità dell’esserci. È abbastanza strano poi che nella Krisis
indirizzasse il suo rifiuto critico simultaneamente sia contro Heidegger sia contro Scheler, i quali su
questo punto avevano proprio ben poco in comune. Scheler non ha mai posto in questione la
dimensione eidetica come tale partendo dalla storicità, come invece ha fatto l’ontologia
fondamentale di Heidegger, nella sua veste di ermeneutica della fatticità. Scheler cercava di fondare
la fenomenologia sulla metafisica. Non è lo spirito, ma l’impulso (Drang), a esperire la realtà. Lo
sguardo eidetico e derealizzante [entwirklickende) dello spirito deve prorompere dalla realtà
dell’impulso. La fenomenologia quindi non ha alcun fondamento in se stessa. Agli occhi di Husserl
questo doveva costituire un eludere l’esigenza della filosofia come scienza rigorosa, giacché la
scienza della realtà, secondo la propria essenza, non può essere rigorosa. La Krisis è dedicata
soprattutto al chiarimento di tali « fraintendimenti ». Per lui in ogni caso era chiaro
che sia Heidegger che Scheler non avevano compreso, entrambi, l’ineludibilità della riduzione
trascendentale e della « fondazione ultima » sulla certezza apodittica del cogito.
Può aiutarci a illustrare l’ampiezza di respiro della problematica ora toccata, ricordare che da parte
sua Heidegger trovava l’impostazione husserliana del problema irrimediabilmente prigioniera dei
pregiudizi ontologici su cui poggiava la tradizione della metafisica. Quando, verso la fine degli anni
cinquanta, incontrò un giorno i miei allievi a Heidelberg e partecipò a un mio seminario che aveva
per oggetto le lezioni di Husserl sul tempo, chiese cosa avesse a che fare l’analisi husserliana sulla
temporalità con Essere e tempo. Respinse tutte le risposte che gli furono date, dicendo: « Non ha
nulla a che vedere ».
Questa affermazione era senza dubbio espressione della risolutezza con cui l’ultimo Heidegger si
era liberato dall’impostazione trascendentale, risolutezza che in Essere e tempo non era a dire il
vero ancora stata raggiunta. Se si guarda retrospettivamente insieme a Heidegger alla sua propria
evoluzione, si dovrà concedergli che già il suo punto di partenza dall'essere-nel-mondo e la sua
esposizione del problema dell’essere condotta sul filo di questa presunta analitica « trascendentale »
dell’esserci indicavano in effetti una direzione totalmente diversa. Un’analisi della coscienza del
tempo come quella elaborata da Husserl non era più in grado di soddisfare Heidegger — nonostante
il progresso fatto registrare da Husserl rispetto a Brentano, progresso che consisteva nel riconoscere
la temporalità della coscienza del tempo e nel volgersi contro una teoria della coscienza del tempo
che ne pensasse il trascorrere e il passato stesso soltanto partendo dal ricordo, quindi come qualcosa
di « nuovamente presentificato ». Questo passo, con cui Husserl superava decisamente Brentano, si
esprimeva nel concetto di « ritenzione »: un trattenere proveniente dalla coscienza stessa che
percepisce in senso presentificante.
Nel frattempo l’interrogare heideggeriano si faceva sempre più radicale. Essere e tempo non era
affatto, come pensava allora Oskar Becker, la semplice elaborazione di uno strato problematico di
grado superiore entro il programma fenomenologico di Husserl. Questo « frammento di
antropologia filosofica » che si celava in Essere e tempo 1, era piuttosto subordinato a una domanda
sull’essere molto più ampia e profonda. Heidegger allora orientava questo « essere » in base a ciò
che egli definiva « l’ente nella totalità », e anche in seguito ha sempre insistito nel sottolineare che
questo « essere » non va colto a
partire dall esserci, che è solo la « dimora della comprensione dell'essere » 2, dove l'essere giunge
unicamente a legittimarsi. Nel corso marburghese del semestre estivo 1928 Heidegger premette che
« è già presente una possibile totalità dell'ente » 3. Solo a quel punto l'essere può darsi alla
comprensione. L'esserci è sì « esemplare », ma non come un caso dell'essere privilegiato dal nostro
pensiero, quanto piuttosto come l'ente « che è in modo da essere il suo Ci ». In queste lezioni
incontriamo già anche la parola Lichtung, usata specialmente nelle opere successive, certo ancora
nell'accezione antropologica che caratterizza l'apertura illuminante dell'esserci, ma pur sempre con
l'intento ontologico di designare l'« essere esposto nell’apertura del Ci: l’ek-sistenza [Ek-sistenz] »
4. Anche l’espressione che solo più tardi diventerà una parola-chiave: « la svolta », è ritrovabile già
nelle lezioni del 1928, per spiegare che « l’ontologia stessa ritorna precipitosamente ed
esplicitamente nell’ontica metafisica, nella quale risiede sempre ». Anche qui si pensa ancora a
partire dall’esserci, nella misura in cui il capovolgimento latente che l’ontologia fondamentale
esperisce come analitica dell'esserci, diventando analitica temporale, viene definito « svolta ». Le
glosse marginali apportate da Heidegger successivamente sulla propria copia di Essere e tempo, sul
cosiddetto Hüttenexemplar, reinterpretano completamente la funzione esemplare delTesserci5. Il
quale è « esempio » nel senso dell’evento delTessere (Seinsgeschehen) che in esso gioca. Si tratta
naturalmente di una reinterpretazione assai chiara. Ma anche queste nuove interpretazioni (che
senz’altro sono tali) possiedono la loro verità. Servono a illuminare il fine cui tende la loro
intenzione ancora oscura. Per riaccendere il problema delTessere è importante essenzialmente il «
Ci » delTesserci, non tanto invece la priorità posseduta dall’essere delTesserci.
Considerazioni analoghe valgono anche a proposito di altri punti critici del programma husserliano.
Per esempio il capitolo di Essere e tempo dedicato al con-essere (Mitsein) (§ 26) è determinato
interamente dal distanziarsi critico nei confronti della problematica husserliana
dell’intersoggettività. In effetti il pregiudizio ontologico che domina il pensiero di Husserl può
essere colto nella trattazione del problema dell’intersoggettività altrettanto agevolmente che nella
descrizione della presunta percezione « pura ». In questo caso una « entropatia trascendentale »
(transzendentale Einfühlung) di grado superiore dovrebbe vivificare la pura cosa della percezione
trasformandola in alter ego! Allorché Heidegger parla di con-essere come condizione a priori di
ogni con-esserci (Mitdasein), facendo valere espressamente anche qui la pretesa alla cooriginarietà
che egli ripetutamente oppone all’idea husserliana della fondazione ultima 6, si tratta chiaramente di
un orientamento polemico nei confronti di Husserl. Il con-essere non è qualcosa che si aggiunge
solo successivamente all'esser-ci. L’esserci invece è sempre anche con-essere, ed è del tutto
indifferente se altri sono qui con me oppure no, se essi mi mancano oppure se non « ho bisogno » di
nessuno.
Quando in questo modo Heidegger caratterizza esserci e con-essere come modi dell'essere-nel-
mondo, di cui la cura rappresenta la costituzione unitaria fondamentale, egli segue ancora, per
quanto riguarda la struttura argomentativa, il pensiero della fondazione trascendentale, che Husserl
condivideva con il neokantismo. In verità, con la sua analitica trascendentale dell’esserci, egli era
orientato a una semplice concretizzazione della coscienza trascendentale, vale a dire a una
sostituzione dell’ago trascendentale stilizzato in forma fantastica con l'esserci umano fattuale. Lo si
può vedere indirettamente già dal fatto che Heidegger orienta la domanda circa il « chi » delPesserci
in senso fenomenologico sulla base della quotidianità delPesserci, che è già sempre abbandonato al
prendersi-cura del « mondo » dell’utilizzabile e dell’essere-con-gli-altri. In questa deiezione tuttavia
resta costantemente celato sia il vero fenomeno del « Ci » sia l'« Io stesso ». Si tratta del « si »
impersonale, che non è o non è stato nessuno, quale si presenta innanzitutto e per lo più all’esserci
stesso. Tutto ciò non solo dal punto di vista polemico nel senso della critica alla civiltà dell’epoca
della responsabilità anonima. Alle spalle si trovava piuttosto un motivo critico che poneva in
questione il concetto stesso della coscienza. Ma occorreva un armamento teorico peculiare, e
abbastanza strano, per rendere visibile dietro a questa deiezione mondana del prendersi cura
(Besorgen) e dell’aver cura (Fürsorge) l’autenticità dell'esserci, il « Ci » velato dal nulla: questo
apparato teorico era rappresentato dall’anticipazione della morte.
Per la verità Heidegger ha sempre sottolineato che la quotidianità dell’esistenza che si comprende a
partire dal mondo e si interpreta
come esistenza che si prende cura ed ha cura, appartiene all'esserci nella stessa misura in cui
all'esserci appartiene lo sguardo che si schiude sul sommo vertice dell’istante, in cui l’essere-
sempre-mio (Jemeinigkeit) delTesserci appare attraverso l'essere-sempre-mio del morire, e in cui la
temporalità originaria, di fronte all’inautenticità della comprensione volgare del tempo — come
pure di fronte all’inautenticità dell’eternità -, si rivela come temporalità finita. Nel contempo, a
questo livello di estrinsecazione del suo pensiero, Heidegger ha già riflettuto anche riguardo
all’eventualità che un tale rovesciamento dei rapporti fondativi non sia sufficiente e che anche
nell’interpretazione temporale delTessere come tale si celi un’interpretazione fallace: « Già Tatto
fondamentale della costituzione dell’ontologia, della filosofia cioè, l'oggettualizzazione delTessere,
vale a dire la proiezione (Entwurf) delTessere sull’orizzonte della sua comprensibilità, è affidato
all’insicurezza... » 7.
Risuona in questo passo l’intera problematica dell’oggettualizzazione delTessere, che ha condotto
Heidegger alla « svolta ». Qui egli diceva anche che l’orizzonte della comprensibilità potrebbe
essere limitante, in quanto l'oggettualizzazione che è connessa con questa tematizzazione «
contrasta col comportamento quotidiano verso l’ente ». « Il progetto diventa necessariamente un
progetto ontico... ». Queste frasi, tratte dal corso universitario tenuto da Heidegger nel semestre
estivo del 1927, conferiscono un nuovo e drammatico accento a una proposizione che si trova in
Essere e tempo 8 e che là aveva piuttosto il tono di una domanda retorica: «... ci si deve addirittura
chiedere... se un’interpretazione ontologica originaria delTesserci finisca per naufragare contro lo
scoglio costituito dal modo di essere dell’ente tematizzato ».
Allora si trattava più che altro di una domanda retorica. Ma con lo sguardo retrospettivo di cui oggi
possiamo disporre, si rafforza in me un quesito che mi ha assillato fin dalla comparsa di Essere e
tempo: l’introduzione del problema della morte nella linea teoretica di Essere e tempo era
veramente convincente e realmente adeguata alla cosa in questione? L’argomentazione formale è
rivolta a illustrare che l’interpretazione ontologica dell'essere-nel-mondo come cura (e
successivamente: come temporalità) si deve assicurare esplicitamente del poter-essere-un-tutto
(Ganzseinkönnen) delTesserci, se davvero vuole essere certa del proprio oggetto. Ma questo esserci
verrebbe limitato dalla sua stessa finitezza, dall’essere-per-la-fine, che farebbe la sua comparsa as
sieme alla morte. Avrebbe quindi bisogno di riflettere sulla morte. Ma tutto questo è realmente
convincente? Non è forse molto più plausibile il fatto che la finitezza è già contenuta nella struttura
della cura come tale e nella sua forma di decorso temporale? L'esserci, che si progetta in vista del
suo avvenire, non esperisce forse costantemente nel trascorrere del tempo come tale, ciò che è
passato? Ciò che Heidegger in verità pensa, è che l'esserci realizzi continuamente l’anticipazione
della morte, non che si possa così abbracciare con lo sguardo la totalità dellesserci. L’esperienza del
tempo è ciò che ci confronta con la finitezza essenziale che ci domina totalmente.
Si può comunque osservare che Heidegger ha percorso proprio questa strada e che la problematica
della morte non è mai ritornata ad essere un punto centrale. Nel suo Hüttenexemplar le parti
dedicate a questo problema non recano alcuna nota marginale: infatti il suo sentiero filosofico lo ha
condotto alla fine dall’estatica orizzontale dellesserci e dell’istante all’analisi strutturale della
dimensionalità del tempo 9.
Anche le ultime note marginali a Essere e tempo vanno nella medesima direzione. In esse
l’espressione « dimora della comprensione dell’essere » 10 diventa particolarmente istruttiva.
Usandola, Heidegger vuole evidentemente conciliare il precedente approccio a partire dall’esserci,
al quale ne va del proprio essere, con il nuovo movimento teoretico che parte dal « Ci », in cui
l’essere si illumina. Nella parola « dimora » si percepisce che essa è teatro di un evento
appropriante (Ereignis) e non principalmente il luogo di un’attività dell’esserci. L’intera costruzione
che guida lo svolgimento di Essere e tempo sembra retta da un doppio ordine di motivi, che non si
trovano mai in perfetto equilibrio: da un lato il primato ontologico dell’« apertura » dell'esserci, che
fonda e precede tutti i fenomeni ontici dell’atto concreto dell’esserci e specialmente anche l’interna
tensione tra inautenticità e autenticità dell'esserci. Dall’altro lato, si tratta per il pensiero di liberare
appunto l’autenticità dell'esserci rispetto all’inautenticità che gli inerisce, non certo nel senso
dell’appello esistentivo di Jaspers, ma per ricavare da esso la vera temporalità e raggiungere
l’orizzonte temporale dell’essere nella sua portata universale. Entrambi questi motivi confluiscono
nell’idea di fondazione a priori con cui allora Heidegger corredava in senso trascendentale la
domanda sull’essere.
In tutti i casi non può sussistere alcun dubbio che, abbandonando l'autointerpretazione
trascendentale e l’orizzonte della comprensibilità, il pensiero heideggeriano ha perduto l’insistenza
sulla nozione di appello che lo faceva apparire ai suoi contemporanei così simile alla cosiddetta
filosofia dell’esistenza. Certamente anche in Essere e tempo Heidegger aveva già sottolineato che la
tendenza delTesserci alla deiezione, il suo risolversi nel prendersi cura del mondo, non sarebbero un
semplice errore o una carenza, ma sarebbero cooriginari rispetto all’autenticità delTesserci, e ad
essa essenzialmente intrecciati. Certamente anche la parola magica « differenza ontologica », con la
quale Heidegger lavorava nel periodo di Marburgo, non aveva soltanto il senso palese della
differenza tra essere ed ente che costituisce l’essenza della metafisica, ma aveva di mira già sempre
ciò che si potrebbe definire la differenza nell’essere stesso, che giunge a definizione filosofica
unicamente nella distinzione della metafisica. Durante gli anni di Marburgo, prima ancora che
uscisse Essere e tempo, non voleva intendere il termine « differenza ontologica », che allora usava
continuamente, come se questa differenziazione tra essere ed ente fosse compiuta da noi, dai
pensanti. E senz’altro Heidegger fu anche consapevole fin dall’inizio del fatto che lo schema
aprioristico del neokantismo e la separazione husserliana tra essenza e fatto non erano sufficienti a
distinguere convincentemente la particolarità epistemologica della filosofia dai concetti a priori che
costituiscono il fondamento delle scienze positive. La formula paradossale di « ermeneutica della
fatticità » dà a questa circostanza un’espressione eloquente, così come l’immagine del «
ripercuotersi » dell’analitica esistenziale nell’« esistenza ».
È dunque del tutto legittimo il rifiuto di Heidegger di considerare Essere e tempo un vicolo cieco.
Conduceva invece in uno spazio libero, nella misura in cui riconosceva l'« essere » in generale
come un problema. E tuttavia ci fu come lo schiudersi di una nuova apertura, quando Heidegger
impiegò, già nella sua pubblicazione successiva (Kant e il problema della metafisica), la
sorprendente locuzione « esserci nell’uomo ». Dove ciò lo avrebbe condotto non lo si poteva certo
ancora desumere dal libro su Kant. In alcune note marginali a questo libro, che io ho potuto leggere
quando egli mi inviò una copia del volume in sostituzione di quella che avevo perduto, si vede che
già prima del 1940 Heidegger si autocriticava: « totalmente recidivo nella impostazione
trascendentale ». L’idea di una metafisica finita che in quest’opera egli cercava di sviluppare e di
sostenere con strumenti kantiani, in ultima analisi, conservava in sé l’idea della fondazione
trascendentale, come già aveva fatto la prolusione friburghese Che cos’è metafisica?
Non si tratta certamente di un caso o di un elemento semplicemente trascurabile nell'atteggiamento
filosofico di Heidegger, ma rispecchia il problema, assai serio, di come il radicale impulso di
pensiero diretto a distruggere la concettualità della metafisica possa coesistere con l’idea della
scienticità della filosofia. A questo problema Heidegger rimase allora totalmente e tenacemente
fedele - per la crescente delusione di Jaspers (come si può vedere dalle sue Notizen zu Martin
Heidegger, pubblicate di recente). Di qui la sua autointerpretazione « trascendentale » in Essere e
tempo. La filosofia trascendentale poteva comprendersi ancora come scienza, proprio perché
respingeva ogni metafisica elaborata fino a quel momento, classificandola come dogmatica. Di
conseguenza poteva offrire alle scienze in quanto tali una fondazione grazie alla quale essa si
confermava come la vera erede della metafisica. Questo vale in pieno ancora per il programma di
Husserl — mentre per Heidegger diviene problematico.
Essere e tempo ha fuso in una semplificazione grandiosa e mirabile l’autocomprensione della
metafisica, e cioè: dei Greci, con la nozione di oggettività scientifica, su cui si fonda
l'autocomprensione metodologica delle scienze positive. Ambedue i concetti sono stati compresi
sotto il titolo « semplice presenza » ( Vorhandenheit) e la pretesa di Essere e tempo è stata proprio
di dimostrare il carattere derivato di questa comprensione dell’essere; ciò significa però dimostrare
l’essere dell'esserci, non malgrado bensì in forza della sua finitezza e storicità, come l’elemento
autentico a partire dal quale si possono anzitutto comprendere anche questi modi d’essere derivati,
quali semplice presenza o oggettività. Un’impresa simile rappresentava qualcosa di distruttivo per
la figura di pensiero della metafisica classica. Quando Heidegger, in base alla struttura di Essere e
tempo, ha posto la domanda « che cos' è metafisica? », già allora questa domanda costituiva più un
interrogarsi sui presupposti nascosti della metafisica che una ripresa di quest’ultima o anche
soltanto una sua nuova fondazione su una base più profonda.
E' noto che durante gli anni trenta e i primi anni quaranta il percorso filosofico di Heidegger non si
estrinseca in pubblicazioni, ma più che altro in forma di insegnamento accademico o di conferenze
per circoli ristretti. Il pubblico potè apprendere per la prima volta e in forma riassuntiva ciò che
Heidegger chiamò la « svolta », quando nel 1946 fu pubblicata la Lettera sull' umanismo. Solo negli
anni seguenti in occasione della pubblicazione di Sentieri interrotti, si delinearono con maggior
chiarezza i passi che Heidegger aveva compiuto negli anni trenta. Chiunque ebbe modo di vedere
subito che con quest’opera si superava il limite delle istituzioni scientifiche e
dell’autocomprensione della filosofia come filosofia scientifica. E non sarebbe stata necessaria
nemmeno l'aggiunta del vocabolario hölderliniano e del particolare ed energico rispecchiamento
con cui Heidegger si riconobbe nell’opera dell’ultimo Hölderlin: tanto la provocatoria
riproposizione della domanda sull’essere, che Essere e tempo si era posto come meta, era riuscita a
far saltare, realizzando con piena coerenza l’impulso originario, sia i limiti della scienza che quelli
della metafisica.
Certamente, quelli che si affermavano ora al centro dell’attenzione nel pensiero di Heidegger erano
anche temi nuovi: l’opera d’arte, la cosa, il linguaggio, e si trattava chiaramente di compiti posti al
pensiero, per la cui soluzione la tradizione della metafisica non era in grado di fornire alcuna
concettualità adeguata. Il saggio sull’opera d’arte sviluppava con la massima efficacia
l’inadeguatezza concettuale della cosiddetta estetica; e nel problema della cosa si presentava in
primo piano una sfida al pensiero, per rispondere alla quale né la filosofia né la scienza disponevano
di un qualsiasi strumento. Infatti per il pensiero scientifico moderno proprio l’esperienza della cosa
è giunta a perdere la propria legittimazione. Cosa sono le cose nell’età della produzione industriale
e della mobilità generale? In verità anche il concetto di cosa, già da molto tempo, e cioè fin dal
sorgere della scienza naturale moderna e della funzione paradigmatica che per quest’ultima ha
assunto la meccanica, non possedeva più alcun diritto d’asilo filosofico e nella filosofia era stato
sostituito in modo caratteristico dalla nozione di oggetto, nelle sue valenze di Objekt e Gegenstand.
Ma nel frattempo non si è solo verificata una trasformazione nella scienza e nel modo di concepire
intellettualmente il mondo, ma un cambiamento nell’aspetto stesso del mondo, tale da non lasciare
più spazio alla cosa. Anche se si è voluto che l’opera d’arte continuasse ad esistere in una sorta di
riserva della coscienza culturale, in una specie di musée imaginaire, la scomparsa delle cose è stata
un processo inarrestabile, di fronte al quale nessuna forma di pensiero può chiudere gli occhi, sia
che si volga verso il passato che verso l’avvenire.
Ciò che ha costretto Heidegger a indirizzare la domanda circa l’essere proprio e in primo luogo alla
forma di vita umana che oggi definiamo l’età della tecnica, non è stato soltanto un entrare in nuovi
campi o magari un accordarsi con le tonalità dell’antica critica della civiltà. Era assolutamente lungi
da lui l’intento di scambiare evocazioni romantiche di un passato ormai impallidito e in via di
estinzione con il compito di pensare ciò che è. Se già precedentemente, in Essere e tempo,
l’inautenticità dell’esserci era stata riconosciuta nel suo essenziale diritto di sussistere accanto
all’autenticità dell'esserci, per Heidegger si trattava di cosa della massima serietà, anche se suonava
come un’autoritrattazione del pathos da cui era pervasa la sua critica della civiltà. Ora invece era il
pensare-fino-in-fondo l’epoca moderna, l’insorgere del progetto tecnico del mondo come destino
che determina l’umanità nella sua interezza, a formare il terreno unico e unitario di esperienza verso
il quale si orientava la domanda heideggeriana circa l’essere. L’espressione « oblio dell’essere » che
suscita molte risonanze e con la quale Heidegger aveva caratterizzato inizialmente la metafisica, si
dimostrava come il destino (Geschick) di tutta la nostra epoca. Sotto il segno delle scienze positive
e della loro trasformazione in tecnica, l’oblio dell’essere è proteso a realizzarsi radicalmente, non
lascia più scorgere accanto a sé nulla che possa contenere, in una riserva di « sana integrità »
(Heilen), un essere più autentico. Ecco la nuova radicalità del pensiero di Heidegger: proprio in
questo totale nascondimento (Verborgenheit) e assenza (Abwesenheit) dell’essere egli ha iniziato a
pensare la presenza di questa assenza, cioè l’essere. Ma non si trattava certo di un pensiero
calcolante: cadrebbe in equivoco chi volesse calcolare, partendo dall’impostazione heideggeriana,
quali siano le possibilità in grado di fornire, o di negare, delle chances al futuro dell'umanità. Non è
generalmente possibile che ci sia un pensiero calcolante che pensi sul pensiero, come se fosse
disponibile e facilmente valutabile. Qui Heidegger si accosta moltissimo a Goethe, che come è noto
ha voluto dire di sé: « Ho agito in modo saggio, figlio mio, non ho mai pensato sul pensiero ».
Anche il pensare heideggeriano non si concentra sul pensiero. Ciò che Heidegger ha pensato sulla
tecnica e sulla svolta non è in verità un pensare vero e proprio sulla tecnica o sulla svolta, ma un
sostare nell’essere stesso, che segue la propria interna necessità di pensare. Heidegger definisce
questo pensiero « essenziale » e parla pure di « pensare-oltre » (Hinausdenken) o di « pensare-
contro » (Entgegendenken), volendo in questo modo affermare che, non si tratta di un afferrare
pensante o di una comprensione di qualcosa, quanto piuttosto un lasciar-permanere
(Hineinstehenlassen) l’essere nel nostro pensare, anche se ciò accade nella configurazione radicale
della sua completa assenza.
E' superfluo sottolineare che un simile sforzo intellettuale non può servirsi degli accorgimenti e dei
concetti con i quali si riesce a cogliere, comprendere e aver ragione degli oggetti. Un simile
pensiero viene coinvolto dunque in un’estrema indigenza linguistica, nella misura in cui il pensare e
il parlare cui esso tende non sono in grado di mettere a punto alcunché e non possiedono in forma
duratura un oggetto su cui esprimere enunciati garantiti ai quali l’impegno di pensare e di
comprendere avesse semplicemente bisogno di rivolgersi. Perfino le asserzioni con le quali
Heidegger cerca di opporsi al pensiero calcolante che pondera le possibilità dell’avvenire,
conservano qualcosa della sgradevole tendenza all’anticipazione che inerisce al comprendere
concettualmente. È certamente vero che ogni intuizione preveggente (Vorausschau) che spera in
qualcosa di nuovo, di diverso, di salvifico non implica alcun calcolare o computare le possibilità, e
se quindi Heidegger parla dell’avvento dell’essere, aggiungendo magari: « probabilmente in modo
repentino » 11, o affermando nell’ormai famosa intervista: « Solo un dio può ancora salvarci », si
tratta di espressioni di rifiuto che intendono respingere la volontà di sapere basata su calcoli e la
volontà di dominio dell’avvenire, non certo di enunciati effettivi. L’« essere » non si può indagare o
pensare come mediato grazie a qualcosa che ci è accessibile. Proprio per questo motivo simili
asserzioni non sono affatto predizioni. Non si tratta affatto di enunciazioni vere e proprie del suo
pensiero e del pensiero di ciò che è. Per parlare
il linguaggio stesso di Heidegger, anche a proposito di queste espressioni vale il fatto che un simile
progetto in esse racchiuso diventa necessariamente anche un progetto ontico.
Ma come può procedere un simile pensare-contro? Non è necessario specularvi sopra, poiché basta
interrogare gli stessi tentativi presentati da Heidegger. Non c'è dubbio che in questa serie di lavori
più o meno brevi, che ricavano la loro impostazione dalla critica della concettualità metafisica e
della formazione della teoria, la direzione del pensiero heideggeriano si mantiene ferma con una
costanza quasi monomaniacale. Ma riesce appena a sfiorare la costituzione di un linguaggio
concettuale commisurato alla propria impostazione dei problemi e dotato di consistenza propria.
Allorché egli stesso, durante gli ultimi anni della sua vita, si è volto a considerare ciò che il suo
pensiero aveva raggiunto e ha cercato di progettare una specie di introduzione all’edizione completa
dei suoi scritti, alla cui preparazione stava lavorando egli stesso, ha scelto come motto
l’espressione: « sentieri, non opere ». E i sentieri esistono per essere percorsi, per lasciarli alle
spalle e proseguire: non sono qualcosa di consistente presso cui ci si possa trattenere o a cui ci si
possa richiamare. Il linguaggio dello Heidegger più recente è come una continua rottura con le
consuetudini linguistiche, è come un gravare le parole con una pressione e tensione elementari, che
sprigio-
nano reazioni esplosive. Questo linguaggio non fissa. Perciò l'uso quasi rituale di ripetere la dizione
heideggeriana più recente, divenuto quasi abituale fra i suoi ammiratori, risulta essere
profondamente inadeguato. Ma il suo linguaggio è tanto meno casuale e intercambiabile. In
definitiva è tanto intraducibile quanto la parola della poesia lirica, condividendo con questa la
potenza evocatrice che si origina dall'unità perfetta e dall’inseparabilità tra figura fonetica e
funzione di senso.
E tuttavia non è linguaggio della poesia. Il quale è sempre accordato sulla nota poetica, in cui vibra
una figura poetica — mentre il linguaggio di Heidegger è, all’opposto, sempre alla balbettante
ricerca della parola adatta, rimanendo linguaggio che supera continuamente se stesso, linguaggio
della meditazione, dialettica che risponde a qualcosa che si trova prima e oltre al pensato e al
compreso.
Facciamo un esempio: « Nur was aus Welt gering, wird einmal Ding » 12. Questa espressione non è
traducibile nemmeno in tedesco. Alla fine di un lungo itinerario filosofico, che ha opposto
all’indistanziato livellamento di tutte le cose vicine e lontane la vera essenza delle cose stesse, si
comprende per un istante che das Geringe (ciò che è scarso e modesto) della cosa è un processo, un
accadimento, un evento appropriante (Ereignis), che è espresso dal verbo « geringen »
(rimpicciolirsi girando). In realtà questo verbo non esiste nella lingua tedesca, ma riecheggia le
espressioni ringeln (arrotolare) e geringelt (arrotolato) e l’ampia area di significati caratteristici
delle espressioni Ring (anello), Kreis (circolo, cerchia), Ringen (lotta), rings (attorno), e con ciò
l’intera sfericità del mondo (Weltenrund), da cui, arrotondandosi in se stesso, si districa l’essere
scarso e modesto (das Geringe) della cosa. Il pensiero segue i solchi che esso incide nel linguaggio.
Ma il linguaggio è come un campo coltivato, da cui possono germogliare le cose più diverse.
Ci sia consentito ricordare l’interpretazione heideggeriana del detto di Anassimandro, in base al
quale Heidegger legge la « sosta » (Weile) che è assegnata all’ente quando questo esperisce la sua «
genesi ». Così anche la « scarsezza » (Geringe) della cosa « si genera dal mondo » [aus Welt
gering). Senza dubbio l’espressione « scarsezza » è usata in un primo momento come aggettivo
nominalizzato. Ma attraverso la nominalizzazione della forma verbale « gering » (rimpicciolirsi nel
suo girare) viene evocata una totalità di movimento collettiva, come accade attraverso le parole
Gemenge (mescolanza, confusione), Geschiebe (ma
teriale detritico), Getriebe (movimento, via vai). In questo modo Heidegger osa alla fine trasformare
completamente questa forma verbale nominalizzata in un verbo imperfetto, analogamente a come fa
con das Nichten (il nientificare), das Dingen (Tessere essenziale della cosa), e das Sein (Tessere)
che egli scrive Seyn. L’espressione einmal (una volta) contenuta nella frase citata regge sia il senso
di passato del verbo artificiale gering sia la risposta in rima: Ding (cosa). Si avvertono certe
risonanze con forme verbali quali gerinnt (si rapprende), gerannt (arrivare di corsa), gelingt
(riesce), gelang (riuscì), ma anche geraten (imbattersi, essere preda), geriet (imperfetto di geraten),
che appartengono alla medesima area semantica. La frase conclusiva del saggio intitolato La cosa
ricapitola quindi il cammino percorso, volendo dire che solo dove il mondo diventa l’anello rotondo
che gira attorno a un centro, per quanto anch’esso scarso e modesto, si realizza alla fine una cosa.
Ci si potrà chiedere se simili metafonie e riproduzioni linguistiche raggiungano il loro scopo, che è
naturalmente quello di comunicarsi agli altri, di essere comunicative, di raccogliere il pensiero nella
parola, di raccoglierci nella parola in un elemento pensato che ci accomuni. I neologismi (se in
questa circostanza possiamo definire in tal modo le creazioni linguistiche heideggeriane - ma in
realtà si tratta di veri e propri apporti di nuove relazioni semantiche a unità semantiche già esistenti)
necessitano di fondazione e appoggio, e perciò i poeti, che dispongono del sostegno derivante dal
ritmo, dalla melodia del verso e dalla rima, possono osare le cose più sorprendenti. Si pensi, per
esempio, per quanto riguarda l’ambito tedesco, a Rilke o a Paul Celan. Fin dai suoi primissimi
tentativi filosofici Heidegger ha osato qualcosa di analogo.
Una delle primissime creazioni scaturite dalla sua audacia, che io ebbi modo di sentire quando per
me Heidegger era ancora un perfetto sconosciuto e non disponevo di alcuna sua pubblicazione che
testimoniasse del suo nuovo e audace rapporto con il linguaggio, fu: Es weitet (mondeggia). Ebbe
l’effetto di un lampo, che rischiara un’oscurità a lungo rimasta abissale, l’oscurità dell’inizio,
dell’origine, dell’aurora (Frühe). Ma anche per questa stessa oscurità egli riuscì a trovare una parola
(non nuova, ma che soltanto proveniva dall’ambito compieta-mente diverso del linguaggio
metereologico della Germania settentrionale), se — già nel 1922— diceva: « Leben ist diesig - es
nebelt sich immer wieder ein », cioè: « La vita è nebulosa — essa si annebbia incessantemente »,
non riesce a conservare a lungo limpidezza e perspicuità. I sostegni che Heidegger va così cercando
per il proprio pensiero non possiedono la coesione duratura che custodisce e preserva la parola
inserita nella poesia, e quindi molti di questi sostegni si spezzano subito. Ricordo l’espressione
Entfernung (disallontanamento) usata al posto di Näherung (avvicinamento). Ma nel ritmo che
regola il movimento del pensiero questa soluzione svolge un servizio epagogico di guida. Heidegger
la esprime in questo modo: « Il pensiero segue i solchi che esso incide nel linguaggio ». Il
linguaggio è come un campo coltivato, da cui possono germogliare le cose più diverse.
Certo, queste sono immagini, metafore, similitudini — strumenti retorici che nel perseguire una
direzione di pensiero si offrono come sostegni, non intesi come qualcosa a cui si possa o si debba
restare stabilmente ancorati, ma come qualcosa che appare come appaiono le parole quando si vuole
dire qualche cosa. Ma « dire » (sagen) significa anche « mostrare » (zeigen), determinare e
comunicare, solo però a colui che già usa i propri occhi.
Proprio per questo motivo l’intraducibilità del linguaggio heideggeriano non è una perdita — né per
esempio è un’obiezione contro il pensiero che si esprime in questo modo. Dove il tradurre, vale a
dire l’illusione che sussista una qualsivoglia trasponibilità del pensato, viene meno, là irrompe il
pensare. Dove ci conduca il pensare, non lo sappiamo. Dove immaginiamo di saperlo, là
immaginiamo soltanto di pensare. Non sarebbe uno « stare » (Stehen) in mezzo alla sfida che ci
colpisce e che non possiamo scegliere. È questa stessa sfida che ci colloca: noi dobbiamo solo
restare in piedi o cadere. Ma lo stare è un resistere (Standhalten), un essere in accordo
(Entsprechen), un rispondere, e non un giocare con le possibilità basandosi su calcoli.
1 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit., p. 17 [tr. it. cit., p. 72].
2Ivi, p. 11, nota b [nota manoscritta, inserita da Heidegger in margine al suo esemplare di Sein und
Zeit, e riprodotta nella citata edizione del 1979 (N.d.T.)].
3M. Heidegger, Gesamtausgabe, vol. 26, Metaphysische Anfangsgründe der Lo' gik, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1978, p. 199.
4 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit., p. 177, nota c.
5 Ivi, p. 9, nota c.
6 Cfr. ivi, p. 131 [tr.it. cit., p. 222].
7M. Heidegger, Gesamtausgabe, vol. 24, Die Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1975, p. 459.
8 Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., p. 233 [tr. it. cit., p. 354].
9 Cfr. M. Heidegger, Zeit und Sein (1962), in Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969
[Tempo ed essere, tr. it. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980].
10 M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., p. 11, n. b.
11M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954, p. 174 [Saggi e discorsi, tr. it. di
G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 121].
12Ivi, p. 175 [tr. it. cit., p. 122: « Solo ciò che appare dal mondo e nel mondo come qualcosa di
poco conto, potrà un giorno diventare cosa »].
12. I GRECI (1979)
Molti sono gli aspetti nei quali si può apprezzare il significato e l’efficacia di un pensatore della
statura di Martin Heidegger. Vi è la sua ripresa del concetto di esistenza di matrice kierkegaardiana
e la sua analisi dell’angoscia e dell'essere-per-la-morte, che esercitò un profondo influsso
specialmente sulla teologia protestante degli anni Venti, influenzando in certa misura anche la prima
recezione di Rilke. Vi è la « svolta » degli anni trenta che lo fece accostare a Hölderlin, il poeta
tedesco nel quale egli vide un messaggio quasi profetico. Vi è il grandioso progetto e contro-
progetto di un’interpretazione unitaria di Nietzsche, che per la prima volta cercava di pensare
congiuntamente la volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale. Vi è, in particolare nel secondo
dopoguerra, l’interpretazione della metafisica occidentale e del suo sfociare nell’età della tecnica
planetaria come « invio » e « destino » (Geschick) dell’oblio dell’essere — e dietro a tutto questo si
avverte insistentemente una specie di segreta teologia del Dio nascosto. Per quanto si possa trovare
da ridire nei particolari sulle interpretazioni heideggeriane e per quanto si possa respingere anche il
superamento heideggeriano della metafisica, sia esso inteso come una presunzione secolare o, al
contrario, come un estremo, definitivamente ultimo e conclusivo protrarsi del nichilismo — nessuno
potrà negare che la filosofia europea degli ultimi cinquantanni è stata sfidata dalle avventure
intellettuali di Heidegger come da nessun altro. Inoltre nessuno potrà negare, considerando la
consequenzialità pressoché serrata dei tentativi di pensiero di Heidegger, l’interna necessità del
sentiero da lui percorso, anche se a qualcuno potrà apparire come un sentiero che erra lungo i campi
dell'indicibilità.
Tuttavia, la molteplicità degli aspetti offerti dall’opera e dall’influenza di Heidegger e l’unità dei
sentieri da lui percorsi non trovano in
nessuna tematica un’espressione più chiara di quella riscontrabile nel rapporto tra Heidegger e i
Greci. Certamente la filosofia greca ha ricoperto un ruolo privilegiato nel pensiero tedesco, sia dal
punto di vista storiografico che da quello della storia dei problemi, fin dai giorni dell’idealismo
tedesco. Hegel e Marx, Trendelenburg e Zeller, Nietzsche e Dilthey, Cohen e Natorp, Cassirer e
Nicolai Hartmann formano una considerevole schiera di testimoni, che potrebbe essere allungata
con facilità, specialmente se si volgesse lo sguardo ai grandi filologi classici della scuola di Berlino.
Ma con Heidegger viene introdotto qualcosa di nuovo, una nuova prossimità e una nuova
interrogazione critica degli esordi greci del filosofare, che guidò i suoi primi passi autonomi e lo
accompagnò costantemente fino agli ultimi anni. Il lettore di Essere e tempo può facilmente
verificare ambedue questi aspetti: prossimità e distanza. Ma bisognava essere seduti nell’aula di
Heidegger durante questi primi anni a Marburgo per misurare l’ampiezza prospettica che, in quegli
anni, caratterizzava la presenza di Aristotele nel pensiero di Heidegger. Quando nel 1922, subito
dopo essermi laureato, mi ammalai di poliomelite, proprio nel momento in cui volevo recarmi a
Friburgo a studiare Aristotele con Heidegger, egli mi consolò comunicandomi che nel prossimo
numero dello « Jahrbuch » 1, sarebbero apparse certe sue ampie « interpretazioni fenomenologiche
di Aristotele », specificando: « La prima parte (circa 15 cartelle) riguarda Eth. Nic. Z, Met. A. 1.2.,
Pbys. A. 8; la seconda (di pari lunghezza) Met. ZHӨ, De motu an., De Anima. La terza uscirà più
tardi. Poiché lo “Jahrbuch” sarà distribuito soltanto in seguito, posso esserLe utile inviandoLe un
estratto ». Questa annunciata pubblicazione non vide mai la luce. Solo una copia dell’introduzione,
un’analisi della situazione ermeneutica in cui ci si presenta Aristotele, potè essere conosciuta da
alcune persone, tra le quali fui io stesso, grazie alPintercessione di Natorp. Questo manoscritto,
tanto audace quanto stimolante, rappresentò il motivo della chiamata di Heidegger a Marburgo e al
tempo stesso la causa della mancata comparsa della prevista pubblicazione.
Heidegger dovette affrontare compiti nuovi e rilevanti, della cui soluzione è un’imponente
testimonianza la serie delle lezioni di Marburgo, in corso di pubblicazione.
Fino a che livello siano giunte in queste lezioni le interpretazioni di Aristotele che egli aveva
elaborato, può essere desunto solo in via
provvisoria da Essere e tempo e in ogni caso dalle lezioni sulla logica del semestre invernale
1925/26 2 (Gesamtausgabe, vol. 21, §13). Ma chi ha potuto ascoltare Heidegger negli anni di
Marburgo ne sa certamente di più. Aristotele incalzava l’ascoltatore a tal punto che si perdeva di
tanto in tanto qualsiasi distanza e non ci si rendeva conto che Heidegger non si identificava con
Aristotele, ma aveva come scopo finale di realizzare un proprio contro-progetto nei confronti della
metafisica. Il carattere che distingueva questa prima interpretazione di Aristotele era costituito
piuttosto dalPeliminazione dell' estraniante deformazione scolastica, diventando addirittura un
modello di « fusione di orizzonti » ermeneutica, che permetteva di far parlare Aristotele come un
contemporaneo. Le lezioni di Heidegger hanno avuto il loro effetto. Io stesso ho potuto apprendere
qualcosa di decisivo dalla sua interpretazione, aderente al testo e al contempo risoluta, del Libro VI
dell'Etica Nicomachea, riguardante le « virtù dianoetiche ». In ultima analisi, la phronesis, assieme
alla sorella synesis, è la virtù ermeneutica per eccellenza. A questo punto, nella critica a Platone, che
si cristallizzava nella differenziazione tra techne, episteme e phronesis, Heidegger ha assunto la sua
prima e decisa presa di distanza dalla « filosofia come scienza rigorosa ». Di importanza non
inferiore è stato il modo in cui Heidegger ha pensato congiuntamente l’accostamento delle categorie
e dei concetti di dynamis e energeia, così appariscente nella linea di pensiero della Metafisica. W.
Bròcker ha rielaborato questa idea heideggeriana circa la connessione tra kinesis e logos, e in questo
contesto si inseriscono anche alcuni altri lavori di studiosi più giovani. Heidegger stesso ha fatto
palesemente ricorso ai suoi vecchi manoscritti, allorché nel 1940 tenne a Friburgo un seminario su
Aristotele, Fisica B 1, la cui prima pubblicazione è stata ospitata nel 1958 su «Il Pensiero»3.
Tutte le successive pubblicazioni di Heidegger concernenti il suo rapporto con i Greci, iniziate con
il saggio su Anassimandro apparso in Sentieri interrotti, non condividono più nella stessa misura la
fusione di orizzonti che negli studi precedenti era stata spinta fin quasi all’iden-
tificazione. Il saggio sulla physis in Aristotele ha cercato tuttavia di ristabilire con decisione più
radicale l’idea aristotelica di physis e di delimitarla rispetto all’approccio aggressivo alla « natura »
condotto dalla scienza moderna. E evidente che in questo caso Heidegger si riallaccia ai suoi primi
studi. Nella misura in cui il saggio sviluppa la nozione aristotelica di physis proprio alla luce degli
esordi del pensiero greco, contrapponendola alla posteriore trasformazione del concetto di natura
nel pensiero latino e moderno, esso rimaneva ancora al di qua di un esplicito inserimento nel più
tardo tema del superamento della metafisica.
Non per questo però si deve affermare qualcosa come una rottura nell’evoluzione filosofica di
Heidegger. A dire il vero mi sembra che si tratti piuttosto di un problema di prospettiva. Il fatto che
nel 1940 Heidegger abbia fatto ricorso ai suoi studi giovanili su Aristotele e che da ciò, nel 1958, sia
scaturita una pubblicazione, testimonia la continuità del suo pensiero al di là della cosiddetta «
svolta ». Per lui era fondamentale il suo rivolgersi ai Greci. Questo fatto lo distinse ben presto da
tutti i fenomenologi. (Io stesso nel 1923 mi recai a Friburgo non tanto per studiare la fenomenologia
di Husserl, quanto le interpretazioni di Aristotele proposte da Heidegger). Essersi orientato verso i
Greci fu talmente determinante, che di fronte a questa scelta anche l’autocomprensione
trascendentale di Essere e tempo conteneva in sé qualcosa di provvisorio.
Per questo la famosa « svolta » fu tutt’altro che una rottura nel pensiero di Heidegger. Più
precisamente Heidegger si è sbarazzato di un’autointerpretazione inadeguata, alla quale si era
dedicato spinto dal potente influsso di Husserl. Quindi anche il successivo ed esplicito tema
dell’oltrepassamento della metafisica deve essere inteso come una conseguenza del suo indirizzarsi
agli esordi del pensiero greco.
Anche lo Heidegger più recente ha visto il pensiero greco nella sua totalità come pensiero
originario, in cui il problema dell’essere compariva sì già sempre e unicamente come problema
dell’essere dell’ente, ma non era ancora distolto dall’esperienza originaria del « Ci » e dell'aletheia,
come avvenne con la « posizione romana della volontà » (Dilthey) o con la moderna « cura per la
conoscenza conosciuta » (Heidegger, corso di Marburgo del 1923).
Cos’altro poteva risultare più utile alla domanda heideggeriana, che intendeva infrangere
l’immanenza fenomenologica dell’autocoscienza trascendentale, se non il pensiero greco, che si era
misurato con gli immani problemi dell’inizio, dell’essere e del nulla, dell’uno e dei molti, e che è
stato in grado di pensare psyche, logos e nous senza diventa
re schiavo degli idoli dell’autoconoscenza e del primato metodico dell’autocoscienza. Lo sforzo
storico di pensare in greco, e di strappare il pensare dei Greci alle nostre consuetudini moderne di
pensiero, giovava qui in modo straordinario alPimpulso interrogante caratteristico di Heidegger.
Egli infatti non solo cercava di superare la cosiddetta frattura tra soggetto e oggetto ricorrendo alla
riduzione fenomenologica alla coscienza pura, ma a questo campo riduttivo dell’intenzionalità e
all’indagine sulla correlazione noetico-noematica indirizzava anche la domanda circa il significato
dell’« essere », sia che con « essere » si intendesse coscienza, semplice presenza, utilizzabilità,
esserci - o tempo.
Ci troviamo così in presenza di un caso singolare. Un interrogante posseduto dalle proprie domande
si era cercato da sempre i suoi interlocutori, e alla fine se ne inventò alcuni particolarmente potenti,
come Nietzsche, che egli portò fino alle sue estreme conseguenze metafisiche opponendosi a queste
come fossero la sfida più grande, o come Holderlin, poeta del poetare ma non pensatore del pensare,
meditare sul quale gli pareva promettere la possibilità di pensare oltre la fatalità dell’autocoscienza
dell’idealismo tedesco. Nei Greci però egli trovò fin dalPinizio i suoi veri interlocutori. Essi
richiedevano a lui costantemente di pensare in modo ancora più greco e di ritrovare e « ripetere » in
loro il suo proprio interrogare. Il pensatore famoso per le forzature delle sue interpretazioni, il
pensatore impaziente che spesso metteva da parte ogni preoccupazione storiografica pur di udire e
ritrovare nei testi se stesso, in questo caso non poteva asssolutamente essere sufficientemente «
storiografico », se voleva ritrovare se stesso.
Senza dubbio l’esordio del pensiero greco è avvolto nell’oscurità. Quello che Heidegger
riconosceva in Anassimandro, in Eraclito, in Parmenide era certamente lui stesso. Ma in realtà si
trattava solo di frammenti raccolti qua e là, che non erano conservati né come testi veri e propri né
nel complesso di discorsi e meditazioni. Quello che in questo modo egli tentava di accatastare per la
costruzione del proprio edificio erano frammenti continuamente rivoltati e ricomposti secondo la
propria idea costruttiva.
Nell’uso che Heidegger fa dei testi presocratici è presente senz’altro una certa violenza, che non mi
sentirei di difendere. Nella parola di Anassimandro egli separa per esempio con violenza l'una
dall’altra δίκην καί τίσιν, considerate addirittura come forme stereotipe. Nel caso dei versi di
Parmenide ignora che l’espressione ταυτό compare sempre e solamente nell’uso predicativo, e così
via. Ma nel complesso bisogna dire che la nostra possibilità di comprendere citazioni presocra-
tiche deve essere giudicata analoga a quella di cui disponevano Socrate e Platone, specialmente
quando si trovavano alle prese con i frammenti di Eraclito. Socrate diede a questo riguardo la
celebre risposta per cui ci sarebbe stato bisogno di un tuffatore di Delo per comprenderli. Ciò che
questi avrebbe capito sarebbe stato egregio... Heidegger ha seguito la via, metodologicamente
giusta, di interrogare retrospettivamente gli inizi presocratici partendo dal testo aristotelico. In
effetti l’unico testo conservato che racchiudesse tutte le citazioni era quello aristotelico. Anche
l’evento di pensiero rappresentato dai dialoghi di Platone - il primo testo filosofico che noi
possediamo — rimaneva inafferrabile per l’impaziente interrogatore, nonostante tutto il suo impeto
di appropriazione.
Ma, come da un bagno ferruginoso — così Heidegger amava definire l'immersione nelle informi
carte di lavoro di Aristotele — l’iniziale esperienza di pensiero dei Greci gli si rivelò con chiarezza
dalle coerenti analisi di Aristotele, che per la loro semplicità e diversità rappresentavano una sfida.
Cosa doveva essere stato per un giovane educato nell’aristotelismo scolastico imparare ad ascoltare
questo linguaggio dell'inizio! Nell'aletheia egli poteva riconoscere non tanto il non-nascondimento
e la non-dissimulazione del dire, ma anzitutto e soprattutto l’ente stesso che si mostra nel suo vero
essere, come loro puro, non contraffatto. Tutto ciò era pensato in greco. Fu così con vero
entusiasmo che Heidegger difese nella Metafisica di Aristotele (Θ 10) la posizione eccezionale
dell'essere-vero come il compimento dell’intero processo intellettuale dei libri centrali di
quest’opera, non certo perché stordito dalla prospettiva della filosofia dell’identità propria
dell’idealismo tedesco, che aveva reso questo capitolo così caro agli hegeliani, ma perché
impressionato dalla assonanza con l’esperienza dell’essere che per lui si lasciava pensare
nell’orizzonte del tempo. Che essere sia presenzialità (Anwesenheit), è un fatto che si poteva
imparare a capire direttamente in Platone e Aristotele, come il fatto che ciò che è sempre presente
(Anwesende) è ente in massimo grado. Ma, al di là di questo, Heidegger ha osservato con genialità
che « sempre », αεί, non ha nulla a che fare con aeternitas, ma va pensato a partire dall’essere « di
volta in volta » (Jeweiligkeit) di ciò che è presente. Lo insegna anche l’uso terminologico: ò άεί
βασιλεύς significa il re che è di volta in volta in carica (anche in tedesco diciamo: « der immer
Kònig ist »). Come è noto lo Heidegger più recente ha esplicitamente riconosciuto che i Greci non
hanno pensato questa esperienza dell’essere come l'aletheia stessa, ma hanno inteso aletheia già
sempre nella direzione della coincidenza tra essere e parvenza, tra ousia e phantasia (Met. Δ 23 ), le
cose
« false » altrettanto che i discorsi « falsi » 4. Questo però non cambia nulla nel fatto che l’esperienza
stessa dell’essere che si esprime in questo modo nell’enunciato non può essere misurata in base
all’enunciato o all’idea in cui si presenta, Heidegger, nella sua ultima fase di pensiero, parla poi
dell’evento appropriante (Ereignis) o della Lichtung, che rendono possibile, in generale e
unicamente, la presenzialità dell’ente. Tutto questo non era certo pensato « in greco » ma era già in
qualche modo delineato, sia pure ancora impensato, nel pensiero greco. Questo vale in misura
particolare per l’analisi aristotelica della physis, nella cui posizione il problema circa Tessere si
presentò nell’orizzonte del tempo. Quest’opera si trova quindi al centro di tutti gli incessanti sforzi
compiuti da Heidegger per pensare con i Greci e risalire in modo più originario al di là di essi. Nel
frattempo l’edizione progressiva delle opere complete di Heidegger ha reso accessibili alcuni corsi
universitari del secondo periodo friburghese 5.
Pensare i Greci in modo più greco: ma questa pretesa non si irretisce forse in difficoltà
ermeneutiche insuperabili, qualora voglia legittimarsi in base a un testo aristotelico di scuola come
le lezioni sulla physis? Per la verità questo testo non appartiene più agli incerti tentativi dell’età
arcaica di convertire in forma pensabile il linguaggio dei versi omerici e il vocabolario mitico. Là,
nelle citazioni presocratiche, c’era la possibilità di indovinare l’impensato. Ma logica e dialettica
avevano frattanto introdotto nella loro disciplina l’uso di argomenti e discorsi, dando vita così a una
nuova cultura scolastica di cui il testo stesso di Aristotele è una testimonianza eloquente. In questo
caso è in generale possibile e giustificato dal punto di vista storico voler pensare il testo aristotelico
risalendo al di là del suo uso scolastico? Così facendo non precipitiamo forse in un arcaismo
altrettanto artificiale di quello che incontriamo nei così frequenti arditi esperimenti che Heidegger
compie con la lingua tedesca?
Ora, è sicuramente giusto affermare che in ambedue i casi Heidegger tenta di spezzare, con il
consapevole uso della forza, la precomprensione delle parole che a noi sembra naturale. Ma, nel
caso di Aristotele, questo tentativo è così fuorviante? Quando Heidegger traduce arché non con «
principio » [Prinzip), ma con « inizio » (Anfang) e « signoria », con « punto di partenza », e «
potere », egli istituisce tutta
via una certa legittimazione del fatto che si tratta qui dell'introduzione terminologica di queste
parole attraverso Aristotele stesso. Nessuna determinazione terminologica fissa recide mai
completamente i riferimenti semantici di una parola di uso comune. Quanto Aristotele fosse
consapevole di questa circostanza lo insegna il celebre catalogo dei concetti del libro Delta della
Metafisica. In effetti già nel primo capito
lo dell’analisi terminologica di Aristotele si trova sia lanalisi del molteplice significato
dell’espressione « principio » (Anfang) sia il particolare senso di questa parola, intesa come «
signoria » e come « esercizio di una carica ». Da ciò impariamo qualcosa, e precisamente che «
principio » (Prinzip) non è semplicemente un punto di partenza (dell’essere, del divenire e in
particolare del conoscere) che poi si abbandona, ma qualcosa che rimane presente attraverso tutto il
percorso. L’ente di natura, che possiede in sé anche il principio della kinesis, non solo dà l’avvio a
tale movimento partendo da sé (senza cioè essere urtato), ma « può » anche farlo. Il che implica:
esso domina i propri movimenti. Così l’animale possiede il suo modo di procedere, la pianta reca in
se stessa il « principio » mantenendosi in vita. Bisogna quindi attribuirle un’anima vegetativa.
L’essere dell’ente di natura è la sua « motilità ». Essa include sia moto che quiete.
Qualcosa di analogo si può riscontrare in altri casi, quando Aristotele fa un uso terminologico
particolare di parole abituali o quando inventa nuovi termini composti come energeia o entelecheia.
Queste nuove formazioni lessicali sono poi in grado di trasporre nell’ambito ontologico anche
parole note, come in questo caso la parola dynamis, il « potere » (Können), che Aristotele definisce
secondo il suo senso generale come arche kineseos. E che Heidegger traduce con « appropriazione
» (Eignung). Ma egli giudica questa analisi ancora pericolosa, poiché « noi non pensiamo
abbastanza in modo greco e non comprendiamo che l’appropriatezza per qualcosa sia il modo di
quel venir fuori entro l’aspetto (in cui l’appropriazione si compie), che ancora si tiene indietro e
tiene a sé » 6.
Sotto certi aspetti tutto ciò suona cinese, tuttavia dipende unicamente dal fatto che la spiegazione
fornita da Heidegger implica una serie di ulteriori trasposizioni che Heidegger aveva già effettuato
in precedenza con i termini physis, logos, eidos. Nei fatti egli ha ragione. Non si può di nuovo non
tener conto del fatto che la nuova espressione concettuale aristotelica, dynamis, non può essere
intesa semplicemente
come « possibilità » (Móglichkeit), poiché esprime insieme il significato noto del termine dynamis,
cioè « potere » (Konnen). Potere è però una motilità che include sempre il mantenersi-in-se-stesso
(Ansichhalten). Nelluso terminologico di Aristotele questa espressione assume significato
ontologico.
Qualcosa di analogo accade anche con la physis come apparire, come « germinazione ». Intendiamo
parlare proprio del germinare del seme. Anche in questo caso troviamo questo riferimento subito
all’inizio dell’analisi lessicale aristotelica (A 4). Il germinare fu evidentemente sentito da Aristotele
stesso in modo così forte nella parola physis, che avrebbe preferito allungare la vocale ypsilon. La
stessa cosa vale per eidos. Anche in eidos non si potrà negare che la forza lessicale del termine, nel
quale risuonano il vedere (An-blick) e il darsi-a-vedere (Aussehen), non è esaurita con la
designazione logica della « specie », ma che ancora in Aristotele continua a esprimere il senso di «
vista e aspetto » (Anblick) (come per esempio in Platone, Sofista 258 c 3; d 5). In Phys. 193 b 19 si
legge ad esempio: ή στέρησις εΐδός πώς έστιν 7.
Si potrebbe continuare all’infinito, per mostrare che pensare in modo più greco non significa tanto
pensare in modo diverso quanto piuttosto: pensare-insieme qualcosa d’altro, che si sottrae al nostro
pensiero, essendo quest’ultimo fissato completamente all’oggettività, al superamento della
resistenza che gli oggetti oppongono nella consapevole certezza di noi stessi. Mi sia consentito
indicare ancora una volta il contributo semantico che le forzature heideggeriane sono in grado di
produrre, prendendo in considerazione due parole, che in Aristotele sono assurte a concetti e che a
noi sembrano inserirsi con forza irresistibile nelle prospettive del nostro pensare.
La prima parola è metabolé. A ragione traduciamo con « mutamento improvviso » (Umschlag), ed
effettivamente in greco è impiegata non solo a proposito del tempo metereologico, ma per esempio
anche per
definire gli alti e i bassi delle sorti umane. Questa parola assume in Aristotele un particolare valore
terminologico. Esprime infatti la struttura formale della kinesis che è comune a qualsiasi tipo di
movimento. In definitiva per noi questo non è un fatto sorprendente, perché così il movimento nello
spazio sembra perdere la sua essenziale continuità, suonando come un puro cambiamento o scambio
di luogo. Certamente, per noi mutamento improvviso rappresenta il contrario di un simile
movimento. Per noi il termine implica in primo luogo la perdita della stabilità. Se il tempo cambia,
noi non pensiamo che cessi il cattivo tempo, ma che il bel tempo stia per finire. Ciò risulta quasi
ovvio anche per il pensiero greco. Parmenide insiste a tal punto sulla stabilità dell’essere, da
definire addirittura semplici nomi ciò che « gli uomini ritennero vero e stabilirono γίγνεσθαι τε καί
ολλυσθαι, είναί τε καί ούχί, καί τόπον άλλάσσειν διά τε χρόα φανόν άμείβειν » 8. Alle spalle di una
simile espressione si trova evidentemente la deplorazione per l’incostanza e l’instabilità dell essere.
Quando parliamo di movimento, di luogo e di trasformazione non pensiamo al mutamento
improvviso, ma prevalentemente al passaggio da uno stato all’altro. Cosa significa il fatto che il
pensiero di Aristotele universalizza la struttura del mutamento improvviso, del cambiare fulmineo,
estendendola ad ogni tipo di movimento? A questo riguardo mi pare che Heidegger interpreti
correttamente i Greci, quando mette in evidenza « che nel mutamento improvviso si manifesta
qualcosa che finora è rimasto nascosto e assente ».
Questa analisi non è certo in contraddizione con l’esperienza del mutamento improvviso di ciò che
è stabile, contro la quale si ribella il pensiero eleatico, ma in una simile esperienza del cambiamento
improvviso è inclusa evidentemente un’esperienza positiva dell’essere e non semplicemente della
perdita dell’essere. Questa dimensione trova nella fisica di Aristotele la sua caratterizzazione
concettuale. L’elemento in cui il mutamento improvviso ha luogo, è pensato come essere. In questo
modo dietro all’essere stabile di Parmenide si schiude la dimensione profonda della sua origine, che
egli stesso non riuscì a pensare, ed è ciò che continua ancora a risuonare nella coniazione
terminologica di metabolé ad opera di Aristotele. Che gli enti di natura contengano in se stessi
l'arché del mutamento improvviso, è la loro caratterizzazione
ontologica positiva e non certo una diminuzione nell'« essere ». Con questa tesi si accorda anche
l’ulteriore uso linguistico prearistotelico del termine metabolé. Viene sempre detto in che cosa il
mutamento improvviso vada a sfociare. Ne consegue necessariamente che esso dipende da ciò che
ne viene fuori, e cioè da ciò in cui viene a sfociare. Questa affermazione trova la sua piena
conferma nella struttura del nascere in senso assoluto. Qui abbiamo realmente il passaggio
improvviso dal nulla all’essere, che Aristotele caratterizza formalmente come mutamento
improvviso κατ’ αντίφασήν. In questo modo il movimento ha di fatto, per dirla con Heidegger, «
come un modo dell’essere, il carattere del provenire nella presentazione » 9.
E infine, ciò che forse è più sorprendente: morphé. Vi si avverte così decisamente la mano
modellatrice del vasaio intento a plasmare l’informe materia di cui dispone, che si comprende da sé
anche l’aggiunta aristotelica καί το είδος- το κατά τον λόγον, se si parte direttamente dall’analogia
con la techne. Aristotele in effetti istituisce subito questa analogia con la techne. Physis significa
produrre-se-stessi. Ma ora Heidegger ci insegna che anche per Aristotele produrre non significa
semplicemente fare. Se Aristotele dice che la morphé è più physis che la kyle, in questa
affermazione l’analogia con la techne è solo apparente.
In verità è piuttosto la genesis, il generarsi in senso assoluto, ciò in cui diventa afferrabile quasi con
mano il carattere di morphé della physis: « Inoltre si sa che un uomo nasce da un uomo, non però
una lettiera da una lettiera» (Phys. B 1, 193 b 8-9). Si giustifica così il fatto che Heidegger
interpreta perfino il procedimento del fare tecnico nel modo seguente: morphé è anche in questo
caso « posizione nell’aspetto », in modo che « l’appropriazione dell’appropriato viene alla luce
visibilmente più piena ». Anche nel caso della techne non si tratta dunque tanto di un fare quanto di
un pro-durre e di un porre-fuori - così come nel processo naturale si tratta di un porsi-fuori, si pensi
per esempio a quello che era di per sé il piccolo seme che abbiamo piantato nella terra.
La creazione concettuale di morphé, così elaborata, trova ora effettivamente il suo appoggio
nell’uso linguistico naturale della parola. Anche Aristotele la impiega quasi esclusivamente per
designare qualcosa di vivente che acquista forma. Il verbo μορφόω compare in generale solo in
seguito. Il primissimo uso del termine morphé si trova nell’Odissea e indica la formazione naturale
e la perfezione formale, e ad esso
corrisponde anche qualsiasi uso linguistico abituale in età più tarda. Morphé è ciò in virtù di cui
qualcosa trova il proprio compimento, ciò in cui viene a presentarsi e realizzarsi. La parvenza di una
rappresentazione della tecnica come guida è palesemente errata 10.
Ma ora basta con le voci di accompagnamento semantico ai concetti aristotelici. La dottrina che ci
trasmettono è sufficientemente chiara. In generale, noi restringiamo le aree significative delle parole
greche usate da Aristotele limitandole alla loro funzione terminologica, non tanto in ragione della
distanza linguistica che ci separa dal greco antico, come lingua parlata naturalmente, quanto della
determinatezza storico-effettuale della nostra precomprensione, determinata dalla trasposizione
strumentalistica romano-latina e moderna, del mondo concettuale aristotelico. Noi non possiamo
più nemmeno intendere la nostra bella parola tedesca Ursache (causa) come ciò che propriamente
significa, la causa, la cosa originaria, ma vediamo in essa solo la sua funzione, ciò che è causa della
sua efficacia. Parlare delle quattro cause in Aristotele è per noi un artificiosità del tutto scolastica.
Ci sembra che solo la causa motrix possa essere chiamata Ursache — in ogni caso ancora soltanto
la malvista causa finale, ma non certamente materia o forma. Queste ultime non sono modelli di «
causalità ».
Come si vede, quando cerchiamo di pensare in greco c’è un costante risuonare di false
reminiscenze. Erudizione o formazione storica fanno sì che noi avvertiamo indubbiamente la
diversità, ma quest ultima non si lascia pensare quando ad essa non corrisponda nulla nel nostro
proprio pensiero. I termini concettuali della filosofia vengono infatti estraniati a se stessi perché non
dicono nulla dell’ente, limitandosi ad entrare nella coercizione dell’idea. Ecco, questo è ciò che
Heidegger definisce il linguaggio della metafisica. Il quale si è articolato inizialmente nel pensiero
aristotelico, mentre ora domina tutto il nostro mondo concettuale. Il violento pensiero
rammemorante (Andenken) di Heidegger, rivolto contro questo dominio, non è qualcosa come un
semplice risultato di una concezione storica raffinata e di un senso storico-esperto, come se il
passato si donasse sempre casualmente. Il pensiero heideggeriano non chiamava in causa un
semplice interesse storico per il pensiero « originale » dei Greci. In quanto uomo del nostro secolo,
in cui « Storia » e « Storicità » sono state scritte con l’iniziale maiuscola, e alle prese con
l’inadeguatezza dei concetti filosofi
ci tradizionali per comprendere la fede cristiana, Heidegger non poteva venire a capo, della
comprensione tradizionale della metafisica. Infatti
il ritorno all'Aristotele originario gli fece dono di un vero ausilio intellettuale. Il fatto che physis
costituisca il carattere d’essere di quell’ente a cui in nessun caso si può disconoscere valenza
ontologica, non significava assolutamente che soltanto l’essere di natura possedesse una simile
valenza ontologica, ma voleva con tutta probabilità dire che l'essere deve venir pensato in modo da
riconoscere come essente anche ciò che si trova in motilità. Ce lo insegna la connessione
concettuale che sussiste tra il « movimento » e i concetti-guida energeia ed entelecheia. Il nostro
pensare è ora preparato per la comprensione di Heidegger, perché è segnato dalla fine della
metafisica e dall'emergere delle aporie dell’età « positiva ». La metafisica di Nietzsche rappresenta
questa estrema fine dei valori. Al culmine della modernità, in cui Tessere si dissolve nel divenire e
nell’eterno ritorno, Nietzsche poteva interrogare la metafisica risalendo alle sue spalle al di là di
essa. Ciò vale a maggior ragione per Heidegger. Egli ha riconosciuto nella metafisica il destino del
nostro mondo, destino che trova la sua pienezza nella conquista dell’universo fondata sulla scienza
— e nel naufragio su cui questa riposa. Allora però la domanda circa l’inizio non è più una
domanda storica, bensì una domanda rivolta al destino stesso. Ci è ancora conservato T« essere »?
Che le risposte date, che sono la nostra storia e la nostra sorte, ci possano permettere di porre di
nuovo la domanda stessa alla quale esse intendevano rispondere, costituisce il sentiero del nostro
filosofare.
È abbastanza sorprendente che il tardo testo della Fisica di Aristotele possa essere d’aiuto a questo
proposito. È vero che Aristotele cerca qui — contro il pensiero pitagorico di Platone — di rinnovare
un pensiero più antico e di pensare Tessere come motilità anziché come costante armonia dei
numeri. Ma rimane tuttavia sbalorditivo tutto quello che affiora qui dietro all’opposizione
superficiale tra physis e techne, se impariamo a leggere con Heidegger. Certo, sono solo risonanze.
Ma come appare qui superficiale la nostra comprensione di natura e spirito, di spazio e movimento,
di materia disponibile e di forma eternamente immutabile! Apprendiamo a pensare meglio ciò che è,
se pensiamo Tessere come il sorgere di ciò che si produce e si espone di volta in volta come ente ed
è al tempo stesso più di ciò che è posto nel suo aspetto. Essere non è soltanto mostrar-si; è
trattenersi in sé, e questa condizione può essere colta in qualsiasi forma di movimento. Ciò che
abbiamo da pensare se dobbiamo superare la cecità del nostro continuo « fare » e della sua
devastazione planetaria, è già delineato in questa aurorale comprensione della physis. Heidegger
cita la frase di Eraclito, secondo cui la natura è solita nascondersi, e riconosce giustamente che in
questa espressione non si trova la pretesa di penetrare nella natura e vincerne la resistenza, ma
l’esigenza di accoglierla proprio come ciò che essa è in se stessa e per quanto si mostra. Certo, il
fatto che non solo la physis sia pensata in questo modo, ma anzitutto l’essere inteso come aletheia,
come Lichtung, che avviene prima di ogni ente e dietro a ogni ente si nasconde, tutto ciò non è più
pensato in greco. Ma questo audace tentativo filosofico di Heidegger ci ha insegnato a pensare i
Greci in modo più greco.
1Si tratta dello «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung », fondato da Husserl
nel 1913 (N.d.T.).
2 M. HEIDEGGER, Gesamtausgabe, vol. 21, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, Klostermann,
Frankfurt a.M. 1976 [Logica. Il problema della verità, tr. it. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986],
§ 13.
3M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der ΦΥΣΙΣ, in « II pensiero », 3 (1958), nr. 2-3, pp. 131-
156, 265-290; poi in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a.M. 1967, pp. 309-371; ora in
Gesamtausgabe, vol. 9, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 239-301 [Dell'essere e del concetto
della ΦΥΣΙΣ, tr. it. di G. Guzzoni, Biblioteca de « Il pensiero », Milano 1960, pp. 61-109].
4 Cfr. M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens, cit., p. 77 [Tempo ed essere, tr. it. cit., p. 178].
5Cfr. M. HEIDEGGER, Gesamtausgabe, vol. 55, Heraklit Klostermann, Frankfurt a.M. 1979; vol. 54,
Parmenides, ivi, 1982.
6 M. HEIDEGGER, Vom Wesen und Begriff der ΦΥΣΙΣ cit., p. 278; cfr. Wegmarken, cit., p. 356 [tr. it.
cit., p. 98].
7 La locuzione greca είδος- πως- signfica: « “in un certo senso” un eidos ». In questo caso
Heidegger non traduce in modo felice. Si avvertirà d’altronde una giustificata resistenza, quando
egli, a proposito della techne, parla (M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der ΦΥΣ1Σ, cit., p. 141;
cfr. Wegmarken, cit., p. 321 [tr. it. cit., p. 71]), come se qui l'eidos fosse « scelto », così come Eracle
al bivio sceglie la « virtù », e come se non fosse piuttosto lo scopo previamente dato della cosa a
determinare il nostro proposito. Questo è anche il motivo per cui Platone ammise chiaramente
anche le « idee » delle cose artificiali, chiamandole paradeigmata. In questo caso lo stesso
Heidegger, per una volta, non ha pensato abbastanza « in greco ».
8 PARMENIDE, Fr. 8, 40 ss. II testo del poema di Parmenide non lascia qui alcun dubbio. Se il colore
viene detto « luminoso » (φανόν), questo significa che Parmenide pensa al suo « svanire ». (Anche
in tedesco si ha l’espressione caratteristicamente bivalente: « Die Farbe ist vergangen », [« Il colore
è passato/svanito »]).
9 M. HEIDEGGER, Vom Wesen und Begriff der ΦΥΣΙΣ, cit., p. 139; cfr. Wegmarken cit., p. 319 [tr. it.
cit., p. 70],
10 La cosa invece è diversa per quanto riguarda la hyle. Questa è senza dubbio un’espressione
tecnica. Ma ciò significa appunto che non hyle, bensì morphé è « essere » in senso autentico.
13. LA STORIA DELLA FILOSOFIA (1981)
Dopo Schleiermacher e Hegel, è caratteristico della tradizione filosofica tedesca fare della storia
della filosofia un aspetto essenziale della filosofia teoretica. Perciò anche il tema: « Heidegger e la
storia della filosofia » deve essere esaminato in questo contesto. Vale a dire: si tratta di interrogarsi
riguardo alle particolarità che caratterizzano la posizione di Heidegger all'interno di questo
atteggiamento di fondo che domina la filosofia tedesca dopo Hegel. Il quadro generale per la
formulazione di questa domanda è chiaro: si è formato con l’avvento della coscienza storicistica. Si
esercita qui l’influsso dell’eredità del Romanticismo tedesco; da quel momento infatti non solo la
ricerca storica ma anche l'atteggiamento della filosofia teoretica è stimolato dal problema della
storia. Prima dell’età del Romanticismo non ce stata, non almeno nel senso per noi essenziale, storia
della filosofia. Non esisteva che un’erudizione compilatrice, guidata da precisi presupposti
dogmatici, ma non in grado di esercitare una funzione filosofica fondativa. Un’altra cosa era la
famosa dossografia, fondata da Aristotele con intenzioni strettamente didattiche nel corso delle sue
lezioni, prima di diventare un ramo a parte del lavoro dottrinario nell’antica scienza scolastica.
Certamente il concetto hegeliano di una storia della filosofia era a dire il vero filosofia, un settore
particolare entro la filosofia della storia, che da parte sua vuole dimostrare la presenza della ragione
anche nella storia. Già Hegel chiamava la storia della filosofia addirittura il cuore della storia
universale. Ma la pretesa costruttiva della storia hegeliana della filosofia, di intendere la necessità
nella successione delle concettualizzazioni filosofiche e in questo modo dimostrare la presenza della
ragione nella storia dell’idea, non ha resistito a lungo alla critica della scuola storica. Un buon
esempio ci è offerto dall’atteggiamento di Wilhelm Dilthey, che può essere tranquillamente
considerato il pensatore della scuola storica. Malgrado tutta la sua apertura — manifestata in forma
crescente durante la vecchiaia -nei confronti del genio di Hegel, non cessò di essere in fin dei conti
il prudente epigono di Schleiermacher. Non fu mai propenso a introdurre la teleologia nella
considerazione della storia del pensiero: egli si inserì nella concezione puramente storicistica.
L’unica visione filosofica della storia della filosofia divenne allora quella che il neokantismo ha
concepito e definito come « storia dei problemi » (Problemgeschichte), la cui influenza si è fatta
sentire particolarmente aH’inizio del nostro secolo. Di fronte alla impossibilità di riconoscere una
necessità che si sviluppi attraverso i sistemi progettati dalla riflessione, essa tentava di mantenere
una sorta di progresso nella filosofia elevando la trattazione dei problemi filosofici fondamentali a
critero filosofico. In questo modo, per esempio, era costruito il manuale di storia della filosofia di
Wilhelm Windelband, ai suoi tempi molto autorevole, che non era certo privo di una dimensione
storiografica, ma che in ultima analisi si basava sulla permanenza dei problemi ai quali costellazioni
storiche mutevoli avrebbero dato risposte differenti. In modo analogo il neokantismo di Marburgo
trattava la storia della filosofia come storia dei problemi.
Quando Heidegger iniziò il suo itinerario di pensiero, la critica della storia dei problemi era per così
dire nell’aria. Allora, al tempo della prima guerra mondiale e in seguito, la critica alla chiusura
sistematica del neokantismo cominciava a manifestarsi, contestando anche alla storia dei problemi
la sua legittimità filosofica. Con la dissoluzione del quadro filosofico trascendentale, unico erede
dell’idealismo nella sua unitarietà, doveva cadere anche la storia dei problemi, che rapportava i
propri « problemi » a questa eredità. Questo desiderio si riflette ancora nel tentativo di Heidegger,
volto a modificare la concezione sistematica trascendentale del suo venerato maestro, Husserl, il
fondatore della fenomenologia, a partire dal lavoro di riflessione storica del pensiero di Dilthey. Al
tempo stesso cercava di generare una sorta di sintesi tra la problematica diltheyana della storicità e
la problematica scientifica che era alla base dell’orientamento di Husserl. In Essere e tempo
incontriamo quindi l’associazione sorprendente di una dedica a Husserl e di un omaggio a Dilthey.
Si trattava di un’associazione sorprendente, perché Husserl, presentando la fenomenologia sotto il
titolo di « filosofia come scienza rigorosa », aveva esercitato una critica addirittura drammatica a
Dilthey e al concetto di visione del mondo. Se ora ci domandiamo quale è stata la vera intenzione di
Heidegger e cosa lo ha spinto lontano da Husserl avvicinandolo al problema della storicità, vediamo
chiaramente che ciò che lo teneva con il fiato sospeso non era tanto la problematica contemporanea
del relativismo storico come sua propria eredità cristiana. Da quando sappiamo qualche cosa di più
riguardo alle prime lezioni di Heidegger e ai suoi tentativi filosofici alPinizio degli anni venti,
vediamo chiaramente che la sua critica alla teologia ufficiale della chiesa cattolica romana del suo
tempo lo spingeva sempre più a domandarsi come fosse possibile un’interpretazione adeguata della
fede cristiana o, in altri termini: come ci si possa difendere dalla deformazione del messaggio
cristiano causata dalla filosofia greca, che stava a fondamento sia della neoscolastica del XX secolo
sia della scolastica classica del Medioevo. E' allora che la sua ispirazione diventa il giovane Lutero;
è allora che si verifica la sua sorprendente ripresa del pensiero di Agostino e in particolare il suo
approfondimento della fondamenale intonazione escatologica delle lettere di Paolo. Tutto ciò gli
faceva apparire la metafisica solamente come un tipo di misconoscimento della temporalità e
storicità originarie, che erano diventate forme di esperienza nell’appello alla fede de! cristianesimo.
L’introduzione che Heidegger ha scritto nel 1922 al suo previsto saggio interpretativo su Aristotele
fornisce una testimonianza esplicita di questa concessione. Il testo è ancora inedito, ma è conservato
in uno stato pubblicabile e mi è noto fin dal 1923. La parola chiave con cui Heidegger affrontava
allora la tradizione della metafisica era: distruzione. Soprattutto distruzione della concettualità in
cui si muoveva la filosofia moderna e che riguardava in particolare il concetto, totalmente
indimostrato dal punto di vista ontologico, della coscienza, della res cogitans di Descartes. Quindi il
primo e principale oggetto della storia della filosofia di cui Heidegger si è occupato è stato
Aristotele. Nel suo approccio al pensiero di Aristotele si delinea già il modo in cui doveva
configurarsi complessivamente il suo rapporto con la storia della filosofia: spinto da un’intenzione
critica ma al tempo stesso da un intenso desiderio di rinnovamento fenomenologico, da un intento di
distruzione e insieme costruzione. Già allora seguiva il principio fondamentale del Sofista
platonico: l’avversario deve essere reso più forte. Si trattava di un Aristotele diventato
singolarmente attuale. Infatti, Heidegger privilegiava l’etica, la retorica, in breve quelle discipline
dell’insegnamento aristotelico che si presentavano esplicitamente staccate dal problema dei principi
proprio della filosofia teoretica. Soprattutto la critica all’idea del bene, il principio supremo della
dottrina platonica, che vi trovava formulata, gli sembrava esprimesse il proprio intento, l’esigenza
dell’esistenza storico-temporale e della critica alla filosofia trascendentale. La sua interpretazione
della phronesis come un άλλο είδος- γνώσεως·, un diverso modo di sapere, era addirittura una sorta
di conferma dei suoi interessi teoretici ed esistentivi. Tutto ciò passava anche alla filosofia teoretica,
alla metafisica, in quanto in questi anni Heidegger, pur non avendola ancora sviluppata con
adeguata autoconsapevolezza, aveva individuato la « famosa analogia », come era solito chiamarla.
All'interno della metafisica aristotelica, questo era l’elemento a partire dal quale egli poteva allo
stesso modo porre in questione la sistematica deduzione di qualsiasi validità da un principio, l'ego
trascendentale di Husserl o l’idea del bene di Platone. Il medesimo interesse doveva portarlo ad
entusiasmarsi nel 1923 alla pubblicazione dell'Opus tripartitum di Meister Eckhart. Analogamente,
quando gli capitò tra le mani il trattato De nominum analogia di Cajetano, lo fece oggetto di studio
approfondito, anche a lezione.
Nel frattempo, approfondendosi progressivamente il contro-progetto nei confronti della
fenomenologia trascendentale di Husserl, che venne alla luce per la prima volta nell’elaborazione di
Essere e tempo, la figura della metafisica aristotelica veniva acquistando il carattere inequivocabile
di una fonte di provenienza di tutte quelle posizioni contro cui Heidegger cercava di sviluppare il
proprio pensiero. Così il concetto di metafisica si formava lentamente come « parola d’ordine »,
cioè come termine unitario per designare quella controtendenza in antitesi alla quale Heidegger
interpretava la sua impostazione, motivata dall’ispirazione cristiana, del problema sul senso
dell’essere e l’essenza del tempo. La famosa lezione inaugurale di Friburgo, intitolata Che cose
metafisica?, risentiva ancora di una certa ambiguità, in quanto impiegava, o quanto meno suggeriva,
il concetto di metafisica in un senso positivo. Ma successivamente, quando egli incominciò a
formare il proprio nuovo progetto filosofico in completo distacco dal modello husserliano - è ciò
che definiamo la « svolta » di Heidegger — la metafisica e i suoi grandi rappresentanti dovevano
fungere ormai solo da sfondo, rispetto al quale le proprie intenzioni filosofiche cercavano di
emergere criticamente. Da quel momento in poi la metafisica non è apparsa più come il problema
dell’essere, ma come l’autentico e inesorabile occultamento della questione dell’essere (Seins-
Frage), come la storia dell’oblio dell’essere, che inizia con il pensiero greco e che, attraverso il
pensiero moderno, giunge fino alla concezione del mondo e all’atteggiamento intellettuale che trova
il suo compimento nel pensiero tecnico e calcolante, ossia fino ai giorni nostri. Da quel momento in
poi le tappe del progressivo oblio dell’essere e i contributi dei grandi pensatori del passato
dovevano articolarsi in un preciso ordine storico, rendendo quindi urgente una differenziazione
rispetto all’analogo tenta -tivo della storia della filosofia di Hegel. Nel suo confronto critico con
l’oblio dell’essere e con il linguaggio della metafisica, Heidegger insisteva di non aver mai
affermato la necessità del passaggio da un momento di pensiero all'altro. Ma in quanto a partire dal
suo problema dell’essere, cercava di descrivere la metafisica come un evento unitario di oblio
dell’essere, cioè di oblio crescente, era impossibile che anche il suo progetto non conservasse
qualcosa del carattere di coercizione logica al quale aveva dovuto soccombere la costruzione
hegeliana della storia universale del pensiero. Non era una costruzione teleologica a partire dalla
fine, come in Hegel, ma una costruzione a partire dall’inizio, coincidente con il destino dell’essere
della metafisica. Ma c’era in essa una « necessità », anche se soltanto nel senso dell'εξ ύποθέσεως-
άναγκαΐον.
Risulta quindi istruttivo cogliere la deviazione del suo progetto complessivo da quello hegeliano,
per comprendere il suo rapporto con la storia della filosofia. Ciò che colpisce, in primo luogo, è la
posizione particolare che gli inizi della filosofia greca, con Anassimandro, Parmenide ed Eraclito,
assumono nel suo pensiero. Nulla di straordinario, poiché già in Nietzsche ritroviamo una analoga
preferenza per questo momento iniziale: la sua critica radicale al cristianesimo e al platonismo
aveva privilegiato appunto i pensatori presocratici, la filosofia nell’epoca tragica dei Greci. A più
riprese, ripetutamente, Heidegger ha tentato di elaborare questa situazione iniziale come un contro-
modello da opporre all’effettivo cammino seguito dal destino del pensiero occidentale e presentato
dalla storia della metafisica. A proposito di Anassimandro, egli ha esposto in modo estremamente
originale e sorprendente alcuni elementi del proprio pensiero riguardo al carattere temporale e alla
temporalizzazione dell’essere. Il famoso frammento della dottrina di Anassimandro, l’unico che
conosciamo e che viene normalmente inteso come una prima concezione della totalità dell’essere,
totalità che si conserva e si regola essa stessa, o, in termini aristotelici: come physis, testimoniava
per Heidegger anzitutto il carattere temporale dell’essere che si mostra di volta in volta come
presente, il suo carattere istantaneo. In seguito egli intraprese a leggere in una nuova luce
soprattutto il poema dottrinale di Parmenide e gli aforismi di Eraclito. Entrambi, sia Parmenide che
Eraclito, erano stati anche i garanti privilegiati dell’idealismo tedesco e continuavano a giocare un
ruolo significativo anche nella Problemgeschichte neokantiana. Parmenide era l’uomo che per
primo aveva creato una sorta di rapporto d’identità tra il problema dell’essere e il concetto di
pensiero, di coscienza o, in greco: di noein. Ed Eraclito era l’iniziatore profondo della figura
dialettica delia contraddizione, dietro a cui si ravvisava la verità del divenire, l'essere del divenire. A
partire da loro, Heidegger ha ripetutamente tentato di superare l'errore dell'idealismo che
considerava gli inizi della filosofia greca nella prospettiva del suo compimento nella metafisica
hegeliana, ovvero nella filosofia trascendentale neokantiana, che rifiuta di riconoscere il proprio
hegelismo. Ciò che in particolare suscitava in Heidegger un senso di sfida era la problematica
profonda della nozione stessa di identità e il suo nesso interno con quella di differenza,
problematica che giocava un ruolo centrale sia nella Logica di Hegel sia in Hermann Cohen e
nell'interpretazione platonica di Natorp. Heidegger cercava di pensare identità e differenza in modo
completamente nuovo a partire dall'essere, inteso come αλήθεια, come « diaferenza » (Austrag) o,
in ultima analisi, come Lichtung o Ereignis dell'essere, per sottrarlo all’interpretazione metafisica
delTidealismo. Ma, così facendo, non poteva non accorgersi che il pensiero greco, anche in questi
primi pensatori « arcaici », si trovava già sulla via del successivo dispiegamento della metafisica e
dell’idealismo. E vedeva proprio questa affinità come il destino autentico della storia occidentale,
l'« invio » delTessere: l'essere si presenta come l'« essenza » dell’ente e suscita così la sventurata
fatalità di quell'onto-teologia che viene formulata da Aristotele come problema della metafisica.
Nella stessa prospettiva Heidegger si interessa di Eraclito e del suo concetto di logos. Grazie alla
recente pubblicazione dei suoi corsi, possiamo ormai vedere con quale incredibile intensità, potenza
e rigore logico Heidegger cercava di rendere completamente utilizzabili gli aforismi eraclitei per il
proprio problema delTessere. Non si può certo sperare, né per quanto riguarda il poema di
Parmenide né per gli aforismi di Eraclito, di trarre immediatamente dai saggi heideggeriani ad essi
dedicati qualcosa di nuovo per la nostra comprensione storica. Tuttavia, che si possano leggere
questi testi nella loro oscurità e brevità frammentaria in maniera opposta alla linearità della ragione
che Hegel individua nella storia dell’idea, è qualcosa che è stato suggerito proprio dalle
interpretazioni arcaicizzanti di Heidegger, che intravede dietro ad essi un’esperienza originaria
delTessere (e del nulla).
Se, con Heidegger, si comprende la metafisica come il destino (Geschick) delTessere che ha spinto
l’umanità occidentale a un punto che alla fine si rivela come estremo e totale oblio delTessere,
inaugurato con l’avvento dell’epoca della tecnica, tutte le tappe successive dell’opposizione alla
storia della filosofia sono in realtà predeterminate. Ne è testimone in modo straordinario il caso di
Platone. Negli anni della sua formazione, Heidegger ha fornito del Sofista un’interpretazione
assolutamente eccezionale per forza ermeneutica, di cui è testimone l’epigrafe di Essere e tempo.
Ma quando poi si è espresso per la prima volta in extenso riguardo a Platone, nel saggio La dottrina
di Platone sulla verità, pubblicato nel 1947 in Svizzera assieme alla Lettera sull'umanismo, il
pensiero platonico dell’idea è sembrato fin da principio segnato dal piegamento dell’αλήθεια
all'ὀρθότης, della verità all’esattezza e alla semplice adeguazione a un ente dato. Così considerato,
Platone compie dunque un ulteriore passo sul cammino dell’oblio dell’essere, che conduce alla
stabilizzazione dell’onto-teologia o metafisica. La tesi che Platone possa essere inteso solo in questo
modo, già in sé non è affatto convincente. Oltre tutto tale tesi ha anche avuto di fatto la conseguenza
di escludere dal pensiero heideggeriano successivo, privandoli di qualsiasi ruolo reale, tutti i motivi
della storia del platonismo che avevano affascinato il giovane Heidegger: Agostino, la mistica
cristiana e il Sofista stesso. Ci si sarebbe potuto immaginare che proprio anche la filosofia platonica
apparisse come una possibilità di risalire oltre l’impostazione della metafisica aristotelica e
postaristotelica e di riconoscere nella dialettica platonica dell’idea la dimensione dell’essere
automanifestantesi, dell’essere dell'aletheia che si articola nel logos. Ma Heidegger non ha più
associato questa prospettiva a Platone, restringendola ormai solo ai pensatori più antichi.
Si può dire qualcosa di analogo per la sua successiva recezione di Aristotele. Nelle lezioni di
Marburgo, almeno il capitolo così sconcertante e controverso sull’ov ώς αληθές, l’essere come
essere-vero (Metafisica Θ 10), giocava un ruolo decisivo ed era presentato non senza una certa
simpatia intellettuale. Ma con la formazione della figura universale della metafisica, anche questo
versante di Aristotele ha perduto per Heidegger la sua forza illuminante. Essere e tempo dimostrerà
poi in che modo, a partire dall’analisi del concetto di tempo o in particolare dall’esigenza di
separare la propria domanda circa l’essere da quella della metafisica, egli interpretava sia
l’impostazione aristotelica del problema, sia la svolta che la modernità, attraverso la figura di
Descartes, rappresenta per la storia dell’oblio dell’essere. In ogni caso l’ambivalente
approfondimento iniziale di Heidegger del pensiero aristotelico è testimoniato quasi unicamente
dalla forza della sua riflessione, ma soprattutto dall’intensità di una sua interpretazione:
l’interpretazione del primo capitolo del Libro B della Fisica. È un esempio caratteristico
dell’ambiguità, ma anche della produttività, con cui Heidegger cercava di condurre il dialogo con la
metafisica. Egli avvertiva soprattutto la bipolarità racchiusa nel concetto di fisica. Pur presentando
nella propria interpretazione il passo decisivo di Aristotele verso la « metafisi-
ca » nell’idea aristotelica di physis, (nel « sorgere » dell’ente), egli ravvisava al tempo stesso una
prefigurazione della propria concezione della Lichtung dell’essere e dell'Ereignis. Il saggio su
questo capitolo della Fisica di Aristotele. rimane, accanto alle appendici al libro su Nietzsche, il
confronto più fecondo e più ricco di prospettive intrattenuto da Heidegger con il pensiero greco. Il
suo cammino attraverso la storia della filosofia assomiglia molto a quello di un rabdomante:
improvvisamente la bacchetta si mette a oscillare e il cercatore diventa ricco.
A questo proposito bisogna ricordare anche i rimandi puntuali che Heidegger dedica ad alcune
intuizioni di Leibniz, di cui ammirava in particolare l’audacia linguistica. Nel tentativo di
riguadagnare l’autentica dimensione metafisica che Leibniz aveva cercato muovendosi tra la nuova
scienza fisica e la figura tradizionale della metafisica aristotelica della sostanza, una dimensione
che, come è noto, anche Whitehead ha cercato di sviluppare nel suo pensiero, Heidegger trovò in un
trattato di Leibniz la parola « existiturire ». Per lui era qualcosa di affascinante: non existere nel
senso tradizionale dell’essere semplicemente presente, dell’essere oggetto-per-un-giudizio o
dell’essere-una-rappresentazione. La parola artificiale latina fa risuonare già per mezzo della sua
forma linguistica l’apertura di questo movimento dell’essere verso il futuro: existiturire è come una
sete d’essere. Per il pensiero autonomo di Heidegger questo era naturalmente un segnale di
richiamo, un’anticipazione di Schelling.
Se ricordiamo la nostra impostazione del problema, come cioè Heidegger si stacchi con la sua
caratteristica teleologia negativa dell’oblio dell’essere dallo schema teleologico hegeliano della
storia della filosofia, il confronto di Heidegger con Kant rappresenta per molti motivi un punto
centrale. Infatti, se la pretesa di Hegel è stata, dopo il primo precedente di Fichte, di dispiegare la
filosofia trascendentale in tutta la sua ampiezza, autonomia e universalità — ed è in ciò che il
neokantismo gli è fedele, pur senza accorgersi (lo stesso Husserl non se ne accorse), della sua
origine non kantiana — il ritorno iniziale di Heidegger a Kant (era pur sempre il primo libro da lui
pubblicato dopo Essere e tempo) aveva invece il significato di una concezione decisamente
antihegeliana. Ciò che allora per Heidegger rappresentava una sorta di offerta di alleanza con Kant
non era il compimento della riflessione trascendentale nel senso della portata universale di questo
principio, come aveva intrapreso a realizzarlo Fichte nella sua dottrina della scienza e come lo
aveva inteso poi Husserl nella sua fenomenologia trascendentale, ma piuttosto proprio la duplicità
dei due tronchi della conoscenza, cioè proprio la restrizione della ragione alla sfera della datità
possibile dell'intuizione. In verità la sua interpretazione di Kant in funzione di una « metafisica
finita » era una forzatura estrema, cui in seguito non avrebbe più potuto rimanere legato. Dopo
l’incontro con Cassirer a Davos e soprattutto dopo aver meglio compreso l’insufficienza
dell’autointerpretazione trascendentale del proprio pensiero, Heidegger ha per così dire reinserito,
in modo più deciso, anche la filosofia di Kant nella storia dell’oblio dell’essere, come mostrano i
suoi lavori successivi su Kant.
Hegel era certamente entrato già dall’inizio nell’orizzonte di Heidegger. Infatti, come poteva un
aristotelico così dotato quale era il giovane Heidegger non aver avvertito già allora il fascino che
emanava da quel moderno Aristotele che era Hegel? E si può anche supporre che la potenza retorica
di un pensatore come Hegel doveva possedere per Heidegger una grande forza di attrazione. In ogni
caso verso la metà degli anni Venti la fenomenologia di Hegel, ma anche la sua logica, costituiva
per Heidegger un oggetto di confronto. Non può stupire però che egli preferisse la Fenomenologia
dello spirito rispetto alla Scienza della logica. In fondo, sia per lui che per noi tutti, era
costantemente avvertibile una vaga convergenza tra la fenomenologia « genetica » dell’ultimo
Husserl e il progetto iniziale di Hegel, rappresentato dalla Fenomenologia dello spirito. Così, alla
Introduzione di quest’ultima opera è dedicata l’unica discussione del pensiero di Hegel che
Heidegger abbia pubblicato, un saggio contenuto in Holzwege, che commenta passo per passo il
procedere filosofico hegeliano e che invera, forse più di ogni altro lavoro di questa raccolta, il titolo
di Holzivege. E' un tentativo di dedurre dal testo della Introduzione alla Fenomenologia dello
spirito il principio fondamentale dell’idealismo assoluto, un’impresa che secondo me avrebbe avuto
più successo se avesse preso in esame le ultime versioni della Dottrina della scienza di Fichte.
Tuttavia è pur sempre una testimonianza del fascino costante e della sfida che la sintesi universale
hegeliana della storia della metafisica rappresentava per Heidegger. Fino alla fine egli ha sempre
ribadito di giudicare completamente inadeguato il discorso di un crollo del sistema hegeliano e
dell’idealismo hegeliano. Non sarebbe la filosofia di Hegel ad essere crollata, ma tutto ciò che gli
era succeduto, Nietzsche compreso. Questa era una locuzione che avrebbe usato frequentemente. In
modo analogo, non ha mai voluto che il suo discorso del superamento della metafisica fosse inteso
come se ritenesse possibile uscire dalla metafisica hegeliana superandola o come se lui stesso
avesse avuto questa pretesa. E noto invece che egli parla del passo indietro, a partire dal quale si
aprirebbe nel pensiero lo spazio dell'aletheia, della Lichtung dell’essere. Heidegger vedeva dunque
in Hegel la forma finale e coerente del pensiero moderno, dominato dall’idea della soggettività. Non
era cieco di fronte allo sforzo hegeliano per superare l’idealismo soggettivo, definito così proprio da
Hegel, e per trovare un orientamento che tenga conto del « Noi » della comunità della ragione
oggettiva e dello spirito oggettivo. Ma agli occhi di Heidegger questo sforzo appariva come una
semplice anticipazione che naufragava sotto la pressione esercitata dai concetti ereditati da
Descartes e dalla sua dottrina del metodo. Heidegger non ha certamente mai negato che Hegel sia
stato uno dei più grandi maestri nell’arte del concetto. Questo può anche essere il motivo per cui,
nonostante la sua simpatia per Schelling, affrontando il problema del superamento o del
compimento dell’idealismo assoluto ha sempre cercato di confrontarsi con Hegel.
Per questa ragione Hegel gli appariva, secondo la sua espressione favorita, come l’ultimo dei Greci
— se è vero che il logos è l’autentico pensiero originario greco, che Hegel ha osato estendere, come
colui che porta a compimento una tradizione, anche al mondo della storia. Le lezioni heideggeriane
del 1930/31 sulla Fenomenologia dello Spirito, apparse di recente, sono perciò interamente dedicate
a differenziare l’impostazione di Essere e tempo nei confronti dell’onto-teologia hegeliana, orientata
all’ambito logico. Rispetto a queste lezioni, l’interpretazione della Introduzione pubblicata in
Hohwege (« Il concetto hegeliano di esperienza »), risalente al 1942, presenta un atteggiamento
completamente diverso. Infatti, per parlare con Heidegger, essa è già « implicitamente pensata a
partire dall’Ereignis ».
Doveva invece essere la profondità di pensiero di Schelling a corrispondere maggiormente al suo
impulso intellettuale. In questo senso ricordo una frase, tratta dallo scritto sull'Essenza della libertà
umana, letta da Heidegger nel 1925 durante un seminario su Schelling: « L’angoscia della vita
espelle la creatura del suo centro », aggiungendo: « citatemi una sola frase di Hegel di eguale
profondità ». Per lui l’ultimo Schelling diveniva sempre più visibile dietro a Kierkegaard e
successivamente perfino dietro a Nietzsche. Lo scritto sull 'Essenza della libertà umana è stato
ripetutamente oggetto delle sue lezioni.
Alla fine ha ritenuto opportuno pubblicare la sua interpretazione senza tuttavia tacere l’incapacità di
Schelling di rendere conto concettualmente della profondità delle sue intuizioni. In lui Heidegger
riconosceva il suo stesso problema, quello della fatticità, dell’oscurità irriducibile del fondamento
— sia in Dio sia in tutto ciò che è reale e non soltanto logico. Tutto questo spezza i limiti del logos
greco.
L’ultima, grandiosa e ambigua operazione nata dal confronto di Heidegger con la storia della
filosofia rimane la figura di Nietzsche, a cui è dedicata, dopo due lavori minori, l’opera in due
volumi dal titolo Nietzsche. Nietzsche però era entrato a pieno titolo piuttosto tardi, solo dopo
Essere e tempo, nell’orizzonte di Heidegger, ed è un fraintendimento attribuire a Heidegger
eccessive simpatie nei confronti di Nietzsche. Anche l’impresa di Derrida, di sorpassare Heidegger
per mezzo di Nietzsche, non trae assolutamente le giuste conseguenze dall’impostazione
heideggeriana: infatti l’estrema dissoluzione dell’intenzionalità di senso, rappresentata dalla critica
di Nietzsche alla coscienza, deve essere intesa agli occhi di Heidegger sempre ancora a partire dalla
metafisica, come il suo non-essere. La volontà che vuole se stessa emerge come l’ultima estremità
del pensiero moderno della soggettività e ciò che prima di lui era sempre considerato solo come un
paradosso, cioè la coesistenza tra la teoria della volontà di potenza, ovvero del superuomo, con la
teoria dell’eterno ritorno, Heidegger riesce ora a pensarlo come unità, ma solo come
quell’espressione più radicale dell’oblio dell’essere che per lui è la storia della metafisica. In quale
misura l’inserimento di Nietzsche nella storia dell’oblio dell’essere e, al tempo stesso, in quale
misura il ripercorrere in senso inverso questo cammino fosse il desiderio più intimo di Heidegger, è
indicato dalla gran massa di annotazioni su questo tema da lui aggiunte al secondo volume del
Nietzsche.
Ad ogni modo rimane vero che l’oltrepassamento (Oberwindung) heideggeriano della metafisica
non doveva rappresentare affatto un sorpassare schiacciante (Obertrumpfung). In seguito lo ha
definito esplicitamente « superamento » (Verwindung) dalla metafisica: come quando si « supera »
un dolore o un’offesa, ciò che fa male o che offende non scompare e non è semplicemente
dimenticato. In questo senso egli vede il suo pensiero nel quadro di un dialogo permanente con la
metafisica: ciò implica che egli continui a parlare, più o meno, ma sempre, il linguaggio della
metafisica. La parlerebbe addirittura completamente se, entro la storia della metafisica, nel suo
punto più alto e conclusivo, non avesse trovato nell’amico di Hegel, nel poeta Friedrich Holderlin,
un nuovo interlocutore, che forniva al suo linguaggio un vocabolario nuovo e semipoetico. La
corrispondenza tra la poesia mitica di Holderlin e il « tornare all’origine » di Heidegger è veramente
straordinaria: alla fine risulta il solo elemento univoco del colloquio di pensiero intrattenuto da
Heidegger con il passato. Gli altri interlocutori filosofici importanti, Eraclito e Parmenide,
Aristotele, Hegel e Nietzsche conservano in lui una strana ambiguità: in parte esprimono il suo
stesso pensiero, in parte lo respingono, poiché tutti hanno contribuito a preparare il destino
(Geschick) dell’oblio dell’essere in Occidente. Parmenide ed Eraclito, per esempio, cercano di
pensare l’unico « vero », il sophon, nell’esperienza delTessere, tuttavia sono al tempo stesso protesi
verso il sapere della molteplicità dell’ente. In quanto essere dell’ente, Tessere diventa così « essenza
», mentre l'aletheia, invece di essere pensata come non-nascondimento, viene intesa come Tessere
del non-nascosto. Qualcosa di analogo accade per quanto riguarda Aristotele: se nel suo
rinnovamento e approfondimento del concetto di physis e nell'analogia entis Heidegger vede
risplendere ancora una volta l’esperienza dell’inizio, tuttavia alla fine non fa che elaborare la
multidimensionalità della « filosofia prima » di Aristotele solo in direzione dell’onto-teologia.
Allo stesso modo Heidegger ha interpretato coscientemente la filosofia di Hegel come il
compimento di questa onto-teologia, nonostante tutte le affinità che esistono tra la sua critica
all’idealismo della coscienza e la critica hegeliana all’idealismo soggettivo. In una parola: il
commercium di pensiero tra Heidegger e la storia della filosofia resta attaccato alla potenza di un
pensatore che, spinto dalle proprie domande, cerca dovunque di riconoscere se stesso. La sua
distruzione della metafisica diventa così una sorta di lotta con il potere di questa tradizione della
riflessione, imprimendosi alla fine nel silenzio quasi straziante che spinge questo pensatore, così
potente nella sua espressione linguistica, all’estremo esoterismo. L’itinerario del pensiero metafisico
è infatti l’unico che abbia segnato la traccia di un sentiero nel fondamento del linguaggio e delle
lingue che ci sono familiari, il greco, il latino e le lingue moderne. Senza questa traccia anche
l’interrogare retrospettivo con cui Heidegger risale fino all’inizio di questo sentiero, non avrebbe
alcuna parola.
14. LA DIMENSIONE RELIGIOSA (1981)
Il problema della dimensione religiosa nei testi heideggeriani assomiglia a una sfida o, quanto
meno, a un'impresa paradossale. Basti pensare soltanto a Jean-Paul Sartre, che, da ammiratore di
Heidegger, lo ha presentato addirittura — schierandolo dalla parte di Nietzsche — come uno dei
pensatori atei rappresentativi della nostra epoca. Tuttavia vorrei mostrare che una simile
comprensione di Heidegger come pensatore ateo può derivare solo da una appropriazione
puramente estrinseca della sua filosofia.
Certamente un problema del tutto diverso è se sia giustificata l’utilizzazione di Heidegger da parte
della teologia cristiana — e del resto è da mezzo secolo che i teologi cristiani si richiamano al
pensiero heideggeriano. Heidegger stesso ha chiarito in maniera inequivocabile che il problema
dell'essere, la cui riproposizione era il compito più proprio cui egli si sapeva chiamato, non può
essere compreso come problema di Dio. Nel corso degli anni la sua posizione nei confronti della
teologia contemporanea di entrambe le confessioni si faceva sempre più severa e critica. Ma
bisogna chiedersi se questa critica alla teologia non testimoni invece che « Dio » — il Dio
manifesto o il Dio nascosto -non era per lui solo una parola vuota. È noto che Heidegger proveniva
da una famiglia cattolica ed è stato educato nella religione cattolica. Frequentò il ginnasio a
Costanza: senza essere una scuola puramente cattolica, era tuttavia situata in una regione in cui
entrambe le confessioni cristiane, la cattolica e la protestante, avevano una forte vita ecclesiastica.
Dopo aver terminato gli studi inferiori, frequentò per qualche tempo l’istituto dei gesuiti a Feldkirch
(nel Vorarlberg), da cui però ben presto si allontanò. Rimase tuttavia ancora qualche semestre nel
convitto teologico di Friburgo.
Sia l'impegno religioso che l’inclinazione per la filosofia erano già fortemente impressi in tutto lo
spirito del giovane Heidegger. Anche
nei primi anni del suo incontestato legame con la religione e con la chiesa, egli era tutto preso
dall’appassionato interesse per la filosofia. Il suo rettore al convitto ginnasiale di Costanza,
Groeber, futuro vescovo di Friburgo, riconobbe subito il suo brillante talento e la sua dedizione alla
filosofia. Una volta Heidegger mi raccontò che uno dei suoi insegnanti - certamente durante una
lezione noiosa - lo sorprese mentre stava leggendo sotto il banco la Critica della ragion pura! In
realtà questo era forse una sorta di lasciapassare per un grande avvenire spirituale. Perciò Groeber
gli diede da leggere un libro allora recente, erudito, ma per niente profondo, su Aristotele: Sui
molteplici significati dell'ente in Aristotele, di Franz Brentano. Questo studio sviluppava in
scrupolose analisi la molteplicità dei significati dell’essere in Aristotele ma lasciava del tutto senza
risposta la questione della connessione tra questi significati: proprio questo fatto ispirò il giovane
Heidegger. Egli lo ha raccontato spesso. I diversi significati di « essere » distinti da Aristotele erano
una sfida a domandare circa la loro unità nascosta, anche se non certamente nel senso di una
sistematizzazione, come quella che Cajetano e Suarez, gli scolastici della Controriforma, avevano
cercato di introdurre nell’aristotelismo. Ma il fatto che l'essere non sia un genere e la dottrina
scolastica dell'analogia entis erano motivi che da quel momento in poi dovevano riapparire spesso
in Heidegger. Non come una dottrina metafisica, ma come espressione di un problema aperto, un
problema incalzante, che si doveva imparare a porre: cos e l'« essere ».
Il suo talento gli procurò solleciti successi: con Rickert scrisse la sua dissertazione sulla dottrina del
giudizio nello psicologismo — all’esame come materie secondarie portò — non lo si sarebbe mai
indovinato
- matematica e fisica! Durante una lezione del periodo di Marburgo accennò a questo lavoro con
queste parole: « Quando facevo bambinate ». A 27 anni si abilitò e divenne assistente del successore
di Rickert a Friburgo, Edmund Husserl, il fondatore della fenomenologia, dal quale egli apprese la
grandiosa tecnica della descrizione fenomenologica. Già in questi primi anni di docenza, Heidegger
aveva uno straordinario successo nell’insegnamento e acquistò presto un influsso addirittura magico
sui giovani e sui coetanei, tra i quali Julius Ebbinghaus, Oskar Becker, Karl Lowith, Walter Bröcker,
nomi diventati oggi famosi. La sua fama mi raggiunse a Marburgo, dove stavo preparando il
dottorato. Già allora, nel 1920/21, giungevano studenti da Friburgo che riferivano di Heidegger e
delle sue lezioni estremamente bizzarre e profondamente rivoluzionarie, più che di Husserl. Là egli
avrebbe usato per esempio l’espressione: « mondeggia » (es weitet). Si trattava come oggi possiamo
riconoscere di un’anticipazione di grande portata del suo successivo e definitivo pensiero. Niente di
simile si poteva sentire in quel tempo da un neokantiano. Nemmeno da Husserl. Dov’era qui l'ego
trascendentale? Che tipo di parola era? E, in generale, c’era? Dieci anni prima di superare la propria
autocomprensione trascendentale e il proprio accostamento a Husserl con la cosiddetta « svolta »,
Heidegger trovò qui una prima parola, in cui il punto di partenza non era il soggetto e la
trascendentale « coscienza in generale », ma l’evento della Lichtung, che si esprimeva, come in un
annuncio, nel termine « Welten ».
Nel frattempo siamo venuti a conoscenza di ulteriori particolari riguardo a questa prima fase del
pensiero heideggeriano, la fase di Friburgo immediatamente successiva alla prima guerra mondiale,
Pöggeler ci ha fornito alcune notizie su questo problema; Karl Lehmann ha ricostruito in un
pregevole saggio il significato di San Paolo per il giovane Heidegger; Thomas Sheehan ha potuto
darci brevemente un’informazione esauriente sul corso heideggeriano del 1920 intitolato
Fenomenologia della religione, cui ha potuto accedere grazie a un quaderno di appunti.
Ne deduciamo che Heidegger era affascinato in particolare dall'esperienza del tempo avvertita nelle
prime comunità cristiane cioè da questo istante escatologico,  che non è affatto « attesa », misura e
calcolo di un tempo che scorre fino al ritorno di Cristo — poiché l’istante giunge « come un ladro
nella notte » (I Tes ). Il tempo misurato, il fare i conti con il tempo e lo sfondo complessivo
dell’ontologia greca, che domina il nostro concetto di tempo in filosofia e nella scienza, falliscono
di fronte a questa esperienza. Che qui non si trattasse solo di una sfida filosofica, ma del proposito
religioso fondamentale del giovane pensatore, è indicato con chiarezza da una lettera che in quel
periodo (1921) Heidegger scrisse a Karl Lowith, suo giovane allievo e amico. Vi si dice che sarebbe
« uno sbaglio fondamentale che Lei e Becker mi misuraste (ipoteticamente o no) in base a metri di
valutazione quali Nietzsche, Kierkegaard... e qualsiasi altro filosofo creativo. Questo è lecito — ma
ce da dire che io non sono un filosofo; io non mi immagino di poter fare qualcosa che possa essere
anche solo paragonabile ». E conclude: « Io sono un teologo cristiano »!
Non si sbaglia se si ravvisa qui la motivazione più profonda dell’itinerario di pensiero di Heidegger:
in quel tempo egli si vede teologo cristiano. Questo significa: tutti i suoi sforzi per giungere in
chiaro con sé e con le proprie domande sono incitati dal compito di liberarsi dalla teologia
dominante, nella quale era stato educato, per poter essere un cristiano. Dagli illustri maestri della
Facoltà teologica di Friburgo egli ha ricevuto il bagaglio culturale per sviluppare questo compito «
teologico » e, in quegli anni, è stato soprattutto il giovane Lutero ad acquistare per lui un significato
decisivo. Ma il già ricordato corso sulla « fenomenologia della religione » ci insegna che egli
ritornava con una vera e propria affinità elettiva al più antico documento del Nuovo Testamento, le
lettere di Paolo.
Cerano due maestri che allora gli fornirono l’appropriata istruzione concettuale. Da un lato cera la
maestria fenomenologica di Husserl. Un fatto era caratteristico: non era il programma neokantiano
delle Idee (del 1913) ciò che Heidegger insegnava a lezione nella sua veste di assistente di Husserl,
ma le Ricerche logiche, che Husserl stesso riteneva di aver ampiamente oltrepassato, e al loro
interno soprattutto la sesta ricerca, che in quel torno di tempo veniva ripubblicata in edizione
rielaborata. In essa il problema di cosa significhi «. è » aveva un posto di rilievo: in che genere di
atto « noetico » viene intesa questa categoria formale dell’« è »? La teoria dell’« intuizione
categoriale » — e certamente anche le magistrali analisi husserliane sulla coscienza del tempo (di
cui Heidegger doveva successivamente curare la prima pubblicazione) - stimolavano Heidegger:
quale minuziosa arte analitica, e quale vicolo cieco, che allontanava dal problema della fede
cristiana, da cui Heidegger era assillato, molto di più della celebre disperazione in cui era caduto
Agostino per voler comprendere l’enigma del tempo.
Heidegger non era attratto dall’elaborazione « idealistica » delle Idee: era propenso piuttosto ad
ammirare la consequenzialità con cui Husserl penetrava nel campo tematico della soggettività
trascendentale e certamente è stato immune dai tentativi « realistici » di evasione a buon mercato,
nello stile della « fenomenologia di Monaco » e anche dello Scheler di quegli anni. Ma il principio
dell'ego trascendentale gli è apparso fin dall’inizio sospetto. Thomas Sheehan mi ha raccontato che
un giorno Heidegger gli fece vedere il suo estratto del saggio di Husserl [Filosofia come scienza
rigorosa], pubblicato su Logos nel 1910. Ce un luogo in cui Husserl dice: il nostro metodo e il
nostro principio deve essere: « alle cose stesse » — e a margine il giovane Heidegger aveva scritto:
« vogliamo prendere Husserl alla lettera ». Tutto ciò era naturalmente inteso in senso polemico:
invece di invischiarsi nella teoria della riduzione trascendentale e nella fondazione ultima nel
cogito, egli doveva attenersi a questo principio peculiare: « alle cose stesse »!
Dall’altro lato, per acquisire anche la dovuta distanza dall’idealismo trascendentale di Husserl,
senza ricadere nell’ingenuità di un realismo
dogmatico, egli trovò un altro grande maestro: Aristotele. Certo egli non poteva attendersi di trovare
qui un alleato per il suo più personale interrogare religiosamente motivato. Ma il ritornare da
fenomenologo ormai esperto ai suoi iniziali studi aristotelici gli fece scoprire un nuovo Aristotele,
che mostrava aspetti totalmente diversi da quelli privilegiati dalla teologia scolastica. Certamente
Heidegger non poteva illudersi che il concetto greco di tempo fosse stato coniato grazie alla fisica
aristotelica e che, a partire da qui, nessun sentiero diretto potesse condurre al chiarimento
concettuale depistante escatologico. Ma la prossimità del pensiero aristotelico all'esserci fattuale
nella sua concreta realizzazione vitale e nel suo orientamento naturale verso il mondo recava un
indiretto ausilio. Per tutta una serie di semestri Heidegger ha presentato i suoi studi sull'etica, la
fisica, l'antropologia (De anima) e la retorica aristoteliche — e naturalmente anche sulle parti
centrali della metafisica. Nel 1923, come egli stesso mi aveva annunciato in una lettera, tutto ciò
avrebbe dovuto trasformarsi in una grande pubblicazione per lo « Jahrbuch fur Philosophie und
phànomenologische Forschung ». Non ci riuscì perché l’assunzione della cattedra universitaria a
Marburgo lo pose di fronte a compiti completamente nuovi. Ma Aristotele rimase sempre uno dei
centri della sua attività di insegnamento marburghese.
A cosa poteva servirgli Aristotele? Solo per allontanarsi dall'esperienza cristiana del tempo e dal
ruolo fondamentale della storicità nel pensiero recente? Solo come immagine rovesciata?
E' vero il contrario. Aristotele ha esercitato il suo influsso come un teste principale per accedere «
alle cose stesse » e quindi indirettamente anche in contrasto con i propri pregiudizi ontologici,
riguardanti ciò che successivamente Heidegger doveva chiamare « essere come semplice presenza
». Aristotele diventò cosi un aiuto critico per il suo nuovo interrogare. Le interpretazioni
fenomenologiche di Aristotele, che egli stava in quel periodo preparando per pubblicarle nello «
Jahrbuch » di Husserl, non miravano tanto alla teologia filosofica, così cara alla scolastica, che ha i
suoi fondamenti ultimi nell'orientamento aristotelico basato sulla fisica e nel Dio motore della
metafisica, quanto alla prossimità oggettiva con la realizzazione concreta e fattuale dell'esserci, che
si può cogliere soprattutto nella « filosofia pratica » di Aristotele e nella sua retorica. I modi dell’«
essere-vero », dell’aletheuein, esaminati nel Libro VI dell 'Etica Nicomachea, avevano per
Heidegger soprattutto questo significato: il primato del giudizio, della logica e della « scienza » per
la comprensione della fatticità della vita umana giungevano in questi testi a una restrizione decisiva.
Ha così ottenuto giusti-
zia un αλλο γένος γνώσεως- che non riconosce oggetti e non vuole essere sapere oggettivo, ma ha di
mira la chiarezza possibile per l’esistenza vissuta in senso fattuale. Quindi accanto all’etica anche la
retorica aristotelica è diventata importante, perché sa di pragmata e di pathémata — e non di «
oggetti ».
In maniera sorprendente il giovane Heidegger poteva inoltre, per la sua critica « esistentiva » al
concetto trascendentale di soggetto e di oggetto, procurarsi un aiuto nella critica aristotelica all’idea
platonica del bene. Come il bene non è un oggetto supremo o principio, ma si differenzia nella
pluralità dei suoi modi di farcisi incontro, così anche « l’essere » è presente in tutto ciò che è, anche
ammesso che alla fine si trovi un ente eminente che garantisca ogni presenzialità. È dunque al
problema dell’essere come tale che Aristotele, e Heidegger con lui, cercano di rispondere. Ecco ciò
che Heidegger esprime a questo proposito in relazione alla fisica e alla metafisica di Aristotele:
l’essere nella sua mobilità, l’essere nel suo non-nascondimento, non sono regioni di oggetti, su cui
vengono espressi enunciati, ma ogni comprensione dell’« essere » si fonda su quella della mobilità e
ogni enunciato vero si fonda sulla presenzialità non-nascosta, in ultima analisi dunque sull’ov ώς
αληθές·. Ciò non significa affatto un realismo contrapposto all’idealismo soggettivo né in generale
una teoria della conoscenza, ma descrive la cosa stessa, che, in quanto essere-nel-mondo, non « sa »
nulla della « scissione tra soggetto e oggetto ».
Ora però dietro a questo interesse per un Aristotele non scolastico incalza l’antica domanda di
Heidegger alla teologia cristiana: non ce forse un’autocomprensione del cristiano più adeguata di
quella offerta dalla teologia contemporanea? A tale riguardo la sua nuova interpretazione di
Aristotele rappresenta solo un primo passo su un lungo sentiero filosofico. Che Heidegger lo
arrischiasse, coscientemente, proprio come primo passo, lo confermava l’introduzione alle
interpretazioni aristoteliche che egli inviò in manoscritto a Paul Natorp e che questi mi diede allora
da leggere: un’analisi della « situazione ermeneutica » per un’interpretazione di Aristotele. E con
chi cominciava? Con il giovane Lutero, il Lutero appunto che pretendeva che chiunque volesse
essere realmente cristiano dovesse rinnegare Aristotele, questo « grande mentitore ». E seguivano,
mi ricordo con precisione - il testo non è ancora stato pubblicato, ma deve essere conservato, quanto
meno in dattiloscritto, senza le innumerevoli aggiunte manoscritte contenute nell’esemplare inviato
a Natorp - altri nomi: Gabriel Biel, Pietro Lombardo, il maestro delle sentenze, Agostino e infine
Paolo. Nessun dubbio: era proprio l’antica e ben documentata attenzione di
Heidegger per Poriginario messaggio cristiano, ciò che stava dietro al lavoro su Aristotele.
Heidegger non poteva certamente ritenere di trovare per questo suo proposito un ausilio diretto in
Aristotele. Al contrario: il fatto che la teologia da lui studiata, e in gran parte fondata sulla
metafisica aristotelica, non corrispondeva affatto ai reali motivi dominanti del pensiero greco, non
doveva far altro che accentuare per lui il confronto con questo pensiero. La comprensione del tempo
che era viva in Paolo, e che fu riconosciuta da Heidegger, non era affatto greca. Il concetto greco di
tempo, formulato da Platone e Aristotele come misura e numero del movimento, dominava però le
possibilità concettuali di tutte le epoche successive, da Agostino a Kant fino a Einstein. Quindi,
riguardo al problema per Heidegger più personale e profondo, quello dell’attesa cristiana della fine
del tempo, doveva rimanere viva la domanda se la pressione del pensiero greco sull’esperienza
cristiana della fede non avesse reso irriconoscibile il messaggio cristiano in generale e, quanto
meno, non avesse estraniato la teologia cristiana dal suo compito più proprio. In realtà per
Heidegger non è stata solo la dottrina della giustificazione di Paolo e Lutero ad assumere
importanza — egli ha ripreso anche la tesi di Harnack sulla fatale ellenizzazione della teologia
cristiana. In fin dei conti Heidegger non doveva solo dubitare dell’adeguatezza della sua educazione
teologica, ma, andando oltre tutto ciò, riconoscere nell’eredità greca, che grava su tutto il pensiero
moderno, l’origine dell’imbarazzo riguardo all’« essere » e alla storicità dell’esserci umano, che gli
ha dettato l'exergo di Essere e tempo.
Erano inoltre proprio le aporie del pensiero moderno, che gli erano venute incontro nelle figure di
Bergson, Simmel, Lask e soprattutto di Dilthey, a non dargli pace nei decisivi anni del suo sviluppo,
nell’epoca cioè della prima guerra mondiale. E valeva per lui ciò che valeva per Unamuno,
Haecker, Buber, Ebner, Jaspers e molti altri, vale a dire il fatto che il concetto kierkegaardiano
dell’esistere era diventato la nuova parola d’ordine. In quegli anni le opere di Kierkegaard avevano
conosciuto una rinnovata efficacia grazie all’edizione tedesca pubblicata presso Diederichs. Nei
brillanti saggi in essa contenuti, Heidegger ritrovava i suoi temi più personali. Non solo la polemica
condotta a partire dalla dimensione religiosa contro Hegel, che era l’ultimo e più radicale dei Greci,
come lo ha definito una volta Heidegger, e che aveva coperto l'aut-aut dell’esistenza umana. Anche
la contrapposizione esplicita del concetto greco del « ricordo » doveva risultargli convincente.
Infatti la categoria kierkegaardiana della « ripetizione » era caratterizzata proprio dal fatto di dover
svanire nel ricordo, nell’illusione di un ritorno del medesimo, qualora non fosse stata sentita come il
paradosso della storicità, come la ripetizione dell’irripetibile, come tempo al di là di ogni tempo.
Ecco l’esperienza del tempo che Heidegger ravvisa in Paolo, l’esperienza del ritorno di Cristo, che
non è affatto un ritorno da attendere e che per parusia intende un venire e non la presenzialità. Ma
soprattutto dovevano infondergli fiducia i discorsi religiosi di Kierkegaard, in quel periodo
disponibili in tedesco con il titolo Leben und Walten der Liebe [Vita e opera dell}amore]. Vi si trova
la notevole distinzione tra il « comprendere a distanza » e il comprendere nella simultaneità. La
critica di Kierkegaard alla chiesa mirava a chiarire che quest’ultima non affronta il messaggio
cristiano con serietà esistentiva, se stempera il paradosso della simultaneità che nel messaggio
cristiano è insito. Se la morte di Gesù sulla croce viene compresa in base alla distanza, ciò non ha
alcuna serietà vera e altrettanto vale per un discorso su Dio e sul messaggio cristiano come quello
condotto dalla teologia (e dalla speculazione dialettica degli hegeliani), per il fatto di porsi a
distanza.
Si può parlare di Dio come riguardo a un oggetto? Non è forse la seduzione della metafisica greca,
argomentare riguardo all’esistenza e alle qualità di Dio come riguardo a un oggetto della scienza? Si
trovano qui in Kierkegaard le radici della teologia dialettica, che ha avuto inizio nel 1919 con il
commento di Karl Barth alla Lettera ai Romani. Negli anni marburghesi dell’amicizia tra Heidegger
e Bultmann si trattava soprattutto della resa dei conti con la teologia « storicistica » e di imparare a
pensare in maniera più radicale la storicità e la finitezza dell’esserci umano.
In quegli anni Heidegger si richiamava ripetutamente allo storico della chiesa Franz Overbeck,
l’amico di Nietzsche, il cui scritto di battaglia sulla « cristianità della teologia » esprimeva gli intimi
dubbi che animavano Heidegger. Esso confermava totalmente la sua esperienza filosofica
dell’inadeguatezza del concetto greco di « essere » per esprimere l’idea cristiana dell'eschaton, che
non è attesa di un evento che deve arrivare. Quando, in quella lettera a Lowith, Heidegger scrive: «
io sono un teologo cristiano », egli pensa certamente: io desidero, contro la pretesa cristianità della
teologia odierna, affrontare il vero compito della teologia e cioè « trovare la parola che è in grado di
chiamare alla fede e di preservare nella fede » (si tratta di una frase che gli ho sentito pronunciare
nel 1923 in una discussione teologica). Ma questo era un compito del pensiero.
Un compito che egli aveva appreso non solo da Aristotele ma anche da Husserl, la cui magistrale
analisi della coscienza del tempo gli aveva dimostrato anticipatamente in maniera formale il peso e
le conseguenze del pensiero greco. Grazie all'esperienza maturata alla scuola di Husserl, Heidegger
era immune dal rischio di sottovalutare la consistenza dell'idealismo trascendentale e di
contrapporgli un realismo ingenuo richiamandosi alle parole d’ordine della fenomenologia. Non
poteva trattarsi di insistere, con Pfänder o con il giovane Scheler, sul fatto che le cose sono ciò che
sono e non vengono prodotte per mezzo del pensiero. Né il concetto di produzione, proprio del
neokantismo di Marburgo, né il contestato concetto husserliano di costituzione hanno qualcosa a
che vedere con l’idealismo metafisico del vescovo Berkeley o con il problema gnoseologico della
realtà del mondo esterno. L’intento di Husserl era proprio di rendere comprensibile
trascendentalmente o, per così dire, di fondare in senso « immanente » la « trascendenza » delle
cose, il loro essere-in-sé. La teoria dell’ago trascendentale e della sua evidenza apodittica non era
nient’altro che questo tentativo di fondare ogni oggettività e ogni validità. Ma proprio questo
tentativo si perdeva in analisi sempre più raffinate intorno alla struttura temporale della soggettività.
La costituzione dell’ego trascendentale, riconosciuta come compito, conduce a formazioni
concettuali così paradossali quali per esempio: autocostituzione della corrente di coscienza,
automanifestazione del flusso, presente primitivo, mutamento originario. Tutto ciò può aver fornito
al giovane Heidegger la conferma che né il concetto dell’oggetto né quello del soggetto poteva
essere applicato al proprio problema: cioè la fatticità dell’esserci umano. In verità Heidegger ha
iniziato a percorrere il proprio sentiero partendo dal carattere di «esercizio» del prendersi cura
dell’esserci — successivamente: della « cura » -, anziché partire dalla coscienza presentificante, e
definendo l’esistenza come avvenire. In questo modo la storicità dell’esserci entrava nel suo
sguardo dalla prospettiva teologica e non sotto l’influsso dello storicismo, e guidava così il
problema del senso dell’« essere ».
Ma in che modo la teologia si lascia pensare come scienza, senza perdere la propria cristianità e
senza ripiombare nel territorio dei concetti di soggettività e oggettività? Già nei primi anni
marburghesi, se ben ricordo, Heidegger ha pensato nella direzione che sarebbe stata formulata nella
conferenza di Tubinga del 1927 1: la teologia è una
scienza positiva, poiché tratta di qualcosa di essente, vale a dire della cristianità. Va definita come
interpretazione concettuale della fede. Ma così si troverebbe più vicina alla chimica o alla biologia
che alla filosofia. Infatti questa, unica tra le scienze, non ha a che fare con l’ente (che è già dato,
anche se unicamente nella fede), ma con Tessere: è la scienza « ontologica ».
Si vede bene qui la cosciente provocazione contenuta in questa tesi epistemologica. Nella fede si
incontra anche ciò che in essa è creduto - è questo è altrettanto suscettibile, se lo è in generale la
fede, di un’interpretazione concettuale. Ma questo elemento in cui si crede, è un oggetto o un
campo di oggetti come le materie chimiche o gli esseri viventi, o non riguarda piuttosto - come la
filosofia - l’insieme delTesserci umano e il suo mondo? Allora anche Heidegger, dall’altra parte,
deve affermare la costituzione ontologica fondamentale delTesserci umano, riconosciuta dalla
filosofia, come correttivo per l’interpretazione concettuale della fede. La filosofia, che vede
scaturire l'« esistenziale » della colpa dalla temporalità delTesserci, può rappresentare sicuramente
solo un annuncio formale del peccato esperito nella fede.
Qui Heidegger usa il concetto, che come si sa è stato usato molto prima di lui, di « annuncio
formale », quasi un equivalente del kierkegaardiano « fare attenzione », e non si sbaglia se si
ravvisa l’intenzione, che si differenzia dalla cornice aprioristica che le « ontologie » di Husserl
pretendevano di imporre alle scienze empiriche, di vedere nell’annuncio formale il riconoscimento
che la scienza filosofica può sì partecipare all’interpretazione concettuale della fede — nella
teologia — ma non al suo « esercizio », che è cosa della fede stessa. Sotto a tutto ciò stava
certamente la conoscenza lungimirante che in definitiva anche il problema dell’essere non è affatto
un problema nel senso della scienza, ma « si ripercuote nell’esistentivo ».
E' noto come anche questa cauta limitazione dell'apriorismo fenomenologico abbia stimolato la
critica. Il carattere di colpevolezza proprio dell'esserci è realmente neutrale e indipendente rispetto
alla storia cristiana della fede? O lo è forse il voler-avere-coscienza, o l’anticipazione della morte?
Heidegger lo potrebbe e lo dovrebbe negare per quanto riguarda se stesso e il suo terreno
d’esperienza — tenendo fermo
solo il fatto che finitezza e « essere-per-la-morte » sono riscattabili a partire da ciascun terreno
umano d' esperienza; quindi l’interpretazione concettuale dell esperienza cristiana della fede
offrirebbe una guida per chiunque.
Certamente, riguardo al confronto complessivo tra teologia e filosofia le cose sono abbastanza
complicate, finché resta da stabilire il presupposto fondamentale, se la teologia sia in generale una
scienza 2, anzi, se la teologia sia realmente necessaria alla fede. Ancora più spinosa è la questione se
la concretizzazione delPesercizio effettivo dell'esserci nella figura della « cura » sia realmente in
grado di attuare quello che è il suo compito: lasciare dietro a sé l'anticipazione ontologica della
soggettività trascendentale e pensare la temporalità come essere. In definitiva la cura è certamente
preoccuparsi per se stessi, così come la coscienza è autocoscienza. A ragione Heidegger ha messo in
evidenza questa analogia definendola la tautologia di essere-sé e cura (,Selbstsein und Sorge). Ma
egli ha creduto di aver superato, con l'idea di cura come temporalizzazione originaria, la strettoia
ontologia del dire-io e dell'identità del soggetto, che in ciò costituisce se stessa. Ma intanto, cos’è
questa « autentica » temporalità della cura? Non appare forse come un’autotemporalizzazione? «
L'esserci è autenticamente se stesso solo nell’isolamento originario della decisione tacita e votata
all’angoscia » 3 (Sein und Zeit, § 64). Successivamente Heidegger osserverà qui a proposito
dell’angoscia: « cioè Lichtung dell'essere come essere » 4. Può egli dire che Tesserci pretende di
offrire la Lichtung?
Come lo Heidegger più recente non poteva più fondare il pensiero dell'essere come tempo
sulPanalitica trascendentale dell'esserci e parlava della « svolta » a cui era giunto, così anche il
rapporto fra filosofia e teologia non poteva più essere pensato in base al presupposto che qui si
trattasse del rapporto fra due scienze. Già nel testo della conferenza di Tubinga si può, quanto
meno, osservare che la teologia non era caratterizzata solo come « storicistica » in un senso
radicalizzato, ma anche come « scienza pratica ». « Ogni proposizione e concetto teologico parla
come tale all’esistenza credente dei singoli uomini nella comunità sulla base del proprio contenuto e
non solo in seconda istanza, in conseguenza della propria cosiddetta « applicazione » pratica » 5.
Non sorprende che molti anni più tardi (1964) Heidegger concluda le sue osservazioni su « pensiero
e linguaggio non-oggettivanti » con la domanda, di tono negativo, « se la teologia possa essere
ancora una scienza, perché probabilmente essa non deve essere in generale una scienza » 6.
Alla fine dunque la dimensione religiosa in Heidegger cercava il proprio linguaggio non con
l’ausilio della teologia, ma allontanandosene e allontanandosi dalla metafisica e dall’ontologia che
la dominavano. Lo trovò, nella misura in cui riuscì a trovarlo, grazie al nuovo incontro con
Nietzsche e grazie allo « sciogliersi della lingua » avvenuto nell’interpretare la poesia di Hòlderlin.
È del tutto fuorviante ritenere che Nietzsche sia diventato importante per Heidegger a causa delle
implicazioni ateistiche del suo pensiero. Si tratta dell’esatto contrario. La radicalità di questo
pensiero lascia dietro di sé proprio anche il dogmatismo ateo. Heidegger era attratto dalla disperata
audacia con cui Nietzsche interrogava, fin nei loro presupposti, l’intera metafisica e il concetto
teoretico di verità, ravvisando ovunque la « volontà di potenza ». Non il rovesciamento di tutti i
valori — a Heidegger questo sembrava un aspetto superficiale del pensiero di Nietzsche —, ma il
fatto che l’uomo era generalmente pensato come essere che pone e che stima il valore: questo è
stato il momento in cui è nata la famosa espressione heideggeriana del pensiero « calcolante », che
misura tutto in relazione al suo valore e che, nella tecnica e nell'organizzazione tecnica dell'essere-
nel-mondo, si è trasformato nel destino della civiltà umana. Ciò che in Nietzsche è descritto come
nascita del nichilismo europeo, non è dunque inteso da Heidegger come il processo di svalutazione
di tutti i valori ma, al contrario, come la stabilizzazione definitiva del pensare nel valutare —
definendola « oblio dell’essere ».
Per Heidegger, Nietzsche non è solo il diagnostico del nichilismo
-    poiché nel nulla diventa visibile l’essere. In Sentieri interrotti ricorda così la scena dell’uomo
pazzo che si reca al mercato, in mezzo alla folla che non crede in Dio, e grida: « Cerco Dio! Cerco
Dio! », e sa che cosa è avvenuto: « Siamo stati noi ad ucciderlo ».
Colui che cerca Dio, è questa la tesi heideggeriana, « sa » di Dio
—    sono coloro che cercano di dimostrarne l’esistenza che proprio in questo modo lo uccidono.
Infatti il cercare presuppone il sentire la mancanza e questo presuppone un sapere — un sapere di
ciò che è assente, certo, ma l’assente non è annullato: è « qui » come assente.
Ecco dunque ciò che Heidegger ha riscoperto in Hòlderlin: il canto dell'esistenza degli Dei
scomparsi. Secondo Hòlderlin l’ultimo tra gli Dei delPantichità è stato Cristo, l’ultimo che abbia
dimorato « in mezzo agli uomini ». Da allora non ci è rimasta che la traccia degli Dei fuggiti: « Ma
ancora molto abbiamo del divino »...
Questo era il modello cui Heidegger si rifaceva cercando di pensare nuovamente, non cioè nel senso
della metafisica, né nel senso della scienza, e cercava di pensare il pensiero. Allo stesso modo in cui
si sa del divino senza comprendere e conoscere Dio, così anche il pensiero dell’essere non è un
com-prendere, non è un avere e un dominare. In questo senso, anche senza forzare il parallelo con
l'esperienza di Dio e del ritorno di Cristo, parallelo che a partire da qui può comunque essere
pensato più correttamente, si può tuttavia affermare che anche P« essere » è più della semplice «
presenza » (per non parlare poi della « rappresentatività ») ed è ugualmente « assenza », vale a dire
una forma del « Ci » nella quale non viene esperito solo il « si dà » (Es gibt), ma anche il sottrarsi, il
ritirarsi, il contenersi. « La natura ama nascondersi »: Heidegger usa spesso questo detto di Eraclito.
Un detto che non invita all’aggressione e alla penetrazione, ma all’attesa - e Rilke aveva
perfettamente ragione quando nel Malte, e nelle Elegie, lamentava l’incapacità di attendere.
L’ultimo Heidegger parla quindi di pensiero rammemorante: (An-Denken), che non significa
soltanto pensare a qualcosa che c'è stato un tempo, ma anche pensare a qualche cosa che deve
arrivare, che spinge uno a pensare ad essa — anche se essa giunge « come un ladro nella notte ».
In questo pensiero non si prepara affatto una ontologia, né una teologia. E tuttavia, alla fine,
dovremmo ricordare che Heidegger — nel pensare la poesia hòlderliana — ha affermato una volta
che la domanda: chi è Dio? sarebbe troppo ardua per gli umani. I quali sarebbero tutt’al più in grado
di chiedere: che cos e Dio? E accennava quindi alla dimensione del sacro (Heiligen) e della salvezza
(Heilen), sostenendo al riguardo: « La perdita della dimensione del sacro e della salvezza è forse il
più autentico aspetto profano della nostra epoca ». Volendo con ciò intendere che noi non possiamo
raggiungere Dio, perché parliamo intorno a Dio in un modo che non è mai in grado di aiutare
l'autocomprensione della fede. Ma questo è affare dei teologi. La mia cosa, quella del filosofo -
potrebbe a ragione aver detto Heidegger, rivolgendosi a tutti, cioè non solo ai cristiani né tanto
meno solo ai teologi - è di avvertire che i sentieri tradizionali del pensiero non sono sufficienti.
1 Si tratta della conferenza Phänomenologie und Theologie tenuta a Tubinga il 9 marzo 1927, il cui
testo, rielaborato, fu poi parzialmente pubblicato in M. HEIDEGGER, Phänomenologie und Theologie,
Klostermann, Frankfurt a.M. 1970 [Fenomenologia e teologia, tr. it. di N.M. De Feo, La Nuova
Italia, Firenze 1974], con l’aggiunta, in appendice, di una lettera, datata 11 marzo 1964, inviata al
convegno organizzato dalla Drew-University a Madison (USA) nei giorni 9-11 aprile 1964, sul tema
« Il problema di un pensiero e di un linguaggio non obbiettivanti nella teologia attuale » (N.d.T.).
2    M. HEIDEGGER, Phànomenologìe und Theologie, cit., p. 15 [tr. it. cit., p. 10].
3    M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit., p. 322 [tr. it. cit., p. 471], (§ 64).
4    Ivi, n. a.
5    M. HEIDEGGER, Phanomenologie und Theologie, cit., p. 22 [tr. it. cit., p. 18].
6 Ivi, p. 46 [tr. it. cit., p. 46].
15. ESSERE, SPIRITO, DIO (1976)
Chi sia stato colpito dal pensiero di Martin Heidegger non può più leggere le parole fondamentali
della metafisica, nominate dal titolo del mio intervento, nel modo in cui sono state lette dalla
tradizione della metafisica stessa. Che l'essere sia spirito lo si può trovare in sintonia con i Greci e
con Hegel; che Dio sia spirito ci viene detto dal Nuovo Testamento; e così per il pensiero antico la
tradizione occidentale si associa a una domanda di senso, che sta in se stessa. E tuttavia il pensiero
antico si vede sfidato e posto in questione da quando la scienza moderna, per mezzo dell’ascetismo
metodico e dei criteri critici, da essa instaurati, ha istituito un nuovo concetto di sapere. Il pensiero
filosofico non può ignorarne l’esistenza e tuttavia non può neppure realmente integrarla. La
filosofia stessa non è più l’insieme del nostro sapere né una totalità di sapere. In questo senso, dopo
il canto del gallo del positivismo, a molti oggi la metafisica può sembrare assolutamente
inattendibile e costoro, con Nietzsche, possono vedere « Hegel e gli altri creatori di veli [Hegel und
andere Schleiermacher] » come semplici fattori ritardanti di ciò che Nietzsche ha definito il
nichilismo europeo. Non c’era da aspettarsi che questa stessa metafisica tornasse ancora una volta a
caricarsi di quella tensione che nella formulazione delle sue domande sembrava giunta ad
esaurimento, tanto che la metafisica sopravviveva ormai solo come un correttivo pur sempre valido
nei confronti del pensiero moderno. Tutti i tentativi di rinnovare la metafisica effettuati nel XX
secolo - analogamente alla grande sequela di plasmatori di concetti e di creatori di sistemi iniziatasi
a partire dal XVII secolo — desideravano a modo loro conciliare la scienza moderna con la
metafisica antica. Non era dunque prevedibile che la metafisica stessa diventasse ancora una volta
problema, né che la sua domanda, la domanda intorno all’essere, dopo la risposta che da duemila
anni le veniva fornita potesse ancora una volta essere riproposta, come se non fosse mai stata
formulata. Quando il giovane Heidegger iniziò a esercitare per la prima volta il suo fascino, poiché
dalla sua cattedra risuonavano accenti inusitati che ricordavano all’ascoltatore Kierkegaard,
Schopenhauer, Nietzsche e tutti gli altri grandi critici della filosofia cattedratica; anzi, ancora
quando apparve Essere e tempo, in cui questa intera orchestrazione era posta con totale vigore al
servizio della questione dell’essere, Heidegger veniva associato più volentieri ai critici della
tradizione che alla tradizione stessa.
Non suscitò pertanto alcuna meraviglia quando il giovane Heidegger stesso elevò la distruzione ·
della metafisica a parola d'ordine e ammonì i propri allievi a non inserirlo nella schiera dei « grandi
filosofi ». « Io sono un teologo cristiano », scrisse nel 1921 a Karl Lowith.
Ciò avrebbe potuto certo comunque mostrare che il pensiero heideggeriano era ancora una volta
sfidato senza tregua dal cristianesimo — il suo pensiero rivelava infatti ancora una volta l’antica
trascendenza piuttosto che il moderno immanentismo. Un teologo cristiano, tuttavia, che per poter
rendere giustizia a ciò che significa credere desidera sapere qualcosa di meglio e di più di quanto gli
offre la teologia moderna. Ma perché, tra i tanti che erano stati spinti dall’analogo ardente desiderio
e che, in quanto uomini moderni, non potevano abbandonare il terreno della scienza, Heidegger non
è stato realmente un teologo cristiano ma è diventato un pensatore? Perché era uno che pensa.
Perché ciò che lavorava in lui era il pensiero. Perché la passione del pensare lo faceva vibrare, tanto
in virtù della forza che esercitava su di lui, quanto in virtù dell’audacia del domandare alla quale lo
costringeva.
Non un teologo cristiano: non si sentiva affatto autorizzato a parlare di Dio. Ma la domanda che
non*gli dava pace e che lo ha guidato sul sentiero del pensare, verteva sul senso autentico del
parlare di Dio e sul fatto che non si trattava di parlare di Dio come la scienza parla intorno ai suoi
oggetti.
Pensare significa ripensare (nachdenken) intorno a qualcosa che si sa. E il muovere e l’essere mossi
avanti e indietro di pensieri, possibilità, proposte, dubbi e nuove domande. Intorno a due proposte in
particolare Heidegger doveva fin dalPinizio ripensare, dal momento che non poteva semplicemente
accettarle, né era in grado di respingerle: si trattava di Aristotele e di Hegel. Egli stesso ha chiarito il
significato assunto per lui precocemente da Aristotele, che gli aveva indicato la via da seguire con la
sua distinzione dei molteplici sensi dell’ente che non si lasciavano ricondurre a quell’unità che pur
doveva esserci.
Per quanto riguarda la sfida rappresentata per lui dalla filosofia di Hegel, il più forte « sistema di
una visione storicistica del mondo » — secondo la sua definizione — ne è testimone la conclusione
del libro su Duns Scoto: Hegel ha marcato l’ampiezza della tensione fra essere e spirito, nella quale
- per usare le parole del giovane Heidegger - « la comprensione vivente dello spirito assoluto di Dio
» era insediata nell’epoca della metafisica. Era utile misurare questa ampiezza di tensione non per
cercarvi la risposta alla sua stessa domanda, ma per valutare in quale direzione si dovesse
interrogare affinché questa domanda non venisse ancora una volta fraintesa e non ingenerasse una
falsa volontà di sapere. Si trattava di un domandare che risaliva alle spalle del problema dell’essere,
su cui la metafisica si era interrogata e a cui rispondeva comprendendo l’essere come essenza e
come spirito; e, come tutte le domande del ripensare, la domanda di Heidegger era alla ricerca di se
stessa.
L’ampiezza di oscillazione che questa domanda poteva afferrare interrogando la metafisica fin nei
suoi presupposti rappresentava un vero e proprio enigma: il tempo. Non inteso come la dimensione
del nostro misurare, lungo la quale dobbiamo prendere le misure se vogliamo determinare ciò che si
incontra come essente nella nostra esperienza temporale, ma come ciò che costituisce Tessere stesso
come tale: presenza, presenzialità, esser-presente. I diversi significati dell’ente che Aristotele aveva
distinto trovavano proprio in questi concetti il loro fondamento reale, ed era dalla enucleazione di
questo fondamento che le interpretazioni heideggeriane di Aristotele ricavavano la propria evidenza,
grazie alla quale uno si sentiva letteralmente messo alle strette da Aristotele. Erano autentiche
interrogazioni filosofiche. Esse infatti rafforzavano Aristotele, lo rendevano forte dinanzi all’intera
tradizione della metafisica e soprattutto rispetto al suo sfociare nel pensiero della soggettività che ha
caratterizzato l’epoca moderna. La forza della risposta aristotelica, che pensa Tessere come
presenza, si esprime nel carattere veramente fondamentale, cioè nel permanente essere-presente
della « sostanza », nell'« entelechia » che « trattiene se stessa nell’essere » nel « vero » che « mostra
se stesso ». Ma anche il grandioso sforzo concettuale di Hegel, di pensare Tessere come spirito e
non come oggetto, la cui oggettività viene colta o costituita dalla soggettività della coscienza,
rappresentava una nuova offerta: la storicità dello spirito, la sua caduta nel tempo, questo errare di
una coscienza storica che riflette se stessa, tutto ciò sembrava elevarsi e unirsi in sé nella presenza
dello spirito che si autocomprende superando qualsiasi particolarità della coscienza soggettiva.
Come l’ultimo dei Greci, Hegel pensa Tessere nell'orizzonte del tempo come presenza
onnicomprensiva. Il logos delTessere, su cui si erano interrogati i Greci, e la ragione nella storia, su
cui si interrogava Hegel, formavano i due grandi emisferi di questa totalità spirituale.
Sembrerebbe di sottovalutare il compito che Heidegger si era posto, cioè l'oltrepassamento della
metafisica, se non si vedesse come questo domandare circa il carattere temporale dell’essere elevi la
metafisica stessa oltre il pensiero moderno della soggettività, portandola alla sua piena forza e a una
nuova presenza. Era l'analogia entis, che non ammetteva alcun concetto universale delTessere; ma
era anche l’analogia del bene e la critica aristotelica all’idea platonica del bene, in cui l’aspetto
universale del concetto trova il suo limite essenziale. Fin dall'inizio questi erano i testimoni
principali del tentativo di pensiero che caratterizzava il procedere heideggeriano. E per di più la
posizione ontologica dominante dell’« esser-vero » (ον ως αληθές"), il nous, desunta da Heidegger
dall’ultimo capitolo del Libro Θ (Theta) della Metafisica, rendeva visibile Tessere come la
presenzialità dell’esser-presente, cioè come l’essenza. Questa impostazione non concede più
all’autocoscienza e alla sua immanenza riflessiva il primato di cui ha goduto a partire da Descartes,
e restituisce al pensare la dimensione ontologica che esso aveva perduto nella filosofia della
coscienza dell’epoca moderna.
Alla luce del problema delTessere, rinnovato nella sua formulazione, pure il concetto hegeliano di
spirito riacquista la sua sostanza. Il concetto attraversa per così dire una « despiritualizzazione ».
Essendo dispiegato dialetticamente sulla via che conduce a se stesso, lo spirito viene ripensato in
modo originario come pneuma, come il soffio della vita che pervade ogni elemento esteso o
suddiviso o che, per esprimerci con Hegel, come il sangue universale tiene unito in sé il corso
circolare della vita. Questo concetto universale è pensato precisamente all’estremo della modernità,
cioè in riferimento all’autocoscienza, ma implica al tempo stesso uno scavalcamento esplicito
dell’idealismo formale dell’autocoscienza. La sfera comune che agisce tra i singoli, lo spirito che li
unisce, è amore: io che sono tu, e tu che sei io, ed io e tu che siamo noi. A partire da qui Hegel non
ha solo trovato una via per accedere all’esistenza intersoggettiva della realtà sociale,
comprendendola come spirito oggettivo - un concetto che domina le scienze sociali fino ai giorni
nostri, in qualsiasi loro interpretazione -, ma anche un concetto reale della verità che, al di là di ogni
condizionatezza, viene alla luce come l'assoluto, in arte, religione, filosofia. Il concetto greco di
nous, ragione e spirito, rimane l’ultima parola del sistema hegeliano della scienza. Questo è per
Hegel la verità dell’essere; essenza ossia presenzialità, e concetto, ossia ipseità della presenza, che
comprende tutto in se stessa.
La forza di questa risposta della metafisica, risposta che da Aristotele giunge fino a Hegel, è
superiore al superficiale richiamo che si usa fare a quello che Heidegger ha definito oltrepassamento
della metafisica. Heideggger si è sempre difeso dall’essere inteso come se la metafisica fosse in
questo senso oltrepassata e conclusa. Se la sua domanda risale interrogativamente alle spalle del
problema dell’essere sviluppato dalla metafisica e se porta a consapevolezza l’orizzonte del tempo,
in cui l’essere può venire pensato, tuttavia riconosce proprio nella metafisica una prima risposta, un
esporsi alla sfida rappresentata dall’essere nella forma della totalità dell’ente. La domanda che è
sorta nel tentativo filosofico di Heidegger fa anche parlare in maniera nuova la risposta della
metafisica.
Heidegger stesso ha visto in Essere e tempo nient’altro che una prima elaborazione del problema
dell’essere. Ciò che nella sua opera balza in primo piano era certamente qualcosa di diverso: la sua
critica al concetto di coscienza della fenomenologia trascendentale. Tale critica sembrava
convergere con la contemporanea critica all’idealismo elaborata da Karl Barth e Friedrich Gogarten,
da Friedrich Ebner e Martin Buber, e che era condotta come una ripresa della critica
kierkegaardiana all’idealismo assoluto di Hegel. La frase: « L’essenza dell’esserci risiede nella sua
esistenza » è stata intesa come la priorità dell’existentia rispetto all'essentia: da questo
fraintendimento idealistico del concetto di « essenza » è scaturito l’esistenzialismo di Sartre,
creazione intermedia derivata da motivi speculativi di Fichte, Hegel, Kierkegaard, Husserl e
Heidegger, che in Sartre si è unificata in una nuova forza d’urto filosofico-morale e di critica
sociale. In direzione opposta, Oskar Becker ha cercato di rendere innocuo Essere e tempo
interpretandolo come ulteriore concretizzazione dell’atteggiamento di fondo idealistico-
trascendentale delle Idee di Husserl. Il paradosso heideggeriano di un’ermeneutica della fatticità
non mira sicuramente a un’interpretazione che pretenda di « comprendere » la fatticità come tale —
sarebbe infatti un reale controsenso voler comprendere a tutti i costi ciò che è « nient’altro che
fattuale », e che è precluso invece a qualsiasi « senso ». Ermeneutica della fatticità significa invece
che l’esistenza stessa deve essere pensata come l’esercizio concreto del comprendere e
dell’interpretare, possedendo in ciò la propria caratterizzazione ontologica. Oskar Becker ha inserito
questo risultato nella concezione trascendentale del programma fenomenologico di Husserl,
stemperandolo in una
fenomenologia ermeneutica. Tuttavia anche se si prende sul serio la pretesa heideggeriana di
concepire l’analitica esistenziale dellesserci come ontologia fondamentale, il tutto può essere
compreso sempre ancora nell’orizzonte problematico della metafisica. Potrebbe rappresentare allora
nient altro che una sorta di pendant della metafisica classica o una sua trasformazione: una
metafisica finita che sarebbe fondata sulla radicalizzazione esistentiva della storicità. In questo
modo Heidegger stesso ha in effetti tentato, nel Kant-Buch del 1929, di integrare nella propria
impostazione il momento critico in Kant, che aveva indotto Kant a respingere la trasformazione
fichtiana della sua opera.
Tutto questo doveva sembrare certamente un rifiuto della metafisica classica. Infatti quest ultima si
fonda inequivocabilmente sulla infinitezza dell'intellectus, del nous o spirito, in cui la verità
dell'essere si rappresenta come l’essenza e, nel suo senso d'essere, è correlata a tutto ciò che è.
Invece in Heidegger, cosi pare, l'eterno è fondato sul temporale, la verità è fondata sulla storicità,
cosicché la secolarizzazione dell’eredità cristiana, che si poteva scorgere nella sintesi dialettica
dello spirito assoluto proposta da Hegel, viene oltrepassata dalla decisione per il nulla. Si è
incominciato a cercare tonalità emotive esistenziali più positive, meno inquietanti di quanto lo era
l’angoscia per la morte, o a scavalcare nuovamente la disperazione mondana sulla base della
speranza cristiana. Sotto entrambi gli aspetti si è disconosciuto quindi l’impulso di pensiero
retrostante al tentativo heideggeriano nel suo insieme. Per Heidegger si trattava già sempre del « Ci
» nell’esserci dell’uomo, si trattava di questo particolare carattere dell’esistenza definito dall’essere
fuori di sé e dall’essere esposta come nessun altro essere vivente. Ma questo essere-esposto, come
viene spiegato nella Lettera sull’umanismo indirizzata a Jean Beufret — e sono felice di sapere che
il destinatario di questa lettera è oggi fra il pubblico -, significava che l’uomo come tale si trova in
un’apertura tale da essere in definitiva più prossimo perfino a ciò che è più lontano, più prossimo al
divino che alla sua propria « natura ». La Lettera sull’umanismo parla della « estraneità dell’essere
vivente » e della « parentela fisica con Panimale, la quale è un abisso difficile da pensare ».
E' una lunga storia di sofferenza nella passione filosofica, questa in cui Heidegger tenta di pensare il
« Ci » dell'esserci. Una storia di sofferenza, nella misura in cui anche la forza linguistica della
speculazione heideggeriana, per quanto inusitata, originaria e audace, doveva combattere contro una
resistenza del linguaggio che le si contrapponeva in forma sempre rinnovata e che spesso doveva
soverchiarla. Il fatto che il pensiero - anche nei suoi propri tentativi - ricada nel linguaggio della
metafisica e nelle forme di pensiero tracciate dalla sua concettualità, è stato definito da Heidegger
stesso come rischio che accompagna i suoi sentieri. Ma si trattava di qualcosa di più. Era contro il
linguaggio stesso, il suo proprio e quello di noi tutti, che Heidegger doveva impuntarsi, spesso in
maniera violenta, per strappargli le espressioni di cui andava alla ricerca.
Certamente è corretto affermare che il linguaggio e la concettualità della metafisica dominano tutto
il nostro pensiero. Questo era infatti il percorso seguito dal pensiero greco, che ha generato la
metafisica: interrogare l'enunciato, il principio, il giudizio riguardo al loro contenuto oggettivo e,
alla fine, scoprire nello specchio della proposizione definitoria Tessere delPente, la quiddità (Was-
Sein) o l’essenza. E certo è stata una delle grandi intuizioni di Heidegger l’aver riconosciuto in
questa aurorale risposta della metafisica l’origine di quel genere di volontà di sapere da cui è sorta
la scienza occidentale, con il suo ideale di oggettività, e la civiltà tecnica planetaria che su di essa si
fonda. Si può anche osservare che il gruppo linguistico cui appartiene il greco e da cui è nato il
pensiero europeo ha esercitato quasi un’azione di preformazione della metafisica. Distinguendo il
soggetto dai suoi predicati, la lingua greca è predisposta a pensare la sostanza e i suoi accidenti: così
il pensiero europeo, già in virtù della sua storia linguistica originaria, era puntato sul proprio
destino: cioè sviluppare metafisica e logica e, alla fine, la scienza moderna. Ma l'erramento più
grave è tuttavia posto nell’essenza del linguaggio stesso. Sembra quasi inevitabile pensare che il
linguaggio, qualunque lingua sia, abbia il compito di rendere presente qualcosa; e che la ragione
abbia il compito di percepirne il presente o il presentificato e di accoglierlo in sé, per il fatto di
essere comune a tutti, sia che ciò si verifichi in equazioni matematiche, in polisillogismi stringenti,
in allegorie trattenute o in proverbi e detti sapienziali.
E' dunque palese che anche il tentativo heideggeriano di elevare al pensiero l’evento del « Ci », che
primo fra tutti lascia spazio a ogni pensare e parlare, pur cercando di evitare il linguaggio della
metafisica cerca tuttavia di articolarsi per mezzo del concetto. Anche Heidegger non può far altro —
staccandosi dall’intervento empirico esercitato sul mondo da parte delle scienze - che parlare
sempre di nuovo dell’essenza delle cose, senza che, in questo uso del termine, « essenza » (Wesen)
tradisca il nuovo accento verbale di « presenza » (Anwesen), che il tentativo heideggeriano di
pensare Tessere come tempo ha conferito al termine. Anche per Heidegger può valere
l’osservazione proposta tempo fa da Eugen Fink a proposito di Husserl: determinati concetti
fondamentali del pensare spesso rimangono atematici e si trovano solo nell’uso operativo. Non è
con ciò meno vero che tutto lo sforzo heideggeriano per sviluppare il proprio pensiero rappresenti
l’intenzione di contrastare la seduzione esercitata dal linguaggio della metafisica adeguandosi ad
esso, sopportando così la povertà linguistica in cui è piombato con la domanda circa l’essere,
quando l’essere non è più essere dell’ente.
Tutto questo si è espresso anzitutto nel distacco dall'autocomprensione trascendentale dell’ontologia
fondamentale, cui Heidegger era rimasto ancorato in Essere e tempo. La struttura fondamentale
della temporalità dellesserci umano poteva ben essere ancora in grado di inglobare, essendo la
condizione della sua possibilità, ogni carattere temporale dell’ente, il contingente come il
necessario, il fuggevole come l’eterno. Ma l’essere che costituisce Tesserci stesso, l’essere di questo
« Ci », non era più una condizione trascendentale della possibilità dell’esserci. Si trattava della
stessa cosa che avviene quando l’esserci è, ovvero, come si era espresso Heidegger in una prima
formulazione: « quando il primo uomo alzò il capo ». Quando, nei primissimi giorni di Marburgo,
egli ha usato per la prima volta questa espressione, noi tutti ci siamo impegnati per settimane in
discussioni per chiarire se con questo « primo uomo » egli avesse inteso Adamo o Talete: come si
vede, allora non eravamo ancora molto progrediti nelle nostre intuizioni.
Ma per sfuggire all’autocomprensione trascendentale il pensiero europeo di allora disponeva a
malapena di qualche mezzo concettuale. Heidegger è riuscito a trovare metafore parlanti, con il cui
ausilio ha conquistato un nuovo significato ai concetti fondamentali, logici e ontologici, della
metafisica; all’essere e al pensare, all’identità e alla differenza. Parlava della Lichtung, della
diaferenza (Austrag), dell’evento appropriante (Ereignis) e cercava di riconoscersi in ciò che trapela
attraverso le primissime testimonianze del pensiero greco, che colleghiamo ai nomi di
Anassimandro, di Parmenide e di Eraclito. Erano i primi passi sul cammino che avrebbe condotto
alla metafisica classica: con essi questi pensatori « arcaici » cercavano di andare incontro alla sfida
alla quale il loro pensiero doveva rispondere: la grande sfida del « Ci ».
Qualcosa del genere risuona anche nella dottrina giudaico-cristiana della creazione: il pensiero
formatosi sull’Antico Testamento, che ha fatto l’esperienza di udire sia la voce di Dio sia il suo
muto rifiuto, rendeva molto più sensibili verso il « Ci » (e il suo offuscamento) che verso la forma
articolata e il contenuto quidditativo posseduto dall’essente-qui. Per Heidegger fu un reale
incantesimo quando, nella speculazione teosofica di Schelling riguardo al fondamento in Dio e
all’esistenza in Dio, vide come Schelling cercasse di afferrare concettualmente il mistero della
rivelazione. La straordinaria dote di Schelling, la capacità di ricavare cioè i concetti fondamentali di
questo accadere in Dio in base all'esserci umano e di dimostrarli a partire da esso, ha reso visibili le
esperienze dell’esistenza che rinviano oltre i confini di qualsiasi metafisica spiritualistica.
Probabilmente questo era anche il punto sul quale Heidegger poteva sentire simpatia per il pensiero
di Karl Jaspers, un pensiero che vedeva la legge del giorno limitata dalla passione per la notte. In
ogni caso, né con Jaspers né con Schelling si era giunti a un affrancamento dal linguaggio della
metafisica e dalle sue conseguenze immanenti.
La manifestazione vera e propria del suo peculiare linguaggio è stata fornita a Heidegger da un
rinnovato incontro con Friedrich Hòlderlin, la cui poesia gli era già sempre vicina, non solo perché
era conterraneo del poeta ma anche perché aveva vissuto al tempo della prima guerra mondiale —
ed è infatti proprio in questo periodo che l'ultimo Hòlderlin è stato riscoperto. Da quel momento in
poi l'opera poetica di Hòlderlin doveva accompagnarlo, come un orientamento costante, alla ricerca
del proprio linguaggio. Questa particolarità non si è rivelata soltanto quando egli espose in pubblico
le sue interpretazioni hòlderliniane (1936), dopo aver riconosciuto il proprio errore politico. Ma si è
rivelata anche quando, appunto nel 1936, Heidegger ha tentato di concepire l’opera d’arte come un
proprio accadere a se stessa della verità, cercando di pensarla nel campo di tensione fra Mondo e
Terra. Il fatto che qui « terra » fosse usata come un concetto della filosofia costituiva qualcosa di
nuovo e quasi sconcertante. Certamente anche l’analisi heideggeriana del concetto di « mondo »,
che egli ha tratto dalla struttura dell’essere-nel-mondo e che sulla base delle connessioni di rimandi
dell’utilizzabilità ha chiarito come struttura della mondità del mondo, ha rappresentato una nuova
svolta per la tradizione filosofica di questo concetto. Tale analisi conduceva dal problema
cosmologico al suo corrispondente antropologico. Tuttavia questo problema aveva i suoi
antecedenti teologici e filosofico-morali. Ma il fatto che ora la parola « terra » diventasse tema della
filosofia, il fatto che un termine riempito in senso poetico si caricasse di una centrale metafora
concettuale, significava una vera nuova irruzione. In veste di concetto opposto a quello di « mondo
», « terra » non costituiva un campo di riferimento orientato soltanto all’uomo. Solo nell’accordo
fra Terra e Mondo, solo nel rapporto reciproco fra la terra custodente e nascondente e il sorgere del
mondo si poteva ottenere un concetto filosofico del « Ci » e della verità: questa era una svolta
audace, attraverso la quale nuovi sentieri si aprivano al pensiero. Hòlderlin aveva sciolto la lingua al
pensiero heideggeriano.
Era in fondo ciò che Heidegger aveva cercato fin dall’inizio: per lui si trattava del problema
dell’essere. Uno dei primi punti su cui lo Heidegger docente ha insistito fin dagli esordi era il fatto
che il concetto greco di aletheia, non-nascondimento, verità, contrassegnasse l’essere dell’ente
stesso e non trovasse il suo luogo soltanto nel rapporto umano con l’ente, vale a dire soltanto nel «
giudizio ». Il luogo della verità non è assolutamente il giudizio. Questa interpretazione
rappresentava un approfondimento ontologico del concetto logico e gnoseologico di verità, ma lo
oltrepassava rinviando a una dimensione compieta-mente nuova. Il concetto privativo dell'aletheia,
questa rapina che trae dal buio ciò che è nascosto portandolo alla luce — e che come ultima
conseguenza ha portato alla tendenza illuministica della scienza europea — esige il suo controcanto,
se deve veramente pervenire all’essere. Il mostrar-si di ciò che è, e che si mostra come ciò che è,
include, se è, un tenersi-in-sé e un ritener-si. Solo questo fatto conferisce all’ente, che si mostra, il
peso dell’essere. In base alla nostra più intima esperienza dell’esistenza conosciamo come il « Ci »
dell’esserci umano sia fondamentalmente collegato alla sua finitezza. La riconosciamo come
esperienza dell’oscurità in cui ci troviamo in quanto pensanti e che sprofonda incessantemente in
ciò che solleviamo alla luce. La conosciamo come oscurità da cui proveniamo e in cui andiamo. Ma
questa oscurità non è per noi solo l’oscurità contrapposta al mondo della luce. Noi siamo oscuri a
noi stessi e questo significa che siamo. Ciò costituisce l’essere del nostro esserci.
Per di più « terra » non è solo ciò dove i raggi della luce non possono penetrare. L’oscurità che
nasconde è al tempo stesso ciò che custodisce, da cui tutto erompe nella luminosità, come la parola
dal silenzio. L’esistenza, che Kierkegaard aveva contrapposto all’autotrasparenza del sapere
assoluto, assieme a ciò che Schelling aveva caratterizzato come l’immemorabile, come ciò che è
previamente impensabile e che sopravanza ogni pensare, ineriscono alla verità dell’essere stesso.
L’invocazione hòlderliana alla « terra » diventò per Heidegger il simbolo poetico di questa visione
filosofica.
Nel contesto del problema circa l’origine dell’opera d’arte, Heidegger ha presentato per la prima
volta la funzione ontologico-costitutiva del concetto di « terra », e non solo quella limitativa e
privativa. Qui era tangibile il fatto che l'interpretazione idealistica dell’opera d’arte non aveva colto
proprio il suo autentico e caratteristico modo d’essere: il fatto di essere un’opera, di stare-qui o di
ergersi come un albero o una montagna, e tuttavia di essere linguaggio. Il « Ci » dell’opera, che
quasi ci fulmina in virtù della sua presenza che sta in se stessa, non solo si comunica a noi: ci pone
anche fuori di noi e ci impone il suo presente. Il « Ci » non è nulla di più di un oggetto che ci sta di
fronte e di cui potremmo impossessarci, prendendone conoscenza, misurando
lo e disponendone. E' molto più un mondo in cui noi stessi siamo attratti che non qualcosa che ci
venga incontro nel nostro mondo. E' con particolare rilievo l’evento del « Ci » in cui noi siamo
esposti.
A questo punto ci si delineano nel modo più chiaro due ulteriori passi che il pensiero heideggeriano
doveva compiere. Se l’opera d’arte non è un oggetto, in quanto parla come opera d’arte e non viene
rimandata a rapporti estranei come quelli del commercio e dello scambio, allora deve in definitiva
risultare chiaro che anche la cosa che ci appartiene, nella misura in cui non è dislocata nel mondo
oggettuale del fare e del mercanteggiare, possiede un’originaria « mondità » e quindi il centro di un
proprio essere. Le poesie di Rilke sulla « cosa » ci dicono qualcosa in proposito. Nuovamente,
questo essere della cosa non si risolve in ciò che in essa, mediante misurazione e valutazione, un
accesso oggettivante può constatare: si tratta invece della totalità di una connessione vitale, entrata
nella cosa e presente in essa. Noi le coapparteniamo. Nei suoi confronti ci troviamo sempre un poco
nella posizione dell’erede, a cui essa appartiene in quanto eredità, sia di una vita estranea che della
nostra propria vita.
Quanto ciascuno esperisca assai bene l’essere-a-casa nel suo mondo come l’essere-a-casa in questi
mondi delle opere e delle cose, diventa però completamente comprensibile se si guarda all’essere-a-
casa nella parola, che per ogni parlante è la casa più intima. Anche la parola non è soltanto lo
strumento della comprensione reciproca, pur svolgendo tale funzione. Non è una semplice cosa
intermedia, che rinvia a qualcos’altro e che è presa come segnale per essere rivolta a qualche altra
cosa. Come singola parola o come unità del discorso, è piuttosto ciò in cui noi stessi siamo così
completamente a casa da non essere in genere neanche coscienti del nostro abitare nella parola.
Tuttavia là dove la parola sta in se stessa ed è opera, vale a dire nella poesia e nel pensiero raccolto
su di sé, essa ci si presenta totalmente per quello che è sempre nella sua sostanza. La parola ci
avvince. Trattenersi in essa significa lasciarla esistere e mantenere noi stessi nel « Ci » dell’essere.
Tutto questo suona di una lontananza stellare rispetto a ciò che traccia all’esistenza odierna
dell’uomo le sue piste quotidiane. Ma non sono proprio questi fenomeni, che nel nostro mondo sono
respinti al margine e sono privati di qualsiasi legittimità, ciò in cui per questo pensiero si legittima
l’esperienza dell’essere propria del nascondimento, dello svelamento, del custodire? Il mondo
dell’opera d’arte è come un mondo passato, o come un mondo dileguante e repulsivo, che nel nostro
mondo è privo di qualunque luogo. Una cultura estetica morente, a cui dobbiamo certamente tutto
l’affinamento dei nostri sensi e della nostra sensibilità spirituale, possiede più il carattere di una
riserva ben protetta che non quello di appartenere al nostro mondo, in cui si potrebbe essere a casa
propria. Il fatto che le cose perdano sempre più la loro importanza d’essere e la loro qualità di vita
— trascinate via dalla marea delle merci e dalla rincorsa, oggi di gran moda, alla cosa più nuova —
è un tratto fondamentale determinante dell’età industriale in cui viviamo, che va rafforzandosi
progressivamente e ineluttabilmente. Anche il linguaggio, questa duttilissima e flessibilissima
proprietà di ciascun parlante, si irrigidisce a vista d’occhio in stereotipi, adeguandosi al livellamento
generale della vita. Potrebbe quindi sembrare che l'orientamento di Heidegger, in virtù del quale la
domanda circa l’essere si riempie per lui di contenuti dimostrabili, sia in verità nient’altro che
un’evocazione romantica di mondi passati e in via di sparizione.
Invece chiunque conosca Heidegger sa che il pathos rivoluzionario del suo pensiero era assai
distante dall’attribuire un significato reale, ossia una reale capacità di penetrare col pensiero gli
eventi del nostro tempo, ai rispettabili tentativi di conservare ciò che va scomparendo. Il suo
pensiero è segnato proprio dalla radicalità e dall’audacia con cui egli ha interpretato lo sbocco della
civilizzazione occidentale nella universale cultura tecnica odierna come nostro destino e come
logica evoluzione della metafisica occidentale. Ma questo significa che nel suo pensiero non
contavano tutti quegli amabili rallentamenti dell’immenso processo del calcolare del potere e del
fare che chiamiamo vita culturale: per lui infatti l’audacissima radicalità del programmare e del
progettare valeva per ciò che era, cioè per la risposta destinale che il nostro tempo fornisce alla sfida
che incombe sull’uomo. Questa si pone di fronte all’esposizione dell’uomo nel mondo con serietà
maggiore di qualunque altra attività umana. Heidegger ha anticipato da tempo ciò che solo oggi
lentamente comincia a penetrare nella coscienza generale: e cioè che l’umanità, attraverso il
temerario attacco della capacità tecnica, in cui si è organizzati, segua una provocazione ineluttabile
a cui è sottoposta. L’essere: così egli definisce questa sfida. Il cammino verso l’estremo oblio
dell’essere: così definisce il cammino dell'umanità sotto il segno della civilizzazione tecnica. Come
la metafisica si è fondata nell essere dell’ente, nell’essere-che-cosa o nell’essenza, mentre il proprio
essere-esposta si spostava tutt’intorno nel « Ci », cosi la tecnica d’oggi spinge l’organizzazione del
mondo fino al suo limite estremo, finendo proprio per questo motivo per rappresentare l’elemento
in cui maggiormente oggi può essere esperito ciò che è.
Ma certamente ogni oblio contiene il presente nascosto di ciò che è stato dimenticato. Accanto
all’oblio dell’essere cammina per cosi dire il presente dell’essere, che risplende sporadicamente
nell’istante della perdita e che è preposto permanentemente a Mnemosine, la musa del pensiero.
Questo vale anche per un pensiero che nel massimo oblio dell’essere, verso cui è sospinto il nostro
presente, individua il destino dell’essere stesso. Di conseguenza, Heidegger ha delineato al tempo
stesso come « passo indietro » il proprio modo di pensare anticipatamente ciò che è. Passo indietro
che tenta di pensare nuovamente l’inizio come inizio. Pensare anticipatamente (vorausdenken) non
significa programmare e calcolare, valutare e amministrare, ma pensare ciò che è e sarà. Quindi
pensare anticipatamente significa di necessità ripensare all’inizio, da cui anche l’ultimo passo
possibile parte e da cui può essere inteso come una conseguenza. Il pensiero è sempre pensiero
dell’inizio. Se Heidegger interpreta la storia del pensiero filosofico come la storia della
trasformazione dell’essere e delle risposte del pensiero alla sfida dell’essere, come se la totalità
della nostra storia filosofica non fosse nient’altro che un crescente oblio dell’essere, egli ben sapeva
comunque che tutti i grandi tentativi del pensiero cercano di pensare il medesimo (das Selbe). Si
tratta di sforzi per rimanere dentro l’inizio, per rendere conto della sfida dell’essere. Non si
dovrebbe raccontare un’altra storia, se si volesse percorrere la storia del ricordo dell’essere. E' la
stessa storia: il ricordo dell’essere è l’accompagnamento pensante dell’oblio dell’essere. Noi
restiamo affidati alla societas che collega l’un l’altro ogni tentativo di pensiero. Heidegger ha visto
chiaramente che questo dialogo ci unisce tutti. Proprio per questo motivo egli ha posto — con
sempre maggiore decisione - precisi segnali (Marken) al proprio contributo a questo dialogo,
affinché ci venga indicata la via della storia dell’essere, che è il nostro destino, in modo tale da
condurci in ogni caso nell’Aperto dell’unica domanda.
Egli non ha portato a termine il dialogo, per sapere se si può chiamarlo dialogo della metafisica,
della filosofia o del pensiero. E nemmeno ha trovato una risposta alla sua domanda iniziale e da cui
tutte le altre sono spinte, alla domanda cioè come si possa parlare di Dio senza abbassarlo a oggetto
del nostro sapere. Ma ha posto la sua domanda in tale ampiezza che né il Dio dei filosofi né, forse,
il Dio dei teologi possono rappresentare una risposta, e che neppure noi possiamo presumere di
conoscere una risposta. Come interlocutore più prossimo, nel dialogo che è il pensare, egli ha avuto
il poeta Friedrich Hòlderlin. Il suo grido di dolore per la solitudine (Verlassenheit) e la sua
invocazione agli Dei scomparsi, ma anche il suo sapere che « molto avvertiamo ancora del Divino »
erano per Heidegger come un pegno che anche nell'approssimarsi della notte del mondo, in cui il
nostro essere senza patria e la nostra lontananza da Dio saranno totali,
il dialogo del pensiero troverà il suo interlocutore. Noi tutti partecipiamo a questo dialogo. Il
dialogo prosegue incessantemente, poiché solo nel dialogo può formarsi e perfezionarsi il
linguaggio, in cui — sia pure in un mondo sempre più estraniato — noi siamo a casa nostra.

Potrebbero piacerti anche