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Nietzsche
Introduzione alla comprensione del suo filosofare
A cura di Luigi Rustichelli
MURSIA
Titolo originale dell’opera: Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens
Traduzione dal tedesco di Luigi Rustichelli
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©Copyright 1996 Ugo Mursia Editore S.p.A. per l’edizione italiana Proprietà letteraria riservata -
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Segrate (Milano)
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INTRODUZIONE
Bisogna imparare a comprendere Nietzsche: è questo il presupposto metodologico dell'ampio
studio di Jaspers del 1936. Ciò significa, innanzitutto e in via preliminare, che, prima ancora di
un'esposizione della filosofia di Nietzsche, cioè degli esiti speculativi del suo pensiero, bisogna non
solo riflettere ma anche partecipare intimamente al suo filosofare, ossia al peculiare modo di
procedere del suo pensiero che, come Jaspers sottolinea ripetutamente, è sempre in continuo «
movimento » ("Bewegung!; in tal senso si spiega il sottotitolo del libro, che intende appunto essere
un'introduzione alla comprensione del filosofare nietzschiano.
È questa una problematica che coinvolge i principali nodi, da una parte, del pensiero di Nietzsche,
e dall’altra, della stessa filosofia di Jaspers, 1 a cominciare dal concetto di Aneignung
(assimilazione, appropriazione), a cui tale problematica, per molti aspetti, può essere ricondotta:
una piena ed autentica comprensione del « nuovo filosofare » di Nietzsche non può che essere, ad
un tempo, un’appropriazione intesa anche come rielaborazione personale del suo pensiero. Si
tratta del concetto, elaborato dallo stesso Nietzsche, dell’assimilazione del pensiero dei grandi
filosofi del passato, che non consiste in una sua mera ripresa o contemplazione, ma - come già i
Greci ben sapevano e ci insegnano - deve essere una sua « incorporazione », cioè appunto una
costruttiva appropriazione, in grado di servire e « vivificare » il presente, la nostra vita e il nostro
pensiero.2
Bisogna dunque procedere ad una assimilazione del pensiero di Nietzsche, anzi, piu precisamente,
dell’insieme delle sue Denkerfahrungen; già il concetto stesso di assimilazione, ulteriormente
rafforzato da questa sot-
lolineatura con l’espressione « esperienze di pensiero », ci indica qual è, secondo Jaspers, il punto
di partenza, ovvero il presupposto imprescindibile per una corretta comprensione di Nietzsche.
Poiché il suo filosofare non è una fredda ed astratta riflessione meramente speculativa, bensì
un’esperienza vissuta, se vogliamo veramente comprendere Nietzsche dobbiamo pensare e sentire
insieme a lui, provare noi stessi quella « passione » da cui egli era animato. In altri termini, è
necessario seguire simpateticamente Nietzsche nella sua idea di fondo dell’indissolubile unità di
vita e conoscenza, secondo cui ogni filosofia deve essere ad un tempo « pensata e vissuta », deve
cioè essere, riprendendo la sua nota formulazione, una « filosofia sperimentale ».3
Per Jaspers, ciò significa che bisogna stabilire uno stretto « rapporto » con Nietzsche, « entrare in
comunicazione » e procedere insieme a lui nel continuo movimento della sua vita e del suo
pensiero: non semplicemente « contemplare », ma com-prendere, prender parte direttamente a tale
movimento. È per questo che Jaspers tiene innanzitutto presente la stessa « autocomprensione » di
Nietzsche, cioè il modo in cui ha retrospettivamente inteso e vissuto il proprio cammino
speculativo: gli scritti autobiografici, sia quelli giovanili sia le sue ultime opere, cosi come i
numerosi luoghi e frammenti in cui, con spirito autocritico, egli ha interpretato a ritroso le varie
fasi del suo pensiero, e soprattutto le tarde prefazioni che ha scritto per le sue opere precedenti
costituiscono un accesso essenziale al suo filosofare. Non si tratta infatti di una semplice «
autoriflessione » o « autosservazione », ma della « formidabile capacità » che Nietzsche
ha mostrato nel comprendere il proprio pensiero, sempre sulla base della propria esperienza
vissuta, indicandoci la peculiare unità del suo movimento.4
Ne consegue l’impostazione di fondo che contraddistingue lo studio dì Jaspers (a differenza di altre
interpretazioni, come ad esempio quella di
Heidegger), che può essere riassunta nella seguente esigenza: « I pensieri di Nietzsche debbono
essere inseriti in un solo grande processo, che è al contempo sistematico e biografico »; proprio la
consapevolezza dell'unità di vita e conoscenza implica che il « contenuto filosofico »
dell'esperienza nietzschiana risieda indissolubilmente « tanto nella vita quanto nel pensiero di
Nietzsche ». Per una corretta comprensione del filosofare di Nietzsche non si può assolutamente
prescindere da uno studio della sua vita, che è dunque fondamentale per cogliere il « movimento »
del suo pensiero, cioè il suo sviluppo temporale (pp. 31-32). Tralasciare questo aspetto significa
precludersi la possibilità stessa di una completa comprensione del suo pensiero. Ma ciò non è
sufficiente; bisogna procedere anche a delle connessioni sistematiche, cioè seguire
sistematicamente, senza tralasciare nulla, tutta l'evoluzione della filosofia di Nietzsche, cercando di
collegare i vari pensieri. Non è certo un compito facile; anzi, comporta un’aporia di fondo:
procedere a delle connessioni sistematiche significa infatti prescindere dal momento della stesura
dei suoi singoli pensieri. Jaspers, che è ben consapevole di tale difficoltà, procede con cautela su
questo punto centrale dell'interpretazione di Nietzsche.
Come è noto, Nietzsche era contro la forma del sistema filosofico, della « costruzione sistematica
»; egli si mostra sprezzante nei confronti della « volontà di sistema », in cui vede « una mancanza
d’onestà », « una specie di impostura », ed afferma: « Non sono abbastanza limitato per un sistema
- e nemmeno per il mio sistema ». 5 Conseguentemente, come osserva Jaspers, « in Nietzsche si
presenta un nuovo modo di filosofare, che non diventa un sistema di pensiero compiutamente
elaborato [...]. Egli è come un eterno punto di partenza »; ed è per questo che ha « coscientemente
eletto l’aforisma a forma ». Ciononostante, Nietzsche « pensa al tutto », e vi è pur sempre nel
movimento del suo pensiero una « unità interna ». Per cui si può dire che il suo filosofare non è né
sistematico, né aforistico (pp. 402, 339, 407 e 23).
Per esprimere questo aspetto che riguarda il principale nodo strutturale del pensiero di Nietzsche,
e dunque le modalità della sua comprensione, Jaspers riprende una metafora che lo stesso
Nietzsche utilizza in diverse occasioni, parlando della propria opera come di un edificio in corso di
costruzione. Scrive Jaspers: « È come se si facesse saltare in aria il fianco di una montagna, per
costruirvi un edificio; le pietre, più o meno sbozzate, fanno pensare ad un tutto, ma l'edificio non è
ancora stato costruito. Il fatto che dell'opera in via di costruzione vi siano per ora solo cumuli di
macerie non impedisce che la sua struttura sia comunque ben presente a colui che sa come
costruire; davanti a lui stanno numerosi frammenti che si possono combinare in diversi modi ». Da
una parte, le pietre « possono essere riconosciute soltanto se sono poste in relazione
all'idea globale della costruzione », ma d’altra parte la stessa costruzione « non può
essere determinata con certezza ed in modo univoco; sembra piuttosto che vi siano varie possibilità
di costruzione ». Ne consegue che, per una corretta comprensione ed esposizione del pensiero di
Nietzsche, non si tratta di procedere ad una « ricostruzione archeologica », perché ciò
significherebbe fargli violenza; bisogna invece sempre « contemplare ad un tempo sia la possibilità
di una costruzione sistematica del suo pensiero, sia quella del suo crollo » (pp. 23 e 24). Dunque,
fuor di metafora, ciò che Nietzsche ha scritto deve sempre esser colto e compreso non solo nel
contesto in cui fu scritto (cioè nel suo sviluppo temporale), ma anche nel « contesto del tutto »
(cioè nell'insieme del suo sviluppo complessivo e sistematico). 6
È bene precisare che Jaspers non considera affatto come un limite questo aspetto del pensiero di
Nietzsche: il fatto che esso non si risolva in un sistema compiuto, ma sia « un’opera in corso di
costruzione » è semmai l’intima novità e, come vedremo, il grande insegnamento del
filosofare nietzschiano. Si tratta sempre, insomma, del movimento del suo pensiero che - come
osserva efficacemente Jaspers, riprendendo anche in questo contesto termini e concetti consueti
della propria filosofia — è senza terreno, rifiuta ogni « solido » terreno, ed ha invece la sua
peculiarità appunto nella forma dell’essere-in-movimento, dell'essere-in-cammino. nel suo
pensiero che è vita, Nietzsche sperimenta tutte le possibilità, e dunque esso « non può fermarsi in
alcun luogo », « non è nulla di definitivo » (cfr. pp. 350-351).
Questo movimento è innanzitutto un movimento di distruzione, ossia, sul piano logico formale, di
negazione. La negazione è la parte più viva del suo pensiero, più stimolante e « più vera » delle sue
stesse affermazioni. Jaspers rileva che la costante preoccupazione di Nietzsche è quella
di pervenire dalla negazione all’affermazione: infatti, già nell’atto stesso del negare è possibile
cogliere il movimento positivo dell’affermare. Più precisamente, il significato dell’incessante «
movimento » del penderò di Nietzsche - o, per usare la sua espressione, dei suoi continui «
superamenti » ed « autosuperamenti » - sta nel fatto che egli « non si abbandona definitivamente a
nulla di negativo e a nulla di positivo appartenente all'esperienza possibile, ma rischia semmai
tutte le posizioni, per dominarle tutte attraverso una negazione dialettica ». Jaspers definisce
questo modo di procedere come la dialettica reale di Nietzsche: ogni posizione, nel momento in cui
viene da lui negata, implica l’affermazione della posizione op-
posta, che a sua volta è destinata ad entrare nel perenne movimento del mettere in discussione; non
si tratta di un movimento dialettico in senso tradizionale (che abbraccia il tutto « in una rapida
visione d'insieme », sulla base di « una sintesi conosciuta a priori »), ma di un movimento
che perviene semmai ad « una sintesi esistenzialmente aperta »; in breve, in tale dialettica — in
cui Nietzsche non si limita a negare, e dunque « supera » il nichilismo — « il no è il cammino verso
il nuovo sì » (pp. 351, 350 e 352).
A ben vedere, il senso di questa dialettica di negazione ed affermazione, distruzione e costruzione,
si trova esplicitamente indicato in un significativo passo in cui Nietzsche riassume il suo concetto
di filosofìa sperimentale: « Una filosofia sperimentale come quella che io vivo, anticipa a mo‘ di
prova anche le possibilità del nichilismo sistematico, senza che sia perciò detto che essa si fermi a
un "no”, a una negazione, a una volontà di "no”. Essa vuole anzi giungere, attraverso un tale
cammino, al suo opposto — a un’affermazione dionisiaca del mondo così com'è, senza
detrarre, eccepire o trascegliere - vuole il circolo eterno ». 7 E si ritrova anche, sia pure solo
accennato, nella formula « magia dell’estremo », che esprime la sua volontà di passare da un
estremo all'altro, sondando tutte le possibilità e lasciandole vivere in tutta la ricchezza delle loro
determinazioni. Si tratta, in fondo, del processo stesso con cui l’uomo consegue la sua estrema
libertà, in quanto creatore e plasmatore di se stesso: l’uomo, « questo grande sperimentatore di se
stesso », che cosi crudelmente infierisce su di sé (poiché per creare è necessario distruggere, ed
egli sa che « nell’uomo creatura e creatore sono congiunti »), sperimenta dunque la « malattia »
come necessario viatico verso una superiore « salute », passando cioè dalla negazione della vita
alla sua entusiastica affermazione:
« Quel no che egli dice alla vita porta alla luce, come per magia, una moltitudine di più squisiti si;
proprio cosi, se si ferisce, questo maestro della distruzione, dell'autodistruzione - è poi la ferita
stessa che lo costringe a vivere ». 8
Ma non è così semplice cogliere questo movimento del pensiero nietzschiano e la sua intima «
dialettica »: il suo tratto fondamentale è infatti la contraddizione. Qui Jaspers non si limita
semplicemente a constatare l’evidente contraddittorietà di Nietzsche, per cui leggendo i suoi
scrìtti « non bisogna mai essere soddisfatti fino a quando non si è trovata anche la contraddizione
»; piu ancora, aggiunge Jaspers, per comprendere correttamente Nietzsche bisogna mettere in
pratica la logica del contraddittore, cioè « bisogna aver sempre presente la via opposta a quella
che la lettura dei suoi scritti sembrerebbe direttamente indicarci » (pp. 30 e 29).
La contraddittorietà o equivocità di Nietzsche non consegue solo dal fatto che quasi tutti i concetti
predominanti del suo pensiero (pessimismo,
nichilismo, scetticismo, ebbrezza, ecc.) hanno un duplice senso, sono « ambivalenti » (zweideutig,),
ma anche e soprattutto dalla sua affermazione che la realtà stessa è ambivalente ed enigmatica, e
non può essere univocamente determinata: non esistono fatti, ma solo molteplici interpretazioni di
questi fatti. Si può dunque dire che la contraddittorietà di Nietzsche deriva sostanzialmente dal suo
« immenso impulso alla veridicità » (p. 375). Jaspers riprende e sottolinea giustamente la
distinzione nietzschiana tra « verità » e « veridicità » (e si dovrebbe anche aggiungere il concetto
di « verosimiglianza »): per Nietzsche non esiste una « verità in sé », la verità è necessariamente «
ambigua », « equivoca », si dà solo nella molteplicità dei punti di vista, delle prospettive. È questa
la sua teoria del « prospettivismo ».9 attorno alla quale ruotano molti e complessi temi
della filosofia di Nietzsche. Jaspers - che anche in ciò può ritrovare diverse affinità con la sua
stessa filosofia - si sofferma, tra gli altri, su quello della « maschera », che è per Nietzsche una
profonda necessità: « Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera »; infatti, « non si
scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé? [...] Ogni
filosofia è filosofia di proscenio [...]. Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è
anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera ».10
La maschera (così come il « simbolo » e il « canto », ed ogni forma di « comunicazione indiretta »
di cui Nietzsche si serve) esemplifica il processo di nascondimento-disvelamento dell’essere, ed
esprime il carattere necessariamente « equivoco » della verità. Indubbiamente, la filosofia di
Nietzsche è piu nascosta che manifesta; ma l'uso che egli fa della maschera non mira ad
ingannare; si tratta invece della « maschera che protegge per essere penetrabile solo dallo sguardo
autentico che coglie la verità» (p. 364).
Da tutte queste osservazioni risulta quanto sia difficile comprendere Nietzsche; ogni
interpretazione nettamente definita è, nel suo carattere unilaterale, decisamente scorretta; questo è
secondo Jaspers l'errore di fondo delle interpretazioni precedenti di Nietzsche. È invece
necessaria una lettura lenta, piena di cautele ed anche di riserve, non univoca, ma aperta alla
molteplicità delle possibili interpretazioni: « Senza questo aspetto dell’ineliminabile ambivalenza
ed equivocità, Nietzsche non rimarrebbe se stesso» (p. 373). In altri termini, riprendendo la
metafora dell’opera di Nietzsche come un edificio in corso di costruzione, poiché Nietzsche non ha
mai portato a termine questo edificio - e il suo filosofare è rimasto un costante progetto, un
incessante tentare e sperimentare -, una corretta esposizione del suo pensiero non può che limitarsi
a « cercare di ricostruire la struttura dell’edificio », con la costante consapevolezza che « essa non
si
mostrerà mai a nessuno nella sua completezza, in modo chiaro ed inequivocabile » (p. 24).
Se, alla luce di quel che si è detto, si vuole tentare una breve valutazione dello studio di Jaspers, si
possono fare le seguenti considerazioni (anche in questo caso ci limitiamo al principale nodo
strutturale della sua esposizione, senza entrare nel merito dei numerosi temi e aspetti specifici del
pensiero nietzschiano da lui affrontati).
Nell’« Introduzione » Jaspers sostiene che V« esposizione » (Darstellung,) del pensiero di un
filosofo « non deve diventare l’occasione, per chi espone, di formulare una sua propria filosofia »
(p. 33); sorge qui spontaneo il dubbio se Jaspers sia effettivamente rimasto fedele a questo
suo intento, o non abbia piuttosto interpretato la filosofia nietzschiana in modo piu vicino al
proprio pensiero che non a quello di Nietzsche stesso. Appare infatti evidente che la lettura di
Jaspers è condotta alla luce della sua propria filosofia, e non è esente da forzature, dalla
sottolineatura di certi aspetti della filosofia nietzschiana che più sono in sintonia con il suo
stesso pensiero, e dalla omissione di altri aspetti.
A tal proposito si potrebbe osservare che in uno studio che, pur volendo essere solo
un'introduzione, affronta comunque « i pensieri fondamentali di Nietzsche », appare discutibile il
fatto di trascurare completamente il pensiero estetico (Jaspers dedica solo poche righe al tema del
bello: p. 284): ci pare infatti indubbia la centralità del problema dell’arte nel quadro complessivo
del pensiero nietzschiano, dalla tesi giovanile - che si ripresenta anche negli anni successivi - della
« giustificazione estetica dell’esistenza », a quella tarda della « volontà di potenza come arte ».
Ma non è tanto questo il punto su cui conviene soffermarsi; cosi come non serve, sempre in questo
contesto, addentrarsi nella discussione sui rilievi critici all’impostazione di Jaspers, con
particolare riferimento al suo discorso sulle contraddizioni in Nietzsche, e all’effettiva possibilità
di ottemperare nello stesso tempo all’esigenza di considerare lo sviluppo temporale del suo
pensiero e di operare delle connessioni sistematiche che invece prescindono dal momento della
stesura dei suoi scritti. 11 Conviene piuttosto prendere in considerazione, in quanto esemplificativo
del modo di procedere di Jaspers, il punto di partenza e filo conduttore del suo studio: l'unità di
vita e pensiero in Nietzsche, cioè l’idea di una « filosofia sperimentale ».
Dal punto di vista metodologico, è vero che Jaspers espone, per così
dire oggettivamente, o, secondo il suo esplicito intento, in modo « documentato » questo tema
(anche in questo caso, egli lascia parlare Nietzsche, con ampie citazioni), evidenziando le sue
molteplici implicazioni; poi lo valuta alla luce di uno dei punti centrali del suo stesso pensiero, la
serietà dell’impegno esistenziale, preoccupandosi di mostrare che non è in contraddizione con
esso;12 e soprattutto ne fornisce un'interpretazione complessiva condizionata, o quantomeno
fortemente orientata dalla sua filosofia: cioè anche questo aspetto centrale del pensiero di
Nietzsche (cosi come i temi specifici su cui si sviluppa, soprattutto il « superuomo » e l’« eterno
ritorno »), esprimerebbe un suo costante anelito verso la trascendenza.13
A tal proposito si potrebbe obiettare che, se indubbiamente la filosofia sperimentale di Nietzsche
può esser vista come un'espressione del continuo trascendere del suo pensiero (nel senso del suo
incessante « procedere oltre », senza mai arrestarsi in nessuna fissa dimora, in nessuna
acquisizione certa), è però sbagliato interpretare questo trascendere nel quadro della « teologia
cristiana », come ha giustamente osservato Kaulbach,14
Ma, a nostro avviso, per una valutazione complessiva dello studio di Jaspers - ed anche, se si
vuote, come risposta a queste obiezioni - si deve tener presente, ancora una volta, la tematica
dell’assimilazione.
Bisogna innanzitutto osservare (anche perché Jaspers conferisce un preciso significalo a questi
termini) che ««'esposizione come quella di Jaspers, che si propone di essere un’introduzione alla
comprensione del pensiero di Nietzsche, è necessariamente una interpretazione (altro concetto
comune a Jaspers e Nietzsche: ogni vera comprensione è una Auslegung), è cioè inevitabilmente
destinata a dare « qualcosa di piti » e nello stesso tempo « qualcosa di meno » (cfr. p. 360).
Proprio perché Nietzsche non ha sviluppato sistematicamente la sua filosofia, anche se vi è pur
sempre in lui una « tendenza all'unità », bisogna cercare di « far emergere, mediante il proprio
pensiero, ciò che è riposto nel pensiero dell’altro » (p. 33); è cioè necessario «l’apporto aggiuntivo
di un pensiero unificante » (p. 408), in quanto non è possibile « cogliere l’unità nel pensiero di
Nietzsche se non a colui che la consegue con le proprie forze » (p. 24). Nessuno deve dunque
«arrestarsi a Nietzsche
e trovare in lui il proprio pieno compimento », poiché « ciò che Nietzsche veramente è, potrebbe
essere alla fine deciso solamente da ciò che altri gli apportano, accostandosi a lui ». In breve: «
Filosofare con Nietzsche significa affermarsi continuamente contro di lui » (pp. 409, 411 e 412).
Ebbene, questo duplice aspetto, apparentemente contraddittorio, è appunto richiesto dal processo
di assimilazione e ne rappresenta anzi il contenuto di fondo, ad essa connaturato:15 comprendere e
assimilare Nietzsche significa ad un tempo procedere insieme a lui e staccarsi da lui; o
meglio, come Jaspers ribadisce anche nella parte finale del libro, significa entrare comunque « in
comunicazione con lui », cioè partecipare « all’autenticità e alla veracità del movimento del suo
pensiero », alla sua sostanza, che è appunto quella dell''essere-in-cammino, senza fermarsi mai,
neppure laddove Nietzsche corre il rischio di fermarsi o, a volte, effettivamente si arresta su
posizioni dogmatiche. Dobbiamo « conservare la libertà del movimento autentico », senza
irrigidirci in nessuna « dottrina » (cfr. pp. 405 e 406): « Comprendere Nietzsche non vuol dire
accettarlo, ma semmai plasmare se stessi, attivamente e soprattutto continuamente, senza cioè
terminare mai definitivamente quest’opera di formazione » (p. 409).
L’assimilazione di Nietzsche implica necessariamente una « trasformazione » di noi stessi, che non
significa un « divenir-altro », ma un « divenire-sé », cioè il raggiungimento della piena
consapevolezza di ciò che realmente siamo (il processo dell’Innewetden), del nostro eterno
fondamento e del nostro stesso filosofare; l 'educazione che riceviamo da Nietzsche consiste nel
costante stimolo all’autoeducazione, nel senso che siamo sollecitati a porci continuamente dei
dubbi, a « tirar fuori da noi stessi ciò che è veramente in noi » (p. 407). Ma ciò può esser
conseguito appunto solo attraverso l’assimilazione di Nietzsche, che non vuol dire né
accettare passivamente ed acriticamente le sue opinioni ed i suoi giudizi, né
piegare surrettiziamente il suo pensiero al servizio di nostri interessi e scopi particolari, ma
partecipare intimamente e perennemente al movimento del pensiero di chi, come lui, nel suo
indomito tentare-sperimentare, ha percorso il cammino che conduce « fino alle origini e ai limiti
dell’uomo ». In tal modo, « grazie a lui e procedendo insieme a lui, noi sperimentiamo le
possibilità dell’esserci umano, impariamo a plasmare con il pensiero la nostra umanità» (p. 407).
LUIGI RUSTICHELLI
Reggio Emilia, settembre 1993
NOTA DEL CURATORE
La presente traduzione è stata condotta sulla quarta edizione di Nietzsche. Einführung in das
Verständnis seines Philosophierens (1974), invariata rispetto alle precedenti.
Per quanto riguarda i criteri generali della traduzione, si è tenuto conto della struttura dell’opera
che, da una parte, può esser considerata un’opera teorica di Jaspers, nel senso che vi compaiono
molte delle problematiche e dei termini consueti della sua filosofia; e d’altra parte è un’esposizione
critica della filosofia di Nietzsche, volutamente caratterizzata da un numero assai consistente di
citazioni di passi nietzschiani.
Partendo da questa considerazione, si è ritenuto opportuno, in generale e per quanto possibile,
attenersi alle traduzioni italiane esistenti, soprattutto per quel che riguarda alcuni termini chiave di
Jaspers (espressioni continuamente ricorrenti, di cui Jaspers fa un uso tutto peculiare, a volte non
consueto, come Bewegung, « movimento », Ursprung, « origine », Durchbruch, « rottura »,
ecc.); l’espressione das Umgreifende, di cui come è noto esistono diverse traduzioni (Jaspers stesso
dice che è « indefinibile », e alcuni traduttori preferiscono lasciarla nell’originale), è stata da noi
resa per lo più con « l’essere che tutto abbraccia», con lievi varianti imposte dai vari contesti in cui
ricorre; quando compare come aggettivo (umgreifend), è stato tradotto con « onnicomprensivo ».
Per i passi di Nietzsche citati da Jaspers, si è seguita l’edizione italiana curata da Colli e Montinari
(F. NIETZSCHE, Opere, Milano, Adelphi, 1964 sgg.) in tutti i casi segnalati in appendice, nella «Tavola
di concordanza » tra l’edizione Naumann-Kröner, da cui cita Jaspers, e l’edizione italiana da noi
utilizzata. A tal proposito, va precisato che Jaspers usa alcuni significativi termini comuni a
Nietzsche, ovvero cita e commenta espressioni che, nella loro elaborazione concettuale, sono
divenute dei nodi tematici rilevanti della sua filosofia: alcuni di questi termini, nelle traduzioni
italiane dei due autori, sono resi in modo diverso (così è, ad esempio, per l’espressione das
Schweben, che in Nietzsche è tradotta con « lo spaziare » o « il librarsi », mentre nelle traduzioni
italiane di altre opere di Jaspers è resa con « l’essere-sospesi »; lo stesso vale per il termine
Auslegung, tradotto rispettivamente con « interpretazione » e « esplicazione »; in questi casi
abbiamo conservato, anche nel commento di Jaspers, le traduzioni italiane dei termini, cosi come
appaiono nei vari scritti di Nietzsche da lui citati).
Questa divergenza si presenta e ricorre soprattutto con il termine Dasein, per il quale, nelle opere di
Jaspers, si è ormai consolidata la traduzione con « esserci » (per distinguerlo da « esistenza »:
Existenz), mentre in Nietzsche è tradotto con « esistenza ». Tale criterio è stato seguito anche nella
nostra traduzione: quindi, quando Jaspers cita o parafrasa Nietzsche, si è reso Dasein (sempre,
anche nei passi di Nietzsche da noi direttamente tradotti) con esistenza-, in tutti gli altri casi (anche
quando, pur richiamandosi al discorso di Nietzsche, Jaspers lo rielabora alla luce delle proprie
tematiche), il termine Dasein è stato tradotto con esserci.
A volte compaiono coppie di termini affini, che si sarebbe potuto rendere in modo diversificato,
facendo ricorso a termini tecnici, ma che abbiamo preferito tradurre con la stessa espressione
(precisando ove necessario l’originale, tra parentesi nel testo), anche perché non si presentano in
tutto il libro e in modo sistematico, ma solo in alcune brevi parti, e quasi sempre in
riferimento all'uso che ne fa Nietzsche.
È il caso di 'Wirklichkeit e Realität, in cui appunto non si è ritenuto opportuno operare delle
distinzioni; come è noto, Wirklichkeit è il termine tedesco per realtà, e come tale è stato tradotto
(preferendolo alla possibile traduzione con « effettualità »); solo in alcuni contesti, per distinguerlo
da Realität, si è reso con « realtà di fatto » (sull’uso nietzschiano dei due termini, a cui Jaspers si
richiama, rimando al mio saggio La profondità della superficie. Senso del tragico e giustificazione
estetica dell'esistenza in Friedrich Nietzsche, cit., p. 36).
Lo stesso vale per la coppia Historie-Geschichte, che abbiamo sempre tradotto con storia-, il
contesto in cui compaiono i due termini - il capitolo in cui Jaspers si richiama all’« Inattuale » di
Nietzsche Sull'utilità e il danno della storia [Historie] per la vita - consente del resto di cogliere la
loro differente sfumatura: Historie significa storia nel senso del « sapere storico », mentre
Geschichte designa la storia come « accadere storico », ossia - come scrive lo stesso Jaspers - il
complesso degli « accadimenti reali ».
Per quanto riguarda gli aspetti redazionali, si è cercato di rispettare il piu possibile il testo di
Jaspers, limitando al minimo indispensabile gli interventi correttivi: cosi, ad esempio, abbiamo
lasciato le note (sia pure a volte incomplete nelle indicazioni bibliografiche, e collocate in modo
difforme, tra parentesi nel testo o a pie’ pagina) nella originaria stesura dell’Autore; e ancora,
abbiamo sempre rispettato l’uso del corsivo da parte di Jaspers, anche nel caso delle citazioni di
Nietzsche, dove esso è a volte difforme dall’originale: piu precisamente, abbiamo riscontrato che in
molti casi le parti in corsivo nel testo di Jaspers non corrispondono nell’edizione Naumann-Kröner
da cui egli cita (a volte, con tutta probabilità, si tratta di omissioni involontarie, spesso si tratta
ovviamente di scelte personali nel sottolineare singoli termini o parti del testo); e poiché si è altresì
riscontrato che non sempre vi è concordanza tra il corsivo di questa edizione e quello del testo
dell’edizione Colli-Montinari, si è ritenuto opportuno seguire sempre soltanto le sottolineature
dell’Autore.
Alcuni interventi si sono resi necessari nelle citazioni di Nietzsche: infatti, non sempre Jaspers
riporta i passi in modo corretto (spesso omette parole e non rispetta l’uso delle virgolette); in tali
casi, abbiamo aggiunto i puntini di sospensione e, in presenza di evidenti lapsus, abbiamo integrato
la citazione con la parola involontariamente tralasciata; abbiamo altresì provveduto a ripristinare le
virgolette non solo, ovviamente, in quei passi in cui Nietzsche, a sua volta, cita altri autori, ma
soprattutto in quei numerosi casi in cui Nietzsche si riferisce all’uso consueto e consolidato di
alcune espressioni, in cui egli non si riconosce affatto, ma intende invece sottolineare il proprio
netto rifiuto nei confronti appunto di tali espressioni (come ad es. « la “verità” »).
Abbiamo inoltre segnalato in nota i rari casi di discrepanza tra il testo di Nietzsche citato da Jaspers
(cioè quello dell’edizione Naumann-Kröner) e il testo critico stabilito da Colli e Montinari (per
l’edizione tedesca, ci siamo riferiti alla Kritische Studienausgabe dei Sämtliche Werke, cit.,
indicandola con la sigla KSA).
Altri interventi hanno riguardato la correzione - o integrazione - di alcuni riferimenti bibliografici
(ad es. nelle indicazioni delle opere e delle lettere di Nietzsche citate da Jaspers) e di alcuni nomi
propri (ad es. Malvida, corretto in Malwida).
Desidero ringraziare, per i loro consigli ed il loro aiuto, gli amici Tonino Griffero, Luca Guidetti, e
in modo particolare, per la sua consueta generosità, Eros Mattioli.
1 Jaspers riprende molti concetti della filosofia di Nietzsche che, ulteriormente rielaborati,
diventano centrali per il suo stesso pensiero; e così facendo, come ha osservato Wahl, rende piti
concrete le proprie teorie; nello studio su Nietzsche, « molte delle nozioni che rimanevano astratte
nei tre bei volumi in cui Jaspers ha esposto la sua filosofia conseguono maggior precisione, vita e
pienezza »; le idee di situazione-limite, di appello, di origine, di trascendenza, di cifra « trovano qui
la loro illustrazione », per cui si può dire che questo suo libro è importante, oltre che per la
comprensione di Nietzsche, « per la comprensione della filosofia di Jaspers » (J. WAHL,
Le Nietzsche de Jaspers, in « Recherches philosophiques », 1936-1937, p. 346)
2 V., ad es,, F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M.
Montinari, Berlin-New York, de Gruyter, 1980, voi. 7, pp. 432-433; tr. it. in Opere, a cura di G.
Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 sgg., voi. III, tomo III, parte II, p. 18: «I Greci [...]
sanno imparare: enorme capacità di assimilazione [Aneignungskraft]. [...] soltanto nei Greci tutto si
è trasformato in vita !». Sul concetto di Aneignung, di cui Nietzsche sottolinea il senso fisiologico,
associando spesso l’« assimilazione corporea » all’« assimilazione spirituale », cfr. anche voi. V, t.
II, p. 348 e voi. VI, t. II, p. 255.
3 « Io parlo solo di cose che ho vissuto e non di cose semplicemente “pensate"; in me manca
l’antagonismo tra pensiero e vita. La mia “teoria” si sviluppa dalla mia “prassi” » (F. NIETZSCHE,
Opere, voi. VI, t. III, p. 605). Per Nietzsche, che su questo punto polemizza contro tutta la
riflessione filosofica precedente, filosofare non è tanto una questione di conoscenza, quanto
piuttosto di esperienza, un’esperienza vissuta e sofferta personalmente; da questa esigenza nasce
appunto la sua idea centrale di una Experimental-Philosophie-, su ciò rimando al mio saggio La
profondità della superficie. Senso del tragico e giustificazione estetica dell'esistenza in Friedrich
Nietzsche, Milano, Mursia, 1992 (cfr. spec. l’« Introduzione », pp. 11 e sgg., e la parte su «L’idea di
una Experimental-Philosophie come filosofia del tragico», pp. 33-82).
4 Jaspers sottolinea la distinzione tra Selbstreflexion e Selbstbeobachtung, da una parte, e
Selbstuerständnis dall’altra, e scrive: « La psicologia nel senso dell’autosservazione si distingue
dalla psicologia che chiarisce l’esistenza, che assume la forma dell’autocomprensione:
l’autosservazione si riferisce all’esserci empirico, anche al proprio, mentre l’autocomprensione si
riferisce ad un’esistenza possibile » (pp. 343-344). Nel quadro della sua « filosofia sperimentale »
Nietzsche sostiene che, per la conoscenza di se stessi, l’introspezione non è sufficiente, in quanto «
l’unico mezzo per conoscere veramente qualcosa consiste nel tentare di farlo » (F. NIETZSCHE,
Opere, voi. IV, t. I, p. 152); per cui, come giustamente osserva Jaspers, « nella sua
autocomprensione, vita e conoscenza si unificano nell’attività dello sperimentare» (p. 350).
5 F. Nietzsche, Opere, voi. VI, t. III, p. 58; voi. VII, t. II, p. 118; voi. VIII, t. II, p. 180.
6 Come si accennava, è assai difficile rimaner fedeli a questa duplice esigenza nell’esposizione del
pensiero di Nietzsche; così, Jaspers riconosce di essere stato costretto, proprio per le esigenze stesse
dell’esposizione, a separare i pensieri fondamentali di Nietzsche, che sono invece « di una costante
unità » (p. 262); ed ammette che lo stesso procedimento della citazione (di cui egli ampiamente si
serve, in quanto è altrettanto necessario per l’esposizione) contiene di per sé una « forzatura ».
D’altra parte, pur affermando ripetutamente la necessità di collegare sistematicamente i pensieri di
Nietzsche, in quanto essi « acquistano il loro vero significato non già nella loro singolarità, bensì
nel loro insieme » (p. 408), Jaspers riconosce altresì che « se si cerca di ricavare il sistema (...],
allora si naufraga in un compito senza fine» (p. 360).
7 F. NIETZSCHE, Opere, voi. VIII, t. III, pp. 281-282.
8F. NIETZSCHE, Opere, voi. VI, t. II, pp. 325 e 134; sulla «magia dell’estremo» cfr. voi. VIII, t. II, p.
155.
p. 203.
9 Cfr. ad es. F. NIETZSCHE, Opere, voi. V, t. II, p. 174 e voi. VII, t. I, parte I, p. 203
10 F. NIETZSCHE, Opere, voi. VI, t. II, pp. 47 e 201.
11 Tale critica è stata mossa (con argomentazioni a nostro avviso sbrigative, se non proprio
infondate) da Kaufmann, che pure considera lo studio di Jaspers come « uno dei migliori libri che
sono stati scritti finora su Nietzsche »; Jaspers, osserva Kaufmann, « raccomandava ai lettori del
filosofo di non sentirsi soddisfatti finché non avessero trovato altri passi che contraddicevano quelli
trovati prima »; ma « la stessa interpretazione di Jaspers si appaga di contraddizioni superficiali,
non tiene conto del contesto in cui si pongono i frammenti che ha raccolto nelle sue schede, dello
sviluppo del pensiero nietzschiano, e della differenza esistente fra libri e appunti di Nietzsche » (W.
KAUFMANN, Nietzsche. Philosopber, Psychologist, Antichrist, tr. it, di R, Vigevani, Nietzsche.
Filosofo, psicologo, anticristo, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 93 e 11).
12 Il postulato basilare della Experimental-Philosophie consiste nel « fare della propria vita un
esperimento » (F. NIETZSCHE, Opere, voi. Vili, t. III, p. 386); ma allora, si chiede Jaspers, la vita non
perde forse la sua serietà? E cosi risponde: Nietzsche è l’uomo « per il quale ogni avvenimento ha
tutta la serietà della sperimentazione del possibile », e attraverso il suo continuo sperimentare
Nietzsche realizza il suo impegno e la sua «identificazione con il mondo» (pp. 349 e 350).
13 Secondo Jaspers, il pensiero di Nietzsche, animato dalla ferrea volontà di « una pura
immanenza », è in realtà « continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara alla
trascendenza che egli non mostra» (p. 411). Il suo filosofare è un continuo tentativo di trovare un «
sostituto (Ersatz) della trascendenza », ma è un tentativo «fallito», in quanto «il ripudio della
trascendenza la fa subito risorgere»; e quindi Nietzsche mostra, sia pure « inintenzionalmente e
inconsapevolmente», che l’uomo « non può compiersi senza trascendenza » (pp. 384, 385 e sgg.).
14 Cfr. F. KAULBACH, Nietzsches Idee einer Experimentalphilosophie, Köln-Wien, Böhlau, 1980,
pp. 175-176.
15 Già Nietzsche - sempre richiamandosi al senso fisiologico dell’espressione - aveva sottolineato
questo duplice aspetto insito nel processo di assimilazione, che significa «rendere uguale a se
stesso, tiranneggiare, qualcosa di estraneo»; se tale processo implica dunque una certa violenza,
d’altra parte, ciò che viene assimilato si trasforma « e cosi continua a vivere » (F. NIETZSCHE, Opere,
vol. V, t. II, p. 348).
13
NIETZSCHE
Introduzione alla comprensione del suo filosofare
Alla memoria di mia madre
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
A prima vista, la lettura di Nietzsche pub sembrare facile; cosi almeno ritiene qualcuno. Qualsiasi
passo si scelga, anche casualmente, è immediatamente comprensibile; Nietzsche è interessante
sotto ogni aspetto; i suoi giudizi affascinano, la sua scrittura entusiasma; anche una semplice
lettura di sfuggita è pur sempre appagante. Ma se, spinti da queste impressioni iniziali, vogliamo
continuare la lettura, allora insorgono delle difficoltà; l'entusiasmo per la piacevole lettura si
trasforma in irritazione, se non proprio nell’avversione per una molteplicità frammentaria di
pensieri apparentemente priva di ogni intrinseco legame; la lettura si fa insopportabile. In questo
modo, però, non si giunge ad una effettiva comprensione di Nietzsche; né, tanto meno, si
comprende la sua intima complessità.
È necessario passare dalla semplice lettura di Nietzsche allo studio di Nietzsche, inteso come
assimilazione dell’insieme delle sue esperienze di pensiero; si comprenderà allora ciò che
Nietzsche ha significato per la nostra epoca: un destino dello stesso essere umano che vuole
inoltrarsi fino ai suoi limiti ed alle sue origini.
Ogni grande filosofo richiede uno studio specifico, a lui propriamente adeguato: solo cosi può
emergere il suo intimo procedere, che costituisce l’essenza della vera comprensione. Gli scritti su
un filosofo hanno appunto il compito di metter in luce questo intimo procedere del suo pensiero;
essi debbono condurre il lettore ad una effettiva comprensione, che deve andare al di là del mero
rapporto superficiale, dell’interpretazione più immediata ed arbitraria, e dunque errata, al di là
del piacere contemplativo per le belle parole. Deve invece emergere, il più chiaramente possibile, il
fare concreto del filosofo, che deve essere compreso e vìssuto procedendo insieme con il suo stesso
pensiero.
Heidelberg, dicembre 1935
KARL JASPERS
PREFAZIONE ALLA SECONDA E ALLA TERZA EDIZIONE
Questa edizione è una ristampa invariata della prima
Il libro cerca di mettere in luce il contenuto delta filosofia di Nietzsche, in contrapposizione ai suoi
fraintendimenti da parte delle generazioni precedenti, ed agli equivoci ingenerati dagli appunti di
un uomo ormai prossimo alla follia. L’apparenza deve scomparire, per lasciare il posto alla serietà
profetica di colui che è forse a tutt'oggi l'ultimo grande filosofo.
Il mio libro vorrebbe essere un’interpretazione oggettivamente valida, indipendentemente dal
momento della sua stesura. Scritto tra il 1934 ed il 1935, il libro era animato anche dall'intento di
opporre ai nazionalsocialisti proprio l’orizzonte di pensiero di quel filosofo a cui essi
dichiaravano di ispirarsi. Esso è sorto da una serie di lezioni, nel corso delle quali soltanto pochi
dei presenti capirono quando citai un passo di Nietzsche che inizia con le parole: « Siamo
emigranti... »; questa ed altre citazioni, come i passi pieni di rispetto nei confronti degli ebrei, non
rientrano nella stesura finale del testo, poiché di secondaria importanza rispetto alle
finalità complessive del libro, che conserva comunque la sua struttura, che è quella di
un’esposizione basata su documenti.
Inizialmente era previsto un capitolo che avrebbe dovuto documentare la follia di Nietzsche con
una serie di citazioni, piene di espressioni molto crude e radicali. Ma ne sarebbe risultata
un’immagine distruttiva, che ho tralasciato per rispetto di Nietzsche. Per chi voglia effettivamente
comprendere Nietzsche, come questo libro vorrebbe insegnare, tali divagazioni scompaiono nel
nulla. Chi le prende sul serio, le sottolinea e si lascia influenzare da esse, non è abbastanza maturo
per leggere Nietzsche, né tanto meno ne ha il diritto. Infatti, il contenuto della sua vita e del suo
pensiero è di una tale grandezza che, chi riesce a prendervi parte, è al riparo da quegli errori che
in qualche circostanza Nietzsche stesso ha commesso, e che hanno potuto fornire il materiale
espressivo per la barbarie nazionalsocialista. Ma che Nietzsche, in realtà, non potesse diventare il
filosofo del nazionalsocialismo, è testimoniato dal fatto che in seguito egli fu tacitamente
abbandonato dal nazionalsocialismo stesso.
Il mio libro è stato concepito in modo unitario; sarebbe certamente possibile arricchirne ed
ampliarne il senso, ma in tal caso si correrebbe il rischio di far perdere all’opera, già di per sé
molto ampia, la sua forma. Piuttosto che una semplice modifica del testo esistente, sarebbe allora
preferìbile un nuovo libro che completasse il vecchio o che lo sostituisse, in tutto e per tutto, sulla
base di un nuovo progetto.
[...]
Stemma della necessità!
Dell’essere costellazione suprema
- che nessun desiderio raggiunge,
che nessun no contamina,
eterno sì dell’essere,
eternamente io sono il tuo sì:
poiché io ti amo, o eternità! » (8, 435 e sgg.).
II mito in Nietzsche
L'uomo non può essere sensibile a quei contenuti che la sua intima natura rifiuta radicalmente.
Pertanto - a differenza di Hegel, Schelling, Bachofen Nietzsche non ha mai considerato la
profondità dei miti, cosi come - a differenza di Kierkegaard - non si è mai inoltrato nelle profondità
della teologia cristiana. Da parte di Nietzsche, quindi, non viene propriamente richiamato,
rinnovato, fatto proprio - con l’apparente eccezione di Dioniso - alcun mito; ma questo difetto
diventa, in un altro senso, la sua forza.
Nietzsche rifiuta di accogliere quei miti che possono diventare solo delle maschere, ma non essenza.
Consapevoli della perdita del mito, non dobbiamo creare un nuovo mito, solo perché l’uomo ne
sente forse il bisogno. Infatti, un mito non autentico vuole intenzionalmente evocare ciò che, se esso
fosse autentico, non può piu esser voluto. Esso sarebbe l'esserci in veste di commediante, che
Nietzsche ha implacabilmente combattuto nel suo tempo. Gli dèi e Dio non possono essere creati (6,
123); essi debbono essere compresi, vivendo insieme a loro; bisogna imparare a leggere in cifre e
simboli il loro essere. Per Nietzsche, che ebbe sempre un atteggiamento coerente e corretto, i miti e
i simboli tradizionali, verso i quali altri si atteggiarono come se credessero in essi, non sono il
linguaggio che penetra realmente in lui come esistenza. Anziché un mito succedaneo, egli cercava
l’essenza nel filosofare. Per questo, non già i miti e la teologia, bensì la stimolante realtà storica
costituì per lui la prima origine storica della filosofia: egli cercò un suo proprio pensiero nel
rinnovamento della forma fondamentale dell’interpretazione dell’essere nei presocratici,
essenzialmente in Eraclito.
A tal proposito, non deve trarre in inganno il fatto che, specialmente nello Zarathustra, egli utilizzi
una gran quantità di simboli. Essi non hanno infatti la stessa importanza dei simboli nei quali si
crede, ma sono invece un linguaggio non impegnativo, e non sono mai nell’intenzione e nell’effetto
qualcosa di diverso. Di miti Nietzsche parla spesso negli anni giovanili, come filologo classico; piu
tardi, si incontra a mala pena la parola stessa.
Senza aver l’intenzione di creare o sostituire dei miti, è molto piu rilevante in Nietzsche la forza
della presenza di paesaggi ed elementi, di natura e vita, dell’intero mondo non umano, una nuova e
per così dire mitica realtà.
Il mito della natura. Il paesaggio è il sottofondo del pensiero nietzschiano; chi ha colto una volta
questo sottofondo, ne è conquistato. Il modo in cui esso, esprimendosi in infiniti modi, parla al
lettore ed entra inavvertitamente in lui, diventa un linguaggio a tutti comprensibile, in cui quanto vi
è di piu intimo in Nietzsche — la sua nobiltà, la sua purezza, il suo destino -è come protetto. È
questo l’accesso piu facile al fascino di Nietzsche ed allo stato d’animo che è il presupposto di ogni
comprensione. Nel suo mondo, natura ed elementi non sono soltanto delle descrizioni pittoriche o
mu-
sicali, da contemplare o ascoltare, bensì un tipo indescrivibile di realtà che parla immediatamente
come tale.
Nel modo in cui paesaggio e natura parlano a Nietzsche c’è un salto tra il suo modo giovanile di
osservare, per immagini e vivamente pittorico, per esempio « et in Arcadia ego » (3, 354), e il suo
modo successivo, che suscita l’impressione di una identificazione con il paesaggio. Prima si
tratta soltanto di una commozione davanti alla natura che sta di fronte a lui come qualcosa di
diverso; piu tardi, è come se la natura ed il destino dell’uomo, la corporeità sensibile e l’essere si
identificassero. Soltanto nell’ultimo decennio il mondo diventa trasparente, la natura diventa come
un mito. La sofferenza dovuta alla realtà empirica non impedisce allora a Nietzsche di vedere in
essa al tempo stesso l’autentica realtà, e precisamente in modo visionario e corporeo insieme. Non
si tratta solo per lui di un’accresciuta espressione di tutto ciò che è visibile; piu ancora, nella natura
egli può percepire il linguaggio dell’essere.
È soprattutto nelle poesie e nello Zarathustra che si può percepire questo linguaggio. Per accostarci
ad esso è opportuno richiamare alcuni aspetti biografici: Nietzsche ha vissuto facendo quotidiane
passeggiate nei luoghi in cui si trovava. La sua particolare sensibilità al clima e al tempo gli fece
avvertire fin nell’aspetto piu intimo dello stato d’animo e della forza del suo essere - in
modo tormentoso o vivificatore - ogni nuance del luogo, dei momenti giornalieri e stagionali. Egli
impiega « molta fatica e zelo » per scrutare il paesaggio fin nella sua profondità: « La bellezza della
natura è, come ogni altra, molto gelosa, e vuole che si sia esclusivamente al suo servizio» (a Gast,
23. 6. 81). Per lui la natura è il mondo che gli rimane vicino in tutte le delusioni ed in ogni
solitudine. Sempre essa appare, nelle sue lettere e nei suoi scritti, come ciò che è presente. Essa gli
dà un linguaggio puro, non contaminato da alcun appesantimento romantico, teologico o
mitologico: « E per quale scopo è creata ogni natura se non perché io abbia segni con cui poter
parlare alle anime? » (12, 257). Nietzsche respira la profonda gioia dell’essere a proprio agio in
presenza della natura; è come se trovasse in essa sostegno e conforto. Tutta la sua
corporeità partecipa al modo in cui egli, tramite la natura, diventa consapevole dell’essere.
Per Nietzsche, la gioia di identificarsi con la natura può rimpiazzare la perduta comunicazione con
gli uomini: la volontà di comunicazione è come assorbita in questa identificazione con il paesaggio.
È vero che all’inizio, come si legge nell’aforisma intitolato « Nel grande silenzio », il silenzio della
natura è ancora considerato «bello e agghiacciante» (4, 291). Ma è già diverso, quando Zarathustra
si rivolge al cielo puro dell’alba con queste parole: « Noi siamo amici da sempre... Noi non
parliamo l’un all’altro, perché sappiamo troppo: - noi stiamo silenziosi insieme, ci sorridiamo il
nostro sapere » (6, 240). Alla fine, confida alla natura il tormento della sua solitudine, chiedendo
senza aspettare risposta, sentendone la vicinanza senza vederla: « Oh, cielo sopra di me,... tu
mi guardi? Tu ascolti la mia anima capricciosa?... quando riberrai in te l’anima mia? » (6, 403 e
sgg.); questa domanda esprime certo il piu completo abbandono e tuttavia, in quanto domanda,
rivela l’attesa di una risposta, come quando la sua anima, nel buio della notte di Venezia, cantò la
canzone che si conclude con queste parole: « L’ha qualcuno mai udita? » (8, 360).
L’origine dell’amore di Nietzsche per la grande natura « deriva dal fatto che nella nostra testa sono
assenti i grandi uomini » (5, 181). Per lui la natura non è il dato ultimo; in lui vive qualcosa di
diverso dall’immediata mitizzazione della natura, propria della sua vitalità giovanile. Di fronte ad
ogni grande natura egli aspira a qualcosa di ulteriore: « Vogliamo compenetrare la natura con ciò
che è umano... Vogliamo prendere da essa ciò di cui abbiamo bisogno per sognare oltre l’uomo.
Qualcosa, che è più grandioso della tempesta e della montagna e del mare, deve ancora sorgere »
(12, 361).
Se ci chiediamo quale natura, quali accadimenti elementari, quali paesaggi parlano a Nietzsche e in
che senso, è certamente impossibile disporne in un quadro sistematico i contenuti, ma un breve
sguardo ci mostra, almeno superficialmente e sulla base di alcuni esempi, ciò che si presenta e che
può essere propriamente compreso solo attraverso una lettura dei testi nel loro insieme.
I tempi giornalieri, fino alle sfumature quasi ora per ora: il meriggio, per esempio, diviene il
momento in cui il tempo è cessato, è vissuta l’eternità, è raggiunta la perfezione (6, 400 e sgg.; 3,
358 e sgg.). La mezzanotte, in ciò affine al mezzogiorno, è l’ora del « canto ebbro »; si rivela la
profondità dell’essere, l’eternità (6, 464 e sgg.).
Gli elementi: l’amato, puro cielo, le odiate nuvole, il cielo invernale, il cielo prima del sorgere del
sole, - il sole del mattino, della sera - il vento, il vento del disgelo, la tempesta, - il silenzio, - fuoco
e fiamma.
Alcuni tipi di paesaggio: montagne, neve, ghiacciaio, mare, lago, deserto; il Sud sempre diverso,
sempre più lontano e mai interamente presente; « ciò che è africano » (a Gast, 31. 10. 86).
Innumerevoli singole immagini della natura: pini ricurvi, a strapiombo sulla costa, ritti in
montagna; il fico; i marosi; i prati; il solitario svolazzare di una farfalla, in alto sugli scogli del lago;
cavallo, bufalo, camoscio, toro; una vela sull’acqua; un battello sul lago e i remi dorati al tramonto.
La natura è al contempo presente nella vitalità del corpo, nel camminare, scalare i monti, danzare e
volare in sogno (12, 222; 6, 241, 281, 282, 285); Nietzsche avverte la presenza della natura quando
se ne sta disteso al sole come una lucertola (a Overbeck, 8. 1. 81). I pensieri essenziali gli vengono
a contatto con la natura; egli è abituato a « pensare all’aria aperta, camminando, saltando, salendo,
danzando, preferibilmente su monti solitari o sulla riva del mare, laddove sono le vie stesse a farsi
meditabonde » (5, 318).
Nietzsche ha, per così dire, i paesaggi appropriati a lui e le sue città. La sua preferenza va all’Alta
Engadina: « Il mio paesaggio, così lontano dalla vita, così metafisico » (a Fuchs, 14. 4. 88). « In
molti paesaggi di natura scopriamo di nuovo noi stessi, con piacevole brivido;... qui dove Italia e
Finlandia si sono strette in alleanza... questo è per me intimo e familiare, consanguineo, anzi ancora
di più» (3, 368). «L’aria piena di odori, come piace a me» (a Overbeck, 11. 7. 79). Sils-Maria,
«questo eterno eroico idillio » (a Gast, 8. 7. 81), « questa meravigliosa mescolanza del dolce, del
grandioso e del misterioso! » (a Gast, 25. 7. 84), è il luogo dove la sua filosofia era propriamente di
casa (5, 359 e sgg.). Là egli viveva « con la compagnia di una montagna, ma non già di una morta
montagna, bensì di una che ha occhi (cioè laghi) » (7, 415).
L’incomparabile stato d’animo di Nietzsche sulla Riviera, a 400 metri sul mare, è espresso in una
descrizione a Gast (10. 10. 86): •« Si immagini un’isola dell’arcipelago greco, sulla quale siano
posti a capriccio un bosco ed una montagna, che un giorno per caso si sia ricongiunta alla
terraferma e non possa più staccarsene. Indubbiamente, vi è qualcosa di greco in ciò; d’altra parte,
vi è qualcosa di piratesco, di subitaneo, di nascosto, di pericoloso; infine, a una svolta solitaria, c’è
un pezzo di pineta tropicale, che suscita l’impressione di esser lontani dall’Europa: qualcosa di
brasiliano, come mi ha detto il mio compagno di tavola, che ha compiuto più volte il giro del
mondo. In nessun altro luogo mi sono mai sentito come in un’isola, dimenticato da tutti, come
Robinson; spesso accendo grandi fuochi. Vedere la vivace fiamma, con il suo fumo grigio chiaro,
salire verso il cielo privo di nubi - l’erica tutt’intorno, e quella beatitudine dell’ottobre, che si
accorda a cento gradazioni di giallo... ».
Tre città soprattutto gli furono care: Venezia, Genova e Torino. Per lui erano quasi come paesaggi,
con la loro atmosfera, la singolarità della loro posizione, il loro genius loci. Aveva invece una forte
avversione per Roma.
Dioniso. Ciò che per Nietzsche è la realtà mitica, sempre presente, ha la sua forza nella semplicità
ed evidenza. Essa è ciò che propriamente parla nelle sue opere senza farsi troppo notare e senza
aver bisogno di simboli specifici. Al contrario, uno spiccato simbolismo - come quello di Dioniso -
diventa in lui quasi insistente e al tempo stesso problematico. Tuttavia, è essenziale per Nietzsche il
fatto che - contro quelli che sono altrimenti i suoi istinti dominanti - egli scelga sotto il nome di
Dioniso una figura mitica tradizionale, per cogliere con essa la totalità dell’essere nella sua
unità. Ciò che egli non può e non vuole comprendere in un sistema concettuale costruito
metafisicamente, deve per lui farsi presente come simbolo.
L’essere era per lui vita, volontà di potenza, eterno ritorno. Si trattava di complessi di pensieri quasi
indipendenti tra loro, ciascuno con un’autonoma origine. Essi hanno tutti un 'unità per il fatto che si
riferiscono al momento storico in cui il movimento nichilistico, dopo che « Dio è morto », deve
trovare grazie a Nietzsche il contromovimento. Tutti i suoi pensieri filosofici dell’essere sono
concepiti come la visione del mondo di quella razza futura di signori che, basandosi sulla forza e il
rango della propria vita, sconfiggerà il nichilismo.
Ma, oltre a ciò, la loro unità risiede nella visione globale del mondo in cui Nietzsche sussume tutto
ciò che ha pensato dell’essere, la sua metafisica e la sua mistica, il divenire, la vita, la natura: «
Cos’è per me “il mondo”?... un mostro di forza, senza principio e senza fine,... che non si consuma
ma soltanto si trasforma,... un mondo attorniato dal “nulla” come dal suo confine, ... nulla di
infinitamente esteso,... un mare di forze tumultuanti e infurianti in se stesse,... in perpetuo riflusso,
con anni sterminati del ritorno, con un flusso e riflusso delle sue figure, passando dalle piu semplici
alle più complicate, da ciò che è... più rigido e freddo a ciò che è più... selvaggio e contraddittorio, e
ritornando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino al piacere
dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza delle sue vie e dei suoi
anni, benedicendo se stesso... come un divenire che non conosce sazietà,... stanchezza: questo mio
mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso, del perpetuo distruggere se stesso,... Questo mio al
di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è uno scopo nella felicità del circolo, senza volontà,
se un anello non ha buona volontà verso se stesso - volete un nome per questo mondo?... Questo
mondo è la volontà di potenza - e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza - e
nient’altro! » (16, 401).
Che per Nietzsche l’unità di questa visione del mondo - nella quale sono riuniti l’eterno ritorno, la
volontà di potenza e la vita dionisiaca -non possa piu essere essa stessa, in quanto unità, un
pensiero, ma soltanto un simbolo; che qui non sia concepito un tutto unitario derivante da
un principio, ma venga soltanto prodotto - con una coinvolgente retorica che si serve di una gran
quantità di motivi - per così dire uno stato d’animo del tutto: ebbene, ciò consegue
dall’atteggiamento fondamentale di Nietzsche, secondo cui non c’è e non ci può essere, in senso
proprio, un tutto.
È ben vero che Nietzsche ha anche concepito la totalità che, per così dire, protegge e giustifica: «
Uno... spirito divenuto libero sta al centro del lutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella fede
che soltanto sia biasimevole quel che se ne sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi
nel lutto - egli non nega piu » (8, 163). In tal modo Nietzsche, il sostenitore dell’eroismo ed il
nemico di tutte le religioni salvifiche, può dunque pervenire a questo antico pensiero filosofico della
« redenzione », alla fede in un tutto, in cui ogni cosa annulla la propria individualità nell’ordine
totale. Allorché vide l’opposto dell’ideale eroico nell’« ideale dello sviluppo armonico totale », egli
considerò certamente questo opposto come « desiderabile », ma definì sprezzantemente l’ideale
armonico come « un ideale solo per uomini dabbene » (12, 295); in questo modo perviene dunque
egli stesso ad un suo proprio pensiero di riconciliazione o piuttosto ad un’intima disposizione alla
totalità.
Ma conseguente e continuo è in Nietzsche l’opposto atteggiamento fondamentale, che vuole ed
afferma: « Non c’è un tutto » (15, 381). È per lui essenziale « che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità
». Perché? « Non si potrebbe fare a meno di prenderlo come istanza suprema e di battezzarlo “Dio”.
Bisogna mandare il tutto in frantumi;... riprendere per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo
dato all’ignoto e al tutto » (15, 381). Solo nella misura in cui Nietzsche si crea involontariamente un
surrogato di Dio, una tale totalità può assumere — solo provvisoriamente - il valore di una visione
del mondo unitaria, ma solo in quanto, per cosi dire, mito di un mono-ateismo.
Dioniso è la figura in cui per Nietzsche si oggettiva questo mito che egli, contrariamente alla sua
fondamentale disposizione filosofica, ha metodicamente sviluppato. In esso Nietzsche voleva
riassumere l’intero suo filosofare, fondendo insieme tutti i suoi aspetti esclusivamente concettuali.
È come se egli tentasse, per tutto ciò che è più inaccessibile, di rendere vera la frase: « Quanto più
astratta è la verità che tu vuoi insegnare, tanto piu devi sedurre anche i sensi a essa » (7, 103).
Anche se vi sono molti tratti che riecheggiano l’antico mito,5 non c’è nell’intenzione e nei risultati
di Nietzsche una vera e propria comprensione di questo mito; si tratta invece della scelta
consapevole di un simbolo, che gli sembra utilizzabile per il suo
filosofare. Dioniso è dunque in Nietzsche qualcosa di completamente diverso rispetto all’antico
mito, qualcosa che fondamentalmente non diventa forma.
Dioniso è anzitutto il simbolo dell 'ebbrezza, in cui « l’esistenza celebra la propria trasfigurazione»:
«Quando “fiorivano” il corpo greco e l’anima greca,... sorse quel misterioso simbolo... È dato qui
un metro, commisurato al quale tutto ciò che da allora è cresciuto risulta troppo corto, troppo
povero, troppo stretto; basta pronunciare la parola “Dioniso” di fronte alle migliori cose e ai
migliori nomi moderni, di fronte a Goethe, diciamo, o Beethoven, o Shakespeare, o Raffaello: e di
colpo sentiamo giudicati le nostre cose e i nostri momenti migliori. Dioniso è un giudice! » (16,
388).
Dioniso è inoltre concepito come l'opposto di Cristo, come la vita tragica contro la vita sotto la
croce: « Dioniso contro il Crocifisso ». Questa contrapposizione « non è una differenza in base al
martirio - è solo che esso ha un altro senso... il problema è quello del senso del dolore: del senso
cristiano o del senso tragico... Nel primo caso sarebbe la via che porta a un essere beato, nel
secondo l’essere è considerato abbastanza beato da giustificare anche un’immensità di dolore.
L’uomo tragico afferma anche il dolore piu aspro: è abbastanza forte, ricco e divinizzatore per ciò.
Il cristiano nega anche il destino più felice in terra... “Il Dio in croce” è una maledizione della vita,
un’esortazione a liberarsene. Il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e
rifiorirà eternamente dalla distruzione » (16, 391 e sgg.).
Davanti alla nebulosa figura di questo dio, la visione indeterminata di Nietzsche - come in
precedenza il suo pensiero - finisce « con una teodicea, cioè con un’assoluta affermazione del
mondo, ma per gli stessi motivi per i quali prima lo si negava » (16, 372).
Tuttavia, per lui Dioniso non è mai un dio al quale sia possibile rivolgere una preghiera, per il quale
sia possibile un culto. Egli è, in fondo, un « dio che filosofa » (14, 391). Ed ha tutte le qualità del
nuovo filosofo, che secondo Nietzsche sta per venire o che egli stesso si sente di essere: cioè di
colui che « procede per tentativi » (il « dio tentatore ») ed è il « grande ambiguo ». Nietzsche è
consapevole della singolare novità di un tale simbolo: « Già il fatto che Dioniso sia un filosofo e
che quindi anche gli dei filosofeggino mi pare una novità tutt’altro che scevra d’insidie » (7, 272).
L’autoidentificazione di Nietzsche con Dioniso, ancora celata nella frase: « io, l’ultimo discepolo e
iniziato del dio Dioniso », viene di fatto da lui compiuta all’inizio della sua follia.
Tutto quello che, oltre a ciò, viene detto sotto il simbolo di Dioniso è una ripetizione di ciò che nel
filosofare di Nietzsche si presenta in ogni caso in modo più pregnante ed eloquente: per esempio,
col nome di Dioniso il divenire viene « concepito attivamente, rivissuto soggettivamente,
come furiosa voluttà di colui che crea, che conosce al contempo la rabbia di colui che distrugge »
(14, 364). Ciò che di stimolante, ma nient’affatto definitivo, vi è nelle notazioni naturalistiche, che
si differenziano dalle formu-
lazioni concettuali, sembra ritornare in molteplici forme con l'espressione della figura mitica.
Mentre l’originaria mitizzazione della natura di Nietzsche ha arricchito il fondamento e il
linguaggio del moderno filosofare, attraverso un appropriazione che, peraltro, si può a malapena
cogliere, nessuno si è mai realmente appropriato del suo simbolo di Dioniso, così come del
superuomo, dell’eterno ritorno e di tutte le sue affermazioni metafisiche dell'essere positivamente
determinate e dunque, in quanto tali, riduttive.
1 L’espressione induce in errore nella misura in cui si pensi subito a condizioni fisiche o addirittura
psicopatologiche. Ma anche se parliamo di esperienza vissuta, stato d’animo, sentimento,
sentimento di verità, coscienza dell’essere, umore, costituzione, stato di salute, disposizione
d’animo, ecc., la chiarezza non è maggiore, poiché la precisione è solo apparente e delude alla luce
di una superiore precisione. Proprio per la sua estrema approssimazione, il termine « Zustand » è
forse appropriato a fornire una linea di confine linguistica all’indefinibile « Umgreifende ». Ciò è
giustificato dal fatto che Nietzsche abbia scelto e usato tale espressione quasi come un terminus.
* Il passo finale della citazione (« una tale intrepida e sfrenata gaiezza non fa parte del mio carattere
»), che è tra parentesi nell’edizione Kröner delle opere di Nietzsche, non compare nell’edizione
Colli-Montinari. (N.d.C.).
** Nel testo critico delle opere di Nietzsche stabilito da Colli e Montinari, anziché « terribile »
(furchtbar), si legge « fecondo » (fruchtbar): v. KSA, voi. 12, fr. 2 [128], p. 127; tr. it. nel voi. VIII,
tomo I, p. 114 (N.d.C.).
2 Il « saper tacere » di cui parla Nietzsche non è certo il tacere per vuotezza, goffaggine, furberia; in
tal senso, vale semmai quanto Nietzsche afferma in un altro contesto: « A chi tace manca sempre la
finezza e la gentilezza del cuore; tacere è un’obiezione, l’inghiottire produce necessariamente un
brutto carattere » (15, 18).
3 In questa forma fisico-meccanica il pensiero dell’eterno ritorno non è proprio soltanto di
Nietzsche. Identiche motivazioni si trovano, poco prima di lui, in Blanqui e Le Bon (BERNOULLI,
Overbeck und Nietzsche, 1, 381 e sgg.). In una formulazione generale come movimento ciclico
dell’accadere, tale pensiero si è sempre di nuovo ri-presentato storicamente attraverso i millenni
(cfr. ANDLER, 4, 225-259; cfr. anche 6, 60-76). Sul problema, v.: ABEL REY, Le Retour éternel et la
Philosophie de la Physique, 1927 (cit. da Andler); PAUL MONGRÉ, Sant'Ilario, Leipzig, pp. 349 e sgg.
Per una semplice confutazione matematica della « prova » dell’eterno ritorno, cfr. SIMMEL,
Schopenhauer und Nietzsche, Leipzig, 1907, p. 250 (nota).
4 Kierkegaards Werke, a cura di Schrempf, vol. 5, p. 87.
5 Sull’antico dio v. WALTER F. OTTO, Dionysos, Frankfurt, 1933.
LIBRO TERZO. IL MODO DI PENSARE DI NIETZSCHE NELLA TOTALITÀ DELLA SUA
ESISTENZA
Lo sguardo sulla vita di Nietzsche ha mostrato come essa rivelasse, per cosi dire, una verità in un
sacrificio continuo; l’esposizione delle sue idee fondamentali ha chiarito l’ampiezza illimitata del
suo pensiero, il superamento obiettivamente contraddittorio di tutte le posizioni, anche di
quelle apparentemente definitive, e l’insostenibile incongruità delle rare teorie che diventano per
Nietzsche quasi dogmatiche. Dobbiamo ora cercare di cogliere la verità di Nietzsche nella totalità
della sua esistenza, anche se si tratta di un compito che, per la sua stessa natura, è in fondo
irrealizzabile, o meglio, di un compito che ogni generazione deve sempre di nuovo affrontare e
cercare di risolvere.
Se si pretende di cogliere, in modo chiaro ed evidente, il significato del pensiero di Nietzsche, si
resta senz’altro delusi. Un’esposizione dei suoi pensieri, condotta sulla base della dialettica - che
supera e fa scomparire tutto - di una critica che pure sorge da lui stesso e costituisce la sua
peculiarità, lo fa sembrare ancor piu inesauribile di quanto forse egli stesso fu. Un’interpretazione
letterale, o legata alla certezza di contenuti dogmatici, lo fa invece apparire piu limitato di quanto in
realtà non fosse. In entrambi i casi, non si coglie ciò che egli propriamente ed effettivamente era nel
suo impulso che forse non è mai pervenuto alla piena consapevolezza di sé.
Ci troviamo di fronte ad un enigma: se infatti ci accostiamo criticamente a Nietzsche, e ci lasciamo
condurre da lui stesso, tutto sembra scomparire, ma, quando ormai siamo stanchi fino alla nausea di
tutte le delusioni, ecco cbe si ristabilisce l’incanto del suo pensiero: l’enigma consiste precisamente
nel fatto che la verità di Nietzsche, che non risiede in nessuna dottrina ed in nessun ideale fisso, può
tuttavia avere la sua più pura e decisiva forza d’attrazione quando non si è piu irretiti dal fascino del
primo momento e dalle singole affermazioni.
Nietzsche è non solo l’origine di nuovi pensieri, il creatore di una nuova lingua, ma, attraverso la
totalità della sua vita e del suo pensiero, è anche un avvenimento. Ciò che Nietzsche significa, al di
là di tutte le sue idee fondamentali, non solo come espressione della crisi della sua epoca, è in grado
di dirlo con certezza storico-filosofica soltanto colui che crede al contenuto di una filosofia della
storia che nel suo sguardo abbraccia tutta l’umanità. Noi ci limitiamo a constatare che il dato di
fatto del suo esserci significa un sedimento storico che per noi, suoi successori, è divenuto
indispensabile, un appello alla nostra onestà, un presupposto della nostra realtà e dunque della
nostra vera partecipazione alla filosofia. La sua ori-
gine è essenzialmente indeducibile, alla stessa stregua di ogni cosa grande che, per cosi dire, entra
nell’esserci con un salto.
Ripercorriamo dunque, guidati dallo stesso Nietzsche, le tappe del nostro cammino, per rispondere
alla domanda sul suo modo complessivo di pensare come manifestazione del suo essere che
filosofa.
CAPITOLO PRIMO. COME NIETZSCHE COMPRENDE SE STESSO E IL PROPRIO
PENSIERO
Vita e conoscenza: Unità e separazione di vita e conoscenza. Pensare a partire dalla dialettica reale.
La coscienza della forma logica di pensiero: Opposizione e contraddizione. Il tutto. Il sistema.
La possibilità della comunicazione: Necessità della comunicazione. Il motivo dell’incomunicabilità.
La comunicazione indiretta. Necessità e verità della maschera. Simbolo e canto. Polemica.
Ciò che Nietzsche è per sé.
Quando la conoscenza abbandona l’indagine su un determinato oggetto, per affrontare
filosoficamente il problema dell’essere stesso, allora l’origine, il compimento e la comunicazione
del pensiero, nonché l'autocoscienza di questo pensiero debbono essere diversi dal rapporto
quotidiano e scientifico con tali cose, che sembrano essere indubbiamente presenti nelle parole e nei
concetti.
L’autocoscienza del pensiero, come coscienza del metodo, è certamente anche un momento di tutto
il sapere scientifico, ma, come comprensione di sé, diventa un momento essenziale del filosofare. Il
filosofare non può accontentarsi dell’autocontrollo della conoscenza scientifica, che fa
delle constatazioni oggettive per dimostrare le sue affermazioni. Esso si dimostra piuttosto
misurandosi con l’esistenza possibile di colui che pensa, e comprendendosi in base ad essa. Esso si
compie come un pensare nella lotta con cui l’uomo si rapporta continuamente a se stesso nella
propria globalità.
Cosa sia propriamente questa autocomprensione, rimane, al di là di ogni possibilità di cogliere il
sapere metodico che la sorregge, il segreto del filosofare. Si può soltanto vedere come si esprime, e
poi inserirla nel contesto complessivo di questo filosofare. Quando questa autocomprensione viene
espressa in modo esplicito, è piu facile dire ciò che essa non è, che non ciò che essa è.
Quando infatti l’essere-sé, ancora oscuro a se stesso, dell’uomo che filosofa vuole sapere ciò che è,
cade facilmente in fraintendimenti: in primo luogo, nell’osservazione psicologica del suo esserci, e
in secondo luogo nell’infinita autoriflessione.
Il fatto che Nietzsche riconosca di avere « poca buona volontà per l’autosservazione », significa che
egli non è psicologo nel senso di un ricercatore empirico che si limita ad osservare (che stabilisce
dati di fatto in modo sperimentale, casistico, statistico, e che cerca di spiegarli in modo causale), ma
nel senso di un filosofo che chiarisce l'esistenza. La psicologia nel senso dell’autosservazione si
distingue dalla psicologia che chiarisce
l’esistenza, che assume la forma dell’autocomprensione: l’autosservazione ne si riferisce all’esserci
empirico, anche al proprio, mentre l’autocomprensione si riferisce ad un’esistenza possibile. Il mio
esserci deve esser conosciuto, secondo determinati aspetti — dunque in una sterminata
infinità particolare — attraverso l’osservazione; è dunque importante e significativo sforzarsi di
osservarlo: in primo luogo, in quanto è possibile un aiuto tecnico all’esserci (cosi Nietzsche osserva
le proprie condizioni psichiche in stretto rapporto con la dieta e con il clima), in secondo luogo, in
quanto si mostrano delle manifestazioni, nelle quali o alle quali parla un’esistenza possibile (cosi, la
maggior parte delle osservazioni psicologiche nietzschiane, anche quando colgono dei dati di fatto,
sono dei chiarimenti che si richiamano all’esistenza). Ma l’osservazione non ha piu senso quando
ruota intorno al proprio esserci, indagandolo come oggettività empirica, come se in esso, attraverso
la presunta autosservazione psicologica, si potesse trovare se stessi come esistenza.
Quando cerco di comprendere me stesso, non tanto attraverso l’osservazione del mio esserci, quanto
piuttosto attraverso l'autoriflessione, allora mi vedo nello specchio del possibile, in un movimento
che può far apparire in me tutto ciò che io penso di me, in modo anche diverso, persino opposto.
Quanto più rimango onesto, tanto più il possibile diventa illimitato, nella misura in cui
semplicemente rifletto su di esso. Io mi chiarisco in esso, ma ciò comporta la dissoluzione di ogni
essere-sé reale, che sempre di nuovo scompare, in ciascuna delle forme in cui vorrei conoscerlo:
« In mezzo a cento specchi Falso di fronte a te...
Conoscitore di te,
Carnefice di te stesso! » (8, 422).
Soltanto nel salto inafferrabile dalla possibilità alla realtà, nella consapevolezza dell’origine, in una
certezza che non significa sapere qualcosa di me e neppure una definitiva determinazione di un
contenuto, si sviluppa l’autocomprensione, che è il filosofare in via di compimento, non più
disgregante. Il fatto che questo filosofare in via di compimento possa essere onesto soltanto se ha
osato l’illimitata e disgregante chiarificazione del possibile, giustifica questa autoriflessione. Ma se
si persistesse in questa chiarificazione, allora si giungerebbe alla dissoluzione tanto dell’essere-sé
quanto dello stesso filosofare.
Nietzsche si rivolge pertanto contro l’autosservazione e contro l’auto-riflessione - anche se fa
ricorso ad entrambe -, con l’intento di delimitarle e di trovare l’autentica via dell’autocomprensione,
per la quale sia l’autosservazione, sia l’autoriflessione non sono né la fonte, né la meta. Egli
ha quasi sempre parlato della mera autosservazione in termini di rifiuto. Essa infatti non aggiunge
molto alle conoscenze che l’uomo ha di sé: « Di solito egli non può percepire di sé che le proprie
opere esterne. La fortezza vera e propria gli è inaccessibile, o addirittura invisibile... » (2, 364).
All’uomo è vietato l’accesso a se stesso nella forma della conoscenza di sé: « Ognuno è a se stesso
il piu lontano » (5, 254). « Ogni giorno mi stupisco: non conosco me stesso» (11, 381). Come
conoscenza di se stessi, l’autoriflessione è anche pericolosa. Quando essa realizza, dissolvendolo,
il pensiero della possibilità dei cento specchi di una chiarificazione che mette in discussione
l’esistenza, scambiando questa chiarificazione per una presunta conoscenza psicologica di sé, ne
risulta alla fine il « conoscitore di se stesso — carnefice di se stesso ». Per la vera conoscenza
filosofica - a tal proposito Nietzsche si definisce spesso « psicologo » - le insistenti autosservazioni
e autoriflessioni sono fonte di rovina: « Noi psicologi dell’avvenire... siamo strumenti della
conoscenza e vorremmo avere tutta l’ingenuità e la precisione di uno strumento; per conseguenza
non ci è lecito... “conoscere” noi stessi » (15, 452). Ribadisce dunque Nietzsche, in base alla propria
esperienza: « Ho pensato a me, ho riflettuto su di me sempre soltanto malamente... Ci deve essere in
me una specie di ripugnanza a credere qualcosa di determinato al mio riguardo...» (7, 263); e
ancora: «Mi sembra che ci si chiuda le porte della conoscenza non appena ci si interessi del proprio
caso personale » (15, 451).
A differenza dei cammini mal compresi dell’autosservazione psicologica e dell’infinita
autoriflessione, Y autocomprensione è il processo di chiarimento che si attua nell’agire interiore -
nel filosofare. Questo non riguarda soltanto il mio esserci individuale (la soggettività), e neppure
solo le cose comuni a tutti (l’oggettività), bensì, in entrambi i casi, l’esistenza. L’esistenza è
l’essere-sé che io sono unicamente in virtù del fatto che sono nel mondo, ho a che fare con delle
cose, e vivo nel tutto. L’autocomprensione si riferisce al singolo individuo, in quanto esistenza
possibile, che è tale in virtù del fatto che egli stesso è nel modo in cui gli si mostra l’essere.
L’autocomprensione incontra dunque nell’essere-sé un universale o un essere-eccezione, che è
universalmente essenziale. Il pensiero di Nietzsche è in gran parte un’autocomprensione che si attua
certo in contenuti particolari, ma è al contempo un pensiero che egli comprende sempre di
nuovo, come tale, nel suo stretto rapporto con il tutto. Già da giovane, egli scrive: « Cerco ciò in cui
la mia miseria è qualcosa di universale, e rifuggo da ogni personalismo » (a Rohde, 5. 74); ma,
anche in seguito, ha sempre in mente questo pensiero: « In ogni momento sono dominato dal
pensiero che la mia storia non sia solo una storia personale, e di fare qualcosa per molti, se vivo
così, mi plasmo e faccio l’inventario di me stesso » (11, 384).
La comprensione che Nietzsche ha di sé è dunque legata al suo pensiero, ma non nel senso di una
comprensione che consegue da esso, bensì nel senso di una comprensione che produce e rivela il
suo stesso pensiero. Non è dunque casuale che noi ancora una volta siamo portati a chiederci come
mai e in che modo Nietzsche abbia riflettuto su di sé ed il proprio pensiero, ed è essenziale che
questa sua autocomprensione si sviluppi sulla base dell’unità di tutto il suo pensiero. Se non
vengono analizzati nel processo con cui Nietzsche comprende se stesso, i suoi pensieri restano
nella falsa univocità di una affermazione momentanea. Da questo punto di vista,
lo studio di tutte le interpretazioni autobiografiche, autocritiche delle sue proprie opere, costituisce
un accesso essenziale al suo filosofare.1
Nella nostra esposizione della vita e dei pensieri fondamentali, la comprensione che Nietzsche
aveva di sé era il sottofondo che già emergeva qua e là.2 Dobbiamo ora esporre in modo chiaro ed
unitario questa sua consapevole autocomprensione, che Nietzsche mette in pratica nella sua
ultima riflessione su ciò che egli fa ed è come pensatore. Siccome Nietzsche, nei suoi scritti e nelle
sue annotazioni, ha comunicato in tempi diversi e dunque separatamente questa autocomprensione
della totalità della sua stessa comprensione, egli stabilisce un libero punto di vista per sé e la sua
opera, che lo innalza al di sopra dei contenuti particolari del suo pensiero. L’auto-comprensione è
un processo di chiarificazione nel tutto, che supera ogni contenuto particolare e si riferisce al
filosofare proprio di Nietzsche, e tuttavia non consegue il suo scopo. Infatti, o egli comprende se
stesso come un universale, cioè come il rappresentante dell’umanità, e dunque non fa della sua
autocomprensione la totalità sistematica di un sapere, in quanto ogni universale è per lui discutibile;
oppure egli comprende se stesso come eccezione, ed allora non può, in modo necessario, rendere
universalmente comprensibile questo essere-eccezione.
L’autocomprensione consapevole di Nietzsche si basa in primo luogo sul fatto che il fondamento
della sua conoscenza risiede nella sua vita, in secondo luogo, sulla forma logica del suo pensiero,
in terzo luogo, sulla possibilità della sua comunicazione, in quarto luogo, sul senso di tutto il suo
esserci.
Vita e conoscenza
Che l’origine della conoscenza filosofica risieda non già nella riflessione su un semplice oggetto o
nella ricerca di una cosa, bensì nell’unità di pensiero e vita, in modo che il pensiero scaturisca
dall’intima, sofferta e totale partecipazione dell’uomo: questo è per l’autocoscienza di Nietzsche
l’autentico carattere della sua verità: « Ho sempre scritto i miei libri con tutto il mio corpo e tutta la
mia vita »; « tutte le verità sono per me verità sangui-
nanti » (11, 382). « Io parlo soltanto di cose vissute, e non presento soltanto processi del cervello»
(14, 361).
Nietzsche vede nel pensiero conoscitivo la soggettività di una vita che penetra nell’esserci, nel
mondo, e che è esso stesso questo tutto. « Noi apparteniamo al carattere del mondo,... non abbiamo
alcun accesso al mondo, se non attraverso noi stessi » (13, 228). Attraverso la mia propria
soggettività, attraverso l'esserci che interpreta la mia vita - attraverso tutti i modi in cui io sono, io
partecipo all’esserci, al mondo. Ma l’uomo, con tutto ciò che egli è, come egli è, e con tutto ciò che
fa e pensa, non è affatto vicino, in egual misura, all’essere-se-stesso e all’essere. II cammino verso
la realtà - il pensare con « tutto il corpo e tutta la vita » - è dunque ad un tempo il cammino verso la
totalità dell’essere dell’uomo, che solo ora diventa propriamente cosciente del carattere del mondo:
l’uomo « concepisce la realtà come essa è:... non è estraniato, separato da essa, è identico ad essa »
(15, 122). Affinché vi sia una conoscenza perfetta, è necessario che l’individuo conosca tutto ciò
che esiste, compreso se stesso, e che lo riconosca come il proprio essere; in quanto dice di si a se
stesso, egli dice di sì all’essere, e in quanto dice di sì all’essere, egli dice di si a se stesso, poiché
entrambi sono per lui la stessa cosa. « Ogni caratteristica fondamentale, che è alla base di ogni
avvenimento..., dovrebbe, se fosse sentita da un individuo come sua caratteristica fondamentale,
spingere questo individuo ad approvare trionfalmente ogni momento dell’esistenza generale » (15,
183). E inversamente, l’uomo conosce se stesso per il fatto che conosce le cose, e « solo alla fine
della conoscenza di tutte le cose, l’uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose, infatti, sono soltanto i
limiti dell’uomo » (4, 52).
Unità e separazione di vita e conoscenza. Da alcune affermazioni potrebbe sembrare che Nietzsche
si stacchi dalla vita e voglia conseguire una conoscenza meramente contemplativa. Egli sarebbe
allora, da una parte, colui che vive e, dall’altra, colui che osserva questa vita da una prospettiva
che non è la vita stessa. In questo senso, già nel 1867 egli considera una buona capacità il fatto « di
avere, perfino nella sofferenza e nel dolore... quello sguardo di Gorgone che immediatamente
pietrifica tutto » (Biogr. I, 337). Colui che conosce perviene alla conoscenza di se stesso, quale
tranquillità del meriggio dopo un turbolento mattino della vita: « Egli non vuole niente, non si
preoccupa di niente, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive, — è una morte a occhi aperti.
Molte cose vede allora l’uomo, che non aveva mai viste ». Ma, poiché è un essere che vive, egli
deve di nuovo abbandonare questo stato, in cui si viene a trovare quando conosce: « Infine, si leva il
vento fra gli alberi, mezzogiorno è passato, la vita lo strappa di nuovo a sé, la vita dagli occhi
ciechi... » (3, 358).
Questa separazione tra la vita, che non conosce, e la conoscenza, che non vive, significherebbe che
l'una ostacola l’altra, ma che bisogna vivere la vita cieca per acquisire la materia della conoscenza.
Nell’interesse della conoscenza, la vita deve essere vissuta sino in fondo, senza essere ostacolata.
Ma chi si limita sempre ad osservare, con ciò stesso perde certamente la possibilità di vivere, e
dunque l’esperienza dell’essere, e conseguentemente anche il fondamento dell’autentica
conoscenza. Non bisogna dunque voler vedere intempestivamente: « Finché si sta facendo
un’esperienza, bisogna abbandonarsi all’esperienza e chiudere gli occhi, cioè non voler fare già in
essa l’osservatore » (3, 356). « Se si è esercitati ed abituati a riflettere sull’agire, bisogna però nello
stesso agire... chiudere l’occhio interno. Anzi, nel discorrere con uomini medi, bisogna saper
pensare con gli occhi del pensatore chiusi, - per cogliere e comprendere cioè il pensiero
medio. Questo chiudere gli occhi è un atto sensibile, che si può compiere con la volontà» (3, 324).
Nietzsche vuole dunque vivere, senza peraltro abbandonarsi completamente ed identificarsi con la
vita, ma piuttosto soltanto per conoscere ciò che è.
In tali riflessioni, la sua vita e le sue esperienze sembrano essere per Nietzsche un insieme di
avvenimenti che deve essere accettato e preservato dal disturbo della propria attività, per poi
pietrificarlo nella successiva conoscenza. Ma, nella comprensione che Nietzsche ha di se stesso,
questo punto di vista è solo transitorio, e viene semmai accolto nell’attività della sua conoscenza.
Egli considera questa sua attività come un « esperimento ». Già la conoscenza apparentemente solo
contemplativa delle esperienze spontaneamente accettate, opera un effettivo processo di distinzione:
contro i falsificatori delle loro personali esperienze, Nietzsche afferma: « Noi... vogliamo guardare
negli occhi le nostre esperienze di vita, così severamente come fossero un esperimento scientifico...
» (5, 243). Ai fini della sua autocomprensione, per Nietzsche la vita stessa si trasforma in una serie
di esperimenti: « Vogliamo essere noi stessi i nostri esperimenti e le nostre cavie » (5, 243). Il
pensiero « che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla conoscenza », è per lui « il
grande liberatore ». La conoscenza diventa dunque « un mondo di pericoli e di vittorie » {5,
245); certo, « per diventare saggi bisogna voler fare certe esperienze, cioè buttargli in gola. Ciò è
indubbiamente molto pericoloso; più di un “saggio” fu così divorato » (3, 356). Nietzsche ha
esplicitamente riconosciuto che i suoi esperimenti sono intenzionalmente volti a trasformare le
proprie esperienze di vita: « Vedere le cose come sono! Mezzo: riuscire a vederle da cento occhi, da
molte persone! » (12, 13). Mentre coloro che non hanno personalità, a cui non succede proprio
nulla, nella loro neutralità sono ciechi verso i fenomeni reali, mentre le nature forti, nella loro
tirannia, non vedono che se stesse, misurano tutto in rapporto a se stesse, si ingannano su tutto e
dunque continuano a rimanere false, Nietzsche vuole intraprendere una terza via: essere personale
in innumerevoli forme: « Si debbono formare esseri nuovi »; per diventare giusto, uno deve « essere
passato attraverso molti individui » e servirsene « come funzioni ». « Non basta essere un solo
uomo » (12, 14). « Bisogna esser capaci di tempo in tempo di perdersi - e poi di ritrovarsi » (3,
359). « Chi vuol prendere parte ad ogni cosa buona, in certe ore deve anche saper essere piccolo »
(3, 230). Egli chiede a coloro che vorrebbero spacciarsi per conoscitori d’uomini: « Avete mai
vissuto, dentro di voi, fatti della storia: vacillamenti, terremoti, vaste e lunghe tristezze, fulminee
offerte di gioia? Siete mai stati istrioni con i grandi e piccoli istrioni? Avete mai realmente sostenuto
su di voi il vaneggiamento e il dolore degli uomini buoni? E per giunta il dolore e quella specie di
felicità dei piu malvagi?... » (4, 354). Tutto diventa esperimento, nulla costituisce piu il fondamento
su cui possa restare ancorata la conoscenza.
Se si considera che Nietzsche intende la propria vita come un esperimento, si impone
inevitabilmente la questione di sapere se resti ancora alla vita la serietà esistenziale, se per essa, in
quanto diviene mezzo di conoscenza, tutto non si volatilizzi, e se infine la conoscenza stessa non
perda ogni fondamento. Chi ha seguito ed approvato Nietzsche nella sua dissoluzione di ogni
evidenza dell’essere, considerato nella sua presunta fissità - nella misura in cui è questa la forma
con cui il sapere filosofico parla dell’in-sé delle cose -, resterà attonito di fronte al fatto che la vita
stessa, in ogni sua forma, è ridotta ad un esperimento, e sembra con ciò spogliata della serietà di
ogni decisione.
A tal proposito, bisogna rispondere che, se per Nietzsche la dedizione alle possibilità è la
condizione dell’ampliamento della conoscenza, la sua verità viene raggiunta attraverso la serietà del
possibile. Ciò che Nietzsche prova nella realtà e nella possibilità è per lui, di fatto,
inseparabilmente collegato, e rimane vero nella misura in cui nella possibilità stessa si esprime la
serietà del reale, che lo appassiona in modo struggente. Nietzsche ha proprio in mente il suo
pensiero sperimentale, quando distingue il proprio pensiero da quello degli altri. « Voi conoscete
queste cose come pensieri, ma i vostri pensieri non sono le vostre esperienze di vita, bensì l’eco
di ciò che capita agli altri: come quando la vostra camera trema allorché passa una vettura. Ma io
sono seduto nella vettura e spesso sono la vettura stessa » (11, 382). Così, per il suo modo di
intendete la conoscenza, Nietzsche diventa l’uomo per il quale ogni avvenimento ha tutta la serietà
della sperimentazione del possibile, in cui egli pensa di identificarsi con il corso dell’essere stesso, e
l’uomo che conosce al contempo in modo filosofico questo avvenimento. Spesso, l’uomo che vive
ciò che, nel medesimo istante, conosce, non è più lo stesso uomo; in tal senso, vale l’affermazione:
« È già da molto tempo che ho vissuto i fondamenti delle mie opinioni ». D’altra parte,
avvenimento e conoscenza sono per lui lo stesso atto; ma l’avvenimento non è piu per lui sostanza
certa di sé, e la conoscenza non è più sapere definitivo. Così, egli non è sempre sicuro di sé. Egli si
è consapevolmente esposto al pericolo del possibile, dell’esperienza dissolvente del puro e semplice
esperimento, dell’intreccio di ciò che può effettivamente essere o non essere, ed ha provato questo
pericolo fino al limite che la maggior parte degli uomini non conosce, o in cui soccombe. Egli solo
può dire con ragione di se stesso: « Spregiudicatezza nell’uso di mezzi pericolosi; perversità e
molteplicità del carattere intuite e sfruttate come pregi. La mia profonda indifferenza verso me
stesso:... io adopero il mio carattere » (15, 451). Questa sovranità pericolosa che distrugge forse
l’esistenza nel suo compimento storico, deve però essere intesa solo come l’eccezione di
un’esistenza del possibile, sacrificata come realtà. Lo sperimentare di Nietzsche è la sua
identificazione con il mondo, così come egli lo intende; la sua possibilità è la sua stessa realtà, il suo
sperimentare è il modo in cui egli prende le sue decisioni nella concretezza della sua esistenza
storica. Intendendo la sua vita intellettuale come un continuo sperimentare, Nietzsche perviene alla
sua specifica unità di vita e conoscenza.
Pensare a partire dalla dialettica reale. Nella sua autocomprensione, vita e conoscenza si unificano
nell’attività dello sperimentare; esse sono in un continuo movimento. Questo movimento è
dapprima involontario, poi cosciente e voluto. Poiché esso è unità di pensiero e vita, Nietzsche vi è
presente in ogni istante. La posizione è afferrata di volta in volta in modo assoluto, alla maniera
esclusiva di una forza vivente. È come se proprio ora Nietzsche pensasse l’unica verità vera e
propria. Ma, subito e con la stessa energia, avviene il capovolgimento nel contrario, il movimento
del mettere in discussione. Il fatto che Nietzsche non pensi dialetticamente secondo il metodo
tradizionale, in una rapida visione d’insieme (così facendo, egli avrebbe soltanto ordinato
circolarmente in una vuota ampiezza i gusci della concettualità), ma debba con tutto il suo essere
attraversare in modo vivente le posizioni: questo è ciò che noi chiamiamo la dialettica reale. In essa
sono effettivamente poste le opposizioni e le contraddizioni, senza sottostare ad una sintesi
conosciuta a priori, ma semmai ad una sintesi esistenzialmente aperta. « Questo pensatore non ha
bisogno di nessuno che lo confuti: a ciò gli basta se stesso » (3, 327).
Nell’autocomprensione di Nietzsche, questa dialettica reale è colta nel modo seguente. In primo
luogo, il movimento non è un accadere qualunque, senza direzione, ma si rapporta a se stesso:
Nietzsche lo chiama « superamento ». In secondo luogo, grazie al legame con l’esistenza
possibile che mette in movimento la vita, questo pensiero è sostanziale e deve essere distinto
dall’arbitrio intellettuale. In terzo luogo, esso è un’opera in corso di costruzione, ma che presenta il
pericolo, ad essa strettamente connaturato, di sprofondare continuamente nel no. In quarto luogo, il
suo cammino, per quanto abbia una direzione, conduce all'’infinito, perde il suo terreno, senza
conquistarne uno nuovo; questo pensiero ha la sua sostanzialità soltanto nella forma dell'essere-in-
cammino.
1. Poiché, nella sua esistenza d’eccezione, possibilità e realtà non possono essere separate, la
comprensione che Nietzsche ha di se stesso perviene al « superamento », così come si compie tanto
nella sua vita quanto nella sua conoscenza, che è la sua stessa vita. Per Nietzsche, il suo «
sperimentare » nasce dal compito che gli impone la sua conoscenza, che si spinge fino alle origini
del tutto. Questa conoscenza cerca di sondare tutte le possibilità, per superare ogni particolare
possibilità. Ma, poiché una possibilità solo pensata non diviene vita autentica, e dunque rimane
fuori dall’esperienza vera e propria, Nietzsche deve anche essere ciò di cui egli stesso sempre parla.
Tuttavia, ciò che per altri è qualcosa di esclusivo, in quanto è la loro realtà, in cui essi permangono,
diventa invece per Nietzsche solo un momento del movimento del suo pensiero vitalmente
illuminante. Poiché, quanto a possibilità, esso è tutto, non è nulla di definitivo e non può fermarsi in
nessun luogo. La dialettica reale fa continuamente procedere la sua esperienza in forza di uno
spietato autosuperamento. Se è vero che Nietzsche definisce questo autosuperamento come la sua «
qualità piu forte », d’altra parte egli è pure consapevole che esso scaturisce dal pericolo insito nella
sua vita e nel suo pensiero: « È ciò di cui ho piu bisogno - io sono sempre sull’orlo dell’abisso »
(12, 221).
Per Nietzsche la comparsa di questo superamento significa che continuamente vi si compie un
mettere-in-discussione, un attacco, un tentativo ili negazione; ma significa anche che ciò che è
negato, prima ancora che ne sia provata la verità, deve essere stato il suo proprio essere. Così,
egli vuole in tutta la loro ricchezza i contenuti che diventano per lui reali come possibilità. Egli
critica coloro che cercano di « acquistare un solo atteggiamento dell’animo e un solo genere di
vedute per tutte le situazioni e gli avvenimenti della vita »: questo modo di uniformarsi « si chiama
avere uno spirito eminentemente filosofico ». Egli pensa invece che per l’arricchimento della
conoscenza possa avere maggior valore dare ascolto alla voce sommessa delle diverse situazioni
della vita: « Queste portano con sé le loro particolari vedute. Così si partecipa in modo conoscitivo
alla vita e alla natura di molti, non trattando se stessi come individui unici, fissi e costanti » (2,
398). Mentre colui che « non è passato attraverso diverse convinzioni » resta « irrazionale e testardo
» (2, 407), il cammino e la volontà di Nietzsche è invece il seguente: « Aver percorso l’intera sfera
dell’anima moderna, essermi fermato in ciascuno dei suoi angoli - ecco la mia ambizione, la mia
tortura e la mia felicità » (16, 378). Dunque, secondo la sua autocomprensione, Nietzsche è o è stato
ciò che egli stesso combatte. Questo vale per ciò che egli rispetta e in cui crede; ma vale soprattutto
per ciò che egli considera la vera fatalità e la minacciosa rovina dell’uomo: il nichilismo e la
décadence. Egli si considera « il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé
fino in fondo il nichilismo stesso » (15, 138); oppure: « Décadent e inizio al tempo stesso...: sono
l’una e l’altra cosa » (15, 9). « Con ottica di malato guardare a concetti e valori più sani, o
all’inverso, dalla pienezza e sicurezza della vita ricca far cadere lo sguardo sul lavoro segreto
dell’istinto della décadence - questo è stato il mio più lungo esercizio, la mia vera esperienza... »
(15, 11).
Il significato del « superamento » sta nel fatto che Nietzsche non si abbandona definitivamente a
nulla di negativo e a nulla di positivo appartenente all’esperienza possibile, ma rischia semmai tutte
le posizioni, per dominarle poi tutte attraverso una negazione dialettica. « Mescolatemi e agitatemi
insieme a tutte le lagrime piante sulla terra e a tutte le afflizioni umane, e sempre io ritornerò a galla
come l’olio sull’acqua » (12, 253), e « qualunque cosa io crei e comunque l’ami, - ne debbo ben
presto essere avversario, avversario del mio amore» (6, 168).
Ciò diventa in Nietzsche un procedimento consapevole nel suo rapporto con se stesso, cioè a dire: «
Resistere a tutte le proprie inclinazioni naturali e tentare se in noi è qualcosa dell’inclinazione
opposta » (14, 349). «Perché faccio tacere la passione?... Altri hanno tutto il loro spirito nella
passione: io l’ho nella passione repressa e combattuta» (11, 387). Egli cerca dunque la verità
procedendo in questo modo: « resistendo e contraddicendo... a tutto quello che faceva bene al mio
sentimento immediato» (14, 350). Infatti: «Io ho fallito in tutti i miei affetti. Io ho sempre
contrapposto l’uno all’altro» (12, 224).
2. Nella vita di Nietzsche, ovunque egli sia e qualsiasi cosa faccia, la dialettica reale assume
immediatamente la forma del pensiero, cosi come inversamente il suo pensiero diventa realtà del
suo essere; ed è proprio e solo per questo che egli può dire di questo suo pensiero sostanziale: «
Se il pensiero è il tuo destino, venera questo destino con onori divini e sacrificagli ciò che vi è di
migliore e di piu amato » (11, 20). Egli ha in mente non già un pensiero qualsiasi, ma proprio questa
necessità che fa di lui un filosofo: si tratta dunque di un pensiero che costituisce l’incessante
movimento sostanziale del suo essere. Se egli stesso deve essere stato in tutto ciò che vuole
superare, allora non è veramente superabile ciò che è soltanto pensato in modo intellettuale, e che
quindi non è nulla. Egli si differenzia dunque dal « don Giovanni della conoscenza », che pure gli è
esteriormente simile per il suo continuo movimento (anche se ciò non impedisce che, per un istante,
egli possa anche essere e fare le stesse esperienze del « don Giovanni della conoscenza »): « Gli
manca l’amore per le cose che conosce, ma nella caccia e negli intrighi della conoscenza... è
ingegnoso, formicolante di desiderio e ne gode, finché non gii resta piu nulla cui dar la caccia, se
non quel che nella conoscenza è l’assolutamente nocivo... » (4, 260).
3. La conoscenza dialettica guidata dall’essere-sé non può mai limitarsi a negare. Il no è il
cammino verso il nuovo sì. Per questo Nietzsche esige, ad esempio, di « superare ogni cosa
cristiana con qualcosa di sovra-cristiano, e non solo liberarsene » (16, 390). Egli esclama,
rivolgendosi a colui che opprime se stesso in quanto si limita a negare: « Tu hai superato te stesso:
ma perché ti mostri a me soltanto come colui che è superato? Io voglio vedere il vincitore... » (12,
283). Il vincitore è colui che ha conquistato il sì, dal quale risulta, come mera conseguenza, un no.
Per lui, 1’« autosuperamento » ha « senso soltanto come mezzo di formazione della forza
dominante » (14, 273). Invece, il procedimento per cui il sì risulta dal no, secondo Nietzsche è
proprio soltanto di colui che crea, è il suo segreto: « Io scrutavo le origini: allora mi estraniavo da
ogni rispetto... Ma in me stesso il principio del rispetto germogliò segretamente; nacque da me un
albero, all’ombra del quale mi sono seduto, l’albero dell’avvenire » (12, 252). Il primo discorso di
Zarathustra dà un’immagine della dialettica reale dell’esistenza. Egli vede compiersi le tre
metamorfosi dello spirito, che conseguono dal portare le cose piu pesanti e diffìcili: oltre
alla liberazione da queste catene, attuata grazie al sacro no, è necessario prendersi il diritto per
nuovi valori - per creare grazie al sacro sì (cfr. 6, 33-36).
La negazione dialettica, come procedimento solo pensato o realmente compiuto, ha dunque senso
soltanto nel movimento di costruzione. Ma questo consiste nel reciproco legame storico dei
procedimenti, nel conservare ciò che è stato. « Continua sempre a divenire ciò che tu sei —
educatore e plasmatore di te stesso!... Allora tu conservi la memoria dei tuoi momenti buoni e ne
trovi la connessione, l’aurea catena del tuo te stesso » (12, 177). Ma se, nel continuo
autosuperamento, proprio tutto viene messo in discussione, compreso anche, da ultimo, questo
stesso cammino della libera conoscenza - (« Infelice! Ora hai compreso anche la vita del solitario,
del libero: e di nuovo... te ne sei precluso la via, proprio mediante la tua conoscenza ») - resta
ancora il compito filosofico: « Io voglio ordinare tutto ciò che nego, e cantare fino in fondo la
canzone » (12, 224); e ne risulta un’unità che può diventare il tutto della conoscenza dialettica delle
possibilità dell’essere. Questa oggettivazione intellettuale è soltanto una prospettiva transitoria di
Nietzsche. Egli non potrebbe mai esserne soddisfatto. La dialettica reale resta per lui origine e
destino.
4. Tuttavia, il superamento ed autosuperamento, questo passare attraverso tutte le possibilità,
sembra essere senza meta. Dove conduce il cammino della dialettica, realmente sperimentata e
prodotta attraverso il sacrificio continuo di se stessi? Se l’ultimo superamento - per esempio quello
degli uomini superiori nel quarto libro dello Zarathustra - è puro movimento generato dall’impulso
delle estreme esigenze di veridicità, senza che ne risulti un chiaro ideale e la creazione e
realizzazione dell’uomo stesso, e quindi anche senza riconciliazione e senza altre decisioni se non
quella della negazione, in tal caso sembra che, di fatto, si tratti esclusivamente di una incessante
crocefissione di sé, che si conclude nel nulla. Ma, anche laddove non espone il proprio ideale in
modo chiaro, Nietzsche coglie tuttavia il senso positivo del superamento nel suo stesso cammino:
egli evoca l'infinità.
In verità, il giovane Nietzsche pensava diversamente, quando riconosceva negli orizzonti chiusi la
condizione per una vita piena: « Questa è una legge generale: ogni vivente può diventare sano, forte
e fecondo, solo entro un orizzonte »; per una tale potente natura « l’orizzonte è chiuso e completo »
(1, 287). Ma piu tardi, in una delle sue visioni retrospettive dei propri scritti, Nietzsche comprende
se stesso in modo opposto; egli rileva infatti in se stesso « una buona volontà di orizzonti aperti, una
certa accorta cautela di fronte alle convinzioni » (14, 354). Di fatto, nella sua cosciente volontà e nel
suo effettivo pensiero, ritorna sempre l’anelito verso l’infinito; egli comprende se stesso, in modo
sempre più chiaro, nell’ineluttabilità e nell’incredibile pericolo dell’infinito, in cui egli si arrischia
non solo per gli istanti del possibile, ma - come l’eccezione che egli è - sempre e fino in fondo.
Egli si sente come « un uccello in volo verso coste lontane » (12, 323). Una nuova nostalgia lo
strugge: «la nostalgia di casa senza casa» (12, 255). « Con la forza del suo sguardo spirituale e della
sua penetrazione visiva cresce la distanza...: il suo mondo diventa piu profondo e diventano visibili
sempre nuove stelle, sempre nuovi enigmi e immagini » (7, 80).
Ma Nietzsche sperimenta l’orrore di fronte al pericolo « nell’orizzonte dell’infinito »: « Abbiamo
lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i pomi alle nostre spalle - e non è
tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guàrdati innanzi!... Guai se ti coglie
la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà - e non esiste più “terra” alcuna! » (5,
162); “È solo l’occhio tuo, infinitudine, che immenso mi sta guardando! » (5, 359).
Non resta che il cammino in quanto tale. Nietzsche ne parla spesso. Nel primo volume di Umano,
troppo umano, nell’aforisma intitolato « Parole di conforto di un progresso disperato », Nietzsche
scrive: « Inoltre non possiamo piu tornare al vecchio, abbiamo bruciato le navi, non resta che essere
valorosi... » (2, 232); e nell’aforisma « Il viandante » si legge: « Chi anche solo in una certa misura
è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante » (2,
413). Nietzsche accenna a questo cammino anche in altri contesti: nell’aforisma « Avanti! » (2,
226), nell’ultimo aforisma di Aurora, « Noi, aerei naviganti dello spirito» (4, 371), e laddove parla
di «noi argonauti dell’ideale» (5, 343).
Il fatto che, nell’orizzonte dell’infinito che deve essere universalmente conosciuto, la via di questa
dialettica reale diventi sempre più stretta e ad ogni passo sempre più inaccessibile, e che in ogni
superamento debba quindi essere determinata da un essere-sé, non riconosciuto, che invece del
nulla crea la pienezza, rende questa stessa via inafferrabile nella sua unicità. Essa non può essere
insegnata, né conosciuta; nella sua possibilità, diventa incerta per la stessa comprensione che
Nietzsche ha di sé: « Posso trovarmi ancora sul gradino più stretto della vita: ma chi sarei se vi
mostrassi quest’arte? Volete vedere un funambolo? » (12, 283).
La coscienza della forma logica di pensiero
L’autocomprensione di ogni filosofia si esprime soprattutto nel modo della sua presa di coscienza
logica. Il filosofare sa al tempo stesso che cosa fa e come lo fa; lo sa in modo metodicamente
chiaro.
Nel suo modo di presentarsi, il pensiero di Nietzsche - che non soltanto si sviluppa in una pura
attività intellettuale attraverso la coerenza logica del suo oggetto, ma procede dall’origine della
dialettica reale nella forma di ciò che è pensato in modo affermativo — è caratterizzato dalla
problematicità di ogni singola asserzione e da una persistente contraddittorietà. Nella dialettica
reale del pensiero vivamente compiuto e sofferto, trae origine ciò che si esprime in una dialettica
obiettiva, cioè nel movimento del pensato che si dissolve o si accresce in contraddizioni; questa
dialettica obiettiva ha la sua possibilità a partire dalla molteplicità di significati e dalla mobilità di
tutto il pensabile.
Se la dialettica pervade ognuno dei pensieri nietzschiani, e Nietzsche nella sua completa veridicità
ha confidato in essa, purtuttavia egli non l’ha impostata metodicamente. Glielo impediva la
veemenza delle idee che si sovrapponevano continuamente l’una all’altra, la sua vita di pensatore,
una vita in continua tensione e che raggiunge la pace solo in momenti mistici. E gli era di ostacolo
anche la mancanza di una cosciente appropriazione delle metodiche del pensiero filosofico. Di fatto,
Nietzsche ha tentato solo occasionalmente l’autocomprensione logica, e non l’ha sviluppata.
Ciononostante, Nietzsche è a conoscenza anche di questo problema fondamentale della possibilità
di ogni filosofare, cioè della questione delle forme logiche; ciò accade quando egli parla di
opposizione e contraddizione, del tutto, del sistema.
Opposizione e contraddizione. Il giovane Nietzsche affronta il pensiero metafisico: « Se la
contraddizione è l’essere veritiero..., se il divenire appartiene all’apparenza, allora comprendere il
mondo nella sua profondità significa comprendere la contraddizione » (9, 198). Già molto prima
egli aveva intravvisto questo enigma: « Quando avevo dodici anni mi inventai... Dio -Demonio. Il
mio sillogismo era che Dio... per poter pensare a se stesso, doveva pensare il suo contrario... » (14,
347).
La questione diventa: contraddizione e opposizione si trovano nell’essere stesso, o sono soltanto
forme fenomeniche e dunque non esistenti in sé? Il divenire appiana le contraddizioni, e la
contraddittorietà viene forse eliminata nella realtà ultima del divenire? O il divenire è
piuttosto apparenza, e le contraddizioni insite nell’essere sono la realtà ultima? Partendo da tali
principi, Nietzsche non ha poi continuato a pensare in modo conseguente. Ma ha sempre di nuovo
toccato questo eterno problema fondamentale del filosofare, in cui logica e metafisica si incontrano.
Se, ad esempio, per Nietzsche « i problemi filosofici riprendono oggi in tutto e per tutto quasi la
stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per
esempio il razionale dall’irrazionale...? » {2, 17), ne segue tuttavia per lui subito che « è lecito
dubitare, in primo luogo, se esistano in generale antitesi, e in secondo luogo, se quei popolari
apprezzamenti e antitesi di valore... non siano forse che apprezzamenti pregiudiziali » (7, 10).
Perciò Nietzsche, nel pensare e nel giudicare, si guarda « da tutte le opposizioni grossolane e
squadrate » (14, 354): « solo sul mercato si viene assaliti con la richiesta di un sì o di un no » (6,
74).
Con tali osservazioni, Nietzsche sembra improvvisamente penetrare per un attimo nel fondamento.
Di solito egli si muove già in particolari esperienze contemplative, che gli mostrano che la verità
non può essere incontrata in rozze antitesi e alternative: poiché gli opposti sono legati l’uno con
l’altro, la verità e il vero essere possono prodursi solo nella contraddizione. Sarebbe possibile che il
valore delle cose buone « consista proprio nel fatto che esse sono capziosamente imparentate,
annodate, agganciate a quelle cattive, apparentemente antitetiche, e forse anzi sono a queste
essenzialmente simili » (7, 11), e « che l’uomo piu alto... sia l’uomo che rappresenta al massimo il
carattere antitetico dell’esistenza... Gli uomini ordinari... si rovinano subito, quando cresce... la
tensione degli opposti » (16, 296). Così, Nietzsche può dire: « L’uomo pili saggio sarebbe quello
piu ricco di contraddizioni...: e in mezzo i suoi grandi attimi di consonanza grandiosa » (15, 336).
Da questa concezione onnicomprensiva dell’essere come ciò che è in contraddizione e opposizione,
che tuttavia non permangono, risulta per Nietzsche la forma del filosofare come dialettica e quella
della vita libera e originaria come dialettica reale. Il no è nel contempo un sì. Zarathustra «
contraddice con ogni sua parola, lui, lo spirito più affermatore di tutti; in lui tutti gli opposti sono
legati in una nuova unità. Le forze supreme e infime... sgorgano da una sola sorgente con immortale
sicurezza » (15, 95); perciò Nietzsche definisce « mediocre » nell’uomo il fatto « che
non comprenda come necessario il rovescio delle cose; che combatta gli inconvenienti come se se
ne potesse fare a meno; che non voglia accettare con I’una cosa l’altra... » (16, 295). Egli decanta la
specie tedesca (caratteristica in Leibniz, Goethe, Bismarck): «Vissero fra i contrasti senza
curarsene, pieni di quella forza plasmabile che si guarda dalle convinzioni e dalle dottrine, in quanto
le usa l’una contro l’altra, riservando a se stessa la libertà » (16, 297-298).
L’essere liberi da ogni certezza derivante dall’esclusione delle opposizioni, inteso come capacità di
sopportare l’opposizione e la contraddizione, porta nella pratica non solo al fatto di poter sopportare
la contraddizione dell’altro, bensì al fatto che l’uomo libero desidera persino la contraddizione e la
suscita (5, 227). Questa libertà richiede il processo della dialettica reale: « Tu devi voler bruciare te
stesso nella tua stessa fiamma... Da solo tu vai sul cammino del creatore: dai tuoi sette demoni tu
vuoi creare un dio! » (6, 94).
È chiaro che per Nietzsche dall’esperienza della contraddittorietà non è certo sorto il metodo
cosciente, né una continua, duratura autocomprensione del suo pensiero. Per lui, sofistica e
dialettica non si separano espressamente, e nemméno si separa il senso dell’unificazione degli
opposti dal senso della decisione tra di essi; egli non sviluppa la multidimensionale logica di
opposizione e contraddizione; egli diventa a tratti, per così dire, chiaroveggente senza rendere
ulteriormente chiaro ciò che scorge. Ciò che solo di quando in quando egli vede logicamente è però
ciò che, di fatto, porta a termine. La sua autocomprensione logica ha toccato, ma non
completamente illuminato, ciò che, secondo la forma, è il nucleo del suo filosofare.
Il tutto. La coscienza che Nietzsche ha della connessione interna di tutto il suo essere ed il suo
pensiero nella successione costruttiva del tempo non è, originariamente, di tipo logico: « Noi
cresciamo come alberi... - non in un solo luogo, ma ovunque, non in una sola direzione, ma sia in
alto che in fuori, sia in dentro che in basso;... non c’è più per noi nessuna libertà di fare una
qualsiasi cosa isolatamente, di essere ancora una qualsiasi cosa per sé stante... » (5, 328).
Da ciò Nietzsche ricava in primo luogo (per il suo conoscere) l’esigenza logica della totalità: « non
possiamo né sbagliare singolarmente, né cogliere singolarmente la verità » (7, 289). Tutto il pensato
è, però, qualcosa di isolato. Il senso della verità di tutto il pensato non può perciò valere in assoluto.
Nietzsche respinge come « peccato originale dei filosofi » il fatto di corrompere i principi
assumendoli incondizionatamente. Così, la « volontà » di Schopenhauer è diventata, « per il furore
di generalizzazione filosofica, una calamità », « quando si afferma che tutte le cose della
natura hanno una volontà » (3, 17). È impossibile « dipingere il quadro della vita », poiché sorgono
« sempre e soltanto quadri... da un’unica vita » (3, 22). Ma la totalità non diventa oggetto. Rimane
pur sempre il suo compito, ma per lui, nella conoscenza logica, essa si disperde nel mero « tutto »: «
Questo dice: tutto il mondo è pensiero, volontà, guerra, amore, odio: fratelli miei, io vi dico: tutto
ciò, preso singolarmente, è falso, tutto ciò, preso nel suo insieme, è vero» (12, 240).
In secondo luogo (per il giudizio di valore) Nietzsche rileva che la totalità non è valutabile (cfr.
supra). L’orizzonte sorto attraverso l’idea della totalità richiede nella valutazione degli avvenimenti
di « conquistare un’altezza di contemplazione... dove si capisce che tutto va esattamente
come dovrebbe andare; che ogni specie di “incompiutezza”... fa parte anch’essa della suprema
desiderabilità » (16, 362). Persino i fraintendimenti nei consueti modi di intendere il mondo
dovrebbero essere sanzionati nella concezione di una perfezione (16, 365), gli aspetti negati
dell’esistenza dovrebbero essere concepiti non solo come necessari, ma altresì come desiderabili
(16, 383).
Il pensiero di Nietzsche, che ha toccato la situazione logica fondamentale - tutto il pensato è
particolare, ogni valutazione è particolare, la vera conoscenza e il vero valutare si trovano solo sul
cammino che conduce al tutto — supera in tali formulazioni il cammino mediante un’evidente
richiesta di riconciliazione di tutto il reale nella totalità. Per lui scompare allora il salto tra un tutto
che deve essere immaginato e in cui le contraddizioni si eliminano, e la finitudine dell’esistenza,
che deve decidersi tra le contraddizioni. Egli si incaglia qui temporaneamente senza saperlo
nell’antichissimo pensiero della conciliazione nella totalità. Ma ciò che l’uomo può scorgere come
totalità nel movimento del suo pensiero, non è in grado di esserlo egli stesso nella decisione
concreta. La conciliazione esiste, quando esiste, solo nella trascendenza, non in un tutto pensato o in
un atto conclusivo. Tra la totalità del conoscere che rinchiude in sé tutte le contraddizioni e la
singolarità dell’esistenza perentoria nel modo di agire, rimane la contraddizione definitiva nel
tempo. Non posso decidermi per l’essere della contraddizione in me, come se io stesso potessi
essere il tutto, senza dissolvermi esistenzialmente nel nulla.
Ma l’effettivo filosofare di Nietzsche è anche qui incomparabilmente più forte della sua coscienza
logica. A volte è vero che egli può anche fare con disinvoltura ciò che combatte in altri filosofi, nei
quali il cammino verso la conciliazione del tutto si compie concettualmente. Ma, al di là di questi
istanti, egli abbraccia, in modo altrettanto decisivo, il comportamento della finitudine. Quando dice:
« Una cosa sono io, un’altra i miei scritti » (15, 49), egli sembra sostanzialmente percepire il salto
tra esistenza e conoscibilità del tutto. Ma per prima cosa egli aveva decisamente riconosciuto che «
non c’è un “tutto” », che « non esiste affatto un processo complessivo (pensato come sistema) » (16,
169), e nemmeno l’insieme di ciò che è pensato aspira mai ad un sistema, ma, anzi, questo viene
respinto a favore della non conclusività e dell’aperta infinità. L’esigenza dell’esistenza prevale su
ogni rassicurazione tranquillizzante prodotta da qualsiasi conoscenza.
Il sistema. Le filosofie esistono sotto forma di sistemi. Nietzsche le vede come strutture che si
presentano necessariamente in molteplici forme. I sistemi dei presocratici « hanno in sé un punto
che è completamente irrefutabile, una disposizione d’animo personale... Il modo di esaminare le
faccende umane è senz’altro là esistito e dunque è possibile » (10, 5). « I diversi sistemi filosofici
sono da considerare metodi educativi dello spirito; essi hanno sempre sviluppato una forza
particolare dello spirito, con la loro pretesa unilaterale di vedere le cose proprio cosi e non
diversamente » (13, 82). I sistemi non sono tali a piacere, ma sorgono da un terreno di volta in volta
caratteristico: « La lotta dei sistemi... è una lotta di istinti affatto determinati (forme di vitalità, di
decadenza, di ceti, di razze, ecc.) » (15, 448).
Ma Nietzsche non percorre il cammino di questi sistemi. Egli si sente lontanissimo da quei filosofi
« che abitano in una casa della conoscenza ben costruita e ritenuta solida ». Egli ha la « forza e
l’agilità per restare in un sistema incompiuto, con prospettive libere e non definite », e non ha
bisogno di un mondo dogmatico.
Secondo Nietzsche, i sistemi hanno la loro origine nel « pregiudizio fondamentale... che l’ordine, la
perspicuità, la sistematicità debbano inerire al vero essere delle cose, mentre il disordine...
deriverebbe solo da un mondo falso o conosciuto in modo incompleto... » (13, 57). A questo
pregiudizio sono inclini determinati tipi di uomini: così, ad esempio, quelle « menti schematiche
che ritengono piu vero un complesso di pensieri, quando lo si può inserire in schemi o tavole di
categorie precedentemente tracciati » (13, 57), oppure quelle che soffrono dell’incertezza e tendono
dunque ad una rigida fede (13, 72). Muovendo dal suo impulso alla veridicità, Nietzsche respinge il
sistema: « La volontà di sistema è una mancanza d’onestà » (8, 64). Nella sua esecuzione, « quella
dei sistematici è un’arte da commedianti: volendo colmare un sistema... essi devono tentare di
far apparire le loro deboli qualità nello stile di quelle più robuste - essi vogliono rappresentare
personalità complete, di un’unica e forte specie » (4, 255). Da ciò consegue: « È una specie di
impostura, quando oggi un pensatore propone una totalità di conoscenza, un sistema...» (13, 72), e
ancora: « Non sono abbastanza limitato per un sistema — e nemmeno per il mio sistema » (14,
354).
Il fatto che, ciononostante, Nietzsche tenda a un sistema, deve avere un altro senso. O questo è un
sistema logico-tecnico: « È sufficiente che ci accordiamo su di una totalità di presupposti di
metodo... » (13, 73); ma Nietzsche non ha applicato questo senso. Oppure il sistema sarebbe,
contro i sistematici disonesti, quello di un essere che pensa al tutto, benché mal volentieri
schematizzi e sia amico dell’incertezza (13, 72). Questo essere è Nietzsche; egli, il cui senso per il
tutto è così decisivo, non può essere senza un riferimento a una qualche forma del sistema. Bisogna
dunque vedere come egli intenda ciò.
Anzitutto per il pensiero di Nietzsche è dominante la forma aforistica.
Il modo di operare di Nietzsche3 è aforistico; esso sembra essere rimasto sostanzialmente uguale per
tutta la sua vita: le idee gli sovvenivano nel procedere; nell’ultimo decennio egli passava all’aperto
molte ore del mattino e del pomeriggio, stendendo estemporaneamente annotazioni sul taccuino e,
dopo esser rincasato, riempiva i suoi quaderni, rielaborando con stile piti accurato ciò che aveva
scritto. Così sorse una quantità straordinaria di frammenti che furono subito portati alla forma
concettuale fin dalla loro stesura iniziale. Da questo materiale provengono sia i saggi unitari, sia i
libri di aforismi, sia gli abbozzi della grande opera sistematica degli ultimi anni. I frammenti
postumi pubblicati in questa loro prima ed originaria forma sono altrettanto numerosi di quelli
pubblicati quando Nietzsche era ancora in vita. Poiché tutte le pubblicazioni sono o aforismi, o
saggi che, commisurati all’idea del tutto, assumono essi stessi il significato di aforismi, di fatto la
forma letteraria complessiva del pensiero di Nietzsche è rimasta aforistica.
Nietzsche ha coscientemente eletto 'l’aforisma a forma. È vero che egli, costretto dalla malattia, per
parecchi anni deve accontentarsi di ritoccare per la pubblicazione ciò che ha scritto, lasciandolo
comunque pur sempre nella forma dell’aforisma: egli lamenta che, in tal modo, per il lettore « il
terreno dell’equivoco è spesso molto vicino; la brevità, il detestabile stile telegrafico, a cui mi
costrinsero mente e occhi, ne sono la causa » (a Gast, 5. 11. 71). Ma egli ricava da ciò un compito:
poiché gli uomini moderni aprono la loro anima soltanto durante i loro viaggi, quando sono liberi
dalle esigenze della professione, coloro che lavorano per cambiare le opinioni generali devono
rivolgersi ai viaggiatori. Da questa considerazione risulta « una forma determinata di
comunicazione: infatti, all’essenza alata e inquieta del viaggio ripugnano quei sistemi di pensiero
tirati alla lunga... Debbono essere libri che non si leggono da cima a fondo, ma si sfogliano di
frequente » (11, 5). Egli non ripete mai questo punto di vista, ma trova più tardi altre giustificazioni:
« Una cosa detta con brevità può essere il frutto e il raccolto di molte cose pensate a lungo » (3, 71).
Contro ogni apparenza, essa può essere la parte di un tutto. « Credete dunque
che sia opera frammentaria, opera imperfetta perché ve la si dà (e si deve dare) a pezzi? » (3, 71).
La forma aforistica è persino necessaria per la comunicazione di una cosa essenziale: « È vero che
una cosa resta incompresa... per il semplice fatto che viene afferrata a volo...? Per lo meno ci sono
verità... di cui non ci si può impadronire se non all'improvviso... » (5, 341). Perciò, « i libri piu
profondi e inesauribili avranno certo sempre qualcosa del carattere aforistico e repentino dei
Pensieri di Pascal » (14, 450). Fino all’ultimo Nietzsche è legato a questa forma: « L’aforisma,
la sentenza, in cui tra i Tedeschi sono il primo maestro, sono le forme dell’“eternità”; la mia
ambizione è quella di dire in dieci proposizioni quel che ogni altro dice in un libro - quel che ogni
altro non dice in un libro... » (8, 165).
Ciononostante, quando scrive questo, da lungo tempo la sua volontà tende alla forma di un’ampia
opera complessiva di carattere non aforistico. E tuttavia, i suoi numerosi piani non sono affatto
progetti sistematici, ma progetti espositivi; essi non ricevono, nella successione temporale, uno
sviluppo nel senso della costruzione metodica di tipo sistematico, le cui tappe, per esempio, si
presenterebbero nei progetti; piuttosto, questi stessi piani hanno un carattere complesso e aforistico.
Anche un sistema costruttivo dell’insieme sarebbe per Nietzsche di fatto assurdo: egli può
delineare eventuali abbozzi sistematici, ma devono rimanere semplici strumenti per il suo uso
personale; essi non possono comprendere l’insieme del suo pensiero.
A differenza tanto di un sistema come opera di esposizione, quanto del sistema come concezione del
mondo alla maniera delle precedenti metafisiche (Nietzsche avrebbe potuto realizzare entrambi, se
non si fosse ammalato e se avesse avuto tempo, ma anche in tal caso solo come uno strumento del
suo pensiero globale, non come la forma di questo stesso pensiero), l’unità del suo pensiero
complessivo è « piu di quanto si è soliti chiamare filosofia » (a Overbeck, 20. 8. 84). Il tutto in
Nietzsche è il tratto onnicomprensivo di cui la grande politica, la costruzione
sistematica dell’essere, la concezione mistica dell’essere sono i singoli momenti, ognuno dei quali,
senza l’altro, sarebbe privato del suo senso. Perciò il pensiero di Nietzsche è soltanto un analogon
dei sistemi precedenti. La totalità organica del suo pensiero, come tale inconsapevole, non è
propriamente un tema o un oggetto del suo pensiero, e tuttavia è ciò che cresce
nell’unità complessiva del suo stesso pensiero. Se si cerca di ricavare il sistema (come accade in
parecchie impostazioni della nostra esposizione dei suoi pensieri fondamentali), allora si naufraga
in un compito senza fine. Ciò che si ricava potrebbe essere forse, nel migliore dei casi, qualcosa di
piu e di nuovo rispetto alla totalità ormai cosciente, ma ogni volta sarà anche qualcosa di meno,
poiché bisogna necessariamente dimenticare, ignorare, escludere. Ciò che Nietzsche stesso ricavò
dalla sua vita di pensatore in scritti volta a volta in sé compiuti, quando presentava i « vestiboli »
della sua filosofia, gli attacchi polemici, i tratti aforistici, non era piu il tutto.
Questo tutto si trova nei suoi diversi modi di procedere per impossessarsi della verità. Nella
riflessione, nella contemplazione, nell’esperienza e nello slancio mistico, ovunque Nietzsche
procede da possibilità a possibilità. Egli, come Kierkegaard, lesse il « testo originale delle
condizioni dell’esistenza umana ». Ogni tipo di verità, in quanto è esistenziale, anche nelle sue
forme inautentiche, sviate, compare in lui. Questo suo percorso è, però, un movimento di decenni.
La verità di Nietzsche non si trova in uno stadio qualunque, non alla fine né all’inizio, e nemmeno
su un’altura, bensì nel movimento complessivo, in cui ogni tipo di verità ha, nel suo rispettivo
contesto, il suo insostituibile senso.
Questa energia unificante del tutto che si manifesta attraverso un movimento, in quanto tale non si
esprime, come in Hegel, mediante un’opera sotto forma di sistema. La forza visionaria nel
particolare, la costruzione di particolari correlazioni, i tentativi di pensare possibilità totali, tutto
ciò si fonde di nuovo allo stesso modo nel movimento complessivo.
Perciò il sistema di Nietzsche non si può ottenere mediante una costruzione d’insieme. Esso rimane
un sistema in un continuo e sempre rinnovato stato embrionale. Ma le sue piu profonde intuizioni,
quelle che si estendono a tutto, non sono presenti in modo stabile: ciò che Nietzsche scrive non
dev’esser letto su un piano solo; ci sono gradi di vicinanza e di lontananza alla sostanza del suo
movimento. La mancanza di un metodo coscientemente applicato limita di volta in volta la
chiarezza, consente l’ingiustizia e certo la banalità; tale mancanza rende possibile il modo di parlare
assolutizzante, definitivo e dogmatico. I colpi infetti dagli smascheramenti psicologici diventano
anche colpi mortali. Ma la sicurezza istintiva e la coscienza metodica di Nietzsche bastano già a
mostrare queste mancanze per il modo in cui Nietzsche comprende se stesso. A questa
autocorrezione corrisponde il modo in cui le frasi di Nietzsche si limitano, si eliminano,
si interpretano reciprocamente. Non si può negare che come Nietzsche solo nei momenti buoni
aveva sott’occhio l’insieme della sua opera, nella totalità plastica del suo compito, così la sostanza
del suo filosofare non è presente in modo uniforme in tutti i suoi scritti. La forza del suo contenuto è
che il particolare emerge in modo isolato e acuto; che non sussista in modo duraturo, è la forza della
dialettica che agisce in Nietzsche in modo sistematico e che egli ha chiaramente espresso nei
momenti di maggior consapevolezza.
La possibilità della comunicazione
La caratteristica della vita di Nietzsche era la solitudine; ed egli ne era consapevole. Trattando della
verità nella rottura trascendente, si è visto che incomunicabilità e silenzio erano un limite
essenziale. Nell’autocomprensione del suo filosofare, Nietzsche non ha mai riflettuto in modo così
vario su nessuna questione come su quella che riguarda ciò che è comunicabile, come è
comunicabile, che cosa fonda l’incomunicabilità e che cosa consegue da ciò.
Necessità della comunicazione. Che l’esser-vero e l’esser-comunicabile vadano di pari passo,
Nietzsche l’ha espresso nella semplice frase: « Uno solo ha sempre torto, ma con due comincia la
verità » (5, 203). Nietzsche ha sperimentato ciò quando nessuno ilo ascoltava, e nessuno sembrava
capire ciò che egli voleva. Peter Gast divenne per lui una sorta di compensazione per la mancata
comprensione; quando Nietzsche credeva « quante buone cose » fossero loro « comuni », scrisse a
proposito di questa sua grande fortuna: « Lei non può affatto sapere quanto mi sia di conforto il
pensiero di questa comunione - Infatti un uomo solo con i suoi pensieri è considerato un pazzo, e
abbastanza spesso anche da se stesso: ma con due inizia la “sapienza”, e la ferma fiducia e il valore
e la salute spirituale » (a Gast, 10. 4. 81).
Ma tale soddisfazione rimase transitoria. Piuttosto, crebbe per Nietzsche la problematicità di ogni
forma di comunicazione; essa divenne il pungolo della sua autocomprensione: « Il nostro dubbio
riguardo alla comunicabilità del cuore è sempre più profondo... ». Dipende dagli altri: « Non si ha in
mano la possibilità di comunicare... si deve trovare colui verso il quale può esserci comunicazione »
(alla sorella, 20. 5. 85). E dipende da lui stesso; ma « io sono il più nascosto di tutti coloro che si
nascondono » (12, 257). Che tali frasi si ripetano costantemente, non significa per Nietzsche una
rinuncia, bensì la spinta appassionata verso l’imperturbabile comunicazione del vero. Persino di
fronte all'impossibilità di comunicare il suo pensiero più profondo Zarathustra, affermando ancora
l’apparenza della comunicabilità, può dire ai suoi animali che parlano invano: « È per me un tale
ristoro che voi chiacchieriate... Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni,
arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità?... Proprio tra le cose più simili tra
loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l’abisso più tenue è il
più difficile da superare... Il parlare è una follia bella... » (6, 316 e sgg.).
Il motivo dell'incomunicabilità. Nietzsche è consapevole della ragione per cui ciò che è essenziale,
la stessa verità, è incomunicabile: comunicabile è soltanto ciò che è dicibile, dicibile è soltanto ciò
che è pensabile, ma tutto il pensato è un’interpretazione. Perciò Nietzsche sa che « per essere
comunicabile qualcosa dev’essere fermo, semplificato, precisabile »; cioè deve essere « riordinato »
(16, 68). Come tale, ciò che vien detto non è già più il vero. Tutto ciò che è comunicato rimane vero
solo nel superamento della determinatezza di volta in volta incontrata. Ma Nietzsche stesso ha
ugualmente sviluppato simboli e dogmi molto determinati nella sua filosofia. Nella misura in cui
questi non significano un oscuramento e un restringimento dello sguardo di Nietzsche e sono di più
della drasticità della formulazione momentanea e di ciò che vi è di esclusivo in ogni affermazione;
nella misura in cui essi sono di più di una dottrina con le poche linee tracciate, oltre alle quali tutto
il resto viene trascurato, e più di sfavillanti lampi che rischiarano, fermati solo con la forza che
svelano soltanto per nascondere il resto in modo ancor più deciso; ebbene, in quanto tali, questi
simboli e dogmi devono, come tutto ciò che Nietzsche ha detto, essere ricompresi assieme nel
percorso del movimento come verità di nuovo superate, non definitive. Perciò il lettore viene
spronato da Nietzsche stesso a non trascurare la problematicità insita nelle dottrine che si
consolidano in modo crescente nel suo ultimo decennio, a cui sottostanno — certo raramente —
anche il superuomo, l’eterno ritorno, la volontà di potenza. La sua peculiare dottrina significa per
lui solo il tentativo di una nuova interpretazione. Ma poiché il cammino di questo interpretare e del
superare mediante una nuova interpretazione non ha limiti, « il mondo è piuttosto divenuto per noi
ancora una volta “infinitoin quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé
interpretazioni infinite. Ancora una volta il grande brivido ci afferra... » (5, 332). Questa è l’infinità
propria di Nietzsche, in cui la comunicabilità della verità, sia con se stesso, sia agli altri, è
impossibile, nella misura in cui voglia essere sostanzialmente univoca.
Poiché Nietzsche nell’origine del pensare avverte la presenza della verità e il compimento
dell’infinità, deve dunque necessariamente subentrare una continua insoddisfazione nei confronti di
ciò che è pensato, in quanto viene commisurato all’origine da cui è sorto: « Ahimè, che cosa siete
mai voi, miei pensieri scritti e dipinti!... alcuni di voi, sono pronti, lo temo, a divenire tante verità...
Che cosa... scriviamo e dipingiamo noi,... eternizzatori delle cose, che cosa soltanto siamo in grado
di dipingere? Ahimè, sempre unicamente quel che appunto è destinato ad appassire... » (7, 274).
Ma per colui che non fa propria la situazione della vera e propria incomunicabilità, la conseguenza
è che l’immutabilità di una convinzione, in cui egli rimane irretito come in un qualcosa che vien
detto, lo fa radicalmente smarrire in un’effettiva assenza di comunicazione, senza un’autentica
comunicazione in tutta quella che sembra essere la sua comunicazione; un uomo siffatto ha perduto
la sua « educabilità », è « duro, irrazionale, testardo, senza mitezza, un eterno sospettoso, un uomo
irriflessivo, che dà di piglio a tutti i mezzi per far prevalere la propria opinione, perché non può
affatto capire che ci devono essere altre opinioni » (2, 407). Egli è incapace di qualsiasi
comunicazione, è diventato veramente incomunicativo in ragione del fatto che si comporta come se
la verità fosse rintracciabile e comunicabile in modo univoco.
Ma l’apparente impossibilità della comunicazione dell’origine non sopprime in lui ogni possibilità
di comunicazione. Lo sforzo di Nietzsche e la sua autocomprensione sono rivolti in modo congiunto
alla vera comunicabilità che non può più avere, come contenuto assolutamente inteso, il carattere di
una verità definitiva ed inoppugnabile.
La comunicazione indiretta. È soltanto in apparenza una tecnica esterna, quando colui che comunica
non dice semplicemente che cos’è per lui la verità, ma raggiunge l’altro attirando la sua attenzione
in modo equivoco e inducendolo così a trovare da sé la verità. Se ciò che viene detto in
modo esplicito si dimostra falso quando pretende di sussistere come valore assoluto, allora rimane
la questione di sapere se, quando si dice qualcosa in modo indiretto, nel medium di questa
comunicazione non si colga di fatto la verità sulla verità. Nietzsche fa notare questa via indiretta
quando ricorda come sia frequente in Aurora la « exhortatio indirecta »: « L’esortazione e la
stimolazione diretta ha invece qualcosa di presuntuoso » (a Gast, 8. 81). Ogni verità direttamente
affermata è una profezia che Nietzsche di per sé rifiuta. Egli chiede: « Parlo come uno che ha
avuto una rivelazione? Allora disprezzatemi e non statemi ad ascoltare » (12, 218). Già il tono
estremo dell’espressione è per lui sospetto; infatti, egli dice dei suoi primi scritti:« La cosa estrema
tradisce... la violenza con cui si è cercato di mantenere l’inganno » (11, 383). Egli si spaventa della
« comune caratteristica » di questi scritti perentori e pretenziosi: « Essi parlano il linguaggio del
fanatismo. Quasi dovunque, in essi, dove il discorso si rivolge a chi la pensa diversamente, si può
notare quel modo sanguinoso di ingiuriare...: contrassegni odiosi, a cagione dei quali non avrei
resistito a leggere fino in fondo quegli scritti, se avessi conosciuto un po’ meno l’autore» (11, 407).
Quando a Nietzsche, nella sua riflessione critica, si presenta come problema la forma della
comunicazione indiretta, egli, in riferimento alla sua opera Umano, troppo umano, invita a non
parlare direttamente, bensì a far parlare una forma che sia quella del discorso indiretto; lo « spirito
libero » dev’esser dipinto come un’immagine e si deve tentare qualcosa di temerario, «far parlare
quello spirito, anzi attribuirgli un libro» (11, 7 e sgg.). Quest’idea di parlare dietro pseudonimi è
certo concepita da Nietzsche, ma non viene messa in pratica: essa si trova solo di rado negli scritti
postumi e nelle lettere. Quando egli, dopo lo Zarathustra, aveva portato a termine Al di là del bene
e del male, vi era « la difficoltà di trovare il luogo dal quale io potessi parlare... qui mi venne
ottimamente in aiuto il tipo, precedentemente predisposto, dello “spirito libero” » (a Gast, 20. 7.
86). Anche Zarathustra non è Nietzsche: « Guàrdati dal credere che mio figlio Zarathustra esprima
le mie opinioni. Egli è uno dei miei preparativi e intermezzi » (alla sorella, 4. 85). Al posto delle
figure che Nietzsche fa parlare, egli stesso, alla fine, vuole prendere la parola: « È deciso: voglio
parlare io, e non più Zarathustra » (1885, Biogr. II, 546). Partendo da tale argomento, Nietzsche
giunge allo stesso problema che Kierkegaard con i suoi pseudonimi e la sua illuminazione della «
comunicazione indiretta » ha coscientemente messo in atto. Ma Nietzsche lo ha toccato solo in
modo occasionale. Di fatto, egli si sente per lo piu identico allo spirito libero e a Zarathustra, anche
se poi si sforza di superarli.
Necessità e verità della maschera. Se ciò che è vero non è esplicito, allora la maschera fa parte
dell’esserci; non la maschera che vuole solo ingannare, ma la maschera che protegge per essere
penetrabile solo dallo sguardo autentico che coglie la verità. Nell’esserci, la forma indiretta non è
più una tecnica della comunicazione, ma è la verità dell’essere e dello stesso dire. Nella maschera vi
è tanto la menzogna comune quanto l’autentica verità; nell’opera come maschera vi è la possibilità
di confondere che deriva dall’ambiguità e dall’aspetto esteriore. Per il modo in cui si atteggiava,
Nietzsche imparò « per tempo a tacere, come anche che si deve imparare a parlare per ben tacere;
che un uomo che ha pensieri di fondo deve avere anche pensieri di superficie, sia per gli altri, sia
per se stesso: infatti i pensieri di superficie gli sono necessari per riposarsi di se stesso e per rendere
possibile agli altri di vivere con lui » (14, 348). Da allora in poi egli sa che « tutto ciò che è
profondo ama la maschera... Ci sono eventi di specie cosi delicata, che si fa bene a seppellirli e a
renderli irriconoscibili con una grossolanità... Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e
piu ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla
costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di
vita che egli dà » (7, 60). Una simile maschera è la giocondità. « C’è qualche cosa in noi che
facilmente si rompe... sembra che siamo giocondi perché siamo immensamente tristi?... Sorridiamo
tra noi sui melanconici del gusto,... poiché non siamo felici abbastanza per poterci permettere la
loro tenera tristezza... Possediamo un sapere del quale abbiamo paura, con il quale non vogliamo
restare soli... Rimani coraggiosamente al nostro fianco, beffarda spensieratezza... vogliamo pregare
dinnanzi alla maschera come alla nostra ultima divinità e redentrice » (13, 285-286).*
Se da un Iato Nietzsche vuole la maschera, dall’altro rifiuta subito la teatralità in cui sprofonda ciò
che è autentico: « Nell’attore noi riconosciamo l’uomo dionisiaco. ... ma come uomo dionisiaco
meramente rappresentato » (9, 87). « Anche nella bocca dell’attore intimamente piu
convincente risuona per noi un pensiero profondo, una metafora, perfino nel fondo di ogni parola
come attenuato, profanato... ciò che invece ci toccò come la piu profonda rivelazione del mondo è
per noi ora uno sgradevole gioco di maschere » (9, 247).
La teatralità, come arte del giullare (del pagliaccio, del buffone), può essa stessa diventare un tipo di
maschera, ma può diventarlo nell’ambiguità dell’esser-giullare e del fare il giullare, che diventa
inesplicabile allo sguardo proprio di colui che vi gioca: « Dobbiamo, di tanto in tanto, riposarci dal
peso di noi stessi... ridendo e piangendo su noi stessi...: dobbiamo scoprire l’eroe e anche il giullare
che si cela nella nostra passione della conoscenza,... e non c’è nulla che ci faccia tanto bene quanto
il berretto del monello:... ogni arte tracotante, ondeggiante, irridente,... ci è necessaria per non
perdere quella libertà sopra le cose... Come potremmo perciò fare a meno dell’arte, e anche del
giullare? » (5, 142-143). L’inseparabilità di essere e apparenza, di essere-autentico e essere-giullare,
Nietzsche non l’espri
me soltanto per l’artista, in cui « pagliaccio e Dio » sono « accostati » (16, 244), ma anche
guardando nella profondità dell’essere: « Io giudico il valore degli uomini... a seconda del rigore
che dimostrano nel tenere Dio indiviso dal satiro» (15, 35).
In nessun luogo Nietzsche sembra piu contraddittorio come nella questione del giullare come
maschera. Burlone, buffo, pagliaccio, cinico, compaiono sempre di nuovo in lui, sia opponendosi sia
identificandosi con Nietzsche stesso, in una significativa ambiguità.
Il buffone compare come un’inquietante controfigura di Zarathustra. Pur essendogli molto vicino,
per contrasto egli appare proprio come colui che non coglie l’autentica verità (Prefazione). Dove
Zarathustra intende propriamente « superare » l’uomo, il buffone pensa sfacciatamente e
comodamente che l’uomo possa essere «saltato d’un balzo» (6, 291). Zarathustra, incapace di far
presa sulla stessa massa, vede che « buffoni solenni » prendono il suo posto (6, 74); e Zarathustra,
esprimendo condanna, invoca gli « uomini superiori »: « Bricconi tutti quanti, pagliacci! » (6, 458).
Di Socrate, che Nietzsche continuamente combatte, si dice: « Ovunque l’autorità faccia ancora
parte dei buoni costumi, ovunque non si “adducano ragioni”, ma si comandi, il dialettico è una
specie di pagliaccio: ci si burla di lui, non lo si prende sul serio. Socrate fu quel pagliaccio, che si
fece prendere sul serio » (8, 71). Ma d’altra parte Nietzsche sembra sentirsi vicino a questo Socrate
quando scrive: « Credo di sentire che Socrate era profondo - la sua ironia era prima di tutto la
necessità di mostrarsi superficiale per poter in genere avere rapporti con gli altri » (13, 327); anche
se poi suona deciso il rifiuto: « In Socrate tutto è esagerato, eccentrico, caricatura: egli è un buffo
con in corpo gli istinti di Voltaire» (15, 461).
Il cinismo viene apprezzato, ma evidentemente non in un senso vicino alla natura dello stesso
Nietzsche: « il cinismo è l’unica forma nella quale anime volgari sfiorano quel che è onestà » (7,
45); Nietzsche poi lo accetta, ma avvicinandosi certo ad esso su un altro piano: « Esistono spiriti
liberi, audaci, che vorrebbero nascondere... di essere cuori infranti, superbi, immedicabili (il
cinismo di Amieto - il caso Galiani); e talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice
troppo certo » (7, 259).**
Shakespeare nel Giulio Cesare « per due volte ha introdotto un poeta e per due volte ha versato su
di lui un... impaziente ed estremo disprezzo... Bruto stesso perde la pazienza quando appare il
poeta,... questa persona che sembra satura di possibilità di grandezza, anche di grandezza etica, e
che tuttavia, nella filosofia dell’azione e della vita, raramente giunge alla comune onestà.
“Lui conoscerà i tempi, ma io conosco le sue fisime... via da me quel pagliaccio coi sonagli!” grida
Bruto. Si riporti questo nell’anima del poeta che lo scrisse » (5, 129). « Non conosco lettura piu
straziante di Shakespeare: che cosa deve aver sofferto un uomo per aver bisogno di fare il buffone
in quel modo! - Amleto, c’è qualcuno che lo capisce? Non è il dubbio, è la certezza che fa diventare
pazzi...
Ma solo dalla profondità si può sentire cosi, bisogna essere un abisso, un filosofo... Abbiamo tutti
paura della verità... » (15, 36).
Se si tiene conto di tutto questo, allora le ultime interpretazioni che Nietzsche ha dato di sé
acquistano la loro importanza. Egli dice dei suoi libri: « in certi punti... raggiungono ciò che di
supremo si può raggiungere sulla terra, il cinismo» (15, 54); e di se stesso: «Non voglio essere
un santo, allora piuttosto un buffone... Forse sono un buffone... E ciononostante... la verità parla in
me » (15, 116). E ancora, egli scrive ad Avenarius (« Kunstwart »): « La mia forza si dimostra nella
misura in cui sono — posso essere, come sono stato nel Caso Wagner - pagliaccio, satiro o,
se preferisce, “feuilletoniste”. Che lo spirito piu profondo debba essere anche il piu frivolo, è quasi
la formula della mia filosofìa ». Riferisce Overbeck a proposito del Nietzsche ormai folle che
incontrò a Torino (Bernoulli, II, 234): « Nel complesso prevalevano i discorsi sul mestiere, che egli
si attribuiva: di essere cioè il giullare delle nuove eternità ».
Che cosa tutto ciò significhi, in ogni caso non può essere univocamente definito. Da una parte,
Nietzsche si appropria della maschera in sé, della figura del buffone, ma, d’altra parte, la respinge.
Una volta la maschera rappresenta la nullità, dietro la quale non si nasconde nulla, la
teatralità dell’inautentico che si propone sulla scena davanti a sé e agli altri; come tale, la maschera
è estranea alla natura di Nietzsche, è anzi oggetto di un orrore pieno di astio, poiché da essa si è
fatto ingannare in modo cosi profondo. Ma essa è poi anche la protezione dalla disperazione,
quando cioè l’uomo non vuole sapere ciò che sa: « in mezzo a cento ricordi incerto... strozzato dai
tuoi propri lacci » (8, 422). La maschera, infine, è la possibilità dell’esserci che sembra esprimere le
cose piu profonde e ne è tuttavia priva; che nello sguardo sull’essere del non-essere, con
un’esuberante veridicità, afferra paradossalmente l’essere trasformandolo in apparenza. « Serbar
reverenza “di fronte alla maschera” » secondo Nietzsche si addice in ogni caso a « una piu raffinata
umanità » (7, 259).
La necessità dell’essere-maschera getta le sue ombre sul senso dell’opera: l’opera non può
esprimere la verità stessa in nessun pensiero. L’improprietà di tutto ciò che è determinato ha come
conseguenza l’ambiguità di ciò che è proprio, l’incomunicabilità ha come conseguenza la solitudine
che appare nelle maschere. L’opera del pensatore, che ha assunto nella sua natura questa esperienza
del limite, è come contrassegnata da uno stigma: « Negli scritti di un eremita si ode ancor sempre
qualcosa come la eco del deserto...; dalle sue piu forti parole,... affiora ancora una nuova e piu
pericolosa specie di silenzio... Chi... solo con l’anima sua, chi nella sua caverna — può essere un
labirinto, ma anche una miniera d’oro — è divenuto un orso antidiluviano o un disseppellitore...,
finisce per ricevere, persino nelle sue idee, un tono di luce crepuscolare, un profumo tanto d’abisso
che di muffa, qualcosa di incomunicabile... L’eremita non crede che un filosofo... abbia mai
espresso in libri le sue intime ed estreme opinioni:... dubiterà, anzi, che un filosofo possa avere in
generale “estreme e intime” opinioni, pensando invece che ci sia in lui, dietro ogni caverna, una
caverna ancor piu profonda..., un abisso sotto ogni fondo... Ogni filosofia è filosofia di proscenio...
Ogni filosofia nasconde anche una filosofia » (7, 268).
L’abissale realtà vitale si esprime nell’opera, così come Nietzsche la concepisce, nel modo piu
ambiguo. Quando Nietzsche vede la « forma suprema della spiritualità » dell’Europa moderna nella
« buffoneria geniale » (14, 28), sembra che questa significhi soltanto il dissolvimento della sostanza
spirituale, ossia la perdita del sentimento « per il colore uniforme dello stile », « la variopinta giacca
del pagliaccio », la virtuosità in « tutte le forme di stile » (10, 264). Ma è proprio questo ciò che
Nietzsche sembra dire del suo peculiare stile: « Visto che in me la molteplicità degli stati interni
è straordinaria, mi trovo ad avere molte possibilità di stile - forse la più molteplice arte dello stile di
cui un uomo abbia mai disposto. Buono è qualunque stile che comunica realmente uno stato interno.
Buono stile in sé -una pura follia, mero “idealismo”... » (15, 56). Si può distinguere colui che è
virtuoso in tutte le forme di stile dal pensatore creativo in tutti i possibili stili, l’inautentico
indossare la maschera dall’originaria ricchezza dell’essere maschera. Ma in Nietzsche questa
differenziazione viene talvolta rispettata nel modo più deciso, talvolta, invece, il suo modo di
esprimersi ne indica un apparente abbandono.
Simbolo e canto. La comunicazione non è limitata a ciò che viene pensato e interpretato. Per
l’autocomprensione che Nietzsche esercita nella sua opera, simbolo e canto, che sono anzitutto
forme di comunicazione in sé, a partire dalla propria oscurità diventano la comunicazione più
autentica e ultima. Le poesie di Nietzsche appartengono al suo filosofare non come paludamento di
un pensiero che si può enunciare anche diversamente, bensì come compimento ultimativo del suo
processo filosofico. Esse tuttavia non sorgono dai pensieri giunti alla loro conclusione, ma si
trovano anzi all’origine e provengono immediatamente dal silenzio pieno.
L’autentico stupore di fronte all’essere prova orrore del silenzio: « Ora tutto tace! Il mare si
stende..., non può dire parole. Il cielo... non può dire parola. I piccoli scogli e catene di roccia... non
possono dire parola. Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso, è bella e
agghiacciante... Ho compassione di te, natura, perché devi tacere... Ah,... il cuore:... atterrisce...,
neppure esso può dire parola... Il parlare, anzi il pensare, mi è odioso: non odo forse, dietro ogni
parola, ridere l’errore, l’immaginazione, lo spirito dell’illusione?... O mare! O sera! Voi siete cattivi
maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere uomo!... Deve diventare come voi ora siete,...
immenso, riposante su se stesso? Eccelso sopra se stesso? » (4, 291 e sgg.).
La possibilità che l’essere ha di manifestarsi - la liberazione dal silenzio - si verifica per Nietzsche
nel simbolo, quando ogni « accrescimento di vita potenzia la forza di comunicazione... dell’uomo»
(16, 238), come capita a Zarathustra quando ritorna nella sua caverna: « Qui tutte le cose accorrono
carezzevoli al tuo discorso e ti lusingano: perché vogliono galopparti sulla schiena. Su ogni
similitudine qui tu galoppi verso ogni verità... Qui mi si dischiudono tutte le parole dell’essere,
balzando dagli scrigni che le contengono: l’essere tutto vuol qui diventare parola, e tutto il
divenire qui vuole imparare da me la parola » (6, 270-271). È vero che Nietzsche scrive, con tono di
rifiuto: la verità è « un mobile esercito di metafore », le verità sono «illusioni..., metafore, che si
sono logorate» (10, 196); e ancora: « chi pensa piu acutamente, non ama le immagini della poesia
» (10, 104), e « con le immagini e le similitudini si convince, ma non si dimostra. Perciò nella
scienza si ha un tale orrore delle immagini e delle similitudini » (3, 273). Tuttavia, là dove si parla
dell’essere, ciò avviene in simboli, perché è piü che scienza: « un folle, colui che ne vuol avere la
scienza! » (6, 111); e qui vale ciò che Nietzsche scrive di sé: « La involontarietà dell’immagine, del
simbolo è il fatto più strano; non si ha più alcun concetto; ciò che è immagine, o simbolo, tutto si
offre come l’espressione più vicina, più giusta, più semplice... » (15, 91). Questo alto livello di
creatività è insostituibile: « Badate... a tutti quei momenti nei quali il vostro spirito vuol parlare in
simboli » (6, 111). Certo, anche Zarathustra può dire: « io mi vergogno di dover essere ancora
poeta! » (« ch’io parli in similitudini ») (6, 288 e sgg.); in questo caso però egli intende
l’opposizione tra la visione del presente e la realtà futura.
Piu ancora che attraverso il simbolo, l’essere si manifesta nel canto. Dove tutto finisce, esso rimane:
« Il conforto e la guarigione ch’io mi sono inventato era appunto: ch’io dovessi tornare a cantare »
(6, 320). Alla fine della Gaia scienza (5, 344), scrive Nietzsche: « I geni del mio stesso libro mi
piombano addosso...: “Non ne possiamo più... Chi ci canterà una canzone, una canzone
mattutina...?” ». Nella successiva, nuova Prefazione alla Nascita della tragedia egli riconosce,
riferendosi a se stesso: « Avrebbe dovuto cantare, quest’“ anima nuova” — e non parlare! » (1, 5).
Nietzsche confessa: « così io rileggo i pensatori e ripeto cantando le loro melodie: io so che dietro
tutte le fredde parole si muove un’anima ardente; la sento cantare, infatti la mia propria anima canta
quando è commossa » (11, 386).
Polemica. Nietzsche intraprende la polemica per attaccare l’altro e raggiungerlo in tal modo con
ancora più certezza. Attaccandolo, si convince l’uomo ad ascoltare; e solo quando si viene attaccati
si prende coscienza della propria verità. L’autocomprensione di Nietzsche spiega il senso della sua
polemica. Essa non è, essenzialmente, la battaglia reale per l’annullamento di ciò che è futile (negli
inganni e nelle storture, nel vacuo e nel forzato) - benché anche questa battaglia giochi un suo ruolo
— bensì è la lotta contro ciò che è migliore. «Attacco solamente cose che vincono;... attacco
solamente cose contro cui non potrei trovare nessun alleato, così sono solo...; non attacco mai
persone - mi servo della persona come di una forte lente di ingrandimento, con cui si può rendere
visibile una crisi generale... » (15, 21). Nietzsche vuole onorare chi eleva al rango di suo avversario;
la grandezza di R. Wagner è per Nietzsche caratterizzata proprio dal fatto che egli per tutta la vita
abbia combattuto contro di lui. Nietzsche attacca soltanto ciò che ha dignità; egli desidera un
avversario del suo stesso livello, e non combatte contro ciò che è comune, ordinario. Qualcosa
può essere straordinario e tuttavia non vero; ma Nietzsche non lo respinge per questo, poiché è la
manifestazione della grandezza di una realtà che appartiene all'esserci. Inoltre, il vero deve
emergere in una forma comunicabile, ma pur sempre nella lotta. Senza di ciò, la verità non
raggiungerebbe la coscienza e la realtà. La comunicazione conflittuale è essa stessa una forma della
verità che, per sua natura, non può mai essere semplicemente presentata, detta, stabilita.
Se non si deve negare ma, anzi, affermare ciò contro cui essenzialmente si combatte, allora il campo
di battaglia è, in fondo, Nietzsche stesso; i suoi nemici sono forme di Nietzsche stesso, la verità
comunicabile non è qualche cosa che giace quieta, al di là dell’avversario, bensì soltanto l’impulso
presente in ogni forma di comunicazione, una delle quali è appunto la lotta.
Ciò che Nietzsche è per sé
Nietzsche non può essere pienamente consapevole di ciò che egli è nel suo complesso. Da un esame
complessivo delle sue affermazioni, risulta infatti evidente che egli presenta, da una parte, una
risoluta sicurezza di sé, e, dall’altra, un pensiero problematico, che pone continuamente dei dubbi.
La sicurezza si esprime nella consapevolezza del suo compito. Questo compito non è qualcosa di
meramente riflessivo, ma è il suo essere stesso che, in un momento storico, diventa rappresentativo
di tutti gli altri esseri, senza peraltro fare di lui un profeta e un fondatore.
Fin dalla giovinezza Nietzsche è consapevole del suo compito, anche se, all’inizio, esso non è
ancora ben determinato; a partire dal 1880 questa consapevolezza si risolve in un impegno
inderogabile, in una dedizione completa a quel compito che si è ormai ben configurato. Già nel
1872 scrive a Rohde, riferendosi alla Nascita della tragedia: « Prendo terribilmente sul serio tutto
quanto sento dire sul libro, perché in queste voci mi par di indovinare l’avvenire di ciò che ho in
mente. Questa vita sarà ancora molto difficile » (28. 1. 72). Il suo cammino si determina
ulteriormente nel 1877, quando avverte la necessità di abbandonare la carriera universitaria: « Lo
so, lo sento che vi è per me un destino piu alto di quello che si esprime nella mia, sia pur
rispettabile, posizione a Basilea » (alla signora M. Baumgartner, 30. 8. 77). In seguito comprenderà
quel che gli stava allora accadendo: « Non capivo me stesso, ma l’impulso era come un
comando. Sembra che la nostra futura destinazione lontana disponga di noi » (14, 387). « La scelta
di uomini e cose, ... il rigetto di quanto è piu piacevole, spesso di quanto è piu venerato, tutto ciò ci
spaventa, come se un caso, un arbitrio, qua e là simile a un vulcano, erompesse in noi: ed è invece
la ragione superiore del nostro compito futuro » (13, 33).
A partire dal 1880 è incessantemente il presente a costringere tutto il suo essere al proprio servizio:
è « quel nascosto ed imperioso qualcosa, per cui a lungo non troviamo un nome, finché esso si
rivela da ultimo come il nostro compito » (3, 8). Da allora Nietzsche conosce nello stesso tempo il
timore di non venire a capo di questo « immenso compito ». « Che io riesca ad adempiere fino in
fondo il mio grande compito dipende dalle circostanze, che non dipendono da me, ma dall’“essenza
delle cose” » (alla sorella, 29. 11. 81). « Questo cammino è tanto pericoloso! Non posso fare appello
a me stesso, come un sonnambulo » (11, 385).
Ma cosa sia questo suo compito, diventa per Nietzsche tutt’uno con il compito dell’uomo in questo
momento storico. Negli anni giovanili scrive: « Il mio compito: comprendere l’intima connessione e
la necessità di ogni vera cultura; i mezzi per proteggere e risanare la cultura, il suo rapporto con il
genio del popolo » (10, 116). Nel periodo intermedio afferma in modo ancora indeterminato: « Meta
dello spirito libero: avvenire dell’umanità » (11, 397); ed alla fine; « Il mio compito, il compito di
preparare l’umanità a un momento di suprema riflessione su se stessa, un grande merìggio, quando
essa si guarderà indietro e avanti, quando... porrà per la prima volta, nella sua totalità, la domanda:
“perché?”, “a che scopo?” » (15, 82).
Ciò che Nietzsche stesso veramente è nell’adempimento di questo compito, gli rimane fino
all’ultimo ancora indecifrabile; comunque, egli è almeno certo di essere, dal punto di vista storico,
« un evento capitale nella crisi dei giudizi di valore » (14, 361). Si considera un essere storico
che, in quanto origine della grande politica del futuro, si trova ad una svolta decisiva della storia
universale; egli è questa stessa svolta, poiché è il primo a comprenderla: « E se non giungo al punto
che interi millenni facciano i loro voti supremi al mio nome, allora mi sembra di non aver raggiunto
nulla » (a Overbeck, 21. 5. 84). Egli è il trasvalutatore dei valori e dunque il legislatore del futuro,
poiché determina il movimento di reazione al nichilismo dell’epoca della svolta. Dal punto di vista
metafisico Nietzsche è consapevole di trovarsi alla svolta non solo della storia dell’umanità, ma
anche del divenire del mondo in generale: è il pensatore dell’eterno ritorno, e dunque il punto del
completo rivolgimento cosmico; in lui l'esserci si realizza nella conoscenza di se stesso. Ma
Nietzsche è consapevole di essere un fatto inaudito non solo nella gioia, ma anche nel tormento del
suo essere-uomo. Il tipo d’uomo che egli è in questa crisi emerge raramente, ma in modo essenziale,
in una serie di simboli.
Sembra che Nietzsche voglia ironicamente minimizzare la fase iniziale della sua trasvalutazione dei
valori, quando dice: « Ed io stesso, o miei folli amici - che altro sono se non ciò su cui si deve
disputare: un gusto! » (12, 256).
Il rifiuto a manifestarsi esplicitamente e ad un tempo la coscienza del significato storico del suo
tormento, si esprimono comunque simbolicamente nei passi seguenti: « Io stesso ho spesso
l’impressione di essere come uno scarabocchio che una forza misteriosa traccia sulla carta per
provare una nuova penna » (a Gast, 8. 81); « Dal 1876 per molti aspetti, dell’anima e del corpo,
sono stato più un campo di battaglia che non un uomo! » (a Gast, 25. 7. 82).
Egli paragona l’imperioso turbamento che lo consumava alla fiamma, alla luce, all’incendio, al
lampo: « Incendio e combustione sono la mia vita » (11, 352). « Per tutte le anime disseccate voglio
essere un incendio ed un pericolo » (12, 253). « Voglio sparire nell’oscuro uragano: e per i miei
ultimi istanti voglio essere ad un tempo uomo e lampo » (12, 256); e soprattutto la nobile
espressione della sua più intima natura:
« Sì! Io so le mie radici!
Insaziato come la fiamma
Ardo io e mi consumo.
Tutto che afferro diventa luce,
Tutto che lascio si fa carbone:
Fiamma per certo son io » (5, 30).
1 Le annotazioni giovanili si trovano in Biogr., voi. 1, pp. 15 e sgg., 225-245, e inoltre, pp. 107-126,
189 e sgg., 210, ecc.; le osservazioni critiche personali, nei Werke: 11, pp. 116-125, 378-392; 12,
pp. 211-225; 14, pp. 303-306; le nuove «Prefazioni» del 1886, in: 1, pp. 1-14; 2, pp. 3-14; 3, pp. 3-
12; 4, pp. 3-10; 5, pp. 3-11. Sul materiale per le «Prefazioni», v.: 14, pp. 347-420; Ecce homo (15,
pp. 1-127); la «Vita», spedita a Brandes (in Briefe, 3, pp. 299 e sgg.). Ulteriori osservazioni
sono andate distrutte o non sono state raccolte. Le annotazioni autobiografiche sono raccolte e
stampate nel voi. 21 della « Musarionausgabe » (dove mancano però alcune annotazioni pubblicate
nella Biogr., voi. 1, il materiale per le « Prefazioni », pubblicato nel voi. 14, e la « Vita » spedita a
Brandes).
2 Ci si riferisce ovviamente allo sviluppo spirituale di Nietzsche, alla sua solitudine, al suo
significato storico, al suo immoralismo.
3 A talproposito: August Horneffer, Nietzsche als Moralist und Schriftsteller, Jena, 1906, pp. 58 e
sgg.; Ernst Horneffer, Nietzsches letztes Schaffen, Jena, 1907; Biogr. II, 670-674; Werke, 9, XV.
* Il passo citato da Jaspers (un frammento steso da Nietzsche tra l’autunno 1885 e l’autunno 1886)
presenta una notevole discordanza, soprattutto nell’ordine delle singole frasi che lo compongono,
tra l’edizione Kroner (voi. XIII, fr. 692) e l’edizione Colli-Montinari (fr. 2 [33], in KSA, voi. 12, pp.
79-80: tr. it. nel voi. VIII, tomo I, pp. 68-69) (N.d.C.).
** Il passo tra parentesi non compare nell’edizione Colli-Montinari delle opere di Nietzsche; si
tratta di un’aggiunta di Nietzsche su un esemplare di Al di là del bene e del male (N.d.C.).
368
CAPITOLO SECONDO. COME NIETZSCHE VIENE COMPRESO DA NOI
Percorsi della critica nietzschiana: Critica logica. Critica del contenuto. Critica esistenziale.
La volontà del puro al-di-qua: La posizione dell’ateismo. Il sostituto della trascendenza e il suo
fallimento. Il trascendere di Nietzsche. Il pensiero filosofico di fronte all’ateismo.
Il nuovo filosofare: La negatività assoluta. La filosofia del tentare. Nietzsche come vittima. Ciò che
Nietzsche è, ed ha fatto, rimane aperto.
L’assimilazione di Nietzsche: Le insidie di Nietzsche e i possibili fraintendimenti del suo pensiero.
L’educatore filosofico. Il nostro atteggiamento nei confronti dell’eccezione.
Se si crede di veder Nietzsche, ebbene egli non è così: non è questo, bensì un altro. Ma anche l’altro
sembra ogni volta sfuggire. Un tratto fondamentale del suo essere è la possibilità di scambiare il
suo modo di manifestarsi. Sintomatica e vera è la richiesta di Nietzsche: « E soprattutto non
scambiatemi per altro » (15, 1); « Si è soliti scambiarmi con altri: Io ammetto; del pari, ammetto che
mi si renderebbe un grande servizio, se qualcun altro mi difendesse e mi tenesse al riparo da questi
scambi continui » (14, 360).
La possibilità di scambiare Nietzsche non riguarda solo tutto ciò che dice, ma anche tutto ciò che di
lui appare. Come per la moltitudine Socrate e i Sofisti sembravano erroneamente la stessa cosa, così
avviene per quella verità che non è per tutti semplicemente afferrabile con l’intelletto in modo
identico, ma anzi può essere scambiata col suo contrario.
Ma nel caso di Nietzsche, la possibilità di scambiarlo con qualcos’altro non è tale per cui, dopo
averla eliminata, si possa poi incontrare Nietzsche stesso in modo inconfondibile. Proprio questo è
l’enigma e la difficoltà: l’interminabile possibilità di scambiare il suo modo di manifestarsi
sembra conseguire dal suo stesso essere. Senza questo aspetto dell’ineliminabile ambivalenza ed
equivocità, Nietzsche non rimarrebbe se stesso.
Esamineremo in primo luogo le forme tipiche della critica nietzschiana fino a vedere che nessuna
può raggiungere lo scopo di comprendere pienamente Nietzsche; anzi, questa possibile
comprensione viene preparata attraverso la presa di coscienza del modo in cui di volta in volta
queste critiche falliscono.
Percorsi della critica nietzschiana
Già ogni esposizione, nel modo in cui è costruita, implica indirettamente e involontariamente una
valutazione, anche se indeterminata. Ma una cri-
tica consapevole, che tende al giudizio in quanto tale, segue i percorsi qui indicati.
Critica logica. La critica procede anzitutto in direzione logica: ciò che Nietzsche scrive, è
contraddittorio.
Ciononostante, è soltanto una difficoltà esterna il fatto che Nietzsche con le stesse parole intenda
cose del tutto diverse a seconda del contesto, o addirittura contrapposte (ad esempio, con apparenza,
maschera, verità, essere, popolo, volontà e persino con quasi tutte le parole essenziali, che in lui
assumono sempre soltanto la forma di termini transitori), e che Nietzsche di ciò raramente sia
consapevole, e perciò non le corregga quasi mai. Ciononostante, il suo istinto di verità gli fa
assumere nei vari contesti posizioni assolutamente coerenti e appropriate all’insieme del suo
pensiero. Le contraddizioni nel mero uso semantico non sono affatto vere e proprie contraddizioni,
e devono essere scartate.
La questione piu importante è che cosa significhi quella contraddittorietà che in Nietzsche si
riscontra ovunque. Scrive forse Nietzsche direttamente ciò che l’umore gli ispira? Ciò che ha
pensato è l’espressione di una molteplicità caotica di stati d’animo? Oppure in ciò che si
contraddice domina una necessità, i vari stati d’animo esprimono pur sempre un’intima unità
interiore, sono uniti e compenetrati da una legge che si mostra in primo luogo nel tutto?
Tali questioni vengono superficialmente superate se ci si accosta a Nietzsche col presupposto che
egli sia correttamente interpretato solo nel caso in cui possa essere compreso senza contraddizioni;
e che ciò che è contraddittorio debba essere scartato in quanto erroneo. Con questo
presupposto, Nietzsche alla fine si annulla, a causa della sua universale contraddittorietà. Infatti, o
egli ha completamente pensato ciò che è contraddittorio, anche se spesso non è consapevole del
rapporto di contraddittorietà che si instaura tra le sue varie affermazioni; oppure si sceglie
arbitrariamente quello che per Nietzsche stesso era soltanto un tratto isolato del suo pensiero, e
quindi, facendogli torto, si ricorre per questo a una posizione che ha un valore fisso, escludendo,
perché contraddittorio, ciò che non vi si accorda.
Ma il compito — che abbiamo adottato nell’esposizione dei suoi pensieri fondamentali - consiste
nel cercare nelle contraddizioni quello che Nietzsche può non aver pensato, escludendo
reciprocamente o l'una o l’altra delle due proposizioni che determinano la contraddizione; e poi
raccogliere quello che nelle contraddizioni vincola l'una cosa all’altra, senza che Nietzsche lo dica
(o, in altre parole, mettere in rilievo le proposizioni che si annullano a vicenda, perdendo
apparentemente ogni valore, per ricavare da esse quei pensieri ancora pieni di senso che
costituiscono la contraddizione); alla fine, mettere in evidenza le autentiche contraddizioni che
permangono al cospetto di una dialettica che diviene falsamente illimitata e concilia tutto.
Nietzsche stesso non ha sufficientemente risposto a tali questioni. In nessun luogo meglio che in tali
contesti si capisce che la spiegazione metodica della logica diventa solo occasionalmente un tema
specifico per Nietzsche. Egli non è mai consapevole del fatto che gli manca un’adeguata
preparazione filosofica nell’affrontare i grandi pensatori. È così comprensibile che egli, pur
mantenendosi alle stesse fonti del filosofare, non colga mai l’essenziale. La sua peculiare originalità
gli consente facilmente di non tenere in considerazione la mancanza di mestiere. Ma per la
comprensione di Nietzsche, proprio in ragione dell’incontrollata contraddittorietà e del suo
consegnarsi alla forma del pensiero intellettuale non dialettico — una forma di pensiero che tuttavia
al tempo stesso egli disprezza - è rimasta una fatale mancanza di forma complessiva.
Perciò Nietzsche cade sempre di nuovo in oggettivazioni, consolidamenti, assolutizzazioni,
naturalizzazioni che egli stesso ritiene falsi e che, in altri contesti, trasgredisce completamente senza
alcun riguardo. Il lettore, che da solo non riesce a uscire dal contesto (che vede cioè quello
che Nietzsche effettivamente fa), se è onesto, dovrà trovarsi di fronte, confuso, alle discordanze, alle
contraddizioni e arbitrarietà ovunque emergenti. È nostra convinzione fondamentale, sempre di
nuovo confermata, che il pensiero di Nietzsche abbia relazione con la filosofia, anziché tramite un
metodo consapevole, di fatto soltanto attraverso un immenso impulso alla veridicità. Senza questa
convinzione il filosofare di Nietzsche perderebbe quasi ogni valore e Nietzsche stesso dovrebbe
abbassarsi al livello di un geniale aforista. Ma quando si riesce a illuminare il senso positivo
della necessaria contraddittorietà, allora non si può certo negare che rimane un residuo
considerevole di contraddittorietà che non deve più essere intesa come necessaria.
Un’analisi logica dovrebbe sia limitare il campo del sapere, dove sono possibili senza
contraddizione asserzioni univoche della verità che si vuole esprimere, sia chiarire il campo
filosofico, dove l’asserzione, per farsi portatrice di verità, dev’essere equivoca oppure deve
comunicarsi in un solo movimento mediante contraddizioni.
Un esempio per le contraddizioni concepite e derivate da Nietzsche stesso è la doppia valutazione
di ciò che, apparentemente, è sempre uguale: ad esempio, pessimismo e scepsi vengono valutati
positivamente e negativamente a seconda che debbano essere intesi a partire dalla forza o dalla
debolezza; allo stesso modo, esiste una compassione di due tipi (7, 269 e sgg.), una décadence di
due tipi (15, 454); il desiderio dell’essere (la volontà di eternizzare) e il desiderio del divenire (la
volontà di distruzione) mostrano entrambi un doppio senso (5, 326 e sgg.).
Una difficoltà essenziale è che le contraddizioni non devono solo essere concepite come antitesi
esistenti, per così dire, su un piano nel quale il loro movimento le fa soltanto trasformare l’una
nell’altra, bensì, di nuovo, in un secondo movimento da piano a piano, movimento dal quale si
origina una molteplice antitesi. Accanto a ciò, all’interno di questo secondo movimento ha luogo
una separazione in ciò che, come momento del precedente piano, rimane in esso e viene riunito con
la sua antitesi (ad esempio, signori e schiavi si separano in quanto essenzialmente diversi, ma, in
quanto appartenenti l’uno all’altro e positivamente legittimati, vengono entrambi trasportati sul
piano superiore della vita complessiva dell’umanità che tende a perfezionarsi); e in ciò che,
senza venire escluso dal movimento, viene tuttavia scartato (ad esempio, l’inautentico, il debole, ciò
che è rigidamente stabilito, che non ha nessuna potenza, nessuna necessità di permanere e di
giungere al proprio compimento), poiché non viene riunito allo stesso modo col suo opposto; questa
antitesi porterebbe piuttosto, nel caso di un’alternativa non logica, bensì esistenziale, soltanto ad
emettere una chiara decisione sull’essere o sul non-essere, e non certo a una riconciliazione di ciò
che viene pensato.
Colui che, di fronte al compito di comprendere secondo una prospettiva logico-dialettica, persiste
nel cercare formule salde, posizioni definite in chiare alternative, non può certo comprendere
Nietzsche. Tale lettore non apprende la dialettica immanente delle cose, alla quale Nietzsche
obbedisce senza esserne sempre consapevole (e che tuttavia fa valere, poiché si trova nelle cose), e
neppure diviene-se-stesso appropriandosi dei procedimenti di cui Nietzsche è consapevole. Egli
deve dogmatizzare falsamente ciò che Nietzsche propone con sicurezza mediante un metodo
espressivo apodittico e deve prendere come formula fissa ciò che è soltanto un passo del suo
procedere; deve inoltre abusare delle formule come gergo, come mezzo per un effetto demagogico o
come pungolo giornalistico.
Nietzsche non procede metodicamente; per questo si ripete sempre di nuovo ciò che già si può
trovare fin dai primi passi della sua lettura: si urta cioè lo scoglio di ciò che sembra univoco e non
dialettico - il mero esser-così e dover-essere-così. Solo intraprendendo lo studio filosofico di
Nietzsche - che è sempre al tempo stesso un’intima azione interiore volta alla formazione
intellettuale di sé - si rivela tutta la sua profondità. Ma per conservarla c’è bisogno di un costante
superamento della forma intellettuale, razionalmente unilaterale, del pensiero nietzschiano, forma
che egli stesso riconosce e tuttavia fa diventare sempre piu marcata.
La mancanza di un filosofare metodico, che appare in primo piano in Nietzsche, determina
l’apparentemente facile accessibilità alla forma intellettuale del suo pensiero. Essa è parimenti la
condizione della sua ampia diffusione, ed il fondamento dell’equivocità nell’interpretazione.
L’autentica filosofia di Nietzsche viene compresa cosi raramente come quella di tutti gli altri
filosofi.
Critica del contenuto. La critica si rivolge in secondo luogo ai contenuti oggettivi: si mostra l’errore
nelle affermazioni di fatto. Nietzsche compie senza dubbio un’incondizionata affermazione della
scienza autentica, come, ad esempio, quando dalla « fede nella suprema utilità della scienza e di
coloro che sanno » esige « più rispetto per colui che sa » (3, 155); oppure quando richiede che per
diventare i creatori-di-se-stessi, quali noi siamo, « dobbiamo diventare coloro che apprendono e
discoprono tutto quanto al mondo è normativo e necessario » (5, 258). Ma egli era consapevole
di una sua mancanza di conoscenze e di metodo d’indagine, che lo tormentava e lo ostacolava: «
Sono informato così male! - e devo sapere realmente così tanto! » (a Overbeck, 9. 81). « Bisognoso
di imparare qualcosa e ben sapendo dove si trova ciò che dovrei conoscere, devo far scorrere la
mia vita come i miei miseri organi, la testa e gli occhi, pretendono! » (a Gast, 30. 3. 81). Piu volte
afferma di voler di nuovo studiare all’università. Ma dovette accontentarsi di leggere libri di scienze
naturali e storia della cultura.
Tale senso di mancanza, che il precoce destino di malattia gli impose, fu per l’aspetto piu
propriamente filosofico di scarsa importanza. Inoltre, quando parlava di argomenti in cui si trattava
di significati che riguardavano il metodo scientifico, e quando produceva pensieri che dovevano
ricorrere alla forma metodica della comunicazione, Nietzsche riusciva spesso, pur partendo da pochi
dati, a scorgere col suo sguardo visionario qualcosa di straordinario (persino in questioni di fisica).
Per di piu il sapere di Nietzsche è limitato soltanto se lo si valuta in relazione all’ampiezza
dei contenuti dei quali egli parla.
Nello studio di Nietzsche bisogna aver presenti i limiti del suo sapere. Occupatosi in gioventù di
lingue e testi antichi, Nietzsche ha sperimentato in profondità la filologia come metodo scientifico e
si è riempito di una dovizia di ritratti della realtà umana, ma gli manca la conoscenza fondamentale,
da lui avvertita, delle scienze naturali, della medicina, delle scienze economiche, della tecnica, in
breve la conoscenza del reale in quanto causalmente sondabile; gli mancano anche le conoscenze
adeguate in giurisprudenza, in teologia, nella storia universale e critica.
D’altra parte, le frasi consapevoli dell’ultimo periodo mostrano quanto Nietzsche non seppe in
precedenza riconoscere la mancanza da lui così ostentata: « le cose si mettono peggio per quanto
riguarda la mia ignoranza, di cui non faccio mistero neppure davanti a me stesso. Ci sono dei
momenti in cui me ne vergogno; come pure ci sono in verità degli altri momenti in cui mi vergogno
di questa vergogna. Forse al giorno d’oggi tutti quanti noi filosofi ci troviamo in una brutta
posizione di fronte al sapere...: il nostro compito è e rimane in primo luogo quello di non scambiare
noi stessi. Noi siamo qualcos’altro che dotti: benché sia inevitabile che tra l’altro noi siamo anche
addottrinati » (5, 341-342).
È ovvio che ovunque Nietzsche parla di cose esplorabili nel mondo, di cose biologiche,
sociologiche, fisiche, ecc., il lettore non accetta con semplicità ciò che viene detto. Sempre, dove
ciò sia possibile e grazie all’impulso proprio di Nietzsche, egli viene spinto alla forma del
sapere metodico. Ci si deve appellare a Nietzsche contro Nietzsche stesso, laddove, mediante brevi
giudizi, induce il suo lettore a fare ciò che egli stesso si permette di fare soltanto in via ipotetica.
Solo la conoscenza biologica può districare la concettualizzazione naturalistica di Nietzsche,
soltanto partendo dalla conoscenza pregnante e metodico-sociologica si possono verificare i giudizi
sociologici di Nietzsche.
Critica esistenziale. La critica si rivolge in terzo luogo all’esistenza interpretabile, sia che essa si
manifesti nell’opera, oppure nelle lettere e nei fatti della vita di Nietzsche. Certo, l’esistenza, come
oggetto di conoscenza, è inaccessibile, ed ogni interpretazione esistenziale - come tale al
tempo stesso critica - è espressione non di una conoscenza dell’altro, bensì del comportamento
comunicativo di colui che interpreta: un comportamento che emerge tanto dalle sue proprie
possibilità ed esiti, quanto dall’essenza di ciò che è interpretato.
Ma la critica cosi sorta sarebbe essenziale, benché senza pretesa di validità universale, se fosse
possibile con estrema serietà oltre che in modo deciso e univoco. Il fatto che ciò non sia possibile
nel caso di Nietzsche, determina la sua inquietante inafferrabilità. Nel comportamento critico
rispetto alla sua esistenza, si viene spinti a interpretazioni univoche che non possono risultare tali
seriamente, a mezze verità e possibilità che non risultano credibili: se con ciò non si cade in quella
cecità che ci costringe a perdere di vista il vero e proprio Nietzsche, tanto che alla fine si
giunge persino a vedere in lui una deplorevole incarnazione del nulla, si scorge la sua peculiare
eccezione, che mette continuamente in discussione tutto e noi stessi.
Dobbiamo vedere ed eliminare alcune particolari impostazioni della critica esistenziale, ma in modo
tale che si possa ravvisare che è l’atteggiamento esteriore di Nietzsche a rendere possibile tali
erronee o parzialmente appropriate interpretazioni che lo accompagnano. Esse non sono del tutto
arbitrarie e nemmeno casuali. Si può comprendere Nietzsche solo a grandi linee; Nietzsche stesso
può vivere e pensare solo in ciò ohe vi è di piu alto nel compito di cui è consapevole. Dove lo
svolgimento presente di questo compito gli risulta in qualche modo incerto o nascosto, anche
la critica esistenziale, che si esprime psicologicamente, diventa nei suoi confronti di una speciosità
importuna. Nietzsche vive nell’estremo, che non gli consente di rinunciare a un istante. Perciò,
l’abissale problematicità di Nietzsche è sempre presente. Ma tutti gli aspetti della critica
esistenziale diventano da ultimo non veri. Se non lo fossero e se dalla messa in questione sorgesse
un’effettiva negazione dell’esistenza di Nietzsche, allora per colui che a questa negazione dà
credito, l’importanza speculativa di Nietzsche verrebbe a cadere e non si avrebbe più bisogno di
occuparsene dal punto di vista filosofico.
Scegliamo anzitutto una particolare critica all’esistenza di Nietzsche per mostrare come essa abbia
certo una parvenza di verità, ma tuttavia non risulti vera. Quindi delineiamo le costruzioni rivolte
all'insieme della sua esistenza per mostrare come, nel complesso, non colgano Nietzsche.
Si rimprovera a Nietzsche di essere individualista ed estraneo al popolo. Il suo lavoro è pieno di
esaltazione dei grandi individui e di disprezzo per la moltitudine, per la massa, ma ci si inganna se
ci si attiene alle parole.
« Il “disinteresse” non vale un bel nulla » (5, 276), « bisogna riposare saldamente su se stessi» (15,
361), «L’io santificato» (12, 395), l’« io creatore, che vuole, che apprezza » è « la misura e il valore
delle cose » (6, 43), « vuole un sé » (3, 173): se espressioni come queste sembrano voler
significare univocamente l’illimitata assolutezza dell’individuo, ve ne sono però altre che le
contraddicono: il suo « io pesante, serio, granitico » così si rivolge a se stesso: «che importa di me!
» (11, 386); e, riferendosi all’uomo, Nietzsche scrive: « siamo gemme di un solo albero... lo stesso
individuo è un errore... Cessare di sentirsi come tale fantastico ego! » (12, 128).
Di fatto Nietzsche non è né un individualista, né al contrario si perde in un tutto. L’alternativa e il
modo di porre il problema che da questa emerge sono per lui inadeguati, e non sono contenuti nelle
frasi citate. Il suo individualismo è dedizione alle cose ed egli valorizza se stesso solo nella misura
in cui la necessità dell’essere giunge a parlare in lui. Gli è sempre stata estranea e ha disprezzato
un’esistenza singola che si arrovella su se stessa, ma ciò che vi è di essenziale nell’esistenza egli lo
può riscontrare solo sulla base del vero e proprio essere-sé.
Ciò è testimoniato dal fatto che nelle sue innumerevoli espressioni di rigetto nei confronti della
massa non può essere trovata un’estraneità al popolo, priva di ogni carattere esistenziale. Il fatto che
egli spesso dica « popolo » quando intende « massa », in quanto uso linguistico, non deve trarre in
inganno. L’autentico popolo nella sua sostanza non solo non gli è estraneo, bensì è costantemente
presente nel suo desiderio, che non intende farsi ingannare da possibili equivoci. Lo tormenta il
fatto che noi « non possediamo nessuna unità etnica della cultura » (10, 186). « E come può ancora
resistere il grande spirito produttivo in mezzo a un popolo..., se l’unità del sentimento popolare è
andata perduta...? » (1, 317). Per lui, «il carattere non popolare della moderna cultura rinascimentale
è un fatto terribile » (10, 410).
L’individualismo di Nietzsche e la sua estraneità al popolo si possono dunque attestare attraverso
l’estrapolazione di numerose frasi, cosi come, servendosi di altri passi, si possono confutare. Ciò
che più importa è vedere come Nietzsche di volta in volta non abbia l’atteggiamento che gli si
rimprovera, come proprio egli, in realtà, voglia vivere in ciò che in altre occasioni viene chiamato il
tutto e il popolo. Ciò di cui si era tanto abusato nel parlare, venne combattuto da Nietzsche nella sua
manifestazione esteriore, non nel suo principio originario; egli non lo respingeva nella sua genuina
realtà e nella sua continua possibilità, ma per l'origine secondaria delle sue stravolgenti
trasformazioni in realtà non veritiere, in non realtà. C’è perciò, nelle formulazioni di
Nietzsche, qualcosa che, peculiarmente, tende a un continuo capovolgimento.
La sua « estraneità al popolo » è il suo desiderio di un popolo che egli ritiene autentico: « un
popolo... vale solo per quanto sa imprimere sulle sue vicende l’impronta dell’eterno» (1, 163). «Un
popolo non è tanto caratterizzato dai suoi grandi uomini, quanto dal modo in cui li sa riconoscere e
onorare » (10, 14). Il popolo risiede per lui nella minoranza degli uomini chiamati a legiferare
attraverso la loro capacità creativa, e nella costruzione gerarchica delle possibilità che si originano
dall’ineguaglianza degli uomini, possibilità che si condizionano reciprocamente e che devono essere
affermate. Fiducioso nella gioventù, successivamente disposto a rinunciarvi e infine disperatamente
proteso ad invocarlo, Nietzsche cercava il suo popolo nel lontano futuro. Egli sapeva che non sono
legati al popolo solo coloro che lo guidano, che non corrono troppo avanti, che si tengono vicini ad
esso come capifila, che rimangono nella loro realtà presente, bensì anche coloro che precorrono i
tempi, sperimentano possibilità, e che gli mostrano ciò che attualmente non ha ancora effetto
sul tutto. Un popolo che sia effettivamente un popolo (cioè non una massa che in un attimo si
dissolve), e che perciò vive nel più vasto ricordo e nell’aperta possibilità di un futuro, produce
questi uomini per così dire disposti alle più diverse esperienze, questi avventurieri dello spirito
popolare, questo eroismo di domande e scoperte solitarie, questi sperimentatori, realizzatori e
inventori di una vera umanità, questi esaminatori e inesorabili scopritori. Il popolo li rende possibili,
li tollera, li teme quando li osserva, ma ora non li segue: eppure sono forse proprio loro che, molto
tempo dopo la loro morte, il popolo segue come ciò che è veramente vivo, sia pure trasformandoli,
o anche fraintendendoli. Nietzsche era legato a questo popolo, alla sostanza del suo popolo. Solo
partendo da questa autoidentificazione si può intendere come vera e propria autocritica la sua
spietata critica al popolo tedesco, che solo superficialmente può esser vista come ostilità.
Il rimprovero di estraneità al popolo e di individualismo è solo uno dei tanti che, nell'estendersi a
tutta l’esistenza, affermerebbe la mancanza di sostanzialità del pensiero nietzschiano e, con ciò, di
Nietzsche stesso. È del tutto assennato sperimentare la possibilità di costruzioni critiche spietate; il
rimprovero viene spinto all’estremo per costringere alla decisione a partire dalla propria esperienza
esistenziale dello studio di Nietzsche.
Il pensiero di Nietzsche non rifugge da nulla. « Davanti ad ogni individuo siamo pieni di cento
riguardi: ma quando si scrive, non capisco perché non ci si spinga fino all’estremo limite della
sincerità » (11, 174). Questa sincerità assume una forma che consente a Nietzsche di tentare
e comunicare ogni pensiero. Per Nietzsche non c’è piti alcun limite, nessun divieto dell’impossibile.
La mancanza di misura porta alla semplificazione delle cose in semplici antitesi, diventa mancanza
di rispetto per i grandi (Kant: il cinese di Königsberg, Schiller: il trombettiere morale di Säckingen,
e così via), cosicché l’immagine delle sostanze spirituali e degli uomini si dissolve. L’intensificarsi
dell’espressione, degli sferzanti giudizi di valore, dell’autocoscienza, delle pretese di eccentricità,
non può che portare all’inganno o al completo rifiuto.
Ben presto Nietzsche è consapevole « di due cose assai alte: misura ed equilibrio » (3, 129); ha
sovente espresso il suo rigetto del fanatismo. Ma per Nietzsche è nondimeno possibile respingere la
misura, anche se con l’orrore per un destino non desiderato: « Ci è estranea la misura,
riconosciamolo: il nostro assillo è appunto l’assillo dell’infinito, dello smisurato... » (7, 179). Il suo
« essere moderno » assume per lui l’aspetto « di mera hybris...; hybris è la nostra posizione di
fronte a Dio, voglio dire di fronte a qualsivoglia presunto ragno etico-finalistico celato sotto il
grande tessuto e reticolo della causalità...; hybris è la nostra posizione di fronte a noi stessi, giacché
eseguiamo esperimenti su di noi, quali non ci permetteremmo su nessun animale...: che cosa ci
importa ancora la “salute” dell’anima! Dopo di ciò ci medichiamo da noi: essere malati è
istruttivo... » (7, 420). E in conclusione risuona trionfante: « Noi immoralisti - siamo oggi l’unica
potenza che non abbia bisogno di alleati... - anche senza la verità conseguiremmo la potenza e la
vittoria. L’incantesimo che combatte per noi... è la magia dell’estremo, la seduzione che viene
esercitata da ogni cosa suprema: noi immoralisti siamo gli estremi » (16, 193-194).
La questione è se oltre il tentativo di fare a meno della misura, l’affermazione dell’assenza di
misura abbia ancora, nel complesso del suo pensiero, il fondamento esistenziale della sua
possibilità. Essa deve essere interpretata come manifestarsi dell’eccezione: chi, partendo da una
nuova origine, in mezzo a un mondo vecchio in ogni angolo, che ancora parla come se tutto fosse
naturale e come se solo per lui fosse già svelato in tutta la sua chiarezza, perviene all'esserci e vuole
comunicare se stesso, allora fa uscire, poiché costantemente minacciato da soffocamento per
non essere udito ma anzi frainteso, il rumore clamoroso, l’aggressività senza misura come sintomo
della sua mancanza di difese e della sua mortale vulnerabilità nell’oscurità di questo mondo. E
benché nel suo essere, nel suo modo di sentire e nei suoi obiettivi egli non sia un fanatico, si
trasforma manifestando comunque un altro tipo di fanatismo. Nietzsche non è in grado di pervenire
a una saggezza obiettiva, di mostrare un’accortezza che mai porta a fallire, possibile solo per uno
spirito non rivoluzionario. Prodigandosi ed esponendosi senza cautele, la sua profonda saggezza
diventerebbe per lui - come in Prometeo - bybris. La mancanza di misura è l’espressione di
un compito che egli non può risolvere.
Ma in una interpretazione che non riconosce l’aspetto inevitabilmente straniante dell’essere
un’eccezione, il fondamento che rende possibile l’assenza di misura può anche apparire in modo del
tutto diverso: sembra che l’amore limitato e che pone dei limiti non completi l'esserci di
Nietzsche. Come la sua atmosfera spirituale può agire in modo indifferente, freddo anche nel
fervore della passione (« Luce io sono: ah, fossi notte!... Ma io vivo nella luce mia propria, io
ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono »: 6, 153), e come anche l’atmosfera della sua
vitalità può apparire priva di effetto erotico, così l’imperturbabile e sincera presenza dell’amore
nella concretezza storica sembra non poter mai diventare il terreno della sua esistenza.
Ma se più nessun fondamento irremovibile della realtà storico-vitale sembra poter parlare, allora per
Nietzsche tutto ciò che ha valore umano, e ogni essere umano in tutta la sua interiorità, può
diventare problematico. La mancanza di misura diventa allora di fatto la rovina di ogni essere
determinato. Ogni prudenza e rispetto sembra cessare quando le spietate asserzioni e valutazioni di
Nietzsche annullano la misura da lui in precedenza richiesta. Certo, Nietzsche ci è tramandato nel
suo universale partecipare alla vita attraverso la propria esperienza della dialettica vissuta, e non
soltanto pensata; ma questa serietà nell’impegno del suo essere può dare l’impressione di
consumarsi nella propria distruzione esistenziale.
La serietà di Nietzsche cresce nel contatto con la realtà, che egli poi di fatto, pensando, sempre di
nuovo abbandona e, sempre e solo pensando, trasforma nell’indesiderata perdita di contatto col
mondo da parte di un esserci che diventa quasi immaginario. Egli sembra fare esperienza
soltanto per conoscere; sembra vedere la realtà in modo visionario, come futuro, senza identificarsi
egli stesso con la sua realtà storica. In questo senso, sembra rivelarsi in modo simbolico quel «
principio » che già da studente egli indicò in occasione della sua permanenza per due semestri
nella Burschenschaft: « In questo, non ho rispettato il mio principio di abbandonarmi agli uomini e
alle cose piu di quanto sia necessario per conoscerli » (a Mushacke, 30. 8. 65). È inquietante il fatto
che Nietzsche senza dubbio non si abbandoni mai alla contemplazione e al piacere estetico,
ma soffra invece fino alla disperazione e non sia in grado di trovare alcun appiglio per la sua ancora
e, perciò, non possa essere in sintonia con un essere umano, con l’idea di un mestiere, con la patria.
Egli è in sintonia e si identifica soltanto con la sua opera.
Se si seguono tali costruzioni e si vede il grande sapere di Nietzsche proprio in ciò che attraverso
esse, se fossero fissate, gli verrebbe negato — la piena esistenza storica - allora sorge alla fine la
questione paradossale se, forse, la mancanza esistenziale dell’essenza di una nuova, a noi
estranea esistenza condizioni totalmente il prendersi cura dell’esser-uomo, se la lontananza, in cui
Nietzsche si è chiuso, gli fornisca occasione e mezzo per quelle intuizioni che per noi sono di valore
insostituibile. Esse toccano le possibilità esistenziali in modo così deciso e chiaro poiché, a colui
che le rende chiare, questa esistenza non è concessa, ma egli ne diviene consapevole in virtù di una
diversa profondità, quella dell’eccezione esistenziale. La grandezza di Nietzsche consisterebbe nel
sentire il nulla e, mediante ciò, nel parlare dell’altro, dell’essere, in modo passionale e illuminato,
ed anzi nel fatto di poterlo conoscere meglio di coloro che forse non ne sono mai certi e coscienti, e
permangono nella loro ottusità. L’abbandono nietzschiano della realtà e la sua passione per la verità
sarebbero strettamente congiunti nel loro manifestarsi. Che cosa in particolare significhi la
comunicazione con coloro che piu sono vicini, con gli amici, con i compagni di lotta, con i
collaboratori e col suo popolo, si rivelerebbe a Nietzsche proprio per il fatto che, in realtà, tutto ciò
gli manca.
Le costruzioni devono essere necessariamente progettate per avere al momento presente tali
possibilità, e quindi per chiarirsi se si debba o non si debba credere ad esse. Il vuoto improvviso che
può assalire nello studio di Nietzsche, se erroneamente da Nietzsche stesso si pretende piu di quanto
egli possa dare, vale a dire un compimento positivo invece di un impulso, un’esigenza, una
problematizzazione, talvolta fa indubbiamente apparire convincenti tali costruzioni. Ma esse sono in
sé fragili: mostrando lo smarrimento esistenziale di Nietzsche esse affermano un’esistenza
fantastica della vuota possibilità. In ogni rimprovero contro il modo d’essere di Nietzsche, esse
devono altresì riconoscere che Nietzsche stesso assunse la posizione contraria. Nessuno ha visto e
richiesto piu chiara misura e accortezza dello « smisurato » Nietzsche, nessuno ha concepito più
profondamente di lui la comunicazione e la mancanza di comunicazione, nessuno si è cosi
spietatamente deciso per il proprio compito. Nessuno è stato capace più di lui di mettere in
discussione la vita della conoscenza, lui, che voleva sacrificare la vita per la conoscenza. Nella sua
assenza di misura, cosi come in tutto ciò che è problematico, non bisogna vedere una
precisa volontà e una posizione stabile, bensì il destino. Nell’avanzare verso il limite, dove non può
effettuarsi il compimento dell’essere, egli fa ancora del buffone la sua forma verace. Contro il
dubbio sul suo amore suonano terribili e vaghe le sue parole: « Ogni grande amore non vuole
amore: - vuole di più » (6, 427); una sorta di capovolgimento che mette tutto in discussione: « Chi
sa che cos’è l’amore, se non è stato costretto a disprezzare ciò che amava! » {6, 94). Ciò che egli
dice deve sempre esser compreso non solo in relazione al suo contesto, ma anche nella sua relazione
al tutto.
Ma qui per noi il tutto non può valere. Se è presunzione sconsiderata e stolta voler comprendere
complessivamente e definitivamente Nietzsche, egli non diventa nemmeno la figura che
indubitabilmente sussiste come tale. Ogni costruzione deve naufragare di fronte alla sua realtà,
poiché questa stessa realtà rimane tanto più un enigma quanto più ricca si crede di vederla e quanti
piu aspetti si cerca di conoscerne. Mentre ogni tentativo di imitazione delle problematicità di
Nietzsche tramite altre forme sarebbe subito destinato a fallire alla luce della struttura riconoscibile
del suo senso, in Nietzsche stesso tutto era come fuso in qualcosa di ulteriore. Egli
rimane un’unicità storica che tuttavia si riproduce sempre di nuovo in tutto quello che ci sorprende,
che è obliquo e che sfugge, donando qualcosa a chiunque entri in seria relazione col suo pensiero.
Ci sono filosofi nelle cui frasi, quanto più avanti procede la comprensione, tanto piu tutto viene
posto in reciproco riferimento, cosicché alla fine si trova un terreno in virtù del quale tutto è
definito, e il tutto propriamente è alla fine; ce ne sono altri che stimolano e allettano, ma
fanno cadere colui che seducono in un vuoto in cui non vi è più nulla. Ci sono i veri filosofi, che
non hanno né terreno né vuoto, bensì una profondità che si manifesta, cosicché non c’è alcuna vera
fine; essi ci coinvolgono sempre più profondamente senza abbandonarci. In Nietzsche sembra
accadere tutto: un improvviso, facile scivolare del concetto nella superficialità può essere in lui
apparentemente la fine e un terreno ingannevole; un vuoto orizzonte dell’infinità, il nulla, può fare
sprofondare nell’abisso; egli raggiunge la creatività speculativa e filosofica solo nel suo continuo
tentare, sperimentare. Questa è la sua peculiarità, il suo nuovo modo di filosofare.
Nessuna delle critiche qui discusse coglie la sostanza di Nietzsche; esse insegnano quanto sia
difficile e spinoso accostarsi veramente a questo filosofo. Confutazioni dei pensieri, rilievi di
scorrettezze nel contenuto, problematizzazione costruttiva della sua esistenza, non sono mai
sufficienti; qualcosa di inconfutabile si ripristina sempre di nuovo, e la critica contribuisce
indirettamente a chiarirlo. Ma al di là di tutte le critiche, si trova ancora un compito permanente,
sempre rinnovato, dell’interpretazione di Nietzsche. Affrontiamo ora, da ultimo e in modo sintetico,
questo compito, sentendo in ciò la potenza effettiva di questo filosofare; ma a tale scopo bisogna
tenere presente anzitutto l’atteggiamento fondamentale e dominante di Nietzsche, la volontà del
puro al-di-qua. È ciò che scolasticamente si dice il « punto di vista dell’immanenza », e che egli
formulò con la frase « Dio è morto », espressione della sua consapevolezza della svolta dell’epoca;
ciò gli procurò il rimprovero di ateismo. In secondo luogo, bisogna considerare il suo nuovo modo
di filosofare; in terzo luogo, la possibilità che abbiamo di appropriarcene.
La volontà del puro al-di-qua
I pensieri fondamentali di Nietzsche, che esprimono una trasvalutazione dei valori, sembrano
scaturire da un’unica fonte: il capovolgimento di tutti i valori fino ad allora apprezzati è il risultato
del fatto che « Dio è morto ». Pertanto, si trasforma in parvenza illusoria tutto ciò che prima era
oggetto di credenza; il disvelamento di questa apparenza rivela l’imminente catastrofe. La credenza
in Dio fu dapprima l’origine del processo storico in cui il rango degli uomini si è continuamente e
ulteriormente abbassato, e successivamente, dopo lo smarrimento della fede, è diventata l’origine
indiretta della catastrofe attuale.
Ma il pensiero di Nietzsche è rivolto al vero e proprio essere degli uomini, che, liberato dalle
illusioni della credenza in Dio, deve sorgere dalla catastrofe, acquistando ancora maggiore potenza.
La morte di Dio non è per Nietzsche soltanto un fatto terribile, ma esprime la sua volontà di
ateismo. Poiché cerca la possibile altezza dell’essere umano, che per lui può essere veramente tale
solo in quanto reale, egli sviluppa nel proprio pensiero la volontà di un puro al-di-qua.
Per Nietzsche si tratta qui non già di un pensiero fondamentale fra tanti altri, bensì di un impulso
dominante, al servizio del quale sono posti tutti i suoi pensieri fondamentali; si tratta, per così dire,
del pensiero che è alla base di tutti i pensieri fondamentali. Esso è emerso in ogni capitolo ed ora
dev’essere visto e interpretato nella correlazione con il tutto.
La posizione dell’ateismo. La credenza nell’esistenza di Dio implica secondo Nietzsche una
calunnia del mondo (cfr. supra), di tutti gli aspetti della vita reale, ed è dunque una fuga per
liberarsi del mondo reale e dei suoi grandi compiti. Ma nel mondo si deve compiere e realizzare
solo ciò che in esso è possibile. Questo « possibile » ha la sua origine ed è limitato soltanto dalla
volontà creatrice. Zarathustra esige che tutto ciò che viene ideato si attenga a questo limite: « Dio è
una supposizione; ma io voglio che il vostro supporre non si spinga oltre i confini della vostra
volontà creatrice... io voglio che il vostro supporre trovi i suoi confini entro ciò che è possibile
pensare... Voi non dovreste essere generati né nell’incomprensibile né nell’irrazionale » (6, 123 e
sgg.). Perciò Dio era il « più grave pericolo » e doveva morire (6, 418). Inventato soltanto come «
opera dell’uomo e della follia » (6, 42), egli sarebbe « la più grande obiezione contro l’esistenza »
(8, 101). Ma Dio non è solo l’illusione che allontana da ciò che di fatto è possibile realizzare; la sua
esistenza sarebbe insopportabile anche per colui che crea: « se vi fossero degli dei, come potrei
sopportare di non essere dio! Dunque, non vi sono dei » (6, 124).
Se la direzione fondamentale e dominante nel pensiero di Nietzsche è quella di giungere senza Dio
alla massima elevazione dell’uomo nella realtà stessa, d’altra parte, in modo ancor più deciso, egli
mostra inintenzionalmente e inconsapevolmente che l’uomo, in quanto esserci finito, non
può compiersi senza trascendenza. Il ripudio della trascendenza la fa subito risorgere: per il
pensiero essa si ripresenta sotto forma di immagini sostitutive; per il vero e proprio essere-sé, nello
sconvolgimento che, ancorché non previsto, attraverso la vera trascendenza colpisce tutto ciò che
risulta falso. In un’epoca in cui si evidenzia un ateismo apparentemente universale, le vette
raggiunte dall’intimo essere di Nietzsche e la sua lealtà mostrano in lui questo stesso ateismo in una
forma inquieta che, come potremo vedere, si conclude nelle estreme falsità del pensiero e, al tempo
stesso, nel piu autentico turbamento provocato dalla trascendenza. Entrambi gli aspetti devono
essere esaminati con maggiore chiarezza.
Il sostituto della trascendenza e il suo fallimento. L’uomo è veramente tale solo per il fatto che vive
in riferimento alla trascendenza. La trascendenza è la forma dell’apparire nell’esserci, e solo
attraverso di essa l’uomo può aver presente il contenuto dell’essere e di se stesso. Egli non
può sfuggire a questa necessità; se non la riconosce, allora al posto di ciò che non è riconosciuto
subentra soltanto qualcos’altro. Nietzsche vuole vivere senza Dio, poiché nella sua lealtà crede di
capire che non è piu possibile una vita con Dio, a meno di procedere ad una sorta di autoinganno.
Ma così come, in seguito alla rinuncia alla comunicazione reale, crebbe il rapporto con l’amico
Zarathustra, che egli stesso produsse, nello stesso modo, dal momento che non riconosceva Dio,
egli dovette mettere qualcos’altro al suo posto. Bisogna chiedersi come ciò avviene.
Nella sua dottrina metafisica Nietzsche esprime che cosa propriamente sia l’essere stesso, vale a
dire nient’altro che il puro al-di-qua: l’essere è l'eterno ritorno di tutte le cose; al posto della
credenza in Dio è subentrata la necessità di comprendere questo ritorno e le sue conseguenze per la
coscienza dell’essere, per l’agire e per l’esperienza. L’essere è la volontà di potenza; tutto ciò che
accade non è altro che una manifestazione della volontà di potenza che, nelle sue infinite forme, è
l’unica forza propulsiva del divenire. L’essere è vita-, esso viene chiamato con il simbolo mitico di
Dioniso. Il senso dell’essere è il superuomo: « La bellezza del superuomo venne a me come
un’ombra... Che mai possono importarmi ancora - gli dei! » (6, 126).
Al contrario della trascendenza di Dio, l’essere è sempre l’immanenza che io posso trovare,
indagare, produrre: Nietzsche vuole dimostrare fisicamente l’eterno ritorno, osservare
empiricamente la volontà di potenza e la vita, far nascere il superuomo. Ma ciò che egli ogni volta
intende in senso metafisico non è piu l’essere determinato, particolare, che si trova nel mondo.
Perciò, il contenuto di questi pensieri, nella misura in cui non può essere scambiato con alcun
oggetto determinato nel mondo, diventa di fatto una trascendenza, pur restando un’immanenza
assolutizzata nel linguaggio. Come questo essere venga inteso da Nietzsche, di fatto può
essere intuito o pensato soltanto identificandolo in particolari oggetti del mondo. Ogni volta ha
perciò luogo, immediatamente, la trasformazione dell’immanenza totale, rivolta alla trascendenza,
nella consapevole immanenza di una particolarità che, di fatto, riguarda solo un esserci individuale
nel mondo.
Questo può accadere perché in precedenza l’affermazione metafisica dell’essenza dell’essere era
sorta proprio grazie all’assolutizzazione di questo particolare essere-nel-mondo, al quale, pertanto,
può esser continuamente ricondotta. Si origina così l’oscillazione del senso autentico dell'essere
tra un pensiero che tende alla trascendenza e un pensiero che conosce nel mondo, oscillazione che è
una diretta conseguenza dei costanti scambi reciproci che avvengono nel metodo di questo pensiero.
a) L’essere come divenire infinito nel ciclo dell’eterno ritorno, come vita e volontà di potenza,
viene raggiunto in una serie di salti: dalla prossimità e realtà dell’accadere, di cui si ha esperienza,
alla lontananza e possibilità dell’accadere in generale e al divenire dell’essere mondano e
naturale nel suo insieme. Questi salti, sempre all’interno del mondo, avvengono in luogo del salto
verso la trascendenza. Essi stessi costituiscono già un modo di trascendere, poiché non conoscono
piu le cose nel mondo né empiricamente, né con necessità. Ma essi danno luogo a un trascendere
verso un oggetto totale dell’esserci immanente al di là di tutte le cose particolari e non a un
trascendere dall’essere-sé dell’esistenza verso la trascendenza. Invece di cercare
nell’incomprensibile la presenza eterna della trascendenza, attraverso l’essere-sé che decide e che si
realizza storicamente in riferimento ad essa, il particolare viene inserito in un tutto che si presume
di aver compreso, viene accolto nel divenire senza fine, ed assume importanza solo per il fatto che
ritorna eternamente, che significa un grado della potenza e rappresenta la vita autentica. Poiché al
tempo stesso questo trascendere di Nietzsche, che tende continuamente a capovolgersi, rimane di
fatto anche il compimento di un trascendere autentico, il senso di tale trascendere coinvolge spesso
il suo stato d’animo, benché il pensiero come tale fluisca in mera oggettività.
b) In questo trascendere viene ignorata la separazione tra la verità oggettivamente sondabile, che è
adatta a mostrare il mezzo efficace all’azione che progetta nel mondo, e la verità, che stimola senza
mostrare percorsi determinati per l’intelletto progettante, o legge delle cifre senza cogliere un essere
determinato. Il pensiero chiarificatore non è però un sapere che si possa applicare; per parte sua, il
sapere utilizzabile, nella sua inevitabile ristrettezza, rimane senza la forza di fondare, da solo,
la coscienza dell’essere. Se confusamente uno di questi saperi subentra al posto dell’altro, in questo
scambio vi è la possibilità di essere ingannati con compiti che non esistono affatto e che, in
generale, possono essere posti soltanto ingannando se stessi.
Ad esempio, una creazione umana fantastica deve sostituire la trascendenza. Il superuomo diventa
l’ideale di un allevamento mediante la formazione di progetti nel mondo; la sua preminenza rispetto
agli dei consiste certo nel fatto che esso deve trovarsi nella sfera della produzione umana:
« Forse che potreste creare un dio? - Dunque non parlatemi di dei! Certo, voi potreste creare il
superuomo » (6, 123). Se ci fossero degli dei, non ci sarebbe nulla da creare; ma ora « la mia
ardente volontà creatrice mi spinge sempre di nuovo verso l’uomo; così il martello viene spinto
verso la pietra » (6, 126). Ma come? Che ciò avvenga mediante pensieri che induco gli altri a
pensare, oppure mediante un allevamento, in analogia con l’allevamento degli animali, vale a dire
mediante la selezione di certe qualità altamente apprezzate, utili e riconoscibili con sicurezza - in
ogni caso l’uomo può considerare realmente soltanto uno scopo finito; egli non sa mai che cosa
risulta dal suo agire; oppure si pone illusoriamente al di sopra degli uomini come un altro Dio
creatore.
Se nel superuomo sembra mostrarsi per un momento ancora qualcosa di simile al contenuto di un
compito, allora il contenuto dell’impulso che permane costante nel mondo e che sostituisce la
trascendenza della divinità va oltre ogni determinatezza e si perde nel vuoto: « Mille scopi vi
furono finora, perché v’erano mille popoli... uno scopo manca. Ancora l’umanità non ha uno scopo
» (6, 87). E anche se la divinità può avere uno scopo che è caratteristico dell’umanità, nessun uomo
può conoscerlo e prenderlo sensatamente come compito. Lo svanire nell’immaginario, che dà
l’impressione piacevole di una possibile realtà mondana nella sua massima crescita - ma non è
nulla, e certo non è trascendenza - è la conclusione del pensiero che sostituisce la trascendenza.
La disposizione di compiti impossibili fa dimenticare all’uomo la sua finitudine e con ciò i suoi
limiti, in quanto lo ritiene capace di ciò che solo un Dio che penetra ovunque, ma non un uomo, può
esaudire. Se Nietzsche ad esempio ebbe la spavalderia di insegnare: « muori al momento giusto »
(cfr. supra), ebbene egli parlava come se un uomo, che certo può mettere a repentaglio la sua vita,
potesse sacrificarla per una causa e per altri uomini, come se al di là del suo stesso esserci egli
potesse sapere, dominandolo e valutandolo nel tutto, quando deve morire e provocare la sua stessa
morte.
c) La confusione tra la verità oggettivamente sondabile e la verità chiarificabile, ossia lo scambio tra
la conoscenza delle cose nel mondo, sempre particolare e relativa, e il trascendere, ha come
conseguenza l’ambiguità che si origina quando il trascendere così enunciato, per esprimersi, si
serve dei concetti della conoscenza naturale, della psicologia e della sociologia. Nietzsche è sempre
di nuovo preda di questo errore quando fa uso della biologia, della psicologia e della sociologia
come mezzo di appello e crittografia chiarificatrice per spingersi più in alto. Così, ad esempio,
accanto all’appassionata ascesa tra gli ideali dei grandi uomini, in Nietzsche si può trovare la
neutralizzazione nel riconoscimento privo di slancio dell'homo natura, e accanto al richiesto
superamento di tutto ciò che è psicologico si può incontrare un livellamento psicologico. La
confusione sconvolgente tra la psicologia che tende a fissare, e la chiarificazione dell’esistenza che
può solo agire richiamandosi ad appelli, si basa, in ultima istanza, sulla volontà di pura immanenza,
che vorrebbe respingere ogni trascendenza, ma che poi non fa avanzare né l’esistenza, né tanto
meno la trascendenza, e che tuttavia rappresenta inevitabilmente e continuamente il compimento del
trascendere stesso.
I concetti che permangono nell’immanenza sono concetti di cose nel mondo; quindi essi sono
determinati ed effettivi. Oppure vogliono significare la totalità dell’essere; allora diventano
indeterminati e inefficaci, salvo che diventino occasione di un agire da parte dell’uomo che con essi
si illude; un agire che raggiunge qualcosa di totalmente altro rispetto a quanto ci si proponeva,
oppure semplicemente tende a distruggere. I concetti che rimpiazzano la trascendenza negata
diventano vuoti per ogni sapere del mondo, senza tuttavia esprimere la trascendenza. Ma l’intero
contenuto del pensiero umano proviene o dal sapere di un determinato esserci reale -sapere che si
può dimostrare — oppure dal linguaggio di una trascendenza che è rivolta all’esistenza dell’essere-
sé che, come essa, non è mostrabile. Perciò in Nietzsche le posizioni vuote si originano proprio dal
fatto che egli vuole rimanere nel mondo e tuttavia abbandona lo scibile in esso contenuto.
Non si può negare che il lettore di Nietzsche, nei passi decisivi, possa esser colto dalla desolazione,
che il suo concludere in simboli non comunicativi lo possa deludere, che in fondo un vuoto
divenire, un vuoto movimento, un vuoto produrre, un vuoto futuro sembri essere la sua ultima, muta
parola.
Ma questa apparenza non costituisce la verità definitiva su Nietzsche. Quando si rivolge a Nietzsche
il rimprovero di ateismo e si rimanda al suo Anticristo, in verità l’ateismo di Nietzsche non è affatto
una negazione di Dio univoca e piatta, e non è neppure l’indifferenza di una lontananza da Dio,
secondo la quale Dio non esiste perché non lo si cerca affatto. Già il modo in cui Nietzsche nella
sua epoca stabilisce che « Dio è morto », sta ad esprimere il suo turbamento. Come la sua
immoralità, mediante un ethos veritiero, vuole l’eliminazione della morale ingannevole e
sostenuta con ipocrisia, così il suo « ateismo » vuole esprimere l’autentico legame con l’essere,
contro la menzogna livellante, che toglie ogni passione, della presunta credenza in Dio. E sebbene
per Nietzsche nell’ateismo agisca lo spietato impulso allo slancio del suo essere-uomo, e benché
l’onestà che egli esige aumenti fino ad un no radicale contro ogni generica fede in Dio, perfino
allora Nietzsche conserva una vicinanza sorprendente al cristianesimo: « Esso è certamente la parte
migliore di vita ideale che io abbia veramente conosciuto: fin dall’infanzia l’ho seguita in molti
aspetti e, in cuor mio, credo di non esser mai stato volgare nei suoi confronti » (a Gast, 21. 7. 81).
Tutto questo indica che Nietzsche, che non vuole trascendere quando respinge la credenza in Dio e
ad essa sostituisce la rappresentazione del puro al-di-qua, di fatto tende continuamente al
trascendere.
Il trascendere di Nietzsche. Il segno piu certo del suo trascendere è che esso nella sua negatività è
assolutamente universale, a differenza di ciò che accade in tutte le dottrine positivistiche,
naturalistiche, materialistiche, che hanno sempre come caratteristica peculiare una rigida certezza di
sé nel circoscrivere l’oggetto, che infatti rappresenta per esse il vero e proprio essere. Il positivismo,
le cui formule indubbiamente compaiono talvolta in Nietzsche, viene con ciò disprezzato. L’origine
del movimento di pensiero di Nietzsche non è tanto l’ordinario ateismo, che come tale si accontenta
di esaminare gli oggetti empirici del mondo e di fare ipotesi su di essi, e perciò ricorre a qualsiasi
superstizione quando vuole sapere che cosa è l’essere, ma è la perenne insoddisfazione di fronte a
ogni forma di essere che gli si mostra. Forse, tutto ciò che Nietzsche nega era già stato anche
in altro modo negato, ma veniva isolato, separato dal resto (che rimaneva ingenuamente affermato),
o veniva negato in modo tale che non mettesse in pericolo esistenziale colui che esercitava la
negazione, poiché era sostenuto dall’intima sicurezza di un esserci considerato ovvio, naturale. Al
contrario, in Nietzsche l’impulso alla negazione, derivato dal senso di insoddisfazione, mostra una
passionalità e uno spirito di sacrificio tali che sembrano provenire dalla stessa origine che muoveva
i grandi spiriti religiosi e i profeti.
Il trascendere di Nietzsche si manifesta come il suo nichilismo, che egli dichiara di aver condotto
fino al suo punto estremo. Egli distingue questo suo nichilismo creativo della forza dal nichilismo,
improduttivo e solo distruttivo, della debolezza: « ogni fruttuoso e potente movimento dell’umanità
ha creato contemporaneamente anche un movimento nichilistico » (15, 223).
Egli vede il nichilismo che in tal modo respinge nei grandi fenomeni storici e nella moderna
décadence. Egli definisce il brahmanesimo, il buddhismo, il cristianesimo, come religioni
nichilistiche « perché hanno glorificato, tutte, il concetto opposto alla vita, il nulla, come fine
ultimo, come sommo bene, come “Dio” » (14, 371). Questo nichilismo passivo della debolezza, in
cui tutti i valori si fanno guerra reciproca, rappresenta il disgregamento; in primo piano subentra «
tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce,... sotto diversi travestimenti, religiosi o morali
o politici o estetici » (15, 157). La debolezza è anche « nel nichilismo alla moda di Pietroburgo
(vale a dire nel credere di non credere portato fino al martirio) »; esso « mostra sempre innanzitutto
il bisogno di fede, stabilità, spina dorsale, punto d’appoggio» (5, 281). Il nichilismo è
la manifestazione di una morte; l’andare-in-rovina dei nichilisti cresce sino al mandarsi-in-rovina:
essi hanno « l’istintiva costrizione a compiere azioni con cui ci si inimica mortalmente i potenti »;
vi è in loro un residuo di volontà di potenza trasformata, « nel costringere i potenti a essere i loro
carnefici. È questa la forma europea del buddhismo, il far no, dopo che ogni esistenza ha perduto il
suo “senso” » (15, 185).
Al contrario, il nichilismo di Nietzsche, in opposizione a queste possibilità, è di fatto una forma del
suo trascendere, che in ragione della sua ambiguità risulta difficile da comprendere. L’essere gli si
mostra in questa forma di nichilismo che continuamente trascende se stesso. Ma per colui che si
limita a osservare come spettatore è come se non ci fosse: infatti Nietzsche ha sì superato il
nichilismo, ma in una forma, tipica dell’esserci temporale che rifiuta ogni possesso, tale che il
nichilismo stesso sembra mostrarsi sempre di nuovo, come se ancora dovesse essere superato. Le
sue costruzioni, tendenzialmente dogmatiche (ad esempio, la fallita sostituzione della trascendenza),
possono apparire come la volontà di credere da parte di un miscredente. Il salto che Nietzsche
compie verso il contenuto della fede non è quello verso la tradizione (come in Dostoevskij o in
Kierkegaard), bensì verso una credenza e verso simboli autonomamente prodotti (il superuomo,
l’eterno ritorno, Dioniso, ece.), al di fuori di ogni atmosfera storica vincolante. Così Nietzsche, se si
concentra lo sguardo sulle sue dottrine dogmatiche, può dare l’impressione di un pensatore che in
realtà non è in grado di sopportare le conseguenze del suo pensiero: partendo dal suo confessato
nichilismo, egli sembra adottare soltanto una via d’uscita violenta, invece di superarlo così come
intenderebbe fare. Egli sembra non avere piu nulla, e nelle vacuità immanenti, ma immaginarie, del
mondo sembra cogliere la parvenza di una stabilità dell’essere. La forzatura di una credenza
disperata pare appoggiarsi a qualcosa che ha un effetto del tutto artificioso. Ma questa impressione
nasce soltanto se invece dell’intero Nietzsche si isola l’aspetto positivo delle sue dottrine. Il suo
trascendere nichilistico non raggiunge la pace nell’essere. Perciò l’ateismo di Nietzsche è la
crescente inquietudine di una ricerca di Dio che forse non si comprende piu.
L’enunciazione nietzschiana dell’ateismo contiene un indicibile tormento: il fatto che sia necessario
rinunciare a Dio, ha questa conseguenza: « Non pregherai mai piu..., non riposerai mai piu in una
fiducia senza fine - è questo che ti neghi: fermare il passo davanti a un’ultima saggezza, a un ultimo
bene, a un’ultima potenza, e togliere i finimenti ai cavalli dei tuoi pensieri... Uomo della rinuncia, in
ogni cosa vuoi tu rinunciare? Chi te ne darà la forza? Nessuno ancora ebbe questa forza! » (5,
216). Questa esigenza, quest’idea e realtà di Nietzsche sono tali che egli deve augurarsi di poter
sbagliare: « Alla fine, per tutti coloro che in qualche modo hanno avuto un dio come compagno, non
c’è stato ancora ciò che io conosco come “solitudine”. Ora la mia vita consiste nel desiderio che
tutte le cose possano essere diverse da come le intendo; e che qualcuno renda incredibili le mie
“verità” » (a Overbeck, 2. 7. 85). Come un veggente, egli scorge il suo abisso con grandiosa onestà:
« Un uomo profondo ha bisogno di amici, a meno che egli abbia ancora con sé il suo Dio. Ma io
non ho né Dio, né amici! » (alla sorella, 8. 7. 86). Ma Nietzsche, pur terrorizzato, non retrocede.
Così si capisce dove egli vede l’autentico coraggio degli uomini: «Avete coraggio...? Non coraggio
davanti a testimoni, bensì il coraggio dei solitari e delle aquile, cui non fa da spettatore nemmeno
piu un dio? » (6, 419).
Perciò alla fine non può stupire di trovare espresse, direttamente da lui stesso, le indicazioni del suo
contatto con la trascendenza. Già nel suo pensiero egli lascia sussistere il Dio che al tempo stesso
deve negare, come quando dichiara: «propriamente, soltanto il Dio morale è confutato» (13, 75). A
tal riguardo, egli lascia decisamente un libero spazio, anche se mai parla dell’unico Dio, ma solo di
dei, del divino: « Quanti nuovi dei sono ancora possibili! Anche a me stesso, dove vuole a volte
ravvivarsi l’istinto religioso, cioè l’istinto plasmatore di dei: come diversamente, come variamente
mi si è ogni volta rivelato il divino!... Tante cose strane mi passarono già davanti in quei momenti
senza tempo che arrivano nella vita... Io non dubiterei che ci siano molte specie di dei » (16, 380).
Ma altrettanto deciso è poi a sua volta il movimento che riversa tutto sull’uomo: « Mi sembra
importante che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità, di una qualunque forza, di un incondizionato; non
si potrebbe fare a meno di prenderlo come istanza suprema e di battezzarlo “Dio”. Bisogna...
riprendere per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo dato all’ignoto e al tutto » (15, 381).
Se queste « cose prossime » appaiono continuamente insufficienti, Nietzsche può alla fine
considerare il trascendere tutto ciò che sussiste come l’essenza stessa, anche se lo pone in senso
interrogativo (e con ciò di nuovo lo lascia interamente cadere): « Come, sarebbe forse il tutto
composto di nient’altro che di parti scontente, aventi tutte per la testa delle desiderabilità? sarebbe
forse il “modo di procedere delle cose” appunto il “via di qua! via dalla realtà!”, la stessa eterna
scontentezza? Forse che la desiderabilità sarebbe la forza stessa che dà l’impulso? Sarebbe essa -
deus? » (15, 380-381).
Solo in un punto abbiamo potuto rintracciare in Nietzsche una forma di acquietamento nella
trascendenza. Egli stesso si creò involontariamente
il nuovo mito del paesaggio come un mito di pura immanenza (cfr. supra). La nobiltà di
Nietzsche trovava rifugio nella natura che, nel suo linguaggio cifrato, rivelava all’ateo l’identità del
suo essere con l’essere delle cose. Si tratta, in fondo, dell’animazione mitica della natura da parte di
chi vuol vivere in solitudine; è il paesaggio in sé - senza altro essere umano che non sia colui che
ascolta - che qui diventa mitico. Se questo mito è in certo qual modo l’espressione della mancanza
di comunicazione tra gli uomini, allora, riguardo ai limiti dell’essere di Nietzsche, bisognerà
chiedersi se l’ateismo e la mancanza di comunicazione abbiano un rapporto
reciproco. Nell’espressione della sua opera pensata e sviluppata in forma poetica si trova, di fatto,
una tale correlazione. Sarebbe però un errore interpretare come la totalità di Nietzsche stesso un
semplice tratto, sia pure dominante, del suo pensiero, dicendo che egli non ha mai amato nessuno
incondizionatamente, e che quindi per lui Dio è morto; che il suo radicale ateismo
è esistenzialmente in relazione alla radicale mancanza di comunicazione. Il suo ardente desiderio di
comunicazione non gli consente, anzi, di cancellare l’indefinita divinità: il suo ateismo è infatti
l’inquietudine penetrata nel piu profondo della sua esistenza. L’esistenza e il pensiero di Nietzsche
vanno ben al di là di quanto si creda di poterli, in questo modo, catturare. È tuttavia significativo,
per le possibilità di senso connesse al pensiero delle forme sostitutive della divinità, il fatto di poter
per un attimo proporre l’interpretazione - non vera nella sua assolutezza - dell’unità di ateismo e di
mancanza di comunicazione.
Il pensiero filosofico di fronte all’ateismo. Ciò che Nietzsche esprime come ateismo non può
semplicemente, dal punto di vista del contenuto, essere vero o non vero. Infatti non c’è alcuna prova
dell’esistenza di Dio, così come non c’è prova a favore dell’ateismo; non c’è nemmeno nessuna
prova favorevole o contraria al fatto che l’uomo sia soltanto un modo dell’essere animale; l’uomo è
padrone di sentirsi un animale, quando può: in questioni del genere non si decide nulla con
argomentazioni, al massimo si giunge a una maggiore chiarezza. La verità passa qui - al di là del
limite di ciò che può essere saputo in modo universalmente valido — attraverso la sua realtà. Non si
può negare la sua serietà esistenziale, né in Nietzsche, né tanto meno laddove essa si compie come
realtà. L’ateismo è una potenza nel mondo. Ciò che Nietzsche vide ed espresse era tale realtà, e
da allora egli la fece progredire sempre piu, in un grado, diremmo, incommensurabile. Questo
ateismo non svanisce nella nullità, ma è invece passione demonica. Nietzsche ha espresso questo
ateismo in modo grandioso, nella sua intera, inafferrabile varietà di significati.
Se riguardo alla verità della fede in Dio o dell’ateismo la comprensione evidente non ci porta ad
alcuna decisione universalmente valida, e quindi necessaria, per tutti gli esseri razionali, la
veridicità esige però di vedere la realtà dell’esistente ateismo e gli effetti pratici della sua potenza.
Per un filosofare che vuole rimanere onesto, è necessario vivere in riferimento a questa realtà. Se la
verità si presenta come fondamento del filosofare nella trascendenza dell’essere-sé, allora questa
verità esisterà soltanto se saprà resistere alla messa in discussione da parte dell’altro — l’ateismo -,
e in essa riconoscerà non solo la realtà e la forza dell’altro, bensì lo spirito di sacrificio, la
prodigalità vitale, la forza attrattiva di questo altro.
La necessità esistenziale coinvolge soltanto la decisione che ognuno prende, se cioè egli vuole
vivere per sé nell’ateismo o nel rapporto con la divinità: una decisione che non riguarda dunque la
possibilità di esprimere un sapere su di sé, bensì il comportamento interiore e la valutazione
delle cose, il rischio e l’esperienza dell’essere.
Il pensiero filosofico sa di non essere tutto. Esso è consapevole di se stesso, non escludendo l’altro,
ossia la religione rivelata, che mai raggiunge, a causa della quale viene posto esso stesso in
discussione e che, da sé, non completa e non può comprendere. L’ateismo, colto da Nietzsche in
tutta la sua estensione, è a sua volta qualcosa d’altro, a partire dal quale il pensiero filosofico viene
nondimeno messo in discussione; ed è, nella sua esclusività, strettamente congiunto alla religione
rivelata che, per parte sua, vorrebbe distruggere. Il pensiero filosofico sulla base dell’essere-sé
non combatte né la religione rivelata, né l’ateismo, in quanto entrambi sono realtà di fatto; esso
vuole con queste chiarire se stesso, interrogare e mettersi in discussione. Esso si differenzia
dall’ateismo per il fatto che dà riconoscimento alla religione rivelata — anche se non per sé - vale a
dire non intende rinnegarla; si differenzia dalla religione rivelata per il fatto che non condurrebbe
alcuna guerra per estirpare gli atei. Il filosofare può solo consistere nell’impotenza fattuale in cui si
ricorre alla razionalità dell’essere-sé dell’uomo; esso ha la sua realtà produttiva, che toglie gli
uomini dal sonno e che, come tale, è stata silenziosamente tramandata attraverso i secoli, soltanto
come realtà spirituale, che viene tollerata e sollecitata, oppure viene rigettata e costretta
nell’oscurità dall'esteriorizzazione delle potenze delle religioni rivelate e dell’ateismo. Il pensiero
filosofico è impotente: può solo indicare, argomentando, le conseguenze di proposizioni esplicite,
che siano dogmatiche dal punto di vista religioso oppure esprimano ateismo; esistenzialmente, può
mostrare gli abissi e le possibilità. Esso, per sua natura, è nella situazione di un’aperta sincerità e
disponibilità, e si compie in relazione alla religione rivelata e all’ateismo, i quali, nei punti decisivi,
cioè nel processo di comunicazione tra loro, si rinchiudono in sé. L’orrore di questa effettiva rottura
della comunicazione da parte degli uomini - che tuttavia, in quanto uomini, si trovano nella
possibilità di comunicare, e non sono mere potenze naturali — è uno dei piu forti impulsi del
filosofare, che vorrebbe suscitare ed attuare tutta la potenza presente nell’intimo dell’uomo stesso.
Il filosofare come tale non porta né a Dio, né lontano da Dio, ma nasce invece dall’origine del
rapporto trascendente dell’essere-sé: è la realtà umana che, nella sua ricerca, vuole estrarre
dalla profondità della ragione e dell’esistenza ciò di cui effettivamente vive, e questo accade,
precisamente, nel dialogo intimamente rivelato attraverso i secoli.
Le conseguenze del contenuto concettuale dell' ateismo nietzschiano vengono tratte da lui stesso in
modo spietato: il cristianesimo e ogni forma di credenza in Dio vengono smascherati. Ogni agire
umano ha luogo in una forma di interpretazione del mondo che, in ogni trasformazione,
costituisce sempre e soltanto un’altra illusione. Ogni illusione è il fenomeno nelle mani di una
volontà di potenza. Anche questa peculiare interpretazione del mondo come volontà di potenza è
l’interpretazione da parte di una volontà di potenza. Ed è per questo che ora nulla è vero, tutto è
permesso. La volontà di potenza vuole agire. L’effetto più invincibile non si trova in qualche verità,
bensì nella magia dell’estremo. Non c’è alcun limite che non sia quello della potenza effettiva,
nessuna delimitazione attraverso richieste incondizionate. La lotta ha luogo per amore della lotta.
Ma tutto ha un duplice significato e il nichilismo è la realtà continuamente presente che dev’essere
superata in questa metafisica della potenza.
Quello che in tal modo viene visto sembra essere la natura dell’arbitrio e dell’assenza di legge. Ma
è anche la realtà della forza dell’autentica legge creativa, un essere vincente come potenza senza
trascendenza, una legge che è la legge di questa potenza. Quell’impulso arbitrario è la massa, questo
produrre è invece la forza superiore dei signori. II primo ubbidisce a ciò che lo spinge; il secondo
comanda, giacché può ed ha la potenza a tale scopo. Il primo ha bisogno di illusioni, perché è
troppo debole per dire di sì alla sua realtà; il secondo protegge e produce perfino le illusioni per
quegli schiavi. Ed anche se non ha illusioni, con sovrana superiorità produce per se stesso, invece
della presunta illusione della trascendenza, quelle interpretazioni che costituiscono le illusioni
terrene di questa volontà di potenza.
Ciò che Nietzsche ha così enunciato con forza suggestiva in infinite variazioni sarebbe l’espressione
efficace di una realtà vitale che non indietreggia di fronte a nulla. È un filosofare che ha il suo
stesso vigore nel fatto di non indietreggiare di fronte a nulla e di andare fino alle ultime
conseguenze. Poiché Nietzsche ha intrapreso questa via, egli, identificandosi con essa, sembra il
grande rappresentante storico dell’ateismo; ma poiché egli stesso è contemporaneamente di piu,
vale a dire trascende in questo stesso non-indietreggiare-di-fronte-a-nulla, senza di fatto legarsi
a questa forma dell’ateismo, è anche il filosofo che rispetto a quest’ateismo dice che non vi è
soltanto esso. Perciò, da un lato egli va alla ricerca di che cosa sia l’uomo inteso unicamente come
un modo dell’essere animale, dall’altro oltrepassa, respingendoli, il positivismo, il naturalismo, il
biologismo e il pragmatismo. Nietzsche realizza un filosofare al limite che - recepito in questi
contenuti - subito si ribalta in non-filosofia (poiché decade in contenuti biologici, naturalistici e
utilitaristici presenti nel mondo). Questo ribaltamento, e il successivo ritorno al filosofare, avviene
continuamente nel suo pensiero: è, infatti, l’esperienza della realtà dell’ateismo, che al tempo stesso
vuole rinnegarsi.
Non si può dire che senza Dio cessi il filosofare, ma è certo che esso cessa senza il trascendere.
Perciò, la ricezione del pensiero di Nietzsche nel quadro di un presunto ateismo, piatto ed
indubitabile, e di una sofistica che cerca avidamente strumenti di lotta linguistici, tenderebbe a farci
accettare in modo necessariamente unilaterale quell’immanenza nichilistica; in quanto non-
filosofia, esso sarebbe anche contrassegnato dal fatto che il non-indietreggiare-di-fronte-a-nulla, al
contrario di ciò che accade in Nietzsche, dovrebbe essere limitato nell’espressione, ma illimitato
nella prassi.
Il Nietzsche frainteso nel suo capovolgimento dal filosofare alla nonfilosofia - nel senso che rimane,
come unico contenuto, solo la non-filosofia - può essere utilizzato proprio da tutte quelle potenze
che egli combatteva: può servire al risentimento che, nella sua impotenza, si procura
piacere denigrando il mondo e gli uomini; alla violenza, che confonde il pensiero della volontà di
potenza, espressione di un ordine gerarchico, con la giustificazione di ogni brutalità; ai nemici dello
spirito, che esaltano la vita come mero processo di avvenimenti materiali; alla mendacità, che
utilizza il concetto nietzschiano dell’apparenza come verità per sostenere la liceità di ogni
menzogna; all’incurante annullamento dell’essere, che compie la negazione di tutto per affermare
come naturale il suo semplice esserci.
Poiché Nietzsche si muoveva al limite tra il filosofare e la non-filosofia, osando tutto con il
pensiero, ha trovato l’inaudita espressione dell’ateismo esistenziale e ha mostrato quell’altra verità
davanti alla quale si trova il filosofare. Perciò nel suo pensiero egli ha assunto
contemporaneamente molte posizioni, senza poter procedere oltre. Detto in altri termini: sull’albero
sovraccarico del pensiero nietzschiano appassiscono molti fiori senza poter produrre i loro frutti.
Ma nell’ateismo di Nietzsche vi è la grandezza di qualcosa che rimane invincibile.
Nietzsche non concepiva la verità come qualcosa di sussistente, né come Dio, né come il non-essere
di Dio. Per lui la verità si esprimeva nel suo atto di trascendere, senza che egli la intendesse come
definitiva per il fatto di essere enunciata. Ciò lo rende insuperabile.
Come un visionario, Nietzsche vide la realtà dell’ateismo come la potenza che forse avrebbe potuto
dominare la terra. La realtà di questa innegabile potenza, dopo di lui costantemente cresciuta, fa
apparire Nietzsche per la seconda volta insuperabile.
Anche supponendo che egli abbia commesso un errore nell’esprimere la sua radicale esperienza del
limite attraverso un rifiuto della trascendenza, un errore grandioso per la serietà della sua esperienza
e la forza della sua espressione, ebbene, tale errore sarebbe comunque necessario,
continuamente fruttuoso, poiché mostrerebbe indirettamente il vero con una potenza cogente.
Infatti, l’uomo coglie il vero non nel puro splendore, bensì solo nel fatto di essere ad un tempo
capace e consapevole di errare - come per noi la luce si dà solo attraverso l’oscurità. Nietzsche
sarebbe per la terza volta insuperabile.
Ma, per quanto sovrastante possa essere l’ateismo nel pensiero di Nietzsche, questo non esaurisce
tutto Nietzsche. Egli al tempo stesso provoca e vuol provocare ciò che non si accorda con questa
possibile realtà. Alla fine, il suo nuovo filosofare è piu profondo di questa forma che, per quanto
dominante, resta pur sempre soltanto una forma particolare per esprimere il contenuto delle sue
affermazioni.
Il nuovo filosofare
L'ateismo di Nietzsche è l’espressione estrema della sua totale rottura con il contenuto storico
tradizionale, nella misura in cui questo parla un linguaggio che aspira ad una validità universale: per
lui tutti gli ideali dell’uomo sono tramontati; egli vuole rigettare la morale, abbandonare la ragione e
l’umanità. Vede nella verità una menzogna universale, nella filosofia fino ad oggi un continuo
inganno, nel cristianesimo una vittoria dei malriusciti, dei deboli e degli inetti; non c’è nulla di
sacro, di valido, che non sia stato condannato dal suo giudizio. Così almeno sembra. Di fronte a
tutte le precedenti rotture, compiute da altri, che erano soltanto parziali, poiché restava pur sempre
una sfera di validità di per sé evidente ed indiscussa, la rottura nietzschiana è di tali dimensioni che
non può piu essere superata. Egli ha riflettuto in modo approfondito su tale rottura, fin nelle sue
ultime conseguenze; su questa via, sembra difficile poter procedere oltre, anche di un solo passo. Il
successivo processo di disgregazione che si è compiuto e le profezie di sfacelo non fanno che
ripetere ciò ohe già Nietzsche aveva detto: egli infatti aveva visto l’Europa protesa
irrimediabilmente verso la catastrofe. La visione di Nietzsche, nella sua grandiosità e nella sua
preoccupante minaccia, era originaria e vera, mentre dopo di lui, sulla bocca di altri, divenne una
falsa grandiosità. Nietzsche infatti si distingue essenzialmente da questi epigoni per la sua
commozione, veramente autentica, ed anche per aver rischiato tutta la sua vita di pensatore alla
ricerca della via per un avvenire che non sia il tramonto dell’uomo. Tutto ciò che Nietzsche ha detto
non è così importante come l’incredibile serietà della sua vita, che è una rottura con tutto. Ciò che
dà impulso a questa rottura, in lui ancora eroica, non è la volontà della rottura stessa, ma la volontà
del sì.
Il nocciolo della questione sta nel modo in cui Nietzsche coglie ed esprime l’affermazione in
qualche cosa di positivo.
Sembra quasi che con le teorie del superuomo, della volontà di potenza, della vita, dell’eterno
ritorno, nella loro espressione positiva, si cada, per così dire, in una piatta dimensione terrena.
Tuttavia, nei loro ulteriori sviluppi nel pensiero di Nietzsche, queste posizioni possono essere
intese in modi diversi: nella loro immediata obiettività, esse possono dapprima deludere e poi
sedurre grazie alle loro profonde intuizioni, che però vengono per cosi dire nuovamente seppellite
nel momento in cui le esprime; è come se Nietzsche - passando alla sua metafisica, il cui contenuto
immediato non ci interessa piu - facesse trasparire l’elemento esistenziale, ma soltanto come un
lampo, non come una luce costante che mostri l’essere in una serena chiarezza. Per questo, nella
nostra esposizione, abbiamo cercato non solo di riunire i contenuti oggettivi, di mostrare
l’oggettività immediata - anche nella sua stessa vacuità, laddove è stato necessario - che non
soddisfa affatto alle esigenze dei problemi, ma soprattutto di far emergere il piu possibile il loro
significato recondito: e questo ci è spesso riuscito grazie a quelle affermazioni incidentali di
Nietzsche che dicono molto di più delle stesse formulazioni definitive.
Nietzsche coglie il positivo non già nell’immanenza piattamente determinata, ma nell’orizzonte
infinito, in ciò che è privo di limiti determinati. Ma, nel momento in cui vengono sciolti tutti i
vincoli e infranti tutti gli orizzonti chiusi, di fatto il pensiero si perde nel nulla.
Se infine Nietzsche cerca il positivo servendosi di immagini e di figurazioni, allora quasi sempre
egli non perviene che a simboli vani, che hanno sì forza espressiva e danno un’efficace visione
plastica, ma senza la forza cogente delle cifre metafisiche.
Se, dopo aver rotto e perduto ogni fondamento, dopo essere andato a finire in mare col travolgente
impeto della sua corrente, Nietzsche si àncora all’eterno ritorno e agli altri contenuti che diventano
dogmatici, è come se si salvasse su una lastra di ghiaccio, destinata però a liquefarsi. Se egli
penetra nell’infinito, è come se volesse volare in uno spazio privo d'aria. Se si aggrappa ai simboli,
è come se gli cadessero in mano maschere inanimate. Nessuna di queste vie gli consente di
raggiungere ciò che egli vuole.
Eppure, nessuna di queste vie è completamente inutile per Nietzsche; sembra infatti che in esse
rimanga fissa per lui, quale stimolo e meta, la storicità dell'esistenza. È la sua volontà di una
sostanza che non sia essa stessa pensiero, ma domini ogni pensiero. Che questa si manifesti
chiaramente oppure no, è la caratteristica del singolo pensiero, e non di questa origine stessa, che
può rivelarsi sempre e soltanto in modo ambiguo. Sembra che Nietzsche, nel suo tipico modo di
filosofare, tocchi inconsciamente l’esistenza nella sua storicità, senza coglierla in modo decisivo, e
che egli, partendo sia dalla limitata determinatezza del pensiero, sia dalla sua
infinita indeterminatezza, tenda a ritornare verso la sua propria storicità; ma si ha spesso anche
l’impressione che Nietzsche non pensi piu partendo da una base storica.
La volontà di una vera esistenza storica spingeva Nietzsche a fondere ogni cosa per giungere ad una
nuova origine. Nello smascherare e demolire ogni falsità, tutto ciò che si spacciava per una solida
costruzione ma che era solo una mera facciata, egli fu come l’uragano che crea un’atmosfera pura.
La sua demolizione della « morale », nella forma in cui si presentava e si voleva far credere, fu
grandiosa, ed era richiesta dalla situazione; essa aprì la strada alla filosofia dell’esistenza. Infatti,
finché si conduce una vita in base ad ovvietà mai messe in discussione, per quanto non si creda che
esse siano verità incondizionate, il filosofare rimane un’innocua occupazione al pari di tante altre,
ed i suoi « temi » sono scelti a caso e secondo le circostanze. Solo quando si abbandona questa vita
diventa nuovamente possibile filosofare sull’essere dell’esistenza dal punto di vista del tutto.
A differenza degli atteggiamenti del tempo della Rivoluzione francese, in Nietzsche la rottura è
certamente piu radicale, e purtuttavia non è perduta in lui la volontà di trasformare una tradizione.
Nietzsche non solo considera il pensiero dei presocratici come la suprema vetta e il modello
dell’umanità (al posto del Nuovo Testamento cristiano), ma anche non pensa mai di dimenticare ciò
che ci è stato storicamente tramandato, e di dover ricominciare partendo dal nulla di una nuova
barbarie. Tutta la sua opera è permeata dal rapporto con la grandezza del passato, anche di quella
che egli ha rifiutato.
Questo nuovo filosofare, per quanto si presenti in modo cosi risoluto ed abbia un effetto così
intenso, suscitando inesorabilmente quell'inquietudine che non lascerà più in pace nulla di ciò che
sussiste, non assume in Nietzsche la forma di uno schema fisso e definitivo. È una lotta inaudita di
tutto il modo di sentire, di sperimentare, di volere, che si esprime nel pensiero, senza raggiungere
mai una meta finale.
La negatività assoluta. Nel corso della sua dialettica effettiva, Nietzsche procede in modo tale che
le opposizioni aumentano in funzione della loro profondità. In questo filosofare è necessario che
tutto passi nel suo opposto: l’onestà si pone in questione di fronte a se stessa, l’ateismo non
sopprime l’istinto da cui sgorga la divinità, la volontà contro ogni profezia implica la profezia di
qualcosa di assurdo, Dioniso si oppone al Crocifisso, ed entrambi possono diventare Nietzsche
stesso.
Se non c’è nessun contenuto che possa valere propriamente come dottrina complessiva di
Nietzsche, allora ciò che è decisivo nel suo filosofare non può essere un contenuto determinato,
anche quando predomini e agisca piu potentemente nelle sue opere. Bisogna vedere cosa significa
il fatto che ogni sua affermazione è sempre di nuovo messa in discussione, che - volontariamente o
involontariamente - tutto quello che egli pensa sembra poi annullarsi e cadere in contraddizioni.
Nietzsche vuole per il proprio pensiero l’ampiezza, e in tal modo la sostanza dell’essere, la sostanza
autentica, senza alcun velo. La via da seguire è per lui il superamento di ogni forma dell’essere, di
ogni valore, di ogni cristallizzazione di ciò che vi è di essenziale nel mondo: « I miei scritti parlano
solo dei miei superamenti » (3, 3). Emerge qui la straordinaria pretesa di non attenersi a niente di
saldo, onde poter autenticamente essere.
Il superamento avviene attraverso il « sospetto » e il « tradimento ». Il sospetto è l’atteggiamento
per cui nulla esiste più in modo indubitabile, e precisamente non nel senso che qualcosa debba
essere ristabilito, dopo la confutazione di un dubbio, ma nel senso che deve essere trasformato
per prendere parte all’essere. Nietzsche ritiene che mai « nessuno abbia scrutato il mondo con un
sospetto cosi profondo »; e definisce i propri scritti « una scuola di sospetto » (2, 3). Egli aggiunge
ancora: « quanta più diffidenza, tanta più filosofia » (5, 279). Il tradimento non è la mancanza
di fedeltà di un meschino abbandono, ma è la rinuncia, in forza di una necessità che ancora non si
comprende, ai contenuti storici divenuti vuoti; il tradimento è, nel pericolo che minaccia l’esistenza
stessa, la possibilità di far germogliare qualcosa di radicalmente diverso. Scrive Nietzsche:
noi procediamo, « sospinti dallo spirito, di opinione in opinione, attraverso il mutar dei partiti, come
nobili traditori di tutte le cose che in genere si possono tradire » (2, 412).
Partendo da quest’opera di smascheramento di molte cose, Nietzsche giunge ad attribuire un valore
di semplice apparenza a tutto ciò che esiste, e a ritenere questa apparenza come l’unica realtà. Una
dialettica infinita non consente nessuna sosta, nessun punto fermo. Finché si segue la via
dello smascheramento, rimane ancora la differenza tra vero e falso. Ma quando il superare non è più
uno smascherare a beneficio di una verità, ma una distruzione universale di tutto ciò che appare
nella realtà, allora viene a cadere ogni differenza tra le cose che possono essere tradite e quelle che
continuano a sussistere. Ogni cosa è invece sottomessa al tradimento. Ciò che Nietzsche pensa si
trasforma e diventa per un istante una semplice possibilità; ma ciò che egli veramente vuole è affine
all’antica trascendenza, per il fatto che egli supera ogni forma che si può cogliere in questo mondo,
ogni posizione, ogni meta; ed è invece opposto all’antica trascendenza per il fatto che alla fine
sembra che non resti più nulla.
Quando riflettiamo sui pensieri di Nietzsche, non ci è consentita alcuna sosta: tutte le volte che
vorremmo cogliere una verità come definitiva, cioè la verità, Nietzsche ci costringe a procedere
oltre. Sempre di nuovo sembra che alla fine non ci sia che il nulla. La negatività assoluta - sia che si
presenti sotto la forma del sospetto e della diffidenza, sia in quella del superamento, sia in quella del
contraddire e del lasciare sussistere posizioni contraddittorie - è come una passione per il nulla, ma
proprio in questo è la volontà che rischia tutto per l’essere autentico, il quale non può assumere
nessuna forma. Questa volontà vuole attingere il vero dalla profondità, dove esso non può più essere
concepito e rappresentato senza contraddizioni; vuol rendere effabile e reale ciò che rimane
nascosto nella determinatezza del pensiero; vuole il ritorno alla storicità dell’esistenza autentica nel
suo fondamento.
Significativa a tal proposito è la volontà del si, da cui è pervasa tutta l’opera di Nietzsche. È vero
che questa volontà culmina nel pensiero dell’eterno ritorno e dell ’amor fati, ma è presente anche
nelle « piccole cose », come l’elemento caratteristico che continuamente l’accompagna e che sta ad
indicarci che per lui il nulla non esiste. In questo senso dice Zarathustra: « E, in verità, molte cose
sono già riuscite! Come è ricca questa terra di piccole cose perfette, di cose riuscite bene! » (6,
426). Invece di condurre, per la scala delle negazioni, al nulla definitivo, il pensiero di Nietzsche,
per la scala di innumerevoli piccole affermazioni, conduce al sì definitivo.
La filosofia del tentare. Alla negatività assoluta appartiene quel modo di filosofare che, in quanto è
un fare positivo, vuol essere soltanto un « tentare » (cfr. supra). Per questa filosofia del «pericoloso
forse» (7, 11) di fronte all’ultimo orizzonte dell’infinito, tutto diventa qualche cosa di provvisorio.
Non vi è dunque nulla che non venga osato: « Una filosofia sperimentale come quella che io vivo,
anticipa a mo’ di prova anche le possibilità del nichilismo sistematico, senza che sia perciò detto che
essa si fermi... a una negazione» (16, 383).
Questo filosofare, che procede per via di tentativi, che contempla e sperimenta tutte le possibilità,
non è dominato ma, al contrario, domina tutto ciò che vien pensato. Senza sprofondare nello
scetticismo, esso vuol preparare, attraverso una potente e virile arte del dubitare, la realtà
dell’esistenza storica, dell’agire, che non consiste nel semplice pensare la verità, ma diviene a sua
volta la verità, rispetto alla quale ogni verità pensata si riduce a semplice tentativo e possibilità.
L’idea nietzschiana del pensare per via di tentativi si differenzia dunque dal procedere senza
nessuna regola, in modo casuale e arbitrario. Questa idea della filosofia come un continuo tentare e
sperimentare fa sì che il pensiero di Nietzsche non sia l’opposizione di una dottrina
formulata contro un’altra dottrina, in cui egli si imbatte, di un dogma contro un altro dogma, di una
determinata visione del mondo contro un’altra visione del mondo. Con questo suo modo di
filosofare, Nietzsche non intende presentare al mondo una nuova fede, che debba lottare per
imporsi, conquistare un posto ben determinato ed estendere il proprio dominio, o forse mettere alla
prova nella lotta la fecondità di un errore in cui si è creduto. Così come si comportò in tutte le
circostanze della sua vita - Nietzsche valutò a fondo tutte le possibilità e alla fine non rimase nulla,
per cui soffrì, rinunziò e lasciò perdere -, così egli fu anche effettivamente nel suo filosofare: fu cioè
— per riprendere la sua espressione un po’ ambigua - uno « spirito tentatore ». Ora, questo tentare
non è casuale, ma ha invece una sua precisa e profonda motivazione: è una lotta su di un piano
completamente diverso da quello di un esserci contro un esserci nel mondo (che si effettua
anche nella forma di verità dogmaticamente affermate e sviluppate); quella che Nietzsche combatte
è semmai la lotta della sostanza contro la nullità. Questa lotta si svolge nel mondo intero su di un
piano in cui non si presentano dei fronti reali di combattimento dell'esserci; è la lotta più profonda e
piu decisiva che ha luogo nell’anima di ogni singolo individuo e nell’anima dei popoli; e per il
senso esistenziale di questa lotta intima, invisibile e impercettibile Nietzsche dà le armi: cioè a dire,
le domande, intese come tentativi, le possibilità di smentire e confermare. La loro
comunicazione avviene con il proposito che nessuno si fermi mai ad esse, e neppure allo stesso
filosofare di Nietzsche, che appunto non deve essere inteso come una vera visione del mondo che ci
venga comunicata per arrestarsi definitivamente ad essa.
Nietzsche come vittima. Il filosofare di Nietzsche, che non conduce a nessuna conclusione, ma si
compie allo stesso modo dell’entusiastica ricerca di Dio, ad esso storicamente anteriore, sa di essere
condannato all'isolamento e all’abbandono; infatti, riferito alla vita ordinaria, così come viene
solitamente vissuta, questo filosofare è assai poco convenzionale: « Una filosofia che non prometta
di rendere più felici e più virtuosi, che piuttosto fa intendere che al suo servizio verosimilmente si
perisce, cioè si diventa soli nella propria epoca,... si deve affrontare ogni specie di diffidenza e
di odio...; una tale filosofia non è certamente nelle grazie di nessuno: bisogna essere nati per essa —
e non ho ancora trovato nessuno che lo fosse... » (14, 412).
La negatività illimitata ed il tentare potrebbero svolgersi come una libera attività del puro intelletto
in rapporto con tutte le cose, intese come un’alterità rispetto al nostro esserci. Ma ciò che la
negatività ed il tentare autenticamente sono, ciò che si presenta in essi non accidentalmente ma
realmente, si può vedere soltanto quando un uomo, per così dire, si tuffa in questo abisso con tutto
il suo essere, e fa, in rappresentanza degli altri, ciò che, se tutti lo facessero, porterebbe ad una
completa distruzione. Ma questo significa: diventare una vittima.
Nietzsche ci appare come una vittima, in primo luogo, in questo momento storico che rappresenta
una svolta di cui egli è cosciente. Egli non poteva più partecipare personalmente alla realtà di
questo tempo; doveva, per così dire, guardare fuori dal mondo ciò che del mondo stesso egli
sperimentava, mentre appunto ne veniva escluso. Ma poiché di fatto doveva pur vivere e pensare
nel suo tempo, il suo pensiero appare in una veste che non gli si adatta; egli può esser scambiato con
altri, perché rimase attaccato agli atteggiamenti e ai modi di pensare della sua epoca (egli
era perfino ciò che combatteva: per esempio, positivista o wagneriano), ed anche perché, nella sua
crescente solitudine, perse la dimensione del rapporto con la comunità. Ne risultò il modo di
filosofare di un uomo che, nella piu grande crisi dell’umanità occidentale, osò rischiare se stesso per
spe-rimeritare, nella propria solitudine, ciò che soltanto un uomo che naufraga è in grado di vedere,
e che a noi perviene solo in frantumi.
Nietzsche ci appare come una vittima, in secondo luogo, anche e semplicemente come uomo che, in
quanto tale, assume su di sé l'eterna negatività di tutto ciò che è finito, attuandola e sperimentandola
spietatamente su se stesso. A coloro che non fanno di se stessi delle vittime sacrificali, la finitezza
apre la strada alla possibilità di essere se stessi, in un limite presente e su di un fondamento
concreto, in modo che essi possano sperimentare le cifre dell'esserci nella loro particolarità storica;
al contrario, Nietzsche conquista la propria storicità non già identificandosi con la finitezza, ma
identificandosi piuttosto con la negatività. È come se si allargasse l’essere dell’uomo - che
altrimenti è vincolato, ed è reale solo in virtù del vincolo -, portandolo al di là di se stesso, in un
processo di autocombustione che non lascia alcun residuo.
La pazzia, che come semplice fatto empirico e brutale non ha alcun senso, diventa un simbolo
mitico di questo sacrificio. Essa, infatti, rende Nietzsche ancor più sfuggente e mutevole, poiché lo
liberò da ogni inibizione, ed infine lo distrusse. Il fatto che in Nietzsche l’originalità
diventi propriamente radicale solo nello stesso momento in cui inizia la sua disgregazione attraverso
la solitudine e la malattia, per cui il suo filosofare, nelle sue estreme possibilità, appare
inconcepibile senza quei processi biologici che culminarono nella pazzia, induce appunto ad
includere anche la pazzia nell’ambito di quel sacrificio che caratterizza tutta la vita ed il pensiero di
Nietzsche.
Il sacrificio si rivela anche nell’opera: questa infatti non può conseguire alcuna forma fissa, come
l’ebbero i grandi sistemi ed anche la filosofia critica di Kant. Nonostante il suo carattere cosciente e
continuamente riflessivo, il pensiero di Nietzsche si svolge inconsapevolmente anche negli aspetti
più decisivi. Il pensiero come tale non ha freni; poiché tutto osa, può smarrirsi, cadere in errore e
diventare perfino un giuoco. Il pensiero di Nietzsche, nonostante il suo continuo tentativo di
superarsi, nonostante la sua scepsi e la sua dissoluzione critica, non è però critico nel senso
kantiano: esso ricade infatti, sempre di nuovo, in un dogmatismo che però non si impone mai
definitivamente, ma è a sua volta sempre di nuovo superato nel movimento del pensiero. Nietzsche
si trova dunque nella condizione di dover affermare solo nella misura in cui ogni affermazione è poi
subito trasformata nel suo contrario; è come se un fanatismo del pensiero si trasformasse
continuamente in un altro fanatismo del pensiero, cosicché tutti i fanatismi sono ricondotti
nell’ambito del puro tentare, ed in ciò sono superati. Poiché lo stesso Nietzsche commette degli
errori, che peraltro egli riconosce come tali, nessuno si può richiamare alla sua filosofia come ad
una filosofia critica. Ne consegue l’inevitabile fraintendimento del pensiero di Nietzsche,
determinato dall’intimo modo di procedere della sua opera, che è espressione di un sacrificio, e non
di una realizzazione storicamente compiuta nel mondo.
Nietzsche conferisce il piu alto significato al proprio sacrificio, ma ciò non implica che qualcuno
debba seguirlo su questa sua strada. Nella sua esistenza di filosofo egli è come il fuoco, a cui egli
stesso era solito paragonarsi. L’autenticità esistenziale di Nietzsche si rivela come la fiamma che in
lui tutto consuma, non lasciando alcun residuo del suo esserci e della sua volontà personale, mentre
la sua esistenza si disperde in un’oscurità che non può essere comunicata.
Dicendo che Nietzsche è una vittima sacrificale, non lo si è però ancora compreso. Egli non può
essere classificato sulla base di un tipo dell’esserci umano da noi conosciuto. La parola esprime
soltanto, nel modo che ci è proprio, l’incomprensibilità insita nell’essere dell' eccezione,
che colpisce la nostra intima natura, e non ci lascia indifferenti, come nel caso di una semplice
eccezione.
Ciò che Nietzsche è, ed ha fatto, rimane aperto. Se qualcuno volesse alla fine sentirsi dire in poche
parole cosa Nietzsche propriamente sia, per poter dirlo a sua volta con frasi facilmente ripetibili,
invece di conoscerlo effettivamente e direttamente attraverso il suo stesso pensiero,
bisognerebbe rispondergli nel modo seguente.
Voler pronunciare o anche solo ascoltare una sentenza in termini definitivi là dove si tratta
dell’essere stesso, costituisce l’inizio di ogni falsità. Soltanto nel mondo - nel conoscere oggetti
determinati, nel lavorare per determinati scopi, nell’agire finalizzato a determinate mete - è
possibile una sentenza decisiva, e si può trovare nello stesso tempo la condizione necessaria di un
agire pieno di senso. Ma anche un tale agire deve essere ricompreso nella coscienza dell’essere
dell’esistenza, la quale soltanto è depositaria di ogni significato che può essere espresso. Questa
coscienza dell’essere si chiarisce nella comunicazione con i pensatori originali - che non hanno mai
nulla di definitivo e di conclusivo —, e quindi attraverso un movimento del pensiero stesso, che non
riposa e non si fissa mai definitivamente in nessuna formulazione. Ciò che è così pensato costituisce
il medium delle certezze fondamentali, nelle quali soltanto sorge la determinatezza del tendere a
uno scopo, dell’agire e del conoscere presenti.
In Nietzsche si presenta un nuovo modo di filosofare, che non diventa un sistema di pensiero
compiutamente elaborato: ciò che egli è stato ed ha fatto rimane aperto. Egli è come un eterno punto
di partenza, e ciò in virtù del modo in cui intende il suo compito: per lui l’elemento essenziale non è
affatto l’opera, ma l’uomo nel suo divenire. Nello stesso tempo vi è in Nietzsche un ulteriore
aspetto: l’impossibilità di esprimere una filosofia che esiste soltanto in Nietzsche stesso, che parla
senza indicare la strada, e che è presente senza essere un modello.
L’assimilazione di Nietzsche
Nonostante le numerose opere e le lettere che ci sono state tramandate, il filosofare di Nietzsche è
come nascosto. Ma è proprio il suo filosofare che fa percepire a noi, che pure non possiamo né
dobbiamo seguirlo, l’origine a partire dalla quale la vita umana, nelle sue attuali possibilità, deve
essere radicalmente trasformata. È dunque a partire da questa considerazione che si deve sviluppare
la riflessione su ciò che caratterizza in modo peculiare la possibile assimilazione di Nietzsche.
Essa non si è verificata fino a quando Nietzsche è stato accolto con un superficiale entusiasmo da
un punto di vista estetico, come lo spirito creatore, con la sua ricchezza di sorprendenti intuizioni e
la sua perfezione di scrittore. Era questo solitamente il punto di vista di coloro che ritenevano
essenzialmente decisive la moderazione e la forma: affascinati dagli scritti giovanili, poi delusi ed
anzi indispettiti per le incessanti contraddizioni, la mancanza di misura e gli errori, specialmente
degli ultimi anni, per l’eccessiva verbosità, i dogmatismi che diventavano apparentemente ciechi, i
bruschi cambiamenti che a volte rasentavano il ridicolo, essi provavano la tipica delusione di chi ha
perso di vista il nucleo del pensiero nietzschiano. In fondo, ad essi non restava che prendere in
considerazione alcuni aspetti marginali di Nietzsche: il critico e il brillante innovatore della lingua,
l’eccellente scrittore di aforismi e di saggi, il poeta. Se, in tal modo, l’appropriazione di Nietzsche si
esauriva nell’ammirazione delle sue belle costruzioni formali e nel gustarne la lingua come se si
fosse trattato di una sensazione spirituale, così facendo si perdevano di vista tutti i contenuti.
Solo se recepisco e lascio efficacemente agire su di me ogni possibile stimolo da parte di Nietzsche,
io prendo sul serio Nietzsche stesso, cioè lo considero non già dal punto di vista estetico, bensì da
quello filosofico. Ci si sbaglia se — sia da un punto di vista estetico o spirituale o sistematico, sia
da qualunque altro punto di vista - in parte si accoglie e in parte si respinge quello stimolo. In
opposizione a tale atteggiamento che si limita a considerare l’opera, bisogna piuttosto venire a
contatto con l’origine, il principio da cui scaturisce l’opera stessa. Ma questa origine sta nel
medium del tutto, e non in singoli pensieri, in una bellezza estetica o in una verità critica.
Nietzsche non assume una forma ben definita al nostro sguardo, ma è l’autodistruzione che non
costruisce alcun mondo e non lascia proprio nulla di sussistente; è il puro stimolo senza
elaborazione di una forma in cui sia possibile entrare: ne consegue dunque che egli ci impone, quale
nostro preciso compito, una trasformazione di noi stessi, che dobbiamo attuare grazie alla sua
assimilazione. Così facendo, nel momento stesso in cui ci appropriamo di Nietzsche, saremo
certamente in grado di mostrarci nella nostra intima essenza, sia essa un semplice disvelamento
oppure un qualcosa di veramente nuovo, prodotto da quella trasformazione. Allora la smetteremo di
inebriarci per ciò che è drastico e radicale, e non confonderemo piu il fuoco di paglia di un
entusiasmo con lo stimolo che agisce dolcemente ma nello stesso tempo inesorabilmente. Nietzsche
diventa educatore. Ma lo diventa ed è tale solo nella misura in cui noi sappiamo dominare quelle
illusioni a cui egli ci conduce in modo così seducente.
Le insidie di Nietzsche e i possibili fraintendimenti del suo pensiero. Con le sue domande ed il suo
tentare sempre nuove possibilità, Socrate mandò su tutte le furie gli Ateniesi: chi credeva di
possedere la verità nelle espressioni abituali o in un nuovo gergo era disorientato. Non restava
che ingiuriare quell’uomo così molesto e poi alla fine ucciderlo, oppure prender parte al profondo
slancio - che Socrate seppe aumentare - con cui l’essere umano riesce a superare anche il più
vertiginoso smarrimento.
Allo stesso modo è colpito chi legga Nietzsche, lasciandolo completamente libero di parlare e di
interrogare. Allora si manifesta certo quello smarrimento, ma anche la possibilità di un rapporto
veramente serio: quello di chi si accosta alle istanze profonde ma nascoste di Nietzsche,
senza pretendere di fissare definitivamente e irrigidire ogni sua singola affermazione. Il peso
dell’esistenza possibile, che si impone al semplice esserci, e il fardello di un effettivo lavoro
mentale che deve essere compiuto sotto l’impulso delle possibilità esistenziali, determinano il vero
rapporto con Nietzsche.
Questo rapporto viene a mancare non solo quando semplicemente si rifiuta Nietzsche, ma anche
quando si accetta e perfino si è d’accordo con lui, quando cioè predomina lo smarrimento che
conduce all’incomprensione e all’abuso del pensiero nietzschiano: allora, invece di risvegliare in
noi lo stimolo all’esistenza, Nietzsche diventa piuttosto il punto di partenza di una sofistica senza
fine. Infatti, ciò che Nietzsche pensa è oggettivamente tanto il medium di una sofistica che,
contraddicendo ogni affermazione, la utilizza di volta in volta a suo piacere e per i suoi fini, senza
partecipare al contenuto del movimento (ciò che si manifesta nella pretesa dell’assoluta validità di
quel che viene affermato, che però viene rapidamente dimenticato), quanto il medium di
un’esistenza che si riveglia e coglie se stessa nella propria storicità. Sono proprio questa apparente
ed esteriore vicinanza di Nietzsche al sofista, e ad un tempo la sua estrema e profonda lontananza,
che costituiscono la ragione fondamentale per cui Nietzsche può essere continuamente frainteso.
Vediamo alcuni esempi di tali possibili fraintendimenti.
La filosofia di Nietzsche suscita « stati d’animo » che rimangono tali fino in fondo, senza mai
ridursi in affermazioni di principio definitive. Questi stati d’animo sono chiari e non si prestano a
malintesi, nella misura in cui si manifestano nella totalità dei movimenti del pensiero nietzschiano,
conservandoli in sé e riproducendoli. Ma essi possono anche essere separati da quella totalità
ed esser visti come semplici stati d’animo; in tal caso, si prestano ad esser utilizzati a piacere e in
modo ambiguo per qualsiasi arbitrio, impulsività e stupidaggine. Si adattano insomma proprio a ciò
che Nietzsche ha sempre combattuto e ripudiato: la teatralità, la ricerca dell’effetto, la vittoria
dell’assenza di pensiero.
In quanto immoralista, Nietzsche rigetta la morale determinata, perché vuole qualcosa di più della
morale; egli spezza i vincoli, perché cerca l’essere che abbraccia ogni vincolo (ma le sue
affermazioni sono sempre utilizzate per qualcosa di più basso: una singolare idea di libertà, per la
quale nessuna legge ha valore, sembra prenderlo a testimone, per poter giustificare grazie a lui il
proprio caos etico). Nietzsche afferma la menzogna, la volontà di potenza, l’ateismo, una vita
conforme alle leggi di natura (ma le sue formule si prestano a mettere in pace la coscienza di fronte
all’effettiva menzogna che dilaga nel mondo, alla brutale volontà di potenza e all’uso effettivo della
violenza, al movimento dell’ateismo, ad una banale e semplicistica affermazione dell’ebbrezza, e
a tutto ciò che è dettato solo dagli istinti). Ma Nietzsche vuole invece proprio il contrario: la
menzogna, che sarebbe l’autentica verità, cioè qualcosa di più di ciò che solitamente si spaccia per
verità; l’essere, che non ha valore senza potenza, o la potenza, che va valutata in funzione del valore
del suo contenuto; l’ateismo, che rende possibili gli uomini superiori, i quali debbono essere piti
veritieri, più accorti, piti creativi, piu morali di coloro che credono in Dio; la natura, che grazie alla
pienezza della sua esistenza e al rigore della sua disciplina, è così padrona d’ogni natura come è
lontana da ogni brama, desiderio e menzogna non naturali.
Nietzsche tenta tutte le possibilità. Il suo tentare, in quanto continuamente proteso verso l’esistenza,
ma senza peraltro sentirsi mai frenato dai vincoli dell’esistenza stessa, può certo esser erroneamente
interpretato come un godimento della molteplicità dell’esserci, della vita, del pensiero. Lo studio
di Nietzsche può condurre all’indolenza propria di chi lascia correre e sorvola su tutto, o di chi
inizia a meditare qualcosa con grande passione, ma finisce poi per cadere nell’indifferenza e
nell’inerzia più complete; può renderci indifferenti alle contraddizioni, invece di farci provare in
esse nuovi stimoli, un nuovo linguaggio, l’espressione di un compito specifico. Quando i nichilisti
utilizzano a loro piacere le espressioni, le affermazioni e le posizioni estreme di Nietzsche, è
possibile intravvedere, nonostante la più grande distanza dall’essenza del suo pensiero, un’affinità
che giunge fino all’identità, ma che è appunto solo apparente e si basa su formulazioni meramente
esteriori. La profondità di ciò che è possibile, insita nella tendenza nietzschiana alla negazione, può
portare nel nichilismo a mascherare il nulla nell’entusiasmo per il nulla; e, per velare appunto ciò
che vi è di insopportabile, bisogna che sorga questo rumoroso vociferare, che è nello stesso tempo
un modo illusorio di vagheggiare, e che sembra ispirato dai testi di Nietzsche.
Si può notare questo penoso fraintendimento se si osserva il modo in cui è stato trattato Nietzsche.
Può sembrare che Nietzsche abbia l’intenzione di sedurre il lettore, voglia cioè raggirarlo, togliergli
il controllo di sé, portarlo ad uno stato di ebbrezza e di fanatismo, di eccitazione o di confusione,
oppure esaltarlo per poi abbandonarlo quando questi sembra far propria la stessa affermazione di
Nietzsche: « Non ogni parola si addice ad ogni bocca » (6, 420). Nietzsche si rende conto di tutte
queste illusioni e di tutti questi fraintendimenti; li ha previsti con spavento, ma in alcuni momenti li
ha cercati e voluti: « Io non voglio essere né significare luce per questi uomini di oggi. Costoro —
io li voglio abbagliare: fulmine della mia saggezza! cava loro gli occhi! » (6, 421).
Il problema che si pone quando ci accostiamo a Nietzsche è quello dell’esistenza: dobbiamo cioè
entrare in comunicazione con lui (e con ciò accrescere la nostra possibilità di comunicazione nella
realtà), e non andare invece a cadere nella sofistica; dobbiamo prender parte all’autenticità e
alla veracità del movimento del suo pensiero, e non soccombere ad un possibile movimento
sofistico al servizio di scopi specifici e definiti, come la mia specifica volontà di potenza, il mio
specifico esserci; dobbiamo imparare a conoscere i mezzi e le necessità del movimento di pensiero
filosofico di Nietzsche, e non farci sedurre da sempre nuove suggestioni; dobbiamo conquistare
l'esserci al servizio della trascendenza, e non rimanere di fatto al servizio del mero esserci del mio-
esser-ora-così, attuato con un trascendere (inscenato in modo meramente teatrale) di tutte le
possibilità verso il nulla; dobbiamo conservare la libertà del movimento autentico, e non
sottometterci, contro questo movimento, ad una violenta costrizione per opera del semplice
intelletto, che considera assoluta una dottrina, e subito la sostituisce con la dottrina opposta.
L’educatore filosofico. Tutti i grandi filosofi sono i nostri educatori. Nel nostro rapporto con loro si
sviluppa la nostra coscienza dell’essere, sotto forma dei nostri impulsi, delle nostre valutazioni e dei
nostri scopi, delle nostre trasformazioni e delle nostre situazioni, dei nostri superamenti di noi
stessi. I filosofi sono del tutto indifferenti di fronte al fatto che noi ci possiamo aspettare da loro
delle conoscenze nella forma di un sapere delle cose nel mondo. Di essi facciamo un cattivo uso
quando accettiamo passivamente le loro opinioni ed i loro giudizi come se fossero qualcosa di
valido che può essere appreso ed utilizzato nella vita di tutti i giorni, o qualcosa di vero e giusto,
conforme alla nostra ragione, o qualcosa di ovvio, conforme alla nostra fede. I filosofi hanno il loro
unico ed insostituibile valore nel fatto che ci conducono all’origine, di cui noi stessi acquistiamo la
consapevolezza nel nostro filosofare. Infatti, il divenire-sé - nella misura in cui si compie nel
pensare e dunque nell’intimo agire, inteso come un agire su se stessi e come un produrre se stessi -
non avviene in un rapido salto grazie ad un’intuizione immediata, bensì nel procedere insieme con
coloro che hanno già percorso questo cammino dell’uomo, e ce l’hanno indicato con il loro
pensiero.
Nietzsche è l’ultimo filosofo che poteva agire su di noi in questo modo, in quasi tutto il campo delle
possibilità dell’essere, fino alle origini e ai limiti dell’uomo. Come colui che è più vicino a noi, egli
è per noi il più comprensibile, anche se, conformemente alle modalità e possibilità del nostro
mondo, egli è stato più facilmente frainteso di tutti gli altri. Il fatto che si nutra di lui la più volgare
ebbrezza, non meno che la serietà della ricerca e della riflessione interiore, è un segno
inequivocabile della sua differenza rispetto a tutti coloro che lo hanno preceduto; così come ne è
un segno esteriore il fatto che gli scritti principali di Nietzsche, quanto al numero di copie stampate,
siano di gran lunga superiori rispetto a quelli di ogni filosofo precedente.
È il momento storico della svolta della civiltà occidentale che determina il modo in cui Nietzsche
può essere nostro educatore. Egli diventa educatore non già con insegnamenti dottrinari ed
asserzioni perentorie, o in forza di una norma che rimanga stabile, o come possibile modello
d’uomo da seguire ed imitare, ma in virtù del fatto che noi siamo da lui interrogati, ed in tal modo
facciamo la prova di noi stessi. Ciò avviene soltanto attraverso un movimento. Grazie a lui e
procedendo insieme a lui, noi sperimentiamo le possibilità dell’esserci umano, impariamo a
plasmare con il pensiero la nostra umanità, tentiamo possibili valutazioni, aumentiamo la nostra
sensibilità ai valori. Veniamo condotti ai limiti, e dunque all’origine di una coscienza indipendente
dell’essere. Ma ciò non significa che dobbiamo semplicemente seguire una guida che ci conduce,
con una chiara visione, al tutto; al contrario, dobbiamo educare noi stessi, procedendo insieme con i
pensieri di Nietzsche. È questo l’insegnamento, l’appello che egli ci rivolge. Niente ci è dato in
modo già definito, ma solo nella misura in cui siamo noi stessi a conquistarlo.
Questa autoeducazione avviene attraverso lo studio di Nietzsche, che richiede ad un tempo la
serietà del turbamento e lo sforzo paziente del pensiero unificante.
La serietà si manifesta nel modo in cui comprendiamo Nietzsche, che non deve essere un giuoco
dell’intelletto, ma « un sentire che al tempo stesso pensa », non un semplice riflettere, ma un tentare
e sperimentare in base alle possibilità della propria passione. Con l’autoeducazione dobbiamo tirar
fuori da noi stessi ciò che è veramente in noi. Nietzsche vuole risvegliare in noi ciò che, grazie alla
sola disciplina formale, non viene raggiunto, ma che scaturisce invece dalla lotta incessante con noi
stessi, per mettere ordine nelle passioni, ascoltando il fondamento dell’essere. Ciò che non si può
raggiungere in base a precise prescrizioni, può veramente scaturire solo nell’ambito di un’affinata
sensibilità filosofica. Nel rapporto con Nietzsche, esso deve formarsi in modo limpido, attraverso
l’incessante azione della nostra intima essenza, per così dire, nel fuoco purificatore della verità.
Quando ogni affermazione si trasforma nel suo opposto, e nel movimento tutto ciò che è vero
diventa una semplice possibilità e dunque può anche essere falso, non c’è salvezza senza il lavoro e
la forza del pensiero. Soltanto grazie ad un’intensa autoeducazione è possibile cogliere, nel flusso
dispersivo e così infinitamente variegato dello spirito incantatore di Nietzsche, le sue effettive
connessioni, senza estrapolare nulla di arbitrario. È proprio la mancanza di una esposizione
sistematica che impone al lettore un proficuo ed istruttivo lavoro mentale, perché deve cercare di
collegare tutto ciò che incontra. Se la passione con cui ci si mette all’opera in questo lavoro, per poi
abbandonarlo di fronte alle difficoltà, porta ad uno smarrimento, allora l’autoeducazione, sorretta
dall’ebbrezza del pensiero infiammato da Nietzsche, cercherà di superare tali difficoltà, mettendo
ordine al tutto grazie alla forza dell’esistenza storica. Nietzsche, attraverso l’esperienza del pensare
in modo rapido, senza respiro, a cui, a tutta prima, induce ogni sua singola affermazione, può però
al tempo stesso impedire, nel modo piu decisivo, proprio questo modo di pensare affrettato,
grazie all’unità interna che è pur sempre presente nel suo pensiero; così, indirettamente, egli ci
educa a pensare in modo accorto e riflessivo, in quella vasta prospettiva che egli esige e mette in
pratica.
In particolare, attraverso l’autoeducazione dobbiamo non solo acquisire la consapevolezza, ma
anche mettere in pratica il pensiero del contraddittore. Mentre, nel caso di Hegel, vi è il pericolo di
velare, nell’accordo conciliativo di ogni dialettica, l’asprezza delle rotture e dei salti nell’esserci e le
alternative esistenziali, in Nietzsche si presenta invece il pericolo di cadere in una facile
indifferenza di fronte alle contraddizioni e in un errato uso delle loro possibilità.
Chi crede di poter acquisire la verità senza una tensione interiore e senza opposizioni, è disarmato
di fronte a questo pensiero, allo stesso modo di chi crede in modo illusorio di poter dominare e
portare a compimento la verità grazie ad approssimative formulazioni dialettiche. Chi si serve delle
opposizioni e contraddizioni per ingannare gli altri, secondo i suoi propri fini, è falso. Solo chi è
solito cogliere ciò che è contraddittorio, ed il cui pensiero è diretto dalla continuità della sostanza,
non è disarmato di fronte alla verità, e la può dunque conseguire. Bisogna dunque sperimentare
come la dialettica del movimento sia fondata nelle cose stesse, perché proprio in ciò si trova sia lo
slancio nel movimento, sia la possibilità della sofistica.
È possibile compiere con Nietzsche l’esercizio della propria autoeducazione mentale solo grazie
all’apporto aggiuntivo di un pensiero unificante. È dunque naturale, ossia così doveva
necessariamente accadere, che Nietzsche, all’inizio raramente compreso con le sue singole
pubblicazioni, per lo piu non sia stato ascoltato, o sia stato frainteso: siccome i suoi pensieri
acquistano il loro vero significato non già nella loro singolarità, bensì nel loro insieme, essi
potevano avere la loro vera efficacia solo dopo la pubblicazione degli scritti postumi. Con questo
modo di procedere in cui, unitamente all’assimilazione di Nietzsche, e grazie ad essa, conseguiamo
l’autoeducazione del nostro proprio pensiero, noi stessi siamo dunque attratti e partecipiamo al
movimento. In Nietzsche non c’è mai riposo; nessuna verità o credenza definitiva è piu in grado di
resistere. Questo procedimento può esteriormente terminare senza alcuna conclusione ma, in quanto
tale, come continuo procedere, ha indubbiamente la sua importanza e la sua efficacia. Nietzsche ci
stimola e ci mantiene in quella continua inquietudine che è l’origine del procedere sempre oltre,
grazie agli impulsi della veridicità e dell’autentica volontà di essere. La caratteristica
dell’educazione che riceviamo da Nietzsche consiste dunque nel fatto che noi proviamo come se
nel « positivo » ci si perda, e nel « negativo » ci si innalzi.
In virtù di questo movimento, Nietzsche diventa educatore attraverso una sorta di immenso
allargamento: cioè a dire, egli ci orienta nell’illimitato, ci insegna a pensare ciò che è opposto, la
possibilità delle valutazioni contraddittorie; ci insegna la persistente contraddittorietà, così come la
connessione dialettica, ma senza alcuna conclusione definitiva per la conoscenza veramente
formativa. Chi non ha mai osato esporsi ai pericoli dello studio di Nietzsche, e dunque alla pratica
del tentare e sperimentare, non può forse, nell’attuale momento storico, trovarsi veramente libero
nel vasto orizzonte del possibile. Con la sua conoscenza solo superficiale di Nietzsche, egli cade
facilmente o nella grettezza dottrinaria, o nella sofistica, o cade piuttosto, nello stesso tempo, in
entrambe.
È gretto di mente chi - in una fuga ipoco dignitosa di fronte al movimento vertiginoso — soccombe
alle formule isolate, ai radicalismi, alle posizioni ben definite; egli non ha permesso a Nietzsche di
agire su di lui come educatore. Chi resta ancorato ai vecchi dogmatismi è pur sempre piu veridico di
chi dogmatizza i pensieri di Nietzsche.
È sofista chi intende la liberazione attuata da Nietzsche nel senso del disimpegno da ogni vincolo;
egli vorrebbe essere come Nietzsche, senza averne la forza, il. diritto e la vocazione. Ciò che
Nietzsche ha fatto, in questa nostra epoca, lo poteva effettuare esistenzialmente senza sofistica,
cioè come verità, uno solo in rappresentanza di tutti.
Grettezza e sofistica vanno di pari passo, nella misura in cui il sofista è solito cogliere e scambiare a
piacere le varie grettezze dottrinarie. Nello studio di Nietzsche impariamo a dominare
definitivamente la costante inclinazione a perderci dietro le espressioni verbali; impariamo a
superare l’atteggiamento grossolano di chi non fa che argomentare sulla base di singole frasi
estrapolate dal loro contesto, di chi non fa che etichettare e ridurre schematicamente le grandezze
spirituali. Si compie in noi questa educazione, appunto perché vediamo, nella loro possibilità, tanto
la grettezza mentale quanto la sofistica, e, in questa possibilità, ne facciamo un’esperienza
fondamentale: impariamo a conoscerle e a dominarle in noi.
L’educazione grazie a Nietzsche ci conduce in ampi spazi che ci fanno venire le vertigini, per poter
risvegliare in noi tutta la forza del fondamento esistenziale. Questa educazione è come
un’esercitazione in ciò che è ambiguo. Ciò che è ambiguo viene inteso positivamente come il
medium di un autentico e decisivo essere-sé, che sfugge all’ambiguità per mezzo dell’esistenza, ma
che, nel momento in cui viene espresso, soggiace ad una riflessione infinita. Ciò che è ambiguo
viene inteso negativamente come il medium di una possibile sofistica che utilizza - a proprio piacere
ed arbitrio, a seconda delle varie situazioni e degli impulsi dell’esserci che di volta in volta agiscono
effettivamente — le possibilità di un assenso o di un rifiuto meramente emotivi, e di una finalità che
risponde solo a criteri istintivi. Una tale educazione, inevitabile e pericolosa nella nostra epoca,
significa che, senza Nietzsche, nessuno può veramente sapere cosa è l'esserci, ed essere veritiero nel
suo filosofare; ma significa anche che nessuno può arrestarsi a Nietzsche e trovare in lui il proprio
pieno compimento.
Proprio questo significa, per l’esistenza di ogni singolo individuo, l’atteggiamento che Nietzsche
esige quando scrive questi versi: « Soltanto chi si trasmuta mi resta parente » (7, 279). Comprendere
Nietzsche non vuol dire accettarlo, ma semmai plasmare se stessi, attivamente e soprattutto
continuamente, senza cioè terminare mai definitivamente quest’opera di formazione. Esser capaci di
trasformarsi significa esser pronti alla crisi, pur sempre possibile, della dissoluzione e della rinascita
del nostro proprio essere. Esser « parente » con un altro nella propria trasformazione
significa soprattutto trovarsi in comunicazione con ogni possibile essere-se-stesso, anche se ci è così
distante come l’« eccezione ». Questa educazione rigetta ogni trasformazione che sia soltanto un
divenir-altro in quanto mero desiderio di un continuo esser-nuovo; essa vuole infatti favorire una
trasformazione che sia basata sull’autentica origine dell’esistenza ed abbia come sua effettiva meta
l’affinità che si realizza nel proprio essere-se-stesso.
Per lo studio di Nietzsche, quella sua richiesta sta a significare ciò che veramente caratterizza
l’educazione filosofica che possiamo ricevere da Nietzsche stesso, considerato come pensatore che
appartiene al nostro tempo e ne rappresenta il profondo cambiamento. Egli non deve essere
considerato come uno dei grandi filosofi delle epoche precedenti, come se con lui il compimento di
ciò che è pensabile consistesse nella familiarità con la totalità dell’essere nel mondo, e come se la
certezza fosse colta nelle leggi intangibili dell’essere umano. Nietzsche è semmai correttamente
compreso solo quando si sia già altrove conseguita una certa dimestichezza con il pensiero che
procede in modo sistematico e mediante concetti astratti; quando già si possieda e si porti con sé
l’ostinazione e la precisione nel pensare, così come una mente dialettica. D’altra parte, è forse solo
attraverso Nietzsche che possono essere compresi i singoli grandi filosofi del passato, i quali senza
di lui diventano troppo facilmente un’irrigidita tradizione di argomenti didattici. Bisogna dunque
assimilare Nietzsche attraverso un affinamento del filosofare, senza rinunciare a ciò che si è già
acquisito, che deve semmai essere riscoperto, anche a costo di staccarsi da Nietzsche.
Io sono particolarmente colpito da Nietzsche come educatore, perché, indicando il futuro, egli
fornisce a chi gli si accosta un insostituibile impulso che, per quanto privo di una precisa e
definitiva determinazione, non può comunque essere messo in discussione quanto alla sua origine, e
resta assolutamente valido per chi una volta vi abbia preso parte.
Il nostro atteggiamento nei confronti dell’eccezione. Se Nietzsche non crea intorno a sé l’atmosfera
di un essere che riempia lo spazio con la sua presenza, ma sembra possedere il fascino della sua
purezza come una spiritualità non vitale; se il suo fuoco sembra agire come un fuoco freddo,
che non riscalda ma solo distrugge; se la nobiltà del suo sguardo, simile alla « morte con occhio
desto », sembra rimanere vuota; se egli, che è vissuto in tutti i recessi dell’anima moderna, senza
trovarsi mai a suo agio, sembra condurci ad una libertà senza fondo: tutto ciò non è che
l’espressione paradossale dell’essere dell’eccezione, a cui noi ci rifiutiamo, senza rompere con essa
ogni comunicazione che ci colpisce nel nostro intimo; in altri termini, noi ci accostiamo
all’eccezione senza identificarci con essa, o quanto meno senza esser spinti soltanto dalla volontà di
identificarci con essa.
Si pone dunque a questo punto la seguente questione: l’uomo, che parte dalle possibilità
dell’universale e della comunicazione, come si comporta nei confronti di Nietzsche, considerato
come l’eccezione in cui entrambe queste possibilità sono abbandonate, a causa del sacrificio che
egli ha fatto della propria vita? Cosa significa per l’uomo che non è un’eccezione, il pensiero di un
uomo che, come Nietzsche, si apparta dal mondo per vivere in solitudine, e la cui realtà, in fondo,
sembra non esser altro che il suo stesso pensiero?
In altri termini: l’intima natura di Nietzsche risiede veramente nella forza distruttiva del suo
pensiero? in quel suo « tentare », che porterebbe al nulla, alla disimpegnata futilità, tutti coloro che
cercassero di ripeterlo? Oppure, al contrario, essa non consiste forse nel fatto che, poiché
Nietzsche ha assunto su di sé l’universale disgregazione del nostro mondo, proprio in lui si può
trovare l’unico inizio ed impulso ancora possibile verso la verità indistruttibile, verso l’essere
dell’uomo?
Filosofare con Nietzsche significa agire nell’ambito della possibilità. L’uomo che non è
un’eccezione può far ciò in modo genuino solo in base al suo impegno esistenziale in una
determinata situazione storica. Per lui non si tratta dunque di seguire Nietzsche, di rinnegare tutti i
propri impegni, di costruire sul nulla. Si tratta piuttosto di conquistare quello spazio libero del
possibile che abbraccia ogni vincolo, per risvegliare nell’esistenza la profondità dell’autentica
libertà.
Nietzsche, per il quale tutto rimane aperto, e che non può dar nulla in possesso, ma può solo
preparare, appunto per questo assegna a ciascun individuo il compito di conquistare il suo proprio
terreno attraverso il riferimento alla trascendenza in una storicità esistenziale. Il pensiero di
Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara alla trascendenza che
egli non mostra, alla storicità dell’esistenza che egli non indica direttamente.
Ma non vi sarebbe alcuna vera preparazione se Nietzsche non fosse preso sul serio. L’esigenza
segreta di Nietzsche è che la pericolosa esperienza del possibile crei, mediante il rigore della
coesione, il medium in cui io stesso al mio posto divento quel che sono. Mentre egli respinge ogni
discepolo, in quanto ritiene che il suo cammino non sia il cammino di tutti, esprime in questi
termini la meta del suo filosofare: « Ogni filosofia deve poter fare ciò che io esigo, cioè concentrare
un uomo - ma nessuna filosofia è in grado ora di fare ciò » (10, 297).
Nietzsche può forse costringere chi rifiuta il terreno da lui offerto (eterno ritorno, metafisica della
volontà di potenza, superuomo) a ritirarsi sul terreno che gli appartiene, dove egli vive in base al
proprio fondamento. Solo nella misura in cui ci accostiamo a Nietzsche partendo dalla nostra
sostanza, siamo in grado di ascoltarlo senza il rischio di fraintenderlo. Ciò che Nietzsche veramente
è, potrebbe essere alla fine deciso solamente da ciò che altri gli apportano, accostandosi a lui.
Ma ben difficilmente qualcuno potrà portare a termine una tale appropriazione di Nietzsche. Sarà
infatti, sempre di nuovo, respinto là dove non sarà in grado di ricomprendere nell’insieme tutto
quello che vien leggendo, oppure traviserà ciò che ha letto, intendendolo in modo troppo univoco e
troppo staccato dal contesto. In questa relazione — che è inevitabilmente destinata a rimanere
ambigua - con la grandezza dell’eccezione, Nietzsche potrebbe per così dire dileguarsi. Ma a lui ci
tiene saldamente legati un amore originario che può perdere il suo oggetto, fino al punto di
ridurlo ad una indeterminata e delicata nobiltà dell’indole di Nietzsche: una nobiltà che rimane
anche quando tutto ciò che egli ha detto sembra improvvisamente ridursi al nulla. Ciò che
nell’esistenza e nella trascendenza è imponderabile ma al tempo stesso certo ed infallibile, è proprio
ciò che parla in modo misterioso a chi una volta gli ha dato ascolto.
Filosofare con Nietzsche significa affermarsi continuamente contro di lui. Nel fuoco del suo
pensiero, il nostro esserci, messo alla prova dalla sua illimitata sincerità e dal pericolo insito nel suo
metter tutto in discussione, può infine purificarsi e rendersi intimamente conto del proprio
autentico essere-sé. Questo essere-sé può venire sperimentato soltanto come ciò che non deve
consumarsi in nessun esserci, in nessuna oggettività e soggettività dell’essere-nel-mondo, ma solo
nella trascendenza, alla quale Nietzsche non ci conduce direttamente, ma anzi vuole sottrarci.
Tuttavia, la serietà della totale dedizione di sé, così come è stata attuata da Nietzsche, è pur
sempre — anche se involontariamente, e nonostante il suo rifiuto della trascendenza - il simbolo e
l’esempio della profondità propria di chi è consumato dalla trascendenza. Di fronte a Nietzsche
cresce lo sgomento, come di fronte all’inconoscibile, che può rivelarsi solo all’origine, ma non a
noi.
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CRONOLOGIA
1844 Nietzsche nasce a Röcken (presso Lützen), figlio di un pastore protestante, il 15 ottobre.
1849Morte del padre.
1850 Trasferimento con la famiglia a Naumburg.
1868-1869 Leipzig.
Ottobre 1868: conosce Wagner.
1869-1879 Professore all'Università di Basel.
1869 Conosce Burckhardt.
1869-1872Visite a Wagner a Tribschen, nei pressi di Luzern. Agosto-ottobre 1870: infermiere
volontario in guerra. Da ottobre, di nuovo a Basel. Conosce Overbeck.
Maggio 1872Posa della prima pietra a Bayreuth.
Torino.
1889 A partire da gennaio, malato di mente. Ricovero in clinica a Basel e Jena. Nel 1890 a
Naumburg, presso la madre. Nel 1897 muore la madre. La sorella si prende cura di lui, a
Weimar. Nietzsche muore il 25 agosto 1900.
TAVOLA DEI PERIODI DI STESURA DELLE OPERE E DEL NACHLASS
Opere Nachlaß
1875-1881 vol. XI: scritti del periodo di Umano, troppo umano e di Aurora
1876-1878 Umano, troppo umano (5. 1878)
1878-1879 Opinioni e sentenze diverse (3. 1879)
1879 Il viandante e la sua ombra (12. 1879)
1881-1886 vol. XII: scritti del periodo della Gaia scienza e di Zarathustra
1880-1881 Aurora (7. 1881)
1881-1882 La gaia scienza I-IV (9. 1882)
2. 1883 Zarathustra I (5. 1883)
6./7. 1883 Zarathustra II (1883)
1. 1884 Zarathustra III (1884)
1883-1888 voll. XIII-XVI: contengono, tra l’altro, La volontà di potenza
BIBLIOGRAFIA
Le opere
L’edizione piu comoda per fini di lavoro è la Gesamtausgabe disposta dalla sorella, nella forma
dell’edizione in ottavo piccolo (identica nell’impaginazione all’edizione in ottavo grande), in 16
volumi - ed è appunto da questa « Klein-oktavausgabe » che abbiamo citato nella nostra esposizione
)tra le ristampe a buon prezzo, sono da preferire quelle pubblicate nella « Taschenausgabe »
dell’editore Kröner, per la loro completezza, e soprattutto in considerazione del fatto che si possono
acquistare singolarmente i vari volumi. Soltanto il Nachlaß è riportato in una semplice scelta
antologica).
Vanno aggiunti: Scritti filologici 1866-1877, pubblicati soltanto nell’edizione in ottavo grande, voli.
17-19, Leipzig, 1910-1913 (a cura di Holzer, Crusius e Nestle); Scritti giovanili 1858-1868, nel voi.
I dell’edizione Musarion, apparso come volume a sé, München, 1923 (ora accresciuto del doppio
nella nuova edizione storico-critica del Nietzsche-Archiv); Poesie e sentenze (in edizione completa
e in volumi separati), Leipzig, 1898, C. G. Naumann (la maggior parte, ma non tutte, sono
pubblicate anche nella Gesamtausgabe-, i luoghi nei diversi volumi sono indicati in 8, 449).
Composizioni musicali di Nietzsche: Inno alla vita. Per coro e orchestra 1887. - Inno all’amicizia.
Coro con pianoforte a quattro mani 1874. - Manfredi. Meditazione per pianoforte a quattro mani
1872. - Diciassette lieder per pianoforte nonché una serie di pezzi per pianoforte.
Scritti sparsi: Glosse di Friedrich Nietzsche in margine alla « Carmen » di Bizet, a cura di Hugo
Daffner, Regensburg, s.d. - Note di Nietzsche in margine a Guyau, appendice alla traduzione
tedesca di « Morale senza doveri », Leipzig, 1909.
Dal Nietzsche-Archiv viene approntata una « Historisch-kritische Gesamtausgabe » delle opere e
delle lettere. Sono usciti tre volumi (Scritti giovanili), München, 1933 e sgg. L’edizione dovrebbe
comprendere l’intero Nachlaß e tutte le lettere ricevute da Nietzsche, in ordine cronologico. Se
l’edizione sarà portata a termine secondo il suo progetto, costituirà la prima vera base per lo studio
di Nietzsche.
Per la comprensione delle edizioni del Nachlaß fatte fino ad oggi (e del modo in cui sono sorti i
manoscritti di Nietzsche) bisogna innanzitutto consultare, oltre alle prefazioni e postfazioni alle
varie edizioni: AUGUST HORNEFFER, Nietzsche als Moralist und Schriftsteller, Jena, 1906. - ERNST
HORNEFFER, Nietzsches letztes Schaffen, Jena, 1907.
Per lo studio di Nietzsche è indispensabile il Nietzsche-Register di Richard Oehler, Leipzig, 1926. I
numeri di volume e di pagina di questo indice si riferiscono alla già citata Gesamtausgabe (nelle sue
due edizioni identiche, rispettivamente nel formato in ottavo piccolo e in ottavo grande). Questo
pregevole indice non comprende gli scritti giovanili, gli scritti filologici e le lettere. Non ci si deve
aspettare completezza da un indice. Chi studia Nietzsche, deve ampliarlo per proprio conto.
L’indice di Oehler è vincolato alle voci: viene indicato solo ciò che rientra in esse letteralmente, ma
non ciò che vi rientra per il suo contenuto. In quelle voci in cui vengono effettuate suddivisioni di
un ampio materiale, viene spesso a mancare la visione d’insieme. Particolarmente ricchi sono i
luoghi relativi al Nachlaß, che diventa dunque accessibile in larga misura. Il volume I delle opere è
preso in considerazione meno accuratamente rispetto a parole e contenuti della successiva filosofia
di Nietzsche. Per alcune voci si ha l’impressione che soltanto una parte delle opere sia stata
compulsata. Tuttavia, queste lacune non hanno grande importanza, se si considera il tempo che un
tale indice fa risparmiare alla ricerca. Questo indice è stato successivamente aggiunto all’edizione
Musarion, ampliato in due volumi e completato con il lavoro relativo agli scritti giovanili e a quelli
filologici. L’edizione Musarion ha l’unico pregio di contenere questo indice ampliato. A causa della
grande dimensione dei volumi, questa « edizione monumentale » non è comoda come strumento
di lavoro.
Lettere
Friedrich Nietzsches Gesammelte Briefe, Leipzig, Inselverlag: voi. I: a Pinder, Krug, Deussen,
Gersdorff, Fuchs e altri, 3. edizione, 1902. - Voi. II: Carteggio Nietzsche-Rohde, 2. edizione, 1903. -
Voi. III: Corrispondenza con Ritschl, Burckhardt, Taine, Keller, H. von Stein, Brandes, H. von
Bülow, A. von Senger, M. von Meysenbug, 2. edizione, 1905. - Voi. IV: Lettere di Nietzsche a
Peter Gast, 2. edizione, 1908. - Voi. V (in due tomi): Lettere di Nietzsche alla madre e alla sorella,
2. edizione, 1909. - Inoltre, Carteggio Nietzsche-Overbeck, Leipzig, Inselverlag, 1916 (alcune
lettere qui omesse sono pubblicate negli scritti di Podach).
Inoltre, lettere sparse: a Lou, in: Lou ANDREAS-SALOMÉ, Friedrich Nietzsche, Wien, 1894. - A
Strindberg, in: KARL STRECKER, Nietzsche und Strindberg, München, 1921. - A Hillebrand, in: O.
CRUSIUS, Friedrich Nietzsche und Karl Hillebrand. Unveröffentlichte Briefe, in « Süddeutsche
Monatshefte », VI, 2., 1909, pp. 129-142. - A Krug, in: Zwölf Briefe Nietzsches an einen
Jugendfreund (Gustav Krug), in « Süddeutsche Monatshefte », voi. 27, agosto 1930. -L’ultima
lettera a Burckhardt (6. 1. 1889), in facsimile, in: PODACH, Nietzsches Zusammenbruch, Heidelberg,
1930. - Ad A. Heusler, in: Zwei ungedruckte Schriftstücke Nietzsches (lettere a Andreas Heusler,
dicembre 1888), in « Schweizer Monatsh. für Politik und Kultur », voi. 2, Zürich, aprile 1922.
— Agli editori, in: Friedrich Nietzsche. Briefe aus dem Jahre 1880 (tra cui, in particolare,
all’editore C. G. Naumann e a Meta von Salis-Marschlins), in « Die neue Rundschau », XVIII,
Berlin, 1907, pp. 1367 e sgg. - L’ultima lettera a H. von Bülow, in: ANDLER, [Nietzsche. Sa vie et sa
pensée], voi. IV, p. 530 (nota).
Lavori editoriali auspicabili
Dopo che la sorella, a partire dagli anni Novanta, con le edizioni del Nachlaß ha reso per la prima
volta effettivamente accessibili le opere, e dopo che oggi, con edizioni a basso costo delle opere e
con raccolte antologiche delle lettere e del Nachlaß, si è provveduto a venir incontro alle necessità
del lettore, il grande
compito per il futuro resta quello di creare, con appropriate edizioni, le basi, ora possibili e quindi
necessarie, per lo studio di Nietzsche.
Nello studio di Nietzsche si tratta di riuscire a prender parte al movimento del suo pensiero, che è al
contempo l’intimo movimento del suo essere; si tratta non già di fissarsi su singole frasi brillanti o
singole opere, ma di seguire invece ogni svolta, di addentrarsi in ogni angolo, di partecipare ad ogni
superamento. Pertanto, la possibilità di penetrare in profondità dipende in misura insolita dal modo
in cui ciò che proviene da Nietzsche viene presentato nelle pubblicazioni delle sue opere. Attraverso
la completezza e il corretto accostamento di ciò che Nietzsche ha effettivamente e direttamente
detto, si rivela ciò che invece non diventa mai chiaro attraverso laboriose disquisizioni. Per
le edizioni future delle opere di Nietzsche dovrebbero dunque valere le seguenti esigenze.
I. Come condizione essenziale per ogni studio, bisogna raccogliere il materiale in tre
raggruppamenti, in modo assolutamente completo: è auspicabile che la nuova edizione delle opere
di Nietzsche in corso di pubblicazione sappia soddisfare le esigenze qui espresse ai punti 1 e 2.
1. Le opere che Nietzsche stesso ha pubblicato sono ora, nella loro totalità, facilmente accessibili;
su questo non c’è difficoltà alcuna. Ma poiché il Nachlaß, che non ha minor importanza, è uscito
fino ad ora solo in sistemazioni per lo più disposte dai curatori (con la parziale eccezione di quella
della Volontà di potenza), rimane qui una difficoltà, per la quale evidentemente non è
semplice trovare una soluzione. Come si debba fare può essere deciso soltanto di volta in volta,
sulla base dei manoscritti, forse apportando per questi dei cambiamenti. Quel che è auspicabile è
tuttavia chiaro: tutto ciò che è in qualche modo comprensibile va pubblicato fedelmente, senza
aggiunte, in ordine cronologico per quanto è possibile, oppure - se non è possibile la datazione -
nell’ordine in cui gli appunti e i frammenti si trovano disposti nei quaderni. I limiti di ciò che è
possibile fare vanno trovati di volta in volta in presenza del materiale stesso. La successione in cui
Nietzsche si è annotato i propri pensieri è essenziale, e, nella misura in cui è possibile farsene
un’idea, non dovrebbe essere alterata. Se in precedenza alcuni filologi hanno ritenuto insensate tali
esigenze, ciò è dipeso da una scarsa valutazione del pensiero di Nietzsche (cosi è, per esempio,
in Rohde).
In ogni caso, vanno superati in gran parte i raggruppamenti sistematici, ordinati in base al
contenuto, che caratterizzano le attuali pubblicazioni del Nachlaß, nell’intento di ricavarne delle
opere il piu possibile leggibili. A me sembra che la stessa separazione della Volontà di potenza dal
Nachlaß, riportato nei volumi 13 e 14, così come le sistemazioni all’interno dei volumi, non
servano a fare chiarezza. Bisogna mantenere le disposizioni del materiale abbozzate dallo stesso
Nietzsche: bisogna cioè stampare i suoi appunti cosi come egli stesso li ha stesi, e non effettuare
questa o quella sistemazione, poiché in tal caso la scelta della disposizione sarebbe comunque
determinata dal curatore, ma non certo da Nietzsche.
È vero che una pubblicazione in facsimile del Nachlaß sarebbe in effetti priva di senso, a causa
della sua difficoltà di lettura. Tuttavia, il fatto di stampare ciò che può esser letto in modo sicuro, sia
pure in un ordine lacunoso, mirando esclusivamente ad una successione cronologica - anche se
questa spesso dovrà essere interrotta a causa di una conoscenza non sufficiente a determinarla con
certezza - è il solo modo di rendere un’immagine vera e diretta del pensiero
di Nietzsche, che è indispensabile come punto di partenza. Non si dovrebbe farne una questione di
alcuni volumi in piu o in meno.
La separazione di opere e Nachlaß, che la sorella ha compiuto nella prima Gesamtausgabe, appare
sensata. Nuove edizioni delle opere avranno poca importanza (a meno che nelle edizioni di cui
finora disponiamo siano state effettivamente soppresse parole o frasi, come per esempio, secondo
Hofmiller, il termine « idiota » nell’Anticristo); invece, da una nuova edizione del Nachlaß è
lecito attendersi una base sostanzialmente migliore per gli studi su Nietzsche.
2. Tutte le lettere e gli abbozzi di lettere dovrebbero essere pubblicati in ordine cronologico. In
aggiunta, bisognerebbe raccogliere, senza interpretazioni e giudizi, tutti i fatti reperibili che hanno
rilevanza per la comprensione delle lettere, e riportarli in nota.
Soltanto grazie ad una tale edizione, ampia e completa, sarebbe possibile studiare in modo
approfondito e con effettiva consapevolezza l’intimo corso della vita di Nietzsche, mentre l’attuale
frammentazione della corrispondenza smembra ciò che era cronologicamente collegato, e fa sempre
perdere di vista qualcosa.
3. Tutti i resoconti dei contemporanei ed i loro giudizi su Nietzsche, frutto di un diretto rapporto
con lui, dovrebbero essere raccolti insieme. Attualmente si trovano sparse molte annotazioni
occasionali che, prese insieme, non sono prive di interesse. Criterio della scelta per la pubblicazione
è che il contenuto di tali testimonianze sia fondato su una conoscenza concreta e diretta di
Nietzsche. Soltanto ciò che emerge da essa, e non dò che i contemporanei hanno dedotto dalle
opere, è interessante.
II. Queste tre auspicabili edizioni, che debbono essere ampie e complete, sono la base per le
edizioni che ordinano in modo sistematico il materiale: edizioni che sono indispensabili per poter
seguire le singole relazioni oggettive e personali, le quali non potrebbero emergere in modo
significativo nell’edizione completa delle opere. In quest’ordine sistematico bisogna raggiungere la
completezza riguardo ai contenuti scelti di volta in volta. Nelle edizioni attualmente disponibili, in
cui il materiale è stato ordinato sulla base di una scelta autonoma, non vi è mai questa completezza,
né per gli scritti autobiografici, né per quanto riguarda il rapporto Nietzsche-Wagner, né in alcun
altro caso.
1. Tutto ciò che si riferisce ai rapporti di Nietzsche con singole persone va raccolto insieme in
modo documentato: non soltanto le lettere, bensì tutto ciò che è dimostrabile sulla base di dati di
fatto, e ciò che anche nelle opere si riferisce direttamente a tali dati di fatto (questo vale anzitutto
per Wagner).
2. Tutti i dati reperibili sulle malattie di Nietzsche, durante tutta la sua vita, dovrebbero essere
riuniti in un’opera (che sarebbe più importante delle patografie): bisognerebbe cioè raccogliere tutto
ciò che nelle lettere si dice sulle malattie, ciò che altri riferiscono, e in generale tutto ciò che sotto
determinati punti di vista potrebbe essere in rapporto alla malattia. Bisognerebbe mirare ad una
raccolta puramente documentale, senza giudizi, senza diagnosi (all’infuori delle diagnosi che sono
state fatte dai medici curanti, quando Nietzsche era ancora in vita). È essenziale la massima
esattezza nei dati cronologici.
3. Mentre le sistemazioni proposte finora, se condotte con metodo filologico e con buon senso per
quanto riguarda i dati di fatto (e, in riferimento al punto 2, anche in base a qualche esperienza
psichiatrica e medica), potrebbero diventare eccellenti grazie ad un lavoro scrupoloso, vi è un
ultimo tipo di sistemazione che è legato in grande misura ad un pensare creativo: quello di
procedere a sistemazioni obiettive di pensieri tra loro collegati, mediante richiami
agli scritti pubblicati da Nietzsche e al Nachlaß; esse metterebbero finalmente in luce le cose
costruite e le vie indicate, che si trovano nascoste sotto l’enorme ammasso di macerie del Nachlaß.
È questo il lavoro concettuale che si deve compiere con Nietzsche: un lavoro che raggiungerà il suo
scopo nella misura in cui vi sia una comprensione filosofica che metta i pensieri in relazione tra di
loro, senza indulgere a forzature e ad un’analisi critica soltanto parziale, ma in modo da farne
emergere l’immanente dialettica. Pensieri analoghi verrebbero così a trovarsi l’uno accanto all’altro
e mostrerebbero il processo del loro reciproco differenziarsi e rapportarsi: emergerebbero
contraddizioni e discrepanze. Questa sistemazione è raggiungibile soltanto: 1) sulla base di un
lavoro che consideri tutto ciò che Nietzsche ha pensato; 2) sulla base di punti di vista che
procedano dal pensiero stesso di Nietzsche e si muovano consapevolmente con esso; 3) con la
volontà della connessione, che rimane pur sempre fedele al vero - e quindi tralascia
intenzionalmente quel che è frammentario e disseminato - e che costituisce sia la misura della
propria raggiunta comprensione, sia l’avvio di un’eventuale migliore comprensione da parte di altri.
Un compito particolare, che si pone così solo per Nietzsche, è quello non già di estrapolare il
sistema dall’accumulo di materiali e di lasciare poi da parte il resto in quanto detriti, bensì di dare
forma al tutto che Nietzsche cercava. Poiché questo tutto non può assumere una forma organica,
sarebbe già di per sé troppo restrittivo pretendere che, con mente hegeliana, i pensieri di Nietzsche
venissero ricondotti in un unico nesso dialettico totale.
Con le frasi di Nietzsche si deve fare, per così dire, un giuoco di mosaico. Ciò può avvenire in
modo arbitrario e tendenzioso, ed è allora un giuoco senza fine. Ma, dopo essersi a lungo occupati
di Nietzsche, sorge la convinzione che questo giuoco di mosaico non sia oggettivamente arbitrario e
senza fine: ciò si verifica se, partendo dalla consapevolezza delle fondamentali possibilità
filosofiche, la coerenza in se stesso del tutto, o del tutto che si presenta di volta in volta, colpisce a
tal punto che quelle arbitrarie sistemazioni possono essere viste nella loro lacunosità. Ciò potrebbe
riuscire soltanto grazie ad un lavoro comune, con correzioni reciproche, nel corso del tempo - il mio
lavoro vorrebbe essere un passo su questa strada -, mai con sistemazioni e schematizzazioni veloci e
superficiali che, nella loro razionale univocità e sistematica unilateralità, rimangono adialettiche, e
sono certamente comode ma rovinose per la comprensione di Nietzsche.
4. Mentre le raccolte che sono complete in rapporto ad un problema o ad un contenuto hanno il loro
senso, quelle che dal tutto vogliono riunire il meglio sono invece nel caso di Nietzsche ancora piu
discutibili rispetto a quanto avviene con altri grandi pensatori. Per la comprensione di Nietzsche, si
tratta non già di acquisire un’immagine d’insieme, che è pur sempre ingannevole, ai fini di una
visione estetica, bensì, in primo luogo, per quanto riguarda il suo pensiero, di riflettere da tutti i
punti di vista sulle singole relazioni concettuali e pervenire a conoscenza del quadro completo delle
loro differenziazioni, nel limite del possibile, per poter così risalire all’origine dell’intero sviluppo
concettuale; in secondo luogo, per quanto riguarda la sua vita, si tratta di seguire, per esempio,
un’amicizia, fin nei particolari e nei dettagli concreti, in modo da essere così il piu vicino possibile
alla realtà, dalla quale soltanto si può udire la schietta voce esistenziale.
Scritti su Nietzsche
La bibliografia finora più completa è quella di FRIEDRICH WÜRZBACH, Nietzsche. Ein
Gesamtüberblick über die bisherige Nietzsche-Literatur, in Literarische Berichte aus dem Gebiet
der Philosophie, a cura di Arthur Holtmann, Erfurt, K. Stenger, fascicoli 19/20 e 26.
Le indicazioni che seguono intendono menzionare solo alcuni scritti (per il completamento cfr. le
indicazioni contenute in nota alle pp. 43-44, 46, 48, 51, 68, 73, 78-79, 82-83, 85-87, 94, 321, 359).
1. Esposizioni complessive. CHARLES ANDLER, Nietzsche. Sa vie et sa pensée, Paris, 1920-1931, in
sei volumi: I, Les précurseurs de Nietzsche; II. La jeunesse de Nietzsche; III. Le pessimisme
esthétique de Nietzsche; IV. La maturité de Nietzsche jusqu'à sa mort; V. Nietzsche et le
transformisme intellectualiste; VI. La derniere Philosophie de Nietzsche. I sei volumi di Andler
offrono un’ampia documentazione che orienta in modo eccellente, con una esposizione elegante,
criticamente equilibrata, e ricca di informazioni. È una trattazione storico-letteraria, non filosofica,
che obiettivamente e non emotivamente sottopone la biografia e le opere di Nietzsche ad un’analisi
storica secondo le tradizionali categorie filosofiche. Una certa ampiezza e libertà di trattazione, una
ricerca con appropriata sicurezza delle origini e degli sviluppi dei pensieri, una costante probità
rendono questo lavoro prezioso, anche e soprattutto in considerazione del fatto che è l’unica ampia
esposizione del pensiero di Nietzsche. Ma esso non deve fuorviare a causa della scarsa competenza
filosofica, che non impedisce certo all’autore di vedere il grande scrittore e poeta ed anche il
pensatore sul piano di semplici pensieri meritevoli di essere discussi, ma non gli consente di vedere
il vero filosofo.
2. Studi generali. Lou ANDREAS-SALOMÉ, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, Wien, 1894; ALOIS
RIEHL, Friedrich Nietzsche, der Künstler und Denker, 3. edizione, Stuttgart, 1901; KARL JOEL,
Nietzsche und die Romantik, Jena, 1905; E. BERTRAM, Nietzsche, Berlin, 1918; KARL JUSTUS
OBENAUER, Friedrich Nietzsche, der ekstatische Nihilist, Jena, 1924; LUDWIG KLAGES, Die
psychologischen Errungenschaften Nietzsches, 2. edizione, Leipzig, 1930; ALFRED BAEUMLER,
Nietzsche, der Philosoph und Politiker, Leipzig, Reclam, 1931; JOSEF HOFMILLER, Nietzsche, in
«Süddeutsche Monatshefte», XXIX, 1931, pp. 73 e sgg. - Controversia Hofmiller-Baeumler: «
Süddeutsche Monatshefte », 28 (1930-1931), pp. 536, 607 e sgg., 685 e sgg., 758 e sgg.
Tra gli scritti sopra menzionati, i più importanti sono quelli di Bertram, Klages e Baeumler.
3. Studi su singoli problemi. MAX SCHELER, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen, in Abhandl.
und Aufs., voi. I; inoltre: Versuche einer Philosophie des Lebens, nel II voi.; A. BAEUMLER, Bachofen
und Nietzsche, Verlag der Neuen Schweizer Rundschau, Zürich, 1929; inoltre: BAEUMLER, «
Introduzione » a BACHOFEN, Orient und Occident, 1926, pp. 241-255; FRIEDRICH MESS, Nietzsche der
Gesetzgeber, Leipzig, 1930.
Si devono inoltre menzionare: JULIUS ZEITLER, Nietzsches Ästhetik, Leipzig, 1900; NICOLAI VON
BUBNOFF, Friedrich Nietzsches Kulturphilosophie und Umwertungslehre, Leipzig, 1924; WERNER
BROCK, Nietzsches Idee der Kultur, Bonn, 1930; ERIKA EMMERICH, Wahrheit und Wahrhaftigkeit in
der Philosophie Nietzsches, Halle, 1933 (Diss. Bonn); ERICH HOCKS, Das Verhältnis der Erkenntnis
zur Unendlichkeit der Welt bei Nietzsche, Leipzig, 1914; KARL LOWITH, Nietzsches Philosophie der
ewigen Wiederkunft des Gleichen, Berlin, 1935;
ERNST HOWALD, Friedrich Nietzsche und die klassische Philologie, Gotha, 1920; GUSTAV NAUMANN,
Zarathustra-Kommentar, in quattro parti, Leipzig, 1899-1901.
4. Libelli. Appartiene ad ogni grande spirito il fatto di essere diffamato. È necessario che il lettore
non prevenuto conosca tali ingiurie, in primo luogo per accertarsi se è in grado di confutarle o
dissiparle puntualmente; in secondo luogo, per prestare attenzione a situazioni di fatto che spesso
solo l’odio mette in evidenza; in terzo luogo, per chiedersi quale sia, nella stessa persona che viene
diffamata, il motivo per cui è sorta una tale diffamazione. Cito, a mo’ di esempio: LUDWIG STEIN,
Friedrich Nietzsches Weltanschauung und ihre Gefahren, Berlin, 1893; JOHANNES SCHLAF, Der Fall
Nietzsche. Eine Überwindung, Leipzig, 1907; GUSTAV BÜSCHER, Nietzsches wirkliches Gesicht,
Zürich, 1928 (Editore A. Rudolf).
APPENDICE
TAVOLA DI CONCORDANZA
Qui di seguito indichiamo la concordanza tra le edizioni delle opere di Nietzsche da cui cita Jaspers
e le edizioni italiane di cui abbiamo seguito la traduzione.
La prima colonna si riferisce ai Nietzsche’s Werke (Leipzig, Naumann-Kröner, 1894 e sgg.): la
prima cifra indica il volume, la seconda la pagina.
La seconda colonna si riferisce alle Opere di Friedrich Nietzsche (Milano, Adelphi, 1964 e sgg.): le
cifre romane indicano, nell’ordine, il volume, il tomo e (in alcuni casi) la parte; le cifre arabe
indicano la pagina.
Per quanto riguarda alcuni scritti giovanili di Nietzsche, anteriori al 1868, Jaspers cita dal vol. I
dell’edizione Musarion (München, 1923); in traduzione italiana, questi scritti sono usciti in un
volume a parte delle edizioni Adelphi (La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869, Milano, 1977).
Alla fine della presente tavola, si è dunque stabilita la concordanza tra queste due edizioni: la cifra
della prima colonna indica la pagina dell’edizione Musarion, quella della seconda indica la pagina
dell’edizione Adelphi.
Dal controllo effettuato sull’edizione Naumann-Kröner, indispensabile per stabilire la concordanza,
soprattutto nel caso dei frammenti postumi (in quanto Jaspers indica solo il volume e la pagina, ma
non il numero del frammento), abbiamo riscontrato che alcuni passi non corrispondono alle
indicazioni fomite da Jaspers; ove è stato possibile, abbiamo quindi provveduto a correggere tali
indicazioni. Abbiamo invece segnalato con un punto interrogativo i pochi casi di riferimenti errati
(o omessi) che non siamo riusciti a reperire nelle edizioni tedesche, e di cui abbiamo comunque
trovato la corrispondenza nelle edizioni italiane sopra citate. Tra parentesi, a fianco della prima
colonna, abbiamo segnalato la pagina della presente edizione in cui si trova la citazione, in quei casi
in cui compare piu volte in Jaspers la stessa indicazione (del volume e della pagina), ma, riferendosi
a frammenti diversi, corrisponde a differenti volumi dell’edizione Adelphi: come è noto, i
frammenti postumi di Nietzsche sono pubblicati in ordine tematico nell’edizione Naumann-Kröner,
e in ordine cronologico nell’edizione Adelphi.
INDICE
Introduzione
Nota del curatore
NIETZSCHE
Prefazione alla prima edizione
Prefazione alla seconda e alla terza edizione
Introduzione
La comprensione dell’opera, 25; I metodi piu consueti dell'interpretazione di Nietzsche, 25; Come
leggere Nietzsche, 27; I principi dell'interpretazione, 28; Le tre parti della nostra esposizione, 33; Il
metodo dell’esposizione, 35; La comprensione dipende dall’intima natura di chi comprende, 37; La
verità filosofica, 37; Ciò che è richiesto all'intima natura di chi comprende, 38; Pericolo e
esitazione nel comunicare l'effettiva verità, 39; Nietzsche non vuole seguaci, 40; Cosa vuole
Nietzsche, 41; Nietzsche ha trovato i lettori che voleva?, 41.
LIBRO PRIMO
LA VITA DI NIETZSCHE
Uno sguardo complessivo, 43; La vita, 44; Il mondo, 45; L’immagine di Nietzsche che ci i stata
tramandata, 49; La sua caratteristica fondamentale: essere un'eccezione, 52; Le fasi dello sviluppo,
53; Lo sviluppo dell'opera, 53; Come Nietzsche stesso ha inteso il proprio cammino filosofico, 55;
La terza fase in particolare, 60; Ciò che rimane costante in tutto lo sviluppo, 63; Amici e
solitudine, 67; Rohde e Wagner, 68; Il periodo della solitudine, 77; L’elemento duraturo nelle
relazioni umane di Nietzsche, 83; I limiti delle possibilità d'amicizia di Nietzsche e la sua
solitudine, 87; La malattia, 94; Le malattie, 94; La malattia e l'opera, 104; L'atteggiamento di
Nietzsche nei confronti della malattia, 111; La fine, 117.
LIBRO SECONDO
I PENSIERI FONDAMENTALI DI
NIETZSCHE
Premessa
CAPITOLO PRIMO - L’UOMO
Introduzione: l’insoddisfazione per l’uomo, 123; L’esserci dell’uomo, 126; Cos'è l'uomo nel mondo,
126; L'uomo come originariamente mutevole (rapportarsi a se stessi; gli istinti e le loro
trasformazioni), 129; L’uomo che crea se stesso (la morale), 135; L'attacco alla morale, 136; Il
doppio circolo, 141; Ciò che Nietzsche vuole (contro ciò che è generale, in favore dell'individuo;
innocenza del divenire; creare; l'uomo che crea se stesso), 143; Creare come libertà senza
trascendenza, 150; Il capovolgimento dell'immanenza, 153; L’immagine nietzschiana dell’uomo,
156; L'uomo superiore, 157; Contro il culto degli eroi, 160; Il superuomo, 160.
CAPITOLO SECONDO - LA VERITÀ
Premessa, 163; Verità scientifica e verità filosofica, 164; L'atteggiamento metodico, 164; Origine e
vita dei metodi, 166; Limiti della scienza, 168; Scienza e filosofia, 171; La teoria
dell’interpretazione: verità e vita, 175; Il carattere illusorio della verità, 176; L'applicazione della
teoria, 177;, Il circolo, 179; Essere-vero ed esistenza, 180; La verità in relazione alle potenze vitali
che la distruggono, ma al contempo ne sono la condizione, 182; L’essere che diviene consapevole
al limite, 186; La passione di una illimitata volontà di verità, 190; Onestà, 190; Giustizia, 193;
L'autosoppressione della volontà di verità, 197; Il dubbio illimitato, 199; La dissoluzione della
ragione, 199; La verità nella rottura trascendente, 206; L'impossibilità di comunicare la verità, 207;
Il pericolo della verità, 208; Verità e morte, 210; « Nulla è vero, tutto è permesso », 214.
- COME NIETZSCHE
CAPITOLO SECONDO
VIENE COMPRESO DA NOI
Premessa, 375; Percorsi della critica nietzschiana, 375; Critica logica, 376; Critica del contenuto,
378; Critica esistenziale, 379; La volontà del puro al-di-qua, 386; La posizione dell’ateismo, 386; Il
sostituto della trascendenza e il suo fallimento, 387; Il trascendere di Nietzsche, 390; Il pensiero
filosofico di fronte all’ateismo, 393; Il nuovo filosofare, 397; La negatività assoluta, 399; La
filosofia del tentare, 401; Nietzsche come vittima, 402; Ciò che Nietzsche è, ed ha fatto, rimane
aperto, 404; L’assimilazione di Nietzsche, 404; Le insidie di Nietzsche e i possibili fraintendimenti
del suo pensiero, 406; L'educatore filosofico, 408; Il nostro atteggiamento nei confronti
dell'eccezione, 412.
Cronologia
Tavola dei periodi di stesura delle opere e del Nachlaß
Bibliografia
Appendice - Tavola di concordanza