Sei sulla pagina 1di 300

Jaspers affronta in quest'opera i «pensieri fondamentali» di Nietzsche (superuomo, eterno ritorno,

volontà di potenza); i nodi problematici del rapporto negazione-affermazione, immanenza-


trascendenza, ateismo-ricerca di Dio; e, in via preliminare, alcuni aspetti metodologico-
interpretativi, a cominciare dal rapporto aforisma-sistema. Al centro dell’interpretazione jaspersiana
- in antitesi a quella heideggeriana - vi è l’idea dell’indissolubile legame di pensiero e vita:
bisogna partecipare intimamente al continuo «movimento» del pensiero nietzschiano nel suo
concreto farsi, alla sua filosofia sperimentale, che è a un tempo «pensata e vissuta». Solo così si può
pervenire a una vera e propria «assimilazione» di Nietzsche, cioè a un’autentica comprensione del
suo filosofare, che implica al tempo stesso una sua appropriazione e rielaborazione personale. In tal
senso Jaspers getta luce non solo sulla filosofia di Nietzsche, ma anche sulle idee centrali della
propria filosofia: quelle di «situazioni-limite», di «origine», di «trascendenza».
Karl Jaspers

Nietzsche
Introduzione alla comprensione del suo filosofare
A cura di Luigi Rustichelli
MURSIA
Titolo originale dell’opera: Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens
Traduzione dal tedesco di Luigi Rustichelli
I diritti di elaborazione in qualsiasi forma o opera, di memorizzazione anche digitale su supporti di
qualsiasi tipo (inclusi magnetici e ottici), di riproduzione e di adattamento totale o parziale con
qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), i diritti di noleggio, di prestito e di
traduzione sono riservati per tutti i paesi. L’acquisto della presente copia dell’opera non implica il
trasferimento dei suddetti diritti né li esaurisce.
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, memorizzata o
trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo, elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in
altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15 % di ciascun
volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68,
commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

www.mursia.com
©Copyright 1974 Walter de Gruyter & Co., Berlin-New York
©Copyright 1996 Ugo Mursia Editore S.p.A. per l’edizione italiana Proprietà letteraria riservata -
Printed in Italy  4337/AC - Ugo Mursia Editore S.p.A. - Milano Stampato da DigitalPrint Service -
Segrate (Milano)
Anno    Ristampa
INTRODUZIONE
Bisogna imparare a comprendere Nietzsche: è questo il presupposto metodologico dell'ampio
studio di Jaspers del 1936. Ciò significa, innanzitutto e in via preliminare, che, prima ancora di
un'esposizione della filosofia di Nietzsche, cioè degli esiti speculativi del suo pensiero, bisogna non
solo riflettere ma anche partecipare intimamente al suo filosofare, ossia al peculiare modo di
procedere del suo pensiero che, come Jaspers sottolinea ripetutamente, è sempre in continuo «
movimento » ("Bewegung!; in tal senso si spiega il sottotitolo del libro, che intende appunto essere
un'introduzione  alla comprensione del filosofare nietzschiano.
È questa una problematica che coinvolge i principali nodi, da una parte, del pensiero di Nietzsche,
e dall’altra, della stessa filosofia di Jaspers, 1  a cominciare dal concetto di Aneignung
(assimilazione, appropriazione), a  cui tale problematica, per molti aspetti, può essere ricondotta:
una piena ed  autentica comprensione del « nuovo filosofare » di Nietzsche non può che essere, ad
un tempo, un’appropriazione intesa anche come rielaborazione personale del suo pensiero. Si
tratta del concetto, elaborato dallo stesso Nietzsche, dell’assimilazione del pensiero dei grandi
filosofi del passato, che non consiste in una sua mera ripresa o contemplazione, ma - come già i
Greci ben sapevano e ci insegnano - deve essere una sua « incorporazione », cioè appunto una
costruttiva appropriazione, in grado di servire e « vivificare » il presente, la nostra vita e il nostro
pensiero.2
Bisogna dunque procedere ad una assimilazione del pensiero di Nietzsche, anzi, piu precisamente,
dell’insieme delle sue Denkerfahrungen; già il concetto stesso di assimilazione, ulteriormente
rafforzato da questa sot-
lolineatura con l’espressione « esperienze di pensiero », ci indica qual è, secondo Jaspers, il punto
di partenza, ovvero il presupposto imprescindibile  per una corretta comprensione di Nietzsche.
Poiché il suo filosofare non è una fredda ed astratta riflessione meramente speculativa, bensì
un’esperienza vissuta, se vogliamo veramente comprendere Nietzsche dobbiamo pensare e sentire
insieme a lui, provare noi stessi quella « passione » da cui egli era animato. In altri termini, è
necessario seguire simpateticamente Nietzsche nella sua idea di fondo dell’indissolubile unità di
vita e conoscenza, secondo cui ogni filosofia deve essere ad un tempo « pensata e vissuta », deve
cioè essere, riprendendo la sua nota formulazione, una « filosofia sperimentale ».3
Per Jaspers, ciò significa che bisogna stabilire uno stretto « rapporto » con Nietzsche, « entrare in
comunicazione » e procedere insieme a lui nel continuo movimento della sua vita e del suo
pensiero: non semplicemente « contemplare », ma com-prendere, prender parte direttamente a tale
movimento. È per questo che Jaspers tiene innanzitutto presente la stessa « autocomprensione » di
Nietzsche, cioè il modo in cui ha retrospettivamente inteso e vissuto il proprio cammino
speculativo: gli scritti autobiografici, sia quelli giovanili sia le sue ultime opere, cosi come i
numerosi  luoghi e frammenti in cui, con spirito autocritico, egli ha interpretato a ritroso le varie
fasi del suo pensiero, e soprattutto le tarde prefazioni che ha scritto per le sue opere precedenti
costituiscono un accesso essenziale al suo filosofare. Non si tratta infatti di una semplice «
autoriflessione » o  « autosservazione », ma della « formidabile capacità » che Nietzsche
ha  mostrato nel comprendere il proprio pensiero, sempre sulla base della propria esperienza
vissuta, indicandoci la peculiare unità del suo movimento.4
Ne consegue l’impostazione di fondo che contraddistingue lo studio dì Jaspers (a differenza di altre
interpretazioni, come ad esempio quella di
Heidegger), che può essere riassunta nella seguente esigenza: « I pensieri di Nietzsche debbono
essere inseriti in un solo grande processo, che è al contempo sistematico e biografico »; proprio la
consapevolezza dell'unità di vita e conoscenza implica che il « contenuto filosofico »
dell'esperienza nietzschiana risieda indissolubilmente « tanto nella vita quanto nel pensiero di
Nietzsche ». Per una corretta comprensione del filosofare di Nietzsche non si può assolutamente
prescindere da uno studio della sua vita, che è dunque fondamentale per cogliere il « movimento »
del suo pensiero, cioè il suo sviluppo temporale (pp. 31-32). Tralasciare questo aspetto significa
precludersi la possibilità stessa di una completa comprensione del suo pensiero. Ma ciò non è
sufficiente; bisogna procedere anche a delle connessioni sistematiche, cioè seguire
sistematicamente, senza tralasciare nulla, tutta l'evoluzione della filosofia di Nietzsche, cercando di
collegare i vari pensieri. Non è certo un compito facile; anzi, comporta un’aporia di fondo:
procedere a delle connessioni sistematiche significa infatti prescindere dal momento della stesura
dei suoi singoli pensieri. Jaspers, che è ben consapevole di tale difficoltà, procede con cautela su
questo punto centrale dell'interpretazione di Nietzsche.
Come è noto, Nietzsche era contro la forma del sistema filosofico, della « costruzione sistematica
»; egli si mostra sprezzante nei confronti della « volontà di sistema », in cui vede « una mancanza
d’onestà », « una specie di impostura », ed afferma: « Non sono abbastanza limitato per un sistema
- e nemmeno per il mio sistema ». 5 Conseguentemente, come osserva Jaspers, « in Nietzsche si
presenta un nuovo modo di filosofare, che non diventa un sistema di pensiero compiutamente
elaborato [...]. Egli è  come un eterno punto di partenza »; ed è per questo che ha « coscientemente
eletto l’aforisma a forma ». Ciononostante, Nietzsche « pensa al  tutto », e vi è pur sempre nel
movimento del suo pensiero una « unità interna ». Per cui si può dire che il suo filosofare non è né
sistematico, né aforistico (pp. 402, 339, 407 e 23).
Per esprimere questo aspetto che riguarda il principale nodo strutturale del pensiero di Nietzsche,
e dunque le modalità della sua comprensione, Jaspers riprende una metafora che lo stesso
Nietzsche utilizza in diverse occasioni, parlando della propria opera come di un edificio in corso di
costruzione. Scrive Jaspers: « È come se si facesse saltare in aria il  fianco di una montagna, per
costruirvi un edificio; le pietre, più o meno sbozzate, fanno pensare ad un tutto, ma l'edificio non è
ancora stato costruito. Il fatto che dell'opera in via di costruzione vi siano per ora solo cumuli di
macerie non impedisce che la sua struttura sia comunque ben presente a colui che sa come
costruire; davanti a lui stanno numerosi frammenti che si possono combinare in diversi modi ». Da
una parte, le pietre « possono essere riconosciute soltanto se sono poste in relazione
all'idea  globale della costruzione », ma d’altra parte la stessa costruzione « non può
essere determinata con certezza ed in modo univoco; sembra piuttosto che vi siano varie possibilità
di costruzione ». Ne consegue che, per una corretta comprensione ed esposizione del pensiero di
Nietzsche, non si tratta di procedere ad una « ricostruzione archeologica », perché ciò
significherebbe fargli violenza; bisogna invece sempre « contemplare ad un tempo sia la possibilità
di una costruzione sistematica del suo pensiero, sia quella del suo crollo » (pp. 23 e 24). Dunque,
fuor di metafora, ciò che Nietzsche ha scritto deve sempre esser colto e compreso non solo nel
contesto in cui fu scritto (cioè nel suo sviluppo temporale), ma anche nel « contesto del tutto »
(cioè nell'insieme del suo sviluppo complessivo e sistematico). 6
È bene precisare che Jaspers non considera affatto come un limite questo aspetto del pensiero di
Nietzsche: il fatto che esso non si risolva in un sistema compiuto, ma sia « un’opera in corso di
costruzione » è semmai  l’intima novità e, come vedremo, il grande insegnamento del
filosofare nietzschiano. Si tratta sempre, insomma, del movimento del suo pensiero che - come
osserva efficacemente Jaspers, riprendendo anche in questo contesto termini e concetti consueti
della propria filosofia — è senza terreno, rifiuta ogni « solido » terreno, ed ha invece la sua
peculiarità appunto nella forma dell’essere-in-movimento, dell'essere-in-cammino. nel suo
pensiero che è vita, Nietzsche sperimenta tutte le possibilità, e dunque esso « non può fermarsi in
alcun luogo », « non è nulla di definitivo » (cfr. pp. 350-351).
Questo movimento è innanzitutto un movimento di distruzione, ossia, sul piano logico formale, di
negazione. La negazione è la parte più viva del suo pensiero, più stimolante e « più vera » delle sue
stesse affermazioni. Jaspers rileva che la costante preoccupazione di Nietzsche è quella
di pervenire dalla negazione all’affermazione: infatti, già nell’atto stesso del negare è possibile
cogliere il movimento positivo dell’affermare. Più precisamente, il significato dell’incessante «
movimento » del penderò di Nietzsche - o, per usare la sua espressione, dei suoi continui «
superamenti » ed « autosuperamenti » - sta nel fatto che egli « non si abbandona  definitivamente a
nulla di negativo e a nulla di positivo appartenente all'esperienza possibile, ma rischia semmai
tutte le posizioni, per dominarle tutte attraverso una negazione dialettica ». Jaspers definisce
questo modo  di procedere come la dialettica reale di Nietzsche: ogni posizione, nel momento in cui
viene da lui negata, implica l’affermazione della posizione op-
posta, che a sua volta è destinata ad entrare nel perenne movimento del mettere in discussione; non
si tratta di un movimento dialettico in senso tradizionale (che abbraccia il tutto « in una rapida
visione d'insieme », sulla base di « una sintesi conosciuta a priori »), ma di un movimento
che perviene semmai ad « una sintesi esistenzialmente aperta »; in breve, in tale dialettica — in
cui Nietzsche non si limita a negare, e dunque « supera » il nichilismo — « il no è il cammino verso
il nuovo sì » (pp. 351, 350 e  352).
A ben vedere, il senso di questa dialettica di negazione ed affermazione, distruzione e costruzione,
si trova esplicitamente indicato in un significativo passo in cui Nietzsche riassume il suo concetto
di filosofìa sperimentale: « Una filosofia sperimentale come quella che io vivo, anticipa a mo‘ di
prova anche le possibilità del nichilismo sistematico, senza che sia perciò detto che essa si fermi a
un "no”, a una negazione, a una volontà di "no”. Essa vuole anzi giungere, attraverso un tale
cammino, al suo opposto — a un’affermazione dionisiaca del mondo così com'è, senza
detrarre, eccepire o trascegliere - vuole il circolo eterno ». 7 E si ritrova anche, sia pure solo
accennato, nella formula « magia dell’estremo », che esprime la sua volontà di passare da un
estremo all'altro, sondando tutte le possibilità e lasciandole vivere in tutta la ricchezza delle loro
determinazioni. Si tratta, in fondo, del processo stesso con cui l’uomo consegue la sua estrema
libertà, in quanto creatore e plasmatore di se stesso: l’uomo, « questo grande sperimentatore di se
stesso », che cosi crudelmente infierisce su di sé (poiché per creare è necessario distruggere, ed
egli sa che  « nell’uomo creatura e creatore sono congiunti »), sperimenta dunque la « malattia »
come necessario viatico verso una superiore « salute », passando cioè dalla negazione della vita
alla sua entusiastica affermazione:
« Quel no che egli dice alla vita porta alla luce, come per magia, una moltitudine di più squisiti si;
proprio cosi, se si ferisce, questo maestro della distruzione, dell'autodistruzione - è poi la ferita
stessa che lo costringe  a vivere ». 8
Ma non è così semplice cogliere questo movimento del pensiero nietzschiano e la sua intima «
dialettica »: il suo tratto fondamentale è infatti la contraddizione. Qui Jaspers non si limita
semplicemente a constatare l’evidente contraddittorietà di Nietzsche, per cui leggendo i suoi
scrìtti  « non bisogna mai essere soddisfatti fino a quando non si è trovata anche la contraddizione
»; piu ancora, aggiunge Jaspers, per comprendere correttamente Nietzsche bisogna mettere in
pratica la logica del contraddittore, cioè « bisogna aver sempre presente la via opposta a quella
che la lettura  dei suoi scritti sembrerebbe direttamente indicarci » (pp. 30 e 29).
La contraddittorietà o equivocità di Nietzsche non consegue solo dal fatto che quasi tutti i concetti
predominanti del suo pensiero (pessimismo,
nichilismo, scetticismo, ebbrezza, ecc.) hanno un duplice senso, sono « ambivalenti » (zweideutig,),
ma anche e soprattutto dalla sua affermazione che la realtà stessa è ambivalente ed enigmatica, e
non può essere univocamente determinata: non esistono fatti, ma solo molteplici interpretazioni di
questi fatti. Si può dunque dire che la contraddittorietà di Nietzsche deriva sostanzialmente dal suo
« immenso impulso alla veridicità » (p. 375). Jaspers riprende e sottolinea giustamente la
distinzione nietzschiana tra « verità » e « veridicità » (e si dovrebbe anche aggiungere il concetto
di « verosimiglianza »): per Nietzsche non esiste una « verità in sé », la verità è necessariamente «
ambigua », « equivoca », si dà solo nella molteplicità dei punti di vista, delle prospettive. È questa
la sua teoria del « prospettivismo ».9 attorno alla quale ruotano molti e complessi temi
della  filosofia di Nietzsche. Jaspers - che anche in ciò può ritrovare diverse affinità con la sua
stessa filosofia - si sofferma, tra gli altri, su quello della « maschera », che è per Nietzsche una
profonda necessità: « Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera »; infatti, « non si
scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé? [...] Ogni
filosofia è filosofia di proscenio [...]. Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è
anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera ».10
La maschera (così come il « simbolo » e il « canto », ed ogni forma di « comunicazione indiretta »
di cui Nietzsche si serve) esemplifica il processo di nascondimento-disvelamento dell’essere, ed
esprime il carattere necessariamente « equivoco » della verità. Indubbiamente, la filosofia  di
Nietzsche è piu nascosta che manifesta; ma l'uso che egli fa della maschera non mira ad
ingannare; si tratta invece della « maschera che protegge per essere penetrabile solo dallo sguardo
autentico che coglie la verità» (p. 364).
Da tutte queste osservazioni risulta quanto sia difficile comprendere Nietzsche; ogni
interpretazione nettamente definita è, nel suo carattere unilaterale, decisamente scorretta; questo è
secondo Jaspers l'errore di fondo delle interpretazioni precedenti di Nietzsche. È invece
necessaria  una lettura lenta, piena di cautele ed anche di riserve, non univoca, ma aperta alla
molteplicità delle possibili interpretazioni: « Senza questo aspetto dell’ineliminabile ambivalenza
ed equivocità, Nietzsche non rimarrebbe se stesso» (p. 373). In altri termini, riprendendo la
metafora dell’opera  di Nietzsche come un edificio in corso di costruzione, poiché Nietzsche non ha
mai portato a termine questo edificio - e il suo filosofare è rimasto un costante progetto, un
incessante tentare e sperimentare -, una corretta esposizione del suo pensiero non può che limitarsi
a « cercare di ricostruire la  struttura dell’edificio », con la costante consapevolezza che « essa non
si
mostrerà mai a nessuno nella sua completezza, in modo chiaro ed inequivocabile » (p. 24).
Se, alla luce di quel che si è detto, si vuole tentare una breve valutazione dello studio di Jaspers, si
possono fare le seguenti considerazioni (anche in questo caso ci limitiamo al principale nodo
strutturale della sua  esposizione, senza entrare nel merito dei numerosi temi e aspetti specifici  del
pensiero nietzschiano da lui affrontati).
Nell’« Introduzione » Jaspers sostiene che V« esposizione » (Darstellung,) del pensiero di un
filosofo « non deve diventare l’occasione, per chi espone, di formulare una sua propria filosofia »
(p. 33); sorge qui spontaneo il dubbio se Jaspers sia effettivamente rimasto fedele a questo
suo intento, o non abbia piuttosto interpretato la filosofia nietzschiana in modo piu vicino al
proprio pensiero che non a quello di Nietzsche stesso. Appare infatti evidente che la lettura di
Jaspers è condotta alla luce della sua  propria filosofia, e non è esente da forzature, dalla
sottolineatura di certi aspetti della filosofia nietzschiana che più sono in sintonia con il suo
stesso pensiero, e dalla omissione di altri aspetti.
A tal proposito si potrebbe osservare che in uno studio che, pur volendo essere solo
un'introduzione, affronta comunque « i pensieri fondamentali di Nietzsche », appare discutibile il
fatto di trascurare completamente il pensiero estetico (Jaspers dedica solo poche righe al tema del
bello: p. 284): ci pare infatti indubbia la centralità del problema dell’arte nel quadro complessivo
del pensiero nietzschiano, dalla tesi giovanile - che si ripresenta anche negli anni successivi - della
« giustificazione estetica dell’esistenza », a quella tarda della « volontà di potenza come arte ».
Ma non è tanto questo il punto su cui conviene soffermarsi; cosi come non serve, sempre in questo
contesto, addentrarsi nella discussione sui rilievi critici all’impostazione di Jaspers, con
particolare riferimento al suo discorso sulle contraddizioni in Nietzsche, e all’effettiva possibilità
di ottemperare nello stesso tempo all’esigenza di considerare lo sviluppo temporale del suo
pensiero e di operare delle connessioni sistematiche che invece prescindono dal momento della
stesura dei suoi scritti. 11 Conviene piuttosto prendere in considerazione, in quanto esemplificativo
del modo di procedere di Jaspers, il punto di partenza e filo conduttore del suo studio: l'unità di
vita e pensiero in Nietzsche, cioè l’idea di una « filosofia sperimentale ».
Dal punto di vista metodologico, è vero che Jaspers espone, per così
dire oggettivamente, o, secondo il suo esplicito intento, in modo « documentato » questo tema
(anche in questo caso, egli lascia parlare Nietzsche, con ampie citazioni), evidenziando le sue
molteplici implicazioni; poi lo valuta alla luce di uno dei punti centrali del suo stesso pensiero, la
serietà dell’impegno esistenziale, preoccupandosi di mostrare che non è in contraddizione con
esso;12 e soprattutto ne fornisce un'interpretazione complessiva condizionata, o quantomeno
fortemente orientata dalla sua filosofia: cioè anche questo aspetto centrale del pensiero di
Nietzsche (cosi come i temi specifici su cui si sviluppa, soprattutto il « superuomo » e l’« eterno
ritorno »), esprimerebbe un suo costante anelito verso la trascendenza.13
A tal proposito si potrebbe obiettare che, se indubbiamente la filosofia sperimentale di Nietzsche
può esser vista come un'espressione del continuo trascendere del suo pensiero (nel senso del suo
incessante « procedere oltre », senza mai arrestarsi in nessuna fissa dimora, in nessuna
acquisizione certa), è però sbagliato interpretare questo trascendere nel quadro della « teologia
cristiana », come ha giustamente osservato Kaulbach,14
Ma, a nostro avviso, per una valutazione complessiva dello studio di Jaspers - ed anche, se si
vuote, come risposta a queste obiezioni - si deve  tener presente, ancora una volta, la tematica
dell’assimilazione.
Bisogna innanzitutto osservare (anche perché Jaspers conferisce un preciso significalo a questi
termini) che ««'esposizione come quella di Jaspers, che si propone di essere un’introduzione alla
comprensione del pensiero di Nietzsche, è necessariamente una interpretazione (altro concetto
comune a Jaspers e Nietzsche: ogni vera comprensione è una Auslegung), è cioè inevitabilmente
destinata a dare « qualcosa di piti » e nello stesso tempo « qualcosa di meno » (cfr. p. 360).
Proprio perché Nietzsche non ha sviluppato sistematicamente la sua filosofia, anche se vi è pur
sempre in lui una « tendenza all'unità », bisogna cercare di « far emergere, mediante il proprio
pensiero, ciò che è riposto nel pensiero dell’altro » (p. 33); è cioè necessario «l’apporto aggiuntivo
di un pensiero unificante » (p. 408), in quanto non è possibile « cogliere l’unità nel pensiero di
Nietzsche se non a colui che la consegue con le proprie forze » (p. 24). Nessuno deve dunque
«arrestarsi a Nietzsche
e trovare in lui il proprio pieno compimento », poiché « ciò che Nietzsche veramente è, potrebbe
essere alla fine deciso solamente da ciò che altri gli apportano, accostandosi a lui ». In breve: «
Filosofare con Nietzsche significa affermarsi continuamente contro di lui » (pp. 409, 411 e 412).
Ebbene, questo duplice aspetto, apparentemente contraddittorio, è appunto richiesto dal processo
di assimilazione e ne rappresenta anzi il contenuto di fondo, ad essa connaturato:15 comprendere e
assimilare Nietzsche significa ad un tempo procedere insieme a lui e staccarsi da lui; o
meglio, come Jaspers ribadisce anche nella parte finale del libro, significa entrare comunque « in
comunicazione con lui », cioè partecipare « all’autenticità e alla veracità del movimento del suo
pensiero », alla sua sostanza, che è appunto quella dell''essere-in-cammino, senza fermarsi mai,
neppure laddove Nietzsche corre il rischio di fermarsi o, a volte, effettivamente si arresta su
posizioni dogmatiche. Dobbiamo « conservare la libertà del movimento autentico », senza
irrigidirci in nessuna « dottrina » (cfr. pp. 405 e 406): « Comprendere Nietzsche non vuol dire
accettarlo, ma semmai plasmare se stessi, attivamente e soprattutto continuamente, senza cioè
terminare mai definitivamente quest’opera di formazione » (p. 409).
L’assimilazione di Nietzsche implica necessariamente una « trasformazione » di noi stessi, che non
significa un « divenir-altro », ma un « divenire-sé », cioè il raggiungimento della piena
consapevolezza di ciò che realmente siamo (il processo dell’Innewetden), del nostro eterno
fondamento e del nostro stesso filosofare; l 'educazione che riceviamo da Nietzsche  consiste nel
costante stimolo all’autoeducazione, nel senso che siamo sollecitati a porci continuamente dei
dubbi, a « tirar fuori da noi stessi ciò che è veramente in noi » (p. 407). Ma ciò può esser
conseguito appunto  solo attraverso l’assimilazione di Nietzsche, che non vuol dire né
accettare  passivamente ed acriticamente le sue opinioni ed i suoi giudizi, né
piegare  surrettiziamente il suo pensiero al servizio di nostri interessi e scopi particolari, ma
partecipare intimamente e perennemente al movimento del pensiero di chi, come lui, nel suo
indomito tentare-sperimentare, ha percorso il cammino che conduce « fino alle origini e ai limiti
dell’uomo ». In tal modo, « grazie a lui e procedendo insieme a lui, noi sperimentiamo le
possibilità dell’esserci umano, impariamo a plasmare con il pensiero la  nostra umanità» (p. 407).
LUIGI RUSTICHELLI
Reggio Emilia, settembre 1993
NOTA DEL CURATORE
La presente traduzione è stata condotta sulla quarta edizione di Nietzsche. Einführung in das
Verständnis seines Philosophierens (1974), invariata rispetto alle precedenti.
Per quanto riguarda i criteri generali della traduzione, si è tenuto conto della struttura dell’opera
che, da una parte, può esser considerata un’opera teorica di Jaspers, nel senso che vi compaiono
molte delle problematiche e dei termini consueti della sua filosofia; e d’altra parte è un’esposizione
critica della filosofia di Nietzsche, volutamente caratterizzata da un numero assai consistente di
citazioni di passi nietzschiani.
Partendo da questa considerazione, si è ritenuto opportuno, in generale e per quanto possibile,
attenersi alle traduzioni italiane esistenti, soprattutto per quel che riguarda alcuni termini chiave di
Jaspers (espressioni continuamente ricorrenti, di cui Jaspers fa un uso tutto peculiare, a volte non
consueto, come Bewegung, « movimento », Ursprung, « origine », Durchbruch, « rottura »,
ecc.); l’espressione das Umgreifende, di cui come è noto esistono diverse traduzioni (Jaspers stesso
dice che è « indefinibile », e alcuni traduttori preferiscono lasciarla nell’originale), è stata da noi
resa per lo più con « l’essere che tutto abbraccia», con lievi varianti imposte dai vari contesti in cui
ricorre; quando compare come aggettivo (umgreifend), è stato tradotto con « onnicomprensivo ».
Per i passi di Nietzsche citati da Jaspers, si è seguita l’edizione italiana curata da Colli e Montinari
(F. NIETZSCHE, Opere, Milano, Adelphi, 1964 sgg.) in tutti i casi segnalati in appendice, nella «Tavola
di concordanza » tra l’edizione Naumann-Kröner, da cui cita Jaspers, e l’edizione italiana da noi
utilizzata. A tal proposito, va precisato che Jaspers usa alcuni significativi termini comuni a
Nietzsche, ovvero cita e commenta espressioni che, nella loro elaborazione concettuale, sono
divenute dei nodi tematici rilevanti della sua filosofia: alcuni di questi termini, nelle traduzioni
italiane dei due autori, sono resi in modo diverso (così è, ad esempio, per l’espressione das
Schweben, che in Nietzsche è tradotta con « lo spaziare » o « il librarsi », mentre nelle traduzioni
italiane di altre opere di Jaspers è resa con « l’essere-sospesi »; lo stesso vale per il termine
Auslegung, tradotto rispettivamente con « interpretazione » e « esplicazione »; in questi casi
abbiamo conservato, anche nel commento di Jaspers, le traduzioni italiane dei termini, cosi come
appaiono nei vari scritti di Nietzsche da lui citati).
Questa divergenza si presenta e ricorre soprattutto con il termine Dasein, per il quale, nelle opere di
Jaspers, si è ormai consolidata la traduzione con « esserci » (per distinguerlo da « esistenza »:
Existenz), mentre in Nietzsche è tradotto con « esistenza ». Tale criterio è stato seguito anche nella
nostra traduzione: quindi, quando Jaspers cita o parafrasa Nietzsche, si è reso Dasein (sempre,
anche nei passi di Nietzsche da noi direttamente tradotti) con esistenza-, in tutti gli altri casi (anche
quando, pur richiamandosi al discorso di Nietzsche, Jaspers lo rielabora alla luce delle proprie
tematiche), il termine Dasein è stato tradotto con esserci.
A volte compaiono coppie di termini affini, che si sarebbe potuto rendere in modo diversificato,
facendo ricorso a termini tecnici, ma che abbiamo preferito tradurre con la stessa espressione
(precisando ove necessario l’originale, tra parentesi nel testo), anche perché non si presentano in
tutto il libro e in modo sistematico, ma solo in alcune brevi parti, e quasi sempre in
riferimento all'uso che ne fa Nietzsche.
È il caso di 'Wirklichkeit e Realität, in cui appunto non si è ritenuto opportuno operare delle
distinzioni; come è noto, Wirklichkeit è il termine tedesco per realtà, e come tale è stato tradotto
(preferendolo alla possibile traduzione con « effettualità »); solo in alcuni contesti, per distinguerlo
da Realität, si è reso con « realtà di fatto » (sull’uso nietzschiano dei due termini, a cui Jaspers si
richiama, rimando al mio saggio La profondità della superficie. Senso del tragico e giustificazione
estetica dell'esistenza in Friedrich Nietzsche, cit., p. 36).
Lo stesso vale per la coppia Historie-Geschichte, che abbiamo sempre tradotto con storia-, il
contesto in cui compaiono i due termini - il capitolo in cui Jaspers si richiama all’« Inattuale » di
Nietzsche Sull'utilità e il danno della storia [Historie] per la vita - consente del resto di cogliere la
loro differente sfumatura: Historie significa storia nel senso del « sapere storico », mentre
Geschichte designa la storia come « accadere storico », ossia - come scrive lo stesso Jaspers - il
complesso degli « accadimenti reali ».
Per quanto riguarda gli aspetti redazionali, si è cercato di rispettare il piu possibile il testo di
Jaspers, limitando al minimo indispensabile gli interventi correttivi: cosi, ad esempio, abbiamo
lasciato le note (sia pure a volte incomplete nelle indicazioni bibliografiche, e collocate in modo
difforme, tra parentesi nel testo o a pie’ pagina) nella originaria stesura dell’Autore; e ancora,
abbiamo sempre rispettato l’uso del corsivo da parte di Jaspers, anche nel caso delle citazioni di
Nietzsche, dove esso è a volte difforme dall’originale: piu precisamente, abbiamo riscontrato che in
molti casi le parti in corsivo nel testo di Jaspers non corrispondono nell’edizione Naumann-Kröner
da cui egli cita (a volte, con tutta probabilità, si tratta di omissioni involontarie, spesso si tratta
ovviamente di scelte personali nel sottolineare singoli termini o parti del testo); e poiché si è altresì
riscontrato che non sempre vi è concordanza tra il corsivo di questa edizione e quello del testo
dell’edizione Colli-Montinari, si è ritenuto opportuno seguire sempre soltanto le sottolineature
dell’Autore.
Alcuni interventi si sono resi necessari nelle citazioni di Nietzsche: infatti, non sempre Jaspers
riporta i passi in modo corretto (spesso omette parole e non rispetta l’uso delle virgolette); in tali
casi, abbiamo aggiunto i puntini di sospensione e, in presenza di evidenti lapsus, abbiamo integrato
la citazione con la parola involontariamente tralasciata; abbiamo altresì provveduto a ripristinare le
virgolette non solo, ovviamente, in quei passi in cui Nietzsche, a sua volta, cita altri autori, ma
soprattutto in quei numerosi casi in cui Nietzsche si riferisce all’uso consueto e consolidato di
alcune espressioni, in cui egli non si riconosce affatto, ma intende invece sottolineare il proprio
netto rifiuto nei confronti appunto di tali espressioni (come ad es. « la “verità” »).    
Abbiamo inoltre segnalato in nota i rari casi di discrepanza tra il testo di Nietzsche citato da Jaspers
(cioè quello dell’edizione Naumann-Kröner) e il testo critico stabilito da Colli e Montinari (per
l’edizione tedesca, ci siamo riferiti alla Kritische Studienausgabe dei Sämtliche Werke, cit.,
indicandola con la sigla KSA).
Altri interventi hanno riguardato la correzione - o integrazione - di alcuni riferimenti bibliografici
(ad es. nelle indicazioni delle opere e delle lettere di Nietzsche citate da Jaspers) e di alcuni nomi
propri (ad es. Malvida, corretto in Malwida).
Desidero ringraziare, per i loro consigli ed il loro aiuto, gli amici Tonino Griffero, Luca Guidetti, e
in modo particolare, per la sua consueta generosità, Eros Mattioli.
1 Jaspers riprende molti concetti della filosofia di Nietzsche che, ulteriormente rielaborati,
diventano centrali per il suo stesso pensiero; e così facendo, come ha osservato Wahl, rende piti
concrete le proprie teorie; nello studio su Nietzsche, « molte delle nozioni che rimanevano astratte
nei tre bei volumi in cui Jaspers ha esposto la sua filosofia conseguono maggior precisione, vita e
pienezza »; le idee di situazione-limite, di appello, di origine, di trascendenza, di cifra « trovano qui
la loro illustrazione », per cui si può dire che questo suo libro è importante, oltre che per la
comprensione di Nietzsche, « per la comprensione della filosofia di Jaspers » (J. WAHL,
Le  Nietzsche de Jaspers, in « Recherches philosophiques », 1936-1937, p. 346)
2 V., ad es,, F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M.
Montinari, Berlin-New York, de Gruyter, 1980, voi. 7, pp. 432-433; tr. it. in Opere, a cura di G.
Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 sgg., voi. III, tomo III, parte II, p. 18: «I Greci [...]
sanno imparare: enorme capacità di assimilazione [Aneignungskraft]. [...] soltanto nei Greci tutto si
è trasformato in vita !». Sul concetto di Aneignung, di cui Nietzsche sottolinea il senso fisiologico,
associando spesso l’« assimilazione corporea » all’« assimilazione spirituale », cfr. anche voi. V, t.
II, p. 348 e voi. VI, t. II, p. 255.
3 « Io parlo solo di cose che ho vissuto e non di cose semplicemente “pensate"; in me manca
l’antagonismo tra pensiero e vita. La mia “teoria” si sviluppa dalla mia “prassi” » (F. NIETZSCHE,
Opere, voi. VI, t. III, p. 605). Per Nietzsche, che su questo punto polemizza contro tutta la
riflessione filosofica precedente, filosofare non è tanto una questione di conoscenza, quanto
piuttosto di esperienza, un’esperienza vissuta e sofferta personalmente; da questa esigenza nasce
appunto la sua idea centrale di una Experimental-Philosophie-, su ciò rimando al mio saggio La
profondità della superficie. Senso del tragico e giustificazione estetica dell'esistenza in Friedrich
Nietzsche,  Milano, Mursia, 1992 (cfr. spec. l’« Introduzione », pp. 11 e sgg., e la parte su «L’idea di
una Experimental-Philosophie come filosofia del tragico», pp. 33-82).
4 Jaspers sottolinea la distinzione tra Selbstreflexion e Selbstbeobachtung, da una parte, e
Selbstuerständnis dall’altra, e scrive: « La psicologia nel senso dell’autosservazione si distingue
dalla psicologia che chiarisce l’esistenza, che assume la forma dell’autocomprensione:
l’autosservazione si riferisce all’esserci empirico, anche al proprio, mentre l’autocomprensione si
riferisce ad un’esistenza possibile » (pp. 343-344). Nel quadro della sua « filosofia sperimentale »
Nietzsche sostiene che, per la conoscenza di se stessi, l’introspezione non è sufficiente, in quanto «
l’unico mezzo per conoscere veramente qualcosa consiste nel tentare di farlo » (F. NIETZSCHE,
Opere, voi. IV, t. I, p. 152); per cui, come giustamente osserva Jaspers, « nella sua
autocomprensione, vita e conoscenza si unificano nell’attività dello sperimentare» (p. 350).
5 F. Nietzsche, Opere, voi. VI, t. III, p. 58; voi. VII, t. II, p. 118; voi. VIII, t. II, p. 180.
6 Come si accennava, è assai difficile rimaner fedeli a questa duplice esigenza nell’esposizione del
pensiero di Nietzsche; così, Jaspers riconosce di essere stato costretto, proprio per le esigenze stesse
dell’esposizione, a separare i pensieri fondamentali di Nietzsche, che sono invece « di una costante
unità » (p. 262); ed ammette che lo stesso procedimento della citazione (di cui egli ampiamente si
serve, in quanto è altrettanto necessario per l’esposizione) contiene di per sé una « forzatura ».
D’altra parte, pur affermando ripetutamente la necessità di collegare sistematicamente i pensieri di
Nietzsche, in quanto essi « acquistano il loro vero significato non già nella loro singolarità, bensì
nel loro insieme » (p. 408), Jaspers riconosce altresì che « se si cerca di ricavare il sistema (...],
allora si naufraga in un compito senza fine» (p. 360).
7 F. NIETZSCHE, Opere, voi. VIII, t. III, pp. 281-282.
8F. NIETZSCHE, Opere, voi. VI, t. II, pp. 325 e 134; sulla «magia dell’estremo» cfr. voi. VIII, t. II, p.
155.
p. 203.

9 Cfr. ad es. F. NIETZSCHE, Opere, voi. V, t. II, p. 174 e voi. VII, t. I, parte I, p. 203
10 F. NIETZSCHE, Opere, voi. VI, t. II, pp. 47 e 201.
11 Tale critica è stata mossa (con argomentazioni a nostro avviso sbrigative, se non proprio
infondate) da Kaufmann, che pure considera lo studio di Jaspers come « uno dei migliori libri che
sono stati scritti finora su Nietzsche »; Jaspers, osserva Kaufmann, « raccomandava ai lettori del
filosofo di non sentirsi soddisfatti finché non avessero trovato altri passi che contraddicevano quelli
trovati prima »; ma « la stessa interpretazione di Jaspers si appaga di contraddizioni superficiali,
non tiene conto del contesto in cui si pongono i frammenti che ha raccolto nelle sue schede, dello
sviluppo del pensiero nietzschiano, e della differenza esistente fra libri e appunti di Nietzsche » (W.
KAUFMANN, Nietzsche. Philosopber, Psychologist, Antichrist, tr. it, di R, Vigevani, Nietzsche.
Filosofo, psicologo, anticristo, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 93 e 11).
12 Il postulato basilare della Experimental-Philosophie consiste nel « fare della propria vita un
esperimento » (F. NIETZSCHE, Opere, voi. Vili, t. III, p. 386); ma allora, si chiede Jaspers, la vita non
perde forse la sua serietà? E cosi risponde: Nietzsche è l’uomo « per il quale ogni avvenimento ha
tutta la serietà della sperimentazione del possibile », e attraverso il suo continuo sperimentare
Nietzsche realizza il suo impegno e la sua «identificazione con il mondo» (pp. 349 e 350).
13    Secondo Jaspers, il pensiero di Nietzsche, animato dalla ferrea volontà di « una pura
immanenza », è in realtà « continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara alla
trascendenza che egli non mostra» (p. 411). Il suo filosofare è un continuo tentativo di trovare un «
sostituto (Ersatz) della trascendenza », ma è un tentativo «fallito», in quanto «il ripudio della
trascendenza la fa subito risorgere»; e quindi Nietzsche mostra, sia pure « inintenzionalmente e
inconsapevolmente», che l’uomo « non può compiersi senza trascendenza » (pp. 384, 385 e sgg.).
14   Cfr. F. KAULBACH, Nietzsches Idee einer Experimentalphilosophie, Köln-Wien, Böhlau, 1980,
pp. 175-176.
15 Già Nietzsche - sempre richiamandosi al senso fisiologico dell’espressione - aveva sottolineato
questo duplice aspetto insito nel processo di assimilazione, che significa «rendere uguale a se
stesso, tiranneggiare, qualcosa di estraneo»; se tale processo implica dunque una certa violenza,
d’altra parte, ciò che viene assimilato si trasforma « e cosi continua a vivere » (F. NIETZSCHE, Opere,
vol. V, t. II, p. 348).
13

NIETZSCHE
Introduzione alla comprensione del suo filosofare
Alla memoria di mia madre
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
A prima vista, la lettura di Nietzsche pub sembrare facile; cosi almeno ritiene qualcuno. Qualsiasi
passo si scelga, anche casualmente, è immediatamente comprensibile; Nietzsche è interessante
sotto ogni aspetto; i suoi giudizi affascinano, la sua scrittura entusiasma; anche una semplice
lettura  di sfuggita è pur sempre appagante. Ma se, spinti da queste impressioni iniziali, vogliamo
continuare la lettura, allora insorgono delle difficoltà; l'entusiasmo per la piacevole lettura si
trasforma in irritazione, se non proprio nell’avversione per una molteplicità frammentaria di
pensieri apparentemente priva di ogni intrinseco legame; la lettura si fa insopportabile. In questo
modo, però, non si giunge ad una effettiva comprensione di Nietzsche; né, tanto meno, si
comprende la sua intima complessità.
È necessario passare dalla semplice lettura di Nietzsche allo studio di Nietzsche, inteso come
assimilazione dell’insieme delle sue esperienze di pensiero; si comprenderà allora ciò che
Nietzsche ha significato per la nostra epoca: un destino dello stesso essere umano che vuole
inoltrarsi fino  ai suoi limiti ed alle sue origini.
Ogni grande filosofo richiede uno studio specifico, a lui propriamente adeguato: solo cosi può
emergere il suo intimo procedere, che costituisce l’essenza della vera comprensione. Gli scritti su
un filosofo hanno appunto il compito di metter in luce questo intimo procedere del suo pensiero;
essi  debbono condurre il lettore ad una effettiva comprensione, che deve andare al di là del mero
rapporto superficiale, dell’interpretazione più immediata ed arbitraria, e dunque errata, al di là
del piacere contemplativo per le belle parole. Deve invece emergere, il più chiaramente possibile, il
fare concreto  del filosofo, che deve essere compreso e vìssuto procedendo insieme con il suo stesso
pensiero.
Heidelberg, dicembre 1935
KARL JASPERS
PREFAZIONE ALLA SECONDA E ALLA TERZA EDIZIONE
Questa edizione è una ristampa invariata della prima
Il libro cerca di mettere in luce il contenuto delta filosofia di Nietzsche, in contrapposizione ai suoi
fraintendimenti da parte delle generazioni precedenti, ed agli equivoci ingenerati dagli appunti di
un uomo ormai prossimo alla follia. L’apparenza deve scomparire, per lasciare il posto alla serietà
profetica di colui che è forse a tutt'oggi l'ultimo grande filosofo.
Il mio libro vorrebbe essere un’interpretazione oggettivamente valida, indipendentemente dal
momento della sua stesura. Scritto tra il 1934 ed il 1935, il libro era animato anche dall'intento di
opporre ai nazionalsocialisti proprio l’orizzonte di pensiero di quel filosofo a cui essi
dichiaravano  di ispirarsi. Esso è sorto da una serie di lezioni, nel corso delle quali soltanto pochi
dei presenti capirono quando citai un passo di Nietzsche che inizia con le parole: « Siamo
emigranti... »; questa ed altre citazioni, come i passi pieni di rispetto nei confronti degli ebrei, non
rientrano nella stesura finale del testo, poiché di secondaria importanza rispetto alle
finalità complessive del libro, che conserva comunque la sua struttura, che è quella di
un’esposizione basata su documenti.
Inizialmente era previsto un capitolo che avrebbe dovuto documentare la follia di Nietzsche con
una serie di citazioni, piene di espressioni molto crude e radicali. Ma ne sarebbe risultata
un’immagine distruttiva, che ho  tralasciato per rispetto di Nietzsche. Per chi voglia effettivamente
comprendere Nietzsche, come questo libro vorrebbe insegnare, tali divagazioni scompaiono nel
nulla. Chi le prende sul serio, le sottolinea e si lascia influenzare da esse, non è abbastanza maturo
per leggere Nietzsche, né tanto meno ne ha il diritto. Infatti, il contenuto della sua vita e del suo
pensiero è di una tale grandezza che, chi riesce a prendervi parte, è al riparo da quegli errori che
in qualche circostanza Nietzsche stesso ha commesso, e che hanno potuto fornire il materiale
espressivo per la barbarie nazionalsocialista. Ma che Nietzsche, in realtà, non potesse diventare il
filosofo del nazionalsocialismo, è testimoniato dal fatto che in seguito egli fu tacitamente
abbandonato dal nazionalsocialismo stesso.
Il mio libro è stato concepito in modo unitario; sarebbe certamente possibile arricchirne ed
ampliarne il senso, ma in tal caso si correrebbe il rischio di far perdere all’opera, già di per sé
molto ampia, la sua forma. Piuttosto che una semplice modifica del testo esistente, sarebbe allora
preferìbile un nuovo libro che completasse il vecchio o che lo sostituisse, in tutto e per tutto, sulla
base di un nuovo progetto.

Heidelberg, febbraio 1946 Basel, febbraio 1949


KARL JASPERS
INTRODUZIONE
La comprensione dell’opera: I metodi piu consueti dell’interpretazione di Nietzsche. Come leggere
Nietzsche. I principi dell’interpretazione. Le tre parti della nostra esposizione. Il metodo
dell’esposizione.
La comprensione dipende dall’intima natura di chi comprende: La verità filosofica. Ciò che è
richiesto all’intima natura di chi comprende. Pericolo e esitazione nel comunicare l’effettiva verità.
Nietzsche non vuole seguaci. Cosa vuole Nietzsche. Nietzsche ha trovato i lettori che voleva?
Saggi, innumerevoli frammenti, lettere, poesie - il tutto, da una parte, in una forma letteraria
compiuta, dall’altra, in una copiosa opera postuma incompiuta, scritta nel corso di due decenni: cosi
si presenta il pensiero di Nietzsche.
Il suo pensiero non è né aforistico, nel senso dei famosi scrittori di aforismi ai quali Nietzsche a
volte pure si avvicina, né sistematico, nel senso dei sistemi filosofici che vengono elaborati in tale
forma.
Considerato in relazione agli scrittori di aforismi, Nietzsche è un tutto unitario: una vita
filosoficamente vissuta, che si esprime e si trasmette si tramite il pensiero, ma unitamente
all’operosità di chi crede ad un preciso compito, cioè al pensiero come forza creativa.
Considerato in relazione ai sistematici, Nietzsche non ha costruito il proprio pensiero secondo una
struttura logica pienamente compiuta: gli abbozzi sistematici delle sue opere sono o schemi per
l’esposizione del suo pensiero, che comunque lasciano sempre spazio ad eventuali modifiche,
o l’esito di una ricerca specifica, condotta secondo precise finalità, o sono infine determinati
dall’azione che egli voleva esercitare con la sua filosofia.
Il senso dell’opera di Nietzsche può essere espresso con un paragone : è come se si facesse saltare
in aria il fianco di una montagna, per costruirvi un edificio; le pietre, piu o meno sbozzate, fanno
pensare ad un tutto, ma l’edificio non è ancora stato costruito. Il fatto che dell’opera in via di
costruzione vi siano per ora solo cumuli di macerie non impedisce che la sua struttura sia comunque
ben presente a colui che sa come costruire; davanti a lui stanno numerosi frammenti che si possono
combinare in diversi modi: molte pietre sono simili, altre hanno forme uniche e rare, come se
avessero fatto parte di una pietra d’angolo o di un arco. Possono essere riconosciute soltanto se sono
poste in relazione all’idea globale della costruzione. Ma anche la stessa costruzione non può essere
determinata con certezza ed in modo univoco: sembra piuttosto che vi siano varie possibilità di
costruzione; si ha talvolta il sospetto che una parte sia difettosa, oppure che risponda ad un’altra
idea di costruzione.
Si tratta dunque di cercare di ricostruire la struttura dell’edificio a partire dalle sue rovine, anche se
essa non si mostrerà mai a nessuno nella sua completezza, in modo chiaro ed inequivocabile. La
ricerca di questa struttura nascosta ha successo solo se si parte dal presupposto di costruire l’edificio
stesso, che crollò quando Nietzsche si accinse ad erigerlo.
Tutto dipende dalla nostra abilità nel non lasciarci né distrarre dal gran cumulo di macerie, né
sedurre dallo splendore di alcuni pezzi; non dobbiamo neppure agire in modo istintivo, scegliendo
casualmente questo
o    quel singolo frammento, ma dobbiamo invece riuscire a comprendere Nietzsche attraverso
Nietzsche stesso come un tutto: bisogna cioè dar peso ad ogni singola parola, e, se ne isoliamo
alcune, non perdere mai di vista la concezione generale. Occorre comunque procedere con cautela,
perché interpretare il tutto come una ricostruzione archeologica significherebbe far violenza a
Nietzsche. Nel caso di Nietzsche bisogna infatti contemplare ad un tempo sia la possibilità di una
costruzione sistematica del suo pensiero, sia quella del suo crollo; cosi si comprende il forte
impulso che Nietzsche dà ai posteri, ai quali egli non fornisce alcun rifugio sicuro, ma indica solo la
rotta, spronandoli cioè a intraprendere quella via, da lui aperta, che conduce allo sviluppo
dell’umanità. Non sarà possibile cogliere l’unità nel pensiero di Nietzsche se non a colui che la
consegue con le proprie forze.
L’enorme cumulo di macerie cela il mistero dell’oscura profondità dell’essere e del pensiero di
Nietzsche. È come se una potenza sconosciuta avesse fatto scoppiare la sostanza, ed allo stesso
tempo avesse cercato di trasformare la roccia frantumata in un edificio, ma senza successo, per
cui ci troviamo di fronte sempre soltanto a macerie. Oppure, è come se si fosse messa in moto una
sostanza che poi non è piu in grado di controllarsi; come se la sua vita tendesse continuamente ad
un tutto, nel quale nulla va perso o dimenticato, senza però essere e neppure raggiungere
questo tutto.
Per facilitare con una semplificazione la comprensione del pensiero di Nietzsche, ci si chiede quale
sia la sua opera principale, quale il livello e l’importanza rispettiva dei suoi scritti. Chi ritiene La
nascita della tragedia  il piu bel saggio di Nietzsche, chi fa cadere la propria scelta sui libri di
aforismi, chiari, poliedrici e brillanti, da Umano, troppo umano alla Gaia scienza, chi vede il nucleo
e la vetta della sua filosofia negli ultimi scritti; e ancora, chi ritiene quale espressione piu compiuta
del suo pensiero lo Zarathustra, chi gli scritti postumi sulla Volontà di potenza; chi privilegia
i    libri pubblicati da Nietzsche stesso, chi invece le opere postume, considerandole come il tronco
di cui le opere pubblicate sono soltanto rami isolati, cioè difficilmente comprensibili se prese
singolarmente: in conformità a ciò, c’è dunque chi diffida degli appunti postumi, scritti di getto e
non rivisti criticamente da Nietzsche, che sono tanto poco definitivi quanto gli abbozzi di lettere,
cosi radicalmente contraddittori, alle persone che gli erano piu vicine; e chi invece diffida dei
mutamenti e delle svolte degli scritti pubblicati, per il loro eccessivo sviluppo letterario.
Ognuna di queste posizioni, confrontata con le altre, può essere valida, mentre, presa singolarmente,
risulta inadeguata. Ogni limitazione espressa in questi giudizi rende Nietzsche univoco, cioè lo fa
apparire limitatamente ad un punto di vista; ma egli è in sé e per sé comprensibile solo se si collega
e ricomprende tutto questo per cogliere alla fine, attraverso le nostre riflessioni, i movimenti
filosofici originari della sua essenza, nella molteplicità dei suoi aspetti e dei diversi punti di vista.
Inoltre, nessuna forma di comunicazione ha in Nietzsche un carattere privilegiato. L’essenza del suo
pensiero non può giungere ad una forma onnicomprensiva e predominante. La forma delle
trattazioni sistematiche che, concepite come un tutto, hanno uno sviluppo chiaro e lineare, è
abbandonata nelle ultime Considerazioni inattuali, ma è nuovamente ripresa nella Genealogia della
morale e nell'Anticristo. L’aforisma, che predomina negli scritti del periodo centrale della sua
produzione, non è però mai abbandonato, neppure nelle ultime opere, e se ne trova traccia già nelle
prime. Un tale pensiero frammentario - che nella sua inesauribile ricchezza produce sempre
qualcosa di nuovo, come si può constatare dagli scritti postumi -sta alla base di tutte le
pubblicazioni di quel periodo. Nelle prime due Considerazioni inattuali e negli ultimi scritti prevale
la forma polemica; la terza e la quarta Considerazioni inattuali e lo Zarathustra sono invece
dominati da una forma che è in funzione dell’ideale abbozzato in questi scritti. L'opera di Nietzsche
non presenta un vero e proprio punto centrale: non si può dunque parlare di una sua opera
principale. Ciò che egli riteneva essenziale si manifesta proprio in ciò che è apparentemente casuale
e occasionale.
La comprensione dell’opera
I metodi più consueti dell’interpretazione di Nietzsche. Nella maggior parte delle interpretazioni di
Nietzsche si riscontra un errore di fondo: esse classificano Nietzsche come se per loro fosse
scontata la conoscenza di tutte le possibilità dell’essere e dell’uomo; perciò lo sussumono ad un
tutto. Se è soprattutto sbagliata l’ammirazione per il poeta e lo scrittore, nella misura in cui essa
implica il fatto di non prendere sul serio Nietzsche come filosofo, d’altra parte è pure sbagliato
considerarlo un filosofo alla stregua dei filosofi che lo hanno preceduto, e giudicarlo seguendo gli
stessi criteri adottati per questi ultimi. L’interpretazione vera e propria, al contrario, approfondisce
anziché sussumere; non pretende di essere definitiva, ma procede ponendo interrogativi e trovando
risposte sulla base dei dati raccolti di volta in volta. Avvia cosi un processo di appropriazione, di cui
stabilisce le condizioni ed i limiti. Mentre l’interpretazione sbagliata vede le cose da lontano,
considera il suo oggetto come qualcosa di estraneo e crea l’illusorio piacere di una visione
d’insieme, quella corretta, cioè l’interpretazione autentica, ci offre la possibilità di essere noi stessi
coinvolti, di partecipare attivamente a quel processo di appropriazione.
Tra le interpretazioni fuorvianti sono frequenti i seguenti metodi, ac
cettabili «e presi nella consapevolezza dei loro limiti, sbagliati se si conferisce loro un valore
assoluto.
1.    Si isolano le singole teorie di Nietzsche, ordinandole in un sistema e ponendole in risalto, come
se tutto ciò fosse una sua propria acquisizione. In tal modo, si crede di vedere il pensiero centrale,
che conferirebbe unità a tutto il sistema, nella volontà di potenza, da cui vengono poi
inevitabilmente esclusi gli slanci mistici di Nietzsche e la teoria dell’eterno ritorno. Oppure si
intravvede la verità della filosofia di Nietzsche nella sua concezione della vita e nelle
manifestazioni della volontà di potenza che si maschera e distrugge la vita (e allora ci si stupisce
che Nietzsche consideri poi questa volontà di potenza come la vita stessa, in quanto ciò, per così
dire, annullerebbe la sua concezione della vita). Oppure si vede la verità nella sua psicologia che
smaschera e respinge ovunque ogni principio positivo. Ognuna di queste interpretazioni è certo
attinente al pensiero di Nietzsche, ma non può essere identificata con questo stesso pensiero
nella sua totalità.
2.    Si abbozza un’immagine della personalità di Nietzsche, facendone il tutto coerente di un
destino compiuto, da ammirare esteticamente. L’uno è affascinato dalla soggettività personale, in
cui vede il destino di un'anima geniale nella sua solitudine. L’altro vede in lui un destino oggettivo:
ciò che necessariamente avviene in un uomo alla svolta tra due epoche, quando il presente è ormai
vacuo e l’avvenire non è ancora reale; Nietzsche diventa cosi l’espressione della crisi dell’Europa,
che in lui appunto si impersona, nella concretezza della figura umana che, a causa della situazione
dell’epoca, deve spezzarsi nel momento in cui è chiaramente consapevole di ciò che è e può
diventare. Il primo esalta l’interesse psicologico, il secondo sa troppo, quasi guardasse alla storia
umana come un dio e vedesse il punto in cui Nietzsche si trova. Entrambi, quando pensano di avere
colto Nietzsche nella loro interpretazione, si fanno sfuggire la vera comprensione tramite Nietzsche
stesso, avendo precostituito una falsa grandiosità; perciò manca loro l’impulso che può venire da
Nietzsche.
3.    Si spiega la complessiva realtà di Nietzsche con simboli mitici, che gli conferiscono un
significato eterno e la profondità del radicamento storico. Qualcosa di persuasivo c’è forse nel
simbolo di Giuda, per indicare la persistente negatività dialettica di Nietzsche, cosi come in quello
del cavaliere tra la morte e il diavolo, per indicare il suo coraggio senza illusioni, ed in altre
immagini di questo tipo (cfr. Bertram). Ma questi simboli, non appena pretendono di essere piu di
quel che sono, cioè un gioco bello e ingegnoso, diventano inattendibili: essi semplificano, annullano
il movimento, fanno di Nietzsche un essere irrigidito, lo sottomettono ad un tipo di comprensione
che segue necessariamente criteri prefissati e, sulla base di essi, pretende di estendersi a tutto,
anziché seguirlo nella sua effettiva realtà. Bisogna piuttosto riconoscere che Nietzsche stesso
si serve di tali simboli come di un mezzo di chiarificazione; ma si tratta solo di un mezzo fra molti
altri.
4.    Si spiegano psicologicamente i pensieri e gli atteggiamenti di
Nietzsche; su ogni questione, diventa decisivo mostrare come egli giunga ad essi. Questo metodo
sembra suggerito dallo stesso Nietzsche quando sottolinea l’unità di vita e conoscenza, e vuole che i
sistemi filosofici siano concepiti come atti personali dei loro fondatori. Tuttavia egli dichiara: «
I miei critici mi hanno fatto spesso l’impressione di appartenere alla cariatile: non ciò che si dice,
ma che io lo dica, e in che senso proprio io possa esser giunto a dirlo - ciò sembra costituire il loro
unico interesse ... Si giudica me, allo scopo di non aver nulla a che fare con la mia opera: di questa
si spiega la genesi - e con ciò risulta sufficientemente - confutata » (14, 360).1 Non vi è qui nessuna
contraddizione, bensì il rifiuto di Nietzsche di confondere la percezione della sostanza di ciò che è
pensato - percezione che è ispirata dall’amore e chiarisce l’esistenza - con una comprensione
psicologica arbitraria che non percepisce l’essere. Infatti, la psicologia come tale non è ancora
chiarificazione dell’esistenza. Così facendo, si comprende il pensiero di Nietzsche senza coglierne
la sostanza, come quando si parla per esempio del risentimento del professore malato (egli sarebbe
l’individuo nervoso che esalta la bestia), o della sua lotta per imporsi e farsi valere (da cui si
deducono la sua posizione contro i tedeschi, contro Bismarck, e la sua volontà di agire facendo
sensazione, per mezzo di una feroce polemica). Questo metodo mira piu a denigrare che non a
comprendere: ciò che coglie è in ogni caso irrilevante, o è privo di valore in quanto falsità, oppure,
quand’anche portasse alla comprensione di qualche aspetto di Nietzsche, non sarebbe comunque in
grado di chiarire la sua essenza.
Il problema è se sia possibile una interpretazione di Nietzsche come mezzo di assimilazione, che
utilizzi queste quattro vie solo negative per far emergere, attraverso la rielaborazione personale del
suo pensiero, il vero Nietzsche. In contrapposizione ad un ordinamento sistematico, ad una ricerca
dell’immagine di una personalità, ad una spiegazione per mezzo di simboli mitici e ad
un’osservazione intesa alla comprensione psicologica, una tale interpretazione avrebbe lo sguardo
libero per giungere a contatto con la sostanza stessa, prendervi parte e diventare essa stessa reale.
Anziché occuparsi semplicemente di Nietzsche come il prodotto del suo pensiero, dei suoi scritti,
della sua vita, anziché conoscerlo soltanto così come si conosce qualsiasi altro pensatore, si
entrerebbe nel movimento stesso del pensiero di Nietzsche, nel suo peculiare modo di procedere.
La vera difficoltà consiste nel trovare il punto di partenza per questa autentica assimilazione. Per
essa Nietzsche costituisce il fondamento, in cui origini e limiti diventano lingua; pensieri e
immagine, sistema dialettico e poesia diventano qui parimenti espressivi. Nietzsche è l’uomo che,
in quanto osa addentrarsi nel tutto, può comunicare veramente ed essenzialmente la sua percezione
dell’essere e la comprensione di se stesso.
Come leggere Nietzsche. Mentre con la maggior parte dei filosofi si corre
il rischio di leggere dei libri su di loro, anziché leggere loro stessi, nel caso di Nietzsche, poiché si
ha l’impressione che egli sia fin troppo facilmente accessibile, si corre invece il rischio di leggere
lui stesso in modo scorretto.
Se mai si consigliasse di compulsare Nietzsche qua e là, di lasciarsi affascinare dal piacere della sua
lettura, non si imboccherebbe affatto la via che conduce a Nietzsche: « I lettori peggiori sono quelli
che si comportano come soldati che saccheggiano: arraffano certe cose di cui possono avere
bisogno, insudiciano e gettano per aria il resto e bestemmiano su tutto » (3, 75). « Io odio i
perdigiorno che leggono » (6, 56).
Se, al contrario, si pensa che per cogliere l’insieme del suo pensiero bisogna leggere in fretta un po’
di tutto, ci si sbaglia di nuovo. Nietzsche è « un maestro della lettura lenta »: « Fa parte del mio
gusto ... non scrivere piu nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente “frettolosa” ».
Nietzsche esalta la filologia: « Essa insegna a leggere bene, cioè a leggete lentamente, in profondità,
guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi
delicati » (4, 9-10).
Il lettore non dovrebbe però limitarsi ad esercitare questa « arte e perizia di orafi della parola »; egli
deve invece pervenire, attraverso la parola, la frase, l’affermazione, al contesto originario del
pensiero di Nietzsche, per prender parte alle effettive motivazioni che lo sorreggono.
Nietzsche scrisse una volta a Gast, che si trovava a Venezia: «Quando sarà tra le Sue mani
l’esemplare di Aurora, mi usi ancora un riguardo: se ne vada un giorno al Lido con il libro, se lo
legga come un tutto e cerchi di farsene un tutto - vale a dire uno stato d’animo passionale » (a Gast,
23. 6. 81).
Se si prendono tutte insieme queste affermazioni, ciascuna delle quali è vera nonostante le apparenti
contraddizioni, sarà finalmente evidente la difficoltà di leggere Nietzsche. Lo studio di Nietzsche
può avere un senso soltanto se ad un certo punto si è verificato quel contatto con l’origine, di cui si
diceva; quello « stato d’animo passionale » richiesto da Nietzsche non è il fine, bensì la sorgente.
Solo da qui inizia il lavoro che deve essere compiuto dal lettore. Per tale lavoro è possibile indicare
alcuni metodi.
I principi dell'interpretazione. Quando tutti riconoscono al pensiero di un autore la sua indubbia
importanza, non è consentito trarre da quel pensiero deduzioni personali ed arbitrarie, evidenziando
qualcosa e tralasciando il resto; bisogna invece prendere sul serio e ponderare bene ogni parola. È
indubbiamente vero che non tutte le affermazioni hanno lo stesso valore. Esse si collocano, le une
rispetto alle altre, in un ordine di importanza, che però non può risiedere in una misura prestabilita,
ma risulta dalla irraggiungibile totalità di quel pensiero.
L’interpretazione stessa avviene collegando tra loro le proposizioni centrali. In tal modo si forma un
nucleo che dà un orientamento generale, e che si conferma o si modifica nel corso
dell’interpretazione, ma in ogni caso la lettura conduce ad una comprensione decisiva ed essenziale
attra
verso le questioni che ha affrontato e si è portata con sé. Tutto ciò vale per Nietzsche in misura
anche maggiore rispetto a qualsiasi altro filosofo, in parte a causa della forma frammentaria della
sua opera, ma soprattutto a causa del movimento indiretto di tutti i suoi singoli pensieri, che si
sviluppano tra ciò che appare assolutamente positivo e ciò che appare assolutamente negativo.
Per comprendere correttamente Nietzsche bisogna aver sempre presente la via opposta a quella che
la lettura dei suoi scritti sembrerebbe direttamente indicarci: la via che ci conduce a lui consiste non
già nell’accettare in fretta, come verità definitiva, alcune sue affermazioni, bensì nel procedere a
passo lento, ponendo continuamente delle domande, dando ascolto ad una voce e a quella contraria,
conservando la tensione delle possibilità. Una vera e propria assimilazione di Nietzsche è possibile
non già attraverso una volontà di verità che assuma la verità stessa come qualcosa di certo e
definitivo, bensì solo attraverso una volontà di verità che viene dalla profondità e vuole andare in
profondità, che non teme il dubbio, non si preclude nulla e sa aspettare.
Per studiare il pensiero di Nietzsche interpretandolo bisogna dunque cogliere insieme tutte le
affermazioni che riguardano una determinata questione. Ma per riuscire a trovare ciò che si
chiarisce soltanto in relazione a qualcos’altro, all’interno di un contesto che amplia o limita il suo
significato, bisogna non tanto riunire vari passi che hanno in comune la stessa parola - per quanto
anche questo procedimento non sia infruttuoso, se rende possibile in una certa misura la comoda via
di un indice analitico -, quanto piuttosto prendere una decisione soltanto dopo un’analisi
comparativa dei concreti ed effettivi contenuti, con il conforto di una buona memoria nel corso della
lettura.
Se si procede con questo metodo, bisogna tener presente quanto segue.
1. Tutte le affermazioni di Nietzsche sembrano esser negate da altre sue affermazioni. Contraddirsi
è il tratto fondamentale del pensiero nietzschiano. In Nietzsche è quasi sempre possibile trovare un
giudizio ed anche il giudizio opposto. Sembra che egli abbia su tutto due opinioni. Ne consegue
che, dai testi di Nietzsche, è dunque possibile estrapolare le più diverse citazioni, scelte
arbitrariamente, a seconda di ciò che si vuole ottenere. È così che, di volta in volta, hanno potuto
richiamarsi a Nietzsche atei e credenti, conservatori e rivoluzionari, socialisti e individualisti,
scienziati metodici e fervidi ammiratori, uomini politici e apolitici, il libero pensatore e il fanatico.
Qualcuno ne ha tratto la conclusione che Nietzsche sarebbe un pensatore confuso, per nulla serio,
che si abbandonerebbe al piacere di idee improvvisate'; ma non vai certo la pena di dare
importanza a futili chiacchiere di questo tipo.
Spesso si tratta invece di contraddizioni che non sono affatto casuali. È possibile che le alternative
usuali e conformi agli schemi dell’intelletto, che inducono il lettore a vedervi la contraddizione,
siano esse stesse delle fuorvianti semplificazioni dell’essere. Se l’intelletto come tale deve arrestarsi
per così dire alla superficie dell’essere, allora questo essere deve forse apparire nella forma di ciò
che si contraddice, quando il pensiero intellettivo - per quanto sia sospinto dall’anelito verso la
verità - lo cerca appunto in quella superficie che è la sola dimensione ad esso accessibile. La
contraddizione che così emerge sarebbe tale da nascere dalla cosa stessa, sarebbe cioè necessaria,
un segno di veridicità, e non il segno di un cattivo modo di pensare.
Il compito dell’interpretazione è in ogni caso quello di ricercare le contraddizioni in tutte le forme:
non bisogna mai essere soddisfatti fino a quando non si è trovata anche la contraddizione, per poi
comprendere eventualmente queste contraddizioni nella loro necessità. Anziché arenarsi di fronte
alle contraddizioni, bisogna piuttosto cercare l’origine della contraddittorietà.
2.    Si presentano infinite ripetizioni. Poiché tutto ciò che Nietzsche ha annotato di volta in volta è
stato stampato per rendere accessibile il suo pensiero, è evidente che vi siano delle ripetizioni. In
esse bisogna cogliere le modificazioni con cui il pensiero fondamentale viene sottratto alla
piatta fissità che assume nelle sue singole proposizioni. Ma risulta soprattutto evidente quali sono le
questioni che rendono possibili cento citazioni per un unico tema, e quali altre al contrario
acquistano importanza grazie forse ad un’unica citazione. Solo una completa conoscenza delle
ripetizioni ci consente di cogliere le proposizioni che si presentano un’unica volta.
3.    L’irritazione per la contraddizione, e l’impazienza per il carattere apparentemente casuale dei
pensieri di Nietzsche, costituiscono l’impulso che ci consente di riunire l’insieme dei suoi stessi
pensieri e di comprendere quella dialettica reale, grazie alla quale soltanto si chiarisce ciò che egli
vuole. Si apprende come Nietzsche, senza dominare consapevolmente tutte le possibilità dell’essere
e del pensabile, segua comunque le vie necessarie per comprenderle. Il chiarimento dialettico si
presenta nella misura in cui da diversi testi si possono individuare le interconnessioni relative ad
una determinata questione. Ma esso non può essere conseguito soltanto grazie ad una comprensione
logica, bensì propriamente solo in quanto ampliamento dello spazio di esistenza possibile che si fa
chiaro. Chi non ha la pazienza di ricercare le connessioni logiche e di contenuto, e la ricchezza delle
possibilità nel gioco della sua anima, non può leggere correttamente Nietzsche.
4.    Si presenta un tutto che, anche se non può essere raggiunto, tuttavia, come problema sempre
piu acuto dell’unico centro sostanziale di questo complesso pensiero, ci stimola ad addentrarci in
tutte le sue diverse fasi. Non è un concetto, non una visione del mondo, non un sistema, bensì la
passione della ricerca dell’essere nel suo slancio verso ciò che è autenticamente vero, e dunque
quella critica che non si chiude mai in se stessa, ma continuamente supera se stessa. Ci si
presentano frasi che nella loro omogeneità sono un fondamento, e solo a partire da esso può esser
compreso tutto il resto; bisogna dunque tener presente la differenza essenziale tra le totalità
sistematiche delle semplici teorie, che sono esse stesse soltanto una funzione del tutto
onnicomprensivo, e questo stesso tutto onnicomprensivo esistenziale, che non è teoria, ma impulso
fondamentale. Entrambi debbono essere chiariti mediante un giusto accostamento delle
proposizioni, in modo che la ricchezza del particolare si rapporti a ciò che è essenziale e decisivo.
Questo studio, che cerca il tutto e che, solo partendo dal tutto, riesce a porre i problemi e a
comprendere i concetti e le cose, è inesauribile.
Soltanto in base a tali interpretazioni miranti al tutto si può ricavare da Nietzsche stesso il criterio di
valutazione con cui ordinare le sue affermazioni, in funzione della loro importanza, del loro
carattere essenziale o occasionale, delle loro modificazioni pertinenti o fuorvianti. È inevitabile che
Nietzsche non veda sempre con la stessa incisività ciò che è per lui essenziale. Bisogna però
apprendere quei punti di vista dai quali si possono seguire i movimenti di Nietzsche tenendo conto
della sua stessa autocritica. Bisogna percorrere consapevolmente due strade.
In primo luogo, si possono ordinare i pensieri di Nietzsche in un tutto unitario, cioè in un insieme di
pensieri necessariamente connessi tra di loro, senza considerare la successione temporale della loro
elaborazione. In secondo luogo, questi pensieri possono essere visti e studiati nella loro. forma
temporale, come il tutto di una vita, in quanto essi sono stati formulati nel corso di alcuni decenni.
Nel primo caso, l’idea di un tutto sistematico atemporale diventa il filo conduttore per la ricerca del
contesto atemporale di ogni pensiero e per la ricerca della stessa impostazione sistematica. Nel
secondo caso, lo sviluppo di vita, conoscenza e malattia, diventa il filo conduttore per la ricerca del
contesto temporale di ogni pensiero all’interno del quadro complessivo di questo stesso processo
evolutivo. Nel primo caso, ogni pensiero di Nietzsche è compreso solo nella misura in cui lo si
conosce nei legami effettivi dei suoi mutamenti, delle sue contraddizioni e delle sue possibilità di
movimento; nel secondo caso, invece, ogni suo pensiero è pienamente compreso solo in base al
momento in cui è stato pensato: si deve sempre sapere quando è stato scritto ciò che si legge.
Le due vie sembrano escludersi a vicenda. Se pensiamo ad un tutto sistematico, l’esigenza di
rapportare tutto a tutto e di concepirlo nel suo contesto atemporale è in contraddizione con
l’esigenza di vedere questo tutto come una successione biografica, cioè di comprendere tutto in
base alla sua posizione temporale nel corso di una vita.
Effettivamente, ci sono in Nietzsche dei pensieri fondamentali, sempre simili, anche se con notevoli
modificazioni - sono la maggior parte, ed è sorprendente il fatto che si ripresentino continuamente
durante tutto il corso della sua vita -, ed altri che spuntano solo in un determinato momento, e poi
improvvisamente, segnando per cosi dire un salto nello sviluppo del suo pensiero, riappaiono in un
altro momento; e ce ne sono altri ancora, che ricorrono solo per un certo periodo di tempo, e
sembrano dimenticati. Questi sono però casi estremi e rari. I pensieri di Nietzsche debbono essere
inseriti in un solo grande processo, che è al contempo sistematico e biografico: è proprio della realtà
dell’uomo il fatto che il sistema piu profondo e piu vero del suo pensiero appaia in una forma
temporale. La forma temporale può essere naturale, cioè corrispondere alla realtà di fatto, oppure,
per cosi dire, può anche essere biograficamente offuscata o pregiudicata da connessioni non
pertinenti, e dunque fuorvianti, che appunto deformano la realtà empirica di questo singolo uomo.
Nel caso di Nietzsche si sono verificate in modo impressionante entrambe queste possibilità.
In primo luogo, quando ci si occupa del pensiero di Nietzsche bisogna dunque - a differenza di
quanto avviene per la maggior parte degli altri grandi filosofi - occuparsi nello stesso tempo anche
della realtà della vita  di Nietzsche. Noi ci preoccupiamo delle vicende da lui vissute e del
suo comportamento in determinate situazioni, con l’intento di cogliere il contenuto filosofico che
risiede indissolubilmente tanto nella vita quanto nel pensiero di Nietzsche; è possibile seguire
questo legame perfino nei pensieri piu marginali delle sue opere. Ci occupiamo del corso della sua
vita per vedere e conoscere il movimento in cui si colloca ogni suo scritto.
Al contrario, non ha senso occuparsi della vita di Nietzsche se la realtà della sua vita e il mondo dei
suoi pensieri restano accostati senza alcun riferimento reciproco. In questa discrepanza, la curiosità
psicologica si appaga, da una parte, nella raccolta di ciò che è descritto in Umano, troppo umano,
cioè nel godimento di un epos di vita; oppure, d’altra parte, prescindendo dalla sua personalità, i
pensieri di Nietzsche diventano verità valide in ogni tempo, o addirittura delle assurdità.
In secondo luogo, il pensiero di Nietzsche richiede che si giunga a connessioni sistematiche. Ma, a
differenza dei grandi sistemi filosofici, il sistema che si può configurare nel caso di Nietzsche
appare solo come una fase o una funzione nel tutto onnicomprensivo, che non è piu
possibile esporre come un sistema. Anziché questo, l’interpretazione deve seguire tutti i
cambiamenti dei suoi pensieri - che, per quanto frammentari, possono essere compresi e collegati
gli uni agli altri - e tutte le loro contraddizioni, senza trascurare nessuna possibilità, come se fosse
comunque possibile raggiungere un tutto. È vero che tutto alla fine si ricollega, però ricade
nell’estensione temporale di un groviglio di pensieri che non si è affatto sviluppato come un
sistema.
Se in questo modo il pensiero di Nietzsche si sottrae necessariamente ad un’esposizione in sé
compiuta, d’altra parte l’unità del tutto, cioè l’unità di vita e pensiero, di sviluppo temporale e
sistema, è soltanto l’idea che ci guida nello studio di Nietzsche; non si può infatti prevedere fino a
che punto possiamo procedere in modo oggettivo nel considerare Nietzsche come un tutto ben
determinato e giustificato. Quando si studia Nietzsche è inevitabile tanto rivolgersi alla realtà
empirica della sua vita, presa come tale, nel suo effettivo sviluppo, quanto seguire i suoi pensieri
per lunghi tratti, prescindendo dal momento in cui furono concepiti. Proprio questa è la difficoltà
continuamente ricorrente nello studio di Nietzsche: cioè a dire, da una parte, non ha senso
percorrere una sola di queste vie, escludendo completamente l’altra, ma, d’altra parte, non è
neppure possibile riunire in un accordo queste due vie, senza esserne turbati. Ne consegue appunto
quell’inquietudine che non cessa mai, eppure ci sospinge sempre oltre nello studio di Nietzsche.
Le tre parti della nostra esposizione. L’esposizione, a differenza del semplice giudizio, vuole
mostrare la cosa stessa; a differenza della narrazione, vuole far emergere dalla cosa i suoi tratti
essenziali. L’esposizione dovrebbe scomparire, con il proprio soggettivo modo di pensare, di fronte
a ciò che è esposto; in altri termini, l’oggetto dell’esposizione non deve diventare l’occasione, per
chi espone, di formulare una sua propria filosofia. Il pensiero espositivo è lo sforzo costantemente
rivolto al pensiero di un altro uomo, e si propone soltanto di far emergere, mediante il proprio
pensiero, ciò che è riposto nel pensiero dell’altro.
Non tutte le opere del pensiero richiedono una esposizione, ma solo quelle veramente creative che,
proprio in quanto tali, continuano a vivere: esse costituiscono infatti una fonte inesauribile per
coloro che le riportano alla luce, assimilandole e rielaborandole in un linguaggio sempre rinnovato.
Mentre nel loro caso, grazie all’esposizione, si tenta continuamente una comprensione che deve
essere conseguita sempre di nuovo, partendo dai loro fondamenti originari, nel caso delle opere
finite e determinate, e dunque assolutamente compiute, non è necessaria un’esposizione, ma
basta un semplice rendiconto delle loro conclusioni.
Il pensiero di Nietzsche non si presta ad un’esposizione che consenta, alla fine, di avere delle
certezze su di lui. Poiché egli non diventa patrimonio né come forma compiuta del suo essere né
come sistema filosofico, deve sempre esser compreso soltanto nei singoli nessi del suo pensiero
e nei singoli aspetti del suo esserci. Non è possibile comprenderlo se lo si irrigidisce nel tutto.
Poiché Nietzsche si mostra indirettamente soltanto nel movimento, è possibile accedere a lui non
già con l’osservare la forma e il sistema, ma solo se si entra nel suo proprio movimento. Infatti, non
è con la sola comprensione dei suoi pensieri o dei suoi atti che impariamo a conoscere ciò che egli
propriamente è; ciascuno può invece stabilire ciò che Nietzsche significa per lui soltanto grazie al
proprio lavoro e ai dubbi che Nietzsche gli pone.
Pertanto, un’esposizione del pensiero di Nietzsche, che proceda seguendo questo metodo, non può
anticipare al lettore questo suo lavoro, ma può soltanto preparare ciò che con Nietzsche ciascuno
deve realmente conseguire attraverso il suo proprio lavoro. Il senso di una tale esposizione risiede
piuttosto nel fatto che essa crea le condizioni per giungere ad un’assimilazione, forse piu
significativa rispetto a quanto è avvenuto in passato, del pensiero di Nietzsche, sia che lo si accetti,
sia che lo si rifiuti. Allora non sarà certo svelata la magia che, in modo ineludibile, promana
demonicamente da Nietzsche; ma si potrà invece conseguire l’obiettivo della sua purificazione in un
impulso che spinge ad approfondire la vita. E ancora, se non sarà facile eliminare i sofismi che
nascono da Nietzsche, sia pure soltanto nella trasformazione del suo pensiero tramite altri, sarà
comunque nostro preciso compito tentare di chiarirli.
Nessuna via dell'esposizione porta immediatamente al centro di Nietzsche. Con l’ipotetica
supposizione di un centro verrebbe meno la sua grandezza, che determina in noi una proficua
inquietudine. Perciò si debbono percorrere, una dopo l’altra, diverse vie. Questa suddivisione
nel presentare Nietzsche non termina però con una sintesi, bensì con uno sguardo chiarificatore
nella profondità che indirettamente si rivela in tutto ciò che Nietzsche ha espresso in modo piu o
meno consapevole.
Le diverse vie dell’esposizione conducono comunque alla stessa meta: accrescere la capacità di una
piena assimilazione di Nietzsche attraverso una chiara conoscenza del particolare; e tali vie hanno
anche lo stesso punto di partenza, una comune origine: l’esperienza di un fondamento inafferrabile
per il fatto ohe si mostra in modo sempre diverso. Origine e meta, punto di partenza e punto di
arrivo non possono essere comunicati immediatamente; ma è solo grazie ad essi che le vie, nella
loro distinzione e nella loro chiarezza oggettivamente determinata, acquistano il loro senso. Non è
possibile trattare compiutamente Nietzsche. Nella sua totalità, egli non è un problema che possa
essere risolto. Infatti, ciò che egli è, dovrà rivelarsi anche attraverso ciò che sarà di lui
nell’assimilazione da parte della posterità.
Noi scegliamo tre parti principali per l’esposizione di Nietzsche: in primo luogo, la sua vita, come
sostrato imprescindibile dell’avvenimento Nietzsche; in secondo luogo, i suoi pensieri
fondamentali, come manifestazione dea suoi impulsi originari, nella molteplicità dei contenuti
particolari del suo pensiero; in terzo luogo, ricerchiamo l’insieme del suo modo di pensare nella sua
esistenza. Fungeranno sempre da supporto d dati di fatto, la cui conoscenza ci sembra necessaria per
la comprensione di Nietzsche. Ma ogni volta domina un punto di vista particolare, in funzione di un
altrettanto specifico compito.
Nell’esposizione della vita bisogna saper cogliere la radicalità di ciò che è estremo. Invece di
perdersi nelle situazioni di fatto (per le quali tuttavia nessuno, che abbia veramente a cuore
Nietzsche, conosce limiti al proprio desiderio di conoscere), bisogna mettere in evidenza i
presupposti empirici del suo essere un’eccezione, cioè la realtà di questa vita che continuamente si
sacrifica ed è sacrificata (senza celare o esaltare la realtà empirica).
L’esposizione dei pensieri fondamentali deve mostrare in particolare, attraverso un’ordinata
disposizione dei motivi fondamentali più significativi, che nessun pensiero è rigido e fisso, cioè che
ogni pensiero pone in questione se stesso. Le forme dell’essere considerate da Nietzsche
debbono essere seguite fino al loro naufragio. Bisognerà dunque stare attenti a non incagliarsi mai,
non solo in ciò che è radicalmente negativo, ma anche in ciò che è radicalmente positivo.
L’interpretazione d’insieme, così come è stata svolta seguendo il modo in cui Nietzsche ha
compreso se stesso, e come può essere svolta grazie alla nostra propria comprensione, deve chiarire
il significato esistenziale di questa vita e di questo pensiero. Bisogna tenere sempre aperta
l’assimilazione di Nietzsche, non solo evitando di considerare il suo essere come qualcosa di fisso
ed isolato, ma comprendendo anche le intime ragioni delle sue profonde esigenze. Nietzsche si
presenta come l’eccezione, in fondo incomprensibile, che, senza essere un esempio da imitare, è
assolutamente insostituibile nello stimolare tutti noi, che non siamo eccezione. Alla fine ci
dobbiamo chiedere come mai un uomo, certo non rappresentativo per tutti, abbia potuto tuttavia
assumere un significato predominante, quasi che egli fosse l’espressione stessa dell’esser-uomo.
Il metodo dell’esposizione. Nell’esposizione del pensiero di Nietzsche bisogna far emergere i
pensieri fondamentali propriamente filosofici. Sebbene Nietzsche stesso non sviluppi i suoi pensieri
in modo metodico-sistematico, è tuttavia possibile dare al suo pensiero, per cosi dire, una
intelaiatura, Anche se nessun singolo pensiero, nessun singolo concetto diventa quello
essenzialmente decisivo, è tuttavia possibile far emergere da Nietzsche, dalla ricchezza della sua
lingua spesso musicale, spesso anche plastica, una struttura fondamentale di pensieri che vi
soggiace. Non bisogna tanto ripetere questa lingua e la sua grande chiarezza - ciò non avrebbe
senso, perché allora sarebbe sufficiente, ed anzi sarebbe meglio leggere Nietzsche stesso -, quanto
piuttosto mostrare per cosi dire il suo scheletro, per poter comprendere meglio, grazie ad esso, le
connessioni e i limiti che emergono da un’appropriata lettura di Nietzsche, conseguendo in tal modo
l’accesso al suo vero pensiero attraverso una critica autentica, cioè creativa.
Nel far ciò, bisogna inoltre sostenere costantemente l’esposizione in modo documentato. E'
indubbiamente più facile esporre i pensieri di Nietzsche in modo superficiale, completandoli con il
proprio pensiero. Ma cosi facendo si perde quel contrasto, tipico dei suoi pensieri, che stimola alla
ricerca della verità: il fatto che i suoi pensieri si collegano e si completano reciprocamente, si
contraddicono, e sono in continuo movimento, è tanto piu efficace per comprendere Nietzsche,
quanto più ogni passo viene documentato testualmente (anche se in questa sede dobbiamo
inevitabilmente procedere in modo moderato, limitandoci a ciò che è essenziale nei vari contesti).
Quasi tutta la letteratura su Nietzsche è pertanto, e giustamente, ricca di citazioni. È però essenziale
che queste citazioni evidenzino qualcosa di nuovo, e non siano invece una mera crestomazia di bei
passi, non conferiscano importanza a relazioni casuali, non isolino arbitrariamente singole direzioni
di pensieri specifici, né tanto meno si limitino a riportare frasi di effetto. Bisogna esporre i pensieri
di Nietzsche nelle loro effettive ed essenziali correlazioni, anche se esse non sono state
esplicitamente evidenziate da Nietzsche stesso. Infatti, mentre la brillantezza dello scrittore
colpisce ad ogni pagina l’occhio del lettore, la luce che promana dal filosofo è invece in buona parte
nascosta. Pertanto, le citazioni arbitrarie e le costruzioni di pensiero tratte da Nietzsche in vista di
uno scopo personale provocano soltanto degli abbagli e portano filosoficamente fuori strada.
L’accostamento chiarificatore dei brani citati è soltanto il risultato di un lavoro di interpretazione
relativo al tutto, con lo scopo di evidenziare quei pensieri fondamentali, la cui conoscenza può
rendere piu agevole la lettura di Nietzsche - che resta pur sempre la cosa fondamentale - e
soprattutto può condurre al lavoro con Nietzsche, e dunque a Nietzsche. La scelta in base alla
gratificazione personale deve cessare nella misura in cui la conoscenza del tutto impone una
esposizione in cui questo stesso tutto, per quanto possibile, può essere percepito.
Si può paragonare il corretto uso della citazione al lavoro dell’orafo: bisogna cioè saper afferrare
bene le pietre preziose dei pensieri filosofici, e poi disporle in modo tale da poterle apprezzare non
solo e non tanto singolarmente, quanto piuttosto nella loro configurazione d’insieme; cosi riunite,
esse acquistano dunque un valore maggiore di quello che avrebbero se fossero osservate
individualmente o in un accostamento casuale. Le stesse pietre, riunite con altri criteri, possono
anche mostrare nuovi riflessi di luce:2 infatti, non possiamo certo esaurire in una sola
configurazione le loro molteplici possibilità di brillare. È importante comunque che si mostri un
pieno splendore ogni qualvolta si chiarisce - senza deformarlo - un contenuto essenziale di dò che
Nietzsche ha detto e pensato.
L’accostamento dei pensieri di Nietzsche, evidenziando il loro contrasto, porta ad un’autocritica di
questo pensiero. Si può discutere a lungo sulle singole affermazioni di Nietzsche, sul fatto che egli
abbia ragione o torto; ma in tal caso egli diventa l’occasione per fare dei discorsi su di lui, e non per
imparare a conoscere lui stesso. Se invece vogliamo comprendere i contrasti, i limiti e gli abissi che
presenta il suo pensiero nel corso di tutta la sua evoluzione, allora dobbiamo ricorrere soltanto alla
critica, che in fondo già lo stesso Nietzsche compie, in quanto essa appartiene all’essenza della sua
verità che costantemente supera se stessa e progredisce.
La comprensione dipende dall’intima natura di chi comprende
Secondo l’intento di Nietzsche ed il senso della verità che ci ha comunicato, ciò che uno è si rivela
attraverso il modo in cui egli comprende. Per questo Nietzsche non cerca genericamente dei lettori,
ma dei lettori che, per cosi dire, gli appartengono, cioè i suoi lettori.
La verità filosofica. Alla verità filosofica io giungo in un modo completamente diverso da quello in
cui giungo ad una conoscenza puramente scientifica. Questa può essere intesa da chiunque svolga il
proprio lavoro intellettuale con competenza e scrupolo. Al contrario, nella comprensione di una
verità filosofica (ed in ogni scienza, in quanto sia animata soltanto da stimoli filosofici) si produce
una possibile trasformazione di me stesso, avviene un risveglio, si compie una rivelazione di me
stesso a seconda del modo in cui l’essere mi si rivela.
Ma se la verità non è allo stesso livello, unica ed uguale per tutti, se c’è un presupposto, costitutivo
di ciascun uomo, che gli rende accessibile la verità, se cogliere la verità significa trasformare se
stessi, allora l’antica questione su ciò che ne consegue per la comunicazione della verità minaccia
ogni possibilità di una sua comunicazione chiara e, in fondo, la verità stessa. Infatti, poiché la verità
è unicamente nella comunicazione e pertanto appare solo attraverso ri linguaggio, diventando cosi
inevitabilmente pubblica, ne consegue che essa, a causa della diversità essenziale dei presupposti
con cui ciascuno le si accosta, deve per Io meno venire a trovarsi nella condizione di essere
fraintesa, travisata, utilizzata a sproposito, se non addirittura nella condizione di esser messa in
discussione.
Di fronte a questo limite, si presentano due concezioni fondamentali: in primo luogo, la dottrina dei
gradi della verità in rapporto ai gradi dell’esistenza dell’uomo (tipica dei Pitagorici), in secondo
luogo, la dottrina dell’inevitabile ambiguità della verità e delle sue conseguenze (che
Nietzsche porta fino al suo punto estremo).
La dottrina dei gradi conduce ad un intenzionale atteggiamento esoterico ed al progetto di
un’educazione che porti alla maturità necessaria per comprendere la verità: nessuno può
sperimentare ciò che è vero, se, ammesso che ne sia capace, prima non abbia compreso
correttamente questa stessa verità, mentre essa resta un mistero per coloro che si trovano agli stadi
inferiori. Ma questa sarebbe una mera regola esteriore, che presuppone che gli educatori sappiano
come sono costituiti i gradi dell’esistenza e quelli della verità ad essi corrispondenti; essi debbono,
come dèi, penetrare con lo sguardo tutta la verità ed essere tutt’uno con essa. Bisognerebbe inoltre
presupporre la disposizione ad una scelta non già in rapporto a conoscenze e a capacità di
esecuzione che possono essere concepite, bensì in rapporto all’essere dell’uomo, alla sua nobiltà,
alle sue possibilità: ma questa distinzione richiederebbe, a sua volta, un dono sovrumano.
Infine, bisognerebbe presupporre una forma di manifestazione della verità che la nasconde, senza
trasformarla in una autorità che si impone con la forza: dunque, una manifestazione che la lascia
ancora sussistere come verità, sia pure nel suo voluto nascondimento.
Nulla di tutto ciò vale per Nietzsche, che segue invece la seconda dottrina fondamentale: nessuno
conosce i gradi della verità, nessuno ha il dono di distinguere in senso assoluto l’essere stesso; per
la verità stessa non c’è alcun altro effettivo nascondimento all’infuori della possibilità di non
comprenderla proprio laddove si rivela in modo piu evidente. L’ambiguità, l’ambivalenza di senso,
è la difesa del vero contro la sua surrettizia appropriazione, contro cioè coloro che vorrebbero
impadronirsi della verità senza averne il diritto. È per questo che Nietzsche si presenta al
pubblico in modo da essere compreso da ciascuno, per raggiungere chi può effettivamente essere
colpito dalla verità e smascherare chi non ne ha alcun diritto; del comportamento di quest’ultimo,
allorquando ascolta questa verità e la fraintende, si può dire in un certo senso: « Un piccolo attacco
di rabbia lo spinge a svelare ciò che ha in sé di piu intimo e di piu ridicolo » (14, 359).
Ciò che è richiesto all'intima natura di chi comprende. Ne consegue la richiesta che Nietzsche
sempre rinnova all’intima natura di chi lo vuole comprendere. Egli riteneva « impossibile insegnare
la “verità” là dove il modo di pensare è basso » (14, 60). Chi è mal disposto nei suoi confronti
non comprende la sua disposizione d’animo, e dunque neppure i suoi argomenti; per comprendere,
egli dovrebbe « essere in preda alla stessa passione » (11, 384), aver provato con la propria anima «
splendore e fiamma e luci antelucane »; « io posso soltanto destare il ricordo: non m’è dato di piu! »
(5, 217).
Nietzsche definisce la capacità di comprendere il proprio pensiero «una distinzione che bisogna
meritarsi» (15, 54). Egli vuole avere dei recinti a protezione dei suoi pensieri, « perché i maiali e gli
esaltati non irrompano nei miei giardini » (6, 277). Vede i pericoli insiti negli « ammiratori
indiscreti» (14, 230), scaccia gii intrusi e gli estranei, e si fa beffe della « scimmia di Zarathustra »
(6, 258). Le prime incomprensioni e fraintendimenti del suo pensiero lo spingono ad affermare che
per lui « è raccapricciante pensare al fatto che delle persone del tutto inette e profane potranno un
giorno richiamarsi alla mia autorità » (alla sorella, 6. 84).
Ne consegue che non tutti hanno lo stesso diritto ai pensieri di Nietzsche, né tanto meno ai suoi
giudizi di valore; piuttosto, ciascuno ha tale diritto solo nella misura in cui è del suo stesso rango. «
La mentalità opposta è quella dei giornali: le valutazioni degli uomini e delle cose sarebbero
qualcosa “in sé”, a cui ciascuno può mettere mano come a una sua proprietà. Qui il presupposto è
appunto che “tutti siano dello stesso rango” » (14, 58). Il fatto che « si accettino giudizi di valore
come capi di vestiario » (14, 60) si spiega con la « credenza che tutto sia a disposizione del giudizio
di ognuno » (14, 60). Oggi, « grazie allo spirito... arrogante dell’epoca..., si è giunti al punto che
ormai non si crede piu assolutamente all’esistenza di diritti spirituali particolari, e all’impossibilità
di comunicare le conoscenze ultime » (14, 419).* Tutto il pensiero di Nietzsche si fonda sulla
consapevolezza di questi diritti spedali, sulla convinzione dell’impossibilità di comunicare ciò che è
definitivo, e sulla necessità di ascoltare l’essere-sé dell’altro che gli appartiene.
Ma se è proprio dell’essenza della verità di poter essere compresa soltanto dall’uomo di un rango
corrispondente, allora per ogni singolo uomo si pone la questione: chi sono io? posso comprendere
la verità? ho il diritto di prendervi parte? - Non vi è nessuna risposta a queste domande; l’unica via
è piuttosto quella di acquisire, in consonanza con Nietzsche, lo slancio di cui non si possono
prevedere le conseguenze, e la cui effettiva realizzazione ci rivelerà che cosa è e che cosa sono io,
senza che in precedenza lo sappia o lo possieda come qualcosa di sussistente.
Pericolo e esitazione nel comunicare l’effettiva verità. Nietzsche vede nella vita della verità un
inevitabile pericolo: « Vi sono libri che hanno per l’anima e la salute un valore opposto, a seconda
che se ne serva un’anima ignobile, un’inferiore forza vitale, oppure invece quella piu alta e più
possente: nel primo caso sono libri pericolosi, frantumanti e dissolventi, nel secondo, sono appelli
d’araldo, che invitano i più prodi alla loro prodezza » (7, 50). Poiché la verità comunicata è
necessariamente ambigua, Nietzsche può avanzare la seguente richiesta: « Le nostre conoscenze
più elevate risuonano inevitabilmente - e anzi deve essere così - come follie, in talune circostanze
come delitti, allorché vengono indebitamente all’orecchio di coloro che non sono strutturati né
predestinati per cose siffatte » (7, 49). Quando Widmann, nel quotidiano di Berna « Der Bund
», definì pericolosi i libri di Nietzsche e li paragonò alla dinamite, Nietzsche non trovò nulla da
ridire.
Questo pericolo è inevitabile, e nessuno ne è esente, poiché nessuno sa in anticipo a chi arrecherà
danno e a chi invece vantaggio. Non si tratta di tacere la verità, ma piuttosto di un compito più
difficile: avere cioè il coraggio di pensare effettivamente e dire ciò che propriamente si sa.
L’ambiguità della verità non ha nulla a che vedere con la slealtà che nasconde o intenzionalmente
mantiene un’ambiguità, avvertita come tale. Essa è piuttosto un’ambiguità non voluta, che è insita
nella comunicazione della verità, in quanto l’essere di chi la riceve è molto diverso. Correre
il rischio dell’ambiguità, ma non cercarla deliberatamente: è questo il coraggio della verità.
Ma l’esitazione è certamente comprensibile: colui che pensa vorrebbe tirarsi indietro, quando vede
l’opera di distruzione che può derivare dal proprio pensiero, e si rende conto delle manipolazioni e
degli abusi a cui esso può andar incontro. Se dunque Nietzsche può domandarsi, di fronte
ai grandi del passato, se essi « abbiano posseduto abbastanza profondità per - non scrivere ciò che
sapevano» (14, 229); se nella sua giovinezza scrisse che « le radici del nostro pensiero e della nostra
volontà non devono essere portate alla viva luce », per cui « in queste cose è una nobile arte saper
tacere al momento giusto. La parola è pericolosa... Quante cose ci sono che non si possono dire! E
proprio le fondamentali considerazioni religiose e filosofiche fanno parte dei pudenda » (a
Gersdorff, 18. 9. 71); e se in seguito provò una sempre rinnovata esitazione: ebbene,
nonostante tutto questo, egli si è imposto di pensare e dire la verità, senza tirarsi indietro di fronte a
nessun ostacolo. Infatti, in opposizione a tutti i silenzi voluti in nome del presunto bene
dell’umanità, la forza risiede unicamente in una rivelazione che non ha nulla in comune con quel
continuo chiacchierare senza ritegno, che si atteggia ad espressione della verità. Scrive
Nietzsche, riferendosi a Zarathustra: « Il minimo silenzio paralizza tutta la sua forza: sente che fino
ad ora si è tirato indietro di fronte ad un pensiero ... Il piu piccolo riguardo, il piu piccolo silenzio
pregiudica ogni grande successo » (14, 293).
Nietzsche non vuole seguaci. Poiché i pensieri di Nietzsche non debbono essere presi né come verità
imposte in modo autoritario, né come verità assolutamente valide in sé, è del tutto sbagliato
l’atteggiamento di chi si pone come suo « discepolo ». Così come la intende Nietzsche,
l’essenza della verità può essere comunicata ad altri soltanto nella misura in cui scaturisce
dall’intimo di ciascuno. Per questo Nietzsche è, dall’inizio alla fine, il « profeta » che, nell’incontro
con tutti gli altri profeti, rimanda  ciascuno a se stesso.
« Solo te stesso fedelmente segui: - questo è seguirmi » (5, 16). « Ma chi per il suo cammino
semplicemente sale, porta in piu chiara luce anche l’immagine mia » (5, 20). « “Questa, insomma, è
la mia strada, - dov’è la vostra?”, così rispondo a quelli che da me vogliono sapere “la
strada”. Questa strada, infatti, non esiste! » (6, 286). Nietzsche aspira a compagni di viaggio
autonomi: « Voglio avere a che fare soltanto con uomini che abbiano il loro proprio modello e non
lo vedano in me. Poiché ciò mi renderebbe responsabile per loro, e ne diventerei schiavo » (11,
391).
Di qui la continua reazione di difesa di Nietzsche: « Voglio suscitare la massima diffidenza verso di
me» (14, 361). «Conviene all’umanità di un maestro, mettere i propri discepoli in guardia contro se
stesso » (4, 304). Zarathustra abbandona i propri discepoli: « Andate via da me e guardatevi da
Zarathustra! » (6, 114). Queste parole risaltano ancor piu nell’Ecce homo, dove sono riprese con
l’aggiunta: « Qui non parla un fanatico, qui non si “fanno prediche”, qui non si pretende la fede »
(15, 4).
Il fatto stesso che Nietzsche si presenti nelle vesti di « legislatore » è soltanto un’espressione del
suo atteggiamento indiretto nei confronti degli altri; ed ha il suo preciso significato tanto
nell’affermazione « io sono una legge solo per i miei, non sono una legge per tutti » (6, 415),
quanto nella necessità che gli altri, pur appartenendogli effettivamente, gli si debbano opporre per
potersi infine trovare realmente con lui stesso: « I diritti che ho acquisito non li darò all’altro: egli
deve piuttosto rubarseli! come ho fatto io... Una legge può provenire da me solo se è in grado
di conformare tutti gli altri alla mia immagine: affinché oiascuno si scopra in contrasto con essa e si
fortifichi » (12, 365).
In conformità a questo atteggiamento, Nietzsche non vuole né dominare né essere santificato: «
Dominare? Imporre agli altri il mio tipo? Cosa orribile! La mia felicità non consiste appunto nel
contemplare molti altri? » (12, 365). E infine: « ... non c’è nulla in me del fondatore di religioni - ...
Non voglio “credenti”, penso di essere troppo malizioso per credere a me stesso, non parlo mai alle
masse... Ho una paura spaventosa che un giorno mi facciano santo... Questo libro deve preservarmi
da tutte le sciocchezze che si potrebbero fare con me » (15, 116).
Cosa vuole Nietzsche. Ciò che Nietzsche propriamente vuole nel tratteggiare questo conflitto tra
l’annuncio profetico ed il rifiuto dei suoi ciechi seguaci, tra chi si atteggia a legislatore e chi incita
ad opporsi alle proprie leggi, tra il maestro ed il suscitatore di dubbi; e ancora - come si legge nelle
frasi citate, che esprimono la sua piu intima natura - ciò che per lui deve subentrare al posto del
fondatore di religioni, ciò che vorrebbe essere per gli altri: tutto ciò egli l’ha abbozzato sotto il
nome di «genio del cuore »: « Il genio del cuore, ... la cui voce sa scendere fin nell’oltretomba di
ogni anima, ... alla cui maestria si compete il saper apparire - e non cosi come egli è, ma come una
costrizione di piu in coloro che sono al suo seguito per stringersi sempre piu vicini a lui, per
seguirlo sempre piu intimamente e radicalmente - il genio del cuore, che fa ammutolire ogni
voce troppo sonora e ogni compiacimento di sé, e insegna a porsi in ascolto, che leviga le anime
scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare -quello di starsene taciturne come uno
specchio affinché in esse si rispecchi il profondo cielo; il genio del cuore, ... che sa divinare il tesoro
occulto e obliato ... sotto un ghiaccio torbido e spesso, ed è una bacchetta magica per ogni granello
d’oro il genio del cuore, dal cui tocco ognuno si diparte piti ricco, ... piu ricco di sé, ...dissigillato,
alitato e spiato da un vento australe, forse piti insicuro, più delicato, piò fragile, piu infranto,
ma colmo di speranze che non hanno ancora un nome, colmo di un nuovo volere.,. » (7, 271).
Nietzsche ha trovato i lettori che voleva? Giovane egli stesso, Nietzsche credeva ancora nei giovani:
« Sono certo che questi animi pieni di speranze comprenderanno bene tutte queste astrazioni e, con
la loro propria esperienza, le sapranno tradurre in un insegnamento inteso in modo personale » <1,
381). Ma ben presto vuole già «mettere in guardia i giovani focosi, assetati di convinzioni, a non
considerare le sue teorie come una norma di condotta per la loro vita, ma come tesi da meditare »
(11, 398). Ed infine, in quanto ammiratori della sua opera, i giovani diventano per lui un fardello, «
poiché è chiaro che non è un’opera per persone giovani » (a Overbeck, 13. 5. 87).
A questo punto, deluso, egli va in cerca di compagni; considera i propri scritti come ami per
adescare veri uomini. Ma gli vengono a mancare i veri lettori: rifiutando ogni accomodamento e
smascherando ogni apparenza, Nietzsche si ritrova sempre piu solo nel suo intento di
veridicità. Guardando le cose in modo appassionato, egli si priva consapevolmente di ogni
presupposto per essere compreso dal suo tempo.
Venne poi la gloria, che Nietzsche aveva indubbiamente previsto, ma di cui visse appena i primi
momenti. Da allora, Nietzsche è stato compreso così come egli precisamente voleva? Nessuno ha
ancora il diritto di rispondere con un sì o con un no. Il nostro compito è di diventare noi
stessi attraverso il processo di assimilazione di Nietzsche. Invece di lasciarci vincere dalla
tentazione di accettare teorie e leggi come universalmente valide nella loro apparente univocità,
dobbiamo mirare alla realizzazione di noi stessi, conseguendo il livello die ci è proprio. Invece di
sottometterci ad esigenze e tesi semplificate, grazie a Nietzsche dobbiamo trovare la via verso la
genuina semplicità del vero.
1Le citazioni delle opere di Nietzsche si riferiscono alla « Grossoktav-Ausgabe » o alla
corrispondente « Kleinoktav-Ausgabe », con indicazione del volume e della pagina.
2 Bisogna ammettere esplicitamente una difficoltà: la citazione delle frasi implica che esse siano
estrapolate dal loro contesto. In tal modo esse perdono necessariamente alcune connotazioni di
significato, relative appunto al loro contesto, mentre ne acquistano altre. Ogni citazione è sempre
una forzatura. Si tratta soltanto di non aggiungere relazioni arbitrarie, ma di far si che la singola
forzatura porti a conoscere in modo più appropriato il pensiero di Nietzsche nel suo complesso. Chi
è abituato ad immergersi con profonda riflessione nei testi, soffermandosi a lungo e
meticolosamente su ogni singola pagina, o chi ha come scopo ultimo la concezione legata ad un
singolo testo come tale, affronta controvoglia quel modo di procedere che consiste nel collegate
le frasi prese da luoghi diversi. Una disamina particolareggiata di tale questione andrebbe avanti
all’infinito, ma va qui almeno precisato questo: il limite invalicabile di ogni forzatura - spero che
non mi sia mai capitato di oltrepassare involontariamente tale limite - è che essa non deve mai
portare ad escludere il senso di una frase, a ribaltarlo nel suo opposto, compiendo in tal modo
un’evidente falsificazione. D’altra parte, è inevitabile e bisogna ammettere che, pur nel rispetto
delle interconnessioni di un testo complessivo, la citazione possa portare ad un impoverimento o ad
un ampliamento di senso, che non sono propriamente presenti nel testo stesso.
* Il passo citato da Jaspers (dall’edizione Naumann-Kròner) corrisponde solo parzialmente con il
testo critico delle opere di Nietzsche stabilito da Colli e Montinari (cfr. KSA, voi. 11, p. 653; tr. it.
nel voi. VII, tomo III, p. 340) (N.d.C.).
Uno sguardo complessivo: La vita. Il mondo. L’immagine di Nietzsche che ci è stata tramandata. La
sua caratteristica fondamentale: essere un’eccezione.
Le fasi dello sviluppo: Lo sviluppo dell’opera. Come Nietzsche stesso ha inteso il proprio cammino
filosofico. La terza fase in particolare. Ciò che rimane costante in tutto lo sviluppo.
Amici e solitudine: Rohde e Wagner. Il periodo della solitudine. L’elemento duraturo nelle relazioni
umane di Nietzsche. I limiti delle possibilità d’amicizia di Nietzsche e la sua solitudine.
La malattia: Le malattie. La malattia e l’opera. L’atteggiamento di Nietzsche nei confronti della
malattia.
La fine.
Uno sguardo complessivo
Occuparsi di Nietzsche tralasciando deliberatamente ogni considerazione biografica significherebbe
precludersi la possibilità di una completa comprensione del suo pensiero; pertanto saranno qui
innanzitutto ricordati gli avvenimenti essenziali della sua vita.1
La vita. Nietzsche proviene da una famiglia di pastori di Röcken. Vi erano pastori tra gli avi di
entrambi i genitori. All’età di 5 anni, dopo la morte del padre, si trasferì con la madre a Naumburg
dove, insieme alla sorella piu giovane di due anni, crebbe circondato da parenti di sesso femminile.
A 10 anni cominciò a frequentare il ginnasio di Naumburg, a 14 (cioè nel 1858) ottenne un posto
gratuito alla scuola di Pforta, un antico collegio dove insegnavano famosi umanisti. A 20 anni
(1864) si iscrisse all’Università. Studiò dapprima per due semestri a Bonn, dove divenne membro
dell’associazione studentesca Frankenia, dalla quale si distaccò nel 1865 per divergenza di idee.
Lasciata Bonn, segui a Lipsia il suo insegnante Ritschl, il « maestro » della filologia, di cui divenne,
con Erwin Rohde, il piu brillante allievo. Fondò un’associazione filologica, pubblicò i suoi primi
scritti filologici e, ancor prima di aver concluso il dottorato, divenne docente all’Università di
Basilea grazie all'aiuto di Ritschl, che in una lettera aveva scritto: « Da ormai 39 anni ho visto
crescere sotto i miei occhi tanti giovani talenti, ma non ho ancora conosciuto un giovane... che, alla
sua età, fosse cosi maturo come Nietzsche... Se avrà lunga vita, come voglia Dio, prevedo che un
giorno occuperà un posto di primo piano nella filologia tedesca. Ora ha 24 anni: tenace, vigoroso,
sano, forte nel corpo e nel carattere... è l’idolo di tutto il giovane mondo filologico qui a Lipsia.
Direte che vi ho presentato una specie di fenomeno; ebbene, egli è anche questo, per di piu gentile e
modesto» (Stroux, 32). « Potrà fare tutto quello che vorrà » (Stroux, 36).
Seguirono due decenni, fino all’esplosione della follia, Dal 1869 al 1879 Nietzsche fu professore
all’Università di Basilea dove insegnava, negli stessi anni di J. Burckhardt, sei ore la settimana al
Pädagogium. Si aprirono per lui le porte delle case patrizie di Basilea. Entrò in rapporti piu o meno
stretti con le menti piu eccelse dell’Università: J. Burckhardt, Bachofen, Heusler, Rutimeyer. Strinse
amicizia con Overbeck, che abitava nella stessa casa in cui alloggiava Nietzsche. Il piu importante
rapporto umano di tutta la sua vita, considerato consapevolmente come tale sino alla fine, è
rappresentato dalle visite a Richard e Cosima Wagner, dal 1869 al 1872, a Tribschen, nei pressi di
Lucerna. Dopo il suo libro su La nascita della tragedia, Nietzsche fu allontanato dai circoli
filologici per opera di Wilamowitz. Gli studenti di filologia se ne andarono da Basilea.
Nel 1873 si manifestarono i primi sintomi della malattia, che nel 1876-1877 lo portarono a chiedere
un anno di congedo; trascorse la maggior parte di questo periodo a Sorrento con P. Rèe presso
Malwida von Meysenbug. Nel 1879 ¡’aggravarsi del suo male lo indusse, all’età di 35 anni, a
chiedere definitivamente il congedo.
Nel decennio successivo, dal 1879 al 1889, Nietzsche viaggiò da un luogo all’altro, costantemente
alla ricerca del clima adatto al suo grave stato di salute. Non si tratteneva in alcun luogo piu di
qualche mese, poiché il sopraggiungere della cattiva stagione lo costringeva ogni volta a partire.
Soggiornò per lo più in Engadina e in Riviera, occasionalmente a Venezia, e negli ultimi anni
a Torino. Solitamente trascorreva l’inverno a Nizza e l’estate a Sils-Maria. Quale « fugitivus errans
» visse con scarse possibilità economiche in modesti alloggi, trascorreva la giornata facendo lunghe
passeggiate per la campagna, dove era solito incontrare vari passanti e ripararsi gli occhi dalla luce
con un parasole verde.
Mentre i suol primi scritti - La nascita della tragedia e la prima Considerazione inattuale contro
Strauss - avevano fatto scalpore, ricevendo un entusiastico plauso ma anche pesanti critiche, quelli
successivi non ebbero successo.
I    libri di aforismi furono a malapena venduti. Nietzsche fu dimenticato. Per una serie di
circostanze, gli riuscì sempre più difficile trovare editori disposti a pubblicare i suoi scritti, finché si
vide costretto a farli stampare a proprie spese. Soltanto negli ultimi mesi di lucidità visse i primi
momenti di un’imminente fama, della quale egli non aveva mai dubitato.
Senza più lavoro, totalmente dedito al suo vero compito, di cui era ben consapevole, vivendo isolato
e per cosi dire fuori dal mondo, si risvegliò in lui, contemporaneamente ad un miglioramento del
suo stato di salute, il desiderio di un rinnovato contatto con la realtà. Nel 1883 progettò di tenere
all’Università di Lipsia un corso, che però i circoli universitari ritennero impraticabile a causa del
contenuto fortemente critico dei suoi scritti. Nietzsche rimase escluso dal mondo e si dedicò
completamente e con crescente entusiasmo alla propria opera.
Nel gennaio del 1889, all’età di 45 anni, subì un crollo a causa di una malattia cerebrale organica e,
dopo una lunga infermità, morì nel 1900.
II      mondo. Il mondo che si presenta a Nietzsche, nel quale egli osserva, pensa e parla, gli si è
rivelato - a partire dalla giovinezza - attraverso l’educazione di stampo tedesco, la scuola
umanistica, i poeti, le tradizioni nazionali.
Nietzsche intraprese lo studio della filologia classica. Ne trasse giovamento non solo perché
approfondì la conoscenza del pensiero degli antichi, che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua
vita, ma anche perché ebbe la fortuna di incontrare durante i suoi studi un vero ricercatore: il
seminario di filologia classica tenuto da Ritschl era infatti unico per la sua tecnica di
interpretazione filosofica; perfino numerosi medici ed altri studiosi non filologi lo
frequentavano per imparare il « metodo ». Nel modo di procedere di Ritschl vi era qualcosa che è
comune ad ogni scienza: distinguere il reale dall’irreale, i dati di fatto da ciò che vi aggiunge il
pensiero sostenendolo sulla base della semplice opinione, la certezza oggettiva dalla convinzione
soggettiva. Soltanto attraverso la visione di ciò che è comune ad ogni scienza nasce la chiara
consapevolezza di quello che è propriamente il sapere scientifico. L’essenza del ricercatore, la sua
incorruttibilità, l’incessante scontro critico con il suo stesso pensiero, la sua schietta passione
divennero oggetto d’esperienza per Nietzsche.
I forti istinti pedagogici di Nietzsche si realizzarono soltanto parzialmente. I compiti legati alla sua
attività di docente all’Università2 furono svolti con la massima abnegazione, ma con sempre minor
interesse. Durante tutto il decennio della sua attività di docente egli cercò con successo di superare i
fastidi procurati dal lavoro, per dedicarsi al compito non ancora ben determinato, ma che già allora
stava prendendo forma in lui e lo attraeva intimamente.
Nel 1867-1868 Nietzsche prestò servizio a Naumburg presso l’artiglieria campale a cavallo. Il
servizio militare fu interrotto anzitempo perché, nel corso di una cavalcata, si procurò una ferita che
provocò una suppurazione ed una lunga malattia. Durante la guerra del 1870 Nietzsche si arruolò
come infermiere volontario. Poiché era professore in uno Stato neutrale, la sua lealtà gli impediva
di arruolarsi come soldato. Si ammalò di dissenteria e, ancor prima della fine della guerra, riprese la
sua attività di docente.
Per comprendere la sua visione del mondo è essenziale tener presente che dall’età di 25 anni fino
alla morte egli visse all'estero. Per vent’anni vide la Germania dall’esterno. Ciò rese possibile -
specialmente durante i successivi, continui viaggi, che avrebbero potuto esporlo al rischio di uno
sradicamento -una particolare perspicacia ed acutezza dello sguardo critico, la capacità di
prescindere dalle ovvietà che la vita, per cosi dire al limite, porta con sé. Il cambiamento produce
sempre nuovi stimoli nel modo di sentire le cose, una vita in un orizzonte che abbraccia tutto ciò
che rimane fisso, un aumento dell’amore e dell’odio nei confronti del nostro eterno fondamento: la
lontananza fa appunto avvertire tutto ciò in modo piu accentuato.
Quando Nietzsche si distaccò dal mondo, dal lavoro, dai rapporti umani, dall’attività di docente, si
tuffò in nuove letture, che spaziavano tra le piu diverse tematiche, anche se erano limitate per le
precarie condizioni della vista. Anche se sappiamo quali libri ha preso in prestito dalla biblioteca di
Basilea tra il 1869 e il 1879, ed anche se ci è nota gran parte della sua biblioteca personale,3 tuttavia
non sappiamo se egli abbia letto tutti questi libri; essi sono comunque passati tra le sue mani ed
hanno in qualche modo suscitato il suo interesse. Si fa spedire i catologhi dei nuovi libri pubblicati
ogni settimana (a Overbeck, 11. 4. 80), pensa ripetutamente a soggiorni in città dotate di grandi
biblioteche (per es. a Overbeck, 2. 5. 84 e 17. 9. 87), anche se si tratta di semplici progetti.
Ciò che colpisce è il gran numero di testi di etnografia e di scienze naturali. Nietzsche vuole
recuperare ciò che aveva trascurato durante lo studio della filologia: le conoscenze reali.
Probabilmente egli non ha letto in modo approfondito la maggior parte di questi libri, che gli
servivano soprattutto per sopperire alla sua mancanza di conoscenze di prima mano nel campo
della biologia e delle scienze naturali.
È straordinario ciò che Nietzsche riesce ad apprendere da una rapida lettura. Egli coglie
immediatamente l’essenziale; leggendo questi libri, Nietzsche penetra nel pensiero dei loro autori
ed avverte il significato esistenziale delle loro ricerche: riconosce non solo l’oggetto, ma anche la
sostanza del loro pensiero.
Non è raro che Nietzsche mutui un pensiero o un’espressione dagli autori che legge: ciò non è tanto
importante per il senso della sua filosofia, quanto
per l’origine materiale dei suoi mezzi espressivi. Che il termine « superuomo » compaia già in
Goethe, e l’espressione « filisteo della cultura » in Haym, è cosi poco essenziale, quanto il fatto che
Nietzsche abbia mutuato le espressioni « prospettivismo », « il mondo vero e il mondo apparente »
da Teichmüller, e « décadence » da Bourget. Si tratta insomma della tipica ricettività di
Nietzsche, che si attua in modo evidente, naturale, trasformando immediatamente al proprio interno
tutto ciò che apprende, e senza la quale non è possibile alcuna creazione.
Nietzsche filosofa già da ragazzo; vede in Schopenhauer il filosofo; attinge le proprie conoscenze
della speculazione filosofica tradizionale da F. A. Lange, Spir, Teichmuller, Dühring, E. von
Hartmann. Dei grandi filosofi, egli conosce a fondo il solo Platone, ma soltanto come filologo (piu
tardi si stupisce di « quanto poco conosca Platone »: a Overbeck, 22. 10. 83). I contenuti della sua
filosofia non scaturiscono dallo studio delle opere dei grandi filosofi; nascono piuttosto dalla
visione del mondo greco presocratico, specialmente dai filosofi presocratici ed anche da Teognide,
dai tragici, da Tucidide. La lettura di Diogene Laerzio, che intraprese nell’ambito dei suoi studi
filologici, lo introduce al sapere storico-filosofico. Per quanto Nietzsche non abbia quasi mai
studiato a fondo i grandi filosofi, di cui ha nella maggior parte solo una conoscenza di seconda
mano, ha tuttavia la capacità di penetrare fino alle fonti originarie del pensiero delle scuole
tradizionali. Anno dopo anno si dedica con sempre maggior decisione alle problematiche più
specificamente filosofiche, che coglie a partire dalla sostanza del proprio pensiero.
Per il suo modo di filosofare, Nietzsche è attratto dai poeti non meno che dai filosofi in senso
stretto. Nella sua giovinezza è affascinato da Hölderlin, soprattutto dall 'Empedocle e dall'Iperione,
e successivamente dal Manfredi di Byron. Negli ultimi anni subisce anche l’influsso di Dostoevskij.
Ancor più originale è l’interesse di Nietzsche per la musica, quasi che egli ne presagisse gli intensi
sviluppi successivi. Nessun filosofo è stato più di lui attratto ed anzi dominato dalla musica. Già da
ragazzo è completamente avvinto da essa; nella sua giovinezza si abbandona ad una immensa
devozione per R. Wagner ed è pronto a vivere al servizio della sua musica. Più tardi riconosce: « In
fondo io sono un vecchio musicante, per il quale non c’è nessun’altra consolazione all’infuori della
musica » (a Gast, 22. 6. 87). Nel 1888 il suo legame con la musica si stringe ulteriormente: «La
musica mi dà ora delle sensazioni che non ho mai provato. Mi distacca da me, mi fa perdere ogni
illusione... mi rafforza: ad ogni serata dedicata alla musica segue un mattino pieno di idee
ed intuizioni... Senza musica la vita sarebbe un errore, un disagio, un esilio » (a Gast, 15. 1. 88; cfr.
8, 65). Non c’è nulla che lo « appassioni maggiormente della sorte della musica » (a Gast, 21. 3.
88).
Tuttavia lo stesso Nietzsche si è allontanato dalla musica con altrettanta passione. Scrive nel 1886 a
proposito degli anni successivi al 1876: « Cominciai a vietarmi radicalmente e per principio ogni
musica romantica, questa arte ambigua, fanfarona, opprimente, che fa perdere allo spirito il suo
rigore e la sua gaiezza, e fa pullulare ogni sorta di oscura nostalgia e di molle brama.
“Cave  musicam” è ancora oggi il mio consiglio a tutti coloro che sono abbastanza forti per credere
alla purezza nelle cose spirituali » (3, 7). Questi giudizi sulla musica sono in sintonia con la
millenaria tradizione filosofica ostile alla musica:
« La musica non ha alcun suono per l’estasi dello spirito; quando vuole riprodurre lo stato d’animo
di Faust, di Amleto, di Manfredi, 'tralascia lo spirito e dipinge stati sentimentali... » (11, 336). « Il
poeta appartiene ad un genere più elevato del musicista, ha delle esigenze piu alte, che riguardano
l’uomo nella sua globalità: e il pensatore ha esigenze ancora piu alte: egli vuole tutta la
forza concentrata, fresca, non richiede il godimento, ma la lotta e la rinuncia piu profonda di tutti gli
istinti personali» (11, 337). Secondo Nietzsche, «lo sviluppo insufficiente, fanatico dell’intelligenza
e l’incapacità di domare l’odio e le invettive sono forse determinati dall’indisciplina della musica»
(11, 339). La musica è « pericolosa » - « la sua voluttà, la sua voglia di risvegliare gli
stati cristiani... va di pari passo con l’assenza di purezza della mente e l’esaltazione del cuore» (14,
139). L’atteggiamento piu adeguato nei confronti della musica è quello che vede in essa un qualcosa
di per sé già espressivo, ma che trova nel pensiero una migliore espressione. « La musica è il mio...
predecessore... Una quantità indicibile di cose non ha ancora trovato parola e pensiero » (12, 181).
Nietzsche sembra trovare la soluzione a questo atteggiamento così contraddittorio verso la musica
con la distinzione tra musica romantica, che è pericolosa, brumosa, voluttuosa, e la musica vera e
propria, che egli vuole opporre a R. Wagner e crede di scoprire nelle opere di Peter Gast. A partire
dal 1881 Nietzsche crede di vedere in lui « il suo principale maestro »: la sua musica, simile alla
propria filosofia (a Overbeck, 18. 5. 81), è « la giustificazione attraverso il suono di tutta la mia
nuova attività pratica e della mia rinascita» (a Overbeck, 10. 82). Sulla scia di queste
considerazioni, che lo portano a vedere nella Carmen di Bizet l’unica opera modello (anche se, in
verità, non era questo il suo pensiero: « Non deve prendere sul serio quello che io dico di Bizet; per
me, per quel che io sono, Bizet non può venire assolutamente in questione. Ma come antitesi ironica
a Wagner il suo effetto è molto forte»: a Fuchs, 27. 10. 88), Nietzsche vuole infine che la musica «
sia serena e profonda, come un pomeriggo di ottobre; che sia singolare, sfrenata, tenera, una piccola
dolce donna fatta di perfidia e di grazia » (15, 40).
Quando si vede come Nietzsche sia in balia della musica, come i suoi giudizi siano discutibili, in
particolare quelli molto decisi sul valore delle composizioni di P. Gast, quando si pensa alle sue
stesse composizioni (un giudizio di Hans v. Bulow del 1872, accettato da Nietzsche: « La Sua
Meditazione sul  Manfredi è il massimo della stravaganza fantastica, ciò che vi è di piu sgradevole e
di piu antimusicale che da molto tempo ... mi sia capitato di ascoltare... forse è tutto uno scherzo, e
Lei ha voluto fare una parodia della cosiddetta musica del futuro? ... nel prodotto della Sua febbre
musicale si avverte tuttavia uno spirito straordinario, che si distingue da ogni traviamento... »), si
sarebbe tentati di dire che la musica non è certo il suo forte. La natura del suo essere, il suo sistema
nervoso è a tal punto musicale, da non potersene difendere. Ma in lui la musica è, per cosi dire,
l’avversaria della filosofia. Il suo pensiero è tanto piu filosofico quanto meno è musicale. La
filosofia di Nietzsche è sorta ed è stata conquistata nella lotta contro la musica. Tanto il suo
pensiero, quanto le manifestazioni mistiche dell’essere da lui sperimentate, sono contro e al di
fuori della musica.
Il suo filosofare trova un’ulteriore ed appropriata nuova fonte. Per qualche tempo Nieztsche ha
stimato in modo straordinario i francesi:4 La Rochefoucauld, Fontenelle, Chamfort, e specialmente
Montaigne, Pascal e Stendhal. L’analisi psicologica diventa lo strumento del suo filosofare: non si
tratta della psicologia empirica, causale, ma della psicologia sociologico-storica. La sua espe-
rienza consiste in ciò: « Tutte le valutazioni del passato continuano a vivere, ancora una volta e in
modo spontaneo, altrettanto bene quanto le valutazioni opposte» (4, 61). Per questo tipo di ricerca,
qui abbozzata, egli desidera dei collaboratori: «Dove mai si è avuta una storia dell’amore, della
cupidigia, dell’invidia, della coscienza, della pietà, della crudeltà?... Si sono mai fatte oggetto di
indagine le differenti suddivisioni della giornata, le conseguenze di una regolare stabilizzazione del
lavoro, della festività e del riposo?... Quando mai sono state raccolte le esperienze sulla vita in
comune, per esempio le esperienze dei conventi? » (5, 44; cfr. 7, 69).
Per Nietzsche, tutto ciò che accade nel mondo passa in secondo piano di fronte ai grandi uomini che
egli divinizza o demonizza. Egli vede in una grandezza chiara ed indubitabile Goethe, Napoleone,
Eraclito. Socrate, Platone, Pascal sono per lui dei grandi uomini ambigui, che egli valuta pertanto in
modo totalmente opposto, a seconda del contesto. Invece, biasima sempre San Paolo e Rousseau,
quasi sempre Lutero. Ammira Tucidide e Machiavelli per la loro chiara veracità e la loro effettiva
incorruttibilità.
Nietzsche consegue la massima profondità della sua coscienza storica nel rapporto del suo pensiero
e del suo essere con i grandi uomini del passato che si dibattevano in mezzo ai suoi stessi problemi
ed hanno vissuto con lui nello stesso regno dello spirito: « Il mio orgoglio è: io ho un’origine... In
ciò che animava Zarathustra, Mosè, Maometto, Gesù, Platone, Bruto, Spinoza, Mirabeau, vivo
anch’io... » (12, 216). « Quando parlo di Platone, Pascal, Spinoza e Goethe,
io    so che il loro sangue circola nel mio... » (12, 217). « I miei precursori: Eraclito, Empedocle,
Spinoza, Goethe » (14, 263).5
L'immagine di Nietzsche che ci è stata tramandata. Non bisogna accettare incondizionatamente ciò
che i contemporanei hanno riferito di Nietzsche. Lo si vede sotto un aspetto che non gli è conforme,
nell’ottica degli ideali o dei contrasti del tempo, o in base a pregiudizi: Nietzsche è visto insomma
dai suoi contemporanei attraverso uno specchio che deforma la sua immagine.
Il ritratto che ne ha tracciato sua sorella, grandioso e idealizzato, è tanto poco veritiero quanto
quello più concreto, ma pur sempre deformato e discutibile, di Overbeck. Dobbiamo certo tener
presenti entrambi questi ritratti, soprattutto per le informazioni che ci danno; ma, non essendo
esaurienti, dovremo prendere in considerazione anche i più piccoli particolari tramandati da tutti
coloro che hanno avuto modo di conoscere e parlare con Nietzsche. Il ritratto che tracceremo di lui
nascerà dall’insieme di queste testimonianze, assai numerose anche se non sempre attendibili; si
tratterà di un ritratto non già compiuto e definitivo, bensì incompleto, suscettibile di ulteriori
ritocchi, e perfino ambiguo. Il confronto con i documenti diretti (le sue lettere, le sue opere, i suoi
appunti), cioè con tutto ciò che egli stesso ha scritto, anche in modo occasionale, non deve mai
essere trascurato, e servirà a correggere le testimonianze dei contemporanei. Qui di seguito ne
riportiamo alcune.
Riferisce Deussen su Nietzsche studente: Nietzsche era « del tutto estraneo ad ogni posa, in senso
sia positivo che negativo... Ho udito da lui molte osservazioni acute, ma raramente un motto di
spirito... Era poco portato per la ginnastica ed aveva già la tendenza alla pinguedine ed alle
congestioni cerebrali...
Il    più semplice esercizio, fatto in un batter d’occhio da un ginnasta già un po’
esperto, ... era per Nietzsche un duro lavoro che lo faceva sudare e diventare rosso per lo sforzo
profuso... ».
Scrive Deussen nel 1871: « Gli occhiali che porta gli danno l’aspetto di un erudito, mentre i suoi
vestiti accurati, il suo atteggiamento quasi militare, la sua voce chiara suscitano un’impressione
opposta ». E ancora, sempre nello stesso anno: « Piu tardi delle undici arrivò Nietzsche, che era
stato da Jacob Burckhardt: era in una disposizione d’animo molto vivace, ardente, piena di sé, come
un giovane leone ».
I suoi colleghi riferiscono che « Nietzsche era una natura del tutto inoffensiva, e godeva pertanto
della simpatia di tutti i colleghi che lo conoscevano » (Mähly, p. 249). Éucken: « Nietzsche era
gentile con gli studenti, non era mai scortese o irritato, ma si comportava in modo indulgente e al
tempo stesso si faceva rispettare: questo è per me un ricordo vivo ed indelebile ».
E ancora, sempre dalle testimonianze di colleghi (Scheffler in: Bernoulli, I, 252): « Il suo
comportamento denotava modestia, perfino umiltà... Piuttosto piccolo che di taglia media. La testa,
sprofondata nelle spalle, su di un corpo tarchiato e purtuttavia delicato, ... Nietzsche si era adeguato
all’ultima moda: portava calzoni di colore chiaro, con una giacca corta, e attorno al collo una
cravatta annodata elegantemente... I capelli piuttosto lunghi incorniciavano di ciocche il viso
pallido... Un incedere pesante, quasi affaticato... Il modo di parlare di Nietzsche, per nulla
affettato, ... esprimeva soltanto questo: scaturiva direttamente dalla sua anima!,.. La malia di questa
voce,.. ».
Nel 1891, un polacco che aveva conosciuto Nietzsche negli anni centrali del 1870, cosi lo descrive
sulla base dei propri ricordi (la citazione è tratta da Harry Graf Keßler, «Die Neue Rundschau»,
1935, p. 407): «Un uomo di grossa taglia con lunghe braccia magre ed una possente testa rotonda
che coronava una chioma di capelli folti e irti... I suoi baffi, di un nero intenso, cadevano dai due
lati della bocca fino al mento; i suoi occhi neri, straordinariamente grandi, brillavano come fuoco
dietro i suoi occhiali. Mi sembrava di vedere un gatto selvatico. L’amico che mi accompagnava era
pronto a scommettere che si trattasse di un poeta russo che cercava di calmare i suoi nervi
viaggiando ». (Questa descrizione è molto discutibile; secondo le indicazioni di Lou Salomé,
Nietzsche era di taglia media e aveva una capigliatura bruna.)
Ungern-Sternberg, nel 1876: «Espressione d’orgoglio, ma attenuata dalla fatica e da una certa
insicurezza nei movimenti, dovuta alla sua miopia. Una grande gentilezza e amabilità nel suo modo
di fare, semplice e distinto ad un tempo ».
Lou Salomé, nel 1882: «Un che di nascosto, il presentimento di un’intima solitudine - era questa la
prima forte impressione da cui si era colti ed affascinati in presenza di Nietzsche, Ad un osservatore
superficiale non offriva nulla di particolare; l’uomo, di media statura, nel suo abbigliamento
estremamente semplice, ma altrettanto accurato, dai tratti pacati ed i capelli bruni
pettinati all’indietro, passava facilmente inosservato... Aveva un sorriso leggero, un
modo sommesso di parlare, ed un passo prudente e meditabondo, camminava leggermente ricurvo;
era difficile immaginarsi questa figura in mezzo alla folla, - è infatti tipica di chi se ne sta in
disparte, solitario. Le mani di Nietzsche erano molto belle e di nobile fattezza, ed attiravano
involontariamente lo sguardo... Gli occhi parlavano in modo davvero rivelatore. Quasi ciechi, essi
non sembravano spiarvi, scrutarvi, importunarvi involontariamente, come quelli di molti miopi;
avevano piuttosto l’aria di custodire e conservare i suoi tesori, i suoi segreti.., La scarsa vista
conferiva ai suoi tratti una sorta di fascino tutto particolare, perché, invece di riflettere impressioni
esterne, mutevoli, i suoi occhi esprimevano soltanto ciò che accadeva al suo interno. Essi
scrutavano nell’intimo e nello stesso tempo in un che di lontano, o meglio: nell’intimo come in un
che di lontano. Quando si abbandonava ad una conversazione che lo coinvolgeva particolarmente,
un bagliore commovente poteva apparire nei suoi occhi - ma quando era in uno stato d’animo tetro,
la solitudine traspariva eloquentemente dai suoi occhi, in modo cupo, quasi minaccioso, come da
inquietanti profondità. Una tale impressione di oscurità e riservatezza suscitava appunto il
comportamento di Nietzsche. Egli era abitualmente di una grande gentilezza e di una dolcezza quasi
femminile, di una benevola imperturbabilità, -nei rapporti con il prossimo amava le maniere
distinte... Ma sempre provava piacere a mascherarsi... Mi ricordo che, parlando per la prima volta
con Nietzsche, ... ciò che mi colpì ed ingannò fu il suo modo ricercato di comportarsi. Ma non mi
sbagliai a lungo su questo uomo solitario, che portava la sua maschera in modo così maldestro come
uno che, venendo dai deserti e dalle montagne, portasse la giacca della gente comune ».
Deussen, nel 1887: « Non aveva più l’atteggiamento fiero, il passo elastico, l’eloquenza fluida di un
tempo. Si trascinava a fatica, ricurvo su un fianco, e parlava sempre più spesso in modo
aggrovigliato e stentato... Eravamo alloggiati all’Hotel Alpenrose, dove ci ritirammo un’oretta per
riposarci. Non appena trascorsa, il nostro amico già bussava alla nostra porta e si preoccupava
affettuosamente di sapere se fossimo ancora stanchi, e ci pregava di scusarlo se era venuto troppo
presto. Ricordo questo, perché una tale eccessiva premura era un tempo estranea al carattere di
Nietzsche... Quando ci congedammo, aveva le lacrime agli occhi ».
Anche le fotografie di Nietzsche confermano che la sua natura più intima non si coglieva con
immediatezza; non vi è una sola immagine di Nietzsche che a prima vista non inganni; anch’esse
sono degli specchi deformanti. Se le si guarda più volte, a lungo ed in modo accurato, le fotografie
lasciano certo intravvedere qualche cosa. I baffi possono essere un’espressione della sua
riservatezza e del suo bisogno di nascondersi. Il suo sguardo visionario pareva avere qualcosa della
sua eloquente aggressività. Ma non si riesce mai, nemmeno per un istante, a percepire nulla di lui.
Tutte le rappresentazioni artistiche sono soltanto maschere, legate alle impressioni del tempo, a cui
non bisogna conferire eccessivo credito; il quadro di Olde, che ritrae Nietzsche durante il
periodo della follia, è indubbiamente realistico, ma suscita pietà in tutti coloro che lo guardano.
Se dalle testimonianze su Nietzsche e dalle sue fotografie non si ricava un quadro certo, ma soltanto
nebuloso ed indeterminato, in un semplice sguardo al suo modo di scrivere si avverte la presenza
immediata del suo essere.6 Riprendiamo qui alcuni punti dell’analisi di Klages a tal proposito.
Klages non conosce, « in tutto il tempo intercorso dal nostro periodo classico fino alla fine del
secolo scorso, un solo modo di scrivere di personalità eminenti che si possa paragonare anche solo
lontanamente a quello di Nietzsche ». Tutti gli sembrano più o meno simili fra loro, ma nessuno
assomiglia al modo di scrivere di Nietzsche. Egli trova in quest’ultimo « qualcosa di specificamente
luminoso, chiaro... in una completa mancanza di calore... qualcosa di trasparente, di immateriale, di
cristallino, il riflesso estremo di qualcosa di nebuloso, morbido, ondeggiante... qualcosa di molto
aspro, marcato, fragile come un vetro... qualcosa di completamente formato, finito, perfino cesellato
». Klages vi intravvede una sublime sensibilità, una vita sentimentale molto piena e sempre pronta
ad eccitarsi, ma che « è per cosi dire imprigionata nell’organismo di chi la conduce »; le esperienze
che Nietzsche vive sono soltanto le sue proprie esperienze vissute. Klages vi vede anche il rigore, il
dominio di sé e, ad un tempo, tanto la tendenza ad un severo giudizio su di sé, quanto il « potente
impulso ad un’alta stima di sé ». La scrittura di Nietzsche si sviluppa nel modo piu chiaro; essa
mostra « quella semplificazione che, involontariamente, fa apparire nella sua nudità la costruzione
delle lettere », e « uno slancio impetuoso che sempre di nuovo si fa sentire ». Si avverte lo « spirito
di competizione... nel regno del pensiero »; la sua scrittura ha « qualcosa di inquietante, in
quanto privo d’orizzonte, un che di imprevedibile e repentino ». Essa non è quella di un uomo
d’azione; se la si confronta con la scrittura di un Napoleone o di un Bismarck, essa sembra « di una
fragile delicatezza ». La scrittura di Nietzsche esprìme una estrema spiritualità ed un « dono della
forma ben difficilmente immaginabile ». « Mai si è incontrata fino ad ora una scrittura non stilizzata
che sappia mostrare, con una simile forza ed acutezza, una scansione ritmica cosi perfetta
dell’insieme ed una sequenza che brilla quasi ininterrottamente! »
Se ci si chiede riassuntivamente cosa ha significato Nietzsche come fenomeno empirico, allora
bisogna chiedersi nello stesso tempo come deve apparire un uomo che, dal fondo della sua
veridicità e dei suoi giudizi sul valore e sul rango della realtà, sa di esser condannato ad indossare
maschere, cioè ad essere sempre visto in modo falso e sbagliato; un uomo che, deluso, sa di essere
vinto dal disgusto, proprio lui, che sviluppa in se stesso qualcosa a cui fino ad ora nessuno ha saputo
partecipare, che vuole e vede ciò che fino ad ora nessuno ha voluto e visto, e che dunque non può
trovare nessuna conferma della realtà dell’uomo, e non può mai essere soddisfatto di se stesso,
perché per lui ogni vita ed ogni esperienza è soltanto un tentativo e appare come un fallimento.
Ancor oggi Nietzsche non è un’immagine plastica, cioè non gli si può conferire una forma definita;
egli si dilegua in figure che non si identificano con lui. E lo si vede come un viandante, il viandante
che egli è sempre stato: lo si vede salire, per cosi dire, la montagna inaccessibile. Nietzsche resta
pertanto visibile soltanto nel movimento, nel suo dileguarsi. Perché egli desiderava al tempo stesso
vivere in modo appartato e comunicarsi.
La sua caratteristica fondamentale: essere un’eccezione. Il tratto fondamentale della vita di
Nietzsche è il suo essere eccezione. Egli è svincolato da ogni effettivo esserci, dalla professione e da
ogni legame con la vita: non si sposa, non ha allievi, discepoli, non si costruisce alcun campo di
attività nel mondo. Perde ogni fissa dimora, errando di luogo in luogo, come se cercasse ciò che non
trova. Ma proprio questo essere eccezione è la sua sostanza, è cioè il modo in cui si sostanzia tutto il
filosofare di Nietzsche.
La prima orisi manifesta, in cui Nietzsche intraprende decisamente la via segnata dal suo destino, si
verifica a Bonn nel 1865: si tratta di una crisi priva di ogni contenuto determinato e che si esprime
soltanto nelle forme esteriori della sua vita. Nietzsche avverte che la vita di studente, con i suoi
molteplici impegni, la vita goliardica, la formazione attraverso il sapere e l’eventuale carriera
accademica non costituiscono la sua vera vita. Per lui la vita non è né un gioco, né un compito da
assolvere secondo regole predeterminate. Dal fondo di questa sua avversione per ogni
regola imposta, Nietzsche avverte che deve dedicarsi ad un esserci che non trova certo
giustificazione di fronte alle esigenze di una vita condotta con serietà. Egli ha indubbiamente
vissuto ad un alto livello, per quanto riguarda la vita dello spirito, ma ciò non gli basta. In lui parla
l’aut-aut: o lasciare che la vita segua il suo corso normale, oppure riconoscere a ciò che è
fuori della norma il diritto di intromettersi nella vita quotidiana. Di fronte a questo dilemma,
Nietzsche si ripiega su di sé, in quella concentrazione interiore che gli è propria - ma senza sapere
ciò che lo spinge a questa concentrazione e a questa sfida. Si tratta piuttosto di un processo che si
svolge quasi inavvertitamente, anche se può essere chiaramente riscontrato nelle sue lettere e nel
suo modo di comportarsi; esso non presenta alcun tono patetico, e non produce nessuna
conseguenza catastrofica (non si può certo definire tale la sua uscita dall’associazione studentesca).
I suoi compagni l’accusano di essere orgoglioso e di mancare di spirito di gruppo.
Nessuno comprende ciò che realmente avviene in lui. Ma in quest’anno cessa la relativa
indeterminatezza del suo cammino, ciò che era rimasto allo stadio di semplice possibilità; si fa
strada invece la realtà che, attraverso continui cambiamenti, lo condurrà nella sua esistenza di
eccezione, attraverso qualcosa che vuole di piu, esige di più e non gli lascia mai più riposo.
Una esposizione della vita di Nietzsche, che non perda mai di vista il precipuo interesse filosofico,
deve cercare quel suo tratto essenziale di cui si diceva, l’essere un’eccezione: si tratta, in fondo,
sempre della stessa esperienza, che però non è completamente afferrabile in nessuna delle
sue manifestazioni. La nostra esposizione della vita di Nietzsche si articola su tre punti: il suo
sviluppo spirituale, le sue amicizie, la sua malattia.
Le fasi dello sviluppo
Indubbiamente l’opera di Nietzsche è un tutto unico, ma è altrettanto vero che ogni scritto ha una
sua specifica collocazione nell’ambito di uno sviluppo che si protrae per oltre due decenni. Nel
corso di tale sviluppo avvengono i più straordinari cambiamenti, grazie ai quali si può
sorprendentemente notare come gli elementi nuovi sembrino avere le loro radici già nelle prime
opere. La conoscenza delle varie fasi di questo sviluppo ci consente di comprendere meglio ed in
modo più approfondito l’opera di Nietzsche, perché, partendo dalla singola ed isolata affermazione,
il nostro sguardo si può rivolgere al contesto complessivo in cui essa si situa.
Lo sviluppo dell’opera. Un quadro riassuntivo degli scritti consente di caratterizzare
provvisoriamente le fasi del pensiero nietzschiano.
Il gruppo degli Scritti giovanili non è importante di per sé, ma solo in quanto essi presentano già in
nuce gran parte dei pensieri e degli stimoli successivi. Gli Scritti filologici (3 volumi), con gli
innumerevoli punti di vista che vi si trovano sparsi qua e là, e che costituiscono già il suo tipico
modo di filosofare, forniscono un quadro impressionante del lavoro scientifico di Nietzsche.
L’opera vera e propria si può suddividere nei seguenti raggruppamenti.
1.    I primi scritti: La nascita della tragedia e le Considerazioni inattuali (1871-1876). Ad essi si
aggiungono, tra le opere postume, il saggio incompiuto su La filosofia nell’epoca tragica dei Greci,
le conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole, e gli appunti in vista del progetto di una
considerazione inattuale su Noi filologi. Questi primi scritti, nella loro forma originaria, dovevano
essere letti insieme, in quanto legati ad un comune progetto. Essi sono ancora espressione della fede
nel genio e nella nuova cultura tedesca che sorge dalle rovine del presente.
2.    Le opere dal 1876 al 1882: Umano, troppo umano, Opinioni e sentenze diverse, Il viandante e
la sua ombra (le ultime due, riunite, formano il secondo volume di Umano, troppo umano), Aurora,
La gaia scienza (libri I-IV) sono, nella loro forma principale, raccolte di aforismi. In queste brevi
considerazioni, Nietzsche esprime una variegata ricchezza di pensieri, non tutti rispondenti ad un
unico disegno. Sotto forma di una riflessione critica, fredda, priva di illusioni, a partire da Aurora
appare ciò che, attraverso una lenta evoluzione, fu infine portato a compimento nell’ultimo gruppo
di scritti.
3.    L’ultima filosofia di Nietzsche:
a)    Così parlò Zarathustra (1883-1885) è costituito - in una cornice di situazioni ed azioni
tratteggiate in forma poetica - dai discorsi che Zarathustra fa al popolo, ai compagni, agli «uomini
superiori», ai suoi animali e a se stesso. Ritenuta da Nietzsche la sua opera piu importante, non la si
può ricondurre a nessuna forma letteraria tradizionale; può essere intesa sia come opera poetica, sia
come profezia, sia come opera filosofica, anche se a rigore non corrisponde completamente a
nessuno di questi generi.
b)    Gli scritti postumi dei volumi XI-XVI (1876-1888) contengono, in forma di brevi frammenti, il
corso del pensiero nietzschiano, a partire dal 1876. Nei volumi XIII-XIV il movimento del suo
pensiero è legato ai concetti fondamentali successivi (volontà di potenza, trasvalutazione,
décadence, eterno ritorno, superuomo, ecc.), ma va addirittura oltre. Questi frammenti
costituiscono la semplice stesura dei pensieri in una forma incisiva e concisa che tende alla massima
chiarezza, senza avere un preciso scopo letterario. La ricchezza di idee sommerge un pensiero di
fondo, pur sempre presente, penetrante, stabile e sistematico. Una chiarezza espositiva ed una
stesura breve ma efficace subentrano all’elaborato sviluppo concettuale.
c)    Tra il 1886 e il 1887 Nietzsche scrive Al di là del bene e del male, a cui va aggiunto il quinto
libro della Gaia scienza: è un ritorno al genere letterario dei libri di aforismi, ma con una più
accentuata tendenza ad una esposizione coerente e ad un pathos che colpisce il lettore. La
genealogia della morale  esprime il pensiero di Nietzsche sotto forma di dissertazioni; le prefazioni,
che Nietzsche scrive per le sue opere precedenti, esprimono la formidabile capacità che egli ha di
comprendere retrospettivamente il proprio pensiero.
d)    Nel 1888 appare un ultimo gruppo di scritti che confermano ulteriormente la capacità che
Nietzsche ha di comprendere se stesso: Il caso Wagner, Il crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce
homo, Nietzsche contra Wagner: si tratta di scritti caratterizzati da una forma più complessa,
incredibilmente aggressivi, volutamente polemici per ottenere un sicuro effetto, e redatti in
brevissimo tempo.
Lo sviluppo del pensiero di Nietzsche viene per lo piu suddiviso in tre fasi, indicate come il periodo
della fede devota nella cultura e nel genio (fino al 1876), il periodo della fede nella scienza
positivistica e della riflessione critica (fino al 1881), ed infine il periodo della nuova filosofia
(fino alla fine del 1888). Durante il periodo del « deserto », nel quale tutte le cose vengono
considerate criticamente ed « accantonate », avviene un processo di radicale distacco che lo porta
dalla fede giovanile nell’amicizia e nei discepoli, e dall’aspirazione a vivere per l’avvenire del
popolo, alla nuova fede, che si esprime in modo visionario, simbolico, di fatto senza legame con gli
uomini ed il popolo, nella tensione appassionata di una completa solitudine. Ulteriori suddivisioni,
specialmente della terza fase, potrebbero risultare eccessive. Definire il periodo centrale
semplicemente come positivistico e scientifico è sbagliato, tuttavia la suddivisione in tre
parti coincide con altrettanti decisivi mutamenti, ed effettivamente riprende la concezione stessa che
Nietzsche ha del proprio pensiero.
Come Nietzsche stesso ha inteso il proprio cammino filosofico. Nietzsche ha compiuto per ben due
volte — tra la prima e la seconda fase, e tra la seconda e la terza; in entrambi i casi, con piena
consapevolezza - un passo radicale nella trasformazione del suo pensiero, che è visibile sia
dal modo in cui egli si pone di fronte al proprio compito, sia nello stile. Nel considerare
retrospettivamente il proprio pensiero, egli non ha mai negato questa trasformazione, anzi l’ha
rilevata e sottolineata. Il senso di una tale comprensione di sé si è imposto a tutti i lettori di
Nietzsche. Dal punto di vista cronologico, il primo passo della trasformazione si colloca circa tra
il 1876 e il 1878, il secondo tra il 1880 e il 1882.
A partire dalla terza fase, Nietzsche ha interpretato a ritroso tutto il proprio cammino. Le tre fasi
non sono per lui una successione di vari momenti, che avrebbe potuto anche svolgersi diversamente,
ma sono invece una necessità, la cui dialettica interna ha appunto reso necessarie proprio queste tre
fasi. Nietzsche definisce questi tre periodi come il « cammino verso la saggezza » (13, 39).
«Prima fase: saper venerare (ubbidire ed imparare) meglio di chiunque altro. Raccogliere dentro di
sé tutte le cose degne di venerazione e farle combattere tra loro. Portare tutto quanto è grave e
difficile... - intrepidità, epoca della comunità... (Il superamento delle cattive inclinazioni meschine.
Il cuore vasto, solo con l’amore è possibile la conquista.) ».
Era il tempo in cui l’entusiasmo di Nietzsche per Wagner e Schopenhauer coinvolse anche i suoi
amici; in cui Nietzsche si sottopose alla disciplina dello studio filologico, ammirando con devozione
il suo maestro Ritschl; ma fu anche il tempo in cui ciò che Nietzsche piu ammirava entrò in un
profondo conflitto nel suo intimo (Wagner e Schopenhauer con i filologi, la filosofia con la
scienza); in cui egli non coltivava soltanto amicizie personali, ma frequentava ancora l’associazione
studentesca e quella filologica da lui fondata, in cui si sottopose ad una rigida disciplina,
cercando di liberarsi da ogni sentimento meschino, non appena ne avesse avvertito la presenza; in
cui egli, ovunque si recasse, allacciava rapporti umani con grande fervore e con la convinzione che
chiunque incontrasse fosse una persona degna del massimo rispetto. Così Nietzsche prosegue nel
descrivere l’atteggiamento che caratterizza la sua giovinezza:
« Seconda fase: spezzare il cuore venerante (proprio nel momento in cui si è maggiormente legati).
Lo spirito libero, indipendenza. Epoca del deserto. Critica di tutte le cose venerate (idealizzazione
di quelle non venerate). Tentativo di rovesciare le valutazioni (... nature come Duhring e Wagner o
Schopenhauer non sono ancora neppure su questo gradino!)».
Con un evidente contrasto che stupì gli amici, a partire dal 1886, Nietzsche assunse questo nuovo
atteggiamento che appariva come la negazione di tutto ciò che aveva precedentemente affermato. È
il periodo dei suoi « distacchi » e « superamenti ». Interrompere bruscamente la sua entusiastica
amicizia con Richard Wagner, al quale era profondamente legato, fu per Nietzsche la cosa più
difficile, che lasciò un segno in tutta la sua vita. Dopo il crollo di tutto ciò che aveva ammirato e
venerato, il suo esserci divenne inevitabilmente un deserto, nel quale rimase soltanto ciò che lo
aveva costretto ad imboccare inesorabilmente quella strada, vale a dire un amore illimitato ed
incondizionato per la veracità. In virtù di questa esigenza, egli si impose di capovolgere tutti i suoi
precedenti giudizi di valore, cercando di valutare positivamente (e idealizzare) ciò che in
passato aveva disprezzato (tutto ciò che va contro l’arte, che ha a che fare con la natura e la scienza,
gli scettici). Negli uomini fino ad allora stimati, cioè Wagner, Schopenhauer ed anche in Duhring,
che gli era solo apparentemente vicino nella critica ai valori della realtà del tempo, mancò
questo tentativo di giungere ad una completa veracità, poiché erano tutti prigionieri di una fede
assoluta, di uno spirito di adorazione, che non mette mai in discussione se stesso, ma prende tutto
come vero, come ovvio e scontato.
« Terza fase: grande decisione sulla capacità di assumere una posizione positiva, di affermazione.
Al di sopra di me né un dio, né un uomo! L’istinto di colui che crea, che sa dove cominciare. La
grande responsabilità e l’innocenza... (Solo per pochi: i più si perderanno già al secondo gradino.
Platone, Spinoza? forse riusciti?) ».7
Il tentativo di capovolgere i valori e di procedere dunque ad una critica negativa non poteva
rappresentare una meta. È importante che l’originaria forza creatrice della vita, che ha osato
giungere ad un tale punto estremo, sia capace di produrre il sì, cioè una risposta autenticamente
positiva ad ogni interrogativo. Questo atteggiamento positivo, affermativo, non deriva più da
qualcun altro, da Dio, da un uomo stimato, da uno « al di sopra di me », bensì dal mio stesso creare.
Ora è necessario
giungere all’estremo, ma in senso positivo, non più in quello negativo: « Riconoscere a se stesso il
diritto all’azione... Al di là del bene e del male. Egli ... non si sente umiliato nel sottostare al
destino: egli è destino. Egli ha in mano la sorte degli uomini » (13, 40).
A questa interpretazione retrospettiva del suo pensiero, che Nietzsche ha fornito in numerosi saggi
successivi, corrisponde perfettamente l’interpretazione che emerge già al tempo delle due
importanti trasformazioni del 1876 e del 1880.
(1) . A partire dal 1876 Nietzsche sostiene di aver abbandonato le idee metafisico-artistiche che
avevano dominato i suoi primi scritti (11, 399); prende le distanze da quella che ora definisce la sua
« superstizione del genio » (11, 403). « Soltanto ora potevo conseguire una chiara visione della vita
reale dell’uomo » (11, 123). E in una lettera scrive: « Quell’occultamento metafisico di tutto ciò che
è vero e semplice, la lotta della ragione alla ragione, ... proprio questo mi rese infine sempre più
malato... Ora  voglio liberarmi da tutto ciò che mi è estraneo: uomini, sia amici che nemici,
abitudini, agi, libri » (a Mathilde Maier, 15. 7. 78).
L’atteggiamento fondamentale di Nietzsche è che solo a partire da questo momento egli pensa di
essere veramente se stesso. Mentre prima parlava di filosofia e di filosofi, ora dà inizio ad una sua
propria filosofia. « Ora ho il coraggio di meditare sulla mia stessa saggezza, di essere io stesso
filosofo; prima veneravo gli altri filosofi » (a Fuchs, 6. 78). Si sente molto più vicino ai Greci: «
Ora io stesso vivo, fin nei minimi dettagli, aspirando alla saggezza, mentre prima veneravo i saggi e
ne ero infatuato » (a Mathilde Maier, 15. 7. 78).
(2) . Il secondo passo decisivo (a partire dal 1880), che lo porta dal « deserto » della negatività alla
creazione della nuova positività, deve giungere, in base alla sua natura, ad una comprensione più
profonda, e, cosi come la novità che si sta annunciando, all’inizio resterà ancora oscuro. Il processo
di autoconsapevolezza del proprio mutamento, con cui Nietzsche perviene ad una definitiva
comprensione di se stesso, si verifica tra il 1880 e il 1883. Si tratta di un processo che deve essere
seguito cronologicamente dai primi accenni fino al chiaro manifestarsi della novità.
Nietzsche è sempre stato pienamente consapevole di sé, e quindi anche del proprio compito. Già a
proposito della Nascita della tragedia egli scrisse a Gersdorff (4. 2. 72): « Conto su di un cammino
silenzioso e lento - attraverso i secoli, te lo dico con la massima convinzione. Giacché qui sono state
dette per la prima volta delle cose eterne, la cui eco prima o poi si farà sentire »; ma in queste parole
vi era nello stesso tempo - rispetto alla consapevolezza che Nietzsche manifestò in tempi successivi
-modestia, ovvero quasi spontaneità e moderazione, per quanto egli pensasse di appartenere, grazie
a questa sua prima importante opera, alla cerchia di quegli uomini in grado di influire
effettivamente sul corso della storia. Una tale modestia apparve ancor più marcatamente a partire da
Umano, troppo umano; in quel periodo, egli scriveva: « Non credevo di aver il diritto di avere dei
pensieri universali, e addirittura di esporli. Ancora adesso ho la sensazione di essere un misero
principiante!; il mio stato di solitudine e di malattia mi ha reso quasi familiare la “sfrontatezza”
della mia attività di scribacchino » (a Gast, 5. 10. 79).
Ora però, a partire dalla metà del 1880, la trasformazione - che aveva avuto un inizio pacato -
assume subito aspetti fuori dal comune. Il compito ancora non ben definito, che non si risolverà in
una creazione spirituale tra tante altre, bensì in un’opera che, secondo la sua stessa interpretazione
successiva, sarà destinata a dividere la storia del mondo in due parti, si preannuncia fin d’ora: « Mi
sembra di aver trovato nel frattempo l’ingresso e l’uscita; e purtuttavia, in qualche modo credo e
subito dopo rifiuto centinaia di volte questo pensiero » (a Gast, 18. 7. 80). Poi le prime frasi scritte
da Marienbad lasciano trasparire la certezza di essere all’inizio: « È certo che, da Goethe in poi,
nessuno ha mai pensato tanto e così intensamente, e forse neppure a Goethe sono passate per la testa
cose così profonde » (a Gast, 20. 8. 80). « Spesso non so come io possa sopportare insieme la mia
debolezza (intellettuale, fisica, ecc.) e la mia forza (nel considerare le prospettive ed i compiti
futuri) » (a Overbeck, 31. 10. 80); è proprio questa forza che rappresenta per lui una novità
sconvolgente e sconcertante: « Sono dominato da impulsi cosi forti ed elevati che, se non possedessi
qualcosa che fa loro da contrappunto » (Nietzsche si riferisce alla malattia, che lo indebolisce
ripetutamente e quindi gli ricorda i limiti dell’uomo) « impazzirei... Non mi sono ancora liberato
dalla sofferenza che mi ha afflitto per due giorni, che già la mia pazzia rincorre pensieri incredibili...
Vivo come se i secoli fossero un nonnulla » (a Overbeck, 11. 80). Di pari passo procedono i giudizi
sui suoi nuovi lavori, che egli ora non vede più come il prodotto di uno scribacchino o di
un’attività puramente e semplicemente letteraria. Scrive Nietzsche a proposito di Aurora: « Credi
che si tratti di un libro? Anche tu mi ritieni ancora e soltanto uno scrittore? È giunto il mio momento
» (alla sorella, 19. 6. 81); e ancora: « È uno dei migliori nutrimenti dello spirito... è un inizio tra i
miei inizi - che cosa mi attende ancora!... Sono all’apice della mia vita, cioè della mia missione... »
(a Overbeck, 9. 81). Quella che Nietzsche ha successivamente indicato come la terza fase è ora
rappresentata da un destino che lo sprona continuamente e che egli avverte come il suo proprio
destino.
I mesi di luglio ed agosto di quell’anno sono il periodo che Nietzsche, fino all’ultimo, ricorda come
l’origine del suo pensiero più profondo (l’eterno ritorno), la cui fondamentale importanza emerge
chiaramente anche nelle lettere del tempo: « Sono apparsi al mio orizzonte pensieri che non ho mai
avuto fino ad ora - bisogna che io viva ancora qualche anno » (a Gast, 14. 8. 81).
Già dal 1881 Nietzsche è intimamente convinto che qualcosa di veramente nuovo stia per iniziare.
Ciò provoca in lui spavento e la consapevolezza che si tratti di qualcosa di estremamente serio. « Se
hai letto il Sanctus Januarius » (dalla Gaia scienza), scrive a Overbeck (9. 82), « avrai notato che ho
dato una svolta decisiva al mio pensiero. D’ora in poi sarà tutto nuovo per me, e non trascorrerà
molto tempo prima che riesca ad individuare anche il terribile volto del compito che mi attende
». Questo elemento di novità appare per la prima volta, in modo compiuto, nello Zarathustra, anche
se le prime tracce sono già presenti in Aurora, e le fasi iniziali sono già ben definite nella Gaia
scienza. In previsione di questa novità - ancor prima della stesura di Zarathustra - Nietzsche
annovera la Gaia scienza, già nel momento della sua conclusione, tra le opere ormai superate del
secondo periodo; con essa « si è concluso il lavoro di sei anni (1876-1882), cioè tutto quello che
consideravo “espressione di uno spirito libero” » (a Lou, 1882). Con il primo libro dello
Zarathustra, al contrario, Nietzsche è già consapevole della straordinaria svolta che si verifica nella
sua opera.
« Nel frattempo ho scritto il mio migliore libro ed ho compiuto quel passo decisivo per il quale
l’anno scorso non avevo avuto il coraggio » (a Overbeck, 3. 2. 83). « È finito il tempo del silenzio:
il mio Zarathustra... ti rivela quale alto volo abbia spiccato la mia volontà... Dietro tutte quelle
parole schiette ed insolite si celano la mia più profonda serietà e tutta la mia filosofia. E' solo
un inizio per farmi conoscere - nient’altro! » (a Gersdorff, 28. 6. 83). « Si tratta di una grandiosa
sintesi, che credo non sia stata ancora concepita dalla mente e dall’anima di nessun uomo» (a
Overbeck, 11. 11. 83). «Ho scoperto il mio nuovo mondo, di cui nessuno sapeva ancora nulla; ora
devo veramente conquistarmelo passo dopo passo » (a Overbeck, 8. 12. 83).
I cambiamenti del pensiero di Nietzsche, tanto quello che si verifica a partire dal 1876, cosi come
quello a partire dal 1880, non costituiscono solo un’evoluzione intellettuale nel corso della quale si
sviluppa una nuova idea, bensì un evento esistenziale, che egli chiarisce successivamente in
una forma adeguata al suo schema dialettico. Per sottolineare la profonda importanza di questo
avvenimento, in entrambi i casi Nietzsche parla di un cambiamento di « gusto ». « Gusto » è per
Nietzsche il concetto per definire qualcosa che precede sostanzialmente ogni pensiero, ogni
intuizione, ogni giudizio di valore: « Ho un gusto, ma nessuna motivazione, nessuna logica, nessun
imperativo che giustifichi questo gusto» (a Gast, 19. 11. 86). Ma questo gusto è per lui un’istanza
decisiva che gli parla dal profondo dell’esistenza.
Dopo il 1876, Nietzsche riscontra per la prima volta, al di là di tutti i contenuti, un cambiamento del
suo « gusto »; vede e vuole la « differenza di stile »: al posto del « tono ampolloso, enfatico ed
incerto » dei suoi primi scritti, aspira ora « alla massima precisione dei legami, all’agilità di ogni
movimento e alla piu prudente moderazione nell’uso di ogni mezzo artistico, patetico e ironico»
(11, 402). Non sopporta piu i suoi primi scritti, poiché parlano «la lingua del fanatismo» (11, 407).
Dopo il 1880 si possono trovare alcune affermazioni riguardo al suo nuovo gusto. A proposito della
Nascita della tragedia e di Umano, troppo umano, Nietzsche scrive: « Non sopporto piu tutta
questa roba. Con il mio gusto spero di andare oltre il Nietzsche “scrittore e pensatore” » (a
Gast, 31. 10. 86); e nell’ultimo anno (1888), ricordando il giorno in cui ebbe l’idea dell’eterno
ritorno, scrive: « Se torno indietro di un paio di mesi da quel giorno, trovo come segno premonitore
un cambiamento improvviso, profondo, decisivo del mio gusto... » (15, 85-86).
La terza fase in particolare. Il presente schema potrebbe indurre a pensare che nella terza fase
(1880-1888), iniziata con la seconda svolta, Nietzsche abbia conseguito la verità, completa e
definitiva, e sia riuscito ad esporla nella sua opera. Anche questo periodo è invece in continua
evoluzione. In esso Nietzsche pretende il massimo da se stesso, e cerca con coraggio di raggiungere
qualcosa di straordinario. Ciò che è più interessante in questo periodo è il modo in cui Nietzsche si
dedica al suo compito, la cui realizzazione è ormai imminente. Il conseguimento di un risultato non
lo appaga, ma, al contrario, lo rende ancor più consapevole che molto, per non dire tutto, sia ancora
da fare. Anche in questo caso, bisogna dunque prendere in considerazione i suoi progetti, così come
il suo giudizio su ciò che è stato fatto, in ordine cronologico, sulla base dei documenti in
nostro possesso.
Per due volte ancora, cioè nel 1884 e nel 1887, l’atteggiamento di Nietzsche è quello di chi giunge
contemporaneamente ad una conclusione e ad un inizio essenzialmente nuovo.
(1). Quando Zarathustra viene interrotto, ancora incompiuto, nasce un nuovo progetto filosofico. Si
può parlare di progetto, in quanto è abbozzato uno schema sistematico per l’opera che deve esser
portata a termine; si può anche parlare di un piano di lavoro, in quanto sono necessari nuovi studi.
Nietzsche vuole operare una « revisione » delle sue « idee metafisiche e gnoseologiche ». « Adesso
devo apprestarmi gradualmente allo studio di numerose discipline, poiché ho ormai deciso di
dedicare i prossimi cinque anni all’elaborazione della mia filosofia, di cui Zarathustra costituisce
solo un’introduzione » (a Overbeck, 7. 4. 84). Perseguendo questa intenzione, due mesi dopo
Nietzsche scrive: « Ora, dopo aver costruito questo ingresso della mia filosofia, devo rimettermi al
lavoro... finché non avrò completato la parte centrale  del mio edificio... nei prossimi mesi voglio
tracciare lo schema della mia filosofia ed il progetto per i prossimi sei anni » (alla sorella, 6. 84).
Dopo tre mesi, l’elaborazione di questo schema è completata: « Ho portato a termine... il compito
più importante di questa estate, - i prossimi sei mesi saranno dedicati all’elaborazione di uno
schema con il quale ho delineato la mia filosofia » (a Gast, 2. 9. 84).
Tuttavia si tratta inizialmente solo di un piano di lavoro e del progetto di un’opera. Qualcosa di
nuovo e di oscuro cerca di venire alla luce. Il distacco da tutto ciò che aveva finora prodotto,
compreso Zarathustra, deve essere radicale: « Tutto ciò che ho scritto fino ad ora è solo la
parte esterna del mio edificio... Ora ho a che fare con cose pericolose; il fatto che io, da una parte,
raccomandi in modo popolare ai tedeschi Schopenhauer
e Wagner, e dall’altra pensi a Zarathustra, ebbene, si tratta per me di esperienze, ma soprattutto di
nascondigli nei quali mi posso rifugiare ancora un po’ » (alla sorella, 20. 5. 85). Tutto preso dalle
sue teorie, spinto dallo stimolo fondamentale che le unifica e dalla consapevolezza della presenza di
qualcosa di incredibilmente nuovo, Nietzsche si chiede se sia possibile dire ciò che vi è di
autenticamente profondo: « Ho dettato quasi ogni giorno, per due o tre ore, ma la mia “filosofia”, se
ho il diritto di chiamare cosi ciò che sprofonda sino alle radici del mio essere, è qualcosa che non
riesco piti ad esprimere, perlomeno attraverso gli scritti... » (a Overbeck, 2. 7. 85).
Nietzsche però non si limita ora alla rielaborazione della « parte centrale » della sua filosofia, e non
aspetta sei anni. Al contrario, scrive e pubblica inizialmente Al di là del bene e del male e La
genealogia della  morale, scritti che espongono nel modo piu compiuto il suo pensiero filosofico -
nella misura in cui egli stesso lo rese noto - senza essere però sistematici. Ma ciò costituiva soltanto
una parte provvisoria dell’opera principale, non il suo esito finale; Nietzsche annovera questi scritti
tra quelli « preparatori ». E non si sbagliava; dopo aver terminato la loro stesura, egli era soltanto
divenuto più consapevole del proprio compito. Per la seconda volta (1887), abbiamo molte
testimonianze per poter affermare che Nietzsche è consapevole di essere alla conclusione di
qualcosa e all’inizio di qualcosa di nuovo.
(2). In parte si tratta di piani di lavoro e progetti di opere, simili a quelli del 1884. Sembra che
ancora una volta, nel 1887, lo abbia colpito una crisi profonda, il cui contenuto non è altro che
l’unica grande filosofia del terzo periodo. Riportiamo alcune sue affermazioni a tal riguardo,
in ordine cronologico.
Come nel 1884, scrive Nietzsche: « Grava su di me il pesante fardello di dover erigere nei prossimi
anni un edificio di pensieri concatenati » (a Overbeck, 24. 3. 87). Ma deve essere successo qualcosa
che può ora essere interpretato come una svolta: « Sento che è arrivato un momento della mia vita
in cui devo affrontare il mio grande compito! » (a Gast, 19. 4. 87). E' una svolta che non è
accompagnata, come era invece avvenuto nel 1884, dall’esigenza di approfondire nuovi campi del
sapere: « Sento l’urgente bisogno di un totale isolamento, più che di apprendere e fare ricerche,
occupandomi di cinquemila singoli problemi » (a Gast, 15. 9. 87). Si tratta nuovamente di un
progetto a lunga scadenza: « Per molti anni non darò più nulla alle stampe - devo assolutamente
ripiegarmi su me stesso, riflettere ed attendere, finché non potrò cogliere i frutti più maturi del mio
albero » (a Overbeck, 30. 8. 87). Scrive a proposito della Genealogia della morale: « Del resto, con
questo scritto è terminato il mio lavoro preparatorio » (a Overbeck, 30. 8. 87). Qualche mese
dopo, scrive, sempre a Overbeck: « Mi sembra che per me si stia quasi concludendo un’epoca» (a
Overbeck, 12. 11. 87). Di ciò, egli diviene sempre più consapevole: « Sto... facendo i conti con tutto
ciò che mi circonda, uomini e cose, e sto tirando le somme su tutto il mio “fino ad ora”. Quasi tutto
quel che sto ora facendo è chiudere con il passato... d’ora in poi, se voglio passare ad una nuova
forma, ho innanzitutto bisogno di estraniarmi... » (a Fuchs, 14. 12. 87).
La consapevolezza di un taglio con il passato è definitiva: « La mia vita è chiaramente nel pieno
della sua fioritura: una porta si chiude, un’altra si apre... a poco a poco ho tagliato i ponti con il
resto del mondo. È difficile poter dire chi e che cosa si salva ai miei occhi, ora che sto passando alla
cosa principale della mia esistenza...: è questo, ora, un problema capitale... » (a Gersdorff, 20. 12.
87). « Il mio compito è ora quello di raccogliermi il piu profondamente possibile in me stesso... in
modo che il frutto della mia vita diventi lentamente maturo e dolce » (alla sorella, 26. 12. 87).
Nietzsche non percorre però la nuova strada, cosi come si era ripromesso. Gli accade qualcosa di
diverso, che lo avvince. Invece di non dare più nulla alle stampe per anni, invece di lasciar maturare
nella meditazione il frutto del suo pensiero, inizia già dopo qualche mese la serie degli
scritti dell’anno 1888. Getta in pasto al mondo, nello stesso anno e con un ritmo incalzante, questi
scritti aggressivi (Il caso Wagner, Il crepuscolo degli idoli, L’anticristo) e il suo Ecce homo. Non
più impegnato a costruire il suo intero edificio filosofico, ma intenzionato piuttosto ad intervenire
momento per momento nella storia, per portare subito la crisi dell’Europa al suo apice, egli alza
ancor più la sua voce già forte, poco prima che la malattia cerebrale lo porti al piu completo
silenzio.
Ci chiediamo, sulla base delle testimonianze personali di Nietzsche, se, conformemente alle sue
intenzioni, la sua opera sia giunta a compimento, o anche solo - includendo tutti gli scritti postumi -
a quella chiarezza soggettiva di contenuto a cui egli pensava.
La prima indicazione del mancato conseguimento di questo obiettivo è costituita dal fatto che, dal
1884 fino al 1888 inoltrato, Nietzsche continuamente dichiara, e spesso con le stesse parole, che ha
già presente dentro di sé la visione della totalità, ma la sua realizzazione nell’opera deve ancora
avvenire. Ciò che, a partire dal 1884, si imponeva alla sua coscienza ed alla sua volontà non ha mai
realmente preso forma. Egli sa certamente cosa vuole: «C’erano... momenti in cui questo mio
compito mi appariva chiaro, in cui una straordinaria totalità di pensieri filosofici (dovrei dire più di
ciò che comunemente si dice filosofico!) si dispiegava davanti ai miei occhi... » (a Overbeck, 20. 8.
84). Ma, ancora nel 1888, si trova nella stessa condizione, cioè vede la totalità dinnanzi a sé, senza
riuscire però a trasfonderla nell’opera: « I tratti di questo compito indubbiamente inaudito che ora
sta innanzi a me, emergono sempre più chiaramente dalla nebbia che li avvolge » (a Overbeck, 3. 2.
88). « Quasi ogni giorno ho avuto per una o due ore la forza sufficiente per riuscire a farmi un’idea
completa della mia concezione... » (a Brandes, 4. 5. 88). Si rallegra del fatto che Peter Gast sembri
avvertire questa totalità, anche se solo sulla base di scritti frammentari: « Lei è in grado di notare
che c’è un tutto. Qualcosa che cresce, cosi mi sembra, dentro alla terra, e che nello stesso
tempo vola in alto, nel cielo azzurro » (a Gast, 12. 4. 87). Nietzsche sa però che questo tutto ancora
non c’è.
Quando, negli ultimi mesi della sua vita ancora cosciente, e sicuro del suo successo, nell’Ecce homo
Nietzsche offre con grande soddisfazione
una visione d’insieme di tutta la sua opera, non si tratta più del corpo centrale del suo edificio
filosofico, che egli aveva progettato di costruire. Il cammino che voleva precedentemente
intraprendere viene abbandonato già con gli scritti del 1888. Quello che ora gli sembra importante
fare va di pari passo con la consapevolezza di un successo totale che era prima quasi del tutto
assente (egli provò una sensazione analoga, ma nient’affatto identica, soltanto durante i giorni
dell’ispirazione dello Zarathustra): « In sostanza, avverto più che mai la tranquillità e la certezza di
essere non solo sulla strada giusta, ma addirittura di essere prossimo ad una grande meta » (a
Overbeck, 9. 88). « Mi sento ora come l’uomo più riconoscente della terra - il mio animo è
autunnale, nel miglior senso del termine, è il tempo della mia grande vendemmia. Tutto mi risulta
facile, tutto mi riesce, sebbene difficilmente qualcuno abbia mai avuto fra le mani cose di tale
portata » (a Overbeck, 18. 10. 88). Qui inizia quel soggettivo compimento delle ultime settimane
che Nietzsche, prima dell’esplosione della follia, passò in uno stato di permanente felicità.
Una seconda indicazione della mancata realizzazione dell’opera progettata da Nietzsche è costituita
dalle ultime affermazioni con cui egli interpreta la propria opera, prima che irrompa il nuovo
travolgente impeto dell’anno 1888. Quando, alla fine del 1887, chiude con il passato, Nietzsche
aggiunge: « A dire il vero, questa esistenza si è fino ad ora presentata per quel che realmente è - una
semplice promessa » (a Gast, 20. 12. 87). E non molto tempo prima della fine, dice a Deussen di
augurarsi, per alcuni anni, soltanto una cosa, cioè silenzio e oblio « per ciò che deve maturare », e
gli annuncia ciò che sta per accadere: « la tardiva approvazione e giustificazione di tutto il mio
essere (di un essere altrimenti eternamente problematico per tanti altri motivi!) » (3. 1. 88). Egli è
indubbiamente consapevole di avere « raggiunto molto, nonostante tutto », ma in fondo constata: «
Io stesso non sono andato oltre i tentativi e i rischi, oltre i preludi! e le promesse di ogni genere » (a
Gast, 13. 2. 88). Ma non gli fu concesso di andare oltre. Invece di riuscire a mantenere le
promesse, lo assalì quello sconvolgente impulso aggressivo che lo doveva portare agli scritti
dell’ultima metà del 1888.
Ciò che rimane costante in tutto lo sviluppo. Se si considera l’andamento dello sviluppo nella sua
totalità, si nota come venga messa in risalto la terza fase. Essa mostra la grandezza e l’originalità
dell’ultima filosofia di Nietzsche, ed anche il suo più forte consolidamento dogmatico. Le altre
fasi appaiono come preparatorie e preliminari. È lecito tuttavia chiedersi se non vi sia sempre stato
un elemento costante nel pensiero di Nietzsche, e se le prime due fasi, proprio in quanto preliminari,
non avessero per lui un significato diverso rispetto alle altre persone che con lui condividevano
essenzialmente l’atteggiamento spirituale di queste prime fasi.
Si può infatti riscontrare una componente affine, presente in tutte e tre le fasi, benché appena
percepibile, che, nella sua autentica dimensione, sembra presentarsi soltanto più tardi e che, di fatto,
rimane invariata rispetto a prima. Per esempio, quando Nietzsche nella seconda fase sviluppa l’idea
dello « spirito libero », non si tratta affatto di una rottura con il passato, con il suo essere
precedente, e di un passaggio allo « spirito libero » contemporaneo. Non intende lo spirito libero nel
senso di un libertino o di un patetico seguace della libertà. Non vuole « trasformare in idolo nessuna
caricatura della libertà spirituale ». Vuole piuttosto isolare e spingere all’estremo il rigore di un
pensiero - che in fondo egli ha sempre messo in pratica — che procede per tentativi, che rinuncia ad
ogni fede. Dal bisogno di spezzare gli ideali, egli pensa di trovare la libertà densa di significati
concreti, di cui egli vive. Già in questa seconda fase non è affatto sua intenzione elaborare un
pensiero qualsiasi, bensì « tendere su di un secolo una fascia magnetica, fuori da una camera di
morte fin nella camera dove nascono le nuove libertà dello spirito » (11, 10). Il Nietzsche di questa
seconda fase vuole ed esalta soprattutto la scienza, anche se prima ed in seguito la mette in
discussione in modo così radicale. Ora la accentua soltanto e, come se si risvegliasse da un sogno,
pensa che sia « necessario far proprio l’intero positivismo »; egli intende riferirsi alla necessità di un
sapere realistico, ma subito aggiunge di non volere essere considerato come un positivista, bensì
come « un portatore di idealismo » (11, 399),
Gli scritti postumi consentono di notare che in Nietzsche è spesso già presente sotto forma di
pensiero ciò che egli non ha ancora reso noto pubblicamente, e che dirà esplicitamente soltanto in
un momento successivo o non dirà mai. L’omogeneità degli elementi apparentemente contraddittori
nelle sue affermazioni si fa sempre piu chiara. L’esempio forse più significativo è costituito dagli
appunti critici su Richard Wagner dell’anno 1874, che contengono già tutti i punti di vista essenziali
della feroce polemica del 1888, anche se, ancora nel 1876, Richard Wagner a Bayreuth fu scritto
con l’accordo entusiastico del maestro. Ciò è anche confermato dal fatto che nel 1886 Nietzsche
ammette che, già all’epoca degli scritti su Wagner e Schopenhauer (del primo periodo), non credeva
« più a nulla, come dice il popolo, e nemmeno a Schopenhauer»: proprio in quel periodo nacque
un’opera tenuta segreta, Su verità e menzogna in senso extramorale (3, 4), che effettivamente
contiene già quella profonda interpretazione della verità che è propria del suo pensiero filosofico
successivo.
Se l’andamento dello sviluppo mostra già di per sé chiaramente che la seconda crisi è profonda,
un’analisi più approfondita evidenzia che il terzo periodo non rappresenta la pace interiore
finalmente raggiunta, ma la nuova espressione di un pensiero che è in crisi in tutti i momenti.
Così come tutta la vita di Nietzsche è attraversata da un entusiasmo che trova la sua espressione più
immediata solo nel primo periodo, essa è anche percorsa da una negatività che nel secondo periodo
appare come fredda analisi, e nel terzo come sconvolgente consapevolezza della crisi. Anche se
negli anni 1880 e 1881 sembra iniziare un periodo denso di soddisfazioni, rimane il fatto che per
Nietzsche ogni crisi significa un abbandono, una rinuncia determinata dalla sua esigenza - intensa,
anche se provvisoriamente ancora indeterminata - di intraprendere qualcosa che deve essere portato
a termine nell’immediato futuro; egli rinuncia, senza avere un nuovo terreno, abbandona ogni porto,
per affrontare lo sconfinato mare aperto. Non gli basta aver portato a termine Zarathustra;
inflessibile, gli si presenta ancora innanzi il suo compito, che gli impone nuovi obiettivi. È come se
tutto ciò che è positivo gli si presentasse sempre attraverso un processo di negazione, o addirittura
come la negazione stessa. In altri termini, ciò che è positivo sembra attrarlo, ma in modo del tutto
illusorio, nel senso che Nietzsche si sforza di afferrarlo, ma, non appena vi riesce, subito si accorge
che si tratta di qualcosa di diverso da ciò che si attendeva. Perciò la negazione si compie proprio là
dove Nietzsche viene veramente colpito e, per cosi dire, ferito dall’essere, che non era ancora
stato raggiunto nella sua verità. È come se Nietzsche, quando tenta di cogliere in qualcosa ciò che vi
è di positivo, fosse invece egli stesso colpito da ciò che è veramente positivo, che gli fa
inesorabilmente perdere ciò che egli effettivamente ha colto. Il fatto che Nietzsche provi sempre di
nuovo questa esperienza, e che si pieghi consapevolmente ad una tale illimitata esigenza,
rappresenta la crisi della sua vita interiore: una crisi costante, che raggiunge le sue punte piu
evidenti solo in alcuni momenti.
Un’ulteriore conferma di questo elemento costante della vita e del pensiero di Nietzsche si ha
allorquando egli si occupa in modo convincente, attraverso un’interpretazione retrospettiva, dei suoi
primi scritti, considerandoli praticamente identici al suo ultimo pensiero filosofico. Cosi, nella sua
successiva autocritica (1886) alla Nascita della tragedia (di cui egli rifiuta la « metafisica da artisti
», il « tratto romantico » e la « consolazione metafisica »), Nietzsche vede la propria volontà
sostanzialmente identica dall’inizio alla fine, e precisamente nel rinnovarsi di Dioniso. Egli
ritiene di giungere sempre alle stesse conclusioni: « Esse si trovano già, per quanto ancora in una
forma piu che mai celata ed oscura, nella mia Nascita della tragedia, e tutto ciò che ho appreso di
nuovo nel frattempo è cresciuto al suo interno ed è diventato una sua parte » (a Overbeck, 7.
85). Egli avverte la presenza, nei suoi primi scritti, degli stessi stimoli da cui è animato anche negli
anni successivi: « Rileggendo ciò che ho scritto... mi sono accorto con piacere che ho ancora tutti
quei forti impulsi della volontà che si esprimono in quegli scritti... Del resto, ho vissuto così come
mi ero ripromesso » (specialmente in Schopenhauer come educatore) (a Overbeck, estate 84). Dice
infine a proposito degli scritti su Schopenhauer e su Wagner: « Entrambi parlano solo di me,
anticipando...** In essi, non sono né Wagner, né Schopenhauer che si presentano sotto un profilo
psicologico » (a Gast, 9. 12. 88).
Al contrario, fin dagli inizi Nietzsche ha già espressamente anticipato non solo ciò che egli stesso
voleva diventare, ma anche ciò che effettivamente diventerà. Già prima del 1876 scrive frasi che
suonano come il presagio della propria fine: « Terribile solitudine dell’ultimo filosofo! La natura lo
fissa circondandolo, gli avvoltoi volano sopra di lui» (10, 146);
in quel periodo scrive i Discorsi dell’ultimo filosofo con se stesso: « Chiamo me stesso l’ultimo
filosofo, poiché sono l’ultimo uomo. Nessuno parla con me se non io stesso, e la mia voce giunge a
me come quella di un morente... per opera tua mi illudo di sfuggire alla solitudine e mi insinuo nella
pluralità e nell’amore, poiché il mio cuore... non sopporta l’orrore della piu solitaria solitudine e mi
costringe a parlare come se io fossi sdoppiato » (10, 147). Cosi scrive Nietzsche quando, professore
a Basilea, è ancora circondato da amici, al tempo dell’entusiasmo per Wagner, del successo della
Nascita della tragedia, quando nessuno Zarathustra era ancora apparso al suo orizzonte.
In conclusione, ciò che piu sorprende è che negli Scritti giovanili (1858-1868) emergano già
impulsi e pensieri della sua successiva filosofia.
Già allora per lui il cristianesimo non è piu soltanto la forma attraverso la quale si rende conto della
profondità, ma costituisce già un problema: « Grandi sconvolgimenti sono imminenti, una volta che
la massa abbia capito che l’intero cristianesimo si fonda su ipotesi: l'esistenza di  Dio, l’immortalità,
l’autorità della Bibbia, l’ispirazione e altre cose ancora rimarranno sempre problematiche. Io ho
cercalo di negare tutto: ahimè, abbattere è facile, ma costruire! » (1862, p. 61). Parla della « rottura
con tutto l’esistente », del « dubbio che l’umanità per duemila anni si sia lasciata indurre in errore
da una chimera » (p. 62).
Piu avanti appare già l’idea dell’uomo che diventa piti di un uomo: « Soltanto nature perfette e
profonde possono dedicarsi in modo così intenso e inaudito ad una passione, al punto di sembrare
quasi superare i limiti dell’umano » (1862, p. 90). L’essere-più-che-umano, nel suo sviluppo storico,
è già qui concepito nel vuoto orizzonte di un futuro senza limiti, ed è posto in relazione con l’eterno
divenire: « Non sappiamo affatto se l’umanità stessa non sia altro che un gradino, un periodo
nell’universale, nel divenire... Questo eterno divenire avrà mai una fine? » (p. 62).
Anche le riflessioni positivistiche, tipiche dell’epoca, sono già presenti, per esempio, quando
Nietzsche si chiede cosa induca l’anima di tanti uomini ad abbassarsi a ciò che è ordinario, e cosi
risponde: « La conformazione, determinata dal fato, del cranio e della spina dorsale, il ceto e la
natura dei genitori, la quotidianità dei loro rapporti... » (p. 64).
Come se presupponesse le sue successive intenzioni dell’anno 1888, Nietzsche afferma: « Non
appena fosse possibile con una forte volontà rovesciare tutto quanto il passato del mondo,
entreremmo nella schiera degli dei indipendenti »; ma subito dopo si rende conto che « la storia del
mondo non sarebbe per noi altro che oblio e distacco da se stessi nel sogno; cala il sipario, e l’uomo
ritrova se stesso... come un bambino che alla luce del mattino si risveglia e ridendo cancella dalla
fronte i sogni paurosi » (p. 65).
Il destino di Nietzsche è inquietante: all’età di quindici anni (1859), per esempio, parla già di una
liberazione verso la radicale indipendenza di un pensiero non definitivo, ma che procede per
tentativi:
« Nessuno avrà l’ardire
Di farmi una domanda:
La patria mia dov’è?
Legato mai mi tennero
Luoghi ed ore fugaci,
Libero come l’aquila ».
Amici e solitudine
L’intenso desiderio di comunicare e, nonostante ciò, la crescente solitudine costituiscono un aspetto
fondamentale della vita di Nietzsche. I documenti che testimoniano questo aspetto sono le sue
lettere, parte integrante e significativa della sua opera, che, come si è detto, non può essere
separata dalla sua vita.
Nietzsche ha avuto come amici persone di alto livello. Ha allacciato rapporti con gli spiriti piu
illustri del suo tempo. Era circondato da un gruppo di persone non comuni. Tuttavia non è mai
riuscito veramente a costruire un legame solido con nessuno di loro.
Lo studio delle sue amicizie - considerate nei loro aspetti specifici, nelle fasi del loro sviluppo, nel
loro fallimento - rappresenta un insostituibile modo di accedere all’essere e al pensiero di
Nietzsche, Si tratta di un’esperienza senza precedenti quanto a possibilità di amicizia, non nel senso
del numero di persone che gli erano accanto, ma per le possibilità di amicizie essenzialmente
diverse che si presentarono a Nietzsche nel corso della sua vita. Il nostro compito è quello di
delineare - in modo conciso, attraverso l’analisi di fatti accertati - dapprima queste possibilità, poi
il loro esito, cioè la solitudine.
Nietzsche era profondamente legato a due amici: Erwin Rohde e Richard Wagner. Queste amicizie
non durarono a lungo; ma entrambi rimasero comunque intimamente presenti nella vita di
Nietzsche. Finché visse con loro non fu mai veramente solo, ma, dopo la separazione, cadde nella
più completa solitudine.
In una tale condizione, Nietzsche cercò di allacciare nuove amicizie (Paul Rée, Lou Salomé, H. v.
Stein); non erano certo persone dello stesso livello degli amici che aveva perso, ma furono
comunque amicizie di una certa importanza. Anche nel rapporto con ciascuna di loro andò
incontro a delusioni, e dovette constatare un nuovo fallimento nel campo delle relazioni umane.
Sullo sfondo degli avvenimenti di questo periodo vi è la figura di Peter Gast, che costituisce una
sorta di compensazione per tutto ciò di cui Nietzsche sente la mancanza, e che, pur non giocando un
ruolo fondamentale per lui, ne rappresenta le illusioni.
Accanto alle alterne vicende di queste amicizie fallimentari, vi sono altri rapporti umani più
duraturi che determinarono la sua vita, pur senza influenzare in profondità il suo essere e ri suo
compito dal punto di vista esistenziale. Anche nei rapporti umani più duraturi, di cui pure
Nietzsche avverte la necessità, non vi è comunque per lui nessuna certezza, sia che si tratti dei
rapporti con i parenti, sia di quelli con altre persone (che cambiano continuamente, vanno e
vengono, ritornano, e con le quali Nietzsche non ha dunque mai instaurato un legame profondo), sia
nei contatti intellettuali con molti uomini importanti, sia infine nel caso del fedele Overbeck.
Il risultato è, in ogni caso, una profonda solitudine. Bisogna chiedersi come mai in Nietzsche essa
sia divenuta necessaria in quanto esistenza dell’eccezione: se si presuppone che in Nietzsche vi sia
quella difficoltà che è fondamento e condizione di ogni comunicazione, allora si comprende ancor
meglio come il suo compito lo consumi nel suo esser uomo e nelle sue possibilità di stringere
amicizie. Anche se la risposta ad una tale domanda risulta difficile, essa tuttavia chiarisce come
Nietzsche stesso veda la propria solitudine.
Rohde e Wagner. Soltanto due amici furono per Nietzsche determinanti: Erwin Rohde, l’amico della
giovinezza, e Richard Wagner, l’unico artista e uomo creativo che Nietzsche, piu giovane di
trent’anni, frequentò, provando per lui infinita ammirazione.
Il momento piu significativo dell’entusiastica amicizia inter pares tra Nietzsche e Rohde8 fu l’anno
1867. Quando arrivavano a scuola «in tenuta da equitazione, con il frustino ancora in mano,
raggianti di gioia, pieni di salute e baldanza giovanile, erano guardati dagli altri con meraviglia,
come due giovani dei » (Der junge Nietzsche, p. 190). Li chiamavano i dioscuri. Essi stessi si
consideravano, nei confronti di tutti gli altri uomini messi insieme, « come su di un piedistallo che li
isolava da tutti » (Rohde a Nietzsche, 10. 9. 67). Ciò che li univa era la serietà di una comunità
etico-filosofica: non appena « i loro discorsi toccavano profondità sconosciute, risuonava un
accordo pieno e calmo» (Biogr., I, 243). Il carteggio che iniziò durante quell’anno portò avanti il
loro scambio di idee: comune era il loro atteggiamento di rifiuto dell’« epoca contemporanea », il
loro amore per Schopenhauer e Wagner, la loro concezione degli studi filologici, la loro
assimilazione della grecità. Soltanto nel 1876, quando Rohde si sposò, il carteggio si fece piu rado,
si interruppe per periodi sempre piu lunghi, si limitò ad alcune comunicazioni ed ai saluti, per poi
interrompersi bruscamente nel 1887.
Le lettere dal 1867 al 1876 sono l’incomparabile documento di un’amicizia giovanile tra studenti di
alto livello intellettuale. Che questa amicizia non sia durata a lungo, è stato per Nietzsche il frutto di
un inevitabile destino; ma nello stesso tempo gli dimostrò che, con la sua assoluta esigenza di una
veridicità esistenziale, non poteva vivere nel mondo borghese, benché i suoi rappresentanti fossero
di grande nobiltà umana. Dobbiamo ora chiederci come siano giunti alla separazione.
Le lettere dal 1867 al 1876, se considerate alla luce del fallimento successivo, presentano alcuni
aspetti che possono essere interpretati come tracce fondamentali dell’incombente pericolo.
Rohde si considera come colui che prende, Nietzsche come colui che dà. Egli è lo scolaro di fronte
al maestro, l’uomo improduttivo di fronte all’uomo creativo: « Talvolta sento in me l’incapacità di
seguirti, credo cioè di non essere in grado di pescar perle con te ad una tale profondità,, mentre mi
diletto invece come un bambino con i gobioni ed altri parassiti filologici... Ma i miei pensieri sono
con te nei miei momenti migliori... ecco perché dobbiamo rimanere sempre uniti, mio caro amico,
anche se uno scolpirà preziose raffigurazioni di dei, mentre io dovrò accontentarmi di modesti
lavori di intaglio» (22. 12. 71).
Il vincolo d’amicizia tra i due è piu forte per Rohde che per Nietzsche, il quale, anche nell’ambito di
tale rapporto, è già concentrato sulla profondità del proprio compito. Il tono generale delle lettere
mostra una fervida abnegazione da parte di Rohde. È come se Rohde si
concentrasse esclusivamente sull’amico. È lui che chiede spesso a Nietzsche di scrivergli una
lettera; è lui che si preoccupa che Nietzsche sia fedele e bendisposto nei suoi confronti,
Tutto ruota insomma intorno a Nietzsche. Rohde non aveva nulla che si potesse paragonare agli
scritti e ai progetti di Nietzsche. Il suo aiuto puramente tecnico viene spesso chiesto e volentieri
offerto. Il maggiore aiuto viene dato per la « alleanza armata » contro Wilamowitz, anche se ciò era
piuttosto l’espressione di sentimenti di amicizia che non di comunanza di idee in campo filologico.
Fu Rohde ad aiutare pubblicamente Nietzsche, quando fu criticato e messo al bando dai filologi,
con uno scritto che avrebbe potuto pregiudicare la propria carriera accademica.
Rohde era avveduto ed accorto verso tutto ciò che di estremo e di stravagante vi era nelle idee e nei
progetti di Nietzsche: per esempio, verso l’idea di costruire, al posto della squallida miseria del
mondo accademico, una comunità laica; Rohde si è anche schierato contro gli ambiziosi
progetti culturali di Nietzsche, finché la « catena di doveri legati gli uni agli altri » non sia visibile
dalla base della cultura fino al suo apice, contro l’intenzione di Nietzsche di cedergli la cattedra, per
potersi dedicare alla propaganda per l’opera di Wagner (con cicli di conferenze, ecc.). Questo
suo comportamento misurato e prudente era istintivo, non era un atteggiamento negativo di
superiorità.
Quando però Rohde si irrigidì consapevolmente in questo suo atteggiamento, quando cessarono i
suoi sentimenti molto spontanei - che non furono mai ricambiati in questa forma - verso l’amico di
gioventù,, quando smise di ricevere grandi stimoli da Nietzsche e di avere in lui un punto di
riferimento, l’amicizia finì, senza che ciò fosse determinato da qualche fatto specifico. Era successo
qualcosa senza che nessuno dei due avesse consapevolmente compiuto il passo decisivo. I
sentimenti di Rohde mutarono senza che egli se ne accorgesse, mentre quelli di Nietzsche
per Rohde non mutarono, nonostante tutte le trasformazioni del suo pensiero, ed anzi, nel corso
degli anni, crebbe continuamente la sua nostalgia per l’amico. Nelle lettere successive al 1876
Rohde si esprime in modo artificioso, mentre Nietzsche esprime con molta schiettezza il lacerante
sentimento che ancora prova per il vecchio amico.
I    motivi del distacco sono del resto abbastanza evidenti. Il fatto che il matrimonio di Rohde
coincida con l’interruzione del regolare carteggio con Nietzsche non è casuale. L’amicizia di Rohde
era stata a tal punto l’appagamento di un elementare bisogno d’affetto e compagnia, che,
nel momento in cui questi sentimenti si rivolsero in un’altra direzione, l’amicizia con Nietzsche si
interruppe. I sentimenti di Nietzsche erano invece caratterizzati da quell’intensità che non è tipica
soltanto di entusiasmi giovanili, ma che dura per tutta la vita. Con il matrimonio, il legame di Rohde
con il mondo borghese, le sue istituzioni ed i suoi valori, cosi come con le leggi della filologia,
divenne sempre piu saldo.
II contrasto essenziale tra Rohde e Nietzsche è caratteristico in quanto essi sono rappresentanti di
un certo mondo. Durante la giovinezza, vivono entrambi nell’entusiasmo tipico di chi crede di avere
illimitate possibilità di realizzare i propri desideri. Successivamente percorrono strade
opposte: Nietzsche rimane giovane e senza un appiglio sicuro per un’esistenza caratterizzata dalla
fede nel proprio compito; Rohde invecchia, diventa borghese, rimane ancorato alla propria
posizione e senza alcuna fede; si comprende pertanto come la caratteristica fondamentale di
Nietzsche sia il coraggio, e quella di Rohde una lamentela dal tono autoironico.
La caratteristica fondamentale di Rohde, cioè appunto il fatto di lamentarsi continuamente, si era
già manifestata saltuariamente durante la giovinezza sotto forma di scetticismo e nostalgia, e poi si
accentua, assumendo un tono ad un tempo commovente e patetico: « Se solo fossi un vero studioso!
un vero Wagner! Invece lo sono solo per metà e, oltre a ciò, solo 1/20 di Faust » (2. 6. 76). Rohde
stesso sa dove lo conduce la strada che ha imboccato, ma questa consapevolezza non lo aiuta.
Oscilla in una totale insicurezza, dopo aver compiuto il passo che si colloca tra le due affermazioni
che qui di seguito riportiamo.
All’età di ventiquattro anni (3. 1. 69), scrive: « Il vero definitivum è il paese dei filistei, delle
persone sane, dei professori modello alla Freytag, dei tipi comuni nazional-liberali. Noialtri, anime
deboli, possiamo esistere soltanto nel provisorium, come un pesce può vivere solo nell’acqua
corrente ».
All’età di trentatre anni (15. 2. 78), scrive: « In fondo, è proprio una salutare apatia che ti fa vivere
così a lungo... Il matrimonio ha prodotto una totale regolarità nella mia vita quotidiana... Del resto,
l'essere sposati fa riflettere; è incredibile come ti faccia invecchiare, poiché ci si trova in una tale
sommità, al di sopra della quale non c’è più nulla ».
Rohde, che rimase fedele agli interessi, ma non ai legami affettivi della propria giovinezza, e fece
della grecità l’oggetto della propria riflessione, ma non un dovere ed una missione della propria
vita, cercò a Bayreuth, in un’atmosfera romantica, i momenti migliori per sprofondare nell’oblio; e
già nel 1878 non riusciva più a capire Nietzsche e, con tono arrogante, diceva di sé: « Da parte mia,
non ne posso proprio più » (a Nietzsche, 16. 6. 78). Nonostante il distacco da Nietzsche, dapprima
Rohde rimane apparentemente convinto della sua superiorità: « E così, anche ora mi accade la
stessa cosa di qualche tempo fa, quando ero con te: vengo innalzato per un attimo in un mondo
superiore, come se venissi spiritualmente nobilitato » (22. 12. 79). Nietzsche si accorge però ben
presto della distanza che si era creata tra lui e Rohdé; dopo aver ricevuto una sua lettera, scrive a
Overbeck: « L’amico Rohde mi ha scritto una lunga lettera su di sé, che mi ha fatto male per due
motivi: 1. la leggerezza con cui un tale uomo considera il senso della vita! e 2. il gran numero di
parole e di espressioni di cattivo gusto (forse nelle università tedesche lo chiamano “spirito” - Dio
ce ne scampi!) » (28. 4. 81). Egli avverte che non vi è più un buon rapporto tra sé e Rohde: « Rohde
ha scritto: non credo che l’immagine che si è fatto di me sia giusta... è incapace di imparare
qualcosa da me -non comprende la mia passione e la mia sofferenza » (a Overbeck, 3. 82). Rohde si
serve ancora una volta di un apprezzamento esagerato, che esprime nello stesso tempo il suo
distacco: « Caro amico, tu vivi in un mondo superiore dell’animo e del pensiero: è come se tu ti
fossi innalzato al di sopra dell’atmosfera in cui noi tutti vacilliamo e da cui prendiamo aria... » (22.
12. 83). Questo giudizio è però più di circostanza, che non realmente sentito, come mostra il tono
ben diverso con cui Rohde si rivolge a Overbeck, dopo aver letto Al di là del bene e del male:
« Ne ho letto la maggior parte con grande indignazione... pieno di un insopportabile disgusto per
tutto. Ciò che vi è di propriamente filosofico è cosi povero e quasi infantile, cosi come ciò che vi è
di politico è stupido e fuori del mondo... tutto è un’arbitraria fantasia... Non sono più in grado di
prendere sul serio queste eterne metamorfosi... espressione di un ingenium ricco ma, in confronto a
ciò che egli veramente vorrebbe, ancora inesperto... e penso che sia del tutto giustificato che cose
del genere non portino ad alcun risultato... particolarmente infastidito dall’enorme vanità dello
scrittore... con la sterilità che si riscontra infine ovunque in questo spirito, anche quando pretende di
capirti e di soffrire insieme a te... Nietzsche è e rimane in fondo un critico... Anche noi non siamo
del tutto contenti di noi stessi, ma in ogni caso non pretendiamo di essere onorati proprio per i nostri
difetti. Egli dovrebbe svolgere una dignitosa attività artigianale... Per rilassarmi leggo
l’autobiografia di Ludwig Richter... » (1886, Bernoulli, 2, 162 e sgg.).
Rohde infine, come disse a Overbeck, rinnegò la propria precedente alleanza armata con Nietzsche
contro Wilamowitz, considerandola un errore di gioventù (Bernoulli, 2, 155). In Psyche (1893), che
tratta i temi comuni della loro giovinezza, Nietzsche non viene mai menzionato: e dunque viene
messo al bando da Rohde anche per quanto riguarda lo studio dell’antichità classica.
La diversità essenziale tra Rohde e Nietzsche è illuminante anche per comprendere Nietzsche, e
mostra il loro evidente contrasto. Rohde, sin dall’inizio, è molto scettico su di sé, sulle proprie
capacità, e manifesta una tendenza alla rassegnazione e a trovare un appoggio esterno. Nietzsche,
invece, era fin dall’inizio, e restò sempre, ben diverso: « Per nulla al mondo bisogna accettare
compromessi! Si può raggiungere il grande successo soltanto se si resta fedeli a se stessi...
danneggerei o negherei non solo me stesso ma anche molte altre persone che mi stanno accanto se
diventassi più debole o piu scettico » (a Gersdorff, 15. 4. 76). Rohde invece nel 1869 dice: « Mi
succede, qui come altrove, di provare inizialmente una forte ribellione interiore, poi di rassegnarmi
a poco a poco, e infine di perdermi nel deserto del nulla, come gli altri... ». Egli è pronto alla «
rassegnazione, la dea con le ali di piombo e con il papavero che stordisce... chiamata dagli uomini
soddisfazione» (22. 4. 71). Egli non percorre la stessa via di Nietzsche, che fa di ogni delusione un
momento della propria educazione, e di ogni ostacolo lo stimolo per procedere oltre, bensì cerca nel
lavoro una consolazione, o meglio, una forma di stordimento. La conseguenza di tale atteggiamento
è per Rohde, da una parte, la ricerca del « grande risultato » in campo scientifico, e dall’altra, una
forte preoccupazione per ciò che non riusciva a compiere; per questo si lamenta spesso,
affermando: « Non ho l’animo sereno ». Delusioni provenienti dal mondo esterno lo rendono «
senza speranza per settimane e mesi » (23. 12. 73). Rohde è molto severo con se stesso, valuta
criticamente il proprio metodo e diventa sempre più insopportabile a se stesso. Troppo preso dalle
conseguenze di tutte le più banali esperienze quotidiane, Rohde perse il suo iniziale entusiasmo, ma
non la forte volontà di conservare almeno ciò che aveva acquisito; e ciò gli consenti di diventare un
buon filologo. Nello stesso tempo, però, il suo rapporto con Nietzsche si fa sempre meno saldo.
Egli cerca di comportarsi sempre in modo corretto e giusto, ma oscilla continuamente tra il si e il
no, tra l’approvazione ed il rifiuto di ciò che fa. È ormai legato a Nietzsche soltanto da ricordi
romantici.
I due amici si incontrarono per l’ultima volta a Lipsia nel 1886; non si vedevano da dieci anni.
Rohde era, « come sua abitudine, piuttosto contrariato », a causa di « alcuni contrasti di per sé
insignificanti » (Lettere, II, XXIII). Nietzsche si stupì di ritrovare l’amico « amareggiato da piccoli
contrasti, costantemente offensivo, e scontento di tutto e di tutti » \op. cit., XXIV). E Rohde scrisse
di Nietzsche: «Un’indescrivibile atmosfera di estraneità, qualcosa che era allora per me veramente
inquietante, lo circondava... Era come se venisse da un paese in cui non vive nessun altro all’infuori
di lui » (op. cit., XXV). Nietzsche in quei giorni non è entrato in casa di Rohde, non ha mai visto
sua moglie e i suoi figli. L’anno seguente il carteggio si interruppe a causa di un’affermazione di
Rohde, dal tono presuntuoso e sprezzante, nei riguardi di Taine. Entrambi cercarono di porre
rimedio al contrasto, ma senza successo. Rohde, dopo che Nietzsche perse il lume della ragione,
distrusse le ultime lettere che gli aveva scritto, e che avevano suscitato un forte disappunto
nell’amico, ma non le lettere che aveva ricevuto da Nietzsche. Quando la sorella comunicò a
Nietzsche, ormai malato, la notizia della morte di Rohde, egli la guardò « con occhi
tristi e spalancati: « Rohde morto? Ahimè! - disse con un filo di voce -... una grossa lacrima scese
lentamente sulla sua guancia » (Lettere, II, XXVII).
È apparentemente semplice descrivere l’amicizia tra Nietzsche e Richard Wagner:9 il più giovane
dei due si mise al servizio del maestro con entusiastica ammirazione; cercando di interpretare la sua
opera, Nietzsche scrisse La nascita della tragedia (1871), poi Richard Wagner a Bayreuth (1876).
Ma in seguito modificò il suo giudizio su Wagner, intraprese un suo proprio cammino filosofico, ed
infine, nel 1888, scrisse il pamphlet contro l’arte di Wagner, dove l’atteggiamento precedente nei
suoi confronti si è ormai trasformato nel suo contrario. Sembra che Nietzsche abbia rinnegato la
grandezza, un tempo tanto ammirata, attuando un incomprensibile cambiamento dei propri
sentimenti. Alcuni accusano Nietzsche di infedeltà, e la collegano all’incipiente malattia, che per
loro inizia con lo scritto Umano, troppo umano; altri danno maggior peso al ripiegamento di
Nietzsche su se stesso, e credono che l’amicizia precedente - dalla quale ha origine la critica
nietzschiana a Wagner - sia stata per Nietzsche soltanto una fase transitoria. Entrambe le posizioni
considerano le circostanze di questa amicizia in modo troppo unilaterale.
In primo luogo, la critica di Nietzsche a Wagner è presente in nuce fin dall’inizio, e, nel gennaio
1874 è già sviluppata in tutti i suoi punti essenziali (10, 427-450); chi legga attentamente Nietzsche,
può chiaramente riscontrarla nello stesso scritto Richard Wagner a Bayreuth (1876). Anche se ad
una prima lettura appare molto aspra ed anzi distruttiva, questa critica implica comunque uno stretto
legame con Wagner.
In secondo luogo, Nietzsche ha sempre considerato Wagner, non solo negli anni giovanili, bensì
fino al termine della propria vita, come l’unico, incomparabile genio dell’epoca. La critica a Wagner
è una critica al proprio tempo. Fino a quando Nietzsche ha ancora fiducia nella propria epoca
e ritiene che possa nascere una nuova cultura, coltiva l’amicizia con Wagner; ma non appena ritiene
che la propria epoca sia interamente votata alla rovina, e ricerca il rinnovamento dell’uomo non più
nelle opere d’arte e
nel teatro, bensì in altri valori piu profondi, allora si pone immediatamente contro Wagner. Nella
misura in cui Nietzsche stesso è consapevole di essere un rappresentante della propria epoca, la sua
critica a Wagner è nello stesso tempo una critica a se stesso in quanto wagneriano.
Per entrambi i motivi Nietzsche, nonostante la sua sofferta ostilità nei confronti di Wagner, si
scontra anche con coloro che vorrebbero riprendere la sua critica a Wagner, e, in particolare, le sue
affermazioni così pungenti e inflessibilmente rivelatrici; essi infatti non le comprendono, in quanto
non colgono la profondità con cui esse affrontano il problema dell’essere dell’uomo, ma colgono
soltanto il loro significato immediato, negativo e apparentemente solo psicologico, cioè soltanto
come mero pamphlet: « S’intende da sé che io non riconosco a nessuno tanto facilmente il diritto di
far suo questo mio apprezzamento, e a tutte le canaglie irriverenti... non è affatto permesso
pronunciare un tale grande nome, com’è quello di Richard Wagner, né per elogiarlo, né per
contraddirlo » (14,378).
La venerazione e la critica di Nietzsche sono connesse al problema della possibilità creativa
dell’uomo moderno. Attraverso Wagner, vale a dire nella figura del genio di quest’epoca, Nietzsche
comprende cosa sia questa stessa epoca. Finché vede in Wagner un nuovo Eschilo, cioè il maggior
simbolo di grandezza che esista sulla terra, crede ancora alla propria epoca. Ma non appena il suo
criterio di verità, autenticità, sostanza si pone in modo critico contro Wagner, allora crolla anche
l’immagine dell’epoca.
L’unità tra l’uomo e la sua causa, tra l’amicizia e la ricchezza di possibilità che l’epoca offriva,
determinò l’amore di Nietzsche per Wagner: questo affetto fu per il filosofo un’esperienza di grande
valore umano, in quanto rappresentò il suo unico tentativo di collaborare, in modo effettivo ed
immediato, alla realizzazione di qualcosa di grande nel mondo: la nuova cultura tedesca avrebbe
dovuto sorgere, fondandosi sul genio di Wagner, sulla tradizione dell’antichità classica, sull’umanità
creata dalla filosofia. Quando nell’impresa di Bayreuth e nella figura di Wagner, in tutta la
sua grandiosità, Nietzsche vide soltanto un fenomeno teatrale, e non ciò che, conformemente ai suoi
criteri di verità, realtà e cultura dell’uomo, costituiva l’apparizione dell’essere, allora questi stessi
criteri non solo lo portarono a distruggere tutti i valori della sua epoca, separandolo dal resto degli
uomini, ma gli tolsero ogni possibilità di agire in quel mondo. Per un istante, egli avrebbe voluto
agire, costruire, creare con Wagner tutto quello che in seguito è rimasto solo a livello di appunti e
abbozzi di pensiero. Caduto nell’oblio, nella solitudine, dimenticato da tutti, senza piu speranza di
poter realizzare qualcosa per il presente, Nietzsche vuole comunque preparare un futuro che sa di
non poter piu vivere. Il problema che si era posto Wagner - cioè portare l’uomo al suo livello piu
elevato - fu fino all’ultimo lo stesso problema di Nietzsche; ma la sua soluzione fu radicalmente
diversa. Così, piu tardi, egli può dare ancora ragione a coloro che « sanno che oggi credo, altrettanto
profondamente di prima, nell’ideale in cui credette Wagner, - che cosa importa che io mi
sia scontrato con molti, con Umano, troppo umano, e che Wagner stesso abbia cambiato il suo
ideale strada facendo? » (a Overbeck, 29. 10. 86).
È dunque evidente che Nietzsche, in tutta la sua ostilità, rimase pur sempre legato a Wagner. Se a
Nietzsche, in relazione a Wagner e al modo in cui lo aveva capito ed apprezzato, interessava
soprattutto il problema dell’esser-uomo - un problema che riguardava entrambi —, allora non
avrebbe potuto trovare una sua migliore realizzazione in nessun altro dei suoi contemporanei, se
non in Wagner stesso. Ancora verso la fine della sua vita, dopo aver ascoltato il preludio del
Parsifal, scrisse: « Ogni volta che ripenso ad esso non posso non provare una forte emozione, mi
sento molto sollevato e commosso. È come se, finalmente, dopo tanti anni, qualcuno mi parlasse di
problemi che mi interessano, senza naturalmente le soluzioni che io ritengo più adatte... » (alla
sorella, 22. 8. 87). Anche quando si è abbandonato completamente all’ostilità, avverte però
improvvisamente: « Con gran sgomento mi sono reso conto di quanto sia simile a Wagner » (a Gast,
25. 7. 82).
Nietzsche ha amato in Wagner l’unità di persona e ideale che perseguiva, come se il suo stesso
compito avesse trovato la sua incarnazione umana: « Wagner è stato di gran lunga l’uomo più
completo che abbia conosciuto » (a Overbeck, 22. 3. 83). « Ho amato lui e nessun altro. Era
un uomo secondo il mio cuore... » (14, 379). Il rapporto con Wagner, come dimostrano le
testimonianze dell’epoca, deve essere stato per lui un momento fortunato e straordinario; lo stretto
legame umano e la coscienza del proprio compito giungono ad un tale livello, che tutte le sue
successive amicizie gli sembrarono insignificanti. « Se penso a Wagner, mi rendo conto di come
nessuno mi sia stato cosi vicino nella sofferenza e nel dolore, e mi abbia compreso» (a Overbeck,
12. 11. 87). «Una volta ci volevamo bene e ci auguravamo ogni bene l’uno per l’altro - era
veramente un amore profondo, disinteressato» (a Gast, 27. 4. 83). E negli ultimi anni,
scrive nell’Ecce homo: « Non tengo molto a tutti gli altri miei rapporti umani; ma per nulla al
mondo vorrei togliere dalla mia vita i giorni di Tribschen, i giorni della fiducia, della serenità, dei
casi sublimi - dei momenti profondi... » (15, 37).
Soltanto se teniamo presente tale situazione possiamo immaginare quale dolorosa e dibattuta lotta
sia avvenuta in Nietzsche sotto l’impulso della sua inesorabile volontà di verità. Questa lotta però
non era originariamente concepita come un distacco da Wagner, ma come una battaglia per Wagner.
Dopo aver preso la decisione di dedicarsi completamente ad essa - in tal senso, ad esempio,
modificò e completò La nascita della tragedia -crebbe in Nietzsche la speranza di poter avere un
influsso sullo stesso Wagner; si trattava di una pugnace volontà di comunicazione. Nei
confronti degli altri amici, Nietzsche era piuttosto critico: ad esempio, con Deussen egli teneva le
distanze, ed era a volte amichevole e benevolo, a volte, invece, lo accusava e demoliva. Ma il suo
rapporto con Wagner era completamente diverso: Nietzsche ha cercato di conservare questa
amicizia, con tutto il proprio affetto, con una illimitata volontà di verità, con il proprio umile
atteggiamento di disponibilità a soffrire per il genio tanto ammirato, a sacrificarsi per lui. Nietzsche
ha anche cercato di superare l'ostacolo costituito dal fatto che Wagner non provava alcun interesse
per ciò che non potesse servire immediatamente alla propria opera, e ne ignorava i pericoli, le
possibilità e i difetti, che Nietzsche stesso aveva invece intravvisto a partire dal 1873. Con grande
fatica, Nietzsche scrisse Richard Wagner a Bayreuth, in cui osò una critica benevola, nella speranza
di colpire Wagner nell’intimo, anche se, proprio per questo, si preoccupava che il suo scritto potesse
essere totalmente rifiutato dal musicista. Ma Wagner non comprese le vere intenzioni dell’amico, e
vide nel suo scritto soltanto un elogio nei propri confronti.
Nel 1876, all’apertura del Festival di Bayreuth, Nietzsche rimase sconvolto di fronte all’enorme
affluenza di massa, al comportamento del pubblico borghese benestante ed al grande fermento che
si era venuto a creare. Per lui non si trattava di una rinascita della cultura tedesca. Adesso sapeva
finalmente di essere vittima di un’illusione, dalla quale voleva liberarsi. Ma quando nel 1876 lasciò
improvvisamente Bayreuth per ritirarsi a riflettere in solitudine, Nietzsche sperava ancora di poter
conservare l’amicizia con Wagner. In Umano, troppo umano omise ciò che avrebbe potuto urtare
troppo la suscettibilità di Wagner, e gli inviò il libro con l’aggiunta di alcuni versi ispirati a fiducia
ed affetto; visse nella fiduciosa speranza di una possibilità di amicizia, con approvazione reciproca
delle differenti strade imboccate da entrambi: « Amici, nulla ci lega se non la gioia dello stare
insieme, che ognuno è in grado di dare all’altro, fino al punto che ciascuno incoraggia l’altro a
intraprendere una strada, anche se questa è in direzione totalmente opposta alla propria... così noi
cresciamo come degli alberi posti l’uno accanto all’altro e, proprio per questo, dritti e protesi verso
il cielo» (11, 154). Le speranze di Nietzsche andarono deluse. Il freddo silenzio di Wagner - che egli
considerò un « insulto mortale » (a Overbeck, 22. 3. 83) - rappresentò la fine.
Wagner non aveva compreso i tentativi di Nietzsche di entrare in un’autentica comunicazione con
lui. A Nietzsche, come ad uno spettatore che arrivi in ritardo, il distacco sembra improvviso e
troppo brusco (Wagner aveva, per così dire, catturato Nietzsche, per poi liberarsene quando uscì
Umano, troppo umano). Per Wagner l’amicizia con Nietzsche può sembrare un episodio. Di
trent’anni piu vecchio, egli si trova da tempo nella piena maturità della propria attività creativa;
Nietzsche compare nel momento adatto per contribuire alla realizzazione della sua opera. Tuttavia,
anche per Wagner quest’episodio fu unico. Nel 1871 egli scrisse a Nietzsche, a proposito della
Nascita della tragedia: « Non ho ancora letto nulla di piu bello del Vostro libro!... Ho detto a
Cosima che, dopo di lei, venite subito Voi: poi nessun altro...». Nel 1872: «Detto chiaramente, Voi
siete, dopo mia moglie, l’unica gioia che la vita mi ha procurato ». E ancora, a proposito di Richard
Wagner a Bayreuth, nel 1876: « Amico! Il Suo libro è inaudito! - Come fa a conoscermi così bene?
». Successivamente Wagner ha avuto per Nietzsche solo parole di disprezzo.
La separazione, che per Wagner non era una svolta del destino, lo fu invece per Nietzsche nella
maniera più profonda. Le sue opere e le sue lettere sono colme, fino alla fine, di riferimenti diretti
ed indiretti a Wagner, alla sua amicizia, di cui Nietzsche sentiva la mancanza. Il ricordo è
costantemente presente: « Nulla potrà compensare la perdita, negli ultimi anni, della simpatia di
Wagner... Fra di noi non è mai corsa una parola cattiva, neppure nei miei sogni, ma solo parole
molto incoraggianti ed allegre, e forse con nessun altro sono stato cosi felice. Ora tutto è finito - e
che importa se in alcuni momenti ho avuto ragione contro di lui? Come se l’amicizia perduta
potesse venire in tal modo cancellata dalla memoria! » (a Gasi, 20. 8. 80). La separazione che si
stava determinando tra i due e che Nietzsche avverti nelle ultime conversazioni con Wagner
a Sorrento (1876), è significativamente espressa nelle seguenti parole: « L’addio, quando infine ci si
lascia, poiché i sentimenti e i criteri di valutazione non concordano più, ci porta a essere più vicini
ad una persona, e andiamo a sbattere violentemente contro quel muro che la natura ha eretto tra
essa e noi» (11, 154). Nietzsche non si è mai pentito della propria amicizia per Wagner. Il suo
ricordo fu sempre positivo: « Mi basta che il mio errore — compresa la credenza in un destino
comune e collegato - non rechi disonore né a lui né a me; ... fu allora per entrambi, per due, sia pure
in modo assai diverso, isolati, un non piccolo ristoro e beneficio » (14, 379).
Wagner rimase per Nietzsche un’esperienza contro cui egli dovette combattere interiormente, come
già era avvenuto negli anni della loro amicizia: « Per quanto riguarda la giustizia verso gli uomini, è
stata la mia prova più difficile - tutti questi rapporti o assenza di rapporti con Wagner » (a Gasi, 27.
4. 83). Persino nei momenti di critica più aspra, sembra dunque esservi, accanto ad una profonda
serietà, anche l’affetto che, grazie alle straordinarie possibilità dell’anima umana, può solo in
certi momenti trasformarsi in odio.
Il periodo della solitudine. Gli anni a partire dal 1876 furono per Nietzsche il più importante
momento di svolta nel modo di considerare le sue relazioni umane.
Nel 1876 a Bayreuth non solo la delusione fu cocente, ma il suo distacco interiore da Wagner fu
irrevocabile. Nello stesso anno, dopo cinquant'anni di convivenza, Overbeck si sposò. Si sposò
anche Rohde. Nel 1878 apparve Umano, troppo umano, con la conseguenza che Wagner liquidò
pubblicamente e con disprezzo lo scritto, e che Rohde si allontanò da Nietzsche, scrivendogli: «Ci
si può svestire a tal punto della propria anima ed assumerne un’altra al suo posto? » (a Nietzsche,
16. 6. 78). Quasi tutta la cerchia di uomini che ruotavano attorno a Nietzsche, e che avevano
guardato congiuntamente a lui e a Wagner, presero le distanze da lui.
La decisione di Nietzsche di dedicarsi al suo compito, che comportava necessariamente un
completo distacco da tutti i legami allacciati fino ad allora, lo avvinse completamente. Come uomo,
egli desiderava certo che il suo mondo divenisse reale, ma seguendo un’altra via rispetto a
quella propugnata dalla volontà generale. Le esperienze negative, che pure avevano la loro parte, se
egli voleva comprendere anche le possibilità generali, non facevano che rafforzare in lui la
consapevolezza del proprio essere, che era eccezione, e dell’impossibilità di realizzarsi felicemente
seguendo la stessa via degli altri uomini. Nella sua sofferenza, che lo accomuna a tutti gli altri
uomini, così come nella consapevolezza del carattere completamente specifico del suo compito,
nella schiettezza con cui avvertiva i limiti della natura umana, cosi come nella certezza orgogliosa
della sua vocazione, si esprime una decisione che Nietzsche prende con sconcertante sicurezza, per
quanto essa non sia ancora svelata in tutti i suoi particolari. Rohde gli annuncia il proprio
fidanzamento, e Nietzsche compone una poesia che allega alla propria lettera di risposta all’amico:
un uccello che di notte seduce col canto la sua compagna, ed un passante solitario che ascolta:
« No, viandante, no! Io non saluto te
Con il mio canto!...
Tu devi pur sempre proseguire E non comprendere mai piu il mio canto!...».
Scrive Nietzsche: « Forse vi è in me, a tal riguardo, una brutta lacuna. Ben altro è il mio desiderio
ed il mio destino: e mi riesce difficile esprimerlo con parole e spiegarlo » (a Rohde, 18. 7. 76).
Ha cosi inizio il cammino di Nietzsche verso la solitudine. Da questo momento egli ne è
consapevole. Su questa nuova strada, egli cerca di entrare in relazione con nuovi amici; è come una
lotta per l’amicizia nell’abisso di un abbandono definitivo. Tre volte egli cerca di seguire
questa strada, che lo porta alle amicizie con Rèe, con Lou Salomé, e con H. v. Stein; tre volte
rimane deluso.
Paul Rèe,10 medico ed autore di scritti sulla formazione dei sentimenti morali, di cinque anni piti
giovane di Nietzsche, entrò in relazione con lui, grazie alle conversazioni - soprattutto nell’inverno
1876-1877, trascorso insieme a Sorrento, presso Malwida von Meysenbug - che vertevano
su argomenti di comune interesse, come la ricerca, impostata con metodi non teorico-astratti, bensì
naturalistico-psicologici, sull’origine e la realtà empirica della morale. Anche se più tardi Nietzsche
prenderà nettamente le distanze da lui (a causa della differenza sostanziale, quanto alle fonti e agli
scopi, che lo separava dalle analisi morali di Rèe, improntate ai modelli inglesi), ed anche se
Nietzsche non ha appreso quasi nulla da Rèe (poiché egli aveva le sue essenziali concezioni già
prima di conoscere l’amico), queste conversazioni rappresentavano comunque per lui un momento
di grande serenità: poter almeno parlare con un uomo di ciò che egli considerava i problemi piu
importanti, e soprattutto poter parlarne liberamente, e senza pregiudizi, costituiva per lui un forte
stimolo. La fredda deduzione
a partire da analisi radicali gli faceva bene (a causa di ciò egli non ne osserva la piattezza). Era
un’atmosfera di assenza di illusione, in cui si poteva respirare un’aria limpida. L’ammirazione per
Rée, almeno per un certo tempo, deve essere stata grande, ma non portò ad un’amicizia serena, e
non poteva certo paragonarsi, né tantomeno sostituirsi, alla pienezza di sentimenti provati da
Nietzsche per Wagner.
Nietzsche conobbe Lou Salomé 11 a Roma, all’inizio del 1882, grazie a M. von Meysenbug e Paul
Rée; e ruppe poi definitivamente i rapporti con lei alla fine dello stesso anno. Con questa ragazza,
dalle spiccate doti intellettuali, si sperava di aver trovato un’allieva in grado di seguire la filosofia di
Nietzsche. Colpito dalla sua intelligenza, Nietzsche coltivò con passione
-    senza alcuna sfumatura erotica - questa amicizia, convinto e contento di poter educare qualcuno
alla propria filosofia. Dopo che il suo pensiero
lo    aveva portato ad allontanarsi da tutti, anche se nel suo intimo non aveva certo desiderato questa
separazione, Nietzsche vedeva in Lou la discepola in grado di comprendere i pensieri più segreti
della propria filosofia: « Non voglio piu essere solo, e voglio imparare di nuovo a diventare
uomo. Ahimè, devo ancora imparare quasi tutto in questo pensum! » (a Lou, 1882). Il legame tra
Nietzsche e Lou non era esclusivo: vi giuocavano un ruolo decisivo sua sorella e Rèe. Terminò nella
delusione, e piu tardi fu a tal punto compromesso - da alcune testimonianze che furono
comunicate a Nietzsche, da una lettera di cui egli casualmente venne a conoscenza, ecc.
-    che Nietzsche si senti offeso fino al limite della sopportazione, e volle sfidare a duello Ree. A
tutt’oggi non si è ancora fatta piena luce sui loro effettivi rapporti.
La conseguenza essenziale di questa ennesima rottura fu che Nietzsche visse in una sorta di
instabilità psicologica, che non aveva mai provato in precedenza. Non si trattava soltanto della
grande delusione che lo colpì dopo che aveva creduto di trovare qualcuno che avesse il suo « stesso
compito »: « senza questa credenza affrettata, non avrei altrettanto sofferto per la mia solitudine...
Avevo appena iniziato a coltivare per una sola volta
il    sogno di non essere piu solo, ed ecco che subito il pericolo si fa terribile. Ci sono delle ore in
cui non riesco a sopportare me stesso » (a Overbeck, 8. 12. 83). Nietzsche si lamenta del fatto che
egli stesso è « infine vittima di un sentimento crudele di vendetta », mentre proprio il suo « più
intimo modo di pensare » ha « rinunciato ad ogni vendetta e ad ogni pena » (a Overbeck, 28. 8. 83).
La rottura con Wagner, per la grandezza del destino e la profondità
del dolore che implicava, non è ovviamente paragonabile a queste due separazioni con Lou e Ree.
Ma ad esse si può applicare ciò che Nietzsche afferma di sé nel 1883: « Io sono una natura troppo
concentrica, tutto ciò che mi tocca va fino al mio centro ». La differenza risiede nel fatto che, nel
caso della rottura con Wagner, era il suo proprio compito che lo forzava e lo portava con sé, mentre,
nella rottura con Lou e Rèe, il suo scopo e il suo dovere, che egli aveva creduto di poter condividere
con loro, avevano rischiato di vacillare, sia pure per un solo istante. « Sono stato e
sono terribilmente incerto sul mio diritto ad imporre un tale scopo - mi assale il sentimento della
mia debolezza, in un momento in cui tutto, proprio tutto, avrebbe dovuto infondermi coraggio » (a
Overbeck, estate 83).
Nietzsche mostra di padroneggiare ciò che considera una debolezza. Invece di abbandonarsi al
risentimento, che è estraneo alla sua natura, egli elabora le sue esperienze in un’immagine
completamente e profondamente distaccata delle persone che vi hanno partecipato, in particolare di
Lou: « Lou è di gran lunga la persona piti saggia che io abbia conosciuto » (a Overbeck, 24. 2. 83).
Non vuole polemizzare: « Ogni parola di disprezzo, scritta contro Rèe o la signorina S., mi fa
sanguinare il cuore; sembra che io sia mal disposto all’intimità » (a Overbeck, estate 83). Vorrebbe
risolvere tutto, senza peraltro riaccostarsi intimamente ai vecchi amici: « Il dottor Rèe e la signorina
Salomé, ai quali desidererei volentieri fare qualcosa di buono... » (a Overbeck, 7. 4. 84).
Egli dubita definitivamente sulla possibilità di un rapporto effettivo e filosofico con una qualunque
persona. Non ha piu compiuto tentativi in tal senso. Da allora cresce e si approfondisce
ulteriormente la coscienza della sua solitudine. È vero che non smette di cercare nuovi amici (a
Gast, 10. 5. 83), ma lo fa senza convinzione, e senza un’effettiva speranza di riuscirvi. Avverte anzi
l’impossibilità di allacciare anche solo un rapporto umano: « E sempre più constato che non sono
più capace di adattarmi a vivere tra gli uomini - compio vere e proprie follie... in modo che
ogni ingiustizia pesa sempre su di me » (a Overbeck, 22. 1. 83).
Heinrich von Stein 12 nell’agosto del 1884 si recò a Sils-Maria per una visita di tre giorni a
Nietzsche. Prima di allora, ed anche in seguito non ebbero altra occasione di conversare
direttamente: a partire dal 1882, si erano scambiati delle pubblicazioni e in seguito, saltuariamente,
qualche lettera. Stein cominciò ad interessarsi a Nietzsche, di cui avvertiva la grandezza, senza
legarsi a lui, e senza d’altra parte ricevere da lui uno stimolo determinante; come già avevano fatto
molti altri, nella conversazione con Nietzsche egli provò un senso di grande elevatezza: « Il
sentimento che io ho della mia esistenza è piu elevato quando parlo con Lei » (a Nietzsche, 1. 12.
84). « Fu per me un’esperienza straordinaria l’intima e fondamentale libertà che provavo
immediatamente parlando con Lei » (a Nietzsche, 7. 10. 85); ma ciò non significava
un’approvazione della filosofia di Nietzsche.
Da parte sua, Nietzsche rimase profondamente impressionato dalla visita di Stein, che gli fece
intravvedere la possibilità di una amicizia filosofica.
Alcune settimane dopo questa visita, Nietzsche scrisse a Overbeck (14. 9. 84): il barone Stein «
venne direttamente dalla Germania a Sils, fermandosi tre giorni, poi tornò direttamente da suo padre
- un evidente modo di sottolineare l’importanza della sua visita. E un magnifico tipo d’uomo, che
ben comprendo e mi è molto simpatico, a causa della sua fondamentale inclinazione eroica.
Finalmente, finalmente un uomo che fa per me e che nutre un istintivo rispetto nei miei confronti! ».
E a Peter Gast scrisse (20. 9. 84): « La sua vicinanza mi incoraggiava come la visita di Neottolemo
a Filottete nella sua isola - penso che abbia trovato in me qualcosa della convinzione di Filottete:
senza le mie frecce non si conquista Troia! ». Piu tardi, Nietzsche si ricorda nell 'Ecce homo: «
Quest’uomo eccellente... fu preso per quei tre giorni in una sorta di turbine di libertà e ne fu
trasformato, come chi improvvisamente si trovi innalzato alla sua altezza e si veda crescere le ali »
(15, 16).
Stein scrive a Nietzsche apparentemente con lo stesso tono e animato dagli stessi sentimenti (24. 9.
84): « I giorni di Sils sono un grande ricordo per me, un pezzo importante e sacro della mia vita. È
solo attenendomi fedelmente ad avvenimenti come questo che posso far fronte alla terribile
esistenza e, più ancora, ritrovare i suoi molteplici valori ». Da Sils-Maria Nietzsche gli spedisce
(alla fine del novembre 1884) la poesia (degli amici, della sua solitudine, del suo regno, lassù, in
cima ai ghiacciai) che piu tardi fu aggiunta a Al di là del bene e del male con il titolo « Da alti monti
»:
« Gli amici attendo con ansia, giorno e notte alacre,
I nuovi amici attendo! Venite! E l’ora! È l’ora! ».
« Questa è per Lei, mio caro amico, in ricordo di Sils-Maria e come ringraziamento per la Sua
lettera, una tale lettera ». Stein risponde proponendo a Nietzsche di partecipare per iscritto alle
discussioni intraprese da lui e da qualche suo amico sul contenuto di alcune voci del "Wagner-
Lexikon. Nietzsche ne rimane sorpreso. « Quale oscura lettera mi ha scritto Stein! e ciò come
risposta ad una tale poesia! Non si sa più come ci si deve comportare » (alla sorella, 12. 84). Alla
poesia, Nietzsche aggiunse, prima di pubblicarla, i seguenti versi: « Finito è questo canto, - il grido
dolce del desiderio smorì sulla bocca » (7, 279).
Nietzsche era abbandonato, questa delusione ormai non suscitava più in lui una forte emozione. Il
suo affetto restò immutato; quando nel 1887, all’età di trent’anni, Stein morì, Nietzsche scrisse: «
Sono ancora profondamente sconvolto. L’ho molto amato, egli apparteneva a quei rari uomini, la
cui esistenza mi riempie di gioia. E non dubitai neppure che egli mi fosse risparmiato per tempi
successivi » (a Overbeck, 30. 6. 87). « Ciò mi ha ferito come una privazione personale » (alla
sorella, 15. 10. 87).
In tutti questi anni Nietzsche confida ripetutamente la propria solitudine. Egli la constata, se ne
lamenta, e invoca disperatamente i suoi vecchi amici. Ancora nel 1884 avrebbe voluto rivolgersi
nuovamente a loro, e tuttavia scrive: « Il pensiero... di spiegarmi “ai miei amici” con una specie di
scritto del tutto personale - era ... un pensiero avvilente » (a Overbeck, 10. 7. 84). Alcune settimane
più tardi compone quel commovente addio ai vecchi amici (« Da alti monti »), di cui si diceva.
Egli desidera ardentemente dei discepoli: « I problemi che mi sono posto mi sembrano di una
importanza così radicale che, quasi ogni anno, mi perdo qualche volta ad immaginarmi che gli
uomini a cui espongo questi problemi debbano lasciar perdere il loro lavoro per dedicarsi
totalmente alle mie questioni. Ciò che accadde qualche volta fu, in modo comico e inquietante, il
contrario di ciò che avevo atteso » (Lettere, III, p. 249). Anche in questa circostanza egli rinuncia: «
Ancora molte cose desiderano maturare e crescere insieme a me; non è ancora giunto il tempo per
“scolari e scuole” e hoc genus omne » (a Overbeck, 20. 2. 85).
Negli anni della solitudine (e solo in questi anni ciò è significativo per Nietzsche) un solo uomo
doveva compensare tutto ciò che gli mancava: Peter Gast.13 Egli si legò strettamente a Nietzsche,
dal momento in cui lo conobbe, nel 1875, fino agli ultimi giorni. La sua capacità di comprendere ed
indicare a Nietzsche le vie e gli scopi comuni, quasi che egli vedesse in lui una magica proiezione
di se stesso, non portò però ad alcun risultato, perché Gast non prese mai in seria considerazione il
pensiero di Nietzsche. Il fatto stesso che Nietzsche lasciasse che Gast si rivolgesse a lui
con l’espressione « Signor Professore » è un segno della percezione della distanza che vi era tra di
loro. Nietzsche ricevette indubbiamente un aiuto da Gast nella redazione e correzione dei suoi
scritti, e le lettere che gli giunsero fino agli ultimi giorni lo riempirono di gioia, rincuorandolo
nei momenti di sfiducia in se stesso.
Ad esempio, dopo aver ricevuto una copia dello Zarathustra, Gast gli scrive: « Non vi è nulla di
eguale - perché gli scopi che Lei dà all’umanità non sono ancora stati indicati da nessuno, né lo
possono essere. A questo libro bisogna augurare la stessa diffusione della Bibbia, la sua canonicità,
il suo seguito di commentari... ». Nietzsche gli risponde: .« Leggendo la Sua lettera, sono
rabbrividito. Supponendo che Lei abbia ragione - la mia vita non sarebbe forse un fallimento? E
proprio adesso, nel momento in cui vi credevo di più? » fa Gast, 6. 4. 83).
Nietzsche ribadisce l’importanza che Gast riveste per lui, scrivendogli queste parole: « A volte sono
completamente fuori di me, per non poter dire a qualcuno una parola sincera - a tal proposito non
ho nessuno, ad eccezione del signor Peter Gast» (a Gast, 26. 11. 88).
Nietzsche si illudeva su Gast: vedeva in lui il musicista veramente creatore che, superando Wagner,
avrebbe dovuto creare la nuova musica, non piu romantica, bensì conforme alla sua stessa filosofia.
In tal senso, Nietzsche si adoperava continuamente per far eseguire in qualsiasi luogo le
composizioni di Gast, contattando diversi direttori d’orchestra. E manifestava esplicitamente
all'amico questa sua volontà di rendergli un servizio.
Gast rappresenta per il solitario Nietzsche il fedele intermediario, su cui egli può sempre contare per
ottenere ciò di cui sente la mancanza; e questa è per noi un’ulteriore conferma dell’impossibilità,
sempre rinnovata nel corso di questi anni, da parte di Nietzsche di allacciare un’amicizia veramente
salda, duratura e fondata sulla sua piu intima natura.
L’elemento duraturo nelle relazioni umane di Nietzsche. Ciò che nell’uomo era esistenzialmente
serio, filosoficamente sostanziale, per Nietzsche non poteva durare a lungo: il movimento del suo
essere lo faceva disperdere. Ciò che resta duraturo nell’amicizia di Nietzsche sembra dunque,
proprio per il fatto stesso di durare, senza valore per lui. Il cammino distruttivo della sua esperienza
dell’essere si annuncia già nel suo sradicamento, cosi come nel fatto che egli è un’eccezione.
Tuttavia, la sua umanità è protesa verso ciò che è naturale ed universale. Per quanto questo
elemento non sia mai per lui determinante, egli cerca tuttavia la sua presenza — cogliendo una
traccia di felicità naturale - e vuole accoglierlo cosi come è — a condizione che non nasca alcun
conflitto con il proprio compito -, anche se tutto può essere respinto e abbandonato.
I suoi parenti14 gli sono legati e vicini per natura. La madre e la sorella lo accompagnano per tutta
la sua vita, seguono ed aiutano il ragazzo, si preoccupano di soddisfare i suoi desideri, assistono con
cura il malato. Nietzsche fu intimamente legato a loro durante tutto il corso della sua vita; la
seguente affermazione, tratta da II viandante e la sua ombra, sembra riferirsi proprio a loro: « Su
due persone non ho mai riflettuto a fondo: è la testimonianza del mio amore per loro » (3, 356). Nel
1882 il rapporto con la madre e la sorella, a causa della sua tormentata amicizia con Lou, fu
sottoposto ad una dura prova, che sembra aver lasciato delle conseguenze indelebili. Le lettere
mostrano le peripezie di questo rapporto.15
Anche nelle sue dichiarazioni a e su Lou Salomé si riscontrano incredibili contraddizioni. Esse
rispecchiano l’atteggiamento complessivo di Nietzsche, cioè il suo abituale modo di formulare i
suoi pensieri: egli è aperto alle molteplici possibilità delle cosé; abbandona sempre l’unica
possibilità, per prendere immediatamente in considerazione e rendere giustizia all’altra possibilità.
Ne deriva una estrema vivacità ed eccitazione nel suo
modo di esprimersi, che egli non sa contenere, e che in seguito avrebbe volentieri abbandonato. Già
il 10 luglio 1865 scrive alla sorella: « In certi momenti di malumore, tutto, persone e cose, angeli,
uomini e demoni, mi appaiono oscuri e tutt’altro che belli »; piu tardi, egli riconosce: « Sono molto
contento di aver strappato una lettera indirizzata a te - scritta di notte: ma mi sono lasciato sfuggire
una lettera alla mamma dello stesso tenore » (alla sorella, 8. 83). Egli vede nella propria
contraddittorietà e nel suo fondamento una forza del proprio essere: « Chi è cosi solo con se stesso...
da vedere ogni cosa non solo da due, bensì da tre, quattro lati..., giudica anche le proprie esperienze
in modo completamente diverso » (alla sorella, 3. 85).
L’esperienza e l’approfondimento di ciò che è possibile ha senso solo nella misura in cui deve
essere conosciuto e preparato. Nella realtà bisogna prendere una decisione. Nietzsche non sembra
decidere nulla, eccetto su ciò che riguarda il cammino del suo compito creativo intellettuale, da cui
nulla lo può distogliere. Nei rapporti umani si comporta come se lasciasse decidere ad altri - per
esempio, nel caso di Lou - e come se la sua attività si limitasse alla rottura. Quando alla fine egli
appare come il colpevole, come colui che è abbandonato da tutti, che vuole sperimentare
la profondità, e quando sembra dunque che nessuno si interessi piu a lui, allora si attacca ai legami
naturali; i suoi parenti rimangono pur sempre per lui le persone piu fidate. È vero che, a volte, egli
sembra avvertire come un’ombra sulla sua vita: sua madre incide poco sulla sua vita interiore, sua
sorella non è un’amica che partecipi alla sua comunità filosofica; eppure, anche in caso di conflitto -
quando, sia pure momentaneamente, sembra averle abbandonate -, egli resta fedele e non rinuncia a
loro. In un certo senso, le ha preferite a tutte le altre persone per una sorta di fiducia naturale; non
voleva rompere i rapporti con loro, che dovevano rimanere vicine a lui, quando tutte le altre persone
se ne allontanavano. La consanguineità ed i ricordi della prima infanzia costituirono per lui un
bene non solo insuperabile, ma anche prezioso e umanamente insostituibile.
Del resto, le premure della sorella si sono rivelate utili per la posterità. Se possiamo conoscere tutto
Nietzsche attraverso i documenti, è infatti solo grazie alla sorella, che, a partire dall’infanzia di
Nietzsche, conservò tutti i suoi manoscritti, e, dopo la crisi della follia, raccolse i
manoscritti lasciati interrotti, di cui allora nessuno intravvedeva l’importanza. Tuttavia, soltanto le
pubblicazioni future potranno gettare piena luce su questi scritti.
La socievolezza di Nietzsche gli consenti di mantenere attorno a sé, fino alla fine, una cerchia
abbastanza vasta di persone. Egli intrattenne rapporti con diverse persone, a volte interrotti, e poi
occasionalmente riallacciati. Nessuna di queste persone gli era indispensabile. Ma questi rapporti
affettivi, sia pure occasionali, questa buona volontà e questo interesse umano, la sua gioia per
l'esserci degli altri, per la loro serenità,16 e
la sua disponibilità ad aiutarli, erano un’atmosfera di cui Nietzsche non poteva fare a meno. Sia
pure con delle interruzioni, l’una o l’altra di queste persone rimase per un certo tempo in rapporto
epistolare con lui.
Tra i suoi compagni di classe, gli rimasero amici Deussen, Krug, Gersdorff. Più tardi si aggiunsero
nuove conoscenze, tra cui Carl Fuchs  (dal 1872), Malwida von Meysenbug (dal 1872), Reinhard
von Seydlitz (dal 1876), e altri ancora. Durante gli ultimi dieci anni, le conoscenze che egli faceva
nel corso dei suoi viaggi giuocano un ruolo crescente, senza tuttavia acquisire un peso decisivo.
Deussen 17 occupa un posto speciale. Mai, nei suoi scambi epistolari, Nietzsche ha instaurato un
rapporto cosi intensamente pedagogico. La superiorità della sua posizione non gli impedisce di
interessarsi nel modo più serio possibile allo sviluppo spirituale di Deussen, che deve
essere indirizzato verso ciò che è veramente essenziale: in tal senso, Nietzsche Io richiama e lo
sprona continuamente a compiere il suo dovere. Sotto questo aspetto, la rettitudine di Nietzsche è
altrettanto grande dell’encomiabile amore della verità di Deussen, che ha trovato conferma nei
suoi scritti. È come se ogni persona che Nietzsche incontra raggiungesse una sua specifica
grandezza, conforme al suo livello e alle sue possibilità. Quanto più ci addentriamo nell’analisi
delle sue singole relazioni umane, tanto più possiamo chiaramente ed effettivamente constatare,
grazie appunto alla caratteristica di ciascuna di queste relazioni, che si crea attorno a Nietzsche una
cerchia di persone su cui egli proietta la propria luce, e che diventano più chiare di lui, che rimane
invece imperscrutabile.
Per alcune personalità di rinomanza europea, Nietzsche ha avuto un insolito profondo rispetto, mai
messo in discussione: è il caso di Jacob Burckhardt18 e di Karl Hillebrand,19 Si direbbe quasi che
egli cercasse di entrate nelle loro buone grazie; era infatti attento ad ogni sfumatura dei loro giudizi,
aspirava ad entrare nella loro cerchia, in quanto si sentiva al loro livello, ma non immaginava a
quale inavvicinabile distanza entrambi si consideravano da lui.
È tipico del cammino della sua vita, che altre personalità di rango elevato, alle quali egli accordava
grande rispetto, lo abbiano incrociato con indifferenza: in particolare, Cosima Wagner e Hans von
Bulow.
Da questi amici se ne distacca uno che, senza interruzione a partire dal 1870, dapprima come vicino
di casa, collega ed amico del giovane
Nietzsche, e piu tardi aiutandolo continuamente nelle cose pratiche, l’accompagnò in modo
veramente fedele per tutta la vita: lo storico della Chiesa Franz Overbeck.20 Se i suoi parenti gli
furono dati per natura, questo amico fu l’elemento duraturo che a Nietzsche fu donato.
Nietzsche poteva ciecamente contare su Overbeck perfino nei piccoli servizi quotidiani, e dunque su
di una sua continua disponibilità, così difficile da trovare ed in cui invece Overbeck si è prodigato
per alcuni decenni, ad aiutarlo nei problemi della sua vita interiore ed esteriore.
Niente offuscò l’amicizia tra Nietzsche e Overbeck perché, proprio come Nietzsche desiderava, non
vi era tra loro una completa affinità: infatti, Nietzsche non si attendeva certo che Overbeck
conquistasse le stesse vette del pensiero su cui lo spingeva il suo proprio compito. Overbeck è come
un punto fermo nel flusso e riflusso di uomini e cose.
Nietzsche ha comunque rispetto e stima per Overbeck; ad esempio, come mostrano alcuni passi
delle lettere, è attratto dalla sua imperturbabilità:
« Mi fa sempre bene pensare a te, intento al tuo lavoro: è come se una sana potenza della natura
agisse per cosi dire ciecamente attraverso di te, e tuttavia è una ragione che lavora nella materia piu
fine e piu traforata... Io ti sono molto grato, caro amico, per avermi concesso di contemplare cosi da
vicino lo spettacolo della tua vita » (a Overbeck, 11. 80). « Ogni volta che ti incontravo, la tua
tranquillità e saldezza d’animo mi procurava la gioia piti intima » (a Overbeck, 11. 11. 83). «
Ammesso che il rapporto con me diventi via via piu difficile, io so tuttavia che, grazie all 'equilibrio
della tua indole, la nostra amicizia resterà ben salda » (a Overbeck, 15. 11. 84).
Queste doti di Overbeck sono cosi salutari per Nietzsche che, nelle lettere che gli scrive, si rivolge a
lui come ad un amico che gli è legato nel modo piu intimo, anche se, come si accennava, Nietzsche
non si attende certo che Overbeck colga gli impulsi piu profondi e decisivi della sua esistenza. Egli
ha una fiducia quasi incondizionata in Overbeck. Solo molto raramente, e soltanto nel corso degli
ultimi anni, caratterizzati da una crescente irritabilità, egli può scrivere una volta ironicamente: « Mi
ha tranquillizzato il fatto ohe un lettore cosi fine e benevolo come te abbia sempre dei dubbi su ciò
che io propriamente voglio » (a Overbeck, 12. 10. 86).
La maggiore indipendenza ed autonomia di Overbeck rispetto a Nietzsche non si spiega soltanto col
fatto che egli fosse piu vecchio. Per quanto fosse di un livello inferiore a quello di Nietzsche - egli
stesso lo riconosce e lo dice apertamente -, egli ha tuttavia il suo posto nel mondo di
Nietzsche, grazie alla sua seria attività di studioso. Un amore radicale della verità, paragonabile a
quello di Nietzsche, uno sguardo imparziale, la volontà di prendere in considerazione tutte le
possibilità, nel loro relativo valore, non o conducevano però all’estremo, come Nietzsche, ma
culminavano in un
atteggiamento senile, pieno di riserve ed eccessive cautele, che si risolve in silenzio e lascia le
contraddizioni cosi come sono, senza alcun legame dialettico. (Per esempio, in un’annotazione che
comincia così: « Nietzsche non è un grande uomo nel senso vero e proprio del termine », subito
dopo però si legge: « Non ho il minimo dubbio sul fatto che Nietzsche sia realmente un grande
uomo »: cit. da Bernoulli, I, 268, 270). Per quanto egli possa intravvedere le grandi doti di
Nietzsche, tuttavia la sua obiettività è tale che gli impone di rinunciare a seguire il cammino
intrapreso da Nietzsche; la sua assenza di passione lo porta al tipico atteggiamento dell’erudito: un
atteggiamento che non è privo di grandezza, e che consente a lui, scettico per natura, di trovare una
soluzione al problema necessariamente connesso all’insegnamento teologico (davanti agli studenti,
non parlare delle proprie convinzioni, e limitarsi a ciò che è stabilito in modo storico-scientifico). È
per questo motivo che Overbeck non segue con trasporto il pensiero di Nietzsche, pur trovandosi
spesso ad affrontare le stesse questioni. Egli ha fatto ciò che era possibile, al cospetto dell’eccezione
geniale; aiutare con modestia; non comprendere, nel vero e proprio senso del termine, bensì
accogliere con soggezione e rispetto; non lasciarsi affliggere, ma venir sempre a capo delle
difficoltà, per adempiere al compito dell’amicizia. In questo suo atteggiamento non vi è curiosità o
invadenza, e neppure la volontà di un servile altruismo, bensì una fedeltà per così dire virile, priva
cioè di sentimentalismo. Ciò che ha unito Nietzsche e Overbeck è appunto la profondità di questa
fedeltà, non la profondità di un destino che si compie nell’amicizia.
I limiti delle possibilità d'amicizia di Nietzsche e la sua solitudine. È deprimente vedere Nietzsche
in situazioni ed atteggiamenti così insoliti che quasi si stenta a credere che si tratti proprio di lui,
come quando si intrattiene con persone incontrate casualmente e si esprime come se fosse un loro
intimo amico,21 quando invita un giovane studente appena conosciuto a fare un viaggio insieme a
lui, esponendosi ad un brusco rifiuto,22 quando dal fondo della sua desolazione fa una proposta di
matrimonio o chiede che gli si trovi una donna;23 la stessa sensazione si prova inoltre quando
si pensa al suo comportamento con Rèe e Lou. Nietzsche conosce « l’improvvisa follia di quelle ore
in cui il solitario si aggrappa ad un individuo qualunque, e lo tratta come un amico ed un dono
piovuto dal cielo, per respingerlo un’ora dopo, con disgusto, provando ormai disgusto di se stesso »
(alla sorella, 8. 7. 86); e prova ancora « il ricordo vergognoso per aver trattato come miei pari
uomini di tal sorta » (ibidem). Ma egli venne a capo di questa e di altre situazioni analoghe; ed il
modo in cui le seppe superare è per lui indubbiamente più caratteristico del fatto di essersi cacciato
in quelle situazioni.
L’immagine di Nietzsche come un eroe con una tempra d’acciaio, che va per la sua strada,
indifferente e senza bisogno di protezioni di fronte al mondo circostante, non è vera. L’eroismo di
Nietzsche è di tutt’altra specie. Egli stesso soffriva il destino dell’uomo che sperimenta i limiti
della natura umana, e constata il fallimento dei propri tentativi volti ad una piena realizzazione di
sé; appunto la consapevolezza di questi limiti spinse Nietzsche ad eludere per un istante il proprio
compito, a cercare di semplificarlo: così, quando cerca, in qualche modo, di pianificare la sua
azione, per assicurarle il successo, di dare libero gioco al suo temperamento di educatore, di credere
ai suoi amici, allora, ciò che vi è di eroico in lui si trasforma sempre in un insuccesso. Il fatto che
non si invischiasse nell’oscurità di un’epoca che non si può rischiarare, e dunque non si facesse
illusioni, gli facilitava il grandioso sviluppo dell’esperienza, per cosi dire, priva di orizzonti del suo
pensiero.
Si può analizzare sotto due aspetti la solitudine di Nietzsche. Si può considerare dal punto di vista
psicologico la natura solitaria di Nietzsche, commisurandola ad una norma assoluta dell’esistenza
umana in generale; ma un tale procedimento ha inevitabilmente un senso peggiorativo e non rende
giustizia a Nietzsche. Oppure, si cerca di comprendere che il compito che consuma Nietzsche e che
non è completamente afferrabile, implica resistenza dell’eccezione; e si perviene in tal modo alla
visione di Nietzsche stesso.
(I). Se si procede ad un’analisi psicologica - che, nel caso di Nietzsche, resta pur sempre al centro
dell’interesse - si può abbozzare la seguente immagine di Nietzsche. Nella sua volontà di verità,
Nietzsche consegue una certa indipendenza che però non gli conferisce sicurezza nel suo modo
di comportarsi verso di sé e gli altri, ma, al contrario, lo rende consapevole tanto dei propri difetti di
fronte alla massa, quanto della mediocrità degli altri; gli è possibile vivere soltanto in mezzo alla
nobiltà. Ma poiché egli stesso non conserva sempre il rango della sua nobiltà, e poiché negli
altri trova spesso cecità, mediocrità e falsità, sempre si rinnova il suo tormento, e cade in preda alla
delusione più mortificante. Cresce dunque, da tutti i punti di vista, il suo estraneamento: nessuno
può fare abbastanza per lui, neppure lui stesso. All’aria assorta del suo primo sguardo, fa seguito
alla fine la comprensione intellettuale; ma allora la sua volontà di verità vuole commisurare tutto ad
una misura assoluta e, cosi facendo, distrugge tutto. La volontà di comunicazione di Nietzsche, cosi
come tutto il suo essere, è tale che egli non tollera alcuna confusione, e dunque mette
continuamente tutto in discussione; e proprio perché egli non ammette alcun compromesso
illusorio, tutto ciò che gli capita tra le mani porta in sé il germe del fallimento. È questa
indubbiamente una conseguenza della sua onestà intellettuale, ma al fondo di questa sua onestà
mancava la responsabile consapevolezza della realtà spirituale qui ed ora, che non è perfetta, e
non è soltanto nobiltà. Nietzsche demolisce, ma non produce, educa soltanto ponendo
continuamente delle domande, e non entra in lotta ad armi pari. Sembra che vi sia in lui l’incapacità
di una effettiva comunicazione nella concreta realtà storica in cui vive (questa realtà storica poteva
certamente portare ad un fruttuoso sviluppo, senza compromessi, ad un comune progresso nel
mondo, poteva essere superata nel momento stesso in cui si tentava di comprenderla e chiarirla, e
non richiedeva necessariamente di essere demolita). Questa sua incapacità potrebbe essere spiegata
psicologicamente col fatto che, in certi momenti, la sofferenza del suo orgoglio ferito sembra forse
essere ancor più grande della sofferenza determinata dalla stessa incapacità di comunicare. Infatti,
un’autentica comunicazione è possibile soltanto nella misura in cui gli uomini sono impassibili di
fronte all’offesa, poiché essi stessi rimangono non in una immaginaria indipendenza esterna al
mondo, bensì in una realtà dalla quale non si sono mai staccati; soltanto allora essi sono pronti a
liberare l’altro e se stessi dagli impacci, possono propriamente interrogare l’altro e rispondergli.
Osano essere importuni, ma hanno pudore e soggezione proprio laddove Nietzsche abbandona
queste inibizioni, come quando, in modo pedante e oltraggioso, egli volge ogni comunicazione in
una franchezza gratuita, o ancora, quando si libera della sua solitudine per aggrapparsi
inopportunamente ad un estraneo, o quando fa del tutto casualmente una proposta di matrimonio.
Il motivo di questo fallimento potrebbe risiedere nel fatto che la volontà di comunicazione di
Nietzsche sarebbe in fondo senza legami con l’essere-se-stesso proprio dell’altro, e dunque non
sarebbe una vera volontà di comunicazione, Nietzsche è estremamente gentile, sempre disponibile,
pronto ad aiutare gli altri con straordinaria solerzia, ma sembra che egli ami sempre solo se stesso e
che ami l’altro solo nella misura in cui vi ritrova qualcosa di se stesso; gli manca l’effettiva
dedizione verso gli altri esseri umani. Egli cerca l’amore, ma non comprende che, per una sua
effettiva realizzazione, è necessaria una totale dedizione della propria anima. Sembra dunque
che Nietzsche, che prova ed esprime la sua riconoscenza per tutto ciò che ebbe dalla vita, possa
diventare di fatto ingrato e infedele nella comunicazione (come quando parla, con interlocutori
occasionali, di Overbeck, o anche di sua madre e di sua sorella). Tuttavia, nel suo bisogno di
un legame umano, egli può restare fedele quando l’altro si mostra paziente e disponibile (Overbeck,
la sorella), oppure quando l’altro è un fedele discepolo e collaboratore (Gast). In realtà, egli è
attratto solo dall’indipendenza e dalla grandezza; in segreto, egli non si inganna su coloro che
sanno sopportare e gli appartengono, ai quali egli scrive per lo più con rispetto, pieno di tatto, anche
con prudenza, con continue testimonianze di gratitudine. Egli vuole ciò che vi è di più elevato, e
giudica secondo questa norma; ma abbandona tutti gli altri alle loro complicazioni o ristrettezze -
incapace di legarsi a loro con slancio, in un movimento di amorosa lotta per realizzare se stesso
unitamente agli altri - senza giudicare né esaltare (anche quando, degnandosi di esprimere la propria
amicizia, rende omaggio ad altri con apparente, piena dedizione). Sorge a questo punto la domanda:
forse Nietzsche non ha amato dal fondo della sua anima, con l’amore che fonda e mette in
movimento la comunicazione, poiché tocca la stessa realtà esistenziale, e non criteri di giudizio
assoluti o idoli appassionatamente immaginati? Ha sofferto, in fondo, ancor più per il fatto che non
amò in quanto non fu amato?
(II). Una tale spiegazione psicologica può convincere solo chi non crede al compito di Nietzsche ed
alla consapevolezza che egli aveva di questo compito. Se Nietzsche ama gli altri solo nella misura
in cui vi ritrova qualcosa di se stesso, allora ciò che appunto vi ritrova è di fatto il compito che tutto
consuma, che lo spoglia e lo spinge ad essere una eccezione. Nietzsche poteva dedicarsi sia
all’altro, quando intravvedeva in lui la realizzazione di un compito in quel momento necessario
(così accadde con R. Wagner), sia al compito indeterminato che, pur adombrato nel pensiero, non
era ancora ben evidente; ma non sapeva abbandonarsi alla comunicazione umana in quanto tale.
Questo difetto esistenziale è una conseguenza della positività esistenziale insita nel compito
dell’eccezione.
È per questo che una spiegazione psicologica non è in grado di cogliere in modo adeguato la causa
determinante della solitudine di Nietzsche. Il contenuto della sua esistenza di pensatore lo spinge,
contro la sua volontà, a distaccarsi per diventare eccezione. Le sue idee, quando le
esprime, intimoriscono certamente l’altro. Nietzsche sopporta il sacrificio che deve compiere, ma lo
sopporta con le più vive resistenze. « Ancora adesso, dopo un’ora di simpatica conversazione con
persone che mi sono completamente estranee, tutta la mia filosofia vacilla; mi sembra molto stupido
voler aver ragione a scapito dell'amore, e non rendere gli altri partecipi di ciò che costituisce il suo
più grande valore, per non perdere la simpatia » (a Gast, 20. 8. 80).
Nella vita di Nietzsche vi è una necessaria contraddizione tra ciò che egli vuole come uomo, e ciò
che egli vuole nell’adempimento del suo compito. Così, egli si lamenta della solitudine, eppure la
desidera, soffre della mancanza di tutto ciò che vi è di normale nell’uomo, e sembra sia
animato solo dal proposito di migliorarlo, eppure sceglie consapevolmente l'esserci d’eccezione. «
L’antinomia della mia... situazione e della mia forma di esistenza consiste... nel fatto che tutto ciò di
cui ho bisogno come philosophus radicalis - esser libero da ogni vincolo nei confronti di: lavoro,
donna, figli, patria, fede, ecc. ecc. - io lo avverto nello stesso tempo come altrettante privazioni,
nella misura in cui, per fortuna, sono un essere vivente e non semplicemente una macchina per fare
delle analisi » (a Overbeck, 14. 11. 86; qualcosa di simile si legge anche nella lettera alla sorella, 7.
87).
Se si vuole non solo comprendere come un fatto psicologico, ma anche ascoltare come una voce,
che appartiene solo a lui e a nessun altro, ciò che vi è di straordinario nella vita di Nietzsche,
bisogna vedere nel suo compito un segno del destino. Si può già ascoltare questa voce che
rivela l’inesorabilità della sua propria origine, allorché, ancora studente, Nietzsche scrive alla
madre: « Non v’è motivo di pensare che io subisca l’influenza di qualcuno, giacché dovrei prima di
tutto trovare le persone che sento superiori a me » (19. 11. 62). Il vincolo di questo destino si fa
sentire in tutta la sua vita: ad esempio, nel caso di Wagner, che egli abbandona, cosi come nel caso
di Rohde, da cui è abbandonato. E Nietzsche diventa sempre piu consapevole di questo destino,
come mostra ciò che egli scrive nei suoi ultimi anni: « Tutta la mia vita si è disgregata davanti ai
miei sguardi: tutta questa vita, che è stata tenuta nascosta con tanto scrupolo, e fa un passo ogni sei
anni e in fondo non vuole niente di più che questo passo: mentre tutto il resto, tutte le mie relazioni
umane hanno a che fare con la mia maschera, ed io stesso devo continuamente esserne la vittima e
condurre una vita del tutto nascosta » fa Overbeck, 11. 2. 83). « In fondo si diventa molto
presuntuosi quando si sancisce la propria vita attraverso le opere: soprattutto, cosi facendo, si
disimpara a piacere agli altri. Si è troppo seri, essi lo sentono: vi è una serietà diabolica in chi
vuole  avere rispetto per la propria opera... » (a Gasi, 7. 4. 88).
Se la vita di Nietzsche consiste nella realizzazione di un compito, da questo stesso compito sorge
una nuova volontà di comunicazione, sia con persone che avvertono lo stesso bisogno, gli stessi
pensieri, lo stesso compito, sia con degli allievi. Nietzsche provava uno straordinario desiderio
per entrambi.
(I). Malgrado tutto, egli cerca ripetutamente di vedere se i suoi amici non avvertano lo stesso
struggimento che l’ha completamente sradicato, se essi non provino ciò che egli prova.
Per Nietzsche fu molto difficile abbandonare Lou e Rèe, perché con loro -così egli scrive in una
lettera - « potevo parlare senza maschera delle cose che mi interessano » (alla sorella, 3. 85). Egli si
lamenta della mancanza di « una persona con cui possa riflettere sull’avvenire degli uomini » (a
Overbeck, 11.
11.    83). « A volte desidero tenere con te e con Jacob Burckhardt una discussione riservata, più per
domandare come voi riuscite ad eludere questo bisogno, che non per raccontarvi delle novità» (a
Overbeck, 2. 7. 85). «La lettera di J. Burckhardt... mi ha afflitto, anche se esprime la più grande
stima nei miei confronti. Ma cosa me ne importa? Desideravo ascoltare “questo è il mio
bisogno. Ciò mi ha reso muto! ”... Non sento in alcun modo la mancanza di amici, ma soltanto di
quelli con cui posso condividere le mie preoccupazioni » (a Overbeck,
12. 10. 86). « Dalla mia prima infanzia fino ad oggi non ho trovato nessuno che avesse nel cuore e
nella coscienza i miei stesti bisogni » (alla sorella, 20. 5. 85).
(II). La volontà di comunicazione, sorta dal compito stesso, cerca scolari e discepoli.
Gli scritti, nella forma in cui li pubblicò, dovevano essere « ami », « reti », tentativi per adescare: «
Ho ancora bisogno di discepoli per la mia vita futura: e, se i miei libri precedenti non agiscono
come esche, vuol dire che ho “sbagliato mestiere”. Ciò che è migliore ed essenziale può essere
comunicato solo da uomo a uomo; non può e non deve essere “pubblico” » (a Overbeck, 11. 84). È
attento a chi l’ascolta: « Finora non ho trovato nessuno; ma ho trovato sempre finora qualche strana
forma di quella “stupidità furiosa”, che vorrebbe per di più farsi adorare come virtù» (14, 356). « Il
mio desiderio di avere dei discepoli e dei seguaci mi rende a volte impaziente e, come sembra, negli
ultimi anni mi ha spinto a commettere perfino delle sciocchezze... » (a Overbeck, 31. 3. 85).
« È possibile che abbia sempre creduto segretamente che, al punto della vita in cui sono arrivato, io
non sia piu solo: e che accetterei dei voti e dei giuramenti, che avrei qualche cosa da fondare e
organizzare... » (a Overbeck, 10. 7. 84). Scrive a proposito di Zarathustra: « Non sentire, dopo un
tale appello dal profondo dell’anima, nessuna voce di risposta, è un’esperienza terribile...: in me ha
reciso tutti i legami con gli uomini vivi » (14, 305; lo stesso scrive a Overbeck, 17. 6. 87). «Sono
ormai dieci anni: non mi raggiunge piu suono alcuno» (16, 382). Nel 1887 Nietzsche scrive a
Overbeck: ciò che «mi fa  soffrire terribilmente è che, in questi quindici anni, nessuno mi ha
“scoperto”, ha avuto bisogno di me, mi ha amato ».
Nietzsche ha sacrificato al proprio compito le necessità dell’esistenza comune a tutti gli uomini; è
mancata del tutto la comunicazione, che pure era richiesta da questo compito, e che egli desiderava
con passione. Nietzsche cerca di comprenderne i motivi.
La solitudine è nell’essenza del conoscere, non appena il conoscere diventa la vita stessa; « se si
concede il diritto di riporre il senso della sua vita nella conoscenza », allora gli è proprio « qualcosa
di estraneo, di distante e forse anche di freddo » (a Overbeck, 17. 10. 85). Questo senso di estraneità
è rafforzato dal modo di conoscere proprio di Nietzsche: « Nella mia inflessibile e sotterranea lotta
contro tutto ciò che è stato fino ad oggi amato e venerato dagli uomini... mi sono ridotto a
diventare inavvertitamente qualcosa di simile ad una caverna - qualcosa di nascosto che non si trova
piu, neppure se si esce a cercarlo » (a Seydlitz, 12. 2. 88).
Nietzsche vede una causa essenziale di questa solitudine anche nel fatto che è possibile una vera
comunicazione soltanto con una persona di pari livello. Essa non può riuscire né con una persona
di livello superiore, né con una di livello inferiore: « Vi sono certo delle menti più fini e dei
cuori più forti e più nobili dei miei: ma posso trarre qualche vantaggio da essi soltanto se sono in
grado di raggiungere il loro livello, e dunque possiamo aiutarci a vicenda» (11, 155). Nietzsche
riconosce che, «per evitare le paure della solitudine », si è « spesso inventato qualche amicizia o
affinità scientifica »; per questo, nella sua vita ha avuto « cosi tante delusioni e contraddizioni - del
resto », egli aggiunge, « anche molta felicità e gratificazione » (alla sorella, 7. 87).
Nietzsche esige, con tutta la sua passione, uomini di rango supremo: « Perché non trovo tra i viventi
gli uomini che guardino più in alto di me, e siano costretti a vedermi sotto di sé?... Eppure desidero
proprio questi uomini! » (12, 219). Ma deve invece constatare: «Digrignando i denti urto la spiaggia
della vostra piattezza, digrignando i denti come un’onda selvaggia, quando contro la sua volontà va
a mordere nella sabbia » (12, 256).
Nietzsche non incontra mai nessuno della sua stessa natura e rango, per cui ne conclude: « Sono
troppo orgoglioso per credere che qualcuno mi possa amare. Ciò presupporrebbe infatti che egli
sappia chi sono. Altrettanto poco credo che potrò veramente amare qualcuno: ciò presupporrebbe
che io trovi un uomo del mio rango... Per ciò che mi sta a cuore, mi tormenta, mi solleva, non ho
mai avuto un confidente o un amico » (alla sorella, 3. 85). Nietzsche teme che la differenza di rango
pregiudichi ogni possibilità di comunicazione: « L’incomunicabilità è veramente la piu terribile
delle solitudini; la differenza è la maschera più impenetrabile di ogni altra maschera - un’amicizia'
perfetta esiste solo inter pares. Inter pares! Un’espressione inebriante... » (alla sorella, 8. 7. 86). Ma
egli deve accettare le conseguenze dell’ineguaglianza: « L’eterna distanza che vi è tra un uomo e
l’altro mi spinge alla solitudine » (12, 325). « Chi si trova come me perde, per parlare con Goethe,
“uno dei massimi diritti dell’uomo, quello di essere giudicato dai suoi pari”» (13, 377). «Non
c’è nessuno che possa lodarmi » (12, 219). « Non trovo più nessuno a cui poter obbedire, e neppure
nessuno a cui voler comandare » (12, 325).
Nietzsche considera questa sua condizione di isolamento come un carattere tipico del suo essere, e
la fa risalire fin dalla sua prima infanzia: « Già da ragazzo ero solo, e lo sono ancora oggi, all’età di
quarantaquattro anni » (a Overbeck, 12. 11. 87).
La solitudine della sua vita, per i motivi stessi che la determinano, è inevitabile: « Avevo bisogno di
altri esseri umani, li cercavo - e trovavo soltanto me stesso - e non desidero più neppure me stesso!
» (12, 324). « Nessuno viene più da me. Ed io stesso: io andavo da tutti, ma non trovavo nessuno! »
(12, 324).
Ne consegue per Nietzsche, nell’ultimo decennio, una condizione di crescente e indescrivibile
tristezza, a volte desolata.
« Ora non vive più nessuno che mi ami; come potrei amare ancora la vita? » (12, 324). « Te ne stai
seduto sulla spiaggia, intirizzito ed affamato: non basta a salvare la sua vita! » (12, 348). «Vi
lamentate perché adopero colori stridenti? ... forse io ho una natura che stride, “come il bramito dei
cervo che invoca acqua fresca”. Se voi stessi foste questa fresca acqua, come vi giungerebbe
piacevole la mia voce! » (12, 217). « Per i solitari, il più lieve brusio è già una consolazione» (12,
324). «Se potessi darti un’idea del mio senso di solitudine! Non ho nessuno, né tra i vivi, né tra i
morti, con cui mi senta affine. È indescrivibilmente spaventoso... » (a Overbeck, 5. 8. 86). « Così
raramente mi giunge una voce amica. Sono ora solo, assurdamente solo... Ormai da molti anni,
nessun conforto, non un briciolo di umanità e di amore » (a Seydlitz, 12. 2. 88).
Ciò che stupisce è la capacità di rinuncia di Nietzsche, anche se, a dire il vero, raramente si può
leggere una frase come questa: « Che cosa ho imparato fino ad oggi? A ricavare del bene per me
stesso da tutte le situazioni e a non aver bisogno degli altri » (12, 219).
Solo nel cambiamento degli ultimi mesi Nietzsche poteva smettere di soffrire e, come se avesse
dimenticato tutto il passato, afferma: « C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho
sempre e solamente sofferto per la “moltitudine”... Assurdamente presto, a sette anni, io sapevo già
che una parola umana non mi avrebbe mai raggiunto: ma qualcuno mi ha mai visto rattristato per
questo? » (15, 47).
La malattia
In tutta l’opera di Nietzsche ritroviamo domande sul senso e sul significato della malattia. Con rare
interruzioni nel corso degli ultimi venti anni della sua vita creativa, Nietzsche stesso fu afflitto da
disturbi di diversa natura, che culminarono in una malattia mentale. Per comprendere Nietzsche è
indispensabile conoscere con precisione le sue malattie, saperne distinguere chiaramente i possibili
significati, ed aver presente l’atteggiamento di Nietzsche nei confronti della sua malattia.24
Le malattie. Il giorno 8 gennaio 1889 Overbeck giunse a Torino per ricondurre a casa l’amico
malato di mente. Alcune lettere farneticanti (inviate a A. Heusler e J. Burckhardt) parvero allo
psichiatra di Basilea, Wille, al quale era stato chiesto un consulto, motivo sufficiente per richiedere
un ricovero immediato. Nietzsche si presentava infatti in uno stato di profonda prostrazione. Il
giorno prima era caduto per strada. Overbeck lo trovò « rannicchiato in un angolo del divano »; « si
getta verso di me, mi abbraccia con forza e ricade poi in convulsioni sul divano ». Si abbandona a
canti a squarciagola, ad impetuose, inconsulte esibizioni al pianoforte, a danze e salti scomposti, poi
pronuncia di nuovo « in un tono indescrivibilmente mite e sublime, frasi ad un tempo chiare e
raccapriccianti su se stesso come discendente del Dio morto » (Bernoulli, 2, 22 sgg.). Nietzsche
ebbe ulteriori ricadute e, in questa condizione di paralisi progressiva cerebrale, visse ancora fino al
1900.
Il problema che ci si deve porre è quello di definire l’inizio della malattia. Le lettere dimostrano che
prima del 27 dicembre 1888 non compariva alcun segno di pazzia. In quel giorno Nietzsche scrisse
infatti una lettera a Fuchs, che denotava una mente ancora lucida, ma sempre nello stesso
giorno scrisse a Overbeck quanto segue: « Sto lavorando ad un promemoria per le corti europee al
fine di costituire una Lega antitedesca. Voglio rinchiudere il “Reich’’ in una camicia di forza e
provocare una guerra di disperazione ». I giorni successivi sono contrassegnati da pensieri
dissennati a tal riguardo: si tratta delle piu svariate e contorte riflessioni, conservate nelle lettere di
quei giorni e su pezzi di carta scritti minuziosamente. In queste sue farneticazioni, Nietzsche si
immedesima con Dio; con Dioniso e il Crocifisso, che si identificano; Nietzsche è ogni uomo,
proprio tutti gli uomini, sia vivi che morti. Anche ai suoi amici assegna ruoli precisi. Cosima
Wagner diventa Arianna, Rohde una divinità, Burckhardt il grande maestro. La creazione e la storia
del mondo sono nelle mani di Nietzsche. È essenziale sapere che nessun segno di tale follia è
riscontrabile prima del 27 dicembre 1888. La ricerca di eventuali segni di patologia mentale nelle
opere precedenti a questa data non ha avuto alcun esito.
Solo una psicosi può iniziare improvvisamente in questo modo. Si tratta di un’affezione organica
del cervello, molto probabilmente di una paralisi progressiva, e in ogni caso è un processo
degenerativo originato da fattori esogeni, sia che si ascriva ad una infezione, sia ad un abuso di
droghe: questa seconda ipotesi è tuttavia improbabile e non è mai stata dimostrata con certezza;
non si tratta dunque di una malattia ereditaria, determinata dalla costituzione di Nietzsche.
Oggi, con i mezzi a nostra disposizione, non possiamo stabilire quanto tempo prima del 27
dicembre 1888 fosse iniziato questo processo degenerativo. Per diagnosticare con certezza la
paralisi progressiva e stabilirne l’inizio sarebbero stati necessari, oltre alle analisi psicopatologiche,
anche metodi di indagine clinica (soprattutto la puntura lombare) che allora erano ancora
sconosciuti. Comunque, a partire dal 1873, Nietzsche è sempre stato afflitto da diverse malattie, ma
non da una malattia mentale. Il fatto che poi Nietzsche sia diventato pazzo ha indotto qualcuno a
ritenere che già negli anni precedenti si potessero riscontrare i segni della futura malattia. Questa
concezione, però, perde di vista il dato di fatto, e l’opinione opposta, fondata su di esso, che
Nietzsche sia stato perfettamente sano, dal punto di vista mentale, sino alla fine del 1888. La
diagnosi della malattia, che dipende sempre dalle conoscenze mediche e dalle concezioni del tempo,
nel caso di Nietzsche non giunse mai ad una assoluta certezza. Per trovare una risposta ipotetica alla
domanda su cosa potrebbe essersi verificato in relazione alla malattia cerebrale degli ultimi anni,
occorrerebbe procedere ad una analisi comparata-, innanzitutto con il decorso dei molteplici casi di
paralisi progressiva osservati negli istituti clinici; ma questo confronto non è sufficiente, perché
riesce a fornire in modo solo superficiale quella chiarezza psicologica necessaria per differenziare la
produzione intellettuale nel decennio che precede la chiara manifestazione della malattia (materiale
su ciò è fornito, ad esempio, da Arndt e Junius, in « Archiv für Psychiatrie », voi. 44); in secondo
luogo, bisognerebbe confrontare la sua malattia con il decorso della paralisi progressiva, certa o
probabile, in altri personaggi celebri: Rethel, Lenau, Maupassant, Hugo Wolf, Schumann (purtroppo
non mi è stato possibile consultare lo scritto di Gaston Vorberg, Zusammenbruch: Lenau, Nietzsche,
Maupassant, Hugo Wolf, München, 1922). Sebbene le biografie di personalità significative, grazie
alla loro ricchezza di notizie sull’argomento in questione, possano essere di maggior aiuto rispetto
alle cartelle cliniche di uomini non impegnati nella produzione artistica, dal confronto tra Nietzsche
e questi altri uomini celebri non è stato finora ottenuto un risultato definitivo.
Anche tramite questi paragoni non sappiamo cosa possa precedere, forse anche di decenni, l’inizio
improvviso della paralisi progressiva, oppure, ammesso che vi sia effettivamente qualcosa che la
preceda, cosa dovrebbe mai esser considerato il sintomo di un primo stadio della malattia. Poiché a
tutt’oggi non è ancora possibile raggiungere una conoscenza certa a tal riguardo, non ci rimane che
il semplice compito di rilevare in modo descrittivo il decorso delle malattie e degli stati psicologici
riconoscibili, che non possono essere definiti patologici in Nietzsche, senza sapere che cosa
comporti in sé una sola malattia o cosa siano i disturbi di natura completamente diversa che hanno
colpito solo casualmente la stessa persona.
In questa descrizione ci interessano essenzialmente i bruschi cambiamenti dello stato generale
dell’esserci, sia in senso corporeo che mentale, che determinano alterazioni irreversibili. Tali
cambiamenti, nel caso di Nietzsche, possono essere ricondotti ai punti qui di seguito elencati.
1)    Dopo una grave forma di dissenteria contratta quando era infermiere in guerra, Nietzsche
guarisce, ma è saltuariamente affetto da disturbi di stomaco, finché, a partire dal 1873, i disturbi
aumentano e si fanno piu frequenti: soprattutto, violenti attacchi di emicrania, con fotofobia e
nausea, accompagnati da un senso generale di spossatezza, e sensazioni simili a quelle di un attacco
di mal di mare lo costringevano sempre più spesso a letto. Alcune volte egli ebbe perdite di
coscienza per un certo tempo (ad Eiser, 1. 80). Alla miopia che lo affliggeva sin dalla giovinezza, si
aggiunsero continui disturbi agli occhi; oltre ai dolori acuti, Nietzsche soffriva di un dolore
continuo, di un peso alla testa (a Eiser, 2. 80); il ricorso all’aiuto di amici, che leggevano per lui e
scrivevano sotto la sua dettatura, giocò un ruolo sempre maggiore nel suo esserci spirituale.
Queste malattie hanno accompagnato, in una forma più o meno intensa, tutta la sua vita;
miglioramenti e peggioramenti si sono alternati in modo irregolare. Così, nel 1885, Nietzsche
lamenta ancora una nuova « improvvisa diminuzione della vista ». Se ci atteniamo alle lettere,
l’anno 1879 sembra essere stato il peggiore (« Ho avuto 118 giorni di attacchi gravi; gli attacchi più
leggeri non li ho contati»: a Eiser, 2. 80), ma anche, d’altra parte, ricco di miglioramenti («Ed ora,
questo strano miglioramento! Ma sono certo che durerà soltanto un mese »: a Marie Baumgartner,
20. 10. 79).
Nonostante la gravità dei disturbi, il perdurare della malattia ed il profondo segno lasciato
nell’esserci di Nietzsche, non si è riusciti a fare una diagnosi medica che riassumesse i sintomi in un
quadro chiaro, preciso ed univoco di malattia. Si è parlato di emicrania, di un processo
psiconeurotico in relazione alla rottura dell’amicizia con R. Wagner, di un processo patologico
organico del sistema nervoso, ma senza mai giungere ad un risultato chiaro e definitivo.
Nel maggio del 1879, a causa della malattia, Nietzsche aveva rinunciato alla propria cattedra
universitaria ed aveva iniziato una serie di viaggi. Durante l’estate scrisse II viandante e la sua
ombra. Nell’inverno seguente - che trascorse a Naumburg presso la madre - il suo stato di salute
peggiora a tal punto che egli teme di esser ormai giunto alla fine (lettera di addio a Malwida von
Meysenbug, 14. 1. 80).
2)    Dal febbraio 1880 Nietzsche ritorna al Sud, dove inizia a stendere nuovi appunti che, nel corso
dell’anno, sfociano nella pubblicazione di Aurora. A questo punto si verifica uno sviluppo spirituale
che comporta un nuovo inizio per i suoi pensieri, una consapevolezza solo ora effettiva del suo
compito, ed una conseguente consapevolezza di sé. Si può osservare questa trasformazione,
che raggiunge il suo culmine tra il luglio e l’agosto del 1881, a partire dall’agosto 1880 e fino ai
momenti della sua ispirazione negli anni 1882 e 1883.
Chi legge le lettere e gli scritti in ordine cronologico, tenendo sempre presente la produzione
complessiva di Nietzsche, cioè sia gli scritti precedenti, sia quelli successivi, ed osservando dunque
gli avvenimenti del tempo in relazione agli scritti, non può non avere l’impressione che Nietzsche, a
partire dal 1880, stia appunto vivendo una profonda trasformazione, mai conosciuta prima nei corso
della sua vita. Essa si manifesta non solo nel contenuto del suo pensiero, in nuove concezioni, ma
anche nel suo stesso modo di vivere; Nietzsche si immerge, per cosi dire, in una nuova atmosfera;
ciò che dice assume un tono diverso; sembra proprio che, prima del 1880, non vi sia alcun segno
premonitore di questa nuova disposizione d’animo che lo pervade in modo cosi ampio ed intenso.
Non ci chiediamo qui se sia fondata l’idea di questo sviluppo spirituale (cfr. infra); non dubitiamo
infatti della sua verità. Non ci poniamo neppure il problema del senso del contenuto spirituale e di
quello esistenziale che caratterizzano ora Nietzsche; non dubitiamo infatti del loro intimo legame,
che è del resto mostrato dall’esposizione complessiva di questo libro. Ci chiediamo invece se in
questo sviluppo spirituale non si manifesti in modo evidente nella vita di Nietzsche qualcosa che,
spiritualmente ed esistenzialmente non necessario, conferisce a questo elemento di novità, per cosi
dire, un colore che non gli è proprio; oppure se questi impulsi e obiettivi spirituali non siano
piuttosto originati da ciò che possiamo genericamente definire un « fattore biologico ».
Il metodo con cui osserviamo e analizziamo la trasformazione del 1880 e degli anni seguenti non si
basa sull’uso di categorie mediche, né sulla ricerca di « sintomi » che sono « sospetti »; al contrario,
il nostro metodo si basa ed è costituito soltanto dal confronto cronologico. Non si tratta tanto di
osservare i fenomeni in sé, quanto piuttosto di verificare se essi compaiono per la prima volta,
individuando quelli che prima non c’erano, e se questi continuano ad essere incomprensibili, sia dal
punto di vista spirituale che da quello psicologico, alla luce dei fatti precedenti.
Punto di partenza di questa analisi è l’impressione complessiva che si ricava da una lettura
rigorosamente cronologica degli scritti di Nietzsche. Lo scopo della nostra esposizione è dunque
quello di risvegliare nel lettore questa impressione - nella misura in cui tale questione gli si presenta
nel suo studio di Nietzsche -, indicandogliela con l’ausilio di singole citazioni e dati di fatto.
Ma non viene fornito alcun esempio, inteso a dimostrare che in quel caso specifico Nietzsche
scrivesse sotto l’influsso della malattia. Quell’impressione complessiva - secondo il significato che
le abbiamo attribuito, ed allo stadio attuale delle nostre conoscenze - conduce comunque a qualcosa
che indubbiamente non può essere dimostrato, ma che è pur sempre possibile, se non probabile. Il
problema fondamentale che sorge dallo studio della vita di Nietzsche consiste dunque nel cercare di
comprendere il significato della profonda trasformazione che si verifica tra il 1880 e il 1883: se si
tratta cioè di uno sviluppo spirituale puramente immanente; o se si verifica invece qualcosa -
determinato da fattori non spirituali, bensì biologici (cioè conoscibili tramite le scienze naturali) -,
che porta alla grandezza dell’opera di Nietzsche, ma che contemporaneamente, attraverso nuovi
aspetti, mai riscontrati in precedenza, impedisce una completa comprensione di tale
trasformazione.25 Ecco alcune delle molte citazioni che, grazie al loro confronto, possono
rappresentare dei dati di fatto.
Mentre nel gennaio del 1880 dominava ancora la consapevolezza della fine (« Penso di aver svolto
l’opera della mia vita come qualcuno a cui non è stato concesso abbastanza tempo. Avrei ancora
tanto da dire, ed in ogni ora senza dolori mi sento molto ricco! »: alla sorella, 16. 1. 80), ora si
riscontra un enorme cambiamento nella consapevolezza che Nietzsche ha di sé,
nell’esperienza dell’esserci, nelle situazioni concrete determinate dal suo nuovo stato d’animo, che
pervade profondamente ogni cosa.
Da Marienbad: « Gli ultimi tempi ero sempre in uno stato d’animo molto
elevato! » (a Gast, 2. 8. 80); « Sono andato molto al di là di me stesso. Una volta, nel bosco,
incrociai un uomo che mi fissò intensamente: in quell’istante capii che dovevo avere un’espressione
di raggiante felicità... » (a Gast, 20. 8. 80). Da Genova: « Sono molto malato, ma in uno stato
d’animo molto migliore rispetto a quello dello stesso periodo in altri anni » (alla sorella, 25. 12.
80). Da Sils-Maria: « Non è mai esistito un uomo al quale si adattasse così poco la parola “avvilito”.
Chi, tra i miei amici, ha indovinato il compito della mia vita, pensa che io sia, se non proprio
l’uomo più felice, in ogni caso l’uomo più coraggioso... Il mio aspetto è del resto perfetto, la mia
muscolatura, in conseguenza delle continue e lunghe passeggiate, è simile a quella di un
soldato, stomaco ed addome non hanno problemi. Il mio sistema nervoso, considerando l’enorme
attività alla quale è sottoposto, è stupendo, meraviglioso e molto forte » (alla sorella, metà luglio
81). « L’intensità del mio sentimento mi fa ridere e rabbrividire... durante le mie passeggiate ho
pianto... lacrime di felicità; ho pronunciato e cantato cose insensate, pervaso da una nuova visione,
mia, prima che di tutti gli altri uomini» (a Gast, 14. 8. 81). Da Genova: «Qui a Genova sono
orgoglioso e felice, proprio come il principe Doria! - o Colombo? Faccio lunghe passeggiate come
in Engadina, esultando di felicità sulle alture, e con uno sguardo al futuro che nessuno ha mai osato
prima di me. Il fatto di riuscire ad adempiere al mio importante compito non dipende da una mia
intima condizione personale, ma dall’“essenza delle cose”. Credimi: io sono oggi alla testa di tutta
la riflessione ed il lavoro morale dell’Europa, ma non solo. Verrà forse un giorno in cui anche le
aquile mi dovranno guardare timorose » (alla sorella, 29. 11. 81).
Agli attimi di entusiasmo si alternano giorni e settimane di cattivo umore. Ma tale alternanza è
completamente diversa rispetto a prima. Gli attacchi dolorosi di un tempo non sono cessati, ma la
sua condizione fisica è migliorata rispetto al 1879. Così, è in un momento favorevole che, nel 1882,
scrive (ad Eiser): « In sostanza, posso considerarmi guarito o quantomeno in via di guarigione ».
Ma negli anni successivi non smette mai definitivamente di lamentarsi per gli attacchi dolorosi e per
i problemi agli occhi, connessi al mutare delle condizioni atmosferiche. Il contrasto tra i momenti di
acuta sofferenza e quelli in cui Nietzsche avverte qualche miglioramento passa in secondo piano
rispetto al nuovo e più importante contrasto tra gli stati elevati dell’esperienza creativa dell’essere, e
la terribile malinconia delle settimane e dei mesi di depressione. Ciò è confermato dal fatto che
Nietzsche, tra il 1876 ed il 1880, pur nel « deserto » della sua riflessione, non si sente però mai del
tutto sradicato, come in un abisso senza fondo, ma rimane padrone di sé, almeno dal punto di vista
spirituale; infatti, era solo per i suoi problemi fisici che egli, in quel periodo, non nutriva più alcuna
speranza, ed attendeva la fine (in quegli anni Nietzsche era consapevole di avere uno sguardo
ampio, disincantato, contrario ad ogni fanatismo; e si sentiva in un momento di profonda
ispirazione). Al contrario, solo dopo il 1881 conobbe le peripezie che lo portarono dal nulla al
qualcosa, e poi alla ricaduta nel nulla; a partire dal 1881, Nietzsche non solo comprese ed abbracciò
con gioia il grande sì, ma, quando gli sfuggiva, egli soffriva disperatamente per la necessità di
recuperarlo. Non tornò più in una condizione di stabilità ed equilibrio. Gli alti e bassi si
susseguirono in modo straordinario. Ripensando a questi anni, egli scrisse: « La veemenza delle mie
vibrazioni interiori è stata spaventosa nel corso degli ultimi anni » (a Fuchs, 14. 12. 87).
Le lettere di quegli anni testimoniano ciò che Nietzsche riferisce in seguito: che i primi tre libri
dello Zarathustra furono scritti in circa 10 giorni di un’incredibile disposizione superiore allo stato
d’animo generale del suo essere, Dopo queste giornate seguirono fasi piu lunghe, caratterizzate da
un senso di profonda desolazione e malinconia. Nietzsche era solito definire con il
termine ispirazione questi stati d’animo; per quanto sia difficile che essi raggiungano una chiarezza
sufficiente per essere comunicati, egli descrive il loro profondo mistero in questo modo:
« Se si serba in sé anche un minimo residuo di superstizione, sarà difficile riuscire a rifiutare di fatto
l’idea secondo cui noi siamo soltanto incarnazione, soltanto strumento sonoro, soltanto medium di
poteri che ci sovrastano. Il concetto di rivelazione, nel senso di qualcosa che, con indicibile
sicurezza e finezza, si fa improvvisamente visibile, udibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge
nel piu profondo, è una semplice descrizione dell’evidenza di fatto. Si ode, non si cerca; si prende,
non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità, senza esitazioni
nella forma - io non ho mai avuto scelta. Un rapimento, la cui enorme tensione si scarica talvolta in
un torrente di lacrime; che ora fa precipitare inconsapevolmente il passo, ora lo rallenta; un totale
esser-fuori-di-sé con la coscienza piu precisa di innumerevoli brividi e correnti fino alla punta dei
piedi; un abisso di felicità dove ciò che è piu doloroso e cupo non ha più un effetto di contrasto, ma
di colore necessario, voluto, provocato, in mezzo ad una tale sovrabbondanza di luce;... tutto
avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di
incondizionatezza, di potenza, di divinità... La involontarietà dell’immagine, del simbolo è il fatto
più strano; non si ha più alcun concetto di ciò che è immagine, di ciò che è simbolo» (15, 90).
Oltre ai giorni di ispirazione creativa, Nietzsche vive in questi anni esperienze dell'essere di una
terribile abissalità. Sono esperienze limite che lo fanno rabbrividire, e poi di nuovo elevazioni
mistiche di una perfetta chiarezza. Nietzsche raramente le ha descritte, ma quando vi ha provato, Io
ha fatto con grande precisione: « Mi trovavo in un vero abisso di sentimenti, ma da
questa profondità ho raggiunto verticalmente la mia altezza » (a Overbeck, 3. 2. 83); oppure: « È di
nuovo notte intorno a me; è come se il cielo fosse illuminato dai lampi - Fui per un breve lasso di
tempo completamente nel mio elemento e nella mia luce » (a Overbeck, 11. 3. 83). Servendosi di
questi simboli, Nietzsche richiama alla mente con estrema insistenza un’esperienza difficile da
esprimere verbalmente: « Mi fermo, improvvisamente sono stanco. In avanti... tutt’intorno
è l’abisso... Dietro di me... la montagna. Mi aggrappo tremante a un sostegno... Qui, gli arbusti - mi
si spezzano tra le mani... Rabbrividisco, chiudo gli occhi. Dove sono? Guardo dentro una notte di
porpora, essa mi attrae e mi fa cenno. Che cosa mi succede? Che cosa è accaduto da farti
improvvisamente mancare la voce e sentire come sopraffatto da un peso di sentimenti ebbri e
opachi? Di che soffri ora? Sì, soffrire, è la parola giusta! - Qual tarlo mi rode il cuore? » (12, 223).
I diversi stati di luce mistica, di pericoloso ed estremo rabbrividire, di ispirazione creatrice, si
limitano agli anni 1881-1884. Dal 1885 in poi non si parla più di tali sensazioni, esperienze
dell’essere, e rivelazioni. Quando Nietzsche più tardi scrive di essere « senza sostegno » e di « poter
essere facilmente spazzato via in una notte da una tempesta », e che la sua situazione sarebbe «
molto elevata, ma costantemente vicina al pericolo - e senza risposta alla domanda: dove? » (a Gast,
87), ebbene, qui, senza riferirsi a stati realmente vissuti, Nietzsche parla del suo compito, mentre le
testimonianze precedenti riportano le esperienze limite realmente vissute. Ora Nietzsche è
solamente « torturato dai » suoi « problemi, giorno e notte » (a Overbeck, primavera 86). E
ancora, quando scrive che « nelle ultime settimane ero straordinariamente ispirato », si tratta solo di
idee che lo obbligano anche di notte « a scrivere qualcosa » (a Fuchs, 9. 9. 88).
Agli stati di elevazione era connesso un senso di straordinaria minaccia. L’intensità di queste
sensazioni non è naturale: « Talvolta mi passa per la testa la sensazione di vivere una vita molto
pericolosa, poiché io appartengo a quelle macchine che possono esplodere! » (a Gast, 14. 8. 81). In
seguito, egli considera tutto lo Zarathustra come « un’esplosione di forze che si sono accumulate
nel corso di decenni »; e ancora: « In queste esplosioni anche l’autore può facilmente saltare in aria.
Per me spesso è così... » (a Overbeck, 8. 2. 84). Anche se non vi è l’incombente pericolo di essere
distrutto, lo stato generale di Nietzsche è talmente labile che, ogni volta, dopo un’esperienza così
intensa, si ammala: « La mia sensibilità ha esplosioni così violente che un solo attimo, nel senso piu
stretto del termine, è sufficiente a farmi ammalare completamente a causa di un semplice
cambiamento (circa 12 ore più tardi è deciso, ciò dura due o tre giorni) » (a Overbeck, 11. 7. 83). «
Cosa può fare il modo di vivere più ragionevole, quando in ogni istante la veemenza del sentimento
mi colpisce come un lampo e sconvolge l’ordine di tutte le funzioni corporee? » (a Overbeck, 26.
12. 83).
Nei passi citati si riscontra un legame indissolubile tra la spiritualità di Nietzsche filosofo e poeta, e
le esperienze che lo assalivano senza una precisa motivazione, cogliendolo di sorpresa. Se non si
approfondisce la globalità di queste esperienze, e le diverse atmosfere che le avvolgono, è lecito
dire che ciascuna di esse rappresenta l’apparizione dell’elemento creativo. Il fatto che in Nietzsche
il processo creativo - che deve essere inteso come compimento delle fasi precedenti del suo
filosofare - sia stimolato da una serie di eventi che, senza un relativo « fattore biologico », non
possono essere concepiti come propri di una creazione in quanto tale, può essere spiegato, se non
dimostrato, con le seguenti argomentazioni.
a)    Le sensazioni e gli stati di estasi che lo assalivano, compaiono sempre sotto forma di attacchi:
ciò fa supporre che siano determinati da cause non spirituali. Dal punto di vista del loro senso
spirituale e della loro utilità per questo senso, è del tutto ininfluente determinare quando e in quale
successione essi comincino e terminino. Essi hanno comunque un loro carattere peculiare solo dal
1881 al 1884.
b)    Il gran numero di stati che non possono essere razionalmente collegati gli uni agli altri, la loro
incoerente varietà, e ancora, il fatto che precedano i momenti creativi, che si attenuino a partire dal
1884, che si presentino in concomitanza di manifestazioni che trascendono un processo spirituale di
creazione e le sue conseguenze: tutto ciò induce a pensare che ci troviamo di fronte ad
un complesso di manifestazioni che riguardano la costituzione di Nietzsche, anche se
indubbiamente sono in un proficuo rapporto con la sua attività creativa.
c)    Nietzsche ha 36 anni quando per la prima volta nella sua vita prova queste esperienze, che
assai raramente si riscontrano nella vita di tutti gli uomini ed anche nei grandi pensatori e poeti. È
vero infatti che gli uomini creativi possono provare stati d’animo di elevazione spirituale, visioni
profonde, in una parola, l’ispirazione per le loro creazioni; ma se confrontiamo questi stati d’anima
con quelli provati da Nietzsche, vediamo che si tratta di qualcosa di essenzialmente diverso, quasi
come l’idea del calore in confronto al fuoco vero e proprio, o come qualcosa di universalmente
naturale, che ci si aspetta dall’uomo creativo, in confronto a qualcosa di estraneo, provato da una
realtà corporea-spirituale. Pare essersi aggiunto qualcosa di nuovo che nasce dalla costituzione
biologica di Nietzsche.
Ancora una volta ci troviamo di fronte alla questione che già ci eravamo posti, e a cui non è
possibile dare - almeno fino ad oggi - una risposta definitiva: non si può cioè dire con precisione
cosa sia questo fattore biologico, e cosa sia accaduto a Nietzsche a partire dal 1880. Mi pare
comunque che l’osservatore privo di pregiudizi, che abbia approfondito l’analisi cronologica di
tutte le lettere e gli scritti di Nietzsche, non possa avere il minimo dubbio sul fatto che sia accaduto
qualcosa di decisivo. Considerare questi fatti come la prima fase della paralisi progressiva è
ingiustificato finché l’analisi non abbia mostrato, confrontando i singoli casi di paralisi progressiva,
che questi stadi preliminari rientrino effettivamente in questa specifica patologia - ed anche in tale
eventualità, questi primi sintomi non sarebbero ancora la completa manifestazione della paralisi
progressiva stessa in quanto processo degenerativo. Definire schizofrenico o schizoide questo
processo è a mio avviso inutile, poiché schematismi diagnostici come questi, che si applicano in
modo non sempre ben definito e non si fondano su nessi causali, non hanno alcun valore - a
differenza di casi come quelli di Van Gogh e Strindberg - quando vengono applicati in assenza
di sintomi psicotici evidenti. Osservando entrambe le « fisionomie » di Nietzsche, unite nella sua
sostanza, anche se divise dalla svolta di cui si è detto, sono convinto che, anche in assenza di una
diagnosi precisa, si debba comunque parlare di un fattore biologico, che in futuro potrà forse essere
chiarito grazie ai progressi della psichiatria.
3) L’ultimo periodo inizia chiaramente alla fine del 1887. In esso si presentano nuove
manifestazioni, che predominano definitivamente a partire dal settembre 1888. Nasce allora un
nuovo tipo di autoconsapevolezza: Nietzsche è convinto di poter decidere con la propria azione la
storia del mondo; la sua follia giunge al punto da apparire come un salto non insensato
nell’illusione, che prende il posto della realtà. Si presenta un’attività finora insolita per Nietzsche:
egli si dà da fare per ottenere un successo immediato; compare un nuovo stile polemico, ed infine
un’euforia che coinvolge ogni cosa.
Il nuovo tono di queste sensazioni estreme continua per tutto il 1888, e trova espressione in frasi
stupefacenti, ma forse vere: « Non è impossibile che io sia il primo filosofo dell’epoca, certo, e
forse anche qualcosa di più, qualcosa di decisivo e fatale, che si situa tra due millenni» (a Seydlitz,
12. 2. 88). Nietzsche parla del suo « compito decisivo che... divide la storia dell’umanità in due
parti » (a Fuchs, 14. 9. 88). « Per quanto riguarda le conseguenze, guardo ora la mia mano talvolta
con sfiducia, poiché mi pare di avere il destino degli uomini “nelle mie mani” » (a Gast, 30. 10. 88).
Se è evidente che la consapevolezza di sé fa parte dello stesso pensiero di Nietzsche, e quindi si
riscontra già negli anni precedenti, cioè a partire dal 1880, ora però troviamo in lui una nuova
attività, estranea finora al suo essere. Mentre negli anni precedenti aveva ripetutamente respinto
l’idea che qualcuno scrivesse su di lui (per esempio Paneth: a Overbeck, 22. 12. 84), proprio
perché voleva semmai spezzare il tormento della solitudine grazie al conforto di un vero discepolo,
e non di un seguace che recensisse e diffondesse pubblicamente il suo pensiero, ora inizia invece
una nuova serie di attività: sì impegna per cercare di far tradurre i propri scritti, stringe rapporti con
il « Kunstwart », con Spitteier, Brandes e Strindberg.
È vero che, ancora nel giugno del 1888, egli ribadisce per l’ennesima volta: « La mia... completa
posizione di “immoralista”, è ancora troppo prematura, non si è preparati ad essa. Il pensiero della
propaganda mi è del tutto estraneo; non ho ancora mosso un dito a tale scopo » (a Knortz, 21. 6.
88). Ma, ciononostante, nel mese di luglio dello stesso anno dà a Fuchs minuziosi consigli su come
dovrebbe scrivere qualcosa su di lui, se mai ne avesse voglia e tempo. In agosto, non avendo
ricevuto risposta da Fuchs, Nietzsche torna sui suoi passi, affermando ironicamente che la sua «
ricetta letteraria » non deve esser presa sul serio; ma in dicembre si rivolge nuovamente a Fuchs: «
Non sarà per caso di umore bellicoso? Io gradirei piu di ogni altra cosa che un musicista pieno di
spirito si schierasse pubblicamente dalla mia parte come antiwagneriano, ... un piccolo opuscolo,.. Il
momento è favorevole. Sul mio conto si possono ancora dire verità, che forse fra due anni
potrebbero essere niaiseries » (a Fuchs, 11. 12. 88). Nietzsche è altrettanto entusiasta delle lezioni
tenute su di lui da Brandes a Copenaghen, e di una Vita, scritta su richiesta dello stesso Brandes (10.
4. 88); tutto ciò, per il Nietzsche degli anni precedenti, sarebbe stata solo una propaganda di
pessimo gusto. Egli scrive subito per il suo editore, senza che questi gliela avesse richiesta, una «
scheda bibliografica», nella quale vuole informare il pubblico sulle lezioni di Brandes (tratto da
Hofmiller, p. 119); a Gast scrive le seguenti parole: «Mi ero rimesso a Fritzsch per annunciare sulla
stampa il successo di Copenaghen » (a Gast, 14. 6. 88). Ma l’editore non esaudisce la sua richiesta.
Nietzsche si rivolge nuovamente a Gast affinché scriva sul « Kunstwart » a proposito del Caso
Wagner (a Gast, 16. 9. 88), e vuole pubblicare, dopo questo, uno scritto specifico in cui
raccogliere il saggio di Gast ed uno di Fuchs (Il caso Nietzsche. Osservazioni marginali di due
musicisti: a Gast, 27. 12. 88). Gli ultimi scritti di Nietzsche debbono avere un effetto immediato,
quasi istantaneo: essi sono dunque pensati e scritti con questa finalità, e devono essere pubblicati
secondo un ordine ben preciso.
Un altro aspetto peculiare è costituito dalle lettere dal tono brusco con cui Nietzsche rompe i
rapporti con coloro che gli sono vicini e che egli stima: un primo segno di questa tendenza è la
lettera a Rohde del 21. 5. 87, che pure presenta un tono ancora abbastanza moderato. Poi la rottura
con Bulow del 9. 10. 88: «Egregio Signore, Lei non ha risposto alla mia lettera; una volta per tutte,
non sentirà piu nulla da me, glielo prometto. Penso che Lei sappia che chi Le ha espresso un
desiderio è il primo spirito dell’epoca. Friedrich Nietzsche ». Segue la rottura con Malwida von
Meysenbug del 18. 10. 88 e la lettera di addio alla sorella del dicembre 1888.
Confrontata con gli anni di entusiasmo del periodo di stesura dello Zarathustra, l’eccitazione del
1888 appare senz’altro piu aggressiva, piu drastica, meno misurata nell’espressione razionale.
Domina ora la ricerca dell’effetto, il desiderio di far sensazione.
Ma il sintomo principale della novità è un'euforia che si percepisce solo saltuariamente nel corso
dell’anno, e che si accentua negli ultimi mesi.
Le prime frasi con questo nuovo tono si trovano in una lettera a Seydlitz (12. 2. 88): « I giorni si
alternano con una bellezza sfacciata; non vi è mai stato un inverno così perfetto»; e in una lettera a
Gast (27. 9. 88): «Magnifica, limpidezza, colori autunnali, uno squisito sentimento di benessere ».
In seguito scrive: « Sono ora l’uomo piu riconoscente del mondo - mi sento in una disposizione
d'animo autunnale, in tutti i sensi positivi del termine: è il tempo della mia grande vendemmia.
Tutto mi risulta facile, tutto mi riesce... » (a Overbeck, 18. 10. 88). « Mi sono guardato allo
specchio, non ho mai avuto questo aspetto. Sono di ottimo umore, ben nutrito, ed ho dieci anni in
meno di quanto sarebbe lecito... sono lieto di avere un sarto eccellente, e credo sia questo il motivo
per cui sono accolto ovunque come un distinto straniero. Nella mia Trattoria ricevo senza dubbio i
migliori piatti che vi siano... Detto fra noi, fino ad ora non sapevo cosa volesse dire mangiare con
appetito... Qui un giorno segue l’altro con la stessa perfezione, e con lo stesso splendore del sole... Il
caffè nei migliori caffè, un piccolo bricco di straordinaria bontà, di prima qualità, come non avevo
mai gustato...» (a Gast, 30. 11. 88). Il tono di felicità non si interrompe piu. « Continua a persistere
il tempo fortissimo *** del lavoro e del buon umore. Inoltre, qui sono trattato comme il faut, come
una persona oltremodo distinta, vi è un modo di aprirmi le porte che non avevo mai riscontrato
altrove » (a Overbeck, 13. 11. 88). « Mi diverto continuamente a fare il buffone e, tutto preso in
questo ruolo, talvolta sogghigno, non conosco un termine migliore, per mezz’ora in mezzo alla
strada» (a Gast, 26. 11. 88). «Giornata autunnale di incontenibile bellezza. Sono appena tornato da
un grande concerto che mi ha suscitato l’impressione più forte della mia vita, - facevo
continuamente delle smorfie per cercare di trattenere l’estremo piacere che provavo... » (a Gast,
2. 12. 88). « Da alcuni giorni sfoglio le pagine delle mie opere, e mi sento per la prima volta alla
loro altezza... Ho fatto tutto molto bene, ma non lo sapevo » (a Gast, 9. 12. 88). « Tutti coloro che
hanno a che fare con me in questo momento, perfino la venditrice di frutta che cerca per me sempre
l’uva migliore, si comportano perfettamente, sono molto cortesi, sereni - anche i camerieri » (a
Gast, 16. 12. 88). « Ho scoperto questo pezzo di carta, il primo su cui io possa scrivere. Lo stesso
vale per la penna... Lo stesso per l’inchiostro, che viene da New York, è caro, eccellente... Da
quattro settimane comprendo i miei scritti - anzi, li stimo... Ora sono assolutamente convinto che
tutto sia perfettamente riuscito sin dall’inizio, - è un tutto unico, e si vede che persegue questa unità
» (a Gast, 22. ¡12. 88). A Natale, scrive ad Overbeck: « Ciò che vi è di singolare, qui a Torino, è il
grande fascino che io esercito... quando entro in un grande negozio, tutti i commessi cambiano
faccia... sono veramente servito nel miglior modo possibile -, non ho mai avuto idea di cosa
potessero essere la carne, le verdure e tutti questi cibi italiani... Chi mi serve brilla per finezza e
cortesia... ».
Alcuni giorni dopo, Nietzsche cade in preda alla follia che lo farà vivere nel torpore ancora un
decennio.
Per comprendere Nietzsche non è necessario conoscere una diagnosi, ma è essenziale sapere e tener
presenti i seguenti aspetti: innanzitutto, che la malattia mentale della fine del 1888 è una malattia
organica del cervello, causata da fattori esterni, e non da una disposizione interna; in secondo luogo,
che intorno alla metà del 1880 probabilmente un fattore biologico modifica tutta la costituzione
spirituale di Nietzsche; in terzo luogo, che durante il corso del 1888 nel suo stato d’animo e nel suo
modo di fare si verificano, immediatamente precedenti alla malattia mentale che lo condurrà al piu
profondo decadimento, dei cambiamenti del tutto nuovi rispetto al passato.
Se proprio si vuole una diagnosi, va detto che molto probabilmente la malattia mentale della fine
del 1888 è una paralisi progressiva. Si è considerato un « reumatismo » del 1865, che gli procura
lancinanti dolori alle braccia ed ai denti, come una meningite provocata da un’infezione, i suoi
attacchi acuti come emicrania (indubbiamente tutti questi sintomi, considerati singolarmente,
possono parzialmente rientrare in tali specifiche patologie; ma ci si deve tuttavia chie-
dere se, nel loro complesso, non siano piuttosto i sintomi di un’altra malattia). E ancora: si sono
considerate le varie malattie, di cui egli soffre a partire dal 1873, come un processo psiconeurotico
causato dal suo distacco interiore da R. Wagner; il cambiamento del 1880-1882, come i primi
sintomi della successiva paralisi progressiva; molti stati di ebbrezza degli anni seguenti, e lo stesso
crollo mentale come una conseguenza dell’assunzione di droghe (soprattutto hascisc). Se si segue il
principio in base al quale si fanno derivare i piu diversi sintomi patologici da un’unica causa, si
profilerebbe allora l’idea che a partire dal 1886 tutti i disturbi siano solo gli stadi preliminari della
futura paralisi progressiva. Ma ciò è molto discutibile. Ai fini di una sostanziale comprensione
filosofica di Nietzsche, le categorie della medicina entrano in gioco soltanto se sono assolutamente
certe: e queste diagnosi non lo sono, eccetto quella secondo cui la malattia mentale degli ultimi anni
era quasi sicuramente una paralisi progressiva.
La malattia e l’opera. L’indagine sulle malattie va, secondo alcuni, a discredito di Nietzsche.
Collegare alla malattia alcune peculiarità dell’opera significa per costoro svalutarla. « Sono opere di
un demente », dice uno; « Nietzsche, prima della fine del 1888, non era malato di mente », dice un
altro. All’intelletto pigro pare comunque logico porre la semplice alternativa: o Nietzsche era
malato, o è stato uno dei grandi uomini della storia; si nega che si possano verificare nello stesso
tempo entrambe le possibilità. Bisogna opporsi a questa negazione definitiva, e a questa errata
difesa dell’opera di Nietzsche, che mostrano di non aver affatto compreso né il suo pensiero, né la
realtà della sua vita; al contrario, in esse, dietro il paravento di un’affermazione dogmatica, si cela
l’incapacità di porre delle domande e di procedere ad un’effettiva ricerca.
Innanzitutto, vale astrattamente il principio che un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla
base del suo contenuto spirituale: la causalità, sotto la cui influenza qualcosa è creato, non dice
nulla sul valore della creazione stessa. Un discorso non è giudicato migliore o peggiore se si sa che
per superare ogni inibizione l’oratore ha bevuto una bottiglia di vino. La causalità interna ed
incomprensibile dell’evento naturale, a cui noi stessi apparteniamo, non dice nulla sulla
comprensibilità, sul significato e sul valore dell’evento spirituale che essa produce; può dare
un’idea di tale incomprensibilità soltanto ad un livello completamente diverso - ammesso che la
conoscenza lo consenta. Ma questa astratta delimitazione non è sufficiente.
Quando un processo patologico o un qualunque fattore biologico esercita un influsso sul
comportamento spirituale, bisogna piuttosto chiedersi se tale influsso abbia favorito o danneggiato
quel comportamento, oppure se sia ininfluente; e ancora: se una possibilità spirituale, nel contesto
di nuove condizioni, non assuma una sua forma specifica, e, in caso affermativo, secondo quali
precise tendenze. A queste domande non si deve rispondere con riflessioni di tipo aprioristico, bensì
empiricamente, soprattutto attraverso le osservazioni comparate di diversi malati. Se si opta per una
conoscenza empirica, bisogna innanzitutto porsi questa domanda: sarebbe ugualmente sorto
qualcosa di unico ed insostituibile senza la malattia? (Se la risposta è positiva, ci apporta nuove e
sorprendenti conoscenze su diverse realtà dello spirito nel mondo.“) E poi quest’altra: quali difetti,
rilevati dalla critica senza considerare la malattia, sono invece da mettere in relazione con la
malattia stessa, e quali difetti è lecito attendersi in base al tipo di malattia? (In questo caso, la
risposta può salvare la purezza dell’opera, perché consente di iniziare a distinguere i
difetti comunque estranei a questa essenza spirituale da quelle perplessità che pure sorgono
osservando questo stesso movimento spirituale in quanto tale.)
Questa analisi patografica comporta comunque un rischio per chi se ne serve. Invece di scoprire la
pura grandezza dell’opera, essa può portare, se usata in modo inadeguato, ad oscurare la grandezza
di un’opera e di un uomo. Se all’interno di un’opera dello spirito qualcosa possa essere riferito alla
malattia, non risulta mai soltanto dal senso e dal contenuto dell’opera fornito da un presunto
giudizio critico che semplicemente stabilisce che questo o quello va attribuito alla malattia. Non è
scientifico, né tanto meno corretto, dare al rifiuto concreto, espresso da tale giudizio, i tratti
oggettivi di una diagnosi psicopatologica negativa.
Nel caso di Nietzsche sono possibili soltanto alcuni accenni di risposte alle domande sulla relazione
tra la malattia e l’opera; ma anche se, in generale, tali questioni rimangono aperte, il fatto stesso di
tenerle comunque presenti, in quanto tali, è la condizione necessaria per uno studio corretto di
Nietzsche. Il metodo basato sulle analisi empiriche della relazione tra l’opera e la malattia mentale
può essere soltanto indiretto. Noi seguiamo due vie.
1. Innanzitutto vediamo se si possono stabilire delle coincidenze temporali. Quando si riscontrano
delle variazioni nello stile, nel modo di pensare, nei pensieri fondamentali, che coincidono con dei
cambiamenti fisici o psichici, allora è probabile che vi sia un collegamento, se la trasformazione
spirituale rispetto al passato non si spiega nello stesso modo delle altre variazioni spirituali che
solitamente si verificano nello stesso soggetto. In assenza di certezze diagnostiche, questo metodo
non conduce ad un risultato palmare, bensì ad un insieme di relazioni fra le quali qualcosa rimane
comunque indeterminato. In Nietzsche vi sono effettivamente dei parallelismi tra lo sviluppo
spirituale dell’opera e le alterazioni psicofisiche che possono essere accertate o ipotizzate studiando
la sua vita.
a) La comparsa, a partire dal 1873, delle varie forme di malattia fisica si muove parallelamente alla
serie dei « distacchi » spirituali di Nietzsche. La malattia di quegli anni non acquisisce però il
carattere di un’alterazione psichica; la relazione con il cambiamento spirituale è soltanto esterna.
Il fatto che il cambiamento nella vita di Nietzsche sia straordinario, poiché egli non riacquistò più la
salute, non comporta comunque una sostanziale
modifica delle sue esperienze spirituali. Il dolore agli occhi, che gli rendeva difficile leggere e
scrivere, e la limitazione alle sue capacità lavorative esercitano semmai un’influenza indiretta;
ritroviamo qui una delle cause concomitanti, se non quella decisiva, dello stile aforistico che
predomina nelle pubblicazioni a partire dal 1876. Il processo di distacco, che consegue
da comprensibili impulsi della sua evoluzione, è indubbiamente favorito dalla malattia, ma non ne è
condizionato.
b) Dal 1880 in poi, ai nuovi eventi ed alle sue nuove esperienze, corrisponde un cambiamento di
tutta l’attività creativa di Nietzsche.
Un nuovo stile emerge nella forza delle immagini, nei simboli che diventano mitici, nella plasticità
delle visioni e nella musicalità delle parole, nell’impeto della dizione, nella densità della lingua.
Natura e paesaggio si fanno piu vivi, piu segnati dal destino; sembra che egli si identifichi con essi,
che essi diventino il suo stesso essere. Gli amici si accorgono della novità: « Tu... hai iniziato a
trovare la forma che ti si addice. Anche la tua lingua trova solo ora tutta la sua piena musicalità »
(Rohde, 22. 12. 83).
Alla semplice osservazione ed analisi, subentra una nuova attività, che aumenta col passare del
tempo, animata da una volontà distruttiva nei confronti del cristianesimo, della morale e della
filosofia tradizionale, e dalla ricerca di una nuova costruzione del suo pensiero, per quanto le
sue fondamenta fossero già tracciate fin dall’infanzia.
I nuovi pensieri fondamentali - il pensiero dell’eterno ritorno, la metafisica della volontà di potenza,
l’elaborazione radicale del nichilismo, l’idea del superuomo - hanno per Nietzsche un’importanza
ed un mistero straordinari, fino ad ora sconosciuti. Essi si fondano infatti su esperienze-limite
originarie di carattere filosofico, che solo ora lo assalgono. Molti di questi pensieri, compreso
quello dell’eterno ritorno, compaiono già in scritti precedenti. Ma ciò che in questi pensieri era
prima solo possibilità, diviene ora realtà sostanziale, verità divorante, animata da un
impeto distruttivo.
È infatti solo ora che Nietzsche ha acquisito non solo una compiuta sensibilità filosofica, ma anche
le esperienze originarie dell’essere, che lo spingono ad una tale profondità che, in confronto ad essa,
tutte le esperienze precedenti, sia come fredda riflessione che come entusiastico fervore, sia come
ammirazione che come dissoluzione, possono essere efficaci solo come semplici pensieri ed
intuizioni. Ora sembra invece che Nietzsche parli da un nuovo mondo.
Questa nuova condizione è caratterizzata da una straordinaria tensione, per cui ora iniziano a
fissarsi alcuni pensieri ed alcuni simboli. Mentre prima il suo pensiero rimaneva in un movimento
unitario, costantemente alto, ora invece si assolutizza in un movimento ancor più elevato, anche se
qua e là la tensione si allenta per un istante. Il nichilismo più radicale si lega all’affermazione
incondizionata. La compresenza di un vuoto momentaneo e di simboli scelti raffredda per un attimo
l’animo del lettore, ma subito dopo si esprime nuovamente ciò che costituisce l’originario filosofare
di Nietzsche.
c) Nel 1884, ai progetti per la creazione di una nuova costruzione filosofica, corrisponde la
diminuzione delle esperienze mistiche che tra il 1881 e il 1884 lo coglievano spesso
improvvisamente e che, in quanto ispirazioni, erano poi fonte di nuove creazioni. L’atmosfera si fa
più razionale. Negli anni 1884-1885 il cambiamento è decisivo: negli anni precedenti troviamo gli
stati e le creazioni visionarie di Nietzsche, in quelli successivi, invece, una prevalenza di tentativi
sistematici, costruttivi ed aggressivi. La « trasvalutazione » viene messa in primo piano.
Reinhardt (in « Die Antike », XI, 1935, p. 107) ha fatto un’osservazione, a prima vista sorprendente,
ma che si è rivelata poi illuminante, anche se non proprio dimostrata, e cioè « che nessuna delle sue
poesie è stata composta negli ultimi anni. Anche la poesia Venezia (“Al ponte...”),
considerata spesso e volentieri come la testimonianza della sua ultima creazione poetica, era già
stata scritta negli anni precedenti ».
Alla fine del 1887 e nel 1888, dopo un apparente ripetersi della crisi del 1884, in vista della
creazione della sua « grande costruzione » filosofica, Nietzsche, invece di lavorare a questa sua
opera, viene colto da un’inaspettata esigenza di produrre ad un ritmo serrato, e trascura cosi il
compito pur sempre principale. I segni dell’ormai imminente malattia mentale procedono di pari
passo con i nuovi scritti. In essi non compare comunque nessuna variazione della sostanza
spirituale, del senso e del contenuto del pensiero; vi è invece un evidente cambiamento nella forma
con cui Nietzsche esprime in questi scritti il proprio pensiero.
2) In secondo luogo, cerchiamo di scoprire se determinati fenomeni, che solitamente
accompagnano i processi organici, compaiano anche in Nietzsche. Poiché nel caso di Nietzsche
manca una diagnosi sicura e definitiva per i fatti antecedenti al 1888, provvisoriamente non è
possibile cercare i sintomi di una precisa malattia. Il procedimento secondo il quale si parte dalla
conoscenza del decorso delle malattie e dalle loro cause, che grazie all’osservazione empirica sono
state in precedenza riconosciute come parte di un processo patologico, non conduce nel caso di
Nietzsche ad alcun risultato. Ci possiamo soltanto chiedere quali cambiamenti dovremmo aspettarci
nella stesura dell’opera, in base all’analogia con tutte le malattie mentali organiche, se accettiamo la
presenza di un fattore biologico, estraneo alla vita spirituale, per quanto non diagnosticato con
precisione.
L’opera di Nietzsche certamente non suscita un semplice senso di appagamento. Ciò che essa
suscita - una possibile commozione, il risveglio degli impulsi più essenziali, un atteggiamento di
estrema serietà, uno sguardo illuminato - non riesce tuttavia ad evitare l’impressione che Nietzsche
sia votato al fallimento ogni qualvolta, per cosi dire, si scontra con il vuoto; si avverte inoltre un
certo effetto opprimente, a causa delle sue angustie, dei suoi eccessi, delle sue assurdità. Questa
imperfezione forse non è dovuta soltanto al fatto che il suo pensiero, in virtù del movimento che gli
è connaturato, resta sempre aperto, ed è destinato alla nostra appropriazione; ma non si tratta solo
dell’essenza stessa di ogni filosofare, che non può mai essere propriamente compiuto; qui, nel caso
di Nietzsche, a questa essenza si aggiunge forse qualcosa che non le appartiene e che quasi disturba.
Ciò si verifica soltanto a partire dal 1881. È impossibile distinguere, in modo obiettivo e definitivo,
ciò che è concretamente aperto da ciò che è essenzialmente non riuscito: ma solo se ci ‘poniamo
appunto questo problema possiamo cercare di comprendere le interferenze esterne, ed addentrarci
dunque con maggior precisione nel vero movimento della filosofia di Nietzsche. In breve, queste
interferenze sono tre.
a)    Una mancanza di scrupoli che ammette l’estremo sulla base delle più intense vibrazioni della
sensibilità, che restringe lo sguardo e permette dunque di semplificare e fissare con delle antitesi ciò
che è eccessivo. La mancanza di tatto e, a volte, di senso critico - prima impossibili in tal misura, e
che comunque anche ora non prevalgono definitivamente, poiché i vecchi impulsi tornano ad avere
la meglio - conducono ad una polemica sconsiderata, a delle ingiurie cieche; ma anche questo
nuovo atteggiamento è pur sempre pervaso dalla consueta profondità, che seduce e spinge a
prendere sul serio anche queste deviazioni. Tutto ciò può confondere il lettore di Nietzsche, finché
egli non trova la via della vera assimilazione, che gli toglie ogni dubbio. Per Nietzsche l’estremo è
dapprima il tentativo che si spinge definitivamente verso il limite estremo, non per fissarsi su se
stesso, ma per riunirsi dialetticamente con l’opposto; e, in seguito, diventa la « magia dell’estremo
», cioè la magia di ciò che, nella lotta, è assolutamente superiore. Queste due forme dell’estremo si
chiariscono soltanto se l’inattesa casualità dell’estremo non viene confusa con la semplice
mancanza di scrupoli.
b)    Mentre la mancanza di scrupoli non fa che rendere eccessivi, oppure limita, ma non priva di un
contenuto vero, che rimane pur sempre, anche se stravolto, dobbiamo ricordare un secondo aspetto,
cioè l’estraniarsi di Nietzsche: gli anni successivi al 1881 lo portano, con le loro nuove eccitazioni,
ad esperienze mistiche che, nonostante la nostra profonda commozione per il limite raggiunto e per
la bellezza dell’esposizione, non possiamo che guardare con un certo distacco e stupore. Del resto,
gli stessi suoi amici di quegli anni rimangono stupiti di fronte a questa sua « estraneità »; dopo
l’ultimo periodo trascorso insieme a Nietzsche (1886), Rohde ha scritto: « Lo circondava
un’atmosfera indescrivibile di estraneità, qualcosa di estremamente inquietante allora per me. Vi
era qualcosa in lui che non conoscevo, e molto di ciò che prima lo caratterizzava era scomparso.
Pareva provenire da una terra disabitata » (O. Crusius, Rohde, p. 150). Nietzsche stesso, nel 1884,
constata «l’indicibile estraneità a tutti i miei problemi e ai miei lumi », e scrive che nel corso
dell’estate di quell’anno ha avuto diverse testimonianze di questa sua estraneità (a Overbeck, 14. 9.
84).
c)    Una terza interferenza, questa volta radicale, è, alla fine del 1888, la prematura interruzione del
suo itinerario spirituale, causata dalla malattia che lo portò alla paralisi progressiva. Per questa
ragione, lo sviluppo del pensiero di Nietzsche è rimasto definitivamente incompiuto: un aspetto,
questo, che non gli è affatto proprio. La sua opera non è maturata come Nietzsche aveva pensato
poco prima dell’inattesa fine (cfr. supra), e al suo posto troviamo gli scritti polemici degli ultimi
anni, unici per la tensione frenetica, la singolare perspicacia, l’ingiustizia, l’entusiasmante dizione.
Pertanto, l’essere di Nietzsche, come egli stesso dichiarò nell’ultimo anno della sua vita cosciente, è
rimasto eternamente problematico a causa della prematura interruzione; come se l’evento spirituale
più significativo e decisivo dell’ultimo secolo fosse stato proditoriamente compromesso dalla
causalità indifferente della natura, cosicché l’opera di Nietzsche non ha potuto concludersi con la
grandiosità che le è propria.
Dopo aver semplicemente tracciato le due strade che, se seguite fino in fondo, potrebbero portarci a
qualche conoscenza effettiva sulla relazione tra la malattia e l’opera, si rendono necessarie alcune
riflessioni sul senso e sull’importanza di ciò che abbiamo cercato.
Interrogarsi sul cambiamento spirituale dopo il 1880 e sulla possibilità di una sua coincidenza con
un fenomeno biologico iniziato da poco, presenta indubbiamente molteplici implicazioni, anche se
non proprio decisive nella sostanza. Una ricerca ordinata, approfondita, che comprenda tutto il
materiale disponibile a tal proposito, non esiste; ma è proprio quanto vi è di piu necessario per una
biografia di Nietzsche. Mòbius fu il primo ad accorgersi del suo cambiamento, ma ha accentuato la
propria interpretazione con tali forzature ed assurdità che, proprio per questo e giustamente, essa
non è riuscita ad imporsi. Il cambiamento in quanto tale, anche se rimane poco chiaro (soprattutto
per quanto riguarda la sua diagnosi medica), mi pare comunque sempre piu evidente quanto più
consulto il materiale fin qui noto delle lettere e delle opere postume.
Il cambiamento nel pensiero e nella vita di Nietzsche, senza interruzioni dal 1880 fino al 1888, pare
essere strutturato in modo tale che l’effetto del fattore biologico, cioè la manifestazione immediata
di questo nuovo elemento, e il nuovo contenuto filosofico sono uniti in un legame che diviene
un’identità indissolubile. È per noi sconcertante il fatto che improvvisamente debba essere una
malattia o un fattore biologico sconosciuto a determinare ciò che Nietzsche giustamente
considerava il necessario sviluppo del suo pensiero, e che costituiva la grandezza spirituale e la
profondità esistenziale del suo essere, ovvero il mistero di questa eccezione, che si stava imponendo
in tutto il mondo. A questo punto, la nostra esposizione potrebbe sembrare ambigua, perché evita di
approfondire e rende insignificante ciò che, per il suo insostituibile significato
nell’insieme, considera come il proprio oggetto. Ciò che si era portato alla luce come creazione
spirituale, tornerebbe immediatamente ad oscurarsi, in quanto considerato come malattia.
A questo proposito, va innanzitutto precisato che noi non abbiamo mai affermato quell’« identità »,
e che anzi, per noi, ciò che conosciamo di un uomo è di volta in volta un aspetto particolare che si
rivela sotto una determinata prospettiva, e non rappresenta mai l’uomo nel suo complesso;
ed in secondo luogo, die l’apparente, continuo passare da un aspetto all’altro, come se fossero uno
solo, rimanda a quello sfondo buio che non conosciamo. Appartiene infatti all’impossibile accesso
all'esserci della specifica eccezione - in modo analogo, anche se non uguale, a quanto avviene per
Hölderlin e Van Gogh - il fatto che Nietzsche solo con il salto del 1880 raggiunga la grandezza che
gli è propria. I fattori « patologici » -se vogliamo chiamare cosi il fattore biologico sconosciuto,
poiché potrebbe essere posto sullo stesso piano delle cause del successivo processo patologico, che
conosciamo - hanno avuto non solo un effetto di disturbo,  ma forse hanno anche reso possibile ciò
che altrimenti non sarebbe mai stato creato. Solo ora Nietzsche giunge alle origini, con
quell’immediatezza di chi si trova all’inizio del proprio cammino filosofico; nella ricchezza delle
possibilità di riflessione, la sua essenza fa pensare - solo a partire dal 1880 - ai presocratici, proprio
nei tratti fondamentali della ricerca delle origini. Gli eccessi dello stile sembrano determinati dallo
stesso motivo che lo portò a dire cose inaudite. Non si possono discutere i progressi della vena
poetica, la rassicurante certezza di chi sa di poter superare ogni ostacolo della lingua, riuscendo a
mettere al posto giusto, e con grande efficacia, perfino ogni singola sillaba, l’ardente
consapevolezza di sé che deriva dalla profondità delle origini, e che si esprime in un linguaggio
immediato, cioè non impoverito dalla mediazione del pensiero. Ciò che è casuale, o sembra
estraneo, all’improvviso può diventare profonda verità, o l’estraneità piena di senso, tipica
dell’eccezione. Anche negli stessi biglietti che Nietzsche scrive quando è già in preda alla follia, è
presente lo spirito grazie a cui la follia stessa acquista ancora un senso, cosicché anche questi
biglietti costituiscono per noi una parte integrante e per nulla superflua della sua opera.
Così, ad esempio, l’esperienza della crisi mondiale che raggiunge la sua massima profondità solo
dopo il 1880 - l’enorme paura di Nietzsche per le sue visioni del futuro, l’ardore con cui si prodiga,
ed anzi si consuma, nel suo compito, cioè nel suo tentativo di farsi strada in questo momento della
storia mondiale, in cui tutto pesa sulle spalle dell’uomo, e vi è il terribile pericolo della catastrofe -
coincide con gli stati di esaltazione e di depressione che lo tormentano, e che hanno nello stesso
tempo un’origine completamente diversa; la consapevolezza di sé, che in alcuni momenti sembra
condizionata dalla malattia, è al contempo comprensibile e giustificata. Chi, in questo caso, vuole
porre la questione nei termini di un netto aut-aut, rende univoca una realtà misteriosa, a scapito di
una verità che è qui possibile conseguire, ammesso che si riconosca appunto il mistero e si cerchi di
cogliere, da tutti i punti di vista, ciò che è possibile conoscere.
Per noi è dunque necessario un triplice atteggiamento critico nei confronti della malattia di
Nietzsche in relazione alla sua opera.
Bisogna innanzitutto partire dalla ricerca empirica dei dati di fatto; in secondo luogo, grazie
all’analisi critica dell’opera, si deve liberare l’opera stessa da quei difetti che possono essere
classificati come casuali interferenze dovute alla malattia, per giungere alla pura comprensione
della filosofia di Nietzsche; in terzo luogo, bisogna accettare anche il punto di vista - che
indubbiamente presenta gli aspetti di una visione mitica - di una realtà complessiva in cui la
malattia sembra diventare un momento di senso positivo, dell’espressione creativa dell’essere, della
rivelazione immediata di qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto inaccessibile.
Nel primo atteggiamento è determinante il metodo della scienza empirica che non giunge mai alla
conclusione di un sapere definitivo ed onnicomprensivo. Questo atteggiamento è la condizione
indispensabile affinché si possano realizzare gli altri due, nella piena consapevolezza dei loro
limiti: infatti, senza di esso, l’analisi critica dell’opera sarebbe priva di metodo, e sarebbe dunque
costretta ad accettare passivamente il verdetto di « malato », mentre la visione mitica sarebbe solo
una irreale esaltazione. L’atteggiamento che si propone di cercare in Nietzsche la pura verità non
potrà mai separare definitivamente tale verità da quelle deviazioni (relative al tono con cui
Nietzsche si esprime in certi momenti) di cui si diceva, perché anch’esse appartengono a quella
verità, e appunto non possono essere separate da essa. Da parte nostra, non intendiamo rendere in
una espressione comunicabile la visione mitica della realtà complessiva di Nietzsche. Le
affermazioni rispettivamente legate al metodo empirico, alla purificazione critica e alla visione
mitica non possono essere sostituite le une con le altre, e non debbono essere confuse.
L’atteggiamento di Nietzsche nei confronti della malattia. Nell’affrontare questo argomento,
bisogna innanzitutto fare una distinzione: la questione di come Nietzsche si sia comportato di fronte
alle sue malattie, presunte o diagnosticate da un'analisi medica, va tenuta ben distinta dalla
questione, completamente diversa, di come egli, dal punto di vista esistenziale, abbia parlato della
propria « malattia » e della sua funzione nell’aspetto essenziale della propria vita.
Se ci chiediamo come Nietzsche si sia comportato nei confronti delle malattie, e come le abbia
intese e giudicate, allora è di nuovo necessario distinguere innanzitutto i disturbi fisici e gli attacchi
violenti, dal 1873 in poi, in secondo luogo le alterazioni psichiche, a partire dal 1880, dovute ad un
« fattore biologico » non diagnosticabile da un punto di vista medico, in terzo luogo la psicosi della
fine dell’anno 1888 ed i suoi segnali premonitori dell’anno precedente. Tali domande riguardano sia
l’atteggiamento del malato nei confronti della sua malattia - atteggiamento che gioca un ruolo così
importante nella cura di ogni malato -, sia l’esame della malattia in base al quale lo psichiatra
può stabilire se vi siano tracce di precisi disturbi mentali. Si tratta dunque sempre della questione di
come il malato stesso si comporta dal punto di vista medico, se cioè egli, in quanto tale, sia in grado
di comprendere la propria condizione, o se invece la malattia stessa glielo impedisca. Poniamo le
stesse domande anche a Nietzsche seguendo quelle tre direttive.
(1). II rapporto di Nietzsche con le sue malattie che si manifestano sotto forma di disturbi fisici
(attacchi, disturbi della vista, mal di testa, ecc.) è innanzitutto conforme alle concezioni dell’epoca:
egli consulta medici, specialisti, autorevoli studiosi, confidando sul fatto che essi avrebbero
prescritto le terapie solo sulla base di un sapere razionale. Poiché invece alcuni medici
prescrivono comunque una terapia, anche se non è razionalmente motivata, come se ci fosse sempre
- c non solo in determinati casi particolari - una cura appropriata, determinata cioè dal rapporto di
causa ed effetto, Nietzsche fu quindi sottoposto a numerose cure inefficaci. Oltre ai consigli dei
medici, decise di gestire da solo la propria terapia, sulla base delle osservazioni fatte su di sé, e di
ciò che aveva occasionalmente letto qua e là. Non diversamente dai medici di
ispirazione scientifico-positivista, anch’egli passava, di tanto in tanto, da metodi razionali, accertati
su base empirica, a ipotesi di stampo positivistico. Nietzsche trasse sicuramente dei benefici dalla
scelta metodica - grazie ad esatte indicazioni meteorologiche - del clima che piu gli si confaceva.
Per il resto,_ la sua vita è segnata da una serie di oscuri tentativi di carattere sperimentale'. « Sulla
stufa di Nietzsche a Basilea vi era un gran numero di misture con le quali si curava », racconta
Overbeck, riferendosi già al periodo del 1875 (Bernoulli, I, 167). In seguito, Nietzsche utilizzò i piu
svariati farmaci, diversi tipi di sali e soprattutto sonniferi (dosi eccessive di cloralio idrato; è dunque
discutibile parlare di un uso regolare di sonniferi da parte di Nietzsche), e forse anche una tintura
a base di hascisc, consigliata da un olandese, A volte egli è orgoglioso delle sue « invenzioni »
mediche: « Il dottor Breiting mi ha prescritto con mia grande gioia il fosfato di potassio, che io
avevo usato come mio primo medicinale; si è convinto nel frattempo della sua efficacia. Così, sono
io l’inventore delle mie cure. Sono altrettanto orgoglioso del modo razionale con cui lo scorso
inverno ho curato il tifo... » (a Overbeck, 27. 10. 83).
Ciò che qui è importante sottolineare, non è certo il fatto che Nietzsche a volte si sia illuso
sull’efficacia di certe terapie mediche - che, nel loro complesso, ebbero su di lui un effetto solo
transitorio e di scarso rilievo -, quanto piuttosto il fatto che egli si sia liberato dai consigli e dalle
prescrizioni dei medici. Tale liberazione fa parte di quella cura che appunto egli stesso trovò per il
proprio pensiero e comportamento, e che, anche durante i momenti di crisi piu acuti, lo preservò dal
considerare la sua malattia come unico contenuto della sua vita. Non potè sottrarsi
all’annientamento provocato dal processo organico, ma riuscì sempre ad evitare tutte le reazioni
isteriche, nevrotiche ed angosciose che la sua estrema operosità gli avrebbe potuto procurare.
Per quanto concerne la prognosi dal punto di vista medico Nietzsche si sbagliò. Infatti, quando nel
1880 cominciavano ad attenuarsi i dolori fisici e, poco dopo, sarebbe iniziato il grande sviluppo del
suo pensiero, Nietzsche scrisse una lettera di addio a M. von Meysenbug (14. 1. 80): «In base ad
alcuni sintomi, credo proprio che il colpo definitivo al cervello sia ormai prossimo »; ed anche ad
altri scrisse allora sulla sua presunta, ormai prossima fine.
(2). Nietzsche ovviamente non poteva intravvedere la presenza di quel fattore biologico che
riteniamo di poter scorgere in lui a partire dal 1880, neppure quando, in seguito, constata con
stupore il cambiamento di « gusto » che precede i suoi nuovi pensieri. Tuttavia Nietzsche, in quanto
freddo osservatore, ha preso in considerazione di tanto in tanto la possibile relazione tra la creazione
spirituale e taluni fenomeni fisici e biologici. Una tale riflessione non gli era dunque del tutto
estranea, ma si trattava per lo piu di osservazioni occasionali. Così, ad esempio, egli scrive: « Ieri
ho constatato che le vette decisive del mio “pensare e poetare” (Nascita della tragedia e
Zarathustra) coincidono con il punto massimo di influenza magnetica del sole - al contrario, la
decisione di dedicarmi alla filologia (e a Schopenhauer) (una vera follia) e nel frattempo a
Umano, troppo umano (durante la mia peggiore crisi di salute) coincide con il punto minimo » (a
Gast, 20. 9. 84).
(3). Nietzsche non ha riconosciuto la sua malattia mentale (è difficile che chi, come Nietzsche, è
affetto da paralisi progressiva possa avere una chiara idea del proprio male), né tanto meno se la
aspettava. Nel 1888, quando le oscillazioni della sua vita emotiva e la sua estrema tensione sono
ormai i sintomi premonitori della pazzia a cui fra poco dovrà soccombere, Nietzsche è più che mai
convinto di essere in buona salute. Egli non ha mai preso in considerazione la possibilità di
diventare pazzo, e pensava piuttosto ad una morte improvvisa, ad un colpo apoplettico, o a qualcosa
di simile. Scrive un giorno a Overbeck (4. 5. 85): « Mi assale a volte il sospetto che tu possa
considerare pazzo l’autore di Zarathustra. Io corro in effetti un grosso pericolo, ma non questo tipo
di pericolo ».
Quando Nietzsche cerca di comprendere il significato della malattia nella sua vita, osserva solo
superficialmente che ogni malattia può apportare dei vantaggi. La malattia permise infatti a
Nietzsche, come egli desiderava, di andare anzitempo in pensione, e di liberarsi senza problemi
da tutti coloro e da tutto ciò che gli era divenuto estraneo: « Mi risparmiò ogni rottura, ogni passo
violento e urtante » (15, 78). Ma la malattia di Nietzsche non è affatto qualcosa di simile ad una «
nevrosi tendente ad uno scopo »; essa è troppo radicata e determinata da aspetti fisici, per cui ha
solo incidentalmente quelle conseguenze di cui parla Nietzsche.
L’interpretazione con cui Nietzsche ha dato alla propria malattia un ruolo nell'insieme della sua
creazione spirituale ha un’origine diversa rispetto sia alla precedente breve analisi dei vantaggi che
essa può apportare, sia ad uno studio che esplora i nessi causali, si addentra nei particolari e giunge
a conoscenze empiricamente dimostrabili: « Non sono né spirito, né corpo, ma qualcosa d’altro.
Soffro sempre di tutto e completamente... Superare me stesso è in fondo la mia più grande forza » (a
Overbeck, 31. 12. 82). È appunto sulla base di questo « qualcosa d’altro », e dell’esistenza che
guida e domina lo spirito ed il corpo, e che si esprime tramite il movimento onnicomprensivo
dell’autosuperamento, che Nietzsche interpreta la sua malattia, ed il suo comportamento nei
confronti della malattia stessa, in un modo grandioso e ad un tempo complesso.
L’interpretazione esistenziale supera le categorie dell’utilità, così come supera quelle mediche e
terapeutiche. Con essa percepiamo in una nuova dimensione i concetti di salute e di malattia.
I concetti di salute e di malattia sono per Nietzsche fondamentalmente ambigui: per chi gode di
un’effettiva salute (la salute dell’interiorità o dell’esistenza), la malattia è un segno di questa stessa
salute, è cioè al suo servizio. Invece la salute in senso medico, che appartiene ad un’essenza priva di
sostanza, diventa un segno di malattia. Il fatto che i termini « sano » e « malato » possano
scambiarsi, implica un’apparente contraddizione nelle affermazioni di Nietzsche, che si dichiara con
eguale decisione sia contro l’autocompiacimento della salute, ed a favore del valore della malattia,
sia a favore del valore della salute contro la malattia. Nietzsche ripetutamente condanna l’ottusità di
coloro che, in nome della salute, si allontanano da tutto ciò che è a loro estraneo: « I poveretti non
sospettano certo quanto cadaverica e spettrale appaia la loro salute » (1, 24); e illustra le
caratteristiche del metodo del filisteo della cultura, che inventa « per le sue abitudini, maniere di
considerare, negazioni e preferenze la formula generalmente efficace di “salute” », e liquida, «
facendo sospettare che sia malato ed esaltato, ogni scomodo guastafeste ». Contro questo
atteggiamento, Nietzsche osserva: « È qualcosa infatti di fatale che “lo spirito” soglia discendere
con particolare simpatia sui “malsani e sterili” » (1, 193). Queste affermazioni non possono
ingannare sul fatto che l’intera filosofia di Nietzsche sia proprio contro la malattia, e a favore della
salute, e cerchi di superare vittoriosamente tutto ciò che è malato. Ma i molteplici sensi che assume
in Nietzsche la parola « salute » rendono possibile anche l’interpretazione opposta, per cui si
ripresenta l’apparente contraddizione di cui si è detto.
Come riconosce lo stesso Nietzsche, il termine « salute » è necessariamente ambiguo, cioè presenta
molteplici connotazioni. « Infatti una salute in sé non esiste... Dipende dalla tua meta... determinare
che cosa debba significare la salute anche per il tuo corpo il concetto di una « salute normale » deve
sparire; la « salute potrebbe certamente apparire in qualcuno come l’antitesi della salute di un altro
» (5, 159). « Non si pensi che la salute sia una meta fissa... » (11, 221). « Salute e malattia non sono
niente di essenzialmente diverso... Non se ne devono fare principi o entità distinti... In realtà, tra
queste due forme di esistenza ci sono soltanto differenze di grado... » (15, 173).
In questa sua interpretazione esistenziale vi è dunque un’idea della salute che non si fonda su
concetti biologici o medici, ma sul valore dell’uomo nell’insieme del suo rango esistenziale. È solo
in questo senso, e a partire da esso, che acquistano il loro intrinseco valore le interessanti riflessioni
in cui Nietzsche mostra di aver compreso e, per cosi dire, ben assimilato il suo stato di malato: si
concede ad esso, lo ascolta e lo supera. Cerchiamo di osservare piu da vicino questo processo.
La malattia come fatto naturale, secondo questa interpretazione, non ha una sua propria origine, e
neppure un’origine semplicemente naturale. Per percorrere il cammino di questa interpretazione è
necessario un tipo di pensiero completamente diverso da quello dell’ottica causale. Pensiamo cioè
ad un senso esistenziale della malattia, estraneo al senso del divenire meramente naturale, senza la
pretesa di affermare la validità di una generale causalità originaria — che in questo caso sarebbe
magica e superstiziosa. Secondo questa interpretazione, qualcosa che si vuole rivolgere
all’esistenza produce la malattia per agire con essa a livello esistenziale. Nietzsche è riconoscente
alla malattia per il contributo determinante che essa ha dato al suo itinerario spirituale. Senza
accorgersene - cosi riassumerà egli stesso questo itinerario, con uno sguardo retrospettivo -
Nietzsche voleva sfuggire al suo compito, dedicandosi alla filologia, alla professione di docente, e
attraverso tutto il suo atteggiamento idealistico-romantico, e in particolare con la sua ammirazione
per R. Wagner e Schopenhauer: « Solo la malattia riuscì a portarmi alla ragione » (15, 32). « La
malattia è la risposta ogni volta che vogliamo dubitare del diritto al nostro compito,
quando riusciamo a renderlo in qualche modo piu facile... È per questa semplificazione che
dobbiamo pagare un alto prezzo! » (8, 202). Tuttavia, quando ebbe ricondotto Nietzsche al suo
compito, la malattia non scomparve. Eppure, secondo la sua interpretazione, Nietzsche si aspettò
sino alla fine che essa potesse essere sconfitta: « Ho un compito... questo compito mi ha reso
malato, ma mi riporterà di nuovo in salute... » (a Overbeck, 12. 11. 87).
La malattia, indipendentemente da come si manifesta, non ha ancora un senso preciso in Nietzsche.
Tutto dipende da cosa ne fa l’esistenza: « La malattia è un goffo tentativo di risanarsi: dobbiamo
soccorrere la natura con l’ausilio dello spirito » (12, 306). Perciò Nietzsche spiega la sua malattia
che non scompare proprio nel modo in cui la supera: la mette per cosi dire al proprio servizio; ne
riconosce i pericoli e, pur non dominando la malattia, ha la meglio su di essi.
Sottomettere la malattia al proprio servizio, così crede Nietzsche, rende possibile la peculiarità del
suo nuovo pensiero: « La malattia mi diede diritto al capovolgimento completo delle mie abitudini...
mi fece il regalo di obbligarmi all’immobilità, all’ozio, all’attesa, alla pazienza... Ma pensare è
appunto questo!... » (15, 78). Ma non solo; la malattia è per lui anche un mezzo per apprendere ed
osservare. Nietzsche riferisce ai suoi medici: « Ho fatto le prove e gli esperimenti più istruttivi
nell’ambito spirituale-morale proprio in questo stato di dolore... - questa gioia assetata di sapere mi
porta ad una tale elevazione che io vengo a capo di ogni martirio e di ogni disperazione » (a Eiser,
1. 80). E, ancora in Ecce homo, egli si ricorda: « Durante le torture che mi diede una volta il
cervello ininterrottamente per tre giorni, accompagnate da un penoso vomito di muco -io disponevo
di una eccezionale lucidità dialettica e riuscivo a pensare a sangue freddo e in ogni particolare cose
per le quali in migliori condizioni di salute non dimostro una sufficiente agilità da scalatore, una
sufficiente raffinatezza e neppure una sufficiente freddezza » (15, 10). Infine, Nietzsche vide nella
malattia l’impulso che, liberandolo da ogni legame esterno e da ogni falsa ovvietà idealista, lo portò
ad esser debitore solo di se stesso, senza dover più ricorrere alla religione e all’arte: « Quanto a
tormento e rinuncia posso paragonare la mia vita degli ultimi anni a quella di qualsiasi asceta di
qualsiasi tempo; ... solo la completa solitudine mi ha permesso di scoprire le mie proprie risorse» (a
Malwida von Meysenbug, 14. 1. 80).
Ma la malattia comporta anche nuovi pericoli esistenziali. Essa può risvegliare, secondo
l’interpretazione che Nietzsche ne dà sulla base delle proprie esperienze, la presunzione di una
conoscenza che smaschera e si distacca da ogni cosa. Quando infatti la malattia insegna a vedere «
le cose al di fuori, con una terribile freddezza », quando tutte « le piccole magie ingannevoli » della
vita scompaiono, allora l’uomo che soffre si ricorda « con disprezzo del... mondo di nebbie in cui
l’uomo sano vaga spensierato; con disprezzo pensa alle sue più nobili e più amate illusioni... In una
atroce chiaroveggenza... grida a se stesso: “Sii per una volta il tuo stesso accusatore... godi la tua
superiorità di giudice! Innalzati sopra la tua vita come sopra al tuo dolore!” ». Allora, l’orgoglio di
chi perviene a conoscere se stesso attraverso la malattia si impenna, come mai prima era avvenuto,
negli « spasmi della superbia ». Ma quando arriva « il primo debole baluginio dell’acquietamento,
della guarigione », allora « il primo dei suoi effetti » è di « resistere alla strapotenza della nostra
superbia... “Finiamola con questa superbia!” - gridiamo - “è stata una malattia e uno spasimo di
più!”. Torniamo a riguardare uomini e natura, - con l’occhio colmo di un desiderio piu grande...
Non ci adiriamo se ricominciano il loro giuoco le magie della salute... » (4, 112 e sgg.).
La malattia - sempre secondo l’interpretazione di Nietzsche, che ne mette in risalto i pericolosi
effetti esistenziali - può ispirare il contenuto del pensiero per mezzo della vita, cioè attraverso le
particolari condizioni in cui il malato elabora i propri pensieri. Invece di proiettare il pensiero fuori
di sé, la malattia, per cosi dire, lo trascina verso l'interiorità. Nietzsche si chiede quindi se non sia
stata proprio la malattia a produrre tutte le filosofie. Per liberare se stesso dal pericolo che il
pensiero sia asservito al dominio della malattia, Nietzsche vuole conoscere e sperimentare gli
stati di dolore: si concede ad essi per un attimo, onde potervisi opporre subito dopo, una volta
conosciuti, in modo ancor più deciso. Lascia che ogni stato parli liberamente dentro di sé, ma non
consente di essere sopraffatto da nessuno di essi. Nella malattia, egli prova non solo l’orgoglio per
la lucida chiaroveggenza, ma anche l’ebbrezza della guarigione, ed in questo modo guarda ciò che è
sano con l’occhio del malato e, viceversa, ciò che è malato con l’occhio di chi è sano. Da una parte,
sottopone i propri pensieri all’influsso della malattia, e, d’altra parte, sottopone i pensieri che ne
risultano alla critica della salute. Così Nietzsche è di nuovo grato alla malattia, che non vuole
guarire: «Sono personalmente abbastanza consapevole della posizione di vantaggio che, in generale,
nell’instabilità della mia salute, vengo ad avere rispetto a tutti gli spiriti quadrati. Un filosofo che ha
fatto il suo cammino passando per molte sanità, e continua sempre a camminare, è anche passato
attraverso altrettante filosofie, egli appunto non può far nient’altro che trasferire ogni volta il suo
stato nelle forme e nella lontananza più spirituali - precisamente quest’arte della trasfigurazione è
filosofia » (5, 8). La malattia « apre la via a molti e opposti modi di pensare » (2, 8). La malattia
diventa « il maestro del grande sospetto » (5, 8).
Per dominare la malattia, in modo che essa sia sotto ogni aspetto utilizzata al servizio
imprescindibile della conoscenza, e per superare il pensiero nichilistico che è proprio del malato, è
necessaria, quale suo fondamentale presupposto, l'effettiva salute, cioè, come sostiene lo stesso
Nietzsche, quella salute che « provvisoriamente si concede anima e corpo alla malattia » (5, 5),
quella salute che « non può fare a meno della malattia stessa come di un mezzo e amo di
conoscenza » (2, 8). « Per colui che ha sete nell’anima di percorrere tutto l’orizzonte dei valori e di
quanto fu desiderato fino ad oggi » è necessaria « la grande salute -, una salute che non soltanto si
possiede, ma che di continuo si conquista e si deve conquistare, poiché sempre di nuovo si sacrifica
e si deve sacrificare » (5, 343). Si potrebbe in un certo modo dire che questa salute ha incorporata la
malattia, la porta cioè dentro di sé, e non può affatto ammalarsi, se non utilizzando la malattia come
un proprio strumento, un mezzo al servizio di se stessa. La salute dello spirito si misura da « quanta
malattia esso è in grado di sopportare e superare - cioè risanare » (16, 366). Nietzsche ritiene giusto
osservare che, poiché l’effettiva salute può essere conseguita solo attraverso la malattia, « proprio
gli scrittori malaticci - e fra essi sono purtroppo quasi tutti i grandi - sogliono avere nei loro scritti
un tono di salute molto più sicuro e continuo, perché si intendono, meglio di quelli che sono
fisicamente più robusti, di filosofia della sanità e guarigione dell’anima » (3, 170).
Da questi principi interpretativi risulta come Nietzsche consideri la sua propria malattia: quale
sintomo della sua grande salute, in grado di superare ogni ostacolo.
Questa valutazione trova conferma innanzitutto nella sua continua volontà di salute. « Se, in
generale, si può far valere un argomento contro la malattia, contro la debolezza, è proprio quello
che in questi stati infrollisce l’istinto di difesa e offesa, che è il vero istinto della salute » (15,
18). Nietzsche, comunque, anche nei momenti di malattia, è consapevole della propria « tenace
volontà di salute » (2, 9): « Avanti! mi dissi, domani sarai sano; oggi è sufficiente far finta di
esserlo... la stessa volontà di salute, la commedia della salute è stata la mia cura » (14, 388).
Nietzsche è dunque convinto di essere fondamentalmente sano. È vero che nelle sue lettere si è
ripetutamente lamentato della malattia, della « paura, della disperazione e dello scoramento
determinati dal mio stato di salute » (a Overbeck, 12. 85); e che ha definito i suoi primi anni come «
anni della décadence » (a Gast, 7. 4. 88). Ma, nonostante tutte le malattie da cui fu afflitto, gli è
sempre rimasta questa profonda convinzione: « Mi presi in mano, mi guarii da solo »; ma per far ciò
è necessario « essere fondamentalmente sani. Un essere tipicamente morboso non può guarire, né
tantomeno guarirsi; invece per un essere tipicamente sano la malattia può diventare un energico
stimulans alla vita» (15, 12). « Il mio modo di essere malato e sano è un buon tratto del mio
carattere» (12, 219). « Manca in me un qualsiasi tratto morboso; anche in tempi di grave malattia io
non sono diventato morboso » (15, 47).
La fine
Ognuna delle tre parti in cui abbiamo qui presentato la vita di Nietzsche, ha mostrato un volto
fallimentare. Lo sviluppo spirituale non ha potuto realizzarsi compiutamente nell’opera, secondo
l’obiettivo che Nietzsche si era prefissato, ed è dunque rimasto un cumulo di macerie; la vita di
Nietzsche è stata un’« esistenza eternamente problematica per mille motivi ». Le sue amicizie sono
sfociate nell’esperienza di una solitudine che forse fino ad oggi nessuno ha provato. La malattia di
Nietzsche non ha solo interrotto in modo rovinoso la sua vita, ma, nella sua lenta evoluzione, gli
è talmente connaturata che, senza la malattia, non potremmo immaginarci né la sua vita, né la sua
opera.
Oltre a ciò, in quasi tutta la vita di Nietzsche è presente un che di straordinario, nel senso
dell’eccesso: la troppo precoce carriera di docente universitario, le miserie editoriali spinte fino al
grottesco, la sua vita da fugitivus errans. Nella piu completa solitudine, nel 1888 la dialettica
di Nietzsche si è elevata sino alla negazione illimitata, opponendo al no radicale soltanto un sì
indeterminato. Così si è interrotto il suo cammino.
Ma prima, nel corso dell’ultimo decennio, anche l’esperienza mistica era stata condotta fino al
compimento della certezza dell’essere: nel ditirambo di Dioniso « Il sole declina » (8, 426),
Nietzsche ha visto finire il giorno e la luce della sua vita:
« La sete non sarà lunga,
riarso cuore!...
da bocche ignote un soffio giunge verso me
- la grande frescura viene... ».
Egli dice a se stesso:
« Resta forte, mio cuore ardito,
non domandare: perché? ».
Il desiderio di Nietzsche viene esaudito:
« Serenità, aurea, vieni!
tu che pregusti la gioia
della morte il piu dolcemente, segretamente!...
Solo giuoco e onde intorno.
Ciò cui accadde d’esser pesante
sprofondò in azzurro oblio ».
Ed egli trova la sua strada nell’essere aperto:
« Lieve, argentea, come un pesce
la mia navicella ora nuota lontano ».
1 Fonti sulla vita. Veramente essenziale è soltanto lo studio delle opere e delle lettere di Nietzsche.
La conoscenza del suo esserci empirico si può ricavare non da un’opera in tal senso determinante,
ma soltanto dall’insieme delle fonti; non vi è in alcun modo una documentazione di prima mano,
limpida ed ampia, basata su dati di fatto. Sia il silenzio, sia taluni giudizi ed interpretazioni
confondono quanto è stato tramandato. Cosi, non resta altro da fare che leggere qua e là, e trovare di
tanto in tanto qualcosa di essenziale, col rischio di essere testimoni di dispute e di dover
prender parte a giudizi che non appaiono appropriati a Nietzsche, e' che tuttavia fanno parte del suo
destino. In ogni caso, tutte queste cose dovrebbe leggerle soltanto chi ha già una reale visione
dell’essere di Nietzsche, sulla base delle sue opere e delle sue lettere, in modo da non farsi
fuorviare, rispetto al livello che a Nietzsche realmente corrisponde, né da descrizioni che
contengano abbellimenti, né da un’obiettività che contenga riserve.
Le due opere principali sono: Elisabeth Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsches,
Leipzig, 1895-1904 (accorciata e modificata in due piccoli volumi: Der junge Nietzsche e Der
einsame Nietzsche) e C. A. Bernoulli, Franz Overbeck und  Friedrich Nietzsche. Eine Freundschaft,
Jena, 1908.
L’opera della sorella dà un’idea insostituibile del carattere di Nietzsche, specialmente nel primo
volume che tratta dell’infanzia. Senza Overbeck, la scuola dì Basilea e Bernoulli, sarebbe tuttavia
rimasta incompleta la realtà di Nietzsche. Dobbiamo dunque esser grati alla loro versione dei fatti,
anche se non sempre concordiamo con le loro concezioni e i loro criteri di giudizio.
Della bibliografia riguardante la disputa tra Weimar e Basilea, segnaliamo: C. A. BERNOULLI,
Zuschrift (Documenti presentati in occasione del processo contro la pubblicazione delle lettere di
Gast a Overbeck), in « Das literarische Echo », X, 1907,
pp. 1170-1177; a tal riguardo, la replica del Nietzsche-Archiv, pp. 1325-1330; Josef Hofmiller,
Nietzsche und seine Schwester, in « Süddeutsche Monatshefte », VI, 2, 1909, pp. 395-403.
Oltre alle due grandi opere principali, indichiamo una serie di pubblicazioni, che presentano sia
cose interessanti, sia quisquilie: Paul Deussen, Erinnerungen an  Friedrich Nietzsche, Leipzig,
1901; J. Mähly, Erinnerungen an Fr. Nietzsche, in «Die Gegenwart», voi. 58 (n. 42), pp. 246 e sgg.
(Berlin, 1900); Malwida von Meysenbug, Individualitäten, Berlin, 1901 (sui suoi rapporti con
Nietzsche, v. pp. 1-41); Meta von Salis-Marschlins, Philosoph und Edelmensch, Leipzig, 1897;
Arthur Egidy, Gespräche mit Nietzsche (1882), in «Die Musik», a. I (1902), pp. 1892 e sgg.; Julius
Kaftan, Aus der Werkstatt des Übermenschen, Heilbronn, 1906; sui rapporti di Nietzsche con la
rivista « Kunstwart », di Avenarius, v. Andler, voi. 4, pp. 564-567; CARL SPITTELER, Meine
Beziehungen zu Nietzsche, München, 1908.
Importanti documenti contengono le seguenti pubblicazioni: O. F. Scheuer, Friedrich Nietzsche als
Student, Bonn, 1923; Johannes Stroux, Nietzsches Professur in Basel, Jena, 1925; Gottfried
Bohnenblust, Nietzsches Genferliebe, in «Annalen », a. II (Zürich, 1928), pp. 1 e sgg.; E. F. Podach,
Nietzsches Zusammenbruch, Heidelberg, 1930; E. F. Podach, Gestalten um Nietzsche, Weimar,
1932.
2 Sull’attività di Nietzsche come docente, cfr. BERNOULLI, I, pp. 66 e sgg.
3 La lista dei libri presi in prestito da Nietzsche alla biblioteca di Basilea dal 1869 al 1879 si trova
in Albert Lévy, Stirner et Nietzsche, Paris, 1904, pp. 93-113. Cfr. inoltre « Friedrich Nietzsches
Bibliothek », in Arthur Berthold, Bücher und Wege zu Büchern, Stuttgart, 1900, pp. 429-436.
4FRITZ KRÖKEL, Europas Selbstbesinnung durch Nietzsche. Ihre Vorbereitung bei den französischen
Moralisten, München, 1929.
5 Su tutti questi autori che influenzarono Nietzsche, v. l’accurata esposizione di Andler.
6 ISABELLE VON UNGERN-STERNBERG, Nietzsche im Spiegelbilde seiner Schrift, Leipzig, s.d. (importante
soprattutto per i numerosi esempi delle varie stesure degli scritti di Nietzsche); LUDWIG KLAGES,
Nietzsche und seine Handschrift, nelle Gesammelte Abhandlungen, Heidelberg, 1927.
7Sull’interpretazione retrospettiva che Nietzsche dà di sé, sono inoltre da confrontare le «
Prefazioni », I, pp. 1 e sgg., e Ecce homo, 15, pp. 1 e sgg.
** In italiano nel testo (N.d.C.).
8 Vedi:
l’epistolario tra Nietzsche e Rohde, nel vol, II delle opere; O. Crusius, Erwin Rohde,
Tübingen, 1902; Bernoulli, I, pp. 259 e sgg., II, pp. 149-167; Podach, Gestalten um Nietzsche,
Weimar, 1932, pp. 34 e sgg.
9Nietzsche su Wagner: Richard Wagner a Bayreuth (1876), Il caso Wagner (1888), Nietzsche
contra Wagner (1888); inoltre: 10, 427-450 (1874), 451-469 (dal 1875 al 1876); 11, 81-102, 340-
344; 12, 182-184; 14, 149-171, 377-379.
E. Förster-Nietzsche, Wagner und Nietzsche zur Zeit ihrer Freundschaft, München, 1915.
Di Wagner, al tempo della sua amicizia con Nietzsche, sono da confrontare entrambi gli scritti:
Beethoven (1870) e Über die Bestimmung der Oper-, il pubblico distacco da Nietzsche (senza farne
il nome), in Publikum und Popularität (parte terza).
Letteratura su Nietzsche-Wagner: Ludwig Klages, Der Fall Nietzsche-Wagner in graphologischer
Beleuchtung (1904), in Gesammelte Abhandlungen, Heidelberg, 1927; Kurt Hildebrandt, Wagner
und Nietzsche. Ihr Kampf gegen das neunzehnte Jahrhundert, Breslau, 1924; Bernhard Diebold,
Der Fall Wagner. Eine Revision, Frankfurt, 1928.
Su Wagner: Carl Fr. Glasenapp, Das Leben Richard Wagners, Leipzig, 1908 e sgg., voll. IV, V, VI;
Guy de Pourtalès, Richard Wagner als Mensch und Meister. Su Cosima: Graf Du Moulin-Eckardt,
Cosima Wagner.
,0
Kurt Kölle, Notizen über Paul Ree, in « Zeitschrift für Menschenkunde », anno 3, 1927, p. 168;
Mitteilungen aus dem Nietzsche-Archiv, Weimar, 1908.
11 II libro di Lou Andreas-Salomé (Friedrich Nietzsche in seinen Werken, Wien, 1894), oltre ad
alcune lettere di Nietzsche, non contiene alcuna informazione sui rapporti personali. Su dò ci
informa la sorella di Nietzsche nella sua biografìa (nel capitolo « Amare esperienze ») e nel
carteggio di Nietzsche con la madre e la sorella (1a ediz., 1909, pp. 486-506). V. anche Mitteilungen
aus dem Nietzsche-Archiv, Weimar, 1908. Su ciò è fondamentale l’opera di Bernoulli su Overbeck.
V. inoltre: Bernoulli, Nietzsches Lou-Erlebnis (Raschers Jahrbuch, I, 257); c Podach, Nietzsches
Zusammenbruch.
12 Epistolario tra Nietzsche e Heinrich von Stein: Briefe, vol. 3, 2a ed., Leipzig, 1905, pp. 219-264.
13Lettere di Nietzsche a Gast: Briefe, vol. 4. - Die Briefe Peter Gasts an Friedrich Nietzsche, 2
voll., München, 1923-1924; Josef Hofmiller, Nietzsches Briefe an Gast, in «Süddeutsche
Monatshefte», VI, 2, 1909, pp. 300-310; Hofmiller, Nietzsche, in « Süddeutsche Monatshefte », a.
29, 1931, pp. 84 e sgg.; Podach, Gestalten, pp. 68 e sgg.
14 Briefe, vol. 5. - Podach, Gestalten, pp. 7 e sgg., 125 e sgg.; Luise MARELLI, Die Schwester
Elisabeth Förster-Nietzsche, Berlin, 1933.
15Le affermazioni negative: a Overbeck, 9. 82; 11. 2. 83; 3. 83; 2. 5. 84; alla madre, 8. 83. - Per
quelle del tutto positive: a Overbeck, 14. 9. 84; 10. 84; alla sorella, 3. 83; 12. 85; 26. 12. 87; 31. 3.
88; 12. 88.
16 Cfr. per es. la lettera a Overbeck del 15. 11. 84.
17 Cfr. Paul Deussen, Erinnerungen an Friedrich Nietzsche, Leipzig, 1901 (contiene anche le
lettere). Inoltre: Paul Deussen, Mein Lehen, Leipzig, 1922.
18 Cfr., oltre all’epistolario (Briefe, voi. III), Bernoulli, I, pp. 51 e sgg.
19 Briefwechsel (a cura di O. Crusius, in « Süddeutsche Monatshefte », VI, 2, 1909). Hillebrand
recensì con un’approvazione ad un tempo critica e moderata, ma di fatto respingendole, le prime tre
Considerazioni inattuali, subito dopo la loro pubblicazione. Le recensioni sono state ristampate in:
Hillebrand, Zeiten, Völker und  Menschen, voi. II, 2a ed., Straßburg, 1892: 1. Einiges über den
Verfall der deutschen Sprache und der deutschen Gesinnung; 2. Über historisches Wissen und
historischen Sinn; 3. Schopenhauer und das deutsche Publikum.
20Der Briefwechsel Nietzsches und Overbecks, Leipzig, 1911. V. il saggio di Bernoulli su entrambi,
e Walter Nigg, Franz Overbeck, München, 1931.
21 Cfr. Egidy, op. tit., e, su Bungert, le lettere a Gast dal 7. 3. 83 fino al 2. 4. 83.
22 Cfr. Bernoulli, I, pp. 256 e sgg. (Scheffler).
23Sulla proposta di matrimonio della primavera 1876 cfr. Bohnenblust, op. cit., ed anche H. W.
Brann, Nietzsche und die Frauen, Leipzig, 1931.
24 Letteratura sulle malattie di Nietzsche: P. J. MÖBIUS, Nietzsche, 2a ed., Leipzig, 1904; OTTOKAR
FISCHER, Eine psychologische Grundlage des Wiederkunftgedan-kens, in « Zeitschr. f. angew.
Psychologie», 5, 487 (1911); ERNST BENDA, Nietzsches Krankheit, in « Monatsschr. f.. Psychiatrie
und Neur. », (1960), voi. 60, p. 65; KURT HILDEBRANDT, Gesundheit und Krankheit in Nietzsches
Lehen und Werk, Berlin, 1926; E. F. PODACH, Nietzsches Zusammenbruch, Heidelberg, 1930; PAUL
COHN, Um  Nietzsches Untergang, mit vier Briefen von El. Förster-Nietzsche, Hannover, Morris-
Verlag, s. d. (1931); E. F. PODACH, Nietzsches Krankengeschichte, in « Die medizinische Welt », a. 4
(1930), p. 1452.
25 Ciò a cui si fa qui brevemente riferimento tramite l’osservazione metodica di materiale ordinato
cronologicamente e costituito da lettere ed opere postume, richiede un approccio metodologico che
potrà produrre tutti i suoi frutti solo quando la nuova edizione completa delle opere di Nietzsche
permetterà la consultazione del materiale postumo e delle lettere complete (in ordine cronologico).
*** In italiano nel testo (N.d.C.).
26 A tale proposito, v. il mio saggio Strindberg und Van Gogh..., Zurich, 1922, 2* ed. Berlin, 1926.
LIBRO SECONDO. I PENSIERI FONDAMENTALI DI NIETZSCHE
È difficile trovare un argomento su cui Nietzsche non abbia espresso la propria opinione; i suoi
scritti contengono infatti osservazioni sullo Stato, la religione, la morale, la scienza, l’arte, la
musica, la natura, la vita, la malattia, il lavoro, l’uomo e la donna, l’amore, il matrimonio, la
famiglia, i popoli, le epoche, la storia, le personalità storiche, i contemporanei, e in generale sui
problemi fondamentali della filosofia. Questi problemi possono avere, di volta in volta, un peso
maggiore o minore; in ogni caso, la giusta comprensione delle singole affermazioni di Nietzsche
dipende dalla padronanza dei tratti fondamentali del suo pensiero e dalla conoscenza dei contenuti
preminenti.
Ai tratti fondamentali del pensiero di Nietzsche si può pervenire attraverso una duplice via:
seguendo il suo continuo negare e cogliendo il positivo. Già nel negare è sempre presente ciò che
abbraccia i principi positivi, che sono indirettamente espressi nell’atto stesso del negare; viceversa,
nella comunicazione diretta della verità è sempre già presente la contraddizione, che comprende, nel
movimento di pensiero che nasce da ciò che tutto abbraccia, le posizioni apparentemente piu
assolute!; salvo i casi in cui Nietzsche, contro la sua natura, non venga a trovarsi per un momento in
una fissità dogmatica, che è in lui una sorta di trasgressione, e che in effetti non si verifica mai
completamente.
Pervenire dal negativo al positivo è il problema che ha preoccupato fino alla fine la coscienza di
Nietzsche. Ciò non va inteso nel senso che Nietzsche, nel corso della sua vita, dopo una fase
soltanto critica, un giorno si sia trovato in possesso di un nuovo credo. In ogni momento vi è in lui il
pericolo del nulla, e in ogni momento anche la scoperta e l’esperienza dell’essere. Ancora negli
ultimi anni egli si annoverava tra i nichilisti radicali, insieme a Burckhardt e Taine, « sebbene io
stesso pur sempre non disperi di trovare la via d’uscita e la breccia, attraverso la quale si perviene al
“qualcosa” » (a Rohde, 23. 5. 87).
Fino al momento del suo crollo mentale, negazioni e affermazioni si oppongono in un’aspra
contraddizione: « Non sarò io a elevare nuovi idoli... Rovesciare idoli (parola che uso per dire
“ideali”) - questo si è affar mio » (15, 2). E al contrario: « Dopo lunghi anni... continuo a fare
in pubblico ciò che faccio sempre e sempre ho fatto in privato: dipingere sul muro immagini di
nuovi ideali » (14, 351).
Questa contraddizione è per lui l’espressione dell’unico processo necessario, dopo che « Dio è
morto ». Gli ideali sono per lui idoli, se appartengono al passato, e sono invece verità se
rappresentano il futuro. « Chi non trova più la grandezza in Dio, non la trova piu da nessuna parte,
- deve negarla oppure crearla » (12, 329). Nietzsche la vuole creare: « Voi chiamate ciò
l’autodistruzione di Dio: ma è invece soltanto il suo cambiar di pelle... voi dovrete rivederlo presto,
al di là del bene e del male » (12, 329).
Ciò che per la coscienza di Nietzsche e nel suo agire effettivo appare come duplice, cioè negare e
affermare, dissolvere e creare, annientare e produrre, diventa un falso problema se crediamo di
trovare la risposta affermativa sullo stesso piano su cui vale il giudizio negativo: cioè sul piano della
comprensione razionale e di una sua possibilità di comunicazione, altrettanto razionale ed
accessibile a chiunque. Ci troviamo qui di fronte ad una concezione filosofica originaria.
Ciò che è razionalmente universale è in quanto tale critico e negativo, cioè l’intelletto di per sé è
distruttivo; positiva è solo la storicità dell’essere, insostituibile, non generale, che riposa su se stesso
ed è legato al proprio fondamento, e che tuttavia rimane non solo nascosto, ma privo di essenza, se
non giunge a chiarezza per l’intelletto. Nietzsche non ha avuto questa profonda intuizione, che ha
portato Schelling a separare la sua filosofia negativa dalla filosofia positiva, ma l’ha comunque
inconsapevolmente seguita. Il negare, come manifestazione della comprensione razionale, è esso
stesso un affermare al servizio della storicità. Questa, al contrario, esprimendosi, entra nella sfera
del razionale e ricade così nell’essere-affermato del movimento. Il razionale è solo di volta in volta
la relazione di una cosa in funzione dell’altra e vale solo in questa relazione; ciò che è storico ha
vita in se stesso e si comunica nel processo in cui diventa se stesso.
Senza la dimensione della filosofia negativa, non vi può essere una filosofia positiva. Solo nel fuoco
purificatore del razionale l’uomo può veramente giungere alla comprensione della sua positiva
storicità. Questa si esprime solo mediante il razionale, con il quale essa comprende, sia
pure indirettamente, ciò che ha di storicamente originale. Il positivo come fondamento della
storicità dell’esistenza si muove quindi in tutte le direzioni della razionalità, adeguandosi
pienamente ad esse, ma guidandole e tenendole unite sulla base della sua propria origine storica, la
quale non può conoscersi in se stessa, ma si chiarisce soltanto nell’universalità di ciò che si può
sapere e di ciò che essa ha prodotto.
Il positivo, nella forma di ciò che è esplicitamente affermato, diventerebbe però esso stesso
razionale-generale e cadrebbe sul piano di una illimitata dissociazione. Poiché, se è cosi che, nella
razionalità, si deve inevitabilmente pervenire alla parola e al sapere consapevole, bisogna allora dire
che si tratta di una razionalità falsa, in quanto ancora non comprende se stessa. In questa forma, cioè
come teoria di una conoscibilità generale, il positivo è già rovinato alla radice, poiché è considerato
come puro e semplice intelletto, ed in tal modo diviene un che di generale e di astratto; ciò si
verifica nel modo piti radicale quando si utilizza questa teoria della separazione di filosofia negativa
e positiva (ossia razionale e storica) per far tacere l’intelletto, e poi rifiutare la verifica razionale
delle asserzioni di fatto razionali.
Queste relazioni indicano la via verso i contenuti dominanti dell’opera di Nietzsche: nella misura in
cui Nietzsche presenta esplicitamente la sua positività, il contenuto di questa stessa positività viene
messo in discussione. In quanto procede per via sperimentale e per tentativi, egli impone delle
esigenze straordinarie all’esistenza possibile. La filosofia di Nietzsche si situa in un nuovo contesto
filosofico, determinato dai secoli precedenti.
Una filosofia ingenua, che può rappresentare Dio e mondo, e in essi l’uomo, non vede la
separazione di razionalità e storicità; essa può comunicare i suoi contenuti con fredda immediatezza
di immagini e pensieri, senza cadere necessariamente in uno smarrimento esistenziale; e più
tardi, dopo la rottura dell’ingenuità, essa può ancora soddisfare esteticamente coloro che si volgono
a guardarla attraverso l’univocità e completezza della sua opera, e può apparire ad essi legittima per
la verità stessa dell’esistenza che la produce e sostiene. Quando però, dopo la rottura
dell’indiscutibile totalità di Dio, anima e mondo, si avverte e si fa consapevole la separazione tra
l’universale razionale e la storicità esistenziale, allora si impongono sul piano del razionale i
problemi del dubbio: cioè a dire, nel caso di Nietzsche: cosa è l’uomo? (primo capitolo), cos’è la
verità? (secondo capitolo), cosa significano la storia e l’epoca presente? (terzo capitolo). Allora però
anche l'essere è presente nella sua storicità, ed è propriamente cercato in una volontà tesa verso
l’avvenire (quarto capitolo), come interpretazione del mondo in questo momento (quinto capitolo),
come unità mistica dell’essere (sesto capitolo).
In questi problemi del dubbio vi è per Nietzsche lo stimolo che già appaga positivamente: l’amore
per la natura umana nobile, che dubita dell’uomo in ogni sua forma reale; l’inesorabile serietà di
una veridicità che mette in dubbio la verità stessa; il compimento in figure storiche, che naufraga di
fronte alla mancanza di senso e di fini della storia.
Nelle accezioni positive, la volontà tesa all’avvenire si presenta come progetto della grande politica,
che è radicata nel concetto ancora indeterminato del creare; è una dottrina planetaria della volontà
di potenza, come appassionata visione dei sostenitori del movimento di reazione contro
il nichilismo, che, muovendosi circolarmente, elimina se stessa; è l’esperienza dell’essere in
situazioni mistiche, espressa anzitutto nella dottrina dell’eterno ritorno, che cade in paradossi.
I contenuti del pensiero di Nietzsche, per la loro stessa essenza, si mostrano solo a colui che ha già
quegli stessi pensieri. Pertanto, il pensiero di Nietzsche può in un primo momento apparire vuoto,
ma poi avvincere nel modo più profondo. Esso è vuoto, se si vuole avere qualcosa che vale per la
sua fissità; è pieno, se si partecipa al suo stesso movimento. Se la nostra comprensione è animata
dallo stesso originario impulso di Nietzsche, le formulazioni di pensiero negative sono più pregnanti
delle espressioni positive che, nella loro illusoria razionalità, si rivelano subito come baccelli al cui
interno non c’è proprio nulla. Viceversa, le espressioni positive possono forse per un attimo
entusiasmare, se si riesce a comprenderle simbolicamente e ad assumerle come segni; e a loro volta
le espressioni negative possono annoiare, se sembra che in esse non vi sia alcuna immagine o
pensiero creativo, alcun simbolo.
A differenza dei grandi filosofi del passato, ciò che caratterizza Nietzsche è che egli opera in modo
piu vero con le sue negazioni che non con le sue affermazioni. Non viene alla luce dove sbocchi alla
fine il suo proprio, piu originario impulso, alla cui vera essenza tuttavia nessun serio lettore
potrebbe sottrarsi: Nietzsche apre la via, distrugge gli orizzonti troppo stretti; egli non svolge una
critica che pone dei limiti, come Kant, ma insegna a porre dubbi; offre ampie possibilità, risveglia le
forze che animano la disposizione interiore.

CAPITOLO PRIMO. L’UOMO


Introduzione: l’insoddisfazione per l’uomo.
L’esserci dell’uomo: Cos’è l’uomo nel mondo. L’uomo come originariamente mutevole (rapportarsi
a se stessi; gli istinti e le loro trasformazioni).
L’uomo che crea se stesso (la morale): L’attacco alla morale. Il doppio circolo. Ciò che Nietzsche
vuole (contro ciò che è generale, in favore dell’individuo ; innocenza del divenire; creare; l’uomo
che crea se stesso). Creare come libertà senza trascendenza, Il capovolgimento dell’immanenza.
L’immagine nietzschiana dell’uomo: L’uomo superiore. Contro il culto degli eroi. Il superuomo.
Introduzione: l'insoddisfazione per l’uomo
Se è vero che per Nietzsche sembra ormai giunto a decadenza tutto ciò che ha avuto valore,
altrettanto vero è che, proprio per questo, bisogna agire ancor piu risolutamente a vantaggio
dell’uomo. L’impulso che in ogni momento lo guida è sia la sua insoddisfazione dell’uomo
contemporaneo, sia il suo desiderio e la sua volontà di un vero, possibile uomo. Perciò uno dei tratti
fondamentali del pensiero nietzschiano è il movimento del suo amore che, deluso, diventa la piu
terribile negazione dell’esserci umano, ma poi di nuovo si converte in appassionata affermazione
dell’essenza dell’uomo.
La sofferenza di Nietzsche per gli uomini, cosi come essi sono, è immensa e sempre rinnovata: «
Che cosa determina, oggi, la nostra ripugnanza?... Il fatto che il verminaio “uomo” è in primo piano
e brulica...» (7, 324); «Ora sono qui, innocenti nella loro miseria. Ed io passo di soppiatto in mezzo
a loro -ma allora il disgusto mi rode il cuore » (12, 274). Nessuno è un essere completo: « E se il
mio occhio rifugge dall’oggi verso il passato: sempre esso trova la stessa cosa: frammenti e membra
e orride casualità - ma mai un uomo! » (6, 205). Tutto viene dilacerato da questi uomini, tutto viene
tradito, « non sopporto di respirare il loro respiro» (6, 271). Il timore del disgusto per l’uomo
diventa simbolico nella terribile frase: « C’è da dubitare che un gran viaggiatore abbia trovato in
qualche parte del mondo zone piu brutte che nella faccia umana » (2, 276). Che però la vera ragione
di questa sofferenza per l’uomo sia l’amore per l’uomo è evidenziato dalla seguente osservazione: «
“Chi a quarant’anni non è misantropo, non ha mai amato gli uomini”, era solito dire Chamfort »
(14, 229).
Anche il santo - nello Zarathustra - amava un tempo gli uomini; ora ama Dio, invece degli uomini:
« Gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta. L’amore per gli uomini mi
ammazzerebbe » (6, 11). Nietzsche però, diversamente dal santo, vuole restare nel mondo e servire
l’uomo
reale. Egli considera questo amore per la divinità una conseguenza di quella insoddisfazione
riguardo all’uomo, identica di fatto a quella che tormenta lui stesso; ma ciò che a lui ripugna è che i
santi « volevano rifugiarsi nell’aldilà, invece di edificare per il futuro »; la religiosità era « un
equivoco delle nature superiori che soffrono per la brutta immagine dell’uomo » (13, 77). Per
questo, il disgusto per l’uomo è il grande pericolo (7, 437). Nietzsche non vuole abbandonare
l’uomo. Se egli, colpito nel profondo, deve continuamente sopportare i giorni in cui lo « affligge un
sentimento, piu nero della piu nera melanconia -il disprezzo per gli uomini » (8, 263), questo
disprezzo stesso è però solo una « transizione »: « gli uomini del grande disprezzo sono, infatti,
quelli della grande venerazione » (6, 418).
Nietzsche, dunque, resiste al proprio disgusto: « Il mio disgusto per gli uomini era diventato troppo
grande. Così pure il disgusto, opposto, per l’arroganza morale del mio idealismo. Mi resi simile al
disprezzato, cercai in me tutto ciò che disprezzavo... Presi partito contro tutti gli accusatori
dell’umanità » (12, 213). Égli giunge ad imporsi questa norma: « Non ci deve essere alcun uomo
per il quale io abbia disgusto o odio» (12, 221). Il disprezzo stesso deve avere solo la funzione di
aiutare: « Chi ha disprezzato di più gli uomini, non è stato proprio per questo il loro piu grande
benefattore? » (12, 274); e Nietzsche lo ribadisce esplicitamente: « Io amo gli uomini: e soprattutto
allorquando resisto a questo impulso» (12, 321).
L’aspirazione di Nietzsche per il vero ed autentico uomo, aspirazione che è la fonte del suo
disprezzo, è la forza che lo spinge innanzi e lo consuma: « Da cosa dipende che io abbia sempre
sete di' uomini che non rimpiccioliscano al cospetto della natura, di una camminata sulle alture
rocciose di Genova? Forse dal fatto che non li so trovare? » (11, 387). Zarathustra si meraviglia che
questa sofferenza sia estranea agli altri: « Voi soffrite di voi stessi, voi non avete ancora sofferto
dell’uomo... Voi tutti non soffrite di ciò di cui io ho sofferto » (6, 421). Il lamento si volge in
disgusto e poi in preghiera: «Che cos’è appunto, per me, I’assolutamente insopportabile?... che io
sia costretto a fiutare e interiora di un’anima malriuscita!... In fondo, si riesce a venire a capo
di questo ed altro... Ma concedetemi di tanto in tanto - posto che esistano divine dispensatrici... -
uno sguardo, un solo sguardo concedetemi unicamente rivolto a qualche cosa di perfetto, di
compiutamente riuscito, di beato, di possente, di trionfante... A un uomo che giustifichi l’uomo, a
una fortunata, complementare e redentrice, ventura umana, in virtù della quale si possa mantenere la
fede nell’uomo! » (7, 325).
Ciò che Nietzsche in fondo vuole sostenere è l’affermazione dell'uomo, così come è con le sue
possibilità. Se prima aveva sostenuto: « Ho frugato in mezzo agli uomini e non ho trovato tra loro il
mio ideale» (11, 379) - ora questa sua visione è superata, e Nietzsche esprime alla fine un pensiero
che non gli era certo abituale: l’uomo gli appare ora degno di ammirazione e di rispetto. Egli
disprezza «l’uomo che desidera, come pure l’uomo “desiderabile” - e in generale tutte le immagini
desiderabili, tutti gli ideali dell’uomo ». Ed afferma: « Quel che giustifica l’uomo è la sua realtà ».
In confronto a qualsiasi altro uomo solo desiderato e sognato, cioè in confronto a qualsiasi uomo
ideale, l’uomo reale vale molto di più » (8, 139 e sgg.). Tutte le cose che si è solili desiderare
riguardo all’uomo sono « eccessi assurdi » (15, 421). Tuttavia, questa affermazione non implica un
senso di appagamento e di rinuncia: « L’uomo assennato si rallegra del fatto “uomo” e del cammino
dell’uomo: ma - egli va oltre» (12, 24).
Il fatto che tutto ciò che per noi è reale, degno di amore e di rispetto, oppure spregevole, sia in
definitiva accessibile solo nella forma dell’uomo e nel modo in cui gli uomini sperimentano
l’essere, porta Nietzsche alla domanda fondamentale: cosa è l’uomo? Questa domanda, tuttavia,
riguarda non già un oggetto ben delimitato e perciò ben determinato, bensì l’essere-tutto-
abbracciante che noi siamo. Se rispondo alla domanda, vuol dire che afferro subito qualcosa di
determinato: sia esso l'esserci dell’uomo, osservato empiricamente, cioè la sua soggettività, che io
mi pongo come oggetto; sia esso ciò che è creduto dall’uomo (ragione, morale, Dio), ossia ciò che
vale per lui come oggettività, che io a mia volta mi pongo come oggetto e nel far ciò relativizzo
come opinione dell’uomo; sia esso un ideale d’uomo che, per quanto si configuri in una determinata
forma, è pur sempre opposto alla realtà e dunque non è vero.
Quando mi interrogo sull’uomo in questa forma psicologica, cercando di interpretare il senso stesso
dell’uomo, non gli sto mai di fronte come ad una cosa nel mondo, concepita come un’alterità; al
contrario, ciò che esamino, quanto a realtà e possibilità, sono io stesso. Pertanto, nella conoscenza
dell’esserci dell’uomo e della sua posizione nei mondo, della sua illimitata mutevolezza, c’è
qualcosa che consapevolmente o inconsapevolmente è in riferimento alle possibilità del mio
atteggiamento. Il pensare consapevole è immediatamente un pensare che fa appello alla mia
libertà. La domanda su cosa sia l’uomo sta in relazione alla domanda su cosa possa e voglia fare di
se stesso, e in vista di quale scopo. L’uomo ha quindi due atteggiamenti fondamentalmente diversi
nei confronti di se stesso: egli può considerarsi e esaminarsi come un esserci, che per ora è cosi e va
incontro a dei cambiamenti secondo regole determinabili, ed egli può darsi norme e porsi istanze
mediante le quali, se ne possiede un’autentica consapevolezza, porta se stesso alla propria
realizzazione nel divenire. Ma, in fondo, non può fare l’una cosa senza l’altra. Nella definitiva
separazione, gli atteggiamenti diventano difettosi o vuoti. Ma nella loro realizzazione, una
separazione metodica è provvisoriamente inevitabile. Alla riflessione sull’esserci dell’uomo si dà il
nome di antropologia e psicologia, e, in modo specifico, alla riflessione sulla sua essenza si dà il
nome di filosofia. La psicologia ricerca, constata, prevede. La filosofia si appella, prospetta
possibilità, apre la via della decisione. Ma in ogni psicologia dell’uomo è già presente, sia pure in
modo nascosto, l’interesse alle possibilità e l’appello a divenire se stesso. E in ogni filosofia la
psicologia rimane pur sempre un mezzo di espressione, un presupposto, senza il quale il pensiero
appellante diverrebbe inconsistente.
Nella nostra esposizione dobbiamo, per quanto possibile, separare ciò che nell’insieme è
inscindibilmente collegato: in primo luogo, Nietzsche coglie in modo oggettivo l'esserci dell’uomo,
come appare nel cosmo e nel suo continuo mutamento psicologico. In secondo luogo, concepisce la
libertà dell’uomo come il modo in cui l’uomo stesso si realizza. In terzo luogo, anziché la realtà
dell’uomo, nel simbolo del superuomo egli coglie un ideale indeterminato di ciò che l’uomo,
superando se stesso, deve diventare nel mondo.
Solo in questo sviluppo completo e nella completa articolazione del suo pensiero, che procede per
contraddizioni, si rivela l’ampiezza della visione nietzschiana dell’uomo.
l'esserci dell’uomo
Dove l’uomo coglie se stesso nella sua origine, egli è più di un semplice esserci: egli è l’essenza,
che si trasforma e si produce per mezzo di se stessa; ma egli resta pur sempre anche un esserci, in
ogni momento e in tutti gli aspetti della sua essenza.
Finché Nietzsche tratta l'esserci - ma ha già sempre presente anche il senso del filosofare -, cerca in
primo luogo di stabilire mediante paragoni quale sia propriamente la posizione dell’uomo nel
mondo, e, in secondo luogo, di analizzare l’uomo nella sua mutevolezza psicologica.
Cos’è l’uomo nel mondo. Nietzsche osserva il mondo, chiedendosi quale significato vi assuma
l’uomo.
Quando sostiene che per ogni essere organico vale il fatto « che la goccia di vita che è nel mondo è
senza importanza per il carattere totale del mostruoso oceano di divenire e trapassare » (3, 200),
Nietzsche riprende l’antica idea della poca importanza dell’uomo, che scompare di fronte al cosmo.
« La vita sulla terra è in genere un attimo, un incidente, un’eccezione senza conseguenze », l’uomo
è « una piccola specie animale ipertesa che... ha fatto il suo tempo » (15, 364-365).
Per far avvertire drasticamente questa nullità dell’uomo nel cosmo, in contrasto con la sua
presunzione, Nietzsche afferma: « Se un Dio ha creato il mondo, egli ha creato l’uomo come
scimmia di Dio, come continuo motivo di divertimento nelle sue troppo lunghe eternità » (3, 199 e
sgg.). Ma, in contrasto con questo ruolo, vi è la sorprendente autocoscienza umana: « Che cos’è mai
la vanità dell’uomo più vano di fronte alla vanità che possiede il più modesto, per il fatto di sentirsi
nella natura e nel mondo come “uomo”? » (3, 357).
Tale considerazione conduce Nietzsche ad un tentativo di pensiero paradossale sull’universo
infinito: la natura inorganica è Tessere autentico, e il suo illimitato divenire è privo di illusioni;
avviene così, nel fluire all’unisono con questa natura, il compimento dell’uomo: « Essere
liberati dalla vita e ritornare natura morta può essere sentito come una festa » (12, 299): « Proprio
cosi diventiamo integralmente veri... Bisogna dare una nuova interpretazione della morte! Così ci
conciliamo con la realtà, cioè con il mondo morto » (12, 229).
Nel mondo vivente l’uomo deve essere paragonato all 'animale. È precisamente come se « noi, e
con noi tutta la natura, aspirassimo all’uomo come a qualche cosa che sta alto, sopra di noi ». Ma,
rabbrividendo, siamo costretti a vedere che « là corrono le raffinate bestie da preda, e noi in mezzo
ad esse... Il loro fondare città e Stati, il loro guerreggiare..., il loro soverchiarsi con l’inganno e
calpestarsi, il loro grido nella disgrazia, il loro gioioso ululato nella vittoria: tutto è continuazione
dell’animalità» (1, 435-436). Sorgono così le molte definizioni in cui Nietzsche associa
l’uomo all’animale: « L’uomo è la migliore belva feroce » (6, 307), e se questa « dissennata, triste
bestia che è l’uomo... è anche solo un poco ostacolata ad essere bestia dell’azione, ... subito esplode
la bestialità dell’idea » (7, 391). L’uomo è « il piu crudele degli animali » (6, 318), e ancora, è «
l’animale piu coraggioso » (6, 230); e, quando pensa, è « un animale giudicante » (14, 21).
Ma in realtà l’uomo non è l’animale. Già il fatto che egli sia portato a distinguere se stesso
dall’animale, implica il terrore di essere o poter essere appunto un animale. Decisiva è l’origine di
questo terrore, cioè il problema della differenza tra l’uomo e l’animale. L’uomo occupa già
una posizione speciale ed unica, perché è risultato vincitore nella lotta con tutti gli animali. Ma la
diversità di essenza, che può essere afferrata soltanto con un salto, sta in primo luogo nella sua
autocoscienza che, comunque essa sia, determina in ogni caso la differenza. Secondo
Nietzsche, l’uomo è consapevole di essere diverso dall’animale, ad esempio, per la capacità di
ricordare (1, 283 e sgg.); erroneamente, secondo Nietzsche, egli crede di distinguersi dall’animale
per la libertà (3, 198). Nel divenire cosciente di se stesso, egli ha verso l’animale un atteggiamento
contraddittorio: può invidiare l’apparente felicità dell’animale (1, 283 e sgg.), oppure vede una
maledizione nella vita dell’animale (« non si può immaginare sorte più dura di quella della bestia da
preda »: 1, 434 e sgg.).
La diversità di essenza viene in secondo luogo espressa da Nietzsche con una considerazione che
vede l’uomo come origine di possibilità ancora indeterminate: al contrario degli animali, ciascuno
dei quali ubbidisce ad un tipo ben classificato, l’uomo è « l'animale non ancora
stabilmente  determinato ». Ciò significa che l’uomo propriamente non è più soltanto animale, ma
anche qualcosa di non ancora ben definito. L’indeterminatezza delle sue illimitate possibilità lo
porta ad una minacciosa mancanza d’ordine. Ne consegue che l’uomo appare come una malattia
dell’esserci: « L’elemento che nella lotta con gli animali procurò all’uomo la sua vittoria ha al
tempo stesso comportato la difficile e pericolosa, morbosa, evoluzione dell’uomo » (13, 276).
Perciò Nietzsche afferma: « C’è qualcosa di fondamentalmente mancato nell’uomo » (14, 204).
L’associazione di uomo e malattia ritorna spesso: « La terra... ha una pelle; e questa pelle ha
malattie. Una di queste malattie si chiama, per esempio, “uomo” » (6, 192). Ma questa
interpretazione dell’uomo come l’animale non ancora determinato ha in Nietzsche un duplice
significato. Questo essere diventato uomo, cosi concepito come malattia, è in primo luogo un
difetto fondamentale; in secondo luogo, proprio la malattia costituisce il suo autentico valore.
La « malattia » consiste nel fatto che lo sviluppo dell’uomo è fondato su errori radicali; solo
attraverso appunto l’errore e l’illusione egli è diventato « uomo »: « La bestia che è in noi vuole
essere ingannata... Senza gli errori che si trovano nelle ipotesi della morale, l’uomo sarebbe
rimasto animale » (2, 65). Gli errori senza i quali « non sarebbe mai sorta un’umanità », si
riassumono nel « sentimento fondamentale... per cui l’uomo è l’essere libero nel mondo della
necessità, l’eterno taumaturgo... il superanimale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non
pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico... » (3, 199). Così l’uomo è «
un animale multiforme, mendace, artefatto e non trasparente » (7, 269). La malattia dell’uomo, «
contrariamente all’animale, nel quale tutti gli istinti esistenti soddisfano a compiti ben determinati
», dipende dal fatto che in lui - il « non-determinato », capace di molteplici possibilità — « tutto
pullula di valutazioni contraddittorie e conseguentemente di impulsi contraddittori» (15, 335).
Ciò che rende l’uomo malato costituisce però, nello stesso tempo, proprio il suo valore. La malattia
stessa diventa portatrice di un valore. Per esempio, Nietzsche condanna fermamente quella
specifica malattia dell’essere umano che per lui è rappresentata dal prete, e purtuttavia aggiunge «
che soltanto sul terreno di questa umana forma d’esistenza, essenzialmente pericolosa, quella cioè
dei preti, l’uomo è divenuto in generale un animale interessante, e che soltanto qui l’anima umana
ha acquistato profondità in un superiore significato ed è divenuta malvagia - e sono anzi queste le
due forme fondamentali della superiorità che ha avuto sino a oggi l’uomo sugli altri animali! » (7,
311). Ma è soprattutto il motivo per cui l’uomo è malato che determina la sua grandezza. Cosa fa si,
infatti, che l’uomo sia più malato, più insicuro, più mutevole, più indeterminato di qualsiasi altro
animale? « Certo, più di tutti gli altri animali presi insieme, egli ha anche tentato, innovato,
affrontato, sfidato il destino: questo grande sperimentatore di se stesso, questo inappagato, questo
insaziato, che per l’ultima supremazia contende con animali, natura e deità, questo pur sempre
indomabile, eternamente di là da venire... » (7, 431).
Se quindi Nietzsche ha potuto dire, in un certo contesto, che « l’uomo non rappresenta un progresso
rispetto all’animale » (15, 205), tuttavia la sua vera preoccupazione è che l’uomo non si conservi
nella propria autenticità, che appunto ridiventi un animale (ubbidisca cioè ad un tipo determinato,
rigidamente classificato, di esserci, che avvenga « l’immeschinimento di tutto il tipo “uomo” - la
sua mediocrizzazione », che egli pensi erroneamente di elevarsi mediante il suo processo di
incivilimento, mentre in realtà si abbassa, che « con l’educazione di tutte quelle virtù con cui
un gregge prospera », si sviluppi « appunto nell’uomo l’animale di branco » e con ciò possa essere
determinato l’animale « uomo » (14, 66 e sgg.).
Non è sempre chiaro cosa intenda Nietzsche quando caratterizza l’uomo in tal modo. Nella forma di
un linguaggio oggettivante, che parla di un esserci dell’uomo nella sua differenza rispetto agli
animali, egli viene a toccare in modo specifico il limite dell’esserci, proprio dell’uomo rispetto ad
ogni altro esserci. Ciò che nell’uomo può sembrare un perdersi nell’indeterminatezza, nella falsità,
nella malattia e nella solitudine, è appunto la possibilità di un’origine sua propria, che sfugge alla
trattazione oggettivante, se viene irrigidita come tale. Ma è a questa origine che si è rivolto il
filosofare di Nietzsche, che si serve del sapere e della psicologia solo come mezzi.
L’uomo come originariamente mutevole. Che l’uomo sia « l’animale non ancora stabilmente
determinato » significa che egli ha una possibilità quasi illimitata di mutamento. Questa ha come
primo impulso l’uomo stesso in quanto origine che vuole realizzarsi nell’esserci. Però, come esserci
psicologicamente visibile, questa origine e l’esser-uomo che ne deriva si trovano soltanto in
determinate opinioni fattuali, nelle valutazioni, nelle finalità, e nella regolarità degli stati e
mutamenti d’animo che ne derivano. Tutto ciò implica possibilità contrapposte. Il fatto che l’uomo
non sia stabilmente determinato consente infatti il nascondersi di un impulso dietro l’altro, e
la trasformazione di un impulso nel suo opposto. Qui si sviluppa la grandiosa psicologia di
Nietzsche, quella psicologia disvelante di cui egli fu maestro e dalla quale, unitamente a quella di
Kierkegaard, dipende da allora ogni successiva psicologia di questo tipo (anche se sovente,
distaccandosi dal pensiero complessivo in cui si colloca in Nietzsche, diventa appiattimento, banale
ripetizione, utilizzazione pratica). Una rassegna delle linee di fondo di questa psicologia non può
che ridurre la ricchezza di Nietzsche ai soli concetti più importanti.
Lo schema in cui avviene questa comprensione psicologica è in primo luogo il rapporto
fondamentale in base al quale l’uomo si pone di fronte a se  stesso in quanto si vede, si giudica, si
inganna su se stesso, plasma se stesso; in secondo luogo, l’azione degli istinti e le loro
trasformazioni.
1. Rapportarsi a se stessi. È quasi impossibile scrutare se stessi; sembra inevitabile che noi
vediamo ciò che è fuori di noi meglio di quel che siamo e di ciò che avviene in noi. Nietzsche
definisce « primordiale illusione » la pretesa dell’uomo di sapere ciò che veramente vuole e fa (4,
116 e sgg.). In realtà, l’uomo non può vedere chiaramente se stesso e neppure gli altri: « Si è
sempre di alcuni passi troppo vicino a se stessi; e sempre di alcuni passi troppo lontano dal
prossimo. Cosi accade che si giudichi quest’ultimo troppo in blocco e se stessi troppo in base a tratti
e fatti particolari, occasionali e irrilevanti » (3, 187). Il modo in cui l’uomo vede se stesso rispecchia
solo in minima parte la realtà del suo essere e del suo comportamento. Sono piuttosto gli altri a
suggerirgli ciò che egli crede di vedere in se stesso. Sono « i poeti e gli artisti » che ci danno « gli
schemi » (5, 107 e sgg.).
Pur senza conoscerci, noi procediamo tuttavia continuamente e valutazioni su noi stessi. Queste
avvengono in primo luogo tra i poli del credere in se stessi e del diffidare di se stessi. Ma solo «
pochi uomini in generale hanno fede in se stessi »; e, tra questi, per alcuni è come « un’utile cecità
», mentre « gli altri se la devono prima di tutto conquistare: tutto quello che essi fanno di buono, di
valente, di grande è in primo luogo un argomento contro lo scettico che dimora in essi... Sono i
grandi insoddisfatti di sé » (5, 216); essi cercano cioè di giustificare ogni volta la fede in se stessi
perché seguono norme di vita molto elevate. Ma ciò accade raramente. Generalmente diffusa è
semmai « l’intima diffidenza », che « resta in fondo al cuore di tutti gli uomini posti in condizioni di
dipendenza e di tutte le bestie da armento ». Essa può essere superata soltanto grazie ad attestazioni
che vengano dall’esterno, grazie alla « solare chiarità di un buon nome » e ad altre conferme di tal
sorta (7, 148). Su questa sfiducia in se stessi che contraddistingue la maggior parte degli uomini non
deve trarre in inganno il fatto che talvolta l’uomo si mostri tutt’altro che insicuro e timido, bensì con
un’eccessiva coscienza di sé: infatti, essa « si è ubriacata per non tremare » (3, 46).
La valutazione di se stessi avviene in secondo luogo tra i poli del rispetto di sé e del disprezzo di sé.
Chi disprezza se stesso « in fondo si vergogna della sua esistenza »; si avvelena e cade in uno stato
abituale di animosità (5, 308 e sgg,): chi «non è pago di se stesso, è continuamente pronto a
vendicarsene: noialtri saremo le sue vittime ». Perciò, per la convivenza di tutti, è « necessaria una
sola cosa: che l’uomo raggiunga l’appagamento di sé » (5, 220). In ogni caso, si conserva sempre un
certo rispetto di sé: « Chi disprezza se stesso, continua pur sempre ad apprezzarsi come
disprezzatore » (7, 95). Il vero rispetto di sé è il tratto fondamentale dell’uomo aristocratico (7, 266
e sgg.). A differenza di questa coscienza di sé dell’uomo aristocratico, che è radicata nell’essere,
nella maggior parte degli uomini il rispetto di sé dipende non dalla totalità del loro esserci, ma dalla
loro possibilità: « Ognuno ha la sua giornata buona, in cui trova il suo superiore se stesso »; gli
uomini si comportano diversamente con questo loro se stesso superiore: alcuni « sono spesso i
commedianti di se stessi », molti altri « temono il loro se stesso superiore, perché, quando parla,
esso parla esigentemente » (2, 400). Se infine il rispetto di sé si trasforma in ammirazione di sé,
allora è perduto l’essere-se-stesso: « Dell’uomo più ricco non resta più nulla, se egli ammira se
stesso... Se si guarda dal basso in alto, allora è diventato servitore e adoratore di sé, e non può più
fare altro che ubbidire, cioè imitare se stesso» (11, 297).
L’impossibilità di vedere se stessi, considerata in connessione con gli impulsi dell’autovalutazione,
che vorrebbero avere una conoscenza su di noi, ci fa vivere in continue illusioni su noi stessi.
Queste illusioni velano la nostra propria realtà in vari modi.
a)    Il linguaggio determina lo schema attraverso il quale noi ci guardiamo. Poiché le parole sono
per lo più nomi per indicare degli stati estremi, e « laddove cessa il regno delle parole, cessa anche
il regno dell’esistenza », ne consegue che noi tutti non siamo ciò che « sembriamo essere, secondo
gli stati per i quali soltanto abbiamo coscienza e parole» (4, 115 e sgg.).
b)    Noi cerchiamo inconsciamente i principi che sono adatti al nostro temperamento: «Del nostro
pensare e del nostro giudicare si fa in seguito, cosi sembra, la causa del nostro essere» (2, 392). Noi
ci interpretiamo in modo intellettualistico.
c)    Il successo è fonte di falsificazioni: « Il successo conferisce spesso a un’azione tutto l’onesto
splendore della buona coscienza, un insuccesso getta l’ombra del rimorso anche sull’azione più
pregevole ». Prima di compiere un’azione, « i motivi e le intenzioni sono di rado veramente chiari e
semplici, e a volte persino la memoria sembra turbata dal successo dell’azione » (2, 83).
d)    L'immagine del nostro passato deve esser per noi piacevole: « Si dimenticano molte cose del
proprio passato e le si scaccia di proposito dalla mente... Noi lavoriamo continuamente a questo
inganno di noi stessi » (3, 33).
e)    Noi siamo influenzati da ciò che gli altri pensano di noi: « Ciò che sappiamo di noi stessi e
conserviamo nella memoria non è per la felicità della nostra vita cosi decisivo come si pensa. Un
bel giorno ci piomba addosso quello che altri sanno di noi (o credono di sapere), e allora
riconosciamo che è questa la cosa più potente » (5, 87).
La conseguenza degli autoinganni è che il Sé per il quale viviamo in modo cosciente, non è affatto
il nostro Sé reale: solitamente e nella stragrande maggioranza, gli uomini vivono tutta la loro vita «
solo per il fantasma del loro ego...; in conseguenza di ciò, vivono tutti insieme in una nebbia di
opinioni impersonali e semipersonali, e di arbitrari, quasi poetici apprezzamenti di valore... Questa
nebbia di opinioni e di abitudini si sviluppa e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa
avvolge; risiede in essa l’enorme influsso dei giudizi generali sull’uomo » (4, 99).
Sebbene non veda se stesso e sia irretito dalle sue illusioni su di sé, l’uomo ha potuto tuttavia,
vivendo continuamente in mezzo a giudizi di valore su di sé, plasmare se stesso. Plasmare se stesso
sembra la piu alta possibilità dell’uomo: «Nell’uomo, creatura e creatore sono congiunti» (7, 181).
Il primo passo è il domìnio di sé, e precisamente quello quotidiano: « Per la mancanza di dominio di
sé nelle piccole cose si frantuma la capacità per quelle grandi. È male utilizzato, ed è un pericolo
per quello prossimo, ogni giorno in cui non si sia ricusata almeno una volta qualche piccola cosa »
(3, 357 e sgg.). L’impetuosità vuole sempre sopraffare il dominio di sé; Nietzsche sviluppa i
metodi con cui questa impetuosità deve essere combattuta (4, 103-106). Per il dominio di sé sono
indispensabili la conoscenza di ciò che è accaduto e la pianificazione di ogni azione. Nietzsche
esprime questo concetto con la seguente metafora: « Devi mangiare non solo con la bocca, ma
anche con la testa, affinché la golosità della bocca non ti rovini » (3, 142).
Affinché l’autodominio non comporti il rischio di non potersi più fidare « d’alcun libero colpo d’ala
», e di dover invece « starsene costantemente sulla difensiva, armato contro se stesso », bisogna
conseguire una certa libertà di movimento nell’autodominio stesso: « Infatti, occorre saper perderci
per qualche tempo, se vogliamo imparare qualche cosa da ciò che non siamo noi stessi » (5, 234 e
sgg.). L’autodominio, quando diventa violenza su se stessi, è distruttivo, ed è un’espressione della
crudeltà, della volontà di potenza che fa soffrire se stessi per il piacere di far soffrire (7, 384). Al
contrario, i Greci erano saggi nel disporre alla moderazione: essi consideravano « il troppo umano
come inevitabile e preferivano, invece di ingiuriarlo, dargli una specie di diritto di second’ordine
con l’inquadrarlo negli usi della società e del culto... A ciò che era cattivo e pericoloso... si
accordava uno sfogo moderato, e non si mirava a distruggerlo completamente... A loro basta che il
male si moderi e non colpisca a morte o avveleni interamente ogni cosa » (3, 116 e sgg.).
2. Gli istinti e le loro trasformazioni: l’uomo conosce poco gli istinti dai quali è costantemente
mosso. Egli è in grado di dare un nome solo a quelli più grossolani. Gli rimangono ignoti « il loro
numero e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il giuoco alterno dell’uno con l’altro e soprattutto le
leggi del loro nutrimento ». « Questo nutrimento diventa dunque un’opera del caso; i nostri intimi
eventi d’ogni giorno gettano ora a questo, ora a quell’istinto, una preda che viene subito avidamente
afferrata. » Le nostre esperienze sono « mezzi d’alimentazione, ma sparsi con mano cieca »: ogni
istinto « considererà ogni avvenimento della giornata in vista del modo con cui potrà servirsene ai
suoi fini;... l’istinto, nella sua sete, palpa, per cosi dire, ogni condizione in cui l’uomo si venga a
trovare » (4, 120 e sgg.).
Gli istinti si sviluppano, se possibile, senza trovare resistenza. Tuttavia, essi vengono ostacolati nel
loro soddisfacimento dalla realtà specifica in cui si situano: le situazioni della realtà inducono o
costringono l’uomo a frenare o reprimere i propri istinti. Ma gli istinti non soddisfatti trovano
comunque uno sfogo.
La repressione degli istinti modifica la condizione e l’essenza dell’uomo: « Tutti gli istinti che non
si scaricano all’esterno, si rivolgono all'interno - soltanto in tal modo si sviluppa nell’uomo quella
che più tardi verrà chiamata la sua “anima”. L’intero mondo interiore, originariamente sottile come
fosse teso tra due epidermidi, si è stemperato e dischiuso; ha acquistato profondità, latitudine,
altezza nella misura in cui è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno » (7, 380). Poiché
l’inibizione degli istinti è all’origine sia dell’elevazione dell'anima e delle creazioni dello spirito, sia
delle perversioni e deformazioni, è necessariamente sua caratteristica operare per un verso
affermando e esigendo, per altro verso negando e smascherando.
Rinunciare all’impulso della fede in Dio, all’istinto che crea Dio, al bisogno di questo guardiano ed
amico, è per Nietzsche un esempio dell’effetto positivo di una inibizione degli istinti: « C’era un
lago che si rifiutò un giorno di far defluire le sue acque e che rialzò una diga laddove fino ad allora
trovava deflusso: da quel momento questo lago cresce sempre più d’altezza...; forse l’uomo a partire
da ora crescerà sempre più in alto non avendo più sbocco in un dio » (5, 217). Ecco invece un
esempio di effetto negativo: « Concepire e porre in atto un pensiero di vendetta, significa essere
presi da un violento accesso di febbre, che però passa: ma avere un pensiero di vendetta senza
la forza e il coraggio di porlo in atto, significa... un avvelenamento del corpo e dell’anima » (2, 80).
Ciò che è alla base dello sviluppo dell’anima umana -l’inibizione degli istinti - è al contempo la
causa delle illusioni, degenerazioni, malattie ed avvelenamenti dell’anima stessa, in virtù delle
trasformazioni da parte degli istinti inibiti. In queste osservazioni psicologiche è del tutto
preponderante il lato negativo. Nietzsche smaschera anzitutto i travestimenti del sentimento di
potenza, ma anche quelli del risentimento degli impotenti, i quali rendono omaggio a certi ideali per
procurarsi indirettamente, grazie ad essi, una superiorità. Secondo il loro tipo psicologico generale,
Nietzsche distingue le seguenti, principali trasformazioni.
a)    L'appagamento in ciò che è irreale. Solo la fame « non si appaga di vivande sognate; ma la
maggior parte degli istinti... si appaga proprio di questo ». Non sono solo i nostri sogni ad avere il
significato « di compensare -fino ad un certo grado - quella casuale mancanza di “nutrimenti”
durante il giorno »; anche la vita allo stato di veglia - sebbene non vi sia per essa la stessa libertà di
interpretazione del sogno - è pur sempre piena di significato: « a seconda che questo o quell’istinto
sia in noi precisamente al suo culmine, tale fatto avrà questo o quel significato - e, a seconda del
tipo di uomini che noi siamo, sarà un fatto alquanto diverso ». Le nostre esperienze interiori sono «
molto più quel che noi vi mettiamo dentro che non ciò che vi è in esse »: cioè a dire, «
esperimentare intimamente è inventare » (4, 121-124). A seconda delle specie di « vivande sognate
», si dispiega un variegato mondo di simboli: ciò che le cose e le rappresentazioni sono
simbolicamente per la vita si trasforma in realtà illusoria.
b)    Gli sfoghi delle tensioni in modo inadeguato. Se manca agli istinti il loro naturale oggetto e, piu
ancora, se l’uomo, debole e impotente, è incapace di realizzarsi secondo i propri desideri e di essere
ciò che vorrebbe, allora sorge una tensione che avvelena il suo animo. Essa cerca di scaricarsi in
una realtà tangibile, che funge da surrogato, sia che si tratti di imprecazioni indignate che di azioni
distruttive: « Anche l’anima deve avere le sue determinate cloache, in cui far scolare le sue
immondizie: a ciò servono persone, relazioni, classi, o la patria, o il mondo, o infine... il buon Dio »
(3, 228). Quando questo sfogo si esprime nella continua maldicenza, è ancora innocuo: « I discorsi
maligni degli altri sul nostro conto spesso non sono diretti propriamente contro di noi, ma sono le
manifestazioni di un’irritazione, di un malumore dovuti a tutt’altri motivi » (2, 378). Ben presto
però lo sfogo può diventare piu attivo: « L’uomo, a cui qualcosa riesce male, attribuisce questo
insuccesso piu volentieri alla cattiva volontà di un altro che non al caso...; giacché, delle persone ci
si può vendicare, mentre le ingiurie del caso bisogna ingoiarle» (2, 291). Come
questa trasformazione psicologica, con la sua necessità di sfogo, possa impadronirsi interamente
dell’uomo, si può riscontrare, secondo Nietzsche, nel cristianesimo paolino: « Già Paolo riteneva
che fosse necessario un sacrificio perche venisse tolto il profondo scontento di Dio riguardo al
peccato, e da allora i cristiani non hanno cessato di dar sfogo su una vittima al malumore che
provavano verso se stessi - sia questa il “mondo”, o la “storia”, o la “ragione”, o la gioia, oppure la
pacifica quiete di altri esseri umani. Una qualche cosa buona deve morire (anche se soltanto in
effigie) per il loro peccato! » (4, 89).
Nietzsche fa ricorso a questa psicologia dello sfogo in azioni compensatrici su realtà sostitutive
anche per comprendere il comportamento di taluni criminali: lo stesso criminale, infatti, non
comprende la propria intenzione e la propria azione, oppure le comprende in modo errato, cadendo
in un equivoco (6, 52-54).
La psicologia di Nietzsche concepisce infine il semplice fatto di esprimersi come un modo di
sfogarsi molto essenziale, salutare, e non pericoloso. Il popolo ha ragione di essere grato ai preti, «
davanti ai quali può sfogare impunemente il proprio cuore, può liberarsi di segreti, preoccupazioni e
quanto di peggio vi è in lui (- poiché l’uomo che si confida si libera da se stesso; e chi
ha “confessato” dimentica). Domina qui un grande bisogno ». Tuttavia, questo sollievo nella
confessione non vale per tutti. Infatti, proprio al contrario, alcuni temperamenti arrivano alla loro
piena afflizione solo quando si confidano (3, 35).
c) La sublimazione. Nietzsche definisce sublimazione la trasformazione degli istinti piu grossolani
in altri piu affinati. « Quando un istinto diventa piu intellettuale, riceve un nuovo nome, un nuovo
stimolo ed una nuova valutazione. Esso viene spesso contrapposto all’istinto che si trova a un
gradino piu antico, come sua contraddizione » (12, 149). Per Nietzsche, ad esempio, « non esiste, a
rigor di termini, né un agire altruistico né un contemplare pienamente disinteressato; entrambe le
cose sono soltanto sublimazioni, in cui l’elemento base appare quasi volatilizzato e solo alla piu
sottile osservazione si rivela ancora esistente » (2, 17). Cosi Nietzsche parla di « uomini della
sessualità sublimata » (3, 52). Infatti, l’istinto sessuale è « capace di grande raffinamento da parte
dell’intelletto (filantropia, adorazione di Maria e dei santi...; Platone ritiene che l’amore per la
conoscenza e la filosofia sia un istinto sessuale sublimato). Accanto a esso persiste il suo vecchio
effetto diretto » (12, 149). « Grado e specie di sessualità in un uomo si estendono sino all’ultimo
vertice del suo spirito » (7, 95). Anche quando subentra Io stato estetico, la sensualità
non scompare, ma è soltanto trasfigurata (7, 419).
La sublimazione avviene solo mediante l’inibizione. Durante gli « intermezzi di costrizione e
digiuno », l’istinto impara « a umiliarsi e sottomettersi, ma anche a purificarsi e ad acuirsi... Con ciò
è dato anche un accenno, per spiegare il paradosso che proprio nel periodo più cristiano
dell’Europa... l’istinto sessuale si sia sublimato sino a divenire amore (amour-passion) » (7, 119).
Nietzsche concepisce per lo piti la sublimazione solo come trasformazione dell’istinto, senza
riconoscere esplicitamente che si tratti proprio dell’origine di qualcosa di spirituale. Tuttavia questa
origine è implicitamente presupposta allorché scrive: « L’uomo che ha superato le proprie passioni è
entrato in possesso del terreno piu fertile... Seminare sul terreno delle passioni vinte il seme delle
buone opere spirituali è allora l’urgente compito immediato. Il superamento stesso è solo un mezzo,
non un fine; se non viene considerato così, subito dal grasso suolo divenuto vuoto spunta ogni sorta
di erbaccia e di diavoleria, e tosto laggiù tutto va più confusamente e pazzamente che mai » (3,
231).
d) L'oblio. L’oblio non è solo un fatto automatico della memoria, bensì una condizione della vita per
il successo dell’elaborazione spirituale delle esperienze: « Dimenticare non è una semplice vis
inertiae... ma è piuttosto una facoltà attiva, positiva nel senso piu rigoroso, d’inibizione, cui è da
ascriversi la circostanza che qualsiasi cosa venga da noi vissuta, sperimentata, assunta nella nostra
intimità, entra tanto poco nella nostra coscienza hello stato di digestione (si dovrebbe dire
“assimilazione spirituale”), quanto poco in quello dell’alimentazione (l’assimilazione corporea)...
L’uomo in cui questo apparato di inibizioni subisce danneggiamenti.., non viene "a capo di nulla” »
(7, 343 e sgg,). D’altra parte, sulla memoria agiscono istinti di conservazione: « La memoria ricorda
solo gli effetti degli istinti: essa impara soltanto ciò che si è trasformato in oggetto di un istinto! Ciò
che noi sappiamo è la forma più affievolita della nostra vita istintiva; perciò è cosi impotente contro
gli istinti forti » (11, 281). E viceversa, gli istinti possono, nella loro trasformazione, ostacolare e
falsificare la memoria. « “Io ho fatto questo”, dice la mia memoria. “Io non posso aver fatto
questo”, dice il mio orgoglio, e resta irremovibile. Alla fine — è la memoria ad arrendersi » (7, 94).
Nietzsche non manca di rilevare come in queste trasformazioni giochino un ruolo, dal punto di vista
psicologico, alcuni meccanismi causali, quali l’associazione (2, 30), l’abitudine (3, 214, 107, 253;
12, 148), la stanchezza (3, 331, 356; 5, 238); egli utilizza involontariamente il maggior numero
possibile di rappresentazioni teoriche dei meccanismi inconsci, anche se non le
sviluppa metodicamente.
L’inibizione esercitata sugli istinti non comporta soltanto una loro trasformazione; è anche possibile
tanto il loro dominio, quanto la loro estinzione. Allargando la visione, Nietzsche intravvede la «
civiltà di un popolo nell’uniforme dominio degli istinti di questo popolo » (10, 124). La forza ai
ogni uomo sta nella naturale concentrazione degli istinti, senza deviazioni, verso uno
scopo. Nietzsche intravvede inoltre la possibilità di portare gli istinti a scomparire del tutto, allorché
mostra come le passioni stesse vengano alla fine attenuate mediante la repressione del loro
linguaggio e dei loro gesti (5, 82), o allorché propone di attenuare ed eliminare quei bisogni che la
religione ha soddisfatto e che ora tocca alla filosofia di soddisfare (2, 45).
Gli istinti sono da Nietzsche suddivisi in vari modi: a seconda che derivino dall’eccesso o dalla
mancanza di forza, che siano costanti o solo periodici, che appaghino gli stessi bisogni,
manifestandosi in modo ripetitivo, o che si sviluppino in modo diverso, per cui, mai sazi di alcun
appagamento, il loro appetito aumenta, e dunque essi stessi crescono e si trasformano nella
loro essenza. I nomi degli istinti sono innumerevoli: bisogno di piacere, bisogno di lotta, volontà di
potenza, bisogno agonale, volontà di verità, desiderio di conoscenza, bisogno di quiete, istinto del
gregge, ecc. Nietzsche sa che ogni psicologia degli istinti dipende e rivela al tempo stesso
l’impostazione dello psicologo che la ritiene vera; cosi come lo stesso modo con cui si stabilisce
quali siano gli istinti veri e propri: « dovunque qualcuno veda, cerchi e voglia vedere sempre
null’altro che fame e libidine sessuale, e vanità, come se fossero le vere e uniche molle degli
istinti..., l'amante della conoscenza dovrà prestare un’attenzione sottile e scrupolosa »; poiché, in
questo caso, egli viene edotto su delle situazioni di fatto « da una testa di scienziato... posta sopra un
corpo di scimmia », da un « fine eccezionale intelletto... congiunto ad un’anima volgare -eventualità
tutt’altro che rara specialmente per i nostri medici e fisiologi della morale » (7, 45 e sgg.). In
seguito, lo stesso Nietzsche riconduce tutti gli istinti ad uno solo: la volontà di potenza. In lui si
presentano quindi tanto la schematizzazione di una molteplicità di istinti, quanto la teoria di una
sola forza fondamentale.
Questi cenni sulle forme psicologiche si riferiscono a gran parte del pensiero di Nietzsche, che non
manca di una propria coerenza. Ma ciò in cui la media degli uomini è incline a ritenersi
sufficientemente rappresentata, è per Nietzsche solo una prospettiva, situata su di un piano su cui
egli ha certo lavorato ampiamente, ma che al tempo stesso ha oltrepassato. Comunque, proprio tale
pensiero appartiene alle poche parti del mondo nietzschiano che, mediate dai divulgatori della
psicologia disvelante, sono entrate nella coscienza comune.
L’analisi di se stesso secondo lo schema della psicologia degli istinti è tuttavia in Nietzsche, di fatto,
solo un momento del complessivo atteggiarsi dell’uomo verso se stesso. Senza quell’analisi, l’uomo
resta indubbiamente confuso ed impuro, ma con essa soltanto non diventa libero, anzi retrocede, dal
momento che rinuncia alla conoscenza psicologica di se stesso. Procedendo attraverso di essa, già
guidato da un nuovo obiettivo, in forza di una sollecitazione per cui l’ambito del conoscibile si
trasforma subito in regno della libertà, l’introspezione psicologica in intimo agire, l’uomo giunge a
se stesso. Questi ulteriori passi sono ciò che sta a cuore a Nietzsche. Ma per poterli percorrere
veramente è necessaria la psicologia disvelante, questa « scuola del sospetto » (2, 3); essa educa a
non fidarsi, ma è comunque soltanto un momento di passaggio.
La psicologia degli istinti non concepisce l’uomo come un essere e un divenire. Il suo autentico
essere non consiste solo nel fatto che esso è così come è in questo preciso momento, e dunque nel
fatto che esso debba sottostare soltanto alle regole di una mutevolezza psichica.
L’uomo che crea se stesso (la morale)
Che la mutevolezza dell’uomo non si esaurisca nel cambiamento che è proprio ad ogni esserci,
secondo le leggi naturali, significa la sua « libertà »: egli muta sé tramite se stesso.
Questo mutamento è avvenuto in tutto il corso della storia attraverso la morale. La morale è
l’insieme delle leggi alle quali gli uomini si sono sottoposti nel loro agire e nel loro intimo sentire,
sicché in quel modo soltanto sono divenuti ciò che sono. Il mondo presente si comporta come
se approvasse la morale cristiana. Chi è incerto nella fede, approva comunque « la morale », come
se fosse qualcosa di ovvio. La modernità, che va facendosi atea, ritiene di avere nella morale un
solido terreno su cui restare e vivere secondo le sue leggi.
Nietzsche attacca la morale in tutte le forme che incontra nel suo tempo, non già per togliere agli
uomini le loro catene, ma per costringerli a salire, con un carico più pesante, ad un rango più
elevato. Egli è consapevole del significato della domanda sul valore della morale. In tutte le
fasi della filosofia (anche negli scettici) la morale era considerata come supremo valore (15, 431).
In tutte dominava una certa identità di ciò in cui si credeva (14, 410). «Chi ha lasciato perdere Dio,
si aggrappa con tanta più forza alla fede nella morale » (15, 155). Perciò il problema morale,
allorché viene posto, è in Nietzsche di una tale radicalità, per cui egli pensa che anche ciò che per
millenni era stato ovvio e non problematico vada messo in discussione.
Attaccando e negando ciò che vigeva come legge morale e come libertà nella coscienza dell’uomo,
Nietzsche vuole concepire con nuove esigenze un modo autentico di essere uomo. Ciò che si
chiamava libertà, diventa per lui « creazione ». In luogo del dovere morale, egli vuole la « natura »,
in luogo di ciò che per il cristiano si chiama grazia e redenzione dal peccato, egli vuole la «
innocenza del divenire », in luogo di ciò che per gli uomini è universalmente valido, vuole la
individualità storica.
L'attacco alla morale. L’attacco è ogni volta determinato dal modo in cui Nietzsche vede la morale.
L’oggetto, che egli si prospetta come la morale, è in primo luogo il fatto della molteplicità delle
morali e la possibilità di indagarne l’origine; in secondo luogo, la pretesa dell’assolutezza, che
viene accampata nelle istanze morali.
La molteplicità delle morali e la loro origine. Il fatto che le morali siano molteplici sembra privarle
di ogni loro presunta validità generale. Il carattere particolare di ogni morale significa: nessun
gruppo di giudizi morali va ricondotto all’esistenza della specie uomo, « bensì all’esistenza di
“popoli”, “razze”, e così via, e in verità di popoli che volevano affermarsi contro altri popoli, di ceti
che volevano delimitarsi nettamente rispetto a strati inferiori» (13, 141). Ogni morale determinata è
dunque solo una morale storica particolare, e quindi una possibilità fra le altre, divenuta
storicamente reale.
Tuttavia, secondo Nietzsche questo argomento non deve condurre al rigetto della morale in
assoluto. Nella sua particolarità storica, l’istanza morale potrebbe essere, per determinati uomini in
un determinato momento, un obbligo coattivo e fondato. Però non si dovrebbe necessariamente
rinunciare anche alla validità generale di una legge per l’uomo come uomo, ma solo alla validità
generale di determinati contenuti, mentre l’esigenza della legalità in generale, in quanto conforme
all’origine dell’uomo come uomo, sebbene inesprimibile per quanto riguarda i contenuti ed aperta
in tutta l’estensione delle proprie possibilità, resterebbe pur sempre come tale intatta.
Bisogna distinguere tra l’azione morale ed il giudizio morale sull’azione stessa. Nietzsche respinge
fermamente la verità di questo giudizio. La sua analisi psicologica sull’origine di tale giudizio è
inesauribile. Egli smaschera il piacere del far soffrire, la manifestazione di istinti impotenti di
vendetta, il vizio della segreta autoesaltazione, il piacere dei sentimenti di potenza, la falsità di ogni
indignazione morale, della pateticità morale che pretende di giudicare, ecc. Egli compie la sua
grandiosa « canzonatura di tutti i moralismi di oggi» (14, 405).
Questa analisi psicologica dei giudizi morali abituali, nella sua evidente verità, non ha però affatto
bisogno di colpire la morale come tale. Il giudizio morale - soprattutto degli altri - potrebbe essere
impossibile, qualora pretendesse di essere definitivo, ma la morale stessa potrebbe in tal caso
rimanere, in modo ancor più evidente, una realtà intelligibile.
La morale dominante in Europa è secondo Nietzsche quella di Socrate e quella ebraico-cristiana,
che con lui si identifica. Egli attacca questa morale, scoprendone l’origine. Essa sarebbe la « somma
delle condizioni di conservazione di una povera specie di uomo, mezzo riuscita o del tutto
mal riuscita » (8, 321); egli la chiama morale degli schiavi. Anche gli impotenti hanno la loro
volontà di potenza: si tratta « dell’istinto del gregge contro i forti e gli indipendenti, dell’istinto dei
sofferenti e dei malriusciti contro i felici, dell’istinto dei mediocri contro le eccezioni »; tutti
costoro trovano nella morale il mezzo per dominare, per procurarsi una potenza interiore e poi alla
fine anche esteriore, nonostante la loro impotenza (15, 345). Infatti, quando prevalgono questi
valori morali - che sono in fondo i giudizi di valore degli esseri inferiori e degli atteggiamenti in cui
essi trovano protezione -, il loro proprio esserci acquista un più elevato valore, mentre l'esserci che
è di per sé forte e brillante si svaluta. « Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio quando il
ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori » (7, 317). Ebbene, nella misura in cui i
forti e ben riusciti, che sono sempre la minoranza, accolgono questi giudizi di valore della massa, i
potenti vengono sottomessi a coloro che di per sé sono impotenti.
Per quanto queste argomentazioni relative all’origine delle morali sembrino distruggere in ogni
senso la validità di una morale, Nietzsche sostiene però: « Chi ha compreso le condizioni nelle quali
è nata una valutazione morale, non ne ha ancora sfiorato il valore »; questo « è ancora ignoto, anche
se si è compreso in quali condizioni esso nasce » (13, 131).
In questo modo, tuttavia, non si è ancora stabilito che ci sia una morale senz’altro valida, ma
soltanto che qualcos’altro deve ancora determinare il valore di una morale. Infatti, se « in se stessa
nessuna morale ha valore » (8, 146), e con il concetto di moralità « non si tocca ancora il valore di
un uomo » (16, 294), ne consegue che i giudizi negativi sulla morale sono possibili soltanto
partendo dal presupposto di un valore positivo, che costituisce appunto il criterio in base al quale
quei giudizi vengono espressi. Si tratta dunque di vedere in che senso e con quale scopo Nietzsche
distrugge la morale. Egli dice: per raggiungere una « in sé possibile suprema possanza e
magnificenza del tipo uomo » (7, 294; 16, 305). Ma questa istanza - quando si presenta con tutta la
serietà che si riscontra in Nietzsche - è essa stessa tanto decisa ed assoluta quanto una
qualunque istanza morale. È per questo che un tale attacco alla morale non è piu un attacco alla
morale in generale, bensì ad una determinata morale da parte di un’altra morale.
Per quanto riguarda in particolare la derivazione della morale cristiana dal risentimento, va messo
in evidenza come, da una parte, molti singoli fenomeni che si presentano nel mondo cristiano siano
per questa via comprensibili, e come, d’altra parte, i giudizi di valore di cui si fa abuso
nel risentimento debbano esistere solo in forza di un’altra origine, per poter essere soggetti a queste
deviazioni. Lo stesso Nietzsche - fatto sorprendente -, pur attaccando violentemente la morale
cristiana, si è però arrestato di fronte a Gesti (8, 256 e sgg.) : qui tutto sarebbe autentico, senza
falsità, sarebbe la realtà di una pratica di vita. « In fondo è esistito un solo cristiano, ed è morto sulla
croce » (8, 265); e l’« ironia della storia mondiale » è « che l’umanità sia prostrata in ginocchio
dinanzi all’opposto di ciò che era l’origine, il senso, il diritto del Vangelo » (8, 262).
Nell’attacco di Nietzsche alla morale è dunque presupposto in primo luogo un valore valido al di
sopra di ogni singola morale, è cioè presupposta l'origine della morale propria di Nietzsche, e in
secondo luogo è lasciata aperta la possibilità dell 'origine autentica di una morale, che solo più
tardi è stata falsificata.
L'istanza assoluta della morale. Una morale che accampa in modo assoluto le sue richieste e
dichiara come universalmente valido il proprio contenuto, si presenta a Nietzsche in una forma'
religiosa e filosofica. Dal punto di vista del cristianesimo, la morale è fondata sul comandamento di
Dio: « Il cristianesimo presuppone che l’uomo non sappia, non possa sapere che cosa è bene, che
cosa è male per lui; egli crede in Dio, che è il solo a saperlo. La morale cristiana è un comando; la
sua origine è trascendente: essa è al di là di ogni critica, di ogni diritto alla critica; essa ha verità,
soltanto se la verità è Dio - essa sta in piedi e cade unitamente alla fede in Dio » (8, 120). Dal punto
di vista filosofico, la morale si fonda su se stessa come facoltà della ragione; essa si giustifica non
con la derivazione da qualcos’altro, bensì con la constatazione - che essa stessa fa nel suo intimo
divenire - di avere la propria origine nell’essenza soprasensibile dell’uomo; perciò essa ascolta la
legge non come comandamento di Dio, ma come sua propria istanza, nella quale concorda con se
stessa e con ogni essere razionale; nella morale si manifesta non l'esserci dell’uomo come essere
naturale secondo la sua specie, che è necessariamente tale, bensì la sua origine trascendente.
Nietzsche nega non solo che vi siano delle azioni obiettivamente morali (cosa che nega anche Kant,
per il quale il fatto che un’azione sia giusta testimonia sempre solo la sua legalità, ma non
necessariamente la sua moralità), ma nega anche il senso e la validità delle istanze morali
interiori, che esigono di agire in conformità alla legge (se ciò, ammesso che in qualsivoglia luogo
effettivamente accada, sia davvero moralità, o non si verifichi piuttosto per motivi di utilità, di
simpatia, come mezzo per altri fini, secondo Kant non può mai, di fatto, essere appurato in modo
empirico ed obiettivo). Nietzsche nega inoltre non solo la validità generale dei particolari contenuti
delle istanze morali, bensì la stessa legge della giustificabilità dell’azione in quanto azione morale.
Contro il carattere di comando  assoluto della morale - sia nella sua forma derivata, cioè quella
religiosa, sia nella sua forma in se stessa originaria, cioè quella filosofica -, Nietzsche fa valere le
seguenti argomentazioni.
(1). Estraneità della morale alla realtà. Se la morale è incondizionata, allora le sue istanze sono
assolute, il suo contenuto è da scoprire e da ascoltare come un fatto non già empirico, bensì
intelligibile. Ma Nietzsche afferma che non ci sono fatti morali: la morale è soltanto una
interpretazione di certi fenomeni, piu precisamente una falsa interpretazione (8, 102). Detto
altrimenti: « Non esistono affatto fenomeni morali, ma soltanto una interpretazione morale di
fenomeni » (7, 100). La moralità non ha nulla a che fare con l’« in sé », ma è invece solo opinione
(11, 35). Anch’essa va collocata nel mondo fenomenico (14, 366).
Se la morale è nient’altro che interpretazione, ci deve essere qualcosa da interpretare. Ma cosa sarà
dunque ciò che viene interpretato moralmente? Nietzsche risponde, per esempio, che la morale è un
« linguaggio simbolico delle passioni », e che le passioni, a loro volta, sono un
linguaggio simbolico delle funzioni di tutto quel che è organico (13, 153). Nietzsche si chiede se,
come i sogni e gli altri fenomeni psicologici, « anche i nostri giudizi e le nostre valutazioni morali
siano soltanto immagini e fantasie di un processo fisiologico a noi ignoto » (4, 122 e sgg.), e piu
tardi risponderà che egli si è abituato « a vedere in tutti i giudizi morali una specie grossolana di
linguaggio simbolico, attraverso il quale potrebbero esprimersi certi fatti fisiologici del corpo» (13,
163 e sgg.).
Nietzsche esprime qui sinteticamente e riduttivamente, con formule biologiche, ciò che egli
nell’accezione piu ampia definisce realtà (Realität o Wirklichkeit) o natura. La morale è per lui un
modo di interpretare la realtà, la natura. Nel suo attacco alla morale, egli prosegue affermando che i
giudizi morali trascurano la realtà, ed in tal modo ci portano fuori strada: essi rendono noi stessi
irreali e falsi. La morale « tende ad ingannarci sulla natura, cioè a farci guidare da essa, lasciandoci
intendere che siamo noi a guidarla » (11, 213). Anziché renderci, in modo naturale, dominatori
della natura, la morale, irretendoci con le sue fantasie, ci fa incorrere in una realtà non vista e non
voluta, sicché noi, fino a quando agiremo moralmente, di fatto trascuriamo ciò che è realmente
possibile, e lasciamo che « il caso diventi legge per noi » (11, 310).
Poiché la morale è estranea alla realtà, irretita com’è in un irrealismo radicato nel suo stesso
principio, anche la filosofìa morale per Nietzsche può essere soltanto una fantasmagoria che si
occupa di mere finzioni: « In tutto lo svolgimento della morale non si trova alcuna verità: tutti gli
elementi concettuali... sono finzioni, tutti quelli psicologici... sono falsità, tutte le forme della
logica, che si trascinano in questo regno della menzogna, sono sofismi. Ciò che caratterizza gli
stessi filosofi morali è la completa assenza di pulizia » (15, 455).
In questo attacco di Nietzsche si presuppone, in primo luogo, una possibile conoscenza di ciò in cui
consiste la realtà, e si presuppone anche che la realtà stessa sia tale, per cui io posso comportarmi
con essa semplicemente come con un dato di fatto. Tuttavia, nell’insieme della filosofia di
Nietzsche ogni realtà di fatto è solo interpretazione (cfr. infra), è solo il modo in cui essa è stata
spiegata; non vi è null’altro al di fuori dell'illimitata varietà delle sue interpretazioni. Io ho solo un
modo in cui sono cosciente della realtà, però non conosco la realtà come qualcosa che esiste fuori di
me.
In secondo luogo, Nietzsche presuppone il valore assoluto di questa realtà, o della natura. Ma egli
non può ritenere ciò a sua volta assodato, in quanto per lui ogni valore può essere soltanto il valore
di una realtà come modo della sua interpretazione.
Via via che l’attacco di Nietzsche alla morale, accusata di essere estranea alla realtà, si chiarisce nei
particolari, colpisce con ragione, dal punto di vista psicologico, certi atteggiamenti che si spacciano
per « morali », oppure la discordanza, che sussiste in tutte le azioni umane, tra ciò che si era pensato
e voluto, e ciò che è effettivamente accaduto come conseguenza delle azioni stesse, oppure
quell’irresponsabile modo di agire ciecamente votato al sacrificio, in conformità a determinati
principi, che procura sciagure e si accontenta di rimettere il successo a Dio. L’attacco di Nietzsche,
però, non tocca le radici del senso di incondizionatezza che muove gli uomini nel loro agire.
Pertanto, nel pensiero di Nietzsche bisogna sempre distinguere la verità psicologica, relativa a
singoli fenomeni dell’esserci umano, dalle risposte filosofiche alla domanda sulla verità dell’origine
stessa, verso cui soltanto mira propriamente la domanda, allorché la morale viene criticata a fondo,
nelle sue radici.
(2). La morale come contronatura. Il carattere incondizionato della morale significa che si fa valere
il principio della morale per la morale: essa cioè non si giustifica in forza di qualcos’altro, per cui
essa è, ma misura piuttosto ogni esserci alla stregua di se stessa, per accettarlo o respingerlo. Se
però « la morale per la morale » afferma come ultimo valore se stessa, ciò implica secondo
Nietzsche non solo l’accettazione del suo completo irrealismo, ma anche la svalutazione della realtà
stessa: la realtà non potrebbe esistere, alla stregua della moralità, in alcun luogo, poiché sarebbe da
essa giudicata come assolutamente immorale, dunque contraria ai valori, per cui non dovrebbe
esistere. Proprio come « il bello per il bello » ed « il vero per il vero », anche « il buono per il buono
» è una « forma di malocchio per il reale » <15, 362-363); « giacché di fronte alla
morale (segnatamente quella cristiana, cioè la morale assoluta), la vita deve sempre e
inevitabilmente avere torto, dato che la vita è qualcosa di essenzialmente immorale» (1, 10).
Le distinzioni di valore e le gerarchie di ordine morale, secondo Nietzsche, sono fondate, ma solo in
quanto si riferiscono a ciò che è realmente vivente; esse « rivelano le condizioni di esistenza e di
potenziamento » di ogni singola vita. Però, come rivelazioni di un mondo superiore, che è il solo
modo in cui possono diventare assolute, esse entrano in contrasto con la vita (15, 362-363),
acquistano un carattere distruttivo per la vita. Pretendere che tutto diventi morale « vorrebbe dire
togliere all’esistenza quella grandezza che è il suo carattere, vorrebbe dire castrare l’umanità e
ridurla a misera cineseria» (15, 120).
Vi è però un evidente contrasto in questo attacco di Nietzsche alla morale, che prima è definita «
contronatura » (8, 84), e poi invece « un pezzo di natura» (14, 70). Tutto è natura, anche ciò che
sembra contrapporsi ad essa. La natura è una molteplicità di modi del suo esserci. Per ogni morale
vale la seguente affermazione: « essa è un frutto dal quale riconosco il terreno su cui è cresciuta »
(15, 334). La morale è trasformata in una mera situazione di fatto, sorta dalle opinioni di un
determinato tipo di uomini; essa non è origine, ma conseguenza (15, 382-385), e dunque è essa
stessa un prodotto della natura. In quanto prodotto di un determinato tipo di uomo, la morale deve
quindi essere vista, in ogni sua forma, come un fenomeno della natura. Questo modo di considerare
la morale, prima come contronatura e poi come natura essa stessa, sembra dunque annullarsi.
Poiché Nietzsche vuole rifiutare ogni « assolutezza », egli può farlo solo mediante una nuova
assolutezza. Egli stesso sa che ciò è inevitabile. Quando noi stimiamo qualcosa secondo un giudizio
di valore assoluto, esprimiamo un sentimento morale, e viceversa: ogni sentimento morale esprime
qualcosa di assoluto; non è « in alcun modo possibile considerare come relativo un sentimento
morale; esso è essenzialmente assoluto » (12, 82). Poiché Nietzsche, contro l’assolutezza della
morale, pone egli stesso come assoluto il giudizio di valore sulla « natura », ne consegue che egli fa
dunque ciò che rifiuta: formulare il giudizio di valore assoluto. Il presupposto della « morale
assoluta » - « il mio giudizio di valore è quello definitivo » - è anche quello di Nietzsche (dapprima
ciò avviene in modo involontario ed inconsapevole, ma successivamente egli stesso se ne renderà
conto e lo riconoscerà).
Il doppio circolo. Nell’esposizione precedente, gli attacchi alla morale, che Nietzsche compie con
argomentazioni unilaterali, hanno potuto essere privati del loro penetrante effetto attraverso il
confronto con altre posizioni di Nietzsche. Un modo di pensare diverso, che mette in discussione ed
assume un nuovo senso rispetto a quelle univocità, si riscontra quando Nietzsche fa ricorso a dei
circoli, a dei ragionamenti necessariamente circolari. Così, egli afferma in primo luogo che la stessa
moralità scaturisce dall’immoralità, e in secondo luogo che la stessa critica alla morale scaturisce
dalla morale più avanzata.
(1). La moralità scaturisce dall’immoralità. La morale, pensa Nietzsche, sarebbe sorta fin
dall’inizio da qualcosa di immorale, la volontà di potenza. La morale «è un caso specifico di
immoralità» (15, 486). Ciò si potrebbe osservare psicologicamente nel singolo uomo: «Si diventa
morali - non perché si è morali! La sottomissione alla morale può essere servile o vana, oppure
egoistica, o rassegnata, o ottusamente esaltata, oppure irriflessa...: in sé non è niente di morale » (4,
95); al contrario: « la nostra moralità riposa sullo stesso sostrato di menzogna e simulazione su cui
riposano la nostra cattiveria e il nostro egoismo » (11, 263). Lo stesso si potrebbe vedere
complessivamente anche nella storia: «Tutti i mezzi, con cui l’umanità sino a oggi ha dovuto essere
resa morale, sono stati fondamentalmente immorali ». Ne è un segno « la pia fraus, il
patrimonio ereditario di tutti i filosofi e sacerdoti che “migliorarono” l’umanità. Né Manu, né
Platone, né Confucio, né i maestri giudei e cristiani hanno mai dubitato del loro diritto alla
menzogna ». Dunque: « Per fare della morale si deve avere l’assoluta volontà del contrario » (8,
106-107). « La moralità è rimasta essa stessa in auge cosi a lungo solo mediante l’immoralità » (12,
85).
Anche se i contenuti di queste affermazioni fossero tutti e non solo in gran parte veri, tuttavia questa
argomentazione non convincerebbe ugualmente: infatti, anche in questo caso, si dovrebbe obiettare
che il modo in cui qualcosa sorge e si realizza non decide sul senso e sul valore di ciò che è
divenuto. Ma, dato che non sono prese in considerazione singole relazioni circa il sorgere della
morale, bensì viene affermata tutta la moralità nel suo insieme come già sorta, ne consegue che il
senso della moralità in quanto senso specifico, con una sua propria origine, viene di fatto eliminato
con la riduzione di ogni essere ad un solo modo di essere (la natura, la realtà). Al posto
dell’assolutezza della morale è semmai la natura reale che diventa assoluta.
(2). La critica della morale scaturisce dalla moralità più avanzata. Il radicale rigetto nietzschiano
della morale avviene mantenendo pur sempre un legame con la morale stessa; di ciò Nietzsche è
consapevole, e lo esprime nel seguente circolo: il risultato finale dell’evoluzione morale è che
la veridicità, richiesta moralmente, alla fine mette in discussione la morale, in cui essa si radica; alla
morale viene tolta la fiducia « per moralità ». La morale, in virtù della veridicità da essa stessa
moralmente richiesta, si riduce ad un’apparenza, ed in tal modo non ha più alcun diritto di
condannare l’apparenza (16, 79). Questo «autosuperamento della morale» (7, 53) si verifica dunque
soltanto nell’uomo morale: « La critica della moralità è un grado elevato di moralità» (11, 35). « In
noi giunge al suo compimento... l’autosoppressione della morale » (4, 9). Poiché « il senso stesso
della verità è una delle più alte e potenti efflorescenze del senso morale » (11, 35), con esso la
morale si è « messa al collo il cappio con il quale può essere strangolata, - il suicidio della morale è
la sua ultima istanza morale » (12, 84).
Questi circoli, tuttavia, anziché al suicidio della morale, possono condurre alla sua
autoaffermazione. Infatti, così come nel circolo che riconduceva ciò che è morale ad un caso
specifico della immoralità rimaneva l’immoralità che affermava se stessa, così anche il circolo che
riconduce la distruzione della morale alla moralità può trovare il proprio fondamento in questa
moralità. In entrambi i casi, con la negazione non viene colto il nocciolo, per quanto sia presente
una concreta intuizione sull’origine della morale. Senza questa intuizione, però, i circoli sono circoli
formali, il cui risultato può non essere logico bensì, con una motivazione esistenziale, può essere
tanto la riproposta della morale nella sua autoaffermazione, quanto la sua autonegazione in un
suicidio.
Nella misura in cui Nietzsche, nella sua critica della morale, andando oltre tutti gli aspetti
particolari, giunge ai limiti estremi, gli si presentano le seguenti conseguenze: o ricondurre le sue
considerazioni entro circoli consapevoli, o lasciare che restino inconsapevolmente in opposizioni
contraddittorie.
In un primo momento, Nietzsche considera entrambi i circoli come gli attacchi più efficaci: il
primo, in quanto riconduce la morale stessa all’immoralità; il secondo, in quanto da una più elevata
moralità fa derivare il rigetto della morale. Quando però Nietzsche vede che la realtà (la natura) non
è né morale né immorale, bensì è l’essere che tutto abbraccia, allora giunge alla conclusione di
rigettare il proprio giudizio di condanna della morale: il modo di giudicare morale è un fatto che si
verifica nella natura; se io condanno una cosa singola che è nella natura, allora condanno l’intera
natura, poiché tutto è connesso al tutto; pertanto, se disapprovo questo modo di giudicare, che pure
si verifica, allora faccio ciò che ho appunto rinfacciato al modo di giudicare morale: condanno il
tutto. Devo e posso dire di sì alla natura soltanto se insieme dico di sì anche alla condanna morale,
che appunto ancora contesto (15, 380-381). Non c’è via d’uscita da questo cerchio, nel quale ogni
posizione elimina l’altra.
Se però osserviamo nuovamente le posizioni iniziali, possiamo notare che esse si presentano in
contraddizioni definitive, ciascuna delle quali, nel momento in cui è espressa, trascura l’altra. Così,
ad esempio, possiamo leggere la seguente affermazione: « Non è possibile vivere al di fuori
della morale» (11, 200); ma anche quest’altra, opposta alla precedente: «Si può vivere soltanto con
un modo di pensare assolutamente immorale » (13, 102). Oppure: la morale è «l’unico schema
interpretativo con cui l’uomo sopporta se stesso» (15, 343); e al contrario: «con l’interpretazione
morale il mondo è insopportabile » (16, 262).
Ciò che Nietzsche vuole. Se teniamo presente l’insieme dell’attacco nietzschiano alla morale nel suo
significato fondamentale, che non si manifesta in alcuna singola argomentazione, possiamo
constatare che non si esaurisce negli attacchi ai canoni della religione cristiana ed alla concezione
che essa
NIETZSCHE
ha di certe azioni come peccati, oppure all’etica codificata come filosoficamente valida, oppure
ancora alla morale convenzionale della società. L’attacco, che ha la meglio nei confronti di tutte le
manifestazioni fissate e derivate dalla moralità corrente, si protrae fino a toccare l’origine
stessa della morale in quanto dovere universalmente valido. Solo così comprendiamo Nietzsche, e
in che senso egli sia consapevole dell’immensa portata della sua posizione - egli « spacca in due la
storia dell’umanità »: « Il fulmine della verità ha colpito proprio ciò che prima stava in cima a
tutto: chi comprende che cosa esso abbia distrutto, guardi se gli resta ancora qualcosa fra le mani,,.
Chi scopre la morale scopre anche il non valore di tutti i valori nei quali si crede o si è creduto »
(15, 125). La problematica posta da Nietzsche è straordinaria; ma anche questo suo radicale
mettere in discussione non impedisce nuovi pensieri ed esperienze. Essa non può essere compresa
senza percepire le veritiere istanze positive che vogliono annunciarsi in essa. Con
l’autoconfutazione formale delle proposizioni che attaccano la morale si è ancora molto lontani
dall’aver esaurito il pensiero morale di Nietzsche; in questi formalismi bisogna piuttosto vedere
solo una traccia della profondità del suo vero intento, che dobbiamo ora richiamare nel suo
significato esistenziale.
Ciò che Nietzsche richiede non può avere la caratteristica di stabilire determinati comandi o divieti,
secondo i quali si indirizza la volontà mirante ad un fine. Nietzsche attacca invece più in profondità,
cercando di giungere a spiegare l’esistenza possibile dell’uomo con chiarimenti indiretti sui modi di
realizzazione esistenziale da lui osservati. Questo appello di Nietzsche, nel quale sembra parlare la
sostanza del suo essere, si orienta in quattro direzioni.
1. Contro ciò che è generale, in favore dell’individuo. La morale combattuta da Nietzsche era
fondata su una sostanza comune a tutti gli uomini, su Dio o sulla ragione. A ciò Nietzsche
contrappone: « La mia morale sarebbe quella di sottrarre sempre più all’uomo il suo carattere
generale e di specificarlo..., di renderlo più incomprensibile agli altri » (11, 238). Se per Nietzsche è
tanto essenziale « che non ci sia una morale che agisce solo moralmente» (11, 238), è perché egli
vuole la preminenza dell’individuo rispetto a ciò che è moralmente e razionalmente generale. Ma
egli non vuole dar via libera al singolo individuo come tale per qualsivoglia suo capriccio. Al
contrario, Nietzsche si spinge nel profondo della storicità esistenziale, per far percepire la legge
nella forma in cui essa può essere ascoltata nella concreta situazione dell’esistenza. Con la parola «
individuo » Nietzsche intende allora non la persona privata isolata, bensì il singolo che è anche
consapevole di sé: « Noi siamo più che individuo: siamo tutta la catena, con in più i compiti di tutto
il futuro della catena » (16, 151); di questo singolo nell’esistenza possibile si può dire: «Ogni
individuo è il tentativo di raggiungere una specie superiore all’uomo » (11, 238).
Tuttavia, le osservazioni di Nietzsche sono piene di digressioni individualistiche che, prese in sé,
isolatamente, perderebbero il loro significato esistenziale.
2. Innocenza del divenire. Dai suoi attacchi alla morale, Nietzsche trae questa conseguenza: se è
vero che noi, in quanto crediamo alla morale, condanniamo la vita (15, 147), allora dobbiamo
«distruggere la morale per liberare la vita» (15, 392), «osare di essere immorali come la natura »
(15, 228). Se l’uomo, nelle sue piu alte e nobili energie, è interamente natura (9, 273), allora si tratta
di ritradurre l’uomo nella natura e nella sua verità (11, 73). Nietzsche parla di questa sua
esortazione come del suo « attentato a due millenni di contronatura e deturpamento dell’uomo
» (15, 65).
Se però tutto è natura, se anche le morali sono il prodotto di certe specie di natura, allora tutte le
esortazioni sono prive di senso. Poiché tutto ciò che è, è natura, e tutto ciò che si presenta non può
esser altro che natura, dunque esso non potrà mai essere assoggettato ad alcuna pretesa che voglia
fare di esso stesso qualcosa di piu che natura, né ad alcun’altra che ripudi qualcosa come
contronatura, per ricondurlo alla natura.
Di fatto Nietzsche sviluppa quest’ultima conseguenza, in cui egli pretende di non pretendere e
revoca ogni sua pretesa. Il ritorno ad una completa mancanza di pregiudizi, grande liberazione per
l’insieme del comportamento dell’uomo, viene raggiunto soltanto qui: « La contrapposizione viene
allontanata dalle cose, l’omogeneità di tutto l’accadere è salvata » (15, 368). Nietzsche non ha piu
bisogno di escludere nulla, egli vuole unire ciò che è contrapposto. Questa liberazione fa si che egli
non voglia distruggere ciò che attacca. Mentre il bisogno di una sola morale diverrebbe la tirannia
di quella specie di uomini, cui quella morale appartiene, su tutte le altre specie (15, 371), Nietzsche
riconosce: «Ho dichiarato guerra all’anemico ideale cristiano..., non nell’intento di distruggerlo...
Il perdurare dell’ideale cristiano è una delle cose piu desiderabili che ci siano... Così noi immoralisti
abbiamo bisogno della potenza della morale: il nostro istinto di conservazione vuole che i nostri
avversari rimangano in forze» (15, 403-404).
In questo modo Nietzsche perviene alla visione - che oltrepassa ogni morale con le sue distinzioni
di buono e malvagio, o buono e cattivo - di ciò che egli chiama l’« innocenza del divenire ».
Dove dominano lo sdegno e la tentazione di trovare colpevoli, e si cercano sempre delle
responsabilità, « l’esistenza viene privata della propria innocenza » (16, 198-201). Non abbiamo
bisogno di incolpare altri -né Dio, né la società, né i genitori e gli antenati -, non abbiamo
bisogno di soggiacere al nostro istinto di vendetta, al bisogno di trasformare in capro espiatorio tutto
ciò che è indesiderato, e ad altri impulsi di questo genere, ma dobbiamo invece avere lo sguardo
assolutamente affermativo che accoglie tutto, anche ciò che per un momento era stato respinto,
nell’insieme dell’esserci.
Ogni volta che ci attribuiamo una colpa, noi stessi ci sottomettiamo alla morale restrittiva.
Nietzsche vuole la consapevolezza della mancanza di colpa. Che senso ha lo sforzo di dimostrare in
tutti i modi la completa innocenza del divenire? « Non era per procurare a me stesso il sentimento
dell’assoluta irresponsabilità - per porre me stesso al di fuori di ogni lode e biasimo,
indipendentemente da ogni allora e ora, per correre dietro, nella mia maniera, al mio fine? » (14,
309): il suggello della raggiunta libertà e « non vergognarsi più di se stessi » (5, 205). Solo quando
si è acquisita la consapevolezza dell'innocenza del divenire, si aprono le più alte possibilità: « Solo
l’innocenza del divenire ci dà il più grande coraggio e la più grande libertà » (16, 222).
Tuttavia, allorquando vuole superare ogni contrasto, vedere la natura come natura ed ogni cosa
come un modo di essere della natura, e comprendere l’innocenza del divenire, Nietzsche deve
riconoscere che da una mera osservazione della natura nulla consegue, nessuna esigenza, nessuno
stimolo. Anche di ciò egli è ben consapevole: « Dalla conoscenza della natura non possiamo trarre
nessuno stimolo » (11, 200). Un altro mondo, al di là del bene e del male, preso come tale, sarebbe
di fatto un aldilà altrettanto vuoto di qualsiasi aldilà metafisico. Si tratta per l’uomo di volere
qualcosa, di seguire un cammino di realizzazione che lo munisca di una guida. Questo cammino
non può certo limitarsi al divenire come divenire, ma sta pur sempre all'interno di esso in quanto
modo di agire reale, nel quale un uomo si mostra di volta in volta per quel che è e per quel che
vuole, e nel quale egli viene a trovarsi nuovamente in difficoltà davanti ai problemi, ad esigenze
contrapposte, e potrà seguire la legge oppure sottrarsi ad essa.
Il filosofare di Nietzsche non intende far sprofondare l’uomo riflessivo nell’innocenza priva di
contrasti del divenire. Piuttosto, l’uomo deve poter udire, dall’origine del possibile, ciò che
propriamente e storicamente è questa sua situazione. Nella misura in cui il pensiero di Nietzsche,
attraverso antitesi che si elidono, vuole portarci a questa chiarezza di ciò che può essere ascoltato,
dove cessa la legge concreta e determinata, davanti alla legge che tutto comprende, che si manifesta
solo storicamente, deve perdere esso stesso ogni determinatezza. Perciò Nietzsche non si
accontenta di affermazioni definitive, come: « L’innocenza del divenire è ristabilita »
(8, 101); oppure: « Tutto è necessità - tutto è innocenza » (2, 109); egli vuole invece cogliere ciò
che in questa estrema libertà è il fattore produttivo. Egli lo chiama « creare ».
3. Creare. Creare è la suprema istanza, il vero e proprio essere, il fondamento di ogni fare
essenziale.
Creare è valutare: « Senza il valutare, la noce dell’esistenza sarebbe vuota » (6, 86). « Mutamento
dei valori - è mutamento dei creatori » (6, 86).
« Che cosa sia buono, che cosa cattivo, non lo sa nessuno: - a meno che non sia uno che crea! -
Costui però è colui che crea la meta dell’uomo e che dà alla terra il suo senso e il suo futuro: solo
costui fa sì, creando, che qualcosa sia buono o cattivo » (6, 288).
Creare è credere. Agli uomini improduttivi manca la fede. « Ma colui che per necessità creava, ebbe
sempre i suoi sogni vaticinanti e, nelle stelle, i suoi segni - e credette alla fede! » (6, 176).
Creare è amare: « Ogni grande amore... vuol ancora - creare ciò che ama! » (6, 130).
Nel creare è presente l’annientare : « Solo come creatori noi possiamo annientare » (5, 94). Tutti i
creatori sono crudeli (6, 130). « “Io offro me stesso al mio amore, e ai prossimi come me!” - così
sentono di parlare coloro che creano » (6, 130). La volontà di creare è « volontà di divenire, di
crescere, di plasmare...: ma nel creare è compreso il distruggere» (16, 273). Alla bontà suprema, che
è quella creatrice, « inerisce il massimo male » (6, 169).
« Ogni creare è comunicare » (12, 250). I momenti piu alti del creare sono quelli della piu alta
capacità di comunicazione e comprensione. « Creare: ciò significa porre qualcosa fuori di noi,
rendere noi piu vuoti, più poveri e più inclini ad amare » (12, 252).
Tutti i momenti del creare si raccolgono in una unità'. « Colui che conosce, crea, ama è uno solo»
(12, 250). L’unità è «la grande sintesi di colui che crea, ama, distrugge » (12, 412), ovvero, come
pure si legge, « l’unità nella potenza di colui che crea, ama, conosce» (14, 276).
Condizione del creare è il grande dolore e il non sapere. « Creare - questa è la grande redenzione
dalla sofferenza... Ma affinché vi sia colui che crea è necessaria molta sofferenza » (6, 125). «
Guardare attraverso l’effimera rete e l’ultimo velo - ciò sarebbe la grande stanchezza e la fine di
tutti coloro che creano» (12, 251).
Con il creare è raggiunto il vero essere. « Solo nel creare vi è libertà » (12, 251). «L’unica felicità
sta nel creare» (12, 361). «Come creatore tu vivi oltre te stesso - cessi di essere il contemporaneo di
te stesso » (12, 252).
L’alto valore di colui che crea diventa per Nietzsche assoluto: « Anche il più modesto creare vale di
più che parlare di ciò che è creato » (10, 370). « Non nel conoscere, bensì nel creare sta la nostra
salvezza » (10, 146). « E solo per creare voi dovete imparare» (6, 301): «Riguardo ad un
argomento, anzi, non si dovrebbe sapere più di quanto basta per creare. Oltre a ciò, l’unico mezzo
per conoscere veramente qualcosa, consiste nel tentare di farlo» (10, 410).
Ma la creazione è come invisibile: « Il popolo capisce poco ciò che è grande, cioè: la creazione. Ma
esso ha comprensione per tutti gli attori e i commedianti delle grandi cause » (6, 73).
Cosa sia creare, rimane necessariamente indeterminato. È uno di quei signa del filosofare
nietzschiano che non sono divenuti concetto (come la vita, la volontà di potenza, l’eterno ritorno), e
sui quali si arena il nostro pensiero, sia che negativamente si perda nel vuoto o cada nell’equivoco
di una semplificazione, sia che positivamente si traduca in un effettivo stimolo. In ogni filosofare si
presentano tali cose ultime, non pervenute al concetto, che vengono individuate con una parola, ma
non vengono pienamente comprese. Nietzsche tratta il creare sempre come cosa ovvia, quasi mai lo
affronta direttamente come problema; non spiega in che cosa propriamente consista. Il creare non è
in alcun modo un possibile fine della volontà. Ma le formule hanno la forza dell’appello, ancora
indeterminato, a ricordare e a capire che cosa esso veramente sia.
Creare è ciò che è assolutamente originario, ma non è un nuovo inizio, quasi che prima non ci fosse
stato nulla. Se, dopo l'annientamento della morale, creare è la nuova morale, allora è proprio il
creatore colui che
nell’annientamento conserva. Perciò l’atteggiamento che pervade il pensiero di Nietzsche è che
egli, nel negare la morale, non vuole affatto annullare la moralità.
Nietzsche non solo esita: noi vogliamo « guardarci dallo scambiare, precipitosamente e per forza, la
condizione della morale, cui siamo abituati, con un nuovo giudizio di valore delle cose » (4, 342);
ma chiede anche esplicitamente di preservare la moralità tramandata: « Noi vogliamo essere,,. gli
eredi della moralità, dopo aver distrutto la morale » (12, 85). Noi abbiamo, « quale alta conquista
dell’umanità finora esistita, il senso morale» (11, 35). «Non sottovalutiamo ciò che due millenni di
morale hanno inculcato nel nostro spirito! » (15, 340). « Una specie di ricchezza ereditaria di
moralità viene forse presupposta » (15, 451), proprio in colui che intraprende il cammino della
nuova creazione. « Vogliamo essere gli eredi di tutta la moralità passata: e non cominciare di nuovo.
Tutto il nostro agire non è altro che moralità che si rivolge contro la sua forma passata » (13, 125).
Secondo Nietzsche, la possibilità del creare, proprio per coloro che verranno, risiede in fondo nella
lotta contro la millenaria oppressione cristiana; in forza della morale cristiana portata al suo limite
estremo, questa lotta « ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito...: con un arco teso a
tal punto si può ormai prendere a bersaglio le mete più lontane». In verità, « già due volte è stato
fatto il tentativo in grande stile di allentare l’arco, la prima con il gesuitismo, la seconda con
l'illuminismo democratico » (7, 5). Ma Nietzsche, convinto di aver teso completamente il proprio
arco, vuole mantenere questa tensione, e accrescerla nel mondo, in quanto origine di una creazione
che supera i limiti di tutto ciò che è esistito finora. Ciò che, nella critica della morale, creando
distrugge, deve pure, poiché non è la fine di tutte le cose, affermarsi in modo nuovo come morale
creatrice.
Quanto alla sua persona, Nietzsche sa di vivere di « eredità morale », di poter trattare la morale
come illusione, solo dopo che per lui la morale « è diventata essa stessa istinto ed ineluttabilità » (a
Fuchs, 29. 7. 88). La morale che lo domina e in virtù della quale egli rigetta la morale, Nietzsche
non la trova invero in una coscienza atemporale, bensì in un atteggiamento convinto, originale,
storicamente dato. Egli si sente, nel suo immoralismo, « ancora imparentato con la millenaria onestà
e religiosità tedesca » (4, 9). Così come egli è, con questa sua natura, non potrebbe egli stesso
andare incontro a tutte le conseguenze possibili della sua dottrina: « Si può ben parlare di ogni
genere di immoralità: ma sopportarla! Per esempio, io non sopporterei di mancare di parola o
addirittura di uccidere: una lunga o breve malattia e la rovina sarebbero la mia sorte! » (12, 224).
4. L’uomo che crea se stesso. Nietzsche è convinto che l’uomo sia non solo un essere mutevole, ma
anche un essere che produce se stesso, e che dunque egli sia libero. La critica di Nietzsche alla
morale si propone appunto di rendere nuovamente possibile questo autentico essere libero. Ma esso
ha un suo preciso significato. La libertà di produrre se stesso non significa null'altro che creare. Che
l’uomo, in quanto creatore, sia il produttore di se stesso, si presenta in Nietzsche in tre diverse
formulazioni.
In primo luogo, poiché l’uomo è l’essere ohe valuta, misura, valorizza, e quindi crea, non vi sono
valori assoluti, che esistano come una entità in sé, e tali, dunque, che debbano soltanto essere
scoperti; i valori sono invece la forma in cui l’uomo concepisce nella realtà storica ciò che sono
le condizioni non solo del suo esserci, ma anche del suo essere-se-stesso in quel particolare
momento storico. Essi non sono mai definitivi, ma devono invece essere creati ogni volta. Da ciò
consegue per Nietzsche, nel momento storico mondiale in cui vive, il compito della «
trasvalutazione di tutti i valori ».
In secondo luogo, il mutamento si compie nel medium del rapporto fondamentale per cui l’uomo si
pone di fronte a se stesso, vedendosi, valutandosi, ingannandosi su se stesso, plasmando se stesso.
Nel far questo, succede non solo ciò che può essere analizzato psicologicamente, ma si verifica
anche ciò che per la trattazione psicologica è un mistero inaccessibile, e che per l’essere-se-stesso è
l’effettiva certezza della sua presenza; ma in modo tale che ciò che io stesso propriamente sono, mi
si presenta al contempo come se io mi fossi donato a me stesso. Perciò Nietzsche osserva che, al di
là di ogni azione psicologicamente analizzabile dell’uomo su se stesso, è incomprensibile
quell’autentica profondità che rende possibile un ordine interno senza repressione, un dominio di se
stessi senza violenza su se stessi. Allorché si manifestano gli impulsi primari, solo se trascendo ogni
realtà psicologica, io conferisco significato e forma a quella stessa realtà. Non si tratta in alcun
modo di una dimensione che si possa stabilire psicologicamente, di una via di mezzo tra estremi che
si possa comprendere; si tratta invece di un qualcosa che trascende l’ambito psicologico (Nietzsche
usa a tal proposito i termini misura e equilibrio). Ma esso è ben noto, intimamente, all’essere-se-
stesso, al di là di ogni possibilità di conoscenza psicologica: « Di due cose assai alte - misura ed
equilibrio - è meglio non parlare mai. Solo pochi ne conoscono le forze e i segni dai misteriosi
sentieri di esperienze e rivolgimenti interiori: essi venerano in ciò qualcosa di divino, e rifuggono
dal parlarne a voce alta » (3, 129).
In terzo luogo, il cambiamento determinato dagli impulsi di valutazione si realizza nel medium del
nostro atteggiamento verso noi stessi solo grazie alla capacità di movimento nella nostra propria
essenza, che non sussiste come essere, ma ha invece il suo essere solo nel divenire, mediante il
quale essa perviene a se stessa. Questa è per Nietzsche, al di là di tutte le trasformazioni
psicologicamente visibili e di tutti i processi di crescita e sviluppo biologicamente riconoscibili, la
manifestazione del prodursi di ciò che io già sono nel senso della possibilità esistenziale. Come
creatore, l’uomo si converte a nuove valutazioni, ed in tal modo trasforma se stesso in ciò che egli
effettivamente è. Nietzsche fa propria la richiesta di Pindaro: diventa ciò che sei!
Il rigore del pensiero di Nietzsche stronca ogni forma di pateticità morale. Questo pensiero non può
accontentarsi o addirittura compiacersi di una frase, un’istanza, una legge, un contenuto. Il suo
movimento è il modo di procedere indiretto dell’esigenza di indagare se stessi seriamente, fino ad
una profondità che, con ogni deduzione di tegole o principi fissi, verrebbe a scomparire.
Una volta però che si sia rinunciato alla morale come morale generale, che si fa valere secondo una
assolutezza stabilita razionalmente, non c’è via di ritorno. C’è il pericolo incombente di sprofondare
nella dimensione sconfinata delle possibilità; la scomparsa dell’opposizione a leggi morali rigide
può portare tanto all’arbitrio e alla casualità, quanto alla vera possibilità originaria nella sua
irripetibile unicità storica.
La contraddittorietà e i circoli del movimento del pensiero nietzschiano sono alla fine soltanto il
mezzo per giungere indirettamente a toccare ciò che sta al di là della forma, della legge e
dell’esprimibilità. Al limite, nulla può essere e tutto deve essere. Questo pensiero finisce sempre e
necessariamente con accenni indefiniti ad un fondamento, da cui il mio essere verrà verso di me:
sono « le vie misteriose dei rivolgimenti interiori »; è la « fede in noi stessi »; è il « creare »; è la
vita autentica, in quanto leggerezza del « danzare ». Ma tutte le formule, legate dalla fede in
un essere che non semplicemente è, bensì diviene, rimangono necessariamente ambigue e
contrastanti. Con riferimento a noi stessi nel nostro fondamento, Nietzsche afferma: « La fiducia in
noi stessi è il vincolo più forte e la massima sferzata - e l’ala piu forte » (15, 255).
Creare come libertà senza trascendenza. Bisogna spiegare ulteriormente in che modo in Nietzsche
il creare prenda il posto della libertà, ovvero come nel creare vi sia la libertà. La libertà, nel suo
senso filosofico-esistenziale, sia cristiano che kantiano, è in rapporto alla trascendenza; essa è la
possibilità di un essere finito, ha il suo limite davanti alla trascendenza (e ha la sua origine
necessaria e inintelligibile in quel limite, si chiami essa grazia o il donarsi dell’uomo a se stesso);
mediante essa si decide cosa ha senso eterno, vale a dire essa è storicamente unità di temporalità ed
eternità, in quanto è una decisione, che è essa stessa a sua volta solo una manifestazione dell’essere
eterno.
Nietzsche rifiuta questa libertà. Egli si riconosce in Spinoza, poiché questi negherebbe la libertà del
volere, l’ordine morale del mondo ed il male (a Overbeck, 30. 7. 80). La libertà che Nietzsche
riconosce ed afferma consiste nell’avere il proprio fondamento in se stessi e nel vivere in
modo autosufficiente, senza trascendenza. Questa libertà è negativa e positiva. Negativa è la via
della libertà allorché essa rigetta, spezza, nega ciò che era e valeva: « Tagliarsi fuori dal proprio
passato (patria, fede, genitori, compagni); - avere rapporti con i reprobi di tutti i tipi (nella storia e
nella società); rovesciare ciò che è più venerato, affermare ciò che è più proibito... » (13, 41).
Positivo è far nascere la libertà dal carattere del « creare ». Il positivo non può accadere senza il
negativo, poiché il positivo è conquistato solo sulla via che passa per le negazioni. La dialettica del
primo discorso di Zarathustra mostra questa via: dal servire al « creare » attraverso il rigetto del
servire (6, 33-36). Per contro, il negativo che si svincolasse dal positivo e restasse solo negativo,
sarebbe libertà non autentica, poiché vuota. Ogni negazione è giustificata solo dalla posizione
creativa, della quale è conseguenza o condizione, e di cui è comunque uno stadio. In sé, la
negazione è peggiore della schiavitù della tradizione storica. Perciò Zarathustra, contrariamente a
tutti i liberatori che vogliono togliere all’uomo le sue catene per amore della libertà in quanto
libertà, domanda: « Libero per che cosa? »; il « libero da che cosa? » non gli importa, ed egli
sentenzia: « Vi sono molti che hanno gettato via ciò che ancora valevano, quando gettarono via il
loro assoggettamento » (6, 92).
Poiché la libertà negativa è del tutto insufficiente, si arriva al nodo per cui è la libertà positiva,
creativa, quella da cui sorge la negazione. Se il vero motivo della negazione dei vincoli esistenti - e
propriamente non già il motivo discorsivo, bensì quello esistenziale - non fosse il creare positivo,
allora bisognerebbe preoccuparsi: « I tuoi cani furiosi vogliono essere lasciati liberi » (6, 61). Però,
anche il semplice dominio degli impulsi sfrenati, a sua volta, non basta, se questo dominio non
deriva dal contenuto positivamente produttivo del creare, bensì dalla negazione, in sé ancora vuota,
dell’impulsivo esserci: «Tu hai superato te stesso: ma perché ti presenti soltanto come colui che è
superato? Io voglio vedere il vincitore... » (12, 283). Quest’ultimo è colui che crea.
In nessun modo, dunque, l’idea nietzschiana della libertà senza trascendenza vuole essere un
semplice ritorno alla vita, ma vuole anzi salire alla vita propriamente creativa. Come la negazione
della morale non significa l’annullamento di ogni moralità, bensì il concepimento di qualcosa di
più della morale, così l’unico significato della libertà per Nietzsche è di fare progredire l’uomo.
L’idea nietzschiana della libertà senza Dio sembra invero portare alla radicale mancanza di
obblighi: rimarrebbe la vita come vita, quale ora semplicemente è, e un lasciar scorrere la vita,
come ora semplicemente scorre. Ma in questo modo l’idea di Nietzsche si trasforma nel suo
contrario. Il compito di tale idea è inaudito: ogni peso viene posto sul singolo. Viene richiesta la via
nuova, e pericolosa, perché incerta, dell’individuo non ancora inserito in una comunità
gerarchicamente ordinata. L’individuo deve impegnare se stesso a partire dalla sua propria origine.
Nietzsche richiede all’uomo che rinuncia alla morale un più alto e implacabile obbligo, che deve
porre a se stesso. La morale è in ogni caso divenuta irreale, è ormai solo un’ingannevole apparenza.
Nietzsche annuncia minaccioso: « Se siete troppo deboli per darvi voi stessi le vostre leggi, allora
dovrà essere un tiranno a porre su di voi un giogo e a dire: “Ubbidite!”, "Stringete i denti e
ubbidite!” - e tutto il bene e il male dovrà affogare nell’ubbidire a lui » (12, 274).
Questo significato della sua dottrina trova una precisa conferma: in un momento in cui si delineò
definitivamente la sua tarda vita di solitudine, fu per lui insopportabile constatare che il suo «
immoralismo » venisse confuso con qualcosa di « meno della morale », proprio da parte di una
persona con cui egli credeva di aver condiviso i principi della propria filosofia basata sul creare, al
di là della morale: « In Lei - egli scrisse — vi è quella tendenza ad un sacro egoismo che è tendenza
all’ubbidienza verso ciò che vi è di più alto. Lei l’ha scambiata, certamente a causa di una qualche
maledizione, per il suo opposto, l’egoismo e l’istinto predatore del felino, che vuole soltanto
vivere... ». Ma il senso di questa mera vita è « un sentimento di vita nel nulla... che è quanto più mi
ripugna nell’uomo » (schizzo di lettera a Lou, 11. 82). Nietzsche esprime ancor più
brevemente questo contrasto: « Lei stessa mi disse di non avere una morale - ed io pensai che, come
me, ne avesse una più rigorosa di chiunque altro » (schizzo di lettera a Ree, 1882). L’alta pretesa di
Nietzsche, che nessuno è in grado di soddisfare, è che la morale non va intesa come un dovere
esprimibile in precetti, che essa non è da adempiere agendo secondo una determinata legge;
l’espressione di questa nuova moralità vuole evidentemente essere il contrario della mera vita
amorale.
Nietzsche ci indica però soltanto la forma, ma non il contenuto della nuova morale, più alta, ancora
del tutto indeterminata - cioè « quella di colui che crea» (12, 410). Questa nuova «morale» dovrà
essere prodotta dalla creativa trasvalutazione di tutti i valori: « Chi crea il fine che sta al di sopra
dell’umanità ed anche al di sopra dell’individuo? ». La via non può essere quella della morale fin
qui esistita, che voleva solo « conservare »; ora che il fine per tutti non esiste, è necessaria « una
morale sperimentatrice, che proceda per tentativi: darsi un fine» (15, 337). Il suo senso è la «
sostituzione della morale con la volontà del nostro fine e quindi dei mezzi al riguardo» (16, 295). È
la sostanza del futuro, che deve diventare libero: « Sarete chiamati i distruttori della morale: ma voi
siete solo gli scopritori di voi stessi » (12, 266). Ciascuno viene affidato a se stesso. Qualcosa di
nuovo ed indipendente deve svilupparsi: «Dobbiamo liberarci dalla morale per poter vivere
moralmente» (13, 124); oppure: « Ho dovuto abolire la morale per far valere la mia volontà morale
» (13, 176).
Nietzsche propone la grandiosa aspirazione ad una origine più profonda e non ancora raggiunta, nel
senso che essa può essere conseguita soltanto senza Dio. « Dominare - e non essere più schiavo di
un Dio - è rimasto questo mezzo per nobilitare l’uomo » (12, 282).
Allorché Nietzsche vuole indicare, definire, spiegare l’origine creativa senza trascendenza, gli
succede sempre, nonostante la sua aspirazione a qualcosa di più del mero vivere, di trovarsi tra le
mani improvvisamente nient’altro che la semplice natura, nel senso di ciò che è
biologicamente conoscibile, oppure di ritrovarsi con le corrispondenti mere realtà psicologiche o
sociologiche. La nuova morale deve essere la morale « naturale »; ed essa, nonostante tutti i pensieri
contraddittori che si presentano a tal proposito, viene affermata già in questa proposizione: « Ogni
naturalismo nella morale, vale a dire ogni morale sana è dominata da un istinto della vita » (8, 88).
Come Nietzsche, in queste sue formulazioni, dall’appello all’origine esistenziale, cada
involontariamente nella mera affermazione di una oggettività naturale - dunque di un particolare ed
analizzabile esserci nel mondo -, può esser chiaramente rilevato, ad esempio, nella richiesta: «
Diventa ciò che sci! ». In apparente sintonia con questa frase, ora però semplicemente constatando,
anziché fare appello all’essenza di questo essere che diviene, Nietzsche può dire: « Si diventa
persone rispettabili perché si è persone rispettabili, cioè perché si è nati capitalisti dei buoni istinti e
di situazioni favorevoli... Oggi non riusciamo piu a pensare la degenerazione morale separata da
quella fisiologica » (15, 383). Ora non si può negare che, nell’esserci, il dato « fisiologico »
(causale), cosi come quello psicologico e quello sociologico, siano inseparabili dall’esistenza;
ciò che conosciamo di noi stessi con la ricerca ci è al contempo cosi intrinseco che, senza di esso,
noi non siamo affatto. Ma, inseparabile da questo esserci, quale noi siamo e ci conosciamo, che può
essere analizzato, c’è per converso anche l’altro dato: l’origine dell’uomo stesso, che trascende ogni
possibilità di essere esaminata a fondo. Soltanto la chiarezza della distinzione operata dal
pensiero elimina l’ambivalenza di un essere, che fa sembrare non solo come connesse, ma come
identiche, la possibilità esistenziale e la realtà fisiologica e psicologica che può essere analizzata:
l’essere che io « devo » diventare può in primo luogo significare l’essere-cosi-come-si-è (con la
conseguenza del rifiuto di sé, a causa della sconsolata, segreta riflessione: io sono così come sono);
io « devo » diventare, allora, propriamente non ha piu alcun senso, in quanto vi è solo ineluttabile
necessità. In secondo luogo, però, l’essere che io devo diventare significa anche l'essere che
abbraccia ogni possibilità: possibilità che so non esser mai qualcosa di stabile e determinabile, e
della quale nessun altro può sapere; essa si mantiene aperta e mostra in modo sempre nuovo ciò che
io sono (mentre il rifiuto di sé porta soltanto alla sempre ripetuta conferma della propria inferiorità o
di una perfezione che si suppone di aver raggiunto). Lo stesso Nietzsche nega sul piano
dell’oggettività psicologica la « immutabilità del carattere » e condanna la « fede che i piu hanno in
se stessi di essere già realizzati compiutamente ». Qui « siamo liberi » di scegliere tra possibilità
diverse (4, 366). Ma questa erigine, a partire dalla quale viene deciso « ciò che per noi è libero
», questo essere che non è constatabile in senso caratterologicamente oggettivo, ma che noi stessi
propriamente siamo, viene individuato nell’istanza: diventa ciò che sei! Questa istanza, che
verrebbe ad essere senza senso qualora con essa si intendesse soltanto un innato essere-cosi, come
dato di fatto psicologico, ha una sua seria « pericolosità » nel fatto che essa va all’origine, ancora
pur sempre indeterminata, del mio essere, e si presta ad ogni malinteso; poiché decide non già una
legge determinata o un obbligo deducibile obiettivamente, bensì il fatto della dipendenza
dall’origine « creatrice » in me, e questa può mancare. Pertanto, quando Nietzsche scrive: « Diventa
ciò che sei: questo è un appello che si può sempre rivolgere soltanto a pochi uomini, e che è
superfluo soltanto per un numero minimo di quei pochi» (11, 62), allora, anche questo appello può
certo diventare senza senso, qualora si ricada nella concezione di una natura umana obiettivamente
constatabile e classificabile; però è ben percepibile il senso di quel vero e non eluso pericolo
esistenziale - dovuto alla mancanza del creare - di cui Nietzsche è pienamente e continuamente
consapevole.
Il capovolgimento dell'immanenza. Dove la libertà, che Nietzsche rifiuta, è divenuta certa all’uomo,
questi si è sentito, nel suo essere-libero proprio in quanto essere-libero di fronte alla propria
trascendenza, allo stesso tempo come annullato e come protetto. Al contrario, il creare che
Nietzsche pone come unica realtà dell’immanenza della sua libertà, al posto della libertà
esistenziale, o esiste in sé, compiutamente ed autonomamente, oppure manca del tutto. Colui che
crea, a prescindere dal fatto che sia o non sia ostacolato nel suo processo, nel filosofare di Nietzsche
ha comunque, anziché un rapporto con la trascendenza, la coscienza del destino. Al posto della
trascendenza, Nietzsche concepisce la « necessità » (cfr. infra). Questa necessità, concepita
metafisicamente, fino al punto in cui ogni caso che mi riguarda, ogni sentimento che affiora, appare
avere senso nell’insieme del mio divenire creativo, è a sua volta essenzialmente diversa dalla
necessità in senso causale di un evento fisico o biologico - ed in quanto tale, essa è simile alla
libertà che, come si è visto, Nietzsche rifiuta. Qui, nonostante tutto, si presenta a Nietzsche una
coscienza che trascende l’essere nel suo complesso; qui c’è una relativa consapevolezza di singoli
rapporti nel mondo.
Il creare senza trascendenza - l'essere-se-stesso, senza Dio - porta necessariamente a due
conseguenze, che Nietzsche in effetti trae. Se la finitezza dell’essere umano è diventata invisibile
come finitezza, poiché non è piti circoscritta da alcuna infinitezza, vale a dire, se la libertà del
creare sta di fronte non alla trascendenza, bensì al nulla - poiché ciò che ha fuori di sé soltanto il
nulla è tutto, e la sua finitezza non è considerata seriamente -, allora il creare o viene assolutizzato
in quanto realtà temporale, senza un valido criterio, oppure viene divinizzato. Le naturalizzazioni
sono l’espressione della prima conseguenza, l'hybris è l’espressione della seconda. Entrambe sono,
anziché rapporto con la trascendenza, il modo di essere della realtà della fiducia nel limite, il quale
ormai non è piu limite nei confronti di qualcos’altro, bensì è compimento. Entrambe le conseguenze
hanno trovato in Nietzsche un linguaggio sorprendentemente audace, che capovolge ogni modo di
pensare razionale.
1.    Nel suo atteggiamento libero da ogni morale, Nietzsche credeva di essere d'accordo con Gesù:
« Gesù... prese partito contro coloro che giudicano: volle essere l’annientatore della morale» (12,
266). «Gesù disse: ... “Che cosa importa la morale a noi figli d’iddio! ” » (7, 108). Nietzsche vede
in Gesù l’anticipazione della realtà della propria idea - immersa nella nebulosità della
divinizzazione di se stessa - di ciò che è più della morale, e dunque di ciò che egli stesso vuole
essere: « Dio, concepito come l'essersi liberato dalla morale, un comprimere in sé tutta la pienezza
delle contraddizioni della vita, riscattandole e giustificandole poi in divino tormento -Dio come Tal
di là... “del bene e del male” » (16, 379). Si accorda al senso di questa conclusione il fatto che
Nietzsche, all’inizio della sua follia, si firmasse sia come Dioniso sia come il « Crocifisso ».
2.    La stessa fiducia di poter superare con le proprie forze ogni morale determinata viene
sicuramente per così dire snaturata nella sua essenza, qualora si guardi non già all’origine, bensì -
nulla essendo come natura e realtà - all’azione vittoriosa nel mondo: « Noi immoralisti siamo oggi
la piu forte potenza: le altre grandi potenze hanno bisogno di noi. Noi costruiamo il mondo a nostra
immagine » (15, 225). Tutto ciò che appare come valore sembra essere sacrificato, qualora sia
ancora presente nella sua immediatezza soltanto la brutale realtà in cui questa fiducia in se
stessi non vuole altro che il successo per sé. Allora ci si chiede se, anziché il più-della-morale, non
resti piuttosto un meno-della-morale, il mero esserci delle forze naturali. In effetti, questa fiducia in
se stessi diventa inseparabile dal trionfo demoniaco nelle inquietanti affermazioni: « Noi
immoralisti - siamo oggi l’unica potenza che non abbia bisogno di alleati per vincere... Non
abbiamo neanche bisogno della menzogna:... anche senza la verità conseguiremo la potenza...
L’incantesimo che combatte per noi... è la magia dell’estremo» (16, 193-194).
In entrambi i casi non si esprime più un ethos di esseri finiti, i quali percorrono il loro cammino
nella tensione con la trascendenza, nel legame determinato dalla storicità. Poiché nelle ultime
esigenze di Nietzsche lo spirito, che si vincola per il fatto di essere consapevole della
finitezza, giunge a dissolversi, è possibile sia la divinizzazione sia l’immergersi in ciò che è estremo
(in quanto è ciò che di gran lunga è piu efficace). Dove finitezza, legame del finito ed esistenza
possibile sembrano in questo modo scomparsi, a noi, esseri finiti, è precluso l’accesso. È come se in
Nietzsche la libertà si fosse annullata nel creare - che, nella sua ambigua indeterminatezza, non ci
assicurerebbe piti un terreno d’appoggio -, e il creare si fosse a sua volta annullato in una
esplosione, alla fine della quale non rimane altro che un simulacro di Dio, oppure il nulla.
Se consideriamo il pensiero di Nietzsche nella sua determinatezza e nella sua concreta estensione, si
presenta infine, ovunque, una sorta di ripiegamento rispetto alla divinizzazione e alla
demonizzazione. Allora sembra che per lui, contro la divinizzazione e la prevalenza dell’estremo,
ritrovi un rinnovato valore la seguente affermazione: appartiene alla virilità « il fatto che noi non ci
inganniamo sulla nostra posizione umana: piuttosto, vogliamo realizzare rigorosamente la nostra
misura » (14, 320). L’uomo deve però trovare la propria autolimitazione nel mondo, per il fatto che
egli segue un cammino. Ponendo la domanda sul cammino da percorrere, Nietzsche mette in pratica
l’autolimitazione umana.
A volte, ma certo solo provvisoriamente, egli ritiene questo cammino privo di speranza. Questa
situazione, cioè il fatto di non poter vivere né con la morale, né senza di essa, contraddistingue la
seguente affermazione: « Forse un diavolo ha scoperto la morale per tormentare gli uomini
attraverso l’orgoglio: e ad un certo punto un secondo diavolo la toglie loro per tormentarli
attraverso il disprezzo di se stessi » (12, 263). La mancanza di vie d’uscita fa intravvedere la
possibilità che « forse l’umanità deve andare in rovina a causa della morale » (11, 240).
Ma, di fatto, per Nietzsche il cammino rimane aperto: « Noi che osiamo vivere di nuovo in un
mondo amoralizzato, noi pagani... comprendiamo che cos’è una fede pagana: - doversi immaginare
degli esseri superiori all’uomo » (16, 379). Secondo Nietzsche, dobbiamo attenderci questi
esseri superiori, che vanno oltre l’uomo, pur sempre e soltanto dall'uomo che si trasforma nel
mondo. È l’immagine dell’uomo che, al posto della divinità e di ogni morale, assume il significato
di farci salire più in alto.
L’immagine nietzschiana dell’uomo
Le immagini dell’uomo sono o descrizioni di tipi della sua realtà, oppure schizzi della sua
possibilità. Le immagini tracciate da Nietzsche si collocano su entrambi questi piani. Il primo piano
mostra una grande varietà di forme dell’esserci: tipi sociologici come il commerciante, il politico,
il prete, l’erudito, ed altri tipi caratterologici. Non è qui necessario richiamare e ordinare queste
considerazioni psicologiche, che sono molto ricche e variegate. È invece essenziale notare come,
già nell’esposizione psicologica, si colga ogni volta un senso di insoddisfazione: lo sguardo si
spinge verso l’« uomo superiore ». Il secondo piano mostra pertanto le forme in cui l’uomo si
innalza al di là del mero esserci. Gli uomini appaiono o come esseri ben riusciti, ma con il rischio di
fallire completamente nella realtà, oppure sembra che essi si consumino in una insoddisfazione di se
stessi, che è anche di fatto fuorviante, e deve essere superata. Di conseguenza, Nietzsche vede
anche al di là di tutti gli uomini superiori un’ultima possibilità, su di un terzo piano, sul quale
soltanto si trova la meta autentica dell’uomo: il superuomo.
Le immagini dell’uomo, che sono non mere descrizioni della sua realtà, bensì forme in sé evidenti
delle sue sviluppate possibilità, significano o immagini esemplari in base alle quali io mi oriento, o
immagini negative, che io evito, o immagini guida che mi indicano la strada. Queste immagini sono
funzioni della mia rappresentazione, ed io ne ho bisogno per formare me stesso, in quanto osservo
le immagini esemplari, mi oppongo alle immagini negative, e riconosco le immagini guida, nella
loro indeterminatezza senza forma, quali forze trainanti. Gli « uomini superiori » di Nietzsche sono
al contempo immagini esemplari e immagini negative. È come se ogni ideale determinato
dell’uomo debba essere infranto poiché, dopo essere stato pensato come compiuto, nello stesso
tempo si tramuta nel suo opposto. La indeterminatezza senza forma del superuomo agisce
al contrario come l’immagine guida che, indicandomi la strada, mi evita di cadere ed intristire in
qualche ideale determinato.
Lo schizzo delle immagini dell’uomo costituisce inoltre un aspetto della lotta per l’uomo autentico.
Il fatto che gli uomini non sono uguali implica che non solo esiste una varietà di immagini del loro
esserci fattuale, bensì che anche le immagini delle possibilità umane non possono esser ridotte
ad un solo ideale universalmente valido. Se però si affaccia alla mente un’immagine dell’uomo non
solo come rappresentazione, bensì un’immagine che ha efficacia e mi colpisce incisivamente, allora
tutto il mio parlare, esigere, volere è una segreta lotta per questa immagine. Nietzsche dice pertanto
ai menzogneri « buoni e giusti », che si esibiscono come se rappresentassero l’unica cosa
universalmente giusta e vera: « Uomini giusti, voi tutti combattete non per la giustizia, ma affinché
vinca la vostra immagine dell’uomo. E che vadano in frantumi tutte le vostre immagini dell’uomo
al cospetto della sua immagine del superuomo: ebbene, questa è la volontà di giustizia di
Zarathustra » (12, 363).
Nietzsche ha combattuto per l’immagíne dell’uomo. II suo compito, che consiste nel coglierla in
modo veritiero e renderla efficace, era già chiaro fin dagli anni giovanili, allorché chiedeva: « Chi
allora... dedicherà i suoi servigi di sentinella e di cavaliere all’umanità, al sacro e inviolabile tesoro
del tempio, raccolto a poco a poco dalle piu diverse generazioni? Chi erigerà l'immagine
dell’uomo...? » (1, 424). Nietzsche stesso ha fatto ciò che egli ha visto in ogni morale: « La morale
non può fare altro che erigere immagini dell’uomo... forse, che esse influiscano su questo o
su quello » (11, 216).
Per caratterizzare l’immagine dell’uomo di Nietzsche non è necessario esporre il primo piano,
quello cioè delle descrizioni della realtà, per quanto anch’esso di grande importanza e ricchezza.
L’effettivo movimento dell’immagine dell’uomo avviene infatti sul secondo piano, quello dell’«
uomo superiore ». Il terzo piano mostrerà l’astrazione, che quasi svanisce nel vuoto, del superuomo.
L'uomo superiore. L’uomo superiore è per Nietzsche originariamente l’immagine in cui egli crede.
Quando ancora non si è imposta l’idea del superuomo come distruttore di tutti gli ideali, Nietzsche
vede nell’uomo superiore un compimento soddisfacente. Come tale egli ha potuto descriverlo, cioè
come l’uomo che si è liberato dalle catene, dagli « errori gravi e insieme sensati delle idee morali,
religiose e metafisiche », e che ha conseguito finalmente il primo grande risultato: « la separazione
dell’uomo dagli animali ». Ma questa libertà creativa non è possibile all’uomo come uomo: « solo
all’uomo nobilitato » può esser data questa libertà dello spirito; « egli per primo può dire di vivere
per la gioia », e solo singoli uomini pervengono a questo scopo: « Questo è ancora il tempo degli
individui » (3, 371).
In queste considerazioni di Nietzsche, l’uomo superiore si mostra ancora come realtà, seppure
sempre minacciata e destinata al fallimento. Gli uomini superiori sono in un crescente pericolo, che
viene tanto dall’esterno quanto dall’interno. Essi deperiscono perché si sentono isolati in una
società basata su ciò che è ordinario; diventano depressi, malinconici, malati. Solo « nature di ferro
come Beethoven e Goethe » hanno potuto resistere. Però, « anche in loro si mostrano le
conseguenze della lotta e della tensione più affaticanti...: il loro respiro diventa piu pesante e il loro
tono è facilmente troppo violento » (1, 405). La società è inesorabilmente ostile a questi grandi
uomini. « Si odia l’idea di un tipo superiore di uomo » (16, 196). La loro solitudine è considerata
una colpa (1, 405). Certo,
« esiste nei piu diversi luoghi della terra... una continua riuscita di singoli casi, con i quali viene
realmente rappresentato un tipo superiore » (8, 219), ma il « crollo degli uomini superiori... è la
regola » (7, 255). Il caso fortunato che un uomo superiore « riesca ancora ad agire al momento
giusto » è l’eccezione; la regola dell’uomo superiore è: « in ogni angolo della terra stanno seduti
coloro che attendono, che a malapena sanno fino a che punto aspettano, ma ancor meno poi che
aspettano inutilmente » (7, 261).
Ma poi le ¡riserve di Nietzsche sull’uomo si estendono agli stessi uomini superiori, che come tali si
sono rivelati e sono stati venerati: questo avviene, perché gli sembra che non acquisti in alcun modo
forma e immagine un’autentica, alta umanità. Il grande uomo non è pubblico, è come un segreto. La
fede di Nietzsche, evidentemente deluso, si volge a questa possibilità: «Forse la cosa piu bella
continua sempre a procedere nell’oscurità e affonda, appena nata, in una notte eterna... Proprio nella
sua massima grandezza, quella che esige venerazione, l’uomo grande è pur sempre invisibile, come
una costellazione troppo lontana: la sua vittoria sulla forza rimane senza sguardi e di conseguenza
anche senza canto e senza cantori » (4, 357). A questo riguardo è pertinente anche la frase: « Di
rappresentare l’ultimo uomo, cioè il più semplice e nello stesso tempo il più completo, nessun
artista fu finora capace; ma forse i Greci, nell’ideale di Atena, hanno gettato lo sguardo piu lontano
di tutti gli uomini finora esistiti » (3, 98).
Per Nietzsche, gli uomini elevati, tanto nella realtà quanto nella possibilità che diviene forma, si
eclissano; egli è sempre più dominato dall’insoddisfazione dell’uomo superiore, in ogni forma in cui
appare.
Ogni forma di grande uomo è per Nietzsche sospetta già per il fatto stesso che implica uno sviluppo;
egli chiede: « Voi salite, o uomini superiori? Non venite... spinti in alto da ciò che vi è in voi di più
basso?... voi che salite, non fuggite da voi stessi? » (8, 389). Per questo, Nietzsche contrappone agli
uomini superiori colui, la cui essenza stessa sarebbe già originariamente di alto Tango: « egli è di
lassù! » (5, 29). Ma Nietzsche, ogniqualvolta si imbatte in tale « essere », sembra metterlo in
dubbio.
Lo « psicologo » in Nietzsche intravvede la falsificazione che, senza eccezione, viene compiuta
allorché si onorano i grandi uomini: « Quale martirio sono... gli uomini superiori... per colui che li
ha decifrati una volta! ». Così egli vede i poeti come « uomini dell’attimo, esaltati, sensuali,
bambineggianti, sconsiderati e subitanei nella sfiducia e nella fiducia; con anime avvezze a tener
celata una qualche crepa; uomini che spesso, nelle loro opere, si prendono vendetta di un’interiore
sozzura, che spesso, nei loro slanci, cercano l’oblio di una memoria troppo fedele... » (7, 257).
Ma non soltanto nelle evidenti deformazioni, bensì anche in quelle che per lui sono propriamente le
forme più alte dell’uomo, Nietzsche ha visto i difetti della loro stessa natura. Se per esempio egli
riteneva l'esserci eroico quanto di più alto ci sia, tuttavia intravvedeva al di là di esso ancora una più
alta possibilità; nell’eroe egli vuole non solo amare « la nuca taurina », bensì vuole vedervi « anche
l’occhio angelico ». Ecco quindi cosa pretende dall’eroe: « Deve ancora disimparare la sua volontà
eroica... la sua scrosciante passione non si è ancora acquietata nella bellezza... Irraggiungibile è la
bellezza per ogni volontà violenta » (6, 172). Anche nell’autentico eroismo ci sono i segni della
perenne incompiutezza dell’uomo. L’eroe non è un compimento; in lui c’è ancora ciò che appartiene
all’uomo come uomo: superare tutto ciò, sacrificarlo, essere transizione: « Questo infatti è il segreto
dell’anima; solo quando l’eroe l’ha lasciata, le si avvicina, in sogno, - il super-eroe » (6, 173).
Laddove però si è pensato l’uomo elevato e se ne è creata l'immagine, Nietzsche vi ha sempre visto,
come conseguenza, teatralità-, l’ideale, in quanto modello, è proprio di una vita non veritiera. Così
fu nell’antica filosofia: « Si ebbe bisogno di inventare per di piu anche l’uomo astratto-perfetto:
buono, giusto, saggio, dialettico - insomma, lo spaventapasseri del filosofo antico, una pianta
sradicata da ogni terreno, un’umanità senza alcun determinato istinto regolatore; una virtù che si
“dimostra” con ragionamenti » (15, 459).
Ogni volta che Nietzsche dubita dell’uomo elevato si evidenzia sempre la stessa cosa: Nietzsche,
che anela sempre a ciò che è superiore, non può conseguire il suo scopo in alcuna forma reale o
ideale. Proprio laddove si indirizza il suo più grande amore, egli viene a conoscere il più
profondo dolore: « Dove io ho più sofferto per l’uomo, non è stato per le sue colpe e per le sue
grandi follie, ma proprio per la sua perfezione » (8, 385).
Nella quarta parte dello Zarathustra, questo amore di Nietzsche per l’uomo superiore, ed anche la
sua insoddisfazione, hanno trovato la loro espressione più profonda e commovente. Sembra che gli
uomini superiori comprendano Zarathustra: lo cercano, si aspettano da lui la salvezza dalla miseria
della loro insoddisfazione nei confronti del mondo, degli uomini e di se stessi. Tutti mostrano un
tratto della grandezza, che è propria anche dei loro difetti: i re, il disgusto di dominare sulla plebe;
lo « spirito coscienzioso », la scrupolosa meticolosità ed abnegazione nella ricerca su qualsiasi
soggetto; il « mago », la consapevolezza di non essere grande pur nella ricchezza delle sue
esibizioni artistiche; l’« ultimo papa », la superiore tolleranza in questioni di Dio; « l’uomo più
brutto », la sua incapacità di sopportare la compassione ed il disprezzo di se stesso; il « mendicante
volontario », la sua radicale volontà di rinuncia; il fantasma del « libero pensatore », l’indiscrezione
nel dubitare di tutte le parole, i valori e i grandi uomini. Tutti dicono e fanno qualcosa di vero.
Zarathustra può donare a ciascuno per un attimo il proprio amore, come se gliene venisse in cambio
qualcosa che è conforme alla propria natura. Ma ciascuno non ha soltanto un difetto, bensì mostra
improvvisamente un’essenziale cecità ed incomprensione dell’idea di Zarathustra. Questi è nel suo
intimo profondamente deluso. Pertanto, rivolgendosi a tutti gli uomini superiori, esclama: « In
verità voi tutti sarete anche uomini superiori...: ma per me - voi non siete né elevati né forti
abbastanza. Per me, ciò vuol dire: per l’inesorabile che in me tace » (6, 410). Il suo rifiuto assume
molte forme. Egli non vuole « gli uomini del grande anelito, della grande nausea, del grande
disgusto » (6, 409). Questi vivono, in definitiva, di un non-essere. Perciò, in tutta la loro miseria, si
nasconde una paura che tende ad impedire l’impegno ardito e il rischio dell’insuccesso: « Chi
infatti, come voi, sta su gambe malate e delicate vuole innanzitutto, che lo sappia o se lo nasconda:
essere risparmiato » (6, 410). Perciò, essi diventano per lui discutibili, nella radice stessa del loro
essere: « Vuoi uomini superiori, non siete tutti - malriusciti? » (6, 426). Ma i malriusciti potrebbero
ancora farsi valere con il sacrificio; essi non lo fanno: « Uomini superiori..., voi tutti non avete
imparato a danzare come si deve - a danzare senza curarvi di voi e al di sopra di voi stessi! Che
importa se siete falliti? » (6, 430). Di qual tipo, però, sia il loro insuccesso, e come essi, nei loro
fraintendimenti, mettano in luce il loro essere malriusciti, nel poema viene simbolizzato nel modo in
cui, vicino a Zarathustra, essi diventano allegri, cessa il loro travaglio e si esibiscono lietamente con
grida e risate: « Da me, mi sembra, hanno disimparato a gridare aiuto! - sebbene, purtroppo,
non ancora a gridare » (6, 450). Zarathustra non ha « ancora trovato un grande uomo » (6, 374).
Contro il culto degli eroi. Nessun uomo reale è in grado di resistere di fronte ai problemi or ora
posti, se egli deve essere considerato come compiuto. Chi pratica il culto di un uomo, come se
questi fosse perfetto, avvilisce se stesso nella sua possibilità dell’esser-uomo. Per entrambi i
motivi, Nietzsche respinge il fatto che degli uomini possano sottomettersi incondizionatamente, dal
punto di vista psicologico, a un altro uomo. La storia mostra degli esempi agghiaccianti: « Uomini
di questa specie vivevano per esempio intorno a Napoleone; anzi, forse è proprio lui ad avere messo
nell’anima del nostro secolo la prostrazione romantica... davanti all’“eroe” ». Questi « fanatici di un
ideale, che ha carne e sangue », secondo Nietzsche hanno di solito ragione finché negano - poiché
essi conoscono ciò che negano, dato che sono essi stessi di quella specie. Ma non appena
affermano il loro ideale nella persona di un uomo in carne ed ossa, assolutamente ineccepibile,
allora diventano disonesti; essi devono collocare la persona così idealizzata ad una tale distanza, da
non poterla piu vedere nei suoi precisi contorni, Eppure, la loro coscienza intellettuale sa
segretamente come sono andate le cose. Se poi lo stesso personaggio divinizzato « manifestamente
tradisce, in maniera ripugnante, la sua natura non divina e fin troppo umana », allora questi fanatici
del culto dell’eroe inventano un nuovo genere di autoinganno: prendono partito contro se stessi e
provano, come interpreti, una specie di martirio (4, 248).
Il superuomo. Il fatto che Nietzsche lasci cadere ogni figura di « uomo superiore », e respinga ogni
forma di divinizzazione di un singolo uomo in carne ed ossa, dipende dall’impulso che non gli
permette mai di trovare un ancoraggio in qualcosa di finito. Ci deve pur essere qualcosa di più alto,
se ciò che è alto non lascia soddisfatti. E se anche nell’« uomo superiore » l’uomo risulta
chiaramente non riuscito, allora bisogna chiedersi: come viene superato l’uomo stesso? L’idea del
superuomo darà la risposta. Considerato il generale fallimento di tutti i modi dell’esser-uomo,
Zarathustra esclama: « Ma se l’uomo è malriuscito: ebbene! coraggio! » (6, 426). La visione di
Zarathustra va lontano, laddove si fa evidente la sola cosa che gli sta a cuore: « Il superuomo mi sta
a cuore, egli è la mia prima ed unica cosa, - e non l’uomo: non il prossimo, non il miserrimo, non
il piu sofferente, non il migliore... ciò che io posso amare nell’uomo è che egli sia un trapasso e un
tramonto » (6, 418). Nietzsche non si attiene né a ciò che è visibile, né a ciò che è nascosto
nell’uomo, ma guarda invece all’avvenire che, tramite l’uomo, è al di là dell’uomo.
Produrre il superuomo, questo è il compito: « Creare un essere piu elevato di ciò che noi stessi
siamo, questa è la nostra essenza. Creare oltre noi stessi\ Questo è l’istinto della generazione,
l’istinto dell’azione e dell’opera. - Come ogni volere presuppone uno scopo, così l’uomo
presuppone un essere, che non esiste, ma che gli indica lo scopo della sua esistenza » (14, 262 e
sgg.). Bisogna creare gli esseri « che stanno alti, al di sopra dell’intera specie umana » (14, 261).
La fede di Nietzsche è che si crei l’idea del superuomo. Egli attende: « In un qualche tempo... dovrà
pur giungere a noi l’uomo redentore... che restituisce alla terra la sua meta..., questo vincitore di
Dio e del nulla » (7, 395 e sgg.). Come pili tardi sarà per la dottrina dell’eterno ritorno, Nietzsche
pensa qui a qualcosa che sostituisca la divinità: « Dio è morto: ora noi vogliamo, - che viva il
superuomo » (6, 418).
Ciò che Nietzsche vede nel superuomo rimane - come immagine - indeterminato. Al centro di tale
pensiero vi è l’assegnazione del compito. Ma anche questo può essere indicato solo in modo
indeterminato.
Nietzsche esige che l’uomo getti lo sguardo a quell’altezza. Egli si rivolge a coloro, i quali non
fanno nulla piu volentieri che tentare di comprendere i grandi uomini, con questa richiesta: « La
vostra forza dovrebbe essere quella di vedere, al di sopra di loro, degli esseri piu alti ancora di
centinaia di miglia! » (13, 167).
Ma questo sguardo sarebbe, come tale, soltanto contemplativo. Ciò che conta è l’attività che rende
possibile la realizzazione di ciò che si è visto. Nietzsche vuole adempiere il compito di favorire la
nascita del superuomo con tutto il proprio pensiero, con il movimento da lui prodotto, in particolare
con « l’inasprimento di tutti i contrasti e le crepe, con l’eliminazione dell’uguaglianza, con il creare
di piu - con piu potenza » (14, 262). Con la possibilità del superuomo dovrà inevitabilmente
crescere il pericolo, finché, giunto al suo culmine, si potrà dire: « Come si potrebbe sacrificare lo
sviluppo dell’umanità, per favorire l’esistenza di una specie che sia piu elevata dell’uomo? » (16,
278). Per ciascuno, il vero comportamento fondamentale è di adoperarsi per la nascita di colui che è
di più: il nostro essere-uomini ha solo il valore di essere transizione e tramonto; ciò che si pretende
è di « danzare senza curarsi di se stessi e al di sopra di se stessi » (cfr. 6, 430).
Ma come ciò avvenga in realtà, Nietzsche non ha potuto dirlo. Egli parla di questo comportamento
volto al sacrificio, alla dipartita, al superamento. Ma l’idea illimitatamente grande che ogni
autentico agire umano abbia come conseguenza l’elevazione dell’uomo, si trasforma in lui
gradualmente nella rappresentazione biologica di una crescita umana, che dovrebbe portare alla
nascita di un nuovo essere al confine tra la specie attuale dell’uomo ed una piu elevata.
Seguendo Nietzsche nel suo incessante ed accurato mettere in discussione tutte le posizioni, si
capisce come egli di nuovo accolga questo astratto essere sempre più alto nel pensiero dello stesso
superuomo (non diversamente dal pensiero di Dio): « Davvero, sempre ci sentiamo trarre in alto -
cioè nel regno delle nuvole: su queste facciamo posto ai nostri manichini multicolori e li.
chiamiamo dei e superuomini: - Sono giusto leggeri quanto basta per quei sedili! - tutti questi dei e
superuomini. Ah, quanto sono stufo di tutte le cose inadeguate...! » (6, 188).

CAPITOLO SECONDO. LA VERITÀ


Verità scientifica e verità filosofica: L’atteggiamento metodico. Origine e vita dei metodi. Limiti
della scienza. Scienza e filosofia.
La teoria dell’interpretazione: verità e vita. Il carattere illusorio della verità. L’applicazione della
teoria. Il circolo. Essere-vero ed esistenza. La verità in relazione alle potenze vitali che la
distruggono, ma al contempo ne sono la condizione. L’essere che diviene consapevole al limite.
La passione di una illimitata volontà di verità: Onestà. Giustizia. L’autosoppressione della volontà
di verità. Il dubbio illimitato.
La dissoluzione della ragione.
La verità nella rottura trascendente: L’impossibilità di comunicare la verità. Il pericolo della verità.
Verità e morte. « Nulla è vero, tutto è permesso. »
L’indagine su ciò che l'uomo è, ha portato alla dissoluzione dell’uomo. Nella sua appassionata
volontà di verità, Nietzsche ha osato trarne le estreme conseguenze. Dopo che l’uomo, per così dire,
è andato perduto, e tutte le particolari determinazioni di valore sono state contestate,
Nietzsche stesso vuole approfondire la questione del senso dell’essere-vero. In questo modo diventa
per lui problematica anche la verità in quanto tale, svanisce la possibilità della verità e della ragione.
Per Nietzsche, cosi come, con riguardo all’uomo, è la morale che si disgrega, così, con riguardo
alla verità, è la filosofia tradizionale, nel suo patrimonio storico, che si disgrega.
Ma di nuovo, nel seguire il pensiero di Nietzsche, è come se nel negare si mostrasse sempre
qualcosa che è, e la cui esistenza stessa costituisce la condizione della negazione. Ciò che è negato,
per poter essere negato, non deve soltanto essere sperimentato; esso viene anche, in un altro
senso, sempre riaffermato da Nietzsche. Ne consegue che ogni penetrante esposizione della filosofia
negativa di Nietzsche è a sua volta parimenti animata da ciò che è positivo. Il rifiuto nietzschiano
del contenuto storico è al tempo stesso, nella sua realizzazione, la forma di una sua riconquista
sotto un aspetto diverso.
I pensieri di Nietzsche, che si propongono di indagare il senso dell'essere-vero, sono ben
difficilmente riconducibili ad un’unità sistematica. Anche se, di fatto, essi si compenetrano l’uno
con l’altro, possiamo tuttavia svilupparli a partire da tre diverse ed autonome origini, indicate
dallo stesso Nietzsche: in primo luogo, dalla scienza metodica; in secondo luogo, da una teoria
dell’essere della verità in quanto interpretazione da parte di un esserci vivente; in terzo luogo, da
una illimitata passione per la verità. Ogni volta si presentano delle posizioni chiare, in un cammino
ohe, alla fine, sembra condurre al fallimento: Nietzsche vuole la dissoluzione
163
della ragione. In definitiva, tutti i pensieri di Nietzsche sulla verità sfociano in una rottura
trascendente.
Verità scientifica e verità filosofica
Nietzsche ha considerato ciò che nella scienza è verità come una origine immediata. Anche se in
seguito questa origine non sarà piu tale per lui, ma sarà messa in discussione e verrà concepita come
un qualcosa di derivato, tuttavia essa non perde per Nietzsche, di fatto, la sua autonomia che qui
non è ancora messa in dubbio. Nietzsche si è addentrato decisamente nel terreno della scienza.
Sembra che la passione per la verità abbia trovato qui salde radici.
L’atteggiamento metodico. Tratto caratteristico essenziale della scienza è per Nietzsche il metodo: i
metodi non sono soltanto « le idee piu preziose » (16, 3); ma, piu ancora, proprio « sull’idea del
metodo riposa lo spirito scientifico » (2, 410). Per quanto riguarda il loro contenuto, i risultati della
scienza non sono in se stessi nulla di caratteristico, e « non potrebbero certo impedire, se quei
metodi andassero perduti, un rinnovato propagarsi della superstizione e dell’insensatezza » (2, 410).
Si ha un vero sapere solo se vi è il metodo.
È vero che Nietzsche non ha trovato ufi nuovo metodo nel campo specifico della scienza, e non si è
preoccupato di chiarire logicamente questo metodo. Piuttosto, egli riflette sul suo valore - ogni volta
con il presupposto dell’ovvia validità della conoscenza scientifica. In altri termini, la sua riflessione
riguarda non già il metodo, bensì l’atteggiamento metodico.
Grazie ad esso si consegue una particolare sicurezza : « Esiste una profonda e fondamentale fortuna
nel fatto che la scienza verifichi cose che hanno una loro stabilità e che sempre forniscono la base
per nuovi accertamenti; ma potrebbe ben essere diversamente! E come no? Siamo così persuasi di
tutta l’insicurezza e la stravaganza dei nostri giudizi, come pure dell’eterna metamorfosi di tutte le
leggi e i concetti umani, che desta in noi una vera e propria meraviglia il constatare a che punto di
stabilità giungano i risultati della scienza! » (5, 81). Il metodo conduce su un terreno di verità che ci
consente di entrare nell’unica e insostituibile esperienza di un modo dell’essere: « Meravigliosa
scoperta: non tutto è incalcolabile, indeterminato! Ci sono leggi che restano vere al di là del criterio
dell’individuo! » (12, 47).
L’atteggiamento metodico vuole certezza, non convinzione, vuole il modo in cui la verità è
necessariamente fondata, non il contenuto di ciò che essa sa; perciò, per l’atteggiamento metodico,
valgono anche le « verità che non sono di per sé evidenti» (2, 248); e dunque per esso « la cosa piu
alta è ciò che è faticoso, certo, duraturo e quindi ricco di conseguenze per ogni ulteriore conoscenza
» (2, 20).
Nell’atteggiamento metodico viene distrutta ogni conoscenza assoluta, al fine di possedere al suo
posto, in modo inoppugnabile, una determinata conoscenza particolare, e poter fare con essa
qualcosa nel mondo: «La conoscenza ha il valore... di confutare la “conoscenza assoluta”» (12, 4);
«la “fede in verità ultime e definitive” viene raffreddata» (2, 230). Con la scienza si può nello stesso
tempo « acquisire un potere sulla natura », senza aver bisogno di una vera e propria conoscenza
ultima della causa e dell’effetto (12, 4). Quando domina in modo metodico e determinato lo scibile
nella sua relatività, questo atteggiamento non si perde né nel sapere assoluto, né nella negatività del
non-sapere che mette tutto in dubbio.
Allorché comprese intimamente che il vero sapere risiede soltanto nel metodo, Nietzsche vide anche
che l’atteggiamento metodico non è il capriccio di una particolare scienza separata dalla vita, bensì
una possibilità dell'uomo in tutto il suo pensare e concepire i fatti che lo riguardano. Per Nietzsche
lo spirito scientifico - lo spirito del metodo - appartiene alla razionalità dell’uomo; egli lo ha ben
caratterizzato, tratteggiando per contrasto lo spirito opposto in questo modo: « Le persone brillanti
possono imparare quanto vogliono dai risultati della scienza: nella loro conversazione... si noterà
sempre che manca loro lo spirito scientifico; esse non hanno quell’istintiva diffidenza verso gli
slittamenti del pensiero... Ad esse basta trovare su una cosa in genere una qualsiasi ipotesi, dopo di
che sono fuoco e fiamma per essa... Avere un’opinione significa per loro già fanatizzarsi per essa »
(2, 410). L’autodominio del pensare metodico, in contrapposizione a questo chiasso delle opinioni e
delle affermazioni affrettate, consiste invece in un silenzioso, inevitabile sforzo; in particolare, « le
nature scientifiche » sanno « che il dono di avere ogni sorta di idee deve essere tenuto a freno, nel
modo piu rigoroso, dallo spirito della scienza » (2, 247). A causa delle cattive conseguenze della
mancanza di metodo in tutti i campi della vita, Nietzsche esige: « Oggi ognuno dovrebbe avere
imparato dalle fondamenta almeno una scienza: allora si che saprebbe cosa significhi metodo e
come sia necessaria un’estrema circospezione » (2, 410). Praticare in modo rigoroso e per un certo
tempo una scienza, alla fine « produce un aumento di energia, di raziocinio, di tenacia e di
perseveranza; si è imparato a raggiungere uno scopo in modo adeguato allo scopo. In tal senso è
molto apprezzabile, riguardo a tutto ciò che si fa più tardi, essere stato una volta uomo di scienza »
(2, 239).
Per Nietzsche, l’esigenza di un’educazione al metodo scientifico è tanto più urgente, in quanto egli
conosce l'insostituibile valore della certezza, possibile solo mediante i puri metodi, cosi come
conosce lo straordinario pericolo che minaccia il suo progredire nel corso della storia umana:
ancora nel suo ultimo anno, egli lo ha espresso, allorché vide come tutto il lavoro scientifico del
mondo antico fosse stato compiuto inutilmente : « Già esistevano tutti i presupposti di una civiltà
dotta, tutti i metodi scientifici; si era già fatta chiaramente conoscere la grande, incomparabile arte
di leggere bene - che è la necessaria premessa per tramandare la cultura e per
giungere all’unità della scienza; la scienza naturale, alleata con la matematica e la meccanica, si
trovava sulla via migliore fra tutte - il senso dei fatti, l’ultimo e piu prezioso di tutti I sensi, aveva le
sue scuole... Era stato trovato tutto l'essenziale per poter mettersi al lavoro - i metodi, occorre dirlo
dieci volte, sono l’essenziale, nonché la cosa piu difficile, e anche ciò che ha piu lungamente contro
di sé le consuetudini e le infingardaggini. Quel che noi oggi, con una indicibile coercizione di noi
stessi..., ci siamo riconquistati, cioè il libero sguardo di fronte alla realtà, la cautela della mano, la
pazienza e il rigore nelle piu piccole cose, l’intera onestà della conoscenza - esisteva già! già piu di
due millenni or sono! » (8, 307).
Origine e vita dei metodi. I metodi non debbono essere applicati meccanicamente; la verità
scientifica, come ogni altra verità, non può essere conseguita con fredda indifferenza. Non vi è
alcun processo disinteressato di automatica constatazione delle verità. Analizzando dal punto di
vista psicologico l’origine e lo sviluppo dei metodi scientifici, Nietzsche mostra come essi siano
sempre stati animati da qualcos’altro, estraneo o opposto alla verità. I metodi non sono piu seri ed
affidabili, se diventano un freddo calcolo ad opera di una ingegnosità intellettuale, che può avere
soltanto una esteriore affidabilità al servizio di uno scopo finito.
Ciò che è estraneo alla verità, dunque, come tale, alogico e contrario alla ragione, e da cui ogni
conoscenza è supportata e mediante il quale soltanto la conoscenza stessa diventa essenziale, è di
varia specie. Come dilettantismo, noia, abitudine esso dà indubbiamente degli stimoli, ma si tratta di
stimoli che portano ad una conoscenza superficiale. Fonte preziosa di un’autentica conoscenza è
piuttosto il bisogno, anche se la pressante consapevolezza del bisogno può offuscarla. Noi
dobbiamo sfruttare le nostre ore pericolose. La conoscenza è indefettibile soltanto se ci si pone
il dilemma: conosci o vai in rovina! « Fintantoché le verità non ci tagliano con coltelli la carne,
abbiamo in noi una segreta riserva di svalutazione contro di esse » (4, 311).
Inoltre, di fatto, i metodi si sviluppano ovunque con l’esperienza e l’utilizzazione di ciò che è
contrario al procedimento scientìfico, cioè con la dedizione a tutti quegli aspetti delle cose che si
presentano grazie a qualunque possibilità di atteggiamento: «Dobbiamo procedere per tenutivi con
le cose, ora con malvagità, ora con bontà verso di esse, ed avere per loro successivamente
equanimità, passione e freddezza. C’è chi parla con le cose come un poliziotto, chi come un
confessore, chi come un viandante e un curioso. Ora con simpatia, ora con violenza si caverà
qualcosa da esse » (4, 298). Ma soltanto l' unificazione delle piu disparate forze che sono in noi,
fino a formare un « piu alto sistema organico », porterebbe ad una corretta conoscenza. Se invece
rimangono separate, queste forze sono veleni per la conoscenza nell’ambito del pensiero scientifico;
tuttavia, nell’insieme, esse si limitano e si tengono a freno reciprocamente: « l’istinto del dubbio,
l’istinto della negazione, l’istinto dell’attesa, l’istinto del raccogliere, l’istinto del disgregare » <5,
155). « Non soltanto le conoscenze
sono state messe in luce una ad una e poco per volta, bensì anche i mezzi della conoscenza in
generale, le condizioni e le operazioni che nell’uomo precedono il conoscere. E, ogni volta, fu come
se l’operazione recentemente scoperta o la condizione di recente avvertita non fosse una condizione
di ogni conoscere, bensì già contenuto, meta e risultato complessivo di tutto quanto merita di essere
conosciuto. Al pensatore occorre la fantasia, lo slancio, l’astrazione, la desensualizzazione,
l’ingegnosità inventiva, il presentimento, l’induzione, la dialettica, la deduzione, la critica, la
raccolta del materiale, l’impersonalità nel modo di pensare, la contemplazione -ma tutti questi
strumenti hanno avuto una volta valore, ognuno per se  stesso,... come fini e fini ultimi » (4, 49). Ma
soltanto sostenendosi e limitandosi reciprocamente essi diventano veri e propri impulsi dei
metodi scientifici.
L’essenza della conoscenza scientifica, che risulta dall’azione comune delle varie forze, è l’«
obiettività ». Questa, però, conformemente agli impulsi che mettono in movimento e condizionano
la conoscenza, deve essere intesa « non come “intuizione disinteressata” (che come tale è un non-
concetto e un controsenso), bensì come la facoltà di avere in proprio potere, di scombinare e
combinare il nostro pro e contro ». L’obiettività progredisce soltanto se « si è capaci di utilizzare,
per la conoscenza, proprio la diversità delle prospettive e delle interpretazioni affettive ». Perciò
non dobbiamo mancare di riconoscenza verso quei « risoluti rovesciamenti delle prospettive e delle
valutazioni consuete, con le quali troppo a lungo lo spirito ha... imperversato contro se stesso...
Quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi
sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di
essa, la nostra “obiettività” » (7, 428). « Talvolta promuoviamo la verità con una doppia ingiustizia,
cioè quando vediamo e presentiamo i due lati di una cosa, che non siamo in grado di vedere
insieme, l’ulto dopo l’altro, ma in modo da misconoscere e negare ogni volta l’altro lato,
nell’illusione che ciò che vediamo sia tutta la verità » (3, 46).
Così, la fonte della conoscenza è sempre una lotta: la ricerca metodica fa emergere la propria
obiettività, con combattiva limitazione reciproca delle forze, dalla vita stessa, ed è ¡reale solo se è
insieme alla vita. Anche tra i ricercatori è essenzialmente la lotta ad assicurare
quell’elaborazione critica che è guidata dall’idea della possibilità di un sapere certo e valido:
« Se il singolo non avesse tenuto alla sua “verità”, cioè al suo aver ragione, non ci sarebbe in genere
un metodo di ricerca... La lotta personale dei pensatori ha infine talmente affinato i metodi, che
realmente si son potute scoprire delle verità » (2, 409). Sempre e soltanto grazie all’asprezza della
lotta, è anche possibile lo stato di cose che favorisce il progresso di tutte le sirene: vale a dire, il
fatto che il singolo non debba diffidare di sottoporre a verifica ogni affermazione degli altri, in
ambiti di competenza che gli sono estranei; infatti, questa ampia verifica, non tanto facile al singolo,
avviene a condizione che « ognuno abbia, nel suo campo, competitori
stati in essa » (5, 161). Se questa passione rimane lucida, allora supera la scienza, conservando i
suoi metodi e i necessari criteri di verità delle sue conoscenze, che sono sempre particolari e aperte
in tutte le direzioni, e difendendola contro ogni offuscamento, ma per innalzarsi poi alla verità, che
essa non può piu concepire come soltanto scientifici; essa rimane di fatto incondizionata e,
sperimentando i limiti della scienza, va oltre i metodi scientifici, che come tali ben conosce, verso
nuove esperienze nel pensiero filosofico. Se però questa passione pretende di identificarsi con
la stessa ricerca scientifica metodica, allora conduce inevitabilmente a degli errori, che Nietzsche
ha caratterizzato nelle loro effettive premesse, allorché trovò che fosse molto discutibile la scienza
come fine a se stessa.
1.    Laddove la scienza «è ancora passione, amore, ardore, sofferenza» (7, 466), essa è la forma più
recente e piu nobile dell’« ideale ascetico ». Questa scienza è fondata sulla morale; essa è la volontà
di verità « ad ogni costo » (5, 274). Ma nel lavoro dei dotti questa volontà si trasforma nella
«inquietudine della stessa assenza di ideali » ed in un nuovo autoinganno: « La valentia dei nostri
migliori dotti, la loro smorta diligenza, la loro testa giorno e notte fumigante, la loro stessa maestria
di mestiere - quanto spesso tutto ciò ripone il suo vero senso nel non lasciar più diventar perspicua a
loro stessi una qualsiasi cosa! » (7, 466). Nietzsche non intende certo guastare ai meravigliosi
lavoratori della scienza la loro voglia di lavorare, anzi si compiace del loro lavoro; tuttavia, « col
fatto che oggi nella scienza si lavora duramente..., non è assolutamente dimostrato che la scienza
abbia oggi, in quanto totalità, una meta, una volontà, un ideale, un fervore di grande fede » (7, 466).
Nella misura in cui l’ideale ascetico diminuisce, accade piuttosto che tale scienza perda il suo
significato. Pertanto, già oggi, in segreto, « la scienza non ha assolutamente alcuna fiducia in se
stessa ». Essa sussiste ancora grazie alla forza vuota di quell’ideale ascetico, che fa sì che l’essenza
della scienza possa essere quella « di osservare per se stessi il prossimo e il quotidiano » (9, 29), e
in virtù del quale essa è « quel voler restare inchiodati dinanzi all’effettuale »; essa finisce dunque
per proibirsi tanto il no quanto il sì, e « rinunciare del tutto all’interpretazione » (7, 469).
2.    Nietzsche vede come sia scomparsa la fiducia nella religione. Infatti, poiché la scienza in
concreto ha portato molti vantaggi, abbiamo acquistato fiducia in essa e vorremmo ora rimetterci ad
essa, come prima facevamo con la religione. Ciò che qui dà lo stimolo è la tendenza alla sicurezza',
vi è in essa « quel senso della verità che in fondo è il senso della sicurezza » (4, 33). Questa «
volontà di verità e di certezza scaturisce dalla paura dell’incertezza » (14, 17). La volontà di verità
è qui « soltanto la semplice aspirazione ad un mondo consolidato», che persiste nelle sue certezze
(16, 83). La debolezza desidera avere delle convinzioni, e le vuole ora in forma di certezza
scientifica (che, come tale, ha un’essenza radicalmente nuova, che crea continuamente il dubbio e
non approda mai al tutto); essa cerca nel sapere scientifico una crescita di forza, non l’appagamento
di un interesse oggettivo o di una illimitata passione di verità. La certezza scientifica si tramuta in
una forma di verità vitale qualunque, in grado di rassicurare da certe paure radicate.
Nietzsche mostra con pungente ironia come in questo processo subentri, al posto della religione, la
scienza, che poi serve però soltanto al soddisfacimento dei meri bisogni dell’esserci: « La scienza
moderna ha come scopo: meno do-
lore possibile, vita più lunga possibile - cioè una specie di eterna beatitudine, in verità molto
modesta in confronto con le promesse delle religioni » (2, 133).
3. Se, anziché applicare la scienza con rigore metodico e nella consapevolezza dei suoi limiti, si
pretende inconsciamente da essa più di quanto possa dare, allora si manifestano i tipici errori del
presunto sapere dell’essere; a causa di questi errori, si perdono ad un tempo sia la certezza
scientificamente possibile, sia la verità filosofica che può derivare da un’autentica origine.
All’uomo scientifico, allorché non sopporta piu il vuoto del suo oggetto di studio, appaiono, nel
deserto della sua ascetica ricerca, « quegli splendidi fenomeni atmosferici che si chiamano “sistemi
filosofici”: con magica forza d’illusione essi mostrano vicina la soluzione di tutti gli enigmi » {3,
28); chi è schiavo di essi, è perduto per la scienza. Oppure, si « abbellisce » la scienza: si vuole
intrattenere, si presenta « la scienza in un compendio, con ogni sorta di mirabili e repentine
illuminazioni » (4, 295). Oppure, le scienze acquistano un completamento personale in rare «
nature, per amore delle quali la scienza esiste - perlomeno cosi sembra a loro... Tali nature
producono... l’illusione che una scienza... sia completa e abbia raggiunto la sua meta »; questo
incantesimo « è stato talvolta assai funesto alla scienza e causa di errori per quei veramente bravi
lavoratori dello spirito... Tali uomini si chiamano di solito filosofi » (3, 285-287).
Se il presunto fine autonomo della scienza conduce a simili errori, ciò avviene per il fatto che
l'autentica origine dell’appassionata volontà di conoscere, che un tempo portava al pathos, è andata
perduta. Essa aveva creato la scienza moderna, della quale si può dire: « C’è qualcosa di
nuovo nella storia: la conoscenza vuole essere qualcosa più che un mezzo » (5, 162). Ma gli
interrogativi di Nietzsche vanno al di là di quegli errori, e riguardano l’origine stessa. Qui, dove ha
la sua sorgente l’assoluta volontà di sapere, che non tollera condizionamenti, questa stessa sorgente
deve essere qualcosa di inconscio, che motiva ogni volontà di conoscere, una fede nel valore del
sapere: « Anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza “scevra di
presupposti” ». Nell’origine moderna il presupposto fu: « Niente è più necessario della verità, e in
rapporto ad essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano » (5, 273).
Mostreremo in seguito, sempre all’interno di questo capitolo, in che senso questa fede diventa
problematica per Nietzsche. Dapprima, seguiamo invece la serie di pensieri che mantiene la scienza,
sia pure nei suoi limiti, in connessione con il senso ed il compito della filosofia.
Scienza e filosofia. È parimenti essenziale che nel metodo scientifico Nietzsche veda un modo di
essere della verità e nello stesso tempo i limiti di questa verità, e quindi che egli non la veda come
verità assoluta. La questione dei limiti della scienza, anziché voler distruggere la scienza,
mira piuttosto, anzitutto ed insistentemente, all’essenza della scienza stessa. «Non si tratta di
distruggere la scienza, bensì di padroneggiarla» (10, 114). Far luce sulla scienza conduce poi alla
sua origine, alla filosofia: il vero presupposto della scienza è la passione della conoscenza: ma
questa è appunto il filosofare ed i suoi strumenti sono i metodi scientifici. Là dove la scienza e la
filosofia sono vere, esse sono una sola cosa: « Non c’è una filosofia a parte, separata dalla scienza:
nell’una come nell’altra si pensa allo stesso modo » 110, 133). Se « tutte le scienze si basano...
unicamente sul fondamento universale del filosofo », allora idealmente « il solo filosofo si
identifica qui con tutte le aspirazioni della scienza... Dimostrare la straordinaria unità di tutti gli
impulsi conoscitivi », dalla quale è uscito « l’erudito ridotto in pezzi » (10, 158).
Ma, per quanto ciò che unifica scienza e filosofia sia unicamente la verità, e né lo scienziato che
rimane filosofo, né il filosofo che rinuncia alla scienza siano in un autentico rapporto con la verità, i
metodi scientifici ed il filosofare debbono tuttavia essere considerati, nella loro unità, come i due
poli di cui parla Nietzsche, solitamente isolandoli.
Nietzsche circoscrive nettamente la scienza: si tratta di una delimitazione espressa innanzitutto in
formule positivistiche: « Possediamo oggi scienza esattamente nella misura in cui ci siamo risolti ad
accogliere la testimonianza dei sensi... Il resto è aborto, qualcosa che non è ancora scienza: vale a
dire metafisica, teologia, psicologia, teoria della conoscenza ». Oppure: la scienza è « scienza
formale, teoria dei segni: come la logica, e quella logica applicata che è la matematica » (8, 78).
La delimitazione consiste, inoltre, nel fatto che la verità di cui si occupa l’uomo di scienza non è,
per come egli la concepisce, una verità creata da lui. Egli presuppone ciò che esiste, il cui «
disvelamento » (1, 104) significa per lui la scoperta della verità. Che l’esistenza, in questo senso, sia
comprensibile, è per lui segretamente già la giustificazione dell’esistenza stessa (1, 106).
Infine, la delimitazione consiste nel fatto che ogni lavoro scientifico rimane sempre individuale e
che alla base di esso, nella misura in cui viene svolto per se stesso, c’è nell’insieme del
comportamento di vita un presupposto: « che si creda nell’unione e nella continuazione del lavoro
scientifico, in modo che l’individuo possa lavorare in ogni campo, per quanto piccolo, con la fiducia
di non lavorare invano» (16, 94).
Il fatto che la scienza possa distaccarsi in larga misura dalla filosofia e in questo distacco possa
diventare la vita degli scienziati e dei ricercatori che dovranno essere essenzialmente degli
specialisti, i quali non riflettono piu sul significato del loro operare, bensì svolgono forse con
perfetta maestria i rispettivi compiti particolari, ha portato Nietzsche ad interrogarsi sulle
caratteristiche, gli impulsi e l’esistenza di questi uomini. Basandosi sulla sua personale conoscenza,
cioè il mondo della sua vita accademica, egli ha tratteggiato molteplici caratterizzazioni di questi
dotti e ricercatori, così diversi tra loro, a volte onorandoli, a volte disprezzandoli.
Comunque sia, « il dotto ideale... è indubbiamente uno dei piu preziosi strumenti esistenti » (7,
150). Nietzsche spiega « perché gli uomini di scienza sono più nobili degli artisti »: essi « devono
essere più semplici, meno ambiziosi, più sobri, più silenziosi... e dimentichi di sé in cose che agli
occhi dei molti appaiono raramente degne di un tal sacrificio della personalità » (3, 110). Grandezza
e miseria di questo esserci sono rappresentate nello Zarathustra dal « coscienzioso dello spirito », il
quale non è altro che un insuperabile conoscitore del cervello della sanguisuga. Egli caratterizza se
stesso come ricercatore in questo modo: «Meglio non sapere nulla, che molte cose a metà!... Io -
vado fino al fondo: - che importa, se è grande o piccolo? Se si chiama cielo o palude?... Là dove la
mia onestà finisce, io sono cieco e voglio anche essere cieco.
Dove però voglio sapere, voglio anche essere onesto, cioè duro, rigoroso, scrupoloso, crudele,
inesorabile » (6, 363 e sgg.).
La filosofia viene, in modo altrettanto netto, caratterizzata come l’altro polo rispetto alla scienza. Si
tratta proprio di ciò che non esiste mediante la scienza, e tuttavia diventa informazione,
comunicabilità, e che da parte sua dà il primo impulso alla scienza. Ma questa filosofia diventa poi
per Nietzsche infinitamente più che un semplice polo nell’ambito dell’insieme della
conoscenza. Per chiarire ciò che è la filosofia, Nietzsche parla del filosofo in modo tale
che l’immagine che egli ha della sua propria essenza e del suo proprio lavoro viene a coincidere con
ciò che dovrebbe essere la filosofia in generale.
A differenza della certezza metodica su ogni singola cosa, che è propria della scienza, il filosofo
realizza il proprio compito a partire dal momento in cui gli si presenta l'essere nella sua interezza.
Egli se ne serve come di una « immagine ridotta del mondo intero» (1, 473). Il filosofo deve essere
passato attraverso tutti i gradi del sapere, deve aver osato ogni presa di posizione ed esperienza,
deve avere sostenuto una volta tutti i punti di vista, deve avere usato ogni espressione: « Ma tutte
queste cose sono soltanto condizioni preliminari del suo compito: questo stesso compito vuole
qualcosa di diverso - esige che egli crei dei valori» (7, 161); in tal modo, egli è al contempo
«l’uomo che ha la responsabilità più vasta e per cui il completo sviluppo dell’umanità è un fatto di
coscienza » (7, 85).
I filosofi sono, quanto alla loro persona, degli sperimentatori. Essi sentono « il peso e il dovere di
cento esperimenti e di cento tentazioni della vita »; essi mettono « continuamente a repentaglio se
stessi » (7, 148); il loro piacere di sperimentare si serve « dell’esperimento in senso pericoloso » (7,
159). È possibile che essi stessi si sentano « sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi » (7,
162). Ciò che pensano è sempre anche un problema. Le loro risposte non sono mai definitive. Sono
i « filosofi del pericoloso “forse” in ogni senso » (7, 11).
In ogni tempo, essi sono in contraddizione con il loro oggi, con il mondo loro contemporaneo.
Grazie al suo sguardo sul tutto, il filosofo può consapevolmente affermare: « Ah! ancora altre due
generazioni, e nessuno ha più le opinioni che oggi dominano e che vogliono rendervi schiavi» (10,
297). Ma egli sa che questo non è soltanto un fatto negativo; la sua ostilità contro il tempo si fonda
anche sul segreto che gli è proprio, cioè « di conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova
strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento » (7, 162).
I filosofi si accontentano di se stessi, senza bisogno di doversi appoggiare a qualcos’altro. Essi non
hanno bisogno della fermezza di un contenuto di fede. Il loro scetticismo è « lo scetticismo della
virilità temeraria... Questo scetticismo disprezza e cionondimeno attira a sé; scava e prende
possesso; non crede in nulla, ma non si perde in ciò; offre allo spirito una pericolosa libertà,
eppure raffrena severamente il cuore » (7,157). I filosofi trovano nello scetticismo qualcosa di piu
dello stesso scetticismo: « la sicurezza delle misure di valore, la cosciente, applicazione di una unità
metodica, l’accorto coraggio, lo stare isolati e il sapersi dare una giustificazione... Non
praticheranno la “verità”, perché essa “piaccia” loro, o li “innalzi”, e li “entusiasmi” » (7, 159-160).
Soltanto nella dimensione di una ricca esperienza, che abbraccia ed impegna tutto il suo essere,
soltanto dalla solitaria ostilità contro un mondo esistente e dallo scetticismo positivo che penetra fin
nella profondità del vero, sorge l’uomo a cui pensa Nietzsche quando afferma che il filosofo è «
colui che co
manda » (7, 161); egli crea i valori, stabilisce le loro tavole, determina gli ordini gerarchici. Già il
giovane Nietzsche dice: tutti i grandi pensatori furono dei « legislatori per quanto riguarda la
misura, il valore e il peso delle cose » (1,414).
Nella polarità di filosofia e scienza, la filosofia deve avere la preminenza. È infatti proprio dalle
concezioni filosofiche che dipende fondamentalmente la scienza (i suoi fini ed il suo significato);
allo stesso modo, anche le sue vie (i suoi metodi) hanno origine dalla filosofia (10, 114): « In tutto il
pensiero scientifico si può percepire il pensiero filosofico » (10, 132).
La filosofia ha in ogni senso il primo posto. Essa deve « fissare e mantenere il nesso spirituale
attraverso i secoli: e con ciò l’eterna fecondità di tutto ciò che è grande »; per la scienza « non c’è il
grande e il piccolo » (10, 117). Perciò la filosofia delimita se stessa rispetto alla scienza mediante «
la selezione e l’esclusione di ciò che è insolito, sorprendente, difficile, divino », e « mettendo in
risalto ciò che non è utile ». Essa va « sulle tracce delle cose più degne di essere conosciute »,
mentre la scienza si getta indiscriminatamente su tutto ciò che si può conoscere ed è utile. Ma
poiché il concetto di grandezza è mutevole, « la filosofia comincia stabilendo le leggi della
grandezza » (10, 23 e sgg.).
Ma questa funzione direttiva della filosofia, cosi come il senso della scienza - quindi la verità e la
veridicità - vengono meno se l’unità si risolve alla fine in una separazione, come si è verificato in
molteplici forme.
La filosofia si è di fatto rivolta contro la scienza allorché si è pateticamente presentata essa stessa
come scienza. Quasi tutta la filosofia da Socrate in poi conduce « una lotta contro la scienza »; « è
la stessa lotta che viene più tardi condotta... dalla Chiesa »: « si vogliono tenere le mani libere per la
propria “via”... Essi odiano il graduale, il ritmo della scienza, odiano il non voler arrivare, il respiro
lungo, l’indifferenza dell’uomo di scienza per la persona » (15, 471-472). La «falsità, bugiarderia
corre attraverso tutta la storia della filosofia. A parte i rispettabili, ma assai scarsi scettici, da
nessuna parte si vede un istinto di probità intellettuale» (15, 441). La miseria dei «filosofi
del guazzabuglio, che si fanno chiamare “filosofi della realtà” o “positivisti” » e della «filosofia
ridotta a “teoria della conoscenza” » è per Nietzsche un motivo sufficiente affinché un bravo uomo
di scienza - che altrimenti dovrebbe farsi guidare dai filosofi - possa di fatto sentirsi di una razza
migliore. Questi filosofi di oggi sono infatti « ricondotti sotto la sovranità della scienza », anche se
non producono nulla di scientifico. In loro non resta più nulla di ciò che è propriamente il senso
della filosofia (7, 145-146).
Ma, da parte sua, in quest’epoca la scienza ha attuato uno « sconveniente e dannoso squilibrio
gerarchico » tra la scienza e la filosofia, sicché alla fine dei semplici uomini di scienza vorrebbero
recitare essi stessi il ruolo del filosofo. « La dichiarazione d’indipendenza dell’uomo di scienza, la
sua emancipazione dalla filosofia » è in fondo un « istinto della plebaglia »: si è arrivati « in modo
del tutto arrogante e sconsiderato a dettar legge alla filosofia e a fare la parte del padrone - ma che
dico! - del filosofo ». Lo specialista si oppone istintivamente ad ogni lavoro di sintesi, il lavoratore
diligente all’otium aristocratico, l’uomo utilitario alla filosofia in quanto serie di sistemi confutati,
che non serve a nessuno (7, 143 e sgg.).
Il filosofare, così come Nietzsche lo descrive, è esso stesso alla fine, nonostante la sua funzione «
direttiva », un ricercare. C’è da chiedersi come sia possibile che la filosofia funga da guida per la
scienza, se la filosofia stessa non « è » la verità pura e semplice. Nietzsche non ha spiegato come
debba verificarsi in concreto tale guida. E non ha neppure conferito alla filosofia quella fiducia che
solitamente le si accorda; anzi, la filosofia come costruzione astratta, concettuale, come pensiero in
sé razionalmente coerente - pressoché l’intera storia della filosofia - è per lui discutibile, nel senso
che la verità non trova allatto nella filosofia il suo definitivo fondamento.
La teoria dell’interpretazione: verità e vita
La verità è stata considerata come qualcosa che esiste in modo atemporale, cui ci accostiamo per
conoscerlo, come ciò che è immobile ed intangibile, che deve soltanto essere scoperto.
La concezione di Nietzsche sui limiti della scienza, la cui pretesa incondizionatezza è solo una
povera illusione, cosi come la sua esperienza dell’illimitato impulso del filosofare creativo, gli
hanno fatto dubitare dell’esistenza della verità nel senso suddetto. Nel movimento di questo
dubbio indagatore, egli sviluppa una teoria dell’essere-vero: tutto il sapere è interpretazione
dell’essere attraverso una vita di conoscenza; si ha verità soltanto laddove essa è pensata e creduta
nella vita, la quale è ciò che abbraccia l’essere che noi siamo, e che forse è tutto l’essere. Per
Nietzsche, la verità non è qualcosa che esiste per sé, cioè qualcosa di assoluto ed universale; la
verità è invece indissolubilmente legata all’essere del vivente, in un mondo che l’essere stesso
interpreta. Ma questo stesso mondo è tale quale è per noi, ed è con noi permanentemente nel
processo temporale del divenire.
Lo sviluppo di questa teoria nasce dal dubbio, che è espressione della volontà di non farsi ingannare
da alcuna evidenza non controllata; ma la dissoluzione di ogni verità, che si ritiene sussistere in
modo avventato, deve nello stesso tempo condurre alla verità autentica, che risiede nell’origine e
nel cammino della stessa esistenza vivente. Questa teoria della verità si sviluppa quindi
continuamente tra la negazione di ogni possibile essere-vero ritenuto sussistente e l’essere colpiti da
una verità non ancora afferrata: e può essere espressa e comunicata soltanto nella misura in
cui viene sviluppata una teoria dell’essere, la teoria di ogni essere come essere-interpretato (sulla
cui fondamentale importanza per Nietzsche cfr. il cap. sulla sua « interpretazione del mondo »). La
teoria della verità, a sua volta, impone inevitabilmente la questione della sua stessa verità, o
comunque del senso in cui essa può valere come verità, in base ai criteri da essa stessa stabiliti. Qui
di seguito cercheremo dunque di esporre in modo criticamente costruttivo questa teoria.
Il carattere illusorio della verità. La nostra natura umana, che, per quanto ci è dato di sapere, è
l’unica vita in grado di conoscere, secondo Nietzsche è sorta, nel corso di tutto il divenire, come un
modo particolare di interpretare l’essere: « Il fenomeno generale dell’intelligenza è a noi
sconosciuto, noi abbiamo solo il caso particolare ». Il modo in cui vediamo, pensiamo, concepiamo
il mondo è il prodotto del nostro tipo di intelligenza. Ma « ci deve essere una comprensione del
mondo da parte di ogni tipo di intelligenza » (12, 21).
All’interno del nostro modo umano di interpretare il mondo - cosi come dovrebbe parimenti
accadere in ogni altro modo dell’esserci temporale con capacità di conoscere - ciò che è ritenuto
vero, e che è dunque per noi reale, si trasforma. Il mondo è sorto soltanto « per il fatto che da
millenni abbiamo scrutato il mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca inclinazione,
con passione o timore; e a poco a poco è diventato cosi sorprendentemente variopinto, terribile,
profondo di significato, pieno d’anima:... l’intelletto umano ha fatto comparire l’apparenza ed ha
trasferito nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali... Ciò che noi ora chiamiamo il mondo è
il risultato di una quantità di errori e di fantasie che sono sorti a poco a poco nell’evoluzione
complessiva degli esseri organici » (2, 31 e sgg.).
Il modo in cui una vita in grado di conoscere pensa il mondo, significa per questa stessa vita la
verità. Ma Nietzsche chiama « errore » la verità legata alla vita: « La verità è la specie di errore
senza di cui una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere » (16, 19). Però, nella
misura in cui questa vita è la condizione del modo di essere di tutto il resto ed è al contempo, quale
unico esserci, l’autentico valore, non bisogna respingere quell'errore: « La falsità di un giudizio non
è ancora per noi un’obiezione contro tale giudizio », poiché rinunciare ai falsi giudizi
significherebbe rinunciare alla vita; bisogna « ammettere la non verità in quanto condizione della
vita » (7, 12 e sgg.). L’errore utile alla vita è come tale « verità ».
Errore è ciò che nella vita si considera verità, non solo perché essa è divenuta tale e può mutare,
bensì anche perché è molteplice in rapporto alla conformazione della vita umana: « Ci sono occhi di
molte specie...: e quindi ci sono “verità” di molte specie, e quindi non c’è nessuna verità » (16, 47).
Tali affermazioni di Nietzsche possono tuttavia avere un senso soltanto se, partendo da una verità
che può essere irraggiungibile per la vita, la conoscenza al servizio della vita è riconosciuta come
errore. In queste affermazioni ci sono due concetti di verità: la verità è, in primo luogo, l’errore che
condiziona la vita; in secondo luogo, è la norma distante dalla vita, da conquistare per cosi dire
mediante un abbandono della vita, e in base alla quale quell’errore è riconosciuto come tale.
Nell’evoluzione del suo pensiero, Nietzsche tenterà di superare questo dualismo. Ciò che è prima
chiamato errore della vita, sarà poi l’unica ed intera verità, che propriamente non potrebbe essere
chiamata né errore, né verità: « Il concetto di “verità” è un controsenso. Tutto il regno del “vero-
falso” si riferisce solo alle relazioni tra esseri, non all’“in-sé”... Non c’è un essere in sé » (16,106-
107). Allora, nel modo di pensare di Nietzsche, per verità non si intende « necessariamente il
contrario dell’errore, ma, nei casi più tipici, solo la posizione reciproca di vari errori » (16,
46). Pertanto, Nietzsche si chiede: « Cosa ci costringe soprattutto ad ammettere che ci sia una
sostanziale contrapposizione tra vero e falso? Non basta riconoscere diversi gradi di illusorietà e,
per cosi dire, ombre e tonalità complessive, più chiare e più scure, dell’apparenza? » (7, 55 e sgg.).
La distinzione di verità ed errore è tuttavia inevitabile. Infatti, soltanto grazie a questa distinzione è
possibile parlare sensatamente della verità. Soltanto sulla base di essa sarà poi possibile il
paradossale tentativo di superare nuovamente la contrapposizione, assumendo che verità ed errore
siano, in quanto gradi dell’illusorietà, la stessa cosa. Dato che Nietzsche, di fatto, assume questa
posizione, per lui tutto ciò che ha valore in sé scompare nell’apparenza, che è in divenire ed è
sempre diversa, e che, nella sua instabilità e nel suo continuo scomparire, è appunto l’essere stesso.
In questo modo, la « verità » è per lui « non qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, -
ma qualcosa che è da creare e che dà il nome ad un processo... che di per sé non ha mai fine:
introdurre la verità,... un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa che sia "in sé”
fisso e determinato » (16, 56).
Questa idea del carattere illusorio della verità, qui esposta nei suoi lineamenti fondamentali, nel suo
concreto sviluppo assume un duplice significato. In primo luogo, diviene una teoria, che è
applicabile alla spiegazione psicologico-sociologica dei modi di considerare il vero; poi si
dimentica quale significato di verità avesse questa teoria in sé, in modo che resti soltanto la verità
empirica delle singole relazioni del comportamento umano. In secondo luogo, però, la teoria è essa
stessa un mezzo di espressione della coscienza filosofica del limite, in cui si manifesta
nettamente una esigenza esistenziale, ed inoltre un tratto fondamentale della coscienza dell'essere.
L'applicazione della teoria. L’universale errare dell’esserci, che è possibile soltanto come tale, cioè
appunto nel suo errare, è la teoria con cui Nietzsche intende spiegare la realtà psicologico-
sociologica. Un esempio di applicazione della sua teoria - in forza della quale tutto il sapere, in
quanto opinione sulla verità, è un’involontaria autolimitazione della vita a ciò che si riferisce ad
essa in questo momento ed in queste condizioni - è costituito dalle seguenti riflessioni.
La verità legata alla vita è necessariamente comunicabile. «Ci sono occhi di molte specie...: e quindi
ci sono “verità” di molte specie... » (16, 47): questa frase trova il suo limite in ciò che rende
possibile la comunità. Per questa, e conseguentemente per l’uomo in quanto vive in essa, è vero
soltanto ciò che è comunicabile a tutti; pertanto, la comunicabilità generale è inconsciamente la
fonte ed il criterio della verità favorevole alla vita per la comunità. Verità è ciò che nella mentalità
convenzionale risulta opportuno per una comunità. Verità è nella lingua « un mobile esercito di
metafore » che, dopo un lungo uso, appaiono certe e consolidate ad una determinata comunità. L’«
uomo menzognero », condannato da questa comunità, fa un cattivo uso delle metafore sulle quali
inconsciamente si conviene che come tali siano valide, in quanto egli fa apparire in esse come reale
qualcosa che per questa stessa comunità è irreale. Egli è tenuto, come membro di questa comunità, a
« mentire » secondo la convenzione consolidata: ciò significa che, a giudizio di questa
comunità, egli è veritiero in quanto usa, nell’ambito di questo giuoco di dadi, ciascun dado cosi
come è contrassegnato (10, 192-197). Il fatto di non pagare con la moneta corrente è quindi una
menzogna proibita: infatti, ciò che si pone al di fuori della verità valida secondo la convenzione
consolidata è, alla luce di questa, la non-verità; e chi dunque mente in tal modo compromette quel
mondo che assicura il perpetuarsi della comunità. D’altra parte ci sono qui le verità proibite: per lo
stesso motivo, cioè a dire per non mettere in pericolo la sopravvivenza della comunità, è
assolutamente proibito pensare ed esprimere la verità effettiva, che va oltre la convenzione (10,
209).
Ciò che Nietzsche in questo modo vuole comprendere è chiaramente una realtà psicologico-
sociologica; questa realtà può sussistere senza che si ponga l’effettivo problema della verità per se
stessa; avviene una inconscia autolimitazione. Nietzsche estende a tal punto l’ambito di questa
verità - che è l’errore che favorisce l'esserci, ed ha la sua forza nel fatto che non è messo in
discussione -, da includervi anche ciò che è comunicabile nel modo piu generale, cioè il razionale. Il
razionale appare a Nietzsche problematico proprio per l’universalità della comunicazione: « “Ciò
che si può dimostrare è vero”. È questa una definizione arbitraria del concetto di “vero”... Nello
sfondo sta l’utilità che deriva dal fatto che al concetto di “vero” si attribuisca un tale valore,
giacché il dimostrabile fa appello a ciò che nelle menti è più comune (alla logica), per cui non si
tratta, naturalmente, che di un criterio di utilità nell’interesse dei più» (13, 54). L’evidente validità
di questa generale comunicabilità del razionale rientra dunque nell’inconscia autolimitazione della
verità ai fini della formazione della comunità.
Per l’applicazione di questa teoria è essenziale, in primo luogo, che rimanga incerto in quale misura
le sue conoscenze sono valide; infatti, non si può anticipatamente affermare che esse siano
senz’altro valide per ogni esserci umano; solo se si può empiricamente dimostrare in concreto
*  dove e entro quale limite sono valide, esse hanno un senso per la conoscenza. In secondo luogo,
per una teoria della conoscenza di questo genere, è caratteristico il fatto di non dar luogo a
conoscenze che consistano nell’indifferente contemplazione di una disinteressata facoltà di
conoscenza. Riflessioni simili a quelle che abbiamo ora descritto, che sembrano
soltanto applicazioni di una teoria, manifestano però al contempo una precisa esigenza: noi le
facciamo - a volte con riluttanza, a volte con convinzione -con il proposito di cambiare qualcosa in
noi.
In senso generale, si incrociano in queste riflessioni due indirizzi essenzialmente diversi per il loro
scopo. Per un verso, tentando di concepire teoricamente la vita come un esserci che interpreta nei
termini di una verità in divenire - verità che può essere soltanto portata alla luce e non diventa mai
qualcosa di sussistente in sé -, Nietzsche coglie il limite della nostra coscienza dell’essere
nell’esserci reale. Ma poi, con gli stessi concetti, attraverso una riflessione psicologica e
sociologica, Nietzsche si appella ad un’esistenza possibile (la vita di rango, che si eleva). In
entrambi i casi, si fa certo filosofia, ma i concetti che ne derivano sono appropriati ed efficaci
soltanto come pensieri della mera ricerca teorica. I modi di comprensione della verità sembrano cosi
diventare, quali sintomi di una vita con indoli diverse, oggetto e compito di ricerca, e sembrano
portare in tal modo all’« applicazione » della teoria, con la conseguenza che la teoria stessa rischia
di perdere il suo carattere filosofico.
Questo carattere filosofico della riflessione si mostra in modo evidente soltanto se si completa,
chiaramente e nel suo fondamento, il circolo; solo in tal modo, infatti, esso rende percepibile
logicamente l’origine filosofica.
Il circolo. Nel processo del divenire della vita, anche ogni verità sulla verità dovrebbe avere un
carattere in divenire, e dunque dovrebbe essere una specie di errore. Anche queste affermazioni
sull’essere-vero sarebbero dunque esse stesse non vere. In questo modo, il pensiero di Nietzsche
è caduto in una situazione che mostra una generale necessità del nostro pensiero, quando giunge al
limite.
Se la conoscenza vuole conoscere se stessa, se si deve esprimere la verità sulla verità, allora la
forma fondamentale del pensiero è un circolo. Questo è o la semplice autoaffermazione della verità
che si chiarisce; e allora non sorgono difficoltà. Oppure è l’autosuperamento della verità da parte di
se stessa, da cui scaturisce o l’inabissarsi di ogni verità come definitivo autosuperamento, oppure
una nuova autoaffermazione mediata, in quanto mediante il circolo si rivela una nuova origine della
verità.
Questa elaborazione della verità da parte della verità non riceve dall’esterno alcun aiuto, né alcuna
minaccia. Di per sé, questa duplice possibilità sorge per lo scomparire del circolo in un altro, quale
fondamento a cui esso rinvia. Da dove si deve partire per decidere tra queste due possibilità?
Supponiamo, in primo luogo, che l’autosuperamento della verità venga imposto da una verità
assolutamente valida, cioè precisamente dalla consapevolezza del processo vitale della verità che
rimane costantemente sol tanto apparenza. Ma allora, in questa valida verità sulla verità si è
raggiunto un punto fermo di indubitabile verità (entrano in giuoco le inevitabili implicazioni logiche
dell’« autoreferenzialità »), e sorge la domanda su come io posso, partendo dal punto fermo della
verità che ho raggiunto
— anche se questa ha un carattere negativo -, conquistare un’ulteriore verità. Oppure ci si può
ancora chiedere se la conseguenza di questo autosuperamento della verità, scaturito dalla
conoscenza, sia ormai la fine della ricerca della verità, e se dunque un lungo cammino storico
dell’uomo, durante il quale egli si è vanamente affaticato nella ricerca della verità, sia ora
dimenticato, come se non ci fosse mai stato.
Non c’è dubbio che Nietzsche non avrebbe acconsentito a queste due possibilità (inizio di un nuovo
sistema della verità, a partire da un indubitabile punto fermo conseguito - piu o meno in analogia
con Cartesio —, oppure fine di ogni preoccupazione per la verità). Nietzsche non pensava a questo.
Supponiamo, in secondo luogo, che il pensiero dell’essere-vero non sia slegato da un fondamento
pensante, l’esistenza, e che questo fondamento sia la vita della verità: la vita che come tale si
manifesta in questo pensiero. Allora, dalla « vita della verità » consegne la decisione tra i due
circoli, a favore dell’autoaffermazione della verità. Quindi, la verità sta nel chiarire le origini
dell’essere mediante il movimento dell’autoriflessione verso l’esistenza, che non distrugge la verità,
ma la conferma e si rivolge contro la vuotezza del formalismo razionale, privo di vita, di quelle
prime possibilità; questo formalismo non può reggersi, è anzi cecità di fronte all’autentico vero, ed
è, per cosi dire, il suicidio della verità ancora contenuta in quanto di giusto vi è in esso.
Questo secondo significato è quello di Nietzsche. I suoi pensieri sulla verità dovevano cadere in
continue contraddizioni, dal momento che essi negano ciò di cui hanno bisogno per la loro
formulazione. Questo pensiero sarebbe soltanto una confusione senza senso, se in questo modo non
fossero stati appresi dei limiti, i quali potevano mostrarsi solo indirettamente. Questi limiti vengono
toccati con i concetti acquisiti mediante la teoria dell’essere-vero; in questo modo si ha dapprima il
compimento di questo pensiero, e poi sorgono anche le contraddizioni, quali segnali indiretti di un
pensiero che fa inevitabilmente ricorso ad esse. La teoria non è teoria di un contenuto oggettivo
sussistente, bensì è un mezzo per esprimere filosoficamente, in primo luogo, l’appello esistenziale
ad una verità essenziale in quanto sostenuta da una vita essenziale, in secondo luogo, la
possibilità di un divenir-cosciente dell’essere, che trascende la vita.
Essere-vero ed esistenza. Quando Nietzsche, per esempio, caratterizza la bugiardaggine degli
idealisti (egli li chiama per lo più i « buoni e giusti ») come « il non voler vedere ad ogni costo
come in fondo è fatta la realtà » (15, 119), egli esprime propriamente riguardo ad essi il modo di
essere di tutta la vita: essa ha bisogno della non-verità come condizione della sua esistenza. Ma ciò
che altrimenti era interpretazione del vivente, qui diventa una critica violenta. Questa menzogna -
così sembra - non è quindi la stessa cosa dell’errore indotto da quell’illusorietà che è la verità della
vita stessa. Ci sarebbe una differenza tra l’illusione universale, che è condizione di vita, in quanto
necessità assolutamente inevitabile, e l’illusione, che
è condizione di vita per un’indole specifica — che però solo apparentemente facilita una situazione
dell’esserci: pensare tale illusione significa che io psicologicamente comprendo, smaschero e
respingo, e con ciò decido esistenzialmente (nella misura in cui il mio pensiero è un agire interno, e
non semplicemente un giudizio contemplativo).
In effetti, la volontà di differenziazione da parte di Nietzsche è qui decisiva. L’illusorietà della verità
non è per lui di una sola specie, bensì di tante specie diverse quante lo è la vita. Questa vita non è
sempre uguale, ma presenta invece dei livelli essenzialmente diversi. Quando Nietzsche, nella
stessa forma di pensiero (la non-verità come condizione di vita), ad un tempo constata, afferma e
critica, ciò significa che egli si appella alla vita di alto rango e respinge quella di rango inferiore.
Nel rapporto tra apparenza ed apparenza, l’una è quindi da lui considerata relativamente non-vera
nei confronti dell’altra. Nell’esempio dei «buoni e giusti », ciò che essi, nella loro falsità, non
vogliono vedere, vale a dire la realtà, è null’altro che l’universale apparenza. Menzogna e verità
stanno qui l’una di fronte all’altra, rispettivamente come apparenza non-vera e vera.
In questo pensiero che si appella alla vita di alto rango (che fondamentalmente non è altro che
esistenza possibile), si presentano ora di nuovo delle necessarie contraddizioni, dal momento che lo
stesso fenomeno, che tale è formalmente, viene giudicato in modo opposto a seconda del contenuto
che porta con sé. Così diventano evidenti le contraddizioni che, da una parte, affermano come
condizione di vita la volontà di verità in quanto sussistente, certa e da scoprire, e, dall’altra parte, la
rigettano in quanto paralizzante la vita.
Secondo Nietzsche, la vita ha come propria condizione un mondo di conoscenze. In esso la «
volontà di verità » è « un rendere saldo, un rendere vero - durevole,... una reinterpretazione... nel
senso dell’essere » (16, 56); in questo senso, Zarathustra chiama « volontà di verità » la « volontà di
rendere pensabile tutto l’essere », ed aggiunge: « Tutto quanto è, voi volete prima di tutto farlo
pensabile » (6, 165). La vita vuole ed ha bisogno dell’esistenza di verità certe. Ma ciò che come
verità certa è condizione della vita, che ne ha appunto bisogno per la propria sussistenza, diventa a
sua volta, in contrasto con ciò, una paralisi della vita: « L’affermazione che la verità ci sia... è uno
dei grandi sviamenti che si diano. Posto che essa venga creduta, la volontà di esame, di ricerca, di
prudenza, di esperimento ne risulta paralizzata... L’affetto della pigrizia prende ora partito per la
“verità”,... — è più comodo obbedire che esaminare » (15, 476).1
La stessa apparente contraddizione delle affermazioni di Nietzsche si presenta allorché la credenza
in un mondo che fondamentalmente già è come deve essere, da una parte viene rigettata come
segno di vita impotente, e dall'altra viene richiesta come necessità di vita creativa. Nel senso del
rigetto, Nietzsche dice: « La credenza che il mondo che dovrebbe essere sia, esista realmente, è una
credenza della gente non creativa, che non vuole creare un mondo cosi come deve essere. Lo pone
come esistente... “Volontà di verità” - come impotenza della volontà di creare » (16, 84). Ma c’è
necessariamente una differenza tra la fede in un essere sussistente, rigettato esistenzialmente in
questo modo, mediante un chiarimento psicologico, da parte della vita improduttiva, e la fede
nell’essere, che deve essere chiarita filosoficamente, e che appartiene alla vita come tale; e se
Nietzsche dice apparentemente la stessa cosa tanto dell’uomo creativo quanto di quello impotente,
in realtà afferma e sostiene però il primo: « L’uomo proietta il suo impulso di verità... fuori di sé...
come mondo già esistente. Il suo bisogno inventa già, Come creatore, il mondo a cui lavora, lo
anticipa; questa anticipazione (“questa fede” nella verità) è il suo sostegno » (16, 57).
Nietzsche vede il processo vitale, in quanto è l’essere della verità nella sua apparenza
continuamente mutevole, come un movimento infinito, che continuamente crede all’esistenza di una
verità, e sempre di nuovo la dissolve. Però, il suo significato filosofico è essenzialmente ciò che,
tramite esso, ne consegue per l’uomo. Se ogni verità, che è propria dell’essere, e dunque può esser
incorporata alla vita, è verità in divenire, allora essa non è mai in riposo e neppure procede per se
stessa; al contrario, vero significa ciò che « eleva il tipo di uomo » (15, 178).
La verità, in relazione alle potenze vitali che la distruggono, ma al contempo ne sono la condizione.
Chiarificazione psicologica di relazioni di fatto ed appello esistenziale allo sviluppo dell’essere-
vero vivente si compenetrano nelle diverse esposizioni nietzschiane di circoli senza soluzione, nei
quali né la verità né la vita, come l’altro della verità, sono di per sé stabili. Sono tre le direzioni in
cui Nietzsche, in modo particolare, mostra come la verità si presenti soltanto in relazione ad altre
potenze della vita, che la distruggono ma al contempo ne sono la condizione.
Se la verità deve farsi sentire, allora deve anzitutto agire nel mondo; se non ha alcun effetto nel
mondo, è come se non ci fosse; senza la volontà di comunicazione, e dunque di azione, non è
possibile alcuna duratura volontà di verità. In secondo luogo, la verità è impigliata nei rapporti
di potenza, che condizionano l'esserci dell’uomo che la pensa. In terzo luogo, nell’uomo della
conoscenza è una fede che costituisce lo stimolo senza il quale la ricerca della verità non diverrebbe
reale. Ma tutte queste condizioni diventano anche distruttive; la verità può spegnersi se la sua
azione si fa autonoma e fine a se stessa, a causa della potenza e dell’assolutizzazione della fede che
la stimola. Bisogna rendere più chiari questi tre aspetti del pensiero di Nietzsche mediante alcune
indicazioni.
1.    È inevitabile che si voglia aiutare la verità nel produrre il suo effetto - già anche solo per il fatto
di dirla. Nietzsche si rende conto della fatalità di questo « effetto » che, come tale, assume un
duplice senso: la verità resta se stessa solo in quanto venga compresa e possa convincere; ma se
essa soltanto persuade, allora diventa il suo contrario, poiché conduce alla mancanza di idee e si
limita a suggerire.
L’atteggiamento di chi è indifferente verso tale effetto, volendo dire soltanto il vero, e solo in forza
dell’essere-vero, è esso stesso non-verità, poiché è cecità verso l’importanza dell’effetto: « In sé,
pretendere che si dica solo il “vero” presupporrebbe che si possedesse la verità; ma se ciò sta solo a
significare che si dice ciò che si ritiene essere vero, ci sono poi dei casi in cui è importante dirlo in
modo che sia ritenuto vero anche da un altro: in modo che agisca su di lui » (14, 205).
D’altra parte, se io voglio l’effetto come tale, allora subito non vorrò più la verità, ma solo dei
mezzi finalizzati esclusivamente ad ottenere l’effetto; non solo diventa indifferente se ciò che ho
detto per ottenere l’effetto sia anche vero, ma piuttosto: « quel che deve agire come vero non può
essere vero » (8, 27), cioè non è tale per colui che pensa all’effetto. Ciò che originariamente può
essere vero è dunque destinato a perdere la sua verità nelle manifestazioni intese ad ottenere una sua
ampia ed efficace diffusione: ciò è dimostrato da Nietzsche sull’esempio dei fenomeni storici, nei
quali egli vede una « vera e propria scuola che insegna i mezzi per indurre a credere », secondo i
suoi mezzi e metodi (per es. 15, 268-269).
Questo rapporto tra la verità e la ricerca dell’effetto è inevitabile e necessario: Nietzsche lo
riconosce ma, nel far ciò, vi mette quasi sempre un tono ironico, un sì che è al contempo un no. Egli
dice: « Fare propaganda è indecoroso ma astuto » (14, 290). Soprattutto oggi sarebbe necessario
perlomeno « parlare e agire per qualche tempo in maniera grossolana »: « Ciò che è sottile e viene
taciuto non è più capito, neppure da coloro che ci sono affini. Ciò di cui non si parla ad alta voce e
di cui non si grida, non esiste » (14, 93).
Tutti i procedimenti volti ad ottenere l'effetto, anche se sono necessari per una diffusione su vasta
scala della verità, in ogni caso, non sono più la verità stessa, in senso vero e proprio. A fianco della
necessità della comunicazione, Nietzsche afferma al contempo l’autosufficienza del vero: « L’idea:
“questo pensiero potrebbe non essere vero!” mi sconvolge. “Esso sarà senz'altro ritenuto non vero”
- mi lascia freddo, io lo presuppongo » (11, 385).
2.    La verità, dovunque viene colta, è legata alla potenza: nel mondo oggettivo, mediante la realtà
della potenza che consente o impedisce la sua comunicazione, nella soggettività del singolo,
mediante la volontà di potenza che anima colui che pensa.
In se stessa la verità non è affatto una potenza. « Essa deve piuttosto attirare la potenza dalla propria
parte, o mettersi a fianco della potenza, altrimenti continuerà sempre ad andare in rovina » (4, 343).
Vi è questo pericolo, per esempio, quando diventa determinante la mediocrità che si manifesta
ogni momento nella media degli uomini: « Gli uomini si assoggettano abitualmente a tutto ciò che
vuole avere potenza » (2, 242); e, come talik, essi diventano nemici della verità; non si vuole
pensare, non si vuole essere illuminati: « L’illuminismo suscita la rivolta: lo schiavo, infatti, vuole
l’incondizionato, comprende solo il tirannico» (7, 71).
Nel singolo pensatore creativo, la sua volontà di potenza, senza la quale il suo pensiero non
entrerebbe in attività se esso si mantenesse immutato, elimina la critica. Poiché la verità gli si
mostra già col sentimento della sua accresciuta potenza (15, 479).
3. Originariamente la verità non è puramente cercata per la sua riconosciuta obiettività, che
acquisisce grazie alla scienza, bensì in virtù di una fede: « Ogni reale aspirazione alla verità è sorta
in questo mondo attraverso la lotta per una santa convinzione: attraverso il pathos del lottare:
altrimenti, l’uomo non ha alcun interesse per l’origine logica » (10, 125). «Non ci può essere
un impulso istintivo per la verità, vale a dire per la verità senza conseguenze, pura, spassionata»
(10, 212). Ci deve perlomeno essere una fede nella verità, grazie alla quale, senza che essa stessa sia
già verità, valga per noi la pena di cercare la verità: « Lo stesso scetticismo contiene in sé una fede:
la fede nella logica » (10, 210). Pertanto, non c’è propriamente « alcun impulso per la conoscenza e
la verità, bensì solo un impulso per la fede nella verità; la pura conoscenza è priva di impulsi » (10,
212).
Se è vero che la fede, la fede nella verità, l’impulso a credere alla verità sono le condizioni
originarie, senza le quali nessuna ricerca della verità si metterebbe in moto, altrettanto vero è che
esse diventano al contempo, come tali, una minaccia per la verità stessa. Ciò avviene se la fede o
anche la sua trasformazione nel desiderio di incredulità, dunque gli stimoli come tali, si ergono a
criterio della verità (15, 478). Ogni forma di fede si ritiene vera, ma il criterio di questa verità è
essenzialmente diverso dal criterio della verità obiettiva, che può essere fondata metodicamente e
universalmente. Il criterio di verità della fede è infatti la « prova di forza » che dà a chi crede. Al
contrario, la verità metodica, obiettiva, può « essere assolutamente imbarazzante, nociva, funesta »
(15, 479). Vale in generale quanto segue: « La fede viene creata con mezzi opposti a quelli della
metodica della ricerca: essa addirittura esclude quest’ultima » (15, 479). Se, per dimostrare la verità,
utilizzassimo dei criteri erronei, falliremmo nel nostro intento e la verità stessa si dileguerebbe:
secondo Nietzsche, questi criteri - come « prova di forza » - sono la volontà di felicità, il martirio,
la condotta virtuosa.
L’esperienza del piacere per una verità, la gioia raggiunta tramite essa, non sono mai una prova
della verità. La storia della conquista della verità insegna semmai che « ogni briciola di verità
abbiamo dovuto strapparcela a furia di lotta; in compenso abbiamo dovuto sacrificare quasi tutto ciò
cui di solito sono attaccati il cuore, il nostro amore, la nostra fiducia nella vita. Per questo occorre
grandezza d’animo: servire la verità è il piu duro dei servizi ». Quindi, secondo Nietzsche, se da una
parte la fede implica la seguente conclusione: « la fede rende beati - perciò essa è vera » (8, 286);
dall’altra parte, in base alla sua esperienza, la ricerca scientifica della verità obiettiva dice invece: «
la fede rende beati: perciò essa mente » (8, 286 e sgg.). Si perde comunque la verità, se diventa
predominante la volontà di felicità. Cosi la filosofia, che è una specie di fede, si è ingannevolmente
separata dalla scienza che cerca la verità come tale, allorché ha sollevato la questione: « Qual è
quella conoscenza del mondo e della vita nella quale l’uomo vive più felice? » (2, 23). L’uomo, che
vuole solo la propria felicità, è necessariamente « indifferente di fronte alla conoscenza pura, priva
di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive»
(10, 193). Ma se la verità reclama inesorabilmente se stessa, essa è da parte sua indifferente nei
confronti della felicità:
« Non c’è nessuna armonia prestabilita tra il progresso della verità e il bene dell’umanità » (2, 369).
In secondo luogo, la fede è stata sempre testimoniata nella storia attraverso il martirio. Quando
Nietzsche parla di una verità in sé, come se essa fosse immobile e, in quanto tale, potesse essere
colta e riconosciuta dalla purezza di un pensiero senza tempo, egli respinge il sacrificio sanguinoso
del martire, quale sua testimonianza: « Il sangue è il testimone peggiore della verità; il
sangue avvelena anche la dottrina più pura e la trasforma in delirio e odio dei cuori (6, 134). In
particolare, la verità scientifica non ha, nel suo significato vero e proprio, alcuna possibilità di
essere testimoniata o confutata mediante il martirio. Se scende su questo piano, anche lo stesso
ricercatore viene contestato da Nietzsche: se « la verità, cioè la metodica scientifica è stata afferrata
e promossa da coloro che intuirono in essa uno strumento di lotta », fu proprio attraverso questa
lotta che essi « inalberarono l’idea di “verità” con la stessa assolutezza dei loro avversari, divennero
fanatici, almeno nell’atteggiamento »: le parole « convinzione », « fede », che costituiscono
l’orgoglio del martirio, indicano le condizioni più sfavorevoli per la conoscenza scientifica.
Allorché i veri ricercatori assunsero l’atteggiamento degli avversari, dei credenti, cioè quello di
decidere sulla verità « con sacrifici e risoluzioni eroiche », essi favorirono proprio il dominio del
metodo antiscientifico; « come martiri, compromisero le foro stesse gesta » (15, 480 e sgg.). In tale
contesto, si comprende la richiesta di Nietzsche: « Guardatevi dal martirio! Dal soffrire per amore
della verità! E perfino dal difendere voi stessi!... come se “la verità’ fosse una persona
così sprovveduta e balorda da avere bisogno di difensori!... Fuggite a nascondervi! £ abbiate la
vostra maschera e astuzia, in modo che non si possa riconoscervi!... Il martirio del filosofo, il suo
“olocausto per la verità’ porta alla luce quel che di demagogico e d’istrionesco si annida in lui » (7,
42 e sgg.).
In terzo luogo, non fu un criterio di verità « la condotta virtuosa ». Essa non depone né a favore né
contro la verità: « La verità viene dimostrata in modo diverso dalla veridicità, e quest’ultima non è
affatto un argomento a favore della prima » (4, 72).
Se i criteri della certezza della fede - prova di forza, martirio, condotta virtuosa - vengono sostituiti
ai criteri della verità, allora quest’ultima viene distrutta alle radici. La verità «vuole essere criticata,
non adorata» (11, 171). Secondo Nietzsche, per questa verità vale dunque la seguente
affermazione: « Noi “uomini della conoscenza’ siamo col tempo divenuti diffidenti verso ogni sorta
di credenti » (7, 467).
Non vale soltanto la constatazione che, « senza l’immensa sicurezza della fede, l’uomo e l’animale
non sarebbero capaci di vivere » (12, 39), ma bisogna aggiungere che, anche in virtù dell’intera
ricchezza della nostra essenza, noi dipendiamo dalla fede in quanto origine: « Al Cristianesimo, ai
filosofi, ai poeti e ai musicisti si deve una sovrabbondanza di sentimenti profondamente eccitati ».
Anche se Nietzsche afferma che, per non farci soffocare da questi sentimenti, «dobbiamo evocare lo
spirito della scienza, che... raffredda l’ardente fiume della fede in verità ultime e definitive » (2,
230), egli non vuole comunque mai rinunciare a questo altro fondamento di ogni conoscenza.
Il fatto che Nietzsche, in base al criterio del significato della verità obiettiva, metta in discussione la
fede, non esclude quindi che egli stesso rivendichi per sé una sua fede, che è per lui fonte di verità.
Egli non dice soltanto: « la mia fede...» (12, 367), «noi, che siamo di un’altra fede...» (7, 137);
bensì anche: « Sterili voi siete: perciò vi manca la fede. Ma colui che per necessità creava... credette
alla fede! » (6, 176); e ancora: « Non sono le opere, è la fede che su questo punto decide, che
stabilisce la gerarchia... una certa sicurezza di base » (7, 267). Nietzsche esige però che la sua stessa
fede non sia animata da quel criterio che costituisce la forza di ogni altra fede: « Se c’è una fede che
rende felici, ebbene, qui c’è una fede che non fa questo! » (14, 413).
Sia che si tratti di effetti, o di potenza, o di fede, in ogni caso, ciò che mette in pericolo la verità, la
nasconde o la distrugge, diventerà esso stesso una fonte della ricerca della verità. Soltanto questa
relazione rende qui non solo comprensibili, ma necessari i contraddittori mutamenti di posizione di
Nietzsche. C’è sempre, nella lotta per la verità, un travaglio per affermarsi contro le condizioni in
cui ci si trova; liberarsi completamente da queste condizióni comporterebbe al tempo stesso anche
l’auto-annientamento della verità nel mondo.
L’essere che diviene consapevole al limite. Il pensiero fondamentale dell’universale illusorietà della
verità determina una coscienza dell’essere che si muove come in cerchio mediante tre passi: in
primo luogo, la pura verità vuole essere colta nella sua differenza rispetto ad ogni altra illusorietà; in
secondo luogo, la questione della accordabilità di questa verità con la necessaria apparenza rende
problematica la vita; in terzo luogo, partendo dalla buona volontà dell’apparenza, il complessivo
esserci, per cosi dire in veste filosofica, viene compreso e ripristinato nella sua
universale illusorietà.
Il primo passo tenta di sviluppare il seguente ragionamento. Se il processo fondamentale della vita,
che si trasforma nel e col mondo da esso interpretato, riconosce, in conformità alla sua essenza,
l’essere soltanto come apparenza - che tuttavia la vita stessa deve considerare, alla stessa stregua
dell’essere sussistente, come sua propria condizione -, allora l’interrogativo che si pone al filosofo,
che è egli stesso vita, non è più, come in Cartesio: come è possibile l’errore?; ma, al contrario: «
come è mai possibile una sorta di verità, nonostante la fondamentale non-verità che si ha nella
conoscenza? » (12, 24). La verità come riconoscimento del processo della vita, al quale l’errore è
necessario in quanto condizione della vita stessa, è di fatto - nel pensiero di Nietzsche - raggiunta.
Nietzsche si aspetta la stessa concezione anche nel campo della ricerca scientifica: il « processo
della scienza celebra cosi il suo massimo trionfo in una storia delle origini del pensiero » (2, 33). In
realtà, tale concezione è in grado di liberarci solo in scarsa misura dal mondo della
rappresentazione, cosi come esso ci ha compenetrati e si è impossessato di noi attraverso il processo
della vita; « ma essa può almeno per un istante innalzarci al di sopra dell’intero processo » (2, 31 e
sgg.). Quando Nietzsche, traducendo la sua consapevolezza filosofica del limite in un compito di
ricerca scientifica, afferma che è compito della scienza « constatare i gradi del falso e la necessità
dell’errore fondamentale in quanto condizione di vita dell’essere che procede per rappresentazioni »
(12, 24), egli ha assunto un punto di vista, partendo dal quale deve essere chiaramente possibile
concepire una pura verità sul tutto.
Questa verità, tuttavia, dovrebbe avere un carattere radicalmente di-
verso dalla verità della vita, la quale, da questo punto di vista, sarebbe semmai un errore. L’uomo,
per cosi dire, si spinge un attimo al di sopra della vita. Finché questo balzo è la consapevolezza
trascendente della capacità di manifestarsi di ogni esserci, esso è la kantiana coscienza dell’essere.
Ma quando l’uomo segue la psicologia e sociologia della storia della nascita della conoscenza, in
quanto scienza, allora fraintende quel trascendere filosofico e, con una conoscenza particolare del
mondo, pensa di possedere un sapere del tutto.
In entrambi i casi, il pensiero può essere compiuto solo se diventa esso stesso vita. In tal modo,
però, il pensiero viene assoggettato a quelle necessità della vita che esso stesso considera come
errore, allorché concepisce la verità come incongrua alla vita e la vita come condizionata «
dall’illusione prospettica » (13, 27).
In questo modo, è iniziato il secondo passo: è « posto il problema ultimo sulla condizione della
vita... Fino a che punto la verità sopporta di essere incorporata? » (5, 152). Alla domanda su come si
possano accordare errore e conoscenza, il giovane Nietzsche risponde: « Voler conoscere e voler
errare sono flusso e riflusso » (12, 49). Noi possiamo e dobbiamo compiere entrambi,
alternativamente, cosi come si alternano il giorno e la notte. Questo mero accostamento, però, non è
una soluzione, che sta semmai nel consiglio di Nietzsche al « libero, impavido spaziare al di
sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi, e delle originarie valutazioni delle cose » (2, 53).
L’essenza della concezione filosofica della verità stessa, che non sarebbe più un errore, è dunque
non già la concezione di essere fuori dalla vita, ma appunto un filosofico spaziare-al-di-sopra-della-
vita. Ciò che qui è visto come vero non è la verità nella vita; e ciò che è vero nella vita è, per quello
spaziare, apparenza. Se per la vita « è necessario che qualcosa debba essere ritenuto vero - non che
qualcosa sia vero » (16, 24), allora, l’essere-vero dipende dallo spaziare, il quale però non lo coglie
mai come vita, bensì soltanto nello spazio sopra la vita. La concezione filosofica del complessivo
processo della vita, se vuole avere senso, deve ritenere come vero, in modo diverso rispetto
all’errore vitale, ciò che per essa è la verità sulla verità nella vita, ossia ciò che non potrebbe mai
concepire ed incorporare la vita stessa, poiché in tal modo distruggerebbe la sua propria verità e se
stesso.
Così rimane solo il dualismo della verità in quanto, da una parte, errore che condiziona la vita, e,
dall’altra, verità valida del sapere di questo necessario, vero errore. Tra l’una e l’altra c’è solo
un’alternanza senza fine: « Vivere è la condizione per conoscere. Errare è la condizione per
vivere, e invero errare profondissimamente. Sapere l’errore non elimina l'errore!... Dobbiamo
amare e coltivare l’errore; esso è la matrice della conoscenza... Amare e promuovere la vita per
amore della conoscenza, amare e promuovere l’errore... per amore della vita... è la condizione
fondamentale di ogni passione della conoscenza » (12, 49).
Da questa insostenibile divaricazione di due tipi dell’essere-vero (la stessa vita errante e la non-vita
di uno spaziare che pensa il vero) prende
avvio il terzo passo. La concezione dell’errore in quanto necessario per la vita, dell’illusorietà del
vero, della ricerca della verità che non trova alcun punto fermo su cui arrestarsi, diventa lo sbocco
per l’esigenza nietzschiana di cogliere coscientemente l’essere-vero in questa forma costantemente
limitata della vita reale; noi siamo sempre in essa e al di là di essa; non abbiamo null’altro che
l'illusorietà, ma, dal momento che la veniamo a conoscere come illusorietà, abbiamo in essa, come
cifra, l’essere; questo non è cosa diversa dalla illusorietà, ma il modo dell’essere come
illusorietà trasforma al limite la mia complessiva coscienza dell’essere, e precisamente in modo tale
che questo filosofare costringe all’autentica vicinanza all’essere nell’esserci: «Rimanete fedeli alla
terra» (6, 112).
In primo luogo, Nietzsche richiede la delimitazione cosciente come presenza. In ciò che prende
corpo, qui ed ora, sta la verità. Non ci deve essere alcuna lontananza che inganni su ciò che è
presente. Dobbiamo imparare ad essere « indifferenti » nei confronti delle questioni sulle cose
ultime, e non abbiamo bisogno di stare a vedere « ciò che la scienza » su di esse « stabilirà
definitivamente »; « per noi queste sicurezze sugli orizzonti estremi non sono adatto necessarie per
vivere un’umanità piena e grande... Noi dobbiamo ridivenire buoni vicini delle cose prossime »
(3, 201 e sgg.). Perciò Nietzsche abbozza i principi della vita onesta che accetta di porsi dei limiti:
essa non è più rivolta, come è avvenuto fin ad oggi, a ciò che è piu lontano e che ha l’orizzonte più
nuvoloso; « prima di dare alla propria vita una direzione definitiva, bisogna stabilirsi la successione
di ciò che è prossimo e vicino, di dò che è sicuro e meno sicuro » (3, 359). Al posto delle « verità
fondamentali », bastano « verosimiglianze fondamentali, in base alle quali si vive e si pensa» (13,
72). Nietzsche lamenta la mancanza del senso di osservazione: « L’essere ignoranti e il non aver
occhi acuti in ciò che è più piccolo e ordinario - ecco ciò che fa della terra per tanti una “prateria
della sventura”... » (3, 192 e sgg.). Ciò che è vicino è incomparabilmente importante per il fatto che
in esso sono contenute le condizioni di vita dalle quali noi dipendiamo totalmente; qui è
indispensabile sentirsi realmente a proprio agio, al fine di rendere libero il proprio esserd per le sue
possibilità: noi « diamo importanza alle cose basse, disprezzate da sempre e da sempre lasciate in
disparte... Noi abbiamo scoperto il “mondo piccolissimo” come ciò che è, in ogni cosa, decisivo»
(16, 367 e sgg.). Nel modo estremo di esprimersi degli ultimi anni, Nietzsche arriva a dire: « Queste
piccole cose - alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo - sono
inconcepibilmente più importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante » (15, 46).
È vano guardare agli orizzonti più lontani; tutti gli inizi e le origini dei fenomeni reali sono
inaccessibili o indifferenti: « Con la piena cognizione dell’origine aumenta l’insignificanza
dell’origine: mentre la realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco
a mostrare colori e bellezze, ed enigmi e ricchezze di significato, cose, queste, di cui l’umanità più
antica non sognava neppure » (4, 49 e sgg.).
Quando sostiene che bisognerebbe ritornare alle cose prossime, Nietzsche non pensa solo alla mera
utilità di questa indicazione. Egli compie piuttosto, in secondo luogo, una consapevole
autolimitazione della verità con la richiesta di affermare l’apparenza come apparenza, di volerla, di
affidarsi ad essa. Se la passione della conoscenza implica anzitutto lo smascheramento di ogni
apparenza, essa può in seguito, anziché annullare l’apparenza, comprenderne il senso e la necessità.
È come se la volontà di verità, quando vuole l’apparenza, rimanesse sospesa, senza disperdersi
nell’apparenza; infatti, essa non la disconosce, dal momento che si dedica ad essa: « Questa fede
nella verità perviene in noi alla sua ultima conseguenza:.... se mai c’è in generale qualcosa da
adorare, èll'apparenza che deve essere adorata; la menzogna - e non la verità - è divina! » (16, 365).
In questo modo, la verità scompare nell'’inaccessibile: « Noi non crediamo pili che la verità resti
verità, se le si tolgono i veli di dosso... Si dovrebbe onorare maggiormente il pudore con cui la
natura si è nascosta sotto enigmi e variopinte incertezze... Oh, questi Greci! Loro sì sapevano
vivere-, per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza,
adorare l’apparenza... Questi Greci erano superficiali - per profondità! » (5, 11).
A questa volontà di apparenza si oppone sempre, nel filosofare, « quella sublime inclinazione
dell’uomo della conoscenza, la quale prende e vuole prendere le cose in profondità, nella loro
multiformità, alle loro radici: quella sorta di crudeltà della coscienza intellettuale... » (7, 189); ma lo
stesso filosofare è animato anche dalla seguente consapevolezza: « Chi ci svelasse l’essenza del
mondo, procurerebbe a noi tutti la piu spiacevole delusione. Non il mondo come cosa in sé, bensì il
mondo come rappresentazione (come errore), è cosi ricco di significato, cosi profondo e
meraviglioso » (2, 47). Così il filosofo ritorna all’apparenza.
La limitazione inconsapevole della vita incatenò all’errore; la limitazione e l’appagamento coscienti
tramite l’apparenza mantengono aperta la coscienza. Eppure, sullo sfondo, resta minacciosa la
verità che deve essere confinata in tali limitazioni. Essa si annuncia inesorabilmente, poiché l’uomo,
quando filosofa, pur con tutta la sua buona volontà di limite, orizzonte e apparenza, non rinuncia ad
interrogarsi; poiché egli compie esperienze di pensiero che non sono un giuoco dell’intelletto, bensì
la forma di irruzione di qualcos’altro che non consente mai di raggiungere la quiete nel limite e nel
fisso orizzonte.
Perciò, risorgendo con molta problematicità, non solo c’è sempre, ma è presente appassionatamente
in Nietzsche una volontà di verità, anche se ancora cosi indeterminata. La lotta di Nietzsche per la
verità presuppone sempre di nuovo questa verità come evidente, per poi farla cadere sempre di
nuovo in un abisso.
La passione di una illimitata volontà di verità
Nietzsche cercava la certezza metodica nelle scienze, ma solo -per poi individuare ancor piu
decisamente i limiti della scienza. Egli ha abbozzato una teoria dell’essere-vero come
interpretazione attraverso una vita, ma per realizzare poi il circolo del pensiero. Non lo guida una
volontà distruttiva, bensì una passione per la verità che non si sente mai completamente appagata.
Essa non vuole conoscere ciò che è particolare, non si accontenta di una certezza qualsiasi, ma
tende a raggiungere, al di là di tutto ciò che è determinato ed afferrabile, l’origine ed il limite.
Nietzsche ha ammesso spesso questa passione per la verità: « Che cosa sono per me bontà d’animo,
finezza di sensibilità e genio, se l’uomo dotato di tali virtù tollera in sé fiacchi sentimenti nel
credere e nel giudicare, se l'esigenza della certezza non costituisce per lui la piu intima delle sue
brame e la piu profonda delle sue necessità...! Piantarsi in mezzo alla... meravigliosa incertezza e
ambiguità dell’esistenza e non porre dei problemi...: questo è ciò che io trovo spregevole » (5, 38).
« La passione per il “vero" a dispetto di ogni cautela è la piu elevata - perciò la pili rara fino ad
oggi! » (12, 127). Nietzsche vuole dedicarsi a questa passione senza riserve; per quanto lo riguarda,
egli è capace di far tacere tutte le obiezioni che sorgono dalle necessità ed esigenze della vita: « La
mia filosofia - sottrarre l’uomo all’apparenza, ad ogni costo! » (12, 18). Infatti, « in noi la
conoscenza si è mutata nella passione che non teme nessun sacrificio » (4, 296). Nulla la fermerà: «
un giubilo di conoscenza - l’ultimo tuo accento » (2, 267).
Preso dalla passione della verità, Nietzsche riconosce dunque nell’onestà la nuova virtù, e guarda
alla giustizia come all’atteggiamento umano piu degno di rispetto. Egli ritiene ohe per entrambi i
modi di essere della veridicità non valgano delle caratterizzazioni razionalmente univoche; essi non
sono per lui degli ideali plastici. Piuttosto, ciò che per lui è la veridicità stessa diventa un pericolo
per la verità, che cade ora in una lotta con se stessa. La passione di una illimitata volontà di verità
giunge al suo apice soltanto allorché si rivolge contro se stessa e si mette in discussione.
Onestà. Quando ogni verità, che si presenta in una forma determinata, sembra dileguarsi, resta come
ultimo fondamento la sincerità; nell’insuccesso dell’uomo della conoscenza, essa è pur sempre un
possibile inizio, ciò che è indistruttibile, fino a quando è l’essere-sé. Nietzsche si riconosce nella
sincerità: in quanto costituisce la piu efficace presenza della veridicità nell’uomo, essa è l’« onestà
intellettuale ».
L’onestà - poiché è un presupposto dell’esistenza - non viene, come in seguito la giustizia,
espressamente lodata: « Non penso che l’onestà verso se stessi sia qualcosa di cosi assolutamente
elevato e puro: ma in questo provo come un’esigenza di pulizia. Sia un individuo quel che
vuole: genio o attore. Basta che sia pulito! » (11, 261). In questa esigenza, tuttavia, non c’è
assolutamente alcuna limitazione: « Non sono in grado di
riconoscere una qualsiasi grandezza che non sia legata all’onestà verso se stessi » (11, 379).
L’onestà è sempre, in primo luogo, «onestà verso noi stessi» (11, 261). Soltanto tramite essa è
possibile il divenire del nostro essere-sé: in primo luogo, « la crescita dell’onestà ci rende piu
indipendenti dall’ispirazione degli istinti » (11, 260); e, in secondo luogo, la mia onestà stabilisce il
limite della mia capacità di conoscere: « Non dove il vostro occhio cessa di conoscere, bensì
laddove cessa la vostra onestà, l’occhio non vede piu » (12, 290). Quindi, « riguardo a tutto ciò che
è reale, l’onestà potrebbe diventare una questione di decenza, ed il visionario, semplicemente in
quanto privo di tale ritegno, potrebbe perdere ogni considerazione» (11, 262).
Nietzsche chiama l’onestà la sua virtù, la nostra virtù, la nuova virtù: « In tutte le altre cose siamo
solo gli eredi e forse gli sperperatoti delle virtù » (13, 42). Secondo Nietzsche, l’onestà non fa parte
né delle virtù socratiche, né di quelle cristiane: « Essa è una delle virtù più recenti, ancor poco
matura, spesso ancora confusa e misconosciuta, ancora a malapena cosciente di se stessa, - qualcosa
in divenire » (4, 309). « Solo noi abbiamo... quell’onestà, divenuta istinto e passione, che fa guerra
alla “santa menzogna” ancor più che ad ogni altra menzogna » (8, 261).
Perché questa virtù era ed è così rara? Nietzsche risponde: perché ci sono tante ragioni per essere
insinceri con buona coscienza. Per esempio, allorché gli uomini credettero in majorem dei gloriam,
oppure affermarono delle verità perché le desideravano, ma in modo tale che, nel far ciò, potevano
sentirsi disinteressati, non provavano dei rimorsi a causa di questa loro insincerità. Infatti, « allorché
si sentono disinteressati, sembra loro permesso di prendere la verità più alla leggera » (4, 309).
Anche tra i filosofi, nulla è più raro dell’onestà intellettuale. Essi ammettono soltanto alcune verità:
« sanno quel che devono dimostrare » (15, 474). Il loro « amore per il bene » ha distrutto la loro
onestà (15, 483); essi hanno preso come argomento i loro «bei sentimenti» (15, 441). Ma sono
soprattutto le masse che non vogliono l’onestà: esse « odiano furiosamente ’uomo della conoscenza
e la virtù nuovissima, che si chiama: onestà » (6, 41).
L’onestà, però, vuole limitare se stessa. Infatti, è vero che Nietzsche esige un’illimitata onestà, ed
esclama: « E se anche un giorno la nostra onestà si stancasse... restiamo duri, noi ultimi Stoici! »;
ma poi, subito dopo, egli limita questa sua esigenza, ed afferma: « Noi spiriti liberi -facciamo in
modo che la nostra onestà non diventi la nostra vanità, il nostro sfarzoso ornamento, il nostro limite,
la nostra stupidità! Ogni virtù inclina alla stupidità, ogni stupidità alla virtù - facciamo in modo di
non diventare alla fine, per onestà, anche dei santi e dei noiosi! » (7, 182 e sgg.).
L’autolimitazione dell’onestà ha un duplice senso. In primo luogo, la vita impone la separazione tra
l’onestà verso di me e l’onestà verso gli altri: l’uomo deve forse imparare a non essere onesto verso
gli altri: men-
tre egli rimane vero al cospetto di se stesso: « La simulazione intenzionale si basa sul... senso
dell’onestà verso di sé » (11, 261). In secondo luogo, però, l’onestà mette in discussione la
possibilità dell ’onestà dell’uomo verso se stesso.
Nella prima direzione, l’autolimitazione dell’onestà sorge per Nietzsche dalla tolleranza nel
permettere: « Noi vogliamo essere umani anche nel nostro senso dell’onestà, per quanto si possieda
con esso un serrapollici capace di far urlare di dolore tutti questi grandiosi egoisti, che ancor
oggi vogliono imporre a forza la loro fede su tutto il mondo » (4, 343).
L’autolimiitazione dell’onestà sorge inoltre dalla schiettezza con cui si sa riconoscere ciò che è
realmente possibile; nel mondo non è possibile una vita senza menzogna. Nessuno ha ancora
compreso, pensa Nietzsche, il problema dell’autentica veridicità: « Ciò che viene detto contro la
menzogna sono le ingenuità di un maestro di scuola » (11, 261). Se si esige la veridicità con il
comandamento « non devi mentire », allora si nota che lo sguardo onesto, « il riconoscimento di ciò
che è reale (il non farsi ingannare), è stato praticato in sommo grado proprio dai mentitori,
che hanno appunto riconosciuto anche l’irrealtà di questa, “veridicità” popolare » (15, 413). Orbene,
la veridicità è possibile a determinate condizioni: « tutta la sfera dell’uomo dev’essere molto pulita,
piccola e rispettabile: il vantaggio dev’essere in ogni senso dalla parte di chi è veritiero » (16, 48).
Si verifica, di fatto, la seguente situazione: « Si dice quel che si pensa, si è “veritieri” solo a certe
condizioni: cioè a condizione di esser capiti (inter pares), o meglio di essere capiti in modo
benevolo (ancora una volta inter pares). Di fronte a ciò che è estraneo ci si cautela: e, chi vuole
ottenere qualcosa, dice non ciò che pensa, bensì ciò che vuole che si pensi di lui » (15, 413).
Nella seconda direzione, Nietzsche concepisce l’autolimitazione dell’onestà in se stessa, dato che
un’onestà illimitata forse non è possibile e trascende il mondo delle realtà umane, verso una
metafisica del mondo come apparenza. « In un mondo che è essenzialmente falso, la
veridicità sarebbe una tendenza contro natura » (16, 48): questa frase si può ancora applicare alla
simulazione esteriore, ma può anche riguardare già la veridicità di fronte a se stessi. Già per il
giovane Nietzsche, soltanto l’illusorietà dell’arte diventa una via della verità. « Essere del tutto
verace - magnifica gioia eroica dell’uomo, in una natura menzognera! Ciò tuttavia è possibile solo
in modo assai relativo... Sincerità dell’arte: essa sola è ora onesta » (10, 141). Ma, alla fine, per
Nietzsche la veridicità ha senso soltanto « come strumento per un particolare elevamento a potenza
della falsità » (16, 48); e, ai fini della stessa conoscenza, ciò che conta per lui è che « la veridicità è
soltanto uno dei criteri della conoscenza, ma non il solo criterio » (12, 243). Cosi può alla fine
avere un senso la frase: « Chi è verace finisce per capire che mente sempre » (12, 293); e Nietzsche
può dire di sé: « Che mai potete sapere di tutta la falsità che ancora mi è indispensabile, perché io
possa continuare a permettermi il lusso della mia veridicità? » (2, 5).
Giustizia. Veridicità e onestà hanno per Nietzsche il loro autentico significato soltanto nella
giustizia che è possibile tramite esse. Fa parte dell’atteggiamento pratico, volitivo, educativo di
Nietzsche il fatto che l’onestà sia per lui solo una questione di pulizia, mentre la giustizia sia una
questione di pathos. Egli scrive: « Noi, che siamo di natura mista e ora siamo arsi dal fuoco, ora
siamo raffreddati dallo spirito, vogliamo inginocchiarci davanti alla giustizia, come davanti
all’unica dea che riconosciamo sopra di noi » (2, 412). « Veramente, nessuno ha diritto alla nostra
venerazione in più alto grado di colui che possiede l’impulso e la forza della giustizia. Giacché in
essa si riuniscono e si celano le virtù più alte e rare, come in un mare insondabile » (1, 327).
Allorché il tardo Nietzsche crede che sia impossibile conseguire la giustizia, scrive: « È accaduto
tardi che io sia giunto a ciò che propriamente mi manca ancora del tutto: cioè a dire, la giustizia.
Cos’è la giustizia? È essa possibile? E se non dovesse essere possibile, come si potrebbe sopportare
la vita? Mi sono sempre fatto domande di questo genere » (14, 385). Nietzsche è sempre stato
animato dalla seguente volontà: « Sia come sia: noi vogliamo diventare giusti, e proseguire su
questa strada il più a lungo possibile » (12, 135). L’aspirazione alla verità soltanto qui trova la sua
giustificazione: « Solo in quanto l’uomo veritiero abbia l’incondizionata volontà di essere giusto,
c’è qualcosa di grande nell’aspirazione alla verità dappertutto cosi sconsideratamente glorificata»
(1, 328).
Cosa sia propriamente la giustizia, si manifesta però soltanto nel significato dinamico che Nietzsche
attribuisce al termine, con affermazioni apparentemente inconciliabili.
L’uomo giusto vuole la verità « non soltanto come conoscenza fredda e priva di conseguenze, bensì
come un giudice che ordina e punisce, la verità non come possesso egoistico del singolo, ma come
santa autorizzazione a spostare tutte le pietre di confine dei possessi egoistici » (1, 328). Poiché la
verità è condizione ed essenza della giustizia, ne consegue che il costume della giustizia stessa è «
di rifuggire con sentito disdegno da tutto dò che acceca e confonde il giudizio sulle cose; è per
conseguenza un’avversaria delle convinzioni, giacché ad ognuno, vivo o morto, reale o pensato,
vuol dare il suo - e a tal fine lo deve conoscere in modo puro... Da ultimo darà persino alla sua
avversaria, la cieca o miope “convinzione”... ciò che è della convinzione - per amore della verità »
(2, 411). Questa volontà di giustizia, cioè la volontà di dare ad ogni specie di esserci ciò che gli
spetta, è senza limiti; poiché ciascuna specie necessita di una completa giustificazione filosofica del
suo modo di vivere e di pensare, Nietzsche sostiene: « Anche il malvagio, anche lo sventurato,
anche l’uomo-eccezione deve avere la sua filosofia, il suo buon diritto, il suo splendere solare!... è
necessaria una nuova giustizia!... Anche la terra della morale è rotonda! Anche la terra della morale
ha i suoi antipodi. Anche gli antipodi hanno il loro diritto all’esistenza» (5, 218). Ed aggiunge,
sempre in relazione a ciò che questo atteggiamento impone: « Dobbiamo nuovamente cancellare
dal mondo la molta, falsa grandiosità, perché essa è contro la giustizia alla quale hanno diritto tutte
le cose dinanzi a noi » (4, 14).
Ma c’è giustizia? Per la media degli uomini, ben poco. Tra loro, « la virtù della giustizia esiste tanto
di rado, ancor più di rado è riconosciuta e quasi sempre è odiata a morte... Pochi servono la verità,
in verità, poiché solo pochi hanno la pura volontà di essere giusti, e anche di questi, pochissimi
hanno poi la forza per poter essere giusti » (1, 329).
Ammesso che ci sia, se si vuol considerare la giustizia nella sua autenticità, bisogna stare attenti a
non fraintenderla. Infatti, del termine giustizia si fa continuamente un cattivo uso. Così, l’odio,
l’invidia, la gelosia e la vendetta spingono il risentimento dell’impotente a parlare della giustizia
che egli non possiede: « La sua anima giubila di nascosto per il fatto che in tutta la giustizia viene
ancora esercitata la vendetta »; Nietzsche aggiunge: « e la mia, per il fatto che anche in ogni
vendetta scocca dall’incudine una scintilla di giustizia » (12, 291).
La vera giustizia si basa su un sentimento attivo, e non reattivo, come avviene invece nell’abuso di
cui si diceva. I sentimenti reattivi utilizzano la giustizia come un’apparenza, per procurare a
quell’impotenza un illusorio senso di potenza, mediante qualcosa di apparentemente valido in sé o
di irreale, secondo quelle che sono le esigenze della giustizia. Oppure, mediante sentimenti reattivi
ogni giustizia si dilegua subito nel campo delle mere passioni: « Nella media dei casi,... basta già
una piccola dose di carica aggressiva, di cattiveria, d’insinuazione », perché agli uomini vada « il
sangue negli occhi e l’imparzialità fuori dagli occhi » (7, 366).
Il sentimento attivo della giustizia, al contrario, è forse possibile, nel caso eccezionale di un’elevata
forza personale, persino in presenza di una estrinseca impotenza: « Se realmente accade che l’uomo
giusto resti giusto persino verso il suo offensore (e non soltanto freddo, misurato, estraneo,
indifferente: essere giusti è sempre un comportamento positivo), se persino sotto l’urto di un’offesa,
di un motteggio, di un sospetto personale, l’alta, chiara, tanto profonda quanto mite di sguardo,
obiettività di un occhio imparziale, di un occhio giudicante non si turba, ebbene, è questo un saggio
di perfezione e di suprema maestria sulla terra - un qualcosa, addirittura, che prudentemente qui non
ci si deve aspettare, a cui in ogni caso non si deve credere troppo facilmente » (7, 366).
Soltanto questa giustizia attiva perviene al vero giudicare: « Solo la forza superiore può giudicare;
la debolezza deve tollerare, se non vuol fingere forza e non vuol trasformare in commediante la
giustizia sul seggio del giudice »(1, 331).
Ma per Nietzsche diventa giustizia attiva anche la conoscenza, che deve dapprima negare, in quanto
mette in discussione, e poi deve rifiutare, nel momento in cui giudica, ma alla fine deve affermare,
nel momento in cui stabilisce definitivamente e veracemente tutte le cose: « Capiamo tutto, viviamo
tutto, non abbiamo più conservato nessun sentimento ostile... “Tutto è bene” - ci costa fatica il
negare. Soffriamo quando ci capita
di diventare cosi inintelligenti da prendere partito contro qualcosa » (15, 303).
Potrebbe sembrare che la giustizia sia un ideale univoco, e che tutti gli uomini possano diventare
giusti; ma Nietzsche pensa che ciò sia impossibile. Finché la giustizia viene attuata non già da un
essere che come un « freddo demone della conoscenza » diffonde « intorno a sé la
glaciale atmosfera di una maestà sovrumanamente terribile », bensì dall’uomo che cerca « di salire
dal dubbio indulgente alla certezza severa,... dalla rara virtù della magnanimità a quella rarissima
della giustizia », allora questa virtù non è reale: avendo qualcosa del demone, ma senza essere «
null’altro che un povero uomo », l’uomo deve « espiare in ogni momento in se stesso la sua umanità
» e consumarsi « tragicamente per una virtù impossibile » (1, 328). Poiché noi non conosciamo mai
in modo completo, e tuttavia non possiamo vivere senza valutare, dunque dobbiamo valutare senza
avere conosciuto completamente, e quindi non possiamo essere giusti: « Ohi pensa profondamente,
sa che ha sempre torto, comunque agisca e giudichi » (2, 370).
Ciononostante, in quésto mondo necessariamente ingiusto, rimangono pur sempre secondo
Nietzsche l’impulso e l’esigenza della giustizia. Ma 'impulso della giustizia, per quanto possa
sempre affermarsi, deve comunque continuamente mettersi in discussione, tanto in se stesso quanto
riguardo alla realtà.
La giustizia diventa discutibile in se stessa, se manca di amore, anzi se sopprime l’amore: « Gli
uomini veramente giusti non accettano ricompense: essi restituiscono tutto. Perciò sono un orrore
per coloro che amano » (12, 291). È vero che Nietzsche respinge la sopravvalutazione del
cieco  amore: l’amore è manifestamente più stupido della giustizia, e proprio per questo è tanto più
piacevole per tutti. È imparziale come la pioggia (2, 84). Ma Zarathustra, guardando all’amore
propriamente sostanziale, dice: « La vostra fredda giustizia non mi piace... Dite, dove si trova
la giustizia che sia amore veggente? » (6, 100). Se la giustizia vuole farsi valere in se stessa, perde
la sostanza che soltanto l’amore chiaroveggente le può dare. Dato che per Nietzsche la giustizia è la
cosa più importante e più alta, egli afferma di conseguenza: « Dal momento in cui mi si è presentata
la giustizia, subito ho infranto i miei idoli e mi sono vergognato... ed ho costretto il mio occhio a
guardare laddove non guardava volentieri: ed a portarvi l’amore » (12, 351). Ma nessuna costrizione
susciterà l’amore, se la giustizia si fa valere in se stessa; e priva d’amore suona la frase: « Io sono
scrupolosamente giusto, perché ciò mantiene le distanze » (11, 260). L’amore chiaroveggente, che
di per sé è anche giusto, è per Nietzsche come un’idea che la giustizia come tale non raggiunge mai.
Pertanto Nietzsche, in base alla sua conoscenza dell’amore, pone in questione la giustizia.
La giustizia diventa inoltre discutibile con riguardo all'esserci reale. L’ingiustizia è anzitutto
inseparabile dalla vita come tale, poiché tutta la vita è per Nietzsche condizionata dalla prospettiva
dello sguardo e dalle
sue inevitabili falsità. L’ingiustizia è sempre piu grande laddove « la vita è sviluppata nel modo piu
piccolo, più ristretto, più meschino e piu primordiale, e tuttavia non può fare a meno di prendere se
stessa come scopo e misura delle cose, e di sgretolare e porre in questione segretamente
e grettamente e incessantemente, per amore della sua conservazione, ciò che è superiore, piu grande
e più ricco » (2, 11). Però, anche la vita più ricca ha ancora bisogno dell’ingiustizia. Se si vedesse
senza limiti nel giusto significato storico, la vita distruggerebbe se stessa. « La giustizia storica... è
una virtù terribile... il suo giudicare è sempre un distruggere... Se la giustizia regna da sola, allora
l’istinto creativo viene indebolito e scoraggiato » (1, 339).
La realtà dell’esserci umano produce la sua « giustizia », che non ha più nulla a che fare con la
giustizia esistenziale dell’amore chiaroveggente, bensì è di ordine giuridico; ma, in quanto tale, non
agisce a sua volta come una legge di natura, bensì è condizionata dalla forza che al contempo
la mette in discussione. Questa « giustizia » sorge soltanto « fra uomini di forza pressappoco
uguale...; dove non esiste una superiorità chiaramente riconoscibile ed una lotta si ridurrebbe ad un
infruttuoso nuocersi a vicenda, ivi sorge il pensiero di mettersi d’accordo... La giustizia è
dunque compensazione e scambio, in base al presupposto di una posizione di forza all’incirca pari »
(2, 93).
Ma con ciò, secondo Nietzsche, si concede ancora troppo poco a questa giustizia. Essa è astratta,
senza amore e senza azione creatrice, è una condizione che si è consolidata e irrigidita sotto
transitorie costellazioni di forza. Ma la giustizia è, anche nella realtà sociologica dell’esserci, più
che un semplice scambio, se essa sorge da una attività prevaricatrice. In tal caso, Nietzsche le
conferisce un volto preciso, come se si fosse trasformata nel contrario di ciò che era per lui fino a
quel momento: « La prima cosa, e la più potente, è proprio la volontà e la forza di un eccesso di
potenza. Soltanto chi domina istituisce poi la “giustizia”, cioè misura le cose secondo il proprio
metro » (14, 89). Ora invece afferma: « Dare a ciascuno il suo: ciò sarebbe voler la giustizia e
attuare il caos » (12, 291). La giustizia è diventata la « funzione di una potenza di vasto orizzonte,
che va al di là delle piccole prospettive di bene e male, ed ha dunque un orizzonte più ampio del
vantaggio - essa intende conservare qualcosa che è di più di questa o quella persona » (14, 80).
Questa forza è la vita creativa: « La giustizia come modo di pensare costruttivo,
segregante, distruttivo, tratto dalle valutazioni: massimo rappresentante della vita  stessa» (13, 42).
Zarathustra diventa la «grandiosa forma e rivelazione della giustizia, la quale plasma, costruisce e,
di conseguenza, deve annientare » (12, 410).
La giustizia come realtà metafisica. Ancora un passo avanti in questa indeterminatezza della vita
creativa, e si raggiunge il punto in cui la giustizia, anziché restare un problema della verità
all’interno dell’uomo, diventa trascendente. Una volta messa in discussione come possibilità
dell'uomo, essa è da
Nietzsche riabilitata in forma metafisica. La giustizia non è più quella che l’uomo conosce, per la
quale lotta, a cui aspira, ma è la « giustizia eterna », la « giustizia che regna »; essa non è più
l’essenza della ricerca della verità, ma è l’essenza delle cose nel loro accadere.
Nietzsche rifiuta l’idea di una giustizia fondata sulla colpa e l'espiazione: « Che nelle conseguenze
delle azioni siano già implicite la ricompensa e la punizione - questa idea di una giustizia
immanente è radicalmente sbagliata » (13, 315). Ma Nietzsche conosce un’altra giustizia metafisica,
che non è possibile senza il « crimine ». Egli la trova in Eschilo, il quale « pone il mondo olimpico
sulla sua bilancia della giustizia » e « vede troneggiare la Moira, come eterna giustizia »: da ima
parte, il dolore di Prometeo, 1’« individuo » temerario e colpevole, e, dall’altra, il presentimento di
un crepuscolo degli dei presso gli Olimpici in pericolo, costringono ad una riconciliazione; questa è
la realizzazione della giustizia, nella quale entrambe le parti sono giudicate e riabilitate. « La cosa
migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e
deve poi accettarne le conseguenze »: proprio il peccato attivo è la vera virtù prometeica. E'
l’opposizione originaria, nella quale dei e uomini hanno entrambi ragione (1, 68-72).
Senza dover parlare ancora di crimine e conseguenze del crimine, Nietzsche ritiene di trovare nel
pensiero di Eraclito la comprensione di questa vera giustizia: « Lo stesso mondo è una mistura che
deve essere continuamente agitata. Dalla guerra tra gli opposti sorge ogni divenire... la lotta
continua per l’eternità. Tutto accade in conformità di questa contesa, e proprio questa contesa rivela
la giustizia eterna. Si tratta di una concezione mirabile..., che considera la contesa come il dominio
continuo di una giustizia uniforme, rigorosa, legata a leggi eterne...: si tratta dell’Eris buona di
Esiodo, trasfigurata a principio del mondo... Ogni Greco combatte come se la ragione fosse tutta
dalla sua parte, e in ogni istante c’è un giudice che valuta, con un criterio infinitamente sicuro, da
quale parte penda la vittoria: allo stesso modo le qualità combattono tra loro... Le cose stesse... non
hanno affatto una vera esistenza, ma sono il lampeggiare e la scintilla tra due spade che cozzano,
sono il fulgore della vittoria nella lotta fra due opposte qualità » (10, 134 e sgg.). Eraclito « non
potè più considerare separatamente le coppie dei contendenti e i giudici: i giudici stessi sembravano
combattere, e i combattenti stessi sembravano giudicarsi; e poiché in fondo percepiva soltanto
l’eterno dominio di una sola giustizia, egli osò allora esclamare: “La contesa della pluralità
costituisce essa stessa la giustizia unica” » (10, 136). Oppure: « Tutto ciò che esiste è giusto ed
ingiusto, ed in entrambi i casi ugualmente giustificato» (1, 72).
La volontà umana di giustizia sembra anche in Nietzsche moderarsi al cospetto di una giustizia
trascendente. La lotta della verità con se stessa - nella quale la giustizia è messa in discussione, pur
rimanendo al tempo stesso un imprescindibile impulso (ciò che nel filosofare è l’appello,
che perviene ad una determinata chiarezza, all’intimo agire del singolo) - si trasferisce sul piano
metafisico, dove essa, da concreta attività filosofica, si volge in pura contemplazione, per lasciare la
lotta stessa all’essere delle cose, sicché si mostra vera l’affermazione: « È bello contemplare le
cose, ma è terribile essere le cose stesse » (10, 324).
L'autosoppressione della volontà di verità. La volontà di verità è cresciuta sul terreno della morale:
« Il senso della verità è esso stesso una delle piu elevate e potenti efflorescenze del senso morale»
(11, 35). Nietzsche è consapevole di vivere egli stesso con questo supremo stimolo morale che è
l’illimitata volontà di verità, allorché dice: « Anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e
antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria
ha acceso » (7, 470). Soltanto allorché Nietzsche mette in discussione, anche nella sua
trasformazione, questa fede in una illimitata volontà di verità, anche la passione della conoscenza,
per essere veridica, deve rimettere in discussione se stessa. Il circolo (cfr. supra), calatosi nella
passione per la verità, viene spinto ancora una volta alle sue estreme conseguenze. Se « la fede nella
verità comincia con il dubbio su tutte le “verità” fino ad allora credute » (3, 22) e non vuole altri dei
accanto a sé, tale passione per la verità finisce con l’interrogativo a cui essa stessa è sottoposta. Si
apre allora l’abisso senza fondo. Questo dubbio si presenta in due forme principali.
In primo luogo - in relazione alla teoria della necessità dell’apparenza per la vita -, il fatto che la
verità sia ostile alla vita costituisce un argomento contro la verità: « La conoscenza assoluta è una
follia del periodo della virtù; la vita ne perirebbe. Noi dobbiamo santificare la menzogna, la follia,
la fede, l’ingiustizia» (13, 124). Ne consegue dunque che «ci è ormai venuto in uggia questo cattivo
gusto, questo volere la verità, la “verità ad ogni costo”, questa farneticazione da adolescenti
nell’amore della verità » (5, 11).
In secondo luogo, lo stesso pensiero sul cammino della conoscenza porta a questo mutamento.
Dapprima, la condizione della conoscenza che non indietreggia per paura davanti a nulla è di non
credere a nulla: « Fintantoché continuerai a sentire le stelle come un “di sopra a te”, ti mancherà
sempre lo sguardo dell’uomo della conoscenza » (7, 94). Ma poi anche la verità deve cessare di
essere un « di sopra a me »: « Verace -cosi io chiamo colui che va nel deserto, dove gli dei non
sono, e ha spezzato il suo cuore venerante » (6, 150). I cosiddetti spiriti liberi non sono liberi: « essi
sono saldi ed assoluti, come nessun altro, proprio nella fede nella verità »; contro di loro, il radicale
interrogarsi sulla verità deve ancora osare il passo decisivo: « Nulla è vero, tutto è permesso...:
questa era libertà dello spirito, in tal modo veniva congedata la fede nella stessa verità » (7, 469).
Questa svolta, in cui - quando la volontà di verità distrugge se stessa - tutto sembra dover
sprofondare, secondo Nietzsche sorge nel punto di svolta della stòria, nell’epoca presente; essa si
identifica con l’autosoppressione della morale e con la morte di Dio. Dove « la catastrofe,
imponente rispetto, di una bimillenaria costrizione educativa alla verità... finisce per proibirsi la
menzogna della fede in Dio », deve al contempo compiere il seguente passo: dopo aver tratto una
conclusione dopo l’altra, la veracità cristiana trae alla fine la sua conclusione più drastica, la
conclusione contro se stessa; ma questo accade quando essa pone la questione: « Che cosa significa
ogni volontà di verità? » (7, 480-482). E Nietzsche può dire che
cosi deve essere: « Tutte le grandi cose periscono ad opera di se stesse, per un atto di
autosoppressione » (7, 481).
Tuttavia, questo richiudersi del circolo, in cui la volontà di verità si annienta in un semplice nulla, è
soltanto un limite del pensiero. Secondo Nietzsche, o il circolo si compie nuovamente mediante
movimenti circolari, nei quali inizia la lotta per la verità che subito è ritenuta evidente, oppure
diventa percepibile al limite, nella rottura trascendente, qualcosa di diverso.
Il dubbio illimitato. Il movimento delle posizioni del pensiero di Nietzsche sembra continuamente
arenarsi sulla spiaggia dove, a causa della sua volontà di verità, questa stessa volontà dovrebbe
essere abbandonata; ma si ripresenta sempre un nuovo movimento; la meta non è il nulla,
bensì l’essere autentico. Proprio il conseguimento di questo obiettivo è ciò che sprona la passione
della volontà di verità. Il suo modo di manifestarsi è dubbio, che è ineludibile e si impone sempre di
nuovo. Nietzsche non intende porre dei limiti alla propria « diffidenza »: egli vede nel
proprio filosofare una « scuola del sospetto », e, sul cammino del « pericoloso forse », vuole
rischiare solo « per tentativi » ogni possibile pensiero. La passione per la verità, che rinasce ogni
volta che si presenta il dubbio, non può conquistare un solido terreno. Nietzsche è come incalzato
dal destino di dover subito e sempre di nuovo abbandonare al dubbio illimitato ogni conquista del
pensiero. Egli non sprofonda nel nulla, a cui conduce il pensiero della verità che nel circolo compie
l’annientamento di se stesso, ma completa invece il circolo con i movimenti sempre rinnovati
dell’auto-affermazione della sua volontà di verità. Egli non si arena in una qualche giusta
acquisizione della verità, considerandola definitiva, ma trascina invece ciascuna di esse nel vortice.
La dissoluzione della ragione
Ciò che porta Nietzsche a mettere in discussione la ragione in quanto tale non è la sua concezione
sui limiti della scienza, ma la sua interpretazione della verità come illusione e la sua idea del
circolo, che si ripresenta in sempre nuove forme, in cui ogni essere-vero sopprime se stesso, cioè,
per cosi dire, si suicida. Sia che si tratti della morale, o della morte di Dio, o della verità, la
conclusione sembra sempre la stessa: un perdersi nel nulla. Ma proprio in questo punto estremo,
Nietzsche vuole conquistare l’essere, che non è accessibile come ragione; egli cerca di raggiungere
questo essere nella dissoluzione della ragione o nella rottura attraverso di essa.
Nietzsche attacca la ragione da quattro punti di vista.
1. Contro l’affermazione secondo cui la verità risiede nel pensiero, si rivolge la sua teoria
dell’interpretazione, e quindi dell’illusorietà di tutto ciò che è pensato; questa è la vera e propria
logica nietzschiana: le categorie del pensiero sono illusioni necessarie alla vita, sono utili, sono
strumenti dell’appropriazione (6, 22); se non si crede a ciò, la specie morirebbe (6, 20). Ma esse non
sono vere, sono finzioni. Infatti, la loro origine non è l’essere, ma la condizione senza la quale non è
possibile pensare. Questa condizione consiste nel fatto che una oosa sia identica a se
stessa. Soltanto se si pensa l’identità (casi identici, ciò che rimane sempre uguale a se stesso), esiste
l’essere per il pensiero. Ammettere l’essere come identico a se stesso « è necessario per poter
pensare e dedurre: la logica adopera solo formule per ciò che rimane sempre uguale a se stesso »
(16, 30-31). Nietzsche fornisce un’ulteriore esposizione di questo pensiero nei passi seguenti.
Pensare l'identità implica il principio di contraddizione. Anche questo principio è una finzione,
entro l’ingannevole orizzonte di un intelletto che stabilisce l’essere: « Noi non riusciamo ad
affermare e a negare una stessa e identica cosa »; questo però sarebbe soltanto « un principio
di esperienza soggettivo »; in ciò non si esprimerebbe una « necessità » valida per l’essere stesso, «
ma solo un non potere » della nostra capacità di pensare. « Il principio non contiene quindi un
criterio di verità, ma un imperativo circa ciò che deve valere come vero » (16, 28 e sgg.).
Secondo Nietzsche, l’identità e il non .potersi contraddire hanno la loro ultima radice nell’« Io »,
che si pone come uguale a se stesso e costante. Ma, per lui, non c’è alcun Io all’infuori di questa
impostazione. Ciò che l’idealismo tedesco aveva trattato nella logica dell’Io quale coscienza
pensante in assoluto, è assunto da Nietzsche come un mezzo del suo attacco. Poiché il presupposto
su cui riposa il movimento della ragione sarebbe la nostra « fede nell’Io », ne consegue che « il
nostro stesso pensare implica quella fede...; farla cadere significa non poter più pensare » (16, 14-
15).
Il fatto che l’Io, l’identità, l’impossibilità della contraddizione si sostengano a vicenda, costituisce il
cerchio in cui si effettua la capacità di pensare in quanto sempre fittizia interpretazione dell’essere
al servizio di una vita.
Inoltre, poiché tutte le categorie (cosa, sostanza, soggetto, oggetto, predicato, poi causalità,
meccanicismo, ecc.) riguardano soltanto modi dell’essere-identico e dell’essere-diverso, senza
contraddizioni, l’intelletto le pone tutte al servizio della vita che esige come sua condizione
qualcosa di stabile e permanente; sono tutte soltanto fittizie immaginazioni di qualcosa che è. Dai
frammenti di Nietzsche si può ricavare una dottrina delle categorie ampiamente sviluppata, che, con
monotona ripetizione, mostra come ogni categoria comporti questi caratteri d’identità, ecc. e sia al
servizio della vita e della volontà di potenza.
Il risultato, sempre di nuovo confermato, di questa « logica » di Nietzsche è che l’intelletto è si uno
strumento al servizio della vita, ma non può comprendere ciò che è effettivamente, cioè il continuo
divenire: « Il nostro intelletto non ha i mezzi per comprendere il divenire, esso cerca di dimostrare
la rigidità generale » (12, 23). Ma « il carattere del mondo in divenire » è « non formulabile », «
falso », « contraddittorio »; esso è
incommensurabile dal punto di vista logico. « Conoscenza e divenire si escludono a vicenda... una
sorta del divenire stesso deve creare l'illusione dell’essere » (16, 31), vale a dire di ciò che
effettivamente è identico a se stesso. Questa illusione è possibile soltanto mediante il cerchio, che
si chiude in se stesso, del pensiero. Il senso ultimo di queste affermazioni, fondate sulla teoria che
ogni vita pensante è interpretazione, è però la limitazione della ragione ad intelletto, ed il
superamento della sua pretesa di verità, a favore di una esigenza di verità in senso diverso e su
tutt’altro piano.
2.    Nella vita dell’uomo la ragione è superflua, pericolosa, impossibile. Essa è superflua: «
L’illogicità di una cosa non è un motivo contro la sua esistenza, bensì una condizione di essa » <2,
369). Essa è pericolosa: se si presenta con la presunzione di sapere tutto, diventa distruttiva. « Fino
ad oggi la ragione, con la sua presunzione di sapere tutto, ha complessivamente più conservato o più
distrutto? » (12, 156); a questa domanda, Nietzsche risponde: « Se l’umanità avesse agito realmente
secondo la sua ragione, vale a dire sulla base del suo opinare e sapere, sarebbe andata in rovina da
un pezzo » (12, 157). Essa è impossibile: non c’è una sola verità di ragione che spieghi tutto, e con
la quale tutti gli uomini possano intendersi: se, per esempio, dei tolleranti predicatori della ragione
vogliono motivare tutto con la conoscenza razionale, escluderanno pur sempre alcune « verità
fondamentali », per le quali non vale più per loro alcuna tolleranza. « Attenersi alla ragione sarebbe
bello, se ci fosse una ragione! Ma il tollerante è costretto a rendersi dipendente dalla sua ragione,
dalla debolezza di essa » (12, 172). Non c’è, di fatto, una sola ragione sulla quale l'esserci umano
possa basarsi.
Cosa significano questi attacchi alla fede nella ragione? La ragione, nella misura in cui si presenta
come qualcosa di sussistente, con la pretesa di fondare la verità della coscienza dell’essere
dell’esistenza umana, e di essere pensabile ed assimilabile come la sola generalmente valida per
ciascuno, e quindi come tale capace di portare in comune la vita ai tutti, deve essere messa in
discussione da Nietzsche, poiché gli nasconde la verità autenticamente portante dell’esistenza.
Quando egli scopre in essa, sotto la denominazione di « verità fondamentali », soltanto errori che
condizionano la vita, allora è questa una mera indicazione, in cui il pensiero per un attimo si limita,
e quindi Nietzsche stesso non si tranquillizza.
3.    Alla domanda metafisica, se nel mondo regni la ragione, il pensiero filosofico ha sempre
risposto in modo affermativo, anche se con significati a volte assai divergenti fra loro. Nietzsche, al
contrario, nega questa ragione metafisica del tutto: « La sola cosa razionale che noi conosciamo è il
pezzetto di ragione dell’uomo» (10, 414). Il vortice delle forze nel mondo è senza ragione. « Che il
mondo non sia il compendio di un’eterna razionalità, lo si può definitivamente dimostrare col fatto
che quel pezzo di mondo che noi conosciamo - voglio dire la nostra ragione umana — non è
eccessivamente razionale » (3, 190). Infatti: « Anche nel più saggio, la ragione è un’eccezione: caos
e necessità, e moto vorticoso delle stelle — questa è la regola » (12, 243). « “In ogni cosa soltanto
questo è impossibile: razionalità! Un poco di ragione, certo, un germe di saggezza, sparso tra stella
e stella, - questo fermento si trova mescolato a tutte le cose » (6, 243). Per Nietzsche è sorprendente
che ci sia una ragione, in senso assoluto; come è giunta nel mondo? « Com’è giusto che arrivasse, in
un modo irrazionale, attraverso il caso. Si dovrà indovinare questo caso, come un enigma » (4, 125).
La fede metafisica in un mondo dominato dalla ragione è stata una conseguenza della fede in Dio
oppure si è identificata con essa. Per Nietzsche d si sbaglia in entrambi i casi. La fede nella verità
era ancora una conseguenza della fede « per cui Dio è verità, e la verità è divina... Ma come è
possibile, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino, salvo
l’errore, la cecità, la menzogna - se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna? » (5,
275 e sgg.).
Con questo attacco, Nietzsche intende respingere la fede e la fiducia nella ragione obiettiva del tutto
- come un qualcosa che sia, in via di principio, pensabile e conoscibile. Porre tale ragione come
l’assoluto, significherebbe per lui rendere impercettibile l’essere. L’aggressività cela in sé l’appello
all’origine nell’uomo, che deve veramente acquisire la certezza di se stesso, e non nascondersi
dietro il velo di una presunta universale razionalità dell’esserci e di se stesso.
4. Riassumendo i suoi attacchi in uno sguardo storico retrospettivo, Nietzsche si distanzia dalla
filosofia tradizionale. Nella misura in cui i filosofi hanno visto nella ragione, in quanto insieme delle
forme logiche consolidate, la verità e l’essere, egli si oppone necessariamente ad essi. In tal modo,
Nietzsche rifiuta quasi tutta la filosofia tradizionale, a cominciare dal suo primo grande esponente,
in cui egli intravvede il proprio avversario: « Parmenide ha detto: “non si pensa ciò che non è” - noi
ci troviamo all’altra estremità e diciamo: “ciò che si può pensare dev’essere certamente fittizio” »
(16, 47). Allorché i logici «fanno dei loro limiti i limiti delle cose », Nietzsche osserva: « Ma a
quest’ottimismo dei logici io ho... dichiarato guerra » (16, 46). Se Nietzsche revoca la fiducia
alla filosofia che affermava l’assoluta validità della ragione, ciò avviene in età moderna soprattutto
nel caso di Cartesio e della sua « fede nell’evidenza immediata del pensiero ». Nietzsche si propone
di dubitare meglio di Cartesio. A questi, che dubitava di tutto, ad eccezione della ragione
stessa, rimaneva la chiarezza ed evidenza della conoscenza come fondamento sicuro della verità.
Nietzsche trova « il contrario, il movimento antitetico all’autorità assoluta della ragione, dovunque
ci sono uomini più profondi » (14, 5). Egli respinge il tentativo di Hegel di « mettere una specie di
razionalità nello sviluppo », definendolo un « gotico assalto al cielo », ed afferma: « io, sul versante
opposto, vedo nella logica stessa ancora una specie di irrazionalità e di casualità» (13, 89). Il suo
verdetto è generale: « Tutto ciò di cui da millenni i filosofi hanno fatto uso, erano
concetti mummificati... La morte, il mutamento, tanto la vecchiaia che la generazione e la crescita,
sono per loro delle obiezioni, addirittura delle confuta-
zioni. Quel che è, non diviene; quel che diviene, non è... Allora tutti costoro credono, persino con
disperazione, a ciò che è » (8, 76).
L’atteggiamento di Nietzsche nei confronti della ragione in quanto portatrice della coscienza
dell’essere, si manifesta nel complessivo superamento di tutti i valori (superamento che si può
riscontrare in tutti i capitoli della nostra esposizione dei pensieri fondamentali di Nietzsche), che
assume un’incommensurabile portata storici; ma questo suo atteggiamento non perviene alla pura
chiarezza di ciò che è nelle sue intenzioni e di ciò che, tramite esso, è diventato possibile nel
filosofare.
Innanzitutto, la lotta di Nietzsche contro la ragione non è senza distinzioni. Bisogna vedere in che
senso egli dice qualcosa di affermativo con il termine « ragione ». Nella vita umana la ragione è
necessaria; l’uomo deve « sforzarsi di applicare » quel « po’ di ragione » che possiede; se invece «
volesse affidarsi alla “provvidenza”, andrebbe incontro alla propria rovina » (10, 414). Nietzsche
chiede dunque di prendere in mano le cose con la ragione, con tutte le forze, anziché sottomettersi
in modo accomodante agli avvenimenti, in nome della « provvidenza ». A dire il vero, l’uomo, con
la sua ragione, non raggiunge tutto e neppure il tutto - se egli pensa ciò, ed agisce di conseguenza, la
ragione diventa causa di rovina -, ma ciononostante la ragione deve comunque svolgere la sua
attività, in base a delle norme che Nietzsche non ha criticamente stabilito.
Inoltre, Nietzsche diventa patrocinatore della ragione contro certi avversari della ragione, di cui egli
respinge le motivazioni: « In certa gente pia trovai odio contro la ragione... cosi se non altro si
tradiva ancora la cattiva coscienza intellettuale » (5, 38). Anche con i filosofi che hanno poco
rispetto della ragione Nietzsche non intende identificarsi, se in essi « l’ascetico disprezzo e scherno
di sé della ragione sentenzia: c’è un regno della verità e dell’essere, ma proprio la ragione ne è
esclusa! ».
Ma, soprattutto, Nietzsche stesso può riconoscersi nella ragione. Allora essa non è una specie di
intelletto che sempre isola, e neppure la coscienza pensante, ma è invece « la grande ragione » del «
corpo », che tutto comprende; la « piccola ragione » che si chiama « spirito » è solo uno strumento
del corpo (6, 46). Nietzsche parla anche, in relazione a ciò che, nel nostro agire, è per il presente
ancora incomprensibile e apparentemente casuale, della « ragione superiore del nostro compito
futuro » (13, 33). A questa « grande ragione » Nietzsche conferisce un significato che soverchia,
ricomprendendola in sé, ogni ostilità alla ragione, anche se questo significato resta in lui del tutto
indeterminato nel simbolo del corpo. Soltanto per questa grande ragione può valere l’affermazione:
« La sola felicità sta nella ragione; tutto il resto del mondo è triste. Ma la ragione suprema io la
trovo nell’opera dell’artista » (10, 415).
La contraddittorietà delle formulazioni positive e negative riguardo alla ragione è il motivo per cui
il senso della dissoluzione nietzschiana della ragione sembra assumere un duplice, divergente
carattere.
Le affermazioni ostili alla ragione, prese di per sé, potrebbero suscitare indifferenza nei confronti
della ragione. Ogni volta ohe a Nietzsche
stesso - cosí può sembrare - la ragione diventa indifferente, diminuisce anche la sua esigenza logica.
Pertanto, in ciò che egli scrive, si possono riscontrare delle contraddizioni che si arrestano e
rimangono sospese, come se egli per un momento non avvertisse il pungolo della
contraddittorietà. Le contraddizioni non diventano quindi dialettiche e, nel loro genere, per come si
presentano, non sono più riconducibili in un movimento fecondo. Allora, il fatto che Nietzsche dica
una cosa ed anche il suo contrario può sembrare al lettore come una specie di indecisione, per la
quale tutto è possibile. A tal proposito, bisognerebbe infine aggiungere che la volontà di
organizzazione sistematica di Nietzsche sembra poter essere rimpiazzata da una volontà d’ordine
che è soltanto intellettuale.
Ma le affermazioni che si presentano in Nietzsche non hanno sempre un significato del tutto
identico per Nietzsche stesso. Ciò è inevitabile, dato che Nietzsche usa le parole ragione,
intelligenza, intelletto, senza che il loro significato sia stato metodicamente sviluppato. Le sue
affermazioni si rivolgono contro l’evidenza di una ragione presupposta dagli altri, tuttavia esse
stesse spesso presuppongono come evidente cosa si intende con il termine «ragione. Allora, il più
delle volte, la ragione coincide per Nietzsche indistintamente con il pensare, l’opinare, il sapere, con
l’identità, l’ordine, la legge, e questi coincidono con le funzioni dell’interpretazione
dell’essere necessaria alla vita, con l’intelletto e l’intelligenza tendente ad un fine.
Ciò che Nietzsche nel suo filosofare vuole propriamente con la dissoluzione della ragione, si arena
in tal modo sempre di «nuovo per un istante. Si tratta in effetti dello slancio appassionato verso
qualcosa di più della ragione, che è esso stesso la grande ragione. L’attacco di Nietzsche alla «
ragione » è l’attacco della grande ragione alla piccola ragione dell’intelletto che presume di sapere
già tutto. Ma questo suo attacco è acritico, in senso kantiano, poiché non gli è ancora chiaro ed
evidente il tutto della sua « grande ragione ». Perciò, nei momenti in cui la grande ragione non gli è
presente nella sua sicura guida positiva, Nietzsche diventa lo scettico che rinuncia nuovamente a
tutte le sue affermazioni negative e positive. Ma anche questo inesorabile rinunciare è una delle
manifestazioni che mostrano come il pensiero di Nietzsche prenda le mosse dall’origine dell’essere
che tutto abbraccia, che non è semplicemente la vita interpretativa di un’indole specifica, ma è
invece la « vita » della verità, da cui secondo Nietzsche consegue, nonostante tutto,
l’autoaffermazione della verità. Nelle formulazioni di Nietzsche, questa vita della verità non è
presente con la quieta chiarezza e la suggestiva tranquillità di Kant. Tuttavia, il senso ultimo che ha
in Nietzsche è forse null’altro che questo: la vita della verità è l’essere che tutto abbraccia, nel quale
hanno la loro origine la ragione e l’esistenza, senza che l’origine stessa come tale possa
essere conosciuta; soltanto nel dispiegamento del sapere oggettivo e dell’azione che si realizza,
questa vita diventa chiara a se stessa come un continuo processo di chiarimento, senza raggiungere
una meta definitiva. Non si tratta della vita come esserci biologico, psicologico o sociologico —
come tale essa è oggetto nel mondo, e dunque è un possibile oggetto della ricerca
empirica -, bensì della vita come origine, che abbraccia anche questa possibilità di ricerca e l’atto
stesso del ricercare. Essa è ciò che Nietzsche sembra sempre toccare, ma senza mai cogliere
filosoficamente in modo decisivo; è ciò da cui egli è mosso, e che dà al suo filosofare uno stimolo
che supera continuamente tutto ciò che è conosciuto.
L’essere che tutto abbraccia non diventa l’oggetto del pensiero di Nietzsche, ma si fa comunque
sentire in tutta la sua riflessione sulla verità: è questa l’origine per cui il suo pensiero non si perde in
oggetti psicologici e di altro genere, non si arena definitivamente nei vicoli ciechi della logica, non
si incaglia nelle posizioni, ma resta filosofico.
II filosofare è possibile soltanto nel medium di una ragione che coglie se stessa originariamente
(anche se, per esso, ogni contenuto proviene da qualcosa di diverso dalla ragione); solo se la ragione
è presente metodicamente nella sua ineludibilità onnicomprensiva, chiarificatrice e dinamica; solo
se essa non viene più scambiata con la semplice intelligenza e il rigido intelletto che tende a fissare,
con la finitezza tendente ad uno scopo; ma, al contrario, solo se essa è diventata consapevole,
mediante la logica filosofica, dell’insieme articolato delle proprie funzioni; ebbene, allora soltanto il
filosofare può rimanere fedele a se stesso nell’unitario grande movimento della sua storia. Solo
nella misura in cui riesce anche sul piano logico a far prevalere il proprio aspetto filosofico, la
ragione esplica tutta la propria forza. Solo se attribuiamo questo significato alla ragione, il filosofare
di Nietzsche è per noi un’unitaria grande opera della ragione, sia pure di una ragione che non è
giunta a chiarire logicamente se stessa fino al limite (sul modo in cui Nietzsche ha compreso se
stesso, cfr. il capitolo I del III libro).
Ma se tanto risoluto appare forse a noi il compito che sorge dal pensiero di Nietzsche, è altrettanto
dubbio che esso sia apparso tale allo stesso Nietzsche. La verità è per lui non solo al di là di ogni
ragione (anche se si potesse pur sempre trovare, ascoltare e comunicare tale verità per mezzo della
ragione), ma, in quanto appare senza e contro la ragione, la « verità » è per lui l’immensa,
affascinante e terribile oscurità. Vedremo nel prossimo paragrafo come egli ne parli nella rottura
trascendente, in modo senz’altro più velato che non rivelatore.
Con la « dissoluzione della ragione » Nietzsche ha creato un nuovo inizio: si tratta della via per
trovare una ragione più profonda; una nuova gigantomachia deve sorgere nel filosofare. In ogni
anima che si desta in questa epoca deve essere combattuta questa battaglia. Essa ha però un duplice
aspetto: la ragione, che diventa nuovamente certa di se stessa, lotta con l’essenza della notte, che fa
parte di essa e senza la quale essa stessa perderebbe il proprio contenuto; e nello stesso tempo lotta
contro il proprio nemico in quanto radicale non-ragione e anti-ragione.
Vivere e pensare sulla base di una ragione onnicomprensiva, che cerca sempre se stessa e come tale
è sempre presente: una ragione che determina criticamente i propri limiti per chiarire ed accogliere
continuamente nel proprio movimento ciò che sta al di là del limite, e che si vede al cospetto
dell’essere per mezzo del quale essa stessa è, senza però che l’essere coincida con essa. Ma nella
sua lotta la ragione è come alleata con l’avversario, che nasce da essa, e in forza del quale essa
stessa si sviluppa.
La stessa ragione, però, trova davanti a sé la contro-volontà radicale, che non intende farsi chiarire
da alcun movimento, usa da parte sua l’intelletto come mezzo e, nell’arbitrarietà di un discorso
qualsiasi, si appropria di tutte le affermazioni della ragione, dopo averle spogliate del
loro fondamento vitale,
Questa contro-volontà appartiene alla notte in quanto caos, al cui cospetto essa rappresenta degli
ordini apparenti, con i quali può ingannevolmente parlare con la ragione, per trascinarla al proprio
interno.
In questa lotta si osa il tentativo estremo. In tutte e tre le direzioni (grande ragione, oscurità della
notte, contro-volontà dell’anti-ragione), Nietzsche sembra fare le affermazioni estreme. Quindi, in
questa lotta la ragione deve diventare cosi come è forse già stata, ma senza avere ancora compreso
se stessa; essa deve irrompere in tutti gli stessi limiti conosciuti, e ritrovare infine se stessa in questa
sua azione. Ammesso che Nietzsche rappresenti l’avvenimento decisivo, proprio qui sta il punto
sorgivo del filosofare del futuro.
Le affermazioni di Nietzsche possono in apparenza significare tutto; per noi esse rientrano tutte
insieme, alla fine, nel movimento della « grande ragione ». Questo deve essere dimostrato, se
possibile, nel punto piu oscuro, laddove Nietzsche sembra rinunciare alla verità nella rottura
trascendente.
La verità nella rottura trascendente
I limiti della scienza hanno aperto la strada al filosofare, che cercava ancora il proprio terreno. La
teoria dell’essere-vero nella vita ha fatto si che la verità o sfumasse con la vita o si limitasse ad
essere l’errore necessario alla forma di un vivente. L'appassionata volontà di verità comprendeva
se stessa, ma in modo tale che continuamente si vedeva scomparire nell’altro della verità. La
scienza sembrava ricadere nella filosofia, la verità nella vita, la. volontà di verità nell’oscurità delle
sue condizioni. Ogni volta il problema della verità portava sull’orlo dell’abisso, e spingeva
Nietzsche a compiere un salto. Facendo esplodere il circolo, egli compirà infine una rottura
trascendente, la cui ambigua espressione, sia nelle formulazioni estreme, sia nel silenzio, mostra
oppure vela l’autentico fondamento del pensiero di Nietzsche sulla verità.
Il problema della verità è il problema di tutti i problemi; il suo senso coincide con il problema
dell’essere per noi: esso vuole penetrare nel presupposto invalicabile di ogni pensiero e di ogni
azione ohe pretende di avere validità. Chi si pone tale problema è dunque spinto su un terreno che
non regge, perché è portato, dalla natura del problema stesso, a mettere in discussione tutto ciò che
si presenta come qualcosa di determinato,
e viene dunque allontanato da ogni fondamento e condotto nell’orizzonte piti lontano.
Il problema della verità si allontana dal suo senso originario, allorché assume come evidente un
presupposto che non è ancora stato discusso; e dunque, in tal modo, si restringe. Ma poiché nel
pensiero non è possibile fare alcun passo senza determinatezza, vale a dire senza dover
accettare anche una restrizione, avviene cosi che la verità, nell’istante in cui se ne parla, è già una
determinata e particolare verità, che ha dunque il suo limite, e rivela in tal modo di non essere la
verità. In via di principio, non si può chiedere cosa essa propriamente sia, dato che
nell’indeterminatezza di tale domanda non c’è ancora un oggetto. Ma operare purtuttavia con questa
indeterminatezza, che non è il nulla, fa parte del procedimento filosofico trascendente, volto ad
accertare cosa sia la verità.
La forza filosofica di Nietzsche si mostra nel costante superamento di ogni forma di verità, che per
un istante potrebbe presentarsi come la verità stessa. Tutto ciò che accade è sempre soltanto
qualcosa che sostituisce temporaneamente la verità, e non la verità stessa.
Se fin qui abbiamo cercato di chiarire il pensiero di Nietzsche riguardo a tutte queste forme
sostitutive della verità, ora dobbiamo vedere come Nietzsche abbia svolto la sua riflessione
filosofica sulla base di una verità che resta completamente indeterminata, della verità nella sua
illimitatezza, in cui tutto alla fine sembra essere nulla. Poiché, se la verità, invece di esser messa in
discussione in ogni determinatezza, viene guardata in faccia, così come essa è, allora scompare
nell’infinitezza senza orizzonte dell’indeterminato. Si può riuscite a parlare di essa in modo
trascendente, solo se ne parliamo per via negativa. Essa è per Nietzsche incomunicabile e si rivela
solo in modo indiretto; essa è pericolo; è la morte; è la stessa origine, in base a cui si può dire che
nel mondo nulla è vero, tutto è permesso.
L’impossibilità di comunicare la verità. Il limite dell’autentica verità in ogni determinatezza del suo
esserci è la sua incomunicabilità; Nietzsche accenna a questo problema in Umano, troppo umano,
dove immagina un dialogo tra un vecchio e lo scettico Pirrone. Pirrone pretende di istruire
gli uomini, ma in modo indiretto, senza fanatismo: « Io metterò in guardia gli uomini contro di me
». Egli vuole diventare maestro di diffidenza, « della diffidenza, come ancora non c’è stata nel
mondo, della diffidenza verso tutto e tutti ». Al rimprovero che anche le sue parole sono quelle di un
fanatico che afferma la verità - nel suo caso, la verità di questa diffidenza - come una verità sicura,
Pirrone replica: « Hai ragione! sarò diffidente verso tutte le parole ». Il vecchio: « Allora dovrai
tacere »; nel seguito del dialogo, il vecchio esprime questo dubbio: « Ci comprendiamo ancora
appieno? ». E siccome Pirrone si mette a ridere, gli chiede: « Tacere e ridere - è questa ora tutta la
tua filosofia? »; e Pirrone risponde: « Non sarebbe la peggiore » (3, 308 e sgg.).
Ridere è per Nietzsche un’espressione di questa verità che non può essere comunicata: « Imparate a
ridere di voi stessi come si deve! » (6,
426); « Io stesso ho posto sul mio capo questa corona, io stesso ho santificato la mia risata » (6,
428). E' la dignità del loro riso che determina la gerarchia dei filosofi (7, 270). È per questo che
Nietzsche può, da una parte, affermare: « Quando l’uomo urla dal ridere, batte tutti gli animali
con la sua trivialità » (2, 376); e, dall’altra, egli può dire che Zarathustra era « un trasformato, un
circonfuso di luce, che rìdeva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! » (6, 234).
Nietzsche mette in guardia contro i propri scritti: « Chi non sa ridere, non deve leggermi » (8,
363). Dal tormento dell’uomo sorge questa verità, che non può più esprimersi con la parola: «
L’animale più sofferente della terra inventò per sé il riso » (16, 356). « Coloro che sono
profondamente feriti hanno il riso olimpico » (16, 382).
Santificazione del riso, leggerezza della danza, vittoria sullo spirito di gravità sono legate le une alle
altre (12, 393). Nietzsche insiste sulle « verità che consentono di danzare » (8, 382); e, contro tutte
le verità determinate, consolidate, che si spacciano assolutamente per definitive, egli obietta: «
Secondo tali verità non vi sono piedi che possano danzare, dunque sono ben lontane dall’essere per
noi delle verità» (14, 407). «Non saprei che cosa lo spirito di un filosofo potrebbe desiderare di più
che essere un buon ballerino. La danza, infatti, è... la sua unica religiosità, il suo “servizio divino” »
(5, 342). In uno stato d’animo elevato, dice Zarathustra: « Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso
vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo » (6, 58) (cfr. il capitolo « Come
Nietzsche comprende se stesso e il proprio pensiero »).
Il perìcolo della verità. Quella verità che Nietzsche definisce pericolosa è, da una parte, il sapere
determinato e, dall’altra, lo stesso essere indeterminato della verità stessa, che si mostra soltanto
nella forma del sapere determinato. Negli scritti di Nietzsche questi due aspetti sono inseparabili.
La verità rimane negativa nella forma della consapevolezza del carattere illusorio di ogni verità.
L’antinomia nietzschiana, di cui si è detto, tra la verità come necessaria apparenza per la vita, e la
verità come consapevolezza di questa apparenza costituisce per lui, fin dagli inizi, un
problema pericoloso per la vita: « Noi siamo già in partenza esseri illogici e perciò ingiusti, e
possiamo conoscere ciò: è questa una delle più grandi ed insolubili disarmonie dell’esistenza » (2,
49). Come sia possibile sopportare ciò e vivere con tale consapevolezza: è questo il significato della
domanda: « Si può rimanere consciamente nella non verità? o, se lo si deve, non è allora da preferire
la morte? ». Eppure, l’intera vita umana è immersa profondamente nella non verità. L’individuo «
non la può tirar fuori da questo pozzo senza con ciò prendersela per le più profonde ragioni col
suo passato ». Questo, però, fa emergere il seguente pericolo: « Resterebbe ancora un unico modo di
pensare, che si porterebbe dietro come risultato personale la disperazione e come risultato teoretico
una filosofia della distruzione » (2, 51-52). Nietzsche intende affrontare questo pericolo: «
Ammettere la non verità come condizione di vita:... se mai ciò fosse neces-
«rio, ebbene qui non ci si deve “dissanguare” per la “verità conosciuta”. In questo estremo pericolo,
bisogna far subito appello ai fondamentali istinti creativi dell’uomo, che sono più forti di tutti i
sentimenti di valore » (14, 16-17).
Quando Nietzsche vede la verità nella sua determinatezza come l’errore necessario alla vita, sullo
sfondo c’è inevitabilmente l’idea di una verità in sé, e precisamente non solo come negazione di
ogni essere-vero determinato, ma anche come possibilità di toccare l’essere stesso. Questa verità,
negativa e positiva al contempo, in quanto sta al di là di ogni determinatezza ed è essa stessa fuori
discussione, ed anche in quanto potrebbe apparire come sapere dell’essere, diventa necessariamente,
in qualsiasi forma, un pericolo per la vita - quale esserci che è legato all’errore. Dal punto di vista
della vita, dunque, bisogna mettere in discussione la •tessa volontà di verità: « Cos’è che in noi
propriamente tende alla verità?... perché non vuole piuttosto la non verità? E l’incertezza? E
perfino l'ignoranza? » (7, 9).
Cosi sembra essere salutare per l’uomo il fatto che egli sappia tanto poco di se stesso. La natura gli
nasconde quanto vi è di più saggio, e lo esilia in una coscienza orgogliosa e illusoria; « guai »
dunque « alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare attraverso una fessura..., in fuori e in
basso, e che un giorno abbia il presentimento che l’uomo riposa su quanto vi è di spietato, di avido,
di insaziabile e di criminale »; egli può vivere soltanto nell’indifferenza del suo non-sapere, «
sospeso nei suoi sogni sul dorso di una tigre ». In questa costellazione, l’impulso verso la verità è
distruttivo (10, 191). Fu ingenuo « ammettere senza riserve die attraverso la conoscenza non si
poteva scoprire nulla di non salutare ed utile all’uomo; e che non era possibile né lecita l’esistenza
di qualche altra cosa » (4, 292).
Se dunque la vita si basa sull’apparenza, ne consegue che per la vita in generale, come per ogni
singola vita nella sua particolarità, la verità è « un principio distruttivo ostile alla vita » (5, 275). Ciò
vale in particolare per la vita che è ancora in crescita: se « ogni uomo che voglia diventare maturo
ha bisogno di una... illusione avvolgente, di una... nube che vela e protegge », ogni verità che
togliesse questo velo sarebbe distruzione del seme e farebbe inaridire la vita (1, 342).
C’è dunque in Nietzsche qualcosa che lo spinge lontano dalla verità: egli dice di aver sempre tenuto
in scarsa considerazione la verità (14, 380), e si esprime contro la tirannia della « verità »: « Non
saprei per quale ragione l’egemonia e l’onnipotenza della verità dovrebbero essere desiderabili; mi
basterebbe che essa possedesse un grande potere. Ma deve poter combattere ed avere un
antagonista, e di tanto in tanto d si deve poter riposare di essa nella non-verità » (4, 333). La verità
delude, poiché « ogni conoscenza della verità è improduttiva » (9, 113).
Ma per Nietzsche il fatto che la verità costituisca un pericolo non è un’obiezione decisiva contro di
essa. Egli ammette infatti che anche tra le sue stesse intenzioni vi è la possibilità di arrecar danno: «
“essere nocivo”
e “far perire" è uno dei compiti del filosofo, proprio come “essere utile* e “edificare” » (14, 350).
Tuttavia, la consapevolezza del pericolo lo porta ad accogliere tanto il non voler sapere quanto il
coraggio della verità.
Il pericolo è in primo luogo il motivo che induce ad un radicale non voler sapere: « Abbiamo
bisogno, per determinati periodi di tempo, di essere ciechi, e non dobbiamo occuparci di certi nostri
articoli di fede ed errori - almeno finché essi ci mantengono in vita » (12, 48). È dunque lecito e
sensato dire: « Una volta per tutte, io non voglio sapere molte cose. - La saggezza traccia dei limiti
anche alla conoscenza » (8, 61). « Diventare ciò che si è presuppone che non si abbia neppure una
lontana idea di ciò che si è » (15, 43). Perfino la scienza stessa ha, in fondo, una certa volontà di
non sapere: « Come abbiamo saputo, fin da principio, conservarci la nostra ignoranza...! E soltanto
su queste basi d’ignoranza, ormai salde e granitiche, ha potuto elevarsi fino ad oggi la nostra
scienza, la volontà di sapere sul fondamento di una volontà molto più possente, la volontà cioè di
non sapere, l’incertezza, la non verità! » (7, 41).
Il pericolo è in secondo luogo la ragione .per cui ogni vera volontà di sapere ha bisogno di
coraggio: « Abbiamo tutti paura della verità » (15, 36). Ma « l’errore è viltà » (15, 3). « Ci si
avvicina alla verità... solo fino al punto in cui il coraggio può avventurarsi avanti » (15, 64). La
forza di uno spirito si « misura appunto da quanta verità sia riuscito ancora a sopportare, o, più
chiaramente, dal grado fino al quale abbia avuto bisogno di assottigliarla, dissimularla... » (7, 59).
Però, « anche il più intrepido di noi ha soltanto raramente il coraggio di ciò che veramente sa » (8,
61). Nietzsche riconosce (nei frammenti in vista della stesura di Zarathustra): « C’è
un’inconsapevole forma di autodifesa, di prudenza, dissimulazione e protezione davanti alla
conoscenza più grave... Ho sottaciuto a me stesso qualcosa... - noi scopriamo che il nostro solo
mezzo per sopportare la verità è: creare un essere che la sopporti a meno che non ci siamo
volontariamente di nuovo accecati e, ciechi, ci siamo opposti ad essa » (12, 399).
Verità e morte. La verità non è semplicemente un pericolo. La completa verità è la morte - cosi
sembra ritenere Nietzsche, Infatti, ciò che egli pensa a tal riguardo, cerca di esprimerlo con diversi
simboli, senza mai giungere ad una piena chiarezza.
Fin dagli anni giovanili, egli ha visto in un simbolo mitico l’unità della conoscenza ultima con lo
sprofondare nel terribile abisso di una trasgressione che annienta la natura: « Edipo, l’assassino di
suo padre, lo sposo di sua madre, Edipo, che ha risolto l’enigma della Sfinge! Che cosa ti dice la
misteriosa triade...? che laddove, mediante forze profetiche e magiche, è stato spezzato... il vero
incantesimo della natura, deve essersi verificata in precedenza, come causa, una mostruosa
trasgressione della natura...; giacché, come si potrebbe costringere la natura ad abbandonare i suoi
segreti, se non contrastandola vittoriosamente, vale a dire mediante ciò che è innaturale?... Colui
stesso che scioglie l’enigma della natura...
deve anche, come assassino del padre e sposo della madre, infrangere i più sacri ordinamenti della
natura. Sì, il mito sembra volerci bisbigliare che la sapienza... è un orrore contro natura, che colui
che col suo sapere precipita la natura nel baratro dell’annientamento deve sperimentare la
dissoluzione della natura anche su se stesso» (1, 67 e sgg.).
Nietzsche si immagina in forma di utopia l’« epilogo tragico della conoscenza », il crollo
dell’umanità ad opera della conoscenza. Come unico mostruoso fine potrebbe restare all’uomo la
conoscenza della verità, in modo cosi definitivo che questo stesso fine porterebbe al sacrificio
dell'intera umanità. Si porrebbe allora « il problema di quale istinto conoscitivo potrebbe incalzare
l’umanità fino al punto di farle offrire se stessa in olocausto, per morire con la luce di una saggezza
precorritrice negli occhi. Forse, se sarà mai eretto a scopo della conoscenza un affratellamento con
abitanti di altre stelle, e se per alcuni millenni il proprio sapere verrà trasmesso da stella a stella;
forse, allora, l’entusiasmo della conoscenza giungerà, come una marea, ad un tale punto
culminante! » (4, 50).
L’uomo, in quanto uomo, vuole forse, insieme alla verità, la morte? La risposta a questa utopia è
che egli potrebbe azzardarla ma non certo volerla. « Forse potrà anche darsi che l’umanità perisca
per questa passione della conoscenza!... Il nostro istinto della conoscenza è troppo forte perché si
possa apprezzare una felicità senza conoscenza, o la felicità di una robusta e salda illusione...
Piuttosto che retroceda la conoscenza noi tutti preferiamo che l’umanità perisca! » (4, 296 e sgg.).
Se però si continua a chiedere: « È consentito sacrificare l’umanità alla verità? »; ebbene, la risposta
del giovane Nietzsche è: « Non è certo possibile... Se fosse possibile, sarebbe una bella morte e una
liberazione dalla vita. Ma nessuno può, senza una certa illusione, essere sicuro di possedere la
verità... Alla domanda se sia consentito sacrificare l’umanità ad una illusione, bisognerebbe
rispondere di no » (10, 209). Piu tardi, dopo il salto radicale che si verifica nel suo pensiero,
Nietzsche scrive: « Facciamo un tentativo con la verità! Forse, nel farlo, l’umanità
soccomberà! Suvvia! » (12, 410).
Abbandonando l’utopia, Nietzsche prova a pensare all’inconciliabilità tra esserci e essere-vero: «
Potrebbe perfino appartenere al carattere fondamentale dell’esistenza il fatto che chi giunge alla
perfetta conoscenza incontri l’annullamento » (7, 59). Allora, la verità sarebbe la distruzione delle
illusioni - « il grande mezzo di sopraffazione dell’umanità (della sua autodistruzione!) » (14, 270).
La verità come dovere assoluto sarebbe biecamente distruttiva del mondo (10, 208). « La verità
uccide - sì, uccide se stessa (in quanto riconosce che il suo fondamento è l’errore) » (10,
208): quando si incontra questa frase, bisognerebbe subito accostarla a quest'altra: « Volontà di
verità - potrebbe essere un’occulta volontà di morte »  (5, 275).
Nietzsche ha cercato di comunicare la sua esperienza veramente profonda dell’essenza della
conoscenza, che porta al compimento della morte, non attraverso pensieri articolati e
concettualmente sviluppati, bensì con
improvvise chiarificazioni espresse in canti poetici, oppure in singole brevi frasi che spiegano
fugacemente e subito si concludono.
Secondo Nietzsche, l’essenza del conoscere si fonda paradossalmente sul fatto che esso sorge
dall’amore, ma, una volta conseguito con successo il suo obiettivo, sopprime l’amore: « Colui che
conosce aspira ad unirsi alle cose, e si vede separato - questa è la sua passione ». Con ciò, egli
cade in due movimenti, che annientano lui o le cose per lui: per lui o « tutto deve dissolversi in
conoscenza » (« uno sforzo di ridurre tutto allo spirito »), « oppure egli si dissolve nelle cose » (« la
sua morte e il suo pathos ») (12, 6).
L’esperienza della prima possibilità (dissolvere tutto in conoscenza) raggiunge il suo apice nel «
Canto della notte » (6, 153 e sgg.). Questo « canto di un amante » è il commovente lamento di
Nietzsche per la solitudine determinata dalla chiara verità di non essere amato e di non potere più
amare, e purtuttavia continuare a consumarsi nel desiderio di amore, di un amore indeterminato,
solo con se stesso e senza amici: « Luce io sono: ah, fossi notte!... Io vivo nella luce mia propria, io
ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono. Io non conosco la felicità di colui che prende...
È notte: dover essere luce! E sete di notturno! E solitudine! » (6, 153 e sgg.). In questi versi ha
trovato espressione un’esperienza incredibile, inaudita, da cui Nietzsche è stato sopraffatto: « essere
condannato, per sovrabbondanza di luce..., per la propria natura solare, a non amare » (15, 97).
Questa sarebbe la verità che resta in se stessa, che si esaurisce in sé.
È il tormento della verità in quanto luce che consuma, come se nel puro spirito l’essenza non
venisse trasfigurata, ma impietrita nell’esserci spettrale di un non-essere-piu.
Ma, nello stesso contesto, Nietzsche ha accennato, sempre in modo simbolico, anche alla seconda
possibilità (dissolversi nelle cose - morte). Riferendosi al Canto della notte, egli dice: « La risposta
ad un ditirambo come questo, dell’isolamento solare nella luce, sarebbe Arianna... Chi, all’infuori di
me, sa cos’è Arianna! » (15, 100).
Arianna, il labirinto, il Minotauro, Teseo e Dioniso: a tutto questo mondo mitico si richiama
continuamente Nietzsche, con enigmatica ambiguità, ogni qualvolta intende accennare al segreto
ultimo della verità: che la verità è la morte, o l’Altro che è desiderato per passione della verità
e che, a sua volta, diventa morte.
Il labirinto, dai cui dedali non c’è via d’uscita e nel quale incombe la distruzione per opera del
Minotauro, è meta e destino dell’« uomo della conoscenza ». Chi dunque « tenta, senza esservi
costretto », la completa indipendenza della conoscenza, dimostra con dò di essere « temerario
sino alla dismisura »: « Costui si infila in un labirinto, moltiplica in mille modi i pericoli che la vita,
già di per se stessa, comporta: dei quali non è il minore l’impossibilità per ognuno di vedere con i
propri occhi come e dove si stia smarrendo e resti isolato, come e dove venga dilaniato, membro
a membro, da un qualche cavernicolo Minotauro della coscienza. Ammesso
che un tale individuo perisca, questo evento è così lontano dalla comprensione degli uomini, che
essi non possono sentirlo né compatirlo: - e costui non può piu tornare indietro.,.! » (7, 49). Contro i
filosofi di un tempo che insegnavano la via della felicità e della virtù, si volge
sprezzantemente questo nuovo filosofo indipendente: « Perché mai noialtri si va in disparte, si
diventa filosofi... spettri? Non è per sbarazzarci della virtù e della felicità? Noi siamo per natura
troppo felici, troppo virtuosi, per non trovare proprio in ciò una piccola tentazione a diventare
filosofi, cioè immoralisti e avventurieri... Abbiamo per il labirinto una curiosità tutta particolare, ci
premuriamo di far la conoscenza del signor Minotauro... » {16, 437). Il filosofo si trova « di anno in
anno, ogni giorno e ogni notte,... in un intimo contrasto e colloquio con l’anima sua,... nella sua
caverna - può essere un labirinto, ma anche una miniera d’oro » (7, 267 e sgg.).
Questa è la verità; essa conduce nel labirinto, e in balia del Minotauro. L’uomo della conoscenza ha
quindi anche un fine completamente diverso: « Un uomo labirintico non cerca mai la verità, ma
sempre soltanto la sua Arianna - qualunque cosa egli possa dirci » (12, 259). La ricerca della verità
sospinge verso il suo altro, che è esso stesso come la verità, ma non è nessuna di quelle verità che
vengono concepite come verità. Cosa sia Arianna, Nietzsche non l’ha detto o non ha potuto dirlo.
Tuttavia, la stessa Arianna diventa a sua volta, per lui, la morte. Così come prima era, appunto, la
risposta al « solare isolamento nella luce », a questa pura spiritualità separata dall’essere, grazie alla
possibilità di dissolversi nella sua essenza o alla possibilità di salvarsi nel labirinto della verità, così
ora è piuttosto la rovina, che incombe su Teseo, alla ricerca della verità: « Arianna, disse Dioniso, tu
sei un labirinto: Teseo si è smarrito in te, non ha più alcun filo; cosa gli giova ora il fatto di non
essere stato dilaniato dal Minotauro? Ciò che lo divora è peggio del Minotauro »; e Arianna
risponde: « Questo è il mio ultimo amore per Teseo: lo distruggo » (14, 253).
Ma anche questa non è la parola conclusiva di Nietzsche. Se Teseo diventa « assurdo », se cioè,
come fanatico della verità, cerca la verità a qualunque costo, allora è semmai Dioniso la nuova
verità. Come Teseo, Nietzsche è perduto nel labirinto di Arianna, ma, come Dioniso, egli diventa la
verità che sovrasta la morte e la vita, e in virtù della quale egli può ora dire ad Arianna: « Io sono il
tuo labirinto » )8, 432).2 È Dioniso forse la verità là dove l’oscurità, in quanto appartiene alla stessa
verità, 
la salva e la supera, perché, nel cerchio di ciò che è vivente, le paradossali peripezie della ricerca
della verità si concludono in un essere, die ora soltanto - in Dioniso — è il vero? Termina qui ogni
comprensione, anzi, ogni vera conoscenza di dò che Nietzsche qui solo accenna, ma non dice
ulteriormente, in modo esplicito. Arianna come « risposta al solare isolamento nella luce », Arianna
come aiuto nel labirinto della verità, Arianna come il labirinto stesso, Arianna per la quale Dioniso
diventa il labirinto: queste sono le posizioni in cui ella rimane così simbolicamente enigmatica.
In fondo, per Nietzsche, la verità ultima è la morte. Zarathustra ne è il simbolo; poiché l’annuncio
della sua verità suprema, il compimento della sua essenza, il destino della necessità è al tempo
stesso la fine di Zarathustra. Forse l’uomo vuole la morte, in quanto è la verità, e si discosta dalla
morte solo in quanto è la non-verità? In Nietzsche, l’abissale ambiguità della morte nella verità e
della verità nella morte resta inspiegabile.
« Nulla è vero, tutto è permesso ». Se nel mondo ogni verità determinata è messa in discussione, se
nessun surrogato della verità è la verità stessa, ne consegue che diventa senz’altro possibile questa
formulazione, che sembra negare ogni verità. Questa affermazione, spesso ripetuta da Nietzsche, è -
di per se stessa - incomprensibile. Presa in sé, è espressione di un completo disimpegno, un
incentivo all’arbitrio, ai sofismi, e al crimine. Ma, in Nietzsche, essa significa la liberazione degli
impulsi più profondi, e dunque più veri, senza limitarli con una qualche forma di « verità »
consolidata, che come tale è di fatto una non-verità. La passione della verità, concepita come dubbio
radicale e permanente, fa cessare ogni determinatezza dei fenomeno. Se la verità, come
trascendenza, come la verità stessa indeterminata e indeterminabile, non può mentire, invece ogni
verità nel mondo può mentire. Vera è allora soltanto la concreta storicità di ciò che
è indubitabilmente presente, ma anche di ciò che non è conosciuto dall’esistenza. È appunto
nell’esistenza - e non in un vero qualsiasi, cioè nella semplice idea di un essere-vero, di una verità
in sé - che ha il suo limite il dubbio espresso nelle parole di Amleto: « Dubita che la verità possa
mentire, ma non dubitare del mio amore ».
Mettendo in dubbio tutti i modi con cui viene fissata la verità, Nietzsche esige qualcosa di
straordinario: « Io intendo per “libertà dello spirito” qualcosa di molto determinato: essere, per
severità verso se stessi, cento volte superiori ai filosofi e agli altri discepoli della “verità”, per
schiettezza  e coraggio... - tratto i filosofi che sono finora esistiti come spregevoli libertini sotto il
cappuccio della femmina “verità” » (15, 489). Soltanto questo atteggiamento di infinita schiettezza
verso ciò che è possibile, sotto la rigida guida di qualche cosa che non è saputo, dell’esistenza
stessa, può veracemente affermare: « nulla è vero ». Questa affermazione non deve essere intesa nel
senso di uno sfrenato arbitrio, ma assume il significato espresso in quest’altra affermazione: « Ora
dovete dare la piu grande prova di un’indole nobile » (12, 410). Soltanto l’innata nobiltà è capace di
portare a compimento, grazie alla storica positività del suo amore e
della sua volontà creativa, l'immensa negatività di quell’affermazione. Poiché in essa si trovano gli
impulsi e le forze che possono mettere in dubbio l’esistenza di ogni verità determinata, in quanto
fanno emergere qualcosa di piu alto. Ora che non « è » più vero nulla, « tutto » è permesso,
e l’essere inaccessibile è libero. Soltanto laddove l’essere ci viene incontro dalla profondità della
storicità, quell’affermazione assume il significato che Nietzsche le ha conferito, ma, nello stesso
tempo, sopprime se stessa; il suo senso è soltanto nella puntualità di un attimo decisivo.
Nel contesto del filosofare nietzschiano, quell’affermazione può restare vera soltanto se serba in sé
tutta la verità che Nietzsche le attribuisce. Nella sua breve formulazione, essa è di un’ambiguità
rovinosa: nella sua immediatezza, esprime un significato ed un’intenzione opposti a ciò
che Nietzsche vuole indirettamente dire con essa. Come espressione di radicale disimpegno, quella
frase è in se stessa incapace di indicare una qualsiasi direzione. Essa significa allora
immediatamente, con la fine di ogni verità, il precipitare nella possibilità indeterminata, che è nulla.
Sono scomparse le differenze tra l’apparenza vera, in quanto eleva la vita, e la menzogna arbitraria
dell’individuo, tra la storicità e il caos. Ogni esserci sarebbe diventato identico, su uno stesso piano;
tutto sarebbe manifestazione del divenire che in se stesso, nella forma della molteplicità delle
volontà di potenza, combatte con se stesso. Il limite ultimo è soltanto la mancanza di senso e la
vacuità.
Questo aspetto, anche se è indubbiamente presente, non può tuttavia essere il significato ultimo del
pensiero nietzschiano, se lo si guarda nel suo insieme. Quella frase è il punto estremo della sua
concezione della verità, in quanto egli, sotto l’apparenza di un no annientatore, intende esprimere il
più profondo sì alla verità, che non può essere colta in nessuna forma generale; ma, anziché la
forma dell’appello, di un simbolo che risveglia ed esorta, Nietzsche preferisce impiegare una
formula polemica, che colpisce per la sua immediatezza ed esprime più una mancanza di speranza
che non la consapevolezza dell’origine.
Se sviluppiamo compiutamente ed esplicitamente i movimenti dialettici in cui la verità non
raggiunge in alcun punto la sua meta, perché non diviene mai possesso, ma, anzi, alla fine nega se
stessa, allora siamo spinti a ritornare alla pienezza della nostra propria esistenza storicamente
presente. Attraverso la conoscenza di questo movimento ci rendiamo conto di non possedere la
verità. Solo se ci conserviamo continuamente in questo movimento, possiamo evitare di incorrere
nell’errore di giustificare o rifiutare arbitrariamente con questo pensiero dialettico tutto ciò che
Nietzsche ha detto: un errore che invece commettiamo quando utilizziamo senza riflettere le singole
ed isolate affermazioni di Nietzsche come sentenze assolute ed incontrovertibili.
* In italiano nel testo (N.d.C.).
1 Quando, in questo stesso frammento, Nietzsche aggiunge che «la “verità" è quindi più funesta
dell’errore», bisogna ricordare che, nel riferimento di Nietzsche significato filosofico, i termini
«verità» ed «errore» possono invertire il loro rispettivo senso: la verità come dato di fatto è
propriamente per lui, in ogni caso, « errore »; se esso è condizione di vita, con riferimento alla vita
di alto rango, allora può significare verità in quanto errore che favorisce la vita; se invece paralizza
la vita, allora può significare verità nel senso della vita infima o bassa della comoda pigrizia che
considera in questo modo la verità.
2 Tralascio di addentrarmi nelle discussioni secondo cui in Arianna sarebbe da vedere Cosima
Wagner. Non c’è dubbio che occasionalmente siano presenti in Nietzsche dei riferimenti a Cosima
Wagner, quando egli parla di Arianna (particolarmente evidenti in: 13, 259), e nel folle biglietto
spedito a Cosima, con queste parole: « Arianna, io ti amo, Dioniso»; ma questi riferimenti sono del
tutto irrilevanti per la comprensione del significato filosofico di questo simbolismo che, per la sua
stessa essenza, resta un limite, non è traducibile in qualcosa di razionalmente o psicologicamente
comprensibile, e può essere rivelato soltanto attraverso le esperienze-limite esistenziali a
cui Nietzsche è portato dalla sua passione per la verità.
215
CAPITOLO TERZO. LA STORIA E L’ETÀ CONTEMPORANEA
Forme in cui Nietzsche vede la storia: Lineamenti generali della storia. Epoche, popoli, uomini.
Il significato vitale della coscienza storica: Contro gli errori fondamentali della scienza storica.
Contro la storia che distrugge la vita. Per la vera storicità.
Il presente: L’immagine del tempo. « Dio è mono ». L’origine del nichilismo europeo. II senso di
queste tesi.
L’uomo non è un essere immutabile, sempre lo stesso esserci nel corso delle generazioni; egli è
invece ciò che è attraverso la sua storia. Essa lo mantiene in costante movimento. Portare a
consapevolezza questo movimento è uno degli antichi compiti della filosofia. Il modo in cui ciò
accade determina profondamente la coscienza dell’esserci dell’uomo. Se ciò avviene nell’unità di
un’ampia filosofia della storia, questa ci riempie della certezza del fondamento da cui veniamo,
della sostanza di cui viviamo, del terreno su cui stiamo, dell’ambito temporale in cui ci troviamo, e
del compito che è posto a questa nostra epoca. In Nietzsche, però, questa totalità è dilacerata; è vero
che, di tanto in tanto, si presentano delle visioni globali, ma solo come abbozzi di prospettive, e tali
dunque che, subito, riacquistano il loro significato relativo. Il suo pensiero storico è dunque
frammentario, ma si possono comunque individuare tre direzioni del suo sviluppo. In primo luogo,
Nietzsche vive in una visione effettiva delle realtà storiche; partecipando al sapere storico
universale del suo secolo « storico », egli si interroga sui caratteri essenziali di questa realtà e sulle
relazioni causali. In secondo luogo, anziché la storia stessa, è la realtà di questa coscienza storica,
nel suo significato per la vita, die costituisce l’oggetto della sua riflessione e della sua critica, che si
può dunque cosi sintetizzare: per quali motivi si attiva una memoria storica, quali forme essa
assume e quali effetti produce. In terzo luogo, il suo sguardo si rivolge all 'epoca a lui
contemporanea: il senso di tutto il suo pensiero storico consiste appunto nel cercare di sondare
quest’epoca. Egli è infatti consapevole di prender parte ad un momento della storia universale, che
egli vuol comprendere per sapere ciò che oggi propriamente viene deciso. Per quanto egli non
possa, come avvenne prima di lui nella filosofia della storia cristiana, hegeliana e nelle sue
derivazioni, determinare il luogo in cui siamo in base al sapere globale della storia universale,
tuttavia egli è di fatto animato, come quelle concezioni filosofiche, dallo stesso pathos di una
coscienza storica totale. Egli cerca di scoprire il senso della svolta dell’epoca in cui si trova, per
indicare il cammino con il proprio pensiero.
Forme in cui Nietzsche vede la storia
Nietzsche non è né un ricercatore, in un ambito specifico, che indaga metodicamente (fatta
eccezione per il breve periodo giovanile in cui, come filologo classico, ha svolto il suo lavoro
scientifico con cosciente disciplina), né il filosofo della storia die costruisce e sviluppa un tutto, in
sé completo ed organico in ogni sua parte, quale espressione della sua coscienza storica; Nietzsche è
invece il profeta che esprime dò che vede in molteplici aspetti e che in tal modo abbozza una gran
quantità di osservazioni. Certo, a volte lo assale il piacere estetico per le descrizioni icastiche degli
avvenimenti storici, che altre volte gli sembrano una falsa grandiosità. Ma il suo impulso essenziale
resta pur sempre la volontà di conoscere: attraverso la conoscenza degli avvenimenti storici egli
cerca di acquisire le basi per giudicare il valore delle cose umane.
Lineamenti generali della storia. Nietzsche coglie le leggi che dominano il corso della storia, le
necessità sodologiche e i tipi psicologici del comportamento umano. Egli cerca di cogliere ciò che
sta dietro ed alla base degli innumerevoli fenomeni storici immediati. È dunque possibile
raggruppare in alcune direzioni principali le sue osservazioni e concezioni sulla storia.
1. Il primo problema è quello che riguarda l’orizzonte piu ampio: quando inizia la storia, e qual è il
fattore che dà avvio al movimento? Nietzsche risponde: la storia inizia soltanto con l’impulso
creativo di liberazione dell’individuo; essa è il movimento determinato dalla tensione tra gli
individui ed il loro esser legati ad un vincolo attraverso la permanente immutabilità di un tutto.
Le epoche preistoriche - come Nietzsche le ricostruisce - sono determinate esclusivamente dalla
tradizione, che costituisce per tutti un vincolo e che non viene affatto messa in discussione. Non
accade propriamente nulla (11, 138). Per gli uomini di questa epoca non c’è nulla di piu terribile che
il fatto di sentirsi soli. Essere un individuo non è una gioia, ma una pena. Ogni miseria ed ogni
timore sono legati al fatto di essere soli. « Quanto più si esprimeva dall’azione l’istinto del gregge e
non il personale discernimento, tanto più ci si stimava morali » (5, 157).
Immensi periodi di tempo di tale « eticità del costume » precedono la storia universale. Questi
enormi periodi di tempo - a confronto dei quali la « storia universale » è soltanto « un ridicolo,
piccolo settore dell’esistenza umana » - sono « la reale e decisiva storia primaria che ha stabilito il
carattere dell’umanità» (4, 27; cfr. 4, 16, 21 e sgg., 38 e sgg.).
Nel tempo storico, il movimento è sorto ogni volta attraverso un affrancamento dalla tradizione: « è
il libero pensiero che fa la storia » (11, 138). Ma, contro la tradizione, lo « spirito libero » è sempre
debole; come, ciononostante, possa farsi realtà: è questo il problema che riguarda la « produzione
del genio », e dunque l’inizio e reinizio della storia vera e propria (cfr. 2, 218 e sgg.).
Nietzsche esprime ciò, da una parte, nella dipendenza del singolo individuo dal tutto, in quanto
vincolo universale, e dall’altra, nella dipendenza di questo tutto dall’individuo (affinché diventi
possibile l'esserci ed al tempo stesso l'elevazione dell’uomo, la durata e al tempo stesso la storia).
Egli si esprime appassionatamente a favore dell’individuo, del genio, del libero pensatore.
Non contraddice a questo atteggiamento, bensì lo completa, l’affermazione che « per una buona
concezione della civiltà, nulla sarebbe ,piu nocivo del fatto di dare importanza al genio e a niente
altro» (11, 135). Pertanto, al culto del genio Nietzsche intende affiancare come rimedio il «culto
della civiltà». Infatti, non deve andare di nuovo perduta la risonanza di tutto ciò che è umano -
tanto l’opera delle formiche quanto quella del genio: « Come potremmo qui fare a meno del
comune, profondo e spesso inquietante basso continuo, senza il quale appunto la melodia non può
essere melodia? » (3, 104).
L’immagine complessiva del giuoco reciproco mostra una stridente ineludibilità. Al prorompere
dell’arbitrario volere si oppone « l’universalità e obbligatorietà universalmente imposta di una
credenza, insomma la non arbitrarietà del giudicare. E il più grande lavoro degli uomini fino ad oggi
fu quello di mettersi d’accordo gli uni cogli altri su moltissime cose e d’imporsi una legge
dell'armonia ». Se proprio gli spiriti più eletti, anzitutto i ricercatori della verità, recalcitrano contro
il vincolo di questo accordo, c’è dunque bisogno «della virtuosa stupidità, di coloro che battono
imperturbabili il ritmo dello spirito lento, affinché i credenti della grande fede collettiva restino
insieme ». Se l’azione arbitraria degli individui porta i popoli al caos, e se ogni abbandono del
vincolo da parte della personalità è già di per sé un pericolo, ciò che al contrario minaccia il popolo,
il quale di preferenza si conserva, e « nel quale la maggior parte degli uomini ha un vivo senso
comune in conseguenza della coincidenza dei loro abituali ed indiscutibili principi, dunque
in conseguenza della loro fede comune », è quest’altro pericolo: « il graduale, progressivo
istupidimento per via ereditaria ». Nietzsche conosce l’antinomia del movimento storico.
Consapevole del suo proprio essere come eccezione creatrice, egli riconosce la necessità che
domina nella storia. « Noialtri siamo l’eccezione e il pericolo - abbiamo eternamente bisogno di
difesa! Così si può dire lecitamente qualcosa a favore dell’eccezione, supposto che non voglia mai
diventare regola » (5, 104-106). Egli definisce dunque « indegno di un filosofo l’odio per la
mediocrità »; proprio per il fatto che il filosofo è « l’eccezione, egli deve proteggere la regola, deve
conservare a tutto ciò che è mediocre un buon animo verso di sé » (16, 303).
2. Il corso della storia è per Nietzsche il dominio dell'uomo attraverso efficaci errori d’ordine
metafisico, religioso, morale. Il punto di partenza dello sviluppo è l’uomo come forza di natura
selvaggia e senza regole, anche se, a dire il vero, ce ne siamo quasi dimenticati. La nostra epoca è
per cosi dire un clima mite in confronto ai tempi tropicali precedenti: « Quando vediamo là come le
più furiose passioni vengano con tremenda forza abbattute e spezzate da concezioni metafisiche, ci
pare come se davanti ai nostri occhi, nei tropici, selvagge tigri fossero stritolate nelle spire di
mostruosi serpenti;... neanche in sogno ci sovviene ciò che popoli precedenti vedevano nella veglia
» (2, 223). Ma ciò che allora accadde è anche il presupposto del nostro esserci. Il nostro essere si è
sviluppato dalla trasformazione di quanto è accaduto. « Si direbbe che tutte le cose grandi, per poter
inscriversi nel cuore dell’umanità con le loro eterne esigenze, debbano prima trascorrere sulla terra
come caricature mostruose e terrificanti: una tale caricatura è stata la filosofia dogmatica, per
esempio la dottrina dei Vedanta in Asia, il platonismo in Europa... ormai siamo noi gli eredi di tutta
quella forza che è stata allevata. e ingrandita dalla lotta contro questo errore » (7, 4 e sgg.). « Se si
esclude dal computo l’effetto di questi... errori, si escluderà anche l'umanesimo, l’umanità e la
“dignità dell’uomo” » (5, 156).
3. Nella storia bisogna considerare le terribili potenze continuamente persistenti, che l’uomo si
nasconde, senza con ciò sopprimere la loro realtà. Egli ha il proprio esserci soltanto insieme ad esse.
« La civiltà non è che una buccia di mela sopra un caos ardente » (12, 343). Secondo Nietzsche,
queste potenze costituiscono ovunque l’inizio: « Le forze più selvagge aprono la strada, dapprima
distruggendo; la loro attività è tuttavia necessaria... Le terribili energie ciò che si dice il male - sono
i ciclopici architetti e pionieri dell’umanità » (2, 231). Ogni civiltà superiore ha preso inizio dalla
barbarie (14, 68). Di questo inizio viene «tenuta nascosta uria quantità di cose» (10, 127), Ma in
ogni tempo continuano ad accadere cose terribili, anche se soltanto in modo più nascosto, perché
sembra che nessuno le compia: « Le moltitudini sono state inventate per fare cose di cui l’individuo
non ha il coraggio. Appunto perciò tutte le comunità e società, per quanto riguarda l’essenza
dell’uomo, sono cento volte più sincere ed istruttive dell’individuo » (16, 173). Lo Stato giunge a
far compiere una grande quantità di cose, cui l’individuo non acconsentirebbe mai, mediante la
divisione della responsabilità, del comando e dell’esecuzione, consacrando le virtù dell’obbedienza,
del dovere, dell’amore per la patria e per i principi, e valorizzando l’orgoglio, la severità, la
fortezza, l’odio, la vendetta (16, 174),
Epoche, popoli, uomini. I tipi generali degli avvenimenti storici sono una delle prospettive del
pensiero storico di Nietzsche. Un’altra è costituita dalla sua visione delle epoche, dei popoli e dei
grandi uomini. L’età primitiva, il mondo antico, l’India, il Cristianesimo, il Rinascimento e la
Riforma, l’Illuminismo, i popoli moderni sono da lui osservati e definiti con sintetiche formulazioni
dei loro tratti caratteristici. Ma per Nietzsche le figure die la storia presenta non hanno lo stesso
valore. Per quanto lontano si spinga il suo sguardo nell’orizzonte delle realtà storiche, la sua
valutazione ha comunque un punto di riferimento centrale. Nietzsche è infatti legato stabilmente in
modo esistenziale con l’oggetto della sua riflessione soltanto ad un’epoca della storia: quella dei
Greci. Anche se frasi occasionali sul Rinascimento, sull’antichità germanica, sui Romani
possono mostrare un analogo legame, esse sono in realtà soltanto episodiche; sono cioè prive di
quell’ulteriore sviluppo che Nietzsche ha dato soltanto alla propria riflessione sui Greci.
L’originaria identificazione delle sue possibilità con quelle dei Greci attraversa tutta la sua vita, e va
di pari passo con la sua volontà di realizzare un elevato germanesimo che sia appunto improntato
alla grecità. Ma, mentre la grecità è conclusa e, come momento nodale della storia, è da Nietzsche
valutata positivamente e non è mai messa in discussione1 (quasi come la comparsa di Cristo per i
cristiani), il germanesimo rappresenta per lui il futuro, in pericolo come non mai a causa di se
stesso; ne consegue che l’amore di Nietzsche per ciò che è propriamente tedesco - dal quale egli, nel
mondo in decadenza, tutto si aspetta -si manifesta nella forma di una critica appassionata, che
aumenta nel corso della sua vita.
Il Greco è «l’uomo che si è spinto più lontano» (13, 163); il popolo greco è «l’unico popolo geniale
della storia universale» (10, 390); «senza dubbio, i Greci non sono mai stati sopravvalutati» (10,
237).
Poiché l’antichità greca « è la vera e unica patria della cultura » (9, 344) e il mondo greco è
concepito « come l’unica e più profonda possibilità di vita »  (9, 232), ne consegue la seguente
affermazione: « Questa suprema cultura, sinora, io la riconosco soltanto in un risveglio della grecità
» (9, 424). Quindi, se considerassimo l’antichità soltanto da un punto di vista storico, ne
perderemmo l’aspetto formativo (9, 29). La mera conoscenza del mondo greco sarebbe, come tale,
un vuoto sapere intorno alla cultura; si tratta invece di arrivare ad una « risoluzione di cultura » (1,
312). È partendo da essa che Nietzsche può esprimere questa speranza: « diventiamo di giorno in
giorno più greci, anzitutto, com’è giusto, nei concetti e nei giudizi di valore...; ma un giorno,
speriamo, anche con il nostro corpo! In questo sta (e sempre è stata) la mia speranza per la natura
tedesca! » (15, 445).
Nietzsche riconosce: « La conoscenza dei grandi greci mi ha - educato » (13, 8); soltanto
rifacendosi all’origine greca egli comprese i difetti del proprio tempo: « solo in quanto sono allievo
di epoche passate, specie della greca, giungo a esperienze così inattuali su di me come figlio
dell’epoca odierna » (1, 281).
Tuttavia, non si può « saltare direttamente, senza servirsi di ponti, in quello straniato mondo greco,
per il fatto di aver rinnegato lo spirito tedesco » (9, 348). Si tratta piuttosto di « far rinascere la
Grecia attraverso il rinnovamento dello spirito tedesco » (9, 294). « Certo, si deve essere capaci di
ricercare questo spirito tedesco nei suoi nascondigli » (9, 349).
Soltanto quando cessa ogni ricerca fine a se stessa, e dò che si è appreso sui Greci diventa piuttosto
il nostro proprio sangue, allora questo sangue può richiamare in vita anche le ombre greche. Fino a
che punto Nietzsche sentisse nella sua vera storicità l’identità tra la propria origine e il
rinnovamento dell’antica origine al di là di ogni separazione di greco e tedesco, appare evidente
allorché egli, già in età giovanile, afferma di non voler restare « discepolo dell’antichità declinante
», ma cerca invece i suoi modelli « con sguardo coraggioso nel primitivo mondo greco antico
del grande, del naturale e dell’umano » (1, 352); ed anche quando, alla fine della propria vita,
Nietzsche esprime ciò che all’inizio accadde realmente in lui: cioè a dire, « che tutto il filosofare
tedesco trova la sua vera dignità nel riconquistare passo per passo il terreno antico, e che ogni
pretesa di “originalità” suona meschina e ridicola, rispetto a quella superiore pretesa dei Tedeschi di
aver riannodato il legame che sembrava spezzato, il legame con i Greci, il massimo tipo d’uomo
finora apparso » (15, 445). comprensione del passato ed allontanandosi da esso, e attraverso la
consapevolezza che c’è un futuro. Perciò egli ha bisogno della storia - come: precisa Nietzsche - al
fine di acquisire, dai grandi esempi di ciò che fu possibile all’uomo, il coraggio per l’agire presente,
lo slancio del suo essere, e il conforto nei momenti di avvilimento (nella storia monumentale); ne ha
bisogno per esser cosciente della sua propria origine con amorosa devozione (nella storia
antiquaria); e ne ha bisogno per superare, con i. fecondi stimoli del suo essere presente, ciò che è
ormai passato (nella storia critica).
Nella scienza storica, il ricordo storico viene trasformato in sapere. Nietzsche ha potuto constatarlo
nel suo tempo, che si gloriò di essere l’epoca storica per eccellenza. Per prima cosa, tuttavia, egli
pose all’intera scienza storica i problemi del dubbio.
Contro gli errori fondamentali della scienza storica. La storia non è un sapere, valido fuori del
tempo, di circostanze di fatto immutabili, concluse; al contrario, la storia (Historie), in quanto
sapere, si trasforma insieme alla storia (Geschichte), in quanto accadimenti redi. Nulla di ciò che
è passato è definitivamente morto; esso continua a vivere, se fu autentica origine, negli infiniti
mutamenti del nuovo presente, viene dimenticato e recuperato, viene riscoperto sebbene sembrasse
già conosciuto, diventa un nuovo stimolo sebbene fosse stato trattato come indifferente. In
questa storia vera, in quanto sapere che è testimonianza vivente, non si sa mai in. modo definitivo
come propriamente siano andate le cose. Ciò che è stato dipende dall’essenza di ciò che è presente;
è solo a partire dagli stimoli del presente che la storia del passato ridiventa, per il presente stesso,
slancio, norma, esempio positivo e negativo. Pertanto, la storia vera e propria, da una parte, non può
mai diventare pura scienza; d’altra parte, non può mai essere veritiera senza una precisa indagine.
Ma l’indagine precisa si estende ai materiali, ai presupposti, a ciò che ogni intelletto può
riconoscere e deve riconoscere in modo identico come fatto e come significato attribuito dagli
uomini del passato. Al contrario, il ricordo storico, che si presenta come veritiero nel medium
illimitato di queste condizioni di fatto, guarda con l’occhio anch’esso storico di un essere che si
arroga i compiti dell’intelletto, e che prende coscienza di sé in questo ricordo e nel modo in cui tale
ricordo soltanto rende possibile questa presa di coscienza,
In particolare, non è possibile un sapere totale del passato. E ciò, non a causa del materiale - sia
esso immenso e mai interamente dominabile, sia esso pervenuto a noi in modo incompleto -, bensì a
causa dell’infinita possibilità di ogni esistenza vivente, che si schiude soltanto al ricordare che
produce se stesso nel proprio mondo. Io non posso identificarmi col sapere del passato, che diventa
per me il fondamento, né posso guardarlo interamente. Un presunto sapere totale sarebbe una
distruzione del vero e proprio processo assimilativo della memoria, mediante un sapere apparente
scientificamente sbagliato ed esistenzialmente non-vero. Contro ciò, Nietzsche si richiama alla vita
presente, « non-storica », ma nelle sue formulazioni sembra far confluire il non-storico, che è come
l'esserci animale un brutale divenir-indifferente nel non-sapere e nel mero dimenticare, in quel non-
storico che è propriamente umano, che è Tessere originario nel presente e quindi già il germe della
visione storica.
Nietzsche si oppone risolutamente non già al metodo scientifico come tale ed alla memoria storica,
bensì agli storici che pretendono di essere puramente scientifici: essi ostentano un sapere che non
hanno affatto. Ciò appare in tutti i tratti fondamentali del loro modo di pensare, per esempio quando
affermano che vi è una necessità nel corso delle cose, di fronte alla quale respingono poi la «
domanda cardinale » per il metodo di indagine storica di Nietzsche: « Cosa sarebbe accaduto, se
non si fosse verificato questo o quell’evento? »; dall’esaltazione del successo, essi ricavano il loro «
ottimismo storico » e non comprendono « che la storia è brutale e senza senso ». Contro di loro,
Nietzsche esclama: « Tutto ciò che è oppresso dal successo, a poco a poco si ribella ». Ma ciò che
fanno gli storici della certezza scientifica è « la storia come scherno dei vincitori; animo servile di
fronte al fatto » (10, 401).
Contro la storia che distrugge la vita. L’errore che è alla base di tutto il sapere degli storici
scientifici non è un errore di poco conto. Nietzsche è colpito dal fatto che la storia possa rovinare
l’uomo. Nel suo scritto giovanile (Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1, 277 e sgg.), egli
spiega die l’« eccesso » di storia è dannoso. In primo luogo, indebolisce la personalità per il fatto
che il senso storico diventa una specie di arte drammatica, che coglie momentaneamente ogni anima
altrui, sicché questo mondo interiore (privo di essenza, perché è una sorta di recita) di un uomo che
comprende soltanto il passato, e la realtà effettiva di questo uomo si spezzano. In secondo luogo,
esso porta alla presunzione di produrre « oggettività » e giustizia. Il risultato è che la storia
distrugge gli istinti; essa impedisce, attraverso una prematura consapevolezza, il maturare del seme
di ogni vita; produce, con la fede nella vecchiaia dell’umanità, il sentimento dell’epigonismo; e,
alla fine, fa rimanere soltanto uno stato d’animo ironico, nella consapevolezza della propria nullità
e della rovina di tutte le cose. Ne consegue dunque che la storia fa perdere all’uomo il valore della
memoria storica. Tramite essa l’uomo (nella storia monumentale) diventa soltanto un conoscitore di
ciò che è grande, ma senza essere o poter compiere egli stesso ciò che è grande; egli si occupa (nella
storia antiquaria) senza pietà del passato semplicemente in quanto passato; egli condanna (nella
storia critica) senza un’effettiva necessità ciò che è stato, e dunque non fa che dissolverlo.
Ma cosa significa « eccesso » di storia? L’uomo, dice Nietzsche, oltre alla memoria, die lo distingue
dall’animale, ha bisogno anche dell’oblio, che invece ha in comune con l’animale. Per poter
sopportare il ricordo storico, senza annullare se stessi, bisogna appropriarsene mediante una
rielaborazione: è dunque la « forza plastica » che determina quanta storia può essere assimilata,
senza che ne derivi un danno. La forza della personalità misura la storia die può essere sopportata.
Le due potenze del ricordare e del dimenticare sono da Nietzsche definite ciò che è storico e ciò che
non è storico nell’uomo. Poiché entrambi sono ugualmente necessari, con una contraddizione
soltanto apparente Nietzsche può dichiarate essenziale ora l’uno ora l’altro, a seconda
delle circostanze.
Cosi, in taluni casi, il rifiuto della storia diventa completo. Per Nietzsche si può considerare « finito
il compito della scienza storica », « quando l’intero cerchio, intimamente connesso, delle fatiche
passate, è stato condannato ». Allora la scienza della storia è diventata superflua-« Al suo posto
deve subentrare la scienza del futuro » (10, 417).
Per la vera storicità. Prevalgono comunque, da parte di Nietzsche, le valutazioni positive di ciò che
è propriamente storico. Egli sviluppa la possibilità del senso storico nella nostra epoca: questa si
propone di fondare un nuovo esserci, al di sopra delle civiltà nazionali irrevocabilmente concluse,
mediante una « civiltà del paragone » (2, 41). In questo senso, Nietzsche loda il nostro tempo: «
Con riguardo al passato, godiamo di tutte le culture... e ci nutriamo del sangue piu nobile di tutti i
tempi - mentre culture precedenti potevano godere solo se stesse, e non potevano vedere al di là di
sé » (3, 99). Ma questo « godere » non ha per lui il valore di una tranquilla contemplazione. Diventa
possibile qualcosa di piu: « Chi sa sentire la storia degli uomini nella sua totalità come la sua
propria storia, prova, generalizzandolo enormemente, tutto quello struggimento... dell’eroe, la sera
della battaglia che non ha deciso nulla, e che tuttavia gli ha recato ferite e la perdita dell’amico; ma
portare questo cumulo immenso d’afflizioni,... essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni
davanti e dietro di sé, l’erede,... il piu nobile di tutti i nobili dell’antichità, e al contempo il
capostipite di una nobiltà nuova,... - questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che finora
l’uomo non ha mai conosciuto...! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora - umanità! » (5,
259).
Nietzsche ha attribuito un valore, sia pure solo di sfuggita, persino ai tentativi di una storia della
vita e dell'universo estesa, oltre all’uomo, alla realtà infinita: « Nello sforzo di conoscere l’intera
evoluzione storica, che... per la prima volta ha abbattuto le antiche mura tra natura e spirito, uomo e
animale, morale e fisica », si deve « individuare uno sforzo verso la genialità dell’umanità nel suo
complesso. Il completo risanamento della storia sarebbe autocoscienza cosmica » (3, 103).
Al centro del discorso di Nietzsche, oltre alla luce che getta sugli effetti rovinosi della coscienza
storica che si isola, oltre al suo atteggiamento per cui talvolta il passato gli sembra soltanto una
catena, vi è dunque l'appassionata esigenza di attenersi alla storia. Egli parla con profondo
timore della possibilità di perdere e alterare il passato: « Non avete pietà del passato? Non vedete
come è sacrificato e come dipende... dalla grazia, dallo spirito, dall’equità di ogni generazione? Non
potrebbe presentarsi in qualsiasi momento un grande spirito maligno, che ci costringesse a
disconoscere interamente il passato, die rendesse le nostre orecchie sorde nei suoi confronti, o
addirittura ci desse una frusta per bistrattarlo? » (12, 193). « Zarathustra non vuole perdere il
passato dell’umanità, vuole gettare tutto nel crogiolo» (14, 271).
La profondità dell’assimilazione del passato è per Nietzsche la vera fonte del futuro. « Fecondare il
passato e generare il futuro - questo sia per me il presente » (12, 253).
Il presente
Se il passato è ancora latente e, per cosi dire, attende il risveglio delle sue maggiori possibilità,
allora il presente ha il compito di cogliere ciò che è del momento. L’idea che Nietzsche ha del
passato, cosi come quella del futuro, prendono le mosse dalla sua consapevolezza del presente. Egli
si interroga su ciò che propriamente ora succede.
L'immagine del tempo. Già nella giovinezza, Nietzsche ha un’immagine terribile del suo tempo.
Egli vede i sintomi di una distruzione della civiltà: « Le acque della religione rifluiscono e lasciano
dietro di sé pozzanghere e stagni; le nazioni si dividono nuovamente nel modo piti ostile...
Le scienze... si frantumano, e dissolvono tutto ciò in cui si era saldamente creduto... Tutto alimenta
la barbarie che avanza... Vi sono certamente delle forze, forze immense ma selvagge, primitive e del
tutto crudeli... Oggi, quasi tutto sulla terra viene ancora determinato soltanto dalle forze
piu grossolane e malvagie, dall’egoismo dei profittatori e dai violenti dominatori militari ».
L’esistenza dell’uomo degli ultimi tempi mostra, « nonostante la sua ineffabile varietà, una
indicibile miseria ed un esaurimento che si era soliti attribuire a civiltà del passato ». La sua cultura
« non è affatto una vera cultura, ma solo una specie di sapere intorno alla cultura ». Nel suo mondo
interiore dominano « grigia impotenza, struggente inquietudine, laboriosissima noia, disonorevole
miseria » (1, 310 e sgg., 402 e sgg., 527 e sgg., 533 e sgg.); « niente è su di una base solida e su
di una risoluta fede in se stessi... Tutto è liscio e pericoloso sul nostro cammino; e intanto il ghiaccio
che ancora ci sostiene è diventato cosi sottile... — dove noi ancora camminiamo, ben presto non
potrà piu camminare alcuno » (15, 188).
Nietzsche parla anche a favore del presente, benché quasi sempre al termine della riflessione si trovi
la precisazione: « Abbiamo superato i Greci nella chiarificazione del mondo, attraverso la storia
naturale e la storia umana, e le nostre conoscenze sono assai piu grandi, i nostri giudizi piu moderati
e piu giusti. Si è diffuso altresì un senso piu mite di umanità... Il fatto che in definitiva noi
preferiamo pur sempre vivere in quest’epoca piuttosto che in un’altra, è merito sostanzialmente
della scienza, e certamente nessuna generazione quanto la nostra ebbe in sorte una tale somma di
nobili gioie... Ma con tutta questa "libertà”, oggi si vive bene solo quando ci si limita a
comprendere, senza collaborare... questo è il punto scabroso dell’epoca moderna... Sorge così il
pericolo, che il sapete si vendichi di noi, come l’ignoranza si era vendicata di noi nel
Medioevo» (10, 408).
Un’analisi piu precisa sul motivo da cui sorge l’enorme cambiamento del mondo riscontra anzitutto
dei fenomeni evidenti: la macchina è un destino. Essa cambia il mondo in cui viviamo. Gli oggetti
con cui abbiamo a che fare ci diventano come tali indifferenti. Poiché la macchina è « impersonale,
essa sottrae al pezzo di lavoro la sua fierezza, la sua individuale bontà e difettosità... - quindi, il suo
pezzetto di umanità »; in passato, gli oggetti di casa e gli abiti divenivano « simboli di reciproca
stima e di affinità personale, mentre oggi sembra che viviamo solo in mezzo a un’anonima e
impersonale schiavitù» (3, 350). Inoltre, la macchina trasforma l’uomo mediante il tipo di lavoro da
essa imposto. Essa « non dà la spinta a salire piu in alto... Rende attivi e uniformi » (3, 318). La
macchina fa presa anche sulla vita della stessa comunità. Essa «dà il modello dell’organizzazione di
partito e della condotta di guerra. Non insegna invece la sovranità individuale: essa fa di molti una
sola macchina, e di ogni individuo uno strumento per un solo fine» (3, 317). Nietzsche
cosi riassume: « La stampa, la macchina, la ferrovia e il telegrafo, sono premesse da cui nessuno ha
ancora osato trarre la conclusione che se ne avrà fra mille anni » (3, 340).
Nietzsche ritiene inoltre che il nostro tempo sia determinato dalle massa « Ma l’oggi è della plebe »
(6, 429). La « grande mediocrità è il pericolo dell'epoca » (14, 204). Essa non può assimilare il
sapere che ci è stato tramandato. «La debole complessità della vita moderna» (1, 503) distrugge
l’uomo: il chiasso del presente non lascia germogliare piu nulla; tutti parlano e non si capisce piu
nulla. « Tutto va a finire nell’acqua, nulla pili in profonde sorgenti ». « Tutto viene logorato a forza
di parole »; « tutto viene messo in piazza » (6, 271-272).
Per sottrarsi al sentimento di vacuità nella noia, ci si dà all'ebbrezza: « Così, quest’epoca è la più
ricca di risorse nell’inventare stupefacenti. Noi conosciamo tutti l’ebbrezza; come musica, come
entusiasmo deco e autoaccecantesi e adorazione per certi uomini e avvenimenti; conosciamo
l’ebbrezza del tragico, cioè la crudeltà nella visione della rovina...; conosciamo... il lavoro senza
riflessione » (14, 209); « un misticismo della fede nel nulla e un immolarsi per questa fede » (14,
209) non è che un’ulteriore forma di ebbrezza.
In tale contesto, è essenziale il fatto che il mondo, privato della sua sostanza, tenda a compiere il
suo esserci nella teatralità, ad entusiasmarsi per la vita da commedianti come se fosse la vera vita, e
che dunque ognuno, invece di vivere, conduca sempre più un esserd da commediante (15, 193 e
sgg.; 8, 35 e sgg.; 15, 199).
Tali allarmanti descrizioni dell’epoca hanno la loro profonda unità in un pensiero fondamentale, che
è la vera risposta di Nietzsche alla domanda: cosa succede « oggi che tutto vacilla, che tutta la terra
trema? » (6, 439). La mancanza di fede è diventata reale. Il fatto fondamentale dell’epoca
incomincia a farsi evidente.
« Dio è morto ». Questa concezione, che domina tutta l’opera successiva di Nietzsche, si annuncia
presto - già prima del 1872. « O noi moriamo di questa religione, o questa religione di noi. Io credo
al detto antico germanico: tutti gli dei devono morire » {9, 128); egli dice allora della sua epoca: «
La volontà die muore (il dio morente) si sminuzza nelle individualità. La sua aspirazione è sempre
l’unità perduta, il suo telos è sempre un’ulteriore suddivisione » (9, 77). Alla fine degli anni Settanta
scrive: « La perdita della fede si fa evidente... ora ne consegue la cessazione del timore,
dell’autorità, della fiduria »; ciò che ancora resta è « il vivere alla giornata, secondo il più rozzo
degli scopi...» (11, 374). Il pensiero della morte di Dio si «presenta in forme sempre nuove.
Nietzsche lo esprime facendo una parodia degli uomini come prigionieri, e di Gesù come figlio del
guardiano della prigione; quest’ultimo è appunto morto, mentre suo figlio dice: « Libererò tutti
quelli che credono in me, cosi certamente come è certo che mio padre vive ancora » (3, 247). Ma
poi la passione di Nietzsche si esprime direttamente nella descrizione dell’« uomo folle » (5, 163 e
sgg.). Quest’uomo cerca Dio al mercato, con una lanterna accesa nella chiara luce del mattino. Tra i
presenti che ridono, egli esclama: « Dove se n’è andato Dio?... ve lo voglio dire!... Siamo stati noi
ad ucciderlo: voi ed io!... Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare
bevendolo fino all’ultima goccia? Dov’è che ci muoviamo noi?... Non stiamo forse vagando come
attraverso un infinito nulla?... Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?... Non è
troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per
apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo
di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte
le storie fino ad oggi! ». Allorché tutti guardano silenziosi e sorpresi, egli getta in terra la lanterna, e
cosi prosegue: « Vengo troppo presto... non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è
ancora in corso... non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini... Quest’azione è
ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure sono loro che l’hanno
compiuta! ».
Nietzsche non dice: non c’è alcun Dio; e nemmeno: non credo in Dio; dice invece: Dio è morto.
Egli ritiene di constatare un dato di fatto del nostro tempo, allorché guarda con chiaroveggenza alla
sua epoca ed alla sua propria essenza.
Alla domanda perché Dio sia morto, egli risponde simbolicamente:
« Dio è morto a causa della sua compassione per gli uomini » (6, 130). Però, « quando gli dei
muoiono, essi muoiono sempre di morti di molte specie » (6, 379); perché Dio è stato assassinato?
« Vedeva le profondità e gli abissi dell’uomo, tutta la sua celata bruttezza ontosa. La sua
compassione non conosceva il pudore... L’uomo non tollera che un simile testimonio viva » (6,
387).
L'origine del nichilismo europeo. La domanda sui motivi della morte di
Dio, a cui Nietzsche risponde simbolicamente nei modi che abbiamo appena visto, assume la forma
non simbolica della ricerca dell ’origine storica del nichilismo. Nietzsche ritiene di individuare tale
origine nel Cristianesimo. Nella sua peculiare interpretazione del mondo, vale a dire nella sua
interpretazione morale, si cela l’origine del nichilismo (15, 141). Infatti, « il senso della veracità,
altamente sviluppato dal Cristianesimo », finisce per provare « disgusto per la falsità e mendacità di
ogni interpretazione cristiana del mondo ». Il Cristianesimo ha creato un mondo finto, la cui non-
verità viene alla fine riconosciuta grazie agli stimoli di veracità che il Cristianesimo stesso ha
suscitato, e in modo tale per cui oggi non resta piu nulla. Infatti, poiché nell’esserci cristiano ogni
ancoraggio e valore riposava in un mondo finto, nel momento in cui si riconosce tale finzione, quel
mondo stesso sprofonda in un nulla, quale l’uomo non aveva ancora fino ad oggi conosciuto. Ora è
giunto il tempo « in cui dovremo pagare di essere stati cristiani per due millenni; perdiamo il centro
di gravità che ci faceva vivere - per un certo tempo non sapremo come cavarcela... Ora tutto è
assolutamente falso » (15, 160 e sgg.).
Secondo Nietzsche, la situazione in cui è sorto questo nichilismo può essere caratterizzata
logicamente in relazione all’erronea pretesa die per il mondo valgano in assoluto categorie come
quelle del senso e della totalità. Se io presumo erroneamente che nel mondo vi sia un senso che
racchiude in sé tutto l’accadere, ne consegue che, per un uomo onesto, quel senso non può essere
trovato, e alla fine resta solo il vuoto di una terribile delusione, il tormento dell’« invano »: « Quel
senso potrebbe essere stato: ... l’ordine morale del mondo; o l’accrescimento dell’amore...; o
l’avvicinamento ad una condizione universale di felicità; o anche il dirigersi verso una condizione
universale del nulla - una meta è ancor sempre un senso. Ciò che è comune a tutte queste
rappresentazioni è che si debba raggiungere qualcosa attraverso il processo stesso - e poi si capisce
die col divenire non si mira a nulla, non si raggiunge nulla »; la « delusione su un presunto fine del
divenire » diventa « causa del nichilismo ». Il nichilismo subentra inoltre « quando si è postulata
una totalità,... un’organizzazione in tutto l’accadere », e quando si è creduto ad « un profondo
sentimento della connessione e della dipendenza »: « il bene dell’universale esige l’abbandonarsi
del singolo », ma poi risulta con evidenza che « un siffatto universale non c’è! ». Allora, alla fine,
riappare ancora una volta il nulla come perdita di ogni valore: « In fondo l’uomo ha perduto la fede
nel suo valore, se attraverso di lui non opera un tutto che abbia un infinito valore » (15,148-150).
Una volta fatte queste due constatazioni - col divenire non si raggiunge nulla, in tutto il divenire non
governa una grande unità -, a quel senso di delusione resta ancora un’ultima scappatoia, quella cioè
« di condannare come illusione tutto questo mondo del divenire, ed inventare un mondo che sia al di
là di esso, come mondo vero ». Questa è per Nietzsche la grande finzione platonico-cristiana, che,
con il suo crollo, ha prodotto il nichilismo abissale. Si « ammette la realtà del divenire come unica
realtà, ci si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a mondi dietro i mondi e a false divinità -
ma non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare » {15, 150). Il nichilismo sorge
dunque quando la contrapposizione tra un mondo dell’aldilà, concepito come l’unico mondo pieno
di valore e degno di rispetto, ed il mondo cosi come realmente è e die noi stessi realmente siamo,
pretende di stabilire definitivamente la coscienza dell’essere. Smascherando tale finzione, sorge
l’alternativa: « o voi cancellate le vostre venerazioni, oppure voi stessi » (5, 280), cioè a dire, o si
deve rinunciare al finto « mondo vero », appunto in quanto finzione, ed allora tutto ciò che aveva
valore è caduco; oppure si deve rinunciare alla realtà, quale di fatto
io    sono, ed allora io non posso vivere. Dunque, qualunque strada scegliamo in questa situazione,
in entrambi i casi troviamo il nichilismo, sia come negazione dei valori, sia come negazione della
vita: « Il nichilista è colui che, del mondo quale è, giudica che non dovrebbe essere, e, del
mondo quale dovrebbe essere, giudica che non esiste. Quindi l’esistere... non ha senso » (16, 84).
Con la sua interpretazione della visione del mondo platonica e cristiana, che egli al contempo cerca
di smascherare logicamente come assolutizzazione di forme categoriali - « il credere nelle categorie
di ragione è la causa del nichilismo » (15, 151) -, Nietzsche cerca di comprendere storicamente il
nichilismo moderno. Ma la sua epoca non è ancora consapevole di che cosa accada con esso, né
tanto meno comprende da dove abbia avuto origine la sua situazione. Il terrore in cui Nietzsche vive
deriva dal fatto che egli vede ciò che nessuno vede, e sa ciò di cui nessun uomo si preoccupa di
sapere. L’avvenimento « è fin troppo grande... perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia
di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che propriamente è accaduto
con questo avvenimento - e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare,
perché su di essa era stato costruito... » (5, 271 e sgg.).
Il     senso di queste tesi. Le tesi fondamentali di Nietzsche sull’avvento del nichilismo, sul « Dio è
morto » e sul movimento dell’uomo verso una rivoluzione senza precedenti - una esperienza
dell’epoca, attraverso la quale Nietzsche comprende anche ciò che al contempo egli stesso è - sono
di una inquietante profondità; esse sradicano ogni fondamento di un mondo tranquillo. La tesi che «
Dio è morto » è, nella sua portata, di una irresistibile serietà dal punto di vista esistenziale. Essa
tuttavia assume, a seconda di come è interpretata, un senso radicalmente diverso. Chi si fa
affascinare esteticamente dalla sua grandezza drammatica, non è ancora veramente colpito da essa.
Chi ne ricava soltanto la conclusione lapidaria che Dio non esiste, cade in un banale ateismo, al
quale Nietzsche proprio non pensa. Sorge dunque il problema critico di vedere ciò che propriamente
tale tesi significa.
Essa non può significare la consapevolezza di una conoscenza dell’intero corso delle cose umane, e
dunque anche della crisi presente. Infatti, nel pensiero di Nietzsche, non hanno piti valore quelle
affermazioni storicofilosofiche sulla totalità, secondo le quali si presume di sapere quale sia il corso
del mondo, che hanno dominato la concezione storica dell’uomo, da Agostino fino a Hegel.
Nietzsche rifiuta l’idea della totalità di un processo del mondo, cosi come è concepita da quei
filosofi e dai loro seguaci, che comprendono e giustificano il loro tempo appunto come il risultato di
questo processo del mondo, e vedono nella potenza della storia la mano di Dio. Nietzsche respinge
con scherno tale idea (1, 353 e sgg.), e ad essa contrappone le seguenti affermazioni: «in complesso
l’umanità non ha mete » (2, 51); « l’uomo come specie non progredisce » (16, 147).
Se si vuole parlare di mete, allora « la meta dell’umanità non può trovarsi alla fine, ma solo nei suoi
piu alti esemplari» (1, 364). «L’umanità non ha altre mete, all’infuori dei grandi uomini e delle
grandi opere» (11, 142). Ma i tipi supremi dell’uomo sono stati raggiunti soltanto come casi
fortunati, che sono anche quelli che « periscono piti facilmente » (16, 148).
Nella storia non c’è uno sviluppo lineare in una sola direzione: non c’è solo progresso o regresso,
ma entrambi sono presenti nello stesso tempo. Ogni, miglior futuro è anche un peggior futuro: « è
fanatismo credere che un superiore, nuovo grado di umanità riunirebbe in sé tutti i pregi dei gradi
precedenti » (2, 226). « La produzione del genio è forse riservata soltanto ad un-, limitato periodo
dell’umanità... Forse l’umanità si avvicina alla sua vera meta nel mezzo del suo cammino..., anziché
alla fine » (2, 221). « Per quanto alto possa risultare lo sviluppo dell’umanità, ... forse finirà per
essere assai piu in basso di quanto non fosse in principio.,. » (4, 52).
La concezione di un processo del mondo e della storia dell’umanità con un senso in sé compiuto
darebbe tranquillità, per cosi dire, al complesso dell’umanità, che trascende se stessa nella sua
origine divina o nel suo finale scopo storico. Contro questa tranquillità Nietzsche rivolge il suo «
nuovo sentimento fondamentale: la nostra definitiva caducità... Perché mai nell’eterna
commedia (del divenire) ci dovrebbe essere un’eccezione per un qualsiasi piccolo astro...? » (4, 52).
Tuttavia, anche questo sentimento fondamentale, nel suo complesso, non può continuare ad esistere,
perché esso vedrebbe pur sempre nella totalità qualcosa di assolutamente valido. Se viene negata la
totalità dell’origine e del fine della storia, può sorgere un sentimento distruttivo, che tuttavia
Nietzsche formula come una semplice possibilità: « Ma sentirsi come umanità (e non solo come
individui) altrettanto sprecati di come vediamo sprecato dalla natura il singolo fiore, è un
sentimento al di sopra di tutti i sentimenti » (2, 51). In tal senso, se qualcuno riuscisse a concepire in
sé una coscienza complessiva dell’umanità, crollerebbe sotto il peso di una maledizione contro
l'esserci:
« Se noi sappiamo che un giorno l’umanità non ci sarà piu, alliora su ogni nostra, aspirazione
campeggia l’espressione dell’inesistenza dei fini » (10, 493).
Nietzsche stesso deve alla fine combattere questo ed ogni altro sapere della totalità del processo.
Egli sa che noi siamo sempre all’interno del processo, non fuori o al di sopra di esso; e non
possiamo abbracciarlo con lo sguardo, averne una visione d’insieme (cfr. il capitolo
sull'interpretazione del mondo da parte di Nietzsche). Ad una conoscenza definitiva del tempo, alla
quale noi dovremmo sottometterci come ad un sapere universalmente valido, Nietzsche non può
dunque aver ragionevolmente pensato
neppure con la frase « Dio è morto », nonostante la sua forma apodittica, che anche qui, come
sempre, Nietzsche predilige. Considerare questa tesi come l'affermazione esplicita di una verità,
significherebbe semplificare il senso che Nietzsche ha voluto attribuirle: significherebbe vedere in
essa il semplice appiattimento nella banalità di un dato di fatto ormai certo ed acquisito, anziché la
suprema esigenza a cui Nietzsche vuole richiamare l’uomo. Infatti, quell’affermazione significa
appunto la tensione della possibilità che sia cosi; ma poi, come appello estremo, essa significa
proprio la consapevolezza dell’incertezza di ciò verso cui stiamo andando. Quell’affermazione può
forse evocare dapprima e soltanto la realtà del suo contenuto, in coloro che credono
dogmaticamente ad esso (Nietzsche sarebbe allora colui che seduce al nichilismo; ma egli
approverebbe dicendo che proprio questa specie di uomini è destinata a soggiacere a tale
seduzione); oppure, superando il passato, essa apre una nuova e più alta realtà dell’uomo, nel senso
del pensiero di Nietzsche che tende appunto ad innalzare l’uomo; oppure, essa può risvegliare ciò
che la contraddice, per agire poi in modo più risoluto e pervenire alla certezza che Dio non è morto.
Non vi può comunque essere alcun dubbio sul fatto che questi pensieri vivano in Nietzsche. Nulla è
per lui un sapere definitivo, ma tutto rimane un’immensa tensione, che ha la sua origine nel suo
proprio essere. Già negli anni giovanili, egli esprime questa consapevolezza: « Chi attacca il suo
tempo non può che attaccare se stesso: cosa può mai vedere, se non se stesso? » (11, 135). E, piu
tardi, osserva: « Che io sia stato finora un nichilista radicale, me lo son detto solo da poco:
l’energia, la nonchalance con cui da nichilista andavo'avanti, mi ingannava su questo fatto
fondamentale » (15, 158).* Tuttavia, in nessun momento Nietzsche è stato completamente
nichilista; lo stesso pathos del nichilismo non è nichilismo (il pathos è la « incoerenza del nichilista
»: 16, 84); inoltre, dalla sua concezione che « Dio è morto » sorge un compito che per lui è sempre
presente.
Questo compito è quantomeno la lotta contro ciò che non è più, ma che sembra essere ancora - e
persino dominare il mondo: è il compito della negazione attiva. Infatti, anche se si ammette che Dio
è morto, continua pur sempre a vivere la sua ombra: « Stando alla natura degli uomini, ci saranno
forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi - noi dobbiamo vincere
anche la sua ombra! » (5, 147). Ma, per Nietzsche, questo è un compito tutt’altro che facile; egli lo
paragona all’ultimo sacrifido sulla scala della crudeltà religiosa. « Un tempo si sacrificava al
proprio Dio esseri umani »; in seguito « si sacrificò al proprio Dio gli istinti più forti »; ed ora? «
Sacrificare Dio per il nulla - questo paradossale mistero dell’estrema crudeltà fu riservato alla
generazione che pro-
prio ora sta sorgendo» (7, 79). In ciò sta la volontà radicale di essere autentici, come se tale volontà
volesse dire: la divinità deve alla fine preoccuparsi di se stessa, essa stessa deve parlare; se non lo
fa, noi dobbiamo vincere anche la sua ombra.
Poiché non vuole che il nulla finisca per essere il valore ultimo, Nietzsche si presenta anche
positivamente, come superatore del nichilismo: egli concepisce tutta la sua ultima filosofia come un
movimento antitetico al nichilismo: dò avviene nella sua « grande politica », nella sua «
interpretazione del mondo » e nella sua dottrina dell’« eterno ritorno ».
Oltre a dò, nel pensiero di Nietzsche, per chiunque non si lasci ingannare dalla superficie, anche nel
negare è sempre presente un sì. Tutto il suo mettere in discussione è animato dall’anelito verso
l’origine, l'autenticità, il fondamento. Se il sì alla fine non perviene ad un’espressione positiva,
tuttavia resta pur sempre una disposizione affermativa di questo pensiero, perfino nelle sue critiche
più radicali dell’epoca.
1 Nietzsche mette in discussione i Greci, ma solo da Socrate in poi; il mondo presocratico resta per
lui intoccabile.
Nella citazione di Jaspers (verificata nell’edizione Krönet del 1911: voi. XV, frammento n. 25), si
legge «Radikalismus» al posto di «Nonchalance», che compare invece nel testo critico delle opere
di Nietzsche stabilito da Colli e Montinari (fr. 9 [123] dell’autunno 1887, in KSA, vol. 12, p. 407; tr.
it. nel voi. VIII, tomo II, p. 63) (N.d.C.).
Introduzione: il senso della grande politica.
La visione nietzschiana della realtà politica: Le originarie necessità di tutti i rapporti umani (lo
Stato; guerra e pace). La democrazia.
Visioni di un futuro possibile: Le vie della democrazia. Sviluppi politico-mondiali degli Stati
nazionali. Essenziali mutamenti spirituali dell'uomo. I nuovi signori.
Il compito della grande politica: I legislatori. Il cammino della grande politica. Educazione ed
allevamento.
Grande politica e filosofia.
Introduzione: il senso della grande politica
Poiché aspira all 'uomo autentico, Nietzsche dubita di ciascuna delle sue forme reali. Nel sapere
della verità si dissolve per lui ogni consistenza. Guardando al suo tempo, egli vede in atto un
processo storico-mondiale di decadenza. Nietzsche è spinto in avanti dal suo incessante negare,
come da un destino che lo ha soverchiato. Egli non vuole questo negare come tale, ma, nella
situazione che ne risulta, cerca invece sempre qualcosa di positivo. Questo non è però la concreta
immagine dell’uomo autentico, che deve ancora venire, non è un’indicazione intesa a produrre un
miglioramento dell’epoca, e neppure l’enunciazione di una nuova e persistente verità. Per
Nietzsche, il positivo deve configurarsi in modo diverso rispetto a questi tipi di riforma. Poiché,
nella sua spregiudicatezza, non si ritraeva davanti a nulla, egli rinunciò effettivamente a tutti i
legami, fino ad allora ritenuti ovvi, di tipo religioso, morale, filosofico, scientifico, politico,
nel tentativo di pervenire all’origine ultima delle possibilità umane in generale. Per cogliere questa
origine, egli elabora la sua « grande politica », la sua metafisica della « volontà di potenza », la sua
mistica dell’« eterno ritorno ». Ai pensatori che lo avevano preceduto era pur sempre rimasto
un punto di riferimento, intorno al quale tentavano le loro innovazioni; per la coscienza, vi era pur
sempre un mondo che mutava, non nel suo insieme, ma nei suoi particolari contenuti, ambiti e
compiti. Ora, invece, è come se si dovesse cominciare daccapo. Perciò la volontà nietzschiana
del positivo è caratterizzata dall’impossibilità di concepire nella sua totalità ciò che ancora non è
stato, e che tuttavia, nell’essere-affermato, può facilmente venire frainteso come una particolare
positività.
La « grande politica » di Nietzsche scaturisce da una sola preoccupazione , che non è occasionale,
ma compenetra tutto il suo essere: il futuro ed il rango dell’essere umano. Che l’uomo cresca e
raggiunga le sue più alte
possibilità: è questo il principio che ispira il pensiero politico di Nietzsche, che si sviluppa in tre
direzioni principali.
1.    Nietzsche chiarisce a se stesso la realtà politica (Stato, guerra e pace, la democrazia del nostro
tempo), con l'intento non già di giungere ad un sapere definitivo, ma di formulare i suoi giudizi di
valore sulle impellenti esigenze dell'essere umano che egli ritiene possibile: le situazioni di fatto
chiarite con il sapere saranno dunque affermate o negate in relazione ai suoi valori, tanto decisi
nella loro origine quanto concettualmente indeterminati nella loro estensione.
2.    La grande politica di Nietzsche è una continua riflessione sul futuro, non per sapere cosa
realmente accadrà - nessun uomo può saperlo -, ma per scorgere efficacemente ciò che potrà
accadere. Non si tratta del futuro che deve essere considerato come se fosse già stabilito con
certezza, ma si tratta invece di un futuro che deve essere creato. Questo futuro, agli effetti della
politica, non è ancora affatto deciso: in considerazione di ciò, Nietzsche scrive: « Io amo
l’incertezza intorno al futuro » (5, 217). Ma le visioni delle possibilità future determinano la volontà
presente, e precisamente in modo tanto piu essenziale quanto più l’insieme delle possibilità esercita
la sua azione in un campo piu vasto: « Io voglio insegnarvi a volare insieme a me verso il lontano
futuro » (12, 253). Dal medium delle possibilità, il futuro, concepito come ciò che noi vogliamo,
agisce sul nostro presente (14, 74). Infatti, « ciò che sarà in futuro è condizione di ciò che è nel
presente, altrettanto di come lo fu ciò che è passato. Ciò che è bene che avvenga e che dovrà
avvenire è la ragione di ciò che è » (12, 239).
Ma la molteplicità di ciò che è possibile non consente affatto di intravvedere quell’unica linea di
sviluppo che assumeranno poi i reali avvenimenti futuri; secondo Nietzsche, bisogna dunque
necessariamente rinunciare ad una visione univoca del futuro, cosi come ad un programma
definitivo del futuro. Pertanto, il pensiero di Nietzsche sul futuro, nonostante il suo carattere
plastico, è destinato a deludere, nei suoi singoli aspetti, il lettore che si attendesse una verità chiara e
lineare, alla quale potersi attenere, e che si trova invece di fronte ad un pensiero che si sviluppa
in molteplici affermazioni contraddittorie. Anziché sapere come sarà, Nietzsche vuole, al di là di
una chiara determinazione delle possibilità future, « cantare il mito del futuro » (12, 400).
Immaginando il futuro, la « grande politica » diviene la decisiva coscienza del momento presente
dell’uomo. Se il presente è compreso a partire sempre dalla più ampia prospettiva, allora è possibile
gettare sull’epoca uno sguardo davvero lungimirante. È appunto questa lungimiranza che suscita la
grande preoccupazione di Nietzsche e la sua richiesta, che non ha precedenti. Per lui, il momento
presente è unico. Tutto annuncia: « Tutta la nostra cultura europea si muove... come se si avviasse
verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si
rammenta più » (15, 137).
3.    In questa situazione estrema, per scongiurare il pericolo, è necessario qualcosa di estremo. Dal
fondamento dell’essere umano bisogna portare alla luce ciò che è nuovo, che sia in grado di porre
rimedio ad una millenaria decadenza. Ma ancora non accade nulla: « Ma che aspettiamo
dunque? Aspettiamo forse un gran baccano di araldi e di trombe? C’è un silenzio che soffoca: siamo
in ascolto già da troppo tempo» (13, 362). Tutto è pronto per un cambiamento radicale, « mancano
ancora soltanto i grandi persuasori » (11, 372). Nella grandiosità di un terribile deserto,
Nietzsche pensa a questi grandi persuasori. Sarà con loro che verrà adempiuto il compito della
grande politica. Cosa devono fare in questo momento? Essi saranno i radicali trasvalutatori di tutti i
valori e dunque i « legislatori ».
Ma se l’origine della grande politica sta nella trasvalutazione che ha di mira la totalità del futuro
umano, tuttavia Nietzsche non vuole ricominciare dal nulla, con una demolizione di tutto quanto è
accaduto. Nel suo tentativo di rendersi indipendente dalla storia (Historie) tradizionale, egli non
vuole perdere la storia (Geschichte), a cui anzi, proprio ora, dobbiamo far fronte. Per lui, la
possibilità della nuova origine sta soltanto nell’ampio patrimonio che abbraccia tanto il futuro
quanto il passato. In questo senso, egli dice: « Da cosa ho preso il diritto per i miei propri valori?
Dai diritti di tutti gli antichi valori e dai limiti di tali valori » (12, 281).
La politica di Nietzsche, non la piccola politica della particolare situazione statale, non la politica
immediata dell’effettivo agire politico di un determinato momento, ha un’origine che precede ogni
azione determinata. Nietzsche la chiama « creare » (cfr. supra). La possibilità di comprendere il
pensiero politico di Nietzsche dipende dunque necessariamente dalla sua concezione dell’origine
creatrice, che si esprime in un movimento di reazione contro tutto ciò che esiste in modo fisso e
consolidato, in direzione di un futuro non ancora determinato, che sarà appunto fondato dal
legislatore creativo.
Seguiremo dunque queste tre strade di Nietzsche, che tra loro si compenetrano: la sua visione
chiarificatrice della realtà politica, le sue visioni di un futuro possibile, il compito che egli pone alla
grande politica. Ma, prima ancora, dobbiamo mostrare ciò che caratterizza, indirettamente e
per contrasto, l’essenza del pensiero politico di Nietzsche.
Ciò che Nietzsche chiama la sua grande politica diventò per lui un problema determinante soltanto
dopo le rinunzie della sua giovinezza. In quegli anni, anziché sviluppare un pensiero politico, egli
visse nell’attiva speranza di un rinnovamento della cultura tedesca grazie all’arte di Wagner. Poi
sognò un’associazione laica, un ordine della conoscenza, che. intendesse non piu cambiare il
mondo, bensì comprendere l’essere; tale sogno seguì immediatamente al suo distacco dalla politica:
« Di che cosa deve d’ora innanzi occuparsi la nobiltà, se, di giorno in giorno, par che diventi sempre
piu indecoroso impicciarsi di politica? » (4, 194). È solo in seguito al suo distacco dal mondo ed
alla conseguente solitudine che Nietzsche, meditando sulla totalità dell’esserci umano nel piu vasto
orizzonte dell’epoca presente e con lo sguardo rivolto al piu lontano futuro, cerca alla fine la sua
meta: la « grande politica » deve, con la riflessione sulla situazione mondiale, decidere del nostro
tempo e di cosa ne sarà dell’uomo. Nietzsche ritiene che i compiti di questa politica siano « di
una altezza tale che finora è mancato il concetto per definirli »; infatti, « ora che la verità dà
battaglia alla millenaria menzogna, avremo degli sconvolgimenti... come mai prima si era sognato.
Il concetto di politica trapasserà allora completamente in quello di una lotta degli spiriti... Solo a
partire da me ci sarà sulla terra grande politica » (15, 117).
Per distinguere la sua politica dal modo in cui, dopo il successo del 1870-1871, il mondo circostante
si faceva dominare dalla politica del giorno, con borghese compiacimento, dando all’avvenimento
del momento un falso peso e giustificando sempre soltanto il potere di fatto come tale, Nietzsche si
definisce «l’ultimo tedesco antipolitico» (15, 13), schernisce il fatto che «ai dotti che diventano
politicanti viene di solito assegnato il comico ruolo di essere la buona coscienza di una politica » (2,
343), ed esprime sulla filosofia il seguente giudizio: « Ogni filosofia che crede che un avvenimento
politico rimandi o risolva il problema dell’esistenza è uno scherzo di filosofia, una pseudofilosofia
» (1, 420).
Se si confronta Nietzsche con altri pensatori politici, si può notare che, a differenza di quanto
avviene in lui, è certamente comune a tutti gli altri una delimitata specificità di ciò che è politico.
Esso era per loro per lo piu ricompreso in Dio o nella trascendenza, oppure si rapportava ad una
singola specifica realtà dell’uomo. Per esempio (in Hegel), il pensiero politico può svolgersi nel
progetto di totalità esistenti o in divenire; allora, come insieme sistematico, esso è l’espressione
dell’autocoscienza di una realtà di fatto, è in particolare giustificazione o condanna, ed è ricolmo
della coscienza sostanziale dell’orizzonte onnicomprensivo. Oppure può svilupparsi (in
Machiavelli) in riferimento a particolari realtà ed al loro significato per la legalità propria del
potere; allora vengono sviluppati tipi di situazioni e regole di condotta, sia nel senso di una tecnica
politica, sia appellandosi direttamente all’agire che scaturisce dalla volontà del potere, dalla
presenza di spirito e dal valore, e che non è razionalizzabile una volta per tutte. Nietzsche non segue
nessuna delle due vie ora indicate: non dà, come Hegel, un quadro teorico-sistematico, né, come
Machiavelli, una politica pratica. Ma, senza essere ancora o già in possesso di una sostanza
onnicomprensiva, egli pensa con la costante e coinvolgente sollecitudine per l’essere umano. Egli
riflette sull’origine decisiva degli avvenimenti politici, senza addentrarsi metodicamente nelle
singole realtà concrete dell’agire politico, così come si manifesta ogni giorno nella lotta delle
potenze e degli uomini. Egli vuole produrre un movimento che risvegli le motivazioni di fondo
dell’essere umano, coinvolgendo in questo movimento, mediante il suo pensiero, gli uomini che lo
ascoltano e lo comprendono, senza che il contenuto del movimento stesso sia già delimitato in un
determinato contenuto statale, nazionale, sociologico. Il contenuto che determina tutti i giudizi è
piuttosto per lui l’atteggiamento di chi vuol comprendere la totalità dell 'essere: non si tratta più
soltanto di politica, bensì di filosofia; partendo da essa, ma prescindendo da ogni principio
razionale, e guidati soltanto dall’idea di salvare e far progredire l’essere umano, si può tentare nel
regno del possibile ciò che è contrapposto e contraddittorio.
Paragonato alle grandi costruzioni tradizionali di filosofia della politica e di filosofia della storia, il
pensiero politico di Nietzsche è dunque necessariamente caratterizzato dalla mancanza di una
deduzione coerente e di uno sviluppo concettuale esplicito e determinato. Tuttavia, il suo pensiero
evoca pur sempre un’atmosfera assolutamente unitaria, anche se il suo contenuto si sottrae
ad ogni formulazione univoca. Questo pensiero può spazzare l’anima come un temporale; ma è
incomprensibile, se si pretende che le sue forme e i suoi concetti siano chiari e definitivi. Nella
misura in cui vuole produrre quell’atmosfera, il pensiero politico di Nietzsche evita tutto ciò che
potrebbe apparire come una dottrina. Le possibilità piu disparate vengono esplorate sempre con la
stessa veemenza, senza convogliarle verso un’unica meta. Gli aspetti concettuali del suo pensiero
politico non intendono esprimere una verità ormai consolidata e definitiva. Essi si presentano
piuttosto come strumento di una estrema flessibilità nelle mani di una volontà di pensiero sovrana e
non vincolata a nulla. In tal modo, nella loro formulazione, essi raggiungono un’estrema e
suggestiva forza di persuasione. Soltanto chi unisce questa forza espressiva con la capacità
di trasformazione può veramente assimilare il senso di tale pensiero.
Poiché è impossibile fare della politica di Nietzsche un sistema razionale, senza distruggere il suo
pensiero, la peculiarità di questo pensiero volitivo può essere percepita nella sua viva, non astratta
determinatezza, soltanto cercando le contrapposizioni che vi si presentano.
La visione nietzschiana della realtà politica
I pensieri di Nietzsche tendono a cogliere le originarie e permanenti necessità dei rapporti umani, in
particolare lo Stato, la guerra e la pace; ed inoltre la situazione politica del nostro tempo: la
democrazia europea. Non è la determinazione concreta dei singoli contenuti che è essenziale a
questo pensiero, bensì la grande visione come tale'; ed è solo in base ad essa che si delinea la
direzione della grande politica.
Le originarie necessità di tutti i rapporti umani. I limiti dell’esserci umano, entro i quali e tramite i
quali esso è, sono la necessità di un’istanza sovrana di governo, cioè dello Stato, ed inoltre la
permanente possibilità di guerra e di pace. Nietzsche parla raramente del significato dello Stato
e della guerra nella loro specifica forma e trasformazione storica, e dei loro decisivi effetti nelle
costellazioni storiche. Piuttosto, filosofando, egli pensa essenzialmente alla generale situazione-
limite umana.
Lo Stato. L’origine dello Stato e la sua realtà permanente è per Nietzsche una forza che annulla,
incorpora e riduce in schiavitù la massa. Tuttavia, senza di essa non c’è società umana e non ci sono
individui creatori: infatti, è « soltanto la morsa d'acciaio dello Stato che stringe assieme a questo
modo le grandi masse, cosicché... quella stratificazione... della società, con la sua...
struttura piramidale, dovrà procedere oltre » (9, 154). Perciò lo Stato riposa su una necessità
dell’essere umano che si impone anche interiormente; lo Stato è dunque accettato come un grande
bene, nonostante la forza invasiva con cui penetra nella vita. Così, la storia intera insegna non solo
«quanto poco i sudditi si preoccupino di quell’orribile origine dello Stato », ma anche l’entusiastica
dedizione ad esso, allorquando « i cuori senza volerlo si allargano di fronte alla magia dello Stato,
con il presentimento di un’intenzione invisibile e profonda », e « lo Stato viene considerato con
ardore addirittura come lo scopo e il vertice dei doveri e dei sacrifici dell’individuo » (9, 155).
Quando si interroga sugli effetti di questa condizione dell’esserci sull’essere umano, Nietzsche si
propone di chiarire il senso e il valore dello Stato. Nietzsche vede nello Stato la forza che conia
l’autentico uomo, il popolo e la cultura (cfr. 9, 147-165).
Vi è cultura solo per mezzo dello Stato. Che essa non sia possibile senza una « schiavitù soddisfatta
» e senza le condizioni che danno vita allo Stato, è « l’avvoltoio che divora il fegato al fautore
prometeico della cultura » (9, 151-152); voler negare queste condizioni significherebbe negare la
stessa civiltà. Solo lo Stato determina una stabilità nelle condizioni umane. Se si fosse
continuamente costretti a ricominciare daccapo (9, 261), non potrebbe sorgere alcuna civiltà. Perciò,
« la grande meta dell’arte di Stato dovrebbe essere la durata, che controbilancia ogni altra cosa,
essendo di gran lunga più preziosa della libertà» (2, 213). Secondo Nietzsche, la situazione del suo
tempo, in cui non si progetta nulla a lungo termine, è espressione di una statalità infiacchita: ciò che
costituisce la differenza disastrosa « della nostra irrequieta ed effimera esistenza rispetto alla
tranquillità di lungo respiro delle epoche metafisiche », è che « l’individuo non prova stimoli più
forti a costruire istituzioni solide, attrezzate per secoli».
Nello stesso tempo, Nietzsche mostra il pericolo insito nella necessaria realtà dello Stato. Se si
allontana dal suo fondamento creativo, lo Stato diventa la forza che annienta, tramite il
livellamento, l’autentico essere dell’uomo. Nietzsche definisce lo Stato, inteso e glorificato in tal
senso, il « nuovo idolo », che egli vede come nemico proprio di ciò che il vero Stato deve rendere
possibile o creare: il popolo, la cultura, l’uomo come individuo creatore.
Lo Stato che vien meno al suo scopo diventa allora in primo luogo la « morte dei popoli » (6, 69). Il
« più gelido di tutti i mostri gelidi... mente...: Io, lo Stato, sono il popolo » (6, 68). Se nello Stato
non vive il popolo, allora domina il senso della massa: « Troppi vengono al mondo: per i superflui
fu inventato lo Stato » (6, 70).
In secondo luogo, lo Stato che vien meno al suo significato diventa nemico della cultura. Quando
vede nello Stato moderno un improduttivo strumento dello strapotere della massa dei « superflui »,
Nietzsche contraddice la propria esaltazione dello Stato, ispirata dal mondo greco: « “Stato di
cultura” è soltanto un’idea moderna... Tutte le grandi epoche della cultura sono epoche di
decadenza politica: ciò che è grande nel senso della cultura è stato non politico,
addirittura antipolitico. A Goethe si apri il cuore di fronte al fenomeno Napoleone, - gli si richiuse
di fronte alle “guerre di liberazione”...» (8, 111). «La cultura deve le sue più alte acquisizioni alle
epoche di debolezza politica » (2, 343).
In terzo luogo, lo Stato porta alla rovina dell'individuo: « Lo Stato è una saggia istituzione per la
protezione degli individui gli uni contro gli altri: se si esagera nel nobilitarlo, l’individuo finisce con
l'esserne indebolito, anzi dissolto - l’originario fine dello Stato viene cioè vanificato nel modo più
radicale » (2, 222). « Là dove lo Stato finisce, comincia l’uomo che non è superfluo: là comincia il
canto della necessità, la melodia unica e insostituibile » (6, 72). Pertanto: «Meno Stato possibile! »
(11, 368).
Troviamo infine la massima relativizzazione dello Stato nella seguente affermazione: « L’azione di
un uomo che sacrifica lo Stato per non essere traditore del proprio ideale può essere Tatto più alto,
in forza del quale soltanto l’intera esistenza di questo Stato viene presa in considerazione dalla
posterità» (13, 177).
Nonostante tutti gli aspetti discutibili che si possono presentare nelle manifestazioni particolari
dello Stato, Nietzsche non contesta la sua sovranità in quanto limite dell esserci umano. Sugli
uomini più nobili lo Stato ha « agito sotto forma di un sentimento superiore ». Infatti, nella nascita
dello Stato non hanno prevalso « punti di vista improntati a prudenza e saggezza, bensì impulsi
all’eroismo », cioè « la credenza che vi sia qualcosa di più alto della sovranità dell’individuo »;
hanno influito « il timore reverenziale verso la stirpe e gli antenati... il timore reverenziale verso i
morti... l’ossequio verso chi è spiritualmente superiore e vincente: l’estasi di incontrare di persona il
suo modello » (13, 195).
Quindi, lo Stato è ben visto da Nietzsche là dove rende possibile la formazione del popolo,
l’attuazione della cultura e del singolo uomo creatore; ma là dove lo Stato non fa che consolidare la
massa e la mediocrità, dove gli sta a cuore non già l’uomo nella sua irripetibilità e insostituibilità,
ma solo i « superflui », in quanto sostituibili, allora Nietzsche lo rifiuta poiché corrompe l’uomo.
A questo duplice aspetto dello Stato corrisponde per Nietzsche un duplice significato del diritto.
Certo, il diritto è in ogni caso « la volontà di perpetuare un determinato rapporto di forza » (13,
205). Ma questo rapporto di forza può essere il dominio di aspirazioni mediocri che, tramite il
diritto, vogliono soltanto assicurarsi il loro esserci. Come tale, il diritto si riduce alle leggi che
si accumulano all’infinito. Oppure, il rapporto di forza che sta alla base del diritto esige il dominio
della parte più nobile dell’umanità. Allora il significato del diritto diventa quello di garantire una
gerarchia dei creatori. Se nel primo caso il legislatore era null’altro che una impersonale assemblea
legislativa, nel secondo diventa invece persona e in tal modo più della legge. Anche il fondamento
delle pene è nei due casi essenzialmente diverso: nel primo caso è un atto di utilità (vendetta,
intimidazione, miglioramento) a vantaggio della società o del criminale; nel secondo caso le pene
scaturirebbero dalla « volontà della forza plasmatrice » (13, 197), e l’immagine del vero uomo
diventerebbe la norma del diritto: « Il necessario presupposto della società è che essa rappresenti il
più alto tipo di “uomo” e da ciò deduca il suo diritto a combattere ciò che le è ostile come ciò che è
ostile in se stesso » (13, 196).
Comunque consideri lo Stato, Nietzsche non esalta però lo « Stato in sé », ma considera senza
illusioni anzitutto le sue realizzazioni e poi il suo significato in funzione del fatto che lo Stato faccia
avanzare gli uomini oppure ne produca un livellamento. Il fatto che esso debba servire al significato
ultimo dell’uomo e alle sue possibilità creative diventa criterio di valutazione delle realtà politiche.
Guerra e pace. Nietzsche considera la guerra così come essa è nella sua ineludibile realtà, cioè il
limite - annientamento e al tempo stesso condizione - dell’esserci umano. La guerra, come ultima
istanza che decide sul corso delle cose, fa parte dello Stato, che da essa sorge, e che a sua volta la
determina. Senza la guerra cesserebbe anche lo Stato. Guerra e possibilità di guerra risvegliano il
sentimento latente dello Stato (9, 72). Già il giovane Nietzsche si esprime in questi termini: « Per lo
Stato la guerra è una necessità, allo stesso modo che per la società è necessaria la schiavitù » (9,
162); e più tardi Nietzsche ribadisce: « La vita è conseguenza della guerra, la società stessa è un
mezzo di guerra » (15, 179).
Ma Nietzsche non è né un nemico della pace né un esaltatore della guerra. La sua onestà non può
ammettere una definitiva posizione univoca - come se un limite riconosciuto del nostro esserci
dipendesse dalla nostra giurisdizione e dalla nostra legislazione.
Nietzsche approfondisce quindi Videa della pace. La pace di cui parla Nietzsche ha un altro
carattere rispetto al pensiero pacifista, che vuol imporre la pace con eserciti soverchianti, cioè con la
forza, o che pretenderebbe di promuoverla con il disarmo graduale. A tutte queste utopie egli
contrappone un’altra utopia: « E forse verrà un gran giorno in cui un popolo, distintosi per guerre e
vittorie..., esclamerà volontariamente: “Noi spezziamo la spada”... Farsi inermi, quando si era i più
armati, per altezza di sentimento, - è questo il mezzo per la vera pace... Ai nostri rappresentanti del
popolo liberali manca, com’è noto, il tempo di riflettere sulla natura dell’uomo, altrimenti
saprebbero che lavorano invano, quando lavorano per una “graduale riduzione dell’onere militare”
» (3, 345).
Questa idea eroica della pace è radicalmente diversa da ogni pacifismo. Essa tocca il
comportamento dell’uomo in tutta la sua essenza. Essa è d’altra parte lontana dall’idea kantiana
della pace perpetua, nella quale le particolari condizioni della possibilità di pace vengono sviluppate
sulla base dei principi della ragione. Ma entrambi - Kant e Nietzsche - non hanno affatto in mente le
immediate possibilità di una Realpolitik, bensì chiarificano un’istanza dell’idea. Fino all’ultimo,
Nietzsche non rinuncia all’idea della pace, si trattasse anche solo di una possibilità. Se quell’idea è
seria, così egli dice con chiarezza, allora non può in alcun senso realizzarsi con la forza, o anche
voler lottare con l’uso della forza in qualsivoglia sfera dell’esserci. Egli preconizza « un partito
della pace » che, senza sentimentalismo, non solo vieti a se stesso e ai propri figli di fare la guerra,
ma allontani da ogni via in cui possa verificarsi un atto di possibile impiego della forza, e quindi
anche « vieti di servirsi dei tribunali ». Questo partito non vuole assolutamente combattere. Poiché è
onesto, esso rinuncia alla forza - non per impotenza, ma in virtù della grandezza che gli è
connaturata -, è privo di ogni risentimento ed è quindi « ostile alla vendetta e ai risentimenti ».
Poiché è essenzialmente estraneo al comportamento abituale dell’essere-uomo, esso
immancabilmente « eccita contro di sé la lotta, la contraddizione, la persecuzione: un partito degli
oppressi, almeno per un certo tempo; ben presto il grande partito» (16, 193).
Tuttavia, il fatto che, a tal proposito, Nietzsche contrapponga subito al « partito della pace » anche
l'incalzante « partito della guerra », che procede in senso contrario con altrettanta inesorabile
coerenza - « esso vede con compiacimento nella pace lo strumento di nuove guerre » (15, 487) -,
significa ancora una volta che egli non si nasconde la situazione-limite dell’esserci umano e
non ignora in modo menzognero la realtà esistente.
L’ineluttabilità delle guerre è per lui anzitutto determinata psicologicamente dalla tendenza
dell’uomo verso ciò che è estremo: « Le guerre sono oggi le più grandi eccitazioni della fantasia,
dopo che tutte le estasi e gli orrori cristiani si sono esauriti» (11, 369). Le pericolose esplorazioni,
traversate e ascensioni, sono degli inconfessati « surrogati della guerra ». Che poi da questa oscura
pressione sull’uomo sorgano di fatto delle guerre, sembra a Nietzsche inevitabile, se l’uomo non
deve perdere le sue possibilità: « È vana fantasticheria... aspettarsi dall’umanità ancora molto, ...
quando essa avrà imparato a far guerre ». Si comprenderà che « un’umanità supercolta e quindi
necessariamente fiacca, come quella degli Europei di oggi, ha bisogno non solo di guerre, ma
addirittura delle guerre più grandi e terribili - ossia di temporanee ricadute nella barbarie -per non
perdere, nei mezzi della civiltà, la sua civiltà e la sua stessa esistenza » (2, 356).
Dall’originaria disposizione filosofica alla vita nel pericolo derivano le note
frasi dello Zarathustra: « E, se non potete essere santi della conoscenza, siatene almeno i guerrieri...
Voi dite che la buona causa santifica persino la guerra... Perciò vivete la vostra vita di ubbidienza e
di guerra! Che importa vivere a lungo! Qual guerriero vuol essere risparmiato! » (6, 66-68). Chi
però - come il « santo della conoscenza » - non fa la guerra, deve comunque « imparare dalle
guerre... a portare la morte vicino agli interessi per i quali si combatte -questo ci conferisce dignità »
(16, 353).
Tuttavia, Nietzsche non vuole esaltare la guerra in quanto tale. La guerra è, come la natura, «
indifferente al valore dell’individuo » (10, 483). « A sfavore della guerra si può dire: essa rende
stupido il vincitore e cattivo il vinto. A favore della guerra: essa imbarbarisce con entrambi i
suddetti effetti, rendendo così più naturali; essa rappresenta per la civiltà il letargo o
l’inverno, l’uomo ne esce più forte per il bene e per il male » (2, 329).
Il vero senso di questo pensiero è di stare al limite e di non ingannarsi sulla condizione e l’origine di
ogni reale esserci. Nietzsche si spinge fino alle istanze e ai comportamenti ultimi, senza rinunciare
al fondamento dal quale essi si sviluppano in contrapposte possibilità. Il pensiero di Nietzsche perde
il suo senso se le singole riflessioni sono colte nel loro isolamento, ma lo riacquista nel movimento
che attraversa tutte le possibilità. Soltanto il loro insieme mostra il volto dell'esserci, cosicché il suo
sguardo induce alla grandezza della visione, alla profondità della scoperta, allo slancio verso ciò che
Nietzsche chiama la grande politica.
La democrazia. Stato, guerra e pace sono storicamente suscettibili di cambiamento, in modo
imprevedibile, nelle loro forme. Il fatto che tutti i rapporti umani siano in continuo divenire fa di
ogni presente una transizione. Ma Nietzsche ha visto il suo tempo come un’epoca decisiva per
la storia universale, che si pone tra due millenni; egli lo concepisce come una fine della storia
precedente e come possibile inizio di una nuova storia. Quando considera questa epoca, egli ne
redige, per così dire, l’inventario (cfr. supra)\ egli trova che la condizione che tutto comprende e
tutto determina è la democrazia. Soltanto essa può offrire il terreno su cui dovranno crescere le
forme future. Essa è la realtà politica che si è affermata dopo la rivoluzione francese, e che fu
riconosciuta in tutta la sua portata per primo da Tocqueville: « La democratizzazione dell’Europa è
inarrestabile » (3, 337). Chi ad essa si oppone, può farlo soltanto con gli stessi mezzi che il pensiero
democratico gli ha messo a disposizione, ed in tal modo fa avanzare egli stesso la
democratizzazione (3, 337). Le azioni politiche che si oppongono ad essa non fanno che favorire la
democrazia (3, 351). La democrazia è la calamità che minaccia alle radici tutto ciò che esiste.
Cosa sia la democrazia resta in grande misura indefinito. Ciò che Nietzsche ha in mente non è,
anzitutto, nessuna delle forme determinate di costituzione politica, non è una delle teorie o dottrine
politiche. Non è neppure la teoria della volontà popolare che si impone attraverso la democrazia: la
stessa volontà popolare non è pienamente comprensibile, ed è determinata soltanto dalla forma in
cui essa perviene a dominare e dalla quale è a sua volta plasmata. Se, ad esempio, si vuol vedere la
sua adeguata espressione nel diritto al suffragio universale, con cui la maggioranza ha la decisione
ultima sul bene di tutti, allora Nietzsche risponde: il fondamento di questo diritto al suffragio
universale non può essere nella maggioranza che giunge a costituirsi soltanto grazie a questo stesso
diritto, ma dovrebbe invece essere l’unanimità di tutti nel dichiarare la loro volontà di sottomettersi
alla maggioranza: « Perciò basta già l’opposizione di una piccolissima minoranza, per mettere di
nuovo da parte quel diritto stesso in quanto inattuabile: e l’astensione da una votazione costituisce
appunto una tale opposizione, che fa cadere l’intero sistema di votazione » (3, 339). Simili e altre
riflessioni, che Nietzsche svolge in vari modi, sono tuttavia per lui soltanto qualcosa che resta in
secondo piano. Ciò che egli pensa quando parla della democrazia è piuttosto un processo che si
svolge piu in profondità. In primo luogo, lo Stato e il governo dipendono da un millennio e mezzo
dalle norme della religione cristiana, che determinano pur sempre il contenuto ed i fini del
movimento democratico anche quando sono esplicitamente rifiutate come norme religiose; in
secondo luogo, è bene ed è necessario che ora, col lento declinare della fede religiosa, lo Stato ed
il governo si realizzino senza religione.
1.    L’origine cristiana spiega l’impulso fondamentale che Nietzsche ritiene di vedere nel quadro
complessivo delle manifestazioni della democrazia europea. Mentre l’uomo greco aveva portato tale
quadro alla massima estensione, l’abuso del potere da parte di Roma portò alla rivolta
vittoriosa degli impotenti in seno al cristianesimo; in seguito a questa ribellione, la storia europea
significa per Nietzsche, da allora, una sempre rinnovata vittoria dei deboli, la continuazione della «
rivolta della plebe e degli schiavi » che, nella democrazia e nel socialismo, cerca di ottenere la
vittoria definitiva.
2.    Il lento declino della fede cristiana, già in atto, dà inizio al movimento democratico, nel quale
ora le masse governano e vogliono essere governate senza religione. Nietzsche abbozza il quadro di
questo avvenimento che si svolge sotto i suoi occhi in molteplici forme e trasformazioni.
È stata la religione che finora ha reso possibili e stabili i governi, perché essa tranquillizza gli animi
in tempi di miseria e di sfiducia, senza che se ne dia la colpa al governo, ed anche perché la
religione preserva l’unità del sentimento popolare. Cosicché, quando la religione inizia lentamente a
declinare, viene conscguentemente scosso anche il fondamento dello Stato. Allora diventano
dominanti gli impulsi democratici che, per il loro contenuto, sono un cristianesimo secolarizzato.
Ma il governo dello Stato, che sta cadendo sotto il potere di quegli impulsi, non è più un mistero,
ma vale soltanto come strumento della volontà popolare. Il governo non gode più di alcuna
legittimazione religiosa. Dopo molte peripezie, e dopo inutili tentativi, predomina infine uno stato
d’animo di sfiducia verso tutto ciò che governa: « La morte dello Stato, la liberazione della persona
privata (mi guardo dal dire: dell’individuo) sarà la conseguenza dell’idea democratica dello Stato ».
« La democrazia moderna è la forma storica della decadenza dello Stato » (2, 344-350).
Nietzsche ha trattato con chiarezza, nelle sue constatazioni e nelle sue critiche sempre rinnovate, la
totalità della condizione democratica, in cui vivono uomini che, per quanto non credenti, continuano
pur sempre ad essere inconsapevolmente legati alle catene degli ideali cristiani. Così, egli tratta dei
partiti, che costituiscono un aspetto essenziale della democrazia (2, 382; 3, 148-153; 4, 175), e dei
due tipi principali di classi sociali che sorgono in quella condizione.
Nel mondo democratico, che sta diventando laico, diminuisce l’importanza dei ceti. Tra le masse
degli uomini emergono sempre più due gruppi che si caratterizzano per la loro differenza esteriore: i
possidenti e i non possidenti, ovvero i borghesi e i socialisti. Nietzsche considera ciò che è
essenzialmente comune ad entrambi. Staccati dalla religione e privi di nuove basi per
un’esistenza creativa, essi sono per lui, nonostante ogni momentaneo potere, un esserci illusorio che
non ha futuro.
Così, non vi è nulla che possa veramente giustificare i borghesi: « Solo chi ha spirito dovrebbe
avere proprietà: altrimenti la proprietà è un pericolo pubblico ». Poiché la loro esistenza è priva di
contenuto spirituale, i possidenti fanno della volontà di procurarsi ulteriori proprietà il contenuto
stesso della loro vita; tale volontà è il loro passatempo contro la noia. Essi si mascherano di cultura
e d’arte, suscitando in tal modo l’« invidia fra i poveri e gli incolti...: giacché la rozzezza dorata e
l’istrionico gonfiarsi nel preteso “ godimento della cultura” ispira in costoro il pensiero che “tutto
dipende dal denaro”» (3, 152). L’unico mezzo contro il socialismo - cosi scrive Nietzsche,
rivolgendosi ai borghesi - è quello « di vivere voi stessi con moderazione e modestia, ... e di venire
in aiuto dello Stato, quando grava sensibilmente di imposte tutto ciò che è superfluo e voluttuario.
Non volete questo mezzo? Allora, voi ricchi borghesi, che vi chiamate “liberali”, confessate che è la
vostra stessa profonda convinzione che trovate cosi terribile e minacciosa nei socialisti, e che però
in voi ammettete come inevitabile... Se voi, cosi come siete, non aveste il vostro patrimonio...,
questa vostra convinzione farebbe di voi dei socialisti» (3, 149 e sgg.).
L’obiezione che Nietzsche muove ai socialisti è che anch’essi hanno questa stessa convinzione, sia
pure sotto diverse condizioni; anch’essi pensano solo al mero esserci, e non al rango, alla dignità
dell’uomo. Cosi, essi vogliono « procurare l’ozio alla gente comune» (11, 367).
Nietzsche tenta di individuare il principio che ispira il modo di pensare di questo « socialismo »: si
tratta, secondo lui, del fatto che il socialismo « si rifiuta di vedere l’effettiva diseguaglianza degli
uomini» (11, 141). Esso è pertanto, dal momento che a decidere saranno la media e la massa, « la
tirannia, da ultimo escogitata, degli esseri inferiori e più stupidi» (15, 232). Questa tirannia si
esprime come «la morale del gregge»: «uguali diritti per tutti», « uguali pretese di tutti », « un solo
gregge e nessun pastore », « pecora uguale a pecora» (14, 68). In base alla sua origine, Nietzsche
definisce l’ideale socialista «un balordo fraintendimento dell’ideale morale cristiano» (15, 388).
In quanto il « socialismo » vuole essere una risposta alla questione operaia, Nietzsche rivolge la sua
critica contro tale questione, poiché, a suo dire, essa sarebbe posta in modo sbagliato. Nietzsche
dichiara sbrigativamente: « Non riesco assolutamente a vedere sino alla fine che cosa si voglia fare
dell’operaio europeo, dopo che di lui se n’è fatta innanzitutto una questione » (8, 153).
Secondo Nietzsche, la questione deve essere posta solo in questi termini: come può l’uomo
raggiungere armonia e soddisfazione con il proprio compito, che gli è peculiare e necessario? Da
dove trae origine la diseguaglianza, e chi ne è responsabile, dopo che è venuta a mancare la
legittimazione religiosa?
Cosa ne sarà dell'uomo? È questo, per Nietzsche, l’aspetto decisivo e fondamentale dell’epoca
democratica. Egli guarda alla massa, alla pressione di questa massa, ai « superflui », al livellamento
uniforme. Nietzsche, che disprezza le masse, afferma: « Createvi l’idea di un “popolo”: non la
potrete mai pensare abbastanza nobile e alta » (1, 346). Che poi Nietzsche usi spesso il termine
popolo, mentre ha in mente la massa, può essere facilmente corretto.
Nella massa vengono distrutti gli uomini, che invece nel popolo sono riuniti, come individui, e nello
stesso tempo lo creano col loro essere insieme. Nella massa non si perviene ad alcuna sostanziale
formazione del popolo, attraverso i singoli individui. Essi vengono « uniformati... Così sorge
necessariamente la sabbia dell’umanità: tutti molto simili, molto piccoli, molto approssimativi,
molto conformisti, molto noiosi» (11, 237). L’epoca democratica rifiuta ogni elevata specie d’uomo
(13, 30). I suoi uomini non sanno piu cosa sia il rango; la piccola gente non crede piu, come una
volta, nei santi e nei grandi uomini virtuosi, i borghesi non credono piu, come una volta, alla
specie superiore della casta dominante, gli artigiani della scienza non credono piu ai filosofi (14,
210). Scrive Nietzsche: « Solo per tre rispetti mi sembra che le masse meritino uno sguardo:
innanzitutto come copie evanescenti dei grandi uomini,... poi come ostacolo contro i grandi, e infine
come strumento dei grandi; per il resto, che se la prenda il diavolo e la statistica! » (1, 366). Poiché
la massa si diffonde ovunque, sia tra le persone colte, sia tra quelle che non lo sono, gli uomini in
tutti i campi non osano piu essere se stessi, e cercano soprattutto il benessere, la comodità, la
soddisfazione dei sensi; ed è per questo che Nietzsche si attende la seguente conclusione di questo
mondo democratico:
« Conseguentemente esso andrà incontro ad una schiavitù spirituale, quale non c’è mai stata fino ad
oggi » (12, 203).
Visioni di un futuro possibile
I pensieri di Nietzsche, ispirati dalla sua preoccupazione per l’umanità, sono con tale vigore rivolti
al futuro, che è difficile, nell’esporre le sue illuminanti considerazioni sulla politica in generale e sul
presente, poter prescindere da una immediata valutazione dell’avvenire. Nel presente egli
vede continuamente il minaccioso pericolo e le tendenze di ciò che verrà. È per questo che le visioni
di Nietzsche sono non soltanto molteplici, bensì alternative per quanto riguarda le direzioni
decisive: egli vede nello stesso tempo la decadenza e il progresso dell’uomo. Visioni di distruzione
e visioni di una nuova creazione si intrecciano nella sua idea della grande politica che, attraverso
una previsione obiettiva, intende compiere di fatto una previsione in grado di stimolare (impedire o
assecondare) un futuro possibile.
La democrazia - il governo libero dall’ipoteca religiosa del mondo europeo dopo la rivoluzione
francese - porterà, secondo la visione principale di Nietzsche, ad una forma di umanità dominata dai
« nuovi signori ». Tuttavia, accanto ad essa, vi sono secondo Nietzsche anche altre possibili vie
della democrazia, che egli abbozza però soltanto raramente e di sfuggita; troviamo inoltre
valutazioni sul futuro in relazione agli sviluppi degli Stati nazionali nei loro reciproci 'rapporti
politici, e visioni dei possibili mutamenti essenziali dell'uomo in generale.
Le vie della democrazia. Secondo Nietzsche, non è affatto possibile prevedere in modo unilaterale il
futuro della democrazia; egli intravvede piuttosto tre principali possibilità, che portano in direzioni
del tutto diverse.
La prima possibilità è quella di un mondo ordinato, in sé articolato, reso sicuro dal sapere e dalla
ponderatezza, riassunto in una « federazione europea ». Quando Nietzsche crede di vedere « un che
di desolato ed uniforme » negli uomini del suo tempo che « lavorano consapevolmente e lealmente
per il futuro democratico », è pur vero che egli pensa a ciò che di straordinario essi forse creano: «
È possibile che un giorno la posterità... pensi al lavoro democratico di una serie di generazioni,
all’incirca nel modo in cui noi pensiamo alla costruzione di dighe e di baluardi - come a un’attività
che necessariamente sparge molta polvere sugli abiti e sui volti... Sembra che la democratizzazione
dell’Europa sia un anello nella catena di quegli enormi provvedimenti profilattici... con cui noi ci
distinguiamo dal Medioevo. Solo questa è l’età delle costruzioni ciclopiche! Finale sicurezza delle
fondamenta, affinché ogni futuro vi possa costruire sopra senza pericolo! » (3, 338). Egli non dice
esplicitamente cosa siano queste fondamenta: esse sono tutte le forze spirituali, le opere, le
acquisizioni del sapere, le istituzioni, che vincono l’oscurità e il caos. Su queste fondamenta gli
sembra perfino possibile edificare una pace duratura: « Il risultato pratico della... democratizzazione
sarà a tutta prima una federazione europea in cui ogni popolo, delimitato in base a opportunità
geografiche, possederà la posizione di un cantone...: sui ricordi storici dei popoli del passato si potrà
allora contare poco, poiché il senso di rispetto per essi... verrà a poco a poco sradicato alla base ». In
questo nuovo mondo tutto sarà deciso secondo principi razionali e sarà plasmato con efficace
razionalità. I diplomatici futuri « dovranno essere insieme studiosi di civiltà, agricoltori e
conoscitori dei traffici, e avranno dietro di sé non eserciti, ma ragioni e utilità ». Il popolo che farà
valere tutto il suo potere in questa democrazia è molto lontano dal « socialismo come teoria
del cambiamento riguardo all’acquisto della proprietà ». Esso, però, regolerà la distribuzione della
proprietà, per esempio affronterà risolutamente i « principi della borsa », e « creerà un ceto medio
che potrà dimenticare il socialismo come una malattia superata » (3, 352). Questa democrazia, della
quale Nietzsche parla « come di qualcosa di futuro » (l’odierna democrazia non è affatto quella a
cui egli qui si riferisce), « vuole creare e garantire indipendenza per il maggior numero possibile di
persone », combattendo ed eliminando appunto i tre grandi nemici dell’indipendenza: i nullatenenti,
i ricchi, i partiti (3, 353).
Una seconda e veramente contrapposta possibilità appare a Nietzsche nell’ipotesi che il socialismo
conquisti il potere dello Stato. Infatti, il socialismo ambisce ad una « pienezza di potere statale,
quale solo qualche volta il dispotismo ha avuta, anzi esso supera di gran lunga ogni forma analoga
del passato,
poiché aspira espressamente all’annientamento dell’individuo ». Secondo Nietzsche, il pericolo di
questa via risiede nel fatto che essa non porterebbe ad alcuna stabilità. Poiché il socialismo « non
può neanche piu contare sulla vecchia pietà religiosa verso lo Stato, ... può qua e là sperare di
esistere solo per brevi periodi, grazie al piu violento terrorismo. Perciò si prepara, segretamente a
dominare con il terrore» (2, 350-351).
Vi è poi una terza possibilità, che Nietzsche esprime in modo oscuro. Se la democrazia non si
sviluppa in un ordinamento razionale e in una « federazione europea », ma subentra invece, come
sua conseguenza, la « morte dello Stato », allora si apre una « prospettiva che non sarà però sotto
ogni aspetto disgraziata »: non succederà il caos, « bensì un’invenzione ancora piu idonea di quanto
non lo fosse lo Stato, riporterà vittoria sullo Stato ». Bisogna però riconoscere che Nietzsche non
intende adoperarsi per la realizzazione di tale prospettiva, di cui nessuno ancora è in grado di
indicare i possibili sviluppi futuri. Egli afferma infatti: « Dobbiamo avere fiducia... che per ora lo
Stato continui a esistere per un buon pezzo e che i tentativi di distruzione da parte di
saccenti fanatici e avventati siano respinti » (2, 348, 349-350).
Sviluppi politico-mondiali degli Stati nazionali. Questi scenari del possibile futuro della democrazia
riguardano per lo piu le condizioni di politica interna. Ma queste condizioni sono essenzialmente
determinate dai rapporti politici internazionali, fin dal tempo in cui esiste una molteplicità di
Stati. Il modo in cui i vari Stati si sviluppano di per sé e nei loro reciproci rapporti, deciderà alla
fine il tipo d’uomo che ne scaturirà. La visione nietzschiana del futuro mostra un avvenire
catastrofico. Egli si aspetta « che ora possano succedersi un paio di secoli bellicosi di cui non esiste
l’uguale nella storia, insomma il nostro avvenuto ingresso nell’età classica della guerra, della guerra
dotta e al tempo stesso popolare sulla piu larga scala » (5, 313); «ci saranno guerre, quali non ci
sono mai state sulla terra» (8, 117).
Per la prima volta nella storia, queste guerre saranno determinate dal dominio della terra. Perciò, «
l’epoca delle guerre nazionali » appartiene a tutto quel « carattere di intermezzo che oggi è proprio
della situazione europea » (8, 192); le grandi possibilità di ciò che sta per avvenire si mostrano solo
a chi getta uno sguardo sul tutto: « È passato il tempo della piccola politica; già il prossimo secolo
porterà con sé la lotta per il dominio della terra - la costrizione alla grande politica » (7, 156). Solo
se si pone questo obiettivo, il pensiero politico avrà il suo vero significato. Si tratta « di entrare con
buone probabilità nella lotta per il governo della terra » (13, 358); e si tratta altresì di « preparare »,
in ogni attività spirituale, nel pensare e nello scrivere, « quello stato di cose, oggi ancora così
lontano, in cui i buoni Europei prenderanno in mano il loro grande compito: la direzione e la
vigilanza di tutta la civiltà della terra » (3, 249).
Nietzsche affronta anche il problema di cosa ne sarà dei popoli in questa via segnata dal destino;
analizza, per così dire, la loro fisionomia esistenziale. Egli giudica alcuni di questi popoli soltanto di
sfuggita: « Gli Americani si sono esauriti troppo presto - sono forse solo apparentemente una
futura potenza mondiale » (13, 355). « Nessuno crede piu al fatto che la stessa Inghilterra sia
abbastanza forte per continuare a sostenere la sua vecchia parte anche solo per altri cinquant'anni...
Oggi bisogna essere prima di tutto soldati, per non perdere il proprio credito come commercianti»
(13, 358). «Nella Francia contemporanea... la volontà è malata in maniera veramente grave »
(7, 155). Dal punto di vista della grande politica, sembrano interessare a Nietzsche soltanto la
Russia e la Germania.
Riguardo alla Russia, Nietzsche crede di vedere i segni di una forza straordinaria e di un futuro
singolare: « Segni del prossimo secolo: l’ingresso dei Russi nella civiltà. Un obiettivo grandioso.
Prossimità della barbarie. Risveglio delle arti, generosità della gioventù e fantastica follia» (11,
375).
Che ne sarà politicamente della Germania? È vero che Nietzsche ha detto: « Gli stessi Tedeschi non
hanno un avvenire » (8, 192); ma ha pure affermato: « Essi appartengono all’altroieri e al
posdomani: non possiedono ancora un oggi » (7, 204). La critica di Nietzsche ai Tedeschi, che si fa
sempre più intensa, nasce da un infinito amore, spesso deluso. Proprio quando pensa di non
veder nei Tedeschi più nulla che abbia valore, questo stesso fatto costituisce ancora per lui un segno
del futuro: « I Tedeschi non sono ancora niente, ma stanno diventando qualcosa...: noi Tedeschi
vogliamo da noi stessi qualcosa che da noi non si è ancora voluto - vogliamo qualcosa di piu! » (15,
221).
Nelle costruzioni nietzschiane della politica mondiale due possibilità giuocano un ruolo principale:
o una disgregazione politica dell'Europa, come espressione del suo globale destino di decadenza,
con conseguenti nuove combinazioni del governo mondiale, oppure l'unità politica dell'Europa e il
governo mondiale da parte dell'Europa.
È quest’ultima possibilità che prevale nei pensieri di Nietzsche: « Per quanto mi riguarda - questa è
una sola Europa» (13, 357). Ma il destino esterno dell’Europa nel mondo viene alla fine
determinato da quello interno; da qui la richiesta di Nietzsche: « Porre l’Europa di fronte alla
conseguenza, qualora “voglia” la propria volontà di declino. Impedimento del livellamento nella
mediocrità. Meglio allora il declino! » (16, 420). Forse l’Europa è questo mondo in declino; ma
altrettanto decisamente Nietzsche vede l’Europa come l’unica grande chance dell’uomo in generale.
Egli vede, da una parte, l’europeo del futuro « come il più intelligente animale in schiavitù, molto
laborioso, in fondo molto modesto, curioso all’eccesso, molteplice, viziato, di volontà debole - un
caos cosmopolita di passione e intelligenza » (16, 288); il pericolo è « l’istupidimento dell’Europa e
il rimpicciolimento dell’uomo europeo » (13, 352). D’altra parte, egli vede il possibile europeo
dell’avvenire come una « razza superiore », in confronto alle « razze » sorte in « conseguenza di un
ambiente » e in virtù di «un ruolo impresso una volta per tutte» (13, 323). Egli vuole il « buon
europeo », e se lo attende dai « segni in cui la volontà che l’Europa ha di unificarsi si manifesta ».
In tutti gli uomini più profondi e di più ampie vedute di questo secolo, Nietzsche ritiene di vedere
l’autentica direzione complessiva del lavoro misterioso della loro anima: « anticipare
sperimentalmente l’europeo dell’avvenire » (7, 229). Come sempre, Nietzsche porta anche
questo suo pensiero fino alle estreme conseguenze. Pertanto, in tale contesto, « oggi, mentre tutto
accenna a interessi maggiori e comuni » (16, 192-193), ciò che gli appare espressamente nazionale
è per lui piuttosto un pericolo: « Ciò che è nazionale, così come viene inteso oggi, richiede come
dogma addirittura la limitatezza » (11, 137). Egli vede la grandezza di Napoleone nel fatto di aver
concepito « l’Europa come unità politica » (15, 218), e crede di poter constatare che
anche «l’unificazione economica dell’Europa verrà con necessità» (16, 193). Egli
crede pure di vedere « quel che in fondo si sta svolgendo - la scomparsa di ciò che è nazionale e la
formazione dell'uomo europeo» (11, 134).
Ma tutto ciò non rappresenta l'unica possibilità. In considerazione del pericolo che l'Europa cada
nelle « mani della plebe », Nietzsche cosi immagina di poter almeno salvare qualcosa: « Mettere da
parte in tempo ciò che deve essere salvato! Indicare i paesi nei quali la cultura può ritirarsi - per una
certa inaccessibilità, per esempio il Messico - » (13, 360). Oppure, egli pensa alla possibilità di
un’alleanza tra Germania e Russia. Poiché gli « sembra che presso gli Slavi vi sia la piu grande
concentrazione di forza di volontà, ancora inutilizzata... », egli vuole allearsi con la Russia: « un
governo della terra tedescoslavo non è una delle cose più improbabili» (13, 356). «Io vedo
maggiore inclinazione alla grandezza nei sentimenti dei nichilisti russi che non in quelli degli
utilitaristi inglesi... Abbiamo bisogno di un’assoluta alleanza con la Russia... Non un avvenire
americano! » (13, 352-353). A sua volta, quest’idea di un’alleanza con la Russia svanisce in
considerazione della minaccia di un’eccessiva potenza della Russia in futuro. Di fronte a questa
minaccia, è effettivamente possibile che per un momento tutto il resto scompaia: « La Russia deve
necessariamente diventare padrona dell’Europa e dell’Asia, colonizzare e conquistare Cina e India.
L’Europa come la Grecia sotto il dominio di Roma » (13, 359); questa è vista come una possibilità a
lungo termine; infatti, costituisce un vantaggio della Russia, ed anche della Chiesa, il fatto che «
esse possono aspettare » (13, 361).
Tutt’altro pensa Nietzsche quando la sua coscienza europea è di nuovo forte. Allora egli non solo
vede nella Russia - con la sua immensa concentrazione di forza di . volontà - il pericolo maggiore,
ma intravvede anche la possibilità di un risveglio dell’Europa per difendersi contro di essa. Egli si
augura allora persino « un tale aumento di minacciosità della Russia, da far sì che l'Europa si senta
costretta a decidere di divenire anch’essa egualmente minacciosa, di acquisire cioè una volontà
unica,... una durevole, tremenda volontà propria, in grado di proporsi mete al di là dei millenni » (7,
155).
Mentre in tutti questi scenari è determinante la tendenza verso formazioni unitarie sempre più
grandi - l'Europa, il governo mondiale -, Nietzsche prospetta uno scenario esattamente opposto,
allorché pensa in quale misura le formazioni di Stati unitari dipendano da circostanze esterne, cioè
dai conflitti tra le varie potenze: « La frammentazione in formazioni statali atomistiche sembra
essere la prospettiva più lontana della politica europea »; infatti, se i piccoli Stati sono inghiottiti dai
grandi Stati, e questi dallo Stato-gigante, alla fine « lo Stato-gigante si frantuma, poiché viene a
mancargli l'appiglio che faceva espandere il suo corpo: l’ostilità dei vicini» (11, 139).
Ma in tutte queste visioni del futuro appare sempre, da ultimo, un punto in cui si spezzano. Nessuna
di esse mostra quale sarà la condizione futura del mondo. Nietzsche coglie semmai tutte le minacce
che evidenziano l’instabilità del mondo a lui contemporaneo. Egli distrugge la sicurezza apparente
di un mondo che nel suo insieme si ritiene in ordine per il solo fatto che si pone degli obiettivi.
Emerge chiaramente l’incertezza verso cui tutto ci spinge, non la certezza di una chiara ed
univoca direzione del mondo. Sono visioni del futuro di un mondo che non ha un fondamento
sicuro. A nessuna di queste future possibilità Nietzsche potrebbe mai aggrapparsi.
Al di là di tutte le situazioni di (politica interna e delle combinazioni di politica estera, Nietzsche
appunta lo sguardo, in conclusione, su ciò che sarà dell’uomo in quanto tale.
Essenziali mutamenti spirituali dell'uomo. Troviamo in Nietzsche tutta una serie di occasionali
visioni del futuro che riguardano l’essenza stessa dell’uomo.
La tecnica porta con sé possibilità di vita finora sconosciute, con cui l’uomo può giungere ad
un’altra coscienza dell’essere e di se stesso: « Attraverso il dominio della natura, l’umanità potrà
forse procurarsi nel nuovo secolo molta pili forza di quanta ne possa usare... Già la sola aeronautica
mette fuori giuoco tutti i nostri concetti di civiltà... Verrà un’epoca dell’architettura in cui, come i
Romani, si costruirà per l’eternità » (11, 376). «In futuro ci saranno: in primo luogo, innumerevoli
istituti in cui ci si recherà periodicamente per prendersi cura della propria anima; in secondo luogo,
innumerevoli mezzi contro la noia; in ogni momento si potranno ascoltare cattedratici ed altra
gente di tal sorta; in terzo luogo, feste nelle quali si convoglieranno molte singole invenzioni per la
riuscita generale della festa» (11, 377).
In simili cambiamenti basati sullo sviluppo della tecnica, specialmente in relazione alle sempre più
grandi ed evolute possibilità scientifiche, vi è il rischio che la civiltà sia distrutta dai suoi stessi
mezzi (2, 370; 7, 323 e sgg.). « La vita appare sempre più difficile, e ci si può ben chiedere se la
capacità di inventiva degli uomini sarà sufficiente per i più alti gradi di difficoltà » (11, 139). In
particolare, il sapere può diventare insopportabile: « Se la scienza dà di per sé sempre meno gioia e
sempre più - col gettare il sospetto su fonti di consolazione come la metafisica, la religione e l’arte -
toglie gioia », allora si corre il rischio che la vita dubiti di se stessa; saranno allora necessarie due
forze opposte: « con illusioni, unilateralità e passioni, bisogna riscaldare; con l’aiuto della scienza
conoscitiva bisogna prevenire le cattive e pericolose conseguenze di un surriscaldamento ». Se
questa duplice esigenza non verrà soddisfatta, allora si può prevedere che « verrà meno l’interesse
per la verità;... l’illusione, l’errore e la fantasticheria si riconquisteranno combattendo, passo per
passo,... il terreno su cui un tempo dominavano: la rovina delle scienze e il ripiombare nella
barbarie saranno la conseguenza più immediata; l’umanità dovrà ricominciare... Ma chi ci
garantisce che troverà sempre la forza per farlo? » (2, 235-236).
Quando Nietzsche vede tutto nella più pericolosa trasformazione, quando pensa alla rivoluzione
sociale che forse un giorno verrà, non è affatto spinto dalla convinzione che in essa verranno
realizzati i contenuti della sua entusiastica visione dell’uomo superiore; il successo di questa
rivoluzione « sarà minore di quanto si pensi: l’umanità può fare molto meno di quanto essa vuole,
come ha mostrato la Rivoluzione francese. Quando il grande effetto e l'ebbrezza della burrasca
saranno passati, risulterà che per poter fare di più occorrerebbero più forze, più esperienza » (11,
369). Si può soltanto vagamente supporre quale sarà l’atteggiamento interiore dell’uomo dopo la
morte di Dio, dopo la rovina di tutti i valori tradizionali, e di fronte alle delusioni conseguenti ai
tentativi di innovazione ed alle inimmaginabili catastrofi. Nel prossimo secolo « le forze religiose
potrebbero essere ancora abbastanza forti per una religione ateistica alla Buddha... e la scienza non
avrebbe nulla da opporre ad un nuovo ideale. Ma non ci sarà un umanitarismo universale! Dovrà
apparire un uomo nuovo. - Io
stesso sono lontano da ciò e non me lo auguro affatto! Però, è probabile » (11, 376).
Se Nietzsche guarda al futuro piu lontano, restrema possibilità per lui -nel riprendere l’idea della
discendenza e dell’origine dell’uomo - è che « l’uomo è divenuto dalla scimmia e in scimmia
ancora si trasformerà, mentre non c’è nessuno che prenda qualche interesse a questo bizzarro
scioglimento di commedia » (2, 232).
La preoccupazione di Nietzsche per le possibilità di annientamento, e la sua speranza di un uomo
superiore sono espresse nello Zarathustra con il grandioso simbolismo delle due contrapposte
figure dello spregevole « ultimo uomo » e del « superuomo » che porta ogni speranza (6, 12-21).
I nuovi signori. Su di un piano completamente diverso rispetto alle visioni di un inconsistente
mondo futuro si colloca la riflessione di Nietzsche sulla possibilità di una nuova guida. Vedendo che
il mondo si sta per cosi dire incamminando e trascinando in una direzione senza una precisa guida,
egli si interroga sulla possibilità di una sua trasformazione. Questo stesso mondo, nella condizione
in cui lo ha portato la democrazia, diventa per Nietzsche
lo    strumento di un nuovo dominio. Se è vero che Nietzsche, con tutte le sue valutazioni, si oppone
alla democrazia, cosi come gli si è presentata nella realtà del suo tempo, è altrettanto vero che egli
l'aveva però accolta come destino dell’Occidente e come punto di partenza delle possibilità piu
ricche di speranza. Riferendosi a Zarathustra, egli dice che il suo « odio per il sistema di
livellamento democratico è soltanto di facciata », ed egli è semmai « lieto che esso sia giunto a
questo punto. Egli può ora assolvere
il    suo compito » (12, 417). Ciò significa che la democrazia crea, secondo Nietzsche, i presupposti
di un futuro dominio, mai esistito prima, che abbraccerà tutta la terra. La « democratizzazione
dell’Europa » trova la sua giustificazione in ciò che essa renderà possibile per il fatto di essere «
al tempo stesso un’involontaria organizzazione per l’allevamento di tiranni » (7, 208). Infatti, col
minare la fede religiosa, col dissolvere conseguentemente tutti i valori prima invalsi, con la vita
priva di principi di quasi tutti gli uomini di ogni ceto, con la metamorfosi dell’uomo in « sabbia »,
alla fine « l’insicurezza diverrà talmente grande che gli uomini si inginocchieranno davanti ad ogni
forza di volontà che dia ordini » (16, 194). Le stesse condizioni, sotto le quali si viene a formare un
livellamento medio dell’uomo, « il laborioso animale da branco », danno origine anche a «
uomini d’eccezione, della piu pericolosa e ammaliante qualità ». L’uomo forte diventerà piu forte e
piu ricco di quanto forse non sia mai stato fino ad oggi (7, 207).
Il pensiero politico di Nietzsche sull’avvenire si riassume nel problema dell'essenza di questi nuovi
signori. Nell’attesa dei signori dell’avvenire, che utilizzeranno la democrazia e tuttavia come tale la
travolgeranno, il pensiero principale è che la loro essenza risulta necessariamente dalla seguente
situazione.
In primo luogo, il corso delle cose non può piu essere lasciato a se stesso. Ma soltanto un'umanità
veramente superiore, che abbracci col pen-
siero l’insieme delle possibilità umane, può prenderlo nelle proprie mani. È necessaria « una nuova
specie di filosofi e condottieri ».
In secondo luogo, in un’epoca atea, questi signori devono essere tali da potere amministrare senza
credere in Dio e senza rivolgersi a lui, concependo invece le loro decisioni con lo stesso profondo
senso di responsabilità che era prima determinato dalla fede in Dio. In particolare, il loro rapporto
col popolo sarà completamente nuovo. Invece del dominio del popolo, che si svolgeva pur con certe
garanzie nella democrazia, in fondo livellatrice e corruttrice, come dominio di ciò che caratterizza la
massa, questo dominio dovrà piuttosto sorgere dalla compenetrazione della sostanza dei sudditi con
la volontà dei signori. Ma ciò avverrà non più con l’attiva consapevolezza dei sudditi, bensì per il
fatto che la debolezza della massa divenuta atea si appellerà alla forza: i signori della terra «
devono ora rimpiazzare Dio e conquistarsi la fiducia profonda e incondizionata dei sudditi » (12,
418). Nietzsche attende « un’ardita razza dominante, costruita sulla base di una massa-gregge
estremamente intelligente » (16, 336).
Il destino dell’umanità è quindi nelle mani dei signori che verranno. Nietzsche riflette sulle loro
possibilità ed i loro rischi. Ciò che essi potranno essere dipende - dal punto di vista psicologico -
dal tipo di massa che dovranno dominare. Infatti, i signori non sono soltanto dei dittatori che danno
ordini in base ad un’astratta verità o ad una grandezza sovrumana; devono invece essere uomini
che, in un mondo ateo, possono conquistare l’incondizionata fiducia della massa solo nella misura
in cui sono uomini del popolo. Vi deve essere un’azione reciproca tra l’essenza di questi signori e
l’essenza degli uomini che essi dominano. È decisivo sapere quale popolo supera la possibilità di
divenire massa (cfr. infra il giudizio di Nietzsche sul popolo).
Da una parte, ciò che la massa è viene determinato dall'essenza dei signori. Nietzsche osserva nel
suo tempo il seguente rapporto: « Ci si lamenta della mancanza di disciplina della massa;... la massa
si mostra indisciplinata nella misura in cui si mostrano indisciplinate le persone istruite; si cammina
in testa ad essa come guide, si può vivere come si vuole; la si eleva o la si avvilisce a seconda che si
elevi o si avvilisca se stessi » (11, 142).
D’altra parte, i signori dipendono dal tipo di massa: « Una forza organizzativa di prim’ordine, per
esempio Napoleone, deve essere in relazione al tipo di massa che debba essere organizzata » (14, 64
e sgg.). Quindi: « Chi finora aveva a che fare con l’uomo in grande stile, lo valutava secondo le
qualità fondamentali... Così fece Napoleone. Egli non si curò delle virtù cristiane, fece come se non
esistessero » (13, 329). Napoleone stesso, però, « era stato corrotto dai mezzi che dovette usare, e
aveva perduto la noblesse del carattere. Imponendosi fra un’altra specie di uomini, avrebbe potuto
usare altri mezzi e così non sarebbe stato necessario che un Cesare dovesse diventare cattivo »
(16, 376 e sgg.).
In considerazione della necessità di governare la massa degli uomini in modo tale che possa
affermarsi l’uomo superiore, e in considerazione degli
enormi pericoli per l'essere-uomo come tale nel mondo democratico, Nietzsche esprime la sua
aspirazione e la sua preoccupazione: « È l’immagine di tali condottieri che libra dinanzi ai nostri
occhi... La necessità di tali condottieri, il tremendo pericolo che essi possano non giungere, o fallire,
o degenerare - queste sono le nostre vere ambasce e abbuiamenti » (7, 138).
Nietzsche delinea l'immagine di questi reali nuovi signori, senza poterle conferire una forma
plastica. « I signori della terra » saranno una nuova « aristocrazia dello spirito e del corpo, che
selezioni se stessa e assorba in sé sempre nuovi elementi... » (14, 226). Egli vede « la loro nuova
santità, la loro capacità di rinunciare alla felicità ed al piacere. Non a se stessi, bensì agli esseri
inferiori essi concedono il diritto di essere felici » (12, 418). Essi si basano su una durissima
autolegislazione «in cui sarà conferita una durata di millenni alla volontà di violenti uomini
filosofici e di tiranni artisti; una specie superiore di uomini che... si serviranno dell’Europa
democratica come del loro strumento piu docile e maneggevole per prendere in mano le sorti della
terra, per plasmare, come artisti, l'"uomo” stesso » (16, 341). Essi avranno la stessa disposizione
d’animo descritta « nel Teagete di Platone »: « Ognuno di noi vorrebbe se possibile essere
signore di tutti gli uomini, meglio ancora dio » (16, 340).
I nuovi signori si assumeranno consapevolmente il compito della trasformazione dell’uomo, che
finora nell’epoca democratica si era svolta nella direzione del livellamento, non solo allo scopo di
consolidare il loro dominio, ma anche per elevare il livello umano dell’individuo. Un
allevamento protratto nel tempo dovrà preparare ciò che soltanto una « durata di tutte le condizioni
» (3, 349) rende possibile: la felicità degli uomini nel tutto, in modo che l’uomo che si trova
necessariamente in una condizione di « schiavitù » abbia la possibilità di elevarsi. Il presupposto
affinché ciò avvenga non è quello di misurare ogni specie di uomo alla stregua di
un’unica, ipotetica norma umana universale. Il carattere di ogni modo dell’esserci, che nel tutto è
necessario, deve avere la capacità dell'autoaffermazione, e coloro che dominano devono aiutarlo.
Poiché « per i mediocri è una felicità essere mediocri,... sarebbe del tutto indegno di uno spirito
profondo vedere nella mediocrità in sé già un’obiezione ». « La maestria in una sola cosa, la
specializzazione come istinto naturale » debbono essere sostenute in quanto costituiscono il
carattere della propria peculiare affermazione della vita. Bisogna però respingere tutti coloro che «
sovvertono lentamente l’istinto, il piacere, quel senso, nel lavoratore, di moderno appagamento del
suo piccolo essere » (8, 303-304).
II    problema fondamentale in questa trasformazione dell’uomo è il rapporto tra il lavoratore e il
datore di lavoro, e il modo di essere di entrambi. Il mondo democratico, secondo Nietzsche, ha
sbagliato tutto su questo punto. Non bisogna cercare di sfruttare l’occasione del profitto, ma bisogna
invece tener presente il « bene del lavoratore, la sua contentezza materiale e spirituale ». L’errore
è stato quello di utilizzare soltanto il lavoro, senza pensare al lavoratore come uomo totale,
all’intera persona. Fino ad oggi lo « sfruttamento del lavoratore è stato... una sciocchezza, una
coltura estensiva a spese del futuro, una messa in pericolo della società » (3, 349). Nietzsche
prevede un nuovo tipo di rapporto di lavoro, il cui modello è il rapporto militare: « Soldati e
comandanti conservano sempre nei loro reciproci rapporti un contegno molto più elevato di
quanto non sia quello dei lavoratori e dei datori di lavoro... È singolare che la soggezione a potenti
persone che incutono timore se non addirittura orrore, a tiranni e condottieri d’eserciti, non sia di
gran lunga sentita in maniera cosi penosa quanto l’assoggettamento a persone sconosciute e non
interessanti, quali sono i magnati dell’industria... Probabilmente fino ad oggi sono troppo mancati
agli industriali e ai grandi imprenditori commerciali tutte quelle forme e quei segni distintivi della
razza superiore...: se essi avessero nello sguardo e negli atteggiamenti la distinzione di tratto della
nobiltà di nascita, non ci sarebbe forse il socialismo delle masse. Queste, infatti, sono in definitiva
disposte alla schiavitù di ogni specie, premesso che chi sta in alto sopra di loro mostri
costantemente - attraverso la nobiltà della forma - i titoli della sua superiorità, della sua innata
destinazione al comando! » (5, 77). Nell’attuale schiavitù Nietzsche vede una barbarie, poiché non
ci sono i veri signori per i quali si dovrebbe lavorare (16, 196), mentre nel «futuro del lavoratore»
sotto i veri signori egli vede pur sempre una « schiavitù », ma diversa nella sua essenza. Allora « gli
operai dovrebbero imparare a sentire come i soldati. Un onorario, uno stipendio, ma non un
pagamento! Non una proporzione tra pagamento e prestazione! Ma porre l’individuo in modo che,
secondo la sua natura, possa fare quanto di più alto sta nella sua sfera ». Allora il benessere e il
quotidiano piacere della vita saranno appannaggio di coloro che servono; perciò, è necessaria
un’inversione dei ruoli che oggi rivestono borghesi e operai: « Gli operai dovranno un giorno vivere
come adesso i borghesi: ma al di sopra di essi la casta superiore, che si distingue per l’assenza di
bisogni! quindi più povera e più semplice, ma in possesso del potere » (16, 197). Soltanto il vero
rango umano, la natura di signori di coloro che comandano toglie lo sprone alla necessaria
schiavitù, rende contenti i subalterni, in quanto dà ad essi ciò che loro compete, e consente loro di
rispettare per quel che sono chi li comanda.
Il compito della grande politica
Nella sua filosofia negativa Nietzsche ha rotto con ciò di cui tutti si sentono comunemente
partecipi: si chiami Dio, o morale, o ragione. Egli non ammette che gli uomini che formano uno
Stato e una società abbiano qualcosa di completamente comune. Gli uomini sono per lui
assolutamente disuguali. « Non ci sono diritti umani » (11, 143). Egli non riconosce un diritto in sé.
Tutto ciò che gli si presenta con la pretesa di una validità assoluta è per lui soltanto un esempio del
carattere totalitario della menzogna, cioè di quella che è universalmente considerata la « verità ».
Gli uomini non hanno la possibilità di ritrovarsi in una verità valida, ma vivono invece stabilendo «
una legge dell'armonia » nelle cose richieste dall'esserci (3, 103).
Ma poiché, nella realtà, non c’è nessun’altra istanza all’infuori degli uomini che decida sul rango e
sul valore degli uomini stessi, e su ciò che deve valere come vero, avviene così che a decidere sia il
tipo d’uomo che ha di fatto il potere. Per Nietzsche resta pur sempre valida l’indicazione di lottare
per il potere. Dal punto di vista politico, in senso stretto, ciò significherebbe lottare per il potere
statale. Dal punto di vista politico, nel senso della grande politica, ciò significa invece lottare per
mezzo dei pensieri creativi, che plasmano e trasformano invisibilmente gli uomini. La verità è
realmente tale solo nella lotta per il potere, in cui essa ha l’origine e il limite.
La grande politica di Nietzsche si pone il compito di dare un senso filosofico ai nuovi signori e di
renderli consapevoli di sé: essi - così egli vorrebbe che fossero - dovranno rappresentare e creare
l’uomo superiore in questo mondo divenuto ormai ateo: « Io scrivo per un genere di uomini
che ancora non esiste: per i “signori della terra” » (16, 340).
I legislatori. Con la svolta storica, il presupposto dell’azione costruttiva è la « trasvalutazione di
tutti i valori ». È giunto il momento in cui « si pone per la prima volta la grande questione di
valore... in cui una elevatezza e libertà di passione spirituale, finora non immaginate, si
approprieranno del problema supremo dell’umanità ed invocheranno la decisione per il suo
destino... » (a Overbeck, 18. 10. 88). Ma questa trasvalutazione non può realizzarsi grazie ad una
valutazione momentanea ed espisodica, in base a sentimenti di simpatia o antipatia, ma -soltanto
grazie all’origine più profonda dell’uomo. La revisione di tutti i giudizi di valore ha dunque
bisogno, « prima ancora che tutte le cose vengano poste sulla bilancia, della bilancia stessa - penso
a quella suprema giustizia della suprema intelligenza che ha nel fanatismo il suo mortale nemico »
(11, 371). Ciò che è compiuto surrettiziamente sulla base di semplici valutazioni non è
nient’altro che vuota superficialità. Una valutazione creativa e costruttiva deve invece lasciar
parlare l’origine stessa, in quanto necessità dell’essere che diviene. La trasvalutazione dei valori
non deve esser posta al servizio di una singola valutazione in sé conclusa; chi compie tale
trasvalutazione deve poter essere una bilancia, in modo da vedere le possibilità nella loro totalità, e
portare in sé tutta l’estensione dell’essere in divenire. Nietzsche sembra qui richiamarsi, al di là di
tutto ciò che è umanamente possibile, all’origine stessa dell’uomo, cosicché di fronte a questo
appello ogni impegno assoluto dell’uomo nella sua storicità precipiterebbe nel fanatismo»; eppure è
proprio questa trasvalutazione creativa dei valori ciò che Nietzsche chiama legislazione: essa non è
la formulazione di norme giuridiche o morali, che a loro volta sono piuttosto soltanto la
conseguenza dell’insieme delle valutazioni che devono essere create nell’onnicomprensivo
filosofare normativo.
Le leggi, nella loro nuda formulazione, alla fine mortificano; secondo Nietzsche, esse sono vive e
vere soltanto se sono poste dai legislatori creativi. Soltanto « là dove la vita si irrigidisce, sovrana si
erge, a mo’ di torre,, la legge » (8, 394); e sorge la situazione per la quale vale il detto dell’antico
cinese: « Se gli imperi devono andare in rovina, avranno molte leggi » (16, 191). « Ahimè! -
esclama Nietzsche - dove è andato a finire il volto venerabile del legislatore, che deve significare
più della legge, cioè il desiderio di considerarla sacra per amore e venerazione? » (12, 200). Coloro
che si aggrappano alle leggi « cercano in fondo un grande uomo,
un timoniere, di fronte al quale le leggi stesse si annullino» (12, 274).
Ciò che è caratteristico della « grande politica » di Nietzsche è che essa, allorché tratta del
legislatore, non parla affatto dell'uomo politico attivo, ma del filosofo; altrettanto poco parla della
politica determinata di una qualunque situazione concreta, bensì della complessiva situazione
storico-mondiale dell’epoca. Per quanto riguarda gli uomini che saranno i promotori della storia
futura, Nietzsche prevede « l’identità sostanziale del conquistatore, del legislatore e dell’artista »
(14, 134); per lui i veri « comandanti e legislatori » dell’avvenire sono appunto i filosofi: « Sono
essi che determinano il “verso dove” e l’“a che scopo” » (16, 348).
Nietzsche ha evocato il senso del pensiero filosofico con un appello cosi pressante quale forse in
precedenza non si era mai verificato. La sua consapevolezza dell’imprevedibile azione creatrice
dell’autentico filosofare, del suo filosofare, è straordinaria. I filosofi « protendono verso
l’avvenire la loro mano creatrice » (7, 162). Essi vogliono costringere « la volontà di millenni a
prendere nuove strade », vogliono « preparare grandi rischi e tentativi totali di disciplina e di
allevamento » (7, 137-138). Convinto della potenza del suo pensiero, Nietzsche afferma la propria
superiorità: « Siamo noi, i pensanti-senzienti a fare realmente e continuamente qualcosa che ancora
non esiste: tutto il mondo eternamente crescente di valutazioni, colori, pesi, prospettive, serie
graduali, affermazioni e negazioni. Questo poema da noi inventato è continuamente assimilato
nell’apprendimento e nell’esercizio, tradotto in carne e realtà, anzi in quotidianità, dai
cosiddetti uomini pratici (i nostri attori...) » (3, 231). Se coloro che effettivamente agiscono hanno il
privilegio della realtà, Nietzsche replica allo scherno che in qualche modo si indirizza contro
l’impotenza della sua sognante irrealtà: « Voi vaneggiate di essere liberi... ma in realtà non siete che
gli ingranaggi di un orologio che sono stati rimontati da noi, da noi che valutiamo! » (12, 249). La
posizione del pensare creativo rispetto all’agire creativo - la loro distinzione e la loro identità -
cambia a seconda delle varie formulazioni di Nietzsche. I politici della sua grande politica sono a
volte i « signori della terra », altre volte si chiamano invece i signori di questi signori: « Al di là dei
regnanti vivono gli uomini piu elevati, liberi da ogni vincolo: e nei regnanti essi hanno i loro
strumenti » (16, 339). La loro azione non è immediata e visibile, ma, alla lunga, è quella veramente
efficace: « Le parole piu silenziose sono quelle che portano la tempesta. Pensieri che incedono con
passi di colomba, guidano il mondo» (6, 217). «Non intorno agli inventori di nuovi fragori: intorno
agli inventori di valori nuovi ruota il mondo; impercettibile - così esso ruota » (6, 193; 6, 73).
Nietzsche vive nella consapevolezza di filosofare ad una svolta della storia: « Chi è in grado di
sentire insieme a me cosa significhi sentire con ogni fibra del proprio essere che i pesi di tutte le
cose debbono essere rideterminati! » (a Overbeck, 21. 3. 84). Egli sa che gli effetti della sua opera si
faranno sentire sulla generazione futura, « nella quale i grandi problemi di cui io soffro, anche se
continuo a vivere con essi e per amore di essi, dovranno materializzarsi e penetrare nei fatti e nella
volontà » (a
Overbeck, 30. 6. 87). Questo è il senso della sua vita: « Il mio compito: spingere l'umanità a
risoluzioni che decideranno di tutto l’avvenire! » (14, 104).
Ma nello stesso tempo un senso di terrore si impadronisce a poco a poco di Nietzsche quando egli
pensa a ciò che la filosofia ed un filosofare come il suo, che non ha precedenti, può provocare: « La
storia della filosofia è ancora troppo breve: si tratta di un inizio; non ha ancora combattuto guerre...
Noi individui, viviamo la nostra esistenza di precursori, lasciamo che i posteri combattano guerre
per le nostre opinioni - noi viviamo ai centro dell’epoca dell’uomo: massima fortuna! » (12, 208).
Il cammino della grande politica. Se chiediamo a Nietzsche cosa bisogna fare politicamente, la sua
prima risposta è che, affinché sia possibile agire, debbono innanzitutto sussistere i presupposti della
sua grande politica. L’origine creativa della grande politica - trasvalutare e legiferare - non può
essere essa stessa, in quanto origine, una meta. La politica può nascere da essa, ma non può
produrla. L’origine non è reale alla stessa stregua di qualcosa che io posso considerare utile e
desiderabile, e che quindi diventa lo scopo della mia volontà. Affinché la trasvalutazione e la
legislazione diventino reali, debbono invece sussistere due presupposti. In primo luogo,
la legislazione creativa non dipende soltanto da una buona intelligenza o da una energica volontà,
ma scaturisce unicamente dall’ampiezza di vedute e dall’essere sostanziale dell'uomo creatore. Ma -
cosi pensa Nietzsche - « codesti uomini del grande creare... si ricercheranno oggi e probabilmente
ancora per molto tempo invano » (16, 337). In secondo luogo, la realizzazione dei nuovi giudizi di
valore derivanti dalla trasvalutazione creativa ha bisogno di un mondo già predisposto ad
accoglierla; gli uomini debbono premere inconsapevolmente nella direzione di ciò che porta loro il
trasvalutàtore che crea nuovi valori: « Trasvalutare i valori — che sarebbe ciò? Vi debbono essere
tutti i movimenti spontanei... È superflua ogni teoria, per la quale non sia già pronto tutto, come
forze accumulate, come esplosivi » (16, 363).
Che Nietzsche consideri non ancora presenti le condizioni decisive della sua grande politica si nota
nel contrasto, terribile per lui, insito nel fatto che proprio in questa epoca egli riconosce il momento
storico-mondiale nel quale si intravvedono le più remote possibilità e i piu grandi compiti: «
Riguardo al futuro ci si apre davanti, per la prima volta nella storia, l’immensa vista di mete umano-
ecumeniche, abbracciant5i tutto il mondo abitato » (3, 99).
La visione nietzschiana di questo cammino è caratterizzata da una riflessione sul tutto indeterminato
e su ciò che vi è di estremo. Poiché il suo pensiero, basandosi sull’origine delle possibilità e degli
orizzonti più lontani, non perviene ad un’azione concreta nel mondo attuale, esso si manifesta in
una continua polemica, mediante la quale è certo realistico, ma senza dar forma in alcun modo alla
realtà empirica. La sua grande politica sembra non di rado far dissolvere tutto ciò che è in relazione
al passato, al futuro e al presente in questa estrema lontananza.
Il passato non è piu nulla: « L’umanità ha ancora molto davanti a sé -come potrebbe l’ideale come
tale essere preso dal passato? » (13, 362). «Non v’è da meravigliarsi che siano necessari un paio di
millenni per ritrovare il collegamento - hanno poco peso, un paio di millenni! » (16, 384): in
questa affermazione di Nietzsche, il futuro è concepito in modo così vasto, che esso ben
difficilmente può individuare, di volta in volta, l’uomo vivente. Il presente è affrontato con
un’estensione tale che è pari a quella dell’intera umanità, sicché la concreta storicità dell’individuo
e del suo popolo sembra scomparire nella parola d’ordine: « Il maggior numero possibile di potenze
internazionali - per esercitarsi nella prospettiva mondiale » (13, 362).
È vero che Nietzsche afferma: « Presentimenti del futuro! Celebrare il futuro, non il passato! Vivere
nella speranza! Momenti beati! »; ma poi egli cosi conclude tali esortazioni: « E poi richiudere il
sipario e rivolgere i pensieri a scopi sicuri, vicini! » (12, 400). È qui evidente che non è compito
della sua grande politica realizzare questi obiettivi.
L’elemento essenziale della sua grande politica consiste, di fatto, nel riflettere su ciò che è estremo e
piu lontano. Poiché per Nietzsche nessuna provvidenza guida piu la storia, Dio è morto, e l’uomo
non può piu confidare in alcun’altra potenza che lo sostituisca, è dunque necessario che egli stesso
prenda in mano il proprio intero destino. Rendere percettibile questo compito in quanto tale è il
senso di questo pensiero che vuole essere senza trascendenza: si avvicina « il grande compito e
problema: come dev’essere amministrata la terra come un tutto? E perché deve “l’uomo” - e non
più un popolo, una razza - essere allevato ed educato come un tutto? » (16, 337). « Il governo
terreno dell’uomo, nel suo complesso, lo deve prendere in mano l’uomo stesso, la sua “onniscienza”
deve vegliare con occhio attento sull’ulteriore destino della civiltà » (2, 231). Cosa si deve
dunque fare? « 'Prendere decisioni a lunga scadenza sui metodi, per secoli interi! Infatti, la guida
del futuro umano deve, una volta o l’altra, venire nelle nostre mani! » (14, 413).
Ma questa concezione, tanto grandiosa quanto in definitiva vuota, non significa comunque che,
secondo Nietzsche, - già ora si possa fare qualcosa del genere, si possa prendere una qualche
decisione. Se, come un dio, voglio prendere in mano il tutto, secondo metodi fondati sul mio sapere
senza trascendenza, devo anzitutto conoscere il tutto; altrimenti provocherei soltanto uno
scompiglio distruttivo. Ma - come afferma Nietzsche - questo sapere, che sarebbe il presupposto per
la comprensione e l’applicazione dei metodi, è presente soltanto in embrione: « In ogni caso, perché
un tale consapevole governo globale non sia la rovina dell’umanità, occorre che sia prima trovata
una conoscenza delle condizioni della civiltà, che sia superiore a tutti i gradi finora raggiunti,
come criterio scientifico per scopi ecumenici. In ciò sta l’enorme compito dei grandi spiriti del
prossimo secolo » (2, 43).
Il pensiero di Nietzsche, anziché sviluppare una politica univoca, rivela l’abisso dell’esserci,
l’ambiguità di tutto il reale. Se l’azione politica, che può sorgere in tale contesto, per lo stesso
Nietzsche ha due presupposti, cioè una trasvalutazione di tutti i valori che è diventata una fede
operante, ed una conoscenza scientifica, superiore a tutte le precedenti, dei nessi causali nelle cose
umane, e se questi due presupposti non sono dati, allora bisogna necessariamente abbandonare il
proposito di trarre da Nietzsche una conclusione in merito ad un'azione concreta. Se, per esempio,
nei confronti del primo presupposto, ci si comporta come se si avesse una fede, cosa che Nietzsche
compie nell’insieme del suo filosofare, manifestando una tale fede, rimane pur sempre da chiarire
cosa sia mai questa fede: Nietzsche può essere il falso profeta che induce in errore. Se,
conformemente al secondo presupposto, si pianifica e si agisce come se, nell’orizzonte di ciò che
nel mondo è teleologicamente raggiungibile, si conoscesse già oggettivamente il tutto, allora si
annulla il significato dell’azione che ci si era proposti di realizzare; Nietzsche può sedurci verso il
presunto sapere di un cattivo positivismo. In entrambi i casi non si segue Nietzsche. Sarebbe un
errore radicale pensare che Nietzsche abbia progettato ciò che ora aspetta soltanto di essere
intrapreso. Nel campo della grande politica, questo risulta inevitabilmente dal fatto che Nietzsche
pensa non per tutti, bensì soltanto ed esplicitamente per i « nuovi signori ».
Educazione ed allevamento. Nietzsche ha riflettuto per tutta la vita soltanto in una sola direzione di
questi metodi: dai pensieri sull educazione della sua giovinezza è sorta in lui l’idea dell allevamento
sviluppata nella sua filosofia successiva.
L’educazione è per lui l’origine del divenire degli uomini che verranno, è il campo su cui cresce
l’avvenire. Non ci sarà « un giorno alcun altro pensiero all’infuori di quello dell’educazione » (10,
402). Poiché, in fondo, il divenire dell’uomo sarà necessariamente fondato sulla sua
educazione, Nietzsche vede nell’educazione stessa il limite dell’esserci. Per lui, il
senso dell’educazione consiste nel produrre la massima nobiltà dell uomo. A tal fine, egli abbozza
anche delle proposte concrete che tuttavia, in quanto tali, non costituiscono per lui il fattore
decisivo, né sono sempre le stesse.
Così, ad esempio, nelle conferenze giovanili Sull avvenire delle nostre scuole (9, 292-438),
Nietzsche ha abbozzato l’idea di una organizzazione dell’educazione. Essa è democratica nella
misura in cui considera l’intero popolo e intende scegliere da tutti i ceti; è aristocratica nella misura
in cui, per essa, si tratta di selezionare i migliori: « il nostro scopo non può essere la cultura della
massa, bensì la cultura dei singoli, di uomini scelti, equipaggiati per opere grandi e durature ». La
formazione del popolo, secondo Nietzsche, deve restare al di fuori di questa organizzazione.
Ad essa « si può provvedere direttamente, ma in modo del tutto esteriore e rudimentale... Le vere
regioni piu profonde, in cui la grande massa viene a contatto con la cultura, dove cioè il popolo
coltiva i suoi istinti religiosi, dove continua a trarre poesia dalle sue immagini mitiche, dove si
mantiene fedele ai suoi costumi, al suo diritto, al suo suolo patrio, alla sua lingua, tutte queste
regioni sono... raggiungibili per via diretta... solo attraverso violenze e distruzioni: promuovere
veramente la formazione del popolo... significa... mantenere quella salutare incoscienza, quella
placidità del popolo... » (9, 357-358). Nietzsche rimprovera al suo tempo di cercare di estendere a
tutti la cultura e nello stesso tempo di restringerla ed indebolirla, abbassando le sue pretese, mentre
egli, al contrario, sostiene la necessità di limitare e concentrare in senso elitario la cultura,
rendendola piu forte e piu in grado di conservarsi con mezzi suoi propri (9, 302). Egli abbraccia
perfino l’« ideale di una setta della cultura »: « Vi debbono essere dei circoli come gli ordini
monastici, soltanto con un contenuto più ampio » (10, 484).
Conformemente al modo di procedere del suo pensiero, Nietzsche ha poi abbandonato questi
propositi, evidenziando l’antinomia insita nell’idea di educazione: attendersi tutto dall’educazione e
tuttavia presupporre tutto nell’essere dell’educando.
La sua appassionata volontà di un avanzamento tende a sperare, a veder giungere e realizzarsi nella
successiva generazione ciò che non è stato possibile alla sua generazione. Ma l’esperienza insegna
che può divenire soltanto ciò che di per se stesso già è. Cosi, secondo Nietzsche, una
buona educazione, se vuole essere veramente tale, deve essere una liberazione: « I tuoi veri
educatori... ti rivelano quale è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere,
qualche cosa di assolutamente ineducabile...: i tuoi educatori non possono essere niente altro che i
tuoi liberatori ».(1, 391). Si ha bisogno di educatori, « si deve imparare a vedere, si deve imparare a
pensare, si deve imparare a parlare e a scrivere » (8, 114-116). Ma se l’educazione non è buona,
allora è «un livellamento di principio, inteso a rendere il nuovo essere, quale che sia, conforme alle
abitudini e ai costumi che dominano » (3, 333); « l’ambiente in cui si viene educati vuol rendere
ogni uomo non libero », come se egli « dovesse diventare una ripetizione » (2, 217); l’educazione è
allora « essenzialmente il mezzo per rovinare l’eccezione... a favore della regola » (16, 325).
Spingendosi fino ai limiti, Nietzsche ha più tardi superato queste prese di posizione. Nel suo anelito
per l’uomo superiore, egli è animato non solo dal desiderio dell’avvento di un tale uomo, ma anche
dal tentativo di crearlo. La grande politica deve volere di più di quanto non abbia potuto
fare l’educazione, che è livellamento oppure sviluppo di ciò che, in quanto già esistente, deve
comunque emergere. I contenuti formativi dell’educazione non colgono la profondità, l'origine
stessa del divenire-uomo. Un’educazione attraverso la comunicazione di contenuti, conoscenze e
abilità, attraverso « oggetti meritevoli » (10, 481), « una mera disciplina educativa di sentimenti e di
pensiero » non basta (8, 161). Piuttosto, ciò che fonda e giustifica ogni educazione è soltanto un
processo che si svolge in profondità, nel quale viene portato alla luce l’essere dell’uomo stesso, che
solo successivamente può venire educato. « Il compito dell’avvenire è la produzione di uomini
migliori » (10, 415).
Secondo Nietzsche, il processo che si svolge in profondità e che porta alla luce l’essere dell’uomo, è
duplice: esso è o « ammansimento » o « allevamento ». Ammansimento della bestia uomo vuol dire,
per lui, la pacificazione dell’uomo nel senso della sua mediocrità, il suo acquietamento
e infiacchimento (8, 102 e sgg.). Allevamento, al contrario, significa innalzamento del rango
dell’essere umano. Nietzsche considera necessari entrambi questi processi, anche se propriamente la
sua idea è la seguente: « Educare significa allevare» (16, 423).
Ma come deve svolgersi tale educazione intesa come allevamento? Il problema che deve essere
risolto è innanzitutto: quale « tipo umano deve essere allevato, deve essere voluto, in quanto tipo, di
superiore valore, più degno di vivere, piu certo dell'avvenire »? (8, 218). Ma allora per Nietzsche,
dovendo egli tradurre il suo intento complessivo nel linguaggio della semplificazione biologica, « è
decisivo per la sorte dei popoli e dell’umanità che si dia inizio alla cultura nel luogo giusto...: il
luogo giusto è il corpo, l’atteggiamento, la dieta, la fisiologia, il resto ne è una conseguenza » (8,
161). Di ciò fa parte il referto medico che precede ogni matrimonio c l’impedimento dell’ulteriore
generazione di malati (16, 183). Ma l’idea nietzschiana di allevamento va ben oltre questi dati
biologici: lo stesso pensare creativo è per lui allevamento; poiché l’uomo che pensa ed elabora dei
concetti viene da essi trasformato. Nietzsche insegna dunque a « considerare i concetti come
tentativi, con l’aiuto dei quali determinate specie di uomini vengono allevate e messe alla prova per
quanto riguarda la loro capacità di conservarsi e di durare » (14, 16). La sua filosofia « sperimentale
» vuole essere un modo di pensare che alleva.
Se però Nietzsche pensa a coloro che determinano la sorte dell’umanità, vale a dire agli uomini che
debbono mettere in pratica questi pensieri dell’allevamento, a coloro che danno all’uomo la loro
morale, operante nei fatti, e dunque plasmano la specie umana, allora vale per essi la grande «
politica della virtù ». Per essi il problema non è « come si diventa virtuosi, ma come si rende
virtuosi » (15, 365-367).
Allorché, in questo modo, nel pensiero di Nietzsche l’idea dell’educazione risale al suo presupposto
— l’allevamento - che si perde nell’indeterminato, con l’inclusione del pensare come mezzo di
allevamento, oppure si riduce al campo biologico, anche qui, ancora una volta, l’essenziale non
è tanto il singolo contenuto, come se questo fosse già la soluzione di tutto, ma è semmai l’intrepido
sguardo gettato sui limiti e l’eliminazione di tutti i pregiudizi che non sono mai stati messi in
discussione.
Grande politica e filosofia
La ricchezza di possibilità del pensiero politico di Nietzsche non permette di estrapolare singole
posizioni, possano esse entusiasmare o contrariare. Ogni espressione deve essere spiegata e corretta
con l’ausilio di altre. Ma il pensiero nietzschiano della grande politica non costituisce un tutto
organico; la grande politica di Nietzsche non può neppure esser ridotta ad un’utopia.
L’indeterminatezza che assume in tal modo il tutto, in confronto
alla determinatezza del particolare, costituisce il carattere aperto del suo pensiero. Se la nostra
attenzione non si fìssa sui singoli aspetti della visione dell'avvenire, possiamo riscontrare che
proprio da questa indeterminata apertura è caratterizzato sia il corso delle cose sia il cammino
dell’agire. Pertanto, la grande politica di Nietzsche presenta questo duplice aspetto: con i suoi
giudizi e le sue esortazioni piu generali, essa sembra animata dal desiderio di un’azione che fa
dell’uomo un materiale da plasmare, per ottenerne qualcosa d’altro, di migliore, cioè un essere di
rango superiore; senonché, da simili determinazioni non consegue ancora un agire concreto, che
indichi immediatamente i possibili compiti per la realizzazione di un fine; d’altra parte, il termine «
politica » sembra pur sempre promettere qualcosa che debba accadere qui ed ora. In tal modo, la «
grande politica » non riflette una determinata politica, nel senso di una sfera particolare dell’agire
umano, ma risveglia per cosi dire, nell’ambito del politico, un essenziale stato d’animo che si
indirizza al complessivo esserci dell’umanità nelle sue possibilità, e che deve far emergere ciò che
forse già ora, nel germe in divenire della coscienza vivente, preme per venire alla luce. Ma per
chiarire tale aspetto non è sufficiente la sola « grande politica »; bisogna invece richiamarsi alla
filosofia di Nietzsche nel suo insieme.
Sarebbe facile non occuparsi dei suoi pensieri che si sono sviluppati grandiosamente e che, nelle
loro conseguenze, presentano pure delle assurdità, cosi come sarebbe altrettanto facile abbandonarsi
ad essi. Ma bisogna invece capire ciò che determina il peculiare e fondamentale movimento dei suoi
pensieri. Cerchiamo dunque di mostrare, indicando tre aspetti principali, come la « grande politica »
di Nietzsche sfoci nel suo filosofare.
1. Innanzitutto, in tale pensiero, ciò che riguarda la totalità dell’essere umano - e che sembra irreale
a chi si preoccupa in modo realistico del presente - è già in quanto tale filosofico, e rientra in un
grande albero genealogico. Possiamo brevemente caratterizzare tale aspetto con un paragone.
È tipico della gioventù pretendere che tutto sia rinnovato dalle fondamenta; ignorando il duro lavoro
nella realtà, staccandosi dal fondamento storico ed affidandosi all’assoluto, essa pensa di ricreare
dalla radice l’intero esserci, sulla base di ampie vedute e del dover-essere. Nel filosofare vi è
qualcosa di affine a questa gioventù: il profondo desiderio di veder adempiuto e compiuto, partendo
dall’intima grandezza dell’essere che si è contemplato (dall’insieme della possibilità che si è
intravvisto), ciò che corrisponde a quel che si è contemplato. È un sogno, col suo diritto
all’inimitato; è più che un sogno, poiché sta innanzi ad una realtà che esso anticipa col pensiero, sul
piano della possibilità (si tratti della filosofia dello Stato di Platone, o delle idee di Kant, o della
grande politica di Nietzsche), anche se non la porta a compimento con l’azione. È una volontà di
realtà che è bandita nell’illimitatezza di ciò che è attualmente irreale. Il dolore di questo volere che
non si realizza, accresce la fantasia e indirizza ogni pensiero nel versante delle utopie, oppure, come
avviene talvolta in Nietzsche, di quelle forti implorazioni che possono suonare vane, come grida nel
deserto. Ma, nei pochi grandi pensatori, essa è di fatto l’origine creativa cui dobbiamo gli ideali
comunicabili, nei quali la nostra vita che si trascina nel buio ritiene di volta in volta di comprendere
se stessa. Ciò che si è qui evidenziato della legge che sovrasta tutte le leggi determinate è il
fondamento della nostra variegata capacità di volere.
2. Davanti all’incertezza degli avvenimenti storici, davanti alle visioni del futuro che suscitano
sempre anche raccapriccio, davanti all’indeterminatezza di ciò che si dovrebbe fare, specialmente in
politica, Nietzsche si volge all’origine, che è sempre presente e deve sorreggere tutto il resto, e alla
quale ci si affida interamente quando prevale il caos: cioè all’origine intesa come l'essere-sé del
singolo. É come se, nei pensieri di Nietzsche che cosi sorgono, ciò che è completamente non-
politico venisse considerato come il grande polo opposto del politico, ma in modo tale che per
Nietzsche ogni politica creativa deve avere proprio qui il suo punto di partenza.
Quando Nietzsche guarda a questo essere-sé del singolo, pensa a se stesso, come egli vive in questo
tempo che non poteva avere bisogno di lui e nel quale egli non poteva trovare il suo mondo; egli
scrive: « Ora nascono pur sempre delle persone che in epoche precedenti sarebbero appartenute alle
classi dominanti dei preti, della nobiltà, dei pensatori. Oggi assistiamo alla distruzione ». Cosa resta
loro da fare? « Allontanarsi dalla menzogna e dalla segreta fuga in ciò che è superato, dal servizio
nelle rovine notturne dei templi! Così come dal servizio nei mercati! ». Questi uomini « si
raccolgono nella massima indipendenza, e non vogliono essere cittadini e politici e possidenti... un
giorno l’umanità avrà forse bisogno di loro, quando non ci sarà più l’ordinario uomo dell’anarchia.
Guai a coloro che si offrono in modo invadente alla massa come i suoi redentori!... Noi vogliamo
essere pronti! Vogliamo essere nemici mortali di coloro che, tra noi, si rifugiano nella menzogna e
vogliono la reazione! » (11, 374).
Egli rivolge a coloro che lo seguono questo appello ad essere, nonostante tutto, intimamente forti ed
indipendenti: « Agli uomini che in qualche modo mi importano auguro sofferenza, abbandono,
malattia, maltrattamento; auguro che non restino loro sconosciuti il profondo disprezzo di sé, i
tormenti della sfiducia in sé, la miseria dei vinti: nessuna compassione di loro, perché io auguro loro
la sola cosa che può oggi provare, se qualcuno ha valore o no - che egli tenga duro » (16, 311).
Egli infonde coraggio: « Voi egoisti! Voi autocrati!... - non combattete contro opinioni che sono un
balsamo per gli schiavi!... Quali che siano le forme dello Stato e della società che ne risulteranno,
tutte saranno eternamente forme di schiavitù; e sotto tutte le forme voi sarete i dominatori, perché
voi soltanto appartenete a voi stessi » (12, 206).
In questo appartenere-a-se-stessi Nietzsche concepisce l’unica posizione del pensiero creativo (cfr.
supra), in cui si identificano il vero (anche se invisibile) dominio e la conoscenza che non agisce più
praticamente. Il pensiero, che si compie in essa, della « grande politica » può apparire come la più
pura contemplazione: « I miei obiettivi e i miei compiti sono più grandi di quelli di chiunque altro
— e ciò che io chiamo “grande politica” offre perlomeno un buon punto di osservazione per una
rassegna delle cose presenti » (a Overbeck, 2. 5. 84). Questa « grande politica » non è piu in alcun
modo una volontà di dominio, ma il pensiero che in essa si esprime ritiene di essere, di fatto, ciò che
alla fine domina: « L'inclinazione al dominio mi è sembrata spesso un intimo segno di debolezza...
Le nature piu forti dominano, è una necessità... anche se, nel loro tempo, se ne stanno rintanate in
casa! » (11, 251). I filosofi creatori sono per lui i più forti, non per il potere che hanno sul mondo
del loro tempo, ma per il modo in cui dominano se stessi, ed anche perché, con l’azione del loro
pensiero, muovono finalmente il mondo: « le grandi nature morali sorgono in tempi di decadenza,
come coloro che impongono dei limiti a se stessi... sono le nature che governano (Eraclito, Platone)
in un mondo mutato, in cui debbono governare solo se stesse » (11, 251).
Cosi Nietzsche pensa all’uomo come individuo, non in virtù dell’idea di una umanità - che egli
rifiuta - secondo la quale ogni singolo individuo come tale avrebbe un diritto eterno ed un valore
insostituibile, bensì in ragione della sua fede che ogni creazione si produce alla fine solo
negli individui, e in ragione della sua fede nell’essere, il quale solo nell’individuo creatore può
diventare per lui oggetto d’amore e di rispetto. Nietzsche si spinge fino al punto in cui vi può essere
qualcosa di incrollabile, e che appaia, anche di fronte a tutti gli insuccessi, come una superiore,
intima imperturbabilità. Tuttavia, poiché il singolo non è soltanto l’unica forma reale dell’umanità
che si può cogliere, ma l’uomo come singolo individuo compie anche le grandi azioni che hanno
uno scopo e lo attuano nella realtà, il suo esserci indipendente è al tempo stesso la condizione
permanente, grazie alla quale viene determinato tutto il resto. Il singolo nel suo essere-se-stesso è
allora « colui che ha potenza », nel senso di Nietzsche, anche quando trionfa la potenza di una
massa, che deve pur sempre, a sua volta, essere alla fine guidata da uomini che sono se stessi. Come
il singolo essere-se-stesso possa e debba ancora esistere, in ogni circostanza, per
comprovare l'essere-uomo tramite il suo esserci e per esser pronto ad ogni compito: questa è dunque
la costante preoccupazione di Nietzsche. Sia nella forma dei signori, sia nella forma di un’anonima
solitudine, sia in qualsiasi altra forma imprevedibile, in un’epoca livellatrice ciò dovrà comunque
verificarsi e dovrà infine determinare il corso delle cose.
Anche quando l’avvenire, nel suo insieme, gli sembra disperato, Nietzsche fissa il proprio sguardo
sul possibile essere-se-stesso del singolo con la seguente metafora: « Cento profonde solitudini
formano insieme la città di Venezia - questo è il loro prodigio. Un’immagine per gli uomini
dell’avvenire » (11, 377).
3. La nostra esposizione che si svolge in una serie di capitoli divide gli uni dagli altri i pensieri
fondamentali di Nietzsche. Ma questi pensieri fondamentali, che rappresentano sempre per
Nietzsche esplorazioni di possibilità, che si sviluppano attraverso continue contraddizioni e
ripensamenti, e che possono talvolta apparire come un modo di pensare che scade al limite dell’idea
improvvisa e casuale, sono in effetti per Nietzsche - istintivamente ed intenzionalmente - di una
costante unità. I suoi pensieri politici sono in stretto rapporto con i suoi pensieri filosofici; tale
rapporto può essere espresso in questo modo: la grande politica è la volontà di influire sul futuro in
quanto volontà dell’uomo supremo, il superuomo. Per questo c’è bisogno innanzitutto della razza
europea dei signori. Questa razza, in quanto esprime l’essere dell’uomo e la sua volontà, realizza il
movimento antitetico al nichilismo, che è il risultato di tutti i giudizi di valore fino ad ora esistiti, in
particolare di quelli cristiani. Questo contromovimento, che deve essere introdotto dal filosofare di
Nietzsche, ha le sue radici nella fondamentale concezione nietzschiana dell’essere. Essa comporta -
come filosofia rivolta non a tutti, ma solo ai possibili signori - il misticismo speculativo (eterno
ritorno), l’interpretazione metafisica dell’essere (volontà di potenza), unitamente all’efficace visione
futura del superuomo. Essa non è il sapere di un qualcos’altro che sussiste, bensì l’avvio del
superamento del nichilismo, che essa stessa, con il pensiero dell’incessante divenire, in un primo
momento alimenta, fino all’idea estrema che il mondo è senza senso e scopo, ed ogni agire è vano.
Ma è proprio e soltanto questa seduzione verso la negazione estrema che determina la radicale
svolta ed il ritorno all’affermazione, che riguarda ora non un altro mondo, non Dio, non un ideale,
bensì l’insieme dell’essere reale del mondo, nella sua totalità e in ogni singolo individuo. Tutto
questo, in quanto significato complessivo della « grande politica », dovrà essere sviluppato nei
capitoli seguenti.
263
CAPITOLO QUINTO. INTERPRETAZIONE DEL MONDO
Il mondo è essere-interpretato: La metafora dell’interpretazione. Il fenomeno dell’interpretare.
La nuova interpretazione di Nietzsche (la volontà di potenza): L’interpretazione fondamentale
(definizione fondamentale della vita come volontà di potenza; definizioni fondamentali per
contrasto; definizioni fondamentali in base all’essere della prospettiva d’interpretazione; definizioni
fondamentali a partire dall’essenza). I terreni intuitivi di partenza (psicologia del sentimento di
potenza; la basilare condizione sociologica della potenza; forza e debolezza). L’interpretazione del
mondo come fenomeno della volontà di potenza (conoscenza; bellezza; religione e morale; mondo
inorganico; mondo organico; la coscienza). Caratterizzazione critica della metafisica della volontà
di potenza.
Il mondo come pura immanenza: Le ragioni di Nietzsche contro la teoria dei due mondi. Pura
immanenza come divenire, vita, natura. L’autodistruzione della concezione nietzschiana del mondo.
Alla domanda su che cosa ogni essere propriamente sia si è da sempre erroneamente risposto con
l'immagine o con la costruzione concettuale dell'universo. Ma ogni filosofare è essenzialmente
determinato anche dal modo in cui concepisce il mondo.
Nietzsche è uno di quei metafisici che elaborano un concetto dell’essere intendendo con ciò
propriamente ogni essere, e in questo modo comprendono l’universo intero. Il concetto
fondamentale di cui si serve è quello di « volontà di potenza ». Per aver adottato questa forma del
pensiero metafisico-costruttivo, Nietzsche si pone intenzionalmente in rapporto con le grandi e
durevoli possibilità dell’interpretazione del mondo.
Ma Nietzsche vive dopo Kant. I problemi critici gli erano pervenuti in tutta la loro ovvietà, così che
una metafisica ingenua e dogmatica per lui non era piu possibile. Egli raggiunge perciò il
fondamento della sua metafisica a partire da una trasformazione della filosofia critica kantiana. Da
questa trasformazione trasse la teoria secondo cui tutto l’essere del mondo è un puro e semplice
essere-interpretato, secondo cui cioè la conoscenza del mondo è sempre un 'interpretazione e la sua
stessa filosofia della volontà di potenza è una nuova interpretazione.
In definitiva, la specificità della metafisica di Nietzsche consiste nel fatto che in essa egli non vuole
pensare affatto un mondo diverso, ma esclusivamente questo stesso mondo. Non esiste a suo modo
di vedere alcun essere ultraterreno. Egli vuole annullare l’antichissima separazione tra un mondo
che è basilare e un mondo che è solo fenomenico (tra un mondo vero e un mondo apparente). Per lui
esiste solo l’essere del mondo in se stesso, ossia il nostro mondo inteso come volontà di potenza in
tutte le
sue forme. Non esiste nient’altro. La sua metafisica coglie l’essere del mondo come pura
immanenza.
Il mondo è essere-interpretato
Noi falliamo quando cerchiamo di pensare un mondo com’esso è in sé. Quando pensiamo,
pensiamo un senso, giacché chiamiamo già senso la forma di pensiero entro la quale il mondo
diviene per noi un oggetto. Quando Nietzsche si domanda « se un’esistenza senza interpretazione,
senza “senso”, non diventi un’“assurdità”, e se d’altra parte non già ogni esistenza
sia essenzialmente un’esistenza che interpreta », la sua risposta è che ciò non può « essere deciso »
mediante « autoindagine dell’intelletto; infatti, in questa analisi, l’intelletto umano non può fare a
meno di vedere se stesso sotto le sue forme prospettiche e di vedere soltanto in esse » (5, 332). Che
cos’altro sia l’esistenza — all’infuori dell’interpretazione e dell’essere-interpretato - l’intelletto
umano non è in grado di saperlo, perché esso comprende, come le cose, anche se stesso sempre solo
per mezzo di un’interpretazione. E in effetti è questa la tesi fondamentale che Nietzsche propone:
ogni essere è essere-interpretato; « non ci sono cose in sé, neanche un conoscere assoluto, il
carattere prospettivistico, illusorio appartiene all’esistenza » (14, 40); non c’è « nessun avvenimento
in sé. Ciò che accade è un gruppo di avvenimenti, trascelti e riassunti da un essere interpretante »
(13, 64). Due sono le conseguenze per Nietzsche: prima di tutto non può esistere alcuna vera
comprensione di un essere che sussista in sé, e, in secondo luogo, una teoria della conoscenza è
impossibile.
È per Nietzsche insensato qualcosa come il comprendere nel senso del cogliere l’essere in se stesso
e nella sua stabile costituzione: « “Comprendere tutto” — ciò vorrebbe dire abolire tutti i rapporti di
prospettiva: vorrebbe dire non comprendere niente, misconoscere la natura del conoscere » (13, 64).
Quindi il conoscere è interpretazione, è inserire-un-senso e non uno spiegare: « Non c’è nessun fatto
concreto, tutto è fluido, inafferrabile, cedevole; le cose più durature sono ancora le nostre opinioni
» (16, 96). Nelle cose l’uomo non ritrova se non ciò che egli stesso vi ha nascosto dentro (16, 97).
La teoria della conoscenza che vuole criticare la facoltà conoscitiva è solo un oggetto del sarcasmo
nietzschiano. Analogamente a Hegel, egli afferma: « Come potrebbe lo strumento criticare se stesso,
se può adoperare appunto solo se stesso per la critica? » (16, 14). Essendo assurdo il compito che un
apparato conoscitivo si pone nel voler conoscere se stesso, una filosofia che si riduca a voler
fondare una teoria della conoscenza sembra allora a Nietzsche qualcosa di comico (14, 3).
Ma non è a sua volta la tesi nietzschiana del conoscere come interpretare una teoria della
conoscenza? Nient’affatto, perché è piuttosto il tentativo di separare completamente la coscienza
dell’essere da ogni contenuto determinato e quindi circoscritto di una qualche verità data, è il
tentativo di ampliare il nostro orizzonte all’infinito, il tentativo di togliere qualsiasi definitiva
stabilità dell’essere, di giustificare l’illusorietà come verità e realtà effettiva. 1 Il significato di
quest’ultima tesi va ora esaminato in particolare.
La metafora dell’interpretazione. È dalla filologia che Nietzsche trae la metafora
dell’interpretazione per illustrare il rapporto fondamentale tra Tesserci e Tessere: dal rapporto tra
l’interpretazione e il testo. Il testo ha un contenuto e un senso che l’interpretazione deve cogliere. Il
testo va considerato come qualcosa di fisso, o come quel senso che in esso è inteso, e che può essere
compreso in maniera corretta o scorretta; l’interpretazione che oltrepassa questo piano va ritenuta
dubbia. La filologia ha la pretesa di avvicinarsi al senso vero dei testi tramandati mettendo da parte i
modi di comprendere che risultano precipitosi, basati sulla fantasia, e che introducono
surrettiziamente un senso. Comprendendo i monumenti linguistici, la filologia esprime a sua volta
la comprensione che ne ha ottenuto; nella comprensione dei testi, cioè, produce nuovi testi. Il
carattere mobile e dialettico del comprendere filologico sembra a Nietzsche una metafora adeguata
della mobile comprensione dell’essere da parte dell’esserci interpretante.
Egli si serve di questa metafora per ogni forma del sapere. Prendiamo come esempi due contenuti
essenzialmente differenti a cui egli applica tale metafora: Nietzsche definisce « la normatività della
natura » un’interpretazione, essa è « interpretazione, non testo » (7, 35). Ma non diversamente viene
definita l’attività del filosofo: « Noi... a cui è stata riservata la sorte di essere posti, come spettatori
delle cose europee, di fronte ad un testo misterioso e non letto - che ci si svela sempre di più - ...
mentre in noi si accumulano... e chiedono di uscire alla luce, all’aria, alla libertà e alla parola cose
sempre più numerose e strane » (13, 33).
L’essere come testo sembra per un verso qualcosa di stabile che bisogna afferrare correttamente,
quando ad esempio Nietzsche afferma: « saper leggere un testo come testo senza inserirvi
un’interpretazione, è la forma più tarda dell’“esperienza interna”, forse una forma impossibile » (16,
10); oppure quando crede che ci voglia « moltissima intelligenza per applicare alla natura la stessa
specie di severa esegesi, quale oggi i filologi hanno creato per tutti i libri: con l’intenzione di
comprendere semplicemente ciò che il testo vuol dire, non già di scovare o addirittura presupporre
un doppio senso » (2, 23). Ma poi si trova a dire anche il contrario:
« lo stesso testo ammette innumerevoli interpretazioni: non c’è un’interpretazione “giusta” » (13,
69). Quest’ultima posizione è quella fondamentale; quest’aspetto della metafora chiarisce
intuitivamente l’illimitata mobilità inerente alla possibilità di interpretare Tessere: « Il presupposto
fondamentale secondo cui vi sarebbe un’interpretazione giusta, cioè un’unica
interpretazione giusta, a me sembra falso come mostra la stessa esperienza... Ciò che è scorretto può
essere determinato in moltissime circostanze; ciò che è giusto, quasi mai... In breve, il vecchio
filologo dice che non esiste un’unica interpretazione vera » (a Fuchs, 26. 8. 88).
Ciò che poeti e musicisti creano, ciò che la coscienza produce sul piano onirico, ciò che nei pensieri
essa fa albeggiare da un fondo oscuro e spinge a manifestarsi sotto forma di sentimento — tutto ciò
è a sua volta nuovamente un segno, qualcosa che si può interpretare, una possibilità tanto quanto
l’intero esserci. «Dare un senso - questo compito resta assolutamente da assolvere, posto che nessun
senso vi sia già » (16, 97).
« Così è per i suoni, ma anche per le vicende dei popoli: esse si prestano ad essere interpretate nel
modo piu diverso e rivolte a fini diversi» (16, 97). Lo stesso dicasi poi dell’interpretazione della
coscienza che si abbandona liberamente in sogno, e rispetto alla quale in generale però si dice che,
forse, « tutta la nostra cosiddetta coscienza è un più o meno fantastico commento di un testo
inconscio; forse inconoscibile, e tuttavia sentito... Che cosa sono mai le nostre intcriori esperienze?
Molto più quel che noi vi mettiamo dentro di quanto c’è in esse! » (4, 123-124). Accade la stessa
cosa coi nostri pensieri, quando lasciano l’oscurità indefinita del sentire per acquisire la chiarezza di
ciò che è pensato in maniera precisa: « Nella forma in cui viene, il pensiero è un segno che
può  significare molte cose e che ha bisogno di un’interpretazione... per diventare infine univoco.
Esso affiora in me - da dove? per quale ragione? Non lo so... L’origine del pensiero rimane
nascosta; c’è per contro una grande probabilità che esso sia solo un sintomo di uno stato che
comprende molte più cose... in tutto ciò si esprime a segni qualcosa del nostro stato complessivo.
Cosi è anche di ogni sentimento: in sé esso non significa niente; quando viene, è da noi soltanto
interpretato, e spesso quanto stranamente interpretato! » (14, 40).
Se in queste situazioni il testo è quasi del tutto assente, appunto a causa dei suoi molteplici
significati, e perciò la tendenza è quella di ignorarlo come criterio di verità dell’interpretazione, in
altri luoghi si ha invece l’esigenza di liberare il testo autentico da false interpretazioni, come
quando Nietzsche richiede che l’uomo venga ritradotto nella natura: « padroneggiare le molte
vanitose e fantasiose interpretazioni e significazioni marginali, le quali fino a oggi vennero
scarabocchiate e dipinte su quell’eterno testo base homo natura » (7, 190).
Proprio queste discordanze rivelano ciò che Nietzsche intende veramente sostenere, e che una
formulazione univoca non potrebbe esprimere. L’esserci è un esserci interpretante e insieme un
esserci interpretato; lo si pensa all’interno di un circolo che sembra annullarsi per poi invece
presentarsi nuovamente. L’esserci è ora oggettività, ora soggettività, una volta come fondamento e
una volta come fondamento costantemente superato, non oggetto di dubbi e tuttavia problematico,
incessantemente spinto a domandare, essere e non-essere, essenza e illusorietà. Non è lecito
semplificare ciò che Nietzsche ha in mente: egli non pensa all’io che pone se stesso e crea il mondo,
non al mondo che è solo una mia rappresentazione,
superiore è dato dall’interpretazione mediante l’azione (16, 97). Modo, senso e contenuto delle
interpretazioni, inoltre, non sottostanno alla critica caratteristica della vecchia teoria della
conoscenza, il cui presupposto era il criterio immaginario di un’unica verità valida dell’essere in
atto, ma ad una critica che si serve dell’accadere vivente in quanto tale: « ogni interpretazione è un
sintomo del crescere o del decadere » (16, 95). Di conseguenza Nietzsche getta il suo sguardo
indagatore sulle interpretazioni che gli sono accessibili: «Le interpretazioni finora trovate avevano
tutte un certo senso per la vita - di conservare, di rendere sopportabile, o di estraniare, raffinare, o
anche di separare ciò che è malato e di farlo morire » (14, 31). D’altra parte sono prevalenti quelle
interpretazioni che Nietzsche combatte perché nemiche della vita, come ad esempio la maggioranza
delle interpretazioni filosofiche e quella cristiana. Vuole lui stesso addurre un’interpretazione
migliore: « La mia nuova interpretazione fornisce ai filosofi dell’avvenire, come signori della terra,
la necessaria imparzialità » (14, 31).
La nuova interpretazione di Nietzsche (la volontà di potenza)
Non possiamo dire che cosa sia il mondo nella sua totalità. È falso trasformare tutti i fenomeni nel
mondo che conosciamo e poi affermare: « “Tutto è volontà” (“tutto vuole”); “tutto è piacere o
dispiacere” (“tutto soffre”); “tutto è movimento” (“tutto scorre”); “tutto è suono” (“tutto
suona”); “tutto è spirito” (“tutto pensa”); “tutto è numero” (“tutto calcola”) » (14, 49). Nietzsche
mette in guardia da ogni rappresentazione della totalità: « guardiamoci dal pensare che il mondo sia
un essere vivente... che l’universo sia una macchina... Guardiamoci dal dire che esistono leggi
nella natura... Guardiamoci dal pensare che il mondo crei eternamente qualcosa di nuovo ». Tutte
queste « ombre di Dio » offuscano l’essere reale (5, 147-149). Noi siamo all'interno del mondo, e la
totalità del mondo, in quanto totalità, ci è inaccessibile.
Se si pensa a questi risoluti giudizi di Nietzsche, non può non sorprendere che egli elabori a sua
volta una nuova interpretazione complessiva del mondo: come affermazione di ciò che veramente
esiste. Ma bisogna capire qual è il senso di questo tentativo. Perché l’essere che egli ha in mente
non può significare un essere particolare, interpretato e poi assolutizzato. E allora che cos’è? « Ciò
dovrebbe essere qualcosa, non soggetto, non oggetto, non forza, non materia, non spirito, non anima
- ma mi si dirà che qualcosa di simile somiglia a un’allucinazione, fino a confondersi con essa? È
quello che credo io stesso: e guai se cosi non fosse! Certo, dovrà somigliare, fino a confondersi con
essa, anche a ogni altra cosa che esiste e può esistere, e non solo all’allucinazione! Dovrà avere una
grande caratteristica comune, dalla quale tutto si riconosca apparentato a esso » (13, 229).
Queste frasi colgono in maniera eccellente l’ampiezza e il senso della nozione di essere richiesta da
Nietzsche; viene respinta ogni determinatezza
particolare, se con essa in quanto tale si voleva esprimere l’essere. Ciononostante l’interpretazione
nietzschiana del mondo sembra di fatto realizzare nuovamente questa particolarizzazione.
In primo luogo, Nietzsche chiama vita ciò che propriamente esiste ed è ogni cosa. E poi scopre che
dove c’è vita c’è anche sempre volontà di  potenza. Dal momento che ogni vita manifesta la volontà
di potenza, questa è « da considerare come formula rimpicciolita per tutta quanta la tendenza; perciò
una nuova determinazione del concetto “vita“, come volontà di potenza » (16, 101). E poi Nietzsche
prosegue: « la vita è solo un caso particolare della volontà di potenza - è affatto arbitrario sostenere
che tutto aspiri a trapassare in questa forma di volontà di potenza » (16, 156). Ora, «l’intima
essenza dell'essere è volontà di potenza» (16, 156) e la vita - essendo solo un modo dell’essere -
non è un dato ultimo: « dov’è tramonto... là la vita immola se stessa — per la potenza! » (6, 168), «
anche ciò che è piu grande... per amore della potenza, mette a repentaglio — la vita » (6, 167).
Nietzsche perviene cosi ad una definizione alla maniera della metafisica antica: « Il mondo veduto
dall’interno, il mondo determinato e qualificato secondo il suo “carattere intelligibile” — sarebbe
appunto “volontà di potenza” e nient’altro che questa» (7, 58).
Noi veniamo a sapere che cos’è l’essere soltanto per mezzo della vita e della volontà di potenza: « il
nostro grado di sentimento della vita e della potenza... ci dà la misura di “essere” » (16, 14). «
Essere » è la « generalizzazione del concetto di “vita”..., “volere, operare”, “divenire” » (16, 77).
Ma « vita » e « volontà di potenza » sono parole che non esprimono ciò che Nietzsche ha in mente,
né prese nel loro senso immediato e indifferente, né in senso specificamente biologico e
psicologico. Poiché in esse si deve incontrare l’essere stesso, rimane « impenetrabile » che cosa
esse veramente siano (6, 157). Occorre tener ben presente l’ampiezza dell’interpretazione del
mondo prevista dall’impostazione nietzschiana. Questo interpretare il mondo non è propriamente un
conoscere. L’inconoscibilità dell’essere come vita e volontà di potenza sta nel fatto che noi
comprendiamo solo ciò che noi stessi abbiamo prima costruito: « Quanto piu una cosa è
conoscibile, tanto piti essa è lontana dall’essere, tanto piu essa è concetto» (14, 30).
L’interpretazione di Nietzsche, che sa che ogni sapere è interpretare, accoglierà questo sapere nella
propria interpretazione con il pensiero che la volontà di potenza è a sua volta l’impulso,
infinitamente vario e universalmente efficace, dell’interpretare. L’interpretazione di Nietzsche è a
tutti gli effetti un’interpretazione dell’interpretare, e perciò è per lui separata da tutte le precedenti
interpretazioni, che paragonate alla sua erano ingenue, oltre ad essere prive dell’autocoscienza del
loro interpretare.
Bisogna ora cercare di fissare le linee di fondo dei pensieri coi quali Nietzsche intende chiarire, con
termini quali « vita » e « volontà di potenza », l’essere che ha definito impenetrabile. Dapprima si
terrà presente l'interpretazione fondamentale di per se stessa, poi si getterà lo sguardo sui terreni
intuitivi di partenza, nei quali trovarono realizzazione i suoi pensieri
tenziamento, lotta per la propria crescita, contrasta in Nietzsche con altre definizioni che a prima
vista possono sembrare affini. Contro Spencer egli afferma: « La vita non è adattamento di
condizioni interne a condizioni esterne, ma volontà di potenza, che dall’interno assoggetta a sé e si
assimila sempre più “esterno” » (16, 144), non primariamente reattività bensì attività (7, 372);
contro Darwin: la vita non è lotta per l’esistenza - ciò designa solo uno stato eccezionale - ma lotta
per la potenza, per qualcosa di più e di meglio (13, 231); contro Spinoza-, non è
l’autoconservazione l’essenza della vita; questa fa tutto quel che fa non per conservarsi, bensì per
divenire di piu (16, 153); contro Schopenhauer : ciò che egli chiama volontà, è solo una vacua
parola; dal carattere di questa volontà è espunto il contenuto, la direzione (16, 156). Non c’è volontà
di esistenza. « Infatti: ciò che non è, non può volere; ma ciò che è nell’esistenza, come potrebbe
ancora volere l’esistenza! Solo dove è vita, è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì... volontà
di potenza! » (6, 168).
Definizioni fondamentali in base all’essere della prospettiva d’interpretazione. Quando ci
rammentiamo che Tesserci esiste solo in qualità di esserci interpretante, che ogni essere è
prospettivistico, e che non resta alcun mondo se si prescinde dall’elemento prospettico (16, 66),
ebbene la questione che si pone è allora in che rapporto stia questa impostazione fondamentale
dell’essere con la volontà di potenza.
È la volontà di potenza stessa che esplica (interpreta). Come vita, essa è condizionata dall’elemento
prospettico (2, 11); la vita è « possibile solo sotto la guida di forze che circoscrivono e creano
prospettive » (14, 45). La volontà di potenza interpreta all’interno delle prospettive che essa stessa
ha generato: « Le mere diversità di potenza non potrebbero ancora sentire se stesse come tali
», qualcosa che voglia crescere interpreta sul suo valore ogni altra cosa che voglia crescere. « In
verità l’interpretazione stessa costituisce un mezzo per impadronirsi di qualcosa » (16, 118). Se «
ogni accadimento nel mondo organico è un sormontare », allora questo sormontare è « un
reinterpretare, un riassettare, in cui necessariamente il “senso” e lo “scopo” esistiti sino a quel
momento devono offuscarsi » (7, 369). « Ogni centro di forza ha per tutto il resto la sua prospettiva,
cioè la sua affatto determinata scala di valori, il suo tipo d’azione, il suo tipo di resistenza. Ma non
c’è nessun’altra azione, e il “mondo” è solo una parola per il giuoco complessivo di queste azioni »
(16, 66).
Se però ci si domanda: chi agisce? chi è questo centro? chi vuole potenza? chi interpreta? - la
risposta di Nietzsche è questa: «Niente atomi-soggetto» (16, 16); «l’interpretare stesso, come una
delle forme della volontà di potenza, ha esistenza » (16, 61); non bisogna più porre l’interprete
dietro l’interpretazione (16, 11). « La costante transitorietà e fugacità del soggetto » (16, 17) non
ha al centro Tessere di un qualcosa: « La sfera di un soggetto cresce o diminuisce continuamente - il
centro del sistema si sposta continuamente» (16, 16). La sfera prospettica non nasce dal
comportamento di soggetti precedentemente esistenti che vogliano conservarsi: « mediante un
essere organico, non un essere, ma la lotta stessa vuole conservarsi, vuole crescere e vuole essere
consapevole  di sé » (13, 71).
La coscienza è la stessa cosa dell’essere-interpretato, ad entrambi Nietzsche dà il nome di spirito; il
sapere nel quadro della prospettiva di volta in volta emersa è un esserci spirituale. Questo esserci
interpretante si muove all’interno di un circolo: è prodotto dalla volontà di potenza della vita ed è al
suo servizio, ma si volge poi per così dire indietro alla vita quando, basandosi su se stesso, dalla vita
si è staccato; cosi, consacrandosi totalmente alla vita, sembra che pos-
sa essere identico ad essa, e tuttavia, ponendosi di fronte alla vita, sembra che possa esserle
estraneo; è qualcosa di meno della vita nella misura in cui essa lo abbraccia; e qualcosa di piu della
vita nella misura in cui esso determina di nuovo la vita, le dà forma, la sospinge in avanti, la
sacrifica. Perciò, essendo lo spirito a sua volta vita - ma nel senso che può tanto esserne lo
strumento quanto sormontarla - sono possibili asserzioni contraddittorie come quella secondo cui la
vita, rispetto alla conoscenza, è una forza superiore e predominante (1, 380), e nello stesso tempo è
un mezzo della conoscenza (5, 245). Oppure quando si dice che « laddove vita e conoscenza
sembravano venire in contraddizione l’una con l’altra, non si dette mai seriamente battaglia » (5,
150), e, nello stesso tempo, che la lotta tra vita e conoscenza diventa tanto piu grande quanto piti
potenti sono i due impulsi (10, 234). Se da una parte lo spirito designa solo « un mezzo e strumento
al servizio di una vita piu alta » (16, 118), dall’altra abbiamo un’asserzione diversa: « Spirito è la
vita che taglia nella propria carne » (6, 151).
Se per Nietzsche la volontà di potenza è divenuta l’essenza dell’essere per eccellenza, la questione
che si pone è in che modo gli enti dispersi nella varietà della volontà di potenza siano in reciproco
rapporto. Questo rapporto sta o in un interpretare comprensivo o nella sua assenza; ma solo dove si
comprende si può obbedire: « Di che natura è la costrizione che un’anima forte esercita su una
debole? E sarebbe possibile che quella che sembra “disobbedienza” allumina superiore si fondasse
sulla mancata comprensione della sua volontà; per esempio a una roccia non si può comandare...
Solo i parenti prossimi possono capirsi e solo fra loro ci può quindi essere obbedienza » (13, 84).
Ma Nietzsche, con la sua estensione della metafisica della volontà di potenza sino all’essere
in assoluto, intende al tempo stesso “interpretazione” in un senso altrettanto lato. A suo modo di
vedere ogni ente è qualcosa che esiste nel modo dell’interpretazione, è quindi segno nell’infinita
molteplicità del significare possibile: « Tutto ciò che è materiale è una specie di sintomo come
movimento, di un accadere ignoto: ogni cosa conosciuta e sentita è di nuovo sintomo [...] Il mondo
che da questi due lati viene da noi compreso potrebbe avere anche molti altri sintomi » (13, 64). Ma
ciò che è sconosciuto è, in fondo, la volontà di potenza. Se in tal modo per Nietzsche ogni esserci è
una specie di linguaggio « con cui le forze si capiscono », egli vede allora nel mondo una radicale
scissura causata dalla maniera di parlare e comprendere: « Nel mondo inorganico manca l'equivoco,
la comunicabilità sembra perfetta. In quello organico comincia l’errore » (13, 69); « ciò che in
origine era testimonianza della vita, era il peggior errore pensabile » (12, 40): «c’è questa
apparenza... che la vita fosse contesta d’apparenza, voglio dire d’errore, d’inganno, d’ipocrisia,
d’accecamento, di autoaccecamento » (5, 275).
Definizioni fondamentali a partire dall’essenza. Malgrado le formule della volontà di potenza, che
non è la volontà di un essere, ma la lotta che vuole solo conservare se stessa, le risolute posizioni
nietzschiane provengono proprio dal fatto che la volontà di potenza non è di un tipo unico e sempre
uguale. E' piuttosto di volta in volta un qualcosa che vuole, e questo qualcosa è diverso per essenza.
Ci sono invero molte formule nelle quali Nietzsche parla della potenza come di un qualcosa che
possiede un’unica forma e semplici differenze quantitative. Sembra perspicua l’asserzione secondo
cui « nella vita non c’è niente che abbia valore al di fuori del grado di potenza » (15, 184), o l’altra
secondo cui « ciò che determina il rango, ciò che toglie il rango, sono solamente delle quantità di
potenza: e nient’altro » (16, 277). « Sul rango decide il quantum di
potenza che tu sei» (16, 278). «Valore... Il massimo quantum di potenza che l’uomo riesce a
incorporare » (16, 171). La quantità di potenza sarebbe quindi al tempo stesso quantità di valore, e
la potenza in sé sarebbe già rango.
Ma la potenza è ambigua. Neppure il rango coincide, in ogni senso della parola, col grado di
potenza; di qui vengono le molte espressioni apparentemente indirizzate contro la potenza in quanto
tale. « Si paga caro il pervenire alla potenza. La potenza ristupidisce» (8, 108); «la potenza è
noiosa» (14, 244): questi giudizi mostrano che potenza e valore per Nietzsche non possono
essere semplicemente identificati. Perciò Nietzsche respinge alla fine il quantitativo della potenza
come criterio; non la quantità è la cosa decisiva, ma la qualità: la « “concezione meccanicistica”:
non ammette che quantità, mentre la forza sta nella qualità » (16, 411). Le quantità stesse non sono
forse nient’altro che segni delle qualità: « in un mondo puramente quantitativo, tutto sarebbe morto,
rigido, immobile » (16, 65). Ma le quantità di potenza sono a loro volta segni non univoci della
qualità, come ad esempio in campo politico: nella vita politica una superiore quantità di potenza non
coincide del tutto con i valori superiori.
A causa della discrepanza tra potenza oggettiva e valore superiore si ha nel mondo una sciagura
radicale: se « la vera fonte delle intense sensazioni è nell’anima dell’uomo potente » (14, 65), allora
ciò che sta piu in alto nel rango qualitativo, e ciononostante è fattualmente impotente, non è per
nulla già l’elevato per eccellenza, ma è ancora dubbio: « Dovunque il piu elevato non è il piu
potente, manca qualcosa nel piu elevato stesso: è solo un frammento e un’ombra appena » (14, 65).
Quando, viceversa, neppure la potenza effettiva è il valore superiore, essa agisce rovinosamente in
vari modi: « L’abuso della potenza da parte degli imperatori romani » ha portato alla vittoria in
Europa della morale dell’impotente (14, 65); perciò i concetti morali del cristianesimo furono il
mezzo con cui l’impotenza riuscì a dominare la potenza di cui si era abusato, in modo tale che né la
potenza romana ormai decaduta né la potenza cristiana da poco istituita rappresentarono il valore
superiore: non quella romana, perché era rozza, non quella cristiana, perché era la potenza
dell’inferiore. La presunta unità di potenza e valore è ben labile in tutti questi pensieri; in essi la
potenza superiore non è in quanto tale automaticamente il valore superiore. Non è possibile riunire
senza contraddizioni questi pensieri quando si definisce la « potenza » univocamente come il valore
superiore stesso. Solo nell’attimo in cui lo si fa, appare giusta la tesi di Meß (Nietzsche der
Gesetzgeber, p. 200): « è proprio questa l’opinione di Nietzsche, che il greco è incomparabilmente
piu potente del romano, il quale era solo un “dominatore” e non un “legislatore” ».
Sulla base del riconoscimento della non coincidenza di potenza e valore, che pure sembravano
dover essere la medesima cosa nell’approccio di questa concezione del mondo, Nietzsche si volge o
ad una esaltazione della potenza, contemplata in maniera non concettuale come la vera sommità
dell’essere, oppure indaga in modo penetrante la questione del perché l'esserci superiore non sia
anche quello vittorioso.
La prima via conduce naturalmente a pensieri infruttuosi. Induce solo a ripetere delle espressioni
che passano dalle caratteristiche esaltanti della vita all’ineffabilità dell’essere, là dove si ha la
coincidenza di tutte le opposizioni, dove ogni alto grado della potenza implica in sé la libertà del
bene e del male cosi come del vero e del falso (15, 321).
La seconda via conduce invece ad un chiarimento delle modalità con cui si valuta, le quali
manifestano una originaria diversità d'essenza di ciò che vuole potenza e ottiene potenza. Anziché
indagare la forse illimitata varietà insita nel-
l' essenza della volontà di potenza, Nietzsche scorge alla fine due impulsi originari (ci sono «due
“volontà di potenza” in lotta»: 15, 433), quello della forza e quello della debolezza, quello della vita
che cresce e quello della vita che decade, la volontà della vita e la volontà del nulla, l’impulso degli
istinti che elevano e quello degli istinti che degradano.
Se un di più di potenza fosse di per sé già un di più di valore, il corso delle cose sarebbe allora
univoco, l’avvenuta conquista della potenza sarebbe nel medesimo tempo prova del rango
raggiunto. Ma il mondo dell’uomo mostra che la massima potenza dal punto di vista del rango può
ben essere impotente, può addirittura essere annientata da ciò che non è di rango elevato, ma ha
potenza effettiva. « I piu forti... sono deboli quando hanno contro di sé gli istinti gregari organizzati,
la pavidità dei deboli e la stragrande maggioranza... Si devono sempre armare i forti contro i deboli,
i felici contro i falliti... Se si vuole formulare la realtà in una morale, questa morale suona: i tipi
medi hanno più valore delle eccezioni... Dappertutto vedo... sopravvivere coloro che
compromettono... il valore della vita » (16,149-150). « I deboli... sono anche più accorti... i deboli
hanno più spirito » (8, 128). Questa è la situazione: « è più facile che periamo per le nostre forze
che per le nostre debolezze» (11, 305). A ciò si aggiunga che i forti si decimano a vicenda (16, 285);
infatti, « per necessità di natura i forti tendono tanto a dissociarsi, quanto i deboli ad associarsi »
(7, 451). La domanda essenziale: «perché soggiacque la vita? » (.15, 431), trova alla fine la
seguente risposta: a causa di un’inversione dei valori, mediante la quale l’impotente stabilisce dei
giudizi di valore che sfociano nella diffamazione della vita, dei valori superiori, della potenza vera e
propria. La volontà di potenza degli impotenti è una volontà di potenza diversa per essenza, che
giudica la potenza in maniera dispregiativa. Questa impotente volontà di potenza, che si serve dello
spirito solo come di un mezzo per trionfare sulla forza, trasforma di nuovo retrospettivamente,
mediante una conversione inconscia, l’intero essere dell’uomo.
La differenza essenziale tra la volontà di potenza degli impotenti e quella insita nel carattere
specifico di coloro che vogliono la potenza, non è però intesa da Nietzsche nel senso bellicoso ed
incondizionato secondo cui, ad esempio, una delle due non dovrebbe esistere. Sono entrambe
necessarie. Nietzsche si chiede se non vi sia forse una maggiore garanzia della vita e della specie
nella vittoria dei deboli e dei mediocri, se tale vittoria non sia forse una legittima difesa da qualcosa
di ancora peggiore: « Posto che i forti avessero vinto, in tutto e anche nei giudizi di valore... la
conseguenza sarebbe un disprezzo di sé da parte dei deboli; essi cercherebbero... di dissolversi... E
ci piacerebbe davvero un mondo in cui mancasse l’influsso dei deboli, la loro finezza, i loro
riguardi, la loro spiritualità, duttilità? » (15, 432-433). Inoltre il debole è necessario in quanto la
natura più debole - essendo la più delicata e la più fine - è la sola che rende possibile ogni «
progredire » in generale (2, 211-213). In definitiva, il distacco dalla vita rientra nella vita stessa: «
La decadenza stessa non è qualcosa che si possa combattere » (15, 168), « non è nulla che si possa
condannare », è una conseguenza necessaria della vita (16, 167, 281).
Queste connessioni ci permettono di capire perché in Nietzsche i giudizi di valore appaiano del tutto
ambigui, a seconda del punto di vista da cui vengono espressi e per i quali conservano, la loro
specifica legittimità. Quanto all’essenza della volontà di potenza, essa può coincidere tanto con la
potenza che con la debolezza. La debolezza nella volontà di potenza si mostra, ad esempio, ogni
volta che nell’esserci la necessità induce a lottare contro il pericolo: « Ciò che è più
debole si stringe a ciò che è piu forte... Quanto piu forte è la spinta verso Punita, tanto piu si può
concludere alla debolezza; quanto piu forte è la spinta verso la varietà, la diversità, l’interna
dissociazione, tanto piu c’è di forza » (16, 122). La vera potenza, in quanto sommità del valore
dell’essere, può invece respingere paradossalmente, realizzandosi nel mondo, persino la via del
diretto incremento della potenza: « È rivelatore il fatto che qualcuno aspiri alla grandezza. Gli
uomini della migliore qualità aspirano alla piccolezza » (10, 309).
Il modo in cui Nietzsche nella lotta si riconosce dalla parte di chi è veramente potente, in antitesi
tanto alla potenza grezza quanto all’effettivo prevalere dell’impotenza, e in cui il paradosso del
rapporto tra potenza e valore giunge al suo apice, è chiarito dalle seguenti proposizioni: « Io non
parlo ai deboli: essi vogliono obbedire e ricadono ovunque nella schiavitù... io ho trovato la forza
là dove non la si cerca, negli uomini miti e semplici, privi della minima inclinazione a dominare »
(11, 251).
I terreni intuitivi di partenza. Del problema della potenza Nietzsche si occupa ben prima di
individuare nella Volontà di potenza l’essenza dell’essere. È esplicito il suo salto filosofico dalla
comprensione di particolari circostanze fattuali nel mondo per mezzo di una molteplicità di concetti
ben definiti della potenza, alla metafisica dell’esserci intesa come la volontà indeterminata di
potenza in assoluto. E tuttavia i dati intuitivi ed esperibili nel mondo restano pur sempre i punti di
partenza di questa metafisica ed appaiono retrospettivamente come la sua verifica. Nietzsche
raccoglie le osservazioni e ripartisce le formulazioni interpretative in tre campi; basteranno poche
citazioni per far conoscere ciò che gli scritti nietzschiani insegnano con maggiore ampiezza.
1. Psicologia del sentimento di potenza. Il concetto nietzschiano della « volontà di potenza » non si
identifica affatto col concetto degli impulsi che intendono raggiungere il sentimento di potenza. In
quel caso si ha a che fare con l’essere autentico divenuto non intuitivo, in questo con un’esperienza
psicologica intuitiva. Li si ha la volontà astratta, che vuole ciò che accade grazie a se stessa e come
suo essere, qui lo scopo di cui fare esperienza vissuta è il piacere del sentimento di potenza. Quando
si parla della volontà di potenza, l’elemento psicologico è però un punto di partenza dell’intuibilità
che deve sempre trasparire con funzione sia illustrativa che di contrasto. Nietzsche elabora in
maniera particolarmente penetrante la psicologia del sentimento di potenza (cfr. supra, la parte su «
Gli istinti e le loro trasformazioni »).
Sotto un numero incalcolabile di travestimenti Nietzsche riconosce la nascosta volontà di potenza. Il
modo in cui essa si converte, si inganna su se stessa, per appagarsi solo alla fine, il modo in cui essa
si ripresenta in ambiti sempre diversi - tutto ciò costituisce per lui uno dei fatti fondamentali della
realtà psichica: che si faccia del male o del bene ad altri, sempre si esercita la propria potenza. Le
nature orgogliose e forti cercano gli esseri integri e a loro simili, per poter lottare con loro; al
contrario, provare compassione per l’altro è il sentimento più piacevole di potenza in coloro che
sono privi di qualsiasi prospettiva di grandi conquiste (5, 50 e sgg.). Un antichissimo mezzo di
conforto è quando si ha a propria volta la sfortuna di far soffrire gli altri per quel motivo (4, 24). Gli
umiliati si procurano anche un sentimento di forza quando perlomeno condannano gli altri a cercare
i colpevoli (4, 143). L’aspirazione all’onore altro non
che l’aspirazione a sopraffare il prossimo (4, 110 e sgg.). La volontà piu spirituale di potenza
Nietzsche la ritrova nei filosofi e negli asceti, nei preti e negli eremiti (11, 253, 254; 7, 16 e sgg.):
«un’indicibile beatitudine alla vista dei martiri » la ottengono i barbari quando fanno soffrire gli
altri, e gli asceti quando fanno soffrire se stessi: « la felicità, intesa come il senso più vivo della
potenza, non è stata forse mai in nessun luogo sulla terra più grande di quel che la nelle anime di
asceti superstiziosi » (4, 111). Lo spettacolo della volontà di potenza negli asceti sconfigge a sua
volta gli uomini forti, che esercitano la loro volontà di potenza essenzialmente nell’azione esterna.
Si può quindi capire perché « gli uomini più potenti si sono sempre inchinati in atteggiamento
venerante, di fronte al santo, come di fronte all’enigma del soggiogamento di se messi...
Presentivano in lui... la forza superiore... era la “volontà di potenza” che li costringeva ad arrestarsi
dinanzi al santo » (7, 76).
Ma se la volontà di potenza è il vero impulso dell’anima a procurarsi, non importa mediante quale
forma, un sentimento di potenza, perché mai esiste in generale qualcosa come la dedizione?
Nietzsche risponde in vario modo: « Per abitudine gli uomini si sottomettono a tutto ciò che vuole
avere potenza » (2, 42). Esercitare potenza costa fatica e richiede coraggio (3, 328). La voglia
di dedizione caratterizza l’involuzione tipica della vita che decade (11, 253). Ma a ben vedere la
dedizione, che in questi casi è solo un rifiuto della volontà di potenza, è piuttosto a sua volta una
forma raffinata del sentimento di potenza. Ciò vale per il debole: « noi ci subordiniamo per avere il
sentimento della potenza » (11, 252). Per i più potenti vale però in definitiva il rovesciamento
paradossale. « Proprio per quegli uomini che bruciano del loro anelito di potenza, è
indescrivibilmente gradevole sentirsi soggiogati... Per una volta del tutto senza potenza! Un
trastullo di forze primordiali! » (4, 239).
Nietzsche ne conclude che « tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a pregiudizi e
apprensioni morali: essa non ha osato scendere nel profondo. Concepirla come morfologia e teoria
evolutiva della volontà di potenza... - questo non è stato da nessuno neppure sfiorato ». Quando poi
però richiede « che la psicologia sia nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e
alla preparazione della quale è destinata l’esistenza delle altre scienze », essendo la psicologia «
ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali » (7, 35-37), ebbene, questa via conduce
direttamente alla metafisica della volontà di potenza e non alla scienza.
2. La basilare condizione sociologica della potenza. Lo stato di fatto della società umana mostra la
condizione fondamentale senza la quale Tesserci umano non ha attualità: comandare e servire. « Lo
“sfruttamento”... è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza... come realtà è il
fatto originario di tutta la storia » (7, 238). Nella società e nello stato vi è una continua lotta per la
potenza. Nietzsche prende in considerazione la realtà, gli stimoli, i travestimenti, i mezzi di questa
lotta.
a) Lo spettacolo più grandioso, perché il più illuminante sull’uomo, gli è offerto dagli uomini greci,
nei quali egli vede un « desiderio di annientamento che li rende simili a tigri »; per loro, la «
crudeltà della vittoria » era « il culmine della gioia di vivere ». A differenza delle religioni e delle
filosofie di ogni altra parte del mondo, il greco non rifuggiva con orrore da questa esistenza, bensì «
la lotta e la gioia nella vittoria furono riconosciute ». La vera e propria natura ellenica conosce,
però, accanto alla Eris cattiva, che provoca la vicenda della lotta di annientamento, la Eris buona,
che sotto la forma della gelosia, dell’invidia e dell’astio, incita all’azione, all’agone. Proprio l’agone
divenne la ra-
gione di vita dello stato greco. Con l’ostracismo si eliminava l’individuo superiore, che toglie di
mezzo la competizione, affinché si risvegliasse nuovamente il confronto delle forze. Se eliminiamo
« l’agonismo dalla vita greca, ci si spalanca senz’altro di fronte agli occhi quell’abisso pre-omerico
di un orrendo stato selvaggio di odio e di desiderio di annientamento » (11, 273-284).
b)    Una seconda immagine ci è data se teniamo presente la differenza, nel mondo antico, tra
potenza effettiva ed esterna, e autentica potenza dell’essenza. Solo lo Stato che non può raggiungere
il suo scopo supremo, cerca di ingrandirsi in maniera innaturale: l’impero mondiale dei Romani
non è quindi per Nietzsche nulla di sublime al confronto con Atene (9, 260). La decadenza della
Grecia è a suo parere l’esempio eminente del fatto che la superiorità nella potenza materiale non è
automaticamente il valore superiore: « La sconfitta politica della Grecia è il più grande insuccesso
della civiltà: infatti essa ha... diffuso la teoria secondo cui è possibile coltivare la civiltà solo se si...
è al tempo stesso armati sino ai denti. La potenza rozza in quel caso... ebbe la meglio tra i popoli
sul genio aristocratico » (10, 392). Di qui l’esigenza di Nietzsche secondo cui « al vertice degli Stati
dev’esserci l'uomo superiore » (14, 66). « L’uomo più elevato sulla terra deve anche essere il
signore di tutti » (6, 358). E se ciò non si verifica? « Il dominio politico che non è il vero dominio
umano è la massima infamia » (10, 324). « Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura
di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso obliquo
mostruoso, quando ciò avviene » (6, 358).
c)    Una terza immagine della potenza nella società è quella della cupidigia di denaro. Tutto ciò
stimola non un vero e proprio disagio, ma una tremenda impazienza: « gli strumenti della libidine di
potenza si sono trasformati, ma è ancora sempre in fiamme lo stesso vulcano... e quel che si faceva
un tempo “per amore d’iddio”, lo si fa oggi per amor del denaro... ciò che oggi dà sentimento di
potenza e buona coscienza al massimo grado » (4, 199).
d)    La lotta per il potere investe non solo i contemporanei ma anche il passato nella forma della sua
tradizione storica. Un fatto fondamentale in tutta la storia è la reinterpretazione di ciò che viene
tramandato alla luce della volontà di potenza del presente, il che significa che « qualche cosa
d’esistente, venuta in qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza
a essa superiore in vista di nuovi propositi, nuovamente sequestrata, rimanipolata e adattata a nuove
utilità » (7, 369).
e)    Ma la volontà di potenza è dovunque mascherata. Nel contesto politico gli impotenti in primo
grado vogliono giustizia da parte di coloro che hanno la potenza. In secondo grado essi chiedono la
libertà, cioè si vuole « sfuggire » a coloro che hanno la potenza. E, terza cosa, si dice « uguali diritti
», si vuole cioè, finché ancora non si ha il predominio, impedire anche ai rivali di crescere
in potenza (15, 202 e sgg.). Il bisogno del sentimento di potenza non incita solo i sovrani, ma anche
gli strati inferiori del popolo, sebbene essi non siano esplicitamente consapevoli che si tratta di
questo e non invece di diritto e virtù:
« Mirabile stravaganza dei giudizi morali! Se l’uomo prova il senso della potenza, si sente e si dice
buono: e proprio allora gli altri... lo chiamano malvagio!... I grandi conquistatori hanno sempre
avuto sul labbro il patetico linguaggio della virtù: erano sempre circondati da masse che si
trovavano in uno stato di esaltazione e volevano udire soltanto il linguaggio più esaltato » (4,178 e
sgg.).
f) Il più efficace travestimento storico-universale dell’impotenza che vuole la potenza è per
Nietzsche quello della morale che si contrappone, nella sua originaria differenza essenziale, còme
morale degli schiavi alla morale dei signori.
La situazione sociale del potere decide dell’essenza dell’uomo che le appartiene non tanto
attraverso i mezzi coscienti della lotta, quanto attraverso quelli inconsci (2, 68 e sgg.; 7, 239 e sgg.;
7, 301-339). La tesi seguente vale secondo Nietzsche per l’intera storia dello spirito: « i mezzi che
si sono scoperti per crearsi questo sentimento formano praticamente la storia della cultura » (4, 31).
3. Forza e debolezza. L’opposizione tra i forti e i deboli, introdottasi nell’interpretazione
fondamentale della volontà di potenza, ha il suo nucleo germinale nei molti e ambigui punti di vista
incontrati da Nietzsche, perlomeno nelle loro linee iniziali, soprattutto nella medicina del suo
tempo. Talvolta vicino a certe fantasie della scienza positivistica del tempo, egli non separa
espressamente ciò che è immediatamente empirico e ciò che designa solo un oscuro concetto
generale, la malattia come fatto determinato e indagabile dalle scienze naturali (e questo poi ancora
nella sua natura originariamente differente) e la malattia intesa come mera valutazione spregiativa;
infine, senza una chiara distinzione, egli parla di ciò che nel comportamento dell’uomo verso se
stesso può essere definito « malato » e « sano » dal punto di vista esistenziale (il risultato è che per
lui e in una certa prospettiva del suo pensiero chi è malato dal punto di vista medico, grazie al suo
comportamento può risultare esistenzialmente sano, mentre chi dal punto di vista medico è sano può
essere esistenzialmente malato). Il fine piu immediato di Nietzsche non era certo la
chiarezza concettuale e sistematica; l’uso linguistico contraddittorio non ostacola la chiarezza delle
sue intuizioni esistenziali, ma solo la chiarezza dell’espressione, in modo particolare quando essa
riguarda nozioni scientifiche ed empiriche (su ciò cfr. la parte finale del paragrafo « La malattia »).
Nello sguardo di Nietzsche sembra inoltre che confluiscano ciò che deriva dall’interpretazione
onnicomprensiva della totalità dell’essere umano e ciò che è invece una conoscenza particolare nel
quadro della realtà effettiva dell’uomo (e solo in questo caso, autentica conoscenza scientifica). Il
tipo culturale di un’epoca viene ricondotto da Nietzsche sotto le stesse categorie che valgono per i
tipi di malattie nevrotiche. La realtà fisiologico-psicologica dell’esserci umano e la realtà
esistenziale dell’essenza, che non sono per nulla percepibili sul medesimo piano, si confondono fino
a divenire indistinte nella descrizione che ne enuclea le caratteristiche. Solo provvisoriamente, ad
esempio, si distingue anche tra ciò che, in quanto indebolimento della vita, a parere di Nietzsche
deve morire, e ciò che, pur nell’indebolirsi della sua natura, ha a sua volta importanza come
condizione dell’altro. Le ampie descrizioni nietzschiane di queste cose invitano bensì l’intelletto del
razionalista a fissare in concetti apparentemente oggettivi i suoi stati soggettivi di risentimento, e a
giudicare comodamente, dall’alto del suo presunto sapere, tutte le forme dell’esserci, ma per il
ripetersi della non irrilevante imprecisione linguistica infastidiscono sicuramente il lettore che vuole
la chiarezza.
Pur trascurando le molte considerazioni psichiatriche, fisiologiche, biologiche, caratterologiche e
sociologiche, che è possibile trovare in Nietzsche, teniamo ora presenti alcune categorie, mediante
le quali Nietzsche esprime la sua contrapposizione di due tipi di vita.
Il debole possiede un carattere dotato di una struttura caotica, il forte una struttura sintetica. Il primo
è « l’uomo molteplice, il caos piu interessante », il secondo è l’uomo « in cui le diverse forze sono
spregiudicatamente aggiogate verso un solo fine » (16, 297). Di fronte alla molteplicità degli
impulsi, la volontà debole cresce nella mancanza di un centro di gravità; rispetto alla coordinazione
degli impulsi sotto la signoria di uno solo di essi, la volontà forte cresce invece nella precisione e
chiarezza della direzione (15, 172). Nel debole la moderazione è la conseguenza del non-potere, del
non-essere e del non-avere; nel forte essa è il piacere del conservare la misura, il piacere di chi
cavalca un corsiero focoso (16, 290).
Il debole è l’uomo dell’unilateralità o del compromesso, della linea mediana e della mediocrità; il
forte è l’uomo « che rappresenta al massimo il carattere antitetico dell’esistenza» (16, 296).
Il debole non ha alcuna capacità di resistere agli stimoli, il forte li trasforma appropriandosene. Di
contro alla repentinità e incontrollabilità con cui il debole reagisce, la forza si manifesta nell’attesa e
nella capacità di differimento delle sue reazioni (15, 171). A causa della sua incapacità di resistenza
agli impulsi, il debole è « determinato dalle casualità », egli « ispessisce e ingrandisce le esperienze
vissute fino a dimensioni smisurate »; ne deriva una spersonalizzazione (15, 170); il forte riesce
abominare il caso e lo trasforma nel proprio destino (5, 57). Può perciò dire: « Quel che non mi
uccide, mi rende piu forte » (8, 62). « Ciò a cui solo le nature piu forti... hanno diritto... - ozio,
avventura, incredulità e perfino eccesso - finirebbe, se vi avessero accesso le nature medie, col
rovinare queste ultime necessariamente » (16, 308). « Le stesse ragioni che producono il
rimpicciolimento degli uomini meschini sospingono i piu forti e rari su fino alla grandezza» (15,
222).
Il debole non è in grado di dominare alcuna esperienza vissuta, il forte può invece riplasmarla e
annettersela. « Ci sono uomini che posseggono cosi poco questa forza che, per un’unica
esperienza... si dissanguano inguaribilmente come per una piccolissima scalfittura sanguinante » (1,
286). Con la seguente asserzione però: « Io amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita, e
che può perire a causa di una piccola esperienza vissuta », Nietzsche non si riferisce né alla forza né
alla debolezza, ma accede al piano totalmente diverso della chiarificazione esistenziale della
veracità e dell’interiorità. Sul piano dell’opposizione di forza e debolezza, invece, si dice che «
l’uomo forte, potente negli istinti di una robusta salute, digerisce i propri atti esattamente come
digerisce i pasti; si sbriga anche del cibo pesante» (16, 309).
Il debole ha una vita misera e vuota, il forte una vita ricca e traboccante. Entrambi patiscono, il
primo di un impoverimento, il secondo di una sovrabbondanza (5, 325 e sgg.).
Il debole vuole la pace e la concordia, la libertà e la parità dei diritti, egli vuole vivere senza aver
bisogno di difendersi (16, 319); il forte predilige invece le cose problematiche e terribili (16, 268); «
Una specie d’uomo non vuol rischiare, un’altra vuol rischiare » (16, 323). Il debole ha sentimenti
di vendetta e risentimenti, il forte un pathos aggressivo (15, 21).
L'interpretazione del mondo come fenomeno della volontà di potenza. Praticamente in tutti i
fenomeni Nietzsche ritrova la volontà di potenza. Tutte le volte che perviene al « fondamento delle
cose », questa' volontà appare l’elemento ultimo. Tutto ciò che accade nel mondo altro non è che
questa volontà nella molteplicità delle sue forme.
Nel modo in cui è realizzata, la metafisica nietzschiana della volontà di potenza è dello stesso
genere della metafisica dogmatica precedente. Rispetto a Leibniz non ci sono monadi (punti
soggettivi), ma sistemi di unità di potenza che crescono o si riducono; è vero che non c’è armonia,
neppure quella delle stabili determinazioni in questa lotta tra le quantità di
potenza che è l'essere stesso'; tuttavia, come in Leibniz, c’è una maggiore o minore chiarezza delle
monadi, che sono in questo caso quantità di potenza (in Nietzsche, della volontà di potenza che
interpreta): nella suddivisione del mondo Tessere autentico è dato da queste quantità di potenza, piu
o meno grandi e comunque in perenne trasformazione. Se si cerca di riunire tutte le idee elaborate
con precisione da Nietzsche a questo proposito, ci si presenta un insieme relativamente sistematico
che pare corrispondere per la sua forma concettuale ai grandi sistemi universali del XVII secolo.
Nietzsche, che pure fece tutto ciò che era in suo potere per scoprire e mantener aperta la strada del
possibile, per rendere accessibile qualsiasi prospettiva, per riconoscere le infinite interpretazioni,
alla fine sembra di nuovo chiudersi nell’assolutizzazione di una sola interpretazione.
Anziché muovere dal grande e liberatorio domandare (che non trova più una risposta generale) per
ripiegare sulla storicità dell’esistenza originaria di volta in volta presente, egli pare invece fornire
una risposta universale sostantivando il vero essere nella volontà di potenza.
A voler circoscrivere la sua complessiva opera metafisica, si può parlare di una «morfologia della
volontà di potenza» (16, 430). Le «trasformazioni della volontà di potenza, le sue specificazioni e
specializzazioni » vanno esposte parallelamente alla manifestazione sensibile delle forme di tutte le
cose (13, 66): un compito che Nietzsche ha seguito dettagliatamente nelle sue articolazioni. Sarà
sufficiente indicare brevemente alcuni punti fondamentali, restando fedeli alla loro forma diretta,
che è da una parte di formidabile efficacia e dall’altra incredibilmente stravagante.
Dal punto di vista del metodo questa metafisica distingue due vie. Per prima cosa Nietzsche cerca il
senso del nostro configurare il mondo, che noi interpretativamente costituiamo in conoscenza,
bellezza, religione e morale. In un secondo momento Nietzsche mette alla prova
l’interpretazione del mondo stesso, del mondo inorganico come di quello organico, e
della coscienza.
Con la prima via porta a termine un’interpretazione dell’interpretazione: la sua propria
interpretazione diviene cioè il chiarimento di ogni interpretazione. Sembra che la configurazione
interpretativa nasca sempre da una volontà di potenza; ma è pure al tempo stesso un sintomo della
sua natura, a seconda cioè che la volontà di potenza sia quella di una vita che cresce o decade, di
una vita veramente potente o alla prova dei fatti impotente; di conseguenza i contenuti
dell’interpretazione (verità, bellezza, religione e morale) possiedono un senso duplice: si presentano
come sintomo di debolezza o di forza, e persino il contenuto che sembra identico (ad esempio il
nichilismo, oppure il rapimento della bellezza, oppure ancora la legge morale) può avere significati
opposti a seconda del suo fondamento.
Con la seconda via egli interpreta metafisicamente ciò che nella realtà delle interpretazioni finora
vigenti non veniva interpretato in maniera appropriata mediante la vita stessa, ma solo in vista degli
scopi delle condizioni di vita, di volta in volta necessarie ma ingannevoli.
1. Conoscenza: quando Nietzsche appunta il suo sguardo sulla verità che dipende dalla vita, ne vede
il criterio nell’« aumento della sensazione di potenza » (16, 45): l’intelletto favorisce e definisce
vera l’« ipotesi » che più di ogni altra gli dà il senso della potenza e della sicurezza. Vero è « ciò che
dà al pensiero il più grande senso di forza; considerato dalla parte del tatto, della vista, dell’udito:
dove è da opporre la massima resistenza » (16, 45).
Ed ecco la corrispondente interpretazione di Nietzsche: « La conoscenza opera come strumento di
potenza » (16, 11); « la “volontà di verità” si sviluppa al servizio della “volontà di potenza” » (14,
322); « la scienza naturale con le sue formule, vuol insegnare a dominare le forze della natura » (13,
79); « il nostro grado di sentimento della vita e della potenza... ci dà la misura di “essere”, “realtà”,
non-illusione » (16, 14).
La « logica » di Nietzsche è totalmente dominata da questa interpretazione. Il principio di non
contraddizione « non contiene... un criterio di verità, ma un imperativo circa ciò che deve valere
come vero» (16, 29). Anche dove Nietzsche interpreta il senso delle singole categorie nella loro
specificità, è sempre vero che « ogni senso è volontà di potenza » (16, 92). Già per il fatto che vi
siano casi identici, questo presupposto del conoscere categoriale poggia su questa volontà: « la
volontà di uguaglianza è la volontà di potenza » (16, 25).
2.    Bellezza: la bellezza è creata dall’arte oppure è la forma che diviene visibile nella
contemplazione. « Il nostro amore per il bello... è... volontà di plasmare » (16, 19). La « volontà di
bellezza » significa « sviluppo spregiudicato delle forme: le più belle sono soltanto le più forti »
(14, 323).
Il significato dell’arte come forma in cui si manifesta la volontà di potenza è il suo essere « il
grande stimolante della vita » (14, 370; 8, 135); l’arte è « la redenzione dell’uomo della conoscenza
», quando egli « scorge il carattere spaventoso e problematico dell’esistenza, anzi lo vuole scorgere
»; è « la redenzione dell’uomo d’azione », che « non solo scorge e vuole scorgere il
carattere spaventoso e problematico dell’esistenza, ma anche lo vive, vuol viverlo », cioè dell’eroe;
è « la redenzione del sofferente » che, attraverso l’arte, trova « la via verso condizioni nelle quali la
sofferenza è voluta, trasfigurata, divinizzata » (16, 272). La volontà di potenza si esprime nell’arte
che comunica quella « condizione impavida dinanzi allo spaventoso » (8, 136).
Le diverse arti presentano anche un diverso tipo e grado di volontà di potenza: « il senso supremo
della potenza e della sicurezza prende espressione in tutto ciò che ha grande stile ». Nell’architetto
è « l’ebbrezza del grande volere, ad anelare all’arte. Gli uomini più possenti hanno sempre ispirato
gli architetti » (8, 125-126).
L’arte va oltre l’artista, fin nel nucleo più profondo della realtà. A restare fedele all’illusorietà del
bello è la volontà di vita e di potenza: « il mondo stesso non è altro che arte. L’assoluta volontà di
sapere... mi apparve, in un tale mondo di illusione, come un delitto contro la volontà metafisica
fondamentale » (14, 366).
3.    Religione e morale: Nietzsche le ha prevalentemente, anche se non esclusivamente, intese
come manifestazione della volontà di potenza dell’impotente. L’uomo religioso è « l’uomo che si
sente “non libero”, che sublima i suoi stati d’animo, gli istinti di sottomissione» (16, 142). La
morale come morale degli schiavi è il mezzo per dominare i malriusciti (cfr. supra).
La morale è la forma della volontà potente, ma non in quanto morale, bensì come mezzo. La
volontà del bene non si trova nell’essenza delle cose, sorge solo nelle forme sociali « come
conseguenza del fatto che un tutto più grande
vuol conservarsi contro un altro tutto » (14, 323). Il volere, ricompreso « nell’orizzonte della morale
», fa concepire la morale « come dottrina dei rapporti di supremazia » sotto i quali prende origine il
fenomeno della « vita » (7, 31 ).
L’interpretazione dei fenomeni deve poi, come volontà di potenza, acquisire un carattere del tutto
diverso quando i fenomeni sono l’accadere della natura che non sa di se stesso e che noi non
possiamo comprendere « dall’interno », che ascende dall’inorganico all’organico fino alla coscienza
stessa intesa come mero accadere di una funzione dell’organico.
4. Mondo inorganico: che cosa sia dall’interno la causalità della natura inanimata, che cosa sia
propriamente in se stessa questa sfera inanimata di fenomeni, che noi vediamo dall’esterno e
tentiamo di comprendere sotto leggi della natura e regolarità, è una questione antica alla quale
spesso, per non dire sempre, si è data risposta solo con costruzioni dell’immaginazione. Anche
qui Nietzsche presenta la sua interpretazione, la stessa cui ricorre per qualsiasi cosa: se « noi
crediamo alla causalità del volere..., siamo costretti a fare il tentativo di porre ipoteticamente la
causalità del volere come causalità esclusiva »; allora è « ogni accadimento meccanico, in quanto in
esso diventa operante una forza,... appunto forza volitiva, effetto del volere » (7, 57).
La realtà ultima del mondo inorganico non sono le cose « ma quanti dinamici, in tensione rispetto a
tutti gli altri quanti dinamici », la cui essenza consiste nel loro agire gli uni sugli altri. Ma l’agire
deriva solo dalla volontà di potenza. « Le pretese “leggi naturali” sono le formule dei “rapporti di
potenza” » (13, 82). Ma che cos’è questa volontà di potenza della quale non possiamo fare viva
esperienza, che non vediamo né possiamo comprendere simpateticamente attraverso la verifica
empirica? Non è « un essere, non un divenire, ma un pathos,  è il fatto elementarissimo da cui
soltanto risulta un divenire, un agire » (16, 113).
Ma se la volontà di potenza è la realtà ultima, Nietzsche la deve però inevitabilmente concepire in
analogia con la volontà di cui facciamo esperienza dentro di noi. Se tutto non è nient’altro che
volontà, la volontà deve poter agire come volontà. Ma in che modo essa agisce? « “Volontà” può
agire naturalmente su “volontà” e non su materia » (7, 57); l’agire della volontà può realizzarsi solo
grazie al fatto che essa percepisce l’altrui volontà e ne viene percepita:
« l’azione degli elementi inorganici gli uni sugli altri... è sempre un’azione a distanza, perciò prima
di qualsiasi agire vi è necessariamente “un conoscere”: la distanza dev’essere percepita» (13, 230).
Conseguentemente Nietzsche constata che « nel mondo chimico regna la piu acuta percezione della
diversità di forze » (13, 227).
Nel conoscere percipiente da parte dell’inorganico non vi è alcuna distinzione, a livello della
volontà di potenza, fra percepire e rappresentare, sentire e pensare. Solo a livello organico ha inizio
la separazione (13, 229). Questa separazione ha tuttavia come conseguenza l’inesattezza e la
possibilità dell’inganno. Perciò la percezione dei valori di forza e dei rapporti di potenza (13, 227) è
assolutamente precisa solo rispetto al mondo inorganico: « qui regna la verità ». « Con il mondo
organico comincia l’indeterminatezza e l’illusione » (13, 228).
Ne consegue, da questo punto di vista, che per Nietzsche il mondo inorganico deve necessariamente
trovarsi « piu in alto » di quello organico: « Dove non è errore, questo è il regno superiore:
l’inorganico come spiritualità priva di individualità » (13, 88), cioè la vera volontà di potenza, del
tutto una e identica con se stessa, indivisa e sempre esplicitamente presente. La vita organica,
invece, è già una specializzazione: « il mondo inorganico retrostante è la massima sintesi
di forze e perciò quanto vi è di più alto e venerabile. Manca qui l’errore, la limitatezza della
prospettiva» (13, 228). Nietzsche guarda con entusiasmo all’inorganico: « il mondo inanimato:
eternamente in movimento e senza errore, forza contro forza! E nel mondo senziente tutto falso e
altezzoso» (12, 229). L’inorganico non è l’opposto dell’organico ma il grembo materno, è la regola
mentre l’organico è l’eccezione (12, 229).
5. Mondo organico', rispetto all’inorganico che è « spiritualità priva di individualità », l’organico è
un divenir-individuale, e prima di tutto mediante l’attività con cui una vita individuale escogita e
interpreta il suo mondo: « L’insieme del mondo organico è un intreccio di esseri che hanno intorno
piccoli mondi fittizi... come loro mondo esterno... La capacità di creare (plasmare inventare
escogitare) è la loro capacità fondamentale » (13, 80). « La creatura organica ha il suo angolo
visuale di egoismo per conservarsi: le è permesso pensare solo fin dove giova alla propria
conservazione » (13, 88).
Questo mondo che è stato costruito, e che comprende tutte le creature organiche, è possibile, in
secondo luogo, grazie ad una memoria anteriore a qualsiasi coscienza: « L’organico si distingue
dall’inorganico perché accumula esperienze: e non è mai di nuovo uguale a se stesso... » (13, 231).
« Io presuppongo la memoria e una specie di spirito in tutto ciò che è organico: l’apparato è
cosi raffinato, che non sembra esistere per noi » (13, 232). Già in ogni giudizio del senso è attiva
tutta la preistoria organica; « nel regno organico non c’è dimenticanza, bensì una specie di
digestione di ciò che si è vissuto» (13, 237).
Ma mentre Nietzsche prende in esame l’organico, la sua essenza diventa per lui via via qualcosa di
più alto, in antitesi alla precedente svalutazione dell’organico in favore dell’inorganico: « Il
possente principio organico mi si impone cosi proprio con la facilità con cui si annette materiali
inorganici. Non so come sia possibile spiegare questo finalismo semplicemente col
potenziamento. Preferirei credere che gli esseri organici esistono dall’eternità » (13, 231); «
l’organico non è nato » (13, 232).
Ciò che però in questo inorganico produce l’organizzazione e cresce, non è un proposito né uno
scopo, e neppure un caso, perché al contrario Nietzsche vede di nuovo nel quadro della sua
interpretazione metafisica « che l’apparente finalismo (“il finalismo infinitamente superiore a ogni
arte umana”) è solo conseguenza di quella volontà di potenza che “si” svolge in ogni accadimento;
che il diventar più forte comporta ordinamenti che assomigliano a un piano finalistico; che gli
apparenti fini non sono intenzionali, ma, appena si è raggiunto il predominio su una potenza minore
e quest’ultima opera in funzione della maggiore, un ordinamento di rango, di organizzazione non
può non suscitare l’apparenza di un ordinamento di mezzo e scopo » (16, 58).
La volontà di potenza non produce un mondo di forme irrigiditosi in una durata eterna, ma
trasforma questo mondo in un incessante divenire. Nietzsche si domanda quale sia la direzione di
questo divenire. Rispetto alla concezione ritenuta ovvia, secondo cui la vita si evolve verso forme
superiori, e la vita a sua volta si trova più in alto della materia inanimata, egli pensa « che sia
altrettanto dimostrabile il contrario, cioè che tutto, giù giù fino a noi, è decadimento. L’uomo, e
proprio il più sapiente, è il massimo traviamento della natura e autocontraddizione (l’essere più
sofferente): fino a questo punto sprofonda la natura. L’organico come degenerazione » (12, 359).
A suo modo di vedere, l’organico è un accadere della volontà di potenza che muta continuamente,
ma senza una direzione univoca. Anche l’uomo è, in quanto esserci organico, una specializzazione
della volontà di potenza, e quin-
di, comunque sia, una forma destinata a tramontare. L’uomo è « la vita organica tutta che continua
in una linea determinata. Che egli sussista, prova che... il sistema di interpretazione» quale egli è
«non è cambiato» (16, 143). Ma come prosegue questo accadere? « La nostra “insoddisfazione”, il
nostro “ideale”... sono forse una conseguenza di questa parte di interpretazione incorporata in noi,
del nostro punto di vista prospettivistico; forse la vita organica finirà per perirne - ... Per la fine della
vita organica, anche della sua forma piu alta, le cose devono andare allo stesso modo che per la fine
dell’individuo » (16, 143).
6. La coscienza: Nietzsche chiama la forma e la vita dell’uomo il suo corpo. Naturalmente non si
tratta del mero corpo nel senso dell’anatomia, e tanto meno del cadavere, ma dell’insieme delle
funzioni vitali inconsce ed onnicomprensive. Rispetto al corpo cosi inteso, per Nietzsche è « ogni
coscienza qualcosa di povero e ristretto ». Nessuno spirito è in grado, neppure
approssimativamente, di fare ciò che ci si aspetta dal corpo. « Quanto poco siamo coscienti di noi
stessi!... La coscienza è giusto uno strumento: e in considerazione delle molte e grandi cose che si
realizzano senza coscienza, neppure lo strumento piu necessario... forse non esiste un organo tanto
malamente sviluppato... è infatti l’organo nato per ultimo... tutto ciò che è cosciente è solo di
secondaria importanza... Lo spirituale deve essere considerato il linguaggio cifrato del corpo » (13,
164).
Il corpo non è soltanto la forma percepibile, ma l’accadere vivente della totalità della volontà di
potenza, che si individualizza e abbraccia ogni cosa: « Il corpo umano, in cui rivive e si incarna
tutto il passato prossimo e remoto di ogni divenire organico, il corpo attraverso il quale, al di sopra
e al di là del quale sembra che scorra un immenso fiume invisibile; ecco un pensiero piu
meraviglioso della vecchia “anima” » (16, 125). La fede nel corpo è a ragione una fede più forte di
quella nello spirito (16, 44). Il corpo è la « grande ragione », il cui strumento è solo la « piccola
ragione » (6, 46).2
Il senso della concezione nietzschiana è la svalutazione della coscienza. Essa non è nulla di per sé.
Contro la sopravvalutazione della coscienza, egli afferma che essa resta indietro, considera solo
poche cose alla volta, e persino
durante questa considerazione si concede delle pause per qualcosa di diverso (11, 85); inoltre che
essa sfiora solo la superficie, si limita ad essere spettatrice (11, 289), persino del mondo interiore;
che inoltre si limita a costruire a bella posta tanto questo mondo interiore quanto il mondo esterno
(16, 6 e sgg.), e che ciò che diviene cosciente è solo Ü sintomo di ciò che accade propriamente e in
maniera piu ricca al di fuori della coscienza (13, 65); infine che essa è solo un fenomeno terminale,
né causa a sua volta di qualcosa, per cui ogni successione nella coscienza è perfettamente atomistica
(16, 8).
Ma che cos’è propriamente questo accadere del quale la coscienza è solo uno strumento? È
nuovamente la volontà di potenza. « Ogni pensiero, ogni sentimento, ogni volontà... è uno stato
globale... e risulta dalla determinazione momentanea di potenza fra tutti gli istinti di cui siamo
costituiti » (13, 65). « Ciò che noi chiamiamo “coscienza”... è solo un mezzo e strumento con cui
non un soggetto, ma una lotta vuole conservarsi » (13, 71). « In realtà non vediamo la lotta che si
svolge sotto questo piano » (13, 64).
La questione è quella, in generale, del da-dove della coscienza. Essa dev’essere compresa nel suo
essere a servizio di una volontà di potenza. Nietzsche la spiega in relazione ad una situazione di
bisogno. È infatti il bisogno a spingere gli uomini a comprendersi reciprocamente in maniera rapida
e precisa. Senza coscienza non c’è comprensione. « La sottigliezza e la forza della coscienza »
sembla stare « sempre in rapporto con la capacità di comunicazione di un uomo, e la capacità di
comunicazione... d’altro canto in rapporto con il bisogno  di comunicazione ». La coscienza
costituisce la rete di collegamento tra uomo e uomo: « lo sviluppo della lingua e quello della
coscienza... procedono di pari passo ».
Alla luce di questa origine Nietzsche caratterizza la specificità della coscienza nel suo non essere
qualcosa di specifico del singolo uomo in quanto tale. La coscienza non appartiene « propriamente
all’esistenza individuale dell’uomo », si è piuttosto « sottilmente sviluppata solo in rapporto ad una
utilità comunitaria e gregaria ». È il « non individuale » dell’uomo, la « sua misura media » (5, 290
e sgg.), « solo un mezzo per comunicare » e non « un sensorium generale e un’istanza suprema »
(16, 37).
Essendo un prodotto del bisogno e senza alcun fondamento in se stessa, la coscienza si sbaglia fin
troppo facilmente: « La degenerazione della vita è sostanzialmente determinata dalla straordinaria
capacità di errore della coscienza » (16, 137). «Ogni fare perfetto è... inconscio» (15, 356);
«dobbiamo in effetti cercare la vita perfetta là dove meno essa diventa consapevole » (15, 469).
La coscienza ha poi però per Nietzsche anche un significato essenziale ed enigmatico. È « un
processo che si approfondisce, si interiorizza », o che si avvicina costantemente al centro biologico
(16, 22). È del tutto incomprensibile ciò che la coscienza fa quando, ad esempio, distendo il braccio;
sapere e agire se ne stanno in questo caso in due regni differenti. « D’altra parte: Napoleone attua il
piano di una campagna... Qui è tutto saputo... poiché tutto dev’essere comandato: ma anche qui si
presuppongono dei subalterni che interpretino quanto è generico, lo adattino alla necessità del
momento » (16, 129).
Ma le seguenti frasi suonano come un appello alla coscienza: « La natura è ottusa: e poiché siamo
natura, noi tutti siamo ottusi. Anche l’ottusità ha un bel nome: si chiama necessità. Veniamo in aiuto
alla necessità! » (16, 239).
Caratterizzazione critica della metafisica della volontà di potenza. Esaminando i molti modi in cui
Nietzsche vuole comprendere la volontà di po-
tenza come essenza delle cose, ricaviamo la seguente immagine complessiva: la forma propria di
questo concetto è quella di un’ipotesi su ciò che è concepito come fondamento. Da questa unità
viene deduttivamente spiegata la totalità dei fenomeni: tutto « non è altro che... », è « puramente
», « soltanto » volontà di potenza nelle sue modificazioni. Anche ciò che è concepito quale
fondamento lo si ricava però soltanto mediante l’assolutizzazione di un fenomeno che si verifica nel
mondo in maniera relativamente universale. Le molteplici verifiche intuitive fornite
dall’osservazione empirica si saldano con una costruzione che interpreta sulla base di una
incontrollabile (e fattasi non intuitiva) applicazione all’essere stesso, sfociando cosi in un pensiero
assolutizzante.
Se Nietzsche è effettivamente caduto in questa forma di pensiero della metafisica, allora non può
esservi alcun dubbio sul fatto che come nell’approccio ha in mente qualcosa di diverso, cosi dal
punto di vista dell’obiettivo ha voluto però qualcosa di diverso.
Per prima cosa egli sa che la volontà di potenza, posta a fondamento di tutto ciò che accade, è «
sconosciuta » (cfr. supra); e di conseguenza, darle un nome non significa ancora conoscerla. C’è
qualcosa di essenzialmente diverso nel fatto che io interpreti nel mondo ricorrendo a saldi concetti,
oppure interpreti il mondo nella sua interezza. Quest’ultima interpretazione non fissa alcunché, né
deduce, bensì interpreta la cifra dell’Uno. È questo il motivo per cui, in seconda istanza, Nietzsche è
ben consapevole che, anziché escogitare un’ipotesi dell'essere posto a fondamento, sta cercando ciò
« nel quale tutto si riconosca apparentato a esso » (cfr. supra).
Se vogliamo restare fedeli al punto di vista autentico di Nietzsche, dobbiamo chiederci, esaminando
ciò che egli dice in quelle forme di pensiero che diventano metafisico-dogmatiche, che cosa
significhi la cifra, in che senso tutto vi si possa riconoscere come apparentato, e che cosa ad
esempio sarebbe reale ed essenziale pur non potendovisi riconoscere.
La concezione universale della volontà di potenza fornisce al lottare in quanto lottare la coscienza
pulita, se è vero che per la volontà di potenza tutto si riduce a mezzo di lotta. In tale concezione
giunge ad autoaffermazione l’esaltazione della potenza. La volontà di lottare ne riceve uno stimolo
incessante. Tutto ciò che nel nostro esserci è effettività della potenza e piacere per la lotta, non solo
si riconosce a sua volta come apparentato, ma acquisisce qui il suo senso potenziato.
Ma subito dopo è importante stabilire quale sia la volontà di potenza ad affermarsi, e come che cosa
essa si affermi. È la varietà qualitativa, l’ordine gerarchico delle forme della volontà di potenza e
dell’essenza di una potenza, a decidere del valore di un certo piacere per la lotta. Sebbene la
metafisica di Nietzsche elabori per conto suo tutto ciò, diventa fin da questo punto ambigua nello
stabilire in che modo uno possa sentirsi apparentato e chi possa sentirsi in questo modo. Perché se è
ogni esserci che può sentirsi in questo modo, ogni cosa lo è poi a seconda del suo rango.
A confermare il senso di questa metafisica è il fatto che il suo stesso divenir oggetto del pensiero
dev’essere concepito come un atto della volontà
di potenza. Per Nietzsche questa metafisica è adatta a divenire l’immagine del mondo dei possenti
sostenitori del movimento di reazione al nichilismo.
Ma il limite del senso di questa metafisica andrebbe fermamente rintracciato solo nell’indicare ciò
che non vi si riconosce come apparentato. La caratteristica dell’affinità con tutto ciò che esiste non
è senza eccezioni. È vero che l’interpretazione scorge nelle creazioni dell’uomo il lato della volontà
di potenza, contempla la possibilità che tutte le cose decadano a mezzi della volontà di potenza, ma
non s’avvede nell’essere originario dell’esistenza umana di ciò che non ha assolutamente nulla a
che fare con una volontà di potenza, né ha originariamente bisogno della volontà di potenza per
mostrarsi. Non si riconosce nella volontà di potenza l’essere-se-stesso che si sa responsabile per se
stesso; il punto indipendente che per la sua incondizionatezza ha come unico riferimento la
trascendenza; la comunicazione come conflittualità affettuosa priva della volontà di potenza e
dell’uso della potenza; l’orizzonte veramente aperto e libero. Anche se Nietzsche ha smascherato le
deviazioni cui vanno incontro queste modalità di un essere sostanziale, ciò che di originario vi è in
esse è in grado di resistere a questa metafisica.
È fondamentale che questa metafisica dell’immanenza radicale voglia interpretare la cifra
dell’essere come volontà di potenza priva di trascendenza. Ciò che nell’esserci si sa al cospetto
della trascendenza, non può riconoscersi come apparentato in questa metafisica. Contro la
possibilità di questa metafisica combatte, senza essere a sua volta essenzialmente lotta per la
potenza, un essere all’interno dell’esserci che respinge questa interpretazione. Esso accetta le cose
fin quando Nietzsche porta a termine una qualche chiarificazione realistica e particolare all’interno
del mondo, ma rifiuta il proprio consenso quando con ciò si pretende di afferrare l’essere stesso.
Il limite del senso della metafisica della volontà di potenza è inoltre dato dal fatto che,
nell’interpretazione del mondo inorganico e organico, solo noi possiamo sperimentare
riflessivamente il riconoscimento della sua parentela con la volontà di potenza. Per questa
considerazione si tratta però sempre di pure e semplici analogie della volontà di potenza e dei
rapporti di forza, che sono prive di qualsiasi valore conoscitivo e non possono rendere consapevole
una vera e propria parentela.
In una simile presentazione dei limiti della metafisica della volontà di potenza risulta ora essenziale
e caratteristico dell’intero pensiero nietzschiano il fatto che un limite è posto già dallo stesso
Nietzsche. Non c’è in Nietzsche alcuna dottrina a cui egli si sottometta. E' lui a tenere in
pugno qualsiasi teoria e a controbilanciarla concretamente con altre dottrine. La dottrina della
volontà di potenza non è la metafisica definitiva di Nietzsche, ma un tentativo che va inquadrato
nella sua globale esplorazione dell’essere.
L’insufficienza di questa metafisica è ben visibile, in Nietzsche, nel fatto che essa è l’opposto
complementare della sua immagine della vita, e poi nel fatto che essa trova la sua giustificazione
ultima nella dottrina dell'eterno ritorno, dottrina che a sua volta non diventa assoluta.
In Nietzsche non vi è perciò traccia della verità obicttivante alla maniera del precedente pensiero
razionalistico della metafisica dogmatica. Il razionalista vede la verità nella costruzione concettuale,
e quest’ultima non è affatto in Nietzsche il tratto dominante. La verità non è per Nietzsche la verità
definitiva dell’essere in quanto tale, anche se a volte sembra correre il rischio di fare del suo stesso
tentativo qualcosa di dogmatico.
La specificità del filosofare di Nietzsche si rivela solo entro l’ambito in cui ogni dottrina può
sempre diventare anche relativa. Per raggiungere questo ambito è necessario che ogni confine venga
sfondato, e che il carattere enigmatico dell’esserci non si dissolva in un’immagine cosciente
dell'essere.
Il mondo come pura immanenza
Qualsiasi metafisica, da Parmenide attraverso Platone fino al cristianesimo e a Kant, elabora la
teoria dei due mondi: alla base del nostro mondo della finitezza e della caducità, del divenire, della
temporalità e dell’apparenza, c’è un mondo dell’essere in se stesso, un mondo dell’infinitezza
e dell’eternità, dell’atemporalità e della verità. Per esprimerci religiosamente: c’è un Dio.
Qualunque sia il diverso senso delle varie opposizioni, il fattore che suscita il rifiuto di Nietzsche è
sempre il medesimo: egli respinge cioè il fatto che si contrapponga il mondo dell’aldilà al mondo
terreno, un mondo vero ad un mondo apparente, un mondo invisibile a quello visibile, un mondo
della beatitudine al mondo del dolore. Questa contrapposizione è per Nietzsche solo
un’interpretazione. Ma ogni sapere dell’essere è per lui nient’altro che interpretazione. Quando egli
combatte la teoria dei due mondi, non combatte dunque l’interpretare in quanto interpretare, ma
un principio del tutto determinato dell’interpretazione. Le interpretazioni non sono equivalenti,
perché una si impone sulle altre.
Le ragioni di Nietzsche contro la teoria dei due mondi. Il mondo vero, comunque lo si sia finora
concepito, è stato sempre soltanto ancora una volta il mondo apparente (16, 66). Il raddoppiamento
è superfluo se l’altro è ignoto, e se è possibile esprimerne la sussistenza solo mediante la ripetizione
delle categorie e dei contenuti del mondo conosciuto. Nietzsche non si oppone alla possibilità che vi
siano infiniti mondi al di fuori di quello nel quale viviamo e col quale ci identifichiamo (16, 89).
Questi mondi non pretenderebbero nulla da noi, mentre d’affermazione di un altro mondo ritenuto
vero ci colpisce nella nostra intera esistenza.
Ciò che la teoria dei due mondi significa da questo punto di vista, risulta fin dai motivi che ne
costituiscono l’origine: l’uomo teme il caso, l’incerto, l’imprevisto del mondo come fosse un male;
anziché vincerlo realmente mediante la pianificazione, egli lo combatte là dove questo gli pare
impossibile, con un’interpretazione inefficace dal punto di vista reale ma capace di alleviarlo
soggettivamente: ed ecco allora l’idea secondo cui
l’accadere sarebbe causato da una persona (la divinità), con la quale l’uomo ha la possibilità,
prevenendo il male, di stringere un patto. Oppure l’uomo si aiuta mediante una diversa
interpretazione di questi mali: solo in apparenza essi sarebbero dei mali, in verità sarebbero invece,
dal punto di vista delle loro conseguenze ultime, il risultato di una buona intenzione. Oppure si
pensa di aver meritato il male come castigo. In ogni caso l’uomo con queste interpretazioni si
sottomette al male, mitigando cosi la sua paura del male e di fatto riducendo la sua possibilità di
vincerlo concretamente (16, 370). L’uomo teme poi la transitorietà e il cangiamento in quanto tale, e
si tranquillizza solo ricorrendo all’interpretazione secondo cui vi sarebbe un mondo diverso, un
essere che esiste imperituro anche se ignoto. Egli ha paura delle proprie passioni, della bramosia di
dominio come della voluttà, ecc., e fa in modo che esse siano eliminate dal mondo vero, fino a
stabilire che l’essere autentico consiste nella negazione di queste passioni (16, 72). Questa
interpretazione è sempre una fuga da questo mondo in un altro che a ben vedere non è nulla. «
L’altro mondo è stato creato dall’istinto della stanchezza di vivere » (16, 90).
Una volta che si sia affermato l’altro mondo, esso si regge su nuove seduzioni: il mondo ignoto ci
incita all’avventura e ci dà l’erronea presunzione che il mondo reale e presente ci sia noto, tanto che
noi rinunciamo così a raggiungere la conoscenza proprio là dove ci è accessibile. Un mondo, dove
le cose vanno diversamente, ci fa pensare che forse lì tutto diventa buono, che lì anche noi forse
siamo diversi; ci induce a pensare che anche il mondo che ci è dato potrebbe a sua volta essere
diverso: necessità e fatum sono cosi soppressi. Un mondo che sia quello vero sembra porre
l’esigenza morale della nostra veracità, nel senso che esige che noi consideriamo il nostro mondo
come un mondo menzognero e disonesto, non schietto e inessenziale (16, 86 e sgg.).
L’effetto della divisione dei due mondi è perciò la svalutazione del mondo e della vita. Proprio il
mondo in cui l’uomo deve abitare e stabilirsi, gli viene ora discreditato (16, 80). Il mondo vero
«crea i grandi dubbi e... diminuisce il valore del mondo che siamo: è stato finora il nostro pili
pericoloso attentato alla vita » (16, 79).
Ma Nietzsche non ha solo negato l’idea del mondo vero, laddove quella risultava essere in origine
un interpretare sulla base della forza della volontà di potenza. Il suo rapporto, in se stesso sempre
contraddittorio, con Platone ne è l’espressione: da artista qual era, Platone ha preferito l’illusione
all’essere. L’artista scorge l’autentico valore di una cosa nel resto umbratile che egli vi ha ricavato;
per lui quanto meno reale è una cosa, tanto piu è valida. Ma Platone possiede, nel rovesciare,
un’arditezza e una forza in più, come quando afferma che quanto piu una cosa è idea, tanto più è
essere. Egli preferì l’irreale a ciò che è semplicemente presente e lo chiamò l’essere autentico (16,
70). Per il saggio il mondo vero è effettivamente raggiungibile, egli vive in esso, è questo stesso
mondo. Il mondo vero è la trascrizione della tesi: io, Platone, sono la verità (8, 82). Se questa fu
l’origine, in cui anziché la paura e la fuga dinanzi al mondo è pur sempre ancora visibile l’immane
potenza della persona che crea, ebbene solo in seguito l’idea del mondo vero va incontro ad una
trasformazione: col cristianesimo il mondo vero diviene per il momento inattingibile, ma
è promesso al peccatore che fa penitenza. In seguito esso diventa tanto inattingibile quanto al di là
di ogni promessa, ma già in quanto solo pensato diventa una consolazione e un obbligo; è l’antico
sole, ma visto attraverso la nebbia dello scetticismo, « pallido, nordico, konigsbergico ». Dopo
di che, in quanto assolutamente sconosciuto e privato della consolazione e del suo carattere
vincolante, esso perde nel positivismo (agnosticismo) ogni suo senso. È giunto il momento in cui
può essere tolto di mezzo. Ma questo annullamento portato a termine da Nietzsche non significa che
rimanga il mondo apparente, perché è vero piuttosto che col mondo vero è eliminato anche quello
apparente, lasciando cosi aperto l’orizzonte al mondo di Nietzsche (8, 82 e sgg.).
Pura immanenza come divenire, vita, natura. Ma cos’è che rimane dopo che si sono tolti di mezzo i
due mondi? Nietzsche lo chiama il divenire, la vita, la natura, intendendo con questi termini ciò che
di totalmente instabile e di essenzialmente inconcepibile propriamente esiste. Egli vi rinvia come a
qualcosa di vero e reale, ma anche tutto ciò deve, quando egli ne parla, ridiventare concretamente
un « essere », essere deformato o fatto sparire nel linguaggio che lo esprime.
1.    Contro l’essere dei filosofi, i quali ridussero ciò che esiste, e a cui essi pensavano, a qualcosa di
semplicemente immaginario (16, 69), Nietzsche pone quell’unico essere reale che è il divenire. Ad
avere un valore non è pertanto la durata, che in effetti neppure esiste. Nietzsche difende piuttosto «
il valore di ciò che è piu breve e fugace, il seducente scintillio dorato sul ventre del serpente vita »
(16, 73). Ciò non significa comunque che ci si debba consacrare alla casualità dell’attimo (« Se
credeste di più alla vita, vi abbandonereste meno all’istante... non avete abbastanza contenuto in voi
stessi per aspettare »: 6, 65). Significa piuttosto che ciò che sparisce, ciò che osa e si sacrifica, è la
sola forma dell’essere che sia reale, vera e dotata di valore. Ma se vogliamo comprendere queste
considerazioni, occorre prenderle sul serio in quanto tali. Un aldilà toglierebbe di mezzo la serietà,
perché se si ponesse il centro di gravità della vita non nella vita ma in un aldilà - nel nulla - si
sottrarrebbe alla vita in generale il suo centro di gravità (8, 271): « non alia sed haec sempiterna »
(12, 66). Questa nuova eternità dell’essere, che Nietzsche trova nel divenire, sarà, in quanto « eterno
ritorno », il tema del prossimo capitolo.
2.    Nietzsche difende la vita contro qualsiasi rigidità, contro tutto ciò che è solo pensato ed astratto,
contro l’evasione nel nulla di un’alterità posta al di là del mondo terreno. Vita è per lui, da un lato,
la parola con ia quale si riferisce all'esserci pensato in base a categorie biologiche, dall’altro è il
segno con cui indica quell’essere stesso che noi, e solo noi, veramente siamo. La vita, affermata
cosi nella sua incondizionatezza, non può affatto divenire qualcosa di univoco. Quando la si
esprime, il suo senso
trapassa continuamente da ciò che abbraccia l'essere autentico a ciò che determina l'esserci
particolare divenuto oggetto della biologia. Ma anche la sua affermazione può essere espressa solo
mediante continue negazioni, che si oppongono a quelle forme in cui la vita non è veramente vita.
Nel complesso si dice: « ma allora la vita è un dovere? Che assurdità! » (11, 222 e sgg.). Non è la
vita in quanto mero esserci ad avere valore. Ecco qualcosa di cui si può assolutamente dubitare.
Quando Nietzsche vede la vita nella sua bruttezza, vede ciò per cui essa lo disgusta, quando « non
gli piacciono gli originali » ed è « adirato con coloro che oscillano come fuochi fatui » e con « tutto
ciò che proviene da una palude », può poi ben chiedersi: « ma allora la vita è una palude? » (12,
349). E tuttavia il suo odio va « a tutti coloro che si sforzano di gettare il sospetto sul valore della
vita » (12, 67). È perciò necessario distinguere ciò che è mera vita dalla vita in senso proprio. Ma
questa distinzione è riuscita a Nietzsche, ad esempio, nel separare la vita che cresce e la vita che
decade, oppure in qualche altra forma di gerarchia, comunque sempre richiamandosi alle possibilità
dell’esistenza, e non certo con la pretesa di fissare in maniera oggettiva quella distinzione. Ma
dell’appello all’esistenza che sempre si ricava dalle asserzioni di Nietzsche non è il caso di parlare
nel presente contesto. Bisogna qui osservare che con un concetto della vita quale pura immanenza
non si riesce a cogliere distintamente l’esistenza, e che, piuttosto, con il concetto di vita è
inevitabile che le sue tesi slittino in un altro campo del sapere, quello della biologia, e cioè in un
campo che in questo contesto è sempre solo un sapere apparente.
È questo il motivo per cui Nietzsche si ribella sempre a questi irrigidimenti. Quindi, ciò che qui si
afferma in quanto tale è proprio l’illimitata ambiguità che si ritrova in ogni manifestazione della
vita: « forse è questa la piu potente magia della vita: c’è su di essa, intessuto d’oro, un velo di belle
possibilità, colmo di promesse, di ritrosie, di pudori, d’irrisioni, di pietà, di seduzione. Sì, la vita è
una donna! » (vita femina: 5, 264). Tale ambiguità può a dire il vero generare diffidenza: « la
fiducia nella vita se n’è andata... È l’amore per una donna che ci crea dei dubbi » (5, 9); ma questa
diffidenza è però fusa con l’incondizionata affermazione della vita che regge il pensiero
nietzschiano, un’affermazione che adesso non è piu solo pensata, bensì sfrenatamente evocata come
stato dionisiaco nei canti di danza di Zarathustra (6, 157 e sgg., 328 e sgg.).
Alla vita, del resto, appartiene anche la morte: « Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si
contrappone alla vita » (5, 149). È proprio il modo in cui Nietzsche considera la morte a dare una
certa impronta alla sua filosofia della vita senza trascendenza. Di qui le tesi nietzschiane sulla
morte. L’uomo si rapporta alla morte. Per Nietzsche è necessario interpretare questo atteggiamento
esclusivamente in rapporto alla vita. Questa vita è per lui il segno dell’esistere creativo, dell’esistere
che cioè realizza il proprio senso nel creare, pur essendo anche sempre concepita in unione alla vita
biologica e sana che può essere oggetto dell’indagine delle scienze naturali, o talvolta con questa
totalmente e semplicemente identifi-
cata: in entrambi i casi si deve comunque trattare della vita pura nel senso dell’assenza della
trascendenza, cosi che per Nietzsche la morte e il regno dei morti non sono propriamente nulla.
Ma Nietzsche riscontra in tutto l’Occidente la presenza di un atteggiamento verso la morte fin
dall’origine opposto al suo: la paura del « dopo la morte ». Egli ne comprende l’origine storica dai
Misteri e dall’egizianismo, dall’ebraismo e dal cristianesimo; è proprio contrario a questo
atteggiamento l’orientamento fondamentale della sua filosofia della vita: la morte è « definitiva », «
il “dopo la morte” non ci interessa piu un bel niente » (4, 70-72). La morte non fa temere nulla che
venga dopo di essa. Al contrario, è il sapere del puro nulla della morte la ragione per evitare di
aver paura di ciò che la vita ancora ci riserva: « Abbiamo la morte abbastanza vicina per non dover
temere la vita » (12, 306).
La morte è l’evento naturale per noi inevitabile, oppure può essere causata dalla nostra volontà nel
suicidio. Ad entrambe l’uomo si deve rapportare, alla certezza della prima e alla possibilità
dell’altra.
La morte naturale, che prima o poi giunge e comunque senza il mio intervento, non è per Nietzsche
niente di spaventoso. Ciò che Nietzsche chiama vita, non significa affatto l’illimitato voler-vivere e
poter-non-morire, bensì l’essere superiore alla vita in funzione della vita: « quanto più pienamente e
validamente si vive, tanto più presto si è pronti a sacrificare la vita per un unico sentimento buono »
(3, 295). La morte intesa come il termine è a sua volta solo un vivere; il modo in cui me ne
approprio può rendermi padrone della morte e della vita: « della propria morte bisogna fare una
festa, e sia ciò anche solo per cattiveria verso la vita: contro questa femmina che vuole
abbandonarci - a noi! » (12, 351).
Per questo motivo e alla luce della certezza della pienezza creativa della vita, Nietzsche si rivolge
sprezzante contro ogni forma di paura della morte. Si tratta, prima di tutto, della paura
universalmente umana, che « è forse più antica di piacere e dolore» (13, 272): è l’illimitato voler-
vivere, quel nient’altro che voler-vivere che per Nietzsche non è affatto giusto essendo privo di
forza. In secondo luogo essa è la paura come « malattia europea » (14, 217), che nasce dal timore di
ciò che accade dopo la morte; chi ne è vittima, è prigioniero della paura dell’inferno.
Nietzsche è uno di quei pensatori che vogliono lasciarsi alle spalle qualsiasi forma della paura della
morte, perché la considerano distruttiva sul piano esistenziale e vi vedono un segno di un’esistenza
che non ha il proprio fondamento in se stessa. Essi vogliono vincere tanto la paura della vuota
brama di vivere quanto, ad esempio, la paura fisica delle sofferenze e delle punizioni che si
dovranno poi sopportare. La liberazione da questa paura non è la condizione e la conseguenza solo
di una vita piena, come Nietzsche la intende, ma anche dell’autenticità esistenziale del salto
connesso alla trascendenza, di cui parla Kierkegaard. Ma a caratterizzare la filosofia della vita
nietzschiana è il fatto che gli pare possibile lo slittamento di cui ora tratteremo.
Essendo la paura della morte sempre un segno di un esserci debole, Nietzsche può contrapporle
persino l’atteggiamento ordinario di chi non ci pensa e della morte generalmente si dimentica, quasi
che essa non dovesse mai arrivare. Anche se la morte è l’unica cosa certa del futuro: « Come è
strano »,
pensa Nietzsche, « che questa unica sicurezza e solidarietà non abbia quasi nessun potere sugli
uomini ». Ma con ciò Nietzsche non intende risvegliarla o ricordarla, bensì: « Mi rende felice » -
scrive - « vedere che gli uomini non vogliono assolutamente intrattenersi nel pensiero della morte!
Sarei ben contento di far qualcosa, per rendere loro il pensiero della vita cento volte ancora piu
degno di esser pensato » (5, 211 e sgg.).
Ma la superiortà sulla morte si realizza veramente per Nietzsche solo nel suicidio. Per tutta la sua
vita egli lo ha celebrato come degno dell’uomo: la morte volontaria (razionale) contro la morte
involontaria (naturale) (3, 294). «Bisogna rovesciare l’ottuso fatto fisiologico in una necessità
morale» (16, 315). La morte naturale è « la morte nelle condizioni piu spregevoli, è una morte non
libera, una morte non a tempo giusto, una morte da codardo. Si dovrebbe, per amore della vita, -
volere una morte diversa, libera, cosciente, senza alcunché di accidentale e d’improvviso » (8, 144).
Ma per quale motivo Nietzsche - secondo una tradizione antica, specialmente della filosofia stoica -
esprime questa passione per la grandezza dell’uomo che si suicida? Anche Nietzsche scinde
un’essenza dell’uomo, il suo più intimo esser-se-stesso, dal suo corpo e dal suo mero esserci, il «
nòcciolo » dalla « miserabile sostanza della buccia ». Nella morte naturale il corpo è « il carceriere
rattrappito, spesso malato ed ebete, è il signore che fissa il punto in cui il suo nobile prigioniero
deve morire. La morte naturale è il suicidio della natura, cioè la distruzione dell’essenza razionale
per mezzo di quella irrazionale » (3, 294). Nietzsche trascende la vita nella direzione di un piu-che-
vita, a partire dal quale la vita venga governata, affermata e negata, ma sempre però in modo che
questa suprema interiorità dell’uomo, il suo più-che-vita, sia a sua volta concepita come vita, come
pura immanenza e non come esistenza volta alla trascendenza. Non avendo nulla al di fuori di sé,
questa vita è non solo autorizzata a pronunciare un giudizio vero sulla totalità del suo esserci e delle
sue possibilità, ma questo giudizio le viene richiesto come un’esigenza. Questo giudizio deve
concernere il senso della vita, deve chiedersi se questa sia ancora « creativa ».
Ma Nietzsche concepisce immediatamente questo giudizio in maniera più ristretta e ha in mente ad
esempio il malato, giacché l’essere malato elimina il creare: « Il malato è un parassita della società.
In una determinata condizione è indecoroso continuare a vivere più a lungo. Il continuare a vegetare
in vile dipendenza dai medici e dalle loro pratiche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il
diritto alla vita, dovrebbe attirare su di sé, nella società, un profondo disprezzo. I medici, dal canto
loro, dovrebbero essere i mediatori di questo disprezzo » (8, 143).
Nietzsche oppone a questo misero esserci del malato che muore lentamente, così come a qualsiasi
forma di vita vuota e semplicemente protratta nel tempo, la « morte come adempimento », cioè il
suicidio: « Colui che adempie la sua vita, morrà la sua morte da vittorioso, circondato dalla
speranza e dalle promesse di altri... Questa è la morte migliore; quindi viene: morire in battaglia...
Ma la vostra morte ghignante, che si avvicina furtiva come un ladro... è odiosa tanto al combattente
quanto al vincitore... Nel vostro morire deve ardere ancora il vostro spirito e la vostra virtù, come
un vespero sulla terra: altrimenti il morire vi è riuscito male » (6, 105-108).
Facendo della mone qualcosa di libero, questo atteggiamento intende andare al di là della morte
naturale. La morte stessa dev’essere trasformata in un atto della vita, cioè di quel più-che-vita che
abbraccia e governa la vita. La con-
seguenza è che se tutti avessero un esserci perfettamente riuscito, nessuno morirebbe più di una
morte naturale, bensì tutti morirebbero « al momento giusto »-di una « morte libera »: « Il saggio
ordinamento e la saggia disposizione della morte appartengono a quella morale dell’avvenire, oggi
affatto incomprensibile r che suona come immorale: vederne l’aurora dovrà essere un’indescrivibile
felicità » (3, 294).
Rispetto alla morte libera, la questione decisiva è però stabilire quando sia. il « momento giusto ».
Nietzsche contempla due possibilità: la prima concerne gli uomini il cui esserci non fu mai fin
dall’inizio una « vita giusta »: « colui che mai vive al momento giusto, come potrebbe morire al
momento giusto? Non fosse mai nato! » (6, 105). Ai « superflui », ai « troppi » vuole esser capace
di predicare la morte (6, 63-65). A questi uomini egli dice: « Quando ci si. sopprime, si fa la cosa
più degna di rispetto che esista: con ciò quasi si merita di vivere... si è liberato gli altri dalla propria
vista » (8, 144-145). Ma chi è, e come si riconosce colui per il quale queste parole hanno un senso?
- parole poi che, in maniera decisamente assurda, non avrebbero a ben vedere proprio alcun senso
per chi mai le potesse comprendere e fare proprie, giacché il valore della sua essenza sarebbe allora
già sufficiente a giustificare la sua vita. Anzi, il senso di quell’appello potrebbe bensì in un attimo di
confusione logica strappare un uomo elevato alla vita, ma non scuoterebbe mai minimamente
l’uomo di basso rango, che è il solo a cui qui Nietzsche sta pensando.
La seconda possibilità cui Nietzsche pensa, riguarda gli uomini che hanno vissuto in modo giusto.
Quand’è per loro il « momento giusto »? Una volta che la creatività è giunta alla fine, che è « il
momento giusto per la sua meta e per il suo erede » (6, 106), quando l’uomo è ancora se stesso per
potersi congedare, quando malattia e vecchiaia non sono semplicemente presenti, ma rendono
impossibile l’appagamento di senso che una vita « creativa » richiede. Ma se si dovesse però
effettivamente stabilire con precisione il momento, queste espressioni risulterebbero o troppo
generali ed indefinite - la loro applicazione al caso specifico, se la si dovesse completare
argomentativamente, avrebbe infatti come conseguenza l’idea che non è mai ancora il momento
giusto, o che lo è già sempre, a seconda dunque del modo di pensare mio o di chi, nei confronti
del singolo, valuta il senso della vita corrispondente con simpatia o antipatia -, oppure si
trasformerebbe la questione del « momento giusto » in una pratica esteriore e grossolana di
constatazione. Oppure, ancora, l’appello a poter decidere liberamente il momento della morte si
radica nell’appello a vivere in modo tale da essere capaci di questa decisione: « Vivere in modo tale
da possedere anche al momento giusto la propria volontà di morire » (16, 315). Si tratta certo di un
appello che pur nella sua globale indeterminatezza parla dalla massima profondità, che anzi esclude
qualsiasi definizione e comunicabilità, e per questo motivo o sparisce di nuovo nel parlarne o
perlomeno si trasforma ulteriormente.
Con questo appello si pone all’uomo un compito per lui impossibile. L’assenza di trascendenza
della filosofia della vita mette nelle mani dell’uomo la totalità delle possibilità dell’essere, quasi
fossero cose di cui egli può liberamente disporre e che può produrre grazie alla sua creatività. Ma
l’uomo non è e non può mai essere simile ad un dio che abbraccia ogni cosa col suo sguardo. Vi
sono forse per lui delle possibilità che, grazie al suo profondo sapere e al suo essere un’eccezione
estraniata dal mondo intero, può ben realizzare, mentre si sottrae infinitamente ed enigmaticamente
anche da qualsiasi concezione generale. Si è toccato un enigma della grandezza dell’uomo, una
possibilità di grandiosa indipendenza, qualcosa che potrebbe essere l’incomunicabile appello che
un’anima eroica rivolge a se stessa, nella sua solitudine e semplicemente distaccata dalla meschinità
degli uomini che ammirano o criticano, e in entrambi i casi giudicano. Ma una volta che la si dice,
la si insegna e la si pretende, questa possibilità - « muori al momento giusto! » - diventa l’opposto
del segreto, che in essa potrebbe trovare espressione, se non venisse messo a nudo da una timida
chiarificazione (il che è impossibile), ma fosse incontrato dal singolo nella sua storicità.
La posizione riflessa di Nietzsche nei confronti della morte è una conseguenza necessaria della
consapevole assenza di trascendenza della sua filosofia. Quest’assenza di trascendenza si manifesta
in due forme.
Innanzitutto, per Nietzsche che la concepisce in questo modo, la morte non può conservare la sua
profondità. È probabile che Nietzsche sia costretto a fraintendere come « solo religiosa » la
coscienza dell’uomo nella sua finitezza, la possibilità del suo limitarsi e tener testa al mistero: «
poiché allora, come è giusto, la ragione superiore (di Dio) dà il suo comando, alla quale la ragione
inferiore deve adattarsi. Al di fuori del modo di pensare religioso, la morte naturale non merita
nessuna glorificazione » (3, 294). L’atteggiamento di Nietzsche si contrappone « alla miseranda e
orribile commedia che il cristianesimo ha fatto dell’ora finale » (8, 144). Quanto meno egli ritiene
che « l’atto del morire non sia così importante come afferma la riverenza generale » (4, 267); e,
concentrandosi solo sul processo meramente fisiologico, così come questo si presenta ad un
osservatore disinteressato, egli può dire: « Fra gli uomini non esiste nessuna banalità piu grande
della morte » (3, 233).
Che la morte abbia perduto la profondità che solo la trascendenza può conferirle, dissolvendosi in
un evento di cui l’uomo può disporre, si collega - ed è la seconda forma in cui si manifesta l’assenza
di trascendenza - al fatto che nel filosofare di Nietzsche i morti non sono presenti come morti. Non
c’è alcuna rimembranza metafisica che impregni il suo essere, nessuna immortalità (al suo posto
troviamo l’« eterno ritorno » senza memoria).3 I grandi uomini del passato stanno dinanzi ai suoi
occhi alla chiara luce del giorno, per cosi dire privi di trasparenza. Il fondamento
mitico complessivo e connesso ai morti dell’esserci esistenziale è come se fosse andato perduto in
questa filosofia della vita, che non trascende lo slancio di chi crea. Con questa assolutizzazione
della vita, la morte in quanto tale è quindi annullata, come se si trattasse di qualcosa di indifferente.
3. In opposizione a qualsiasi forma di trascendenza, in opposizione a Dio e alla morale, in
opposizione alla « snaturalizzazione della morale », alla « snaturalizzazione » per cui il buono
sarebbe in funzione del buono, il bello in funzione del bello e il vero in funzione della verità,
Nietzsche fa appello al « recupero della natura » (16, 458), al « riconoscimento di
una morale naturale » (15, 291), a « valori puramente naturalistici in luogo dei valori morali » (15,
486).
Queste idee potrebbero essere confuse con il modo di pensare di Rousseau. Contro questa
eventualità, Nietzsche non pensa propriamente ad un « ritorno alla natura », ma ad un elevarsi «
verso l’eccelsa, libera, c anche tremenda natura e naturalità, una natura che gioca e può giocare coi
grandi compiti... Per esprimerci con una similitudine: Napoleone fu un frammento del “ritorno alla
natura”, così come lo intendo io » (8, 161). Ma non si dà un « ritorno alla natura », « poiché non è
ancora mai esistita un’umanità naturale... l’uomo perviene alla natura dopo una lunga lotta, non
ritorna mai indietro» (15, 228). La natura di cui qui si parla non è altro che « il terribile testo
fondamentale homo natura »; si tratta di ritradurre l’uomo nella natura (7, 190).
Ma che cosa sia la natura, risulta fin dall’antichità un problema quasi inestricabile per il discorso
filosofico, e cosi anche per Nietzsche. In un caso, natura significa l’oggetto delle scienze naturali,
l’insieme delle forze che l’uomo è in grado di dominare, in un altro, invece, l’essenza
dell’uomo stesso e l’essere in assoluto.
Nietzsche smaschera l’abuso della parola, rivisitandolo a sua volta con l'esigenza del recupero della
natura: « Volete voi vivere “secondo natura” »
-    dice rivolgendosi agli Stoici - un essere come la natura, è « indifferente senza misura..., feconda
e squallida e al tempo stesso insicura, immaginatevi l’indifferenza stessa come potenza - come
potreste vivere voi conformemente a questa indifferenza?... E posto che il vostro imperativo
"vivere secondo natura” significhi, in fondo, lo stesso che “vivere secondo la vita”
-    come potreste voi non vivere così? Perché fare un principio di ciò che voi stessi siete e dovete
essere? » (7, 16 e sgg.). Quando parla del « naturale », è come se Nietzsche parlasse contro i propri
stessi principi: « “Per sé il male ha sempre sortito il grande effetto! E la natura è malvagia!
Siamo dunque naturali!”. Così concludono in segreto i grandi ricercatori d’effetto dell’umanità » (5,
196). Egli esprime nel mondo seguente (già in età giovanile, osservando un temporale) la propria
dedizione alla grandiosa superiorità della natura sul bene e sul male: « io provai un entusiasmo
ineguagliabile... Cos’era mai l’uomo per me, con la sua volontà mai placata! Cos’era per me
l’eterno “tu devi” e “tu non devi”! Quanto diversi il lampo, la bufera, la grandine, forze libere,
senza etica! » (a Gersdorff, 7. 4. 66). Così definisce in seguito, rifiutandolo, « il beneficio... nella
vista della grandiosa indifferenza della natura per bene e male », piuttosto come un tipo
di esperienza della natura da parte dell’« artista nichilistico » (16, 266).
Se Nietzsche vede il « modello grandioso », ossia « l’uomo nella natura, l’essere più debole e più
intelligente, che si fa padrone soggiogando le forze più stupide » (16, 277), e poi pretende « che
d’ora innanzi l’uomo si pianti dinanzi all’uomo, come già oggi... dinanzi all’altra natura » (7, 190),
allora non resta che domandarsi: che cosa è l’uomo stesso? forse natura che soggioga la natura? Ma
per Nietzsche conta piuttosto il « superamento della natura da parte del grande uomo » (14, 291), e
del resto
solo la separazione della creatura stessa dalla sua natura renderebbe possibile la misura proposta da
Nietzsche « di quanto uno possa entro di sé dire di si alla natura » (16, 315).
La « naturalizzazione » rinvia a qualcosa che, per il modo in cui viene espresso, si annulla nelle
contraddizioni. Diventa problematico il fatto che mediante la pura immanenza si possa afferrare
anche solo questa stessa immanenza. Ma è proprio questa pura immanenza che Nietzsche desidera.
L’autodistruzione della concezione nietzschiana del mondo. Che si parli del divenire o della vita
della natura, comunque il processo dell’essere che vi si svolge è per Nietzsche un interpretare o un
essere-interpretato. Il fatto che poi Nietzsche torni però, dopo aver dissolto l’opposizione di mondo
vero e mondo apparente, ad utilizzare l’espressione « mondo apparente » per i mondi che sono il
risultato dell’interpretazione degli uomini e che per questo motivo sono reali (« La questione è se
non ci possano essere ancora molti modi di creare un tal mondo apparente »: 16, 69), è
una contraddizione che Nietzsche non può evitare: il mondo apparente è per Nietzsche il mondo
vero. Il fatto che però egli non possa nel suo linguaggio liberarsi da questo reticolo di distinzioni,
segnala che si tratta di una difficoltà insuperabile, come egli stesso ha esplicitamente ammesso.
Siccome il nostro intelletto, per un verso, si basa sulla visione prospettivistica (come creazione
interpretativa del suo mondo), per fare in modo che esseri della nostra stessa specie possano
mantenersi in vita, mentre per un altro verso è fornito della facoltà di comprendere come
prospettivistica questa stessa visione prospettivistica, allora esso deve sia credere  alla realtà, come
se questa fosse l’unica, sia intendere anche questa credenza come una limitatezza prospettivistica. «
Una fede, guardata con questa penetrazione, non è più fede, è dissolta come fede » (13, 49).
È chiaro che Nietzsche puntualizza qui il suo proprio metodo di interpretazione del mondo. Ma
anche rispetto a questo metodo mantiene un atteggiamento contraddittorio. Mentre da un Iato scopre
in esso la possibilità dello spaziare-al-di-sopra-della-vita e la forza autentica del nostro essere, che è
in grado di dominare l’antinomia (cfr., nel capitolo « La verità », il paragrafo « L’essere che diviene
consapevole al limite »), in una diversa occasione vuole invece rifiutare, come fosse
un’impossibilità logica, questo sapere distruttivo che ha ad oggetto la forma stessa del sapere: « noi
non possiamo pensare il nostro intelletto contraddittorio fino al punto da ritenerlo una fede, e nello
stesso tempo un sapere che questa fede è solo una fede ». La fondamentale distinzione tra il vero e
l’apparente (in Nietzsche non diversa dalla distinzione tra essenza e fenomeno), che egli deve però a
sua volta continuamente adottare, determina invero necessariamente questa interpretazione
contraddittoria del nostro intelletto -quel suo essere interpretazione pur sapendo di essere
interpretazione -, che però Nietzsche rifiuta qui nuovamente (servendosi eccezionalmente solo una
volta della contraddizione come criterio supremo di verità delle proprie tesi). Se pertanto ne
conclude che « eliminiamo la “cosa in sé” e,
con essa, uno dei concetti più oscuri, quello di “apparenza” » (13, 49), ebbene non può a sua volta
compiere questa eliminazione, pur avendo persuasivamente respinto quei contenuti esistenziali che
calunniano il mondo e la vita, e che, denotando una fuga evasiva dal mondo nell’aldilà, per
esprimersi ricorrono ad una qualche forma della teoria dei due mondi. Vi è in Nietzsche un
profondo impulso ad una comprensione chiara ed ampia del mondo, ma questa sembra mostrarsi per
un attimo per poi subito ritornare nebulosa.
Ciò che nella concezione nietzschiana della verità era un circolo esplicito, e dal quale scaturiva
sempre un nuovo movimento, alla fine, nella sua concezione del mondo, diviene il rinnovato
superamento di una metafisica della volontà di potenza (fattasi dogmatica) intesa come
interpretazione in lotta e di volta in volta creduta: le contraddizioni divengono qui paralizzanti e
hanno una cadaverica definitività, senza dar luogo ad un nuovo approccio, a meno di non vedervi
quello della liberazione da questa metafisica - in quanto essa vuole essere qualcosa di piu di una
possibile analogia particolare - con l’intenzione di stabilire fin dove potrebbe ogni cosa sentirsi
apparentata con la volontà di potenza e dove invece questa parentela ha termine.
Nella critica della teoria dei due mondi Nietzsche ha tematizzato esclusivamente la sua forma di
grossolana dicotomia razionale, quella forma da cui effettivamente risulta un vuoto aldilà oppure il
nulla, e gli sono invece sfuggite, nel corso delle sue riflessioni, tutte quelle funzioni delle categorie
di « essenza e fenomeno », « verità ed apparenza », « essere ed esistenza », per le quali esse servono
ad esprimere contenuti esistenziali quali il divenir-trasparenti delle cose o l'essere-cifra del mondo,
senza con ciò stabilire un’alterità al di fuori del mondo. Nello sviluppare questi aspetti del suo
pensiero egli si trovò davanti a tutte quelle ipotesi sull’essere del mondo, nelle quali - proprio come
egli pretende - non si ammette se non ciò che si mostra anche attuale e presente, e nelle quali è però
esclusa la possibilità di ridurre Tessere del mondo a nozioni determinate o a singole categorie: non
c’è un « altro mondo » che dia loro come riflesso un sogno illusorio; il loro riferimento alla
trascendenza per eccellenza (Dio) è alla base dell’essere-sé di coloro che nel mondo giungono a
pensarla.
1 Sulla « teoria » dell’interpretazione per il senso della verità cfr. il paragrafo « La teoria
dell’interpretazione: verità e vita ».
2 Quando Nietzsche afferma che « il fenomeno del corpo è il fenomeno più ricco, piu chiaro, più
comprensibile», ed è «da anteporre metodicamente» (16, 16), oppure che è essenziale muovere dal
corpo e utilizzarlo come filo conduttore, visto che consente l'osservazione più precisa (16, 44),
oppure che seguendo il filo conduttore del corpo si scopre un’enorme molteplicità, e quindi che
bisogna « utilizzate il fenomeno più ricco... come filo conduttore per la comprensione di quello più
povero » (16, 31), non è però chiaro che cosa in definitiva egli intenda dire con « corpo ». Infatti
viene subito dopo inteso di nuovo come il corpo vivente, oggetto della biologia, col che esso
ha perduto il carattere dell’essere che tutto abbraccia. Servirsi del corpo come di un filo conduttore
rimane allora una mera esigenza di metodo. Non a caso Nietzsche se ne è servito solo all’interno di
rappresentazioni assai generali. Il punto di partenza « dal corpo e dalla fisiologia » gli insegna ad
esempio « la rappresentazione giusta della natura della nostra unità soggettiva, cioè come di
reggenti alla testa di una comunità... e inoltre... della dipendenza di questi reggenti dai governati e
dalle condizioni di gerarchia e di ripartizione del lavoro...; così anche che la lotta si esprime nel
comandare e nell’ubbidire » (16, 17 e sgg.). Nietzsche si è limitato a ripetere senza ulteriori
approfondimenti l’antica concezione secondo cui « la vita organica visibile e il potere, il pensare
creativo dell’anima, invisibili, contengono un parallelismo» (13, 58). Ma questa concezione è
problematica come indicazione di un metodo conoscitivo, e per Nietzsche in effetti non ne è
risultata una qualche comprensione più precisa, ma invece la tendenza a toccare di passaggio un
linguaggio biologico quale presunta comprensione.
3 L’« isola dei sepolcri » (6, 160) non è affatto un esempio che possa confutare la nostra tesi,
giacché qui si ha a che fare con un senso totalmente diverso di questa pura e semplice metafora.
301
CAPITOLO SESTO. LIMITI E ORIGINI
Introduzione: la questione fondamentale (teodicea).
L’essere in base all’origine delle «condizioni»: Primo gruppo: l’impulso verso ciò che è superiore.
Secondo gruppo: gli atteggiamenti fondamentali (la distinzione; l'esserci eroico; l’anima
dionisiaca). Terzo gruppo: i modi della consapevolezza dell’essere.
Il si nel contesto della concezione dell’essere: Il divenire. L’eterno ritorno. La teoria dell'eterno
ritorno (1. la sua motivazione; 2. il suo trascendere come superamento della teoria fisica; 3. l’attimo
in cui fu concepito; 4. le sue conseguenze esistenziali; 5. le sue conseguenze storiche; riepilogo: Dio
oppure movimento circolare?). Amor fati.
Il mito in Nietzsche: Il mito della natura. Dioniso.
Introduzione: la questione fondamentale (teodicea)
L’uomo non si pone la domanda su cosa sia Tesserci, senza chiedersi al contempo quale sia il suo
valore. Davanti all’ovvietà del semplice vivere nel mondo, l’uomo può soltanto chiedersi se vive
volentieri o no, se valga la pena di vivere oppure no, se Tesserci non sia meglio di quel che è. Con
queste domande Tesserci viene per cosi dire accusato, ed è condannato oppure giustificato. Se si
presuppone un Dio creatore, questa giustificazione significa una giustificazione di Dio (teodicea);
ma sotto ogni forma, anche quella atea, di immagine dell’essere, la questione si ripropone,
soggettivamente, come la questione del nostro si o del nostro no alla vita, oggettivamente, come la
questione del senso e del valore del mondo.
Nietzsche ha posto in modo originale l’antichissima questione della teodicea, che nell’antichità
raggiunse la sua profondità nel Prometeo di Eschilo e nel Libro di Giobbe, e che in tempi moderni
fu razionalmente trattata da Leibniz. Il suo filosofare riceve l’impulso iniziale dalla questione del
senso e del valore, e consegue il suo compimento nel modo del suo sì all’essere, o piuttosto come
pensiero del sì, che per lui è Tessere stesso.
La questione del valore e del senso dell’esserci non è paragonabile ad alcun’altra questione: solo
tramite essa l’uomo sembra diventare veramente serio. Nietzsche si stupisce del fatto che essa per
lo piu non venga posta, e che la stessa volontà di sapere dell’uomo possa fare il suo corso senza
di essa. Il giovane Nietzsche si meraviglia dell’« uomo scientifico », che si comporta « come se
l’esistenza non fosse una cosa terribile e preoccupante;... ogni passo gli dovrebbe ricordare: a che
scopo? verso dove? da dove?  Ma la sua anima si infiamma davanti al compito di contare gli stami
di un fiore...» (1, 229). Ma se la domanda viene posta, allora il volto dell’esi-
stenza, a chi Io guardi senza veli, è desolante: « l’esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una
cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa » (1, 284 e sgg.). In tale
sguardo al tutto, l’uomo disperato cerca conforto e sostegno. Ma il pensiero riflessivo non fa che
aumentare la sua disperazione, allorché diventa sempre più evidente che l’umanità non ha scopi,
come gli rivela appunto quello sguardo gettato sull’insieme della vita umana (10, 493 e sgg.). Con
la questione del senso e del valore ultimo, la vita ha certo acquisito la sua serietà, in virtù
della possibilità di comprendere propriamente solo ora l’esistenza, ma ha anche perduto la sicurezza
che aveva quando non si poneva tali domande. Tuttavia, per una sostanziale realizzazione
dell’uomo è necessario non già ricadere nell’angusta ed ingenua sicurezza del nascondimento, bensì
conquistare l’originaria certezza esistenziale nella chiarezza dello sguardo rivolto alla totalità
dell’esserci. Con questa prospettiva, Nietzsche può dire, semplificando e oggettivando, che « forse
il più importante scopo dell’umanità » consiste nel fatto « che venga ben misurato il valore della
vita ed esattamente determinata la ragione per cui essa esiste », e di attendere la « comparsa del
supremo intelletto », affinché « questo possa stabilire il valore o non-valore della vita » (11, 13).
Inoltre, per Nietzsche la domanda sul valore dell’esserci non è paragonabile a nessun’altra proprio
perché è propriamente impossibile la risposta. Nietzsche perviene a considerazioni logiche che
mostrano questa impossibilità, allorché i giudizi di valore assumono una forma oggettivante; da
questo punto di vista, egli rifiuta pertanto i giudizi di valore sulla vita, Tesserci, il mondo nella sua
totalità.
Per essere capaci di un tale giudizio, si dovrebbe innanzitutto avere un punto di osservazione, dal
quale poter gettare uno sguardo sul tutto. « Si dovrebbe avere una posizione al di fuori della vita...
per poter toccare in generale il problema del valore della vita » (8, 88 e sgg.). Ma siamo invece
dentro alla vita e dunque non possiamo avere quella immaginaria posizione. Il tutto, per di più, non
ha alcun criterio al di fuori di se stesso, non ha alcun valore, né positivo né negativo, « perché
manca qualcosa con cui misurarlo, e in riferimento a cui la parola “valore” abbia senso. Il valore
complessivo del mondo non è valutabile » (16, 168).
Inoltre, per poter valutare, si dovrebbe conoscere la vita « tanto bene come l’ha conosciuta quel tale
o quei molti o tutti coloro che l’hanno vissuta » (8, 88).
L’errore fondamentale nel compiere qualsiasi valutazione complessiva è quindi, di fatto, che in ogni
valutazione il criterio per il tutto del mondo viene assunto da un criterio particolare che si trova
all’interno del mondo stesso. È « un’ingenuità postulare come sommo valore il piacere o
l’intelligenza o la moralità o un qualsiasi altro settore della sfera della coscienza, e forse addirittura
giustificare “il mondo” in base a tali cose » (16, 165).
Da queste obiezioni fondamentali risulta che « tutti i tentativi di determinare il valore della vita
sono sbagliati » (14, 312), e che « tutti i giu-
dizi sul valore della vita sono svolti illogicamente e sono pertanto ingiusti » (2, 49).
Per quanto comprenda e sia convinto di tale impossibilità, Nietzsche formula tuttavia dei giudizi di
valore.
Da una parte, egli vuole appassionatamente la vita, e dall’altra si chiede invece: come potrei amare
ancora la vita? Egli riconosce: « Io non voglio più la vita... Che cosa mi fa sopportare la sua vista?
Lo sguardo al superuomo, che afferma la vita. Io stesso ho tentato di affermarla - ahimè! » (12,
359).
Il fatto che la convinzione dell’impossibilità di una risposta non impedisca, di fatto, la risposta
stessa, e che qualcosa nell’uomo, nonostante l’impossibilità logica della domanda, imponga la
risposta, rimanda ad un fondamento della domanda e della sua risposta, che è più profondo di
ogni convinzione. Il sì ed il no all'esserci non avvengono sulla base di conoscenze motivate e
motivabili, ma sono invece un fare della vita stessa. Nietzsche giunge quindi al fondamento del suo
filosofare nella misura in cui mette in discussione la domanda stessa sul valore della vita, il
fatto che essa venga posta, e le diverse risposte. Anziché riproporre la domanda sul valore
dell’esserci, egli si interroga sul valore della domanda e sul valore del si e del no alla vita, per
pervenire in tal modo alle origini, dove si mostrerà l’inoppugnabile, certamente imparziale sì
all’esserci.
Nel corso di questo filosofare Nietzsche giunge dapprima ad una soluzione apparentemente
semplice, allorché concepisce la domanda e la risposta negativa soltanto come un segno della vita
declinante. Zarathustra, turbato, si chiede: « Qualcosa di ignoto mi avvolge e guarda pensoso a me.
Come! Tu vivi ancora, Zarathustra? Perché? Per chi? Con che? A che? Dove? Come? Non è follia,
vivere ancora? »; e, subito, egli aggiunge: « Ahimè! amici, è la sera che mi mette in bocca queste
domande. Perdonatemi la mia tristezza! » (6, 159). Ciò che in questo modo viene concepito come
debolezza di uno stato d’animo diventa sintomo di una determinata specie di vita, se questa,
muovendo dalla sua solida costituzione, formula simili giudizi di valore sul tutto: « Una condanna
della vita da parte di un vivente finisce per restare, insomma, nient’altro che il sintomo di una
determinata specie di vita » (8, 88). Essa è « il segno del vinto » (14, 96), dei malati e dei decadenti.
All’obiezione che « in ogni tempo i saggissimi hanno giudicato la vita allo stesso modo », e che «
persino Socrate, sul punto di morire, diceva: “Vivere - vale a dire essere lungamente malati...” »,
Nietzsche ribatte: « Che cosa prova questo? Che cosa vuole indicare?... questi saggissimi di tutti i
tempi... forse non erano piu, tutti quanti, saldi nelle gambe? » (8, 68). Se in tal modo « la vera
valutazione della vita dipende dagli stati d’animo di gran lunga dominanti » (13, 218), Nietzsche
esige: « Il giudizio supremo sulla vita soltanto dalla suprema energia della vita... I deboli, i poveri di
spirito non debbono giudicare la vita » (10, 420). Egli si scaglia anche contro il problema del valore
della vita, poiché esso mostra una « preoccupazione per la sofferenza ». Nietzsche obietta: « Gli
uomini valorosi e creativi non concepiscono mai il piacere e il dolore come problemi ultimi...,
bisogna volere entrambi... Nel fatto di porre in primo piano i problemi del piacere e del dolore, si
esprime qualcosa di stanco e di malato nei metafisici... » (16, 75).
Se questa fosse la conclusione della filosofia di Nietzsche, potremmo dire che si tratta di un esito
ben poco rilevante. Infatti, qualcosa di particolare nel mondo, un punto di vista per la scoperta di
fatti biologici diverrebbe il criterio dell’esperienza al limite. Ma il filosofare di Nietzsche, anziché
arenarsi nella dottrina della decadenza, segue invece il suo corso, alla ricerca di origini che debbono
essere colte in modo ben piu profondo.
La questione fondamentale, impossibile sul piano di una concezione fondata razionalmente,
addirittura ridotta a un sintomo e obiettivamente scartata sul piano di una trattazione biologica o
medica, viene invece ripresa al di là della ragione, e si presenta a Nietzsche nella sua autentica
serietà.
La critica della ragione da parte di Nietzsche (cfr. il paragrafo « La dissoluzione della ragione » nel
capitolo « La verità ») significa in primo luogo: l’essere non è essere-ragione; in secondo luogo: con
la nostra ragione non raggiungiamo l’essere. Se però la ragione non è l’essere, e neppure lo
raggiunge, allora è mai accessibile l’essere? Come si è visto, i pensieri di Nietzsche sembrano
sempre terminare nel vuoto: i suoi concetti di verità, il suo concetto dell’uomo, la sua visione
storica, tutti finiscono in opposizioni, o in simboli indecifrabili, o in espressioni che, pur fornendo
un’indicazione, rimangono però non-concrete. La sua « grande politica », così ricca di intuizioni,
nel suo insieme non è una via concreta, e termina in un indeterminato « creare »; la sua dottrina
della volontà di potenza è una metafisica che assolutizza momentaneamente qualcosa di particolare
nel mondo, pur nella consapevolezza dell’errore di questo metodo. Abbiamo visto le sue
divagazioni positivistiche e naturalistiche, che non dicono piu nulla nel momento in cui si deve
trovare il compimento filosofico del pensiero di Nietzsche (ed egli stesso scherni sempre ogni
positivismo). Ed anche ciò che abbiamo visto finora della sua filosofia affermativa e propositiva
non è ciò di cui Nietzsche ha realmente vissuto. Ora, il salto decisivo del suo filosofare consiste nel
fatto che laddove, seguendo la ragione, Nietzsche sembra imbattersi nel vuoto, proprio in quel
punto gli si mostra ciò che è autentico. Ciò che alla ragione sembra non dire nulla, costituisce la
sorgente vitale dei suoi pensieri che, in quanto meramente tali, si dissolvono. Sorge allora la
domanda: questo essere come trova il suo reale compimento, per Nietzsche, non già in dottrine
dogmatiche ed istanze determinate, che egli rimette sempre in discussione, ma appunto in modo
effettivo? Tale compimento si mostra, al di là di ogni ragione, nell’essere di cui Nietzsche diviene
consapevole: nell’essere che egli stesso veramente è, e che gli consente di percepire l’appello che
orienta il suo comportamento e la sua azione; nell’essere dal quale ha origine il corso dei suoi
pensieri ed al quale egli ritorna. Il « vuoto » di cui si diceva, continua a persistere in Nietzsche
soltanto finché ci dimentichiamo di questo essere presente in lui, o finché non troviamo alcun
rapporto con esso.
Come Nietzsche, nel suo filosofare, raggiunga alla fine l’essere, proprio laddove la ragione non è
origine e non dà una risposta, ma diventa semmai soltanto uno dei mezzi della comunicazione
dell’essere: ebbene, questa positività, che è presente ed attraversa tutta la sua opera, - e che non si
limita a ciò che può essere conosciuto metodicamente - può ormai essere esposta.
Il si decisivo, che non è possibile conseguire con il sapere e con i fondamenti razionali della
conoscenza, scaturisce dall’essenza. L’affermazione si attua realmente nella forma di ciò che
Nietzsche chiama « Zustand » (condizione, stato).1 Si può indicarlo psicologicamente come stato
d’animo, eticamente come atteggiamento; ma è l’essere che tutto abbraccia (das Umgreifende), e
quindi è di più di ciò che sono gli stati d’animo indagati psicologicamente e gli atteggiamenti che
assumono un significato etico. È Tesserci dell’esistenza che, come tale, non diventa mai
sufficientemente oggetto; è la possibilità di manifestarsi dell’essere, che è esso stesso la sua propria
esperienza, e che non è nulla senza questa esperienza di sé, non sperimenta qualcos’altro di
estraneo, ma sperimenta tramite sé solo ciò che esso stesso è in generale. Esso è fondamento,
origine e limite di ogni nostra coscienza dell’essere ed in ciò del nostro si e del nostro no all’esserci.
Nietzsche, che ha definito « condizione » ciò che noi chiamiamo l’essere che tutto abbraccia, vede
in essa l’« origine del pensiero »; nel pensiero « si esprime, attraverso dei segni, qualcosa della
nostra condizione complessiva » (14, 41).
Il pensiero non può dunque estorcere l’essenziale della coscienza dell’essere, dato che, semmai, ne
è esso stesso il prodotto. Quindi, anche « il valore ultimo dell’esistenza non può essere una
conseguenza della cognizione », bensì è esso stesso « condizione, presupposto della conoscenza »
(14, 14).
Poiché le condizioni sono molteplici, riguardo alla loro possibilità Nietzsche può comportarsi
affermativamente o negativamente, a seconda della loro specie. Egli può rifiutarle: « Noi diffidiamo
di tutte quelle condizioni estatiche ed estreme, in cui si crede di “toccare con mano la verità” » (14,
15); egli si volge « contro ogni adagiarsi in condizioni contemplative » (16, 311); contro
l’aspirazione « a una forma di esistenza extraumana, divina », che in effetti è « estasi » o « sonno
profondo » (13, 75). Egli può vedere un beneficio in quegli stati che, come tali, portano alla luce
l’origine dell’essere: « gli stati dell’anima come le conquiste finora più alte » (14, 322). Ma per lui
nessuna condizione è quella assoluta: «Non dobbiamo volere una condizione» (14, 267). Egli può
essere fiero del fatto che « la molteplicità delle condizioni interiori » in lui « è straordinaria » (15,
56), e vedere nella realizzazione di un’opera filosofica il suo compito: « le diverse condizioni
sublimi, che io ho, sono alla base degli argomenti dei diversi capitoli - come regolatore
dell’espressione, del discorso, del pathos  che dominano in ogni capitolo -, in modo da conseguire
un’immagine del mio ideale... » (12, 427).
Ne consegue la constatazione che non si può imparare che cosa sia un filosofo, ma « lo si deve
sapere », e precisamente attraverso le proprie esperienze e « stati filosofici » (7, 164). La filosofia
non è nient’altro che l’« espressione di uno stato dell’anima straordinariamente alto » (14, 322), e
l’amore per la filosofia è « amore per uno stato, un sentimento di perfezione intellettuale e sensibile:
un’affermazione e approvazione, dovuta a uno straripante sentimento di potenza plasmatrice » (13,
75). La qualità degli stati e quella dei problemi sono interdipendenti: « Esiste infine una gerarchia
degli stati interiori cui corrisponde la gerarchia dei problemi: e i problemi più alti respingono senza
pietà colui che osa avvicinarvisi senza essere predestinato a risolverli dall’elevatezza e
dalla potenza della sua spiritualità » (7, 165).
La condizione diventa evidente nella comunicazione. Pensiero e simbolo sono l’espressione delle
condizioni originarie, autonome e soltanto interpretative della consapevolezza dell’essere.
La comunicazione si attua in forme concettuali che indubbiamente, se considerate come sapere
razionale, sarebbero futili, ma in quanto espressione del loro fondamento rivelano un’insostituibile
verità a colui che vi si accosta muovendo dal suo proprio essere. Le dottrine di Nietzsche si
scindono allora per noi, in base ad un criterio in definitiva non razionalizzabile, in quelle che sono
realmente espressione dell’originaria condizione dell’essere o del contatto con l’essere, e in quelle
che sfociano entro la scia della mera obiettività come presunto sapere della realtà, alla maniera della
metafisica dogmatica prekantiana.
Oppure, la comunicazione si attua in immagini che, senza concettualità o con il concorso solo
parziale di essa, esprimono in forma mitica il sì dell’essere. Natura e paesaggio, elementi e vita
diventano linguaggio. Apoteosi, racconto, simboli e canto dicono le stesse cose del pensiero, ma
avvincendo immediatamente, mentre il pensiero conferisce peso ed unità a questa forma poetica di
comunicazione.
L’essere in base all’origine delle « condizioni »
Quei pensieri che non comunicano la possibilità di un sapere vincolante delle cose nel mondo sono
o giuochi razionali, oppure espressione di un fondamento che li sovrasta, e che conferisce ad essi
stessi direzione e contenuto. Quindi, il loro significato, in quanto oggettivamente indipendente, non
può essere adeguatamente compreso: colui che intende deve udire dal suo proprio fondamento ciò
che viene risvegliato da quei pensieri.
I pensieri di Nietzsche sgorgano dalle sue proprie condizioni, e pertanto nessuno di essi diventa
accessibile al lettore che non partecipi egli stesso alla medesima condizione a partire dalla quale
Nietzsche lo aveva pensato. Ma le condizioni stesse non possono diventare un vero e proprio
oggetto del pensiero, poiché è soltanto da esse, in quanto incommensurabile fondamento, che
nascono ogni pensiero oggettivo ed ogni azione determinata. Nietzsche sostiene dunque che non si
può assumere nessuna di queste condizioni come scopo; ed aggiunge la seguente richiesta: « Primo
principio della mia morale: non si deve aspirare ad alcuna condizione, né alla propria felicità, né
alla propria tranquillità, né al proprio autodominio » (12, 137). Ma quando si filosofa entrano in
campo le condizioni: Nietzsche parla anche delle condizioni, e le caratterizza non indirettamente,
bensì direttamente: le descrive, e delinea il loro ideale. Il senso di questa descrizione diventa,
ciononostante, soltanto l’appello alla loro possibilità, dunque un indiretto poter essere. È chiaro,
quindi, che nessuna delle condizioni che Nietzsche ha in mente può essere un mero stato d’animo o
una mera esperienza vissuta. Esse sono piuttosto ciò che sovrasta e penetra, sono l’origine degli
impulsi che dominano la vita: in esse e nel loro movimento, l’esistenza giunge alla coscienza di se
stessa e dell’essere. Ma se la descrizione si serve inevitabilmente di mezzi psicologici, allora può
facilmente accadere che le condizioni siano erroneamente trasformate in stati di fatto meramente
fisici. Questo equivoco attribuito a Nietzsche deve essere chiarito esplicitamente, se vogliamo
evitare ulteriori malintesi: è ciò che tentiamo appunto di fare, riassumendo qui di seguito in una
sintetica rassegna le condizioni di cui parla Nietzsche, viste nel loro significato filosofico.
Primo gruppo: l'impulso verso ciò che è piu vasto, più elevato, più lontano, teso cioè al movimento
dell’incessante superamento. Questo movimento significa anzitutto la condizione della negazione di
tutti i vincoli; un completo distacco da tutto era appunto l’ideale di Nietzsche dello spirito libero: «
gli basta, come stato massimamente desiderabile, quel libero, impavido librarsi al di sopra
degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle valutazioni tradizionali delle cose » (11, 9); questa
condizione di completo distacco implica i seguenti aspetti: « Non si deve restare attaccati a una
persona: fosse anche la più amata - ogni persona è un carcere... Non si deve restare attaccati a una
patria... Non si deve restar attaccati a un senso di compassione... Non si deve restare attaccati alle
nostre proprie virtù e sacrificare noi stessi come totalità a una qualche singola parte... » (7, 61 e
sgg.).
Ma questa condizione, che in tal modo dissolve ogni esistenza e sradica da ogni storicità, e che
come riposo sarebbe il nulla, come movimento si realizza solo attraverso un incessante negare, e si
attua in una nuova forma. Nietzsche parla di quel misterioso « pathos », « quel desiderio di un
sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, l’elaborazione di
condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste » (7, 235). Il
movimento come tale diventa esso stesso la positività di un illimitato superamento: « E se ormai ti
sono venute a mancare tutte le scale, bisogna che tu sappia salire sul tuo capo... È necessario
imparare a distogliere lo sguardo da se stessi, per vedere molto... - sempre più in alto, finché anche
le tue stelle si trovino al di sotto di te! Sì! Guardar giù verso me stesso e persino verso le
mie stelle:... questo mi è ancora rimasto come la mia ultima vetta! » (6, 224 e sgg.).
Questo originario movimento esistenziale è « qualcosa di leggero, di divino e di strettamente affine
alla danza, alla tracotanza » (7, 165). Nella « canzone
di danza » Al maestrale (5, 360 e sgg.), il movimento si unisce al vento. Ma, scrive Nietzsche,
nessuno creda « che si possa un bel giorno balzare improvvisamente e a piè pari in una tale
intrepida disposizione d’animo », di cui questa canzone può essere il « simbolo; una tale intrepida e
sfrenata gaiezza non fa parte del mio carattere » (14, 406).*
Zarathustra esprime in questo movimento il proprio sentimento di unità con l’essere: « La mia
grande nostalgia dal volo tempestoso... talvolta accadeva che... essa mi trascinasse via e in alto...
laggiù in futuri remoti... Dove il divenire tutto mi sembrò una danza e un ilare scherzo di dèi, e il
mondo sciolto e sfrenato e rifluente in se stesso: - come l’eterno sfuggirsi e ricercarsi di molti dèi,
come beato contraddirsi... » (6, 288 e sgg.).
Qualunque forma assuma tale movimento, in quanto mero movimento sembra dissolvere l’uomo.
Esso non mostra ancora contenuti determinati. Nella sua negatività è infinito e, solo in quanto tale,
ha la sua essenza positiva. Nel loro contenuto più determinato, legato all'esserci dell’uomo, le
condizioni delineate da Nietzsche sono principalmente quella dell’atteggiamento nobile e distinto,
dell’eroismo, e dell’anima dionisiaca.
Secondo gruppo: gli atteggiamenti fondamentali. Gli scritti di Nietzsche sono ricchi di
caratterizzazioni dell’agire umano. In ciò egli si oppone risolutamente all’etica tradizionale e
comunemente accettata, alla « virtù », allo « spirito di gravità », alla falsità e miseria spirituale. Ma,
nella sua lotta contro la « morale », Nietzsche non aspira ad una vita pura e semplice, bensì ad
una morale più elevata. Egli si riferisce agli atteggiamenti fondamentali di un’esistenza possibile e
sviluppa il suo proprio ethos anzitutto in tre direzioni.
a) La distinzione: essa si fonda su un imperturbabile, « silenzioso » essere-se-stesso. L’essere
distinto, infatti, semplicemente « è »: i nobili sono i « veritieri, che non hanno bisogno di simulare »
(11, 256). Poiché esistono muovendo da un fondamento in cui essi confidano, non hanno neppure
bisogno di mettere in discussione se stessi: « l’agire e giudicare istintivo fa parte delle buone
maltiere; analizzarsi e rodersi l’anima non è nobile » (14, 111).
Nei rapporti in pubblico, l’uomo aristocratico non mostra, bensì rappresenta se stesso. Egli ha « il
pathos della distanza » (7, 235). E' quindi segno di distinzione « cercare situazioni in cui si ha
costantemente bisogno di assumere un atteggiamento » (16, 332); è aristocratico « il piacere delle
forme », « la diffidenza per tutte le specie di abbandono » (16, 331), « il gesto lento, anche
lo sguardo lento » (16, 330). L’aristocratico ha « tutte le ragioni di munirsi di facciate » (16, 332).
Dall’essere-se-stesso risultano gli ulteriori contrassegni dell’essere distinto: esso non cede. È
dunque segno di distinzione « la sopportazione della povertà e del bisogno, anche della malattia. Il
rifuggire dai piccoli onori... il saper tacere... Il sopportare le lunghe inimicizie; il non essere
facilmente riconciliabili » (16, 330 e sgg.).2
L’anima nobile può osare di esporsi al cattivo volere degli altri: essa con-
siste pertanto in quella « mancanza di diffidenza » che può mettere in pericolo o rovinare il nostro
esserci, e dunque « contiene proprio ciò di cui gli uomini avidi e arrivati parlano così volentieri con
superiorità e scherno » (2, 365); ma Tesserci e il successo non sono i criteri della nobiltà. Per essa
vale piuttosto questo principio: « E' piu nobile darsi torto che farsi dare ragione, specie quando si ha
ragione. Solo, bisogna essere abbastanza ricchi per far ciò» (6, 100). Chi è nobile non farà provare
vergogna a nessuno (6, 100; 5, 205).
È inoltre segno di distinzione e nobiltà, dato che la potenza della sua essenza lo consente, non
eludere, con preoccupazione e per calcolo, i diritti altrui. L’anima nobile si sente « volentieri
obbligata alla riconoscenza » e non si sottrae « timorosamente alle occasioni da cui deriva un
obbligo » (2, 289).
Distinto è dire di sì, amare, frequentare colui che posso apprezzare ed amare. L’anima nobile «non
sa vivere senza onorare» (15, 93). Non è capace di dire di no, se prima non ha detto di sì; quando
non resta assolutamente piu nulla che possa amare, allora vale per essa: « dove non è più possibile
amare, bisogna - passare oltre! » (6, 262).
Dell’anima nobile ci si può fidare; tale anima non è infatti quella « che è capace dei voli più alti, ma
quella che si alza poco e si abbassa poco, e abita però sempre in un’aria e ad un’altezza libere e
luminose » (3, 180 e sgg.). Scrive Nietzsche: « Non è già la forza, bensì la durata di un alto sentire
che fa gli uomini superiori » (7, 94). Il segno distintivo della nobiltà è quello « di non aver paura di
sé, di non aspettarsi niente di ignominioso da sé » (5, 225).
L’anima nobile ha « una certa sicurezza di base... riguardo a se stessa, qualcosa che non si può
cercare né trovare e forse neppure perdere. - L’anima nobile ha un profondo rispetto per se stessa »
(7, 267). Ma: « È nobile vergognarsi delle nostre cose migliori, perché soltanto noi le abbiamo »
(12, 225).
L’uomo aristocratico trova in se stesso la propria pienezza e sostanza, ed ha quindi « la capacità di
stare in ozio » e la « convinzione che in ogni senso un mestiere invero non disonora, ma
sicuramente snobilita »; egli non considera come la cosa migliore la « “laboriosità” nel senso
borghese », per quanto sappia onorarla e valorizzarla (16, 331).
Anche se la distinzione sembra sempre in Nietzsche anche un fatto sociologico e psicologico, e si
presta dunque ad esser considerata come l’indicazione di una mera realtà, non deve però farci
perder di vista l’originaria intenzione dell’appello all’esistenza: essa è infatti l’espressione di un
atteggiamento indiscutibile, in quanto è una condizione affermata e che afferma se stessa.
b) L'esserci eroico: poiché Tesserci dell’uomo come tale non è per Nietzsche definitivo, ma deve
essere superato, l’uomo può essere solo preparazione e transizione, e dovrà soccombere. Egli può
conoscere ed assumere nella sua volontà questa necessità. Per questo Nietzsche definisce « eroica
grandezza » la « condizione unica di coloro che preparano ». In loro vi è « l’aspirazione alla
rovina assoluta come mezzo per sopportare se stessi » (14, 267). « L’eroismo è la buona volontà di
perire noi stessi in modo assoluto » (12, 295).
Il fondamento dell’eroismo non è però la volontà di soccombere come tale, bensì l’unicità dello
scopo da cui tutto dipende: « Eroismo - è il sentimento di un uomo che aspira a un fine, rispetto al
quale egli medesimo non conta più » (12, 295). « Il vedere una sola cosa, il trovare in essa l’unico
motivo di agire, la misura di tutto il resto dell’agire, fa l’eroe », ma - aggiunge subito dopo
Nietzsche - « anche il fanatico... » (3, 355). Non è eroica l’aspirazione al sacrificio, che vuole il
nulla e la cui causa sono le parole, bensì il coraggio di sacrificarsi, che vuole Tessere e la cui causa
è sostanziale: « Nell’eroismo si
tratta dell’abnegazione..., e precisamente quella di ogni giorno e di ogni ora, e ancora per molto di
piu\ tutta l’anima deve essere piena di una sola causa, e vita e felicità devono essere indifferenti
rispetto ad essa » (a Rée, schizzo: Lettere alla sorella, p. 505).
Non solo l’eroe, rispetto alla propria causa, non conta piu, bensì la causa stessa, in quanto è il suo
unico scopo, deve annientarlo in conformità al destino dell’esserci: « L’ideale che ho creato io
stesso richiede da me certe virtù, cioè di perire a causa della virtù. Questo è eroismo » (13, 124); ciò
che « rende eroici » è dunque « muovere incontro al proprio supremo dolore e insieme alla propria
suprema speranza » (5, 204).
Queste definizioni dell’eroismo non sono sufficienti; esse potrebbero dar adito ad equivoci, e sono
vere soltanto se di esse è portatore l’essere-sé assolutamente indipendente: « L’eroico consiste in
ciò, che si fanno cose grandi (o, in maniera grande, non si fa qualcosa) senza sentirsi in gara con gli
altri e davanti agli altri. L’eroe porta il deserto e la sacra invalicabile zona di frontiera sempre con
sé, dovunque vada » (3, 368). Mentre « la maggior parte degli idealisti » fanno « subito propaganda
per il loro ideale, quasi che non potessero aver diritto ad un ideale nel caso in cui non fosse
riconosciuto da tutti », per l’eroe vale invece il seguente principio: « Il vero eroismo consiste nel
non lottare sotto la bandiera dell’abnegazione, della dedizione, del disinteresse; consiste nel
non  lottare affatto... “Così sono io; così voglio io: che il diavolo vi porti!” » (15, 395).
L’uomo eroico non è l’uomo che diventa patetico: « Diventar patetici vuol dire: ritirarsi di un passo
» (11, 326). Lo differenzia il fatto che « si vergogna del pathos » (11, 327).
La determinazione fondamentale dell’eroismo è il pericolo, e l’impulso fondamentale dell’esserci
eroico è il voler vivere pericolosamente, perché cosi deve essere; « il segreto per raccogliere
dall’esistenza la fecondità piu grande... si esprime cosi: vivere pericolosamente! » (5,215).
Zarathustra ama il funambolo, perché - come gli dice - « tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere »
(6, 23). Solo il continuo pericolo che l’eroismo si impone è ciò che rende veramente liberi: «
Che cos’è, infatti, la libertà? Avere la volontà d’essere autoresponsabili. Mantenere saldamente la
distanza che ci separa. Divenire indifferenti agli stenti, alle avversità, alla privazione, persino alla
vita... Si dovrebbe cercare il massimo tipo di uomo libero laddove viene costantemente superata la
massima resistenza:... il grande pericolo fece di loro qualcosa che merita rispetto...» (8, 149-150).
La necessità del pericolo vale anche proprio per ciò che è apparentemente piu lontano dal rischio,
cioè per la scienza: « Mi si è sussurrato qualcosa della tranquilla felicità della conoscenza - ma io
non lo trovavo vero, ed anzi ora lo disprezzo. Io non voglio più una conoscenza senza pericolo» (11,
385). In contrapposizione all’indifferenza di un sapere qualunque, Nietzsche ha sperimentato ciò
che vi è di minaccioso nel sapere. Solo quando il sapere non è una semplice occupazione, bensì la
rivelazione dell’essere per l’originaria volontà di sapere, è necessario avere coraggio: sapere aude!
Solo con il vero sapere inizia per Nietzsche il massimo pericolo della vita, che gli spensierati non
conoscono: « Voi ignorate del tutto quel che state vivendo, correte come ebbri attraverso la vita e di
tanto in tanto piombate giù da una scala. Ma con tutto ciò, grazie alla vostra ebbrezza non vi
spezzate le ossa... Per noi la vita è un pericolo più grande: noi siamo di vetro - guai se ci urtiamo! E
tutto è perduto, quando noi cadiamo! » (5, 181). La scienza ha per lui valore solo in quanto sia
animata da questo fondamento che accresce il pericolo della vita: « Voglio far sì che ci sia bisogno
dello stato d'animo eroico per dedicarsi alla scienza » (11, 170).
« Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? questa è diventata la mia vera
unità di misura, sempre più... L’errore è viltà... finora solamente la verità è stata proibita sempre, per
principio » (15, 3).
L’autocoscienza eroica propria di Nietzsche nasce dalla solitudine che lo circonda. La sua solitudine
è tanto piu difficile da sopportare, quanto più il suo compito - cioè quello di essere un destino, nel
momento in cui comprende la catastrofe, che deve portare il suo tempo al movimento di reazione
contro il nichilismo - lo spinge alla comunicazione. Se l’« eroico portatore di pesi » di questo
compito si attende che qualcuno gli venga incontro « con una sola briciola di sofferenza e di
passione », e che qualcuno lo comprenda, imparerà alla fine « a non aspettare più; e poi... ad essere
affabile, ad essere modesto, a sopportare d’ora in poi tutti, a sopportare tutto - insomma, a
sopportare ancora un po’ di più... » (16, 347).
Ma l’eroismo in sé non è per Nietzsche ciò che vi è di più alto: « Per quanto riguarda “l’eroe”: io
non ne penso cosi bene quanto Lei. Comunque: è la forma più accettabile dell’esistenza umana,
specialmente quando non si ha altra scelta » (a H. von Stein, 12. 82).
c) L’anima dionisiaca: essa sta ad indicare quell’uomo che, con la più completa disponibilità e
versatilità, a tutto si accosta e tutto può assumere in sé, e, non conquistando ma mutando se stesso,
diventa realmente tutto ciò che incontra, si prende tutto ciò che ha essenza, e si dedica ad esso senza
perdersi. Soprattutto in due luoghi Nietzsche descrive quest’anima: laddove parla del « genio del
cuore » (cfr. l’« Introduzione ») e nel seguente passo dello Zarathustra: « L’anima.., che ha la scala
più lunga e può giungere alla maggiore profondità... - l’anima dall’estensione più ampia, che dentro
di sé può correre ed errare e vagare nelle più vaste lontananze; la piu necessaria, che per suo piacere
si precipita nella casualità: - l’anima che è, e che si immerge nel divenire; l’anima che ha, e che
vuole gettarsi nel volere e nel desiderio: - che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta;
l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto: - la più capace di amare se stessa, in cui
tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso... » (6, 304). L’essenziale di quest’anima
consiste « nella facilità della metamorfosi, nell’incapacità di non reagire »; l’uomo dionisiaco «
possiede nel massimo grado l’istinto del comprendere e dell’indovinare come pure, nel più alto
grado, l’arte della comunicazione » (8, 124 e sgg.).
Nietzsche vede in quest’anima dionisiaca (specialmente laddove la caratterizza come « genio del
cuore ») l’illimitata dedizione a ciò che vi è di più profondo nell’uomo, alla sua possibilità
esistenziale, grazie ad un amore chiaroveggente che si diffonde in tutto ciò ohe incontra. È il sì
all’uomo, ma non ad un uomo qualunque, ad un’umanità senza contenuto; si tratta invece di un sì
che, nell’origine nascosta dell’uomo, scopre, prende e fa crescere ciò che è degno di essere
affermato.
Gli atteggiamenti etici fondamentali — della distinzione, dell’eroismo, dell’anima dionisiaca - sono
per Nietzsche espressione di un’essenza che persiste in essi, si rende disponibile, si rivela. La
condizione perfetta, tuttavia, sarebbe quella dell’autentica consapevolezza dell’essere.
Terzo gruppo: i modi della consapevolezza dell’essere. È possibile parlare di queste condizioni
soltanto con un linguaggio indiretto, con simboli e metafore. I vari tentativi compiuti da Nietzsche
in tal senso fanno dubitare che egli pensi sempre alla medesima cosa. Sembra piuttosto che
avvenga, nel corso dello sviluppo del suo pensiero, anche un cambiamento nella sua esperienza
dell’origine
dell’essere. Noi distinguiamo qui di seguito tre stadi: la visione contemplativa, l’unificazione
mistica dell’essere, l’ebbrezza dionisiaca.
1.    Nella visione contemplativa l’uomo veritiero sperimenta ciò che egli stesso e l’essere è, ossia
«la grande illuminazione sull’esistenza» (1, 438): « Qualche cosa di inesprimibile, di cui felicità e
verità sono soltanto imitazioni idolatriche, gli si avvicina; la terra perde la sua gravità; gli
avvenimenti e le potenze della terra diventano un sogno... Per il contemplatore è come se
proprio allora cominciasse a svegliarsi... » (1, 432). L’uomo « penetra nella pura gelida aria alpina,
là dove non sono piu nebbie né veli e dove la costituzione fondamentale delle cose si esprime
rudemente e rigidamente, ma con intelligibilità inevitabile », dove il suo sguardo si diffonde «
sull’incredibile geroglifico dell’esistenza, sulla teoria pietrificata del divenire ». L’uomo si
trasforma: « pensando a ciò, l’anima diventa solitaria ed infinita;... la sua condizione, quella nuova
ed enigmatica emozione senza eccitazione... », si diffonde « come luce ardente e vermiglia,
riversantesi sul mondo» (1, 438-439). È come se l’uomo si ribellasse a quest’incredibile esperienza,
nella quale soltanto diventa veramente uomo. Sembra che tutte le nostre istituzioni siano state create
soltanto per rifuggire dal nostro vero compito. « Ogni attimo della vita vuol dirci qualche cosa, ma
noi non vogliamo ascoltare questa voce spettrale... E così odiamo il silenzio e ci stordiamo ». Tutti
hanno fretta, perché ognuno sta fuggendo da se stesso, e per paura del ricordo e
dell’interiorizzazione si sforza di cacciarli dalla memoria con movimenti e suoni violenti. Se poi ci
capita di risvegliarci anche per un solo momento, siamo troppo deboli per sopportarlo. Ma poiché
con la nostra sola forza non riusciamo in alcun modo a stare svegli in quegli attimi fuggenti,
andiamo a cercare coloro che possono sollevarci all’autentico essere dell’uomo: «Sono quegli
uomini veri, quei non-piu-animali, i filosofi, artisti e santi» (1, 436-438).
Ciò che Nietzsche ha in mente con la condizione filosofica delineata in questo modo, contiene il
germe della sua successiva consapevolezza dell’essere. Ma, mentre questo si comunicherà in base
all’origine della sua propria esperienza, Nietzsche esprime qui il proprio pensiero ancora sulla base
del pensiero dei grandi filosofi; per questo egli si esprime in modo descrittivo, con un linguaggio
ricco e variegato, entrando in profondità solo in singole frasi, ma è come se il vero gli sfuggisse,
simile ad una illusione romantica. Nella misura in cui vengono descritte come meramente
contemplative, come un sapere dell’essere, le condizioni sono proprio ciò che Nietzsche in seguito
non ritiene idoneo per la completa rivelazione dell’essere: « Chi vede nell’“oggettività”, nella
“contemplazione" lo stato supremo..., non sa abbastanza » (13, 16).
2.    Nel tempo in cui scrive lo Zarathustra, Nietzsche è ormai cambiato: ha provato nuove
condizioni di una unificazione mistica dell'essere, che egli rappresenta e traduce in linguaggio
poetico. Si tratta dei capitoli dello Zarathustra « Mezzogiorno » (6, 400 e sgg.: « Zitto! Zitto! Non
divenne proprio ora perfetto il mondo?... Che mi è accaduto: ascolta! È volato via il tempo? -Non
cado? Non sono caduto - ascolta! nel pozzo dell’eternità? »), « Il ritorno a casa » (6, 269 e sgg.), « I
sette sigilli » (6, 334 e sgg.), e infine della parte del « canto ebbro » (6, 464 e sgg.).
La perfezione del mondo diventa presente. Si sperimenta il si, in cui è accolto tutto ciò che è. È
l’amore per l’essere nella sua eternità:
« Uomo sii attento!
Che dice la mezzanotte profonda?
“Io dormivo, dormivo -,
Da un sonno profondo mi sono risvegliata: -
Profondo è il mondo,
E più profondo che nei pensieri del giorno.
Profondo è il suo dolore -,
Piacere - più profondo ancora di sofferenza:
Dice il dolore: perisci!
Ma ogni piacere vuole eternità -,
- vuole profonda profonda eternità!” » (6, 471).
3. Un terzo stadio dell’esperienza dell’essere è per Nietzsche il « dionisiaco ». Il dionisiaco ha
molteplici significati (cfr. supra la parte sull’« anima dionisiaca », e infra la parte su « Dioniso »).
Ciò che Nietzsche ora intende con il termine « condizione » è « una condizione suprema di
affermazione dell’esistenza, a partire dalla quale anche la sofferenza suprema non può essere
detratta: la condizione tragico-dionisiaca » (16, 273). Questa condizione è « il dire sì alla vita
persino nei suoi problemi più oscuri e piu aspri, la volontà di vivere rallegrantesi, nel sacrificio dei
suoi tipi piu elevati, della propria inesauiibilità, -... per essere noi stessi... l’eterno piacere del
divenire - quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientare » (8, 173). Grazie a
questa condizione, « l’uomo diventa il trasfiguratore dell’esistenza, una volta che abbia imparato a
trasfigurare se stesso » (16, 246). Alcuni esempi mostrano il modo in cui Nietzsche interpreta e
delinea questa condizione dionisiaca.
Nella condizione dionisiaca gli uomini superiori pervengono alla vetta della loro vita: « lo spirito è
allora altrettanto a suo agio e familiare con i sensi, quanto i sensi lo sono con lo spirito;... in tali
uomini perfetti e felici le funzioni piu sensibili finiscono con l’essere trasfigurate da un’ebbrezza
allegorizzante della più alta spiritualità. Essi avvertono in sé una specie di divinizzazione del corpo
e sono remotissimi dalla filosofia degli asceti... ». Secondo Nietzsche, questa ebbrezza giunse alla
sua vera perfezione nei Greci: «Da quell’altezza di gioia, in cui l’uomo sente se stesso, e se stesso in
tutto e per tutto come una forma divinizzata e un’autogiustificazione della natura, giù giù fino alla
gioia dei contadini sani e dei sani animali quasi uomini: tutta questa lunga, prodigiosa scala di luce
e di colori della felicità, il Greco la chiamò... Dioniso » (16, 388 e sgg.). Tali condizioni, « in cui
poniamo nelle cose una trasfigurazione e pienezza... finché rispecchino la nostra stessa pienezza e
gioia di vivere », sono per Nietzsche: « l’istinto sessuale; l’ebbrezza; il mangiare; la primavera; la
vittoria sul nemico; lo scherno; il pezzo di bravura; la crudeltà; Testasi del sentimento religioso. Tre
elementi principalmente: l’istinto sessuale, l’ebbrezza, la crudeltà: che appartengono tutti alla più
antica gioia festiva dell’uomo» (16, 228 e sgg.).
Nel suo richiamo alla condizione dionisiaca, Nietzsche intende conciliare ciò che è più sensibile con
ciò che è più spirituale. Sembra che, per un istante, egli tocchi ciò che vi è di più elevato, per
lasciarlo poi scadere, nell’istante successivo, nell’ebbrezza più sensuale ed istintiva. Ma anche
quando afferma risolutamente questo aspetto crudo ed elementare vi è in lui come un
disperato, persistente trascendere. Sembra sempre di nuovo sfuggirgli ciò che era presente come la
piu autentica comprensione dell’essere. Nietzsche lascia talmente lente le briglie del suo pensiero,
che cessano tutte le differenziazioni, come nei mistici, ma in un medium radicalmente diverso.
Ciò che è sensibile non è solo trasfigurato come mero processo naturale.
In Nietzsche esso diventa cifra dell’essere soltanto nell'ebbrezza allegorizzante. Tuttavia, il limite di
queste formulazioni nietzschiane, che in certi momenti si perdono in ciò che è solo sensibile, è
costituito dal fatto che l’origine, in forza della quale il sensibile consegue questa trasfigurazione
nell’ebbrezza allegorizzante della suprema spiritualità, non resta definitivamente presente. È come
se il tripudio vitale, per quanto non animato da una storicità rapportata alla trascendenza, potesse
già avere in quanto tale quel carattere di simbolo supremo.
Nell’insieme delle « condizioni » - il movimento del superamento, poi l’essere distinto, l'esserci
eroico, l’anima dionisiaca, ed infine il compimento mistico di una consapevolezza dell’essere - è
tracciato il cerchio in cui Nietzsche coglie l’originaria e onnicomprensiva coscienza assoluta
dell’esistenza, da cui procede ogni vero pensare, comunicare, agire e comportarsi, l'essere-nel-
mondo, la risposta del sì all'esserci; ne consegue, però, che questa coscienza assoluta, quasi che
fosse un mero esserci nel mondo, non può essere essa stessa condizionata da qualcosa che è, qui ed
ora e solo per essa, una parte del tutto. Qui, davanti all’origine dell’essere esistenziale, cessano il
domandare ed il sapere. Se diamo uno sguardo all’insieme di queste condizioni descritte da
Nietzsche, possiamo delinearne le seguenti caratteristiche generali.
Da esse scaturisce un appello al quale ben difficilmente qualcuno potrà sottrarsi: l’illimitato
superamento, la distinzione, l’eroismo, la scioltezza dell’anima aperta, la trasfigurazione
dell’esserci; ciascuna di queste possibilità riguarda ciò che avviene in noi.
Ma tutte le descrizioni sono efficaci soltanto nella loro forma. L’appello procede dall’impulso
fondamentale che è tanto piu puro quanto piu povero di contenuto diviene nella descrizione.
Il cerchio è in sé propriamente chiuso, ed è caratteristico di Nietzsche. Nello sviluppo espositivo di
questa coscienza assoluta manca l’amore. Al suo posto subentra l'« anima dionisiaca », che noi
possiamo interpretare come amore. Dove egli parla di amore - nello struggente pensiero della verità
(cfr. supra), nell’amor fati (cfr. infra), nell’astorico sì all'esserci, in frasi come: ogni grande amore
vuole più dell’amore -, non chiarisce mai questo amore come un’autentica origine. Si avverte inoltre
la mancanza di ironia e di umorismo; per sua intima natura, Nietzsche era quasi completamente
privo del senso dell'umorismo; egli si serve a volte dell’umorismo piu feroce, ma senza l’anima
dell'umorismo; si serve dell’ironia come di un’arma tagliente, ma non l’utilizza come strumento di
protezione e di pungolo per chiarire l’origine. Non c’è posto per la paura e gli scrupoli di coscienza;
e ciò non è casuale, proprio perché Nietzsche nega il loro valore e la loro verità. Nietzsche chiarisce
magnificamente la coscienza assoluta dell’esistenza eroicamente indipendente, che si basa su se
stessa. Questa coscienza esprime dunque l’inoppugnabile verità dell’esser-uomo; ma essa diventa
un paradossale essere-sé senza Dio, una profondità dell’ateismo, la cui indipendenza, in contrasto
con il suo stesso significato, sembra consegnarsi, nell’uso di mere e fuorvianti formule, a singole
causalità nel mondo.
II sí nel contesto della concezione dell’essere
Una vera e propria esposizione delle « condizioni » non è possibile, poiché l’esposizione deve
servirsi dei mezzi con cui sempre vien colto qualcosa di particolare nel mondo, ma non l’essere che
abbraccia tutte le condizioni. Anziché direttamente, esse devono comunicarsi in modo
essenzialmente indiretto attraverso il pensiero ed il simbolo. Entrambi hanno un altro carattere, che
va chiarito filosoficamente, allorché essi si occupano, anziché di oggetti nel mondo, del fondamento
dell’essere.
Cosi come Nietzsche lo utilizza, il pensiero astratto è l’unica forma -che va subito chiarita - della
comunicazione di ciò che è autentico. Questo modo di pensare, che si occupa dell’essere stesso e
che apparentemente perde ogni contatto con il mondo, è il filosofare; Nietzsche ne parla in questi
termini: « Il pensiero astratto è per molti una fatica, per me invece, nei giorni buoni, una festa ed
un’ebbrezza » (14, 24). Questo pensiero astratto non è per nulla la vuota astrazione, ma è invece
compenetrato dall’altro, che è l’essere stesso: « Chi, anche una sola volta, è passato con i propri
pensieri sul ponte che conduce al misticismo, non ne esce più senza un marchio su tutti i propri
pensieri » (12, 259). Alla concezione nietzschiana dell’essere si può applicare anche la frase
seguente riguardo all’origine di tale misticismo: «Quando si accoppiano scetticismo e profondo
desiderio, sorge il misticismo » (12, 259). Di conseguenza, Nietzsche esprime il proprio percorso
filosofico in questa breve formula: « Il nuovo senso di potenza: la condizione mistica, e la
razionalità più limpida, piu temeraria come via che porta ad essa » (14, 322).
Questo pensiero tende a sviluppare, nel sapere dell’essere, l'essenza propria di colui che pensa-, «
Si cerca l’immagine del mondo nella filosofia che piu di ogni altra fa nascere in noi un senso di
libertà, cioè in quella che fa sf che il nostro istinto più potente si senta libero per la sua attività. Sarà
cosi anche per me! » (15, 443-444). I pensieri metafisici di Nietzsche sono la comunicazione del
contenuto delle condizioni del suo nobile essere, che possono appunto essere comprese tramite essi;
questi pensieri devono essere le potenze in grado di evocarne altri e di richiamare all’esserci tali «
condizioni », e dunque anche se stessi, come esistenza. Ciò vale, in fondo, per tutti i pensieri
essenziali di Nietzsche, ma principalmente per quei pensieri che più di tutti gli altri gli stanno a
cuore: egli pensa l’essere come « divenire » e come « eterno ritorno », e si pone di fronte ad esso
con « amor fati ».
Il divenire. Il divenire è la sua visione originaria, astratta, insondabile, per lui sempre evidente,
dell’essere: non c’è per Nietzsche un essere fisso ed immobile. «Non si può ammettere in genere
nessun essere» (16, 168), poiché ciò è un’illusione e, in quanto è supposto come qualcosa di stabile
e di migliore, svaluta l’incessante divenire, che è il solo essere reale. Il divenire non ha una meta
che gli consenta di giungere ad una fine. Esso non
è apparenza. In quanto è il tutto, esso è irriducibile. È ciò che è, e nulla oltre a ciò.
Dall’inizio alla fine, Nietzsche ha sempre considerato Eraclito come l’unico filosofo del divenire.
Non ha mai mosso alcun rilievo critico nei suoi confronti. La sua prima esposizione della filosofia
di Eraclito (10, 30 e sgg.) costituisce già il suo proprio pensiero dell’essere, ed in tal senso debbono
dunque esser visti anche il pensiero del movimento del divenire attraverso la lotta delle opposizioni,
il pensiero della necessità e della giustizia, e dell’innocenza del divenire.
La visione nietzschiana del divenire deve essere filosoficamente concepita come un pensiero che
trascende ogni determinazione dell’intelletto; in tale pensiero, Nietzsche fa immergere nel tempo
ogni modo dell’essere-cosa e lo spazio, ma, assumendo il tempo come divenire, per cosi dire
si arena in esso. È come se il suo trascendere cessasse: la realtà della temporalità diventa assoluta.
Filosofando nel « divenire », tuttavia, Nietzsche non si arresta al divenire, ma coglie di nuovo
l’essere, e precisamente: in primo luogo, come necessità vitale per Tesserci; in secondo luogo, nel
filosofare che trascende fino all’essere stesso; in terzo luogo, nell’atteggiamento esistenziale.
1. L’impossibilità di pensare il divenire e la necessità vitale dell’essere. La dottrina del divenire non
è in Nietzsche un punto di riposo del sapere dell’essere. In essa egli non sa cos’è Tessere, ma è
costretto, trascendendo ogni forma pensabile dell’essere, a incorporarla nel fondamento senza
forma. Il divenire non è accessibile al pensiero dell’intelletto, che, quando pensa, deve sempre
determinare un essere come un essere sussistente. « Il nostro intelletto non è organizzato per
comprendere il divenire, aspira a dimostrare la rigidità generale » (12, 23). Ma se in tal modo io
posso pensare soltanto ciò che, in qualsiasi senso, diventa un essere, ne consegue allora che
«conoscenza e divenire si escludono a vicenda» (16, 31). Per il pensare, il carattere del mondo in
divenire è « non formulabile », « falso » e «contraddittorio» (16, 31).
Se la conoscenza non è mai conoscenza del divenire, ma soltanto di un essere (« ammettere Tessere
è necessario per poter pensare e dedurre »), allora ogni essere è, secondo Nietzsche, una finzione: «
una specie del divenire », la vita, si « crea l’illusione dell’essere »; alla conoscenza deve dunque
«precedere una volontà di rendere conoscibile » (16, 30). Per poter vivere, ogni vita deve avere, per
cosi dire, un orizzonte in cui le appare non più il divenire, bensì Tessere determinato, sempre
identico a se stesso, che è in questa forma la sua condizione di vita. Infatti, non c’è vita senza la
finzione dell’essere. Ma, d’altra parte, il divenire concepito come essere non può costituire
l’orizzonte per nessuna vita; se questa dovesse credere al divenire anziché credere, come
normalmente avviene, all’essere, allora dovrebbe perire. Perciò Nietzsche ritiene che la filosofia del
divenire sia una dottrina «vera, ma mortale» (1, 367). Infatti, «la verità ultima del flusso delle cose
non tollera l'assimilazione; i nostri organi (per la vita) sono organizzati sull’errore » (12, 48).
2. Il ristabilirsi trascendente dell’essere nella filosofia del divenire. Il divenire, che invero non è
pensabile, è purtuttavia l’essere stesso; l’essere  per noi è invece l’interpretazione che, di volta in
volta, la vita (la volontà di potenza) si è creata come sua condizione. La dottrina
onnicomprensiva del divenire non può essere sviluppata in pensieri, poiché ogni determinazione di
pensiero è un’interpretazione e presuppone la sussistenza di un essere. Il pensiero che pensa l’essere
è per Nietzsche soltanto uno strumento della vita che, nel suo continuo divenire, si crea il suo
necessario orizzonte, e che, in quanto appunto divenire, si sottrae alla possibilità di essere pensato.
Come fare allora se, ciononostante, il filosofo vuole veramente comprendere il divenire come
essere? Se la vita non può continuare a vedere il divenire e non può rinunciare a conoscere l’essere
senza morirne, ciò vale forse anche per il filosofare, che è pur sempre vivere?
A tal riguardo si deve rispondere, in primo luogo, che per Nietzsche, nella sua concezione originaria
del divenire, l’essere, di fatto, si ristabilisce, e precisamente come circolo dell’eterno ritorno-. «
Che tutto ritorni è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere » (16, 101).
Per Nietzsche questo pensiero scaturisce dal proprio vivente filosofare: « Imprimere al divenire il
carattere dell’essere - è questa la suprema volontà di potenza » (16, 101).
In secondo luogo, però, questo essere, che per il pensiero filosoficamente trascendente procede dal
divenire, va radicalmente distinto dall’essere che sorge dalle possibilità di pensiero della volontà di
potenza, inteso come sapere delle cose nel mondo. È l’essere per eccellenza, che scompare come
oggetto pensato, è l'eternità come fondamento e limite di ogni oggettività e di ogni esserci.
Nietzsche ha preso coscienza, nel suo filosofare, dell’essere per lui autentico, che non è soltanto
divenire, non essendo esso stesso divenuto, e che non è neppure un singolo essere nel mondo; egli
lo esprime a proposito dell’eterno ritorno: « Il circolo non è alcunché di divenuto, esso è la legge
originaria. Ogni divenire è all’interno del circolo » (12, 61). Nella misura in cui la « volontà di
potenza » è il signum metafisico dell’essere, vale anche per essa il non-essere-divenuto: « Non si
può, percorrendo la stessa via della ricerca sullo sviluppo, ritrovare ciò che è causa del fatto che ci
sia in genere uno sviluppo; non bisogna voler intender ciò come “in divenire” e ancor meno come
divenuto » (16, 155).
3. Il senso esistenziale del superamento dell’infinito divenire. Ciò che, nel filosofare di Nietzsche,
determina il ritorno dalla sovranità del divenire all’essere, non è soltanto un processo di pensiero,
bensì un cambiamento nel suo atteggiamento esistenziale.
Se la condizione della nostra epoca, con la sua universale dissoluzione di tutti i principi invalsi, e la
relativizzazione di ogni essere e di ogni valore, diventa « l’immagine dell’esistenza universale », ed
ora incombe il no alla vita per il disgusto provocato dalla vacuità priva di senso di questo mero
divenire, allora Nietzsche concepisce il proprio pensiero quasi come
un mezzo di salvezza: « Alla sensazione paralizzante dell’universale dissolvimento e incompiutezza
io contrapposi l’eterno ritorno! » (15, 443).
Se, guardando al divenire senza scopo, sorge l’indifferenza verso il proprio esserci, poiché l’essere
si dilegua nell’illimitato, allora questo trovarsi in balia del divenire si trasforma nell’accoglimento
affermativo del presente, cioè a dire, nel concetto fondamentale dell 'amor fati.
L'eterno ritorno. Dal punto di vista filosofico, il pensiero dell’eterno ritorno è in Nietzsche tanto
essenziale quanto problematico: è stato proprio questo, infatti, il pensiero che piu lo ha sconvolto,
mentre dopo di lui nessuno è stato seriamente colpito da quel pensiero; si tratta dunque,
per Nietzsche, del pensiero decisivo del suo filosofare, anche se fino ad ora si è per lo piu cercato di
assimilare Nietzsche senza prendere in considerazione tale pensiero.
Potremmo esporre in modo semplice tale dottrina in questi termini: l’essere non è un divenire
infinitamente nuovo, ma, in periodi di tempo straordinariamente lunghi - l’« anno grande del
divenire » (6, 321) - tutto ritorna. Tutto ciò che è, è già stato infinite volte, e ritornerà infinite
volte. « Tutto è ritornato: Sirio ed il ragno, e i tuoi pensieri in quest’ora, e questo tuo pensiero
secondo cui tutto ritorna» (12, 62), «questo lume di luna tra i rami e cosi pure questo attimo e io
stesso » (5, 265). Nietzsche metaforicamente cosi si esprime: « il fiume rifluisce sempre di nuovo in
se stesso, e sempre di nuovo voi entrate nel fiume, sempre gli stessi » (12, 369); oppure: « l’eterna
clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta » (5, 265). Gli animali di Zarathustra gli
ripetono la dottrina con le parole: « Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota
dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire; eternamente corre l’anno dell’essere... In ogni attimo
comincia 'l’essere; intorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il
sentiero dell'eternità » (6, 317).
Ma ci si sbaglia se si pensa di aver esaurito con questa semplice esposizione il contenuto filosofico
della teoria dell’eterno ritorno; la semplificazione non consente di cogliere il suo vero significato.
Perciò Zarathustra chiama « organetti » gli animali che hanno riferito la dottrina, e così
li rimprovera: « E voi, - voi ne avete già ricavato una canzone da organetto? » (6, 317).
Per comprendere veramente la teoria dell’eterno ritorno, bisogna riunire tutti i pensieri che
Nietzsche ha espresso a tal riguardo. Allora si può vedere una teoria del cosmo motivata
fisicamente, che però non può essere considerata come tale; infatti, si tratta proprio di trascendere
questa teoria, per giungere a un essere che è essenzialmente diverso da ogni essere meramente fisico
o meccanico che si trova nel mondo. Inoltre, tale pensiero viene sviluppato non tanto a causa del
suo contenuto oggettivo, come se si trattasse di un oggetto d’indagine, bensì perché esso deve avere
« il peso più grande » per la coscienza dell’essere propria dell’uomo. Chi lo comprende e lo usa
correttamente, ne coglie tutta la portata: tale pensiero de-
terminerà una selezione e sarà in futuro un mezzo per l’elevazione della natura umana.
Una ricostruzione criticamente negativa di questo pensiero vede il lato fisico sul piano di
un’argomentazione scientifica, che è però necessariamente destinata a fallire, il lato metafisico
come una forma di metafisica dogmatica alla maniera prekantiana, il significato esistenziale come
un’espressione di ateismo. Una trattazione che richiami criticamente la verità di tale pensiero vede
al contrario anche il contenuto degli sviluppi trascendenti insiti in questo stesso pensiero, che sono
diventati per Nietzsche la forma adeguata per una coscienza dell’essere che non è legata soltanto a
questi pensieri.
Non bisogna dunque ignorare che il pensiero del ritorno si presenta in modo assai variegato:
dapprima, come una dottrina che può essere definita in un determinato contenuto, ma che poi
ridiventa una credenza espressa in simboli indeterminati; e ancora, per un verso, come un
oggetto del sapere fisico, per l’altro, come un’interpretazione non scientifica dell’esistenza.
La teoria dell’eterno ritorno. Occorre richiamare i diversi aspetti concettuali con cui Nietzsche
sviluppa la teoria dell’eterno ritorno.
1. La sua motivazione. Nietzsche argomenta in base a tre premesse. In primo luogo, muovendo dal
dato di fatto presente dell’incessante divenire e del trasformarsi delle cose: in effetti, non si è
raggiunto in questo momento uno stato definitivo; si va oltre. In secondo luogo, muovendo
dall'infinitezza e parimenti dall’esser-in-sé del tempo: « “Modificazione” appartiene all’essenza, e
quindi anche la temporalità » (16, 398). « Lo spazio è, come la materia, una forma soggettiva, il
tempo no » (12, 54). In terzo luogo, muovendo dall’affermazione della finitezza dello spazio (12,
54) e dalla finitezza della forza. Gli ultimi due presupposti sono inintelligibili e indimostrabili.
Nietzsche tenta qua e là di renderli certi con il metodo dell’impossibilità di pensare il contrario: « è
per noi del tutto impossibile pensare che la forza sia qualcosa di non determinato» (12, 57). « Il
mondo come forza non deve essere pensato come illimitato, perché non può essere pensato a questo
modo... Noi ci vietiamo il concetto di una forza infinita, in quanto incompatibile con il concetto di
“forza”» (16, 397). In questo modo, egli sfiora di fatto, senza ohe gli siano chiaramente presenti, i
problemi che sono esposti nella dottrina kantiana delle antinomie; pertanto, Nietzsche non tien
conto della concezione kantiana secondo la quale sul tutto non si possono fare affermazioni
validamente determinate, né col principio di contraddizione né in altro modo, benché egli tenga
presente questa concezione in un altro contesto. Dunque, muovendo da tali presupposti non
dimostrati, Nietzsche arriva alle seguenti conclusioni.
In primo luogo: « L’infinitamente nuovo divenire non è possibile, perché è una contraddizione, dato
che verrebbe presupposta una forza infinitamente crescente-, ma da che cosa dovrebbe crescere? »
(12, 52). Se la forza non cresce, allora ci sono soltanto due possibilità: o lo stato finale di un latente
e permanente equilibrio, oppure l’eterno ritorno. Se si esclude la possibilità di un equilibrio, si trae
allora la seguente conclusione: « Il principio della conservazione dell’energia esige l’eterno ritorno
» (16, 398).
In secondo luogo: poiché la forza è finita, « il numero delle situazioni, cambiamenti, combinazioni e
sviluppi di questa forza è immensamente grande e praticamente incalcolabile, ma in ogni caso è pur
sempre determinato e non infinito»; ma, poiché il tempo è infinito, «è necessario che tutti i possibili
sviluppi si siano già prodotti. Conseguentemente, lo sviluppo attuale deve essere una ripetizione, e
così quello che l’ha prodotto... Tutto è già stato innumerevoli volte » (12, 51, 53 e 57).
In terzo luogo: poiché tutte le possibilità sono già state, cosi devono essere di per sé impossibili
tutte quelle situazioni che, per il fatto di essersi già verificate, escluderebbero l’attuale stato di cose,
di fatto transitorio; ma questo significa che è impossibile uno stato finale, un equilibrio, « un
persistere e fissarsi » dell’essere; infatti, se ci fosse stato una volta, soltanto per un momento, un
equilibrio come stato finale, allora tale stato sarebbe rimasto. A causa dell’infinitezza del tempo
sarebbe anche subentrata, se fosse possibile, l'immobilità (12, 55 e 56; 16, 396). Però, il fatto che «
una situazione di equilibrio non si raggiunga mai, sta a dimostrare che essa non è possibile»
(16, 398). Se, al contrario, si suppone che ci sia stato una volta uno stato di cose assolutamente
identico a quello attuale, allora questa supposizione - a differenza della supposizione di un
equilibrio che dovrebbe presentarsi in un momento qualsiasi - non viene confutata dallo stato di
cose presente (12, 55).
Nietzsche ha creduto, almeno per un certo periodo, di poter dare un fondamento fisico e matematico
alla teoria dell’eterno ritorno. Infatti, nel 1882 egli voleva procurarsene le basi scientifiche
attraverso nuovi studi universitari. Nietzsche ha poi abbandonato tale proposito, poiché questa
strada non era decisiva per il significato filosofico di quel pensiero. Nei frammenti postumi
che riguardano questo punto, Nietzsche argomenta con una logica (principio di contraddizione e «
pensabilità ») alla quale egli stesso del resto non crede; adeguandosi allo spirito scientifico
dell’epoca, egli vuole per un attimo presentare come inoppugnabile risultato scientifico ciò che per
lui diventa il fondamento del vero sapere dell’essere.3
2. Il suo trascendere come superamento della teoria fisica. La teoria dell’eterno ritorno sembra
meccanica; il suo modello sembra essere il presunto movimento circolare di singoli avvenimenti
che si verificano nel mondo, a partire dal quale essa è stata poi estesa alla totalità del mondo. Già
questo modello, che nei singoli avvenimenti del mondo non mostra una ripetizione completamente
identica delle stesse cose, serve a Nietzsche stesso come obiezione contro il movimento circolare
meccanico: « Il fatto che, nel mondo che ci circonda, vi sia una qualsiasi differenza ed una
incompleta circolarità, non è già una prova sufficiente contraria a una forma circolare uniforme di
tutto ciò che esiste? » (12, 58 e sgg.). Se però in questo modo il movimento circolare non porta
meccanicamente al ritorno dell’identico, tuttavia in ogni caso ritorna la
situazione complessiva di tutte le forze; ma, prescindendo da ciò, « è del tutto indimostrabile che
una qualunque cosa sia rimasta uguale. Sembra che la situazione complessiva formi, fin nei
particolari più minuti, delle nuove proprietà, di modo che due diverse situazioni complessive non
possono avere alcunché di uguale» (12, 51). Ma è determinante il fatto che Nietzsche differenzi
radicalmente il movimento circolare di tutto ciò che esiste nel mondo, inteso come ritorno, da tutti i
possibili movimenti circolari meccanici nel mondo. Egli vede nel ritorno uno sviluppo del mondo; «
la forma più generale dell’esistenza » sarebbe un mondo non ancora meccanico-, la nascita di un
mondo meccanico sarebbe, all’interno del tutto, un giuoco privo di leggi, che alla fine acquisterebbe
consistenza da se stesso, in modo che le nostre leggi meccaniche sarebbero non già eterne, bensì
divenute, e precisamente divenute come eccezione e caso. « A quanto pare, abbiamo bisogno di un
arbitrio, di una reale irregolarità,... di una idiozia originaria che non arriva neppure alla meccanica
». La regolarità che noi vediamo non sarebbe una legge originaria, ma sarebbe soltanto un arbitrio
divenuto regola (12, 59). L’eterno ritorno (l’anello), tuttavia, dovrebbe riferirsi alla « forma più
generale dell'esistenza », e non ad un singolo avvenimento, com’è invece quello meccanico.
Espresso in termini generali: l’eterno ritorno non può, in quanto riguarda la totalità dell’essere,
venir pensato come ascrivibile ad una qualsiasi forma particolare dell’esserci. È per questo che
Nietzsche precisa: « Guardiamoci dal pensare come divenuta la legge di questo circolo, secondo la
falsa analogia dei movimenti circolari dentro l’anello. Non vi è stato prima un caos... e infine un
movimento stabilmente circolare di tutte le forze: piuttosto, tutto è eterno, indivenuto; se mai vi
fosse stato un caos delle forze, sarebbe stato eterno anche il caos e sarebbe tornato in ciascun ciclo »
(12, 61). Dunque, il circolo del ritorno non è come i movimenti circolari, reali o pensabili, del
mondo; esso è indeterminabile, mentre soltanto questi ultimi sono determinati. E la legge originaria
del movimento circolare non è come le leggi di natura; essa non è rappresentabile come modello,
non è determinabile, mentre le leggi di natura sono le regole valide di ciò che accade nel mondo.
Anche la necessità del ritorno ha un altro carattere rispetto a qualsiasi necessità normativa nel
mondo: « Crediamo all’assoluta necessità nel cosmo, ma guardiamoci dall’affermare, di una
qualunque legge, fosse pure una legge meccanica primitiva della nostra esperienza, che essa domini
nel cosmo e sia una proprietà eterna » (12, 60). Anche una legge finalistica non può manifestarsi
nella necessità del ritorno: « Il “caos del cosmo” come esclusione di qualsiasi attività finalistica non
è in contraddizione con il pensiero del corso circolare: quest'ultimo è appunto una necessità
irrazionale » (12, 61). Nietzsche ritiene quindi che il mondo abbia « un suo corso “necessario”... ma
non già perché in esso imperano norme, bensì perché le norme mancano assolutamente e ogni
potenza in ogni momento trae la sua estrema conseguenza » (7, 35).
Ciò che costituisce l’aspetto più generale, dunque del tutto inconcepibile, ossia l’insieme di questo
eterno ritorno non può essere letto in alcun essere, né in ciò che è organico né in ciò che è
meccanico, né in una normatività né nel cerchio quale figura geometrica. Essi tutti, comunque,
possono servire a Nietzsche come simboli provvisori per esprimere ciò che deve essere detto a
seconda del contesto. Cosi, per esempio, la meccanica della materia inorganica è il simbolo che
serve per esprimere la radicale possibilità della ripetizione non storica dell’identico: la materia
inorganica « non ha imparato, è sempre senza passato! Se fosse altrimenti, non ci sarebbe mai una
ripetizione - perché sorgerebbe
sempre qualcosa... da un nuovo passato» (12, 60). Se invece, per converso, il lutto viene visto come
una storia che muta e ricorda, Nietzsche afferma: « Non lo sai? In ogni azione che tu compi si
ripete, in forma abbreviata, la storia di tutto quanto avviene» (12, 370).
Mentre si guarda dal confondere il circolo del ritorno, la sua legge e la sua necessità, con i
movimenti circolari nel mondo, Nietzsche si serve di alcune categorie (necessità, legge) per
procedere oltre queste stesse categorie, fino al lato oscuro dell’essere, ma in modo tale che egli
subito tende alla rappresentazione di un mondo reale come « la forma piu generale dell’esistenza »,
e pone dunque un'ipotesi cosmica al posto della trascendenza filosofica conseguibile con il
trascendere formale. Allora succede che Nietzsche possa dimenticare, nella sua insufficiente
consapevolezza logica dei metodi del suo effettivo filosofare, ciò che egli propriamente vuole, e
possa aspirare, sottostando allo spirito scientifico del suo tempo, a fornire una motivazione fisico-
matematica quale prova della sua teoria. Ma, ciò nonostante, il trascendere rimane l’aspetto
filosoficamente dinamico di questi suoi pensieri.
3. L'attimo in cui fu concepito. L’origine del pensiero dell’eterno ritorno non è in Nietzsche
l’esercizio di una riflessione intellettuale, ma è invece l’esperienza istantanea dell’essere:
un’esperienza che, mentre egli concepiva quel pensiero, grazie ad esso conferiva a tale attimo un
decisivo significato metafisico.
Nietzsche ha sottolineato in modo particolare l’attimo in cui ha concepito quel suo pensiero: « II
pensiero dell’eterno ritorno... è dell’agosto 1881... Camminavo in quel giorno lungo il lago di
Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino
a Surlei, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero» (15, 85). Ed ancora: « Immortale è l’attimo
in cui ho partorito il ritorno. In forza di quest’attimo sopporto il ritorno » (12, 371). Quest’attimo
non è evidentemente quello di una comune intuizione.
Se ci chiediamo quali siano le esperienze specifiche che hanno conferito tanta importanza a
quell’attimo, non ci è di aiuto una ricerca psicologica. È infatti irrilevante sapere se Nietzsche, nei
suoi stati d’animo non comuni, avesse già provato ciò che è noto sotto il nome di déjà vu: vivere il
presente come se tutto fosse già stato vissuto in modo perfettamente uguale fin nei piu
piccoli particolari. Alcune descrizioni simboliche di quel pensiero potrebbero far pensare a ciò: « E
questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu
bisbigliami a questa porta, di cose eterne bisbigliami - non dobbiamo tutti esserci stati un’altra
volta?... E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane
ululare cosi?... Sì! Quand’ero bambino, in infanzia remota: - allora udii un cane ululare così » (6,
232). Suonerebbe formale una conclusione che, da tale certezza del ritorno di un attimo qualunque,
fosse estesa a tutto Tesserci: «Se soltanto un attimo del mondo ritornasse - disse il fulmine - tutti
dovrebbero ritornare » (12, 370).
Decisivo è solo il significato che quell’attimo ha per il suo contenuto filosofico. Se l’attimo è al
tempo stesso la possibilità di rivelarsi dell’essere, e come tale è l’eternità, allora il ritorno è solo un
simbolo di questa eternità. Nel suo sforzo di superamento Nietzsche conobbe l’estinzione del tempo
come rivelazione dell’essere nell’attimo: « nell’ora del perfetto meriggio », egli fa dire
a Zarathustra: «Zitto! Zitto! Non divenne proprio ora perfetto il mondo?... Non sono caduto -
ascolta! nel pozzo dell’eternità? » (6, 402 e sgg.). Questo meriggio è «meriggio ed eternità» (12,
413; 16, 414).
Il meriggio è al tempo stesso il simbolo dell’attimo storico-mondiale - tale è il significato che
assume per Nietzsche - in cui fu concepito il pensiero dell’e-
terno ritorno: « In generale, in ogni anello dell’esistenza umana vi è sempre un’ora nella quale - per
la prima volta a uno, poi a molti, poi a tutti, si presenta il pensiero più possente, quello dell’eterno
ritorno di tutte le cose » (12, 69). Di questo attimo egli dice: «Il sole della conoscenza è ancora
una volta nel suo meriggio: e alla sua luce giace attorcigliata la serpe dell’eternità; è il vostro
momento, fratelli del meriggio! » (12, 426).
Nell’« attimo » del pensiero dell’eterno ritorno, la storicità esistenziale, che è l’eternità nel tempo, si
intreccia dunque, per Nietzsche, con una storicità dell’intero essere, la quale in eterno movimento
circolare, sempre di nuovo in questo attimo del pensiero filosofico, giunge al proprio culmine,
comprendendo se stessa; Nietzsche è qui, per sé come pensatore, non soltanto l’esistenza storica di
un individuo, e, per la storia del popolo e dell’umanità, non soltanto un uomo decisamente creatore,
ma è invece, per così dire, l’intero asse dell’intero essere, il cui processo circolare è ritornato ancora
una volta ad un punto che è « il grande meriggio..., quando l’uomo sta al centro del suo cammino
tra l’animale e il superuomo» (6, 115). Questo pensiero assume dunque per Nietzsche un immenso
significato; nessun altro pensiero può essere paragonato a questo per importanza. Scrive Nietzsche,
rivolgendosi a chi ancora non conosce tale pensiero: « Lascia che ti racconti di un pensiero che si è
levato davanti a me come un astro e che potrebbe gettare luce su di te e su tutti, come se fosse
la luce stessa » (12, 62). (L’effetto di questo pensiero, così egli pensa, deve essere immenso. Per
annunciarlo simbolicamente, l’impostazione dello Zarathustra è già intimamente orientata su
questo pensiero: per Zarathustra, che lo pensa, questo pensiero è pericoloso come nessun altro;
perciò egli deve affrontarlo anzitutto per se stesso - avere il coraggio di pensare ciò che egli sa -, e
precisamente tra le crisi di tutto il suo essere che, a contatto con quel pensiero, si trasforma,
per esser poi pronto e maturo per il suo annuncio, che sarà al tempo stesso la sua rovina (6, 313).
Nietzsche ha sussurrato quel pensiero a bassa voce, con tutti i segni dello sgomento, come un
segreto, a Lou Salomé e a Overbeck (Lou ANDREAS-SALOMÉ, F. Nietzsche, p. 222; BERNOULLI,
Nietzsche und Overbeck, vol. II, pp. 216 e sgg.).
La particolare attenzione che Nietzsche rivolge alle conseguenze del pensiero dell’eterno ritorno è
testimoniata da due aspetti: innanzitutto, da come Nietzsche concepisce il significato esistenziale
che tale pensiero riveste per l’individuo, e poi, da come egli concepisce il significato storico che
riveste per il corso dell’umanità.
4. Le sue conseguenze esistenziali. Cosa succede se questo pensiero è vero e viene concepito come
vero, oppure - ed è la stessa cosa per l’uomo - se viene almeno ritenuto vero?
Il primo effetto è per Nietzsche lo sgomento che atterrisce: « Ahimè, l’uomo ritorna eternamente!
L’uomo piccolo ritorna eternamente!... Troppo piccolo il più grande! - Questo era il mio disgusto
per l’uomo! E eterno ritorno anche del più piccolo! - Questo era il mio disgusto per l’intera
esistenza! » (6, 320). Questo pensiero « strozza»: « l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo,
ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla... È questa la forma estrema del nichilismo:
il nulla (la “mancanza di senso”) eterno! » (15, 182).
Tuttavia, questo estremo può capovolgersi nel suo opposto: la completa, disperata negazione
dell’esistenza può trasformarsi nella sua, altrettanto completa, affermazione.
Anziché annientare, quel pensiero trasformerà chi crede in esso: « Se quel pensiero ti prendesse in
suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi...; la domanda per qualsiasi cosa:
"Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il
peso più grande! » ( 7, 265). Ora il compito è: « vivere in modo che tu debba desiderare di vivere di
nuovo ». È come un nuovo imperativo etico, che comanda di sottoporre lutto ciò che io sento,
voglio, faccio e sono ad una norma, in modo che io debba adempierlo come se desiderassi di
compierlo infinite volte di nuovo; in altri termini, come se io possa volere che questo esserci sia
sempre di nuovo così.
E' una mera tarma, le cui possibilità di adempimento, sotto l’aspetto del contenuto, sono infinite.
Infatti, ciascun uomo può considerare la desiderabilità dell’eterno in modo del tutto personale e
nient’affatto universale: « Colui il cui piu alto sentimento è l’affannarsi, si affanna; colui il cui più
alto sentimento e il riposo, si riposa; colui il cui più alto sentimento è la subordinazione,
la sottomissione, l’obbedienza, ubbidisce. Soltanto, possa egli essere cosciente di ciò che per lui è il
più alto sentimento, e non abbia timore di usare alcun mezzo! Si tratta dell’eternità! » (12, 64).
L’imperativo non comanda nessun tipo di azioni determinate, di comportamenti e modi di vita; sono
possibili le cose più opposte, e che pensiamo abbiano un valore opposto. L’imperativo comanda
una rosa sola: « Imprimiamo sulla nostra vita il riflesso dell’eternità! » (12, 66).
L’affermazione, nel capovolgere la negazione senza speranza, qualora riesca tinche per un solo
istante, secondo Nietzsche diventa necessariamente un sì a tutto, anche alle cose non desiderate e
dolorose. Infatti, poiché nell’esserci tutto è in relazione a tutto, ne consegue che se io per un attimo
sono venuto a sapere per amore di che cosa ho detto di sì alla vita, ho così affermato con essa anche
le sue condizioni e quindi la vita tutta: « Avete mai detto di sì a un solo piacere? Amici miei, allora
dite di sì anche a tutta la sofferenza. Tutte le cose sono incatenate,... - se mai abbiate voluto “una
volta” due volte..., avete voluto tutto indietro! » (6, 469). « Approvare un fatto vuol dire giustificare
tutto » (13, 74). « Ogni piacere vuole l’eternità di tutte le cose » (6, 470).
Nella misura in cui il sì all’esserci dipende dal fatto che un unico momento sia vissuto in modo tale
che l’uomo voglia viverlo sempre di nuovo eternamente, quest’uomo è per Nietzsche « salvo »,
anche se ha vissuto questo solo momento. Per questo, Zarathustra è felice allorquando l’uomo che
lo incontra, anche il più disperato, « l’uomo più brutto », in virtù di un solo attimo può dire alla vita:
ebbene, ancora una volta! (6, 462).
Ma l’essere vivente, di fatto, non può in alcun modo dire il suo sì in ogni momento a tutto ciò che è.
Nel mondo l’uomo ha bisogno di « istinti che lo proteggano dal disprezzo, dal disgusto,
dall’indifferenza »; ma questi istinti lo portano certamente alla solitudine; qui, però, colpito
direttamente « nella solitudine », Nietzsche sostiene: « Quando sento che tutto è
necessariamente collegato, ogni essere è per me divino» (13, 73 e sgg.).
Questa affermazione di ogni essere significa che all’interno del divenire qualcosa « in ogni
momento dello stesso viene raggiunto » - « e sempre la stessa cosa ». Ma cosa ciò sia non può
essere espresso come qualcosa di generale, o come trascendenza, o come verità, o come qualcosa di
determinabile. Esso è la pura immanenza, che non può esaurirsi nelle infinite possibilità di
determinazione. Esso può esser reso percepibile soltanto richiamandosi a semplici indicazioni. È di
volta in volta l’essenza di chi dice di sì, che nel si diventa manifesta: « Spinoza pervenne a una tale
posizione affermativa in quanto ogni momento ha una necessità logica: e trionfò, con il suo
fondamentale istinto logico... ». Ma questo è solo uno dei possibili modi del sì: ogni caratteristica
fondamentale, se è sentita da un individuo come sua caratteristica fondamentale, diventa una fonte
del sì (15, 183).
Se però « il divenire deve apparire giustificato in ogni attimo (o non valutabile, il che riesce alla
stessa cosa) », allora ne consegue che « non è assolutamente lecito giustificare il presente con un
futuro, o il passato con il presente » (16, 167).
La suprema affermazione della vita, che il pensiero dell’eterno ritorno (quando non porta ad un
atteggiamento negativo) impone, assume per Nietzsche un carattere di liberazione e redenzione.
Se si ubbidisce all’imperativo di vivere in modo che si debba desiderare di vivere di nuovo, allora si
consegue, con l’amore per la vita, in primo luogo il vero coraggio che, scrive Nietzsche, « ammazza
anche la morte »; « Questa fu la vita? Orsù! Da capo! » (6, 230).
Dal punto di vista del contegno interiore, il pensiero dell’eterno ritorno porta, in secondo luogo,
all’affermazione del tollerare; esso conferisce « severità alla vita interiore, pur senza renderla
malevola e fanatica contro chi pensa diversamente » (12, 63); qualunque cosa escogiti ogni
individuo per istillare amore per la propria vita, « l’altro l’ammetterà e dovrà per questo far
propria una nuova grande tolleranza» (12, 67). E se noi affermiamo di dover essere uniti nell’ostilità
contro coloro che cercano di sminuire il valore della vita, allora anche questa stessa « nostra ostilità
deve diventare un mezzo per la nostra gioia! » (12, 67). Se col pensiero dell’eterno ritorno
l’individuo ha conseguito il sì per sé, ogni esserci ritorna come se fosse visto in modo nuovo.
L’affermazione che porta alla redenzione diventa, in terzo luogo, sapere dell'immortalità. Già nella
stessa aspirazione all’immortalità Nietzsche vede il sì alla vita. Se brilla nella tua buona sorte la
luce crepuscolare del commiato, « fai attenzione a questo segno: significa che tu ami la vita e te
stesso, e cioè la vita cosi come è stata per te finora, - e che tu aspiri alla sua eternità. - Ma sappi
anche che la caducità diventa sempre di nuovo il suo breve canto, e che già nell’udirne la prima
strofa quasi si muore di nostalgia al pensiero che essa potrebbe essere già passata per sempre » (12,
66). Ma il pensiero dell’eterno ritorno dà la certezza che « tra l’ultimo istante della coscienza ed il
primo segno della nuova vita non c’è “tempo” - tutto passa rapidamente come un colpo di fulmine,
anche se le creature viventi potessero misurarlo in miliardi di anni o persino non potessero
misurarlo » (6, 334 e sgg.). Tutto ciò che è, partecipa a questa immortalità. Chiedendoci di non
prender le cose troppo sul serio, Nietzsche si contrappone fondamentalmente alla dottrina della
caducità di tutte le cose: « A me sembra al contrario che tutto abbia troppo valore per poter essere
cosi fuggevole: io cerco un’eternità per ogni cosa... - e la mia consolazione è che tutto ciò che è
stato è eterno: il mare lo rigetta a terra » (16, 398).
Il sì dell’eterno ritorno celebra, in quarto luogo, il suo decisivo trionfo nella redenzione di tutto ciò
che è passato. Un tempo le cose stavano diversamente: la volontà era impotente nei confronti di ciò
che era già stato compiuto, era soltanto un accigliato spettatore di ogni cosa passata: « Che il tempo
non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; “ciò che fu” - cosi si chiama il macigno che
la volontà non può smuovere ». Tutto ciò che fu è frammento e caso. Con un disperato sguardo
retrospettivo, l’uomo concepì come una punizione il volere, giacché esso non può « volere a ritroso
», e quindi la vita stessa. Ora, però, con il pensiero dell’eterno ritorno, l’uomo può sapere che « ogni
“così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin quando la volontà che crea non dica
anche: “ma così volli che fosse!”» (6, 206-208 e 290). Infatti, la volontà che crea, nella sua storicità,
non solo accoglie in sé tutto ciò che fu, da cui essa proviene, ma vuole che ciò che è passato sia
anche ciò che ritorna in futuro: nel movimento circolare delle cose, io creo di nuovo il passato che
mi ha creato, come futuro nel quale esso ritorna. Si aprono le tombe. Ciò che fu non è
semplicemente passato.
Ma rimane l’antinomia - di cui Nietzsche non è consapevole - che necessariamente si presenta in
ogni pensare trascendente, e che in lui assume la forma seguente: nel volere si esprime la libertà che
produce ciò che diviene, e tuttavia il volere stesso è il movimento circolare che ripete soltanto ciò
che è già  stato. Di conseguenza, le tesi di questo filosofare, visto nella sua autenticità, di fatto si
annullano necessariamente le une con le altre: alle affermazioni secondo cui l’insieme della
situazione tornerà di nuovo, ma le singole cose non saranno identiche, si contrappongono altre
affermazioni, secondo cui « anche noi, in ogni anno grande, siamo a noi stessi identici, nelle cose
più grandi come nelle più piccole » (6, 321). E ancora: «Ma il nodo di cause, nel quale io sono
intrecciato, torna di nuovo, - esso mi creerà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell’eterno
ritorno » (6, 322); se questa affermazione sembra darmi qualcosa in mano, ciò è subito negato da
quest’altra affermazione: « Io torno di nuovo... -non a nuova vita o a vita migliore o a una vita
simile: - io torno eternamente a questa stessa identica vita... » (6, 322). Il divenire, già
invariabilmente determinato nel circolo dell’eterno ritorno, e la libertà di vivere sotto il nuovo
imperativo, in modo che io voglia rivivere eternamente questa vita, sembrano escludersi a vicenda.
Ma questo volere ciò che deve essere necessariamente così è espressione della coscienza della
libertà creatrice affermativa: caratteristico di Nietzsche in questa forma, tale pensiero, nella sua
formulazione antinómica, è proprio di ogni dottrina trascendente della libertà (di Agostino e Lutero,
ed anche di Kant).
5. Le sue conseguenze storiche. Nietzsche si attende il più incredibile cambiamento. Dal momento
in cui è presente il pensiero dell’eterno ritorno, deve « mutare ogni colore, e c’è una nuova storia »
(12, 65). « È il tempo del grande meriggio, del piu terribile rischiaramento» (15, 238).** Cosa
accadrà?
Mentre negli anni giovanili Nietzsche riteneva ovvio che gli uomini, guardando retrospettivamente
alla loro vita, convenissero tutti nel poter viverla ancora una volta (1, 291), più tardi egli ritiene che,
sotto il peso del pensiero dell’eterno ritorno, si attui una separazione: coloro che non lo sopportano,
periranno, mentre coloro che davanti ad esso pervengono al loro incondizionato si alla vita, saranno
costretti ad elevarsi. È dunque un pensiero che opera una selezione (16, 393 e sgg.; 12, 369). Il «
nichilismo estatico » - come desiderio della fine, maturato attraverso l’insopportabile pensiero del
ritorno - diventa il martello per schiacciare le « razze degeneranti » (16, 393). « Sopravviverà
soltanto chi ritiene la propria esistenza capace di ripetersi in eterno » (12, 65). Ma se «coloro che
non vi credono per loro natura dovranno alla fine perire » (12, 65), ciò potrà accadere nel modo «
più dolce »: la dottrina è mite con costoro, essa « non conosce inferni e minacce. Chi non vi crede,
porta nella sua coscienza una vita fugace » (12, 68). In ogni caso, il pensiero dell’eterno ritorno
delle stesse cose, ciascuna al suo posto in un movimento ciclico, è lo stimolo decisivo per spingere
l’uomo ad elevarsi al di sopra di se stesso.
Tuttavia, non è detto che si abbiano necessariamente queste conseguenze. Se si pensa che la cosa
suprema sia quella di sopportare la nostra immortalità (12, 369), allora si potrebbe anche pensare: «
Forse che le migliori nature periranno per questo? Le peggiori l’accettano? » (12, 370). « La teoria
del ritorno sorriderà dapprima alla gentaglia, che è fredda e non ha molte esigenze interiori. Il più
ordinario istinto vitale dà per primo il consenso» (12, 371). Nietzsche considera comunque
passeggero questo effetto mistificatorio che induce in errore: « Una grande verità conquista a sé per
ultimi gli uomini più elevati » (12, 371).
Affinché la sua dottrina dell’eterno ritorno abbia un'effettiva efficacia storica, Nietzsche richiede: «
Guardiamoci dall’insegnare una simile teoria come una improvvisa religione! Essa deve infiltrarsi
lentamente... Per il pensiero più potente, occorrono molti millenni - per lungo, lungo tempo, deve
essere piccolo e impotente! » (12, 68). Egli non vuole « trentanni di gloria con tamburi e pifferi, e
trent’anni di lavoro da becchini » (12, 69): « Io voglio premunirmi contro i creduloni e i fanatici.
Voglio difendere in anticipo il mio pensiero! Esso deve essere la religione delle anime più libere,
serene e sublimi -un’amena valle erbosa tra i ghiacci indorati dal sole e sotto un cielo puro! » (12,
69).
Ma lo stesso pensiero dell’eterno ritorno, che pure per Nietzsche è il piu essenziale, è per lui
problematico, ed egli lo tiene in sospeso; ciò è testimoniato da questa affermazione: « Forse esso
non è vero: possano altri cimentarsi con esso! » (12, 398).
Riepilogo: Dio oppure movimento circolare? L’eterno ritorno è, in primo luogo, un’ipotesi fisico-
cosmica. Quale suo autore, Nietzsche soggiace al fascino di poter mostrare una sua presunta
concordanza con la scienza esatta dimostrativa ed inoppugnabile, ma con la conseguenza, nel far
ciò, di perdere il significato filosofico del pensiero dell’eterno ritorno, e di non raggiungere
nemmeno la scienza.
L’eterno ritorno è, in secondo luogo, un contenuto della fede nella sua effettiva realtà; ma, anche
come tale, esso appare vuoto; infatti, senza alcun ricordo dei precedenti modi dell’esserci, il ritorno
sarebbe del tutto indifferente; che io esista una volta o innumerevoli volte in modo completamente
uguale, ha lo stesso valore del fatto che io esista soltanto una volta, se tra l’una e l’altra volta non vi
è alcun rapporto di memoria o previsione o mutamento.
Bisogna dunque chiedersi perché Nietzsche, ciononostante, conferisca a questo pensiero
un’importanza cosi grande. A tal proposito, egli stesso fornisce la risposta, osservando che solo con
questo pensiero avremmo la definitiva « morte di Dio », ma al contempo avremmo superato il
nulla.
La concezione di Nietzsche che questo mondo è esso stesso tutto l’essere, che solo qui c’è realtà,
mentre ogni « altro mondo » non soltanto è nulla, ma conduce alla svalutazione del mondo reale,
vuole sostituire l’idea della divinità. Ma tale sostituzione non deve essere una sorta di
compensazione per una perdita sfortunata, bensì deve essere piti di quanto è andato perduto. Questo
è per Nietzsche l’eterno ritorno, che pertanto deve vincere anche nella lotta immediata con l’idea di
Dio; Nietzsche chiede che cosa accada dal punto di vista del pensiero se si crede in Dio. Si presenta
allora la seguente alternativa.
O: « Dio è inutile, se non vuole qualcosa » (16, 167). La sua intenzionalità, però, sarebbe necessaria
soltanto qualora il mondo non fosse già esso stesso, come tale, l’essere. Poiché, nel divenire di tutte
le cose « è più probabile conseguire casualmente il medesimo colpo che non un colpo assolutamente
diverso », così il fatto che non ritorni mai nulla di uguale potrebbe « essere spiegato soltanto
mediante una... intenzionalità » (12, 56). Di conseguenza, « tutti quelli che vorrebbero conferire al
mondo la facoltà dell'eterna novità », devono incorrere nell’idea che « il mondo scansi
intenzionalmente un fine e sappia addirittura evitare ad arte il ricadere entro un’orbita » (16, 396).
Ma questa intenzionalità sarebbe la divinità, la quale soltanto sarebbe in grado di impedire il
processo circolare: « Chi non crede ad un processo circolare dell’universo, deve credere al dio con
una volontà » (12, 57). Poiché questa fede è di fatto cessata e per di piu non ha alcun valore per il
vero filosofare, il processo circolare dell'essere del mondo non soltanto è l’unico a restare, ma è la
verità che supera l’essere divino.
Oppure: un Dio, in cui si credesse, non vorrebbe niente. Allora, la fede in lui come « una coscienza
totale del divenire... sussumerebbe l’accadere sotto il punto di vista di un essere che partecipa al
sentire e al sapere, ma che non vuole niente »: ma « un Dio sofferente e contemplativo, un “sensorio
totale” e “spirito universale” sarebbe la più grande obiezione contro l'essere » (16, 167 e sgg.).
L’eterno ritorno - che è per Nietzsche l’unica possibilità, se non c’è Dio - è dunque per lui l’unico
pensiero con cui pensa di sfuggire ad ogni menzogna sul mondo: tale pensiero porta ad una piti alta
realizzazione del mondo, e dunque ad un uomo di rango piu elevato, porta al suo
apice l'immotivabile ed incondizionato sì, ma rende superflui la divinità ed ogni essere, il quale si
presenti come un’alterità rispetto a questo mondo. Nietzsche può dunque dire dell’eterno ritorno: «
Questo pensiero ha piti contenuto di tutte le religioni che hanno disprezzato questa vita come fugace
» (12, 66). Esso è la « religione delle religioni» (12, 415).
Anche se questo pensiero, allorché viene espresso nella sua obiettività e mancanza di trascendenza,
è per noi vuoto, tuttavia ci interessa nell’insieme del suo sviluppo, così come appare in Nietzsche.
L’eterno ritorno è, in primo luogo, un mezzo per esprimere fondamentali esperienze esistenziali.
Esso deve portare la mia vita e la mia azione alla loro estrema tensione, affinché io possa
raggiungere la suprema possibilità; poiché ciò che è una volta, è eternamente; ciò che io faccio ora
è il mio stesso essere eterno; viene deciso nel tempo ciò che io eternamente sono.
Il ritorno significa, in secondo luogo, che tutte le cose sono superate nell'essere stesso: non vi è né
inizio né fine, il mondo è sempre compiuto e perfetto, in ogni momento è centro, in ogni momento è
inizio e fine. Tutte le cose sono salvate. Tempo ed estinzione del tempo diventano una sola cosa.
L’eternità è ogni istante, quando l’amore innalza ogni essere che abbraccia nel compimento
dell’immortalità.
Nel pensiero dell’eterno ritorno sembrano dunque incontrarsi la più alta tensione dell’attività e il più
profondo abbandono all’essere. In tale pensiero Nietzsche sperimenta la libertà dell’esistenza che
induce a salire più in alto, insieme all’unificazione amorosa dell’essere. Secondo lui, in esso si
rivela e si conferma, si realizza e si giustifica il sì originario, la sorgente e la meta di ogni teodicea.
In esso Nietzsche raggiunge i limiti dell’esserci, in un modo originale e che perciò parla ancora a
noi.
Ma, ciononostante, quel pensiero, come tale, nella sua pura razionalità e con il suo contenuto
immediato, ci lascia indifferenti. Per noi esso non può esprimere le esperienze originarie dell'essere
umano. L’importanza del presente, dovuta al fatto che attraverso l’agire si decide in esso qualcosa
di eterno, è accresciuta proprio dal pensiero opposto a quello dell’eterno ritorno, cioè dal sapere che
mai ritorna ciò che è stato, e che ciò che è accaduto è ormai definitivamente trascorso e circoscritto
nel passato; questo esserci che accade ora può comprendersi come esistenza solo in rapporto alla
trascendenza. L’irreversibilità del tempo e l’unicità dell’esserci nel tempo fanno sì che l’esistenza,
in questo rapporto alla trascendenza, non possa mai avere un compimento eterno o una perdita
definitiva. Ma se parliamo della mancanza di trascendenza del pensiero di Nietzsche, ciò è vero
soltanto per il modo in cui noi siamo capaci di pensarlo, ma non per il modo in cui Nietzsche stesso
ha vissuto l’esperienza del suo pensiero. Con esso Nietzsche si immerge, per così dire, in
un’atmosfera per noi inaccessibile; per noi, è come se egli si calasse in un nulla. Tuttavia, anche in
questo nulla, non perdiamo ogni legame filosofico con lui: e ciò in virtù dei rilevanti significati di
quel pensiero, che lo fanno rientrare nella grande catena del pensiero etico e mitico. Pertanto, ogni
esposizione che tralasciasse questi significati ed assumesse quel pensiero nella sua mera obiettività,
lo spoglierebbe surrettiziamente del suo autentico significato.
Questo significato, a ben vedere, è già presente nella stessa formulazione di Nietzsche, che non
parla di « ritorno senza fine », bensì di « eterno ritorno ». Ma cosa significa « eterno »?
Kierkegaard distingue tre modi di pensare l’attimo e l’eterno: se l’attimo non è autentico, allora
l’eterno appare dietro di esso come passato (così come la strada di un uomo che cammina senza
direzione e senza meta appare soltanto dietro di lui come percorso già compiuto). Se l’attimo
è essenziale, ma soltanto come decisione, allora l’eterno è il futuro. Se invece l’attimo è esso stesso
l’eterno, allora questo « ritorna tanto come futuro quanto come passato ». Quest’ultima forma è
quella cristiana: « Il concetto che nel cristianesimo è il perno di tutto... è la pienezza del tempo; ma
il tempo è l’attimo in quanto eterno, e tuttavia questo eterno è al contempo il futuro e il passato ».4
Se prendiamo Kierkegaard come garante, e la sua formulazione così vicina a quella di Nietzsche,
allora dobbiamo chiederci: con il pensiero nient’affatto cristiano del ritorno, Nietzsche non ha
conservato un residuo (sia pure trasformato a tal punto da renderlo irriconoscibile) di
sostanza cristiana, sottolineando il carattere « eterno » del ritorno? Nietzsche avrebbe voluto la
rottura piu radicale, ma di fatto non l’ha compiuta: voleva una filosofia dell’assenza di Dio con una
trascendenza astorica; ma il contenuto che si celava nel suo svolgimento gli avrebbe portato una
cosa diversa, e cioè qualcosa che proveniva dal contenuto stesso di quel che egli rifiutava.
Oppure ha egli semplicemente ripreso un pensiero greco? È vero che Nietzsche ha inteso la propria
filosofia come una riconquista delle origini greche, presocratiche. Ma Nietzsche, che aveva
conosciuto e respinto in gioventù il pensiero dei Pitagorici (1, 298 e sgg.), non ha mai concepito
il proprio pensiero in riferimento al passato storico, bensì lo ha inteso e vissuto come radicalmente
nuovo.
Poiché per lo stesso Nietzsche il pensiero dell’eterno ritorno non era radicato né nel mondo
cristiano né in quello greco, e dunque non era un pensiero storico, è come se esso fosse ottenuto dal
nulla, prescindendo dalla storia: cioè come se lo si potesse afferrare solo nella completa assenza di
ogni riferimento storico. Grazie ad esso Nietzsche, per così dire, toglierebbe l’uomo dopo la sua
totale rottura con ogni contenuto sostanziale della fede tradizionale, per poter non solo preservare
l’essere dell’uomo, ma anche per farlo continuamente progredire e salire sempre piu in alto. Il
pensiero del ritorno è creato da Nietzsche insieme con la forma di pensiero della catastrofe, che
domina la coscienza storico-universale che egli ha del suo tempo: siamo qui alla svolta più radicale
che l’umanità abbia mai conosciuto, dove deve mostrarsi una nuova origine, dopo che la sfera dei
contenuti cristiani e tutti i valori invalsi sono diventati meri fantasmi, totalmente privi di sostanza.
Ma la grandiosità di questa forma di pensiero storico-universale è come tale ancora del tutto vuota;
è facile utilizzarla per un discorso negativo; la possibilità di pensare non consente di anticipare ciò
che diviene, e neppure di giudicare ciò che realmente è. In questo vuoto assoluto del nulla - che egli
ha non solo pensato, ma anche vissuto con terribile partecipazione e sgomento - Nietzsche ha
lanciato il suo pensiero per risollevare l’uomo. Ma anziché far chiarezza sull’effettiva mancanza
di fondamento di quel pensiero, in modo tale che esso sarebbe divenuto inutilizzabile, egli gli
attribuisce dei significati che lo soddisfano, anche se non sono legati solo a questo pensiero, o non
sono necessariamente legati ad esso. Ciò è testimoniato dal fatto che egli parla di « eterno »
ritorno e che, appunto con la parola « eterno », lascia trasparire - sotto forma di un contenuto
espressivo di indubbia presa sul sentimento - ciò che nel pensiero non è esplicito.
Amor fati. Il sì all’essere che si identifica con il sì al mio essere, in quanto volontà, Nietzsche lo
chiama amor fati. Senza perdermi in una generale affermazione dell’essere, e senza restringermi nel
singolo esserci che vuole soltanto se stesso e si chiude pavidamente in sé, io sono ritornato alla
storicità presente della mia esistenza in questo mondo reale, io sono presso l’essere stesso proprio
tramite questa storicità.
All’età di diciotto anni, quando era ancora studente, Nietzsche elaborò pensieri di questo tipo,
allorché considerò il rapporto della libertà della volontà con l’insieme dell’accadere e il concetto di
fato. Egli scrisse che « la volontà libera è nient’altro che il potenziamento supremo del fato »; se
nella libertà della volontà è riposto « per l’individuo il principio della separazione, del distacco
dalla totalità », allora « il fato rimette l’uomo in collegamento organico con lo sviluppo
complessivo...; la libertà assoluta della volontà senza il fato farebbe dell’uomo un Dio », e « il
principio fatalistico lo ridurrebbe a un automa » (Scritti giovanili, München, 1923, pp. 66 e 69).
In seguito - sempre negli anni giovanili, riflettendo piu a fondo e al di là di tali schematiche antitesi
- nel fatto di essere risospinto verso la propria storicità nell’esserci di questo istante, Nietzsche ha
visto il fondamento della verità dell’esistenza. Se in considerazione dell’infinito divenire colpisce «
il fatto inesplicabile che noi viviamo proprio oggi e tuttavia avemmo il tempo infinito per nascere »,
e se vediamo che « non possediamo se non un brevissimo oggi », nel quale dobbiamo mostrare «
perché e a qual fine proprio ora siamo nati », allora saremo tanto piu decisamente incoraggiati « a
vivere secondo una misura e una legge nostra »; noi vogliamo « agire come i reali timonieri della
nostra esistenza e non permettere che assomigli ad una casualità priva di senso» (1, 389 e sgg.). Ma
il mondo cerca di sviarci, per non farci vedere il nostro compito. Esso ci conduce lontano da noi
stessi: « proprio a questo tendono tutti gli ordinamenti dell’uomo, a fare cioè in modo che la vita, in
una continua distrazione dei pensieri, non venga sentita » (1, 430). Ma una volta divenuta cosciente
della sua esistenza in questo istante, della sua « singolare esistenza proprio in questo momento », la
vita non può avere il suo significato nel fatto di sparire in una qualunque specie generale (10, 321).
Si mostri pure quel che si vuole all’anima, presentandolo come l’essenza: « Tu non sei tutto ciò, ella
si dice. Nessuno può gettare sopra il fiume della vita il ponte sul quale tu devi passare, nessun altro
che tu sola. Certo vi sono innumerevoli sentieri e ponti e semidei che vorrebbero farti attraversare il
fiume: ma solo a prezzo di te stessa... Al mondo vi è un’unica via che nessuno oltre a te può fare:
dove porta? Non domandare, seguila » (1, 390). « Io voglio rimanere mio! »; se l’uomo ha
preso questa decisione, allora si rende conto che « è una decisione spaventosa... Ora infatti deve
affondare nella profondità dell’esistenza » (1, 430).
Ciò che nel Nietzsche successivo, mediante l’eternità del ritorno, viene espresso con l’essere nel
divenire, nell’opera giovanile è ancora visto come l’esigenza di questo affondare: « Nel divenire,
tutto è vuoto, ingannevole, piatto... l’enigma che deve risolvere, l’uomo può risolverlo soltanto
partendo dall’essere, nell’essere cosi e non altrimenti, in ciò che non trapassa. Adesso comincia ad
esaminare in quale misura è concresciuto insieme con il divenire e insieme con l’essere» (1, 431).
Ma questo essere è raggiungibile soltanto quando si coglie con amore l'esserci che è totalmente
presente nell’amor fati, che trova la via per pervenire dal flusso del mero divenire alla storicità
dell’esistenza, nella pienezza della sua presenza: esso coglie Tessere nel divenire.
Nell 'amor fati viene a coincidere ciò che apparentemente è inconciliabile: l’attività tesa a realizzare
ciò che ancora non è, e la benevola accettazione di ciò che accade. Ma questa unità può essere
espressa concettualmente solo con dei paradossi. La separazione razionale la rende solo
apparentemente comprensibile, poiché non coglie il suo vero significato. Così, l'affermazione
seguente non raggiunge ancora la profondità dell 'amor fati: « Dobbiamo guidare il destino prima
che ci colpisca...; ma se ci avrà colpito, allora dovremo cercare di amarlo » (12, 323); infatti, in
questo modo viene separato, ancora soltanto temporalmente, ciò che è unito; ma nel far ciò si
osserva, in modo esistenzialmente giusto, che io non posso e non devo sfidare il destino, come se lo
conoscessi e potessi farne il mio scopo. Anche la motivazione dell 'amor fati in base al mero
inserimento del mio proprio destino nella totalità dell’accadere non è la formulazione definitiva: «
Che ogni azione di un uomo abbia un’influenza illimitatamente grande su tutto ciò che deve venire
» (13, 74), che « la fatalità della sua natura non possa essere districata dalla fatalità di tutto ciò che
fu e che sarà » (8, 100), significa certamente: « Il fato è un pensiero edificante per colui che
comprende di appartenervi » (14, 99) (e mi mostra giustamente che dipende anche da me). Ma
l'amor fati è qualcosa di piu di quanto viene colto in tali contrapposizioni: è l’affermazione della
necessità stessa, che è l’unità del divenire e dell’essere nel destino del singolo con il suo mondo,
l’unità del suo volere e del suo accettare; in tal modo, l'ethos dell’autentico agire del Sé si identifica
con l’esperienza dell’essere che diviene. Tutto dipende da ciò che Nietzsche intende per necessità.
La necessità non è la categoria della necessità, quale è concepita come necessità causale nelle leggi
di natura e nel meccanicismo. Nietzsche pensa alla categoria della necessità causale allorché si
oppone alla « divinizzazione del necessario » (10, 401), e, di fronte alla presunta necessità
complessiva della storia umana, obietta: « Io non insegno la rassegnazione alla necessità - perché si
dovrebbe dapprima conoscerla come necessità... » (10, 403). Quindi, riferendosi
all’assolutizzazione di tale categoria, Nietzsche parla persino di «eliminazione del concetto di
necessità» (16, 396).
Soltanto la necessità che non è piu una categoria, e quindi non è né legge di natura né legge
finalistica, né ineluttabilità né intenzione, è per lui il fato. Esso ricomprende il caso e la legge, il
caos e il fine. Esso è la necessità cui si fa riferimento nell’eterno ritorno: se tutto accade
necessariamente così come accade, allora appare sicuramente che io stesso sono un anello di questa
necessità, un pezzo di fatalità (anche il pensiero dell’eterno ritorno come tale è certamente, nel
corso di questo ritorno, la forza più potente ed efficace). L’amor fati, quindi, anziché una passiva
sottomissione ad una necessità che si presume di conoscere, è semmai, nella consapevolezza della
necessità del fato, « godimento di ogni tipo di incertezza, sperimentalità » (16, 395), in quanto
espressione di libera attività.
Solo nel contesto di tale autentica necessità del fato, la quale trascende tutte le categorie
determinate, è possibile l'amor fati, che Nietzsche, appunto, soltanto in questo modo concepisce e
continuamente ribadisce:
« Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario - ogni idealismo è mendacità di
fronte al necessario... - ma amarlo... » (15, 48). « Sì!
Io    voglio continuare ad amare soltanto ciò che è necessario! Amor fati sia
il mio ultimo amore! » (12, 141). «Voglio imparare sempre di piu a vedere il necessario nelle cose
come fosse quel che v’è di bello in loro... Amor fati: sia questo, d’ora innanzi, il mio amore! » (5,
209). Ciò che Nietzsche in un primo momento soltanto e semplicemente vuole, presto lo esprimerà
come la sua peculiare natura: « Il necessario non mi ferisce; l'amor fati è la mia piu intima natura »
(8, 115).
L’atteggiamento essenziale che si è raggiunto è quello stesso che apparve come il sì dell’eterno
ritorno: « La condizione suprema che un filosofo possa raggiungere è la posizione dionisiaca verso
l’esistenza: la mia formula per ciò è amor fati » (16, 383).
Se Nietzsche vede nella sua teoria il « compimento del fatalismo » (13, 75), questo non è dunque in
alcun modo la costrizione, così come viene concepita nella categoria della necessità in quanto legge
di natura o legge del dovere o come qualsivoglia ordine riconosciuto. Il fato non solo sfugge ad ogni
possibilità di pensarlo in modo determinato, ma, nel momento stesso in cui si tenta di esprimerlo,
diventa contraddittorio: « Fatalismo supremo, eppure identico al caso e a ciò che crea (nelle cose
non c’è ripetizione, ma solo un creare) » (14, 301). L’identità dei contrari è l’espressione
trascendente per l’essenza dell’essere, che non può esser colta in nessuna categoria. Perciò, il
fatalismo di Nietzsche, non diversamente dalla cristiana assenza di libertà del volere di fronte a Dio,
anziché una espressione di passività, è piuttosto lo stimolo di un’autentica ed elevata attività che
oltrepassa ogni necessità conoscibile nel mondo, poiché essa sta di fronte ad un’altra necessità. A
questa Nietzsche fa dunque appello, di fatto, come alla divinità:
« O notte, o silenzio, o strepito muto come la morte!...
Io vedo un segno -,
dalle lontananze piu lontane
sfavillante cala lenta verso di me una costellazione...
***
Astri supremi dell’essere!
Tavola di eterne figure, tu vieni a me?

[...]
Stemma della necessità!
Dell’essere costellazione suprema
- che nessun desiderio raggiunge,
che nessun no contamina,
eterno sì dell’essere,
eternamente io sono il tuo sì:
poiché io ti amo, o eternità! » (8, 435 e sgg.).
II mito in Nietzsche
L'uomo non può essere sensibile a quei contenuti che la sua intima natura rifiuta radicalmente.
Pertanto - a differenza di Hegel, Schelling, Bachofen Nietzsche non ha mai considerato la
profondità dei miti, cosi come - a differenza di Kierkegaard - non si è mai inoltrato nelle profondità
della teologia cristiana. Da parte di Nietzsche, quindi, non viene propriamente richiamato,
rinnovato, fatto proprio - con l’apparente eccezione di Dioniso - alcun mito; ma questo difetto
diventa, in un altro senso, la sua forza.
Nietzsche rifiuta di accogliere quei miti che possono diventare solo delle maschere, ma non essenza.
Consapevoli della perdita del mito, non dobbiamo creare un nuovo mito, solo perché l’uomo ne
sente forse il bisogno. Infatti, un mito non autentico vuole intenzionalmente evocare ciò che, se esso
fosse autentico, non può piu esser voluto. Esso sarebbe l'esserci in veste di commediante, che
Nietzsche ha implacabilmente combattuto nel suo tempo. Gli dèi e Dio non possono essere creati (6,
123); essi debbono essere compresi, vivendo insieme a loro; bisogna imparare a leggere in cifre e
simboli il loro essere. Per Nietzsche, che ebbe sempre un atteggiamento coerente e corretto, i miti e
i simboli tradizionali, verso i quali altri si atteggiarono come se credessero in essi, non sono il
linguaggio che penetra realmente in lui come esistenza. Anziché un mito succedaneo, egli cercava
l’essenza nel filosofare. Per questo, non già i miti e la teologia, bensì la stimolante realtà storica
costituì per lui la prima origine storica della filosofia: egli cercò un suo proprio pensiero nel
rinnovamento della forma fondamentale dell’interpretazione dell’essere nei presocratici,
essenzialmente in Eraclito.
A tal proposito, non deve trarre in inganno il fatto che, specialmente nello Zarathustra, egli utilizzi
una gran quantità di simboli. Essi non hanno infatti la stessa importanza dei simboli nei quali si
crede, ma sono invece un linguaggio non impegnativo, e non sono mai nell’intenzione e nell’effetto
qualcosa di diverso. Di miti Nietzsche parla spesso negli anni giovanili, come filologo classico; piu
tardi, si incontra a mala pena la parola stessa.
Senza aver l’intenzione di creare o sostituire dei miti, è molto piu rilevante in Nietzsche la forza
della presenza di paesaggi ed elementi, di natura e vita, dell’intero mondo non umano, una nuova e
per così dire mitica realtà.
Il mito della natura. Il paesaggio è il sottofondo del pensiero nietzschiano; chi ha colto una volta
questo sottofondo, ne è conquistato. Il modo in cui esso, esprimendosi in infiniti modi, parla al
lettore ed entra inavvertitamente in lui, diventa un linguaggio a tutti comprensibile, in cui quanto vi
è di piu intimo in Nietzsche — la sua nobiltà, la sua purezza, il suo destino -è come protetto. È
questo l’accesso piu facile al fascino di Nietzsche ed allo stato d’animo che è il presupposto di ogni
comprensione. Nel suo mondo, natura ed elementi non sono soltanto delle descrizioni pittoriche o
mu-
sicali, da contemplare o ascoltare, bensì un tipo indescrivibile di realtà che parla immediatamente
come tale.
Nel modo in cui paesaggio e natura parlano a Nietzsche c’è un salto tra il suo modo giovanile di
osservare, per immagini e vivamente pittorico, per esempio « et in Arcadia ego » (3, 354), e il suo
modo successivo, che suscita l’impressione di una identificazione con il paesaggio. Prima si
tratta soltanto di una commozione davanti alla natura che sta di fronte a lui come qualcosa di
diverso; piu tardi, è come se la natura ed il destino dell’uomo, la corporeità sensibile e l’essere si
identificassero. Soltanto nell’ultimo decennio il mondo diventa trasparente, la natura diventa come
un mito. La sofferenza dovuta alla realtà empirica non impedisce allora a Nietzsche di vedere in
essa al tempo stesso l’autentica realtà, e precisamente in modo visionario e corporeo insieme. Non
si tratta solo per lui di un’accresciuta espressione di tutto ciò che è visibile; piu ancora, nella natura
egli può percepire il linguaggio dell’essere.
È soprattutto nelle poesie e nello Zarathustra che si può percepire questo linguaggio. Per accostarci
ad esso è opportuno richiamare alcuni aspetti biografici: Nietzsche ha vissuto facendo quotidiane
passeggiate nei luoghi in cui si trovava. La sua particolare sensibilità al clima e al tempo gli fece
avvertire fin nell’aspetto piu intimo dello stato d’animo e della forza del suo essere - in
modo tormentoso o vivificatore - ogni nuance del luogo, dei momenti giornalieri e stagionali. Egli
impiega « molta fatica e zelo » per scrutare il paesaggio fin nella sua profondità: « La bellezza della
natura è, come ogni altra, molto gelosa, e vuole che si sia esclusivamente al suo servizio» (a Gast,
23. 6. 81). Per lui la natura è il mondo che gli rimane vicino in tutte le delusioni ed in ogni
solitudine. Sempre essa appare, nelle sue lettere e nei suoi scritti, come ciò che è presente. Essa gli
dà un linguaggio puro, non contaminato da alcun appesantimento romantico, teologico o
mitologico: « E per quale scopo è creata ogni natura se non perché io abbia segni con cui poter
parlare alle anime? » (12, 257). Nietzsche respira la profonda gioia dell’essere a proprio agio in
presenza della natura; è come se trovasse in essa sostegno e conforto. Tutta la sua
corporeità partecipa al modo in cui egli, tramite la natura, diventa consapevole dell’essere.
Per Nietzsche, la gioia di identificarsi con la natura può rimpiazzare la perduta comunicazione con
gli uomini: la volontà di comunicazione è come assorbita in questa identificazione con il paesaggio.
È vero che all’inizio, come si legge nell’aforisma intitolato « Nel grande silenzio », il silenzio della
natura è ancora considerato «bello e agghiacciante» (4, 291). Ma è già diverso, quando Zarathustra
si rivolge al cielo puro dell’alba con queste parole: « Noi siamo amici da sempre... Noi non
parliamo l’un all’altro, perché sappiamo troppo: - noi stiamo silenziosi insieme, ci sorridiamo il
nostro sapere » (6, 240). Alla fine, confida alla natura il tormento della sua solitudine, chiedendo
senza aspettare risposta, sentendone la vicinanza senza vederla: « Oh, cielo sopra di me,... tu
mi guardi? Tu ascolti la mia anima capricciosa?... quando riberrai in te l’anima mia? » (6, 403 e
sgg.); questa domanda esprime certo il piu completo abbandono e tuttavia, in quanto domanda,
rivela l’attesa di una risposta, come quando la sua anima, nel buio della notte di Venezia, cantò la
canzone che si conclude con queste parole: « L’ha qualcuno mai udita? » (8, 360).
L’origine dell’amore di Nietzsche per la grande natura « deriva dal fatto che nella nostra testa sono
assenti i grandi uomini » (5, 181). Per lui la natura non è il dato ultimo; in lui vive qualcosa di
diverso dall’immediata mitizzazione della natura, propria della sua vitalità giovanile. Di fronte ad
ogni grande natura egli aspira a qualcosa di ulteriore: « Vogliamo compenetrare la natura con ciò
che è umano... Vogliamo prendere da essa ciò di cui abbiamo bisogno per sognare oltre l’uomo.
Qualcosa, che è più grandioso della tempesta e della montagna e del mare, deve ancora sorgere »
(12, 361).
Se ci chiediamo quale natura, quali accadimenti elementari, quali paesaggi parlano a Nietzsche e in
che senso, è certamente impossibile disporne in un quadro sistematico i contenuti, ma un breve
sguardo ci mostra, almeno superficialmente e sulla base di alcuni esempi, ciò che si presenta e che
può essere propriamente compreso solo attraverso una lettura dei testi nel loro insieme.
I tempi giornalieri, fino alle sfumature quasi ora per ora: il meriggio, per esempio, diviene il
momento in cui il tempo è cessato, è vissuta l’eternità, è raggiunta la perfezione (6, 400 e sgg.; 3,
358 e sgg.). La mezzanotte, in ciò affine al mezzogiorno, è l’ora del « canto ebbro »; si rivela la
profondità dell’essere, l’eternità (6, 464 e sgg.).
Gli elementi: l’amato, puro cielo, le odiate nuvole, il cielo invernale, il cielo prima del sorgere del
sole, - il sole del mattino, della sera - il vento, il vento del disgelo, la tempesta, - il silenzio, - fuoco
e fiamma.
Alcuni tipi di paesaggio: montagne, neve, ghiacciaio, mare, lago, deserto; il Sud sempre diverso,
sempre più lontano e mai interamente presente; « ciò che è africano » (a Gast, 31. 10. 86).
Innumerevoli singole immagini della natura: pini ricurvi, a strapiombo sulla costa, ritti in
montagna; il fico; i marosi; i prati; il solitario svolazzare di una farfalla, in alto sugli scogli del lago;
cavallo, bufalo, camoscio, toro; una vela sull’acqua; un battello sul lago e i remi dorati al tramonto.
La natura è al contempo presente nella vitalità del corpo, nel camminare, scalare i monti, danzare e
volare in sogno (12, 222; 6, 241, 281, 282, 285); Nietzsche avverte la presenza della natura quando
se ne sta disteso al sole come una lucertola (a Overbeck, 8. 1. 81). I pensieri essenziali gli vengono
a contatto con la natura; egli è abituato a « pensare all’aria aperta, camminando, saltando, salendo,
danzando, preferibilmente su monti solitari o sulla riva del mare, laddove sono le vie stesse a farsi
meditabonde » (5, 318).
Nietzsche ha, per così dire, i paesaggi appropriati a lui e le sue città. La sua preferenza va all’Alta
Engadina: « Il mio paesaggio, così lontano dalla vita, così metafisico » (a Fuchs, 14. 4. 88). « In
molti paesaggi di natura scopriamo di nuovo noi stessi, con piacevole brivido;... qui dove Italia e
Finlandia si sono strette in alleanza... questo è per me intimo e familiare, consanguineo, anzi ancora
di più» (3, 368). «L’aria piena di odori, come piace a me» (a Overbeck, 11. 7. 79). Sils-Maria,
«questo eterno eroico idillio » (a Gast, 8. 7. 81), « questa meravigliosa mescolanza del dolce, del
grandioso e del misterioso! » (a Gast, 25. 7. 84), è il luogo dove la sua filosofia era propriamente di
casa (5, 359 e sgg.). Là egli viveva « con la compagnia di una montagna, ma non già di una morta
montagna, bensì di una che ha occhi (cioè laghi) » (7, 415).
L’incomparabile stato d’animo di Nietzsche sulla Riviera, a 400 metri sul mare, è espresso in una
descrizione a Gast (10. 10. 86): •« Si immagini un’isola dell’arcipelago greco, sulla quale siano
posti a capriccio un bosco ed una montagna, che un giorno per caso si sia ricongiunta alla
terraferma e non possa più staccarsene. Indubbiamente, vi è qualcosa di greco in ciò; d’altra parte,
vi è qualcosa di piratesco, di subitaneo, di nascosto, di pericoloso; infine, a una svolta solitaria, c’è
un pezzo di pineta tropicale, che suscita l’impressione di esser lontani dall’Europa: qualcosa di
brasiliano, come mi ha detto il mio compagno di tavola, che ha compiuto più volte il giro del
mondo. In nessun altro luogo mi sono mai sentito come in un’isola, dimenticato da tutti, come
Robinson; spesso accendo grandi fuochi. Vedere la vivace fiamma, con il suo fumo grigio chiaro,
salire verso il cielo privo di nubi - l’erica tutt’intorno, e quella beatitudine dell’ottobre, che si
accorda a cento gradazioni di giallo... ».
Tre città soprattutto gli furono care: Venezia, Genova e Torino. Per lui erano quasi come paesaggi,
con la loro atmosfera, la singolarità della loro posizione, il loro genius loci. Aveva invece una forte
avversione per Roma.
Dioniso. Ciò che per Nietzsche è la realtà mitica, sempre presente, ha la sua forza nella semplicità
ed evidenza. Essa è ciò che propriamente parla nelle sue opere senza farsi troppo notare e senza
aver bisogno di simboli specifici. Al contrario, uno spiccato simbolismo - come quello di Dioniso -
diventa in lui quasi insistente e al tempo stesso problematico. Tuttavia, è essenziale per Nietzsche il
fatto che - contro quelli che sono altrimenti i suoi istinti dominanti - egli scelga sotto il nome di
Dioniso una figura mitica tradizionale, per cogliere con essa la totalità dell’essere nella sua
unità. Ciò che egli non può e non vuole comprendere in un sistema concettuale costruito
metafisicamente, deve per lui farsi presente come simbolo.
L’essere era per lui vita, volontà di potenza, eterno ritorno. Si trattava di complessi di pensieri quasi
indipendenti tra loro, ciascuno con un’autonoma origine. Essi hanno tutti un 'unità per il fatto che si
riferiscono al momento storico in cui il movimento nichilistico, dopo che « Dio è morto », deve
trovare grazie a Nietzsche il contromovimento. Tutti i suoi pensieri filosofici dell’essere sono
concepiti come la visione del mondo di quella razza futura di signori che, basandosi sulla forza e il
rango della propria vita, sconfiggerà il nichilismo.
Ma, oltre a ciò, la loro unità risiede nella visione globale del mondo in cui Nietzsche sussume tutto
ciò che ha pensato dell’essere, la sua metafisica e la sua mistica, il divenire, la vita, la natura: «
Cos’è per me “il mondo”?... un mostro di forza, senza principio e senza fine,... che non si consuma
ma soltanto si trasforma,... un mondo attorniato dal “nulla” come dal suo confine, ... nulla di
infinitamente esteso,... un mare di forze tumultuanti e infurianti in se stesse,... in perpetuo riflusso,
con anni sterminati del ritorno, con un flusso e riflusso delle sue figure, passando dalle piu semplici
alle più complicate, da ciò che è... più rigido e freddo a ciò che è più... selvaggio e contraddittorio, e
ritornando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino al piacere
dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza delle sue vie e dei suoi
anni, benedicendo se stesso... come un divenire che non conosce sazietà,... stanchezza: questo mio
mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso, del perpetuo distruggere se stesso,... Questo mio al
di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è uno scopo nella felicità del circolo, senza volontà,
se un anello non ha buona volontà verso se stesso - volete un nome per questo mondo?... Questo
mondo è la volontà di potenza - e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza - e
nient’altro! » (16, 401).
Che per Nietzsche l’unità di questa visione del mondo - nella quale sono riuniti l’eterno ritorno, la
volontà di potenza e la vita dionisiaca -non possa piu essere essa stessa, in quanto unità, un
pensiero, ma soltanto un simbolo; che qui non sia concepito un tutto unitario derivante da
un principio, ma venga soltanto prodotto - con una coinvolgente retorica che si serve di una gran
quantità di motivi - per così dire uno stato d’animo del tutto: ebbene, ciò consegue
dall’atteggiamento fondamentale di Nietzsche, secondo cui non c’è e non ci può essere, in senso
proprio, un tutto.
È ben vero che Nietzsche ha anche concepito la totalità che, per così dire, protegge e giustifica: «
Uno... spirito divenuto libero sta al centro del lutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella fede
che soltanto sia biasimevole quel che se ne sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi
nel lutto - egli non nega piu » (8, 163). In tal modo Nietzsche, il sostenitore dell’eroismo ed il
nemico di tutte le religioni salvifiche, può dunque pervenire a questo antico pensiero filosofico della
« redenzione », alla fede in un tutto, in cui ogni cosa annulla la propria individualità nell’ordine
totale. Allorché vide l’opposto dell’ideale eroico nell’« ideale dello sviluppo armonico totale », egli
considerò certamente questo opposto come « desiderabile », ma definì sprezzantemente l’ideale
armonico come « un ideale solo per uomini dabbene » (12, 295); in questo modo perviene dunque
egli stesso ad un suo proprio pensiero di riconciliazione o piuttosto ad un’intima disposizione alla
totalità.
Ma conseguente e continuo è in Nietzsche l’opposto atteggiamento fondamentale, che vuole ed
afferma: « Non c’è un tutto » (15, 381). È per lui essenziale « che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità
». Perché? « Non si potrebbe fare a meno di prenderlo come istanza suprema e di battezzarlo “Dio”.
Bisogna mandare il tutto in frantumi;... riprendere per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo
dato all’ignoto e al tutto » (15, 381). Solo nella misura in cui Nietzsche si crea involontariamente un
surrogato di Dio, una tale totalità può assumere — solo provvisoriamente - il valore di una visione
del mondo unitaria, ma solo in quanto, per cosi dire, mito di un mono-ateismo.
Dioniso è la figura in cui per Nietzsche si oggettiva questo mito che egli, contrariamente alla sua
fondamentale disposizione filosofica, ha metodicamente sviluppato. In esso Nietzsche voleva
riassumere l’intero suo filosofare, fondendo insieme tutti i suoi aspetti esclusivamente concettuali.
È come se egli tentasse, per tutto ciò che è più inaccessibile, di rendere vera la frase: « Quanto più
astratta è la verità che tu vuoi insegnare, tanto piu devi sedurre anche i sensi a essa » (7, 103).
Anche se vi sono molti tratti che riecheggiano l’antico mito,5 non c’è nell’intenzione e nei risultati
di Nietzsche una vera e propria comprensione di questo mito; si tratta invece della scelta
consapevole di un simbolo, che gli sembra utilizzabile per il suo
filosofare. Dioniso è dunque in Nietzsche qualcosa di completamente diverso rispetto all’antico
mito, qualcosa che fondamentalmente non diventa forma.
Dioniso è anzitutto il simbolo dell 'ebbrezza, in cui « l’esistenza celebra la propria trasfigurazione»:
«Quando “fiorivano” il corpo greco e l’anima greca,... sorse quel misterioso simbolo... È dato qui
un metro, commisurato al quale tutto ciò che da allora è cresciuto risulta troppo corto, troppo
povero, troppo stretto; basta pronunciare la parola “Dioniso” di fronte alle migliori cose e ai
migliori nomi moderni, di fronte a Goethe, diciamo, o Beethoven, o Shakespeare, o Raffaello: e di
colpo sentiamo giudicati le nostre cose e i nostri momenti migliori. Dioniso è un giudice! » (16,
388).
Dioniso è inoltre concepito come l'opposto di Cristo, come la vita tragica contro la vita sotto la
croce: « Dioniso contro il Crocifisso ». Questa contrapposizione « non è una differenza in base al
martirio - è solo che esso ha un altro senso... il problema è quello del senso del dolore: del senso
cristiano o del senso tragico... Nel primo caso sarebbe la via che porta a un essere beato, nel
secondo l’essere è considerato abbastanza beato da giustificare anche un’immensità di dolore.
L’uomo tragico afferma anche il dolore piu aspro: è abbastanza forte, ricco e divinizzatore per ciò.
Il cristiano nega anche il destino più felice in terra... “Il Dio in croce” è una maledizione della vita,
un’esortazione a liberarsene. Il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e
rifiorirà eternamente dalla distruzione » (16, 391 e sgg.).
Davanti alla nebulosa figura di questo dio, la visione indeterminata di Nietzsche - come in
precedenza il suo pensiero - finisce « con una teodicea, cioè con un’assoluta affermazione del
mondo, ma per gli stessi motivi per i quali prima lo si negava » (16, 372).
Tuttavia, per lui Dioniso non è mai un dio al quale sia possibile rivolgere una preghiera, per il quale
sia possibile un culto. Egli è, in fondo, un « dio che filosofa » (14, 391). Ed ha tutte le qualità del
nuovo filosofo, che secondo Nietzsche sta per venire o che egli stesso si sente di essere: cioè di
colui che « procede per tentativi » (il « dio tentatore ») ed è il « grande ambiguo ». Nietzsche è
consapevole della singolare novità di un tale simbolo: « Già il fatto che Dioniso sia un filosofo e
che quindi anche gli dei filosofeggino mi pare una novità tutt’altro che scevra d’insidie » (7, 272).
L’autoidentificazione di Nietzsche con Dioniso, ancora celata nella frase: « io, l’ultimo discepolo e
iniziato del dio Dioniso », viene di fatto da lui compiuta all’inizio della sua follia.
Tutto quello che, oltre a ciò, viene detto sotto il simbolo di Dioniso è una ripetizione di ciò che nel
filosofare di Nietzsche si presenta in ogni caso in modo più pregnante ed eloquente: per esempio,
col nome di Dioniso il divenire viene « concepito attivamente, rivissuto soggettivamente,
come furiosa voluttà di colui che crea, che conosce al contempo la rabbia di colui che distrugge »
(14, 364). Ciò che di stimolante, ma nient’affatto definitivo, vi è nelle notazioni naturalistiche, che
si differenziano dalle formu-
lazioni concettuali, sembra ritornare in molteplici forme con l'espressione della figura mitica.
Mentre l’originaria mitizzazione della natura di Nietzsche ha arricchito il fondamento e il
linguaggio del moderno filosofare, attraverso un appropriazione che, peraltro, si può a malapena
cogliere, nessuno si è mai realmente appropriato del suo simbolo di Dioniso, così come del
superuomo, dell’eterno ritorno e di tutte le sue affermazioni metafisiche dell'essere positivamente
determinate e dunque, in quanto tali, riduttive.
1 L’espressione induce in errore nella misura in cui si pensi subito a condizioni fisiche o addirittura
psicopatologiche. Ma anche se parliamo di esperienza vissuta, stato d’animo, sentimento,
sentimento di verità, coscienza dell’essere, umore, costituzione, stato di salute, disposizione
d’animo, ecc., la chiarezza non è maggiore, poiché la precisione è solo apparente e delude alla luce
di una superiore precisione. Proprio per la sua estrema approssimazione, il termine « Zustand » è
forse appropriato a fornire una linea di confine linguistica all’indefinibile « Umgreifende ». Ciò è
giustificato dal fatto che Nietzsche abbia scelto e usato tale espressione quasi come un terminus.
* Il passo finale della citazione (« una tale intrepida e sfrenata gaiezza non fa parte del mio carattere
»), che è tra parentesi nell’edizione Kröner delle opere di Nietzsche, non compare nell’edizione
Colli-Montinari. (N.d.C.).
** Nel testo critico delle opere di Nietzsche stabilito da Colli e Montinari, anziché « terribile »
(furchtbar), si legge « fecondo » (fruchtbar): v. KSA, voi. 12, fr. 2 [128], p. 127; tr. it. nel voi. VIII,
tomo I, p. 114 (N.d.C.).
2 Il « saper tacere » di cui parla Nietzsche non è certo il tacere per vuotezza, goffaggine, furberia; in
tal senso, vale semmai quanto Nietzsche afferma in un altro contesto: « A chi tace manca sempre la
finezza e la gentilezza del cuore; tacere è un’obiezione, l’inghiottire produce necessariamente un
brutto carattere » (15, 18).
3 In questa forma fisico-meccanica il pensiero dell’eterno ritorno non è proprio soltanto di
Nietzsche. Identiche motivazioni si trovano, poco prima di lui, in Blanqui e Le Bon (BERNOULLI,
Overbeck und Nietzsche, 1, 381 e sgg.). In una formulazione generale come movimento ciclico
dell’accadere, tale pensiero si è sempre di nuovo ri-presentato storicamente attraverso i millenni
(cfr. ANDLER, 4, 225-259; cfr. anche 6, 60-76). Sul problema, v.: ABEL REY, Le Retour éternel et la
Philosophie de la Physique, 1927 (cit. da Andler); PAUL MONGRÉ, Sant'Ilario, Leipzig, pp. 349 e sgg.
Per una semplice confutazione matematica della « prova » dell’eterno ritorno, cfr. SIMMEL,
Schopenhauer und Nietzsche, Leipzig, 1907, p. 250 (nota).
4 Kierkegaards Werke, a cura di Schrempf, vol. 5, p. 87.
5 Sull’antico dio v. WALTER F. OTTO, Dionysos, Frankfurt, 1933.
LIBRO TERZO. IL MODO DI PENSARE DI NIETZSCHE NELLA TOTALITÀ DELLA SUA
ESISTENZA
Lo sguardo sulla vita di Nietzsche ha mostrato come essa rivelasse, per cosi dire, una verità in un
sacrificio continuo; l’esposizione delle sue idee  fondamentali ha chiarito l’ampiezza illimitata del
suo pensiero, il superamento obiettivamente contraddittorio di tutte le posizioni, anche di
quelle apparentemente definitive, e l’insostenibile incongruità delle rare teorie che diventano per
Nietzsche quasi dogmatiche. Dobbiamo ora cercare di cogliere la verità di Nietzsche nella totalità
della sua esistenza, anche se si tratta di un compito che, per la sua stessa natura, è in fondo
irrealizzabile, o meglio, di un compito che ogni generazione deve sempre di nuovo affrontare e
cercare di risolvere.
Se si pretende di cogliere, in modo chiaro ed evidente, il significato del pensiero di Nietzsche, si
resta senz’altro delusi. Un’esposizione dei suoi pensieri, condotta sulla base della dialettica - che
supera e fa scomparire tutto - di una critica che pure sorge da lui stesso e costituisce la sua
peculiarità, lo fa sembrare ancor piu inesauribile di quanto forse egli stesso fu. Un’interpretazione
letterale, o legata alla certezza di contenuti dogmatici, lo fa invece apparire piu limitato di quanto in
realtà non fosse. In entrambi i casi, non si coglie ciò che egli propriamente ed effettivamente era nel
suo impulso che forse non è mai pervenuto alla piena consapevolezza di sé.
Ci troviamo di fronte ad un enigma: se infatti ci accostiamo criticamente a Nietzsche, e ci lasciamo
condurre da lui stesso, tutto sembra scomparire, ma, quando ormai siamo stanchi fino alla nausea di
tutte le delusioni, ecco cbe si ristabilisce l’incanto del suo pensiero: l’enigma consiste precisamente
nel fatto che la verità di Nietzsche, che non risiede in nessuna dottrina ed in nessun ideale fisso, può
tuttavia avere la sua più pura e decisiva forza d’attrazione quando non si è piu irretiti dal fascino del
primo momento e dalle singole affermazioni.
Nietzsche è non solo l’origine di nuovi pensieri, il creatore di una nuova lingua, ma, attraverso la
totalità della sua vita e del suo pensiero, è anche un avvenimento. Ciò che Nietzsche significa, al di
là di tutte le sue idee fondamentali, non solo come espressione della crisi della sua epoca, è in grado
di dirlo con certezza storico-filosofica soltanto colui che crede al contenuto di una filosofia della
storia che nel suo sguardo abbraccia tutta l’umanità. Noi ci limitiamo a constatare che il dato di
fatto del suo esserci significa un sedimento storico che per noi, suoi successori, è divenuto
indispensabile, un appello alla nostra onestà, un presupposto della nostra realtà e dunque della
nostra vera partecipazione alla filosofia. La sua ori-
gine è essenzialmente indeducibile, alla stessa stregua di ogni cosa grande che, per cosi dire, entra
nell’esserci con un salto.
Ripercorriamo dunque, guidati dallo stesso Nietzsche, le tappe del nostro cammino, per rispondere
alla domanda sul suo modo complessivo di pensare come manifestazione del suo essere che
filosofa.
CAPITOLO PRIMO. COME NIETZSCHE COMPRENDE SE STESSO E IL PROPRIO
PENSIERO
Vita e conoscenza: Unità e separazione di vita e conoscenza. Pensare a partire dalla dialettica reale.
La coscienza della forma logica di pensiero: Opposizione e contraddizione. Il tutto. Il sistema.
La possibilità della comunicazione: Necessità della comunicazione. Il motivo dell’incomunicabilità.
La comunicazione indiretta. Necessità e verità della maschera. Simbolo e canto. Polemica.
Ciò che Nietzsche è per sé.
Quando la conoscenza abbandona l’indagine su un determinato oggetto, per affrontare
filosoficamente il problema dell’essere stesso, allora l’origine, il compimento e la comunicazione
del pensiero, nonché l'autocoscienza di questo pensiero debbono essere diversi dal rapporto
quotidiano e scientifico con tali cose, che sembrano essere indubbiamente presenti nelle parole e nei
concetti.
L’autocoscienza del pensiero, come coscienza del metodo, è certamente anche un momento di tutto
il sapere scientifico, ma, come comprensione di sé, diventa un momento essenziale del filosofare. Il
filosofare non può accontentarsi dell’autocontrollo della conoscenza scientifica, che fa
delle constatazioni oggettive per dimostrare le sue affermazioni. Esso si dimostra piuttosto
misurandosi con l’esistenza possibile di colui che pensa, e comprendendosi in base ad essa. Esso si
compie come un pensare nella lotta con cui l’uomo si rapporta continuamente a se stesso nella
propria globalità.
Cosa sia propriamente questa autocomprensione, rimane, al di là di ogni possibilità di cogliere il
sapere metodico che la sorregge, il segreto del filosofare. Si può soltanto vedere come si esprime, e
poi inserirla nel contesto complessivo di questo filosofare. Quando questa autocomprensione viene
espressa in modo esplicito, è piu facile dire ciò che essa non è, che non ciò che essa è.
Quando infatti l’essere-sé, ancora oscuro a se stesso, dell’uomo che filosofa vuole sapere ciò che è,
cade facilmente in fraintendimenti: in primo luogo, nell’osservazione psicologica del suo esserci, e
in secondo luogo nell’infinita autoriflessione.
Il fatto che Nietzsche riconosca di avere « poca buona volontà per l’autosservazione », significa che
egli non è psicologo nel senso di un ricercatore empirico che si limita ad osservare (che stabilisce
dati di fatto in modo sperimentale, casistico, statistico, e che cerca di spiegarli in modo causale), ma
nel senso di un filosofo che chiarisce l'esistenza. La psicologia nel senso dell’autosservazione si
distingue dalla psicologia che chiarisce
l’esistenza, che assume la forma dell’autocomprensione: l’autosservazione ne si riferisce all’esserci
empirico, anche al proprio, mentre l’autocomprensione si riferisce ad un’esistenza possibile. Il mio
esserci deve esser conosciuto, secondo determinati aspetti — dunque in una sterminata
infinità particolare — attraverso l’osservazione; è dunque importante e significativo sforzarsi di
osservarlo: in primo luogo, in quanto è possibile un aiuto tecnico all’esserci (cosi Nietzsche osserva
le proprie condizioni psichiche in stretto rapporto con la dieta e con il clima), in secondo luogo, in
quanto si mostrano delle manifestazioni, nelle quali o alle quali parla un’esistenza possibile (cosi, la
maggior parte delle osservazioni psicologiche nietzschiane, anche quando colgono dei dati di fatto,
sono dei chiarimenti che si richiamano all’esistenza). Ma l’osservazione non ha piu senso quando
ruota intorno al proprio esserci, indagandolo come oggettività empirica, come se in esso, attraverso
la presunta autosservazione psicologica, si potesse trovare se stessi come esistenza.
Quando cerco di comprendere me stesso, non tanto attraverso l’osservazione del mio esserci, quanto
piuttosto attraverso l'autoriflessione, allora mi vedo nello specchio del possibile, in un movimento
che può far apparire in me tutto ciò che io penso di me, in modo anche diverso, persino opposto.
Quanto più rimango onesto, tanto più il possibile diventa illimitato, nella misura in cui
semplicemente rifletto su di esso. Io mi chiarisco in esso, ma ciò comporta la dissoluzione di ogni
essere-sé reale, che sempre di nuovo scompare, in ciascuna delle forme in cui vorrei conoscerlo:
« In mezzo a cento specchi Falso di fronte a te...
Conoscitore di te,
Carnefice di te stesso! » (8, 422).
Soltanto nel salto inafferrabile dalla possibilità alla realtà, nella consapevolezza dell’origine, in una
certezza che non significa sapere qualcosa di me e neppure una definitiva determinazione di un
contenuto, si sviluppa l’autocomprensione, che è il filosofare in via di compimento, non più
disgregante. Il fatto che questo filosofare in via di compimento possa essere onesto soltanto se ha
osato l’illimitata e disgregante chiarificazione del possibile, giustifica questa autoriflessione. Ma se
si persistesse in questa chiarificazione, allora si giungerebbe alla dissoluzione tanto dell’essere-sé
quanto dello stesso filosofare.
Nietzsche si rivolge pertanto contro l’autosservazione e contro l’auto-riflessione - anche se fa
ricorso ad entrambe -, con l’intento di delimitarle e di trovare l’autentica via dell’autocomprensione,
per la quale sia l’autosservazione, sia l’autoriflessione non sono né la fonte, né la meta. Egli
ha quasi sempre parlato della mera autosservazione in termini di rifiuto. Essa infatti non aggiunge
molto alle conoscenze che l’uomo ha di sé: « Di solito egli non può percepire di sé che le proprie
opere esterne. La fortezza vera e propria gli è inaccessibile, o addirittura invisibile... » (2, 364).
All’uomo è vietato l’accesso a se stesso nella forma della conoscenza di sé: « Ognuno è a se stesso
il piu lontano » (5, 254). « Ogni giorno mi stupisco: non conosco me stesso» (11, 381). Come
conoscenza di se stessi, l’autoriflessione è anche pericolosa. Quando essa realizza, dissolvendolo,
il pensiero della possibilità dei cento specchi di una chiarificazione che mette in discussione
l’esistenza, scambiando questa chiarificazione per una presunta conoscenza psicologica di sé, ne
risulta alla fine il « conoscitore di se stesso — carnefice di se stesso ». Per la vera conoscenza
filosofica - a tal proposito Nietzsche si definisce spesso « psicologo » - le insistenti autosservazioni
e autoriflessioni sono fonte di rovina: « Noi psicologi dell’avvenire... siamo strumenti della
conoscenza e vorremmo avere tutta l’ingenuità e la precisione di uno strumento; per conseguenza
non ci è lecito... “conoscere” noi stessi » (15, 452). Ribadisce dunque Nietzsche, in base alla propria
esperienza: « Ho pensato a me, ho riflettuto su di me sempre soltanto malamente... Ci deve essere in
me una specie di ripugnanza a credere qualcosa di determinato al mio riguardo...» (7, 263); e
ancora: «Mi sembra che ci si chiuda le porte della conoscenza non appena ci si interessi del proprio
caso personale » (15, 451).
A differenza dei cammini mal compresi dell’autosservazione psicologica e dell’infinita
autoriflessione, Y autocomprensione è il processo di chiarimento che si attua nell’agire interiore -
nel filosofare. Questo non riguarda soltanto il mio esserci individuale (la soggettività), e neppure
solo le cose comuni a tutti (l’oggettività), bensì, in entrambi i casi, l’esistenza. L’esistenza è
l’essere-sé che io sono unicamente in virtù del fatto che sono nel mondo, ho a che fare con delle
cose, e vivo nel tutto. L’autocomprensione si riferisce al singolo individuo, in quanto esistenza
possibile, che è tale in virtù del fatto che egli stesso è nel modo in cui gli si mostra l’essere.
L’autocomprensione incontra dunque nell’essere-sé un universale o un essere-eccezione, che è
universalmente essenziale. Il pensiero di Nietzsche è in gran parte un’autocomprensione che si attua
certo in contenuti particolari, ma è al contempo un pensiero che egli comprende sempre di
nuovo, come tale, nel suo stretto rapporto con il tutto. Già da giovane, egli scrive: « Cerco ciò in cui
la mia miseria è qualcosa di universale, e rifuggo da ogni personalismo » (a Rohde, 5. 74); ma,
anche in seguito, ha sempre in mente questo pensiero: « In ogni momento sono dominato dal
pensiero che la mia storia non sia solo una storia personale, e di fare qualcosa per molti, se vivo
così, mi plasmo e faccio l’inventario di me stesso » (11, 384).
La comprensione che Nietzsche ha di sé è dunque legata al suo pensiero, ma non nel senso di una
comprensione che consegue da esso, bensì nel senso di una comprensione che produce e rivela il
suo stesso pensiero. Non è dunque casuale che noi ancora una volta siamo portati a chiederci come
mai e in che modo Nietzsche abbia riflettuto su di sé ed il proprio pensiero, ed è essenziale che
questa sua autocomprensione si sviluppi sulla base dell’unità di tutto il suo pensiero. Se non
vengono analizzati nel processo con cui Nietzsche comprende se stesso, i suoi pensieri restano
nella falsa univocità di una affermazione momentanea. Da questo punto di vista,
lo studio di tutte le interpretazioni autobiografiche, autocritiche delle sue proprie opere, costituisce
un accesso essenziale al suo filosofare.1
Nella nostra esposizione della vita e dei pensieri fondamentali, la comprensione che Nietzsche
aveva di sé era il sottofondo che già emergeva qua e là.2 Dobbiamo ora esporre in modo chiaro ed
unitario questa sua consapevole autocomprensione, che Nietzsche mette in pratica nella sua
ultima riflessione su ciò che egli fa ed è come pensatore. Siccome Nietzsche, nei suoi scritti e nelle
sue annotazioni, ha comunicato in tempi diversi e dunque separatamente questa autocomprensione
della totalità della sua stessa comprensione, egli stabilisce un libero punto di vista per sé e la sua
opera, che lo innalza al di sopra dei contenuti particolari del suo pensiero. L’auto-comprensione è
un processo di chiarificazione nel tutto, che supera ogni contenuto particolare e si riferisce al
filosofare proprio di Nietzsche, e tuttavia non consegue il suo scopo. Infatti, o egli comprende se
stesso come un universale, cioè come il rappresentante dell’umanità, e dunque non fa della sua
autocomprensione la totalità sistematica di un sapere, in quanto ogni universale è per lui discutibile;
oppure egli comprende se stesso come eccezione, ed allora non può, in modo necessario, rendere
universalmente comprensibile questo essere-eccezione.
L’autocomprensione consapevole di Nietzsche si basa in primo luogo sul fatto che il fondamento
della sua conoscenza risiede nella sua vita, in secondo luogo, sulla forma logica del suo pensiero,
in terzo luogo, sulla possibilità della sua comunicazione, in quarto luogo, sul senso di tutto il suo
esserci.
Vita e conoscenza
Che l’origine della conoscenza filosofica risieda non già nella riflessione su un semplice oggetto o
nella ricerca di una cosa, bensì nell’unità di pensiero e vita, in modo che il pensiero scaturisca
dall’intima, sofferta e totale partecipazione dell’uomo: questo è per l’autocoscienza di Nietzsche
l’autentico carattere della sua verità: « Ho sempre scritto i miei libri con tutto il mio corpo e tutta la
mia vita »; « tutte le verità sono per me verità sangui-
nanti » (11, 382). « Io parlo soltanto di cose vissute, e non presento soltanto processi del cervello»
(14, 361).
Nietzsche vede nel pensiero conoscitivo la soggettività di una vita che penetra nell’esserci, nel
mondo, e che è esso stesso questo tutto. « Noi apparteniamo al carattere del mondo,... non abbiamo
alcun accesso al mondo, se non attraverso noi stessi » (13, 228). Attraverso la mia propria
soggettività, attraverso l'esserci che interpreta la mia vita - attraverso tutti i modi in cui io sono, io
partecipo all’esserci, al mondo. Ma l’uomo, con tutto ciò che egli è, come egli è, e con tutto ciò che
fa e pensa, non è affatto vicino, in egual misura, all’essere-se-stesso e all’essere. II cammino verso
la realtà - il pensare con « tutto il corpo e tutta la vita » - è dunque ad un tempo il cammino verso la
totalità dell’essere dell’uomo, che solo ora diventa propriamente cosciente del carattere del mondo:
l’uomo « concepisce la realtà come essa è:... non è estraniato, separato da essa, è identico ad essa »
(15, 122). Affinché vi sia una conoscenza perfetta, è necessario che l’individuo conosca tutto ciò
che esiste, compreso se stesso, e che lo riconosca come il proprio essere; in quanto dice di si a se
stesso, egli dice di sì all’essere, e in quanto dice di sì all’essere, egli dice di si a se stesso, poiché
entrambi sono per lui la stessa cosa. « Ogni caratteristica fondamentale, che è alla base di ogni
avvenimento..., dovrebbe, se fosse sentita da un individuo come sua caratteristica fondamentale,
spingere questo individuo ad approvare trionfalmente ogni momento dell’esistenza generale » (15,
183). E inversamente, l’uomo conosce se stesso per il fatto che conosce le cose, e « solo alla fine
della conoscenza di tutte le cose, l’uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose, infatti, sono soltanto i
limiti dell’uomo » (4, 52).
Unità e separazione di vita e conoscenza. Da alcune affermazioni potrebbe sembrare che Nietzsche
si stacchi dalla vita e voglia conseguire una conoscenza meramente contemplativa. Egli sarebbe
allora, da una parte, colui che vive e, dall’altra, colui che osserva questa vita da una prospettiva
che non è la vita stessa. In questo senso, già nel 1867 egli considera una buona capacità il fatto « di
avere, perfino nella sofferenza e nel dolore... quello sguardo di Gorgone che immediatamente
pietrifica tutto » (Biogr. I, 337). Colui che conosce perviene alla conoscenza di se stesso, quale
tranquillità del meriggio dopo un turbolento mattino della vita: « Egli non vuole niente, non si
preoccupa di niente, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive, — è una morte a occhi aperti.
Molte cose vede allora l’uomo, che non aveva mai viste ». Ma, poiché è un essere che vive, egli
deve di nuovo abbandonare questo stato, in cui si viene a trovare quando conosce: « Infine, si leva il
vento fra gli alberi, mezzogiorno è passato, la vita lo strappa di nuovo a sé, la vita dagli occhi
ciechi... » (3, 358).
Questa separazione tra la vita, che non conosce, e la conoscenza, che non vive, significherebbe che
l'una ostacola l’altra, ma che bisogna vivere la vita cieca per acquisire la materia della conoscenza.
Nell’interesse della conoscenza, la vita deve essere vissuta sino in fondo, senza essere ostacolata.
Ma chi si limita sempre ad osservare, con ciò stesso perde certamente la possibilità di vivere, e
dunque l’esperienza dell’essere, e conseguentemente anche il fondamento dell’autentica
conoscenza. Non bisogna dunque voler vedere intempestivamente: « Finché si sta facendo
un’esperienza, bisogna abbandonarsi all’esperienza e chiudere gli occhi, cioè non voler fare già in
essa l’osservatore » (3, 356). « Se si è esercitati ed abituati a riflettere sull’agire, bisogna però nello
stesso agire... chiudere l’occhio interno. Anzi, nel discorrere con uomini medi, bisogna saper
pensare con gli occhi del pensatore chiusi, - per cogliere e comprendere cioè il pensiero
medio. Questo chiudere gli occhi è un atto sensibile, che si può compiere con la volontà» (3, 324).
Nietzsche vuole dunque vivere, senza peraltro abbandonarsi completamente ed identificarsi con la
vita, ma piuttosto soltanto per conoscere ciò che è.
In tali riflessioni, la sua vita e le sue esperienze sembrano essere per Nietzsche un insieme di
avvenimenti che deve essere accettato e preservato dal disturbo della propria attività, per poi
pietrificarlo nella successiva conoscenza. Ma, nella comprensione che Nietzsche ha di se stesso,
questo punto di vista è solo transitorio, e viene semmai accolto nell’attività della sua conoscenza.
Egli considera questa sua attività come un « esperimento ». Già la conoscenza apparentemente solo
contemplativa delle esperienze spontaneamente accettate, opera un effettivo processo di distinzione:
contro i falsificatori delle loro personali esperienze, Nietzsche afferma: « Noi... vogliamo guardare
negli occhi le nostre esperienze di vita, così severamente come fossero un esperimento scientifico...
» (5, 243). Ai fini della sua autocomprensione, per Nietzsche la vita stessa si trasforma in una serie
di esperimenti: « Vogliamo essere noi stessi i nostri esperimenti e le nostre cavie » (5, 243). Il
pensiero « che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla conoscenza », è per lui « il
grande liberatore ». La conoscenza diventa dunque « un mondo di pericoli e di vittorie » {5,
245); certo, « per diventare saggi bisogna voler fare certe esperienze, cioè buttargli in gola. Ciò è
indubbiamente molto pericoloso; più di un “saggio” fu così divorato » (3, 356). Nietzsche ha
esplicitamente riconosciuto che i suoi esperimenti sono intenzionalmente volti a trasformare le
proprie esperienze di vita: « Vedere le cose come sono! Mezzo: riuscire a vederle da cento occhi, da
molte persone! » (12, 13). Mentre coloro che non hanno personalità, a cui non succede proprio
nulla, nella loro neutralità sono ciechi verso i fenomeni reali, mentre le nature forti, nella loro
tirannia, non vedono che se stesse, misurano tutto in rapporto a se stesse, si ingannano su tutto e
dunque continuano a rimanere false, Nietzsche vuole intraprendere una terza via: essere personale
in innumerevoli forme: « Si debbono formare esseri nuovi »; per diventare giusto, uno deve « essere
passato attraverso molti individui » e servirsene « come funzioni ». « Non basta essere un solo
uomo » (12, 14). « Bisogna esser capaci di tempo in tempo di perdersi - e poi di ritrovarsi » (3,
359). « Chi vuol prendere parte ad ogni cosa buona, in certe ore deve anche saper essere piccolo »
(3, 230). Egli chiede a coloro che vorrebbero spacciarsi per conoscitori d’uomini: « Avete mai
vissuto, dentro di voi, fatti della storia: vacillamenti, terremoti, vaste e lunghe tristezze, fulminee
offerte di gioia? Siete mai stati istrioni con i grandi e piccoli istrioni? Avete mai realmente sostenuto
su di voi il vaneggiamento e il dolore degli uomini buoni? E per giunta il dolore e quella specie di
felicità dei piu malvagi?... » (4, 354). Tutto diventa esperimento, nulla costituisce piu il fondamento
su cui possa restare ancorata la conoscenza.
Se si considera che Nietzsche intende la propria vita come un esperimento, si impone
inevitabilmente la questione di sapere se resti ancora alla vita la serietà esistenziale, se per essa, in
quanto diviene mezzo di conoscenza, tutto non si volatilizzi, e se infine la conoscenza stessa non
perda ogni fondamento. Chi ha seguito ed approvato Nietzsche nella sua dissoluzione di ogni
evidenza dell’essere, considerato nella sua presunta fissità - nella misura in cui è questa la forma
con cui il sapere filosofico parla dell’in-sé delle cose -, resterà attonito di fronte al fatto che la vita
stessa, in ogni sua forma, è ridotta ad un esperimento, e sembra con ciò spogliata della serietà di
ogni decisione.
A tal proposito, bisogna rispondere che, se per Nietzsche la dedizione alle possibilità è la
condizione dell’ampliamento della conoscenza, la sua verità viene raggiunta attraverso la serietà del
possibile. Ciò che Nietzsche prova nella realtà e nella possibilità è per lui, di fatto,
inseparabilmente collegato, e rimane vero nella misura in cui nella possibilità stessa si esprime la
serietà del reale, che lo appassiona in modo struggente. Nietzsche ha proprio in mente il suo
pensiero sperimentale, quando distingue il proprio pensiero da quello degli altri. « Voi conoscete
queste cose come pensieri, ma i vostri pensieri non sono le vostre esperienze di vita, bensì l’eco
di ciò che capita agli altri: come quando la vostra camera trema allorché passa una vettura. Ma io
sono seduto nella vettura e spesso sono la vettura stessa » (11, 382). Così, per il suo modo di
intendete la conoscenza, Nietzsche diventa l’uomo per il quale ogni avvenimento ha tutta la serietà
della sperimentazione del possibile, in cui egli pensa di identificarsi con il corso dell’essere stesso, e
l’uomo che conosce al contempo in modo filosofico questo avvenimento. Spesso, l’uomo che vive
ciò che, nel medesimo istante, conosce, non è più lo stesso uomo; in tal senso, vale l’affermazione:
« È già da molto tempo che ho vissuto i fondamenti delle mie opinioni ». D’altra parte,
avvenimento e conoscenza sono per lui lo stesso atto; ma l’avvenimento non è piu per lui sostanza
certa di sé, e la conoscenza non è più sapere definitivo. Così, egli non è sempre sicuro di sé. Egli si
è consapevolmente esposto al pericolo del possibile, dell’esperienza dissolvente del puro e semplice
esperimento, dell’intreccio di ciò che può effettivamente essere o non essere, ed ha provato questo
pericolo fino al limite che la maggior parte degli uomini non conosce, o in cui soccombe. Egli solo
può dire con ragione di se stesso: « Spregiudicatezza nell’uso di mezzi pericolosi; perversità e
molteplicità del carattere intuite e sfruttate come pregi. La mia profonda indifferenza verso me
stesso:... io adopero il mio carattere » (15, 451). Questa sovranità pericolosa che distrugge forse
l’esistenza nel suo compimento storico, deve però essere intesa solo come l’eccezione di
un’esistenza del possibile, sacrificata come realtà. Lo sperimentare di Nietzsche è la sua
identificazione con il mondo, così come egli lo intende; la sua possibilità è la sua stessa realtà, il suo
sperimentare è il modo in cui egli prende le sue decisioni nella concretezza della sua esistenza
storica. Intendendo la sua vita intellettuale come un continuo sperimentare, Nietzsche perviene alla
sua specifica unità di vita e conoscenza.
Pensare a partire dalla dialettica reale. Nella sua autocomprensione, vita e conoscenza si unificano
nell’attività dello sperimentare; esse sono in un continuo movimento. Questo movimento è
dapprima involontario, poi cosciente e voluto. Poiché esso è unità di pensiero e vita, Nietzsche vi è
presente in ogni istante. La posizione è afferrata di volta in volta in modo assoluto, alla maniera
esclusiva di una forza vivente. È come se proprio ora Nietzsche pensasse l’unica verità vera e
propria. Ma, subito e con la stessa energia, avviene il capovolgimento nel contrario, il movimento
del mettere in discussione. Il fatto che Nietzsche non pensi dialetticamente secondo il metodo
tradizionale, in una rapida visione d’insieme (così facendo, egli avrebbe soltanto ordinato
circolarmente in una vuota ampiezza i gusci della concettualità), ma debba con tutto il suo essere
attraversare in modo vivente le posizioni: questo è ciò che noi chiamiamo la dialettica reale. In essa
sono effettivamente poste le opposizioni e le contraddizioni, senza sottostare ad una sintesi
conosciuta a priori, ma semmai ad una sintesi esistenzialmente aperta. « Questo pensatore non ha
bisogno di nessuno che lo confuti: a ciò gli basta se stesso » (3, 327).
Nell’autocomprensione di Nietzsche, questa dialettica reale è colta nel modo seguente. In primo
luogo, il movimento non è un accadere qualunque, senza direzione, ma si rapporta a se stesso:
Nietzsche lo chiama « superamento ». In secondo luogo, grazie al legame con l’esistenza
possibile che mette in movimento la vita, questo pensiero è sostanziale e deve essere distinto
dall’arbitrio intellettuale. In terzo luogo, esso è un’opera in corso di costruzione, ma che presenta il
pericolo, ad essa strettamente connaturato, di sprofondare continuamente nel no. In quarto luogo, il
suo cammino, per quanto abbia una direzione, conduce all'’infinito, perde il suo terreno, senza
conquistarne uno nuovo; questo pensiero ha la sua sostanzialità soltanto nella forma dell'essere-in-
cammino.
1. Poiché, nella sua esistenza d’eccezione, possibilità e realtà non possono essere separate, la
comprensione che Nietzsche ha di se stesso perviene al « superamento », così come si compie tanto
nella sua vita quanto nella sua conoscenza, che è la sua stessa vita. Per Nietzsche, il suo «
sperimentare » nasce dal compito che gli impone la sua conoscenza, che si spinge fino alle origini
del tutto. Questa conoscenza cerca di sondare tutte le possibilità, per superare ogni particolare
possibilità. Ma, poiché una possibilità solo pensata non diviene vita autentica, e dunque rimane
fuori dall’esperienza vera e propria, Nietzsche deve anche essere ciò di cui egli stesso sempre parla.
Tuttavia, ciò che per altri è qualcosa di esclusivo, in quanto è la loro realtà, in cui essi permangono,
diventa invece per Nietzsche solo un momento del movimento del suo pensiero vitalmente
illuminante. Poiché, quanto a possibilità, esso è tutto, non è nulla di definitivo e non può fermarsi in
nessun luogo. La dialettica reale fa continuamente procedere la sua esperienza in forza di uno
spietato autosuperamento. Se è vero che Nietzsche definisce questo autosuperamento come la sua «
qualità piu forte », d’altra parte egli è pure consapevole che esso scaturisce dal pericolo insito nella
sua vita e nel suo pensiero: « È ciò di cui ho piu bisogno - io sono sempre sull’orlo dell’abisso »
(12, 221).
Per Nietzsche la comparsa di questo superamento significa che continuamente vi si compie un
mettere-in-discussione, un attacco, un tentativo ili negazione; ma significa anche che ciò che è
negato, prima ancora che ne sia provata la verità, deve essere stato il suo proprio essere. Così,
egli vuole in tutta la loro ricchezza i contenuti che diventano per lui reali come possibilità. Egli
critica coloro che cercano di « acquistare un solo atteggiamento dell’animo e un solo genere di
vedute per tutte le situazioni e gli avvenimenti della vita »: questo modo di uniformarsi « si chiama
avere uno spirito eminentemente filosofico ». Egli pensa invece che per l’arricchimento della
conoscenza possa avere maggior valore dare ascolto alla voce sommessa delle diverse situazioni
della vita: « Queste portano con sé le loro particolari vedute. Così si partecipa in modo conoscitivo
alla vita e alla natura di molti, non trattando se stessi come individui unici, fissi e costanti » (2,
398). Mentre colui che « non è passato attraverso diverse convinzioni » resta « irrazionale e testardo
» (2, 407), il cammino e la volontà di Nietzsche è invece il seguente: « Aver percorso l’intera sfera
dell’anima moderna, essermi fermato in ciascuno dei suoi angoli - ecco la mia ambizione, la mia
tortura e la mia felicità » (16, 378). Dunque, secondo la sua autocomprensione, Nietzsche è o è stato
ciò che egli stesso combatte. Questo vale per ciò che egli rispetta e in cui crede; ma vale soprattutto
per ciò che egli considera la vera fatalità e la minacciosa rovina dell’uomo: il nichilismo e la
décadence. Egli si considera « il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé
fino in fondo il nichilismo stesso » (15, 138); oppure: « Décadent e inizio al tempo stesso...: sono
l’una e l’altra cosa » (15, 9). « Con ottica di malato guardare a concetti e valori più sani, o
all’inverso, dalla pienezza e sicurezza della vita ricca far cadere lo sguardo sul lavoro segreto
dell’istinto della décadence - questo è stato il mio più lungo esercizio, la mia vera esperienza... »
(15, 11).
Il significato del « superamento » sta nel fatto che Nietzsche non si abbandona definitivamente a
nulla di negativo e a nulla di positivo appartenente all’esperienza possibile, ma rischia semmai tutte
le posizioni, per dominarle poi tutte attraverso una negazione dialettica. « Mescolatemi e agitatemi
insieme a tutte le lagrime piante sulla terra e a tutte le afflizioni umane, e sempre io ritornerò a galla
come l’olio sull’acqua » (12, 253), e « qualunque cosa io crei e comunque l’ami, - ne debbo ben
presto essere avversario, avversario del mio amore» (6, 168).
Ciò diventa in Nietzsche un procedimento consapevole nel suo rapporto con se stesso, cioè a dire: «
Resistere a tutte le proprie inclinazioni naturali e tentare se in noi è qualcosa dell’inclinazione
opposta » (14, 349). «Perché faccio tacere la passione?... Altri hanno tutto il loro spirito nella
passione: io l’ho nella passione repressa e combattuta» (11, 387). Egli cerca dunque la verità
procedendo in questo modo: « resistendo e contraddicendo... a tutto quello che faceva bene al mio
sentimento immediato» (14, 350). Infatti: «Io ho fallito in tutti i miei affetti. Io ho sempre
contrapposto l’uno all’altro» (12, 224).
2.    Nella vita di Nietzsche, ovunque egli sia e qualsiasi cosa faccia, la dialettica reale assume
immediatamente la forma del pensiero, cosi come inversamente il suo pensiero diventa realtà del
suo essere; ed è proprio e solo per questo che egli può dire di questo suo pensiero sostanziale: «
Se il pensiero è il tuo destino, venera questo destino con onori divini e sacrificagli ciò che vi è di
migliore e di piu amato » (11, 20). Egli ha in mente non già un pensiero qualsiasi, ma proprio questa
necessità che fa di lui un filosofo: si tratta dunque di un pensiero che costituisce l’incessante
movimento sostanziale del suo essere. Se egli stesso deve essere stato in tutto ciò che vuole
superare, allora non è veramente superabile ciò che è soltanto pensato in modo intellettuale, e che
quindi non è nulla. Egli si differenzia dunque dal « don Giovanni della conoscenza », che pure gli è
esteriormente simile per il suo continuo movimento (anche se ciò non impedisce che, per un istante,
egli possa anche essere e fare le stesse esperienze del « don Giovanni della conoscenza »): « Gli
manca l’amore per le cose che conosce, ma nella caccia e negli intrighi della conoscenza... è
ingegnoso, formicolante di desiderio e ne gode, finché non gii resta piu nulla cui dar la caccia, se
non quel che nella conoscenza è l’assolutamente nocivo... » (4, 260).
3.    La conoscenza dialettica guidata dall’essere-sé non può mai limitarsi a negare. Il no è il
cammino verso il nuovo sì. Per questo Nietzsche esige, ad esempio, di « superare ogni cosa
cristiana con qualcosa di sovra-cristiano, e non solo liberarsene » (16, 390). Egli esclama,
rivolgendosi a colui che opprime se stesso in quanto si limita a negare: « Tu hai superato te stesso:
ma perché ti mostri a me soltanto come colui che è superato? Io voglio vedere il vincitore... » (12,
283). Il vincitore è colui che ha conquistato il sì, dal quale risulta, come mera conseguenza, un no.
Per lui, 1’« autosuperamento » ha « senso soltanto come mezzo di formazione della forza
dominante » (14, 273). Invece, il procedimento per cui il sì risulta dal no, secondo Nietzsche è
proprio soltanto di colui che crea, è il suo segreto: « Io scrutavo le origini: allora mi estraniavo da
ogni rispetto... Ma in me stesso il principio del rispetto germogliò segretamente; nacque da me un
albero, all’ombra del quale mi sono seduto, l’albero dell’avvenire » (12, 252). Il primo discorso di
Zarathustra dà un’immagine della dialettica reale dell’esistenza. Egli vede compiersi le tre
metamorfosi dello spirito, che conseguono dal portare le cose piu pesanti e diffìcili: oltre
alla liberazione da queste catene, attuata grazie al sacro no, è necessario prendersi il diritto per
nuovi valori - per creare grazie al sacro sì (cfr. 6, 33-36).
La negazione dialettica, come procedimento solo pensato o realmente compiuto, ha dunque senso
soltanto nel movimento di costruzione. Ma questo consiste nel reciproco legame storico dei
procedimenti, nel conservare  ciò che è stato. « Continua sempre a divenire ciò che tu sei —
educatore e plasmatore di te stesso!... Allora tu conservi la memoria dei tuoi momenti buoni e ne
trovi la connessione, l’aurea catena del tuo te stesso » (12, 177). Ma se, nel continuo
autosuperamento, proprio tutto viene messo in discussione, compreso anche, da ultimo, questo
stesso cammino della libera conoscenza - (« Infelice! Ora hai compreso anche la vita del solitario,
del libero: e di nuovo... te ne sei precluso la via, proprio mediante la tua conoscenza ») - resta
ancora il compito filosofico: « Io voglio ordinare tutto ciò che nego, e cantare fino in fondo la
canzone » (12, 224); e ne risulta un’unità che può diventare il tutto della conoscenza dialettica delle
possibilità dell’essere. Questa oggettivazione intellettuale è soltanto una prospettiva transitoria di
Nietzsche. Egli non potrebbe mai esserne soddisfatto. La dialettica reale resta per lui origine e
destino.
4. Tuttavia, il superamento ed autosuperamento, questo passare attraverso tutte le possibilità,
sembra essere senza meta. Dove conduce il cammino della dialettica, realmente sperimentata e
prodotta attraverso il sacrificio continuo di se stessi? Se l’ultimo superamento - per esempio quello
degli uomini superiori nel quarto libro dello Zarathustra - è puro movimento generato dall’impulso
delle estreme esigenze di veridicità, senza che ne risulti un chiaro ideale e la creazione e
realizzazione dell’uomo stesso, e quindi anche senza riconciliazione e senza altre decisioni se non
quella della negazione, in tal caso sembra che, di fatto, si tratti esclusivamente di una incessante
crocefissione di sé, che si conclude nel nulla. Ma, anche laddove non espone il proprio ideale in
modo chiaro, Nietzsche coglie tuttavia il senso positivo del superamento nel suo stesso cammino:
egli evoca l'infinità.
In verità, il giovane Nietzsche pensava diversamente, quando riconosceva negli orizzonti chiusi la
condizione per una vita piena: « Questa è una legge generale: ogni vivente può diventare sano, forte
e fecondo, solo entro un orizzonte »; per una tale potente natura « l’orizzonte è chiuso e completo »
(1, 287). Ma piu tardi, in una delle sue visioni retrospettive dei propri scritti, Nietzsche comprende
se stesso in modo opposto; egli rileva infatti in se stesso « una buona volontà di orizzonti aperti, una
certa accorta cautela di fronte alle convinzioni » (14, 354). Di fatto, nella sua cosciente volontà e nel
suo effettivo pensiero, ritorna sempre l’anelito verso l’infinito; egli comprende se stesso, in modo
sempre più chiaro, nell’ineluttabilità e nell’incredibile pericolo dell’infinito, in cui egli si arrischia
non solo per gli istanti del possibile, ma - come l’eccezione che egli è - sempre e fino in fondo.
Egli si sente come « un uccello in volo verso coste lontane » (12, 323). Una nuova nostalgia lo
strugge: «la nostalgia di casa senza casa» (12, 255). « Con la forza del suo sguardo spirituale e della
sua penetrazione visiva cresce la distanza...: il suo mondo diventa piu profondo e diventano visibili
sempre nuove stelle, sempre nuovi enigmi e immagini » (7, 80).
Ma Nietzsche sperimenta l’orrore di fronte al pericolo « nell’orizzonte dell’infinito »: « Abbiamo
lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i pomi alle nostre spalle - e non è
tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guàrdati innanzi!... Guai se ti coglie
la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà - e non esiste più “terra” alcuna! » (5,
162); “È solo l’occhio tuo, infinitudine, che immenso mi sta guardando! » (5, 359).
Non resta che il cammino in quanto tale. Nietzsche ne parla spesso. Nel primo volume di Umano,
troppo umano, nell’aforisma intitolato « Parole di conforto di un progresso disperato », Nietzsche
scrive: « Inoltre non possiamo piu tornare al vecchio, abbiamo bruciato le navi, non resta che essere
valorosi... » (2, 232); e nell’aforisma « Il viandante » si legge: « Chi anche solo in una certa misura
è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante » (2,
413). Nietzsche accenna a questo cammino anche in altri contesti: nell’aforisma « Avanti! » (2,
226), nell’ultimo aforisma di Aurora, « Noi, aerei naviganti dello spirito» (4, 371), e laddove parla
di «noi argonauti dell’ideale» (5, 343).
Il fatto che, nell’orizzonte dell’infinito che deve essere universalmente conosciuto, la via di questa
dialettica reale diventi sempre più stretta e ad ogni passo sempre più inaccessibile, e che in ogni
superamento debba quindi essere determinata da un essere-sé, non riconosciuto, che invece del
nulla crea la pienezza, rende questa stessa via inafferrabile nella sua unicità. Essa non può essere
insegnata, né conosciuta; nella sua possibilità, diventa incerta per la stessa comprensione che
Nietzsche ha di sé: « Posso trovarmi ancora sul gradino più stretto della vita: ma chi sarei se vi
mostrassi quest’arte? Volete vedere un funambolo? » (12, 283).
La coscienza della forma logica di pensiero
L’autocomprensione di ogni filosofia si esprime soprattutto nel modo della sua presa di coscienza
logica. Il filosofare sa al tempo stesso che cosa fa e come lo fa; lo sa in modo metodicamente
chiaro.
Nel suo modo di presentarsi, il pensiero di Nietzsche - che non soltanto si sviluppa in una pura
attività intellettuale attraverso la coerenza logica del suo oggetto, ma procede dall’origine della
dialettica reale nella forma di ciò che è pensato in modo affermativo — è caratterizzato dalla
problematicità di ogni singola asserzione e da una persistente contraddittorietà. Nella dialettica
reale del pensiero vivamente compiuto e sofferto, trae origine ciò che si esprime in una dialettica
obiettiva, cioè nel movimento del pensato che si dissolve o si accresce in contraddizioni; questa
dialettica obiettiva ha la sua possibilità a partire dalla molteplicità di significati e dalla mobilità di
tutto il pensabile.
Se la dialettica pervade ognuno dei pensieri nietzschiani, e Nietzsche nella sua completa veridicità
ha confidato in essa, purtuttavia egli non l’ha impostata metodicamente. Glielo impediva la
veemenza delle idee che si sovrapponevano continuamente l’una all’altra, la sua vita di pensatore,
una vita in continua tensione e che raggiunge la pace solo in momenti mistici. E gli era di ostacolo
anche la mancanza di una cosciente appropriazione delle metodiche del pensiero filosofico. Di fatto,
Nietzsche ha tentato solo occasionalmente l’autocomprensione logica, e non l’ha sviluppata.
Ciononostante, Nietzsche è a conoscenza anche di questo problema fondamentale della possibilità
di ogni filosofare, cioè della questione delle forme logiche; ciò accade quando egli parla di
opposizione e contraddizione, del tutto, del sistema.
Opposizione e contraddizione. Il giovane Nietzsche affronta il pensiero metafisico: « Se la
contraddizione è l’essere veritiero..., se il divenire appartiene all’apparenza, allora comprendere il
mondo nella sua profondità significa comprendere la contraddizione » (9, 198). Già molto prima
egli aveva intravvisto questo enigma: « Quando avevo dodici anni mi inventai... Dio -Demonio. Il
mio sillogismo era che Dio... per poter pensare a se stesso, doveva pensare il suo contrario... » (14,
347).
La questione diventa: contraddizione e opposizione si trovano nell’essere stesso, o sono soltanto
forme fenomeniche e dunque non esistenti in sé? Il divenire appiana le contraddizioni, e la
contraddittorietà viene forse eliminata nella realtà ultima del divenire? O il divenire è
piuttosto apparenza, e le contraddizioni insite nell’essere sono la realtà ultima? Partendo da tali
principi, Nietzsche non ha poi continuato a pensare in modo conseguente. Ma ha sempre di nuovo
toccato questo eterno problema fondamentale del filosofare, in cui logica e metafisica si incontrano.
Se, ad esempio, per Nietzsche « i problemi filosofici riprendono oggi in tutto e per tutto quasi la
stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per
esempio il razionale dall’irrazionale...? » {2, 17), ne segue tuttavia per lui subito che « è lecito
dubitare, in primo luogo, se esistano in generale antitesi, e in secondo luogo, se quei popolari
apprezzamenti e antitesi di valore... non siano forse che apprezzamenti pregiudiziali » (7, 10).
Perciò Nietzsche, nel pensare e nel giudicare, si guarda « da tutte le opposizioni grossolane e
squadrate » (14, 354): « solo sul mercato si viene assaliti con la richiesta di un sì o di un no » (6,
74).
Con tali osservazioni, Nietzsche sembra improvvisamente penetrare per un attimo nel fondamento.
Di solito egli si muove già in particolari esperienze contemplative, che gli mostrano che la verità
non può essere incontrata in rozze antitesi e alternative: poiché gli opposti sono legati l’uno con
l’altro, la verità e il vero essere possono prodursi solo nella contraddizione. Sarebbe possibile che il
valore delle cose buone « consista proprio nel fatto che esse sono capziosamente imparentate,
annodate, agganciate a quelle cattive, apparentemente antitetiche, e forse anzi sono a queste
essenzialmente simili » (7, 11), e « che l’uomo piu alto... sia l’uomo che rappresenta al massimo il
carattere antitetico dell’esistenza... Gli uomini ordinari... si rovinano subito, quando cresce... la
tensione degli opposti » (16, 296). Così, Nietzsche può dire: « L’uomo pili saggio sarebbe quello
piu ricco di contraddizioni...: e in mezzo i suoi grandi attimi di consonanza grandiosa » (15, 336).
Da questa concezione onnicomprensiva dell’essere come ciò che è in contraddizione e opposizione,
che tuttavia non permangono, risulta per Nietzsche la forma del filosofare come dialettica e quella
della vita libera e originaria come dialettica reale. Il no è nel contempo un sì. Zarathustra «
contraddice con ogni sua parola, lui, lo spirito più affermatore di tutti; in lui tutti gli opposti sono
legati in una nuova unità. Le forze supreme e infime... sgorgano da una sola sorgente con immortale
sicurezza » (15, 95); perciò Nietzsche definisce « mediocre » nell’uomo il fatto « che
non comprenda come necessario il rovescio delle cose; che combatta gli inconvenienti come se se
ne potesse fare a meno; che non voglia accettare con I’una cosa l’altra... » (16, 295). Egli decanta la
specie tedesca (caratteristica in Leibniz, Goethe, Bismarck): «Vissero fra i contrasti senza
curarsene, pieni di quella forza plasmabile che si guarda dalle convinzioni e dalle dottrine, in quanto
le usa l’una contro l’altra, riservando a se stessa la libertà » (16, 297-298).
L’essere liberi da ogni certezza derivante dall’esclusione delle opposizioni, inteso come capacità di
sopportare l’opposizione e la contraddizione, porta nella pratica non solo al fatto di poter sopportare
la contraddizione dell’altro, bensì al fatto che l’uomo libero desidera persino la contraddizione e la
suscita (5, 227). Questa libertà richiede il processo della dialettica reale: « Tu devi voler bruciare te
stesso nella tua stessa fiamma... Da solo tu vai sul cammino del creatore: dai tuoi sette demoni tu
vuoi creare un dio! » (6, 94).
È chiaro che per Nietzsche dall’esperienza della contraddittorietà non è certo sorto il metodo
cosciente, né una continua, duratura autocomprensione del suo pensiero. Per lui, sofistica e
dialettica non si separano espressamente, e nemméno si separa il senso dell’unificazione degli
opposti dal senso della decisione tra di essi; egli non sviluppa la multidimensionale logica di
opposizione e contraddizione; egli diventa a tratti, per così dire, chiaroveggente senza rendere
ulteriormente chiaro ciò che scorge. Ciò che solo di quando in quando egli vede logicamente è però
ciò che, di fatto, porta a termine. La sua autocomprensione logica ha toccato, ma non
completamente illuminato, ciò che, secondo la forma, è il nucleo del suo filosofare.
Il tutto. La coscienza che Nietzsche ha della connessione interna di tutto il suo essere ed il suo
pensiero nella successione costruttiva del tempo non è, originariamente, di tipo logico: « Noi
cresciamo come alberi... - non in un solo luogo, ma ovunque, non in una sola direzione, ma sia in
alto che in fuori, sia in dentro che in basso;... non c’è più per noi nessuna libertà di fare una
qualsiasi cosa isolatamente, di essere ancora una qualsiasi cosa per sé stante... » (5, 328).
Da ciò Nietzsche ricava in primo luogo (per il suo conoscere) l’esigenza logica della totalità: « non
possiamo né sbagliare singolarmente, né cogliere singolarmente la verità » (7, 289). Tutto il pensato
è, però, qualcosa di isolato. Il senso della verità di tutto il pensato non può perciò valere in assoluto.
Nietzsche respinge come « peccato originale dei filosofi » il fatto di corrompere i principi
assumendoli incondizionatamente. Così, la « volontà » di Schopenhauer è diventata, « per il furore
di generalizzazione filosofica, una calamità », « quando si afferma che tutte le cose della
natura hanno una volontà » (3, 17). È impossibile « dipingere il quadro della vita », poiché sorgono
« sempre e soltanto quadri... da un’unica vita » (3, 22). Ma la totalità non diventa oggetto. Rimane
pur sempre il suo compito, ma per lui, nella conoscenza logica, essa si disperde nel mero « tutto »: «
Questo dice: tutto il mondo è pensiero, volontà, guerra, amore, odio: fratelli miei, io vi dico: tutto
ciò, preso singolarmente, è falso, tutto ciò, preso nel suo insieme, è vero» (12, 240).
In secondo luogo (per il giudizio di valore) Nietzsche rileva che la totalità non è valutabile (cfr.
supra). L’orizzonte sorto attraverso l’idea della totalità richiede nella valutazione degli avvenimenti
di « conquistare un’altezza di contemplazione... dove si capisce che tutto va esattamente
come dovrebbe andare; che ogni specie di “incompiutezza”... fa parte anch’essa della suprema
desiderabilità » (16, 362). Persino i fraintendimenti nei consueti modi di intendere il mondo
dovrebbero essere sanzionati nella concezione di una perfezione (16, 365), gli aspetti negati
dell’esistenza dovrebbero essere concepiti non solo come necessari, ma altresì come desiderabili
(16, 383).
Il pensiero di Nietzsche, che ha toccato la situazione logica fondamentale - tutto il pensato è
particolare, ogni valutazione è particolare, la vera conoscenza e il vero valutare si trovano solo sul
cammino che conduce al tutto — supera in tali formulazioni il cammino mediante un’evidente
richiesta di riconciliazione di tutto il reale nella totalità. Per lui scompare allora il salto tra un tutto
che deve essere immaginato e in cui le contraddizioni si eliminano, e la finitudine dell’esistenza,
che deve decidersi tra le contraddizioni. Egli si incaglia qui temporaneamente senza saperlo
nell’antichissimo pensiero della conciliazione nella totalità. Ma ciò che l’uomo può scorgere come
totalità nel movimento del suo pensiero, non è in grado di esserlo egli stesso nella decisione
concreta. La conciliazione esiste, quando esiste, solo nella trascendenza, non in un tutto pensato o in
un atto conclusivo. Tra la totalità del conoscere che rinchiude in sé tutte le contraddizioni e la
singolarità dell’esistenza perentoria nel modo di agire, rimane la contraddizione definitiva nel
tempo. Non posso decidermi per l’essere della contraddizione in me, come se io stesso potessi
essere il tutto, senza dissolvermi esistenzialmente nel nulla.
Ma l’effettivo filosofare di Nietzsche è anche qui incomparabilmente più forte della sua coscienza
logica. A volte è vero che egli può anche fare con disinvoltura ciò che combatte in altri filosofi, nei
quali il cammino verso la conciliazione del tutto si compie concettualmente. Ma, al di là di questi
istanti, egli abbraccia, in modo altrettanto decisivo, il comportamento della finitudine. Quando dice:
« Una cosa sono io, un’altra i miei scritti » (15, 49), egli sembra sostanzialmente percepire il salto
tra esistenza e conoscibilità del tutto. Ma per prima cosa egli aveva decisamente riconosciuto che «
non c’è un “tutto” », che « non esiste affatto un processo complessivo (pensato come sistema) » (16,
169), e nemmeno l’insieme di ciò che è pensato aspira mai ad un sistema, ma, anzi, questo viene
respinto a favore della non conclusività e dell’aperta infinità. L’esigenza dell’esistenza prevale su
ogni rassicurazione tranquillizzante prodotta da qualsiasi conoscenza.
Il sistema. Le filosofie esistono sotto forma di sistemi. Nietzsche le vede come strutture che si
presentano necessariamente in molteplici forme. I sistemi dei presocratici « hanno in sé un punto
che è completamente irrefutabile, una disposizione d’animo personale... Il modo di esaminare le
faccende umane è senz’altro là esistito e dunque è possibile » (10, 5). « I diversi sistemi filosofici
sono da considerare metodi educativi dello spirito; essi hanno sempre sviluppato una forza
particolare dello spirito, con la loro pretesa unilaterale di vedere le cose proprio cosi e non
diversamente » (13, 82). I sistemi non sono tali a piacere, ma sorgono da un terreno di volta in volta
caratteristico: « La lotta dei sistemi... è una lotta di istinti affatto determinati (forme di vitalità, di
decadenza, di ceti, di razze, ecc.) » (15, 448).
Ma Nietzsche non percorre il cammino di questi sistemi. Egli si sente lontanissimo da quei filosofi
« che abitano in una casa della conoscenza ben costruita e ritenuta solida ». Egli ha la « forza e
l’agilità per restare in un sistema incompiuto, con prospettive libere e non definite », e non ha
bisogno di un mondo dogmatico.
Secondo Nietzsche, i sistemi hanno la loro origine nel « pregiudizio fondamentale... che l’ordine, la
perspicuità, la sistematicità debbano inerire al vero essere delle cose, mentre il disordine...
deriverebbe solo da un mondo falso o conosciuto in modo incompleto... » (13, 57). A questo
pregiudizio sono inclini determinati tipi di uomini: così, ad esempio, quelle « menti schematiche
che ritengono piu vero un complesso di pensieri, quando lo si può inserire in schemi o tavole di
categorie precedentemente tracciati » (13, 57), oppure quelle che soffrono dell’incertezza e tendono
dunque ad una rigida fede (13, 72). Muovendo dal suo impulso alla veridicità, Nietzsche respinge il
sistema: « La volontà di sistema è una mancanza d’onestà » (8, 64). Nella sua esecuzione, « quella
dei sistematici è un’arte da commedianti: volendo colmare un sistema... essi devono tentare di
far apparire le loro deboli qualità nello stile di quelle più robuste - essi vogliono rappresentare
personalità complete, di un’unica e forte specie » (4, 255). Da ciò consegue: « È una specie di
impostura, quando oggi un pensatore propone una totalità di conoscenza, un sistema...» (13, 72), e
ancora: « Non sono abbastanza limitato per un sistema — e nemmeno per il mio sistema » (14,
354).
Il fatto che, ciononostante, Nietzsche tenda a un sistema, deve avere un altro senso. O questo è un
sistema logico-tecnico: « È sufficiente che ci accordiamo su di una totalità di presupposti di
metodo... » (13, 73); ma Nietzsche non ha applicato questo senso. Oppure il sistema sarebbe,
contro i sistematici disonesti, quello di un essere che pensa al tutto, benché mal volentieri
schematizzi e sia amico dell’incertezza (13, 72). Questo essere è Nietzsche; egli, il cui senso per il
tutto è così decisivo, non può essere senza un riferimento a una qualche forma del sistema. Bisogna
dunque vedere come egli intenda ciò.
Anzitutto per il pensiero di Nietzsche è dominante la forma aforistica.
Il modo di operare di Nietzsche3 è aforistico; esso sembra essere rimasto sostanzialmente uguale per
tutta la sua vita: le idee gli sovvenivano nel procedere; nell’ultimo decennio egli passava all’aperto
molte ore del mattino e del pomeriggio, stendendo estemporaneamente annotazioni sul taccuino e,
dopo esser rincasato, riempiva i suoi quaderni, rielaborando con stile piti accurato ciò che aveva
scritto. Così sorse una quantità straordinaria di frammenti che furono subito portati alla forma
concettuale fin dalla loro stesura iniziale. Da questo materiale provengono sia i saggi unitari, sia i
libri di aforismi, sia gli abbozzi della grande opera sistematica degli ultimi anni. I frammenti
postumi pubblicati in questa loro prima ed originaria forma sono altrettanto numerosi di quelli
pubblicati quando Nietzsche era ancora in vita. Poiché tutte le pubblicazioni sono o aforismi, o
saggi che, commisurati all’idea del tutto, assumono essi stessi il significato di aforismi, di fatto la
forma letteraria complessiva del pensiero di Nietzsche è rimasta aforistica.
Nietzsche ha coscientemente eletto 'l’aforisma a forma. È vero che egli, costretto dalla malattia, per
parecchi anni deve accontentarsi di ritoccare per la pubblicazione ciò che ha scritto, lasciandolo
comunque pur sempre nella forma dell’aforisma: egli lamenta che, in tal modo, per il lettore « il
terreno dell’equivoco è spesso molto vicino; la brevità, il detestabile stile telegrafico, a cui mi
costrinsero mente e occhi, ne sono la causa » (a Gast, 5. 11. 71). Ma egli ricava da ciò un compito:
poiché gli uomini moderni aprono la loro anima soltanto durante i loro viaggi, quando sono liberi
dalle esigenze della professione, coloro che lavorano per cambiare le opinioni generali devono
rivolgersi ai viaggiatori. Da questa considerazione risulta « una forma determinata di
comunicazione: infatti, all’essenza alata e inquieta del viaggio ripugnano quei sistemi di pensiero
tirati alla lunga... Debbono essere libri che non si leggono da cima a fondo, ma si sfogliano di
frequente » (11, 5). Egli non ripete mai questo punto di vista, ma trova più tardi altre giustificazioni:
« Una cosa detta con brevità può essere il frutto e il raccolto di molte cose pensate a lungo » (3, 71).
Contro ogni apparenza, essa può essere la parte di un tutto. « Credete dunque
che sia opera frammentaria, opera imperfetta perché ve la si dà (e si deve dare) a pezzi? » (3, 71).
La forma aforistica è persino necessaria per la comunicazione di una cosa essenziale: « È vero che
una cosa resta incompresa... per il semplice fatto che viene afferrata a volo...? Per lo meno ci sono
verità... di cui non ci si può impadronire se non all'improvviso... » (5, 341). Perciò, « i libri piu
profondi e inesauribili avranno certo sempre qualcosa del carattere aforistico e repentino dei
Pensieri di Pascal » (14, 450). Fino all’ultimo Nietzsche è legato a questa forma: « L’aforisma,
la sentenza, in cui tra i Tedeschi sono il primo maestro, sono le forme dell’“eternità”; la mia
ambizione è quella di dire in dieci proposizioni quel che ogni altro dice in un libro - quel che ogni
altro non dice in un libro... » (8, 165).
Ciononostante, quando scrive questo, da lungo tempo la sua volontà tende alla forma di un’ampia
opera complessiva di carattere non aforistico. E tuttavia, i suoi numerosi piani non sono affatto
progetti sistematici, ma progetti espositivi; essi non ricevono, nella successione temporale, uno
sviluppo nel senso della costruzione metodica di tipo sistematico, le cui tappe, per esempio, si
presenterebbero nei progetti; piuttosto, questi stessi piani hanno un carattere complesso e aforistico.
Anche un sistema costruttivo dell’insieme sarebbe per Nietzsche di fatto assurdo: egli può
delineare eventuali abbozzi sistematici, ma devono rimanere semplici strumenti per il suo uso
personale; essi non possono comprendere l’insieme del suo pensiero.
A differenza tanto di un sistema come opera di esposizione, quanto del sistema come concezione del
mondo alla maniera delle precedenti metafisiche (Nietzsche avrebbe potuto realizzare entrambi, se
non si fosse ammalato e se avesse avuto tempo, ma anche in tal caso solo come uno strumento del
suo pensiero globale, non come la forma di questo stesso pensiero), l’unità del suo pensiero
complessivo è « piu di quanto si è soliti chiamare filosofia » (a Overbeck, 20. 8. 84). Il tutto in
Nietzsche è il tratto onnicomprensivo di cui la grande politica, la costruzione
sistematica dell’essere, la concezione mistica dell’essere sono i singoli momenti, ognuno dei quali,
senza l’altro, sarebbe privato del suo senso. Perciò il pensiero di Nietzsche è soltanto un analogon
dei sistemi precedenti. La totalità organica del suo pensiero, come tale inconsapevole, non è
propriamente un tema o un oggetto del suo pensiero, e tuttavia è ciò che cresce
nell’unità complessiva del suo stesso pensiero. Se si cerca di ricavare il sistema (come accade in
parecchie impostazioni della nostra esposizione dei suoi pensieri fondamentali), allora si naufraga
in un compito senza fine. Ciò che si ricava potrebbe essere forse, nel migliore dei casi, qualcosa di
piu e di nuovo rispetto alla totalità ormai cosciente, ma ogni volta sarà anche qualcosa di meno,
poiché bisogna necessariamente dimenticare, ignorare, escludere. Ciò che Nietzsche stesso ricavò
dalla sua vita di pensatore in scritti volta a volta in sé compiuti, quando presentava i « vestiboli »
della sua filosofia, gli attacchi polemici, i tratti aforistici, non era piu il tutto.
Questo tutto si trova nei suoi diversi modi di procedere per impossessarsi della verità. Nella
riflessione, nella contemplazione, nell’esperienza e nello slancio mistico, ovunque Nietzsche
procede da possibilità a possibilità. Egli, come Kierkegaard, lesse il « testo originale delle
condizioni dell’esistenza umana ». Ogni tipo di verità, in quanto è esistenziale, anche nelle sue
forme inautentiche, sviate, compare in lui. Questo suo percorso è, però, un movimento di decenni.
La verità di Nietzsche non si trova in uno stadio qualunque, non alla fine né all’inizio, e nemmeno
su un’altura, bensì nel movimento complessivo, in cui ogni tipo di verità ha, nel suo rispettivo
contesto, il suo insostituibile senso.
Questa energia unificante del tutto che si manifesta attraverso un movimento, in quanto tale non si
esprime, come in Hegel, mediante un’opera sotto forma di sistema. La forza visionaria nel
particolare, la costruzione di particolari correlazioni, i tentativi di pensare possibilità totali, tutto
ciò si fonde di nuovo allo stesso modo nel movimento complessivo.
Perciò il sistema di Nietzsche non si può ottenere mediante una costruzione d’insieme. Esso rimane
un sistema in un continuo e sempre rinnovato stato embrionale. Ma le sue piu profonde intuizioni,
quelle che si estendono a tutto, non sono presenti in modo stabile: ciò che Nietzsche scrive non
dev’esser letto su un piano solo; ci sono gradi di vicinanza e di lontananza alla sostanza del suo
movimento. La mancanza di un metodo coscientemente applicato limita di volta in volta la
chiarezza, consente l’ingiustizia e certo la banalità; tale mancanza rende possibile il modo di parlare
assolutizzante, definitivo e dogmatico. I colpi infetti dagli smascheramenti psicologici diventano
anche colpi mortali. Ma la sicurezza istintiva e la coscienza metodica di Nietzsche bastano già a
mostrare queste mancanze per il modo in cui Nietzsche comprende se stesso. A questa
autocorrezione corrisponde il modo in cui le frasi di Nietzsche si limitano, si eliminano,
si interpretano reciprocamente. Non si può negare che come Nietzsche solo nei momenti buoni
aveva sott’occhio l’insieme della sua opera, nella totalità plastica del suo compito, così la sostanza
del suo filosofare non è presente in modo uniforme in tutti i suoi scritti. La forza del suo contenuto è
che il particolare emerge in modo isolato e acuto; che non sussista in modo duraturo, è la forza della
dialettica che agisce in Nietzsche in modo sistematico e che egli ha chiaramente espresso nei
momenti di maggior consapevolezza.
La possibilità della comunicazione
La caratteristica della vita di Nietzsche era la solitudine; ed egli ne era consapevole. Trattando della
verità nella rottura trascendente, si è visto che incomunicabilità e silenzio erano un limite
essenziale. Nell’autocomprensione del suo filosofare, Nietzsche non ha mai riflettuto in modo così
vario su nessuna questione come su quella che riguarda ciò che è comunicabile, come è
comunicabile, che cosa fonda l’incomunicabilità e che cosa consegue da ciò.
Necessità della comunicazione. Che l’esser-vero e l’esser-comunicabile vadano di pari passo,
Nietzsche l’ha espresso nella semplice frase: « Uno solo ha sempre torto, ma con due comincia la
verità » (5, 203). Nietzsche ha sperimentato ciò quando nessuno ilo ascoltava, e nessuno sembrava
capire ciò che egli voleva. Peter Gast divenne per lui una sorta di compensazione per la mancata
comprensione; quando Nietzsche credeva « quante buone cose » fossero loro « comuni », scrisse a
proposito di questa sua grande fortuna: « Lei non può affatto sapere quanto mi sia di conforto il
pensiero di questa comunione - Infatti un uomo solo con i suoi pensieri è considerato un pazzo, e
abbastanza spesso anche da se stesso: ma con due inizia la “sapienza”, e la ferma fiducia e il valore
e la salute spirituale » (a Gast, 10. 4. 81).
Ma tale soddisfazione rimase transitoria. Piuttosto, crebbe per Nietzsche la problematicità di ogni
forma di comunicazione; essa divenne il pungolo della sua autocomprensione: « Il nostro dubbio
riguardo alla comunicabilità del cuore è sempre più profondo... ». Dipende dagli altri: « Non si ha in
mano la possibilità di comunicare... si deve trovare colui verso il quale può esserci comunicazione »
(alla sorella, 20. 5. 85). E dipende da lui stesso; ma « io sono il più nascosto di tutti coloro che si
nascondono » (12, 257). Che tali frasi si ripetano costantemente, non significa per Nietzsche una
rinuncia, bensì la spinta appassionata verso l’imperturbabile comunicazione del vero. Persino di
fronte all'impossibilità di comunicare il suo pensiero più profondo Zarathustra, affermando ancora
l’apparenza della comunicabilità, può dire ai suoi animali che parlano invano: « È per me un tale
ristoro che voi chiacchieriate... Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni,
arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità?... Proprio tra le cose più simili tra
loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l’abisso più tenue è il
più difficile da superare... Il parlare è una follia bella... » (6, 316 e sgg.).
Il motivo dell'incomunicabilità. Nietzsche è consapevole della ragione per cui ciò che è essenziale,
la stessa verità, è incomunicabile: comunicabile è soltanto ciò che è dicibile, dicibile è soltanto ciò
che è pensabile, ma tutto il pensato è un’interpretazione. Perciò Nietzsche sa che « per essere
comunicabile qualcosa dev’essere fermo, semplificato, precisabile »; cioè deve essere « riordinato »
(16, 68). Come tale, ciò che vien detto non è già più il vero. Tutto ciò che è comunicato rimane vero
solo nel superamento della determinatezza di volta in volta incontrata. Ma Nietzsche stesso ha
ugualmente sviluppato simboli e dogmi molto determinati nella sua filosofia. Nella misura in cui
questi non significano un oscuramento e un restringimento dello sguardo di Nietzsche e sono di più
della drasticità della formulazione momentanea e di ciò che vi è di esclusivo in ogni affermazione;
nella misura in cui essi sono di più di una dottrina con le poche linee tracciate, oltre alle quali tutto
il resto viene trascurato, e più di sfavillanti lampi che rischiarano, fermati solo con la forza che
svelano soltanto per nascondere il resto in modo ancor più deciso; ebbene, in quanto tali, questi
simboli e dogmi devono, come tutto ciò che Nietzsche ha detto, essere ricompresi assieme nel
percorso del movimento come verità di nuovo superate, non definitive. Perciò il lettore viene
spronato da Nietzsche stesso a non trascurare la problematicità insita nelle dottrine che si
consolidano in modo crescente nel suo ultimo decennio, a cui sottostanno — certo raramente —
anche il superuomo, l’eterno ritorno, la volontà di potenza. La sua peculiare dottrina significa per
lui solo il tentativo di una nuova interpretazione. Ma poiché il cammino di questo interpretare e del
superare mediante una nuova interpretazione non ha limiti, « il mondo è piuttosto divenuto per noi
ancora una volta “infinitoin quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé
interpretazioni infinite. Ancora una volta il grande brivido ci afferra... » (5, 332). Questa è l’infinità
propria di Nietzsche, in cui la comunicabilità della verità, sia con se stesso, sia agli altri, è
impossibile, nella misura in cui voglia essere sostanzialmente univoca.
Poiché Nietzsche nell’origine del pensare avverte la presenza della verità e il compimento
dell’infinità, deve dunque necessariamente subentrare una continua insoddisfazione nei confronti di
ciò che è pensato, in quanto viene commisurato all’origine da cui è sorto: « Ahimè, che cosa siete
mai voi, miei pensieri scritti e dipinti!... alcuni di voi, sono pronti, lo temo, a divenire tante verità...
Che cosa... scriviamo e dipingiamo noi,... eternizzatori delle cose, che cosa soltanto siamo in grado
di dipingere? Ahimè, sempre unicamente quel che appunto è destinato ad appassire... » (7, 274).
Ma per colui che non fa propria la situazione della vera e propria incomunicabilità, la conseguenza
è che l’immutabilità di una convinzione, in cui egli rimane irretito come in un qualcosa che vien
detto, lo fa radicalmente smarrire in un’effettiva assenza di comunicazione, senza un’autentica
comunicazione in tutta quella che sembra essere la sua comunicazione; un uomo siffatto ha perduto
la sua « educabilità », è « duro, irrazionale, testardo, senza mitezza, un eterno sospettoso, un uomo
irriflessivo, che dà di piglio a tutti i mezzi per far prevalere la propria opinione, perché non può
affatto capire che ci devono essere altre opinioni » (2, 407). Egli è incapace di qualsiasi
comunicazione, è diventato veramente incomunicativo in ragione del fatto che si comporta come se
la verità fosse rintracciabile e comunicabile in modo univoco.
Ma l’apparente impossibilità della comunicazione dell’origine non sopprime in lui ogni possibilità
di comunicazione. Lo sforzo di Nietzsche e la sua autocomprensione sono rivolti in modo congiunto
alla vera comunicabilità che non può più avere, come contenuto assolutamente inteso, il carattere di
una verità definitiva ed inoppugnabile.
La comunicazione indiretta. È soltanto in apparenza una tecnica esterna, quando colui che comunica
non dice semplicemente che cos’è per lui la verità, ma raggiunge l’altro attirando la sua attenzione
in modo equivoco e inducendolo così a trovare da sé la verità. Se ciò che viene detto in
modo esplicito si dimostra falso quando pretende di sussistere come valore assoluto, allora rimane
la questione di sapere se, quando si dice qualcosa in modo indiretto, nel medium di questa
comunicazione non si colga di fatto la verità sulla verità. Nietzsche fa notare questa via indiretta
quando ricorda come sia frequente in Aurora la « exhortatio indirecta »: « L’esortazione e la
stimolazione diretta ha invece qualcosa di presuntuoso » (a Gast, 8. 81). Ogni verità direttamente
affermata è una profezia che Nietzsche di per sé rifiuta. Egli chiede: « Parlo come uno che ha
avuto una rivelazione? Allora disprezzatemi e non statemi ad ascoltare » (12, 218). Già il tono
estremo dell’espressione è per lui sospetto; infatti, egli dice dei suoi primi scritti:« La cosa estrema
tradisce... la violenza con cui si è cercato di mantenere l’inganno » (11, 383). Egli si spaventa della
« comune caratteristica » di questi scritti perentori e pretenziosi: « Essi parlano il linguaggio del
fanatismo. Quasi dovunque, in essi, dove il discorso si rivolge a chi la pensa diversamente, si può
notare quel modo sanguinoso di ingiuriare...: contrassegni odiosi, a cagione dei quali non avrei
resistito a leggere fino in fondo quegli scritti, se avessi conosciuto un po’ meno l’autore» (11, 407).
Quando a Nietzsche, nella sua riflessione critica, si presenta come problema la forma della
comunicazione indiretta, egli, in riferimento alla sua opera Umano, troppo umano, invita a non
parlare direttamente, bensì a far parlare una forma che sia quella del discorso indiretto; lo « spirito
libero » dev’esser dipinto come un’immagine e si deve tentare qualcosa di temerario, «far parlare
quello spirito, anzi attribuirgli un libro» (11, 7 e sgg.). Quest’idea di parlare dietro pseudonimi è
certo concepita da Nietzsche, ma non viene messa in pratica: essa si trova solo di rado negli scritti
postumi e nelle lettere. Quando egli, dopo lo Zarathustra, aveva portato a termine Al di là del bene
e del male, vi era « la difficoltà di trovare il luogo dal quale io potessi parlare... qui mi venne
ottimamente in aiuto il tipo, precedentemente predisposto, dello “spirito libero” » (a Gast, 20. 7.
86). Anche Zarathustra non è Nietzsche: « Guàrdati dal credere che mio figlio Zarathustra esprima
le mie opinioni. Egli è uno dei miei preparativi e intermezzi » (alla sorella, 4. 85). Al posto delle
figure che Nietzsche fa parlare, egli stesso, alla fine, vuole prendere la parola: « È deciso: voglio
parlare io, e non più Zarathustra » (1885, Biogr. II, 546). Partendo da tale argomento, Nietzsche
giunge allo stesso problema che Kierkegaard con i suoi pseudonimi e la sua illuminazione della «
comunicazione indiretta » ha coscientemente messo in atto. Ma Nietzsche lo ha toccato solo in
modo occasionale. Di fatto, egli si sente per lo piu identico allo spirito libero e a Zarathustra, anche
se poi si sforza di superarli.
Necessità e verità della maschera. Se ciò che è vero non è esplicito, allora la maschera fa parte
dell’esserci; non la maschera che vuole solo ingannare, ma la maschera che protegge per essere
penetrabile solo dallo sguardo autentico che coglie la verità. Nell’esserci, la forma indiretta non è
più una tecnica della comunicazione, ma è la verità dell’essere e dello stesso dire. Nella maschera vi
è tanto la menzogna comune quanto l’autentica verità; nell’opera come maschera vi è la possibilità
di confondere che deriva dall’ambiguità e dall’aspetto esteriore. Per il modo in cui si atteggiava,
Nietzsche imparò « per tempo a tacere, come anche che si deve imparare a parlare per ben tacere;
che un uomo che ha pensieri di fondo deve avere anche pensieri di superficie, sia per gli altri, sia
per se stesso: infatti i pensieri di superficie gli sono necessari per riposarsi di se stesso e per rendere
possibile agli altri di vivere con lui » (14, 348). Da allora in poi egli sa che « tutto ciò che è
profondo ama la maschera... Ci sono eventi di specie cosi delicata, che si fa bene a seppellirli e a
renderli irriconoscibili con una grossolanità... Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e
piu ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla
costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di
vita che egli dà » (7, 60). Una simile maschera è la giocondità. « C’è qualche cosa in noi che
facilmente si rompe... sembra che siamo giocondi perché siamo immensamente tristi?... Sorridiamo
tra noi sui melanconici del gusto,... poiché non siamo felici abbastanza per poterci permettere la
loro tenera tristezza... Possediamo un sapere del quale abbiamo paura, con il quale non vogliamo
restare soli... Rimani coraggiosamente al nostro fianco, beffarda spensieratezza... vogliamo pregare
dinnanzi alla maschera come alla nostra ultima divinità e redentrice » (13, 285-286).*
Se da un Iato Nietzsche vuole la maschera, dall’altro rifiuta subito la teatralità in cui sprofonda ciò
che è autentico: « Nell’attore noi riconosciamo l’uomo dionisiaco. ... ma come uomo dionisiaco
meramente rappresentato » (9, 87). « Anche nella bocca dell’attore intimamente piu
convincente risuona per noi un pensiero profondo, una metafora, perfino nel fondo di ogni parola
come attenuato, profanato... ciò che invece ci toccò come la piu profonda rivelazione del mondo è
per noi ora uno sgradevole gioco di maschere » (9, 247).
La teatralità, come arte del giullare (del pagliaccio, del buffone), può essa stessa diventare un tipo di
maschera, ma può diventarlo nell’ambiguità dell’esser-giullare e del fare il giullare, che diventa
inesplicabile allo sguardo proprio di colui che vi gioca: « Dobbiamo, di tanto in tanto, riposarci dal
peso di noi stessi... ridendo e piangendo su noi stessi...: dobbiamo scoprire l’eroe e anche il giullare
che si cela nella nostra passione della conoscenza,... e non c’è nulla che ci faccia tanto bene quanto
il berretto del  monello:... ogni arte tracotante, ondeggiante, irridente,... ci è necessaria per non
perdere quella libertà sopra le cose... Come potremmo perciò fare a meno dell’arte, e anche del
giullare? » (5, 142-143). L’inseparabilità di essere e apparenza, di essere-autentico e essere-giullare,
Nietzsche non l’espri
me soltanto per l’artista, in cui « pagliaccio e Dio » sono « accostati » (16, 244), ma anche
guardando nella profondità dell’essere: « Io giudico il valore degli uomini... a seconda del rigore
che dimostrano nel tenere Dio indiviso dal satiro» (15, 35).
In nessun luogo Nietzsche sembra piu contraddittorio come nella questione del giullare come
maschera. Burlone, buffo, pagliaccio, cinico, compaiono sempre di nuovo in lui, sia opponendosi sia
identificandosi con Nietzsche stesso, in una significativa ambiguità.
Il buffone compare come un’inquietante controfigura di Zarathustra. Pur essendogli molto vicino,
per contrasto egli appare proprio come colui che non coglie l’autentica verità (Prefazione). Dove
Zarathustra intende propriamente « superare » l’uomo, il buffone pensa sfacciatamente e
comodamente che l’uomo possa essere «saltato d’un balzo» (6, 291). Zarathustra, incapace di far
presa sulla stessa massa, vede che « buffoni solenni » prendono il suo posto (6, 74); e Zarathustra,
esprimendo condanna, invoca gli « uomini superiori »: « Bricconi tutti quanti, pagliacci! » (6, 458).
Di Socrate, che Nietzsche continuamente combatte, si dice: « Ovunque l’autorità faccia ancora
parte dei buoni costumi, ovunque non si “adducano ragioni”, ma si comandi, il dialettico è una
specie di pagliaccio: ci si burla di lui, non lo si prende sul serio. Socrate fu quel pagliaccio, che si
fece prendere sul serio » (8, 71). Ma d’altra parte Nietzsche sembra sentirsi vicino a questo Socrate
quando scrive: « Credo di sentire che Socrate era profondo - la sua ironia era prima di tutto la
necessità di mostrarsi superficiale per poter in genere avere rapporti con gli altri » (13, 327); anche
se poi suona deciso il rifiuto: « In Socrate tutto è esagerato, eccentrico, caricatura: egli è un buffo
con in corpo gli istinti di Voltaire» (15, 461).
Il cinismo viene apprezzato, ma evidentemente non in un senso vicino alla natura dello stesso
Nietzsche: « il cinismo è l’unica forma nella quale anime volgari sfiorano quel che è onestà » (7,
45); Nietzsche poi lo accetta, ma avvicinandosi certo ad esso su un altro piano: « Esistono spiriti
liberi, audaci, che vorrebbero nascondere... di essere cuori infranti, superbi, immedicabili (il
cinismo di Amieto - il caso Galiani); e talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice
troppo certo » (7, 259).**
Shakespeare nel Giulio Cesare « per due volte ha introdotto un poeta e per due volte ha versato su
di lui un... impaziente ed estremo disprezzo... Bruto stesso perde la pazienza quando appare il
poeta,... questa persona che sembra satura di possibilità di grandezza, anche di grandezza etica, e
che tuttavia, nella filosofia dell’azione e della vita, raramente giunge alla comune onestà.
“Lui conoscerà i tempi, ma io conosco le sue fisime... via da me quel pagliaccio coi sonagli!” grida
Bruto. Si riporti questo nell’anima del poeta che lo scrisse » (5, 129). « Non conosco lettura piu
straziante di Shakespeare: che cosa deve aver sofferto un uomo per aver bisogno di fare il buffone
in quel modo! - Amleto, c’è qualcuno che lo capisce? Non è il dubbio, è la certezza che fa diventare
pazzi...
Ma solo dalla profondità si può sentire cosi, bisogna essere un abisso, un filosofo... Abbiamo tutti
paura della verità... » (15, 36).
Se si tiene conto di tutto questo, allora le ultime interpretazioni che Nietzsche ha dato di sé
acquistano la loro importanza. Egli dice dei suoi libri: « in certi punti... raggiungono ciò che di
supremo si può raggiungere sulla terra, il cinismo» (15, 54); e di se stesso: «Non voglio essere
un santo, allora piuttosto un buffone... Forse sono un buffone... E ciononostante... la verità parla in
me » (15, 116). E ancora, egli scrive ad Avenarius (« Kunstwart »): « La mia forza si dimostra nella
misura in cui sono — posso essere, come sono stato nel Caso Wagner - pagliaccio, satiro o,
se preferisce, “feuilletoniste”. Che lo spirito piu profondo debba essere anche il piu frivolo, è quasi
la formula della mia filosofìa ». Riferisce Overbeck a proposito del Nietzsche ormai folle che
incontrò a Torino (Bernoulli, II, 234): « Nel complesso prevalevano i discorsi sul mestiere, che egli
si attribuiva: di essere cioè il giullare delle nuove eternità ».
Che cosa tutto ciò significhi, in ogni caso non può essere univocamente definito. Da una parte,
Nietzsche si appropria della maschera in sé, della figura del buffone, ma, d’altra parte, la respinge.
Una volta la maschera rappresenta la nullità, dietro la quale non si nasconde nulla, la
teatralità dell’inautentico che si propone sulla scena davanti a sé e agli altri; come tale, la maschera
è estranea alla natura di Nietzsche, è anzi oggetto di un orrore pieno di astio, poiché da essa si è
fatto ingannare in modo cosi profondo. Ma essa è poi anche la protezione dalla disperazione,
quando cioè l’uomo non vuole sapere ciò che sa: « in mezzo a cento ricordi incerto... strozzato dai
tuoi propri lacci » (8, 422). La maschera, infine, è la possibilità dell’esserci che sembra esprimere le
cose piu profonde e ne è tuttavia priva; che nello sguardo sull’essere del non-essere, con
un’esuberante veridicità, afferra paradossalmente l’essere trasformandolo in apparenza. « Serbar
reverenza “di fronte alla maschera” » secondo Nietzsche si addice in ogni caso a « una piu raffinata
umanità » (7, 259).
La necessità dell’essere-maschera getta le sue ombre sul senso dell’opera: l’opera non può
esprimere la verità stessa in nessun pensiero. L’improprietà di tutto ciò che è determinato ha come
conseguenza l’ambiguità di ciò che è proprio, l’incomunicabilità ha come conseguenza la solitudine
che appare nelle maschere. L’opera del pensatore, che ha assunto nella sua natura questa esperienza
del limite, è come contrassegnata da uno stigma: « Negli scritti di un eremita si ode ancor sempre
qualcosa come la eco del deserto...; dalle sue piu forti parole,... affiora ancora una nuova e piu
pericolosa specie di silenzio... Chi... solo con l’anima sua, chi nella sua caverna — può essere un
labirinto, ma anche una miniera d’oro — è divenuto un orso antidiluviano o un disseppellitore...,
finisce per ricevere, persino nelle sue idee, un tono di luce crepuscolare, un profumo tanto d’abisso
che di muffa, qualcosa di incomunicabile... L’eremita non crede che un filosofo... abbia mai
espresso in libri le sue intime ed estreme opinioni:... dubiterà, anzi, che un filosofo possa avere in
generale “estreme e intime” opinioni, pensando invece che ci sia in lui, dietro ogni caverna, una
caverna ancor piu profonda..., un abisso sotto ogni fondo... Ogni filosofia è filosofia di proscenio...
Ogni filosofia nasconde anche una filosofia » (7, 268).
L’abissale realtà vitale si esprime nell’opera, così come Nietzsche la concepisce, nel modo piu
ambiguo. Quando Nietzsche vede la « forma suprema della spiritualità » dell’Europa moderna nella
« buffoneria geniale » (14, 28), sembra che questa significhi soltanto il dissolvimento della sostanza
spirituale, ossia la perdita del sentimento « per il colore uniforme dello stile », « la variopinta giacca
del pagliaccio », la virtuosità in « tutte le forme di stile » (10, 264). Ma è proprio questo ciò che
Nietzsche sembra dire del suo peculiare stile: « Visto che in me la molteplicità degli stati interni
è straordinaria, mi trovo ad avere molte possibilità di stile - forse la più molteplice arte dello stile di
cui un uomo abbia mai disposto. Buono è qualunque stile che comunica realmente uno stato interno.
Buono stile in sé -una pura follia, mero “idealismo”... » (15, 56). Si può distinguere colui che è
virtuoso in tutte le forme di stile dal pensatore creativo in tutti i possibili stili, l’inautentico
indossare la maschera dall’originaria ricchezza dell’essere maschera. Ma in Nietzsche questa
differenziazione viene talvolta rispettata nel modo più deciso, talvolta, invece, il suo modo di
esprimersi ne indica un apparente abbandono.
Simbolo e canto. La comunicazione non è limitata a ciò che viene pensato e interpretato. Per
l’autocomprensione che Nietzsche esercita nella sua opera, simbolo e canto, che sono anzitutto
forme di comunicazione in sé, a partire dalla propria oscurità diventano la comunicazione più
autentica e ultima. Le poesie di Nietzsche appartengono al suo filosofare non come paludamento di
un pensiero che si può enunciare anche diversamente, bensì come compimento ultimativo del suo
processo filosofico. Esse tuttavia non sorgono dai pensieri giunti alla loro conclusione, ma si
trovano anzi all’origine e provengono immediatamente dal silenzio pieno.
L’autentico stupore di fronte all’essere prova orrore del silenzio: « Ora tutto tace! Il mare si
stende..., non può dire parole. Il cielo... non può dire parola. I piccoli scogli e catene di roccia... non
possono dire parola. Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso, è bella e
agghiacciante... Ho compassione di te, natura, perché devi tacere... Ah,... il cuore:... atterrisce...,
neppure esso può dire parola... Il parlare, anzi il pensare, mi è odioso: non odo forse, dietro ogni
parola, ridere l’errore, l’immaginazione, lo spirito dell’illusione?... O mare! O sera! Voi siete cattivi
maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere uomo!... Deve diventare come voi ora siete,...
immenso, riposante su se stesso? Eccelso sopra se stesso? » (4, 291 e sgg.).
La possibilità che l’essere ha di manifestarsi - la liberazione dal silenzio - si verifica per Nietzsche
nel simbolo, quando ogni « accrescimento di vita potenzia la forza di comunicazione... dell’uomo»
(16, 238), come capita a Zarathustra quando ritorna nella sua caverna: « Qui tutte le cose accorrono
carezzevoli al tuo discorso e ti lusingano: perché vogliono galopparti sulla schiena. Su ogni
similitudine qui tu galoppi verso ogni verità... Qui mi si dischiudono tutte le parole dell’essere,
balzando dagli scrigni che le contengono: l’essere tutto vuol qui diventare parola, e tutto il
divenire qui vuole imparare da me la parola » (6, 270-271). È vero che Nietzsche scrive, con tono di
rifiuto: la verità è « un mobile esercito di metafore », le verità sono «illusioni..., metafore, che si
sono logorate» (10, 196); e ancora: « chi pensa piu acutamente, non ama le immagini della poesia
» (10, 104), e « con le immagini e le similitudini si convince, ma non si dimostra. Perciò nella
scienza si ha un tale orrore delle immagini e delle similitudini » (3, 273). Tuttavia, là dove si parla
dell’essere, ciò avviene in simboli, perché è piü che scienza: « un folle, colui che ne vuol avere la
scienza! » (6, 111); e qui vale ciò che Nietzsche scrive di sé: « La involontarietà dell’immagine, del
simbolo è il fatto più strano; non si ha più alcun concetto; ciò che è immagine, o simbolo, tutto si
offre come l’espressione più vicina, più giusta, più semplice... » (15, 91). Questo alto livello di
creatività è insostituibile: « Badate... a tutti quei momenti nei quali il vostro spirito vuol parlare in
simboli » (6, 111). Certo, anche Zarathustra può dire: « io mi vergogno di dover essere ancora
poeta! » (« ch’io parli in similitudini ») (6, 288 e sgg.); in questo caso però egli intende
l’opposizione tra la visione del presente e la realtà futura.
Piu ancora che attraverso il simbolo, l’essere si manifesta nel canto. Dove tutto finisce, esso rimane:
« Il conforto e la guarigione ch’io mi sono inventato era appunto: ch’io dovessi tornare a cantare »
(6, 320). Alla fine della Gaia scienza (5, 344), scrive Nietzsche: « I geni del mio stesso libro mi
piombano addosso...: “Non ne possiamo più... Chi ci canterà una canzone, una canzone
mattutina...?” ». Nella successiva, nuova Prefazione alla Nascita della tragedia egli riconosce,
riferendosi a se stesso: « Avrebbe dovuto cantare, quest’“ anima nuova” — e non parlare! » (1, 5).
Nietzsche confessa: « così io rileggo i pensatori e ripeto cantando le loro melodie: io so che dietro
tutte le fredde parole si muove un’anima ardente; la sento cantare, infatti la mia propria anima canta
quando è commossa » (11, 386).
Polemica. Nietzsche intraprende la polemica per attaccare l’altro e raggiungerlo in tal modo con
ancora più certezza. Attaccandolo, si convince l’uomo ad ascoltare; e solo quando si viene attaccati
si prende coscienza della propria verità. L’autocomprensione di Nietzsche spiega il senso della sua
polemica. Essa non è, essenzialmente, la battaglia reale per l’annullamento di ciò che è futile (negli
inganni e nelle storture, nel vacuo e nel forzato) - benché anche questa battaglia giochi un suo ruolo
— bensì è la lotta contro ciò che è migliore. «Attacco solamente cose che vincono;... attacco
solamente cose contro cui non potrei trovare nessun alleato, così sono solo...; non attacco mai
persone - mi servo della persona come di una forte lente di ingrandimento, con cui si può rendere
visibile una crisi generale... » (15, 21). Nietzsche vuole onorare chi eleva al rango di suo avversario;
la grandezza di R. Wagner è per Nietzsche caratterizzata proprio dal fatto che egli per tutta la vita
abbia combattuto contro di lui. Nietzsche attacca soltanto ciò che ha dignità; egli desidera un
avversario del suo stesso livello, e non combatte contro ciò che è comune, ordinario. Qualcosa
può essere straordinario e tuttavia non vero; ma Nietzsche non lo respinge per questo, poiché è la
manifestazione della grandezza di una realtà che appartiene all'esserci. Inoltre, il vero deve
emergere in una forma comunicabile, ma pur sempre nella lotta. Senza di ciò, la verità non
raggiungerebbe la coscienza e la realtà. La comunicazione conflittuale è essa stessa una forma della
verità che, per sua natura, non può mai essere semplicemente presentata, detta, stabilita.
Se non si deve negare ma, anzi, affermare ciò contro cui essenzialmente si combatte, allora il campo
di battaglia è, in fondo, Nietzsche stesso; i suoi nemici sono forme di Nietzsche stesso, la verità
comunicabile non è qualche cosa che giace quieta, al di là dell’avversario, bensì soltanto l’impulso
presente in ogni forma di comunicazione, una delle quali è appunto la lotta.
Ciò che Nietzsche è per sé
Nietzsche non può essere pienamente consapevole di ciò che egli è nel suo complesso. Da un esame
complessivo delle sue affermazioni, risulta infatti evidente che egli presenta, da una parte, una
risoluta sicurezza di sé, e, dall’altra, un pensiero problematico, che pone continuamente dei dubbi.
La sicurezza si esprime nella consapevolezza del suo compito. Questo compito non è qualcosa di
meramente riflessivo, ma è il suo essere stesso che, in un momento storico, diventa rappresentativo
di tutti gli altri esseri, senza peraltro fare di lui un profeta e un fondatore.
Fin dalla giovinezza Nietzsche è consapevole del suo compito, anche se, all’inizio, esso non è
ancora ben determinato; a partire dal 1880 questa consapevolezza si risolve in un impegno
inderogabile, in una dedizione completa a quel compito che si è ormai ben configurato. Già nel
1872 scrive a Rohde, riferendosi alla Nascita della tragedia: « Prendo terribilmente sul serio tutto
quanto sento dire sul libro, perché in queste voci mi par di indovinare l’avvenire di ciò che ho in
mente. Questa vita sarà ancora molto difficile » (28. 1. 72). Il suo cammino si determina
ulteriormente nel 1877, quando avverte la necessità di abbandonare la carriera universitaria: « Lo
so, lo sento che vi è per me un destino piu alto di quello che si esprime nella mia, sia pur
rispettabile, posizione a Basilea » (alla signora M. Baumgartner, 30. 8. 77). In seguito comprenderà
quel che gli stava allora accadendo: « Non capivo me stesso, ma l’impulso era come un
comando. Sembra che la nostra futura destinazione lontana disponga di noi » (14, 387). « La scelta
di uomini e cose, ... il rigetto di quanto è piu piacevole, spesso di quanto è piu venerato, tutto ciò ci
spaventa, come se un caso, un arbitrio, qua e là simile a un vulcano, erompesse in noi: ed è invece
la ragione superiore del nostro compito futuro » (13, 33).
A partire dal 1880 è incessantemente il presente a costringere tutto il suo essere al proprio servizio:
è « quel nascosto ed imperioso qualcosa, per cui a lungo non troviamo un nome, finché esso si
rivela da ultimo come il nostro compito » (3, 8). Da allora Nietzsche conosce nello stesso tempo il
timore di non venire a capo di questo « immenso compito ». « Che io riesca ad adempiere fino in
fondo il mio grande compito dipende dalle circostanze, che non dipendono da me, ma dall’“essenza
delle cose” » (alla sorella, 29. 11. 81). « Questo cammino è tanto pericoloso! Non posso fare appello
a me stesso, come un sonnambulo » (11, 385).
Ma cosa sia questo suo compito, diventa per Nietzsche tutt’uno con il compito dell’uomo in questo
momento storico. Negli anni giovanili scrive: « Il mio compito: comprendere l’intima connessione e
la necessità di ogni vera cultura; i mezzi per proteggere e risanare la cultura, il suo rapporto con il
genio del popolo » (10, 116). Nel periodo intermedio afferma in modo ancora indeterminato: « Meta
dello spirito libero: avvenire dell’umanità » (11, 397); ed alla fine; « Il mio compito, il compito di
preparare l’umanità a un momento di suprema riflessione su se stessa, un grande merìggio, quando
essa si guarderà indietro e avanti, quando... porrà per la prima volta, nella sua totalità, la domanda:
“perché?”, “a che scopo?” » (15, 82).
Ciò che Nietzsche stesso veramente è nell’adempimento di questo compito, gli rimane fino
all’ultimo ancora indecifrabile; comunque, egli è almeno certo di essere, dal punto di vista storico,
« un evento capitale nella crisi dei giudizi di valore » (14, 361). Si considera un essere storico
che, in quanto origine della grande politica del futuro, si trova ad una svolta decisiva della storia
universale; egli è questa stessa svolta, poiché è il primo a comprenderla: « E se non giungo al punto
che interi millenni facciano i loro voti supremi al mio nome, allora mi sembra di non aver raggiunto
nulla » (a Overbeck, 21. 5. 84). Egli è il trasvalutatore dei valori e dunque il legislatore del futuro,
poiché determina il movimento di reazione al nichilismo dell’epoca della svolta. Dal punto di vista
metafisico  Nietzsche è consapevole di trovarsi alla svolta non solo della storia dell’umanità, ma
anche del divenire del mondo in generale: è il pensatore dell’eterno ritorno, e dunque il punto del
completo rivolgimento cosmico; in lui l'esserci si realizza nella conoscenza di se stesso. Ma
Nietzsche è consapevole di essere un fatto inaudito non solo nella gioia, ma anche nel tormento del
suo essere-uomo. Il tipo d’uomo che egli è in questa crisi emerge raramente, ma in modo essenziale,
in una serie di simboli.
Sembra che Nietzsche voglia ironicamente minimizzare la fase iniziale della sua trasvalutazione dei
valori, quando dice: « Ed io stesso, o miei folli amici - che altro sono se non ciò su cui si deve
disputare: un gusto! » (12, 256).
Il rifiuto a manifestarsi esplicitamente e ad un tempo la coscienza del significato storico del suo
tormento, si esprimono comunque simbolicamente nei passi seguenti: « Io stesso ho spesso
l’impressione di essere come uno scarabocchio che una forza misteriosa traccia sulla carta per
provare una nuova penna » (a Gast, 8. 81); « Dal 1876 per molti aspetti, dell’anima e del corpo,
sono stato più un campo di battaglia che non un uomo! » (a Gast, 25. 7. 82).
Egli paragona l’imperioso turbamento che lo consumava alla fiamma, alla luce, all’incendio, al
lampo: « Incendio e combustione sono la mia vita » (11, 352). « Per tutte le anime disseccate voglio
essere un incendio ed un pericolo » (12, 253). « Voglio sparire nell’oscuro uragano: e per i miei
ultimi istanti voglio essere ad un tempo uomo e lampo » (12, 256); e soprattutto la nobile
espressione della sua più intima natura:
« Sì! Io so le mie radici!
Insaziato come la fiamma
Ardo io e mi consumo.
Tutto che afferro diventa luce,
Tutto che lascio si fa carbone:
Fiamma per certo son io » (5, 30).
1 Le annotazioni giovanili si trovano in Biogr., voi. 1, pp. 15 e sgg., 225-245, e inoltre, pp. 107-126,
189 e sgg., 210, ecc.; le osservazioni critiche personali, nei Werke:  11, pp. 116-125, 378-392; 12,
pp. 211-225; 14, pp. 303-306; le nuove «Prefazioni» del 1886, in: 1, pp. 1-14; 2, pp. 3-14; 3, pp. 3-
12; 4, pp. 3-10; 5, pp. 3-11. Sul materiale per le «Prefazioni», v.: 14, pp. 347-420; Ecce homo (15,
pp. 1-127); la «Vita», spedita a Brandes (in Briefe, 3, pp. 299 e sgg.). Ulteriori osservazioni
sono andate distrutte o non sono state raccolte. Le annotazioni autobiografiche sono raccolte e
stampate nel voi. 21 della « Musarionausgabe » (dove mancano però alcune annotazioni pubblicate
nella Biogr., voi. 1, il materiale per le « Prefazioni », pubblicato nel voi. 14, e la « Vita » spedita a
Brandes).
2 Ci si riferisce ovviamente allo sviluppo spirituale di Nietzsche, alla sua solitudine, al suo
significato storico, al suo immoralismo.
3 A talproposito: August Horneffer, Nietzsche als Moralist und Schriftsteller, Jena, 1906, pp. 58 e
sgg.; Ernst Horneffer, Nietzsches letztes Schaffen, Jena, 1907; Biogr. II, 670-674; Werke, 9, XV.
* Il passo citato da Jaspers (un frammento steso da Nietzsche tra l’autunno 1885 e l’autunno 1886)
presenta una notevole discordanza, soprattutto nell’ordine delle singole frasi che lo compongono,
tra l’edizione Kroner (voi. XIII, fr. 692) e l’edizione Colli-Montinari (fr. 2 [33], in KSA, voi. 12, pp.
79-80: tr. it. nel voi. VIII, tomo I, pp. 68-69) (N.d.C.).
** Il passo tra parentesi non compare nell’edizione Colli-Montinari delle opere di Nietzsche; si
tratta di un’aggiunta di Nietzsche su un esemplare di Al di là del bene e del male (N.d.C.).
368
CAPITOLO SECONDO. COME NIETZSCHE VIENE COMPRESO DA NOI
Percorsi della critica nietzschiana: Critica logica. Critica del contenuto. Critica esistenziale.
La volontà del puro al-di-qua: La posizione dell’ateismo. Il sostituto della trascendenza e il suo
fallimento. Il trascendere di Nietzsche. Il pensiero filosofico di fronte all’ateismo.
Il nuovo filosofare: La negatività assoluta. La filosofia del tentare. Nietzsche come vittima. Ciò che
Nietzsche è, ed ha fatto, rimane aperto.
L’assimilazione di Nietzsche: Le insidie di Nietzsche e i possibili fraintendimenti del suo pensiero.
L’educatore filosofico. Il nostro atteggiamento nei confronti dell’eccezione.
Se si crede di veder Nietzsche, ebbene egli non è così: non è questo, bensì un altro. Ma anche l’altro
sembra ogni volta sfuggire. Un tratto fondamentale del suo essere è la possibilità di scambiare il
suo modo di manifestarsi. Sintomatica e vera è la richiesta di Nietzsche: « E soprattutto non
scambiatemi per altro » (15, 1); « Si è soliti scambiarmi con altri: Io ammetto; del pari, ammetto che
mi si renderebbe un grande servizio, se qualcun altro mi difendesse e mi tenesse al riparo da questi
scambi continui » (14, 360).
La possibilità di scambiare Nietzsche non riguarda solo tutto ciò che dice, ma anche tutto ciò che di
lui appare. Come per la moltitudine Socrate e i Sofisti sembravano erroneamente la stessa cosa, così
avviene per quella verità che non è per tutti semplicemente afferrabile con l’intelletto in modo
identico, ma anzi può essere scambiata col suo contrario.
Ma nel caso di Nietzsche, la possibilità di scambiarlo con qualcos’altro non è tale per cui, dopo
averla eliminata, si possa poi incontrare Nietzsche stesso in modo inconfondibile. Proprio questo è
l’enigma e la difficoltà: l’interminabile possibilità di scambiare il suo modo di manifestarsi
sembra conseguire dal suo stesso essere. Senza questo aspetto dell’ineliminabile ambivalenza ed
equivocità, Nietzsche non rimarrebbe se stesso.
Esamineremo in primo luogo le forme tipiche della critica nietzschiana fino a vedere che nessuna
può raggiungere lo scopo di comprendere pienamente Nietzsche; anzi, questa possibile
comprensione viene preparata attraverso la presa di coscienza del modo in cui di volta in volta
queste critiche falliscono.
Percorsi della critica nietzschiana
Già ogni esposizione, nel modo in cui è costruita, implica indirettamente e involontariamente una
valutazione, anche se indeterminata. Ma una cri-
tica consapevole, che tende al giudizio in quanto tale, segue i percorsi qui indicati.
Critica logica. La critica procede anzitutto in direzione logica: ciò che Nietzsche scrive, è
contraddittorio.
Ciononostante, è soltanto una difficoltà esterna il fatto che Nietzsche con le stesse parole intenda
cose del tutto diverse a seconda del contesto, o addirittura contrapposte (ad esempio, con apparenza,
maschera, verità, essere, popolo, volontà e persino con quasi tutte le parole essenziali, che in lui
assumono sempre soltanto la forma di termini transitori), e che Nietzsche di ciò raramente sia
consapevole, e perciò non le corregga quasi mai. Ciononostante, il suo istinto di verità gli fa
assumere nei vari contesti posizioni assolutamente coerenti e appropriate all’insieme del suo
pensiero. Le contraddizioni nel mero uso semantico non sono affatto vere e proprie contraddizioni,
e devono essere scartate.
La questione piu importante è che cosa significhi quella contraddittorietà che in Nietzsche si
riscontra ovunque. Scrive forse Nietzsche direttamente ciò che l’umore gli ispira? Ciò che ha
pensato è l’espressione di una molteplicità caotica di stati d’animo? Oppure in ciò che si
contraddice domina una necessità, i vari stati d’animo esprimono pur sempre un’intima unità
interiore, sono uniti e compenetrati da una legge che si mostra in primo luogo nel tutto?
Tali questioni vengono superficialmente superate se ci si accosta a Nietzsche col presupposto che
egli sia correttamente interpretato solo nel caso in cui possa essere compreso senza contraddizioni;
e che ciò che è contraddittorio debba essere scartato in quanto erroneo. Con questo
presupposto, Nietzsche alla fine si annulla, a causa della sua universale contraddittorietà. Infatti, o
egli ha completamente pensato ciò che è contraddittorio, anche se spesso non è consapevole del
rapporto di contraddittorietà che si instaura tra le sue varie affermazioni; oppure si sceglie
arbitrariamente quello che per Nietzsche stesso era soltanto un tratto isolato del suo pensiero, e
quindi, facendogli torto, si ricorre per questo a una posizione che ha un valore fisso, escludendo,
perché contraddittorio, ciò che non vi si accorda.
Ma il compito — che abbiamo adottato nell’esposizione dei suoi pensieri fondamentali - consiste
nel cercare nelle contraddizioni quello che Nietzsche può non aver pensato, escludendo
reciprocamente o l'una o l’altra delle due proposizioni che determinano la contraddizione; e poi
raccogliere quello che nelle contraddizioni vincola l'una cosa all’altra, senza che Nietzsche lo dica
(o, in altre parole, mettere in rilievo le proposizioni che si annullano a vicenda, perdendo
apparentemente ogni valore, per ricavare da esse quei pensieri ancora pieni di senso che
costituiscono la contraddizione); alla fine, mettere in evidenza le autentiche contraddizioni che
permangono al cospetto di una dialettica che diviene falsamente illimitata e concilia tutto.
Nietzsche stesso non ha sufficientemente risposto a tali questioni. In nessun luogo meglio che in tali
contesti si capisce che la spiegazione metodica della logica diventa solo occasionalmente un tema
specifico per Nietzsche. Egli non è mai consapevole del fatto che gli manca un’adeguata
preparazione filosofica nell’affrontare i grandi pensatori. È così comprensibile che egli, pur
mantenendosi alle stesse fonti del filosofare, non colga mai l’essenziale. La sua peculiare originalità
gli consente facilmente di non tenere in considerazione la mancanza di mestiere. Ma per la
comprensione di Nietzsche, proprio in ragione dell’incontrollata contraddittorietà e del suo
consegnarsi alla forma del pensiero intellettuale non dialettico — una forma di pensiero che tuttavia
al tempo stesso egli disprezza - è rimasta una fatale mancanza di forma complessiva.
Perciò Nietzsche cade sempre di nuovo in oggettivazioni, consolidamenti, assolutizzazioni,
naturalizzazioni che egli stesso ritiene falsi e che, in altri contesti, trasgredisce completamente senza
alcun riguardo. Il lettore, che da solo non riesce a uscire dal contesto (che vede cioè quello
che Nietzsche effettivamente fa), se è onesto, dovrà trovarsi di fronte, confuso, alle discordanze, alle
contraddizioni e arbitrarietà ovunque emergenti. È nostra convinzione fondamentale, sempre di
nuovo confermata, che il pensiero di Nietzsche abbia relazione con la filosofia, anziché tramite un
metodo consapevole, di fatto soltanto attraverso un immenso impulso alla veridicità. Senza questa
convinzione il filosofare di Nietzsche perderebbe quasi ogni valore e Nietzsche stesso dovrebbe
abbassarsi al livello di un geniale aforista. Ma quando si riesce a illuminare il senso positivo
della necessaria contraddittorietà, allora non si può certo negare che rimane un residuo
considerevole di contraddittorietà che non deve più essere intesa come necessaria.
Un’analisi logica dovrebbe sia limitare il campo del sapere, dove sono possibili senza
contraddizione asserzioni univoche della verità che si vuole esprimere, sia chiarire il campo
filosofico, dove l’asserzione, per farsi portatrice di verità, dev’essere equivoca oppure deve
comunicarsi in un solo movimento mediante contraddizioni.
Un esempio per le contraddizioni concepite e derivate da Nietzsche stesso è la doppia valutazione
di ciò che, apparentemente, è sempre uguale: ad esempio, pessimismo e scepsi vengono valutati
positivamente e negativamente a seconda che debbano essere intesi a partire dalla forza o dalla
debolezza; allo stesso modo, esiste una compassione di due tipi (7, 269 e sgg.), una décadence di
due tipi (15, 454); il desiderio dell’essere (la volontà di eternizzare) e il desiderio del divenire (la
volontà di distruzione) mostrano entrambi un doppio senso (5, 326 e sgg.).
Una difficoltà essenziale è che le contraddizioni non devono solo essere concepite come antitesi
esistenti, per così dire, su un piano nel quale il loro movimento le fa soltanto trasformare l’una
nell’altra, bensì, di nuovo, in un secondo movimento da piano a piano, movimento dal quale si
origina una molteplice antitesi. Accanto a ciò, all’interno di questo secondo movimento ha luogo
una separazione in ciò che, come momento del precedente piano, rimane in esso e viene riunito con
la sua antitesi (ad esempio, signori e schiavi si separano in quanto essenzialmente diversi, ma, in
quanto appartenenti l’uno all’altro e positivamente legittimati, vengono entrambi trasportati sul
piano superiore della vita complessiva dell’umanità che tende a perfezionarsi); e in ciò che,
senza venire escluso dal movimento, viene tuttavia scartato (ad esempio, l’inautentico, il debole, ciò
che è rigidamente stabilito, che non ha nessuna potenza, nessuna necessità di permanere e di
giungere al proprio compimento), poiché non viene riunito allo stesso modo col suo opposto; questa
antitesi porterebbe piuttosto, nel caso di un’alternativa non logica, bensì esistenziale, soltanto ad
emettere una chiara decisione sull’essere o sul non-essere, e non certo a una riconciliazione di ciò
che viene pensato.
Colui che, di fronte al compito di comprendere secondo una prospettiva logico-dialettica, persiste
nel cercare formule salde, posizioni definite in chiare alternative, non può certo comprendere
Nietzsche. Tale lettore non apprende la dialettica immanente delle cose, alla quale Nietzsche
obbedisce senza esserne sempre consapevole (e che tuttavia fa valere, poiché si trova nelle cose), e
neppure diviene-se-stesso appropriandosi dei procedimenti di cui Nietzsche è consapevole. Egli
deve dogmatizzare falsamente ciò che Nietzsche propone con sicurezza mediante un metodo
espressivo apodittico e deve prendere come formula fissa ciò che è soltanto un passo del suo
procedere; deve inoltre abusare delle formule come gergo, come mezzo per un effetto demagogico o
come pungolo giornalistico.
Nietzsche non procede metodicamente; per questo si ripete sempre di nuovo ciò che già si può
trovare fin dai primi passi della sua lettura: si urta cioè lo scoglio di ciò che sembra univoco e non
dialettico - il mero esser-così e dover-essere-così. Solo intraprendendo lo studio filosofico di
Nietzsche - che è sempre al tempo stesso un’intima azione interiore volta alla formazione
intellettuale di sé - si rivela tutta la sua profondità. Ma per conservarla c’è bisogno di un costante
superamento della forma intellettuale, razionalmente unilaterale, del pensiero nietzschiano, forma
che egli stesso riconosce e tuttavia fa diventare sempre piu marcata.
La mancanza di un filosofare metodico, che appare in primo piano in Nietzsche, determina
l’apparentemente facile accessibilità alla forma intellettuale del suo pensiero. Essa è parimenti la
condizione della sua ampia diffusione, ed il fondamento dell’equivocità nell’interpretazione.
L’autentica filosofia di Nietzsche viene compresa cosi raramente come quella di tutti gli altri
filosofi.
Critica del contenuto. La critica si rivolge in secondo luogo ai contenuti oggettivi: si mostra l’errore
nelle affermazioni di fatto. Nietzsche compie senza dubbio un’incondizionata affermazione della
scienza autentica, come, ad esempio, quando dalla « fede nella suprema utilità della scienza e di
coloro che sanno » esige « più rispetto per colui che sa » (3, 155); oppure quando richiede che per
diventare i creatori-di-se-stessi, quali noi siamo, « dobbiamo diventare coloro che apprendono e
discoprono tutto quanto al mondo è normativo e necessario » (5, 258). Ma egli era consapevole
di una sua mancanza di conoscenze e di metodo d’indagine, che lo tormentava e lo ostacolava: «
Sono informato così male! - e devo sapere realmente così tanto! » (a Overbeck, 9. 81). « Bisognoso
di imparare qualcosa e ben sapendo dove si trova ciò che dovrei conoscere, devo far scorrere la
mia vita come i miei miseri organi, la testa e gli occhi, pretendono! » (a Gast, 30. 3. 81). Piu volte
afferma di voler di nuovo studiare all’università. Ma dovette accontentarsi di leggere libri di scienze
naturali e storia della cultura.
Tale senso di mancanza, che il precoce destino di malattia gli impose, fu per l’aspetto piu
propriamente filosofico di scarsa importanza. Inoltre, quando parlava di argomenti in cui si trattava
di significati che riguardavano il metodo scientifico, e quando produceva pensieri che dovevano
ricorrere alla forma metodica della comunicazione, Nietzsche riusciva spesso, pur partendo da pochi
dati, a scorgere col suo sguardo visionario qualcosa di straordinario (persino in questioni di fisica).
Per di piu il sapere di Nietzsche è limitato soltanto se lo si valuta in relazione all’ampiezza
dei contenuti dei quali egli parla.
Nello studio di Nietzsche bisogna aver presenti i limiti del suo sapere. Occupatosi in gioventù di
lingue e testi antichi, Nietzsche ha sperimentato in profondità la filologia come metodo scientifico e
si è riempito di una dovizia di ritratti della realtà umana, ma gli manca la conoscenza fondamentale,
da lui avvertita, delle scienze naturali, della medicina, delle scienze economiche, della tecnica, in
breve la conoscenza del reale in quanto causalmente sondabile; gli mancano anche le conoscenze
adeguate in giurisprudenza, in teologia, nella storia universale e critica.
D’altra parte, le frasi consapevoli dell’ultimo periodo mostrano quanto Nietzsche non seppe in
precedenza riconoscere la mancanza da lui così ostentata: « le cose si mettono peggio per quanto
riguarda la mia ignoranza, di cui non faccio mistero neppure davanti a me stesso. Ci sono dei
momenti in cui me ne vergogno; come pure ci sono in verità degli altri momenti in cui mi vergogno
di questa vergogna. Forse al giorno d’oggi tutti quanti noi filosofi ci troviamo in una brutta
posizione di fronte al sapere...: il nostro compito è e rimane in primo luogo quello di non scambiare
noi stessi. Noi siamo qualcos’altro che dotti: benché sia inevitabile che tra l’altro noi siamo anche
addottrinati » (5, 341-342).
È ovvio che ovunque Nietzsche parla di cose esplorabili nel mondo, di cose biologiche,
sociologiche, fisiche, ecc., il lettore non accetta con semplicità ciò che viene detto. Sempre, dove
ciò sia possibile e grazie all’impulso proprio di Nietzsche, egli viene spinto alla forma del
sapere metodico. Ci si deve appellare a Nietzsche contro Nietzsche stesso, laddove, mediante brevi
giudizi, induce il suo lettore a fare ciò che egli stesso si permette di fare soltanto in via ipotetica.
Solo la conoscenza biologica può districare la concettualizzazione naturalistica di Nietzsche,
soltanto partendo dalla conoscenza pregnante e metodico-sociologica si possono verificare i giudizi
sociologici di Nietzsche.
Critica esistenziale. La critica si rivolge in terzo luogo all’esistenza interpretabile, sia che essa si
manifesti nell’opera, oppure nelle lettere e nei fatti della vita di Nietzsche. Certo, l’esistenza, come
oggetto di conoscenza, è inaccessibile, ed ogni interpretazione esistenziale - come tale al
tempo stesso critica - è espressione non di una conoscenza dell’altro, bensì del comportamento
comunicativo di colui che interpreta: un comportamento che emerge tanto dalle sue proprie
possibilità ed esiti, quanto dall’essenza di ciò che è interpretato.
Ma la critica cosi sorta sarebbe essenziale, benché senza pretesa di validità universale, se fosse
possibile con estrema serietà oltre che in modo deciso e univoco. Il fatto che ciò non sia possibile
nel caso di Nietzsche, determina la sua inquietante inafferrabilità. Nel comportamento critico
rispetto alla sua esistenza, si viene spinti a interpretazioni univoche che non possono risultare tali
seriamente, a mezze verità e possibilità che non risultano credibili: se con ciò non si cade in quella
cecità che ci costringe a perdere di vista il vero e proprio Nietzsche, tanto che alla fine si
giunge persino a vedere in lui una deplorevole incarnazione del nulla, si scorge la sua peculiare
eccezione, che mette continuamente in discussione tutto e noi stessi.
Dobbiamo vedere ed eliminare alcune particolari impostazioni della critica esistenziale, ma in modo
tale che si possa ravvisare che è l’atteggiamento esteriore di Nietzsche a rendere possibile tali
erronee o parzialmente appropriate interpretazioni che lo accompagnano. Esse non sono del tutto
arbitrarie e nemmeno casuali. Si può comprendere Nietzsche solo a grandi linee; Nietzsche stesso
può vivere e pensare solo in ciò ohe vi è di piu alto nel compito di cui è consapevole. Dove lo
svolgimento presente di questo compito gli risulta in qualche modo incerto o nascosto, anche
la critica esistenziale, che si esprime psicologicamente, diventa nei suoi confronti di una speciosità
importuna. Nietzsche vive nell’estremo, che non gli consente di rinunciare a un istante. Perciò,
l’abissale problematicità di Nietzsche è sempre presente. Ma tutti gli aspetti della critica
esistenziale diventano da ultimo non veri. Se non lo fossero e se dalla messa in questione sorgesse
un’effettiva negazione dell’esistenza di Nietzsche, allora per colui che a questa negazione dà
credito, l’importanza speculativa di Nietzsche verrebbe a cadere e non si avrebbe più bisogno di
occuparsene dal punto di vista filosofico.
Scegliamo anzitutto una particolare critica all’esistenza di Nietzsche per mostrare come essa abbia
certo una parvenza di verità, ma tuttavia non risulti vera. Quindi delineiamo le costruzioni rivolte
all'insieme della sua esistenza per mostrare come, nel complesso, non colgano Nietzsche.
Si rimprovera a Nietzsche di essere individualista ed estraneo al popolo. Il suo lavoro è pieno di
esaltazione dei grandi individui e di disprezzo per la moltitudine, per la massa, ma ci si inganna se
ci si attiene alle parole.
« Il “disinteresse” non vale un bel nulla » (5, 276), « bisogna riposare saldamente su se stessi» (15,
361), «L’io santificato» (12, 395), l’« io creatore, che vuole, che apprezza » è « la misura e il valore
delle cose » (6, 43), « vuole un sé » (3, 173): se espressioni come queste sembrano voler
significare univocamente l’illimitata assolutezza dell’individuo, ve ne sono però altre che le
contraddicono: il suo « io pesante, serio, granitico » così si rivolge a se stesso: «che importa di me!
» (11, 386); e, riferendosi all’uomo, Nietzsche scrive: « siamo gemme di un solo albero... lo stesso
individuo è un errore... Cessare di sentirsi come tale fantastico ego! » (12, 128).
Di fatto Nietzsche non è né un individualista, né al contrario si perde in un tutto. L’alternativa e il
modo di porre il problema che da questa emerge sono per lui inadeguati, e non sono contenuti nelle
frasi citate. Il suo individualismo è dedizione alle cose ed egli valorizza se stesso solo nella misura
in cui la necessità dell’essere giunge a parlare in lui. Gli è sempre stata estranea e ha disprezzato
un’esistenza singola che si arrovella su se stessa, ma ciò che vi è di essenziale nell’esistenza egli lo
può riscontrare solo sulla base del vero e proprio essere-sé.
Ciò è testimoniato dal fatto che nelle sue innumerevoli espressioni di rigetto nei confronti della
massa non può essere trovata un’estraneità al popolo, priva di ogni carattere esistenziale. Il fatto che
egli spesso dica « popolo » quando intende « massa », in quanto uso linguistico, non deve trarre in
inganno. L’autentico popolo nella sua sostanza non solo non gli è estraneo, bensì è costantemente
presente nel suo desiderio, che non intende farsi ingannare da possibili equivoci. Lo tormenta il
fatto che noi « non possediamo nessuna unità etnica della cultura » (10, 186). « E come può ancora
resistere il grande spirito produttivo in mezzo a un popolo..., se l’unità del sentimento popolare è
andata perduta...? » (1, 317). Per lui, «il carattere non popolare della moderna cultura rinascimentale
è un fatto terribile » (10, 410).
L’individualismo di Nietzsche e la sua estraneità al popolo si possono dunque attestare attraverso
l’estrapolazione di numerose frasi, cosi come, servendosi di altri passi, si possono confutare. Ciò
che più importa è vedere come Nietzsche di volta in volta non abbia l’atteggiamento che gli si
rimprovera, come proprio egli, in realtà, voglia vivere in ciò che in altre occasioni viene chiamato il
tutto e il popolo. Ciò di cui si era tanto abusato nel parlare, venne combattuto da Nietzsche nella sua
manifestazione esteriore, non nel suo principio originario; egli non lo respingeva nella sua genuina
realtà e nella sua continua possibilità, ma per l'origine secondaria delle sue stravolgenti
trasformazioni in realtà non veritiere, in non realtà. C’è perciò, nelle formulazioni di
Nietzsche, qualcosa che, peculiarmente, tende a un continuo capovolgimento.
La sua « estraneità al popolo » è il suo desiderio di un popolo che egli ritiene autentico: « un
popolo... vale solo per quanto sa imprimere sulle sue vicende l’impronta dell’eterno» (1, 163). «Un
popolo non è tanto caratterizzato dai suoi grandi uomini, quanto dal modo in cui li sa riconoscere e
onorare » (10, 14). Il popolo risiede per lui nella minoranza degli uomini chiamati a legiferare
attraverso la loro capacità creativa, e nella costruzione gerarchica delle possibilità che si originano
dall’ineguaglianza degli uomini, possibilità che si condizionano reciprocamente e che devono essere
affermate. Fiducioso nella gioventù, successivamente disposto a rinunciarvi e infine disperatamente
proteso ad invocarlo, Nietzsche cercava il suo popolo nel lontano futuro. Egli sapeva che non sono
legati al popolo solo coloro che lo guidano, che non corrono troppo avanti, che si tengono vicini ad
esso come capifila, che rimangono nella loro realtà presente, bensì anche coloro che precorrono i
tempi, sperimentano possibilità, e che gli mostrano ciò che attualmente non ha ancora effetto
sul tutto. Un popolo che sia effettivamente un popolo (cioè non una massa che in un attimo si
dissolve), e che perciò vive nel più vasto ricordo e nell’aperta possibilità di un futuro, produce
questi uomini per così dire disposti alle più diverse esperienze, questi avventurieri dello spirito
popolare, questo eroismo di domande e scoperte solitarie, questi sperimentatori, realizzatori e
inventori di una vera umanità, questi esaminatori e inesorabili scopritori. Il popolo li rende possibili,
li tollera, li teme quando li osserva, ma ora non li segue: eppure sono forse proprio loro che, molto
tempo dopo la loro morte, il popolo segue come ciò che è veramente vivo, sia pure trasformandoli,
o anche fraintendendoli. Nietzsche era legato a questo popolo, alla sostanza del suo popolo. Solo
partendo da questa autoidentificazione si può intendere come vera e propria autocritica la sua
spietata critica al popolo tedesco, che solo superficialmente può esser vista come ostilità.
Il rimprovero di estraneità al popolo e di individualismo è solo uno dei tanti che, nell'estendersi a
tutta l’esistenza, affermerebbe la mancanza di sostanzialità del pensiero nietzschiano e, con ciò, di
Nietzsche stesso. È del tutto assennato sperimentare la possibilità di costruzioni critiche spietate; il
rimprovero viene spinto all’estremo per costringere alla decisione a partire dalla propria esperienza
esistenziale dello studio di Nietzsche.
Il pensiero di Nietzsche non rifugge da nulla. « Davanti ad ogni individuo siamo pieni di cento
riguardi: ma quando si scrive, non capisco perché non ci si spinga fino all’estremo limite della
sincerità » (11, 174). Questa sincerità assume una forma che consente a Nietzsche di tentare
e comunicare ogni pensiero. Per Nietzsche non c’è piti alcun limite, nessun divieto dell’impossibile.
La mancanza di misura porta alla semplificazione delle cose in semplici antitesi, diventa mancanza
di rispetto per i grandi (Kant: il cinese di Königsberg, Schiller: il trombettiere morale di Säckingen,
e così via), cosicché l’immagine delle sostanze spirituali e degli uomini si dissolve. L’intensificarsi
dell’espressione, degli sferzanti giudizi di valore, dell’autocoscienza, delle pretese di eccentricità,
non può che portare all’inganno o al completo rifiuto.
Ben presto Nietzsche è consapevole « di due cose assai alte: misura ed equilibrio » (3, 129); ha
sovente espresso il suo rigetto del fanatismo. Ma per Nietzsche è nondimeno possibile respingere la
misura, anche se con l’orrore per un destino non desiderato: « Ci è estranea la misura,
riconosciamolo: il nostro assillo è appunto l’assillo dell’infinito, dello smisurato... » (7, 179). Il suo
« essere moderno » assume per lui l’aspetto « di mera hybris...; hybris è la nostra posizione di
fronte a Dio, voglio dire di fronte a qualsivoglia presunto ragno etico-finalistico celato sotto il
grande tessuto e reticolo della causalità...; hybris è la nostra posizione di fronte a noi stessi, giacché
eseguiamo esperimenti su di noi, quali non ci permetteremmo su nessun animale...: che cosa ci
importa ancora la “salute” dell’anima! Dopo di ciò ci medichiamo da noi: essere malati è
istruttivo... » (7, 420). E in conclusione risuona trionfante: « Noi immoralisti - siamo oggi l’unica
potenza che non abbia bisogno di alleati... - anche senza la verità conseguiremmo la potenza e la
vittoria. L’incantesimo che combatte per noi... è la magia dell’estremo, la seduzione che viene
esercitata da ogni cosa suprema: noi immoralisti siamo gli estremi » (16, 193-194).
La questione è se oltre il tentativo di fare a meno della misura, l’affermazione dell’assenza di
misura abbia ancora, nel complesso del suo pensiero, il fondamento esistenziale della sua
possibilità. Essa deve essere interpretata come manifestarsi dell’eccezione: chi, partendo da una
nuova origine, in mezzo a un mondo vecchio in ogni angolo, che ancora parla come se tutto fosse
naturale e come se solo per lui fosse già svelato in tutta la sua chiarezza, perviene all'esserci e vuole
comunicare se stesso, allora fa uscire, poiché costantemente minacciato da soffocamento per
non essere udito ma anzi frainteso, il rumore clamoroso, l’aggressività senza misura come sintomo
della sua mancanza di difese e della sua mortale vulnerabilità nell’oscurità di questo mondo. E
benché nel suo essere, nel suo modo di sentire e nei suoi obiettivi egli non sia un fanatico, si
trasforma manifestando comunque un altro tipo di fanatismo. Nietzsche non è in grado di pervenire
a una saggezza obiettiva, di mostrare un’accortezza che mai porta a fallire, possibile solo per uno
spirito non rivoluzionario. Prodigandosi ed esponendosi senza cautele, la sua profonda saggezza
diventerebbe per lui - come in Prometeo - bybris. La mancanza di misura è l’espressione di
un compito che egli non può risolvere.
Ma in una interpretazione che non riconosce l’aspetto inevitabilmente straniante dell’essere
un’eccezione, il fondamento che rende possibile l’assenza di misura può anche apparire in modo del
tutto diverso: sembra che l’amore limitato e che pone dei limiti non completi l'esserci di
Nietzsche. Come la sua atmosfera spirituale può agire in modo indifferente, freddo anche nel
fervore della passione (« Luce io sono: ah, fossi notte!... Ma io vivo nella luce mia propria, io
ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono »: 6, 153), e come anche l’atmosfera della sua
vitalità può apparire priva di effetto erotico, così l’imperturbabile e sincera presenza dell’amore
nella concretezza storica sembra non poter mai diventare il terreno della sua esistenza.
Ma se più nessun fondamento irremovibile della realtà storico-vitale sembra poter parlare, allora per
Nietzsche tutto ciò che ha valore umano, e ogni essere umano in tutta la sua interiorità, può
diventare problematico. La mancanza di misura diventa allora di fatto la rovina di ogni essere
determinato. Ogni prudenza e rispetto sembra cessare quando le spietate asserzioni e valutazioni di
Nietzsche annullano la misura da lui in precedenza richiesta. Certo, Nietzsche ci è tramandato nel
suo universale partecipare alla vita attraverso la propria esperienza della dialettica vissuta, e non
soltanto pensata; ma questa serietà nell’impegno del suo essere può dare l’impressione di
consumarsi nella propria distruzione esistenziale.
La serietà di Nietzsche cresce nel contatto con la realtà, che egli poi di fatto, pensando, sempre di
nuovo abbandona e, sempre e solo pensando, trasforma nell’indesiderata perdita di contatto col
mondo da parte di un esserci che diventa quasi immaginario. Egli sembra fare esperienza
soltanto per conoscere; sembra vedere la realtà in modo visionario, come futuro, senza identificarsi
egli stesso con la sua realtà storica. In questo senso, sembra rivelarsi in modo simbolico quel «
principio » che già da studente egli indicò in occasione della sua permanenza per due semestri
nella Burschenschaft: « In questo, non ho rispettato il mio principio di abbandonarmi agli uomini e
alle cose piu di quanto sia necessario per conoscerli » (a Mushacke, 30. 8. 65). È inquietante il fatto
che Nietzsche senza dubbio non si abbandoni mai alla contemplazione e al piacere estetico,
ma soffra invece fino alla disperazione e non sia in grado di trovare alcun appiglio per la sua ancora
e, perciò, non possa essere in sintonia con un essere umano, con l’idea di un mestiere, con la patria.
Egli è in sintonia e si identifica soltanto con la sua opera.
Se si seguono tali costruzioni e si vede il grande sapere di Nietzsche proprio in ciò che attraverso
esse, se fossero fissate, gli verrebbe negato — la piena esistenza storica - allora sorge alla fine la
questione paradossale se, forse, la mancanza esistenziale dell’essenza di una nuova, a noi
estranea esistenza condizioni totalmente il prendersi cura dell’esser-uomo, se la lontananza, in cui
Nietzsche si è chiuso, gli fornisca occasione e mezzo per quelle intuizioni che per noi sono di valore
insostituibile. Esse toccano le possibilità esistenziali in modo così deciso e chiaro poiché, a colui
che le rende chiare, questa esistenza non è concessa, ma egli ne diviene consapevole in virtù di una
diversa profondità, quella dell’eccezione esistenziale. La grandezza di Nietzsche consisterebbe nel
sentire il nulla e, mediante ciò, nel parlare dell’altro, dell’essere, in modo passionale e illuminato,
ed anzi nel fatto di poterlo conoscere meglio di coloro che forse non ne sono mai certi e coscienti, e
permangono nella loro ottusità. L’abbandono nietzschiano della realtà e la sua passione per la verità
sarebbero strettamente congiunti nel loro manifestarsi. Che cosa in particolare significhi la
comunicazione con coloro che piu sono vicini, con gli amici, con i compagni di lotta, con i
collaboratori e col suo popolo, si rivelerebbe a Nietzsche proprio per il fatto che, in realtà, tutto ciò
gli manca.
Le costruzioni devono essere necessariamente progettate per avere al momento presente tali
possibilità, e quindi per chiarirsi se si debba o non si debba credere ad esse. Il vuoto improvviso che
può assalire nello studio di Nietzsche, se erroneamente da Nietzsche stesso si pretende piu di quanto
egli possa dare, vale a dire un compimento positivo invece di un impulso, un’esigenza, una
problematizzazione, talvolta fa indubbiamente apparire convincenti tali costruzioni. Ma esse sono in
sé fragili: mostrando lo smarrimento esistenziale di Nietzsche esse affermano un’esistenza
fantastica della vuota possibilità. In ogni rimprovero contro il modo d’essere di Nietzsche, esse
devono altresì riconoscere che Nietzsche stesso assunse la posizione contraria. Nessuno ha visto e
richiesto piu chiara misura e accortezza dello « smisurato » Nietzsche, nessuno ha concepito più
profondamente di lui la comunicazione e la mancanza di comunicazione, nessuno si è cosi
spietatamente deciso per il proprio compito. Nessuno è stato capace più di lui di mettere in
discussione la vita della conoscenza, lui, che voleva sacrificare la vita per la conoscenza. Nella sua
assenza di misura, cosi come in tutto ciò che è problematico, non bisogna vedere una
precisa volontà e una posizione stabile, bensì il destino. Nell’avanzare verso il limite, dove non può
effettuarsi il compimento dell’essere, egli fa ancora del buffone la sua forma verace. Contro il
dubbio sul suo amore suonano terribili e vaghe le sue parole: « Ogni grande amore non vuole
amore: - vuole di più » (6, 427); una sorta di capovolgimento che mette tutto in discussione: « Chi
sa che cos’è l’amore, se non è stato costretto a disprezzare ciò che amava! » {6, 94). Ciò che egli
dice deve sempre esser compreso non solo in relazione al suo contesto, ma anche nella sua relazione
al tutto.
Ma qui per noi il tutto non può valere. Se è presunzione sconsiderata e stolta voler comprendere
complessivamente e definitivamente Nietzsche, egli non diventa nemmeno la figura che
indubitabilmente sussiste come tale. Ogni costruzione deve naufragare di fronte alla sua realtà,
poiché questa stessa realtà rimane tanto più un enigma quanto più ricca si crede di vederla e quanti
piu aspetti si cerca di conoscerne. Mentre ogni tentativo di imitazione delle problematicità di
Nietzsche tramite altre forme sarebbe subito destinato a fallire alla luce della struttura riconoscibile
del suo senso, in Nietzsche stesso tutto era come fuso in qualcosa di ulteriore. Egli
rimane un’unicità storica che tuttavia si riproduce sempre di nuovo in tutto quello che ci sorprende,
che è obliquo e che sfugge, donando qualcosa a chiunque entri in seria relazione col suo pensiero.
Ci sono filosofi nelle cui frasi, quanto più avanti procede la comprensione, tanto piu tutto viene
posto in reciproco riferimento, cosicché alla fine si trova un terreno in virtù del quale tutto è
definito, e il tutto propriamente è alla fine; ce ne sono altri che stimolano e allettano, ma
fanno cadere colui che seducono in un vuoto in cui non vi è più nulla. Ci sono i veri filosofi, che
non hanno né terreno né vuoto, bensì una profondità che si manifesta, cosicché non c’è alcuna vera
fine; essi ci coinvolgono sempre più profondamente senza abbandonarci. In Nietzsche sembra
accadere tutto: un improvviso, facile scivolare del concetto nella superficialità può essere in lui
apparentemente la fine e un terreno ingannevole; un vuoto orizzonte dell’infinità, il nulla, può fare
sprofondare nell’abisso; egli raggiunge la creatività speculativa e filosofica solo nel suo continuo
tentare, sperimentare. Questa è la sua peculiarità, il suo nuovo modo di filosofare.
Nessuna delle critiche qui discusse coglie la sostanza di Nietzsche; esse insegnano quanto sia
difficile e spinoso accostarsi veramente a questo filosofo. Confutazioni dei pensieri, rilievi di
scorrettezze nel contenuto, problematizzazione costruttiva della sua esistenza, non sono mai
sufficienti; qualcosa di inconfutabile si ripristina sempre di nuovo, e la critica contribuisce
indirettamente a chiarirlo. Ma al di là di tutte le critiche, si trova ancora un compito permanente,
sempre rinnovato, dell’interpretazione di Nietzsche. Affrontiamo ora, da ultimo e in modo sintetico,
questo compito, sentendo in ciò la potenza effettiva di questo filosofare; ma a tale scopo bisogna
tenere presente anzitutto l’atteggiamento fondamentale e dominante di Nietzsche, la volontà del
puro al-di-qua. È ciò che scolasticamente si dice il « punto di vista dell’immanenza », e che egli
formulò con la frase « Dio è morto », espressione della sua consapevolezza della svolta dell’epoca;
ciò gli procurò il rimprovero di ateismo. In secondo luogo, bisogna considerare il suo nuovo modo
di filosofare; in terzo luogo, la possibilità che abbiamo di appropriarcene.
La volontà del puro al-di-qua
I pensieri fondamentali di Nietzsche, che esprimono una trasvalutazione dei valori, sembrano
scaturire da un’unica fonte: il capovolgimento di tutti i valori fino ad allora apprezzati è il risultato
del fatto che « Dio è morto ». Pertanto, si trasforma in parvenza illusoria tutto ciò che prima era
oggetto di credenza; il disvelamento di questa apparenza rivela l’imminente catastrofe. La credenza
in Dio fu dapprima l’origine del processo storico in cui il rango degli uomini si è continuamente e
ulteriormente abbassato, e successivamente, dopo lo smarrimento della fede, è diventata l’origine
indiretta della catastrofe attuale.
Ma il pensiero di Nietzsche è rivolto al vero e proprio essere degli uomini, che, liberato dalle
illusioni della credenza in Dio, deve sorgere dalla catastrofe, acquistando ancora maggiore potenza.
La morte di Dio non è per Nietzsche soltanto un fatto terribile, ma esprime la sua volontà di
ateismo. Poiché cerca la possibile altezza dell’essere umano, che per lui può essere veramente tale
solo in quanto reale, egli sviluppa nel proprio pensiero la volontà di un puro al-di-qua.
Per Nietzsche si tratta qui non già di un pensiero fondamentale fra tanti altri, bensì di un impulso
dominante, al servizio del quale sono posti tutti i suoi pensieri fondamentali; si tratta, per così dire,
del pensiero che è alla base di tutti i pensieri fondamentali. Esso è emerso in ogni capitolo ed ora
dev’essere visto e interpretato nella correlazione con il tutto.
La posizione dell’ateismo. La credenza nell’esistenza di Dio implica secondo Nietzsche una
calunnia del mondo (cfr. supra), di tutti gli aspetti della vita reale, ed è dunque una fuga per
liberarsi del mondo reale e dei suoi grandi compiti. Ma nel mondo si deve compiere e realizzare
solo ciò che in esso è possibile. Questo « possibile » ha la sua origine ed è limitato soltanto dalla
volontà creatrice. Zarathustra esige che tutto ciò che viene ideato si attenga a questo limite: « Dio è
una supposizione; ma io voglio che il vostro supporre non si spinga oltre i confini della vostra
volontà creatrice... io voglio che il vostro supporre trovi i suoi confini entro ciò che è possibile
pensare... Voi non dovreste essere generati né nell’incomprensibile né nell’irrazionale » (6, 123 e
sgg.). Perciò Dio era il « più grave pericolo » e doveva morire (6, 418). Inventato soltanto come «
opera dell’uomo e della follia » (6, 42), egli sarebbe « la più grande obiezione contro l’esistenza »
(8, 101). Ma Dio non è solo l’illusione che allontana da ciò che di fatto è possibile realizzare; la sua
esistenza sarebbe insopportabile anche per colui che crea: « se vi fossero degli dei, come potrei
sopportare di non essere dio! Dunque, non vi sono dei » (6, 124).
Se la direzione fondamentale e dominante nel pensiero di Nietzsche è quella di giungere senza Dio
alla massima elevazione dell’uomo nella realtà stessa, d’altra parte, in modo ancor più deciso, egli
mostra inintenzionalmente e inconsapevolmente che l’uomo, in quanto esserci finito, non
può compiersi senza trascendenza. Il ripudio della trascendenza la fa subito risorgere: per il
pensiero essa si ripresenta sotto forma di immagini sostitutive; per il vero e proprio essere-sé, nello
sconvolgimento che, ancorché non previsto, attraverso la vera trascendenza colpisce tutto ciò che
risulta falso. In un’epoca in cui si evidenzia un ateismo apparentemente universale, le vette
raggiunte dall’intimo essere di Nietzsche e la sua lealtà mostrano in lui questo stesso ateismo in una
forma inquieta che, come potremo vedere, si conclude nelle estreme falsità del pensiero e, al tempo
stesso, nel piu autentico turbamento provocato dalla trascendenza. Entrambi gli aspetti devono
essere esaminati con maggiore chiarezza.
Il sostituto della trascendenza e il suo fallimento. L’uomo è veramente tale solo per il fatto che vive
in riferimento alla trascendenza. La trascendenza è la forma dell’apparire nell’esserci, e solo
attraverso di essa l’uomo può aver presente il contenuto dell’essere e di se stesso. Egli non
può sfuggire a questa necessità; se non la riconosce, allora al posto di ciò che non è riconosciuto
subentra soltanto qualcos’altro. Nietzsche vuole vivere senza Dio, poiché nella sua lealtà crede di
capire che non è piu possibile una vita con Dio, a meno di procedere ad una sorta di autoinganno.
Ma così come, in seguito alla rinuncia alla comunicazione reale, crebbe il rapporto con l’amico
Zarathustra, che egli stesso produsse, nello stesso modo, dal momento che non riconosceva Dio,
egli dovette mettere qualcos’altro al suo posto. Bisogna chiedersi come ciò avviene.
Nella sua dottrina metafisica Nietzsche esprime che cosa propriamente sia l’essere stesso, vale a
dire nient’altro che il puro al-di-qua: l’essere è l'eterno ritorno di tutte le cose; al posto della
credenza in Dio è subentrata la necessità di comprendere questo ritorno e le sue conseguenze per la
coscienza dell’essere, per l’agire e per l’esperienza. L’essere è la volontà di potenza; tutto ciò che
accade non è altro che una manifestazione della volontà di potenza che, nelle sue infinite forme, è
l’unica forza propulsiva del divenire. L’essere è vita-, esso viene chiamato con il simbolo mitico di
Dioniso. Il senso dell’essere è il superuomo: « La bellezza del superuomo venne a me come
un’ombra... Che mai possono importarmi ancora - gli dei! » (6, 126).
Al contrario della trascendenza di Dio, l’essere è sempre l’immanenza che io posso trovare,
indagare, produrre: Nietzsche vuole dimostrare fisicamente l’eterno ritorno, osservare
empiricamente la volontà di potenza e la vita, far nascere il superuomo. Ma ciò che egli ogni volta
intende in senso metafisico non è piu l’essere determinato, particolare, che si trova nel mondo.
Perciò, il contenuto di questi pensieri, nella misura in cui non può essere scambiato con alcun
oggetto determinato nel mondo, diventa di fatto una trascendenza, pur restando un’immanenza
assolutizzata nel linguaggio. Come questo essere venga inteso da Nietzsche, di fatto può
essere intuito o pensato soltanto identificandolo in particolari oggetti del mondo. Ogni volta ha
perciò luogo, immediatamente, la trasformazione dell’immanenza totale, rivolta alla trascendenza,
nella consapevole immanenza di una particolarità che, di fatto, riguarda solo un esserci individuale
nel mondo.
Questo può accadere perché in precedenza l’affermazione metafisica dell’essenza dell’essere era
sorta proprio grazie all’assolutizzazione di questo particolare essere-nel-mondo, al quale, pertanto,
può esser continuamente ricondotta. Si origina così l’oscillazione del senso autentico dell'essere
tra un pensiero che tende alla trascendenza e un pensiero che conosce nel mondo, oscillazione che è
una diretta conseguenza dei costanti scambi reciproci che avvengono nel metodo di questo pensiero.
a)    L’essere come divenire infinito nel ciclo dell’eterno ritorno, come vita e volontà di potenza,
viene raggiunto in una serie di salti: dalla prossimità e realtà dell’accadere, di cui si ha esperienza,
alla lontananza e possibilità dell’accadere in generale e al divenire dell’essere mondano e
naturale nel suo insieme. Questi salti, sempre all’interno del mondo, avvengono in luogo del salto
verso la trascendenza. Essi stessi costituiscono già un modo di trascendere, poiché non conoscono
piu le cose nel mondo né empiricamente, né con necessità. Ma essi danno luogo a un trascendere
verso un oggetto totale dell’esserci immanente al di là di tutte le cose particolari e non a un
trascendere dall’essere-sé dell’esistenza verso la trascendenza. Invece di cercare
nell’incomprensibile la presenza eterna della trascendenza, attraverso l’essere-sé che decide e che si
realizza storicamente in riferimento ad essa, il particolare viene inserito in un tutto che si presume
di aver compreso, viene accolto nel divenire senza fine, ed assume importanza solo per il fatto che
ritorna eternamente, che significa un grado della potenza e rappresenta la vita autentica. Poiché al
tempo stesso questo trascendere di Nietzsche, che tende continuamente a capovolgersi, rimane di
fatto anche il compimento di un trascendere autentico, il senso di tale trascendere coinvolge spesso
il suo stato d’animo, benché il pensiero come tale fluisca in mera oggettività.
b)    In questo trascendere viene ignorata la separazione tra la verità oggettivamente sondabile, che è
adatta a mostrare il mezzo efficace all’azione che progetta nel mondo, e la verità, che stimola senza
mostrare percorsi determinati per l’intelletto progettante, o legge delle cifre senza cogliere un essere
determinato. Il pensiero chiarificatore non è però un sapere che si possa applicare; per parte sua, il
sapere utilizzabile, nella sua inevitabile ristrettezza, rimane senza la forza di fondare, da solo,
la coscienza dell’essere. Se confusamente uno di questi saperi subentra al posto dell’altro, in questo
scambio vi è la possibilità di essere ingannati con compiti che non esistono affatto e che, in
generale, possono essere posti soltanto ingannando se stessi.
Ad esempio, una creazione umana fantastica deve sostituire la trascendenza. Il superuomo diventa
l’ideale di un allevamento mediante la formazione di progetti nel mondo; la sua preminenza rispetto
agli dei consiste certo nel fatto che esso deve trovarsi nella sfera della produzione umana:
« Forse che potreste creare un dio? - Dunque non parlatemi di dei! Certo, voi potreste creare il
superuomo » (6, 123). Se ci fossero degli dei, non ci sarebbe nulla da creare; ma ora « la mia
ardente volontà creatrice mi spinge sempre di nuovo verso l’uomo; così il martello viene spinto
verso la pietra » (6, 126). Ma come? Che ciò avvenga mediante pensieri che induco gli altri a
pensare, oppure mediante un allevamento, in analogia con l’allevamento degli animali, vale a dire
mediante la selezione di certe qualità altamente apprezzate, utili e riconoscibili con sicurezza - in
ogni caso l’uomo può considerare realmente soltanto uno scopo finito; egli non sa mai che cosa
risulta dal suo agire; oppure si pone illusoriamente al di sopra degli uomini come un altro Dio
creatore.
Se nel superuomo sembra mostrarsi per un momento ancora qualcosa di simile al contenuto di un
compito, allora il contenuto dell’impulso che permane costante nel mondo e che sostituisce la
trascendenza della divinità va oltre ogni determinatezza e si perde nel vuoto: « Mille scopi vi
furono finora, perché v’erano mille popoli... uno scopo manca. Ancora l’umanità non ha uno scopo
» (6, 87). E anche se la divinità può avere uno scopo che è caratteristico dell’umanità, nessun uomo
può conoscerlo e prenderlo sensatamente come compito. Lo svanire nell’immaginario, che dà
l’impressione piacevole di una possibile realtà mondana nella sua massima crescita - ma non è
nulla, e certo non è trascendenza - è la conclusione del pensiero che sostituisce la trascendenza.
La disposizione di compiti impossibili fa dimenticare all’uomo la sua finitudine e con ciò i suoi
limiti, in quanto lo ritiene capace di ciò che solo un Dio che penetra ovunque, ma non un uomo, può
esaudire. Se Nietzsche ad esempio ebbe la spavalderia di insegnare: « muori al momento giusto »
(cfr. supra), ebbene egli parlava come se un uomo, che certo può mettere a repentaglio la sua vita,
potesse sacrificarla per una causa e per altri uomini, come se al di là del suo stesso esserci egli
potesse sapere, dominandolo e valutandolo nel tutto, quando deve morire e provocare la sua stessa
morte.
c) La confusione tra la verità oggettivamente sondabile e la verità chiarificabile, ossia lo scambio tra
la conoscenza delle cose nel mondo, sempre particolare e relativa, e il trascendere, ha come
conseguenza l’ambiguità che si origina quando il trascendere così enunciato, per esprimersi, si
serve dei concetti della conoscenza naturale, della psicologia e della sociologia. Nietzsche è sempre
di nuovo preda di questo errore quando fa uso della biologia, della psicologia e della sociologia
come mezzo di appello e crittografia chiarificatrice per spingersi più in alto. Così, ad esempio,
accanto all’appassionata ascesa tra gli ideali dei grandi uomini, in Nietzsche si può trovare la
neutralizzazione nel riconoscimento privo di slancio dell'homo natura, e accanto al richiesto
superamento di tutto ciò che è psicologico si può incontrare un livellamento psicologico. La
confusione sconvolgente tra la psicologia che tende a fissare, e la chiarificazione dell’esistenza che
può solo agire richiamandosi ad appelli, si basa, in ultima istanza, sulla volontà di pura immanenza,
che vorrebbe respingere ogni trascendenza, ma che poi non fa avanzare né l’esistenza, né tanto
meno la trascendenza, e che tuttavia rappresenta inevitabilmente e continuamente il compimento del
trascendere stesso.
I concetti che permangono nell’immanenza sono concetti di cose nel mondo; quindi essi sono
determinati ed effettivi. Oppure vogliono significare la totalità dell’essere; allora diventano
indeterminati e inefficaci, salvo che diventino occasione di un agire da parte dell’uomo che con essi
si illude; un agire che raggiunge qualcosa di totalmente altro rispetto a quanto ci si proponeva,
oppure semplicemente tende a distruggere. I concetti che rimpiazzano la trascendenza negata
diventano vuoti per ogni sapere del mondo, senza tuttavia esprimere la trascendenza. Ma l’intero
contenuto del pensiero umano proviene o dal sapere di un determinato esserci reale -sapere che si
può dimostrare — oppure dal linguaggio di una trascendenza che è rivolta all’esistenza dell’essere-
sé che, come essa, non è mostrabile. Perciò in Nietzsche le posizioni vuote si originano proprio dal
fatto che egli vuole rimanere nel mondo e tuttavia abbandona lo scibile in esso contenuto.
Non si può negare che il lettore di Nietzsche, nei passi decisivi, possa esser colto dalla desolazione,
che il suo concludere in simboli non comunicativi lo possa deludere, che in fondo un vuoto
divenire, un vuoto movimento, un vuoto produrre, un vuoto futuro sembri essere la sua ultima, muta
parola.
Ma questa apparenza non costituisce la verità definitiva su Nietzsche. Quando si rivolge a Nietzsche
il rimprovero di ateismo e si rimanda al suo Anticristo, in verità l’ateismo di Nietzsche non è affatto
una negazione di Dio univoca e piatta, e non è neppure l’indifferenza di una lontananza da Dio,
secondo la quale Dio non esiste perché non lo si cerca affatto. Già il modo in cui Nietzsche nella
sua epoca stabilisce che « Dio è morto », sta ad esprimere il suo turbamento. Come la sua
immoralità, mediante un ethos veritiero, vuole l’eliminazione della morale ingannevole e
sostenuta con ipocrisia, così il suo « ateismo » vuole esprimere l’autentico legame con l’essere,
contro la menzogna livellante, che toglie ogni passione, della presunta credenza in Dio. E sebbene
per Nietzsche nell’ateismo agisca lo spietato impulso allo slancio del suo essere-uomo, e benché
l’onestà che egli esige aumenti fino ad un no radicale contro ogni generica fede in Dio, perfino
allora Nietzsche conserva una vicinanza sorprendente al cristianesimo: « Esso è certamente la parte
migliore di vita ideale che io abbia veramente conosciuto: fin dall’infanzia l’ho seguita in molti
aspetti e, in cuor mio, credo di non esser mai stato volgare nei suoi confronti » (a Gast, 21. 7. 81).
Tutto questo indica che Nietzsche, che non vuole trascendere quando respinge la credenza in Dio e
ad essa sostituisce la rappresentazione del puro al-di-qua, di fatto tende continuamente al
trascendere.
Il trascendere di Nietzsche. Il segno piu certo del suo trascendere è che esso nella sua negatività è
assolutamente universale, a differenza di ciò che accade in tutte le dottrine positivistiche,
naturalistiche, materialistiche, che hanno sempre come caratteristica peculiare una rigida certezza di
sé nel circoscrivere l’oggetto, che infatti rappresenta per esse il vero e proprio essere. Il positivismo,
le cui formule indubbiamente compaiono talvolta in Nietzsche, viene con ciò disprezzato. L’origine
del movimento di pensiero di Nietzsche non è tanto l’ordinario ateismo, che come tale si accontenta
di esaminare gli oggetti empirici del mondo e di fare ipotesi su di essi, e perciò ricorre a qualsiasi
superstizione quando vuole sapere che cosa è l’essere, ma è la perenne insoddisfazione di fronte a
ogni forma di essere che gli si mostra. Forse, tutto ciò che Nietzsche nega era già stato anche
in altro modo negato, ma veniva isolato, separato dal resto (che rimaneva ingenuamente affermato),
o veniva negato in modo tale che non mettesse in pericolo esistenziale colui che esercitava la
negazione, poiché era sostenuto dall’intima sicurezza di un esserci considerato ovvio, naturale. Al
contrario, in Nietzsche l’impulso alla negazione, derivato dal senso di insoddisfazione, mostra una
passionalità e uno spirito di sacrificio tali che sembrano provenire dalla stessa origine che muoveva
i grandi spiriti religiosi e i profeti.
Il trascendere di Nietzsche si manifesta come il suo nichilismo, che egli dichiara di aver condotto
fino al suo punto estremo. Egli distingue questo suo nichilismo creativo della forza dal nichilismo,
improduttivo e solo distruttivo, della debolezza: « ogni fruttuoso e potente movimento dell’umanità
ha creato contemporaneamente anche un movimento nichilistico » (15, 223).
Egli vede il nichilismo che in tal modo respinge nei grandi fenomeni storici e nella moderna
décadence. Egli definisce il brahmanesimo, il buddhismo, il cristianesimo, come religioni
nichilistiche « perché hanno glorificato, tutte, il concetto opposto alla vita, il nulla, come fine
ultimo, come sommo bene, come “Dio” » (14, 371). Questo nichilismo passivo della debolezza, in
cui tutti i valori si fanno guerra reciproca, rappresenta il disgregamento; in primo piano subentra «
tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce,... sotto diversi travestimenti, religiosi o morali
o politici o estetici » (15, 157). La debolezza è anche « nel nichilismo alla moda di Pietroburgo
(vale a dire nel credere di non credere portato fino al martirio) »; esso « mostra sempre innanzitutto
il bisogno di fede, stabilità, spina dorsale, punto d’appoggio» (5, 281). Il nichilismo è
la manifestazione di una morte; l’andare-in-rovina dei nichilisti cresce sino al mandarsi-in-rovina:
essi hanno « l’istintiva costrizione a compiere azioni con cui ci si inimica mortalmente i potenti »;
vi è in loro un residuo di volontà di potenza trasformata, « nel costringere i potenti a essere i loro
carnefici. È questa la forma europea del buddhismo, il far no, dopo che ogni esistenza ha perduto il
suo “senso” » (15, 185).
Al contrario, il nichilismo di Nietzsche, in opposizione a queste possibilità, è di fatto una forma del
suo trascendere, che in ragione della sua ambiguità risulta difficile da comprendere. L’essere gli si
mostra in questa forma di nichilismo che continuamente trascende se stesso. Ma per colui che si
limita a osservare come spettatore è come se non ci fosse: infatti Nietzsche ha sì superato il
nichilismo, ma in una forma, tipica dell’esserci temporale che rifiuta ogni possesso, tale che il
nichilismo stesso sembra mostrarsi sempre di nuovo, come se ancora dovesse essere superato. Le
sue costruzioni, tendenzialmente dogmatiche (ad esempio, la fallita sostituzione della trascendenza),
possono apparire come la volontà di credere da parte di un miscredente. Il salto che Nietzsche
compie verso il contenuto della fede non è quello verso la tradizione (come in Dostoevskij o in
Kierkegaard), bensì verso una credenza e verso simboli autonomamente prodotti (il superuomo,
l’eterno ritorno, Dioniso, ece.), al di fuori di ogni atmosfera storica vincolante. Così Nietzsche, se si
concentra lo sguardo sulle sue dottrine dogmatiche, può dare l’impressione di un pensatore che in
realtà non è in grado di sopportare le conseguenze del suo pensiero: partendo dal suo confessato
nichilismo, egli sembra adottare soltanto una via d’uscita violenta, invece di superarlo così come
intenderebbe fare. Egli sembra non avere piu nulla, e nelle vacuità immanenti, ma immaginarie, del
mondo sembra cogliere la parvenza di una stabilità dell’essere. La forzatura di una credenza
disperata pare appoggiarsi a qualcosa che ha un effetto del tutto artificioso. Ma questa impressione
nasce soltanto se invece dell’intero Nietzsche si isola l’aspetto positivo delle sue dottrine. Il suo
trascendere nichilistico non raggiunge la pace nell’essere. Perciò l’ateismo di Nietzsche è la
crescente inquietudine di una ricerca di Dio che forse non si comprende piu.
L’enunciazione nietzschiana dell’ateismo contiene un indicibile tormento: il fatto che sia necessario
rinunciare a Dio, ha questa conseguenza: « Non pregherai mai piu..., non riposerai mai piu in una
fiducia senza fine - è questo che ti neghi: fermare il passo davanti a un’ultima saggezza, a un ultimo
bene, a un’ultima potenza, e togliere i finimenti ai cavalli dei tuoi pensieri... Uomo della rinuncia, in
ogni cosa vuoi tu rinunciare? Chi te ne darà la forza? Nessuno ancora ebbe questa forza! » (5,
216). Questa esigenza, quest’idea e realtà di Nietzsche sono tali che egli deve augurarsi di poter
sbagliare: « Alla fine, per tutti coloro che in qualche modo hanno avuto un dio come compagno, non
c’è stato ancora ciò che io conosco come “solitudine”. Ora la mia vita consiste nel desiderio che
tutte le cose possano essere diverse da come le intendo; e che qualcuno renda incredibili le mie
“verità” » (a Overbeck, 2. 7. 85). Come un veggente, egli scorge il suo abisso con grandiosa onestà:
« Un uomo profondo ha bisogno di amici, a meno che egli abbia ancora con sé il suo Dio. Ma io
non ho né Dio, né amici! » (alla sorella, 8. 7. 86). Ma Nietzsche, pur terrorizzato, non retrocede.
Così si capisce dove egli vede l’autentico coraggio degli uomini: «Avete coraggio...? Non coraggio
davanti a testimoni, bensì il coraggio dei solitari e delle aquile, cui non fa da spettatore nemmeno
piu un dio? » (6, 419).
Perciò alla fine non può stupire di trovare espresse, direttamente da lui stesso, le indicazioni del suo
contatto con la trascendenza. Già nel suo pensiero egli lascia sussistere il Dio che al tempo stesso
deve negare, come quando dichiara: «propriamente, soltanto il Dio morale è confutato» (13, 75). A
tal riguardo, egli lascia decisamente un libero spazio, anche se mai parla dell’unico Dio, ma solo di
dei, del divino: « Quanti nuovi dei sono ancora possibili! Anche a me stesso, dove vuole a volte
ravvivarsi l’istinto religioso, cioè l’istinto plasmatore di dei: come diversamente, come variamente
mi si è ogni volta rivelato il divino!... Tante cose strane mi passarono già davanti in quei momenti
senza tempo che arrivano nella vita... Io non dubiterei che ci siano molte specie di dei » (16, 380).
Ma altrettanto deciso è poi a sua volta il movimento che riversa tutto sull’uomo: « Mi sembra
importante che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità, di una qualunque forza, di un incondizionato; non
si potrebbe fare a meno di prenderlo come istanza suprema e di battezzarlo “Dio”. Bisogna...
riprendere per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo dato all’ignoto e al tutto » (15, 381).
Se queste « cose prossime » appaiono continuamente insufficienti, Nietzsche può alla fine
considerare il trascendere tutto ciò che sussiste come l’essenza stessa, anche se lo pone in senso
interrogativo (e con ciò di nuovo lo    lascia interamente cadere): « Come, sarebbe forse il tutto
composto di nient’altro che di parti scontente, aventi tutte per la testa delle desiderabilità? sarebbe
forse il “modo di procedere delle cose” appunto il “via di qua! via dalla realtà!”, la stessa eterna
scontentezza? Forse che la desiderabilità sarebbe la forza stessa che dà l’impulso? Sarebbe essa -
deus? »  (15, 380-381).
Solo in un punto abbiamo potuto rintracciare in Nietzsche una forma di acquietamento nella
trascendenza. Egli stesso si creò involontariamente
il    nuovo mito del paesaggio come un mito di pura immanenza (cfr. supra). La nobiltà di
Nietzsche trovava rifugio nella natura che, nel suo linguaggio cifrato, rivelava all’ateo l’identità del
suo essere con l’essere delle cose. Si tratta, in fondo, dell’animazione mitica della natura da parte di
chi vuol vivere in solitudine; è il paesaggio in sé - senza altro essere umano che non sia colui che
ascolta - che qui diventa mitico. Se questo mito è in certo qual modo l’espressione della mancanza
di comunicazione tra gli uomini, allora, riguardo ai limiti dell’essere di Nietzsche, bisognerà
chiedersi se l’ateismo e la mancanza di comunicazione abbiano un rapporto
reciproco. Nell’espressione della sua opera pensata e sviluppata in forma poetica si trova, di fatto,
una tale correlazione. Sarebbe però un errore interpretare come la totalità di Nietzsche stesso un
semplice tratto, sia pure dominante, del suo pensiero, dicendo che egli non ha mai amato nessuno
incondizionatamente, e che quindi per lui Dio è morto; che il suo radicale ateismo
è esistenzialmente in relazione alla radicale mancanza di comunicazione. Il suo ardente desiderio di
comunicazione non gli consente, anzi, di cancellare l’indefinita divinità: il suo ateismo è infatti
l’inquietudine penetrata nel piu profondo della sua esistenza. L’esistenza e il pensiero di Nietzsche
vanno ben al di là di quanto si creda di poterli, in questo modo, catturare. È tuttavia significativo,
per le possibilità di senso connesse al pensiero delle forme sostitutive della divinità, il fatto di poter
per un attimo proporre l’interpretazione - non vera nella sua assolutezza - dell’unità di ateismo e di
mancanza di comunicazione.
Il pensiero filosofico di fronte all’ateismo. Ciò che Nietzsche esprime come ateismo non può
semplicemente, dal punto di vista del contenuto, essere vero o non vero. Infatti non c’è alcuna prova
dell’esistenza di Dio, così come non c’è prova a favore dell’ateismo; non c’è nemmeno nessuna
prova favorevole o contraria al fatto che l’uomo sia soltanto un modo dell’essere animale; l’uomo è
padrone di sentirsi un animale, quando può: in questioni del genere non si decide nulla con
argomentazioni, al massimo si giunge a una maggiore chiarezza. La verità passa qui - al di là del
limite di ciò che può essere saputo in modo universalmente valido — attraverso la sua realtà. Non si
può negare la sua serietà esistenziale, né in Nietzsche, né tanto meno laddove essa si compie come
realtà. L’ateismo è una potenza nel mondo. Ciò che Nietzsche vide ed espresse era tale realtà, e
da allora egli la fece progredire sempre piu, in un grado, diremmo, incommensurabile. Questo
ateismo non svanisce nella nullità, ma è invece passione demonica. Nietzsche ha espresso questo
ateismo in modo grandioso, nella sua intera, inafferrabile varietà di significati.
Se riguardo alla verità della fede in Dio o dell’ateismo la comprensione evidente non ci porta ad
alcuna decisione universalmente valida, e quindi necessaria, per tutti gli esseri razionali, la
veridicità esige però di vedere la realtà dell’esistente ateismo e gli effetti pratici della sua potenza.
Per un filosofare che vuole rimanere onesto, è necessario vivere in riferimento a questa realtà. Se la
verità si presenta come fondamento del filosofare nella trascendenza dell’essere-sé, allora questa
verità esisterà soltanto se saprà resistere alla messa in discussione da parte dell’altro — l’ateismo -,
e in essa riconoscerà non solo la realtà e la forza dell’altro, bensì lo spirito di sacrificio, la
prodigalità vitale, la forza attrattiva di questo altro.
La necessità esistenziale coinvolge soltanto la decisione che ognuno prende, se cioè egli vuole
vivere per sé nell’ateismo o nel rapporto con la divinità: una decisione che non riguarda dunque la
possibilità di esprimere un sapere su di sé, bensì il comportamento interiore e la valutazione
delle cose, il rischio e l’esperienza dell’essere.
Il pensiero filosofico sa di non essere tutto. Esso è consapevole di se stesso, non escludendo l’altro,
ossia la religione rivelata, che mai raggiunge, a causa della quale viene posto esso stesso in
discussione e che, da sé, non completa e non può comprendere. L’ateismo, colto da Nietzsche in
tutta la sua estensione, è a sua volta qualcosa d’altro, a partire dal quale il pensiero filosofico viene
nondimeno messo in discussione; ed è, nella sua esclusività, strettamente congiunto alla religione
rivelata che, per parte sua, vorrebbe distruggere. Il pensiero filosofico sulla base dell’essere-sé
non combatte né la religione rivelata, né l’ateismo, in quanto entrambi sono realtà di fatto; esso
vuole con queste chiarire se stesso, interrogare e mettersi in discussione. Esso si differenzia
dall’ateismo per il fatto che dà riconoscimento alla religione rivelata — anche se non per sé - vale a
dire non intende rinnegarla; si differenzia dalla religione rivelata per il fatto che non condurrebbe
alcuna guerra per estirpare gli atei. Il filosofare può solo consistere nell’impotenza fattuale in cui si
ricorre alla razionalità dell’essere-sé dell’uomo; esso ha la sua realtà produttiva, che toglie gli
uomini dal sonno e che, come tale, è stata silenziosamente tramandata attraverso i secoli, soltanto
come realtà spirituale, che viene tollerata e sollecitata, oppure viene rigettata e costretta
nell’oscurità dall'esteriorizzazione delle potenze delle religioni rivelate e dell’ateismo. Il pensiero
filosofico è impotente: può solo indicare, argomentando, le conseguenze di proposizioni esplicite,
che siano dogmatiche dal punto di vista religioso oppure esprimano ateismo; esistenzialmente, può
mostrare gli abissi e le possibilità. Esso, per sua natura, è nella situazione di un’aperta sincerità e
disponibilità, e si compie in relazione alla religione rivelata e all’ateismo, i quali, nei punti decisivi,
cioè nel processo di comunicazione tra loro, si rinchiudono in sé. L’orrore di questa effettiva rottura
della comunicazione da parte degli uomini - che tuttavia, in quanto uomini, si trovano nella
possibilità di comunicare, e non sono mere potenze naturali — è uno dei piu forti impulsi del
filosofare, che vorrebbe suscitare ed attuare tutta la potenza presente nell’intimo dell’uomo stesso.
Il filosofare come tale non porta né a Dio, né lontano da Dio, ma nasce invece dall’origine del
rapporto trascendente dell’essere-sé: è la realtà umana che, nella sua ricerca, vuole estrarre
dalla profondità della ragione e dell’esistenza ciò di cui effettivamente vive, e questo accade,
precisamente, nel dialogo intimamente rivelato attraverso i secoli.
Le conseguenze del contenuto concettuale dell' ateismo nietzschiano vengono tratte da lui stesso in
modo spietato: il cristianesimo e ogni forma di credenza in Dio vengono smascherati. Ogni agire
umano ha luogo in una forma di interpretazione del mondo che, in ogni trasformazione,
costituisce sempre e soltanto un’altra illusione. Ogni illusione è il fenomeno nelle mani di una
volontà di potenza. Anche questa peculiare interpretazione del mondo come volontà di potenza è
l’interpretazione da parte di una volontà di potenza. Ed è per questo che ora nulla è vero, tutto è
permesso. La volontà di potenza vuole agire. L’effetto più invincibile non si trova in qualche verità,
bensì nella magia dell’estremo. Non c’è alcun limite che non sia quello della potenza effettiva,
nessuna delimitazione attraverso richieste incondizionate. La lotta ha luogo per amore della lotta.
Ma tutto ha un duplice significato e il nichilismo è la realtà continuamente presente che dev’essere
superata in questa metafisica della potenza.
Quello che in tal modo viene visto sembra essere la natura dell’arbitrio e dell’assenza di legge. Ma
è anche la realtà della forza dell’autentica legge creativa, un essere vincente come potenza senza
trascendenza, una legge che è la legge di questa potenza. Quell’impulso arbitrario è la massa, questo
produrre è invece la forza superiore dei signori. II primo ubbidisce a ciò che lo spinge; il secondo
comanda, giacché può ed ha la potenza a tale scopo. Il primo ha bisogno di illusioni, perché è
troppo debole per dire di sì alla sua realtà; il secondo protegge e produce perfino le illusioni per
quegli schiavi. Ed anche se non ha illusioni, con sovrana superiorità produce per se stesso, invece
della presunta illusione della trascendenza, quelle interpretazioni che costituiscono le illusioni
terrene di questa volontà di potenza.
Ciò che Nietzsche ha così enunciato con forza suggestiva in infinite variazioni sarebbe l’espressione
efficace di una realtà vitale che non indietreggia di fronte a nulla. È un filosofare che ha il suo
stesso vigore nel fatto di non indietreggiare di fronte a nulla e di andare fino alle ultime
conseguenze. Poiché Nietzsche ha intrapreso questa via, egli, identificandosi con essa, sembra il
grande rappresentante storico dell’ateismo; ma poiché egli stesso è contemporaneamente di piu,
vale a dire trascende in questo stesso non-indietreggiare-di-fronte-a-nulla, senza di fatto legarsi
a questa forma dell’ateismo, è anche il filosofo che rispetto a quest’ateismo dice che non vi è
soltanto esso. Perciò, da un lato egli va alla ricerca di che cosa sia l’uomo inteso unicamente come
un modo dell’essere animale, dall’altro oltrepassa, respingendoli, il positivismo, il naturalismo, il
biologismo e il pragmatismo. Nietzsche realizza un filosofare al limite che - recepito in questi
contenuti - subito si ribalta in non-filosofia (poiché decade in contenuti biologici, naturalistici e
utilitaristici presenti nel mondo). Questo ribaltamento, e il successivo ritorno al filosofare, avviene
continuamente nel suo pensiero: è, infatti, l’esperienza della realtà dell’ateismo, che al tempo stesso
vuole rinnegarsi.
Non si può dire che senza Dio cessi il filosofare, ma è certo che esso cessa senza il trascendere.
Perciò, la ricezione del pensiero di Nietzsche nel quadro di un presunto ateismo, piatto ed
indubitabile, e di una sofistica che cerca avidamente strumenti di lotta linguistici, tenderebbe a farci
accettare in modo necessariamente unilaterale quell’immanenza nichilistica; in quanto non-
filosofia, esso sarebbe anche contrassegnato dal fatto che il non-indietreggiare-di-fronte-a-nulla, al
contrario di ciò che accade in Nietzsche, dovrebbe essere limitato nell’espressione, ma illimitato
nella prassi.
Il Nietzsche frainteso nel suo capovolgimento dal filosofare alla nonfilosofia - nel senso che rimane,
come unico contenuto, solo la non-filosofia - può essere utilizzato proprio da tutte quelle potenze
che egli combatteva: può servire al risentimento che, nella sua impotenza, si procura
piacere denigrando il mondo e gli uomini; alla violenza, che confonde il pensiero della volontà di
potenza, espressione di un ordine gerarchico, con la giustificazione di ogni brutalità; ai nemici dello
spirito, che esaltano la vita come mero processo di avvenimenti materiali; alla mendacità, che
utilizza il concetto nietzschiano dell’apparenza come verità per sostenere la liceità di ogni
menzogna; all’incurante annullamento dell’essere, che compie la negazione di tutto per affermare
come naturale il suo semplice esserci.
Poiché Nietzsche si muoveva al limite tra il filosofare e la non-filosofia, osando tutto con il
pensiero, ha trovato l’inaudita espressione dell’ateismo esistenziale e ha mostrato quell’altra verità
davanti alla quale si trova il filosofare. Perciò nel suo pensiero egli ha assunto
contemporaneamente molte posizioni, senza poter procedere oltre. Detto in altri termini: sull’albero
sovraccarico del pensiero nietzschiano appassiscono molti fiori senza poter produrre i loro frutti.
Ma nell’ateismo di Nietzsche vi è la grandezza di qualcosa che rimane invincibile.
Nietzsche non concepiva la verità come qualcosa di sussistente, né come Dio, né come il non-essere
di Dio. Per lui la verità si esprimeva nel suo atto di trascendere, senza che egli la intendesse come
definitiva per il fatto di essere enunciata. Ciò lo rende insuperabile.
Come un visionario, Nietzsche vide la realtà dell’ateismo come la potenza che forse avrebbe potuto
dominare la terra. La realtà di questa innegabile potenza, dopo di lui costantemente cresciuta, fa
apparire Nietzsche per la seconda volta insuperabile.
Anche supponendo che egli abbia commesso un errore nell’esprimere la sua radicale esperienza del
limite attraverso un rifiuto della trascendenza, un errore grandioso per la serietà della sua esperienza
e la forza della sua espressione, ebbene, tale errore sarebbe comunque necessario,
continuamente fruttuoso, poiché mostrerebbe indirettamente il vero con una potenza cogente.
Infatti, l’uomo coglie il vero non nel puro splendore, bensì solo nel fatto di essere ad un tempo
capace e consapevole di errare - come per noi la luce si dà solo attraverso l’oscurità. Nietzsche
sarebbe per la terza volta insuperabile.
Ma, per quanto sovrastante possa essere l’ateismo nel pensiero di Nietzsche, questo non esaurisce
tutto Nietzsche. Egli al tempo stesso provoca e vuol provocare ciò che non si accorda con questa
possibile realtà. Alla fine, il suo nuovo filosofare è piu profondo di questa forma che, per quanto
dominante, resta pur sempre soltanto una forma particolare per esprimere il contenuto delle sue
affermazioni.
Il nuovo filosofare
L'ateismo di Nietzsche è l’espressione estrema della sua totale rottura con il contenuto storico
tradizionale, nella misura in cui questo parla un linguaggio che aspira ad una validità universale: per
lui tutti gli ideali dell’uomo sono tramontati; egli vuole rigettare la morale, abbandonare la ragione e
l’umanità. Vede nella verità una menzogna universale, nella filosofia fino ad oggi un continuo
inganno, nel cristianesimo una vittoria dei malriusciti, dei deboli e degli inetti; non c’è nulla di
sacro, di valido, che non sia stato condannato dal suo giudizio. Così almeno sembra. Di fronte a
tutte le precedenti rotture, compiute da altri, che erano soltanto parziali, poiché restava pur sempre
una sfera di validità di per sé evidente ed indiscussa, la rottura nietzschiana è di tali dimensioni che
non può piu essere superata. Egli ha riflettuto in modo approfondito su tale rottura, fin nelle sue
ultime conseguenze; su questa via, sembra difficile poter procedere oltre, anche di un solo passo. Il
successivo processo di disgregazione che si è compiuto e le profezie di sfacelo non fanno che
ripetere ciò ohe già Nietzsche aveva detto: egli infatti aveva visto l’Europa protesa
irrimediabilmente verso la catastrofe. La visione di Nietzsche, nella sua grandiosità e nella sua
preoccupante minaccia, era originaria e vera, mentre dopo di lui, sulla bocca di altri, divenne una
falsa grandiosità. Nietzsche infatti si distingue essenzialmente da questi epigoni per la sua
commozione, veramente autentica, ed anche per aver rischiato tutta la sua vita di pensatore alla
ricerca della via per un avvenire che non sia il tramonto dell’uomo. Tutto ciò che Nietzsche ha detto
non è così importante come l’incredibile serietà della sua vita, che è una rottura con tutto. Ciò che
dà impulso a questa rottura, in lui ancora eroica, non è la volontà della rottura stessa, ma la volontà
del sì.
Il nocciolo della questione sta nel modo in cui Nietzsche coglie ed esprime l’affermazione in
qualche cosa di positivo.
Sembra quasi che con le teorie del superuomo, della volontà di potenza, della vita, dell’eterno
ritorno, nella loro espressione positiva, si cada, per così dire, in una piatta dimensione terrena.
Tuttavia, nei loro ulteriori sviluppi nel pensiero di Nietzsche, queste posizioni possono essere
intese in modi diversi: nella loro immediata obiettività, esse possono dapprima deludere e poi
sedurre grazie alle loro profonde intuizioni, che però vengono per cosi dire nuovamente seppellite
nel momento in cui le esprime; è come se Nietzsche - passando alla sua metafisica, il cui contenuto
immediato non ci interessa piu - facesse trasparire l’elemento esistenziale, ma soltanto come un
lampo, non come una luce costante che mostri l’essere in una serena chiarezza. Per questo, nella
nostra esposizione, abbiamo cercato non solo di riunire i contenuti oggettivi, di mostrare
l’oggettività immediata - anche nella sua stessa vacuità, laddove è stato necessario - che non
soddisfa affatto alle esigenze dei problemi, ma soprattutto di far emergere il piu possibile il loro
significato recondito: e questo ci è spesso riuscito grazie a quelle affermazioni incidentali di
Nietzsche che dicono molto di più delle stesse formulazioni definitive.
Nietzsche coglie il positivo non già nell’immanenza piattamente determinata, ma nell’orizzonte
infinito, in ciò che è privo di limiti determinati. Ma, nel momento in cui vengono sciolti tutti i
vincoli e infranti tutti gli orizzonti chiusi, di fatto il pensiero si perde nel nulla.
Se infine Nietzsche cerca il positivo servendosi di immagini e di figurazioni, allora quasi sempre
egli non perviene che a simboli vani, che hanno sì forza espressiva e danno un’efficace visione
plastica, ma senza la forza cogente delle cifre metafisiche.
Se, dopo aver rotto e perduto ogni fondamento, dopo essere andato a finire in mare col travolgente
impeto della sua corrente, Nietzsche si àncora all’eterno ritorno e agli altri contenuti che diventano
dogmatici, è come se si salvasse su una lastra di ghiaccio, destinata però a liquefarsi. Se egli
penetra nell’infinito, è come se volesse volare in uno spazio privo d'aria. Se si aggrappa ai simboli,
è come se gli cadessero in mano maschere inanimate. Nessuna di queste vie gli consente di
raggiungere ciò che egli vuole.
Eppure, nessuna di queste vie è completamente inutile per Nietzsche; sembra infatti che in esse
rimanga fissa per lui, quale stimolo e meta, la storicità dell'esistenza. È la sua volontà di una
sostanza che non sia essa stessa pensiero, ma domini ogni pensiero. Che questa si manifesti
chiaramente oppure no, è la caratteristica del singolo pensiero, e non di questa origine stessa, che
può rivelarsi sempre e soltanto in modo ambiguo. Sembra che Nietzsche, nel suo tipico modo di
filosofare, tocchi inconsciamente l’esistenza nella sua storicità, senza coglierla in modo decisivo, e
che egli, partendo sia dalla limitata determinatezza del pensiero, sia dalla sua
infinita indeterminatezza, tenda a ritornare verso la sua propria storicità; ma si ha spesso anche
l’impressione che Nietzsche non pensi piu partendo da una base storica.
La volontà di una vera esistenza storica spingeva Nietzsche a fondere ogni cosa per giungere ad una
nuova origine. Nello smascherare e demolire ogni falsità, tutto ciò che si spacciava per una solida
costruzione ma che era solo una mera facciata, egli fu come l’uragano che crea un’atmosfera pura.
La sua demolizione della « morale », nella forma in cui si presentava e si voleva far credere, fu
grandiosa, ed era richiesta dalla situazione; essa aprì la strada alla filosofia dell’esistenza. Infatti,
finché si conduce una vita in base ad ovvietà mai messe in discussione, per quanto non si creda che
esse siano verità incondizionate, il filosofare rimane un’innocua occupazione al pari di tante altre,
ed i suoi « temi » sono scelti a caso e secondo le circostanze. Solo quando si abbandona questa vita
diventa nuovamente possibile filosofare sull’essere dell’esistenza dal punto di vista del tutto.
A differenza degli atteggiamenti del tempo della Rivoluzione francese, in Nietzsche la rottura è
certamente piu radicale, e purtuttavia non è perduta in lui la volontà di trasformare una tradizione.
Nietzsche non solo considera il pensiero dei presocratici come la suprema vetta e il modello
dell’umanità (al posto del Nuovo Testamento cristiano), ma anche non pensa mai di dimenticare ciò
che ci è stato storicamente tramandato, e di dover ricominciare partendo dal nulla di una nuova
barbarie. Tutta la sua opera è permeata dal rapporto con la grandezza del passato, anche di quella
che egli ha rifiutato.
Questo nuovo filosofare, per quanto si presenti in modo cosi risoluto ed abbia un effetto così
intenso, suscitando inesorabilmente quell'inquietudine che non lascerà più in pace nulla di ciò che
sussiste, non assume in Nietzsche la forma di uno schema fisso e definitivo. È una lotta inaudita di
tutto il modo di sentire, di sperimentare, di volere, che si esprime nel pensiero, senza raggiungere
mai una meta finale.
La negatività assoluta. Nel corso della sua dialettica effettiva, Nietzsche procede in modo tale che
le opposizioni aumentano in funzione della loro profondità. In questo filosofare è necessario che
tutto passi nel suo opposto: l’onestà si pone in questione di fronte a se stessa, l’ateismo non
sopprime l’istinto da cui sgorga la divinità, la volontà contro ogni profezia implica la profezia di
qualcosa di assurdo, Dioniso si oppone al Crocifisso, ed entrambi possono diventare Nietzsche
stesso.
Se non c’è nessun contenuto che possa valere propriamente come dottrina complessiva di
Nietzsche, allora ciò che è decisivo nel suo filosofare non può essere un contenuto determinato,
anche quando predomini e agisca piu potentemente nelle sue opere. Bisogna vedere cosa significa
il fatto che ogni sua affermazione è sempre di nuovo messa in discussione, che - volontariamente o
involontariamente - tutto quello che egli pensa sembra poi annullarsi e cadere in contraddizioni.
Nietzsche vuole per il proprio pensiero l’ampiezza, e in tal modo la sostanza dell’essere, la sostanza
autentica, senza alcun velo. La via da seguire è per lui il superamento di ogni forma dell’essere, di
ogni valore, di ogni cristallizzazione di ciò che vi è di essenziale nel mondo: « I miei scritti parlano
solo dei miei superamenti » (3, 3). Emerge qui la straordinaria pretesa di non attenersi a niente di
saldo, onde poter autenticamente essere.
Il superamento avviene attraverso il « sospetto » e il « tradimento ». Il sospetto è l’atteggiamento
per cui nulla esiste più in modo indubitabile, e precisamente non nel senso che qualcosa debba
essere ristabilito, dopo la confutazione di un dubbio, ma nel senso che deve essere trasformato
per prendere parte all’essere. Nietzsche ritiene che mai « nessuno abbia scrutato il mondo con un
sospetto cosi profondo »; e definisce i propri scritti « una scuola di sospetto » (2, 3). Egli aggiunge
ancora: « quanta più diffidenza, tanta più filosofia » (5, 279). Il tradimento non è la mancanza
di fedeltà di un meschino abbandono, ma è la rinuncia, in forza di una necessità che ancora non si
comprende, ai contenuti storici divenuti vuoti; il tradimento è, nel pericolo che minaccia l’esistenza
stessa, la possibilità di far germogliare qualcosa di radicalmente diverso. Scrive Nietzsche:
noi procediamo, « sospinti dallo spirito, di opinione in opinione, attraverso il mutar dei partiti, come
nobili traditori di tutte le cose che in genere si possono tradire » (2, 412).
Partendo da quest’opera di smascheramento di molte cose, Nietzsche giunge ad attribuire un valore
di semplice apparenza a tutto ciò che esiste, e a ritenere questa apparenza come l’unica realtà. Una
dialettica infinita non consente nessuna sosta, nessun punto fermo. Finché si segue la via
dello smascheramento, rimane ancora la differenza tra vero e falso. Ma quando il superare non è più
uno smascherare a beneficio di una verità, ma una distruzione universale di tutto ciò che appare
nella realtà, allora viene a cadere ogni differenza tra le cose che possono essere tradite e quelle che
continuano a sussistere. Ogni cosa è invece sottomessa al tradimento. Ciò che Nietzsche pensa si
trasforma e diventa per un istante una semplice possibilità; ma ciò che egli veramente vuole è affine
all’antica trascendenza, per il fatto che egli supera ogni forma che si può cogliere in questo mondo,
ogni posizione, ogni meta; ed è invece opposto all’antica trascendenza per il fatto che alla fine
sembra che non resti più nulla.
Quando riflettiamo sui pensieri di Nietzsche, non ci è consentita alcuna sosta: tutte le volte che
vorremmo cogliere una verità come definitiva, cioè la verità, Nietzsche ci costringe a procedere
oltre. Sempre di nuovo sembra che alla fine non ci sia che il nulla. La negatività assoluta - sia che si
presenti sotto la forma del sospetto e della diffidenza, sia in quella del superamento, sia in quella del
contraddire e del lasciare sussistere posizioni contraddittorie - è come una passione per il nulla, ma
proprio in questo è la volontà che rischia tutto per l’essere autentico, il quale non può assumere
nessuna forma. Questa volontà vuole attingere il vero dalla profondità, dove esso non può più essere
concepito e rappresentato senza contraddizioni; vuol rendere effabile e reale ciò che rimane
nascosto nella determinatezza del pensiero; vuole il ritorno alla storicità dell’esistenza autentica nel
suo fondamento.
Significativa a tal proposito è la volontà del si, da cui è pervasa tutta l’opera di Nietzsche. È vero
che questa volontà culmina nel pensiero dell’eterno ritorno e dell ’amor fati, ma è presente anche
nelle « piccole cose », come l’elemento caratteristico che continuamente l’accompagna e che sta ad
indicarci che per lui il nulla non esiste. In questo senso dice Zarathustra: « E, in verità, molte cose
sono già riuscite! Come è ricca questa terra di piccole cose perfette, di cose riuscite bene! » (6,
426). Invece di condurre, per la scala delle negazioni, al nulla definitivo, il pensiero di Nietzsche,
per la scala di innumerevoli piccole affermazioni, conduce al sì definitivo.
La filosofia del tentare. Alla negatività assoluta appartiene quel modo di filosofare che, in quanto è
un fare positivo, vuol essere soltanto un « tentare » (cfr. supra). Per questa filosofia del «pericoloso
forse» (7, 11) di fronte all’ultimo orizzonte dell’infinito, tutto diventa qualche cosa di provvisorio.
Non vi è dunque nulla che non venga osato: « Una filosofia sperimentale come quella che io vivo,
anticipa a mo’ di prova anche le possibilità del nichilismo sistematico, senza che sia perciò detto che
essa si fermi... a una negazione» (16, 383).
Questo filosofare, che procede per via di tentativi, che contempla e sperimenta tutte le possibilità,
non è dominato ma, al contrario, domina tutto ciò che vien pensato. Senza sprofondare nello
scetticismo, esso vuol preparare, attraverso una potente e virile arte del dubitare, la realtà
dell’esistenza storica, dell’agire, che non consiste nel semplice pensare la verità, ma diviene a sua
volta la verità, rispetto alla quale ogni verità pensata si riduce a semplice tentativo e possibilità.
L’idea nietzschiana del pensare per via di tentativi si differenzia dunque dal procedere senza
nessuna regola, in modo casuale e arbitrario. Questa idea della filosofia come un continuo tentare e
sperimentare fa sì che il pensiero di Nietzsche non sia l’opposizione di una dottrina
formulata contro un’altra dottrina, in cui egli si imbatte, di un dogma contro un altro dogma, di una
determinata visione del mondo contro un’altra visione del mondo. Con questo suo modo di
filosofare, Nietzsche non intende presentare al mondo una nuova fede, che debba lottare per
imporsi, conquistare un posto ben determinato ed estendere il proprio dominio, o forse mettere alla
prova nella lotta la fecondità di un errore in cui si è creduto. Così come si comportò in tutte le
circostanze della sua vita - Nietzsche valutò a fondo tutte le possibilità e alla fine non rimase nulla,
per cui soffrì, rinunziò e lasciò perdere -, così egli fu anche effettivamente nel suo filosofare: fu cioè
— per riprendere la sua espressione un po’ ambigua - uno « spirito tentatore ». Ora, questo tentare
non è casuale, ma ha invece una sua precisa e profonda motivazione: è una lotta su di un piano
completamente diverso da quello di un esserci contro un esserci nel mondo (che si effettua
anche nella forma di verità dogmaticamente affermate e sviluppate); quella che Nietzsche combatte
è semmai la lotta della sostanza contro la nullità. Questa lotta si svolge nel mondo intero su di un
piano in cui non si presentano dei fronti reali di combattimento dell'esserci; è la lotta più profonda e
piu decisiva che ha luogo nell’anima di ogni singolo individuo e nell’anima dei popoli; e per il
senso esistenziale di questa lotta intima, invisibile e impercettibile Nietzsche dà le armi: cioè a dire,
le domande, intese come tentativi, le possibilità di smentire e confermare. La loro
comunicazione avviene con il proposito che nessuno si fermi mai ad esse, e neppure allo stesso
filosofare di Nietzsche, che appunto non deve essere inteso come una vera visione del mondo che ci
venga comunicata per arrestarsi definitivamente ad essa.
Nietzsche come vittima. Il filosofare di Nietzsche, che non conduce a nessuna conclusione, ma si
compie allo stesso modo dell’entusiastica ricerca di Dio, ad esso storicamente anteriore, sa di essere
condannato all'isolamento e all’abbandono; infatti, riferito alla vita ordinaria, così come viene
solitamente vissuta, questo filosofare è assai poco convenzionale: « Una filosofia che non prometta
di rendere più felici e più virtuosi, che piuttosto fa intendere che al suo servizio verosimilmente si
perisce, cioè si diventa soli nella propria epoca,... si deve affrontare ogni specie di diffidenza e
di odio...; una tale filosofia non è certamente nelle grazie di nessuno: bisogna essere nati per essa —
e non ho ancora trovato nessuno che lo fosse... » (14, 412).
La negatività illimitata ed il tentare potrebbero svolgersi come una libera attività del puro intelletto
in rapporto con tutte le cose, intese come un’alterità rispetto al nostro esserci. Ma ciò che la
negatività ed il tentare autenticamente sono, ciò che si presenta in essi non accidentalmente ma
realmente, si può vedere soltanto quando un uomo, per così dire, si tuffa in  questo abisso con tutto
il suo essere, e fa, in rappresentanza degli altri, ciò che, se tutti lo facessero, porterebbe ad una
completa distruzione. Ma questo significa: diventare una vittima.
Nietzsche ci appare come una vittima, in primo luogo, in questo momento storico che rappresenta
una svolta di cui egli è cosciente. Egli non poteva più partecipare personalmente alla realtà di
questo tempo; doveva, per così dire, guardare fuori dal mondo ciò che del mondo stesso egli
sperimentava, mentre appunto ne veniva escluso. Ma poiché di fatto doveva pur vivere e pensare
nel suo tempo, il suo pensiero appare in una veste che non gli si adatta; egli può esser scambiato con
altri, perché rimase attaccato agli atteggiamenti e ai modi di pensare della sua epoca (egli
era perfino ciò che combatteva: per esempio, positivista o wagneriano), ed anche perché, nella sua
crescente solitudine, perse la dimensione del rapporto con la comunità. Ne risultò il modo di
filosofare di un uomo che, nella piu grande crisi dell’umanità occidentale, osò rischiare se stesso per
spe-rimeritare, nella propria solitudine, ciò che soltanto un uomo che naufraga è in grado di vedere,
e che a noi perviene solo in frantumi.
Nietzsche ci appare come una vittima, in secondo luogo, anche e semplicemente come uomo che, in
quanto tale, assume su di sé l'eterna negatività di tutto ciò che è finito, attuandola e sperimentandola
spietatamente su se stesso. A coloro che non fanno di se stessi delle vittime sacrificali, la finitezza
apre la strada alla possibilità di essere se stessi, in un limite presente e su di un fondamento
concreto, in modo che essi possano sperimentare le cifre dell'esserci nella loro particolarità storica;
al contrario, Nietzsche conquista la propria storicità non già identificandosi con la finitezza, ma
identificandosi piuttosto con la negatività. È come se si allargasse l’essere dell’uomo - che
altrimenti è vincolato, ed è reale solo in virtù del vincolo -, portandolo al di là di se stesso, in un
processo di autocombustione che non lascia alcun residuo.
La pazzia, che come semplice fatto empirico e brutale non ha alcun senso, diventa un simbolo
mitico di questo sacrificio. Essa, infatti, rende Nietzsche ancor più sfuggente e mutevole, poiché lo
liberò da ogni inibizione, ed infine lo distrusse. Il fatto che in Nietzsche l’originalità
diventi propriamente radicale solo nello stesso momento in cui inizia la sua disgregazione attraverso
la solitudine e la malattia, per cui il suo filosofare, nelle sue estreme possibilità, appare
inconcepibile senza quei processi biologici che culminarono nella pazzia, induce appunto ad
includere anche la pazzia nell’ambito di quel sacrificio che caratterizza tutta la vita ed il pensiero di
Nietzsche.
Il sacrificio si rivela anche nell’opera: questa infatti non può conseguire alcuna forma fissa, come
l’ebbero i grandi sistemi ed anche la filosofia critica di Kant. Nonostante il suo carattere cosciente e
continuamente riflessivo, il pensiero di Nietzsche si svolge inconsapevolmente anche negli aspetti
più decisivi. Il pensiero come tale non ha freni; poiché tutto osa, può smarrirsi, cadere in errore e
diventare perfino un giuoco. Il pensiero di Nietzsche, nonostante il suo continuo tentativo di
superarsi, nonostante la sua scepsi e la sua dissoluzione critica, non è però critico nel senso
kantiano: esso ricade infatti, sempre di nuovo, in un dogmatismo che però non si impone mai
definitivamente, ma è a sua volta sempre di nuovo superato nel movimento del pensiero. Nietzsche
si trova dunque nella condizione di dover affermare solo nella misura in cui ogni affermazione è poi
subito trasformata nel suo contrario; è come se un fanatismo del pensiero si trasformasse
continuamente in un altro fanatismo del pensiero, cosicché tutti i fanatismi sono ricondotti
nell’ambito del puro tentare, ed in ciò sono superati. Poiché lo stesso Nietzsche commette degli
errori, che peraltro egli riconosce come tali, nessuno si può richiamare alla sua filosofia come ad
una filosofia critica. Ne consegue l’inevitabile fraintendimento del pensiero di Nietzsche,
determinato dall’intimo modo di procedere della sua opera, che è espressione di un sacrificio, e non
di una realizzazione storicamente compiuta nel mondo.
Nietzsche conferisce il piu alto significato al proprio sacrificio, ma ciò non implica che qualcuno
debba seguirlo su questa sua strada. Nella sua esistenza di filosofo egli è come il fuoco, a cui egli
stesso era solito paragonarsi. L’autenticità esistenziale di Nietzsche si rivela come la fiamma che in
lui tutto consuma, non lasciando alcun residuo del suo esserci e della sua volontà personale, mentre
la sua esistenza si disperde in un’oscurità che non può essere comunicata.
Dicendo che Nietzsche è una vittima sacrificale, non lo si è però ancora compreso. Egli non può
essere classificato sulla base di un tipo dell’esserci umano da noi conosciuto. La parola esprime
soltanto, nel modo che ci è proprio, l’incomprensibilità insita nell’essere dell' eccezione,
che colpisce la nostra intima natura, e non ci lascia indifferenti, come nel caso di una semplice
eccezione.
Ciò che Nietzsche è, ed ha fatto, rimane aperto. Se qualcuno volesse alla fine sentirsi dire in poche
parole cosa Nietzsche propriamente sia, per poter dirlo a sua volta con frasi facilmente ripetibili,
invece di conoscerlo effettivamente e direttamente attraverso il suo stesso pensiero,
bisognerebbe rispondergli nel modo seguente.
Voler pronunciare o anche solo ascoltare una sentenza in termini definitivi là dove si tratta
dell’essere stesso, costituisce l’inizio di ogni falsità. Soltanto nel mondo - nel conoscere oggetti
determinati, nel lavorare per determinati scopi, nell’agire finalizzato a determinate mete - è
possibile una sentenza decisiva, e si può trovare nello stesso tempo la condizione necessaria di un
agire pieno di senso. Ma anche un tale agire deve essere ricompreso nella coscienza dell’essere
dell’esistenza, la quale soltanto è depositaria di ogni significato che può essere espresso. Questa
coscienza dell’essere si chiarisce nella comunicazione con i pensatori originali - che non hanno mai
nulla di definitivo e di conclusivo —, e quindi attraverso un movimento del pensiero stesso, che non
riposa e non si fissa mai definitivamente in nessuna formulazione. Ciò che è così pensato costituisce
il medium delle certezze fondamentali, nelle quali soltanto sorge la determinatezza del tendere a
uno scopo, dell’agire e del conoscere presenti.
In Nietzsche si presenta un nuovo modo di filosofare, che non diventa un sistema di pensiero
compiutamente elaborato: ciò che egli è stato ed ha fatto rimane aperto. Egli è come un eterno punto
di partenza, e ciò in virtù del modo in cui intende il suo compito: per lui l’elemento essenziale non è
affatto l’opera, ma l’uomo nel suo divenire. Nello stesso tempo vi è in Nietzsche un ulteriore
aspetto: l’impossibilità di esprimere una filosofia che esiste soltanto in Nietzsche stesso, che parla
senza indicare la strada, e che è presente senza essere un modello.
L’assimilazione di Nietzsche
Nonostante le numerose opere e le lettere che ci sono state tramandate, il filosofare di Nietzsche è
come nascosto. Ma è proprio il suo filosofare che fa percepire a noi, che pure non possiamo né
dobbiamo seguirlo, l’origine a partire dalla quale la vita umana, nelle sue attuali possibilità, deve
essere radicalmente trasformata. È dunque a partire da questa considerazione che si deve sviluppare
la riflessione su ciò che caratterizza in modo peculiare la possibile assimilazione di Nietzsche.
Essa non si è verificata fino a quando Nietzsche è stato accolto con un superficiale entusiasmo da
un punto di vista estetico, come lo spirito creatore, con la sua ricchezza di sorprendenti intuizioni e
la sua perfezione di scrittore. Era questo solitamente il punto di vista di coloro che ritenevano
essenzialmente decisive la moderazione e la forma: affascinati dagli scritti giovanili, poi delusi ed
anzi indispettiti per le incessanti contraddizioni, la mancanza di misura e gli errori, specialmente
degli ultimi anni, per l’eccessiva verbosità, i dogmatismi che diventavano apparentemente ciechi, i
bruschi cambiamenti che a volte rasentavano il ridicolo, essi provavano la tipica delusione di chi ha
perso di vista il nucleo del pensiero nietzschiano. In fondo, ad essi non restava che prendere in
considerazione alcuni aspetti marginali di Nietzsche: il critico e il brillante innovatore della lingua,
l’eccellente scrittore di aforismi e di saggi, il poeta. Se, in tal modo, l’appropriazione di Nietzsche si
esauriva nell’ammirazione delle sue belle costruzioni formali e nel gustarne la lingua come se si
fosse trattato di una sensazione spirituale, così facendo si perdevano di vista tutti i contenuti.
Solo se recepisco e lascio efficacemente agire su di me ogni possibile stimolo da parte di Nietzsche,
io prendo sul serio Nietzsche stesso, cioè lo considero non già dal punto di vista estetico, bensì da
quello filosofico. Ci si sbaglia se — sia da un punto di vista estetico o spirituale o sistematico, sia
da qualunque altro punto di vista - in parte si accoglie e in parte si respinge quello stimolo. In
opposizione a tale atteggiamento che si limita a considerare l’opera, bisogna piuttosto venire a
contatto con l’origine, il principio da cui scaturisce l’opera stessa. Ma questa origine sta nel
medium  del tutto, e non in singoli pensieri, in una bellezza estetica o in una verità critica.
Nietzsche non assume una forma ben definita al nostro sguardo, ma è l’autodistruzione che non
costruisce alcun mondo e non lascia proprio nulla di sussistente; è il puro stimolo senza
elaborazione di una forma in cui sia possibile entrare: ne consegue dunque che egli ci impone, quale
nostro preciso compito, una trasformazione di noi stessi, che dobbiamo attuare grazie alla sua
assimilazione. Così facendo, nel momento stesso in cui ci appropriamo di Nietzsche, saremo
certamente in grado di mostrarci nella nostra intima essenza, sia essa un semplice disvelamento
oppure un qualcosa di veramente nuovo, prodotto da quella trasformazione. Allora la smetteremo di
inebriarci per ciò che è drastico e radicale, e non confonderemo piu il fuoco di paglia di un
entusiasmo con lo stimolo che agisce dolcemente ma nello stesso tempo inesorabilmente. Nietzsche
diventa educatore. Ma lo diventa ed è tale solo nella misura in cui noi sappiamo dominare quelle
illusioni a cui egli ci conduce in modo così seducente.
Le insidie di Nietzsche e i possibili fraintendimenti del suo pensiero. Con le sue domande ed il suo
tentare sempre nuove possibilità, Socrate mandò su tutte le furie gli Ateniesi: chi credeva di
possedere la verità nelle espressioni abituali o in un nuovo gergo era disorientato. Non restava
che ingiuriare quell’uomo così molesto e poi alla fine ucciderlo, oppure prender parte al profondo
slancio - che Socrate seppe aumentare - con cui l’essere umano riesce a superare anche il più
vertiginoso smarrimento.
Allo stesso modo è colpito chi legga Nietzsche, lasciandolo completamente libero di parlare e di
interrogare. Allora si manifesta certo quello smarrimento, ma anche la possibilità di un rapporto
veramente serio: quello di chi si accosta alle istanze profonde ma nascoste di Nietzsche,
senza pretendere di fissare definitivamente e irrigidire ogni sua singola affermazione. Il peso
dell’esistenza possibile, che si impone al semplice esserci, e il fardello di un effettivo lavoro
mentale che deve essere compiuto sotto l’impulso delle possibilità esistenziali, determinano il vero
rapporto con Nietzsche.
Questo rapporto viene a mancare non solo quando semplicemente si rifiuta Nietzsche, ma anche
quando si accetta e perfino si è d’accordo con lui, quando cioè predomina lo smarrimento che
conduce all’incomprensione e all’abuso del pensiero nietzschiano: allora, invece di risvegliare in
noi lo stimolo all’esistenza, Nietzsche diventa piuttosto il punto di partenza di una sofistica senza
fine. Infatti, ciò che Nietzsche pensa è oggettivamente tanto il medium di una sofistica che,
contraddicendo ogni affermazione, la utilizza di volta in volta a suo piacere e per i suoi fini, senza
partecipare al contenuto del movimento (ciò che si manifesta nella pretesa dell’assoluta validità di
quel che viene affermato, che però viene rapidamente dimenticato), quanto il medium di
un’esistenza che si riveglia e coglie se stessa nella propria storicità. Sono proprio questa apparente
ed esteriore vicinanza di Nietzsche al sofista, e ad un tempo la sua estrema e profonda lontananza,
che costituiscono la ragione fondamentale per cui Nietzsche può essere continuamente frainteso.
Vediamo alcuni esempi di tali possibili fraintendimenti.
La filosofia di Nietzsche suscita « stati d’animo » che rimangono tali fino in fondo, senza mai
ridursi in affermazioni di principio definitive. Questi stati d’animo sono chiari e non si prestano a
malintesi, nella misura in cui si manifestano nella totalità dei movimenti del pensiero nietzschiano,
conservandoli in sé e riproducendoli. Ma essi possono anche essere separati da quella totalità
ed esser visti come semplici stati d’animo; in tal caso, si prestano ad esser utilizzati a piacere e in
modo ambiguo per qualsiasi arbitrio, impulsività e stupidaggine. Si adattano insomma proprio a ciò
che Nietzsche ha sempre combattuto e ripudiato: la teatralità, la ricerca dell’effetto, la vittoria
dell’assenza di pensiero.
In quanto immoralista, Nietzsche rigetta la morale determinata, perché vuole qualcosa di più della
morale; egli spezza i vincoli, perché cerca l’essere che abbraccia ogni vincolo (ma le sue
affermazioni sono sempre utilizzate per qualcosa di più basso: una singolare idea di libertà, per la
quale nessuna legge ha valore, sembra prenderlo a testimone, per poter giustificare grazie a lui il
proprio caos etico). Nietzsche afferma la menzogna, la volontà di potenza, l’ateismo, una vita
conforme alle leggi di natura (ma le sue formule si prestano a mettere in pace la coscienza di fronte
all’effettiva menzogna che dilaga nel mondo, alla brutale volontà di potenza e all’uso effettivo della
violenza, al movimento dell’ateismo, ad una banale e semplicistica affermazione dell’ebbrezza, e
a tutto ciò che è dettato solo dagli istinti). Ma Nietzsche vuole invece proprio il contrario: la
menzogna, che sarebbe l’autentica verità, cioè qualcosa di più di ciò che solitamente si spaccia per
verità; l’essere, che non ha valore senza potenza, o la potenza, che va valutata in funzione del valore
del suo contenuto; l’ateismo, che rende possibili gli uomini superiori, i quali debbono essere piti
veritieri, più accorti, piti creativi, piu morali di coloro che credono in Dio; la natura, che grazie alla
pienezza della sua esistenza e al rigore della sua disciplina, è così padrona d’ogni natura come è
lontana da ogni brama, desiderio e menzogna non naturali.
Nietzsche tenta tutte le possibilità. Il suo tentare, in quanto continuamente proteso verso l’esistenza,
ma senza peraltro sentirsi mai frenato dai vincoli dell’esistenza stessa, può certo esser erroneamente
interpretato come un godimento della molteplicità dell’esserci, della vita, del pensiero. Lo studio
di Nietzsche può condurre all’indolenza propria di chi lascia correre e sorvola su tutto, o di chi
inizia a meditare qualcosa con grande passione, ma finisce poi per cadere nell’indifferenza e
nell’inerzia più complete; può renderci indifferenti alle contraddizioni, invece di farci provare in
esse nuovi stimoli, un nuovo linguaggio, l’espressione di un compito specifico. Quando i nichilisti
utilizzano a loro piacere le espressioni, le affermazioni e le posizioni estreme di Nietzsche, è
possibile intravvedere, nonostante la più grande distanza dall’essenza del suo pensiero, un’affinità
che giunge fino all’identità, ma che è appunto solo apparente e si basa su formulazioni meramente
esteriori. La profondità di ciò che è possibile, insita nella tendenza nietzschiana alla negazione, può
portare nel nichilismo a mascherare il nulla nell’entusiasmo per il nulla; e, per velare appunto ciò
che vi è di insopportabile, bisogna che sorga questo rumoroso vociferare, che è nello stesso tempo
un modo illusorio di vagheggiare, e che sembra ispirato dai testi di Nietzsche.
Si può notare questo penoso fraintendimento se si osserva il modo in cui è stato trattato Nietzsche.
Può sembrare che Nietzsche abbia l’intenzione di sedurre il lettore, voglia cioè raggirarlo, togliergli
il controllo di sé, portarlo ad uno stato di ebbrezza e di fanatismo, di eccitazione o di confusione,
oppure esaltarlo per poi abbandonarlo quando questi sembra far propria la stessa affermazione di
Nietzsche: « Non ogni parola si addice ad ogni bocca » (6, 420). Nietzsche si rende conto di tutte
queste illusioni e di tutti questi fraintendimenti; li ha previsti con spavento, ma in alcuni momenti li
ha cercati e voluti: « Io non voglio essere né significare luce per questi uomini di oggi. Costoro —
io li voglio abbagliare: fulmine della mia saggezza! cava loro gli occhi! » (6, 421).
Il problema che si pone quando ci accostiamo a Nietzsche è quello dell’esistenza: dobbiamo cioè
entrare in comunicazione con lui (e con ciò accrescere la nostra possibilità di comunicazione nella
realtà), e non andare invece a cadere nella sofistica; dobbiamo prender parte all’autenticità e
alla veracità del movimento del suo pensiero, e non soccombere ad un possibile movimento
sofistico al servizio di scopi specifici e definiti, come la mia specifica volontà di potenza, il mio
specifico esserci; dobbiamo imparare a conoscere i mezzi e le necessità del movimento di pensiero
filosofico di Nietzsche, e non farci sedurre da sempre nuove suggestioni; dobbiamo conquistare
l'esserci al servizio della trascendenza, e non rimanere di fatto al servizio del mero esserci del mio-
esser-ora-così, attuato con un trascendere (inscenato in modo meramente teatrale) di tutte le
possibilità verso il nulla; dobbiamo conservare la libertà del movimento autentico, e non
sottometterci, contro questo movimento, ad una violenta costrizione per opera del semplice
intelletto, che considera assoluta una dottrina, e subito la sostituisce con la dottrina opposta.
L’educatore filosofico. Tutti i grandi filosofi sono i nostri educatori. Nel nostro rapporto con loro si
sviluppa la nostra coscienza dell’essere, sotto forma dei nostri impulsi, delle nostre valutazioni e dei
nostri scopi, delle nostre trasformazioni e delle nostre situazioni, dei nostri superamenti di noi
stessi. I filosofi sono del tutto indifferenti di fronte al fatto che noi ci possiamo aspettare da loro
delle conoscenze nella forma di un sapere delle cose nel mondo. Di essi facciamo un cattivo uso
quando accettiamo passivamente le loro opinioni ed i loro giudizi come se fossero qualcosa di
valido che può essere appreso ed utilizzato nella vita di tutti i giorni, o qualcosa di vero e giusto,
conforme alla nostra ragione, o qualcosa di ovvio, conforme alla nostra fede. I filosofi hanno il loro
unico ed insostituibile valore nel fatto che ci conducono all’origine, di cui noi stessi acquistiamo la
consapevolezza nel nostro filosofare. Infatti, il divenire-sé - nella misura in cui si compie nel
pensare e dunque nell’intimo agire, inteso come un agire su se stessi e come un produrre se stessi -
non avviene in un rapido salto grazie ad un’intuizione immediata, bensì nel procedere insieme con
coloro che hanno già percorso questo cammino dell’uomo, e ce l’hanno indicato con il loro
pensiero.
Nietzsche è l’ultimo filosofo che poteva agire su di noi in questo modo, in quasi tutto il campo delle
possibilità dell’essere, fino alle origini e ai limiti dell’uomo. Come colui che è più vicino a noi, egli
è per noi il più comprensibile, anche se, conformemente alle modalità e possibilità del nostro
mondo, egli è stato più facilmente frainteso di tutti gli altri. Il fatto che si nutra di lui la più volgare
ebbrezza, non meno che la serietà della ricerca e della riflessione interiore, è un segno
inequivocabile della sua differenza rispetto a tutti coloro che lo hanno preceduto; così come ne è
un segno esteriore il fatto che gli scritti principali di Nietzsche, quanto al numero di copie stampate,
siano di gran lunga superiori rispetto a quelli di ogni filosofo precedente.
È il momento storico della svolta della civiltà occidentale che determina il modo in cui Nietzsche
può essere nostro educatore. Egli diventa educatore non già con insegnamenti dottrinari ed
asserzioni perentorie, o in forza di una norma che rimanga stabile, o come possibile modello
d’uomo da seguire ed imitare, ma in virtù del fatto che noi siamo da lui interrogati, ed in tal modo
facciamo la prova di noi stessi. Ciò avviene soltanto attraverso un movimento. Grazie a lui e
procedendo insieme a lui, noi sperimentiamo le possibilità dell’esserci umano, impariamo a
plasmare con il pensiero la nostra umanità, tentiamo possibili valutazioni, aumentiamo la nostra
sensibilità ai valori. Veniamo condotti ai limiti, e dunque all’origine di una coscienza indipendente
dell’essere. Ma ciò non significa che dobbiamo semplicemente seguire una guida che ci conduce,
con una chiara visione, al tutto; al contrario, dobbiamo educare noi stessi, procedendo insieme con i
pensieri di Nietzsche. È questo l’insegnamento, l’appello che egli ci rivolge. Niente ci è dato in
modo già definito, ma solo nella misura in cui siamo noi stessi a conquistarlo.
Questa autoeducazione avviene attraverso lo studio di Nietzsche, che richiede ad un tempo la
serietà del turbamento e lo sforzo paziente del pensiero unificante.
La serietà si manifesta nel modo in cui comprendiamo Nietzsche, che non deve essere un giuoco
dell’intelletto, ma « un sentire che al tempo stesso pensa », non un semplice riflettere, ma un tentare
e sperimentare in base alle possibilità della propria passione. Con l’autoeducazione dobbiamo tirar
fuori da noi stessi ciò che è veramente in noi. Nietzsche vuole risvegliare in noi ciò che, grazie alla
sola disciplina formale, non viene raggiunto, ma che scaturisce invece dalla lotta incessante con noi
stessi, per mettere ordine nelle passioni, ascoltando il fondamento dell’essere. Ciò che non si può
raggiungere in base a precise prescrizioni, può veramente scaturire solo nell’ambito di un’affinata
sensibilità filosofica. Nel rapporto con Nietzsche, esso deve formarsi in modo limpido, attraverso
l’incessante azione della nostra intima essenza, per così dire, nel fuoco purificatore della verità.
Quando ogni affermazione si trasforma nel suo opposto, e nel movimento tutto ciò che è vero
diventa una semplice possibilità e dunque può anche essere falso, non c’è salvezza senza il lavoro e
la forza del pensiero. Soltanto grazie ad un’intensa autoeducazione è possibile cogliere, nel flusso
dispersivo e così infinitamente variegato dello spirito incantatore di Nietzsche, le sue effettive
connessioni, senza estrapolare nulla di arbitrario. È proprio la mancanza di una esposizione
sistematica che impone al lettore un proficuo ed istruttivo lavoro mentale, perché deve cercare di
collegare tutto ciò che incontra. Se la passione con cui ci si mette all’opera in questo lavoro, per poi
abbandonarlo di fronte alle difficoltà, porta ad uno smarrimento, allora l’autoeducazione, sorretta
dall’ebbrezza del pensiero infiammato da Nietzsche, cercherà di superare tali difficoltà, mettendo
ordine al tutto grazie alla forza dell’esistenza storica. Nietzsche, attraverso l’esperienza del pensare
in modo rapido, senza respiro, a cui, a tutta prima, induce ogni sua singola affermazione, può però
al tempo stesso impedire, nel modo piu decisivo, proprio questo modo di pensare affrettato,
grazie all’unità interna che è pur sempre presente nel suo pensiero; così, indirettamente, egli ci
educa a pensare in modo accorto e riflessivo, in quella vasta prospettiva che egli esige e mette in
pratica.
In particolare, attraverso l’autoeducazione dobbiamo non solo acquisire la consapevolezza, ma
anche mettere in pratica il pensiero del contraddittore. Mentre, nel caso di Hegel, vi è il pericolo di
velare, nell’accordo conciliativo di ogni dialettica, l’asprezza delle rotture e dei salti nell’esserci e le
alternative esistenziali, in Nietzsche si presenta invece il pericolo di cadere in una facile
indifferenza di fronte alle contraddizioni e in un errato uso delle loro possibilità.
Chi crede di poter acquisire la verità senza una tensione interiore e senza opposizioni, è disarmato
di fronte a questo pensiero, allo stesso modo di chi crede in modo illusorio di poter dominare e
portare a compimento la verità grazie ad approssimative formulazioni dialettiche. Chi si serve delle
opposizioni e contraddizioni per ingannare gli altri, secondo i suoi propri fini, è falso. Solo chi è
solito cogliere ciò che è contraddittorio, ed il cui pensiero è diretto dalla continuità della sostanza,
non è disarmato di fronte alla verità, e la può dunque conseguire. Bisogna dunque sperimentare
come la dialettica del movimento sia fondata nelle cose stesse, perché proprio in ciò si trova sia lo
slancio nel movimento, sia la possibilità della sofistica.
È possibile compiere con Nietzsche l’esercizio della propria autoeducazione mentale solo grazie
all’apporto aggiuntivo di un pensiero unificante. È dunque naturale, ossia così doveva
necessariamente accadere, che Nietzsche, all’inizio raramente compreso con le sue singole
pubblicazioni, per lo piu non sia stato ascoltato, o sia stato frainteso: siccome i suoi pensieri
acquistano il loro vero significato non già nella loro singolarità, bensì nel loro insieme, essi
potevano avere la loro vera efficacia solo dopo la pubblicazione degli scritti postumi. Con questo
modo di procedere in cui, unitamente all’assimilazione di Nietzsche, e grazie ad essa, conseguiamo
l’autoeducazione del nostro proprio pensiero, noi stessi siamo dunque attratti e partecipiamo al
movimento. In Nietzsche non c’è mai riposo; nessuna verità o credenza definitiva è piu in grado di
resistere. Questo procedimento può esteriormente terminare senza alcuna conclusione ma, in quanto
tale, come continuo procedere, ha indubbiamente la sua importanza e la sua efficacia. Nietzsche ci
stimola e ci mantiene in quella continua inquietudine che è l’origine del procedere sempre oltre,
grazie agli impulsi della veridicità e dell’autentica volontà di essere. La caratteristica
dell’educazione che riceviamo da Nietzsche consiste dunque nel fatto che noi proviamo come se
nel « positivo » ci si perda, e nel « negativo » ci si innalzi.
In virtù di questo movimento, Nietzsche diventa educatore attraverso una sorta di immenso
allargamento: cioè a dire, egli ci orienta nell’illimitato, ci insegna a pensare ciò che è opposto, la
possibilità delle valutazioni contraddittorie; ci insegna la persistente contraddittorietà, così come la
connessione dialettica, ma senza alcuna conclusione definitiva per la conoscenza veramente
formativa. Chi non ha mai osato esporsi ai pericoli dello studio di Nietzsche, e dunque alla pratica
del tentare e sperimentare, non può forse, nell’attuale momento storico, trovarsi veramente libero
nel vasto orizzonte del possibile. Con la sua conoscenza solo superficiale di Nietzsche, egli cade
facilmente o nella grettezza dottrinaria, o nella sofistica, o cade piuttosto, nello stesso tempo, in
entrambe.
È gretto di mente chi - in una fuga ipoco dignitosa di fronte al movimento vertiginoso — soccombe
alle formule isolate, ai radicalismi, alle posizioni ben definite; egli non ha permesso a Nietzsche di
agire su di lui come educatore. Chi resta ancorato ai vecchi dogmatismi è pur sempre piu veridico di
chi dogmatizza i pensieri di Nietzsche.
È sofista chi intende la liberazione attuata da Nietzsche nel senso del disimpegno da ogni vincolo;
egli vorrebbe essere come Nietzsche, senza averne la forza, il. diritto e la vocazione. Ciò che
Nietzsche ha fatto, in questa nostra epoca, lo poteva effettuare esistenzialmente senza sofistica,
cioè come verità, uno solo in rappresentanza di tutti.
Grettezza e sofistica vanno di pari passo, nella misura in cui il sofista è solito cogliere e scambiare a
piacere le varie grettezze dottrinarie. Nello studio di Nietzsche impariamo a dominare
definitivamente la costante inclinazione a perderci dietro le espressioni verbali; impariamo a
superare l’atteggiamento grossolano di chi non fa che argomentare sulla base di singole frasi
estrapolate dal loro contesto, di chi non fa che etichettare e ridurre schematicamente le grandezze
spirituali. Si compie in noi questa educazione, appunto perché vediamo, nella loro possibilità, tanto
la grettezza mentale quanto la sofistica, e, in questa possibilità, ne facciamo un’esperienza
fondamentale: impariamo a conoscerle e a dominarle in noi.
L’educazione grazie a Nietzsche ci conduce in ampi spazi che ci fanno venire le vertigini, per poter
risvegliare in noi tutta la forza del fondamento esistenziale. Questa educazione è come
un’esercitazione in ciò che è ambiguo. Ciò che è ambiguo viene inteso positivamente come il
medium di un autentico e decisivo essere-sé, che sfugge all’ambiguità per mezzo dell’esistenza, ma
che, nel momento in cui viene espresso, soggiace ad una riflessione infinita. Ciò che è ambiguo
viene inteso negativamente come il medium di una possibile sofistica che utilizza - a proprio piacere
ed arbitrio, a seconda delle varie situazioni e degli impulsi dell’esserci che di volta in volta agiscono
effettivamente — le possibilità di un assenso o di un rifiuto meramente emotivi, e di una finalità che
risponde solo a criteri istintivi. Una tale educazione, inevitabile e pericolosa nella nostra epoca,
significa che, senza Nietzsche, nessuno può veramente sapere cosa è l'esserci, ed essere veritiero nel
suo filosofare; ma significa anche che nessuno può arrestarsi a Nietzsche e trovare in lui il proprio
pieno compimento.
Proprio questo significa, per l’esistenza di ogni singolo individuo, l’atteggiamento che Nietzsche
esige quando scrive questi versi: « Soltanto chi si trasmuta mi resta parente » (7, 279). Comprendere
Nietzsche non vuol dire accettarlo, ma semmai plasmare se stessi, attivamente e soprattutto
continuamente, senza cioè terminare mai definitivamente quest’opera di formazione. Esser capaci di
trasformarsi significa esser pronti alla crisi, pur sempre possibile, della dissoluzione e della rinascita
del nostro proprio essere. Esser « parente » con un altro nella propria trasformazione
significa soprattutto trovarsi in comunicazione con ogni possibile essere-se-stesso, anche se ci è così
distante come l’« eccezione ». Questa educazione rigetta ogni trasformazione che sia soltanto un
divenir-altro in quanto mero desiderio di un continuo esser-nuovo; essa vuole infatti favorire una
trasformazione che sia basata sull’autentica origine dell’esistenza ed abbia come sua effettiva meta
l’affinità che si realizza nel proprio essere-se-stesso.
Per lo studio di Nietzsche, quella sua richiesta sta a significare ciò che veramente caratterizza
l’educazione filosofica che possiamo ricevere da Nietzsche stesso, considerato come pensatore che
appartiene al nostro tempo e ne rappresenta il profondo cambiamento. Egli non deve essere
considerato come uno dei grandi filosofi delle epoche precedenti, come se con lui il compimento di
ciò che è pensabile consistesse nella familiarità con la totalità dell’essere nel mondo, e come se la
certezza fosse colta nelle leggi intangibili dell’essere umano. Nietzsche è semmai correttamente
compreso solo quando si sia già altrove conseguita una certa dimestichezza con il pensiero che
procede in modo sistematico e mediante concetti astratti; quando già si possieda e si porti con sé
l’ostinazione e la precisione nel pensare, così come una mente dialettica. D’altra parte, è forse solo
attraverso Nietzsche che possono essere compresi i singoli grandi filosofi del passato, i quali senza
di lui diventano troppo facilmente un’irrigidita tradizione di argomenti didattici. Bisogna dunque
assimilare Nietzsche attraverso un affinamento del filosofare, senza rinunciare a ciò che si è già
acquisito, che deve semmai essere riscoperto, anche a costo di staccarsi da Nietzsche.
Io sono particolarmente colpito da Nietzsche come educatore, perché, indicando il futuro, egli
fornisce a chi gli si accosta un insostituibile impulso che, per quanto privo di una precisa e
definitiva determinazione, non può comunque essere messo in discussione quanto alla sua origine, e
resta assolutamente valido per chi una volta vi abbia preso parte.
Il nostro atteggiamento nei confronti dell’eccezione. Se Nietzsche non crea intorno a sé l’atmosfera
di un essere che riempia lo spazio con la sua presenza, ma sembra possedere il fascino della sua
purezza come una spiritualità non vitale; se il suo fuoco sembra agire come un fuoco freddo,
che non riscalda ma solo distrugge; se la nobiltà del suo sguardo, simile alla « morte con occhio
desto », sembra rimanere vuota; se egli, che è vissuto in tutti i recessi dell’anima moderna, senza
trovarsi mai a suo agio, sembra condurci ad una libertà senza fondo: tutto ciò non è che
l’espressione paradossale dell’essere dell’eccezione, a cui noi ci rifiutiamo, senza rompere con essa
ogni comunicazione che ci colpisce nel nostro intimo; in altri termini, noi ci accostiamo
all’eccezione senza identificarci con essa, o quanto meno senza esser spinti soltanto dalla volontà di
identificarci con essa.
Si pone dunque a questo punto la seguente questione: l’uomo, che parte dalle possibilità
dell’universale e della comunicazione, come si comporta nei confronti di Nietzsche, considerato
come l’eccezione in cui entrambe queste possibilità sono abbandonate, a causa del sacrificio che
egli ha fatto della propria vita? Cosa significa per l’uomo che non è un’eccezione, il pensiero di un
uomo che, come Nietzsche, si apparta dal mondo per vivere in solitudine, e la cui realtà, in fondo,
sembra non esser altro che il suo stesso pensiero?
In altri termini: l’intima natura di Nietzsche risiede veramente nella forza distruttiva del suo
pensiero? in quel suo « tentare », che porterebbe al nulla, alla disimpegnata futilità, tutti coloro che
cercassero di ripeterlo? Oppure, al contrario, essa non consiste forse nel fatto che, poiché
Nietzsche ha assunto su di sé l’universale disgregazione del nostro mondo, proprio in lui si può
trovare l’unico inizio ed impulso ancora possibile verso la verità indistruttibile, verso l’essere
dell’uomo?
Filosofare con Nietzsche significa agire nell’ambito della possibilità. L’uomo che non è
un’eccezione può far ciò in modo genuino solo in base al suo impegno esistenziale in una
determinata situazione storica. Per lui non si tratta dunque di seguire Nietzsche, di rinnegare tutti i
propri impegni, di costruire sul nulla. Si tratta piuttosto di conquistare quello spazio libero del
possibile che abbraccia ogni vincolo, per risvegliare nell’esistenza la profondità dell’autentica
libertà.
Nietzsche, per il quale tutto rimane aperto, e che non può dar nulla in possesso, ma può solo
preparare, appunto per questo assegna a ciascun individuo il compito di conquistare il suo proprio
terreno attraverso il riferimento alla trascendenza in una storicità esistenziale. Il pensiero di
Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara alla trascendenza che
egli non mostra, alla storicità dell’esistenza che egli non indica direttamente.
Ma non vi sarebbe alcuna vera preparazione se Nietzsche non fosse preso sul serio. L’esigenza
segreta di Nietzsche è che la pericolosa esperienza del possibile crei, mediante il rigore della
coesione, il medium in cui io stesso al mio posto divento quel che sono. Mentre egli respinge ogni
discepolo, in quanto ritiene che il suo cammino non sia il cammino di tutti, esprime in questi
termini la meta del suo filosofare: « Ogni filosofia deve poter fare ciò che io esigo, cioè concentrare
un uomo - ma nessuna filosofia è in grado ora di fare ciò » (10, 297).
Nietzsche può forse costringere chi rifiuta il terreno da lui offerto (eterno ritorno, metafisica della
volontà di potenza, superuomo) a ritirarsi sul terreno che gli appartiene, dove egli vive in base al
proprio fondamento. Solo nella misura in cui ci accostiamo a Nietzsche partendo dalla nostra
sostanza, siamo in grado di ascoltarlo senza il rischio di fraintenderlo. Ciò che Nietzsche veramente
è, potrebbe essere alla fine deciso solamente da ciò che altri gli apportano, accostandosi a lui.
Ma ben difficilmente qualcuno potrà portare a termine una tale appropriazione di Nietzsche. Sarà
infatti, sempre di nuovo, respinto là dove non sarà in grado di ricomprendere nell’insieme tutto
quello che vien leggendo, oppure traviserà ciò che ha letto, intendendolo in modo troppo univoco e
troppo staccato dal contesto. In questa relazione — che è inevitabilmente destinata a rimanere
ambigua - con la grandezza dell’eccezione, Nietzsche potrebbe per così dire dileguarsi. Ma a lui ci
tiene saldamente legati un amore originario che può perdere il suo oggetto, fino al punto di
ridurlo ad una indeterminata e delicata nobiltà dell’indole di Nietzsche: una nobiltà che rimane
anche quando tutto ciò che egli ha detto sembra improvvisamente ridursi al nulla. Ciò che
nell’esistenza e nella trascendenza è imponderabile ma al tempo stesso certo ed infallibile, è proprio
ciò che parla in modo misterioso a chi una volta gli ha dato ascolto.
Filosofare con Nietzsche significa affermarsi continuamente contro di lui. Nel fuoco del suo
pensiero, il nostro esserci, messo alla prova dalla sua illimitata sincerità e dal pericolo insito nel suo
metter tutto in discussione, può infine purificarsi e rendersi intimamente conto del proprio
autentico essere-sé. Questo essere-sé può venire sperimentato soltanto come ciò che non deve
consumarsi in nessun esserci, in nessuna oggettività e soggettività dell’essere-nel-mondo, ma solo
nella trascendenza, alla quale Nietzsche non ci conduce direttamente, ma anzi vuole sottrarci.
Tuttavia, la serietà della totale dedizione di sé, così come è stata attuata da Nietzsche, è pur
sempre — anche se involontariamente, e nonostante il suo rifiuto della trascendenza - il simbolo e
l’esempio della profondità propria di chi è consumato dalla trascendenza. Di fronte a Nietzsche
cresce lo sgomento, come di fronte all’inconoscibile, che può rivelarsi solo all’origine, ma non a
noi.
414
CRONOLOGIA
1844 Nietzsche nasce a Röcken (presso Lützen), figlio di un pastore protestante, il 15 ottobre.
1849Morte del padre.
1850 Trasferimento con la famiglia a Naumburg.

1858-1864 Frequenta la scuola di Pforta.


1860-1863 Associazione letteraria « Germania ».
1864-1865 Bonn (due semestri di filologia e teologia).
« Burschenschaft Frankonia ».
1865-1867 Leipzig (quattro semestri di filologia). Allievo di Ritschl. Amicizia con Rohde.
1867-1868 Servizio militare a Naumburg.

1868-1869 Leipzig.
Ottobre 1868: conosce Wagner.
1869-1879 Professore all'Università di Basel.
1869 Conosce Burckhardt.
1869-1872Visite a Wagner a Tribschen, nei pressi di Luzern. Agosto-ottobre 1870: infermiere
volontario in guerra. Da ottobre, di nuovo a Basel. Conosce Overbeck.
Maggio 1872Posa della prima pietra a Bayreuth.

1875 Conosce Kòselitz (Peter Gast).


Agosto 1876 Primo Festival di Bayreuth. Conosce Rèe.
1876-1877 Un anno di congedo. Sorrento: Malwida von Meysenbug. Ultimo colloquio con Wagner.
1878 Fine dei rapporti tra Wagner e Nietzsche. Gennaio: spedizione del Parsifal a Nietzsche;
maggio: spedizione di Umano, troppo umano a Wagner.

Maggio 1879 Congedo definitivo a causa della malattia.


1879-1889 Professore in pensione; « fugitivus errans »; dal 1883 al 1888, in inverno, a Nizza, in
estate, a Sils-Maria, durante la mezza stagione in vari posti, tra cui Venezia, la sua città preferita.
Nel 1888 a Torino, per lui una scoperta.

1879 Wiesen, St. Moritz, Naumburg.


1880 Naumburg. Riva. Venezia. Marienbad. Naumburg. Stresa. Genova.
1881 Genova. Recoaro. Sils-Maria. Genova (Nietzsche assiste alla Carmen di Bizet).
1882 Genova. Messina. Roma. Luzern. Basel. Naumburg. Tautenburg. Naumburg. Leipzig. Rapallo.
Da maggio a novembre: relazione con Lou Salomé.
1883 Rapallo. Genova. Roma. Sils-Maria. Genova. Nizza.
Febbraio: morte di R. Wagner.
1884 Nizza. Venezia. Sils-Maria. Zürich. Mentone. Nizza.
Agosto: visita di H. von Stein a Sils-Maria.
1885 Nizza. Venezia. Sils-Maria. Naumburg. Leipzig. Nizza.
1886 Nizza. Venezia. Leipzig (ultimo incontro con Erwin Rohde). Sils-Maria. Ruta. Nizza.
1887 Nizza. Cannobio. Zürich. Chur. Lezioni di Brandes su Nietzsche all’Università di
Copenaghen.

Torino.
1889 A partire da gennaio, malato di mente. Ricovero in clinica a Basel e Jena. Nel 1890 a
Naumburg, presso la madre. Nel 1897 muore la madre. La sorella si prende cura di lui, a
Weimar. Nietzsche muore il 25 agosto 1900.
TAVOLA DEI PERIODI DI STESURA DELLE OPERE E DEL NACHLASS
Opere Nachlaß

(tra parentesi la data della prima pubblicazione)


1858-1868    Scritti giovanili
1866-1877 Scritti filologici
1869-1871    Scritti sui Greci: nel voi. IX.
Sull'avvenire delle nostre scuole
Scritti: il vol. X contiene, tra gli altri: La filosofia nell’epoca tragica dei Greci; Su verità e
menzogna in senso extramorale
1870-1871 La nascita della tragedia (1. 1872) 1872-1875

1873    Considerazioni inattuali, I: David Strauss (8. 1873)


1873-1874 Considerazioni inattuali, II: Sull'utilità e il danno della storia per la vita (2. 1874)

1874 Considerazioni inattuali, III: Schopenhauer come educatore (1874)


1875 Noi filologi

1875-1876 Considerazioni inattuali, IV: Richard Wagner a Bayreuth (1876)

1875-1881 vol. XI: scritti del periodo di Umano, troppo umano e di Aurora
1876-1878 Umano, troppo umano (5. 1878)
1878-1879 Opinioni e sentenze diverse (3. 1879)
1879 Il viandante e la sua ombra (12. 1879)

1881-1886 vol. XII: scritti del periodo della Gaia scienza e di Zarathustra
1880-1881 Aurora (7. 1881)
1881-1882 La gaia scienza I-IV (9. 1882)
2. 1883 Zarathustra I (5. 1883)
6./7. 1883 Zarathustra II (1883)
1. 1884 Zarathustra III (1884)
1883-1888 voll. XIII-XVI: contengono, tra l’altro, La volontà di potenza

1884-1885 Zarathustra IV (1892)


1885-1886 Al di là del bene e del male (1886)
1886    Prelazioni (1887)
1887    Genealogia della morale (11. 1887)
1888    II caso Wagner (1888)
Crepuscolo degli idoli (1. 1889) L’anticristo (1902)
Nietzsche contra Wagner (1901) Ecce homo (1908)
1844 e sgg. Ditirambi di Dioniso

BIBLIOGRAFIA
Le opere
L’edizione piu comoda per fini di lavoro è la Gesamtausgabe disposta dalla sorella, nella forma
dell’edizione in ottavo piccolo (identica nell’impaginazione all’edizione in ottavo grande), in 16
volumi - ed è appunto da questa « Klein-oktavausgabe » che abbiamo citato nella nostra esposizione
)tra le ristampe a buon prezzo, sono da preferire quelle pubblicate nella « Taschenausgabe »
dell’editore Kröner, per la loro completezza, e soprattutto in considerazione del fatto che si possono
acquistare singolarmente i vari volumi. Soltanto il Nachlaß è riportato in una semplice scelta
antologica).
Vanno aggiunti: Scritti filologici 1866-1877, pubblicati soltanto nell’edizione in ottavo grande, voli.
17-19, Leipzig, 1910-1913 (a cura di Holzer, Crusius e Nestle); Scritti giovanili 1858-1868, nel voi.
I dell’edizione Musarion, apparso come volume a sé, München, 1923 (ora accresciuto del doppio
nella nuova edizione storico-critica del Nietzsche-Archiv); Poesie e sentenze (in edizione completa
e in volumi separati), Leipzig, 1898, C. G. Naumann (la maggior parte, ma non tutte, sono
pubblicate anche nella Gesamtausgabe-, i luoghi nei diversi volumi sono indicati in 8, 449).
Composizioni musicali di Nietzsche: Inno alla vita. Per coro e orchestra 1887. - Inno all’amicizia.
Coro con pianoforte a quattro mani 1874. - Manfredi. Meditazione per pianoforte a quattro mani
1872. - Diciassette lieder per pianoforte nonché una serie di pezzi per pianoforte.
Scritti sparsi: Glosse di Friedrich Nietzsche in margine alla « Carmen » di Bizet, a cura di Hugo
Daffner, Regensburg, s.d. - Note di Nietzsche in margine a Guyau, appendice alla traduzione
tedesca di « Morale senza doveri », Leipzig, 1909.
Dal Nietzsche-Archiv viene approntata una « Historisch-kritische Gesamtausgabe » delle opere e
delle lettere. Sono usciti tre volumi (Scritti giovanili), München, 1933 e sgg. L’edizione dovrebbe
comprendere l’intero Nachlaß e tutte le lettere ricevute da Nietzsche, in ordine cronologico. Se
l’edizione sarà portata a termine secondo il suo progetto, costituirà la prima vera base per lo studio
di Nietzsche.
Per la comprensione delle edizioni del Nachlaß fatte fino ad oggi (e del modo in cui sono sorti i
manoscritti di Nietzsche) bisogna innanzitutto consultare, oltre alle prefazioni e postfazioni alle
varie edizioni: AUGUST HORNEFFER, Nietzsche als Moralist und Schriftsteller, Jena, 1906. - ERNST
HORNEFFER, Nietzsches letztes Schaffen, Jena, 1907.
Per lo studio di Nietzsche è indispensabile il Nietzsche-Register di Richard Oehler, Leipzig, 1926. I
numeri di volume e di pagina di questo indice si riferiscono alla già citata Gesamtausgabe (nelle sue
due edizioni identiche, rispettivamente nel formato in ottavo piccolo e in ottavo grande). Questo
pregevole indice non comprende gli scritti giovanili, gli scritti filologici e le lettere. Non ci si deve
aspettare completezza da un indice. Chi studia Nietzsche, deve ampliarlo per proprio conto.
L’indice di Oehler è vincolato alle voci: viene indicato solo ciò che rientra in esse letteralmente, ma
non ciò che vi rientra per il suo contenuto. In quelle voci in cui vengono effettuate suddivisioni di
un ampio materiale, viene spesso a mancare la visione d’insieme. Particolarmente ricchi sono i
luoghi relativi al Nachlaß, che diventa dunque accessibile in larga misura. Il volume I delle opere è
preso in considerazione meno accuratamente rispetto a parole e contenuti della successiva filosofia
di Nietzsche. Per alcune voci si ha l’impressione che soltanto una parte delle opere sia stata
compulsata. Tuttavia, queste lacune non hanno grande importanza, se si considera il tempo che un
tale indice fa risparmiare alla ricerca. Questo indice è stato successivamente aggiunto all’edizione
Musarion, ampliato in due volumi e completato con il lavoro relativo agli scritti giovanili e a quelli
filologici. L’edizione Musarion ha l’unico pregio di contenere questo indice ampliato. A causa della
grande dimensione dei volumi, questa « edizione monumentale » non è comoda come strumento
di lavoro.
Lettere
Friedrich Nietzsches Gesammelte Briefe, Leipzig, Inselverlag: voi. I: a Pinder, Krug, Deussen,
Gersdorff, Fuchs e altri, 3. edizione, 1902. - Voi. II: Carteggio Nietzsche-Rohde, 2. edizione, 1903. -
Voi. III: Corrispondenza con Ritschl, Burckhardt, Taine, Keller, H. von Stein, Brandes, H. von
Bülow, A. von Senger, M. von Meysenbug, 2. edizione, 1905. - Voi. IV: Lettere di Nietzsche a
Peter Gast, 2. edizione, 1908. - Voi. V (in due tomi): Lettere di Nietzsche alla madre e alla sorella,
2. edizione, 1909. - Inoltre, Carteggio Nietzsche-Overbeck, Leipzig, Inselverlag, 1916 (alcune
lettere qui omesse sono pubblicate negli scritti di Podach).
Inoltre, lettere sparse: a Lou, in: Lou ANDREAS-SALOMÉ, Friedrich Nietzsche, Wien, 1894. - A
Strindberg, in: KARL STRECKER, Nietzsche und Strindberg, München, 1921. - A Hillebrand, in: O.
CRUSIUS, Friedrich Nietzsche und Karl Hillebrand. Unveröffentlichte Briefe, in « Süddeutsche
Monatshefte », VI, 2., 1909, pp. 129-142. - A Krug, in: Zwölf Briefe Nietzsches an einen
Jugendfreund (Gustav Krug), in « Süddeutsche Monatshefte », voi. 27, agosto 1930. -L’ultima
lettera a Burckhardt (6. 1. 1889), in facsimile, in: PODACH, Nietzsches Zusammenbruch, Heidelberg,
1930. - Ad A. Heusler, in: Zwei ungedruckte Schriftstücke Nietzsches (lettere a Andreas Heusler,
dicembre 1888), in « Schweizer Monatsh. für Politik und Kultur », voi. 2, Zürich, aprile 1922.
— Agli editori, in: Friedrich Nietzsche. Briefe aus dem Jahre 1880 (tra cui, in particolare,
all’editore C. G. Naumann e a Meta von Salis-Marschlins), in « Die neue Rundschau », XVIII,
Berlin, 1907, pp. 1367 e sgg. - L’ultima lettera a H. von Bülow, in: ANDLER, [Nietzsche. Sa vie et sa
pensée], voi. IV, p. 530 (nota).
Lavori editoriali auspicabili
Dopo che la sorella, a partire dagli anni Novanta, con le edizioni del Nachlaß ha reso per la prima
volta effettivamente accessibili le opere, e dopo che oggi, con edizioni a basso costo delle opere e
con raccolte antologiche delle lettere e del Nachlaß, si è provveduto a venir incontro alle necessità
del lettore, il grande
compito per il futuro resta quello di creare, con appropriate edizioni, le basi, ora possibili e quindi
necessarie, per lo studio di Nietzsche.
Nello studio di Nietzsche si tratta di riuscire a prender parte al movimento del suo pensiero, che è al
contempo l’intimo movimento del suo essere; si tratta non già di fissarsi su singole frasi brillanti o
singole opere, ma di seguire invece ogni svolta, di addentrarsi in ogni angolo, di partecipare ad ogni
superamento. Pertanto, la possibilità di penetrare in profondità dipende in misura insolita dal modo
in cui ciò che proviene da Nietzsche viene presentato nelle pubblicazioni delle sue opere. Attraverso
la completezza e il corretto accostamento di ciò che Nietzsche ha effettivamente e direttamente
detto, si rivela ciò che invece non diventa mai chiaro attraverso laboriose disquisizioni. Per
le edizioni future delle opere di Nietzsche dovrebbero dunque valere le seguenti esigenze.
I. Come condizione essenziale per ogni studio, bisogna raccogliere il materiale in tre
raggruppamenti, in modo assolutamente completo: è auspicabile che la nuova edizione delle opere
di Nietzsche in corso di pubblicazione sappia soddisfare le esigenze qui espresse ai punti 1 e 2.
1. Le opere che Nietzsche stesso ha pubblicato sono ora, nella loro totalità, facilmente accessibili;
su questo non c’è difficoltà alcuna. Ma poiché il Nachlaß, che non ha minor importanza, è uscito
fino ad ora solo in sistemazioni per lo più disposte dai curatori (con la parziale eccezione di quella
della Volontà di potenza), rimane qui una difficoltà, per la quale evidentemente non è
semplice trovare una soluzione. Come si debba fare può essere deciso soltanto di volta in volta,
sulla base dei manoscritti, forse apportando per questi dei cambiamenti. Quel che è auspicabile è
tuttavia chiaro: tutto ciò che è in qualche modo comprensibile va pubblicato fedelmente, senza
aggiunte, in ordine cronologico per quanto è possibile, oppure - se non è possibile la datazione -
nell’ordine in cui gli appunti e i frammenti si trovano disposti nei quaderni. I limiti di ciò che è
possibile fare vanno trovati di volta in volta in presenza del materiale stesso. La successione in cui
Nietzsche si è annotato i propri pensieri è essenziale, e, nella misura in cui è possibile farsene
un’idea, non dovrebbe essere alterata. Se in precedenza alcuni filologi hanno ritenuto insensate tali
esigenze, ciò è dipeso da una scarsa valutazione del pensiero di Nietzsche (cosi è, per esempio,
in Rohde).
In ogni caso, vanno superati in gran parte i raggruppamenti sistematici, ordinati in base al
contenuto, che caratterizzano le attuali pubblicazioni del Nachlaß, nell’intento di ricavarne delle
opere il piu possibile leggibili. A me sembra che la stessa separazione della Volontà di potenza dal
Nachlaß, riportato nei volumi 13 e 14, così come le sistemazioni all’interno dei volumi, non
servano a fare chiarezza. Bisogna mantenere le disposizioni del materiale abbozzate dallo stesso
Nietzsche: bisogna cioè stampare i suoi appunti cosi come egli stesso li ha stesi, e non effettuare
questa o quella sistemazione, poiché in tal caso la scelta della disposizione sarebbe comunque
determinata dal curatore, ma non certo da Nietzsche.
È vero che una pubblicazione in facsimile del Nachlaß sarebbe in effetti priva di senso, a causa
della sua difficoltà di lettura. Tuttavia, il fatto di stampare ciò che può esser letto in modo sicuro, sia
pure in un ordine lacunoso, mirando esclusivamente ad una successione cronologica - anche se
questa spesso dovrà essere interrotta a causa di una conoscenza non sufficiente a determinarla con
certezza - è il solo modo di rendere un’immagine vera e diretta del pensiero
di Nietzsche, che è indispensabile come punto di partenza. Non si dovrebbe farne una questione di
alcuni volumi in piu o in meno.
La separazione di opere e Nachlaß, che la sorella ha compiuto nella prima Gesamtausgabe, appare
sensata. Nuove edizioni delle opere avranno poca importanza (a meno che nelle edizioni di cui
finora disponiamo siano state effettivamente soppresse parole o frasi, come per esempio, secondo
Hofmiller, il termine « idiota » nell’Anticristo); invece, da una nuova edizione del Nachlaß è
lecito attendersi una base sostanzialmente migliore per gli studi su Nietzsche.
2.    Tutte le lettere e gli abbozzi di lettere dovrebbero essere pubblicati in ordine cronologico. In
aggiunta, bisognerebbe raccogliere, senza interpretazioni e giudizi, tutti i fatti reperibili che hanno
rilevanza per la comprensione delle lettere, e riportarli in nota.
Soltanto grazie ad una tale edizione, ampia e completa, sarebbe possibile studiare in modo
approfondito e con effettiva consapevolezza l’intimo corso della vita di Nietzsche, mentre l’attuale
frammentazione della corrispondenza smembra ciò che era cronologicamente collegato, e fa sempre
perdere di vista qualcosa.
3.    Tutti i resoconti dei contemporanei ed i loro giudizi su Nietzsche, frutto di un diretto rapporto
con lui, dovrebbero essere raccolti insieme. Attualmente si trovano sparse molte annotazioni
occasionali che, prese insieme, non sono prive di interesse. Criterio della scelta per la pubblicazione
è che il contenuto di tali testimonianze sia fondato su una conoscenza concreta e diretta di
Nietzsche. Soltanto ciò che emerge da essa, e non dò che i contemporanei hanno dedotto dalle
opere, è interessante.
II. Queste tre auspicabili edizioni, che debbono essere ampie e complete, sono la base per le
edizioni che ordinano in modo sistematico il materiale: edizioni che sono indispensabili per poter
seguire le singole relazioni oggettive e personali, le quali non potrebbero emergere in modo
significativo nell’edizione completa delle opere. In quest’ordine sistematico bisogna raggiungere la
completezza riguardo ai contenuti scelti di volta in volta. Nelle edizioni attualmente disponibili, in
cui il materiale è stato ordinato sulla base di una scelta autonoma, non vi è mai questa completezza,
né per gli scritti autobiografici, né per quanto riguarda il rapporto Nietzsche-Wagner, né in alcun
altro caso.
1.    Tutto ciò che si riferisce ai rapporti di Nietzsche con singole persone va raccolto insieme in
modo documentato: non soltanto le lettere, bensì tutto ciò che è dimostrabile sulla base di dati di
fatto, e ciò che anche nelle opere si riferisce direttamente a tali dati di fatto (questo vale anzitutto
per Wagner).
2.    Tutti i dati reperibili sulle malattie di Nietzsche, durante tutta la sua vita, dovrebbero essere
riuniti in un’opera (che sarebbe più importante delle patografie): bisognerebbe cioè raccogliere tutto
ciò che nelle lettere si dice sulle malattie, ciò che altri riferiscono, e in generale tutto ciò che sotto
determinati punti di vista potrebbe essere in rapporto alla malattia. Bisognerebbe mirare ad una
raccolta puramente documentale, senza giudizi, senza diagnosi (all’infuori delle diagnosi che sono
state fatte dai medici curanti, quando Nietzsche era ancora in vita). È essenziale la massima
esattezza nei dati cronologici.
3.    Mentre le sistemazioni proposte finora, se condotte con metodo filologico e con buon senso per
quanto riguarda i dati di fatto (e, in riferimento al punto 2, anche in base a qualche esperienza
psichiatrica e medica), potrebbero diventare eccellenti grazie ad un lavoro scrupoloso, vi è un
ultimo tipo di sistemazione che è legato in grande misura ad un pensare creativo: quello di
procedere a sistemazioni obiettive di pensieri tra loro collegati, mediante richiami
agli scritti pubblicati da Nietzsche e al Nachlaß; esse metterebbero finalmente in luce le cose
costruite e le vie indicate, che si trovano nascoste sotto l’enorme ammasso di macerie del Nachlaß.
È questo il lavoro concettuale che si deve compiere con Nietzsche: un lavoro che raggiungerà il suo
scopo nella misura in cui vi sia una comprensione filosofica che metta i pensieri in relazione tra di
loro, senza indulgere a forzature e ad un’analisi critica soltanto parziale, ma in modo da farne
emergere l’immanente dialettica. Pensieri analoghi verrebbero così a trovarsi l’uno accanto all’altro
e mostrerebbero il processo del loro reciproco differenziarsi e rapportarsi: emergerebbero
contraddizioni e discrepanze. Questa sistemazione è raggiungibile soltanto: 1) sulla base di un
lavoro che consideri tutto ciò che Nietzsche ha pensato; 2) sulla base di punti di vista che
procedano dal pensiero stesso di Nietzsche e si muovano consapevolmente con esso; 3) con la
volontà della connessione, che rimane pur sempre fedele al vero - e quindi tralascia
intenzionalmente quel che è frammentario e disseminato - e che costituisce sia la misura della
propria raggiunta comprensione, sia l’avvio di un’eventuale migliore comprensione da parte di altri.
Un compito particolare, che si pone così solo per Nietzsche, è quello non già di estrapolare il
sistema dall’accumulo di materiali e di lasciare poi da parte il resto in quanto detriti, bensì di dare
forma al tutto che Nietzsche cercava. Poiché questo tutto non può assumere una forma organica,
sarebbe già di per sé troppo restrittivo pretendere che, con mente hegeliana, i pensieri di Nietzsche
venissero ricondotti in un unico nesso dialettico totale.
Con le frasi di Nietzsche si deve fare, per così dire, un giuoco di mosaico. Ciò può avvenire in
modo arbitrario e tendenzioso, ed è allora un giuoco senza fine. Ma, dopo essersi a lungo occupati
di Nietzsche, sorge la convinzione che questo giuoco di mosaico non sia oggettivamente arbitrario e
senza fine: ciò si verifica se, partendo dalla consapevolezza delle fondamentali possibilità
filosofiche, la coerenza in se stesso del tutto, o del tutto che si presenta di volta in volta, colpisce a
tal punto che quelle arbitrarie sistemazioni possono essere viste nella loro lacunosità. Ciò potrebbe
riuscire soltanto grazie ad un lavoro comune, con correzioni reciproche, nel corso del tempo - il mio
lavoro vorrebbe essere un passo su questa strada -, mai con sistemazioni e schematizzazioni veloci e
superficiali che, nella loro razionale univocità e sistematica unilateralità, rimangono adialettiche, e
sono certamente comode ma rovinose per la comprensione di Nietzsche.
4. Mentre le raccolte che sono complete in rapporto ad un problema o ad un contenuto hanno il loro
senso, quelle che dal tutto vogliono riunire il meglio sono invece nel caso di Nietzsche ancora piu
discutibili rispetto a quanto avviene con altri grandi pensatori. Per la comprensione di Nietzsche, si
tratta non già di acquisire un’immagine d’insieme, che è pur sempre ingannevole, ai fini di una
visione estetica, bensì, in primo luogo, per quanto riguarda il suo pensiero, di riflettere da tutti i
punti di vista sulle singole relazioni concettuali e pervenire a conoscenza del quadro completo delle
loro differenziazioni, nel limite del possibile, per poter così risalire all’origine dell’intero sviluppo
concettuale; in secondo luogo, per quanto riguarda la sua vita, si tratta di seguire, per esempio,
un’amicizia, fin nei particolari e nei dettagli concreti, in modo da essere così il piu vicino possibile
alla realtà, dalla quale soltanto si può udire la schietta voce esistenziale.
Scritti su Nietzsche
La bibliografia finora più completa è quella di FRIEDRICH WÜRZBACH, Nietzsche. Ein
Gesamtüberblick über die bisherige Nietzsche-Literatur, in Literarische Berichte aus dem Gebiet
der Philosophie, a cura di Arthur Holtmann, Erfurt, K. Stenger, fascicoli 19/20 e 26.
Le indicazioni che seguono intendono menzionare solo alcuni scritti (per il completamento cfr. le
indicazioni contenute in nota alle pp. 43-44, 46, 48, 51, 68, 73, 78-79, 82-83, 85-87, 94, 321, 359).
1.    Esposizioni complessive. CHARLES ANDLER, Nietzsche. Sa vie et sa pensée, Paris, 1920-1931, in
sei volumi: I, Les précurseurs de Nietzsche; II. La jeunesse de Nietzsche; III. Le pessimisme
esthétique de Nietzsche; IV. La maturité de Nietzsche jusqu'à sa mort; V. Nietzsche et le
transformisme intellectualiste; VI. La derniere Philosophie de Nietzsche. I sei volumi di Andler
offrono un’ampia documentazione che orienta in modo eccellente, con una esposizione elegante,
criticamente equilibrata, e ricca di informazioni. È una trattazione storico-letteraria, non filosofica,
che obiettivamente e non emotivamente sottopone la biografia e le opere di Nietzsche ad un’analisi
storica secondo le tradizionali categorie filosofiche. Una certa ampiezza e libertà di trattazione, una
ricerca con appropriata sicurezza delle origini e degli sviluppi dei pensieri, una costante probità
rendono questo lavoro prezioso, anche e soprattutto in considerazione del fatto che è l’unica ampia
esposizione del pensiero di Nietzsche. Ma esso non deve fuorviare a causa della scarsa competenza
filosofica, che non impedisce certo all’autore di vedere il grande scrittore e poeta ed anche il
pensatore sul piano di semplici pensieri meritevoli di essere discussi, ma non gli consente di vedere
il vero filosofo.
2.    Studi generali. Lou ANDREAS-SALOMÉ, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, Wien, 1894; ALOIS
RIEHL, Friedrich Nietzsche, der Künstler und Denker, 3. edizione, Stuttgart, 1901; KARL JOEL,
Nietzsche und die Romantik, Jena, 1905; E. BERTRAM, Nietzsche, Berlin, 1918; KARL JUSTUS
OBENAUER, Friedrich Nietzsche, der ekstatische Nihilist, Jena, 1924; LUDWIG KLAGES, Die
psychologischen Errungenschaften Nietzsches, 2. edizione, Leipzig, 1930; ALFRED BAEUMLER,
Nietzsche, der Philosoph und Politiker, Leipzig, Reclam, 1931; JOSEF HOFMILLER, Nietzsche, in
«Süddeutsche Monatshefte», XXIX, 1931, pp. 73 e sgg. - Controversia Hofmiller-Baeumler: «
Süddeutsche Monatshefte », 28 (1930-1931), pp. 536, 607 e sgg., 685 e sgg., 758 e sgg.
Tra gli scritti sopra menzionati, i più importanti sono quelli di Bertram, Klages e Baeumler.
3.    Studi su singoli problemi. MAX SCHELER, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen, in Abhandl.
und Aufs., voi. I; inoltre: Versuche einer Philosophie des Lebens, nel II voi.; A. BAEUMLER, Bachofen
und Nietzsche, Verlag der Neuen Schweizer Rundschau, Zürich, 1929; inoltre: BAEUMLER, «
Introduzione » a BACHOFEN, Orient und Occident, 1926, pp. 241-255; FRIEDRICH MESS, Nietzsche der
Gesetzgeber, Leipzig, 1930.
Si devono inoltre menzionare: JULIUS ZEITLER, Nietzsches Ästhetik, Leipzig, 1900; NICOLAI VON
BUBNOFF, Friedrich Nietzsches Kulturphilosophie und Umwertungslehre, Leipzig, 1924; WERNER
BROCK, Nietzsches Idee der Kultur, Bonn, 1930; ERIKA EMMERICH, Wahrheit und Wahrhaftigkeit in
der Philosophie  Nietzsches, Halle, 1933 (Diss. Bonn); ERICH HOCKS, Das Verhältnis der Erkenntnis
zur Unendlichkeit der Welt bei Nietzsche, Leipzig, 1914; KARL LOWITH, Nietzsches Philosophie der
ewigen Wiederkunft des Gleichen, Berlin, 1935;
ERNST HOWALD, Friedrich Nietzsche und die klassische Philologie, Gotha, 1920; GUSTAV NAUMANN,
Zarathustra-Kommentar, in quattro parti, Leipzig, 1899-1901.
4. Libelli. Appartiene ad ogni grande spirito il fatto di essere diffamato. È necessario che il lettore
non prevenuto conosca tali ingiurie, in primo luogo per accertarsi se è in grado di confutarle o
dissiparle puntualmente; in secondo luogo, per prestare attenzione a situazioni di fatto che spesso
solo l’odio mette in evidenza; in terzo luogo, per chiedersi quale sia, nella stessa persona che viene
diffamata, il motivo per cui è sorta una tale diffamazione. Cito, a mo’ di esempio: LUDWIG STEIN,
Friedrich Nietzsches Weltanschauung und ihre Gefahren, Berlin, 1893; JOHANNES SCHLAF, Der Fall
Nietzsche. Eine Überwindung, Leipzig, 1907; GUSTAV BÜSCHER, Nietzsches wirkliches Gesicht,
Zürich, 1928 (Editore A. Rudolf).
APPENDICE
TAVOLA DI CONCORDANZA
Qui di seguito indichiamo la concordanza tra le edizioni delle opere di Nietzsche da cui cita Jaspers
e le edizioni italiane di cui abbiamo seguito la traduzione.
La prima colonna si riferisce ai Nietzsche’s Werke (Leipzig, Naumann-Kröner, 1894 e sgg.): la
prima cifra indica il volume, la seconda la pagina.
La seconda colonna si riferisce alle Opere di Friedrich Nietzsche (Milano, Adelphi, 1964 e sgg.): le
cifre romane indicano, nell’ordine, il volume, il tomo e (in alcuni casi) la parte; le cifre arabe
indicano la pagina.
Per quanto riguarda alcuni scritti giovanili di Nietzsche, anteriori al 1868, Jaspers cita dal vol. I
dell’edizione Musarion (München, 1923); in traduzione italiana, questi scritti sono usciti in un
volume a parte delle edizioni Adelphi (La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869, Milano, 1977).
Alla fine della presente tavola, si è dunque stabilita la concordanza tra queste due edizioni: la cifra
della prima colonna indica la pagina dell’edizione Musarion, quella della seconda indica la pagina
dell’edizione Adelphi.
Dal controllo effettuato sull’edizione Naumann-Kröner, indispensabile per stabilire la concordanza,
soprattutto nel caso dei frammenti postumi (in quanto Jaspers indica solo il volume e la pagina, ma
non il numero del frammento), abbiamo riscontrato che alcuni passi non corrispondono alle
indicazioni fomite da Jaspers; ove è stato possibile, abbiamo quindi provveduto a correggere tali
indicazioni. Abbiamo invece segnalato con un punto interrogativo i pochi casi di riferimenti errati
(o omessi) che non siamo riusciti a reperire nelle edizioni tedesche, e di cui abbiamo comunque
trovato la corrispondenza nelle edizioni italiane sopra citate. Tra parentesi, a fianco della prima
colonna, abbiamo segnalato la pagina della presente edizione in cui si trova la citazione, in quei casi
in cui compare piu volte in Jaspers la stessa indicazione (del volume e della pagina), ma, riferendosi
a frammenti diversi, corrisponde a differenti volumi dell’edizione Adelphi: come è noto, i
frammenti postumi di Nietzsche sono pubblicati in ordine tematico nell’edizione Naumann-Kröner,
e in ordine cronologico nell’edizione Adelphi.

INDICE
Introduzione
Nota del curatore

NIETZSCHE
Prefazione alla prima edizione
Prefazione alla seconda e alla terza edizione
Introduzione
La comprensione dell’opera, 25; I metodi piu consueti dell'interpretazione di Nietzsche, 25; Come
leggere Nietzsche, 27; I principi dell'interpretazione, 28; Le tre parti della nostra esposizione, 33; Il
metodo dell’esposizione, 35; La comprensione dipende dall’intima natura di chi comprende, 37; La
verità filosofica, 37; Ciò che è richiesto all'intima natura di chi comprende, 38; Pericolo e
esitazione nel comunicare l'effettiva verità, 39; Nietzsche non vuole seguaci, 40; Cosa vuole
Nietzsche, 41; Nietzsche ha trovato i lettori che voleva?, 41.
LIBRO PRIMO

LA VITA DI NIETZSCHE
Uno sguardo complessivo, 43; La vita, 44; Il mondo, 45; L’immagine di Nietzsche che ci i stata
tramandata, 49; La sua caratteristica fondamentale: essere un'eccezione, 52; Le fasi dello sviluppo,
53; Lo sviluppo dell'opera, 53; Come Nietzsche stesso ha inteso il proprio cammino filosofico, 55;
La terza fase in particolare, 60; Ciò che rimane costante in tutto lo sviluppo, 63; Amici e
solitudine, 67; Rohde e Wagner, 68; Il periodo della solitudine, 77; L’elemento duraturo nelle
relazioni  umane di Nietzsche, 83; I limiti delle possibilità d'amicizia di Nietzsche e la sua
solitudine, 87; La malattia, 94; Le malattie, 94; La malattia e l'opera, 104; L'atteggiamento di
Nietzsche nei confronti della malattia, 111; La fine, 117.
LIBRO SECONDO
I PENSIERI FONDAMENTALI DI
NIETZSCHE
Premessa
CAPITOLO PRIMO - L’UOMO
Introduzione: l’insoddisfazione per l’uomo, 123; L’esserci dell’uomo, 126; Cos'è l'uomo nel mondo,
126; L'uomo come originariamente mutevole (rapportarsi a se stessi; gli istinti e le loro
trasformazioni), 129; L’uomo che crea se stesso (la morale), 135; L'attacco alla morale, 136; Il
doppio circolo, 141; Ciò che Nietzsche vuole (contro ciò che è generale, in favore dell'individuo;
innocenza del divenire; creare; l'uomo che crea se stesso), 143; Creare come libertà senza
trascendenza, 150; Il capovolgimento dell'immanenza, 153; L’immagine nietzschiana dell’uomo,
156; L'uomo superiore, 157; Contro il  culto degli eroi, 160; Il superuomo, 160.
CAPITOLO SECONDO - LA VERITÀ
Premessa, 163; Verità scientifica e verità filosofica, 164; L'atteggiamento metodico, 164; Origine e
vita dei metodi, 166; Limiti della scienza, 168; Scienza e filosofia, 171; La teoria
dell’interpretazione: verità e vita, 175; Il carattere illusorio della verità, 176; L'applicazione della
teoria, 177;, Il circolo, 179; Essere-vero ed esistenza, 180; La verità in relazione alle potenze vitali
che la distruggono, ma al contempo ne sono la condizione, 182; L’essere che diviene consapevole
al limite, 186; La passione di una illimitata volontà di verità, 190; Onestà, 190; Giustizia, 193;
L'autosoppressione della volontà di verità, 197; Il dubbio illimitato, 199; La dissoluzione della
ragione, 199; La verità nella rottura trascendente, 206; L'impossibilità di comunicare la verità,  207;
Il pericolo della verità, 208; Verità e morte, 210; « Nulla è vero, tutto è permesso », 214.

TERZO - LA STORIA E L’ETÀ


CAPITOLO
CONTEMPORANEA
Premessa, 216; Forme in cui Nietzsche vede la storia, 217; Lineamenti generali della storia, 217;
Epoche, popoli, uomini, 219; Il significato vitale della coscienza storica, 220; Contro gli errori
fondamentali della  scienza storica, 221; Contro la storia che distrugge la vita, 222; Per la vera
storicità, 223; Il presente, 224; L'immagine del tempo, 224; « Dio è morto », 226; L’origine del
nichilismo europeo, 226; Il senso di queste tesi, 228.

CAPITOLO QUARTO - LA GRANDE POLITICA


Introduzione: il senso della grande politica, 232; La visione nietzschiana della realtà politica, 236;
Le originarie necessità di tutti i rapporti umani (lo Stato; guerra e pace), 236; La democrazia, 240;
Visioni di un futuro possibile, 243; Le vie della democrazia, 244; Sviluppi politico-mondiali degli
Stati nazionali, 245; Essenziali mutamenti spirituali dell’uomo, 248; I nuovi signori, 249; Il
compito della grande politica, 252; I legislatori, 253; Il cammino della grande politica,
255; Educazione ed allevamento, 257; Grande politica e filosofia, 259.
CAPITOLO QUINTO - INTERPRETAZIONE DEL MONDO    
Premessa, 264; Il mondo è essere-interpretato, 265; La metafora dell’interpretazione, 266; Il
fenomeno dell’interpretare, 268; La nuova interpretazione di Nietzsche (la volontà di potenza), 270;
L'interpretazione fondamentale (definizione fondamentale della vita come volontà di potenza;
definizioni fondamentali per contrasto; definizioni fondamentali in base all’essere della prospettiva
d'interpretazione; definizioni fondamentali a partire dall’essenza), 272; I terreni intuitivi di
partenza (psicologia del sentimento di potenza; la basilare condizione sociologica della potenza;
forza e debolezza), 278; L’interpretazione del mondo come fenomeno della volontà di potenza
(conoscenza; bellezza; religione e morale; mondo inorganico; mondo organico; la coscienza),
282; Caratterizzazione critica della metafisica della volontà di potenza, 288; I! mondo come pura
immanenza, 291; Le ragioni di Nietzsche contro la teoria dei due mondi, 291; Pura immanenza
come divenire, vita, natura, 295; L’autodistruzione della concezione nietzschiana del mondo, 500.
CAPITOLO SESTO - LIMITI E ORIGINI
Introduzione: la questione fondamentale (teodicea), 502; L’essere in base all’origine delle «
condizioni », 507; Primo gruppo: l'impulso verso ciò che è superiore, 508; Secondo gruppo: gli
atteggiamenti fondamentali (la distinzione; l'esserci eroico; l’anima dionisiaca), 509;
Terzo gruppo: i modi della consapevolezza dell'essere, 512; Il si nel contesto della concezione
dell’essere, 516; Il divenire, 516; L’eterno  ritorno, 519; La teoria dell'eterno ritorno (1. la sua
motivazione;  2. il suo trascendere come superamento della teoria fisica; 5. l’attimo in cui fu
concepito; 4. le sue conseguenze esistenziali; 5. le sue conseguenze storiche; riepilogo: Dio oppure
movimento circolare?), 520; Amor fati, 551; II mito in Nietzsche, 555; Il mito della natura, 555;
Dioniso, 558.
LIBRO TERZO
IL MODO DI PENSARE DI NIETZSCHE NELLA TOTALITÀ DELLA SUA ESISTENZA
Premessa
CAPITOLO PRIMO - COME NIETZSCHE COMPRENDE
SE STESSO E IL PROPRIO PENSIERO
Premessa, 545; Vita e conoscenza, 548; Unità e separazione di vita e conoscenza, 549; Pensare a
partire dalla dialettica reale, 552; La coscienza della forma logica di pensiero, 556; Opposizione e
contraddizione, 557; Il tutto, 558; Il sistema, 560; La possibilità della comunicazione, 565;
Necessità della comunicazione, 564; Il motivo dell’incomunicabilità, 564; La comunicazione
indiretta, 565; Necessità e verità della maschera, 566; Simbolo e canto, 570; Polemica, 571; Ciò
che Nietzsche è per sé, 572.

- COME NIETZSCHE
CAPITOLO SECONDO
VIENE COMPRESO DA NOI
Premessa, 375; Percorsi della critica nietzschiana, 375; Critica logica, 376; Critica del contenuto,
378; Critica esistenziale, 379; La volontà del puro al-di-qua, 386; La posizione dell’ateismo, 386; Il
sostituto della trascendenza e il suo fallimento, 387; Il trascendere di Nietzsche, 390; Il pensiero
filosofico di fronte all’ateismo, 393; Il nuovo filosofare, 397; La negatività assoluta, 399; La
filosofia del tentare, 401; Nietzsche come vittima, 402; Ciò che Nietzsche è, ed ha fatto, rimane
aperto, 404; L’assimilazione di Nietzsche, 404; Le insidie di Nietzsche e i possibili fraintendimenti
del suo pensiero, 406; L'educatore filosofico, 408; Il nostro atteggiamento nei confronti
dell'eccezione, 412.
Cronologia
Tavola dei periodi di stesura delle opere e del Nachlaß
Bibliografia
Appendice - Tavola di concordanza

Potrebbero piacerti anche