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« L’aspirazione estrema, incondizionata, dell'uomo è stata espressa per la prima volta da Nietzsche

a prescindere da un fine morale e dal servizio di un Dio.


Nietzsche non può definirla con precisione ma essa lo anima, egli la assume sotto tutti gli aspetti.
Ardere senza rispondere a qualche imperativo morale, espresso drammaticamente, è certo un
paradosso. È impossibile predicare o agire partendo da queste premesse. Ne deriva un risultato
sconcertante. Se di uno stato d’ardore noi non facciamo più la condizione di un altro, successivo
e dato come bene attingibile, lo stato proposto sembra una pura folgorazione, uno struggimento
vuoto. [...]
Nietzsche non ebbe chiara coscienza di questa difficoltà. Dovette constatare il suo fallimento: seppe
alla fine che aveva parlato al deserto. Eliminando l’obbligo, il bene, denunciando il vuoto e la
falsità della morale, distruggeva il valore d’efficacia del linguaggio. La fama tardò e poi. quando
venne, egli non potè più far nulla. Nessuno rispondeva alla sua attesa.
Oggi credo di dover dire: quelli che lo leggono e lo ammirano, lo scherniscono, ed egli lo seppe, lo
disse. Escluso me? (semplifico). Ma tentare di seguirlo come lui chiedeva significa abbandonarsi
alla stessa prova, allo stesso suo smarrimento.
[...] Oggi trovo giusto affermare il mio smarrimento: ho cercato di trarre da me stesso le
conseguenze di una chiara dottrina, che mi affascinava come la luce: ho ricavato quasi sempre
angoscia e l’impressione di soccombere.
Ma anche soccombendo non lascerei l’aspirazione di cui ho parlato. O piuttosto questa aspirazione
non potrebbe lasciarmi: morirei, ma non tacendo per questo (credo almeno): augurerei a quelli che
amo di resistere o di soccombere a loro volta.
C’è nell’essenza dell’uomo una tensione violenta, verso l’autonomia, la libertà dell’essere. Libertà
certo interpretabile in diversi modi: ma chi oggi si stupirebbe che si muoia per essa? Le difficoltà
che incontrò Nietzsche - abbandonando Dio e il bene eppure continuando a bruciare del fuoco di
coloro che per Dio e per il bene si fecero uccidere - le incontrai anch’io a mia volta. La
solitudine scuorante ch’egli ha descritto ora mi toglie le forze. Ma la rottura con le entità morali dà
all’aria che respiro una verità così grande che preferirei vivere da paralizzato o morire piuttosto che
ricadere nella schiavitù ».
In copertina: Caspar David Friedrich. Watzmann, 1824-25 (particolare).

TRADUZIONE DI ANDREA ZANZOTTO CON UNO SCRITTO DI MAURICE BLANCHOT

Retro di copertina: Georges Bataille, 1957. Fotografia di André Bonin.


TESTI E DOCUMENTI
48
GEORGES BATAILLE
SU NIETZSCHE
TRADUZIONE DI ANDREA ZANZOTTO
CON UNO SCRITTO DI MAURICE BLANCHOT
Titolo originale: Sur Nietzsche
© I973 ÉDITIONS GALLIMARD
© I994 e 2006 SE SRL VIA MANIN 13 - 20121 MILANO
INDICE
SU NIETZSCHE
NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA PREFAZIONE
PRIMA PARTE. IL SIGNOR NIETZSCHE
SECONDA PARTE. IL CULMINE E IL DECLINO
TERZA PARTE. DIARIO
Febbraio-aprile 1944. La « tazza da tè », lo « Zen » e « L’essere amato » Aprile-giugno 1944. La
posizione della chance Giugno-luglio 1944. Il tempo Agosto 1944. Epilogo
APPENDICE
I    Nietzsche e il nazionalsocialismo
II    L’esperienza interiore di Nietzsche
III    L’esperienza interiore e la setta Zen
IV    Risposta a Jean-Paul Sartre
(difesa de « l’expérience intérieure »)
V    Nulla, trascendenza, immanenza
VI    Surrealismo e trascendenza
POSTFAZIONE di Maurice Blanchot
SU NIETZSCHE
Entra Giovanni con un cuore infilzato alla
punta del suo pugnale
GIOVANNI Non meravigliatevi se i vostri cuori pieni di timori raccapricciano a questo
vano spettacolo. Da che pallido spavento, da che vile ira i vostri sensi sarebbero stati afferrati se voi
foste stati presenti al furto di vita e di bellezza da me compiuto! Sorella, oh, mia sorella!
FLORIO Che c’è?
GIOVANNI La gloria del mio atto ha spento il sole di mezzogiorno e ha fatto meriggio della notte...
Ford, Peccato che sia una sgualdrina
NOTA ALL’EDIZIONE ITALIANA
Nel presentare l’edizione italiana di Sur Nietzsche di Georges Bataille, è necessario fare alcune
precisazioni in merito alle citazioni tratte dalle opere di Nietzsche che compaiono nel testo. Di
queste citazioni viene data la trascrizione italiana delle versioni francesi che Bataille aveva
sott’occhio e che in genere risultano accurate e attendibili. Tale criterio è stato seguito soprattutto
per conservare intatta la particolare natura del rapporto fra i due scrittori. Si tratta quindi di una
scelta metodologica che trova la sua giustificazione anche in relazione al carattere del lavoro
letterario di Bataille e specialmente di quest’opera.
Bataille non dà indicazioni, o le dà imprecise, sulle versioni francesi delle opere di Nietzsche da lui
utilizzate o consultate per questo lavoro. Esse probabilmente sono le seguenti:
F.N. - Œuvres posthumes - Trad. H. Bolle, Paris, Mercure de France, 1934.
F.N.- La volonté de puissance - Texte établi par E Wurzbach, trad. G. Bianquis (tome II), Paris,
N.R.F., 1937 (parziale indicazione di Bataille). Si è lasciato anche in italiano sotto il titolo
tradizionale Volontà di potenza questo gruppo di frammenti.
F.N.
- Le Gai Savoir - Trad. H. Albert, Paris, Société du Mercure de France (diverse edizioni dal
1901 in poi).
F.N. - Le Gai Savoir - Trad. A. Vialatte, Paris, N.R.F., 1939 (meno probabile).
F.N. - Ecce homo - Trad. A. Vialatte, Paris, N.R.F., 1937 (parziale indicazione di Bataille).
F.N.- Ainsi parlait Zarathoustra - Trad. H. Albert, Paris, Société du Mercure de France (diverse
edizioni dal 1898 in poi).
F.N. - Ainsi parlait Zarathoustra - Trad. M. Betz, Paris, N.R.F., 1936.
PREFAZIONE
I
Volete riscaldarvi a me? Vi consiglio di non avvicinarvi troppo: potreste bruciarvi le mani. Perché,
vedete, sono troppo ardente. A fatica impedisco alla mia fiamma di divamparmi fuori dal corpo.
1886-18881
Ciò che mi obbliga a scrivere, penso, è la paura di diventar pazzo.
Soffro di una aspirazione ardente, dolorosa, che perdura in me come un desiderio inappagato.
La mia tensione somiglia, in un certo senso, a una voglia pazza di ridere, differisce poco dalle
passioni di cui bruciano gli eroi di Sade, e tuttavia è vicina a quella dei martiri e dei santi...
Non posso dubitarne: questo delirio manifesta in me il carattere umano. Ma, bisogna dirlo, porta
allo squilibrio e mi priva penosamente di riposo. Ardo e mi disoriento, e infine resto vuoto. Posso
propormi azioni grandi e necessarie, ma nessuna basta alla mia febbre. Parlo di una preoccupazione
morale: la ricerca di un obiettivo il cui valore superi quello di tutti gli altri!
Paragonato ai fini morali proposti di solito, questo obiettivo è incommensurabile, ai miei occhi:
questi fini sembrano sbiaditi e fallaci. Ma sono proprio essi quelli che potrei tradurre in azioni (non
sono forse determinati come esigenza di azioni definite?).
È vero: il perseguire un bene limitato conduce talora al culmine verso il quale tendo. Ma attraverso
un giro vizioso. Lo scopo morale è allora distinto dall’eccedenza di cui è l’occasione. Gli stati di
gloria, i momenti sacri che svelano l’incommensurabile, oltrepassano i risultati cui si tendeva. La
morale comune pone questi risultati sullo stesso piano delle finalità del sacrifìcio. Un sacrificio
esplora il fondo dell’essere, e la distruzione che lo garantisce rivela il suo lacerare. Ma viene
esaltato per uno scopo banale. Una morale tende sempre al bene degli esseri.
(Le cose sono cambiate apparentemente quel giorno in cui Dio fu rappresentato come unico vero
fine. Sicuramente si dirà: l’incommensurabile di cui parlo, in realtà è soltanto la trascendenza di
Dio. Tuttavia questa trascendenza è, a mio parere, ima fuga dal mio obiettivo. Nulla è cambiato, in
fondo, se si considera l’appagamento dell’Essere celeste invece che quello di esseri umani! La
persona di Dio modifica ma non elimina il problema. Introduce soltanto la confusione: l’essere,
sotto la specie di Dio, può darsi a volontà una figura incommensurabile, quando occorra. Non
importa: si serve Dio, si agisce per suo conto: Egli è dunque riducibile ai fini ordinari dell’azione.
Se si ponesse più in là noi non potremmo fare nulla per Lui.)

2
L ’aspirazione estrema, incondizionata, dell’uomo è stata espressa per la prima volta da Nietzsche a
prescindere da un fine morale e dal servizio di un Dio.
Nietzsche non può definirla con precisione ma essa lo anima, egli la assume sotto tutti gli aspetti. Ardere senza
rispondere a qualche imperativo morale, espresso drammaticamente, è certo un paradosso. È impossibile
predicare o agire partendo da queste premesse. Ne deriva un risultato sconcertante. Se di imo stato d’ardore
noi non facciamo più la condizione di un altro, successivo e dato come bene attingibile, lo stato proposto
sembra una pura folgorazione, uno struggimento vuoto. Non potendo metterlo in rapporto con
un’acquisizione, come la forza e l’espansione di una città (o di un Dio, di una chiesa, di un partito), questo
struggimento non è neppure comprensibile. Il valore positivo di una perdita può essere dato, in
apparenza, solo in termini di vantaggio.
Nietzsche non ebbe chiara coscienza di questa difficoltà. Dovette constatare il suo fallimento: seppe
alla fine che aveva parlato al deserto. Eliminando l’obbligo, il bene, denunciando il vuoto e la
falsità della morale, distruggeva il valore d’efficacia del linguaggio. La fama tardò e poi, quando
venne, egli non potè più far nulla. Nessuno rispondeva alla sua attesa.
Oggi credo di dover dire: quelli che lo leggono e lo ammirano, lo scherniscono, ed egli lo seppe, lo
disse.2 Escluso me? (semplifico). Ma tentare di seguirlo come lui chiedeva significa abbandonarsi
alla stessa prova, allo stesso suo smarrimento.
Questa totale liberazione del possibile umano quale egli l’ha definita, è, di tutti i possibili, il solo
che non sia stato tentato (e mi ripeto, semplificando: salvo che da me[?]). Al punto attuale della
storia io penso che ogni concepibile dottrina sia stata già predicata, e che, in qualche misura, il suo
insegnamento abbia avuto un effetto. Nietzsche, a sua volta, ha concepito e predicato una nuova
dottrina, si è messo in cerca di discepoli, sognava di fondare un ordine: e odiò ciò che ottenne...
banali lodi!
Oggi trovo giusto affermare il mio smarrimento: ho cercato di trarre da me stesso le conseguenze di
una chiara dottrina, che mi affascinava come la luce: ho ricavato quasi sempre angoscia e
l’impressione di soccombere.

3
Ma anche soccombendo non lascerei l’aspirazione di cui ho parlato. O piuttosto questa aspirazione
non potrebbe lasciarmi: morirei, ma non tacendo per questo (credo almeno): augurerei a quelli che
amo di resistere o di soccombere a loro volta.
C’è nell’essenza dell’uomo una tensione violenta, verso l’autonomia, la libertà dell’essere. Libertà
certo interpretabile in diversi modi: ma chi oggi si stupirebbe che si muoia per essa? Le difficoltà
che incontrò Nietzsche -abbandonando Dio e il bene eppure continuando a bruciare del fuoco di
coloro che per Dio e per il bene si fecero uccidere - le incontrai anch’io a mia volta. La solitudine
scuorante ch’egli ha descritto ora mi toglie le forze. Ma la rottura con le entità morali dà all’aria che
respiro una verità così grande che preferirei vivere da paralizzato o morire piuttosto che ricadere
nella schiavitù.
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Ammetto, nel momento in cui scrivo, che una ricerca morale il cui fine sia al di là del bene porti
dapprima al disorientamento. Nulla mi accerta ancora che si possa superare la prova. Questa
confessione, fondata su un’esperienza dolorosa, mi autorizza a ridere di chiunque confonda la
posizione di Nietzsche con quella di Hitler, sia per attaccarla sia per farla propria.
« A che altezza è la mia dimora? Mai ho contato, salendo, i gradini che conducono fino a me: dove
cessano tutti i gradini là è il mio tetto e la mia dimora » (1882-1884; citato in Volontà di potenza).
Così si esprime un’esigenza che non tende ad alcun bene raggiungibile e che altrettanto consuma
colui che la vive.
Voglio farla finita con un equivoco volgare: è spaventoso veder ridurre a livello di propaganda un
pensiero rimasto comicamente senz’uso e che apre soltanto il vuoto a coloro che se ne ispirano.
Nietzsche avrebbe avuto secondo taluni massima influenza sui nostri tempi. C’è da dubitarne:
nessuno aspettava lui per infischiarsene delle leggi morali. Egli non ebbe, particolarmente, alcuna
inclinazione per la politica, rifiutava di scegliere qualsiasi partito politico, e si irritava che lo si
credesse di destra o di sinistra. Non poteva sopportare l’idea che il suo pensiero fosse subordinato a
qualche causa.
I suoi decisi sentimenti in politica risalgono all'allontanamento da Wagner, alla delusione che provò
il giorno in cui Wagner manifestò davanti a lui la volgarità tedesca, Wagner socialista, gallofobo,
antisemita... Lo spirito del Secondo Reich, soprattutto nelle sue tendenze prehitleriane, di cui
l’antisemitismo è l’emblema, era ciò che disprezzava di più. La propaganda pangermanista lo
disgustava.
« Voglio far tabula rasa » scrisse. « Una delle mie ambizioni è anche di esser considerato lo
spregiatore dei tedeschi per eccellenza. Ho già espresso, all’età di ventisei anni, la diffidenza che mi
ispirava il loro carattere (terza "Considerazione inattuale”, p. 71): i tedeschi sono per me qualcosa
d’impossibile, quando cerco di immaginare un tipo di uomini che ripugna a tutti i miei istinti,
finisco sempre col rappresentarmi un tedesco » (Ecce homo). Se ben si riflette, sul piano politico,
Nietzsche fu il  profeta, l’annunciatore della grossolana fatalità tedesca. La denunciò per primo.
Esecrò la chiusa follia, carica d’odio e contenta di se stessa, che dopo il 1870 si impadronì degli
animi tedeschi e die culmina oggi nella furia hitleriana. Mai più mortale errore fuorviò un popolo
intero, lo destinò più crudelmente all’abisso. Ma egli si staccò da questa massa predestinata,
rifiutando di partecipare all’orgia della « contentezza di sé ». Questo suo rigore non fu senza
conseguenze. La Germania decise di ignorare un genio che non la adulava. Soltanto la sua fama
all’estero gli attirò tardivamente l’attenzione dei suoi... Non credo che esista un più bell’esempio
dell’ignorarsi reciproco tra un uomo e il suo paese: non è preoccupante che una nazione intera, per
quindici anni, sia rimasta sorda a tale voce? Oggi, noi che assistiamo alla rovina, siamo costretti a
compiacerci di un fatto: nel momento in cui la Germania si inoltrò per strade che dovevano
condurre al peggio, il più saggio e il più ardente dei tedeschi si allontanò da essa: ne provò orrore, e
non potè dominare il suo sentimento. Tuttavia bisogna riconoscere, dall’attuale prospettiva, che da
una parte e dall’altra, sia nell’aberrazione sia nel tentativo di sfuggirle, vi è l’impossibilità di una
via d’uscita: non è strano?
Nietzsche e la Germania, opposti l’uno all’altra, hanno avuto infine lo stesso destino: speranze
insensate li agitarono entrambi, invano. Ma all’infuori di questa tragica vanità dell’agitarsi, tutto tra
loro si strappa e si odia. Le somiglianze non contano. Se non si fosse scelto di schernire Nietzsche,
di fame ciò che lo avviliva di più, una lettura rapida, un comodo uso - senza nemmeno abbandonare
le posizioni che egli osteggia - la sua dottrina sarebbe considerata quello che è: il più vecchio dei
corrosivi. Farne un sostegno di cause che essa svaluta non è soltanto ingiuriarla, è calpestarla, dar
prova che la si ignora, mentre ci si dà l’aria di amarla. Chi provasse, come ho fatto io, a giungere ai
limiti del possibile cui essa richiama, diventerebbe a sua volta un campo di infinite contraddizioni.
Nella misura nella quale seguisse questo insegnamento del paradossale, vedrebbe che non è
più possibile per lui abbracciare una delle cause già dette: la sua solitudine sarebbe completa.

5
In questo libro scritto disordinatamente non ho sviluppato questo punto di vista nella teoria. Credo
perfino che uno sforzo di tal genere sarebbe infirmato da grossolanità. Nietzsche scrisse « col suo
sangue »: chi ne fa la critica o piuttosto lo prova può farlo soltanto sanguinando a sua volta.
Scrivevo col desiderio che il mio libro apparisse possibilmente in occasione del centenario della
nascita (15 ottobre 1844). Lo scrissi da febbraio ad agosto, sperando che la fuga dei tedeschi ne
rendesse possibile la pubblicazione. L’ho cominciato col porre teoricamente il problema (è la
seconda parte, p. 45), ma questo breve scritto è in fondo soltanto un racconto di esperienza
vissuta: un’esperienza di vent’anni, alla lunga caricatasi di terrore. A questo proposito, penso che sia
utile dissipare un equivoco: Nietzsche sarebbe stato il filosofo della « volontà di potenza »; come
tale egli si poneva, come tale è accettato. Io credo ch’egli sia piuttosto il filosofo del male. Il
fascino, il valore del male, mi sembra, per lui diedero senso a ciò che voleva dire quando parlava di
potenza, Se non fosse stato così, come si potrebbe spiegare questa affermazione?
IL GUASTAGUSTO A.:« Sei un corruttore del gusto, lo dicono tutti! ». B.: « Certo! Io guasto a ognuno il
gusto che ha per il suo partito: appunto ciò nessun partito mi perdona ». (La gaia scienza)
Questa osservazione, tra molte altre, è assolutamente inconciliabile con i comportamenti pratici
politici, tratti dal principio della «volontà di potenza». Nietzsche provò avversione per quello che,
mentre egli era vivo, si ordinò nel senso di questa volontà. Se non avesse avuto il gusto - e perfino
subito la necessità - di calpestare la morale imposta, sono sicuro che avrebbe ceduto al disgusto che
ispirano i metodi dell’oppressione (la polizia). Il suo odio per il bene è giustificato da lui come la
condizione stessa della libertà. Io personalmente, senza farmi illusioni sul peso del mio
atteggiamento, sento di oppormi e mi oppongo a ogni forma di costrizione: non per questo rinuncio
a designare il male come oggetto di una ricerca morale estrema. Perché il male è il contrario della
costrizione, la quale in teoria viene esercitata in vista di un bene. Il male non è sicuramente ciò che
una ipocrita serie di malintesi ha voluto farne: in fondo, non è forse libertà concreta, la torbida
violazione di un tabù?
L’anarchismo m’irrita, soprattutto le dottrine grossolane che fanno l’apologia dei delinquenti
comuni. Le pratiche della Gestapo, messe in piena luce, mostrano l’affinità profonda che unisce la
teppa alla polizia: nessuno è più portato a torturare, a servire crudelmente l’apparato della
costrizione di quanto lo siano uomini senza fede né legge. Detesto anche quei deboli, dallo
spirito confuso, che domandano tutti i diritti per l’individuo: i limiti di un individuo non sono posti
soltanto dai diritti degli altri, ma ben più duramente da quelli del popolo. Ogni uomo è solidale col
popolo, ne condivide le.sofferenze o le conquiste, le sue fibre sono parte di ima massa vivente (non
per questo è meno solo nei momenti gravi).
Tali pesanti difficoltà dell’opposizione collettività-individuo e bene-male, e in generale queste folli
contraddizioni dalle quali di solito usciamo soltanto negandole, possono venire trionfalmente
superate, mi sembra, soltanto da un colpo di fortuna verificatosi nell’audacia del gioco. Questo
sprofondare dove soccombe la vita portata avanti fino ai limiti del possibile non può escludere una
probabilità di passare. Ciò che una saggezza logica non è in grado di risolvere potrebbe forse esser
condotto a buon fine da un’audacia senza limiti, che non indietreggi né si volga più alle spalle. Per
questa ragione, potevo scrivere soltanto con la mia vita questo libro, progettato su Nietzsche, dove
volevo porre ed, eventualmente, risolvere il problema intimo della morale.
Soltanto la mia vita, con le sue risorse risibili, poteva tendere a continuare in me la ricerca di quel
Graal che è la chance.3 E questo sembra corrispondere più esattamente della potenza alle intenzioni
di Nietzsche. Solo il « gioco » aveva la virtù di condurre molto avanti l’esplorazione del possibile,
senza pregiudicarne i risultati, dando solo al futuro, al suo libero verificarsi, il potere che di solito si
dà al partito preso, il quale è soltanto una forma del passato. Il mio libro, è, sotto un certo
aspetto, di giorno in giorno, il racconto di colpi di dadi gettati, debbo dirlo, con forze scarsissime.
Mi scuso per la parte di interessi privati, veramente comica quest’anno, che le pagine del mio diario
tirano in ballo, non ne soffio, rido volentieri di me stesso e non conosco miglior mezzo di perdermi
nell’immanenza.

6
Il piacere che ho di essere e di sapermi ridicolo non può tuttavia andar così oltre da lasciarmi
disorientare chi mi legge. Il problema essenziale dibattuto in questo libro disordinato (e che doveva
esserlo) è quello che Nietzsche ha vissuto e che la sua opera aspirava a risolvere, quello dell’uomo
totale.
« La maggioranza degli uomini, » egli scrive « sono un’immagine frammentaria e particolare
dell’uomo; bisogna addizionarli per ottenere un uomo. Epoche intere, popoli interi hanno in questo
senso qualcosa di frammentario; forse è necessario alla crescita dell’uomo che egli si sviluppi pezzo
per pezzo. Quindi bisogna ammettere che, in fondo, si tratta sempre di produrre l’uomo sintesi; gli
uomini inferiori, la stragrande maggioranza, sono soltanto i preludi e gli esercizi preliminari dal
cui armonico gioco sorge qua e là l’uomo totale simile a una pietra miliare che indichi dove è
arrivata l’umanità fino a quel momento » (1887-1888; citato in Volontà di potenza).
Ma che cosa significa questa frammentazione, o meglio quale ne è "la causa se non questo bisogno
di agire die specializza, e limita dentro l’orizzonte di una data attività? Anche se è di interesse
generale, e questo di solito non succede, l’attività che subordina ciascuno dei nostri istanti a qualche
risultato preciso cancella il carattere totale dell’essere. Chi agisce mette al posto di quella ragion
d’essere che è lui stesso uno scopo particolare, e nei casi meno specifici la grandezza di uno stato, il
trionfo di un partito. Ogni azione specializza, per il solo fatto che non v’è azione se non limitata.
Una pianta di solito non agisce, non è specializzata, si specializza ingoiando mosche!
Posso esistere totalmente soltanto superando in qualche maniera lo stadio dell’azione. Altrimenti
sarò soldato, rivoluzionario di professione, scienziato, non « l’uomo totale ». Lo stato frammentario
dell’uomo è in fondo come la scelta di un obiettivo. Quando un uomo limita i suoi desideri, per
esempio, all’impadronirsi del potere nello stato, agisce, sa ciò che deve fare. Poco importa che
fallisca: immediatamente inserisce il suo essere con vantaggio nel tempo. Ogni suo istante diventa
utile. In ogni momento gli è data la possibilità di procedere verso il fine prescelto: il suo tempo
diventa un cammino verso tale fine (ed è tutto questo che abitualmente si chiama vivere). Lo stesso
accade se ha come fine la sua salvezza. Ogni azione rende l’uomo un essere frammentario. Posso
conservare in me il carattere d’integralità soltanto rifiutando di agire, o almeno negando la
preminenza del tempo riservato all’azione.
Soltanto se non è subordinata a un soggetto preciso che la supera, la vita rimane integrale. La
totalità in questo senso ha come essenza la libertà. Tuttavia non posso voler diventare un uomo
totale per il solo fatto di lottare per la libertà. Anche se questa lotta è l’attività che preferisco fra
tutte, non potrei confondere in me lo stato di integralità e la mia lotta. L’esercizio positivo della
libertà e non la lotta negativa contro una oppressione particolare mi innalzò al di sopra
dell’esistenza mutilata. Ognuno di noi impara amaramente che lottare per la propria libertà è, prima
di tutto, alienarla.
Come ho già detto, l’esercizio della libertà sta dalla parte del male, mentre la lotta per la libertà è la
conquista di un bene. Se la vita in me è intera, in quanto tale, io non posso metterla al servizio di un
bene, del bene di un altro o di Dio o del mio bene, senza spezzettarla. Non posso acquisire ma
soltanto dare, e dare senza tener conto, senza che mai un dono abbia per fine l'interesse
di qualcuno. (Ritengo a questo proposito il bene di un altro un falso scopo perché se voglio il bene
di un altro lo faccio per trovare il mio, a meno che non lo identifichi addirittura col mio. La totalità
è in me questa esuberanza: una aspirazione vuota, un desiderio doloroso di struggersi senz’altra
ragione che il desiderio stesso — e la totalità lo è interamente — di bruciare. In ciò essa è la
voglia di ridere di cui ho parlato, questo prurito di piacere, di santità, di morte... Non ha più compiti
da assolvere.)

7
Un problema così strano è concepibile soltanto se vissuto.
È facile contestarne il senso dicendo: infiniti compiti ci sono imposti. Proprio nel tempo presente.
Nessuno pensa a negare l’evidenza. Ma è altrettanto vero che la totalità dell’uomo, come termine
inevitabile, appare fin da ora per due ragioni. La prima negativa: la specializzazione, in tutti i campi
si accentua al punto da mettere in allarme. La seconda: anche compiti schiaccianti appaiono
tuttavia, ai nostri giorni, nei loro limiti precisi.
Un tempo l’orizzonte era oscuro, l’obiettivo importante era prima di tutto il bene di una città, ma la
città si confondeva con gli dèi. L’obiettivo era in seguito la salvezza dell’anima. In entrambi i casi
l’azione mirava, da una parte, ad uno scopo limitato raggiungibile, dall’altra a una totalità definita
come inaccessibile quaggiù (trascendente). L’azione nella situazione moderna ha scopi precisi, del
tutto adeguati al possibile: la totalità dell’uomo non ha più carattere mitico. Chiaramente
accessibile, essa si rimette all’espletamento di compiti dati e definiti materialmente. Ma è lontana:
questi compiti sottomettendo gli animi li frammentano. Non per questo è meno individuabile.
La totalità che il lavoro necessario fa abortire in noi si dà proprio in questo lavoro. Non come uno
scopo - lo scopo è cambiare il mondo, portarlo alla misura dell’uomo - ma come un risultato
ineluttabile. Quale esito del cambiamento, l’uomo-legato-al-compito-di-cambiare-il-mondo, che è
soltanto un aspetto frammentario dell’uomo, sarà trasformato lui stesso in uomo totale.
Questo risultato, pur lontano come sembra per l’umanità, è descritto dal compito definito-:non ci
trascende come gli dèi (la città sacra) né come la sopravvivenza dell’anima; è nell’immanenza
dell’uomo-legato... Possiamo pensarci più tardi: ci è tuttavia contiguo; se gli uomini non possono
nella loro esistenza comune averne fin d’ora chiara coscienza, ciò che li separa da questa nozione
non è né il fatto di essere uomini (e non dèi) né quello di non essere morti: è solo un obbligo
momentaneo.
Così un uomo in battaglia deve soltanto (provvisoriamente) pensare a piegare il nemico. Certo non
esiste lotta violenta senza che nelle fasi di tregua vi subentrino preoccupazioni del tempo di pace.
Ma al momento, queste preoccupazioni sembrano secondarie. Gli animi più duri partecipano a
questi attimi di distensione attenti a sminuirne la serietà. Si ingannano, in tal senso: la serietà, in
fondo non è forse la ragione per la quale il sangue scorre? Ma non c’è niente da fare: bisogna che la
serietà sia il sangue; e bisogna che la vita libera, senza lotta, svincolata dalle necessità dell’azione e
non frammentaria, appaia sotto una luce di frivolezza: in un mondo liberato dagli dèi, dalla
preoccupazione della salvezza, perfino la « tragedia » è solo un divertimento - una distensione
subordinata a scopi cui mira soltanto un’attività.
Questo modo d’entrare - dalla porta di servizio - della ragion d’essere degli uomini ha più di un
vantaggio. In questa maniera l’uomo integrale si rivela prima di tutto nell’immanenza, a livello di
una vita frivola. Dobbiamo ridere di lui, fosse anche profondamente tragico. Ecco una prospettiva
liberatrice: egli acquista la peggiore semplicità, la nudità. Sono riconoscente - senza commedia -
verso coloro il cui atteggiamento austero e la cui vita a contatto con la morte definiscono me come
uomo vuoto che si perde in inutili fantasticherie (ed io la penso come loro). In fondo l’uomo
integrale è solo un essere in cui si annulla la trascendenza, da cui niente è più separato: un po’
burattino, un po’ Dio, un po’ pazzo... è la trasparenza.
8
Se voglio realizzare la mia totalità nella coscienza, devo riferirmi alla immensa, comica, dolorosa convulsione
di tutti gli uomini. Questo movimento va in tutti i sensi. Certo un’azione sensata (diretta a uno scopo preciso)
attraversa questa incoerenza, ma proprio tale azione dà all’umanità del mio tempo (come a quella del passato)
l’aspetto frammentario. Se dimentico per un istante questo senso dato, vedo piuttosto la somma
shakespeariana, tragicomica delle bizzarrie, delle menzogne, dei dolori e delle risate; la coscienza di una
totalità immanente si fa luce in me, ma come una lacerazione: l’intera esistenza è situata al di là di un
senso, è la presenza cosciente dell’uomo nel mondo in quanto egli è nonsenso, e non ha altro da fare
se non essere quello che è, non potendo più superarsi, attribuirsi un qualunque senso nell’azione.
Questa coscienza di totalità si riferisce a due modi opposti di usare un’espressione. Nonsenso è di
solito una semplice negazione, si dice di un oggetto che bisogna sopprimere. L’intenzione che
rifiuta ciò che è privo di senso è infatti il rifiuto di essere totali, per questo rifiuto noi non abbiamo
coscienza della totalità dell’essere in noi. Ma se dico nonsenso con l’intenzione contraria di cercare
un oggetto libero di senso, non nego nulla, enuncio l’affermazione nella quale tutta la vita si
illumina infine nella coscienza.
Ciò che va verso questa coscienza di una totalità, verso questa totale amicizia dell’uomo verso se
stesso, è giustamente ritenuto in fondo mancante di serietà. Seguendo questa strada mi espongo allo
scherno, acquisisco l’inconsistenza di tutti gli uomini (presi insieme, e messo da parte ciò che
conduce a grandi cambiamenti). In questo modo non voglio render ragione della malattia
di Nietzsche (a quanto sembra era di origine somatica): bisogna però dire che un primo movimento
verso l’uomo totale è equivalente alla follia. Abbandono il bene e abbandono la ragione (il senso),
mi spalanco sotto i piedi l’abisso da cui mi separavano l’attività e i giudizi che essa connette.
Almeno, la coscienza della totalità è dapprima in me disperazione e crisi. Se abbandono le
prospettive dell’azione, mi si rivela la mia perfetta nudità. Sono al mondo senza aiuto, senza
appoggio, sprofondo. Non c’è altra soluzione che un’incoerenza senza fine, dove mi potrà condurre
soltanto la mia « chance ».

9
Evidentemente si può compiere un’esperienza così disarmante solo dopo aver tentato, compiuto
tutte le altre, e aver esaurito ogni possibilità. Di conseguenza essa non potrebbe riguardare
l’umanità intera che come ultima risorsa. Soltanto un individuo molto isolato può compierla ai
nostri giorni col favore del disordine dello spirito, e insieme di un vigore inconcusso. Se ha fortuna,
può realizzare nell’incoerenza un equilibrio imprevisto: credo che la « volontà di potenza » non
raggiunga in alcun modo quel divino stato di equilibrio che traduce in una semplicità ardita e
funzionante senza tregua il contrasto profondo ma danzato sulla corda. Se mi si capisce, la « volontà
di potenza », considerata come un termine, sarebbe ritornare indietro. Seguendola, ritornerei
alla frammentazione servile. Mi prefiggerei di nuovo un dovere e il bene che è la potenza voluta mi
dominerebbe. L’esuberanza divina, la leggerezza che esprimevano il riso e la danza di Zarathustra si
riassorbirebbero; invece che alla felicità sospesa sull’abisso, sarei ancorato alla pesantezza, alla
servilità della Kraft durch Freude.4 Mettendo da parte l’equivoco della « volontà di potenza »,
il destino che Nietzsche riservava all’uomo lo pone al di là della lacerazione: non è possibile tornare
indietro e da ciò deriva l’impervietà profonda della dottrina. L’abbozzo di un’attività, la tentazione
di elaborare uno scopo e una politica giungono nelle note del Nietzsche postumo soltanto a un
labirinto. L’ultimo scritto portato a termine, l'Ecce homo, afferma l’assenza di uno scopo,
l’insubordinazione dell’autore ad ogni progetto. Situata nella prospettiva dell’azione, l’opera di
Nietzsche è un aborto - dei più impossibili a difendersi - e la sua è una vita mancata, come la vita di
chi tenta di realizzare gli scritti di lui.
10
Di ciò non si dubiti neppure un attimo-, non si è capita una sola parola dell’opera di Nietzsche
prima di aver vissuto questa smagliante dissoluzione nella totalità: al di fuori di questo, tale filosofia
è solo un dedalo di contraddizioni, peggio ancora un pretesto a menzogne per omissione (se, come i
fascisti, si isolano passi per fini che il resto dell’opera nega). Vorrei che ora mi si seguisse con più
attenzione. Lo si sarà indovinato: la critica che precede è la forma mascherata dell’approvazione.
Essa giustifica questa definizione dell’uomo totale: l’uomo la cui vita è una festa « immotivata » e
festa in tutti i sensi della parola, riso, danza, orgia, che non si subordinano mai, sacrificio che se ne
infischia dei fini, materiali e morali.
Quanto precede introduce la necessità di una dissociazione. Gli stati estremi, collettivi o individuali,
erano motivati una volta da fini. Di questi, alcuni non hanno più senso (l’espiazione, la salvezza). Il
bene delle collettività ora non è più cercato con mezzi di dubbia efficacia, ma direttamente con
l’azione. Gli stati estremi in queste condizioni ricaddero nel campo dell’arte, e ciò non fu privo di
inconvenienti. La letteratura (l’immaginario) si è sostituita a ciò che era prima la vita spirituale, la
poesia (il disordine delle parole) agli stati di trance reali. L’arte costituisce un piccolo campo libero
al di fuori dell’azione, e paga la sua libertà con la rinuncia al mondo reale. Questo prezzo è alto e
non ci sono scrittori che non sognino di ritrovare il reale perduto: ma per questo devono pagare
nell’altro senso, rinunciare alla libertà e servire una propaganda. L’artista che si limita al puro
immaginario sa di non essere un uomo totale, ma la stessa cosa accade per il letterato di
propaganda. Il campo delle arti abbraccia in un certo senso la totalità mentre questa gli sfugge in
ogni caso.
Nietzsche è ben lungi dall’aver risolto la difficoltà. Anche Zarathustra è un poeta e in più una
finzione letteraria! Ma non lo accettò mai. Le lodi lo esasperarono. Si agitò, cercò la soluzione in
tutti i sensi. Non perse mai il filo d’Arianna che è il non avere alcun fine e il non servire alcuna
causa: la causa, egli lo sapeva, tarpa le ali. Ma d’altra parte, l’assenza di causa ributta nella
solitudine: è la malattia del deserto, il grido che si perde in un grande silenzio...
La comprensione alla quale invito intrappola decisamente nella stessa mancanza di via d’uscita:
essa presuppone lo stesso supplizio entusiasta. Immagino necessario in questo senso invertire l’idea
di eterno ritorno. Non è la promessa di infinite ripetizioni quella che lacera, ma questo: gli istanti
afferrati nell’immanenza del ritorno appaiono improvvisamente come scopi. Non si dimentichi che
gli istanti sono, da tutti i sistemi, considerati e assegnati come mezzi: ogni morale dice: « ciascun
istante della vostra vita sia motivato ». Il ritorno toglie il motivo all’istante, libera la vita dai fini e
con questo, in primo luogo, la rovina. Il ritorno è il modo drammatico e la maschera dell’uomo
totale: è il deserto dell’uomo per il quale ogni istante si trova ormai immotivato.
È mutile cercare una scappatoia: bisogna infine scegliere, da un lato un deserto, dall’altro una
mutilazione. La miseria non può essere deposta come un fardello. Sospesi nel vuoto, i momenti
estremi sono seguiti da depressioni che nessuna speranza addolcisce. Se però arrivo ad una
coscienza chiara di ciò che è vissuto in questo modo, non posso più cercare una via d’uscita dove
non ce n’è (per questo, tenevo alla mia critica). Come si può non attribuire conseguenze all’assenza
di scopo inerente al desiderio di Nietzsche? Inesorabilmente la chance - e la ricerca della chance -
rappresentano un solo ricorso (e di questo il libro ha descritto le vicissitudini). Ma procedere così,
con rigore, implica nel movimento stesso una necessaria dissociazione.
Se è vero che nel senso in cui lo si intende abitualmente, l’uomo d’azione non può essere un uomo
totale, l’uomo totale conserva una possibilità di agire. Ma a patto di ridurre l’azione a fini e princìpi
che le appartengono in proprio (in una parola, alla ragione). L’uomo totale non può essere trasceso
(dominato) dall’azione: perderebbe la sua totalità. Per contro non può trascendere l’azione
(subordinarla ai suoi fini): in questo modo si definirebbe in un motivo, entrerebbe, si annullerebbe,
nell’ingranaggio delle motivazioni. Bisogna distinguere da un lato il mondo dei motivi, dove ogni
cosa è sensata (razionale) e dall’altro il mondo del non-senso (libero da ogni senso). Ognuno di noi
appartiene per un aspetto al primo, per un altro al secondo. Possiamo distinguere chiaramente e
coscientemente ciò che appare connesso soltanto nell’ignoranza. Dal mio punto di vista, la ragione
può essere limitata solo da se stessa. Se operiamo, sbagliamo al di fuori dei motivi di equità e di
ordine razionale degli atti. Tra i due campi, c’è un solo rapporto ammissibile: l’azione deve essere
limitata razionalmente  da un principio di libertà.5
Il resto è silenzio.
1Le citazioni di Nietzsche sono date senza il nome dell’autore; le indicazioni si riferiscono alle note
postume. [N.d.A.]
2 Vedi più avanti, a p. 40. [N.d.A.]
3 Bataille usa il termine « chance » in un’accezione propria (da lui chiarita nel corso di questo
stesso libro) comprendente i significati comuni di « fortuna », « possibilità di riuscita », « possibilità
di vincita in un gioco », « buona sorte », ecc., ma anche quello del tutto particolare che esprime la
situazione metafisico-esistenziale analizzata in quest’opera. Si è preferito pertanto conservare il
termine originario anche nella traduzione. [N.d.T.]
4 « Forza attraverso la gioia »: motto dell’organizzazione dopo lavoristica nazista. [N.d.T.]
5 Ciò avviene in quanto la pane del fuoco, della pazzia, dell’uomo totale - la parte maledetta - è
accordata (concessa dal di fuori) dalla ragione secondo norme liberali e « ragionevoli ». E qui è la
condanna del capitalismo come modo di attività irrazionale. A partire da quando l’uomo totale (la
sua irrazionalità) si riconosce come esterno all’azione, da quando vede in ogni possibilità di
trascendenza una trappola e la perdita della sua totalità, avviene la rinuncia, nel campo dell’attività,
alle forme di dominio irrazionali (feudali, capitaliste). Nietzsche ha certo presentito la necessità del
loro abbandono senza scorgerne la causa. L’uomo può essere totale solo rinunciando a darsi
come finalità per gli altri: se no si rende schiavo, e di fatto resta nei limiti feudali o borghesi, al di
qua della libertà. Nietzsche, i vero, ammetteva ancora la trascendenza sociale, la gerarchia. Dire:
non c’è nulla di sacro nell’immanenza, significa questo: dò che era sacro non deve più servire.
L’avvento della libertà è il tempo del riso: « Vedere affondare le nature tragiche e poterne ridere...
» (si oserebbe forse applicare la proposta ai fatti attuali? Invece di impegnarci in nuove
trascendenze morali...). Nella libertà, l’abbandono, l’immanenza del riso, Nietzsche eliminava in
anticipo dò che lo legava ancora (il suo immoralismo giovanile) alle forme volgari della
trascendenza - che sono libertà nella schiavitù. Il partito preso del male è quello della libertà, « la
libertà, l’affrancamento da ogni inceppo ». [N.d.A.]
PRIMA PARTE
IL SIGNOR NIETZSCHE
Ma lasciamo da parte il signor Nietzsche...
La gaia scienza
I
Io vivo, a ben vedere, in mezzo a uomini strani, ai cui occhi la terra, i suoi casi e l’immenso gioco
degli animali, mammiferi, insetti, sono più alla misura dell’illimitato, del perduto,
dell’inintelligibile celeste, che di se stessi o delle necessità da cui sono limitati. Per questi ridenti
esseri, il signor Nietzsche è in teoria un problema secondario... ma c’è...
Questi uomini, evidentemente, esistono poco... bisogna che lo dica subito.
Con poche eccezioni, la mia compagnia sulla terra è quella di Nietzsche.
Blake o Rimbaud sono grevi e adombrati.
L’innocenza di Proust, l’ignoranza dei venti esteriori, nella quale volle tenersi, lo limitano.
Soltanto Nietzsche si è reso mio compagno - dicendo noi. Se la comunità non esiste, il signor
Nietzsche è un filosofo.
Mi dice: « Se noi non consideriamo la morte di Dio una grande rinuncia ed una perpetua vittoria su
noi stessi, dovremo pagare per questa perdita » (1882-1886; citato in Volontà di potenza).
Questa frase ha un senso: la vivo immediatamente fino in fondo.
Non possiamo basarci su nulla.
Ma soltanto su di noi.
Una responsabilità comica incombe su di noi e ci opprime.
Fino ai nostri giorni, gli uomini si appoggiavano, in ogni evenienza, gli uni agli altri, o su Dio.
Ascolto nel momento in cui scrivo un rumoreggiare di tuono e il mugolio del vento; in agguato
indovino lo
scoppio, il lampo, gli uragani terrestri attraverso i tempi. In quest’era, in questo cielo illimitati,
percorsi da fragori, che danno la morte semplicemente come il mio cuore dà il sangue, mi sento
portato via da un moto vivace, talvolta troppo violento. Dalle imposte della mia finestra passa un
vento infinito che porta con sé lo scatenarsi dei combattimenti, il dolore infuriato dei secoli. Perché
non ho anch’io una furia che richiede sangue e la cecità necessaria alla passione del colpire? Vorrei
essere niente altro che un grido di odio - esigente la morte - e non esisterebbe nulla di più bello che i
cani straziantisi l’un l’altro - ma sono stanco, febbricitante...
« Ora tutta l’aria è ardente, il respiro della terra è infuocato. Ora voi passeggiate nudi, buoni e
cattivi. E per l’uomo perdutamente innamorato della conoscenza, è una festa » (1882-1884; citato in
Volontà di potenza).
« I pensatori sotto l’influenza di astri dalle orbite cicliche non sono i più profondi, colui che guarda
in se stesso come in un universo immenso, e porta in sé vie lattee, sa anche quanto tutte le vie lattee
siano irregolari; esse conducono fino al caos ed al labirinto dell’esistenza » (La gaia scienza, 322).
II
Una malasorte mi dà il sentimento del peccato: non ho dunque il diritto di mancare la chance, la
buonasorte.
La rottura della legge morale era necessaria a questa esigenza. (Come era facile la morale antica in
confronto a questo atteggiamento rigoroso!)
Ora comincia un viaggio duro, inesorabile - alla ricerca del più lontano possibile.
Una morale che non è la conquista di un possibile oltre il bene non è forse derisoria?
« Negare il merito ma fare ciò che supera ogni lode, anzi ogni comprensione » (1885-1886; citato in
Volontà di potenza).
« Se vogliamo creare, dobbiamo concederci una libertà maggiore di quella che ci sia mai stata data,
dunque liberarci dalla morale e rallegrarci con feste. (Presentimenti del futuro! Celebrare il futuro e
non il passato! Inventare il mito del futuro! Vivere nella speranza!) Momenti fortunati! e poi
lasciare ricadere il sipario e ricondurre i nostri pensieri a obiettivi solidi e vicini! » (1882-1886;
citato in Volontà di potenza).
Il futuro, non il prolungamento di me stesso nel tempo, ma il verificarsi di un essere che va più
lontano superando i limiti raggiunti.
III
... L’altezza a cui sì colloca lo mette in relazione con i solitari e i misconosciuti di tutti ì tempi.
1882-188;
« Dove ci troveremo, solitari fra solitari - perché questo saremo certamente un giorno, per effetto
della conoscenza - dove troveremo un compagno per l’uomo? un tempo cercavamo un re, un padre,
un giudice per tutti, perché mancavamo di re, di padri, di giudici veri. Poi cercheremo un amico - gli
uomini saranno diventati splendori e sistemi autonomi, ma saranno soli. L’istinto mitologico sarà
allora alla ricerca di un amico » (1881-1882; citato in Volontà ài potenza).
« Noi renderemo la filosofia pericolosa, ne trasformeremo la nozione, insegneremo una filosofia
che sia un pericolo per la vita; come potremmo servirla meglio? Un’idea è tanto più cara
all’umanità quanto più le costa. Se nessuno esita a sacrificarsi alle idee di “Dio”, di “Patria”, di
“Libertà”, se tutta la storia è fatta soltanto del fumo che circonda questo genere di sacrifici, come
si potrebbe dimostrare la preminenza del concetto di “filosofia” su questi concetti popolari, “Dio”,
“Patria”, “Libertà”, se non nel suo costare più caro di essi, nel suo esigere maggiori ecatombi? »
(1888; citato in Volontà di  potenza).
Rovesciata, questa proposizione resta degna d’interesse: in quanto nessuno si dispone a morire per
essa, la dottrina di Nietzsche è non esistente.
Se avessi un giorno l’occasione di scrivere col sangue le ultime parole, scriverei: « Tutto ciò che ho
vissuto, detto, scritto - ciò che amavo - lo immaginavo comuni-
cato. Senza di questo non avrei potuto viverlo. Vivendo solitario, parlare in un deserto di lettori
isolati! accettare la letteratura - lo sfiorare appena! Quel che ho potuto fare io, e nient’altro, era di
mettermi in gioco e, nelle mie firasi, cado come gli infelici che oggi senza fine giacciono stesi per i
campi ». Desidero che si rida, che si alzino le spalle, e si dica: « Lui se ne infischia di me,
sopravvive ». È vero, sopravvivo, ora sono perfino pieno di alacrità, ma affermo: « Se ti è sembrato
che non fossi, senza riserve, tutto in gioco nel mio libro, gettalo; e, reciprocamente, se leggendomi
non trovi nulla che ti metta in gioco - ascoltami: per tutta la tua vita, fino all’ora di cadere - la tua
lettura finisce di corrompere in te... un corrotto ».
« IL TIPO DEI MIEI DISCEPOLI - A tutti coloro (he mi interessano, auguro la sofferenza, l’abbandono, la
malattia, i maltrattamenti, il disonore; auguro che non sia risparmiato loro né il profondo
autodisprezzo né il martirio della diffidenza verso se stessi; non ho affatto pietà di loro... » (1887;
citato in Volontà di potenza).
Tutto ciò che riguarda l’umano esige la continuità di coloro che lo vogliono. Ciò che vuole andar
lontano esige sforzi congiunti, o almeno susseguentisi l’un l’altro, che non si fermino al possibile di
uno solo. La solitudine di un uomo è un errore, anche se egli avesse voluto troncare i legami
intorno a sé. Una vita è soltanto l’anello di ima catena. Voglio che altri continuino l’esperienza
che prima di me altri hanno cominciata, che altri si votino come me, come altri prima di me, alla
mia stessa prova: andare fino ai limiti del possibile.
Ogni frase è destinata al museo nella misura nella quale vi persista un vuoto letterario.
È orgoglio degli uomini attuali il fatto che nulla di loro si possa intendere se prima non è stato
deformato e svuotato di contenuto da questo o da quel meccanismo: la propaganda, la letteratura!
Come una donna, il possibile ha le sue esigenze: vuole che si vada con esso fino in fondo.
Girando da amatori per le gallerie, sui pavimenti tirati a cera di un museo dei possibili, alla lunga
uccidiamo in noi ciò che non è brutalmente politico, limitandolo allo stato di lussuosi miraggi
(etichettati, datati).
Nessuno se ne rende cosciente senza che la vergogna tosto non lo disarmi.
Vivere un possibile fino in fondo richiede uno scambio fra molti, che l'assumano come un fatto a
loro esterno e non dipendente più da alcun singolo tra loro.
Nietzsche non dubitò che l’esistenza del possibile da lui proposto esigesse una comunanza.
Il desiderio di una comunanza lo agitava senza posa.
Scrisse: « Il colloquio a tu per tu con un grande pensiero è insopportabile. Cerco e chiamo uomini ai
quali poter comunicare questo pensiero senza che ne muoiano ». Cerca, senza mai trovare «
un’anima abbastanza profonda ». Dovette rassegnarsi, ridursi a dire a se stesso: « Dopo un tale
richiamo scaturito dagli abissi dell’animo, non udire alcun suono di risposta è
un’esperienza tremenda di cui anche l’uomo più forte può perire: questo mi ha liberato da ogni
legame con gli uomini vivi ».
La sua sofferenza si esprime in varie note...
« Ti prepari al momento in cui dovrai parlare. Forse avrai allora vergogna di parlare, come hai
talvolta vergogna di scrivere, forse sarà ancora necessario che ti interpreti, forse le tue azioni e le
tue astensioni non basteranno a comunicarti! Verrà un’epoca della cultura in cui sarà di cattivo
gusto leggere molto; allora non ci sarà più motivo che tu abbia vergogna di esser letto; mentre
ora, tutti quelli che ti considerano uno scrittore ti offendono; e chiunque ti lodi per i tuoi racconti
rivela una mancanza di tatto, scava un fossato tra lui e te; non capisce fino a che punto si umilia
credendo in questo modo di esaltarti. Conosco lo stato d’animo degli uomini attuali quando
leggono: ohibò! Voler lavorare e affaticarsi per
produrre un simile stato » (1881-1882; citato in Volontà di potenza).
« Gli uomini che hanno destini, quelli che portando se stessi portano destini, tutta la razza dei
facchini eroici oh! come vorrebbero talvolta riposarsi di se stessi! Come hanno sete di cuori forti, di
spalle vigorose che li liberassero almeno per qualche ora da quanto gli pesa addosso! E come è vana
questa sete!... Aspettano, rimpiangono tutto ciò che gli passa davanti. Nessuno gli viene incontro
neppure con la millesima parte della loro sofferenza e della loro passione, nessuno indovina fino a
che punto sono in attesa... Infine, molto tardi, imparano questa regola di prudenza elementare: non
aspettare più, sopportare tutto... insomma ancora un po’ più di quanto avevano sopportato fino
allora » (1887-1888; citato in Volontà di potenza).
La mia vita con Nietzsche è una comunità, il mio libro è questa comunità.
Prendo queste righe per me:
« Non voglio diventare un santo, preferisco che mi si prenda per un burattino... Forse sono un
burattino... Tuttavia - anzi, non “tuttavia”, perché non c’è stato ancora nulla di bugiardo come i santi
- la verità parla attraverso la mia bocca... ».
Non toglierò la maschera a nessuno...
Che sappiamo di Nietzsche, in fondo?
Obbligati a un senso di disagio, a silenzi... Odiando i cristiani... Per non parlare degli altri!...
E poi... siamo così poco!
IV
Nulla parla al cuore più vivacemente di quelle allegre melodie che sono di una tristezza assoluta.
1888
« Questo spirito sovrano che basta ora a se stesso perché è ben difeso e fortificato contro ogni
sorpresa, lo detestate per i suoi bastioni e il suo mistero, e tuttavia lo adocchiate curiosando
attraverso le inferriate d’oro con cui ha chiuso la sua proprietà, appunto perché siete sedotti: infatti
un profumo vago e sconosciuto vi soffia sottilmente sul viso e lascia indovinare qualcosa dei
giardini e delle delizie nascoste » (1885-1886; citato in Volontà di potenza).
« C’è un falso aspetto dell’allegria contro il quale non si può far nulla; ma colui che lo adotta non
può far altro che accontentarsene. Noi che ci siamo rifugiati nella felicità, noi che abbiamo in
qualche modo bisogno del mezzogiorno e di una folle sovrabbondanza di sole, noi che ci sediamo al
margine della strada per veder passare la vita, simile a un corteo di maschere, a uno spettacolo che
toglie senso, non sembriamo forse aver coscienza di una cosa che temiamo? C’è qualcosa in noi che
si spezza facilmente. Temiamo forse le mani puerili e distruttrici? Forse per evitare il rischio ci
rifugiamo nella vita? nel suo splendore, nella sua falsità, nella sua superficialità, nella sua cangiante
menzogna? Se sembriamo allegri, è forse perché siamo infinitamente tristi? Siamo seri, conosciamo
l’abisso - forse per questo ci difendiamo da tutto ciò che è serio? Sorridiamo fra noi della gente
dai gusti malinconici nei quali indoviniamo una mancanza di profondità - ahimè, li invidiamo pur
burlandoci di loro - perché non siamo abbastanza felici da poter per-
metterci la loro delicata tristezza: il nostro inferno e le nostre tenebre ci sono sempre troppo vicini.
Sappiamo una cosa che temiamo, con la quale non vogliamo restare a quattro occhi; crediamo a
qualcosa il cui peso ci fa tremare, il cui bisbiglio ci fa impallidire - quelli che non vi credono ci
sembrano felici. Noi distogliamo lo sguardo dagli spettacoli tristi, ci tappiamo le orecchie ai lamenti
di chi soffre; la pietà ci spezzerebbe se non sapessimo indurirci. Resta strenuamente al nostro
fianco, noncuranza beffarda! Rinfrescaci, alito che sei passato sui ghiacciai! Non ci preoccuperemo
più di nulla, sceglieremo la maschera come divinità suprema e redentrice » (1885-1886; dtato in
Volontà di potenza).
« Grande discorso cosmico: “Io sono la crudeltà, sono l’inganno” ecc. Beffarsi della paura di
assumere la responsabilità di uno sbaglio (beffa del creatore) e di tutta l’infelicità. Più cattivi di
quanto lo si sia mai stati ecc. ecc. - Forma suprema di contentezza della propria opera; egli la spezza
per ricostruirla senza stancarsi. Nuovo trionfo sulla morte, il dolore, l’annientamento » (1882-1886;
citato in Volontà di potenza).
« Certo! Amerò soltanto quello che è necessario! Certo l'amor fati sarà il mio ultimo amore! ». -
Forse arriverai fin là, ma prima dovrai amare le Furie: confesso che i loro serpenti mi farebbero
esitare. - « Che ne sai tu, delle Furie? Furie, non è che il nome sgradevole delle Grazie! ». - « È
pazzo! » (1881-1882; citato in Volontà di potenza).
« Dar prova della potenza e della sicurezza acquisite mostrando che “si è disimparato ad aver
paura”; scambiare la diffidenza e il sospetto con la fiducia nei nostri istinti; amare e onorare se
stessi nella propria saggezza e perfino nella propria assurdità; essere un po’ pagliacci, un po’ dèi; né
faccia tetra né gufo; né serpe... » (1888; citato in Volontà di potenza).
V
Quale fu sino ad oggi il più grande peccato? Non fu forse la parola di colui che disse: « Guai a chi
ride quaggiù! »...
Zarathustra, L'uomo superiore
« Friedrich Nietzsche aveva sempre desiderato scrivere un’opera classica, un libro di storia, sistema
o poema, degno degli antichi greci che aveva scelto come maestri. Non aveva mai potuto dar corpo
a questa ambizione. Alla fine di quell’anno 1883, aveva appena compiuto un tentativo quasi
disperato; l’abbondanza, l’importanza di queste note ci permette di misurare la grandezza di
un lavoro che fu completamente vano. Non potè né fondare il suo ideale morale, né comporre il suo
poema tragico; nello stesso momento fallisce nelle sue due opere e vede svanire il suo sogno. Che
cos’è? Un infelice, capace di brevi sforzi, di canti lirici e di gridi » (Daniel Halévy, La vie de F.
Nietzsche, p. 285).
« Nel 1872, mandava alla signora di Meysenburg la serie interrotta delle sue conferenze sul futuro
delle Università: “Tutto questo dà una terribile sete” diceva “e niente da bere” (ibidem, p. 288). Le
stesse parole si possono riferire al suo poema » (ibidem, p. 288).
SECONDA PARTE
CULMINE E IL DECLINO
... qui nessuno si insinuerà al tuo seguito! I tuoi passi stessi hanno cancellato il sentiero dietro di te,
e sopra il tuo sentiero sta scritto: Impossibile!
Zarathustra, Il viandante
I    problemi che introdurrò riguardano il bene e il male nei loro rapporti con l’essere o gli esseri.
II    bene è dato inizialmente come bene per un essere. Il male sembra un danno portato -
evidentemente a qualche essere. Può darsi che il bene sia il rispetto degli esseri e il male la loro
violazione. Se queste asserzioni hanno un qualche senso, posso ricavarle dai miei sentimenti.
D’altra parte, in modo contraddittorio, il bene è legato al disprezzo dell’interesse che gli esseri
hanno per se stessi. Secondo una concezione secondaria, ma che ha la sua funzione nell’insieme dei
sentimenti, il male sarebbe l’esistenza degli esseri — in quanto implica la loro separazione.
Sembra facile conciliare queste forme opposte: il bene sarebbe l’interesse degli altri.
Effettivamente, è possibile che tutta la morale si basi su un equivoco e derivi da slittamenti.
Ma prima di trattare i problemi implicati nell’enunciato precedente mostrerò l’opposizione sotto
un’altra luce.
I
Il Cristo crocifisso è il più sublime di tutti i simboli - anche ora.
188J-1886

Ho intenzione di opporre non più il bene al male ma « il culmine morale », che è altra cosa dal
bene, al « declino », che non ha nulla a che vedere col male e la cui necessità determina invece le
modalità del bene.
Il culmine corrisponde all’eccesso, all’esuberanza delle forze. Porta al massimo d’intensità
tragica. È connesso al  dispendio d’energia senza misura, alla violazione dell’integrità degli esseri.
È dunque più vicino al male che al bene.
Il declino, che corrisponde ai momenti di sfinimento, di fatica, dà il massimo valore alla
preoccupazione di conservare e di arricchire l’essere. Da esso dipendono le regole morali.
Prima di tutto mostrerò nel culmine che è il Cristo in croce l’espressione più equivoca del male.
Il supplizio di Gesù è considerato un male dalla cristianità.
È il più grande peccato che sia stato mai commesso.
Questo peccato ha anche la caratteristica di essere illimitato. I criminali non sono soltanto gli attori
del dramma: la colpa incombe su tutti gli uomini. Quando un uomo commette il male, e ogni uomo
per parte sua è obbligato a farlo, mette il Cristo in croce.
I carnefici di Pilato hanno crocifisso Gesù ma il Dio che essi inchiodarono alla croce fu messo a
morte per sacrificio: l’agente del sacrificio è il Delitto che, senza interruzione, dopo Adamo,
commettono i peccatori. Quanto la vita umana nasconde di orrìbile (ciò che essa
porta di lercio e d’impossibile nei suoi recessi, il male condensato nel suo fetore) ha violato il bene
in modo così perfetto che è impossibile immaginare qualcosa che gli si avvicini.
Il supplizio del Cristo reca offesa all’essenza di Dio.
Tutto avvenne come se le creature potessero comunicare con il loro Dio soltanto per mezzo di una
ferita che ne lacerasse l’integrità.
La ferita è voluta, desiderata da Dio.
Gli uomini che gliela arrecarono non sono per ciò meno colpevoli.
D’altronde - fatto assai strano - questa colpevolezza è la ferita che lacera l’integrità di ogni essere
colpevole.
In questo modo, Dio ferito dalla colpevolezza degli uomini e gli uomini feriti dalla loro
colpevolezza verso Dio, trovano, ma faticosamente, Punita che sembra il loro fine.
Se avessero conservato la loro rispettiva integrità, se gli uomini non avessero peccato, Dio da un
lato e gli uomini dall’altro sarebbero rimasti nel loro isolamento. Una notte di morte, in cui il
Creatore e le creature insieme sanguinarono, si straziarono a vicenda e si posero in questione sotto
ogni aspetto - al limite estremo della vergogna - è stata necessaria alla loro comunione.
Così la « comunicazione » senza la quale, per noi, nulla esisterebbe, è assicurata dal delitto. La «
comunicazione » è l'amore e l’amore sporca quelli che unisce.
L’uomo raggiunge nella crocefissione il culmine del male. Ma proprio per averlo raggiunto ha
cessato di esser separato da Dio. Da questo si vede che la « comunicazione » degli esseri è
assicurata dal male. L’essere umano senza il male sarebbe ripiegato su se stesso, rinchiuso nella sua
sfera indipendente. Ma l’assenza di « comunicazione » - la solitudine vuota - sarebbe certamente un
male peggiore.
La situazione degli uomini è scoraggiante.
Essi debbono « comunicare » (con l’esistenza infinita
e tra loro); l’assenza di « comunicazione » (l’egoistico ripiegamento su se stessi) è evidentemente
più degna di condanna. Ma, poiché la « comunicazione » non può realizzarsi senza ferire o
insozzare gli esseri, è colpevole pur essa. Il bene, in qualsiasi modo lo si consideri, è il bene degli
esseri: ma se si vuole raggiungerlo, bisogna porre in questione - nella notte, per mezzo del male -gli
esseri per i quali lo vogliamo.
Un principio fondamentale resta così espresso:
La « comunicazione » non può avvenire da un essere pieno e intatto a un altro: essa vuole esseri in
cui si trovi posto in gioco l’essere - in loro stessi - al limite della morte, del nulla;1 il culmine
morale è un momento in cui si mette in gioco, si sospende l’essere al di là di se stesso, al limite del
nulla.
2
... l’uomo è il più crudele degli animali. Finora, si è sentito più a suo agio a questo mondo
assistendo a tragedie, a combattimenti di tori ed a crocifissioni; e quando inventò l’inferno, ne fece
in realtà il suo paradiso...
Zarathustra, II convalescente
È importante per me dimostrare che nella « comunicazione », nell’amore, il desiderio ha come
oggetto il nulla.
Così è in ogni « sacrificio ».
In generale il sacrificio, e non solo quello di Gesù, sembra aver dato il senso di un delitto:2 il
sacrificio è dalla parte del male, è un male necessario al bene.
Non si potrebbe del resto capire il sacrificio se non vi si vedesse il mezzo con il quale gli uomini,
universalmente, « comunicavano » tra loro, e anche con le ombre di cui popolavano gli inferi o il
cielo.
Per rendere più sensibile il legame tra « comunicazio-
ne » e peccato - tra sacrifìcio e peccato - rammenterò che il desiderio, cioè il desiderio sovrano, che
rode, e nutre l’angoscia, impegna l’essere a cercare l’aldilà di se stesso.
L’aldilà del mio essere è prima di tutto il nulla. Presagisce la mia assenza nella lacerazione, nel
sentimento penoso di un vuoto. La presenza altrui si rivela attraverso questo sentimento. Ma essa è
pienamente rivelata soltanto se l’altro, da parte sua, si china egli pure sull’orlo del suo nulla, o se vi
cade (se muore). La comunicazione avviene solo tra due esseri messi in gioco - lacerati,
sospesi, chini entrambi sul loro nulla.
Questo modo di vedere spiega contemporaneamente il sacrifìcio e l’opera della carne. Nel sacrifìcio
alcuni uomini si uniscono, mandandolo a morte, a un dio personificato da un essere vivente, vittima
animale o umana (con questo si uniscono anche fra loro). Colui che sacrifica - e il pubblico - si
identificano in qualche modo con la vittima. Così, al momento del supplizio si affacciano sul
proprio nulla. Afferrano nello stesso tempo il loro dio scivolando nella morte. La devoluzione di
una vittima (come nell’olocausto in cui è bruciata) coincide col colpo che riceve il dio. Parzialmente
il dono mette in gioco l’essere dell’uomo. A lui è dunque lecito, per un istante, unirsi all’essenza
della divinità che la morte ha nello stesso tempo messa in gioco.

3
Sarebbe orribile credere ancora al peccato; in realtà, tutto dò che facciamo, dovessimo ripeterlo
mille volte, è innocente.
1881-1882
Più spesso che l’oggetto sacro, il desiderio ha come obiettivo la carne e, nel desiderio della carne,
il gioco della « comunicazione » appare rigorosamente nella sua complessità.
L’uomo, nell’atto carnale, supera sporcando - e sporcandosi - il limite degli esseri.
II desiderio sommo degli esseri ha come oggetto l’aldilà dell’essere. L’angoscia è il sentimento di
un pericolo legato a questa inesauribile attesa.
Nel campo della sensualità, un essere carnale è oggetto del desiderio. Ma ciò che attira in
quest’essere carnale non è direttamente l’essere, è la sua ferita: è un punto di rottura della integrità
del corpo e l’orifizio della sozzura. Questa ferita non mette in gioco proprio la vita, ma soltanto la
sua integrità, la sua purezza. Non uccide ma insudicia. Ciò che rivela la sozzura non è
essenzialmente molto diverso da ciò che rivela la morte; il cadavere e l’escremento esprimono il
nulla, l’uno e l’altro; il cadavere da parte sua partecipa della sozzura. Un escremento è una parte
morta di me stesso, che devo ributtare facendola sparire, terminando di distruggerla. Tuttavia,
nella sensualità come nella morte, non è propriamente il nulla ciò che attira. Ciò che ci avvince,
nella morte, ciò che ci lascia oppressi ma silenziosamente invasi da un senso di presenza - o di
vuoto - sacri, non è il cadavere come tale. Se vediamo (o immaginiamo) quale orrore è in realtà la
morte - cadavere senza compostura, putredine - sentiamo solo disgusto. Il religioso rispetto, la
venerazione calma, e perfino dolce, in cui indugiamo, è legata ad aspetti artificiali - come
l’apparente serenità dei morti, ai quali una bendatura di due ore ha chiuso la bocca. Così pure nella
sensualità, la trasposizione è necessaria al fascino del nulla. Noi abbiamo orrore per
l’escrezione, perfino un disgusto insormontabile. Ci limitiamo a subire il fascino dello stato in cui
essa avviene - della nudità che può essere attraente, se così scegliamo, per la grana della pelle, per
la purezza delle forme. L’orrore dell’escrezione fatta di nascosto, nella vergogna, e in più
la bruttezza formale degli organi, costituiscono l’oscenità dei corpi - zona di nulla die dobbiamo
superare e senza la quale la bellezza non avrebbe quel tanto di sospeso, di messo in gioco, che ci
danna. La nudità leggiadra, voluttuosa trionfa finalmente in questo mettere in gioco che viene
realizzato dalla sozzura (in altri casi, la nudità fallisce, rimane brutta, completamente al livello del
sudicio).
Se ora evoco la tentazione (spesso indipendente dall’idea di peccato: spesso infatti resistiamo per
timore di conseguenze spiacevoli), io scorgo, sotto accusa, il prodigioso mettersi in movimento
dell’essere nei giochi carnali.
La tentazione colloca lo scarto sessuale di fronte alla noia. Non sempre siamo in preda alla noia: la
vita riserva possibilità di numerose comunicazioni. Ma se questa possibilità viene a mancare, allora
la noia rivela ciò che è il nulla dell’essere rinchiuso in se stesso. Se non comunica più, un essere
isolato intristisce, deperisce e sente (oscuramente) che da solo, non esiste. Questo nulla interno,
senza via d’uscita, senza alcuna attrattiva, lo respinge: egli soccombe al malessere della noia e la
noia dal nulla interno lo rigetta in quello esterno, all'angoscia.
Nello stato di tentazione, questo rigetto - nell’angoscia - indugia senza fine in questo nulla davanti
al quale ci mette il desiderio di comunicare. Se prendo in considerazione, indipendentemente dal
desiderio, e per così dire in se stesso, il nulla dell’oscenità, scorgo soltanto il segno sensibile,
percettibile, di un limite in cui l’essere viene a mancare. Ma nella tentazione questo nulla esterno
sembra una risposta alla sete di comunicare.
Il senso e la realtà di questa risposta sono facili a determinarsi. Io comunico soltanto al di fuori di
me, lasciandomi andare o gettandomi fuori. Ma al di fuori di me non esisto più. Ho questa certezza:
abbandonando l’essere in me, cercandolo al di fuori, rischio di rovinare - o di distruggere - ciò che è
condizione dello stesso apparirmi dell’esistenza esterna, quell’io senza il quale nulla esisterebbe di
« ciò che è per me ». L’essere, nella tentazione, si trova per così dire stritolato dalla duplice tenaglia
del nulla. Se non comunica si distrugge - nel vuoto che è la vita quando ci si isola. Se vuole
comunicare, rischia egualmente di perdersi.
Certo si tratta soltanto di sozzura e la sozzura non è la morte. Ma se cedo in condizioni spregevoli -
come pagando una prostituta - pur non morendo sarò comunque rovinato, scaduto davanti a me
stesso: la cruda oscenità roderà in me l’essere, la sua natura di escremento la-
scerà una traccia, davanti a questo nulla che la sozzura porta seco, che avrei dovuto rifiutare a ogni
costo, separare da me, sarò indifeso, disarmato, mi aprirò a esso con una spossante ferita.
La lunga resistenza nella tentazione fa risaltare con chiarezza questo aspetto della vita carnale. Ma
in ogni forma di sensualità entra lo stesso elemento. La comunicazione, per quanto debole, esige un
mettere in gioco. Essa avviene soltanto nella misura nella quale gli esseri seri, protesi al di fuori di
se medesimi, si giocano sotto la minaccia del decadimento. Per questo anche gli esseri più puri non
ignorano le sentine della sensualità comune (non possono restarle estranei, in qualunque misura
ne partecipino). La purezza alla quale si attaccano significa che una parte inafferrabile, infima, di
ignominia basta a perderli: essi presagiscono, nell’estrema avversione, ciò che da un altro è portato
a fondo. Tutti gli uomini, infine, imbecilliscono per le stesse cause.

4
Andava bene, a quel predicatore per piccola gente, soffrire e sopportare il peccato degli uomini.
Quanto a me, mi rallegro del grande peccato come della mia grande consolazione.
Zarathustra, L'uomo superiore
... il bene supremo e il male supremo sono identici.
1885-1886
Gli esseri, gli uomini, possono comunicare - vivere -soltanto al di fuòri di se stessi. E siccome
devono « comunicare », devono volere questo male, la sozzura, che mettendo in loro stessi in gioco
l’essere, li rende reciprocamente compenetrabili.
Una volta scrivevo (Expérience intérieure, p. 147): « Ciò che tu sei è connesso all’attività che
unisce gli innumerevoli elementi di cui sei formato, all’intensa comunicazione di questi elementi tra
di loro. Sono contagi
d’energia, di moto, di calore, o i trapassi d’elementi che costituiscono internamente la vita di ogni
essere organico. La vita non è mai posta in un punto particolare: passa rapidamente da un punto
all’altro (o da punti multipli ad altri punti) come una corrente o una specie di elettrico flusso... ». E
più avanti (p. 148): « La tua vita non si limita a questo inafferrabile flusso interno; trabocca anche al
di fuori e s’apre senza posa a ciò che scorre o sprizza verso di essa. Il vortice durevole di cui sei
ornato urta contro vortici simili, con i quali compone una vasta figura animata da una misurata
agitazione. Ora, vivere significa per te non soltanto i flussi e i giochi fuggenti di luce che si
unificano in te, ma i passaggi di calore o di luce da un essere all’altro, da te al tuo simile e dal tuo
simile a te (anche nel momento stesso in cui mi leggi, questo contagio della mia febbre che ti
raggiunge): le parole, i libri, i monumenti, i simboli, le risa sono altrettante vie di questo contagio,
di questi scambi... ».
Ma tali ardenti cammini si sostituiscono all’essere soltanto se esso accetta, se non di annullarsi,
almeno di mettersi in gioco - e, con lo stesso movimento, mette in gioco gli altri.
Ogni « comunicazione » partecipa del suicidio o del delitto.
L’orrore funebre l’accompagna, il disgusto ne è il segno.
E il male appare - sotto questa luce - come una fonte di vita!
Rovinando in me stesso, negli altri, l’integrità dell’essere, mi apro alla comunione, posso giungere
al culmine morale.
E il culmine non è subire, è volere il male. È accordo volontario col peccato, con il delitto, il male.
Con un destino che richiede senza tregua che alcuni vivano, altri muoiano.
5
Si è creduto tutto questo! E lo si è chiamato morale! Écrasez l’infâme!
Sono stato capito? Dioniso contro il Crocifìsso...
Ecce homo
Distinguere i casi è un impoverimento: persino una minima riserva offende la sorte. Ciò che per uno
è solo l’eccesso nocivo all’eccesso stesso, non lo è per un altro, situato più in là. Posso considerare
alcunché di umano come estraneo a me? Puntata la minima somma, apro una prospettiva infinita di
maggiore offerta.
In questo mobile sfondo si può intravedere un culmine.
Come il punto più alto - il grado più intenso - di fascino per se stessa, che la vita possa definire.
Una specie di splendore solare; indipendente dalle conseguenze.
Sopra ho parlato del male quale mezzo di cui dobbiamo far uso se vogliamo « comunicare ».
Affermavo: « l’essere umano, senza il male, si sarebbe ripiegato su se stesso »; oppure: « il
sacrificio è il male necessario al bene »; più avanti: « ... il male appare... come una fonte di vita! ».
Introducevo così un rapporto fittizio. Lasciando vedere nella « comunicazione » il bene dell’essere,
riportavo la « comunicazione » all’essere, che appunto essa supera. In quanto « bene dell’essere
», bisogna dire per la verità che « comunicazione », male e culmine sono ridotti ad una schiavitù
che non possono subire. I concetti stessi di bene o di essere fanno apparire una durata mentre
preoccuparsene è, per essenza, estraneo al male - al culmine. Quanto è voluto nella «
comunicazione » è per essenza il superamento dell’essere. Ciò che si rifiuta, per essenza, nel male è
la preoccupazione per il futuro. In questo senso l’aspirazione al culmine - il moto del male — è in
noi alla luce di ogni etica. Una morale in sé non ha valore che tenendo conto del superamento
dell’essere - ributtando la preoccupazione del futuro.
Una morale vale in tanto in quanto ci propone il metterci in gioco. Altrimenti è solo ima regola
d’interesse, al-
la quale manca l’elemento di esaltazione (la vertigine del culmine, che la pochezza battezza con un
nome servile: imperativo).
Nel confronto con queste proposizioni, l’essenza della « morale volgare » è messa in evidenza nel
modo più chiaro specie riguardo ai disordini sessuali.
In quanto certi uomini si prendono la responsabilità di dare ad altri una regola di vita, devono
appellarsi al merito e proporre come finalità il bene dell’essere, che trova compimento nel futuro.
Se la mia vita è in gioco per un bene raggiungibile -come per il mio paese, per qualche causa utile -
la mia condotta è meritoria e comunemente considerata morale. E per le stesse ragioni, ucciderò e
distruggerò in conformità alla morale.
In altro campo, è male dilapidare sostanze col gioco, o col bere, ma è bene migliorare le condizioni
dei poveri.
Il sacrificio cruento è pure esecrato (spreco crudele). Ma il più grande odio della spossatezza ha
come oggetto la libertà dei sensi.
La vita sessuale considerata in rapporto ai suoi fini è quasi interamente eccesso - irruzione selvaggia
verso un culmine inaccessibile. È esuberanza che si oppone nell’essenza alla preoccupazione del
futuro. Il nulla dell’oscenità non può essere subordinato. Il fatto di non essere distruzione di
esistenza ma concezione che risulta provocata da un contatto, accresce la riprovazione invece di
attenuarla. Nessun merito può esserle attribuito. Il culmine erotico non è raggiunto, come quello
eroico, a prezzo di dure sofferenze. In apparenza i risultati non hanno rapporto con le fatiche.
Sembra contare soltanto la fortuna. La fortuna, la chance agisce nel disordine delle guerre, ma lo
sforzo, il coraggio, lasciano una parte notevole al merito. Gli aspetti tragici della guerra, opposti alle
comiche sudicerie dell’amore, elevano ancor più il tono di ima morale che esalta la guerra - e i suoi
bene-
fici economici... - soffocando la vita sensuale. Non so se ho fin qui illuminato con sufficiente
chiarezza l’ingenuità del partito-preso moralistico. L’argomento che ha più peso è l’interesse delle
famiglie, evidentemente danneggiate dall’eccesso sensuale. Si mette in mostra penosamente una
preoccupazione per l’integrità degli esseri, continuamente confusa con l’asprezza
dell’aspirazione morale.
L’essenza di un atto morale è, secondo l’opinione comune, di trovarsi asservito a un utile - di
riferire al bene di qualche singolo essere un movimento in cui l’essere aspira invece a superare
l’essere. In questa prospettiva la morale non diventa altro che la negazione della morale. Il risultato
di questo equivoco è di opporre il bene altrui a quello dell’uomo che sono: tale sbavatura conduce
infatti alla coincidenza di un disprezzo superficiale con una profonda sottomissione al servizio
dell’essere. Il male è l’egoismo e il bene l’altruismo.

6
La « morale » è spossatezza.
1882-1885
Questa morale non è tanto la risposta ai nostri ardenti desideri di un culmine quanto uno
sbarramento opposto a questi desideri. Siccome la spossatezza viene presto, il consumo disordinato
di energia a cui ci impegna la preoccupazione di infrangere il limite dell’essere è sfavorevole alla
conservazione, cioè al bene di questo essere. Si tratti di sensualità o di delitto, sono implicate
catastrofi sia da parte di chi agisce che da quella delle vittime.
Non voglio dire che la sensualità e il delitto rispondano sempre (o anche soltanto di solito) al
desiderio di un culmine. La sensualità persegue il suo disordine banale -e senza vera forza —
attraverso esistenze in semplice moi-
lezza: nulla di più comune. Ciò che con naturale avversione chiamiamo piacere non è in fondo il
subordinare ad esseri grevi quegli eccessi di gioia ai quali altri più leggeri hanno accesso per
rovinarsi? Un delitto da cronaca nera ha ben poco a che vedere col torbido fascino di un sacrifìcio:
il disordine che introduce non è voluto per quello che è, ma è messo al servizio di interessi illegali,
non molto diversi, se si osserva sottilmente, dagli interessi più alti. Però le regioni straziate del vizio
e del delitto indicano pur sempre il culmine verso il quale tendono le passioni.
Quali erano i momenti più alti della vita selvaggia? in che cosa si traducevano liberamente le nostre
aspirazioni? Le feste la cui nostalgia ancora ci anima, erano il tempo del sacrificio e dell’orgia.

7
La felicità che troviamo nel divenire è possibile soltanto nell’« annientamento » della realtà,
dell’esistenza, della bella apparenza, nella distruzione pessimistica dell’illusione - la felicità
dionisiaca raggiunge il suo punto più alto nell’annientamento dell’apparenza, anche della più bella.
1885-1886
Se ora prendo in considerazione alla luce dei princìpi esposti l’estasi cristiana, mi è agevole
scorgerla come un solo movimento che partecipa dei furori di Eros e del delitto.
Più di ogni altro fedele, un mistico cristiano crocifìgge Gesù. Il suo amore stesso esige da Dio che
Egli sia messo in gioco, che gridi la sua disperazione sulla croce. Il delitto dei santi è eroico per
eccellenza. Esso è legato a quegli slanci, a quelle tortuose febbri che introducevano gli ardori
dell’amore nella solitudine dei conventi.
Questi aspetti di estrema lacerazione che colpiscono nella preghiera ai piedi della croce non sono
estranei agli stati mistici non cristiani. L’origine degli stati mistici è
sempre il desiderio e l’amore che lo muove ha sempre, in qualche punto, come obiettivo la
distruzione degli esseri. Il nulla che agisce negli stati mistici è ora il nulla del soggetto, ora quello
dell’essere, considerato per entro la totalità del mondo: il tema della notte d’angoscia si ritrova sotto
altra forma nelle meditazioni asiatiche.
Lo stato di trance mistica, con qualsiasi confessione abbia a che fare, si strugge a superare il limite
dell’essere. La sua intima arsione, portata al grado estremo di intensità, consuma inesorabilmente
quanto dà agli esseri, alle cose, un’apparenza di stabilità, quanto rassicura e aiuta a sopportare. Il
desiderio innalza a poco a poco il mistico a una catastrofe così perfetta, a un così perfetto spreco di
se stesso, che la vita in lui si può paragonare alla splendente combustione solare.
Però, si tratti di yoghi, di buddhisti o di monaci cristiani, è chiaro che queste rovine, queste
distruzioni legate al desiderio non sono reali: in esse il delitto o l’annullamento degli esseri sono
rappresentazione. Il compromesso che si è stabilito da ogni parte in tema di morale è facile a
dimostrarsi: i disordini reali, pieni di acerbe ripercussioni, come le orge e i sacrifici, furono nei
limiti del possibile rifiutati. Ma siccome persisteva il desiderio di un culmine al quale queste azioni
miravano, e gli esseri restavano nella necessità di trovare « comunicando » l’aldilà di se stessi, dei
simboli (finzioni) sostituirono la realtà. Il sacrificio della messa, che raffigura il supplizio reale di
Gesù, è sempre soltanto un simbolo, nell’infinita ripetizione che ne fa la Chiesa. La sensualità prese
l’aspetto di un’effusione spirituale. Temi di meditazione sostituirono le orge reali, l’alcool, la carne,
il sangue, divenuti oggetto di riprovazione. In tal modo il culmine cui mirava il desiderio rimaneva
accessibile e le violazioni dell’essere alle quali si lega non presentavano più degli inconvenienti,
non essendo più altra cosa che rappresentazioni dello spirito.

8
Per quanto riguarda la decadenza, chiunque non muore prematuramente è un’immagine di essa
sotto tutti gli aspetti o pressappoco; conosce dunque per esperienza gli istinti che vi sono implicati;
durante quasi la metà della vita l’uomo è in decadenza.
1888
La sostituzione di culmini spirituali ai culmini immediati non potrebbe però compiersi se non
ammettessimo il primato del futuro sul presente, se non traessimo conseguenze dall’inevitabile
declino che segue il culmine. I culmini spirituali sono la negazione di ciò che potrebbe essere
presentato come la morale del culmine. Appartengono ad una morale del declino.
Lo slittamento verso forme spirituali esigeva una primaria condizione: era necessario un pretesto
per il rigetto della sensualità. Se sopprimo la considerazione del futuro, non posso resistere alla
tentazione. Posso soltanto cedere senza difesa al più debole desiderio. E' impossibile perfino parlare
di tentazione: non posso più essere tentato, vivo in balìa dei miei desideri ai quali possono ormai
opporsi soltanto difficoltà esterne. A dire il vero, questo stato di felice disponibilità non è
umanamente concepibile. La natura umana come tale non può abolire la preoccupazione per
l’avvenire. Gli stati in cui questa preoccupazione non ci tocca più sono al di sopra o al di sotto
dell’uomo.
In ogni caso, noi sfuggiamo alla vertigine della sensualità soltanto rappresentandoci un bene posto
nel futuro, che essa guasterebbe e che noi dobbiamo conservare. Possiamo dunque raggiungere le
vette situate al di là della febbre dei sensi, unicamente a patto di introdurre un fine successivo.
Oppure, se si vuole, e questo è più chiaro - e più grave - raggiungiamo i culmini non sensuali, non
immediati, soltanto a patto di mirare ad ima finalità necessariamente superiore. E non soltanto
questo fine è posto al di sopra della sensualità - che esso blocca - ma deve essere posto anche al di
sopra del cul-
mine spirituale. Al di là della sensualità, della risposta al desiderio, siamo effettivamente nel campo
del bene, cioè della priorità del futuro rispetto al presente, della conservazione dell’essere rispetto
alla sua perdita gloriosa.
In altre parole, resistere alla tentazione implica l’abbandono della morale del culmine, si rifa alla
morale del declino. Quando sentiamo venir meno le forze, quando decliniamo, condanniamo gli
eccessi di spreco in nome di un bene superiore. Finché ci anima un’effervescenza giovanile siamo
d’accordo con gli sprechi generosi, con ogni specie di temerario porre in gioco. Ma basta che
le forze vengano a mancarci o che cominciamo a scorgere i limiti, basta che decliniamo, e subito ci
preoccupiamo di acquisire e di accumulare beni di ogni genere, di arricchirci in vista delle difficoltà
future. Noi operiamo. E l’azione, lo sforzo non possono avere altro scopo che un’acquisizione di
mezzi. Ora, dato che i culmini spirituali, opposti alla sensualità - per il fatto stesso che vi
si oppongono - si iscrivono nello sviluppo di un’azione, si rapportano a sforzi fatti in vista di un
bene da ottenere. I culmini non hanno più nulla in comune con una morale del culmine: una morale
del declino li indica più ai nostri sforzi che ai nostri desideri.

9
Non ricordo alcuno sforzo, non si potrebbe trovare nella mia vita una sola traccia di lotta, sono il
contrario di una natura eroica. La mia esperienza ignora completamente che cosa sia il « volere »
qualcosa, lavorarvi ambiziosamente, mirare ad uno « scopo », o alla realizzazione di un desiderio.
Ecce homo
Ma lo stato mistico è comunemente condizionato dalla ricerca della salvezza,
Verosimilmente, il legame tra un culmine come lo stato mistico e l’indigenza dell’essere - la paura,
l’avarizia
espresse nei valori del declino - ha qualche cosa di superficiale e deve essere, nel profondo, falso.
Non per questo è meno manifesto. Un asceta in solitudine persegue un fine per mezzo dell’estasi.
Lavora per la propria salvezza: come un negoziante che traffica in vista di un utile, come un operaio
che fatica in vista di un salario. Se l’operaio o il negoziante fossero ricchi come vorrebbero, se non
avessero alcuna preoccupazione per l’avvenire, alcun timore della morte o della rovina,
abbandonerebbero sui due piedi il cantiere, gli affari, cercando secondo l’occasione piaceri
pericolosi. Quanto all’asceta, ha la possibilità di intraprendere un lungo lavoro di liberazione nella
misura nella quale soccombe alla miseria dell’uomo.
Gli esercizi di un asceta sono umani appunto perché poco differiscono da una faccenda di
agrimensura. La cosa più ardua è certo scorgere infine questo limite: senza l’esca della salvezza (od
ogni altra simile esca) non si sarebbe trovato il cammino mistico! Certuni dovettero dire a se stessi
o ad altri: è bene fare così o in altra maniera in vista di tal risultato, di tal profitto. Senza
questo banale artifìcio non avrebbero potuto avere un comportamento di declino (l’infinita tristezza,
la comica serietà necessarie allo sforzo). Non è forse chiaro? Mando al diavolo la preoccupazione
dell’avvenire: e subito scoppio in una risata infinita! Ho perduto nello stesso momento ogni motivo
di compiere uno sforzo.
10
Si vede nascete un genere ibrido, l’artista, lontano dal delitto per debolezza del volere e paura della
società, non ancora pronto per il manicomio, ma che allunga stranamente le sue antenne verso
queste due sfere.
1888
Bisogna andare più in là.
Formulare la critica è già declinare.
Lo stesso « parlare » di una morale del culmine dipende da una morale del declino.
Se mando al diavolo il pensiero dell’avvenire, perdo pure la mia ragion d’essere, e, in una parola,
perfino la ragione.
Perdo ogni possibilità di parlare.
Parlare, come faccio in questo momento, di morale del culmine è in particolare la cosa più comica!
Per qual motivo, per qual fine che supera il culmine stesso, potrei esporre questa morale?
E prima di tutto, come costruirla?
Costruire ed esporre una morale del culmine presuppone da parte mia un declino, un’accettazione
delle regole morali connesse alla paura. In effetti, il culmine proposto come fine non è più il
culmine: lo riduco alla ricerca di un utile per il fatto stesso che ne parlo. Se presento la dissolutezza
come culmine morale, trasformo completamente la sua natura. Cioè mi privo in tal modo del potere
di accedere in essa al culmine.
Il dissoluto ha probabilità di accedere al culmine unicamente se non ne ha l’intenzione. Il momento
estremo dei sensi esige un’autentica innocenza, l’assenza di pretesa morale e perfino, in
contraccolpo, la coscienza del male.
11
Come il castello di Kafka, il culmine alla fine non è che l’inaccessibile. Si sottrae a noi, almeno in
quanto continuiamo a essere uomini: a parlare.
Del resto non si può contrapporre il culmine al declino come il male al bene.
Il culmine non è « ciò che bisogna raggiungere »; il declino non è « ciò che bisogna eliminare ».
Come il culmine alla fine non è che l’inaccessibile, il declino è fin dall’inizio l’inevitabile.
Allontanando le confusioni grossolane, non ho per questo eliminato l’esigenza del culmine (non ho
elimina-
to il desiderio). Se ammetto il suo carattere inaccessibile (vi si tende soltanto a patto di non volervi
tendere) -non ho motivo per questo di accettare l’incontestata sovranità del declino - ciò a cui
impegnerebbe il fatto di parlare. Non posso negarlo: il declino è l’inevitabile e lo indica il culmine
stesso; se il culmine non è la morte, lascia dietro di sé la necessità di scendere. Il culmine è, per
essenza, il luogo in cui la vita è al limite dell’impossibile. Lo raggiungo, nella debolissima misura
nella quale lo raggiungo, soltanto spendendo forze senza misurarle. Disporrò di forze da sprecare di
nuovo solo a patto di ricuperare, col mio travaglio, quelle che ho perdute. Del resto che cosa sono
io? Inserito in limiti umani, non posso altro che disporre incessantemente della mia volontà di agire.
Non bisogna neppur ch’io pensi a non lavorare più, a non sforzarmi più, in alcun modo, per uno
scopo in definitiva illusorio. Si supponga pure che io prenda in considerazione - nel migliore dei
casi - il rimedio cesareo, il suicidio: questa possibilità mi si presenta come un’impresa la quale esige
- con pretesa disarmante - che io collochi la preoccupazione del futuro prima di quella del momento
presente. È vero, non posso rinunciare al culmine. Protesto - e voglio mettere nella mia protesta un
ardore lucido e persino arido - contro tutto dò che ci chiede di soffocare il desiderio. Tuttavia posso
unicamente accettare ridendo la sorte che mi costringe a vivere da povero. Non sogno di abolire i
princìpi morali. Essi derivano dall’inevitabile declino. Noi decliniamo incessantemente e il
desiderio che ci distrugge rinasce soltanto quando le forze si sono rinnovate. Dal momento che, in
noi, dobbiamo tener conto dell’impotenza, non avendo forze illimitate, tanto vale riconoscere questa
necessità che subiremmo perfino negandola. Non possiamo renderci simili a questo cielo vuoto che,
per sua parte, ci tratta infinitamente da assassino, distruggendoci fino all’ultimo. Posso unicamente
dire - con tristezza - che la necessità da me subita mi umanizza, mi dà un innegabile dominio sulle
cose. Però posso rifiutarmi a non vedervi anche un segno d’impotenza.
12
Sempre, il genere umano decreterà ogni tanto: « C’è qualcosa su cui non abbiamo assolutamente il
diritto di ridere! ». E il filantropo previdentissimo aggiungerà: « non soltanto il riso e la gioiosa
saggezza, ma anche il tragico e la sua sublime irragionevolezza, fanno parte dei mezzi e delle
necessità per conservare la specie! ». E quindi, e quindi!
La gaia scienza, I
Gli equivoci morali costituiscono sistemi di equilibrio abbastanza stabili, proporzionati all’esistenza
in generale. Ci si può trovar da ridire solo parzialmente. Chi potrebbe contestare l’importanza che si
attribuisce alla dedizione? E come stupirsi che essa venga a un componimento con un ben inteso
interesse comune? Ma resistenza della morale, il disordine che essa introduce, prolungano
l’interrogativo molto oltre un orizzonte così vicino. Non so se, nelle lunghe considerazioni
precedenti, ho fatto capire fino a che punto l’interrogativo finale è straziante. Ora svilupperò un
punto di vista che, pur essendo esterno ai problemi da me introdotti, ne mette tuttavia in luce la
portata.
Finché gli eccessivi moti ai quali ci conduce il desiderio potevano connettersi ad azioni utili o
giudicate tali -utili, beninteso, agli esseri in declino, ridotti alla necessità di accumulare forze - si
poteva rispondere al desiderio del culmine. Così, una volta gli uomini sacrificavano, si
abbandonavano perfino ad orge: attribuendo al sacrificio, all’orgia, un’azione efficace a profitto del
clan o della città. Anche quella violazione di altri che è la guerra ha questo valore benefico, a giusto
titolo, nella misura in cui il successo l’accompagna. Al di là del ristretto utile del paese, visibilmente
grossolano, egoistico, nonostante le possibilità di dedizione individuale, l’ineguaglianza nella
ripartizione dei prodotti all’interno della città - che si sviluppa come disordine - costrinse alla
ricerca di un bene che si accordasse col sentimento della giustizia. La salvezza, la preoccupazione
di una salvezza personale
dopo la morte, divenne, più in là del bene egoistico della città, la ragione di agire e, di conseguenza,
il mezzo per connettere all’azione l’ascesa al culmine, il superamento di sé. Sul piano generale, la
salvezza del singolo permetteva di sfuggire alla lacerazione che scomponeva la società: l’ingiustizia
divenne sopportabile, dato che non era più senza appello; si cominciò persino ad unire gli sforzi per
combattere gli effetti. Al di là dei beni definiti come altrettanti motivi d’azione successivamente
dalla città e dalla Chiesa (a sua volta, la Chiesa divenne il corrispettivo di ima città e, durante le
crociate, si morì per essa), la possibilità di eliminare radicalmente l’ostacolo costituito dalla
ineguaglianza delle condizioni definì un’ultima forma di azione benefica, giustificando il sacrificio
della vita. Si svilupparono così, attraverso la storia - e facendo la storia - le ragioni che può avere
un uomo per raggiungere il culmine, per mettersi in gioco. Ma più oltre, la difficoltà sta
nell’ascendere al culmine senza motivo, senza pretesto. L’ho detto: il nostro discorso non va se
parliamo di ricerca del culmine. Possiamo trovarlo solo parlando di altro.
In altre parole, essendo ogni mettere in gioco, ogni erta, ogni sacrificio, come l’eccesso sensuale,
una perdita di forze, un dispendio, dobbiamo motivare ogni volta i nostri dispendi con una
promessa di guadagno, falsa o no.
Se si considera questa situazione nell’economia generale, essa è abnorme.
Posso immaginare uno sviluppo storico già compiuto e che pure riservasse possibilità di azione
come un vecchio che si sopravvive, eliminando lo slancio e la speranza al di là dei limiti raggiunti.
Un’azione rivoluzionaria fonderebbe la società senza classi - al di là della quale non potrebbe più
verificarsi un’azione storica: almeno posso supporlo. Ma a questo proposito devo fare
un’osservazione. In generale, sembra che nell’umano la somma di energia prodotta sia sempre
superiore alla somma necessaria alla produzione. Da cui questo eccesso di energia schiumante, che
ci conduce senza posa al culmi-
ne e che costituisce la parte malefica; noi tentiamo invano di spenderla per il bene comune. Allo
spirito guidato dalla preoccupazione del bene e dal primato del futuro ripugna prendere in
considerazione colpevoli sprechi, inutili e perfino nocivi. Ma ormai ci mancherebbero i motivi
d’azione che offrirono finora pretesto ad infiniti sprechi: l’umanità incontrerebbe allora ima
possibilità di riprender fiato, in apparenza... che cosa succederebbe in questo caso della nostra
energia straripante?...
Insidiosamente, ho voluto mostrare quale portata esterna potrebbe avere la mia domanda. È vero,
devo riconoscere che così posta - sul piano del calcolo economico - essa perde in acume ciò che
acquista in ampiezza. In effetti è alterata. Nella misura in cui ho messo in gioco l'interesse, ho
dovuto subordinargli il dispendio. Evidentemente si tratta di un vicolo deco poiché in definitiva non
possiamo spendere senza fine per guadagnare: come ho già detto la somma di energia prodotta
è maggiore...
13
Formulerò ora le domande implicite nella mia esposizione.
Esiste un fine morale ch’io possa raggiungere al di là degli esseri?
Ho già risposto che non potevo né cercarlo né parlarne.
Ma io vivo e la vita (il linguaggio) è in me. Ora, il linguaggio in me non può prescindere dal fine
morale... deve comunque affermare che, seguendo le vie del declino, non potrò incontrare questo
fine.
Detto questo, continuo a vivere.
Aggiungerò (e parlo per me) che non posso cercare un bene da sostituire al fine che mi sfugge.
Non conosco più motivi - esterni a me - di sacrificare me stesso o la poca forza che ho.
Vivo in balìa di risa, che mi rallegrano, di eccitazioni sessuali, che mi angosciano.
Dispongo, se ne ho voglia, degli stati mistici.
Lontano da ogni fede, privo di ogni speranza, non ho alcun motivo per accedere a questi stati.
Provo un senso di distacco all’idea di uno sforzo per arrivarvi.
Progettare un 'esperienza interiore non è forse allontanarmi dal culmine che questa esperienza
avrebbe potuto essere?
Di fronte a coloro che hanno un motivo, una ragione, non rimpiango nulla, non invidio nessuno. Li
spingo invece a condividere la mia sorte. Considero felici il mio odio dei motivi e la mia fragilità.
L’estrema difficoltà della mia situazione è la mia chance. Me ne inebrio.
Ma porto in me stesso, mio malgrado, e come una carica esplosiva, una domanda: che cosa può fare
in
QUESTO MONDO UN UOMO LUCIDO... PORTANDO IN SÉ
UN’ESIGENZA SENZA RIFERIMENTI?

14
Non siete aquile: per questo non avete sperimentato la felicità nel tenore dello spirito. Chi non è
uccello non deve fare il nido sopra gli abissi.
Zarathustra, Dei sapienti illustri
Posta così la domanda, ho detto quanto avevo da dire: non do risposta. Ho lasciato da parte in
questo sviluppo il desiderio di autonomia, la sete di libertà che pare essere la passione dell’uomo e
che è senz’altro la mia passione. Penso all’autonomia umana in seno ad una natura ostile e
silenziosa piuttosto che alla libertà strappata da un individuo ai pubblici poteri. La pregiudiziale
di dipendere il meno possibile dal dato ci avvia, è vero, alla indifferenza per il futuro: d’altra parte
si oppone alla soddisfazione del desiderio. Tuttavia immagino che il culmine del quale ho parlato si
identifichi con la libertà dell’essere.
Volendo rendere sensibile questo rapporto mi servirò di un giro vizioso.
Per quante preoccupazioni abbiamo, il nostro pensiero si esaurisce senza mai abbracciare l’insieme
dei possibili. Ad ogni momento sentiamo la notte enigmatica, in una profondità infinitamente
grande, sottrarci l’oggetto stesso della nostra meditazione. Il minimo pensiero dovrebbe divenire
suscettibile di uno sviluppo infinito. Quando sono preso dal desiderio di capire la verità (intendo
dire il desiderio di sapere alla fine e di accedere alla luce) sono preso dalla disperazione. So
immediatamente di essere perduto, perduto per sempre, in questo mondo dove ho l’impotenza di un
bambino (ma non ci sono adulti ai quali ricorrere). In verità, nella misura in cui mi sforzo di
riflettere, non considero più come un termine il momento in cui si farà luce ma quello in cui
si spegnerà, in cui mi troverò di nuovo nel buio come un bambino malato e infine come un
moribondo. Chi ha sete, veramente sete di verità, non può avere la mia negligenza. Ammetto che
egli tenti nell’audacia giovanile. Ma come, per agire, non abbiamo bisogno di prendere
in considerazione gli obiettivi nell’infinito sviluppo dei loro aspetti (li manipoliamo e l’efficacia dei
nostri movimenti garantisce il valore delle concezioni), così, se si tratta soltanto di interrogare, sono
certamente obbligato a sospingere la domanda il più lontano possibile, ma « il più lontano possibile
», vuole dire « facendo del mio meglio », mentre desiderando la Verità l’esigenza che avrei dovuto
soddisfare sarebbe assoluta. Il fatto è che non posso evitarmi di agire, né di interrogare, quando
posso vivere - agire, interrogare - nell’ignoranza. Il desiderio di conoscere ha forse un unico senso:
servire da motivo al desiderio di interrogare. Sapere è senz’altro necessario all’autonomia che è
procurata all’uomo dall’azione - grazie alla quale egli trasforma il mondo. Ma al di là
delle condizioni del fare, la conoscenza appare alla fine come un’esca, rispetto all’interrogativo che
la domina. È nel fallimento costituito dall’interrogativo, che noi ridiamo. I rapimenti dell’estasi e le
ustioni di Eros sono altrettante domande - senza risposta - alle quali sottomettiamo
LA NATURA E LA NOSTRA NATURA. SE SAPESSI RISPONDERE ALL’INTERROGATIVO MORALE - CHE HO FORMULATO OR
ORA - DI FATTO MI ALLONTANEREI DECISAMENTE DAL CULMINE. PROPRIO LASCIANDO L’INTERROGAZIONE APERTA IN
ME COME UNA PIAGA CONSERVO UNA PROBABILITÀ, UN POSSIBILE ACCESSO VERSO IL CULMINE. SE PARLARE COME
FACCIO ORA, VUOL DIRE IN FONDO BUTTARMI A LETTO COME UN MALATO: ANZI PER L’ESATTEZZA: CORICARMI PER
MORIRE, NON RICHIEDO DELLE CURE. BISOGNA SCUSARE QUESTO MIO ECCESSO D’IRONIA. NON VOLEVO
DAVVERO PRENDERE IN GIRO NESSUNO. VOLEVO SOLTANTO BURLARMI DEL mondo, cioè dell’inafferrabile natura
di cui sono l’esito. Non siamo abituati a tener conto, se riflettiamo, se parliamo, che la morte ci
interromperà. Non dovrò sempre perseguire la schiavizzante ricerca del vero. Ogni domanda resterà
alla fine senza risposta. E mi sottrarrò in modo tale da imporre silenzio. Se altri
riprenderanno questa faccenda, non la porteranno a compimento più di quanto abbia fatto io e, come
a me, la morte troncherà loro la parola. L’essere potrebbe forse acquisire un’autonomia più vera?
Parlando così mi sembra di respirare l’aria libera del culmine.
L’esistenza non può essere nello stesso tempo autonoma e perdurante nella vita.
1Sul significato della parola in questo libro, v. Appendice v, Nulla, trascendenza, immanenza.
[N.d.A]
2 Vedi
Hubert e Mauss, Essai sur le sacrifice, pp. 46-47 (Saggio sul sacrificio, trad. it. di V. Minelli,
Morcelliana, 1981). [N.d.A]
TERZA PARTE
DIARIO
FEBBRAIO-AGOSTO 1944
FEBBRAIO-APRILE 1944
LA « TAZZA DA TÈ »
LO « ZEN » E « L’ESSERE AMATO »
II nuovo sentimento della potenza: lo stato mistico; e il razionalismo più lucido, più arido, come
strada per arrivarvi.
I
... comunque sia, ogni volta che 1’« eroe » appariva in scena si otteneva qualche cosa di nuovo, il
terribile contrario del ridere, la profonda emozione di molti al pensiero: « sì, vale la pena che io
viva! sì, sono degno di vivere! ». La vita, tu ed io, tutti noi quanti siamo, diventammo di nuovo «
interessanti » a noi stessi. Non si può negare che, alla lunga, il riso, la ragione e la natura hanno
finito per prevalere su ognuno di questi gran dottori in teologia: la breve tragedia ha sempre finito
col ritornare all’eterna commedia dell’esistenza, e il mare « dall’innumerevole riso » - per dirla
con Eschilo - finirà per coprire con le sue onde anche la più grande di queste tragedie...
La gaia scienza, I
Se non si avverte un moto di disinvoltura, che mette da parte le difficoltà, che si prende gioco di
tutto (e in particolare della sventura, della sofferenza), che nasconde la riuscita sotto la maschera
della depressione, io sono, se si vuole, un essere che soffre... Tuttavia non ho fatto che connettere
l’amore, la gioia eccedente, alla completa mancanza di rispetto, al diniego radicale di ciò che frena
la libertà interiore.
Oggi il mio desiderio verte su di un punto. Questo oggetto senza verità oggettiva e tuttavia il più
dirompente che posso immaginare, lo assimilo al sorriso, alla limpidezza dell’essere amato. Nessun
amplesso potrebbe danneggiarla, questa limpidezza (essa è precisamente ciò che si sottrae al
momento del possesso). E proprio lacerato dal desiderio ho visto, al di là della presenza desiderata,
questo punto la cui dolcezza è data nella disperazione.
L’ho riconosciuto, questo oggetto: lo attendevo da sempre. Noi riconosciamo l’essere amato da
questa im-
pressione di risposta: l’essere amato è l’essere atteso, che colma il vuoto (l’universo non è più
intelligibile senza di lui). Ma questa donna che tengo tra le braccia mi sfugge; quell’impressione,
che si era trasformata in certezza, di risposta all’attesa, cerco invano di ritrovarla nell’amplesso;
soltanto l’assenza continua a raggiungerla per mezzo del senso di un vuoto.
Qualunque cosa io abbia potuto dire di questo oggetto (nel momento in cui scrivo non posso
ricordarlo con precisione) oggi mi sembra che Proust, parlando di reminiscenza, abbia dato di esso
una descrizione fedele.
Questo oggetto percepito nell’estasi, ma in una calma lucidità, differisce in qualcosa dall’essere
amato. Esso è ciò che, nell’essere amato, lasciò l’impressione straziante, ma intima ed inafferrabile,
del déjà-vu.
Quello strano racconto che è Le temps perdu nel quale la vita sprofonda lentamente e si dissolve
nell’inanità (nell’impotenza ad afferrare) ma tuttavia afferra dei punti ocellari in cui si risolve, mi
pare abbia la verità di un singhiozzo.
I singhiozzi significano la comunicazione spezzata. Quando la comunicazione - la dolcezza della
comunicazione intima - è retta dalla morte, la separazione o il disaccordo, sento crescere in me nello
strazio la dolcezza non familiare di un singhiozzo. Ma la dolcezza del singhiozzo differisce molto
da quella che la precedeva. Quando la comunicazione è stabilita, il fascino è annullato
dall’abitudine. Nei singhiozzi esso si può paragonare alla scintilla che si fa scoccare togliendo la
spina da una presa di corrente. Proprio perché la comunicazione è interrotta, noi ne godiamo nel
tono tragico, quando piangiamo.
Proust immaginò di aver conservato nella memoria ciò che tuttavia era quasi completamente
scomparso. La memoria vela completamente dò che la presenza sottraeva, ma soltanto per un certo
tempo. È vero, in un certo sen-

so, che i singhiozzi dell’uomo lasciano in bocca un sapore di eternità.


Come ammiro l’astuzia - certo cosciente - con la quale Le temps retrouvé fa ricadere ciò che altri
situarono nell’infinito, entro i limiti di ima tazza di tè. Infatti se si parla (André Breton), di un
brillare interno e cieco... tanto l’anima del ghiaccio quanto quella del fuoco..., sussiste nell’evocata
folgorazione un non so che di grande e trascendente, che conserva, anche all’interno dell’uomo,
il rapporto di superiorità che passa tra l’uomo e Dio. Il malessere così introdotto non è certo facile
da evitare. Noi possiamo uscire dai cardini soltanto straziati. Lungi da me l’intenzione di sottrarmi
ai momenti di trascendenza (che Le temps retrouvé traveste). Ma la trascendenza dell’uomo, per
quanto mi sembra, è palesemente negativa. Non ho il potere di mettere al di sopra di me alcun
oggetto - sia che io lo comprenda sia che mi strazi - se non il nulla: che non è niente. Ciò che dà
l’impressione di trascendenza - e riguarda tale parte dell’essere -è il fatto che noi la percepiamo
attraverso il nulla. Abbiamo accesso all’aldilà dell’essere particolare che siamo, soltanto attraverso
la lacerazione del nulla. Il nulla ci opprime, ci prostra e siamo tentati di dare a ciò che indoviniamo
nel buio il potere di dominarci. Di conseguenza, uno dei momenti più umani è il ridurre alla nostra
misura gli oggetti percepiti al di là dei crolli. Questi oggetti non ne restano appiattiti, ma un impulso
di semplicità sovrana ne rivela l’intimità.
Bisogna distruggere la trascendenza ridendo. Come il bambino abbandonato al temibile aldilà di se
stesso riconosce immediatamente la dolcezza intima della madre -le risponde allora ridendo - così
se un’ingenuità disinvolta indovina un gioco là dove si tremò, io scoppio in un riso illuminato, ma
tanto più rido quanto più tremavo.
È difficile parlare di un riso così strano (e soprattutto così felice). Conserva quel nulla di cui la
figura infima di Dio (immagine dell’uomo) si era servita come d’un pie-

distailo infinito. Ad ogni momento, l’angoscia mi strappa a me stesso, alle preoccupazioni


secondarie, e mi abbandona a questo nulla.
Nel nulla in cui sono - pongo domande fino alla nausea e non ricevo risposta che non mi sembri
allargare il vuoto, raddoppiare l’interrogazione - io non distinguo nulla: Dio mi sembra una risposta
non meno vuota che la « natura » del materialismo grossolano. Ma, di questo Dio, non posso negare
le possibilità date a coloro che se ne fanno un’immagine: ne esiste umanamente l’esperienza; i suoi
racconti ci sono familiari.
Venne il momento in cui la mia audacia - o se si vuole la mia disinvoltura - mi prospettò: « Non
potresti avere tu stesso questa esperienza insensata - e poi riderne? ». « Impossibile, » mi risposi: «
non ho la fede! ». Nel silenzio in cui mi trovavo, in uno stato di disponibilità veramente folle,
restavo chino sul vuoto: tutto mi parve ugualmente ridicolo, schifoso, possibile... In quel momento
andai oltre. E subito riconobbi Dio.
Ciò che un riso infinito provocò non poteva essere più facile.
Mi gettai ai piedi del vecchio fantasma.
Noi ci facciamo di solito un’idea meschina della sua maestà: io ne ebbi la rivelazione smisurata.
Le tenebre divennero una barba infinita e nera, uscita dalle viscere della terra e dall’orrore del
sangue.
Io risi.
Era qualcosa di molto più grave.
Ma la mia leggerezza venne a capo senza sforzo di questa infinita grevità: essa restituiva al nulla ciò
che era soltanto nulla.
All’infuori della libertà, del riso stesso, non c’è nulla di cui io rida meno divinamente che di Dio.
II
Vogliamo essere gli eredi di ogni antica morale e non cominciare di nuovo. Ogni nostra attività è
soltanto morale che si ritorce contro la sua antica forma.
1880-1884
Mi è sembrato che certi miei amici confondessero la loro preoccupazione per un valore desiderabile
con il disprezzo che ispira la bassezza. Il valore (o l’oggetto dell’aspirazione morale) è
inaccessibile. Uomini di ogni categoria possono essere amati. Li indovino - gli uni e gli altri - con
ima simpatia in rivolta. Non vedo più un ideale che faccia fronte alla decadenza. Q cedimento della
maggioranza è straziante, triste come ima galera; l’ardore eroico, il rigore morale comportano
l’irrespirabile ristrettezza. Spesso il rigore ottuso è segno di rilassamento (nel cristiano dolciastro o
nell’agitatore gioviale). Amo soltanto l’amore, il desiderio...
Nelle nostre condanne categoriche, quando di un tale diciamo « che mascalzone », dimenticando il
sudicio fondo del nostro cuore, in realtà ci avviciniamo per mezzo di vile indifferenza alle
indifferenze manifeste che denunciamo. Così, nella polizia, la società s’avvicina ai modi di agire
che condanna.
La complicità nei delitti, e poi nella cecità sui delitti, unisce più strettamente gli uomini.
L’unione alimenta l’ostilità incessante. Nell’amore che esubera, devo non soltanto voler uccidere,
ma non fallire lo scopo. Se potessi, cadrei e griderei la mia disperazione. Ma rifiutando la
disperazione, continuando a vivere felice, gaio (senza ragione) amo in modo più duro, più vero,
come val la pena di amare la vita.

La sorte degli amanti è il male (lo squilibrio) al quale li costringe l’amore fisico. Essi sono
condannati a guastare senza fine l’armonia tra di loro, a combattersi nella notte. Si uniscono a
prezzo di una lotta, grazie alle ferite che si producono.
Il valore morale è l’oggetto del desiderio: ciò per cui si può morire. Non è sempre un « oggetto » (di
esistenza definita). Il desiderio vive spesso di una presenza indefinita. È possibile contrapporre
parallelamente da una parte Dio, una donna amata, dall’altra il nulla, la nudità femminile
(indipendente da un essere in particolare).
L’indefinito ha logicamente il segno negativo.
Odio le risa smodate, l’intelligenza ilare delle « persone di spirito ».
Nulla mi è più estraneo di un riso amaro.
Rido ingenuamente, divinamente. Non rido quando sono triste e, quando rido, mi diverto davvero.
Sono imbarazzato per aver riso (con gli amici) dei delitti del dottor P. Il riso che probabilmente ha
come oggetto il culmine nasce dall’incoscienza che abbiamo di esso. Come i miei amici, sono
ributtato da un orrore senza nome ad un’ilarità insensata. Al di là del riso, si incontrano la morte, il
desiderio (l’amore), il deliquio, l’estasi legata ad un’impressione di orrore, all’orrore trasfigurato. In
questo aldilà non rido più: conservo una sensazione del ridere. Una risata che cercasse di
durare, tentando di forzare l’aldilà, sarebbe « voluta » e suonerebbe male, perché non ingenua. La
risata fresca, senza riserve, spalanca sul peggio e conserva nel peggio (la  morte) un sentimento
leggero di meraviglia (al diavolo Dio, le bestemmie o le trascendenze! l’universo è umile: il mio
riso è la sua innocenza).
Il riso benedice e Dio maledice. L’uomo non è, come Dio, condannato a condannare. Se vuole, il
riso è meraviglia, può essere leggero, esso può benedire! Se rido di me...

P. diceva alle sue clienti (secondo Q.): « La trovo un po’ anemica. Lei ha bisogno di calcio ».
Dava loro appuntamento in via Lesueur, per una cura calcificante.
Se dicessi che il periscopio di via Lesueur è il culmine?
Mi sentirei rivoltare d’orrore, di nausea.
L’avvicinarsi del culmine sarebbe forse riconoscibile dall’orrore, dalla nausea che ci stringe il
cuore?
Soltanto le nature grossolane, primitive, si sottometterebbero all’esigenza del « periscopio »?
Da un punto di vista teologico, un « periscopio » corrisponde al Calvario. Dall’uno e dall’altro lato,
un peccatore gode gli effetti del suo delitto. Se è pio, si accontenta delle immagini. Ma il supplizio
della croce, questo delitto, è il suo delitto: mette in rapporto il pentimento con l’azione. La
perversione in lui consiste nel venir meno della coscienza e nel far sparire involontariamente
l’atto, nella mancanza di vitalità, nella fuga.
Un po’ prima della guerra, sognai di esser colpito dalla folgore. Ne ebbi come uno sradicamento, un
grande terrore. Nello stesso momento ero strabiliato, trasfigurato: morivo.
Oggi, sento la stessa spinta. Se volessi che « tutto fosse bene », se domandassi la sicurezza morale,
sentirei la stupidità della mia gioia. Invece mi inebrio di non voler nulla e di non avere sicurezza.
Provo un sentimento di libertà. Ma benché il mio slancio conduca alla morte, non è che desideri
liberarmi della vita. La sento invece sollevata dalle preoccupazioni che la rodono (la rapportano a
concetti definiti). Un nulla - o nulla - mi inebria. Questa ebbrezza ha come condizione che io rida,
soprattutto di me stesso.
III
L’amore più grande, più sicuro potrebbe accordarsi con l’infinita beffa. Questo amore somiglierebbe
alla musica più pazza, all’estasi di essere lucidi.
La mia furia di amare si apre sulla morte come una finestra sul cortile.
Nella misura in cui l’amore rende presente la morte -come il comico strappo di uno scenario - esso
ha il potere di strappar via le nuvole. Tutto è semplice! Attraverso questo strappar via, vedo: come
se fossi complice di tutto il nonsenso del mondo, il fondo appare, libero e vuoto.
In che cosa l’essere amato potrebbe differenziarsi da questa libertà vuota, dall’infinita trasparenza di
ciò che, infine, non ha più il compito di avere un senso?
In questa libertà che annienta, la vertigine si trasforma in rapimento. In un rapimento calmo.
La forza (o l’impulso di libertà) dell’essere amato, la violenza, l’angoscia e la lunga attesa
dell’amore, l’ombrosa intolleranza degli amanti, nulla che non contribuisca a questa risoluzione in
un vuoto.
Il vuoto libera dai legami: non c’è più sosta nel vuoto. Se davanti a me faccio il vuoto, indovino
subito l’essere amato: non c’è nulla. Ciò che amavo perdutamente, era la fuga, la porta aperta.
Un movimento brusco, un’esigenza troncata annullano il mondo greve.
IV
Se ci si pensa, quanti ideali nuovi sono ancora possibili ! Ecco un piccolo ideale che afferro ogni
cinque settimane circa, durante qualche passeggiata selvaggia e solitaria, nell’ora azzurra di una
felicità criminale. Passare la vita tra le cose fragili e assurde; rimanere estraneo alla realtàl mezzo
artista, mezzo uccello o metafisico; non dire né sì né no alla realtà, se non ogni tanto, per tastarla
con la punta del piede, come un ballerino; sentirsi sempre sollecitato da un qualche raggio di
sole della felicità; essere sempre gioioso, sentirsi stimolato dall'afflizione stessa, perché l’afflizione
mantiene felice l’uomo; attaccare alle cose più sacre una punta di coda comica; questo è, beninteso,
l’ideale di uno spirito greve, del peso di parecchie tonnellate: lo spirito stesso della pesantezza.
Marzo-luglio 1888
Mi son svegliato di buon umore, stamattina.
Evidentemente, nessuno è più irreligioso, più allegro di me.
Non voglio più parlare di esperienza interiore (o mistica) ma di pal. Come si dice Zen. Mi pare una
cosa allegra dare un nome a un genere definito di esperienza come ai fiori.
Il pal è diverso dallo Zen. Un poco. E così la buffoneria. In più, difficile da definire come lo Zen.
Era pura acrobazia che io parlassi, intendendo tutto questo, di supplizio (ho dovuto farlo con tanta
serietà, tanta verità, tanta febbre, che si è verificato un equivoco: ma era necessario che ci si
ingannasse e che lo scherzo fosse vero).
Oggi, insisto dicendo pal.

Fin dall’inizio, insegnare l’esercizio del pal è un compito ridicolo. Esso implica una convinzione:
non si può insegnare il pal.
Tuttavia Io insegno...
Non è forse la verità fondamentale che il pal sia per la vittima un culmine inaccessibile?
Una possibilità di insulso scherzo mi rivolta: non la si perderà certo sul pal e su Proust...
Quando la si considera per quello che è - caduta di Dio (della trascendenza) nel derisorio
(l’immediato, l’immanenza), una tazza da tè è il pal.
Carattere duplice del culmine (orrore e delizia, angoscia ed estasi). Com’è espresso in rilievo nei
due volumi - nero e bianco - del Temps retrouvé; da un lato l’orrore di un sordido albergo, dall’altro
gli istanti di felicità.
Gli istanti di felicità sono diversi:
-    dalla gioia diffusa, impersonale e senza oggetto, dello yoga;
-    dalle straziate estasi, dai rapimenti che mozzano il fiato;
-    e più ancora dal vuoto della notte;
corrispondono alla limpida trasparenza degli stati
detti teopatici.
In questi stati di trasparenza inafferrabile, lo spirito è inerte, intensamente lucido e libero.
L’universo lo trapassa facilmente. L’oggetto gli si impone in ima « impressione intima ed
inafferrabile di déjà-vu ».
Questa impressione del déjà-vu (di penetrabile in tutti i sensi e tuttavia inintelligibile) definisce a
mio avviso lo stato teopatico.
Non più ombra di importunità divina. Evidentemente!
Per il mistico (il credente), Dio si è senz’altro volatilizzato: il mistico è lui stesso Dio.

Mi divertii, qualche volta, a pormi come Dio - a me stesso.


Nella teopatia, è diverso. Questo stato, di per sé, è l’estrema punta del comico, in quanto è
volatilizzazione infinita, libertà senza sforzo, che riduce ogni cosa al moto in cui essa cade.
Parlando di uno stato che designo con una specie di nomignolo (il pal), scrivo queste poche righe
come tema di meditazione:
Mi rappresento: un oggetto che affascina, la fiamma
splendente e leggera che si consuma in se stessa, che si annichila, e così rivela il vuoto, l’identità tra
il fascino, tra ciò che inebria e il vuoto;
Mi rappresento il vuoto
identico a una fiamma, la soppressione dell’oggetto che rivela la fiamma che inebria e illumina.
Non c’è esercizio che conduca allo scopo...
Penso che, in ogni caso, sia la sofferenza, sconvolgendo ed esaurendo l’essere, ad aprire ima ferita
così intima.
Questo stato di immanenza è l’empietà stessa.
La perfetta empietà è la negazione del nulla (del potere del nulla): nulla ha più pregio per me - né la
trascendenza, né il tempo futuro (non c’è più attesa).
Non parlare di Dio significa temerlo, non sentirsi ancora a proprio agio con lui (la sua immagine o il
suo posto nelle concatenazioni del reale, del linguaggio...), si-

gnifica rimandare a più tardi l’esame del vuoto che egli indica, e il trafiggerlo col suo riso.
Ridere di Dio, di ciò che ha fatto tremare le moltitudini, richiede la semplicità, l’ingenua malignità
del bambino. Non persiste più nulla di grave, di malato.
Il pal è il ridere, ma così vivo che nulla più ne resta. L’immensità messa alla luce, invece di portare
la trasparenza all’infinito, è infranta dall’agitazione dei muscoli... Anche il sorriso insensibile di un
Buddha sarebbe greve (penosa insistenza personale). Soltanto un’insistenza nello slancio, una
leggerezza senza legami (l’autonomia, le libertà stesse) danno al riso un potere senza limiti.
Così la trasparenza di due esseri è disturbata dal rapporto carnale.
Parlo evidentemente di stati acuti.
Di solito, scoppio a ridere e...
M’han chiamato «vedovo di Dio», «inconsolabile vedovo »...
Ma rido. Siccome la parola ritorna incessantemente nei miei scritti, allora dicono che rido verde.
Mi diverto e nello stesso tempo mi rattristo dell’equivoco.
Il mio riso è allegro.
Ho già detto che a vent’anni mi trasportò una marea di risate... Avevo il senso di una danza con la
luce. Mi abbandonai, nello stesso tempo, alle delizie di una libera sensualità.
Di rado il mondo ha riso meglio a chi gli sorrideva.
Ricordo allora di aver affermato che il duomo di Siena, quando gli arrivai davanti, mi aveva fatto
ridere.
« E impossibile, » mi hanno detto « il bello non fa ridere. »
Non sono riuscito a convincerli.
E tuttavia avevo riso, felice come un bambino, sul

sagrato del duomo che, sotto il sole di luglio, mi abbagliava.


Ridevo al piacere di vivere, alla mia sensualità d’Italia - la più dolce e la più abile che abbia mai
conosciuto. E ridevo perché, in questo paese pieno di sole, indovinavo quanto la vita si era presa
gioco del cristianesimo, trasformando il monaco esangue in una principessa da Mille e una notte.
Il duomo di Siena, in mezzo ai palazzi rosa, neri e bianchi, si può paragonare a una torta immensa,
multicolore e dorata (di gusto discutibile).
V
Ho finalmente più di un volto. E non so quale si beffa dell’altro.
L’amore è un sentimento così eccedente che mi stringo la testa tra le mani: questo regno del sogno,
nato dalla passione, non è forse quello, in fondo, della falsità? L’« immagine » infine si dissolve.
Invece di una lacerazione nel tessuto delle cose - lacerazione straziante -rimane soltanto una
persona inserita nella trama del tessuto.
Tappeti di foglie morte non sono gradini di un trono e muggiti di rimorchiatore allontanano le
magiche illusioni.
Ma a che cosa corrisponderebbe la magnificenza del mondo se nessuno potesse dirci,
comunicandoci un messaggio sicuramente indecifrabile: «Il destino che ti è toccato - o che tu lo
consideri come tuo (quello dell’uomo che sei) o come destino dell’essere in
generale (dell’immensità di cui sei una parte) - ora lo vedi, non può in alcun modo venir ridotto alla
povertà delle cose -che sono unicamente quelle che sono. Invece, ogni qualvolta, foss’anche per
menzogna casuale, una cosa è trasfigurata, non senti quel richiamo che nulla in te lascia senza
risposta? In questa odissea che tu non puoi dire di avere voluta ma piuttosto che è te stesso, chi
rifiuterebbe l’estremo, il più lontano e il desiderabile? Desiderabile? sarei forse la misura
dell’enigma? se, scorgendomi, tu non avessi scelto questo obiettivo inaccessibile, non avresti
neppure affrontato l’enigma! ».
Cade allora la notte, ma nell’esasperazione del desiderio.
Detesto la menzogna (la stupidità poetica). Ma il desiderio in noi non ha mai mentito. C’è ima
malattia del
desiderio che ci fa spesso vedere un abisso tra l’oggetto immaginato e l’oggetto reale. È vero,
l’essere amato è diverso dal concetto che ho di esso quando l’amo. La cosa peggiore è che l’identità
fra reale e oggetto del desiderio implica, a quanto sembra, una rara fortuna.
A questo si oppone l’evidente magnificenza dell’universo che rovescia l’idea che ci facciamo di
questa fortuna. Se nulla offusca in noi lo splendore del cielo, siamo degni di amore infinito. L’essere
amato non emergerebbe da una realtà prosaica come il miracolo da una serie di fatti determinati. La
sorte che lo trasfigura sarebbe soltanto un’assenza di disgrazia. Mettendosi in gioco in
noi, l’universo si negherebbe nell’inveramento comune della sventura (la scialba esistenza) e si
affermerebbe presso rari eletti.
L’universo, al paragone con l'essere amato, sembra vuoto e povero: non è « in gioco », non essendo
« soggetto a perire ».
Ma Tessere amato è tale per uno solo.
L’amore carnale, che non è « al riparo dai ladri », dalle vicissitudini, è più grande dell’amore divino.
Esso mi « mette in gioco », mette in gioco Tessere amato.
Dio, per definizione, non è « in gioco ».
Colui che ama Dio, per quanto ardore raggiunga in lui la passione, la concepisce come ritirata dal
gioco, al di là della grazia (nella beatitudine degli eletti).
E certo è vero che l'innamorato di una donna non ha pace - deve eliminare la tortura dell’assenza -
se non ce l'ha sotto il suo tetto, in suo possesso. È vero che di solito l’amore si spegne proprio nel
voler eludere la sua natura, che esigerebbe il suo restare in gioco...
Chi non si accorge che la felicità è la più dura prova degli amanti? Tuttavia, il rifiuto volontario
sarebbe fabbricato, renderebbe l’amore un cavillo voluto per se stesso ad arte (immagino amanti che
mantengano, volontariamente, una situazione difficile). Resta una probabilità, per quanto piccola, di
superare, di esaurire la felicità.
Chance ha la stessa origine (cadentia) di « échéance », scadimento. Chance è ciò che scade, ciò che
cade (all’origine, buono o cattivo accadere). È l’alea, la caduta di un dado.
Da cui deriva quest’idea comica: propongo un ipercristianesimo!
In questa banale prospettiva delle cose, non è più l’uomo a cadere e a separarsi da Dio, è Dio stesso
(o, se si vuole, la totalità).
Dio non implica qui « meno di quanto implichi la sua idea ». Ancor di più, al contrario. Ma questo «
più » si elimina in quanto Dio; per l’essenza di questo « più », che è l’« essere in gioco », il «
mettersi in gioco ». L’uomo infine sussiste solo.
In termini buffoneschi, è l' incarnazione generalizzata!
Ma nella caduta dell’universale nell’umanità, non si tratta più, come con Cristo, di un’odiosa
parodia del « mettere in gioco » (Dio abbandona Gesù solo apparentemente). L’abbandono, in
questo mettere in gioco, è totale.
Ciò che amo nella creatura amata - al punto da desiderare di morir d’amore - non è l’essere
particolare, ma la parte di universale che è in lui.
Ma questa parte è in gioco, mi mette in gioco.
Sul piano banale delle idee, Dio stesso è particolare (Dio non è me stesso); l’animale poi è al di
fuori del gioco (il solo al di fuori del gioco).
Quanto è pesante, magniloquente quest’essere, paragonato a colui che cade, « nella tazza di tè », in
un essere umano.
La grevità è il prezzo dell’impazienza, della sete di sicurezza.
Parlare di assoluto: parola ignobile, inumana.
È l’aspirazione delle larve.
Non voglio divinizzare nessuno. Ma rido quando Dio cade dalla sua insipidezza nella precarietà
delle cose inafferrabili.
Una donna ha fazzoletti, un letto, calze. Deve « allontanarsi un momento », a casa sua o in un
bosco. Nulla è cambiato se scorgo, come in trasparenza, ciò che essa è veramente: il gioco, la
chance stessa. La sua verità non è al di sopra di lei. Tuttavia, come la « tazza di tè », la raggiungo
soltanto in rari momenti di fortuna. E' la voce attraverso la quale il mondo mi dà risposta. Ma senza
l’attenzione infinita - senza una trasparenza legata all’eccesso sfibrante del soffrire - non sentirei
nulla.
Dovremmo amare nell’amore della carne un eccesso di sofferenza. Senza questo eccesso, non
potremmo entrare nel gioco. Nell’amore divino, il limite delle sofferenze è dato nella perfezione
divina.
Amo l’irreligiosità, la mancanza di rispetto del mettere in gioco.
La messa in gioco mi pone con tanta risolutezza nel massimo rischio che in certi momenti perdo
perfino la possibilità dell’angoscia. L’angoscia, allora, sarebbe il ritiro dal gioco. Ho bisogno di
amare. Ho bisogno di lasciarmi andare alla felicità, indovinando la chance. E guadagnare nell’estasi
per lasciare, crudelmente, il guadagno nel gioco che mi sfibra.
Alimentare nuove angosce con l’amarezza implicita in queste ultime parole sarebbe allontanarmi
dal gioco.
Non posso essere in gioco senza l’angoscia che mi dà il sentimento di essere sospeso. Ma giocare
significa superare l’angoscia.
Temo che questa apologia serva a fini di stupidità, di magniloquenza. L’amore è semplice e senza
frasi.
Vorrei che nell’amore di ciò che non si conosce - derivante, per quanto io possa avercela contro,
dalle tradizioni mistiche - potessimo raggiungere, attraverso la rivendicazione della trascendenza,
una semplicità così grande da riconnettere questo amore all’amore terrestre - rifrangendolo
all’infinito.
VI
Quanto, infine, resta sconosciuto, è ciò che, nello stesso momento, riconosco: sono io stesso, nel
momento sospeso della certezza, io stesso nell’apparenza dell’essere amato, di un rumore di
cucchiaio, o del vuoto.
Fin dall’inizio l’essere amato si confuse stranamente con me. Ma, appena intravisto, si fece
inafferrabile. Per quanto lo cercassi, lo trovassi, lo stringessi... Per quanto sapessi... Non potevo
aver dubbi; ma se non avessi annegato questa angoscia nella sensualità, come avrei sopportato la
prova del desiderio?
Il dolore deriva da un diniego opposto all’amore dall’essere amato. L’essere amato si allontana, è
diverso da me.
Ma senza la differenza, senza l’abisso, l'avrei riconosciuto invano... L’identità resta in gioco. La
risposta che ci vien data al desiderio, è vera soltanto se non afferrata. Una risposta che si può
afferrare è la distruzione del desiderio. Questi limiti definiscono il desiderio (e ci definiscono).
Esistiamo nella misura in cui siamo in gioco. Se il gioco cessa, se ne traggo un elemento per
fissarlo, non c’è più ima sola eguaglianza che non sia falsa: passo dal tragico al ridicolo.
Tutti gli esseri, in fondo, sono un essere solo.
Si respingono l’un l’altro mentre non sono che uno. E in questo movimento - che è la loro essenza -
l’identità fondamentale si annulla.
Un’impressione di déjà-vu significa la sosta - improvvisa e temporanea - della repulsione
essenziale.
La repulsione è, in noi, la cosa già sorteggiata, l’elemento fisso.
La fissità nell’isolamento è uno squilibrio, come ogni stato.
Il desiderio definisce in noi la chance: è la trasparenza, il luogo di risoluzione dell’opacità. (La
bellezza fìsica è la trasparenza, ma passiva; la bruttezza virile - attiva -provoca la trasparenza
rovesciandola.)
La trasparenza non è l’eliminazione ma il superamento della solitudine individuale. Non è lo stato
di unità teorico e fondamentale, è probabilità, la chance, in un gioco.
La chance si frammischia al sentimento del déjà-vu.
L’oggetto di questo non è il puro essere-uno, ma l’essere separato, che deve il suo potere di negare
la separazione soltanto alla chance che gli è toccata come essere separato. Ma questa negazione
presuppone l’incontro con l’essere amato. È effettiva soltanto in rapporto all’altro, presupponendo
nell’altro un’eguale chance.
L’amore è questa negazione dell'essere-uno che la chance realizza, rilevando in un certo senso la
separazione, eliminandola soltanto per l’eletto.
In questa elezione l’essere amato è un superamento dell’universo, il cui splendore senza rischio è
unicamente quello dell’essere-uno. Ma la sua sorte - dò che egli è -presuppone l’amore. Dire che
l’essere amato è in realtà diverso da ciò che l’amore pone in lui rivela un difetto comune dei giudizi
sugli esseri. L’essere amato è nell’amore. Essere per uno solo, essere per una folla, essere per un
numero infinito di « conoscenze », sono altrettante realtà diverse, ma ugualmente vere. L’amore, la
folla, un ambiente sono realtà da cui dipende la nostra esistenza.
In amore, la chance è ciò che l’amante cerca prima di tutto nell’essere amato. Ma l’apertura sul
possibile è data pure dall’incontro dei due. Nell’unirli, l’amore è in un certo senso la festa del
ritorno all’essere-uno. Ha nello stesso tempo, ma ad un grado supremo, l’opposto carattere dell
'essere-sospeso, nell’autonomia, nel superamento del gioco.
VII
Odio i monaci.
Rinunciare al mondo, all’apertura sul possibile, alla verità dei corpi, dovrebbe secondo me
provocare vergogna.
Non c’è peccato più grave.
Sono felice di ricordare la notte in cui ho bevuto e ballato - ballato da solo, come un contadino,
come un fauno, in mezzo alle coppie.
Solo? veramente si ballava l’uno di fronte all’altro, in un potlatch 1 di assurdità, il filosofo - Sartre -
ed io.
Ricordo di aver danzato volteggiando.
Saltando, battendo il pavimento coi piedi.
In un sentimento di sfida, di comica follia.
Questa danza - davanti a Sartre - si collega in me al ricordo di un quadro (le Demoiselles d’Avignon
di Picasso). Il terzo personaggio era un pupazzo fatto di un teschio di cavallo e di un’ampia
vestaglia a righe, gialla e color malva. Uno squallido baldacchino di letto gotico sovrastava questi
sollazzi.
Un incubo di cinque mesi finiva in un carnevale.
Che stranezza associarmi a Sartre ed a Camus (cioè parlare di scuola).
D’altra parte, l’affinità die trovo in me coi monad Zen non mi incoraggia di sicuro (non ballano, non
bevono, non...).
In un ambiente dove si pensa allegramente (liberamente) lo Zen è oggetto di una fiducia un po’
affrettata. I più seducenti monaci Zen erano casti.
1Potlatch, parola indiana del Nord-America, significa una festa religiosa consistente in scambi di
doni. Gli etnologi ritengono questa istituzione una delle forme primitive del contratto. [N.d.T.]
APRILE-GIUGNO 1944
LA POSIZIONE DELLA CHANCE
In che misura la distruzione che la morale fa di se stessa è ancora una prova della sua forza? Noi
europei ci portiamo dentro il sangue di coloro che son morti per la propria fede; abbiamo preso la
morale terribilmente sul serio; le abbiamo sacrificato tutto. D’altra parte la nostra raffinatezza
intellettuale è dovuta soprattutto alla vivisezione delle coscienze. Ignoriamo ancora in che direzione
saremo spinti quando avremo lasciato il nostro antico territorio. Ma questa terra stessa ci ha
comunicato la forza che ora ci spinge lontano, all’avventura, verso paesi senza sponde, che non
sono ancora stati scoperti né sfruttati; non abbiamo scelta, dobbiamo essere conquistatori
poiché non abbiamo più una patria dove avremmo desiderato di « stabilirci ». Ci spinge un'
affermazione segreta, più forte di tutte le nostre negazioni. La nostra forza stessa non ci permette di
restare su questo suolo antico e decomposto; ci arrischiamo a partire, ci mettiamo in gioco noi
stessi; il mondo è ancora ricco e sconosciuto ed è meglio morire piuttosto che diventare invalidi e
velenosi. Il nostro stesso vigore ci spinge in alto mare, verso il punto in cui finora sono tramontati
tutti i soli; sappiamo che c’è un nuovo mondo...
I
Faccio in modo che un istante per me importantissimo, che aspettavo per così dire in lacrime, mi
sfugga. Per questo vado oltre i miei mezzi. Non ci son tracce nella memoria o ben poche. Non
scrivo ciò deluso e irritato ma, come la freccia lanciata, sicuro di arrivare allo scopo.
Ciò che dico è comprensibile a questa condizione: che si abbia il gusto di una purezza abbastanza
vera perché sia impossibile viverla.
L’equivoco infinito: ciò die amo, e in cui come l’allodola grido al sole la mia gioia, devo dirlo in
termini deprimenti.
II
Ritornando indietro, copio pagine vecchie di più d’un anno: nel gennaio del 1943, mi rappresentai
per la prima  volta (arrivavo a V.) l'« apertura sul possibile », la chance  di cui parlo:
Quanto è noioso riflettere talmente - su tutto il possibile. Il futuro considerato come pesante. Ma:
Per quanto io sia abile a mettere in dubbio, in un’angoscia annodata a qualcosa (nulla che non entri
in gioco, in particolare la necessità di avere risorse: e tutto ciò connesso al patetico della
Fenomenologia dello spirito -della lotta di classe: mangerò se...; all’inizio dell’anno 1943, mi viene
in aiuto il patetico degli avvenimenti - soprattutto di quelli futuri), niente mi scuserebbe di
venir meno al mio cuore (al fondo del cuore, in me: levità, zampillo).
Nessuno più di me è straziato nel vedere: intuendo l’infinito, non escludendo nulla, intricando
l’angoscia ai diritti, alle ire, alle furie della miseria. Come non dare tutta la forza alla miseria? Essa
non potrebbe però infrangere in me la danza del cuore che ride dal fondo della disperazione.
Dialettica hegeliana. - Oggi mi è impossibile essere soltanto un collegamento tra due punti, un salto
che esso stesso non posa per un istante su nulla.
Il salto rappresentava i due quadri. Stendhal scalzava allegramente le sue risorse (la società nella
quale riponeva le sue risorse). Arriva il momento della resa dei conti.
Nella resa dei conti, i personaggi in aria tra due punti sono soppressi.
Due rappresentazioni si contraddicono. Nel primo paragrafo mi rappresentavo libero dall’angoscia
della resa dei conti.
E ancora:
Il salto è la vita, la resa dei conti è la morte.
E se la storia si ferma io muoio.
Oppure:
Oltre ogni resa dei conti, un nuovo genere di salto? se la storia è finita, un salto fuori del tempo?
esclamando per sempre: Time out of joints.
In uno stato di estrema angoscia - e poi di decisione -scrissi queste poesie:
E grido fuori di me che mai
non più speranza
nel mio cuore si nasconde
un topo morto
il topo muore è braccato
e nelle mie mani il mondo è morto
spenta la vecchia candela
prima di mettermi a letto
la malattia la morte del mondo
io sono la malattia
sono la morte del mondo.
Il silenzio nel cuore
il silenzio di un singulto
ai colpi del vento violento
le mie tempie battono la morte
e cade una nera stella
nel mio scheletro ritto
nero
silenzio invado il cielo
nero la mia bocca è un braccio
nero
scrivere su un muro di fiamme
nere
il vento vuoto della tomba
fischia nella mia testa.
Il folle silenzio di un passo
il silenzio di un singulto
dov’è la terra dove il cielo
e smarrito il cielo
impazzisco.
Smarrisco il mondo e muoio
lo dimentico l’ho sepolto
nella tomba delle mie ossa.
O    i miei occhi d’assente
i miei occhi di teschio.
Speranza
o mio cavallo di legno
nelle tenebre un gigante
sono io, quel gigante
su un cavallo di legno.
Cielo stellato
sorella mia
uomini maledetti
stella, tu sei la morte
la luce di un grande freddo
solitudine della folgore
infine assenza dell’uomo
mi svuoto di memoria
un sole deserto
cancella il nome
stella io la vedo
il suo silenzio agghiaccia
urla come un lupo
cado a terra sul dorso
essa mi uccide la indovino.
O dadi gettati
dal fondo della tomba
tra dita di lieve notte
dadi uccelli di sole
balzo d’allodola ebbra
io come la freccia
saettante dalla notte
o trasparenza delle ossa
ebbro di sole il mio cuore
è l’asta della notte.
III
Ho vergogna di me stesso. Mi par d’essere rammollito, influenzabile... invecchio.
Qualche anno fa, ero autoritario, ardito, sapevo condurre un gioco. Ora probabilmente è finita e
forse era una cosa superficiale. L’azione, l’affermazione, comportavano a quei tempi ben poco
rischio!
Ogni molla in me sembra spezzata:
la guerra smentisce le mie speranze (nulla agisce all’infuori delle macchinazioni politiche);
sono debilitato da una malattia;
un’angoscia continua finisce di distruggermi i nervi (ma non posso considerarne l’occasione come
una debolezza);
sul piano morale, mi sento ridotto al silenzio (il culmine non può essere affermato, nessuno può
parlare a suo nome).
A questo si oppone una coscienza sicura di sé: se esiste ima probabilità di agire, me ne servirò, non
come d’un gioco secondario, ma puntando la mia vita. Anche se sono malato, vecchio e
febbricitante, il mio carattere è l’agitare. Non posso sopportare all’infinito la sterilità senza limiti
(mostruosa) a cui costringe la fatica.
(Se, nelle mie condizioni attuali di vita, mi lascio andare un momento, mi gira la testa. Alle cinque
del mattino, ho freddo, mi sento venir meno. Non posso far altro che cercar di dormire.)
La vita? la morte? talvolta butto l’occhio con amarezza verso il peggio; non potendone più, recito a
scivolare nell’orrore. So che tutto è perduto; la luce che potrebbe infine illuminarmi brillerebbe per
un morto.
Tutto in me ride ciecamente alla vita. Cammino nella vita, con la leggerezza di un bambino, la
reggo.
Ascolto cadere la pioggia.
La mia tristezza, le minacce di morte, e questa specie di paura, che distrugge ma indica un culmine,
si agitano in me; tutto questo mi ossessiona, mi soffoca... ma vado oltre — andiamo oltre.

IV
Mi meraviglio di cadere nell’angoscia - e tuttavia!
Non smetto di giocare: è la condizione dell’ebbrezza del cuore.
Ma vuol dire anche misurare il fondo ripugnante delle cose: giocare è sfiorare il limite, andare il più
lontano possibile, e vivere sull’orlo dell’abisso!
Uno spirito libero e che voglia essere tale sceglie tra l’ascesi e il gioco. L’ascesi è il gioco nella
chance contraria, una negazione del gioco invertitasi da sola. L’ascesi, è vero, rinuncia, si ritira dal
gioco, ma il suo ritiro stesso è un modo di puntare.
Ugualmente il gioco è una specie di rinuncia. La somma puntata dall’autentico giocatore è perduta
come « risorsa »: egli non ne « godrà » più. Se la perde, è detto tutto. Il guadagno che si aggiunge
alla prima puntata, se egli vince, è il completamento delle nuove puntate e null’altro. Il denaro del
gioco « brucia le mani ». L’ardore del gioco consacra al gioco. (Le martingale e la speculazione
matematica sono l’opposto del gioco come il calcolo delle probabilità lo è della sorte, della chance.)
Così, quando il desiderio mi brucia - e mi inebria -quando perseguire il suo obiettivo diventa il mio
gioco, non posso in fondo avere la minima speranza. Il possesso, come la vincita del giocatore,
accresce il desiderio -o lo spegne. « Non c’è più riposo, ormai, per me! ».
H romanticismo oppone, a quella dell’ascesi, ima santità del gioco che rende insipidi i monaci e gli
astinenti.
« Onorare tanto più il fallimento quanto più è fallimento »... Così, in Ecce homo, Nietzsche si
esprime a proposito del rimorso.
Le dottrine di Nietzsche hanno questo di strano, che non si può seguirle. Esse ci pongono dinanzi
bagliori imprecisi, spesso abbaglianti: nessuna strada conduce nella direzione indicata.
Nietzsche profeta di nuove vie? Ma superuomo, eterno ritorno nulla contano come motivi di
esaltazione o di azione. Senza effetto, se paragonati ai motivi cristiani, o buddhisti. La stessa
volontà di potenza è ben meschino tema di meditazione. Averla è bene: ma rifletterci?
Nietzsche si accorse della falsità dei profeti che dicono: « fate questo o quello »; che indicano il
male ed esortano alla lotta. « La mia esperienza » egli afferma in Ecce homo « ignora ciò che
significa “volere” qualcosa, “lavorarvi ambiziosamente”, mirare ad imo “scopo” o alla realizzazione
di un desiderio. » Nulla di più contrario al buddhismo, al cristianesimo di propaganda.
Paragonati a Zarathustra, Gesù e Buddha sembrano servili. Avevano qualche cosa da fare in questo
mondo e anche un compito pesante. Erano soltanto « saggi », « dotti », « salvatori ». Zarathustra
(Nietzsche) è qualche cosa di più: un seduttore, che rideva dei compiti che si era assunto.
Si immagini un amico di Zarathustra che si presenta al monastero e, rifiutato, si siede sotto il
portico d’entrata, aspettando l’accettazione dalla buona volontà dei superiori. E qui non si tratta
soltanto di essere umile, di chinare il capo senza ridere: il buddhista come il cristiano prende sul
serio ciò che comincia a fare - s’impegna a non avvicinare più donne, per quanta voglia ne
abbia! Gesù, Buddha avevano qualche cosa da fare in questo mondo: fissarono ai loro discepoli un
compito arido e obbligatorio.
ce non è il « vivi pericolosamente » del profeta, ma di non aver nulla da fare in questo mondo.
Una delle due: o non si crede a nulla di ciò che si può fare (che si può effettivamente compiere, ma
senza fede), o non si è il discepolo di Zarathustra, che non fissa compiti.
Ho sentito al caffè dove pranzo una discussione domestica. Rimostranza del padrone, del marito
(giovane e sciocco): « Quella mi fa il muso, perché? ». La moglie serve in sala, con un sorrisetto in
tralice.
Dappertutto si manifesta la discordanza delle cose. Ma non è forse augurabile? Anche la
discordanza -aperta in me come una piaga - tra K. e me, la fuga senza fine che mi sottrae la vita e
senza fine mi lascia nello stato di un uomo che cade per uno scalino imprevisto, la sento, in fondo, e
nonostante la paura, voluta da me. Quando K. mi scivola sotto gli occhi e mi oppone uno sguardo
assente, talvolta mi capita - dolorosamente - di indovinare in me un’ardente complicità. E lo stesso,
oggi, forse alla vigilia di catastrofi personali, non posso non riconoscere un fondo di voglia,
un’attesa delle prove vicine (indipendentemente dai risultati).
Se per esprimere il mio sentimento avessi a disposizione le risorse della musica, ne risulterebbe un
bagliore, certo fragile, e nello stesso tempo un’ampiezza molle e delirante, un moto di gioia così
selvaggia ma così abbandonata, che non si potrebbe più dire se muoio o rido.
V
Improvvisamente viene il momento - difficoltà, sfortuna e grande eccitazione delusa - a cui si
aggiungono minacce di sventure: vacillo e, rimasto solo, non so come sopportare la vita.
O meglio lo so: mi indurirò, riderò della mia debolezza, proseguirò come prima per la mia strada.
Ma ora ho i nervi scoperti e, sfatto per aver bevuto, mi sento infelice di essere solo e d’aspettare.
Questo tormento è insopportabile perché non è l’effetto di alcuna sventura e deriva soltanto
dall'eclissi della chance.
(Chance fragile e sempre in gioco, che mi affascina e mi sfinisce.)
Ora mi irrigidirò, andrò per la mia strada (ho cominciato). A patto di agire! Scrivo questa pagina
con grande cura, come se ne valesse la pena.
A patto di agire!
Di aver qualche cosa da fare!
Altrimenti come potrei indurirmi? Come potrei sopportare questo vuoto, questa sensazione di
inanità, di sete che nulla può estinguere? Ma che cosa devo fare se non precisamente scrivere
questo: questo libro dove ho raccontato il mio smacco (la mia disperazione) per non aver nulla da
fare in questo mondo?
Nel fondo stesso del mancamento (lieve, in realtà), indovino.
Ho uno scopo al mondo, una ragione di agire.
Non può essere definito.
Immagino una strada difficile, tutta segnata di difficoltà, dove mai mi potrebbe abbandonare il
bagliore della mia chance. Immagino l’inevitabile, tutti gli avvenimenti futuri.
Nello strazio e nella nausea, nei mancamenti in cui le gambe si piegano e fino al momento della
morte, starò in gioco.
La chance che mi è toccata e che si rinnovò senza stanchezza, che mi precedette ogni giorno
come l’araldo il cavaliere
che da nulla fu mai limitata, che evocavo quando scrissi
io come la freccia saettante dalla notte
questa chance mi lega a chi amo, nel meglio e nel peggio, vuole essere tenuta in gioco fino
all’ultimo.
E se capita che al mio fianco qualcuno la veda, la metta in gioco!
Non è la mia, è la sua chance.
Non potrà afferrarla più di quanto possa fare io.
Non saprà nulla di essa; la porrà in gioco.
Ma chi potrebbe vederla senza porla in gioco?
Chiunque tu sia, lettore: metti in gioco la tua chance. Come lo faccio io, senza fretta, così come nel
momento in cui scrivo ti metto in gioco.
Questa chance non è né tua né mia. È la chance di tutti gli uomini e la loro luce.
Ebbe mai lo splendore che le dà ora la notte?
Nessuno, all’infuori di K. e di M. (forse) può conoscere il significato di questi versi (o di quelli
precedenti):
dadi per uccelli di sole...
(Sono anche, su un altro piano, privi di senso.)
Sto in gioco sull’orlo di un abisso così grande che soltanto un sogno, un incubo di moribondo
possono definirne la profondità.
Ma giocare è prima di tutto non prendere sul serio. E morire...
L’affermazione particolare della chance, insieme con quella del gioco, sembra vuota e inopportuna.
È un peccato limitare ciò che è, per essenza, illimitato: la chance, il gioco.
Posso pensare: K. o X. non possono stare in gioco senza di me (è vero il contrario, non potrei stare
in gioco senza K. e X.). Questo non vuol dire nulla di definito (se non « mettere in gioco la propria
chance » è « trovarsi »; « trovare se stessi » vuole dire « trovare la chance che si era »; « la chance
che si era » viene raggiunta soltanto « stando in gioco »).
Ed ora?
Se definisco un genere di uomini degni di essere amati - voglio essere ascoltato con un solo
orecchio.
La definizione denuncia il desiderio. Mira ad un culmine inaccessibile. Il culmine si sottrae
all’essere concepito. È dò che è, mai dò che deve essere. Dopo essere stato indicato, il culmine si
riduce alla comodità di un essere, si riferisce all’interesse di questo. Nella religione, è la salvezza -
propria o degli altri.
Due definizioni di Nietzsche:
1° « stato d’animo elevato. Mi sembra che, in genere, gli uomini non credano ad uno stato di
elevazione spirituale, se non a momenti, al massimo per dei quarti d’ora - eccettuati alcuni pochi i
quali conoscono per esperienza il perdurare degli stati d’animo elevati. Ma essere l’uomo di un solo
grande sentimento, l’incarnazione di un unico eccelso stato d’animo, è stato finora soltanto un
sogno ed una estasiante possibilità: la storia non ce ne dà ancora alcun esempio sicuro. Tuttavia
essa potrebbe un giorno far nascere un tal genere di uomini -e ciò avverrà quando si sarà creata e
stabilizzata una serie di condizioni favorevoli, che ora neppure il caso più felice sarebbe in grado di
mettere insieme. Forse, in questi spiriti del futuro, lo stato eccezionale che ci afferra di tanto in tanto
in un fremito diventerebbe lo stato normale: un andirivieni continuo tra l’alto e il basso,
un sentimento di alto e di basso, un continuo salire come delle scale e un continuo librarsi sulle
nuvole » (La gaia sdenta, 288).
2° « L’anima che ha la scala più lunga e può scendere più in basso, l’anima più vasta, quella che
può correre, errare, vagabondare più lontano in se stessa,
l’anima più necessaria, quella che si getta con piacere nel rischio,
l’anima che è, e vuole entrare nel divenire; l’anima che ha, e vuole gettarsi nella volontà e nel
desiderio,
l’anima che fugge se stessa e che si riafferra sul circuito più lungo,
l’anima più saggia cui la follia parla più dolcemente nel cuore,
l’anima che ama di più se stessa e nella quale ogni cosa ha la sua ascesa e la sua discesa, il flusso e
il riflusso » (Zarathustra).
Non si negherà senza ragione l’esistenza effettiva di questo genere di anime.
Esse sarebbero diverse dai mistici nel senso che « giocherebbero » e non potrebbero essere l’effetto
di un’applicazione che specula sui risultati.
Non so che cosa significa questa provocazione rivolta

a K.
Tuttavia non posso evitarla.
Per me è la verità stessa:
- Tu sei ima parte di me stesso, un pezzo tagliato sul vivo. Se fallisci il tuo culmine, me ne trovo
disturbato. In altro senso, questo è un sollievo; ma se falliamo davanti a noi stessi, che sia a patto di
avere una scala (possiamo, dobbiamo allontanarci da noi stessi, ma soltanto se, una buona volta,
arriviamo sino in fondo e, senza più computare, ci buttiamo in gioco). So che non c’è al mondo
alcun genere di obbligo, tuttavia non posso distruggere in me l’impaccio che deriva dalla paura
del gioco.
Chiunque, in fin dei conti, è parte di me stesso.
Per fortuna, questo non è percettibile, di solito.
Ma l’amore scopre nel vivo questa verità.
Non c’è più nulla in me che non proceda zoppicando, più nulla che non arda e non viva - o muoia -
di speranza.
Sono una provocazione per quelli che amo. Non posso sopportare di vederli dimenticare la chance
che sarebbero se s’introducessero nel gioco.
Una speranza insensata mi innalza.
Mi vedo davanti ima specie di fiamma, che sono io stesso, e che mi incendia.
« ...vorrei far del male a coloro che illumino ».
Sopravvivo - non potendo far nulla - alla lacerazione, seguendo cogli occhi questo bagliore che mi
schernisce.
« Se si conserva anche un minimo residuo di superstizione, sarà diffìcile difenderci dall’impressione
di essere soltanto l’incarnazione, il portavoce, il medium di una potenza superiore. L’idea di
rivelazione, se si intende con questo l’improvvisa apparizione di qualcosa che si fa vedere e sentire
a un uomo con una nitidezza ed una precisione inesprimibili, sconvolgendo tutto in lui,
sovvertendone l’animo fin nell’intimo, questa idea di rivelazione è pura descrizione dell’evidenza di
un fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si domanda chi dà; il pensiero fulmina come il lampo,
si impone necessariamente e in forma definitiva: non mi sono mai trovato a dover scegliere. E' un
rapimento in cui talvolta il nostro animo troppo teso trova sollievo in un torrente di lacrime, ci si
mette a camminare macchinalmente, si va più in fretta, si rallenta senza saperlo; è un’estasi che ci
rapisce a noi stessi, lasciandoci la percezione di mille brividi delicati che ci percorrono fino alla
punta dei piedi; è un abisso di dolcezza in cui l’orrore e l’estrema sofferenza non appaiono come il
contrario, ma come qualcosa di risultante, di provocato, il colore necessario nel fondo di questo
oceano di luce... » (Ecce homo).
Io non immagino una «potenza superiore». Vedo, nella sua semplicità, la chance, insostenibile,
buona, ardente...
E senza di essa gli uomini sarebbero quello che sono.
Ciò che vuole esser divinato nell’ombra davanti a noi: ammaliante richiamo di un latteo aldilà,
certezza di un lago di delizie.
VI
L’interrogazione nel mancamento appartiene a quelle che esigono subito una risposta. Devo vivere,
non sapere soltanto. L’interrogazione che voleva sapere (il supplizio) sottintende che le vere
preoccupazioni siano allontanate: essa avviene quando la vita è sospesa.
Mi è facile ora vedere ciò che svia quasi ogni uomo dal possibile, o, se si preferisce, ciò che svia
l’uomo da se stesso.
Effettivamente il possibile è solo una chance - che non si può afferrare senza pericolo. Tanto vale
accettare la vita scialba, e considerare un pericolo la verità della vita che è la chance. La chance è
un elemento di rivalità, un’impudenza. Da ciò l’odio del sublime, l’affermazione del terra-terra ad
unguem e il timore del ridicolo (dei sentimenti rari, nei quali si inciampa o che si teme di avere).
L’atteggiamento falso, scialbo, sornione, chiuso alla « sconvenienza » e perfino a qualsiasi
manifestazione di vita (atteggiamento che caratterizza generalmente la « virilità » intesa come l’età
matura, e soprattutto le conversazioni), è, se ci si pensa, timor panico della chance, del gioco, del
possibile aperto all’uomo e di tutto ciò che pretendiamo di amare nell’uomo, che riceviamo in sorte
come chance e rifiutiamo con l’aria falsa e chiusa di cui ho parlato come casualità di gioco, come
squilibrio, ebbrezza, pazzia.
È così. Ogni uomo è occupato ad uccidere in sé l’uomo. Vivere, esigere la vita, far risonare un
rumore di vita, è andar contro l’interesse. Dire intorno a sé: « guardatevi, siete tetri, tozzi; questo
rallentamento, questa voglia di essere spenti, questa noia infinita (accettata), questa mancanza di
orgoglio, ecco quel che voi fate di un possibile; leggete ed ammirate, ma uccidete in voi e intorno a
voi ciò che dite di amare (voi lo amate soltanto
scaduto, morto, e non nell’atto di stimolarvi), amate il possibile nei libri, ma io leggo nei vostri
occhi l’odio della chance... ». E parlare così è sciocco, è andare invano contro corrente,
ricominciare le lamentazioni dei profeti. L’amore richiesto dalla chance - la quale vuol
essere amata - domanda pure che amiamo l’impotenza ad amarla, tipica di ciò che essa rifiuta.
Non odio affatto Iddio, in fondo lo ignoro. Se Dio fosse ciò che si è detto, sarebbe chance. Per me,
non è meno sconcio trasformare la chance in Dio di quanto lo sia l’inverso per un devoto. Dio non
può essere chance,  poiché è tutto. Ma la chance che tocca in sorte, che agisce senza fine, che si
ignora e si rinnega in quanto è toccata in sorte (è la guerra stessa), domanda di essere amata e non
ama meno di quanto i devoti immaginarono di Dio. Che dico? Al confronto della sua esigenza,
quella di un Dio è vezzo da bambini. Infatti la chance innalza per far cadere da una maggiore
altezza; la sola grazia che possiamo infine sperare è che ci distrugga tragicamente invece di farci
morire di ebetudine.
Quando i falsari della devozione oppongono all’amore di Dio quello della creatura, oppongono la
chance a Dio, dò che tocca in sorte (si gioca) all’opprimente totalità del mondo già accaduto, «
toccato ».
PER SEMPRE L’AMORE DELLA CREATURA È IL SEGNO E LA VIA DI UN AMORE
INFINITAMENTE PIÙ VERO, PIÙ STRAZIANTE, PIÙ PURO DELL’AMORE DIVINO (Dio: Se
si considera quest’immagine sviluppata, è semplice supporto del merito, sostituzione di ima
garanzia all’alea).
A chi afferra il significato della chance, quanto pare scialba l’idea di Dio, e torbida, un’idea che
tarpa le ali!
Dio, come tutto, insignito degli attributi della chance! Tale scivolosa aberrazione ha come
presupposto l’annientamento - intellettuale, morale - della creatura (la creatura è la chance umana).
VII
Scrivo seduto su una banchina con i piedi sulla massicciata. Aspetto. Odio aspettare. Ho poca
speranza di arrivare in tempo. Questa tensione opposta al desiderio di vivere... che assurdità! Parlo
della mia tetra evocazione di una felicità in mezzo ad ima folla oppressa che aspetta - al cader del
giorno, tra il lusco e il brusco.
Arrivato in tempo. Sei chilometri a piedi nella foresta di notte. Svegliata K. gettando manciate di
sassolini contro la finestra. Allo stremo delle forze.
Parigi è greve, dopo i bombardamenti. Ma non troppo. Quando ci lasciamo, S. mi dice una frase
della sua portinaia: « Cosa mai siamo costretti a vedere in questi tempi: pensi che si sono trovati
cadaveri vivi sotto le macerie! ».
Da un racconto di tortura (Petit Parisien, 27-4): « ...accecato, con le orecchie e le unghie delle
mani strappate, la testa fracassata a colpi di bastone e la lingua tagliata con una tenaglia... ». Da
bambino, l’idea del supplizio mi rendeva faticosa la vita. Ancora adesso non so come potrei
sopportarlo... La terra è nei cieli, dove gira... Oggi la terra, da ogni parte, si copre di fiori -
lillà, glicine, iris - e nello stesso tempo rumoreggia la guerra: centinaia di aerei riempiono la notte di
un ronzio di mosche.
La sensualità non è nulla senza il torbido scivolare, in cui l’inaccessibile - qualche cosa di
vischioso, di folle, che di solito sfugge - è improvvisamente percepito. Questo « vischioso » sfugge
ancora, ma anche soltanto intravedendolo, i nostri cuori battono di pazze speranze: queste stesse
speranze le quali, urtandosi, spingendosi come per raggiungere un’uscita, fanno scaturire, alla fine...
Spesso un aldilà insensato ci strazia quando sembriamo lascivi.
« Aldilà » che inizia dalla sensazione del nudo. Il nudo casto è l’estremo limite dell’imbecillità. Ma
se esso ci desta alla voglia di contatto (dei corpi, delle mani, delle umide labbra), è dolce, animale,
sacro.
Perché, una volta nudo, ciascuno di noi si apre a qualche cosa di più che se stesso, si inabissa
dapprima nell’assenza di limiti animali. Ci inabissiamo, allargando le gambe, spalancati il più
possibile a ciò che non è più noi stessi ma l’esistenza impersonale, paludosa, della carne.
La comunicazione dei due esseri che passano attraverso una perdita di se stessi nel dolce fango che
è loro comune...
Un’immensa distesa di bosco, alture dall’aspetto selvaggio.
Manco di fantasia. Il massacro, l’incendio, l’orrore: questo, sembra, riserveranno le prossime
settimane. Passeggiando nella foresta o scoprendo l’ampiezza di un’altura, non riesco a
immaginarla mentre sta bruciando: tuttavia brucerebbe come la paglia.
Visto oggi, da molto lontano, il fumo di un incendio dalla parte di A.
Intanto, questi ultimi giorni sono tra i migliori della mia vita. Quanti fiori da ogni parte! Quanto è
bella la luce, e pazzamente alto nel sole il frondeggiare delle querce!
La sovranità del desiderio, dell’angoscia, è l’idea più difficile da capire. Infatti il desiderio si
nasconde. E naturalmente l’angoscia tace (non afferma nulla). Dalla prospettiva della sovranità
banale, l’angoscia e il desiderio sembrano pericoli. Dalla prospettiva dell’angoscia, del desiderio,
cosa possiamo farcene della sovranità?
Che cosa significa in più la sovranità die non regna, da tutti misconosciuta, obbligata ad esserlo, e
pur na-
scondentesi poiché non ha nulla che non sia ridicolo e inconfessabile?
Tuttavia immagino l'autonomia dei momenti di angoscia o di gioia (estasi o piacere fisico) come la
meno contestabile. Il piacere sessuale (che si nasconde ed è motivo di riso) raggiunge l’essenziale
della maestà. E così la disperazione.
Ma il disperato, il voluttuoso, non conoscono la loro maestà. E se la conoscessero, la perderebbero.
L'autonomia umana necessariamente sfugge (si rende schiava proprio affermandosi). La vera
sovranità è una esecuzione capitale di se stessa, così coscienziosa che non può, in alcun momento,
porsi il problema di questa esecuzione.
A una donna occorre più virtù per dire: « No men around here, I'll go and find one », che per
rifiutare nella tentazione.
Se si è bevuto, si scorre naturalmente l’uno nell’altro. La parsimonia è allora un vizio, un’esibizione
di povertà (di disseccamento).
Se non fosse per la capacità che hanno gli uomini di offuscare e avvelenare le cose sotto ogni
aspetto - di essere rancidi e pieni di fiele, piatti e meschini - che scusa avrebbe la prudenza
femminile? Il travaglio, la pena, un amore immenso..., il meglio e il peggio.
Giornata piena di sole, quasi estiva. Il sole, il calore bastano a se stessi. I fiori si aprono, i corpi...
La debolezza di Nietzsche: egli critica in nome di un valore mobile, di cui non ha, evidentemente,
potuto afferrare l’origine e la finalità.
Cogliere una possibilità isolata, con uno scopo particolare, che sia solo per se stessa uno scopo, non
è giocare, in fondo?
E' possibile allora che l’interesse dell’operazione stia nel gioco, non nello scopo prescelto.
E se mancasse questo fine ristretto? Il gioco ne ordinerebbe comunque i valori.
Gli aspetti superuomo o Borgia sono limitati, vanamente definiti, di fronte a possibili la cui essenza
consiste in un superamento di se stessi.
(Questo non toglie nulla allo scompiglio, al vento violento, che rovescia le antiche sufficienze.)
Questa sera mi sento fisicamente sfinito, moralmente bizzarro, irritato. E aspetto sempre... Certo
non è il momento di « mettere in questione ». Ma che posso farci? La stanchezza e l’irritazione mi
mettono in causa mio malgrado e, nell’attuale stato di sospensione, finiscono persino col porre tutto
in causa. Temo soltanto, in queste condizioni, di non poter arrivare a capo di un possibile che sia
lontano. Che cosa significa un mancamento, del resto facile da superare? Abortirò in tutti i sensi,
imputando alla mia debolezza un risultato che sfugge.
Mi accanisco - e, infine, ritorna la calma, il sentimento di dominare e di essere sì un giocattolo, ma
d’accordo col gioco.
Andare fino in fondo? Ora non posso che andare avanti a caso. Or ora, per la strada, in un viale di
ippocastani, le fiamme del nonsenso spalancavano i limiti del cielo... Ma devo rispondere a
domande immediate. Che fare? Come rapportare ai miei fini un’attività che non esiti più? Condurre
così nel vuoto un essere pieno?
Alla pura esultanza dell’altro giorno è seguita un’inquietudine immediata. Nulla di inatteso. Di
nuovo spezzato dall’attesa.
Ho fatto, or ora, con K. il giro delle cose. Per un momento - tanto breve - eravamo appena stati
felici. La possibilità di un vuoto infinito mi ossessiona, la coscienza di ima situazione inesorabile, di
un futuro senza via di uscita (non parlo più di avvenimenti prossimi).
Altre situazioni più pesanti? un tempo?
Non è certo.
Oggi tutto è nudo.
Ciò che poggiava su di un artificio è perduto.
La notte in cui entriamo non è soltanto la notte oscura di Juan de la Cruz, né l’universo vuoto senza
un Dio soccorrevole: è la notte della fame vera, del freddo che ci sarà nelle camere e degli occhi
strappati nei locali della polizia.
Vale la pena di considerare questa coincidenza di tre diverse disperazioni. Mi sembra di non aver
diritto di pensare all’aldilà della chance di fronte ai bisogni della folla, so che non c’è scampo e che
i fantasmi del desiderio accrescono infine il dolore.
In queste condizioni, come giustificare il mondo? o piuttosto: come giustificare me stesso? come
voler essere?
Occorre una forza fuori del comune, ma, se non disponessi già di questa forza, non avrei afferrato
questa situazione nella sua nudità.
Ecco ciò che mi fa andare sino al fondo. Le mie angosce quotidiane.
La dolcezza, o meglio la delizia della mia vita.
Allarmi costanti, che riguardano la mia vita personale, per me inevitabili, tanto più grandi quanto
maggiore è la delizia.
Il valore assunto dalla delizia nel momento in cui, da ogni lato, è presente l’impossibile.
Il fatto che alla minima debolezza, tutto nello stesso tempo mi vien meno.
L’entusiasmo col quale scrivo mi ricorda il Dos de mayo di Goya. Non scherzo. Questo quadro ha
poco a che vedere con la notte: è folgorante. La mia felicità presente è solida. Mi cresce una forza
alla prova del peggio. Rido di questo e di quello.
Altrimenti cadrei, senza aver nulla a cui appigliarmi, in un vuoto definitivo.
Sono chance, luce, e questo, lentamente, fa indietreggiare l’inevitabile.
Oppure?
Sarei il soggetto di sofferenze infinite, prive di senso.
Per questo, soffrirei due volte la perdita di K. Essa non colpirebbe in me soltanto la passione ma il
carattere (l’essenza).
Mi sveglio angosciato del torpore di ieri. Ogni oblio deprime: il mio denuncia la stanchezza. La
stanchezza nelle condizioni anormali in cui vivo? La stanchezza è vicina alla disperazione?
L’entusiasmo stesso sfiora la disperazione.
Questa angoscia è superficiale. La costanza è più forte. Il fatto di aver parlato della mia risoluzione
la rende tangibile: è la stessa, questa mattina o ieri. La passione è, in un certo senso, in secondo
piano. O meglio, si trasforma in decisione. La passione che assorbe la vita la degrada. Essa gioca
tutto, la vita intera, per una posta particolare. La passione pura si può paragonare alle orchestre di
donne senza uomini: manca un elemento e si fa il vuoto. Il gioco che immagino, invece, è il più
completo: non c’è nulla in esso che non sia posto in causa, la vita di tutti gli esseri e il futuro del
mondo intelligibile. Anche il vuoto considerato nella perdita sarebbe, in questo caso, la risposta
attesa al desiderio infinito, l’uscire di ima morte infinita, un vuoto così grande che scoraggia perfino
la disperazione.
Ciò che è oggi in questione non è la scomparsa del carattere forte (lucido, cinico), ma soltanto
l’unione tra questo carattere e la totalità dell’essere: ai punti estremi dell’intelligenza e
dell’esperienza del possibile.
In ogni campo, bisogna considerare:
1° una media accessibile in generale, o per una determinata massa: come il livello di vita medio, il
rendimento medio;
2° l’estremo, il record, il culmine.
Umanamente, non si possono eliminare né l’ima né l’altra di queste opposte situazioni. Il punto di
vista della massa conta necessariamente per l’individuo, come quello dell’individuo per la massa.
Se si nega uno di questi punti di vista, lo si fa provvisoriamente, in circostanze definite.
Queste considerazioni sono chiare per quanto riguarda i particolari campi (gli esercizi fisici,
l’intelligenza, la cultura, le capacità tecniche...); lo sono meno se si tratta della vita in generale: di
ciò che è possibile aspettarsene, oppure, del modo di esistere che vai la pena di amare (cercare,
magnificare). Anche tralasciando le divergenze di opinioni, un’ultima difficoltà deriva dal fatto che
il modo di esistere preso in considerazione differisce qualitativamente - e non soltanto
quantitativamente - a seconda che si consideri la media o l’estremo. In realtà esistono due specie di
estremi: quello che, dal di fuori, sembra estremo alla media; quello che sembra estremo a chi fa lui
stesso l’esperienza delle situazioni estreme.
Qui ancora, umanamente, nessuno può eliminare l’uno o l’altro di quei punti di vista.
Ma se la media che elimina il punto di vista puro dell’estremo è giustificabile, non è la stessa cosa
per l’estremo che nega l’esistenza e i diritti di un punto di vista medio.
Dirò di più.
L’estremo non può essere raggiunto se si immagina la massa obbligata a riconoscerlo come tale
(Rimbaud che immagina la folla sminuita dal fatto che essa ignora, misconosce Rimbaud!).
Ma:
non c’è neppure un estremo senza il riconoscimento da parte degli altri uomini (a meno che non si
tratti dell’estremo degli altri: mi riferisco al principio hegeliano dell 'Anerkennen). La possibilità di
essere riconosciuto da una minoranza significativa (Nietzsche) è già essa stessa nella notte. Verso la
quale infine si rivolge ogni estremo.
Soltanto la chance riserva alla fine una possibilità che calma.
VIII
Dalle numerosissime difficoltà della vita deriva ima possibilità infinita: noi attribuiamo a quelle che
ci hanno fermato il sentimento di impossibile che ci domina!
Se crediamo l’esistenza intollerabile, dipende dal fatto che un male preciso la svia.
E lottiamo contro questo male.
L’impossibile è eliminato se è possibile la lotta.
Se pretendiamo il culmine, non possiamo considerarlo raggiunto.
Sento invece la necessità di dire - tragicamente? forse...:
« L’impotenza di Nietzsche è senza scampo ».
Se la possibilità ci è data nella chance - non quella ricevuta dal di fuori, ma quella che siamo,
giocando e sforzandoci fino all’ultimo, non c’è evidentemente nulla di cui possiamo dire: « sarà
possibile così ». Non sarà possibile, ma giocato. E la chance, il gioco, presuppongono in fondo
l’impossibile.
La tragedia di Nietzsche è quella del buio, che nasce da un eccesso di luce.
Gli occhi arditi, aperti come in un volo d’aquila... il sole dell’immoralità, la folgorazione della
malvagità lo accecarono.
Parla in lui un uomo abbagliato.
La cosa più difficile.
Arrivare al punto più basso.
Dove tutto è gettato a terra, infranto. Se stesso col naso nel vomitaticcio.
Rialzarsi senza vergogna: all’altezza dell’amicizia.
Là dove falliscono la forza e la tensione della volontà, la chance ride (o meglio - che so? - un giusto
sentimen-
lo dei possibile, un accordo prestabilito dal caso?) e alza innocentemente il dito...
Questo, infine, mi sembra strano.
Vado io stesso verso il punto più cupo.
Dove tutto mi sembra perduto.
E, contro ogni apparenza: sollevato da un sentimento di chance!
Sarebbe una commedia impotente, se non fossi roso dall’angoscia.
La cosa più greve.
Ammettere la sconfìtta e l’errore abbagliato, l’impotenza di Nietzsche.
Uccello arso nella luce. Lezzo di piume arrostite.
La testa umana è debole e dà i numeri.
Non può evitarlo.
Così. Aspettiamo dall’amore il risolversi di sofferenze infinite. Ma cos’altro fare? L’angoscia in noi
è infinita e noi amiamo. Ci tocca comicamente stendere l’essere amato su questo letto di Procuste:
un’angoscia infinita!
La sola via rigorosa, onesta.
Non aver nessuna esigenza finita. Non ammettere limiti in alcun senso. Neppure nella direzione
dell’infinito. Esigere da un essere: quello che è o quello che sarà. Non saper nulla, se non
l’ammaliamento. Non fermarsi mai ai limiti apparenti.
IX
Ieri sera abbiamo bevuto (K. ed io) due bottiglie di vino. Notte magica di chiaro di luna e di
tempesta. Il bosco di notte, lungo la strada radure di luna tra gli alberi e, sulla scarpata, piccole
macchie fosforescenti (alla luce di un fiammifero, frammenti di rami tarlati pieni di vermiciattoli
lucenti). Mai conosciuta una felicità più pura, più selvaggia, più cupa. Sensazione di andare molto
lontano: di avanzare nell’impossibile. Un impossibile magico. Come se, in quella notte, fossimo
perduti.
Solo al ritorno, sono salito in cima alle rocce.
L’idea che il mondo degli oggetti è privo di necessità, l’idea dell’adeguamento dell’estasi a questo
mondo (e non dell’estasi a Dio o dell’oggetto alla necessità matematica) mi apparve per la prima
volta - mi innalzò sopra la terra.
In cima alle rupi, mi tolsi gli abiti, con un vento furioso (faceva caldo: avevo soltanto camicia e
pantaloni). Il vento sfioccava le nuvole che si deformavano sotto la luna. L’immensa foresta al lume
di luna. Mi volsi nella direzione di... nella speranza... (Non m’importava nulla l'esser nudo: rimisi i
vestiti.) Gli esseri (un essere amato, io stesso) die si perdono lentamente nella morte, somigliano
alle nuvole disfatte dal vento: mai più... Amai il viso di K. Come le nuvole che disfa il vento: entrai
senza un grido in un’estasi ridotta ad un punto morto e perdo tanto più limpida.
Notte magica simile a poche altre notti vissute.
L’orribile notte di Trento (i vecchi erano belli, e ballavano come dèi - lo scatenarsi di un temporale
visto da una camera in cui l'inferno... la finestra dava sulla cattedrale e sugli edifici della piazza).
Di notte, la piazzetta di V. in cima alla collina somigliava, per me, alla piazza di Trento.
Notti di V., ugualmente magiche, una di agonia.
La decisione sigillata da una poesia sui dadi, scritta a V., si riferisce a Trento.
Questa notte nella foresta non è meno decisiva.
La chance, una serie incredibile di chance, mi accompagna da dieci anni. Straziandomi la vita,
rovinandola, spingendola sull’orlo dell’abisso. Certe chance fanno costeggiare l’orlo: un po’ più di
angoscia e la chance diverrebbe il suo contrario.
X
Saputo dello sbarco. Questa notizia non mi ha colpito. Insinuata lentamente.
Ritrovata la mia camera.
Inno alla vita.
Ieri avrei avuto voglia di ridere.
Mal di denti (che sembra finito).
Ancora stamattina, stanchezza, la testa vuota, residuo di febbre. Sentimento d’impotenza. Paura di
non aver più notizie.
Sono calmo, vuoto. La speranza di grandi avvenimenti mi dà equilibrio.
Eppure sconvolto nella mia solitudine. Indifferenza riguardo alla mia vita personale.
Invece, dieci giorni fa, tornato a Parigi, ebbi la sorpresa... Arrivo a desiderare, egoisticamente, ima
stabilità per qualche tempo! Ma no. È impossibile oggi pensare ad ima tregua - del resto probabile.
Rumore di bombardamenti lontani (divento banale). Condannato a dodici giorni di solitudine, senza
amici, senza possibilità di rilassarmi, obbligato a restare, depresso, in camera: a lasciarmi rodere
dall’angoscia.
Concatenare? ritrovare la vita? La mia vergogna dell’angoscia è legata all’idea di chance.
Veramente, la concatenazione nelle condizioni attuali sarebbe da sola una chance autentica, quel
completo « stato di grazia » che è la chance.
L’amore di una donna (o un’altra passione) per un uomo è il solo mezzo di non essere Dio. Neppure
il prete, con i suoi ornamenti arbitrari, è Dio: qualche cosa in
lui vomita via la logica, la necessità di Dio. Un ufficiale, fattorino, ecc. sono subordinati
all’arbitrario.
Soffro: domani, la felicità può essermi tolta. Quanto mi restasse di vita mi sembra vuoto (vuoto,
veramente vuoto). Tentar di riempire questo vuoto? Con un’altra donna? Che disgusto. Un compito
umano? Sarei Dio! Almeno tenterei di esserlo. Si consiglia di lavorare a chi ha appena perduto ciò
che amava: di sottomettersi a una certa realtà data e di vivere per essa (per l’interesse che può
trovarvi). E se questa realtà sembra vuota?
Non ho mai sentito così forte - dopo tanti eccessi, arrivo veramente ai limiti del possibile - di dover
amare ciò che è per essenza perituro e vivere in balìa della sua perdita.
Ho il sentimento di profonde esigenze morali.
Oggi soffro duramente sapendo che non c’è modo di essere Dio senza venir meno a me stesso.
Ancora undici giorni di solitudine... (se non capita niente di brutto). Cominciato ieri, dopo la
mezzanotte, uno sviluppo che interrompo - per sottolinearne l’intenzione: mi manca la luce che mi
fa vivere e lavoro disperatamente, cercando l’unità dell’uomo e del mondo! Sui piani coordinati del
sapere (scienza), di un’azione politica e di una contemplazione illimitata!
Devo arrendermi a questa verità: una vita implica un aldilà della luce, della chance amata.
La mia pazzia - o meglio la mia estrema saggezza -mi fa presente questo: l’aldilà della chance,
anche se fosse un sostegno, quando mi viene a mancare la mia chance immediata - l’essere amato -
ha pur esso il carattere della chance.
Di solito neghiamo questo carattere. Possiamo soltanto negarlo cercando un terreno, un fondamento
stabile che permetta di sopportare l’alea, ridotta alla parte secondaria. Cerchiamo questo aldilà
soprattutto quando soffriamo. Da questo derivano le sciocchezze del cristianesimo (in cui si
presenta fin dall’inizio la bacchettoneria). Da questo la necessità del ridurre alla ragione, del dare
una fiducia infinita a sistemi che eliminano la chan-
ce (la stessa ragione pura è riducibile al bisogno di eliminare la chance - ciò che è compiuto, in
apparenza, dalle teorie della probabilità).
Stanchezza estrema.
La mia vita non è più la scaturigine - senza la quale c’è il nonsenso.
Difficoltà fondamentale: dato che lo scaturire è necessario alla chance, la luce (la chance) da cui
dipendeva lo scaturire viene a mancare...
L’elemento irriducibile è dato dallo scaturire che non abbia atteso l’evento della luce e l’abbia
provocata. Questo getto - anch’esso aleatorio - definisce l’essenza e l’inizio della chance. La chance
è definita in rapporto al desiderio, che anch’esso scaturisce o dispera.
Servendomi di finzioni, drammatizzo l’essere: ne strazio la solitudine e in questa lacerazione
comunico.
D’altra parte, non si può vivere la sfortuna - umanamente - se non drammatizzata. Nella sfortuna, il
dramma accentua l’elemento di chance, che persiste in essa o ne deriva. L’essenza dell’eroe del
dramma è lo zampillo -l’elevarsi alla chance (una situazione drammatica richiede, prima della
caduta, l’elevazione)...
Arresto ancora una volta uno sviluppo iniziato. È un metodo disordinato. Bevendo - al caffè
Taureau - troppi aperitivi. Un vecchio, mio vicino, mugola piano come una mosca. Una famiglia,
che attornia una comunicanda, beve birra. Soldati tedeschi passano svelti per la strada. Una ragazza
seduta tra due operai (« potrete palparmi tutti e due »). Il vecchio continua a mugolare (è discreto).
Il sole, le nuvole. Le donne vestite sono come un giorno grigio. Il sole nudo sotto le nuvole.
Esasperazione. Depresso, poi eccitato.
Devo ritrovare la calma. Basta un po’ di fermezza.
Il metodo, o meglio la mancanza di metodo, è la mia vita.
Sempre meno interrogo per conoscere. Me ne infischio e vivo, interrogo per vivere. Conduco la mia
ricer-
ca vivendo una prova relativamente dura, angosciosa per la forza dei miei nervi. Al punto in cui mi
trovo, non c’è scappatoia. Solo con me stesso: mi mancano le vie d’uscita di una volta (il piacere e
l’eccitazione). Devo dominarmi, non potendo far altro.
Dominarmi? È facile.
Ma non mi piace l’uomo padrone di sé che posso diventare.
Scivolo verso la durezza, ma tomo presto all’amicizia verso me stesso, alla dolcezza: per cui ho
bisogno di infinite chance.
A questo punto, non posso che cercare la chance, tentare di afferrarla ridendo.
Giocare, cercare la chance, richiede la pazienza, l’amore, l’abbandono completi.
Il mio vero tempo di reclusione - ancora dieci giorni da passare in questa camera - inizia stamattina
(ieri e l’altro ieri sono uscito).
Ieri dei fanciulli correvano dietro ad un tram, altri all’autobus. Come sono le cose nel cervello dei
bambini? Come nel mio. La differenza fondamentale è la decisione, che poggia su di me (non
posso, io, appoggiarmi ad altri). Eccomi, io: che mi sveglio uscendo dalla lunga infanzia umana
nella quale, in tutte le evenienze, gli uomini si appoggiarono senza fine gli uni sugli altri. Ma
quest’alba del sapere, del pieno autopossesso, in fondo è soltanto la notte, l’impotenza.
Una piccola frase, « ci potrebbe essere libertà senza la impotenza? », è il segno oltrepassante della
chance.
Un’attività che abbia come oggetto soltanto cose interamente misurabili è potente, ma servile. La
libertà deriva dall’alea. Se proporzionassimo la somma di energia prodotta alla somma necessaria
alla produzione, la potenza umana non lascerebbe nulla a desiderare, perché basterebbe e
rappresenterebbe la soddisfazione dei bisogni. Come contropartita questo adattamento avrebbe però
un carattere di obbligo: l’attribuzione di energia ai
diversi settori della produzione sarebbe fissata una volta per tutte. Ma se la somma prodotta è
superiore al necessario, una attività impotente ha come oggetto ima produzione smisurata.
Stamattina ero rassegnato all’attesa.
Lentamente, senza bruschezza, mi decisi...
Evidentemente, era irragionevole. Però partii, sostenuto da un sentimento di chance.
La chance stimolata mi rispose. Assai oltre le mie speranze.
L’orizzonte si rischiara (resta cupo).
L’attesa si riduce da dieci a sei giorni.
Il gioco gira: è possibile che oggi io abbia saputo giocare.
L’angoscia mi rode e mi ossessiona.
L’angoscia, là sospesa su profondi possibili... mi isso in cima a me stesso e vedo: il fondo delle
cose, aperto.
Come un colpo bussato alla porta, odiosa, ecco l’angoscia.
Segno di gioco, segno di chance.
Mi invita, con voce di follia.
Sprizzo e fiamme sprizzano davanti a me.
Bisogna ammetterlo: la mia vita, nelle condizioni attuali, è un incubo, un supplizio morale.
Ciò è trascurabile: evidentemente!
Senza fine ci « in-nientiamo »; il pensiero, la vita cadono dissipandosi nel vuoto.
Chiamare Dio questo vuoto - a cui tendevo! a cui tese il mio pensiero!
Che cosa si può fare nella prigione di un corpo umano, se non evocare la vastità che comincia al di
là dei muri?
La mia vita è bizzarra, spossante e, stasera, prostrata.
Passata un’ora d’attesa a immaginare il peggio.
Poi, infine, la chance. Ma la mia situazione rimane inestricabile.
A mezzanotte, apro la finestra su di una strada nera, su un cielo nero: questa strada e questo cielo,
queste tenebre sono limpide.
Al di là del buio, raggiungo un non so che di puro, libero, ridente - con facilità.
La vita ricomincia.
Una mazzata in testa, gioviale e familiare.
Inebetito, scendo seguendo la corrente.
K. mi ha detto che, dopo aver bevuto, il 3, aveva cercato la chiave di una cisterna, ostinatamente ma
invano, e si era ritrovata verso le quattro del mattino sdraiata nel bosco e tutta bagnata.
Oggi ho sopportato male l’alcool.
Mi piacerebbe (e tutto mi invita a farlo) dare alla mia vita un corso allegro, deciso. Esigendo da essa
una dolcezza miracolosa, la limpidezza dell’aria delle vette. Trasfigurando le cose intorno a me.
Gaio, immagino un accordo di K.: l’allegria, il vuoto stesso (e senza scopo) trasparente, a livello
dell’impossibile.
Esigere di più, agire, fissare la chance: essa risponde allo scaturire del desiderio.
L’azione senza obiettivo ristretto, illimitata, che mira alla chance oltre gli scopi, come un
superamento della volontà: esercizio di un’attività libera.
Ripensando alla mia vita.
Vedo che mi avvicino lentamente ad un limite.
Poiché l’angoscia mi attende da ogni parte, danzo sulla corda tesa e, fissando il cielo, distinguo ima
stella: minuscola, brilla di una luce leggera e strugge l’angoscia -che mi attende da ogni parte.
Possiedo un fascino, un potere infinito.
Stamattina ho dubitato della mia chance.
Per un lungo istante - di attesa interminabile - pen-
sando di aver perduto tutto (in quel momento era logico).
Ho fatto questo ragionamento: « La mia vita è il balzo, lo slancio che ha per energia la chance. Se,
sul piano in cui si gioca ora la mia vita, mi manca la chance, io crollo. Sono soltanto quest’uomo
che stabilisce la chance, e al quale attribuisco il potere di farlo. Se sopravvengono l’infelicità, la
sfortuna, la chance che mi dava lo slancio era soltanto un miraggio. Vivevo credendo di avere su di
essa un potere d’incantesimo: era falso ». Ora mi lamento sino in fondo: « La mia leggerezza, la mia
divertita vittoria sull’angoscia, erano false. Ho giocato il desiderio e la volontà di agire - non avevo
scelto il gioco — sulla mia chance: oggi risponde la sfortuna. Detesto le idee che la vita abbandona,
quando si tratta di idee che danno il valore preminente alla chance... ».
In quel momento, stavo così male: una disperazione particolare aggiungeva alla mia depressione un
po’ di amarezza (comica). Aspettavo sotto la pioggia da un’ora. Nulla di più deprimente che
un’attesa alla quale risponde il vuoto di un viale.
Dopo, benché K. camminasse con me, mi parlasse, un sentimento di infelicità continuava. K. era
con me: io ero inetto. La sua venuta non era verosimile e facevo fatica a pensare: la mia chance
vive...
In me l’angoscia contesta il possibile.
Essa oppone al desiderio oscuro un oscuro impossibile.
In questo momento la chance, la sua possibilità, contestano in me l’angoscia.
L’angoscia dice: « impossibile »: l’impossibile resta in balìa di una chance.
La chance è definita dal desiderio, eppure non tutte le risposte al desiderio sono chance.
Soltanto l’angoscia definisce completamente la chance: è chance ciò che in me l’angoscia ha
ritenuto impossibile.
L’angoscia è contestazione della chance.
Ma io afferro l’angoscia in balìa di una chance capace
di contestare - essa può farlo - il diritto di definirci che ha l’angoscia.
Dopo lo strazio del mattino, i miei nervi sono ora di nuovo messi a dura prova.
L’attesa interminabile e il gioco, forse allegro e chino sul peggio, che spossa i nervi, poi
un’interruzione che finisce di sconvolgerli... Devo urlare in un lungo gemito: quest’ode alla vita,
alla sua trasparenza di vetro.
Non so se K. suo malgrado mi procuri inconsciamente questa instabilità. Il disordine in cui mi fa
restare deriva in apparenza dalla sua natura.
Dicono: « al posto di Dio, c’è l’impossibile - e non Dio ». Occorre aggiungere: « l’impossibile in
balìa di  una chance ».
Perché dovrei lamentarmi di K.?
La chance è contestata senza fine, senza fine messa in gioco.
Decidendo di incarnare la chance ad unguem, K. non avrebbe potuto far meglio: apparendo, ma
quando l’angoscia... sparendo, così improvvisamente che l’angoscia... Come se ella potesse soltanto
succedere alla notte, come se soltanto la notte potesse succederle. Ma ogni volta senza pensarci,
come si conviene se si tratta di chance.
« Al posto di Dio, la chance »; è la natura « scaduta » ma non una volta per sempre. Superandosi in
scadenze infinite, escludendo i limiti possibili. In questa rappresentazione infinita, probabilmente la
più audace e la più folle che l’uomo abbia tentato, l’idea di Dio è l’involucro di una bomba che sta
per esplodere: miseria e impotenza divine opposte alla chance umana!
Dio come rimedio applicato all’angoscia: non guarire l’angoscia.
Oltre l’angoscia, la chance, sospesa all’angoscia, che la definisce.
Senza l’angoscia - senza l’estrema angoscia - la chance non si potrebbe nemmeno scorgere.
« Dio, se ci fosse un Dio, non potrebbe - per sola convenienza - rivelarsi alla gente che sotto forma
umana » (1885; Volontà di potenza).
Essere uomo: con l’impossibile di fronte, il muro... che solo una chance...
K. stamattina era depressa, dopo una notte d’angoscia senza ragione, d’insonnia anch’essa
angosciosa, e siccome si sentivano molti aeroplani, era colta da leggeri tremiti. Fragile, sotto
un’apparenza di brio - di gaiezza, di spigliatezza. Sono per abitudine così ansioso che
questa angoscia senza ragione mi sfugge. Se lei intuisse la mia miseria e le mie difficoltà, il pantano
in cui procedo, riderebbe di gusto con me. Stupito di sentire in lei, improvvisamente, contro ogni
apparenza, un’amica, quasi una sorella... Tuttavia, se così fosse, ci sentiremmo estranei l’uno
all’altro.
GIUGNO-LUGLIO 1944
IL TEMPO
Con che avidità quest’onda si avvicina, come si trattasse di raggiungere qualche cosa! Con quale
spaventosa furia penetra nei recessi. più nascosti della scogliera! Sembra voler avvertire qualcuno;
sembra che là ci sia qualche cosa di nascosto, qualche cosa che ha valore, un grande valore. Ed ora
ritorna, un po’ più lentamente, ancora tutta bianca d’emozione. È delusa? Ha trovato quello che
cercava? Vuol assumere quell’aspetto deluso? Ma già si avvicina un’altra onda, più avida e più
selvaggia della prima, e l’anima sua, anch’essa, sembra piena di mistero, piena di voglia di cercar
tesori. Così vivono le onde, così viviamo noi, noi che abbiamo la volontà! non dirò altro.
La gaia scienza, 310

- Come? diffidate di me? ce l’avete con me, leggiadri mostri? temete che tradisca completamente il
vostro segreto? Ebbene! Adiratevi pure con me, alzate pure più che potete i vostri corpi verdastri e
temibili, ergete un muro tra me e il sole - come ora! In verità, non resta più nulla del mondo se non
un crepuscolo verde e verdi lampi. Sconvolgete tutto come volete, o impetuose, urlate di piacere e
di malvagità - oppure immergetevi di nuovo, versate i vostri smeraldi nel più profondo
dell’abisso, gettatevi sopra i vostri bianchi pizzi infiniti di spuma e di schiuma. Accetto tutto, perché
tutto questo vi si addice così bene, e ve ne sono infinitamente grato: come potrei tradirvi? Infatti -
ascoltatemi! - vi conosco, conosco il vostro segreto, so di che razza siete! Voi ed io, siamo della
stessa razza! Voi ed io, abbiamo anzi lo stesso segreto!
I
Al caffè, ieri dopo cena, ragazzi e ragazze ballarono al suono della fisarmonica.
Uno dei suonatori aveva la testa - minuscola e graziosa - di un anatroccolo: molto allegramente, con
un’aria animale, immoderata, balorda, cantava.
Mi piacque: mi sarebbe piaciuto essere anch’io stupito, avere un occhio da uccello. Il sogno: dar
sollievo alla testa scrivendo, come si dà sollievo al ventre... diventar vuoto, come un suonatore di
musiche. Il gioco sarebbe fatto? Ma no! In mezzo alle ragazze - giovani e vivaci e carine - il mio
peso (il cuore) è come la stessa leggerezza del giocatore infinito! Offro da bere alla compagnia e
la padrona annuncia: « Da parte di uno spettatore! ».
Un mio amico - dal carattere molle, come piace a me, di una mollezza garantita da una forza
d’animo che rifiuta un ordine di cose comico - si trovava nel maggio del 1940 a Dunkerque. Lo
misero - per parecchi giorni - a vuotare le tasche dei morti (un’operazione che si faceva con la
prospettiva di arrivare anche alle tasche dei restanti). Ma poi toccò pure a lui d’imbarcarsi:
finalmente, la nave riuscì a sfuggire, il mio amico raggiunse la costa inglese: a poca distanza da
Dunkerque, a Folkestone, giocatori di tennis vestiti di bianco si agitavano sui campi.
Allo stesso modo, il 6 giugno, giorno dello sbarco, io vidi sulla piazza alcuni saltimbanchi che
montavano una giostra.
Un po’ più tardi, nello stesso posto, il cielo chiaro si riempì di uno stormo di piccoli aerei americani
a righe bianche e nere: filavano rasenti ai tetti, mitragliando le strade e la ferrovia. Avevo il cuore in
una morsa; tutto era estasiante.
Molto aleatorio (scritto a caso, come giocando):
Il tempo sia la stessa cosa che l’essere, l’essere lo stesso che la chance... che il tempo.
Ciò significa:
Se c’è l'essere-tempo, il tempo racchiude l'essere nell’accadere della chance, individualmente. Le
possibilità si dividono e si oppongono.
Senza individui, cioè senza la ripartizione dei possibili, non potrebbe esserci tempo.
Il tempo è la stessa cosa che il desiderio.
H desiderio ha come fine: che il tempo non esista.
Il tempo è il desiderio che il tempo non esista.
Il desiderio ha come fine: la soppressione degli individui (degli altri); per ogni individuo, per ogni
soggetto del desiderio, ciò significa una riduzione degli altri a sé (essere il tutto).
Voler essere il tutto - o Dio - significa voler sopprimere il tempo, sopprimere la chance (Talea).
Non volerlo significa volere il tempo, volere la chance.
Volere la chance è l' amor fati.
Amor fati significa voler la chance, esser diversi da ciò che v’era.
Ottenere ciò che non si conosce è giocare.
Giocare per l’uno vuol dire rischiar di perdere o di vincere. Per l’insieme, significa superare il dato,
andare oltre.
In definitiva, giocare significa condurre all’essere ciò che non era (in questo il tempo è storia).
Trattenere nell’unione dei corpi - nel caso del piacere che eccede - un momento sospeso di
esaltazione, di intima sorpresa e di eccessiva purezza. In questo momento, l'essere si innalza al di
sopra di se stesso, come un uccello a cui si dà la caccia si innalzerebbe gettandosi nella vastità del
cielo. Ma mentre si annulla, gode del suo annichilimento e domina da questa altezza ogni cosa, in
un sentimento di estraneità. Il piacere eccedente si annulla e cede il posto a questa elevazione che
annienta in seno alla piena luce. O meglio, il piacere che cessa di essere una risposta al desiderio
dell’essere, che supera, con l'ec-
cedere, questo desiderio, supera nello stesso tempo l’essere e lo sostituisce con un glissare - un
modo di esistere sospeso, radioso, « eccessivo », legato al senso del trovarsi nudi e di penetrare
l’aperta nudità altrui. Questo stato suppone la nudità fatta, assolutamente fatta, attraverso tocchi
ingenui — e nello stesso tempo abili: l’abilità qui presa in considerazione non è né quella delle
mani né quella dei corpi. Esige la conoscenza intima della nudità - di una ferita degli esseri fisici -
di cui ogni tocco approfondisce l’apertura.
Immagine gratuita di K., trapezista di music-hall. Questa immagine le piace per un equilibrio
logico, lei è d’accordo, ridiamo. La vedo sotto vivide luci vestita di lustrini d’oro e sospesa.
Nel bosco, un giovane ciclista con un mantello di loden: canta a qualche passo da me. La sua voce è
profonda ed egli nella sua esuberanza dondola una testa tonda e ricciuta in cui ho notato, passando,
labbra carnose. Il cielo è grigio, la foresta mi sembra severa, oggi le cose sono fredde. Un lungo,
ossessivo rumore di bombardamenti segue al canto del giovane, ma il sole, un po’ più oltre,
attraversa la strada (scrivo in piedi su una scarpata). Il rumore sordo è più forte che mai: segue un
fragore di bombe o di D.c.A.1 Sembra a pochi chilometri. Soltanto due minuti e tutto è finito:
ricomincia il vuoto più grigio, più torbido che mai.
Mi irrito per la mia debolezza.
Continuamente entra l’angoscia, strangola, e sotto la pressione della sua morsa, soffoco e tento di
fuggire. Impossibile. Non posso in alcun modo ammettere ciò che è, devo subirlo mio malgrado, mi
inchioda.
Alla mia angoscia se ne aggiunge un’altra, e siamo in due, braccati da un cacciatore inesistente.
Inesistente?
Grevi figure di nevrosi ci tormentano.
Del resto annunciatrici di altre immagini, altrettanto grevi ma vere.
Leggendo un saggio su Descartes, devo rileggere tre o quattro volte lo stesso paragrafo. Il pensiero
mi sfugge, il cuore e le tempie mi battono. Sono steso ora come un ferito, abbattuto, ma solo
provvisoriamente, dalla malasorte. La dolcezza di fronte a me stesso mi calma: al fondo
dell’angoscia in cui mi trovo, ci sono la cattiveria, l’intimo odio.
Quando resto solo, sono terrorizzato dall’idea di amare K. per odio verso me stesso. Il bruciore di
una passione che mi fa stare colle labbra aperte, la bocca arida e le guance infuocate, è connesso
probabilmente all’orrore di me stesso. Non mi amo, ed amo K. Questa passione, stimolata da
difficoltà disumane, raggiunge stasera ima specie di febbre. Ad ogni costo devo sfuggire a me
stesso, situare la vita in un’immagine illimitata (per me). Ma l’angoscia connessa all’incertezza dei
sentimenti paralizza K.
Bisogna combattere l’angoscia, la nevrosi! (La sirena a un tratto strazia l’aria. Ascolto: un tuono
immenso di aerei diventato per me il simbolo della paura morbosa.)  Nulla può agghiacciarmi di
più: sei anni fa, accanto a me, la nevrosi uccideva. Disperando, lottai: non avevo angoscia, credevo
la vita più forte. La vita dapprima vinse, ma la nevrosi ebbe un ritorno e la morte entrò in me.
Detesto l’oppressione, l’obbligo. Se, come oggi, la costrizione riguarda chi ha soltanto sensi di
libertà - aspiro al suo fianco all’aria lieve delle vette - il mio odio è il più grande che si possa
immaginare.
Costrizione è il limite opposto dal passato a ciò che viene avanti.
La nevrosi è l’odio del passato contro il presente: e lascia la parola ai morti.
Dai recessi d’infelicità che portiamo in noi, nasce il libero riso che richiede un coraggio angelico.
« Questo v’è di grande nell’uomo: che è un ponte, non un fine; ciò che si può amare nell’uomo, è il
suo essere una transizione e un declino.
Mi piacciono coloro che sanno vivere solo affondando, perché così passano al di là.
Mi piacciono i grandi spregiatori perché sono grandi adoratori, con le frecce del desiderio teso verso
l’altra riva ».
Quando si leggono, queste frasi di Zarathustra (prologo della prima parte) hanno ben poco senso.
Evocano un possibile e chiedono di essere vissute sino in fondo : da chi fosse disposto ad agire
senza misura, accettando di se stesso unicamente il balzo col quale poter superare i propri limiti.
Ciò che mi ferma nella nevrosi è il fatto che ci forza a superarci. Sotto pena di affondare. Da cui
l'umanità delle nevrosi, trasfigurate dai miti, dai poemi o dalle commedie. La nevrosi ci rende eroi,
santi: o soltanto malati. Nell’eroismo o nella santità, l’elemento nevrosi raffigura il passato,
intervenendo come limite (costrizione) all’interno del quale la vita diventa « impossibile ». Colui
che è reso greve dal passato, colui al quale l’attaccamento morboso al passato impedisce un facile
passaggio al presente, non può più accedere al presente seguendo la carreggiata. E proprio in questo
sfugge al passato, mentre un altro, che non ci bada molto, si lascia invece guidare, limitare da esso.
Il nevrotico ha una sola via d’uscita: deve giocare. La vita in lui si ferma. Non può seguire un corso
regolare nei suoi tracciati. Essa si apre una via nuova, crea per se stessa e altri un mondo nuovo.
E il parto non può aver luogo in un giorno. Molte strade sono mirabolanti vicoli ciechi, che hanno
soltanto l’apparenza della chance. Sfuggono al passato in quanto evocano un aldilà: ma l’aldilà
evocato resta inaccessibile.
In questo campo, la regola è il vago: non sappiamo se
raggiungiamo qualcosa (l’uomo è un ponte, non un fine). Il superuomo è forse un fine. Ma lo è
restando un’evocazione: se fosse reale, dovrebbe giocare, mirando all’aldilà di se stesso.
Non posso dunque offrire all’angoscia una via d’uscita: mettersi in gioco, diventare l’eroe della
chance? o piuttosto della libertà? In noi la chance è la forma del tempo (dell’odio verso il passato).
Il tempo è libertà. Nonostante le costrizioni che la paura gli oppone. Essere un ponte e non mai un
fine: ciò comporta una vita strappata alle norme con una potenza acuminata, serrata, volontaria, e
che infine non accetta più d’essere sviata dal suo sogno.
Il tempo è chance perché esige l’individuo, l’essere separato.
È per l’individuo e nell’individuo che una forma è
nuova.
Il tempo senza il gioco sarebbe inesistente. Il tempo vuole dissolta l’uniformità: senza questo,
sarebbe come se non ci fosse. Così, senza il tempo l' uniformità dissolta sarebbe come se non ci
fosse.
Necessariamente, per l’individuo, la variabilità può essere indifferente, felice e infelice.
L’indifferenza è come se non esistesse. La sfortuna e la fortuna si compongono infinitamente in
variabilità della fortuna o della sfortuna, poiché la variabilità è essenzialmente chance, fortuna
(anche in previsione della sventura) e il trionfo dell’uniformità sfortuna (anche se si tratta
dell’uniformità della chance-fortuna). Le fortune, chance, uniformi e le sfortune mobili indicano le
possibilità di un quadro in cui la mobilità-sfortuna ha il fascino delle tragedie (chance a patto che ci
sia ima sfasatura tra spettatore e spettacolo - lo spettatore che gode della catastrofe: l’eroe die muore
avrebbe forse un significato senza spettatori?).
(Scrivo in un bar. Ho bevuto - cinque aperitivi - durante l’allarme: piccole e numerose nuvole di
aerei riem-

pirono il cielo; una D.C.A. violenta aprì il fuoco. Una graziosa fanciulla, un bel ragazzo danzavano, la
ragazza mezza nuda in costume da spiaggia.)
1 Défense Contre Avions. [N.d.R.]
II
Dopo i bombardamenti di ieri, le comunicazioni con Parigi sembrano interrotte. Si tratta forse,
improvvisamente - in seguito ad avverse coincidenze - della sfortuna che segue all’estrema chance?
Per ora è soltanto una minaccia.
Ora, la cattiva sorte mi prende da ogni parte.
Non ho scampo. Ho lasciato sfuggire lentamente quei possibili che sono considerati di solito
importanti.
Se ci fosse ancora tempo, ma non c’è...
Che tristezza alla fine del pomeriggio, sulla strada. Diluviava. Ci siamo riparati un momento sotto
un faggio, seduti sulla scarpata, coi piedi su un tronco d’albero abbattuto. Sotto il cielo basso, il
tuono rombava a non finire.
In ogni fatto, uno dopo l’altro, ho urtato contro il vuoto. La mia volontà s’era spesso tesa, la
lasciavo andare: come si aprono alla rovina, al vento, alle piogge le finestre della propria casa.
L’angoscia ha passato al vaglio ciò che restava in me di ostinato, di vivo. Il vuoto e il nonsenso di
tutto: possibilità di sofferenze, di riso ed estasi infinite, le cose - come sono - che ci legano, il cibo,
l’alcool, la carne; e più oltre, il vuoto, il nonsenso. E non c’è nulla che io possa fare (intraprendere)
o dire. Soltanto vaneggiare, giurando che è così.
Quello stato di ilarità disarmata, in cui mi aveva ridotto la contestazione, restava pur esso in balìa di
nuove contestazioni.
La fatica ci sottrae al gioco, ma non la contestazione, che contesta infine il valore dello stato a cui ci
porta. Quest’ultimo impulso potrebbe essere infine crudeltà
gratuita. Ma può derivare da una chance. Se ha luogo, la chance contesta la contestazione.
Tra contestare, mettere in questione, mettere in gioco i valori, non posso riconoscere differenze. Il
dubbio distrugge successivamente i valori la cui natura sta nell’essere immutabili (Dio, il bene). Ma
mettere in gioco suppone il valore dell’esporre al gioco. Nel momento di metterlo in gioco, il valore
è soltanto spostato dall’oggetto alla sua esposizione al gioco, cioè alla contestazione stessa.
Il mettere in questione sostituisce ai valori immutabili il valore mobile del porre in gioco. Nulla,
nella messa in gioco, si oppone alla chance. La contestazione che dicesse: « Ciò che è soltanto
chance non può essere valore, poiché non è immutabile », si servirebbe senza averne il diritto di un
principio connesso a ciò che contesta. Ciò che chiamano chance è valore per una situazione
data come in sé variabile. Una chance particolare è ima risposta al desiderio. Un desiderio è dato in
anticipo, almeno come desiderio possibile, anche se non era manifesto dapprima.
Del resto, non sono ragionevole.
A intervalli, di un comico nervosismo (i nervi, sottoposti ad ima interminabile prova, ogni tanto
cedono: e se cedono, cedono veramente).
La mia sventura sta nell’essere - o meglio nell’essere stato - depositario di ima chance così perfetta
che le fate non avrebbero potuto darmi di meglio: tanto più vera quanto più fragile, rimessa in gioco
ad ogni istante. Nulla che potesse di più straziare, lacerare, suppliziare per eccesso di gioia:
realizzando infine pienamente l’essenza della felicità che consiste nel suo essere inafferrabile.
Ma il desiderio, l’angoscia, che vogliono afferrare, sono presenti.
Viene il momento in cui, con l’aiuto della sfortuna, mi lascerei andare per rilassarmi un po’.
Tutto sembra accomodarsi: quando sono stanco di aspettare, mi capita di voler morire: la morte mi
appare
preferibile a questa condizione sospesa, non ho più coraggio di vivere e, nel mio desiderio di riposo,
non m’importa più di sapere se la morte ne è il prezzo.
Lo so, la felicità che attendo non è la chance assicurata: è la chance nuda - rimasta libera - ritirata
orgogliosamente nella sua alea infinita. Come si può far stridere i denti all’idea di un errore che si
prolunghi forse in gioia indicibile, ma senz’altra soluzione che la morte.
Ciò che mi tiene nell’angoscia è probabilmente il pensiero che la sventura mi raggiunga, in ogni
modo, senza tardare. Immagino di arrivare, lentamente, sicuramente, al culmine dello strazio.
Non posso negare di essere andato, da solo, incontro a questo impossibile (spesso, ci guida
un’oscura forza di attrazione). Non amare nulla, non desiderare più di giocare, questo era quanto
detestavo, non il fatto di essere lacerato. Talvolta, sono tentato di affrettare il momento del male
estremo: posso smettere di sopportare la vita, ma non mi rammarico che sia stata come l’ho avuta.
Mi piace questa frase di un esploratore, scritta sul ghiaccio; stava morendo: « Non mi rammarico di
questo viaggio ».
Perduta la chance, l’idea di riconquistarla - a forza di abilità e di pazienza - sarebbe per me un
mancamento, sarebbe un peccato contro la chance. Meglio morire...
Il ritorno della chance non può essere causato da uno sforzo, ed ancor meno da un merito. A rigore:
da un bel tiro giocato all’angoscia, da una felice disinvoltura di giocatore (immagino sull’orlo del
suicidio un giocatore ridente, che senza limiti consuma se stesso).
Se la chance ritorna, ciò capita spesso nel momento in cui ne ridevo. La chance è il dio che si
bestemmia non avendo più la forza di riderne.
Tutto sembrava risolto.
Arriva un’ondata di aeroplani, la sirena... Probabilmente, non è nulla, ma, di nuovo, tutto è rimesso
in gioco.
Mi ero seduto per scrivere e suona la fine dell’allarme...
III
Un imperatore pensava costantemente all’instabilità di ogni cosa per non darvi troppa importanza e
vivere in pace. Su di me, l’instabilità ha ben altro effetto: tutto mi sembra infinitamente più prezioso
perché tutto è effimero. Mi sembra che i vizi più preziosi, i balsami più squisiti siano sempre stati
gettati in mare.
1881-1882
Improvvisamente, il cielo è chiaro...
Si copre subito di nuvole nere.
Pochi libri mi sono piaciuti più di II sole sorge ancora.
Una certa somiglianza tra K. e Brett mi irrita e nello stesso tempo mi piace.
Rileggendo qualche pagina della fiesta mi sentivo commosso fino alle lacrime.
In questo libro però l’odio per le forme intellettuali ha qualche cosa di limitato. Preferisco vomitare,
non mi piace l’astinenza di un regime.
Stamattina il cielo è severo.
I miei occhi lo svuotano. O meglio, lo lacerano.
Ci comprendiamo, il vecchio nuvoloso ed io, ci misuriamo l’un l’altro e ci penetriamo fino alle
midolla.
Penetrandoci così reciprocamente - a fondo, troppo a fondo - ci affiniamo, ci distruggiamo. Niente
sussiste che non sia il vuoto - il nulla — come il bianco degli occhi.
Mentre scrivo passa una graziosa ragazza povera - sana, fragile. La immagino nuda, immagino di
penetrarla -più in là di se stessa.
La gioia che mi fingo - senza desiderare nulla - si carica di una verità che esaurisce il possibile,
superando i limiti dell’amore. Proprio nel punto in cui la piena sen-
sualità appagata - e la piena nudità che si vuol tale - scivolano oltre ogni spazio concepibile.
Necessità di una forza morale che superi gioiosamente il piacere (l’erotico). Che non indugi.
I possibili più lontani non annullano in alcun modo i più vicini. Tra gli uni e gli altri non si può far
confusione.
Scivolare nei giochi dei corpi fino ad un aldilà degli esseri chiede che questi esseri si rovescino
lentamente, s’impegnino, si perdano nell’eccesso senza mai finire di andar oltre: raggiungendo
lentamente l’ultimo grado e poi l’aldilà del possibile. Tutto ciò richiede l’esaurirsi completo
dell’essere - escludendo l’angoscia (la fretta) -una tesa potenza, ima padronanza durevole, che si
esercitino nel fatto stesso di affondare - senza pietà, in un vuoto i cui limiti sfuggono. Ciò richiede
che l’uomo abbia una volontà sapiente, impenetrabile come un blocco, di negare e rovesciare
lentamente - non soltanto negli altri ma in se stesso - le difficoltà e le resistenze che incontra il
mettersi a nudo. Ciò richiede una conoscenza esatta del modo in cui gli dèi vogliono essere amati:
con il coltello dell’orrore in mano. In questa direzione insensata com’è difficile fare un passo!
L’impeto, le barbarie necessari vanno continuamente più in là dello scopo. Tutti i momenti di questa
lunghissima odissea sembrano l’uno dopo l’altro fuori luogo: se essa appare tragica,
subito s’impone un sentimento di farsa - che raggiunge proprio il limite dell’essere; se appare
comica, l’essenza tragica sfugge, l’essere è come estraneoalla voluttà che prova (la voluttà è in un
certo senso estranea a lui, derubato, mentre essa sfugge). L’unione tra un amore eccedente e
un desiderio di perdere - di fatto, la durata della perdita -CIOÈ IL TEMPO, CIOÈ LA CHANCE - rappresenta
evidentemente la possibilità più rara. L’individuo è la maniera di eventuarsi del tempo. Ma se egli
non ha chance (se si eventua male) è soltanto una barriera opposta al tempo - un’angoscia - o
l'annichilimento attraverso il quale si svuota dell’angoscia. Se annulla l’angoscia, per lui è finita:
perché si sottrae ad ogni destino, si apparta in pro-
spettive che sono al di fuori del tempo. Se invece l’angoscia dura, deve in un certo senso ritrovare il
tempo. Il tempo, l’accordo col tempo. Ciò che è chance per l’individuo è « comunicazione », è il
perdersi dell’uno nell’altro. La « comunicazione » è « durata della perdita ». Riuscirò infine a
trovare il tono gaio, un po’ folle - e la sottigliezza dell’analisi - per raccontare la danza intorno al
tempo (Zarathustra, la Recherche proustiana) ?
Con una cattiveria, un’ostinazione di mosca, insisto: Niente muri tra l’erotismo e la mistica!
È il colmo del ridicolo: adoperano le stesse parole, trafficano con le stesse immagini e s’ignorano!
Nell’orrore che prova per le sozzure del corpo, con una smorfia di odio, la mistica ipostatizza la
paura che la irrigidisce: e proprio l’oggetto positivo generato e percepito in quel momento essa
chiama Dio. Tutta la forza dell’operazione poggia, come si conviene, sul disgusto. Situato
all’intersezione, questo è da un lato abisso (l’immondo, il terribile, scorto nell’abisso a profondità
incommensurabili — il tempo...) e dall’altro è negazione massiccia, chiusa (come il lastricato,
pudicamente, tragicamente chiuso) dell’abisso. Dio! Non abbiamo finito di profondere la riflessione
umana in questo grido, in questo richiamo di sofferenti...
« Se tu fossi un monaco mistico!
Vedresti Dio! ».
Un essere immutabile, che il movimento di cui ho parlato descrive come qualcosa di definitivo, che
non fu, non sarà mai « in gioco ».
Rido degli infelici inginocchiati.
Continuano ingenuamente a dire:
- Non credeteci. E noi stessi! Via! non tiriamo le conseguenze. Noi diciamo Dio, ma no! è una
persona, un essere particolare. Gli parliamo. Ci rivolgiamo a lui chiamandolo col suo nome: è il Dio
di Abramo, di Giacobbe. Lo mettiamo sullo stesso piano di un altro, di un essere personale...
-    Di una puttana?
L’ingenuità umana - l’ottusa profondità dell’intelligenza - rende possibili ogni genere di tragiche
sciocchezze, di manifeste frodi. Come si congiungerebbe ad una santa esangue una verga di toro,
non si esita a mettere in gioco... l’assoluto immutabile! Dio che strazia la notte dell’universo con il
grido (l'« Eloi! lamma sabachtani » di Gesù), non raggiunge forse il colmo della malizia? Dio stesso
grida, rivolgendosi a Dio: « Perché mi hai abbandonato? », cioè: « Perché io stesso mi sono
abbandonato? » O, con più precisione: « Che cosa succede? mi sarei dimenticato fino al punto da
essermi messo in gioco da me stesso? ».
La notte della crocefissione, Dio, con le carni insanguinate come il buco insozzato di una donna, è
l’abisso di cui è egli stesso la negazione.
Non bestemmio. Mi colloco, invece, al limite delle lacrime - e rido... di questo evocare,
mescolandomi alla folla... uno strazio temporale nel più profondo dell’immutabile! Infatti la
necessità per l’immutabile...? è di cambiare!
È strano che nell’animo delle folle, Dio si stacchi immediatamente dall’assoluto e dall’immutabilità.
Non è forse il massimo del comico nel punto della profondità insensata?
Geova si toglie i lacci: inchiodandosi sulla croce!...
Allah si toglie i lacci nel gioco delle conquiste sanguinose...
In queste divine esposizioni in gioco di se stessi, la prima misura l’infinito comico.
Involontariamente, Proust ha risposto, mi sembra, all’idea di unire Apollo a Dioniso. L’elemento
bacchico è tanto più divinamente - cinicamente - messo a nudo nella sua opera quanto più essa
partecipa della dolce calma di Apollo.
E il tono minore, voluto espressamente, non è forse il segno di una discrezione divina?
Blake, tra le sublimi commedie dei cristiani e i nostri allegri drammi, lascia linee di chance.
« E d’altra parte noi vogliamo essere gli eredi della meditazione e della penetrazione cristiana... »
(1885-1886; citato in Volontà di potenza).
« ...superare ogni cristianesimo attraverso un ipercristianesimo e non accontentarsi di eliminarlo... »
(1885, citato in Volontà di potenza).
« Non siamo più cristiani, abbiamo superato il cristianesimo, perché siamo vissuti troppo vicini,
anziché troppo lontani da esso, e soprattutto perché proprio dal cristianesimo siamo usciti; la nostra
religiosità più severa e insieme più delicata ci impedisce oggi di essere ancora cristiani » (1885-
1886, citato in Volontà di potenza).
IV
Quando adoperiamo la parola « felicità » nel senso che le conferisce la nostra filosofia, non
pensiamo prima di tutto, come i filosofi stanchi ansiosi e sofferenti, alla pace esterna ed interna,
all’assenza di dolore, all’impassibilità, alla quiete, al « sabato dei sabati », ad una posizione di
equilibrio, a qualche cosa che abbia pressappoco il valore di un profondo sonno senza sogni. Il
nostro mondo è piuttosto l’incerto, il mutevole, il variabile, l’equivoco, un mondo forse pericoloso,
sicuramente più pericoloso che il semplice, l’immutabile, il prevedibile, il fisso, dei filosofi
precedenti, eredi dei bisogni del gregge e delle angosce del gregge, onorato al di sopra di tutto.
1885-1886
Il mondo partorisce e, come una donna, non è bello.
Lanci di dadi si isolano gli uni dagli altri. Nulla li riunisce in un tutto. Il tutto è la necessità. I dadi
sono liberi.
Il tempo lascia cadere « ciò che è » negli individui.
L’individuo stesso — nel tempo — si perde, diventa caduta in un movimento nel quale si dissolve -
è « comunicazione», ma non necessariamente dall’uno all’altro.
Tranne dò, che una chance è la durata dell’individuo nella sua perdita, il tempo, che pur vuole
l’individuo, è essenzialmente la morte dell’individuo (la chance è un’interferenza - una serie di
interferenze - tra la morte e l’essere).
Comunque agisca, mi procuro un sentimento di dispersione - di umiliante disordine. Scrivo un libro:
devo riordinare le idee. Mi sminuisco dinanzi a me stesso, sprofondandomi nel particolari del mio
compito. Discorsivo, il pensiero è sempre attenzione concessa ad un punto, a spese degli altri;
strappa l’uomo a se stesso, lo riduce ad un anello della catena che è.
Fatalità per l'« uomo intero » - l’uomo del pal - di non disporre pienamente delle sue risorse
intellettuali. Fatalità di lavorare male, disordinatamente.
Vive sotto una minaccia: la funzione di cui si serve tende a soppiantarlo! Non può servirsene fino
all’estremo. Sfugge al pericolo soltanto dimenticandola. Lavorare male, disordinatamente, è spesso
il solo mezzo per non diventare funzione.
Ma il pericolo inverso è altrettanto grande (il vago, l’imprecisione, il misticismo).
Bisogna considerare un flusso ed un riflusso.
Ammettere un deficit.
« Non abbiamo il diritto di augurarci un solo stato, dobbiamo desiderare di divenire esseri periodici
come l’esistenza » (1882-1885; citato in Volontà di potenza).
Stamattina, al sole, ho il sentimento magico della felicità. C’è come una maggiore densità in me e
neppure la preoccupazione dell’esultanza. Una vita infinitamente semplice, al limite delle pietre, del
muschio e dell’aria piena di sole.
Pensavo che le ore di angoscia (d’infelicità) preparassero la via a momenti opposti - di eliminazione
dell’angoscia, di illuminato sollievo! È vero. Ma stamattina, la chance, la felicità, sono situate molto
più vicino all’ultimo balzo: nel mio sentimento di conoscere ed amare, nelle strade, ciò che vive:
uomini, bambini, donne.
Chance, felicità - non esaltanti, sopraggiunte senza attesa, nella quiete, e che ho visto risplendere
dolcemente, della loro semplice esuberanza. L’idea di un grido di gioia mi traumatizza. Del riso, ho
detto: « Io lo sono - al momento estremo del suo rompere - finché ridere è superfluo e fuori luogo ».
Nel bosco, mentre nasceva il sole, ero libero, la mia vita si innalzava senza sforzo e attraversava
l’aria come un volo di uccello: ma infinitamente libera, dissolta e libera.
Come è bello, penetrando lo spessore delle cose, scorgerne l’essenza, burla immensa, infinita, che la
chan-
ce senza fine gioca a... (qui, ciò che strazia il cuore). Essenza? Per me. Qual è la calma immagine -
rassicurante a condizione che io sia l’inquietudine e la morte stesse -qual è l’angoscia così pura da
rimuovere l’angoscia, e la morte così perfetta che al suo confronto la morte sia un gioco da
bambini? Sarei io?
Enigmatica, fa silenziosamente balenare l’impossibile, esige un maestoso deflagrare di me stesso -
maestà tanto più scossa da un riso irrefrenabile quanto io muoio.
E la morte non è soltanto la mia. Moriamo tutti incessantemente. Il poco tempo che ci separa dal
vuoto ha l’inconsistenza di un sogno. Le morti che immaginiamo lontane: possiamo d’un balzo
gettarci più facilmente oltre ad esse che in esse; la donna che stringo a me è morente, e la perdita
infinita degli esseri, che scorre senza tregua, che scivola al di fuori di loro, sono io!
V
Per ora, pesce sulla sabbia, senso di malessere e di oppressione. Tempo di sosta nella
concatenazione; guardo il meccanismo, la sola via d’uscita è l’impossibile...
Mi trovo in attesa di una festa - che sarebbe la soluzione.
Or ora, queste parole della Gaia scienza mi hanno straziato: «... pronto sempre all’estremo come ad
ima festa... ». Ho letto, sfinito dalla festa di ieri... (che dire della debolezza e dei deviamenti
dell’indomani?).
Ieri, il fiume scorreva grigio sotto un cielo carico di venti, di nuvole cupe, di spessi vapori: tutta la
magia del mondo sospesa nella scarsa freschezza della sera, nel momento inafferrabile in cui il
violento, deciso acquazzone, le foreste, i prati hanno la stessa tremante angoscia delle donne che
cedono. In quel momento, quanto cresceva in me - al limite dello strazio della ragione - la felicità,
per la mia evidente impotenza a possederla! Eravamo come il prato che le piogge stavano per
inondare, inermi sotto il cielo opaco. C’era una sola via di scampo: portare i bicchieri alle labbra e
bere lentamente questa immensa dolcezza, inserita nel turbamento delle cose.
Nessuno vide mai, per la nostra vita nel tempo, altra soluzione che la festa. Una calma felicità che
non abbia mai fine? Ma soltanto ima gioia prorompente ha la forza di liberare. Eterna? Al solo
scopo di evitarci, di evitare ai granelli di polvere che siamo un margine di decadimento - e di
angosce — procedendo con questo splendore fino alla morte!...
Che ora ogni uomo mi capisca e riceva da me questa rivelazione:
Morali, religioni di compromesso, ipertrofie dell’intelligenza, sono nate dalla depressione
dell’indomani di una festa. Bisognava vivere in quel margine, installarvisi
e superare l’angoscia (questo sentimento di peccato, di amarezza, di cenere, che il flusso della festa
lascia, ritirandosi).
Scrivo il giorno dopo una festa...
Una piantina grassa mi ricorda improvvisamente una fattoria della Catalogna, sperduta in una
valletta lontana, dove arrivai per caso dopo un lungo cammino nella foresta. Sotto il sole alto del
meriggio, silenziosa, senza vita: una porta monumentale in rovina, le colonne sormontate da vasi di
aloe. Il magico mistero della vita sospeso nel ricordo di questi edifici, innalzati nella solitudine
per l’infanzia, l’amore, il lavoro, le feste, la vecchiaia, la discordia, la morte...
Evoco questa immagine di me stesso, più vera: un uomo che impone ad altri un silenzio quieto per
eccesso di « umore » sovrano. Solido come la terra, e mobile come una nube. Innalzantesi sulla
propria angoscia, nella disumanità di una risata.
L’immagine dell’uomo è cresciuta nei colpi audaci; non dipende affatto da me che l’orgoglio
umano, attraverso il tempo, agisca nella mia coscienza.
Come la tempesta al di sopra della depressione, la calma della volontà s’innalza al di sopra di un
vuoto. La volontà suppone il vertiginoso abisso del tempo - l’infinito aprirsi del tempo sul nulla. La
volontà ha chiara coscienza di questo abisso: ne misura con lo stesso impulso l’orrore ed il fascino
(fascino tanto più grande quanto più grande è l’orrore). Essa si oppone a questo fascino -ne tarpa la
possibilità: si definisce persino, su questo punto, come l’interdetto che viene pronunciato. Ma nello
stesso tempo trae dalla sua profondità un sentimento di serenità tragica. L’azione derivante dalla
volontà annienta il nulla del tempo, afferra le cose non più in ima posizione immutabile, ma nel
moto che le trasforma attraverso il tempo. L’azione annulla e neutralizza la vita, ma quel momento
di maestà che dice « voglio » e ordina l’azione, si colloca sul culmine dove le rovine (il nulla
che si produce) sono tanto visibili quanto la finalità (l’oggetto trasformato dall’azione). La volontà
contempla decidendo l’azione - ne contempla nello stesso tempo i due aspetti: il primo che
distrugge, di annichilimento, ed il secondo di creazione.
La volontà che contempla (innalza colui che è capace di volere e che si erge come immagine di
maestà, grave e tempestosa perfino, con le sopracciglia un po’ aggrottate), questa volontà è
trascendente rispetto all’azione da essa ordinata. Reciprocamente, la trascendenza di Dio partecipa
dell’impulso della volontà. La trascendenza in generale, o che opponga l’uomo all’azione
(all’agente come all’oggetto) o Dio all’uomo, è imperativa per elezione.
Per quanto strano ciò sia, il dolore è così raro che dobbiamo ricorrere all’arte per non restarne
senza. Non potremmo sopportarlo quando ci colpisce se ci sorprendesse completamente, non
essendoci familiare. E soprattutto dobbiamo avere ima conoscenza del nulla che è rivelata soltanto
nel dolore. Le più comuni operazioni della vita ci vogliono chini sull’abisso. Se l’abisso non si
incontra nelle sofferenze che ci capitano, ne abbiamo di artificiali, che ci procuriamo col leggere o
con gli spettacoli o, se abbiamo la capadtà di farlo, creandocele. Nietzsche è stato dapprima, come
altri, un evocatore del nulla - scrivendo l’Origine della tragedia (ma il nulla della sofferenza venne
a lui in modo tale che egli smise di darsi da fare). Questo stato di privilegio - anche da Proust
raggiunto in seguito - è il solo in cui possiamo far a meno completamente, se lo accettiamo, della
trascendenza esterna. Sì, è troppo poco dire: se lo accettiamo, bisogna dir di più: se lo amiamo, se
abbiamo la forza di amarlo. La semplicità di Nietzsche davanti al peggio, la sua disinvoltura e
allegria, derivano dalla presenza passiva dell’abisso in lui. Da ciò deriva l’assenza di estasi grevi e
tese, che danno talvolta ai mistici degli impulsi terrorizzati - e di conseguenza terrorizzanti.
Almeno si aggiunge l’idea del ritorno eterno...
Con un impulso volontario (sembra) aggiunge ai terrori passivi l’amplificazione di un tempo eterno.
Ma forse, questa strana idea non è semplicemente il prezzo dell’accettazione? o meglio dell’amore?
Il prezzo, la prova, dati senza misura? Da cui deriva lo stato di trance al momento della nascita delle
idee, che Nietzsche ha descritto nelle sue lettere.
Per l’uomo della strada, l’idea di ritorno non è efficace. Da sola, non dà un sentimento di orrore.
Potrebbe amplificarlo se ci fosse, ma se non c’è... Tanto meno può provocare l’estasi. Perché, prima
di accedere agli stati mistici, dobbiamo in qualche modo aprirci all’abisso del nulla. È quello che ci
invitano a fare i maestri di preghiera di ogni religione. Dobbiamo, noi, noi stessi compiere uno
sforzo, mentre in Nietzsche la malattia e la maniera di vivere che essa causa avevano già fatto il
lavoro. In lui la ripercussione infinita del ritorno ebbe un senso: quello dell’accettazione infinita
dell’orrore dato, un’accettazione, piuttosto che infinita, non preceduta da alcuno sforzo.
Assenza di sforzo!
I rapimenti descritti da Nietzsche, l’ilare sollievo, i momenti di folle libertà, i suoi umori da
marionetta inerenti agli stati « più alti »... questa empia immanenza sarebbe forse un dono del
soffrire?
Quanto è bello questo rifiuto della trascendenza, delle sue temibili regole: proprio per la sua
leggerezza!
La stessa mancanza di sforzo - preceduta dallo stesso dolore, che scalza ed isola - si trova nella vita
di Proust: elementi entrambi essenziali agli stati che egli raggiunse.
Nello Zen, si mira al satori soltanto attraverso comiche sottigliezze. È la pura immanenza di un
ritorno a sé. Al posto della trascendenza, l’estasi - nell’abisso più folle, più vuoto - rivela
un’eguaglianza del reale a se stesso, dell’oggetto assurdo al soggetto assurdo, del tempo-oggetto,
che distrugge distruggendosi, al soggetto distrutto. Questa realtà in un certo senso uguale si colloca
oltre la trascendenza ed è, credo, il possibile più avanzato.
Ma non credo che il satori sia mai stato raggiunto prima che la sofferenza abbia compiuto la sua
devastazione.
Può essere raggiunto soltanto senza sforzo: un nulla lo provoca dal di fuori, quando non è atteso.
La passività stessa, l’assenza di sforzo - e l’erosione del dolore - appartengono allo stato teopatico -
in cui la trascendenza divina si dissolve. Nello stato teopatico, il fedele stesso diventa Dio, l’estasi
in cui prova questo sentimento di eguaglianza tra se stesso e Dio è uno stato semplice e « senza
effetto »: tuttavia, come avviene per il satori, è situato oltre ogni estasi concepibile.
Ho descritto (Expérience intérieure, pp. 85-89) l’esperienza (estatica) del senso del nonsenso, che si
capovolge in un nonsenso del senso, poi di nuovo... senza soluzione accettabile... Se si esaminano i
procedimenti Zen, si vedrà che implicano questo movimento. Il satori è cercato nella direzione del
nonsenso concreto (sostituito alla realtà sensata), che rivela una realtà più profonda. E'
il procedimento del riso...
La sottigliezza di un movimento del « senso del nonsenso » si può afferrare nello stato di
sospensione descritto da Proust.
La scarsa intensità, l’assenza di elementi folgoranti, risponde alla semplicità teopatica.
Non avevo affatto scorto questo carattere di teopatia negli stati mistici conosciuti da Proust quando,
nel 1942, cercai di metterne in chiaro l’essenza (Expérience intérieure, pp. 210-233). In quel
momento, io stesso avevo raggiunto soltanto condizioni di strazio. Solo recentemente sono slittato
nella teopatia: dalla semplicità di questo nuovo stato, pensai subito che lo Zen, Proust e, nell’ultima
fase, santa Teresa e san Giovanni della Croce l’avevano conosciuto.
Nello stato di immanenza - o teopatico - non è necessaria la caduta nel nulla. Lo spirito,
interamente, è penetrato esso stesso di nulla, corrisponde al nulla (e il senso corrisponde al
nonsenso). Da parte sua, l’oggetto si dissolve in questa equivalenza. Il tempo assorbe tutto,
la trascendenza non cresce più a spese del nulla, al di sopra del nulla, esecrandolo...
Nella prima parte di questo diario, ho tentato di de-
scrivere questo stato, che si sottrae al massimo alla descrizione estetica.
I momenti di semplicità mi sembrano riferire gli « stati » di Nietzsche all’immanenza. È vero, questi
stati partecipano dell’eccesso. Però i momenti di semplicità, di gaiezza, di spigliatezza, non ne sono
separati.1
1 Cfr. Appendice n, L’esperienza interiore di Nietzsche. [N.d.A.]
VI
È venuto il momento di terminare il mio libro. In un certo senso il compito è facile! Ho la
sensazione di aver evitato, superato un po’ alla volta innumerevoli scogli. Non ero armato di
princìpi ai quali attenermi - ma a forza di astuzia, di sagacia..., lanciando audacemente i dadi,
avanzai ogni giorno, ogni giorno mi feci gioco delle insidie. I princìpi di negazione enunciati
all’inizio hanno consistenza soltanto in se stessi; sono in balìa del gioco. Ben lungi dall’opporsi al
mio progredire, mi hanno servito meglio di quanto non avrebbero fatto princìpi contrari, che oggi
potrei dedurre. Servendomi contro essi delle sottili risorse di cui dispongono la passione, la vita, il
desiderio, ho vinto più sicuramente che non servendomi della saggezza affermativa.
La straziante domanda di questo libro...
posta da un ferito, senza soccorsi, che va perdendo lentamente le forze...
e che tuttavia è arrivato in fondo, indovinando silenziosamente il possibile senza sforzo: nonostante
il cumulo degli ostacoli, scivolando attraverso le faglie dei muri...
se non esiste più un grande meccanismo in nome del quale si possa parlare: come tendere l’azione,
come domandar di agire, che fare?
Ogni azione finora si è basata sulla trascendenza entro la quale si parlò di agire; e si sentì sempre un
rumore di catene, che i fantasmi del nulla trascinavano verso le quinte.
Voglio soltanto la chance...
È il mio scopo, l’unico, e il mio solo mezzo.
Qualche volta, come è doloroso parlare. Amo e il mio supplizio è di non essere intuito, di dover
pronunciare
parole - ancora invischiate nella menzogna, nella feccia del tempo. Mi ripugna aggiungere (temendo
equivoci grossolani): « Mi faccio beffe di me stesso ».
Mi rivolgo così poco ai malevoli che domando agli altri di indovinarmi. Bastano gli occhi
dell’amicizia per veder lontano a sufficienza. Soltanto l’amicizia indovina il disagio che provoca
l’enunciare una verità stabile o uno scopo. Se prego un facchino di portarmi la valigia in stazione,
do le indicazioni necessarie senza disagio. Se evoco un lontano possibile, toccando la fragile
intimità, come un amore segreto, le parole che scrivo mi danno la nausea e mi sembrano vuote. Non
scrivo il libro di un predicatore. Mi piacerebbe poter essere capito soltanto a patto di una profonda
amicizia.
« IL DOMINIO DI SÉ - Quei professori di morale che raccomandano all’uomo, in primo luogo e sopra
tutto, di avere il dominio di se stesso, lo gratificano così di una malattia: un’irritabilità costante di
fronte ad ogni impulso ed inclinazione naturale e, in certo modo, una specie di prurito. Qualunque
cosa gli capita, dal di fuori o dal di dentro - un pensiero, un’attrazione, un incitamento -quest’uomo
irritabile immagina sempre che in quel momento il dominio su se stesso potrebbe essere in pericolo:
senza poter affidarsi ad alcun istinto, ad alcun libero colpo d’ala, compie incessantemente un gesto
di difesa, armato contro se stesso, con l’occhio pungente e diffidente, lui che si è istituito come
guardiano della sua torre. Sì, in questo modo può essere grande! Ma come è diventato intollerabile
per gli altri, difficile a sopportarsi per lui stesso, come si è impoverito e tagliato fuori dai più bei
rischi dell’anima e anche da tutte le esperienze future! Infatti bisogna saper perdersi, almeno un
po’, se si vuole imparare qualcosa da ciò che noi stessi non siamo... » (La gaia scienza, 305).
Come si può evitare la trascendenza nell’educazione? Per millenni, evidentemente, l’uomo è
cresciuto nella trascendenza (i tabù). Chi potrebbe, senza la trascendenza,
arrivare al punto in cui siamo (in cui è l’uomo)? Cominciando dall’aspetto più semplice: i piccoli ed
i grandi bisogni... facciamo scoprire ai bambini il nulla che esce da loro: e così costruiamo la loro
vita su un orrore. Così definiamo in essi questa potenza che si innalza, separata dalla sozzura, senza
immaginabile mescolanza.
Il capitalismo muore - o morirà - (secondo Marx) per le conseguenze della concentrazione. Così la
trascendenza è diventata mortale condensando l’idea di Dio. Dalla morte di Dio - che portava in sé
il destino della trascendenza - nasce il carattere insignificante delle grandi parole - di ogni
esortazione solenne.
Senza le tensioni della trascendenza - che fondarono l’atteggiamento imperativo - gli uomini
sarebbero restati animali.
- Ma il ritorno all’immanenza si attua all’altezza dove esiste l’uomo.
Esso innalza l’uomo al punto in cui si poneva Dio e riporta al livello dell’uomo l’esistenza che
sembrava opprimerlo.
Lo stato d’immanenza significa la negazione del nulla (e con questo la negazione della
trascendenza; se nego soltanto Dio non posso trarre da questa negazione l’immanenza dell’oggetto).
Alla negazione del nulla, si arriva per due vie. La prima, passiva, è quella del dolore - che stritola,
annulla fino al punto che l’essere è dissolto. La seconda, attiva, è quella della coscienza: quando
provo un interesse profondo per il nulla, l’interesse di un vizioso, ma che è già lucido (nel vizio,
perfino nel delitto, distinguo un superamento dei limiti dell’essere). Per questa via posso accedere
alla chiara consapevolezza della trascendenza, e nello stesso tempo alle sue origini inconsapevoli.
Parlando di « negazione del nulla », non prendo in considerazione qualcosa di equivalente alla
negazione hegeliana della negazione. Intendo parlare di « comuni-
cazione » raggiunta senza che siano stati prima posti lo scadimento o il delitto. Immanenza significa
« comunicazione » allo stesso livello, senza scendere o risalire: il nulla, in questo caso, non è più
oggetto che viene posto da un atteggiamento. O, se si preferisce, il dolore profondo risparmia un
ricorso ai campi del vizio o del sacrificio.
Il culmine che desideravo con passione raggiungere -ma ho visto che si sottrae al mio desiderio - è
raggiunto ad ogni estremo dalla chance: sotto il travestimento dell’infelicità...
Sarebbe forse chance pur essendo la vera infelicità?
Qui è necessario passare da un punto all’altro glissando, bisogna dire: « Non è l’infelicità poiché è
il culmine (già definito dal desiderio). Se una sofferenza è il culmine, questa sofferenza è in fondo
la chance. Reciprocamente, se il culmine è raggiunto attraverso la sventura -passivamente - questo
avviene perché esso è, per essenza, connesso alla chance, che ha luogo indipendentemente dalla
volontà, dal merito ».
Nel culmine, ciò che mi attirava - che corrispondeva al desiderio - era il superamento dei limiti
dell’essere. E nella tensione della volontà, essendo lo scadimento (il mio o quello dell’oggetto di un
desiderio) segno del superamento, in modo esplicito era voluto da me. Era la grandezza del male,
dello scadimento, del nulla, quella che conferiva valore alla trascendenza positiva, ai comandamenti
della morale. Ero abituato a questo gioco...
Quando l’essere stesso è divenuto il tempo - tanto è roso all’interno - quando il moto del tempo ha
fatto di esso, alla lunga, a forza di sofferenze e di diserzione, questo colatoio dove scorre il tempo,
l’essere si fa aperto all’immanenza, non differisce più dall’oggetto possibile.
La sofferenza abbandona il soggetto, l'interno dell’essere, alla morte.
Di solito, invece, noi cerchiamo nell’oggetto quella espressione o effetto del tempo che è il nulla.
Trovo il nulla nell’oggetto, ma allora si annida in me un terrore: da cui viene la trascendenza, come
un’altura dalla quale si domina il nulla.
VII
Se mai verso di me un alito è venuto, di quell’alito creatore, di quella necessità divina che obbliga
perfino il caso a danzare carole di stelle;
se mai ho riso del lampo creatore che il lungo tuono dell’azione segue rancoroso, ma obbediente;
se mai ho giocato a dadi con gli dìi, al tavolo divino della terra, di modo che la terra tremava e si
fondeva, e sprizzava torrenti di fiamme: — perché la terra è un tavolo divino, die trema di nuove
parole e del landò dei divini dadi...
Zarathustra, I sette sigilli
Ma cosa importa a voi, giocatori di dadi! Non avete imparato a giocare e a beffeggiare come si
deve! Non siamo sempre seduti ad una grande tavola di scherno e di gioco?
Zarathustra, L’uomo superiore
La mia stanchezza corporea - nervosa - è così grande che, se non fossi arrivato alla semplicità,
soffocherei d’angoscia, credo.
Spesso gli infelici, ben lungi dal giungere all’immanenza, si dedicarono a quel Dio la cui
trascendenza derivava dall’evocazione volontaria del nulla. Come contro-partita: la mia vita
procede dall’immanenza e dai suoi moti, e dunque accedo alla sovranità orgogliosa, che innalza la
mia trascendenza personale sopra il nulla del possibile decadimento. Ogni volta è composta di
sottili equilibri.
Una volta mi lasciavo attirare da tutti gli aspetti torbidi - ghigliottina, fogne e prostitute... -
affascinato dal decadimento e dal male. Avevo quel sentimento greve, oscuro, angosciato che
opprime la folla, e che può venire evocato da una canzone come La vedova. Ero straziato da quel
senso di aurora che dipende in modo così
profondo dal decadimento - che non sbocca nelle penombre religiose - che unisce lo spasimo alle
immagini sudicie.
Mi preoccupavo nello stesso tempo di dominare, di essere duro verso me stesso, di essere
orgoglioso. E talvolta ero bloccato dallo splendore militare che deriva, in una incomprensione
ottusa, dalla superba contemplazione del nulla - e che si accorda, in fondo, con quel male di cui è
negazione trascendente (traendo la sua forza ora da una ostentata disapprovazione, ora da un
compromesso).
Mi ostinai a lungo, cercando di esaurire la feccia di queste possibilità maledette. Ero ostile alle
argomentazioni della ragione, che amministra l’essere, ne calcola gli evidenti interessi. La ragione
stessa è ostile al desiderio di oltrepassare i limiti - che non sono unicamente quelli dell’essere ma
anche i suoi propri.
Cerco, nella seconda parte di questo libro, di mettere in chiaro questo stato d’animo. Mi sforzo di
evocare schematicamente il religioso terrore che mi ispira ancor
oggi.
(A questo proposito, credo che nella volontà di potenza si trascuri l’elemento essenziale, se non vi si
vede l’amore del male, non come utilità ma come valore che indica il culmine.)
Quando, alla fine della seconda parte, esibisco un atteggiamento temerario, e un tono di sfida,
probabilmente lo faccio con lo stesso sentimento che provo ora.
Anche ora, posso soltanto giocare, senza sapere.
(Non sono di quelli che dicono: « Agite così, non potrà mancare il risultato ».)
Tuttavia, avanzando e osando - certamente con sagacia (ma la sagacia consisteva nel « lanciare i
dadi » ogni volta) - ho trasformato l’aspetto delle difficoltà di partenza.
1° Il culmine nell’immanenza annulla per definizione certe difficoltà sollevate a proposito degli
stati mistici (o almeno degli stati che della trascendenza conservano i
moti di terrore e tremore, considerati nella critica dei « culmini spirituali »):
-    l’immanenza si riceve, non è il risultato di una ricerca; è interamente dalla parte della chance (ed
è secondario il fatto che, in certi campi in cui si moltiplicano i procedimenti intellettuali, non si
possa istituire una prospettiva netta, purché esista un momento decisivo);
-    l’immanenza è contemporaneamente, in un modo indissolubile, culmine immediato, poiché è da
ogni parte rovina dell’essere, e culmine spirituale.
20 Distinguo ora nel gioco il movimento che, non riferendo, di un essere dato, il presente
all’avvenire, lo riferisce invece ad un essere che non esiste ancora: in questo senso, il gioco non
mette l’azione al servizio dell’agente né di alcun essere già esistente, e in questo supera « i limiti
dell’essere ».
Riassumendo, anche se il culmine si sottrae a chi lo cerca (a chi mira ad esso come scopo definito
discorsivamente), posso riconoscere in me un impulso capace di farmi procedere verso il culmine.
Se posso fare del culmine la meta di un procedere o di una intenzione, posso fare della mia vita la
lunga divinazione del possibile.
Ora mi raffiguro questo:
II tempo entra in me attraverso la derelizione che il dolore fa di me stesso, mio malgrado, alla
morte; ma se la mia vita segue il suo corso normale, entra anche attraverso l’effetto delle
speculazioni che collegano al tempo ogni mia più irrilevante azione.
Agire è speculare su un risultato successivo - seminare sperando in raccolti futuri. L’azione è in
questo senso « messa in gioco », e la posta è nello stesso tempo il lavoro ed i beni impegnati - come
l’aratura, il campo, il seme, tutta una parte delle risorse dell’essere.
La « speculazione » è però diversa dalla « messa in gioco » in quanto è fatta, per essenza, in vista di
un guadagno. A rigore, una « messa in gioco » può essere folle, indipendente dalla preoccupazione
del futuro.
La differenza tra speculazione e messa in gioco spartisce atteggiamenti umani diversi.
Talora la speculazione è preminente rispetto al mettere in gioco. Allora la posta è il più possibile
ridotta, si fa il massimo per garantire la vincita, la cui natura, se non la quantità, è limitata.
Talvolta l’amore del gioco induce al più grande rischio, a misconoscere lo scopo che si persegue. Lo
scopo, in quest’ultimo caso, può non essere stabile, la sua natura è di porsi un possibile illimitato.
Nel primo caso, la speculazione sul futuro subordina il presente al passato. Riferisco la mia attività
ad un essere futuro, ma il limite di quest’essere è tutto determinato nel passato. Si tratta di un essere
chiuso, che si vuole immutabile e che limita il suo interesse.
Nel secondo caso, lo scopo indefinito è apertura, superamento dei limiti dell’essere: l’attività
presente ha come fine ciò che del tempo futuro è incognito. I dadi sono gettati in relazione a un
aldilà dell’essere: a ciò che ancora non è. L’azione supera i limiti dell’essere.
Parlando del culmine, del declino, opposi la preoccupazione per l’avvenire a quella per il culmine,
che si iscrive nel tempo presente.
Ho considerato la vetta come inaccessibile. Effettivamente, per quanto strano ciò sembri, il tempo
presente è sempre inaccessibile al pensiero. Il pensiero, il linguaggio si disinteressano del presente e
continuamente gli sostituiscono la tensione al futuro.
Non è rinnegabile ciò che ho affermato della sensualità e del delitto. Anche se si dovesse superarlo,
è per noi il principio ed il cuore dionisiaco delle cose: che, dopo la morte della trascendenza, il
dolore compenetra ogni giorno un po’ di più.
Ma ho colto la possibilità di agire e di non esser più, nell’azione, in balìa di un desiderio « patetico
» del male.
A rigore, la dottrina di Nietzsche è, rimane, un grido nel deserto. Anzi è malattia e occasione di
gretti malinte-
si. La sua fondamentale assenza di fini, quell’innata ostilità verso i fini non può essere superata
direttamente.
« Noi crediamo che la crescita dell’umanità ne sviluppi anche gli aspetti spiacevoli; l’uomo più
grande di tutti, se questo è un concetto ammesso, sarebbe colui che rappresentasse più
vigorosamente in sé il carattere contraddittorio dell’esistenza, la glorificasse e ne fosse
l’unica giustificazione... » (1887-1888; citato in Volontà di potenza).
L’ambiguità nell’assenza di scopo, invece di riparare qualcosa, affretta la rovina. La volontà di
potenza è un equivoco. Ne rimane, in un certo senso, la volontà del male, e infine quella di
spendere, di giocare (su cui Nietzsche ha messo l’accento). Le anticipazioni di un tipo umano - in
rapporto all’elogio dei Borgia - contraddicono un principio del gioco, che chiede risultati liberi.
Se rifiuto di definire gli scopi, agisco senza riferire i miei atti al bene, alla conservazione o
all’arricchimento di dati esseri. Mirare all’oltre, non all’essere dato, significa non chiudere, lasciare
aperto il possibile.
« È proprio della nostra natura creare un essere che ci sia superiore. Creare ciò che ci supera! È,
l’istinto della riproduzione, l’istinto dell’azione e dell’opera. Siccome ogni volontà suppone un fine,
l’uomo suppone un essere che ancora non esiste, ma che è il fine della sua esistenza, Ecco il vero
libero arbitrio! In questo fine si riassumono l’amore, la venerazione, la intuita perfezione,
aspirazione ardente » (1882-1885; citato in Volontà di potenza).
Nietzsche espresse attraverso l’idea di fanciullo il principio del gioco aperto, in cui l'evento supera
il dato.  « Perché » diceva Zarathustra « bisogna che il leone diventi bambino? ». Il bambino è
innocenza e oblio, un nuovo inizio ed un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo
movimento, un « sì » sacro.
La volontà di potenza è il leone, ma il bambino non è forse la volontà di chance?
Nietzsche ancor giovane aveva annotato: « Il “gioco”, l’inutile - ideale di chi straripa di forza; che è
“infantile”. L’infantilismo di Dio » (1872-1873; citato in Volontà di potenza).
L’indù Ramakrishna giunse, credo, allo stato d’immanenza: « ...è il mio compagno di giochi - disse
di Dio. Non c’è né capo né coda nell’universo. Il gioioso! lacrime e risa, tutte parti della commedia.
Ah! il divertimento del mondo! Scuole di bambini abbandonati, chi lodare? chi biasimare? Non c’è
ragione. Non v’è cervello. Lui ci inganna con questo po’ di cervello e questo po’ di ragione. Ma
stavolta non mi becca più. Ho la parola del gioco. Oltre la ragione e la scienza, al di là di tutte le
parole, c’è l’amore ».
Immagino - che so? - una maniera di parlare così felice da deformare tuttavia la realtà che evoca.
Nello stato di immanenza coincidono il tragico, il sentimento di una pazza burla e la più grande
semplicità. La semplicità decide. L’immanenza differisce poco da uno stato qualsiasi e sta proprio in
ciò: questo poco, questo nulla, è importante più della cosa più importante.
È possibile che la parola del gioco, che l’amore, offuschi la verità.
Ma non a caso, penso, queste poche righe stabiliscono un’equivalenza tra l’oggetto che
nell’immanenza viene afferrato e le prospettive infinite del gioco.
Lo stato di immanenza implica una completa esposizione di sé al gioco, tale che soltanto un evento
indipendente dalla volontà possa disporre di un essere così a fondo.
Appena dissipato l’inganno della trascendenza, la serietà è dissipata per sempre. Tuttavia,
nell’assenza di serietà sfugge ancora l’infinita profondità del gioco: il gioco è la ricerca, di sorte in
sorte, degli infiniti possibili.
Ad ogni modo.
Lo stato di immanenza significa: al di là del bene e del male.
È connesso alla non-ascesi, alla libertà dei sensi.
Lo stesso per l’ingenuità del gioco.
Arrivando all’immanenza, la nostra vita esce infine dalla fase dei padroni.
AGOSTO 1944
EPILOGO
Se un giorno io riuscissi a spezzar via, separandola dalla massa, se non tutta la mia vita almeno la
parte che è per me più importante - se la massa si dissolve in un’immanenza senza fine - ciò
avverrebbe soltanto allo stremo delle forze. Nel momento in cui scrivo, trascendere la massa è come
sputare in aria: lo sputo ricade... La trascendenza (l’esistenza nobile, il disprezzo
morale, l’atteggiamento sublime) è caduta nella commedia. Noi trascendiamo ancora l’esistenza
infiacchita: ma a patto di perderci nell’immanenza, di lottare da pari per tutti gli altri. Detesterei il
vuoto della trascendenza in me (le decisioni drastiche), se non afferrassi immediatamente il suo
annullarsi in qualche immanenza. Considero essenziale essere sempre all’altezza dell’uomo,
trascendere soltanto una scoria, fatta di gesti trascendenti. Se non fossi io stesso al livello di un
operaio, sentirei la mia trascendenza al di sopra di lui come uno sputo sospeso sulla mia testa. Sento
tutto questo al caffè, nei luoghi pubblici... Giudico fisicamente esseri ai quali mi unisco e che non
possono trovarsi né al di sotto né al di sopra di me. Sono profondamente diverso da un operaio, ma
il sentimento di immanenza che ho, parlandogli, se la simpatia ci unisce, è il segno che indica il mio
posto nel mondo: quello di un’onda in mezzo alle acque. Mentre i borghesi die si innalzano
segretamente gli uni sugli altri, mi sembrano condannati alla vuota esteriorità.
Da un lato, la trascendenza, ridotta a commedia (quella del padrone - del signore - era una volta
connessa al rischio della morte, che si correva con la spada in mano), produce uomini la cui
volgarità afferma l’immanenza profonda. Ma se immagino la borghesia distrutta - con qualche
legittimo salasso - l’eguaglianza tra loro dei sopravvissuti, questa immanenza infinita, non
svuoterebbe a sua volta di senso una riproduzione monotona di lavoratori, una moltitudine senza
diversità e senza storia?
È pura teorizzazione.
Tuttavia il sentimento di immanenza all’interno di una massa che nulla potrebbe ormai trascendere,
corrisponde ad un bisogno necessario in me non meno dell’amore fisico. Se per rispondere a
un’esigenza più viva, come il desiderio di giocare, dovessi isolarmi in ima trascendenza nuova, mi
troverei nello stato di pena in cui si muore.
Questo pomeriggio, quattro aerei americani hanno attaccato con bombe, cannoni, mitragliatrici un
treno di olio e benzina, in una stazione a un chilometro da qui. Volando a bassa quota,
volteggiavano al di sopra dei tetti, poi puntavano attraverso colonne di fumo nero: grossi e terribili
insetti, schizzavano di nuovo sopra il treno, per rituffarsi in alto verso il cielo. Ne passavano in
continuazione sulle nostre teste, picchiando in un rombo di mitragliatrici, motori, bombe, cannoni a
tiro rapido. Ho assistito senza pericolo per un quarto d’ora alla scena: che pietrificava gli spettatori.
Essi tremavano e si stupivano, poi pensavano alle vittime a cose fatte. Trenta vagoni sono stati
incendiati: per ore, ne è uscita come da un cratere un’immensa colonna di fumo, che ha oscurato
una parte del cielo. Una festa marinara a duecento metri dal treno riuniva un gran numero di
bambini. Non ci sono stati né morti né feriti.
La radio non segnala più l’avanzare di colonne blindate. Però penso che si trovino a meno di
cinquanta chilometri. Due camion di truppe tedesche si sono fermati davanti a me: cercavano un
ponte sulla Senna... fuggendo verso est, a caso.
Ne afferro per la prima volta il senso (del resto, da una prospettiva abbastanza limitata): questa
guerra è quella della trascendenza contro l’immanenza. La sconfitta del nazionalsocialismo è
connessa all’isolamento
della trascendenza, come l’illusione di Hitler lo è alla forza scatenata dal movimento della
trascendenza. Questa forza ne coagula contro di sé ima maggiore - lentamente - attraverso le
reazioni che causa all’interno dell’immanenza. Sussiste solo il limite dell’isolamento.
In altre parole, il fascismo ebbe come essenza la trascendenza nazionale, non potè diventare un «
universale »; traeva la sua singolare forza dalla « particolarità ». Perciò perse la causa che
rappresentava, benché essa avesse un lato universale. In ogni paese, a molti individui sarebbe
piaciuto dominare la massa, avendo essi come scopo la loro trascendenza personale. Tentavano
invano - non potendo offrire alla massa di seguirli nelle loro finalità - di trascendere il resto del
mondo. E questo è possibile in una sola nazione: la trascendenza di un satellite (l’Italia), divenne
comica nel pieno della guerra (questa guerra non ha dimostrato l’inferiorità fondamentale del
fascismo italiano rispetto a quello tedesco, ma il fatto che il primo, unito e subordinato ad un
movimento più grande, si era trasformato in ombra).
È pure comico fare « le civette di Minerva », parlare a cose fatte, disponendo soltanto, per salutare
quelli che cadono, di scoppi di risa. Chiaro o crudele? Chiaro. L’immanenza è la libertà, è il riso. «
La breve tragedia » diceva Nietzsche « ha sempre finito col servire l’eterna commedia
dell’esistenza, e il mare “dal sorriso innumerevole” - per dirla con Eschilo - finirà per coprire con le
sue onde la più grande di queste tragedie » (La gaia  scienza, 1).
Immagino attraverso l’immanenza una scissione, mentre ciascuna parte contesta l’autenticità
dell’altra, e si avvicina all’autenticità soltanto perché contesta ed è contestata. La tensione, se non la
guerra necessaria tra le due...: poiché nessuna è ciò che pretende di essere.
Ho finito il disegno di una filosofìa coerente...
Interminabile attesa. Molte esplosioni nella notte. H sindaco (filotedesco) annunciava ieri che gli
americani stavano entrando a Parigi. Ne dubito. Nel momento in cui scrivo, una violenta esplosione,
un bambino grida. Tutto è sovreccitato, nell’attesa. L’altro ieri gli americani sono passati a una
diecina di chilometri. Oltre all’interesse comune, ho in più una ragione morbosa per attendere -
soprattutto l’entrata a Parigi. È improbabile che una grossa battaglia devasti la regione. I tedeschi se
ne vanno.
Soltanto le trascendenze sono intelligibili (le discontinuità). La continuità è intelligibile solo in
rapporto al suo contrario. L’immanenza pura ed il nulla dell’immanenza si equivalgono, non
significano niente.
Nemmeno la trascendenza pura sarebbe intelligibile, se non fosse « ripetuta », vale a dire: se non
fosse rappresentata all’infinito nell’ambiente omogeneo dell’immanenza.
Tagliate le comunicazioni, ridotto ad una solitudine assoluta. Si è formata una specie di terra di
nessuno, da due giorni senza tedeschi e dove non entrano gli americani attestati, sembra, intorno
alla foresta. Le strade sono inverosimilmente vuote, in un silenzio notturno... Pochi aerei, i rombi
delle esplosioni sono cessati. Non si sentono né bombardamenti aerei né cannoneggiamenti. La vita
intera, popolazioni, eserciti, si dissolve (si esaurisce) nell’attesa. Rinuncio a cercar notizie
malsicure. Le sole che ormai mi importano, l’entrata a Parigi, l’arrivo degli americani, mi
giungeranno per forza propria.
In queste condizioni, mi tormenta l’incertezza riguardo a K., e nella solitudine che mi si è chiusa
intorno mi rode, mi distrugge.
La relativa lentezza delle operazioni lascia posto a timori fondati.
Combattimenti a Parigi.
Provo sollievo, immaginando, per me, non so quale eccesso di sofferenza, invece della rapida
liberazione che
si attendeva. Preferiamo talvolta affrontare l’orrore piuttosto che essere pazienti.
Infine, crollo dei nervi: almeno a tratti. Riesco a riprendermi e mi domino scrivendo. Cade la notte,
l’elet-tricità manca, esito ad accendere la candela. Voglio scrivere, non cedere all’angoscia. Da mesi
sto paventando la separazione, alla quale mi condanna l’avvicinarsi delle operazioni: oggi posso
dire che la solitudine mi opprime in maniera intollerabile. Il nulla dell’assenza - die può essere
definitiva - è provato oggi dal mio furore; io soffoco. Come mi irrita dover vivere questo venir
ributtato alla menzogna della trascendenza dal nulla che soffoca: se fosse il puro, autentico nulla, il
mio supplizio sarebbe più leggero, penso. Se si tratta di morire, è pur sempre menzogna; e certo la
menzogna della perdita di un essere amato è ancor più evidente. Ma la menzogna di vivere attenua,
scopertamente, la tristezza di morire, mentre la menzogna dell’amore accresce l’orrore di perdere
l’essere amato. In entrambi i casi, l’evidenza del falso elimina soltanto una parte dell’effetto: il falso
è diventato la nostra verità. Ciò che chiamo menzogna, che è in fondo menzogna lo è soltanto « in
fondo »: esso è piuttosto l'impotenza della verità. Il sentimento d’impotenza che ci spezza, se la
perdita - e non la nostra stanchezza - ci fa vedere che ci eravamo montati la testa, scuote
definitivamente i nostri nervi. Non può eliminare l’attaccamento. La separazione non è per questo
meno dura, e ciò che arreca una pretesa lucidità, non è il distacco ma l’idea che anche il ritorno non
potrebbe soddisfare la sete che perdura dentro la delusione.
Sono ringiovanito di vent’anni.
Ho trovato un divino, diabolico messaggero da operetta.
Ho visto K., il cannone romba e si sentono le mitragliatrici.
Stasera, in cima ad una torre, l’immensa foresta sotto le nuvole basse: e la pioggia, la guerra ne
raggiungono i limiti, da sud-est a est: un sordo brontolio.
La battaglia non lontana, di cui ascoltiamo in molti il rumore dall’alto delle rocce, non mi provoca
angoscia. Come i miei vicini, scorgo la distesa in cui essa si svolge, invisibile ed enigmatica, ascolto
congetture inconsistenti. Non c’è « terra di nessuno »: davanti a noi, pochi tedeschi si oppongono
all’avanzata degli americani. Ecco quello che so. Le notizie della radio sono confuse, e in contrasto
con la resistenza tedesca davanti a noi: nella nostra ignoranza completa o quasi, questi rumori di
cannoni o di mitragliatrici e il fumo di incendi lontani sono altrettanti problemi banali. Se c’è una
grandezza in questi rumori, è quella dell’inintelligibile. Non suggeriscono né la natura omicida dei
proiettili, né i movimenti immensi della storia e neppure un pericolo che si avvicini.
Mi sento vuoto e stanco: non scrivo, ma non perché sono affranto. Ho bisogno di riposo, di stupidità
e di letargo. Leggo su riviste del 1890 romanzi di Hervieu, di Marcel Prévost.
I tedeschi stanno probabilmente cedendo. Il cannone, nella notte, scuote le porte. Al calar del
giorno, una ventina di esplosioni di terribile violenza (è saltato un importante deposito di
munizioni): sentivo tra le gambe e sulle spalle il sommovimento dell’aria. A sette chilometri, le
fiamme incendiavano il cielo. Vidi un’esplosione di rocce. All’orizzonte, immense fiammate rosse
ed altre, accecanti, s’innalzarono nel fumo nero. Questo orizzonte di foreste è lo stesso di tre mesi
fa: allora, mi lamentavo di mancare di fantasia. Non riuscivo a raffigurarmi, allora, in questo
paesaggio così bello (come un oceano d’alberi, animato da lente, immense onde) la distruzione e lo
strazio di una battaglia. Vedevo oggi vasti incendi, a poche miglia il cannone infuriava, dominato
poi da quei rombi di colossali esplosioni. Ma i bambini ridevano sulle rocce. La quiete del mondo
resta inalterata.
Le notizie infine sono meno confuse. Due persone venute in bicicletta da Parigi mi hanno
raccontato i fatti: i combattimenti nelle strade, la bandiera francese al municipio, gli strilloni con
l'Humanité. Mi hanno pure detto che la battaglia è vicina a Lieusaint, a Melun. È possi-
bile che Melun cada stasera, e questo deciderebbe il destino della foresta.
Sono salito sulle rocce alle nove. Il cannone tuonava forte. Tacque, ma si sentì chiaramente nella
foresta il fracasso di una colonna motorizzata.
Tornai a casa, mi stesi sul letto. Grida mi riscossero da un dormiveglia. Andai alla finestra e vidi
donne e bambini correre. Mi urlarono che erano arrivati gli americani. Uscii e vidi le autoblinde
circondate da una folla come se ci fosse una fiera, ma più animata. Nessuno è sensibile più di me a
questo genere di emozioni. Parlavo ai soldati. Ridevo.
L’aspetto degli uomini, degli abiti e del materiale americano mi è simpatico. Questi uomini
d’oltremare mi sembrano più conclusi, più completi di noi.
Ad ogni modo i tedeschi sudano mediocrità trascesa. L’« immanenza » degli americani è innegabile
(l’essere è in loro stessi e non al di là).
La gente portava bandiere, fiori, champagne, pere, pomodori, e faceva salire i bambini sui carri
armati a cinquecento metri dai tedeschi.
I carri armati giunti a mezzogiorno si rimisero in marcia alle due. Subito la battaglia infuriò a un
chilometro dalle strade. Una parte del pomeriggio trascorse tra raffiche di mitragliatrici,
cannoneggiamento assordante e fucileria. Dall’alto delle rupi vedevo il fumo innalzarsi da un
villaggio bombardato, dal quale sparavano batterie tedesche. Incendi dappertutto! Melun in fiamme,
lontana, esalava fumo come un vulcano. Dalle rocce si domina una distesa immensa, per due terzi
costituita dai rilievi addolciti ma selvaggi di ima foresta, e poi dalla pianura di La Brie verso Melun.
Di tanto in tanto, all’orizzonte, aerei picchiavano su ima colonna tedesca e quando colpivano giusto,
vedevo innalzarsi grandi colonne di fumo nero.
Alle nove arrivò, lentamente, una camionetta circondata da uomini della Resistenza armati. Essi
imbandierarono la piazza dove si ammassò la folla. Il primo che fecero salire sulla camionetta era
un vecchio alto e magro, con una distinzione da uccello raro, un generale. Come in castigo, seduto
sull’orlo, assunse un’aria furba e disincantata. Circondato da un caos di uomini armati. Era il capo
della milizia locale. La « carretta » all’angolo della strada, e le vittime entrate in una solitudine di
morte, avevano qualche cosa di raccapricciante. La folla applaudì l’arrivo di una donna e cantò la
Marsigliese. La donna, una borghesuccia di quarant’anni, riprese la Marsigliese con gli altri.
Sembrava cattiva, limitata, testarda. Era ripugnante, ridicolo sentirla cantare. Calò la notte: il cielo
basso e nero prometteva temporale. Furono condotti il sindaco e qualche altro. Contrasti a proposito
del sindaco, un parapiglia. Lentamente, la camionetta carica si mosse. Ragazzi a capo scoperto,
armati di fucili o di mitra, salirono con i prigionieri. Nella folla eccitata risuonò aspro il « Canto
della partenza ». Nella notte rosseggiavano bagliori d’incendio. A tratti, lampi illuminavano tutto,
accecando e conservando una specie di palpito insensato. Verso la fine il cannone più prossimo (le
linee sono a cinquecento metri di distanza) tuonò con estrema violenza, portando al massimo questa
desolazione.
Temo coloro che, per comodità, riducono il gioco politico alle ingenuità della propaganda.
Personalmente, l’idea degli odi, speranze e ipocrisie, sciocchezze (in una parola, delle
dissimulazioni d’interessi) che accompagnano i grandi movimenti d’armi, mi distrugge. L’andare
e venire degli incendi nella pianura, il succedersi, come una carica di cavalli nelle strade, di
cannoneggiamenti e frastuono di esplosioni, mi sembrano carichi, più che di un senso facile, di tutto
il peso connesso al destino del genere umano. Quale strana realtà persegue i suoi scopi (diversi da
quelli che si vedono) o non persegue il minimo scopo attraverso questo rumore?
È difficile ora dubitare che la nostra immensa convulsione non tenda necessariamente alla rovina
della vecchia società, con le sue bugie, il suo sfiatarsi, la sua mondanità, la sua dolcezza di malata;
d’altra parte è la nascita di un mondo dove agiranno senza freno forze reali. Il passato (la sua truffa
per sopravvivere) sta morendo: il pesante sforzo di Hitler ne esaurisce ulteriormente le risorse.
Evidentemente, riguardo a questo: guai a chi non si accorgerà che è venuto il tempo di togliersi i
vecchi abiti e di entrare nudi nel mondo nuovo dove il possibile avrà il mai visto come condizione!
Ma che cosa vuole, che cosa cerca, che cosa significa un mondo al momento del parto?
Stamattina, sono straziato: la ferita si è riaperta a un minimo urto, ancora una volta; un vuoto
desiderio, un’inesauribile sofferenza! Un anno fa, mi tolsi, in un momento di febbre decisiva, ogni
possibilità di riposo. Da un anno, vivo le convulsioni di un pesce sulla sabbia. Brucio e rido, mi
trasformo in una fiammata... Improvvisamente, si fa il vuoto, l’assenza, da allora mi trovo in fondo
alle cose: da questo fondo, tale vampa sembra esser stata solo tradimento.
Come si può evitare di riconoscere una volta - e poi ancora, e senza fine - la falsità degli oggetti che
ci bruciano? Tuttavia, in questa oscurità insensata, al di là di ogni nonsenso, di ogni crollo, mi
strazia ancora la passione di « comunicare » a chi amo la notizia che è calata la notte, come se
questa « comunicazione », e nessun’altra, fosse la sola misura di un amore grande a sufficienza.
Così rinasce - qua o là, senza fine - la folle folgorazione della chance; che esige da noi, prima di
tutto, la conoscenza della menzogna, del nonsenso che essa è.
O culmine del comico!... Dobbiamo fuggire il vuoto (l’insignificante) di una immanenza infinita,
destinandoci come pazzi al falso della trascendenza! Ma questo falso illumina con la sua follia
l’immanente immensità: quest’ultima non è il più puro nonsenso, il puro vuoto, ma è questo fondo
dell’essere pieno, questo fondo vero, davanti al quale si dissipa la vanità della trascendenza.
Non l’avremmo mai conosciuta - per noi, non sarebbe mai esistita (e forse, a farla esistere per sé
questo era il solo mezzo), se non avessimo prima messo a morte, poi negato, demolito la
trascendenza.
(Sarà possibile seguirmi così lontano?)
Questa direzione è indicata, è vero, da una luce percepita comunemente, annunciata dalla parola
LIBERTÀ.

E ciò mi avvince profondamente.


Non so se la preoccupazione, l’inquietudine morale, straziarono mai uomo più crudelmente di me.
Non sono ora tra quelli che insegnano: ogni affermazione si prolunga in me stesso, come il rumore
delle esplosioni su una città bombardata, in disordine, polvere, gemiti.
Ma come un popolo, passata la bufera, si trova ogni volta al di là delle sue disgrazie (lacrime
asciugate, di soppiatto; volti chiusi che si illuminano: e di nuovo sgorga il riso), così la « tragedia
della ragione » si trasforma in diversità insensata.
APPENDICE
I. NIETZSCHE E IL NAZIONALSOCIALISMO
Nietzsche attaccò la morale idealista. Si fece beffe della bontà e della pietà, smascherò l’ipocrisia e
l’assenza di virilità dissimulate sotto il sentimentalismo umanitario. Come Proudhon e Marx,
affermò l’aspetto benefico della guerra. Lontanissimo dai partiti politici del suo tempo, gli capitò di
enunciare i princìpi di un’aristocrazia da « padroni del mondo ». Lodò la bellezza e la
forza corporea, con una netta preferenza per la vita rischiosa e turbolenta. Questi decisi giudizi di
valore, di fronte all’idealismo liberale, spinsero i fascisti a richiamarsi a lui, e certi antifascisti a
vedere in lui il precursore di Hitler.
Nietzsche ebbe il presentimento di un’epoca vicina, in cui i limiti convenzionali opposti alla
violenza sarebbero stati superati, in cui le forze reali si sarebbero affrontate in conflitti di smisurata
ampiezza, in cui ogni valore esistente sarebbe stato materialmente e brutalmente contestato.
Immaginando la fatalità di un periodo di guerre la cui durezza avrebbe superato ogni previsione,
non gli venne in mente che si sarebbe dovuto evitarle ad ogni costo, e che la prova sarebbe stata
superiore alle forze umane. Persino queste catastrofi gli sembrarono preferibili al ristagno, alla
falsità della vita borghese, della ovina soddisfazione dei professori di morale. Come principio
affermava questo: se esiste per gli uomini un vero valore e le regole della morale comune,
dell’idealismo tradizionale, si oppongono all’affermarsi di tale valore, la vita travolgerà la morale
comune. Anche i marxisti ritengono che i pregiudizi morali opponentisi alla violenza di una
rivoluzione devono piegarsi di fronte ad un valore preminente (l’emancipazione del
proletariato). Diverso dal valore marxista, quello che Nietzsche affermò è pure di carattere
universale: l’emancipazione che voleva non era quella di una classe rispetto ad altre, ma quella della
vita umana, nella figura dei suoi migliori
rappresentanti, rispetto alle schiavitù morali del passato. Nietzsche ha sognato un uomo tale da non
fuggire più un destino tragico, ma da amarlo e incarnarlo a suo piacimento, da non mentire più a se
stesso e da innalzarsi al di sopra del servilismo sociale. Questo genere d’uomo sarebbe stato diverso
dall’uomo attuale, che di solito si confonde con una funzione, cioè con una sola parte del possibile
umano: sarebbe stato in una parola l’uomo totale, libero dalle schiavitù che ci limitano.
Quest’uomo libero e sovrano, a mezza strada tra l’uomo moderno e il superuomo, Nietzsche non ha
voluto definirlo. Pensava con ragione che non si può definire ciò che è libero. Nulla è più vano che
fissare, limitare ciò che ancora non esiste; bisogna volerlo: e voler l’avvenire è riconoscere prima di
tutto il diritto che ha l’avvenire di non essere limitato dal passato, di essere il superamento di ciò
che si conosce. In base a questo principio, di un primato del futuro sul passato,1 sul quale insisté
fedelmente, Nietzsche è l’uomo più estraneo a ciò che, sotto il nome di morte, esecra la vita e, sotto
il nome di reazione, il sogno. Tra le idee di un reazionario fascista o simili e quelle di Nietzsche, vi
è molto più che una differenza: vi è una radicale incompatibilità. Nietzsche, pur rifiutando di
delimitare quel futuro al quale attribuiva tutti i diritti, lo evocò tuttavia con suggerimenti vaghi e
contraddittori, e ciò diede luogo a confusioni abusive: è vano prestargli un’intenzione che si possa
misurare in termini di politica elettorale, asserendo che parlò di « padroni del mondo ». Si tratta da
parte sua dì una evocazione arrischiata del possibile. Quell’« uomo sovrano » di cui desiderava lo
splendore, egli lo immaginò in maniera contraddittoria, talvolta ricco talvolta più povero di un
operaio, ora potente ora perseguitato. Da lui esigeva la virtù di sopportare tutto, come gli
riconosceva il diritto di trasgredire le norme. Del resto, lo distingueva in linea di massima
dall’uomo al potere. Non limitava nulla, si accontentava di descrivere quanto più liberamente
poteva un campo di possibilità.
Detto questo, mi sembra che, se dobbiamo definire il nietzschismo, ha poca importanza indugiare in
quella parte della dottrina che dà alla vita diritti contro l’idealismo. Il rifiuto della morale classica è
comune al marxismo,2 al nietzschismo, al nazionalsocialismo. È essenziale solo il valore in nome
del quale la vita afferma i suoi più importanti diritti. Stabilito questo principio di giudizio, i valori
nietzscheani, in rapporto ai valori razzisti, si collocano nell’insieme al polo opposto.
-    Il procedimento iniziale di Nietzsche deriva da un’ammirazione per i Greci, gli uomini
intellettualmente meglio riusciti di tutti i tempi. Nello spirito di Nietzsche tutto è subordinato alla
cultura, mentre nel terzo Reich, la cultura, ridotta, ha come finalità la forza militare.
-    Uno dei caratteri più significativi dell’opera di Nietzsche è l’esaltazione dei valori dionisiaci:
ebbrezza ed entusiasmo infiniti. Non a caso Rosenberg, nel Mito del xx secolo, denuncia il culto di
Dioniso come non ariano!... Nonostante alcune tendenze ben presto represse, il razzismo ammette
soltanto valori soldateschi: « La gioventù ha bisogno di stadi e non di boschi sacri » afferma Hitler.
-    Ho già parlato dell’opposizione tra passato e futuro. Nietzsche si definisce stranamente come
figlio dell’avvenire. Connetteva lui stesso questo nome alla sua esistenza di senza-patria.
Effettivamente, la patria è per noi la parte del passato, e su di essa, unicamente e ristrettamente su di
essa, l’hitlerismo edifica il suo sistema di valori, non porta alcun valore nuovo. Nulla di
più estraneo a Nietzsche: il quale afferma di fronte al mondo la totale volgarità dei tedeschi.
-    Due precursori ufficiali del nazionalsocialismo che precedettero Chamberlain furono Wagner e
Paul de Lagarde, contemporanei di Nietzsche. Nietzsche è apprezzato e messo in rilievo dalla
propaganda nazista, ma il
terzo Reich non ne fece uno dei suoi dottori, come fa invece di questi ultimi. Nietzsche fu amico di
Wagner ma se ne allontanò, nauseato dal suo sciovinismo gallofobo e antisemita. Quanto al
pangermanista Paul de Lagarde, un passo di Nietzsche toglie ogni dubbio nei suoi riguardi. « Se
sapeste » scrive egli a T. Fritsch « quanto ho riso nella scorsa primavera leggendo le opere di quel
caparbio sentimentale e vanitoso che si chiama Paul de Lagarde... ».
- Noi oggi ci rendiamo ben conto del senso che ha per il razzismo hitleriano la stupidità antisemita.
Non c’è nulla di più essenziale all’hitlerismo dell’odio contro gli ebrei. A questo si oppone questa
norma di condotta di Nietzsche: « Non frequentare nessuno che sia implicato nella sfrontata beffa
mistificatoria delle razze ». Non c’è nulla che Nietzsche abbia affermato in modo più palmare del
suo odio contro gli antisemiti.
È necessario insistere su quest’ultimo punto. Nietzsche deve esser lavato dall’onta nazista; perciò
bisogna denunciare certe commedie. Una di queste riguarda la sorella del filosofo, che gli
sopravvisse fino ad anni recenti (morì nel 1935). La signora Elisabeth Foerster nata Nietzsche non
aveva dimenticato, il 2 novembre 1933, le difficoltà che erano sorte tra lei ed il fratello a causa del
suo matrimonio nel 1885 con l’antisemita Bernard Foerster.
Una lettera in cui Nietzsche le ricorda la sua ripugnanza più ferma possibile per la posizione politica
del marito - chiamato in causa col suo nome - fu pubblicata a cura della signora stessa. Ora, il 2
novembre 1933, la signora Elisabeth Judas-Foerster ricevette a Weimar, nella casa in cui morì
Nietzsche, il Führer del terzo Reich, Adolf Hitler. In questa solenne occasione, la donna affermò
l’antisemitismo della famiglia leggendo un testo di... Bernard Foerster!
Riferisce Le Temps del 4 novembre 1933: « Prima di lasciare Weimar per recarsi ad Essen, il
cancelliere Hitler è andato a far visita alla signora Elisabeth Foerster-Nietzsche, sorella del celebre
filosofo. La vecchia signora gli ha regalato un bastone animato che apparteneva
al fratello. Gli ha fatto anche visitare gli archivi Nietzsche ».
« Il signor Hitler ha ascoltato la lettura di una memoria indirizzata nel 1879 a Bismark dal dottor
Foerster, agitatore antisemita, che protestava contro l’invadenza dello spirito ebreo in Germania.
Tenendo in mano il bastone di Nietzsche, Hitler è passato in mezzo alla folla acclamante ».
Nietzsche, nel 1887, inviando una sprezzante lettera all’antisemita T. Fritsch, terminava così: « Ma
infine, cosa credete che io provi quando il nome di Zarathustra esce dalla bocca degli antisemiti? ».
3

II. L’ESPERIENZA INTERIORE DI NIETZSCHE


Le « esperienze » riferite in questo libro hanno meno spazio che nei due precedenti. Non hanno
neppure lo stesso rilievo. Ma è soltanto un’apparenza. L’interesse fondamentale di questo libro si
rivolge, è vero, all’inquietudine morale. Gli « stati mistici » vi hanno tuttavia ima primaria
importanza, perché il problema morale è posto a loro riguardo.
Sembrerà forse inopportuno dare tale importanza a questi stati in un libro che tanto riguarda
Nietzsche. L’opera di Nietzsche ha poco a che vedere con le ricerche del misticismo. Tuttavia
Nietzsche conobbe una specie d’estasi e lo dice (Ecce homo; citato prima, a p. 119).
Ho voluto entrare nella comprensione dell’« esperienza nietzscheana ». Credo che Nietzsche pensi a
« stati mistici » nei passi in cui parla del divino.
« Quanti dèi nuovi sono ancora possibili! » scrive in una nota del 1888. « Io stesso, in cui l’istinto
religioso, cioè creatore di dèi si agita, persino fuori luogo, in quanti diversi modi ho avuto ogni
volta la rivelazione del divino!... Ho visto passare tante cose strane in quei momenti situati al di
fuori del tempo, che cadono nella nostra vita come se cadessero dalla luna, e in cui non si sa più
quando si è già vecchi, quando si ridiventerà giovani... » (citato in Volontà di potenza) .
Avvicino questo testo ad altri due:
« Veder affondare le nature tragiche e poterne ridere, malgrado la profonda comprensione,
l’emozione e la simpatia che si provano, questo è divino » (1882-1884; citato in Volontà di
potenza).
« La mia prima soluzione: il piacere tragico di veder affondare ciò che esiste di più alto e di
migliore (perché lo si considera troppo limitato in confronto al Tutto); ma questo è solo un modo
mistico di presentire un “bene” superiore.
La mia ultima soluzione: il bene supremo ed il male supremo sono identici » (1884-1885; citato in
Volontà di  potenza).
Gli « stati divini » conosciuti da Nietzsche avrebbero avuto come oggetto un contenuto tragico (il
tempo), come movente il riassorbimento dell’elemento tragico trascendente nell’immanenza
implicata dal riso. Il troppo limitato in confronto al Tutto del secondo passaggio, è un riferimento
allo stesso movente. Un modo mistico di presentire significherebbe un modo di sentire mistico,
nel senso dell’esperienza e non della filosofia mistica. Se è così, la tensione degli stati estremi
sarebbe data come ricerca di un « bene » superiore.
L’espressione « il bene supremo ed il male supremo sono identici » potrebbe ugualmente essere
intesa come un dato dell’esperienza (un oggetto d’estasi).
L’importanza attribuita da Nietzsche stesso ai suoi stati estremi è sottolineata espressamente in
questa nota: « Il nuovo senso di potenza: lo stato mistico; e il razionalismo più lucido, più ardito,
che serva come strada per arrivarci. - La filosofia, espressione di uno stato d’animo
straordinariamente elevato » (citato in Volontà di  potenza). L’espressione «stato elevato» per
indicare lo stato mistico si trovava già nella Gaia scienza (vedi p. 125).
Questo brano è, tra gli altri, una testimonianza dell’equivoco introdotto da Nietzsche col parlare
continuamente di potenza, mentre pensa alla capacità di dare. Effettivamente, noi possiamo
prendere soltanto in questo senso un’altra nota (della stessa epoca): « Definizione del mistico: colui
che ha sufficiente, e anche troppa, felicità e che cerca un linguaggio per la sua felicità,
perché vorrebbe dame » (1884; citato in Volontà di potenza). Nietzsche definisce così una linea da
cui deriva in parte Zarathustra. Lo stato mistico, altrove accostato alla potenza, può esserlo più
giustamente alla volontà di dare.
Questo libro ha un senso profondo: lo stato estremo si sottrae alla volontà dell’uomo (in quanto
l’uomo sia progetto, azione), tanto che non si può neppure parlarne
se non alterando la sua natura. Ma il valore decisivo di questa interdizione può soltanto straziare
colui che vuole, che parla: infatti, nel momento in cui non può, bisogna che voglia e parli. Io stesso,
ho abbastanza, ho fin troppa felicità mia propria.
III. L’ESPERIENZA INTERIORE E LA SETTA ZEN
La setta buddhista Zen esisteva in Cina fin dal sesto secolo. Oggi è fiorente soprattutto in Giappone.
La parola giapponese Zen è la traduzione del sanscrito dhyàna, che designa la meditazione
buddhista. Come lo yoga, il dhyàna è un esercizio respiratorio al fine di provocare l’estasi. Lo Zen
differisce dai metodi comuni per un evidente disprezzo delle forme dolci. La base della religiosità
Zen è la meditazione, ma avente come finalità solo un momento di illuminazione chiamato satori.
Nessun metodo certo permette di accedere al satori. È la brusca apertura, lo scompiglio improvviso
che qualche imprevedibile bizzarria scatena.
Sian-ièn, al quale il maestro Uei-scian rifiutava ogni insegnamento, disperava. « Un giorno, mentre
strappava erbacce e spazzava la terra, un sasso che aveva gettato da parte colpì un bambù e il suono
prodotto dall’urto innalzò il suo spirito, in modo inatteso, allo stato del satori. Il problema postogli
da Uei-scian divenne luminoso, la sua gioia era senza limiti; fu come ritrovare un genitore perduto.
Inoltre, capì allora la bontà del fratello maggiore, da lui abbandonato quando questi si era rifiutato
di istruirlo. Infatti ora sapeva che dò non gli sarebbe capitato se Uei-scian fosse stato così privo di
bontà da spiegargli le cose » (Suzuki, Essais sur le bouddhisme Zen, trad. Sauvageot e Daumal,
1944, n, pp. 29-30). Ho sottolineato io le parole come ritrovare...
« ...quando il meccanismo scatta, dò che giaceva nello spirito prorompe come un’eruzione
vulcanica o sprizza come un fulmine. Lo Zen chiama questo fatto "ritornare a casa”... » (Suzuki, op.
cit., 11, p. 33).
Il safari può risultare « dalla percezione di un suono inarticolato, da un’osservazione inintelligibile,
oppure dal contemplare un fiore che sta sbocciando, o dal verificarsi di un qualsiasi fatto banale e
quotidiano: cadere, avvolgere ima treccia, servirsi di un ventaglio, ecc. » (Suzuki, op. cit., II, p. 33).
Un monaco raggiunse il safari « nel momento in cui, camminando nel cortile, inciampò » (Suzuki,
op. cit., in, p. 253).
« Ma-ciù tirò il naso a Pai-ciang »... e aprì il suo spirito (Suzuki, op. cit., II, p. 31).
L’espressione Zen ha assunto spesso la forma poetica.
Iang-Tai scrive:
« Se volete nascondervi nella stella del Nord, / volgetevi, e incrociate le mani dietro la stella del Sud
» (Suzuki, op. cit., II, p. 40).
SERMONI DI IUN-MEN. « Un giorno... disse “Il Bodhisattva Vasudeva si trasforma senza ragione
alcuna in un bastone”. Così dicendo, tracciò per terra una linea col bastone e riprese: “Tutti i
Buddha innumerevoli come i granelli di sabbia, sono qui a parlare di ogni sorta di sciocchezze”. Poi
lasciò la stanza. - Un’altra volta disse: “Tutti i discorsi che ho fatto finora - di che cosa si tratta
infine? Oggi, di nuovo, non essendo in grado di venire in aiuto a me stesso, sono qui per parlarvi
ancora una volta. In questo vasto universo, c’è forse qualche cosa che si erga davanti a voi e vi
riduca in schiavitù? Se mai la più piccola cosa, anche piccola come la punta di uno spillo, si trova
sulla vostra via o vi ostruisce il passaggio, toglietela!... Quando vi lascerete prendere a vostra
insaputa da un vecchio come me, vi perderete subito e vi spezzerete le gambe...”. - Un’altra volta:
“Oh! guardate! nessuna vita sussiste!” e così dicendo, fece finta di cadere. Poi chiese: “Capite?
Altrimenti, domandate a questo bastone che vi illumini!” » (Suzuki, op. cit., II, pp. 203-206).
IV. RISPOSTA A JEAN-PAUL SARTRE4 (DIFESA DE « L’EXPÉRIENCE INTÉRIEURE »)
Ciò che disorienta nella mia maniera di scrivere è una serietà che inganna il pubblico. Questa serietà
non è falsa, ma che posso farci se l’estremo del serio si dissolve in ilarità? Espressa senza giri di
parole, una mobilità eccessiva dei concetti e dei sentimenti (degli stati d’animo) non lascia al lettore
più lento la possibilità di afferrare (di fissare).
Sartre dice, riportando mie affermazioni: « Da quando Bataille si è seppellito nella non-scienza,
rifiuta ogni concetto che permetta di designare e classificare ciò che egli raggiunge: “Se dicessi
decisamente: ho visto Dio, dò che vedo cambierebbe. Invece dell’ignoto inconcepibile - davanti a
me selvaggiamente libero, e che mi lascia davanti a sé libero e selvaggio - d sarebbe un
oggetto morto e la cosa del teologo”. Però non tutto è così chiaro: ecco che, dopo, Bataille scrive:
“Ho del divino un’esperienza così folle che si riderà di me, se ne parlo”, e, più sotto: “Con me,
idiota, Dio parla faccia a faccia...”. Infine, all’inizio di uno strano capitolo che contiene tutta una
teologia, ci spiega ancora una volta il suo rifiuto di nominare Dio, ma in modo abbastanza diverso:
“In fondo, ciò che priva l’uomo di ogni possibilità di parlare con Dio, è il fatto che, nel pensiero
umano, Dio diventa necessariamente conforme all’uomo in quanto l’uomo è stanco, assetato di
sonno e di pace”. Non si tratta più degli scrupoli di un agnostico che vuole restare sospeso tra
l’ateismo e la fede. È proprio un mistico che parla, un mistico che ha visto Dio e rifiuta il
linguaggio troppo umano di quelli che non l’hanno visto. Nella distanza che separa i due testi è tutta
la malafede di Bataille... ».
La contestazione di Sartre mi aiuta a mettere in rilievo l’essenziale. Questa esperienza particolare
che hanno gli uomini, e che da essi è chiamata esperienza di Dio, viene alterata, penso, se la si
nomina. Basta che si abbia, riguardo ad essa, la rappresentazione di un qualche oggetto; le
precauzioni non cambiano nulla. Al contrario: eluso il nome, la teologia si dissolve e resiste solo
quale memoria: l’esperienza è ridotta alla disperazione.
Sartre descrive molto bene i moti del mio animo partendo dal mio libro, sottolineando dal di fuori la
loro stupidità, meglio di quanto non potessi fare io dal di dentro (ero commosso): quando vengono
così percepiti e sezionati da una lucidità indifferente, davvero ne è comicamente denunciato (come è
giusto) il carattere stentato, penoso. Dice Sartre:
«... il supplizio che Bataille non può eludere, non può neppure sopportarlo. Ma se non c’è
nient’altro che questo supplizio? Allora è il supplizio stesso che viene falsificato. È l’autore lo
ammette: “Conosco l’arte di trasformare l’angoscia in delizia”. Ed ecco lo slittamento: Non so
nulla. Bene. Ciò significa che le mie conoscenze si fermano, non vanno oltre. Al di là, non esiste
nulla, poiché nulla esiste al di fuori di quello che conosco. Ma se sostantivizzo la mia ignoranza? Se
la trasformo nelle tenebre della non-scienza? Ecco che diventa positiva: posso toccarla, posso
dissolvermi in essa. “Raggiunta la non-scienza, la scienza assoluta diventa soltanto una conoscenza
come le altre”. O meglio: mi ci posso installare. C’era una luce che illuminava debolmente la
notte. Ora mi sono ritirato nella notte e considero la luce dal punto di vista della notte. “La non-
scienza mette a nudo. Questa proposizione è il culmine ma deve essere capita così: essa mette a
nudo, dunque vedo ciò che la scienza finora nascondeva, ma se vedo, so. Effettivamente, so, ma la
non-scienza denuda, ancora, ciò che ho saputo. Se il nonsenso è il senso, il senso che è il nonsenso
si perde, ridiventa nonsenso (senza sosta possibile)”. Non si riesce a prendere il nostro autore in
castagna. Se sostantivizza il non sapere, lo fa con prudenza: alla maniera di un movimento, non di
una cosa. Ciò non toglie che il tiro sia giocato; la non-scienza, che non era all’inizio nulla, diventa
l’aldilà della scienza. Gettandovisi dentro, Bataille si trova improvvisamente dalla parte del
trascendente. È sfuggito. Il disgusto, la vergogna, la nausea sono rimasti dalla parte della scienza.
Dopo di ciò ha buon gioco a dirci: “Nulla è rivelato, tanto nella caduta quanto nell’abisso”. Perché è
rivelato l’essenziale: la mia abiezione è un nonsenso e c’è un nonsenso di questo nonsenso (che non
è affatto un ritorno al senso primitivo). Un testo di Blanchot, citato da Bataille, ci svelerà la
truffa: “La notte gli parve presto più cupa, più terribile di qualsiasi altra notte, come se fosse
realmente venuta fuori da una ferita, dal pensiero che non si pensava più, dal pensiero preso
ironicamente come oggetto da qualcosa di diverso dal pensiero”. Ma appunto, Bataille non vuol
vedere che la non-scienza è immanente al pensiero. Un pensiero che pensa di non sapere è ancora
un pensiero. Scopre dall’interno i suoi limiti, ma non si sorvola per questo. È come fare qualche
cosa di nulla, col pretesto che gli si dà un nome. E appunto il nostro autore arriva fin là. Non
occorre un grande sforzo. Voi ed io scriviamo: “Non so nulla”, semplicemente. Ma supponiamo che
io metta questo nulla tra virgolette. Supponiamo che io scriva, come Bataille: “E soprattutto nulla,
non so nulla”. Ecco un nulla che assume uno strano aspetto: si stacca e si isola, non è lungi
dall’esistere per se stesso. Basterà chiamarlo ora l’ignoto e si sarà raggiunto il risultato. Il nulla è
ciò che non esiste affatto, l’ignoto è ciò che non esiste affatto per me. Chiamando nulla l’ignoto, ne
faccio l’essere che ha come essenza di sfuggire al mio conoscere; e se aggiungo che non so nulla,
significa che comunico con quest’essere grazie a qualche altro mezzo diverso dalla scienza. Su
questo punto ci illuminerà ancora il testo di Blanchot, al quale il nostro autore si riferisce:
“Attraverso questo vuoto, si mescolavano dunque lo sguardo e l’oggetto dello sguardo. Non
soltanto quest’occhio che non vedeva nulla comprendeva qualche cosa, ma comprendeva la causa
della sua visione. Vedeva come oggetto ciò che faceva sì che non vedesse” . 5 Ecco questo ignoto,
dunque, selvaggio e libero, al quale Bataille ora dà ora rifiuta il nome di Dio. E' un puro nulla
ipostatizzato. Ancora uno sforzo e d dissolviamo anche noi in questa notte che ancora ci proteggeva:
è il sapere che crea l’oggetto di fronte al soggetto. La non-scienza è “soppressione dell’oggetto e del
soggetto, il solo mezzo per non arrivare al possesso dell’oggetto da parte del soggetto”. Resta la
“comunicazione”: cioè la notte assorbe tutto. Ma Bataille dimentica questo: che ha costruito con le
sue mani un oggetto universale: la Notte. È il momento di applicare al nostro autore ciò che Hegel
diceva dell’assoluto di Schelling: di notte, tutte le vacche sono nere. Sembra che questo abbandono
alla notte sia affascinante. Non mi meraviglierò. E' un certo modo di dissolversi nel nulla. Ma
Bataille - ora come poco fa - soddisfa per via indiretta il suo desiderio di “essere tutto”. Con le
parole “nulla”, “notte”, “non-scienza” che “denuda”, ci ha semplicemente preparato una cara è
buona estasi panteistica. Si ricordi ciò che Poincaré disse della geometria riemaniana: sostituite la
definizione del piano riemaniano con quella della sfera euclidea, e avrete la geometria di Euclide.
D’accordo. E così, il sistema di Spinoza è un panteismo bianco, quello di Bataille è un  panteismo
nero ».
A questo punto, tuttavia, devo riprendere Sartre: sarebbe, devo dire, un panteismo nero... se,
poniamo, la mia infinita inquietudine non mi avesse in anticipo privato di ogni possibilità di sosta.
Ma sono contento di vedermi sotto questa luce accusatoria proprio da parte del pensiero lento.
Probabilmente scorgevo io stesso (in una qualche forma) queste inestricabili difficoltà - il
mio  pensiero, il suo movimento, partivano da esse - ma era come il paesaggio che si scorge da un
rapido, e ciò che sempre vedevo, era la loro dissoluzione nel movimento, la loro rinascita sotto altre
forme, che acceleravano una rapidità da disastro. In queste condizioni, dominava una penosa
sensazione di vertigine: la mia corsa precipitosa, ansante, in queste prospettive del fondo estremo
dell’essere che si formava e si deformava (che si apriva e si chiudeva) non mi impediva mai di
sentire il vuoto e la stupidità del mio pensiero: ma il culmine era nell’istante in cui il vuoto,
inebriandomi, conferiva piena consistenza al mio pensiero: nel quale il nonsenso, attraverso
l’ebbrezza stessa che mi dava, prendeva diritto di senso. Effettivamente, se il nonsenso mi inebria,
prende questo senso: mi inebria: è bene, in questo rapimento, perdere il senso — dunque è il senso
del fatto di perderlo. Appena apparso questo nuovo senso, me ne appariva l’inconsistenza, e di
nuovo il nonsenso mi svuotava. Ma il ritorno del nonsenso era il punto di partenza di una
accresciuta ebbrezza. Al contrario, Sartre, che non è inebriato né sgomentato da alcun movimento,
giudicando dal di fuori, senza provarle, la mia sofferenza e la mia ebbrezza, conclude il suo articolo
insistendo sul vuoto: « Se le gioie » dice « alle quali ci invita Bataille, debbono rimandare soltanto a
se stesse, né debbono inserirsi nella trama di nuove imprese, contribuire a formare un’umanità
nuova che supererà se stessa in nuove finalità, non valgono di più che bere un bicchiere di alcool o
che scaldarsi al sole su una spiaggia ». È vero, ma insisto: proprio perché esse sono così - tali da
lasciar vuoti - si prolungano in me nella prospettiva dell’angoscia. Ciò che tentai di descrivere in
Expérience intérieure è il movimento che, perdendo ogni possibilità di sosta, cade facilmente sotto i
colpi di una critica che crede di fermarlo dal di fuori poiché essa, la critica, non è presa nel
movimento. La mia caduta vertiginosa e la differenza che ne viene introdotta nello spirito, possono
non essere afferrate da chi non ne fa la prova in se stesso: allora si può, come ha fatto Sartre,
rimproverarmi prima di arrivare a Dio, poi di arrivare al vuoto! Questi rimproveri contraddittori
convalidano la mia affermazione: non arrivo mai a niente.
Per questo la critica al mio pensiero è così difficile. La mia risposta, qualunque cosa se ne dica, è
data in anticipo: da una critica ben motivata non potrò che trarre, come in questo caso, un nuovo
mezzo di angoscia, quindi di ebbrezza. Non mi fermavo, nella mia fuga precipitosa, a tanti aspetti
comici: Sartre mi permette di tornarci sopra... E senza fine.
Tuttavia il mio atteggiamento trae dalla sua facilità questa debolezza evidente:
« La vita, ho detto, si perde nella morte, i fiumi nel mare e il noto nell’ignoto » (Expérience
intérieure, p. 137). E la morte è per la vita (come il livello del mare per l’acqua) la fine raggiunta
senza pena. Perché dovrei farmi una preoccupazione del desiderio che ho di convincere? Mi perdo
in me stesso come il mare: so che il fragore delle acque del torrente si dirige verso di me! Ciò che
un’intelligenza acuta sembra talvolta sottrarre, non tarda ad essere restituito dall’immensa stupidità
alla quale essa si connette - e di cui è soltanto un’infinita parte. La certezza dell’incoerenza delle
letture, la fragilità delle più sapienti costruzioni, costituiscono la profonda verità dei libri. Ciò che
veramente esiste, poiché l’apparenza limita, è tanto lo slancio di un pensiero lucido quanto la sua
dissoluzione nell’opacità comune. L’immobilità apparente di un libro ci imbroglia: ogni libro è
anche la somma dei malintesi di cui è l’occasione.
Perché, allora, debbo sfinirmi in « sforzi di coscienza »? Non posso che ridere di me stesso
scrivente (potrei forse scrivere una frase se non vi si accompagnasse subito il riso?). Naturalmente
io attendo al mio compito nella maniera più rigorosa possibile. Ma quel sentimento che il mio
pensiero stesso ha della sua fragilità (soprattutto la certezza di raggiungere i suoi fini proprio
attraverso il fallimento) mi toglie la quiete, mi priva della distensione favorevole all’ordine
rigoroso. Dedito alla disinvoltura, penso e mi esprimo in balìa del caso.
Non c’è nessuno, evidentemente, che non debba lasciare una parte al caso. Ma è la più piccola e
soprattutto la meno cosciente possibile. Mentre io me ne vado decisamente con la briglia sul collo,
elaboro il mio pensiero, decido della sua espressione, ma non posso disporre di me come voglio. Il
movimento stesso della mia intelligenza è sbrigliato. Devo un minimo di ordine, una relativa
erudizione, ad altri, al caso fortunato, a fuggevoli momenti di distensione. Il resto del tempo... Il
mio pensiero in tal modo vince, immagino, in accordo con il suo oggetto - che esso raggiunge tanto
meglio quanto più è distrutto - ma conosce male se stesso. Dovrebbe nello stesso tempo illuminarsi
completamente e dissolversi... Dovrebbe, in una stessa persona, costituirsi e distruggersi.
Perfino gli argomenti che adduco non sono infine precisi. E anche colui che più è rigoroso è
sottomesso alla casualità: in contropartita, l’esigenza inerente all’esercizio dèi pensiero mi porta
spesso lontano. Una delle grandi difficoltà incontrate dall’intelligenza è di ordinare il suo succedersi
nel tempo. A un dato momento, il mio pensiero raggiunge un rigore soddisfacente. Ma
come metterlo d’accordo con il mio pensiero di ieri? Ieri ero in un certo senso diverso, rispondevo
ad altri pensieri. Adattare le due situazioni resta possibile, ma...
Queste insufficienze non mi disturbano più delle molteplici miserie che fanno generalmente il
comportamento umano: l’umano è connesso in noi alla frustrazione subita e tuttavia mai accettata;
ce ne allontaniamo soddisfatti o ce ne allontaniamo rinunciando a cercare la soddisfazione. Sartre
ha ragione di ricordare nei miei riguardi il mito di Sisifo, ma qui il mio discorso, penso, è quello
dell’uomo totale. Ciò che si può aspettare da noi è l’arrivare il più lontano possibile, non il
raggiungere qualcosa. Ciò che invece resta umanamente criticabile è un’impresa che ha senso
unicamente se messa in rapporto col suo compiersi. Posso andare oltre? Non attenderò il
coordinamento di tutti i miei sforzi: vado oltre. Corro il rischio: i lettori, liberi di non avventurarsi
dietro a me, si servono spesso di questa libertà! I critici fanno bene ad avvertirli del pericolo. Ma io,
a mia volta, attiro l’attenzione su un pericolo più grande: quello dei metodi che, essendo adeguati
soltanto al risultato della conoscenza, danno a coloro che essi limitano l’esistenza frammentaria,
mutilata, relativa, rispetto a un tutto non accessibile.
Riconosciuto questo fatto, difenderò le mie posizioni.
Ho parlato di esperienza interiore: era l’enunciazione di un argomento; non intendevo, mettendo
innanzi questo titolo vago, attenermi ai dati interiori di questa esperienza. Soltanto arbitrariamente
possiamo ridurre la conoscenza a ciò che traiamo da un’intuizione del soggetto. Potrebbe farlo
soltanto un « essere nascente ». Ma proprio noi (che scriviamo) non sappiamo nulla dell’essere
nascente se non osservandolo dal di fuori (il bambino è per noi soltanto un oggetto). L’esperienza
della separazione, a partire dal continuum vitale (la concezione e la nascita), il ritorno al continuum
(nella prima emozione sessuale e nella prima risata) non lasciano in noi ricordi precisi:
raggiungiamo il nucleo dell’essere che siamo soltanto attraverso operazioni oggettive. Una
fenomenologia dello spirito sviluppata presuppone la coincidenza tra soggettivo e oggettivo, e nello
stesso tempo una fusione tra soggetto e oggetto.6 Ciò vuol dire che una operazione isolata è
accettabile soltanto per stanchezza (così avviene per la spiegazione che ho dato del ridere senza
svilupparne l’intero movimento e lasciando sospesa la coniugazione delle sue modalità: non esiste
teoria del riso che non sia una filosofia completa, e così non c’è una filosofia completa che non sia
una teoria del riso...). Ma affermando questi princìpi devo appunto nello stesso tempo rinunciare a
seguirli: il pensiero si produce in me attraverso lampi non coordinati e si allontana incessantemente
dal termine al quale il suo movimento lo avvicinava. Non so se così enuncio l’impotenza umana - o
la mia... Non so, ma ho poca speranza di arrivare, fosse anche al risultato che accontenta dal di
fuori. Non c’è forse un vantaggio nel fare della filosofia ciò che faccio io: il lampo nella notte, il
linguaggio di un breve istante?... Forse, a questo proposito, il momento ultimo contiene una verità
semplice.
Volendo la conoscenza, attraverso ima scappatoia tendo a divenire il tutto dell’universo: ma, in
questo movimento, non posso essere uomo totale; mi subordino ad uno scopo particolare: divenire il
tutto. Probabilmente, se potessi diventarlo, sarei anche l’uomo totale, ma nel mio sforzo mi
allontano da lui: e come diventare il tutto
senza essere l’uomo totale? Quest’uomo totale posso esserlo soltanto mollando la presa. Non posso
esserlo per volontà: la mia volontà è necessariamente quella di arrivare (ad un risultato)! Ma se la
sventura (o la chance) vuole che abbandoni la presa, saprò allora di essere l’uomo totale non
subordinato a nulla.
In altre parole, il momento di rivolta inerente a una volontà di conoscenza che vada oltre i fini
pratici non può essere prolungato indefinitamente: per essere il tutto dell’universo, l’uomo dovrebbe
lasciar perdere il suo principio: non accettare nulla di quanto egli è, se non il tendere all’aldilà di
quanto egli è. L’essere che sono è la rivolta dell’essere, è il desiderio indefinito (Dio era per
lui soltanto una tappa): ed eccolo, accresciuto da una esperienza smisurata, comicamente
appollaiato su un palo.
V. NULLA, TRASCENDENZA, IMMANENZA
Il mio metodo ha come conseguenza un disordine alla lunga intollerabile (particolarmente per me!).
Vi porrò rimedio se è possibile... Ma intendo fin da ora precisare il senso delle parole.
Il nulla è per me il limite di un essere. Al di là dei limiti definiti - nel tempo, nello spazio - un essere
non esiste più. Questo non-essere è per noi carico di senso: so che è possibile annientarmi, ma la
totalità dell’essere (intesa come una somma di esseri) esiste davvero?
La trascendenza dell’essere è fondamentalmente questo nulla. Se appare nell’aldilà che è il nulla,
un oggetto ci trascende, in un certo senso, quale dato del nulla.
Invece, nella misura in cui afferro in esso l’estensione dell’esistenza che dapprima si rivela in me,
l’oggetto si fa per me immanente.
D’altra parte, un oggetto può essere attivo. Un essere (irreale o no, un uomo, un dio, uno stato) che
minacci gli altri di morte denuncia in sé il carattere della trascendenza. La sua essenza mi è data nel
nulla definito dai miei limiti. E persino la sua attività definisce questi limiti. Esso è ciò che si
esprime in termini di nulla; l’immagine che lo rende sensibile è quella della superiorità. Se debbo
ridere di lui, debbo ridere del nulla. Ma in contropartita rido di lui se rido del nulla. Il riso è dalla
parte dell’immanenza per il fatto che il nulla è l’oggetto del riso, ma esso è anche una distruzione.
La morale è trascendente nella misura in cui si richiama al bene dell’essere edificato sul nulla del
nostro essere (l’umanità data come sacra, gli dèi o Dio, lo Stato).
Una morale del culmine, se ciò fosse possibile, esigerebbe il contrario: che io ridessi del nulla. Ma
senza volerlo in nome di una superiorità: se mi faccio ammazzare per il mio paese io mi muovo
verso il culmine ma non lo raggiungo: servo infatti il bene del mio paese che è l’« aldilà » del mio
nulla. Una morale dell’immanenza esigerebbe, invece, che io morissi senza ragione, se possibile:
ma in nome di che esigerlo? In nome di nulla; dunque devo ridere! Ecco che ne rido: e allora
scompare l’esigenza! Se si « dovesse » morir di ridere, questa morale sarebbe il moto d’un
irrefrenabile riso.
Ho parlato di André Breton (vedi p. 79) e avrei voluto dir subito ciò che mi viene dal surrealismo.
Se ho citato una frase in luce negativa, andavo contro un interesse dominante.
Chiunque si rifaccia piuttosto allo spirito che alla lettera, vede nelle mie domande perpetuarsi
un’interrogazione morale che il surrealismo ebbe a subire, e, nell’atmosfera in cui vivo, protrarsi
l’intolleranza surrealista, se ben l’ha conosciuta. E possibile che Breton si svii nella ricerca
dell’oggetto. La sua preoccupazione dell’esteriorità lo arresta alla trascendenza. Il suo metodo lo
incatena al porre oggetti cui appartiene il valore. La sua onestà esige che egli si annienti, che si voti
al nulla degli oggetti e delle parole. Il nulla è anche orpello, tuttavia: trascina in un gioco di
concorrenza perché sussiste nella forma della superiorità. L’oggetto surrealista è per essenza in
aggressione: ha il compito di annientare. E certo non si asserve: attacca per nulla, senza motivo.
Tuttavia l’autore ne è preso ugualmente nel gioco della trascendenza, sebbene non si possa dubitare
della sua volontà d’immanenza.
Quel moto che il surrealismo espresse forse non è più « negli oggetti ». È, se si vuole, nei miei libri
(devo dirlo io stesso: altrimenti, chi se ne accorgerebbe?). Dal porre oggetti trascendenti che si
danno, per distruggere, una superiorità, deriva un passaggio all’immanenza e tutto un incantesimo
di meditazioni. Distruzione più intima, sconvolgimento più estraniante, mettere se stessi
infinitamente in questione. Mettere in questione se stessi e tutte le cose insieme.
1II primato dell’avvenire sul passato non ha nulla a che vedere col primato dell’avvenire sul
presente, di cui ho parlato in precedenza.
2 Che sul piano della morale si colloca al seguito dell’hegelismo. Già Hegel si era allontanato dalla
tradizione. A buon diritto Henri Lefebvre ha detto di Nietzsche che egli fece «inconsciamente opera
di volgarizzatore fin troppo zelante dell’immoralismo implicito nella dialettica storica di Hegel »
(H..Lefebvre, Nietzsche, p. 136). Su questo punto Nietzsche è responsabile, per dirla con le parole
di Lefebvre, di aver « sfondato porte aperte ».
3 Da consultate su questi problemi: Nicolas: De Nietzsche à Hitler, 1937; Nietzsche et les fascistes.
Une réparation (numero speciale di « Acéphale », gennaio 1937). Henri Lefebvre, Nietzsche, 1939
(e.s.i.), p. 161 e segg.
4Risposta a una recensione de L'Expérience intérieure di Bataille, apparsa sui « Cahiers du Sud »,
nn. 260-262 (ott.-dic. 1943), col titolo Un nouveau mystique.
5 Sottolineato da Sartre.
6 È l’esigenza fondamentale della fenomenologia hegeliana. È evidente che, non potendo rispondete
a questa esigenza, la fenomenologia moderna è per il pensiero umano in atto soltanto un momento
tra altri: un castello di sabbia, un miraggio qualsiasi.
POSTFAZIONE
DI MAURICE BLANCHOT
Questo saggio di Maurice Blanchot è apparso sul numero dell’ottobre 1962 della « Nouvelle Revue
Française » con il titolo L’expérience-limite.
Mi si conceda, pensando a Georges Bataille, di meditare su un’assenza, piuttosto che pretendere di
esporre ciò che ognuno dovrà leggere nei suoi libri. E appunto questi libri non costituiscono affatto
una parte secondaria, la semplice traccia della sua presenza. Essi dicono l’essenziale e sono
essenziali. Non soltanto per la bellezza, lo splendore, la forza letteraria che non ha confronti, ma per
i rapporti con la ricerca di cui sono testimonianza. Ed è persino sorprendente che un pensiero così
svincolato dalla coerenza libresca abbia potuto affermarsi fino a tale punto senza tradirsi, in
un’opera che conserva la possibilità di essere raggiunta attraverso la lettura; a patto che lo si
riafferri nell’insieme delle sue espressioni, e mantenendo al centro, accanto a L’expérience
intérieure, a Le coupable ed a La part maudite, i libri che Bataille pubblicò sotto pseudonimo e la
cui potenza di verità è incomparabile: penso anzitutto a Madame Edwarda di cui ho parlato altra
volta chiamandolo non abbastanza efficacemente « il più bel racconto del nostro tempo ».
Tale lettura dovrebbe far scomparire gli epiteti attraverso i quali si cerca di rendere interessante ciò
che si legge. Senza dubbio, mettere insieme le parole misticismo, erotismo, ateismo attira
l’attenzione. Parlare di uno scrittore d’oggi come di un uomo che entrò in estasi, fece opera di
irreligione, lodò il vizio, sostituì il cristianesimo con il nietzschismo e il nietzschismo con
l’induismo, dopo aver vagabondato intorno al surrealismo (riassumo qualche resoconto « ben
intenzionato ») significa presentare il pensiero come spettacolo e creare un personaggio fittizio
senza preoccuparsi minimamente delle finezze della verità. Da dove viene questo bisogno di cercare
il vero soltanto a livello dell’aneddoto e attraverso il falso del pittoresco? Certo, lo sappiamo,
ognuno di noi è minacciato dal suo Golem, rozza immagine d’argilla, il nostro doppio di errore, il
ridicolo fantasma che ci rende visibili e contro il quale, da vivi, ci è concesso di protestare
attraverso la discrezione della nostra vita; ma ecco che, da morti, esso ci perpetua: come impedirgli
di rendere la nostra scomparsa, fosse anche la più silenziosa, quel momento in cui, condannati ad
apparire, dobbiamo rispondere precipitosamente al pubblico interrogatorio confessando ciò che non
fummo? E talvolta proprio gli amici più vicini, con la buona intenzione di parlare al nostro posto e
per non abbandonarci troppo presto alla nostra assenza, contribuiscono a questo travestimento
benevolo o malevolo sotto cui per sempre saremo visti No, non c’è via d’uscita per i morti, per chi
muore dopo aver scritto, ed io non ho mai visto nella posterità più gloriosa se non un inferno
pretenzioso in cui noi critici - tutti - facciamo la parte di diavoli piuttosto meschini.
Ho riflettuto a lungo, vi rifletto ancora. Non vedo come potrei evocare in termini giusti un pensiero
così estremo e così libero, sempre connesso all’esigenza di un movimento, contento di ripeterla.
Questo è vero in generale per ogni commento. Il commentatore non è fedele quando riproduce
fedelmente; quanto cita, le parole, le frasi, per il solo fatto che sono citate, cambiano senso e si
cristallizzano oppure acquistano un valore troppo grande. Le espressioni assai forti die a
Georges Bataille è permesso di usare gli appartengono e conservano, sotto la sua autorità, la loro
misura; ma se ci capita di parlare, dopo lui, di disperazione, orrore, estasi e rapimento, non potremo
che sentire la nostra goffaggine, e ancor più la nostra falsità e mistificazione. Non intendo dire che
usare un linguaggio completamente diverso, privo di queste parole-guida, ci possa condurre più
vicino alla verità, ma, almeno, la lettura resta intatta nel suo accordo innocente con un pensiero
protetto.
In questa prospettiva, penso che il lavoro del commentatore - lavoro che deve tendere alla massima
modestia - si debba limitare a proporre un punto da dove si possa meglio capire ciò che si
svilupperà soltanto dalla lettura. Del resto, questo punto può variare. Cerchiamo dunque dove
situarci perché l'esperienza-limite - quella che Georges Bataille ha chiamato « esperienza interiore »
e la cui affermazione attira la sua ricerca verso il punto di massima gravità - non si ponga soltanto
come un fenomeno strano, come peculiarità di uno spirito straordinario, ma conservi per noi il suo
potere di interrogazione. Ricorderò brevemente di che cosa si tratta. L’esperienza-limite è la risposta
che l’uomo incontra quando ha deciso di mettersi in questione radicalmente. Questa decisione
che compromette l’intero essere esprime l’impossibilità di fermarsi, a qualsiasi consolazione o a
qualsiasi verità, agli interessi o ai risultati dell’azione, alle certezze della conoscenza e della fede.
Questo movimento di contestazione attraversa tutta la storia, ma ora si rinchiude in sistema, ora
trapassa il reale e termina in un aldilà del mondo in cui l’uomo si affida ad un termine assoluto
(Dio, Essere, Bene, Eternità), ma in ogni caso rinnega se stesso. Tuttavia, vediamo che questa
passione del pensiero negativo non si confonde con lo scetticismo e neppure con le modalità del
dubbio metodico. Non umilia l’uomo, non lo getta nell’impotenza, non lo giudica incapace di
compiutezza. Anzi; a questo punto si badi: è possibile che nell’uomo si realizzi in pieno l’esigenza
di essere totalità. In fondo, l’uomo è già totalità! Lo è nel suo progetto, è tutta la verità futura di
questa stessa interezza dell’universo la quale si regge soltanto attraverso di lui, lo è sotto l’aspetto
del saggio il cui discorso comprende tutte le possibilità del discorso compiuto, lo è nella prospettiva
di una società svincolata dalle sue schiavitù. Non si dovrebbe forse dire che fin da questo momento
la storia in qualche modo finisce? Il che non significa che non succederà più niente, né che l’uomo,
l’individuo, non dovrà sopportare tutte le sofferenze e tutte le ignoranze del futuro; ma l’uomo
come universale domina già tutte le categorie del sapere, può tutto ed è in grado di rispondere a
tutto (è vero, soltanto a « tutto » e non alle difficoltà particolari: e a ciò risponde anche inducendo il
particolare a rinunciare a se stesso, perché non c’è posto per il particolare nella verità del
tutto). Certamente, queste possono apparire asserzioni sbrigative, e noi potremmo sollevare dei
dubbi su questa eventuale fine della storia. Dubbi, forse. Ma pensiamoci meglio: chi dubita allora in
noi? Il piccolo io, debole, insufficiente, infelice, che non sa quasi nulla, rinchiuso nell’ostinazione
del suo ego: per questo piccolo io, è evidente che esiste soltanto la sua propria fine, una fine di cui
l’io tanto più si rammarica in quanto, nel suo egoismo, essa non ha come orizzonte la fine di tutti gli
altri; la piccola ragione di cui esso si accontenta o che lo spinge a rinunciare rapidamente ad una via
d’uscita ragionevole e lo precipita nei compiaciuti tormenti dell’esistenza assurda, oppure lo
prepara alla speranza di un’altra vita nella quale si riconoscerà in Dio. Tomo dunque all’argomento:
per tutti, sotto l’una o l’altra forma, la storia è arrivata alla fine, quasi « allo scioglimento »; per
l’uomo dalla grande ragione perché si considera totale e lavora senza tregua per rendere il mondo
ragionevole; per l’uomo dalla piccola ragione perché, in una storia piena di furia e senza fine, la
fine è ad ogni istante come già avvenuta; per il credente, perché fin d’ora l’aldilà mette fine alla
storia, gloriosamente e in eterno. Sì, a pensarci bene, viviamo tutti più o meno nella prospettiva
della storia finita, seduti sulla riva del fiume, morendo e rinascendo, contenti di una contentezza che
è quella dell’universo, già divenuti Dio, dunque, mediante la beatitudine e il sapere.
Ora, la passione del pensiero negativo ammette questa orgogliosa via d’uscita che promette
all’uomo il compimento di se stesso. Non soltanto la ammette, ma vi contribuisce: l’azione che ci
spinge a questo futuro non è in realtà altro che la « negatività » stessa attraverso la quale, negando
la natura e negandosi come essere naturale, l’uomo in noi si rende libero assoggettandosi al lavoro e
si produce producendo il mondo. Cosa mirabile, l’uomo arriva alla contentezza, decidendo di essere
senza tregua malcontento; si compie perché giunge all’estremo di tutte le sue negazioni. Non si
dovrebbe forse dire che raggiunge l’assoluto perché ha il potere di esercitare totalmente, cioè di
trasformare in azione, tutta la sua negatività? Diciamolo. Ma, appena l’abbiamo detto, ci
scontriamo con questa affermazione come con l'impossibile che ci rigetta indietro, come se noi
rischiassimo di cancellare il discorso pronunciandolo. Qui appunto interviene la contestazione
decisiva. No, l’uomo non esaurisce la sua negatività nell’azione; no, non trasforma in potere tutto il
nulla che è; forse può raggiungere l’assoluto rendendosi uguale al tutto e formandosi la
coscienza del tutto, ma più estrema di questo assoluto è allora la passione del pensiero negativo,
perché è ancora capace, di fronte a questa risposta, di introdurre la domanda che la sospende, e, di
fronte al compimento del tutto, di conservare l’altra esigenza che, sotto forma di contestazione,
rilancia l’infinito.
Cerchiamo di « illuminare » meglio questo momento. Supponiamo l’uomo soddisfatto nella sua
essenza; uomo universale, non ha più nulla da fare, è come privo di bisogni, è, anche se
individualmente muore ancora, senza inizio senza fine, in riposo nel divenire della sua totalità
immobile. L’esperienza-limite è quella che attende quest’uomo finale, capace un’ultima volta di non
fermarsi a questa autosufficienza che ha raggiunta; è il desiderio dell’uomo senza desideri,
l’insoddisfazione di chi è soddisfatto « in tutto », il puro mancamento, là dove tuttavia c’è
compiutezza dell’essere e onnipotenza e saggezza totale. L’esperienza-limite è l’esperienza del
vuoto che è al limite della pienezza, l’esperienza di quello che c’è al di fuori di tutto (quando il tutto
esclude tutto quanto c’è all’esterno), di ciò che resta da raggiungere quando tutto è raggiunto, e
da conoscere quando tutto è conosciuto: l’inaccessibile, l’ignoto stesso. Ma vediamo perché si può
attribuire all’uomo ciò che chiameremo ancora (erroneamente) questa « possibilità ». Non si tratta
di estorcere un estremo rifiuto partendo dal confuso malcontento che ci accompagna sino alla fine,
non si tratta neppure di quel potere di dire no attraverso il quale tutto nel mondo si fa, poiché ogni
valore, ogni autorità sono rovesciati da un’altra, ogni volta più estesa. Quanto è implicato nel nostro
discorso è ben altro, ed esattamente questo: è proprio dell’uomo, com’è, come sarà, un mancamento
essenziale che gli dà diritto di mettere se stesso, e sempre, in questione. Qui ritroviamo la nostra
osservazione precedente: l’uomo è l’essere che non esaurisce la sua negatività nell’azione, in modo
che, quando tutto è compiuto, quando il « fare » (attraverso il quale anche l’uomo si fa) è realizzato,
quando dunque l’uomo non ha più nulla da fare, egli pur deve esistere (come dichiara Georges
Bataille con la più semplice profondità) allo stato di « negatività senza uso »: e l’esperienza
interiore è la maniera stessa con cui si afferma questa negazione radicale che non ha più nulla da
negare. Tutto avviene, in verità, come se l’uomo disponesse di una capacità di morire che superi di
molto, e in certo modo all’infinito, dò che gli occorre per entrare nella morte, e di questo eccesso di
morte avesse saputo farsi un potere mirabile; grazie a questo potere, negando la natura, ha costruito
il mondo, si è messo al lavoro, è diventato produttore, autoproduttore. Però, cosa strana, questo non
gli basta: gli resta ad ogni istante come una parte di morte che non può investire nell’attività; il più
delle volte non ne ha coscienza; ma se arriva ad avvertire questo eccesso di nulla, questo
vuoto inutilizzabile, se si scopre connesso a questa tensione che, ogni qual volta muore un uomo, lo
fa morire all’infinito, se si lascia afferrare dall’infinito della fine, allora è costretto a soddisfare a
un’altra esigenza: non più di produrre ma di spendere, non più di riuscire ma di fallire, non più di
agire e parlare utilmente, ma di parlare invano e disperdersi senza far nulla: il limite di questa
esigenza è nella « esperienza interiore ».
Ora siamo forse situati in una prospettiva più giusta per riconoscere ciò che si gioca per noi in tale
situazione, e perché Georges Bataille vi ha connesso l’idea di sovranità. Infatti, a prima vista, si
avrebbe il diritto di non lasciarsi prendere dal carattere eccezionale di questi stati sorprendenti. Un
uomo ha estasi. Anche se si tratta di un dono straordinario, in che cosa il fatto di aver raggiunto tali
stati potrebbe annunciare alcunché a quanti vi rimangono estranei e modificare, forse allargare, lo
spazio umano? Non subiamo forse l’attrazione che conserva la parola mistica? E quando ci parlano
di rapimento estatico, il moto di interesse che ci sorprende non potrebbe forse venire dall’eredità
religiosa di cui restiamo depositari? I mistici hanno sempre beneficiato di uno statuto speciale nelle
Chiese e persino fuori di esse. Disturbano il « confort » dogmatico, sono inquietanti, a volte strani, a
volte quasi scandalosi; ma sono a parte, non soltanto perché restano i portatori di un’evidenza che
va al di là di ogni visibile, ma perché partecipano e cooperano all’atto ultimo: l’unificazione
dell’essere, la fusione fra la « terra » e il « cielo ». Di questi tipi di prestigio dobbiamo dunque
diffidare profondamente. E dobbiamo anche dire che il rifiuto, severo, instancabile, di tutto ciò che
implicano presupposti religiosi, rivelazioni e certezze spirituali, disposizioni mistiche, fa parte
essenzialmente e in primo luogo della tensione che descriviamo. Per chi si è legato alla passione del
pensiero negativo, con la più ferma decisione, è assolutamente il minimo cominciare col non
fermarsi a Dio e tanto meno al silenzio o all’assenza di Dio e - cosa ancora più importante - non
lasciarsi tentare dal riposo nell’Unità, sotto qualsiasi forma. Possiamo ancora rappresentare le cose
in altra maniera: nello schema di cui ci siamo serviti parlando in modo un po’ figurato della fine
della storia, comprendiamo che quanto di senso ha espresso il nome più alto, è ripreso dall’attività
umana e brucia di una fiamma chiara nel fuoco dell’Azione e nel fuoco del Discorso: al punto in cui
arriviamo, « alla fine dei tempi », l’uomo si è già in qualche modo unito al punto omega: il che
significa che non c’è più Altro che l’uomo e non c’è più Al-di-Fuori al di fuori di lui,
poiché, affermando il tutto attraverso la sua stessa esistenza, comprende tutto comprendendosi nel
chiuso cerchio del sapere. Il problema messo in causa dall’esperienza-limite ora è dunque
il seguente: come l’assoluto (sotto l’aspetto della totalità) può essere ancora superato? Come può
l’uomo, giunto al culmine attraverso l’azione, lui l’universale, lui l’eterno, sempre realizzantesi e
sempre realizzato, che si ripete in un Discorso il quale non fa che parlarsi senza fine, come può,
dicevo, non attenersi a questa autosufficienza e, in tal modo, mettersi in questione? Effettivamente,
non lo può. E tuttavia l’esperienza interiore esige questo evento che non appartiene al possibile;
essa apre nell’essere compiuto un piccolissimo interstizio attraverso il quale tutto l’esistente si
lascia all’improvviso sopraffare e degradare da un sovrappiù che sfugge ed eccede.
Strano sovrabbondare. Qual è questo eccesso, operante in modo che la compiutezza sia ancora e
sempre incompiuta? Qual è l’origine di questo moto dell’eccedere la cui misura non è data
dal potere che può tutto? Qual è questa « possibilità » che dovrebbe offrirsi dopo la realizzazione di
tutte le possibilità come il momento capace di rovesciarle e di ritirarle silenziosamente? Quando a
tali domande Georges Bataille risponde parlando dell 'impossibile - una delle ultime parole che ha
reso pubbliche - bisogna intenderlo rigorosamente; bisogna intendere che la possibilità non è la sola
dimensione della nostra esistenza e che ci è forse concesso di vivere ogni nostra vicenda in un
duplice rapporto: una volta come ciò che comprendiamo, afferriamo, sopportiamo e dominiamo
(anche con difficoltà e dolore), riferendolo a un qualche bene, a un valore, cioè in ultima analisi
all’Unità; un’altra volta come ciò che si sottrae a qualsiasi uso e fine, e ancor più come ciò che
sfugge allo stesso nostro potere di farne esperienza, ma alla cui esperienza non possiamo sottrarci.
Sì, è come se l’impossibilità, ciò su cui « non possiamo più potere », ci attendesse dietro
tutto quello che viviamo, pensiamo e diciamo, solo che una volta ci siamo trovati al limite di questa
attesa, senza mai venir meno a ciò che esigeva da noi questo sovrappiù, questo eccesso: eccesso di
vuoto, sovrabbondanza di negatività che è in noi il cuore infinito della passione del pensiero.1
Mi sembra che a questo punto cominciamo a distinguere l’importanza che chiamerò (senza
derisione) intellettuale dell’esperienza-limite, e perché essa non deriva dalla sua estraneità, ma dalla
tensione che porta ad essa e dalla quale non si separa, dato che le sue caratteristiche di estraneità
non fanno che esprimere in un solo momento e fino all’esplosione l'infinito del mettere in causa.
Bisogna anzitutto ripetere questo: la « perdita di conoscenza » estatica è soltanto la
contestazione che in essa viene afferrata proprio nel colmo della rottura e

del lasciare la presa. Questa esperienza non è la via d’uscita. Non soddisfa, è senza valore, senza
pienezza e tale appena da del lasciare la presa. Questa esperienza non è la via d’uscita. Non
soddisfa, è senza valore, senza pienezza e tale appena da liberare dal loro senso l’insieme delle
possibilità umane e qualsiasi conoscenza, parola, silenzio e finalità, e persino quel potere di morte
da cui traiamo le ultime verità. Ma, a questo punto, bisogna guardarsi dal concludere con
leggerezza, imputando questa esperienza a qualche irrazionalismo o avvicinandola ad una filosofia
assurda. Il non-sapere di cui si dice che comunichi l’estasi, non elimina affatto la validità del sape
re, come il non-senso, incarnato momentaneamente nell’esperienza, non svia dal moto agente
attraverso il quale l’uomo instancabilmente lavora a darsi un senso. Al contrario (insisto ancora)
soltanto in rapporto al sapere compiuto, quello affermato da Lenin quando annunciava che un
giorno « tutto » sarebbe stato capito, il non-sapere si pone come esigenza fondamentale a cui
bisogna rispondere; e non si tratta del nonsapere che è ancora e soltanto una maniera di capire (la
conoscenza messa tra parentesi dalla conoscenza stessa), ma il modo di esistere dell’uomo in quanto
esistere è « impossibile ».
Detto questo, resta da precisare qualche cosa di difficile, ma essenziale. Ricorderò il discorso
precedente: « L’esperienza interiore è la maniera stessa con cui si afferma la negazione radicale che
non ha più nulla da negare ». È ciò che abbiamo tentato di illuminare precisando che questa
esperienza non si distingue dalla contestazione. Ma di che specie è allora l’affermazione che va
introdotta a questo punto; che senso possiamo pretendere essa affermi? Non afferma nulla, non
rivela nulla, non comunica nulla, tanto che ci si potrebbe accontentare di dire che è il « nulla »
comunicato, oppure l’incompiutezza del tutto afferrata in un sentimento di pienezza: ma, in questo
caso, rischiamo di sostanzializzare il « nulla », cioè di sostituire all’assoluto quale tutto il suo
momento più astratto, il momento in cui il nulla passa immediatamente nel tutto ed a sua volta si
totalizza indebitamente. Oppure dovremmo vedervi un ultimo capovolgimento dialettico, l’ultimo
scalino - al di fuori della scala - a partire dal quale l’uomo, questa testa compiuta a misura
dell’universo, rigetti tutto l’edificio nella notte e, sopprimendo questa testa universale, riceva dalla
negazione finale ancora una luce, un’affermazione supplementare, che potrebbe aggiungere al tutto
la verità del sacrificio del tutto? Malgrado il carattere di tale tensione, così smisurata che non si
può pretendere di rifiutarla (non è ricusabile darle un senso così preciso da poterla ricusare), direi
che l’esperienza-limite è ancor più estrema.
In realtà questo atto di suprema negazione che abbiamo supposto e che la ricerca di Acéphale ha
senz’altro per un certo tempo rappresentato per Georges Bataille, appartiene sempre al possibile. Il
potere che può tutto può far questo, anche sopprimersi come potere (l’esplosione del nucleo stesso,
una delle punte del nichilismo). Tale atto non ci farebbe dunque compiere il passo decisivo, quello
che ci restituisce - e in certo modo senza di noi - al presente immediato dell’impossibilità
lasciandoci appartenere a questo non-potere che non è soltanto la negazione del potere.
L’esperienza-limite rappresenta per il pensiero quasi una origine. Essa gli conferisce il
dono essenziale, la prodigalità dell’affermazione, un’affermazione che, per la prima volta, non è un
prodotto (il risultato della duplice negazione): così, sfugge a tutti i movimenti, opposizioni e
capovolgimenti della ragione dialettica che, essendosi compiuta prima, non può più riservarle una
parte nel suo regno. Evento difficile da circoscrivere. L’esperienza interiore afferma, è pura
affermazione, non fa che affermare; ed essa anche non si afferma, perché allora si subordinerebbe a
se stessa: afferma l’affermazione. Appunto in questo Georges Bataille può accettare di dire die essa
ha in sé il momento dell’autorità pura, dopo aver svuotato di valore tutte le autorità possibili e
dissolto persino l’idea di autorità. È il Sì decisivo. È la presenza priva di ogni presente. In questa
affermazione che si è liberata da tutte le negazioni (e in conseguenza da tutti i sensi), che ha
relegato e deposto il mondo dei valori, che non consiste nell'affermare - portare e reggere - quanto
esiste, ma si mantiene al di sopra, al di fuori dall’essere e non dipende dunque dall’ontologia né
dalla dialettica, l’uomo si vede assegnare, tra essere e nulla, ed a partire dall’infinito di
questo spazio intermedio accolto come rapporto, lo statuto della sua nuova sovranità, quella di un
essere senz’essere nel divenire senza fine di una morte impossibile a morire. L’esperienza-limite è
così l’esperienza stessa: il pensiero pensa ciò che non si lascia pensare! il pensiero pensa più di
quanto gli sia possibile pensare, in un’affermazione che afferma più di quanto sia possibile
raffermare! Questo sovrappiù è l’esperienza che afferma soltanto attraverso l’eccesso
dell’affermazione e che, in questo eccesso, afferma senza che nulla si affermi, infine
non affermando nulla. Affermazione in cui tutto sfugge e che sfugge pur essa, sfugge all’unità. Ed è
tutto ciò che si può enunciare di essa: non unifica e non si lascia unificare. Per cui essa sembra agire
piuttosto dalla parte del molteplice, e insieme con ciò che Georges Bataille chiama la « chance »;
come se per farla agire, occorresse non soltanto cercar di affidare il pensiero al caso (dono già
difficile), ma affidarsi al solo pensiero il quale, in un mondo in generale unificato e privato del caso,
effettui ancora un colpo di dadi pensando nella sola maniera affermativa, a livello della pura
affermazione: quella dell’esperienza interiore.
Un’affermazione di questo tipo non potrebbe sostenersi. Non si sostiene ed anche rischia sempre,
rimettendosi al servizio della potenza, di rivolgersi contro la sovranità dell’uomo
rendendosi per lui strumento di dominio, giungendo persino a sembrare concedere all 'Io che crede
di averla raggiunta l’arrogante diritto di chiamarsi ormai il grande Affermatore. Questa pretesa
dell’Io è la spia della sua impostura. Mai l’io è stato soggetto di questa esperienza: « io » non vi
giunge mai, né l’individuo che sono, questo atomo di polvere, né l’io di tutti che si presume
rappresenti la coscienza assoluta di sé, ma vi giunge soltanto l’ignoranza incarnata dall’« Io che-
muoio » nel suo accedere allo spazio in cui, morendo, non muore mai come Io; in prima persona,
ma come presenza anonima e senza persona, la presenza infinita del morire, presente interminabile
affermato dall’affermazione. Occorre dunque indicare un’ultima volta l’aspetto più strano - più
greve - di questa situazione. Ne parliamo come di un’esperienza che non è un evento vissuto, e
meno ancora uno stato di noi stessi: tutt’al più l’esperienza-limite dove forse cadono tutti i limiti e
che ci raggiunge soltanto al limite, quando, ogni futuro divenuto presente, attraverso la risoluzione
del Sì decisivo, si afferma il dominio sul quale non è più possibile dominare. Esperienza della non-
esperienza. Giro vizioso di ogni visibile e di ogni invisibile. Se l’uomo non appartenesse già in
qualche modo a questo giro vizioso di cui si serve il più delle volte soltanto per sviarsene, come
potrebbe inoltrarsi in questa strada che ben presto viene a mancare, in vista di ciò che sfugge ad
ogni vista, avanzando a ritroso verso un punto sul quale sa soltanto di non poterlo raggiungere mai
come persona, sul quale sa che nulla vi giungerà di lui e che, assente per sempre, egli non vi troverà
neppure come risposta la notte, con i suoi privilegi notturni, la sua evanescente immensità, la sua
calma vuota bellezza, ma l’altra notte, falsa, vana, perpetuamente agitantesi e rinchiusa nella sua
indifferenza? Come potrebbe desiderarla? Come, desiderandola, di un desiderio senza speranza
e senza conoscenza che fa di lui un uomo senza orizzonte, desiderio di dò che non si può
raggiungere e desiderio che rifiuta tutto dò che potrebbe colmarlo, appagarlo, desiderio infine
di quel mancamento infinito che è il desiderio, di quell’indifferenza che è il desiderio, desiderio
dell’impossibilità del desiderio, che porta l’impossibile, lo nasconde, lo rivela, desiderio che proprio
in questo è l’attingimento dell’inaccessibile, è la sorpresa del punto che si raggiunge soltanto
attraverso l’impossibilità di raggiungerlo, punto in cui la vicinanza del lontano è data soltanto dalla
lontananza: come potrebbe il pensiero, da tale attingimento, supponendo che vi si sia affermato un
istante, ritornare e riportarne, se non un nuovo sapere, al-
meno, nella distanza del ricordo, ciò che occorrerebbe per mantenersi la protezione di questo? La
risposta è inattesa. Non è forse quella che Georges Bataille avrebbe accettato di dare, e tuttavia
proprio lui stesso, i suoi libri, l’autenticità della sua opera, spesso il tono unico delle sue parole ci
permettono di proporla: ciò che nessun esistente può raggiungere in prima persona, nel primato del
suo nome, ciò che l’esistenza stessa, nella seduzione della sua particolarità fortuita, nel gioco della
sua universalità glissante, può contenere, ciò che insomma decisamente sfugge, lo accoglie la
parola, e non soltanto lo trattiene, ma è proprio partendo da questa affermazione sempre estranea e
sempre sottratta - l’impossibile e l’incomunicabile - che essa parla, traendovi origine, allo stesso
modo che proprio in questa parola il pensiero pensa più di quanto gli sia possibile pensare. E
certamente non si tratta di una parola qualsiasi: questa non contribuisce al discorso, non aggiunge
nulla a ciò che è già formulato, vorrebbe soltanto condurre a ciò che comincerebbe ad esprimersi se
infine, essendo stato « tutto » esaurito, non ci fosse più nulla da dire: dicendo allora l’esigenza
estrema. L’esperienza è questa esigenza, non esiste che come esigenza e tale da non proporsi mai
come compiuta, poiché nessun ricordo potrebbe confermarci che essa è esistita, poiché essa supera
ogni ricordo e soltanto l’oblio è forse alla sua altezza, l’immenso oblio recato dalla parola.
A questa affermazione, la più trasparente, la più opaca (l’oscuro come trasparenza) di cui l’uomo
non si ricorda, ma che resta in attesa nell’attenzione del linguaggio, toccò a Georges Bataille
rispondere, mantenendo aperto il rapporto con essa e stimolandoci - in lontananza e nostro
malgrado - a questo rapporto che fu la sua sola misura, misura di dolore estremo e di estrema gioia.
Aggiungerò che, lungi dal pretendere di conservarla solo per sé, ebbe la preoccupazione costante di
non lasciare che si affermasse solitaria, benché essa sia anche l'affermazione della solitudine, ma di
comunicarla. Un giorno, l’ha chiamata col nome più tenero: l’amicizia. Perché tutta la sua opera
esprime l’amicizia - l’amicizia per l’impossibile che è l’uomo - perché da essa riceviamo questo
dono dell’amicizia come segno dell’esigenza che ci mette in rapporto sovranamente e all’infinito
con noi stessi, vorrei dire di nuovo dò che, quando l'Expérience intérieure fu pubblicato, io scrissi
citando il giudizio stesso di Nietzsche su Zarathustra, e che vent’anni di pensiero, attenzione,
riconoscenza ed amicizia mi hanno reso sempre più vero: « Quest’opera è completamente a parte ».
1 Proprio questo problema pone, anche sotto altra forma, Georges Bataille, quando riferisce la
tendenza umana al gioco del divieto e della trasgressione (il superamento del limite insuperabile). Il
divieto segna il punto in cui cessa il potere. La trasgressione non è un atto del quale, in date
condizioni, la potenza di dati uomini potrebbe mostrarsi ancora capace. Essa designa ciò che è
radicalmente fuori portata: raggiungere l’inaccessibile, valicare l’invalicabile. Si apre all’uomo
quando in lui il potere cessa di essere la dimensione estrema.

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