Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
1
Tommaso Landolfi, a cura di C. Bo, cit., pag. 5.
163
D’altra parte tutti sono concordi nel riconoscere che lo scrittore si è
presentato sin da subito estremamente maturo. Noi abbiamo detto che già
dagli esordi Landolfi si imbatte in quei problemi su cui rimuginerà in tutta
la sua produzione, rimanendo sempre fedele a se stesso: insomma egli
aveva visto sin dall’inizio, e il passare degli anni ha solo accentuato il suo
rifiuto, aumentato l’amarezza, ridotto la speranza ad un’esile, quasi
invisibile, falce di luna. Eppure qualcosa rimane, se è vero che il Nostro
non depone mai le armi, nemmeno negli ultimi travagliati anni di vita.
Nel periodo 1937-1942, all’interno cioè di una produzione relativamente
omogenea, abbiamo ricercato alcuni spunti, estendendoli, qui più qui
meno, alle composizioni successive. Lo abbiamo fatto servendoci della
linea di collegamento dell’opera omnia landolfiana: l’impossibilità di
trovare riposo in uno schema, il continuo cozzare contro il muro del
paradosso, il perenne viaggiare scartando qualsiasi parvenza di soluzione.
Le cose2, scrutate dall’occhio penetrante di Landolfi, perdono
consistenza, si deformano, rivelano la loro arbitrarietà, smarrite
nell’insensatezza più angosciante. Landolfi ha l’abilità, o la condanna, di
scavare le suddette cose, esaurendole, svuotandole, mostrandone il
rovescio. Ingrandite e pervase dal modo di vedere dello scrittore, queste
smarriscono i loro confini, si guardano allo specchio ammettendo di non
possedere limiti definiti. Possono perciò crearsi collegamenti, analogie,
paragoni e legami tra le cose più lontane; nulla viene considerato
isolatamente, tutto scivola e penetra nell’altro e l’identità pare solo una
folle acquisizione.
L’ironia è la madre della visione dell’alto che incrina e abbatte anche le
più solide pareti: il fantastico allora non è altro che una realtà alla stregua
delle altre, di quelle unanimemente accettate, per cui è poco utile servirsi
del detto termine, dacché pone una distinzione che non sussiste. E cioè, al
2
E’ il caso di usare un termine così vago e onnicomprensivo.
164
contrario, si può dire che tutto è fantastico, o meglio, tutto è ugualmente
falso.
Solo la volontà, l’insulso credere, forgiano il mondo in cui si vive; in cui
si crede, appunto, di vivere.
L’ironia, supremo frutto dal retrogusto di morte, pone la realtà in quel
punto angoscioso in cui più alto è il rischio che tutto svanisca,
azzerandosi nel mare del dubbio: e in alcuni penosi istanti di lucidità
sembra veramente che il mondo non possa resistere ancora a lungo a
quegli attacchi. Ecco allora cosa può capitare, come al protagonista di un
breve racconto: “d’improvviso […] il mondo intero sembrò vestirsi di
cenere; antica iperbole che talora prende forza d’immagine concreta e
quasi visiva […] ”3
E però mai ci si stacca davvero, completamente: Landolfi sa che è
impossibile. Egli arriva ad ammettere l’autosuggestione dalla quale sorge
l’universo e tuttavia sembra andare contro la sua veggenza. Ritorna al
reale ad ogni costo, perché non può farne a meno: c’è una forza oscura
che spinge instancabile affinché si continui a vivere, e la si chiami pure
come si preferisce.
Nell’altalena di movimenti di allontanamento e riavvicinamento c’è
qualcosa di stabile: l’impossibilità di entrare perfettamente nel mondo e
l’impossibilità di uscirne. Landolfi è sempre in movimento; fermarsi, cioè
vincere ogni pulsione, è una situazione irraggiungibile. L’immobilità è
legata all’idea di morte: basti pensare alla scena delle Madri nella Pietra
lunare o al gelo d’oltretomba che immobilizza i vari alter ego di Landolfi
alle prese con i numerosi esemplari del bestiario.
Anche sofferenza e pietà contribuiscono a vanificare ogni pretesa di
definitivo abbandono del mondo. La sofferenza infatti si confonde con le
nostre radici, è la nostra intimità: finché si soffre non ci si divincola dalla
presa del reale. E’ proprio la sofferenza a comparire spesso in maniera
3
Stazioni morte, in A caso, cit., pag. 221.
165
pacata e silenziosa nelle pagine dello scrittore. E lì accanto la pietà: “[...]
non è la pietà il mio sentimento fondamentale? Io vivo provando pietà e si
può dire non faccia altro, vivo di pietà”4: presenza quindi costante,
sebbene, per così dire, tra le righe, più evidente nell’assenza (quasi che
Landolfi non volesse intaccarne la superficie con un primo piano).
E dunque, chi rifletta sul mondo di Landolfi scoprirà che esso è forgiato
dalla volontà oscura, sorda matrice, dalla sofferenza e dalla pietà: illusioni
creatrici, zoccolo duro dell’esistenza, sono ciò che plasma tutta la falsità
dell’universo. Ma non si provi a liberarsi dalla loro stretta: sarebbe come
voler approdare al nulla, e questo è impossibile per definizione.
La libertà è un concetto privo di senso: certo è lecito protestare contro il
vile asservimento all’esistenza, è lecito denigrare la spudorata menzogna
della realtà; ma sia ben chiaro che noi siamo quella menzogna e senza di
essa non saremmo alcunché. Come allora poter solo pensare la libertà?
4
Rien va, cit., pag. 125.
5
Un concetto astruso, in Racconti impossibili, cit., pag. 97.
166
vivere o scrivere a caso, o di ragionare al di fuori di qualsiasi logica o
modello, non riesce comunque a ipotizzare, e neanche ad immaginare,
alcuna fuga verso un alternativo universo del caso. Sentiamo a proposito
della celebre trovata del due più due cinque:
lo stesso Dostoevskij, che tirò fuori questo detto del due più due
cinque, ci credeva nel profondo? Ci credo io stesso? Senza
dubbio perfino Dostoevskij pensava che due più due facesse
cinque in un certo ordine, non in tutti gli ordini possibili. Forse
penso anch’io in un tal modo assurdo, per una sorta di gelosia,
di gelosa cura di me, mal giustificabile razionalmente; voglio
dire che provare a pensare il contrario, il solo provare, ci dà un
vasto orrore e ci fa quasi udire l’acuto scricchiolio, il gemito di
ciò che si è convenuto di chiamare la personalità, come le sue
strutture fossero sottoposte a una sollecitazione soverchiante:
qualcosa di paragonabile all’orrore incontrollato della
disgregazione fisica. Dal che peraltro io non cavo nulla, non
essendo ciò sufficiente per concludere né che due più due
quattro sia una verità naturale ed assoluta, né che noi siamo fatti
o voluti in un determinato modo e veri solo se pensanti in quel
modo particolare. Resta che se riuscissimo a spezzare la
schiavitù del positivo tutto forse procederebbe più spedito e la
terra stessa girerebbe per i cieli in un altro e men monotono
modo. Mentre, cosa fanno Lobačevskij (se è lui) e compagni?
Infrangono sì la geometria euclidea, ma per poi ricadere subito
in un nuovo sistema positivo. Del resto improvviso
vergognosamente, e se non sbaglio ci si sta arrivando da
qualcuno al sognato, a un sognato… (avrà un nome preciso ma
io lo ignoro)… insomma ai da me sempre vagheggiati calcoli
od esperimenti che diano una volta un risultato e una volta un
altro, senza ragione apparente; che non si sa se basteranno, che
pure son già qualcosa. Ma ecco anche qui: io stesso dico senza
ragione apparente, il che presuppone la certezza di una ragione,
di un motivo almeno nascosto, ed è in rientrare per la finestra.
A dire: senza ragione, pare non ce la facciamo, e tanto peggio
per noi.6
167
da parte dello scrittore di un’alternativa alla necessità: sarebbero delle
manovre per sconfiggere l’ineludibilità, e con essa la morte, cioè ciò cui
siamo sovranamente destinati, l’ineludibile per eccellenza. La morte
d’altronde appare spesso nei racconti e nei diari di Landolfi, entità cieca,
inspiegabile, incomprensibile. E in Rien va, a proposito della figlia,
leggiamo: “Ecco, di questo forse sarei felice: che realizzasse la grande
idea del suo sciagurato padre, che vincesse la morte.”7
Io credo che tutta l’opera e il pensiero di Landolfi possano essere
interpretabili come disperati tentativi di visione a-schematica: disperati
nella consapevolezza che essi non possono mai darsi a qualcuno. Il
mondo risulta essere infatti lo schema per eccellenza, e Landolfi sa che
egli stesso è parte del mondo, incontrovertibilmente. Per questo la verità è
inconcepibile e l’unica via percorribile è l’errore.
Chiedersi, poi, quanto tutto questo sia connaturato all’animo landolfiano,
e quanto invece sia dovuto all’inettitudine alla vita, è altra cosa.
Chiedersi, cioè, se scoprire menzogne nell’intero universo sia dote amara
ma assolutamente radicata e incancellabile nel Nostro, o sia piuttosto
l’alibi di chi è escluso, di chi non può. D’altra parte lo scrittore dovette
rivolgere a sé la stessa domanda: negare o dubitare in ogni circostanza,
porta a negare o dubitare della validità del dubbio o negazione. Ecco
pertanto farsi largo l’ipotesi della stupidità del rimuginare: “Come sono
sciocco nelle mie dubbiosità e nei miei eterni problemi!”8 Landolfi
dovette pensare più volte che il suo fosse un atteggiamento di ripiego.
Egli partecipa e non partecipa al gioco, si mischia e si astiene: proprio lo
ritiene insulso, oppure preferisce, in fin dei conti, non ammettere la
mancanza delle caratteristiche per giocare? Sbilanciando una risposta, ora
direi tutte e due le cose: insomma dubbio d’attacco e dubbio di difesa. E
forse si potrebbe a buon conto chiosare che le due ipotesi tornano al
7
Ivi, pag. 125.
8
Ivi, pag. 36.
168
medesimo: poiché avere attitudini alla realtà è ritenere essa stessa vera,
sensata, in una parola, reale; poiché non vedere che inganno e costrizione
nel reale è non possedere le carte d’accesso al gioco. Credere è giocare, in
breve, ed è valido il viceversa.
Condannato all’esitazione e alla mobilità, votato all’eterna metamorfosi,
Proteo novello, proprio per questo Landolfi non può impegnarsi troppo,
proprio per questo non può astenersi al tutto. Non rimane che
“giochicchiare”, assentarsi e ripresentarsi, mai eccessivamente convinti.
E’ un Orfeo particolare, al quale gli dei concedono la possibilità periodica
di cantare per riavere l’amata. Ed ogni volta che egli abbia convinto le
forze supreme a schiudergli le porte dell’Ade, eccolo, percorrendo il
sentiero verso Cerbero, girarsi e guardare e perdere.
Nell’ultima parte del nostro lavoro, quella che ha avuto più necessità di
muoversi in tutto l’arco della produzione landolfiana (per cause di forza
maggiore, come ho detto a suo tempo), si è cercato di dimostrare come la
scrittura del Nostro sia normale conseguenza del suo modo di pensare.
Giocare allo scrivere è verificare ancora una volta il proprio inevitabile
fallimento. Perciò dunque? Scrivere, interpretare e sbagliare sono un
unico movimento: si scriva, allora, ma sottolineandone la mistificazione.
Si scriva come se si parodiasse, come strizzando l’occhio, come
ascoltandosi. Si scriva come se ci si vedesse mentre s’impugna la penna,
proni al fato maligno. Landolfi osserva sin dall’inizio tali precetti.
E’ scrittore elegante e ricercato, la cui raffinatezza estrema assurge a
simbolo di vitalità deficiente: la raffinatezza del dubbio.
Nella partita a scacchi con la pagina bianca, se perdere si deve, lo si
faccia con la miglior arte possibile: per questo la scrittura di Landolfi
adotta una tecnica ineccepibile, ama appoggiarsi alla tradizione,
adoperandosi il più possibile per cercare di rendere gloriosa ogni
battaglia. Le conoscenze del gioco letterario servono ad avanzare verso il
169
limite infinito: con la testardaggine di chi voglia guadagnare sul nemico
qualche piede di terra, con la disperazione di chi veda frustrati i suoi piani
bellicosi.
Giunti al paradosso si ritorna al senso comune, scoperta l’impossibilità
dello scrivere si abbandona lo scritto; e ancora: vista l’assurdità del
mondo lo si respinge, di fronte all’inconcepibile libertà ci si vende come
schiavi; infine, faccia a faccia col caso ci si ritrae sgomenti perché non si
può distinguerne il volto.
La tradizione letteraria svolge perciò la funzione di appiglio al quale ci si
aggrappa per non scivolare nel nulla, così come ci si aggrappa d’altro
canto al reale, alle sue parvenze, per non precipitare. Se il silenzio è
impossibile, perché qualcosa spinge a scrivere nello stesso modo in cui
qualcosa spinge a vivere nel mondo, allora Landolfi cerca qualche
fondamento rifacendosi ad “un’infinità di precedenti storici: come uno
che volesse documentarsi e garantirsi.”9 Proprio così: i classici e la
tradizione sono le garanzie da opporre al nulla; e poiché esse garanzie
sono fasulle, anche su queste s’impunterà il piglio del Nostro.
Falqui, parlando della Pietra lunare e del Mar delle blatte e altre storie,
afferma:
9
E. Falqui, La pietra lunare, cit, pag. 442.
10
Ivi, pag. 441.
170
Arduo è dire quale indagine possa risultare fruttuosa: Landolfi si ritrae.
Sempre, sin dagli esordi, con quello stile inconfondibile, suo eterno
compagno. Cosa dice Landolfi?
171
L’impressione scomoda, in definitiva, di aver incontrato un uomo
inquieto e, a dirla tutta, imbarazzante.
Se poi ci sforziamo ad alzare e stracciare il velo della pagina, troviamo
qualcuno che punta gli occhi sul volto assurdo di una dea inconcepibile: è
l’“Impossibilità, / Dea senza altare”, l’altro è Landolfi, maestro
“cantore”14.
14
Impossibilità, in Viola di morte, cit., pag. 284.
172