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Il caso Nietzsche
Indice
Premessa
René Girard. Cinque saggi su Nietzsche
Il superuomo nel sottosuolo. Strategie della follia: Nietzsche, Wagner,
Dostoevskij1
La contraddizione di Nietzsche1
Dioniso contro il Crocifisso1
Nietzsche, la decostruzione, e la moderna preoccupazione per le vittime1
Nietzsche e il destino della cultura europea1
Giuseppe Fornari. Il dio sbranato. Nietzsche e lo scandalo della croce
I. La caccia alla balena
II. L’eterno ritorno della pazzia
III. Il filosofo e il suo doppio
1. Una rivalità schiacciante
2. L’impossibile morte del rivale
3. Le maschere di un filosofo
IV. La fondazione di Dioniso
1. La vera "morte" di Dio
2. Il fautore prometeico della cultura
3. Verso il centro del labirinto
4. Divinizzazione fallimentare e sterminio di massa
5. L’ultimo nemico
V. L’anticristo e la croce
1. Un’iniziazione dantesca
2. Gesù Cristo insultato
3. Si striscerà alla croce
VI. Ciò che nessuno ha scorto
Questo libro nasce dalla constatazione che Friedrich Nietzsche, ’ uno dei
più fieri nemici del cristianesimo, ne è, a ben guardare, la più sorprendente
conferma. Non si tratta semplicemente di un’opposizione speculare al
cristianesimo che ne tradisce la nascosta influenza, come sostiene
Heidegger: l’influenza nascosta esiste, ma il rifiuto nietzschiano ad
ammetterla si basa su un’opposizione reale, su una scandalosa differenza
cristiana che il nostro mondo sistematicamente respinge, proprio perché vi
è estremamente vicino. Nietzsche reagisce alla rivelazione evangelica del
desiderio e della violenza, ma il suo rifiuto diventa la rivelazione ultima,
«escatologica» di questa violenza, la dimostrazione della verità della croce.

RENÉ GIRARD (1923-2015), antropologo e critico letterario, ha insegnato


Letteratura comparata alla Stanford University. Tra i numerosi saggi
tradotti in italiano editi da Adelphi: La violenza e il sacro (1980), Delle cose
nascoste sin dalla fondazione del mondo (1983), // capro espiatorio (1987),
Vedo Satana cadere come la folgore (1999), La voce inascoltata della realtà
(2006) e Portando Clausewitz all’estremo (2008).
GIUSEPPE FORNARI, docente di Storia della Filosofia all’Università di
Bergamo, ha studiato la cultura greca e il suo rapporto con la civiltà
europea. Tra le sue pubblicazioni: Da Dioniso a Cristo (Marietti 2006), La
conoscenza tragica in Euripide e in Sofocle (Transeuropa 2015) e Mito,
tragedia, filosofia. Dall’antica Grecia al Moderno (Studium 2017). Del suo
saggio su Nietzsche è uscita l’edizione americana: A God Torn to Pieces
(2013).
Scansione, ocr e conversione a cura di Natjus
Ladri di Biblioteche
René Girard, Giuseppe Fornari
Il caso Nietzsche
LA RIBELLIONE FALLITA DELL’ANTICRISTO

Marietti
1820
Redazione e impaginazione·. Arta snc, Genova

I edizione nella collana di Filosofia: 2002


I edizione nella collana Agorà: 2019

® 2019 Centro editoriale dehoniano


via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna
www.mariettieditore.it
Marietti 1820®

ISBN 978-88-211-1208-9
Indice

Premessa

Nota sul testo

René Girard. Cinque saggi su Nietzsche

Il superuomo nel sottosuolo. Strategie della follia: Nietzsche, Wagner,


Dostoevskij

La contraddizione di Nietzsche

Dioniso contro il Crocifisso

Nietzsche, la decostruzione, e la moderna preoccupazione per le vittime

Nietzsche e il destino della cultura europea

Giuseppe Fornari. Il dio sbranato. Nietzsche e lo scandalo della croce

I. La caccia alla balena

II. L’eterno ritorno della pazzia


III. Il filosofo e il suo doppio

IV. La fondazione di Dioniso

V. L’anticristo e la croce

VI. Ciò che nessuno ha scorto


Premessa
Parlare ancora di Nietzsche è oggi una scommessa e una necessità. Una
scommessa, perché a questo pensatore si sono ispirate mode ideologiche e
intellettuali così radicate e diffuse che molti sono ben lontani anche adesso
dal volervi rinunciare. Una necessità, perché la cosa più straordinaria è che,
nonostante gli infiniti libri scritti su di lui, quello che di più importante
Nietzsche ha da dirci passa ancora sotto silenzio, è tuttora pressoché
completamente ignorato. È una situazione che Nietzsche ha saputo
descrivere molto bene, e che presagiva per i propri scritti, paventando
quella santificazione postuma e deformante che era lui il primo a preparare.
Egli stesso ha fatto di tutto perché si creasse l’equivoco, anzi su questo
equivoco ha giocato fino all’ultimo, fino a impazzirne. La pazzia di
Nietzsche, ecco l’altro “scheletro nell’armadio” che pochi vogliono andare a
vedere, e che ha uno stretto rapporto col messaggio inattuale e nascosto di
questo pensatore scomodo, prima che agli altri, a se stesso.
Nietzsche è stato un grande giocatore d’azzardo dello spirito, un giocatore
che ha tentato di chiudere la propria carriera puntando tutto sul numero
sbagliato, perdendo tutto in una giocata autodistruttiva che in quegli anni
solo un altro scrittore è arrivato a sondare in maniera ancor più radicale:
Dostoevskij. Non si può comprendere Nietzsche se si prescinde da questo
senso folle di azzardo, di sfida contro l’impossibile. Questa sfida è
sostanzialmente ricostruibile nelle sue motivazioni, e la motivazione non
certo unica ma più clamorosa che emerge dalla biografia nietzschiana è la
rivalità verso Wagner, rivalità che avrebbe accompagnato il filosofo per
tutta la vita come un’ombra, come una maledizione. Nietzsche diviene il
rivale di Wagner perché lo ammira e lo imita, perché in una parola lo
invidia: egli ha così vissuto, al pari di ogni essere umano, la forza del
desiderio imitativo o mimetico, dell’imitazione di un modello che ci indica
che cosa desiderare, insegnandoci chi siamo, qual è il nostro ruolo nel
mondo. Questo desiderio triangolare è il segreto del nostro apprendimento
e della nostra creatività, ma può provocare lo scontro con il modello per il
possesso delle medesime cose, può portare alla contesa, alla violenza più
distruttiva. È una verità imbarazzante che questo pensatore non vorrà mai
riconoscere, arrivando a inventarsi un intero sistema metafisico, quello
della volontà di potenza, pur di giustificare tale rifiuto. La pervicacia
grandiosa di un simile sforzo segnerà il destino spirituale e personale di
Nietzsche.
Pur di togliersi di dosso la maledizione della sua rivalità verso Wagner,
Nietzsche avrebbe cercato di attaccare quel Dio che minacciava di colpirlo
rivelando la verità del suo desiderio, il Dio della Bibbia che mette in guardia
Caino dalla sua invidia per Abele, e che poi lo inchioda alla responsabilità
del suo odio omicida. Nietzsche questo Dio cercherà di attaccarlo, cercherà
di distruggerlo, e nel corso di una lotta senza esclusione di colpi, che può
essere paragonata soltanto alla ribellione metafisica di certe creature di
Dostoevskij, esplorerà ciò di cui nessuno si è accorto, o ha perlomeno
riconosciuto l’importanza, ossia la violenza umana che porta alla
proclamazione della morte di Dio. Dio è morto perché gli uomini lo hanno
ucciso. Gli uomini infatti assassinano Dio, - vale a dire qualcuno che sono
successivamente disposti a riconoscere come Dio -, quando le loro
reciproche rivalità diventano così forti che l’unica via di salvezza è
scaricarle su un singolo, su una vittima che è eliminata e, dato che
miracolosamente assicura la salvezza di tutti, divinizzata.
Questo è il duplice passaggio del desiderio mimetico e del sacrificio
destinato ad arginarlo che il lettore dovrà sempre avere presente per
seguire in modo perspicuo il percorso che vogliamo proporre. L’avvertenza
appare opportuna, perché di questo percorso Nietzsche sarà il protagonista
quanto mai istruttivo, e quanto mai riluttante.
Il rifiuto che Nietzsche oppone alla vera natura del suo desiderio è
fortissimo, ma talmente preciso da riprodurne i contorni, portandolo a
vederne con lucidità quasi profetica gli effetti, nel momento stesso in cui di
tali effetti egli nega le cause. Nel corso delle sue scorribande temerarie, e
nella sua posizione di escluso, questo pensatore giunge a scorgere la
violenza collettiva che sta dietro Dioniso, in Grecia il dio sacrificale per
eccellenza, e per Nietzsche il simbolo stesso dell’immolazione cruenta, la
cui vera origine dall’uccisione di vittime innocenti è rivelata esclusivamente
da Cristo. Ed è proprio quest’ultima la scoperta più grande e disconosciuta
che il filosofo effettua, l’acquisizione della differenza tra Dioniso e Cristo,
differenza abissale proprio perché la loro vicenda è la medesima, solo
raccontata da due punti di vista inconciliabili, quello dei carnefici per
Dioniso, quello della vittima innocente per Cristo. Ma per Nietzsche questa
straordinaria scoperta è rimasta infruttuosa. Coerente fino all’ultimo,
incurante di ciò che egli stesso aveva trovato, Nietzsche vuole parteggiare
per Dioniso, per la violenza del sacrificio contro il Dio della Bibbia. L'
anticristo, Ecce homo e gli ultimi frammenti sono, in particolare, i testi dove
si consuma la fase finale di questo dissennato rifiuto della verità, che si
chiude con la notte della pazzia.
Sì, Nietzsche ha ancora molto da dirci. Ha molto da rivelare su di noi e su
un messaggio che non è filosofico, ma religioso, un messaggio che noi siamo
poco disposti ad affrontare, da cui anzi solitamente preferiamo allontanarci.
La conclusione, paradossale e consequenziale, è che Nietzsche, il preteso
distruttore del cristianesimo, ne è la migliore conferma, talmente tremenda
che alcuni fra gli stessi cristiani sembrano volersene tenere alla larga. È
ora, pertanto, che a Nietzsche sia riconosciuta l’importanza che gli spetta
come pensatore, senza mezzi termini, religioso. Per convincersene dovrebbe
essere sufficiente leggere senza pregiudiziali i saggi che seguono, scritti in
tempi diversi e con diverse prospettive, ma tutti concordi nel giungere a
quest’unica, inattuale conclusione, risultato fondamentalmente unitario che
crediamo derivi non da ragioni di “scuola”, ma dalla realtà oggettiva che
questo filosofo è andato a toccare, illudendosi disastrosamente di
sovvertirla. Questo non vuol essere un processo a Nietzsche, quanto
piuttosto un’indagine, o meglio una serie convergente di indagini, condotta
con “timore e tremore” davanti al destino drammatico di un uomo infelice e
di un pensatore geniale. Esiste, in un senso che è ancora da scoprire, un
“caso Nietzsche”, assai più rivelatore di quello che lui voleva diventasse il
“caso Wagner”: è ciò che, già ai suoi tempi, ha detto più di un
contemporaneo, non senza la complicità di Nietzsche stesso, e non
immaginando in quale misura la singolarità inquietante del “caso”
coinvolgesse un’intera epoca, fino a includere in pieno il presente nel quale
viviamo. Il “caso” attende tuttora la sua soluzione, una soluzione che -
riteniamo -non è da temere, ma da sperare. Nella sua terribilità la sorte
scelta da Nietzsche può aprire il nostro pensiero a una speranza che non sta
a noi stabilire, ma che aspetta immutabile chiunque in un modo o nell’altro
la cerchi. E una riflessione che deve coinvolgerci in prima persona, se non
come credenti, certamente come uomini del nostro tempo.

René Girard - Giuseppe Fornari

Nota sul testo


Questo volume comprende, come prima parte dell’opera, cinque saggi di
Girard, due dei quali inediti in Italia, che rappresentano in modo completo
la sua interpretazione di Nietzsche. Gli ultimi due testi erano in origine due
conferenze che presentano una prima sintesi, in sé autonoma, di quanto poi
l’autore avrebbe ripreso in Je vois Satan tomber comme l’éclair 1;, manca
invece il testo La meurtre fondateur dans la pensée de Nietzsche 2, perché il
suo tono più vistosamente da conferenza e il fatto che il suo contenuto sia a
grandi linee già esposto in Dioniso contro il Crocifisso (che qui è il testo
centrale di questa silloge girardiana) hanno consigliato di non inserirlo.
La seconda parte del volume è formata dall’ampio saggio di Fornari, che
fornisce uno sviluppo autonomo delle proposte interpretative di Girard, e
nel quale vengono analizzate più da vicino sia la pazzia di Nietzsche sia
l’opera che nei suoi intendimenti avrebbe dovuto coronare la sua lotta
contro il cristianesimo, L'anticristo. I saggi di Girard, rivisti e modificati
dall’autore per la presente edizione, sono stati tradotti da G. Fornari. Le
traduzioni già pubblicate in Italia sono state modificate di conseguenza e
hanno subito una generale revisione. Si ringraziano le riviste interessate
per averne permesso l’utilizzo.

1
R. Girard, Je vois Satan tomber comme l’éclair, Grasset, Paris 1999, pp. 249 ss. (Vedo Satana cadere
come la folgore, a c. di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001, pp. 211 ss.).
2
R. GIRARD, La meurtre fondateur dans la pensée de Nietzsche, in Aa.Vv., Violence et vérité. Autour
de René Girard, a c. di P. Dumouchel, Grasset, Paris 2001.
René Girard
Cinque saggi su Nietzsche
Il superuomo nel sottosuolo. Strategie della follia: Nietzsche,
Wagner, Dostoevskij1
Qualunque tentativo di rendere comprensibile la follia di Nietzsche deve
partire dalle relazioni umane di tipo triangolare, le stesse che si collocano al
cuore della teoria psicanalitica di Freud. Ma per fare questo non è affatto
necessario essere freudiani. Nietzsche è perfettamente leggibile alla luce
della concezione mimetica da me sintetizzata in Menzogna romantica e
verità romanzesca (1961) e in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del
mondo (1978)2.
È evidente che l’ossessione di Nietzsche per Wagner è stata qualcosa di più
di un’infatuazione giovanile, di un precoce errore di giudizio che il
pensatore avrebbe agevolmente corretto nel raggiungere la “maturità”. Non
è possibile liquidare il problema che Wagner ha rappresentato per
Nietzsche con i tradizionali argomenti dell’incommensurabilità fra “vita” e
“opera”, perché di quest’opera il grande musicista è una parte essenziale.
Nietzsche ha continuato a scrivere prima a favore e poi contro Wagner
lungo la sua intera carriera: ora in modo diretto, lodandolo o attaccandolo
per nome, ora in modo indiretto. Anche quando il crollo psichico di
Nietzsche si avvicina, Wagner, pur essendo già morto, rimane una figura
ossessiva, anzi più ossessiva che mai.
Lungi dall’essere un approccio capace di spiegare le difficoltà avute da
Nietzsche nei suoi rapporti col compositore, l’interpretazione fornita dal
tradizionale complesso di Edipo consente di eludere, una volta di più, le
vere questioni.
La vicenda del rapporto di Nietzsche con Wagner corrisponde in maniera
perfetta ai vari stadi del processo che nasce dall’imitazione di un modello, il
processo imitativo o mimetico. All’inizio Wagner è il modello esplicitamente
riconosciuto, la divinità apertamente adorata, il mediatore che insegna che
cosa desiderare con la sua personalità prestigiosa. Poi egli diventa un
ostacolo e un rivale, senza cessare di essere per questo un modello. Uno
psicanalista direbbe che il rapporto fra i due è diventato “ambivalente”, ma
cercare la causa di tale “ambivalenza” in qualche psicanalitico padre
scomparso significa chiudere gli occhi davanti alla realtà del conflitto.
Mentre sta rapidamente diventando l’eroe culturale della nazione tedesca,
Wagner proibisce al suo discepolo di raggiungere lo scopo che pure è lui
stesso a porgli davanti. Si tratta del medesimo “doppio vincolo” imitativo,
della medesima ingiunzione contraddittoria («Imitami!» - «Guai a te se mi
imiti!») che ritroviamo nel rapporto fra Schiller e Hölderlin o fra Rimbaud e
Verlaine3. Freud e gli altri teorici della psicanalisi si rifiutano di intendere la
terribile semplicità di questo tipo di rapporto, e distolgono
sistematicamente la nostra attenzione dalla verità, in nome di qualche fiaba
priva di fondamento. Ma per convincerci che il doppio vincolo esiste basta
guardare ai rapporti di questi stessi studiosi con i loro discepoli, alle rovine
psicologiche che costoro hanno disseminato lungo la loro strada.
Al tempo dei trionfi di Bayreuth un inorridito Nietzsche si vede di colpo
davanti la propria idolatria verso Wagner moltiplicata per mille. Bayreuth è
presentata da Nietzsche come lo sforzo mostruoso attuato da Wagner per
inscenare il suo stesso culto. Forse il filosofo non ha del tutto torto, ma Ecce
homo non costituisce una messinscena del medesimo tipo? Ecce homo è lo
sforzo da parte di Nietzsche di allestire il proprio stesso culto, è la risposta
di Nietzsche a Bayreuth: un atto di ritorsione che, come tutti gli atti di
ritorsione, è lo specchio dell’azione che controbatte. L’unica differenza,
naturalmente, è che Wagner aveva adoratori reali, mentre Nietzsche non
aveva in pratica altri adoratori all’infuori di sé. Il filosofo doveva sostenere
la duplice parte di adoratore e adorato, una di quelle imprese che non si
possono portare avanti con successo per troppo tempo. Il silenzio totale che
lo circonda costringe Nietzsche a pose sempre più istrioniche, a un tipo di
comportamento che va riconosciuto come una classica schizofrenia, anche
se non vi è nessuna soluzione di continuità rispetto alle più moderate
espressioni di autostima che sono reperibili nei suoi scritti precedenti. La
differenza tra l’uomo psicologicamente sano e quello malato può dipendere,
a questo stadio, dal maggiore o minore successo delle sue relazioni con gli
altri, con la gente, insomma con la folla.
Tutto si fa qui evidente, ma ciò che risulta evidente non è mai detto a chiare
lettere. La pietà dei seguaci di Nietzsche, quella pietà cieca e santimoniosa
che viene esercitata, manco a dirlo, solo verso i modelli morti, impedisce
che nel nostro mondo nietzschiano la verità sia ascoltata o anche soltanto
pronunciata.
Pur di smantellare il culto di Wagner, Nietzsche è ricorso a innumerevoli
stratagemmi, come quando ad esempio propone Bizet quale divinità
musicale sostitutiva. Nemmeno un bambino verrebbe ingannato da un
trucco del genere, ma noi tutti ci lasciamo ingannare, o fingiamo di esserlo.
Gli intellettuali occidentali possono esercitare su Nietzsche un’arte che a
loro torna sovente utile, quella di distogliere l’attenzione dalle linee di
condotta più contraddittorie, più schizofreniche.
Vittoria e sconfitta sono due poli complementari della struttura di rivalità,
due poli che fra Wagner e Nietzsche si alternano costantemente. Il fatto che
le due controparti non condividano nella stessa misura vittoria e sconfitta, o
che ci possano essere altre parti in gioco in qualche misura coinvolte, non
impedisce a questa struttura maniaco-depressiva di essere innanzi tutto
quello che è, ossia una concreta relazione fra doppi, una reciprocità
mimetica che continua a stringersi proprio a causa degli sforzi che
Nietzsche compie per scioglierla. Qualunque tentativo di separare Ecce
homo dal culto di Wagner equivale a falsificare un momento essenziale nella
crescente schizofrenia della cultura tedesca ed europea.
La pretesa di Nietzsche in Ecce homo è che tutto ciò che egli ha scritto in
passato su Wagner, tutti gli elogi da lui tributati a quel falso idolo non siano
scartati e dimenticati, ma ricondotti al suo legittimo detentore, che sarebbe
Nietzsche in persona. Ogni volta che il nome di Wagner compare è con
quello di Nietzsche che bisogna sostituirlo. Ma la cosa più esasperante per
il filosofo sta ovviamente nel fatto che sono le sue stesse parole, come ad
esempio quelle contenute nella Nascita della tragedia, a testimoniare contro
di lui e a favore di Richard Wagner. A differenza delle dittature moderne,
che possono riscrivere a loro piacimento la storia, gli scrittori non hanno il
potere di cancellare ciò che hanno scritto. Se leggiamo i testi nietzschiani in
ordine cronologico, possiamo notare il momento in cui la risposta,
“ambivalente” ma ancora “razionale”, al modello che insieme è anche un
ostacolo lascia il posto alla crisi di identità e alla megalomania allucinante
degli ultimi stadi. Il soggetto malato ritorna non alla sua prima infanzia,
bensì alle sue prime relazioni col mediatore, allorché il modello, non ancora
trasformatosi in ostacolo, era venerato senza problemi. Attraverso quella
che adesso gli appare come una diabolica trappola, la vittima realizza che
lei per prima ha acconsentito e collaborato all’iniquo trionfo del mediatore.
Nietzsche si vede privato del suo stesso essere e cerca sempre più
disperatamente di riempire questo vuoto non solo con il fantasma di Richard
Wagner, ma con qualsiasi modello mitologico o storico che per qualche
motivo colpisca la sua fantasia.
Se seguissimo troppo in fretta l’esempio degli psicanalisti e descrivessimo
Wagner come un semplice sostituto del padre, la rivalità verrebbe svuotata
del suo vero contenuto intellettuale e artistico, e il problema diventerebbe
incomprensibile. Ciò non significa che non vi siano elementi parentali e
sessuali nella rivalità, ma se prendiamo in esame tali elementi possiamo
constatare come il complesso di Edipo sia totalmente incapace di darne una
spiegazione, nonostante i fatti in questione, a un primo sguardo, sembrino
dar ragione a Freud.
Negli ultimi frammenti e biglietti di Nietzsche il nome di Richard Wagner
appare, ancora una volta, all’interno di una configurazione che anche
l’osservatore meno favorevole verso la mia “critica triangolare” dovrà
rassegnarsi a chiamare, almeno in questo caso, un triangolo. Gli altri due
nomi sono quello della moglie di Wagner, Cosima, e dello stesso Nietzsche.
Vi è una versione mitologica di questo triangolo, in cui Richard Wagner
figura come Teseo, Cosima come Arianna, e Nietzsche come Dioniso. È da
notare, fra l’altro, che nei giorni del suo crollo finale Nietzsche poteva
firmarsi indifferentemente sia «Dioniso» sia «Il Crocifisso», in stridente
contrasto con una precedente formula, quella di Dioniso contro il Crocifisso,
che figura proprio alla fine di Ecce homo e che esprime in modo diretto la
sua fiera opposizione al cristianesimo.
Il triangolo mitologico, col quale Nietzsche interpreta la sua relazione con
Wagner e sua moglie, allude all’episodio in cui Dioniso riceve Arianna da
Teseo. Secondo la sorella di Nietzsche, Elisabeth, il primo riferimento a
questa vicenda mitica sarebbe venuto dal direttore d’orchestra wagneriano,
nonché primo marito di Cosima Liszt, Hans von Bülow. Quando sua moglie
lo abbandonò per Richard Wagner, il primo marito di Cosima non perse per
nulla il suo spirito da uomo di mondo: egli avrebbe fornito la spiegazione
che, se una donna è divisa fra un uomo e un dio, può ben venire scusata se
sceglie quest’ultimo.
Abbiamo così un primo triangolo, con personaggi in carne e ossa che
interpretano ruoli in gran parte diversi da quelli del triangolo finale:
Wagner sostiene il ruolo di Dioniso, Nietzsche non compare ancora,
solamente Cosima mantiene lo stesso ruolo. L’osservazione non è senza
importanza. Per quanto il bon mot di Hans von Bülow sia stato fatto più
nello spirito di Offenbach che della Nascita della tragedia, esso corrisponde
al punto di vista che sulla situazione aveva Nietzsche a quel tempo. Anche il
filosofo ha la sua interpretazione mitologica in cui la parte di Dioniso è
assegnata a Wagner. Questo triangolo modificato, in cui stavolta tocca a lui
essere escluso dal possesso della donna desiderata, doveva essere
profondamente presente al suo spirito quando, sull’orlo della follia, ne
elaborò una nuova versione. Il filosofo viene adesso a occupare il posto
precedentemente riservato a Wagner; Richard Wagner è però ancora
presente, e Nietzsche si aspetta di ricevere Cosima dalle sue mani,
esattamente come il grande compositore aveva ricevuto Cosima da Teseo-
von Bülow. Il raggiungimento di Cosima e l’identificazione con Dioniso sono
esplicitamente al centro di quest’ultima sostituzione triangolare. Possesso
degli attributi divini e possesso della donna vanno di pari passo.
Bisogna resistere alla tentazione di classificare Cosima come sostituto
materno. Questo freudismo riflesso ci dà solo un’illusione di luce, e rimane
incapace di spiegare la sostituzione di un triangolo con l’altro.
Ogni qualvolta Nietzsche si è interessato a una donna, risulta che un
comune amico abbia fatto da tramite e che anche l’amico fosse interessato
alla ragazza, o che perlomeno fosse questo il desiderio di Nietzsche. Nel
1876, ad esempio, il filosofo chiese a un amico, Hugo von Senger, di fare a
suo nome una domanda di matrimonio a una ragazza che l’altro conosceva,
e che fu poi l’amico a sposare. L’episodio con Lou Salomé è sostanzialmente
simile. Quando Nietzsche la incontrò, lei era in un rapporto di stretta
amicizia con Paul Rèe. Ancora una volta Nietzsche chiese in tutta fretta a
Paul Rée di trasmettere a Lou una proposta di matrimonio, che la donna
rifiutò.
Freud si interessa a questi triangoli, ma la sua consapevolezza del ruolo del
rivale si limita a quella che egli chiama “ambivalenza”, tipica della relazione
di amore-odio. Il fondatore della psicanalisi non si rende conto che esiste
una spiegazione efficace di questa “ambivalenza”, ed è la metamorfosi del
modello mimetico in ostacolo. Freud fa invece affidamento sul suo
complesso di Edipo, e finché la fascinazione per il rivale rimane moderata la
versione “normale” del complesso sembra funzionare. La donna è il
sostituto materno, il rivale il sostituto paterno, e il soggetto è supposto
“rivivere” i sentimenti originari del complesso di Edipo: desiderio per la
madre, odio per il padre in quanto rivale e “normale affetto” per lui in
quanto padre.
Tuttavia in triangoli come quello di Nietzsche, in cui la fascinazione per il
rivale diventa estrema, il complesso edipico non ha più alcuna efficacia
esplicativa. Questo è il motivo per cui Freud ha dovuto inventare la genesi
di un Edipo “anormale”. Non afferrando il principio mimetico, egli non ne
realizza la capacità di spiegare tutti questi fenomeni come fasi diverse di un
unico processo dinamico, in cui l’altro diventa vieppiù affascinante come
modello anche e soprattutto allorché si trasforma sempre più in un ostacolo,
che come tale è oggetto di un’intensa fascinazione rivalitaria. Un simile
processo triangolare dà anche ragione degli aspetti omosessuali, dato che
l’ostacolo è un rivale del medesimo sesso.
Gli aspetti omosessuali della fascinazione per il rivale sono l’unico elemento
del quadro che Freud percepisca con chiarezza, ma tale aspetto è
condannato a venir frainteso da chiunque non comprenda la precedenza
dell’imitazione rispetto alla rivalità. La fascinazione deve allora essere
descritta come un’omosessualità “latente”, per la semplice ragione che
anche una donna è presente nel quadro e rimane il solo oggetto diretto, per
così dire, del desiderio mediato attraverso il modello.
Il secondo Edipo in effetti non è altro che l’aggiunta dell’elemento
omosessuale al primo Edipo. In aggiunta al “normale” desiderio del
bambino per sua madre, che dev’essere mantenuto dal momento che nel
triangolo ci sarà una donna quale oggetto del desiderio e sostituto materno,
Freud è costretto a postulare, nel bambino, il desiderio “di essere amato dal
padre come una donna”.
Abbiamo dunque due tipi di genesi edipica, una “normale” e una
“anormale”, e non c’è dubbio che Freud sarebbe ricorso alla seconda nel
caso di Nietzsche. Esiste però un altro grande autore che, nella sua vita
privata come nella sua opera, ha avuto a che fare con uomini e donne
secondo modalità “triangolari” che ricordano assai da vicino quelle di
Nietzsche. Si tratta di Dostoevskij, e nel saggio che Freud dedica allo
scrittore russo il padre della psicanalisi invoca puntualmente il suo “Edipo
anormale” per spiegare fenomeni che hanno una somiglianza
impressionante con quelli che ho appena descritto.
Il rivale gioca in Dostoevskij esattamente lo stesso ruolo che in Nietzsche.
Assistiamo ancora una volta a proposte di matrimonio decise in tutta fretta
ed effettuate attraverso la mediazione di amici che Dostoevskij aveva
ragione di credere fossero essi stessi interessati alla donna oggetto del
desiderio. Quando è il mediatore, alla fine, a prendere l’iniziativa,
Dostoevskij - o i suoi eroi, molti dei quali gli sono quanto mai somiglianti - è
sempre pronto a cedere al suo rivale. Nelle opere giovanili, e nella
corrispondenza dello stesso periodo, questo tipo di comportamento è
costantemente presentato come “magnanimo”, e viene espressa la speranza
che, grazie a tale “magnanimità”, sarà possibile ricevere indietro la donna
dalle mani del rivale o condividerla con lui in una forma molto discreta,
magari come si potrebbe fare con un amico al quale essere riconoscenti.
È in grado l’Edipo anormale di spiegare questo genere di situazione? I
freudiani risponderanno di sì, e in un certo senso non hanno del tutto torto
visto che l’Edipo anormale è stato appositamente concepito per questo tipo
di triangolo. A parte i grandi scrittori, Freud è stato il primo a osservare
questa particolare configurazione e a tentarne un’interpretazione
scientifica. Sembrerebbe perciò che egli dovesse farlo meglio di chiunque
altro prima di lui, ma è facile mostrare che, malgrado i suoi grandi meriti, il
fondatore della psicanalisi non riesce a far emergere l’interpretazione
corretta, e nemmeno a osservare in modo appropriato il processo
triangolare. Questi due fallimenti sono in realtà inseparabili, per il semplice
motivo che i vari aspetti del processo mimetico sono troppo strettamente
connessi fra loro per permettere di distinguere la pura e semplice
descrizione dei fatti dalla loro interpretazione.
In tutti questi triangoli lo scopo non è tanto sottrarre l’amata al mediatore,
quanto riceverla dalle sue mani e condividerla con lui. La presenza del
rivale è indispensabile, e nel caso che costui cerchi di disimpegnarsi il
soggetto farà del suo meglio per trascinarlo di nuovo nel rapporto
triangolare. Perché? Forse che ci troviamo di fronte a un impulso
omosessuale, come postula Freud? Niente di tutto ciò. Il fatto è che il
soggetto è incapace di desiderare per conto proprio, e non ha alcuna fiducia
in una scelta operata esclusivamente da lui. Il rivale gli è necessario, perché
solo il desiderio appartenente al rivale può mantenere il valore che la donna
ha acquisito ai suoi occhi. Se il rivale scomparisse, anche tale valore
scomparirebbe.
Perfino nel caso che il rivale appaia dapprima come rivale e solo
successivamente come modello, quest’ordine inverso, nella reale sequenza
di eventi che conduce a un triangolo, è sempre da leggersi come derivante
dall’ordine che ho detto sopra. Il rivale dev’essere prima interpretato come
modello. Non appena riconosciamo la precedenza della mimèsi ogni cosa va
al suo posto e diventa intelligibile.
Per il soggetto coinvolto in questi triangoli non è sufficiente avere il
mediatore che gli designa l’oggetto da amare: il mediatore deve continuare
a desiderare l’oggetto, così che il suo valore rimanga costante. Questo è il
motivo per cui il soggetto vuole sempre che l’altro eserciti un ruolo attivo
come tramite fra lui stesso e l’oggetto, che svolga appunto il suo ruolo, alla
lettera, di intermediario, di mediatore.
Il soggetto non vuole conquistare la ragazza una volta per tutte; se Io
facesse egli perderebbe il mediatore, e con lui ogni interesse per la ragazza.
Ma nemmeno il mediatore deve conquistare la donna in modo definitivo: se
lo facesse il soggetto continuerebbe sì a desiderare, ma rimanendo escluso
in via permanente. In questa impasse nessuna soluzione è realmente
soddisfacente. La sola situazione tollerabile per la rivalità è continuare. Il
triangolo deve perpetuare se stesso.
L’essenziale per il soggetto è il protrarsi del legame fra la donna e il rivale,
un legame che ai suoi occhi deve attingere a quella autonomia e
autosufficienza divina che egli sogna di possedere. L’unico narcisismo è il
narcisismo basato sull’altro, in questo caso due “altri”, una coppia felice o
meglio una felicità di coppia che a questo punto diventa, più ancora che
l’uomo o la donna presi singolarmente, il vero oggetto del desiderio.
Se afferriamo qual è la ragion d’essere del triangolo possiamo capire come
Freud fallisca nel suo tentativo di spiegare il fenomeno. Freud immagina
due desideri separati, uno per la donna, che proverrebbe dalla madre, e
l’altro per il rivale, che proverrebbe dal padre. Da qui la cervellotica fiaba
del bambino che sceglierebbe suo padre, sia. pure per poco, quale amante
omosessuale.
Freud non comprende che il desiderio del mediatore è il fattore decisivo
nella desiderabilità della donna. Il soggetto ha un bisogno vitale del
desiderio appartenente al rivale per sostenere e legittimare il proprio
desiderio. In termini edipici questo equivarrebbe a dire che il figlio vuole
che il desiderio del padre sostenga e legittimi il suo desiderio per la madre,
e se c’è una cosa che il complesso di Edipo non permette è proprio questa.
Ciò vorrebbe dire che la madre non è desiderata “in se stessa”, che essa
non possiede un valore indipendente, ma viene desiderata innanzi tutto in
quanto è desiderata dal padre; e vorrebbe dire, per giunta, che il padre non
è l’incarnazione della legge contro l’incesto. I due pilastri dell’edificio
edipico così crollano al suolo.
La differenza maggiore tra il principio della mediazione e la psicanalisi è
che, in Freud, il desiderio per la madre è intrinseco. Freud pensava che un
desiderio intrinseco di questo tipo, anche se represso in una fase
successiva, fosse indispensabile per spiegare il tabù dell’incesto. Tutte le
relazioni implicate nel quadro edipico rimangono fondamentalmente
indipendenti l’una dall’altra. Nella relazione di amore-odio con il padre
l’amore e l’odio sono giustapposti, più che effettivamente riuniti. Solo il
processo mimetico rende le tre persone veramente dipendenti l’una
dall’altra, e solo questo processo riesce a mostrare che è un unico impulso a
rendere il mediatore degno di venerazione in quanto modello, e odioso in
quanto ostacolo.
La verità è che il triangolo edipico non è in grado di funzionare. Mentre non
si capisce davvero come esso possa continuare a generare triangoli
sostitutivi, comprendiamo assai bene perché il triangolo mimetico debba
venir ripetuto in perpetuo, perché esso debba diventare un’autentica caccia
ai rivali che hanno successo. Dato che il modello continua a interferire col
desiderio del soggetto, è questa interferenza medesima che da ultimo sarà
attivamente cercata in quanto designazione dell’oggetto più desiderabile, ed
ecco che il triangolo perpetua se stesso. Attraverso questo slittamento,
comprendiamo perfettamente come mai, nei casi avanzati di patologia
mimetica, si continui a modellare i propri desideri sui desideri di amici che
godono di un maggiore successo. Una sola spiegazione è richiesta, dal
momento che l’esasperarsi del circolo vizioso in cui è degenerato il rapporto
col mediatore giustifica in maniera completa i vari gradi di fascinazione che
il soggetto prova di fronte al rivale, e il graduale slittamento dall’oggetto
eterosessuale del desiderio al desiderio per il modello e rivale del proprio
stesso sesso. Prima di essere un oggetto del desiderio, il partner
omosessuale è un rivale.
L’alternativa mimetica permette non soltanto di arrivare a una spiegazione
soddisfacente, ma anche di vedere esattamente dove Freud è caduto in
errore e perché egli si è dovuto avvicinare a ipotesi come quelle che alla
fine ha adottato. Si tratta di ipotesi certamente false, ma non per questo
gratuite.
L’interpretazione mimetica non esclude affatto la possibilità che il triangolo
famigliare diventi, a un certo momento, un triangolo di rivalità mimetica,
ma questa possibilità non è di per sé strutturale alla vita famigliare del
bambino. È vero piuttosto il contrario. Più un padre è padre nel senso della
legge, delle norme sociali, e più è improbabile che diventi un rivale
mimetico. Egli può essere un modello ideale o un odiato tiranno, ma un
rivale mimetico vicino e ostile resta qualcosa di diverso. Ben lontani
dall’essere compatibili e dal combinarsi facilmente tra loro, il ruolo del
padre come incarnazione della legge e quello del rivale mimetico sono
normalmente separati e divergenti.
Se Freud è stato tratto in inganno, se ha cercato di conciliare
l’inconciliabile, è stato in parte per ragioni storiche. Svolgendo le loro
ricerche in un’epoca in cui il padre tradizionale ancora conservava una
parte dei suoi vecchi poteri, ma in cui la rivalità mimetica era al tempo
stesso in ascesa, Freud e altri trovarono naturale pensare a una
corrispondenza di tipo lineare e diretto tra questi fenomeni. Anche
Dostoevskij visse nella stessa epoca ambigua in cui questi due aspetti si
sovrapponevano frequentemente ma, almeno nelle opere della maturità, li
ha distinti forse meglio di chiunque altro, col risultato di essere, rispetto a
Freud, un migliore interprete sia della legge sia della rivalità mimetica. Nei
Fratelli Karamazov Freud vide poco più di una semplice testimonianza dei
problemi edipici. La cosa più comoda dell’interpretazione edipica è che essa
sembra venir confermata sia dall’assenza che dalla presenza di un padre
assassinato!
Un’altra importante opera che Freud non sembra aver nemmeno letto è
L’eterno marito, la più potente interpretazione del tipo di relazioni
triangolari che abbiamo appena discusso. Qui il rivale che ossessiona il
soggetto è rivelato con chiarezza come modello del desiderio, al punto che
questo breve romanzo rappresenta una guida completa per tutto quanto è
stato detto nelle pagine precedenti.
Ma cosa afferma Nietzsche in proposito? Sebbene la mediazione del
desiderio abbia una sua rilevanza negli scritti su Wagner, si potrebbe
ancora sostenere che la sua filosofia non ne venga toccata, eppure io credo
si possa dimostrare il contrario. A giudizio di molti studiosi la volontà di
potenza è una delle idee fondamentali di Nietzsche, ma un esame obiettivo
rivela con chiarezza che quest’idea fornisce ima giustificazione intellettuale
perfetta per i casi più brucianti di autosconfitta a cui possa condurre la
mediazione mimetica nella sua fase terminale.
In un primo momento Nietzsche usa la volontà di potenza solo a scopi di
“demistificazione” psicologica. L’espressione compare riferita a
comportamenti inconsciamente determinati da un’estrema considerazione
delle opinioni degli altri. Parlando di azioni comunemente ricondotte
all’“altruismo” e ad altri buoni sentimenti, Nietzsche afferma che esse sono
radicate nella volontà di potenza. Walter Kaufmann giustamente osserva
che tale fattore possiede, in questa prima fase, una connotazione negativa;
Nietzsche «non esorta la gente a sviluppare la propria volontà di potenza,
né egli ne parla come di qualcosa di splendido»4.
L’ultimo Nietzsche, al contrario, presenta spesso la volontà di potenza come
la forza che muove l’intero universo. Heidegger è del parere che Nietzsche
trasformi questo principio nel fondamento di un nuovo sistema metafisico.
Abbracciare e sviluppare il più possibile la propria volontà di dominio
diviene adesso la sola qualità positiva.
Questo però non significa che le deplorevoli conseguenze precedentemente
attribuite alla volontà di potenza siano dimenticate o ricondotte a qualche
altra forza. Vi è un’unica forza, che è appunto la volontà di potenza, ed essa
può dar luogo a due varietà contrastanti: la prima potrebbe venir chiamata
l'"autentica” volontà di potenza, mentre l’altra è spesso indicata come
risentimento, una parola che Nietzsche non usa molto spesso, e che divenne
popolare a causa di un libro che reca quel titolo, un’opera non di Nietzsche
bensì di Max Scheler, che si è liberamente ispirato a questo tema
nietzschiano5.
In che cosa allora il risentimento differirebbe dall’autentica volontà di
potenza? Sull’argomento ci sono opinioni contrastanti. Molti commentatori
parlano, in una maniera o nell’altra, di una differenza di essenza. La visione
nietzschiana è così trasformata in uno dei tanti manicheismi morali invertiti
di cui la cultura contemporanea è particolarmente generosa. Ma quello che
rende più originale il pensiero di Nietzsche viene in tal modo distrutto.
In realtà Nietzsche stesso ha rigettato a chiare lettere un’interpretazione
del genere, che è del tutto incompatibile col carattere monistico della sua
metafisica. Ciò che distingue la volontà di potenza è il suo essere una forma
di energia, che si differenzia solamente in termini di quantità. Ma come può
una differenza che inizialmente è solo quantitativa diventare infine
qualitativa? La risposta sta nella natura competitiva e conflittuale della
volontà di potenza. Gli individui che hanno più volontà superano quelli che
ne hanno di meno. I forti devono dominare i deboli, e i deboli si risentiranno
amaramente per la loro inferiorità, facendo tutto il possibile per eludere le
sue conseguenze, fino a negare la sua stessa esistenza. Essi sanno di essere
destinati alla sconfitta in qualunque confronto a viso aperto, e sono costretti
pertanto a ricorrere ai mezzi più subdoli.
Questi esseri deboli e umiliati sono le vittime del risentimento e, dal
momento che costoro sono la maggioranza, possono unirsi per inventare
religioni e filosofie dagli accenti altamente altruistici, ma il cui unico scopo
è invertire la gerarchia naturale della volontà di potenza. Si tratta delle
religioni e delle filosofie dichiaranti che gli umili e i sottomessi riceveranno
infine il loro compenso. Ma è il risentimento a nascondersi dietro questo
offeso senso di giustizia. La tradizione giudaico-cristiana è l’esempio
principale di un simile atteggiamento, e la sua “morale da schiavi” è stata
istituzionalizzata nelle organizzazioni egualitarie delle moderne democrazie.
Dobbiamo adesso chiederci cosa intenda Nietzsche quando, in termini
enigmatici, allude al fardello schiacciante rappresentato dalla volontà di
potenza. Abbiamo appena osservato che l’unico modo di evitare il
risentimento consiste - come ci viene ripetuto a sazietà - nel superare la
volontà degli altri. Il filosofo prescrive sempre la vittoria come vera
medicina dello spirito umano:
Infermeria da campo dell’anima. Qual è il mezzo di guarigione più forte? La vittoria.6
Ma cosa emerge se cominciamo a valutare la vita dello stesso filosofo
secondo i criteri da lui ripetuti? Dove sono le sue vittorie? Non è stata la sua
vita, piuttosto, una pressoché continua sconfitta? E non è la sconfitta il
peggior germe infettivo dell’anima?
La definizione puramente quantitativa della volontà di potenza e i criteri di
selezione indispensabili per assurgere al pantheon nietzschiano non
possono che far ricadere un formidabile peso sull’uomo che abbracci una
simile mistica nella piena coscienza delle sue implicazioni. E qualora egli
non si dimostri capace di superare tutti gli avversari, nessuna illusione sul
proprio conto gli sarà più possibile. I consueti sotterfugi del risentimento gli
sono vietati. Egli non può trarre alcun conforto da una qualche “morale da
schiavi”.
Esiste quindi un enorme problema nella valutazione che Nietzsche può dare
di se stesso tenendo conto della sua mistica della volontà di potenza. È un
problema che nessuno prende mai in considerazione, perché la risposta ci
appare scontata. Per noi Nietzsche è un genio. Egli stesso lo dice, e con
sempre meno inibizioni man mano che si avvicina alla follia. Come
potremmo mai sospettare che egli non fosse veramente convinto di un
giudizio circa se stesso che egli proclamava ai quattro venti e che, per
giunta, viene a combaciare col nostro?
Per scrivere quello che ha scritto, Nietzsche doveva partire dal presupposto
non solo che ci sono campioni insuperati della volontà di potenza, ma che
questo fosse proprio il suo caso. La sua intera opera è un inno alla
realizzazione suprema della volontà di dominio. Se egli non fosse stato
partecipe di questo principio assoluto dell’universo, del resto, come avrebbe
potuto scoprirlo? Come avrebbe potuto stigmatizzare il risentimento e la
morale da schiavi con l’accanimento di cui dà prova nelle sue opere?
Ciò che voglio suggerire, naturalmente, è che queste apparenze sono
ingannevoli. Vi sono infatti momenti in cui Nietzsche non si sente all’altezza
dei requisiti richiesti dalla sua stessa mistica. Tutto questo diventa evidente
se ci rendiamo conto che la relazione di Nietzsche con la volontà di potenza
non può essere separata dalla sua relazione con Wagner (e con altri
possibili mediatori, anche se Wagner resta di sicuro il più importante).
Dioniso e la volontà nella sua manifestazione suprema sono una sola e
medesima cosa, e se Nietzsche non si sentiva sicuro circa la propria
identificazione col dio, non poteva certo sentirsi maggiormente sicuro
riguardo al possesso del suo principale attributo. La paura che il mediatore
possa dimostrare di essere il “vero” Dioniso equivale a vedersi privati della
suprema volontà di potenza, equivale a venire travolti, vis-à-vis con Richard
Wagner, da un incontenibile risentimento.
Mi si obietterà che la mia definizione brutalmente quantitativa e
competitiva della volontà di potenza non è perlopiù seguita dalla critica
attuale, e su questo non vi è alcun dubbio. Nelle mani dei nietzschiani
francesi, in particolare, questa idea è diventata un grazioso gingillo
idealistico che non serba alcuna traccia di ciò di cui ho parlato. Viene
veramente da chiedersi perché questa gente senta un così forte bisogno di
fuggire dalla brutalità del concetto nietzschiano, e la risposta mi pare
evidente. I nietzschiani non dicono mai chiaro e tondo quali sono le
conseguenze della vera volontà di potenza, tuttavia devono esserne
vagamente consapevoli dal momento che sono così bravi a neutralizzarle.
Ciò che a loro piacerebbe, ovviamente, è conservare la forza al vetriolo della
demistificazione nietzschiana, senza però correre il rischio di vedersela
ritorcere contro. Essi vorrebbero renderla sicura in quanto arma tattica, ed
evitare di farsela esplodere tra le mani, com’è invece inevitabile che accada.
Noi circondiamo Nietzsche di tutte quelle forme di commiserazione che il
filosofo respingeva con ogni mezzo. Il mito della volontà di potenza non
competitiva nasce dall’esistenza, in questo pensatore, di due generi di
competitività. Il primo tipo appartiene al risentimento, e a esso sono
ricondotti tutti gli aspetti sgradevoli associati di solito con lo spirito di
antagonismo. Il risentimento è infatti febbrilmente competitivo e alla
perenne ricerca anche delle vittorie più meschine, ottenute a spese di
mediocri avversari. L’altro tipo appartiene invece all’autentica volontà di
potenza, e sarebbe nobile e generoso. Esso però non è meno ardente. È, ad
esempio, il carattere sfacciatamente agonistico e conflittuale della cultura
greca a testimoniare della superiorità della sua volontà di potenza. Walter
Kaufmann coglie ancora una volta nel giusto quando definisce la volontà di
potenza dei Greci come il loro desiderio di «gareggiare, superarsi e
sopraffarsi l’un l’altro»7.
Ciò che Nietzsche afferma intorno al suo impulso competitivo e aggressivo
dev’essere esaminato con estrema attenzione, come vuole d’altronde lo
stesso filosofo, e le implicazioni di tale esame sono di vasta portata:
...attacco solamente cose che vincono [...] attacco solamente cose contro cui non potrei trovare
nessun alleato, così sono solo, -così comprometto solamente me stesso...8
Questo comportamento cavalleresco è senza dubbio in armonia con quanto
richiesto dalla mistica nietzschiana, ma può anche essere descritto come
una delirante impresa di autodistruzione, soprattutto in un uomo che
assegna così tanta importanza all’essere vittoriosi. Tale mistica non esprime
in realtà uno sforzo erculeo e sistematico di provocare, mediante una
sconfitta definitiva, la propria metamorfosi in risentimento?
Rimane però la possibilità estrema, vale a dire che una volontà dotata di
forza sovrabbondante, e alla strenua ricerca di avversari sempre più
agguerriti, non ne trovi alla fine nessuno, restando gloriosamente imbattuta.
Nietzsche sembra prevedere una serie di leali tenzoni con altri cavalieri
della volontà di potenza, dalle quali sarà il migliore a uscire vittorioso. Un
atteggiamento del genere non è molto diverso dai sogni di Don Chisciotte. I
nostri due cavalieri erranti non sembrano tuttavia rendersi conto che il
“mondo” è in larga misura indifferente al tipo di sfida che essi vorrebbero
incarnare.
Quando il guardiano dei leoni apre la porta della gabbia e Don Chisciotte
fronteggia le belve, queste belve semplicemente si rifiutano di rispondere,
sbadigliando e ritornando a dormire. Don Chisciotte è ancora abbastanza in
sé per non costringere il guardiano ad aizzare le bestie contro di lui. Il
cavaliere finisce per cedere alle suppliche di questi, e batte dignitosamente
in ritirata, non prima però di aver dichiarato la sua gloriosa vittoria. Non
posso impedirmi di pensare che
Nietzsche si sarebbe sentito segretamente offeso dalla noncuranza dei
leoni.
Il filosofo tedesco non amava Cervantes, che accusava di svilire, con la sua
sgradevole Ironiesirung, quelli che definiva i più “alti ideali”. Egli invece
avrebbe dovuto prestare attenzione a quello che ci vuole far capire lo
scrittore spagnolo. Per aiutare un uomo nella situazione di Nietzsche a
conservare il suo equilibrio mentale è più utile il Don Chisciotte di tutte le
psichiatrie e psicanalisi messe insieme. Per Nietzsche, come per Don
Chisciotte, il più grande pericolo è quell’indifferenza del mondo che la sua
tipica mescolanza di egocentrismo e di dipendenza dagli altri è costretta a
fraintendere. Egli sistematicamente sopravvaluta la sua capacità di fare
scandalo, esagerando sia l’accettabilità sia l’inaccettabilità delle sue opere.
È di rigore deplorare la grande indifferenza del mondo verso i geni che di
tanto in tanto vi fanno la loro comparsa. Tuttavia, questo vasto serbatoio di
disinteresse ha nella nostra esistenza sociale un ruolo equivalente alla
predominanza dell’azoto nell’atmosfera, ed è forse indispensabile alla salute
mentale dell’umanità nel suo insieme. Questa salutare inerzia si tramuta
invece per Nietzsche in altrettanto veleno. Il nostro cavaliere della volontà
di potenza considera come perse una quantità di battaglie che
semplicemente non hanno avuto mai luogo.
Nelle accuse nietzschiane contro l’autocompiacimento, il cattivo gusto e la
generale mediocrità della Germania di Bismarck vi è una nota stridente che
tradisce una ferita più profonda di quello che Nietzsche e i suoi seguaci
vorrebbero ammettere. Il rapporto di Nietzsche con il mondo accademico
non è unilaterale come si crede di solito. La superiorità distaccata, la
superba indifferenza sono certamente presenti, ma non in tutti i casi. Ci
sono delle volte in cui questo rapporto a senso unico, come tutti i rapporti di
questo tipo nella vita di Nietzsche, si capovolge all’improvviso in chiave
ferocemente agonistica. Il rapporto rimane ancora a senso unico, ma a
detrimento di Nietzsche stavolta, non più a suo vantaggio. Il problema di
Nietzsche è di non aver mai concesso piena espressione a questi
capovolgimenti nelle sue opere. La mistica della volontà di potenza non lo
consentiva. Questo eroico silenzio è probabilmente un fattore del suo crollo
finale.
Non è necessario analizzare uno per uno tutti gli errori della mistica della
volontà di potenza. Una critica più radicale potrà essere fornita da un
confronto fra tale concezione e il processo mimetico.
Molti aspetti del risentimento assomigliano, nelle descrizioni di Nietzsche,
alle conseguenze del processo mimetico. Il risentimento è in realtà un
desiderio ostacolato e traumatizzato. La parola stessa rievoca l’immagine di
un ostacolo immobile contro cui il “sentimento” iniziale si scontra e a cui
continua a tornare in modo ossessivo, ricevendone frustrazioni sempre più
grandi.
Vi è però una sensibile differenza tra la concezione nietzschiana e il
processo mimetico. Nelle intenzioni di questo pensatore ci sono desideri -
magari pochi ma ce ne sono - che sfuggono completamente alle
conseguenze traumatiche della rivalità, e la logica sembrerebbe stare in
effetti dalla parte di Nietzsche. Se il conflitto è di estrema importanza, un
esito differenziato non sembra rimettere tutto al suo posto? La volontà più
forte dovrebbe vincere e quella più debole perdere. In tale prospettiva, solo
poche volontà rimangono indenni, in quanto sempre vittoriose. Alla luce di
questo, la visione di Nietzsche appare di un realismo duro e inesorabile. Ciò
nondimeno, le cose stanno diversamente.
Se i desideri sono davvero mimetici, essi sono sì destinati a scontrarsi con
altri desideri come pensa Nietzsche, ma questo non perché essi lo scelgano
liberamente, come egli sembra pensare, bensì perché sono l’uno la copia
imitativa dell’altro. Il risultato finale è disastroso, giacché deriva non dalla
relativa forza di desideri autonomi ai quali “capita” di scontrarsi, bensì da
una propensione mimetica che non può essere lasciata libera senza che si
trasformi nella ricerca ossessiva di un ostacolo insormontabile e, qualora
questo non venga trovato, nella sua creazione. Tutte le nostre osservazioni
suggeriscono che la stessa indifferenza può essere vista, in situazioni del
genere, come l’ostacolo più invincibile. E ci sarà sempre abbastanza
indifferenza nel mondo per distruggere la più formidabile volontà di
potenza.
Come nel caso della libido freudiana, la visione in termini energetici non è il
duro realismo che sembra essere. Non è la distruzione “scientifica” di tutti i
miti. È piuttosto un pretesto per ignorare quella che qualcuno oggi
chiamerebbe la natura “comunicativa” del nostro desiderio. Tutti i desideri
si dicono l’un l’altro: «Imitami» e, quasi simultaneamente: «Non imitarmi»,
il che equivale ad affermare che i desideri che si frustrano reciprocamente
non possono che generarsi e rinforzarsi a vicenda.
Se esaminiamo la mistica della volontà di potenza dal punto di vista del
desiderio mediato, vi riconosceremo un travisamento estremamente
significativo dei fatti, travisamento che può essere suggerito soltanto dal
desiderio stesso: non c’è un solo aspetto in essa che non favorisca le
illusioni e gli “interessi” del desiderio, che in altre parole non minacci per la
vittima di questa mistica la più disastrosa delle autosconfitte.
Il risentimento di cui parla Nietzsche è un’analisi assai perspicace di effetti
che appartengono a pieno diritto alla concezione di questo filosofo, ma tali
effetti non vengono mai presentati come universali; essi sono riservati
esclusivamente alla volontà di potenza più debole. Nietzsche ci spiega che
noi possiamo evitare simili conseguenze, che il nostro può essere un
desiderio privilegiato ed eccezionale se solo seguiamo le regole per una
competizione nobile e cavalleresca che egli ha enunciato. Queste regole non
avrebbero alcun senso se non significassero che il cavaliere della volontà di
potenza deve smuovere cielo e terra pur di trovare l’uomo che gli impartisca
la lezione che un personaggio siffatto certamente merita. La mistica
giustifica la caccia all’ostacolo insormontabile che caratterizza gli stadi più
avanzati della mediazione. Essa presenta, in uno stile magniloquente, quella
che è una vera compulsione “patologica”: non ha nulla a che fare con il
genuino coraggio e le autentiche avversità, è la ricerca di un’avversità
artificiale pianificata dallo stesso soggetto. È esattamente questo che
intende Cervantes quando ci presenta la pazzia di Don Chisciotte.
La mistica nietzschiana è sia una maschera della malattia mimetica, sia una
sofisticata giustificazione del tipo di comportamento che tale malattia
presuppone. Abbiamo osservato prima che il desiderio impara sempre più
dalle proprie sconfìtte, ma mettendo questa conoscenza al servizio di un
desiderio esasperato, che rende inevitabili sconfìtte ancor più catastrofiche.
La mistica della volontà di potenza potrebbe venir definita l'ideologia del
desiderio mimetico, se è vero che le ideologie sono attivamente impegnate
nel promuovere fini che restano raggiungibili solo col non riconoscerne la
vera natura. Confrontata con le precedenti mistiche romantiche, del filone
egotistico e solipsistico, la volontà di potenza riflette senza dubbio un
peggioramento del male. È l’ideologia del mondo in cui viviamo, non meno
competitivo nel campo intellettuale che negli affari o in politica.
La mistica della volontà di potenza è in realtà una religione del successo
davvero sorprendente ed “eroica”, se consideriamo che viene da un uomo
così povero di successi, ed è quest’ultima circostanza a renderla così letale.
Essa trasforma le sconfitte sociali di Nietzsche in una maledizione
metafisica senza appello, in una sorta di giudizio universale terreno da cui
non c’è scampo. Nietzsche in tal modo diventa il più implacabile giudice di
se stesso.
Ho detto sopra che il capovolgimento di tutte le relazioni a senso unico
presenti nella vita di questo pensatore non trova solitamente espressione.
Nietzsche di norma esibisce l’aspetto maniaco della sua evidente sindrome
maniaco-depressiva. Vi sono tuttavia impressionanti eccezioni, come quella
del seguente testo, tratto da Aurora e scritto non a nome di Nietzsche, ma
di un anonimo “uomo folle”.
Questo brano non dice o compie nulla che non abbiamo già visto; vi può
essere letto lo stesso terrificante processo, ma in forma più diretta stavolta,
poiché l’argomento è la strada che conduce alla follia.
«Ahimè, datemi dunque la follia, voi celesti! Follia, perché possa finalmente credere in me stesso!
Datemi deliri e spasimi, luci e tenebre improvvise, terrorizzatemi con gelo ed arsura, quali nessun
mortale ha ancora mai provato, con frastuoni e girovaganti fantasmi, lasciatemi urlare e guaire e
strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho
assassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere tormenta un uomo vivo; se io non sono
più che la legge, sono il più reietto di tutti gli uomini. Lo spirito nuovo che è in me, donde viene se
non viene da voi? Dimostratemi che sono vostro; la follia soltanto me lo dimostra».9
La vera ragione dell’oscillazione maniaco-depressiva è menzionata, ed è la
mancanza di fede in se stessi. Ma la verità non è completa, poiché per
questa mancanza di fede viene suggerita una causa che non è quella reale.
Perché quest’uomo folle si sente come il più reietto fra gli uomini? Perché
ha ucciso la legge, ci viene detto. L’affermazione è importante e ci dovrò
ritornare. Per il momento va comunque notato che si tratta di una
spiegazione del tutto insufficiente. Come può una legge morta causare, nel
suo eroico uccisore, tale mancanza di sicurezza in se stesso? Nessuna legge
morta, né alcun altro oggetto sostitutivo, è in grado di farlo. Il dubbio su di
sé l’uomo folle deve derivarlo da un confronto non con qualcosa, ma con
qualcuno, un qualcuno che non è nominato.
Ogni elemento razionalmente ricostruibile ci dice che l’oscillazione
maniaco-depressiva deve verificarsi tra il mediatore e il soggetto.
Nascondere questa verità, e dire nello stesso tempo così tanto come fa
Nietzsche nel brano citato, è uno stupefacente tour de force. La rivelazione
è quasi completa, eppure l’assenza dell’unico personaggio che conti la
rende totalmente ingannevole.
Il mediatore è il vero centro nascosto intorno a cui tutto gira, in misura
proporzionale al desiderio dell’uomo folle che tutto ruoti intorno alla propria
persona. Ne risulta che il testo dev’essere generato dal desiderio stesso.
L’assenza del mediatore è l’indizio più sicuro del protrarsi della sua
onnipotenza, il segno infallibile che il fuoco della mediazione continuerà a
bruciare sempre più intenso. Se capiamo questo, capiamo anche che cosa
l’uomo folle intende per certezza, e perché egli si affidi alla follia pur di
procurarsela. La follia è in primo luogo il dubbio, giacché corrisponde
all’alternanza maniaco-depressiva, e tuttavia solo una follia ancora più
estrema potrebbe rappresentare la soluzione del dubbio.
Esteriormente, quindi, il testo conferma ancora la vecchia nozione
romantica della follia come segno di elezione, come prova di un legame di
parentela con il “mondo divino”. In assenza del mediatore, ogni cosa deve
apparire “letteraria” nel senso più esasperato della parola. L’uomo folle è
circondato da frastuoni e fantasmi. Egli effettua vertiginose acrobazie per
motivi che rimangono vaghi e misteriosi. Siamo ancora di fronte al
paesaggio interiore caro ai romantici.
Dietro questi fronzoli lirici, però, un’altra spiegazione rimane in agguato,
una spiegazione che non può mancare di emergere una volta che ci
rendiamo conto che i propositi dell’uomo folle corrispondono in maniera
precisa all’evoluzione della malattia di Nietzsche. Una crescente pazzia può
implicare, e di fatto implica, un’intensità crescente di oscillazioni e di alti e
bassi maniaco-depressivi talmente improvvisi, talmente estremi e violenti
che alla fine l’intero meccanismo oscillatorio inevitabilmente collassa. Solo
in quel momento l’oscillazione di Dioniso fra il soggetto e il suo mediatore
sarà interrotta per sempre, e solo allora la mancanza di fede del soggetto in
se stesso sarà eliminata. Esclusivamente in tal senso - io credo -un grado di
maggiore pazzia viene a rappresentare la cessazione di quel dubbio che
coincide con una pazzia di grado inferiore. È impressionante che l’unica
certezza e stabilità che l’uomo folle riesca a prefigurare per sé sia la
distruzione della sua stessa mente, il trionfo della pazzia camuffato come
suo personale trionfo.
L’abbraccio della pazzia come “divina” e il rifiuto, o incapacità, di dire il
nome del mediatore sono un’unica cosa. Non è dunque invano che l’uomo
folle implora la liberazione della follia, e possiamo essere certi che le sue
preghiere saranno ascoltate, visto che è lui stesso che se ne sta attivamente
occupando. Come ho osservato prima, la terribile ironia del desiderio
mimetico è che esso ottiene sempre infallibilmente ciò che chiede.
Questa richiesta di diventare folle si può tranquillamente retrodatare fino
alla Nascita della tragedia. Abbracciare Dioniso nella sua vera realtà come
fa Nietzsche significa corteggiare la mania divina, ossia la pazzia omicida
ispirata da Dioniso, e il dio risponde al suo fedele accordandogli l’alternanza
maniaco-depressiva. Il Dioniso non ritualizzato di Nietzsche è il dio della
furiosa vendetta, dal quale ogni uomo sano di mente si terrebbe alla larga.
L’alternanza maniaco-depressiva è legata a una forma molto moderna e
nascosta di vendetta, come Nietzsche stesso efficacemente comprende e
dimostra allorché egli parla di altre persone.
Se un Greco timorato degli dèi avesse letto La nascita della tragedia
avrebbe profetizzato una terribile fine per il suo autore. Ma perché un
antico Greco dovrebbe saperne di più delle nostre menti più brillanti? Gli
antichi Greci non erano nietzschiani, e potevano appena intravedere una
verità dalla quale un intero mondo, il nostro mondo nietzschiano, distoglie
lo sguardo. La maggior parte di noi si allontana da questa verità in una
maniera così prudente e abile che le conseguenze, almeno esteriormente,
sono a malapena visibili. Tutt’altro è il discorso per Nietzsche. In lui
soltanto questa verità espulsa si difende furiosamente e realizza se stessa,
nel modo più grandioso e terribile.
La grandezza di questo pensatore non sta affatto nell’avere ragione, ma
nell’aver pagato così a caro prezzo il suo avere torto. Egli non ha mai
mollato rispetto ai suoi errori, ed è questa la cosa più tremendamente vicina
all’avere ragione.
Si potrebbe obiettare che i miei commenti non sono fedeli allo spirito del
testo di Nietzsche. La pazzia vi appare infatti come qualcosa di positivo,
come una specie di conquista. Questo è vero per quel che concerne il brano
citato, ma si possono reperire altri testi in cui gli stessi fenomeni sono
descritti e presentati come qualcosa di orribile, come una malattia. La sola
differenza è che il risentimento viene attribuito al cristianesimo. Ecco un
esempio tratto da un frammento dell’ultimo periodo, inserito a suo tempo
nella Volontà di potenza:
Che cosa combattiamo nel cristianesimo? Il fatto che esso voglia infrangere i forti, che voglia
scoraggiare il loro coraggio, sfruttare le loro cattive ore e le loro stanchezze, trasformare la loro
orgogliosa sicurezza in inquietudine e travaglio di coscienza, che esso riesca ad avvelenare e a
rendere malati gli istinti aristocratici, finché la loro forza, la loro volontà di potenza si rivolga all'
indietro, si rivolga contro se stessa - finché i forti periscano per gli eccessi del disprezzo di sé: quella
forma raccapricciante di rovina il cui esempio più famoso è costituito da Pascal.10
È poco corretto, è crudele osservare che non è stato Pascal a impazzire, ma
Nietzsche?

Per mettere meglio a fuoco gli argomenti di cui sto parlando voglio tornare
adesso a Dostoevskij. L’autore russo è il miglior alleato su questi temi. Nella
seconda fase della sua carriera egli è riuscito a ritrarre, in modo più
accurato e completo di chiunque altro incluso Freud, il tipo di vita psichica
di cui la sua prima fase di scrittore, in misura non inferiore a Nietzsche, è il
riflesso passivo e imperfetto.
Dostoevskij non dev’essere visto come un mero autore di narrativa, né come
una semplice vittima del desiderio mediato - cosa che egli è certamente
stato, e anche a lungo -, bensì come il più grande rivelatore moderno di tale
desiderio. Questo vale logicamente per le sue opere più riuscite, anche se
l’origine della loro forza non è in genere riconosciuta.
In collegamento col desiderio mediato alcune opere brevi, come i Ricordi
dal sottosuolo, giudicati un capolavoro dallo stesso Nietzsche, sono più
immediatamente pertinenti, anche se l’elemento grottesco, usato per dare
un rilievo più deciso ai contorni del processo, potrebbe giustificare la
riluttanza di qualcuno ad ammettere la validità del raffronto.
L’“eroe” del sottosuolo è un piccolo burocrate di Pietroburgo, le cui
ambizioni egotistiche stanno a metà strada fra il romanticismo stile 1830 e
una versione ancora grezza ma già inconfondibile della volontà di potenza
nietzschiana. Durante le sue ore di solitudine egli sogna che le sue
aspirazioni più inverosimili si realizzino e, grazie alla sua fervida fantasia, si
porta a uno stato di incredibile esaltazione.
Allorché raggiunge un certo livello di entusiasmo l’uomo del sottosuolo
crede che gli basti mettere il piede fuori di casa per “conquistare il mondo”,
con l’unico risultato di incontrare le delusioni più cocenti, o peggio. Ogni
minimo incidente spiacevole, che il suo fisico gracile e l’insignificanza
complessiva della sua persona possono con facilità provocare, assume
proporzioni irreali. Anche solo l’indifferenza è sentita come un insulto, e
persino degli sconosciuti che lo trattano in modo villano diventano figure
affascinanti intorno alle quali il «topo dalla coscienza ipertrofica» 11, come il
protagonista si definisce, non cesserà di gravitare.
Il punto cruciale non è la superiorità della solitudine rispetto alla vita
“gregaria”, come i commentatori romantici ed esistenzialisti ci ripetono fino
alla nausea, bensì l’alternanza pendolare fra l’onnipotenza delirante dell’io
nella sua solitudine e la reale onnipotenza degli altri nella società. L' altro è
letteralmente chiunque incroci il cammino del nostro eroe o stia sulla sua
strada, o anche soltanto chiunque lo guardi con un’ironia reale o
immaginaria. Un ciclo di meschine rivincite viene messo subito in moto. L'
altro è il modello-ostacolo per eccellenza.
I Ricordi dal sottosuolo si muovono allo stesso livello di consapevolezza
dell’Eterno marito, prima citato in rapporto ai triangoli erotici di
Dostoevskij e di Nietzsche. Le due opere narrative testimoniano uno stesso
cambiamento prodigioso intervenuto nel loro autore. Dopo essere stato a
lungo la semplice marionetta di un processo di cui i suoi primi scritti sono
parte integrante - dato che le loro deformazioni, la generale sensiblerie che
trasudano e soprattutto il rifiuto di riconoscere il vero ruolo del mediatore
non sono altro che lo strumento e il riflesso del desiderio mediato -, dopo
questa prima fase ancora romantica, Dostoevskij padroneggia finalmente il
desiderio mimetico. Le sue opere mature si alimentano della comprensione
retrospettiva di un comportamento compulsivo dal quale tutto suggerisce
che lo scrittore si stia distaccando, per quanto lentamente.
Le intuizioni di Dostoevskij non sono più ineffabili o capricciose di quelle di
Cervantes o di Shakespeare, e ritengo che rientrino in pieno nel processo di
mediazione. Dimostrare questo è essenziale - io credo - per contrastare il
danno prodotto dall’assurdo postulato di una totale separazione fra
conoscenza psicologica (e antropologica) e letteratura. Freud ha avuto una
parte di primo piano nel diffondere un mito che è responsabile della sterilità
di molta della critica contemporanea. È quindi importante rendere
immediatamente leggibili i sistemi dei rapporti umani che risultano dagli
scrittori veramente grandi, prendendo sul serio le loro intuizioni come
adesso avviene con i concetti di Freud e di altri teorici. Solo facendo questo
il reale processo mimetico cesserà di essere reso invisibile dalla superficie
imbiancata di pseudodiagnosi psicanalitiche pronunciate in modo
automatico e trionfalistico.
L’elaborazione di modelli teorici e di un sistema concettuale che rendano
una buona volta giustizia alla percezione rigorosa di un Dostoevskij non è
meno necessaria alla psichiatria che agli studi letterari. Si tratta, a mio
parere, dell’unica direzione che possa rivitalizzare queste discipline e
trasformarle nelle naturali alleate che dovrebbero essere. Solamente una
pseudoscienza può prendersi il lusso di andare contro le più grandi opere
del nostro patrimonio letterario. Una vera scienza giustifica la loro visione e
conferma le ragioni della loro superiorità.
Quest’ultima osservazione potrebbe essere interpretata da alcuni come il
chiaro indice che il tipo di analisi qui sostenuto sia tradizionale e
“conservatore”. Ma la verità è che il principio di mediazione risulta meno
accettabile sia della psicanalisi sia del marxismo, per il semplice fatto che è
più radicale. L’approccio mimetico, per esempio, va al cuore delle
motivazioni individuali presenti all’interno dei fenomeni culturali,
motivazioni al contrario accuratamente evitate o camuffate dai suddetti
indirizzi teorici.
Tutto ciò è perfettamente riscontrabile in Nietzsche. È illusorio definire
temi come Dioniso o la volontà di potenza basandosi solo su come ci
appaiono nella metafisica quintessenza e nella delirante astrazione della
loro versione finale. La configurazione finale è il risultato di un processo che
va considerato nel suo insieme, e che ha esordi molto diversi.
Nella fase iniziale l’imitazione e la rivalità sono già presenti, ma hanno
ancora un oggetto riconoscibile, un oggetto che si presenta come
accettabile a noi intellettuali medi, nel senso che esso ci appare come
qualcosa per cui vale la pena di combattere. Potremmo definire tale oggetto
come l’onnipotenza intellettuale e artistica: è la supremazia o egemonia nel
mondo della cultura per la quale sia Nietzsche sia Wagner lottavano. Quasi
tutti gli intellettuali diranno, naturalmente, che essi stanno lottando
soltanto per raggiungere l’eccellenza. Almeno per quel che li riguarda, la
competitività è qualcosa di cui sono fanatici gli altri, non loro. Chiunque di
loro, ciò nondimeno, conosce bene l’enorme amarezza che può essere
causata anche dall’opposizione in apparenza più trascurabile. L’ambiente
intellettuale è di quelli in cui il giudizio nascosto dei propri pari, in assenza
di criteri oggettivi pubblicamente riconosciuti, gioca per forza di cose un
ruolo decisivo. Una simile situazione non può che alimentare una grande
quantità di illusioni. In un mondo del genere è incorporato un potenziale
temibile di distorsioni cosiddette “paranoidi”.
Il mondo intellettuale moderno comincia ad avere queste caratteristiche
prima della rivoluzione francese, verso la metà del XVIII secolo, al tempo in
cui gli intellettuali, grazie al prestigio del quale godono, iniziano a dare più
importanza al giudizio dei loro colleghi che alle opinioni dei loro mecenati
aristocratici. Con l’avvento di questo mondo, un certo tipo di disturbo
mentale acquista grande rilievo sul palcoscenico della vita culturale. Le
opere più influenti ne sono affette. I primi grandi esempi che mi vengono in
mente sono Rousseau nell’area linguistica francese e Hölderlin in Germania.
Nietzsche ne è un altro esempio, appartenente a una fase storica
successiva.
Né il sociologo né l’interprete psicanalitico della letteratura vanno davvero
al cuore della questione. Il primo si preoccupa costantemente del problema
del rapporto fra borghesi e aristocratici. Tale aspetto è senza dubbio
rilevante, dal momento che la trasformazione di cui sto parlando è la
conseguenza di una vasta evoluzione sociale, ma la sua rilevanza è più
indiretta che diretta. Sebbene le pressioni provenienti dal mondo esterno
siano indiscutibilmente reali, esse vengono filtrate e spesso distorte dal
microambiente del mondo intellettuale, che dovrebbe quindi costituire il
primo oggetto di studio, non come mero insieme di dati statistici, ma come
una rete di relazioni complesse e instabili governate, almeno in parte, dal
desiderio mediato. E in tale microambiente le relazioni più importanti non
sono quelle fra membri delle classi superiori e inferiori, bensì quelle fra
individui di pari grado, per quanto esse siano raramente percepite come
relazioni di “uguaglianza”.
La violenza più o meno nascosta di questi rapporti non può essere priva di
conseguenze sul piano della creatività intellettuale. Eppure questa influenza
non è mai formalmente riconosciuta e studiata. L’idea di sublimazione, sulla
quale tanta psicanalisi ancora basa la sua teoria della creatività culturale, è
un chiaro esempio del modo mistificante in cui gli intellettuali concepiscono
il loro stesso ambiente.
Nell’attuale situazione storica, lo sgretolarsi delle ultime gerarchie
tradizionali rende la presenza del rivale metafisico sempre più incombente,
e una teoria come la psicanalisi può apparire indispensabile quale ultima
difesa contro la rivelazione del processo mimetico. La psicanalisi ci mette in
grado di riconoscere l’evidenza, ma in maniera da svuotarla del suo
contenuto e da deviare la nostra attenzione sugli ingannevoli scandali del
desiderio “parricida” e “incestuoso”.
Ciò che la psicanalisi dice intorno a un autore come Nietzsche è sempre ciò
che il desiderio vuole sentirsi dire. Essa afferma che Wagner, il Wagner in
carne e ossa, non era dopo tutto così importante per Nietzsche, e non è
proprio questo ciò che il desiderio desiderava ascoltare? Quello che importa
sarebbe il “desiderio in sé”. Il mediatore, veniamo informati, non è in realtà
la vera figura che ci ossessiona. Il triangolo è solo una ripetizione. L’unico
dramma che conti è quanto mai vecchio, e si limita a due cerehie ristrette,
di cui il soggetto è ogni volta il centro. Una è la cerchia del nucleo
famigliare più intimo, i cui principali attori sono ormai morti o ridotti a uno
stato senile. L’altra è la cerchia ancor più ristretta di un ego concepito come
“narcisistico”.
Da un punto di vista oggettivo la psicanalisi e la sociologia della letteratura
funzionano come schermo tra noi e la verità che siamo più riluttanti ad
affrontare. Il fatto è invece che la pazzia di Nietzsche e di molti altri è
radicata in un’esperienza con la quale nessuno di noi può sostenere di non
avere famigliarità.
Il fragore dei tabù che tutto intorno a noi vengono infranti uno dopo l’altro è
ritenuto assordante, ma non dobbiamo farci ingannare. Lo spettacolo resta
scadente. È andato avanti per troppo tempo con minimi cambiamenti nella
trama e nel cast degli attori. I veri tabù sono altrove, e sono fatti rispettare
con la massima rigidità. I nostri demistificatori più fieri regrediscono subito
alle convenzioni più antiquate non appena sono toccati i problemi
veramente scottanti. Con quanta trepida venerazione ratificano il mito del
“buon” Nietzsche contro il “cattivo” Wagner!
Se Freud è un’ultima barriera difensiva contro la mediazione, è anche vero
però che egli va più vicino alla verità di chiunque altro nel suo campo -
tanto vicino quanto è possibile riuscendo a tenere la verità fuori del quadro.
Questo stato di transizione della dottrina freudiana, il suo ruolo di teoria
precorritrice e insieme di ultima barriera contro una piena comprensione
del processo mimetico può essere meglio afferrato - io credo - se situiamo
l’interpretazione freudiana della “legge” nel contesto del brano di Aurora
che ho citato sopra. Ricordiamoci che in questo brano la legge è
“assassinata” dall’uomo folle e che il suo “cadavere” è ritenuto responsabile
di ogni cosa. L’accusa è falsa, naturalmente, ma non priva di un qualche
fondamento. La legge è effettivamente responsabile, nel senso che non c’è
più a controllare quello che si sta scatenando in sua assenza, ossia il
processo mimetico.
La legge differenzia e separa i possibili doppi, e incanala il desiderio
mimetico verso scopi che sono davvero trascendentali in quanto esterni alla
comunità. Tali scopi sono comuni a tutti e non costituiscono una fonte di
discordia. Finché è in vita, la legge impedisce alle “differenze” e alle
“identità” di dissolversi ritornando alla confusione bellicosa dei doppi.
Secondo i Greci, sono gli uccisori della legge i responsabili di una
confusione così devastante. Costoro hanno scambiato per “dio” qualcosa
che sembrava loro a portata di mano, appena un passo al di là di quella
legge che essi non hanno esitato a violare. È questo “dio” che adesso appare
oscillare fra i doppi, e che continua a eludere la loro presa ogni volta che
ciascuno di loro raggiunge la gola dell’altro.
Questo Nietzsche non vuole dirlo e, pur di non dirlo, suggerisce che sia la
legge, anche se morta, la causa del disastro. Tale trasformazione della legge
morta in capro espiatorio non è stata la soluzione soltanto per Nietzsche. In
una forma o nell’altra, questa è la soluzione perseguita da un’intera epoca
che ora sta giungendo al termine. È la soluzione che ci è stata data per
buona da Freud. Il complesso di Edipo è supposto essere il mezzo attraverso
il quale la legge viene trasmessa al bambino. Questa legge è già morta. È
già trasgredita, almeno nello spirito, prima ancora di nascere, poiché il
desiderio parricida viene per primo. A causa di questa legge Freud è
rimasto col suo padre onnipresente e illusorio, senza mai scoprire il rivale
mimetico e il suo formidabile potenziale di principio veramente efficace di
teorizzazione psichiatrica. Egli non si è mai reso conto che con quest’unico
principio avrebbe potuto disfarsi delle sue due varietà di Edipo, del suo
inconscio, del suo narcisismo, e raggiungere un’organizzazione più
efficiente, intelligibile e coerente di un maggior numero di dati.
A Freud non sarebbe forse sfuggito il meccanismo della rivalità mimetica, se
egli non fosse stato così intento a incriminare la legge per problemi che non
hanno nulla a che fare con essa. Le ragioni sono le medesime di Nietzsche.
Le accuse rivolte alla legge sono frutto del desiderio stesso, che rifiuta di
affrontare la verità che lo definisce, e sono un’ultima protezione contro la
piena rivelazione di questa verità, una rivelazione che segna la fine di
qualunque pace e salute se non viene a segnare anche la fine del desiderio
recalcitrante.
Attualmente Marx, Nietzsche, Freud, tutti i giganti del pensiero che hanno
ucciso la legge, e che in un primo momento erano visti come antagonisti fra
loro, vengono messi assieme nello sforzo di puntellare il sistema
intellettuale fondato sulla morte della legge. L’unità di un’epoca sta
diventando visibile nelle convulsioni della sua agonia. Il cadavere della
legge è l’ultimo oggetto sacrificale, l’ultima differenza che ancora differisce
di poco lo scontro simmetrico dei doppi. Più infieriamo sulla legge morta,
comunque, e più rapidamente comprenderemo come questa attività sia
priva di costrutto. Non è la legge morta in realtà che i doppi vogliono
colpire: è il loro rivale.
La storia stessa sta provvedendo a separare gli elementi miticamente
congiunti da Nietzsche, Freud e altri. In tale situazione Dostoevskij verrà
meglio compreso, prima o poi, perché è il solo fra questi che veramente
capisca. Egli capisce che la legge non è responsabile della crisi mimetica, e
capisce anche che quella del mondo moderno è una crisi mimetica diversa
da tutte le altre. Nei suoi momenti peggiori lo scrittore russo guarda con
nostalgia al sostegno che la legge procurava agli uomini finché era in vita.
Nei suoi momenti migliori egli si rende conto che non è possibile tornare
indietro.
Non è possibile tornare indietro perché nemmeno coloro che ingenuamente
si vantano di aver ucciso la legge ne sono responsabili. Il problema è più
misterioso e complesso. Il vero uccisore della legge è la legge stessa, o ciò
che passa per tale nel nostro universo, una legge che in ultima analisi è
contro ogni altra legge diversa da sé: l’uccisore è quello stesso
cristianesimo che è stato ucciso.
I due testi di Nietzsche citati sopra, quello di Aurora e l’altro utilizzato nella
Volontà di potenza, rivelano un ulteriore motivo di interesse in
collegamento con la convinzione maturata da Dostoevskij. Essi descrivono
in sostanza lo stesso fenomeno, ma lo presentano sotto una luce molto
diversa, attribuendolo a cause differenti. Nel brano di Aurora l’uomo folle lo
è in modo glorioso perché ha ucciso la legge; l’altro, Pascal, è folle in
maniera penosa perché non l’ha uccisa. È strano che, viva o morta, la legge
produca i medesimi effetti sia nel superuomo sia in chi è sottomesso alla
legge come uno schiavo. A quale delle due alternative dobbiamo credere?
Nietzsche non è mai riuscito a riconciliarle, ma esse possono trovare
un’unica spiegazione, se seguiamo l’idea di Dostoevskij che sia la strana
legge da cui siamo in segreto condizionati ad aver ucciso la legge a cui
prima dovevamo obbedire.
Non è certo un dettaglio indifferente che la megalomania di Nietzsche si sia
voluta presentare sotto il titolo di Ecce homo e che egli sia arrivato a
firmarsi sia «Dioniso» sia «Il Crocifisso». Ogni istante in cui Nietzsche si
sentiva per un po’ come dio veniva pagato da lui a caro prezzo, e lo
trasformava nel Crocifisso. Il preteso dio è, in effetti, una vittima. Qui,
finalmente, e soltanto qui il processo autodistruttivo all’opera ovunque in
Nietzsche si fa manifesto. La confusione tra dio e vittima è il culmine
dell’oscillazione maniaco-depressiva. Nel passaggio da Dioniso contro il
Crocifisso a Dioniso il Crocifisso, nel crollo della differenza suprema,
assistiamo al crollo della mente di Nietzsche.
Per lo studioso del filosofo questa confusione in cui egli è caduto non può
essere che pazzia, puro non senso in altre parole, che può suscitare pietà o
venir esaltato, ma rimane pur sempre non senso. Tuttavia, il dio è in ogni
caso una vittima, nella teologia pagana non meno che nel cristianesimo.
Perché allora Nietzsche raggiunge questa identità fra i due ruoli allorché il
cerchio della follia si richiude su di lui? Un’identità che distrugge così tante
false differenze non può che essere qualcosa di più che non senso, anzi
molto di più. Adesso che l’èra della “volontà di potenza” di Nietzsche sta
giungendo al termine, quest’identità del dio e della vittima punta a
possibilità che stanno ancora al di fuori della nostra portata. Possibilità
inaudite, veramente vertiginose.

1
Superman in the Underground: Strategies of Madness/ Nietzsche, Wagner, and Dostoevsky,
“Modern Language notes”, 92 (1977), pp. 816-835; poi inserito in R. Girard, «TO Double Business
Bound»: Essays on Literature, Mimesis, and Anthropology, The Johns Hopkins University Press,
Baltimore 1978, pp. 61-83.
2
R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura
e nella vita, tr. it. di L. Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 1981 (I ed. 1965); Id., Delle cose nascoste sin
dalla fondazione del mondo. Ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, tr. it. di R. Damiani,
Adelphi, Milano 1983.
3
Sul doppio vincolo (double bind) vedi anche la seconda parte del volume, pp. 165-166.
4
W. Kaufmann, Nietzsche: Philosopher, Psychologist, Antichrist, Meridian Books, Cleveland 1962, p.
159.
5
Μ. Scheler, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen, in Id., Von Umsturz der Werte.
Abhandlungen und Aufsätze, Verlag, Bern-München 1972, pp. 33 ss. (Il risentimento nella
edificazione della morale, a c. di A. Pupi, Vita e Pensiero, Milano 1975). 6 F. Nietzsche, Aurora.
Pensieri sui pregiudizi morali, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1984, libro V, af. 571, p. 268.
7
W. Kaufmann, Nietzsche, cit., p. 166.
8
F. NIETZSCHE, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, a c. di R. Calasso, Adelphi, Milano 1983, p.
30.
9
F. Nietzsche, Aurora, cit., libro I, af. 14, p. 18.
10
F. NIETZSCHE, Opere, a c. di G. Colli e Μ. Montinari, vol. Vili, tomo II, Frammenti postumi 1887-
1888, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1990, 11 [55], p. 240 (corsivo mio). Cfr. F. NIETZSCHE,
La volontà di potenza, a c. di Μ. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1995, § 252, p. 146.
11
Ricordi dal sottosuolo, in F. Dostoevskij, Il romanzo del sottosuolo, a c. di G. Pacini, Feltrinelli,
Milano 1974, p. 210.
La contraddizione di Nietzsche1
Le varie interpretazioni di Nietzsche, a partire da quelle filosofiche, hanno
tutte una cosa in comune: il loro antiwagnerismo, validamente sorretto, in
apparenza, dall’accentuato antiwagnerismo dell’ultimo Nietzsche, Wagner è
l’indispensabile capro espiatorio di tutti i nietzschiani liberali, così come
Nietzsche è l’indispensabile capro espiatorio di tutti i wagneriani. Solo i
nazisti, curiosamente, sono riusciti a essere filonietzschiani e filo-
wagneriani nello stesso tempo.
Nell’opera intitolata Nietzsche contra Wagner il filosofo ha ripubblicato, con
pochi cambiamenti, molti testi su Wagner scritti dopo la rottura col grande
compositore. Uno di questi, inizialmente pubblicato nella Gaia scienza
(l’aforisma 370 che reca il titolo Che cos’è il romanticismo?), riappare in
Nietzsche contra Wagner in una forma abbreviata rivolta più esplicitamente
contro il musicista. Nietzsche dapprima afferma che, nei suoi anni giovanili,
egli si era avvicinato al mondo moderno pieno di speranze e di illusioni:
...interpretai [...] la musica wagneriana come l’espressione di una possanza dionisiaca dell’anima... Si
può vedere il mio errore di discernimento, come pure si può vedere che cosa offrissi in dono a
Wagner e Schopenhauer - vale a dire me stesso...
Subito dopo egli continua rilevando la sostanziale opposizione tra la sfera
dionisiaca e il cristianesimo, che non viene esplicitamente menzionato, ma
al quale si fa chiara allusione:
Ogni arte, ogni filosofia può essere considerata come rimedio e come soccorso alla vita in fase di
crescita oppure di declino: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma esistono due
specie di sofferenti: la prima è quella di coloro che soffrono di una sovrabbondanza di vita, che
vogliono un’arte dionisiaca come pure una intelligenza e una prospettiva tragica della vita - l’altra
specie di sofferenti è quella di coloro che soffrono di un impoverimento della vita, che desiderano
dall’arte e dalla filosofia la quiete, il silenzio, un placido mare oppure l’ebrietà, lo spasimo, lo
stordimento. La vendetta sulla vita stessa - è questa la più voluttuosa specie d’ebrietà per tali esseri
immiseriti!... Alla doppia esigenza di questi ultimi corrispondono sia Wagner che Schopenhauer - essi
negano la vita; la calunniano e con ciò essi sono i miei antipodi. Il più ricco di pienezza vitale, - il dio e
l’uomo dionisiaci, - non soltanto può concedersi lo spettacolo del terribile e del problematico, ma può
permettersi la stessa azione terribile, nonché il lusso di ogni distruzione, di ogni dissoluzione e
annientamento - in lui il male, l’assurdo e il brutto sembrano, per così dire, leciti, come sembrano
leciti nella natura, in seguito a un eccesso di forze procreatrici, riedificatrici -, ed è la natura che di
ogni deserto sa ancora fare una pingue terra fruttifera. Inversamente il sofferente, il più povero di
vita, avrebbe più di chiunque altro bisogno di mitezza, dolcezza e benevolenza - di quella che oggi
viene chiamata umanità - sia nel pensare che nell’agire, e possibilmente di un dio che sia nel vero e
proprio senso della parola un dio dei malati, un salvatore...2
Nietzsche ci sta dicendo che il suo appassionato trasporto per Wagner si
basava su un legittimo fraintendimento. Egli ha scambiato un tipo di
sofferenza per l’altro perché i due tipi di sofferenti, Wagner e lui stesso, pur
essendo agli antipodi, sono anche estremamente vicini, fino al punto di
essere indistinguibili. Si può quindi capire come un giovane ancora
abbastanza ingenuo abbia potuto scambiare un tipo con l’altro. Non siamo
autorizzati a concluderne che ci fosse una qualunque inclinazione, da parte
sua, verso il cristianesimo che già pervadeva l’arte di Wagner in maniera
strisciante. La confusione era ammissibile, e sarebbe erronea l’illazione che
Nietzsche abbia mai simpatizzato per gli aspetti cristiani di Wagner.
Nel testo che ho appena citato Nietzsche riconosce, pertanto, la presenza di
elementi cristiani già nel Wagner di quegli anni, ma finge che essi fossero
sostanzialmente nascosti, atteggiamento a dir poco insincero.
È vero che molti elementi cristiani di Wagner rimangono in qualche misura
velati. Un buon esempio è fornito, nella Walkiria, da Brunilde, che invece di
unirsi agli assassini collettivi di Siegmund, come dovrebbe e come ha
sempre fatto, cerca di salvarlo. Non diversamente da Antigone, essa
minaccia il potere di Wotan in quanto distrugge l’unanimità del cerchio
persecutorio, fino a diventare lei stessa una vittima. Questo episodio è
essenzialmente cristiano, come l’intervento di Elizabeth per salvare
Tannhäuser quando i cavalieri formano attorno a lui un cerchio violento.
Ma nel Wagner di quel periodo ci sono anche molti elementi cristiani che
sono del tutto espliciti. Non occorre una soverchia attenzione per notarli nel
Tannhäuser o nel Lohengrin. Elementi cristiani sono presenti ovunque e sin
dall’inizio nelle opere del musicista tedesco. Nietzsche ne è ben
consapevole, ma si rifiuta di ammetterlo, perché fare questo avrebbe voluto
dire sottolineare l’importanza del suo passato coinvolgimento con un
Wagner già affascinato dai temi cristiani. Nietzsche non è molto attendibile
in questa versione dei suoi rapporti col compositore; tuttavia esiste un’altra
versione che è anche meno attendibile.
In questa seconda versione il filosofo va ancora oltre nel distoreere il
significato delle prime opere wagneriane. Non gli basta fingere che tutti gli
elementi cristiani di Wagner fossero solo impliciti prima del Parsifal, egli
adesso vuole negare del tutto la loro presenza, ponendo direttamente
Wagner sul versante della tragedia antica intesa in senso nietzschiano, ossia
sul versante che egli fa suo, quello cosiddetto dionisiaco.
Perché Nietzsche ricorre a sotterfugi del genere? Evidentemente perché
non è soddisfatto dell’interpretazione del wagnerismo fornita nella Gaia
scienza. L’idea di aver confuso la sofferenza cristiana in qualunque sua
forma con la sofferenza tragica da lui abbracciata getta una cattiva luce
sulla sua perspicacia, e mette comunque in pericolo la radicalità
dell’opposizione fra i due tipi di sofferenza. Forse il pensatore tedesco
avverte l’ambiguità dell’argomento e, per evitarla, inventa il mito di un
primo Wagner dionisiaco al cento per cento.
Allo scopo di dare qualche credibilità alla sua tesi, Nietzsche deve
esagerare il contrasto fra il Parsifal e i lavori teatrali che lo precedono, deve
persuadere gli altri e se stesso che il Parsifal non è semplicemente più
cristiano delle opere precedenti ma è l’unica opera di Wagner con elementi
cristiani, l’opera cristiana per eccellenza. Nietzsche vuole assolversi da ogni
colpa nella sua relazione con Wagner, dimostrare che non ha mai fatto un
errore, giustificare, dal punto di vista che egli definisce come dionisiaco, sia
la sua prima ammirazione, sia la sua successiva ostilità verso Wagner.
Il Parsifal gioca un ruolo cruciale in questa dimostrazione. È la sola opera di
Wagner successiva alla rottura di Nietzsche con il suo idolo, e il filosofo ne
esagera le discrepanze rispetto alle opere antecedenti. Nietzsche afferma di
essere stato sconvolto dall’abietto cedimento al cristianesimo che il Parsifal
rappresenta. Secondo questa linea argomentativa il musicista avrebbe
compiuto un totale voltafaccia, e questo proprio mentre Nietzsche andava
rafforzando la sua antica e immutabile opposizione a qualunque cosa fosse
cristiana. Era perciò logico e naturale che un Nietzsche già dionisiaco fosse
attratto da un Wagner ancora devoto a Dioniso, e altrettanto logico e
naturale che il medesimo Nietzsche rompesse del tutto con un Wagner che
tradiva il comune ideale arrendendosi supinamente e disgustosamente al
cristianesimo. Abbandonando i suoi vecchi ideali, Wagner si sarebbe reso
colpevole di una sorta di apostasia.
La differenza tra queste due versioni della critica nietzschiana a Wagner è
che, secondo la prima, non c’è una dimensione genuinamente tragica,
pagana e dionisiaca nemmeno nel primo Wagner, mentre in base alla
seconda versione dovremmo credere che è esistito, dopo tutto, un Wagner
autenticamente tragico e dionisiaco, e che il compositore avrebbe mutato
completamente la propria indole nel Parsifal, considerato quale espressione
artistica della peggior forma di cristianesimo, quella cattolica romana.
Ecco qui un testo che esprime questa seconda linea argomentativa. Esso fu
dapprima pubblicato nella Genealogia della morale, ma viene riportato nel
Nietzsche contra Wagner con una chiusa più virulenta:
Vorremmo in altre parole augurarci che il Parsifal wagneriano potesse venir inteso in un senso
allegro, quasi come un’opera conclusiva e un dramma satiresco con cui il Wagner tragico ha voluto
precisamente congedarsi da noi, e anche da se stesso, e soprattutto dalla tragedia, in una maniera
onorevole e decorosa per lui, vale a dire con un eccesso d’eccelsa e maliziosissima parodia dello
stesso elemento tragico, di tutta la spaventosa terrestre serietà e terrestre desolazione di un tempo,
della più stupida forma, ormai finalmente superata, espressa dalla contronatura dell’ideale ascetico.
Il Parsifal è per l’appunto una materia da operetta par excellence... Forse che il Parsifal di Wagner è
il suo segreto riso di superiorità su se stesso, il trionfo della sua ultima suprema libertà di artista,
della sua trascendenza di artista - un Wagner che sa ridere di se medesimo?... Come si è detto,
vorremmo augurarcelo: giacché, cosa sarebbe mai un Parsifal inteso seriamente? Non saremmo
costretti a vedere in esso (secondo un’espressione usata contro di me) «il mostruoso prodotto di un
odio della conoscenza, dello spirito e della sensualità divenuto folle»? una bestemmia contro i sensi e
contro lo spirito proferita in un solo respiro d’odio? Un’apostasia e un ritorno agli ideali oscurantisti
di un cristianesimo morboso? E da ultimo addirittura una negazione di sé, una liquidazione di sé
compiuta da un artista che fino a quel punto era rivolto, con tutta la potenza della sua volontà,
all’opposto, alla suprema realizzazione spirituale e sensibile della sua arte? E non soltanto della sua
arte, ma anche della sua vita? Si ricordi con quale entusiasmo a suo tempo Wagner percorse le orme
del filosofo Feuerbach. La parola di Feuerbach sulla “sana sensualità” risuonò negli anni trenta e
quaranta per Wagner, come per molti Tedeschi [...] come la parola della redenzione. Ha forse finito
per apprendere diversamente al riguardo? Poiché sembra, se non altro, che abbia avuto in ultimo la
volontà di insegnare diversamente su questo punto!... Si è impadronito di lui, come è avvenuto per
Flaubert, l'odio contro la vita?... Il Parsifal è infatti un’opera di perfidia, di bramosia vendicativa, di
segreto avvelenamento dei presupposti della vita, un’opera scellerata. - La predicazione della castità
resta un istigamento alla negazione della natura: io disprezzo chiunque non senta nel Parsifal un
attentato alla eticità. - 3
L’Anticristo contro Parsifal. Dioniso contro il Crocifisso. Le due formule si
equivalgono. Come in un film di Hollywood, il finale rivela la vera identità
dei personaggi. Wagner sprofonda sempre di più, mentre Nietzsche si
innalza verso sempre nuovi traguardi sulla strada della liberazione dal
cristianesimo. Questa è la favola del Nietzsche contra Wagner, la versione
dei fatti che Nietzsche voleva far credere agli altri e a se stesso.
Il nocciolo duro dell’avversione a Wagner sarebbe così il Parsifal. Nietzsche
ripete sovente che è il Parsifal la principale ragione per la quale ha troncato
la sua amicizia con il compositore. L’ostilità istintiva di Nietzsche verso
quest’opera appare in effetti fondamentale giacché, sebbene il filosofo
esageri la sua singolarità, essa rimane la più religiosa fra tutte le opere di
Wagner, l’incarnazione più prossima di ciò che questo pensatore trova più
intollerabile in lui, appunto la sua simpatia, complessa e ambigua, per le
tematiche cristiane.
Tutti i testi che vengono sempre citati di Nietzsche sul Parsifal sono del
medesimo tenore di questo, estremamente sprezzanti, perfino ingiuriosi, e
la stessa cosa vale per la maggior parte dei frammenti postumi
sull’argomento. Essi ripetono con monotona litania i temi presenti nel brano
che ho appena citato, talvolta con un linguaggio ancor più insultante. Tutti
sono concordi nel condannare ciò che chiamano la resa disgustosa e senile
di Wagner al Dio cristiano.
Questa enfasi sul Parsifal è certamente in parte strategica -se tale lavoro è
davvero ciò che Nietzsche sostiene. Se questa fosse l’unica opera cristiana
di Wagner, allora il giovane Nietzsche potrebbe essere assolto da qualunque
complicità con l’ispirazione cristiana del musicista.
Tuttavia l’enfasi posta sul Parsifal non sembra solo strategica. Nietzsche è
realmente ossessionato da quest’opera. A volte i suoi argomenti suonano
razionali e spassionati ma, in altri casi, il suo disprezzo diventa così
eccessivo da suonare più come odio. Qualsiasi allusione al Parsifal risveglia
in lui le reazioni più forti. L’intensità della sua indignazione è così
convincente da venir presa per buona, fino a essere diventata un luogo
comune della letteratura critica su Nietzsche. Tutti gli ammiratori del
pensatore tedesco possono identificarsi col loro idolo e condividerne
l’esecrazione del Parsifal dal momento che su questo atto di espulsione vi è
un accordo unanime. Perfino i nazisti danno il loro consenso stavolta. Se c’è
un’opera di Wagner sulla quale essi hanno riserve, questa è, manco a dirlo,
il Parsifal, per ragioni che sono le stesse di Nietzsche e di tutti i
nietzschiani: è insopportabilmente cristiana.
L’idea che un consenso talmente vasto sia frutto di un’illusione, e che
questa illusione possa essere distrutta, deve suonare, nella migliore delle
ipotesi, inverosimile. Avanzando una simile affermazione, sarò
probabilmente sospettato a mia volta di venir meno alla mia obiettività di
studioso a causa dei miei pregiudizi religiosi.
La linea ufficiale seguita dal partito nietzschiano a proposito di Wagner e
soprattutto del Parsifal sembra non poter essere scossa da alcuna critica.
Malgrado ciò, io ho sempre avvertito che questa versione ci racconta, tutt’al
più, solo metà della vera storia. Nel precedente saggio ho interpretato il
rapporto fra Nietzsche e Wagner in termini di rivalità, e penso che la mia
interpretazione sia valida. Wagner è il dio che Nietzsche vorrebbe essere.
La storia della relazione fra queste due personalità corrisponde in maniera
perfetta ai vari stadi del processo mimetico. In un primo momento Wagner è
il modello esplicitamente riconosciuto, la divinità apertamente adorata che
Nietzsche desidererebbe essere. In una fase più avanzata, egli diventa un
ostacolo e un rivale, senza cessare per questo di essere un modello.
L’ultimo Wagner è giudicato detestabile, e Nietzsche prodiga le sue energie
nel dimostrare il suo assunto, in misura eccessiva per essere davvero
convincente. Perfino nei testi più antiwagneriani abbondano i segni indiretti
che l’ossessione di Nietzsche non è l’ostilità a senso unico in cui la nostra
avanguardia filosofica cesserebbe di credere se questo pensatore non fosse
il suo intoccabile idolo. La verità è che Wagner continua a restare il modello
che Nietzsche vorrebbe disperatamente ripudiare.
L’ostilità a Wagner, alla sua musica, alle sue idee e alla sua supposta
conversione cristiana è certo una passione estremamente sincera, ma una
passione divisa contro se stessa. Noi ascoltiamo soltanto la voce che in
Nietzsche parla contro Wagner. Ma vi è in lui un’altra voce che parla in
favore di Wagner, una voce che deve farsi sempre più forte verso la fine
della vita di Nietzsche, visto che la voce ufficiale sta diventando addirittura
esagitata nel vano sforzo di zittire quella favorevole al compositore.
Non vi è dubbio che la mia tesi sarebbe più convincente se a supportarla
avesse qualcosa di proveniente dalla penna di Nietzsche. Per contrastare
l’universale consenso al riguardo sarebbe necessario qualcosa di
assolutamente clamoroso, qualche testo che rovesci la solita linea
interpretativa sul Parsifal. Le probabilità di trovare un testo del genere
sembrano minime. Se esistesse, i nostri grandi studiosi l’avrebbero preso in
considerazione, e i vari teorizzatori nietzschiani sarebbero stati più prudenti
nell’affrontare i temi del Parsifal, di Wagner e di Dioniso contro il Crocifisso.
Allorché ho iniziato a scrivere su Nietzsche, non ho attivamente cercato
questa prova cruciale quanto avrei potuto. Non ero sicuro che un testo
simile fosse mai stato scritto. Al contrario di Dostoevskij, Nietzsche non è
mai riuscito a concedere davvero spazio all’altra voce dentro di sé. Questo è
probabilmente il motivo per cui il filosofo ha perso la ragione e non è mai
diventato un romanziere. Nietzsche è fondamentalmente quello che potrei
chiamare uno scrittore “romantico”, e la scrittura è per lui innanzi tutto uno
strumento di repressione. Egli stesso afferma che, per molto tempo, gli era
stato difficile distinguere dentro di sé ciò che apparteneva a Wagner da ciò
che apparteneva a Friedrich Nietzsche. Scrivere era per lui il mezzo per
raggiungere questa distinzione. La scrittura ha in lui molto a che fare con la
cosiddetta volontà di potenza e molto poco con la confessione dal sottosuolo
che Nietzsche ha apprezzato così tanto quando l’ha trovata in Dostoevskij,
senza però praticarla, purtroppo.
Prima dell’edizione Colli-Montinari, quando la nostra conoscenza dell’ultimo
Nietzsche si basava soprattutto sull’ora vituperata Volontà di potenza, in
altre parole sugli estratti manipolati e mutilati dalla sorella, io non potevo
trovare nulla, o quasi nulla, che negli scritti pubblicati del filosofo potesse
supportare il mio punto di vista, nulla che potesse modificare il quadro
convenzionale del giudizio negativo sul Parsifal, nulla che fosse in grado di
scuotere la fermezza dell’impegno polemico contro quest’opera.
Fino a un tempo recente, ero riuscito a trovare solamente qualche lode
limitata al preludio del Parsifal, non molto significativa dato che il preludio
vi viene considerato da un punto di vista puramente musicale. L’assenza di
una conferma testuale non scuoteva per nulla la mia convinzione che
Nietzsche adorasse il Parsifal almeno quanto lo odiava, e l’una e l’altra cosa
per la stessa ragione, per quel contenuto cristiano sul quale il filosofo ha
fatto piovere così tanti insulti. Se la mia convinzione non era indebolita, lo
era però la mia dimostrazione.
Sono quindi tanto più felice adesso di dichiarare che ho trovato la prova
mancante. Durante la preparazione del presente testo stavo cercando
qualcosa nel volume dell’edizione Colli-Montinari contenente i frammenti
inediti scritti da Nietzsche tra l’autunno del 1885 e l’estate del 1887. Sotto
il paragrafo 5 [41], ho trovato il seguente brano:
Preludio del Parsifal, il più grande beneficio che da lungo tempo mi sia stato reso. La potenza e la
durezza del sentimento è indescrivibile: non conosco nulla che prenda così in profondità il
cristianesimo e che spinga così acutamente verso la compassione. Elevato e commosso in modo totale
- nessun pittore ha dipinto uno sguardo così indescrivibilmente triste e tenero, come ciò è riuscito a
Wagner.
La grandezza nel cogliere una tremenda certezza, onde sgorga qualcosa come compassione: —
Il più grande capolavoro della sublimità che io conosca, la potenza e la durezza nel cogliere una
tremenda certezza, una espressione indescrivibile di grandezza nella compassione al riguardo;
nessun pittore ha dipinto un tale sguardo oscuro, triste, come ciò è riuscito a Wagner nell’ultima
parte del preludio. Neppure Dante, neppure Leonardo.
È come se, dopo molti anni, alla fine qualcuno mi parlasse dei problemi che mi preoccupano, non
naturalmente con le risposte che tengo pronte in proposito, ma con le risposte cristiane - alla fine
questa è stata la risposta di anime più forti di quelle prodotte dai nostri ultimi due secoli. Certo,
quando si ascolta questa musica, si mette da parte il protestante, come un equivoco... 4
Sono sicuro che il lettore sarà d’accordo sul fatto che questo rimarchevole
testo contiene tutto quello che andavo cercando. Esso contraddice tutto
quanto l’ultimo Nietzsche afferma non solo sul Parsifal e su Wagner ma, in
particolare, sulla volontà di potenza, il risentimento e il cristianesimo, ossia
su tutto quanto sembra più indiscutibile nel credo professato dall’ultimo
Nietzsche. Spero almeno che coloro che esaltano il talento di Nietzsche per
l’autocontraddizione siano desiderosi di affrontare questo passo. Quale
migliore occasione per loro di dimostrare che non lodano la contraddizione
soltanto in astratto?
Di tutte le opere di Wagner - ripeto - Parsifal è quella che Nietzsche
disprezza nel modo più coerente e intenso. Come risulta dai frammenti dello
stesso periodo, sia prima che dopo il testo da me citato Nietzsche ha scritto
intorno al Parsifal e al cristianesimo in piena conformità alla sua solita
concezione. Il Parsifal è denunciato come la degradazione finale di Wagner,
il parto obbrobrioso della sua decadenza senile.
Nel brano che ho appena citato il rovesciamento di tutto quello che
leggiamo in Nietzsche contra Wagner è così netto, chiaro e completo da far
apparire impossibile che uno stesso autore possa scrivere questo e ciò che
abitualmente Nietzsche afferma sugli stessi argomenti; eppure, è nello
stesso tempo impossibile che non si tratti dello stesso autore.
Ci sono molte cose che collegano questo testo con le infinite negazioni
contenute negli scritti pubblicati. Molti critici musicali cercano oggi di
rendere il Parsifal più gradevole al palato dei pubblici attuali insistendo
sull’eccentricità della dottrina in esso presente, e assicurando: «Non avete
nulla di cui preoccuparvi; non è un’opera veramente cattolica, non è
nemmeno cristiana». Il punto di vista di Nietzsche sull’argomento è
completamente diverso.
Egli aveva conosciuto Wagner a fondo, ed era estremamente - si potrebbe
dire istericamente - sensibile a quella che potrebbe essere chiamata
l’intensa nostalgia cattolica che pervade non solo il Parsifal ma anche molte
altre opere del compositore tedesco. Nemmeno le denunce più aspre del
cattolicesimo potevano liberare Wagner, agli occhi di Nietzsche, dal
sospetto di essere un traditore. Ma traditore di cosa? Un traditore di tutto
quello che, secondo Nietzsche, sia lui sia Wagner avevano mostrato di avere
in comune nelle loro lunghe conversazioni a Tribschen.
Tuttavia l’unico apostata del culto di Dioniso è adesso Nietzsche medesimo,
almeno in questo brano, dove egli appare come il vero traditore del suo
stesso sistema.
Fino a poche pagine prima degli stessi frammenti il filosofo afferma che gli
è stata necessaria un’ingente quantità di «autosuperamento». Con questo
egli intende dire che ha dovuto percorrere una strada lunga e difficile per
riuscire a distinguere quello che apparteneva a Wagner da quello che
apparteneva a lui. Il nostro testo così poco ortodosso potrebbe essere allora
definito, dal punto di vista di tale affermazione, come una ricaduta nella
confusione precedente. Nietzsche sembra scrivere sotto il desiderio
incontrollabile di far cadere ogni distinzione tra lui e Wagner, come se
all’improvviso egli dovesse imitare l’ultimo Wagner, come se non potesse
stabilire nessuna differenza tra se stesso e l’autore del Parsifal. Non
diversamente dallo stesso Wagner, anch’egli è posseduto dal Parsifal.
Qui come altrove Nietzsche, allorché loda il Parsifal, loda il suo preludio. Se
il lettore è familiare con le abituali imprecazioni contro il Parsifal e Wagner,
che sono alquanto ripetitive, potrà osservare che spesso viene fatta
eccezione per questo brano. Nietzsche ha sempre riconosciuto di
apprezzare il preludio, ma di solito non si spinge oltre. Egli confessa che gli
piace la musica fintantoché può essere separata dalle parole e dall’odioso
messaggio da lui avvertito in tali parole.
A questo punto ci dobbiamo porre due domande:
1) Perché i nietzschiani non hanno menzionato mai questo testo? La risposta
è semplice. Essi non lo conoscevano, dato che la sorella di Nietzsche non
l’ha incluso nella Volontà di potenza. Grazie a questa assenza tutti i
nietzschiani hanno potuto continuare a credere che, per quanto ambivalente
Nietzsche potesse essere riguardo a Richard Wagner come uomo, egli sia
rimasto incrollabile nel suo disprezzo per il Parsifal e soprattutto per il
cristianesimo.
Se sua sorella avesse pubblicato questo passo nella Volontà di potenza,
l’effetto sarebbe stato traumatico. Molte domande che i nietzschiani sono
sempre riusciti a evitare sarebbero diventate inevitabili. Forse che
Nietzsche era già un po’ folle nello scrivere il passo? Oppure era già sulla
strada della follia quando scriveva l’opposto?
La motivazione che ha guidato la sorella di Nietzsche è evidente. Il suo
scopo era di promuovere la filosofia del fratello, non certo di
comprometterla. Il brano doveva pertanto essere eliminato. Ciò nondimeno
Elisabeth l’ha pubblicato. Secondo l’edizione Colli-Montinari, essa l’ha fatto
conoscere sotto forma di una lettera personale che il fratello le avrebbe
scritto. È stato un vero colpo di genio. Com’è noto, lei non era ostile a
Wagner, e disapprovava l’atteggiamento del fratello. Elisabeth era perciò
estremamente desiderosa di pubblicizzare qualunque opinione favorevole
che Nietzsche avesse potuto nutrire nei confronti del compositore e della
sua opera. Presentando il brano come una confidenza fatta alla sua cara
sorella, quest’ultima ha reso la contraddizione, insieme a tutto quello che vi
si collegava, meno lampante, suggerendone anche varie e attraenti
interpretazioni. Gli ammiratori di Wagner potevano pensare che gli
autentici sentimenti di Nietzsche fossero quelli confidati alla sorella, mentre
i nemici della sorella potevano sostenere che Nietzsche doveva aver mentito
dato che disprezzava Elisabeth. Suppongo che, in un prossimo futuro,
qualche nietzschiano ortodosso cercherà di provare che questo testo è
davvero una lettera alla sorella e non debba essere quindi considerato come
autentica espressione del pensiero del filosofo.
È mia convinzione che la sorella di Nietzsche sia stata di grande utilità a
tutti, anche ai nietzschiani contemporanei che minimizzano
sistematicamente l’importanza del problema religioso nell’ultimo Nietzsche.
2) La seconda domanda alla quale devo ora cercare brevemente di
rispondere è: qual è il significato di tutto ciò? Il significato, in un certo
senso, è ovvio. Le risposte preconfezionate di Nietzsche, quelle che lui ha
sempre a portata di mano, sono le risposte che abbiamo già sentito
concernenti il Parsifal e il cristianesimo visti come frutto della malattia e del
risentimento, come prodotto di ciò che Deleuze preferisce chiamare la
volontà di potenza «reattiva»5, un’espressione che è usata anche da
Nietzsche.
Nel nostro testo Nietzsche definisce, come sentimento cristiano per
eccellenza, la compassione, altrove rigettata sistematicamente in quanto
impostura e grossolano travestimento del risentimento o «volontà di
potenza reattiva». La demistificazione, di solito così importante agli occhi di
Nietzsche, viene ignorata perché inconseguente, incapace di giungere alla
vera essenza del cristianesimo, di minare quella che egli adesso chiama nel
brano la «tremenda certezza» che suscita la compassione.
Questo totale cambiamento di idee significa che non possiamo prendere
Nietzsche sul serio, che la sua è un’oscillazione malsana fra opinioni
ugualmente irrilevanti, e che tutto dev’essere ridotto alla sua personale
rivalità mimetica con Wagner? Assolutamente no, o piuttosto proprio qui
possiamo vedere quanto la prospettiva mimetica sia in realtà differente da
una riduzione di tipo psicologico o anche psicanalitico.
Non si può dubitare che, quando scrive sul Parsifal nel suo modo tipico, e
poi in quell’altra maniera incredibile, Nietzsche sia già molto avanti sulla
strada della pazzia, ma la minaccia al suo equilibrio mentale coincide con
quella che è la sua più grande genialità, una genialità che precisamente
consiste in ciò che a noi appare come contraddizione, consiste nel
movimento pendolare fra i due pensieri antitetici che andiamo indagando.
L’oscillazione pro o contro il Parsifal implica un argomento più grande della
relazione personale di Nietzsche con Wagner, implica la questione
nietzschiana numero uno, ossia la differenza tra Dioniso e Cristo. A mio
giudizio il punto controverso della volontà di potenza, attiva o reattiva che
sia, è subordinato a tale questione, una questione che in definitiva è un
problema mimetico come la rivalità verso Wagner: il problema mimetico
dell’origine religiosa dell’uomo.
Per comprendere tale questione dobbiamo leggere un altro testo, sullo
sfondo dei passi in cui Nietzsche parla apertamente del dramma originario
di Dioniso contro il Crocifisso. Si tratta sempre della stessa morte collettiva
ed è l’ultima cosa che Nietzsche rileva a proposito di questa identità di
contenuto.
Non c’è nessuna religione sacrificale che non abbia un dramma al suo
centro, e più si osserva da vicino tale dramma, più si scopre che le
caratteristiche comuni alle morti di Dioniso e di Cristo sono comuni a molti
altri culti di tutto il mondo. Questa identità è la ragione per la quale
Nietzsche ricorre a un unico simbolo, Dioniso, per indicare un numero
infinito di culti mitologici. Sostenere che Dioniso stia per qualche genere di
monoteismo non biblico, come pretende Heidegger, è un puro e semplice
non senso, a mio modo di vedere. Allorché gli antropologi del XIX secolo
scoprirono tutti questi sistemi religiosi aventi lo stesso dramma collettivo al
loro centro, si sentirono autorizzati a trame delle conclusioni definitive,
sebbene costoro non avessero la più pallida idea del perché così tanti culti
sembrassero prendere origine sempre dal medesimo tipo di dramma. Essi
videro che i fatti erano gli stessi e, essendo positivisti, supposero subito che
tutte queste religioni fossero equivalenti. Ogni grande libro di antropologia
dell’epoca cerca di dimostrare che giudaismo e cristianesimo sono uguali a
qualunque altra religione di origine sacrificale.
Soltanto Nietzsche respinse una simile conclusione, pur accettando la
constatazione di fatto che sembrava giustificarla. Egli sapeva che i “fatti”
sono importanti, ma sapeva anche che i fatti non significano nulla finché
non vengono interpretati.
Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi l’antitesi. Non è una differenza in base al martirio - solo esso ha
un altro senso. La vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la
sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento...
Nell’altro caso il dolore, il “Crocifisso in quanto innocente” valgono come obiezione contro questa
vita, come formula della sua condanna.6
Nel caso di Dioniso l’enfasi cade sull' innocenza degli uccisori e, di
conseguenza, sulla colpa della vittima, anche della stessa divinità. Nel caso
di Gesù l’enfasi è posta sull’innocenza della vittima, e quindi sulla
colpevolezza dei persecutori.
Siamo ancora una volta di fronte ai due tipi di sofferenza. Il tipo pagano
afferma anche la sofferenza più aspra, come Nietzsche sottolinea,
intendendo con questo la più crudele violenza, mentre la Passione si
identifica con le vittime e denuncia l’altro tipo di religione come una
menzogna. Nietzsche ha visto con chiarezza che Gesù non è morto come
una vittima sacrificale di tipo dionisiaco, ma contro tutti i sacrifici di questo
genere. Questo è il motivo per cui Nietzsche ha accusato l’intera
presentazione di tali eventi come un atto occulto di risentimento: essa rivela
l’ingiustizia di ogni sacrificio religioso e il comportamento insensato di tutte
le folle dionisiache del mondo.
La Passione è vista come un’obiezione alla vita o una formula per la sua
condanna, dal momento che accusa e respinge tutto quello su cui le antiche
religioni pagane erano fondate, e con esse, secondo l’abituale giudizio di
Nietzsche, tutte le società umane in ciò che hanno di meglio, le società in
cui i deboli e gli sconfitti non impedivano ai “forti” e ai “vittoriosi” di godere
i frutti della loro superiorità.
La Passione cristiana è un insulto al paganesimo. Essa vede l’antica violenza
religiosa sotto una luce negativa e fa sentire i suoi autori colpevoli per
averla commessa, anche solo per averla approvata. È poiché l’intera cultura
umana è basata sulla violenza collettiva, è l’intero genere umano a venir
dichiarato colpevole dell’assassinio di Dio. La vita stessa è condannata
perché non può organizzarsi e perpetuarsi senza questo tipo di violenza.
L’unica cosa che accomuna tutte le interpretazioni di Nietzsche, e tutti i
vari tipi di culto nietzschiano, è l’ignorare sistematicamente l’enorme
portata e la centralità della contraddizione nell’opera di questo filosofo.
All’opposto di Heidegger, io non considero in sé la volontà di potenza come
il pensiero centrale di Nietzsche. La volontà di potenza acquista il suo
significato attraverso la differenza tra Dioniso e il Crocifisso, che
corrisponde alla differenza tra Nietzsche e Wagner, e la catastrofe psichica
che conclude l’esistenza del pensatore è dovuta al venir meno finale di
questa differenza, al passaggio da Dioniso contro il Crocifìsso a Dioniso il
Crocifìsso. Quando tale differenza crolla, Nietzsche diventa pazzo.
Questo crollo finale non è qualcosa che travolga Nietzsche dall’esterno e
non abbia nulla a che fare con la sua precedente vita intellettuale. La
presenza anche di un singolo frammento in favore del Parsifal e della
compassione conferma che la vita intellettuale di Nietzsche è come un
pendolo che oscilla follemente non solo tra Wagner e il filosofo, ma tra
Dioniso e il Crocifisso. L’oscillazione tra i due poli è frenetica lungo l’arco
dell’intera carriera del pensatore, malgrado egli cerchi in ogni modo di
eliminarla, e i suoi scritti, essendo lo strumento di questa eliminazione, sono
quasi sempre fissati su una sola delle estremità del quadrante.
Dal momento che lo scopo di Nietzsche come scrittore è convincere se
stesso e i suoi lettori che le uniche idee da lui coltivate sul Parsifal siano di
ripulsa totale, ecco che la testimonianza scritta anche di un’unica
oscillazione all’estremo opposto diventa cruciale nell’interpretazione di
questo pensatore. La follia è parte integrante dell’avventura di questo
filosofo, condannato a bloccare il pendolo del proprio pensiero per evitare
oscillazioni ulteriori e le intollerabili sofferenze che vi si collegavano. Pur di
non arrendersi a Wagner o al cristianesimo, Nietzsche fa saltare l’intero
sistema del suo pensiero. Il testo che abbiamo letto getta luce sulla genesi
del crollo finale, che non è certo privo di rapporti con la vita intellettuale e
spirituale di questo autore come molti nietzschiani vorrebbero farci credere.
Questa censura sulla pazzia di Nietzsche, o l’idea che la follia non abbia
rapporto con il vero Nietzsche, è parte integrante della mitologia filosofica
che, in una forma o nell’altra, ha sempre dominato l’interpretazione
nietzschiana.
Mi sembra che qualunque futura interpretazione di Nietzsche dovrà
spiegare la contraddizione che abbiamo rilevato nel giudizio del filosofo sul
Parsifal, ma queste interpretazioni future dovranno essere - credo - tragiche
e religiose piuttosto che filosofiche, né potranno ripetere i miti in cui
Nietzsche per primo non credeva, pur essendo responsabile di averli
lanciati.

1
Nietzsche and Contradiction, “Stanford Italian Review”, 6/1-2 (1986), pp. 53-65.
2
E Nietzsche, Scritti SU Wagner, tr. it. di S. Giametta e F. Masini, Adelphi, Milano 1991, pp. 221-22.
3
Ivi, pp. 227-28 (cfr. Genealogia della morale, terza dissertazione, 3).
4
F. NIETZSCHE, Opere, cit., vol. VIII, tomo I, frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta,
Adelphi, Milano 1990, pp. 187-88.
5
G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1973, pp. 44 ss.
6
E NIETZSCHE, Opere, cit., vol. VIII, tomo III, Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di S. Giametta,
Adelphi, Milano 1986, 14 [89], p. 56.
Dioniso contro il Crocifisso1
Per un certo periodo, dopo l’ultima guerra, si è sollevato un grande dibattito
sulle responsabilità di Nietzsche nell’uso che i nazisti avevano fatto dei suoi
scritti in chiave antisemita. Vi fu invece un generale silenzio sulla sua
posizione anticristiana, troppo evidente e costante per essere negata.
Agli occhi di chi era convinto che la sua opera non dovesse cadere nell’oblio
quest’ultimo punto appariva privo di importanza. Perché mai si sarebbe
dovuto discolpare Nietzsche per un atteggiamento che la maggioranza degli
intellettuali riteneva valido? Non vi era alcun bisogno di scusare il
pensatore tedesco per questo.
E nessuna scusa fu fatta. Secondo costoro Nietzsche era perfettamente nel
giusto. Tuttavia la polemica anticristiana di Nietzsche ha ricevuto
un’attenzione ancora minore a partire dalla seconda guerra mondiale. Quale
può esserne il motivo? Se ai nietzschiani contemporanei fosse rivolta tale
domanda -cosa che però non avviene mai - essi probabilmente
risponderebbero che l’atteggiamento del loro maestro in tema di religione
ha perso ormai la sua rilevanza.
Nietzsche rimane “importante” a causa delle sue varie reincarnazioni che
sono apparse in anni recenti, soprattutto grazie all’ingegnosità dei critici
francesi. Abbiamo visto così un
Nietzsche genealogista, un Nietzsche avvocato della libera iniziativa, un
Nietzsche esponente della controcultura...
Per quanto possano essere diverse l’una dall’altra, almeno sotto qualche
aspetto, tali reincarnazioni si assomigliano tutte nella loro indifferenza alla
strenua battaglia che ossessionò gli ultimi anni di lucidità del filosofo. Che
vi sia sotto qualche oscura ragione, qualcosa di inopportuno o di
imbarazzante su tale argomento, che rende strategicamente consigliabile
non insistervi oltre?
Qualunque possa essere la risposta, la problematica religiosa di Nietzsche
era già stata emarginata allorché i critici francesi cominciarono la loro
impresa esegetica. Il grosso del lavoro in tal senso era già stato compiuto da
Martin Heidegger. Perfino coloro che rifiutano l’interpretazione di
Nietzsche come ultimo grande metafisico dell’Occidente sono influenzati da
Heidegger nell’espellere la contrapposizione nietzschiana di «Dioniso
contro il Crocifisso». Proprio come l’esistenzialismo di marca francese è
stato un rampollo della filosofia tedesca, e in particolare di quella di
Heidegger, così il nuovo “Nietzsche francese” è un altro topolino partorito
dalla stessa montagna, o se vogliamo un’intera nidiata di topi.
La conversione forzata del Nietzsche di Heidegger a una sorta di platonismo
invertito risale a uno dei princìpi essenziali dell’autore di Essere e tempo,
ossia la reciproca incompatibilità fra la religione da un lato e dall’altro il
pensiero inteso nel senso più alto, che sarebbe quello successivo alla
metafisica, quello introdotto, appunto, da Heidegger.
Qualsiasi cosa che in Nietzsche compaia sotto il titolo «Dioniso contro il
Crocifisso» è ritenuta necessariamente estranea al “pensiero” e perciò
condannata senza esitare quale puro e semplice “ritorno al monoteismo”,
come se questo non fosse esattamente l’opposto di ciò che Nietzsche era
convinto di fare. Tale condanna allude anche al fatto che chi combatte il
cristianesimo con l’intensità appassionata di Nietzsche non può che essere
ancora sotto la sua influenza. Sebbene rapidi lampi di odio traspaiano qua e
là nei suoi scritti, Heidegger dà nel complesso l’impressione di una
profonda indifferenza verso la religione, atteggiamento che è divenuto un
modello per parecchie persone. L’argomento è di scarso o nessun interesse.
Il capitolo è chiuso.
Heidegger ha interpretato il monoteismo come una pretesa di monopolio del
divino, pretesa che rappresenta, ai suoi occhi, il massimo del risentimento.
Non è certo mia intenzione dichiararmi in disaccordo con lui circa
l’importanza del risentimento nell’opera di Nietzsche. Ma non credo che
Heidegger, o chiunque altro, possa separare le componenti che
appartengono al risentimento, e quindi al non-pensiero che sarebbe proprio
della religione, dalle componenti che a suo giudizio non vi appartengono,
quelle del pensiero filosofico che sarebbe l’unico degno di venir preso in
considerazione e interpretato.
Per Heidegger la formula «Dioniso contro il Crocifisso» non è che
l’inversione nietzschiana della precedente formula cristiana «Il Crocifisso
contro Dioniso»; non si tratterebbe dunque che della stessa sterile lotta per
il potere fra due religioni rivali. Adesso che il cristianesimo istituzionale si
sta indebolendo, l’ostilità filosofica nei suoi confronti si fa silenziosa, ma non
per questo minore. Nella visione di Heidegger la storia essenziale del nostro
mondo si è ormai lasciata alle spalle la fase della metafisica, e la religione è
in tutto ciò irrilevante. Il Nietzsche di «Dioniso contro il Crocifisso» è
secondo lui molto più estraneo alle vere questioni del nostro tempo che non
il «ritiro dell’Essere», con tutta la sua coda cometaria di discorsi post-
metafisici. Che sia un’interpretazione come la sua quella che sta per
prevalere?
Perfino dal punto di vista degli studi nietzschiani intesi nel senso più stretto,
un simile atteggiamento negazionista rappresenta una mutilazione. Esso ci
priva di ciò che è veramente più originale e appassionante nell’opera di
Nietzsche. Ora che non ci dobbiamo più limitare agli estratti attentamente
selezionati e orchestrati dalla sorella di Nietzsche, e possiamo leggere tutti
gli scritti precedentemente inediti nell’edizione Colli-Montinari, non
possiamo avere alcun dubbio sulla circostanza evidente che più ci
avviciniamo alla catastrofe finale più il tema del cristianesimo diventa
ossessivo per il filosofo. Il numero e la rilevanza dei frammenti riguardanti
tale tema non fa che aumentare... Viene in mente un vulcano che riversi
fiumi sempre più copiosi di lava nera, recante qua e là le scintille di una
pietra preziosa mai toccata da mani umane... Per prendere una di queste
gemme qualcuno di noi darebbe volentieri una o due dita della sua mano.
Le cose più audaci diventano qui inseparabili da quelle grottesche. Genio e
pazzia si danno vicendevolmente sostegno fino all’ultimo istante, smentendo
la tesi ortodossa che li vuole separati. Se riconosciamo le chiare prove della
loro contaminazione reciproca, ci macchiamo della colpa più imperdonabile,
che come pena comporta l’esclusione immediata dal club dei nietzschiani
rispettabili.
Questi frammenti finali sono il vertice del risentimento, nello stesso senso in
cui lo è anche il crollo conclusivo. La superiorità di Nietzsche sulla sua e la
nostra epoca può veramente consistere nel fatto che il risentimento, da lui
condiviso con parecchi comuni mortali, egli lo ha spinto a un tale grado di
intensità da portarlo alle sue manifestazioni più virulente e più cariche di
significato. Nessuno dei risultati conseguiti da Nietzsche come pensatore è
separabile dal risentimento, che il soggetto sia Wagner, la religione, o
Nietzsche medesimo come avviene in Ecce homo.
La verità è comunque che, a differenza di Heidegger e della maggior parte
dei suoi come dei nostri contemporanei, l’anticristiano Nietzsche era
assolutamente convinto della singolarità unica della prospettiva biblica e
cristiana. Le sue ragioni, dunque, non possono essere sommariamente
scartate, come senza dubbio sarebbero se egli fosse un cristiano. La fallacia
etnocentrica in questo caso non risulta applicabile.
L’unicità della Bibbia ebraica e del Nuovo Testamento è affermata da
Nietzsche in un contesto diametralmente opposto all’apologetica cristiana.
Il pensatore tedesco tentò di porre la sua critica del cristianesimo su una
base meno precaria di quella comunemente accettata nella sua epoca, ossia
la grande equivalenza stabilita dal positivismo fra tutte le tradizioni
religiose. Egli conosceva troppo bene la mitologia pagana per non essere
disgustato dalla superficiale assimilazione della tradizione giudaico-
cristiana a quella pagana.
Nietzsche sostiene che lo spirito cristiano cerca di soffocare la “vita” col
reprimere gli individui più dinamici presenti all’interno di un gruppo. È
questa la famosa “morale da schiavi” contrapposta alla “morale
aristocratica”, l’unica cosa che tutti conoscono intorno alla distinzione
nietzschiana fra paganesimo da una parte e tradizione giudaico-cristiana
dall’altra. Secondo il filosofo, la società deve pagare un prezzo allo scopo di
far nascere una casta di uomini superiori, e non deve esitare nemmeno di
fronte alle peggiori forme di violenza. Ripetutamente Nietzsche ci assicura
che Dioniso accoglie in sé tutte le passioni umane, anche la bramosia di
annientare, anche il desiderio più feroce di distruzione. Dioniso dice di sì al
sacrificio di molte vite umane, fino a includere - e questo non è così strano -
quello del tipo più alto che il processo avrebbe lo scopo di generare.
Già nella Nascita della tragedia Nietzsche menziona la violenza che
ovunque accompagna e spesso precede Dioniso. Tutte le epifanie del dio
lasciano rovine dietro di loro. Mania, dopo tutto, significa furia omicida. Al
contrario di molti dei suoi seguaci, Nietzsche non ha trasformato il
dionisiaco in qualcosa di stucchevole e idillico. Egli era troppo onesto per
nascondere i lati orribili e sconvolgenti del dionisismo.
Con gli anni i suoi riferimenti alla violenza frenetica e apparentemente
casuale che contraddistingue tutti gli episodi del ciclo di Dioniso divennero
ancor più frequenti e insistenti che in passato, ma Nietzsche andava
ripetendoli quasi alla lettera, al punto di farli diventare stereotipati.
Il filosofo non volle mai analizzare a fondo le Baccanti, ad esempio, ma
menziona sempre e in maniera coscienziosa la violenza dionisiaca. Egli non
lo fa perché provi un gusto particolare per tale violenza, ma soprattutto
perché essa gioca un ruolo essenziale nella cultura umana, e secondo lui
non dovrebbe venire soppressa.
Nietzsche vide con chiarezza che la mitologia pagana, non diversamente dal
rituale pagano, è imperniata sull’uccisione di vittime o sulla loro espulsione,
secondo modalità che possono sembrare perfettamente gratuite. Egli
comprese che l’uccisione di questo tipo, riflessa in molti rituali e
rappresentata nei miti, è spesso eseguita da un grande numero di uccisori:
si tratta di un’impresa collettiva in cui un intero gruppo umano è implicato.
Solo in via eccezionale però, e tuttavia nella maniera più impressionante
come ora vedremo, Nietzsche si è soffermato direttamente sull’aspetto
collettivo dell’assassinio del dio, ma tutta la sua indagine ne dipende in
modo necessario, come i suoi frammenti più interessanti dimostrano con
chiarezza. Questo è specialmente il caso di un testo ben noto, pubblicato
dapprima nella Volontà di potenza, e che ho già citato in forma abbreviata.
Nietzsche stesso ha dato un titolo a questo importante brano: I due tipi:
Dioniso e il Crocifisso. La seconda metà del frammento esprime nella forma
più limpida l’atteggiamento del filosofo:
Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi l’antitesi. Non è una differenza in base al martirio - solo esso ha
un altro senso. La vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la
sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento...
Nell’altro caso il dolore, il “Crocifisso in quanto innocente” valgono come obiezione contro questa
vita, come formula della sua condanna.
Si indovina che il problema è quello del senso del dolore: del senso cristiano o del senso tragico... Nel
primo caso sarebbe la via che porta a un essere beato, nel secondo l’essere è considerato abbastanza
beato da giustificare anche un’immensità di dolore. L’uomo tragico afferma anche il dolore più aspro
[...].
Il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e rifiorirà eternamente dalla
distruzione.2
Nietzsche era evidentemente consapevole che Tassassimo collettivo di
Dioniso nell’episodio dei Titani ha sufficienti analogie con la Passione di
Gesù per essere considerato come equivalente. C’è una differenza tra i due
eventi ma «Non è una differenza in base al martirio», come Nietzsche stesso
sottolinea con il corsivo.
L’intuizione della somiglianza delle due morti collettive non è rara fra i
pensatori e gli antropologi del tempo. È la medesima intuizione del Freud di
Totem e tabù. Essa è scomparsa dall’antropologia contemporanea, sepolta e
dimenticata sotto il rapido accumularsi dei detriti delle mode accademiche.
L’analisi strutturalista, ad esempio, si occupa ancora dell’episodio dei Titani
nel ciclo di Dioniso, ma il suo interesse è passato dall’assassinio del dio col
suo banchetto cannibalistico alla preparazione culinaria che ha avuto luogo
nel corso della vicenda, punto senza dubbio interessante, e che tuttavia ci
porta lontano dalla comprensione tragica che invece troviamo in Nietzsche.
Quando gli antropologi per la prima volta osservarono la grande
abbondanza di dèi uccisi collettivamente nei culti religiosi di tutto il mondo,
avvertirono di aver scoperto qualcosa di importante, e lo stesso pensò
Nietzsche, ovviamente. Quest’intuizione fornì agli studiosi delle religioni un
potente strumento per le loro analisi comparative. Non c’è religione
sacrificale senza un dramma al suo centro, e più si osserva questo dramma
da vicino, più diventa chiaro che i caratteri comuni al martirio di Dioniso e
di Gesù sono comuni anche a uno sterminato numero di altri culti, non solo
in Grecia e nelle religioni indoeuropee, ma nell’intero pianeta.
Questa rimarchevole somiglianza è un’importante ragione per cui l’ultimo
Nietzsche può ricorrere a un unico simbolo, Dioniso, per indicare infiniti
culti ricordati nei miti. Sostenere che Dioniso stia a indicare una sorta di
monoteismo non biblico è in realtà alquanto ridicolo e indegno di un
pensatore della statura di Heidegger.
Sebbene gli antropologi non abbiano mai scoperto perché tutti questi culti
hanno al loro centro tale dramma collettivo, essi si sentirono autorizzati a
trarre alcune conclusioni preliminari dalla sua regolare presenza. Costoro,
com’è noto, erano positivisti, ovvero uomini che credevano nei fatti e
soltanto nei fatti. E poiché gli elementi fattuali sono i medesimi in tutti
questi culti, si può con sicurezza concludere - così essi pensavano - che
queste religioni devono essere tutte la stessa cosa. Tale equivalenza è
presente nella religione giudaica con i suoi sacrifici rituali, e trova la più
spettacolare conferma nella religione cristiana. La Passione di Gesù
rappresenta indiscutibilmente il cuore dei Vangeli, e che cos’è la Passione
se non un esempio ulteriore degli assassinii collettivi che sono il pane
quotidiano delle religioni di tutto il mondo?
Una simile argomentazione venne seguita in quasi tutte le grandi opere di
antropologia religiosa fra il 1850 e la prima guerra mondiale, e rimane
anche oggi il fondamento nascosto e il principale argomento, almeno
potenzialmente, di quello che è diventato un cliché popolare riguardo alle
innumerevoli religioni dell’umanità. Tutte quante - si dice - sono più o meno
lo stessa cosa.
Anche se, o piuttosto proprio perché condivideva questa intuizione
comparativa riguardante l’assassinio collettivo e il sacrificio, Nietzsche si
astenne dal giungere alla conclusione abituale che, non afferrando le cause
del dramma collettivo di cui ci parlano le religioni arcaiche e quella
cristiana, le liquida tutte mettendole sullo stesso piano. L’unico altro
pensatore che, pur condividendo lo scetticismo religioso della sua epoca, ha
iniziato a capire e a prendere sul serio tali cause è stato Freud.
Nietzsche rifiutò la solita conclusione omologante e liquidatoria, perché non
era affatto un positivista. Egli sapeva che i “fatti” non significano nulla fino
a quando non vengono interpretati. Il martirio di Dioniso è interpretato
dagli adepti del suo culto in maniera del tutto differente rispetto
all’interpretazione cristiana della Passione di Gesù.
Nel caso di Gesù l’enfasi cade sull' innocenza della vittima e, di
conseguenza, sulla colpevolezza dei suoi uccisori. Si potrebbe obiettare che
pure Dioniso fu martirizzato a torto e che i Titani erano colpevoli dal punto
di vista del mito esattamente come gli uccisori di Gesù, ed essi in effetti
risultano proprio colpevoli, dal momento che vengono puniti dal fulmine di
Zeus.
Nietzsche non menzionò nemmeno questa obiezione, poiché ne vide la
superficialità. In tutti gli altri episodi del ciclo dionisiaco c’è un
diasparagmós collettivo, un martirio simile a quello di Dioniso per mano dei
Titani, ma in essi il dio non è la vittima, quanto piuttosto l’istigatore del
linciaggio attuato da un’intera folla.
Ogni volta che Dioniso appare, una vittima è fatta a pezzi e spesso divorata
dai suoi innumerevoli assassini. Il dio può essere la vittima, ma può essere
anche il principale uccisore. Egli è indifferentemente l’uccisore e l’ucciso.
Questo scambio di ruoli, presente anche in quasi tutte le religioni primitive,
è la chiara conferma di quanto Nietzsche pensava riguardo all’indifferenza
della mitologia verso ciò che invece rappresenta la moralità della Bibbia.
Dall’episodio principale in cui Dioniso stesso è la vittima, non si può
concludere che il dionisismo in quanto tale condanna la violenza nel senso
in cui i Vangeli lo fanno. È inconcepibile che Gesù possa diventare
l’istigatore di qualche “linciaggio sacro”. Quando la possibilità di un
linciaggio si verifica nei Vangeli, come nel caso della donna adultera in
procinto di venir lapidata (Giovanni 8,2-11), Gesù previene la violenza e
disperde la folla3.
Vi sono due tipi di religione secondo Nietzsche. La prima, quella pagana,
comprende che la «vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno
ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di
annientamento...», e dice di sì a tutto questo, accettando di buon grado
quello che la vita offre di peggio e di meglio. Essa è al di là del bene e del
male, e «afferma anche il dolore più aspro», per dirla con le parole del
filosofo.
Il secondo tipo di religione invece rifiuta questa medesima sofferenza. È
interessante che Nietzsche condanni il cristianesimo per il rifiuto della
sofferenza, dato che la critica abituale è che il cristianesimo la incoraggi. Il
pensatore tedesco vide chiaramente che Gesù non morì come una vittima
sacrificale di tipo dionisiaco, ma contro tutti i sacrifici del genere. Nietzsche
accusò questa morte di essere un atto occulto di risentimento perché rivela
l’ingiustizia di tutte queste morti e l’assurdità non di una singola folla
specifica bensì di tutte le folle dionisiache del mondo.
Quando Nietzsche continua a ripetere che la Passione di Gesù è una
«obiezione contro questa vita» o una «formula della sua condanna», egli
comprende che la Passione cristiana rappresenta il rifiuto e la condanna di
tutto ciò su cui le antiche religioni pagane si fondavano, e su cui si
fondavano, in modo a suo avviso lodevole, tutte le società umane, le società
in cui le masse di oppressi non erano in grado di impedire ai “forti” e ai
“vittoriosi” di godere i frutti della loro superiorità.
Nietzsche, in breve, aderì alla comune convinzione etnologica del suo tempo
riguardo alla presenza della violenza nel cuore di quasi tutti i culti religiosi,
ma respinse la conclusione positivistica che mette tutti questi culti sullo
stesso piano. Egli distinse la religione biblica e cristiana non perché il
martirio di Gesù sia differente, ma proprio perché non lo è. Il martirio di
Gesù dev’essere infatti lo stesso per diventare un’allusione esplicita alla
genesi di tutte le religioni pagane, e di conseguenza una silenziosa ma
definitiva condanna dell’ordinamento pagano, di ogni ordinamento umano in
generale.
La Passione cristiana non è antigiudaica come crede l’antisemitismo
volgare, è antipagana: essa reinterpreta la violenza religiosa in maniera così
negativa da far sentire i suoi autori colpevoli per averla commessa, perfino
per averla accettata in silenzio, e dal momento che tutta la cultura umana è
fondata su questa violenza collettiva, è l’intera razza umana a essere
dichiarata colpevole dal punto di vista dei Vangeli. La vita stessa è accusata
perché essa non può continuare e organizzarsi senza questo tipo di violenza.
La Bibbia ebraica, l’Antico Testamento dei cristiani, è simile al Nuovo
Testamento riguardo alla questione discussa nel frammento su Dioniso e il
Crocifisso. Un antropologo positivista non percepisce alcuna differenza
reale tra la storia di Romolo e quella di Caino. In entrambe le storie un
fratello uccide suo fratello, e una comunità umana viene fondata. I dati delle
due storie sono i medesimi, ma l’interpretazione che ne dà la Bibbia è unica.
Non è la stessa cosa giudicare un fratricidio un’impresa gloriosa, o
comunque necessaria, come fanno i Romani, oppure un crimine come fa la
Bibbia.
Nella Bibbia, la storia di Caino è rappresentativa non di una singola società
umana, ma di tutte. Si tratta di un giudizio intorno alla cultura umana in
generale, giudizio che appare più pertinente delle usuali discussioni
teoriche intorno all’origine dell’uomo. O il grande numero di fratricidi e altri
simili crimini presenti in innumerevoli miti di fondazione non significa
assolutamente nulla, oppure, in caso diverso, tali eventi puntano verso
un’origine violenta della società umana, passivamente riflessa e
presupposta nelle culture mitologiche, e al contrario denunciata e rifiutata
dalla Bibbia e dai Vangeli cristiani.
Tutti gli eroi mitologici fondamentalmente si assomigliano, ma la nostra
interpretazione non è affatto la stessa se diamo loro il nome di Caino oppure
quello di Dioniso. Per questo Nietzsche non si accontenta di ignorare la
Bibbia come la sua epoca sta cominciando a fare, ma tenta di confutarla,
riabilitando la violenza di Caino.
Caino, Romolo e Dioniso commettono lo stesso tipo di azione e, dal punto di
vista dei Vangeli, vanno chiamati con un unico nome, non il nome di un dio
monoteistico, bensì quello di colui che è «omicida fin dal principio»
(Giovanni 8,44): Satana, che significa proprio il falso accusatore, mentre il
Paraclito, lo Spirito Santo dei cristiani, significa esattamente l’avvocato
della difesa, colui che trasforma tutti i martiri in testimoni della verità dei
Vangeli e perciò in testimoni della falsità dei motivi che hanno condotto alla
loro morte violenta4.
I Vangeli collegano esplicitamente la morte innocente di Gesù con la morte
di tutte le precedenti vittime della collettività a cominciare dal «giusto
Abele»5. La violenza di Caino fa parte di una lunga catena di assassinii che
culmina nella Passione, intesa come un ritorno della stessa violenza: questa
violenza è però ripetuta, stavolta, nella piena luce di una rivelazione che
segna il destino della realtà chiamata nel Nuovo Testamento il «principe di
questo mondo», o i «poteri di questo mondo», o i «poteri celesti». Tutte
queste espressioni si riferiscono alla fine del tipo di società fondato sul
comportamento dionisiaco, sulla docile accettazione del processo vittimario
e della sua violenza.
Non abbiamo bisogno di condividere le valutazioni di Nietzsche per
apprezzare la sua comprensione dell’opposizione irriducibile fra la Bibbia e
la mitologia, e il suo disgusto per il blando eclettismo che annulla tutti i veri
problemi e domina l’ateismo non meno della religiosità vaga e informe della
nostra epoca.
Nietzsche è un meraviglioso antidoto contro tutti gli sforzi
fondamentalmente antibiblici di trasformare la mitologia in una sorta di
Bibbia, impresa sostenuta da tutti gli junghiani di questo mondo, oppure di
dissolvere la Bibbia nella mitologia, che è più o meno l’impresa di chiunque
altro. Non troviamo nulla nel Nietzsche maturo che ricordi la zuccherosa
idealizzazione della cultura primitiva iniziata alla fine del XVIII secolo e che
siamo riusciti così bene a far tornare di moda. Nel bel mezzo del grande
guazzabuglio sincretistico della modernità, Nietzsche ha richiamato
l’attenzione sull’opposizione irriducibile tra una visione mitologica fondata
sulla prospettiva dei persecutori, e un’ispirazione biblica che tende sin
dall’inizio a stare dalla parte delle vittime, con risultati completamente
diversi da un punto di vista non solo etico, ma intellettuale.
Il giudizio di valore che Nietzsche effettua in proposito è comunque
indifendibile. Gli strenui sforzi di discolpare il pensatore dalle conseguenze
del suo stesso pensiero sono mal riposti. Non si può negare che sia stato
egli stesso a far rientrare nel giudizio da lui formulato questioni politiche ed
etiche, e in un modo che poteva solo incoraggiare le peggiori aberrazioni
ideologiche.
Si potrebbero presentare centinaia di citazioni che mostrano al di là di ogni
dubbio come l’estrema testardaggine del filosofo nell’avversare l’ispirazione
biblica favorevole alle vittime lo abbia condotto verso gli atteggiamenti
sempre più disumani dei suoi ultimi anni, da lui abbracciati, beninteso più a
parole che nei fatti, con un’energia degna di miglior causa.
C’è una tendenza da parte dei critici a giocare a nascondino con gli ultimi
scritti di Nietzsche, e sarebbe ancora più interessante indagare
sull’irresistibile impulso che negli ultimi secoli ha condotto così tanti
intellettuali ad adottare scale di valori disumane. Nessuno rappresenta tale
tendenza con la perfezione di Nietzsche, e il risentimento fa sicuramente
parte del quadro, come abbiamo già visto. Una cosa essenziale riguardo al
risentimento è che alla fine il suo ultimo obiettivo è sempre il risentimento
medesimo, la sua immagine speculare nascosta sotto una maschera ogni
volta lievemente diversa che la rende irriconoscibile.
Il risentimento è l’interiorizzazione di una vendetta indebolita, e Nietzsche
ne soffre così tanto da scambiarlo per la forma originaria e primaria di
vendetta. Egli vede il risentimento non solo come figlio del cristianesimo, il
che certamente è vero, ma anche come suo padre, il che certamente non è.
Il risentimento prospera in un mondo dove la vera vendetta (Dioniso) è stata
indebolita. La Bibbia e i Vangeli hanno attenuato la violenza della vendetta
e l’hanno trasformata in risentimento, non perché abbiano origine in
quest’ultimo, quanto piuttosto perché l’obiettivo che essi intendono colpire
è la vendetta in tutte le sue forme, e tali testi sono riusciti soltanto a
indebolirla, non a eliminarla. I Vangeli ne sono indirettamente responsabili,
ma solo noi ne siamo i responsabili diretti. Il risentimento è la forma in cui
lo spirito della vendetta sopravvive all’impatto con il cristianesimo,
deformando i Vangeli a suo uso e consumo.
Nietzsche fu meno cieco al ruolo della vendetta nella cultura umana della
maggior parte dei suoi contemporanei, ma vi era in lui, a dispetto di questo,
una rimarchevole dose di cecità. Egli analizzò il risentimento e tutti i suoi
effetti con enorme efficacia, ma non vide che il male da lui combattuto era
un male relativamente minore se confrontato con le forme più violente di
vendetta.
La sua perspicacia fu in parte attenuata dalla quiete ingannevole della
società postcristiana in cui viveva. Egli potè prendersi il lusso di provare il
risentimento così intensamente da farlo apparire un destino peggiore della
vera vendetta, la quale invece, essendo assente dalla scena, non venne mai
ostacolata sul serio. Senza pensarci, e non diversamente da tanti
intellettuali del suo e del nostro tempo, Nietzsche evocò Dioniso,
implorandolo di riportare la vera vendetta quale unico rimedio a ciò che a
lui sembrava il peggiore di tutti i destini possibili, quello appunto di farsi
divorare dal risentimento.
Un atteggiamento così irresponsabile poteva fiorire soltanto in un’epoca
fortunata, e in parti privilegiate del mondo dove la reale vendetta si era
ritirata a tal punto che il terrore verso di essa era divenuto incomprensibile.
Ma le preghiere sincere non sono mai pronunciate invano, e le invocazioni
di coloro che desideravano il ritorno della vendetta sono state infine
ascoltate.
La vera vendetta è ritornata fra noi sotto forma di ordigni nucleari e altre
armi assolute, che hanno ridotto il nostro intero pianeta alle dimensioni di
un villaggio primitivo su scala globale, terrorizzato ancora una volta dal
pericolo di faide sanguinose quanto inarrestabili. La vera vendetta è così
spaventosa che nemmeno gli uomini più vendicativi osano scatenarla,
sapendo molto bene che, per quante cose tremende essi possano infliggere
ai loro nemici, questi ultimi le possono infliggere a loro.
Confrontato con tutto ciò, il risentimento e altri malesseri del XIX secolo
appaiono veramente insignificanti, o meglio appaiono significativi solo per
la rabbia ovunque montante che hanno favorito, e che ha trasformato di
nuovo il risentimento in vendetta irrefrenabile, sempre sull’orlo di scatenare
le conseguenze peggiori.
È la realtà stessa che si incarica di dimostrare, in modo sempre più urgente
e più ampio, che il messaggio evangelico non può venir impunemente
ignorato. Quei pensatori che, come Nietzsche, implorano senza pensarci la
vera vendetta, in preda alla smania di liberarsi del loro risentimento,
assomigliano ai personaggi stolti delle fiabe che, dopo aver espresso il
desiderio sbagliato, si devono amaramente ricredere allorché esso si avvera.
Ciò dovrebbe venir visto come un avvertimento, e invece è tranquillamente
ignorato da quasi tutti. La maggior parte delle persone continua
pedissequamente a ripetere idee del XIX secolo, come se il ritorno della
vera vendetta nel nostro mondo non fosse ormai un fatto compiuto. Le cose
stanno in maniera molto diversa da quello che pensa tutta questa gente: la
vera vendetta, almeno per il momento, ha un tale potere di dissuasione che,
in concreto, nessun cambiamento è avvenuto. È l’enormità stessa della
minaccia a proteggerci da questa minaccia medesima. Il risentimento è
stato abbastanza intenso da generare un nichilismo intellettuale sempre
maggiore, ma non è stato così intenso, finora, da realizzare alla lettera
questo nichilismo distruggendo la realtà in cui viviamo.
La vera vendetta non ha ancora dimostrato concretamente il suo potere
sulle nostre vite né mai lo farà, in un certo senso, giacche se lo facesse, non
ci sarebbe più nessuno in vita a cui dimostrare nulla. Non sopravvivrebbe
nessuno a constatare il ritorno della vendetta assoluta come evento centrale
del nostro tempo.
Il risultato è che si può continuare a pensare in modo irresponsabile, e a
fingere che oggi Nietzsche abbia molto da insegnare come maestro di etica
o di storia, oppure come filosofo, come modello di qualche “stile di vita”, o
qualunque altra cosa di questo genere. Tutto ciò non può mancare di
suonare più fatuo e irreale ogni anno che passa, e il prezzo da pagare per
questo è il prezzo che ogni epoca storica deve pagare per aver voluto
evitare le sue vere questioni: una certa aridità di spirito, e una crescente
sterilità in tutte le sue “attività culturali”.
I nostri militari amano dare nomi mitologici ai loro missili nucleari: Plutone,
Poseidone, Arianna e così via. È un peccato che non siano mai ricorsi
proprio al nome di Dioniso, ma questo non è davvero importante. Chi
capisce non ha bisogno di indicazioni così letterali, né esse farebbero alcuna
impressione su chi non capisce. L’uso contemporaneo della mitologia è più
profondo di tutti i giochi mitologici fatti dai nostri filosofi a partire dal
Rinascimento.
Benché Nietzsche abbia smesso di scrivere assai prima che la sua adesione
alla violenza mitica cominciasse a mostrare la sua vera natura, già in lui vi
era qualcosa che si opponeva fieramente alla sua impresa spericolata.
Analizzando la sua frase «Dioniso contro il Crocifisso» dobbiamo mettere
l’accento su quel «contro». In esso si può avvertire un’eco della dura
battaglia che il filosofo ha combattuto e infine perso nello strenuo tentativo
di assicurare la vendetta di Dioniso sul Crocifisso, eco che possiamo
avvertire anche negli aspetti sempre più disumani degli scritti di Nietzsche,
nell’obbligo che egli si impose di giustificare persino le peggiori forme di
oppressione e di persecuzione.
È oggi in atto una campagna generalizzata quanto sconsiderata contro il
principio biblico, giudicato in sé perverso, e non invece pervertito
dall’ingegnosità sconfinata che gli uomini mostrano nel denigrare un
messaggio che rivela la loro vera natura. Tale impresa non potrebbe essere
portata avanti senza qualche forma di sacro, e non può che trattarsi di quel
sacro violento a cui Nietzsche dà il nome di Dioniso. Dal canto suo, anche
Heidegger ha glorificato il sacro primitivo, pur avvertendo in esso la
presenza della violenza. Egli attendeva delle epifanie di tale sacro in futuro,
senza mostrare alcuna particolare inquietudine riguardo alla violenza che lo
caratterizza, e questo nonostante ci fossero stati di mezzo il nazismo e la
seconda guerra mondiale.
Nei suoi ultimi anni Nietzsche continuò a riportare in vita, a celebrare e
modernizzare un numero crescente di aspetti sinistri del sacro primitivo. È
mia convinzione che un’evoluzione del genere sia diventata sempre più
intollerabile man mano che si faceva più radicale, conducendo il filosofo al
suo collasso finale.
La grandezza di Nietzsche sta nell’essersi totalmente impegnato in una
siffatta impresa, pagando letteralmente con la sua vita per questo. Perché le
cose arrivassero a tanto, le forze su entrambi i lati dovevano essere quasi
perfettamente pari. Viene in mente una frase della Bibbia: «È terribile
cadere nelle mani del Dio vivente!»6.
Paradossalmente, Nietzsche è l’unico pensatore dell’epoca moderna la cui
opera ha conseguito ciò che i pensatori cristiani non sono mai riusciti a
trovare. Egli ha fatto ciò che questi non hanno mai osato, ha voluto toccare
con mano la «spada» che Gesù disse di aver portato 7, la spada distruttiva di
ogni ordinamento culturale dell’uomo, la spada verso cui nessun essere
umano può evitare di sentire avversione e terrore, anche se - o non
bisognerebbe dire piuttosto perché? - essa appartiene a ciò che Pascal
chiama l’ordre de la charité 8.
Tale forza distrugge il sacro arcaico attraverso la rivelazione della sua
natura violenta, ma finora essa è riuscita solo a ferirlo, trasformandolo in un
mostro feroce che ormai minaccia di divorarci tutti. In questa battaglia
cosmica i doppi mimetici sono ovunque, ed è facile la tentazione di non
vedere nient’altro, di non vedere nell’opposizione di Dioniso e il Crocifisso
null’altro che una vacua rivalità mimetica.
Questo è quanto Heidegger ha fatto. Heidegger è stato anche in questo caso
la voce di una demistificazione moderna che smaschera così tante differenze
fasulle da mancare alla fine l’unica vera. Il filosofo ha senza dubbio
combattuto dalla stessa parte di Nietzsche, quella che sostiene il sacro
arcaico, ma su posizioni meno esposte, meno in anticipo rispetto ai tempi,
meno pericolose e rivelatrici di quelle nietzschiane. Egli ha avuto successo,
almeno per un periodo, nel neutralizzare l’“imprudenza” di Nietzsche in
ambito religioso. Tuttavia, col passare del tempo, sarebbe diventato via via
più facile capire che la macchina progettata da Nietzsche, prima di
esplodere fra le sue mani, stava ottenendo il contrario di ciò per cui era
stata pensata, stava ottenendo il trionfo di ciò che avrebbe dovuto
distruggere, e la distruzione di ciò che avrebbe dovuto far trionfare.
È da parecchi anni che io sottolineo il ruolo della violenza collettiva nella
genesi del sacro primitivo, e il ruolo della Bibbia nella crescente
intelligibilità di tale genesi. Il mio scopo, nel presente saggio, è mostrare
come Nietzsche sia profondamente, anche se in modo paradossale,
coinvolto in questo processo.
Un simile sforzo può facilmente provocare reazioni di scetticismo. Molti
lettori sospetteranno che io stia proiettando su Nietzsche una
preoccupazione troppo specifica e a me peculiare per dare risultati
significativi. Ciò che questi lettori potrebbero rimproverare al mio tentativo
non è una pretesa mutilazione di quanto Nietzsche ha “veramente pensato”
(che non sembra più interessare a nessuno e in ogni caso nessuno ritiene si
possa stabilire), bensì il fatto che non rivela l’autentica fecondità dell’opera
nietzschiana, ossia il suo possibile contributo alle formule critiche
attualmente alla moda. Esiste però un testo, che è sempre stato “alla
moda”, e che dà la dimostrazione più clamorosa e inattesa della validità del
mio approccio.
La reazione generale al tema dell’assassinio collettivo di Dio assomiglia alla
confusione e alle beffe che accolgono l’uomo folle di Nietzsche allorché si
rivolge ai suoi contemporanei andando al mercato. Questo pazzo che non ha
nome
accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare
incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli
che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un
bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» -
gridavano e ridevano in una gran confusione.9
Questo è l’inizio del passo più famoso della Gaia scienza, l’aforisma 125.
Anche oggi, e forse soprattutto oggi, chiunque sfiori questo argomento
intoccabile dell’assassinio collettivo di Dio si trova in una posizione
curiosamente simile a quella che qui viene descritta. Dopo oltre un secolo
nulla è veramente cambiato, specialmente in quegli ambienti accademici
che già allora non mostrarono di apprezzare Nietzsche più di quanto
Nietzsche apprezzasse loro.
Ma i miei lettori sono troppo attenti ai testi, sono troppo colti, attenti,
riflessivi e accurati, e soprattutto troppo abili ed esperti nell’interpretazione
testuale per rimanere scandalizzati o comunque sorpresi dal modo
informale in cui io mi voglio appropriare dell’aforisma in questione. Non
saranno loro a contestarmi il diritto di farlo, perché essi devono aver notato
la straordinaria somiglianza di contenuto, se non di forma, tra la mia
insistenza alquanto noiosa sul significato religioso dell’assassinio collettivo
e l’analoga insistenza di questo brano enigmatico.
Ecco il primo proclama dell’uomo folle:
Dove se n’è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi
tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino
all’ultima goccia?...
A partire dalla fine del Settecento, cominciando da Jean Paul e arrivando a
Victor Hugo e oltre, i pronunciamenti sulla morte di Dio si sono moltiplicati
ogni anno che passa, e oggi i suoi tardivi profeti formano probabilmente la
moltitudine più vasta che si sia mai raccolta nella nostra storia intellettuale.
Ciò che ognuno è andato annunciando, ovviamente, è che il Dio biblico sta
morendo di vecchiaia. Si tratterebbe, in altre parole, di una morte più o
meno naturale.
Quasi tutti credono che il testo di Nietzsche si riferisca esclusivamente
all’ateismo moderno. L’ateismo fa senza dubbio parte della storia, ma ne è
solo una parte, e anche alquanto enigmatica, dal momento che l’aforisma
nietzschiano rigetta con parole del tutto esplicite proprio la nozione che
ognuno cerca di trovarvi, la nozione di Dio inteso come qualcosa di
veramente infantile e insignificante, di cui gli uomini hanno un po’ alla volta
imparato a fare a meno, ora che sono diventati più “maturi” e avanzati su
cose fondamentali come l’elettricità e più di recente i computer 10.
Invece di questo graduale affievolimento di Dio, che si manifesterebbe senza
alcuna violenza o dramma particolare, Nietzsche vede la scomparsa di Dio
come un orrendo assassinio al quale ogni uomo ha partecipato: «Siamo stati
noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!».
«Ma se Dio non è mai esistito, se non vi è nulla che corrisponda a Dio,
com’è possibile allora che venga ucciso?». Questa è la domanda che solo un
lettore disinformato può osare rivolgere e, come avviene di solito con i
grandi testi, si tratta di una domanda molto più intelligente di tutti i quesiti
filosoficamente “informati”.
Il punto è che gli dèi non devono esistere realmente per essere uccisi e, di
fatto, se non vengono prima uccisi, essi non esisteranno mai.
Contrariamente agli esseri ordinari, che possono esistere solo se non
vengono assassinati, gli dèi cominciano a esistere come dèi, perlomeno agli
occhi degli uomini, soltanto dopo essere stati uccisi.
In tutto il testo, la frase così abusata «Dio è morto» appare un’unica volta,
ed è seguita da un insistente ritorno sul tema dell’assassinio collettivo di
Dio, come se Nietzsche avesse di colpo afferrato la differenza tra la logora
nozione della “morte” di Dio, intesa quale spettacolo osservato
passivamente, e l’energica azione che aveva in mente, il crimine collettivo
che pare materializzarsi all’improvviso dal nulla.
Egli sembra aver avvertito che il crimine collettivo fosse l’idea più potente
ma anche quella più difficile da comunicare, un’idea che sarebbe stata
osteggiata ed elusa con la più grande energia. Bisognava dunque dare alla
cosa maggior enfasi, e Nietzsche lo ha fatto, fino a includere una macabra
descrizione dell’assassinio collettivo di Dio:
Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti
gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato
sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci?
Quali riti espiatòri, quali giuochi sacri dovremo noi inventare?11
Le prime due frasi sono tutto ciò che abbiamo nel testo che assomigli al
vecchio tema della morte di Dio, ma questo agli occhi di tutti i
commentatori è motivo bastante per non farselo sfuggire e per mettere una
volta di più l’inoffensivo cliché al posto di ciò che Nietzsche sta realmente
dicendo. I riferimenti al sangue, ai coltelli e al detergere il sangue, ci
riportano per forza di cose al primo annuncio dell’uomo folle. Dio non è
morto di morte naturale, ma a causa di un’uccisione collettiva.
E il crimine è così grande che nuove feste di purificazione e nuovi giochi
sacri dovranno essere inventati. Non v’è dubbio che appariranno nuovi
rituali. Le conseguenze dell’assassinio di Dio sono dunque religiose,
squisitamente religiose. Proprio l’azione che sembra porre termine al
processo religioso è in effetti l’origine di quel processo, la sua
ricapitolazione completa, il processo religioso per antonomasia. Queste
nuove feste e questi nuovi giochi sacri certamente ripeteranno l’assassinio
collettivo di Dio. Saranno riti sacrificali. La morte di Dio è in realtà la sua
nascita.
Se Dio è sempre il risultato del suo assassinio collettivo, questo testo non
afferma allora che la morte degli dèi equivale alla loro vita e che la vita
degli dèi equivale alla loro morte? Che cos’è questa sorta di eterno ritorno
della religione? È in grado Nietzsche di spiegarlo?
Quando si tocca ciò che tutti chiamano impropriamente la morte di Dio, si
cita sempre quest’unico testo, ma nessun riferimento viene fatto alla
sostituzione dell’assassinio di Dio con la solita morte pacifica. La cosa è
delle più singolari.
Sulla “morte di Dio” questo è solo uno fra gli innumerevoli testi a cui prima
mi riferivo, ma è il più memorabile, e indiscutibilmente l’elemento più nuovo
in esso consiste nel rimpiazzare questo motivo con la morte per assassinio.
Eppure, gli ammiratori dell’aforisma nietzschiano, che vi si riferiscono
sempre come al più grande testo sull’argomento, lo fanno mettendo ogni
volta la loro propria idea della morte di Dio al posto della più misteriosa
uccisione di cui parla Nietzsche.
La verità è che l’aura di questo testo è inseparabile dalla sua forza
drammatica, e anche qui, come nella tragedia greca e ovunque, la forza
drammatica è basata sull’uccisione collettiva della divinità. Il genio di
Nietzsche conduce il suo testo verso l’autentica origine del religioso.
Studiosi assolutamente rispettabili, persone che non toccherebbero il mio
assassinio collettivo con una pertica lunga tre metri, citano il brano di
Nietzsche a preferenza di qualsiasi altro, ma dai loro commenti non
traspare la minima consapevolezza del tema dell’assassinio. Costoro non
sembrano accorgersi del piccolo, curioso sviluppo che rende questo testo
diverso da tutti gli altri, anche se è questa diversità a guidare la loro
preferenza.
Essi vedono tale diversità come una differenza - manco a dirlo - puramente
estetica, e io aggiungerei che qui si tratta in effetti della differenza estetica
per eccellenza. Anche oggi, allorché si cita questo filosofo, si diffonde una
certa aria di eccitazione. In modo “quasi” del tutto innocente e comunque
del tutto inconsapevole, l’assassinio collettivo di Dio diventa un’azione
anche nostra. Noi siamo invitati a prendervi parte. È una sorta di versione
avanguardistica dell’Eucarestia, un sacrificio simbolico che non ha ancora
completamente esaurito la sua efficacia rituale perché il suo significato non
è percepito. Certuni hanno tentato di trasferire l’efficacia del testo di
Nietzsche alla “morte dell’uomo” e adesso alla morte della scienza, della
verità e di quasi qualunque altra cosa, ma costoro non si rendono conto che
è di “assassinio” che dovrebbero parlare ogni volta, e che senza di questo il
pharmakon sacro dell’aforisma nietzschiano, ossia il veleno che è nello
stesso tempo il sinistro rimedio12, è già evaporato.
Nelle interpretazioni correnti l’aforisma 125 funziona nello stesso identico
modo dell’assassinio collettivo, che oggi rimane nascosto dietro il tema di
una morte interamente “naturale” e pacifica, un evento spogliato di
qualsiasi drammaticità, una morte priva di storia. Il testo sulla morte di Dio
funziona come un’ulteriore uccisione di Dio, a patto che tale tema rimanga
non percepito. Anche questa epifania testuale del divino è il prodotto di un
assassinio collettivo di secondo grado, che gli assassini non sono
consapevoli di aver commesso. «Quest’azione è ancor sempre più lontana da
loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!».
Heidegger ha dato quello che è considerato da molti come il commento
“definitivo” di questo brano. Il suo saggio è apparso separatamente dalla
voluminosa opera da lui dedicata a Nietzsche 13, e il titolo dello scritto
mostra chiaramente lo sforzo di reinserire Nietzsche nella tradizione da cui
il testo della Gaia scienza vuole distaccarsi, una tradizione a cui Heidegger
è a tutti gli effetti tornato. Il titolo è quanto mai prevedibile: «La sentenza di
Nietzsche “Dio è morto”»14.
È importante a questo punto osservare che, a parte la terminologia
impiegata, i pronunciamenti di Heidegger sul futuro della religione in
generale sono una continuazione dello storicismo del XIX secolo. Come
Victor Hugo o qualunque altro idealista dell’Ottocento, Heidegger sentiva
che la morte di una religione ormai esausta, quella biblica, avrebbe
consentito la nascita indipendente di qualche nuova divinità, una nascita
che non avrebbe avuto alcun legame con la morte dell’odiato Dio biblico.
Heidegger ha spesso parlato in tono misterioso di qualche dio che dovrebbe
apparire in un indeterminato futuro. Nei momenti di buonumore egli
gentilmente elargiva la promessa di qualche nuovo tipo di divinità ai suoi
ammiratori con propensioni teologiche - ne aveva parecchi - in attesa
ansiosa e reverenziale dell’ultima parola “dall’alto dei cieli” circa il futuro di
un personaggio evidentemente non altrettanto quotato: Dio.
Non c’era bisogno di leggere il saggio di Heidegger per prevedere che il
pensatore tedesco poteva solo seppellire la forza drammatica dell’uomo
folle di Nietzsche sotto il peso schiacciante della sua pedanteria filosofica. E
così è stato infatti. Secondo Heidegger l’annuncio dell’uomo folle
significherebbe in realtà «la fine del sovrasensibile di tipo platonico».
Dopo questo annuncio mozzafiato, non ci si può aspettare da uno come
Heidegger che noti una cosa insignificante come l’assassinio collettivo di
Dio. Un pensatore superiore anche a Nietzsche, uno che è veramente
andato oltre il sovrasensibile di tipo platonico è più che giustificato a non
curarsi di un così evidente ornamento retorico.
Heidegger ha scritto che, sebbene nessun dio specifico sia menzionato, il
solo dio al quale Nietzsche può e deve alludere è il Dio cristiano, ed è una
precisazione che si adatta bene al resto del saggio. Anche se Heidegger
energicamente protesta che la sua interpretazione non ha nulla a che fare
con l’“ ateismo volgare” che è stato così spesso letto in questo testo, devo
confessare che la differenza non mi è molto chiara.
Mettere al primo posto la “morte di Dio”, così intesa, nell’analisi di questo
testo, come fa Heidegger, significa cadere nella stessa trappola in cui sono
caduti tutti gli altri. Tutti gli dèi sono enti (Seiende) dotati di una certa
durata di vita storica, trascorsa la quale devono morire, a differenza
dell’Essere (Sein). Ora che il crepuscolo del Dio biblico è finalmente
arrivato, in modo analogo al crepuscolo e alla morte degli dèi pagani
precedenti come ad esempio Dioniso, potranno benissimo far la loro
comparsa dèi interamente nuovi. Heidegger pensava di poter riconoscere il
suo stesso pensiero nel brano della Gaia scienza, ma aveva torto. Avrebbe
fatto meglio, dal suo punto di vista, a non fidarsi di questo testo
esattamente come ha fatto con quello di Dioniso contro il Crocifisso. Dal
punto di vista dell’ortodossia modernistica l’uno non è meno pericoloso
dell’altro.
Ma il pensiero di Nietzsche era davvero così differente da quello di
Heidegger, specialmente nel 1882? Forse in termini espliciti non lo era, ma
nello scrivere l’aforisma, nel passare dalla morte di Dio al suo assassinio,
Nietzsche deve aver sentito l’enorme, improvviso aumento del potenziale
simbolico di cui veniva a disporre. Era come un dono inaspettato degli dèi, e
Nietzsche non era il tipo di scrittore da rifiutare un dono del genere.
Il fatto che egli abbia compiuto il passaggio dalla morte all’uccisione
suggerisce che la vera base, l’ultimo fondamento di ciò che diventerà più
tardi il confronto e l’opposizione tra Dioniso e il Crocifisso fosse già una
preoccupazione per lui, una preoccupazione che sembra raramente
diventare visibile - anche se un’analisi più dettagliata potrebbe forse
mostrare altrimenti -ma che dev’essere stata assolutamente carica di
significato per generare un testo grande ed enigmatico come l’aforisma
sull’uccisione collettiva di Dio.
La fondazione finale resa possibile dall’assassinio collettivo di Dio
naturalmente coincide con quel martirio di Dioniso di cui è riconosciuta
l’identità col martirio di Gesù nel frammento di Dioniso contro il Crocifisso.
Non vi è differenza tra quest’intuizione a due facce e la definizione della
scomparsa di Dio nel nostro mondo come esempio ulteriore di quel martirio.
Ciò non vuol dire affatto che tutti questi assassinii possano essere messi
sullo stesso piano.
Una medesima intuizione domina i due testi che abbiamo letto, un’intuizione
che non è mai stata più forte nella mente di Nietzsche come nell’imminenza
del crollo conclusivo, quando la formula «Dioniso contro il Crocifisso» è
stata cambiata in «Dioniso il Crocifisso».
Ciò non significa, in questa fase avanzata, che Nietzsche stia rinunciando
alla differenza da lui guadagnata a vantaggio di un appiattimento
positivista, ma che la differenza di Dioniso per cui egli ha lottato sta
entrando in crisi e crollando nell’indifferenziazione da cui era
precedentemente emersa.
L’aforisma 125 della Gaia scienza esprime una prima indifferenziazione,
incredibilmente creativa e simbolicamente polivalente nel suo tendere al
significato essenziale dell’assassinio di Dio. Se noi crediamo, con
Heidegger, che solo il Dio cristiano sia presente in questo testo, noi non
capiremo mai la sua enorme ricchezza di significati. Il testo interagisce con
l’uccisione di Dio a diversi livelli primari che tendono a contaminarsi gli uni
con gli altri, ma che ciò nonostante possono essere logicamente distinti fra
loro.
Il livello più evidente riguarda la moderna cancellazione dell’assassinio
collettivo di Dio; un po’ sotto viene l’assassinio collettivo degli dèi pagani
come forza generatrice della loro esistenza, e ancora più sotto viene il
livello più difficile di tutti, la Passione di Gesù, che non può essere la morte
del Dio cristiano nel senso degli dèi pagani fatti nascere dalla loro morte,
ma che può veramente rappresentare la morte di tutti gli altri dèi nel senso
banale che abbiamo in mente quando parliamo di “morte di Dio”. Certo
bisogna anche aggiungere che questi dèi pagani sono “duri a morire”, o
piuttosto rinascono continuamente in opere come quella di Nietzsche.
Che dobbiamo fare con quest’autentico vortice di assassinii collettivi? Allo
scopo di assicurarci che il discorso dell’uomo folle abbia il significato a più
livelli che ho detto, ascoltiamo qualcuno che certamente folle non è, almeno
non secondo il vangelo teorico attuale, il grande Sigmund Freud.
Non molti anni dopo la stesura della Gaia scienza, Freud pensò di aver
scoperto che tutte le feste di purificazione ed espiazione, tutti i giochi sacri,
tutti i riti religiosi dell’umanità, hanno il loro fondamento nell’uccisione
collettiva di qualche vera vittima che gli uomini chiamano Dio...
I miei lettori aggrotteranno le sopracciglia. Sì, lo so, non è il testo di Freud
che dovrebbe essere citato. I nostri maìtres-à-penser non ne hanno una
grande opinione. Si tratta di un’anomalia imbarazzante. Essi sono
sinceramente convinti che Freud abbia avuto un momento di smarrimento
quando lo ha scritto, e con determinazione lo espungono dalla parte
migliore della sua opera. Freud è stato davvero come l’uomo folle della Gaia
scienza. Egli ha osato parlare di un soggetto tabù, l’assassinio collettivo di
Dio. Questa è la sola ragione per cui Totem e tabù è stato scomunicato e
posto completamente al bando. Come oggigiorno ci sono “non-persone”, allo
stesso modo ci sono anche “non-libri”, che non devono venir mai
menzionati, anche se essi risultano appartenere all’opera di autori
consacrati.
L’aforisma 125 è stato trattato in maniera assai differente da Totem e tabù:
esso è stato posto in un santuario e dichiarato sacro. Ma una simile idolatria
è solo il travestimento di una scomunica, e i risultati ce lo mostrano con
eloquenza. L’osservazione di Nietzsche sull’assassinio collettivo di Dio è
ignorata esattamente come l’opera di Freud. La scomunica e la
consacrazione sono due modi opposti di conseguire un unico fine, quello di
prevenire qualunque percezione del fatto che Freud e Nietzsche si trovano
enigmaticamente vicini nell’affrontare il problema di Dio. Dato che su tutto
il resto i due testi sono estremamente lontani l’uno dall’altro, il loro
sovrapporsi riguardo al tema fondamentale dell’assassinio collettivo di Dio
dovrebbe dare alimento alla ricerca e al pensiero. Invece non lo fa. Come
mai?
Rivolgiamoci a Nietzsche per rispondere a tale domanda. Egli conosce
benissimo la risposta. Noi non siamo ancora pronti, noi non siamo mai
pronti per una vera indagine sull’argomento:
«Vengo troppo presto - proseguì - non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora
per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini.
Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo,
anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più
lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!».

1
Dionysus versus the Crucified, “Modem Language Notes”, 92 (1977), pp. 1161-85 (Dioniso contro il
Crocifisso, a c. di G. Fornari, “Micromega”, 3 (2000), pp. 177-97).
2
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [89], ρρ. 56-7.
3
Vedi R. GIRARD, Quand ces choses commenceront... Entretiens avec Michel Treguer, Arléa, Paris
1994, p. 179; Id., La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, a c. di G. Fornari, Santi
Quaranta, Treviso 1998, pp. 109 ss.; Id., Vedo Satana, cit., pp. 81 ss.
4
Vedi R. Girard, Il capro espiatorio, tr. it. di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987, pp. 305 ss.
5
Matteo 23,34-35 (cfr. Luca 11,49-51).
6
Ebrei 10,31.
7
Matteo 10,34 (cfr. Luca 22,36).
8
B. Pascal, Oeuvres completes, a c. di J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, pp. 1341-42 (Pensieri, a c.
di P. Serini, Torino, Einaudi 1974, pp. 341-42). 9 F. Nietzsche, Opere, cit., vol. V, tomo II, La gaia
scienza, Idilli di Messina e Frammenti postumi (1881-1882), tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1967,
libro III, af. 125, p. 129.
10
Come direbbe Rudolf Bultmann, il teorizzatore della demitizzazione biblica.
11
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit„ libro III, af. 125, p. 130.
12
R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1992, p. 138.
13
Μ. HEIDEGGER, Nietzsche, Klostermann, Frankfurt a.M. 1961 (Nietzsche, a c. di F. Volpi, Adelphi,
Milano 1994).
14
Μ. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, a c. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 191 ss.
Nietzsche, la decostruzione, e la moderna preoccupazione
per le vittime1
Uno degli argomenti più banali, più triti e abusati del nostro tempo è la
nostra grande preoccupazione per le vittime e la vittimizzazione, il nostro
assillo costante nei confronti della violenza e della persecuzione. Da secoli
ormai questo tema è presente nella nostra cultura, ma è in anni recenti che
è diventato pervasivo fino all’ossessione, un’ossessione che nell’intero
Occidente domina in misura crescente non solo le Chiese, le università e i
mezzi di comunicazione, ma anche i sistemi legali e politici, arrivando ad
abolire le barriere che si supponevano rigide fra cultura d’élite e cultura
popolare.
Perfino i ricorsi più sensazionali alla violenza tendono oggi a mascherarsi da
virtuose battaglie in difesa delle vittime. Ogni questione politica ed etica è
ridefinita secondo una visuale di questo tipo, come ad esempio il dibattito
sull’interruzione volontaria della gravidanza. Discussioni poste in termini di
ragione e di torto sono spesso rimpiazzate da rivendicazioni fatte in termini
vittimari: chi è la prima vittima, la madre oppressa dal fardello della
maternità, o il bambino che non vedrà mai la luce?
Nel momento stesso in cui sfruttano con avidità questo interesse verso le
vittime, i mezzi di comunicazione si prendono anche gioco dell’attuale abuso
della “vittimologia”, e grazie a questa satira superficiale prevengono
qualunque seria critica delle loro pratiche. Essi discutono di tale
preoccupazione come di un aspetto banale della nostra cultura, una
semplice infatuazione. Ma anche se la fatuità della maggior parte dei
discorsi sull’argomento è abbastanza lampante ed è certo legittimo
criticarla, non per questo la moderna preoccupazione per le vittime può
essere ridotta a una moda effimera.
Benché siano spesso evidenti e irritanti, gli aspetti negativi di tale
ossessione non andrebbero mai esaminati separatamente da quelli positivi,
che non sono meno evidenti. Per la prima volta nella storia umana, ad
esempio, l’aiuto per le calamità viene dato su scala mondiale, e quasi senza
considerare i precedenti trascorsi di amicizia o di ostilità fra donatori e
beneficiari. Pochi vorranno negare che questa sia una conseguenza positiva
della nostra sollecitudine per le vittime.
È vero, naturalmente, che i paesi più ricchi tendono ancora a favorire le
vittime a loro più affini da un punto di vista etnico e culturale, ed è giusto
condannare tale preferenza ma, solo un secolo fa, l’intera questione sarebbe
stata impensabile. L’idea che le nazioni dovrebbero trattarsi a vicenda in
modo fraterno non è nuova, dal momento che fa parte della morale
cristiana, ma, fino a tempi recenti, tale idea ha avuto poche ricadute
pratiche nella storia, se mai ne ha avute. Adesso invece le ha, per quanto
limitate possano essere, e questo cambiamento rientra in ciò che io intendo
per preoccupazione moderna verso le vittime.
Ma i popoli arcaici non erano preoccupati per le vittime come lo siamo noi?
Probabilmente essi lo erano, tuttavia la loro preoccupazione era limitata ai
compagni di tribù, a una vera manciata di persone dunque, e consisteva
primariamente nel dovere della vendetta, che però moltiplica senza fine le
vittime, mentre noi vi siamo categoricamente contrari. La nostra
preoccupazione per le vittime si traduce in una costante battaglia contro la
vendetta, battaglia che è evidentemente lontana dall’essere vinta, e che
forse non lo sarà mai, ma è un fatto che la percentuale di coloro che in tutto
il mondo considerano la vendetta come un’azione vergognosa, piuttosto che
come un sacro dovere, cresce da secoli e sta ancora crescendo.
E che dire a proposito delle grandi civiltà? Se esaminiamo le civiltà storiche
di tutto il mondo, dall’antica Grecia e dall’impero romano fino alla Cina
imperiale o al Giappone feudale o, per quanto riguarda le Americhe, alle
civiltà precolombiane, non troviamo nulla che sia anche solo lontanamente
paragonabile alla nostra sollecitudine verso chi subisce violenza. L’idea che
le vittime abbiano dei diritti in quanto tali era altrettanto estranea a un
mandarino cinese come a un procuratore romano.
Tutto questo è innegabile, eppure, alla maggior parte di noi, il nostro mondo
appare incredibilmente insensibile e crudele, indifferente alle vittime che è
accusato di moltiplicare a dismisura. La maggior parte di noi ha una
sensazione di fallimento totale, che cerchiamo di dimostrare con argomenti
storici ma, se siamo onesti, dobbiamo ammettere che questa dimostrazione
non può essere davvero fatta. In base a criteri di pura oggettività storica, il
nostro mondo non può essere considerato come un fallimento in confronto
alle società del passato. Per quanto poco si faccia nel nostro mondo per
impedire la sofferenza umana o per alleviarla quando si verifica, i nostri
sforzi umanitari sono visibilmente più grandi di qualunque altra civiltà del
passato. Non dovremmo vergognarci di noi stessi, e tuttavia un sentimento
di vergogna persiste.
Ogni volta che ci indigniamo della nostra insensibilità abbiamo la tendenza
a stigmatizzarla come se, in qualche punto dello spazio e del tempo, fosse
esistita una fantomatica società enormemente superiore alla nostra nel
rispettare le vittime, una società che non le provocava, non le escludeva,
non le perseguitava, non le discriminava.
Tale mondo esente da vittime, e capace di far sfigurare il nostro al
confronto, è tanto impossibile da individuare sulla carta geografica quanto il
perfetto Eldorado del Candido di Voltaire. Voltaire ha infatti inventato il suo
paese mitico non perché volesse promuovere una sua personale utopia, che
egli non prende minimamente sul serio, ma per la ragione opposta. Nello
scrivere Candido egli scoprì l’impossibilità di trovare nel mondo reale il
controesempio di cui noi avremmo assolutamente bisogno per una più
efficace condanna della nostra società occidentale. Ciò che è vero oggi era
già vero nel XVIII secolo. La nostra indignazione morale non può
giustificarsi da un punto di vista storico, e però non sarà questa
constatazione a ridurla al silenzio. Anche se il nostro mondo sta facendo più
di qualsiasi altro nell’alleviare le sofferenze, sta facendo penosamente poco
rispetto a ciò che potrebbe e dovrebbe essere fatto.
Questo è quanto sentiamo, e la ragione del nostro sentimento è palese. La
nostra preoccupazione vittimaria è un imperativo morale a noi peculiare.
Anche quando lo seguiamo malvolentieri o lo disattendiamo cinicamente,
non riusciamo mai a dimenticarlo del tutto: esso ci mette sufficientemente a
disagio per dare la colpa, se non a noi stessi, perlomeno alla gente intorno a
noi che consideriamo più potente e quindi responsabile della situazione,
soprattutto i nostri governanti, s’intende, e poi la nostra società nel suo
insieme.
Vi è un mistero morale in tutto questo, un mistero che Voltaire non ha
investigato a fondo, avvertendo forse fin troppo bene dove l’avrebbe
condotto una seria riflessione sull’argomento. Questo è il motivo per cui egli
ha trasformato Candido in una sorta di scherzo paradossale, in una
commedia, senza dubbio meravigliosa, sul meno comico di tutti i soggetti, la
deplorevole inefficacia della nostra sollecitudine verso le vittime. Quello in
cui viviamo è il mondo che salva il maggior numero di vittime ma, a causa
dei nostri ostinati conflitti e dei mezzi di distruzione sempre più potenti di
cui disponiamo, il nostro è anche il mondo che le moltiplica quasi all’infinito,
cosa per cui noi ci disprezziamo.
Ma anche nel caso che la nostra sollecitudine fosse puramente retorica e
ipocrita, la sua unicità la renderebbe pur sempre un grande enigma
antropologico. Se voi chiedeste alla gente qual è l’origine di tale
atteggiamento, gli interrogati risponderebbero probabilmente citando
l’illuminismo, la nascita dello spirito scientifico, la ribellione moderna
contro gli aspetti antidemocratici e superstiziosi della cultura tradizionale...
È stato Nietzsche a dare una risposta diversa e, a mio avviso, ben più
profonda. Egli è stato il primo ad asserire che la nostra preoccupazione
verso le vittime non è semplicemente un aspetto fra i tanti della nostra
società, bensì il suo aspetto più caratteristico ed essenziale. Il pensatore
tedesco ha ricondotto senza esitazioni questo atteggiamento al nostro
retaggio giudaico e cristiano, interpretando l’illuminismo come un
particolare momento nello sviluppo di tale tradizione, e non come una sua
reale rottura.
Quanto Nietzsche ha scoperto non è che il giudaismo e il cristianesimo
condannano le persecuzioni, cosa che non sarebbe per nulla una scoperta
dato che chiunque l’ha sempre saputo, ma che, nel contesto delle religioni
antiche e arcaiche, il giudaismo e il cristianesimo sono unici. Sono queste le
sole religioni che categoricamente condannino la violenza e le persecuzioni.
Il giudaismo e il cristianesimo assomigliano molto ai miti perché contengono
il loro stesso schema di violenza collettiva, ma rovesciandone il significato.
Invece di approvare il linciaggio di chi è preso di mira dal gruppo, invece di
essere d’accordo con i linciatori, la tradizione giudaico-cristiana afferma che
le vittime di cui involontariamente ci parlano i miti dovrebbero essere
risparmiate, e così tutte quelle dello stesso tipo. Nei culti arcaici e pagani,
al contrario, sacrificare delle vittime è sempre la cosa giusta da fare. Tutte
le religioni normali nel mondo antico approvano, quand’è ritenuto
necessario, l’assassinio inteso come atto rituale, come immolazione
sacrificale. Il giudaismo biblico e profetico e il cristianesimo disapprovano
questa stessa cosa, rendendo di conseguenza un po’ più difficile per noi,
ordinari esseri umani, il sacrificarci l’un l’altro.
Secondo Nietzsche, Dioniso e i culti di tipo dionisiaco autorizzano e
raccomandano la persecuzione non solo nei loro riti sacrificali, ma anche
nella violenza socialmente sancita com’è il caso della schiavitù, o nella loro
completa mancanza di considerazione per il benessere e la sopravvivenza
delle classi oppresse.
Quando il giudaismo e il cristianesimo riabilitano le vittime odiate senza una
causa (cfr. Giovanni 15,25), insorgono contro lo spirito dionisiaco, che è
veramente lo scatenarsi della violenza collettiva, lo spirito omicida delle
masse che effettuano arbitrariamente un linciaggio allorché perdono
completamente l’autocontrollo, sotto l’influenza, come si credeva, del dio.
La preoccupazione verso le vittime ci appare come qualcosa di
universalmente umano, e noi automaticamente assumiamo che sia condivisa
da tutte le altre culture, e questo solo perché le Chiese cristiane sono
andate inculcandola in noi per duemila anni, al punto che la sua assoluta
singolarità nel contesto delle passate religioni pagane non è più visibile. Noi
non realizziamo più quanto siano unici, se non sempre i nostri
comportamenti concreti, perlomeno i nostri valori religiosi.
Si può facilmente constatare come la diagnosi di Nietzsche sia,
nell’essenziale, accurata. Come tutte le grandi acquisizioni nel campo delle
scienze umane, che sono ancora nella loro infanzia, ciò che Nietzsche ha
scoperto è evidente, eppure è rimasto non percepito per duemila anni.
Questo pensatore commise soltanto uno sbaglio, ma uno sbaglio terribile,
che rovinò la grandezza della sua scoperta. L’intensità del suo odio per la
tradizione giudaica e cristiana, anziché fargli riconoscere che la
preoccupazione per le vittime è il segno della sua superiorità e unicità, l’ha
portato a considerarla, in modo perverso, come qualcosa di vergognoso e
malvagio. Egli deliberatamente rifiutò la posizione giudaico-cristiana e
sostenne apertamente, al suo posto, la violenza e la follia di Dioniso e di
tutti gli dèi del suo tipo.
L’opera di Nietzsche è estremamente difficile da valutare per il suo essere
nello stesso tempo molto più e molto meno perspicace, molto più esatta e
molto più erronea di qualunque altra intuizione riguardante il nostro
atteggiamento verso le vittime. Non fu solo il suo pregiudizio antireligioso a
distoreere la sua concezione, fu anche la consapevolezza, assai più
profonda, che le società umane, in tutte le epoche storiche, sono state
fondate sulla vittimizzazione arbitraria e che, una volta private dei sacrifici
rituali che prendono origine dalla fondazione sacrificale, la vita sociale
viene minacciata da disordini di ogni genere.
Lungi dall’essere estremamente avventuroso come egli di solito si ritiene,
Nietzsche rifiutò così l’avventura unica in cui il nostro mondo è impegnato,
quella del rifiuto dei meccanismi persecutori tipici di tutte le religioni
arcaiche e delle società su di esse fondate. Egli si rifiutò di partecipare alla
preparazione di ciò che i Vangeli chiamano «il Regno di Dio», ossia
un’umanità senza più vittime.
Nietzsche ha sostenuto l’abbandono della nostra tendenza antisacrificale a
favore del ritorno a un paganesimo di vecchio stampo, per il quale molti
intellettuali moderni sentono una grande nostalgia. Il pensatore tedesco
coltivò la speranza che la pietà giudaica e cristiana verso le vittime fosse un
semplice caso storico, che forse avrebbe potuto essere eliminato. Data la
sua concezione per cui tutti i fenomeni storici sono relativi e passeggeri,
egli credeva che la propensione di giudaismo e cristianesimo verso le
vittime potesse essere vulnerabile allo speciale tipo di critica da lui
escogitato, e vigorosamente praticato. Accelerare il crollo del nostro mondo
così a torto compassionevole, questo è il compito che egli si è prefissato.
Per raggiungere tale scopo Nietzsche elaborò un metodo esegetico che
chiamò il suo martello, tanto era convinto dei suoi distruttivi poteri2. Questo
metodo è diventato famoso ai nostri giorni sotto il nome di genealogia, una
delle parole proprie di Nietzsche fatte tornare di moda da Michel Foucault.
Per il loro tipo di analisi post-nietzschiana al vetriolo, Jacques Derrida e i
suoi seguaci ricorrono invece a un altro termine, decostruzione, che è una
versione meno brutale del termine che Heidegger usa per indicare la
medesima cosa, Destruktion.
Noi tutti sappiamo in che cosa consiste la genealogia nietzschiana del
cristianesimo e della sua pietà per le vittime. È una sorta di marxismo alla
rovescia, che interpreta il cristianesimo come il risultato di una lotta fra gli
aristocratici e le classi inferiori. Nietzsche riconduce la compassione
cristiana a quella che chiama “morale da schiavi”, che secondo lui non è che
il risentimento democratico delle masse oppresse. Egli interpreta la
preoccupazione verso le vittime come l’arma di una volontà di potenza
troppo debole per imporsi apertamente e con audacia.
Il periodo storico in cui Nietzsche visse assistette alla fase iniziale, alquanto
modesta se confrontata con quanto sta avvenendo nel nostro mondo, di ciò
che è oggi chiamato «politicamente corretto», uno sfruttamento spesso
disgustoso della nostra preoccupazione vittimaria. Nietzsche odiava questa
perversione a tal punto da scambiarla per l’autentica essenza del
cristianesimo. È questa una delle ragioni - io credo - del suo grande odio per
giudaismo e cristianesimo.
Per Nietzsche, in definitiva, non esiste una cosa come l’autentica
compassione; ci sono solo le parodie degli intriganti del «politicamente
corretto». Il filosofo negò la possibilità di una sensibilità per le vittime che,
anziché essere una strategia del ressentiment, fosse genuina.
Quasi tutti i nostri nietzschiani contemporanei sostengono che Nietzsche
non abbia nulla a che fare con il nazismo. Egli è descritto come un
pensatore umano e benigno che, se avesse visto l’uso che i nazisti hanno
fatto delle sue idee, ne sarebbe rimasto inorridito, cosa alla quale posso ben
credere. È un fatto, però, che la genealogia nietzschiana della visione
antisacrificale di giudaismo e cristianesimo ha fornito ai nazisti esattamente
l’incoraggiamento di cui avevano bisogno per muoversi con audacia nella
direzione da loro intrapresa.
Affermare che i nazisti abbiano completamente frainteso Nietzsche è una
distorsione palese della verità. È anche vero naturalmente che, in qualche
caso, le vedute del filosofo sono diverse fino al punto dell’incoerenza.
Nietzsche è precisamente quel pensatore reattivo che Gilles Deleuze
pensava non fosse. Egli sovente attacca in un testo una posizione che
difende in un altro, allorché è ripudiata da qualcuno da cui non voglia veder
compromessa la sua originalità. Nietzsche non poteva sopportare che altri
esponessero le sue stesse idee e, come molti scrittori polemici, è pieno di
contraddizioni.
Su giudaismo e cristianesimo, la cui interpretazione costituisce il cuore
della sua dottrina se mai ce n’è uno, il Nietzsche maturo comunque non ha
mai avuto oscillazioni, e i nazisti non erano così stupidi da non assimilare
l’unica idea di questo pensatore a cui fossero realmente interessati, quella
secondo cui il maggior pericolo della tradizione giudaico-cristiana è la sua
misericordia verso le vittime. Secondo il filosofo preferito dai nazisti,
l’atteggiamento cristiano soffoca la volontà di potenza delle persone
effettivamente superiori e impedisce loro di realizzare se stesse: il più
grande servizio che possa essere reso pertanto alla nostra civiltà è
affrettare la fine del valore cristiano numero uno, appunto la sua
preoccupazione per le vittime.
Il nazismo è il tentativo di realizzare un programma a cui Nietzsche, certo,
non ha mai dato esecuzione pratica, ma che la sua opera non poteva
mancare di suggerire a discepoli come i nazisti, specialmente dopo che
costoro acquisirono l’enorme potere politico e le risorse materiali che li
misero in grado di prendere il filosofo alla lettera, convertendo la sua
decostruzione puramente verbale in una più concreta distruzione.
Ciò che contraddistingue il regime nazista anche rispetto ai più violenti
episodi della nostra storia è il suo sforzo titanico di capovolgere le cose per
quanto riguarda le vittime. I precetti ebraici e cristiani sono sempre stati
onorati più violandoli che rispettandoli, ma ciò nondimeno hanno sempre
avuto qualche influenza restrittiva, che i nazisti hanno invece voluto
annientare, e Nietzsche ha sicuramente avuto un ruolo nel concepire e
legittimare tale impresa.
La meta da raggiungere era un mondo in cui la volontà di potenza nazista
non dovesse più subire alcuna restrizione religiosa ed etica. Allo scopo di
scoraggiare la preoccupazione per le vittime, allo scopo di farla cadere
nell’oblio, i nazisti decisero di affogarla sotto montagne di cadaveri, sotto un
diluvio di vittime arbitrarie. Essi deliberatamente intesero dimostrare che
questa preoccupazione non aveva alcuna influenza reale nel nostro mondo,
che poteva essere impunemente e massicciamente ignorata, e per ragioni
così esili che il suo prestigio ne sarebbe stato cancellato per sempre.
Nietzsche è importante per la comprensione non solo di quanto c’è di
meglio, ma anche di quanto c’è di peggio nel nostro mondo. Se, anziché
ciecamente adorare o esecrare tale filosofo, riflettessimo un poco sul suo
pensiero religioso, comprenderemmo che esso rivela qualcosa che eluderà
sempre le analisi degli storici convenzionali, l’essenza spirituale del
nazismo, che non è realmente politica bensì culturale, anzi religiosa.
I nazisti potrebbero presentare se stessi come i fedeli seguaci di Nietzsche
che effettivamente sono, di null’altro desiderosi che di rimpiazzare la
spregevole “morale da schiavi” con la religiosità “dionisiaca”. Se guardiamo
al Dioniso di Euripide nelle Baccanti possiamo constatare che i nazisti
andarono vicini allo spirito di questo dio più di quanto i nostri classicisti
siano disposti ad ammettere, più vicini dello stesso Nietzsche, che lodò la
violenza come un fenomeno di tipo estetico, ma fu probabilmente lontano
dall’immaginame la concreta realtà.
Se leggessimo le Baccanti onestamente, riconosceremmo subito in Dioniso il
nome che sta per la frenesia collettiva, che permette a esseri umani
normalmente tranquilli di unirsi a una folla linciatrice, diventando quasi
senza rendersene conto assassini. Se apriamo un dizionario di greco
possiamo vedere che la parola che indica lo spirito dionisiaco, mania,
realmente significa furia omicida. Di questa mania i raduni di Norimberga e
i campi di sterminio sono una modernizzazione più autentica della Nascita
della tragedia e delle nostre interminabili perdite di tempo teatrali e
accademiche intorno agli antichi baccanali.
Anche un normale uomo della strada dell’Atene classica sarebbe stato
capace di prevedere ciò che i nostri migliori studiosi ancora non sono in
grado di intendere, ossia il tragico destino che attendeva Nietzsche.
Scegliere Dioniso come il proprio ideale spirituale e abbracciarlo senza
riserve come Nietzsche ha fatto, al di fuori delle prescritte cautele rituali,
significa veramente corteggiare la follia omicida, spargere i semi del
disastro che alla fine Nietzsche ha mietuto.
Lungi dall’essere accidentale e non correlato con la sua filosofia, il crollo
psichico di Nietzsche ha un significato spirituale che dev’essere
riconosciuto, esattamente come nel caso di Hölderlin, poeta non a caso da
lui prediletto. Si tratta dell’inevitabile risultato della rotta seguita da questo
filosofo, della risposta alla sua esplicita preghiera di essere folle, che è
formulata nel modo più eloquente in Aurora. Un’incipiente pazzia è
inseparabile dal genio di Nietzsche, e il progresso verso la consumazione
finale della sua follia visionaria può essere colto nella successione delle sue
opere che, di anno in anno, si fanno sempre più vicine alla clinica
megalomania di Ecce homo.
Le conseguenze disastrose delle idee di Nietzsche sulla sua stessa vita sono
sufficientemente evidenti. Volerle negare è un atto di disonestà intellettuale,
a mio parere, una banalizzazione della sua personale tragedia, nonché una
grave cecità alla trasparente lezione che dev’essere tratta da quella
complessa mescolanza di genio e pazzia che in particolare le sue ultime
opere incarnano.
Questa negazione dell’evidenza priva questo sventurato filosofo delle sole
circostanze attenuanti a cui abbia veramente diritto. La principale cosa che
può essere detta in sua difesa -mi sembra - è che egli era in senso eminente
un apprendista stregone. Come la grande maggioranza dei nostri
contemporanei, il pensatore tedesco ha separato il linguaggio dalla realtà, e
ha finito col non credere in nulla. L’indifferenza del pubblico alla sua opera
e la sua disperata solitudine, sommandosi alla sua grave rivalità verso
Wagner, rafforzarono in lui la tendenza a dubitare del potere delle sue
stesse parole, ed egli segretamente considerava la propria violenza verbale
come insignificante. Quando il filosofo abbracciò Dioniso nel suo aspetto più
sinistro, ho il sospetto che egli non abbia del tutto compreso quali forze
stava per scatenare, o far scatenare. Nietzsche non ha preso le proprie
parole abbastanza sul serio.
Bisognerebbe invece dargli il credito che merita. Egli ha scoperto
l’elemento più caratteristico del nostro mondo, la sua preoccupazione verso
le vittime, e l’ha riportato alla sua vera origine, l’abbandono della violenza
religiosa attuato da giudaismo e cristianesimo. Per quest’unica ragione
Nietzsche dovrebbe essere considerato il più grande pensatore religioso del
XIX secolo. Tuttavia, anziché dire di sì all’incredibile avventura in cui
avrebbe potuto giocare una parte, egli disse di no, preferendo tuffarsi a
capofitto nell’orrendo neopaganesimo che fu l’essenza anche del nazismo e
che è ancora in agguato, io temo, nel culto di Heidegger per Hölderlin e
nella sua religiosità pagana, che traspare dalla famosa profezia
dell’intervista a Der Spiegel: «Ormai solo un dio ci può salvare». Questo dio
non ha evidentemente nulla a che fare con il Dio di Abramo, di Mosè e di
Gesù.
I nazisti hanno avuto successo nel demoralizzare la nostra sollecitudine
verso le vittime, ma non l’hanno estinta visto che, con la seconda guerra
mondiale, sono stati sconfitti. Non solo questa sollecitudine è pienamente
sopravvissuta all’ordalia nazista, ma ne è stata rafforzata. Indiscutibilmente
essa si riflette più che mai non solo nella nostra cultura e nel nostro
linguaggio, ma anche nella nostra realtà storica. L’indebolimento delle
entità nazionali chiuse in se stesse e basate sull’espulsione degli estranei,
fenomeno corrispondente a ciò che oggi viene chiamato globalizzazione, è
inseparabile dall’intensificarsi di tale atteggiamento. La sua vittoria è
inseparabile dalla crescente unione del mondo contemporaneo, come pure
dalla sua crescente disunione. Ogni progresso rispetto alle forme arcaiche
di violenza collettiva suscita fatalmente reazioni negative da parte di coloro
che si sentono privati della protezione in tal modo fornita alle comunità
chiuse di un tempo.
È evidente perciò che, al contrario di quanto Nietzsche credeva e di quanto
credono anche i nostri genealogisti e decostruzionisti, vi è almeno un
fenomeno storico nel nostro mondo che non può venir decostruito: la nostra
preoccupazione verso le vittime.
Nella visione dei nostri decostruzionisti, com’è noto, qualunque cosa sia
storica e culturale è il frutto di una costruzione umana che può essere
demistificata, e, dal momento che appartiene a una ben precisa cultura, non
può avere un valore universale: presto o tardi sarà gettata nel bidone delle
spazzature della storia, e il progetto dichiarato di costoro è di accelerare
questo processo di decomposizione storica seguendo l’esempio di Nietzsche.
Il nostro establishment accademico vorrebbe così contribuire all’igiene
intellettuale e spirituale del nostro mondo, distaccandoci da credenze che
sono necessariamente infondate, soprattutto, com’è logico, quelle religiose
e morali.
Ma che dire della nostra preoccupazione verso le vittime? È
indiscutibilmente storica, e altrettanto indiscutibilmente religiosa, eppure
né la critica genealogica di Nietzsche né i più sinistri tentativi dei nazisti
hanno avuto successo nel cancellare o anche soltanto indebolire questo
fenomeno unico. La nostra sollecitudine verso le vittime resiste a tutti i
tentativi di demitizzazione. Essa è, per così dire, a prova di decostruzione.
Per Nietzsche e il suo metodo genealogico questo dovrebbe essere il test
decisivo, e se la dottrina nietzschiana non lo supera, essa allora non merita
l’enorme prestigio di cui ancora gode presso i nostri relativisti e nichilisti. I
nostri nietzschiani contemporanei affermano che tutto il retaggio spirituale
e culturale del passato è obsoleto, e che intorno a noi rimangono solo gli
scheletri fossili dei dinosauri della metafisica che loro, da quei giganti
decostruttivi che sono, possono far crollare in mille pezzi a un minimo tocco
del loro dito mignolo. Ma che dire allora della nostra pietà per le vittime?
Posti di fronte a essa, questi feroci giganti si trasformano in adoratori
devoti. Il loro nichilismo si ferma solamente davanti a questo valore
particolare.
Giudico tutto ciò incoraggiante da un punto di vista umano, e mi congratulo
di cuore coi nostri decostruzionisti e genealogisti per non aver continuato
l’attacco nietzschiano contro la sensibilità moderna verso chi è debole e
indifeso; tuttavia io trovo il loro atteggiamento vieppiù sconcertante da un
punto di vista filosofico.
Il silenzio su questo punto cruciale è indubbiamente assai facile da capire
sotto il profilo politico e pratico. I decostruzionisti sono consapevoli che il
fallimento di Nietzsche in quest’ambito è senza rimedi. Essi nemmeno
alludono mai a questo particolare aspetto del loro maestro che, prima della
seconda guerra mondiale, era di gran lunga il più importante agli occhi dei
suoi seguaci, e nemmeno vogliono attirare la nostra attenzione sul fatto che,
circa questo punto essenziale, essi assumono un atteggiamento
diametralmente opposto a quello di un pensatore da loro considerato quasi
infallibile.
Agli occhi di Nietzsche la nostra preoccupazione per le vittime è il più
vistoso rottame del nostro parco demolizioni spirituale. Agli occhi dei nostri
decostruzionisti questa stessa preoccupazione ha evidentemente
connotazioni positive. Come spiegare una simile incoerenza? Dobbiamo
credere che, dopo tutto, uno dei nostri valori non sia il risultato di una
costruzione storica?
Il dilemma è chiaro. O la nostra preoccupazione per le vittime può venir
decostruita, in perfetto accordo col nostro relativismo e nichilismo ufficiali,
oppure questa stessa preoccupazione non può esserlo, e la sua
invulnerabilità la mette allora in una categoria a parte. Non può essere
messa sullo stesso piano, ad esempio, del potlatch degli Indiani d’America, o
della scolastica medievale, o dell’esaltazione romantica della natura, o di
qualunque altro dei nostri passeggeri valori culturali.
Come possiamo spiegare questo singolare rispetto dei decostruzionisti per il
valore che il loro mèntore filosofico disprezzava di più? Possiamo
considerarlo come l’unica eccezione che conferma la regola? Ma il
radicalismo dichiarato della decostruzione esclude proprio questa
possibilità. Un’unica eccezione all’efficacia della decostruzione suona come
una diagnosi infausta per l’intera impresa. Una sola eccezione è perfino
peggio che diverse eccezioni, giacché corrisponde a ciò che i pensatori
tradizionali hanno sempre chiamato l’Assoluto, l’unico valore rispetto al
quale qualsiasi altra cosa diventa insignificante. La preoccupazione per le
vittime possiede tutti i requisiti di un genuino Assoluto. Essa può sostenere
ogni assalto; è l’unico principio invulnerabile a ogni forma di scetticismo.
Se risulta anche solo un singolo valore che non può venir decostruito, nulla
rimane della famosa vanteria dei nostri decostruzionisti e genealogisti di
aver sconfitto e annientato tutti i valori del nostro mondo.
Questo stato di cose è tanto più stupefacente in considerazione del fatto che
la preoccupazione per le vittime, come ho osservato prima, non è sempre
stata presente fra noi, specialmente nella sua forma attuale. Si tratta di un
fenomeno storico palesemente radicato nella nostra tradizione religiosa,
proprio come dichiarato da Nietzsche, e dovrebbe perciò essere vulnerabile
alla decostruzione in una misura eminente. Il suo statuto privilegiato in
un’epoca in cui tutti gli assoluti, specialmente quelli di origine storica, si
ritengono screditati è un mistero che i decostruzionisti dovrebbero chiarire
al più presto, o altrimenti la loro “teoria” verrà inevitabilmente scaricata tra
i rifiuti della storia, distrutta senza rimedio dall’invincibile pietra d’inciampo
del giudaismo e del cristianesimo. La nostra preoccupazione per le vittime è
una rivelazione storica nel senso della nostra Rivelazione religiosa.
Nietzsche ha davvero ragione, si tratta proprio della nostra rivelazione
giudaica e cristiana. E come potrebbe Nietzsche aver torto? Su chi potranno
fare affidamento i nostri decostruzionisti, se su di lui non potranno più
farlo?
Non appena siamo consapevoli di questo, possiamo riscontrare molti indizi
attestanti l’estrema pertinenza dell’analisi nietzschiana. Se esaminiamo la
nostra storia alla luce della sensibilità vittimaria, rapidamente scopriamo
che essa in effetti precede l’epoca moderna e che l’intera storia
dell’Occidente è definibile nei termini di un graduale emergere di tale
atteggiamento.
Le prime manifestazioni della preoccupazione per le vittime precedono
l’illuminismo e la nascita della scienza moderna di molti secoli, ed erano
prima di tutto religiose, come le opere di carità degli ordini monastici che
portarono alla creazione spontanea o invenzione di quelli che chiamiamo
ospedali.
L’elemento più caratteristico dell’ospizio medievale è che i malati, i poveri, i
derelitti vi erano ammessi indipendentemente dalla loro identità sociale o
nazionale. La medesima cosa è vera, almeno in linea di principio, per i
moderni ospedali, la cui ispirazione fondamentale appare essere sempre la
sollecitudine verso chi è bisognoso di aiuto.
Se guardiamo all’evoluzione della società medievale e moderna, al modo in
cui le nostre istituzioni politiche e giudiziarie si sono trasformate, e con esse
il nostro sistema penale e i nostri atteggiamenti sociali, se pensiamo a
sviluppi come la fine della schiavitù e della servitù della gleba, e se
pensiamo, ancora, al lento ma continuo progresso verso l’uguaglianza sotto
le leggi, allora possiamo capire come, per quanto possa essere flebile in
tutti i concreti esempi storici a nostra disposizione, sia la preoccupazione
verso le vittime il vero comun denominatore nell’evoluzione del mondo
moderno... Grazie a tale preoccupazione l’intero progetto di trovare un
senso nella nostra storia può diventare, ancora una volta, significativo. Il
nostro mondo dev’essere interpretato non nei termini di un “progresso”
automatico nello stile del XIX secolo, bensì in quelli di una sollecitudine
verso le vittime che non è mai pura, naturalmente, né mai esente da
conseguenze negative, dal momento che inevitabilmente smantella le
protezioni delle società arcaiche e tradizionali, ma la cui forza dinamica, ciò
nondimeno, non può mai venir fermata e invertita, com’è dimostrato dalla
sconfìtta del nazismo.
Sarò facilmente accusato di tracciare un quadro più roseo del dovuto, ed è
vero che ho sottolineato il lato ottimistico, ma se ho fatto così è per la
generale tendenza, oggigiorno, a dipingere il nostro mondo con le tinte più
fosche. La ragione di questo è che vogliamo svegliare i nostri
contemporanei dal loro sonno apatico, e mobilitare loro, non meno di noi
stessi, in favore delle vittime. In altre parole il nostro assillo per le vittime
può spiegare persino il nostro rifiuto a riconoscere che, sebbene si faccia
molto meno di quanto dovremmo, stiamo tuttavia facendo qualcosa, e che il
quadro non è così nero come ce lo raffiguriamo di solito.
La ragione per cui le ideologie “rivoluzionarie” hanno potuto sedurre così
tanta gente per così tanto tempo è stato il loro prendere in prestito la
preoccupazione religiosa verso i deboli e i perseguitati, dalla quale veniva
tutta la loro forza. La ragione per cui Jean-Paul Sartre è stato un marxista,
ad esempio, è che ai suoi occhi il marxismo era il solo modo in cui le vittime
potevano essere aiutate. Quando divenne innegabile che, lungi dall’aiutare
le vittime, i regimi ispirati al marxismo le hanno prodigiosamente
moltiplicate, l’impero comunista è a sua volta crollato, mezzo secolo dopo il
nazismo, e la forza attiva presente dietro il marxismo è ora diventata visibile
in forma non più adulterata, ed è la pura preoccupazione per le vittime che
adesso ha esplicitamente rimpiazzato, nel nostro linguaggio, tutte le
ideologie rivoluzionarie.
Se questo è vero, è anche vero che, presto o tardi, il nostro pensiero dovrà,
ancora una volta e in un modo che forse sarà irresistibile, tornare alla
tradizione religiosa a lungo eclissata dallo scientismo e dalle ideologie, una
tradizione che sta silenziosamente aspettando, e di cui Nietzsche è stato
l’involontario, paradossale profeta.

1
Versione modificata di Nietzsche, Deconstruction, and the Modern Concern for Victims, conferenza
tenuta all’Università di Stanford (California) il 14 aprile 1996 (Nietzsche, la decostruzione, e la
moderna preoccupazione per le vittime, a c. di G. Fornari, “Ars Interpretandi”, 4 (1999), pp. 35-51).
2
Una delle sue ultime opere si intitola Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello
(1888).
Nietzsche e il destino della cultura europea1
Molti Europei hanno l’impressione di girare in tondo, attorno a un centro
svuotato della sua sostanza. Le loro culture nazionali non sanno più dove
vanno.
Il senso di malessere e di fallimento che vive l’Europa evidentemente
proviene dalle due guerre mondiali, e dalle conseguenze spirituali che esse
hanno avuto, conseguenze che, anziché migliorare, mostrano col tempo la
tendenza ad aggravarsi.
È questo malessere che vorrei adesso tentare di definire. Esso mi sembra
ruotare attorno a una questione che è nello stesso tempo enorme e precisa,
antichissima e nuova: la questione delle vittime. Il secolo dal quale veniamo
ha moltiplicato le vittime, e l’Europa s’interroga sulla propria responsabilità
in questo fenomeno. La preoccupazione verso le vittime, ecco qual è la
tematica dominante del nostro tempo.
Non è sicuramente da poco che tale atteggiamento si è diffuso nel mondo
occidentale ma, con il tempo, il suo peso si è fatto sentire in modo più acuto,
rovesciando certi punti di vista tradizionali. Qualche secolo fa, allorché si
interrogavano sul perché della violenza, gli uomini preferivano attribuirla
alla natura o alle bestie feroci, alle catastrofi naturali, ai demòni e persino a
Dio, piuttosto che a se stessi. La loro propria violenza, almeno in parte,
restava loro nascosta.
Nel XX secolo, per varie ragioni, tutti gli sforzi che abbiamo continuato a
produrre per espellere la violenza si sono ritorti contro di noi, e ormai
vediamo bene come la minaccia non venga dal mondo esterno, bensì da noi
stessi. Siamo noi che minacciamo le specie animali, l’intera natura, e
soprattutto i nostri simili.
Il nostro mondo è più ossessionato dalle vittime che qualunque altro in
passato. Ci sono le vittime che ci rimproveriamo di fare, quelle che ci
rimproveriamo di lasciar fare, quelle che promettiamo di non fare, e
soprattutto quelle che ci rimproveriamo reciprocamente di fare. Ci
rinfacciamo volentieri le vittime, ed è soprattutto per loro tramite che ci
attacchiamo a vicenda.
Possiamo pensare a una facile ipotesi per renderci conto della situazione
particolarissima che stiamo vivendo. Un immaginario osservatore che
venisse tutto a un tratto a sentire i nostri discorsi senza sapere nulla della
nostra storia, ne concluderebbe senza dubbio che, nel passato, dev’essere
esistita almeno una società estranea alla violenza che noi ci rimproveriamo,
una società così abile nell’evitare conflitti da diventare il punto di
riferimento indispensabile di ogni giudizio di condanna sul nostro mondo.
Ma è chiaro che un simile Eldorado non è mai esistito. Noi non disponiamo
di alcun termine di confronto, tuttavia facciamo finta di credere che ve ne
sia uno. Noi ci condanniamo dall’alto di un ideale che fingiamo di credere
sia sempre stato quello dell’umanità intera, quando è evidente al contrario
che esso è soltanto nostro.
La preoccupazione per le vittime in quanto tali è un fenomeno
specificamente moderno. Le comunità arcaiche e tradizionali si prendevano
cura delle proprie vittime interne, ma non si preoccupavano assolutamente
delle vittime estranee. La nostra attitudine è unica nella storia dell’intero
pianeta, ma è a fatica che ce ne accorgiamo tanto essa ci appare ormai
naturale e inevitabile.
Gli universi culturali diversi dal nostro condividevano talmente poco la
nostra preoccupazione per gli esclusi e gli oppressi che non si biasimavano
nemmeno per la loro indifferenza. L’ideale di una società senza violenza ci
appare indiscutibile, eppure non si è imposto che in un’epoca assolutamente
recente.
Parlando come sto facendo, posso dare senza dubbio l’impressione di
minimizzare i crimini della nostra società, e di cercare di diminuire l’orrore
che essi devono suscitare. Non è affatto questa la mia intenzione. Abbiamo
evidentemente delle buone ragioni per condannarci, ma ci nascondiamo la
vera natura di tali ragioni. Per meritare il disprezzo che ci ispira, il nostro
mondo deve avere, di fronte alle vittime, delle responsabilità superiori a
quelle delle società che l’hanno preceduto. L’ipotesi più verosimile è che il
nostro mondo sia dominato da una specie di comando che gli viene
specificamente rivolto, ma che preferirebbe non ascoltare. Eppure esso
ascolta questo comando, e vi risponde, ma in una misura che non è
sufficiente, ed è di tale insufficienza che ci rimproveriamo. Le generazioni di
poco precedenti alla nostra sentivano già questa ingiunzione, ma più
debolmente ancora di noi. Man mano che il tempo passa l’ingiunzione si fa
più insistente, ma la nostra risposta resta inadeguata e incoerente, quando
non è addirittura peggiore, deplorevole, mostruosa. Prima di noi e delle
generazioni a noi immediatamente precedenti non c’è mai stato nulla, in
tutto il mondo, che avesse una somiglianza vicina o lontana a un fenomeno
siffatto, a ciò che io chiamo la preoccupazione moderna per le vittime.
Da dove viene questa sollecitudine così singolare? Certamente non dalla
filosofia greca. È sufficiente leggere il Platone delle Leggi per rendersene
conto. Tale sollecitudine non può venire che dalla nostra tradizione religiosa
giudaica e cristiana. Bisogna riconoscere l’avverarsi di una celebre frase
evangelica, secondo cui il sangue di tutte le vittime versato sin dalla
fondazione del mondo andrà a ricadere su questa generazione. È tale
profezia che alla lettera si sta realizzando. Una volta, ad esempio, si
scriveva la storia nella prospettiva dei vincitori, oggigiorno si cerca di
scriverla nella prospettiva dei vinti, ossia delle vittime.
Non è affatto necessario venerare la Bibbia per scoprire l’origine biblica
della preoccupazione per le vittime. Il pensatore responsabile di questa
scoperta è infatti Nietzsche, ostile quanto nessun altro alla tradizione
giudaica e cristiana.
Il suo testo maggiormente rivelatore è il frammento già citato della
primavera del 1888, a mio avviso una delle punte più alte, se non la più alta,
del suo pensiero:
Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi l’antitesi. Non è una differenza in base al martirio - solo esso ha
un altro senso. La vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la
sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento...
Nell’altro caso il dolore, il “Crocifisso in quanto innocente” valgono come obiezione contro questa
vita, come formula della sua condanna.2
Dietro i comandamenti morali della nostra religione Nietzsche percepisce
qualcosa d’essenziale, la morte violenta di Gesù, la persecuzione collettiva,
che gioca un ruolo altrettanto centrale nei miti dionisiaci e nei grandi miti
fondatori dell’intero pianeta, solo che, nella mitologia, la violenza non è
ritenuta da condannare, ma anzi appare legittima poiché la vittima risulta
colpevole. Nei Vangeli e in numerosi testi biblici la vittima è invece
riconosciuta innocente.
Nietzsche ha scoperto due cose: la prima è che i Vangeli raccontano una
violenza collettiva analoga a quella che narrano anche i miti dionisiaci come
molti altri miti; la seconda è che i due tipi di testo non raccontano questa
violenza collettiva nella stessa maniera. I miti considerano la violenza della
folla un’azione giusta e legittima, e la vittima vi fa sempre, in un modo o
nell’altro, la figura del colpevole; i Vangeli, al contrario, considerano questa
un’azione ingiusta e illegittima, giacché riconoscono la demenza irrazionale
che è propria delle folle umane.
Nietzsche ha qui trovato la vera differenza cristiana e giudaica rispetto ai
miti. Io penso sia questa differenza, che oggi si riverbera su tutte le violenze
della nostra storia, a determinare ciò che io chiamo la preoccupazione
moderna verso le vittime, la volontà di sottrarre l’umanità a una violenza
caratteristica non di certe società solamente ma del sociale nella sua stessa
essenza. Tutte le società umane si basano su delle espulsioni, su delle
esclusioni, la cui violenza viene giustificata dai miti. I testi biblici ed
evangelici condannano questa medesima violenza.
Ma le nostre scienze sociali non tengono in alcun conto il religioso. Esse
non hanno dunque ancora appreso ciò che il genio di Nietzsche aveva capito
oltre un secolo fa.
Disgraziatamente per noi e per lui stesso, il filosofo del superuomo, invece
di entusiasmarsi per il progetto di un mondo senza vittime, invece di
mettersi al suo servizio, vi ha opposto il rifiuto più assoluto, più isterico.
Ritengo che nella folle condanna di ciò che costituisce la vera grandezza
della nostra cultura Nietzsche si sia votato alla pazzia, finendo per
autodistruggersi.
Benché debole e perennemente malato, Nietzsche non perde mai
l’occasione di fustigare la protezione dei deboli e dei malati che è tipica
della nostra società. Autentico Don Chisciotte della morte, egli condanna
ogni misura in favore dei diseredati o dei gruppi etnici tardivamente
coinvolti nello sviluppo moderno. Nella preoccupazione per le vittime il
pensatore tedesco non vuole vedere che un fattore di accelerazione della
decadenza. Nemico alla fin fine della propria stessa scoperta, Nietzsche
sposa in tal modo tutti i cliché reazionari della sua e della nostra epoca.
Egli riduce la preoccupazione moderna per le vittime a quella che chiama la
“morale da schiavi”, radicata in ciò che pensa essere il risentimento sociale
dei primi cristiani, la loro volontà segreta di distruggere il potere degli
aristocratici.
La tesi è troppo palesemente falsa per meritare una confutazione. Lungi dal
comportare una perdita di vitalità, la preoccupazione verso i perseguitati e
gli esclusi accresce le energie del nostro mondo. La società più dinamica del
nostro tempo, quella americana, è interamente composta da coloro che
Nietzsche condannava a un’esistenza inferiore. Per confutare la teoria
nietzschiana è sufficiente rileggere, alla luce di quanto avviene nella nostra
epoca, la famosa iscrizione sulla Statua della Libertà all’ingresso del porto
di New York: «Give me your tired, your poor, your tempest-tossed, your
huddled masses yearning to be free, the wretched refuse of your teeming
shores» («Datemi le vostre masse stanche, povere, sballottate dal mare e
accalcate, anelanti a essere libere, i miseri rifiuti delle vostre coste
brulicanti»).
Il vero problema di Nietzsche è che egli condivideva con la maggior parte
degli intellettuali del suo e del nostro tempo la passione per i rilanci
ideologici irresponsabili, gli stessi che hanno condotto alle illusioni
totalitarie. Sventuratamente per lui e per noi, egli non era circondato solo
da intellettuali incapaci di azioni concrete al pari di lui. Tra i nietzschiani di
prima cova c’erano degli autentici forsennati, di quelli che giocano ai
pensatori moderni il peggior tiro che possano fare loro, quello di prenderli
alla lettera, ed è quanto hanno fatto i nazisti nei confronti di Nietzsche.
Questa sventura non è capitata solamente a questo filosofo, ma a molti altri
pensatori rivoluzionari grandi e piccoli, da Karl Marx a Jean-Paul Sartre
nonché a molti altri.
Non sono sicuramente gli intellettuali i principali responsabili dei grandi
massacri del XX secolo, ma la loro responsabilità è ciò nonostante reale, e di
tutti questi massacri il più gravido di implicazioni per gli Europei, quello
che pesa di più sulla loro coscienza collettiva e sul loro inconscio è la
distruzione sistematica del giudaismo attuata dal regime hitleriano.
È indiscutibile che nella genesi dell’olocausto l’antisemitismo tradizionale
dei paesi cristiani abbia giocato un ruolo importante. Ma su questa
deplorevole base, del tutto in contraddizione con l’autentico messaggio
cristiano, è venuto a combinarsi e sovrapporsi qualcosa di nuovo e di affatto
insolito. Benché priva di finalità razionali, l’impresa nazista fu
razionalmente e rigorosamente concepita ed eseguita.
Certo, nulla è più comune dei massacri nella storia umana, ma essi nascono
generalmente nel fuoco dell’azione, e sono il frutto di una ferocia più o
meno spontanea. Quando essi sono premeditati, è comunque perché
rispondono a dei calcoli a breve termine e di interesse assai limitato.
L’impresa hitleriana è altra cosa. Contrariamente a quanto dicono molti
commentatori, preoccupati di perpetuare l’influenza di Nietzsche nel nostro
mondo, io penso che per comprendere tale impresa in profondità sia
necessario riportarla alle idee di questo filosofo, e riconoscervi uno sforzo
titanico per realizzare mediante la violenza reale, fisica, quanto Nietzsche
voleva realizzare con la sola violenza filosofica: sottrarre prima la Germania,
e poi l’umanità intera, alla vocazione che ci è consegnata dalla nostra
tradizione religiosa, quella che definisco come preoccupazione moderna
verso le vittime.
Il tentativo attuato dal regime nazista dà una smentita spettacolare alla
descrizione che ho fatto di questa vocazione, ma non bisogna concluderne
per questo che tale vocazione non sia reale. Tutt’altro. Questa smentita è
deliberata, e costituisce quello che c’è di originale e terribile nell’impresa
hitleriana, la sua volontà di cambiare l’attitudine di fondo della nostra
società. Tale volontà non fa che un tutt’uno col progetto di ritorno al
paganesimo che il nazismo rivendica, e che presuppone l’annientamento
dell’influenza giudaica e cristiana. Organizzando un immenso massacro il
nazismo intendeva dimostrare che, lungi dall’essere dominate per sempre
dalla preoccupazione per le vittime, la Germania e l’Europa erano ancora
capaci di sacrificare tante vittime quante erano necessarie per la
ripaganizzazione dell’Occidente.
Durante la guerra il regime hitleriano, per ovvie ragioni, si è sforzato di
dissimulare il genocidio che stava compiendo. Se avesse trionfato, io credo
che l’avrebbe reso pubblico, allo scopo di convincere il mondo che la
sollecitudine verso le vittime non è il vero senso della nostra storia.
Estirpare dall’anima europea tale sollecitudine, ecco qual era il progetto
dell’hitlerismo nell’ordine spirituale.
Il movimento nietzschiano del dopoguerra, decostruttore e «politicamente
corretto», ci assicura che Nietzsche sarebbe stato inorridito da
quest’interpretazione del suo pensiero, e questa è una cosa oltremodo
possibile. Tuttavia ciò non toglie che egli abbia scritto certi testi che fanno
di lui il vero teorico del nazionalsocialismo:
L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si
potè più sacrificare; ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani... [...] Questo amore universale
è in pratica un trattamento preferenziale per tutti i sofferenti, falliti, degenerati: esso ha in realtà
abbassato e indebolito la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini. [...] La vera
filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie - è dura, è piena di autosuperamento, perché
abbisogna del sacrificio dell’uomo. E questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo, vuole
giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato..3
L’ultimo Nietzsche afferma che il cristianesimo toglie al mondo moderno la
forza e la bellezza che la pratica del sacrificio umano procurava al
paganesimo: impedendo ai popoli di espellere i rifiuti umani che li
indeboliscono, esso li rende a suo avviso malati e malsani...
Per raggiungere lo scopo di affogare nel sangue la preoccupazione moderna
verso le vittime il regime hitleriano disponeva di risorse incomparabilmente
più grandi di quelle di un povero filosofo sulla strada della follia. Ma la cosa
essenziale è che, a dispetto dei milioni di vittime che ha provocato,
l’impresa hitleriana è miseramente fallita. Anziché soffocare nell’Europa del
dopoguerra l’assillo per le vittime, essa l’ha enormemente rafforzato, ed è
questo rafforzamento che dà alla nostra cultura contemporanea il suo
carattere più specifico.
Il nazismo è fallito nel suo principale progetto, eppure il suo fallimento non
è totale, poiché ci ha demoralizzato proprio riguardo a quello che non è
riuscito a distruggere dell’anima europea, ovvero la nostra preoccupazione
verso le vittime. Dopo più di mezzo secolo, il nazismo sembra vendicarsi
della sua sconfitta con lo scoraggiare e devitalizzare la civiltà occidentale.
Ritengo che ci siano due tipi di reazione sbagliata ai drammi terribili vissuti
dall’Europa nel XX secolo.
Il primo consiste nel negare l’enormità, la mostruosità degli avvenimenti
che ho appena evocato; tale reazione si sforza di confondere le carte in
tavola, e di dimenticare il prima possibile ciò che è accaduto, rifiutandosi di
affrontare onestamente la crisi della nostra civiltà. È questa la linea seguita
da certi pensatori, soprattutto conservatori, che rifiutano qualunque esame
autocritico.
Il secondo tipo di reazione è inverso al primo, e consiste nel respingere la
cultura europea come se fosse stata interamente solidale con lo sforzo
hitleriano di modificarne la definizione, di tradirne l’essenza fondamentale.
Si immagina che la preoccupazione per le vittime sia un’invenzione del tutto
recente, una rivolta spontanea degli uomini d’oggi contro l’ignominia di
tutta la storia passata, grazie all’apparizione improvvisa di una nuova
generazione infinitamente superiore alle precedenti. La nostra generazione
avrebbe fatto questo da sola, perché prima di lei non ci sarebbero state che
menzogna, corruzione e sopraffazione.
Questo rifiuto della memoria storica, con l’arroganza che ingenera, è
pericoloso per l’avvenire stesso della cultura europea: esso rischia di
riportare le antiche violenze in nome di ideali che si credono completamente
nuovi, ma che in realtà si collegano al recente passato. La nuova
generazione dovrebbe comprendere che quanto vi è di migliore in essa, la
volontà di non fare vittime, affonda le sue radici proprio in ciò che tende a
ripudiare, ossia la tradizione religiosa e culturale dell’Occidente.
A partire dagli anni Sessanta la rivolta contro il passato ha assunto le forme
di un nichilismo sempre più forte, che si accompagna a un
antioccidentalismo a oltranza. Tutta una nuova tendenza intellettuale ostile
al nazismo, ma favorevole al nichilismo di Nietzsche, ha non solo
accumulato montagne di sofismi per sollevare il filosofo da ogni
responsabilità nell’avventura nazionalsocialista, ma ha anche collaborato
alla nostra demoralizzazione culturale passando all’estremo opposto e non
vedendo nello spirito europeo altro che perversità, scaltrezza e
machiavellismo.
Non è rassicurante constatare che il grande ispiratore del nichilismo che
trionfa nelle università europee e americane di oggi è quello stesso
Nietzsche di cui si poteva immaginare, dopo la guerra, che sarebbe rimasto
screditato per sempre dall’uso che l’hitlerismo ne ha fatto.
Se il pensiero nietzschiano ha potuto ispirare il nichilismo del dopoguerra è
perché esso è stato recuperato da un altro filosofo tedesco, le cui simpatie
per il nazismo sono ben conosciute, e che si è presentato come il solo
autentico erede di Nietzsche: Martin Heidegger, che ha avuto l’abilità di
neutralizzare tutta la problematica religiosa di Nietzsche dichiarandola
ormai superata. Questo ha permesso di ricostruire un Nietzsche
meticolosamente ripulito di tutto ciò che avrebbe dovuto invece renderlo
sospetto nel periodo del dopoguerra. Trascurando le sue idee a vantaggio
del suo metodo cosiddetto “genealogico”, si è fatto di Nietzsche un semplice
strumento del nichilismo contemporaneo.
Negazione di qualunque possibilità di accedere alla minima verità, alla
minima certezza, rifiuto di ogni nozione di senso nonché della ragione,
ripulsa non soltanto della religione ma della stessa scienza in nome di una
frattura incolmabile tra linguaggio e realtà, impossibilità di arrivare alla
minima conoscenza certa, rinuncia all’idea complessiva di sapere propria
dell’Occidente, abbandono di tutti gli assoluti perché giudicati responsabili
dei mali dell’umanità, ecco in cosa consiste il nietzschianesimo
contemporaneo.
La genealogia nietzschiana consiste nel mostrare l’origine storica bassa,
misera e meschina di tutto ciò che asserisce di avere una nascita nobile e
pura. La decostruzione intende proseguire tale lavoro genealogico ma,
proprio su un punto essenziale, si sottrae a questo compito. Il cuore della
genealogia nietzschiana, il suo pezzo forte era la critica del cristianesimo, il
ripudio violento della cura moderna verso le vittime. Se il nichilismo attuale
fosse veramente fedele alla genealogia, dovrebbe riprendere la critica
nietzschiana del cristianesimo e tutto il progetto neopagano di Nietzsche, di
Heidegger, e del nazionalsocialismo; dovrebbe continuare il progetto
nietzschiano su questo punto fondamentale, e mostrarci che le ragioni per
schierarsi dalla parte delle vittime contro i carnefici sono tanto arbitrarie
quanto le ragioni di fare o pensare qualsiasi altra cosa, che esse non sono
né migliori né peggiori delle ragioni per schierarsi dalla parte dei carnefici
contro le vittime.
Ma questo i pensatori della decostruzione non l’hanno mai fatto, ciò che va
del tutto a loro onore sul piano morale. Essi non combattono mai la
moderna difesa delle vittime, e perciò riconoscono, tacitamente, l’esistenza
di qualcosa nel nostro universo che non si può in alcun modo decostruire, di
qualcosa che resiste vittoriosamente a qualunque tentativo di
smantellamento. Essi silenziosamente si inchinano davanti alla
preoccupazione moderna verso le vittime.
Per quanto sia rispettabile sotto il profilo morale, tale atteggiamento ci
costringe tuttavia a interrogarci sul rigore filosofico del nichilismo
contemporaneo.
Questo indietreggiamento dei decostruttori, il loro rifiuto di decostruire la
cura verso le vittime, la dice lunga sulla forza raddoppiata di questo
imperativo nel nostro mondo. Nietzsche osava ancora combattere il punto
essenziale senza preoccuparsi delle conseguenze, ed è ben per questo che
gli si può imputare qualche responsabilità nelle mostruosità del secolo
appena conclusosi. I decostruttori invece si guardano bene dal riprendere le
analisi di Nietzsche a questo riguardo, e ciò va tutto a loro onore - ripeto -
ma non si può che concluderne che la cura verso le vittime ha per loro, non
meno che per noi, un valore assoluto. È l’assoluto di un mondo che crede di
non averne alcuno, un assoluto che si rivela nel fatto che nessuno desidera
o osa prendersela con esso, nessuno si sogna di “decostruirlo”.
Cura, in tedesco Sorge, è una parola che gli esistenzialisti impiegano
volentieri per indicare una preoccupazione essenziale dell’esistenza umana.
È pensando a questi filosofi che io riprendo il termine, ma l’uso che ne
faccio ne cambia necessariamente il senso.
La cura per le vittime fa certo parte delle nostre preoccupazioni esistenziali.
Nell’esistenzialismo, tuttavia, ciò che è chiamato la «cura» è già sempre lì.
Non viene modificato dalla storia. Si tratta di qualcosa di permanente e, in
definitiva, di atemporale. Non è mai un valore di cui constatare, come nel
caso presente, che un tempo non c’era, mentre dopo, un bel giorno, è
comparso e ben presto non se ne sarebbe potuto fare a meno.
La preoccupazione per le vittime è squisitamente moderna
- l’ho detto - ma non è apparsa dal nulla. Essa precede di molto la seconda
guerra mondiale e anche la prima, dal momento che Nietzsche ne parla, e in
fondo reagisce già contro lo sfruttamento ipocrita di tale preoccupazione.
Essa è ciò nondimeno recente, e si rinforza man mano che il tempo passa.
Tutto conferma la “storicità” della sua apparizione.
C’è in questo qualcosa di inatteso e di opposto a quanto andiamo dicendo
sulla nostra epoca: un valore assoluto che è apparso dentro la storia
sovrastando tutte le opposizioni, un valore che irresistibilmente si impone.
Fino alla seconda guerra mondiale si dava molto credito, sulla scia di Hegel
e di Marx, agli assoluti storici, ma oggigiorno, col crollo delle ideologie, non
vi si ripone più la benché minima fiducia. Gli intellettuali sono ormai
d’accordo nell’abiurare tutti i falsi assoluti ridicolizzati dalla storia
tumultuosa del nostro tempo. Essi però non vedono che dietro questi vecchi
residui un altro assoluto è già sorto, veramente sostanziale stavolta, ed è la
cura verso le vittime, la quale non è nient’altro - se dobbiamo credere a
Nietzsche, degno veramente di fede su questo - che l’interpretazione
specificamente moderna del cristianesimo, la vera maturità di questa
religione.
Dire che la preoccupazione verso le vittime è il nostro assoluto equivale
semplicemente a dire che nessuno la contesta. Essa ha resistito ai tentativi
nietzschiani e hitleriani di sradicarla. Ed è tanto più rimarchevole - ripeto -
che Nietzsche non abbia mai smesso di essere alla moda, e che la nostra
avanguardia porti alle stelle un metodo nietzschiano che poi si guarda bene
dall’applicare al medesimo oggetto a cui lo applicava il pensatore tedesco, e
tutto questo senza mai attirare l’attenzione su una simile inconseguenza. Il
fatto che nessuno si periti mai di riprendere l’impresa del maestro in ciò che
aveva di essenziale ai suoi occhi, e che nessuno presti attenzione alla cosa,
questo è un paradosso su cui vale davvero la pena di soffermarsi.
Il nostro assoluto si è rivelato gradatamente - lo si può mostrare - lungo
tutta la storia cristiana e moderna. Contrariamente a ciò che si potrebbe
credere, la storicità della sua rivelazione non diminuisce in nulla la sua
potenza. La cura per le vittime, come ho cercato di far vedere, riesce il più
delle volte a dissimulare il ruolo della storia nella sua stessa genesi, col
risultato che noi la proiettiamo incessantemente, e anacronisticamente, in
epoche e società che vi sono affatto estranee.
Fino a pochi secoli fa tutti consideravano legittimi dei costumi e delle
istituzioni che la preoccupazione per le vittime ci fa ritenere insopportabili e
odiosi: la schiavitù, la tortura giudiziaria, il diritto di saccheggio, la pena di
morte e così via. È la preoccupazione verso le vittime che affermandosi ha
fatto lentamente ma irresistibilmente tremare queste istituzioni
immemoriali. La circostanza che noi le percepiamo tutte come intollerabili,
a differenza dei nostri antenati, non significa in alcun modo che noi siamo
superiori a questi ultimi. Tale circostanza significa, invece, che la storia
contiene ben altro di quanto vi scorge la visione secondo cui in essa tutto è
“naturale” ed “esistente da sempre”. Il nostro nichilismo è meno totale di
quello che sembra. Noi un assoluto ce l’abbiamo sempre, un assoluto che si
collega più visibilmente, più direttamente al messaggio cristiano che non le
passate ideologie. Il crollo dei falsi assoluti che costituivano le ideologie
sociali e politiche, in particolare il marxismo, ha sgomberato il terreno e
favorito l’avvento diretto del nostro vero assoluto, quello che ci fa vedere le
vittime.
Dopo i nostri disastri filosofici e ideologici, è diventato di buon gusto farsi
beffe di ogni assoluto, e soprattutto di quelli che sono apparsi dentro la
storia. Ci si crede perfettamente a proprio agio all’interno di un nichilismo
senza obblighi né sanzioni. Ma non c’è nessuno, persino tra i nostri
iconoclasti di più incredibile audacia, che osi prendersela con la cura
moderna verso le vittime.
Tuttavia tale preoccupazione - mi si dirà - è la sola eccezione al nichilismo
attuale. Senza dubbio, ma l’assoluto non è mai null’altro che questa
eccezione unica al nichilismo che lo circonda. Ciò che all’assoluto
appartiene è appunto di promuovere il nichilismo a proposito di tutto ciò
che non coincida con sé.
L’aumentata potenza della vittima non coincide per caso con l’avvento, per
la prima volta nella storia dell’umanità, di una cultura veramente
planetaria, corrispondente a ciò che oggi si chiama, nel bene e nel male,
globalizzazione. È la preoccupazione verso le vittime che abbatte ogni
barriera, che abolisce ogni frontiera intorno a noi. Vi è in questo grandioso
processo, a tutta evidenza, l’affermarsi di qualcosa di unico nella storia del
nostro mondo, un’avventura senza precedenti, le cui radici sono però nel
nostro passato, nelle nostre tradizioni umanistiche, e più ancora in quelle
religiose.
Si ripete sempre che nessuna società ha mai fatto più vittime della nostra,
ed è vero, ma è vera anche l’affermazione opposta: nessuna società ha mai
soccorso più vittime della nostra. Quest’ultima constatazione non compensa
la prima, ovviamente, ma le esagerazioni contrarie all’autocompiacimento
borghese tipiche dell’autocritica occidentale sono ormai talmente eccessive
che sarebbe opportuno ritornare al buon senso. Bisogna certamente
denunciare tutti gli abusi che la potenza dell’Occidente ha provocato, ma il
fattore più decisivo nel processo di globalizzazione e universalizzazione del
modello europeo e americano non è la violenza né la conquista: è piuttosto
l’intero mondo a essere spinto dal suo desiderio di occidentalizzarsi.
La tendenza verso l’unificazione dell’Europa e persino del mondo,
dell’umanità intera, - già chiaramente avvertita da Nietzsche -, è l’effetto di
ciò che rappresenta la grandezza, e non la vergogna, della nostra storia. La
compassione non è stata certo inventata dalla nostra società, essa esisteva
già nelle culture arcaiche, ma il punto è che veniva esercitata
esclusivamente all’interno di gruppi o sottogruppi ermeticamente chiusi. Le
culture ancora autonome coltivavano ogni sorta di solidarietà e di
appartenenze famigliari, tribali, nazionali, che però non potevano
perpetuarsi che ricorrendo a qualche espulsione sacrificale. Queste società
non conoscevano dunque la vittima allo stato puro, la vittima anonima e
ignota nel senso in cui noi parliamo del «milite ignoto». Prima di questa
scoperta, non esistevano di norma uomini degni di questo nome al di là dei
confini di ciascuna cultura. Noi abbiamo inventato l’uomo solamente umano,
vale a dire la vittima, ma sono in realtà i Vangeli che l’hanno inventato per
noi, designandolo con la frase Ecce homo.
Inutilmente Nietzsche si appropria di questa designazione riguardante
Cristo nell’opera in cui egli cerca di compiere il riepilogo illusoriamente
trionfale di tutti i suoi scritti. La pazzia avrebbe concluso entro breve la sua
imitazione tragicamente caricaturale, rivelando quel destino di vittima di se
stesso e degli altri che il sedicente Dioniso aveva voluto con ogni mezzo
coprire. Spetta a noi compiere la scelta tra il vero modello del nostro Ecce
homo, e l’imitazione dissociata, autodistruttiva del filosofo che, con i suoi
scritti e più ancora con il suo destino, ci ha accompagnato e aiutato nel
corso di queste riflessioni.

1
Versione modificata di Le souci moderne des victimes, conferenza tenuta presso la Fondazione
Gulbenkian a Lisbona nel maggio 1998 (La preoccupazione moderna per le vittime, a c. di G. Fornari,
“Filosofia e Teologia”, 2 (1999), pp. 223-36)
2
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [89], p. 56.
3
ïvi, 15 [110], pp. 257-58.
Giuseppe Fornari
Il dio sbranato. Nietzsche e lo scandalo della
croce
I. La caccia alla balena
Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti? Perché uno è sopravvissuto alla distruzione.

Ismaele in Moby Dick1

La figura di Nietzsche è di fondamentale importanza per una migliore


comprensione del cristianesimo e della sua unicità, questa è la conclusione
che un esame attento e obiettivo dei suoi scritti permette di raggiungere.
Conclusione inusuale perché, se il ruolo della religione nel pensiero di
Nietzsche è stato sottolineato da diversi interpreti, non altrettanto si può
dire per l’unicità che egli attribuisce al cristianesimo. Tale unicità, nella sua
visione, è certo di ordine negativo, ma di tale peso da costringerlo a
ritornarci sopra con intensità crescente, fino al pamphlet illusoriamente
catartico dell’Anticristo, sul quale dovremo fermare in particolare la nostra
attenzione.
L’interprete che ha avuto il merito di sottolineare la visione assolutamente
fuori dell’ordinario che del cristianesimo ha avuto Nietzsche è stato René
Girard, che sottolinea anche la singolare cecità collettiva, da Lettera rubata
di Poe o meglio ancora da imperatore nudo di Andersen, che ha colpito
pressoché tutti gli esegeti di questo filosofo. L’intervento del pensatore
francese è come sempre dissacratorio e spiazzante, e sfata così tanti luoghi
comuni, sul cristianesimo e su Nietzsche, da essere stato a lungo ignorato, e
a tutt’oggi non si può dire che la situazione sia completamente cambiata.
Una duplice censura - sul vero messaggio cristiano e sul vero significato
della figura di Nietzsche - viene così esercitata, tanto più difficile da
superare in quanto il filosofo ne è parte attiva a tutti gli effetti.
L’interpretazione di Girard non è né intende essere completa, però propone
un percorso dei più impervi e affascinanti, un’autentica sfida esegetica che
nel presente saggio sarà sviluppata con la speranza che qualcuno ne noti la
forza, la pura e semplice capacità di dar ragione di fatti sistematicamente
ignorati proprio perché difficilmente negabili. È vero che l’intero corpus
degli scritti nietzschiani sembra opporsi fieramente a qualsiasi tentativo del
genere, e irridere a ogni sforzo di ricondurlo a un messaggio univoco, a un
contenuto reale e riconoscibile, tanto più se a tale sforzo si accompagna
qualcosa come una motivazione morale. Non è forse il superamento di
qualunque morale e di qualunque visione normativa e oggettiva della realtà
quello che Nietzsche propone, in una scintillante consapevolezza che è il
richiamo delle sirene che attrae così numerosi lettori? La molteplicità di
facce e di atteggiamenti che assume il filosofo è disorientante, e
sembrerebbe giustificare sia la definizione data da Gianni Vattimo di un
“pensiero della differenza”, sia la reazione sistemizzatrice di Heidegger, che
perentoriamente dichiara il pensiero di Nietzsche «non [...] meno
consistente e rigoroso di quello di Aristotele» 2. In realtà tali posizioni non si
escludono, e anzi si richiamano a vicenda, avendo esse in comune la volontà
di rimanere nel filosofico, di pensare che comunque la risposta alle
domande sollevate da Nietzsche non possa essere formulata in un diverso
linguaggio. Il problema religioso, e dell’anomalia cristiana rilevata da
Nietzsche, rimane taciuto.
L’idea di un confronto essenziale dell’opera di Nietzsche col religioso e col
cristianesimo diventa ancor più controcorrente se la applichiamo, oltre che
al pensiero, anche alla vita di questo pensatore. Malgrado o piuttosto in
ragione del travestitismo, persino dell’istrionismo del filosofo di
Zarathustra, in pochi pensatori come in lui si può rilevare uno stretto,
addirittura catastrofico nesso tra vita e pensiero. Il moltiplicarsi dei
travestimenti, delle pose, delle dichiarazioni d’intenti testimonia, più che un
superamento del pregiudizio dell’identità, un tentativo sistematico di fuga
da essa. Si traveste soprattutto chi ha qualcosa da nascondere.
Esiste una possibilità diversa rispetto al prendere insieme tutti i testi di un
autore o al sistemarli nel letto di Procuste della propria filosofìa, ed è la
possibilità, supremamente ermeneutica, che è ben nota ai veri psicologi e ai
veri lettori: quella di scegliere in un testo o insieme di testi solo quegli
elementi che si rivelano un segno, una spia di ciò che sta sotto. La strategia
è più rischiosa, implica il fiuto e le lunghe ricerche di un cacciatore, ma
unicamente a essa è riservata la preda più ricca. Una volta trovati gli indizi
e le tracce, l’insieme che sembrava ormai sistemato, classificato, a parte
alcune zone d’ombra normalmente ignorate o dichiarate non rilevanti,
comincia a muoversi, a riprendere vita: si inizia a comprendere non solo
quello che i testi dicono ma pure quello, e a volte è l’essenziale, che i testi
non dicono. La chiave d’accesso è trovata, e tutti quegli elementi che prima
sembravano confutare l’interpretazione eterodossa, venendo adesso
spiegati e inseriti in una luce più ampia, la vengono a confermare,
assumono un significato diverso, addirittura opposto.
Le cose tuttavia, per un autore come Nietzsche, non sono per nulla semplici.
La volontà di depistaggio che il filosofo mette in opera è strenua. Occorre
quindi della decisione. Per catturare Proteo, il dio greco delle metamorfosi,
bisogna non farsi distrarre dalle sue continue trasformazioni, bisogna
lasciarsi guidare dal convincimento che esse sono il risultato non della
potenza, ma della paura, del desiderio disperato di non farsi prendere. La
metamorfosi, la recitazione è una fuga.
Vediamo subito alcune applicazioni concrete di una simile chiave di lettura.
In una delle sue ultime opere, il Crepuscolo degli idoli, il filosofo si pone
alcune significative domande, sotto forma di aforismi:
37
Precedi gli altri nella corsa? - Lo fai come pastore? o come eccezione? Un terzo caso sarebbe che ti
fossi dato alla fuga... Primo caso di coscienza.

38
Sei sincero? o solo un commediante? Uno che rappresenta qualcosa? o la cosa stessa rappresentata?
In definitiva non sei altro che l’imitazione di un commediante... Secondo caso di coscienza.3
Nei due aforismi le alternative sperate (il «pastore», l’essere «sincero»)
sono mescolate, non senza l’inquietante passaggio intermedio
dell’«eccezione», a quelle temute, la fuga, la finzione della commedia; per
ultima arriva l’immagine che descrive il gioco, «l’imitazione di un
commediante», ossia non il semplice travestimento, ma il suo principio
interno: una recitazione al quadrato, una formula moltiplicabile all’infinito,
come suggerisce anche l’enumerazione dei “casi di coscienza”. Ci viene
detto già l’essenziale, purché distinguiamo le proiezioni (il «pastore»,
l’essere sinceri) da quelle che sono autentiche descrizioni (la «fuga», il
«commediante»), e purché, attraverso il ruolo ambiguo dell’«eccezione»,
percepiamo la volontà, l’illusione di confondere queste con quelle
(«l’imitazione di un commediante»).
Altre immagini di uguale significato nei suoi scritti sono quelle del
pagliaccio o del funambolo, finché in Ecce homo, nel capitolo intitolato
Perché io sono un destino, Nietzsche non arriverà a dire: «Forse sono un
buffone...», un buffone in cui però - egli aggiunge - proprio per questo parla
la verità stessa4. L’espressione più diretta di questo paradosso è
nell’abbozzo preparatorio del capitolo: «Dio o pagliaccio - è questo
l’involontario in me, questo sono io»5. «Questo sono io» indica che
l’imitatore di un commediante non è l’una o l’altra delle alternative del
dilemma, bensì la loro possibilità simultanea, compresenza paradossale che
non è coscientemente decisa («questo è l’involontario in me»), ma esprime
la forza da cui viene la volontà di Nietzsche, una forza lacerante e divisa alla
quale egli non riesce a sottrarsi: l’imitatore vorrebbe essere Dio, ma si vede
ricacciato nel ruolo degradato del buffone. Nella versione conclusiva
l’alternativa temuta è preceduta da un «forse» («Forse sono un buffone»),
subito dopo provocatoriamente ostentata con un’affermazione assoluta di
identità, di verità: «...la mia verità è tremenda: perché fino a oggi si
chiamava verità la menzogna». Quest’identità follemente asserita è l’ultimo
atto della simulazione, della lunga lotta fra il Dio e il pagliaccio, la fase in
cui le due identità ruotano vorticosamente e si sostituiscono, si fondono,
sino a formare l’immagine caricaturale e tragica di un pagliaccio
divinizzato, di un Dio-pagliaccio.

I testi citati dovrebbero essere già indicativi delle strategie e delle astuzie a
cui ricorre il loro autore. Per essere catturato nella sua rotazione sempre
più rapida di parti e di identità il filosofo va assolutamente preso alla lettera
in alcuni punti, in alcuni momenti nevralgici della sua opera, ossia sorpreso
e catturato nella stessa espressione letterale del proprio pensiero, se è vero
che, come osserva Calasso parlando dell’ultimo Nietzsche, «il genio è anche
la capacità di prendersi alla lettera»6. Una simile constatazione non deve
scoraggiare, ma avvertire che la caccia sta dando i suoi frutti. È la presenza
di tracce dirette distinguibili da tutto il resto il segnale che la preda è
vicina. Cosa deve fare qualcuno che fogge? Se non può cancellare
totalmente le tracce (e come potrebbe, dal momento che vuole recitare,
dimostrare qualcosa?) deve fare in modo che le tracce vere siano prese per
false, e che quelle false siano prese per vere. È il caso esemplare di
Nietzsche, ed è la trappola in cui è caduta la maggior parte dei suoi lettori.
Nietzsche viene interpretato metaforicamente dove prima di tutto dovrebbe
essere preso alla lettera, e viene interpretato alla lettera dove non
dovrebbe. La sistematicità dell’inganno esclude qualunque fattore casuale.
Tutto ciò dimostra come la partita che si sta giocando non sia di natura
meramente testuale. Se fosse solo questione di elementi formali messi l’uno
accanto all’altro non ci sarebbe speranza. Ma il metodo testuale all’altezza
della partita è definibile come supremamente ermeneutico proprio perché
attinge ai fondamenti non interpretativi di qualunque autentica
interpretazione, ossia a una realtà che genera il testo, e che il testo segue
od ostacola a seconda di come vi reagisce, a seconda della posizione,
dell’esigenza vitale, della contraddizione mortale che l’ha fatto nascere. Le
metafore teatrali che il filosofo usa non vanno mai prese come fini a se
stesse, ma come sviluppo delle metafore arcaiche della lotta, della caccia,
dell’inseguimento, di ciò che l’esegeta è costretto a fare se vuole catturare
la sua preda testuale. È una caccia alla fine non è una metafora, è un’azione
reale che presuppone l’esistenza di prede reali, e più la caccia è importante
più la preda si fa pericolosa, si fa capace di lottare col cacciatore ad armi
pari. Nel caso estremo la lotta diventa un aut aut: o si cattura la preda, o se
ne è catturati. Nulla di accademico, di esornativo nei grandi testi, nei grandi
autori. Il rapporto con essi è un rapporto di vita o di morte, di vittoria o di
perdita, e quando si ha a che fare con essi si può subire la più cocente, la
più umiliante delle sconfitte, quella di venirne catturati senza saperlo,
quella di essere i prigionieri di una gabbia che scambiamo per la verità, di
una finzione che scambiamo per la realtà. Ogni applauso che possiamo
ricevere da questa gabbia renderà soltanto più fondo il silenzio del
disinganno, quando apparirà chiaro che l’enigma non è stato in nulla
svelato, che è stato l’enigma a ingabbiare, a ingoiare l’ignaro interprete.
Fra le due soluzioni del catturare o del venir catturati, del divorare o del
venir divorati (e del padroneggiare la rappresentazione o esserne
padroneggiati) ci possono essere, nel corso dell’inseguimento, mille gradi
intermedi, e Nietzsche ha l’abitudine di porsi su uno qualunque di questi
gradi intermedi, non senza rapide finte in un senso o nell’altro. Colui che si
è definito «l’imitazione di un commediante» è la preda più ostica, un
predatore che conosce tutte le astuzie mimetiche di chi non deve farsi
predare, e che sa che al momento giusto la miglior difesa è l’attacco, una
preda meravigliosamente attrezzata per essere lei a catturare l’incauto
cacciatore. Ma, abbandonando per un momento le immagini della caccia e
del teatro, quali sono realmente gli estremi della scala lungo la quale egli
cerca di arrampicarsi, lungo la quale questo strano cacciatore-commediante
cerca di uccidere e di fuggire? Si tratta veramente del dilemma drammatico
fra divorare o venir divorati, fra recitare o venir “recitati”, giocati dalla
propria parte?
Abbiamo visto che il filosofo vorrebbe essere Dio anziché pagliaccio, ma
abbiamo pure visto come egli non riesca a separare l’alternativa sperata
(Dio) da quella temuta (pagliaccio), ricorrendo alla confusione dei ruoli nel
tentativo di far passare la sua finzione per vera. Il dilemma è più che
psicologico o teatrale, è religioso. Nietzsche ha una percezione acuta
dell’ambivalenza presente all’interno di ciò che chiamiamo religione, e
cerca di risolverla in un’ultima opposizione, per lui conclusiva. Il termine
“religione”, infatti, designa due cose che per il filosofo non potrebbero
essere più opposte, più inconciliabilmente nemiche: il dio che egli invoca
più di ogni altro, Dioniso, e quello che detesta più di ogni altro, il Dio della
Bibbia ebraica e soprattutto dei Vangeli 7. Appiattire in un unico, generico
comun denominatore princìpi che per Nietzsche erano abissalmente
contrari non appare una buona ermeneutica, e questo va detto per chi come
Heidegger - ma si tratta di un’intera legione di interpreti - ha voluto
ignorare l’opposizione come irrilevante da un punto di vista speculativo. La
contrapposizione di Nietzsche potrebbe venir superata solo qualora se ne
dimostrasse la mancanza di basi oggettive, ma è precisamente questo che
gli interpreti di solito non fanno, di solito essi prendono la questione come
già decisa in un senso o nell’altro, senza bisogno di particolari
giustificazioni. Una cosa non viene mai fatta: porsi la domanda se per caso,
proprio qui, Nietzsche non avesse almeno in parte ragione. Ma per
rispondere alla domanda bisogna indagare cosa c’è dietro quelli che per
Nietzsche rimangono degli irriducibili opposti, ed è in tale indagine che si
inserisce, con il suo caratteristico intuito, Girard.
Un aspetto appare subito chiaro: Nietzsche per più aspetti è speculare a
Girard. Non è esagerato affermare che questo filosofo nega esplicitamente o
rovescia di valore tutto ciò che Girard ha indagato, dal desiderio imitativo o
mimetico al cristianesimo, ma occorre aggiungere che il modo in cui egli lo
fa è del tutto unico, e non poteva non provocare la risposta, la caccia
sorniona e tenace del pensatore francese. La strategia con cui Girard
affronta Nietzsche potrebbe essere paragonata a quella di un baleniere:
lunghe, interminabili attese, un’inesorabile esclusione dei dettagli che
tengono occupati tanti altri studiosi, pochi tiri ben piazzati di arpione, ossia
pochi studi, piazzati a distanza di anni, uniti a una lunga serie di accenni e
di riferimenti presenti nelle sue opere. Ma ancora una volta le metafore
venatorie vanno approfondite, vanno trasformate e rimesse in movimento:
l’immagine della caccia alla balena si adatta molto bene prima di tutto a
Nietzsche stesso, e a questo punto ci può soccorrere la simbologia della
caccia più metafisica della letteratura moderna, quella di Moby Dick di
Melville.
Achab vive nell’ossessione, nell’ammirazione e nell’incubo della balena
bianca che insegue in tutto il mondo, venendone alla fine trascinato negli
abissi. La preda e il suo cacciatore sono i due poli fra cui oscilla Nietzsche,
ma la loro contrapposizione è in definitiva illusoria, ossia reversibile,
transitoria: Achab e Moby Dick, nel corso di una caccia che
indissolubilmente li divide e li unisce, arrivano a coincidere. È il
congiungimento del dittico che essi da sempre formano a rivelare l’abisso
del male, l’autodistruzione dello spirito dell’antagonismo, della vendetta.
Sono i due estremi fra cui si muove anche il filosofo, e che in ultimo si
congiungono mortalmente contro di lui. È allora proprio questo il senso
della contrapposizione fra Dioniso e Cristo? Questa è certo l’interpretazione
che Nietzsche voleva dare all’opposizione che per lui sintetizzava ogni altra,
ma se questa fosse un’interpretazione del tutto corretta, Nietzsche non
reagirebbe al messaggio cristiano con la rabbia di chi si vede guastare il
gioco. Cristo evidentemente disturba, interrompe il gioco dell’uccisore che è
ucciso, del cacciatore che diventa la preda, del Dio che è nello stesso tempo
pagliaccio, e per questo motivo Nietzsche tenterà di affibbiargli il secondo
termine dell’alternativa di Ecce homo («Dio o pagliaccio»). I risultati
saranno spaventosi.
Le regole stesse del gioco di Nietzsche, che poi sono state le regole di tanti
suoi seguaci, dimostrano che Girard non può e non vuole seguirle alla
lettera: egli non ha nessuna intenzione di essere un cacciatore nel senso
violento della parola, di realizzare in modo malsano antiche metafore della
conoscenza. La sua posizione è piuttosto quella dell’autore di Moby Dick, il
cui intento è descrivere, raccontare il rincorrersi e l’unirsi fatale di
inseguitore e inseguito. Come nessun altro Girard avverte che Nietzsche è
grande anche nei suoi errori. Ma terribile è stato il destino di chi, come il
filosofo, ha voluto sostenere fino in fondo simili errori, ha voluto fino in
fondo giocare al suo gioco. È tutta una parte della cultura europea che, alla
pari dell’equipaggio del Pequod, farà naufragio insieme col teorizzatore
della volontà di potenza.
Il rapporto di Nietzsche con ciò che Girard ha indagato non è di semplice
negazione, giacché in tal caso non ci sarebbe alcun motivo per occuparsi
specificamente del pensatore tedesco. La singolare qualità di questo filosofo
è che egli ha il coraggio, anzi la temerarietà, di andare a vedere da vicino
ciò che vuole distruggere, col risultato che il suo tentativo diventa
l’eloquente, drammatica dimostrazione di ciò che voleva negare. Né è
difficile capire il perché.
In questo gioco mortale Nietzsche vorrebbe essere l’inafferrabile preda,
l’imprendibile balena bianca, ma se così fosse nessuno inseguirebbe
Nietzsche, il gioco, la caccia confuterebbe se stessa. In realtà la balena non
è che il desiderio nascosto, spettrale del suo inseguitore. Il problema di
Nietzsche è che egli è condannato a essere Achab, il capitano folle che non
molla la preda perché fa già parte di lui, che vuole ucciderla perché non
faccia più parte di lui, l’inseguitore che insegue, l’uccisore che uccide se
stesso. Mai parabola, nel doppio senso di caduta e di storia da cui ricavare
un insegnamento, è stata più amaramente istruttiva.
La pista di ricerca che ci propone il pensatore francese è potenzialmente
così ricca e capace di dire cose che nessuno aveva mai detto, perlomeno con
questa concretezza e forza di coinvolgimento, che appare necessario,
addirittura urgente approfondirla, ampliarla, portarla alle ultime
conseguenze. Come vedremo, nella balena-Nietzsche che è Nietzsche-Achab
c’è ancora un punto vitale da colpire, ossia da descrivere, un punto talmente
sinistro e nevralgico da rivelarci l’ultimo istante di ribellione, di colpa, da
portarci sulle soglie della pazzia del filosofo ormai pronto a varcarle. Il
suicidio, il crollo, il naufragio sono in lui prima di tutto spirituali, non
semplicemente mentali. Assistervi significa in qualche misura parteciparvi,
significa imbarcarsi sulla medesima nave, significa salvarsi solo se si
capisce che è un sogno, un cattivo sogno, lo stesso di cui è intessuto il
mondo secondo La tempesta di Shakespeare.
La nostra posizione, il nostro ruolo può essere quello di Ismaele, il mozzo
che si salva a stento dal disastro per poterlo raccontare.

1
H. MELVILLE, Moby Dick o la balena, tr. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1987, p. 588.
2
Μ. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, cit., p. 229.
3
E Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, tr. it. di E Masini, Adelphi,
Milano 1983, p. 30.
4
F. NIETZSCHE, Ecce homo, cit., pp. 135-36 (viene in generale seguita questa edizione, tenendo
però conto dell’ed. finale F. NIETZSCHE, Opere, cit., vol. VI, tomo III, Il caso Wagner, Crepuscolo
degli idoli, L'anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner, tr. it. di F. Masini e R. Calasso,
Adelphi, Milano 1970).
5
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 25 [6], p. 409 (v. F. NIETZSCHE, Il caso
Wagner ecc., cit., pp. 630-31).
6
R. Calasso, Monologo fatale, in F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 162.
7
Dalla contrapposizione nietzschiana fra paganesimo e cristianesimo trae ispirazione il mio libro Fra
Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occidentale, Pitagora, Bologna 2001. La
presente indagine su Nietzsche è, in un certo senso, la continuazione e la provvisoria conclusione di
quest’opera.
II. L’eterno ritorno della pazzia
Una volta individuata la chiave ermeneutica giusta, le conferme che
giungono dagli scritti e dai documenti della vita di Nietzsche sembrano
quasi travolgerci. Esse appaiono così numerose da costringerci a vedere con
occhi nuovi il pensiero e il destino di questo filosofo, a cominciare dalla
conclusione che ne rappresenta il tragico sigillo, e che inutilmente la
“buona” volontà di tanti interpreti ha cercato di minimizzare: il crollo
psichico sopravvenuto a Torino tra la fine del 1888 e i primi giorni del 1889.
Come Anacleto Verrecchia dimostra nella sua appassionante e documentata
indagine La catastrofe di Nietzsche a Torino, la vecchia spiegazione della
follia di Nietzsche con la sifilide, avvalorata fra l’altro dall’autorevole voce
di Thomas Mann, non ha alcuna base di fatto, né medica né biografica 8.
Proprio l’esempio di Mann, dello scrittore che ha trovato in Nietzsche il suo
ammirato modello, ci può mostrare i trucchi e le poco limpide finalità che
hanno alimentato la leggenda della sifilide. Le strategie messe in atto da
Mann per accreditare la voce tradiscono una precisa volontà di
manipolazione dei dati. Nessuno meglio dell’autore della Morte a Venezia e
della Montagna incantata poteva sfruttare le torbide nuances di malattia ed
erotismo per mescolare elementi di verità con idealizzazioni agiografiche,
che hanno la loro palese fonte nella biografia sdolcinata e irreale messa in
piedi dalla sorella del filosofo, Elisabeth Förster-Nietzsche, a scopi
celebrativi e promozionali9. In un saggio pubblicato nel 1948 Mann ci
racconta, utilizzando liberamente un ricordo di Nietzsche riferito dall’amico
Paul Deussen, l’episodio del «giovinetto, puro come una fanciulla, tutto
spirito, tutto dottrina, tutto candore e timidezza» che, a sua insaputa
condotto da «un sinistro nunzio del destino» in un bordello di Colonia, si
trova improvvisamente (qui la citazione della testimonianza è letterale)
«circondato da una mezza dozzina di figure coperte di veli e di orpelli, che
lo guardano piene di aspettazione»10. Il giovinetto angelico si salva a stento
da queste figure infernali, mettendosi a suonare un pianoforte, ma -
aggiunge lo scrittore - resta segnato da un «trauma», che un anno dopo - ed
è questo il passaggio arbitrario -lo avrebbe indotto a ripetere sul serio
l’esperienza, facendogli contrarre l’infezione fatale. Questo trauma non
avrebbe più abbandonato la sua fantasia, testimoniando «della sua
sensibilità di santo verso il peccato», ma facendo segretamente progredire il
«manifesto rilassarsi di freni» di quella che Mann definisce, con elegante
eufemismo, «una sensibilità mortificata». La ricostruzione è degna di un
maestro della décadence, e ricorda certe scene postribolari di Proust, solo
che stavolta Mann ferma a metà la dissacrazione proustiana: la sensibilità
disgregatrice rimane, ma è ricondotta a fattori esterni, diabolici. Mann è un
osservatore troppo acuto per non rendersi conto della presenza di forze
morbose nel pensatore da lui celebrato, e però, volendo mantenere il mito
romantico dell’eroe puro, virtualmente immacolato, mescola con grande
abilità elementi reali e interpolazioni inventate. L’episodio può aver avuto i
suoi effetti sul represso immaginario erotico del filosofo, ed è un fatto che
Nietzsche avrà problemi gravissimi, insuperabili con le donne; tuttavia la
vera causa, come ora vedremo, è rintracciabile nel modo che egli aveva di
concepire i suoi rapporti con gli altri: è questo a essere in lui davvero
morboso. Mann utilizzerà con risultati più convincentemente infernali la
storia della sifilide quando la attribuirà al protagonista del suo ultimo
grande romanzo, il Doktor Faustus, dove il giovinetto angelico che suona il
piano si trasforma in un inquietante musicista d’avanguardia, pronto a fare
un patto col diavolo pur di inventare la dodecafonia.
Come ogni mito, la favola della sifilide ha subito le manipolazioni più varie,
tutte accomunate dallo stesso intento di negare e coprire una realtà
fastidiosa; sostenuta agli inizi del Novecento dallo psichiatra positivista
Möbius con l’intento di demolire l’intera concezione nietzschiana, essa è
stata in seguito accettata da Mann e da molti altri con l’intento opposto di
dimostrare che la pazzia del filosofo è da ricondursi a cause accidentali ed
esterne all’autentico nucleo del suo pensiero. Questo Aids del XIX secolo
non ha forse un lungo periodo di latenza, durante il quale un grande
pensatore può scrivere tutto quello che vuole, tutte le opere indispensabili
alla sua fama?11 Dopo il riflusso della tendenza “luetica”, che ciò nondimeno
persiste ancora tenace, e senza nemmeno i pregi e le evocative ambiguità di
un Thomas Mann, sembra prevalere adesso la mai sopita tendenza
“minimalista”, in cui appunto si minimizza la cosa, quasi che Nietzsche
avesse aspettato gli ultimi giorni fra il dicembre 1888 e il gennaio 1889 per
manifestare segni palesi di squilibrio psichico, tesi assurda che non è altro
che il disvelamento dell’uso pro-Nietzsche della precedente.
Ma perché, prima di considerare gli inizi, non gettare uno sguardo sulla loro
tragica conclusione? A sfatare, in un modo che credo definitivo, tanta
mitologia accumulatasi sul destino di questo filosofo basta analizzare da
vicino alcuni documenti sulla sua pazzia meritoriamente raccolti e indagati
da Verrecchia. Se l’esame non è dei più piacevoli, in compenso non è dei
meno istruttivi.
Qualcosa deve intanto pur voler dire che i vari amici o examici del
pensatore non si siano minimamente stupiti nel sapere della sua definitiva
pazzia, per quanto molti di loro non immaginassero un epilogo così terribile.
Ma di quali perversi giochi di complicità e ipocrisia si alimentasse il
rapporto fra questi amici e il filosofo in procinto di venir consegnato,
letteralmente costretto in una camicia di forza, a una fama già postuma, ce
lo mostra Peter Gast, il bistrattato fedelissimo le cui mediocri composizioni
Nietzsche aveva grottescamente cercato di contrapporre alla musica di
Wagner. Quando un Nietzsche ormai folle gli scrive: «Al mio maestro Pietro.
Cantami una nuova canzone: il mondo è trasfigurato e tutti i cieli si
rallegrano. Il Crocifisso», Gast così risponde:
Devono essere grandi cose, quelle che procedono con lei. Il suo entusiasmo, la sua salute e tutto ciò
che lei, il corpo puro e la mente consacrata, ha fatto o lascia supporre come fatto devono smuovere
anche i più infermi; lei è una salute contagiosa; l’epidemia di salute, che lei una volta desiderava,
l’epidemia della sua salute non può mancare. Solo a Berlino mi ha raggiunto l’invocazione del
Crocifisso. Il tempo fa una faccia orribile; un’aria fredda, fumosa e pesante invita piuttosto al suicidio
che alla danza... Pieno di felicità e di gioia per i suoi trionfi, pieno di venerazione. 12
Questa risposta drammaticamente ci mostra come non capire la pazzia di
Nietzsche equivalga in qualche misura a condividerla 13. Cosa significa, in
casi come questo, “non capire”?
Gast non sembra aver nessuna fretta di raggiungere la «salute contagiosa»
del suo maestro recandosi a Torino, dove Nietzsche l’aveva pregato più
volte di raggiungerlo. Evidentemente «l’epidemia di salute» suscita l’idea di
altre, più realistiche epidemie, per essere precisi dell’epidemia contagiosa
di violenza collettiva che i Greci chiamavano mania dionisiaca. Davanti a
questo fantasma inconscio, l’esaltato seguace del filosofo arretra senza
nemmeno confessarlo a se stesso. Egli finge di non capire che la danza
nietzschiana da lui contrapposta al suicidio può esserne la migliore
preparazione, simula di non capire che «l’invocazione del Crocifisso» è una
precisa richiesta di aiuto, e già divinizza il maestro, come avveniva negli
antichi sacrifici: «il cuore puro e la mente consacrata» (la sottolineatura è di
Gast), «pieno di venerazione». Stiamo in altre parole assistendo al processo
imminente della canonizzazione di Nietzsche.
Il destino di Nietzsche è accuratamente sepolto sotto gli strati inscalfibili di
un’ammirazione mortuaria. Quest’ipocrisia ormai più che secolare merita da
tempo di venir smascherata. Troppi libri, troppe idee ne sono ammorbati.
Non vederla significa veramente essere consegnati al cupo grigiore di un
suicidio spirituale, un suicidio che la cultura europea ha voluto abbracciare,
ben lontana ancora oggi dal rinsavimento. Avviciniamoci adesso alla
«epidemia di salute» capace di suscitare così dissennati entusiasmi,
esaminiamo la vera natura della «danza» che ne sarebbe l’emblema.
Un altro amico, il teologo ateo Franz Overbeck, che colpisce per la sua
inazione di fronte agli abbondanti segnali di squilibrio mentale che gli
arrivavano da Torino, fu infine costretto a raggiungere la città, dopo che
Jacob Burckhardt, con l’indifferenza sempre ostentata verso l’autore della
Nascita della tragedia, gli aveva mostrato una lunga, delirante lettera
ricevuta dal filosofo14. La scena senza dubbio più allucinante a cui Overbeck
dovette assistere, una volta giunto nel capoluogo piemontese, ci viene così
riportata: «In seguito, fra gli intimi, Overbeck accennò anche a uno
spettacolo che gli si presentò a Torino, “il quale incarnava in maniera
orribile l’idea orgiastica del furore sacro, quale era alla base della tragedia
antica”. Probabilmente si sarà trattato di danze estatiche con fallo eretto» 15.
La danza che tante volte il filosofo aveva invocato è finalmente eseguita. A
differenza dei suoi futuri commentatori, Nietzsche conosceva troppo bene
l’antica Grecia per non sapere in che cosa le danze dionisiache
consistevano.
Prima di addentrarci nelle implicazioni antropologiche dell’indagine
autodistruttiva di questo filosofo, consideriamo meglio l’esito ultimo della
sua pazzia dionisiaca, che ha corrispondenze talmente precise e calzanti
non solo con la sua vita ma con il suo stesso pensiero da escludere
qualunque spiegazione meramente psichiatrica, e tanto meno “luetica”. La
mente di Nietzsche è crollata a Torino fra il 1888 e i primi giorni del 1889,
ma anche dopo ha continuato a lanciare messaggi che possono essere
raccolti e commentati, un po’ come le radiazioni superstiti di una
supernova, di una stella esplosa.
Dopo un viaggio avventuroso, Overbeck riuscì a ricoverare il suo amico
impazzito nel manicomio di Basilea il 10 gennaio 1889. Leggiamo un
passaggio dal Krankenjournal della clinica, che rappresenta una specie di
sintesi della storia e del destino di Nietzsche:
La visita della madre rallegrò visibilmente il paziente; all’entrata della madre, egli si diresse verso di
lei, abbracciandola cordialmente ed esclamando: «Ah, mia cara, buona mamma, sono molto lieto di
vederti». Per lungo tempo s’intrattenne del tutto correttamente su questioni familiari, finché esclamò
di colpo: «Guarda in me il tiranno in Torino». Dopo questa esclamazione, incominciò di nuovo a
parlare confusamente, sì che la visita dovette essere interrotta. Doccia fredda alla sera. Sulfonal
2,0.16
La megalomania di Nietzsche rimane fissata al luogo che ha visto la sua
ultima manifestazione, la città dove egli ha concluso L'anticristo,
proponendo una nuova datazione a partire dal giorno in cui aveva chiuso la
breve opera, il 30 settembre 1888. In altri passi del giornale clinico si
riporta che il paziente chiedeva continuamente da mangiare e spesso
cantava e urlava a squarciagola.
Pochi giorni dopo egli viene trasferito nel manicomio di Jena, dove resterà
dal 18 gennaio 1889 al 24 marzo 1890. Il Krankenjournal ne descrive i
movimenti in questi termini: «Nel camminare, il paziente alza
spasmodicamente in alto la spalla sinistra e lascia pendere quella destra.
Vacilla nel voltarsi». Altri passi dello stesso documento consentono dei
collegamenti non meno precisi che rivelatori con la vita e il pensiero di
Nietzsche:
19 gennaio. Il malato va nel reparto fra molti inchini di cortesia. Con passo maestoso e guardando al
soffitto, entra nella sua stanza e ringrazia per la «grandiosa accoglienza». Non sa dove sia. Ora crede
di essere a Naumburg17 ora a Torino. Sulle sue generalità dà informazioni corrette. L’espressione del
viso è sicura e consapevole di sé, spesso compiaciuta e affettata. [...] Per il contenuto, sorprende la
dispersione di idee delle sue chiacchiere; di quando in quando parla delle sue grandi composizioni e
ne canta dei saggi; parla dei suoi «consiglieri di legazione e servi». Parlando, fa quasi
ininterrottamente delle smorfie. Le sue chiacchiere sono continuate quasi ininterrottamente anche
nella notte. Il paziente mangia forte.
[...]
3 febbraio. Imbrattato di escrementi. [...]
10 febbraio. Molto rumoroso. Spesso accessi di collera con grida inarticolate senza motivo esterno.
[...]
23 febbraio. Tira improvvisamente “calci” a un altro malato. «Da ultimo io sono stato Federico
Guglielmo IV».
[...]
10 marzo. Fame da lupo. Designa sempre giustamente i medici; se stesso, ora come duca di
Cumberland ora come imperatore ecc.
[...]
27 marzo. «La mia moglie Cosima mi ha portato qui».
[...]
1 aprile. Imbrattato di escrementi. «Chiedo una veste da camera per la redenzione radicale. Di notte
sono state da me ventiquattro puttane».
[...]
5 aprile. Piscia nello stivale e beve l'urina.
17 aprile. «Di notte, si è imprecato contro di me; si diceva che mia madre se l’era fatta addosso;
contro di me si sono ordite le più orribili macchinazioni».
18 aprile. Mangia escremento.
19 aprile. Scrive cose illeggibili sulle pareti. «Voglio un revolver, se è vero il sospetto che la
granduchessa stessa commette queste porcherie e attentati contro di me». [...]
16 maggio. «Io vengo sempre di nuovo avvelenato». [...]
16 giugno. Chiede ripetutamente aiuto contro torture notturne. [...]
2 luglio. Orina nel bicchiere per l’acqua.
4 luglio. Rompe un bicchiere per l’acqua, «per proteggere l’accesso a lui con schegge di vetro».
[...]
14 luglio. Cosparso di escrementi.
16 luglio. Cosparso di escrementi.
18 luglio. Unto di orina.
[...]
6 agosto. (Si è) sfregata una gamba con escremento.
[...]
14 agosto. Di nuovo molto rumoroso. Beve di nuovo l’urina.
16 agosto. Ha rotto improvvisamente alcuni vetri. Ritiene di aver visto una canna di fucile dietro la
finestra.
[...]
20 agosto. Mette dello sterco avvolto nella carta nel cassetto del tavolo.
[...]
10 settembre. Beve di nuovo urina.
[...]
2 dicembre. Afferma di aver visto nella notte donnette completamente pazze.
9 dicembre. Vomito. Non riscontrabili errori di dieta, ma il paziente mangia spesso molto
frettolosamente.
14 dicembre. Beve acqua di sciacquatura.18
Nietzsche è ormai un povero demente, che ripete gli atti più degradanti con
meccanicità apparentemente insensata. In genere ci si guarda con
attenzione dall’analizzare questi documenti, e in effetti è solo con un senso
di sgomenta pietà che appare possibile farlo. Ma essi meritano un esame, e
non solo per toccare con mano la triste realtà che si nasconde sotto le
sepolture imbiancate dei nostri mausolei culturali. Si possono qui
riconoscere i resti di quella che era stata un tempo la personalità del
filosofo. Siamo a un grado 0 del comportamento, che lascia visibile la
struttura prima nascosta, tradotta adesso nel modo più letterale in gesti, in
riti deliranti. La prima cosa che colpisce è l’avidità di mangiare e bere
unitamente all’ossessione degli escrementi solidi e liquidi. È questa la
traduzione, la “reificazione” mostruosa della megalomania, del desiderio di
Nietzsche. Questo desiderio è ormai entrato da molto tempo nello stadio
critico che Girard definisce “metafisico” o “ontologico”, in cui il desiderio
raggiunge una tale intensità da trasfigurare, divinizzare ciò che desidera,
facendone dipendere in maniera assoluta lo stesso “essere” del soggetto.
Approfondiremo nei prossimi capitoli le cause di una simile inflazione
parossistica, ma intanto dobbiamo osservare come il desiderio esploso di
Nietzsche si sia ridotto a “divinizzare” i segni, gli oggetti, le funzioni del
corpo. Nietzsche deve assimilare una grande quantità di materia allo scopo
di espandere il proprio essere, egli deve ingoiare, ingurgitare l’Essere di cui
si sente mancante. L’ovvia conseguenza fisica è però che il corpo espelle ciò
che è stato mangiato e bevuto, e così più il soggetto espelle materia con i
suoi escrementi più deve mangiare e bere, e più egli ingurgita materia più è
costretto a evacuarne. Ci sono due aspetti da rilevare in questo circuito, in
questa “simbolica” escrementizia.
Defecare e urinare sono in prima istanza un segno della potenza del
soggetto, della potenza del superuomo. Nei suoi frammenti postumi
Nietzsche descrive un uomo che piscia sul suo cavallo dopo averlo battuto
(un’immagine importante su cui tornerò alla conclusione del saggio), e in un
altro alcuni nani cercano di attaccare un gigante che sta minacciando di
pisciare loro addosso, e che è un simbolo ormai caricaturale del pensatore-
superuomo («Quando un gigante fa piovere, è un diluvio universale») 19.
L’associazione tra la potenza di Nietzsche e la defecazione la troviamo
invece in riferimento a Wagner, nei passi in cui, con pesante ironia, il
filosofo accusa Wagner di intasargli l’apparato digerente, facendo allusione
alla conseguente necessità di “liberarsi”20. Defecando, “liberandosi” in tutti
i sensi, Nietzsche pensa di espellere Wagner e insieme di sommergerlo, nel
modo più degradante e umiliante. Si tratta di un duplice annientamento,
fisico e simbolico, che verrà analizzato più a fondo quando affronteremo da
vicino il drammatico rapporto col compositore.
Ma adesso, nel conclamato, definitivo squallore di un manicomio, ogni reale
controllo è perduto, e l’evacuazione ormai inflazionata ci mostra l’altro lato
della megalomania patologica. Se il cibo rappresenta la vita e il potere,
l’evacuazione ne rappresenta la perdita, rappresenta la morte, una morte
che non può essere accidentale, perché l’intero meccanismo mostruoso
nasce da una minaccia che il soggetto cerca in tutti i modi di scongiurare,
gridando di collera, dando calci, bloccando armi puntate dalle finestre. Lo
stesso cibo diventa apportatore di morte, ed è sistematicamente avvelenato
(«Io vengo sempre di nuovo avvelenato»). Si tratta dunque di un assassinio,
e il carattere reiterato, pervasivo della congiura presuppone un intero
apparato persecutorio, una macchinazione di gruppo. Presuppone un
linciaggio. Queste reazioni sono favorite dalle condizioni in cui si trova a
vivere il malato e dal clima di brutalità apotropaica che caratterizza gli
istituti psichiatrici21, ma questo non fa che evidenziare esperienze e
dinamiche già da lungo tempo presenti nella vita e nella mente di Nietzsche.
L’evacuazione, prima caricata di significati degradati e grotteschi, diventa
adesso il fallimento del cibo, la dimostrazione dell’inanità del suo scopo, il
vero veleno che gli toglie efficacia ontologica, rovesciandolo nel suo
contrario. L’unica soluzione è pertanto riassorbire in sé l’Essere che lo ha
abbandonato, cioè mangiare il proprio sterco e bere la propria urina. Come
un serpente che si mangia la coda, così il filosofo dell’eterno ritorno deve
divorare se stesso per dimostrare la propria esistenza assoluta.
Ciò nonostante, nemmeno questo circolo degradato e ridotto ai minimi
termini può durare. Esso contiene in sé la sua sconfitta perché nasce non
già dalla pienezza dell’Essere, bensì dalla sua mancanza. Il circolo
escrementizio dev’essere allora continuamente allargato, deve abbracciare
porzioni sempre più vaste di realtà. La minaccia è continua, diventa
imprecazione contro di lui e la sua natura divina, fino alla calunnia che la
stessa madre di Nietzsche perda la sua preziosa urina («Di notte, si è
imprecato contro di me; si diceva che mia madre se l’era fatta addosso»), il
che equivale all’espulsione, alla cancellazione del suo stesso figlio. Il
soggetto deve quindi proteggersi con modalità quasi sacramentali,
cospargersi di urina e di sterco così da esserne magicamente protetto;
rompe il bicchiere da cui beve per difendersi dagli attacchi improvvisi;
vomita, per espellere il cibo in quanto veleno, ma questo poi lo costringe a
mangiare sempre più in fretta, per impedire che “qualcuno” nel frattempo
non gli avveleni la fonte dell’Essere; beve persino l’acqua di risciacquatura,
che può essere fatta corrispondere agli escrementi, all’urina degli altri; con
una sorta di rito deposita il suo sterco nel cassetto del tavolo. Questo rito è
simbolicamente accostabile alle cerimonie funebri a cui Nietzsche, nel
periodo prima della pazzia, amava assistere, immaginando nell’ultima
lettera a Burckhardt di partecipare alle sue stesse esequie 22. È come se
Nietzsche seppellisse se stesso allo scopo di rinascere, allo scopo di non
morire: come si può essere morti, se si è in grado di assistere ai propri
funerali?
Nietzsche è dio e vittima insieme, re e scarto umano. Maestosamente
ringrazia per la grandiosa accoglienza, e nello stesso tempo subisce una
continua congiura; è duca, imperatore, il tiranno di Torino, e al contempo è
il cortigiano che fa continue riverenze, il bambino che ha bisogno di venire
protetto dalla madre. Solo il sacrificio permette di spiegare a fondo la
compresenza di opposti che caratterizza la “divinizzazione” di Nietzsche,
permette di ricostruire una loro precisa sequenza, che il soggetto impazzito
ripete ormai macchinalmente, in una rotazione insensata. Il filosofo è il
sacrificatore e il sacrificato, l’esecutore del rito e chi lo subisce venendone
trasfigurato, venendone divinizzato. Egli chiede una veste da camera per la
«redenzione radicale», un indumento intimo, collegabile con le funzioni
corporee e ontologiche del soggetto, e che diventa equivoca veste di re, di
sacerdote, di vittima.
I riferimenti sessuali (le «ventiquattro puttane», le «donnette
completamente pazze») rappresentano la continuazione e il culmine della
simbologia di potere degli escrementi e del cibo. Il Nietzsche demente è
ormai ossessionato da quel desiderio erotico che non era mai riuscito a
realizzare per tutta la vita: durante il viaggio per Basilea e appena
ricoverato chiede continuamente che gli portino delle donne 23. Quale
sostituto della potenza ontologica più tipico della potenza sessuale? Questa
potenza ontologico-sessuale punta direttamente verso Wagner e la moglie di
Wagner, Cosima, della quale Nietzsche aveva già scritto, in una variante di
Ecce homo, che considerava il suo matrimonio con Wagner alla stregua di
un adulterio24. La cartella clinica ci mostra la fase immediatamente
successiva del delirio: Cosima è ormai divenuta a tutti gli effetti sua moglie.
La radicalità dell’identificazione testimonia dell’entità delle forze che vi
hanno condotto.
Prima di proseguire l’indagine con ulteriori testi e scandagli, vediamo però
di “chiudere” il discorso sulla follia. Forse che le analisi che ho presentato
sono eccessive, forse che cadono nel rischio seducente delle
sovrainterpretazioni? Ma, tralasciando il fatto che una sovrainterpretazione
non sarebbe che salutare dopo decenni e decenni di “sottointerpretazioni”
anemiche e opportuniste, che non si tratti di una lettura “sopra le righe” mi
pare risultare dalla sua coerenza interna, e dal suo collegamento capillare e
organico con tutto quanto sappiamo del filosofo.
Esiste una regola che fortunatamente assiste chi intende esplorare con
autentico desiderio conoscitivo la sterminata mole degli scritti nietzschiani:
essi contengono mille indizi, e spesso clamorose conferme, delle
interpretazioni più lontane dal perbenismo filosofico che ha falsificato e
coperto il pensiero di questo esemplare nemico di se stesso. Si potrebbe
intanto citare, anche alla luce dei passi sulla “liberazione intestinale” contro
Wagner, l’intero paragrafo di Ecce homo nel quale Nietzsche dichiara:
Ben altrimenti mi interessa un problema dal quale dipende la “salvezza dell’umanità” molto più che
da qualche curiosità da teologi: il problema della alimentazione 25.
La dichiarazione è, in modo obliquo e contorto, perfettamente sincera e
giustificata: la «salvezza dell’umanità» rappresenta quella del filosofo
stesso, alle prese col problema insolubile della sua alimentazione
ontologica, un problema che lo sta portando all’autodistruzione finale. E la
conclusione del paragrafo è altrettanto illuminante:
Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra - l’ho già detto una volta - è il vero
peccato contro lo Spirito Santo.26
I «pregiudizi» sono le ossessioni da cui l’autore sta per essere travolto. Il
«sedere di pietra» è il peccato più imperdonabile, la colpa suprema, perché
blocca in maniera definitiva il circuito che garantisce la vita e il potere del
soggetto ormai collassante. Il peccato contro lo Spirito Santo è del resto la
colpa intorno alla quale ruota freneticamente il Nietzsche dell’Anticristo,
intorno alla quale si è giocato il suo destino. Non sono le questioni
teologiche a nascondere questioni di alimentazione, sono le metafore
alimentari a nascondere questioni teologiche e spirituali, da cui era la vita e
l’equilibrio mentale dell’aspirante anticristo a dipendere.
Non mancano comunque passi che ci fanno intravedere l’elaborazione
inconscia degli stessi concetti più ardui di questo filosofo. Il collegamento,
patologico quanto preciso, è con la tipica ossessione nietzschiana
dell’eterno ritorno. Molti cultori del filosofo saranno pronti a lacerarsi le
vesti e a gridare allo scandalo, eppure per giustificare le loro disquisizioni
costoro si costringono da oltre un secolo a ignorare fatti e testi che parlano
da soli. Nessuno vuole togliere alle intuizioni di Nietzsche la loro
perspicacia filosofica, antropologica e religiosa, che anzi qui verrà esplorata
più a fondo che in qualunque interpretazione di ortodossia postmoderna, ma
è proprio la loro origine patologica ad aver reso le idee-ossessioni di
Nietzsche così penetranti, efficaci, alla fine distruttive. Non si tratta di
liquidare le concezioni di questo pensatore con una diagnosi psichiatrica,
come è stato tentato da Möbius e da altri, bensì di comprendere le ragioni
sottostanti alle concezioni e ai disturbi psichici di Nietzsche: i disturbi
psichici non sono che la manifestazione di qualcosa che né gli psichiatri né i
filosofi vogliono vedere. È l’intero pensiero di Nietzsche a nascere da uno
stato di esaltazione morbosa, ad alimentarsi di una “follia” presente sin
dall’inizio e perfettamente riconoscibile all’interno, nel cuore della nostra
cosiddetta “normalità”. In un frammento tardo leggiamo la seguente
spiegazione del mondo inteso come ciclo dell’eterno ritorno:
La nuova concezione del mondo
1. Il mondo sussiste; esso non è niente che divenga, niente che perisca. O piuttosto: diviene, perisce,
ma non ha mai cominciato a divenire e non ha mai cessato di perire - si conserva nelle due cose...
Vive di se stesso: si nutre dei suoi escrementi...27
«Si nutre dei suoi escrementi...». Questo testo è della primavera del 1888.
L’annotazione dell’edizione Colli-Montinari correttamente cita i frammenti
sull’eterno ritorno composti all’epoca della Gaia scienza, ma chi scrive
ritiene molto più utile la consultazione dei documenti clinici di pochi mesi
dopo, non per un riduzionismo di tipo psichiatrico, bensì per constatare
l’emergere nella sua nudità di una verità lungamente negata, temuta,
attesa. L’eterno ritorno di Nietzsche, il segreto di cui egli parlava con
trepidazione solo ai più intimi amici, coincide in ultima analisi con la
premonizione e l’invocazione della pazzia, un’invocazione dal filosofo
tristemente realizzata in se stesso28.
Per completare la sinistra, dolorante immagine invano nascosta sotto
l’eterno ritorno di una certa mentalità filosofica, dobbiamo pensare
all’ultimo periodo della pazzia di Nietzsche, quando in casa della sorella
Elisabeth il filosofo sarà ridotto a «un tronco vivente o un’anima uccisa» che
di tanto in tanto faceva rabbrividire i visitatori con urla animalesche e
scomposte29.
Davanti a quest’icona del dolore e della degradazione, dobbiamo adesso
approfondire le cause che vi hanno condotto. Cos’ha alimentato, creato
l’eterno ritorno della follia di Nietzsche, della follia di intere generazioni
che non hanno voluto vederla?

8
A. Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Einaudi, Torino 1978, pp. 261-70. La
confutazione della tesi della sifilide viene ripresa in modo circostanziato nella più recente biografia
del filosofo, Μ. Fini, Nietzsche. L'apolide dell’esistenza, Marsilio, Venezia 2002 (pp. 365-71), opera
vivace e ricca di informazioni che ha il merito di andare contro l’immagine idealizzata e ipocrita del
personaggio, anche se avalla alcuni tipici cliché sul suo pensiero.
9
La moralista e manageriale Elisabeth non ne ha comunque voluto sapere della spiegazione sifilitica:
la sua tesi è che il fratello sia impazzito per l’abuso di sonniferi che in realtà non prendeva da anni
(Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 371-72).
10
T. Mann, Saggi. Schopenhauer, Nietzsche, Freud, tr. it. di B. Arzeni e LA. Chiusano, A. Mondadori,
Milano 1980, pp. 72 e s.
11
I sostenitori della pazzia sifilitica sono costretti a dilatare contro ogni verosimiglianza medica
questo periodo di latenza, vacatio imperii del male che è diventata la ragion d’essere stessa della tesi
nel suo uso filo-nietzschiano.
12
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 180.
13
Gast, che deve perfino il nome con cui è più conosciuto a Nietzsche (quello vero è Johann Heinrich
Köselitz), è solo il primo di tanti che verranno plagiati, con loro piena responsabilità, da Nietzsche. Da
notare che anche quando andrà a trovare l’amico in manicomio Gast rifiuterà per qualche tempo di
ammettere l’evidenza (Μ. FINI, Nietzsche, cit., p. 356). A onor del vero, bisogna anche aggiungere
che Gast-Köselitz, fra gli esaltati, gli spostati e gli opportunisti che hanno a che fare con Nietzsche,
resta il più simpatico, e quello che ha pagato di più in termini personali. Alla fine il povero Gast si
dovrà ricredere sul suo maestro quando scoprirà l’opinione sprezzante che egli aveva su di lui.
14
Cfr. F. Overbeck, Ricordi di Nietzsche, a c. di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 2000, pp. 41 ss.;
mentendo su alcuni particolari, Overbeck cerca di scaricare su Burckhardt anche le responsabilità del
proprio ritardo (v. A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 232), ma questo non rende meno credibile
la sua testimonianza sul contegno dello storico.
15
Kurt Liebmann in A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 211.
16
A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 271 (sul ricorrere dell’immagine del tiranno negli scritti
nietzschiani si veda Triangolo di lettere. Carteggio di Friedrich Nietzsche, Lou von Salomé e Paul
Ree, a c. di Μ. Carpitella, Adelphi, Milano 1999, p. 326 e nota).
17
La cittadina dove la famiglia Nietzsche era andata a risiedere dopo la morte del capofamiglia.
18
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., pp. 275-78.
19
F. NIETZSCHE, frammenti postumi 1888-1889, cit., 16 [1], p. 273.
20
Si vedano i testi citati in A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 76, col sintomatico riferimento alle
pastiglie Géraudel che ritorna anche in un abbozzo di lettera a Gast (A. Verrecchia, La catastrofe, cit.,
p. 174).
21
Sui trattamenti derisori e insultanti subiti da Nietzsche v. Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 358-59.
22
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 181.
23
Ivi, p. 241; Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 345-46.
24
E NIETZSCHE, Il caso Wagner ecc., cit., p. 595, n. 23: «La signora Cosima Wagner è la natura di
gran lunga più aristocratica che esista e, nei miei riguardi, io ho sempre interpretato il suo
matrimonio con Wagner come un adulterio... il caso Tristano».
25
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 35.
26
Ivi, p. 38 (qui Nietzsche riprende, con significato diverso, quanto detto in Crepuscolo, cit., af. 34, p.
30).
27
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [188], p. 163.
28
Fini fa il sorprendente ragionamento che siccome Nietzsche non parla più di filosofia quando è
pazzo allora non è pazzo quando filosofa (Nietzsche, cit., p. 375), ma non si accorge che questo
avviene per gli stessi motivi per cui il pensatore, con l’approssimarsi della follia, cessa di avere le
violente emicranie e gli attacchi di vomito che sono chiaramente parte del suo quadro clinico sin dalla
giovinezza, come Fini dice giustamente poche pagine prima (Nietzsche, cit., p. 367). Nietzsche non
parla più della sua filosofia perché ne è diventato la realizzazione vivente.
29
A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit„ p. 283.
III. Il filosofo e il suo doppio
1. Una rivalità schiacciante
Girard ci aiuta a capire qual è la risposta, concreta e riconoscibile, alla
domanda sul perché della catastrofe mentale di Nietzsche: la sua follia, la
follia dell’uomo moderno, sta nella rivalità non superata. Nietzsche è
impazzito per le premesse stesse della sua vita e del suo pensiero, e i
sintomi del suo squilibrio nervoso sono chiaramente rintracciabili fin dai
suoi primi scritti, per non parlare dell’epistolario e delle testimonianze.
Sono sintomi nei quali ci possiamo tristemente specchiate. La mente di
questo pensatore è crollata nel tentativo inconsiderato di superare e
respingere quei modelli imitativi che Girard ci mostra essere alla base
stessa della nostra esistenza come esseri umani. L’insicuro e ambiziosissimo
Nietzsche, l’intellettuale terribilmente complessato nel morale e nel fisico
(si pensi solo alla grave miopia che lo affliggerà per tutta la vita), non ha
mai voluto accettare la propria imitazione, il proprio desiderio, e il modello
più importante del suo desiderio, il personaggio straordinario da lui
incontrato e venerato nella sua giovinezza, e poi gradatamente odiato e
attaccato per tutta la vita: Richard Wagner.
La storia dei rapporti di Nietzsche con Wagner è la storia del graduale
formarsi di una rivalità che diventerà clamorosa, insaziabile, perseguitando
Nietzsche fin dopo le soglie della pazzia. Tra i numerosi passi che si
potrebbero scegliere si può citare quello di Ecce homo, nel quale Nietzsche
racconta di un invio incrociato di Umano, troppo umano e del Parsifal che è
l’invenzione tendenziosa della sua megalomania. Siamo nell’ultimo scorcio
del 1888, quando le soglie della pazzia stanno per essere definitivamente
varcate:
Questo incrociarsi dei due libri - mi sembrò che avesse un suono di presagio. Non suonava come si
fossero incrociate due spade?... In ogni modo così lo sentimmo noi: perché ambedue tacemmo.30
Vien naturale osservare che Nietzsche avrà taciuto al momento, ma che poi
non avrebbe fatto altro che scrivere contro Wagner, in maniera compulsiva,
ossessiva, fino ai suoi ultimi giorni di relativa lucidità. Il passo trasforma le
due rispettive opere in spade, il che significa che Nietzsche si sente
mortalmente minacciato dal Parsifal, e intende ribattere a Wagner con la
precisa intenzione di ucciderlo. L’immagine è quella del duello all’arma
bianca, dello scontro simmetrico, all’ultimo sangue.

Non si tratta di una semplice immagine letteraria, bensì di un simbolo


rivelatore. Quanto il duello e ciò che esso rappresenta fossero in lui
maniacalmente presenti da lungo tempo lo attesta un episodio del primo
periodo universitario di Bonn: dopo aver incontrato un altro studente e aver
avuto con lui un’amabile e dotta conversazione, il giovane Nietzsche, di
colpo e con la massima gentilezza, lo sfida a duello, per l’esatta ragione che
l’altro gli era apparso particolarmente simpatico31.
L’episodio dà una valida idea delle patologie rivalitarie da cui la mente di
Nietzsche era affetta già allora. Egli non riesce a distinguere gli impulsi
dell’amicizia da quelli della sfida mortale: più prova gli uni più alla fine è
costretto a provare anche gli altri, in un richiamarsi perverso che non
poteva avere che un esito infausto. Un trauma fortissimo dev’essere
all’origine di una distorsione siffatta, e l’evento a cui è naturale pensare è la
morte prematura del padre, il pastore luterano deceduto di tumore al
cervello quando Friedrich aveva poco meno di cinque anni32. La mancanza
del genitore è stata resa ancora più devastante dall’ambiente ottuso e
piccolo-borghese in cui Friedrich è cresciuto.
Nell’ultimo di una serie di incompiuti abbozzi autobiografici un Nietzsche
adolescente racconta l’angoscia con cui egli è rimasto «orfano e derelitto» 33.
Niente di più probabile che egli si sia sentito, oltre che abbandonato, anche
misteriosamente colpevole di questo abbandono. Nella stessa pagina egli
racconta un incubo da lui avuto allora: uno spettro esce dalla tomba del
padre, prende in braccio una piccola figura indistinta e la trascina con sé
nel sepolcro; la sua interpretazione è che si tratti della premonizione della
scomparsa del suo fratellino minore, morto all’improvviso di convulsioni il
giorno seguente. Comunque si voglia valutare l’episodio, appare evidente
che nel bambino condotto alla tomba dal fantasma del padre è riconoscibile
innanzi tutto Friedrich stesso, il che fa ipotizzare un ulteriore senso di colpa
perché il fratello minore è morto al suo posto34.
Il Friedrich bambino è stato “condannato” dal padre, e l’idealizzazione
irreale del genitore che compare nei suoi scritti, unita alla polemica contro
tante cose legate al milieu famigliare e paterno a cominciare dalla religione,
fa intravedere la lotta coi suoi sensi di colpa, e il rancore profondo e deviato
che una condanna enigmatica e priva di appello deve aver suscitato. Tutti
questi impulsi e sentimenti di Friedrich sono stati oggetto di una
repressione micidiale e accurata, invano interrotta da pochi scritti
frammentari: niente doveva dare espressione, parola ai bisogni profondi di
questo figlio emotivamente abbandonato a se stesso.
Questo rancore e quest’angoscia compressa erompono drammaticamente
nel frammento letterario Euforione, del 1862, dove un personaggio spettrale
cerca il suo sosia per sezionarne la testa, e proprio nell’ultima frase, con la
tecnica di un racconto dell’orrore, viene descritto come malato di tabe
dorsale35, Il comportamento tenuto da Nietzsche sul suo breve ma geniale
parto letterario è ulteriormente indicativo dell’autorepressione che lo
dominava e degli effetti devastanti di tale sforzo sulla sua fragile psiche:
subito dopo aver spedito il racconto a un amico, si pente, e in un’altra sua
lettera definisce il racconto «novella ripugnante» e «manoscritto
mostruoso», chiudendo con un’osservazione inquietante: «Quando lo ebbi
scritto, scoppiai in una risata diabolica» 36. È una risata che ricorda già
quelle della pazzia. La momentanea rottura dell’autocensura provoca
reazioni di carattere dissociativo, subito punite con la ripulsa del testo,
coincidente con la condanna di chi l’ha composto. È Friedrich a sentirsi
«ripugnante» e «mostruoso», ratificando per tutta la vita la “tabe dorsale”
che conclude il frammento. Egli avrebbe scritto a Paul Rée: «finora sono
stato un mostro isolato», e in una delle lettere della follia si sarebbe firmato
«il mostro»37.
Girard non esplora la pista famigliare e paterna, intanto perché va oltre la
situazione essenziale su cui egli vuole richiamare la nostra attenzione, ma
forse anche per evitare pericolose confusioni con schemi esplicativi di tipo
freudiano. È facile comunque osservare che il padre rimpianto da Nietzsche
non è il rivale edipico di un assurdo desiderio incestuoso, è la figura da
amare e da cui essere amati di cui Friedrich avverte la radicale mancanza:
l’ambivalenza di amore e odio segue, non precede l’abbandono paterno.
Purtroppo, una volta fissata la struttura del trauma, di cui l’origine
famigliare non è tanto la spiegazione esaustiva quanto il primo
orientamento, Nietzsche l’avrebbe trasformata nel principio cardine dei suoi
rapporti con gli altri. Una psiche complessata, introversa e patologicamente
reattiva ne sarà il risultato.

Partendo da queste premesse possiamo immaginare cosa dev’essere


successo con Wagner. Preceduto da altre figure paterne a cui Nietzsche si
era attaccato - il maestro di filologia Ritschl, lo storico Jacob Burckhardt -,
l’autore della Tetralogia, fra parentesi nato nello stesso anno del padre di
Friedrich, le ha sintetizzate e superate d’un colpo, divenendo il vero, l’unico
padre putativo dell’orfano rancoroso e angosciato, e scatenando quanto di
meglio e di peggio poteva provare l’anima sofferente e contraddittoria del
giovane. A sua volta il Wagner figlio illegittimo (come meschinamente
Nietzsche terrà a ricordare nel Caso Wagner) deve aver riconosciuto
nell’altro un’immagine per alcuni versi simile a sé, con in più quei titoli e
quella cultura accademica che a lui mancavano.
Wagner - la prestigiosa figura a cui il giovane Nietzsche si rivolge come
Pater Seraphicus, suo «mistagogo», il «più potente di tutti gli spiriti» di
fronte al quale lui non è «altro che futuro» 38 - ha avuto nella maturazione
del giovane professore di Basilea un ruolo che difficilmente può essere
sopravvalutato. Le intuizioni sulla tragedia e sul suo carattere dionisiaco, la
percezione che il fondamento violento del teatro abbia a che fare col
fondamento violento della cultura, il confronto col cristianesimo, tutti questi
sono aspetti che Nietzsche ha cominciato ad approfondire ed elaborare
durante la sua frequentazione del grande compositore. Tuttavia questi
rapporti e queste decisive influenze alla fine provocheranno in Nietzsche
reazioni disastrose, di cui si avvertono già delle avvisaglie negli scritti a
favore di Wagner, e che porteranno il filosofo alla rottura completa con
l’amico, con l’impossibile padre.
Di sicuro il tirannico e ipermimetico Wagner era la persona meno adatta per
instaurare un rapporto basato sull’equilibrio e la correttezza. Sfruttatore
vorace di coloro che gli stavano intorno, manipolatore di persone e
soprattutto di denari altrui, al di là non solo del buon gusto ma spesso
dell’onestà, Wagner, che è stato capace di mettere in pericolo il bilancio del
regno di Baviera, era come un ciclone a cui era difficile resistere, e
compensava i suoi ingenti difetti non solo con la potenza della sua musica,
ma anche con la generosità verso gli amici: è tipico del suo stile ad esempio
che, dopo aver detto e scritto per tutta la vita contumelie irripetibili contro
gli Ebrei, egli abbia accettato l’amicizia devota di un giovane ebreo, che per
il dolore si toglierà la vita dopo la morte del compositore 39. Il timido e
complessato Nietzsche non poteva che sentirsi dominato e schiacciato da
una personalità così straripante, che deve avergli fornito un’intera serie di
traumi, ben superiore a quello del bordello proustiano abilmente condito da
Mann. «In certo qual modo è come se si difendesse dalla travolgente
impressione della personalità di Wagner», scrive nel 1871 Cosima nei suoi
diari40, con indubbia perspicacia, ma di sicuro non rendendosi conto di
quanto la cosa fosse grave per il loro giovane ed eccentrico amico, né forse
immaginando o dando peso a quanto l’osservazione la coinvolgesse da
vicino.
Nietzsche imiterà a tal punto il modello inizialmente ammirato e poi
gradatamente avversato da cercare di raggiungerlo proprio nel campo in
cui questi eccelleva, la musica, col risultato di collezionare umiliazioni
cocenti, e di esporsi al ridicolo in casa Wagner, dove non si era certo teneri
anche con compositori che non avevano molto da invidiare al teorizzatore
della musica dell’avvenire. Una sola frase dai diari di Cosima ci restituisce
l’opinione che si aveva di Nietzsche in quest’ambito: «Il dilettantismo
musicale del nostro amico ci disturba un po’ e Richard se la prende sulla
piega che oggigiorno la musica ha preso»41.
La storia dei suoi tentativi di farsi notare con dei parti musicali che,
comunque li si voglia valutare, non possono essere minimamente paragonati
alla sua produzione filosofica è ricostruibile attraverso vari episodi, e fra
questi il più traumatico da ricordare è l’accoglienza che ottiene una sua
Manfred-Meditation, da Nietzsche inviata il 20 luglio 1872 al grande
direttore e adepto wagneriano Hans von Bülow, subito dopo aver assistito a
una sua esecuzione del Tristano e Isotta, e averne sperimentato, come
dichiara nella lettera di accompagnamento, la «forza risanatrice» 42. Von
Bülow gli risponde il 24 luglio 1872, quasi a giro di posta dunque, con una
stroncatura impossibile da dimenticare:
...la sua Manfred-Meditation è la cosa più estrema di stravaganza fantastica, la cosa più sgradevole e
più antimusicale, che in fatto di annotazioni su carta pentagrammata mi sia capitata sotto gli occhi da
molto tempo. Mi son dovuto chiedere più volte: è tutto uno scherzo, ha forse lei mirato a una parodia
della cosiddetta musica dell’avvenire? È con coscienza che lei s’infischia ininterrottamente di tutte le
regole del collegamento dei suoni, dalla sintassi più alta fino all’ordinaria ortografia? Astraendo
dall’interesse psicologico -poiché nel suo musicale prodotto febbrile si avverte uno spirito insolito e,
nonostante tutte le aberrazioni, distinto -, la sua Meditazione, dal punto di vista musicale, ha soltanto
il valore di un crimine nel mondo morale. Dell’elemento apollineo non ho potuto scoprire alcuna
traccia; quanto a quello dionisiaco, detto francamente, ho dovuto pensare, più che a esso, al
lendemain di un baccanale. Se lei ha veramente un impulso passionale a estrinsecarsi nella lingua dei
suoni, allora è indispensabile acquisire i primi elementi di questa lingua: una fantasia barcollante in
una gozzoviglia di ricordi di suoni wagneriani non è una base di produzione.
E dopo un bruciante confronto con Wagner, il grande direttore conclude:
Ancora una volta - non se l’abbia a male. Lei stesso, del resto, ha definito «orribile» la sua musica -, lo
è, infatti, e più orribile di quel che lei creda; cioè non comunemente dannosa, ma peggio: dannosa per
lei stesso, che non potrebbe ammazzare in maniera peggiore anche un eventuale eccesso di ozio che
stuprare a questo modo Euterpe.43
Von Bülow, a cui Wagner aveva tolto Cosima e che era stato estromesso
dalla cerchia di Wagner dopo un degradante e scandaloso menage à trois,
doveva avere il dente avvelenato verso questo dilettante musicale ancora
amico del compositore: è chiaramente percepibile nella sua lettera
l’acredine del marito a cui Cosima Liszt aveva preferito il genio capace di
realizzare le sue ambizioni. Von Bülow non perde perciò l’occasione di
vendicarsi su chi dà prova di essere ancor meno di lui all’altezza della
situazione.
Come dimostra il particolare che per rispondere aspetti gli ultimi giorni di
ottobre, Nietzsche accusa in pieno il colpo, e l’abbozzo della sua lettera è
del massimo interesse. Col tono zuccheroso e ipocrita che rende di difficile
digestione tanti suoi scritti giovanili, e che ci fa toccare con mano la natura
letale dell’educazione da lui ricevuta, il filosofo si profonde in scuse e
ringraziamenti stucchevoli, ma si fa sfuggire delle ammissioni
estremamente importanti non appena descrive quanto da lui provato
durante la composizione:
Allora grazie a Dio devo sentire questo e proprio questo da Lei. So già che momento di disagio Le ho
procurato, e in compenso Le dirò che Lei mi è stato molto utile. [...]...talvolta sono sopraffatto da una
voglia così barbarica, da una tale mescolanza di caparbietà e di ironia, che io stesso non riesco a
scorgere - così come non riesce Lei - che cosa nell’ultima musica sia da intendere seriamente e cosa
invece come caricatura e sarcasmo. A quelli che mi stanno vicino [...] gliel’ho fatta passare per un
pamphlet contro la musica ufficiale. E la denominazione originaria dello stato d’animo era cannibalido
[sic]. Con ciò mi è purtroppo chiaro che il tutto, con questa mescolanza di pathos e cattiveria,
corrispondeva assolutamente a un vero stato d’animo, e che io nella stesura di quella composizione
ho provato un godimento come mai prima d’allora. Dal che si possono trarre tristi considerazioni
riguardo alla mia musica, ma ancor più ai miei stati d’animo. Come si descrive uno stato nel quale
piacere, disprezzo, tracotanza e sublimità son mescolati insieme? Ogni tanto cado in preda a lune
pericolose come quelle. Eppure sono infinitamente lontano - questo lo deve credere - dal giudicare e
dal valutare la musica di Wagner in base a questo mio eccitamento musicale semipatologico. Della
mia musica so soltanto una cosa, che con essa riesco a padroneggiare uno stato d’animo che,
inappagato, forse sarebbe più pericoloso.
E in questo tormento anch’io talvolta pensavo meglio di questa musica: una condizione davvero
deplorevole, dalla quale Lei adesso mi ha salvato. Sia ringraziato! Allora questa non è musica?
Ebbene son proprio fortunato, allora non importa nemmeno più che mi occupi di questo tipo di otium
cum odio, di questo modo veramente odioso di sciupare il tempo. Per me è importante la verità: Lei lo
sa, è più piacevole sentirla che dirla. Allora dunque Le sono doppiamente debitore.44
Le ammissioni di Nietzsche sull’«eccitamento musicale semipatologico» con
cui riesce «a padroneggiare uno stato d’animo che, inappagato, forse
sarebbe più pericoloso» sono davvero allarmanti, e la dicono lunga
sull’equilibrio psichico che egli aveva già in quegli anni. Questo stato
d’animo è descritto con la strana parola «cannibalido», che in ogni caso
contiene un riferimento al cannibalismo 45, ed è palesemente la stessa
condizione di spirito di quando, dopo aver scritto il racconto Euforione, il
giovane se n’era uscito in una risata satanica. Che egli fosse «infinitamente
lontano» dal valutare la musica di
Wagner in base alla sua è la definizione precisa di ciò che per lui è in quel
momento il problema: altro che «forza risanatrice» del Tristano'. Il fatto che
Nietzsche abbia scritto la Meditazione sul Manfredi contro due autori da lui
particolarmente amati e ammirati, Schumann e Byron, ci ripropone la
medesima dinamica del duello di Bonn, e ci lascia intuire l’intensità
dell’amore e dell’odio nutriti verso il vero obiettivo del pezzo, l’ex-rivale
dello stesso von Bülow. Se consideriamo questo stratificarsi tortuoso di
modelli-rivali diviene abbastanza evidente il punto della manovra tentata da
Nietzsche nello spedire la sua composizione proprio a von Bülow: la segreta
speranza che l’altro volesse prendersi una rivincita contro chi gli aveva
strappato Cosima. È facile che sia stato anche il sospetto della manovra a
rendere così spietata e immediata la replica del direttore. Tutti i tentativi
meschini e malsani che Nietzsche compie per sfogare il suo complesso di
inferiorità gli ritornano indietro con gli interessi. Non c’è da equivocare
sull’otium cum odio con cui egli descrive le sue sfuriate compositive:
l’espressione latina, con lo stesso effetto estraniante delle espressioni
medico-sessuali dell’ottocento, indica il radicalizzarsi di una rivalità
irrimediabile. Nietzsche cerca di coprire l’acuirsi di un sentimento che lo
sta devastando, e di far dimenticare lo squallore della manovra appena
fallita, con una serie spudorata di iperboli, ringraziando il suo feroce
censore di averlo addirittura salvato, e raddoppiando i suoi ringraziamenti
in nome di una verità che sarebbe «più piacevole» da udire che da dire.
Grazie al senso della decenza che a volte Nietzsche riusciva ad avere in
extremis, quasi tutto è tagliato nella lettera effettivamente spedita, riscritta
subito dopo. La descrizione dei suoi stati d’animo viene edulcorata, a parte
una sintomatica «ironia diabolica», e solo la chiusa, pur coprendo di più, fa
trapelare qualcosa di maggiormente sincero sulle sue reazioni: «Lei mi ha
molto aiutato - è una confessione che mi procura ancora un certo dolore» 46.
Il trauma è stato così forte che ancora in Ecce homo ci sono i tentativi, da
parte della sua mente in collasso, di metabolizzarne il ricordo, presentando
il Manfredi come un’opera
della quale Hans von Bülow ebbe a dire che non aveva mai visto niente di simile su carta da musica: e
che era lo stupro di Euterpe.47
E in un altro punto, riferendosi a un’altra sua composizione - un Inno alla
vita su testo poetico di Lou Salomé -, si lascia sfuggire una frase che suona
quasi come un grido dell’anima: «Forse in quel passo c’è grandezza anche
nella mia musica»48.
Il fallimento musicale di Nietzsche si affianca e si intreccia con quello in
campo erotico-sentimentale. Prove chiare e convincenti, di cui Verrecchia e
Fini ci danno notizia nelle loro ricerche, impongono la conclusione che il
filosofo fosse affetto da quella che oggi si chiamerebbe impotenza,
un’impotenza forse non esente da sfumature omosessuali, che sono il facile
esito di una situazione di fallimento assoluto con le donne 49. Anche in questo
campo, anzi più che mai in questo campo, il confronto con Wagner, grande
conquistatore di donne, per non dire di uomini, e delle donne degli uomini
che gli stavano intorno, è stato senza dubbio cocente. Ben lungi dal
suscitare in lui una gratitudine raddoppiata, la stroncatura di von Bülow,
nel suo ruolo di grande direttore d’orchestra nonché di marito e amico
tradito, dev’essere stata per lui doppiamente annientante. Non va
dimenticato che il Manfredi era la versione emendata di una composizione
non meno disastrosa di cui bisogna ancora parlare, l' Eco di una notte di
San Silvestro, con la quale Nietzsche aveva tentato l’assurda impresa di
superare Wagner agli occhi di Cosima. Demolito il Manfredi, era come se
Wagner trionfasse due volte e in una duplice veste, come genio musicale e
come prenditore di donne.
La sconfitta artistica introduce e commenta l’insuccesso più grave
nell’esistenza del filosofo, che per lui sancirà l’impossibilità di realizzare
una qualunque vita sentimentale degna di questo nome. L’emulazione di
Wagner in campo artistico esprime il tentativo maldestro di avvicinarsi al
possesso di un oggetto affettivo. Il suo cuore segreto è l’innamoramento di
Nietzsche per Cosima, un sentimento coltivato in silenzio, una passione
soffocata e impossibile che, a giudicare dai suoi indizi e dalla sua
persistenza fin nella notte della pazzia, ha avuto un’intensità proporzionata
all’enorme influsso del musicista. Mai innamoramento ebbe meno chances:
se anche ha compreso (e appare difficile che il suo intuito femminile non
abbia compreso) quali tempeste aveva suscitato nell’introverso e polemico
amico del marito, è facile immaginare la reazione dell’arrogante e
calcolatrice Cosima, che finalmente aveva trovato in Wagner il “cavallo
vincente”, il genio da lei tanto agognato; Cosima, che non modificherà in
nulla il programma del festival quando a Bayreuth morirà il padre Liszt. Da
una situazione del genere Nietzsche dev’essere uscito emotivamente in
cenere. Mai troverà il coraggio di prendere l’iniziativa con nessuna donna,
collezionando una serie struggente o patetica, a seconda dei punti di vista,
di fallimenti, o meglio di umiliazioni. Nel gioco feroce tra i sessi che i
maschi devono saper affrontare per giungere alla meta dell’accoppiamento,
e il cui apprendimento è ritenuto singolarmente superfluo da ogni
pedagogia e morale ufficiale, nessuno è mai stato più sprovveduto e
perdente del povero Nietzsche.
Nietzsche si innamora di Cosima per gli stessi motivi per cui scrive musica:
avvicinarsi al modello idolatrato e invidiato, riuscire a rimpiazzarlo, a
prenderne il posto. Durante le feste di Natale del 1871, egli non si era
recato a Tribschen dov’era stato cordialmente invitato, e così il suo biografo
Curt Paul Janz analizza «il motivo della dolorosa rinuncia»:
...l’anno prima Wagner aveva sorpreso e reso felice Cosima con la composizione dell'Idillio di
Sigfrido; quest’anno Nietzsche era tornato a essere compositore e aveva messo sotto l’albero di
Natale la sua Eco di una notte di San Silvestro per pianoforte a quattro mani, da suonare con
Cosima.50
Questo è solo il primo di una serie di Natali in cui Nietzsche si terrà lontano
da quella che era diventata per lui una specie di famiglia adottiva, uno dei
tanti Natali da inferno che costelleranno la sua esistenza di single. Mentre
Wagner rimane offeso dal comportamento scostante tenuto dall’amico, l'
Eco di una notte di San Silvestro si limita a suscitare, com’è desumibile da
alcuni aneddoti, la canzonatura dei due coniugi, cosa di cui Nietzsche viene
a conoscenza. Non c’è da stupirsi che i Wagner notino in lui «una crescente
tendenza a esprimersi polemicamente e apoditticamente» 51. Le reazioni di
Nietzsche davanti ai suoi continui scacchi - scacchi, si noti, che è andato lui
avidamente a cercarsi - si fanno sempre più tese come risulta anche dalle
annotazioni di questo periodo, con la grottesca svalutazione della musica
del suo antagonista52, lasciando già intravedere la futura rottura.
Il colpo di grazia verrà dato a Nietzsche dal trionfo del musicista a Bayreuth
nel 1876. Sballottato nella grande kermesse wagneriana, il filosofo, che
sperava di vedersi al centro dell’attenzione per la quarta Considerazione
inattuale su Wagner appena pubblicata (un faticoso esercizio di piaggeria
rotto a tratti dall’odio), si sentirà invece ignorato e surclassato dal
compositore, che per tenere in piedi la mastodontica macchina da lui ideata
aveva ben altro a cui pensare. Il vero contrasto che dobbiamo immaginare
fra i due non è di natura sottilmente psicologica o filosoficamente ideale, è il
brutale, elementare contrasto fra il debole, nevrotico, innamorato Nietzsche
che deve rimanere nell’ombra, e il ciclonico, egocentrico Wagner che, oltre
a essere circonfuso della grandezza della sua musica, riceveva gli omaggi
dai potenti di Germania e d’Europa. La reazione rivalitaria di Nietzsche è
così forte da provocare in lui autentici malesseri fisici. Il suo biografo Janz,
che non può certo essere sospettato di antipatia verso il protagonista della
sua monumentale ricerca, fa la seguente osservazione generale su di lui:
«Sovente il suo fisico, in seguito a scosse psichiche, si rifugiava in una
malattia mediante un incidente pilotato dal subconscio», e, in riferimento al
festival di Bayreuth, descrive l’eloquente contrasto (e relazione) fra lo stato
di visibile sofferenza di Nietzsche e l’esaltazione generale di quei
momenti53. Perseguitato da violentissimi mal di testa di origine
psicosomatica, le terribili emicranie da cui sarà libero solo alla vigilia della
follia, Nietzsche va a Bayreuth, poi se ne va simulando di annoiarsi alla
musica, poi vi fa ritorno dichiarando che non riesce a starne lontano, infine
abbandona il campo per sempre, ignorato da Wagner e con non poco
sollievo di Cosima54. Da quel momento Wagner e tutto ciò che aveva a che
fare con lui, l’intera Germania, diventeranno l’idolo polemico del filosofo.

2. L’impossibile morte del rivale


Questa serie concentrica di sconfitte emotive ed esistenziali è andata a
inserirsi su quelli che sono stati definiti come «complessi d’inferiorità di
fronte alla vita»:
All’epoca dei suoi rapporti con Wagner, l’amicizia schiacciante del più tirannico dei geni, la sconfitta
sentimentale a cui lo condanna il suo amore inconfessato e non condiviso per Cosima, non poterono
che rafforzare queste inclinazioni morbose. A ciò bisogna aggiungere lo scarso successo della sua
attività di professore a Basilea e più tardi la cocente umiliazione che in lui provocherà la totale
indifferenza del pubblico all’uscita dei suoi libri. Ad eccezione di pochi amici nessuno si degnerà di
prestare attenzione a lui.55
Sono osservazioni fondamentali, che divengono tuttavia fuorvianti se si dà a
esse, come si fa di solito, un valore angustamente biografico, un significato
riduttivamente psicologico. C’è ben altro in questione. Se quanto è avvenuto
a Nietzsche cessa di apparire come un mero accidente individuale ma viene
visto come manifestazione di leggi generali e riconoscibili, allora il suo
significato non è più psicologico o, per essere più esatti, psicologistico.
Allora siamo in presenza di forze oggettive che riguardano la nostra natura
di esseri umani, che sono alla base del nostro essere uomini, e alla base di
ciò che intendiamo per psicologia. Per designare questo piano oggettivo, e
abitualmente ignorato, Girard usa il termine “antropologia”, identificando
all’interno della nostra realtà antropologica una forza immensa, che può
essere costruttiva o distruttiva a seconda di com’è utilizzata: il desiderio
imitativo o mimetico.
Quello che diventiamo e che siamo lo dobbiamo all’imitazione di vari
modelli, ma, poiché imitando il modello noi vogliamo possedere le medesime
cose - materiali o simboliche - che egli possiede, questo rapporto in sé
estremamente fecondo può degenerare, può diventare rivalità. Nel caso di
Nietzsche tutto lo induceva a imitare un modello geniale e ammirato come
Wagner, col risultato di una tipica situazione triangolare, in cui il modello
(Wagner) senza saperlo indicava al soggetto imitatore (Nietzsche) cosa
desiderare (la fama come compositore, l’amore per Cosima). E proprio il
sesso, l’amore fisico è l’ambito dove il desiderio imitativo di Nietzsche
emerge nella maniera più ingenua, più disarmante. Per tutta la vita
Nietzsche ha cercato affannosamente e inutilmente di fissare mediante un
modello un oggetto erotico del desiderio, ripetersi disperato di triangoli che
mai sarebbe potuto andare a buon fine, viste le micidiali dinamiche
rivalitarie che egli era incapace di controllare56.
Il caso più spettacolare di desiderio triangolare, perseguito per vie contorte
e con un distacco pressoché totale dalla realtà, è la “trinità” che Nietzsche
pensa di realizzare col mellifluo Paul Rèe e con la mina vagante Lou Salomé,
la stessa che dichiara al pastore protestante a cui pochi anni prima aveva
sconvolto la vita: «Io non posso vivere secondo un modello e nemmeno potrò
essere un modello per chicchessia»57. Il risultato di un simile romanticismo
trinitario, che negava quella dipendenza mimetica di cui era la caricatura,
non poteva essere per Nietzsche che la più sonora delle disfatte.
È significativo, su questo sfondo di manovre goffe e fallimentari, che il
filosofo prediliga Il matrimonio segreto di Cimarosa, che è un’autentica
apoteosi comica di triangoli, dove tutti si innamorano imitativamente di
tutti. L’ammirazione di Nietzsche per quest’opera era tale che il famulus
Gast metterà in musica il suo stesso libretto, e in verità solo l’irresistibile
contagio amoroso del capolavoro di Cimarosa avrebbe potuto trascinare con
sé il nevrotico, bloccato professore tedesco. Ipotesi oziosa, d’altronde.
Difficile immaginare qualcuno più lontano di Nietzsche dalla sublime ironia
mimetica del Settecento, dallo spirito di Goldoni e di Mozart. Solo la
metafisica dell’adulterio dispiegata nel fiume sonoro del Tristano e Isotta gli
corrispondeva, ma proprio qui la potenza musicale ed erotica esibita da
Wagner lo sommergeva, indicandogli la necessità e l’irrealizzabilità
dell’adulterio con Cosima.
I triangoli nietzschiani sono la triste, rancorosa illustrazione dell’esito
peggiore che possano avere i rapporti imitativi. La loro configurazione a
triangolo può infatti portare facilmente l’imitatore all’invidia, soprattutto se
il modello è dominante e voracemente accentratore come nel caso di
Wagner. Il termine invidia non indica semplicemente il desiderio di ciò che
l’altro possiede, ma il sentirsi radicalmente privi di ciò che, appartenendo al
modello ammirato, finisce con l’apparire indispensabile alla nostra vita, alla
nostra identità. L’invidioso si considera vittima dell’ingiustizia più grande,
quella che gli toglie la luce del sole, il diritto a esistere, ad amare, e farà
qualsiasi cosa pur di impossessarsi del segreto che rende l’altro così
inspiegabilmente, così immeritevolmente superiore. È questo lo stadio
collassante del desiderio ontologico o metafisico, di cui nel simbolismo
mostruosamente letterale dei referti clinici abbiamo visto la decomposizione
terminale.
“Invidia” è un termine massimamente riprovevole, un marchio d’infamia con
cui bolliamo chi, in un mondo di “non invidiosi”, si mostra invidioso.
L’invidia può essere in effetti unilaterale: Caino invidia Abele senza la
minima colpa e invidia da parte di questi. Ma il mondo di cui facciamo parte
non è normalmente composto di Abeli innocenti, bensì di infiniti Caini, che
spesso non sono identificati semplicemente perché sanno fingere meglio.
L’invidia è relazionale e mimetica come nessun’altra cosa, giacché è il
desiderio mimetico stesso che si scatena fra gli uomini. Anche quando è
unilaterale, essa è il risultato di un rapporto imitativo che ha funzionato
male in passato, “insegnando” all’invidioso come invidiare. Da un punto di
vista simbolico, Caino ha imparato a invidiare dai suoi genitori, colpevoli di
aver seguito il modello sbagliato, il serpente, di aver invidiato Dio nel
peccato che li ha cacciati dall’Eden. I rapporti mimetici fra gli uomini sono
molto spesso di invidia reciproca, e - peggio ancora - di reciproco
addestramento all’invidia. L’imitatore invidia il modello perché è già il
modello a ragionare in questi termini, a ritenere il suo ruolo un possesso
geloso da detenere. È in sostanza la situazione che si è venuta a creare fra
Nietzsche e Wagner, anche se essa è stata senza dubbio vissuta da
quest’ultimo in beata innocenza, nel senso che egli voleva fare dell’altro un
prolungamento della propria grandezza. Non rendendosi conto delle
conseguenze del suo modo di agire, Wagner si vedrà ricambiare con
crescente isterismo la sua generosa amicizia, e ne resterà disgustato. Tutto
avverrà come in una sorta di maleficio, le cui cause i diretti interessati, pur
con diversi gradi di responsabilità, non riescono a cogliere.
Situazioni di questo tipo sono state studiate come «doppio vincolo», ossia
come una relazione contraddittoria da cui il soggetto non ha vie di scampo,
qualunque cosa faccia58.
L’imitatore è invitato a seguire e ammirare il modello (l’adorazione generale
per Wagner) ma, allorché si avvicina troppo al modello, ne è ricacciato
(Nietzsche ridicolizzato per la sua musica, e che lo sarebbe se palesasse il
suo amore per Cosima). Il modello infatti tende a confermare il suo ruolo, il
suo prestigio e la sua superiorità, ma quando l’imitatore si ritira sconfitto
ecco che il modello, per mantenere inconsapevolmente il suo ruolo, gli
lancia di nuovo l’invito a imitarlo. L’imitatore insomma riceve una duplice
ingiunzione contraddittoria («Imitami!» - «Guai a te se mi imiti!»), ed è di
conseguenza “punito” sia che imiti il modello sia che non lo imiti, situazione
paradossale da cui il soggetto di norma non riesce a venir fuori, poiché è da
essa che egli trae la propria identità, il proprio Essere (l’aspetto ontologico
del desiderio). È evidentemente il ruolo che è venuto ad avere, con l’ausilio
di un ambiente repressivo e bigotto, il padre assente, e che poi il giovane
Nietzsche ha applicato, anticipando le caratteristiche del modello attraente
che doveva essere per questo anche ostile, nell’episodio del duello
all’università. Il processo così deformato, quella che ho chiamato «struttura
del trauma», continua a ripetersi e ad aggravarsi per tutta la vita, se non
intervengono altri fattori imitativi di correzione, che ovviamente devono
interagire con la capacità di scelta dell’individuo. Ma nel triangolo
patologico la libertà di scelta diventa sempre minore: l’imitatore vede
sempre più il suo modello come irraggiungibile e se stesso come
condannato da un destino ineluttabile a essere perpetuamente sconfitto.
Mentre il modello viene circonfuso di una luce divina, il suo seguace si vede
relegato nelle tenebre della mediocrità, dell’abbandono, della non esistenza.
Sui rapporti da desiderio ontologico di Nietzsche con Wagner sono
eloquenti brani come il seguente, tratto da una lettera scritta il 18 aprile
1873, vale a dire alcuni mesi dopo la débàcle del Manfredi, e pochi giorni
dopo l’annotazione di Cosima sul «dilettantismo musicale del nostro amico».
Nietzsche cerca di porre rimedio all’ennesima magra figura da lui ottenuta
coi Wagner, che stavano allora ultimando il loro trasferimento a Bayreuth:
Veneratissimo maestro,
vivo nel costante ricordo delle giornate di Bayreuth, e tutto quanto di nuovo ho imparato e vissuto in
quel brevissimo periodo si dispiega davanti a me in una pienezza sempre più grande. Se Lei non
sembrava soddisfatto di me quand’ero lì presente, la posso capire anche troppo bene, ma non posso
farci nulla, perché imparo e percepisco molto lentamente, e poi ogni momento che passo vicino a Lei
è per me un ’esperienza alla quale non avevo mai pensato prima, e che è mio desiderio imprimermi
nella mente. [...] La prego, mi consideri solo come uno scolaro, magari con la penna in mano e il
quaderno davanti, e per di più uno scolaro con un ingegno molto lento e per nulla versatile. È vero,
ogni giorno divento più melanconico perché mi rendo conto perfettamente che vorrei aiutarLa ed
esserLe utile in qualche modo, e che invece ne sono assolutamente incapace, tanto da non poter
nemmeno contribuire a distrarLa e a rasserenarLa.
Eppure forse un giorno ci riuscirò, quando avrò portato a termine quello che ora ho sottomano, cioè
un saggio contro il famoso scrittore David Strauss.59
L’imitatore si prosterna, si annulla di fronte al modello, al «veneratissimo
maestro», ma le sue dichiarazioni esagerate di inferiorità e sottomissione
rivelano l’intensità del desiderio in fase montante, indicata anche dalla
crescente melanconia, la depressione provocata dall’insufficienza rispetto al
modello, alla quale il soggetto in altri momenti reagisce con un’esaltazione
ciclica tendente alla megalomania. Nietzsche, untuosamente abbassatosi al
rango di uno scolaretto «con un ingegno molto lento», deve dimostrare a
tutti i costi al suo idolo mai “soddisfatto” il proprio valore e, con le
dinamiche già identificate nel Manfredi e nella reazione del suo duro
censore, non trova di meglio che sfogare la propria rabbia repressa contro
un obiettivo polemico, che finalmente dovrà “distrarre” e “rasserenare” il
modello, cioè allentare la tensione ontologica che condanna l’imitatore a
un’inferiorità permanente. Il nemico comune gli era stato indicato dal
maestro, si tratta del «famoso scrittore David Strauss» (da notare il
corsivo), l’ignaro bersaglio che farà le spese di questi fumi esplosivi nella
prima Considerazione inattuale, tanto più gratuitamente feroce se
consideriamo che in essa Nietzsche, con le modalità schizofreniche che ci
sono ormai famigliari, sembra vendicarsi dell’influsso che ha avuto su di lui
l’autore della Vita di Gesù e della simpatia che provava nei suoi confronti 60.
Ma è chiaro che tali diversioni non cambiano, anzi confermano il problema
dal quale sorgono.
Quanto poco Nietzsche potesse fare affidamento su manovre di questo tipo
risulta, oltre che da un’analisi interna del suo rapporto con Wagner, anche
dai documenti dello stesso periodo, che ci illustrano la forza e il graduale
intensificarsi del doppio vincolo rivalitario. Il rancore del seguace di Wagner
verso il modello da cui si sente annientato si accumula senza che egli se ne
voglia rendere conto, condizionando in maniera vistosa e apparentemente
inesplicabile il suo comportamento. Il fenomeno sta diventando
incontrollabile. Come egli scrive a von Gersdorff, non molte settimane prima
della lettera dello «scolaro con un ingegno molto lento»:
Dal Maestro e dalla signora Wagner ho avuto lettere splendide, è venuta fuori una cosa che ignoravo
completamente, cioè che Wagner si è sentito molto offeso perché non sono andato da lui per
Capodanno. Tu questo lo sapevi, carissimo amico, ma non me lo hai detto. Ora però tutte le nubi si
sono dileguate, ed è stato piuttosto un bene non averne saputo nulla, perché certe volte a molte cose
non si può rimediare, e si rischia semmai di fare peggio. Del resto sa Iddio quanto spesso io dia
motivo di cruccio al Maestro: tomo ogni volta a meravigliarmi, e non riesco a capire bene da che cosa
dipenda. Tanto più sono contento che ora si sia di nuovo fatta la pace. Ma dimmi il tuo parere sui
ripetuti motivi di cruccio. Non so davvero immaginarmi come si potrebbe avere verso Wagner, in
tutte le cose importanti, una fedeltà più grande della mia, e come si potrebbe essergli più
profondamente devoti di quanto lo sia io Ma riguardo a piccole questioni di secondaria importanza e
alla mia intima necessità, che potrei chiamare anche “igienica” [samtarisch], di evitare troppo
frequenti convivenze personali, riguardo a questo devo salvare una mia libertà, davvero soltanto per
poter mantenere quella fedeltà in un senso più alto.61
In brani come questo diventa impossibile capire dove finisce la menzogna
deliberata e dove comincia una faticosa e tortuosa buona fede. Nietzsche
ostenta di cadere dalle nuvole, eppure non solo non aveva un grande diritto
di stupirsi delle reazioni al suo comportamento poco corretto, ma era già
stato perfettamente informato dell’offesa di Wagner da una lettera della
stessa Cosima, in cui lei si diceva poi sicura che col tempo sarebbe di nuovo
sbocciata «la purezza dei sentimenti genuini» 62. Ed è certo quello che sta
avvenendo, anche se non con la purezza che Cosima immagina. Nietzsche si
contorce nel tentativo di nascondere a se stesso la verità, addossando al
«carissimo amico» la responsabilità di averlo tenuto all’oscuro, ma
uscendosene nell’ammissione rivelatrice che è stato meglio non saperne
nulla «perché certe volte a molte cose non si può rimediare». Niente di più
irreale e ipocrita della «pace» di cui egli si dichiara «contento».
L’espressione «piccole questioni di secondaria importanza» tradisce il
desiderio di controllarle e ridurle al minimo proprio perché sono in realtà
decisive e, come egli stesso ammette, senza rimedio.
La conseguenza è che Nietzsche deve prendere misure “igieniche”,
“sanitarie” contro Wagner, la presenza dell’altro è come un veleno, un
morbo contagioso dal quale non farsi contaminare. Questa «fedeltà in un
senso più alto», cioè in assenza dell’altro, suona un po’ come certi epitaffi:
nessuna generosità è più facile che verso i morti, che, in quanto tali, non
sono più in grado di nuocere. L’eufemismo dolciastro va preso nella sua
realtà originaria. L’unica soluzióne del problema sanitario di Nietzsche
sarebbe la morte dell’altro, ossia il suo annientamento totale. Solo questa
conclusione, intesa nel senso più letterale, permette di intendere più
compiutamente l’immagine scatologica del Nietzsche “intasato” nel suo
apparato digerente dalla musica di Wagner. Nietzsche, riempito attraverso
la musica dall’Essere appartenente al modello ammirato e invidiato, se ne
deve liberare con i propri escrementi: l’espulsione-defecazione significa
allora eliminare il rivale dopo averne assorbito la forza; equivale,
mostruosamente, all’averlo mangiato... Non è questa l’ultima implicazione
del cannibalismo a cui si riferisce l’abbozzo di lettera a von Bülow?
L’illusoria liberazione attraverso l’uccisione del rivale sembrerà avverarsi
diversi anni dopo la lettera a von Gersdorff. Alla notizia della morte di
Wagner, il Nietzsche abbattuto per l’inglorioso epilogo della trinità con Lou
Salomé e Paul Rée così scriverà a Gast:
Per alcuni giorni, sono stato fortemente ammalato e ho procurato delle apprensioni ai miei padroni di
casa. Ora sto di nuovo bene e credo, perfino, che la morte di Wagner sia stata il più importante
sollievo che mi potesse essere apportato in questo momento.63
Verrecchia commenta: «...o Nietzsche era già folle, o era moralmente
mostruoso»64. Di fronte a comportamenti del genere una reazione morale è
più che comprensibile, e ancor più comprensibile se pensiamo al
comportamento assolutamente tranquillo, se non divertito, tenuto da un
Nietzsche ormai vicino all’epilogo quando, mentre come al solito stava
svernando a Nizza, un terremoto devasta la città provocando centinaia di
morti. L’olimpico commento di Nietzsche è: «ero l’unico sereno fra larve» 65.
Tuttavia una doverosa condanna delle reazioni disumane di Nietzsche, se
resta da sola, rischia di proiettare il male sul “mostro morale” senza
indagarne ulteriormente le cause, che si annidano invece dentro ognuno di
noi. La più vera natura della reazione di Nietzsche ci viene suggerita dalle
crescenti intemperanze verbali, dalle contumelie e gli insulti di cui egli
gratificherà l’amico anche e soprattutto dopo morto, attribuendogli quella
natura grottesca di istrione che egli cercava di allontanare da sé. Se la
morte di Wagner fosse stata per Nietzsche «il più importante sollievo», non
dovremmo registrare un comportamento di segno opposto? Il fatto è che la
morte del rivale può rendere il rapporto rivalitario definitivamente
insanabile: il rivale diviene ormai imprendibile, l’imitatore non potrà più
dimostrargli alcunché, la sentenza di inferiorità costitutiva, ontologica
passa, per così dire, in giudicato. Nulla potrà dare sollievo all’ulcera da cui
è piagato il filosofo, nessuna defecazione più o meno simbolica lo potrà
liberare.
Riferendosi alle reazioni di Nietzsche alla morte del suo maestro e rivale,
Overbeck parla di «un’alternanza di stati d’animo veramente paurosa» 66. Di
questa alternanza paurosa fa parte anche l’inconsiderato tentativo di
“riconquistare” il cuore di Cosima per via epistolare, tentativo che la vedova
del compositore non degnò nemmeno di una risposta di circostanza. Della
lettera rimangono solo gli abbozzi, dal tono farneticante 67. L’ombra di
Wagner, come il fantasma del padre, come gli spettri che perseguitano i
personaggi di Shakespeare, si sarebbe rivelata ancora più forte del Wagner
vivo e reale.
La presenza di motivazioni oscure e inconfessate nella forsennata polemica
nietzschiana non sfuggirà a un lettore ipermimetico come Gabriele
d’Annunzio che, pur simpatizzando per le idee di Nietzsche, difende la
grandezza del «Gesù di Bayreuth», e parlando del Caso Wagner in un
articolo del 1893 osserva:
Come il lettore vede, non si tratta soltanto d’un caso Wagner, ma ben anche d’un caso Nietzsche. C’è
qualcosa di frenetico in questo bizzarro libello: nella successione disordinata delle idee, nella
incoerenza sintattica delle frasi, nella furia dell’invettiva.68
Proprio il confronto col protagonista del decadentismo italiano, e non solo
italiano, è a questo punto dei più illuminanti. Contrariamente ai luoghi
comuni ripetuti dai critici, d’Annunzio ha una magnifica comprensione delle
ragioni che muovono il pensiero di Nietzsche, da lui conosciuto da poco, ma
attua nei suoi confronti delle precise difese: ricettivo come una spugna ma
geloso della sua autonomia, lo scrittore italiano avverte di essere portatore
di un’ambiguità più ricca, e anche più virile, delle declamatorie incursioni
nietzschiane, ambiguità di cui Wagner è parte integrante, col sogno di
rifondazione teatrale rigettato per invidia e per odio da Nietzsche, e che egli
invece farà suo, anche se non senza chiari sintomi rivalitari. Sullo sfondo
della comune passione per Wagner e soprattutto degli stessi problemi
antropologici e storici, è d’Annunzio a gettare luce su Nietzsche più di
quanto non avvenga il contrario. D’Annunzio vuole usare Nietzsche senza
rompere l’ambivalenza che è la matrice preziosa della sua arte: si pone non
lontano dal filosofo del superuomo, ma nemmeno troppo vicino, per non
distruggere le rappresentazioni umane e artistiche che intende esplorare.
L’indagine mimetica dello scrittore italiano ci può far capire, infinitamente
meglio di qualunque volontà di potenza, ciò che è accaduto a Nietzsche con
la sua rivalità verso Wagner. D’Annunzio non dice quanto il «caso
Nietzsche» fosse simile a quello dei personaggi di tante sue opere, e a
quello di un romanzo da lui appena pubblicato l’anno prima, L' innocente, in
cui il protagonista Tullio Hermil, morbosamente geloso della moglie che l’ha
tradito con un famoso scrittore, è perseguitato dall’immagine dell’Altro, da
lui emblematicamente incontrato un giorno in una palestra di scherma. Nel
sapere che lo scrittore era stato colpito da una forma mortale di paralisi
progressiva, il protagonista viene preso da
una strana voglia di ridere [...]. Era una eccitazione singolarissima, un po’ convulsiva, non mai
provata, indefinita. Mi agitava lo spirito qualche cosa di simile a quella ilarità bizzarra e irrefrenabile
che ci agita qualche volta tra le sorprese d’un sogno incoerente.69
I sintomi di tipo isterico di questa «strana voglia di ridere» sono le stesse
risate infernali del giovane Nietzsche destinate a infittirsi con 1’awicinarsi
della catastrofe, e corrispondono all’«importante sollievo» avvertito da
Nietzsche alla notizia della morte di Wagner. Il trionfo di Tullio Hermil dura
però pochi istanti. Subito dopo, il personaggio, con una lucidità su se stesso
che Nietzsche non ha mai voluto raggiungere, si accorge di avere sensazioni
opposte alla gioia speciosa appena provata:
Non provavo più alcuna gioia. Ogni eccitazione d’odio era estinta. Una tristezza cupa mi piombò
sopra. - La ruina di quell’uomo non influiva sul mio stato, non riparava alla mia ruina. Nulla era
mutato in me, nella mia esistenza, nella previsione del mio avvenire.70
Il protagonista si rende conto che il rivale gli è sfuggito ancora, e stavolta
per sempre. La rivalità, già presente nel suo amore possessivo ed egoistico,
si abbatte incontrollabile sui suoi rapporti con la moglie, il partner-rivale
che nel Trionfo della morte diventerà la Nemica. Inutilmente egli cercherà
una mostruosa e tacita alleanza con la moglie per liberarsi del figlio che la
donna aspetta dallo scrittore, inutilmente Tullio Hermil provocherà la morte
del bambino: la coscienza di aver sacrificato una vittima innocente non gli
darà requie.

Per capire cosa succede al personaggio dello scrittore italiano e alla mente
del pensatore tedesco dobbiamo tornare alla situazione da cui siamo partiti,
quella del duello. Il duello evocato da d’Annunzio, e nevroticamente
invocato da Nietzsche, è l’immagine tipica quanto tradizionale della
situazione di rivalità. Successione di atti perfettamente simmetrici che
mirano al prevalere di un’ultima imitazione, quella più precisa, quella
mortale, il duello ci restituisce nella forma più trasparente lo schema di ogni
rivalità: il rapporto di doppio, rapporto che può avere gli esiti più distruttivi,
in cui alla «ruina» dell’Altro corrisponde la propria.
Con un tono febbricitante che è tutto suo, Nietzsche così descrive, in
Aurora, il carattere autodistruttivo di questo rituale che dominava
lugubremente la vita sociale di allora:
Il duello. Considero un vantaggio, diceva un tale, poter fare un duello, quando ho assolutamente
bisogno di farne uno; infatti in ogni momento ci sono attorno a me dei bravi camerati. Il duello è
l’ultima via, pienamente onorevole, che ci sia rimasta per il suicidio, purtroppo una via traversa, e
neppure del tutto sicura.71
Sotto il travestimento dei «bravi camerati» ritroviamo il compagno di
università da sfidare perché particolarmente simpatico. La precisazione
«pienamente onorevole» cerca di stabilire quell’attenzione, quel prestigio
sociale di cui il duellante si sente privo. L’ultimo scopo di questa ricerca -
l’autodistruzione - non è tuttavia meno dissennato della premessa, e la «via»
per conseguirlo rimane per giunta «traversa, e neppure del tutto sicura». Il
primo obiettivo dovrebbe essere l’uccisione dell’odiato rivale, ma la volontà
di battersi nasce dall’incertezza più disastrosa, che si fa strada dentro il
soggetto come la caverna scavata da un fiume carsico. Nietzsche ha paura
di precisare meglio qual è questa «via» e, con l’estraniazione rassicurante
della scrittura, tenta di allontanare la consapevolezza che sente
pericolosamente crescere dentro di sé. Egli vuole allontanare la percezione
che il duello è interno al suo io, eppure avverte che il suo stesso essere non
vi può sfuggire, vi appartiene con ogni sua fibra, fino a diventare suicidio.
Come dice d’Annunzio sempre Innocente, esprimendo mirabilmente il
carattere distruttore e simmetrico del doppio vincolo rivalitario:
...era un nemico, un avversario col quale stavo per impegnare la lotta. Egli era la mia vittima ed io
ero la sua. Ed io non potevo sfuggirgli, egli non poteva sfuggirmi. Eravamo ambedue chiusi in un
cerchio d’acciaio.72
Perché questi personaggi moderni, non diversamente dall’Amleto di
Shakespeare73, non riescono a sfogare nel duello costantemente evocato la
loro violenza? La distruttività dei doppi percorre normalmente in loro strade
più tortuose e insidiose delle antiche sfide all’ultimo sangue: il soggetto si
vieta comportamenti platealmente aggressivi, che incontrano una crescente
riprovazione sociale, e spesso oppone al suo odio verso il modello-rivale una
qualche resistenza morale. Nella società moderna il rapporto di rivalità
trova con sempre maggiore difficoltà gli sfoghi sanguinosi di un tempo e, a
meno che non venga superato altrimenti, si manifesta inesorabilmente
all’interno del soggetto come conflitto insolubile fra repulsione e attrazione,
fra odio e amore.
L’effìmero sollievo di Nietzsche alla morte di Wagner è anche il tentativo di
reagire al dolore che questa morte gli provoca, di negare insieme al rivale il
problema. Egli odia Wagner con la stessa intensità e per gli stessi motivi
per i quali lo ama. Nietzsche è anche quello che scriverà in Ecce homo, in
un momento di abbandono che ha dello straziante: «io ho amato Wagner» 74,
e un’importante testimonianza sull’ultimo periodo di Torino ci mostra come
il filosofo pregasse la figlia dei suoi ospiti «di suonargli del Wagner - solo
del Wagner»75. La violenza senza catarsi dei moderni mostra in forma
drammatica la natura infernale della rivalità, il suo non aver accesso alla
comunicazione d’amore, il suo non rassegnarsi a capire che non si odia né
tanto meno si desidera uccidere impunemente chi si ammira e si ama.
La conseguenza di questo cocktail esplosivo è che i doppi si moltiplicano
dentro il soggetto, a volte potenziandone la creatività (che è imitativa e
quindi duplicativa), ma comunque danneggiandone in modo anche grave la
stabilità, fino al limite estremo della pazzia. Sia nei rapporti fra le persone
che all’interno di queste, i doppi mimetici tendono infatti a formare una
struttura, un sistema che, se controllato psicologicamente e socialmente, è
di grande fecondità creativa, come avviene appunto nelle duplicazioni
rappresentative dell’arte, ma che se non controllato può letteralmente
impazzire.
Sempre d’Annunzio è un esempio quanto mai pertinente delle potenzialità
creative dei doppi mimetici. Anche in lui possiamo osservare una sostanziale
ambivalenza nei suoi rapporti con Wagner, ma lo scrittore italiano risolve i
doppi del suo mimetismo nella creatività artistica e in un’indagine
appassionante sul suo desiderio, già audacemente intrapresa con Il piacere.
Nel romanzo Il Fuoco Stelio Èffrena insegue il sogno di una nuova arte
dionisiaca capace di soggiogare la «smisurata chimera occhiuta» della folla,
e ha in Wagner il modello e rivale supremo da venerare e da superare. Ma
Èffrena-d’Annunzio dispone di altre risorse rispetto a Nietzsche, e riesce a
utilizzare a scopi creativi il desiderio di veder scomparire il modello-rivale:
Wagner appare a Venezia ormai vecchio e malato e, allorché ha un malore,
Èffrena lo soccorre e sostiene sulle sue spalle; quando, alla conclusione del
romanzo, il maestro muore, il protagonista, insieme con dei suoi compagni,
porta il feretro dell’Eroe, del Rivelatore, autodesignandosi come suo
successore nell’arte teatrale. La rivalità non è superata, ma è accortamente
deviata, traducendosi nella ritualità derivata dell’arte, e consentendo
all’imitatore un rapporto difficile ma costruttivo col mondo, una possibilità
di imparare, di guardare a se stesso. Sono possibilità che Nietzsche non ha
mai voluto sfruttare, relegando in secondo piano gli impulsi artistici e
teatrali di cui abbiamo visto un esempio giovanile immediatamente respinto,
impulsi poi riaffioranti a dispetto di tutto nelle opere della maturità. Il
“sistema di doppi” che si sviluppa nella mente e nel pensiero del filosofo,
sotto la spinta della rivalità non superata con Wagner e in assenza della
deviazione rappresentativa dell’arte, si rivelerà certo creativo, ma resterà
fatalmente orientato verso lo squilibrio psichico. Non è difficile dimostrare
come siano questi doppi rivalitari il motore nascosto del pensiero
nietzschiano.

3. Le maschere di un filosofo
Nella situazione concreta di Nietzsche carico di risentimento nei confronti
di Wagner, il depositario della “potenza” in campo artistico, sentimentale,
sociale, va riconosciuto il nucleo della sua idea di volontà di potenza, che si
connota costantemente, difatti, come volontà agonistica e competitiva. La
volontà di potenza da lui esaltata è il risentimento di Nietzsche trasfigurato
positivamente perché riguarda lui stesso, mentre il risentimento è la volontà
di potenza insidiosa e coperta dei più deboli verso i più forti, i pochi, gli
aristocratici: i più deboli formano il “gregge”, contro cui Nietzsche scaglia
con regolarità alla fin fine monotona i suoi fulmini, la massa amorfa che per
prevalere inventa la morale e il cristianesimo. Proprio perché si rende conto
che si tratta di gradi diversi di un’unica forza, Nietzsche cerca di
impadronirsene, di esserne il depositario. La volontà di potenza che egli
deve possedere nel grado più alto è la differenza decisiva, destinata a
salvarlo dal risentimento livellatore del gregge, dall’oscillazione dei doppi
della rivalità.
Ma venire a capo della rivalità superando tutti i rivali è un’impresa
impossibile. Non dobbiamo farci abbagliare dalla figura del superuomo: il
superuomo, o l’oltre-uomo come taluni traducono nel vano tentativo di
trasfigurarne l’essenza, è semplicemente colui che supera gli altri, colui che
vince sempre. Potrebbe essere oggetto di un interessante studio di
psicologia storica e sociale descrivere gli innumerevoli modi in cui una
figura così poco probabile nella sua apparenza, e così poco gradevole nella
sua sostanza, è stata oggetto di esaltazioni e disquisizioni sottili, spesso col
sottinteso che l’unico rappresentante di questa specie straordinaria sia colui
che ne parla. L’egocentrismo dei chiosatori è in realtà titillato dal
superuomo nietzschiano per motivi più sofisticati, ma non molto diversi da
quelli per cui l’uomo medio sogna di diventare Superman, e la casalinga
frustrata la sua fedele compagna o la donna dotata di superpoteri. La
trivialità degli esempi non deve indignare. L’immaginario popolare (e
americano), nella sua sancta simplicitas, può essere più rivelatore di mille
dotti discorsi. Ben a ragione, d’altronde, Nietzsche non è entrato in
maggiori dettagli sul suo superuomo, poiché tale figura si caratterizza in
termini soprattutto negativi: essa sistematicamente persegue il contrario di
quello che fanno gli altri, si caratterizza cioè con l’imitazione tipica dei
rapporti di rivalità, l' imitazione negativa, che si illude di distinguersi per
una sua originalità incomparabile, quando invece essa spia ossessivamente
tutto ciò che fanno gli altri all’unico scopo di fare sempre con esattezza
l’opposto. Des Esseintes, il protagonista di Controcorrente che trova volgari
le sue più cervellotiche trovate non appena vengono imitate dai “bottegai”,
il dandy che ha sempre bisogno di fare il contrario degli altri, è l’antenato di
ciò che le mode attuali ci mostrano sotto forma di consumo di massa,
l’imitazione più servile e più cieca che si possa immaginare.
È giusto riconoscere alla creatura di Nietzsche una patente di maggiore
tragicità rispetto all’immaginario consumistico attuale, ma a patto di
ricordare che la vera tragicità non è quella che si libra al di fuori del
quotidiano, bensì quella che se ne alimenta, che ne mostra il volto nascosto.
La tragedia insita nel superuomo è che quest’autentico fantoccio da
competizione deve vincere non solo il gregge, ma anche i suoi simili, tant’è
vero che Nietzsche lo proietta sempre in un luminoso passato o in un futuro
ancor più luminoso (e vedremo di che luce), ma mai nel presente. E si può
scommettere che nel presente il superuomo troverà sempre qualcuno in
grado di batterlo, Wagner, il fantasma di Wagner, gli ammiratori di Wagner,
infine il mondo intero. La mente di Nietzsche ospita perciò nel suo interno
una permanente crisi dei doppi. Egli è troppo lucido per non registrare la
crisi e insieme troppo accecato per non sognare di affermare la sua vittoria,
la vittoria dell’ultimo doppio capace di annientare tutti gli altri. I doppi della
volontà di potenza sono il problema da risolvere, il mezzo per risolverlo, la
vittoria risolutiva. La volontà di potenza è già la pazzia di Nietzsche che
spera di guarire con i suoi propri mezzi, sogno di salute irreale, di
autosufficienza divina, delirio di onnipotenza.
Nietzsche esprimerà questo sogno in tono sincero, e con vere qualità di
poeta, ed è anche questo autentico pathos del desiderio che ci aiuta a
comprendere il fascino che questa figura ha esercitato su intere
generazioni, che si sono illuse in tal modo su una conclusiva vittoria delle
loro brame mimetiche. Quante esistenze cariche di frustrazioni e rancore
non si sono riconosciute nel risentimento nascosto di Nietzsche,
fantasticando di una loro rivincita nei confronti dell’odiato “gregge”,
dell’intera società? Subito prima della piena maturità del pensatore tedesco,
uno scrittore russo, Dostoevskij, aveva analizzato come nessun altro questi
figli di una frustrazione che ha del metafisico, questi abitanti del sottosuolo
del loro rancore, quelli che in un suo grande romanzo diventano i «demoni».
Nel suo ultimo periodo prima del crollo Nietzsche leggerà con grande
attenzione sia i Ricordi dal sottosuolo sia I demoni, ma senza riuscire ad
applicarne il tremendo insegnamento. Ancora pochi anni, e questi figli del
sottosuolo, questi «demoni» avrebbero trasformato il proprio risentimento
in ideologie forsennate, in regimi politici da tregenda.

Vi è però una differenza importante tra Nietzsche e i suoi imitatori, una


differenza che ci permette di cogliere il peculiare rapporto conoscitivo del
suo pensiero con le sue rivalità non superate. Al pari di tanti suoi
ammiratori e di noi, egli si rifiuta di vedere a fondo il suo desiderio, l’invidia
e la rivalità che sono il triste bagaglio della nostra esperienza di esseri
umani76. Ma, nel momento preciso in cui nasconde a se stesso il suo
desiderio, Nietzsche vuole spuntare la sua disperata vittoria proprio laddove
sente che nasce il problema, cioè in questo desiderio stesso, che egli cerca a
tutti i costi di trasfigurare e utilizzare sotto forma di camuffamento
filosofico. Dopo essersi calata una maschera sul volto, la stessa con cui
aveva strenuamente tentato di coprire il proprio disastroso bisogno di
modelli77, il filosofo vuol fare di questa maschera il centro medesimo della
propria visione. «Tutto ciò che è profondo ama la maschera» afferma
Nietzsche78. E poiché la maschera, come simbolo ed elemento rituale,
riguarda l’origine sacra dell’uomo, ne è letteralmente l’immagine, questo
porta il pensatore tedesco a un oggettivo confronto con la realtà
antropologica fondamentale, con ciò che regge non l’individuo soltanto, ma
l’intera cultura, l’intera storia dell’uomo. Il sottosuolo del suo risentimento,
attraverso la maschera, diventa scavo archeologico, stratigrafia del suo e
nostro inconscio culturale. Nietzsche avverte che quanto prova è
indissolubilmente legato a una conoscenza visibile e insieme nascosta di cui
si fa il banditore, lanciandosi in un’avventura senza precedenti che non è
solo verbale, ma esistenziale. È questa la peculiare, paradossale coerenza, o
meglio meta-coerenza, di tale filosofo, ed è questo a conferire ai suoi scritti
il loro tono entusiasmante e insieme sinistro di profezia, una profezia che
sarà l’autore il primo a preoccuparsi di realizzare. Questo desiderio
negato/cercato, questo desiderio-maschera spiega il suo atteggiamento da
un lato verso Dioniso, dall’altro verso il cristianesimo.
Dioniso è in Nietzsche il simbolo greco del fondamento sacrificale della
società e della cultura, ma per spiegare i motivi di una simile
caratterizzazione dobbiamo ricorrere a Girard, perché più che mai qui il
pensatore tedesco deve mantenere l’ambiguità della maschera di cui
Dioniso è il dio79. Contrariamente a ciò che tenta di far credere Nietzsche, il
mistero della maschera è risolvibile, basta prenderla per quello che è, non
una superficie splendente, quanto piuttosto una macabra fossa in cui si può
e si deve scavare, una fossa che, come uno scavo archeologico, contiene gli
strati non solo della nostra psicologia, ma della nostra storia, della nostra
preistoria collettiva. Per rendere giustizia alla grandezza di Nietzsche la
filosofia non è sufficiente, bisogna ricorrere a uno studio più complessivo e
più ampio dell’uomo, alla dimensione antropologica esplorata da Girard.
Nietzsche avverte, sa che in Dioniso c’è il segreto dell’origine umana. È il
labirinto di Dioniso, quindi, che adesso dobbiamo percorrere.

30
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., ρ. 91; v. A. Verrecchia, La catastrofe, cit., pp. 83-84. Nietzsche aveva
ricevuto il Parsifal il 3 gennaio 1878; l’arrivo di Umano, troppo umano è registrato nei diari di Cosima
il 25 aprile 1878. Che l’anacronismo di Nietzsche non sia una semplice inesattezza «nelle minuzie
biografiche» — come sostiene la nota 106 di F. NIETZSCHE, Il caso Wagner ecc., cit., p. 613 -, lo
dimostra il racconto ancora più circostanziato che egli fa già in una lettera a Lou Salomé del 16 luglio
1882 (Triangolo di lettere, cit., p. 139).
31
Nietzsche nello scontro resterà poi leggermente ferito al viso, cfr. Μ. FINI, Nietzsche, cit., p. 44.
32
Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 26; la storia della caduta dalle scale, ancora incredibilmente avallata da
alcuni studiosi, è un’invenzione della sorella di Nietzsche, timorosa che qualcuno diagnosticasse una
tara ereditaria in famiglia (cfr. A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 193).
33
F. NIETZSCHE, La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869, tr. it. di Μ. Carpitella, Adelphi,
Milano 1999, p. 102.
34
Potrebbe proprio questo senso di colpa essere alla base del convincimento di aver avuto un
presagio.
35
F. NIETZSCHE, La mia vita, cit., pp. 118-20; cfr. C.P. Janz, Vita di Nietzsche, a c. di Μ. Carpitella,
vol. I, Il profeta della tragedia (1844-1879), Laterza, Roma-Bari 1980, ρρ. 94 ss. Come si vede, l’unica
sifilide presente in Nietzsche (la tabe ne è l’ultimo stadio) è quella simbolica.
36
Lettera a Raimund Granier del 18 luglio 1862 in F. NIETZSCHE, Epistolario 1850-1869, tr. it. di
M.L. Pampaloni Fama, Adelphi, Milano 1976, p. 216 (cfr. anche la singolare chiusa della lettera a
Franziska ed Elisabeth Nietzsche del 17 gennaio 1869, ivi, p. 670: non c’è dubbio che per completare
il quadro psichico del giovane Nietzsche bisognerebbe analizzare anche i rapporti ambivalenti con la
madre e la sorella).
37
Lettera del 15 settembre 1882 ca. in Triangolo di lettere, cit., p. 203; lettera a Fuchs del 18
dicembre 1888 in Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 325.
58
F. NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, tr. it. di C. Colli Staude, Adelphi, Milano 1976, pp. 117-18
(lettera del 21 maggio 1870) e 320 (lettera del 24 giugno 1872).
39
Si vedano ad esempio, sulla vita di Wagner, le notizie raccolte in RW. GUTMAN, Wagner. L'uomo, il
pensiero, la musica, tr. it. di O.P. Bertini, Rusconi, Milano 1983 (nell’opera tuttavia i rapporti di
Wagner con Nietzsche sono svisati da un’acritica ammirazione per il filosofo).
40
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 83.
41
Annotazione dell’ll aprile 1873 citata in F. NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., p. 701 (nota
alla lettera a Wagner del 18 aprile 1873 su cui vedi più sotto).
42
F. Nietzsche, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 330-31.
43
A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 79.
44
Abbozzo del 29 ottobre (o poco prima) 1872 in F. NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 380-
82.
45
La parola, non commentata nell’ed. Colli-Montinari italiana e tedesca, è correttamente trascritta,
ed è collegata al cannibalismo nell’ed. in francese. L’etimologia di «cannibalismo» in tedesco è la
stessa che in italiano: questo rende abbastanza trasparente il gioco di parole, che sembra esemplato
sul latino (probabilmente si tratta di un lapsus calami per cannibalitudo). Ringrazio i proff. G.
Campioni e F. Volpi per la consulenza.
46
Lettera del 29 ottobre 1872 in E NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., p. 383.
47
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 44.
48
Ivi, p. 102.
49
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 34 (sui rapporti con Lou Salomé) e altrove. Paul Rèe, l’amico e
rivale nel rapporto con Lou Salomé, ha alcune caratteristiche di gay, e l’amicizia fra lui e Nietzsche
ha a tratti delle tinte ambigue, anche se restiamo sempre nell’ambito delle implicazioni erotiche
accuratamente represse (Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 136-39).
50
C.P. Janz, Il profeta, cit., p. 399.
51
Ivi, p. 464.
52
H. ÄLTHAUS, Nietzsche. Una tragedia borghese, tr. it. di Μ. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 1994,
pp. 273-74; Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 114-15.
55
C.P. JANZ, Il profeta, cit., p. 330. Come risulta dalle testimonianze raccolte anche da Fini, le
reazioni psicosomatiche di Nietzsche potevano essere di incredibile intensità. Questo fa pensare, fra
l’altro, che diversi dei suoi disturbi siano una forma di imitazione della malattia del padre.
54
Cfr. Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 126 ss. (l’autore commette l’errore di prendere alla lettera alcune
velenose dichiarazioni di Nietzsche).
55
H.-L. Miéville in H. DE LuBAC, Mistica e mistero cristiano. La fede cristiana, tr. it. di A. Sicari, Jaca
Book, Milano 1979, p. 290.
56
Non disponendo di una visione mimetica del desiderio e pur vagliando con scrupolo le notizie, Fini
fraintende sistematicamente la ricerca dissennata di un modello da parte di Nietzsche (ad es.
Nietzsche, cit., pp. 212 e 215).
57
Lettera a Hendrik Gillot del marzo 1882 in Triangolo di lettere, cit., p. 85.
58
Gregory Bateson ha studiato il doppio vincolo (double bind) nei rapporti fra madre e bambino e
nella genesi della schizofrenia, ma la teoria di Girard usa questo principio in chiave più ampiamente
antropologica.
59
F. Nietzsche, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 448-49.
60
Giustamente Fini definisce la prima Inattuale «una pura operazione di killeraggio intellettuale»
(Nietzsche, cit., p. 111). Il transfert mimetico è così intenso che Nietzsche attribuisce a Strauss
esattamente quel ruolo di «fondatore della religione dell’avvenire» che lui qualche anno dopo
cercherà a ogni costo di incarnare (F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali, tr. it. di S. Giametta e Μ.
Montinari, Einaudi, Torino 1981, p. 21).
61
Lettera del 2 marzo 1873 in F. Nietzsche, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 434-35 (F. NIETZSCHE,
Briefwechsel, a c. di G. Colli e Μ. Montinari, vol. II, tomo III, Briefe von Nietzsche: 1872-1874, de
Gruyter, Berlin-New York 1978, p. 131).
62
Lettera del 12 febbraio 1873 in F. NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., p. 698.
63
Lettera del 19 febbraio 1883 in A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 76. Cfr. la lettera a Malwida
von Meysenburg del 21 febbraio 1883: «...credo che questo avvenimento, visto in prospettiva,
rappresenti per me un sollievo» (Triangolo di lettere, cit., p. 275). Anticipatrici e sintomatiche, sotto
la maschera dell’ipocrisia, certe immagini usate nella lettera a Wagner del 20 maggio 1874 scritta
per il compleanno del compositore, quando, in risposta a Wagner che gli faceva notare che sembrava
volersi premunire dallo stare con lui, il filosofo dice che vorrebbe contare il tempo a lustri come gli
antichi Romani, che associavano a questa scadenza «grandi sacrifici di purificazione» (F.
NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 530-32). Non c’è dubbio: con la morte dell’antagonista il
“grande sacrificio di purificazione” sembra essere giunto.
64
A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 76. Va aggiunto che anche in questo Nietzsche non era
senza modelli, se è vero che Wagner è esploso in scene di esultanza alla notizia che l’odiato
Meyerbeer era morto (Μ. FINI, Nietzsche, cit., p. 105).
65
In Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 293; sulle reazioni di Nietzsche v. anche C.P. Janz, Vita di Nietzsche,
cit., vol. II, Il filosofo della solitudine (1879-1889), Laterza, Roma-Bari 1981, p. 472.
66
Lettera di Overbeck a Gast del 17 marzo 1883 (Triangolo di lettere, cit., p. 278).
67
Gli abbozzi sono databili alla metà di febbraio del 1883 (Triangolo di lettere, cit., p. 455).
68
Articolo Il caso Wagner, ora raccolto in G. D’Annunzio, Il caso Wagner, a c. di P. Sorge, Laterza,
Roma-Bari 1996, p. 74 (citato in A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 295). Cosima aveva fatto
pubblicare il 25 ottobre 1888 a Richard Pohl una risposta al Caso Wagner recante il titolo Il caso
Nietzsche (H. Althaus, Nietzsche, cit., p. 542), e nel dicembre Nietzsche aveva parlato a Gast e ad
altri del progetto di una controreplica con lo stesso titolo (A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 169; v.
anche la Cronologia in F. Nietzsche, Crepuscolo, cit., pp. 159 e 177).
69
G. D’ANNUNZIO, L'innocente, a c. di M.R. Giacon, A. Mondadori, Milano 1996, p. 190.
70
Ivi, p. 191.
71
F. Nietzsche, Aurora, cit., libro IV, af. 296, p. 182.
72
G. D’Annunzio, L'innocente, cit., p. 170.
73
R. GIRARD, A Theater of Envy: William Shakespeare, Oxford University Press, Oxford-New York
1991, cap. 30, pp. 271 ss. (Shakespeare. Il teatro dell'invidia, tr. it. di G. Luciani, Adelphi, Milano
1998, pp. 432 ss.).
74
F. NIETZSCHE, Ecce homo, cit., p. 127; l’espressione (preceduta da: «In questo affare mi sono
tenuto per me tutti i pezzi decisivi -») appare tanto più significativa in quanto sostituisce un più
illusorio: «ho tempo» (v. l’apparato di F. NIETZSCHE, Il caso Wagner ecc., cit., p. 621, n. 154);
Nietzsche avverte in realtà di non avere più tempo, e dichiara l’intensità della sua dipendenza da
Wagner.
75
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 207.
76
Fuorviarne l’affermazione di Fini secondo cui Nietzsche «nel profondo, capisce tutto,
assolutamente tutto di se stesso» (Nietzsche, cit., p. 264): egli avverte sì tutto di sé, ma rifiutandosi di
comprenderlo, e di accettarlo; se avesse fatto questo il filosofo non sarebbe impazzito.
77
Sulla necessità di fingere per il disadattato Nietzsche v. Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 67-70.
78
F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, tr. it. di E Masini, Adelphi, Milano 1992, cap. II, af. 40,
p. 46; già Lou Salomé aveva avvertito l’importanza della maschera e del travestimento in Nietzsche,
citando questo e altri passi (L. Andreas-Salomé, Vita di Nietzsche, a c. di E. Donaggio e D.M. Fazio,
Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 57-58).
79
In assenza di una teoria antropologica corretta, anzi senza nemmeno avvertire l’esistenza di un
problema antropologico fondamentale, Jaspers definisce il Dioniso di Nietzsche come il simbolo della
«totalità dell’essere nella sua unità·», il che non è falso, ma non nel senso speculativo e astratto a cui
pensa lui; precisamente per questa astrattezza che evita tutto ciò che è troppo fastidiosamente reale
«nessuno si è mai appropriato del simbolo di Dioniso» (K. JASPERS, Nietzsche. Introduzione alla
comprensione del suo filosofare, a c. di L. Rustichelli, Mursia, Milano 1996, pp. 338-41).
IV. La fondazione di Dioniso
1. La vera "morte" di Dio
Allo scopo di esaminare gli strati archeologici disseppelliti da Nietzsche
dobbiamo ripartire dalle dinamiche “da doppio vincolo” del desiderio. Esse
sono perennemente attive nell’ambiente sociale in cui l’uomo vive e si
forma, e rendono prima o poi inevitabile il crearsi di rivalità e di violenze
che a loro volta tendono a moltiplicarsi. Nulla è più contagioso della
violenza, della risposta uguale e contraria che ogni azione violenta contro di
noi provoca in maniera quasi irresistibile, imitazione simmetrica e
distruttiva da cui può nascere una crisi di gruppo, una crisi dei doppi, che
rappresenta il modello originale della crisi che si scatena nella mente di
Nietzsche. L’unico modo immediato di uscirne è concentrare l’imitazione
violenta su un solo obiettivo, sulla selezione del quale tutti i contendenti si
ritrovano d’accordo: è il meccanismo già osservato nel tentativo del giovane
Nietzsche di solidarizzare con il suo modello uccidendo verbalmente David
Strauss, o di Tullio Hermil di salvare il suo matrimonio uccidendo
fisicamente, con la complicità della moglie, il doppio dell’odiato rivale, il
bambino. Allorché avviene in un gruppo, tale meccanismo provoca
facilmente una nuova corrente imitativa, che condensa contro il nuovo
nemico un numero crescente di soggetti, finché l’intera collettività. non si
coalizza contro di lui. Tutto ciò può verificarsi in tempi anche rapidissimi.
Questo nemico capace di accomunare i rivali è la vittima, scelta per un
qualunque motivo anche casuale che attira l’attenzione degli altri. Alla
vittima tutti addossano la responsabilità di ciò che va storto: una volta
selezionata, essa è di norma uccisa, o perlomeno espulsa. La vittima è la
“differenza” che permette di arrestare la proliferazione dei doppi, la stessa
differenza che Nietzsche disperatamente cerca per bloccare i doppi della
rivalità dentro di sé.
Il fenomeno della selezione vittimaria esiste in forma spontanea come
linciaggio, ma è stato codificato già in tempi remoti come sacrificio, come
ripetizione controllata della violenza collettiva, passaggio essenziale -
afferma la teoria mimetica - per comprendere l’origine stessa dell’uomo
come animale culturale. Si tratta di un processo che può avvenire soltanto
se è inconsapevole. È la pace mimetica, infatti, a consentire lo sviluppo
della coscienza, non il contrario: la comunità si sente realmente minacciata
dalla vittima, che assume sembianze mostruose attraverso l’eccitamento
esponenziale del gruppo. Una volta che è uccisa, la vittima, con la stessa
intensità con cui prima era odiata (transfert di aggressività), viene adesso
vista come causa della pace miracolosamente ritrovata, viene vista come
divinità (transfert di divinizzazione). È questa la “fossa” cognitiva che copre
la vittima, e che nel corso dell’evoluzione culturale dell’uomo diventa la
fossa vera e propria in cui essa è sepolta, la tomba. Il sacrificio spiega
l’origine e la natura delle arcaiche divinità sacrificali che Nietzsche
invocherà. Il dio sacrificale è sia la vittima immolata, di cui prende le
caratteristiche, sia colui che reclama altri sacrifici, dai quali dev’essere
letteralmente e regolarmente “nutrito”. Senza uccisioni il dio morirebbe
perché è dalla morte trasfigurata della vittima che esso è nato.
Come dimostra Girard, è a questo processo che si richiama palesemente
Nietzsche nell’aforisma 125 della Gaia scienza contenente il famoso detto
«Dio è morto», passo che un interprete della finezza di de Lubac ha definito
«la cellula madre del suo pensiero» 80, e che ci restituisce il progetto di
rifondazione sacrificale del pensatore tedesco. Il dio sacrificale al quale si
richiama Nietzsche, per vivere, deve prima morire. Il Dioniso da lui
riesumato è in Grecia la divinità che presiede a un rito sacrificale ancora
estremamente vicino al linciaggio spontaneo, lo sparagmós, lo
squartamento di una vittima viva che, nella versione più arcaica di questo
rito collettivo, era divorata subito nell’omofagia (da otnós, crudo nel senso
di vivo), il divorare le carni ancora palpitanti della vittima 81. La vittima era
in origine umana, come ci attesta la storia della religione greca e come ci
mostrano le Baccanti di Euripide. Per questo Dioniso è il dio della
maschera, perché il travestimento rituale è il mezzo che permette di
uccidere senza farsi riconoscere, senza provocare l’imitazione violenta degli
altri, ed è la traduzione concreta della copertura che permette al gruppo di
non vedere la propria violenza e di trasfigurarla nel sacro, il potere
misterioso con il quale il gruppo proietta fuori di sé la violenza di cui non si
rende conto, attraverso quella partecipazione incosciente che Girard chiama
misconoscimento o inconscio persecutorio. L’equivalente verbale della
maschera, della tomba, dell’inconscio persecutorio, è rappresentato dai
miti, le storie di persecuzioni trasfigurate, che spiegano quanto è successo
come visita o azione di qualche divinità. Al pari della maschera, i miti sono
visti e vissuti come inesplicabili fintantoché si rimane complici della
violenza che essi coprono.
I percorsi lungo i quali Nietzsche ha esplorato la fondazione sacra di
Dioniso, facendola interagire in modo distruttivo col suo mimetismo,
rivelano e occultano questi materiali incandescenti. Nietzsche, o se
vogliamo il Nietzsche cosciente, non arriverà mai a togliere la maschera di
Dioniso, poiché per farlo avrebbe dovuto riconoscere la vera natura della
violenza da lui propugnata, e l’origine di questa violenza dal proprio
desiderio. Rivelazione e occultamento si combinano in lui con scambi e
alternanze disorientanti ma ricostruibili, basta non farsi confondere dal
moltiplicarsi dei doppi tipico del suo pensiero, e dal suo mettere sullo stesso
piano mistificazioni e scoperte che hanno ugualmente del clamoroso. E dal
momento che il doppio vincolo generatore della sua opera è
fondamentalmente sempre lo stesso, i suoi esiti possono essere riscontrati
fin dai primi esordi significativi del pensatore.

2. Il fautore prometeico della cultura


Negli scritti giovanili è chiaramente avvertibile la frenetica intensità con cui
Nietzsche si sforza di costruire la maschera destinata a coprirlo, utilizzando
i materiali provenienti dalla sua duplice formazione, classica e wagneriana.
Sotto il sussiego professorale, i sentimenti esageratamente gioiosi e le
intuizioni folgoranti, cova una tensione e una foga polemica pronta a
colpire, che quando può erompe incontrollabile con un unico intento, quello
di ridicolizzare, di uccidere l’avversario. Vi è in tutto ciò qualcosa di isterico
che non lascia presagire nulla di buono, ed è mediante questa esaltazione
morbosa che Nietzsche elabora la sua immagine dell’antica Grecia, di gran
lunga più avanzata delle idealizzazioni melense allora in voga, ma
profondamente imbevuta dello spirito rivalitario del suo ideatore. Questo
geniale quanto rancoroso primo della classe riconosce nell’antica Grecia gli
impulsi che lo agitavano crudelmente: le «attitudini più terribili» dell’uomo
viste come «naturali», «gli abissi dell’odio», la «crudeltà voluttuosa» degli
occhi da tigre del guerriero vittorioso, «la notte e l’orrore» della mitologia
preomerica, la lotta «come salute e salvezza», «la crudeltà della vittoria»
quale «culmine della gioia di vivere», il diritto sviluppatosi
«dall’assassinio»82. Non poteva mancare in un simile quadro l’invidia:
...tutta quanta l’antichità greca pensa, riguardo all’astio e all’invidia, diversamente da noi, e giudica
come Esiodo, il quale da un lato designa come cattiva una Eris, quella cioè che spinge l’uno contro
l’altro gli uomini, in una crudele lotta di annientamento, e d’altro lato loda come buona una seconda
Eris, che sotto forma di gelosia, astio e invidia, stimola gli uomini all’azione, non già a una lotta di
annientamento, bensì all'AGONE. Il Greco è invidioso, e non sente questa proprietà come un difetto,
bensì come azione di una divinità benefica:, quale abisso fra il nostro giudizio e il suo!83
Il collegamento alle Opere e i giorni di Esiodo è ingegnoso quanto falsante:
certamente i Greci, competitivi com’erano, cercavano di utilizzare in senso
positivo il loro agonismo, ma mai e poi mai hanno pensato all’astio e
all’invidia di Nietzsche, alla rivalità isterica che egli sogna di poter sfogare
per loro tramite. L’Eris (Contesa) buona di Esiodo è l’emulazione
ritualmente controllata, non una frustrazione feroce pronta a colpire. Il
brillante filologo non vuole vedere la connessione fra l’astio e l’invidia che
vuole esaltare, da un lato, e, dall’altro, la «crudele lotta di annientamento»
che ne è la conseguenza diretta, e che egli inutilmente cerca di
contrapporre all’agone. Questo moderno esaltatore dell’invidia può sentirsi
così autorizzato a uscirsene in affermazioni del genere:
...dobbiamo trovarci d’accordo nel considerare come verità - che suona crudele - l’affermazione che la
schiavitù rientra nell’essenza di una cultura: una verità certo che non lascia alcun dubbio sul valore
assoluto dell’esistenza. Tale verità è l’avvoltoio che divora il fegato al fautore prometeico della
cultura. La sventura degli uomini che vivono faticosamente dev’essere ancora aumentata, per
rendere possibile a un ristretto numero di uomini olimpici la produzione del mondo dell’arte.84
Per raggiungere questo luminoso ideale - precisa in altri passi dello stesso
saggio il filosofo - bisogna lasciarsi alle spalle fantasmi ingannevoli «come la
dignità dell’uomo» e contrastare, in nome «della potenza, che è sempre
malvagia», le odiate spinte della civilizzazione democratica e fondata sul
denaro, contro la quale «l’unico rimedio è la guerra, e ancora la guerra» 85.
Va innanzi tutto tenuto presente che simili affermazioni aberranti
appartengono a scritti composti in onore della sciovinista e altezzosa
Cosima, alla quale il giovane guerrafondaio vuole far balenare un’idea in lui
ricorrente e dal chiaro sapore compensativo: la comunità «di uomini
olimpici» dediti all’arte, nel cui novero ovviamente dovrebbe entrare lui
stesso. La visione però non appaga lo scatenato visionario. Il dettaglio che
maggiormente colpisce è che la sventura in cui sprofondano gli esclusi
«dev’essere ancora aumentata». C’è da domandarsi il motivo di un tale
accanimento. Se pensiamo al contrasto con il «ristretto numero di uomini
olimpici», viene spontaneo dedurne che questo significhi un continuo
aumento degli schiavi e un numero sempre più ristretto degli eletti, un po’
come nell’evoluzione estrema del capitalismo teorizzata da Marx. L’ultima
fase di quest’evoluzione stranamente “capitalistica” dell’Olimpo sarebbe
allora quella in cui il solo Nietzsche avesse accesso all’Olimpo, a casa
Wagner, a Cosima, la futura Arianna. Il «fautore prometeico della cultura»,
a cui un avvoltoio rode il fegato non per l’assillo sulla sorte di così tanti
infelici, quanto per il timore di finire tra loro, non è altri che l’innamorato di
Cosima, incatenato da Wagner-Zeus. L’immagine ci illustra, in forma ancora
drammatica, una situazione vittimaria rovesciata, analoga a quella che egli
vivrà simbolicamente nel 1888 durante il terremoto di Nizza: l’escluso da
Cosima e dalla genialità musicale, il reietto del mondo intero, che alla fine si
prende la propria rivincita.
Questa sorta di “psicanalisi” mimetico-sacrificale non deve però far
dimenticare, appunto per l’oggettiva realtà antropologica che fa emergere,
la serietà e le implicazioni di ciò che afferma il filosofo. Nei passi citati
Nietzsche intende dire esattamente quello che dice, né cambierà mai il
tenore, che anzi peggiorerà, delle sue affermazioni, sino al punto di
mantenere la medesima immagine mitica: ancora nel 1888 egli scriverà,
riferendosi agli esseri superiori e «al di là del bene e del male» che
avrebbero dovuto sconfiggere morale e cristianesimo: «Noi crediamo
all’Olimpo, e non al “Crocifisso”...»86.
Atteggiamenti del genere non sono certo isolati nel clima ideologico di
quegli anni e, rafforzati dall’influenza nietzschiana, li ritroviamo nel
d’Annunzio che, aspirando a dominare la «smisurata chimera» della massa,
abbraccia il sogno di rifondazione nazionalistica, e nel Thomas Mann delle
Considerazioni di un impolitico, dove contro le spinte disgregatrici della
civilizzazione (corrispondente a ciò che oggi chiamiamo “globalizzazione”),
lo scrittore perora la causa della cultura in senso sacrificale e nietzschiano,
della Kultur che «lega» e «non esclude “sanguinosa ferocia”»87.
Per valutare correttamente simili affermazioni, in sé comunque gravi,
bisogna naturalmente vedere non solo il loro contesto, ma se in colui che le
fa esiste qualche correttivo, qualche altra componente che le controbilanci,
impedendo loro di venir applicate con mostruosa coerenza: tante volte è
proprio l'incoerenza a salvare gli esseri umani. Ora, mentre sia d’Annunzio
sia Mann hanno, in forme diverse, una componente cristiana che li influenza
e impedisce loro un luciferino oltranzismo - e lo stesso va detto per il
razzista e antisemita Wagner -, il caso di Nietzsche è tristemente diverso: in
lui queste idee dissennate non trovano ostacoli veri ed efficaci. Gli ostacoli
ci sono, ma il «fautore prometeico della cultura» riuscirà diabolicamente a
piegarli nella direzione peggiore. Nulla lo potrà fermare, col risultato che
saranno tanti avvoltoi a seguire, a divorare post mortem il «fautore
prometeico della cultura».
Pur di ottenere la sua forsennata revanche Nietzsche è disposto a truccare
sistematicamente le carte, a rifiutare anche quello che è di un’evidenza
solare. Come egli volutamente equivoca su Esiodo, cercando di giustificare
a se stesso la sua invidia per Wagner, così si rifiuta di ammettere che in
Grecia l’autentica natura di Dioniso non veniva spavaldamente esibita, ma
nascosta nei misteri e nei riti notturni. Nel caso di Euripide,
eccezionalmente, ci viene svelato qualcosa della natura più profonda del
dio, ma con un’atmosfera assai diversa da quella immaginata da Nietzsche.
La scena culminante delle Baccanti non ha nulla della gioia e della
naturalezza primaverile di cui egli si compiace. È l’orrore puro, sia pure
ancora filtrato dai travestimenti del teatro e del mito. Necessariamente
quindi Nietzsche, nella Nascita della tragedia, accusa Euripide di
rappresentare la decadenza del teatro tragico, ossia di rivelare troppo
perché la maschera mitica della tragedia possa funzionare, ma è
sintomatico che, davanti all’orrore dello smembramento di Penteo, egli
esprima la sue piena approvazione, e attribuisca quest’operazione secondo
lui salutare a un’inesistente palinodia dell’autore. Per ragioni analoghe a
quelle per cui non mostra di accorgersi degli elementi sia pur torbidamente
cristiani presenti in Wagner, il giovane Nietzsche non vuole vedere che la
tragedia greca è una graduale, anche se parziale, rivelazione del dio da cui
essa prende le origini, e di cui ci narra i pericoli. L’esaltatore di Dioniso e
della tragedia tenta di eludere la natura collettiva del dio, il suo identificarsi
con la folla scatenata pronta al linciaggio, da lui descritta come «ebbrezza
istintiva della natura» e inconscio «impulso primaverile» 88: egli vuole a tutti
i costi vedere Dioniso come divinità aristocratica, come nume tutelare della
sua comunità di uomini olimpici, che anticipa - con una sfumatura ancora
illusoriamente “sociale” - quello che diventerà il suo superuomo. Anche
nella fase più matura del suo pensiero le indicazioni sulla morte collettiva
del dio saranno potenti, ma rimarranno isolate. Nietzsche cerca di situarle
nello sfondo sacrale della sua filosofia neopagana, in un modo che non
intendeva essere diverso da quanto avveniva nel sacro arcaico, dove tutto
ciò che nasceva dalla violenza del gruppo era trasfigurato e proiettato nella
sfera esterna alla comunità. Il problema è che questa trasfigurazione
pagana non è più possibile, e questo a causa della presenza nascosta della
rivelazione cristiana che, per gli stessi motivi per cui ostacola la vendetta
dei rivali moderni, guasta il “gioco” di Nietzsche portandolo allo scoperto,
mostrando l’autentica natura del meccanismo.

Prima però di esaminare il fattore decisivo capace di mettere in crisi il


tentativo nietzschiano, dobbiamo capirlo nei termini stessi in cui il suo
autore vuole realizzarlo, sforzandosi di tenere il più possibile ai margini il
vero avversario; dobbiamo precisare con quali trucchi, con quali espedienti
egli spera di riuscire nell’impossibile impresa. La frase «Dio è morto» non
avrebbe la risonanza e il significato che ha, senza la rivelazione cristiana
dell’uccisione di Dio da parte degli uomini. Nietzsche lo sa, e nello stesso
tempo questa è l’ultima cosa che vorrebbe sentirsi dire, l’ultima cosa che
vorrebbe ammettere.
Come l’uomo folle della Gaia scienza, il filosofo è completamente isolato:
troppo consapevole dell’uccisione collettiva di Dio per trovare sfogo nella
catarsi, nella purificazione di gruppo, egli ne ha troppo bisogno per non
rimpiangerla, per non desiderare di perdere la sua consapevolezza onerosa.
Quello che Nietzsche descrive nell’aforisma della Gaia scienza è un vero
“crepuscolo degli dèi”, in cui si intravede ancora il tramontato chiarore
degli antichi fuochi sacri, e in cui tuttavia non appare un’alternativa - quella
cristiana - che, sia pure con consapevolezza diversa, viene rifiutata sia
dall’uomo folle sia da coloro che non credono in Dio. Il paragone più
pertinente è con il grandioso Crepuscolo degli dèi wagneriano: la dimora
degli dèi vacilla sotto l’incalzare di un destino ineluttabile, ma chi fra gli
ammiratori dell’opera è voluto andare a vedere più da vicino cos’è, chi è che
provoca questa dissoluzione, cosa significa l’amore che minaccia e
distrugge il potere di Wotan? Meglio credere, con la complicità dello stesso
Wagner, nel culto parareligioso di Bayreuth, oppure, in alternativa,
all’enigmatica vox clamantis in deserto di un eretico wagneriano, dell’uomo
folle nietzschiano che tenta di impadronirsi della morte di Dio. La rivalità di
Nietzsche con Wagner si carica di ragioni che vanno al di là del fattore
psicologico, che divengono religiose, epocali, le stesse per le quali
d’Annunzio insegue la sua rifondazione teatrale e nazionale. Quel che
Nietzsche non aveva tollerato a Bayreuth è anche la presenza di un culto
rivale, che il filosofo cerca di rovesciare con l’aforisma della morte di Dio,
atto istitutivo di un nuovo culto, di una nuova, inaudita sacralità.
L’uomo folle vuole incarnare in se stesso il fuoco antico, di cui la lanterna
che tiene in mano è l’ultimo resto simbolico. Mentre gli altri vivono ancora
nell’ombra di ciò che è successo e, pur non avendo più dèi, rimangono sotto
la protezione dell’inconscio persecutorio da cui questi dèi provenivano,
l’uomo folle, rendendosi conto dell’illusione, decide di giocare d’anticipo, e
va a collocarsi in una terra di nessuno fra rivelazione e menzogna che gli
impedisce sia l’autorevolezza di chi parla non per sé ma per la verità, sia la
rassicurante incoscienza di coloro che lo ascoltano senza capirlo. Egli è
l’attore unico di un dramma di cui nessun altro conosce le parti, un dramma
da cui Nietzsche vorrebbe uscire in una sorta di meta-dramma
(«l’imitazione di un commediante»), ovvero in un impossibile meta-inconscio
persecutorio capace di unire coscienza e incoscienza, lucidità e
occultamento. Solo l’uomo folle insomma, nel suo annuncio isolato, nella sua
schizofrenia conoscitiva, può essere “luce” a se stesso, come infine dimostra
gettando a terra e mandando in frantumi la sua lanterna.
Nietzsche è insieme la crisi dei doppi e la differenza divina che dovrebbe
risolverla. Egli stesso perciò, in una maniera o nell’altra, dev’essere dio. Se
il proposito è folle, bisogna tuttavia guardarsi dallo scartarlo come mera
follia, poiché, per riprendere la frase dell'Amleto di Shakespeare, vi è del
metodo in essa. Il “metodo” è quello dell’origine antropologica della cultura
e del sacro, che Nietzsche, allo scopo di legittimare le sue smisurate
pretese, si costringe a ripetere, dandovi il nome di genealogia, lo
smantellamento della volontà di potenza coperta e malata degli inferiori, del
gregge.
Per realizzare la sua volontà di potenza, rivendicare il monopolio della sua
differenza divina, egli deve smascherare il risentimento degli altri,
demistificare l’intera società, l’intera storia dell’uomo. Questa
autotrasfigurazione a sfondo antropologico però gli riesce a metà, cioè non
gli riesce, per l’ovvio motivo che la sua genealogia egli la applica solo al
desiderio degli altri e non al proprio, giacché se la applicasse a se stesso
tutta l’operazione ne verrebbe distrutta. Tale autoglorificazione illusoria,
che non fa che rivolgere contro gli altri l’imitazione più competitiva per
dimostrare un’inesistente indipendenza da loro, non può che rimbalzargli
indietro con esiti fallimentari; egli la deve rilanciare, ma per farlo deve di
nuovo utilizzare il suo desiderio imitativo negato, la sua dipendenza dai
modelli, che quindi dolorosamente riemerge, e così via all’infinito. L’intero
sistema tende in tal modo all’esplosione, al collasso.
Più Nietzsche cerca di divinizzarsi più è costretto a fare i conti col suo
desiderio, ma più si fa pressante e vicina la forza del suo desiderio più
l’impulso a divinizzarsi si fa irresistibile. Più egli cerca di uscire dalla crisi
dei doppi, più questi doppi gli si moltiplicano sotto le mani. Nietzsche non
può perciò accontentarsi del travestimento esteriore di Dioniso, è costretto
a impossessarsi della natura profonda del dio la cui essenza, al pari di
Proteo, è la metamorfosi, la duplicazione di tutte le possibili maschere. Il
filosofo ha bisogno di un intero arsenale, di un intero repertorio teatrale di
travestimenti. La maschera si moltiplica in una serie di maschere. Dioniso
diventerà Zarathustra, alla fine si inflazionerà in una rotazione
incontrollabile di identità deliranti.
Il primo “ritorno” a essere “eterno” in Nietzsche è quello del problema
irrisolto del suo desiderio, della sua identità mai trovata, quello che in una
lettera a Overbeck definisce la «ruota di problemi a cui sono legato»89. Nello
stesso tempo l’eterno ritorno è quello dei cicli rituali, delle rifondazioni
sacrificali. L’eterno ritorno è la speranza di trovare un ciclo stabile di tipo
pagano, col risultato di ottenere soltanto l’eterno ritorno della ciclotimia,
dell’alternarsi spossante di euforia e depressione che è il tipico risultato dei
rapporti rivalitari non superati. La «ruota», a cui Nietzsche è incatenato
come Prometeo, diventerà l’autoalimentazione megalomane e stercoraria
della follia, il cerchio sacrificale che lo vedrà finalmente immolato. Il primo
cerchio non è forse quello dei persecutori, quello che ha bisogno di un
perno intorno al quale vorticosamente ruotare e che tutti sono pronti a
colpire, quello che ha bisogno di un centro da circondare, da uccidere?

3. Verso il centro del labirinto


La strategia inflazionistica mediante la quale Nietzsche gioca coi simboli
dionisiaci ne fa emergere la struttura, l’origine antropologica. Le
rievocazioni nietzschiane della maturità perdono i tocchi qua e là
Biedermeier degli scritti giovanili e raggiungono un’ancor più convincente
ferocia, come nella dichiarazione.d’intenti del seguente frammento:
Amo la splendida sfrenatezza di un giovane animale da preda, che gioca graziosamente, e mentre
gioca sbrana.90
L’immagine è mistificante e insieme rivelatrice della vera natura del “gioco”
nietzschiano, della caccia in cui Nietzsche si immedesima nell’alterità
affascinante dell’irraggiungibile predatore che vorrebbe essere. Come già
negli occhi da tigre da lui attribuiti ai guerrieri greci, qui si tratta non di
semplice violenza animale contemplata con torbido occhio estetizzante, ma
di concreta violenza umana sotto travestimento animale. Fra i simboli di
Dioniso troviamo infatti sia la pantera, sia i riferimenti al gioco, che nella
cultura umana è la trasformazione simbolica dei riti sacrificali. Quando
Nietzsche, allo scopo di perorare la causa della violenza, si rifa
costantemente a immagini prese dalla natura, sostenendo che l’uomo deve
tornare alla sua “naturalità”, si richiama a una simbologia antichissima, ma
in un modo così esasperato, così programmatico e declamato da diventare
rivelatore, non diversamente dal suo eterno ritorno 91. Il sacrificio umano
tante volte invocato nei suoi scritti, quello che egli definisce come «l’alto
dovere di sacrificare uomini»92, è tutto fuorché una semplice continuazione
della sfera naturale: esso è per l’antico rivale di Wagner rivincita nei
confronti del mondo intero, e insieme forsennata volontà di ritorno alle
antiche fondazioni sacrificali.
In altri frammenti possiamo osservare questo procedere di pari passo di
desiderio trasfigurato e di uno scandaglio antropologico di profondità
conturbante:
L’anima orgiastica
Io l’ho visto: i suoi occhi almeno - sono occhi di miele,
Ora profondi, calmi, ora verdi e lascivi
Il suo sorriso alcionico,
Il cielo guardò sanguigno e crudele.

L’anima orgiastica della donna


Io l’ho visto, il suo sorriso alcionico, i suoi occhi di miele, ora
profondi e velati, ora verdi e lascivi, una superficie tremante.
Lascivo, sonnolento, tremante, esitante,
Sgorga il mare nei suoi occhi.93
In questo brano c’è non solo la metamorfosi del desiderio di Nietzsche per
Cosima-Arianna, come risulta dal frammento successivo nell’edizione Colli-
Montinari94, ma anche la percezione dell’arcaico collegamento rituale fra
erotismo e violenza sacrificale. L’immagine del miele si confondeva
anticamente con quella del sangue ed è già presente in testi sumerici dove
l’eccitazione sessuale assume toni quasi cannibaleschi. La ripetizione
pressoché simmetrica del testo indica la simmetria di un’imitazione giunta
ormai al suo ultimo stadio. Il rito ricostruito e nevroticamente rivissuto da
Nietzsche è quello della ierogamia, delle nozze sacre fra Dioniso e Arianna,
collegate a Creta col tema del labirinto. La ierogamia doveva avere in
origine una conclusione cruenta, come suggeriscono i miti di Arianna
abbandonata o impiccata su un’isola (che sostituisce il centro del labirinto)
e l’uccisione del Minotauro, doppio di Dioniso nella sua forma taurina 95. La
metafora del mare negli occhi dell’altro esprime l’indifferenziazione della
crisi violenta che farà sgorgare il sangue della vittima descritta come
tremante e proprio per questo supremamente desiderabile, allude al suo
cadere nelle mani, prima ancora che di un satanico partner, della
collettività pronta a “giocare sbranando”. Il labirinto è il simbolo perfetto
della crisi dei doppi, il cerchio che si stringe intorno all’unico membro
prescelto, il mare della folla da cui non c’è scampo, il mare in cui Nietzsche
cerca con tutte le forze di non affogare, e in cui, come Icaro, precipiterà.
Icaro che muore sommerso nel mare è la trasformazione della vittima che
muore sommersa dalla folla.
La commistione nietzschiana di erotismo e violenza rituale non è un caso
isolato, ma partecipa di una consapevolezza antropologica che sta
conquistando la cultura europea più avanzata, e che porterà a risultati che
vale la pena di esaminare rapidamente, mettendoli a confronto con gli
scandagli del pensatore tedesco. I preliminari di ierogamia sacrificale di
Nietzsche diventano una scena apertamente orgiastica nel Fuoco di
d’Annunzio, quando viene descritto il desiderio di Èffrena per la Foscarina,
«ardore selvaggio» che si alimenta del bagno di folla da cui il protagonista è
appena uscito, nonché del triangolo erotico appena suscitato dalla
Foscarina stessa:
Di lontano, di lontano gli veniva quel torbido ardore, dalle più remote origini, dalla primitiva
bestialità delle mescolanze subitanee, dall’antico mistero delle libidini sacre. Come la torma invasa
dal dio discendeva per la montagna sradicando gli alberi, e s’avanzava con una furia sempre più
cieca, e s’ingrossava di nuovi dementi, propagando l’insania per ovunque al passaggio sinché
diveniva un’immensa moltitudine ferina e umana animata da una volontà mostruosa; così in lui
quell’istinto crudo precipitò turbando e trascinando tutte le figure del suo spirito nell’émpito con una
agitazione innumerevole. Ed egli desiderò nella donna sapiente e disperata [...] l’attrice ardente che
passava dalla frenesia della folla alla forza del maschio, la creatura dionisiaca che con l’atto di vita
coronava il rito misterioso come nell’Orgia. [...] Egli la vide in un lampo riversa, piena della potenza
che aveva strappato l’urlo al mostro, palpitante come la Menade dopo la danza, assetata e stanca ma
bisognosa d’essere presa, d’essere scossa, di contrarsi in un ultimo spasimo, di ricevere il seme
violento, per placarsi alfine in un sopore senza sogni. - Quanti uomini erano esciti dalla folla per
abbracciarla dopo avere anelato verso di lei perduti nella massa unanime? Il loro desiderio era fatto
del desiderio di mille, il lor vigore era molteplice. Qualche cosa del popolo ebro, del mostro
affascinato, penetrava nel grembo dell’attrice con la voluttà di quelle notti. 96
L’aspetto collettivo che in Nietzsche è a fatica coperto in d’Annunzio
emerge imperioso. Nessuno come l’autore del Piacere ha avvertito, dietro il
piacere sessuale, la pressione mimetica dei modelli sociali, la presenza
incombente del desiderio di gruppo, di massa. Erotismo e violenza
dionisiaca confluiscono insieme per il semplice motivo che promanano da
un’unica forza, il desiderio mimetico: niente di strano perciò che si
potenzino a vicenda, in un’esaltazione collettiva in cui l’accoppiamento
equivale allo stupro, e lo stupro allo scannamento rituale. L’ipermimetico
d’Annunzio avverte, “respira” la massa in tutto ciò di cui egli ci parla e,
rispetto agli eccessi cerebrali e velleitari di Nietzsche, ha la concretezza di
chi le cose le dice per averne fatto esperienza. Egli cerca di reagire
all’agitazione dionisiaca che percepisce fuori e dentro di sé,
esteriorizzandola nella rappresentazione clamorosa del gesto, nella
dimensione pubblica del palcoscenico. Solo il Dioniso del teatro può
contenere il Dioniso dell’orgia. Come dice Stello Èffrena al suo amico,
vagheggiando una nuova, inaudita catarsi tragica:
Hai tu mai veduto, in qualche istante, l’Universo intero dinanzi a te come una testa umana? Io sì,
mille volte. Ah, reciderla come colui che recise d’un colpo la testa di Medusa, e tenerla sospesa
dinanzi alla folla, da un palco, perché essa non lo dimentichi mai più! Non hai tu mai pensato che una
grande tragedia potrebbe somigliare al gesto di Perseo?97
Allo scopo di placare il desiderio che sente in se stesso e negli altri,
d’Annunzio sogna un ultimo sacrificio, esibito e, orrendamente stupendo,
che arresti e domini le masse in fermento dell’Europa del tempo, e una
nuova arte tragica, wagneriano-dannunziana, che dovrebbe permettere
questo. Tuttavia lo scrittore italiano, più che sostituire alle antiche
rappresentazioni un nuovo sacrificio come afferma Nietzsche, vorrebbe
rimpiazzare gli antichi sacrifici con un nuovo tipo di rappresentazione, e se
ambedue gli scopi si rivelano illusori, vi è comunque tra essi una profonda
differenza. Anche Èffrena, con fascinazione analoga a quella nietzschiana, si
perderà simbolicamente nell’«avvolgimento selvaggio» 98 del labirinto
insieme con la Foscarina che diviene la vittima designata -Arianna - ma,
diversamente da Nietzsche, cerca infine di uscirne con lei, di non lasciarsi
alle spalle i segni e i legami dell’umanità. Resta sempre in d’Annunzio una
consapevolezza morale e una sfumatura ludica e ironica sconosciute al
dionisismo esaltato e monomaniaco del pensatore tedesco.
I frammenti orgiastici di Nietzsche e l’orgia erotica collettiva di d’Annunzio
ricordano da vicino, per tornare in area germanica, l’incubo dionisiaco di
Aschenbach nella Morte a Venezia. Il protagonista è ormai ossessionato
dall’amore per Tazio e dal colera che, con progressione simmetrica al suo
desiderio, dilaga per la città. Leggiamo la sequenza conclusiva del sogno,
che ci mostra la più profonda natura di Dioniso, definito da Thomas Mann,
non diversamente che nelle Baccanti di Euripide, come il «dio straniero»:
Grande era la sua ripugnanza, grande il suo terrore, sincera la sua volontà di difendere fino all’ultimo
ciò che era suo contro lo straniero, il nemico dello spirito fermo e dignitoso. Ma il clamore, le grida
moltiplicate dall’eco delle pareti rocciose crescevano, trionfavano, si gonfiavano in un delirio
irresistibile. I vapori offuscavano la mente, acre odore di capri, esalazioni di corpi ansimanti e un
tanfo come di acque corrotte misto a un altro ben noto: di piaghe, di malattia serpeggiante. Ai colpi di
timpano il suo cuore rimbombava, la sua testa girava, lo assalivano cieco furore, voluttà inebriante e
la sua anima desiderava di unirsi al baccanale del dio. Il simbolo osceno, ligneo, gigantesco, fu
svelato e innalzato: e ancor più frementi tutti gridarono la parola del rito. Con la schiuma alle labbra
smaniavano, si eccitavano l’un l’altro con gesti lubrici e mani lascive, ridendo e gemendo, si
cacciavano vicendevolmente pungiglioni nelle carni e leccavano il sangue che ne sgorgava. E il
dormiente era ormai con essi, in essi, asservito nel sogno al dio straniero. Anzi essi erano con lui,
quando si gettarono sulle bestie dilaniando e uccidendo, e ingoiarono lembi fumanti di carne, quando
sul terreno sconvolto incominciarono orribili congiungimenti in onore del dio. E la sua anima conobbe
il gusto della lussuria e la follia della perdizione.99
Da vero artista qual era, e attraverso l’ispirazione del filosofo tanto
ammirato, Thomas Mann ci rivela cosa si nascondeva dietro la «sensibilità
mortificata» di Aschenbach-Nietzsche, ci mostra con parole memorabili
anch’esse l’aspetto collettivo di Dioniso che ipnotizzava d’Annunzio, e da cui
invece il filosofo esaltatore di Dioniso indietreggiava. Si tratta di qualcosa di
ben più terribile del trauma subito dal giovinetto innocente nella
ricostruzione di Mann, questo è il “trauma” rimosso di un’intera epoca, di
un’intera civiltà. Il protagonista, dallo spirito pateticamente «fermo e
dignitoso», che si getta a capofitto nell’orgia è l’emblema dell’Europa che,
sotto la spinta della sua rivalità incontrollata e la copertura dell’ideologia
guerrafondaia illustrata dal giovane Nietzsche, si getterà a testa bassa
nell’ecatombe della prima guerra mondiale. L’alterità del «dio straniero»
non deve ingannare, poiché ciò che in essa ci si mostra è l’alterità di quanto
ci appartiene a un livello più primordiale e più intimo dell’identità
personale. La sessualità che è liberata senza freni non è lo scopo della
cerimonia, ma solo il mezzo: la più vera lussuria a cui tutti si abbandonano è
quella di ingoiare i «lembi fumanti di carne», il parossismo dello sparagmós,
dell’omofagia, quella che Euripide definisce la «gioia omofagica», ossia la
gioia della carne divorata ancora viva100. In origine, al posto degli animali,
c’erano vittime umane, c’era Dioniso stesso. Le orge erotiche sono
fondamentalmente il preludio e la scia inerziale della trasgressione
suprema, l’uccisione belluina che è ritualmente ripetuta affinché non si
verifichi nel gruppo, il massacro della violenza mimetica da cui l’antica
Grecia voleva mediante tali riti difendersi, mentre l’Europa moderna non
riuscirà più a farlo. Nella Montagna incantata ci sarà un sogno simile del
protagonista Hans Castorp, che completa e commenta quello di
Aschenbach, realizzando in chiave davvero “genealogica” la vendetta di
Tullio Hermil: in mezzo al paradiso dell’Ellade, di quelli che Castorp chiama
«figli del Sole», sarà un bambino a venir divorato crudo, come nel mito
orfico di Dioniso fanciullo mangiato vivo dai Titani 101. Sono le visioni
sacrificali che in quegli anni cominciano a pullulare nell’arte più avanzata
dell’Occidente. Alla vigilia della prima guerra mondiale i selvaggi ritmi di
danza delle origini, culminanti in un sacrificio umano, ritornano nelle
sonorità telluriche della Sagra della primavera di Stravinskij.
La magnifica sequenza di Mann è stata resa possibile dall’audace
esplorazione nietzschiana, ma con un carattere esplicito, e anche una
consapevolezza morale, che non troviamo nel filosofo della volontà di
potenza: mentre in Nietzsche la violenza dionisiaca è sinonimo di salute, in
Mann essa si manifesta come sintomo di degradazione, di malattia. Non
volendo nemmeno lui trarre le ultime conclusioni dalla verità antropologica
che ha cominciato a palesarsi in Nietzsche, Mann - come d’Annunzio anche
se in maniera meno mediterranea e spavalda - concede da una parte ciò che
dall’altra sottrae, esibendo e insieme nascondendo tale verità dietro il filtro
dell’invenzione letteraria, prestigiosa maschera socialmente riconosciuta, e
della visione onirica, che attenua in chiave psicologica l’epifania dell’orrore.
Proprio la disumanità delle affermazioni di principio di Nietzsche ci mostra
l’intensità mimetica delle sue esperienze, a cui lo scandaglio antropologico
e psicologico di Mann attinge, con un’avvertenza morale ma anche con
un’abilità resa edotta dalla temerarietà del filosofo. Quest’ultimo estrae, nel
suo stile patologicamente impulsivo, la materia che lo scrittore dipana nelle
ragnatele magiche e ironiche delle sue invenzioni, tentando di ristabilire il
controllo pericolosamente perduto.
Con ambiguità goethiana, Mann si vuole preservare dai pericoli che
Nietzsche, pur di raggiungere le profondità tenebrose del suo crivello
mimetico, accetta metodicamente di correre. L’autore della Morte a Venezia
ha oscuramente avvertito che la macchina mimetico-mitologica messa in
moto da Nietzsche era una trappola mortale da cui il pensatore non è uscito
vivo, e preferisce far morire al proprio posto i doppi artistici delle sue
opere. Nietzsche, al contrario, non riuscirà mai a utilizzare in tal senso la
risorsa dell’oggettivazione letteraria a cui ricorrono sia Mann sia
d’Annunzio, e che il futuro filosofo aveva per un istante sfiorato nel
frammento Euforione. Egli è costretto a rivivere in sé i doppi che non vuole
riconoscere, al punto di riprodurre il mimetismo collettivo da lui
esorcizzato, di moltiplicare dentro di sé il desiderio di tutti: nell’ultima
lettera a Burckhardt dichiarerà di essere «ogni nome nella storia» 102. È la
fuga da se stesso e dagli altri propria della sua dissociazione a trascinare il
commediante di Dioniso in un deserto, su un palcoscenico vuoto in cui egli
rivive i doppi della sua vita e perciò della vita di tutti. Nessuna scappatoia
elegante, nessuna oggettivazione letteraria lo potrà sottrarre a questo
destino amaramente teatrale, a questa rappresentazione istruttiva per gli
altri ma non per se stesso.

Nelle trasfigurazioni che il filosofo compie della mitologia labirintica a


parlare è l’alterità assoluta del suo desiderio, impersonata per lui dalla
coppia Cosima-Wagner, e poiché questa alterità assoluta è la stessa della
mitologia e del sacro arcaico, ecco che l’introspezione mitizzata diviene
introspezione del mito. Come non bisogna prendere alla lettera i riferimenti
mitologici di Nietzsche, così non bisogna vedere in essi soltanto un
travestimento. Dioniso, Arianna sono sì travestimenti, ma proprio perché ci
propongono il travestimento ancestrale, originario dell’uomo che, ucciso,
diventa dio. Questa archeologia antropologica interagisce in maniera letale
con le frustrazioni che la alimentano. Il filosofo vuole assimilarsi a Dioniso e
Arianna, vuole prenderne il posto, ma dal momento che questo desiderio
divino nasce dalla dipendenza imitativa dagli altri, e perciò dall’esperienza
di non essere dio, proprio l’identificazione col dio equivale alla riprova
sperimentale della sua sconfitta. Il dio fallito non vuole darsi comunque per
vinto, e reagisce nell’unico modo per lui concepibile, ossia vivendo in prima
persona ciò che è oggettivato e descritto nell’incubo di Aschenbach, nella
visione scatenata di Èffrena. L’esaltatore di Dioniso non vuole
semplicemente indossare la maschera del dio, egli vuole diventare la
maschera, ma ciò significa trasformarsi nel simulacro della vittima uccisa,
significa darsi in pasto alla folla da lui disprezzata e segretamente cercata,
gettarsi nel mare indifferenziato della follia.
Niente di simile è stato mai poetato, mai provato, mai sofferto: così soffre un dio, un Dioniso. [...] Chi,
all’infuori di me, sa che cos’è Arianna!...103
Pur nascondendosi la verità del suo desiderio, Nietzsche si fa eroicamente il
sismografo, lo “storico” di questo nascondimento, talmente sensibile da
diventarne la rivelazione, e poiché il nascondimento che lo definisce è lo
stesso dell’intera storia sacrificale dell’uomo, Nietzsche si trasforma col
proprio destino nella ricapitolazione di tale storia. Non riuscendo a
richiudere la “fossa” della sua fondazione sacrificale, egli continua a
scavarla fino a seppellirvisi dentro, come ci suggerisce l’immagine
ricorrente nei suoi scritti della tana, della caverna 104, la caverna di
Zarathustra, la caverna in cui il filosofo vuole strisciare per riuscire a
dormire105. La caverna è un altro arcaico luogo sacrificale, un’altra antica
versione del labirinto, ed è chiaro che meno che meno essa potrà realizzare
la salvezza sperata: più che mai le latebre del sottosuolo lo rimandano ai lati
oscuri e non accettati della sua psiche, alla follia che lo attende 106,
portatrice di una sarcastica fama che nessun uomo sano di mente gli
avrebbe invidiato.

4. Divinizzazione fallimentare e sterminio di massa


In Al di là del bene e del male Nietzsche descrive il «multiforme martirio» di
uno psicologo e «divinatore-di-anime» che, esaminando la rovina interiore e
gli inganni che si nascondono dietro i «grandi uomini», impara, laddove tutti
sentono «la grande venerazione», a provare «la grande pietà accanto al
grande disprezzo», e arriva a porsi una domanda rivelatrice:
E chissà che fino a oggi in tutti i grandi avvenimenti non si sia verificata appunto la stessa cosa: che
la moltitudine abbia adorato un dio - e che il “dio” sia stato soltanto una povera vittima sacrificale! 107
Questo passo, che ha giustamente colpito interpreti come Lou Salomé e de
Lubac108, è il diretto sviluppo dell’aforisma sulla morte violenta di Dio, solo
che stavolta la proiezione dell’uomo folle, col suo impossibile sogno di una
fondazione sacrificale a occhi aperti, si sgretola in un gioco caleidoscopico
di scomposizioni sacrificali: Nietzsche è sia il martirizzato divinatore di
anime, lo scrutatore delle viscere dei grandi uomini, sia uno di questi grandi
uomini stessi. Il disgusto dell’aruspice-Nietzsche è per quello che lui è
spasmodicamente voluto diventare, per ciò che sente che diventerà. I grandi
uomini sono povere vittime sacrificali nel senso che tutti imitano il loro
desiderio di incarnare la differenza “mitica” da venerare, ma per fare
questo la collettività deve applicare il transfert ancestrale della vittima
divinizzata post mortem. Il grande uomo moderno, il “divo”, è l’illuso che
pensa di poter divenire dio impunemente, l’incauto evocatore di un’illusione
collettiva che agisce nell’unico modo da essa conosciuto, la pietra tombale
dell’occultamento, sotto il cui peso la vittima, finalmente famosa, è sepolta,
viva o morta che sia. Il personaggio famoso è un fallito perché vede riflesso
nella moltitudine che lo fa a pezzi e lo adora il proprio desiderio moltiplicato
per mille e trasformato in trappola mortale. L’atrocità e volgarità della
faccenda martirizza lo psicologo Nietzsche poiché gli ricorda la sua
dipendenza e gli anticipa il suo supplizio futuro, illustrandogli la vera natura
della sua ambizione ontologica, la ferita mai chiusa della sua invidia, del suo
risentimento. I grandi uomini - egli aggiunge più sotto - mostrano di avere
«anime avvezze a tener celata una qualche crepa», si dimostrano
uomini che spesso, nelle loro opere, si prendono vendetta di una interiore sozzura, che spesso, nei
loro slanci, cercano l’oblio di una memoria troppo fedele, spesso smarriti nella melma e quasi
innamorati di essa, al punto di assomigliare ai fuochi fatui erranti intorno alle paludi e di fingersi
stelle...
Non è difficile riconoscere nell’«interiore sozzura» la rivalità verso Wagner
e nella «memoria troppo fedele» il ricordo ossessivo di lui, più forte che mai
adesso che il Pater Seraphicus è morto. L’immagine ricorrente della stella
rivela adesso la sua natura artefatta, mortuaria. Nietzsche è il fantasma
profetico (il «pagliaccio») della fama così a lungo invocata, il chiosatore
funereo della sua identità postuma, che egli così descrive nella Gaia scienza,
dopo aver evocato le maschere e le apparenze spettrali con cui si difendeva
dagli altri:
«...ci farebbe piacere accollarci questa estraneità, questo freddo, questo silenzio di morte, tutta
questa solitudine di sottoterra, nascosta, muta, inviolata, che da noi si chiama vita e potrebbe
altrettanto bene chiamarsi morte, se non sapessimo quel che avverrà di noi - e che solo dopo la morte
arriveremo alla nostra vita e diventeremo vivi, ah! molto vivi noi uomini postumi?»109
Egli cerca invano di esorcizzare l’ammissione contorta e obliqua della verità
con la formulazione interrogativa e la prima persona plurale (a parlare è
uno degli uomini postumi). Nietzsche continua a formulare l’enigma del
proprio destino senza volerlo risolvere, aspettando che sia esso a “risolvere”
lui. Già in Umano, troppo umano il dilemma venatorio, a suo modo
esaltante, fra il divorare o il venir divorati si manifesta come scelta
paralizzante tra il farsi divorare dagli altri o il divorarsi da soli, nella
«solitudine di sottoterra, nascosta, muta, inviolata», nella caverna-tomba
del proprio disperato rifugio:
Dal paese dei cannibali. Nella solitudine il solitario divora se stesso, nella moltitudine lo divorano i
molti. Ora scegli.110
Il primo dato che deve colpire nel passo non è l’isolamento romantico e
tragico del solitario, quanto il fatto che il cannibalismo è un attributo
equamente diviso dal solitario e dai «molti». La differenza illusoria dell’eroe
solipsista ripiomba nell’indifferenziazione dei doppi della violenza,
nell’indistinto feroce dell’origine umana. Il desiderio del solitario non è
meno primordiale e selvaggio della brama degli altri. Ciò che per lui è
veramente drammatico è l’impossibilità di uscire dai doppi violenti
ricorrendo al sacrificio inconsapevole di qualcun altro. Il dilemma sottolinea
sia la consapevolezza del sacrificio, sia il rifiuto di riconoscere una logica
diversa da esso. Questo implica la moltiplicazione della violenza e il suo
ricadere su chi l’ha promossa. Nella rabbia impotente del suo desiderio
frustrato, Nietzsche teorizza questa escalation, arrivando ad auspicare
un’umanità votata alla sua stessa sorte. Si aprono a questo punto scenari
allarmanti.
L’impossibilità di una vera catarsi sacrificale, di un’ultima e definitiva
ritorsione cruenta allunga la catena delle imitazioni violente all’infinito,
allarga il duello-suicidio all’intera umanità, trasforma il sogno di palingenesi
sacrificale in un’autoimmolazione di massa. Come viene detto in Aurora:
Un epilogo tragico della conoscenza. Di tutti i mezzi di elevazione sono stati i sacrifici umani quelli
che in ogni tempo hanno esaltato e innalzato maggiormente l’uomo. E forse potrebbe pur sempre
ogni altra aspirazione essere soppiantata da un solo enorme pensiero, cui arridesse la vittoria sul più
vittorioso, - dal pensiero, cioè, dell' umanità autosacrificantesi. Ma a chi dovrebbe sacrificarsi?111
L’interminabile catena agonistico-sacrificale che rappresenta l’universo dei
doppi nietzschiani non può mai attingere alla sua conclusione, alla
differenza divina di cui in passato la fonte più esaltante e più grande erano i
sacrifici umani. Bisognerebbe dunque trovare l'ultimo sacrificio umano,
quello capace di interrompere i doppi, di strappare la vittoria al «più
vittorioso», ma il sacrificio moderno non funziona più e, nella diabolica
speranza di farlo funzionare, è ripetuto ad nauseam, fino a coincidere con la
distruzione dell’intera catena dei doppi, con l’autodistruzione dell’umanità
intera. Il sacrificio è in altre parole degenerato, impazzito. A quale
mostruosa divinità quest’impossibile “rito” dovrebbe venir dedicato? È
questo l’adempimento del culto dell’uomo folle della Gaia scienza, secondo
cui «dobbiamo noi stessi diventare dèi», ossia un’umanità di “uomini folli”,
in cui è chiaro che se tutti diventano dèi è perché tutti divengono morti. La
conoscenza contraddittoria di Nietzsche può avere solo questo «epilogo
tragico». Il resto dell’aforisma di Aurora rende l’epilogo ancor più penoso,
quando il filosofo immagina che l’umanità si offra in olocausto agli abitanti
di altri pianeti. L’ultimo rifugio della rifondazione fallita sembra essere la
fantascienza, ma la sinistra grandezza di Nietzsche sta nell’anticipare
profeticamente la situazione assurda e rivelatrice dell’umanità d’oggi.
Questa conclusione ci mostra il vero volto, un volto pietrificante di Medusa,
del nichilismo che il filosofo della volontà di potenza preconizza come
necessaria fase preparatoria al compimento di quanto da lui pensato, un
«nichilismo estatico» capace di oltrepassare tutto ciò che è «troppo
umano»112, un nichilismo in cui la conoscenza suprema coincide con la
distruzione dei soggetti conoscitivi.
Un frammento del 1888 ci ripropone in tono ancor più frenetico questa
“estasi” mortale che si sta avvicinando:
...noi insegniamo la filosofia come concetto che può costare la vita: come potremmo venir meglio in
suo aiuto? Un concetto avrà sempre per l’umanità il valore di quel che le costa. Se nessuno esita a
sacrificare ecatombi per il concetto di «Dio», di «patria», di «libertà», se la storia è la grande cortina
di vapore intorno a questa specie di sacrificio; con che cosa si può dimostrare l'eccellenza del
concetto di «filosofia» sui valori popolari come «Dio», «patria», «libertà», se non col fatto che esso
costa di più, costa più grandi ecatombi?... Trasvalutazione di tutti i valori: sarà una cosa dispendiosa,
ve lo dico io --113
La visione dell’Olimpo da cui il giovane Nietzsche voleva escludere una
massa crescente di schiavi, il compiacimento dello spettatore “sereno” del
terremoto di Nizza trovano qui la loro espressione conclusiva. L’esito
estremo del gioco sacrificale di Nietzsche è l’ecatombe, l’autodistruzione di
massa, e non v’è alcun dubbio che un’umanità che seguisse
inconsapevolmente il consiglio del filosofo della volontà di potenza ne
segnerebbe il più ironico e macabro dei trionfi, o per meglio dire la più
macabra e ironica delle confutazioni. A partire dalla prima guerra mondiale,
la filosofia dell’ecatombe sarebbe stata avidamente applicata nel secolo
successivo a quello di Nietzsche e che si è appena concluso, ed è inevitabile
chiedersi, con non poca apprensione, cosa ci riserva il secolo che adesso si
schiude. Ci sarà l’oltreumanità del terrorismo di massa, dell’olocausto
nucleare o ecologico?

5. L’ultimo nemico
Davanti a questo nichilismo “autorealizzatore”, a questi avvisi che
dovrebbero far riflettere chiunque sia disposto a dare a parole e pensieri il
valore reale che essi vogliono avere, è giunto il momento di tornare a porci
la domanda che finora non è stata direttamente affrontata: come può
Nietzsche muoversi con questa libertà incontrollata, giocare così
rischiosamente con un fondamento che dovrebbe rimanere occultato,
divertirsi così tragicamente con forze dal cui controllo dipende la
sopravvivenza dell’umanità? È forse il caso di ripetere che mai i Greci, che
non erano certo dei pacifisti, si sono sognati anche solo di pensare simili
cose. Quale Greco avrebbe osato affermare che i sacrifici umani sono
sempre stati «i mezzi di elevazione» più esaltanti e più nobili? Come osserva
Karl Lowith a proposito dell’eterno ritorno e della volontà di potenza: «Tutto
questo superlativo, “supremo” ed “estremo” volere e volere a ritroso, creare
e trasformare, è tanto antinaturale quanto non-greco», e ancora: «Mentre
l’uomo antico conservò mezzo e misura, giacché era naturalmente violento,
l’uomo moderno è teso fino all’estremo - per non essere mediocre» 114. Lo
stesso Lowith non coglie tutta la portata delle sue penetranti osservazioni.
Di cosa non sarebbe capace quest’uomo moderno, patologicamente «teso
fino all’estremo», pur di «non essere mediocre»?
Anche quando i Greci arrivavano, com’è il caso di Euripide, a mostrare in
parte la natura di Dioniso, si guardavano bene dall’identificarvisi, anzi se ne
distoglievano sgomenti, come Agave nella conclusione delle Baccanti, dopo
aver fatto a pezzi nella follia dionisiaca il figlio Penteo. Come segretamente
sospetta e a ogni costo rifiuta, Nietzsche può parlare di Dioniso con libertà
incosciente, con una folle audacia che è tutto tranne che greca, perché
appartiene a una società influenzata da una religione che demistifica e
rende visibile ogni violenza proponendo un’alternativa completamente
diversa, perché vive in un mondo condizionato obtorto collo dalla religione
che si ostina silenziosamente a mostrare agli uomini increduli l’uccisione
collettiva di Dio: il cristianesimo.
È esclusivamente il cristianesimo a fornire a Nietzsche la consapevolezza
della vittima che emerge nei suoi scritti con un’intensità proporzionale ai
suoi sforzi di dimenticarsene e di trasfigurarla fingendo che sia “naturale”,
di appropriarsene truccando le carte. È questa consapevolezza a restituirci
di lui, attraverso i suoi scritti, un’immagine più accettabile e umana, e
avesse avuto questo filosofo solitario la felix culpa di una maggiore e più
umana incoerenza! Nella Gaia scienza, ad esempio, egli sa descrivere con
parole perfette il destino delle vittime e il soffocamento della loro voce
nell’inconscio persecutorio:
Sacrificio. Riguardo a sacrificio e a spirito di sacrificio le vittime la pensano diversamente dagli
spettatori: ma da tempo immemorabile non si è mai data loro la possibilità di dirlo.115
E il filosofo aveva già scritto, con lapidarietà folgorante, in Aurora:
Da tenersi presente! Chi è punito, non è più colui che ha compiuto l’atto. È sempre il capro
espiatorio.116
La definizione è di una brevità e di una precisione geometrica. Il colpevole o
presunto colpevole viene punito, al livello più primordiale, non per un
accertamento di responsabilità, ma perché qualcuno deve pagare, deve
ricevere su di sé i mali subiti dalla comunità e permetterle di sfogare
comunque il suo desiderio di vendetta, che altrimenti si moltiplicherebbe
impazzito. Dunque, un capro espiatorio.
È proprio questa lucidità che ci fa avvicinare al nodo dei nodi, alla
contraddizione centrale del sistema di doppi di Nietzsche. La sua
affermazione che Dio è morto, nella sua radicalità, è possibile soltanto in un
universo consapevole della morte di Cristo, il figlio di Dio che muore
affinché nessuno diventi dio dopo essere ucciso, affinché nessuno venga più
ucciso. E in un universo in cui la violenza non riesce più a trovare la strada
del sacrificio e dell’uccisione senza rimorsi del rivale, è fatale che i doppi
della violenza tendano a moltiplicarsi non solo nella società, ma anche
all’interno degli individui. I disturbi psichici prendono il posto di quegli stati
di possessione dei doppi che un tempo portavano al sacrifìcio. Per questo
Nietzsche agogna alla mania dionisiaca, che la visione di Èffrena e il sogno
di Aschenbach ci hanno così efficacemente esemplificato. Il filosofo spera
con l’antica follia di liberarsi della moderna pazzia che lo affligge, ma coi
risultati paralizzanti e distruttori che abbiamo visto.
Il rifiuto di Cristo era perciò inevitabile, una tappa fatale e obbligata, che
accompagna sin dall’inizio, sin dagli scritti giovanili, l’evoluzione del
pensatore, tormentandolo però in misura crescente117. Nietzsche si rifiuta di
riconoscere che se il cristianesimo facilita il moltiplicarsi dei doppi
all’interno dell’individuo e della società è solamente perché rende la
violenza dell’uomo visibile, lasciando a lui ogni decisione. L’essere umano
può scegliere la propria violenza, ed è questa la strada della follia, oppure
l’alternativa concreta di convertirsi, cioè di “voltarsi” verso se stesso,
riconoscendo la propria violenza, e accettando il messaggio che la
demistifica. Questo è a tal punto vero che l’azione storica del cristianesimo
può essere descritta come il graduale smantellamento di ogni alternativa
intermedia fra la pazzia individuale e collettiva da un lato, e dall’altro il
«regno di Dio», il prevalere dell’amore senza violenza. Il cristianesimo
rappresenta quindi tutto ciò che Nietzsche rifiuta, tutto ciò da cui si deve
assolutamente difendere. Il suo risentimento raggiunge l’apice davanti a
quello che è per lui l’archetipo della “morale del gregge”, davanti alla sua
disgustosa difesa dei più deboli, dei malriusciti che egli, nei momenti di
esaltazione più fosca, vorrebbe ridurre in poltiglia, trasformare in carne da
macello a vantaggio dei “più forti”, dell’Olimpo degli aristocratici, dei
superuomini, con la dinamica esponenziale che porta allo sterminio di
massa.
Per comprendere meglio l’accanimento di Nietzsche contro i più deboli e
soprattutto contro il cristianesimo che li difende, occorre tener presente il
suo carattere di tattica sostitutiva, legato alla consapevolezza rimossa che il
pensatore ha del proprio ruolo di vittima, di rivale perdente. Il sacrificio è
sempre sostituzione, è far morire qualcuno al nostro posto, qualcuno al
posto di tutti: se il meccanismo non funziona, è la vita di ognuno a essere
minacciata. E la sostituzione può anche momentaneamente salvare la
vittima: qualora, negli istanti convulsi della sua scelta e uccisione, essa non
sia uccisa subito, ne viene ammazzata un’altra al suo posto, e la vittima
mancata viene lasciata in vita non come un dio morto e rinato, ma come un
dio vivo, come un re sacro, da sacrificare non appena i suoi poteri si rivelino
inefficaci. Ogni vittima che il cristianesimo salva è allora una vittima
sottratta alla macchina sacrificale che dovrebbe assicurare la potenza, la
sopravvivenza di Nietzsche. Queste vittime devono morire al posto di
Nietzsche. Il filosofo si comporta come un antico re sacro, che doveva far
sue le leggi sacrificali della comunità e diventarne il garante, il depositario,
l’esecutore, e la cui vita può dirsi al sicuro solo fintantoché mantiene il suo
ruolo, finché trova “materia prima” da sacrificare al suo posto. Il
cristianesimo, che inceppa il meccanismo sostitutivo su cui si basa
l’esistenza precaria del filosofo-re, la religione dei deboli che indebolisce «la
forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini» 118, è dunque un
attentato alla sua stessa vita. La famosa trasvalutazione di tutti i valori è il
programma di confutazione e rifiuto di tutti i valori cristiani in vista di
questo obiettivo, il che ci fa capire anche le ragioni del futuro successo di
pubblico che avrebbe avuto il programma. Non sono tutti, in forme più
banali, ad aver bisogno della sostituzione? Nietzsche in questo più che mai
si conferma l’avanguardia di una ribellione che sarebbe divenuta di massa.
Se Cristo vuole togliere la maschera a Dioniso-Nietzsche, questi deve allora
dimostrare che è Cristo la maschera da demistificare, la vera menzogna, il
falso idolo da abbattere. È una lotta di vita o di morte, il duello che sviluppa
e completa quello con Wagner. Cristo è la vera balena bianca che
Nietzsche-Achab vuole rincorrere e uccidere attraverso i mari dell’origine
umana, tragicamente seguito dall’equipaggio del Pequod, dall’intellighenzia
e dalle folle di Germania e d’Europa.
Il passaggio esplicito dalla rivalità verso Wagner alla rivalità verso Cristo è
documentabile in una lettera a Malwida vón Meysenbug dell’aprile del
1883, quando l’identificazione con l’anticristo prorompe diretta, sotto gli
effetti della morte di Wagner e del gelido silenzio di Cosima: «Vuole un
nome con cui chiamarmi? La lingua della Chiesa ne ha uno: io sono ----- l'
Anticristo» 119. È il primo vistoso segnale dell’ultima battaglia, dell’ultima
resa dei conti, che Nietzsche ingaggerà contro tutti quelli da cui si era
sentito battuto, deriso, estromesso. Forte della sua genealogia, egli è sicuro
di poter demistificare una volta per tutte l’ipocrisia dei cristiani, dei
“virtuosi”, del “gregge”, incarnando la parte del loro nemico. Come un
giocatore di poker, dopo un rilancio del piatto che era durato da quasi
duemila anni, egli decide di andare a vedere.
Nietzsche arriverà così a scoprire, nella primavera del 1888, qualcosa che
non era mai stato capito con questa chiarezza, e che neppure d’Annunzio e
Mann riusciranno a isolare e a enunciare: la differenza tra Dioniso e Cristo.
La scoperta è talmente grande che è passata inosservata da tutti gli
interpreti del filosofo. Nemmeno quelli che ne hanno diagnosticato in modo
acuto le contraddizioni, come Lowith, si sono minimamente accorti del
“segreto” cristiano che questo navigatore solitario è riuscito a strappare: un
riconoscimento del genere li avrebbe costretti ad ammettere che il
fondamento della ricerca di Nietzsche sta altrove che nel filosofico, sta
nell’antropologia, nella religione. Analoga cecità hanno avuto anche i
migliori interpreti cristiani di Nietzsche, come de Lubac, con la differenza
però che nel loro caso il fondamento contro cui Nietzsche ha lottato è
pienamente presente e accettato. L’unico ad avere gli strumenti giusti per
riconoscere a Nietzsche quel che gli è dovuto è stato Girard. La sua
interpretazione del pensatore tedesco si dimostra vitale perché vitale è
l’approfondimento che il suo pensiero consente del messaggio cristiano.
A differenza degli antropologi del suo tempo e della massa di relativisti del
nostro, Nietzsche comprende che l’uguaglianza strutturale della vicenda
delle figure divine di Dioniso e Cristo dimostra non la loro identità, ma la
loro differenza abissale. Sia Dioniso sia Cristo vengono uccisi, ma mentre la
storia di Dioniso è narrata dal punto di vista dei carnefici, che vedono in
Dioniso colui che li incita al sacrificio, la storia della Passione e
Resurrezione di Cristo ci fa vedere che chi compie la violenza è la folla,
mentre la vittima è del tutto innocente. L’intuizione formidabile di
Nietzsche resta però, ancora una volta, a metà: come egli non riconosce
apertamente il ruolo della folla in Dioniso, che nel frammento su Dioniso
contro il Crocifisso fa una significativa ma veloce comparsa, così l’aspirante
anticristo non vuole rendersi conto che se Cristo rimane fino alla fine la
vittima innocente è perché rimane del tutto immune dal contagio imitativo
dei suoi persecutori, la cui forza spaventosa ci viene fatta vedere dalla
tragedia greca, ad esempio dal Dioniso di Euripide che seduce Penteo a
seguirlo sul Citerone dove sarà massacrato. In altre parole Nietzsche non
vuol riconoscere davvero l’innocenza di Gesù, non vuole e non può
ammettere apertamente che Egli è del tutto indenne dalle misture infernali
che ci raccontano le Baccanti, e di cui il filosofo è partecipe col suo
infernale rancore. È questa, in Gesù, la dimostrazione concreta, e invisibile
per chi non la vuole vedere, del suo essere figlio di Dio; è questo potere
trascendente i doppi della violenza umana che gli permette di perdonarla
dalla croce, e che fa della sua Resurrezione non il ritorno della vittima
divinizzata, ma la rivelazione della vittima indistruttibile, viva, la cui divinità
non deve nulla alla trasfigurazione violenta dei persecutori perché la rivela,
recandone i segni e demistificandola completamente 120. Cristo non ha nulla
a che fare con il duello, con il gioco mimetico e rivalitario nei cui termini
Nietzsche si costringe a pensare.
Nietzsche si deve difendere da questa verità, che minaccia di far saltare il
gioco dei doppi del quale si alimenta e di cui è prigioniero. La differenza tra
Dioniso e Cristo può soltanto dimostrare ai suoi occhi che la verità sta dalla
parte di Dioniso, deve diventare a ogni costo la battaglia di Dioniso contro il
Crocifisso. L’identificazione provocatoria ed esaltata dichiarata a Malwida
von Meysenbug diventerà la sfida solitaria e scomposta dell'Anticristo,
l’ultimo assalto che segnerà il naufragio definitivo della mente del filosofo. Il
rifiuto dell’unica alternativa all’universo chiuso dei doppi vorrà dire il
trionfo dei doppi nella mente vacillante di Nietzsche, il trionfo della pazzia.
Girard qualifica Nietzsche come il più grande pensatore religioso del XIX
secolo, e presenta l’aforisma su Dioniso contro il Crocifisso come il più
grande testo teologico del XIX secolo121, definizioni che possono apparire
esagerate se pensiamo, ad esempio, alle verità religiose scoperte da un
Manzoni, che ha basato la sua concezione su una ben diversa
consapevolezza del cristianesimo e dei meccanismi di folla e del desiderio,
lo stesso Manzoni il cui capolavoro è stato ammirato, almeno a parole e
comunque senza risultati, dal giovane Nietzsche 122. Tuttavia Girard sta
pensando non a ciò che il pensatore tedesco ha elaborato, quanto a ciò in
cui egli si è imbattuto, lungo le rotte iperboree della sua baleniera. In tal
senso Nietzsche è un autentico esploratore di terre incognite, il più grande
scopritore religioso del XIX secolo, uno scopritore ciò nondimeno invertito,
che illumina con la sua negazione quanto da lui scoperto e negato. Un
negatore apportatore di luce, letteralmente un lucifero.

80
H. de Lubac, Mistica, cit.» p. 287.
81
Vedi su questi argomenti G. Fornari, Labyrinthine Strategies of Sacrifice: The Cretans by Euripides,
“Contagion. Journal of Violence, Mimesis, and Culture”, 1997 (4), p. 170, e, più ampiamente, Id., Fra
Dioniso e Cristo, cit., pp. 60-61 e 106 ss.
82
F. Nietzsche, La filosofia nell'epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, tr. it. di G. Colli, Adelphi,
Milano 1991, pp. 118-19.
83
Ivi, p. 121.
84
Ivi, pp. 98-99.
85
Ivi, pp. 96, 99 e 106.
86
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 16 [16], p. 276.
87
T. Mann, Considerazioni di un impolitico, a c. di Μ. Marianelli e Μ. Ingenmey, Adelphi, Milano
1997, p. 187 (v. G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo, cit., p. 7).
88
E Nietzsche, La filosofia, cit., p. 69.
89
Lettera del 16 aprile 1887, riportata in H. DE Lubac, Mistica, cit., p. 296.
90
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, cit., 1 [193], p. 44.
91
Mi sono occupato di questo problema nell’articolo Sacrificio, natura e differenza evangelica.
(Salasso e la visione sacrificale della natura da Anassimandro a Nietzsche, “Pluriverso”, 4 (2000), pp.
28-44.
92
E Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 15 [110], p. 257.
95
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, cit., 1 [162], p. 37.
94
Ivi, cit., 1 [163], p. 37: «...3. Le nozze - e d’improvviso, mentre il cielo declina oscuro. / 4. Arianna».
95
Vedi G. Fornari, Labyrinthine Strategies, cit., p. 175; Id., Fra Dioniso e Cristo, cit., pp. 67-68, 93-94.
96
G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, a c. di N. Lorenzini, A. Mondadori, Milano 1996, pp. 109-11.
97
Ivi, p. 171.
98
Ivi, p. 229.
99
T. Mann, La morte a Venezia, tr. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1971, p. 95.
100
Baccanti 139 (G. FORNARI, Fra Dioniso e Cristo, cit., pp. 107-09).
101
Per un’analisi dell’episodio della Montagna incantata v. G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo, cit., pp. 1-
9.
102
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 181.
103
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 115.
104
R. Calasso, Monologo, cit., p. 161.
105
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., libro in, af. 164, p. 144.
106
Alla madre che nel manicomio di Jena lo rimproverava scherzosamente di alcuni piccoli furti
risponde: «Ora ho qualcosa da fare quando striscerò nella mia caverna» (Μ. Fini, Nietzsche, cit., p.
353).
107
E Nietzsche, Al di là, cit., cap. IX, af. 269, pp. 191-92.
108
L. Andreas-Salomé, Vita di Nietzsche, cit., pp. 151-52; H. DE Lubac, Mistica, cit., p. 294.
109
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., libro IV, af. 365, p. 241 (cfr. Crepuscolo, cit., af. 15, pp. 26-
27).
110
F. Nietzsche, Umano, troppo umano, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1981, vol. II, af. 348, p.
120.
111
E Nietzsche, Aurora, cit., libro I, af. 45, p. 39.
112
Vedi sul nichilismo l’ottima sintesi di F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 45-52.
113
E NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, cit, 23 [3], pp. 368-69.
114
K. LOWITH, Nietzsche e l'eterno ritorno, a c. di S. Venuti, Laterza, Roma Bari 1998, pp. 124 e 182-
83.
115
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., libro III, af. 220, p. 152.
116
F. Nietzsche, Aurora, cit., libro IV, af. 252, p. 171.
117
Generalmente la letteratura su Nietzsche e il cristianesimo, quando non sposa acriticamente le tesi
del filosofo, si rifiuta di capire le precise ragioni conoscitive per cui egli combatte il messaggio
cristiano. Jaspers ad esempio avverte con una certa acutezza che la critica di Nietzsche nasce da
un’influenza cristiana, ma ignora in che cosa consista tale influenza e per quale motivo vi sia in
Nietzsche una perdita dei contenuti cristiani, cioè della fede in Dio (K. JASPERS, Nietzsche e il
cristianesimo, tr. it. di Μ. Dello Preite, Ecumenica Editrice, Bari 1978, p. 39). Restiamo insomma
sempre all’interno del cliché della morte di Dio intesa come sua “scomparsa” indolore.
118
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 15 [110], p. 257.
119
Lettera del 3/4 aprile in Triangolo di lettere, cit., p. 282. Interessanti le reazioni: amichevolmente
ironica quella della von Meysenbug, che col suo idealismo romantico è lontana dal rendersi conto
delle intenzioni di Nietzsche; involontariamente ironica quella di Elisabeth, che baserà le sue future
fortune sulle idee del nuovo anticristo: «Io mi sento malissimo [...] non riesco assolutamente a vedere
a chi potrebbero essere anche minimamente utili» (Triangolo di lettere, cit., pp. 283-84).
120
Vedi R. Girard, Vedo Satana, cit., pp. 243-246; G. FORNARI, Fra Dioniso e Cri-sto, cit., pp. 29-30,
278-279; C. TUGNOLI, Girard. Dal mito ai Vangeli, Edizioni Messaggero, Padova 2001, pp. 199-210.
121
R. GIRARD, Quand ces choses commenceront, eit., p. 198.
122
Cronologia (1869-1876), in F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, Adelphi,
Milano 1994, p. 205 (lettera a Elisabeth del 13 marzo 1876 in F. NIETZSCHE, Briefwechsel, cit., vol.
III tomo V, Briefe von Nietzsche: 1875-1879, de Gruyter, Berlin-New York 1980, p. 141).
V. L’anticristo e la croce
1. Un’iniziazione dantesca
Negli ultimi mesi della sua vita cosciente Nietzsche non troverà
nell’opposizione di Dioniso e Cristo il balsamo che si aspettava, ma al
contrario la fonte di un’irritazione sempre più viva, che lo porta a reiterare i
tentativi di un annientamento che non si realizza mai. Sotto la spinta di un
risentimento crescente, la crisi dei doppi che definisce la maschera di
Zarathustra comincia a oscillare vorticosamente, inizia a distruggere il
simulacro che doveva coprirla. Un’ira montante s’impadronisce di
Nietzsche, un’ira che lo spinge a moltiplicare gli scritti e i progetti nella
speranza di una resa dei conti definitiva. Dopo Il caso Wagner e dopo aver
accantonato i progetti della Volontà di potenza e della Trasvalutazione di
tutti i valori123, Nietzsche concentra i suoi sforzi in un ultimo tentativo di
distruzione, stavolta totale e diretta. È L’anticristo, la mossa estrema del
cacciatore, del giocatore di poker, la vera Trasvalutazione di tutti i valori,
come recita il precedente sottotitolo dell’opera, ossia la «maledizione del
cristianesimo», come spiega il sottotitolo definitivo, cambiato all’ultimo
momento124, e che ha il significato preciso della maledizione destinata a
distruggerlo.
Opera singolare fra tante singolari di questo autore, per la strategia lucida e
folle che la guida, e per la mancanza sistematica di una vera indagine sui
suoi contenuti che tale strategia ha provocato. L'anticristo propone una
complicità distruttiva e sinistra che dà alla testa, è come un narcotico che
dovrebbe una buona volta portare al sospirato rito sacrificale, di cui il
cristianesimo costituirebbe la vittima giusta, la vittima autenticamente
colpevole che è giusto e liberatorio scannare e fare a pezzi. Complicità fosca
e contagiosa, a cui il lettore è invitato, e a cui può reagire soltanto
mostrando la trama più forte della sua fibra morale. L'anticristo è una prova
iniziatica, solo chi vi sopravvive ha accesso agli ultimi segreti di Nietzsche
e, per via negativa, ai segreti ultimi del cristianesimo. Niente di strano che
sia i credenti sia i non credenti ne stiano alla larga. Questi ultimi, come al
solito la maggioranza, danno per buono ciò che Nietzsche ha tentato,
scambiando per vittoria la sua propaganda, per apoteosi la dimostrazione
quasi da laboratorio di una sconfitta irreversibile. Lanticristo è la
descrizione dell’inferno di Nietzsche, la formulazione sgangherata e geniale
del sottosuolo infernale della modernità. Anche noi, come Dante nella
Divina Commedia, per evitare tale inferno dobbiamo scendervi e
attraversarlo. È un viaggio più breve e meno suggestivo, ma ricco anch’esso
di colpi di scena, di rivelazioni tremende.
Un’analisi dettagliata di alcuni passaggi capitali di quest’opera, definita
come «robusta» e «uno degli attacchi più audaci mai fatti al cristianesimo»
da Verrecchia125, sarà sufficiente a capire la vera natura della battaglia
finale combattuta da Nietzsche. Verrecchia è lontano dal sospettare che
cosa qui Nietzsche abbia cercato di fare, dal capire che il suo attacco è
audace proprio perché è tutto fuorché “robusto” nel senso che egli intende.
I veri problemi rimangono luminosamente invisibili. Verrecchia, che
definisce con acume L'anticristo «come l’opera di un teologo capovolto»,
non si rende conto di quanto la sua definizione colga nel segno, e si limita a
constatare che la celebre frase «“Dio è morto” è una boutade che non
significa niente né in filosofia né in sociologia» 126, constatazione anch’essa
vera al di là delle intenzioni dell’autore, dato che né la filosofia né le scienze
umane hanno mai prestato attenzione al significato letterale dell’aforisma di
Nietzsche. Un altro grande interprete, Giorgio Colli, ci mostra invece, nella
sua introduzione all’Anticristo, un buon esempio della cecità su quest’opera,
allorché si chiede il senso dell’attacco di Nietzsche, dato che «già a quei
tempi la dottrina cristiana era più risibile che temibile» 127, giudizio che
l’autore ribadisce in un’altra sua opera:
Come medico della civiltà, Nietzsche è anzitutto un eccellente diagnostico, con venature profetiche.
Quello che egli profetizzò, si è avverato anche troppo presto. Come religione, il cristianesimo è oggi
un relitto, contro cui anche l’astio si è illanguidito...128
Il cristianesimo è talmente un relitto, la profezia di Nietzsche si è avverata
talmente presto, che il segreto dell' Anticristo, il segreto della sua
disastrosa sconfitta, dev’essere ancora svelato. Che l’astio contro il
cristianesimo si sia illanguidito è un’affermazione così poco vera che gran
parte della cultura contemporanea ha fatto dell’espulsione del cristianesimo
un prerequisito essenziale per essere ammessi nel novero dei liberi spiriti,
delle persone coscienti e socialmente presentabili. A meno che non si
prenda per «astio illanguidito» il gelido silenzio con cui non ci si degna
neppure di prendere in considerazione gli argomenti cristiani, e tutto
questo in nome dei valori della cultura. Verrebbe a questo punto
effettivamente da chiedersi: di quale civiltà Nietzsche sarebbe stato
«medico»? Ma vediamo adesso quale affidamento possano fare i suoi
seguaci sui responsi anticristiani di questo «eccellente diagnostico».
Con una penetrazione e un coraggio di gran lunga maggiori di tanti che si
richiameranno alle sue idee, Nietzsche ha cercato di fare ciò che costoro poi
penseranno come già fatto, guardandosi bene dal verificare se alle
dichiarazioni corrisponda una qualche realtà. L'anticristo condensa, in una
sorta di stendardo di guerra, lo schema di tutte le critiche anticristiane
della cultura moderna, di cui Nietzsche diventa la comoda maschera, e non
appare un caso che un esperto conoscitore del filosofo come Colli preferisca
dare per liquidato il problema indipendentemente da Nietzsche. Meglio non
andare a vedere troppo da vicino la maschera. Con la cecità sistematica di
chi non vuole vedere, l’anticristianesimo moderno si rifiuta di riconoscere la
propria violenza e, poiché il cristianesimo si ostina a parlare di violenza
liberamente scelta dall’uomo, questo viene preso come segno sicuro che è il
cristianesimo a essere violento, a essere anzi la fonte della violenza.
Schema argomentativo del resto fatale. Rimproverare ai cristiani di fare
delle vittime, e poi fare del cristianesimo l'ultima vittima, non può che
dimostrare la verità dell’assunto di questa religione, verità che risalta tanto
maggiormente nella sua vera natura quanto più a violarla sono i cristiani
stessi che dovrebbero testimoniarla. È questa constatazione logica e storica
l’autentica profezia sulla nostra epoca, che mostra per quello che sono le
profezie che si avverano troppo presto di cui parla Colli. L'anticristo di
Nietzsche è in tutto e per tutto una profezia invertita, basta rovesciarla per
avere la verità che Nietzsche, il «teologo capovolto», ha rifiutato e alla fine,
in modo folle, incarnato.
Nell’Anticristo è il cristianesimo a venir identificato col labirinto, a cui il
filosofo si dice predestinato. Egli è colui che promette «l’uscita da interi
millenni di labirinto», cioè dalla crisi dei doppi di cui Nietzsche addossa
l’intera colpa ai cristiani. Ma se il cristianesimo è il labirinto, allora Cristo
ne è il centro. Davanti a questo centro il filosofo-Teseo sembra recalcitrare,
compiendo delle manovre di diversione che è quanto mai istruttivo
ricostruire. Per diversi capitoli Nietzsche cerca di dividere le forze del
nemico per poterle meglio colpire, ricorrendo al vecchio argomento di
distinguere la figura di Cristo dallo svolgimento storico del cristianesimo. La
logica dei doppi, applicata al cristianesimo, non può che duplicarlo,
dividerlo. Grazie anche all’utilizzo di Tolstoj 129, non mancano in questa parte
le intuizioni notevoli: lo staccarsi di Cristo da tutte le religioni sacrali, il
predicare una libertà nuova che si realizza qui e ora in una pienezza di vita
non legata ad alcun ricatto violento. Sembra quasi che per un attimo
Nietzsche vi riconosca la sua rivendicazione della «innocenza del divenire»,
la sua polemica contro la condanna ipocrita del mondo reale in nome di altri
mondi irreali, in realtà carichi di una violenza più o meno mistificata. La
mente ormai sull’orlo del collasso di Nietzsche avrà avuto il sospetto di
quanto questa polemica, in ciò che può avere di autentico, era debitrice del
cristianesimo? Questa domanda trae la sua giustificazione, la sua necessità,
non tanto da ciò che Nietzsche può aver soggettivamente pensato, quanto
dalla realtà oggettiva che è andato a toccare. È questa realtà a fare tale
domanda, a farla costantemente al testo di Nietzsche. Il filosofo si muove
nella direzione sicura perché la domanda venga posta in modo sempre più
forte dalle cose stesse che scrive e che compie, ed è nello stesso tempo
inorridito da tale possibilità, si rifiuta di crederci e ricorre a tutti i mezzi a
portata di mano pur di farla tacere una volta per tutte. Egli si spinge verso
la sorgente originaria del messaggio nella speranza di chiuderla, di
essiccarla per sempre. Alla fine vi cade.

2. Gesù Cristo insultato


Il carattere autodistruttivo della rotta di collisione seguita da Nietzsche è
misurabile attraverso il ricorso all’insulto, alla bestemmia, che dà la più
diretta smentita a chi romanticamente sostiene che Nietzsche si astenga
dall’attaccare Cristo130. L’insulto principale è che Cristo è un idiota,
bestemmia ripetuta nell'' Anticristo e, ancor più scopertamente, in diversi
degli ultimi frammenti:
...Ma si può sbagliare in modo più grossolano, quando di Cristo, che era un idiota, si fa un genio?131
Il riferimento all'Idiota di Dostoevskij, scrittore che viene citato in questo
frammento e nel passo corrispondente dell’Anticristo, non è affatto in
contraddizione con l’uso offensivo del termine, dato che il protagonista del
romanzo, il principe Myskin, rappresenta un tipo degradato e inefficace di
redentore, un’imitazione idealistica e impotente di Cristo 132. Con un’astuta
semplificazione di comodo, Nietzsche prende l’indagine spietata di
Dostoevskij per l’interpretazione corretta di Cristo, in maniera da lasciare
all’appellativo ingiurioso il suo significato più preciso e più ovvio 133.
Quest’insulto si accompagna a quello di “asino”, che Nietzsche riprende
dalle accuse pagane secondo cui i cristiani adoravano un dio con la testa
asinina134. L’intento oltraggioso non è meno palese dell’abile stratificazione
a più livelli dei riferimenti storici e culturali. L’epiteto “idiota” viene rivolto
anche a Parsifal, il “puro folle” protagonista dell’opera wagneriana che
Nietzsche odia e ammira più di ogni altra: la mediazione pressoché
teologica del modello di Wagner rende ancor più evidente, se ce n’era
bisogno, la volontà di annientare mediante l’insulto il fondatore del
cristianesimo, a cui l’autore del Parsifal aveva reso il suo omaggio, e di
annientare per via transitiva tutti coloro che si richiamano a Cristo. La
bestemmia che sintetizza tutte le altre è: «L’idiota sulla croce...[Der Idiot
am Kreuze]»135. Nietzsche attribuisce a Gesù lo stato di degrado mentale in
cui sta per cadere lui136, ma la grossolanità e volgarità di questa proiezione
blasfema non deve farcene dimenticare il significato antropologico.
Ogni bestemmia è una preghiera invertita, è il rivolgersi a Dio come
responsabile dei mali dell’uomo, la formulazione sintetica della visione
violenta che gli uomini si fanno di Dio, per l’arcaico motivo che i loro antichi
dèi non erano che uomini uccisi e divinizzati. L’uomo bestemmia Dio perché
lo vorrebbe uccidere al suo posto, vorrebbe compiere in lui il più antico dei
sacrifici sostitutivi: è questa la definizione stessa della colpa d’origine
dell’umanità, la disobbedienza di Adamo ed Eva svelata nel suo più brutale
significato. I due progenitori dell’umanità bestemmiano Dio perché lo
interpretano come nemico, come rivale, come divinità invidiosa di cui essi
diventano a loro volta invidiosi. Ma questa invidia, questa rivalità che
diventa violenza è esclusivamente la loro. Nella sua ansia di ribellione
teologica, che è quella di gran parte della modernità, Nietzsche non poteva
non toccare anche questo punto, e al cap. 48 racconta la storia del peccato
originale dall’unico punto di vista che per lui può e deve avere valore, il
punto di vista del serpente, ossia di quello che la tradizione cristiana ha
definito come Satana. Girard ci mostra come Satana corrisponda
all’immagine violenta che gli uomini si sono sempre fatti degli dèi e di Dio,
sia la personificazione stessa della logica violenta dei doppi.
Già in un frammento del 1882, al tempo della Gaia scienza, Nietzsche aveva
dichiarato, con l’enfasi rivelatrice e quasi incontrollabile dei corsivi e delle
maiuscole:
Io ho volontariamente vissuto fino in fondo l'opposto di una NATURA RELIGIOSA. Io conosco il
demonio e le prospettive da cut EGLI guarda verso Dio.137
Come nessuno ha preso alla lettera il suo aforisma sulla morte di Dio, così
nessuno ha capito quanto in queste parole il futuro anticristo, che avrebbe
di lì a poco esternato a Malwida von Meysenbug la sua identità, andasse
preso sul serio. Egli ha imparato a conoscere a fondo il demonio e ha capito
bene in che cosa consiste il suo punto di vista.
Fin dagli scritti giovanili aleggia su di lui un’ombra, una figura spettrale
definibile soltanto come demoniaca:
Ciò ch’io temo non è l’orrenda figura dietro la mia sedia, ma la sua voce; e nemmeno le parole, bensì
il tono terribilmente inarticolato e disumano di questa figura. Sì, se parlasse almeno come parlano gli
uomini!138
La cosa più inquietante di questa testimonianza è che Nietzsche si riferisce
all’«orrenda figura» come a un visitatore abituale. Questo è già lo spettro
della follia che incombe su Nietzsche, la materializzazione del sosia di
Euforione e della risata satanica che ne è il commento, il doppio atroce del
suo rancore che lo aiuterà a vendicarsi del padre irraggiungibile e assente,
di Wagner, del Dio che lo ha condannato. È con intuizione di autentico
romanziere che, ispirandosi al filosofo dell'Anticristo, Thomas Mann farà
dipendere la carriera del compositore protagonista del Doktor Faustus da
un patto con il demonio, un patto che viene stretto non solo da Nietzsche,
ma da una vasta parte della cultura tedesca ed europea.
Nietzsche, e con lui gran parte dell’Occidente, si ribella a Dio perché lo odia
e lo invidia139. L’invidia del pensatore tedesco per Dio non è un suo semplice
atteggiamento psicologico, è l’espressione senza più coperture della colpa
costitutiva dell’umanità, della sua propensione ancestrale, ontologica al
male. Non si comprende la ribellione di Nietzsche se non si comprende la
natura antropologicamente oggettiva, fondatrice di Satana. L'anticristo è
un’opera per definizione satanica, è l’interpretazione satanica del
cristianesimo, è il considerare la sua storia e il suo messaggio dal punto di
vista di Satana. Perché Satana è l’anticristo. L’anticristo è Satana che vuole
ingannare e coprire la propria violenza, duplicandosi in falsa imitazione di
Cristo una volta che constata il dilagare della sua rivelazione. Il
cristianesimo rivela e difende le vittime? L’imitazione diabolica di Cristo
trasforma allora la rivelazione della vittima nella sua scimmiottatura
violenta, nella persecuzione dei persecutori140. Tutte le vittime (e chi non
può dirsi in qualcosa una vittima?) chiedono a gran voce la vendetta sui
persecutori pretesi o reali, moltiplicati miticamente per categorie, e poiché
il messaggio cristiano condanna qualunque vendetta e qualunque copertura
ipocrita della violenza, è fatale che l’oggetto primo e ultimo di quest’odio
vendicativo e ipocrita sia sempre e solo il cristianesimo. Nietzsche avverte
questa imitazione pervertita di Cristo nella propria epoca, ma solamente
perché, con la stessa logica demenziale della volontà di potenza, egli vuole
incarnarla a un livello più alto, supremo, tentativo che emergerà in maniera
storicamente esplosiva in Adolf Hitler, l’ex-paria, l’ex-capro espiatorio
determinato a fare del popolo ebraico, e poi del cristianesimo, il suo capro
espiatorio. L'anticristo è il manifesto del risentimento moderno contro il
cristianesimo, e la definizione programmatica dell’unico vero anticristo,
quello che dovrebbe coincidere con Nietzsche medesimo.
Non c’è punto essenziale del rifiuto moderno del cristianesimo che non si
ritrovi nell 'Anticristo·, la negazione, come cosa ovvia, del valore
dell’eucarestia assimilata a un arcaico rito di sangue, l’incarnazione del
figlio di Dio vista come una vergognosa storia di Anfitrione, la condanna
della Chiesa quale simbolo istituzionale della violenza, la ridicolizzazione
della Provvidenza, il rifiuto dell’idea stessa di immortalità, l’attribuire la
Resurrezione a un’invenzione dei primi cristiani, l’equivoco grossolano
sull’immacolata concezione scambiata con la nascita verginale di Gesù e
interpretata come sublimazione sessuofobica. Molti di questi punti erano
già stati espressi in forma condensata in Umano, troppo umano141, ma la
cosa più interessante è che Nietzsche, con contraddizione consequenziale,
arriva adesso a negare la sua più grande scoperta, la scoperta che è stata
pienamente effettuata solo da René Girard, la scoperta della differenza tra
Dioniso e Cristo. Pur di realizzare la sua ribellione contro Dio, Nietzsche
non esita a distruggere ciò che avrebbe fatto la sua grandezza, e che
soprattutto l’avrebbe potuto salvare. Ci stiamo avvicinando all’arrembaggio
finale del filosofo-Achab contro quella che lui interpreta come l’odiata
preda, una preda che man mano che lui vi si avvicina si rivela stranamente
poliforme, sfuggente, sempre più somigliante a Dioniso, a Proteo, al tanto
invocato dio della metamorfosi.

3. Si striscerà alla croce


Il momento decisivo in cui Nietzsche arriva a negare se stesso pur di
spuntarla contro lo sfuggente avversario è riconoscibile nella parte centrale
dell’Anticristo. Il filosofo-anticristo immagina, ai capp. 40-41, le reazioni dei
discepoli di Gesù, carichi di ressentiment, a quello che definisce come
«atrocissimo paradosso» della croce, espressione che ci fa capire che con la
croce ci troviamo al centro stesso della crisi dei doppi nella mente di
Nietzsche. Il paradosso «atrocissimo» è quello che raddoppia, moltiplica le
“atrocità”, ossia è quello che non dà vie di scampo:
Fu da allora che emerse un assurdo problema: «come potè Dio permettere
questo!». A questo la turbata ragione della piccola comunità trovò una
risposta di un’assurdità addirittura spaventosa! Dio dette suo figlio per la
remissione dei peccati, come vittima. Fu di punto in bianco la fine del
Vangelo! Il sacrificio espiatorio, e proprio nella sua forma più ripugnante e
più barbara, il sacrificio dell' innocente per i peccati dei rei! Quale
raccapricciante paganesimo!142
Nietzsche non nega l’unicità del messaggio evangelico, ma nega che questa
unicità abbia a che fare con la morte di Gesù. Compiuta questa amputazione
del tutto arbitraria, ma necessaria per il suo scopo, egli può attribuire ai
discepoli l’interpretazione della centralità di questa morte. E qui Nietzsche
comincia a toccare con mano cosa significhi l’«atrocissimo paradosso» della
croce. Al problema dei discepoli, definito come «assurdo», viene da loro
data, secondo le parole di Nietzsche, «una risposta di un’assurdità
addirittura spaventosa», ovvero Gesù immolato come vittima espiatoria per
dare soddisfazione alla giustizia del Padre. Il filosofo si sta in realtà
riferendo alla teoria della soddisfazione o sostituzione vicaria, elaborata
molti secoli dopo l’era apostolica, nel tentativo di dare una spiegazione
teologica e logica dei vari aspetti della morte di Cristo, e come tanti
anticristiani (e cristiani sacrificali) del nostro tempo interessatamente
fraintende e prende alla lettera quest’espressione storica del pensiero
cristiano, che ignorava un sapere antropologico da cui pure dipende, e la
rovescia nel suo contrario, in un’attribuzione di violenza sacrificale a Dio
Padre143.
Ma il particolare più rimarchevole è che Nietzsche rinfacci agli apostoli
un’interpretazione sacrificale e violenta della morte di Gesù che riflette,
come viene detto al cap. 40, «il sentimento meno evangelico, la
vendetta»144. Ammissione clamorosa quanto inevitabile, che ci fa vedere i
motivi per cui il più mefistofelico Heidegger eviterà accuratamente la zona
proibita in cui si avventura l’aspirante anticristo. Per liberarsi dei cristiani
Nietzsche ha bisogno di concentrare in loro tutta la violenza, tutta la
volontà di vendetta, ma per fare questo è costretto ad ammettere che la
vendetta è completamente estranea ai Vangeli, è costretto ad adottare il
punto di vista evangelico, senza rendersi conto delle implicazioni di questa
ammissione. La contraddizione è immediatamente palpabile se pensiamo
che il tipo di sacrificio che egli attribuisce alla volontà di vendetta degli
apostoli, e che suscita qui la sua indignazione, è lo stesso che accende in lui
l’entusiasmo più belluino non appena è compiuto in nome di Dioniso: «Il
sacrificio espiatorio [...] nella sua forma più ripugnante e più barbara, il
sacrificio dell’innocente per i peccati dei rei! Quale raccapricciante
paganesimo!». Il filosofo, o se vogliamo il suo stesso testo, viene toccato dal
sospetto che tutte le vittime di Dioniso siano innocenti, cioè comunque non
colpevoli delle colpe enormi che sono loro addossate dalla folla invasata
dall’odio, come egli aveva già detto nei suoi momenti di maggior lucidità
vittimaria, ma senza trarne le conclusioni che avrebbe dovuto.
Nietzsche stesso riconosce che il sacrificio di una vittima innocente è
qualcosa di ripugnante e di barbaro, qualcosa di orrendamente pagano. Il
punto è che i sacrifici di tipo dionisiaco escludevano precisamente quella
consapevolezza da cui Nietzsche, a dispetto di tutti i suoi contorcimenti, non
riesce a liberarsi. La confusione che egli, al pari di tanti moderni, compie
fra il rito dell’eucarestia e i riti sanguinari dei culti arcaici e misterici non
può che ritorcersi contro di lui, perché sono proprio la carne e il sangue
dell’eucarestia a mostrare di che cosa son fatti tutti i riti dell’uomo, di che
cosa è fatto l’uomo. L’eucarestia anticipa e compie realmente, nel rito, ciò
che la Passione di Cristo mostra nella storia e nella conoscenza, facendole
uscire dal mito145. L’aspirante anticristo non poteva che rimanere sordo e
cieco al nucleo incandescente della differenza da lui intuita ed espulsa, un
nucleo sacramentale che mette in comunicazione l’uomo con Dio attraverso
la ripetizione reale della sua storia, della sua origine, della sua colpa. Ma
una qualunque comprensione del sacramento implica virtù sconosciute a
Nietzsche e alla tipica intellighenzia moderna: l’umiltà, l’obbedienza,
l’accettazione, l’ascolto, in una parola l’imitazione senza condizioni di un
modello buono, di un modello senza ombra di odio, di rivalità. Rifiutando
questa imitazione, Nietzsche si priva di qualunque difesa contro il doppio
satanico avvertito dietro e dentro di sé fin dalla giovinezza.
Se Nietzsche sfiora la pura e semplice verità dell’orrore di Dioniso è solo
perché vuole rinfacciarla ai cristiani, perché spera di liberarsi, non del
sacrificio, ma della consapevolezza del sacrificio, trasformando tale
consapevolezza nel capo d’accusa mitologico con cui fare dei cristiani il suo
capro espiatorio. Ma, ancora una volta, qual è l’unica fonte che gli permette
di dire quello che dice? Il sistema di doppi di Nietzsche ci costringe a
ritornare sempre sulla stessa contraddizione di fondo, perché è Nietzsche a
farlo costantemente, tentando di liberarsi dalla trappola in cui lui è voluto
andare a cacciarsi, e che più lui si agita più lo attanaglia. Per quanto
compressa e nascosta nell’unicità residua che la sua tattica di divisione
concede ai Vangeli, Nietzsche non riesce ad annullare la differenza di Cristo
rispetto a Dioniso, che si riverbera su tutti i suoi pensieri e tutte le sue
parole. Egli non vuole vedere che la ragione degli apostoli è la ragione
umana che, grazie alla Resurrezione, è per la prima volta non più «turbata»,
poiché gli apostoli capiscono per la prima volta che il punto di vista della
vittima innocente è opposto a quello dei persecutori. Ben lungi dall’essere
un momento di confusione mentale, quello che avviene agli apostoli dopo la
morte di Gesù è l’opposto di quanto sta avvenendo a Nietzsche, è un
autentico rinsavimento, che apre loro gli occhi sulla persecuzione e sulla
loro stessa complicità, è l’evento fondatore della Chiesa, che permette un
uso non persecutorio della ragione umana, la quale, come tutti gli attributi
culturali dell’uomo, nasce dalla riconciliazione violenta che solo la vittima
rende possibile.
Il filosofo aveva magnificamente compreso l’origine cruenta della ragione,
allorché aveva intuito nelle forme logiche della conoscenza la presenza di
un “comando”, di un atto imperioso e coercitivo della volontà collettiva, ma
esclude che esista un comando che utilizza e supera le forme violente
dell’uomo perché le perdona, esclude un potere trascendente capace di
comunicare e di dare ordini agli uomini perché ne rivela e sovverte
l’ordinamento violento. Quest’uso delle capacità umane in difesa delle
vittime, degli indifesi è il dono sacramentale dello Spirito Santo, che
possiede per questo l’attributo fondamentale della sapienza, e che è il solo a
poter liberare in modo veritiero e completo dai doppi della violenza. Il
tentativo di Nietzsche di ricondurre tutto a una deformazione dei primi
cristiani gli si ritorce contro, perché a parlare nelle parole, nelle intuizioni
del filosofo sono i fatti stessi. Adesso possiamo capire il passo
immediatamente successivo, il rifiuto del valore conoscitivo e salvifico della
croce di Cristo, vera crux intorno a cui si dibatte l’intera opera, nonché
l’equilibrio mentale di chi la stava scrivendo.
A fare le spese del tentativo di Nietzsche non poteva essere che san Paolo,
già suo antico oggetto d’odio, che adesso viene bollato come «disangelista».
Anche qui è perfettamente valido l’argomento dell’invidia verso la
personalità del possente innovatore religioso che Nietzsche, a dispetto o
meglio in ragione delle sue rodomontate, non è mai riuscito a essere; ma,
anche qui, c’è molto di più di una rancune soggettiva, ci sono cause
oggettive che trovano la loro massima espressione nell'Anticristo, e che
sono le medesime per cui san Paolo è la tappa quasi obbligata di tutti gli
anticristiani, che tentano di annientare il messaggio cristiano scorporandolo
dalla figura del suo fondatore e attribuendo arbitrariamente all’apostolo la
tradizione che ne deriva. L’accanimento di Nietzsche e dei suoi imitatori
non è immotivato. È san Paolo che ha espresso nella maniera più penetrante
il significato antropologico e storico della croce, formidabile dottrina che
Girard ci aiuta a capire più a fondo146. Le forze di Satana pensavano infatti
di zittire per sempre la voce che si era levata contro il loro potere, ma
proprio nel momento del suo apparente trionfo Satana viene sconfitto,
perché il meccanismo fondatore della violenza collettiva, ossia il segreto del
diavolo «omicida fin dal principio», è mostrato nella sua nudità. Satana, che
coincide perfettamente col Dioniso esaltato da Nietzsche, è stato quindi
letteralmente beffato. È questa la più vera ragione dell’autentico accesso di
bile da cui viene preso il filosofo-anticristo parlando di san Paolo, di colui
che ha predetto il «mistero dell’iniquità» di chi addita se stesso come Dio,
figura che nelle parole dell’apostolo equivale allo stesso anticristo 147:
Alla «buona novella» seguì immediatamente la peggiore tra tutte: quella di Paolo. In Paolo si incarna
il tipo antitetico alla «buona novella», il genio nell’odio. Che cosa non ha sacrificato all’odio questo
disangelista? Innanzitutto il redentore: lo inchiodò alla sua croce.148
Agli occhi dei colpevoli è la rivelazione della colpa la colpa più grave. Per
questo san Paolo, che ha sottolineato il vero significato della crocifissione di
Cristo, si trasforma per Nietzsche nel suo responsabile. Il supplizio visto
come giusto finché a eseguirlo era l' imperium romanum si trasforma in
colpa imperdonabile adesso che il supposto colpevole ne diventa san Paolo.
Le contraddizioni si susseguono alle contraddizioni. Più Nietzsche cerca di
inchiodare alla croce la cristianità più dimostra la realtà, lo scandalo della
croce, come mirabilmente dice san Paolo, con un’espressione presa
direttamente dai Vangeli e in cui tutto il senso del messaggio cristiano è
condensato 149.
Non è un caso che Nietzsche non citi quest’espressione paolina. Egli non
può che tacere, e non è certo il solo, davanti alla dottrina evangelica dello
skandalon, la pietra d’inciampo che nella predicazione di Gesù indica il
modello divenuto un ostacolo sulla nostra strada, il doppio vincolo del rivale
che ci scandalizza perché segretamente ci affascina e che in quanto ci
affascina ci scandalizza, ciò che insomma era stato Wagner per Nietzsche, e
che adesso per lui è Cristo, e con Cristo ogni cristiano. L’esito ultimo dello
skandalon è l’uccisione del nemico che affascina, l’assassinio della vittima
su cui si concentra lo scandalo di tutti. Lo scandalo rivela così la sua
identità sostanziale con Satana. Satana è lo skandalon in quanto
fondamento, in quanto sistema su cui la vita violenta degli uomini si basa.
Lo scandalo della croce, lo scandalo di Nietzsche, è perciò la reazione di
Satana alla rivelazione del suo fondamento nascosto. E lo scandalo verso la
croce è lo stesso che lo scandalo verso la Chiesa: per difendersene Satana
deve spezzare ogni legame visibile fra lo scandalo del desiderio violento e la
croce di Cristo che ne è il risultato, deve spezzare la rivelazione che è il
sostegno e la guida di tutta la tradizione, deve romperne la continuità,
dimostrando che una tradizione che risalga a Gesù Cristo in realtà non
esiste. Ma poiché questo tentativo, con la stessa logica dell’insulto «idiota»
rivolto a Cristo e a tutti i cristiani, nasce dal medesimo scandalo che ha
portato alla croce, ecco che la dottrina dello scandalo ne risulta così
dimostrata. Qualsiasi cosa faccia lo scandalizzato davanti alla rivelazione
del proprio scandalo, non può essere che la conferma che lo scandalo esiste,
è dentro di lui, è lui. Nietzsche non può citare né definire l’espressione
paolina, poiché tutto quello che dice e che fa ne è definito. E dal momento
che la dottrina dello skandalon, nella stessa incomprensione bimillenaria di
cui è stata l’oggetto, non può che risalire a Gesù, non meno di quanto la
crocifissione sia un fatto storico, l’assoluta continuità di quanto dice san
Paolo con la predicazione di Gesù è così dimostrata.
Per questo la falsificazione teologica e storica con cui Nietzsche riduce il
cristianesimo a un’invenzione di san Paolo, anziché dare sollievo al suo
autore, lo invelenisce ulteriormente, sino a farlo esclamare, riferito ai
Vangeli: «Fortunatamente quei libri sono per i più nient’altro che
letteratura...» (cap. 44) 150. frase che esprime come medio non si potrebbe il
principio esegetico fondamentale del mondo contemporaneo nei confronti
del testo biblico. Oggi l’atteggiamento liquidatorio che riduce la Bibbia a un
libro fra tanti, magari deplorevolmente prolisso, serioso e “politicamente
scorretto”, è così forte e influente da esser divenuto legge anche presso
molti biblisti. Ma il sollievo di Nietzsche nel constatare il prevalere di
questa tendenza è alquanto sospetto, e non deve far sopravvalutare la forza
dell’interpretazione “letteraria” della Bibbia che la equipara a una
qualunque favola, a un qualunque mito (quegli stessi miti che sono portati
alle stelle quando non sono cristiani). Perché il ritenere i Vangeli un
epifenomeno letterario è una circostanza così “fortunata”? Non ne era stata
proclamata la falsità manifesta? Da quale vero pericolo questa “fortuna”
deve preservare i più, di cui adesso Nietzsche diventa improvvisamente
sollecito? Di quale natura sia il pericolo da cui Nietzsche si deve difendere
lo si vede al cap. 53, dopo un crescendo di invettive che proietta sui preti
ciò che l’autore temeva e sapeva di avere in sé (memorabile il «vampirismo
di squallide sanguisughe sotterranee»151), e dove, fra tanti insulti, alcune
critiche colgono nel segno per il semplice motivo che applicano, in maniera
subliminale e stravolta, la denuncia di Gesù contro i farisei.
L’intuizione nietzschiana dell’importanza della croce di Cristo è talmente
profonda che, a questo punto di esasperazione, viene dato il chiaro
suggerimento di quello che Satana avrebbe dovuto fare: non crocifiggere
Cristo! Il passo fondamentale della Prima Lettera ai Corinzi, in cui san Paolo
osserva che se i poteri di questo mondo avessero saputo cosa sarebbe
successo non avrebbero mai crocifisso Cristo (2,8), trova nell’Anticristo la
più letterale e spettacolare delle applicazioni. Per capirlo dobbiamo
penetrare ancora una volta dentro le contraddizioni del testo, poiché
Nietzsche deve accuratamente evitare la via maestra della negazione
diretta. Ritorna la contraddizione già vista, ma stavolta in forma
spasmodica, perché quello che ora si sta consumando è lo sforzo supremo di
negazione da parte dell’anticristo:
La conclusione di tutti gli idioti [Der Schluss aller Idioten], compresi donne
e popolo, che una causa, per la quale taluno affronta la morte (o che, come
quella del primo cristianesimo, genera addirittura bramosia di morte in
forma epidemica), abbia un valore - questa conclusione è divenuta una
remora enorme all’indagine, allo spirito di indagine e di cautela. I martiri
recarono danno alla verità... Ancor oggi basta un’asprezza della
persecuzione per dare un nome rispettabile a un settarismo in sé ancora
insignificante. - Come? Forse che trasforma il valore di una causa il fatto
che qualcuno sacrifichi per essa la propria vita? Un errore che diventa
rispettabile è un errore che esercita un’attrattiva di seduzione in più:
credete proprio che daremmo a voi, signori teologi, l’occasione di fare i
martiri per le vostre menzogne? - Una causa la si confuta deponendola
riverentemente sul ghiaccio - in questo modo si confutano anche i teologi...
Fu esattamente questa, nella storia del mondo, la stupidità di tutti i
persecutori, di dare cioè alla causa avversaria l’apparenza dell’onorabilità -
di recare in dono a essa la suggestione del martirio... Ancor oggi la donna si
prostra in ginocchio dinanzi a un errore, perché le è stato detto che
qualcuno per questo morì in croce. È dunque la croce un argomento?152
Questo testo è un campo di battaglia drammatico. Nietzsche cerca di
argomentare il rifiuto della croce in termini generali, riferendosi alla
stupidità di tutti i persecutori «nella storia del mondo». Il filosofo intende
evidentemente riferirsi alle persecuzioni dei primi cristiani, dal momento
che è dei cristiani che sta parlando, ma egli non vuole e non può partire da
loro, giacché ciò vorrebbe dire sottolinearne l’unicità appena negata. Per
dimostrare che la morte di Cristo e dei martiri è stata una morte come tutte
le altre Nietzsche è perciò costretto a parlare di tutti i persecutori esistiti da
quando esiste l’uomo, «sin dalla fondazione del mondo» come direbbe il
Vangelo, ma a questo punto la violenza che egli voleva nascondere è, in
modo veramente genealogico, rivelata.
Dal suo punto di vista, egli non dovrebbe riferirsi ai persecutori delle
vittime prima di Cristo, per il semplice motivo che essi non erano visibili
come persecutori, e che lui stesso non vorrebbe che lo fossero. Essi erano i
Tebani virtuosamente preoccupati di espellere in Edipo la causa della
pestilenza, le baccanti che facevano a pezzi la vittima perché possedute da
Dioniso, gli assassini convinti di uccidere per legittima difesa e perché così
voleva il dio. La loro “verità” veniva raccontata nei miti. Forse che
Nietzsche vuol dire che nessun persecutore avrebbe dovuto uccidere vittima
alcuna? Certo che no, dato che il cristianesimo non dice nulla di diverso,
mentre il filosofo-anticristo sostiene il sacrificio, anche umano, a spada
tratta. Il suo problema è che i persecutori dovrebbero tornare a non essere
visibili come persecutori, e a questo scopo non solo i martìri dei cristiani ma
prima di tutto il loro modello, la croce di Cristo, non dovevano neppure
venire alla luce.
È dunque della croce che Nietzsche sta parlando, ed è il punto di vista di
Satana analizzato da san Paolo che egli vuole incarnare, secondo quanto già
promesso e presentito a suo tempo. Ma, modificando lievemente il modo di
dire, questo equivale veramente a far rientrare dalla porta quella croce che
il filosofo aveva cercato di gettare di nascosto dalla finestra. Nietzsche si
costringe a ripetere sulla propria pelle, a spese del suo equilibrio mentale
già vacillante, quel trionfo della croce su Satana di cui parla san Paolo. La
vittima, una volta rivelata per quello che è, non può più venire negata:
contro questa verità invincibile il propugnatore di Dioniso-Satana non può
fare nulla. Per questo d’Annunzio, pur restando affascinato dal sogno di
rifondazione pagana, ci racconta il fallimento di Tullio Hermil, che non
riesce a cancellare l’innocenza della vittima da lui insanamente voluta, e
conclude gli allarmanti triangoli del Fuoco riferendosi a san Francesco. Per
questo anche Thomas Mann, pur con tutta la sua considerazione per
Nietzsche, è quasi costretto a raccontarci senza infingimenti la puzza e il
sangue di Dioniso, e non riuscirà a condividere il furioso attacco
nietzschiano contro la morale e la tradizione giudaico-cristiana 153. Al fine di
cancellare l’evento che rivela la vittima, la sua unicità, il fallimentare
anticristo è costretto a rendere visibili tutte le altre vittime «nella storia del
mondo». Il sacrificio dei martiri cristiani non dimostra, non mostra altro che
questo, che si tratta appunto di un sacrificio. Perciò Nietzsche cerca di
trasformarlo in un morboso autosacrificio, in un sostanziale suicidio, non
accorgendosi della contraddizione palmare rispetto al suo rimprovero
rivolto ai carnefici di uccidere i martiri. L’autosacrificio morboso che egli
attribuisce ai martiri è in realtà la proiezione di quanto sta per compiere lui:
il suicidio mentale, la violenza inflitta a se stesso è l’ultima possibilità di
eseguire il duello, di realizzare il sacrificio impossibile, un vero martirio
isterico della violenza.
I martiri in greco sono i testimoni, coloro che partendo dall’esempio di
Cristo davano testimonianza della verità della vittima, a costo di prenderne
il posto se necessario, se cioè questa era l’unica strada per far sì che la
verità della vittima non venisse cancellata. Nulla di più lontano dalla
morbosa voluttà di martirio, dalla «bramosia di morte in forma epidemica»
che Nietzsche attribuisce loro, e che nasconde il ben più reale contagio
imitativo di coloro che uccidevano o assistevano esultanti all’uccisione dei
martiri. Quando l’anticristo dice che i martiri «recarono danno alla verità»
egli si riferisce alla “verità” danneggiata, sostanzialmente distrutta del mito,
alla convinzione unanime dei persecutori ormai irreparabilmente incrinata,
alla maschera sorridente e omicida di Dioniso, inutilmente sostituita nel
testo da una superficie di ghiaccio. La «onorabilità», la «suggestione del
martirio», che Nietzsche vorrebbe ridurre ad apparenza, esprimono al
contrario l’unica manifestazione del bene e della conoscenza corretta una
volta che le cose sono rivelate per quello che sono. Tutte le critiche più o
meno sottili che Nietzsche ha condotto per anni contro le rappresentazioni,
facendosi nello stesso tempo paladino dell’innocenza delle apparenze,
hanno lo scopo preciso di impedirci di credere alle rappresentazioni che ci
fanno vedere il desiderio e la vittima nascosti sotto la maschera, mentre le
stesse sono esaltate quando sono presentate come fenomeni invalicabili,
vale a dire come maschere prese per vere. Da quale vera colpa questa
“innocenza” dovrebbe preservarci? Non era stato il filosofo stesso a
individuare l’origine violenta di tutta la nostra conoscenza? Ancora una
volta Nietzsche deve dimenticare, e farci dimenticare, il valore stesso delle
sue scoperte. Dobbiamo invece chiederci ancora, e in senso stavolta
specificamente epistemologico: quale segreta conoscenza, quale sicurezza
nascosta gli ha permesso le diagnosi penetranti da cui egli è il primo a non
voler tirare tutte le conseguenze?
Nietzsche ha potuto afferrare la violenza sottesa alle rappresentazioni
umane, e noi lo possiamo comprendere perfettamente, perché esiste una
rappresentazione assolutamente vera, una rappresentazione assolutamente
coincidente con la realtà rappresentata, una “rappresentazione-realtà” che
è l’unica a respingere in modo totale ogni violenza: quella della vittima vista
come tale, della vittima vista come completamente innocente, quella di
Cristo morto in croce e risorto. Davanti a questa rivelazione noi ci
confrontiamo con un fuori scala che non dipende più da noi perché siamo
noi - con tutto ciò che siamo, pensiamo, facciamo - a dipenderne: qualsiasi
cosa facciamo non potrà che confermare la rivelazione che non viene da noi.
È una constatazione di una semplicità disarmante, eppure invincibile: la
vittima rivelata in Cristo è assolutamente innegabile, perché negarla
vorrebbe dire uccidere un’altra vittima, crocifiggere ancora Cristo. Nulla di
umano può toccare la verità rivelata: una volta enunciata, una volta data
agli uomini, essa è irrevocabile, eterna. La croce è un argomento, è la fonte
di qualunque argomento, la fonte di qualunque conoscenza, la fonte di
qualunque salvezza. La donna che si prostra in ginocchio avrebbe molto da
insegnare al sapiente che sta per essere condotto alla follia dalla sua falsa
sapienza, sapienza umana, sapienza di persecutori concepita per altri
persecutori.
Erwin Rohde, in una lettera a Overbeck del 1886 in cui esprimeva il suo
disgusto morale per quanto sosteneva Nietzsche, aveva predetto: «Si
striscerà alla croce»154, ma, dall’alto della sua intelligenza e della sua
sufficienza umanistica, era lontano dall’immaginare quale strisciamento
orrendo e rivelatore sarebbe divenuto il confronto perseguito dal suo amico
di un tempo. Nietzsche si striscerà sì alla croce, ma esattamente come il
serpente della tentazione. In questa ripetizione del peccato d’origine, egli
imbocca la strada del tracollo definitivo.
Subito dopo il passo sulla croce dell' Anticristo, ritorna con gli esiti più
disastrosi la megalomania che dovrebbe dimostrare il trionfo di Dioniso.
Davanti all’unica differenza vera che si impone su quelle illusorie della
violenza, il cultore di Dioniso riafferma la sua differenza, la differenza
delirante di Zarathustra. È il segnale tragico della fine. Come Achab ormai
imprigionato si ostina a colpire il mostro che lo sta trascinando negli abissi,
come la disperazione di Baudelaire pianta sul cranio del poeta il suo vessillo
nero, così la crisi dei doppi trionfa adesso sulla mente di Nietzsche:
Ma su tutte queste cose uno solo ha detto la parola di cui da millenni si era sentita la necessità -
Zarathustra.155
All’inizio dell’opera Nietzsche aveva esclamato con scandalo: «Quasi due
millenni e non un solo nuovo Dio!»156. È dunque questa «la parola di cui da
millenni si era sentita la necessità», la parola del mito, il logos della
rifondazione sacrificale, di cui la velleitaria imitazione biblica di Così parlò
Zarathustra doveva essere il testo canonico, la rivelazione oracolare. Ma la
mera presenza fìsica dei martiri, dei testimoni della violenza continua
ostinatamente a frapporsi sulla strada della rifondazione. Per neutralizzarli
Nietzsche non trova allora di meglio che citare se stesso, aggrappandosi
alla Bibbia illusoria del suo Zarathustra:
Segni di sangue scrissero sulla via da essi percorsa, e la loro stoltezza insegnò che col sangue si
dimostrerebbe la verità.
Ma il sangue è il testimone peggiore della verità; il sangue avvelena anche la dottrina più pura e la
trasforma in delirio e in odio dei cuori.157
Il sangue dei martiri si ostina ad avvelenare «anche la dottrina più pura»,
ossia quella di Dioniso-Zarathustra che sogna l’antica purezza rituale, in
quanto il sangue, allora, si sapeva come purificarlo, come cancellarlo. Tale
sangue permane indelebile nella mente di Nietzsche, al pari di un veleno. A
questo veleno viene addossata la colpa del delirio e dell’odio dei cuori da cui
Zarathustra è più che mai sconvolto, come avveniva nelle antiche crisi se la
violenza continuava a rimanere visibile, se non era trasfigurata nella
violenza unanime del sacrificio. Bisogna quindi trovare un rimedio ancora
più radicale, superare i martiri sul loro stesso terreno, compiere per intero
ciò che essi hanno disfatto. Il supremo olocausto, tante volte evocato, sta
per essere direttamente compiuto, rivelando il vero significato dell’ulteriore
passo della citazione dallo Zarathustra:
E se uno va attraverso il fuoco a pro della sua dottrina - che mai prova ciò! Cosa maggiore è che la
dottrina propria venga dal rogo di se stessi.
Con questa frase Dioniso-Zarathustra firma il proprio destino. L’unico modo
di annientare la croce, la consapevolezza incancellabile da cui Nietzsche
non riesce a liberarsi, è di ripetere su di sé la rifondazione sacrificale, di
realizzare in se stesso la “morte di Dio” da lui profetata, di consegnarsi, di
vendersi anima e corpo al demone che lo tallona. Per dimostrare la sua
natura divina il re sacro si immola. Ogni dubbio verrà così finalmente
sanato, la purezza raggiunta.
Questa conclusione è chiaramente già contenuta nella strategia
inflazionistica che porta allo sterminio di massa: la tanto desiderata volontà
di potenza deve in definitiva condurre al sacrifìcio, più ancora che dei
“deboli” così detestati, degli stessi aristocratici, i potenziali rivali dell’unico
superuomo, ma anche le vittime più indicate per le crisi di maggior gravità,
quelle che richiedono le vittime più potenti, più prestigiose. E quale crisi più
grave per Nietzsche di questa? Egli solo può farvi fronte, autoimmolandosi:
soltanto «nell'immolare i suoi esemplari più alti» la volontà dionisiaca
«sente la gioia della propria inesauribilità» 158. Il sacrificio è perfetto solo
quando anche l’ultimo abitatore dell’Olimpo si uccide: il Walhalla
wagneriano-nietzschiano prende rovinosamente fuoco. Non potendo
dimenticare che la maschera è maschera, il filosofo decide di bruciarsi con
essa. Per convincersi della propria natura divina, per dimostrare di essere la
parola attesa da due millenni, Dioniso-Zarathustra decide di ripetere il
processo antropologico che porta alla divinizzazione.
La dottrina che viene «dal rogo di se stessi» è esattamente l’opposto del
roveto ardente in cui Dio è apparso a Mosè, è il rogo sacrificale su cui la
vittima veniva bruciata e che poi ne esprimeva la luce, la natura divina,
insegnando come uccidere altre vittime. Vengono in mente le esaltazioni del
fuoco fatte da Heidegger nei suoi discorsi politici del periodo nazista, ben
più sinistre dell’inquietante ma tutto sommato ancora umanistico fuoco che
dà il titolo al romanzo di d’Annunzio. Poche pagine dopo Nietzsche, non
pago della sua affermazione “millenaria” della Bibbia di Zarathustra,
contrappone alla Bibbia il codice indiano di Manu, con le parole «su tutto il
libro sta il sole» 159, lo stesso sole di fuoco che splendeva al centro del
labirinto, l’astro sacrificale di cui sono figli gli Elleni di Thomas Mann e che
risplende sul «grande meriggio» di Zarathustra e di Dioniso. Avvicinatosi
troppo al sole del sacrificio l’Icaro-Nietzsche precipita, inghiottito dal mare
di doppi della follia. Il centro è raggiunto, il sacrificio è compiuto.
L’opera si chiude pochi capitoli dopo in una successione frenetica di
esaltazioni, di accuse, di maledizioni. Nella Legge contro il cristianesimo
che dovrebbe segnare l’inizio della nuova èra della salvezza, in data 30
settembre 1888 secondo la «falsa cronologia», la settima e ultima
proposizione conelude: «Il resto segue da ciò». In questo «resto» possiamo
includere una buona parte della storia e della cultura del XX secolo.

123
Μ. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, a c. di G. Campioni, Adelphi, Milano 1999, pp. 133 ss.
124
Ivi, pp. 162-63.
125
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 103.
126
Ivi, cit., p. 102.
127
Nota introduttiva a F. Nietzsche, L'anticristo. Maledizione del cristianesimo, tr. it. di E Masini,
Adelphi, Milano 1977, pp. xi-xii.
128
G. COLLI, Dopo Nietzsche, Bompiani, Milano 1978, p. 168 129 Nietzsche ha ampiamente utilizzato
l’opera di L. TOLSTOJ, Ma religion, Paris 1885 (v. l’apparato di F. NIETZSCHE, frammenti postumi
1888-1889, cit., pp. 460 ss.). Lo scrittore russo, com e noto, nega la realtà della Resurrezione e
l’evangelicità della Chiesa.
130
P. Burgelin in H. DE Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo. L'uomo davanti a Dio, tr. it. di A.
Tombolini, Jaca Book, Milano 1992, p. 246, n. 82 (de Lubac dissente, ma stranamente non cita
L'anticristo né i testi collegati).
131
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 15 [9], p. 199; v. Id„ L’anticristo, cit., pp. 38 e
39-40.
132
R. Girard, Dostoevskij dal doppio all’unità, tr. it. di R. Rossi, SE, Milano 1987, pp. 62 ss.
133
L intento di chi pensa di edulcorare l’insulto nietzschiano tramite Dostoevskij è perciò totalmente
infondato. Ancor meno fortunato il tentativo di spiegare etimologicamente l’insulto con il greco
idiótes, «individuo particolare» (G. Penzo, La filosofia dell' Anticristo, prefazione a F. NIETZSCHE,
L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, a c. di G. Penzo, Mursia, Milano 1982, p. 15), quando il
testo nietzschiano parla addirittura di idiozia in senso fisiologico.
134
Il brano più famoso è La festa dell’asino nella Parte IV del Così parlò Zarathustra; va anche
ricordato che nel 1857 era stato scoperto a Roma un graffito con un’immagine parodistica di Cristo
crocifisso con la testa di asino.
155
E Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 25 [14], p. 414 (Id., Werke, a c. di G. Colli e Μ.
Montinari, vol. VIII, tomo III, Nachgelassene Fragmente. Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, de
Gruyter, Berlin-New York 1972, p. 458).
136
Si vedano nell’Anticristo i riferimenti alla schizofrenia di Cristo (sempre al cap. 31) e alla folie
circulaire, alla ciciotimia patologica che Nietzsche attribuisce alla monomania religiosa.
137
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., 23 [60], p, 500.
138
F. Nietzsche, La mia vita, cit., p. 181 (il testo è del 1868-69); cit. anche in H. Althaus, Nietzsche,
cit., pp. 235 ss., con evidenti sforzi di edulcorarne e minimizzarne il significato.
139
L’atteggiamento di rivalità verso Dio da parte di Nietzsche è stato notato da al cuni interpreti, ma
solitamente all’interno di letture di tipo psicologico o comunque prescindendo da un più ampio
orizzonte antropologico (cfr. H. DE LUBAC, Il dramma, cit., pp. 243-44 e Y. Ledure, Il pensiero
cristiano di fronte alla critica di Nietzsche, “Concilium. Rivista intemazionale di teologia”, 5 (1981),
pp. 82-85). Il contributo che fa meglio cogliere il passaggio dal superuomo all’anticristo resta forse
quello di Soloviev (V. SOLOVIEV, I tre dialoghi e il racconto dell'anticristo, tr. it. di G. Faccioli,
Marietti, Genova-Milano 2002, pp. 170-71).
140
R. Girard, Vedo Satana, cit., pp. 234-36.
141
F. Nietzsche, Umano, cit., parte ΙII, af. 113, vol. I, pp. 97-98.
142
F. Nietzsche, L’anticristo, cit., p. 54.
143
Quando è chiaro che espressioni come “giustizia”, “onore” o “ira” del Padre indicano la sua
trascendenza rispetto al mondo violento degli uomini.
144
F. Nietzsche, L'anticristo, cit., p. 53.
145
V. i capp. 11 e 12 di G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo, cit., e in particolare le pp. 228-29.
146
R. GIRARD, La vittima eia folla, cit., pp. 127-28; Id., Vedo Satana, cit, pp 194 ss· 147 II Tessalonicesi
2,3-7; l’anticristo viene teorizzato soprattutto in I Giovanni 2,18-23.
148
E Nietzsche, L’anticristo, cit„ p. 55.
149
Galati 5,11 (cfr. 1 Cor 1,23). Girard tende a sottovalutare in parte l’enorme portata del passo
paolino in Vedo Satana, cit., p. 70.
150
F. Nietzsche, L'anticristo, cit„ p. 59.
151
Ivi, p. 69.
152
Ivi, pp. 76-77 (F. NIETZSCHE, Werke, cit., vol. VI, tomo III, Der Fall Wagner, Götzen-Dämmerung,
Der Antichrist, Ecce homo, Dionysos-Dithyramben, Nietzsche contra Wagner, de Gruyter, Berlin
1969, p. 53).
153
T. Mann, Saggi, cit., pp. 89 ss.
154
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 111.
155
F. NIETZSCHE, L’anticristo, cit., p. 77. Nell’abbozzo preparatorio del cap. 53 manca la parte finale
che inizia con questa frase (Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [160], p. 134).
156
Ivi, p. 22.
157
Ivi, p. 77; F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di Μ.
Montinari, Adelphi, Milano 1976, Parte II, vol. I, p. 110.
158
F. NIETZSCHE, Ecce homo, cit., p. 74, citazione da Crepuscolo degli idoli.
159
F. NIETZSCHE, L'anticristo, cit., p. 82.
VI. Ciò che nessuno ha scorto
Oh, una morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia maggiore grandezza sta nel mio
maggior dolore.

Achab in Moby Dick160

Che cosa c’è nel «resto» che segue dalla Legge contro il cristianesimo, per
quanto riguarda il destino dello sventurato anticristo? C’è la pazzia,
ovviamente, «...la visione di una festa che debbo ancora vivere...» come il
filosofo afferma in Ecce homo161, ma non solo. Commentando la conclusione
dell’Anticristo Nietzsche scrive, sempre in Ecce homo: «Il 30 settembre
grande vittoria; settimo giorno; ozio di un dio lungo il Po» 162. La settima
proposizione della Legge contro il cristianesimo diventa qui il settimo
giorno, in una evidente allusione biblica: dopo la creazione della sua
«trasvalutazione di tutti i valori» il Dio-Nietzsche si riposa sulle rive del
fiume. Come scrive a Carl Fuchs il 18 dicembre: «Non posso raccontare
tutto ciò che è stato compiuto. Nei prossimi anni il mondo sarà sottosopra:
dopo che il vecchio Dio è stato congedato, sarò io a reggere il mondo».
Ormai in preda al suo folle transfert di divinizzazione, Zarathustra si illude
di potersi godere il suo nuovo status. Ma la festa che egli ha atteso e
invocato rivelerà in poco tempo la sua natura più antica, quella di festa
sacrificale.
È proprio sulle rive del Po che si svolge il dramma, la festa finale. Alcuni dei
testi più importanti, se non forse i più importanti, della follia di Nietzsche
sono stati inconsultamente distrutti dalla sorella. Per fortuna Elisabeth, in
mezzo alle melense invenzioni che dovevano minimizzare la pazzia del
fratello, e che a lungo sono state prese da molti per oro colato, riporta il
contenuto di questi fogli:
...scrisse alcuni fogli con strane fantasie, in cui la leggenda di Dioniso Zagreo si mischiava con la
storia dolorosa degli Evangeli e con le personalità dell’epoca presente a lui più vicine: il Dio dilaniato
dai suoi nemici passeggia, risorto, sulle rive del Po e vede sotto di sé, ora, tutto ciò che egli ha amato,
i suoi ideali, soprattutto gli ideali dell’epoca presente. I suoi amici e prossimi gli sono diventati nemici
e lo hanno dilaniato. Questi fogli sono rivolti contro Richard Wagner, Schopenhauer, Bismarck, i suoi
amici più vicini: il professor Overbeck, Peter Gast, la signora Cosima, mio marito, mia madre e me. 163
Dal contenuto di questo sunto non si può dubitare della sua sostanziale
autenticità. Il pensiero conclusivo di Nietzsche può essere ricostruito, in
modo analogo ai frammenti dei presocratici da lui tanto amati. Avvolto dalla
follia, come Aschenbach dal colera che ammorba Venezia e i suoi sogni, il
filosofo-Dioniso vede il proprio destino di squartamento, il proprio
sparagmós, fedelmente riprodotto dallo smembramento psichico della sua
mente. Zagreo è l’antico nome del Dioniso cretese, da cui con ogni
probabilità il Dioniso greco è derivato: il duplice scandaglio personale e
antropologico continua ad agire anche adesso, raggiungendo l’estrema
chiarezza. Ad aver fatto a pezzi il Dioniso-Nietzsche sono tutti i suoi amici, i
suoi parenti, l’intera collettività che lo circonda. L’aspetto collettivo del
sacrificio emerge pienamente soltanto adesso, quand’è troppo tardi,
realizzando in corpore vivo gli incubi dei personaggi di Mann.
Non è solo delirio di persecuzione. Nel corso della sua dolorosa esistenza il
filosofo è stato effettivamente e gradatamente abbandonato da tutti i suoi
amici, anche quando le sue lettere degli ultimi tempi palesemente tradivano
una solitudine disperata. Nietzsche ha amaramente provato a sue spese
quella mancanza di pietà che tanto esaltava nella sua mitologia, riuscendo a
metterla in pratica nei suoi momenti di miglior forma. Si possono citare
alcune frasi sparse nei suoi scritti, come ad esempio: «...indiscutibile
mancanza di una compagnia adeguata» 164. In altre ritornano le immagini
ricorrenti del viandante e del danzatore, ma in un contesto che toglie loro
ogni smalto trasfigurante: «Un viandante stanco che viene ricevuto dal duro
latrato di un cane»; «Cerco un animale che danzi come vuole la mia musica
e un pochino un pochino mi - ami...» 165. Questo viandante era già esausto
nel 1869, allorché Nietzsche aveva scritto a Rohde:
Ma le amicizie! Esistono persone che dubitano della loro esistenza. Certo, è una ghiottoneria raffinata
che tocca solo a pochi, a quegli esausti viandanti per i quali la vita è soltanto un andare attraverso il
deserto...166
Tutta l’opera e la vita di quest’uomo è percorsa da una specie di coscienza
irriflessa, subliminale, come i malati che si nascondono e nello stesso tempo
conoscono la malattia che li farà morire, circostanza che rende penose o
strazianti le sue continue dichiarazioni di salute e di gioia, che l’infallibile
istinto di d’Annunzio e di Mann riporta alla loro reale natura morbosa. Il
passo della lettera a Rohde a proposito dell’amicizia contiene una
successione precisa: prima l’affacciarsi del dubbio, poi la «ghiottoneria
raffinata» ed elitaria di consistenza illusoria, infine il deserto da cui tutto è
nato e in cui tutto finirà. Nietzsche non vuole rendersi conto che gli uomini
temono chi va nei deserti. Parlando del suo ultimo incontro con l’amico,
Rohde dirà: «...qualcosa per me di assolutamente sinistro lo circondava. [...]
Come se venisse da una contrada dove nessun altro abita...»167.
Per essere sincero su se stesso Nietzsche aveva bisogno di allentare
momentaneamente la presa del suo letale autodominio, come quando,
angosciato per il fallimento del triangolo con Rèe e la Salomé, ricorre a una
forte dose di sonnifero e riesce a scrivere agli altri due:
Riflettete bene, voi due insieme, che in fin dei conti io sono un semialienato afflitto da emicranie, cui
la solitudine ha del tutto sconvolto il cervello. Arrivo a questa, che considero una valutazione
ragionevole della situazione, dopo aver preso per disperazione una dose enorme di oppio. Ma invece
di perdere per questo l’intelletto, sembra che io lo stia finalmente riacquistando. 168
Rientrato purtroppo in sé, egli scrive a Rèe pochi giorni dopo: «...non
confonda il mio raziocinio con le sciocchezze della mia ultima lettera dettata
dall’oppio. Io non sono affatto pazzo, e non soffro nemmeno di
megalomania...», ma con Overbeck ammette: «...io tendo ogni fibra nello
sforzo di dominarmi - ma sono vissuto troppo a lungo in solitudine,
consumandomi dentro...»169.
Le citazioni potrebbero continuare. Il commento migliore viene forse da
alcune osservazioni di Otto Weininger, purché per quello che egli chiama
«religione» si intenda “cristianesimo”:
Il declino di Nietzsche si spiega con la mancanza di religione. [...] Ciò che a Nietzsche mancava era la
grazia; ma senza grazia la solitudine, anche quella di Zarathustra, non si può sopportare.170
In preda all’alternanza snervante di megalomania e dell’«implacabile sete di
vendetta» provocata dai suoi smacchi affettivi e sociali, Zarathustra
confessa ancora a Overbeck nel 1883: «questo conflitto interiore mi avvicina
a poco a poco alla follia, Io sento nel modo più terribile...» 171. Giunto al
termine del suo cammino desertico, il viandante se ne esce in constatazioni
desolate:
Non mi sono mai lamentato delle mie indescrivibili privazioni: non sentire mai un suono affine, non
avvertire mai un pari soffrire e volere.172
Le privazioni di Nietzsche erano «indescrivibili» anche e soprattutto perché
lui stesso si era privato del linguaggio d’amore e pietà che le potesse
esprimere, ma questo non deve cancellare il fatto innegabile che nessuno
fra i suoi amici ed estimatori ha capito, e voluto capire, la disperata
richiesta d’amore che le spericolate scorribande di Zarathustra
nascondevano. A nessuno Achab ha fatto arrivare il suo amore, nessuno di
conseguenza ha amato Achab. Non è questa l’amara realizzazione della
diagnosi nietzschiana sull’umanità composta di cannibali? Come tacere che,
se egli è stato abbandonato, è stato anche perché nessuno ha avuto il
coraggio di riconoscere i problemi giganteschi che lui ha affrontato da solo?
Come passare sotto silenzio questo occultamento, più ipocrita e pavido della
sfida temeraria, e nel suo modo dissennato onesta, lanciata da Nietzsche?
Questo occultamento sarebbe diventato presso quasi tutti i suoi ammiratori
cecità sul senso e il peso del suo destino, deprimente conferma della
profezia dello «psicologo» Nietzsche sul linciaggio dei grandi uomini. Visti
sullo sfondo di questa cecità, di questa insensibilità collettiva, i passi
premonitori di cui sono pieni i suoi scritti acquistano il rilievo di prove
d’accusa:
In realtà dovrei avere intorno a me una cerchia di persone profonde e delicate, che mi proteggessero
per così dire da me stesso e sapessero anche rasserenarmi: giacché per uno che pensa le cose che
devo pensare io, è sempre vicinissimo il pericolo di distruggere se stesso.173
Man mano che la follia si avvicina i segnali di un Nietzsche che non
vorrebbe morire a se stesso continuano ad attraversare la maschera sempre
più spessa, anzi il cumulo funerario di maschere, la tomba-maschera che lo
sta soffocando. Terribili i lampi di verità umana che, attraverso il velo fitto
dei rimandi e dei livelli multipli di lettura, ogni tanto traspaiono in Ecce
homo: «Tutto il mio Zarathustra è un ditirambo alla solitudine, o, se
qualcuno lo ha capito, alla purezza... E non alla pura follia, per fortuna»174.
La pura follia è ovviamente quella del “puro folle” Parsifal, ma l’ennesimo
attacco a Wagner, che è insieme un attacco a Cristo, diventa ora la
descrizione, invano esorcizzata, di quanto sta avvenendo all’autore appunto
per questi precisi motivi. Un altro passo sintetizza una serie ricorrente di
riflessioni e di profezie: «Si paga caro a essere immortali...» 175. Colpisce in
particolare la frase: «Non posso fare diversamente. Dio mi aiuti! Amen».
L’espressione, che riecheggia la famosa frase con cui Lutero rifiuta di
ritrattare alla Dieta di Worms, è già usata in Così parlò Zarathustra alla
conclusione della poesia Tra figlie del deserto, in un contesto
apparentemente ironico e scanzonato, a cui segue però la chiusa che fa
anche da inizio al testo poetico vero e proprio: «Il deserto cresce: guai a
colui che cela deserti dentro di sé!» 176. E commentando a Gast Ecce homo il
filosofo scrive: «Non vedo, ora, perché dovrei affrettare troppo la tragica
catastrofe della mia vita, che incomincia con Ecce»177. Inutilmente egli cerca
di ritardare «la tragica catastrofe», che in verità era già cominciata con
L'anticristo. Non diversamente da Lutero, Nietzsche l’eretico, lo scismatico
sa di tagliare i ponti dietro di sé, di addossarsi una responsabilità
pesantissima, ed è segretamente angosciato da un senso di colpa crescente,
che cerca di scaricare sugli odiati avversari (Cristo, lo stesso Lutero, l’intera
nazione tedesca). Egli non vuole vedere la terra bruciata che si sta creando
intorno, ed è pronto a bruciare se stesso pur di non compiere l’inaudita
ammissione. Il deserto che cresce sta per divorare colui che cela deserti
dentro di sé.
Tutti i motivi della preveggenza e della volontà autodistruttiva di Nietzsche
si trovano condensati in una delle ultime poesie, Tra uccelli di rapina, che ci
mostra il volto desiderato e temuto che si nascondeva dietro le disperate
metafore erotiche di Tra figlie del deserto, in cui non a torto Mann
riconosce le «figure coperte di veli e di orpelli» del bordello di Colonia, i
fantasmi di una virilità mai raggiunta. È un testo che, alla luce di quanto già
detto, dovrebbe quasi commentarsi da solo, e che è la dimostrazione della
fondamentale importanza, per intendere la vera grandezza di questo profeta
fallito, della sua produzione poetica, della verità da lui soffocata che si
scioglie più liberamente nel canto, come è stato capito da un altro poeta,
d’Annunzio, nella sua ode Per la morte di un distruttore. Ecco la parte
centrale e la conclusione di questa poesia-testamento nietzschiana:
Adesso -
da solo con te,
in due col tuo proprio sapere,
in mezzo a cento specchi
falso di fronte a te,
in mezzo a cento ricordi
incerto, di ogni ferita stanco,
per ogni gelo freddo,
strozzato dai tuoi propri lacci,
conoscitore di te,
carnefice di te stesso! -

Perché ti stringesti
col laccio della tua sapienza?
attirasti te stesso
nel paradiso del vecchio serpente?
ti insinuasti strisciando
in te - in te?... -
Un malato ora,
che il veleno del serpente rese infermo;
un prigioniero ora,
che trasse la sorte più dura,
che lavora nel proprio pozzo
rannicchiato,
che apre in sé una caverna,
che scava in se stesso,
maldestro,
rigido,
un cadavere -
oppresso da cento fardelli sovrastanti,
sovraccarico di te,
uno che sa!
uno che conosce se stesso!
il sapiente Zarathustra!...

Hai cercato il carico più pesante


e trovasti te -
non puoi sbarazzarti di te stesso...

In agguato, aggomitolato,
uno che più non si regge in piedi!
Già ti aggrovigli alla tua tomba,
spirito rattrappito!...
E or ora così orgoglioso,
su tutte le grucce del tuo orgoglio!
Or ora colui che vive da solo senza Dio,
che vive in due con il diavolo,
lo scarlatto principe d’ogni tracotanza!...

Adesso -
fra due nulla
incurvato,
un segno interrogativo,
uno stanco enigma -
un enigma per rapaci...

ti “scioglieranno” certo,
sono già affamati del tuo “scioglimento”,
svolazzano già attorno a te, loro enigma,
attorno a te, impiccato!...
O Zarathustra!
conoscitore di te!...
carnefice di te stesso!...178
L’avvoltoio del Prometeo rievocato dal giovane Nietzsche ritorna in
massa179. Gli «uccelli di rapina» sono i «cannibali» paventati in Umano,
troppo umano, sono gli avvoltoi già pronti a “sciogliere”, nel doppio senso
greco di risolvere e distruggere, l’enigma-Nietzsche, già pronti a cibarsi
della sua morte, delle sue carni, i becchini della sua gloria postuma. Nella
prima strofa citata troviamo l’immagine generatrice dei doppi che, nati dalla
falsa coscienza dell’imitatore di un commediante, del Dio-pagliaccio («in
due col tuo proprio sapere [...] falso di fronte a te»), si sarebbero
moltiplicati nei «cento specchi» e nei «cento ricordi» che ora lo assediano e
lo portano alla fine invocata. Zarathustra rannicchiato e malato nel pozzo,
nella caverna; Zarathustra impiccato, fatto a pezzi; Zarathustra sepolto. Il
commento più adeguato appare quello fornito dagli odiati Vangeli: «Dove
sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi» (Luca 17,37).
Per non precipitare nella tomba che lui per primo si è voluto scavare
Nietzsche si aggrappa, come una bestia in trappola, agli ultimi appigli. I
corsivi dei testi di Nietzsche sono come disperati puntelli che cercano di
marcare delle differenze nella crisi dei doppi della pazzia in cui sta
naufragando, gli stessi disperati puntelli che sono rimasti nei suoi scritti
postumi sotto forma di proibizioni e prescrizioni quotidiane ossessivamente
ripetute, proprio mentre stava ultimando L'anticristo. Leggiamone una
breve sequenza, dov’è trasparente il tentativo di ritorcere contro il
cristianesimo i doppi che stanno sommergendo la mente di Nietzsche:
Non mettere gli occhiali per la strada!
non comprare libri!
non andare in mezzo alla folla!
[...]
Cap. sulla fede
Cap. su Paolo

i mezzi per rendere malati


i mezzi per rendere matti180
«Non posso fare diversamente. Dio mi aiuti! Amen»: la frase di Così parlò
Zarathustra ripetuta in Ecce homo non deve apparire come fuori contesto,
perché il Nietzsche della follia è ormai un insieme di parole e di simboli che
ruotano vorticosamente, in cui tutto può indicare tutto, ma in un modo più
rivelatore degli stati di lucidità. Come non riconoscere in questa frase una
disperata preghiera? I rapporti degli uomini con Dio non si decidono in base
alle semplici parole o ai semplici fatti esteriori. Questa è una visione di tipo
puramente giudiziario e sacrificale che non ha nulla a che fare con i
Vangeli, e che anzi giustificherebbe attacchi come quello dell’Anticristo.
Ma, per essere più precisi, di simili attacchi non ce ne sarebbe stato
neanche bisogno, perché, se il cristianesimo non fosse che questo, non
sarebbe nemmeno riuscito a sopravvivere ai suoi primi passi. Qual è il vero
atteggiamento cristiano ce lo mostra de Lubac, quando cristianamente
riconosce le infinite ragioni di scandalo che hanno contribuito ad
allontanare il filosofo, e i tanti che la pensano come lui, dalla Parola, dal
Pane di Vita181.
Ciò che conta in rapporto a Dio è la realtà che si fa strada nel destino di un
uomo, e di questa realtà sono parte importante i dolori che quest’uomo
soffre. Col compiersi della sua sofferenza Dioniso Zagreo rivive, dopo
migliaia di anni, la vera natura del proprio destino. La rivelazione
luciferinamente negata si attua: lo scandalizzato diventa lo scandalo, il
filosofo-re diventa la vittima che aveva sempre saputo di essere. La storia
del dio fatto a pezzi si mescola «con la dolorosa storia degli Evangeli», cioè
con la Passione e Resurrezione di Cristo. La differenza tra Dioniso e Cristo
ritorna, ma stavolta ad attestare la vittoria definitiva della croce di Cristo.
Nietzsche è l’Ecce homo, la designazione che di Cristo dà Pilato, la vittima
consegnata alla folla che sta per crocifiggerla, per dilaniarla. Questo era
anche - significativamente - il titolo provvisorio del Parsifal, l’opera più
cristiana di Wagner182. Il congiungimento del vecchio rivale col nuovo è
completo.
Lo squartamento di Dioniso si rivela uguale alla crocifissione di Cristo; il
negatore, l’invidioso di Cristo è costretto a prenderne il posto, ad
assecondare la forza di rivelazione del suo supplizio infamante. Thomas
Mann parla dello «spettacolo straziante di un’autocrocifissione» 183, ma
senza capirne la portata antropologica e spirituale, senza afferrare la verità
che si impone nonostante e attraverso gli sforzi inconsulti del campione di
Dioniso. Questa verità è la verità dell’origine umana. La croce, intorno a cui
è crollata la mente di Nietzsche, riproduce nella sua semplice forma le
quattro direzioni dello squartamento di un uomo, effettivamente compiuto
dalle turbe dionisiache e da così tanti supplizi antichi e moderni, lo
squartamento ricordato dai miti di tutto il mondo in cui un essere divino
fatto a pezzi dà origine alle quattro parti del mondo o ai quattro punti
cardinali184. Impressionante è il confronto con la svastica, il simbolo solare e
ierogamico che ci mostra la cellula madre del labirinto, la rotazione del
gruppo intorno alla vittima che si stringe intorno a lei per farla a pezzi, il
simbolo arcaico diventato, con il nazismo, il simbolo moderno dell’inferno
che solo gli uomini sanno creare per i loro simili. Inutilmente Mann e tutti
gli estimatori di Nietzsche cercano di separare quello che lo scrittore
definisce r«infantile sadismo» del filosofo185 dal sadismo organizzato su
grande scala del regime nazista. Sono tutti tentativi di autodifesa, di
nascondere la propria partecipazione, contraddittoria e sottile finché si
vuole ma reale, alle esaltazioni violente di cui è responsabile Nietzsche. Il
nazismo è stato la continuazione della malattia dello spirito presente in
Nietzsche, l’evidente ripresa del suo progetto, certo con una grossolanità
ma anche con una fedeltà letterale che è andata oltre ogni fantasia del
filosofo, e che si è dimostrata tristemente più chiara di tante disquisizioni. I
nazisti hanno trasformato la contrapposizione nietzschiana di Dioniso a
Cristo nel tentativo di sostituire alla croce la svastica, di seppellire la croce
sotto il peso della loro violenza, sotto la rifondazione allucinante delle
ecatombi preconizzate da Nietzsche. Ma la croce demistifica la svastica
proprio perché ne rappresenta la vicenda da un punto di vista opposto: ogni
riaffermazione della svastica non poteva che dimostrare la verità della croce
vanamente coperta. È la croce il centro rivelato del labirinto-svastica
evocato da Nietzsche, il labirinto-caverna in cui lui è andato a seppellirsi, il
labirinto antichissimo simbolo dell’oltretomba. Ed è proprio nel riportare
alla luce la morte dei vinti, dei dimenticati, alla fine di tutti, che la croce di
Cristo annuncia, ristabilisce la vita. Essa indica la tomba vuota della
Resurrezione.
Gettandosi nella tomba in cui vuole seppellirsi, nel fuoco in cui vuole
sacrificarsi, Nietzsche ripete nei fatti quel destino della vittima ormai
rivelata che aveva cercato di negare a parole. Nei biglietti della pazzia
l’opposizione fallimentare tra Dioniso e Cristo con cui si era chiuso Ecce
homo («- Sono stato capito? - Dioniso contro il Crocifisso» 186) diventa
un’identità, l’ultima, definitiva: il filosofo non solo si firma «Il Crocifisso»,
ma scrive a Cosima: «Sono stato anche appeso alla croce...» 187. Non è
questa una discutibile volontà di annessionismo cristiano, è l’emergere
finale di una verità che, come non dipende dallo sfacelo di una grande
mente, così non dipende da interpretazioni soggettive. Dioniso è il
Crocifisso, perché il Crocifisso è la rivelazione, che diventa salvezza, di tutte
le vittime uccise nel nome di Dioniso.

Esiste un episodio famoso della pazzia di Nietzsche, che può fare veramente
da emblema conclusivo di questo esame del suo destino e del suo pensiero:
Nietzsche che vede per strada battere un cavallo e cerca di difenderlo
abbracciandolo. Un parallelo letterario (l’incubo di Raskolnikov, altro
personaggio prenietzschiano, in Delitto e castigo), a cui forse il filosofo
allude in una sua lettera e in un suo frammento, rende la scena ancora più
vivida188. Nel cavallo battuto egli deve aver avvertito la verità del dolore, un
dolore da lui lungamente provato, ed esorcizzato nella forma peggiore, il
dolore della vittima sostitutiva che così a lungo aveva cercato di far morire
al suo posto, un dolore che, adesso che tutto è perduto, egli può
riconoscere. Appare legittimo concluderne che questa fosse l’unica maniera
per Nietzsche di avere accesso alla pietà così a lungo negata. Questa pietà
non è genericamente schopenhaueriana come sembra suggerire
Verrecchia189. Anche la compassione di Schopenhauer trae la sua verità e il
suo pathos più dal cristianesimo che dal buddhismo, sebbene lo scandalo
per la violenza degli uomini porti questo pensatore a cercare la verità nelle
nebbie lontane dell’Oriente e della metafisica, anziché nella propria stessa
violenza. La compassione di Dioniso il Crocifìsso non può essere, nel suo
modo folle e paradossale, che la compassione di Cristo. Questa compassione
può ben accompagnare una riflessione sul destino di chi lo ha rifiutato per
tutta la vita, rimanendo inconsapevolmente, inconsideratamente sul luogo
del Golgota.
Il filosofo-anticristo, allora, perdonato da Cristo? Nessuno può dirlo,
ovviamente. Il perdono, per averlo, bisogna accettarlo. Per questo Gesù dice
che il peccato contro lo Spirito Santo non verrà perdonato 190, non per
vendetta divina, ma perché tale peccato consiste precisamente nel rifiuto
del perdono. «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» perché è
terribile cadere nelle mani di questo Dio di perdono e respingerlo 191. E se la
Vita, l’Amore, il Perdono sono negati, quale possibilità di salvezza rimane?
Non è proprio contro la possibilità stessa di venir perdonato che Nietzsche,
strenuamente, ha lottato? La sua follia, in tal senso, non ha nulla della follia
della croce192. Ma se l’anticristo come figura, come personificazione
infernale dell’anti-perdono, non può per definizione venir perdonato, chi ne
ha incarnato disperatamente, teatralmente la parte lo può, se in lui rimane
qualcosa che non si riduca alla pura negazione, alla pura morte.
Consideriamo le ultime strofe di Gloria e eternità, il Ditirambo di Dioniso
con cui Nietzsche aveva pensato di chiudere Ecce homo, e di cui d’Annunzio
afferrerà l’importanza riprendendolo nella sua ode dedicata alla morte del
filosofo. In questi versi il misticismo nietzschiano raggiunge la sua
espressione più alta. Si tratta certo del misticismo di Dioniso e dell’eterno
ritorno, perché, come esiste il misticismo che si unisce al Dio d’amore
infinito, così esiste il misticismo della violenza sublimata o compiuta, quello
che la teoria mimetica ci permette di identificare come il misticismo
primordiale della vittima adorata in quanto divina.
Ma l’ambiguità sistematica dei doppi nietzschiani ci autorizza a pensare che
ci possa essere qualcosa di più. Rileggiamo le ultime strofe:
Supremo astro dell’essere!
Tavola di eterne figure!
Tu vieni a me? -
Ciò che nessuno ha scorto,
La tua muta bellezza -
Come? Non fugge davanti ai miei sguardi? -

Stemma della necessità!


Tavola di eterne figure!
- ma tu già lo sai:
ciò che tutti odiano,
ciò che solo io amo,
che tu sei eterno'.
Che tu sei necessario!
Il mio amore si accende
in eterno solo della necessità.

Stemma della necessità!


Supremo astro dell’essere!
- mai raggiunto da desiderio,
mai macchiato da no,
eterno sì dell’essere,
sono il tuo sì in eterno:
perché io ti amo, o eternità! -
Dobbiamo chiederci: chi è che viene sorprendentemente da Nietzsche (Tu
vieni a me?), cos’è «Ciò che nessuno ha scorto»? Il pronome dimostrativo
«ciò» ricorda i dimostrativi che la letteratura mistica di tutte le religioni usa
per indicare una realtà assoluta ed esterna, ossia, nei termini sacrificali che
ormai dovrebbero essere famigliari al lettore, la vittima espulsa nella sfera
separata del sacro e perciò divinizzata. Lo «stemma della necessità» è di
per sé quello del sacrificio, il «supremo astro dell’essere» è la vittima-sole
che può risplendere soltanto se trasfigurata dallo «stemma» rituale della
necessità, soltanto se incastonata nella «tavola di eterne figure». Sarebbe
un errore sottovalutare la carica religiosa di questi simboli del transfert di
divinizzazione, ma fin qui rimaniamo nell’ambito della trasfigurazione
violenta, della violenza irriflessa e ciecamente creduta come divina.
Tuttavia, rimane qualcosa nel testo che non è totalmente riducibile allo
schema antropologico originario.
L’eternità e necessità che dovrebbero assicurare l’eterno ritorno si rivelano
come «ciò che tutti odiano, / ciò che solo io amo». Solo lui ama l’eternità,
tutti gli altri la odiano. Lo schema vittimario del tutti contro uno ritorna,
invincibile. E poiché lui si identifica con l’eternità, questo schema vittimario
è, ancora una volta, quello che si richiude su di lui, che fa di lui l’ultima, la
suprema vittima.
Questa insopprimibile vittima, che dopo essere stata divinizzata ritorna
sempre di nuovo, immutabilmente, a essere visibile come vittima, è il Dio
cristiano. L’amore è l’unico tramite che può stabilire un rapporto fra
Nietzsche e questo Dio sconosciuto, questo Dio stranamente eterno e
incarnato, mai raggiunto da alcun desiderio violento, «mai macchiato da
no». È questo il Dio sconosciuto che il Nietzsche già da ragazzo invocava in
una poesia dedicata al Dio ignoto 193, e che ritorna anche nello Zarathustra,
attraverso la proiezione dell’alter ego di un mago, che inizia la sua poesia
dicendo: «Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?». Ritroviamo le immagini
venatorie usate all’inizio di questo studio, delle immagini che ci mostrano
un ultimo aspetto, quello più segretamente sincero, quello dolorosamente
più vero:
...Vuoi entrare dentro,
Nel cuore,
Salire, nei più segreti
Pensieri salire?
Sfrontato! Ignoto - ladro!
Che vuoi rubare?
Che vuoi origliare?
Che vuoi estorcere,
Torturatore!
Tu - Iddio carnefice!
O devo, come il cane,
Davanti a te rotolarmi?
Devoto, fuori di me dalla gioia,
Scodinzolarti - amore?
Invano! Trafiggi ancora,
Crudelissimo aculeo! No,
Non un cane - soltanto la tua preda sono,
Crudelissimo cacciatore!
Il più superbo dei tuoi prigionieri,
Tu, predone dietro le nuvole!
Parla, infine,
Che vuoi da me, bandito?
Tu, velato dal fulmine! Ignoto! Parla,
Che vuoi, ignoto - Iddio? --

[...]

Ah! Ah!
E mi torturi, folle che sei,
Massacri il mio orgoglio?
Da’ a me amore - chi mi scalda ancora?
Chi mi ama ancora? - da’ mani calde,
Da’ bracieri scaldacuori,
Da’ a me, il più solo di tutti,
Cui ghiaccio, ah! settuplice ghiaccio
Insegna ad agognare nemici,
Persino nemici,
Da’, anzi concedi,
Crudelissimo nemico,
A me - te! --

Via!
Ecco anche lui fuggì,
Il mio ultimo e unico compagno,
Il mio grande nemico,
Il mio sconosciuto,
Il mio Iddio carnefice! -

O no! Torna indietro,


Con tutte le tue torture!
All’ultimo di tutti i solitari
Oh ritorna!
Tutti i torrenti delle mie lacrime corrono
Il loro corso verso di te!
E l’ultima fiamma del mio cuore -
Per te s’innalza ardente!
Oh torna indietro,
Mio Dio ignoto! Dolore mio! Mia ultima - felicità!194
Zarathustra non riesce a esorcizzare questi versi torturati e stupendi con la
sua goffa caverna, e nemmeno con l’invenzione forzosa dell’ultimo papa che
vaga nella foresta in cerca dell’ultimo devoto, rimpiangendo il proprio Dio
morto soffocato «per la sua compassione troppo grande»; nei Ditirambi di
Dioniso Nietzsche cercherà ancora di neutralizzare il testo con un’aggiunta
in cui Dioniso si rivolge ad Arianna, dicendole: «Io sono il tuo labirinto» 195
L’insistenza di questi tentativi denuncia la loro inanità. Il Dio sconosciuto
del mago, questo cacciatore che è «crudelissimo» è la preda indifesa che
rivela tutta la crudeltà dei cacciatori, il Dio sempre vivo nelle cui mani è
tremendo cadere, l’agnello sgozzato dall’uomo che trionfa e che giudica
nell’Apocalisse.
«Ciò che nessuno ha scorto», la «muta bellezza» che impensabilmente non
sfugge agli sguardi del suo adoratore perché finalmente sottratta al
transfert dei divinizzatori violenti, è il Dio delle vittime, il cui volto è
invisibile perché gli esseri umani, accecati come sono dalle maschere della
loro violenza, non lo possono vedere. Per vederlo, essi devono piegare il
ginocchio davanti a chi è stato umiliato, calpestato da tutti, devono
riconoscere che solo lì sta la colpa, che solo lì sta il riscatto.
Ma c’è anche chi si rifiuta di farlo, c’è anche chi si rifiuta di credere che
anche lui è perdonato, e pur di vedere questo Dio inaccessibile, pur di
stringerlo fra le braccia, si riduce a impazzire.

160
H. Melville, Moby Dick, cit., p. 586.
161
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 76.
162
Ivi, p. 125. Nella versione successiva dell’ed. Colli-Montinari il passo suona con la seguente lezione
congetturale: «Il 30 settembre grande vittoria; compimento della Trasvalutazione; ozio di un dio
lungo il Po» (F. NIETZSCHE, Il caso Wagner ecc., cit., pp. 365 e 571-72); l’ipotesi di una correzione
di Nietzsche eliminata da un’erronea ipercorrezione di Gast è ingegnosa, tuttavia non appare così
necessaria (il significato di fondo non cambia) e mi sembra banalizzare la demenziale identificazione
con Dio (non suona del tutto verosimile che il Nietzsche ormai delirante rinunci a questa ennesima
dichiarazione attestante la sua identità divina). In ogni caso, la versione da me mantenuta è stata
pensata dall'autore e resta significativa ai miei scopi.
163
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 195.
164
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 40.
165
Rispettivamente F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, cit., 11 [41], p. 233 (il passo
ritorna nei frammenti poetici postumi) e 16 [50], p. 292.
166
Lettera del 10 gennaio 1869 in F. NIETZSCHE, Epistolario 1850-1869, cit., p. 665; sintomatica
anche la chiusa, con cui Nietzsche cerca di esorcizzare le presenze diaboliche che popolavano la sua
solitudine: «Absit diabolus! Adsit amicissumus [sic] Erwinus!».
167
Rohde a Overbeck nella Cronologia (1885-1887) di F. NIETZSCHE, Al di là, cit., p. 214.
168
Abbozzo di lettera a Paul Rée e Lou Salomé verso il 20 dicembre 1882 in Triangolo di lettere, cit.
pp. 242-45.
169
A Rée, ultima settimana di dicembre 1882, e a Overbeck, il 25 dicembre 1882, Triangolo di lettere,
cit., pp. 245 e 247.
170
K. LOWITH, Nietzsche, cit., p. 163.
171
Lettera del 26 agosto 1883 in Triangolo di lettere, cit., p. 331 (cit. in H. DE LUBAC, Mistica, cit., p.
297).
172
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, cit., 5 [79], p. 208.
173
ivi, 1 [1], p. 3.
174
F. Nietzsche, Ecce homo, cit„ p. 32.
175
Ivi, p. 108.
176
Ivi, p. 61; F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., Parte IV, vol. II, p. 375: la poesia ritornerà
nei Ditirambi di Dioniso con significative varianti. La frase di Lutero è citata per la prima volta, con
un rovesciamento che cerca di essere rassicurante, nella lettera a Paul Rèe del luglio 1878: «Dio li
aiuti - io non posso fare diversamente» (Triangolo di lettere, cit., p. 39).
177
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 155.
178
F. NIETZSCHE, Opere, cit., vol. VI, tomo IV, Ditirambi di Dioniso e poesie postume (1882-1888),
tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 1970, pp. 33-37.
179
Questi avvoltoi erano già una presenza collettiva incombente sulla solitudine del filosofo negli
scritti del 1872-73 (vedi C.P. Janz, Il profeta, cit., p. 473).
180
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 21 [2]; 21 [3], p. 343.
181
H. DE Lubac, Il dramma, cit., pp. 103-05.
182
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 128.
183
T. Mann, Saggi, cit., p. 74.
184
Vedi su questo G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo, cit., cap. 12, pp. 251 ss.
185
T. Mann, Saggi, cit., p. 93.
186
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 146.
187
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., pp. 178-79.
188
Ivi, pp. 53-55. Il Dostoevskij con cui alcuni vorrebbero rendere innocuo l’“idiota” rivolto a Cristo
diventa un collegamento indimostrabile per Janz (Vita di Nietzsche, cit., vol. III, Il genio della
catastrofe (1889-1900), Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 30-31), ma proprio la coincidenza fra l’episodio
di Delitto e castigo e le testimonianze dei Torinesi (che certo non avevano allora in Dostoevskij una
delle loro letture più assidue), con l’elemento intermedio dei passi confrontabili del corpus
nietzschiano, avvalora la storicità dell’episodio e l’influenza della scena letteraria su Nietzsche. Sulle
testimonianze v. A. VERRECCHIA, La catastrofe, dt., pp. 211-16.
189
A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 212.
190
Matteo 12,31-32.
191
Ebrei 10,31, in riferimento a chi disprezza «lo Spirito della grazia» (10,29).
192
H. DE LUBAC, Mistica, cit., p. 298.
193
E NIETZSCHE, Opere, cit., vol. I, tomo I, Scritti giovanili 1856-1864, a c. di Μ. Carpitella, Adelphi,
Milano 1998, p. 388.
195
F. Nietzsche, COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA, cit., Parte IV, vol. II, pp. 307-08. Ivi, Parte IV, vol. II, p.
316; F. Nietzsche, Ditirambi, cit., p. 53.

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