Sei sulla pagina 1di 182

Dello stesso autore in edizione TEA:

Heidegger e il suo tempo Nietzsche


Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia
Rüdiger Safranski
Nietzsche
Biografia di un pensiero
Traduzione di Stefano Franchini
TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol
www.tealibri.it
Copyright © 2000 Hanser Verlag
Die italiensche Übersetzung ist durch die Vermittlung
der Verlagsagentur EULAMA zustande gekommen
© 2001 Longanesi & C., Milano
Edizione su licenza della Longanesi & C.
Titolo originale Nietzsche
Prima edizione Saggistica TEA settembre 2004 Seconda edizione Saggistica TEA ottobre 2008
NIETZSCHE
« Stare dalla mia parte non è assolutamente necessario e tanto meno auspicabile: al contrario, una
dose di curiosità, come di fronte a una creazione estranea, con un’ironica resistenza, mi parrebbe
una posizione incomparabilmente più intelligente nei miei confronti. »
Friedrich Nietzsche a Carl Fuchs, 29 luglio 1888
s
I. Due passioni: l’immenso e la musica. Come vivere quando la musica è finita? Tristezza post-
sirenica. Rinsavimento.
Tentativo e tentazione.
IL mondo vero è musica. La musica è l’immenso. Se la si ascolta (hört), si appartiene (gehört)
all’essere. In tal modo ne ha fatto esperienza Nietzsche. Per lui, essa era uno e tutto. Non avrebbe
mai dovuto smettere. Tuttavia, essa smette e perciò si ha il problema di come si può continuare a
vivere quando la musica è finita. Il 18 dicembre 1871 Nietzsche va da Basilea a Mannheim per
ascoltarvi la musica di Wagner, diretta dal compositore stesso. Ritornato a Basilea, il 21 dicembre
scrive all’amico Erwin Rohde: « Tutto il resto, tutto ciò che non si lascia cogliere in termini di
musica, mi dà a volte addirittura un senso di nausea e di ripugnanza. E quando sono ritornato dal
concerto di Mannheim ho provato davvero il senso di fastidio esasperato per la realtà del giorno di
chi ha vegliato tutta la notte: quella infatti non mi sembrava più affatto reale, bensì spettrale»
(E2:243).
Lontano dalla musica, il rientro nell’atmosfera della vita è un problema sul quale Nietzsche ha
riflettuto incessantemente. Vi è di certo una vita dopo la musica, ma si riesce a sopportarla? « Senza
musica la vita sarebbe un errore» (CI:29), scrisse una volta.
La musica dona attimi di « sentimento giusto » (W: 105) e si potrebbe dire che l’intera filosofia di
Nietzsche è il tentativo di tenersi in vita anche quando la musica è finita. Nietzsche vuole creare
musica, per quanto possibile, con lingua, pensieri e concetti. Ma, com’è ovvio, risulta qualcosa di
insufficiente. «Avrebbe dovuto cantare, quest”anima nuova’ - e non parlare! » (NT:7) scrive
Nietzsche
nella prefazione autocritica al libro sulla tragedia del 1872, redatta successivamente. E rimane
altresì una tristezza. Nei frammenti postumi della primavera del 1888 si trova il seguente appunto:
«Il fatto è ’che sono tanto triste’; il problema ’non so che cosa ciò significhi’... ’La favola di tempi
passati’ » (FP8/3:245). È sulle tracce di Heine e gli passa per la mente la Lorelei. Nietzsche ha udito
il canto delle sirene e ora percepisce il disagio d’una civiltà dove le sirene sono ammutolite e la
Lorelei fa la sua spettrale apparizione ormai soltanto come favola di tempi passati. La filosofia di
Nietzsche scaturisce dalla tristezza post-sirenica e vorrebbe quantomeno salvare lo spirito della
musica trasferendolo nella parola, un’eco del commiato e un accordo sul possibile ritorno della
musica, affinché «l’arco» della vita «non si spezzi» (W:101).
Da lungo tempo, com’è noto, Nietzsche trovava la piena felicità del godimento artistico nella
musica di Wagner. Dopo che egli per la prima volta, ancor prima dell’incontro personale con
Wagner, ebbe ascoltato l’ouverture ai Maestri cantori, scrisse il 27 ottobre 1868 a Rohde: « [...]
ogni fibra, ogni nervo vibra in me, e da tempo nulla mi aveva così lungamente rapito in estasi»
(El:639). La sensazione di rapimento, tuttavia, è ancora più forte durante il proprio improvvisare al
pianoforte, al quale poteva dedicarsi per ore, dimentico di sé e del mondo. Una scena, famosa e
famigerata, riportata dall’amico di gioventù Paul Deussen, ha a che fare con tale rapimento. « Un
giorno del febbraio 1865», secondo Deussen, «Nietzsche era andato da solo a Colonia, dove si era
fatto accompagnare da un fattorino nella visita delle cose più notevoli, e infine gli aveva chiesto di
condurlo in un ristorante. Ma quello lo portò in una casa di malaffare. ’Io mi vidi’ - così mi narrò
Nietzsche il giorno dopo - ’improvvisamente circondato da una mezza dozzina di figure in tulle e
lustrini, che mi guardavano speranzose. Per un po’ rimasi senza parola. Poi istintivamente mi buttai
su un pianoforte come l’unico oggetto animato in quella compagnia e accennai alcuni accordi.
Questi sciolsero il mio torpore e io guadagnai l’aria aperta’» (Janz l,120ss.).
La musica - stavolta sono soltanto alcuni accordi improvvisati - trionfa sulla voluttà. Concorda con
questo un appunto del 1877, in cui Nietzsche compila un registro delle cose secondo il grado di
piacere. In cima vi colloca l’improvvisazione musicale, seguita dalla musica wagneriana, e soltanto
due gradini più sotto compare la voluttà (FP4/2:407). Nel bordello di Colonia bastano alcuni
accordi per farlo evadere in un altrove. Con gli accordi inizia quello che nel migliore dei casi non
finisce più, il flusso dell’improvvisazione, nel quale ci si può far trascinare. Anche per questo
Nietzsche ammira la melodia infinita wagneriana, che si snoda come un’improvvisazione, che inizia
come se fosse iniziata già da un pezzo e che, quando termina, non è tuttavia mai giunta alla propria
conclusione. «La melodia infinita - si perde di vista la riva, ci si abbandona alle onde» (FP4/2:383).
Le «onde» che incessantemente giungono a riva, che portano e tirano con sé, che magari tirano giù
con sé e fanno affondare... esse sono per Nietzsche anche un’immagine del fondamento universale.
« Così vivono le onde - così viviamo noi, i dotati di volere! - non dico di più [...] come potrei
tradirvi? Giacché - statemi a sentire! - io conosco voi e il vostro segreto, conosco la vostra stirpe!
Sì, voi ed io apparteniamo a una sola stirpe! - Voi ed io abbiamo anzi un solo segreto! » (GS:224)
Uno di questi segreti è l’intima affinità fra l’onda, la musica e il grande gioco universale di morte e
divenire, crescita e trapasso, dominare ed essere dominar ti. La musica conduce nel cuore del
mondo... ma in modo che non vi si muore. Nietzsche, nel libro sulla tragedia, chiama una siffatta
esperienza estatica della musica 1’« estasi dello stato dionisiaco con il suo annientamento delle
barriere e dei limiti abituali dell’esistenza» (NT:55). Mentre perdura l'estasi, il mondo abituale
svanisce; quando esso entra nuovamente nella coscienza, viene percepito con «nausea». L’estatico
rinsavito cade in una «disposizione [...] negatrice della volontà» (NT:55) e assomiglia, secondo
Nietzsche, a un Amleto, lui pure disgustato dal mondo e che non sa più decidersi all’agire.
Talvolta, l’esperienza vissuta della musica è talmente forte da temere per il suo povero io che, di
fronte all’estasi pura nella musica, nell’«orgiasmo musicale» (NT: 139), minaccia di perire. Perciò è
necessario che « fra » la musica e l’ascoltatore dionisiacamente recettivo venga posto un medium
distanziatore: un mito di parola, immagine e azione scenica. Il mito così inteso « ci protegge dalla
musica» (NT: 139), che viene spinta in sottofondo, da dove ora, viceversa, conferisce alle azioni,
alle parole e alle immagini in primo piano un’intensità e un’importanza tali da consentire allo
spettatore di udire il tutto, sicché egli crede di sentire l’intimo abisso delle cose parlargli
distintamente (NT: 139). Difficilmente ci si può immaginare un uomo, afferma Nietzsche, che, per
esempio, davanti al terzo atto del Tristano e Isotta di Wagner, sia in grado di ascoltare, « senza
alcun sussidio di parole e di immagini, puramente come un immenso movimento sinfonico, senza
esalare l’ultimo respiro sotto la spasmodica tensione di tutte le ali dell’anima» (NT: 140). Chi ode
questa musica ha avvicinato il suo orecchio «per così dire al centro del cuore della volontà
universale » e soltanto gli accadimenti plastici in primo piano lo preservano dal perdere totalmente
la coscienza della sua esistenza individuale.
Qui, tuttavia, non è messo in campo troppo pathos? Certo, ma Nietzsche consente all’arte di essere
patetica. Nei suoi momenti di successo, l’arte dà sempre una totalità, perfino una totalità universale,
che si fa conoscere nella bellezza. Chi si abbandona all’impressione artistica può diventare un
patetico della risonanza universale. « Il patetico
lo sopportiamo soltanto nell’arte; l’uomo vivo dev’essere semplice e non troppo rumoroso»
(FP4/2:41 lss.; 1877). Un tale uomo semplice, per esempio, esercita la scienza senza il minimo
pathos ed è in grado di mostrare « come, senza alcun motivo, ci si sia innalzati a questa cima del
sentimento» (FP4/2:443; 1877). D’un tratto, il mondo del pathos ha tutto un altro aspetto. Le grandi
emozioni e passioni svelano le loro origini misere, e talvolta pure ridicole. Ciò vale anche per le alte
emozioni della musica, che si lasciano demistificare psicologicamente e fisiologicamente. La
musica come organo del profondo collegamento all’essere appare, da questa prospettiva, quale mera
funzione di processi organici. In tal modo, Nietzsche incalza il suo pathos con argomenti de-
patetizzanti e tenta esperimenti con un pensiero che schernisce le proprie passioni. L’uomo, spiega
Nietzsche, è un essere che ha saltato « la barriera animale di un’epoca determinata di fregola»
(FP4/2:446) e perciò è non solo occasionalmente, ma sempre, in cerca di piacere. Poiché tuttavia ci
sono poche fonti di piacere, non appena la disposizione dell’uomo al piacere continuo reclama, la
natura lo ha costretto sulla « strada dell’invenzione del piacere». L’uomo, l’animale dotato di
coscienza, con un orizzonte di passato e futuro, è di rado completamente occupato dal suo presente
e percepisce proprio perciò qualcosa che non è certo nota ad alcun animale, ossia... la noia.
Fuggendo la noia, questo strano essere cerca uno stimolo che, quando non viene trovato, deve
essere appunto inventato. L’uomo diventa un animale che gioca. Il gioco è un’invenzione che ha
qualcosa a che fare con le emozioni. Il gioco è l’arte dell’autostimolazione di emozioni, come la
musica, per esempio. La formula antropologico-fisiologica per il mistero dell’arte recita dunque: «
La fuga dalla noia genera le arti » (FP4/ 2:446).
In questa formulazione il pathos dell’arte è ora davvero sparito. Può essere triviale il cosiddetto
mistero dell’arte? L’estasi dell’entusiasmo artistico doveva davvero esaurirsi nell’essere un rifugio
di fronte al deserto povero di sollecitazioni della vita quotidiana? L’arte non viene con ciò ridotta a
mero valore d’intrattenimento? Nietzsche giocherella con questo modo di vedere de-mistificante e
de-pate-tizzante. Egli vuole profanare l’arte, il suo tempio, e raffreddare il suo amore, un
«autotrattamento antiromantico » (U2:5), col quale si deve mostrare come queste cose «appaiano,
quando siano messe a testa in giù» (Ul:6). Qui non si tratta soltanto del capovolgimento della
gerarchia dei valori morali, ma anche del cambiamento del modo di vedere, da metafisico a fisico-
fisiologico.
Tuttavia, anche la « noia» ha il suo mistero e riceve con Nietzsche il suo peculiare pathos. La noia,
di fronte alla quale l’arte concede un rifugio, diventa abisso spalancato dell’essere, qualcosa di
sconcertante. Nella noia si esperisce l’attimo come vuoto trascorrere del tempo. Quello che accade
esternamente non ha importanza, e si sperimenta anche se stessi come qualcosa di irrilevante. Le
attività della vita perdono la loro tensione intenzionale, s’afflosciano in se stesse come un soufflé
estratto dal forno troppo presto. Le routines, le abitudini, che altrimenti danno sostegno, appaiono
d’un tratto ciò che sono: costruzioni ausiliarie. Anche la spettrale messa in scena della noia rivela un
momento di vero sentimento. Non riusciamo a cominciare nulla con noi stessi, e di conseguenza è il
nulla che comincia qualcosa con noi. Al di sopra di questo sottosuolo del nulla l’arte compie la sua
opera di autostimolazione. Ciò costituisce, di nuovo, un’impresa pressoché eroica, poiché bisogna
sostenere chi rischia di cadere. In questa prospettiva, l’arte è un tendere l’arco per non diventare
schiavi dell’abbandono nichilistico. L’arte aiuta a vivere perché altrimenti la vita non saprebbe
cavarsela davanti alla calca di sensazioni d’insensatezza.
La formula dell’arte quale «fuga dalla noia» è importantissima, supposto che si intenda la noia
come una sorta di esperienza del nulla. Con ciò, tuttavia, si compie nuovamente quel cambiamento
dalla fisiologia dell’autostimolazione alla metafisica dell 'horror vacui. Nietzsche è un virtuoso di
questi passaggi al limite tra fisica e metafisica. Egli capisce di conferire ai suoi disincanti fisiologici
un nuovo incanto metafisico. Non c’è niente in Nietzsche che, in conclusione, non sia di nuovo
immenso.
Tutto può diventare immenso (la propria vita, il conoscere, il mondo), ma è la musica che si accorda
a tal punto con l’immenso da renderlo sopportabile nonostante tutto. E per questo l’immenso rimane
un tema di Nietzsche per tutta la vita, il suo tentativo e la sua tentazione.
Un fanciullo scrive. Il dividuum.
Tuoni e lampi: trovare e inventare biografie. Prometeo e altri. Primo esperimento con la
filosofia: Fato e storia. Oceano d’idee e nostalgia.
L’IMMENSITÀ che per prima si fa pressante agli occhi del giovane Nietzsche è la propria vita. Durante
il suo periodo scolastico e di studio, tra il 1858 e il 1868, Nietzsche compone nove schizzi
autobiografici, da cui deriva quasi sempre un romanzo di formazione, secondo il modello: come
divenni quello che sono. Successivamente, passerà da un genere epico a uno più drammatico e
legherà i testi riguardanti la propria vita al gesto della proclamazione, poiché
intanto la sua vita gli apparirà esemplare. Inizialmente,
egli scrive della sua vita, in seguito scrive con l’intera sua vita, e infine scriverà per la sua vita.
Chi inizia così presto a scrivere della sua vita né è semplicemente narciso né deve percepirsi in
modo particolarmente problematico. Al contrario, tali costellazioni sono sfavorevoli, perché chi è
imbrogliato nei problemi, oppure chi è narciso, difetta per lo più della necessaria distanza nei
confronti di se stesso. I testi autoreferenziali di Nietzsche presuppongono la capacità di esperirsi
non solo come « individuum », come qualcosa di indivisibile, bensì come «dividuum» (Ul:61), come
qualcosa di divisibile. Una lunga tradizione parla dell' individuum come di un nucleo indivisibile
dell’uomo. Già molto presto, tuttavia, Nietzsche ha compiuto degli esperimenti con la scissione di
quel nucleo dell’individuo. Scrive sul «sé» colui al quale la distinzione tra « Io » e « sé » fa in
generale pensare a qualcosa. Non è sempre e per tutti così. Devono esserci in gioco curiosità,
eccedenza di pensiero, amore e odio di sé, devono darsi rotture, euforie e disperazioni che facilitino
e provochino l’autofrazionamento dell’infrazionabile, la dividualizzazione dell’individuo. Friedrich
Nietzsche, in ogni caso, si sperimenta abbastanza frazionato per un’autocomprensione altamente
sottile, che poi utilizza, come annuncia in seguito, per la plasmazione di sé (Selbstgestaltung). «Noi,
invece, vogliamo essere i poeti della nostra vita» (GS:216). L’evoluzione di Nietzsche mostrerà che
il «poeta» della sua vita reclamerà i diritti d’autore sulla propria opera. I tratti caratteristici della sua
natura saranno la sua opera; egli vuole essere grato solo a se stesso di ciò che è e di come si è
costruito. Formulerà così il suo imperativo della plasmazione di sé: « Dovresti diventare padrone di
te stesso, padrone anche delle tue virtù. Prima erano esse le tue padrone; ma esse devono essere solo
tuoi strumenti accanto ad altri strumenti. Dovresti acquistare potere sul tuo prò e contro e imparare
a saperli staccare e riattaccare, secondo il tuo scopo superiore. Dovresti imparare a comprendere ciò
che appartiene alla prospettiva in ogni giudizio di valore» (Ul:9, trad. mod.). Nietzsche non si
accontenterà dell’«innocenza del divenire», e nemmeno l'amor fati, l’amore per il proprio destino,
rende l’uomo autore della propria storia personale. È richiesto un pensiero interveniente,
progettante, costruttivo, un pensiero addirittura « smodato ed eccessivo ». In tal modo, Nietzsche si
presenta come un atleta della verità e del presente spirituale. Tutti i moti dell’animo, aspirazioni e
azioni, vengono esposti alla luce abbagliante della considerazione. Il suo pensiero diventa la più
tesa percezione di sé. Egli vorrà guardare anche il suo stesso pensiero, in cui per lui si svela un
universo riccamente sfumato di secondi fini, cause, autoillusioni e trucchi di ogni tipo.
Già molto presto, Nietzsche diventa un maestro nello svelare gli altarini di se stesso. Nel 1867,
durante il servizio militare, annota: « È una grande capacità poter considerare la propria condizione
con occhio artistico e avere, persino fra i dolori e le sofferenze che ci colgono, nel disagio e
in situazioni simili, quello sguardo della Gorgone che istantaneamente pietrifica tutto in un’opera
d’arte: quello sguardo dal regno in cui non v’è sofferenza» (J3,343).
Si può prendere le distanze dalla propria vita a tal punto da farla irrigidire in un’immagine. Essa, in
questo caso, ha sicuramente qualche caratteristica di un’opera, ma l’inconveniente è che vi manca la
vita. Per questo, Nietzsche tenta col metodo epico. «Un’altra grande capacità è quella di riconoscere
tutto ciò che ci coglie come un elemento formativo e di sfruttarlo per sé » (J3,343).
Il giovane Nietzsche intraprende i suoi primi schizzi autobiografici come compimento narrativo
della vita in una storia di formazione. Lo affascina come la vita vissuta si lasci trasformare in un
libro. Egli conclude la sua prima autobiografia del 1858 sospirando: «Mi sia dato di scrivere ancora
parecchi di questi volumetti! » (MV:39)
Il giovane Nietzsche scrive del piacere che trova nello scrivere. Dev’essere stato così già con i
giochi infantili. Egli narra di come annotasse immediatamente ogni accadimento del gioco in un
quadernetto che poi dava da leggere ai suoi compagni. La relazione scritta del gioco era quasi più
importante del gioco stesso, che diventava motivo e materia per poter poi scrivere sull’accaduto.
L’esperienza vissuta al presente viene vista dalla prospettiva della futura narrazione. In tal modo, si
fissa la vita che scorre e si fa risplendere la contemporaneità alla luce del significato futuro. Anche a
questo metodo, dare una forma alla vita, Nietzsche rimarrà fedele. Non si accontenterà di produrre
frasi citabili, ma organizzerà la propria vita in modo tale che essa diventi citabile sostrato per il suo
pensiero. Tutti riflettono sulla propria vita, ma Nietzsche vuole condurre la sua in modo da ricevere
da essa qualcosa su cui pensare. Vita come disposizione di esperimenti per il pensiero, saggistica
come forma di vita.
Nietzsche pensa, espressamente e con enfasi, in terza persona singolare, benché sia stato lui stesso a
scoprire, al fondo del pensare, una peculiare anonimità. Che si dica « io penso », lo ritiene una
seduzione della grammatica. Il predicato «pensare» richiede, come ogni predicato, un soggetto.
Allora si dichiara l’io il soggetto e lo si rende con ciò, in un batter d’occhio, l’attore. In effetti, però,
è l’atto del pensare quello tramite il quale, in generale, viene suscitata la coscienza dell’io. Per il
pensare ci vuole prima l’atto e poi l’attore (ABM:22). Sebbene dunque Nietzsche riesca senz’altro a
pensare un pensare senza lo, non c’è alcun filosofo (con l’esclusione forse di Montaigne), che abbia
detto « Io » così spesso come lui. Il motivo di ciò è che Nietzsche sapeva di essere Nietzsche. Si
percepiva come esempio. Per lui, valeva la pena di essere se stesso. Credeva altresì che per noi
sarebbe valsa la pena di essere partecipi della sua persona. Compiva il proprio lavoro su di sé nella
consapevolezza di farlo per l’intero genere umano. Nella fase tarda, erompe questa orgogliosa
autocoscienza: « Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome
il ricordo di qualcosa di enorme - una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda
collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso,
consacrato» (EH: 127).
Quando Nietzsche scrive su se stesso, persegue dunque, nel contempo e uno dopo l’altro, vari
obiettivi. Anzitutto, vuole strappare al tempo fuggevole alcune immagini del ricordo che durino e
diano sostegno. I suoi amici e parenti devono partecipare a quest’opera di rammemorazione: egli
vuole comunicarla loro specialmente quando essi, in qualche modo, hanno una connessione con la
scena ricordata. Egli scrive per questi lettori, ma soprattutto scrive per se stesso come futuro lettore
dei suoi scritti. Vuole procurare il materiale per la futura retrospettiva, la quale porti epicamente a
perfezione il suo amor proprio. Si sente ancora nel trambusto degli eventi, ma in seguito, quando
legge gli appunti, ne può forse derivare una storia significativa. Ha preso di mira il significato.
Nella tenebra dell’attimo vissuto deve cadere una luce a partire dal futuro conferimento di senso.
Egli vuole esperire già adesso, nell’attimo vissuto, un riflesso della futura comprensione. Questo
metodo è sì sottile, ma si tratta in linea di massima di tecniche di autotematizzazione e di
autodescrizione che adopera quasi ogni autore di diario dotato di qualche talento. Con Nietzsche,
tuttavia, bisognerà aggiungere che il suo vivere, il suo patire e il suo pensare hanno un carattere
esemplare, e che vale la pena di partecipare a essi «per tutti e per nessuno» (Z:l). Egli si crederà
qualcuno che, al posto di un altro, si carica, come Atlante, i problemi del mondo (o meglio:
dell’essere-nel-mondo) sulle spalle, e inoltre vorrà essere in grado di fare anche l’acrobazia di
giocare e danzare con questo pesante fardello. Vorrà complicarsi le cose e, contemporaneamente,
presentarsi come un artista dell'alleggerimento. E tutto questo sarà possibile soltanto perché la
lingua lo supporta. Essa è ancora più rapida e mobile dei pensieri. La sua lingua vivace lo trascina
con sé e con crescente ammirazione egli osserva ciò che essa fa di lui. Così, la propria persona,
l'individuum dividuale, diventa per lui il teatro della storia universale interiore, e coloro che la
indagano devono diventare, con lui, «avventurieri e circumnavigatori di quel mondo interno che si
chiama ’uomo’» (Ul:10). Questo è in definitiva l’uomo nel suo tempo, e soltanto perché l’orizzonte
temporale di Nietzsche comprende anche il nostro le sue esplorazioni possono essere per noi ancora
delle scoperte.
Ma ritorniamo al Nietzsche quattordicenne che, nel tetro soggiorno del parterre di casa a
Naumburg, riempie con la sua calligrafia da studente modello pagina dopo pagina, e ivi narra a sé la
sua vita. Comincia come un vecchio che ricorda ciò ch’è trascorso da lungo tempo. Con sgomento
osserva che molte cose sono scomparse dalla sua memoria e che la vita vissuta gli si presenta come
un «sogno confuso» (MV:8). Il fanciullo desidererebbe trionfare sul tempo, raccogliendo dal suo
scorrere frammenti di ricordo e creando con essi un’opera simile a un «quadro». Tuttavia, non vuole
soltanto recuperare il passato, bensì anche conquistare il futuro, poiché con piacere pensa a come
leggerà, in futuro, i suoi appunti. Egli si immagina come futuro lettore di se stesso. «E' troppo bello
rievocare al proprio spirito i primi anni della nostra vita, e riconoscervi l’evoluzione della nostra
anima» (MV:39). Sa che nell’attimo vissuto sfugge a se stesso e che si scoprirà solo in retrospettiva.
Solo allora comprenderà ciò che
lo ha determinato e che inconsciamente lo ha guidato. Crede ancora che ci sia in gioco « la guida
onnipossente del Signore» (MV:8). Giacché non possono darsi cieche casualità, egli tenta di
scoprire connessioni sensate. Il padre improvvisava volentieri al pianoforte, che è anche la sua
passione. La morte prematura dell’amato padre lo ha lasciato «in solitudine», ma poiché egli sta
bene con se stesso, non si affligge quando rimane da solo. Sa di essere troppo serio per la sua età,
ma come non esserlo, avendo dovuto infatti superare la morte del padre, del fratello minore, di una
zia e della nonna? Sente il distacco dal pacifico mondo parrocchiale di Ròcken, allorché la famiglia
si trasferisce a Naumburg dopo la morte del padre, come un evento che ha spaccato la sua vita in
due metà. Come si può non diventare seri in seguito a ciò? Egli è fiero della sua serietà, anche
quando i compagni di scuola di tanto in tanto lo canzonano, soprannominandolo « il piccolo pastore
», come quando una volta, in atteggiamento composto, come richiesto dalla regola scolastica, arriva
a passo lento nella piazza del mercato... sotto il diluvio. Egli, comunque, prende la sua serietà come
qualcosa di qualificante. Un’autodescrizione del proprio carattere dell’ottobre 1862 s’interrompe
con le parole: « Serio, facile a indulgere agli estremi, starei per dire passionalmente severo nella
molteplicità dei rapporti, nella gioia e nel dolore, perfino nel gioco» (MV:129). Egli riesce a vedersi
dal di fuori e in seguito, diciannovenne, trova l’immagine: «Sono una pianta nata vicino al
camposanto... » Non vuole però essere buono e pio, ma sogna un destino che lo scompigli e gli dia
un’impronta selvaggia. Perciò va in cerca dell’« aperto tempio della natura » (MV: 15) e in esso si
sente particolarmente bene quando ci sono tuoni e lampi e dal cielo scrosciano gli acquazzoni. La
sua fantasia tratta volentieri di tuoni e di lampi e in generale del « selvaggiamente sublime». Nel
luglio 1861 Nietzsche scrive a Schulpforta un saggio sul re degli Ostrogoti, Ermanarico, un testo
che egli considera, ancora da studente, come una delle sue opere fino ad allora più riuscite. In essa
si delizia addirittura nelle immagini di ribellione delle potenze della natura. « Come una folgore»,
scrive, ogni parola è scagliata nelle saghe germaniche, «possente» e «greve di significato». Queste
sono interpretazioni del testo, ma sono pure sogni di uno scolaro in pubertà, il quale osserva che con
la lingua si può penetrare nella vita e si augura che anche le proprie parole abbiano quelle forze
magiche dalla cui potenza «l’ascoltatore si sente sopraffatto» (SG1:164). Voluttuosamente,
Nietzsche cita un verso dall’epopea: «su salme sediamo, di chi abbiamo combattuto / e abbattuto
come aquile sul ramo» (SG1:161; trad. mod.).
Le morti in famiglia vengono dettagliatamente rappresentate, talvolta nel tono della storia della
passione, come nel suo primo tentativo autobiografico in cui, nella presentazione delle circostanze
di come egli apprese della morte della zia, si dice: « Con una certa ansia rimasi ad attendere le
notizie. Ma, udito l’inizio, uscii e piansi amaramente» (MV:28). Presto, cercherà di disabituarsi al
tono biblico, anche nella sua produzione lirica, che spesso commenta, critica e suddivide in fasi di
creazione. Prima, scrive nel settembre 1858, le sue poesie avevano pensieri profondi, ma erano
rigide; allora ha cercato il tono leggero e l’abbellimento, a spese dei pensieri. Il 2 febbraio 1858, il
giorno in cui muore la nonna, inizia il suo terzo periodo, nel quale gli riesce finalmente di sposare lo
slancio poetico alla ricchezza di pensiero, «il vigore alla grazia» (MV:35). Egli si prefigge di
scrivere ogni sera una poesia in questo nuovo tono e porta a termine un indice delle sue opere
liriche. Qui si nota che qualcuno si sta preparando a creare una vita fatta di parole alate.
Non solo l’opera, ma anche la vita invoca ordine e suddivisione. Per il giovane autore essa si
articola, nel 1864, poco prima del passaggio all’università, in tre sezioni. Il primo periodo termina
con il quinto anno di vita, quando muore il padre e la famiglia si trasferisce da Ròcken a Naumburg.
Nei primi tentativi autobiografici, Nietzsche raccontava qualcosa di questi giorni d’infanzia. Ora,
però, dubita del fatto che siano state davvero esperienze proprie e non, invece, solo
un’interpretazione di ciò che gli era stato raccontato. Poiché non può recuperare la propria
prospettiva d’esperienza, preferisce tacere su questo periodo della sua vita. Per il periodo
successivo, sottolinea particolarmente la circostanza che «la morte di un padre così straordinario »
lo ha portato sotto l’esclusiva tutela di donne e gli ha fatto dolorosamente mancare la sorveglianza
maschile. In tal modo, sarebbe giunto al punto che «una curiosità, forse anche la sete di sapere»
(MV:144), lo avrebbe accostato «nel più grande disordine alle più disparate materie». Nell’età
compresa tra il nono e il quindicesimo anno di vita, egli avrebbe aspirato a una « cultura universale
» e con lo stesso « ardore quasi dottrinario » si sarebbe inoltre dedicato ai giochi infantili e ne
avrebbe tenuto accuratamente il registro. Anche le « orribili poesie » di questo periodo avrebbero
visto la luce con il medesimo «ardore». Il Nietzsche ventenne lascia intravedere di saper bene
interpretare questi tratti fondamentali, ardenti ed eccentrici insieme, delle sue imprese spirituali. Un
talento esuberante si assume in modo maldestro e saccente l’autodisciplina, poiché a lui nessuna
autorità patema la impone. Ciò, tuttavia, muta con la seconda svolta esistenziale, quand’egli viene
accettato nell’intemato di Schulpforta. Qui, gli insegnanti badano che questo « vagabondare senza
meta » abbia una fíne. Un’evoluzione simile, dal vagabondare sconfinato alla disciplina, si compie
anche per quel che concerne la sua passione, destatasi precocemente, per la musica e la
composizione. A Schulpforta si impegna, dapprima sostenuto dagli insegnanti e in seguito con le
proprie forze, a «bilanciare, grazie allo studio approfondito della teoria della composizione, l’effetto
banalizzante dell”improvvisazione’ » (MV:144ss.).
Se, per quel che concerne la musica, si vieta talvolta la fantasia, nello scrivere, sempre che non si
stia trattando della sua vita, lascia però libero corso alle fantasie relative ai suoi desideri, e si pensa
attraverso figure nelle quali riesce a conoscere e mettere alla prova la propria passione. Nell’aprile
del 1859, per esempio, abbozza un dramma prometeico in versi liberi. Prometeo, il titano, non vuole
permettere che gli esseri umani finiscano sotto il dominio di Zeus. Egli li vuole liberi, proprio
com’egli stesso è libero. Consapevolmente, Prometeo ricorda come fosse stato lui a insediare Zeus
sul trono. Già il giovane Nietzsche non venera un gran che gli dei, bensì coloro che creano gli dei.
Lo schizzo ha termine con un coro degli esseri umani, i quali annunciano a tutto il mondo che essi si
assoggetteranno soltanto a dei che siano privi di colpa; poiché gli dei gravati da colpa devono
morire come gli uomini e non possono perciò dispensare alcuna consolazione: «Come fragili
canne / sprofondan nell'Orco / quando intorno li avvolgono / tempeste di morte» (SG1:67). Già il
giovane Nietzsche è un autore riflessivo e perciò dota subito la sua opera di un commento. Perché,
egli chiede, proprio Prometeo? « Non si vorranno rinnovare i tempi di un Eschilo, o forse non
esistono più uomini, dal momento che ci tocca rivedere in scena dei titani? » (SG1:68)
Effettivamente, il giovane Nietzsche non si libera dei titani. Presenta, poche settimane più tardi, due
audaci cacciatori di camosci. In alta quota su un monte della Svizzera, finiscono in un brutto
temporale, ma non tornano sui propri passi, «il terribile pericolo conferì loro forze immani» (J1,87).
Essi, come anche Prometeo, fanno una brutta fine. Vige ancora la morale secondo cui, quando la
superbia galoppa, la vergogna siede in groppa, ma di certo si nota già come il giovane autore
apprezzi piuttosto il coraggio che il realismo d’una siffatta morale. Una sera a Schulpforta, legge
I masnadieri di Schiller con grande eccitazione, perché anche qui scopre una « lotta di titani »,
stavolta però « contro la religione e la virtù» (SG1:101). Per ora, tuttavia, si sente più vicino non a
coloro che combattono una religione, bensì a coloro che ne fondano una. In una trattazione
sull'Infanzia dei popoli, il diciassettenne si immerge nella genealogia delle religioni universali.
Esse, così scrive, sarebbero « dovute a uomini dai pensieri profondi, i quali, retti dalle vibrazioni
della loro sbrigliata immaginazione, si spacciano per inviati delle somme divinità» (J1,239).
Dopo questa storia della religione e dei fondatori di religione, schizzata nella primavera del 1861,
Nietzsche scrive immediatamente una nuova versione della sua storia personale. Essendosi appena
occupato dell’« evoluzione morale e spirituale» dell’umanità, deve ora pensare e descrivere da
principio la propria evoluzione. Ma stavolta la riformattazione dall’umanità all’uomo non riuscirà
appieno perché, già dopo poche frasi, il percorso di vita finirà su un terreno filosofico-religioso. Se
l’autobiografia del 1859 si è conclusa con la formula devota: « Ma in ogni cosa Iddio mi ha guidato
sicuro, come un padre il suo debole fanciullino » (MV:39), nel maggio del 1861, questo dio che
dirige viene sottoposto a un’analisi approfondita. La ragione del «potere dispensatore» dei destini
(MV:97) è impenetrabile allo sguardo, scrive. Ci sono troppe ingiustizie, troppa malvagità nel
mondo e anche le casualità hanno un ruolo grande e talvolta negativo. Sta, a fondamento del tutto,
una potenza cieca o forse perfino malvagia? Non può essere, perché l’origine e l’essenza del mondo
non possono trovarsi più in profondità dello spirito umano,
il quale cerca senso e significato ed è palesemente a favore del bene. Complessivamente, dunque, il
mondo non può essere insensato o addirittura dominato da un principio malvagio. Il fondamento del
mondo non può essere più arbitrario dello spirito umano che lo vuole fondare. « Il caso non esiste;
tutto quanto accade ha un significato » (MV:98). Il testo, iniziato come un’«autobiografia», si
interrompe con queste frasi. Poco più tardi, Nietzsche ricomincia ancora una volta. Ma la forzata
ricerca di « significato » lo scoraggia, stavolta apertamente, poiché di nuovo interrompe lo schizzo.
« Ciò che so circa i primi anni della mia vita è troppo insignificante per raccontarlo » (MV:99).
Subito dopo, un terzo tentativo. La narrazione è centrata attorno alla morte del padre e al distacco
da Röcken. Egli presenta l’evento come la cacciata dal paradiso. «Fu questo il primo fatale periodo
al cui termine tutta la mia vita prese un altro corso» (MV:100). Gli è rimasta una malinconia, è
scesa su di lui una « certa tranquillità taciturna » (MV:101), una sensazione di estraneità rispetto al
mondo al di là del paradiso, la sensazione di uno smarrimento che va in cerca di figure a cui si sente
affine spiritualmente oppure che lo incoraggiano alla padronanza di sé. Egli si occupa di Hölderlin,
Lord Byron e Napoleone III.
Nietzsche deve difendere il suo Hölderlin contro gli insegnanti che non vogliono saperne nulla dei
suoi «pensieri farneticanti » (MV:105). Egli elogia la «musica» della sua prosa, « suoni delicati e
struggenti », simili a canti funebri, ma poi di nuovo trionfanti fieramente in « divina sublimità »
(MV: 107). Per lui, Hölderlin è come un re in un regno non ancora scoperto e Nietzsche si sente
come un suo apostolo che porta la luce nelle tenebre, ma che le tenebre non hanno ancora colto.
Lord Byron non ha più bisogno di alcun intercessore. Per caratterizzarlo, il giovane Nietzsche
utilizza qui per la prima volta quell’espressione che farà ancora carriera, chiamandolo infatti un «
superuomo dominatore degli spiriti» (SG1:178; trad. mod.). Perché, agli occhi di Nietzsche, Lord
Byron diviene un tale superuomo? Lord Byron ha condotto la sua vita in modo analogo a come si
narra una storia. Egli è diventato, in senso eminente, poeta della sua vita e ha trasformato gli
uomini, nel suo cerchio magico, davvero come fossero delle figure romanzesche. Nietzsche ammira
in Lord Byron questa messa in scena della vita e la sua trasformazione in un’opera d’arte. Il gio
vane Nietzsche, che vorrebbe attribuire significato alla propria vita sul palcoscenico interiore dei
diari, ammira quei geni che sono potuti diventare interpreti del proprio sé, autori della propria vita
non solo verso l’interno, ma anche per il pubblico. Avendo condotto la sua vita in modo tale che gli
altri potessero ricavarne delle storie, Lord Byron fu gravido di storia (geschichtsträchtig). E poi ci
sono ancora le figure che sono diventate padrone di storia (geschichtsmächtig). Una di esse, sulla
quale il sedicenne scrisse una trattazione, è Napoleone III. Nel saggio del 1862, il giovane
Nietzsche sviluppa l’idea che Napoleone sia stato in grado, con sicurezza sonnambulica, di
percepire i desideri e le fantasie del popolo e di corrispondere a esse, sicché « i suoi più arditi colpi
di stato [dovettero] apparire come la volontà dell’intera nazione» (J2,24). Non è molto chiaro, in
questo saggio, se non si intenda qui piuttosto il primo Napoleone. Comunque, Nietzsche afferma
che anche Napoleone III ha prodotto sui dominati un tale effetto, come se egli fosse il fato della
storia scelto da loro stessi. Per quanto concerne queste figure, nelle quali il giovane Nietzsche si
immedesima volentieri, si tratta dunque dell’occulta potenza dell’impotenza* in Hölderlin, della
potenza artistica della vita in Lord Byron, e della magia della potenza politica per quanto riguarda
Napoleone III. La potenza, in tutti e tre i casi, è autoaffermazione nella sfera d’azione del fato.
Fato e storia... Con questo titolo Nietzsche, nelle vacanze pasquali del 1862, redige una trattazione
che percepisce talmente audace da averne paura. E' come se si inoltrasse nella vastità
dell’«immenso oceano delle idee» (MV:109), senza bussola né guida, il che è una follia e una
rovina riservata ai « cervelli immaturi ». Egli non si annovera fra questi, egli vuole consolidare i
risultati delle sue
« giovanili meditazioni » a tal punto da non voler naufragare «nelle tempeste». Nietzsche crea
un’atmosfera altamente drammatica su un palcoscenico immaginario, prima di rivelare i suoi
pensieri che ruotano attorno alla domanda: come cambierebbe l’immagine del mondo se non ci
fossero alcun dio, alcuna immortalità, alcuno spirito santo e alcuna ispirazione divina, se la fede di
millenni si poggiasse su fantasticherie, se per così tanto tempo l’umanità si fosse «lasciata indurre in
errore da una chimera»? (MV: 110) Quale realtà rimane dopo la scomparsa dei fantasmi religiosi?
Lo studente di Schulpforta trepida di coraggio quando pone questa domanda e si dà la risposta:
rimane la natura nel senso delle scienze naturali, un universo di regolarità; e rimane la storia come
susseguirsi di eventi, ove causalità e casualità operano senza un fíne complessivo riconoscibile.
Infatti, dio era la summa di ciò che è dotato di un senso e di un fine, e quando esso scompare
sbiadiscono pure il senso e il fine nella natura e nella storia. Poi, però, si delinea l’alternativa: o si
osserva che un siffatto senso complessivo non è per niente necessario alla vita, oppure non lo si
cerca più nella trascendenza, dove l’immaginazione per così tanto tempo ha ipotizzato di trovarlo.
Al senso e al fine Nietzsche non vuole rinunciare, per cui la prima alternativa è per lui fuori
discussione. Non è pronto, tuttavia, ad accettare senso e fine come già dati, ma li reputa piuttosto a
noi assegnati. Non punta sull’accettazione fideistica, ma sulla produzione entusiastica. Nel suo
saggio, il giovane Nietzsche esplora per la prima volta la volontà di accrescimento della vita come
una sorta di trascendimento immanente. Non è in gioco una sensazione devota in cerca di un aldilà,
bensì una passione per la plasmazione creativa della vita. Ma come può affermarsi questa passione
contro l’immagine del mondo delle scienze moderne d’allora, in cui c’è soltanto determinazione e
causalità? Il giovane Nietzsche «risolve» questo problema in modo alquanto semplice, ossia così
come lo aveva già «risolto» anche la filosofia idealistica d’inizio secolo, che l’alunno di Schulpforta
appena conosceva. Riflette infatti sulla circostanza che la ragione speculativa sia libera almeno al
punto che le si pone il problema della libertà in generale. Già soltanto nella domanda « come è
possibile la libertà » si manifesta una « volontà libera » che appartiene certo all’universo della
determinazione, ma che è abbastanza libera da poter prendere le distanze, nella conoscenza, da
questo intero universo. A questa coscienza liberamente posta il mondo appare come un grande
Altro, cioè come l’universo della determinazione. Nietzsche lo chiama il « fato ». La libera
coscienza sperimenta questo mondo come resistenza e in esso ottiene, combattendo, il suo margine
d’azione, sperimentandosi così come «volontà libera». Tuttavia, questa volontà è libera soltanto
nell’autopercezione della coscienza. In seguito, Nietzsche chiamerà quest’uomo con margine
d’azione 1’«animale non stabilmente determinato» che cerca stabili determinazioni e poi le chiama
«verità»... « verità » intese come morale, che vincolano l’agire, e « verità» intese come conoscenza
di regolarità nella natura e nella storia che danno orientamento nell’immenso. Queste prospettive
sulla verità non sono ovviamente ancora sviluppate in questo geniale saggio giovanile, ma si
delineeranno a partire da esso. Il fato, spiega il giovane Nietzsche, è l’elemento stabile, e la libertà è
la peculiare apertura e motilità nel mezzo di questo mondo determinato. Egli chiama la volontà
libera il «potenziamento supremo del fato » (MV: 114) il quale si realizza nel suo contrario, ossia
nel medium della libertà del volere. Nietzsche avrebbe potuto citare Kant, che ancora non
conosceva, il quale aveva parlato della «causalità mediante libertà». Nietzsche vorrebbe evitare che
il mondo si scindesse in un dualismo di determinazione e libertà; dovrebbe essere mantenuta invece,
in qualche modo, la « unitarietà ». Essa è mantenuta nei rapporti polari di tensione. Solamente la
libertà può sperimentare il fato come potenza cogente e solo l’esperienza del fato è in grado di
incitare la « volontà libera » alla vitalità e all’accrescimento. All’opposto si trova l’unità. Nietzsche
si oppone espressamente all’interpretazione del fato come divina provvidenza, che è, si dice, ben
intenzionata nei riguardi degli uomini. No, il fato è privo di volto, esso non si rapporta agli uomini,
è quella cieca connessione a cui noi strappiamo un senso soltanto mediante il nostro stesso fare.
Egli rigetta la fede nella buona provvidenza come un « modo degradante » della « rassegnazione
nella volontà divina », la quale non osa « far fronte con risolutezza alla sorte» (MV:115). Il fato,
come lo intende Nietzsche, è la contingenza, la casualità assurda e la necessità. Al termine, però, vi
è certamente una sorta di fine, sebbene il processo universale non vi sia indirizzato
intenzionalmente. Quando il giovane Nietzsche scrisse la sua trattazione, l’evoluzionismo era
nell’aria (il darwinismo aveva già intrapreso la sua marcia trionfale) e perciò egli compie degli
esperimenti con l’idea secondo cui la storia naturale culmina nell’uomo e in esso si apre il teatro
della coscienza dove la vita diviene essa stessa teatro visibile. La metafora del gioco affascinò
Nietzsche. «Cala il sipario», scrive, «e l’uomo ritrova se stesso come un bimbo che gioca con i
mondi, come un bimbo che alla luce del mattino si risveglia e ridendo cancella dalla fronte i sogni
paurosi» (MV:113). I «sogni paurosi» si riferiscono all’idea che non si vive, bensì si viene vissuti,
che non si agisce consapevolmente, bensì che tutto scaturisce da un « agire inconscio ». Se però una
volta ci si desta a coscienza, allora non si può essere sicuri se si è davvero svegli oppure se è
soltanto mutato il sogno e se la presunta libertà non si dimostri invece, nuovamente, come
sonnambulico pregiudizio onirico. « Ho scoperto per me », scriverà in seguito Nietzsche, «che
l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e l’intero passato di ogni essere
sensibile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, a odiare, a trarre le sue conclusioni
- mi sono destato di colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per essere cosciente che appunto sto
sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il
sonnambulo deve continuare a sognare per non piombare a terra» (GS:99).
Questo successivo pensiero sviluppa il primo sguardo nel mysterium della libertà intesa come « il
potenziamento supremo del fato ». Ma in che cosa si risolve, per il giovane Nietzsche, la totalità? Se
il rapporto di libertà e fato è costituito in maniera tale che dipende dal singolo il modo in cui collega
le due sfere nella propria vita, allora ogni individuo diventa un teatro del processo universale. Ogni
singolo è un caso esemplare per il collegamento di fato e libertà. I due concetti si confondono,
scrive Nietzsche, «nell’idea dell’individualità » (MV:117). Il vero individuo si trova tra un dio, che
dovrebbe essere pensato come assoluta libertà, e un « automa », che dovrebbe essere il prodotto del
principio fatalistico. L’individuo può non piegarsi al dio né alla natura, né può dileguarsi e
nemmeno reificarsi. La falsa spiritualità e la falsa naturalezza... questi sono i due pericoli da cui già
si guarda il giovane Nietzsche.
Con tali pensieri, il ginnasiale diciassettenne si è creato un’imponente messa in scena interiore per
la difficile e solenne opera di plasmazione di sé. Durante le vacanze pasquali del 1862, Nietzsche
elucubra su dio e il mondo, naviga nel suo « immenso oceano delle idee » e ha il presentimento di
dove potrebbe indirizzarsi il viaggio: bisognerebbe diventare un individuo che plasma se stesso e
che, allargando la sua sfera, sia in grado magari di accrescersi. Plasmazione di sé in misura
crescente... di questo si tratta. Tuttavia, in una virata conclusiva del suo ragionamento, vuole poi
riconciliare nuovamente l’idea della plasmazione di sé con il cristianesimo, interpretandolo
precisamente per questo scopo. Cosa significa infatti che dio è diventato uomo in Cristo? Significa
la certezza che vale la pena essere un uomo. Ma uomini non lo siamo ancora, lo diventiamo
soltanto. Perciò occorre riconoscere « che noi siamo responsabili unicamente verso noi stessi, e che
il rimprovero di aver sbagliato l’indirizzo dato alla propria vita vale solo per noi e non per qualche
altra potenza superiore» (MV: 117). Non si ha bisogno dell’illusione di un « mondo ultraterreno »,
poiché il compito di diventare un uomo è la cosa autenticamente immensa.
Per quel che riguarda la realtà, lo studente di Pforta deve muoversi ancora entro confini ristretti. A
tal riguardo, c’è il severo regolamento della vita d’internato, durante le ferie le visite a casa della
madre e della sorella a Naumburg, talvolta un viaggio dai parenti a Pobles, brevi gite nel fine
settimana, per esempio a Bad Kòsen, dove beve troppa birra e da cui fa ritorno ebbro, cosa che per
alcuni giorni lo tormenterà di rimorsi. Nietzsche amplia il margine d’azione, ancora ristretto, della
realtà con l’aiuto del palcoscenico che l’immaginazione gli dischiude. Qui, prova delle parti.
Comincia per esempio un romanzo esistenziale che gli permette di raccontare di un cinico nichilista,
una folle figura che ricorda da lontano Lord Byron o il William Lovell di Tieck. Questo narratore ha
il problema che per lui non ci sono più misteri, « mi conosco a fondo [...] e ora - come un ronzino
legato al verricello - trascino straccamente la fune che si chiama fato » (MV: 119). Gaudente in
fantasie puberali e da dongiovanni, il cattivo Euforione racconta come egli abbia reso « presto
grassa » una gracile suora e reso il suo grasso fratello «magro, come un cadavere», aggiunge il
narratore, affinché l’effetto venga pure rimarcato. Questo abbozzo di romanzo termina dopo due
pagine di manoscritto. Nietzsche volle creare una figura che soffrisse di troppa autotrasparenza. Ma
non è il suo caso. Il fascino del proprio autoriferimento è che egli rimane un mistero per se stesso.
Ed è fermamente deciso che debba restare tale. Egli cerca la visione su ciò che è sterminato e perciò
la musica ha per lui la priorità. Alcuni giorni dopo l’interruzione del progetto di romanzo osserva: «
La vita dei nostri sentimenti è oscura soprattutto a noi stessi » e per questo si dovrebbe ascoltare la
musica, perché essa prima fa risuonare le corde della nostra vita interiore e, anche se in seguito non
riusciamo di certo
a conoscerla, possiamo però «sentire soltanto vibrare» (SG 1:240) la sua essenza.
L’uomo è creativo soltanto quando rimane enigmatico a se stesso. In seguito, Nietzsche si definirà
un « amante degli enigmi, che non è disposto a cedere a buon mercato il carattere enigmatico delle
cose» (FP8/1:131). Ma la propria enigmaticità non gli riserva sempre delle gioie. Nel settembre
1863 scrive alla madre e alla sorella. «Se per qualche minuto mi è concesso di pensare a quello che
voglio, cerco allora le parole per una melodia che ho già e una melodia per le parole che ho già,
mentre entrambe le cose che ho non armonizzano, se messe insieme, sebbene nate dalla stessa
anima. Ma questo è il mio destino! » (El:253ss.)
La notte di san Silvestro del 1864, diventato frattanto studente a Bonn, rovista in manoscritti e
lettere, si prepara un punch bollente e suona poi al pianoforte il requiem dal Manfred di Schumann.
Ora è a suo agio e ha un gran desiderio, così recita l’appunto nel diario, «di abbandonare ogni
interesse estraneo e di pensare soltanto a me stesso » (MV:146). In merito alla sera di san Silvestro
scrive a casa raccontando: « In tali momenti si formulano proponimenti decisivi [...] Per qualche ora
ci si sente come elevati al di sopra del tempo, ed è quasi come se si uscisse fuori dal nostro proprio
sviluppo. Si assicura e si autentica il proprio passato, e si riceve coraggio e decisione per proseguire
nella propria strada» (E 1:330). Il racconto alla madre e alla sorella è piuttosto convenzionale,
ritagliato sulla loro pre-comprensione, e non corrisponde del tutto ai delicati eventi di quella notte di
san Silvestro, per come vengono confidati al diario. Qui, presenta una sorta di scena spettrale. Siede
nell’angolo del divano della sua stanza, la testa poggiata alla mano, e lascia scorrere davanti al suo
occhio spirituale delle scene dell’anno precedente. Sprofondato nel passato, improvvisamente
diviene di nuovo cosciente del suo presente. Là sul letto vede giacere qualcuno, che sottovoce
geme, rantola. Un moribondo! Si sente circon-
dato dalle ombre, esse bisbigliano e sussurrano al moribondo. E d’un tratto capisce che lì muore
l’anno vecchio. Pochi istanti dopo il letto è vuoto. Toma a farsi chiaro, le pareti della camera
indietreggiano e parla una voce: «O pazzi e zimbelli del tempo, che non esiste se non nelle vostre
teste! Io vi domando, cosa avete fatto? Se volete essere, se volete avere ciò che sperate, ciò che
aspettate, allora fate[lo]» (MV:146ss.). Nietzsche presenta questa visione nel suo diario e la
interpreta immediatamente: la figura rantolante sul letto è il tempo personificato, che col suo morire
rigetta il singolo a se stesso. Non il tempo, bensì la propria volontà creativa trasforma e sviluppa la
persona. Non ci si può abbandonare al tempo oggettivo, si deve allestire da soli il lavoro per la
plasmazione del proprio sé.
Note
« Die verborgene Macht der Ohnmacht » indica la potenza celata nel deliquio, nello stato
d’incoscienza, nel venir meno dei sensi. (N.d.T.)
3. Autoanalisi. Dieta filologica. L’esperienza vissuta di Schopenhauer. Il pensiero come
superamento di sé. La fìsica trasfigurata e il genio. Dubbi sulla filologia. La volontà di stile.
Primo incontro con Wagner.
AL giovane Nietzsche, che ha già appuntato nel diario alcune autobiografie e varie riflessioni su di
sé, non potevano sfuggire i problemi di una siffatta attenzione autoreferenziale. Nel 1868, con il
titolo «Auto-osservazione », annota la seguente frase: « Essa inganna. / Conosci te stesso. /
Nell’azione non nella meditazione / [...] L’osservazione ostacola l’energia: essa corrode e sgretola. /
L’istinto è la cosa migliore ». Si arresta, esamina ancora una volta lo scritto. E vero? L’osservazione
di sé è effettivamente soltanto d’ostacolo, corrosiva? Egli osserva l’osservazione di sé e osserva che
essa lo ha pure aiutato. «L’osservazione di sé stessi è l’arma migliore contro gli influssi esterni»,
scrive (MV:180). Con l’aiuto dell’osservazione di sé, poteva dividere ciò che è proprio da ciò che è
estraneo, poteva distinguere tra ciò che egli stesso voleva e ciò che gli altri volevano da lui. Ma
questa netta divisione non sempre riesce, poiché all’enigma del proprio sé pertiene il non sapere
esattamente ciò che si vuole. Come si scopre il proprio volere? La conoscenza decisiva di se stessi
riesce forse soltanto nella decisione e non prima? Questo si chiede Nietzsche all’inizio del 1869,
allorché viene a sapere della sua nomina a Basilea ed esamina la sua evoluzione sino a quel
momento, al fine di capire come comportarsi nei confronti di questa chiamata. Per il futuro, deve
legarsi al mestiere di filologo classico. Ma come è arrivato alla filologia classica? Era una « barocca
capricciosità » del destino esteriore? Ha avuto insegnanti di filologia esemplari, stimolanti,
l’atmosfera di Pforta, il suo talento, il suo zelo, la sua voglia di combinazioni e congetture... ma
tutto questo non basta per comprendere la propria evoluzione. Poco prima del trasferimento a
Basilea trova la seguente formula della comprensione di sé. Scrive: «La convinzione di non poter
arrivare a toccare il fondo delle cose nell’universale mi spinse fra le braccia del rigore scientifico. E
poi l’anelito a cercar scampo dai repentini mutamenti sentimentali delle inclinazioni artistiche nel
porto dell’oggettività » (MV: 181).
L’autoanalisi gli fa riconoscere che non una coercizione esterna, non la prospettiva di una carriera e
della sicurezza professionale, ma nemmeno la passione per la filologia hanno determinato il suo
corso formativo, bensì il fatto di aver chiaramente scelto la filologia come strumento disciplinare,
contro l’allettamento esercitato dairimmenso orizzonte della conoscenza e della passione artistica.
La « mano infallibilmente brancolante dell’istinto» (MV:181) non lo ha evidentemente ancora
lasciato uscire in mare aperto, bensì gli ha consigliato di accontentarsi, gettando uno sguardo nella
vastità ma restando a riva. La sua sensibilità
lo mette in guardia contro la propria pretesa, e così è pronto a piegarsi a coercizioni scelte
autonomamente.
Dapprima si era piegato ai desideri della madre che lo voleva pastore. Doveva emulare il padre
defunto. Ma già dopo il primo semestre a Bonn interrompe lo studio della teologia e si dedica
esclusivamente alla filologia classica. Col cristianesimo avrà a che fare ancora a lungo, ma i dogmi
cristiani della resurrezione, della grazia e della giustificazione per mezzo della fede non hanno più
per lui alcuna forza vincolante. Nella primavera del 1865, quando ritorna a Naumburg durante le
vacanze tra i due semestri, la madre è sconvolta perché suo figlio si rifiuta platealmente di andare
alla sacra cena. S’arriva a un violento scontro con la madre, che infine scoppia in lacrime e viene
consolata da una zia, con l’argomentazione che per tutti i grandi uomini di dio sarebbero esistiti
dubbi e contestazioni. Ella si consola per il momento, ma pretende da suo figlio, per il futuro,
indulgente ritegno. Di dubbi religiosi, tra loro, non se ne deve neppure parlare. La madre scrive al
fratello Edmund: « Il mio buon vecchio Fritz, malgrado le nostre divergenze d’opinione, è un uomo
nobile, che interpreta in senso vero la vita o meglio l’epoca e ha interesse soltanto per quanto c’è di
più elevato e valido e disprezza ogni volgarità, eppure spesso sono in ansia per questo mio amato
figliolo. Ma Iddio vede nei cuori » (Janz 1,129). Per ora, la madre non vuole sapere con troppa
esattezza che aspetto ha il cuore del suo figliuolo apostata, il quale si lagna della limitazione
impostagli alla comunicazione di «fatti della vita esteriore» e nella lettera del 3 maggio 1865 prega:
« Scegliamo dunque altri argomenti per le nostre lettere » (E 1:348). Di fronte alla sorella è franco.
L’ 11 giugno 1865 le fa una relazione provvisoria sul suo modo di pensare nelle cose religiose e di
fede. È più comodo, scrive, credere a ciò che ci consola. E' più difficile inseguire la verità. Infatti, il
vero non deve stare in unione col bello e col buono. L’amico della verità non può cercare la quiete,
la pace e la felicità, perché la verità potrebbe essere la « più spaventosa e odiosa» (El:358) e perciò
le vie dell’umanità si separeranno sulla questione « se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la
felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga» (El:359). Come
studente di filologia classica, Nietzsche compie innanzitutto una rinuncia della ricerca di grandi
verità e si accontenta degli spiccioli della sua disciplina specialistica, con successo. Alla vita
dell’anima fa bene, perché si accorge di «quale pacificazione ed elevazione l’uomo possa trovare in
un lavoro continuato e impegnativo » (E 1:379). E anche il riconoscimento esterno è considerevole.
L’allora preminente filologo classico di Lipsia Ritschl lo sostiene, lo avvicina presto a lavori da
pubblicare, gli fa scrivere saggi per riviste specialistiche e premia una delle sue trattazioni a un
concorso. Per giunta, Ritschl non trattiene la lode, dicendogli di non aver mai avuto uno studente
così dotato. Il bimbo prodigio della filologia classica però rimane prudente. « E guarda con quanta
facilità », scrive il 30 agosto 1865 al suo amico Mushacke, «si può venire influenzati da uomini
come Ritschl, e trascinati addirittura su binari lontani dalla propria natura» (El:379).
Non dalla filologia, ma dalla filosofia si lascerà trascinare dal momento in cui avrà in mano l’opera
di Schopenhauer. Nell’ottobre del 1865, da un antiquario di Lipsia, scopre, compra e subito legge i
due volumi del Mondo come volontà e rappresentazione e in seguito a ciò, come riporta in una delle
sue autobiografie, brancola per qualche tempo come in estasi: ivi legge che il mondo ordinato dalla
ragione, dal senso storico e dalla morale non è il mondo autentico. Alle spalle o sotto di esso ribolle
la vita vera: la volontà. Nelle lettere e negli appunti degli anni di Lipsia, tra il 1866 e la primavera
del 1868, si manifesta un atteggiamento di possessione, si potrebbe quasi chiamarla una
conversione. Che l’essenza del mondo, la sua sostanza, non sia qualcosa di razionale, di logico, ma
un impulso oscuro, vitale, gli risulta chiaro da subito. La cosa più importante, però, è che egli si
sente confermato, nella sua passione per la musica, dall’idea schopenhaueriana della redenzione
mediante l’arte. Che vi sia in generale un entusiasmo per l’arte, il giovane Nietzsche lo interpreta
come un trionfo della natura spirituale dell’uomo sulla finitezza di natura della sua volontà. Se un
tale trionfo è possibile, allora ci si può anche porre come obiettivo, afferma Nietzsche, la
«santificazione e trasformazione dell’intera sostanza dell’uomo» (MV:163). Si deve ottenere potere
sulla propria vita, il che si dimostra anche riuscendo a vietarsi qualcosa. Nietzsche si coarta, per
quattordici giorni di seguito, ad andare sempre a letto alle due di notte e ad alzarsi nuovamente alle
sei del mattino. Si prescrive una severa dieta, si crea il proprio chiostro e ci vive dentro come
asceta. A sua madre incute terrore, allorché le lascia pervenire gelide notizie dal suo laboratorio
d’asceta. Bisogna decidersi, scrive il 5 novembre 1865, se si vuole vivere stupidi e contenti oppure
saggi e pervasi da spirito di sacrifìcio. O si è «schiavi della vita» oppure si è signori di essa, cosa
che riesce soltanto se ci si disfa dei «beni della vita». Solo allora essa è sopportabile per colui che
non vuole rimanere imprigionato nell'animalità, «giacché il suo peso diventa sempre più lieve e
nessun legame ci tiene stretti a lei. Essa è sopportabile, perché possiamo liberarcene senza provare
dolore» (El:395). Come scrive Nietzsche a Rohde nell’ottobre del 1868, è «il soffio etico, il
profumo faustiano, la croce, la morte, la tomba» (El:629) ciò che lo affascina in Schopenhauer,
dove «la croce, la morte, la tomba» non lo deprimono affatto, bensì hanno l’effetto di un elisir
vitale. Nietzsche viene stimolato in modo addirittura sportivo da quella sinistra visione del mondo.
La accoglie in sé per verificare quanto possa sopportarla senza perdere la voglia di vivere.
Terminologicamente, nelle prime notazioni nell’ambito delle letture di Schopenhauer, non si parla
certo ancora della «volontà di potenza», ma egli compie già degli esperimenti con questa volontà di
potenza, perché la negazione schopenhaueriana della volontà non è per lui negazione, ma
accresciuta affermazione, intesa quale vittoria della volontà spirituale sulla volontà naturale.
Le potenze vitali, quelle interiori e quelle esterne, viste dalla prospettiva schopenhaueriana gli
sembrano sublimi. Il 7 aprile 1866 Nietzsche scrive sull’impressione di un temporale: « Quanto
diversi il lampo, la bufera, la grandine, forze libere, senza etica! Come sono felici, come sono forti -
volontà pura, non inquinata dall'intelletto! » (El:422) Adesso, tratta diversamente anche gli uomini
della sua cerchia. Da quando Schopenhauer gli ha tolto dagli occhi « le bende dell'ottimismo », lo
sguardo gli si è fatto più acuto e la vita è diventata per lui «più interessante, sebbene più brutta»,
scrive l'11 luglio 1866 a Mushacke (E 1:441). Quando l’amico Carl von Gersdorff è completamente
disperato per la morte dell’ammirato fratello, Nietzsche gli scrive il 16 gennaio 1867 : « E' questo
un momento in cui
tu puoi accertare di persona quanto c’è di vero nella dottrina di Schopenhauer. Se il quarto libro
della sua opera principale ora ti farà l’impressione di essere sgradevole, deprimente e fastidioso; se
non avrà la forza di risollevarti e di farti uscire dal dolore esteriore e violento dei primi momenti,
per condurti a quello stato d’animo, melanconico, ma beato, che ci afferra anche all’ascolto di una
musica eletta - quello stato d’animo nel quale vediamo come caderci di dosso le nostre spoglie
mortali -, se così fosse, non voglio aver più nulla a che fare nemmeno io con questa filosofia.
Soltanto chi ha il cuore colmo di dolore può e deve dire una parola decisiva in merito a queste cose;
noi altri, immersi nel fluire degli eventi e della vita, e soltanto bramosi di quell’annullamento della
volontà, come di un’isola beata: noi non siamo in grado di giudicare se la consolazione che viene da
una tale filosofia basti anche per i momenti di profondo cordoglio » (E1:500). La consolazione di
Schopenhauer ha effetto sull’amico e così entrambi, Friedrich Nietzsche e Carl von Gersdorff,
possono rimanere uniti nello spirito del filosofo.
Nella trattazione su Schopenhauer, scritta mezzo decennio più tardi, Nietzsche afferma chiaramente
che Schopenhauer è stato per lui non soltanto un maestro, bensì soprattutto un «educatore». Qui,
definisce il vero educatore come «liberatore» (SE:6ss.), che aiuta una «giovane anima » a scoprire «
la legge fondamentale » del sé autentico.
Il liberatore è anche colui che desta; e quanto fosse pronto a essere destato e ne avesse bisogno il
giovane Nietzsche al tempo del suo incontro con l’opera di Schopenhauer, egli lo scrive nel 1872
nella quinta delle sue conferenze, Sull ’avvenire delle nostre scuole. Lo studente, così riassume
Nietzsche la propria esperienza, vive apparentemente libero e indipendente, e appare a se stesso
come in un sogno, e crede di poter volare, ma si sente tuttavia trattenuto
è
da inspiegabili impedimenti. Si accorge « di non poter guidare se stesso, di non potere aiutare se
stesso ». In lui crescono certamente «orgogliose e nobili decisioni», ma manca loro la forza di
imporsi. In tal modo, si immerge « senza speranze nel mondo quotidiano e nel lavoro quotidiano»,
davanti a cui rabbrividisce dopo un istante: non vuole affondare così prematuramente in una
«ristretta e misera specializzazione ». Ma proprio questo dovrebbe essere il suo destino, rimanendo
nella «mancanza di una guida verso la cultura» (ANS:120). Per Nietzsche, Schopenhauer è stato
una tale «guida», dalla quale scaturì quell’effetto che egli si aspettava da un «vero filosofo», ossia
che gli si «potesse obbedire [...] perché di lui mi sarei fidato più che di me stesso» (SE:8). Tale
fiducia non deve significare un’adesione alle dottrine nel dettaglio. Per lui è più importante la
credibilità personale che il contenuto sostanziale della dottrina. Per questo, la fiducia verso
Schopenhauer viene conservata anche dopo che, a una seconda e critica lettura, si siano delineati
alcuni dubbi e alcune obiezioni.
Questa seconda lettura è stata influenzata da un’altra grande esperienza di lettura di questi anni: la
Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange, un tentativo, allora efficacissimo, di collegare
uno all’altro il pensiero materialistico e quello idealistico. Tramite Lange, Nietzsche conobbe la
critica della conoscenza di Kant, il materialismo antico e moderno, il darwinismo e i lineamenti
delle scienze della natura contemporanee e ora, con un’attenzione acuita, scoprì alcuni punti di
rottura teoretici nel sistema di Schopenhauer. Non si dovrebbe fare alcuna affermazione, egli
osserva, sull’inconoscibile cosa in sé, nemmeno quella secondo cui tutti i predicati del mondo
fenomenico (come spazio, tempo e causalità) dovrebbero essere sottratti a questa cosa in sé.
L’inconoscibile non può essere re-interpretato, diventando il negativo del conoscibile, perché anche
con la logica degli opposti vengono immesse erroneamente, nell’indeterminabile, determinazioni
del mondo conoscibile. In nessun caso, poi, si potrebbe interpretare la cosa in sé come volontà, il
che sarebbe un’affermazione fin troppo determinata sull’essenza indeterminabile del mondo. Che la
volontà sia una potenza vitale elementare, forse persino quella primaria, risulta per lui di certo
molto chiaro, ma critica che si lasci occupare al volere quel posto categoriale che Kant tenne
sgombro per la cosa in sé.
Questa critica neo-kantiana a Schopenhauer, che Nietzsche sviluppa riallacciandosi a Lange, non
cambia tuttavia in nulla il fatto che egli rimanga d’accordo con due idee fondamentali della filosofia
schopenhaueriana; in primo luogo, con l’idea per cui il mondo, secondo la sua natura interna, non è
qualcosa di razionale e spirituale, bensì anelito e oscuro impulso, dinamico e assurdo, se misurato
con la scala della nostra ragione.
La seconda idea fondamentale, alla quale Nietzsche continua ad attenersi, è quella possibilità,
descritta da Schopenhauer con il nome di negazione del volere, di una conoscenza trascendente. In
gioco, qui, non c’è alcuna trascendenza in senso religioso, alcun dio ultraterreno, ma dev’essere
possibile un abbandono che superi l’usuale comportamento egoistico. Un divenire liberi dalla
potenza del volere, un processo confinante col miracolo, che fu descritto anche da Schopenhauer
come una sorta di estasi. In questa mistica della negazione non era tanto il no ad affascinare
Nietzsche, bensì la forza d’un volere che si rivolge contro se stesso, dunque contro i suoi consueti
istinti. Più tardi, nella Terza inattuale su Schopenhauer (dalla quale, in questo contesto, è lecito
citare, poiché Nietzsche stesso ha chiarito che le formulazioni del 1874 risalgono a idee del periodo
studentesco), Nietzsche definirà questo accrescimento sovrano del volere fino al punto in cui esso si
volge contro se stesso come l’emancipazione dall’« animalità». Essa riesce a quei « non-più-animali
» che sono «filosofi, artisti e santi» (SE:50), nei quali «l’io è interamente fuso e la sua [del santo]
vita sofferente non è più, o quasi più, sentita individualmente, bensì come un sentimento di
eguaglianza, di comunanza, e di unità di tutti gli esseri viventi: del santo nel quale ha luogo quel
miracolo della metamorfosi che non è mai còlto dal giuoco del divenire, quel finale, supremo
divenir uomo verso cui aspira e urge tutta la natura, per la sua redenzione da se
stessa» (SE:52ss.).
In seguito, Nietzsche interpreterà questa inversione del volere come ascesi e come trionfo di un
volere che vuole piuttosto il nulla che il non volere. Nietzsche intende questo « nulla », che qui è
voluto, come negazione degli atteggiamenti utili e d’ausilio alla vita, fissati nell’affermazione di sé.
Invece della brama di vivere, l’esaurimento; invece del dominio, la dedizione; invece della
delimitazione, lo sconfinamento; invece dell’individuo, l'unio mystica. Nietzsche si collega a
Schopenhauer esattamente laddove la filosofia di quest’ultimo sospinge verso una vita mutata.
Schopenhauer, com’è noto, ha soltanto richiamato l’attenzione sull’illuminazione e sulla grande
mutazione. Né fu un santo né divenne il Buddha di Francoforte, ma come lui stesso riconobbe,
condusse « soltanto » fino alla filosofia e all’amore per l’arte. La filosofia e l’arte si trovavano per
Schopenhauer a metà della strada verso la redenzione, esse realizzano una distanza dal mondo
attraverso la contemplazione. Si tratta insomma di un atteggiamento estetico, e dunque la filosofia
di Schopenhauer è una metafisica della presa di distanza estetica, e in questo senso Nietzsche
ricorre a essa per le proprie visioni. A differenza della metafìsica tradizionale, l’aspetto sgravante
della metafisica estetica di Schopenhauer non si trova nel contenuto di ciò che qui viene scoperto
come « essenza » dietro il mondo fenomenico. Questa conoscenza dell’essenza, nella metafisica
tradizionale, giunge alla bontà fondativa del mondo, scopre i fondamenti buoni. In Schopenhauer,
invece, il contenuto essenziale del mondo non è un fondamento buono, bensì un abisso, la volontà
oscura, l’essere straziante, il cuore delle tenebre. « Prova ad essere, per una volta sola,
completamente natura... non lo si regge», recita un appunto di Schopenhauer. Lo sgravio non si
trova dunque nel «cosa» dell’essenza scoperta, bensì nell’atto della conoscenza che prende le
distanze, ossia nel «come». Questa distanza estetica dal mondo significa: guardare al mondo e
«nella maniera più assoluta, non esservi attivamente coinvolto». Questa presa di distanza estetica
dischiude un luogo della trascendenza che deve rimanere vuoto. Né volere né dover-essere, ma
soltanto un essere che è diventato completamente visione, « occhio del mondo ».
Nietzsche chiama questo punto d’Archimede della semplificazione del mondo schopenhaueriana la
«physis trasfigurata» (SE:30). Quando Nietzsche conia quest’espressione, ha appena sviluppato la
sua teoria sulle potenze elementari della vita, del dionisiaco e dell’apollineo. Potremo perciò
nuovamente riconoscere, nella «physis trasfigurata », la sua rappresentazione della natura dionisiaca
domata e purificata apollineamente. Diversamente da Schopenhauer, Nietzsche è più fortemente
attratto dalla natura apollinea, vorrà avvicinarsi maggiormente all’abisso, perché ipotizza che lì
dentro vi siano ancora seducenti misteri e perché ritiene di non soffrire di vertigini. Ma questa
differenza, per il momento, non modifica ancora in nulla la sua disponibilità a prendere esempio da
Schopenhauer.
In che cosa consiste esattamente questa esemplarità? Essa consiste per Nietzsche nel gesto,
perfettamente sicuro di sé e imperioso, di questo filosofo che, contro lo spirito del suo tempo,
pronuncia il suo verdetto e la sua condanna come « giudice della vita » e con la sua filosofia della
negazione si presenta, nel contempo, come « riformatore della vita» (SE:30). Schopenhauer,
dunque, ha intrapreso qualcosa che in seguito Nietzsche chiamerà la «trasvalutazione dei valori ».
Contro quali valori dominanti ha sollevato obiezioni? Nietzsche descrive il proprio presente quando
ritrae quel mondo che Schopenhauer voleva condannare e superare. Questo mondo, così afferma
Nietzsche, è abitato da uomini che pensano a sé con una furia e un’esclusività «con cui mai degli
uomini hanno pensato a sé, essi edificano e piantano per il loro giorno, e la caccia alla felicità non
sarà mai più grande di quando essa deve essere còlta dall’oggi al domani: perché dopodomani forse
non ci sarà mai più tempo di cacciare. Noi viviamo l’epoca degli atomi, del caos atomistico »
(SE:36). Ma chi erigerà nuovamente 1’«immagine dell’uomo» in quella «rivoluzione atomistica »
che ci cala nell’« animalità » o nella «rigida meccanicità» (SE:37)?
Nietzsche prende in considerazione tre di quelle immagini che potrebbero rammentare agli uomini
le loro migliori possibilità: l’uomo di Rousseau, l’uomo di Goethe e, infine, l’uomo di
Schopenhauer. Rousseau punta sulla riconciliazione con la natura e sulla naturalizzazione della
civiltà. L’uomo goetheano è contemplativo e si rappacifica, con saggia rassegnazione e stile
squisito, con le condizioni della vita. L’uomo schopenhaueriano, da ultimo, ha scoperto che tutti gli
ordinamenti dell’uomo sono istituiti in modo che non venga percepito il tratto fondamentale della
vita, tragico e assurdo. La vita usuale è distrazione. Benché lo possa gettare nella disperazione,
l’uomo di Schopenhauer pretende di sollevare il velo di Maia, prendendo su di sé il « dolore
volontario della veridicità » che gli serve « per uccidere la sua volontà personale e per preparare
quel completo rovesciamento e quella completa conversione del suo essere, nel cui raggiungimento
sta il senso vero e proprio della vita» (SE:40). Nietzsche chiama ciò una «vita eroica» (SE:42). Egli
non conosceva ancora quella lettera confidenziale di Schopenhauer a Goethe, nella quale il filosofo
si espresse esattamente in quel senso « eroico ». Il passo recita: « Il coraggio di non tenere alcuna
domanda nel cuore è quello che rende filosofo. Questi deve rassomigliare all’Edipo di Sofocle, il
quale, cercando lumi sul proprio orribile destino, continua incessantemente a indagare, persino
quando già sospetta che si delineerà per lui, a partire dalle risposte, la cosa più sconvolgente ». In
effetti, Schopenhauer stesso si presentava in modo ugualmente eroico, per come Nietzsche lo
conobbe
e considerò quando lo definì, nel proprio saggio del 1874, un «genio».
In che cosa consiste ciò che contrassegna il genio? La risposta di Nietzsche recita: un genio in
filosofia è un pensatore che stabilisce nuovamente il valore dell’esistenza, sono [i geni] « legislatori
per la misura, la moneta e il peso delle cose» (SE:29). Per il giovane Nietzsche, la filosofia è
un’impresa che interviene potentemente nella vita. Essa non è soltanto una rappresentazione
meditata e riflessiva della vita, ma opera una modificazione di essa, è già questa modificazione.
Pensiero è azione. Tuttavia, ciò non vale per ogni pensiero e per ogni pensatore. Devono sommarsi
un particolare carisma del pensatore e una forza vitalizzante di ciò che viene pensato, affinché le
verità possano essere non soltanto scoperte, ma anche rese vere. Un decennio più tardi, in Umano,
troppo umano, Nietzsche chiamerà quei filosofi che riescono a rendere vero il loro pensiero i
«tiranni dello spirito» (Ul:183ss.) e li troverà, nella maniera più autentica, nell’antica Grecia.
Parmenide, Empedocle, Eraclito, Platone, tutti costoro volevano giungere «con un unico balzo al
centro di tutto l’essere» (Ul:184). Non bisogna farsi ingannare dalle catene argomentative, talvolta
aggrovigliate e lunghe. Questi «tiranni » non sono pervenuti alle loro verità per tali vie, esse sono
soltanto dimostrazioni supplementari, intimidazioni ridondanti ed eccessi logici. Esse sono eventi
pre e post-liminari, mentre gli eroi della filosofia, dopo il balzo nella verità, volevano osare
effettivamente il balzo nel pubblico e pronunciare le loro parole potenti, che avrebbero dovuto
indurre alcuni uomini, oppure una società intera, a vedere, esperire e condurre la vita diversamente
dal solito. Tuttavia, il tempo per siffatti tiranni è passato, adesso vale il «vangelo della tartaruga»
(Ul:185). Le «verità» non sono più acciuffate nel balzo e, ormai, non sono nemmeno più imposte
d’imperio agli uomini. La filosofia ha perduto la volontà di potenza e trionfa una generazione che,
nel frattempo, elabora minuziosamente, filologicamente e storicamente, le grandi vetuste «verità».
Cosi si presenta la situazione al giovane Nietzsche, il quale come filologo classico ha a che fare con
le grandi azioni filosofiche dell’antichità, nel momento in cui esperisce, con Schopenhauer,
l’insperato ritorno di uno di tali «tiranni dello spirito». L’esperienza di Schopenhauer ha delle
conseguenze per il lavoro filologico. « È un pensiero terribile», scrive Nietzsche alla fine del 1867
in un brogliaccio, « sapere occupato un gran numero di cervelli mediocri con cose davvero gravide
d’influsso » (J3,320). Progetta un saggio su Democrito e sulla «storia degli studi letterari
nell’antichità e nell’epoca moderna», in cui, come scrive a Rohde il 1° febbraio 1868, vorrebbe dire
«un mucchio di amare verità ai filologi» (E 1:554), per esempio quella che noi abbiamo ricevuto «
tutti i concetti chiarificatori » soltanto da pochi « uomini di genio » e che questo «elemento
creativo» deriva da uomini che, per l’appunto, non hanno svolto studi filologici e storici. Essi stessi
hanno posto qualcosa nel mondo, e non commentato, compilato, spiegato, ordinato e classificato
altri autori. I primi affermano e si affermano, i secondi, i filologi e gli storici, elaborano
minuziosamente ciò che è grande, perché sono «privi della scintilla creativa» (E 1:554).
In quest’autunno del 1867, si risveglia in Nietzsche l’esigenza di uscire dalla schiera dei
commentatori e compilatori e di diventare lui stesso un autore creativo, benché ancora nel campo
della filologia. Nei suoi appunti, sfoga il proprio astio contro la routine dell’occupazione filologica.
Bisogna insomma piantarla di frugare nel « ripostiglio » della tradizione, «bisogna piantarla di
ruminare» (J3,337); la filologia dovrebbe riconoscere che la sua riserva di oggetti davvero
interessanti si esaurirà e che, con un paio di « grandi pensieri » del passato, occorre creare qualcosa
di nuovo e di futuribile: « La cosa migliore che si possa fare è una nuova e consapevole creazione
poetica di spiriti, eventi, caratteri» (J3,336).
Nietzsche non si spinge ancora tanto in là da potersi considerare un genio. Retrospettivamente,
però, affermerà che la riflessione Schopenhauer come educatore avrebbe meritato, già allora, il
titolo di Nietzsche come educatore. Nel 1867 non ci pensa ancora, ma essere soltanto filologo è per
lui troppo poco. Egli possiede un chiaro presentimento della propria qualità di scrittore. Perciò gli
cadono le «bende» dagli occhi quando s’accorge della sua mancanza di stile. «Fin troppo ho vissuto
in una specie d’innocenza stilistica» (E1:514), scrive in una lettera a Carl von Gersdorff il 6 aprile
1867. Un «imperativo categorico », racconta, lo ha destato con l’ordine: « Tu hai il dovere e la
necessità di scrivere»; in quel momento s’è accorto, con orrore, di non riuscirci. «Improvvisamente,
non sono stato più capace di scrivere. » In Lessing, Lichtenberg e Schopenhauer studia precetti di
stile, ma « le Grazie » non gli si vogliono accostare. Ora, come bisogna intendere il fatto che «
alcuni spiriti vigorosi » hanno infranto le loro catene proprio con lo stile? È perplesso ma deciso:
lavorerà su di sé, si eserciterà con la consapevolezza di essere soltanto all’inizio. Egli comincia ad
accettare come un dono l’offensiva convinzione di non possedere « assolutamente uno stile tedesco
», perché chi vuole diventare uno scrittore deve rendersi conto « di essere una tabula rasa in fatto di
stile» (El:519ss.).
Tuttavia, Nietzsche è ancora nella sfera di doveri della filologia, scelta all’inizio dei suoi studi e che
poi lo tiene prigioniero quando lo raggiunge, ancor prima della laurea, la chiamata onorifica alla
cattedra di filologia classica di Basilea. Ma come filologo che guarda oltre il recinto della propria
disciplina e scopre la passione per lo scrivere e il filosofare, sente di avere le energie necessarie per
insufflare nella filologia un soffio vitale.
Egli chiama questo processo, col quale si trasmuta ciò che è stato fatto e forse imposto in qualcosa
di vissuto, la generazione di una «seconda natura» (MV:156) e spiega questo concetto nella sua
Autobiografia del 1867, scritta dopo il periodo del servizio militare, sull’esempio del fante che,
esercitandosi, teme innanzitutto di dimenticare in generale a camminare, « quando viene addestrato
a sollevare il piede con consapevolezza». Quando però l’atto di marciare si è convertito in carne e
sangue, « allora cammina liberamente come prima» (J3,291). Il concetto della «seconda natura»
riceverà per Nietzsche un’importanza centrale. Nel 1882, quando alcuni amici gli rimproverarono
che tutta la sua libertà di spirito non corrispondeva affatto alla sua natura e che con essa pretendeva
troppo da sé, si difese in una lettera a Hans von Bulow: «Certo, può essere una ’natura seconda’: ma
voglio proprio dimostrare che io sono entrato nel pieno possesso della mia prima natura soltanto
con questa seconda natura » (B6,290).
La «prima natura» è ciò per cui si è stati fatti, ciò che dà l’impronta a qualcuno e ciò che è già
presente in se stessi e attorno a sé: provenienza, destino, ambiente, carattere. La « seconda natura »
è ciò che si produce autonomamente con tutto questo. Già il giovane Nietzsche scopre la lingua e lo
scrivere come quella potenza che gli permette di fare di se stesso qualcosa.
L’autoplasmazione mediante la lingua diventa per Nietzsche una passione che impronta
l’inconfondibile stile del suo pensiero. In questo pensiero sfumano i confini fra trovare e inventare e
la filosofia diviene opera d’arte linguistica e letteratura, il che ha per conseguenza che i pensieri
sono inscindibilmente conficcati nel loro corpo linguistico. Ciò che la virtuosità linguistica di
Nietzsche fa comparire magicamente può essere restituito, con altri vocaboli, soltanto a prezzo di
un’elevata perdita di evidenza. Nietzsche era consapevole di questa concrescita delle sue opinioni e
delle loro formulazioni singolari, e perciò dubitava che fosse possibile per lui formare una « scuola
». Riteneva inimitabile se stesso e quello che aveva fatto di sé. Nietzsche si sentiva di casa al
confine della comunicabilità, ove compiva esperimenti con la sua autoplasmazione.
Al pari della singolare lingua, anche i pensieri dovevano concorrere all’autoplasmazione, alla
produzione di una «seconda natura». Solamente questo dà loro le «droghe segrete » (ABM:205). Si
vedrà in seguito come Nietzsche, sul palcoscenico dei suoi scritti, analizzi subito l’effetto dei suoi
pensieri su di sé. La sua opera presenta sempre entrambe le cose: il pensiero e il pensante. Nietzsche
non si limiterà a sviluppare dei pensieri, bensì mostrerà come i pensieri scaturiscano dalla vita e vi
ricadano, trasformandola. Egli verificherà la loro forza, se reggono contro i dolori corporei di cui
soffre. I pensieri dovrebbero potersi « incarnare », sostiene: soltanto in seguito avrebbero per lui
valore e significato. Chi, come Nietzsche, si chiede continuamente « come creo i miei pensieri » e «
cosa fanno i miei pensieri di me », costui deve diventare immancabilmente un autopresentatore del
proprio pensiero.
In questo periodo, in cui Nietzsche comincia a profilarsi come autore filosofico che, prendendo le
mosse dalla filologia, s’incammina per «escursioni nell’ignoto con l'inquieta speranza di trovare,
una volta o l’altra, un obiettivo ove si possa riposare» (J3,336), in questo capitolo di vita, dunque,
Nietzsche conobbe Richard Wagner. Soltanto poche settimane prima di questo primo incontro,
Nietzsche si era espresso in modo veramente critico su Wagner in una lettera a Rohde dell’8 ottobre
1868, definendolo come il «rappresentante di una forma moderna di dilettantismo, che assorbe e
digerisce tutti gli interessi artistici » (El:629). Ciò che lo attrae in Schopenhauer, «il soffio etico, il
profumo faustiano, la croce, la morte, la tomba eccetera », lo attrae anche in Wagner. Nemmeno tre
settimane più tardi, assiste a un concerto dove vengono eseguite le ouverture del Tristano e Isotta e
dei Maestri cantori. Si propone di mantenere la distanza, ma invano. «Mi riesce impossibile
mantenermi freddamente critico a contatto con questa musica: ogni fibra, ogni nervo vibra in me, e
da tempo nulla mi aveva così lungamente rapito in estasi » (El:639; 27 ottobre 1868).
In casa dell’orientalista di Lipsia Heinrich Brockhaus si parlò dello studente dotato e dell’amante
della musica
Friedrich Nietzsche, e Wagner, in visita alla famiglia, espresse il desiderio di conoscere il giovane
filologo classico. Questi viene invitato ed è pimpante d’orgoglio. Ordina al sarto un abito nuovo,
che viene certo consegnato puntualmente, ma che egli non può pagare subito. L’aiutante di sartoria
vuole essere pagato, Nietzsche lo trattiene, si giunge a una colluttazione, ognuno s’attacca alle
braghe. L’aiutante la spunta e sparisce con l’indumento. « Seduto in maniche di camicia sul sofà»,
così descrive Nietzsche questa scena all’amico Rohde, «esamino un vestito nero, chiedendomi se
sia bello abbastanza per Richard» (El:647; 9 novembre 1868). Lo indossa, è in uno «stato di
romanzesca esaltazione». In casa dei Brockhaus incontra una compagnia gradita, familiare. Wagner
gli si avvicina, fa qualche complimento, si informa su come il giovane abbia conosciuto la sua
musica. Si giunge alla filosofia e con un « calore indicibile » Wagner parla di Schopenhauer
definendolo l’unico filosofo «che abbia compreso l’essenza della musica». Wagner suona al
pianoforte alcuni brani dei Maestri cantori. Nietzsche si sente pressoché incantato. Alla partenza, il
maestro gli stringe la mano con molto calore e lo invita per una visita a Tribschen, «per fare un po’
di musica e di filosofia».
Dopo il trasferimento di Nietzsche a Basilea giunge l’occasione per una visita alla vicina Tribschen.
Viene ricevuto in maniera oltremodo cordiale. Wagner accoglie riconoscente tutti i proseliti. Dopo
questa prima visita il lunedì di Pentecoste del 1869, Nietzsche scrive a Richard Wagner: «
Stimatissimo Signore, da quanto tempo avevo l’intenzione di esprimere una buona volta, senza
alcun pudore, in che misura io mi sento riconoscente verso di Lei! Infatti i migliori momenti della
mia vita, e i più elevati, sono legati al Suo nome, e soltanto a un altro uomo, oltre che a Lei, per di
più Suo grande fratello spirituale, ad Arthur Schopenhauer, penso con la stessa venerazione, anzi
religione quadam» (E2:8).
I giorni felici di Tribschen, che seguono a questa prima visita, sono stati illustrati frequentemente: le
passeggiate comuni sul lago, Cosima Wagner sotto braccio a Nietzsche; le liete serate nella cerchia
familiare, quando il maestro, dopo la lettura comune della Pentola d’oro di E.T.A. Hoffmann,
nomina Cosima il serpente magico Serpentina, se stesso l’archivista demoniaco Lindhorst e
Friedrich Nietzsche lo studente trasognato e inetto Anselmus; lo zelo di Nietzsche nel procurare a
Cosima, a Basilea, bicchieri da vino, nastri di tulle con stelle dorate e puntolini, un Bambin Gesù
intagliato e altri pupazzetti, e nell’aiutare nella doratura natalizia di mele e di noci, e nel rivedere le
bozze dell’autobiografia di Richard Wagner; il mattino del giorno di Natale del 1871, allorché una
piccola orchestra a Treppenhaus esegue la composizione, famosa in seguito come Idillio di Sigfrido,
come dono di compleanno per Cosima; Nietzsche al pianoforte che improvvisa, occasione in cui
Cosima sta ad ascoltare cortesemente e Richard Wagner abbandona la stanza con un sorriso
discreto.
Richard Wagner si fece molto rapidamente un quadro delle capacità di Nietzsche e scoprì
specialmente quei pregi di cui credeva di potersi avvalere per i propri scopi. « Sicché Ella », scrive
Wagner, « potrebbe liberarmi da una buona parte, anzi da una intera metà della mia missione! »
(N/W:36, trad. mod.) Egli si tormentava molto per la filosofia, come Nietzsche per la musica, senza
che ne uscisse qualcosa di buono. Per lui, però, la filologia era importante quanto per Nietzsche la
musica. I due si sarebbero potuti però integrare splendidamente: Nietzsche avrebbe dovuto rimanere
filologo e « dirigerlo », viceversa
il filologo avrebbe dovuto lasciarsi guidare e ispirare dal musicista. «Ora, faccia vedere», scrive
Wagner il 12 febbraio 1870, « a qual fine la filologia esiste, e mi aiuti a instaurare il grande
’Rinascimento’, nel quale Platone abbraccia Omero, e Omero, pieno delle idee di Platone, diventa,
proprio ora, l’Omero più grande di tutti » (N/W:37).
Wagner incoraggia il giovane professore a osare qualcosa di audace nella filologia classica.
Nietzsche si lascia
entusiasmare. Per collaborare al «grande ’Rinascimento’ », del quale Wagner parla in termini poco
chiari, comincia il libro sulla tragedia, che forse, teme, non lo farà avanzare all’interno della
corporazione, ma lo avvicinerà a se stesso. Un’altra intemperanza nel campo della filologia, ma
intrapresa già nello stile degli « avventurieri e circumnavigatori di quel mondo interno che si
chiama ’uomo’ » (Ul:10). Ancora nel campo della filologia, ma già con la volontà di danzare,
Nietzsche scrive la sua prima grande opera, La nascita della tragedia.
4. Il vortice dell’essere. La nascita della Nascita della tragedia. L’orrore  a fondamento. Nietzsche
in guerra. Schiavi.  Pensiero morale contro pensiero estetico. Paura della rivolta. Sguardi nei
misteri di funzionamento della civiltà. Immagini luminose e abbaglio della vista di
fronte  all’immenso. Saggezza dionisiaca.
IL 2 LUGLIO 1868 NIETZSCHE CONFESSÒ A SOPHIE RITSCHL, MOGLIE DEL SUO VENERATO INSEGNANTE DI FILOLOGIA
CLASSICA E SUO PROMOTORE, DI ESSERE IN CERCA DI UN’OCCASIONE CHE GLI PERMETTESSE DI COLLEGARE, UNA
ALL’ALTRA, FILOLOGIA E MUSICA. « MA FORSE UNA BUONA VOLTA TROVERÒ UN SOGGETTO FILOLOGICO CHE SI PRESTI
A UNA VERSIONE MUSICALE, E ALLORA BALBETTERÒ COME UN LATTANTE E AMMUCCHIERÒ IMMAGINI COME UN
BARBARO CHE SI ADDORMENTA DAVANTI A UN’ANTICA TESTA DI VENERE, E FINIRÒ PER AVER RAGIONE NONOSTANTE
LA ’FRETTOLOSA ESUBERANZA’ DELL’ESPOSIZIONE» (EL:606). CIÒ FU SCRITTO PRIMA DELLA CONOSCENZA DI
RICHARD WAGNER. SI TRATTA ANCORA DI SOGNI DIURNI DI UN GIOVANE FILOLOGO CLASSICO, IL QUALE DOMINA GIÀ
COSÌ BENE IL SUO MESTIERE, CHE LO ANNOIA «BUTTAR GIÙ, alla breve, con il decoro necessario, una sobria
serie di pensieri» (El:606).
Trattare un soggetto filologico in « versione musicale » significa per lui non soltanto far della
musica il tema, bensì produrre automaticamente una sorta di musica « che, per un caso, è stata
scritta con le parole invece che con le note» (El:605). Nietzsche cerca una tematica che gli permetta
di far musica con le parole. Dopo rincontro con Richard Wagner nota che, già da qualche tempo, la
sta tenendo fra le mani: la tragedia greca. Di essa Nietzsche s’e-
ra occupato già prima dell’incontro con Wagner, ma solo in seguito vi aveva scoperto il « vortice
dell’essere », come si dice in un abbozzo di premessa al libro sulla tragedia (FP3/3-1:361).
Nietzsche scrisse questo primo libro quando, guardando alla consorteria filologica, ancora
percepiva il dovere di giustificare con una brillante pubblicazione la sua prematura designazione,
ottenuta senza dottorato né abilitazione. In seguito, nel Tentativo di autocritica (NT:3) del 1886,
il discorso non verte più su tali motivi. In retrospettiva, Nietzsche si presenta quale «discepolo di un
’Dio’ ancora ’sconosciuto’ », che sotto il « cappuccio del dotto » non ebbe altra intenzione che di «
cercare i compagni di esaltazione e [...] attirarli su vie nuove e tortuose e su nuovi luoghi di danza»
(NT:6).
La tragedia greca... un luogo per danzare dunque, dove si può venire trascinati nel «vortice
dell’essere».
In merito alla genesi del libro sulla tragedia, si possono riconoscere molto bene i singoli passi del
lavoro. Ci sono innanzitutto le due conferenze pubbliche II dramma musicale greco del 18 gennaio
1870 e Socrate e la tragedia del 1° febbraio 1870.
Nella prima conferenza, Nietzsche sviluppa la tesi della genesi della tragedia greca dalle feste
dionisiache. Con essa rimane senz’altro ancora all’interno della filologia classica a lui
contemporanea. Nietzsche chiese in prestito alla biblioteca universitaria di Basilea un classico sulla
tragedia greca, la Storia della letteratura greca (1857) di Karl Otfried Müller, ove si rimanda al
culto di Dioniso quale cellula germinale del dramma greco. Qui vengono illustrati istruttivi dettagli,
come per esempio la vestizione dei danzatori con velli di capro e capriolo, le loro maschere la loro
«pretesa di uscire da sé, di diventare estranei a se stessi» (Latacz 38). A differenza, però, della
filologia classica, che mira a tenere le distanze, Nietzsche tenta di trasporsi all'interno del delirio di
queste feste, in cui il «freno» dell'erudizione piuttosto lo ostacola, poiché l'ideale della chiarezza
pregiudica la prontezza a cogliere oscuri impulsi; «ogni accrescimento e ogni divenire nel campo
dell’arte deve procedere nella notte profonda» (FETG:6). Nietzsche vuole condurre all’intemo di
questa notte. Descrive le estasi e gli eccessi della folla sconvolta ed entusiasta. Egli li paragona alle
danze di san Vito medievali, definite da taluni eruditi come « epidemia». Quanto torto abbiano con
questo giudizio sprezzante, si mostra nel fatto che, nell’antichità, questa cosiddetta «epidemia»,
ossia l’eccesso dionisiaco nella festa, fece nascere il dramma greco e diede a esso la sua forza. E' la
sventura delle arti moderne, scrive Nietzsche più avanti, di «non essere sgorgate da una tale fonte
misteriosa» (FETG:12). Ma come arrivarono nella tragedia sul palcoscenico gli eccessi e le estasi?
Nietzsche illustra il processo nelle sue singole fasi. Nell’ebbrezza il singolo perde la
consapevolezza della sua individualità; entra nell’eccitata massa in festa e si fonde con essa. In
questo corpo collettivo eccitato circolano visioni e immagini con le quali i singoli, fusi in unità, si
contagiano reciprocamente. I «fanatici di Dioniso » credono di vedere ed esperire le medesime
cose. Poi però, ogni volta, giunge il momento del risveglio da questa vertigine e ciascuno ricade nel
suo isolamento. Questo è il passaggio, difficile e rischioso, alla sobrietà, un passaggio che richiede
un accompagnamento e un sostegno rituali. La rappresentazione della tragedia alla fine della festa
dionisiaca non è altro che questo rituale di passaggio dalla vertigine collettiva alla vita quotidiana
della città. Il dramma attico, scrive Nietzsche, poteva nascere soltanto conservando «qualcosa di
questa vita naturale dionisiaca» sul palcoscenico del teatro.
Quali aspetti della vita di natura dionisiaca venivano conservati? Il dramma rituale metteva in scena
entrambe le cose: il dissolvimento negli avvenimenti collettivi e l’isolamento. Ci sono i protagonisti
sulla scena e c’è il coro. Se nella tragedia il singolo perisce, allora espia la colpa di essere un
singolo. È il coro che sopravvivrà al singolo. E
per questo, i protagonisti agiscono sul palcoscenico come se fossero una visione del coro. E con il
coro, afferma Nietzsche, il poeta tragico porta il pubblico con le sue visioni sul palcoscenico. Lo
spettatore teatrale voleva l’estasi quando si sedeva di pomeriggio, sotto il cielo aperto, sulle pietre
dell’ampio anello, e la otteneva. Ha lo stato d’animo dei giorni di festa ed è pronto a lasciarsi
trasformare e a uscire di sé. E ora risuona la musica, il ritmico canto corale che mette in movimento
i corpi di chi canta e di chi ascolta. Si genera un’atmosfera densa, e quando le singole figure entrano
in scena è come se la visione generale nascesse dalla concitazione di quest’atmosfera: davanti al
coro agiscono i protagonisti, dapprima soltanto uno, poi molti.
Tuttavia, rimangono dei singoli che per un istante si affermano, nella loro singolarità, nei confronti
del coro collettivo. Essi si mettono in evidenza, essi sono, come afferma Nietzsche, la «dissonanza
vivente». Come del resto nella dissonanza, sul palcoscenico si genera un arco di tensione: i
protagonisti si distaccano dal coro come voci soliste, sviluppano la loro recita dissonante, per poi
declinare nuovamente nell’unisono del coro. Il singolo dissonante non può reggere a lungo, e,
quando declina, tornando nel grembo della musica, il coro di nuovo lo accoglie. Le persone e le loro
azioni emergono dalla musica come le isole da un mare. Il coro e la sua musica rimangono
onnipresenti. Anche quello che succede sul palcoscenico è palese, in chiara luce, e al coro non resta
nulla di celato, il singolo non può nascondersi, la musica dell’universo lo inghiottirà. Presso i Greci,
afferma Nietzsche, la musica aveva il compito di «convertire le sofferenze [...] dell’eroe nella più
forte compassione degli ascoltatori » (FETG:20).
La tragedia greca porta sulla scena il rapporto di potere fra parola e musica. Il protagonista domina
la parola, ma è la musica del coro che domina il produttore di parole. La parola è suscettibile di
fraintendimenti e interpretazioni errate, non proviene dal luogo più interiore e non giunge fi-
no a esso. Opera al margine dell’essere. Diversamente la musica. Essa « colpisce immediatamente il
cuore, in quanto essa è il vero linguaggio universale, inteso in ogni luogo » (FETG:20ss.).
In questa conferenza, Nietzsche già accenna a ciò su cui la tragedia si infrangerà: sulla fortuna della
parola. Il logos vince il pathos della tragedia. Per la tragedia è la fine quando la lingua si emancipa
dalla musica e mette in risalto a dismisura la propria logica. Cos’è la lingua? Un organo della
coscienza. Ma la musica è l’essere. Con il tramonto della tragedia, essere e coscienza non si
armonizzano più. La coscienza si chiude all’essere. Essa diventa piatta. Con il tramonto dell’antica
tragedia del pathos inizia per Nietzsche la nuova tragedia del logos. Noi, afferma Nietzsche, siamo
ancora nel bel mezzo di questa tragedia.
Per quel che concerne la derivazione della tragedia dalle feste di Dioniso, Nietzsche rimane ancora
entro i confini della filologia classica del tempo. Ma la tesi della sua seconda conferenza, che viene
accennata già alla fine della prima conferenza con il rimando al «processo di dissoluzione»
(FETG:23) della tragedia mediante la sua intellettualizzazione, doveva rappresentare per i filologi
classici una provocazione. Per questo, egli bada pure che tale conferenza non finisca, per il
momento, sotto gli occhi del suo insegnante Ritschl, ma alla fine questi lo viene a sapere e, come si
può immaginare, ne è poco soddisfatto. Come se ' dovesse espiare le sue scorribande troppo
indipendenti, Nietzsche offre al proprio insegnante un lavoro filologico puntuale, svolto
correttamente, per il volume collettaneo : Meletemata Societatis philologicae Lipsiensis.    
La conferenza su Socrate e la tragedia, come racconta Nietzsche all’amico Rohde a metà di
febbraio del 1870, ha dunque « suscitato scandalo e malintesi » (E2:92). Ora, cosa c’era di così
scandaloso ed equivoco in tale conferenza?
Nietzsche critica l’elevata considerazione di cui gode la coscienza, ritenendo funesta la fortuna
dell’idea socra-
*    1
tica che «tutto dev’essere cosciente, per essere buono»
(FETG:35). Con questo è stata innanzitutto distrutta la tragedia e poi è stato in generale limitato e
ostacolato l’inconscio creativo. Socrate spezza il potere della musica e colloca al suo posto la
dialettica. Socrate è una sciagura, con lui inizia un razionalismo che non vuole sapere più nulla della
profondità dell’essere. Socrate è l’inizio di un sapere senza saggezza. Per quel che concerne la
tragedia, il pathos del destino è stato dunque rimosso mediante calcoli, intrighi e conteggi. La
rappresentazione di potenze vitali è diventata la messa in scena di trame escogitate in modo
raffinato. Il meccanismo di causa ed effetto rimuove il nesso di delitto e castigo. Sul palcoscenico
non si canta più, si discute. Gli avvenimenti sulla scena perdono il loro mistero, i protagonisti
soffrono perché hanno sbagliato i loro conti. L’atmosfera tragica di fondo si dissolve. «Sembra
quasi», afferma Nietzsche, «che tutte queste figure periscano non già per l’elemento tragico, bensì
per una superfetazione dell’elemento logico» (FETG:41).
Nietzsche tratta Socrate come sintomo di una mutazione culturale profonda e gravida di
conseguenze fino ai giorni nostri. La volontà di sapere schiaccia le potenze vitali del mito, della
religione e dell’arte. La vita umana si stacca dalle oscure radici dei suoi istinti e delle sue passioni.
E' come se l’essere dovesse giustificarsi davanti alla coscienza. La vita vuole la luce, la dialettica
vince l’oscura musica del destino. Si desta l’ottimistica speranza che la vita si lasci correggere,
dirigere e calcolare da parte della coscienza. Così, scrive Nietzsche, il dramma musicale è morto per
«illusione, volontà, dolore» (FP3/3-1:364), ma non è morto per sempre. La conferenza di Nietzsche
si conclude con sussurrate osservazioni sulla possibile rinascita della tragedia greca. Il nome di
Richard Wagner non »
viene pronunciato, ma ogni ascoltatore avrà certo notato che si intende proprio lui.
Se il rinnovato dramma musicale potrà imporsi, se potrà nuovamente destare il senso per gli abissi
tragici in un’e-
poca segnata dalle scienze e animata da ottimismo... queste sono le domande che Nietzsche pone al
termine della sua conferenza. Egli accenna al fatto che il destino del dramma musicale nel presente
dipenderà dalla saldezza della sua controparte, il «socratismo dei giorni nostri». Il manoscritto
nietzscheano originario della conferenza che egli spedisce ai Wagner a Tribschen si conclude con la
frase: «Questo socratismo è l'odierna stampa ebraica: non dico una parola di più» (14,101).
Considerare il potere della conoscenza corruttrice come un principio « ebraico » appartiene
certamente alle convinzioni fondamentali di casa Wagner, e forse Nietzsche le ha assunte da lì, ma
Cosima si vede tuttavia costretta a dare al giovane ammiratore qualche ammonimento tattico. « Ora
però ho una preghiera da rivolgerLe», scrive Cosima il 5 febbraio 1870, «ossia di non suscitare un
vespaio. Riesce a capirmi? Non nomini gli ebrei e soprattutto non li nomini en passant, lo faccia più
tardi, se vorrà assumersi la terribile battaglia in nome di dio, ma non da principio, affinché anche
sulla Sua strada non diventi tutto quanto una confusione e un sottosopra [...] Che in fondo all’anima
io mi trovi d’accordo con la Sua enunciazione, Ella già lo sa» (N/W 1,52).
Anche Richard Wagner reagisce con grandi lodi alla conferenza di Nietzsche. Egli lo approva in
tutti i punti, ammettendo tuttavia il suo «spavento» circa l’«ardire» con il quale Nietzsche «
comunica un’idea talmente nuova» (N/W 34). Wagner (e anche Cosima) consiglia prudenza, « ma
mi preoccupo per Lei », scrive, « e mi auguro con tutto il cuore che Ella non debba rompersi il collo
». E allora se ne esce con la proposta che Nietzsche dovrebbe sviluppare le sue idee in un « lavoro
più ampio e di più vasta portata».
Molte cose alludono al fatto che Nietzsche abbia intrapreso il progetto del suo libro sulla tragedia
grazie a questa sollecitazione. Lo coglie un peculiare presentimento di grandi cose, che accadono
con lui e che egli porterà alla luce. Scrive a Rohde a metà di febbraio del 1870: «Ora,
dentro di me, scienza, arte e filosofia stanno crescendo insieme così tanto, che prima o poi partorirò
un centauro »
(E2:92).
Durante la primavera del 1870 Nietzsche ha un’idea, in merito alla quale subito nota che con l’aiuto
di essa potrà comprendere e giudicare non soltanto la civiltà antica, bensì la civiltà in generale, con
riguardo alla sua dinamica e alla sua vitalità. Si tratta della scoperta della combinazione di potenze
polari fondamentali della civiltà, che Nietzsche battezza con i due nomi divini di Apollo e Dioniso.
Nella trattazione La visione dionisiaca del mondo,  scritta durante l’estate del 1870, utilizza per la
prima volta la coppia d’opposti « apollineo »-« dionisiaco » quale chiave per l’interpretazione della
tragedia greca.
Le riflessioni sviluppate nelle due prime conferenze lo avevano condotto fin sulla soglia di questa
scoperta. Nella prima conferenza aveva parlato dell’origine della tragedia dalle feste dionisiache; e
in occasione della seconda conferenza s’era soffermato sulla «chiarezza apollinea» (FETG:40) di
Socrate. Adesso inizia a capire che la tragedia rappresenta un compromesso di questi due impulsi
di base. Le passioni e la musica sono dionisiache, la lingua e la dialettica sul palcoscenico sono
apollinee... Insieme, entrambe le cose producono la rappresentazione, chiara alla coscienza, di
oscure potenze del destino.
Nel primo intervento, Nietzsche intende l’apollineo e il dionisiaco come caratteri artistici di stile.
Apollo è il dio della forma, della chiarezza, dei contorni fermi, del sogno nitido e, soprattutto,
dell’individualità. L’arte plastica, l’architettura, l’universo omerico delle divinità, lo
spirito dell’epos... tutto ciò è apollineo. Dioniso, invece, è il dio selvaggio della dissoluzione,
dell’ebbrezza, dell’estasi, dell’«orgiasmo». Musica e danza sono le forme predilette. Il fascino
dell’apollineo consiste nel non scordare in nessun istante l’artificiosità, conservando la coscienza
della distanza. Nelle arti dionisiache, tuttavia, sfuma il confine. Colui che viene trascinato dalla
musica, dalla danza e
da altre stregonerie artistiche perde la distanza. Nell’ebbrezza si perde la consapevolezza
dell’ebbrezza stessa. Il «fanatico di Dioniso» non si vede dall’estemo, mentre l’apollineamente
entusiasta resta riflessivo. Egli gode il suo entusiasmo senza abbandonarsi del tutto a esso.
L’elemento apollineo si rivolge all’individuo, quello dionisiaco stimola l’uscita dai confini.
Ciò che inizia con l’analisi di princìpi estetici s’amplifica in un primo audace schizzo delle
condizioni fondamentali dell’essere umano. Qui, per Nietzsche, entra in azione la filosofia
schopenhaueriana, poiché il dionisiaco è inteso come il mondo del volere pulsionale e Apollo
è competente per la rappresentazione, quindi per la coscienza. A partire da questa costellazione
risulta senza alcun dubbio, per lo schopenhaueriano, che il dionisiaco, in primo luogo, rappresenta
la potenza vitale primaria ed elementare, e, in secondo luogo, che questo strato di vita è certamente
creativo, ma al contempo terribile e inaudito, analogamente appunto a come Schopenhauer
interpreta il mondo del volere, creativo, terribile e inaudito.
Con la re-interpretazione del carattere artistico dello stile (dell’apollineo e del dionisiaco) in
potenze vitali metafisiche, Friedrich Nietzsche ha compiuto, nell’estate del 1870, il passo decisivo
nella sua biografia intellettuale. D’ora in avanti tiene una chiave in mano, con l’aiuto della quale
crede di poter comprendere il segreto di funzionamento delle civiltà, la loro storia e il loro futuro.
Il dionisiaco, secondo la visione di Nietzsche, è lo stesso immenso processo vitale, e le civiltà non
sono altro che i tentativi, fragili e sempre messi in pericolo, di creare in esso una zona di vivibilità.
Le civiltà sublimano le energie dionisiache; le istituzioni, i rituali e i conferimenti di senso culturali
sono rappresentazioni, sostituzioni che si nutrono della sostanza vitale autentica, ma che tuttavia la
tengono a distanza. Il dionisiaco si trova prima della civilizzazione e sotto a essa, è la dimensione
insieme minacciosa e attraente dell’immenso.
Attraente, nel dionisiaco, lo è una triplice uscita dai confini, un triplice superamento del
«principium individuationis » (FETG:50). L’uomo esce dai suoi confini verso la natura, si sente uno
con essa. Egli esce dai suoi confini verso il prossimo (Mitmensch) nell’« orgiasmo », nell’amore e
nell’ebbrezza della massa. E il terzo limite viene abbattuto nell’intimo dell’individuo. La coscienza
si apre al suo inconscio. Questa triplice uscita dai confini deve essere esperita come minacciosa da
un Io che si aggrappa pavidamente alla sua identità. Dionisiaca, rispetto a ciò, sarebbe la
disposizione al gioioso declino.
Nell’estate del 1870, quando Nietzsche scrive il suo saggio La visione dionisiaca del mondo, inizia
la guerra franco-tedesca. È preoccupato per l’atmosfera di fondo tragico-eroica, poiché Nietzsche
vive lo scoppio della guerra come irruzione del dionisiaco. « Tutta la nostra logora cultura precipita
fra le braccia del demone più spaventoso », scrive a Rohde il 16 luglio 1870 (E2:125). Con
l’espressione « demone » non si intende affatto la Francia, bensì, come afferma Nietzsche altrove, il
« genio militare » (FETG:107). Esso sfonda le sottili croste della civilizzazione, è il caso di
emergenza della vita. Quello che si è già accennato nella comprensione nietzscheana del dionisiaco
diventa adesso palese nelle sue reazioni alla guerra: il mondo dionisiaco del volere elementare è, a
un tempo, il mondo eracliteo della guerra quale padre di tutte le cose.
In quest’ora della verità, in cui « i terribili abissi dell’essere si spalancano» (E2:148; 7 novembre
1870), Nietzsche non sopporta più di stare allo scrittoio. Si presenta al fronte come addetto
sanitario, benché Cosima Wagner lo sconsigli e gli suggerisca di spedire ai soldati piuttosto dei
sigari che se stesso (9 agosto 1870; N/W1,96). In settembre Nietzsche resta soltanto due settimane
sul teatro di guerra a occidente; è lì quando si raccolgono i morti dal campo di battaglia, e
accompagnando un trasporto di feriti contrae la dissenteria e la difterite. « Così », scrive a Richard
Wagner l’11 settembre 1870, «dopo aver provato
ad agire nell’interesse della comunità per quattro settimane soltanto, sono di nuovo ricacciato verso
me stesso» (E2:138; N/W:46). D’ora in poi, non potrà più scordare le «immagini terribili» (E2:140)
delle distese di cadaveri, dei moribondi e dei mutilati. Sa di cosa parla quando definisce la « visione
dionisiaca del mondo » come « esaltazione e trasfigurazione dei mezzi di terrore e della terribilità
dell’esistenza, intendendo tutto ciò come strumento per salvarci dall' esistenza» (FETG:68). In un
abbozzo (febbraio 1871) di una premessa al libro sulla tragedia indirizzata a Richard Wagner, si
afferma: «Anch’io ho le mie speranze. Queste mi hanno reso possibile, mentre la terra tremava sotto
i passi di Ares, di dedicarmi senza interruzioni, e persino in mezzo ai terribili effetti immediati della
guerra, alla considerazione del mio tema; mi ricordo anzi che, mentre in una notte solitaria stavo
chiuso con dei feriti in un vagone merci ed ero incaricato di curarli, i miei pensieri erano immersi
nei tre abissi della tragedia, i cui nomi sono ’illusione, volontà, dolore’» (FP3/3-l:363ss.).
Le speranze di Nietzsche riguardano un rinnovamento della civiltà che si è affievolito nel «
crepuscolo della pace» (E2:125) e che ha rimosso la serietà dionisiaco-eraclitea della vita. Le
possibilità per un rinnovamento ci sono tutte, poiché il «genio militare» ha fatto irruzione
come potenza dionisiaca nella realtà borghese.
La guerra come potenza vitale, nella concezione originaria del libro sulla tragedia, aveva giocato un
ruolo ancora maggiore che nella versione definitiva. Nel libro sulla tragedia Nietzsche non ha
accolto un lungo passaggio su guerra e schiavitù nello stato greco, ma lo ha rielaborato in una
premessa a un libro ancora da scrivere sullo Stato greco. In queste elaborazioni si fondono il mondo
dionisiaco e il mondo di Eraclito. La potenza vitale dionisiaca viene identificata con la guerra quale
padre di tutte le cose. Qualcosa di analogo accade anche nel saggio, redatto nel medesimo periodo,
sull’Agone omerico. Già il mondo della volontà interpretato schopenhauerianamente, che Nietzsche
identifica con lo strato vitale dionisiaco, ha la sua dimensione bellica. Già Schopenhauer, infatti,
aveva pensato la volontà universale come unità delle incarnazioni, reciprocamente ostili, della
volontà del singolo. Per questo, non c’è da meravigliarsi se Nietzsche ugualmente scopre questa
ostilità negli strati elementari della vita e perciò anche nel sottosuolo della civiltà.
L’aspetto bellico del dionisiaco, come il dionisiaco in generale, soggiace alle ri-plasmazioni
culturali tramite la ritualizzazione e la sublimazione. Nietzsche interpreta come una siffatta
metamorfosi culturale l’antica istituzione della competizione. Gli uomini greci, per Nietzsche,
hanno in sé un «tratto di crudeltà, di desiderio di annientamento che li rende simili a tigri»
(FETG:117). Si scruta, per esempio nell’epos omerico, entro «gli abissi dell’odio». Come se non
significasse nulla di ripugnante e appartenesse all’eroismo, l'Iliade illustra la brama di vendetta di
Achille, il quale trascina per la città la salma di Ettore legata al carro. Per Nietzsche, questo esempio
nasconde la dimensione di un’efferata crudeltà arcaica, già temperata in Omero. Nel « mondo pre-
omerico » devono essere accadute cose ancor peggiori e quel poco che se ne sa lascia presagire «la
notte e l’orrore» (FETG:118).
La civiltà greca, però, è anche un esempio di come questa crudeltà guerresca possa essere sublimata
mediante la competizione che ha luogo ovunque, nella politica, nella vita sociale, nell’arte.
Nietzsche cita Esiodo, il cui poema didascalico Le opere e i giorni comincia con l’illustrazione delle
due dee Eris, ossia le dee dell’astio e dell’invidia. La prima Eris sostiene la « brutta guerra ».
Questa dea proviene dall’« oscura notte », e così inevitabile come il destino è l’« alterco » che ella
desta fra gli uomini. Ma Zeus ha posto al fianco di questa dea una seconda Eris, la quale converte
produttivamente la discordia, inducendo gli uomini a concorrere l’un con l’altro anziché
ammazzarsi. Gli uomini concorrono per elevarsi. Nietzsche cita Esiodo: «Questa seconda Eris
spinge al lavoro anche l’uomo inetto; e quando qualcuno che non possiede nulla guarda un altro che
è ricco, egli si affretta allora nello stesso modo a seminare, a piantare e a mettere ben in ordine la
casa; il vicino gareggia con il vicino che tende al benessere. Buona è questa Eris per gli uomini»
(FETG:120).
Nietzsche, rinviato da Jacob Burckhardt a questo fondamentale tratto agonale della civiltà greca,
inserisce questa concezione della trasformazione della guerra in competizione nel suo schema della
trasformazione delle energie dionisiache in una forma apollinea vivibile. Esiste tuttavia il pericolo
che nelle forme apollinee si spenga l’energia dionisiaca e perciò, afferma Nietzsche, per la
conservazione in vita della civiltà è necessario che periodicamente ne emerga il suo spaventoso
sottosuolo e, come la lava d’un vulcano, rinnovi il terreno, ove possibile, per una maggiore fertilità.
Nietzsche intende in tal modo la potenza creatrice di civiltà del «genio militare» (FP3/3-1:355).
Il sommo obiettivo di Nietzsche rimane, nonostante tutto, l’estensione della cultura. Delle tre grandi
potenze dell’esistenza, come le ha definite Burckhardt (Stato, religione e cultura), per lui la cultura
è la più importante. Bisogna che accada tutto per amor suo. Essa è il sommo scopo e dove egli crede
di notare una subordinazione della cultura agli scopi dello stato o dell’economia, s’indigna.
Le conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole, tenute nel 1872, danno voce a questa indignazione.
Qui egli tenta di difendere l’ideale della personalità sviluppata contro la strumentalizzazione
economica e statual-politica della formazione {Bildung) della personalità, la quale scade ai
suoi occhi a mera formazione professionale (Ausbildung). Alla cultura bisogna subordinare tutto
quanto. Ciò vale anche per la guerra franco-tedesca, che Nietzsche inizialmente saluta. Lo fa per
amore della cultura. Egli si augura un rinnovamento. Perciò scrive al suo amico Rohde, nel
momento in cui decide di arruolarsi, che «ci sarà di nuovo bisogno di conventi» (E2:125). Non lo
motivano né il trionfo del prussianesimo né la nascita di un forte Stato na-
65
i

zionale e nemmeno lo sciovinismo o l’odio per i francesi. Non appena per lui si delinea che la
vittoria nella guerra non va a vantaggio della cultura ma dello Stato, dell’affarismo e dell’alterigia
militare, Nietzsche prende le distanze. A Gersdorff scrive il 7 luglio 1870: «Mi
preoccupa moltissimo l’immediato futuro della cultura. E spero solo che non si debbano pagare
troppo cari gli inauditi successi nazionali in un campo dove io per lo meno non intendo accettare
perdita alcuna» (E2:149). A sua madre scrive un mese più tardi: «Per l’attuale guerra di conquista
tedesca le mie simpatie stanno gradualmente diminuendo. Il futuro della nostra cultura tedesca mi
sembra più che mai in pericolo» (E2:I58).
Nietzsche trova nell’antichità il modello di come la guerra potrebbe servire a una cultura.
Esemplare è innanzitutto, come già descritto, la trasformazione degli impulsi bellici nella forma,
creatrice di civiltà, della competizione. La guerra, però, è ancora fondamentalmente connessa
al destino della civiltà. Nel saggio Lo stato greco Nietzsche argomenta con lo « stato di natura » nel
senso hobbesiano, col « bellum omnium contro omnes ». Lo Stato nasce col tentativo di domare, in
un ambito come sempre delimitato, la guerra all’interno, e di concentrare le sue energie al confine
con altre comunità. Certamente, dunque, ci sarà sempre la «terribile tempesta della guerra» tra i
popoli, ma nelle « pause » sono dati alla società il tempo e l’occasione di produrre, sotto « l’azione
concentrata e rivolta all’interno di quel bellum », i fiori luminosi del genio della cultura (FP3/3-
1:352). In una parola: la guerra periodica come caso d’emergenza, come un re-immergersi
nell’elemento dionisiaco-eracliteo è indispensabile per la fioritura della civiltà. La civiltà ha
bisogno del sottosuolo orribile, essa e il lieto fine del tremendo. Il nesso necessario fra « campo
di battaglia e opera d’arte» (FP3/3-1:351) svela la verità
sulla civiltà.
La civiltà non necessita soltanto della crudeltà della guerra; ancora una seconda crudeltà appartiene,
secondo
Nietzsche, ai suoi presupposti. Nuda e cruda, la nomina come esempio dello stato di cultura, per lui
ideale, dell’antichità greca. È la schiavitù.
Ogni civiltà superiore necessita di una classe di uomini sfruttabile e lavoratrice, di una «classe di
schiavi» (NT: 120), scrive Nietzsche senza fronzoli, e poi prosegue: «Non c’è niente di più terribile
di una classe barbarica di schiavi che abbia imparato a considerare la sua esistenza come
un’ingiustizia e che si accinga a far vendetta non solo per sé, ma per tutte le generazioni» (NT: 121).
Nietzsche scrive queste frasi nella primavera del 1871, in quella premessa a un libro non scritto
sullo Stato greco,  un testo che offrirà a Cosima Wagner come stampa speciale, ma che altrimenti
non pubblicherà. Nel maggio del 1871 i quotidiani avevano raccontato da Parigi che i rivoltosi della
Comune avrebbero saccheggiato e distrutto il Louvre (oggettivamente, ci fu soltanto un incendio
alle Tuileries). Nietzsche prende l’evento come un fanale della barbarie in arrivo. In una lettera al
consigliere comunale Wilhelm Vischer-Bilfinger del 27 maggio 1871, giustificando l’assenza alla
seduta di un gremium universitario, scrive: «Le notizie degli ultimi giorni erano così terribili che
non riesco a ritrovare un umore che sia almeno sopportabile. Che cos’è uno studioso di fronte a
questi terremoti della cultura! Come ci si sente piccoli! Si adopra tutta la vita e le proprie forze
migliori per capire e spiegare meglio un periodo della cultura: e come appare questo mestiere, se un
unico giorno funesto riduce in cenere i più preziosi documenti di tali periodi! È il giorno
peggiore della mia vita» (E2:187).
Nietzsche interpreta il rogo di Parigi come il primo bagliore delle grandi crisi future. Non riconduce
le lotte sociali alle peggiorate condizioni di vita, bensì alla consapevolezza della sofferenza delle
masse, accresciuta nello stesso tempo dalle maggiori pretese. Vede entrare le masse sulla scena
politica, con conseguenze imprevedibili. Si allarma già nell’autunno del 1869, quando apprende che
proprio a Basilea si tiene un congresso dell’Associazione intemazionale dei lavoratori. Alcuni anni
più tardi, lo coglie il panico a causa del sospetto che l’Intemazionale trami intrighi per ostacolare
Bayreuth. Nietzsche percepisce l’aspirazione a risolvere la « questione sociale » nel senso dei
lavoratori come una minaccia per la cultura. Ai « democratici » rimprovera di voler emancipare le
masse e di simulare loro qualcosa della « dignità del lavoro » e della «dignità dell’uomo»
(FETG:96), con la conseguenza che costoro percepiscono, soltanto tramite ciò, la loro situazione
come ingiustizia stridente e pertanto rivendicano giustizia. Essi paragonano la loro misera
situazione di vita con lo splendore dell’alta cultura, che odiano perché non è destinata a loro e
perché non vi arrivano, benché tuttavia abbiano creato, con il loro lavoro manuale, i presupposti
materiali per essa. Ma non sono magari giustificate le pretese di giustizia sociale e di liberazione
dallo sfruttamento e non è comprensibile l’odio per una cultura che appare alle masse soltanto come
un lusso vergognoso? Nietzsche si pone queste domande che lo fanno riflettere sul nesso tra civiltà
e giustizia, in merito a cui giunge a concezioni alle quali si atterrà, nonostante certe oscillazioni,
fino all’ultimo periodo produttivo del lavoro alla Volontà di potenza.
La vita, lo abbiamo già sentito, è tragica. Essa si svolge nell’immenso, ove regnano sofferenza,
morte e crudeltà di ogni sorta. Nel libro sulla tragedia, Nietzsche trova la nota formula: « Solo come
fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati» (NT:45). Nel saggio sullo
Stato greco e in altri frammenti postumi di questo periodo, in cui si confronta con il movimento
sociale di massa e il suo timore della Comune di Parigi, il senso implicitamente politico di questa
formula diventa più chiaro che nella relativa versione moderata del libro sulla tragedia. Nelle sue
annotazioni, infatti, Nietzsche focalizza il problema del nesso fra civiltà e giustizia sociale sulla
tesi secondo cui si deve decidere, con riguardo alla civiltà, se il
I

p
senso di essa è il benessere del maggior numero possibile di uomini oppure la riuscita della vita in
singoli casi. Chi ha di mira il benessere del maggior numero di uomini pensa moralmente; chi
interpreta come senso della civiltà il culminare in figure ben riuscite, la « suprema estasi », pensa
esteticamente. Nietzsche si decide per la modalità di pensiero estetica.
Gli «individui», annota in un frammento dell’autunno del 1873, devono lasciarsi subordinare al
«bene degli individui più alti». E questi sono gli «uomini creativi» (FP3/3-2:337). Essi producono,
sulla base del lavoro sfruttato, le grandi prestazioni culturali, nell’arte, nella filosofia, nelle scienze;
e talvolta, fanno di se stessi un’opera d’arte che è degna di essere guardata. Questi eroi
dell’elemento creativo non sono giustificati dalla loro utilità sociale, bensì dal loro essere migliori.
Essi non migliorano l’umanità, ma incarnano le sue migliori possibilità e le portano in luce. Una
civiltà e una statualità sono dunque giustificate quando in esse «possano vivere e possano creare gli
esemplari supremi» (ibid.). Questi «esemplari supremi » sono, come si dice nel libro sulla
tragedia, l’«immagine luminosa» (NT:64) nell’oscura notte del sentimento tragico della vita.
Se si decide a favore della felicità e della libertà del maggior numero di uomini, allora si otterrà,
afferma Nietzsche, una civiltà democratica dove trionfa il gusto della massa. Lo stato democratico,
con il suo orientamento al benessere generale, alla dignità dell’uomo, alla libertà, alla giustizia
livellante, alla protezione dei deboli, ostacola la possibilità di evoluzione delle grandi personalità,
le « immagini luminose » spariscono dalla storia e con esse sparisce anche, dopo la morte di dio,
quel residuo di senso.
Poiché Nietzsche vuole difendere questo senso estetico nella storia, già nei primi anni ’70 attacca la
democrazia, come si scaglierà, alcuni armi dopo, con toni striduli, contro il « completo
rabbonimento del democratico uomo di branco» (FP7/3:267). L’antica società schiavistica
greca vale per lui come civiltà esemplare proprio perché non si è permessa tali concessioni al «
democratico uomo di branco». Dell’antica società, Nietzsche elogia il fatto di essere stata
abbastanza onesta da non celare il terribile sottosuolo dal quale è cresciuta la sua prosperità. Essa
confessava apertamente a se stessa di avere degli schiavi per necessità. Effettivamente, si può
andare a leggere in Platone e Aristotele in che modo palese e offensivo vi viene difesa la necessità
della schiavitù per la stabilità della cultura. Come l’uomo ha la forza muscolare e lo spirito, così
anche la società necessita, secondo Nietzsche, di braccia operose che lavorino per una classe
privilegiata e le consentano di «produne un nuovo mondo di bisogni » e di « soddisfare a questi»
(FETG:98). La società schiavistica è un esempio particolarmente estremo di come l’acculturazione
e la civiltà poggino su una «base terribile»: «Perché esista un terreno vasto, profondo e fertile per lo
sviluppo dell’arte, la stragrande maggioranza degli uomini dev’essere al servizio di una minoranza,
dev’essere sottomessa - in una misura superiore alla sua miseria individuale - alla schiavitù dei
bisogni impellenti della vita » (FETG:98). Nell’età contemporanea il mondo del lavoro viene
nobilitato, ma ciò è un autoinganno, poiché nella fondamentale ingiustizia dei destini di vita, i quali
assegnano agli uni il lavoro meccanico e ai più dotati l’agire creativo, anche l’« allucinazione
concettuale » della « dignità del lavoro » non varia nulla. La società schiavistica rivela con brutale
evidenza questa disuguaglianza, mentre il mondo moderno la rivela con più vergogna, senza
tuttavia voler rinunciare allo sfruttamento che regge la civiltà. Se dunque l’arte giustifica
esteticamente l’esistenza, allora questo accade nel sottosuolo di una «crudeltà» (1,768).
Per Nietzsche questa «crudeltà [...] nell’essenza di ogni cultura» dimostra, di nuovo, che l’esistenza
è un’«eterna piaga» (NT: 119) e il rimedio dell’arte (la giustificazione estetica) tiene aperta la ferita
stessa. Alla bellezza dell’arte vengono sacrificati degli uomini, per cui l’esistenza del-
l’arte aggiunge al cattivo stato del mondo un’ulteriore ingiustizia. E per questo, difendendo la
schiavitù, Nietzsche è pronto anche a sentirsi colpevole, perché appartiene a coloro che possono
godere il privilegio della giustificazione estetica del mondo. Egli sa che la sua propria esistenza è
dovuta al sacrificio degli altri. In una lettera del 21 giugno 1871 rimprovera all’amico Gersdorff di
aver criticato aspramente e troppo altezzosamente la plebaglia parigina nemica della cultura. Anche
a lui, scrive, a fronte di un livore distruttivo che in pochi istanti può annientare le opere geniali di
secoli, l’esistenza scientifica e artistica è apparsa come un’«assurdità» e si è aggrappato al «valore
metafisico dell’arte, che non può esistere solo per i miseri uomini, ma deve adempiere missioni più
elevate ». « Ma », prosegue, «anche nel dolore più forte, non ero in grado di scagliare una sola
pietra su quegli empi che per me erano soltanto portatori di una colpa più generale, sulla quale
bisogna riflettere a lungo! » (E2:195)
L’espressione «colpa più generale» si riferisce, da un lato, ai comunardi iconoclasti di Parigi, ma si
intende anche la colpa dell’arte che approfitta dell’ingiustizia del mondo e addirittura della
«schiavitù». Nietzsche non elude il problema ed enuncia apertamente la sua tesi: volendo sbrogliare
questo groviglio di colpe dell’arte, si dovrebbe distruggere il principio di ogni cultura superiore. Per
lui era certo: il principio dell’uguaglianza e della giustizia, portato fino alle estreme conseguenze,
deve ribaltarsi in ostilità verso la cultura. Ma poiché l’arte è dovuta all’ingiustizia, colui che ha il
privilegio di partecipare a essa può non scadere nella presunzione. Egli dovrebbe rimanere
consapevole del nesso di colpa.    
Nietzsche tocca qui un vecchio problema. Si tratta della questione della teodicea, un tempo riferita
al rapporto fra dio e il mondo e ora al rapporto fra arte e realtà non artistica. Nietzsche, con la sua
formulazione della giustificazione estetica del mondo, s’era espressamente riallacciato alla
questione della teodicea. La classica domanda della
teodicea da Giobbe a Leibniz, tanto per rammentarla, recita: come si può giustificare l’esistenza di
dio di fronte al male nel mondo? Dopo la scomparsa dell’antico dio, la domanda della teodicea
viene rivolta all'arte e suona: come si può giustificare l’impresa dell’arte, comparativamente
tendente al lusso, di fronte al male nel mondo? Il dato di fatto per cui gli uni producono arte, mentre
gli altri soffrono, non è una prova scandalosa dell’ingiustizia del mondo? Lo strazio del mondo e il
canto dell’arte... come possono accordarsi? Il giovane Hofmannsthal scriverà in proposito una
famosa poesia: « Alcuni devono laggiù morire / dove i remi pesanti sfiorano l’acqua, / altri
dimorano presso il timone in alto / e sanno volo d’uccelli e paesi di stelle» (Hofmannsthal 35).
L’idea di Nietzsche che l’arte cresca da un oscuro fondo d’ingiustizia e che quindi la «crudeltà» e il
sacrificio appartengano alla sua essenza dev’essere una provocazione per coloro che vorrebbero
vedere l’arte collegata al progresso sociale. Nietzsche voleva questa provocazione, ravvisando
effettivamente nel progresso sociale una minaccia per l’arte. Si arriverà, scrive egli, a una «
sollevazione della massa oppressa contro individui simili a fuchi ». Sarebbe «l’urlo della
compassione a far crollare le mura della cultura, e l’impulso verso la giustizia e verso un’eguale
distribuzione del dolore sommergerebbe tutte le altre idee »
(FP3/3-l:346ss.).
E ci si è arrivati. Nei movimenti socialrivoluzionari del XX secolo è infatti avvenuto un poderoso
tradimento dell’arte, per solidarietà nei confronti della miseria. Come Nietzsche, lo previde anche
Heinrich Heine, allorché nel 1855 scrisse dei comunisti, con i cui obiettivi sociali simpatizzava: «
Con i loro pugni rudi poi distruggono tutte le sculture marmoree del mio amato universo artistico
[...] il droghiere userà il mio Libro dei canti come involto per versarci dentro il caffè o il tabacco da
naso per le vecchiette del futuro » (Heine 5,232). Altri artisti furono pronti a rinunciare ai «baluardi
della vita culturale». Tolstoj, per esempio, verso la fine della vita, sensibile all’oceano di sofferenza
sociale presente tutt’intorno a lui, smise di scrivere ed esortò a fare qualcosa di più utile che narrare
storie inventate. La sua decisione fu un preludio all’epoca della grande distruzione della cultura in
nome della rivoluzione sociale.
Nietzsche era convinto che un duplice pericolo minacciasse l’arte nella modernità: essa può
affondare nella rivoluzione sociale oppure può perdere la sua dignità, fine a se stessa,
nell’adattamento all’utilità sociale. O viene ingoiata dal sociale oppure si adatta a esso degenerando
in engagement. Per un verso o per l’altro... verranno brutti tempi per le Muse.
Non tutte queste riflessioni sono esposte nel libro sulla tragedia. I pensieri sulla necessità culturale
della guerra e della schiavitù vengono soltanto accennati e non, come negli appunti, espressi con
chiarezza talvolta provocatoria. Si tratta infatti, per Nietzsche, di conseguenze della sua convinzione
che lo strato profondo della vita sia di tipo dionisiaco-eracliteo, crudele, vitale e pericoloso. La vita
è immensa, è diversa da ciò che può immaginarsi un mite umanismo. Nel suo saggio Su verità e
menzogna in  senso extramorale del 1872, Nietzsche trova, per il rapporto della coscienza con lo
strato profondo della vita, la seguente formulazione: «Guai alla fatale curiosità che una volta riesca
a guardare attraverso una fessura dalla cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un
giorno abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido,
insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre. In una tale costellazione, da quale parte del mondo
sorgerà mai l’impulso verso la verità?» (FETG:229)
Una conoscenza che si spinge sino a quest’immagine, una conoscenza per la quale, dunque, il
conoscere stesso diventa un problema a fronte dell’immenso processo vitale, Nietzsche la chiama
«saggezza dionisiaca» (NT:66; trad. mod.). Nella successiva autocritica, quando, giustificando il
suo libro sulla tragedia, osserva che in esso la scienza viene « concepita per la prima volta come
problematica, da mettere in questione» (NT:5), si riferisce dunque a tale « saggezza dionisiaca »
come allo spirito animatore di quel libro.
Effettivamente, con l’espressione «saggezza dionisiaca» è definito il passo decisivo del libro sulla
tragedia. Si tratta di un’operazione mentale ancora del tutto interna alla tradizione della filosofia
trascendentale. Nietzsche tenta un’anticipazione di quell’orizzonte al quale la conoscenza, in
complesso, si riferisce e davanti al quale si svolgono tutte le attività della vita. È un’anticipazione di
quell’assolutezza, mai concepibile, della realtà. Non è un aldilà speculativo, bensì la quintessenza di
tutto ciò che è reale, in cui si svolgono la conoscenza, la vita e l’arte. L’atto trascendentale non
costruisce una trascendenza, ma è il tentativo di considerare e di relativizzare la dimensione del
conoscere a partire dall’inesauribilità del reale.
L’inesauribile non è ovviamente noto e non potrebbe esserlo, essendo esso l’inconoscibile. Esso è
però esperito nell’attimo in cui il conoscere si rende conto che la vita, nella sua immensa pienezza,
non può esaurirlo. Tuttavia, l’esigenza poi non soltanto di dare un nome all’inesauribile, ma di
coglierlo in concetti, è l’antico fascino della metafìsica, a cui Nietzsche non riesce a resistere; un
fascino contro il quale Kant mise in guardia. Nella Critica della ragion pura, altrimenti davvero
arida, Kant trovò, per questo fascino, un’immagine poetica: «Abbiamo non solo percorso il
territorio dell’intelletto puro, considerandone accuratamente ogni parte, ma l’abbiamo altresì
misurato, assegnando il suo posto a ogni cosa. Ma questo territorio è un’isola [...], circondata da un
ampio e tempestoso oceano, [...] dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci, in corso di
scioglimento, creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove
ingannevoli spe-
ranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte,
lo    sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta
per sempre» (Kant 230).
Kant rimase sull’isola e diede all’oceano tempestoso il nome di ominosa «cosa in sé»;
Schopenhauer osò inoltrarsi già più in là, battezzando l’oceano col nome «volontà». E per
Nietzsche, l’assoluta realtà è il «dionisiaco», con le parole di Goethe, che Nietzsche cita: «un
mare eterno, un mutevole agitarsi, una vita ardente» (NT:63).
Il    dionisiaco così inteso, tanto per ripeterci, non è un ambito del reale, ma la sua quintessenza.
Come se volesse rispondere direttamente alla metafora kantiana dell’oceano dell’inconoscibile, il
Nietzsche dionisiaco scrive più tardi nella Gaia scienza: «Finalmente possiamo di nuovo sciogliere
le vele alle nostre navi, muovere incontro ad ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza
è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi, forse non vi è ancora
mai stato un mare così ’aperto’ » (GS:252).
Nietzsche non sempre fa uso dell’espressione «dionisiaco » in maniera strettamente terminologica
per la definizione della realtà assoluta. «Dionisiaco» viene anche definito tanto l’elemento
«barbarico» degli eccessi di potere e degli eccessi sessuali anteriori alla civiltà (cfr. NT:28) quanto
l’elemento sottostante alla civiltà della pulsionalità. Se Nietzsche utilizza il concetto del «
dionisiaco» nel senso dell’elemento anteriore e sottostante alla civiltà, allora questo utilizzo storico-
culturale o, meglio, antropologico del concetto rimane tuttavia riferito al suo centrale significato
ontologico e metafìsico. Il dionisiaco significa l’«uno originario» (NT:35), l’essere complessivo
(umgreifend), in definitiva non concepibile (begreif-bar). Il concetto di dionisiaco implica una
decisione teorica che, dal canto suo, risale a un’esperienza basilare. Già per il giovane Nietzsche,
l’essere è qualcosa di animato, minaccioso e allo stesso tempo attraente. Lo esperisce
nel «lampo, nel temporale e nella grandine» e presto emerge, nei suoi appunti, il «fanciullo
cosmico» di Eraclito, che giocosamente erige e distrugge mondi. Bisogna aver sperimentato l’essere
effettivamente come l’atroce (das Ungeheure), come un essere nel quale la vita risvegliata alla
coscienza non è al sicuro. L’essere si palesa in modo dionisiaco quando ciò che è consueto (das
Heimische) diventa inquietante (das Unheimliche).
La «saggezza dionisiaca» è la forza di sopportare la realtà dionisiaca. A tal proposito, bisogna
sopportare entrambe le cose: un «piacere mai provato» e una «nausea». La dissoluzione dionisiaca
della coscienza individuale è un godimento, poiché con essa svaniscono le « barriere e [i] limiti
abituali dell’esistenza» (NT:55). Ma quando è passata questa condizione, quando la
coscienza quotidiana toma a essere nuovamente padrona del pensiero e dell’esperienza vissuta,
allora una «nausea» coglie il rinsavito seguace di Dioniso. Questa nausea può accrescersi fino
all’orrore: «Nella consapevolezza di una verità ormai contemplata, l’uomo vede ora dappertutto
soltanto l’atrocità o l’assurdità dell’essere» (NT:55ss.).
Ma che cosa succede qui? Dove si mostra l’aspetto tremendo? E l’aver visto la verità del dionisiaco
la cosa tremenda oppure è la realtà quotidiana ad assumere un aspetto tremendo, perché e dopo che
si è fatta esperienza delle gioie recate dall’uscita dionisiaca dai confini? Nietzsche pensava al
duplice orrore: visto dal lato della coscienza quotidiana, il dionisiaco è tremendo e, viceversa,
vista dal lato del dionisiaco, è tremenda la realtà quotidiana. La vita cosciente si muove tra le due
possibilità. Questo, tuttavia, è un movimento che assomiglia piuttosto a un essere-lacerati. Attirati
dal dionisiaco, col quale la vita deve restare in contatto per non diventare un deserto; e
contemporaneamente, dipendenti dai dispositivi culturali di sicurezza per non essere abbandonati
alla violenza dissolvente del dionisiaco.
Non sorprende che Nietzsche trovi il simbolo di questa
precaria situazione nel destino di Ulisse, il quale si fa incatenare all ’ albero della nave per poter
udire il canto delle sirene senza doverlo seguire verso la sua stessa rovina. Ulisse incarna la
saggezza dionisiaca. Egli ode l’immenso, ma, per conservarsi, accetta l’incatenamento tramite
la cultura. Ma che cos’è la cultura?
Nietzsche sviluppa una sorta di tipologia per cui sia possibile, nelle diverse civiltà, organizzare la
vita di fronte all'immenso. La formulazione della domanda suona: su quale sistema di accecamento
contro la violenza minacciosa del dionisiaco e della canalizzazione dell’energia dionisiaca
necessaria alla vita si basa, di volta in volta, la civiltà? Nietzsche pone questa domanda con la
consapevolezza di toccare con essa il segreto di funzionamento della civiltà considerata. Egli indaga
i sentieri nascosti della volontà vitale, scoprendo come questa sia culturalmente ingegnosa. Per «
trattenere in vita » (NT: 118) le sue creature, essa le avvolge nella follia, nelle illusioni. Essa lascia
scegliere alle une il « velo di bellezza dell’arte », mentre le altre cercano la consolazione metafisica
nelle religioni e nella filosofia, perché « la vita eterna continui a fluire indistruttibile sotto il vortice
dei fenomeni»; il «piacere socratico della conoscenza» ne incatena nuovamente delle altre, che
si fanno sedurre dalla follia secondo cui la conoscenza potrebbe «guarire l’eterna piaga
dell’esistenza» (NT:119). A partire da questi ingredienti è mescolato tutto ciò che chiamiamo
civiltà. E in base alle proporzioni della miscela si ha una civiltà maggiormente artistica, come quella
dell’antica Grecia, oppure una civiltà religioso-metafisica, come nel primo periodo dell’Occidente
cristiano e del mondo orientale-buddistico, oppure una civiltà socratica della conoscenza e della
scienza.
Per Nietzsche, il tipo di civiltà da ultimo nominato è diventato dominante nella modernità. Il
principio di Socrate portò la scienza e l’illuminismo e le estreme conseguenze di ciò sono state le
idee della democrazia, della giustizia e dell’uguaglianza. Attraverso la conoscenza, si poteva
I
comprendere e dirigere il destino. In tutti gli ambiti, si poteva plasmare e determinare
autonomamente la storia nella quale si è coinvolti. La natura, che governa in maniera così ingiusta,
producendo talenti e destini personali tanto diseguali, doveva essere corretta o quantomeno
compensata. Si doveva finirla con resistenza di uomini sfruttati e schiavizzati. Nietzsche vede
queste conseguenze fondate nella civiltà socratica del sapere e della conoscenza e perciò fa iniziare
il proprio (e nostro) presente con la vittoria socratica della conoscenza sul sentimento tragico della
vita. Ce ne occuperemo ancora.
Resta il fatto che sono all’opera, in tutti i tipi di civiltà nominati, forze sia dionisiache sia apollinee.
Arte, religione e sapere sono forme apollinee nelle quali la realtà dionisiaca viene insieme respinta e
canalizzata. In questo contesto, nell’ultimo capitolo del suo libro sulla tragedia, Nietzsche formula
una sorta di legge ontologica fondamentale per il rapporto fra dionisiaco e apollineo. «Tuttavia
di quel fondamento di ogni esistenza, del sostrato dionisiaco del mondo, può passare nella coscienza
dell’individuo solo esattamente quello che può essere poi di nuovo superato dalla forza di
trasfigurazione apollinea » (NT: 162).
A partire da questa legge ontologica fondamentale, Nietzsche ottiene il suo concetto di forza e
rango. Forti e d’alto rango sono quegli uomini e quelle civiltà che possono accogliere una grande
dose di elementare violenza dionisiaca, senza infrangersi a causa di essa. Questa forza significa pure
che l’energia apollinea trasfigurante deve essere altrettanto grande. Le civiltà e gli individui
forti strappano la bellezza all’orrore. Non si dovrebbe lasciarsi ingannare dalla serenità greca. Il
sentimento di vita fondante era tragico e pessimistico. La vita greca destatasi a coscienza getta lo
sguardo dapprima in un abisso. Là, al principio della fortuna dello spirito, si trova
l’orrore. Nietzsche cita la saggezza popolare greca che, alla domanda di re Mida, quale fosse mai la
cosa migliore e da preferire per l’uomo, fa rispondere al saggio Sileno, l’accompagnatore di
Dioniso, nel modo seguente: « ’Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi
costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente
irraggiungibile: non essere nata, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per
te è - morire presto’ » (NT:32).
Questo è il sentimento fondamentale dell’universo culturale greco. L’affermazione apollinea si basa
su un coraggioso, vitale «ciò nonostante». Il mondo olimpico degli dei deve la sua genesi allo stesso
« impulso che suscita l’arte, come completamento e perfezionamento dell’esistenza» (NT:32ss.);
questo universo artistico somiglia alle visioni estatiche di un martire torturato. La volontà apollinea
di cultura istituisce una sorta di schermo o (detto in gergo marziale) un «continuo campo di
battaglia» (NT:38) contro le potenze elementari della vita e lascia svolgersi, in primo piano o
nell’intimo della fortezza, il teatro della vita con le sue divinità urbane, le leggi, le virtù, le opere
d’arte, i racconti, e con le sue saggezze politiche. Il dionisiaco, però, nel modo in cui viene alla luce
nei culti e nelle feste orgiastiche, nei rituali sacrificali, nella musica e nell’ebbrezza, è senz’altro
prossimo all’abisso terrifico del vivente, seppure presenti già, come abbiamo visto, una
sublimazione e un addomesticamento. In breve: nell’arte antica le potenze dionisiache della vita,
costituite da dolore e piacere, da morte e divenire, sono sempre ancora percepibili. Il libro sulla
tragedia di Nietzsche si conclude con la domanda retorica: «Quanto dovette soffrire questo popolo,
per poter diventare così bello! » (NT: 163)
Nietzsche orbita attorno al dionisiaco e lascia a esso la sua ambiguità di fondo. Esso è la realtà
assoluta in cui o l’individuo si dissolve entusiasticamente o sprofonda con orrore. Non ci si
dovrebbe approssimare all’immenso processo vitale senza sistemi di sicurezza. Proprio questo sono
i media della religione, della conoscenza e dell’arte. Ancora una volta Nietzsche giunge a parlare di
Edipo. Costui si è avventurato palesemente troppo avanti. Egli ha ri-
sposto alla domanda della Sfinge e ha sciolto l’« enigma della natura ». Ma questo solutore
d’enigmi è contemporaneamente l’assassino del padre e il consorte della madre, dunque colui che
oltretutto viola i « più sacri ordinamenti naturali». «Il mito», scrive Nietzsche, «sembra
volerci bisbigliare che la saggezza, e proprio la saggezza dionisiaca, è un orrore contro la natura,
che colui che col suo sapere precipita la natura nel baratro dell’annientamento deve sperimentare la
dissoluzione della natura anche su se stesso» (NT:66; trad. mod.). Con la formulazione successiva, «
la punta della saggezza si rivolge contro il saggio », Nietzsche, dal canto suo, spinge all’estremo il
problema della verità. Quanta verità sopporta l’uomo senza perire con essa? Non abbiamo bisogno
anche di una conoscenza che ci faccia riconoscere la misura del vivibile nella conoscenza stessa? Il
sunto del libro sulla tragedia, semmai ve ne fosse uno, recita: all’immensità della vita ci
approssimiamo meglio con l’arte e, nel modo migliore di tutti, con la musica.
Col suo libro sulla tragedia, Nietzsche voleva qualcosa di paradossale: il dionisiaco doveva essere
posto nella luce della conoscenza e, contemporaneamente, gli effetti chiarificatori della conoscenza
dovevano nuovamente essere revocati. Più tardi Nietzsche dirà: il libro è scritto davvero per una
voce che canta. Tuttavia, benché o proprio perché apparve poi soltanto come trattato filologico, la
gilda filologica non perdonò il suo bambino prodigio, inizialmente coccolato. L’ex insegnante e
promotore di Nietzsche, il professor Ritschl, giudica: « stravaganza geniale » (Janz 1,439). E il
giovane Wilamowitz-Moellendorf, il futuro papa della filologia classica, pubblica nel 1873
una distruttiva stroncatura, che termina con le parole: «Il sig. N. mantenga la parola, dia di piglio al
tirso, trascorra dall’India alla Grecia, ma discenda dalla cattedra, dalla quale deve impartire la
scienza; raccolga ai suoi piedi tigri e pantere, ma non la gioventù filologica di Germania » (Janz
1,438).
D’un tratto Nietzsche ci rimise la sua fama filologica. Non si attirano impuniti dei filologi in «
luoghi di danza » riservati (NT:6). A Basilea, gli studenti scappano via da lui. Per questo viene
lodato a Tribschen, in casa Wagner. Richard Wagner si trova colto molto bene nel ritratto
di Dioniso. Nietzsche, tuttavia, aveva voluto ritrarre anche se stesso e le proprie passioni nei
confronti di questo «dio sconosciuto» (NT:6). Il che, però, era sfuggito al grande egocentrico.
Nietzsche aveva avuto a che fare con la violenza dionisiaca della vita a partire dall’ottica, non
ancora rischiosa, dell’estetico. Ma, dal gioco, la situazione si fa improvvisamente seria, poiché ora
Nietzsche deve portare il peso delle conseguenze sociali della sua entrata in scena...
l’allontanamento dal mondo degli eruditi, per il quale ora è «morto». La sua cattedra a Basilea
diviene per lui un malanno, egli si ammala. Tuttavia, non si farà più sviare, una volta imboccata,
dalla via del pensiero. A partire dal punto di vista della vita compresa in maniera dionisiaca
inasprirà la sua critica alla volontà di sapere. Il saggio, scritto nel 1872, Su verità e menzogna in
senso extramorale inizia con le parole: «In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso
attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la
conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della ’storia del mondo’: ma tutto ciò
durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti
dovettero morire. — Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe
tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia
il comportamento dell’intelletto umano entro la natura» (FETG:227).
La vita necessita di un’atmosfera securizzante fatta di non-sapere, illusioni, sogni, nei quali ci si
rifugia per poter vivere. Soprattutto, però, la vita necessita di musica, e meglio di tutte della musica
di Richard Wagner.
5. Nietzsche e Wagner: lavoro comune sul mito.
Romanticismo e rivoluzione culturale.
L'Anello. Il lavoro di Nietzsche dal maestro.
Il ritorno di Dioniso. Visioni di declino e « suprema estasi ». Delusione a Bayreuth.
IL DRAMMA MUSICALE WAGNERIANO DESTÒ NEL GIOVANE NIETZSCHE LA SPERANZA DELLA RINASCITA DELLA VITA
SPIRITUALE TEDESCA, CHE EGLI SENTIVA GRAVEMENTE COMPROMESSA DAL MATERIALISMO, L’ECONOMICISMO, LO
STORICISMO E, POLITICAMENTE, DALLA FONDAZIONE DEL REICH NEL 1871. EGLI PARLA, NELLA Prima
considerazione inattuale, della «disfatta, anzi [dell’]estirpazione dello spirito tedesco a favore
dell’’impero tedesco’ » (DS:11) e intende con questo il trionfo dello sciovinismo nazionale, del
pensiero del profitto e della fede nel progresso. Nietzsche, come abbiamo visto, non aveva nulla da
obiettare contro la vittoria del « genio militare » (FETG:107). Ma, a tal riguardo, doveva trattarsi di
una eroica rianimazione della cultura. L’arricchimento della cultura doveva essere, anche in merito
alla vittoria militare, l’obiettivo precipuo. La guerra significava, per Nietzsche, che il mondo
dionisiaco-eracliteo irrompe nella politica e produce il caso d’emergenza della vita, da cui anche e
proprio la cultura doveva essere fecondata. In quanto, però, la vittoria militare sostiene soltanto gli
scopi prosaici della società borghese, Nietzsche si discosta deluso da quest’evoluzione. Egli certo
non intese il rafforzamento dell’economia, dello Stato o di una religione devota a esso come il
rinascimento auspicato dello spirito tedesco. Nel libro sulla tragedia, questa rinascita gli appare
piuttosto nella figura del Sigfrido wagneriano: «Immaginiamo una generazione che cresca con
questa intrepidezza di
sguardo, con questo eroico slancio verso l’immenso, immaginiamo l’ardito passo di questi uccisori
di draghi, la superba temerarietà con cui volgono le spalle a tutte le dottrine di mollezza
dell’ottimismo, per ’vivere risolutamente’ in tutto e per tutto: non sarebbe forse necessario che
l’uomo tragico di questa civiltà desiderasse, nell’educare se stesso alla serietà e al coraggio, un’arte
nuova, l’arte della consolazione metafìsica»? (NT: 14)
Nietzsche punta ancora sulla consolazione metafisica, per poi cercare in seguito, dopo il suo
distacco da Wagner, un’ottica di vita che superi quel bisogno di consolazione. Tuttavia, questo
distacco inizia già in un periodo in cui egli « ufficialmente » si presenta ancora come seguace
di Wagner. Retrospettivamente, Nietzsche spiegherà che la Quarta inattuale su Richard Wagner
rispecchia un pensiero già superato durante la sua redazione. Ci dedicheremo in seguito a questa
svolta del suo pensiero dietro le quinte. Nel libro sulla tragedia e in Richard Wagner a
Bayreuth Nietzsche pensa comunque ancora alla « consolazione metafìsica» nel senso di una
rianimazione del mito e dell’attivazione della potenzialità mitopoietica della coscienza, lodando la
forza creatrice di miti dell’opera wagneriana.
Nel libro sulla tragedia Nietzsche definisce il mito come un’«immagine concentrata del mondo»
(NT: 151), attraverso cui la vita viene immersa nella luce di una più elevata significatività. Esso non
ha importanza soltanto individuale, ma garantisce una connessione socialculturale. « Senza mito
però ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da
miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà» (NT: 151). L’immaginazione e il pensiero
vengono protetti, mediante il mito, dal pericolo del «vagare senza direzione ». L’uomo privo di miti
del presente è per Nietzsche uno sradicato. Cerca stabilità nel possesso, nella tecnica e nella scienza,
e nell’archivio della storia. Nietzsche, nella Seconda inattuale, sottoporrà a critica lo storicismo
quale ausilio per la vita. Ma già nel libro sulla tragedia scrive:
«A che cosa accenna l’enorme bisogno storico della cultura moderna insoddisfatta, l’affastellarsi di
innumerevoli altre culture, la divorante volontà di conoscere, se non alla
' perdita del mito, alla perdita della patria mitica, del mitico grembo materno?» (NT: 153) Nietzsche
si rivolge al mito perché, da un lato, non può più credere in senso religioso e, dall’altro, non ritiene
capace la ragione razionale di poter dare un orientamento alla vita. Cosa significa il mito e . a quale
atto spirituale è dovuto?
Il mito e l’azione del mitizzare sono attribuzioni di senso, intense a livello d’immagine, a ciò che
altrimenti ne è privo. Ciò che sempre richiede la potenzialità mitopoietica della coscienza è
l’indifferenza del mondo. Ci si difende
«
contro l’idea di un mondo nel quale si ha la sensazione di non essere in qualche modo «significati».
L’uomo che conosce vorrebbe essere riconosciuto non solo da altri uomini, ma da un cosmo colmo
di senso. L’uomo, che fa parte anch’egli della natura, si è distanziato da essa tramite la sua
coscienza, e si aspetta che fuori, nella natura, qualcosa d’analogo alla coscienza corrisponda alla sua
stessa coscienza. L’uomo non vuole rimanere da solo con la sua coscienza. Vorrebbe che la natura
gli rispondesse. I miti sono tentativi di giungere a un dialogo con la natura. Per la coscienza mitica,
i processi naturali hanno una significatività. In essi si esprime qualcosa, anche se è soltanto,
come per il Nietzsche schopenhaueriano, la volontà elementare che in essi si mostra. Dopo
un’esperienza vissuta del lampo, della bufera e della grandine, il giovane Nietzsche scrive in una
lettera: « Come sono felici, come sono forti - volontà pura, non inquinata dall’intelletto» (El:422).
È stato Hölderlin, tanto stimato da Nietzsche, che in modo particolarmente urgente ed eloquente
cercò una lingua attuale per l’esperienza mitica, colma di tristezza per il fatto che noi abbiamo
perduto la leggerezza e la naturalezza di questa esperienza che, anche Hölderlin lo pensava, doveva
essere stata per la grecità un’esperienza quotidiana. Questa perdita, dice Hölderlin, fa svanire
un’intera
dimensione in cui il reale ha potuto aprirsi per davvero allo sguardo e all’esperienza. Per questo non
si «vede» più la terra, non si « ode » più il canto d’uccello, e la lingua fra gli uomini s’è « disseccata
». Hölderlin chiama questo stato di cose la « notte degli dei » e mette in guardia contro la «sacralità
fittizia» di abusare di temi e nomi mitologici per un mero gioco artistico. Per Hölderlin, come
pure per Nietzsche, si tratta della scoperta del mitico come potenza di vita, che restituisce all’essere
la pienezza della festosità. La maniera più efficace di creare una zona colma di senso nel mezzo
dell’indifferenza della natura è ovviamente la cultura. Essa consente di esperire la non-indifferenza
nell’incontro con gli uomini, nella solidarietà, nella fiducia, ma anche nelle regole e nelle
istituzioni, le quali organizzano le relazioni dotate di senso fra gli uomini. La cultura è lo sforzo
incessante di superare efficacemente, quantomeno in un ambito interiore, l’indifferenza del mondo.
Intanto, per Nietzsche come pure per Hölderlin, la « notte degli dei » oscura anche la cultura. La
grande indifferenza è penetrata nell’intimo della cultura e fa perire le relazioni tra gli uomini.
Perciò, è tanto più urgente che le energie mitiche vengano attivate col tentativo di stabilire valori di
convivenza vincolanti e impegnativi. I miti sono creazioni di valore per produrre una coerenza
profonda nella società. I miti dunque rispondono al grande silenzio della natura e all’erosione del
senso nella società.
Richard Wagner e Friedrich Nietzsche percepirono la loro epoca come una siffatta situazione
sociale di crisi, in quanto povera di senso, e perciò agirono per trovare o inventare nuovi miti.
Quando Nietzsche ricorre alle divinità greche di Dioniso e Apollo per comprendere potenze
elementari della vita e della civiltà, in tal modo se ne serve nel senso di una « abbreviazione dell
’apparenza » (NT: 151 )... ma questa è la sua definizione del mito. Nietzsche e Wagner tentano,
ognuno a modo suo, una rianimazione del mito, e rifiutano di accettare quel « disincanto » del
mondo, definito così in seguito da Max Weber, mediante la razionalizzazione, la
tecnica e il pensiero economico borghese. Soffrono l’assenza di miti del loro tempo e vedono la
possibilità di una rianimazione o di una creazione ex novo del mito nella sfera dell’arte. In un
periodo in cui l’arte, fra le imposizioni dell’economia, inizia a diventare una bella appendice, essi
lottano per l’elevazione di rango dell’arte, che pongono all’apice di tutte le possibili gerarchie di
scopi della vita. In Wagner, l’arte prende il posto della religione. Da ciò Nietzsche si lascia
influenzare, ma in conclusione tale interpretazione dell’arte gli risulta troppo pia e si distanzia da
essa in direzione del concetto di un’artistica arte di vivere. Dall’arte non auspica alcuna redenzione,
ma un accrescimento della vita. Al limite (e Nietzsche ha sempre nel mirino i casi limite) significa:
si deve fare della propria vita un’inconfondibile opera d’arte.
Quello che dividerà Nietzsche e Wagner, dopo un iniziale accordo, è il contrasto fra una produzione
mitica che pretende validità religiosa (Wagner) e un gioco estetico col mito che sta al servizio
dell’arte di vivere. Ma così in là non si è ancora giunti. Nietzsche si sente ancora legato a Wagner
nel tentativo di istituire un nuovo mito a partire dallo spirito della musica.
Richard Wagner e (sulle sue tracce) Friedrich Nietzsche accolgono impulsi del romanticismo
d’inizio secolo, allorché si fecero esperimenti con la fondazione di miti.
Per l’interpretazione del mito da parte del primo romanticismo esiste un documento notevole: un
breve schizzo, chiamato in seguito II più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, che
ha visto la luce probabilmente intorno al 1796 e ascritto alternativamente a Schelling, Hegel e
Hölderlin, talvolta anche a tutti e tre come lavoro comune. Il testo si conclude con l’annuncio:
«Dapprima parlerò qui di un’idea che, per quanto ne so, non è ancora venuta in mente ad alcun
uomo... dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee,
deve diventare una mitologia della ragio-
Due motivazioni misero in moto, allora, la ricerca di un nuovo mito.
In primo luogo, alla fine dell’epoca illuministica la ragione inizia a dubitare considerevolmente di
se stessa. La ragione è forte là dove può mettere in discussione e minare criticamente i patrimoni
tradizionali della morale e della religione. « Lo spirito critico », scrive Friedrich Schlegel, «è
diventato direttamente politico e ha voluto tentare una rivoluzione del mondo borghese, ma d’altra
parte ha depurato e chiarificato per così tanto tempo la religione, finché essa, alla fine, è
completamente dileguata e svanita per la gran chiarezza. » Questa chiarezza, però, viene percepita
negativamente: rimane dunque inalterato il bisogno di un senso e di uno scopo più elevati, persino
temendo di non uscire dalle fantasie. La cosa migliore è che la ragione proceda assieme
all’immaginazione, per creare nuove sintesi dell’attribuzione di senso. Gli autori dell’abbozzo
di programma chiamano questo progetto mitologia della ragione. Essa, così sognano i primi
romantici, dovrebbe nascere dal lavoro comunitario di poeti e filosofi, musicisti e pittori e sostituire
la religione pubblica divenuta inerte. Questa mitologia della ragione deve essere «formata a partire
dalla più fonda profondità dello spirito», un’«opera fin da principio come una nuova creazione dal
nulla» (Schlegel 301).
La seconda motivazione per la ricerca di un nuovo mito si trova in un’esperienza traumatica del
periodo di sovvertimento sociale all’inizio del XIX secolo: la società tardo-feudale si frantuma e si
comincia a percepire dolorosamente la perdita di un’idea ampia di vita sociale. L’egoismo privo di
spirito e l’utilitarismo economico dominano il campo. Per questo il nuovo mito deve adempiere
al compito « di unificare gli uomini in una visione comunitaria» (Frank 12).
L’esperimento con nuovi miti, secondo l’idea romantica, deve dare un fondamento, un orientamento
e una delimitazione alla ragione e istituire un’unità sociale. I romantici sono convinti che si possa
produrre questi miti anche artificialmente e artisticamente quando appunto manchino delle
tradizioni utilizzabili. I romantici appresero dalla tradizione che senza miti non c’è accordo, e lo
spirito di fattibilità dell’iniziale modernità conferisce loro sufficiente autoconsapevolezza per
dedicarsi alla produzione artificiosa di tali miti. Ciò nonostante, non sono avanzati oltre i primi
inizi, e presto hanno cercato nuovamente un rifugio nella tradizione. I fratelli Grimm riuniscono
favole popolari e raccolgono materiali per una « mitologia tedesca ». Brentano e Achim von Armin
pubblicano la raccolta di canti II corno magico del fanciullo e Hölderlin invoca il cielo greco degli
dei. Solo mezzo secolo più tardi Richard Wagner ebbe l’audacia, ammirata da Nietzsche, di erigere
un vero monumento ai miti. La sua concezione nacque sulle barricate della rivoluzione borghese del
1848.
Wagner cospirò con Bakunin a Dresda e prese parte alle lotte di strada. Dopo la repressione delle
sollevazioni fuggì in Svizzera, dove scrisse il saggio Arte e rivoluzione; dopo averlo letto, Nietzsche
annotò nel proprio taccuino: « Basta con l’arte che non spinge in sé alla rivoluzione della società, al
rinnovamento e all’unificazione del popolo».
In quel saggio, Wagner fondò il suo progetto dei Nibelunghi. Qui egli mette in contrasto la cultura
idealizzata dell’antica polis greca con i rapporti culturali della moderna società borghese, vista dalla
prospettiva di un primitivo anti-capitalismo socialista. Nella polis greca, società e individuo,
interessi pubblici e privati si conciliavano l’un l’altro, e per questo l’arte era una faccenda
autenticamente pubblica, un evento attraverso il quale un popolo portava davanti ai propri occhi il
senso e i princìpi della sua vita comunitaria. Tuttavia, per l’arte moderna, dice Wagner, non esiste
più un tale pubblico. L’opinione pubblica è diventata un mercato e l’arte è finita sotto la coercizione
della commercializzazione e della privatizzazione. L’arte, al pari di altri prodotti, viene offerta e
venduta come merce sul mercato. Anche l’artista, frattanto, deve produrre per mero amore del
profitto. Un processo scandaloso, perché l’arte, quale espressione dell’energia creativa
dell’uomo, dovrebbe possedere una dignità fine a se stessa. La «schiavitù» del capitalismo avvilisce
l’arte, la degrada a mero strumento: strumento d’intrattenimento per le masse, divertimento
lussuoso per i ricchi. Contemporaneamente, l’arte viene privatizzata analogamente a «come si
frammenta lo spirito comune in migliaia di direzioni egoistiche ». Ormai interessa soltanto una
superficiale originalità. Se qualcuno desidera valere qualcosa, allora deve differenziarsi dai suoi
concorrenti. L’arte non si sente più obbligata a una più alta verità, bensì pensa ormai soltanto «
a perfezionarsi in maniera autonoma, ma solitaria, egoistica» (Wagner, Denken 132).
Wagner difende la tesi secondo cui la corruzione della società ha corrotto anche l’arte. Senza una
rivoluzione della società, nemmeno l’arte potrà trovare la sua vera essenza. Ma l’artista non deve
attendere la rivoluzione, può già adesso agire per la libertà della società, iniziando l’opera di
liberazione nella propria sfera d’azione: l’arte può rammentare agli uomini il vero scopo della loro
esistenza, poiché esso consiste, dice Wagner, in nient’altro che nel dispiegamento dell’energia
creativa umana. Inequivocabilmente chiarisce: « Il più alto scopo dell’uomo è quello artistico»
(Wagner, Denken 145). La rivoluzione serve all’arte poiché l’arte deve porsi al servizio della
rivoluzione. L’uomo artistico è l’uomo autenticamente libero e perciò anche rivoluzionario.
La poesia mitica wagneriana L'anello del Nibelungo abbozza l’immagine di questo uomo libero.
Richard Wagner voleva collaborare, con la sua opera, alla liberazione politica, seppur rimanendo
persuaso che quest’opera potesse essere correttamente capita soltanto dopo la rivoluzione. Ma una
rivoluzione vittoriosa non venne. Per questo, Wagner si dovette accontentare di rendere
percepibile quantomeno la necessità di una rivoluzione futura; nell’ultimo decennio della sua vita,
negli anni dell’amicizia con
Nietzsche, Wagner è certo rassegnato politicamente, ma convinto a tal punto della sua arte da
crederla capace di poter compensare l’assenza di rivoluzione o, addirittura, di poterla sostituire.
L’esperienza vissuta dell’arte deve evocare per magia il momento, determinato nel tempo, della
redenzione dai mali della vita, e deve poi persino diventare messaggera e promessa di quella fausta
redenzione alla fine dei giorni.
Richard Wagner lavora un quarto di secolo alla composizione dell'Anello. Nel luglio 1874 completa
il Crepuscolo degli idoli. «Non aggiungo altro», scrive sull’ultima pagina di partitura della
Tetralogia.
Nel 1876 l’intero Anello viene rappresentato per la prima volta, in quattro giorni, per
l’inaugurazione del Teatro del festival di Bayreuth. Per Wagner, questo evento è il culmine della sua
carriera artistica e anche Nietzsche, dopo la sua rottura con Wagner, lo chiama « la vittoria
più grande che un artista abbia mai riportata» (U2:4).
L'Anello narra del tramonto degli dei e della nascita dell’uomo libero. Gli dei falliscono per la loro
stessa volontà di potenza. Essi corruppero il mondo fin dall’inizio, non riuscendo a conciliare fra
loro i due princìpi fondamentali della vita: l’amore e il potere. Gli dei sono coinvolti nelle potenze
vitali reciprocamente ostili. Aspirano a un nuovo inizio, che però è possibile soltanto se il
potere degli dei tramonta nella libertà dell’uomo. Walhall, la sede degli dei, va in fiamme quando
Brunilde restituisce l’anello, il simbolo del potere, all’elemento dell’acqua e perciò all’innocenza
della natura, quando dunque sparisce dal mondo il potere distaccato dall’amore ed è ristabilito
il giusto ordine originario dell’essere. La sua conservazione è stata affidata alla libertà dell’uomo.
Il preludio dell’Oro del Reno, così frequentemente elogiato da Nietzsche, attacca con la famosa
triade in mi bemolle maggiore, l’idea acustica dell’inizio di tutte le cose: l’acqua, l’agitato elemento
originario. Anche in seguito, Nietzsche non abbandonerà questa immagine musicale
dell’acqua. L’elemento fluttuante, ondeggiante, diventa per lui un simbolo della vita agitata: « così
vivono le onde - così viviamo noi, i dotati di volere! » (GS:224)
A partire dalla dissolvenza del primo suono, si dispiega in Wagner tutto il resto. L’istante della
creazione diventa udibile quando sopraggiunge il suono che simbolizza il sole. Il fuoco del sole fa
risplendere l’acqua come oro. E oro v’è pure sul fondo dell’acqua. Tuttavia, esso è pura bellezza,
non è ancora «valore », non è ancora coinvolto nell’orbita funesta di potere e possesso, non è ancora
toccato dalla brama di sfruttamento. Le figlie del Reno custodiscono il tesoro danzandogli intorno
affettuosamente.
Ora giunge Alberico, l’alburno nero, un principe delle tenebre, signore dei Nibelunghi. Non ha
alcuna sensibilità per la bellezza del tesoro, egli non riesce a lasciarlo così com’è, vuole possederlo,
per accrescere il proprio potere. Egli ne profana il valore volendolo sfruttare.* La volontà di
sfruttamento è assenza d’amore. Alberico deve uccidere l’amore dentro di sé ed essere
completamente insensibile affinché gli riesca il ratto del tesoro. Solamente un cuore freddo può
predare il metallico tesoro.
Questa scena iniziale contiene già l’intero conflitto del dramma. Il rapporto di tensione fra potere e
amore, brama di possesso e dedizione, gioco e costrizione, determinerà la Tetralogia sino al finale.
Nel regno dei Nibelunghi, dall’aureo tesoro viene forgiato un anello che conferisce potere
sconfinato al suo portatore. Non v’è dubbio che Wagner, con i Nibelunghi, abbia voluto
personificare lo spirito demoniaco dell’epoca industriale. Sotto l’impressione che fecero su di lui gli
impianti portuali londinesi, fece notare a Cosima: « Il sogno di Alberico è qui realizzato. Nibelheim,
dominio universale, attività, lavoro, dappertutto la pesantezza delle esalazioni e della nebbia»
(Cosima Wagner 1052).
Anche Wotan, l’alburno bianco e dio supremo, s’è fatto coinvolgere nel mondo del potere e del
possesso e anch’egli, dopo averlo conquistato, non restituisce l’anello dei Nibelunghi alle figlie del
Reno, poiché è alleato, mediante accordi, col regno dei Nibelunghi. In tal modo, non può ristabilire
l’innocenza dell’essere. E per questo Erda, la ctonica madre originaria, gli nega il
riconoscimento: «Tu non sei / ciò che dici di essere» (Wagner, Ring 240). La confusione di potere,
oro e alleanza vince sulla giustizia naturale dell’essere.
L’universo mitico di Richard Wagner ha dunque tre livelli. In basso: l’essere originario di bellezza e
amore, incarnato dalle figlie del Reno e da Erda, la madre terra. In alto: il mondo dei Nibelunghi,
dove contano il potere e il possesso. E, coinvolto in esso, in maniera nefasta, il terzo mondo, il
mondo degli dei che si sono estraniati dalle loro origini ctonie. Al termine dell’Oro del Reno, le
figlie del Reno confidano: « Intimità v’è solo nel profondo e fedeltà: / ciò che gode là in alto / è
falsità e viltà! »
Poi appare Sigfrido, che ha origine da una complessa genealogia. Uccide il drago, sottrae il tesoro
ingenuamente, dà a Brunilde l’anello come dono d’amore. Gli mancano però l’intelligenza e il
sapere. Per questo, cade vittima di una cabala fatta d’invidia, volontà di potenza e brama
di possesso. Hagen, figlio d’Alberico, lo uccide. Ma lo sfacelo non è ancora del tutto compiuto;
Brunilde porta a termine l’opera e restituisce l’anello al Reno. Walhall va in fiamme e gli dei
bruciano.
Gli dei, dunque, hanno parte nella corruzione generale del mondo. Da essi non verrà alcuna
salvezza. Può portarla soltanto l’uomo libero che si stacca dall’orbita funesta di potere, possesso e
accordi di scambio. Il nuovo inizio riesce senza dei, i quali, esausti dalla loro fallita
creazione, possono morire quando l’uomo si desta all’amore e alla bellezza.
L’antico mondo, dominato da volontà di potenza e brama di possesso, declina quando il nuovo
mondo nasce a partire dall’amore e dalla bellezza. Richard Wagner vuole collaborare a ciò col suo
dramma mitologico universale. Ma come bisogna immaginarselo? Questo intero apparato mitico
può forse essere accolto diversamente che come finzione? Wagner non ha modellato soltanto una
sostanza mitologica che, nel contempo, non è più animata da fede alcuna? L’opera di Wagner infatti
non è del tutto basata su una ricezione estetica? E non viene per questo neutralizzata l’efficacia
mitica?
Wagner era senz’altro consapevole delle difficoltà. Ciò è dimostrato dai numerosi saggi teorici, che
però mostrano anche la sua intenzione di far saltare i confini del meramente estetico e di ottenere
uno statuto della coscienza che si può chiamare « mitico » e che lo stesso Wagner chiamò «
religione ». Egli spiega: « Si potrebbe dire che qui, dove la religione diventa artificiosa, è riservato
all’arte di salvare il nucleo della religione » (Wagner, Denken 362).
Richard Wagner distingue il «nucleo della religione» dal suo « apparato di miti », con i suoi
complessi e controversi dogmi e cerimonie... lo distingue dall’intero fondo di tradizione religiosa,
che ancora sopravvive soltanto perché viene supportato dalle consuetudini e protetto dal
potere statale. Wagner, tuttavia, definisce il nucleo della religione, chiamato a salvare la sua arte,
come il « riconoscimento della caducità del mondo e del precetto desuntone della liberazione dalla
stessa» (Wagner, Denken 363). Wagner vede il mondo con gli occhi di Schopenhauer. Quello
che egli chiama la caducità del mondo significa in Schopenhauer un mondo nel quale le singole
personificazioni della volontà, nella lotta e nella reciproca distruzione, si preparano un inferno. Ciò
vale per la natura, ma anche per l’universo umano, per la giungla della vita. Com’è noto, anche per
Schopenhauer l’arte è una potenza redentrice; nell’autentico diletto artistico, scrive, siamo
«dispensati dal meschino anelito della volontà, celebriamo il sabato del lavoro forzato della volontà,
la ruota di Issione resta im»mota ».
Collegandosi a Schopenhauer, Wagner formula le sue
idee sulla redenzione tramite l’arte: «Nell’ora benedetta, quando tutte le forme fenomeniche si
disfano davanti a noi come in un sogno presago, crediamo di divenire partecipi della redenzione
stessa, già presentendola: allora non ci intimorisce più l’idea di quel baratro spalancato, l’immensità
terrifica della profondità, tutti i parti morbosi della volontà che dilania se stessa, così come il
giorno... macché, la storia dell’umanità ce l’aveva presentata: puro e desideroso di pace, dunque,
s’intona per noi il suono della natura, impavido, promettente, acquietante, redentore dell’universo.
Unificata nel lamento, l’anima dell’umanità che diventa consapevole, attraverso questo lamento,
del suo alto incarico di redenzione dell’intera natura, la quale con-patisce, si sottrae fluttuando
all’abisso dei fenomeni, e distaccatasi [...] la volontà instancabile si sente liberata da se stessa»
(Wagner, Denken 396).
Se l’arte vuole salvare il nucleo della religione, allora deve riuscire a essa di portare alla luce una
durevole mutazione della persona interiore. Il godimento artistico momentaneo non è sufficiente. La
volontà dell’arte come religione non supera i confini dell’evento meramente estetico. E questa deve
essere sempre la grande offesa per un artista che, come Wagner, si sente anche fondatore di una
religione. In questo conflitto si accumula un dirompente potenziale di ostilità; l’ostilità verso un
mondo che viene retto dal denaro, e nelle faccende dell’arte, dall’affarismo artistico, e nel quale,
dall’arte, non ci si attende altro che, appunto... arte soltanto, magari persino intrattenimento
soltanto. In questa ostilità della volontà artistica empatica con il mondo secolare e forse anche
banale, si trovano per giunta le radici dell’antisemitismo, talvolta fanatico, di Wagner. Infatti, sono
gli ebrei che Wagner considera come la personificazione del principio economico e del superficiale
intrattenimento.
Wagner voleva ottenere l’effetto sacrale e redentore attraverso il carattere dell’opera d’arte totale.
L’arte deve mobilitare tutte le sue forze. Ora è la musica che trova
una lingua per l’« indicibile », una lingua compresa soltanto dalla sensibilità; ora è l’azione sul
proscenio, i gesti, la mimica, la strutturazione dello spazio; ora è anche e soprattutto il rituale
solenne della giornata del festival, l’adunata attorno all’altare dell’arte.
Richard Wagner deve tirare tutti i registri della sua efficacia per uscire dalla riserva delle arti
meramente belle e rendere possibile un’esperienza vissuta di tipo mitico, un’esperienza religiosa. E
con questo sforzo diventa egli stesso un esponente dell’affarismo artistico da lui tanto odiato. La sua
arte, come già hanno osservato criticamente dei contemporanei, diviene un attacco generale a tutti
i sensi. Ciò conferisce alla sua opera, che protesta contro la modernità capitalistica, un peculiare
tratto moderno. Infatti, il primato dell’efficacia e dell’intenzione rivolta all’efficacia appartiene al
carattere di questa modernità, nella quale l’opinione pubblica si organizza come un mercato. Qui,
anche gli artisti devono concorrere uno contro l’altro e le conseguenze sono la ricerca
dell’originalità e dell’effetto. Baudelaire, un wagneriano della prima ora, consiglia agli artisti, in
questa situazione, di imparare dalla pubblicità: « Sollevate altrettanto interesse con mezzi nuovi [...]
raddoppiate, triplicate, quadruplicate la dose» (Oehler 48). Il mercato ha portato il pubblico al
potere. Esso esige in politica e nell’arte i suoi eroi. Vuole essere adulato, sedotto o persino
sopraffatto. Ciò che arriva sul mercato deve avere un lato sensazionale che catturi. Comincia il
grande periodo dell’estetica della merce.
Ovviamente, l’arte è sempre stata riferita al pubblico, ma nella modernità si spostano però
chiaramente gli accenti sul principio dell’efficacia. Ciò dovette allora richiamare sulla scena anche
un esoterismo intenzionale, nell'art pour l'art, nel simbolismo, una tendenza alla difficoltà, per
ostacolare la comprensione e per rendere più lunga la via verso il pubblico. Tuttavia, predominante
nell’epoca di Wagner è la premura di conquistare il pubblico mediante compiacenza, provocazione
o mistificazione. Esempi di
i
i
; ciò sono la pittura opprimente di un Makart o di uno Stuck,
: le ovvietà cartellonistiche dei naturalisti, la compiacenza dei realisti. L’arte procede verso
l’esterno, si definisce sul fronte dei suoi effetti: ciò che non ha effetto non esiste.
»
In quest’epoca, nella quale Richard Wagner diventa un eroe dell’arte, l’assioma di Cartesio sarebbe
suonato così: ho effetto, quindi sono. In tal modo, Richard Wagner sa anche come costruire la
propria persona quale mito pubblico. Probabilmente, c’è qui una connessione necessaria:
la produzione mitica nella modernità non regge senza l’auto-mistificazione del produttore. Wagner,
per esempio, non comincia la sua battaglia campale, per la conquista del pubblico di Parigi, con
l’esibizione delle sue opere, bensì con la locazione di una sfarzosa residenza, che non può
assolutamente permettersi ma che desta l’interesse per la sua persona. Ciò che conta è l’effetto;
Wagner non disdegna ; nulla di ciò che promette di farlo ascendere. Wagner, il fondatore moderno
di una religione, è stato anche uno stratega della commercializzazione della sua arte. Nietzsche :
nota già molto presto questo tratto di Wagner sensaziona-listico e ossessionato dall’efficacia; negli
appunti del 1874 si parla della « natura di attore » (FP3/3-2:364), non ancora certo in senso
sfavorevole come in seguito, ma già con una vena scettica. Dopo la separazione, Nietzsche
scoprirà l’imbroglione nell’attore, e chiamerà Wagner il «Cagliostro della modernità» (W:175), il
quale calcola i suoi effetti su un pubblico il cui gusto segue il principio di base: «Chi ci mette
sottosopra è forte; chi ci porta in alto è divino; chi ci fa presentire è profondo» (W:177).
Già con i primi abbozzi dell' Anello era chiaro, per Wagner, che questo dramma musicale non
dovesse essere rappresentato nei consueti teatri d’opera. Egli aveva bisogno di uno spazio che
dirigesse tutta l’attenzione sugli avvenimenti della scena, che catturasse il pubblico e lo mettesse in
uno stato d’animo solenne. Esso doveva essere tolto dalla sua vita usuale e per alcuni giorni
raccolto in un luogo da visitare unicamente a questo scopo. Attorno alla re-
cita sul palcoscenico, doveva essere organizzata, per un tempo limitato, una variegata vita
comunitaria, quale pregustazione di una vita nella «libera e bella dimensione pubblica». L’ingresso
doveva essere libero: Wagner sperava in sovvenzioni statali e in mecenati privati. Dapprima, voleva
innalzare il suo teatro sul Reno e invitare a « grandi feste drammatiche » (Muller/Wapneski 592).
Infine, la sua scelta cadde su Bayreuth, che si trovava nella regione del suo sostenitore, il re
bavarese Luigi II, sul cui sostegno egli contava. Quando poi, il 22 marzo 1872, cinquantanovesimo
genetliaco di Richard Wagner, ebbe luogo la solenne posa della prima pietra, era presente anche
Friedrich Nietzsche che, quattro anni dopo, nella Quarta e ultima delle Considerazioni inattuali,
scriverà a proposito di tale impresa che essa non ebbe « segni precursori », trattandosi della « prima
circumnavigazione nel regno dell’arte in cui, a quanto sembra, è stata scoperta non solo una nuova
arte, ma l’arte stessa» (W:81).
Nietzsche vede l’arte fare ritorno, con Wagner, alla sua origine nell’antichità greca. Essa diventa
nuovamente quel sacrale evento sociale che celebra l’importanza mitica della vita. Essa si
riappropria di quel ruolo per cui ima società comprende se stessa e, secondo la visione comunitaria,
il senso di tutta la concitazione della vita può diventare pubblico. Ma in cosa consiste questo «
senso »?
Nietzsche non si sofferma molto sui dettagli mitologici della poesia wagneriana. Egli scopre
l’aspetto mitico dell’arte wagneriana quasi esclusivamente nella musica, che egli chiama: una
lingua del sentimento giusto. Bisogna, dice, aver sofferto la malattia della nostra civiltà per poter
accogliere grati il dono della musica wagneriana. Il dramma musicale è per lui una redenzione dalla
sofferenza dovuta al disagio nella civiltà. « Perché l’arco non si spezzi, perciò esiste l’arte»
(W:101). Wagner ha notato che la lingua è malata. Il progresso delle scienze ha distrutto la nitida
immagine del mondo. Il regno delle idee si estende fin nell’invisibile, nel grande come nel piccolo.
E contemporanea-
mente, la civiltà diventa sempre più complessa e complicata. La specializzazione e la divisione del
lavoro aumentano, le concatenazioni dell’agire, mediante le quali ognuno è collegato con il tutto, si
allungano e si confondono. A colui che tenta di capire il tutto in cui vive, la lingua nega infine il suo
servizio. Mediante questa eccessiva autodilatazione, la civilizzazione (e con essa la lingua) è stata
esaurita e non può quasi più compiere ciò per cui essa precisamente esiste, ossia l’intesa sulle
«afflizioni più elementari della vita» (W:104). La lingua non afferra più l’intero al quale appartiene,
non raggiunge più, però, nemmeno la profondità del singolo. Si dimostra troppo misera e troppo
limitata. La accompagna la sensazione di impotenza, ma contemporaneamente, la più salda
connessione del tessuto sociale comporta il fatto che la lingua sperimenti una crescita di potere
pubblico. La lingua pubblica diventa ideologica, cosa che Nietzsche chiama la « follia dei concetti
generali » (W:104) che afferrano il singolo come se avessero «braccia di spettro » e lo spingono
dove egli non vuole andare. Vi è di certo un accordo fra la parola e l’azione, ma senza un accordo
col sentimento. «Se dunque», scrive Nietzsche, « la musica dei nostri maestri tedeschi risuona in
mezzo a questa umanità piagata, che cosa propriamente si esprime in essa? Nient’altro appunto che
il sentimento giusto, nemico di ogni convenzione, di ogni artificiale estraniazione e incomprensione
fra uomo e uomo: questa musica è ritorno alla natura, mentre è insieme purificazione e
trasformazione della natura; giacché nell’anima dei più amorevoli è sorta la necessità di quel
ritorno, e nella loro arte risuona la  natura trasformata in amore» (W:105).
Il sentimento giusto, per Nietzsche, è quel sentimento che egli considera come una potenza mitica
di vita e il cui nome già conosciamo: il dionisiaco. Quello che Nietzsche si aspetta dal dramma
musicale di Wagner è la riunificazione dionisiaca negli strati profondi del sentimento, quella
comunione tramite l’arte, che egli descrisse sull’esempio del modo di agire della tragedia greca. «
Sotto l’in-
cantesimo del dionisiaco [...] si restringe il legame fra uomo e uomo [...] Ora [...] ognuno si sente
non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di
Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria»
(NT:25ss.). Nietzsche esperisce il dramma musicale wagneriano come una grande rappresentazione
universale dionisiaca. Per diventare consapevole di questa esperienza vissuta, rivolge la sua
distinzione tra apollineo e dionisiaco a Wagner.
Apollinei sono i destini e i caratteri delle singole figure, il loro parlare e agire, i loro conflitti e le
loro competizioni. Ma lo sfondo sonoro è il dionisiaco; in esso, certamente vi sono anche delle
differenze (la tecnica wagneriana del Leitmotiv le sottolinea infatti espressamente), ma tutto ciò che
è differente viene rigettato continuamente nel mare sonoro. L’ebbrezza musicale dionisiaca dissolve
le maschere dei caratteri a vantaggio di un sentimento simpatetico di totalità e unità. La musica
wagneriana, per Nietzsche, è un evento mitico perché esprime l’unità ricca di tensioni del vivente.
Nietzsche diventò quindi un wagneriano perché percepì il dramma musicale di Wagner come ritorno
del dionisiaco e dunque come un medium che dischiudeva un accesso agli strati elementari della
vita. La filosofia della musica nietzscheana, collegandosi a Wagner, è il tentativo di comprendere
l’universo musicale di suoni come la rivelazione di una verità abissale sull’uomo. A tal
proposito, Nietzsche inizia con esplorazioni a cui rinvierà in seguito Lévi-Strauss, nel suo
capolavoro Mitologiche, con l’affermazione secondo cui, nella musica e specialmente nell’essenza
della melodia, si trova la chiave per « il mistero ultimo dell’uomo ». La musica è la più antica
lingua universale, comprensibile a chiunque e tuttavia intraducibile in qualsiasi altro idioma. Cosa
bisogna intendere con questo « mistero » di cui parlano Nietzsche e Lévi-Strauss?
La musica dunque precede la confusione babilonese
delle lingue e poiché, ancora oggi, rappresenta l’unico mezzo di comunicazione universale, si può
considerarla come una potenza che trionfa sulla confusione delle lingue. L’idea, a ciò legata, che la
musica sia più vicina all’essere di tutti gli altri prodotti della nostra coscienza è antichissima. Essa
sta alla base delle dottrine orfiche e pitagoriche. Ha guidato Keplero nel calcolo delle orbite
planetarie. La musica è valsa come lingua del cosmo, come senso figurato e poi, in Schopenhauer,
come espressione immediata della volontà universale.
Quando il logos rompe il silenzio delle mute cose e dunque il loro essere inesauribile non può non
scadere nel concetto, e quando è il mito che vuole dire quello che è incomprensibile per il logos,
allora sarebbe la musica a intrattenere il rapporto più intimo con il mitico. Essa è forse, in generale,
quel residuo mitico che si è affermato energicamente fin nel nostro presente, fino a
quell’onnipresenza della musica resa possibile dall’evoluzione tecnologica. Essa penetra ovunque,
in tutte le relazioni e le nicchie. E' un tappeto sonoro, atmosfera, ambiente. È diventata, frattanto, il
brusio di fondo della nostra esistenza. Chi siede in metropolitana con il Walkman nelle orecchie o fa
jogging al parco, costui vive in due mondi. Viaggia o fa jogging in modo apollineo e ascolta in
modo dionisiaco. La musica ha socializzato il trascendere e lo ha reso uno sport di massa. Le
discoteche e le sale da concerto sono le cattedrali di oggi. Una considerevole parte dell’umanità fra i
tredici e i trent’anni vive oggi negli spazi dionisiaci, non linguistici e pre-logici, del rock e del pop.
I flutti della musica non conoscono confini, scalzano i terreni politici e le ideologie, come è stato
dimostrato nei sovvertimenti del 1989. La musica istituisce nuove comunità, trasla in un’altra
condizione, dischiude un altro essere. Lo spazio dell’ascolto può isolare il singolo e mettere a tacere
il mondo esterno, ma la musica riunisce tuttavia chi la ascolta a
I
un altro livello. Essi possono diventare monadi prive di finestre, ma non sono soli se in tutti loro
risuona la stessa
cosa. La musica rende possibile una profonda coesione sociale in uno strato della coscienza che in
precedenza veniva chiamato «mitico».
Nietzsche cita la « moda sfacciata » di Schiller, che divide gli uomini l’uno dall’altro e li mette uno
contro l’altro, e la sua speranza che la « favilla degli dei » possa nuovamente produrre la grande
opera di unificazione. Nietzsche crede capace di quest’opera di unificazione il dramma musicale
wagneriano: esso deve accantonare le « rigide, ostili delimitazioni » in un nuovo « vangelo
dell’armonia universale» (NT:25ss.).
Armonia universale? Ma non è un mito tragico, quello che Wagner porta sul palcoscenico?
Nietzsche tenta di eliminare il malinteso, come se si trattasse di una contraddizione se la coscienza
tragica e l’armonia universale vengono accostate l’una all’altra. La vita dionisiaca, afferma
Nietzsche, è tragica poiché si compie con la morte e il divenire, con il crescere « della rosa dalle
spine», con l’appassire dei fiori e il maturare del frutto. L’armonia universale si trova nella
consapevolezza del necessario tramonto e del sacrificio; è ima consapevolezza a cui si è elevato «
l’uno-originario, in quanto eternamente soffre ed è pieno di contraddizioni » (NT:35) e a cui si
mostra « il gioco di costruzione e distruzione del mondo individuale » come « efflusso di una gioia
primordiale, similmente come la forza formatrice del mondo viene paragonata da Eraclito l’oscuro a
un fanciullo che giocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi di sabbia e di nuovo li disperda»
(NT: 160).
Lo spettatore della tragedia o del dramma musicale si identifica con l’eroe tragico, per esempio con
Sigfrido, ma lo guarda come fenomeno in primo piano, come immagine luminosa, sullo sfondo
oscuro della vita dionisiaca. Vista da questo punto d’osservazione, come immagine luminosa nella
notte, « in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente
potente e gioiosa » (NT:54). L’oscuro sottofondo o sottosuolo della
vita dionisiaca risuona nella musica. Nel libro sulla tragedia, Nietzsche conia l’espressione
«orgiasmo musicale» (NT: 139). Egli percepisce la musica, tanto più quella wagneriana, in maniera
così intensa da intendere l’agire sul palcoscenico del dramma musicale e i miti ivi messi in scena
non solo come « immagine luminosa », bensì anche come una sorta di schermo protettivo contro la
violenza divorante della musica pura e assoluta. Quell’«altro essere» (NT: 139), nel quale la musica
è in grado di penetrare, non si può quasi sopportare. Lì in mezzo, bisogna spingervi dei media
mitiganti. Tali media sono i viticci e le coulisses costituiti dagli eventi teatrali e sociali, dalla
scenografia, dalle vanità degli artisti, dalle interpretazioni e dalle convenzioni del gusto, ossia tutto
l’ampio universo orizzontale dell’attività culturale. Se tutto ciò non determina il predominio, allora
si genera una situazione nella quale si può udire il canto delle sirene senza che i sensi svaniscano. Si
è dunque provveduto alla necessaria distanza che permette all’accorto entusiasta di stare all’ascolto
« come se l’intimo abisso delle cose [gli parlasse] distintamente» (NT: 139).
La coscienza dionisiaca, all’interno della quale si esercita l’arte, è una santificazione della vita,
un’affermazione empatica nonostante (o forse, proprio a causa di) questo sguardo negli oscuri abissi
che, per Nietzsche, si presenta sotto due aspetti, che sono il « terribile processo di distruzione della
cosiddetta storia universale» e «la crudeltà della natura» (NT:54ss.). La coscienza dionisiaca si
intromette nell’immensità della vita, facilitata dal medium artistico, accordandosi al fatto che non
v’è alcuna risoluzione terrena della grande dissonanza della vita. La vita sarà sempre ingiusta nei
confronti del singolo, al quale rimane soltanto lo sgravio della comunione col processo vitale
nel suo complesso. Per Nietzsche, questa è la « consolazione metafisica» (NT:54) che l’arte
garantisce. Tale consolazione è di natura puramente estetica, cosa provata già solo dal fatto che
l’efficacia rimane limitata. «Finché ci sentiamo tenuti », scrive Nietzsche, « in balìa dell’arte, la
valutazione delle cose è, come nel sogno, mutata» (W:101). Ma d’altro canto lo è soltanto finché
dura; « abbiamo bisogno proprio del drammaturgo totale, perché ci liberi, almeno in certe ore, dalla
terribile tensione» (W:118). La «consolazione metafisica» dell’arte non è un modo per trovar
consolazione in un mondo ultraterreno con i suoi risarcimenti e i suoi sgravi e con la sua promessa
di un regno futuro di glande giustizia.
Questa consolazione metafisica si trova in aperto contrasto con la giustificazione del mondo
metafisico-religiosa. Ma questa formula tragico-dionisiaca - « giacché solo come fenomeni estetici
l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati » (NT:45) - si trova in contrasto anche con
l’atteggiamento morale. La morale, pur rivolgendosi al singolo, punta tuttavia su un miglioramento
del mondo e su un appianamento dei suoi contrasti. La morale, afferma Nietzsche, è diventata un
autentico deus ex machina (NT: 118) della modernità secolarizzata. Essa manca di « saggezza
dionisiaca » e per questo l’atteggiamento morale, di norma, rifugge lo sguardo spietato della vita. A
questo sguardo, infatti, si mostra che ogni tentativo di far regnare qui e ora la giustizia ha sempre
l’effetto di generare ingiustizia altrove. Il processo complessivo è un nesso di delitto e colpa. Quella
felicità che ognuno gode nell’istante è davvero uno scandalo di fronte alla sofferenza del mondo.
Qualcuno ne deriva, per se stesso, un successo, benché il tutto rimanga in cattive acque. «Non si
può essere felici finché tutti intorno a noi soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere
morali finché l’andamento delle cose umane viene determinato dalla violenza, dall’inganno e
dall’ingiustizia» (W:100). Nietzsche non rigetta la morale, ma critica la saccenteria e il peculiare
ottimismo riformatore che, nella maggioranza dei casi, sono a essa connessi. In ogni caso, però,
l’atteggiamento morale significa per lui un restringimento del campo che viene dischiuso dalla «
saggezza dionisiaca ».
E' questa saggezza che esprime il «vangelo dell’anno-
nia universale ». Non suona né in modo religioso né morale, ma estetico. Di sicuro, aggiunge
Nietzsche, l’autentico « ascoltatore estetico » (NT: 149) che è in grado di ascoltare deve essere
ancora creato. Tuttavia, grandi opere d’arte, come per esempio la tragedia greca e il dramma
musicale wagneriano, hanno la forza di produrre il pubblico a esse adeguato e corrispondente.
Il pubblico contemporaneo deve percorrere una lunga via d’arricchimento prima di accogliere l’arte
nel modo serio che essa merita. Infatti, questa serietà dell’arte, la disponibilità a lasciarsi incantare
da essa e a raggiungere una più alta serenità, presuppone a sua volta un impegno completamente
diverso. Bisogna avere uno stato d’animo tragico per dimostrarsi degni della serenità estetica.
Bisogna essere privi di illusioni e, tuttavia, rimanere appassionatamente innamorati della vita, anche
scoprendo la sua grande inutilità. Nietzsche esige molto da colui che è maturo per la tragedia.
Costui deve innanzitutto essersi schiuso al tremendo e all’orrore, e poter poi dimenticare di
nuovo questa « terribile angoscia » nell’esperienza grazie alla quale «già nell’attimo più fugace,
nell’atomo più breve della sua vita, può accadergli qualcosa di santo» (W: 101 ss.). L’attimo
estetico è un siffatto atomo di felicità, che compensa ogni lotta e ogni stento. « E se l’intera umanità
», così conclude Nietzsche questo ragionamento, «dovrà un giorno morire - chi potrebbe dubitarne?
- ad essa è posta, come compito supremo per tutti i tempi avvenire, la meta di concrescere a unità e
a comunanza in modo tale da andare incontro come un tutto e con sentimenti tragici alla fine
incombente; in questo compito supremo è racchiusa ogni via per la nobilitazione degli uomini»
(W:102).
Il sommo compito è dunque il produrre o il cogliere attimi di massimo successo in un uomo, in
un’opera. Per questo compito, nei suoi appunti, Nietzsche, ha scelto, una sola volta, la peculiare
espressione «suprema estasi dell’universo » (FP3/3-1:204). In merito a ciò, bisogna immaginarsi
quell’istante in cui, in prossimità del pericolo
estremo, per esempio nella «mente di colui che sta affogando », viene concentrato un tempo infinito
in un secondo: l’estasi estrema, l’estremo dolore, quando la vita intera toma ancora una volta
nuovamente a risplendere prima di tramontare. Di questo tipo sono le immagini luminose e
le illuminazioni del genio. Così come il singolo, in questo istante, comprende tutta la sua vita e può
esperirla come giustificata, così anche un’intera storia dell’umanità viene schiarita e giustificata
dalla luce di queste immagini splendenti. Culminare in una tale « suprema estasi » realizza il senso
della civiltà.
Una tale «suprema estasi» è stato, per Nietzsche, il dramma musicale wagneriano e anche, almeno
inizialmente, la persona di Wagner. Egli ammirava l’audacia con cui Wagner collocava l’arte al
vertice di tutte le possibili gerarchie di scopi della vita civile; la presunzione con cui egli si rifiutava
di vedere nell’arte soltanto una faccenda secondaria; la volontà di potenza con cui Wagner
addirittura imponeva alla società la sua arte. Nietzsche ammirava questo tratto napoleonico, legato
al fascino, alla magia e alla vena sacerdotale. Nietzsche vedeva rappresentato l’universo opposto e
prosaico, rispetto a questo, in David
Friedrich Strauss, che nella Prima inattuale viene stronca-

to come cattivo esempio per la banalizzazione del sublime. Nella polemica contro Strauss,
Nietzsche non si interessa della persona, ma del suo atteggiamento spirituale, sintomatico e
rappresentativo nel juste milieu della borghesia tedesca in via di rafforzamento. Un
atteggiamento spirituale che, questa l’aspettativa di Nietzsche, Wagner e l’impresa di Bayreuth
avrebbero dovuto superare. Poco prima dell’inaugurazione del primo festival di
Bayreuth, Nietzsche ha descritto ancora una volta la completa rovina dell’arte nel mondo borghese:
«Strano offuscamento del giudizio, malcelata smania di diletto, di divertimento a ogni costo, dotte
preoccupazioni, pretenziosità e istrionismo con la serietà dell’arte da parte degli esecutori, brutale
avidità di guadagno da parte degli impresari, vuotaggine
e spensieratezza di una società [...] tutto ciò insieme forma l’atmosfera greve e corrotta della nostra
odierna situazione artistica» (W:97).
Con grande delusione di Nietzsche, Bayreuth non apporta nessuna modifica a questa situazione. Al
contrario: Nietzsche, che alla fine di luglio del 1876 partirà per Bayreuth per assistere alle prove,
facendo esperienza di tutto quel trambusto (l’arrivo del Kaiser, il contegno di corte di Richard
Wagner sul colle del festival e nella casa di Wahnfried, l’involontaria comicità della messa in
scena, lo scalpitare dell’apparato mitico, la serata allegra, soddisfatta e per nulla bisognosa di
redenzione, tutt’intorno all’evento artistico, le turbolenze dell’assalto ai ristoranti dopo la
presentazione)... Nietzsche è dunque sconcertato, afflitto e anche malato, e già dopo pochi giorni
ripartirà da Bayreuth. « Qui trovate spettatori preparati e devoti », aveva scritto Nietzsche in
precedenza, «la commozione di uomini che si trovano all’apice della loro felicità e proprio in essa
sentono raccolto tutto il loro essere, per farsi rafforzare in un ulteriore e più alto volere»
(W:98). Nietzsche, a Bayreuth, ha cercato invano tali spettatori; dolorosamente deve sperimentare
che li aveva soltanto immaginati.
Ma non si è per caso aspettato fin troppo dalla musica wagneriana e dal dramma musicale in
generale? Non si è ripromesso troppo da essi? Dopo la delusione di Bayreuth del 1876, Nietzsche
inizierà col lavoro al libro Umano, troppo umano, per proteggersi, in futuro, dalle delusioni.
Ma non si è ancora giunti a questo punto quando Nietzsche, fra il 1872 e il 1874, scrive le prime tre
Considerazioni inattuali. Ritiene ancora capace l’impresa wagneriana di «una enigmatica
profondità, anzi, un’infinità», la « coda di cometa, che sembrava accennare a qualcosa di incerto
e non rischiarabile » e crede anche che quest’impresa, magari col suo aiuto, riuscirà a lasciarsi
prendere nella malia delle « immensità ». Essa ridesterà, così egli spera, il senso per la grande
«incommensurabilità» (NT:81) dell’essere. Nelle

I
j
Considerazioni inattuali Nietzsche si confronterà con uno spirito del tempo a cui rimprovera «il
porre al posto di una consolazione metafisica una consonanza terrena, anzi un proprio deus ex
machina, ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli» (NT: 118).
* Gioco di parole fra Wert (valore) e entwerten (sfruttare). (N.d.T.)
6. Gli spiriti dell’epoca. Il pensiero in casa di correzione. I grandi disincanti.
Le Considerazioni inattuali. Contro il materialismo e lo storicismo. Scosse liberatorie e cure
disintossicanti.
Con e oltre Max Stirner.
NIETZSCHE voleva l’immenso e perciò la musica gli era così vicina. Egli si augurava il ritorno del
sentimento tragico del mondo. Voleva la saggezza dionisiaca invece della scienza. Ora, però, ha a
che fare con un’epoca in cui la scienza celebra immensi trionfi. Il positivismo, l’empirismo,
l’economicismo, in collegamento con un eccessivo pensiero utilitaristico, determinano lo spirito del
tempo. E, soprattutto, si è ottimisti. Inoltre, annota Nietzsche con sdegno, la fondazione del Reich
tedesco viene considerata come «il colpo [...] demolitore contro ogni filosofare ’pessimistico’ »
(SE:33). Nietzsche presenta alla sua epoca la diagnosi secondo cui essa è « onesta » e « sincera»,
ma in maniera plebea. Essa è «più sottomessa, più vera di fronte a ogni sorta di realtà, ma più
servile ». Essa cerca ovunque teorie adatte a giustificare una sua « sottomissione all’oggettività».
Nietzsche aveva davanti agli occhi l’aspetto Biedermeier e pusillanime di questo realismo. Ma dalla
metà del XIX secolo imperversò un realismo che si sottomise allo stato di cose soltanto per poterlo
dominare più completamente e poterlo riplasmare nel proprio senso. La « volontà di potenza» che
Nietzsche annuncerà in seguito trionfa già, ma non sulle cime del «superuomo»,
bensì nell’industriosità da formiche di una civiltà che crede alla scienza in tutte le cose pratiche.
Questo valeva per il mondo borghese, ma anche per il movimento operaio, la cui
persuasiva parola d’ordine notoriamente recitava: « sapere è potere ». La formazione doveva portare
a un’ascesa sociale e rendere resistenti contro le illusioni di ogni specie: a chi sa qualcosa non si
può dare a bere facilmente più nulla; l’aspetto impressionante del sapere è che non c’è più bisogno
di lasciarsi impressionare. Viene preferito un tipo di sapere col quale ci si può preservare dalle
tentazioni dell’«entusiasmo» (DS:23). Soltanto chi è senza esaltazioni, chi sbriga le cose in modo
freddo e oggettivo, va avanti e può intascare un aumento di sovranità. Si vuole tirare le cose verso il
basso e ridurle, ove possibile, a un misero formato.
È stupefacente, del resto, come dalla fine del XIX secolo, dopo i voli ad alta quota dello spirito
assoluto idealistico, d’un tratto sorga ovunque il desiderio di rendere l’uomo piccino. Ha inizio la
fortuna del tipo di pensiero: «l’uomo non è altro che...» Per il romanticismo, com’è noto, il mondo
comincia a cantare solo quando si azzecca la parola magica. La poesia e la filosofia della prima
metà del secolo furono il progetto più entusiasmante di trovare e inventare parole magiche sempre
nuove. Il periodo richiedeva significati esaltanti. Criticando le opinioni prosaiche del suo tempo,
Nietzsche finisce in acque romantiche in modo più deciso di quanto in seguito sarà disposto a
riconoscere. Già da studente si era accostato a un maestro che aveva difeso Hölderlin, il suo poeta
preferito. Lo spirito della seconda metà del secolo non era più bendisposto verso i matadores nel
teatro magico dello spirito; essi sembravano dei bambini quando i realisti se ne stavano sulla
porta con il loro senso per i dati di fatto, armati della formula del « nient’altro che ». L’allegra
brigata idealistica e romantica aveva fatto follie e aveva messo tutto sottosopra, ma adesso
bisognava rimettere in ordine, ora inizia la serietà della vita, di cui i realisti ben si occuperanno.
Questo realismo della seconda metà del XIX secolo saprà fare il gioco di prestigio di pensare
l’uomo in piccolo e tuttavia di destinarlo a cose grandiose, volendo chiamare «grandiosa» la
moderna civiltà scientifica di cui noi tutti approfittiamo. In ogni caso, nell’ultimo terzo del XIX
secolo, l’ultima modernità è cominciata con idee per le quali ogni elemento stravagante e fantastico
risultava sgradevole. All’epoca, soltanto in pochi avevano il presentimento, come lo
aveva Nietzsche, di quali immensità avrebbe ancora prodotto lo spirito della sobrietà positivistica.
Intorno alla metà del secolo, il prosciugamento dell’idealismo tedesco aveva prodotto un
materialismo dalla figura particolarmente massiccia. Breviari della sobrietà divennero
improvvisamente dei bestseller. Vi erano dunque Karl Vogt con le Epistole psicologiche (1845) e lo
scritto polemico La fede dei carbonai e la scienza (1854); l’opera di Jakob Moleschott La
circolazione della vita (1852), quella di Ludwig Büchner Forza e materia (1855) e
Nuova esposizione del sensualismo di Heinrich Czolbe (1855). Czolbe caratterizzò l’ethos di questo
materialismo fatto di forza, urto e funzione ghiandolare, con le parole: «Non c’è precisamente
umiltà, ma piuttosto presunzione e vanità, nel voler migliorare il mondo conoscibile
con l’invenzione di un mondo soprasensibile, e fare dell’uomo, donandogli un elemento
soprasensibile, un essere superiore alla natura. Sì, certamente, il malcontento che ci ispira il mondo
dei fenomeni, il motivo più profondo delle concezioni soprasensibili, [...] è una debolezza morale!
[...] Contentati del mondo che ti è dato» (Lange 2,128 e 130). Ma che cosa non era « dato » per un
simile tipo di interpretazione! Il mondo del divenire e dell’essere... nient’altro che la tempesta di
parti di materia e trasformazioni di energia. Nietzsche si sente chiamato a prendere le difese
dell’universo dell’atomista Democrito davanti ai materialisti contemporanei. Non c’è ovviamente
più bisogno del nous di Anassagora e delle idee di Platone e, naturalmente, nemmeno del dio dei
cristiani, né della sostanza di Spinoza o del cogito di Cartesio, nemmeno dell’«io» di Fichte e dello
«spirito» di Hegel. Lo spirito che vive nell’uomo non è nient’altro che funzione cerebrale, si dice. I
pensieri
si comportano nei confronti del cervello come la bile nei confronti del fegato e l’urina del rene.
Questi pensieri sono «qualcosa di non filtrato», ha osservato allora Hermann Lotze, uno dei pochi
sopravvissuti dalla generazione, in passato forte, dei metafisici.
La vittoria del materialismo non poteva essere arrestata mediante intelligenti obiezioni, specie
perché in esso v’era mescolato un particolare elemento metafisico: la fede nel progresso. Se noi
analizziamo le cose e la vita fin nelle loro componenti elementari, allora scopriremo, così
insegna questa fede, il segreto di funzionamento della natura. Se noi riusciamo a sapere come sono
fatte tutte le cose, siamo in grado di riprodurle. Qui è all’opera una coscienza che svela gli altarini
di tutte le cose, anche della natura che (nell’esperimento) si deve sorprendere in flagrante e di cui si
mostra, se si sa come essa procede, dove essa va.
Nella seconda metà del XIX secolo, questo atteggiamento spirituale dà impulso anche al marxismo.
In un impegnativo e certosino lavoro, Marx sezionò il corpo sociale e ne estrasse l'amina: il
capitale. Alla fine, non era più molto chiaro se, in generale, spettasse ancora una chance alla
missione messianica del proletariato (il contributo di Marx all’idealismo tedesco prima del 1850)
contro la ferrea legalità del capitale (il contributo di Marx allo spirito deterministico dopo il 1850).
Anche Marx vuole analizzare, a un livello più basso, ciò che allora era elevato e sublime, lo spirito,
riconducendolo; come sovrastruttura, al basamento del lavoro sociale.
Il lavoro, dunque. Ben oltre il suo significato pratico, il lavoro diventa un punto di riferimento a
partire dal quale vengono interpretati e valutati aspetti sempre più numerosi della vita. L’uomo è il
prodotto del suo lavoro e la società è una società di lavoro, e anche la natura lavora su se stessa, in
certo qual modo, attraverso l’evoluzione. Il lavoro diventa una nuova reliquia, una sorta di mito che
tiene coesa la società. L’immagine della grande macchina sociale, che rende i singoli delle rotelle e
dei bulloncini,
prende possesso delle autointerpretazioni degli uomini e fornisce l’orizzonte d’orientamento. È
proprio questo punto di vista che Nietzsche colloca al centro della sua critica a David Friedrich
Strauss, il popolare illuminista della seconda metà del secolo. David Friedrich Strauss, che con
il suo primo scritto Vita di Gesù (1835) portò la critica razionalistica del cristianesimo al vasto
pubblico e che poi, da vecchio, pubblicò un libro di confessioni molto letto, L'antica e la nuova
fede (1872), fu un nemico giurato dei nuovi miti artistici di Wagner e, in generale, di tutti i tentativi
di elevare l’arte a religione sostitutiva. Per questo, venne odiato con insistenza da Wagner e, grazie
a lui, anche Nietzsche si mise sulle tracce di questo autore, che nella prima delle Considerazioni
inattuali liquida come sintomo di tutta questa civiltà della scienza e dell’utilità, che trova la
beatitudine nel lavoro.
Il messaggio di Strauss recita: ci sono tutti i motivi per essere contenti del presente e delle sue
conquiste (la ferrovia, le vaccinazioni, gli altiforni, la critica biblica, la fondazione del Reich, i
fertilizzanti, la stampa, la posta). Non c’è più nessun motivo di eludere la realtà nella metafisica e
nella religione. Se i fisici insegnano come volare, i metafisici, che volano ancor più in alto, devono
atterrare rapidamente, e bisogna che si contentino di abitare decorosamente la piatta terra. Si
richiede senso della realtà. Esso produrrà le opere miracolose del futuro. Anche dall’arte non
bisogna lasciarsi troppo incantare. Ben dosata, tuttavia, essa è utile e benefica, persino
irrinunciabile. Infatti, proprio perché il nostro mondo è diventato una grande macchina, certamente
vale anche il principio che « in essa non si muovono soltanto ruote spietate, si versa anche
olio lenitivo» (DS:45). L’arte costituisce tale olio mitigante. Strauss chiama la musica di Haydn una
«onesta minestra», Beethoven è un «confetto», e quando ascolta l' Eroica Strauss è spinto «a lasciar
andare le briglie e a cercare un’avventura» (DS:40ss.), ma ben presto fa nuovamente ritorno alle
gioie della normalità, nella febbre
di fondazione della Germania unificata, e Nietzsche riversa disprezzo e scherno su questo «
entusiasmo procedente su zoccoli di feltro» (DS:37).
Si percepisce in Nietzsche tutta l’indignazione di un uomo che, con l’arte e in particolare con la
musica, immagina di essere nel cuore dell’universo, che trova «in balìa dell’arte » (W: 101) il suo
vero essere e che perciò combatte contro delle opinioni per le quali l’arte è una bella questione
marginale, forse addirittura la più bella di tutte, ma pur sempre una questione marginale soltanto.
Questa indignazione verso i profanatori borghesi del tempio dell’arte (Nietzsche chiama costoro i «
filistei della cultura ») è già stata un motivo corrente per gli autori romantici. E.T.A. Hoffmann, al
suo Kapellmeister Kreisler fa dissolvere una soirée musicale, nella quale si cerca « gradevole
intrattenimento e distrazione », inserendo nel programma le Variazioni-Goldberg, eseguite in
maniera addirittura furiosa. E nella Signorina Scuderi Hoffmann fa passare in grande stile il suo
artista, l’orafo, dall’insulto del pubblico all’assassinio del pubblico. Sono le storie romantiche che
vedono in guerra l’arte auratica contro i filistei dell’arte, con il loro utilitarismo. E in questa
tradizione si colloca anche Nietzsche con la sua critica a David Friedrich Strauss. Anche Nietzsche
cova fantasie di vendetta da indignato amico della musica: «E guai a tutti i maestri vani e a tutto il
regno dei cieli estatico se il giovane tigrotto [...] esce a far preda» (DS:40). Il giovane tigrotto? Esso
fa la sua comparsa già nel libro sulla tragedia, dove simboleggia lo spirito della selvaggia arte
dionisiaca. Ciò che manda Nietzsche su tutte le furie è che questi pensieri della borghesia colta
reinterpretano l’immensità come agio.
Ciò vale per l’arte, ma anche per la natura, poiché anche il darwinismo, che a quel tempo era
prepotentemente in voga, viene minimizzato e, come nota criticamente Nietzsche, non vengono
tratte le sue più serie conclusioni. Da esso si accoglie volentieri l’ateismo; invece di dio, il tema è
adesso la scimmia, certo. Strauss si avvolge sì « nel villoso manto dei nostri genealogisti della
scimmia» (DS:51), ma teme di trarre le conclusioni etiche a partire da questa genealogia naturale.
Se fosse stato coraggioso, avrebbe « potuto dedurre [...], dal bellum omnium contro omnes e dal
diritto del più forte, precetti morali per la vita» (DS:51ss.), con i quali
avrebbe subito aizzato contro di sé i filistei. Per soddisfare
»
invece quel bisogno di sicurezza e comodità, Strauss evita le conseguenze nichilistiche del
materialismo e conferisce alle sue riflessioni una piega confortevole e sentimentale, scoprendo nella
natura una nuova « rivelazione della stessa eterna bontà» (DS:55). Per Nietzsche, invece, la natura
è l’immenso per eccellenza.
Nella Terza inattuale, per prendere le distanze dai naturalisti e dai materialisti, Nietzsche abbozza la
sua interpretazione dionisiaca della natura, che contrappone allo scialbo ottimismo che nei confronti
di essa hanno i filistei della cultura. Non si può mai stupirsi abbastanza, pensa Nietzsche, del fatto
che nella gerarchia della natura, dall’inanimato all’animale passando per il vegetativo, è in
definitiva emersa nell’uomo una coscienza. Perché l’essere naturale si è creato nell’uomo il teatro di
una coscienza? La pietra non sa di esistere. L’animale percepisce certamente il suo ambiente, ma vi
rimane imprigionato, privo di distanza nei confronti di esso. Soltanto nell’uomo si genera la
percezione della percezione e perciò una coscienza distanziante. Egli non vive soltanto dentro il suo
ambiente (Umwelt), ma esperisce il mondo (Welt) come aperta vastità. L’uomo emerge dallo
stordimento dell’esistenza animale, e in tale istante il mondo riceve una peculiare trasparenza; alla
vita cosciente si rivela l’istintualità di tutto il vivente e anche la propria «avidità [nauseante]» e
come si abbia l’esigenza, «in modo così cieco e pazzo» (SE:47), di sfruttare e annientare altre vite.
La coscienza, dunque, per prima cosa non esperisce il gaudio per il mondo fenomenico, bensì
scopre la tortura dell’essere. Ma ciò non significa che l’uomo è colpito dalla coscienza come da una
malattia? In ge
nerale, poi, è ancora tollerabile l’essere naturale nello specchio della coscienza? La coscienza,
invece, non è forse una sciagura? « In quella luce improvvisa ci guardiamo con orrore attorno e
indietro: là corrono le raffinate bestie da preda e noi in mezzo ad esse. L’immenso muoversi degli
uomini sul grande deserto della terra, il loro fondare città e Stati, il loro guerreggiare, il loro
raccogliere e disseminare senza posa, il loro correre alla rinfusa, il loro imparare l’uno dall’altro, il
loro reciproco soverchiarsi con l’inganno e calpestarsi, il loro grido nella disgrazia, il loro
gioioso ululato nella vittoria: tutto è continuazione dell’animalità» (SE:48). Davanti a questo
sguardo, in occasione del risveglio dallo stordimento, la coscienza inorridisce e aspira a far ritorno
nell’«incoscienza dell’istinto». Non è meglio, per le faccende di tutti i giorni, « non giungere alla
riflessione » (SE:49)? È proprio così. L’avvedutezza può diventare una fonte di disturbo per il
realismo vitale e laborioso. Ma allora, chiede Nietzsche, che scopo ha voluto perseguire la natura
spalancando gli occhi all’uomo e lasciando rispecchiare il proprio essere nella coscienza umana?
Mentre Nietzsche pone questa domanda, ammette una sorta di teologia naturale a favore della quale
si dichiara con le parole: « Se l’intera natura aspira all’uomo, essa così fa intendere che l’uomo le è
necessario per redimersi dalla maledizione della vita animale e che, infine, in lui l’esistenza ha
dinanzi a sé uno specchio sul cui fondo la vita non appare più insensata, bensì nella sua
significatività metafìsica» (SE:48). In cosa consiste la significatività metafisica?
A fondamento delle cose non ci sono né un’armonia universale né un ordinamento metafisico e una
giustizia superiore. La significatività metafisica si trova soltanto nel fatto che, nella vita destata a
coscienza, la natura fa « il suo unico salto, un salto di gioia », e poi Nietzsche prosegue con la frase
enigmatica: la natura « per la prima volta si sente giunta allo scopo, là dove cioè essa comprende di
dover disimparare ad avere dei fini e di aver giocato troppo alto il giuoco della vita e del divenire»
(SE:50). Un’argomentazione equivoca. Nietzsche sa che la natura non è un «soggetto» che possa
imparare o disimparare qualcosa o giocare troppo in alto. Egli non vuole scorgere nessun dio nella
natura. Se si parla dell’imparare e disimparare della natura, allora con ciò si intendono i
riflessi, nella coscienza, dell’ente naturale «uomo», quella natura, dunque, che nell’uomo diviene
cosciente di se stessa. Nell’autocoscienza dell’uomo si mostra la natura come impulso finalizzato,
che deve rimanere sempre insoddisfatto perché, a ogni meta, l’impulso nota che esso non voleva
la meta, ma se stesso, e perciò andrà avanti nella sua attività. Mentre la coscienza tiene uno
«specchio» davanti all’impulso, può succedere che questo impulso si spenga. Non per stanchezza o
disperazione, ma in conseguenza del riconoscimento: non esiste alcuna meta, si è già sempre
alla meta. L’istante compiuto non si trova in nessun futuro, bensì è già sempre qui, lo si deve
soltanto cogliere, imparando a essere completamente presenti, presenti di spirito. Il « gioco » della
vita è giocato « troppo in alto » quando vengono fatte delle puntate che ripagheranno in un ominoso
futuro. Possiamo pure giocare con la vita in questa maniera, ma la vita stessa non gioca affatto.
Infatti, essa non segue il principio dell’accumulazione lineare e dell’accrescimento progressivo,
bensì ruota nel ciclo di morte e divenire. Ogni punto della circonferenza è. ugualmente distante dal
centro. E pertanto la vita è già sempre alla meta o, che è la stessa cosa, resta sempre alla stessa
distanza da essa. La « natura » fa un « salto di gioia » nell’uomo, quando è superata l’illusione della
finalità, e l’uomo destato a coscienza nota che è lui stesso la meta e il tempo dell’istante. Riguardo
alla natura nell’uomo, dice Nietzsche, «in questa conoscenza essa si trasfigura» (SE:50). Nietzsche
chiama questa «enigmatica emozione senza eccitazione» (SE:51) la «grande illuminazione», sotto la
cui luce la realtà assume le sembianze della « bellezza » (SE:50).
Questo ragionamento di Nietzsche, sviluppato ancora
sotto l’influsso di Schopenhauer, ha per risultato una trasfigurazione della realtà, laddove il suo
presupposto non è, come per il combattivo David Friedrich Strauss, una nuova «rivelazione della
stessa eterna bontà» nella natura, ma una trasformazione nel modo di conoscere. Invece di scrutare
nella realtà guidati dagli interessi e dalla brama, la coscienza allenta i legacci alla volontà e si apre
per lasciare tranquillamente venire a sé il mondo. La « significatività metafisica » si trova
unicamente e soltanto in questo cambiamento del vedere: dallo spiare, che si rivolge agli oggetti del
desiderio, al guardare. Qui, Nietzsche è ancora molto vincolato al concetto schopenhaueriano di
metafisica, secondo il quale la coscienza metafisica è quella che si desta dal suo stordimento,
mediante la volontà, e a cui il mondo perciò appare diverso. Non si tratta dunque della scoperta
d’un mondo metafisico anteriore o superiore, ma di una condizione diversa, di una condizione
extraquotidiana, ossia di quell’« enigmatica emozione senza eccitazione ».
In queste riflessioni, Nietzsche rimane ancora molto vicino al suo maestro Schopenhauer, tanto che
parla anch’egli di superamento del desiderio come presupposto della mutata esperienza del mondo.
Ma Nietzsche pone un accento diverso. Sottolinea il momento attivo di questo processo. La volontà
non si spegne, ma qualcosa che nell’uomo compie questo « balzo » trionfa sulla volontà
abituale. C’è qualcosa nell’uomo che domina quell’altro qualcosa inquieto e inconsapevole. In
ultima analisi, questo qualcosa di acquietante non è altro che una volontà eccezionalmente forte, che
mostra le assurdità della vita inconsapevole all’interno dei limiti. È la «saggezza dionisiaca»,
nel frattempo a noi ben nota, che è forte abbastanza per sopportare lo sguardo nell’abisso senza
frantumarsi, conservando invece una quiete enigmatica, quasi serena.
Nel saggio postumo La filosofia nell ’epoca tragica dei Greci (1873), Nietzsche descrive questo
tipo di « saggezza dionisiaca» sull’esempio di Eraclito. «Il divenire eterno e unico, la completa
instabilità di tutti gli oggetti reali, che non fanno altro se non agire e divenire continuamente, e che
non sono - secondo l’insegnamento di Eraclito -, dà luogo a una visione terribile, che stordisce, ed è
assai affine alla sensazione con cui, durante un terremoto, si perde la fiducia nella solidità della
terra. Occorreva una forza stupefacente, per trasformare questa impressione in un sentimento
contrario di sublimità e di stupore felice» (FETG:165ss.). Per tenere testa, in una particolare sorta di
vedere, all’essere tumultuoso, non occorre semplicemente, come pensava Schopenhauer, la
contemplazione e lo spegnimento della volontà, bensì l’attivazione di un’altra volontà, della volontà
di strutturazione. Sopraffare o lasciarsi sopraffare... questo è il dilemma. Si tratta dunque di un
rapporto ontologico agonistico. La volontà sommamente vitale di strutturazione osa la
scommessa contro la potenza vitale della sopraffazione inconsapevole. Questa volontà di
strutturazione è una volontà artistica, essendo al servizio di una volontà di vita cresciuta oltre l’agire
inconsapevole. Pertanto, Nietzsche può chiamare Eraclito «un uomo estetico», che «ha sperimentato
nell’artista e nel sorgere dell’opera d’arte in quale misura [...] necessità e giuoco, contrasto e
armonia debbano accoppiarsi per la generazione dell’opera d’arte» (FETG:173). Anche per quanto
riguarda la volontà artistica di strutturazione, quel che conta è di concentrare l’intero in
un’immagine. E cos’altro è quest’immagine, quest’immagine del mondo eraclitea, se non la
concentrazione del flusso temporale in un istante? Nell’esperienza che consente questa
fissazione del tempo in un’immagine del mondo, la storia viene cancellata, e si capisce che non è
necessario avere delle mete, perché si è sempre già alla meta.
Dopo il confronto con il materialismo, la battaglia contro la sopraffazione mediante la storia è il
secondo aspetto per cui Nietzsche se la prende con lo spirito del suo tempo. Anche lo storicismo è
per lui una conseguenza della civiltà del sapere socratico-alessandrina, che tuttavia, nella Germania
del periodo dei fondatori del Reich, assunse una sfumatura particolare. Lo storicismo guardava
indietro nella storia per rendersi conto di quanto meravigliosamente consapevoli si fosse diventati.
Contemporaneamente, però, bisognava compensare un’insicurezza nel sentimento della vita e nello
stile. Mai si seppe con tale certezza chi si fosse e a cosa si mirasse. E in tal modo, anche
questo storicismo si collegava al piacere per il posticcio, per l’inautentico. Trionfa lo spirito del
come-se.
Impressionante era ciò che aveva l’aspetto di qualcosa. Ogni materia utilizzata rappresentava più di
ciò che era. Era l’epoca della vertigine dei materiali: il marmo era legno laccato, lo scintillante
alabastro era gesso; il nuovo doveva sembrare antico: le colonne greche nel pronao della borsa, le
fabbriche come borghi medievali, una nuova costruzione come rovine. Si aveva cura
dell’associazione storica: i tribunali ricordavano i palazzi dei dogi, il soggiorno borghese ospitava
sedie di Lutero, vasellame di stagno e bibbie di Gutenberg, che si rivelavano come nécessaire.
Anche il potere politico, dopo la proclamazione del «Kaiser tedesco» nella sala degli specchi di
Versailles, sfavillava di paccottiglia. Questa volontà di potenza non era del tutto autentica, era più
volontà che potenza. Si desiderava la messa in scena. Nessuno lo sapeva meglio di Richard Wagner,
che tirò tutti i registri della magia teatrale per portare sul palcoscenico la preistoria germanica. Tutto
ciò si accompagnava a quel forte senso per la realtà. E proprio perché questo senso era così
estremamente forte, doveva essere un pochino decorato, ornato, drappeggiato, cesellato e via
dicendo, affinché il tutto avesse un aspetto e valesse qualcosa.
Per Nietzsche, non è da respingere il sospetto che lo storicismo dovesse compensare una carente
forza vitale. E questa forza vitale è indebolita proprio perché ha perso, nella civiltà socratica del
sapere, un momento più profondo d’unione sociale. Nel libro sulla tragedia, Nietzsche scrive: « Ci
si immagini una cultura che non abbia nessuna
sede originaria fissa e sacra, ma che sia condannata a esaurire tutte le possibilità e a nutrirsi
affannosamente di tutte le culture - ecco il presente, come risultato di quel socratismo rivolto alla
distruzione del mito [...] A che cosa accenna l’enorme bisogno storico della cultura moderna
insoddisfatta, l’affastellarsi di innumerevoli altre culture, la divorante volontà di conoscere, se non
alla perdita del mito, alla perdita della patria mitica, del mitico grembo materno?» (NT: 152)
Questo storicismo è per Nietzsche un esempio particolarmente eclatante della paralisi della forza
vitale mediante il sapere e la conoscenza. Nella Seconda inattuale, che ha per titolo Sull ’utilità e il
danno della storia per la vita,  egli descrive come la vita possa ammalarsi per un eccesso di
coscienza storica. In questo saggio, Nietzsche ha sviluppato con grande audacia un pensiero che a
noi, oggi, non appare più così inusitato, proprio perché Nietzsche lo ha portato a generale
manifestazione; il pensiero, cioè, che la vita necessiti di un’« atmosfera circostante » (UDSV:88) di
illusioni, passioni e amore, per rimanere vitale. Questo pensiero è legato alla critica di un realismo
che si assoggetta ai (supposti) duri dati di fatto, rassegnato, inerte o cinico, per terminare infine
nell’idea di un egoismo nichilistico, per il quale tutto ciò che non è utile in senso economico diventa
indifferente.
Nietzsche comincia con un problema che sembra interessare, a un primo sguardo, soltanto il mondo
erudito e la formazione scientifica, ossia con la fissazione sulla storia, su ciò che è già stato e
divenuto, con la marea di informazioni storiche, con l’universale frammentazione delle energie su
sottigliezze, che servono soltanto all’auto-conservazione dell’impresa scientifica. Nietzsche
assume questa congiuntura dello storicismo nel mondo scientifico come punto di partenza di una
critica allo spirito del tempo, contro il quale procede con una difesa empatica della vita. Con questo
scritto nasce la filosofìa della vita dei decenni successivi, motivo per cui esso è da annoverare fra i
testi di maggior influsso provenienti dal laboratorio nietzscheano.
I secoli di indagine storica e scientifica hanno prodotto moltissime conoscenze e, poiché pensiero e
conoscenza sono stati proclamati sommi ideali, il colto di oggi tenta di assorbirne il più possibile,
con la conseguenza che «da ultimo l’uomo moderno si porta in giro un’enorme quantità di
indigeribili pietre del sapere, che poi all’occorrenza rumoreggiano puntualmente dentro di noi,
come avviene nella favola. Con questo rumoreggiare si rivela la qualità più propria di questo uomo
moderno: lo strano contrasto di un interno a cui non corrisponde nessun esterno, e di un esterno a
cui non corrisponde nessun interno, un contrasto che i popoli antichi non conoscono»
(UDSV:32). Questo contrasto tra interiorità ed esteriorità sarebbe caratteristico della civiltà tedesca.
Infatti, da un lato si ritiene profonda interiorità il suo indigeribile sapere, rinunciando nell’esteriorità
al gusto e allo spirito. Si bada a una «cultura interna per barbari esterni» (UDSV:33), solo che
con questa cultura interiore non si va lontani; a essa manca una vitale strutturazione, essa non è «
incarnata », secondo l’espressione preferita di Nietzsche. Mancanza di stile, ricerca dell’effetto,
imitazione nell’arte e nell’architettura, grossolane maniere nella vita sociale sono tutte
caratteristiche di questo atteggiamento. Lo si immagina legato alla natura e ci si sente superiori al
grado di civiltà e alla raffinatezza francesi, e tuttavia, «mentre si credeva di fuggire indietro verso la
naturalezza, si sceglieva soltanto il lasciarsi andare, la comodità e la minor misura possibile
di superamento di sé» (UDSV:35). Contro la pretesa d’una siffatta interiorità non strutturata di
ritenersi equivocamente una Kultur, Nietzsche prende partito per la Zivilisation, criticata poi
anch’essa, dalla prospettiva della fresca creatività giovanile, come mero formalismo. Nella
successiva diatriba fra Kultur tedesca e Zivilisation francese, come poi vedremo, possono
richiamarsi in eguale misura a Nietzsche entrambe le opposte posizioni.
Le « pietre del sapere » non digerite, che impediscono al singolo di costituirsi in una personalità,
derivano dal fondo della storia e delle scienze della natura volgarizzate. Per quanto concerne
l’«eccesso di storia» nella vita pubblica, Nietzsche vi vede il tardivo effetto di un hegelismo
appiattito che riteneva ciò che è storicamente potente (anzi proprio per questo) anche razionale, e
che perciò esigeva rispetto davanti al potere dell’esistente e zelo nell’appropriazione della storia.
In Hegel ciò era inteso originariamente in modo del tutto diverso, e questo lo sa anche Nietzsche.
Hegel era notoriamente un filosofo innamorato della storia. La storia per lui era certamente
razionale, ma, come appunto succede all’innamorato, di una razionalità estasiante e appassionante;
essa per lui significava il « delirio bacchico in cui nessun membro non è ebbro». Tutto ciò iniziò
allo Stift di Tübingen, quando, alla notizia della presa della Bastiglia, Hegel e i suoi compagni di
camerata Schelling e Hölderlin piantarono, sui prati in riva al Neckar, un albero della libertà. Fu
entusiasmo giovanile, che vuole prendere nelle proprie mani la storia e, con una ragione
sommamente vitale, vuole sia capirla sia riplasmarla. A quel tempo, si trattava di quella stessa
protesta che ora Nietzsche richiede per il suo tempo, malato per l’eccesso di senso storico e
di scienza. La generazione di Hegel scoprì nella storia uno spirito rivoluzionario e perciò
l’appropriazione della storia stessa diventò uno sprone. La storia aveva slancio, essa non ci gravava,
ma ci prendeva con sé per un viaggio avventuroso. Ma poiché, nel quarto di secolo successivo
alla rivoluzione francese, la storia preparò qualche delusione ai suoi entusiasti, mutò anche
l’immagine della ragione storica. Per lo Hegel degli ultimi giorni, ciò che soltanto conta è di
indagare la fede nella ragione storica in modo che non possa più, in seguito, essere delusa. L’amante
tradito si consola, assieme ai suoi conniventi, con le « astuzie della ragione». Egli volge la sua
intelligenza all’elaborazione di un sistema della ragione storica a prova di delusione. La
ragione giunge nella storia e alla fine, però, attraversando dolorose contraddizioni, la storia giunge
alla ragione. Questo processo è presentato nel sistema hegeliano e con esso fa ingresso
nell’autocoscienza umana. Il mistero di funzionamento della storia è dunque reso manifesto nella
coscienza della filosofia hegeliana.
Hegel, secondo Nietzsche, ha compiuto il gioco di prestigio di rovesciare il cordoglio per la fine
dell’eroica storia di lotta in favore della libertà e per la coscienza di un «frutto tardivo», che ormai
rammenta soltanto ma non agisce più, e di fame un segno di distinzione. Lo scopo dell’accadere
deve essere palesemente stato quello di sfociare nel sapere di un siffatto frutto tardivo. La
miseria consapevole viene identificata con il compimento della storia universale. Da allora, in
Germania si discute di «processo universale» intendendo il presente come suo necessario risultato.
«Una tale maniera di considerare», scrive Nietzsche, « ha messo la storia al posto delle altre forze
spirituali, l’arte e la religione, come unicamente sovrana, in quanto essa è ’il concetto che realizza
se stesso’, in quanto essa è ’la dialettica degli spiriti dei popoli’ e il ’giudizio universale’»
(UDSV:71).
Ora, Hegel non nobilitò filosoficamente soltanto la storia, ma fornì dignità filosofica anche alla
diagnosi dell’attualità, e incoraggiò a filosofare anche per le rivolte, e quindi per il futuro. In tal
modo, anche il suo famoso e famigerato principio per cui « ciò che è razionale è reale; e ciò che è
reale è razionale » ebbe effetti assolutamente politici... in direzioni contrarie. Gli uni assunsero
l’affermazione come giustificazione dell’esistente; gli altri, i vari Rüge, Bauer, Engels e Marx, la
intesero come sfida a rendere una realtà ciò che meramente esiste, accordandolo con la ragione per
il momento soltanto pensata. Per gli uni la frase indicava un essere, per gli altri un dovere. Comune,
tuttavia, era la convinzione che la società e la storia rappresentassero una dimensione di
manifestazione della verità.
Nella tradizione precedente a Hegel, ciò non era affatto così ovvio come appare oggi. Prima di
Hegel, si pensava nella maniera opposta: dio e il mondo, l’uomo e la natura, l’uomo e l’essere. A
partire da Hegel, tra queste coppie si inserisce un mondo intermedio: la società e la storia. Questo
mondo intermedio attira tutto a sé: l’antica metafisica del tutto (dio, l’essere, l’uomo) si trasforma in
una metafisica della società e della storia e la discussione sul singolo diventa priva di senso e di
oggetto, poiché il singolo appare già sempre determinato socialmente e storicamente. Il mondo
intermedio del sociale e dello storico ammette soltanto un unico ambito ulteriore: la natura, quella
umana e quella extra-umana. Ovviamente, come specie naturale l’uomo è ancor meno un’essenza
singola, ma è soltanto un esemplare. La metafisica era stata un’impresa per ricavare uno spazio
spirituale per l’uomo. Ma ora gli spazi si restringono. Ci si dimena nelle lande della necessità
sociostorica e di quella naturale. Nella seconda metà del XIX secolo, la diatriba si svolgeva intorno
a quale fosse la necessità dominante. Hegel e in seguito Marx credono nella vittoria della necessità
sociale e storica. Hegel parla dello « spirito che perviene a sé » e Marx del « superamento della
preistoria ». Per entrambi, questa è una via verso la libertà, che essi intendono come prodotto
sociale della storia. I materialisti, invece, credono allo strapotere della necessità naturale. Anch’essi
però secolarizzano, di norma, l’antica promessa di redenzione della metafisica, interpretando la
storia evolutiva della natura come sviluppo verso gradi più elevati.
Per il pensiero filosofico all’inizio dell’epoca delle macchine, le dimensioni permanenti dell’essere,
ossia la natura e la storia, cominciano a trasformarsi in una sorta di macchina. Si ritengono capaci
queste « macchine », così pensano gli ottimisti fra i contemporanei di Nietzsche, di produrre la vita
ben riuscita, fermo restando, tuttavia, che ci si comporti in modo funzionale. Nietzsche ha
rivelato con sottile acume, nel suo ambito specifico, l’impresa
scientifica filologica, la trasformazione dell’hegeliano processo universale in procedimenti
meccanici e capannoni di fabbrica. Si dà un’istruzione ai giovani per condurli al « mercato del
lavoro » scientifico e li si alleva su un tema particolaristico che ciascuno di loro possa trattare
con diligenza: tutto ciò è una « fabbrica della scienza »; non si sa a che cosa possano servire i
prodotti di questo zelo, ma in ogni caso nutrono il loro uomo. Nell’illustrazione di questi rapporti, a
un certo punto Nietzsche si arresta e si rende conto dell’uso che fa della lingua, «ma
involontariamente vengono in bocca le parole ’fabbrica, mercato del lavoro, offerta, utilizzazione’ -
o comunque suonino i verbi ausiliari dell’egoismo - quando si vuol descrivere la generazione di
dotti più recente» (UDSV:62).
Nietzsche assume il filosofo Eduard von Hartmann, allora molto letto, come caricatura di questo
laborioso pensiero del processo universale, per il quale la storia è diventata una casa di correzione.
Poiché Hartmann ha ugualmente il suo maestro in Schopenhauer, Nietzsche si sente chiamato in
causa in modo particolare, in quanto seguace di Schopenhauer, quando Hartmann esige la « piena
dedizione della personalità al processo universale». Curiosamente, questo processo universale è una
grandiosa procedura di negazione. Eduard von Hartmann, un ufficiale congedato, crede di dover
realizzare sistematicamente la negazione della volontà (per Schopenhauer un mistero dei grandi
asceti e santi). Per la sistematica prende in prestito Hegel. Da questa sintesi ne risulta un’opera
mostruosa, Filosofìa dell’inconscio (1869), in cui si trova una teoria a tre stadi, scrupolosamente
tratteggiata, sulla disillusione della volontà di vita. Il centro di tutto: la volontà di vita non riesce
sicuramente a negarsi da sé; ciò deve essere invece lasciato (hegelianamente parlando) al
processo universale. Hartmann loda la forza della coscienza pessimistica dell’umanità. Questo
spirito pessimistico universale, agendo ancora inconsciamente, perverrà a sé quando avrà rimosso
tutte le illusioni di felicità (le illusioni di fe-
I
I
licità nell’aldilà, nel futuro e nell’adesso) e allora il mondo si ritirerà in se stesso e scomparirà.
Questo zelo solerte del processo universale pessimistico agisce in modo strano, e agiscono
stranamente anche la gaiezza, per così dire felice del futuro, con cui Hartmann si affretta verso la
negazione, e la correttezza addirittura impiegatizia con cui vengono liquidate le illusioni, per
giungere dal sì al no. E quando, alla fine, questo autore arriva alla grande negazione e in essa fa
terminare il processo universale, allora si diffonde uno strano agio Biedermeier. Il discorso sul
processo universale si deforma, diventando conoscibilità. Hartmann fa lavorare incessantemente il
processo universale sul nulla, mostrando con ciò in maniera involontariamente ridicola che il
processo universale è un termine nullo.
Nietzsche toma ripetutamente al pensiero per lui centrale del danno o addirittura della distruzione
dell’energia vitale mediante il sapere e mediante la fede nel potere del passato. Il suo antidoto è
l’inversione: bisogna volgere il principio della storia contro la storia stessa. Spezzare il potere della
storia mediante il sapere storico. Nietzsche trova per questo una formulazione indimenticabile:
«La storia deve essa stessa risolvere il problema della storia » (UDSV:68).
Nietzsche rivolge la storia contro la storia retrocedendo all’epoca, che non pensava ancora
storicamente, dell’antichità greca e, a partire da qui, riferisce la sua scala di misura a un’arte di
vivere che sa difendersi dalla sopraffazione mediante la storia. Nietzsche ricorda che anche la
grecità è stata in balia di un caos di storia e storie; penetrarono elementi culturali e tradizioni
semitiche, babilonesi, lidie, egizie e la religione greca era una « vera lotta tra gli dèi dell’intero
Oriente » (UDSV:98). Fu tanto più ammirevole dunque la forza con cui la civiltà greca fece valere
il suo capitale plastico e imparò «a organizzare il caos» (UDSV:98). Si riuscì a formare un orizzonte
ampio e tuttavia definito, a creare miti, a tracciare un cerchio che poteva colmare la vita e in cui la
vita poteva compiersi.
Quando Nietzsche scrisse la frase « la storia deve essa stessa risolvere il problema della storia»,
osservò subito che con essa aveva trovato una formula che poteva applicarsi non soltanto alla storia,
bensì al problema del sapere in generale. Come si poteva impedire di essere
sopraffatti dall’intrinseca dinamica del sapere e delle presunte verità? Come si preserva la vita dal
soffocamento operato dal sapere? Nietzsche dà la risposta nella prosecuzione della frase appena
citata: «Il sapere deve volgere il suo pungolo contro se stesso» (UDSV:68).
Ora, negli anni ’40 (in cui Nietzsche, come testimonia un amico, volentieri avrebbe vissuto), contro
i macchinisti della logica storica e naturalistica, comparve un autore che a proposito dello spirito
libero e vitale scrisse: « Egli sa che non ci si comporta religiosamente solo verso dio, ma anche nei
confronti di altre idee, quali l’idea del diritto, dello stato, della legge ecc.; il che vuol dire che
egli vede in ogni luogo delle ossessioni. E così vuole distruggere i pensieri mediante il pensiero»
(Stimer 165-166), Qui, bisogna ricordare un provocatore filosofico che già prima di Nietzsche fece
esperimenti con il pensiero dell’inversione e formulò la sua protesta anarchica contro la presunta
ferrea logica della natura, della storia e della società, in un’opera apparsa nell’anno in cui
nacque Nietzsche. Johann Caspar Schmidt, insegnante al Collegio femminile di Berlino, pubblicò
nel 1844, sotto lo pseudonimo di Max Stimer, il suo libro L’unico e la sua proprietà, che suscitò al
tempo un grande scalpore e che, a causa della sua radicalità individual-anarchica, venne
liquidato ufficialmente come scandaloso o folle dall’ambiente per bene della filosofia, ma anche dai
dissidenti. Privatamente, molti furono affascinati da questo autore. Marx si vide costretto a scrivere
una critica di quest’opera, che risultò più ampia del libro criticato e che però poi non
pubblicò. Feuerbach scrive al fratello che Stirner è « lo scrittore più geniale e libero che io conosca»
(Laska 49); pubblicamente, tuttavia, non si esprime su quest’autore. Inoltre,
I
questo effetto nascosto di Stimer prosegue anche in seguito. Husserl parlò una volta della « forza
tentatrice » di Stirner, che però nel suo libro non viene menzionato. Carl Schmitt, da giovane, è
profondamente impressionato da Stimer e soltanto nel 1947, in cella, viene da lui nuovamente
«visitato». Georg Simmel si proibisce il contatto con questa « notevole specie di individualismo ».
Per quel che riguarda Nietzsche, sembra valere anche per lui un silenzio significativo. Non cita
nemmeno una volta nella sua opera il nome di Stimer, ma solo pochi anni dopo il suo crollo
psichico scoppiò in Germania una violenta diatriba sulla questione se Nietzsche avesse conosciuto
Stimer e avesse da lui ricevuto degli stimoli. La posizione estrema in questo dibattito, in cui tra gli
altri erano coinvolti Peter Gast, la sorella, l’amico di lunga data Franz Overbeck e Eduard von
Hartmann, venne assunta da coloro che sollevarono il rimprovero di plagio. Nietzsche,
così argomenta per esempio Hartmann, avrebbe conosciuto l’opera di Stimer poiché, nella Seconda
inattuale, criticò precisamente quel passaggio dell’opera hartmanniana dove si tratta di un esplicito
rigetto della filosofia stirneriana. In ogni caso, dunque, Nietzsche dovette apprendere per questa via
l’esistenza di Stimer. Hartmann rinvia per il resto a parallelismi di idee e pone poi la domanda sul
perché Nietzsche abbia certamente trovato degli stimoli in Stirner, ma lo abbia sistematicamente
sottaciuto. Un contemporaneo formulò la risposta, allora ovvia, nel modo seguente: «Nel mondo
degli eruditi, egli [Nietzsche] sarebbe stato screditato ovunque e per sempre, se soltanto avesse
dimostrato una qualche simpatia nei confronti di Stirner, grossolano e spietato, fiero del proprio
nudo egoismo e della propria anarchia; la penosa censura berlinese per le grandi emergenze
consentì la pubblicazione del libro di Stimer, dato che i pensieri esposti erano così esagerati, solo
perché nessuno vi aderisse » (Rahden 485).
Effettivamente, ci si può ben immaginare, vista la cattiva fama di Stimer, che Nietzsche non volesse
essergli ac-
costato. Le indagini di Franz Overbeck dimostrano che Nietzsche ha evidentemente fatto prendere
in prestito al suo allievo Baumgartner nel 1874 l’opera di Stimer dalla biblioteca di Basilea. Forse
anche il fatto di mandare avanti uno studente è stata una misura di sicurezza? In ogni caso, questa
notizia è stata accolta dall’opinione comune, sorretta peraltro dai ricordi di Ida Overbeck, amica
intima di Nietzsche negli anni ’70, che racconta: «Una volta, quando mio marito era uscito,
[Nietzsche] si intrattenne un attimo con me e fece il nome di due tipi originali, che lo stavano
occupando e nei cui scritti coglieva un’affinità con se stesso. Come sempre quando acquistava
consapevolezza di relazioni interiori, era su di morale e felice. Qualche tempo dopo vide da noi un
[libro di] Klinger [„.] ’Caspita’, disse, ’mi sono proprio sbagliato su Klinger. Era un filisteo; no, a
lui non mi sento affine; ma Stimer... quello sì!’ E comparve un tratto solenne sul suo viso.
Mentre osservavo con apprensione quel suo atteggiamento, questo si mutò nuovamente, egli fece
con la mano un movimento come per scacciare qualcosa, difensivo, e mi sussunò: ’Ora Ve l’ho pure
detto, ma non volevo parlarne. Lo dimentichi di nuovo. Si parlerà di un plagio, ma Voi non lo farete,
lo so’ » (Bernoulli 238). Di fronte al suo allievo Baumgartner, così prosegue Ida Overbeck nel
racconto, Nietzsche avrebbe definito l’opera di Stimer «come la più temeraria e conseguente dai
tempi di Hobbes ». Nietzsche, lo si sa, non era paziente, ma era a suo modo un accurato lettore.
Raramente portava a termine la lettura dei libri, ma li leggeva con infallibile istinto per quegli
aspetti che erano istruttivi ed eccitanti. Ida Overbeck inoltre racconta: « Mi comunicò che nel
leggere uno scrittore, colto sempre e soltanto tramite brevi frasi, si collegava ad esse con i suoi
pensieri, e sui piloni che sembravano adatti poneva una nuova costruzione » (Bemoulli 240).
Cos’era tuttavia che, da una parte, rendeva Stimer un tale lebbroso della filosofia e che, dall’altra,
agiva su Nietzsche in modo così stimolante o confermando il pro-
prio pensiero? In seguito, per la propria causa, Nietzsche civetterà con l’aura del folle; in relazione a
Stimer, egli poteva già adesso vedere la propria impresa nello specchio del proscritto.
Nella filosofia del XIX secolo precedente a Nietzsche, Stimer è stato sicuramente il nominalista più
radicale. Folle doveva sembrare, in particolare (e fino al giorno d’oggi) ai filosofi-funzionari, la
coerenza con cui egli operò la distruzione nominalistica, ma essa era soltanto geniale. I nominalisti
medievali definivano i concetti universali, specie quelli riguardanti dio, « fiato », cioè nomi senza
realtà; lo stesso fece Stimer. Nel nucleo dell’uomo egli scopre una forza creatrice che genera
fantasmi per poi lasciarsi impressionare dalle proprie creature. Già Feurbach aveva sviluppato
questo pensiero nella sua critica alla religione. E Marx trasferì questa struttura, di una produttività
che diventa una prigione per i produttori, al lavoro e alla società. Stimer, insomma, rimane ancora
nella tradizione della sinistra hegeliana: emancipazione dell’uomo come liberazione dalle servitù
dei fantasmi e dei rapporti sociali generati dall’uomo stesso. Inoltre, Stimer acuisce la critica.
È verissimo, spiega, si è decostruito l’«aldilà fuori di noi», quindi dio e la morale presumibilmente
fondata in dio. Con ciò, «si è pensato di aver risolto portando alle sue estreme conseguenze l’opera
dell’illuminismo». Ma anche se sparisce questo « aldilà che è fuori di noi », rimane pur sempre
intatto l’«aldilà che è in noi» (Stimer 170). Dio è morto, lo abbiamo riconosciuto come un
fantasma, ma esistono fantasmi ancora più ostinati che ci tormentano, e gli assassini di dio, quello
che Stimer rimprovera agli hegeliani di sinistra, non hanno avuto nient’altro di più urgente da fare
che porre, al posto di quel vecchio aldilà, un aldilà interiore. Cosa intende Stimer con l’« aldilà che
è in noi»? Da un lato, con esso è definito quello che Freud successivamente chiamerà il Super-Io:
l’ipoteca eteronoma, innestata in noi dalla famiglia e dalla società, di un passato da cui si deriva.
Con esso si intende anche il do-
minio istituito in noi dei concetti generali come «genere umano », « umanità », « libertà ». Il Sé, se
si desta a coscienza, si ritrova impigliato in una rete di concetti che hanno potere normativo e con
cui esso interpreta la sua esistenza senza nome né concetto. Per Stimer già vale il principio
fondamentale dell’esistenzialismo: l’esistenza proviene dall’essenza. L’impetuosità di Stimer è
rivolta a riportare il singolo alla sua esistenza senza nome e a liberarlo dalle sue prigioni
essenzialistiche.
Per lui, tali prigioni sono innanzitutto quelle religiose. Esse, però, sono state criticamente dissolte a
sufficienza. Non dissolto, tuttavia, è il dominio degli altri fantasmi essenzialistici: la presunta «
logica» della storia, la cosiddetta legge della società, le idee di umanismo e di progresso, di
liberalismo, ecc. Tutto ciò, per lo Stimer nominalista, costituisce degli universali che non hanno
alcuna realtà, ma che, se si è posseduti da essi, possono generare brutte realtà.
Stimer si irrita soprattutto per la discussione, per lo più intesa in senso positivo, sul « genere umano
». Non esiste il genere umano. Esistono soltanto innumerevoli singoli. E ogni singolo non si può
afferrare con concetti umanitari. Cosa può mai significare, per esempio, l’« uguaglianza» del genere
umano? Che ciascuno deve morire? Mai nessuno, però, esperisce il dover-morire universale, bensì
soltanto il proprio. Non sperimenterò mai come l’altro, anche se è il mio prossimo, sperimenta il
suo dover-morire. Io non esco da me stesso. Sperimento soltanto qualcosa dell’esperienza dell’altro,
ma non sperimento l’esperienza dell’altro. «Fratellanza»... un altro concetto universale del «genere
umano». Quanto posso estendere davvero questo sentimento? Tanto da includere l’intero mondo
e l’intero genere umano? Nessun sentimento tollera una siffatta estensione. L’Io si è dileguato in un
modo di dire. «Libertà»... un ulteriore prominente concetto universale che ha preso l’illusorio posto
di dio. Stimer illustra con pungente ironia quei pensatori del processo che costruì-
scono una macchina sociale e storica, che alla fine delle sue macchinazioni deve generare la «
libertà » come fosse un prodotto... ma fino a quel momento si rimane, come lavoratori del partito,
schiavi di questa macchina per la liberazione. In tal modo, la volontà di libertà si muta nella
disponibilità a servire una logica. Quali conseguenze distruttive può avere questa fede nella logica
storica lo ha intanto dimostrato a sufficienza la storia del marxismo. Nella sua critica alle
costruzioni universali di liberazione, Stimer ha sicuramente avuto ragione di Marx.
Il nominalismo di Stimer vuole dunque « distruggere i pensieri mediante il pensiero» (Stirner 166).
Ciò però non va frainteso. Egli non vuole l’assenza di idee, ma la libertà del pensiero creativo, il
che significa che non ci si pieghi sotto il potere del pensato. Bisogna rimanere il creatore del proprio
pensiero. Il pensiero è creatività, l’idea è una creatura e la libertà di pensiero significa che il
creatore si trova al di sopra della sua creatura; il pensiero è potenzialità e perciò più del pensato: il
pensiero vitale non può recarsi nella prigionia dell’idea. «Quello che sei in ogni attimo è la tua
creazione e in questa ’creazione’ non puoi smarrire te stesso, il creatore. Tu sei per te un essere
supremo e sei superiore a te stesso » (Stimer 72).
Il nominalismo medievale aveva difeso il dio inconcepibile e creatore contro una ragione che lo
voleva intrappolare in una rete di concetti. Il nominalista Stimer difende l’Io inconcepibile e
creatore contro i concetti universali : di tipo religioso, umanistico, liberale, sociologico e via
dicendo. E così, come per i nominalisti medievali, dio è quell’immensità che ha creato se stesso e il
mondo a partire dal nulla e che si trova, nella sua libertà, al di sopra della logica e persino della
verità; ugualmente, per Stimer l'individuo ineffabile è una libertà che ha «posto la sua causa su
nulla». Anche questo Io, come in passato dio, è l’immenso, poiché, dice Stimer, « io non sono il
nulla
I    '
nel senso del ’vuoto’, ma sono il nulla creatore, quel nulla dal quale io stesso, come creatore, creo
tutto » (Stimer 43).
Con scherno fin troppo gratuito, Marx ha potuto rinfacciare al piccolo-borghese Schmitt/Stirner la
sua situazione sociale, che pone dei confini certamente stretti alla creatività. Marx non ha però
riflettuto, in tal senso, sull’antica scoperta della Stoa, secondo cui noi non veniamo influenzati tanto
dalle cose, ma dalle nostre opinioni su di esse. E anche lo stesso Marx, nella sua azione, in
definitiva non si è fatto guidare dal proletariato, ma dal suo fantasma. E perciò Stimer ha
assolutamente ragione a sottolineare a tal punto la creatività dell’Io, perché è questo fantasma
a produrre lo spazio d’azione sul quale (teoricamente) esso poi si fonda.
La filosofia stirneriana è stata una grandiosa scossa liberatoria, talvolta stramba e scurrile. Anche
coerente, in un senso molto tedesco. Nietzsche l’ha sicuramente esperita come una siffatta scossa
liberatoria, in un momento in cui doveva procurarsi lo spazio per il proprio pensiero, in cui per
amore della vitalità del pensiero meditava sul problema del sapere e della verità e su come volgere «
il suo pungolo contro se stesso ».
Per un aspetto, tuttavia, Nietzsche avrà percepito in Stimer qualcosa di totalmente estraneo e anche
per lui sicuramente ripugnante. Infatti, per quanto Stimer enfatizzi l’elemento creativo, per
l’ostinazione con cui reclama la proprietà in se stessa, si dimostra dunque in definitiva un piccolo-
borghese, per il quale la proprietà significa tutto, anche se fosse soltanto la proprietà di se stessi.
Anche Nietzsche vuole liberarsi dei fantasmi e vuole fare tutto con il suo pensiero, per entrare,
come scrive una volta in una lettera, « in pieno possesso » di se stesso. Ma i gesti di Nietzsche sono
meno difensivi di quelli stirneriani; Nietzsche vuole abbandonarsi a se stesso. Stimer investe
nello smascheramento e Nietzsche nel movimento; Stimer realizza l’interruzione e Nietzsche la
ripartenza.
\
Volgere il pungolo del sapere contro il sapere stesso per Nietzsche significa: il sapere non si inganna
più sul fatto che esso stesso è un dispositivo di sicurezza contro l’im
menso. II sapere che va oltre se stesso non conosce soltanto i suoi confini, ma anche vertigini e
capogiri. Nietzsche chiama questo tipo di sapere-di-più, come intanto sappiamo, «saggezza», per lo
più con raggiunta «dionisiaca». Ma come si presenta il tutto a questa « saggezza »?
Per un verso, come divenire tumultuoso, sempre già alla meta, perché non c’è una meta finale;
d’altro canto (come abbiamo appreso a partire dal testo Su verità e menzogna in senso extramorale)
come astro nell’universo, dove alcuni «animali intelligenti scoprirono la conoscenza» (FETG:227)...
per breve tempo.
In conclusione, il grande silenzio dell’universo preparerà una fine ai processi universali, così
autoconsapevolmente pensati. Questa fondamentale atmosfera tragica costituisce lo sfondo per
quell’incoraggiamento all’« ardore, l’ostinazione, l’oblio di sé e l’amore» (UDSV:87), con
cui termina il saggio Sull’utilità e il danno della storia. Si delinea già adesso la tipica figura di
pensiero degli anni successivi: i sentimenti e le idee sono tanto più riflessivi quanto più forte è la
volontà d’immediatezza. In conclusione, non esiste quasi più nessun sentimento che non sia legato
alla formula «volontà di...» e, tramite essa, che non sia spezzato. La volontà di serenità, di
speranza, di vita, di dire-sì, ecc., tutto questo costituisce i preliminari della volontà di potenza.
Nietzsche lavora già a una dottrina d’« igiene della vita » (UDSV:96) che ponga al centro
il principio dell’immediatezza mediata e, dunque, della mutazione della prima nella seconda natura.
« Noi piantiamo una nuova abitudine, un nuovo istinto, una seconda natura, sicché la prima natura
rinsecchisce » (UDSV:29ss.). Questa seconda natura deve imparare di nuovo « l’antistorico e il
sovrastorico » (UDSV:95). È dunque la metafisica. Ma dopo tutto ciò che finora abbiamo udito di
Nietzsche, può essere ormai soltanto una «metafisica come se». Non una metafisica che valga in
senso assoluto, ma una metafisica che valorizzi un’altro modo di guardare, durante il breve attimo
sul piccolo astro nella notte universale.
Sulle sensazioni avute in occasione della musica wagneriana per la morte di Sigfrido, Nietzsche
scrive: l’intera umanità deve morire, chi potrebbe dubitarne, ma è tanto più stupefacente che, nella
musica, si palesi al singolo uomo quell’esperienza: «Nell’atomo più breve della sua vita, può
accadergli qualcosa di santo che compensi a usura ogni lotta e ogni sofferenza» (W:101ss.).
Il santo? Ne sentiremo ancora parlare. Intanto, per Nietzsche la santità è in ogni caso la musica.
L’animale che può eseguire musica è appunto già per questo l’animale metafisico. Chi però sa
ascoltare bene ode la fine. Ogni autentica musica, afferma Nietzsche, è un canto del cigno.
7. Il distacco da Wagner. Socrate non molla. La virtù terapeutica universale del sapere. Crudeltà
necessarie. L’esperimento con il freddo. Atomi che precipitano nello spazio vuoto. Umano, troppo
umano.
NELL’ESTATE del 1878, quando il primo volume di Umano, troppo umano già era comparso e la
separazione da Wagner compiuta, Nietzsche scrive nei suoi appunti: «La natura di Wagner fa
diventare poeti, in quanto si inventa una natura ancora più alta. È questo uno dei suoi effetti più
mirabili, che alla fine si rivolge contro di lui » (FP4/3:315). Alla «natura più alta», che Nietzsche
si era inventato sotto l’influsso di Wagner, appartiene anche il modo di pensare e di fare esperienza
del « sovrastorico », nel senso di una visione metafisica che non evoca di certo nessun ordinamento
ultraterreno, ma che scopre nell’esistenza il «carattere dell’eterno e dell’immutabile » (UDSV:95).
Nella sua incompiuta esposizione della Filosofìa nell’epoca tragica dei Greci, scritta nel 1873,
Nietzsche chiarisce, sull’esempio del pre-socratico Talete, quel modo di vedere sovrastorico. «
Quando Talete dice ’tutto è acqua’, l’uomo si scuote, cessa di procedere a tastoni e di strisciare
come un verme nel campo delle scienze particolari, ha un presentimento della soluzione suprema
delle cose, e attraverso questo presentimento supera il pregiudizio comune dei gradi inferiori della
conoscenza. Il filosofo cerca di far risuonare in sé l’armonia totale del mondo» (FETG:156). Chi
vuole far risuonare in sé il «l’armonia totale del mondo » e vuole obbligare la filosofia a riprodurre
questo suono « in concetti », costui deve anche andare in Cerca di una musica reale e non soltanto
metaforica, dove risuoni questo presagito e intimo nesso dell’universo.
Intanto, siamo venuti a sapere che per Nietzsche questa musica era quella wagneriana.
Alla metà degli anni ’70, nel pensiero di Nietzsche confluiscono tre aspetti. In primo luogo, in stile
assolutamente stimeriano, volgere il sapere contro il sapere per creare spazio alla vita immediata. In
questa maniera, si realizza l’«antistorico». Mediante un balzo, il pensiero ottiene il « sovrastorico »:
visti dalla prospettiva degli uccelli, le strutture e i nessi della vita si mostrano invariabili. Non si può
tuttavia immaginare la descrizione della vita, da questa prospettiva, in modo troppo discorsivo e il
suo « oggetto » in modo troppo intelligibile. Infatti (e questo è il terzo aspetto), una tale descrizione
concettuale è per Nietzsche l’elaborazione secondaria di un’esperienza che si esprime meglio nella
lingua della musica. Nietzsche chiama « conoscenza intuitiva » questo pensiero che si è inventato
una natura «più alta» sotto l’influsso di Wagner. Ma la suddetta riflessione del 1878 accenna alla
dinamica inversa dell’effetto di Wagner, della quale Nietzsche afferma (ed è il suo aspetto « più
mirabile ») che essa « alla fine si rivolge contro di lui ». Come bisogna intendere una cosa simile?
Il 14 gennaio 1880 scrive a Malwida von Meysenbug: «Io penso a lui [Wagner] con perseverante
gratitudine, giacché gli debbo alcuni dei più validi incitamenti verso l’autonomia dello spirito» (E:
148). Se si avvicina questa affermazione all’appunto, a prima vista contrario, del 1878: «Wagner
non ha la forza di rendere l’uomo libero e grande nei suoi rapporti» (FP4/3:278), allora gli
«incitamenti verso l’autonomia dello spirito» possono riferirsi soltanto alla circostanza che
Nietzsche doveva mobilitare tutte le sue energie per uscire dal cerchio magico di Wagner e che,
grato, si rammentava della potenza di Wagner, perché essa lo costrinse a ritornare in possesso di sé.
Al termine della sua fase wagneriana, Nietzsche è orgoglioso infatti di avere infine trovato l’uscita
nel giardino di Klingsor e di aver scoperto se stesso nel confronto con il mago. Nell’estate del 1877,
Nietzsche scrive nel diario
le seguenti frasi risolute: «Ai lettori dei miei primi scritti voglio espressamente spiegare che ho
abbandonato le vedute metafisico-artistiche che in essi dominano: sono gradevoli, ma non si
possono conservare » (8,463).
Un pensiero e un’esperienza decisivi portano Nietzsche ad abbandonare le sue « vedute metafisico-
artistiche ».
Cominciamo con l’esperienza decisiva che sta alla base dell'allontanamento dalla metafisica
artistica. Nietzsche stesso rinvia all’esperienza deludente in occasione del primo festival di
Bayreuth nel 1876. «Il mio ritratto di Wagner», scrive nel diario nel 1878, «superava di gran
lunga il modello; avevo descritto un monstrum di idealità, capace forse di infiammare degli artisti. Il
Wagner reale, la Bayreuth reale, mi fece l’effetto della cattiva, ultima copia di un’incisione tirata su
carta scadente. Il mio bisogno di vedere uomini reali e i loro motivi fu straordinariamente stimolato
dallo smacco di questa esperienza » (FP4/ 3:277). Nietzsche, invece di far echeggiare « l’armonia
totale del mondo », vuole ora calarsi ai gradi chiamati « inferiori» nel suo profilo di Talete? Si è
forse deciso, con Umano, troppo umano, a favore del « procedere a tastoni e [dello] strisciare come
un verme »? Vedremo. In ogni caso, egli deforma la sua esperienza vissuta a Bayreuth nel 1876
presentandola come un’esperienza che lo ha ridestato da un sogno. Ma la delusione non lo ha
raggiunto così all’improvviso. Bisogna richiamare alla mente alcune stazioni della diffìcile
relazione con Wagner.
La sensazione di intima co-appartenenza con Wagner ha raggiunto il culmine durante il lavoro al
libro sulla tragedia e immediatamente dopo la sua pubblicazione. Egli scrive a Rohde il 28 gennaio
1872: « Con Wagner ho stretto alleanza. Non puoi immaginarti fino a che punto ora siamo vicini e
come i nostri propositi combacino » (E:65). Durante quest’anno (come già due anni prima, nella
fase euforica del primo incontro), Nietzsche persegue il progetto di porsi, come libero scrittore, al
servizio dell’impresa di Bayreuth. Voleva girare per lo Stato, tenere conferenze, fondare e assistere
associazioni di promozione, scrivere, redigere e piazzare articoli, forse anche fondare una rivista. Si
distanzia definitivamente da tali progetti allorché, nell’autunno del 1873, deve fare l’esperienza di
quanto la comunità wagneriana fosse pusillanime e prosaica, per poter approvare l’abbozzo di un
Appello ai tedeschi, in cui viene sostenuta l’opinione «che il popolo ha bisogno, ora più che mai,
di essere purificato e consacrato dall’incanto [e dall’orrore] sublime dell’autentica arte tedesca»
(FETG:251). Questo Appello doveva ottenere sostenitori e sottoscriventi per l’impresa di Bayreuth,
ma fu scritto quasi come un predicozzo. Il gusto della massa viene flagellato, il popolo
viene richiamato alla sua grandezza nazionale e alla sua maestà culturale ed esortato, con parole
forti, a dimostrarsi finalmente degno della grande azione culturale di Wagner. Cosima Wagner, dopo
la seduta delle Associazioni wagneriane a Bayreuth, in occasione della quale venne
rifiutato l’abbozzo di Nietzsche, scrisse nel suo diario: «Le associazioni non si sentono di
autorizzare la lingua temeraria, ma chi al di fuori di esse sottoscriverebbe una cosa del genere? »
(N/W 1,187).
In questo momento, nella cerchia di Wagner si è ancora del tutto fedeli a Nietzsche e si è disposti a
deridere la pusillanimità delle « associazioni » piuttosto che rivolgere il benché minimo accenno
critico a Nietzsche. Vale ancora quello che Richard Wagner scrisse a Nietzsche il 25 giugno 1872:
«A pensarci bene, Ella è, dopo mia moglie, l’unico acquisto della mia vita» (N/W:74ss.).
Specialmente per le celebrazioni natalizie e per l'anno nuovo, Nietzsche viene invitato con
insistenza, e nascono dei disaccordi quando Nietzsche non dà seguito a questi inviti.
Cosima Wagner annota con molta precisione anche i più velati accenni di un contegno riservato da
parte di Nietzsche. Il 3 agosto 1871, dopo alcuni giorni di ferie trascorsi da Nietzsche a Tribschen,
ella scrive che Nietzsche è sicuramente il più dotato degli amici di famiglia, « ma in molte cose
davvero sgradevole per una riservatezza non del tutto naturale del suo comportamento. È come se si
difendesse dall’influenza sconvolgente della personalità di Wagner » (N/W 1,168). Con ciò Cosima
ha colto nel segno. Effettivamente, Nietzsche badava a mantenere una certa distanza che gli serviva
per preservare la propria libertà di fronte al maestro. Allorché Richard Wagner gli fece ancora
una volta dei rimproveri per aver trascurato una visita di fine anno, Nietzsche ne scrisse al suo
amico Gersdorff: «Non so davvero immaginarmi come si potrebbe avere verso Wagner, in tutte le
cose importanti, una fedeltà più grande della mia, e come si potrebbe essergli più
profondamente devoti di quanto lo sia io [...] Ma riguardo a piccole questioni di secondaria
importanza e alla mia intima necessità, che potrei chiamare ’igienica’, di evitare troppo frequenti
convivenze personali, riguardo a questo devo salvare una mia libertà, davvero soltanto per poter
mantenere quella fedeltà in un senso più alto» (E2:435).
A partire da questa astensione « igienica » si sviluppano lentamente le prime caute riluttanze. Nella
primavera del 1874, Nietzsche assiste a Basilea a una rappresentazione del Triumphlied di Brahms.
Ne è così colpito che porta con sé la partitura per la visita estiva a Bayreuth, eseguendone davanti al
maestro dei brani, pur sapendo che Brahms gode di cattiva reputazione presso di lui. In casa Wagner
se ne è sdegnati. Cosima annota nel diario: « Pomeriggio: suoniamo il Triumphlied di Brahms,
grande sgomento per la povertà di questa composizione, della quale l’amico Nietzsche ci ha cantato
le lodi [...] Richard è molto arrabbiato» (N/W 1,191). Quattro anni dopo, guardando indietro alla
diatriba intorno a Brahms, Nietzsche annota su Wagner: «Gelosia intensa contro tutto quanto è
grande [...] odio contro tutto quanto egli non riesce ad avvicinare» (FP4/3:318).
Finché Nietzsche restò fedele a Wagner, percepì di certo chiaramente e talvolta anche
dolorosamente il suo tratto '
autoritario, ma lo tollerò con la consapevolezza che bisognasse anzi sopportare qualche mancanza
di riguardo vici-
4
no a un « genio » come Wagner. È evidente che Nietzsche reagiva sempre più spesso con la malattia
quand’era fissata una visita dai Wagner. Il peggio occorse nell’estate del 1876, nei giorni prima del
primo festival di Bayreuth, Benché fosse apparsa, poche settimane prima del grande evento, la
Quarta inattuale su Wagner, e questi avesse risposto al recapito delle bozze con le parole: « Il suo
libro è immenso! Mi domando come fa a sapere tutte queste cose di me? » (N/W: 115; trad. mod.),
benché Nietzsche potesse dunque contare su una cordiale accoglienza, il corpo si ribellò. Il giorno
prima della partenza per Bayreuth egli dice in una lettera a Gersdorff: « Salute di giorno in giorno
più miserevole! » (B5,178) Che Bayreuth non possa certo vivere la rinascita dello spirito dionisiaco
e che lì non si possa scoprire nemmeno quello « spettatore devoto » di cui si discute nella Quarta
inattuale... lo afferra un tale presentimento, non appena sente come Bayreuth si prepara
all’affluenza dei visitatori. Bayreuth, così scrisse nella Quarta inattuale, segnerà la fine della
confusione di arte e «divertimento ad ogni costo» (W:97). Ora, in effetti, Bayreuth ha i prezzi più
spudorati per logge, cibo, viaggi in carrozza tra la città e la collina del festival. Monarchi, principi,
banchieri, diplomatici e cocottes sono al centro dell’attenzione. Alle rappresentazioni, questa gente
per lo più si annoia, ma si mostra tanto più eccitata dagli eventi mondani. In seguito, degli eventi di
Bayreuth Nietzsche scriverà: « Non solo, allora, mi era tangibilmente chiara la completa
indifferenza e illusori età dell’’ideale’ wagneriano, ma vidi soprattutto che, addirittura per i più
interessati, l”ideale’ non era la cosa principale... che a tutt’altre cose veniva data più importanza e
più passione. Tra queste, la compagnia meritevole di compassione dei santi patroni, uomini e
donnette [...] Si trovava insieme tutta l’oziosa canaglia europea, e qualsiasi principe andava dentro e
fuori di casa Wagner come se ormai si trattasse di uno sport» (14,492). Nietzsche vive le prove, gli
arrivi pomposi delle teste coronate alla stazione, a casa dei Wagner viene invitato a ricevimenti
mondani. Nietzsche è abbastanza presuntuoso per ritenere il suo saggio su Wagner il più
significativo contributo intellettuale alla festa, e lo offende perciò tanto di più il fatto che Wagner
non gli porga, in tutto quel trambusto, la dovuta attenzione. Nei diari di Cosima, la visita di
Nietzsche viene brevemente menzionata una volta soltanto, ma non ulteriormente commentata.
Egli gioca un ruolo secondario, di cui non vuole accontentarsi. Dopo alcuni giorni, soffrendo molto,
parte per Klingen-brunn, in Boemia, per poi fare nuovamente ritorno a Bayreuth, il 12 agosto 1876,
in occasione della «prima». Sino alla fine di agosto vi resiste, lasciando anzitempo le
poche rappresentazioni visitate. « Ogni volta ho orrore di queste lunghe serate artistiche », scrisse
alla sorella già a proposito delle prove (E3:165; 1° agosto 1876). Avrebbe trovato consolazione,
racconta in Ecce homo, con una «affascinante parigina». Probabilmente era Louise Ott, un’alsaziana
di famiglia benestante, trasferitasi a Parigi dopo l’annessione tedesca dell’Alsazia. Era una
wagneriana appassionata e aveva pure letto con ammirazione lo scritto di Nietzsche su Wagner.
Dopo la conclusione del festival, si scambiarono ancora qualche lettera. Il 22 settembre, Nietzsche
le scrive: «Questa nuova amicizia somiglia al vino novello: molto gradevole, ma forse un tantino
pericoloso. Per me, in ogni caso. Ma anche per Lei, se penso in che spirito libero Lei si è imbattuta!
In un uomo che, soprattutto, desidera strappare da sé, giorno per giorno, qualsiasi Fede consolatoria,
un uomo che, in questa libertà del suo spirito, accresciuta giorno per giorno, cerca e trova la felicità.
E forse io voglio essere uno ’spirito libero’ più di quanto non possa esserlo» (E: 111ss.; trad. mod.).
La delusione subita in occasione del festival di Bayreuth è dunque lo sfondo di quell’esperienza
che, afferma Nietzsche, lo avrebbe aiutato a scoprire nuovamente la realtà degli uomini e le loro
motivazioni e lo avrebbe portato sulla via dello « spirito libero ».
Altrettanto gradualmente di questa presa di distanza, si compie anche la formazione di quel pensiero
decisivo che dà alla filosofia nietzscheana un nuovo taglio e che lo libera dall’universo intellettuale
di Wagner. Anche la formazione di questo pensiero inizia prima del 1876, ma soltanto in seguito
egli può formularlo in maniera decisa e con chiarezza provocante, per esempio in una lettera del 15
luglio 1878 a Mathilde Maier, anch’ella, come Louise Ott, una devota proveniente dalla cerchia
wagneriana.
È stato un errore funesto e lo ha fatto ammalare, scrive, quell’« annebbiamento metafisico di tutto
ciò che è semplice e vero, la guerra della ragione alla ragione, per vedere in tutto un prodigio e un
monstrum» (E: 130). Questa formulazione ricorda, a prima vista, quella vivace formula stimeriana
del sapere che volge il suo pungolo contro il sapere. Con questa formula, Nietzsche volle creare
spazio alla vita per l’ottenimento di una seconda immediatezza. La formula aveva un senso
vitalistico. Il potere della conoscenza e del sapere doveva essere limitato per servire la vita. Ma
questa manovra del depotenziamento del sapere mediante il sapere gli pare ora come un
autoinganno della ragione. Gli sembra sleale combattere con la ragione contro la ragione. Egli
scopre nel suo entusiasmo per il mito (e per Wagner) la volontà di incantare se stessi
intenzionalmente e in modo mitico-estetico. Nel libro sulla tragedia scrisse: « Solo un orizzonte
delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà» (NT: 151). Ma con quali
premesse i miti possono dispiegare una tale forza? Certamente, solo allorquando viene attribuito
loro un valore di verità. Quando un’epoca si è proiettata oltre i miti, quando sono state acquisite
conoscenze non più accordabili con essi, allora si è compiuta una frattura che muta profondamente
il rapporto con il mito. Il suo valore di verità sparisce ed esso guadagna forse un valore estetico.
Il mito accettato esteticamente non può più avere, però, quella forza capace di raccogliere in unità
un « movimento di civiltà». Ciò riesce soltanto alle forme spirituali che possono occupare, oltre
l’ambito estetico, anche tutto lo spazio della conoscenza. Ciò accadde col cristianesimo, all’epoca
del suo splendore, quando includeva tutti gli ambiti, arte, sapere, morale. La stessa cosa vale per la
Grecia antica, fintantoché rimase ancora sotto la potenza del mito. Nietzsche è consapevole che si
può di certo sognare un siffatto passato, ma che la sua rinascita può essere operata soltanto al prezzo
di un autoinganno. Una moderna coscienza mitica scalza se stessa, è la falsità diventata sistema.
Wagner ha fatto perire gli dei sul palcoscenico... questa rimane per Nietzsche una grande azione.
Wagner, però, è rimasto fedele alla volontà di incantare tramite il mito e Nietzsche in ciò lo ha
seguito. Ma un po’ per volta gli risulta chiaro che dopo la morte degli dei rimane, appunto, soltanto
l’evento estetico, a cui si può certo dare una verniciata di mitico, ma che non si può tuttavia
trasformare in un evento religioso.
Non ha nulla a che vedere con la religione come arte. Questo pensiero raggiunge in Nietzsche una
figura chiara già... prima dello shock di Bayreuth del 1876, quando fece esperienza di come il
sacrale evento artistico precipitasse nella banalità. Nietzsche inizia a combattere il principio centrale
dell’intera impresa wagneriana che recita: in una realtà colma di sofferenza è la potenza dell’opera
d’arte «che pone l’illusione consapevole al posto della realtà». Chi è incantato dall’arte, così
prosegue Wagner nel suo scritto Stato e religione, viene coinvolto nel gioco dell’arte a tal punto
che, viceversa, esperisce ormai la cosiddetta serietà della vita soltanto come un gioco.
All’opera d’arte può riuscire « di dissolverci beneficamente nell’illusione in cui essa stessa, questa
seria realtà, ci appare invece, alla fine, soltanto come illusione» (Wagner, Denken 315). Ancora il 2
marzo 1873, Nietzsche consigliò la lettura di questo saggio wagneriano al suo amico
Gersdorff, ritenendolo «uno dei suoi scritti più profondi» (E2:435) e chiamandolo « ’edificante’ nel
senso più nobile del termine». Due anni più tardi, negli appunti del 1875, egli rigettò l’idea che si
possa accedere artificiosamente a una « illusione consapevole » (Wagner) senza cagionare un
danno alla propria onestà intellettuale. Privi di illusioni, si dovrebbero tenere d’occhio le energie da
cui l’arte è condizionata: « il piacere di mentire, il gusto per l’indeterminato e il simbolico»
(FP4/1:155).
Nietzsche, d’ora in poi, non vuole più permettersi di metter fuori gioco la ragione grazie a una
raffinata riflessione (quindi con la ragione stessa) e di aderire oniricamente a un mito estetico a tal
punto da credere, alla fine, di indurre a credere. Egli scrive: «Nel culto religioso si conserva un
grado anteriore di civiltà: si tratta di ’sopravvivenze’. I tempi che lo solennizzano non sono quelli
che
lo    inventano» (FP4/L147). Quanto sono distanti dall’origine quei periodi in cui il « culto » (della
tragedia) non viene ancora celebrato, ma viene ancora soltanto esteticamente goduto? No, con tutta
questa magia della tragedia ci si illude soltanto. Con delle spesse sottolineature, come volesse
cacciarsele in testa, annota: « Dalla civiltà antica noi siamo separati per sempre, in quanto le sue
fondamenta sono per noi diventate completamente fradicie. In questo senso, una critica dei Greci è
al tempo stesso una critica del cristianesimo, poiché in entrambi i casi il fondamento è dato della
credenza negli spiriti, dal culto religioso, dall’incantamento della natura» (FP4/1:147).
Quando Nietzsche, in seguito, guarda indietro al periodo dei suoi sogni di una rinascita del mito e
della tragedia nel segno di Wagner, scrive a tal proposito nel suo taccuino: «Dietro il mio primo
periodo sogghigna il volto del gesuitismo: intendo il consapevole attenersi all’illusione e al suo
coattivo prender corpo come base della civiltà» (10,507). Non solo un decennio più tardi, ma già
negli appunti della metà degli anni ’70, Nietzsche giudica severamente questa fiducia intenzionale
nelle illusioni smascherate. La discussione verte sul « pensiero disonesto » che si immedesima nelle
cose passate e crede di poter annullare
il    fatto che tramite ciò si sono prodotti la fine dell’ingenuità, il razionalismo e l’illuminismo. Se si
considerano le cose onestamente, allora esse si mostrano in maniera diversa da come la nostalgia
dei miti le desidera, « fantasmi che si congiungono con fantasmi. È comico prendere tutto
così seriamente. L’intera filosofia più antica, come curioso labirinto della ragione» (FP4/1:161).
Queste sono frasi tratte dagli appunti per lo scritto Noi filologi, progettato nel 1875. Doveva
diventare la Quinta inattuale e Nietzsche vi lavorò quando la parte appena finita del saggio
wagneriano gli parve frattanto « impubblicabile» (B5,114; 26 settembre 1875). Lo scritto Noi
filologi doveva presentare la grande resa dei conti con la filologia classica. Egli voleva esporre
come il ruolo significativo di questa materia nel sistema educativo fosse dovuto a una concezione
sbagliata dell’antichità, e come la filologia classica resistesse, addirittura contro modi migliori di
vedere, per poter affermare la sua posizione di potere nel sistema educativo. L’immagine
dell’antichità che ancora operava e fondava la missione educativa era quella di Winckelmann:
nobile candore, quieta grandezza. In quest’immagine, l’antica Grecia diventa il luogo
idealizzato della realizzazione classica dell’unità di bene, bello e vero. Con la tesi secondo cui la
mite umanità degli antichi era una chimera, Nietzsche non avrebbe stupito quel pubblico che già
conosceva il libro sulla tragedia. Infatti, già in esso Nietzsche distrusse l’immagine
winckelmanniana dell’antichità e sottolineò i tratti selvaggi, crudeli e pessimistici della civiltà
greca. La novità, che viene accennata in questi appunti, è piuttosto un’interpretazione diversa
del significato della conoscenza e delle sue relazioni col mito e con la religione. Non bisogna, «nei
confronti del sapere, essere tanto ingiusti» (FP4/L116), annota Nietzsche, che dunque già prima
della separazione da Wagner inizia a ruotare il palcoscenico: Socrate, che nel libro sulla tragedia
come incarnazione della volontà di sapere, viene reso responsabile del tramonto della tragedia,
doveva essere riabilitato? Doveva nuovamente emergere come ospite crudele dopo il banchetto
tragico? Negli appunti dell’estate del 1875 Nietzsche scrive: « Socrate, lo confesso, mi è talmente
vicino che devo quasi sempre combattere contro di lui» (FP4/1:159). Per indagare il mutato
rapporto di Nietzsche verso Socrate, richiamiamo alla mente la sua entrata in scena nel libro sulla
tragedia.
Nietzsche, nel libro sulla tragedia, lo fa entrare in scena come colui che si aspettava il massimo
dalla conoscenza e che non soltanto riteneva possibile vivere con la verità, ma a cui una vita al di
fuori della verità non sembrava degna d’essere vissuta. Per Nietzsche, Socrate è l’iniziatore
della fortuna occidentale del sapere e della volontà di verità. Questo Socrate impersona il principio,
rivolto contro il tragico, del sapere e della verità. Esso è rivolto contro il tragico perché pretende «
non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere » (NT: 101). Se l’essere si
lascia correggere, il dolore, la paura, la sofferenza e l’ingiustizia non vengono più sopportati
tragicamente: li si può rimuovere, forse oggi non ancora, ma domani sì. La conoscenza produce
tranquillità e felicità. Correggere l’esistenza significa per Socrate trasformare il proprio essere
mediante la conoscenza di sé e anche, a tal riguardo, rischiarare a tal punto l’essenza dell’universo
da poter condurre la propria vita senza paura e con fiducia nell’esistenza. Con Socrate, Nietzsche fa
entrare in scena il genio di una scienza che vive nella « possibilità di attingere la conoscenza della
natura e nell’efficacia risanatrice universale del sapere» (NT: 114).
Come ci si debba effettivamente comportare, a proposito del Socrate storico, con questo spirito
della scienza, qui non c’è bisogno che venga ulteriormente discusso, poiché quel che conta è
soltanto capire come Nietzsche determini quella potenza di cui elegge Socrate rappresentante.
«Conoscenza della natura» significa la convinzione che la natura sia, nella sua sostanza, della stessa
specie dello spirito conoscitivo umano. Essa è intelligibile, oppure, secondo la formulazione di
Platone: il simile conosce il simile. I sensi corporei reagiscono all’aspetto corporeo dell’universo e
lo spirito svela le idee che stanno alla base del mondo come eterno modello. Nell’atto
conoscitivo l’uomo si collega al vero essere, diventa quello che già è. Toma a casa. L’idea empatica
della conoscenza conta sulla possibilità della consonanza tra io conoscente e universo. In Platone,
tutto ciò si svolge ancora in un universo di pensiero, non ancora come impossessamento del mondo,
che però non si lascerà attendere a lungo.
Relativamente al Socrate platonico, l’« efficacia risanatrice del sapere » dà prova di sé specialmente
in rapporto alla morte. Il racconto della morte di Socrate è una sorta di documento fondante del
platonismo. Qui si realizza la grande prova della verità dello spirito conoscitivo. È il Socrate
morente che trionfa sulla tragedia. Socrate supera la paura e l’orrore. Nietzsche chiama l’immagine
del «Socrate morente », un uomo che col sapere e per i noti motivi è dispensato dalla paura della
morte, l’« insegna che, sopra la porta d’entrata della scienza, sta a ricordare a ognuno
la destinazione di essa, che è quella di far apparire l'esistenza comprensibile e pertanto giustificata»
(NT: 101). Tuttavia, essa è comprensibile e giustificata soltanto perché la conoscenza socratica
abbraccia più di quanto abitualmente la modernità attribuisca al conoscere. La conoscenza socratica
non è soltanto empirica, naturalistica, mimetica. Essa non indaga ignoti stati di fatto, essa non è
riferita all’oggetto come nella comprensione scientifica moderna. Quando Nietzsche parla dell’«
efficacia risanatrice del sapere», si riferisce innanzitutto allo spirito partecipativo che il Socrate
platonico, in rapporto alla morte, mette in risalto in modo particolarmente evidente. Il
conoscere, questo dimostra Socrate, è aver parte a uno spirito che va oltre l’io empirico. Si è già
sempre intrecciati in questo spirito, ma si tratta di scoprirlo in se stessi e di concedere a esso la
signoria sulla conduzione della propria vita, fino ad arrivare alla morte. Socrate chiama questa
esperienza di sé di uno spirito di cui si partecipa, ma che ci oltrepassa, «avere l’anima soltanto per
sé». Se noi, con questo intendimento, ritorniamo all’anima, allora ciò non significa distacco dal
mondo, sprofondamento nell’interiorità priva di mondo, bensì collegamento a un essere universale
dal quale il corpo ci separa come essere isolato. Detto in concetti odierni: l’anima rappresenta
l’oggettivo e pertanto ciò che è ricco di sostanza e che propriamente regge il mondo. Il corpo e la
nostra sensibilità sono il meramente soggettivo ed effimero, privi di essenza e quindi privi di
mondo. Ma se ci si ritira nella propria anima, ossia ciò a cui conduce Socrate, non si diventa privi di
mondo, ma è esattamente l’opposto: soltanto quando ci si raccoglie nella propria anima si viene
davvero al mondo, si giunge nel vero mondo. La presentazione platonica della morte di Socrate
deve dunque dimostrare che non è vero che ciascuno muore da solo per sé. La morte non è l’attimo
della massima solitudine. Socrate non è da solo. Nell’esperienza di sé del pensiero e del conoscere
egli si accerta piuttosto di un essere che lo guida, a cui egli appartiene anche oltre la morte
individuale.
Qui, non contano molto le singole dimostrazioni di immortalità che Socrate presenta nel suo ultimo
dialogo con gli allievi. Soltanto il fatto che siano varie «dimostrazioni » mostra in dettaglio la loro
opinabilità. Per questo, Socrate le chiama anche un’«imbarcazione d’emergenza» con cui si tenta «
di nuotare attraverso la vita » (Platone). Decisiva, piuttosto, è l’esperienza di sé dello spirito
come di un’entità vivente che va oltre i confini dell’isolamento corporeo. Questa certezza di sé dello
spirito non va estesa senza esitazione a tutte le sue manifestazioni. In altri termini: nell’esperienza
di sé del pensiero si trova la verità, nell’atto dunque, e non nei molteplici argomenti che si possono
escogitare e che vogliono risultare più o meno evidenti. Per questo, appunto, le singole
«dimostrazioni» d’immortalità hanno soltanto una limitata attendibilità. E anche per questo, Socrate
non teme di ricorrere al mito. Se in precedenza ci si è serviti della propria ragione, dice Socrate, poi
si può anche rischiare di credere al mito. Egli chiama la fede nel mito (per Socrate è soprattutto il
mito della trasmigrazione dell’anima) un « bel rischio, e con cose di tal specie bisogna, per così
dire, parlarne con se stessi» (Platone). Fra l’esperienza di sé del pensiero, della ragione dunque, e il
mito, per Socrate non vi è una contraddizione fondamentale. Lo spirito razionale lo ha condotto ai
profondi basamenti dell’essere e dal mito riceve una conferma di sé.
A causa di questa alleanza fra lo spirito certo di sé e il mito, che assieme dovrebbero rendere
possibile un’indagine dell’esistenza, Nietzsche chiama questo Socrate platonico un «mistagogo
della scienza» (NT: 101). La differenza fra la conoscenza socratica e quella tragica si trova
per Nietzsche nel fatto che Socrate non conosce quel punto in cui la conoscenza «guarda fissamente
l’inesplicabile» (NT:103). Nell’universo socratico dello spirito fa sempre chiaro, e quello che
ancora ci può essere, in termini di oscurità, ha valore provvisorio. L’ottimismo socratico crede di
sapere che verrà il giorno in cui anche la tenebra si schiarirà. Si può ritenere a tal punto capace la
conoscenza. Ma da dove viene questa fiducia? Essa è dovuta all’intuizione socratico-platonica che
l’essenza dell’universo sia il bene. Per questo, l’umbratile, l’oscuro può avere la sua causa soltanto
in un deficit conoscitivo.
Se nel Socrate platonico il conoscere non mira ancora espressamente all’impossessamento empirico
e pratico dell’universo, tuttavia per Nietzsche una tale evoluzione è implicata nell’ottimismo
conoscitivo della «efficacia risanatrice del sapere ». Per Aristotele, una generazione più tardi, questo
nesso fra conoscenza e dominio della natura è già più chiaro. La formula con la quale Nietzsche
collega l’ontologia socratico-platonica con la moderna conoscenza della natura recita: «consonanza
terrena» (NT: 118). Il che significa: il soggetto e l’oggetto della conoscenza sono della stessa specie,
con riguardo alla loro comune fondazione o nello spirito o nella materia. Non c’è lacerazione
alcuna, alcun abisso insuperabile.
I progressi moderni nella conoscenza della natura vengono potentemente innescati dall’assunzione
di questa «consonanza terrena», fino al punto in cui l’antico dio della metafisica diventa il vero
deus ex machina, che non ha più bisogno del tragico, ma che arriva con successo al dunque, a essere
cioè il « dio delle macchine e dei crogiuoli», che promette una «correzione del mondo per mezzo
del sapere» sommamente pratica. L’ideale di una vita guidata dalla scienza diventa determinante e
l’umanità si muove, in seguito, in un cerchio di compiti che per principio appaiono risolubili.
L’ottimismo del sapere perviene qui al completo dispiegamento. La fede nella conoscibilità di
principio dell’universo, nel suo carattere intelligibile, presuppone un rapporto fondamentalmente
consonante a esso; dissonanze e oscurità appaiono superabili, o già adesso mediante il giusto
metodo, oppure in un futuro più remoto mediante l’accrescimento del sapere. Se il principio
socratico si lega all’idea di evoluzione storica, davvero nulla potrebbe più essere d’intralcio al
trionfo della curiosità teoretica. Ma se la realtà viene intesa come penetrabile e dominabile in modo
crescente, e se i primi risultati materiali di questa civiltà del sapere si manifestano nell’ambito della
tecnica, della produzione, della medicina e della vita sociale, e le manifestazioni delle potenze
naturali, altrimenti così temibili, diventano causalità ovvie e per questo calcolabili e per principio
dominabili... se accade tutto ciò, allora, afferma Nietzsche, si diffonde un sentimento ottimistico fin
negli strati sociali più bassi, che in tal modo iniziano anche a sognare una « felicità terrena di tutti»
(NT:121). Se la natura diventa dominabile in modo crescente tramite le scienze, perché allora non
potrebbe essere eliminata anche l’ingiustizia inerente alla società? Se più avanti si svelasse il
destino naturale come causalità e si potesse tenere in mano, almeno in parte, la catena di causazioni,
allora perché non dovrebbe anche essere possibile spezzare il potere del destino sociale? Mentre
riesce qua e là il sabotaggio del destino, cresceranno anche le pretese,
di chi finora è stato sottomesso al destino, di raggiungere il godimento di queste semplificazioni
della vita. La suddivisione delle possibilità di vita e di sviluppo diventa una questione relativa alla
giusta o ingiusta organizzazione. L’infelice vivrà il suo destino come svantaggio, come ingiustizia
contro la quale si può fare appello.
Nietzsche non vede la scienza collegata allo spirito sovversivo della democrazia soltanto per via dei
suoi risultati, ma anche per via del suo ethos. Questo dimostra Socrate, con la sua mancanza di
rispetto di fronte alle opinioni dominanti. La violenza viene trasferita nell’arena delle
argomentazioni. Nel pro e contro del dialogo vengono disarmate delle pretese di verità ben
equipaggiate. La dialettica non sopporta alcuna parola violenta. Il logos socratico è diffidente
davanti all’« incommensurabilità », e le «immensità» (NT:81; trad. mod.) della tragedia, per
esso, hanno il valore di ingiustizie. Ma queste ingiustizie non hanno sempre amato l’oscurità per
tenersi nascoste? Per questo motivo, l’oscuro è sospetto allo spirito socratico. Chi parla di «
inspiegabile »... non ha qualcosa da nascondere? Nietzsche lo afferma infine esplicitamente: lo
spirito democratico è stato covato nel « grembo di questa cultura socratica» (NT: 120), poiché nella
scienza di tipo socratico vale la verità, senza considerazione per la persona. I geni e le grandi
personalità di scopritori giocano di certo un grande molo anche nella scienza, eppure le verità e le
scoperte scientifiche valgono inter-soggettivamente, come diciamo oggi. Il significato della verità si
slega dal rango della persona che la rappresenta. La verità garantisce per se stessa e deve essere
universalmente verificabile. Particolari esperienze, non generalizzabili, non possono avere alcuna
pretesa di verità. Una verità è costituita in modo tale che per principio possa essere garantita da
tutti. Davanti alla verità sono tutti uguali. Non esistono accessi privilegiati.
Nietzsche, così, vede connessi uno all’altro lo spirito socratico, il progresso scientifico e il
sovvertimento democratico. Ma perché quest’evoluzione gli è così sgradita?
Perché ha paura della democrazia? La risposta è già stata data nella discussione sulla difesa
nietzscheana della schiavitù (capitolo IV). Qui citerò ancora solo le frasi più pregnanti del saggio
sullo Stato greco: « Perché esista un terreno vasto, profondo e fertile per lo sviluppo dell’arte, la
stragrande maggioranza degli uomini dev’essere al servizio di una minoranza, dev’essere
sottomessa - in una misura superiore alla sua miseria individuale - alla schiavitù dei bisogni
impellenti della vita» (FETG:98). Se si diffondono tra questi uomini il sapere e la conoscenza, si
arriverà, così teme Nietzsche, a un’orribile rivolta distruttrice della cultura, poiché la «classe
barbarica di schiavi » chiederà vendetta « non solo per sé, ma per tutte le generazioni » (NT: 121 ).
Questa tremenda vendetta è per Nietzsche la « sventura sonnecchiante in grembo alla cultura
teoretica ».
L’ordinamento delle antiche o nuove società schiavisti-
4
che può conservarsi soltanto se tutti accettano la tragica costituzione fondamentale della vita umana
come un effetto della « naturale crudeltà delle cose » (NT: 123). Gli schiavi sopportano le crudeltà
(e questa è la prima metà della saggezza dionisiaca) e l’élite culturale è al corrente di
questa crudeltà e cerca riparo dietro lo schermo dell’arte (la seconda metà della saggezza
dionisiaca). Perché Nietzsche non si accorge dell’effetto finale, palesemente cinico, di questo
pensiero? Non se ne accorge probabilmente perché è convinto che l’élite produttrice di cultura (se
essa è davvero l’élite che crede di essere) soffra ugualmente per la crudeltà dell’esistenza, e che
soltanto con questa conoscenza tragica interponga lo schermo protettivo dell’arte. Nel crudele
mondo sotterraneo della società il ceto degli schiavi vive la tragedia, e l’élite culturale ne è al
corrente, e in tal modo, allora, bisogna preoccuparsi di ottenere nuovamente una sorta di
uguaglianza: gli uni sono l’infelicità, gli altri la vedono. Non è forse superfluo rammentare,
in questo contesto, che Nietzsche manifesta la sua tragica visione del mondo anche nelle opinioni
sulla politica di tutti i
giorni: è contro la riduzione dell’orario di lavoro (a Basilea da 12 a 11 ore al giorno); è a favore del
lavoro minorile (a Basilea erano consentite, a partire dai 12 anni, 10-11 ore al giorno); è contro le
associazioni culturali dei lavoratori. Tuttavia, egli pensa, le crudeltà non dovrebbero essere spinte
troppo in là: il lavoratore deve pur sempre vivere in maniera sopportabile, « perché egli e i suoi
discendenti lavorino bene anche per i nostri discendenti» (U2:250).
Con l’immagine, schizzata nel libro sulla tragedia, di un Socrate che appare quasi come un antico
socialdemocratico, Nietzsche non ha ancora, ovviamente, per nulla risolto il suo problema con
Socrate stesso. Non ne è ancora venuto a capo e non ne verrà a capo sino alla fine. Che egli debba «
quasi sempre combattere contro di lui » vale già per il libro sulla tragedia, il quale originariamente
avrebbe dovuto terminare, nel capitolo XV, con una riflessione sui meriti di Socrate. Vennero
aggiunti poi dieci capitoli dedicati soprattutto al rinnovamento wagneriano della tragedia e là si
trovano le invettive più violente contro Socrate. Ma in questo capitolo XV, al termine dell’originaria
versione, dunque, Nietzsche trova parole concilianti. Qui egli mostra che, sotto un certo punto di
vista, si può essere anche grati a Socrate. Socrate è un «punto decisivo e il vertice» (NT: 102) della
storia universale, perché ha collaborato a immobilizzare le energie distruttive nel piacere di
conoscere. La «piramide sorprendentemente alta del sapere presente » è anche una maledizione
contro il pericolo del suicidio collettivo della specie umana. Per una volta bisognerebbe
immaginarsi, scrive Nietzsche, che l’intera somma di forze non venisse spesa « al servizio della
conoscenza », bensì impiegata «per le finalità pratiche, cioè egoistiche, degli individui e dei popoli
»; in tal modo « l’istintivo piacere della vita si sarebbe probabilmente tanto indebolito nelle lotte
generali di sterminio e nelle migrazioni perpetue dei popoli, che, nell’abitudine al suicidio,
l’individuo sentirebbe forse l’ultimo resto di senso del dovere quando, come l’abitatore delle isole
Figi, strozzasse come figlio i suoi
genitori e come amico il suo amico ». Il piacere socratico di conoscere ha agito niente meno che
come difesa contro quel «soffio pestilenziale» del «pessimismo pratico [che] potrebbe perfino
produrre un’orripilante etica del genocidio per pietà» (NT: 102).
Se Nietzsche, negli appunti intorno al 1875 e in seguito, esorta se stesso a non essere, «nei confronti
del sapere, tanto ingiusto» (FP4/1:116), questo significa, da una parte, anche un più mite giudizio di
Socrate, in quanto rappresentante della curiosità teoretica, ma, dall’altra, ora lo critica perché non è
stato abbastanza radicale nel campo della conoscenza. Lo paragona ad altri filosofi dell’antichità. È
soprattutto Democrito a essere utilizzato contro di lui. Perché Democrito? Egli è freddo, oggettivo,
autenticamente scientifico e non così « individual-eudemonistico » come Socrate e senza la
«sciocca pretesa alla felicità» (FP4/1:164) di quest’ultimo.
Democrito fece degli esperimenti con uno sguardo sul mondo che è molto affine a quello moderno-
scientifico e nel quale Nietzsche ora trova sempre più piacere. Nella retrospettiva di Ecce homo, a
proposito di questo periodo della sua vita successivo alla separazione da Wagner, scrive: « Mi
commiseravo nel vedermi magrissimo, affamato: alla mia scienza mancavano completamente le
realtà, e le ’idealità’ chissà a che diavolo servivano! - Mi prese una sete addirittura ardente: da quel
momento in poi, di fatto, non ho praticato altro che fisiologia, medicina, scienze naturali» (EH:83).
Il colto filologo classico Nietzsche si approssima alla scienza moderna anzitutto sui sentieri
dell’antica scienza della natura. L’atomista Democrito lo ha affascinato... a causa della sua
freddezza.
Effettivamente Democrito, con un’audacia senza pari, la fa finita con l’antropomorfismo ed estrae
tutte le proiezioni morali dall’immagine del mondo, che mediante ciò viene neutralizzata e
oggettivata, e quindi appare «fredda». Esistono soltanto degli atomi animati nello spazio vuoto.
Poiché gli atomi, in conseguenza della loro differente grandezza, si muovono a diverse velocità, si
urtano uno con l’altro, come le palle da biliardo, piroettano e formano figure come quelle che
appunto si manifestano. Anche l’anima umana e lo spirito sono soltanto concatenazioni e piroette di
atomi particolarmente minuscoli. «Nulla esiste, fuorché gli atomi e il vuoto, tutto il resto è ipotesi
» (Lange 1,25), insegna Democrito.
A queste opinioni, che vanno ronzando qua e là, ma che non colgono l’essenza delle cose,
appartiene anche l’idea che la natura venga determinata da cause finali e dunque da una meta.
Democrito svela tale teleologia come una proiezione antropomorfica. Come l’uomo si pone
delle mete, persegue intenzioni e agisce di conseguenza, così si presenta anche l’universo. Non lo si
deve però immaginare così, spiega Democrito. Tutto accade certamente con causalità, a seconda di
come gli atomi si muovono, si urtano reciprocamente e si concatenano, ma queste sono cause agenti
e non cause finali: una «cieca» necessità che non ha di mira scopo alcuno e che dunque non
persegue nemmeno alcun «senso». L’universo atomistico di Democrito è «assurdo». Nietzsche
commenta Democrito: « Il mondo è del tutto privo di ragione e di istinto, è prodotto da uno
scotimento che mescola ogni cosa» (FP4/ 1:166). Le qualità sensoriali che l’uomo attribuisce
alle cose sono ingannatrici; «solamente nell’opinione», dice Democrito, « esistono il dolce, il
freddo, il colore; in verità, non esiste nient’altro che gli atomi e lo spazio vuoto ».
Con questa formula « in verità », Democrito fa saltare in aria l’intero universo consueto della vita,
così come fanno anche le odierne scienze della natura. Vediamo sorgere il sole, ma sappiamo che
non accade questo. La scienza di Democrito ci insegna, fin nella modernità, che non si può
assolutamente avere fiducia nei propri sensi. La sostanza atomica dell’universo non è visibile, ma
comunque calcolabile. Già Democrito punta sulla matematica. Ovviamente gli uomini
continueranno ad avere sensazioni e convinzioni morali, ma queste sono soltanto, spiega
Democrito, i movimenti complessi degli atomi fatti di materia fine. Nell’universo democriteo non
esiste uno spirito che tiene tutto coeso, che guida e che ha un qualsiasi significato morale. Il bene e
il male non sono una realtà cosmica, bensì compaiono soltanto nelle fantasie morali degli uomini.
L’immagine del mondo di Democrito, essendo negato un senso universale che fondi la morale, è
nichilistica... e così è stata intesa anche da Nietzsche, e, a suo tempo, così è stata intesa anche
dall’opposizione idealistica, da Platone dunque. Si racconta che Platone abbia bruciato le opere di
Democrito.
La risposta platonica all’universo disanimato di Democrito è la dottrina delle idee, in cui
notoriamente i concetti universali hanno il valore di sostanze e quindi di entità più reali di quella
realtà dalla quale sono stati astratti. L’idea dell’albero è più reale di ogni singolo albero; l’idea del
bene è più reale di ogni singola buona azione; l’idea della bellezza è più reale di ogni singola bella
cosa, ecc. Queste idee si elevano così in alto al di sopra della sensibilità e della realtà afferrabile con
i sensi che diventano sempre più vuote. Ma venendo assunte così decisamente da Platone, giacché
egli, proprio con il loro aiuto, vuole stravolgere la vita etica, non si può non rivestire queste idee
d’immagini mitiche e sviluppare inoltre una peculiare mistica della partecipazione all’essere delle
idee. Il pensiero diventa lo studio della vita di maggior successo. Passando per una gerarchia di
concetti, si riesce a salire una scala celeste di astrazioni. E dove porta? A quel punto a partire
b
dal quale l’essere si mostra complessivamente come il bene supremo. Platone illustra un tutto
animato, un’armonia sferica nella quale il pensiero entra in accordo. Conoscenza platonica significa
scoprire il bene del mondo e, a propria volta, diventare buoni tramite esso.
Un’opposizione più netta allo spazio vuoto di Democrito, con atomi e mobilità privi di senso e
d’intenzione, non è quasi possibile immaginarla. Per Democrito, la natura è di un’indifferenza
sublime, al di là del bene e del male.
Per Platone, invece, il tutto è il bene. Il male è la mancanza di conoscenza, poiché essa significa che
il singolo non sa come innestarsi in questo tutto. L’ontologia platonica dell’essere buono è la
risposta all’universo neutrale di Democrito. Si tratta di un’energica ri-moralizzazione e ri-
mitizzazione della sostanza universale. Perché, poi, tutta questa reazione idealistica del platonismo?
La risposta di Nietzsche: «La preoccupazione per noi stessi diventa l’anima della filosofia»
(FP4/L167). Molto semplicemente, l’uomo destatosi a consapevolezza non sopporta di esistere in
un universo freddo e atomistico, ma vuole avere la sensazione di essere a casa. E allora la filosofia
non è nient’altro che la nostalgia di tornare a casa. In questo senso, a proposito del suo paragone fra
Democrito e Platone, Nietzsche annota che la filosofia di quest’ultimo è un «tentativo [...] di
pensare tutto quanto in modo conclusivo, e di essere [Platone] il redentore » (ibid.).
Nietzsche conosce la storia della polis in modo abbastanza preciso per sapere che dietro l’idealismo
platonico si nascondeva anche la preoccupazione politica che il disincanto democriteo dell’essere e
il trionfo di un illuminismo oggettivante potessero dissolvere i fondamenti morali della
polis. Platone combatte contro lo spettro del nichilismo morale, contro la svalutazione materialistica
dei valori.
Nei suoi appunti, Nietzsche dichiara per la prima volta il proprio stupore, in seguito espresso più
volte, su quanto efficace sia stato questo platonismo nell’Occidente cristiano. Platone voleva
rendere spiritualmente sicuro il piccolo cerchio della polis, ma produsse evidentemente un
nesso spirituale per un’intera sfera culturale del mondo, e per molti secoli. Infatti, per quanto
modificata, la concezione platonico-cristiana, secondo la quale il bene e il male non hanno il valore
di convenzionali giudizi universali privi di un autentico valore di verità, bensì di « veri » aspetti
del mondo oggettivo, resistette. Frattanto, l’universo «assurdo» è per Nietzsche l’espressione adatta
per l’universo concepito scientificamente. Ma poiché Socrate (e Platone) non sopportò la fredda
conoscenza e moralizzò e idealizzò nuovamente il mondo, per questo Nietzsche appuntò, con il
titolo L’effetto di Socrate, la sorprendente frase: «annientò la scienza» (FP4/1:168). Questa frase è
sorprendente perché Nietzsche, come già detto, fece entrare in scena Socrate, nel libro sulla
tragedia, come il rappresentante dello spirito scientifico-teoretico.
Mentre Nietzsche, intorno al 1875, difende la volontà di sapere contro intenzionali
autoincantamenti, re-mitizzazioni e pathos religioso, la sua critica a Socrate si trasforma. Socrate è
criticabile non perché voleva conoscere, ma perché non voleva conoscere in modo sufficientemente
radicale e « freddo ». Difettava di una conoscenza valorosa, in campo c’erano ancora troppo
romanticismo e troppa sentimentalità idealistica. Già allora, a chi voleva conoscere autenticamente
(questo prova Democrito) si mostrava un universo terribile, che Blaise Pascal, diventato da
allora uno degli autori preferiti di Nietzsche, descrisse con le parole: «Inabissato nell’infinita
immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento» (26, §64), «l’eterno silenzio di
questi spazi infiniti mi atterrisce» (81, §187), e ancora: «Vedendo [...] l’uomo [...] abbandonato a
se stesso e quasi smarrito in questo angolo dell’universo [...] mi afferra la paura» (73, §184).
Sopportare un tale orrore senza cercare rifugio in una religione (come fece Pascal), ma anche senza
utilizzare, in maniera neo-religiosa, il mito artificioso o l’arte come «protezione e rimedio» (NT:
101)... questo diventa ora, per un certo periodo, l’ideale di Nietzsche, che mette a punto lo sguardo
freddo. Nella premessa, scritta un decennio più tardi, al secondo volume di Umano, troppo
umano, Nietzsche guarda retrospettivamente a questo periodo di rivolgimento: «Allora condussi con
me stesso una lunga paziente campagna contro la fondamentale tendenza antiscientifica di ogni
pessimismo romantico ad interpretare e a gonfiare singole esperienze personali in giudizi
generali, anzi in condanne universali» (U2:8).
Che la conoscenza possa trionfare, anche quando scopre le cose più orribili e quando, impassibile,
passa in rassegna l'immenso... in ciò si trova l'ottimismo implicito all’atto del conoscere. Colui che
conosce dichiara orgoglioso: sopporterò la mia conoscenza, anche se mi dovesse quasi uccidere.
Nietzsche prescrive a se stesso questo ottimismo come medicinale contro una coscienza che è in
cerca di tragico e si abbandona così volentieri, dopo la cessazione della musica, alla tristezza post-
sirenica. «Ottimismo, allo scopo di ristabilirmi, per poter essere un giorno nuovamente pessimista -
comprendete voi ciò? » (2,375)
8. Umano, troppo umano. La chimica dei concetti. Negazione logica del mondo e pragmatismo
amante della vita.
L’immensità del sociale. Pietà. Sereno naturalismo. Critica della metafisica.
L’enigma dell ’essere privo di conoscenza.
Causalità anziché libertà.
IL MONDO, LA VITA, IL SÉ... DOVREBBERO ESSERE QUALCOSA DI IMMENSO, DI TRAGICO ANCHE, MA NIETZSCHE VUOLE
FARE UN ESPERIMENTO CON LA CONOSCENZA NON TRAGICA E IL SUO OTTIMISMO. QUANTO IN LÀ CI SI PUÒ SPINGERE
CON ESSA? COSA SI MOSTRA SE SI TRACCIANO ALCUNE POSSIBILI LINEE DI SVILUPPO? BISOGNA TEMERE CHE LA
VOGLIA DI MISTERO VENGA SODDISFATTA. L’AMANTE DELL’ENIGMA, CHE APPREZZA IL «CARATTERE ENIGMATICO»
(FP8/ 1:129) DELL’UNIVERSO, IMPONE A SE STESSO UNA CURA: RAFFORZARE LA VOLONTÀ DI CHIAREZZA E
SOBRIETÀ CONTRO IL FASCINO DELLA PENOMBRA. LO SGUARDO FREDDO CONTRO IL PATHOS E LA COMMOZIONE. « IL
SUPERIORE GRADO DI CIVILTÀ, CHE SI PONE SOTTO L’IMPERIO [...] DELLA CONOSCENZA, RICHIEDE UNA GRANDE
SOBRIETÀ DI SENTIMENTO E UNA FORTE CONCENTRAZIONE DI TUTTE LE PAROLE» (U 1:140). LA «FORTE
CONCENTRAZIONE DI TUTTE LE PAROLE» SIGNIFICA: SCEGLIERE UN ALTRO STILE DI ESPOSIZIONE. LA « SOBRIETÀ »
NON PUÒ ESSERE PROLISSA, NEMMENO RAPSODICA, NÉ ELEGIACA O DISSOLUTA. RETROSPETTIVAMENTE, TUTTAVIA,
NIETZSCHE VALUTA IN TAL MODO ALCUNE SUE COSE SCRITTE IN PRECEDENZA. LE COSE SOBRIE NON VENGONO
SCRITTE, COME IL LIBRO SULLA TRAGEDIA, « PER UNA VOCE DI CANTO ». ESSE DEVONO ESSERE APPUNTITE E
CALZANTI, CON VEDUTE STUPEFACENTI. L’ASPIRATA « FORTE CONCENTRAZIONE DI TUTTE LE PAROLE » È VICINA ALLA
FORMA AFORISTICA. NONDIMENO, NIETZSCHE NON HA ANCORA PENSATO A UN LIBRO D’AFORISMI. NEL PERIODO DEL
RIVOLGIMENTO FRA IL

1875 e il 1876, Nietzsche progettò ancora Considerazioni inattuali. Egli elenca titoli e complessi di
tematiche. A Malwida von Meysenbug scrive il 25 ottobre 1874 di avere materiale per cinquanta
considerazioni. Dovevano essere tutti saggi più lunghi, dei quali voleva occuparsi negli
anni seguenti. Egli sviluppa questo progetto in un momento in cui sta intraprendendo con se stesso
una sorta di cura disintossicante. «Chissà come mi sentirò quando avrò tirato fuori tutto ciò che di
negativo e di ribelle è in me! » (E2:569) A tal proposito, si sarebbe dovuto illuminare «tutto il
sistema complicatissimo di antagonismi nel quale consiste il ’mondo moderno’ » (E2:570). E tutto
questo, per giungere finalmente alla creazione, all’agire creativo proprio. Non è chiaro di quale
creazione si tratti. Vuole comporre, poetare, sviluppare una visione del mondo o sogna già la
trasvalutazione dei valori e le nuove « tavole della legge »? In ogni caso non comunica ciò che
vuole « creare » in avvenire, e probabilmente egli stesso non lo sa ancora. Una cosa, tuttavia, sa di
preciso: vuole diventare, da scrittore secondario che scrive su altri autori, uno scrittore primario, sul
quale gli altri scrivono.
Nel 1875, quando raccoglie il materiale per la Quinta inattuale sul tema Noi filologi, annota: «
Preferisco scrivere qualcosa, che meriti di essere letto così come i filologi leggono i loro scrittori,
piuttosto che covare su un autore. E in generale, poi, anche la più piccola creazione è superiore ai
discorsi riguardanti creazioni altrui » (FP4/1:182). Eppure sa che gli devono ancora riuscire alcune
scosse liberatorie, al fine di essere maturo per produrre qualcosa di proprio: « Se fossi già libero,
non mi sarebbe necessaria tutta questa lotta, bensì potrei rivolgermi a un’opera o un’azione, in cui
cimentare tutta la mia forza. - Adesso posso solo sperare di diventare libero un po’ alla volta; e
finora sento di diventarlo sempre di più. Così verrà anche il giorno del mio vero lavoro»
(FP4/1:156). Questo appunto risale all’estate del 1875. A quel tempo si realizzò, come
abbiamo visto, il rivolgimento. La volontà di sapere, di una sobria
conoscenza, ottenne il sopravvento. E così, durante quell’estate, poiché egli sogna ancora una
«creazione», Nietzsche può scrivere: «mettere in luce l’irrazionalità nelle cose umane, senza alcun
pudore [...] far avanzare la conoscenza dell’uomo! » (FP4/1:114) Su cosa deve vertere questa
conoscenza e quale deve essere il suo scopo?
Nietzsche dà a queste domande una risposta sorprendentemente pragmatica, che mette in chiaro la
distanza nel frattempo raggiunta dal pessimismo wagneriano e dalla sua mistica estetica di
redenzione. Nietzsche spiega appunto che le sue indagini analitiche servono a capire quale male
nelle relazioni umane sia «radicale e irrimediabile» e quale invece possa essere « corretto ». In tal
modo, il proposito originariamente progettato di una personale cura disintossicante si trasforma in
un programma illuministico generale. Nel momento in cui Nietzsche vuole collaborare a « far
avanzare la conoscenza dell ’uomo », diventa anche consapevole del fatto che un tale lavoro è
praticabile soltanto con singole esplorazioni e singoli tentativi. Ma in che modo inoltre dovrebbe
essere in grado di dischiudere sistematicamente e con pretesa di completezza questo immenso
continente che d’un tratto gli si mostra? Per questo è troppo impaziente e, come riconosce a se
stesso, troppo « crudele ». Egli vuole attaccare, « in ogni assalto infatti è squilla di fanfare! » dirà
successivamente. Non vuole più, però, attaccare dei contemporanei come David Friedrich Strauss,
Eduard von Hartmann e così via, bensì vuole illuminare il groviglio di opinioni che ha ricoperto le
cose umane. I miti, di cui pur difese il senso e l’importanza (come per esempio i miti artistici di
Wagner), gli paiono frattanto delle mistificazioni che bisogna attaccare.
Eppure Nietzsche si osserva con sufficiente precisione per notare da dove arriva questa crudele
voglia di attaccare. Nel settembre del 1876, dopo il ritorno da Bayreuth, annota: « Valore di uno
stato di depressione. Persone che vivono in uno stato di depressione interiore sono inclini agli
eccessi - anche nel pensiero. La crudeltà è spesso il
segno di una insoddisfazione interiore che desidera essere narcotizzata; così pure una certa crudele
brutalità nel pensiero» (FP4/2:332). Il suo irriverente programma illuministico abbraccia, nell’estate
del 1876, tredici trattazioni progettate. Vuole scrivere su Proprietà e lavoro, La religione, Donna e
bambino, La socievolezza, Lo Stato, La liberazione, Lo spirito libero, L’insegnante e su Chi
vive  con leggerezza. Diventeranno lunghi saggi, non una raccolta di aforismi, ma verranno acclusi,
a ogni considerazione, alcuni aforismi come «Supplemento» (8,290).
Poiché intanto aumentarono le sofferenze fisiche di Nietzsche, i dolori nervosi, i disturbi della vista
e gli attacchi di emicrania, nell’autunno del 1876 fece richiesta per un periodo annuale di vacanza,
ricevendone il permesso. Vuole trascorrere quest’anno assieme ad amici, soprattutto al suo nuovo
amico Paul Rèe, da Malwida von Meysenbug a Sorrento. Nelle poche settimane tra Bayreuth e la
partenza per il sud Italia, raccoglie gli appunti per la considerazione Lo spirito libero, che dapprima
riunisce nel suo quaderno di lavoro col titolo II vomere. Con questo lavoro Nietzsche deve aver
notato che il materiale non si piega a una considerazione unitaria, ma conserva un
carattere aforistico. D’ora in poi, Nietzsche deve fare i conti col sospetto che la forma aforistica
possa essere espressione di un naufragio. Le forze non bastano per una esposizione esauriente?
Questo immenso continente dell’umano e del troppo umano, a cui poi si aggiungerà anche l’oltre-
umano, in generale è da esporre in una forma esauriente, anzi sistematica? Nietzsche ha comunque
un nuovo problema. Più tardi, nel Crepuscolo degli idoli affermerà: « Diffido di tutti i sistematici e
li evito. La volontà di sistema è una mancanza d’onestà» (CI:28). Effettivamente, però, egli a tal
riguardo non si comporta in maniera tanto univoca. Quando Nietzsche lavorava, alla metà degli anni
’80, alla Volontà di potenza, scrisse al suo editore: «Adesso ho bisogno, per moltissimi anni, di
profonda quiete: infatti, ho davanti l’intera rielaborazione di tutto il mio sistema di pensiero »
(B7,297). Un sistema di pensiero, quindi? Il sistema chiuso di tipo hegeliano lo inorridiva di certo,
ma la rielaborazione di una connessione di pensieri rimase un obiettivo anche suo. A tal riguardo, si
trattava di un sistema implicito piuttosto che esplicito. « Credete dunque che sia opera
frammentaria, perché ve la si dà (e si deve dare) a pezzi?» (U2:52) Non bisogna fraintendere e
pensare gli aforismi come « opera frammentaria », ma essi devono anche manifestare il fatto che il
tempo, in ogni caso il suo tempo, non è ancora maturo per l’opera chiusa e sistematica. Nietzsche
esige da se stesso questa ammissione e nota come gli risulti diffìcile. Infatti, gli si richiede
un’opera vasta in cui si possa, per così dire, abitare: lo richiede il suo senso estetico. Egli ha
percepito questo fascino, altrimenti non avrebbe potuto mettere in guardia in modo tanto sentito dai
«sistematici»: «Volendo colmare un sistema e arrotondargli attorno l’orizzonte [...] essi vogliono
rappresentare personalità complete, di un’unica e forte specie» (A: 188). Per il momento, Nietzsche
resiste ancora alla tentazione di presentarsi come « forte specie ».
Prima del viaggio a Sorrento, nell’autunno del 1876, la raccolta di appunti (Il vomere) era dunque
già pronta e da essa, all’incirca, deriverà la «Parte principale» di Umano, troppo umano. La
decisione a favore della forma aforistica è stata presa. Nel successivo anno e mezzo nascono gli
ulteriori capitoli, i cui titoli rinviano al fatto che in essi hanno trovato accesso dei temi della serie
progettata di Considerazioni. Il primo libro di Umano, troppo umano, dal titolo Delle prime e
ultime cose, è particolarmente vicino al critico rivolgimento del 1875 e al trionfo della volontà di
conoscenza sulla volontà d’arte e di mito. Qui, il problema della verità viene energicamente messo
al centro e meditato ingegnosamente secondo varie angolature. In questo capitolo, Nietzsche si crea
un teatro di pensiero che non ha più bisogno di lasciare e sul quale assumerà, una dopo l’altra,
varie posizioni, e sul quale metterà alla prova varie prospettive.
Ricordiamo ancora una volta l’immagine indimenticabile che Nietzsche trovò nel saggio Su verità e
menzogna in senso extramorale per la situazione precaria di una coscienza che è esposta alla verità
dell’essere: «sul dorso di una tigre », sospesa « nei suoi sogni » (FETG:229). Non fa bene alla
nostra curiosità se guardiamo fuori della « cella della coscienza» verso il basso, scoprendo «che
l’uomo sta sospeso [...] su qualcosa di spietato, avido, insaziabile, omicida, nell’indifferenza del suo
non sapere » (FETG:229; trad. mod.). Ciò significa: una radicale e sfrenata volontà di verità ci
mette a confronto con ciò che è insopportabile. Questa verità insopportabile... viene dunque
afferrata solo quando, paradossalmente, si mostra a una coscienza che ha abbandonato la sua « cella
della coscienza »? Deve la coscienza superare se stessa? E come può afferrare la realtà non simulata
e non prospettica?
Nietzsche osserva che si deve comprendere il concetto di una coscienza a cui si mostra la visione
dell’immensità in maniera più precisa che nel libro sulla tragedia o nello scritto Su verità e
menzogna in senso extramorale. Egli chiamò questa coscienza trascendentale, come si
ricorderà (cfr. capitolo IV), «saggezza dionisiaca», senza addentrarsi nelle complesse questioni
logiche e teoretiche della gnoseologia. Si tratta dell’antico problema della «cosa in sé» kantiana.
Non c’è una riflessione sui confini della conoscenza dalla quale tali confini non vengano già per
questo oltrepassati. L’analisi trascendentale deve lavorare con il concetto implicito di una realtà
assoluta, di una realtà che c’è, anche se essa è dischiusa soltanto come quel qualcosa di
indeterminabile al quale si riferiscono i processi della coscienza e della percezione. Si può
sobriamente introdurre il concetto della verità assoluta come grandezza residua, come categoria
residuale. Ma ciò non era quell’obiettivo che Nietzsche, in quel periodo, perseguiva col suo scritto
sulla tragedia. A quel tempo, interessava la presenza dell’assoluto nell’estasi, nel sentimento
dell’orrido e dell’ebbrezza, nel presentimento e nella visione. Questa presenza doveva essere più
forte del meramente pensato.
Essa non doveva penetrare soltanto nella coscienza, ma doveva trapassare l’essere. Non doveva
essere ottenuto un rapporto mimetico, bensì partecipativo. Non scordiamoci che la filosofia
dionisiaca di Nietzsche vive della partecipazione alla realtà complessiva dell’immensità. Si tratta
dell’estatico farsi-uno. Il cosiddetto «orgiasmo musicale » si accordava a esso. Il tema di Nietzsche
non era un’ontologia dell’immenso pensata, ma vissuta nell’orrore e nell’ebbrezza.
Nel frattempo, tuttavia, Nietzsche vuole badare alla necessaria distanza. Si è prescritto una dieta:
basta con le dissolutezze estetiche o metafisiche! E in tal modo, nella considerazione Umano,
troppo umano, la realtà assoluta viene freddamente designata come l’« essenza del
mondo conosciuta razionalmente» (Ul:20). Con questo concetto, Nietzsche vuole allontanarsi dalla
«religione, l’arte e la morale», che, con i loro presentimenti, le loro emozioni e le loro condizioni
estatiche, si sentono in qualche modo vicine al mistero dell’universo. Queste sono fantasie, spiega
Nietzsche, che «non ci fanno toccare l’’essenza del mondo in sé’ ». Rimaniamo nell’ambito della
rappresentazione, nessun presentimento ci porterà avanti. Eppure non possiamo rinunciare a questo
concetto dell’« essenza del mondo conosciuta razionalmente ». E' necessario come postulato logico,
per poter comprendere la relatività e il prospettivismo degli accessi alla realtà. Non si può
sapere niente di più sull’essenza del mondo: serve soltanto alla liberazione dalla prigione delle
immagini del mondo. L’«essenza del mondo conosciuta razionalmente» è un punto vuoto, ma è un
punto di fuga, una via d’uscita nell’indeterminato. Ma poiché a partire dall’indeterminato si può
relativizzare ogni determinazione, questo punto di fuga dell'indeterminabilità diventa un punto
d’Archimedea partire dal quale si può scardinare un’immagine del mondo, contestando il suo grado
di verità. In seguito, Nietzsche formulerà così questo pensiero: esistono soltanto interpretazioni, non
conosciamo alcun testo originario. Che
esista un testo originario è il postulato logico di ogni interpretazione, ma nessuno conosce questo
testo originario conosciuto razionalmente. Così ci si rapporta all’« essenza del mondo conosciuta
razionalmente ». Nietzsche è palesemente impegnato a escludere quello che lo aveva eccitato e
affascinato nella sua fase dionisiaca: la partecipazione estatica alla realtà assoluta. Egli chiama
questo metodo «gelarsi» (U1:6).
A metà degli anni ’70 studia il capolavoro, intanto dimenticato da lungo tempo, del filosofo Afrikan
Spir, Pensiero e realtà, che avrà un effetto durevole su di lui. Nel paragrafo 18 di Umano, troppo
umano cita Spir, senza menzionarne il nome, ma con l’osservazione che si tratta della «proposizione
di un eccellente logico» (Ul:28). La filosofia di Spir prende le mosse dall’idea che il concetto di
sostanza non abbia alcuna realtà, poiché nella realtà esiste soltanto un costante divenire. Il principio
d’identità A=A vale solo nello spazio logico, nella realtà non esiste nulla che sia identico a sé,
perché non c’è nulla che rimanga uguale, anche solo per l'istante del paragone. Per Spir, dunque,
l’essenza del mondo conosciuta razionalmente, che viene mascherata dallo spazio logico e dalla
lingua, è il mondo del divenire assoluto.
Nietzsche, che dopo le sue dissolutezze dionisiache voleva far valere per il momento l’« essenza del
mondo conosciuta razionalmente » solo come postulato logico raffreddato, è ovviamente estasiato
da un logico che mette in campo il mondo del divenire come realtà assoluta, perché quest’uomo
severo gli ricorda la visione dell’universo eracliteo. Nondimeno, per il momento, Nietzsche non
vuole bearsi in immagini e visioni, ma vuole fare un esperimento con il nominalismo radicale.
Questo nominalismo aveva già fatto capolino nello scritto sulla verità, dove essa viene designata
come « mobile esercito di metafore » (FETG:233). Adesso, stimolato da Spir, Nietzsche dispiega
questa critica nominalistica. Che cos’è la lingua? Essa è la casa dell’essere, ma non scordiamoci che
questa casa si
trova nell’ampiezza priva di lingua dell’immensità. Col nominalismo, Nietzsche si distacca dalla
fantasia di onnipotenza di un pensiero che non diventa consapevole, in modo sufficientemente
intenso, della differenza fra l’essere e la lingua. « In quanto ha creduto per lunghi periodi di tempo
nelle nozioni e nei nomi delle cose come aeternae  veritates, l’uomo ha acquistato quell’orgoglio col
quale si è innalzato al di sopra dell’animale: egli credeva veramente di avere nel linguaggio la
conoscenza del mondo» (U1:21). L’uomo si muove in un universo conoscitivo con la fiera
consapevolezza di « potere, facendo leva su di esso, sollevare dai cardini il resto del mondo».
Ora, se questa illusione viene analizzata nominalisticamente, vale anche l’opposto: il mondo della
conoscenza percepito finora come solido, da parte sua, viene dunque scardinato? Diventa ora tutto
cadente, incerto? Il mal di mare ontologico minaccia l’uomo che si leva dal suo spazio conoscitivo e
si ritrova sull’oceano delle incertezze? Come apparirebbe la realtà se si tentasse di annullare
il «mostruoso errore » (U1:21) della fede nella lingua? Allora si dovrebbe ammettere, anche senza
poterselo immaginare, che non esistono alcun soggetto, alcun oggetto, alcuna sostanza, alcuna
qualità che pertengano a un qualcosa;
»
sono tutte finzioni della grammatica. Anche l’«Io sono»è una seduzione della grammatica. Il
«pensare» esige un soggetto. Si definisce quindi l’« io » come soggetto e lo si rende con ciò l’attore.
Nei fatti, però, è soltanto l’atto del pensare mediante il quale, in generale, viene prodotta la
coscienza dell’io. Per il pensiero ha valore prima l’atto e poi l’attore. Le seduzioni della lingua e
della grammatica sono cresciute in noi così in profondità che nel frattempo i loro effetti sono la
nostra realtà.
Nel primo libro di Umano, troppo umano, dove Nietzsche intraprende un esperimento con il
pensiero non tragico, egli presenta la concezione che « fortunatamente » è troppo tardi « perché ciò
possa far tornare indietro lo sviluppo della ragione, che poggia su quella fede» (U1:21) nel
linguaggio. Perché «fortunatamente»? Perché questi errori costituiscono tutta la nostra ricchezza,
essi tessono quel mondo in cui noi ci muoviamo, e quel velo che beneficamente ce li nasconde.
«Chi ci svelasse l’essenza del mondo causerebbe in noi tutti la più spiacevole delusione. Non il
mondo come cosa in sé, bensì il mondo come rappresentazione (come errore) è così ricco di
significato, cosi profondo e meraviglioso, e reca in seno tanta felicità e infelicità» (U1:37). Qual è il
risultato di questa riflessione? Bisogna seguire la volontà di verità fino alle estreme conseguenze,
fino a quella brutta « delusione »? Bisogna portare avanti la conoscenza a tal punto da far saltare
in aria il nostro mondo familiare e da perdere, nell’imprevedibilità, le certezze e gli orientamenti?
Per Nietzsche non v’è il minimo dubbio che la radicale volontà di verità porti alla « negazione
logica del mondo » (111:37). Qui Nietzsche non intende la negazione schopenhaueriana del mondo
nel senso della negazione della volontà, bensì la convinzione, raggiunta tramite la riflessione su di
sé della conoscenza, che il mondo a noi noto non sia quello reale, ma sia appunto soltanto quello
arrangiato da noi. La negazione logica del mondo nega il valore di verità del mondo che è
abitualmente a noi noto. Questa negazione logica del mondo, a differenza del mondo
dionisiaco esperito con orrore ed ebbrezza, non ha in sé nulla di drammatico e neppure nulla di
tragico.
Con la negazione logica del mondo ci si comporta come con la « cosa in sé » kantiana. La si può
benissimo lasciare così com’è. Essa ci ricorda soltanto il fatto che ogni conoscenza è sempre e solo
« per noi », ma che essa non può mai cogliere l’«in sé» delle cose. È una trascendenza raffreddatasi,
che non è di più, ma neanche di meno, del lato posteriore, sempre invisibile, delle nostre
rappresentazioni (Vor-Stellungen).* La curiosità per un mondo posto al di
là delle nostre rappresentazioni ha talvolta tormentato di sicuro anche Kant, ma egli la ha attutita
con un’acuta analisi delle antinomie della nostra ragione, mostrando che la ragione stessa viene
gravata con domande metafisiche che non riesce a rigettare, ma a cui non può nemmeno rispondere.
Una contraddizione che appartiene alla nostra ragione, la quale deve interrogare circa l’assoluto
senza poterlo cogliere. Bisogna sopportare questa contraddizione, il che può riuscire perché noi, con
le nostre conoscenze trascendentalmente delimitate, possiamo cavarcela egregiamente in un ignoto
mondo « in sé ». Noi non possediamo alcuna conoscenza assoluta, ma opinioni abbastanza efficaci
che rendono addirittura possibile il crescente dominio sulla natura.
Questa « cosa in sé » kantiana ha avuto, com’è noto, una fortuna unica, producendo nel chiuso
mondo della conoscenza una sorta di buco, attraverso il quale è entrata un’inquietante corrente
d’aria. I successori di Kant, gli Hegel, Fichte, Schelling, non vollero lasciare la « cosa in sé » così
come essa è, ma vollero coglierla a ogni costo, vollero addentrarsi nel presunto cuore delle cose e
quindi la chiamarono «io» (Fichte), «natura» (Schelling) o «spirito» (Hegel). Si volle gettare uno
sguardo dietro il velo di Maia, e se non si riusciva a trovare una parola magica, allora la si
inventava, come fecero i romantici.
Se in precedenza la parola magica di Nietzsche fu «Dioniso», con cui egli ridestava il mondo dal
sonno, ora invece tenta con la tranquillità kantiana. Egli sottolinea espressamente che questa
negazione logico-nominalistica del mondo (tramite la quale viene contestato il valore assoluto di
verità del mondo conosciuto) può procedere molto bene assieme a una « affermazione pratica del
mondo» (U1:37).
L’aforisma numero 16 è intitolato Fenomeno e cosa in sé. Qui Nietzsche analizza alcune possibili
modalità di reazione alla differenza fra il mondo dell’esperienza e la cosa in sé. Ci si può sentire
spinti, in una « maniera visibilmente misteriosa, all’abbandono del nostro intelletto» (U1 :) e si può
identificarsi con l’essenza inconoscibile. Si tenta di vivere l’inconoscibile, «per giungere
all’essenziale attraverso il diventare essenziali ». Nietzsche descrive qui chiaramente la sua
passione dionisiaca.
Un’altra possibilità, « invece di accusare come colpevole l’intelletto», è di incolpare l’essenza del
mondo, giacché essa si cela e attira l’intelletto sulla falsa via. Ci si vuole svincolare da tutto, si
richiede la « liberazione dall’essere ». Così Nietzsche caratterizza la via schopenhaueriana.
La terza possibilità è quella che egli saggia in quel periodo: lasciare così com’è la differenza fra il
mondo sperimentabile e l’essenza del mondo, e dedicarsi all’empirica « storia della genesi del
pensiero ». In questa lunga storia, gli uomini hanno gettato uno sguardo nel mondo da innumerevoli
occhi, hanno agito in esso con passione, fantasia, morale e conoscenza. Di qui il mondo è diventato
il nostro mondo, «meravigliosamente variopinto, terribile, profondo di significato, pieno d’anima, e
ha acquistato colore» e ovviamente noi stessi siamo i coloristi. «Ciò che noi ora chiamiamo il
mondo è il risultato di una quantità di errori e di fantasie che sono sorti a poco a poco
nell’evoluzione complessiva degli esseri organici, e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni alle
altre e ci vengono ora trasmessi in eredità come tesoro accumulato in tutto il passato - come tesoro:
perché il valore della nostra umanità riposa su di esso» (U1:27). Si potrà dunque considerare questa
storia dell’esperienza soltanto come un «tesoro», se si è disposti ad abbandonare il punto di
riferimento assoluto. Si dovranno abbandonare i lambiccamenti sulle «prime» e «ultime cose», si
dovrà prescindere dal verticale per ottenere finalmente l’orizzontale. La scienza orizzontale non
potrà liberarci completamente dal «potere di antichissime abitudini» della sensazione... il che non
sarebbe per altro affatto auspicabile. Sarebbe sufficiente se le sensazioni venissero nobilitate e le
conoscenze, nel quadro della loro limitatezza di principio, venissero migliorate. Non si tratta di
trascendenza, ma di distanza. La propria storia, le abitudini, le conoscenze e le sensazioni...
mediante un atteggiamento scientifico, possiamo «rischiarare » tutto ciò « e sollevarci, almeno per
qualche attimo, al di sopra dell’intero processo» (U1:27). «Forse riconosceremo allora», così
conclude Nietzsche questo aforisma, « che la cosa in sé è degna di un’omerica risata: che
essa sembrò tanto, anzi, tutto, e in realtà è vuota, cioè vuota di significato» (U1:27).
In Umano, troppo umano Nietzsche tenta di rendere
forte il senso per le verità pratiche contro il canto di sirena
«
dell’immenso e contro i sentimenti tragici. Nietzsche intona una lode alla scienza utile, la quale non
è « più affatto pensabile separata dalle scienze naturali » (U1:15). Con le sue indagini, egli vorrebbe
anche contribuire con qualcosa di utile all’ampliamento delle nostre conoscenze sull’uomo. Ma per
lui questo pragmatismo è ghiaccio sottile. Passo dopo passo esso rischia di sfondarsi. E lo vuole
pure, poiché conosce il piacere di sprofondare nell’immenso. Egli rimane, come vedremo, attratto
da quella sfera «in cui muori e alla fine rinasci » (Benn). Rimane in uno stato d’animo da amante
del mistero e tendente all’«orgiasmo musicale », perché cerca l’altra condizione, l’estasi,
perché ama più l’abisso (Abgrund) che il fondamento (Grund). E' un romantico, misterioso e
inquietante (heimlich und un-heimlich), che qui si prescrive momentaneamente l’utile scienza.
L’immenso che Nietzsche vorrebbe per il momento lasciare da parte riguarda il mistero dell’essere,
in senso pieno. C’è però ancora qualcosa di immenso, di natura più limitata, che ugualmente lo
stimola: l’immensità della vita sociale. Anche per essa Nietzsche è altamente ricettivo e sta
cercando perciò anche qui una « elevazione », una distanza, un margine di sicurezza.
La schiettezza di Nietzsche per l’immenso del sociale è essenzialmente condizionata da una sorta di
sensibilità che egli non ha giudicato stravagante in sé, ma contro la quale, in seguito, si è persino
infuriato. Si tratta della pietà. Un sensibile «poter avere pietà» domina con lo sguardo,
intuitivamente, le lunghe catene causali della sofferenza tra gli uomini. Se le serie causali tra
un’azione, qui, e il suo effetto come misfatto, là, sono brevi, allora parliamo di colpa; se sono un po’
più lunghe, allora si tratta di tragedia; colpa e tragedia, in occasione di catene causali ancora più
lunghe, possono ridursi a semplice disagio. Un uomo con un pronunciato senso della giustizia
scopre ancora lo scandalo anche in questo disagio diffuso, poiché egli è pur sempre un
sopravvissuto che vive grazie al fatto che altri patiscono la miseria e muoiono. Nietzsche (con la sua
passione per la tragedia e la sua disposizione alla pietà) scopre l’immenso anche come universale
contesto di colpa di tutta la vita umana.
Ora, Nietzsche ha tuttavia sofferto a causa della sua disposizione alla pietà. E' caratteristico, per il
filosofo che combatterà la morale della pietà, un poter e dover compatire quasi osmotico. Nietzsche
non può assolutamente essere così crudele, duro e senza scrupoli come pretenderà più tardi dal
superuomo. Non è influenzato soltanto dal tempo meteorologico, ma anche dagli uomini. Ciò
conduce a terribili complicazioni. Benché la madre e la sorella lo umiliassero spesso con la loro
mancanza di comprensione e lo sminuissero, tuttavia egli deve sentirsi vicino a esse. Francamente,
egli soffre per un eccesso di disponibilità a perdonare. Riesce a stento a mantenere le proprie
posizioni. Ha già giurato a se stesso di non scrivere più nessuna lettera alla madre, ma ecco che da
Naumburg arrivano calzini e salami, e « Fritz » ringrazia ammodo e obbedisce alla madre, che esige
nuovamente una riconciliazione con la sorella. Diversamente da quello che augura a se stesso, egli è
un genio del cuore, e il dover compatire appartiene palesemente alla sua «prima natura», ai suoi
istinti; la pietà non è, come talvolta dice a sé e agli altri, un dogma derivato da Schopenhauer. Nel
luglio 1883 scriverà a Malwida von Meysenbug: « Ma la compassione schopenhaueriana finora è
sempre stata la causa delle più grandi sciocchezze della mia vita [...] Giacché questo non è soltanto
un segno di mollezza, di cui ogni magnammo elleno avrebbe riso - ma anche un grave pericolo
pratico. Bisogna imporre il proprio ideale di umanità, col proprio ideale bisogna costringere e
sopraffare il prossimo e se stessi: e dunque agire creativamente. Ma per far ciò occorre tenere
bene a freno la propria compassione, e coloro che si oppongono al nostro ideale [...] trattarli anche
come nemici. Vede come mi ’faccio la morale’: ma per pervenire a questa ’saggezza’ ci ho quasi
rimesso la vita» (TL:308).
Alla sua «prima natura» manca palesemente l’inclinazione all’ostilità. Deve inventarsela e
inculcarsela solo con la sua « seconda natura». Allora, però, l’ostilità gli riuscirà in grande stile. Per
il momento, Nietzsche è ancora troppo strettamente legato alla sua « prima natura » e ancora
abbastanza schopenhaueriano per non vedere soltanto l’immenso processo vitale omicida, ma per
apprezzare anche la pietà, come quella passione che si apre di fronte a quest’immensità!
In due istruttivi aforismi dal primo libro di Umano, troppo umano, si tematizza questa immensità
nella sfera sociale, questa crudele totalità dello scontro fra uomini. Nietzsche illustra la mancanza di
giustizia e mostra come la conservazione di sé sia l’interesse di ogni prigioniero. Solamente perché
il singolo ritiene se stesso più importante di tutto il resto del mondo può sopportarlo. Guarda
al mondo come da spiragli. La «grande mancanza di fantasia » gli dà la necessaria robustezza nella
lotta. Non si può partecipare emotivamente al dolore universale. « Chi invece potesse realmente
parteciparvi dovrebbe disperare del valore della vita» (U1:40). Il prospettivismo della coscienza
individuale si dimostra qui come difesa immunitaria della società. Una «intera coscienza
dell’umanità» non dovrebbe agire, diversamente da come se la immaginava l’idealismo tedesco e
specialmente Hegel, in maniera sublime, bensì distruttiva. Nietzsche rimprovera a Schiller di non
sapere ciò di cui parlava quando orgoglioso annunciava: « abbracciatevi a milioni ». Una tale «
intera coscienza» non dovrebbe percepire soltanto la sofferenza smisurata che gli uomini si causano
reciprocamente, e non potrebbe nemmeno rifiutarsi di considerare l’idea che «in complesso
l’umanità non ha mete». Il singolo può porsi delle mete, protetto dalle sue abbreviazioni
prospettiche, ma il tutto è già sempre alla meta, proprio perché esso è il tutto. Con questo, però,
sfuggono all’uomo la «consolazione e il [...] sostegno» che si potrebbero trovare nell’idea di
progresso. Chi guarda dunque oltre il recinto della mera autoconservazione non può fare a meno
di scoprire il «carattere dello spreco» nel processo vitale della società. « Ma », così Nietzsche
termina questa riflessione, « sentirsi come umanità (e non solo come individui) altrettanto sprecati
di come vediamo sprecato dalla natura il singolo fiore, è un sentimento al di sopra di tutti i
sentimenti» (U1:40). L’appunto che sta alla base di questo passo termina con la frase rassegnata: «
tutto in verità vien meno» (FP4/1:233). In Umano, troppo umano, invece, Nietzsche prosegue la
filatura del pensiero nel modo seguente: chi è in condizione, chiede, di sopportare questo «
sentimento al di sopra di tutti i sentimenti »? « Certo solo un poeta: e i poeti sanno sempre
consolarsi » (U1:40). Tuttavia Nietzsche, che in questo libro vuole far trionfare la volontà di verità
sull’illusione, che vuole rinunciare all’abbaglio estetico e mitico dell’insopportabile,
questo Nietzsche posseduto dalla verità non può essere soddisfatto dell’osservazione sulla
consolazione dei poeti. E per questo inizia l’aforisma successivo con la domanda: « Si può rimanere
consciamente nella non verità?» (U1:41). Siffatta «non verità» non consiste soltanto nel
dedicarsi alla bella apparenza dei poeti; anche un legame troppo pratico della conoscenza agli
interessi della conservazione individuale della vita non è vero. Esistono dunque soltanto
l’affermazione estetica ed epistemica di sé, da una parte, e la disperazione come conseguenza della
pietà, dall’altra?
Sullo sfondo di questa alternativa, Nietzsche tenta di esplorare un’altra possibilità: un naturalismo
rilassato, quasi sereno. Il presupposto decisivo per esso è che si sarebbe finalmente liberi da quell’«
enfasi » riposta nell’idea secondo cui si è «più che natura» (U1:42). Sarebbe una « conoscenza
purificatrice », che però non si può paragonare alla negazione schopenhaueriana della volontà, che
nel frattempo ha assunto il valore, per Nietzsche, di violenza metafisica. La «conoscenza
purificatrice» di Nietzsche non è rivolta contro l’essere incarnato; essa è un impulso naturale
mediante il quale si nobilita la natura nell’uomo stesso. Né un superamento metafisico del mondo,
né uno sprofondamento nella pietà; per il momento, neppure un sentimento d’unità dionisiaco-
orgiastico, ma nemmeno una cieca affermazione di sé. Tutto ciò deve essere evitato. La terza via del
sereno naturalismo che egli aveva in mente (vorschweben) è un vero spaziare (Schweben). Gli
«antichi motivi del tumultuoso desiderare » devono essere mitigati, con la conseguenza che l’anima
perde un po’ di pesantezza terrena, si disarma nella volontà di affermazione di sé, raggiunge una
distanza dal tumulto, « pascendosi come di uno spettacolo di molte cose, di cui bisognava
finora solo aver paura» (U1:41). Nietzsche descrive la condizione di una tale anima alleggerita
come « quel libero, impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle
originarie valutazioni delle cose» (U1:42).
Si potrebbe dire che Nietzsche, in Umano, troppo umano, cominci a tentare la considerazione «
degli uomini, dei costumi, delle leggi» così come comparirebbero a colui che si sta approssimando a
essi con questo « impavido spaziare». Tuttavia, bisogna aggiungere subito che questo spaziare può
di tanto in tanto diventare un roteare, in seguito al quale egli si abbatte con un attacco gioioso su
una preda adocchiata. Se spaziando, roteando e infine abbattendosi sui rapporti umani, afferra la sua
preda, allora la capovolge con una « risata cattiva ». Vuole scoprire come le cose «appaiano,
quando siano messe a testa in giù» (U1:6). La «risata cattiva» ha bisogno dell’effetto a sorpresa:
quando si mostra che nulla o poco vi si cela, che il lato visibile nasconde un brutto lato posteriore,
che la maggior parte delle cose appaiono più di quel che sono. Ma l’effetto a sorpresa si consuma.
Nietzsche teme che anche le « verità importanti della scienza » possano diventare «ordinarie e
comuni» (U1:179). Se dunque gli altri sono ancora troppo insensibili per farsi offendere, rimane
pur sempre da ferire quella parte della propria persona che è rimasta reverente, romantica e assetata
di metafisica.
Nietzsche comincia, in Umano, troppo umano, la critica a quel modo di pensare metafisico che egli
scopre anche in se stesso. Sono le cosiddette « prime e ultime cose » di cui si vuole liberare.
C’è innanzitutto il principio metafisico fondamentale per cui l’inizio, l’origine, il terreno di genesi
contengono tutta la verità, per cui là ci sono il vero essere, l’integrità, la purezza, la pienezza. Se
l’origine contiene la verità, come ritiene il pensiero metafisico, allora si tratta di riscoprire, nel
formicolio del tempo e nelle forme personificate, i modelli originari e la vera struttura. Nietzsche
richiede, contro la finzione metafìsica dell’integrità e verità degli
inizi, una « chimica delle idee e dei sentimenti »
%
(U1:15), che possa concludere la sua indagine dell’originario con il risultato che i « colori più
magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati» (U1:15). Nietzsche in seguito si
comporterà secondo il principio di questa «chimica», spiegando per esempio che l’origine della
morale non è affatto qualcosa di morale e che la conoscenza è cresciuta dalla simulazione e
dall’illusione. Anche la sua psicologia del sospetto è indebitata con questa sorta di « chimica ». Il
comportamento, i discorsi, i sentimenti, i pensieri... essi sembrano più di quello che sono. Se si getta
lo sguardo ove scaturiscono, si è piuttosto lontani dalla dignità e verità da essi pretesa.
Il principio «scientifico» anti-metafisico consiste per Nietzsche nel rifiuto di considerare il
principiale, il primario, il fondante come il sommo, il più prezioso, il più ricco. Il modo in cui ci si
atteggia nei confronti dell’origine decide se ci si mette all’opera metafisicamente o
scientificamente. Se la metafisica punta sull’origine sublime, la scienza inverte i rapporti e prende le
mosse dall’ipotesi che il principiale non sia altro che contingenza e indifferenza, da cui possono poi
svilupparsi creazioni più sottili, più complesse e colme di senso. «Tutte le cose che vivono a lungo
s’impregnano gradualmente di ragione, a tal punto che la loro provenienza dall’irrazionale diventa
perciò improbabile» (A: 11). La scienza non deve farsi ingannare dalla suggestione metafisica delle
origini sublimi, un’eredità platonica che nel principio cerca la forma pura. Questo platonismo, e su
questo Nietzsche richiama l’attenzione, si conserva in un pensiero che pensa di sapere cos’è una
cosa, conoscendone o potendone dedurre la provenienza; un pensiero, quindi, per il quale la
provenienza (Herkunft) ha il valore di informazione (Auskunft) sull’essenza della cosa. «Glorificare
l’origine - è questo il germoglio metafisico che [...] fa ogni volta credere che al principio di tutte le
cose si trovi il più perfetto e il più essenziale» (U2:135). Superando questo «germoglio metafisico »
si mostra una storia che né corrisponde a un inizio essenziale né raggiunge la pienezza di una meta.
Esiste soltanto un formicolio, qui e là, dei culmini, un declino, da cui si genera nuovamente
qualcosa, e così via. Senso, significato e verità non si trovano né all’origine né alla meta. La realtà è
tutto ciò che è in cammino. E anche noi stessi siamo in cammino. Si conosce il mutevole e
si osserva infine che non solo il conosciuto ma anche il conoscere stesso sono qualcosa di mutevole.
Il « difetto ereditario» di tutti i filosofi è che non vogliono imparare « che anche la facoltà di
conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di
conoscere, l’intero mondo» (U1:16). Innanzitutto, questo non significa nient' altro che ammettere
che la capacità umana di conoscere ha una lunga preistoria biologica. Se l’uomo, con «questa
capacità di conoscere», «produce » un intero mondo, scopre anche che è questo mondo che lo ha
prodotto assieme alla sua capacità di conoscere. Egli conosce la natura che lo ha fatto conoscere.
L’uomo è un evento storico-naturale della conoscenza di sé della natura. Essa si allestisce nell’uomo
un teatro dove possa apparire. Per un breve istante, la natura diventa visibile a se stessa nell’uomo,
questo «animale intelligente». «Fu il minuto più tracotante e più menzognero della ’storia
universale’ », afferma Nietzsche nel suo scritto sulla verità, «ma tutto ciò durò soltanto un minuto.
Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire»
(FETG:227). La conoscenza nasce con il genere umano e perisce con esso.
Ma che razza di mondo è quello che non viene, non ancora o non più, riflesso in una conoscenza?
Noi conosciamo la natura animata e inanimata, che per se stessa è priva di conoscenza. La pietra
non sa di esserci. Nemmeno le piante e tanto meno gli animali. Si sviluppano forme primitive di
percezione, modalità di reazione e ricezione. Ma la conoscenza che compare nell’uomo significa: si
conosce che si percepisce e si percepisce che si conosce. A questo sdoppiamento e a questo
diventare-riflessiva della capacità conoscitiva umana appartiene la convinzione nella storicità della
capacità conoscitiva. A tal proposito, la conoscenza tenta di inoltrarsi in quella notte dalla quale essa
proviene. In quale altro modo bisogna immaginarsi una condizione totalmente priva di conoscenza
se non come notte? La tesi dell’evoluzione biologica della conoscenza conduce in quella notte di un
mondo privo di conoscenza di cui non possiamo avere la benché minima idea. Infatti, non possiamo
avere un’idea di nessuna condizione che sia senza idea. Non possiamo conoscere la non-
conoscenza. Se su un astro in un angolo disperso del sistema solare degli « animali intelligenti
scoprirono la conoscenza » (FETG:227) e se dopo pochi respiri della natura gli animali umani
perirono e l’astro si irrigidì, come può continuare a vivere la natura... senza essere conosciuta? E
come si presentava questa natura, prima che la cogliesse lo sguardo conoscitivo?
Si crede che il semplice esistere di qualcosa sia la cosa più ovvia del mondo. Ma, pensandoci bene,
è l’enigmatico per antonomasia. È più facile e più naturale immaginarsi un dio e una natura tutta
animata. Infatti, con questo, si proietta nel mondo esterno ciò che si è, ossia spirito, coscienza,
anima. Pensare l’essere cieco, opaco, semplicemente esistente, è la sfida più grande. Una pietra che
non sa di esserci come fa a esistere? C’è? Dov’è essa nello spazio e nel tempo... se non c’è una
coscienza prospettica a partire dalla quale vengono delineate le coordinate per l’attribuzione
spaziale e temporale? Come « vive » la pietra? Si può sopportare di sapere che essa è soltanto pietra
e nient’altro? Novalis affermò una volta che le pietre sono lacrime induritesi, e che alcune
montagne hanno un aspetto tale, come se si fossero pietrificate dall’orrore in occasione dello
sguardo dell’uomo. Per Michelangelo era chiaro che l’idea della figura plastica fosse già insita nella
pietra; bisogna solo eliminare il superfluo e così essa viene in luce.
Inoltrandosi nella peculiarità della conoscenza, Nietzsche tocca l’enigma dell’essere privo di
conoscenza. La sua tesi : è la tendenza spontanea della conoscenza a riscoprire il suo stesso
principio nell’intera natura... appunto perché l’essere privo di conoscenza non le è davvero
immaginabile e familiare. «Nella grande preistoria dell’umanità, si supponeva lo spirito in ogni
luogo e non si pensava a onorarlo come privilegio dell’uomo» (A:29). Poiché si rese lo spirituale un
patrimonio comune della natura, non ci si vergognava di discendere anche da animali, alberi o
pietre. L’idea di una natura animata e di una onnipresenza dello spirito non era una dilatazione della
coscienza umana, bensì un’espressione della modestia. Si vedeva, scrive Nietzsche in Aurora, «
nello spirito ciò che ci ricollega alla natura, non ciò che ci separa da essa. Così ci si educava alla
modestia » (A:30). Non è presuntuoso gettare uno sguardo nella natura come se la natura dovesse
ricambiare. In chi riceve questo sguardo di ritorno della natura si realizza rincontro dell’originato
con la sua origine. Chi cerca l’origine, perché presume che in essa risieda la verità, vuole conoscere
la stessa cosa che gli permette di conoscere. L’origine cos’altro è se non l’esperienza per cui
conoscere significa essere conosciuto? Il grande occhio della natura, che mi vede, il suo senso, che
mi sostiene, questo mondo vitale a cui io restituisco e rispecchio ciò che mi ha affidato e
rispecchiato in precedenza è l’origine da cui scaturisco, ma a cui non posso sottrarmi.
Questa conoscenza, per cui è ovvio che la natura sia dotata di spirito e anima, non si è ancora volta
a se stessa. È una conoscenza che procede in modo per così dire spregiudicato a partire da se stessa
e scopre nella natura ciò che le è simile. L’uomo come ente conoscente ha inventato gli dei, che
osserva sentendosi nel loro punto d’osservazione. Gli dei sono l’immagine implicita di una natura
che restituisce gli sguardi quando la si guarda. Questo può essere opprimente, ci si sente seguiti e
osservati. Ma ciò alimenta anche l’orgoglio. L’uomo guarda nello spazio cosmico e crede «che da
tutti i lati gli occhi dell’universo siano rivolti telescopicamente sul suo agire e sul suo pensare». Per
questo, anche l’uomo più modesto si gonfia d’orgoglio «come un otre» (FETG:227).
Se però la conoscenza non procede più in modo così spregiudicato a partire da se stessa e non si
trova più ri-specchiata nella natura esterna, se la conoscenza si volge piuttosto a se stessa, allora può
accadere che essa si concepisca come principio solitario nel mezzo di una natura priva di
conoscenza. La conoscenza diventa autoreferenziale, osserva il proprio peculiare autismo. Il legame
tra l’animale conoscente e la restante natura si lacera. La natura diventa l’altro estraneo, col quale
non ci si può intendere, ma che si deve spiegare. Si viene egregiamente a capo di questa sorta di
conoscenza della natura, si impara addirittura a dominare la natura meglio che in precedenza, ma ci
si sperimenta anche completamente separati da essa. La natura non risponde più così come faceva
per la sensibilità religiosa e magica. Non esiste una natura come origine che contiene e dispensa
senso. E con l’origine si dissolve anche l’idea di un’intenzione cosmica finale. Non è più valida
l’idea di un essere che includa tutto il divenire o che sia presentato come grande meta. Non esiste
alcun essere prima del divenire, alle spalle del divenire e dopo il divenire.
La tradizione metafisica, innamorata pazza del retromondo dell’essere, vorrebbe leggere
«pneumaticamente» il mondo come un testo in un «doppio senso» (Ul:19). Non-metafisicamente,
tuttavia, il mondo esiste prima dello sguardo conoscitivo come un divenire senza un inizio istitutore
di senso e una fine adempiente il senso. La natura si evolve certamente in modo dinamico, ma le
causalità che la spingono avanti sono « cieche », perché non si propongono nulla. Non sono
intenzionali, ma, quando le si conosce, si possono utilizzare per i propri scopi. Il senso del culto
religioso e magico fu di influenzare la natura nel medium di un contesto spirituale. Per la
conoscenza scientifica della natura tale contesto è lacerato, ma per questo ora si è in grado di far
lavorare per sé la natura grazie allo sfruttamento delle sue regolarità.
La civiltà scientifica ha portato semplificazioni pratiche. Nietzsche lo riconosce. Anche nelle cose
morali c’è uno sgravio, poiché, nella misura in cui cresce la conoscenza della causalità naturale,
diminuisce il regno delle causalità fantastiche e morali. Se dunque, per esempio, la saetta può essere
ricondotta alle condizioni meteorologiche, essa non si abbatte più nella coscienza dell’uomo come
giudizio divino. Con la scoperta delle causalità naturali scompare di volta in volta, nelle cose
morali, « un po’ di paura e di costrizione» (A: 15).
Il grande disincanto della natura mediante la conoscenza scientifica, intanto, non sottrae al mondo
soltanto un accadere intenzionale con un inizio dotato di senso, una fine che compie quel senso e un
processo diretto a una meta, riducendolo a un universo di catene causali che si incrociano e si
intrecciano fra di loro producendo causalità imprevedibilmente nuove... scompare anche la terza
reliquia del pensiero religioso-metasifico, ossia l’idea della libertà umana. Infatti, scoprendo la
causalità nella natura esterna e maneggiandola con sempre maggiore successo, non può non
accadere che questo principio di causalità comprenda infine anche la stessa istanza conoscitiva. Se
un tempo s’era dato un tutto animato e impregnato di spirito, ora invece si è giunti all’altro estremo:
il tutto viene naturalizzato. Inizialmente la natura era spirito incarnato, adesso lo spirito è ancora
soltanto sublime natura. Sulla via che porta dalla spiritualizzazione alla naturalizzazione fallisce
l’idea di libertà. Ma se la libertà svanisce, allora ne svanisce anche il prezzo: l’imputabilità delle
azioni e con essa la responsabilità.
Con il titolo La favola della libertà intelligibile Nietzsche narra la storia della sparizione della
responsabilità. «Così si tiene l’uomo responsabile», scrive, «nell’ordine, per i suoi effetti, poi per le
sue azioni, quindi per i suoi motivi e da ultimo per il suo essere. Alla fine però si scopre che
neanche questo essere può portare la responsabilità, in quanto esso è in tutto e per tutto conseguenza
necessaria e concresce dagli elementi e influssi di cose passate e presenti: cioè che l’uomo non è da
tenere responsabile per niente, né per il suo essere, né per i suoi motivi, né per le sue azioni, né per i
suoi effetti. Con ciò si è giunti a riconoscere che la storia dei sentimenti morali è la storia di
un errore, dell’errore della responsabilità» (U1:49ss.). Nietzsche è ben consapevole del significato
di questa tesi: «La piena irresponsabilità dell’uomo per il suo agire e per il suo essere è la goccia più
amara che chi persegue la conoscenza deve inghiottire » (U1:83). In ciò, quello che per lui ha un
sapore così amaro è la circostanza che, con il presupposto dell’irresponsabilità, lode e biasimo per
l’agire umano siano altrettanto assurdi quanto « lodare e biasimare la natura e la necessità».
Nietzsche, tuttavia, continuerà a giudicare le faccende umane come se gli uomini avessero una
scelta e potessero decidere. Si invischierà quindi nell’antinomia della libertà (così Kant chiamò il
problema). Nietzsche nega che esista libertà, ma contemporaneamente la pretende, non da ultimo
con questo stesso atto di negazione. Egli è libero a tal punto da liquidare la libertà. L’antinomia
della libertà significa che la si sperimenta a partire da una doppia prospettiva. Come essenza
spontaneamente agente, io sperimento, sul mio teatro interiore, la libertà dell’agire. L’intelletto,
però, sulla scorta delle leggi causali, mi insegna che la natura non fa salti e nemmeno io stesso, ma
che tutto è determinato causalmente. Adesso noi agiamo e in seguito potremo sempre trovare una
causalità per il nostro agire. Ma se nell’istante dell’agire e della scelta la causalità non ci aiuta,
dobbiamo ciò nonostante deciderci. L’esperienza della libertà assomiglia a un palcoscenico
girevole: si vive di libertà, ma quando ci si volge a essa concettualmente, non si riesce ad afferrarla.
Questa antinomia fu il centro di gravità segreto di tutta la filosofia kantiana. Lo stesso Kant lo
concesse quando, in una lettera, confessò che proprio il problema della libertà lo aveva destato dal «
sonno dogmatico » e condotto alla critica della ragione: «L’uomo è libero, e viceversa: non c’è
libertà, tutto è necessità regolata da leggi di natura» (Gulyga 143).
Anche Nietzsche si invischia inevitabilmente in questa antinomia della libertà, in modo
particolarmente chiaro e gravido di conseguenze nel quadro della sua dottrina del ritorno, con la
pretesa che si debba amare il proprio destino: amor fati. Amare ciò che è necessario significa
aggiungere a esso qualcosa con cui viene modificato. L’amata fatalità non è più quella stessa che
come destino viene soltanto patita. Possiamo star certi, dunque, che lo spirito libero, il quale fa
svanire la libertà con una « risata cattiva », la farà riapparire magicamente.
* Spezzando la parola Vorstellung (rappresentazione, idea), si genera Vor-Stellung (la posizione
anteriore, ciò che è posto davanti). (N.d.T.)
9. Il congedo del professore. Il pensiero, il corpo, la lingua. Paul Rèe. Da Umano, troppo umano ad
Aurora. I fondamenti non morali della morale. Gesti sacrileghi. Religione e arte al banco di prova.
Il sistema bicamerale della civiltà.
ALL’INIZIO di gennaio del 1880, Nietzsche scrive al suo medico Otto Eiser: « La mia esistenza è un
peso terribile: me lo sarei già da tempo scrollato di dosso, se non avessi avuto, proprio in questa
condizione di sofferenza e di quasi assoluta rinunzia, le prove e gli esperimenti più istruttivi in
campo etico-spirituale... questa gioiosità assetata di conoscenza mi porta ad altitudini ove trionfo su
ogni martirio e su ogni disperazione. In complesso, sono più felice che mai della mia vita » (B6,3).
Questa è una delle numerosissime lettere in cui Nietzsche parla del nesso fra sofferenze fisiche e
trionfo spirituale. Tra il 1877 e il 1880 aveva particolarmente sofferto. C’erano stati i regolari
attacchi di terribili emicranie, vomito, vertigini, una pressione sugli occhi, debolezze di vista fin
quasi alla cecità. L’inverno a Sorrento nel 1876-77 porta un alleviamento. Ma non appena Nietzsche
riprende l’attività a Basilea nel semestre estivo del 1877, ricompare la sofferenza. Durante
il semestre successivo, si tortura con lezioni e seminari su temi che si possono trattare di routine.
Abbandona gli obblighi didattici al Pädagogium (ginnasio). Gli amici iniziano a preoccuparsi. Ida
Overbeck riporta nel suo diario una discussione con la sorella di Nietzsche, la quale espone alcuni
motivi che « porterebbero suo fratello probabilmente al manicomio» (15,76; Chronik). Anche
Nietzsche stesso ha paura, perché ora giunge all’età in cui suo padre era morto per una malattia al
cervello. Teme che lo minacci un de-
stino simile. A Bayreuth, dove si è sconvolti per la svolta illuministica di Nietzsche, circola la
diagnosi del medico Otto Eiser, secondo il quale l’ultima pubblicazione di Nietzsche mostrerebbe
«l’inizio di un dissesto cerebrale» (15,86; Chronik).
Nietzsche ancora si trascina, con la sua professione, fino alla primavera del 1879, ma lavora con
solerzia al volume di completamento di Umano, troppo umano. Quando, nel marzo del 1879,
termina le bozze di stampa, scrive a Peter Gast: « O signore, forse è il mio ultimo frutto. Vi regna,
mi pare, una pace piena d’ardimento » (E: 138). In particolare nella raccolta aforistica della seconda
parte di Umano, troppo umano si nota un autoincoraggiamento col quale Nietzsche vuole creare un
contrappeso spirituale alla miseria fisica che lo opprime. «Tutte le cose buone sono forti stimolanti
della vita, persino ogni buon libro che sia scritto contro la vita» (U2:17).
Questa osservazione contiene un importante riferimento a quello che Nietzsche si aspetta dal
pensiero: non solo verità assiomatiche. Esiste ancora un altro criterio di verità sul teatro interiore
della lotta contro i dolori fisici. Questo criterio di verità si potrebbe chiamare un criterio esistenzial-
pragmatico. Ciò significa: un pensiero ha un valore di verità in quanto è abbastanza immaginifico e
vivificante per poter contrapporre qualcosa alla tirannia del dolore, che altrimenti richiama tutta
l’attenzione. In seguito, con l’idea dell’eterno ritorno, verrà attribuita una grande importanza a
questo aspetto autosuggestivo del pensiero. Si comprende in maniera insufficiente l’idea dell’eterno
ritorno se la si liquida come speculazione cosmologica e metafisica. Di certo Nietzsche credeva alla
sua verità assiomatica, ma ancor di più alla sua forza trasformatrice a livello esistenziale. La intese
come sfida a vivere ogni istante in modo che esso possa far ritorno senza terrore. Quest’idea doveva
far risplendere l’istante in un bagliore, doveva dare alla vita la dignità dell’immenso. Ma, di questo,
si parlerà più a lungo in seguito.
Per Nietzsche, un pensiero può avere una tale forza trasformatrice diretta al corpo, soltanto se è
inserito in un corpo linguistico di grande bellezza e pregnanza. In Nietzsche, il senso dello stile è
una sensibilità quasi fisica. Egli reagisce alla lingua con sintomi corporei di slancio e voglia di
movimento, fino alla spossatezza e alla nausea. Egli cerca frasi che muovano lui e gli altri, e per lo
più le formula e ritma camminando. Occasionalmente, egli concede uno sguardo nel suo laboratorio
di pensiero e di parole: «Proviamo a spiarci e ad ascoltarci in quei minuti in cui sentiamo o
troviamo una proposizione per noi nuova. Forse essa ci spiace perché si presenta così caparbia,
così autoritaria: inconsciamente ci chiediamo se non possiamo schierarle al fianco come nemica una
proposizione contraria, se possiamo appiopparle un ’forse’, un ’talvolta’; persino la paroletta
’probabilmente’ ci dà una soddisfazione, perché spezza la tirannia personalmente fastidiosa
dell’assoluto. Se invece quella nuova proposizione si presenta in forma più mite, delicatamente
tollerante e umile, e cade per così dire in braccio alla contraddizione, noi tentiamo un’altra prova
del nostro dispotismo: come, non possiamo venire in aiuto a questa debole creatura, carezzarla e
nutrirla, darle forza e pienezza, anzi verità e finanche assolutezza?» (U2:19)
Su questo palcoscenico, la bellezza e la forza delle frasi e il loro valore di verità sono quasi la stessa
cosa. In ogni caso, la volontà di sapere deve accordarsi col senso per lo stile e la ritmica, affinché le
frasi possano dare un’idea sottile, inebriante, riverente e seducente. Fa parte di ciò che i pensieri
siano così vitali, « come se essi fossero individui, con cui si debba lottare, a cui ci si debba unire,
che si debbano custodire, curare e nutrire » (U2:19). Sul palcoscenico interiore, i pensieri si
muovono come persone disputando le loro battaglie e anche per questo teatro del pensiero vale ciò
che Nietzsche disse per la tragedia greca: «Il fascino di queste lotte sta nel fatto che chi le
guarda deve anche combatterle! » (NT: 104)
In Nietzsche, il pensiero è un atto della massima intensità emotiva. Così come altri sentono, egli
conobbe. In ciò vi sono una passione e un’eccitazione che non lasciano mai diventare il teatro del
pensiero un mero riflesso della vita o magari una routine professionale. « Io vivo ancora, io penso
ancora: io devo vivere ancora perché devo ancora pensare» (GS:198). Qui non si discute di doveri
morali. No, per Nietzsche il pensiero è un godimento senza pari, non vuole rinunciarvi per nessuna
circostanza ed è grato alla vita perché gli accorda questo godimento. Vuole vivere affinché possa
pensare. E, pensando, sopporta quegli attacchi del corpo che gli potrebbero guastare la vita.
Egli rifinisce parole e pensieri, affinché nasca qualcosa «che tutto sfida», persino qualcosa di
«imperituro» (U2:20), che resista dunque alla corrente del tempo. Nietzsche sogna questa piccola
eternità e osserva che con un pensiero finemente elaborato, fosse anche tremendo, egli onora
se stesso. Ai propri pensieri bisogna rapportarsi come a «potenze indipendenti », « da pari a pari »
(U2:20). Tra Nietzsche e i suoi pensieri ha luogo una passionale storia d’amore con tutte le
complicazioni che del resto ogni storia d’amore conosce. Vi accadono incomprensioni,
discordie, gelosia, desiderio, nausea, rabbia, timori ed estasi. La passione per il pensiero fa
organizzare a Nietzsche la vita in modo tale da ricevere da essa qualcosa a cui pensare. Nietzsche
non vuole produrre frasi citabili, ma rendere la sua vita un basamento citabile per il suo pensiero.
La vita come teatro di prova per il pensiero.
Nel gennaio 1880, quando Nietzsche scrive quella lettera, citata in apertura, sull’unità di fortuna
dell’opera e dolore del corpo, Umano, troppo umano è terminato e già nei taccuini si raccolgono i
materiali per Aurora, pubblicata un anno e mezzo più tardi. Per Nietzsche, queste due
opere appartengono a un unico periodo creativo, poiché vale per entrambe il fatto che gli abbiano
donato, tra grandi dolori fisici, proprio quella «gioia assetata di conoscenza». « Mai come nei
periodi più dolorosi della mia vita, nel pieno della malattia», scrive in Ecce homo, «ho avuto da
me tanta felicità: basta guardare Aurora o anche II viandante e la sua ombra» (EH:85).
Entrambe le opere co-appartengono, anche perché qui Nietzsche compie resperimento «di
rovesciare» la morale, l’arte e la religione, ossia di considerarle come fenomeni che non possiedono
l’accesso privilegiato alla verità, attribuito loro dalla storia. Nietzsche trova una formulazione,
pregnante e da cui trarre ispirazione, del principio fondamentale delle sue analisi grazie all’amico
Paul Rèe, che in merito alla morale afferma: « L’uomo morale non è più vicino al mondo
intelligibile (metafisico) dell’uomo fisico - perché il mondo intelligibile non esiste ». Nietzsche
cita questa frase per la prima volta (in maniera incompleta) in Umano, troppo umano (U1:48) e vi
ritorna ripetutamente fino a Ecce homo (EH:86). Ma Nietzsche si spinge ancora più in là di Paul
Rèe; egli strappa non solo i sentimenti morali, ma anche la religione e l’arte dal loro
fondamento metafisico di verità. Questa maggiore arditezza è riconosciuta da Paul Rèe, il cui libro
L’origine dei sentimenti morali apparve nel 1877, con parole di ammirazione. «Vedo il mio stesso
io proiettato verso l’esterno in proporzioni ingrandite» (15,82; Chronik), scrive a Nietzsche dopo
aver ricevuto il primo volume di Umano, troppo umano.
Nietzsche conobbe Paul Rèe nel 1873. Figlio di un proprietario terriero ebreo della Pomerania, dopo
studi di giurisprudenza si dedicò alla filosofia e giunse a Basilea anche per ascoltare Nietzsche,
soltanto di pochi anni più vecchio. Nell’inverno del 1876-77, a Sorrento da Malwida von
Meysenbug, l’amicizia tra i due visse il suo culmine. Si sviluppò un intenso lavoro comune; si
lessero i manoscritti, ci si consigliò, criticò e corresse. Cinque anni dopo, nel tardo autunno del
1882, questa amicizia si infrangerà a causa degli intrecci d’amore intorno a Lou Salomé. Dopo la
separazione da Nietzsche, Rèe pubblicò ancora altri libri di filosofia morale, quindi studiò medicina,
diventando
medico praticante nelle proprietà paterne: un tolstojano, che aiutava i contadini e che per essi era un
tipo originale, già quasi un santo. Quando Nietzsche morì, Rèe si trasferì nei pressi di Sils-Maria.
Qui, operò come medico per le popolazioni montanare. Un anno dopo la morte di Nietzsche,
durante un’escursione, precipitò da un costone di roccia ghiacciato. È incerto se si trattasse di un
incidente o di un suicidio. Poco prima Rèe spiegò: « Io debbo filosofare; quando non avrò più
materia per filosofare, per me sarà meglio morire» (Janz 1,604).
Dopo la rottura, Paul Rèe volle dedicare il suo libro sulla Genesi della coscienza all’ex amico
Nietzsche, che tuttavia rifiutò questa pretesa. Nondimeno, Nietzsche non rinnegò mai gli stimoli
ricevuti da Rèe, anche se in seguito sottolineò più intensamente la differenza con le
posizioni teoretiche dell’amico, sino all’affermazione, nella premessa alla Genealogia della morale,
di non aver letto praticamente nulla a cui avrebbe dovuto dire «no» in maniera così decisa «frase
per frase, conclusione per conclusione» (GM:6). Consenso trovò presso di lui la critica di Rèe
alla fondazione metafisica della morale, mentre il « no » si riferisce all’opinione di Rèe secondo cui
la morale si deve alla natura altruistica dell’uomo. In opposizione a ciò, Nietzsche in Umano,
troppo umano, ma soprattutto in Aurora, segue la traccia della morale indietro fino al suo
fondamento non morale. La storia della morale non è morale e il bene nell’uomo non si fonda nei
sentimenti morali, ma si rende osservabile in essi tutta una lunga storia di abitudini e inculcamenti
culturali. Anche l’aspetto fisiologico ha il suo peso. Chi agisce moralmente può ben
credersi morale, ma in realtà, spiega Nietzsche, « agisce » in noi questa storia del corpo e della
civiltà. Ma come «agisce» essa? Innanzitutto, in modo tale da scindere l’uomo. La morale, scrive in
Umano, troppo umano, presuppone la facoltà dell’«autoscissione» (Ul:57). Qualcosa in noi dà,
a qualcos’altro in noi, un comando. Ci sono la coscienza e un autocommento e un’autovalutazione
incessanti. E tutta-
via una lunghissima tradizione parla di individuum, dunque del nucleo indivisibile dell’uomo;
Nietzsche però rifletté sulla scissione del nucleo dell’individuo e il suo principio fondamentale
recita: «Nella morale l’uomo tratta se stesso non come individuum, ma come dividuum » (U1:61).
Poiché l’individuo non è un’unità, può anche diventare il teatro di una storia universale interiore e
coloro che lo indagano diventano forse « avventurieri e circumnavigatori di quel mondo interno che
si chiama ’uomo’ » (U1 :10). Come Nietzsche.
Il tema della morale fu l’ossessione duratura di Nietzsche. Meditando su di esso, il rapporto umano
fondamentale (Grundverhdltnìs) gli si rivelò come un rapporto con se stessi (Selbstverhàltnis).
L’uomo (il dividuum) può e deve rapportarsi a se stesso. Non è un essere monodico, ma polifonico,
condannato a compiere esperimenti su se stesso, ma che contemporaneamente ha anche la
possibilità di farlo. La vita individuale, come anche la vita delle civiltà, è quindi una conseguenza di
esperimenti personali. L’uomo è 1’«animale non [...] stabilmente determinato» (ABM:68). Se non ci
si può stabilmente determinare, quel che conta è solo quale rapporto si ha con se stessi. Il pensiero
di Nietzsche risponde alle pretese della libertà, che egli però contemporaneamente liquida. Tuttavia,
egli conosce bene la coralità interiore che pone l’uomo di fronte alla seguente scelta: a quale voce
vuole attribuire forza determinante? Ma non può essere andata anche diversamente? Forse,
originariamente c’erano soltanto i deboli e i forti, che si distinguevano a seconda dell’unanimità, e
dunque a seconda della forza della volontà. La volontà forte poteva piegare quella debole. Essa
poteva comandare. I più deboli obbedivano, ma le spine del comando rimanevano in essi... come
corpi estranei. Esse concrebbero, si «incarnarono». Divennero coscienza. Così forse nacque il
dividuum, un ente scisso e ferito dalle spine del comando, che faticosamente impara a trasformare la
passione dell’obbedienza nell’ossessione del comando, rimanendo
tuttavia tormentato da cattiva coscienza. Si è imparato a obbedire, adesso si deve imparare a
comandare. A tal fine, però, bisognerebbe riuscire ad avere rispetto per se stessi e scoprire in sé il
padrone. Chi ha imparato troppo bene a obbedire cercherà invano, in se stesso, un’istanza che
sia abbastanza audace da poter dare ordini. I comandi interiorizzati non scindono soltanto
l'individuum, ma destano anche la sfiducia di sé. In questa complessa storia si è infine generato
quello che i secoli successivi chiameranno la profondità dell’anima, tutto questo labirinto interiore
fatto di senso arcano, malinconia e assurdità.*
Nietzsche sa che la modalità d’esistenza «dividuale»è diventata impercorribile a ritroso. Il ritorno
all’unisono preistorico nei rapporti interiori dell’uomo (se mai in generale c’è stato) è sbarrato. La
frattura, le voragini interiori appartengono ormai alla conditio umana.
E tuttavia Nietzsche sosterrà ripetutamente che si debba «far di sé una persona completa» (U1:73).
Questo essere completo però non significa l’impossibile superamento della modalità di esistenza
dividuale, bensì l’efficace plasmazione e arrangiamento di sé. Bisogna diventare il regista dei propri
impulsi vitali, poter trovare un equilibrio sopra le proprie voragini e diventare direttore del proprio
groviglio di voci. In Nietzsche, l’ominosa «volontà di potenza» (negli anni seguenti, come vedremo,
ertasi a principio cosmico di spiegazione e a direttiva della grande politica) è sempre registrata
anche su una tonalità da camera, e allora significa: ottenere potere su se stessi. Complessivamente,
le opere di Nietzsche sono un’unica cronaca dei complicati eventi in merito a questo tentativo di
presa del potere su se stessi. Ancora una volta (cfr. capitolo II) si citerà l’imperativo morale
nietzscheano : « Dovresti diventare padrone di te stesso, padrone anche delle tue virtù. Prima erano
esse le tue padrone; ma esse devono essere solo i tuoi strumenti accanto ad altri strumenti. Dovresti
acquistare potere sul tuo prò e contro e imparare a saperli staccare e riattaccare, secondo il
tuo scopo superiore. Dovresti imparare a comprendere ciò che appartiene alla prospettiva in ogni
giudizio di valore» (U1:9; trad. mod.). Il rapporto con se stessi, che qui viene preso di mira, è quello
di una sovranità grazie alla quale «la morale borghese non ha più voce in capitolo », poiché richiede
attendibilità, costanza, calcolabilità. «Far di sé una persona completa» è definito da Nietzsche come
il sommo compito che possa adempiere ogni singolo nel corso della sua vita. Questa assegnazione
del compito, però, non si rivela a partire dalla storia della morale, nella quale palesemente si
prescinde addirittura dall’idea che il singolo diventi una «persona completa». Al contrario: questa
storia è una follia sanguinosa, in essa sono stati impiegati degli uomini. A chi ha fatto di sé una
«persona completa», ciò è riuscito nonostante la storia.
Il primo schizzo di una siffatta storia della morale che dilegua le illusioni si trova in Umano, troppo
umano; essa è proseguita in Aurora e infine, nella Genealogia della morale, viene quindi portata a
termine l’analisi della storia immorale della morale.
Già in Umano, troppo umano, Nietzsche mette a punto la tesi che nella sua opera farà ancora una
rapida carriera. Essa recita: dietro la distinzione morale fra bene e male si cela la più antica
distinzione fra «nobile» e «basso» (U1:53). Cos’è nobile? La risposta di Nietzsche: chi è abbastanza
forte, risoluto e impavido per « rivalersi » se gli viene fatto qualcosa. Nobile è chi può garantire per
se stesso e chi sa difendersi e vendicarsi da solo. Quello che fa il nobile è buono, appunto perché
egli stesso è di una buona specie. « Cattivo » è il « basso ». Lo è perché non prova sufficiente stima
di sé per volersi difendere, indipendentemente da quanto limitati siano i suoi mezzi. «Nobile» e
«misero» sono dunque designazioni per la misura differente del rispetto di sé. Dalla prospettiva
del nobile, l’uomo cattivo è l’uomo futile, da cui non bisogna temere nulla, perché non ha ancora
rispetto nemmeno di se stesso.
Ma gli uomini futili (dalla prospettiva del nobile) possono tuttavia diventare pericolosi quando,
compensando le loro debolezze tramite l’assembramento, passano all’attacco, sia fisicamente, nella
rivolta degli schiavi, sia spiritualmente, rovesciando la gerarchia dei valori e delle virtù,
e sostituendo le virtù dominanti con una morale della tolleranza e dell’umiltà. Già in Umano,
troppo umano Nietzsche delinea la sua critica al ressentiment nella morale. Comincia anche a fare le
pulci alla morale schopenhaueriana della pietà, spostando l’accento dal sentimento della
pietà all’atto dell’indurre pietà. Egli interpreta la capacità di muovere qualcuno a pietà come
un’arma dei deboli. Essi riescono a trovare la debolezza dei forti, ossia la capacità di provare pietà;
e i deboli sfruttano ora questa debolezza dei forti. E' il potere dei deboli di poter indurre pietà.
Con esso, il sofferente ha trovato un mezzo per « far male » agli altri (U1:56).
Nietzsche vuole spogliare la dialettica della pietà (il sofferente fa del male all’altro inducendo in lui
la pietà) della sua veste sentimentale, sotto la quale si mostra la battaglia per il potere. La dialettica
della pietà appartiene, per Nietzsche, alla lotta fra padrone e servo. In chi induce pietà « la sua
vanità si esalta, egli è ancora abbastanza importante per causare dolore al mondo» (U1:56).
Tuttavia, chi percepisce pietà si sente messo e incatenato nel torto, anche se vuole simulare di essere
il padrone.
Un altro esempio di quanto poco morali siano le cose nella morale e di quanta battaglia sotterranea
rimanga in gioco è la gratitudine. Essa è, secondo la tesi provocatoria di Nietzsche, una specie mite
di vendetta. Si è ricevuto qualcosa e perciò si fa percepibile la potenza dell’altro, benefica in questo
caso e tuttavia non abbastanza. Infatti, ora ci si sente in debito con l’altro. Ci si mostra grati e
si restituisce forse in misura maggiore del ricevuto. Si vuole
tornare a essere nuovamente liberi, capovolgendo la situazione di debitore. Nietzsche rammenta, in
questo contesto, il detto di Swift, « secondo cui gli uomini sono riconoscenti nella stessa
proporzione in cui nutrono vendetta» (U1:53).
L’analisi nietzscheana della morale segue la tendenza addirittura ossessiva a scoprire la crudeltà
primaria dissimulata nella morale. Per questo, per lui la crudeltà palese è l’istante della verità. La
storia originaria del dissidio reciproco viene alla luce. L’elementare sfonda la crosta della civiltà. «
Gli uomini che ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà
precedenti:  la giogaia dell’umanità mostra qui per una volta apertamente le formazioni più
profonde, che rimangono di solito celate» (U1:52).
In Aurora Nietzsche prosegue l’analisi della crudeltà fondativa delle relazioni umane. Descrive
come una « raffinata crudeltà » (A:29) possa diventare una virtù riconosciuta. Se qualcuno è intento
a distinguersi, in modo per altro lodevole, con ciò non vuole anche « far male » agli altri, mediante
lo spettacolo della sua posizione superiore? Non vuole anche godere l’invidia che egli stimola?
Non appartiene all’euforia creativa dell’artista anche «il presentimento della delizia » (A:29) di
poter levar di mezzo il rivale artistico? Il carattere agonistico della civiltà non è, in complesso, una
sublimazione della crudele predisposizione alla lotta? Quali godimenti segreti agiscono nella castità
della monaca? « Con quali occhi carichi di biasimo guarda essa il viso di donne la cui vita è
diversa! Quanto piacere della vendetta è in questi occhi! » (A:29)
Nella religione, Nietzsche trova copiose attestazioni per la sua tesi della crudeltà come origine
creativa della civiltà. In molti ambiti culturali, ci si immaginavano gli dei crudeli. Essi dovevano
essere riconciliati mediante sacrifici. Evidentemente, ci si raffigurava gli dei come enti ai quali lo
spettacolo della tortura e del massacro donava gioia. Ancora il dio cristiano deve essere soddisfatto
mediante il sacrificio del figlio suo. Chi vuole fare piacere agli dei deve preparare loro una festa
della crudeltà. Il piacere degli dei è il piacere degli uomini ingigantito, per cui bisogna dire che «la
crudeltà appartiene alla più antica gioia festiva dell’umanità» (A:20).
Quando Nietzsche definisce la storia dei sentimenti morali storia di un «errore» (U1:50), non
contesta di certo il fatto che questo errore abbia avuto e abbia pur sempre una funzione formatrice
di civiltà. Di certo, il sentimento morale è nell’errore, nella misura in cui intende se stesso come
organo di verità e informazione sull’autentica destinazione dell’uomo. Tuttavia, proprio in questo
fraintendimento di sé, esso appartiene alle illusioni necessarie che consentono agli uomini il
modellamento culturale di sé. La legge morale, per quanto possa essere oppressiva,
opera contemporaneamente una peculiare elevazione del sé. C’è per esempio il tabù dell’incesto. Lo
si può trasgredire: l’istinto e la fisiologia, la natura dunque, non ci limitano in ciò. Non è un confine
fisico, bensì morale, quello che esige un restare in sé: a partire dall’obbedienza deriva infine
il dominio di sé, indispensabile per la civiltà. Solamente chi riesce a dominare se stesso impara il
rispetto di sé.
Numerosi comandamenti e divieti culturali servono degli scopi pratici, eugenetici, economici,
sanitari, politici. Ma Nietzsche mette in guardia dal proiettare l’utilità, che si presenta spesso
soltanto nel corso del tempo, come scopo inteso fin dal principio. Ciò vale anche per il punto di
vista del dominio di sé. Anch’esso non era del tutto inteso come programma pedagogico, ma come
conseguenza soggettiva dei comandamenti dell’eticità oggettiva. Il costume non esisteva affinché
un singolo individuo potesse trame il suo vantaggio. Non si pensava ai singoli, ma contavano invece
la conservazione e lo sviluppo di tutto un tessuto umano di civiltà. Chi contava? Non il
singolo, nemmeno il singolo dominante, bensì il « soggetto » privo di soggetto del processo
culturale. Questo soggetto privo di soggetto si incarna nel sistema dei costumi e dei tabù.
Questo sistema esige rispetto, indipendentemente dal fatto che vi si veda un’utilità. In tal modo, si
spiegano quegli enigmatici divieti che sembrano essere completamente assurdi e non-pratici e su cui
Nietzsche induce alla riflessione: « Esiste presso i popoli incolti un genere di costumanze, la cui
mira sembra essere il costume in generale» (A: 19). Nietzsche menziona come esempio una tribù
mongolica, i Camciadali, a cui è vietato, pare pena la morte, di raschiare le scarpe dalla neve con un
coltello, o di infilzare un carbone col coltello o di mettere del ferro nel fuoco. Evidentemente, tali
tabù hanno il solo scopo di mantenere « continuamente nella coscienza la continua vicinanza
del costume, l’ininterrotta costrizione a praticare il costume medesimo; per rafforzare il grande
principio con cui comincia la civiltà: un costume qualsiasi è meglio che l’assenza di costumi » (A:
19).
Il costume agisce come sistema di modellamento delle pulsioni. La stessa pulsione può essere
sperimentata, sotto la pressione di determinati costumi, come sentimento penoso di viltà oppure
evolversi a «gradevole sentimento dell’umiltà », quando lo si prende a cuore, per esempio da parte
della morale cristiana. La stessa pulsione non ha inizialmente alcun carattere morale. Questo le
cresce soltanto come «sua seconda natura» (A:33). Una civiltà agonistica come quella greco-antica
ha valutato l’invidia diversamente da civiltà che puntano sull’uguaglianza. Per i Greci non c’era
nulla di indecente nell’attribuire agli dei sentimenti d’invidia, mentre nell’antico Israele l’ira sacra
era una prediletta qualità del dio ebraico.
Nelle rispettive civiltà, l’eticità non era intesa soltanto come sistema di distinzione di bene e male,
bensì anche di vero e falso. I sistemi morali, secondo Nietzsche, sono legati alla metafisica, palese o
implicita, della legittimazione di sé. Nella comparazione culturale, tuttavia, non si può più
mantenere la rispettiva esigenza metafisica di verità. Le grandi verità si frantumano nella
molteplicità delle tecniche culturali che evidentemente esistono. Questa relativizzazione tramite
contatto con civiltà estranee, ricorda Nietzsche, aveva istituito già nell’antichità
greca l’illuminismo. Le ricerche etnologiche di un Erodoto contribuirono a far esplodere l’ambito
culturale greco, miticamente chiuso. In età moderna, fu soprattutto Montaigne a utilizzare la
comparazione culturale per operare un disarmo delle pretese di verità. In questa tradizione si
colloca Nietzsche. Gli è distante l’idea di abbandonare il principio di eticità solo perché la sua
implicita metafìsica sta crollando. Infatti, la morale e l’eticità rimangono necessarie, Egli apprezza
altamente la forza della morale per il modellamento delle pulsioni e per la creazione di una
seconda natura, e può quindi affermare: « Senza gli errori che si trovano nelle ipotesi della morale,
l’uomo sarebbe rimasto animale » (U1:51 ).
La critica nietzscheana alla legittimazione metafisica e religiosa di sé vuole lasciare inalterate
l’opera del modellamento delle pulsioni e le conquiste della «seconda natura ». In futuro tale opera
deve solo essere applicata in maniera più illuministica e condotta con una regia consapevole. Il
sistema dell’eticità da un progetto caldo e fumoso deve diventare un progetto freddo e chiaro.
Certamente, ci sarà chi « al soffio di un tale modo di ragionare si sente scendere l’inverno
nell’anima» (U1:48). Tuttavia, ciò non può ostacolarci a chiarire la civiltà a se stessa, senza timore
di toccarne i segreti di funzionamento. In una civiltà che si chiude al chiarimento di sé cresce la
temperatura interna, Lo si può chiamare calore nidiale. Quando la paura della libertà e l’assenza di
un tetto metafisico risvegliano sensazioni di panico, allora il caldo nido può diventare un bollitore.
Per questo Nietzsche esorta gli «uomini più intellettuali di un’età che chiaramente s’incendia
sempre di più»a utilizzare le scienze come « mezzi di spegnimento e di raffreddamento» e a usarle,
di fronte allo stato d’animo del periodo, come «specchio e [...] autocoscienza» (Ul:49).
In Umano, troppo umano Nietzsche ripone grandi speranze in tale « autocoscienza », non solo
riguardo al singo-
lo. Egli pondera la possibilità che un’intera civiltà, scrutando se stessa e prendendo congedo da
antiche credenze ; religiose nel destino, forse possa anche essere in grado di porsi «scopi ecumenici,
che abbracciano la terra intera». Se l’umanità, mediante un tale « consapevole governo globale »,
non dovesse andare a fondo, dovrebbe essere trovata «una conoscenza delle condizioni della civiltà
che sia superiore a tutti i gradi finora raggiunti, come criterio scientifico per scopi ecumenici»
(U1:34).
Qui, Nietzsche si approssima alla differenza, in seguito sottolineata da Max Weber, fra scelta del
valore, da un lato, e conoscenza razionale dei mezzi per la sua realizzazione, dall’altro. La scienza
non può effettuare la scelta del valore; ma spiegando il groviglio di funzionamento della civiltà,
mette a disposizione dell’agire dei criteri che permettono di giudicare la funzionalità dei mezzi
rispetto allo scopo. Ugualmente, Nietzsche si attende dalla scienza uno sguardo nelle «condizioni
della civiltà», con l’aiuto del quale si possa giudicare se gli scopi « ecumenici » possano in generale
realizzarsi. Per quel che concerne questi stessi obiettivi, Nietzsche non ha ancora preso del tutto
congedo dalle sue visioni presenti nel libro sulla tragedia. Vale ancora il suo principio fondamentale
dell’antropodicea, secondo il quale l’umanità e la storia sono giustificate soltanto dalla nascita del
genio. Il senso della storia è la « suprema estasi » nei grandi individui e nelle grandi opere.
Se la modalità di considerazione scientifica scalza il fondamento metafisico di verità, allora questo
riguarda da una parte la morale; ma ovviamente riguarda anche la religione e infine l’arte. Per quel
che concerne la religione, Nietzsche la intende in Umano, troppo umano e in Aurora innanzitutto
come metafisica per il popolo, del tutto consona allo stile della critica alla religione della sua epoca.
Egli compie degli esperimenti con la schietta tesi secondo cui la religione servirebbe alla «
narcotizzazione» (U1:89) per mali che non si possono eliminare diversamente. Se la conoscenza
della natura progredisce e

invece di «causalità fantastiche» (A: 15) scoprirà le vere causalità, non si ha più bisogno di
considerare per esempio le malattie come un giudizio divino, prendendo la giusta medicina, anziché
pregare e fare sacrifici. Il potere del destino (il punto d’avvio delle fantasie religiose di tutte le sorti)
non viene di certo spezzato, ma solo delimitato. Ciò pregiudica il potere dei « preti » e dei « poeti
tragici » (U1:89). Una sofferenza che all’occorrenza si possa curare perde il suo pathos oscuro e
grave.
Con una religione che fosse solo compensazione per un male che non si riesce a eliminare e per un
dominio magico della natura, la critica sarebbe portata presto a termine. Tuttavia, il sentimento
religioso ha ancora altri aspetti, su cui Nietzsche dà da riflettere. Prima di inoltrarsi in essi, come
sicurezza personale, egli fìssa senza compromessi e bruscamente il risultato per lui vincolante della
critica illuministica alla religione. « Nessuna religione ha mai finora contenuto, né direttamente né
indirettamente, né come dogma né come allegoria, una verità» (U1:91). Non bisogna nemmeno
lasciarsi confondere dall’« artificio da teologi » del mescolamento di conoscenza scientifica e
speculazione edificante. E, viceversa, va criticata la scienza quando « fa brillare nel buio delle sue
vedute ultime una coda di cometa religiosa» (U1:92). La religione non deve drappeggiarsi
scientificamente e la scienza non deve bisbigliare religiosamente dove essa non riesce più ad
argomentare. Nietzsche plaude ai rapporti chiari. Tuttavia sa che il sentimento religioso non si
esaurisce scoprendo in
N
esso soltanto degli errori.
Cos’altro c’è da scoprire nel sentimento religioso? C’è, specialmente nel cristianesimo, la
disposizione a sentirsi colpevoli. Da dove viene questo sentimento, cosa si cela in esso? È di certo
sorprendente quando l’uomo «prende se stesso per molto più nero e cattivo di quanto in realtà non
sia» (U1:101). L’antica religione greca non presumeva nell’uomo questo annerimento della
percezione di sé. Al contrario. Dato che gli dei condividevano con gli uomi-
ni le loro virtù e i loro oneri, ognuno poteva sentirsi sgravato. Gli uomini poterono lasciar
rispecchiare la parte oscura della propria essenza addirittura dai loro dei. Alla domanda sulla
provenienza del senso di colpa, Umano, troppo umano dà una risposta che presenterà molte
variazioni nelle opere successive di Nietzsche. Essa recita: il cristianesimo fu originariamente la
religione di gente che viveva oppressa e miseramente, che non era nobile e che perciò nemmeno si
riteneva nobile. Una religione dello scarso rispetto di sé. Il cristianesimo inabissa gli
uomini interamente nella «fonda palude» (U1:98) in cui essi già si trovavano.
Questa spiegazione non soddisfaceva nemmeno lo stesso Nietzsche, poiché il rimando al nesso fra
miseria sociale e scarso rispetto di sé è davvero piuttosto triviale. E per questo Nietzsche pondera
l’idea, se per caso non fosse il rilassamento della tarda civiltà romana che si rivolse al senso di
colpa come uno stimolo o una droga, specialmente perché in questo stato di contrizione poteva poi
brillare lo « splendore di una divina pietà ». Era questa voglia di peripezia, di dramma della
conversione, era questo «eccesso di sentimento» (U1:98) che si voleva assaporare? L’impero
romano si estese in modo smisuratamente ampio e incluse un intero ambito universale in cui le
condizioni e gli uomini divennero sempre più simili, i drammi storici si trasferirono ai confini più
lontani... In tali circostanze, il dramma interiore della conversione non era forse un guadagno
inestimabile in termini d’intensità? L’estremismo del cristianesimo primitivo era una cura contro la
noia imperversante? Quando una civiltà invecchia e il « circolo di tutte le sensazioni naturali»
(U1:114) è stato percorso incalcolabili volte, si tratta di trovare un «nuovo genere di stimoli vitali ».
Forse, il cristianesimo fu questo nuovo stimolo vitale. Ai convertiti offriva il dramma
dell’anima fatto di peccato e redenzione. E gli altri trovarono il loro divertimento con la comparsa
dei martiri, degli asceti e degli stiliti, mentre nel frattempo l’antichità era diventata
« insensibile persino alla vista dei combattimenti fra uomini e belve» (U1:1 14).
Tuttavia, anche con questa spiegazione, ci si arresta alla genealogia storica del cristianesimo e con
ciò la sua importanza nella sensibilità degli uomini fino al presente non si è ancora capita. Per
venirne a capo, Nietzsche si sprofonda nella psicologia dei santi, dei martiri e degli asceti, nei quali
quella strana specie di sentimenti religiosi prolifera in modo particolarmente rigoglioso. In questi
virtuosi della religione si mostra quale immensa potenza dell’accrescimento di sé, quale energia
estatica, è all’opera nel sentimento religioso. Qui non si può più parlare in generale di stato d’animo
misero e oppresso, di umiltà e di modestia. Questi santi e asceti combattono qualcosa in sé che
considerano misero e comune. Combattono però su due fronti: essi sono lo stato pietoso e il trionfo
su di esso, sono il misero e il sublime, l’impotenza e la potenza. L’uomo interiormente ricco vive in
una sala degli specchi. Guardando, da un lato, nel « limpido specchio » della sua immagine divina,
la sua stessa natura gli appare così « torbida, così straordinariamente contorta » (U1:104). Durante i
suoi momenti più riservati, tuttavia, egli sa che quel «limpido specchio» altro non è che un sé
ingrandito, che nello specchio divino egli scorge le sue migliori possibilità, dalle quali si sente
spinto verso l’alto e contemporaneamente umiliato. Anche questi rispecchiamenti appartengono
all’«autoscissione» mediante la quale l’uomo diventa un ente non soltanto morale, ma appunto
anche religioso. L’«autoscissione» religiosa può radicalizzarsi in sacrificio di sé. Questo avviene
perché « l’uomo ama qualcosa di sé, un pensiero, un’aspirazione, una creatura, più di qualche altra
cosa di sé »; cioè egli « scinde il suo essere e ne sacrifica una parte all’altra » (U1:61). L’asceta,
il santo, il martire trionfano dunque abbassandosi ed essendo pieni d’orgoglio nella loro umiltà. «
Questo spezzare se stesso, questo scherno per la propria natura [...] così apprezzato dalle religioni, è
propriamente un altissimo grado
di vanità. Tutta la morale del sermone della montagna vi rientra: l’uomo prova una vera voluttà nel
violentarsi con pretese eccessive e nel divinizzare poi nella sua anima questo qualcosa che
tirannicamente esige. In ogni morale ascetica l’uomo adora una parte di sé come Dio ed è quindi
costretto a diabolizzare la parte restante» (U1:109).
L’uomo religioso, nei suoi grandi momenti, vuole la stessa cosa che vuole anche l’artista: T«
emozione violenta». Entrambi sono sufficientemente presuntuosi per toccare l’«immenso» (U1:109;
trad. mod.), perfino quando si sentono da esso annientati. Questa sorta di declino è per essi la
«suprema estasi del mondo» (FP3/3-1:204). Poiché questa dedizione all'immenso è un’ossessione
comune di religione e arte, Nietzsche, in Umano, troppo umano, fa seguire al capitolo sulla Vita
religiosa quello Dell’anima degli artisti e degli scrittori.
L’«emozione violenta» nel sentimento religioso e nell’arte è ovviamente qualcosa di straordinario,
un’intensità, uno sforzo e insieme una scioltezza, anche uno scatenamento di energie creative,
un’euforia del successo, un afflusso e deflusso di forze, una condizione d’esaltazione, ma (e questa
è la fredda antitesi di Nietzsche), in ciò non vi è alcuna verità superiore. Non si può intendere
la condizione d’esaltazione religiosa e artistica così come intendono se stessi gli estatici: come
mediatori di verità arcane e grandiose.
Così tuttavia, come conoscenza superiore, il giovane Nietzsche aveva inteso l’arte, fino al suo
scritto wagneriano. Nelle idee sull’arte in Umano, troppo umano diventa particolarmente chiaro che
cosa pensa Nietzsche quando, nella premessa, chiama il suo esperimento illuministico uno «sguardo
e un gesto sacrileghi all’indietro» (U1:6). Fino alla metà degli anni ’70, Nietzsche chiamò l’arte «la
vera attività metafisica» (NT:9) e adesso fa ingresso nel suo tempio con una forzata volontà di
sobrietà e di incredulità. Egli tiene sotto controllo il suo entusiasmo e nutre il sospetto che magari in
esso si nascondano un pensie-
ro inesatto, sensazioni nebulose, debolezze e mistificazioni di ogni sorta. Perché questa cura di
sobrietà? Nella sua premessa a Umano, troppo umano Nietzsche dà una risposta. Vuole escludere il
pericolo « che lo spirito si perda e per così dire si innamori delle sue stesse vie e resti
fisso, inebriato, in un punto qualsiasi» (Ul:7).
Come si mostra l’arte a un adepto che sospetta del proprio entusiasmo e che, come un ex
alcolizzato, difende la sua sobrietà ancora incerta contro possibili tentazioni?
«Il problema della scienza», scrisse Nietzsche nel suo libro sulla tragedia, « non può essere
riconosciuto sul terreno della scienza» (NT:5). Egli voleva vedere «la scienza con l’ottica
dell’artista e l’arte invece con quella della vita» (NT:6). Adesso Nietzsche fa dell’arte il suo
problema e ora vale anche per l’arte quello che valeva per la scienza: non si può riconoscere il suo
problema sul terreno dell’arte e anche in questo caso, come per il problema della scienza, si deve
scegliere un’altra prospettiva; bisogna sottrarsi alla malia incantatrice dell’arte: solo così si evita di
diventare la vittima delle proprie automistificazioni.
L’artista forma e crea, produce una nuova realtà. Lo scienziato conosce la realtà. L’artista ha a che
fare con la plasmazione, lo scienziato con la verità. Nell’ottica dell’artista, Nietzsche scoprì nella
scienza la finzione maggiormente rimossa e inconfessata. La scienza vuole verità, ma in essa è
all’opera anche l’immaginazione, più di quanto essa voglia confessare. La scienza vuole
trovare verità, ma ne inventa pure. L’arte invece vive per propria ammissione di immaginazione,
crea un mondo illusorio e tesse la bella veste che stende sulla realtà; essa ha a che fare con
l’apparenza del fenomeno. La scienza esige disvelamento, l’arte ama i veli. Ora, poiché l’arte è
intimamente imparentata con l’invenzione, a essa non rimane nascosto quanta invenzione e istinto
formativo si celino anche nella scienza. La scienza però non vuole ammetterlo. Nietzsche chiama
ciò il «problema della scienza», percome esso si mostra dalla prospettiva dell’arte.
Se ora, viceversa, guarda all’arte dalla prospettiva della scienza, in cosa consiste allora il problema
dell’arte? Esso sta nella sua pretesa di verità. La finzione opera nell’arte, di norma, in maniera tanto
inconfessata quanto nella scienza. L’arte cela nell’apparenza la sua implicita pretesa di verità e la
scienza cela nella pretesa di verità la sua implicita finzione. Nietzsche attacca l’arte perché essa
pretende una verità che non può dare. Senza compromessi Nietzsche spiega: con l’arte non
tocchiamo «L’essenza del mondo in sé’» (U1:20). Le idee artistiche possono operare in maniera
entusiasmante, eccitante, malinconica... tuttavia, esse sono «rappresentazioni», nient’altro. Esse
informano stati d’animo, ma non per questo debbono essere giuste.
Nietzsche conosce abbastanza bene la sua ossessione per poter valutare la dimensione della
disillusione. Una lunga abitudine metafisica vi si oppone. L’esigenza metafisica innamorata del
mistero vuole conoscere cosa rende coeso il mondo nell’intimo. Questa pulsione metafisica, dopo
essere stata cacciata dai confini della scienza severamente regolamentata, trovò rifugio nell’arte.
Quanto essa sia ancora forte nello « spirito libero » illuministico, Nietzsche lo illustra sulla scorta di
Beethoven. La sua musica, scrive Nietzsche, produce « una risonanza della corda metafisica da gran
tempo ammutolita, anzi spezzata » (U1:124), per esempio come quando nella Nona sinfonia ci si «
sente di librarsi sopra la terra, in una cattedrale di stelle, con nel cuore il sogno dell’immortalità ».
Nietzsche si riferisce con queste frasi al saggio su Beethoven di Wagner, criticando però anche la
propria formulazione sull’arte come «la vera attività metafisica», affermando adesso che chi
vorrebbe soddisfare nell’arte il proprio bisogno metafisico non ha superato la « prova » del suo «
carattere intellettuale» (U1:124). La metafisica nell’arte è l’eredità, ottenuta con l’inganno, della
religione. Un’arte fraintesa metafisicamente colloca il «velo del pensiero non puro» (U1:123) oltre
la vita. Si cercheranno invano
il pensiero esatto e la conoscenza esatta nell’arte. Le pulsioni artistiche, piuttosto, ci ostacolano nel
lavoro conoscitivo nudo e crudo. Esse impediscono la « virile educazione dell’umanità» (Ul:122).
L’arte, considerata benevolmente, è regressione rilassante. Esonero temporaneo dall’abilità e dal
principio di realtà. Nell’arte possiamo essere nuovamente bambini, «per alcuni istanti l’antico
sentimento si ridesta e il cuore pulsa con un ritmo ormai dimenticato » (Ul:122). Ma è
raccomandata prudenza, non troppa regressione, altrimenti l’umanità minaccia appunto di «
ridiventare bambina». Se si pretende troppo spesso dagli uomini il temporaneo « alleviamento della
vita », li si distoglie «dal lavorare ad un reale miglioramento delle loro condizioni» (Ul:122).
Non è possibile esprimersi più chiaramente contro la « disposizione tragica », per altro apprezzata
da Nietzsche, e a favore dell’utilità e dell’abilità pratica. Nietzsche delinea lo schizzo pungente di
una sociologia del bisogno contemporaneo di arte. Chi esige dall’arte e cosa si esige da essa? Ci
sono gli istruiti, che di certo non percepiscono più il profumo dell’incenso, ma che non sono ancora
liberi a sufficienza per poter rinunciare del tutto ai «conforti della religione» e che perciò
apprezzano l’arte perché qui odono l’eco della religione morente. E ci sono gli indecisi, che
vorrebbero davvero condurre una vita diversa, ma che non possiedono la forza per la « conversione
» e che per questo esigono dall’arte un’altra condizione; e poi i presuntuosi, che temono il lavoro «
di sacrifìcio » e per i quali l’arte diventa un comodo giaciglio; ci sono le intelligenti donne inattive
di buona famiglia, che esigono arte perché manca loro una sfera di obblighi; medici, commercianti,
impiegati, che svolgono il loro abile lavoro, ma che sbirciano con un « tarlo nel cuore » a qualcosa
di più elevato.
Cosa significa l’arte per questi uomini? «Essa deve scacciare da loro per ore e per attimi il
malumore, la noia, la coscienza a metà cattiva, e, se è possibile, interpretare in grande come difetto
del destino del mondo il difetto della loro vita e del loro carattere» (Ul:63). Qui non c’è nessuno
straripamento di benessere e salute, bensì proprio l’esperienza della mancanza spinge verso l’arte.
Tali amanti dell’arte sono persone che si trovano in una condizione inautentica con se stessi. Al
giorno d’oggi, non il «godimento di sé» (Selbstgenuss) ma il «disgusto di sé» (Selbstverdruss) esige
arte, afferma Nietzsche.
Al disgusto di sé del pubblico corrisponde lo sconsiderato godimento di sé di alcuni artisti. Talvolta,
essi amano le loro opere in modo così eccessivo che bramano uno «sconvolgimento di tutti i
rapporti» (Ul:127), solo per migliorare le possibilità d’azione delle loro opere. Nietzsche non fa
nomi, ma intende chiaramente Richard Wagner, che in effetti divenne un rivoluzionario politico
per amore della sua arte.
Le voci e le leggende che avvolgono i grandi artisti e che vengono talvolta nutrite da loro stessi
pongono molto in alto l’ispirazione e la sofferenza per l’umanità. Per Nietzsche, ciò appartiene alle
mistificazioni dell’arte. Effettivamente, c’è in gioco meno ispirazione di quel che si crede. «Tutti i
grandi furono grandi lavoratori» (U 1:125). E per quel che concerne i « dolori del genio », si
dovrebbe essere prudenti. Qui, alcuni fanno credere di essere interessati non solo all’uomo, ma al
destino dell'umanità e di non voler creare solo un’opera, ma di rinnovare un’intera civiltà, urtando
ovunque contro incomprensione e limitatezza, e che questa sarebbe la loro grande
sofferenza. Contro questa interpretazione megalomane di sé di taluni artisti (ovviamente si intende
nuovamente Richard Wagner) Nietzsche consiglia una sana diffidenza. I grandi artisti, spiega
Nietzsche, si sentono offesi quando fanno suonare il loro « piffero » e nessuno vuole danzare.
Questo deve essere spiacevole per gli artisti, ma lo si può chiamare « tragico »? Forse sì, fa riflettere
con cattiveria Nietzsche, perché talvolta i dolori dell’artista che non si sente compreso pienamente
sono « veramente molto grandi, ma solo perché la sua ambizione, la sua invidia sono così grandi
» (Ul:126).
Nietzsche porta in giudizio molto severamente l’arte e la sua stessa passione per essa. Non
risparmia nemmeno il suo amore per la musica. La musica... per lui era ed è la lingua dell’immenso,
del mistero dionisiaco dell’universo. Per lui è la cosa più sacra di tutte. Proprio perciò il
gesto «sacrilego» non ha nulla da temere da essa. Egli scrive con quel forzato coraggio che non
risparmia nemmeno se stesso: «Di per sé la musica non è né profonda né significativa, non parla
della ’volontà’, della ’cosa in sé’» (Ul:148). Soltanto l’intelletto filosoficamente educato e forse
filosoficamente deformato immette in essa il cosiddetto significato più profondo. Noi possiamo
soltanto « immaginarlo » che l’immenso parli a partire dalla musica. Effettivamente, però, a partire
da essa parla la storia di simboli, abitudini uditive, tecniche, proiezioni, sensazioni e
incomprensioni. La musica è «vuoto rumore» (Ul:149) che viene riempito gradualmente di senso da
ricordi d’infanzia, associazioni d’immagini e sensazioni fisiche. Essa non è un «linguaggio
immediato del sentimento» (Ul:147).
Queste osservazioni sono formulate in modo espressamente cattivo. Nietzsche vuole colpire tutto
ciò che appare e suona più di quello che è. Ci si può ben immaginare anche l’indignazione di
Richard Wagner allorché lesse tali frasi. Cosima Wagner constatò schiettamente: «So che qui ha
vinto il male» (15,84; Chronik).
Nietzsche si prescrive una cura di rinsavimento perché vorrebbe impedire che i « sentimenti
profondamente eccitati» di poeti, musicisti, filosofi ed entusiasti religiosi lo «soffochino» (Ul:175).
Per questo, bisogna esporli allo spirito di una scienza «che rende in complesso alquanto più freddi e
scettici, e in particolare raffredda l’ardente fiume della fede in verità ultime e definitive»
(Ul:175). Nietzsche chiama l’epoca dei grandi sentimenti redentori nella metafisica, nella religione
e nell’arte un’epoca «tropicale » e vede avvicinarsi, nel presente, un clima culturale «temperato»
(Ul:170; trad. mod.). Egli vuole contribuire a realizzare e accelerare questa svolta climatica. Ma per
lui non è tutto buono ciò che essa comporta. Sa che il raffreddamento cela in sé anche dei pericoli.
Essi si trovano nella « superficializzazione ed esteriorizzazione » (U1:171 ) della vita.
In Umano, troppo umano, come abbiamo visto, Nietzsche porta avanti l’esperimento di
raffreddamento, ma come sul palcoscenico il protagonista talvolta parla «dal cantuccio » e tradisce i
suoi pensieri su quello che sta portando alla ribalta, così anche Nietzsche lascia intravedere che le
sue riflessioni sono un passaggio. Quanto ci si potrà spingere in là con lo spirito della scienza senza
finire in un deserto... Questa difficile questione echeggia alcune volte. Certo, la curiosità scientifica
inizialmente è rinfrescante, vivificante, liberatoria. Ma le verità a cui ci siamo abituati si stingono.
Ora, però, se la scienza riserva sempre meno felicità, ma, al tempo stesso, gettando « il sospetto su
fonti di consolazione come la metafìsica, la religione e l’arte, toglie gioia, quella grandissima fonte
di piacere, alla quale gli uomini devono quasi tutta la loro umanità, si impoverisce» (Ul:179).
Con quest’idea Nietzsche sta già ruotando nuovamente il palcoscenico: la magia metafisica dell’arte
e il sentimento tragico-dionisiaco del mondo vengono quasi nuovamente in luce, ma appunto solo «
quasi ». Nietzsche non porta a termine la rotazione, arrestandosi a una sorprendente proposta di
compromesso che, a causa della serenità cultural-tecnologica, da Nietzsche non ci si aspetterebbe
e che, forse per questo, è stata così raramente considerata. Nietzsche plaude infatti a una sorta di
sistema bicamerale della civiltà. Una civiltà superiore deve dare all’uomo «qualcosa come due
camere cerebrali, una per sentirci la scienza, un’altra per sentirci la non-scienza; che stiano l’una
accanto all’altra, senza confusione, separabili, isolabili: è questa un’esigenza di salute. Nell’un
campo si trova la fonte di forza, nell’altro il regolatore: con illusioni, uni-
lateralità e passioni bisogna riscaldare; con l’aiuto della scienza conoscitiva bisogna prevenire le
cattive e pericolose conseguenze di un surriscaldamento» (Ul:179).
Nell’opera di Nietzsche, quest’idea del sistema bicamerale balena ripetutamente e poi svanisce... a
serio svantaggio della sua filosofia. Se si fosse attenuto a essa, si sarebbe forse risparmiato alcune
stupidaggini in termini di visioni della grande politica e della volontà di potenza politico-razziale.
* Gioco di parole dell’autore: letteralmente Hintersinn (retro-senso), Tiefsinn (profondità di
pensiero) e Unsinn (non-senso). (N.d.T.)
10. Aurora. Verità o amore? Dubbi sulla filosofia. Nietzsche come fenomenologo.
Il desiderio di conoscenza. Il Colombo del mondo interiore. I confini della lingua e i confini del
mondo. La grande ispirazione
al Surlej-Felsen.
«CON illusioni, unilateralità e passioni bisogna riscaldare », scrisse Nietzsche in Umano, troppo
umano e aggiunge che questo non potrebbe bastare: nell’interesse dell’autoconservazione e della
civiltà dovrebbe fare il suo ingresso una scienza raffreddante, altrimenti esisterebbe il pericolo che
le idiosincrasie artisticamente fertili possano diventare « cattive e pericolose conseguenze di un
surriscaldamento» (Ul:179).
In questo modello, la scienza ha il valore di una potenza livellante. La vita individuale è prospettica,
avvolta in un’atmosfera di illusione e di non-sapere. Tale limitatezza è tuttavia indispensabile nel
processo creativo della vita. Lo sanno molto bene proprio gli artisti, per i quali le manie e le
ossessioni sono forze motrici. Essi però sanno anche che solo il freddo calcolo, la volontà di forma
ragionata e l’intelletto costruttivo temprano la calda materia dell’entusiasmo dando a essa una
figura ben riuscita. Questo vale per l’arte, ma anche per la civiltà nel suo complesso. Il processo
vitale della vita, con le sue passionali prepotenze, deve essere raffreddato nel medium della
scienza. « I metodi scientifici », scrive Nietzsche in un frammento postumo del 1877, « liberano il
mondo dal peso del grande pathos, fanno vedere come, senza alcun motivo, ci si sia innalzati a
questa cima del sentimento» (FP4/1:443). Anche le scienze sono di certo legate a prospettive, ma
possono elevarsi al di sopra di esse: ampliano lo sguardo e
rendono possibile una relativizzazione del proprio punto d’osservazione nel tutto. E questo non
tanto perché la scienza sia più vicina alla verità assoluta. Al contrario: è la passione con la sua vitale
unilateralità che si pone come assoluta e non consente alcun intruso. La scienza però è distanza
metodica e proprio perciò tiene desta la consapevolezza della relatività del sapere. Le passioni
mirano al tutto, la scienza tuttavia, per come Nietzsche la intende, insegna la modestia: possiamo
concepire dettagli, mai però il tutto. E comunque rimane la fame passionale di conoscenza totale e
risulta difficile rinunciare al pathos delle grandi verità. « L’interesse per la verità verrà meno,
tanto più quanto meno procurerà piacere» (Ul:179).
Se il compito della scienza è di raffreddare le passioni, allora in questo non dovrebbe spingersi
troppo oltre. Infatti, la società non viene minacciata soltanto da passioni sbrigliate, ma può anche
irrigidirsi nel sistema di raffreddamento delle scienze. Nietzsche abbozza il suo sistema bicamerale
come ausilio contro il duplice pericolo del vitalismo sfrenato, da una parte, e dell’irrigidimento
nichilistico, dall’altra. Un tale nichilismo si fa minaccioso quando le verità più recenti diventano
noiose e l’incantesimo del disincanto svanisce a causa dell’abitudine. Per questo non basta che le
passioni vengano mitigate tramite la scienza; viceversa, si deve anche avere fiuto per sapere quando
è necessario difendere l’ostinazione della vita contro il sapere. Quando Nietzsche, da una « cultura
superiore», si aspetta che debba dare agli uomini per così dire « due camere cerebrali, una per
sentirci la scienza, un’altra per sentirci la non scienza» (Ul:179), allora plaude a un’arte di vivere
che rimane consapevole del fatto che non ci può più essere una vita proveniente da una colata unica
e che il mondo della vita consiste in più mondi, poiché i due mondi della « scienza » e della « non
scienza » si suddividono ulteriormente nelle discipline scientifiche e nelle distinte sfere culturali
come la religione, la politica, l’arte e la morale. E rimane incerto a quale appartenga la
J
filosofia: è una scienza o è piuttosto una forma espressiva creativo-artistica della vita?
Nel periodo di Umano, troppo umano e di Aurora, Nietzsche inclina a intendere la filosofia
tradizionale più come opera edificante dell’immaginazione e meno come una forma di sapere esatto.
Questo cambierà. Le proprie fatiche intellettuali devono diventare una scuola di esattezza,
ovviamente non in senso positivistico, bensì come riflessione sul rapporto fra il pensabile e il
vivibile. A tal riguardo, egli varca il campo del sapere e incappa nell’ostinazione del vivente, che
egli difende contro le pretese dell’autotrasparenza. Sono riflessioni filosofiche che vogliono
impedire alla volontà di allungare erroneamente, pur sapendolo, le mani sul potere. Il pensiero
filosofico di Nietzsche diventa un’autoriflessione della scienza, non solo come coscienza dei
metodi, ma anche come riflessione sul nesso di sapere e mondo della vita. Un pensiero siffatto è
allo stesso tempo modesto e presuntuoso. È modesto perché rammenta la limitatezza e la relatività
di principio del sapere, e presuntuoso perché mette in gioco la saggezza della vita contro la logica
sfrenata, propria della ragione scientifica. La conoscenza ha la sua propria dinamica: di certo essa
deve raffreddare le passioni, ma può anche diventare essa stessa una « nuova passione » « che non
teme nessun sacrificio, e in fondo di nulla ha paura se non del suo proprio estinguersi» (A:215).
Questa passione per la conoscenza può serbare sofferenze, può per esempio distruggere amicizie e
una sfera intima di vita. L’ethos della conoscenza richiede sacrifici. Si è pronti a farli? Vale la pena
il sacrificio, cosa si riceve per esso?
Su questo riflette Nietzsche durante il lavoro ad Aurora, in un momento in cui, durante un
soggiorno di cura a Marienbad nell’estate del 1880, ripensa dolorosamente all’amicizia interrotta
con Wagner. Lo aveva del resto venerato e amato, e poteva anche sentire se stesso amato e
rispettato: c’era un’intimità tale, un’amicizia, che lo rese creativo. Perché tutto ciò dovette
frangersi? « Ora tutto è passato », scrive
a Peter Gast il 20 agosto 1880 da Karlsbad, dopo che alcune notti ebbe sempre sognato di Wagner, «
e che importa se in parecchi punti io ho ragione contro di lui? Come se l’amicizia perduta potesse
venir cancellata dalla mente! » (E: 154) Avere ragione nei confronti di Wagner significa per lui,
come sappiamo, sentirsi dalla parte della ragione con la sua critica alla metafisica artistica
wagneriana, alla sua pretesa di raggiungere il sublime e al suo pathos di redenzione. Ma tale aver
ragione compensa la perdita dell’amore?
Quell’estate a Marienbad, in occasione delle discussioni con un gradevole veneratore di Wagner,
rammenterà continuamente il tempo perduto dell’amicizia, e lo assalirà il dubbio sul valore per la
vita della sua filosofia. Lo risarcisce essa per l’amore perduto? Bisogna rinunciare all’amore per
amore della verità? E' saggio ferire uomini che altrimenti si stimano solo a causa di alcune idee che
per noi sono importanti? Bisogna mantenere assolutamente il proprio partito? Del resto, è sempre
un tradimento quando si cede o quando si lasciano così come sono le differenze? La fede in se stessi
richiede l’energica delimitazione? Esiste per l’affermazione di sé un precetto di purità? Nietzsche è
alle prese con queste domande e scrive in una lettera già citata: « Ancora adesso, dopo una sola ora
di cordiale conversazione con uomini completamente estranei, vacilla tutta la mia filosofia; mi
sembra folle volerla spuntare al prezzo dell’amore» (B6,37).
Effettivamente, nelle settimane successive all’estate di Marienbad, Nietzsche interrompe il suo
lavoro ad Aurora, confessando a Peter Gast il 20 ottobre: « Da quella lettera d’agosto [...] non ho
più infilato la penna nel calamaio: la mia condizione era così pessima e richiede ancora
tanta pazienza» (B6,40). Quando poi Nietzsche, nell’inverno a Genova, trova nuovamente forza e
slancio per continuare a creare, in Aurora scrive sulla « difettosità della macchina [in] nature così
altamente spirituali »: « Finché il genio dimora in noi, siamo intrepidi, anzi come deliranti, e
non facciamo caso alla vita, alla salute e all’onore; voliamo attraverso il giorno, più liberi di
un’aquila [...] Ma tutto a un tratto esso ci abbandona e altrettanto repentinamente ci piomba addosso
questo profondo senso di timore: non comprendiamo più noi stessi, soffriamo di tutto quello che fu
vissuto e non vissuto [...] simili a miserelle anime di fanciulli, che impaura un fruscio e un’ombra»
(A:249). Le anime dei fanciulli necessitano di protezione, sono vulnerabili e bisognose d’amore.
Esse non conoscono ancora l’eroismo della verità. Questo aforisma di Aurora rielabora gli affanni
dell’aquila dalle ali paralizzate nel periodo dello scoraggiamento durante l’estate del 1880.
Nietzsche si scuote: sono del resto soltanto le « miserelle anime di fanciulli » che lo hanno fatto
dubitare del valore della verità. Si deve resistere a queste contestazioni che attecchiscono nel punto
debole del bisogno d’amore. Quando la verità si indebolisce davanti al potere dell’amore,
allora bisogna appunto trasformare la volontà di verità in una passione. In questo senso Nietzsche
scrive in Aurora: « Alla  verità occorre la potenza. In sé la verità non è per nulla una potenza [...]
Essa deve anzi attrarre la potenza dalla sua parte » (A:248). Qui non si discute del potere statale o di
chissà quale altro potere politico o sociale, bensì del potere della vita. Si tratta della seguente
questione: se il fondamento pulsionale della conoscenza sia sufficientemente «potente» nel gioco di
forze e nella misurazione di esse rispetto ad altre motivazioni e se sia possibile collegare, quanto
meno posteriormente, conoscenze e « verità » con un fondamento pulsionale e tramite esso farle
diventare vitali. Il pensiero di Nietzsche orbita intorno a questo nesso a partire dall’estate del 1880
ed egli trova per esso il concetto della «assimilazione».* Questo concetto emerge per la prima volta
nell’agosto del 1881 nel taccuino di appunti,
dopo l’ispirazione al Surlej-Felsen di Sils-Maria, allorché ebbe l’intuizione del pensiero dell’eterno
ritorno. Nietzsche scrive: « Conservare gli istinti come fondamento di ogni conoscenza, ma sapere
dove essi diventano avversari della conoscenza: insomma, attendere finché il sapere e la
verità  possono incorporarsi» (FP5/2:352).
Dopo che Nietzsche, intorno al 1875, comprese che non ci si può attenere intenzionalmente a
illusioni utili alla vita se le si è smascherate come tali, e dopo aver indossato i panni dello spirito
libero «il quale, soprattutto, desidera di strappare da sé, giorno per giorno, qualsiasi fede
consolante» (E:111; 22 settembre 1876), non esiste più per lui nessuna verità «proibita» che non
possa essere espressa per amore della vita. Non è soltanto questo recente eroismo conoscitivo che
gli fa rigettare una simile dieta della verità, bensì una consapevolezza sempre più chiara che si è
sconosciuti a se stessi, che non si è calati nella propria profondità. Come si potrà sapere e valutare,
con questa insipienza, grazie a quali fonti si vive e cosa ci si può aspettare da questa vita?
L’argomento prescrive di saperne di più sulla vita e su ciò di cui essa necessita e da cui
ricava beneficio. Ma per essa non è così. « Ci siamo dati così tanta pena per imparare che le cose
esteriori non sono quel che esse ci appaiono - ebbene, dunque, lo stesso avviene per il mondo
interiore! » (A:87)
A Genova, dove Nietzsche durante l’inverno del 1880-81 termina il lavoro ad Aurora, Colombo era
di casa. Nietzsche paragona ai suoi viaggi di scoperta le proprie esplorazioni nella terra incognita
del mondo interiore umano. Colombo aveva le sue navi e la sua arte marinara, mentre Nietzsche la
sua lingua agile. Ma essa non è agile abbastanza per questo immenso continente interiore. Il confine
della lingua è il confine della realtà. Abbiamo vocaboli soltanto per i « gradi superlativi » e gli «
stati estremi » dei processi del corpo e dell’anima. Ma poiché se ci mancano i vocaboli non
osserviamo più correttamente, allora per la coscienza il «regno dell’esistenza» cessa laddove
termina il «regno
delle parole». Ira, odio, amore, compassione, bramosia, riconoscimento, gioia, dolore... sono quei
«gradi superlativi» degli stati interiori che si possono afferrare in parole e che per questo
possiedono visibilità e condivisione nel groviglio culturale; « i gradi intermedi più temperati e
perfino quelli inferiori, che sono continuamente in giuoco, ci sfuggono, e tuttavia sono proprio
questi ad intessere la tela del nostro carattere e del nostro destino» (A:86).
Bisogna tenere lontana qui l’architettura freudiana dell’inconscio come una sorta di scantinato.
Nietzsche non pensa con queste immagini. L’innominabile e inconcepito (e forse anche
inconcepibile) a cui pensa Nietzsche viene piuttosto inteso da lui in maniera musicale: come
tonalità che apposta vibrano senza essere udite, ma che danno però alla tonalità udibile la sfumatura
inconfondibile. Nietzsche sa che, innanzitutto, il suo riferimento al numero infinito di moti
inconsapevoli, di cui soltanto una minimissima parte entra nella coscienza, formula solo un
programma di lavoro imponente. Nietzsche non lo chiama così, ma effettivamente si tratta di un
programma fenomenologico. Nietzsche infatti vuole rendere visibile, tramite un’accresciuta
attenzione e l’aiuto di una lingua duttile, l’intrico di quei moti e di quelle rappresentazioni presenti
anch’esse e vibranti, come sotto una lente d’ingrandimento. Non si tratta dunque di spiegazioni e
costruzioni, bensì di un richiamo alla mente e di contemplazione. Il presupposto delle sue riflessioni
è tuttavia l’assunzione che questo inconscio sia in linea di principio assolutamente capace di
consapevolezza.
Per Nietzsche, la fisiologia, la percezione e la coscienza formano un continuo, e l’attenzione è una
sorta di cono di luce che rischiara porzioni mutevoli della vita e le pone nella zona di visibilità e
pensabilità. Il cono di luce si sposta, schiarendo qui qualcosa e lasciando là
sprofondare nuovamente qualcos’altro nella notte dell’inconscio. Ma questa notte non è un’assenza,
bensì soltanto la presenza, nuovamente retrocessa nell’inosservabile e nell’inosservato, di colui che
agisce.
Questo programma è fenomenologico perché il suo principio fondamentale recita: si può conoscere
soltanto ciò che appare; per questo, si tratta di affinare l’attenzione (e la lingua) a tal punto da far
apparire quanto più possibile. Tutto ciò che è dato alla coscienza è «fenomeno» e l’indagine della
coscienza osserva, con severa introspezione, l’ordinamento interno dei fenomeni coscienziali.
Essa non interpreta e non spiega, ma tenta di descrivere quello che i fenomeni sono e mostrano a
partire da se stessi. Questa attenzione per i processi coscienziali medesimi fa sparire, d’un tratto, il
dualismo di essenza e fenomeno, o più esattamente: scopriamo, molto semplicemente, che
appartiene alle operazioni di questa coscienza compiere una tale distinzione. La coscienza è
consapevole, in un modo del tutto speciale, di cosa le sfugge nella percezione. E poiché è fenomeno
tutto ciò che entra nella coscienza, allora anche questa stessa invisibilità è appunto un fenomeno
della coscienza. L’essenza non è qualcosa che si nasconde dietro il fenomeno, bensì è essa stessa
fenomeno in quanto la penso o in quanto penso che essa mi sfugga. Anche la cosa in sé kantiana,
questo non-concetto indicante il non-apparente per eccellenza, nel frattempo così volentieri
schernito da Nietzsche, è pur sempre, in quanto qualcosa di pensato, un fenomeno.
Nietzsche è lontano dal vivificare nuovamente i dubbi affettati e solipsistici sulla realtà del mondo
esterno. Al contrario: egli intende il mondo interiore come una sorta di mondo esterno, anch’esso
datoci soltanto come fenomeno, con l’effetto che l’immenso non è soltanto lì fuori, ma anche qui
dentro. Ma la coscienza stessa non è né dentro né fuori, ma in mezzo. Essa è di volta in volta presso
l’essere di cui è coscienza.** Se è coscienza di quell’albero lì fuori, allora essa è « lì fuori ». E se è
coscienza di un do
lore, di un desiderio, allora essa è lì dentro, dove il dolore e il desiderio si muovono. Nietzsche
vorrebbe accrescere la lucidità e l’attenzione, guidato dalla convinzione «che tutta la nostra
cosiddetta coscienza è un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse
inconoscibile, e tuttavia sentito » (A:92).
Ma cos’è dunque la coscienza? Non è uno specchio vuoto. Non è un recipiente vuoto che debba
ancora essere soltanto riempito. La coscienza è colmata da quell’essere di cui essa è coscienza. La
coscienza è l’essere cosciente di se stesso. Non è perciò l’intero essere, ma non è neppure meno che
essere. Essa non è divisa da esso, ma con ogni assopimento sperimenta il mistero del passaggio
dall’essere cosciente all’essere senza coscienza. La coscienza conosce questi margini verso
l’immenso. Essa non colma il suo vuoto con « oggetti », bensì è già sempre riferita a qualcosa. Essa
è questo stesso riferimento, è il sé di questo riferimento. La coscienza non ha un «dentro», ma essa
è il « fuori » di se stessa. Se solo si scava abbastanza in profondità nella coscienza,
improvvisamente ci si trova di nuovo presso le cose di fuori, si viene addirittura catapultati verso di
esse. Nietzsche descrive gli atti della coscienza come crescenti a partire da una « fame » (A:90). I
fenomenologi, la cui opera è anticipata da Nietzsche con le sue analisi della coscienza, parlano in
questo contesto di « intenzione » o della « struttura intenzionale della coscienza ».
Ai differenti tipi di processi della coscienza corrispondono differenti tipi di intenzioni. Voler
afferrare qualcosa con un’intenzione che ne prende le distanze è soltanto una delle possibili forme
della coscienza intenzionale. Accanto a questa intenzione, con la quale spesso si identifica
erroneamente l’intera vita della coscienza, esistono molte altre intenzioni; forme dunque
dell’essere-rivolti a qualcosa. E con ciò non ci si comporta in modo che, per esempio, un oggetto
venga afferrato innanzitutto, per così dire, in maniera «neutrale», per poi essere, con un atto
supplementare, «voluto », « temuto », « amato », « desiderato », « stimato ».
Il volere, lo stimare, l’amare hanno di volta in volta un loro riferimento oggettuale del tutto proprio;
l’«oggetto», in quest’atto, è dato di volta in volta in modo completamente diverso. Per la coscienza,
il medesimo « oggetto » è un altro, a seconda che io lo colga con curiosità, con speranza, con paura,
con intenzione pratica o teorica. Nietzsche era un maestro nello sfumare l’intonazione, la tinta e lo
stato d’animo particolari, e poiché notoriamente assunse le proprie sofferenze come stimolo del suo
filosofare, troviamo in lui anche illustrazioni particolarmente impressionanti dell’esperienza del
mondo nelle condizioni di sofferenza. Queste sono, detto fenomenologicamente, analisi tipiche di
una costituzione del mondo intenzionale. Infatti, Nietzsche non vuole semplicemente espressione,
espressione di sé; bensì prende la propria esperienza come esempio per rispondere alla domanda: di
che sorta è quel mondo che si crea una coscienza che soffre? « Colui che soffre fortemente vede
dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori: tutte quelle piccole ingannevoli
magie in cui di consueto nuotano le cose, quando l’occhio dell’uomo sano vi si affisa, sono invece
per lui dileguate; anzi egli si pone dinanzi a se stesso privo di orpelli e di colore. Ammesso che
sia vissuto fino a quel momento in una qualche pericolosa fantasticheria, questo supremo
disincantarsi attraverso il dolore è il mezzo per strapparlo da essa: e forse l’unico mezzo [...]
L’enorme tensione dell’intelletto che vuol fronteggiare il dolore fa che tutto ciò su cui esso dirige lo
sguardo risplenda di una nuova luce: e l’indicibile incitamento, che danno tutte le nuove
illuminazioni, è spesso tanto potente da sfidare tutti gli allettamenti del suicidio [...] Con disprezzo
egli pensa a quell’intimo, caldo mondo di nebbie in cui l’uomo sano trascorre senza riflettere»
(A:83ss.).
E' sicuramente un grande merito di Nietzsche aver mostrato con quanta sottigliezza e varietà lavori
in effetti la nostra coscienza e quanto primitive e grossolane siano le concezioni con cui la
coscienza porta a « coscienza » il suo stesso lavoro. Abitualmente si ha quello schema per cui
uno spazio interiore soggettivo e uno spazio esterno oggettivo vengono contrapposti l’uno all’altro,
chiedendo poi come ciò che è stato separato artificiosamente possa essere ricomposto, come venga
al mondo il mondo nel soggetto e come venga al mondo il soggetto. Nietzsche mostra che il nostro
percepire e pensare procede diversamente da quel che comunemente... pensiamo; che si tratta di
rischiaramenti discontinui in una corrente di atti palesemente dimentichi di sé. Soltanto una
riflessione secondaria, la coscienza della coscienza quindi, ritaglia il mondo in un soggetto-io qui, e
in un oggetto-mondo là. Il processo continuo della vita, tuttavia, di cui la coscienza nota una
minima parte, oltrepassa ininterrottamente questo confine. La filosofia di Nietzsche è un tentativo di
aprire la coscienza alle esperienze più sublimi e sconfinanti nelle quali siamo già sempre coinvolti
con il corpo e la vita. Le descrizioni nietzscheane hanno sfondato una porta e dischiuso
effettivamente, come egli presagì, un campo imprescindibile: il mondo della coscienza, dell’essere
cosciente. Esso è di una tale molteplicità e spontaneità che la sua ingegnosa descrizione deve cadere
in contraddizione con una concezione scientifica orientata alla sistematicità e alla conoscenza di
leggi. In tal modo, l’opera stessa di Nietzsche (includendo l’enorme lascito) è diventata infine
un’espressione di quel flusso di coscienza che egli intraprese a descrivere. Nietzsche volle, a partire
da un certo punto, giungere al sistema. Ciò nonostante, fu un singolarista per passione. Il mondo
consisteva per lui di singolarità lampanti e anche egli stesso si senti una singolarità fatta di
ulteriori lampanti singolarità. E ugualmente, per lui non esisteva proprio una storia, bensì solo
attimi ed eventi. Perciò una coscienza desta non può mai giungere al termine e alla conclusione.
Ogni sintesi si dissolve nuovamente nelle singolarità. L’immenso significa che esistono soltanto
singolarità, che esse sono tutto, ma non il tutto. Ogni tutto sarebbe troppo poco per la pienezza delle
singolarità. Che però la volontà del tutto, della sintesi, non sia un semplice capriccio della volontà
filosofica edificatoria, Nietzsche lo nota sempre più chiaramente quanto più in profondità getta lo
sguardo nel fondamento pulsionale del conoscere.
Egli toma ripetutamente a quelle intuizioni geniali della sua prima trattazione Su verità e menzogna
in senso extramorale. In essa scoprì il requisito di vita pratica di uno sgrossamento, di una
abbreviazione e semplificazione nella conoscenza. Il conoscere che svela i propri altarini scopre che
esso è soprattutto formativo, formativo di mondo, e che non può assolutamente intendersi e
fraintendersi come illustrazione. Il conoscere è più poiesis che mimesis. Adesso Nietzsche segue
quest’idea in modo più energico e sottile che al tempo dello scritto sulla verità, e soprattutto non la
riferisce soltanto al carattere fenomenico del mondo esterno, ma anche di quello interiore.
Nietzsche non abbandonerà più questa impostazione sino alla fine. Ancora nell’inverno del 1888,
un anno prima del crollo, annota: « Io sostengo che anche il mondo interiore ha carattere
fenomenico: tutto ciò di cui acquistiamo coscienza è assolutamente costruito a bella posta,
semplificato, schematizzato, interpretato» (FP8/2:262ss.). «Carattere fenomenico » significa: anche
il mondo interiore non lo « abbiamo» nel senso dell’unità di coscienza ed essere. Il fenomeno che fa
ingresso nella coscienza è sempre il fenomeno di qualcosa. Ma questo qualcosa non è identico
al fenomeno, anche quando si tratta dei fenomeni dell’esperienza « interiore ». Il sé che appare sul
palcoscenico interiore della percezione di sé è una figura nella grande recita del proprio sé, che non
può mai apparire a se stesso, ma che solo rende possibile tutto ciò che appare.***
Le riflessioni di Nietzsche conducono al punto che la tradizione filosofica formula così: Individuum
est ineffabile, l’individuo è inesprimibile. L’individuo non è inesprimibile per esempio perché cela
molti misteri, perché è pienezza e sovrabbondanza vitale, una ricchezza interiore che non si
dovrebbe dilapidare in spiccioli. Vi sono di certo siffatti misteri e ricchezze, ma qui non si allude a
essi. Si tratta bensì del problema strutturale per cui anche una coscienza del proprio essere rimane
pur sempre soltanto coscienza e non si fonde nell’essere. Il punto d’identità di essere e coscienza
non esiste assolutamente... ma un’autocoscienza attenta a se stessa gli arriva pur sempre tanto vicina
che questa coscienza può raffigurarsi e desiderare una tale identità, o meglio: più desiderarla che
raffigurarsela. A questa esperienza attingono le speculazioni su dio, che hanno di mira quel punto
dove il tutto giunge alla quiete nella sua inesprimibile pienezza, dove essere e coscienza diventano
identici nella chiarezza impenetrabile.
Indubbiamente queste sono « trasgressioni » della mente e del cuore, ma sono scusabili; perché
infatti la mente e il cuore non dovrebbero per una volta tentare di cogliere di propria iniziativa quel
punto d’identità, questo « in sé e per sé », anche se la coscienza ruota continuamente intorno
al proprio asse? Lo «spirito libero» non è di certo qui per proibire le «trasgressioni». Nietzsche non
vorrebbe fomentare questo sospetto. Contro le trasgressioni, le feste, le follie orgiastiche non ha
niente da obiettare, nemmeno quando il pensiero festeggia oltre le sue condizioni. Se egli si attiene
così energicamente alla differenza fra essere e coscienza, non è certo per amore di un sobrio
illuminismo, bensì per preservare il carattere misterioso dell’essere. Il principio fondamentale
individuum est ineffabile significa per lui scoprire l’immenso anche nel dettaglio dell’individuo. Ma
chi ama poi l’immenso? Piuttosto si ripiega nel conosciuto e nel familiare. E così capita che
la «maggior parte» non abbia nulla di più urgente da fare che cercare un « fantasma dell’ego » che
protegga dall’immensità del proprio sé. Dove si trova questo fantasma? Presso gli altri. Quello che
gli altri hanno stabilito di me o quello che io credo essi abbiano stabilito, e quello che io stesso ho
fatto per generare una determinata immagine di me stesso là fuori... Queste impressioni e azioni
producono quelle condizioni nelle quali «ciascuno di costoro [vive] sempre nella testa di un altro e
questa testa ancora in altre teste » (A:73).
Quanto reale è la realtà? In questo « curioso mondo di fantasmi » è tutto reale, ma è la realtà del
potere scatenato dell’elusione collettiva di sé. Nietzsche non tira in ballo qui la critica della civiltà.
Il teatro dell’elusione di sé appartiene innanzitutto all’antropologia, e soltanto successivamente alla
storia della civiltà. Martin Heiddegger ha in seguito formulato il pensiero della strutturale elusione
di sé conseguente all’indicibilità della persona nel modo seguente: «Ognuno è gli altri, nessuno è se
stesso» (Heidegger 164). La propria individualità è come una piastra rovente che trasforma ogni
goccia in vapore ancor prima dell’impatto. Quello che evapora qui sulla rovente singolarità
dell’individualità sono i concetti quotidiani o sublimi di «uomo» e «umanità»: evidenti finzioni, ma
forti abbastanza per arrangiare la recita sul palcoscenico della vita sociale. Ognuno è coinvolto nella
realtà universale e non ha tuttavia una lingua per la sua realtà. Costui agisce e non riconosce cosa in
lui agisce. Costui parla e in lui c’è silenzio. Le relazioni del groviglio umano sono accessibili
razionalmente. Possiamo capire i collegamenti fra i punti, ma non cosa sono veramente questi
singoli punti. Ciò che connette una cosa all’altra può essere seguito, ma rimane inspiegabile quello
che qualcosa è. Noi assumiamo la summa delle relazioni quale informazione sull’essenza di una
cosa o di una persona. Ma individuum est ineffabile significa: richiamare l’attenzione
sull’inspiegabilità del singolare. Qui, nel singolo che non sorge dalle sue relazioni, si trova il vero
mistero ed è caratteristico, per ogni sorta di misticismo fin dai giorni di Platone, che esso trasferisca
questo sentimento d’irrazionalità dell’individuo unico nel suo genere ad altre relazioni, ad altri
ambiti. Questi altri ambiti sono: i concetti astratti universali, l’anima del popolo, la nazione, la
classe, lo spirito oggettivo, la legge della storia, dio, tutte queste
immagini della verità e della follia, nelle quali (qui è attinente anche il «si» heideggeriano) si
vorrebbe svanire, prendendo la fuga dalla propria inesprimibilità, per essere liberi da se stessi.
Aurora esplora questa terra incognita dell’uomo, in cui Nietzsche di volta in volta comincia da
differenti punti di partenza: le vie intrecciate e labirintiche dall’io al sé, dall’io al tu, al noi, al voi...
gli si dischiude un campo enorme di ricerca fenomenologica. Per quel che concerne il punto di vista
dell’inesprimibilità dell’individualità e dell’elusione di sé, Nietzsche ha trovato per esso nella Gaia
scienza  (l’opera infatti fu progettata come prosecuzione di Aurora) la più pregnante formulazione.
L’aforisma numero 354 sviluppa, con un tempo mozzafiato e una condensazione senza uguali, un
ragionamento che è abbastanza ricco di contenuti da ricavarne vari libri. Il problema della
coscienza, afferma Nietzsche, fa la sua comparsa davanti a noi soltanto quando iniziamo a capire in
che senso la maggior parte dei processi vitali si svolga senza la coscienza. Per i processi vegetativi,
animali e fisiologici, ciò è senz’altro ovvio. Ma anche gli atti « più spirituali » del volere, del
ricordare e perfino del pensare potrebbero svolgersi senza il rispecchiamento e l’autoriferimento che
li accompagna; per realizzare il loro senso compiuto essi non dovrebbero fare ingresso nella
coscienza. Addirittura la coscienza non dovrebbe fare ingresso nella coscienza. Il suo
autosdoppiamento non è strutturalmente obbligato. In breve: « La vita intera sarebbe possibile senza
che essa si vedesse, per così dire, nello specchio: in effetti, ancor oggi la parte di gran lunga
prevalente di questa vita si svolge in noi senza questo rispecchiamento » (GS:270). Ma per quale
motivo c’è allora la coscienza se essa è « superflua »? La risposta di Nietzsche: la coscienza è la
sfera dell’intermedio. Il groviglio umano è un sistema di comunicazione e la coscienza è una sorta
di sopraffazione del singolo mediante il collocamento in questa struttura comunicativa. « Coscienza
è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo» (GS:271). In questa rete di
collegamento la lingua funziona come «segni di comunicazione». Esistono ovviamente anche altri
segni comunicativi, lo sguardo, i gesti, le cose formate, un intero universo simbolico, in
cui avvengono le comunicazioni. Da ciò Nietzsche deduce «che la coscienza non appartenga
propriamente all’esistenza individuale dell’uomo, ma piuttosto a ciò che in esso è natura
comunitaria e gregaria». Il singolo quasi non potrà « capire » la sua particolarità con l’aiuto di
questa coscienza socializzata. La coscienza non esiste affatto per questo. Essa è un fenomeno
circolatorio e non un medium della comprensione di sé, e se tuttavia viene utilizzata per questo
scopo; non bisogna stupirsi se si sfugge a se stessi. L’indicibile che si è passa attraverso questa rete
linguistica e coscienziale della socializzazione. Ognuno, scrive Nietzsche, conosce questa
esperienza per cui, nel tentativo di autocomprensione, «renderà sempre oggetto di
coscienza soltanto il non-individuale » (GS:272).
Qui Nietzsche si dimostra nuovamente (cfr. capitolo VI) un nominalista, applicando l’assoluta e
inesprimibile singolarità di dio al singolo. Anche l’individuo è altrettanto inesauribile e indicibile
come lo fu un tempo dio. Detto in termini nominalistici, è una haecceitas, un « ciò-qui-ora ». Il
carattere numinoso, un tempo riservato a dio, è ora la realtà concreta del singolo, dell’individuo. E
proprio come la nostra coscienza deve perdere dio, a essa sfugge di mano anche l’individuale. Il
completamente prossimo e il completamente distante sono il sublime, l’abissale, il misterioso.
Esiste un trascendere in entrambe le direzioni. Un suolo stabile v’è soltanto nelle zone mediane
della coscienza socializzata. E perciò si dovrebbe aver chiaro (e Nietzsche lo chiama il suo «
proprio fenomenalismo e prospettivismo ») che il mondo di questa coscienza « è solo un mondo di
superfici e di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato - che tutto quanto si fa cosciente
diventa  per ciò stesso piatto, esiguo, relativamente stupido, generico, segno, segno distintivo del
gregge» (GS:273).
Ora non bisogna però pensare che Nietzsche, col suo « fenomenalismo » e col suo richiamo al
carattere comunicativo della coscienza, voglia ritirarsi in una unio mystica priva di lingua. Questo
per lui non sarebbe nient’altro che una romantica elusione. Noi non possiamo abbandonare il nostro
mondo linguistico e coscienziale; l’indicibile è ancora una silhouette del mondo parlato e in
discussione, e ciò che si sottrae ai vocaboli lo consideriamo un dolore fantasma della lingua. La
lingua che nota la sua limitatezza si espande. Essa si dilata, vuole bilanciare la sua mancanza
d’essere e con ciò si arricchisce. Nel frattempo, scrive Nietzsche, si è accumulato un tale « capitale
» di questa « forza e arte della comunicazione » che i « nati in ritardo » lo potranno soltanto
dissipare (GS:271). Essi non colgono di certo il vero (poiché il vero non si può mai cogliere
perfettamente tramite la lingua e la coscienza), ma a suo modo è ricco anche questo « secondo »
mondo comunicato. I giochi della lingua e della coscienza sono inesauribili e, se non sono « veri »,
hanno almeno la forza di farsi « veri » in un atto secondario. Il mondo della lingua e della
coscienza, il mondo dell’intermedio, infine, è anche il mondo in cui viviamo, operiamo e siamo.
Nonostante tutto, Nietzsche doveva ovviamente lottare contro la difficoltà di vecchia data: se si
vuole descrivere la ricca vita della coscienza, non fosse altro che per motivi metodologici, si è
tentati di farla esplodere in una zona determinata oppure di agganciarla a un punto fisso. Chi, come
Nietzsche, vorrebbe evitare la riduzione naturalistica e psicologistica, ma rigettare anche la
prospettiva pseudo-divina, allora costui deve andare in cerca di una possibilità che gli permetta di
rendersi trasparente la ricca vita della coscienza, senza distruggerla, e deve sviluppare una
lingua che dia più voce alle cose rispetto agli spiccioli correnti del senso comune, deve abbandonare
la zona intermedia della comunicazione socializzata. Avendone i mezzi, si diventa poeta. La poesia,
fin dai tempi di Platone, è l’idea fissa e la tentazione segreta o inquietante dei filosofi.
Questa sensazione di affinità con la poesia è particolarmente marcata nel talento di Nietzsche. Il
fenomenologo in Nietzsche chiede «come» succede quando penso e «cosa» davvero sento. E il
poeta in Nietzsche si impegna per dare voce a queste tonalità intermedie, a queste sfumature,
sottigliezze e imponderabilità. Ed ecco che nascono testi meravigliosi come il seguente da Aurora:
«Dove vuole arrivare tutta questa filosofia con tutti i suoi giri viziosi? Forse a qualcosa di più che
trasferire, per così dire, in ragione un impulso costante e vigoroso, un impulso verso dolcezze solari,
aria chiara e mossa, piante del sud, respiro marino, nutrimento leggero di carne uova e frutta, acqua
calda per bere, silenziose passeggiate di tutto un giorno, poche parole, letture rare e caute, dimore
solitarie, pulizia, semplicità d’abitudini, quasi da soldato, insomma, verso tutte quelle cose che sono
proprio di mio gusto perché proprio a me si confanno moltissimo? Una filosofia che in fondo è
l’istinto di una dieta personale? Un istinto che cerca un’aria mia, un’altitudine mia, un mio clima,
un mio genere di salute attraverso i giri viziosi della mia testa? Ci sono molte altre e certo anche
molto più elevate sublimità della filosofia, e non soltanto quelle più cupe e più esigenti delle mie -
forse non sono anch’esse tutte quante nient’altro che intellettualistici giri viziosi di tali istinti
personali? » (A:263)
L’espressione « istinto » è qui altamente equivoca, perché associata immediatamente al sistema
degli istinti fondamentali, rozzi e biologistici. Nietzsche prescindeva assolutamente da essi. Egli
illustra un groviglio altamente differenziato di moti sottili, in cui il sensibile e lo spirituale
trapassano sempre uno nell’altro, una confusione degli eventi più impalpabili sullo sfondo dei quali
persino il pensiero «profondo» è pura superficie. Qui non viene compiuta una riduzione, bensì viene
mostrato come, nel movimento filosofico dei pensieri, siano partecipi tutti i sensi. L’idea è un’opera
collettiva di anima e corpo, si dice. Ma Nietzsche tenta di seguire realmente le tracce di
questi processi e, per quanto possibile, di elevarli nella lingua e nella coscienza. Un tentativo tale
riesce soltanto se la lingua stira, per così dire, le proprie membra, se diventa libera, mobile ed
elastica, forse se distende addirittura le sue ali per poter volare sull’ampio paesaggio
dell’umano, con sguardo acuto, ma senza scrutare in cerca di una preda. In Umano, troppo umano
Nietzsche designò questa forma di conoscenza come quel « libero, impavido spaziare»(U1:42).
In gioco c’è anche l’esattezza dell’amore che non vuole distruggere nella presa del comprendere
quello che conosce, ma vuole lasciarlo essere. Non bisogna farsi ingannare: in Nietzsche c’è anche
la riflessione opposta, ossia che l’amore è un cattivo consigliere per la conoscenza. Nella Gaia
scienza scrive: « ’L’uomo sotto la pelle’ è per tutti gli amanti ima cosa esecrabile e inconcepibile»
(GS: 104).
L’amore talvolta chiude gli occhi, non vuole sezionare, vuole lasciare in vita le cose e gli uomini e
comprenderli nel loro essere viventi; forse, per la volontà di conoscenza innamorata della vita le
leggi di natura e la meccanica, l’anatomia e la fisiologia sono un attacco « micidiale » al vivente.
Bisogna passare, afferma Nietzsche, anche attraverso una tale conoscenza senza amore. Un pensiero
radicale deve scendere a patti anche con la morte. Perché? Perché la conoscenza che scaturisce dai
grandi sentimenti non può rimanere l’unica conoscenza. Bisogna anche raffreddarsi e perdere delle
illusioni. Ma non al fine di perseverare nelle zone glaciali e inanimate, bensì per attraversarle e
maturare per altre rinascite. Sopportare l’inverno perché e affinché si possa meritare la primavera.
Non bisogna temere la notte, poiché, se la sopportiamo, ci donerà un mattino novello, un’alba
inconfondibile. Nietzsche concluse la prima parte di Umano, troppo umano con una rapsodia su « Il
viandante » filosofico e sul suo rapporto con la notte e col mattino venturo. « Certo, per un tal uomo
», scrive nell’aforisma numero 638, «verranno cattive nottate, in cui sarà stanco e troverà chiusa la
porta della città che doveva offrirgli riposo. » Questo è male, poiché il deserto arriva « fino alla
porta » e la notte cala « come un secondo deserto sul deserto». Tuttavia, una volta superato tutto ciò,
può succedere che venga per lui un mattino delizioso, «in cui poi, quando silenziosamente,
nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime
e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul
monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora
meditabonda sono viandanti e filosofi» (Ul:305). Questo filosofo viandante (nato « dai misteri del
mattino ») è il Nietzsche diventato fenomenologo. La sua fenomenologia è la filosofia dell’alba e
del mattino.
Questa attenzione fenomenologica per il mondo della coscienza necessita di un atteggiamento che
contesti le pretese e le complessità della vita quotidiana, poiché qui siamo più fortemente
invischiati, coinvolti in obblighi e abitudini, in un pavido riguardo e nell’opportunismo, non siamo
abbastanza lassi per lasciar venire a noi il mondo; non gli prepariamo alcun proscenio dove possa
apparire, dove diventi un’epifania, ricca ed enigmatica, dove faccia l’incontro con noi stessi in
modo tale da poter fare amicizia con esso. Affinché ciò divenga possibile non dobbiamo ancora
esserci legati troppo alla vita e stabiliti in essa. È necessario un margine d’azione che consenta alla
coscienza di badare a se stessa, ma non in un senso autistico, bensì in modo tale che l’essere aperti
al mondo possa essere sperimentato autonomamente. Una tale attenzione per il modo in cui ci è
«dato» il mondo significa, non v’è alcun dubbio, una rottura con l’atteggiamento naturalistico verso
il mondo. Una rottura come la si può esperire ogni mattino al risveglio.
In quest’istante di passaggio consiste la possibilità di vedere il mondo in modo nuovo; la
temporanea assenza di mondo della notte è necessaria per venire al mondo in modo nuovo. Questo
vale quotidianamente e ha anche valore filosofico. L’immagine del risveglio mattutino è forse
b
troppo serena. In essa non è ancora contenuto il dolore che può esserci nella rottura e nella
temporanea perdita del mondo. Ma per il dolore di questa rottura si viene risarciti, secondo
Nietzsche, mediante la scoperta di tutta una varia ontologia interiore: là c’è un regno infinitamente e
variamente graduato dell’efficace e del reale. Gli oggetti del ricordo, della paura, della nostalgia,
della speranza, del pensiero sono ugualmente molte «realtà», che sommergono la netta separazione
soggetto-oggetto. Nietzsche si delizia nelle immagini della grande corrente, dell’ampiezza oceanica
e dell’approdo a nuove rive. Il secondo Colombo, come egli si sente, desidera inoltrarsi nel mare
dalle coste di Genova. «Noi, aerei naviganti dello spirito!»: così inizia l’ultimo aforisma di Aurora
(A:269).
Nell’inverno del 1880-81, a Genova, Nietzsche conclude il lavoro ad Aurora. Trascorre la
primavera con lavori di correzione alle bozze del libro. Al suo vecchio amico Gersdorff, col quale
giunse temporaneamente alla rottura perché Nietzsche rivolse delle obiezioni contro i suoi progetti
matrimoniali, propone un soggiorno di uno o due anni a Torino. Lo attirano il sole, la pianura
luminosa e il clima secco. E soprattutto aspira ancora una volta a un nuovo inizio. Il fenomenologo
vuole imparare a vedere da lontano in modo nuovo anche la sua vecchia Europa. « Voglio vivere un
bel periodo fra gente allegra, e proprio là, dove la loro fede è ora più severa: così si aguzzerà il mio
giudizio e il mio sguardo per tutto ciò che sa d’europeo» (B6,68; 13 marzo 1881).
Gersdorff esita. Nietzsche rinuncia al suo viaggio in Tunisia a causa della guerra appena
scoppiatavi. Adesso, sogna gli altopiani messicani. Perché rimanere in Europa? Già la sua opera
garantisce che lì non lo si dimentichi. Nietzsche sa che il suo tempo deve ancora venire. Nonostante
gli attacchi della malattia, ha un buono stato d’animo quando guarda la sua ultima opera che
compare all’inizio dell’estate del 1881. Rispedisce le bozze al suo editore Ernst Schmeitzner con
l’osservazione: « Questo libro è ciò che si chiama un ’passo decisivo’... un destino più che un libro»
(B6,66; 23 febbraio 1881). Scrive all’amico Franz Overbeck a Basilea: « Questo è il libro che
rimarrà probabilmente legato al mio nome» (B6,71; 18 marzo 1881). Di fronte alla madre e alla
sorella la spara ancora più grossa, benché venata ironicamente. Manda loro il libro appena stampato
con il commento: «Questo è l’aspetto della cosa che renderà immortale il nostro nome, non poi
troppo bello» (B6,91; 11 giugno 1881). Dalle reazioni egli nota che ciò non è stato ancora capito per
il verso giusto. Per la madre, il figlio è infatti solo un professore fallito, che vaga malato e volubile e
che non ha ancora trovato una donna, e al quale bisogna spedire calzini e salami. Nietzsche lo
percepisce e perciò alla madre e alla sorella scrive, adesso in modo davvero serio: « Il mio sistema
nervoso, in considerazione dell’immensa attività che deve prestare, è gagliardo [...] Grazie ad esso,
ho prodotto uno dei libri più coraggiosi e sublimi e illuminati che mai siano stati generati da
cervello e cuore umani » (B6,102ss.; 9 luglio 1881).
Soltanto due mesi dopo, il suo giudizio su Aurora è mutato drasticamente. A Paul Rèe scrive: «E
questo stesso anno, che ha portato alla luce quell’opera, deve ora dare alla luce anche l’altra opera,
appetto alla quale, col suo quadro di connessione e di aurea concatenazione, posso dimenticare la
mia povera filosofia frammentaria» (TL:67; fine agosto 1881). Aurora, del resto ancora un’opera
«immortale », diventa adesso una « povera filosofia frammentaria »? Deve essere occorso qualcosa
a modificare in maniera così drastica il giudizio sulla propria opera.
Fin dall’inizio di luglio del 1881 Nietzsche fu a Sils-Maria, nell’alta Engadina, ove trascorse il suo
primo soggiorno. E qui successe che, durante una sua passeggiata attorno al lago di Silvaplana, egli
visse quell’esperienza ispirante che in seguito, nel capitolo su Zarathustra di Ecce homo, descriverà
come un evento di portata europea: «C’è qualcuno che, alla fine del XIX secolo, abbia un concetto
chiaro di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Altrimenti lo spiegherò io. - Se
si serba in sé anche un minimo residuo di superstizione, sarà difficile riuscire a rifiutare di fatto la
rappresentazione secondo cui noi siamo soltanto incarnazione, soltanto strumento sonoro, soltanto
medium di poteri che ci sovrastano. Il concetto di rivelazione, nel senso di qualcosa che,
subitaneamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza, si fa visibile, udibile, qualcosa che si scuote
e sconvolge nel più profondo, è una semplice descrizione dell’evidenza di fatto. Si ode, non si
cerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità,
senza esitazioni nella forma - io non ho mai avuto scelta. Un rapimento, la cui enorme tensione si
scarica talvolta in un torrente di lacrime; che ora fa precipitare inconsapevolmente il passo, ora lo
rallenta; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più precisa di innumerevoli brividi e correnti
fino alla punta dei piedi [...] Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un
turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità [...] tutto si offre come
l’espressione più vicina, più giusta, più semplice. Sembra veramente [...] come se le cose stesse si
avvicinassero e si offrissero come simbolo [...] Questa è la mia esperienza dell’ispirazione; non
dubito che si debba tornare indietro di millenni per trovare qualcuno che possa dirmi ’è anche la
mia’ » (EH:99ss.).
Che si debba tornare indietro di « millenni » per scoprire una simile ispirazione, ancora non lo
scrive, subito dopo questi avvenimenti del 6 agosto 1881 nei pressi del Surlej-Felsen. Ma l’evento
fu pur sempre decisivo; gli fu subito chiaro che adesso la sua vita era sezionata in due metà: la vita
precedente e quella successiva. Nel suo quaderno di lavoro appunta: « 6000 piedi al di sopra del
mare e molto più in alto di tutte le cose umane! » (FP5/2:352) Viene scaraventato al di là anche
delle proprie faccende. Ma come procedeva lassù? Peter Gast è il primo a cui narra di quest’evento:
« Sul mio orizzonte salgono pensieri quali ancora io non conobbi mai, ma di ciò per adesso non
voglio che nulla trapeli; voglio tenere me stesso in una quiete inalterabile. Bisogna che io viva
ancora qualche anno. Oh amico, talora mi passa per la testa che io vivo una vita pericolosissima, e
che appartengo a quella specie di macchine che possono esplodere! L’intensità dei miei
sentimenti mi fa rabbrividire e ridere — già un paio di volte non potei lasciare la camera per la
ridicola ragione che i miei occhi eran tutti arrossati - e perché? Tutte e due le volte, la vigilia,
durante i miei vagabondaggi, avevo troppo pianto, e non già lacrime sentimentali, ma lacrime di
giubilo; e piangendo cantavo, dicevo follie, pieno della nuova visione che si è manifestata a me
prima che a tutti gli altri mortali» (E:159ss.; 14 agosto 1881).
Nietzsche s’era armato di scetticismo allorché gli venne l’ispirazione. In Umano, troppo umano
disse appunto dell’ispirazione, che anch’essa, come altre cose che ci paiono sublimi, sembra più di
quello che è, e nel suo taccuino d’appunti, nell’autunno del 1877, riportò l’osservazione: « La nostra
spensieratezza richiede il culto del genio e dell’ispirazione» (8,475).
In quella lettera a Peter Gast del 14 agosto 1881, si nota come Nietzsche si sforzi di conservare la
calma. Vuole raccogliere l'immensa idea che lo ha assalito, e, con tutta la prontezza di spirito che gli
è possibile, ponderarla, esaminarla e quindi trame le conclusioni. Ma finora egli sa già questo: le
conclusioni saranno imprescindibili e da ora in avanti vuole porre la sua vita al servizio di
quest’idea del Surlej-Felsen. Fino a questo giorno d’agosto dell’anno 1881 presagiva il suo
compito, ma adesso lo ha trovato. Il suo stato d’animo oscilla fra euforia e timore, poiché non è così
semplice diventare uno « strumento sonoro» di una grande ambasceria. Sei mesi dopo
l’evento scrive a Peter Gast: « In merito alle mie ’idee’ non conta nulla per me averle; ma
liberarmene, quando voglio sbarazzarmene, diventa sempre più maledettamente difficile!» (B6,161;
29 gennaio 1882)
Così stanno le cose. Nietzsche si prende ancora del tempo per l’annuncio. Egli accennerà
prudentemente alla sua grande idea alla fine del quarto libro della Gaia scienza dell’estate 1882. E
poi bisognerà aspettare un anno ancora perché egli faccia calcare la scena a Zarathustra, al quale poi
affida, in modo cauto e titubante, quest’idea che «ha bisogno di ’millenni’ per diventare qualcosa»
(B6,159; 25 gennaio 1882). Con i suoi amici e specialmente con l’amata del 1882, Lou Salomé,
parlando di tale idea, sussurrerà soltanto.
* Nell’edizione italiana delle Opere, i curatori hanno tradotto i termini Einverleibung e einverleiben
talvolta con « assimilazione/assimilare », oppure con « incorporazione/incorporare » o con «
incarnazione/incarnare ». (N. d. T. )
** Non è possibile esprimere in italiano il gioco di richiami che spesso ricorre fra Bewußtsein
(coscienza), Sein (essere) e bewußt sein (essere consapevoli). (N.d.T.)
*** Non è possibile esprimere in italiano la consonanza fra il verbo erscheinen (apparire) e il
sostantivo Erscheinung (fenomeno). (NdT.)
11. Pensare cosmicamente a Sils-Maria. Natura disumanizzata. Calcoli sublimi. La
dottrina dell’eterno ritorno. San Gennaro a Genova. Giorni felici, scienza gaia. Messina.
COSA passò per la testa a Nietzsche prima che gli venisse quell’idea trasformatrice, l’idea del
«ritorno dell’uguale »? Lo colse impreparato, repentinamente? Non c’è motivo per dubitare delle
sue parole quando illustra l’evento della sua ispirazione. E tuttavia si può solo
difficilmente immaginare questa repentinità e questa violenza della visione, perché ci sono
numerose testimonianze a favore del fatto che quest’idea gli fosse già familiare. L’idea del tempo
circolare, che ripete reiteratamente il suo «contenuto» limitato, appartiene a ima ben nota tradizione
filosofica e religiosa. La si ritrova nei miti indiani, nei pre-socratici, nei pitagorici, in correnti
sotterranee dell’Occidente. Nietzsche la conobbe già da studente. Nel suo saggio Fato e storia del
1862 si allude all’ininterrotto circolo del tempo nell’immagine dell’orologio universale: «Non ha
fine questo divenire eterno? [...] Di ora in ora procede la lancetta, per ricominciare da capo, dopo le
dodici, il suo corso; un nuovo periodo del mondo ha inizio» (SG1:205). Ma esso, questo periodo,
non è affatto nuovo, poiché il « quadrante sono gli eventi » e, di conseguenza, il nuovo periodo del
mondo ripeterà gli eventi cifra per cifra.
Anche nel suo Schopenhauer, Nietzsche poteva trovare molto che corrispondesse all’immagine del
mondo delineata in Fato e storia. Schopenhauer era lontano dall’idea di una rinascita nella carne,
ma affermava l’immortalità del nucleo di volontà che si incarna nel mondo dei fenomeni in modo
molteplice e vario, e che per questo ritorna. A ciò Nietzsche collega nel libro sulla tragedia la sua
formulazione della «vita eterna di quel nucleo dell’esistenza, in mezzo al continuo scomparire delle
apparenze» (NT:57). In Schopenhauer c’è anche l’immagine del tempo come « circolo
infinitamente rotante », che ha impressionato Nietzsche quanto la caratterizzazione
schopenhaueriana del presente come dell’adesso insopprimibile nella veglia. Questo presente, dice
Schopenhauer, è per così dire il sole che splende sulla verticale dell’« eterno meriggio»: «La terra
passa dal giorno alla notte; l’individuo muore: ma il sole stesso brucia incessantemente nell’eterno
meriggio». L’insopprimibilità del presente significa in Schopenhauer che nel flusso del tempo tutto
si può modificare, ma non la forma dell’essere presenti. Questa persiste. Il paesaggio muta, la
finestra attraverso la quale lo si guarda rimane. E perché non dovrebbe essere sperimentato
autonomamente questo rimanere uguale della finestra presente? Su questa questione medita
Schopenhauer. Il presente, spiega, è la tangente che tocca il cerchio del tempo in un punto. Questo
punto non ruota col cerchio, ma rimane fermo e questo significa: eterno presente o eterno meriggio.
Il nostro problema è che guardiamo al cerchio girevole e non al punto permanente del contatto
tangente, benché tuttavia possiamo notare questa rotazione soltanto in contrasto col punto
permanente. In quanto enti nel tempo, siamo la ruota girevole, ma in quanto presente spirituale e
attenzione, siamo noi stessi sole ed eterno meriggio. Quanto Nietzsche fosse toccato da questi
pensieri è dimostrato dal fatto che questa immagine dell’eterno meriggio verrà assunta nello
Zarathustra proprio in connessione alla dottrina del ritorno. Là si parlerà poi di « grande» meriggio
e di «meriggio ed eternità». La dottrina del ritorno dell’uguale è contenuta anche nel mito
dionisiaco del dio morente e sempre di nuovo rinato, e poiché Nietzsche inizia il suo percorso di
pensiero con Dioniso, allora si può dire che la dottrina del ritorno non l’abbia
trovata successivamente, ma che l’abbia semmai ritrovata dopo essersi forse temporaneamente
allontanato da essa. Se dunque la dottrina dell’eterno ritorno gli era intellettualmente familiare già
da lungo tempo, allora in questo rincontro con tale conoscenza di lunga data deve essergli occorso
anche qualcos’altro; altrimenti non sarebbe comprensibile perché provocò una tale eccitazione. La
domanda recita quindi: perché un’idea familiare da sì lungo tempo agisce in modo talmente
stimolante? Perché in questo momento? In quale ambito di pensieri riceve d’un tratto questa forza
esplosiva? Cosa gli è passato dunque per la testa e per il cuore? È da indagare quali informazioni
possano dame gli appunti delle settimane subito precedenti e successive al grande evento.
All’inizio dell’estate del 1881, con il titolo Idea fondamentale! (FP5/2:280), annota l’idea, per lui
non nuova, che l’uomo ordina l’esistenza della natura e del proprio sé «in metri individuali, cioè
sbagliati», e che egli dunque non può conoscere il reale. « Tutto quanto avviene dentro di noi è in sé
qualcosa di diverso e che noi non sappiamo. » In seguito a ciò, tuttavia, egli dà una nuova piega a
quell’idea familiare. Si infuria addirittura con quel medium di rottura che impedisce un incontro
autentico con il reale. Egli chiama questo medium di rottura un « fantasticare di un ’io’
» contrapposto « a tutto il resto, al ’non io’ ». In Aurora ancora cantava la lode del vedere e del
conoscere prospettici. Sembrava che si fosse riconciliato con il prospettivismo e vi avesse scoperto
la ricchezza fenomenologica. E adesso dice: al diavolo la prospettiva! Voglio uscire dalla gabbia
della mia percezione prospettica! Sottolinea in grassetto la frase: «Smettere di sentirsi come questo
fantastico ego! Imparare gradualmente a liberarci di questo presunto individuo! » Ma in che modo
può succedere? Bisogna assumere un punto di vista conoscitivo altmistico, il che significa tentare di
vedere con molti occhi? Bisogna dunque fare ingresso nella comunità dei ricercatori e partecipare ai
loro infiniti dibattiti sulla realtà del reale, nella speranza che su questa strada risultino valori medi e
convenzioni di una certa validità? No, afferma Nietzsche, riconoscere l’« egoismo in quanto errore
» non significa optare per l’«altruismo» gnoseologico. Ci deve essere un’altra strada e poi seguono
le due frasi, sottolineate in maniera particolarmente evidente: «Al di là di ’me’, e ’te’! Sentire in
modo cosmico! » (FP5/2:281)
Ora, si potrebbe pensare che Nietzsche volesse, nello stile di Giordano Bruno, la fusione del piccolo
io con l’organismo cosmico complessivo, la comunione con l’anima universale. Ma non s’intende
affatto questo. Sentire cosmicamente significa di certo accettare il contatto con l’immensità in cui si
è inclusi. Ma non significa fare di questa immensità un organismo vivente. Con ciò, l’immensità
sarebbe intesa in maniera troppo accogliente, troppo umana e devota. Poche settimane dopo scrive
in un appunto: « La fede che oggi, con la scienza, corrisponde alla fede in Dio è la fede nel tutto
come organismo: essa mi ripugna ». Di questo tutto appiccicoso, molle e proliferante non ne vuole
sapere nulla. Egli si vieta qualsiasi nostalgia dell’utero. Non si è liberato da un dio protettivo
per scivolare adesso all’indietro nel grembo materno quasi divino del tutto. « Come totalità,
dobbiamo pensarlo [il tutto] il più lontano possibile dall’organicità! » (FP5/2:383)
La verità dell’organico è l’inorganico. La pietra è l’ultimo termine della saggezza. Quando
Nietzsche scrive che si dovrebbe « lasciarsi possedere dalle cose (non da persone)» (FP5/2:294),
allora intende veramente le cose, così fredde e morte come nulla al mondo. Egli tenta l’introduzione
nel non-vivente. Non la sua nostalgia oceanica ma quella minerale conduce la conversazione. La
vita sensibile è un grande errore, un’escrescenza, un enorme giro vizioso. Indietro, alla quiete e al
silenzio della pietra. « Valutazione radicalmente sbagliata del mondo sensibile rispetto a quello
morto», scrive, e prosegue: «Il mondo ’morto’ è eternamente mosso e senza errore, forza
contro forza! Mentre nel mondo sensibile tutto è sbagliato, tutto è famoso! E' una festa passare da
questo mondo nel ’mondo morto’» (FP5/2:315).
Nietzsche mette alla prova delle formulazioni, le sottolinea, le cancella, mette vari punti
esclamativi, punti di domanda in mezzo alla frase, interrompe, ricomincia daccapo, esclude dei
vocaboli e ne abbrevia altri. Un brusco alternarsi di volubilità e risolutezza. Con passione insulta la
passione, perché ci obnubila. Con eccitazione si adira contro le eccitazioni, perché interpretano
erroneamente la realtà. Con forte sensibilità si esalta per ciò che è privo di sensibilità come per una
condizione nella quale siamo più vicini all’essere. I sentimenti non servono a niente, sono
una «svista dell’essere» (FP5/2:316); e se non fosse possibile correggere questa svista? Dov’è
rimasto il fenomenologo di Aurora, che voleva preparare alle cose e al mondo un teatro
dell’attenzione e celebrare tutt’altra festa, una festa in cui siano partecipi tutti i sensi e in cui essi
cooperino all’epifania di un mondo che trionfi sulla violenza devitalizzante della riduzione? Come
deve procedere la fredda « festa » di passaggio « da questo mondo nel ’mondo morto’ »? Per
esempio, addentrandosi in quella dimensione dove tutto è «calcolabile e misurabile» (FP5/2:316).
Bisogna contare soltanto quello che si lascia contare. La misura di tutte le cose è il misurare. « Un
tempo », scrive Nietzsche, « il mondo incalcolabile (quello degli spiriti, dello spirito) aveva dignità,
incuteva più timore. Ma noi vediamo la potenza eterna in una sede del tutto diversa» (FP5/2:316).
Nietzsche compie alcune incursioni fisiologiche, in occasione delle quali i movimenti spirituali e i
moti emotivi vengono presentati come sintomi di processi corporei che ne stanno alla base. Tutto
ciò viene soltanto accennato e si osserva che a Nietzsche, in questo momento, interessa soltanto
ricondurre quanto più possibile il vivente e il sensibile in prossimità della zona del morto e del
meccanico o comunque di ciò che è privo di spirito. Persino divertito, Nietzsche compie qui la
cacciata dello spirito dal campo dell’essere. Infine trova una formula per tutto ciò: «Il mio compito:
la disumanizzazione della natura e poi la naturalizzazione dell’uomo, una volta che egli sia giunto
al puro concetto di ’natura’ » (FP5/2:379).
Questa frase è scritta dopo l’evento ispiratore e mostra che l’idea del ritorno non solo non ha
intralciato e interrotto questa sperimentazione con una metafisica pietrificata, bensì appartiene del
tutto e chiaramente a questo contesto. Per quanto possa sembrarci stupefacente, è la presunta
evidenza derivata dal calcolo, quantitativo e fisico, di questa dottrina che lo avvince. Il calcolo
fondamentale: la forza complessiva dell’universo come materia o energia è limitata, il tempo però è
infinito. In questo tempo infinito, perciò, tutte le possibili costellazioni della materia e dell’energia e
quindi tutti i possibili eventi del vivente e dell’inanimato sono già avvenuti una volta e si
ripeteranno infinitamente. Negli appunti, accanto a innumerevoli brevi riflessioni sull’idea di
ritorno, esiste un solo unico passo, lungo e contestuale a questo tema, e qui vi si trovano quelle frasi
sul ritorno che Nietzsche spesso ripeterà in seguito, frasi in cui ora la lava dell’ispirazione s’è
davvero raffreddata in teoria pietrificata. « Il mondo delle forze non subisce diminuzione:
altrimenti, nel tempo infinito, si sarebbe indebolito e sarebbe perito. Il mondo delle forze non
subisce stasi: altrimenti questa sarebbe stata raggiunta, e l’orologio dell’esistenza si sarebbe
fermato. Dunque, il mondo delle forze non giunge mai a un equilibrio, non ha mai un attimo di
quiete, la sua forza e il suo movimento sono ugualmente grandi in ogni tempo. Quale che sia lo
stato che questo mondo può raggiungere, deve averlo già raggiunto, e non una ma infinite volte.
Così questo attimo: esso era già qui una volta e molte volte e parimenti ritornerà, tutte le forze
distribuite esattamente come ora; lo stesso avviene per l’attimo che ha generato questo e per
quello che sarà il figlio dell’attimo attuale. Uomo! la tua vita intera, come una clessidra, sarà
sempre di nuovo capovolta, e sempre di nuovo si svuoterà - un grande minuto di tempo frammezzo,
finché tutte le condizioni dalle quali tu sei divenuto, nel circuito cosmico, si verificano di
nuovo» (FP5/2:358ss.).
Risulta diffìcile collegare a quest’idea, che si presenta
come un problema d’aritmetica risolto, una sensazione diversa dal compiacimento per il fatto che è
stato pensato tutto davvero bene e che i conti tornano. Che in seguito degli spiriti acuti (come per
esempio Georg Simmel) rinfaccino al filosofo di aver fatto male i conti, non modifica la questione.
Per Nietzsche fu un compito d’aritmetica risolto e la gioia che ne derivò crebbe fino a diventare
rapimento estatico. Nietzsche versa « lacrime di giubilo », cosi scrisse il 14 agosto 1881 a Peter
Gast (E: 160).
L’eterno ritorno deve essere la fredda legge meccanicomatematica dell’universo, ma proprio perciò
lascia freddi. Come si può tuttavia convertirla in esperienza vissuta?
Probabilmente, a Nietzsche è successo questo: un’idea che fino a quel momento gli era nota come
fantasia religiosa e intuizione intellettuale gli si presenta con l’autorità di una scienza esatta. Nella
primavera del 1881 egli lesse i Contributi per la dinamica del cielo di Julius Robert Mayer e ne
scrisse entusiasta a Peter Gast, che gli aveva indicato quest’opera: « In tali libri maestosi, acuti e gai
come quello di Mayer si può udire un 'armonia delle sfere: una musica che è pronta solo per l’uomo
scientifico» (B6,84; 16 aprile 1881).
Il medico Julius Robert Mayer, morto nel 1878, uno dei naturalisti di scuola materialistica più in
vista della seconda metà del secolo, raffinò il principio di conservazione della sostanza materiale
tramite l’ipotesi sulla conservazione dell’energia. La forza elementare nell’universo sarebbe
variabile soltanto qualitativamente, afferma Mayer, mentre rimarrebbe uguale quantitativamente. Il
cambiamento sarebbe soltanto una trasformazione di stati energetici, per esempio dell’energia nella
materia e del calore nel moto. Fra queste trasformazioni, nella somma totale, si potrebbero calcolare
macro-relazioni invariabili.
In seguito, Nietzsche si allontanerà nuovamente da Mayer rimproverandolo di aver introdotto
clandestinamente un’ominosa forza divina universale nell’armonia materiale delle sfere.
Temporaneamente, però, Nietzsche
è entusiasta e si può supporre che, in occasione della sua visione al Surlej-Felsen, abbiano avuto la
loro importanza anche i frutti della lettura mayeriana. Mayer non collegò la sua legge di
conservazione dell’energia a una dottrina del ritorno delle costellazioni e degli Stati. Questo fu
l’ingrediente nietzscheano, seguito all’assunzione di un eterno continuo temporale, per il quale egli
trovò, tuttavia, sufficienti conferme anche nella letteratura naturalistico-materialistica che in quei
mesi studiò con zelo, nonostante i dolori agli occhi e alla testa.
Negli appunti di Nietzsche non si parla soltanto del suo rapimento, bensì anche dello sgomento e
dell’orrore che provoca questa conoscenza e della difficoltà di « assimilazione» (FP5/2:368). In
seguito, considererà apertamente la capacità di assimilazione di questa conoscenza come
caratteristica del « superuomo ». Ma in merito allo sgomento si può porre la stessa domanda posta
per il rapimento: come riuscirà questa dottrina nata dal calcolo a convertirsi in esperienza vissuta? Il
ritorno senza fine sarebbe però un orrore soltanto se la coscienza si ricordasse delle ripetizioni senza
fine e dunque se, passando attraverso il tempo, non solo rimanesse la stessa, ma anche sapesse che è
la stessa. Ma se la coscienza crede di ricominciare ogni volta daccapo e se sempre ripete se stessa
esattamente in questa illusione di cominciare, allora proprio per la coscienza ci sono sempre nuovi
inizi e nessuna ripetizione, anche quando le viene presentato un conto che pare dimostrare l’eterno
ritorno. Se a qualcuno si imputa in anticipo la ripetizione, costui però non l’ha ancora esperita. Ma
l’orrore (come anche il rapimento) può trovarsi soltanto nell’esperienza vissuta.
Negli appunti dell’estate 1881 non si scoprirà alcuna traccia di autentico sgomento, ma ci si imbatte
molto di frequente in analisi sobriamente argomentate sulle circostanze nelle quali la dottrina
dell’etemo ritorno potrebbe preparare uno sgomento. Non si parla di uno sgomento reale, bensì di
uno sgomento immaginario, quando Nietz-
sche scrive che « già l ’idea di una probabilità [di ritorno] può sconvolgerci e riplasmarci, e non
solo le sensazioni o determinate aspettative! Quali effetti non ha sortito la possibilità dell’eterna
dannazione! » (FP5/2:382ss.)
Chiaramente il Nietzsche della dottrina dell’eterno ritorno è ancora estasiato anche dalla prospettiva
di poter con essa incutere orrore agli altri. Si abbandona a fantasie su come in futuro si giungerà a
una sorta di élite fra coloro che sopportano questa visione e coloro che vi dubitano e falliscono. «
Una nuova dottrina si adatta meno di tutto ai suoi migliori rappresentanti, alle nature da tempo
assicurate e assicuranti [...] Sono i deboli, vuoti, malati, bisognosi che accolgono la nuova
infezione» (FP5/2:358)... e proprio per questo periscono. Sul suo teatro interiore Nietzsche è
incantato dall’idea di diffondere orrore e sgomento, e di appartenere dunque egli stesso a quei pochi
eroi che dalla dottrina dell’eterno ritorno suggono addirittura un nettare di vita pratica. Già negli
appunti dell’estate 1881 si trovano riflessioni simili.
Nietzsche intese senz’altro l’idea dell’eterno ritorno come una verità assiomatica, ma la utilizzò
anche come ausilio pragmatico e autosuggestivo di strutturazione della vita. In questo modo gli
riesce di riscaldare esistenzialmente una « fredda » conoscenza. Che ogni istante ritorni, deve dare
al qui e ora la dignità dell’eterno. In ogni cosa che si fa, bisogna chiedersi: « E' questo qualcosa che
io voglio fare infinite volte? » (FP5/2:356) Nietzsche, che vuole superare il «tu devi », qui insegna
però un nuovo «tu devi »: devi vivere l’istante in modo tale che esso possa fare a te ritorno senza
orrore. Nietzsche, l’entusiasta della musica, esige il da capo della vita. «Imprimiamo il
riflesso dell’eternità sulla nostra vita! Questo pensiero ha più contenuto di tutte le religioni che
hanno disprezzato questa vita come fugace, e hanno insegnato a guardare verso un’altra vita
indeterminata » (FP5/2:367). Così come Kant volle rafforzare i precetti morali assegnando loro
l’incondizionatezza, «come se» li avesse emanati un dio, anche
Nietzsche vuole sostenere il suo imperativo di un aldiquà estatico-intenso con l’argomento che si
deve vivere così
« come se » ogni istante fosse eterno perché eternamente ritorna.
Tutte le estasi, tutte le beatitudini, le ascensioni del sentimento, questa fame di intensità che un
tempo, fantasticando, si pensava esistesse in un aldilà, devono attenersi ora a una vita immediata e
terrena. La dottrina dell’eterno ritorno deve operare così: serbare le forze del trascendere per
l’immanenza oppure, come annuncerà poi Zarathustra, «rimanere fedeli alla terra». In seguito, nella
Gaia scienza,, scritta sei mesi dopo l’evento ispiratore, Nietzsche evocherà con molte immagini
questa beatitudine nell’adesso che gli ha dischiuso la prospettiva dell’eterno ritorno. All’idea del
ciclo temporale circolare sottrae l’elemento gravante-paralizzante, pensandola insieme con il
grande gioco universale eracliteo. Anche il gioco si basa notoriamente su ripetizioni, ma in esso le
esperiamo gioiosamente. Per Nietzsche, con la morte di dio diventano chiari il rischio e il carattere
ludico dell’esistenza umana. E un «superuomo » sarà poi colui che ha la forza e la leggerezza di
passare per il gioco universale sempre identico. Il trascendere di Nietzsche va in questa direzione:
verso il gioco come fondamento dell’essere. Lo Zarathustra di Nietzsche danza quando ha raggiunto
questo fondamento; danza come il dio indù dei mondi, Shiva. E anche lo stesso Nietzsche danzerà
poco prima del suo crollo spirituale, nudo nella sua stanza, durante gli ultimi giorni di Torino. Così
lo vide la padrona di casa attraverso il buco della serratura.
r
Questo per quanto riguarda l’aspetto esistenzial-pragmatico di quest’idea dell’eterno ritorno, che
diventa vera avverandosi. Ma non dimentichiamo che Nietzsche riteneva vera questa dottrina anche
in senso assiomatico: una descrizione del mondo come esso è. A prescindere dal fatto che, con
questa forte pretesa di verità, Nietzsche incappa in alcune contraddizioni, poiché in definitiva
considera
le conoscenze, in generale, delle « invenzioni », non escludendo nemmeno «le figure della
matematica» (FP5/ 2:361) con le quali ha calcolato l’eterno ritorno, a prescindere quindi dal fatto
che in realtà non avrebbe affatto potuto affermare il valore di verità assiomatica della sua dottrina,
egli vuole persino più di questo. Egli vuole dotarla di dignità metafisica. L’anti-metafisico
Nietzsche fa entrare questa verità, per renderla più impressionante, in un teatro metafisico. Si avvale
di idee scientifiche, ma vorrebbe evitare la pura immanenza scientifica. Infatti, è un’immanenza che
fin dal principio amputa ogni questione metafisica. Nietzsche vorrebbe condurre il pensiero fino a
quel punto ove la metafisica tradizionale porta a compimento il passaggio a qualsiasi sorta di
trascendenza con la domanda:
« Cosa si cela dietro il mondo fenomenico? » Anche Nietzsche pone questa domanda. Egli forza
quello stesso teatro dove altrimenti hanno accesso soltanto dio, l’assoluto, lo spirito. Ma, invece di
queste illustrissime figure dell’attribuzione di senso, si possono vedere « complessi di forze » in
costellazioni ricche di figure e in ripetizione ciclica, che su questo teatro del pathos recitano
ovviamente una parte non positivistica, ma metafisica. Infatti, è la curiosità metafisica che mette in
scena l’intera recita. Estratta a forza da questa recita dei significati di un’ultima metafisica,
alla dottrina dell’eterno ritorno di Nietzsche può tuttavia capitare di essere ritenuta triviale. Questo
lo percepì lo stesso Nietzsche, il quale notò come, in ultima analisi, tale dottrina sia adatta solo per i
profeti o per i buffoni.
L’estate dell’ispirazione a Sils-Maria portò forti sentimenti, ma anche insopportabili mal di testa,
crampi addominali e vomiti. Durante il giorno Nietzsche per lo più passeggia anche otto ore, di sera
siede nella piccolissima stube con una finestra dalla quale si vede una parete di roccia sempre
umida. In agosto è così freddo che Nietzsche tiene i guanti anche nella stube. Quell’estate Nietzsche
non ha pianto soltanto di gioia. A Franz Overbeck scrive in latino (la moglie di Overbeck non ne
deve sapere nulla): «Il do-
lore vince la vita e la volontà. Oh, che razza di mesi, che razza d’estate che ho avuto. Ho conosciuto
i supplizi del corpo ogni volta che ho visto cambiare il tempo. In ogni nuvola c’è un qualcosa del
lampo che può colpirmi con imprevedibile violenza e può mandarmi in rovina, me infelice. Già
cinque volte, come se essa fosse un medico, ho chiamato la morte e speravo che la giornata di ieri
fosse l’ultima... lo ho sperato invano. Dov’è sulla terra un cielo di onnipresente serenità, il mio
cielo? Statti bene, amico mio!» (B6,128; 18 settembre 1881; trad. n. 466) Pochi giorni dopo, lo
stesso lamento in una lettera a Peter Gast, con l’osservazione: « Ora riconosco che un cielo che
resti terso per mesi interi è diventato per me un presupposto vitale» (B6,131; 22 settembre 1881).
E' dunque una guarigione a termine, una grande svolta climatica. A Genova ha la fortuna di vivere
un inverno di rara limpidità, mitezza e solarità. Dopo aver portato a termine i primi tre libri della
Gaia scienza, il 29 gennaio 1882 scrive a Peter Gast: «Oh che tempo! Oh questi miracoli del bel
Januarius! » (B6,161) In ricordo a quell’inverno (« il più bello della mia vita ») pone come
epigrafe al quarto libro della Gaia scienza il motto « Sanctus Januarius».
Questo libro, che venne finito nella primavera del 1882 e che inizialmente fu progettato come
prosecuzione di Aurora, doveva illustrare il paesaggio del vivere e del conoscere sotto la luce sorta
per Nietzsche durante l’estate. Scritto con grande slancio, non gravato e oppresso per settimane
intere da dolori fisici, delineato in soleggiate passeggiate nei dintorni di Genova, con dichiarazioni
d’amore alle coste frastagliate, alle rocce, alle ville e ai giardini, agli scorci sul mare. Questa
scenografia, nella quale si mostra la vita che trova la sua riuscita, è onnipresente in questo libro, per
esempio quando scrive: « Questa contrada è disseminata di simulacri di uomini arditi e signori di
sé. Essi hanno vissuto e hanno voluto continuare a vivere -questo mi dicono con le loro case
edificate e abbellite
per i secoli e non per l’ora fuggitiva: si sentivano ben disposti verso la vita, per quanto malvagi
potessero spesso essere stati con se stessi » (GS:208ss.).
Ma questo libro, oltre a essere accordato su una tonalità chiara, ha anche un’idea centrale da cui
tutto prende le mosse? Nietzsche stesso ricorda ripetutamente che nella molteplicità dei suoi
pensieri non si sorvoli però sulle «idee fondamentali creative» (FP8/1:125) e ha
indicato espressamente la sua gioia per l’interna unità della sua produzione aforistica. Nei suoi
scritti si tratta, scrive, « della lunga logica di una sensibilità filosofica molto precisa » e non « di una
confusione di centinaia di arbitrari paradossi e motivi eterodossi» (Lowith). Ma ha sempre qualcosa
di violento tentare di afferrare questa «logica» che rende coerente il tutto e contemporaneamente lo
sviluppa. Nietzsche, del resto, sapeva esattamente perché non la presentava in modo nudo e crudo,
ma si riferiva a essa, come un maestro dell’indiretto, soltanto per allusioni, cenni e rinvìi, per lo più
partendo da riferimenti secondari. Nietzsche ha organizzato i suoi giardini teorici in modo che
chiunque vi entri per cercarvi tesi centrali finisca quasi per forza nel ruolo di zotico. Nietzsche si
nasconde in un labirinto, vorrebbe essere scoperto, ma per vie lunghe e tortuose. E perché non ci si
dovrebbe smarrire nella ricerca? Forse è addirittura la cosa migliore che possa accadere. Allo
Zarathustra di fronte ai suoi discepoli farà dire: mi avete cercato troppo presto, quando non avevate
ancora trovato innanzitutto voi stessi. Nietzsche dunque arrangia il suo libro in modo che, cercando
l ’ idea centrale, ci si imbatta nel migliore dei casi nelle proprie idee. Se poi lo si scopre, Nietzsche,
non è così importante; è più importante scoprire il pensiero. Il proprio pensiero è l’Arianna alla
quale bisogna fare ritorno.
Tuttavia, la dottrina del ritorno non è affatto l’esplicita idea centrale del libro. Nei primi tre libri le è
dedicato soltanto l’aforisma numero 109, che si collega direttamente ad appunti dell’estate 1881 e
in cui si dice: « L’intero con-
gegno sonoro ripete eternamente il suo motivo » (GS:149). Solo nei famosi due ultimi aforismi del
quarto libro si parla espressamente di eterno ritorno e Zarathustra calca la scena per la prima volta
con il titolo Incipit tragoedia. Se dunque l’idea del ritorno non entra direttamente e bruscamente sul
proscenio, è tuttavia presente sullo sfondo.
È il seguente aspetto dell’idea che vi ha la massima importanza: la dottrina dell’eterno ritorno
raffigura un universo come un tutto in sé conchiuso, dominato da una necessità inesorabile. E' essa
che fa appunto diventare l’accadere universale quel «congegno sonoro» (Spielwerk) in cui noi
suoniamo (spielen) e nel quale in realtà veniamo suonati (gespielt werden).
Il primo aforisma già sviluppa quest’idea e per questo è un testo per il quale numerosi altri aforismi
si possono leggere come un commentario. Questo primo aforisma conferisce pure la tonalità del
tutto, ora serena ora denigratoria; infatti, come si fa a non ridere dell’accadere universale che in
verità è un gioco di marionette, il che non s’era ancora notato? È ancora il « tempo della tragedia, il
tempo delle morali e delle religioni » (GS:50), ma in realtà viene recitata la «commedia
dell’esistenza». Alle nostre spalle opera l’«istinto della conservazione della specie», mentre noi ci
poniamo in primo piano obiettivi e scopi e ci crediamo con ciò meravigliosamente sublimi, eroici e
ingegnosi. «Perché quel che sempre, necessariamente, accade, di per se stesso e senza scopo alcuno,
a cominciare da questo momento, appaia fatto in vista di uno scopo e risulti plausibile all’uomo
come ragione e ultimo comandamento -per questo fa la sua comparsa il teorico della morale,
in quanto teorico del fine dell’esistenza» (GS:51).
Se dunque la vita naturale viene ricoperta da un universo immaginario di scopi, questo tuttavia non
modifica nulla della pulsione originaria di conservazione della specie; diventa più delicata e più
sottile, più tortuosa, più indiretta e fantasiosa. Nell’uomo la vita si ingentilisce e si inventano mezzi
e vie per rendersi interessanti. Sarebbe folle vo-
ler ritornare alla nuda natura. L’uomo è piuttosto un animale ricco di inventiva, che promette
qualcosa alla vita per potersi aspettare qualcosa da essa. L’uomo è anche un « fantastico animale »,
che ha appreso alla scuola della sua immaginazione un orgoglio tutto particolare; ora cioè deve
assolvere a una « condizione di esistenza » in più rispetto a ogni altro animale: « Di quando in
quando l’uomo deve ritenere di sapere perché esiste, la sua specie non può prosperare senza una
periodica fiducia nella vita! Senza credere alla ragione nella vita! » (GS:52)
Questa « ragione nella vita » appare più di quel che è. Essa ritiene di essere incondizionata, ma è
soltanto una cosa tra cose. Nel grande « congegno sonoro » essa è una rotellina o una vituzza. Essa
si sente libera e rimane tuttavia attaccata alle dande della natura. Essa si ritiene qualcosa di agente,
ma è invece un semplice effetto. Non fa ridere tutto ciò? ! Ma la ragione, per amore del suo rispetto
di sé, non vuole che si rida di lei e della sua ricchezza inventiva. Quando però Nietzsche intona il
suo riso, allora non è per deridere questa ragione. Il riso nella Gaia scienza non è denunciatorio.
Questo riso vuole far valere la ricchezza inventiva dell’uomo, vuole addirittura goderla, ma non
bisogna dimenticare nemmeno per un istante che qui sono in gioco invenzioni. Per Nietzsche quel
riso non è una denigrazione, ma un alleggerimento.
Egli parla dell’« istinto della conservazione della specie» (GS:51). Tuttavia, il grande problema di
cui Nietzsche non viene a capo e che non lo abbandona, restando perciò presente in sottofondo
nell’intero libro, può essere formulato così: la conoscenza, la volontà di verità è veramente
subordinata alla pulsione di conservazione della specie oppure le si svincola, rivolgendosi anzi
contro la vita? Può la volontà di verità, invece di servire la vita, voler diventare padrona di essa...
anche con la conseguenza della sua stessa distruzione? Può esserci un dualismo fra volontà di
vivere e conservazione della specie, da una parte, e volontà di verità, dall’altra?
Nietzsche pondera la possibilità di un tale dualismo nell'aforisma numero 11. La coscienza, così
spiega dopo lo studio di pertinenti ricerche fisiologiche e biologico-evolutive, è l’ultimo e più tardo
sviluppo dell’organico; è ancora incompleta e impotente. L’uomo come essere vivente non può
assolutamente abbandonarsi alla sua coscienza. Si smarrirebbe ancora più spesso di quello che
comunque già accade, compirebbe degli «errori» (GS:63), se non gli venisse in aiuto l’« insieme
[molto più antico] conservatore degli istinti » come « regolatore ». Non bisogna sopravvalutare la
coscienza, soprattutto non bisogna scordare che essa stessa è da intendersi incompleta, ancora in
evoluzione e in crescita. Provvisoriamente, ci si rapporta alla coscienza in modo che essa sia ancora
insufficientemente in grado di «incarnare in se stessi» l’immensa realtà (il suo flusso ciclico senza
scopo, sostanza e senso). Qui Nietzsche accoglie il concetto dell’assimilazione, a cui dedicò i più
lungi passi negli appunti del 1881. Cosa significa assimilazione? Sappiamo, per esempio, che
viviamo su un pianeta che attraverso la notte siderale gira attorno al sole; sappiamo anche che
riceviamo dal sole tutta la vita e che un giorno o l’altro raffredderà, che l’umanità nel suo
complesso avrà una fine, anche se un’epoca universale che fa ritorno dovrebbe presentare
rinnovellato l’intero teatro della vita. Tutto questo è un sapere della mente, ma non è assimilato.
Vediamo sorgere il sole come sempre, non notiamo che viviamo su un sottosuolo mobile, non
accogliamo la fine e i nuovi inizi nel nostro sentimento della vita. Spalanchiamo intorno a noi un
immaginario orizzonte temporale che non è quello reale, ma che ci permette di rimanere convinti
della propria importanza. Abbiamo di certo un’immagine del mondo copernicana (e attualmente un’
immagine del mondo einsteiniana), ma, per quel che riguarda l’assimilazione, siamo ancora
tolemaici. Dobbiamo capire, scrive Nietzsche, « che fino a oggi si sono incarnati in noi solo i nostri
errori e che tutta la nostra coscienza si riferisce ad errori! » (GS:64)
Presupposta la dinamica della crescita coscienziale come evoluzione contemporaneamente organica
e culturale, Nietzsche si immagina cosa accadrebbe se il sapere crescente della mente cogliesse e
trasformasse davvero l’intero uomo nel corpo e nella vita, nei sensi e nelle emozioni, se dunque
questa ominosa assimilazione si verificasse davvero. Non potrebbe accadere che si giunga al
tramonto della vita nello spirito? Che l’uomo si spezzi sotto il peso della sua consapevolezza? Che
l’animale cosciente si riveli come uno sbaglio evolutivo? Che la consapevolezza sia un’escrescenza
la quale, dunque, non sarebbe mai dovuta comparire?
Nietzsche non presenta questi pensieri qui e in altri luoghi come postulato; sono solo meditazioni a
cui contrappone subito l’altra riflessione per cui la scienza si potrebbe dimostrare di certo come la «
grande apportatrice di dolore », ma contemporaneamente potrebbe mettere in gioco la sua «forza
d’opposizione», «la sua immensa potenzialità di far risplendere alla gioia nuovi mondi di
stelle!» (GS:65) Di quali gioie si tratti, rimane incerto; ma abbiamo già conosciuto il piacere
fenomenologico di Nietzsche per la verità e l’attenzione, e sappiamo quanta gioia sia qui in gioco. E
rammentiamo inoltre che Nietzsche, al Surlej-Felsen, pianse di gioia al pensiero dell’eterno ritorno,
non solo per la felicità dello scopritore, ma a causa dell’effettiva convinzione esistenzial-pragmatica
che anche la vita individuale, ripetendosi, riceva un’immensa importanza, che dunque il pensiero
che si estende nell’ampiezza più ampia (lo chiama «cosmico») si affili nella prossimità più prossima
e conferisca la dignità dell’eterno al sentimento della vita più intimo e individuale. Non c’è
dunque assolutamente nulla di più effimero. Nessuno spazio siderale è abbastanza esteso per
dissolvere il significato del granellino di polvere individuum.
Non posso smarrirmi... può essere un’affermazione gioiosa; ma per designare la sua possibile
spaventosità, basta soltanto riformularla: non mi sbarazzerò mai di me!
Tuttavia, nella Gaia scienza Nietzsche non vuole accordare alla depressione nessun potere su di sé,
lottandovi contro con il suo entusiasmo, in cui si cela molta intenzione e volontà, un entusiasmo che
non lo spinge semplicemente verso l’alto, ma per avere il quale deve anche incoraggiarsi. Allorché,
nell’estate del 1882, il libro esce, scrive a Lou Salomé: « Quanti tormenti di ogni genere,
quanta solitudine e quanta stanchezza di vivere! E contro tutto questo, per così dire contro la morte
e la vita, mi sono preparato questo mio antidoto, questi miei pensieri con sopra la loro piccola,
piccola striscia di cielo sereno» (TL:132; 3 luglio 1882). Nella prefazione redatta in seguito si
afferma retrospettivamente: «La riconoscenza trabocca in ogni momento» (GS:27).
Da dove viene questa gratitudine? La volontà di verità ha per caso scoperto un’immagine
conciliatoria della realtà, che gli comunica la sensazione di essere con ciò arrivato a casa? Sono
svaniti la pavidità, lo smarrimento, l’abbandono ai sensi? La volontà di conoscere si è per
caso slegata all’ultimo momento dal progetto della «disumanizzazione della natura » (FP5/2:379)?
Se ci si comportasse di conseguenza, il dualismo fra vita e conoscenza sarebbe superato e avrebbe
trionfato la pulsione fondamentale della conoscenza, conservatrice di vita, su quelle eccitazioni
ostili alla vita che chiaramente esistono e che potrebbero anch’esse altrettanto connettersi alla
volontà di conoscenza. Anche nei suoi entusiasmi Nietzsche conserva una mente lucida. Bisogna
essere, scrive, anche nella felicità e nell’estasi un certo « interprete » di se stesso, ai « fondatori di
religioni » manca di solito la « onestà », ma egli vuole rimanere un «assetato di ragione» e per
questo vuole «guardare negli occhi le nostre esperienze di vita così severamente come fossero un
esperimento scientifico» (GS:229). E cosa viene in luce in una siffatta analisi?
Gli si mostra la contingenza dei sentimenti. Una conoscenza dipende per esempio dalle circostanze
contingenti del tempo meteorologico e dal suo influsso sulla costitu-
zione fisiologica e simili. In una lettera del 20 gennaio 1883, Nietzsche scriverà retrospettivamente
della Gaia  scienza che quest’opera è «solamente un’esuberante specie di compiacersi per aver
avuto un mese di cielo terso sopra di sé» (B6,318). Può essere stato il tempo meteorologico, ma
possono aver avuto la loro importanza anche altri determinati processi fisiologici; in breve: è
sempre da ultimo il fondamento pulsionale comunque eccitato, o, più esattamente, l’infinita
molteplicità dei fondamenti pulsionali, che dà alle conoscenze le loro motivazioni, l’energia, la
direzione e la sfumatura emotiva, che produce il sentimento che fonda e accompagna, che consente,
differisce o respinge l’assimilazione.
Se in questa maniera resta presente nella conoscenza il fondamento pulsionale della volontà, allora
questo significa: non si possono mai scindere la volontà e la verità. E così, dunque, il possibile
conflitto fra vita e conoscenza non sarebbe altro che un dramma a livello dell’accadere pulsionale.
Negli appunti dell’estate 1881 si dice: «Così anche qui scopriamo una notte e un giorno, come
condizione di vita per noi: voler conoscere e voler sbagliare sono flusso e riflusso. Quando l’uno
domina assolutamente, l’uomo perisce » (FP5/2:368).
A partire da questo appunto non è chiarissimo se ora il voler conoscere sia da comparare al flusso o
al riflusso. Voler conoscere sarebbe da intendere come riflusso, se è uno stare-in-sé, un ritrarsi dalla
tentazione di sommergere la realtà con delle proiezioni. Inteso così, il flusso sarebbe dunque
un’immagine del voler errare. È possibile tuttavia un’altra interpretazione, secondo cui il voler
conoscere sarebbe proprio per questo il flusso, trattandosi di contatto con la realtà. E il voler errare
sarebbe il riflusso, inteso come ripiegamento nel proprio mondo immaginario (anziché come
conoscenza della realtà). Il flusso assalta (come la conoscenza), attacca; il riflusso, il voler errare,
invece, si ritira addirittura pavidamente. Nell’indimenticabile aforisma numero 310 Volontà e onda
nella Gaia scienza,
Nietzsche riprende questa immagine del flusso e del riflusso, in cui la metaforica indecisione fra
voler-conoscere e voler-errare persino si accresce ed è spacciata come « segreto» insolubile. L’onda
scivola cupida «nelle più intime latebre degli anfratti di roccia » e « se ne toma indietro un po’ più
lentamente, ancora tutta bianca di turbamento - è delusa?» E già l’onda successiva fa ricominciare il
gioco dall’inizio. Quando le onde sono curiose e hanno qualcosa da scoprire, allora hanno anche
qualcosa da nascondere, poiché se esse nella loro cupida brama schiumano verso l’alto, poi creano
«un muro tra me e il sole [...] già del mondo non resta niente più che verde crepuscolo e
verdi lampi» (GS:224).
Nietzsche non va oltre questa metafora, in cui voler-conoscere e voler-errare vengono interpretati
come un accadere pulsionale contrastante e da ultimo unitario. Ciò però ha la conseguenza che per
il giudizio di « vero » e « falso » non ci può essere un punto d’osservazione esterno a
questo accadere pulsionale, ma che si possono distinguere soltanto differenti gradi di forza
sopraffatrice, di sensazioni di piacere e dispiacere, di vitalità e di assuefazione. « La forza delle
conoscenze non sta nel loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere assimilate, nel loro
carattere di condizione di vita» (GS:150; trad. mod.).
A partire da questa prospettiva, Nietzsche guarda ancora una volta indietro alla complessa storia
della verità. Se ci sono nuove conoscenze, allora si genera innanzitutto un «vortice». «Verità»
consuete e attive nella vita vengono messe in dubbio. Questo ha poche conseguenze, finché
si rimane a destabilizzazioni e rinnovamenti intellettuali. Ma quando si tratta di conoscenze che
intervengono nel patrimonio di vita e consuetudini di una civiltà, quando si va contro gli aspetti
assimilati del sapere valso finora... allora si genera una lotta per una nuova assimilazione. Così,
può accadere alle nuove conoscenze di essere considerate «follia» (GS: 112) e violentemente
rifiutate perché pongono in questione in maniera eclatante le condizioni di vita
di un’intera civiltà, senza che nella civiltà stessa crescano delle predisposizioni a esse favorévoli,
oppure perché sono già abbastanza forti per poter operare l’assimilazione a partire da se stesse.
L’assimilazione significa quindi che la verità della verità è la sua forza di avverarsi.
Nell’assimilazione si avvera la verità.
Così Nietzsche argomenta contro la concezione, in altre occasioni ugualmente da lui rappresentata,
del dualismo fra conoscenza e vita: il conoscere scaturisce dal fondamento pulsionale e si rafforza
potendosi collegare a fondamenti pulsionali. Ma in ogni caso, afferma Nietzsche, è sbagliato «
negare il potere degli istinti nella conoscenza, e concepire in generale la ragione come attività
pienamente libera scaturita da se stessa» (GS:151).
In effetti, il fondamento pulsionale nella conoscenza è innegabile. Ma ciò non cambia nulla nel fatto
che, per esempio, con questa proposizione sul potere delle pulsioni, si pretenda una validità di verità
indipendente dalle pulsioni stesse. Se la proposizione fosse soltanto espressione di una pulsione,
allora non sarebbe vera; ma se non fosse vera, non sarebbe di conseguenza espressione di una
pulsione, cosa che però afferma la proposizione. Questa proposizione, allora, come ogni altra
proposizione che pretendesse una validità di verità, cadrebbe nell’infondatezza (ins Bodenlose).
Sarebbe assurda. Ci deve essere dunque un criterio di verità che metta in gioco qualcos’altro ancora
che dei fondamenti pulsionali. In questo labirinto di autoreferenzialità, Nietzsche vagherà disperato,
a volte ridente, ironico, ora profeta ora pagliaccio. Alla fine, con il crollo, si è forse aperta per lui
una via d’uscita, allorché potè o dovette sparire dalla camera di specchi del suo pensiero. Ma non
dimentichiamo: in tutta questa confusione intorno alla questione della verità, per Nietzsche ci
fu sempre un criterio di valutazione d’indubitabile evidenza. Per lui i pensieri furono sempre una
questione non solo di rappresentazione (Abbildung), ma anche di (auto)formazione
[(Selbst)bildung]. Su questo palcoscenico interiore, quindi, un pensiero era per lui «vero» quando,
nell’unità di significato e stile, diventava qualcosa che fosse abbastanza forte e vitale per tollerare i
dolori spesso insopportabili e creare loro un contrappeso vitale.
Nietzsche, che del resto meditò anche sul carattere agonistico della vita, conduce questo elemento
agonistico nel cuore del pensiero. L’efficacia simultanea e contraria di spirito e corpo fu per lui la
principale scena agonistica. Qui, ebbe luogo un’altra lotta ancora per la verità, non trattandosi
soltanto del valore di verità di affermazioni. Non si capirà mai Nietzsche se non si ha sempre chiaro
davanti agli occhi che per lui i pensieri erano davvero una
I
realtà spiritual-corporea con un grado di realtà che altrimenti possiedono soltanto i sentimenti
passionali. Come potrebbero non essere « veri » i suoi pensieri (avrebbe detto Nietzsche), se lo
risucchiano, come scrive nella Gaia scienza, in uno straordinario movimento, in un «
continuo salire per le scale e al tempo stesso riposare sulle nubi » (GS:206).
In quel gennaio del 1882, Nietzsche esperì, come raramente in precedenza, il conoscere come un
piacere. Esso è collegato sempre a sentimenti, a eccitazioni, a un accadere pulsionale, quindi. Ma
adesso esperisce le eccitazioni che accompagnano o sostengono il conoscere come la
cosa principale. Questo è il suo entusiasmo. Il conoscere non è una riduzione dell’essere pieno,
nemmeno un danno per esso, ma un accrescimento. E sarebbe un accrescimento anche se si dovesse
mostrare al conoscere il fatto sconcertante, che, per esempio, se fosse vera la dottrina del ritorno,
non ci sarebbe alcuna fuga dal tempo. Nell’entusiasmo per il conoscere, non si lascia nemmeno
scoraggiare dalla consapevolezza «che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei
primordi e l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad
amare, a odiare, a trarre le sue conclusioni » (GS:99). Si sente come risvegliato da un sogno, ma con
la consapevolezza di dover « continuare a sognare [per non] perire: allo stesso modo in cui il
sonnambulo deve continuare a sognare per non piombare a terra». La vita va avanti
nell’«autoderisione» a tal punto da fargli sentire « che qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e danza di
spiriti e niente di più» (GS:99)... e nonostante tutto, in questo gennaio gagliardo, è innamorato della
conoscenza. Quell’aforisma in cui Nietzsche dà apertamente l’interpretazione del titolo del libro
Gaia scienza e che perciò è programmatico, recita: «No! La vita non mi ha disilluso! Di armo in
anno la trovo invece più vera, più desiderabile e più misteriosa - da quel giorno in cui venne a me il
grande liberatore, quel pensiero cioè che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è vólto alla
conoscenza - e non un dovere, non una fatalità, non una frode! - E la conoscenza stessa: può anche
essere per altri qualcosa di diverso, per esempio un giaciglio di riposo o il percorso verso
un giaciglio di riposo, oppure uno svago o un oziare; ma per me essa è un universo di pericoli e di
vittorie, in cui anche i sentimenti eroici hanno la loro arena. La vita come mezzo della conoscenza:
con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente ma perfino gioiosamente vivere e
gioiosamente ridere\ » (GS:230)
Sino alla fine di marzo del 1882 Nietzsche rimane a Genova. È iniziata la primavera, ci sono i primi
caldi giorni quasi estivi. A questo punto Nietzsche si avvia abitualmente verso le regioni più
settentrionali. Ma inaspettatamente parte, quasi senza avvisare, verso Messina, in Sicilia, come
unico passeggero su una nave mercantile. Si è speculato molto su questo. Cercava forse un incontro
imprevisto con Wagner, che aveva fatto di Palermo il suo quartier generale per le ferie? Lo attira la
colonia omosessuale di Messina, al cui centro v’era Wilhelm von Gloeden, allora famoso per le sue
fotografie di giovani nudi in ambienti antichizzanti? Ipotizzano questo coloro che interpretano
Nietzsche a partire dalla sua omosessualità non vissuta. Non si sa nulla di certo. Di sicuro il sud è
collegato per Nietzsche all’idea di liberazione dei sensi e di scioltezza. Egli continuò a sognare
volentieri l’« isola dei beati» e nello Zarathustra spedisce la «nostalgia dal volo tempestoso » verso
« meridioni più ardenti di quanti siano mai stati sognati dagli artisti: laggiù, dove gli dèi danzano e
si vergognano delle vesti » (Z:232). L’affascinante esperienza della Carmen di Bizet, che Nietzsche
vide e ascoltò per la prima volta a Genova alla fine di novembre del 1881, mise le ali alle sue
fantasie meridionaleggianti. E quando in seguito tornò a parlare della Carmen nel suo lavoro
preparatorio per la grande resa dei conti con Wagner, questo lascivo sud, quello immaginario e forse
quello vissuto, echeggia nuovamente: « La felicità africana, la serenità fatalistica, con occhi che
guardano in modo affascinante, profondo e spaventevole; la melanconia lasciva di una danza
moresca; la passione che luccica, affilata e fulminea come un pugnale; e odori che salgono dal
giallo pomeriggio del mare, di cui il cuore sbigottisce, come se ricordasse isole dimenticate, dove
esso indugiò un tempo, dove sarebbe dovuto rimanere per sempre... » (FP8/2:236)
Pochi giorni dopo il suo arrivo sull’isola, Nietzsche scrive a Peter Gast: « Ecco, sono approdato al
mio ’margine della terra’, dove, secondo Omero, dovrebbe esser di casa la felicità. In verità, non
sono mai stato meglio della scorsa settimana e i miei nuovi concittadini mi viziano e corrompono
nella maniera più amorevole» (B6,189; 8 aprile 1882).
Per quattro settimane si fa viziare, poi lo porta via lo scirocco. Lo porta a Roma, dove inizia la
storia con Lou Salomé. Essa fu più brutta e sconvolgente di uno scirocco, dirà Nietzsche dopo che
tutto fu superato (B6,323; 1° febbraio 1883).
12. Omosessualità. Il Dioniso sessuale. La storia con Lou Salomé. Zarathustra come
baluardo. Umano e oltre-umano. Il fraintendimento darwinistico. Fantasie di distruzione.
« Come mi sono venuti a noia i gesti
e i discorsi tragici. »
QUANDO Nietzsche appone al quarto libro della Gaia scienza l’epigrafe Sanctus Januarius, ciò è di
certo una dichiarazione d’amore per questo mese gagliardo del 1882 a Genova, ma è altresì una
dedica a un santo, il martire Sanctus Januarius. A Napoli, dove è particolarmente venerato con molte
immagini e statue che Nietzsche conobbe nel 1876, è chiamato san Gennaro. Questo martire fu
un uomo con alcune qualità femminili. Fu di una delicata bellezza e soffrì di periodici
sanguinamenti. Nell’immaginazione, il sangue del suo martirio è mescolato con il mestruo. Fu
contemporaneamente uomo e donna ed è potuto così diventare il santo degli androgini. Nella
cappella sotterranea della chiesa principale di Napoli a lui intitolata, venne allora conservata la testa
del martire decapitato, assieme a due flaconcini del suo sangue, ritenuto miracoloso. A questo
femminiello, a Napoli lo si chiama anche così, si rivolge la poesia con cui comincia il quarto libro
della Gaia scienza: «Tu che con lancia di fuoco / frangi il gelo dell’anima mia, / sì che scrosciando
al mare si precipita / della più alta tra sue speranze: / così sempre più chiara e più fresca, / libera, in
questa necessità più colma d’amore, / essa celebra le tue meraviglie, / bellissimo
Januarius!» (GS:198) Nietzsche raccomandò vivamente al suo amico Gersdorff la lettura di questo
libro dedicato al martire androgino, dicendo che i suoi libri raccontavano « tanto di me, quanto non
potrebbero centinaia di lettere d’amicizia.
In questo senso leggi soprattutto il Sanctus Januarius» (6,248; fine agosto 1882). Molti interpreti
hanno inteso ciò come ammissione indiretta della sua inclinazione omosessuale. Ma cosa si crede di
capire se si intende così Nietzsche? Con questo, alcuni credono di possedere una chiave per il
problema della sua vita e dell’intera sua opera.
C’è un intrico di congetture. Il fanciullo cresce orfano di padre, circondato di donne. Si sono voluti
scoprire nei primi anni accenni di amore per la sorella. Il piccolo « Fritz » non avrà per caso portato
addirittura a letto Elisabeth, venendo poi torturato da cattiva coscienza? Si continua a seguire la
traccia dei segreti sessuali nel periodo di Schulpforta. Qui c’è la storia con il poeta vagabondo e
trascurato Ernst Ortleb, famoso e famigerato nei dintorni di Naumburg. Gli studenti divinizzavano
questo genio fallito, che girovagava per i boschi, quasi sempre ubriaco, e che nei giorni d’estate
recitava le sue poesie e cantava sotto le finestre delle aule. Qualcosa di inquietante emanava da lui,
era famigerato per i suoi attacchi blasfemi contro il cristianesimo e disturbava la messa con forti
grida. Famosa era la sua poesia II padrenostro del XIX secolo, che terminava con i versi: « La
religione di tempi vetusti / disprezza il figlio di novelli giorni augusti / e sogghigna l’intero creato: /
’Che il tuo nome non sia santificato’ » (Schulte 33). Nell’album poetico nietzscheano del periodo di
Pforta si trovano alcune poesie che provengono dalla mano di Ortleb. Si sospettava Ortleb, questo
individuo emarginato, di inclinazioni pederastiche. All’inizio di luglio del 1864 lo si ritrovò morto
in un fosso. Nietzsche e i suoi amici fecero una colletta per pagare la sua lapide.
Nella poesia Davanti al crocefisso il diciottenne Nietzsche ha ritratto quest’uomo inquietante come
un ebbro empio, che grida al Cristo crocefisso: «Vieni giù! Sei forse sordo? / Eccoti la mia bottiglia!
» (SG 1:289) Secondo la ricostruzione biografica di H.J. Schmidt, Ortleb potrebbe essere stato il
primo seduttore dionisiaco nella vita di Nietzsche e forse non soltanto nel mondo
dell’immaginazione, ma anche in quello della sessualità. Nietzsche, contemporaneamente
traumatizzato ed estasiato, così ipotizzano alcuni, non si sarebbe mai svincolato da questa
prima violenza di un Dioniso in carne e ossa, e questo evento sarebbe il vero scenario originario
dell’esperienza dionisiaca, a cui in seguito Nietzsche avrebbe rinviato soltanto con osservazioni
sussurrate, torturato dai sensi di colpa, un po’ come quando chiarisce (appunto) in Ecce
homo: «L’assoluta certezza su che cosa io sono si proiettò su una qualche realtà casuale - la verità
su me stesso parlò da una tremenda profondità» (EH:73).
Se la presunta scena originaria della seduzione sessuale (e forse persino della violenza) da parte di
Ortleb e le inclinazioni omosessuali destate (o rafforzate) da essa abbiano portato in questa «
tremenda profondità », allora si scoprirà ovunque, nell’opera, il ritorno di
quest’esperienza... mascherata da immagini e ricordi di copertura. Ma con ciò si ridurrà l’immensità
della vita, che il pensiero di Nietzsche esige, alla storia segreta della sua sessualità, rendendola il
luogo privilegiato per l’accadere della verità. La sessualità vale come verità della persona. Questa è
forse, in relazione alla verità, la finzione più evidente del XX secolo, ma sorse già nel XIX secolo.
Nietzsche ha sofferto per la crudezza e l’aggressività nascosta di una tale volontà di verità che
decifra la persona a partire dalla sua storia sessuale. Anch’egli ha indagato l’accadere pulsionale,
ma in esso vi ha scoperto una varietà infinita; in tale questione, egli fu politeista e non indulgeva al
monoteismo privo di fantasia dei deterministi sessuali. Inizialmente, fu proprio Richard Wagner a
gravarlo e poi a offenderlo «mortalmente» con una siffatta psicologia sessuale del sospetto.
Wagner consigliò a Nietzsche, all’inizio degli anni ’70, dapprima cautamente e ancora con molta
cordialità, come mezzo contro la melanconia e l’offuscamento, di non badare alle amicizie troppo
intime con gli uomini a spese delle donne. «Tra l’altro», scrive Wagner il 6 aprile
1874 a Nietzsche, «ho scoperto che in vita mia non sono mai stato tanto con degli uomini come Ella
fa a Basilea, la sera [...] A quanto pare a questi giovani mancano delle donne; certo si potrebbe dire
[...] dove prendere senza rubare? Tuttavia, alle strette, si potrebbe anche rubare. Intendevo dire che
Ella dovrebbe sposarsi» (N/W: 103).
Non solo i Wagner cercano una moglie per Nietzsche. Anche la madre e poi soprattutto Malwida
von Meysenbug si danno tutta la pena possibile e immaginabile per maritare Nietzsche, e non
sempre ciò gli risulta inopportuno. Talvolta addirittura implora che lo si aiuti nella ricerca di una
donna. Ma sullo sfondo delle pagine di Wagner vengono intessuti altri fili e avanzate altre ipotesi.
Nietzsche lo ha però sperimentato solo in seguito, con certezza, poco dopo la morte di Wagner nella
primavera del 1883. Ma già prima girava la voce di un uomo effeminato e di un onanista cronico, e
può ben darsi che Nietzsche ne sia venuto a conoscenza già in quell’orribile e a un tempo
commovente estate di Tautenburg del 1882 con Lou Salomé.
Il 13 marzo 1882, Paul Rèe lasciò Genova, dove porse visita a Nietzsche, per raggiungere Roma e lì
conobbe, in casa di Malwida von Meysenbug, la ventenne Lou Salomé, figlia molto dotata di un
generale russo di origine ugonotta; lasciò la Russia con la madre dopo la morte del padre nel 1880
per studiare a Zurigo. La giovane donna era gravemente ammalata ai polmoni, i medici le davano
ancora pochi mesi di vita e per questo si dedicò tanto più intensamente al suo studio della filosofia e
della storia della religione e della civiltà. Impressionava per la sua passione intellettuale
prematuramente fiorita, per la sua curiosità e la sua energia vitale. Nell’autunno del 1881 compose
a Zurigo la poesia Preghiera alla vita, da cui Nietzsche fu addirittura estasiato e che egli musicò
con il titolo di Inno alla vita e nel 1887, molto tempo dopo la rottura, lasciò trasporre da Peter Gast
per coro e orchestra... l’unica delle sue composizioni che volle avere stampata. I versi che
gli riuscivano più graditi recitavano: «Certo, così l’amico ama l’amico / come io ti amo, vita
d’enigmi... / [...] essere millenni! Pensarli! / Stringimi fra le braccia: / non hai più alcuna felicità da
donarmi... / Ebbene, hai ancora la tua pena» (Lou Andreas-Salomé 301).
Lou interruppe alla fine del 1881 il suo studio a Zurigo, perché non sopportava il clima del luogo. I
medici le consigliarono una cura al sud. Così giunse con la madre a Roma. Lì, in casa della
Meysenbug, ella divenne ben presto il centro del lieto cenacolo, e Paul Rèe, quando arrivò, si
innamorò immediatamente dell’intelligente russa. Intere notti passeggiarono entrambi per Roma,
sprofondati in dialoghi che non volevano finire. Rèe presentò alla giovane donna le idee del suo
libro di filosofia morale, al quale stava lavorando. Rèe, come scrisse a Nietzsche, non aveva ancora
fatto esperienza d’una tale compagna di discussione, che afferrava i pensieri prima ancora che
venissero formulati sino in fondo. Fu un’ebbrezza, a cui si augurava che Nietzsche partecipasse. Il
legame maschile, tuttavia, non doveva venirne pregiudicato. Invitò l’amico a Roma. Anche
Malwida von Meysenbug mandò un invito; anch’essa era impressionata dalla giovane russa e
credeva che Nietzsche dovesse assolutamente conoscerla: «Una fanciulla molto singolare [...] mi
sembra sia giunta nel pensiero filosofico all’incirca agli stessi risultati cui è giunto Lei [...] Rèe e io
desideriamo in pari misura di vederLa un giorno insieme con questa persona straordinaria» (Janz
2,107ss.).
L’invito a Roma, i resoconti su Lou rendono Nietzsche curioso e stimolano nuovamente i suoi
progetti matrimoniali. Si augura una compagna di vita che, così come ha fatto la sorella per un
periodo, governi la casa, sbrighi il lavoro di segretaria e che magari, diversamente dalla sorella,
possa essere una compagna di discussione intellettuale con gli stessi diritti. In tali faccende,
Nietzsche può talvolta decidere fulmineamente. Ciò si è visto, per esempio, nell’aprile del 1876,
quando a Mathilde Trampedach, come in un assalto, avanzò una proposta di matrimonio
dopo che si erano visti solo tre volte in pubblico. La donna rifiutò inorridita e Nietzsche arretrò
nuovamente, come se non fosse accaduto nulla. Nessuna traccia di un innamoramento e di un
grande sentimento. Così, anche nel marzo del 1882, ricompare d’un tratto, con le notizie da
Roma, l’idea di matrimonio.
In una lettera a Overbeck del 17 marzo 1882, si lamenta innanzitutto della sua macchina per
scrivere difettosa, quindi dei suoi pessimi occhi e poi, dopo l’osservazione che potrebbe utilizzare
molto bene una «macchina per la lettura », prosegue: « Ho bisogno di una giovine vicino a me, che
sia abbastanza intelligente e ammodo per riuscire a lavorare con me. Per questo scopo, arriverei
persino a un matrimonio biennale... per il quale, ovviamente, sarebbero da prendere in
considerazione un altro paio di condizioni » (B6,180). Il 21 marzo, in una lettera a Paul Rèe, si parla
del medesimo augurio, ma in tono ironicamente e leggermente rotto e urgente: « Saluti da parte mia
questa russa, se tutto ciò può avere un senso: sono avido di tali specie di anime. Anzi, tra poco ne
andrò a caccia - mi servono per ciò che intendo fare nei prossimi 10 anni. Un capitolo
completamente a parte è quello del matrimonio - al massimo potrei consentire a un matrimonio di
due anni » (TL:83). Per prima cosa, tuttavia, Nietzsche non va a Roma, ma a Messina. Da Paul Rèe
apprende che questo viaggio ha fatto aumentare la sua importanza agli occhi della russa, quasi come
se si fosse trattato di una ben riuscita messa in scena. « Con la Sua decisione [il viaggio a Messina]
», scrive Rèe, « Lei ha provocato il massimo stupore e dispiacere della giovane russa. Questa è
ormai così desiderosa di vederLa, di parlarLe» (TL:88).
Così inizia questa relazione, ancor prima che essa fosse realmente iniziata. Alla fine di aprile si
arriva al primo incontro, nella basilica di San Pietro a Roma. La prima frase di Nietzsche: «
Cadendo da quali stelle siamo stati condotti l’uno incontro all’altro? » (Janz 2,109) In fretta come
sei anni prima con Mathilde Trampedach, fa a Lou, pochi
giorni dopo, la prima proposta di matrimonio. La storia è assai complessa perché egli elegge come
concorrente l’amico Paul Rèe, il quale infatti ha ambizioni proprie. Lou rifiuta, presentando
motivazioni economiche, ma tanto più passionalmente coglie il progetto di formare una sorta
di circolo a tre di studio e lavoro, di procurarsi un appartamento comune, magari a Vienna o a
Parigi; per motivi di decoro, potrebbe starci anche la madre di Lou o quella di Rèe, oppure la sorella
di Nietzsche. A questo progetto, dopo la proposta di matrimonio rifiutata, comincia a provarci gusto
pure Nietzsche, che poi vi si atterrà per tutto un anno. Una tale triplice alleanza era decisamente
nello stile di Lou, che, come scrive nei suoi ricordi biografici, sognava un « confortevole studio
pieno di fiori e di libri, affiancato da due camere da letto, mentre tra noi andavano e venivano dei
compagni di studi, stretti in una cerchia grave e serena» (Janz 2,111). Nietzsche poteva anche
immaginarsi una siffatta comunità di lavoro retta da forti sentimenti, perché aveva deciso, dopo la
sua esperienza del Surlej-Felsen, di consolidare la dottrina dell’eterno ritorno mediante un accurato
studio scientifico.
Durante il viaggio di ritorno in Germania, all’inizio di maggio, ci fu un incontro al lago d’Orta,
nell’alta Italia; finalmente Nietzsche trovò l’occasione per una passeggiata da solo con Lou. Il
sentiero portava al Sacro Monte e Nietzsche lo ricorderà più tardi come un evento sacro, colmo di
speranze che mai si avverarono, colmo di promesse che non furono mantenute. Quello che accadde
sul Sacro Monte non lo sappiamo. Nietzsche non si è espresso in merito e Lou soltanto di rado; a un
amico disse ella in seguito: « Se baciai Nietzsche sul Sacro Monte... non lo so più» (Peters 106). In
ogni caso, Nietzsche si sentì incoraggiato ad avanzare al successivo incontro, a Lucerna, la seconda
proposta matrimoniale, stavolta però senza concorrente. Lou rifiutò di nuovo, lei che si sentiva
contemporaneamente attratta e respinta da Nietzsche. Attraenti erano per essa le avventure del
pensiero, nelle quali egli la coinvolgeva. Repulsione esercitavano invece su di lei il pathos, la
rigidità e la formalità, in rapporto all’attitudine da spirito libero. Percepì tutto questo come un
civettare con un’empietà che egli non possedeva affatto. Tuttavia, Nietzsche agì in maniera
abbastanza seducente da far ingelosire Rèe, che da Lou volle sapere esattamente cosa fosse
successo sul Sacro Monte e che preparò Lou alla successiva proposta matrimoniale di Nietzsche, in
modo non solo scherzoso ma anche inquieto.
Dopo il rifiuto della seconda proposta matrimoniale, Nietzsche punta tutte le sue speranze sulla
realizzazione del progetto della triplice alleanza. Nel frattempo, a Nietzsche non può rimanere
nascosto che in effetti, nonostante la triplice, sta concorrendo con l’amico per Lou. Pertanto deve
essere enfatizzata in maniera particolarmente ferma la prosecuzione dell’amicizia: «Non si può
essere più meravigliosamente amici di quanto lo siamo noi adesso», scrive il 24 maggio 1882 a Paul
Rèe, e in una lettera dello stesso giorno dice a Lou: « Rèe è per ogni aspetto un amico migliore di
quanto sono e posso esserlo io; tenga ben conto di questa differenza! » (TL:99) Erano stati
insieme soltanto poche giornate e poche ore, e Nietzsche già si augurava una convivenza più
duratura con Lou da sola. Forse, così facendo sarebbe ancora riuscito a ottenerla tutta per sé. Ma
egli conosce in generale i propri desideri? Di fronte a Peter Gast spiega chiaramente che «l’idea
di un’amicizia amorosa» (TL:134; 13 luglio 1882) non avrebbe avuto spazio in questa faccenda. E
in un abbozzo di lettera a Malwida von Meysenbug definisce la relazione come una « stretta
amicizia ». Chiama Lou un’« anima veramente eroica» ed esprime il desiderio di trovare in lei «una
discepola e, se la mia vita non dovesse protrarsi ancora a lungo, un’erede e una continuatrice del
mio pensiero» (TL: 135; 13 luglio 1882). In questo senso, Nietzsche si è espresso anche di fronte
alla stessa Lou. Doveva dissipare la sua sfiducia, essa non doveva pensare che la voleva soltanto
come segretaria, e perciò scrive: « Finora non
ho mai pensato che Lei dovesse farmi ’ da lettore e da scrivano’; ma mi piacerebbe molto poter
essere il Suo maestro. Infine, per dire tutta la verità: in questo momento vado cercando persone che
possano raccogliere la mia eredità; io porto dentro di me diverse cose che non si possono
assolutamente leggere nei miei libri - e per queste sto cercando il terreno migliore e più fertile »
(TL: 130; 26 giugno
1882) . Lou non doveva per forza leggerla come una dichiarazione d’amore, anche perché, in
generale, le lettere di Nietzsche a Lou non sono nemmeno eccessivamente erotiche. Ma in essa vi
sono frasi che potevano rivelare a Lou un terremoto sotterraneo. « Dovevo tacere », le scrive il 27
giugno 1882, «perché ogni volta il parlare di Lei mi avrebbe sconvolto» (TL:131).
E poi l’estate in Turingia, a Tautenburg. Lou diede seguito all’invito di Nietzsche. In precedenza,
visitò il festival di Bayreuth, si intrattenne in casa Wagner, conobbe la sorella di Nietzsche.
Elisabeth fu testimone invidiosa del suo successo mondano nei salotti e ai ricevimenti. In
tale occasione, non si parlò bene di Nietzsche l’apostata ed Elisabeth trovò che questa giovane russa
avrebbe dovuto difendere energicamente Friedrich. Ma non lo fece, tradendolo e partecipando
invece alle diffamazioni... Cosi in ogni caso visse Elisabeth la vicenda, ma soprattutto: così la
riportò in seguito al fratello.
In occasione del viaggio comune a Tautenburg si giunse a una violenta lite fra Elisabeth e Lou, e da
quel momento in avanti la prima divenne una nemica in cerca di vendetta. Affermerà poi che Lou,
rivolgendo delle rimostranze morali, definì Nietzsche un impostore che tramava, sotto il manto
dell’amicizia spirituale, per un selvaggio matrimonio e che era un egoista e in generale la sua opera
mostrerebbe tracce di follia. Ciò che allora Lou disse per davvero non lo sappiamo; ma la sorella lo
raccontò così a Nietzsche, che in seguito, come scrisse più tardi in una lettera, fu portato da ciò
vicino a quella «follia» (TL:331; 26 agosto
1883) .
Nonostante i sentimenti ostili, Elisabeth trascorre le settimane insieme con Lou e Nietzsche a
Tautenburg... ma entrambi non badano quasi a lei, che viene esclusa dalle intense conversazioni.
Poiché nel frattempo Rèe guarda con gelosia alla relazione fra i due, Lou tiene un diario di queste
settimane nella forma di epistole a Rèe. Esse danno spiegazioni abbastanza precise sull’idillio di
Tautenburg. Già poche ore dopo l’arrivo, così racconta, si sono abbandonate le «piccole ciance» e si
è ritrovata l’antica familiarità. Si affittarono appartamenti separati, Nietzsche andava a prendere
Lou al mattino per lunghe passeggiate e discussioni senza fine. «In queste 3 settimane», scrive Lou,
« ci stiamo letteralmente uccidendo a furia di conversare [...] E' strano come nei nostri colloqui
involontariamente finiamo in quegli abissi, in quei luoghi di vertigine dove qualche volta ci siamo
arrampicati da soli per guardare nel baratro. Abbiamo sempre scelto i sentieri dei camosci, e se
qualcuno ci avesse ascoltati, ci avrebbe creduti due demoni che conversavano tra loro » (TL: 160).
Di che cosa conversano? Non dei loro sentimenti reciproci; soltanto una volta Nietzsche sussurra
piano: « Sacro Monte... per il sogno più estasiante della mia vita, Vi ringrazio» (Peters 133).
Soprattutto parlano della morte di dio e del desiderio religioso. « Il fondamento religioso della
nostra natura è ciò che ci accomuna », scrive Lou, « e che forse si esprime così fortemente in noi
perché siamo spiriti liberi nel senso più estremo della parola. Nello spirito libero il sentimento
religioso non può riferirsi, al di fuori di sé, a nessun dio e a nessun cielo nei quali possano appagarsi
le forze costitutive della religiosità come la debolezza, la paura, l’avidità. Nello spirito libero,
l’esigenza di religiosità nata dalle religioni [...] può trasformarsi, quasi ripiegandosi su se stessa,
nella forza eroica del proprio essere, nella spinta a dedicarsi a un grande fine». Il carattere di
Nietzsche mostra questi tratti in maniera particolarmente vistosa. E per questo si farà ancora in
tempo a vederlo « apparire come nunzio di una nuova religione, e questa sarà tale da reclutare eroi
tra i suoi discepoli» (TL:160). Questo scrive Lou, acuta osservatrice, sei mesi prima che Nietzsche
intraprendesse davvero il tentativo di annunciare una sorta di religione.
Furono settimane felici e intense a Tautenburg, ma ci furono anche momenti in cui Lou percepiva
l’estraneità, l’inquietudine che emanavano da Nietzsche: « E in qualche profondo recesso del nostro
essere », scrive ella, « ci dividono distanze siderali. - Nietzsche nasconde in se stesso, come un
vecchia rocca, alcune oscure segrete, sotterranei nascosti che non risultano ad una conoscenza
superficiale, ma che pure possono contenere la sua più vera essenza. È strano, ultimamente sono
stata colpita con improvvisa violenza dal pensiero che forse un giorno potremmo addirittura
fronteggiarci come nemici» (TL:160). E così accadde. Nietzsche non volle considerare che Lou non
lo amava così come si era forse augurato; egli confuse l’intensità che regnava fra loro e la speciale
felicità che Lou provava nelle discussioni con lui, con la gioia dell’amore, che qui tuttavia per Lou
non contava. Egli non poteva rimproverarle nulla, perché l’amore non si lascia indurre e
costringere, e se a tal proposito ci si inganna, poi non va tratta la conclusione che si è stati ingannati.
Lou non gli aveva fatto intendere niente. In seguito, essa formulò in modo abbastanza chiaro il
malinteso e il contrasto drammatici che regnarono tra loro. Nel suo libro In lotta per dio, scritto
tre anni dopo, afferma: «Nessuna via conduce dalla passione sensibile all’affinità spirituale con
l’essenza... ma molte vie da questa a quella» (Peters 157).
In Nietzsche, a partire dall’«affinità con l’essenza», si è chiaramente sviluppata un’accentuata
passione sensibile a cui Lou non poteva assolutamente rispondere. E anche per Nietzsche l’aspetto
sensibile contava in maniera molto ambivalente, poiché egli, dopo la rottura, sfoga tutta la nausea
fisica che di certo provava di fronte a Lou, quando in una lettera non spedita al fratello di Paul Rèe
scrive su di lei: « Quella scimmia rinsecchita, sporca e puzzona, con le sue tette finte - una sciagura!
» (TL:307; metà luglio 1883; trad. mod.)
Retrospettivamente, l’intera storia appare ai suoi occhi come un’«allucinazione» (B6,374; 10
maggio 1883) architettata come segue: a quel tempo, era diventato chiaramente un solitario;
disabituato alla compagnia degli altri, non si intendeva più con loro. È consegnato a essi indifeso:
«La mia anima mancava per così dire della scorza e di ogni difesa naturale» (TL:325; 14 agosto
1883). In tal modo non ha visto il gioco che è stato giocato con lui. È stato attirato a Roma per
conoscere Lou. Può darsi che Malwida e Rèe avessero buone intenzioni; volevano forse procurargli
davvero solo un’interessante compagna di discussioni? L’amico Rèe non gli rivelò i propri
sentimenti per Lou e con ciò lo illuse. E Nietzsche non notò nulla di tutto ciò, perché le sue
conoscenze pratiche degli uomini erano scarse. Poi diede ascolto alla proposta della triplice
alleanza, non notando (per rendersene conto più tardi) che con essa lo si voleva soltanto tenere a
bada. A Tautenburg, Lou e Rèe tennero in vita ancora un po’ il progetto, ma solo per farlo
addormentare tranquillo. Mentre Nietzsche si stava ancora reggendo all’idea della triplice alleanza,
Lou e Rèe avrebbero già attuato il proposito di abitare insieme a Berlino. E poi, le terribili calunnie
che apprese dalla sorella, alle quali dava tanta più fiducia quanto più a lungo si sentiva tenuto sulla
corda da Lou e Rèe. Questa triplice calunnia (di essere un egoista, di perseguire intenzioni sessuali
sotto un mantello idealistico e che la sua opera fosse quella di un mezzo matto [TL:307; metà luglio
1883]) gli bruciava dentro. Ne uscirà solo con molta difficoltà.
Effettivamente, gli mancava una difesa immunitaria, gli mancava la « difesa naturale », lo svago
mediante relazioni abituali con altri esseri umani. Il solitario viene tormentato dalle proprie fantasie;
quando Nietzsche conoscerà in seguito La tentazione di sant ’Antonio di Flaubert, vi riconoscerà
cosa significa essere sopraffatti dalle proprie tormentose fantasie. Ma Nietzsche lotta per la volontà
di potenza su se stesso, volge il sospetto contro i suoi stessi sospetti e così riesce d’un tratto a
vedere anche l’intero tumulto sotto un’altra luce. Così Lou, come, scrive il 14 agosto 1883, gli
appare nuovamente come «una natura di prim’ordine, che è eterna disgrazia vedere così sciupata
[...] A me ella manca, perfino con i suoi difetti » (TL:325).
Quali siano i suoi presunti « difetti » non viene da lui mai affermato del tutto chiaramente. Si viene
rinviati a ipotesi. Egli per lei ha dischiuso la sua esistenza spirituale come per nessun altro in
precedenza. Fra di loro, così come egli intese la vicenda, v’era una comprensione profonda, senza
pari. Essa toccava il nucleo dei suoi « talenti » e dei suoi « fini » (TL:200; 9 settembre 1882). Da lei
si sentiva compreso quasi perfettamente: « Certe grandi prospettive sull’orizzonte spirituale e
morale sono le mie più potenti fonti di vita, e sono così contento che proprio in questo terreno abbia
messo radici e speranze la nostra amicizia » (TL: 120; 12 giugno 1882). Si è persino « troppo simili,
’parenti di sangue’» (TL:157; 14 agosto 1882), con la conclusione che «ogni ingiuria che la
toccherà», scrive egli alla sorella difendendo Lou, «dovrà prima toccare me» (TL:200; 9 settembre
1882). Ma, con ciò, la camera degli specchi è completa, poiché se egli dopo la separazione diffama
Lou, colpisce effettivamente se stesso. Ma di nuovo: cosa le rimprovera? Di averlo capito così bene
e perciò di non poterle fare alcun rimprovero? No, ma di averlo capito così in profondità e di aver
poi semplicemente proseguito, con la sua curiosità sbrigliata, verso altri uomini, di essere andata da
altri e non essere rimasta in suo potere, di averlo di nuovo abbandonato e lasciato dietro di sé come
una stazione del suo tragitto formativo... questa è per Nietzsche un’idea insopportabile. Non gli era
possibile spiegare davanti a Lou: sei stata invitata alla mensa di un altro re... Nietzsche non mostrò
la sovrana tranquillità di Zarathustra, che invita i suoi allievi ad andarsene e ad abbandonarlo dopo
che lo avevano trovato.
Precisamente il fatto che Lou lo abbia lasciato e se ne
sia andata per le sue strade lo ha profondamente ferito. Si è sentito usato, sfruttato. Un’allieva gli fa
capire che lo capisce per poi cercarsi altri maestri. Nietzsche percepì tutto ciò come un’offesa. Le si
abbandonò e venne poi da essa abbandonato. Adesso, nell’inverno del 1882-83, si sente rigettato su
se stesso come mai prima. Nel luglio 1882 scrive a Franz Overbeck: «Ora mi trovo
completamente solo davanti alla mia missione [...] Ho bisogno di un baluardo contro ciò che è più
insostenibile » (TL:242). Due settimane dopo arrivano quei dieci giorni nei quali, come in estasi,
scrive la prima parte dello Zarathustra. Non c’è alcun dubbio: quest’opera fu per lui l’ominoso
«baluardo contro ciò che è più insostenibile ».
Il lavoro allo Zarathustra (non è proprio un lavoro, bensì un gioco estatico) mette Nietzsche in uno
stato assolutamente eccezionale, sollevato al di sopra del parapiglia e delle burrasche degli uomini,
nella limpida atmosfera di messaggi sublimi. «Mi sento», scrive il 10 febbraio 1883 a Franz
Overbeck, «come dopo il balenio di un fulmine - per un breve attimo sono stato del tutto nel mio
elemento e nella mia luce. Ed ora tutto è passato » (TL:270).
Le prime scene dello Zarathustra mostrano inequivocabili tracce delle ferite e delle disperazioni di
queste settimane; infatti, all’inizio, si descrive come Zarathustra abbandoni la felicità del solitario
essere con se stessi e vada fra gli uomini, dove viene anzitutto schernito. Zarathustra, così si dice
nel prologo, lasciò la sua casa e si ritrasse per dieci anni sui monti: « Qui godette del suo spirito »
(Z:3) fino alla dovizia, fino all’autentico traboccare: « il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol
tornare uomo », comunicando agli uomini la sua ricchezza: « Così cominciò il tramonto di
Zarathustra » (Z:3). Che questo pathos potesse anche avere uno strano effetto, Nietzsche lo
dovette apprendere presto. Quando, nella tarda estate del 1882, parte precipitosamente, in lite con la
madre e la sorella a
causa di Lou, la sorella osserva in modo malvagio: « Così cominciò il tramonto di Zarathustra! »
(B6,256) Ella conosceva la frase dalla Gaia scienza del 1882, dove Nietzsche, al termine del quarto
libro, fa entrare in scena per la prima volta Zarathustra.
Il tramonto di Zarathustra si ha quando egli discende fra gli uomini, e così dovette esperire lo stesso
Nietzsche le sue complesse vicende durante quell’anno 1882. Guardando indietro a quell’estate, e
dopo aver portato a termine il primo Zarathustra, scrive a Overbeck: « La mia esclusiva convivenza
con immagini e fatti ideali mi ha reso talmente irritabile che nel rapporto con l’odierna umanità
accuso incredibili sofferenze e privazioni » (TL:276; 22 febbraio 1883).
Il primo messaggio che Nietzsche fa annunciare al suo Zarathustra è la dottrina del « superuomo ».
Zarathustra la presenta nella condizione sfavorevole e nel posto sbagliato. Gli uomini sono raccolti
nella piazza del mercato per ammirare le acrobazie di un funambolo. Ci si vuole divertire e si gode
il solletico del pericolo al quale si espone il funambolo. Zarathustra parla a questo pubblico avido
di sensazione come se si trattasse di una comunità affamata di metafisica che si debba soltanto
indurre ai godimenti terreni. «Rimanete fedeli alla terra», grida Zarathustra ai curiosi, « e non
credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! » (Z:6) Ma come Zarathustra potè
avere anche soltanto l’impressione di avere a che fare con gente a cui si dovessero sconsigliare
«sovraterrene speranze»? Niente sembra qui meno necessario di questo! Zarathustra arriva con un
messaggio, ma non conosce quella gente e perciò il pathos suona in modo così falso. Nietzsche
ha messo in scena intenzionalmente la discrepanza, poiché Zarathustra alla fine (del prologo)
impara che deve iniziare la sua opera missionaria in modo diverso: « Una nuova luce è sorta al mio
orizzonte: non al popolo parli Zarathustra, ma ai suoi compagni! » (Z:17)
Poiché d’ora in poi Zarathustra evita il mercato pubblico e cerca soltanto compagni a cui possa
predicare, non ha
bisogno di modificare il suo tono predicatorio. Non evita il pathos, ma solo le situazioni in cui esso
agisce in modo particolarmente penoso. Egli parla a «tutti e a nessuno», ai « fratelli » e agli « amici
» e ammette però a se stesso che il suo parlare è un soliloquio, che egli si finge un terzo (amico,
allievo, l’umanità) affinché il dialogo fra «io e me» non rimanga nell’intimo. «Il terzo è il sughero
che impedisce al colloquio dei due [io e me] di sprofondare nell’abisso» (Z:61). Ma dopo il prologo,
dove il pubblico abituale fa la parte del «terzo» che s’oppone, Nietzsche rinuncia a contrapporre al
suo Zarathustra un’autentica controparte. Ed è per questo che i discorsi di Zarathustra hanno un
effetto così monotono nel loro monologizzare privo d’opposizione. Dopo che Zarathustra si è
ritirato dal mercato pubblico, ossia dal luogo della sua possibile figuraccia, parla nel vuoto.
Nietzsche avrebbe dovuto lasciare sul palcoscenico gli « ultimi uomini », e Zarathustra avrebbe
dovuto lottare con loro; soltanto di qui la dottrina del « superuomo » sarebbe risultata colma di
contrasti e con un profilo più affilato.
Ora, però, cos’è il «superuomo», come dobbiamo immaginarcelo? Innanzitutto, si tratta soltanto di
una nuova espressione per un tema che Nietzsche utilizzava già nel periodo delle Considerazioni
inattuali, quello della plasmazione e dell’accrescimento di sé. In Schopenhauer come educatore,
Nietzsche illustrò, sulla scorta delle sue esperienze con Schopenhauer, còme una giovane
anima rinvenga la «legge fondamentale» del suo sé «vero e proprio» (SE:7) percorrendo la serie dei
modelli sotto il cui influsso s’è dichiarata. Un’anima decisa in favore di se stessa ed entusiasta
scoprirà in essa una linea crescente. Ogni modello agisce come incoraggiamento di se stessi.
Guidati dal modello, bisogna uscire da se stessi per giungere all’altezza della sua possibilità.
L’autentico sé, scrisse una volta Nietzsche, non lo si trova in sé, ma oltre sé: « La tua vera essenza
non sta profondamente nascosta dentro di te, bensì immensamente al di sopra di te, o per
lo    meno di ciò che tu abitualmente prendi per il tuo io» (SE:7). Non bisogna quindi tradire il
proprio sé migliore (lo si è, diventandolo). Si deve e si può aspettarsi qualcosa da sé; non soltanto in
generale dalla vita, ma anche da se stessi ci si può ripromettere qualcosa e si dovrebbe mantenere la
promessa, di cui si è l’incompleta incarnazione. In ogni tentativo di plasmazione di sé nel
senso dell’accrescimento agisce già la volontà di superuomo.
In questo significato di superuomo non si parla ancora di biologia, ma si intendono le forze
spirituali autoplastiche dell’uomo, le sue facoltà di dominio e plasmazione di sé in continua crescita.
Per un ideale di superuomo così inteso, Nietzsche trovò già in Umano, troppo umano la
formulazione pregnante: «Dovresti diventare padrone di te stesso, padrone anche delle tue virtù.
Prima erano esse le tue padrone; ma esse devono essere solo tuoi strumenti accanto ad altri
strumenti. Dovresti acquistare potere sul tuo pro e contro e imparare a saperli staccare e riattaccare,
secondo il tuo scopo superiore» (U1:9; trad. mod.). Proprio un tale superuomo intende Zarathustra
quando annuncia: « Io amo colui che è di spirito libero e libero cuore » (Z:9).
Ma non si parla soltanto del superuomo come atleta della plasmazione di sé. Vi si mescolano anche
toni biologistici nei discorsi di Zarathustra, quando spiega: l’uomo, così come si presenta adesso, è
proceduto dalla scimmia, ma c’è ancora troppo della scimmia in lui e troppo agio, che vuole
ritornare nel regno animale. L’uomo è un essere in cammino. Egli si muove ancora fra la scimmia,
dalla quale deriva, e il superuomo, verso il quale forse si evolverà. « Che cos’è per l’uomo la
scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l’uomo per
il    superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna » (Z:6).
Il linguaggio metaforico nello Zarathustra accenna soltanto al contenuto biologistico; negli appunti
di quel periodo Nietzsche si fa più chiaro. « Il fine », vi scrive, è lo « sviluppo di tutto il corpo e non
solo del cervello » (FP7/ 2-2:167). Si sarebbe adattato male al pathos dei discorsi di
Zarathustra se si fosse qui accennato, in modo troppo evidente, agli aspetti della formazione
corporea superiore dell’uomo. Zarathustra avrebbe forse dovuto dire qualcosa sulla crescita dei
capelli, sulla dotazione muscolare, sulla lunghezza delle braccia e la grandezza del cranio del
superuomo? Questo sarebbe parso una eccessiva comicità involontaria. Per quel che concerne
l’aspetto corporeo della tematica del superuomo, Zarathustra si accontenta dell’indicazione per chi
ha in animo di maritarsi: «Non soltanto devi procrearti, ma creare più in alto di te! A ciò ti aiuti
il giardino del matrimonio » (Z:77).
Le idee contemporanee dell’allevamento e dell’evoluzione biologici erano familiari a Nietzsche. Si
fece spedire a Sils-Maria la relativa letteratura già nell’estate del 1881. Nietzsche sarebbe stato del
resto un ignorante se non fosse stato influenzato dalla vasta corrente dell’evoluzionismo biologico
stimolata dal darwinismo. Nonostante tutta la critica a Darwin nei dettagli, Nietzsche non riesce a
sottrarsi alla potente suggestione di questo pensiero. Sono due infatti le idee fondamentali che,
come patrimonio comune della cultura intellettuale di quegli anni, diventarono anche per Nietzsche
ovvie assunzioni di fondo.
In primo luogo, l’idea di evoluzione. Essa non è nuova, riferita alla cultura spirituale e alla
coscienza. Tutto lo hegelismo e la successiva scuola storica l’hanno messa in campo come legge
evolutiva delle metamorfosi spirituali. Ciò che di nuovo sopraggiunse per mezzo di Darwin
(e questa è la seconda idea fondamentale) fu l’applicazione dell’ipotesi evoluzionistica alla sostanza
biologica.
La storia biologica dell’ominazione a partire dal regno animale agì, da una parte, come svalutazione
drastica dell’uomo. La scimmia diventa il primo parente dell’uomo, per cui Nietzsche fa dichiarare
al suo Zarathustra: « In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi
scimmia» (Z:6). La definizione dell’uomo come prodotto di un’evoluzione biologica ebbe la
conseguenza che anche il cosiddetto spirito venne inteso come funzione di una parte del corpo (del
cranio, del midollo spinale, dei nervi, ecc.).
In questo senso, anche Nietzsche rivolge la sua attenzione alla parte fisiologica dei processi
spirituali e parla nello Zarathustra della «grande ragione» del corpo: «Il corpo creatore ha creato
per sé lo spirito, e una mano della sua volontà » (Z:34). Ma la naturalizzazione dello spirito e la
relativizzazione, a essa connessa, della posizione speciale dell’uomo, la sua svalutazione dunque,
sono soltanto il primo aspetto dell’azione del darwinismo.
L’altro aspetto consiste, viceversa, nelle visioni persino euforiche di un’evoluzione superiore
dell’uomo. Adesso si può infatti applicare l’idea di progresso anche all’evoluzione biologica. Se
l’evoluzione ha condotto fino all’uomo, perché nell’uomo dovrebbe terminare? Perché
non dovrebbe esserci un essere vivente ancora più alto, un superuomo come tipo biologico
superiore? In Darwin non compare l’espressione «superuomo»... ma questo futurismo biologico
relativo all’uomo non era del tutto estraneo nemmeno a lui: la logica dell’evoluzionismo doveva
condurre a tali fantasie. Darwin scrisse: «L’uomo è di certo giustificato se si sente orgoglioso di
essere capitato, benché senza propri sforzi, al vertice di tutta la gerarchia organica; e il fatto che in
questo modo è salito verso l’alto, anziché esservi già originariamente collocato, può concedergli la
speranza di avere ancora, in un futuro remoto, una destinazione superiore» (Benz 88).
Darwin, ciò nonostante, rimase scettico. Non scordò mai che è il limitato spirito dell’uomo a
immaginarsi un simile futuro, e che sono in campo pensieri ideali e sopravvalutazione di sé. « Ci si
può abbandonare allo spirito dell’uomo, che, come fermamente credo, si è sviluppato da uno
spirito così basso come quello degli animali inferiori, quando esso trae siffatte grandiose
conclusioni? » (Benz 89)
I darwinisti non ebbero invece esitazioni. David Friedrich Strauss, per esempio, criticato da
Nietzsche con violenza, si confessa illimitatamente a favore dell’idea dell’accrescimento biologico,
e Nietzsche critica in lui non questo stesso evoluzionismo darwinistico, ma soltanto le comode
rappresentazioni straussiane di un tipo d’uomo superiore, ma pur sempre con i tratti dell’animale
domestico. In particolare Eugen Duhring, a cui Nietzsche nel 1875 fa dettagliatamente le pulci e dal
quale apprese molto (soltanto per poi parlarne in maniera beffarda), sviluppa con copiose
argomentazioni l’idea che l’evoluzione condanni la maggior parte delle specie alla degenerazione e
alla morte, ma che probabilmente l’uomo abbia ancora davanti a sé un’immensa storia di successi.
Tutto fa pensare, scrive, a un’evoluzione « che un giorno o l’altro, invece di fare dell’umanità un
cadavere, la condurrà a essere una specie nobile, organizzata in maniera notevolmente diversa
» (Benz 102).
Il « superuomo », inteso come tipo biologico, fu dunque senz’altro una figura attuale del
darwinismo, il che non fu assolutamente gradito a Nietzsche. Egli teme l’attualità delle sue visioni.
Specialmente dal volgar-darwinismo, dalla sceneggiata dei relativi trattati e libelli, vuole tenere le
distanze. Il suo superuomo deve essere qualcosa di originale e di unico.
Egli vuole liberarsi anche di un’altra parentela. Thomas Carlyle e Ralph Waldo Emerson (nei
confronti di quest’ultimo Nietzsche si dice persino riconoscente) formularono ugualmente l’idea
che l’umanità potesse e dovesse culminare in una serie di superuomini: eroi, geni, santi...
figure dunque nelle quali l’elemento umano creativo viene in luce negli ambiti dell’arte, della
politica, della scienza e della guerra, facendo da modelli e trascinando con sé gli altri. Anche qui
l’evoluzionismo ha grande importanza, poiché Carlyle ed Emerson vedono in figure come Lutero,
Shakespeare o Napoleone non solo dei colpi di fortuna della civiltà, ma messaggeri di una
mutazione qualitativa della sostanza del genere umano.
Nietzsche contesta energicamente il legame sia con la concezione darwinistica sia con quella invece
idealistica
del superuomo. In Ecce homo si lamenta del fatto che la sua idea del superuomo sia stata
fondamentalmente fraintesa: « La parola superuomo, che designa un tipo benriuscito al massimo
grado, in contrapposizione all’uomo ’moderno’, all’uomo ’buono’, ai cristiani e ad altri nichilisti -
una parola che, sulla bocca di Zarathustra, il distruttore della morale, diventa molto grave -, è stata
intesa quasi ovunque, con totale innocenza, nel senso proprio di quegli stessi valori il cui opposto si
è manifestato nella figura di Zarathustra, cioè come tipo ’idealistico’ di una specie superiore di
uomo, mezzo ’santo’, mezzo ’genio’... Altri dotti bestioni mi hanno sospettato per questo di
darwinismo; hanno perfino ritrovato segni di quel ’culto degli eroi’, da me così duramente respinto,
di quel grande falsario inconsapevole e involontario, Carlyle. Se insinuavo nell’orecchio di
qualcuno di andare in cerca di un Cesare Borgia piuttosto che di un Parsifal, quello non credeva
alle sue orecchie» (EH:57).
Quando Nietzsche si lamenta del fatto che il suo superuomo venga frainteso « come tipo
’idealistico’ di una specie superiore di uomo », allora ha palesemente scordato i suoi stessi inizi.
Infatti, nella Nascita della tragedia e soprattutto in Schopenhauer come educatore, delineò
un concetto del genio che assomiglia tantissimo a questo tipo «mezzo ’santo’, mezzo ’genio’» in
seguito criticato. «A proposito del santo nel deserto », scrive Nietzsche in un abbozzo di premessa
al libro sulla tragedia, «chi avrà mai l’ardimento di dire che egli non ha colto il fine supremo della
volontà del mondo? » (FP3/3-l:364) Il genio e il santo furono per Nietzsche la « suprema estasi »
del mondo, furono asceti, estatici, uomini ingegnosi e creativi, ma non già tipi alla Cesare Borgia,
non eroi della vitalità e nature energiche, non atleti dell’immoralità. Nel periodo dello Zarathustra e
in seguito, Nietzsche cancella alcuni tratti idealistici e parzialmente religiosi dall’immagine del
suo superuomo. Per la prima volta nel quinto libro della Gaia scienza (scritto dopo lo Zarathustra),
fa la sua comparsa il
superuomo come grande giocatore scellerato, come terrore civico e natura amorale ed energica. Qui
parla di un «ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè suo malgrado e per esuberante pienezza e
possanza, giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono, intangibile, divino [...] è
l’ideale di un umano-sovrumano benessere e benvolere, un ideale che apparirà molto spesso
disumano»
(GS:321).
Nella Genealogia della morale, un anno e mezzo prima del crollo, Nietzsche ci fa dunque
conoscere quella famigerata «bionda bestia» che, con «l’innocenza della coscienza propria di un
animale da preda », se ne esce « forse da una orribile serie di delitti, incendi, infamie, torture con
una tracotanza e un intimo equilibrio, come se si fosse trattato semplicemente d’una zuffa
studentesca» (GM:30). Non è del tutto chiaro, però, in questo contesto, se tali esemplari della
«razza aristocratica», che Nietzsche crede di trovare soprattutto nel Rinascimento italiano, incarnino
effettivamente il tipo desiderato di superuomo veniente. Egli sceglie siffatti esempi per designare le
forze vitali assopite nell’uomo. Ma che egli non fosse un intercessore della mera disinibizione, è
anch’esso certo. Per Nietzsche è determinante sempre il principio della plasmazione. La grande
forza deve essere portata a una forma da una volontà forte. Per questo Zarathustra mette in
guardia: «Tu aspiri alla libera elevatezza, la tua anima ha sete di stelle. Ma anche i tuoi istinti
malvagi hanno sete di libertà» (Z:43). Anche dopo il suo distacco dall’immagine dell’idealistico
superuomo e dal genio della negazione della vita schopenhaueriano, Nietzsche non è pronto per la
cacciata dello spirito dal campo della forza.
Il « genio » schopenhaueriano che nega il mondo perché lo esperisce come scandalo morale e che
però è una natura così possente che lo supera interiormente... una figura tale contiene, per il
Nietzsche del periodo dello Zarathustra, troppa moralità cristiana. Nietzsche si attiene di certo
all’ideale schopenhaueriano del superamento di sé, ma non
vuole più saperne del distacco schopenhaueriano dal mondo. Nel frattempo, il superamento di sé è
per lui un aspetto della volontà di potenza (Macht) e quindi del potere (Macht) su se stessi. Il
superuomo dà a se stesso la legge dell’agire, che pertanto è una legge individuale, al di là della
morale tradizionale che tiene a freno l’uomo abituale, ma che può soltanto ostacolare il superuomo.
In tal modo, il superuomo diventa anche un grande giocatore, che osserva soltanto quelle regole alle
quali si è autonomamente obbligato. Non continuerà però il gioco fino all’esaurimento o alla noia.
Alla sovranità di un superuomo appartiene anche la forza di poter interrompere quel gioco. Ha
potere chi decide sull’interruzione del gioco. Il superuomo è un siffatto possente giocatore. Può
anche darsi che per un certo periodo egli partecipi a quel gioco che noi chiamiamo morale, ma lo
farà con dei lacci allentati. Per lui non esistono imperativi categorici che, come saette, colpiscano un
soggetto debole nella coscienza, bensì soltanto regole del gioco al servizio dell’arte di vivere. Al
superuomo appartiene altresì il dispiegamento possente di quelle pulsioni e aspirazioni che
altrimenti vengono designate come «malvagie». Esse però non possono essere selvagge, ma devono
essere strutturate. In una maniera dispensatrice di forma, il superuomo deve far proprio l’intero
spettro della vitalità umana. Negli appunti per la Volontà di potenza Nietzsche lo esprime in questo
modo: «Nel grand’uomo le qualità specifiche della vita, ingiustizia, menzogna, sfruttamento, sono
sviluppate al massimo grado» (FP8/1:191).
Il superuomo non deve soffrire d’idealismo. Quanto basta per la rettifica nietzscheana del
fraintendimento « idealistico». E come ci si comporta con l’altro fraintendimento, quello
darwinistico, contro il quale si rivolge Nietzsche in Ecce homo? Ora, le formulazioni rese in
occasione del primo annuncio del superuomo nello Zarathustra («Avete percorso il cammino dal
verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme »[Z:6]) senza Darwin non sono affatto
pensabili. Nietzsche si attiene a due idee fondamentali di Darwin: in primo luogo, alla dottrina
dell’evoluzione nella particolare versione della dottrina dell’ereditarietà; in secondo luogo, all’idea
della lotta per l'esistenza quale forza propulsiva dello sviluppo evolutivo. Ciò nonostante, Nietzsche
interpreterà la lotta per l’esistenza non tanto come lotta per la sopravvivenza, bensì come lotta per la
sopraffazione. Ciò si mostrerà ancora in connessione alla filosofia nietzscheana della Volontà di
potenza.
Perché Nietzsche si rivolge contro il fraintendimento darwinistico, se dunque la sua prossimità a
Darwin è così evidente? « Darwin ha dimenticato (- questo è inglese!) lo spirito» (0:92), sostiene
Nietzsche. Egli gli rimprovera di aver trasferito l’azione inconsapevole della logica evolutiva dal
regno animale al regno dell’uomo. Questo è inammissibile, poiché nel mondo umano tutti i processi
evolutivi vengono franti e rifranti nel medium della consapevolezza e questo significa: l’evoluzione
superiore dell’uomo non può più essere pensata secondo il modello dell’evoluzione naturale
inconsapevole, ma deve essere intesa quale prodotto dell’azione libera, della creazione libera. Non
ci si può dunque abbandonare, per quel che riguarda il superuomo in arrivo, a nessun processo di
crescita naturale, ma si deve mettervi mano da se stessi. Già, ma come?
Nietzsche ha pur sempre accolto così tanto biologismo sul versante dell’evoluzionismo e
dell’ereditarietà che si avvicina molto all’idea dell’allevamento nel senso di un regime di
procreazione. Ha lasciato trapelare pochissimo. Il consiglio «non soltanto devi procrearti, ma creare
più in alto di te! » (Z:77) è stato già citato. Cosa significhi biologicamente quel «più in alto» rimane
affatto incerto, ma pur sempre Zarathustra non lascia dubbi sul fatto che non si dovrebbe consentire
ai « troppi » di procrearsi incontrastati. «Fin troppi vivono, e troppo a lungo restano appesi ai loro
rami. Venisse una tempesta a scuotere giù dall’albero tutti questi marci e bacati! » (Z:81) Alla
procreazione selvaggiamente lussureggiante deve essere posto un termine. Non possono dominare
in futuro il caso e il potere del gran numero: «Noi combattiamo ancora passo passo con il gigante
caso, e sull’umanità intera ha dominato fino a oggi l’assurdo, il senza-senso» (Z:86). Per evitare che
la « follia » di generazioni scoppi in mano ai viventi di oggi e del futuro e che l’intera storia finisca
in una cattiva «degenerazione» (Z:84), devono essere trovati dei provvedimenti. Quali?
Su quel palcoscenico di pathos dove Zarathustra intona le sue arie, Nietzsche non ha bisogno di
parlare chiaramente: « Badate, fratelli, ve ne prego, a tutti quei momenti nei quali il vostro spirito
vuol parlare in simboli: lì è l’origine della vostra virtù» (Z:84). La virtù del discorso per simboli
consente a Zarathustra di parlare per accenni: « Simboli sono tutti i nomi di bene e male: essi non
dichiarano, essi accennano soltanto » (Z:84). Chi dà soltanto ammiccamenti interpretabili può
sottrarsi facilmente alla responsabilità. Basta solo che dica di essere stato frainteso. Ora, però, la
messa in scena dei discorsi di Zarathustra è organizzata in modo tale che il profeta non debba fare
i conti con nessuna resistenza, con nessuna domanda, con nessuna richiesta di precisazione. Egli
parla all’interno di uno spazio privo di eco. Non c’è nessuno che potrebbe inchiodarlo su
qualsivoglia significato. Zarathustra non si può afferrare. Quando Zarathustra, in merito ai
«troppi», dice: «Venissero predicatori della rapida morte! » (Z:81), si potrebbe intendere ciò come
l’invito a uccidere i deboli e gli ammalati prima che possano procreare. Ma Zarathustra non dice
questo. Tuttavia, Nietzsche lo ha pensato di tanto in tanto, in attimi di furia e indignazione per
l’aria soffocante della banalità. Nel suo taccuino d’appunti, Nietzsche scrive nella primavera del
1884: per il futuro, ciò che conta è «conquistare quell’immane energia della grandezza per
plasmare l’uomo futuro con la disciplina selettiva e, d’altra parte, annientando milioni di
malriusciti, e non perire per la sofferenza che si arreca e che non ha mai avuto l’eguale»
(FP7/2:86).
Nei suoi ultimi scritti, Nietzsche abbandonerà gli scrupoli, frantumerà i discorsi in forma di
parabola e trarrà alcune conclusioni a scena aperta che non lasciano presagire nulla di buono per
l’idea di superuomo. «L’umanità, in quanto massa sacrificata al rigoglio di una singola più forte
specie umana - questo sarebbe progresso » (GM:67), scrive in Genealogia della morale, e in Ecce
homo si trovano poi quelle famigerate frasi sui compiti del «nuovo partito della vita». Andiamo
incontro a un’«epoca tragica», scrive. Perché «tragica»?
Il Sì alla vita dovrà armarsi di un orribile No contro tutto ciò che riduce la vita e ci trasforma in una
natura da animale domestico. « Gettiamo lo sguardo avanti di un secolo, poniamo il caso che il mio
attentato a due millenni di contronatura e deturpamento dell’uomo abbia avuto successo. Quel
nuovo partito della vita, che prende in mano il più grande di tutti i compiti, l’allevamento
dell’umanità al superamento di se stessa, includendovi l’inesorabile annientamento di tutto ciò che è
degenere e parassitario, renderà di nuovo possibile quel sovrappiù di vita sulla terra, da cui anche lo
stato dionisiaco dovrà svilupparsi una nuova volta» (EH:71).
Creare questo « sovrappiù di vita » riesce soltanto se ai «troppi» viene impedito di procreare o se
essi vengono addirittura eliminati. Queste idee davvero omicide provengono per Nietzsche da uno
«stato dionisiaco». Perché Nietzsche porta il dionisiaco nel contesto delle sue visioni di
annientamento dell’uomo su vasta scala? Nietzsche risponde: solo esperendo il sentimento
dionisiaco-tragico del mondo in maniera sufficientemente profonda, si noterà che già nella tragedia
greca si trattava di essere « noi stessi la gioia eterna del divenire - quella gioia che comprende in sé
anche la gioia dell’annientare» (EH:70).
Col suo Zarathustra, Nietzsche conferisce voce e figura a questa gioia dell’annientare. Talvolta,
però, ciò gli procura anche malessere. Alla fine dell’agosto 1883, dopo la conclusione del secondo
libro dello Zarathustra, in una
lettera a Peter Gast, Nietzsche parla della «più terribile avversione contro l’immagine complessiva
di Zarathustra che trascino nel mio cuore» (B6,443). E dopo la conclusione del quarto libro dello
Zarathustra, scrive all’amico Overbeck: «La mia vita consiste ora nell’augurio che con tutte le cose
possa andare diversamente da come io m’immagino; e che qualcuno renda inattendibili le mie
verità» (B7,63; 2 luglio 1885).
Le fantasie di distruzione connesse all’immagine del superuomo hanno due radici: una coerenza di
pensiero e una costellazione esistenziale di problemi.
Per quel che concerne la coerenza di pensiero, si tratta di un affinamento della tesi, già sviluppata
nel libro sulla tragedia, della giustificazione della civiltà mediante la grande opera e il grande uomo.
Se l’umanità non esiste «per se stessa», ma se vale il principio per cui è solo nei suoi «vertici,
piuttosto, nei grandi ’individui’, nei santi e negli artisti che si trova lo scopo» (FP3/3-1:364),
allora è anche consentito utilizzare l’umanità come materiale per la generazione di un genio, di
un’opera geniale o appunto... del superuomo. E se in ciò questa massa è più d’impiccio che altro,
allora bisogna fare posto... al limite attraverso l’eliminazione del «degenerante». Ma anche
nelle fantasie di distruzione Nietzsche rimane un’anima delicata, e perciò gli risulta più simpatica
l’idea secondo la quale potrebbe nascere nei «malriusciti» la «disposizione ad immolarsi»
volontariamente (11,98).
Per quel che concerne la costellazione esistenziale, nelle fantasie distruttive di Nietzsche agiscono
le brutte offese ricevute sul versante di un ambiente che voleva sminuirlo e umiliarlo. Per mezzo del
pensiero, Nietzsche volle crearsi una « seconda natura » che doveva essere più grande, più libera e
più sovrana della sua prima natura, di cui disse: «Sono una pianta nata vicino al camposanto». Il suo
pensiero aveva per lui il valore di un tentativo di darsi per così dire a posteriori un passato « da cui
si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva»
(UDSV:30). Evidentemente, Nietzsche, che si allungò così possentemente verso la sua « seconda
natura », dovette utilizzare sempre più potere per impedire il ritorno della «prima» natura. Egli, che
ha cercato riparo nelle sue trovate personali e nelle sue invenzioni di sé, si sente vulnerabile su tutti
i fronti. E' sempre cordiale, ma è vulnerabile attraverso ogni sorta di amicizia. Si offende se la gente
lo prende come un suo uguale. In lui cresce l’odio per ciò che lo avvilisce: l’ambiente di Naumburg,
la famiglia, la sorella e la madre, infine gli amici e naturalmente Wagner. Tutti costoro non lo
capiscono, ma credono di avere diritto alla sua simpatia e alla sua comprensione. Nessuno lo
tratta in maniera adeguata al suo rango. Durante il periodo dello Zarathustra, egli è particolarmente
sensibile alle ferite da svilimento. Nell’agosto del 1883 scrive a Ida Overbeck: «E' come se io sia
stato condannato al silenzio o a una sorta di benevola ipocrisia nei rapporti con tutti gli uomini
» (TL:325).
Percepisce l’«eccitazione della distanza» (B6,418) che separa gli «uomini superiori» da quelli
rimanenti, ma interno ed esterno non si accordano. Egli non ha il valore di ciò che egli è o che crede
di essere. E' convinto « che non vive un altro uomo capace di far qualcosa che somigli a questo
Zarathustra» (E: 196; fine giugno 1883). All’occorrenza potrebbe sopportare l’anonimità: lo si può
ignorare, ma non lo si può sminuire. Questo è del tutto insostenibile. Ogni volta che finisce un
lavoro che gli è riuscito, percepisce intensamente attorno a sé questo elemento avvilente. Poco dopo
la conclusione del primo libro dello larathustra, scrive a Peter Gast: « Lo scorso anno mi ha [...]
dato tanti indizi del fatto che disprezzano (inclusi i miei ’amici’ e parenti) me, la mia vita e il mio
agire personali » (B6,360; 17 aprile 1883).
Per lui, tutte queste offese, queste ferite, questi disprezzi provengono dall’ottuso mondo dei
mediocri. Nietzsche, il critico del risentimento, è talvolta egli stesso colmo di sete di vendetta
contro gli uomini che provano del risentimen-
to, allorché nello Zarathustra, con le sue invettive contro i « troppi », vuole creare spazio per il suo
superuomo. Nietzsche si sente accerchiato da quegli « ultimi uomini » che hanno la loro
«vogliuzza» per il giorno e per la notte, che hanno scoperto, « strizzando l’occhio », la felicità
del lavoro, e per i quali la nobiltà d’animo e il sublime giungono a noia: « Che cos’è amore? È
creazione? E' anelito? È stella? - così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio» (Z: 11). Ciò grava
e ostacola il volo ad alta quota. E a ciò Nietzsche risponde con fantasie di annientamento, lui,
il superuomo, che prima o poi tutti conosceranno, che mal gliene incolga...
L’immagine nietzscheana del superuomo è ambivalente e in essa si cela un dramma esistenziale. Il
superuomo rappresenta un tipo biologico superiore, potrebbe essere il prodotto di un allevamento
mirato; ma esso è anche un ideale per colui che vuole ottenere potere su di sé e coltivare e
sviluppare le proprie « virtù », per colui che è creativo e sa suonare sull’intera tastiera del capitale
umano intellettuale, della fantasia e dell’immaginazione. Il superuomo realizza l’immagine piena
dell’umano possibile e per questo il superuomo di Nietzsche è anche una risposta alla «morte di
dio».
Si ricordi la famosa scena nella Gaia scienza dove viene illustrato come l’«uomo folle», nella luce
del mattino, si aggiri con una lanterna e gridi: « Cerco Dio!. Cerco Dio! » (GS: 162) e poi: « E noi
l’abbiamo ucciso! [...] Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo
anche noi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?» (GS:163) L’assassino di dio deve
diventare lui stesso un dio, e dunque un superuomo, oppure precipita nella banalità. In quella scena
Nietzsche sviluppa quest’idea. Si tratta del seguente problema: se l’uomo serbi il suo ingegno, che
fu grande e immenso a sufficienza per inventare un intero cielo di divinità, o se, dopo la critica agli
dei,
rimanga indietro svuotato. Quando dio è morto perché l’uomo ha scoperto di averlo inventato, tutto
ciò che conta è che restino conservate le forze formatrici del divino. Il superuomo incarna la
santificazione dell’aldiquà come risposta alla « morte di dio ». Il superuomo è libero dalla religione:
non l’ha perduta, ma l’ha riaccolta in sé. Il nichilista abituale invece, l’« ultimo uomo », l’ha solo
perduta e ha mantenuto la vita profanata nella sua povertà. Ma col suo superuomo Nietzsche vuole
salvare le forze santificanti per l ’ aldiquà, contro la tendenza nichilistica alla loro profanazione.
In modo immaginifico, ma senza il tono da predicatore dello Zarathustra, Nietzsche evoca
quest’idea nella Gaia scienza: « C’era un lago che si rifiutò un giorno di far defluire le sue acque e
che rialzò una diga laddove fino ad allora trovava deflusso: da quel momento questo lago cresce
sempre più in altezza. Forse proprio quella rinuncia ci darà anche la forza con cui può essere
sopportata la rinuncia stessa; forse l’uomo a partire da ora crescerà sempre più in alto, là dove non
avrà più sbocco in un dio» (GS:205). Il superuomo è l’uomo prometeico che ha scoperto le sue
capacità teogoniche. Il dio fuori di lui è morto; ma dio, di cui si sa che vive soltanto tramite l’uomo
e in lui, è vitale, è un nome per la potenza creatrice dell’uomo. E questa potenza creatrice fa sì che
l’uomo prenda parte all’immensità dell’essere. Il primo libro dello Zarathustra  si conclude con le
parole: «Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva » (Z:88). E nel brano
Sulle  isole Beate, nel secondo libro, si afferma: « Un tempo, nel guardare verso mari lontani, si
diceva Dio; ora però io vi ho insegnato a dire: superuomo. Dio è una supposizione; ma io voglio che
il vostro supporre non si spinga oltre i confini della vostra volontà creatrice. Forse che
potreste creare un dio? - Dunque non parlatemi di dèi! Certo, voi potreste creare il superuomo»
(Z:94). Nell’istante in cui l’uomo scopre e afferma la sua forza teogonica e per questo impara il
timore reverenziale nei confronti di se stesso, cessa di disprezzare se stesso nelle sue opere.
Per questo Zarathustra può esclamare: « Solo ora il monte partorirà il futuro degli uomini » (Z:334).
Questo superuomo successivo alla morte di dio è l’uomo che non deve più percorrere la strada più
lunga, quella che passa per dio, per poter credere in se stesso.
Ma non siamo ancora arrivati all’aspetto, per Nietzsche decisivo, del superuomo. Lo tocchiamo se
rammentiamo che fu proprio la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale che Nietzsche voleva far
annunciare al suo Zarathustra. Quasi esitante, Nietzsche giunge a parlare di questa dottrina solo nel
terzo libro dello Zarathustra, nel paragrafo La visione e l’enigma, dove si chiarisce anche cos’è per
Nietzsche l’autentico significato del superuomo: è appunto quell’uomo che è diventato maturo per
afferrare e sopportare l’immensità di questa dottrina. Il superuomo non è l’uomo che si spezza di
fronte a questa dottrina, ma quello che può (così dice l’espressione scelta da Nietzsche)
«assimilarla in sé ». Questo viene presentato con effetti terrifici in quella scena in cui al giovane
pastore, che si rotola con un viso stravolto, pende dalla bocca un serpente nero, e Zarathustra lo
invita a superare la sua nausea e la sua paura, e a staccare con un morso il capo al serpente che gli
striscia in bocca. Il pastore lo fa e così inizia la sua carriera per diventare superuomo: « non più
pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva » (Z:186).
Il serpente è l’immagine del tempo ciclico. Staccargli il capo con un morso significa vincere la
paura. Il superuomo è forte abbastanza per la visione secondo cui non esiste nessuna fuga dal
tempo, nessun aldilà. Non si scappa dalla sfera dell’essere, non ci sarà alcuna liberazione mediante
il
a
non-essere; infatti, secondo quanto afferma la dottrina del ritorno, ci desteremo a nuova
consapevolezza. E il lasso di tempo che è trascorso « fra » la nostra assenza non esiste affatto,
poiché questo tempo c’è solo per la coscienza.
Ma nello Zarathustra Nietzsche non risolve il problema
per cui questa dottrina del ritorno, se ci viene detta direttamente e come idea, ha un effetto
particolarmente banale e triviale. Nell’estate di Tautenburg del 1882 con Lou, egli annota questa
frase: « Quanto più astratta è la verità che si vuole insegnare, tanto più bisogna prima sedurre i
sensi perché la colgano» (FP7/1-1:15). Con questo romanticismo raccapricciante della messa in
scena della porta carraia, del nano, del pastore e del serpente, Nietzsche ha mobilitato un bel po ’ di
elementi per illustrare questa dottrina con dovizia per i sensi. E qui accenna al problema per cui la
dottrina può essere intesa e fraintesa anche in maniera triviale. Il nano commenta « sprezzante » la
predica di Zarathustra, così come l’avesse udita già da molto tempo, con le parole: «Tutte le cose
diritte mentono [...] Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo ». E Zarathustra risponde
piuttosto perplesso: «Tu, spirito di gravità! [...] non prendere la cosa troppo alla leggera! » (Z:184)
Zarathustra è sgomento e deluso per il fatto che, pubblicamente, non gli riesca di far percepire
l’immensità della sua dottrina. Ora parla sempre più flebilmente, « perché avevo paura dei miei
stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi» (Z:184ss.). E' questo quel bisbiglio misterioso,
come racconta Lou, al quale Nietzsche si abbandonava quando le parlava della dottrina del ritorno.
E anche a Lou successe quello che accadde agli altri amici di Nietzsche, a cui egli comunicò questa
dottrina: era commossa dal tono e dai gesti, ma delusa dal messaggio. In quella estate di
Tautenburg, Nietzsche ha percepito proprio questo fatto. E perciò si trova fra gli appunti e le
annotazioni alla dottrina del ritorno la frase più volte sottolineata: « Ah, come mi sono venuti a noia
i gesti e i discorsi tragici!» (FP7/1-1:23) Questo non durerà a lungo. Infatti, i quattro libri dello
Zarathustra, comparsi fra il gennaio del 1883 e il gennaio del 1885, traboccano di « gesti e [di]
discorsi tragici » di cui era così stanco nell’estate del 1882.
Dopo aver portato a termine il terzo libro dello Zarathu-
stra, Nietzsche scrisse a Peter Gast il 1° febbraio 1884: «Il mio ’Zarathustra’ è finito da quattordici
giorni, del tutto  finito» (B6,473). Ritenne dunque l’opera conclusa, il ritorno fu annunciato, il canto
dei Sette sigilli, col suo refrain «Perché ti amo, Eternità», fu cantato; avrebbe ora potuto rivolgersi
ad altre cose. Ma nell’inverno del 1884/85 Nietzsche decide di pubblicare ancora un altro volume
dello Zarathustra. Probabilmente, s’è ispirato alla seconda parte del Faust di Goethe. Come Faust si
desta a una seconda vita dopo un sonno salutare, così ritroviamo Zarathustra all’inizio della quarta
parte come un uomo anziano, quasi sereno.
Gli accenni di Nietzsche di fronte agli amici durante il lavoro a questo quarto volume lasciano
ipotizzare che volesse chiaramente mitigare il pathos tragico e sublime. Si parla di « danze
dionisiache, libri per folli » e « robe diaboliche» (B6,487; 22 marzo 1884). Pare che abbia
scritto quest’ultima parte con l’«umore d’un pagliaccio», spiegherà in seguito. Effettivamente, si
tratta d’una sorta di corteo mascherato di tipologie dello spirito, come «l’indovino», il
«coscienzioso dello spirito», il «mago», il « mendicante volontario ». Dietro le maschere si
intuiscono determinati modelli, Jakob Burckhardt, Richard Wagner, Franz Overbeck, il principe von
Bismarck, ecc. Queste figure giungono nella grotta di Zarathustra, che vi tiene convegno. Poiché
costoro si convertono alla dottrina del ritorno, sono su una buona strada, la quale conduce al
superuomo. Ma in essi vi sono ancora troppa imperfezione e pusillanimità. Non ce la fanno. Ma
accampano pur sempre un diritto al titolo onorifico di « uomini superiori ». Si notano gli sforzi di
Nietzsche al fine di trovare per tutto una tonalità che sia frivola, leggera, di tanto in tanto
operettistica. Non gli riesce.
La tonalità alta dei primi tre volumi si impone nuovamente.
Tuttavia, in questo quarto libro ci sono dei passi di una chiarezza autocritica che tocca quasi la
soglia del dolore.
Nietzsche scopre, nel pathos, la menzogna della vita. « Io ti capisco a fondo: tu divenisti
l’incantatore di tutti, ma per te non ti è rimasta né una bugia né un’astuzia più, - tu stesso sei
disincantato, per te! » (Z:297)
13. Ancora una volta Zarathustra. La leggerezza che è così pesante. La volontà d’amore e la
volontà di potenza. Primi passi e dispiegamento. La violenza e il gioco universale. Il problema
aperto: accrescimento di sé e solidarietà. Diramazioni sulla via verso il capolavoro non scritto: Al
di là del bene e del male
e Genealogia della morale.
ZARATHUSTRA predica, ma non solo agli altri: egli deve convincere anche se stesso. Nietzsche lo ha
formulato apertamente nei suoi appunti: l’insegnante (Lehrer) può « incorporare in sé » la propria
dottrina (Lehre) soltanto insegnandola (lehren). Nel dialogo con il nano, abbiamo ricevuto però
l’impressione che Zarathustra non riesca a rendere percepibile l’incommensurabilità della sua
dottrina dell’eterno ritorno. Le idee rimangono astratte e per questo il nano reagisce con
osservazioni « sprezzanti ».
È per questo che Nietzsche (notando di non aver ancora portato alla corretta espressione il punto
decisivo), all’inizio del 1885, scrive un quarto libro dello Zarathustra, benché dopo la conclusione
del terzo libro fosse di certo persuaso di esserne venuto a capo? Eppure, anche dopo il quarto libro,
Nietzsche non ha la sensazione di aver terminato il suo Zarathustra. Di certo si allontana da quella
figura, ma non già da quelle dottrine per le quali ha fatto entrare in scena Zarathustra nella veste di
loro strumento sonoro. Lavorerà ulteriormente a queste dottrine, specialmente alla connessione dei
tre insegnamenti: dell’eterno ritorno, del superuomo e della volontà di potenza, con la
consapevolezza di non aver ancora colto e formulato adeguatamente il punto decisivo.
Nell’estate del 1881, al tempo dell’ispirazione al Surlej-Felsen, Nietzsche appunta, per la
presentazione della dottrina del ritorno dell’uguale, il seguente principio fondamentale: « Soltanto
alla fine sarà poi enunciata la teoria della ripetizione di tutto ciò che è esistito: una volta che sia
stata inculcata la tendenza a creare qualche cosa che possa fiorire cento volte meglio sotto il sole di
questa teoria! » (FP5/2:369). Il seguito in origine progettato per lo Zarathustra era quindi il
seguente: in primo luogo, dovevano essere delineati i contorni di un’arte di vivere attraverso la
quale risultasse evidente il valore della vita e dell’amore dell’esistenza. Zarathustra, come il sole,
vuole portare luce e gioia. Egli compare come un uomo di straripante simpatia. Ma quello che suona
leggero e gaio come dottrina della gioia di vivere è difficile (se non impossibile) da realizzare: la
spontaneità ritrovata del bambino oppure, detto filosoficamente, l’immediatezza mediata.
Nel discorso Delle tre metamorfosi (Z:23) Zarathustra trova, per dire questo, delle immagini
figurate: si è dapprima «cammello », caricati da squillanti « tu devi ». Il cammello si trasforma in un
« leone ». Esso lotta contro tutto questo mondo del « tu devi ». Lotta perché ha scoperto il suo «
io voglio ». Tuttavia, poiché lotta, rimane incatenato negativamente al « tu devi ». Il suo poter-
essere si consuma nella coercizione alla ribellione. In questo « io voglio » c’è ancora troppo
dispetto e ostinazione, in esso non c’è ancora l’autentica scioltezza del volere creativo, ancora non
si è giunti a se stessi, alla propria ricchezza vitale. Questo riesce soltanto quando si diventa
fanciulli, quando si perviene nuovamente, a nuovi livelli, alla prima spontaneità del vivente: «
Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo
moto, un sacro dire di sì » (Z:25).
Del « giuoco della creazione » e del « sacro dire di sì » si parlerà molto in seguito. Zarathustra si
sforza di dare un nome a quegli aspetti concreti di una dottrina della vita basata sulla salute e sulla
spontaneità ritrovate: bisogna ascoltare la « grande ragione » del corpo e nutrirsi adeguatamente,
ridurre a una misura salutare le proprie relazioni con gli uomini, comunicare soltanto in maniera
limitata le proprie sensazioni, esperienze e pensieri, per non invischiarsi in fraintendimenti e
affinché ciò che è proprio, contratto e deformato dalla chiacchiera pubblica, non faccia ritorno come
qualcosa di estraneo, allontanandoci da noi stessi. Non bisogna quindi abbandonarsi al
mercato delle opinioni, ma nemmeno infilare « la testa nella sabbia delle cose del cielo» (Z:31)...
anche questo significa estraniazione dal centro vitale. Questo, però, troviamo nell’amore, dice
Zarathustra. Lo esprime con una formula paradossale: « Noi amiamo la vita non perché ci siamo
abituati alla vita, bensì all’amore» (Z:41). Non la vita giustifica l’amore, ma viceversa: l’amore è
l’elemento creativo e, pertanto, quella forza che tiene in vita la vita. Se solo ci si è abituati
all’amore, si accetta anche il resto della vita. Solo con la volontà d’amore si scoprirà quella parte
della vita potenzialmente attraente; in caso contrario ci si scontrerà per lo più con i suoi aspetti
sgradevoli, brutti e tormentosi. Si dovrebbe utilizzare la volontà d’amore per incantare il mondo
circostante e se stessi. Bisogna dunque innamorarsi dell’amore.
Questa inversione e autoreferenzialità è caratteristica, in generale, per Nietzsche/Zarathustra.
L’attenzione si sposta dall’oggetto di un’intenzione all’atto intenzionale. La «volontà di... » si pone
nel punto focale. Così è anche in merito alla conoscenza. Non l’«oggetto» conosciuto giustifica
il piacere di conoscere, bensì la volontà di conoscenza può essere un piacere, che porta e sopporta
persino l’insopportabilità di ciò che viene conosciuto. Si dimentica regolarmente, scrisse Nietzsche
già in Aurora, « che anche la conoscenza della più brutta realtà è bella » (A:260). Perché? Perché il
conoscere stesso è qualcosa di bello. Per questo può accadere che « la gioia degli uomini di
conoscenza »
accresca la «bellezza del mondo». Tuttavia, non si dovrebbe scordare da dove proviene questa
bellezza. La sua sorgente è il piacere del conoscere e non la natura della cosa conosciuta. Poiché
però, nello slancio e nella gioia del conoscere, una tale confusione capita spesso, è
difficile conservare l'«onestà» e non diventare erroneamente «lodatori delle cose» (A:261). Come
con la conoscenza, così ci si comporta anche con l’amore. Soltanto quando si rimane legati alla
forza vitale dell’amore, la vita riceve una figura attraente. Dove trova nutrimento la volontà
d’amore? Soltanto in se stessa, non nel mondo. La volontà d’amore non è altro che una determinata
figura della volontà di potenza. Infatti, esiste una potenza maggiore di quella trasformazione
affascinante che rende attraente qualcosa?
La « volontà di potenza », accanto al « superuomo » e al «ritorno dell’uguale» è il terzo grande
insegnamento di Zarathustra. Se ne parla per la prima volta nel discorso di Zarathustra Della
vittoria su se stessi. Le idee ivi sviluppate vengono preparate dai tre canti precedenti (Il canto della
notte, Il canto della danza, Il canto dei sepolcri), in cui è in gioco il rapporto fra vivere e amare e si
mostrano gli aspetti fatali dell'autoreferenzialità dell’amare, or ora spiegata. « Ma io vivo nella luce
mia propria, io ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono» (Z:119), si dice nel Canto della
notte. Nel Canto della danza, Zarathustra s’imbatte in un gruppo di fanciulle danzanti. Egli vuole
danzare con esse, sebbene lo «spirito di gravità» lo ostacoli, ma in lui si muove anche il « piccolo
dio », un satiro, un Pan che vuole muoversi, rincorrere « farfalle». Zarathustra vuole dunque
danzare, ma nella sua autoreferenzialità medita sul danzare, anziché danzare, e parla con una
danzatrice a cui perciò impedisce di danzare, ma che al tempo stesso trasfigura come simbolo della
vita danzante. Ella lo deride con scherno: «Sebbene per voi uomini mi chiami la ’profonda’ o 'la
fedele’, 'l’eterna’, ’la piena di mistero’. Ma voi uomini ci recate in dono sempre le vostre virtù - voi,
virtuosi! » (Z:123)
La « vita » rende Zarathustra consapevole del fatto che sono delle proiezioni quelle che forniscono
la vita di profondità e mistero. Chi non si trova nella vita, chi appunto non danza, scopre in essa la
profondità. Misterioso è ciò da cui si mantiene una distanza. Chi vuole danzare non dovrebbe
riflettervi. La vita vuole essere vissuta, non soltanto meditata. Ma Zarathustra rimane distante dal
gruppo delle danzatrici e rimane da solo con la sua « saggezza ». Essa è per lui una vicaria della vita
(« essa mi ricorda moltissimo la vita», dice Zarathustra [Z:123]), ma essa non è la vita stessa. Ancor
peggio: la sua « saggezza » dovrebbe indurlo a vivere e, tuttavia, essa ha allontanato da lui
le fanciulle danzanti. Infatti, esse vogliono danzare e non farsi studiare. E perciò Zarathustra,
lasciato da solo con la propria saggezza, sprofonda nuovamente nel suo essere « senza-fondo ».
Soltanto nella danza diventano superflue quelle domande che subito lo disturbano di nuovo
quando il luogo della danza si vuota: « Come! Tu vivi ancora, Zarathustra? Perché? Per chi? Con
che? A che? Dove? Come? Non è follia, vivere ancora?» (Z:124) La saggezza che vuole studiare la
vita la mantiene al tempo stesso a distanza. Questa è ancora una « saggezza dionisiaca » se
allontana il piacere? Con le fanciulle danzanti, Zarathustra non diventa comunque Dioniso, di cui
vestirebbe anche volentieri i panni. Egli non ha ottenuto molto: « si guarda attraverso dei veli, si
cerca di afferrarla con reti » (Z: 123).
Al Canto della danza segue II canto dei sepolcri. Zarathustra giunge alla tomba dei suoi sogni e
delle sue speranze giovanili che non si sono realizzati. Parla con loro come con degli spiriti che lo
hanno tradito e rivolge loro amari rimproveri. Essi hanno simulato la danza e gli hanno poi guastato
la musica. Ma perché dunque? Il passato gli ha reso la vita così dura? La vita non vissuta lo
ostacola, lo incatena a un passato che non vuole passare? Zarathustra chiama ciò che lo ostacola la «
civetta mostruosa e ributtante», la figura pervertita dell’uccello dei filosofi, la nottola di Minerva.
Zarathustra litiga con la sua saggezza: essa gli ha guastato la danza. « Solo nella danza io so
parlare i simboli delle cose più alte: - e ora il mio simbolo supremo rimase inespresso nelle mie
membra! » (Z:127) Zarathustra è stanco, ferito. Ma non dura a lungo: ha poi vinto le sue ferite.*
Egli è nuovamente risorto, spiega orgoglioso, dal sepolcro della sua vita: « Qualcosa di
invulnerabile, inseppellibile è in me, qualcosa che fa saltare la roccia: si chiama la mia volontà»
(Z:128).
La via conduce quindi dalla potenza dell’amore, passando per la danza della vita e la conoscenza
che la pregiudica, per l’offesa e l’irrigidimento mortale, a quella filosofia della volontà di potenza
che diventa infine il tema centrale in quell’insegnamento Della vittoria su se stessi che segue II
canto dei sepolcri: « Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di
potenza» (Z:130), vi si dice. Cambia il tono. I lirismi dei canti della notte, della danza e dei sepolcri
vengono dissolti da dure disposizioni, frammenti di una dottrina filosofica che fu accennata già nei
primi scritti, riflettendo sui fondamenti pulsionali del vivere e del conoscere, che Nietzsche
però inizia a considerare come compito per una redazione sistematica soltanto nel periodo dello
Zarathustra.
L’insegnamento della Volontà di potenza, nella misura in cui viene delineato nello Zarathustra,
consiste nei seguenti princìpi fondamentali. Al centro si trova il principio della vittoria su se stessi.
La volontà di potenza è anzitutto volontà di potenza su se stessi. Esiste, come dovrebbe mostrare la
serie che va dal canto della notte al canto dei sepolcri passando per il canto della danza, una
rinascita dal sepolcro della depressione che soffoca la vita. L’ausilio più importante a tal fine è il
ricordo della forza creatrice che risiede nell’intimo di ognuno e che tuttavia può sfuggire, e che
perciò deve essere afferrata consapevolmente e audacemente. Non c’è chiaramente alcuna
aspirazione che non
debba e non possa essere attivata con la «volontà di...» Anche l’elemento creativo necessita della
volontà di creatività. Se ci fosse un effetto-Münchhausen, allora si troverebbe qui: una vita che
vuole se stessa può tirarsi fuori dallo squallore e dal fango. «Cos’è la volontà di potenza?» chiede
Zarathustra, e risponde: « Voi volete ancora creare il mondo, davanti al quale possiate
inginocchiarvi: questa è la vostra suprema speranza ed ebbrezza» (Z:129).
La vittoria su se stessi nella creazione di un intero mondo immaginario di idee, immagini e scenari,
così come lo delinea il progetto di Zarathustra, è più che autoconservazione. È accrescimento di sé.
E questo è il secondo aspetto della volontà di potenza. Si ha un’idea troppo smilza della vita se in
essa si scopre soltanto la pulsione all’autoconservazione. Nell’uomo il sé è una forza espansiva ed è
per lui tipica una tendenza all’accrescimento e all’accumulazione. Ciò che soltanto si conserva
perisce. Ciò che si accresce si conserva. Nietzsche tuttavia semplifica un po’ troppo la sua critica
all’autoconservazione. Non esiste affatto una «volontà di esistere », di cui parlano i teorici
dell’autoconservazione come Darwin e altri, spiega Zarathustra. « Infatti: ciò che non è non può
volere; ma ciò che è nell’esistenza come potrebbe ancora volere 1’esistenza! » (Z:132)
Al contrario, si potrebbe obiettare: se la vita si riflette nel medium della coscienza, è sia possibile sia
necessaria un’espressa affermazione di sé. Molto spesso, dunque, si può volere o rigettare la
circostanza di trovarsi nell’esistenza. Si può, con una propria azione, sparire dall’esistenza, ma si
può anche farsi afferrare dalla volontà di esistere e rimanere qui. Si è già qui, ma si ha bisogno della
volontà di esistere per rimanervi. Nietzsche potrebbe anche riconoscerlo, ma ribatterebbe che
nell’espressa affermazione di sé si nasconde di più che volontà di esistere. In chi non abbandona le
forze autodistruttrici, in chi si oppone loro, in chi contrappone al «no» il suo inequivocabile « sì »,
in costui agisce la volontà di potenza, lo spirito dell’offensiva. Egli non vuole soltanto mantenersi
nell’esistenza, bensì trionfare sulle forze della negazione. Nei suoi appunti, Nietzsche chiarisce
quest’idea anche sugli esempi tratti dall’universo della fisica e della meccanica. E' in gioco un
quantum di forza quando un oggetto non è inferiore a un altro. Ma con un quantum inferiore di
forza l’oggetto cede, mentre con un quantum maggiore esso schiaccia altri oggetti. Quando
qualcosa rimane nella sua forma e nei suoi confini, ciò è una conseguenza delle proporzioni di forze
in equilibrio.
Durante il periodo dello Zarathustra, Nietzsche inizia a utilizzare la « volontà di potenza » non solo
come formula psicologica per la vittoria su se stessi e l’accrescimento di sé, ma per farla diventare
inoltre una chiave generale per l’interpretazione di tutti i processi della vita. Questo viene già
accennato nello Zarathustra con la frase già citata: «Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho
anche trovato volontà di potenza »; la volontà di potenza non si cela soltanto nel mondo inorganico
e organico, ma anche nella conoscenza stessa. Essa è un’espressione della volontà di potenza. «
Tutto quanto è, voi volete prima di tutto farlo pensabile: giacché con buona diffidenza dubitate
che sia già pensabile» (Z:129). V’è dunque un circolo ermeneutico della conoscenza della potenza:
la volontà di potenza nella conoscenza scopre la volontà di potenza nel mondo conosciuto.
Questa pretesa interpretazione ontologica complessiva del mondo dal punto di vista della « volontà
di potenza » del tutto nuova non è. Essa fece capolino nelle prime opere di Nietzsche. Egli stesso
diverrà consapevole di questa preistoria, allorché fra il 1885 e il 1886, al termine dello Zarathustra,
scriverà delle nuove premesse per le opere apparse fino a quel momento. Lo stimolo esterno per
queste premesse fu il fatto che l’editore Schmeitzner si trovava davanti alla bancarotta e Nietzsche,
che da lungo tempo voleva uscire da questo « covo di antisemiti » (B7,l 17; dicembre 1885) (così
designa questa casa editrice a causa dei libelli, in essa apparsi, provenienti dalla cricca di Bayreuth),
trova come nuovo editore quello vecchio: è E.W. Fritzsch, che un tempo pubblicò il libro sulla
tragedia e le prime due Inattuali.
Fritzsch, che aveva superato le proprie difficoltà economiche, ora progetta di avere « tutto »
Nietzsche. Soltanto nelle trattative per il cambio di editore Nietzsche apprende che più di due terzi
dell’edizione dei suoi libri giacciono invenduti presso Schmeitzner. Diviene consapevole del fatto
che in Germania, nel frattempo, egli ha di sicuro una certa fama (alcuni lo ritengono ancora un
wagneriano, altri una mente temibile e moralmente equivoca), che dunque è sulla bocca di molti,
ma non viene quasi letto. Soltanto circa cinquecento copie dei suoi libri sono state
complessivamente vendute fino a quel momento. Schmeitzner, Nietzsche lo nota soltanto ora, negli
ultimi dieci anni, non riforniva quasi più le librerie. I suoi libri venivano venduti solo su richiesta
insistente e ostinata. E di Umano, troppo umano, oltre agli esemplari destinati alle recensioni e
ai doni, non è stato ancora distribuito nulla. Scrive libri da quindici anni e ora deve ammettere a se
stesso che per essi non v’è, per il momento, alcun mercato e alcun pubblico. Con il nuovo-vecchio
editore bisognerà iniziare in modo migliore. Per questo, i suoi libri già apparsi, dotati di nuove
prefazioni che riflettono il percorso evolutivo dell’autore, devono trovare finalmente la loro via
verso il pubblico. Nietzsche chiama le cinque nuove prefazioni alle opere (dalla Nascita della
tragedia fino alla Gaia scienza, ampliata di un quinto volume) « forse la prosa migliore che finora
abbia scritto» (B7,282; 14 novembre 1886); esse presentano inoltre «una sorta di ’storia
evolutiva’» (B8,151; 14 settembre 1887) e gli consentono di tirare una « riga » sull’« esistenza
condotta fino a questo momento» (B8,213; 20 dicembre 1887).
E proprio nell’anno delle prefazioni e del « tirare una riga » Nietzsche decide di scrivere il suo
capolavoro con il titolo La volontà di potenza/Tentativo/di una nuova interpretazione/di tutto
l’accadere. A tal fine, a partire dal
1885 (la formulazione del titolo citata è di questo periodo) fino all’ultimo autunno a Torino del
1888, Nietzsche darà disposizioni, produrrà registri e abbozzi di titoli, riempirà il suo quadernetto
con appunti sul tema. In seguito, la sorella e Peter Gast porranno un abbozzo di articolazione del 17
marzo 1887 alla base della loro compilazione Volontà di potenza, tratta dai materiali dell’enorme
lascito. Dal 1885-86 Nietzsche ha la volontà di produrre un capolavoro, la volontà della Volontà di
potenza. Attorno a questo centro, egli vuole organizzare la sua vita esteriore. All’inizio di settembre
del 1886 scrive alla sorella e al cognato in Paraguay: « Per i prossimi 4 anni è annunciata la
compilazione di un capolavoro in quattro volumi; il titolo fa già temere: ’La volontà di potenza.
Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori’. A tal fine, ho tutto quel che mi serve, salute,
solitudine, buon umore, forse una donna» (B7,241; 2 settembre 1886).
Nietzsche, i cui libri degli ultimi anni furono raccolte di aforismi e composizioni di saggi brevi a
vasto tema, percepisce ora la « coercizione », che grava su di lui col « peso di cento quintali », « di
erigere nei prossimi anni un edificio coerente di pensieri» (B8,49; 24 marzo 1887). In momenti di
depressione e quando si sente particolarmente solo, lo sostiene l’idea di questo capolavoro. Il 12
luglio 1887 scrive a Franz Overbeck di avere «una missione che non mi consente di pensare molto a
me [...] Questa missione mi ha fatto ammalare, ma essa mi riporterà pure in salute, e non solo in
salute, ma anche a quell’amore per gli esseri umani e a ciò che ad esso è legato» (B8,196).
Al progetto di una grande opera Nietzsche si atterrà fino all’estate del 1888. Il sottotitolo
originariamente previsto Trasvalutazione di tutti i valori diventa il titolo principale nell’ultimo
progetto dell’autunno 1888. L’idea fondamentale del progetto però rimane immutata: la volontà di
potenza, intesa come principio fondamentale della vita, doveva porre il fondamento per una
revisione di tutte le idee morali, appunto la trasvalutazione di tutti i valori. Nelle

concezioni dell’ultimo anno precedente al crollo, la conclusione, ossia la trasvalutazione, diventerà


per lui sempre più importante. Addirittura con urgenza, come se percepisse l'imminente crollo, si
affretta a compierla, e precipita le difficili interpretazioni ontologiche, scientifiche e cosmologiche
che si era proposto e che in parte aveva già eseguito. La trasvalutazione doveva diventare l’effetto
di un’interpretazione universale col filo conduttore della volontà di potenza. Ma alla fine Nietzsche
si accontenta di questo effetto, senza la giustificazione eseguita sistematicamente: il tempo urge e
perciò nell’autunno del 1888 terminerà per la stampa L’anticristo, inizialmente come primo libro
della Trasvalutazione, e in seguito come l’intera Trasvalutazione.
In primo luogo, dunque, scompare il titolo principale La volontà di potenza, poi scompare anche il
secondo titolo principale La trasvalutazione di tutti i valori. Quel che resta è L’anticristo. «La mia
trasvalutazione di tutti i valori, con il titolo principale ’L’anticristo’, è finita», scrive Nietzsche il 26
novembre 1888 a Paul Deussen (B8,492). Ora, il progetto originario della Volontà di potenza non è
però completamente assorbito dall ’’Anticristo. Piuttosto, i lavori preparatori alla Volontà di
potenza sono stati immessi direttamente o indirettamente anche nelle altre opere. Nietzsche non ha
di certo utilizzato tutto il materiale dei lavori preparatori per quest’opera, ma le idee per lui più
importanti le ha annunciate in Al di là del bene e del male, nel quinto libro della Gaia scienza
scritto nel 1886, nelle prefazioni, nella Genealogia della morale, nel Crepuscolo degli idoli e da
ultimo nell'Anticristo. A tal riguardo si può dire che Nietzsche ha notato, poco prima del crollo, che
era giunto proprio alla fine del suo progetto La volontà di potenza. Le cose più importanti erano
dette.
Quando, nel 1883, Nietzsche scrive nello Zarathustra: «Ogni volta che ho trovato un essere
vivente, ho anche trovato volontà di potenza», riassume un’intera preistoria che lo portò sulle tracce
di questa volontà di potenza. Se nell’opera di Nietzsche si segue questa preistoria, ci si imbatte
anzitutto nell’aspetto del potere dell’arte e degli artisti. Non si parlava d’altro che di queste potenze
artistiche della vita quando Nietzsche analizzava la sinergia delle forze dionisiache e apollinee nella
civiltà greca. Cos’è il potere dell’arte? Essa crea un cerchio magico di immagini, rappresentazioni,
tonalità, idee che incantano e mutano chiunque finisca in tale cerchio. Il potere dell’arte è
una potenza della vita, in quanto lascia presagire l’oscuro e tragico nesso vitale, ma al tempo stesso
crea in esso una radura di vivibilità. Poiché la vita umana si frantuma nella coscienza e perciò
contiene in se stessa il potenziale d’ostilità, sempre il potere artistico è anche contropotere:
esso difende la vita dalla possibile autodistruzione.
Al potere dell’arte appartiene anche la capacità di aprire lo spazio per la rappresentazione. Essa
sublima l’orribile scontro delle potenze in competizione e in gioco. Già nel libro sulla tragedia,
Nietzsche accennò all’idea della fondamentale struttura agonistica della vita e la dispiegò nel suo
saggio Agone omerico. Egli volle decifrare il modello basilare della civiltà arcaica greca e gli parve
di ottenere con ciò un principio ontologico. Lo studio di Darwin e dei suoi allievi gli rende nota la
tesi della « lotta per l’esistenza». Ma queste dottrine non sono per lui abbastanza dinamiche. Non si
tratta per lui, come già abbiamo sentito, di autoconservazione difensiva, bensì del principio di un
accrescimento offensivo di sé. La vita è un accadere espansivo. La sicurezza del possesso può
essere importante per il pavido piccolo-borghese, ma non si può immaginare la vita nel suo
complesso come un mondo di filistei. Quest’idea della tendenza all’accrescimento di sé della vita
viene formulata nello Zarathustra in maniera pregnante: «Solo dove è vita, è anche volontà: ma non
volontà di vita, bensì [...] volontà di potenza» (Z:132). E il «senso» di tutta questa potenza?
Nietzsche annovera la domanda circa il senso fra i notori tentativi di « umanizzazione »
della natura, e la respinge. Ma non durevolmente, poiché deve
coerentemente applicare la sua teoria della volontà di potenza anche a queste proiezioni di senso.
Anche le domande circa il senso e le proiezioni di senso sono allora, per l’appunto, forme
d’espressione della volontà di potenza. Con il nome di «senso» ha luogo, nella sfera di
potere dell’uomo, una metamorfosi di una realtà altrimenti assurda. « Tutto quanto è, voi volete
prima di tutto farlo pensabile [...] ma esso deve anche adattarsi e piegarsi a voi! » (Z:129)
Attribuendo un senso all’accadere, l’uomo lo sovrasta, lo porta a una forma che gli sia commisurata.
Per lo spirito, il mondo diventa un’«immagine riflessa» (Z: 129). In esso, egli si riconosce di nuovo,
ma in esso riconosce anche il totalmente altro, ciò che gli resiste. Il conoscere è dunque un gioco di
potere, in cui sono in campo potenze creatrici, un gioco che culmina in figure e idee di successo,
possenti, vitali. Quello che in tal modo si afferma viene poi chiamato verità. In questo gioco la
verità è una potenza che si avvera imponendosi. Qui non si pensa soltanto alla conoscenza in senso
stretto, scientifico, bensi alla creazione di prodotti spirituali in generale, che vengono percepiti
come validi.
Ai giochi di potere che fondano la loro stessa validità si indirizza già l’attenzione del giovane
Nietzsche. Il prodotto vincente nella competizione dello spirito dà prova del suo potere non solo con
la vittoria, ma anche con il fatto che esso giustifica, in complesso, la vita come culmine di una
potenzialità. Questa è l’idea iniziale di Nietzsche della giustificazione della vita mediante la nascita
di un genio. Egli chiarì tali idee sull’esempio di Sofocle, Wagner e Schopenhauer: questi eroi
spirituali giustificano la vita di un’intera civiltà, perché la loro opera crea un cerchio magico in cui
l'umanamente possibile giunge a una valida visione, trasfigurandosi. La «suprema estasi» è il
senso della civiltà, ed è la competizione delle potenze della vita che sospinge verso questo culmine.
L’«umanità», scrive Nietzsche nell’abbozzo di prefazione alla Nascita della tragedia, non esiste per
amore di se stessa, bensì è nei suoi
«vertici, piuttosto, nei grandi ’individui’, nei santi e negli artisti che si trova lo scopo » (FP3/3-
1:364). Si tratta di un preludio all’idea della volontà di potenza quando, in questi primi testi,
Nietzsche scrive: « Una civiltà non può tendere a nulla di più alto che alla preparazione e alla
procreazione del genio » (ibid.). Il genio è la suprema incarnazione della potenza sul terreno della
lotta culturale di potere.
Su questo terreno (umano, troppo umano e superumano) Nietzsche riesce a far diventare visibile il
teatro della volontà di potenza. Qui le lotte di potere sono evidenti. Questo non vale soltanto per la
cultura in senso stretto, ma per l’organismo della società nel suo complesso. Nella società, il gioco
di potere è nel suo elemento. Che le società fredde rappresentino un equilibrio dei poteri e le
società calde siano quelle che, in conseguenza di un’alterazione dell’equilibrio, si mettono in
movimento e cercano un nuovo bilanciamento e lottano per esso... Nietzsche ha sviluppato in
Umano, troppo umano queste idee d’una morfologia dei poteri sociali. L’« equilibrio » dei poteri,
vi scrive, «è la base della giustizia» (U2:148). Il senso della giustizia non scaturisce da nessuna
morale superiore ai partiti in lotta, ma è la conseguenza di rapporti d’equilibrio. Se questi si
modificano, cambia anche la morale. Un dominatore considerato un giusto in questo istante d’un
tratto diventa un criminale, e viceversa. Nelle rivoluzioni, quando dunque gli equilibri si alterano
drammaticamente, la verità della morale diventa manifesta. Essa è morale di classe e di partito. Su
questo punto, Nietzsche non dà alcuna ulteriore informazione rispetto al suo contemporaneo, un po’
più vecchio, Karl Marx.
Non solo la partecipazione agonistica al potere, ma anche quella immaginativa finisce già molto
presto sotto lo sguardo di Nietzsche. Il potere non è qualcosa di sostanziale, ma qualcosa di
relazionale. Esso esiste soltanto in relazioni e cioè: bisogna liberarsi delle
rappresentazioni meccaniche, orientate puramente all’aspetto materiale. Fa parte del potere che esso
venga ritenuto potente. Il po-
tere dell’uno si consolida nell’immaginazione dell’altro. Il potente è potente solo in quanto «uno
appare all’altro prezioso, essenziale, insostituibile, invincibile e simili» (U1:72). Se le relazioni di
potere sono insolubilmente legate alle reciproche capacità d’immaginazione,
allora 1’immaginazione appartiene di conseguenza al processo di « quel magico riversarsi della
forza più intima di un figlio della natura in un altro» (SE: 16).
Con la sua volontà di potenza, come siamo intanto venuti a sapere, Nietzsche ha di mira il tutto.
Non interpreta come sfera di potere solo l’uomo e l’universo umano, ma anche la natura.
Ricordiamoci di questo: nell’estate del 1881, al tempo della sua ispirazione al Surlej-
Felsen, Nietzsche ammonì contro la forza di seduzione del «discorso per immagini» (FP5/2:343).
Egli si pose come compito un pensiero chiaro e freddo: « la disumanizzazione della natura e poi la
naturalizzazione dell’uomo » (FP5/ 2:379). Ora, senza dubbio avviene un’umanizzazione della
natura, se in essa viene inserito il principio di potere tratto dal mondo agonistico dell’uomo. Ma
Nietzsche si sente legittimato in questo procedimento, da un lato, perché il conoscere stesso è
volontà di potenza, dunque una forma di sopraffazione; dall’altro, perché non vede nulla di
desiderabile all’interno della natura e per questo la « umanizza ». Al contrario, Nietzsche fa
rispecchiare dalla natura l’orrido e anche l’inumano, le lotte di potere appunto, come il mistero
interno della natura stessa. Si noti: la « disumanizzazione della natura » che egli esige non è intesa
nel senso di Un’oggettività, come produzione di un campo di conoscenza amorale e neutro, bensì
nel senso dell’inospitalità: il mondo deve mostrare il suo lato immenso e rifiutare la richiesta umana
di senso, di protezione, di casa.
Per Nietzsche, al limite estremo dell’orizzonte ci attende sempre una testa di Gorgone. E poiché
Nietzsche non vuole far torto all’immensità e all’inquietudine dell’essere, allora combatte in
maniera così veemente contro il princi-

pio metafìsico di una sostanza unitaria a fondamento dell’universo. Nietzsche sospetta che il
pensiero metafisico della sostanza cerchi l’uno per trovarvi in esso, come Agostino in dio, la quiete.
Adesso, però, anche Nietzsche parla della sua volontà di potenza come i metafisici parlano del loro
principio fondamentale. A questo «ricondurre a un principio », in ultima analisi metafisico,
Nietzsche non riesce effettivamente a sottrarsi, ma il principio può quanto meno non diventare un
punto di quiete. Esso deve essere il cuore dell’inquietudine, forse persino un cuore di tenebra. Chi
scopre la volontà di potenza come fondamento pulsionale proprio perciò viene afferrato e spinto da
essa in modo tanto più violento. Esiste inoltre volontà di potenza non al singolare, ma solo al
plurale. Anche questo va
l
contro l’ossessione metafisica per l’uno. La filosofia della volontà di potenza è una visione di una
pluralità agonistica e dinamica a fondamento dell’essere. Esistono soltanto, annota Nietzsche, «
puntuazioni di volontà, che accrescono o diminuiscono costantemente la loro potenza »
(FP8/ 2:247ss.).
Ma anche quando Nietzsche non soddisfa il bisogno metafisico di quiete e la nostalgia per l’unità,
non può tuttavia sottrarsi alla suggestione umanizzante del « discorso per immagini» di tipo
metafisico. L’immenso riceve un volto e soprattutto: riceve una «causa prima» sotto di sé.
Precisamente questo voleva evitare Nietzsche. Il distacco dalla « causa prima » significava per lui la
grande liberazione: «Che la natura dell’essere non possa venire ricondotta a una causa prima, che il
mondo non sia, né come sensorium, né come ’spirito’, una unità, tutto ciò soltanto è la grande
liberazione » (CI:65).
Allorché Nietzsche inizia, a metà degli anni ’80, a lottare accanitamente per il suo capolavoro
sistematico, rischia di perdere la sua « grande liberazione ». Egli vuole una teoria da un solo calco,
che spieghi tutto, che renda tutto comprensibile, che ponga in mano le chiavi del mistero universale.
L’immenso deve essere incalzato con una
teoria immensa. A partire dalla volontà di potenza, intesa anzitutto come principio della libera
plasmazione di sé e del libero accrescimento di sé, come magica forza trasformatrice dell’arte, come
dinamicità interna della vita sociale, ne deriva alla fine anche un principio biologistico e
naturalistico e con esso, appunto, Nietzsche viene ridotto in potere di una «causa prima».
Contro la « ragione » morale, metafisica e storica egli si difese... per amore dell’amore. Ma da
quell’altra «ragione », forse molto più pericolosa per la vita, quella del biologismo e del
naturalismo, non aveva bisogno di difendersi. Nietzsche rimane, sciaguratamente, un figlio della
sua epoca, di quell’epoca che credeva nella scienza e perciò, già in Umano, troppo umano, cade
nella suggestione di poter chiarificare la vita dal punto di vista delle scienze della natura. Là egli
scrive: « Tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci
veramente dato è una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici, come pure di
tutte quelle emozioni che sperimentano in noi stessi nel grande e piccolo commercio della cultura e
della società, e persino nella solitudine: ma che avverrebbe, se questa chimica concludesse col
risultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e
persino spregiati? » (Ul:l5)
Soltanto con questo modo di vedere, la svalutazione della vita giunge al suo culmine tempestivo
(zeitgemäß). L’effetto che possono aver avuto sulla svalutazione della vita la fede nelle regolarità
storiche, nella ipostatizzazione di essenze metafisiche, l’atteggiamento religioso della vita e la
morale da esso scaturita è probabilmente poca cosa in confronto al disincanto naturalistico del
vivente che si risolve in processi chimici, economico-pulsionali e fisici. E Nietzsche non scrive una
considerazione inattuale dal titolo Sull’utilità e il danno della scienza per la vita. Il critico del retro-
mondo metafisico si lascia sedurre dal retromondo scientifico. Si invischia in un modo di vedere
che reifica l’uomo, che opera con la formula: «l’uomo non è nient’altro che... » L’uomo, d’ora
innanzi, vale come teatro di processi neuro-fisiologici, di tensioni dinamico-pulsionali, di processi
chimici. Soltanto qui trionfa il «pensiero dell’esteriore » (Foucault), una considerazione esteriore
dell’umano che lascia valere l’esperienza interiore di sé ormai solo come un epifenomeno.
Naturalmente, Nietzsche non abbandona l’esperienza interiore. Ma si trova oppresso e talvolta attua
un’identificazione con l’aggressore. Corre, in modo sperimentale e scherzoso, sull’altro versante,
intonando, tormentandosi e provocando, il suo canto di lode alla fisica: « Dobbiamo diventare
coloro che meglio apprendono e discoprono tutto quanto al mondo è normativo e necessario:
dobbiamo essere dei fìsici per poter essere in quel senso dei creatori, mentre fino a oggi tutte le
valutazioni e gli ideali sono stati edificati sull’ignoranza della fisica oppure in contraddizione con
essa. E perciò: sia lode alla fisica, e ancor più a quel che ci costringe a essa: la nostra rettitudine! »
(GS:241ss.)
Da una parte, dunque, Nietzsche include senz’altro l’uomo negli accadimenti della natura, lo
naturalizza e lo spersonalizza, trattandolo come « cosa tra cose ». Dall’altra parte, però, Nietzsche
parla del fatto che noi possiamo essere « creatori »; creatori che eseguono le leggi sulle quali non
hanno potere. Oltretutto, in cosa deve consistere l’elemento creativo, se noi siamo dunque
determinati dalle leggi di natura? La risposta di Nietzsche è stupefacente e, tralasciando il suo
pathos, abbastanza povera: siamo creativi quando possiamo sopportare e persino affermare 1 ’
idea di un essere continuamente determinato in base a leggi di natura, senza per questo distruggerci;
quando l’assurdo della determinazione assoluta non ci spaventa più; quando riusciamo a riconoscere
quella determinazione senza per questo diventare dei fatalisti. Questo è il punto sul quale ora
Nietzsche deve davvero combattere e riflettere contro se stesso, contro la sua passione per il libero
gioco. Con ciò che in precedenza scherniva, prova ora a cimentarsi:
spiegare l’universo a partire da un punto. In Al di là del bene e del male, un’opera che nasce
nell’inverno del 1885-86 e nella quale sono inclusi anche materiali del lavoro alla Volontà di
potenza, scrive: « Posto infine che si riuscisse a spiegare tutta quanta la nostra vita istintiva come la
plasmazione e la ramificazione di un’unica forma fondamentale del volere - cioè della volontà di
potenza, come è la mia tesi posto che si potesse ricondurre tutte le funzioni organiche a questa
volontà di potenza [...] ci si sarebbe con ciò procurati il diritto di determinare univocamente ogni
forza agente come: volontà di potenza. Il mondo veduto dall’interno [...] sarebbe appunto ’volontà
di potenza’ e nient’àltro che questa» (ABM:44).
Contro le concezioni riduzionistiche, le quali di una X affermano che essa sia in realtà una Y «e
nient’altro che questa», un’attitudine che nelle scienze del suo tempo era ampiamente diffusa...
contro questo si scagliò Nietzsche. Tali spiegazioni avevano per lui il valore di una
pessima mitologia. Ma quello che il tardo Nietzsche, unendo alcuni assiomi che trae dal darwinismo
biologico e dalla fisica del suo tempo, compone in ima filosofìa metafìsica della volontà di potenza
lo porta ugualmente alla mitologia, intesa come chiave generale di spiegazione universale,
che fortunatamente però non elabora sino alla fine e che si regge su alcuni, pochi assiomi
fondamentali: la singola vita è forza, energia. La vita nel tutto è un campo di forze dove le masse
energetiche sono distribuite in maniera disuguale. Vale il principio di conservazione dell’energia;
inoltre non v’è alcuno spazio intermedio «vuoto». Dove qualcosa avanza, qualcos’altro retrocede,
una crescita energetica in un punto significa una diminuzione di essa in un altro punto. Una forza
schiaccia le altre, le accoglie in se stessa, si frantuma, viene inghiottita da un’altra forza e così
via: un gioco assurdo ma dinamico di crescita, accrescimento, sopraffazione, lotta.
Tanto vasto, tanto coerente. Ma si sa cosa ne è dei sistemi « coerenti »: da essi si ricava sempre e
solo ciò che vi si
è immesso come premessa. È così anche per il « sistematico» Nietzsche. Egli scopre nella natura
quelle brutalità che vi ha immesso in conseguenza di un provvisorio senso della vita e dello spirito
materialistico del suo tempo.
Ora, gli avvenimenti naturali, anziché come «lotta» criminale, si possono ugualmente considerare
come il «gioco» di forze. Dipende, come sappiamo proprio grazie a Nietzsche, dalla prospettiva che
pone i valori. Nessuna è cogente, ma l’importante è che sia uno, e lo stesso passaggio liminare che
fa apparire la vita ora come una baraonda di lotte ora come un gioco... è un passaggio liminare
verso una visione complessiva della vita. Il tardo Nietzsche vive nella lacerante tensione fra due
siffatte visioni, quella del grande gioco universale e quella del potere come «causa prima». La
differenza fra queste due visioni è che il grande gioco incoraggia all’ironica relativizzazione di sé,
mentre la volontà di potenza come « teorema della causa prima» gli permette la vendetta
immaginaria per le umiliazioni e le offese sofferte: egli si abbandona ai fantasmi della violenza che
gli dettano quelle incredibili frasi di Ecce homo, nelle quali si parla del « partito della vita », «
che prende in mano il più grande di tutti i compiti, l’allevamento dell’umanità al superamento di se
stessa, includendovi l’inesorabile annientamento di tutto ciò che è degenere e parassitario » (EH:
71).
La visione del gioco universale è d’altronde regolata su un’altra tonalità. Alla fine della loro
compilazione, la sorella e Peter Gast posero il passo meraviglioso e famoso che Nietzsche scrisse
nell’estate del 1885; è un tentativo di dire, in poche frasi molto slanciate, che cosa fosse la volontà
di potenza, intesa come grande gioco universale: « E sapete anche cos’è per me ’il mondo’? Ve lo
devo mostrare nel mio specchio? Questo mondo: un mostro (Ungeheuer) di forza, senza principio e
senza fine, una salda, bronzea massa di forza, che non diviene né più grande né più piccola, che non
si consuma ma soltanto si trasforma, come un tutto di grandezza immutabile, un’ammini-
strazione senza spese né perdite, ma del pari senza accrescimento, senza entrate, un mondo
attorniato dal ’nulla’ come dal suo confine, nulla che svanisca, si sprechi, nulla di infinitamente
esteso, ma come una forza determinata è collocato in uno spazio determinato, e non in uno
spazio che sia in qualche parte ’vuoto’; piuttosto come forza dappertutto, come giuoco di forze e
onde di forza esso è in pari tempo uno e ’plurimo’, che qui si gonfia e lì si schiaccia, un mare di
forze tumultuanti e infunanti in se stesse, in perpetuo mutamento, in perpetuo riflusso, con anni
sterminati del ritorno, con un flusso e riflusso delle sue figure, passando dalle più semplici alle più
complicate, da ciò che è più tranquillo, rigido e freddo a ciò che è più ardente, selvaggio e
contraddittorio, e ritornando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino
al piacere dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza delle sue vie e dei suoi
anni, benedicendo se stesso come ciò che ritorna in eterno, come un divenire che non conosce
sazietà, disgusto, stanchezza: questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso,
del perpetuo distruggere se stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo mio al di là
del bene e del male, senza scopo, se non c’è uno scopo nella felicità del circolo, senza volontà, se
un anello non ha buona volontà verso se stesso - volete un nome per questo mondo? Una soluzione
per tutti i suoi enigmi? Una luce anche per voi, i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impavidi, i
più notturni? - Questo mondo è la volontà di potenza - e nient ’altro! E anche voi stessi siete questa
volontà di potenza - e nient’altro! » (FP7/3:292ss.; trad. mod.).
In queste frasi, che si accordano alla grande musica dell’universo, è espressamente prodotto anche il
legame con l’insegnamento del ritorno dell’uguale. Il principio fondamentale delle delimitate masse
energetiche nel tempo infinito lascia desumere il ritorno di tutte le possibili costellazioni.
Nell’immagine del «flusso e riflusso» esso diventa visibile. Naturalmente è il « discorso per
immagini » di ti-
po metafisico. Nietzsche di questo è consapevole, sa che tenta di conoscere l’inconoscibile, di
pensare l’impensabile. Nell’estate dell’ispirazione, nel 1881, Nietzsche annota la frase: « Solo dopo
che fu nato un mondo immaginario contrario, in contraddizione col flusso assoluto, si potè, su
questa base, conoscere qualche cosa» (FP5/2:367ss.). Il «flusso assoluto» è l’immagine per
l’inconoscibile... ogni pensiero e ogni conoscenza si muovono d’altronde in un «mondo
immaginario contrario»; ma «perché è possibile pensare degli opposti » e cioè: poiché a partire dal
« mondo immaginario contrario » può essere desunto il suo opposto, si svela appunto perciò
l’impensabilmente immenso del processo vitale. Tuttavia, di questo immenso si dice: « La verità
ultima del flusso delle cose non tollera l'assimilazione-, i nostri organi (per la vita) sono organizzati
sull’errore » (FP5/2:368).
Questa immagine figurata dell’approssimazione all’immenso delinea un drammatico decorso, che
Nietzsche, in un altro frammento del periodo dello Zarathustra, ha rappresentato persino
teatralmente: «Improvvisamente, si spalanca la stanza tremenda della verità. C’è
un’inconscia protezione di sé, una prudenza, un mascheramento, una difesa di fronte alla
conoscenza più grave [...] Adesso, rotolo via l’ultima pietra: la più tremenda delle verità mi sta
di fronte. - Evocazione della verità dal sepolcro. Noi la creammo, noi la destammo: suprema
espressione del coraggio e del sentimento di potenza [...] Fummo noi a creare il pensiero più grave -
adesso creiamo l’essere per il
t
quale quel pensiero sia lieve e beato! Per poter creare, dobbiamo darci noi stessi una libertà più
grande di quella che ci è mai stata data; per questo, liberazione dalla morale e ricreazione per mezzo
di feste (presagi del futuro! Celebrare il futuro, non il passato! Cantare il mito del futuro! Vivere
nella speranza!) Attimi di beatitudine! E poi calare di nuovo il sipario e rivolgere i pensieri a scopi
solidi e  vicini» (FP7/l-2:265ss.).
Un romanticismo addirittura raccapricciante circonda
questa «verità dal sepolcro». Il «tremendo» (come già descritto nel capitolo XI) deve trovarsi nel
fatto che tutto ciò che richiede l’uomo istintivamente, ossia l’unità, la stabilità, un senso e un
obiettivo, manca nel processo universale. E sopportare questo fatto non è una cosa da tutti; la
maggior parte degli uomini necessita di accecamenti; bisogna, afferma Nietzsche, «cantare il mito
del futuro» e produrre «ricreazione» con l’aiuto di «feste».
Ma questo sguardo alla « grande corrente » eraclitea è davvero così tremendo? Non stimola
piuttosto il senso del sublime? Infatti è così. E da qui lo splendore poetico del discorso per
immagini. Il vero orrore e la causa dello sgomento vengono menzionati altrove. In un abbozzo
del 10 giugno 1887 intitolato II nichilismo europeo (un importante lavoro preparatorio alla Volontà
di potenza) Nietzsche ha descritto il vero orrore davanti alla natura. Concerne la sua immane
ingiustizia e la sua mancanza di riguardo. Esse producono deboli e forti, favoriti e meno favoriti. In
esse non v’è alcuna benevola provvidenza, alcuna giusta divisione delle possibilità di vita. Su
questo sfondo, la morale si può definire come il tentativo di bilanciare la « ingiustizia » della natura,
di creare contrappesi. Va spezzato il potere dei destini naturali.
Un tentativo particolarmente geniale in questo senso (per Nietzsche) è stato il cristianesimo. Esso
ha offerto tre vantaggi ai «falliti»: conferì all’uomo un «valore assoluto, in contrasto con la sua
piccolezza e casualità nella corrente del nascere e del perire» (FP8/1:199); in secondo luogo, il
dolore e il male vennero resi sopportabili, dando loro un « senso »; e in terzo luogo, nella fede nella
creazione, il mondo venne inteso come compenetrato dallo spirito e pertanto conoscibile e prezioso.
In tal modo, il cristianesimo ha evitato all’uomo svantaggiato per natura «di disprezzarsi in quanto
uomo, di prendere partito contro la vita» (FP8/1:200). L’interpretazione cristiana del mondo
ha attutito la crudeltà della natura e ha incoraggiato alla vita, mantenendoli in essa, degli uomini che
altrimenti sarebbe-
«
ro stati disperati. In una parola, essa ha preservato « dal nichilismo i falliti» (FP8/1:203).
Se lo si considera come offerta all’umanità di non lasciare al destino naturale semplicemente il suo
corso, bensì di produrre per il maggior numero possibile un ordinamento vivibile, allora si dovrebbe
essere grati al cristianesimo di aver introdotto nel mondo la sua ipotesi di morale. Nietzsche parla
colmo di riconoscimento della forza creatrice di valori del cristianesimo, ma non è grato a
esso. Perché no? Perché il riguardo per i deboli, la morale della parificazione ostacolano ai suoi
occhi lo sviluppo e il dispiegamento di un’umanità superiore.
Egli poteva immaginarsi l’umanità superiore, come abbiamo appreso nel frattempo, soltanto quale
culmine della civiltà nella sua « suprema estasi », negli individui e nelle opere di successo. La
volontà di potenza, del resto, libera questa dinamica del culminare, ma è ugualmente la volontà di
potenza che si costituisce in « partito » morale sul versante dei deboli, ostacolando questo culminare
e da ultimo, secondo la diagnosi di Nietzsche, conducendo al livellamento e alla degenerazione
universali. Questo «partito», che trae le moderne conclusioni a partire dalla « ipotesi della
morale cristiana», è costituito dalla democrazia e dal socialismo, che perciò vengono combattuti
così energicamente da Nietzsche. Infatti, per lui il senso della storia universale non sono la felicità e
il benessere del maggior numero possibile di persone, ma la riuscita della vita in singoli casi.
La civiltà della democrazia politica e sociale è per lui una faccenda di quelli che vengono detti
sprezzantemente gli « ultimi uomini». Nietzsche butta in mare l’etica socialstatale del benessere
generale perché, a suo parere, è d’ostacolo alla plasmazione di sé del grande individuo. Ma se
spariscono le grandi personalità, va perso anche l’unico senso ancora rimasto della storia.
Difendendo questo senso rimanente nella storia, Nietzsche attacca la democrazia e annuncia che
bisogna quantomeno ritardare « il completo rabbonimento del democratico uomo di branco»
(FP7/3:267).
Il problema può essere formulato in tal modo: Nietzsche non è in grado di collegare una all’altra le
idee dell’accrescimento di sé e della solidarietà oppure quanto meno di lasciarle coesistere una
accanto all’altra. Il critico del cristianesimo avrebbe potuto imparare da esso su un punto decisivo: il
genio del cristianesimo consistette per secoli appunto nell’aver collegato una all’altra, in maniera
raffinata, entrambe le opzioni, quella della solidarietà e quella dell’accrescimento di sé. Il
riferimento a dio, quando non era inteso soltanto in senso morale, significò un ampliamento
immenso della sfera dell’anima, e il raffinamento morale permise un accrescimento di sé che poteva
rimanere solidale a livello sociale. Infatti, questi accrescimenti e questi slanci non venivano intesi
come prestazione propria, bensì come grazia, il che mitigava l’orgoglio della distinzione. Inoltre,
l’accrescimento di sé era inserito nel contesto dei due mondi: la civitas dei e la civitas civilis. Là si
poteva essere grandi e qui piccini. Chi capisce di vivere in questi due mondi ha meno difficoltà a
collegare uno all’altro il principio dell’accrescimento di sé e quello della solidarietà. Nietzsche,
seppure al tempo di Umano, troppo umano pensasse a una sorta di « sistema bicamerale » della
civiltà (che da un lato viene infiammato con dei colpi di genio e dall’altro lato viene raffreddato dai
princìpi del common sense e bilanciato in direzione dell’utilità collettiva alla vita), Nietzsche volle
dunque da ultimo un unico mondo, e rigettò la raffinata teoria dei due mondi di un Agostino o di un
Lutero. E in questo modo si è schierato contro la vita democratica, organizzata secondo il principio
del benessere. Per lui un tale mondo significava il trionfo del gregge umano. Ma egli voleva
soprattutto stabilire la differenza fra sé e i tanti altri. La sua opera è la grande confessione di questo
sforzo. In essa è documentata la fatica, durata una vita intera, di fare di se stesso un grande
individuo.
Guardare affascinati e forse anche con ammirazione a questo pensiero in prima persona, a queste
manovre di
plasmazione del sé, senza però abbandonare l’idea della democrazia e della giustizia, sarebbe stato
forse da Nietzsche considerato uno stanco compromesso, un’indecisione, quell’ominoso «strizzare
l’occhio» degli «ultimi uomini ».
Ma forse si sarebbe anche ravveduto del fatto che fu egli stesso a esigere dai suoi lettori la riserva
ironica. «Stare dalla mia parte non è assolutamente necessario e tanto meno auspicabile: al
contrario, una dose di curiosità, come di fronte a una creazione estranea, con un’ironica resistenza,
mi parrebbe una posizione incomparabilmente più intelligente nei miei confronti» (B8,375ss.;
luglio 1888).
Durante il lavoro alla Volontà di potenza, Nietzsche scrive, ogni volta in poche settimane, Al di là
del bene e del male (1885-86), il quinto libro della Gaia scienza, nuovamente edita (ottobre 1886) e
la Genealogia della morale (estate 1887); queste opere riassumono, fanno il punto e dispiegano
idee che vennero già presentate nelle prime opere e utilizzano pensieri dal lavoro alla Volontà di
potenza. Bisogna tenere presente che Nietzsche, con la sua incostante vita errabonda, certamente si
faceva spedire delle casse di libri, ma non sempre aveva a portata di mano le sue prime opere. E
spesso si lamenta del fatto che quello che ha già scritto una volta gli sia svanito dalla memoria. Il 13
febbraio 1887, in occasione della stampa della seconda edizione della Gaia scienza, per esempio,
prega Peter Gast di correggere il manoscritto, aggiungendo l’osservazione: « Ora io stesso, per così
dire, sono curioso di quel che posso aver scritto allora. Mi è completamente svanito dalla memoria»
(B8,23). Talvolta, indietreggia persino davanti alla lettura delle sue opere. Nell’anno delle
prefazioni, il 1886, ha certamente scritto in merito alle sue opere, ma ha evitato di rileggerle ancora
una volta: «A posteriori, mi sembra una fortuna», scrive il 31 luglio
1886 a Peter Gast, «di non aver avuto sotto mano né ’Umano, troppo umano’, né la ’Nascita della
tragedia’, allorché scrissi queste prefazioni: infatti, detto fra noi, non riesco più a sopportare tutta
questa roba » (B7,274). Questa è un’osservazione scritta in un momento di depressione. Infatti, due
anni più tardi, durante l’ultimo autunno a Torino, sospinto da un’euforia senza pari in occasione
della lettura delle sue prime opere, scrive a Peter Gast: « Da 4 settimane capisco le mie stesse
opere... ancora di più: le apprezzo. In tutta serietà, non avevo mai saputo quello che significano;
mentirei se volessi dire, escludendo lo ’Zarathustra’, che mi si siano imposte» (B8,545; 21 dicembre
1888). Nell’estate del medesimo anno, chiede per sé a Meta von Salis un esemplare della
Genealogia,  comparsa l’anno precedente. La nuova lettura della sua opera, datata di un anno scarso,
lo induce all’osservazione: «Il primo sguardo al suo interno mi sorprese [...] Sostanzialmente,
ricordavo soltanto il titolo delle tre trattazioni:
il    resto, cioè il contenuto, era andato a farsi friggere» (B8,396; 22 agosto 1888).
Le frequenti ripetizioni nell’opera di Nietzsche trovano in ciò la loro ragione: egli dimenticava
semplicemente quello che aveva già scritto.
Ciò che Nietzsche dirà nel 1888 a proposito del suo Crepuscolo degli idoli, ossia che in esso
avrebbe esposto le sue «più essenziali eterodossie filosofiche» (B8,417;
12    settembre 1888), vale già per Al di là del bene e del male. Egli esamina scrupolosamente la
serie di finzioni metafisiche con cui lo spirito occidentale ha delineato il mondo immaginario
dell’inalterabilità, dell’unità e della durata contro il « flusso assoluto » eracliteo del divenire e del
trascorrere. Non esistono gli opposti « dialettici », ma soltanto passaggi mobili, non esistono in
generale le regolarità storiche. Le idee (kantiane) dell'aprioristicità della nostra ragione non sono
altro che resti religiosi, sono rappresentazioni che ormai amiamo della piccola eternità nell’intelletto
finito umano. In generale, l’« io » è una finzione. Esi-
stono, anche in merito agli uomini, soltanto eventi, azioni, e, poiché non si sopporta la dinamica
dell’accadere anonimo, si va in cerca di un attore per aggiungerlo alle azioni. L’« io » è una tale
invenzione aggiuntiva. Con poche frasi, il cogito ergo sum di Cartesio viene spazzato via dal
palcoscenico. Proprio nel pensiero si mostra come sia soltanto l’atto del pensare a produrre l’attore.
Non è l’io che pensa, ma è il pensiero che mi fa dire «io». In un’analisi sottile della volontà,
Nietzsche mostra che questo tema è stato pensato in modo troppo grossolano. La volontà non è,
come vuole Schopenhauer, un’unità dinamica, ma un groviglio di tendenze distinte, un campo di
battaglia di energie che lottano per il potere.
In un capitolo ispirato, Nietzsche indaga il potere della religione. Gli interessa soprattutto l’idea che
la religione cristiana, con la sua « ipotesi della morale », difenda certo, come già descritto, i «falliti»
dalla crudeltà della natura ingiusta e quindi dal nichilismo, ma che proprio perciò sia anche
espressione della volontà di potenza. Infatti, il cristianesimo ha prodotto un intero mondo spirituale
della vita che ha preparato una fine al mondo antico, e quindi il corteo trionfale del cristianesimo è
una dimostrazione del fatto che la trasvalutazione dei valori è possibile. Da questa prospettiva, egli
parla colmo d’ammirazione dei geni religiosi come Paolo, Agostino o Ignazio di Loyola; essi hanno
inficiato il mondo intero con le loro ossessioni, hanno ruotato il palcoscenico della storia e creato un
mondo della vita nel quale degli uomini hanno operato e respirato spiritualmente. In confronto a
questi atleti religiosi, l’uomo comune nell’epoca della modernità disincantata e del nichilismo è una
bestia da lavoro priva di fantasia, una povera creatura: « Pare che non resti loro tempo alcuno per
la religione e che sia specialmente poco chiaro per essi se si tratta, in questo caso, di un nuovo
affare o di un nuovo piacere» (ABM:63). La civiltà nichilistica conosce soltanto gli affari o lo
svago. Contro questo impoverimento nichilistico della vita nella modernità, Nietzsche difende
persi-
no la primitiva civiltà religiosa: l’immenso impeto con cui essa ha creato e imposto valori lo
incoraggia a considerare possibile e promettente una futura trasvalutazione dei valori, alla quale egli
si sente autorizzato.
Il saggio Genealogia della morale, scritto un anno dopo, espone l’analisi e la critica della morale,
già sviluppata nelle prime opere, con una sobria e grandiosa compiutezza. Sembra giusto quel che
Nietzsche scrive nella lettera menzionata a Meta von Salis a proposito di questo libro: «Allora
dovevo essere in uno stato di ispirazione quasi ininterrotta, perché questo scritto scorre via come la
cosa più naturale di tutte. Non si nota in esso alcun affanno» (B8,397; 22 agosto 1888).
La Genealogia, per la prima volta dopo la Nascita della tragedia e le Considerazioni inattuali, è di
nuovo una grande trattazione, in sé compiuta, articolata in tre capitoli su Buono e malvagio, su
Colpa e Cattiva coscienza e sulla domanda Che significano gli ideali ascetici? In base al principio
basilare che i fondamenti della morale stessa non sono morali, bensì rispecchiano rapporti di lotta e
di forza, Nietzsche espone nel primo capitolo, come teoria in sé compiuta, le sue famose idee, già
accennate in Aurora, sulla nascita della morale dallo spirito del risentimento: alla base della
valutazione « buono e malvagio » si trova quell’altra, più antica: « buono e cattivo ». La sua tesi:
sono stati i deboli, bisognosi di protezione, che hanno chiamato « malvagio » il forte minaccioso;
essi stessi, tuttavia, dalla prospettiva dei forti, avevano il valore di «cattivi», nel senso di usuale,
basso. L’intero universo morale nasce da queste attribuzioni e valutazioni prospettiche. Gli
svantaggiati dalla vita possono difendersi contro lo strapotere dei forti solo, dapprima,
assembrandosi e poi trasvalutando i valori, ossia definendo come non-virtù le virtù dei forti come
l’assenza di riguardi, la fierezza, l’audacia, il piacere di dissipare, l’ozio, ecc. e presentando,
viceversa, come virtù le conseguenze abituali delle loro debolezze come l’umiltà, la pietà, la
solerzia, l’obbedienza: «Nella morale la ri-
volta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il
ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, : è negata e che si
consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria » (GM:25ss.). Il sistema della loro morale
è la «vendetta immaginaria», che poi ha successo se i forti non possono fare altrimenti che giudicare
se stessi dalla prospettiva dei deboli. I forti sono vinti se si lasciano avviluppare dal mondo
immaginario della morale del risentimento. La lotta nella morale riguarda il potere di definizione:
chi si lascia giudicare da chi.
La lotta per il potere di definizione conduce nella camera degli specchi delle valutazioni di sé.
Come si definisce se stessi? Chi è l’« io » della valutazione e chi il «sé»? Nel secondo capitolo,
Nietzsche accenna a quell’ambito incommensurabile del «lavoro preistorico», mediante il quale
soltanto il genere umano ha prodotto se stesso. Costringersi all’interno di una stabilità, anzi di una
calcolabilità, moderare e modellare le eccitazioni, intrecciare un reticolo di rituali e modi di
comportamento, fare della pulsione una coscienza e lasciarsi spezzare la bramosia in un sapere
comune... come sia venuto in luce tutto ciò nel corso dei millenni e come si sia svolto davvero, non
lo sappiamo quasi, sprofonda nel buio della preistoria. Come si riuscì, così suona la domanda di
Nietzsche, ad « allevare [l’uomo come] un animale, cui sia consentito far promesse» (GM:45)? Si
tratta della lunga storia durante la quale l’uomo divenne individuo sperimentandosi come dividuum,
ossia come ente scisso, come un rapporto vivente con se stesso. Come si giunse al fatto che l’uomo
divenne una ferita dolorosa, che qualcosa in lui vive e qualcos’altro in lui pensa, che in lui esistono
inclinazioni e una coscienza che le contraddice, qualcosa in lui che comanda e qualcosa che
obbedisce? In questa lunga storia, il cristianesimo tuttavia è soltanto un breve episodio, seppur
l’ultimo, per il momento.
Il cristianesimo, con la sua morale dell’amore per il
prossimo, dell’umiltà e dell’obbedienza, significa per Nietzsche, complessivamente, una vittoria
della «morale degli schiavi», con la conseguenza che le nature forti, che naturalmente continuano a
esserci, vengono costrette a tutti i possibili compromessi, camuffamenti, occultamenti e mediazioni
nello scatenamento della loro forza. Il terzo capitolo, dove vengono descritti la genesi e le
incarnazioni degli ideali ascetici, è un esempio compiuto per il mascheramento della forza in una
civiltà religiosa dell’umiltà. Infatti, l’asceta sacerdotale è un uomo di potere camuffato. In lui si
compie un’inversione del potere. Il sacerdote ascetico (come anche l’ascetismo in generale) mostra
la sua natura dominante istituendo un rigoroso dominio contro il proprio corpo e la varietà dei
bisogni sensibili. L’asceta è il virtuoso del dire-di-no. Egli è un potente anti-Dioniso. L’asceta
impersona la vita come spirito che trancia la vita. Nietzsche ne parla non senza ammirazione,
poiché si rende conto che egli stesso, nonostante il dire-di-sì dionisiaco, è piuttosto una natura
ascetica. La dinamica di quest’ultimo capitolo si connette esattamente a ciò: Nietzsche osserva che
egli stesso è una parte di quel problema che voleva descrivere appunto col « pathos della distanza»
(GM:15). Egli ha dedicato la sua vita al conoscere, la volontà di verità fu la sua più forte
pulsione. Ma la volontà di verità, che si volge contro la tendenza spontanea della vita, contro le
illusioni benefiche e le delimitazioni dell’orizzonte utili alla vita, questa volontà di verità non è,
essa stessa, spirito ascetico che trancia la vita? Quando, alla fine di questa volontà di verità, l’uomo
e il suo mondo si allontanano dal centro, quando le scienze lavorano all’«autodiminuirsi dell’uomo»
(GM:149) nel cosmo, quando la volontà di verità fa sorgere l’onesto ateismo... allora questa è «la
catastrofe, imponente rispetto, di una bimillenaria costrizione educativa alla verità, che finisce per
proibirsi la menzogna della fede in Dio» (GM:154). Questa «costrizione educativa alla verità» però
è l’ascetismo cristiano. E Nietzsche stesso sa di essere
un tardo erede di questa disciplina. Così, al termine della Genealogia della morale, Nietzsche
giunge a sé: « Che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal fatto che in noi
codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a se stessa come problema? » (GM:156) È
l’estate del 1887 a Sils-Maria, dove Nietzsche redige, come in volo, la Genealogia. Già in agosto
inizia a nevicare. Intorno a lui tutto si fa bianco e silenzioso, gli ospiti dell’albergo partono uno
dopo l’altro. Nietzsche, che vi rimane da solo... cos’altro è se non un asceta della volontà di verità?
Il 30 agosto scrive a Peter Gast: « Ciò nonostante, una sorta di soddisfazione e progresso, sotto tutti
gli aspetti; soprattutto, una ferma volontà di non esperire più nulla di nuovo, di scansare il ’fuori’ e
di fare ciò per cui si esiste» (B8,137).
I

Ma a qual fine si esiste?


* Gioco di parole fra Wunde (ferita) e verwunden, dal verbo verwinden (vincere, superare). (N.d.T.)

14. L’ultimo anno. Pensare la sua vita. Pensare


per la sua vita. Il sorriso degli àuguri. Fatalità e
serenità. Il silenzio del mare.
Il finale a Torino.
L’ULTIMO anno prima del crollo, Nietzsche lavora sempre alla Volontà di potenza. Non smette di
raccogliere le sue idee su questo tema, di fame rubriche, di abbozzare articolazioni. Ma cresce
l’impazienza. Egli urge verso un obiettivo, il suo obiettivo: la «trasvalutazione dei valori» va portata
a compimento, vanno tratte le conclusioni morali essenziali. Nietzsche percepisce che non gli resta
più molto tempo e dunque è giunto per lui il momento della definitiva resa dei conti. Da giovane si
introdusse fra i grandi filosofi dell’antichità e scoprì la loro volontà di dominio. Un grande filosofo
è per lui più di un membro di una comunità di discorso. Le loro parole avevano per lui il valore di
parole definitive. Con l’entrata in scena di un grande filosofo mota il palcoscenico della storia. Il
grande filosofo taglia il nodo-problema gordiano, come fece un tempo Alessandro sul piano
politico. Durante quest’ultimo anno, Nietzsche concresce con i suoi ideali di grandezza storica. Alla
fine, sparisce in essi; si potrebbe anche dire: vi precipita. Egli adesso si sente come uno di questi
grandi filosofi. È emerso dalla profondità del tempo e giunto all’altitudine dalla quale si domina
tutto con lo sguardo e da cui ci si accinge a fare epoca. La montagna ha avuto le doglie e ha
partorito un messaggio che ora deve essere annunciato ai popoli. Nietzsche scende dal suo Sinai con
nuove tavole della legge. Ora è tempo di parlare chiaramente, forse sin troppo chiaramente. Le
premesse spirituali dell’epoca futura non devono più essere svelate in maniera attutita
dalle riflessioni, ma con decisione. Filosofare col «martello»,
come annuncia il Crepuscolo degli idoli dell’estate 1888, non significa soltanto picchiettare le idee
e i princìpi valsi finora alla maniera di un medico che ausculta per indagarne la cavità, ma significa
anche abbattere gli idoli. Si intende nel doppio senso: un martelletto e un martello, indagare e
abbattere, diagnosi ed energica terapia.
Le ultime opere, che nascono in veloce successione - Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli,
L’Anticristo e Ecce homo - non sviluppano più alcuna idea, ma ciò che è già noto viene increspato o
acuminato. Vengono omesse differenziazioni, obiezioni, contraddizioni. Cresce invece il dispendio
scenografico e teatrale dell’esposizione. Aumenta l'autoreferenzialità. Ormai, Ecce homo ruota
quasi soltanto attorno alla domanda: ma chi sono io, che mi è concesso e permesso di pensare così
come io penso?
Le idee che si trovano al centro delle ultime opere sono (e come aspettarsi altro?) la volontà di
potenza nella doppia visione, come grande politica e come arte di vivere individuale, la critica alla
morale del risentimento e la lode della vita dionisiaca come superamento dell’appiattimento e della
depressione nichilistici. Qui c’è meno di che stupirsi; in maniera tanto più affascinante è da
osservare come Nietzsche, il creatore della sua « seconda natura », gradualmente diventi tutf uno
con la sua stessa creazione. Egli scalzò se stesso e fece luce dentro di sé, guardò al mondo da « tanti
occhi » e con ciò si ravvide, guardò quindi da altri numerosi occhi ai suoi tanti occhi, si conobbe
fino all’esaurimento e al giubilo, questo « sé » divenne per lui un intero continente inesplorato che
volle scoprire; e tutte le esplorazioni lo condussero continuamente alle energie creative che stanno
alla base della vita pratica, dell'arte, della morale e della scienza; sì, anche la scienza, che per lui è
ugualmente espressione dell’immaginazione produttiva, un culto delle immagini sullo
sfondo dell’immenso. Alla fine, però, il principio creativo esaurisce ogni realtà oppositiva. Quella
figura alla quale Nietzsche s’è rifatto rimane padrona della scena e tutto il resto arretra davanti al
furore della produzione immaginaria di sé.
Nella lotta con la sua «prima natura», Nietzsche s’inventa un passato dal quale vorrebbe provenire:
egli è un « nobile polacco pur sang », spiega in Ecce homo, e scrive poi alla fine di dicembre del
1888 quelle frasi che vennero nascoste al pubblico, prima dall’editore e da Peter Gast e poi dalla
sorella: « Se cerco qual è la più profonda antitesi di me stesso, la incalcolabile volgarità degli istinti,
ritrovo sempre mia madre e mia sorella, - credermi imparentato con una tale canaille sarebbe un
bestemmiare la mia divinità» (EH:21). La madre e la sorella sono, insieme, una «perfetta macchina
infernale» e lo riempie d’orgoglio di averla scampata sano e salvo. Ciò gli è riuscito soltanto grazie
appunto alla sua forza creativa per la produzione di quella «seconda natura». Tuttavia non deve
sentirsi troppo sicuro, poiché il ritorno dell’uguale potrebbe regalargli di nuovo l’antica sventura.
«Ma confesso», scrive ancora, « che la più profonda obiezione contro l”etemo ritorno’, il mio
pensiero propriamente abissale, è sempre mia madre e mia sorella» (EH:21). Solamente in
seguito non le tratterà più in questo modo terribile, quando smarrirà se stesso dopo il crollo. Finché
è ancóra desto, a casa fugge la «macchina infernale» diventando «dinamite»: « Conosco la mia
sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme - una crisi, quale mai
si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto
ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite» (EH: 127).
Durante i giorni euforici dell’ultimo autunno a Torino nel 1888, trarre tutte le conclusioni, anche le
più estreme, a partire dalla scoperta che dio è morto, aveva per lui il valore di « immenso ».
« Dioniso contro il Crocefisso », così firma le sue ultime lettere. Non soltanto questi « biglietti della
follia », come li si è chiamati in seguito, ma anche quella grandiosa interpretazione di sé scritta di
proprio pugno prima di morire, Ecce homo, che senza dubbio era destinata al pubblico, si
conclude con queste parole: « Sono stato capito? Dioniso contro il Crocefisso! » (EH: 137)
Ora però, come sappiamo, la notizia che dio è morto, nel tardo XIX secolo, non è più una novità.
Specialmente fra gli istruiti, a cui Nietzsche si rivolge, la religione è per lo    più rigettata. Le
scienze della natura stanno avanzando.
Il    mondo viene spiegato a partire da « leggi » meccaniche ed energetiche. Non si cerca più il
significato e il senso, bensì si bada a come tutto funziona e a come si possa eventualmente
intervenire in queste modalità di funzionamento e rendersele fruibili. Il corteo di vittoria di
Darwin ha abituato il pubblico all’idea dell’evoluzione biologica; non esiste, così si è appreso,
alcuna evoluzione della vita che tenda a uno scopo, bensì gli accidenti della mutazione e la legge
della giungla della selezione determinano il processo storico-naturale. Si può ben pensare infatti
anche al di là dell’uomo, ma non rivolgendosi in alto al divino, bensì in basso al bestiale. Al posto
di dio, il tema è ora la scimmia. Sulla natura, dio ha perso la sua giurisdizione, ma anche sulla
società, sulla storia e sul singolo. Nella seconda metà del XIX secolo, si considerano anche la
società e la storia come qualcosa che si possa comprendere e spiegare a partire da se stessi. L’ipotesi
di dio è divenuta superflua.
Nietzsche, con la sua frase secondo cui dio è un’ipotesi troppo forte, già da tempo non era più un
outsider. La fiducia in dio era ormai soltanto una schematica assunzione di fondo. Il movimento dei
lavoratori fece molto per la volgarizzazione delle scienze della natura e di quelle sociali e in tal
modo l’ateismo moderno non rimase soltanto uno stile di pensiero e di vita degli istruiti, bensì
arrivò anche ai «dannati di questa terra», i quali dovevano essere davvero particolarmente ricettivi
per le consolazioni della religione, ma che, sotto l’influsso del marxismo, potevano ripromettersi un
futuro migliore dall’evoluzione storica. Nietzsche osservò senza dubbio l’erosione sociale della
fede. Ma come poteva dunque annunciare la scoperta che
dio era morto come qualcosa di «immenso»? Nietzsche non arrivò troppo tardi con il suo
messaggio? Non sfondò porte già spalancate?
Ci sono molte risposte.
C’è anzitutto quella biografica. Nietzsche, questo «piccolo pastore», come si definì dodicenne,
quella «pianta nata vicino al camposanto », come egli stesso si caratterizzò, si è liberato soltanto
con difficoltà del suo' dio, benché in Ecce homo abbia messo, in merito a ciò, su una falsa pista: «A
me spetta far guerra al cristianesimo, perché da quella parte non mi sono venute né disgrazie né
ostacoli» (EH:29). Questo non è vero. Qualche pagina dopo lo ammette a se stesso, quando
interpreta l’attacco alla morale cristiana come necessario per il superamento di una debolezza
(l’inclinazione alla pietà). Tuttavia, il dio cristiano della pietà rimane una spina nel fianco. Dio può
ben essere morto da un bel pezzo nella consapevolezza collettiva, ma Nietzsche percepisce ancora
le sue ripercussioni postume nella morale della pietà. Inoltre, gli è rimasta una certa rigidità
d’animo, soffre ancora per la svalutazione della vita, che egli imputa ugualmente all’impronta da lui
ricevuta dalla fede cristiana. E' del resto il rimprovero di Nietzsche al cristianesimo di aver
infiacchito la volontà di vivere e di essere stato esso stesso soltanto un sintomo di questo
infiacchimento, una rivolta storico-universale dei bigotti contro le schiatte forti.
Nietzsche nasconde ancora nelle ossa questa rigidità dell’umiltà e per questo deve convincere se
stesso in favore dell’affermazione della vita, talvolta con isterica risolutezza. C’è troppa intenzione
in gioco e troppo poco gioco nell’intenzione. E' una grandiosa formulazione, che però non coglie il
dato di fatto, quando Nietzsche scrive in Ecce homo: «Non conosco altra maniera di trattare i
grandi compiti che non sia il gioco» (EH:54). Qui, viene evocato più un desiderio che una realtà,
sebbene Nietzsche, con la sua visione della volontà di potenza come grande gioco universale, si
avvicini alla comprensione del gioco come
fondamento dell’essere. E lo Zarathustra di Nietzsche danza quando ha raggiunto questo
fondamento; danza come Shiva, il dio indù dei mondi. In tale posa poi, poco prima del crollo, lo ha
osservato anche la moglie dell’edicolante torinese presso la quale abitava. Racconta che
avrebbe sentito cantare il professore nella sua stanza e, inquietata da altri rumori, sbirciando dal
buco della serratura, lo avrebbe «visto danzare nudo» (Verrecchia 210).
Nessun dubbio: nei suoi momenti migliori a Nietzsche riesce una leggerezza scherzosa della lingua
e dei pensieri,  uno slancio che, anche attraverso dolori e un pesante carico di pensieri, lo induce a
danzare, una serenità «nonostante tutto », una miscela di estasi e abbandono. Vengono raggiunti
punti d’osservazione dai quali la vita appare effettivamente come un grande gioco. Ma nelle ultime
settimane di Torino svaniscono le resistenze, necessarie anche per il gioco, e Nietzsche comincia a
farsi trascinare sfrenatamente dal turbine della sua lingua e dei suoi pensieri. Tale scatenamento non
si può designare come «gioco», perché ora non c’è più la sovranità del giocatore.
Accanto alla morale della pietà e alla rigidità dell’umiltà, necessarie per l’autoconvincimento a
vivere, in Nietzsche anche la cosiddetta decadenza è un’ipotesi cristiana. Allorché Nietzsche,
all’inizio della primavera del 1888, scrive la sua resa dei conti con II caso Wagner, al centro di essa
si trova il tema della « decadenza ». Nietzsche si confessa a favore della decadenza, ma spiega che
egli l’avrebbe superata, al contrario di Wagner, la cui arte ne rimarrebbe determinata da cima a
fondo. « Io sono, tanto quanto Wagner, figlio di questo tempo, voglio dire un décadent: solo che
io ho compreso ciò, mi sono difeso contro ciò. Il filosofo, dentro di me, si è difeso da tutto questo »
(W: 163).
Cos’è la decadenza? Per Nietzsche essa è, come il dionisiaco e l’apollineo, una potenza culturale,
l’unità d’uno stile che dà il marchio a tutti gli ambiti della vita, non solo a quelli artistici. Si riduce
la decadenza alla formula più breve se si dice: essa è un tentativo di trarre piaceri sottili
dal dolore fantasma del dio scomparso. « Tutto quanto sia mai allignato sul terreno della vita
immiserita, tutta quanta la coniazione di monete false della trascendenza e del mondo ultraterreno,
ha nell’arte di Wagner la sua più sublime difesa» (W:197). Nell’epoca della decadenza i «problemi
da isterici» (W:175) diventano creativi. Non si crede più, ma ora c’è una volontà di credere. Quando
gli istinti sono fiacchi, c’è una volontà di istinti sani. Poiché le cose e la vita non riescono più
correttamente, poiché il flusso dell’ovvietà ristagna, poiché la leggerezza è diventata così pesante...
per questo si colloca davanti a ogni agire e accadere l’ominosa «volontà di... » Non esiste più il
mirabile auto-occultamento delle epoche precedenti, quando il pensiero, la fede e il sentimento
erano polarizzati diversamente. Il pensiero svaniva nel pensato, il sentimento nel sentito, la volontà
nel voluto e la fede nel creduto. Una furia della scomparsa inseriva magicamente l’attore nella
sua azione e là ve lo fissava. E adesso mota il palcoscenico, adesso l’attore si tira fuori dalla sua
azione, vi si pone di fronte e dice: guardate qua, l’ho fatto io, qui ho sentito, qui ho creduto, qui ha
lavorato la mia «volontà di...» La decadenza è più voglia di piacere che piacere, e più sofferenza per
la sofferenza che sofferenza. La decadenza è la religione e la metafisica che strizzano l’occhio. Se
con la decadenza si ha questo rapporto e la sua formula caratteristica è la «volontà di...», come
stanno però le cose con la formula nietzscheana della « volontà di potenza »? È anche questo
soltanto un « problema da isterici »?
L’« immenso » che Nietzsche « collega » alla sua filosofia è dunque la rivoluzione morale suscitata
dalla « morte di dio », è la « trasvalutazione dei valori » per la quale egli trova, nei suoi ultimi
scritti, formulazioni oltremodo taglienti. Alla fine di Ecce homo, riunisce tutte le sue obiezioni
contro la morale cristiana nell’unico grande rimprovero « che si sia andati a cercare il principio del
male nella profondissima necessità del crescere, nel rigoroso egoismo [...]; e che, all’inverso, si sia
visto un valore superio-
re, ma che dico!, il valore in sé!, nei segni tipici del declino e della contraddizione degli istinti, nel
’disinteresse’, nella perdita del centro di gravità, nella ’spersonalizzazione’ e nell”amore del
prossimo’ [...] La morale della rinuncia a sé è la morale della rovina par excellence» (EH:134ss.).
Dunque, la «trasvalutazione» conferirà ricompense morali per l’uomo «fiero e benriuscito» e
soprattutto per «colui che dice sì». La «selezione» deve procedere in modo tale che questo tipo
d’uomo possa imporsi... contro il «partito di tutto ciò che è debole, malato, malriuscito, sofferente-
di-se-stesso » (EH: 137).
Nel Crepuscolo degli idoli, come anche nell' Anticristo, egli utilizza un libro che gli era capitato fra
le mani a Torino. Si tratta delle cosiddette Leggi di Manu, curato e tradotto da Louis Jacolliot, un
presunto codice morale dell’essenza delle caste, basato sui Veda degli antichi indù. Nietzsche si
mostra affascinato dalla crudele coerenza con cui in quest’opera di precetti viene organizzata la
società secondo un’ominosa norma di purezza e in un ambiente sociale severamente chiuso. Che gli
appartenenti alle distinte caste non potessero mescolarsi gli uni con gli altri, egli lo interpreta come
saggia biopolitica dell’allevamento e dell’impedimento di una degenerazione. Nietzsche conclude le
riflessioni sulla Legge di Manu contenute nel Crepuscolo degli idoli con l’osservazione:
«Possiamo stabilire come principio supremo che per fare della morale si deve avere l’assoluta
volontà del contrario. Questo è il grande, sinistro problema di cui mi sono assai a lungo occupato»
(0:70).
Qui, alla fine, i giochi di ruolo e di maschere di Nietzsche vengono arricchiti di un’ulteriore
variante: egli tenta il sorriso degli àuguri, che fanno morale anziché averne una, che lasciano
credere anziché credere essi stessi. Gli àuguri, questi sacerdoti della raffinatezza, sono
abbastanza saggi per poter rinunciare alle convinzioni. In segreto accordo si sorridono a vicenda
riguardo a coloro che essi ingannano senza essere essi stessi ingannati. Nel segno del
sorriso degli àuguri, così può aver pensato Nietzsche, si riconosceranno fra loro i superuomini.
Le lettere dal quartier generale invernale di Nizza, poco precedenti al trasferimento a Torino,
mostravano una curva febbrile di depressione ed euforia. Così, per esempio, scrive Nietzsche il 6
gennaio 1888 a Peter Gast: «Infine, non voglio sottacere il fatto che tutto quest’ultimo periodo per
me è stato ricco di visioni e illuminazioni sintetiche; che il mio coraggio è nuovamente aumentato
nel fare ’l’incredibile’ e nel formulare la sensibilità filosofica che mi distingue, fino alla sua ultima
conseguenza» (B8,226). Una settimana più tardi, il 15 gennaio 1888, scrive sempre a Peter Gast: «
Vi sono notti in cui non reggo più me stesso in una maniera assolutamente umiliante» (B8,231).
Egli aveva scritto, già da qualche anno, il principio « niente è vero, tutto è permesso » e lo corredò
con l’incoraggiante appendice: ora dunque possiamo far giocare le nostre forze creative per
l’invenzione di verità che siano utili alla vita e la accrescano, ora possiamo enunciare i princìpi
fondamentali che portano avanti il genere umano nei suoi esemplari migliori, ora ci muoviamo in
aree libere, ci incamminiamo verso oceani ignoti dello spirito creativo, gli orizzonti indietreggiano e
l’immenso penetra all’interno di noi stessi... Tutto ciò lo aveva già formulato e praticato
spiritualmente. Adesso però, così sembra, l’orizzonte sconfinato non è più soltanto una pensabilità,
ma l’esperienza corrispondente trapassa tutto il sentimento della vita, diventa uno stato d’animo che
dà il colore di fondo. In esso vi è qualcosa che è privo, in modo caratteristico, di resistenza, come
quando il suo pensiero si strappa dai fermi e finisce alla deriva, dove non c’è più alcun punto
d’arresto.
Il passaggio dall’attivo strapparsi al lasciarsi andare può essere osservato con sufficiente precisione.
In una lettera a Franz Overbeck del 3 febbraio 1888, Nietzsche illustra la «nera disperazione» che lo
avvinghia e che non vuole permettergli di « levarsi dai piedi ». Egli lamenta la « man-
canza, per anni, di un amore umano autentico, ristoratore e j salutare; l’assurdo isolamento che essa
porta con sé; e che quasi ogni residuo di legame con gli uomini diventa soltanto causa di ferite »
(B8,242). E poiché si sente come un mostro in prigionia di uomini per i quali egli non conta nulla,
poiché dunque, formulato paradossalmente, egli è accerchiato da assenti, per questo deve
cominciare a picchiare, sbattere e colpire tutt’intorno. In una siffatta situazione « ogni eccitazione fa
bene, posto che sia violenta. Per questo adesso non bisogna aspettarsi da me ’belle cose’ » (B8,242).
Può bastare per quanto riguarda lo « strapparsi ».
Tre mesi dopo, poi, a Torino, giunge il momento del «lasciarsi andare». Il 17 maggio 1888 scrive a
Peter Gast: «Caro amico, perdonate questa mia lettera forse troppo allegra: ma dopo aver giorno per
giorno ’trasvalutato valori’ e aver avuto motivo di essere molto serio, vi è una certa  fatale e
inevitabile inclinazione all’allegria» (B8,317). Se l’allegria diventa ima fatalità, allora essa è
qualcosa che gli accade, o meglio: che lo fa salpare, che lo sospinge verso l’immenso. I flutti ebbri
lo portano con sé e sottraggono infine il suo universo interiore al nostro sguardo. Noi rimaniamo
indietro, sulla riva, e alla fine: naufragio con spettatore. La cosa peculiare però è questa: anche
Nietzsche, che si lascia sospingere, si trova contemporaneamente sulla riva come spettatore. Egli sta
a guardare se stesso. Il suo spirito lavora ancora con l’acume e la vitalità d’un tempo, è sospinto e
osserva contemporaneamente il suo essere-sospinto.
Nietzsche è pieno di progetti, fantasie, idee e, allo stesso tempo, gode le piccole gioie dell’esistenza,
trova agio nel buon cibo di Torino, esplora le trattorie della periferia, rivolge di nuovo grande cura
al suo abbigliamento, prende i suoi caffè sulle piazze pubbliche: vuole essere guardato dalla gente.
In generale, osserva continuamente e voluttuosamente come lo si osserva. Vuole stare a guardare
la gente nell’atto di guardarlo. Le donne al mercato scelgono
per lui la frutta migliore, i passanti sulla via si voltano verso di lui, sconosciuti lo salutano, i bimbi
interrompono i loro giochi e restano fermi, riverenti. La padrona di casa entra in punta di piedi nella
sua stanza. « La cosa più caratteristica qui a Torino è l’assoluto fascino che io esercito... in tutti i
ceti. Vengo trattato con quello sguardo che merita un principe... c’è una distinzione estrema nel
modo con cui mi si apre la porta o mi si serve un piatto. Ogni viso si muta quando entro in un
grande negozio» (B8,561 ; 29 dicembre 1888). Questa lettera a Meta von Salis è scritta poco prima
del crollo, ma esistono già lettere di questo tipo risalenti all’inizio dell’estate di Torino. Nietzsche si
guarda volentieri le mani. E gli viene da ridere se pensa che ha nelle mani la possibilità di spezzare
il destino dell’umanità in «due metà». Ha questo aspetto un trasvalutatore di valori? Ma poi
rammenta la frase dallo Zarathustra: «Le parole più silenziose sono quelle che portano la tempesta.
Pensieri che incedono con passi di colomba guidano il mondo» (Z:172). Egli si guarda
nello specchio: «Non ho mai avuto un simile aspetto» (B8,460; 30 ottobre 1888). Legge i suoi libri:
«Da quattro settimane capisco i miei stessi scritti... ancor di più, li apprezzo» (B8,545; 22 dicembre
1888). Sta bene, ha uno stato d’animo autunnale, è il « tempo della mia maggiore vendemmia. Tutto
mi è facile, tutto mi riesce », scrive sereno a Franz Overbeck, ma poi, nel bel mezzo di
questa atmosfera di allegre ciance, si conficcano nuovamente delle frasi come la seguente: «Ho
l’idea che il mio colpo spezzerà in due la storia dell’umanità» (E:320; 18 ottobre 1888). Come
bisogna leggere queste frasi? A Peter Gast invia un’istruzione d’uso. Bisogna considerare
Nietzsche come un’«ispirazione per ’operetta’». Basta non fare di lui una tragedia! «Ho così tanti
stupidi atteggiamenti nei confronti di me stesso e ho delle trovate da buffone in privato tali, che
talvolta sghignazzo in strada per mezzora [...] Penso: in una situazione simile si è pronti per
diventare ’redentore del mondo’?» (B8,489; 25 novembre 1888)
Tutto ciò è inteso in un modo davvero molto serio; in una lettera a Ferdinand Avenarius del 10
dicembre 1888, aggiunge inoltre « che lo spirito più profondo deve essere anche il più frivolo,
questa è all’incirca la formula per la mia filosofia» (B8,516ss.). Sta così abissalmente bene che d’un
tratto non vede più alcun motivo di accelerare la pubblicazione delle ultime opere, specialmente di
Ecce homo: «Non vedo perché dovrei accelerare la tragica catastrofe della mia vita che si inizierà
con la pubblicazione di Ecce  homo » (E:336; 16 dicembre 1888). Perché non dovrebbe sedere
ancora un momento nelle belle piazze e bere il caffè, scegliere le trattorie, salutare le donne al
mercato, godere la luce pomeridiana e i colori di Torino (un Claude Lorrain come non l’ho mai
visto nemmeno in sogno [B8,461; 30 ottobre 1888])? Perché non rimanere piuttosto un «satiro»
(B8,516; 10 dicembre 1888)? Il famoso ed enigmatico aforisma numero 150 in Al di là del bene
e del male recita: «Intorno all’eroe tutto diventa tragedia, intorno al semidio tutto diventa dramma
satiresco; e intorno a dio tutto diventa - che cosa? ’mondo’, forse?» (ABM:79) Se egli viene spinto
così avanti da diventare satiro e dramma satirico, allora è già a metà strada verso la sua
divinizzazione e il suo venire-al-mondo. i Ma ancora nelle ultime settimane v’è un attimo di
contestazione. Ora sono gli amici che lo deludono. Se persino le donne del mercato gli dimostrano
rispetto, perché non gli amici? Essi dovrebbero pur riconoscere nel buffone il semidio! In questo
riusciva soltanto Peter Gast. Gli altri, però, per quanto simpatici e cordiali possano essere, non gli
danno la sensazione di essere trattato secondo il suo rango. Con Rohde ruppe già l’anno precedente,
allorché questi si espresse sprezzante su Taine. «Non permetto a nessuno di parlare in modo così
irriverente di Ms. Taine» (B8,76; 19 maggio 1888), gli scrisse, non dicendo più una parola. E
quando Malwida von Meysenbug reagisce al Caso Wagner con l’osservazione che non si dovrebbe
trattare così male il proprio « antico amore », benché spento, egli
le risponde: «Ho liquidato gradualmente quasi tutte le mie relazioni umane, a causa della nausea
dovuta al fatto che mi si prende diversamente da quello che sono. Ed ora tocca a Lei» (B8,457; 20
ottobre 1888). Ella sarebbe «un’idealista », prosegue, e questo tipo di essere umano non capisce,
non può capire. Soprattutto non capisce che importanza egli abbia, che importanza abbia il
«superuomo». Un’idealista non sa cos’è la crudeltà e che talvolta essa è necessaria. Ella, così la
rimprovera, s’è fatta di lui un’immagine fin troppo innocente. Egli non è mansueto, buono e
idealista, e nemmeno vuole esserlo. Quello che Malwida non ha mai compreso, e che nemmeno può
comprendere, è « che una sorta d’uomo che non mi nausea è proprio l’anti-tipo dell’idolo-ideale di
un tempo, un tipo cento volte più simile a Cesare Borgia che a Cristo» (B8,458; 20 ottobre 1888).
Anche di fronte alla sorella trova adesso le parole definitive per le offese subite a causa del legame
familiare. Ma esse sono trasmesse spesso soltanto in abbozzi di lettere, di cui non si sa se
corrispondano a lettere effettivamente spedite, poiché la sorella, come nel frattempo si è venuti a
sapere, ne soppresse alcune. In un abbozzo di lettera della metà di novembre del 1888, scrive: «Tu
non sospetti minimamente di essere imparentata strettamente con l’uomo e il destino in cui si è
decisa una questione millenaria» (B8,473).
Nietzsche fluttua ed è sereno quando può guardare in basso alle cose e agli uomini come a un vasto
paesaggio. A niente e a nessuno è concesso di tirarlo giù: in questo caso potrebbe impazzire.
Quando lo si lascia in pace o quando si è ritirato nella sua caverna, allora può scrivere, come per
esempio in Ecce homo, frasi di pace e calma inaudite: « Anche in questo momento io guardo al mio
futuro - un vasto futuro! - come a un mare liscio; nessun desiderio lo increspa. Non voglio in nessun
modo che qualcosa sia diverso da come è; io stesso non voglio diventare diverso» (EH:51).
In queste frasi echeggia qualcosa del periodo precedente. In Aurora, dieci anni prima, scrisse del «
grande silenzio » del mare. « Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso,
è bella e agghiacciante: ne è gonfio il cuore [...] lo atterrisce una nuova verità, neppure esso può
dire parola [...] Il parlare, anzi il pensare, mi è odioso: non odo forse, dietro ogni parola, ridere
l’errore, l’immaginazione, lo spirito dell’illusione? Non devo irridere la mia pietà? Irridere la mia
irrisione? O mare! O sera! Voi siete cattivi maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere
uomo! Deve abbandonarsi a voi? Deve diventare come voi ora siete, pallido, scintillante, muto,
immenso, riposante su se stesso? Eccelso sopra se stesso? » (A:211)
Il 3 gennaio 1889, Nietzsche lascia il suo appartamento. Sulla piazza Carlo Alberto osserva un
vetturino picchiare il suo cavallo. In lacrime, Nietzsche si getta al collo della bestia, per proteggerla.
Sopraffatto dalla pietà, crolla. Pochi giorni dopo, Franz Overbeck viene a prendere
l’amico psicopatico. Nietzsche vive ancora undici anni.
La storia del suo pensiero termina nel gennaio 1889. Soltanto in seguito comincia l’altra storia,
quella della sua efficacia e delle sue ripercussioni.
15. La nobile muffa d’Europa scopre Nietzsche.
Congiuntura della filosofia della vita.
L’esperienza di Nietzsche di Thomas Mann. Bergson, Max Scheler, Georg Simmel. Zarathustra in
guerra. Ernst Ber tram e il cavaliere, la morte e il diavolo. Alfred Baeumler e il Nietzsche
eracliteo. Anti-antisemitismo. Sulle tracce di Nietzsche: Jaspers, Heidegger, Adorno/Horkheimer e
Foucault. Dioniso e il potere.
Una storia senza fine.
« MENTRE la nobile muffa d’Europa / di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva, / lui abbracciava due
ronzini, / finché il padrone non lo trasse a casa» (Beim 140).
Alcuni mesi dopo il crollo, se ne sentì parlare anche a Pau, Bayreuth ed Epsom. Il mondo
intellettuale e mondano scoprì Nietzsche. Il finale nella follia conferì all’opera, retroattivamente,
un’oscura verità: qui, evidentemente, qualcuno era penetrato così in profondità nel mistero
dell’essere da perdervi l’intelletto. Nel famoso brano della Gaia scienza, Nietzsche chiamò un «
uomo folle » il negatore di dio e ora era diventato lui stesso un folle. Ciò dovette eccitare
l’immaginazione. L’ultimo editore di Nietzsche, C.G. Naumann, fiutò il grande affare. Fece uscire
già nel 1890 nuove edizioni delle opere nietzscheane, che finalmente trovarono rapido smercio.
Allorché la sorella ritornò nel 1893 dal Paraguay, lesta e senza scrupoli prese in mano l’ulteriore
commercializzazione delle opere del fratello. Quando ancora il filosofo era in vita, fondò il
Nietzsche-Archiv a Weimar e predispose la prima edizione completa delle opere. In ciò diede prova
di volontà di po-
tenza, poiché tentò di imporre all’opinione pubblica una determinata immagine del fratello e per
questo non indietreggiò davanti a varie falsificazioni. Nel frattempo, tutto ciò è stato reso noto a
sufficienza. Essa volle fare di Nietzsche uno sciovinista tedesco-nazionale, razzista e militarista, e
presso una parte del pubblico, specie presso i marxisti ortodossi, le è anche riuscito, fino ai giorni
nostri. Ma seppe andare incontro anche alle esigenze più raffinate dello spirito del tempo.
Nella Villa Silberblick di Weimar, dove fin dal 1897 è stato sistemato il Nietzsche-Archiv, la sorella
fece erigere un podio su cui un Nietzsche che si inoltrava sempre più nel proprio crepuscolo veniva
esibito al pubblico come martire dello spirito. La sorella era abbastanza wagneriana per poter
ottenere effetti sublimi e raccapriccianti dal destino del fratello. Nella Villa Silberblick venne
giocato davanti alla «nobile muffa d’Europa» uno scontro finale metafisico. Mezzo secolo prima,
Thomas Carlyle (apprezzato in quegli ambienti, ma che presso Nietzsche non godette mai di un’alta
considerazione) descrisse che cosa erano tali scontri finali: « Sappi che questo universo è quello che
mostra di essere: un infinito. Non tentare mai, fidandoti del tuo potere logico digerente, di
divorarlo; piuttosto sii grato se, mediante l’abile conficcamento, nel caos, di questo o di quel palo
stabile, impedisci a esso di inghiottirti ». Nietzsche è stato dunque inghiottito; osò avventurarsi
troppo in là. Si perse nell’immensità della vita.
Non soltanto tramite Nietzsche, ma soprattutto per suo
•    t
tramite, il termine «vita» ricevette allora una risonanza nuova, misteriosa e seducente. La filosofia
accademica, tuttavia, si comportò dapprima con ritrosia. Heinrich Rickert, un caposcuola neo-
kantiano, spiegò: « Da ricercatori dobbiamo dominare e consolidare concettualmente la vita e, di
conseguenza, dobbiamo uscire dai battibecchi sulla vita in direzione di un ordinamento universale
sistematico». Al di là della filosofia accademica, però, nella reale vita spirituale, fra il 1890 e il
1914, indotto dalla ricezione
di Nietzsche, sfilò il corteo di vittoria della filosofia della vita. La « vita » divenne un concetto
centrale, come in precedenza l’« essere», la «natura», «dio» oppure l’« io », ma divenne anche un
concetto di lotta, rivolto contro due fronti. Da un lato, contro l’idealismo di mezza tacca, nel modo
in cui vi si dedicavano, dalle cattedre tedesche, i neo-kantiani, ma anche le convenzioni morali
borghesi. La «vita» si trovava in opposizione ai valori dell'eternità, faticosamente dedotti o anche
soltanto trasmessi distrattamente. Dall’altro lato, la parola « vita» si rivolgeva contro un
materialismo inanimato, dunque contro l’eredità del tardo XIX secolo. Ora, l’idealismo neo-
kantiano era già una risposta a questo materialismo e al positivismo, ma una risposta incerta,
afferma la filosofia della vita. Si reca un cattivo servizio allo spirito, quando lo si separa
dualisticamente dalla vita materiale. In tal modo, non lo si potrà proteggere. Piuttosto, bisogna
portarlo dentro la stessa vita materiale.
Nei filosofi della vita, il concetto di « vita » diventa così ampio ed elastico da includere tutto:
anima, spirito, natura, essere, dinamicità, creatività. La filosofia della vita ripete la protesta dello
Sturm und Drang contro il razionalismo del XVIII secolo. Allora fu «natura» il termine di lotta. Il
concetto « vita » ha ora la medesima funzione. La « vita » è pienezza di forma, ricchezza inventiva,
un oceano di possibilità, imprevedibile e avventurosa a tal punto da non aver più bisogno di alcun
aldilà. Ce n’è abbastanza nell’aldiquà. La vita è mettersi in marcia verso lontane rive e tuttavia, al
tempo stesso, è il totalmente prossimo, la propria vitalità che esige una forma. La « vita » diventa la
soluzione del movimento giovanile, dello Jugendstil, del neo-romanticismo, della pedagogia
riformatrice. L’ammonimento di Zarathustra, « rimanete fedeli alla terra », venne qui udito e seguito
con fervore. Anche gli adoratori del sole e i nudisti potevano sentirsi figli di Zarathustra.
Al tempo di Nietzsche, i giovani borghesi volevano ancora sembrare vecchi. Allora, l’essere giovani
era piutto-
sto uno svantaggio per la carriera. Venivano consigliati dei mezzi per accelerare la crescita della
barba e gli occhiali valevano come status symbol. Si imitavano i padri e si portavano i colletti alti;
si infilavano gli adolescenti in finanziere e si insegnava loro l’andatura compassata. In precedenza,
la « vita » aveva il valore di qualcosa che disilludeva, su cui la gioventù doveva rompersi le coma.
Ora, però, la « vita » è l’impeto e il livello del « mettersi in marcia», e quindi l’elemento giovanile
stesso. «Giovane» non è più un’onta da tenere nascosta. Al contrario: l’età deve ora giustificarsi,
trovandosi sotto il sospetto di essere spenta e irrigidita. Un’intera civiltà, quella guglielmina, viene
citata davanti al « foro della vita » (Dilthey) e messa a confronto con la domanda: vive ancora
questa vita?
La filosofìa della vita intende se stessa come una filosofia della vita nel senso del genitivo
soggettivo: non filosofa sulla vita, bensì è la vita stessa che in essa filosofa. Come filosofia, vuole
essere un organo di questa vita; vuole accrescerla e dischiuderle nuove forme e configurazioni. Non
vuole soltanto scoprire quali valori valgano, è sufficientemente sfrontata per voler creare nuovi
valori. La filosofia della vita è la variante vitalistica del pragmatismo. Non interroga circa l’utilità di
un’opinione, bensì circa il suo potenziale creativo. Per la filosofia della vita, la vita è più ricca di
qualsiasi teoria, perciò detesta il riduzionismo biologico: essa vuole la vita come spirito vivente.
Questi atteggiamenti spirituali sono influenzati essenzialmente da Nietzsche. Non bisognava averlo
letto per esserne influenzati. Il nome di Nietzsche divenne un segno di riconoscimento: chi si
sentiva giovane e vitale, chi annoverava se stesso fra i nobili e chi non andava per il sottile con gli
obblighi morali, costui poteva sentirsi nietzscheano. Il nietzscheanismo divenne così popolare
che già negli anni ’90 comparvero le prime parodie, le prime satire e i primi libelli. Max Nordau,
per esempio, parla in nome della parte solida e testarda della borghesia quando flagella questo
nietzscheanismo come « separazione prati-
ca dalla disciplina tramandata » e mette in guardia di fronte allo «scatenamento della bestia
nell’uomo» (Aschheim 28). Per questi critici, Nietzsche fu un filosofo che fece affondare la
coscienza nell’ebbrezza e nella pulsione. Così fu poi inteso da alcuni nietzscheani, che con vino,
donne e canti credettero di essere già quasi giunti al cospetto di Dioniso.
Presso questa gente circolava un Nietzsche a metà prezzo. Non scordiamolo: Nietzsche paragonava
la « vita » alla potenza creatrice e in tal senso la chiamò « volontà di potenza». La vita vuole se
stessa, vuole plasmarsi. La coscienza si trova in un rapporto ricco di tensioni col principio della
plasmazione di sé del vivente. Essa può avere un effetto ostacolante oppure accrescente. Può
generare paure, scrupoli morali, rassegnazione; per causa sua può spezzarsi lo slancio vitale. Ma la
coscienza può anche mettersi al servizio della vita: può porre dei valori che incoraggino la vita a
giocare liberamente, a raffinarsi e sublimarsi. A prescindere comunque dal modo di agire della
coscienza, essa rimane di certo un organo di questa vita e perciò i suoi effetti, ora felicità ora
sciagura, sono i destini che la vita prepara a se stessa. Una volta essa si accresce... mediante la
coscienza; un’altra volta distrugge se stessa... mediante la coscienza. Se, tuttavia, la coscienza
agisca nell’una o nell’altra direzione, questo non è deciso da alcun processo vitale inconsapevole,
bensì dalla volontà consapevole, ossia dal momento della libertà di fronte alla vita.
La filosofìa della vita di Nietzsche strappa la «vita» dalla camicia di forza deterministica del tardo
XIX secolo e le restituisce la sua peculiare libertà. È la libertà dell’artista di fronte alla sua opera. «
Voglio essere il poeta della mia vita», annunciò Nietzsche, e abbiamo già descritto quali
conseguenze ebbe ciò per il concetto di verità. La verità in senso oggettivo non esiste. La verità è
quella sorta d’illusione che si dimostra utile alla vita. Questo è il pragmatismo di Nietzsche, che
però, diversamente da quello
I
I
anglosassone, è riferito a un concetto dionisiaco della vita. Nel pragmatismo americano la « vita » è
una questione di common sense, ma Nietzsche, appunto come filosofo della vita, è un estremista.
Egli detesta l’abitudine anglosassone quanto il dogma darwinistico dell’« adattamento » e
della «selezione» nel processo della vita. Per lui, queste sono proiezioni di una morale utilitaristica
la quale crede che, anche nella natura, l’adattamento venga premiato col far carriera. Per Nietzsche,
la « natura » è il giocoso fanciullo cosmico di Eraclito. La natura dà forma a figure e le distrugge,
un incessante processo creativo nel quale trionfa il possente elemento vitale e non quello adattatosi.
La sopravvivenza non è ancora un trionfo. La vita trionfa soltanto nella dovizia, dissipandosi e
sfogandosi. Una filosofia della magnanimità e della dissipazione. In tal modo venne inteso
Nietzsche dalla bohème e dagli amanti della vita. La sua filosofia della « volontà di potenza » agì
anzitutto non come visione politica, bensì come visione estetica. Spesso si citava la famosa frase di
Zarathustra sul potere dell’elemento creativo: « Che cosa sia buono, che cosa cattivo, non lo sa
nessuno: - a meno che non sia uno che crea! - Costui però è colui che crea la meta dell’uomo e che
dà alla terra il suo senso e il suo futuro: solo costui fa sì,creando, che qualcosa sia buono e cattivo»
(Z:231). Si tratta dunque del creare, non dell ’ imitare, e anche la morale deve seguire impulsi
creativi. La fantasia al potere!
Con Nietzsche, si potrebbe spiegare: se arte e realtà non si accordano l’una all’altra, tanto peggio
per la realtà! Si leggeva Nietzsche come incoraggiamento a scoprire il proprio fondamento creativo.
Bisogna calarsi nell’inconscio. Freud sapeva che Nietzsche lo aveva anticipato notevolmente. Egli
avrebbe «evitato per molto tempo» gli scritti di Nietzsche, scrive nella sua Autobiografia, perché «i
suoi presagi e le sue opinioni [...] coincidono spesso, nella maniera più stupefacente, con i difficili
risultati della psicoanalisi » (Gerhardt, Nietzsche 218). Poiché essa volle essere reputata una
scienza, persino una scienza della na-
tura, la psicoanalisi rimosse il suo nucleo estetico-nietzscheano. Cioè non si volle ammettere che in
queste teorie sull’anima era in gioco più l’inventare del trovare. Nietzsche stesso non ebbe mai
alcun dubbio: per lui certo la volontà di potenza (non soltanto nell’esplorazione dell’anima) era
sempre legata all’immaginazione.
La comunità psicoanalitica, affascinata da Nietzsche, mantenne inizialmente le distanze da lui, del
tutto a proprio svantaggio. Nietzsche ebbe l’intuizione e soprattutto il linguaggio adatto per
descrivere l’accadimento pulsionale, altamente differenziato, al confine con l’inconscio, mentre
nella psicoanalisi le teorie pulsionali divennero goffe... Alla fine restarono quasi soltanto la
sessualità e la pulsione di morte ed ebbe inizio il corteo di vittoria della metaforicità fatta di caldaie
a vapore, apparati idraulici e prosciugamento di paludi. Anche l’architettura di una casa borghese a
Vienna intorno al 1900 divenne metro di misura per rappresentare l’« edificazione »
dell’anima. Niente di tutto ciò in Nietzsche. Certamente anch’egli si servì di immagini, anzi ebbe il
comando di un intero « mobile esercito di metafore» (FETG:233), ma raramente si ha l’impressione
che in tali occasioni si compiano riduzioni e reificazioni. Nelle sottili analisi, anche quando
procedono nei dettagli, rimane presente l’orizzonte dell’immenso. Ciò conferisce alle analisi di
Nietzsche questa inconfondibile ironia nei confronti della profondità. Nietzsche legge una traccia
nella sabbia e ci fa intendere che la prossima onda la dissolverà di nuovo.
Le importanti correnti artistiche all’inizio del secolo, il simbolismo, lo Jugendstil,
l’espressionismo... sono tutte ispirate da Nietzsche. Allora, in queste cerehie, ogni persona che
stimava se stessa ebbe la propria «esperienza vissuta di Nietzsche ». Il conte Harry Kessler ha
formulato in maniera pregnante il modo in cui i membri della sua generazione fecero «esperienza»
di Nietzsche: «Egli non parlava soltanto all’intelletto e alla fantasia. La sua efficacia era più vasta,
più profonda e più misteriosa. La sua
eco, che aumentava sempre più fortemente, significava l’irruzione di una mistica nell’epoca della
razionalizzazione e della meccanizzazione. Egli stese fra noi e l’abisso della realtà il velo
dell’eroismo. Da lui fummo come spinti magicamente fuori da questa epoca gelida e allontanati
da essa» (Aschheim 23).
Che con Nietzsche sia avvenuta l’« irruzione di una mistica» fu percepito anche da alcuni
compositori. Richard Strauss creò nel 1896 il poema sinfonico Così parlò Zarathustra e Gustav
Mahler volle originariamente chiamare «Gaia scienza» la sua Terza sinfonia. Architetti come Peter
Behrens e Bruno Taut vennero ispirati da Nietzsche e costruirono spazi per spiriti liberi. Non
stupisce che si portasse anche sul palcoscenico Nietzsche, il quale nello Zarathustra scrisse: «E
perduto sia per noi quel giorno, in cui non si sia danzato almeno una volta! » (Z:247ss.). Mary
Wigmann sviluppò negli anni ’20 e ’30 uno stile di danza cosiddetto dionisiaco; vi venivano suonati
dei tamburi e si recitavano passi dallo Zarathustra.
Con l’esperienza vissuta di Nietzsche si potevano combinare molte cose. In alcuni, essa fu soltanto
una moda passeggera. Altri non se ne liberarono per tutta la vita. Per esempio, Thomas Mann. « Noi
abbiamo ricevuto da lui», spiega nel 1910, «l’eccitabilità psicologica, il criticismo lirico,
l’esperienza di Wagner, l’esperienza del cristianesimo, l’esperienza della modernità» (Aschheim
37). Thomas Mann si sentì destato da Nietzsche a una volontà artistica che rifiuta fieramente ogni
utilizzabilità sociale, politica e simili, e serba per l’arte, assieme all’amore e alla morte, la dignità
fine a se stessa e il mistero dell’umano. Lavorando alle Considerazioni di un impolitico del 1918,
Thomas Mann prese le misure alle Considerazioni inattuali di Nietzsche e discusse quasi ogni
proposizione con l’amico Ernst Bertram il quale, durante lo stesso periodo, stava scrivendo il suo
grande libro Nietzsche. Per una mitologia. Che l’arte scaturisca dal dionisiaco e, infranta
dall’ironia, divenga figura apollinea, era per Tho-
mas Mann una convinzione imperitura e irrinunciabile per il proprio creare. Nel suo grande saggio
La filosofia  di Nietzsche del 1947, un elaborato parallelo al suo lavoro al Doktor Faustus, egli
chiama Nietzsche l’« esteta più irrimediabile » che la storia dello spirito conosca, e spiega: « Che
appunto la vita sia da giustificare soltanto come fenomeno estetico, corrisponde nella maniera più
esatta a lui, alla sua vita, alla sua opera intellettuale e poetica [...] fino alla mitologizzazione di sé
dell’ultimo periodo e fin dentro alla follia, questa vita è una rappresentazione artistica [...] un
dramma lirico-tragico dal grandissimo fascino » (Mann 99; trad. mod.). Thomas Mann mette certo
in guardia dall’«estetismo» sfrenato con le parole: «Non siamo più abbastanza esteti da temere di
professare apertamente la nostra fede nel bene e da vergognarci di concetti così banali [...] come la
verità, la libertà, la giustizia» (ibid. 103), ma questa convinzione che tali concetti politici rimangano
esteticamente triviali e che con essi non si riesca a produrre alcuna arte non muta nulla anche per
l’oratore errante della democrazia e dell’antifascismo.
Thomas Mann sapeva (e lo sapeva soprattutto per mezzo della sua esperienza di Nietzsche) che la
logica dell’arte è un’altra rispetto a quella della morale e della politica; ma sapeva anche quanto è
importante tenere distinti quegli ambiti, poiché entrambe le cose sono dannose: una politicizzazione
dell’arte quanto un’estetizzazione della politica.
I «rivoluzionari in nome dell’arte» (ibid.; trad. mod.) scordano frequentemente che la politica deve
difendere il consueto e il compromesso; che essa dovrebbe essere al servizio della vivibilità. L’arte
invece è interessata a situazioni estreme, è radicale e, specialmente in Thomas Mann, anche
innamorata della morte. Per l’artista autentico, l’esigenza d’intensità è più forte della volontà di
autoconservazione, al cui servizio dovrebbe però trovarsi la politica. Quando la politica perde
questo orientamento diventa un pericolo pubblico. Per questo, Thomas Mann
mette in guardia di fronte all’«inquietante prossimità» di «estetismo e barbarie» (ibid.; trad. mod.).
Thomas Mann resta fedele per tutta la vita alla sua esperienza di Nietzsche, ma negli ultimi anni
bada a non espandere troppo le ossessioni estetiche negli altri ambiti della vita. Thomas Mann ben
comprese Max Weber, il quale già nel 1918 parlava del fatto che la democrazia vive : della
differenziazione delle sfere di valore. La persona dionisiaca deve tornare sobria prima di calcare il
terreno politico. Così fu intesa da Thomas Mann: esteticamente beveva vino, politicamente
predicava acqua. A tal riguardo, si sarebbe potuto persino appoggiare all’iniziale idea di Nietzsche
del sistema bicamerale della civiltà, dove una camera è riscaldata per la genialità e l’altra è
raffreddata per la conservazione della vita.
La successiva freddezza di Thomas Mann fa quasi dimenticare il fervore dell’entusiasmo per
Nietzsche d’inizio secolo. Anche i dadaisti provengono dal fervore nietzscheano. La distinzione fra
estetico e politico era loro particolarmente estranea. Essi chiedevano espressamente la «rinascita
della società a partire dall’unificazione di tutti i mezzi e le potenze artistici » (Hugo Ball); alla «
rinascita» statale e sociale dallo spirito dell’arte sovrana si credeva anche nel George-Kreis e presso
i simbolisti. Franz Werfel annuncia la « intronizzazione del cuore ». Le fantasie di onnipotenza
dell’arte e degli artisti hanno il loro momento di gloria. Lo spirito della filosofia della vita
nietzscheana liberò l’arte dal prestare servizio al principio di  realtà. Ci si affidava di nuovo a
visioni con cui si protestava contro la meschina realtà. « Visione, protesta, cambiamento»... questa
era la trinità espressionistica.
Fa parte dell’efficacia della filosofia della vita nietzscheana che in Germania, prima della prima
guerra mondiale, essa preparasse il terreno per l’influsso potente della filosofia di Bergson e
viceversa, e la Francia venne resa ricettiva nei confronti di Nietzsche grazie allo stesso Bergson. Nel
1912 apparve in traduzione tedesca il capolavoro
di Bergson L'evoluzione creatrice. Come Nietzsche, anche Bergson sviluppò una filosofia della
volontà creatrice, che però Bergson non chiama « volontà di potenza». Tuttavia, analoga è la specie
di legame fra l’universale e l’individuale. Ciò che avviene fuori nel mondo, nel tutto della natura,
opera anche nel singolo come energia creatrice: secondo Bergson, sentiamo anche in noi stessi le
forze che creano in tutte le cose. Quando Bergson parla entusiasticamente dell’universo creativo,
allora compare, come in Nietzsche, la metafora dell’onda e della marea. Ma, diversamente da
Nietzsche, Bergson sposta il mistero della libertà nel cuore del mondo. Anche per Bergson, infatti,
come per Nietzsche, l’accadere cosmico è un circolo, ma in proposito egli pensava piuttosto a un
moto spiraliforme rivolto in avanti. Anche Nietzsche pensava il ritorno cosmico dell’uguale legato a
una dinamica dell’accrescimento... ma ciò non volle riuscirgli correttamente. Il motivo è
che Nietzsche non poteva superare il concetto tradizionale di tempo come « spazio » in cui si
svolgono i processi della vita. Ma a Bergson riuscì di pensare in modo migliore il tempo come forza
creatrice e dinamica. Esso non è il medium in cui è « contenuto » qualcosa, bensì la potenzialità che
produce qualcosa. Non è un palcoscenico per la recita, bensì esso stesso appartiene come attore alla
recita medesima. E l’uomo non sperimenta soltanto il tempo (Zeit), ma lo attua (zeitigen) per mezzo
del proprio agire. L’organo interno del tempo è l’iniziativa, la spontaneità. L’uomo è un ente
principiale. Nella parte più intima della sua esperienza del tempo si trova dunque celata, secondo
Bergson, l’esperienza della libertà creatrice. Nella libertà umana il cosmo creatore trova la sua
autocoscienza.
Con quest’idea, in definitiva, Bergson era più vicino a Schelling che a Nietzsche, ma per Max
Scheler, che nel 1915, nel suo libro Crisi dèi valori, riunisce Bergson e Nietzsche come filosofi
della vita, opera in entrambi il medesimo forte impulso. Entrambi, spiega Scheler, vogliono liberare
l’uomo dalla «prigione» del «meramente
meccanico e meccanizzabile » e condurlo fuori in un «giardino fiorito ». Nella filosofia di Nietzsche
(e di Bergson) la lava della vita sfonda di nuovo, finalmente, le incrostazioni e le pietrificazioni.
«Nell’assoluto siamo, orbitiamo, viviamo. »
Anche Georg Simmel, nelle sue famose conferenze del 1917, interpretò Nietzsche come filosofo
della vita creativa. Egli delinea esattamente la costellazione di problemi che Nietzsche si trovò ad
affrontare e l’orizzonte di senso che egli dischiuse: in passato, alla vita erano conferiti un obiettivo
supremo e un valore supremo. Con la modernità tutto ciò è finito. Il meccanismo complicato e
incontrollabile della società è diventato un universo di mezzi non più  riferito a un centro di senso.
La consapevolezza moderna, dice Simmel, rimane « dipendente dai mezzi », invischiata nelle
lunghe catene di causalità che non sono legate ad alcuno scopo finale. Essa ha perduto la sublime
infinità, ottenendo in compenso quella cattiva infinità di un ente che corre come un criceto nella
ruota. In esso si desta di conseguenza «l’angosciosa domanda circa il senso e lo scopo del tutto ».
Schopenhauer rispose a questa situazione interpretando la circolarità assurda come qualità
metafisica della volontà. Nietzsche da parte sua, dice Simmel, ha legato la metafisica della volontà
schopenhaueriana all’evoluzionismo e all’idea di accrescimento. Tuttavia, come Schopenhauer,
anche Nietzsche ha rifiutato l’idea di uno scopo finale e di un obiettivo dell’evoluzione. Per
questo egli deve tentare di pensare un accrescimento aperto, non teleologico, una dinamica
d’accrescimento autoreferenziale: la vita è lo scopo di se stessa, però in modo tale che si tenda a
esplorare e a produrre le possibilità che risiedono in essa. L’uomo destato a coscienza è il luogo
privilegiato di una tale esplorazione di sé della vita. Nell’uomo, la vita ha eseguito un esperimento
particolarmente rischioso con se stessa. Quello che ne risulta è rimesso al dramma della libertà
umana. Nell’uomo, come dirà in seguito Ernst Bloch, si compie un experimentum mundi.
In modo così sublime, così affascinante e affascinato, gagliardo e promettente, la filosofia
precedente al 1914 diede il tono, a partire da e con Nietzsche, al tema della «vita».
Con l’inizio della guerra nel 1914 questo vitalismo filosofico ebbe una congiuntura favorevole. Un
nietzscheanismo bellico prese la parola. Vi furono nette contrapposizioni: la vitale Kultur (tedesca)
contro la superficiale Zivilisation (francese); la comunità dionisiaca contro la società meccanica; gli
eroi contro i mercanti; la coscienza tragica contro l’utilitarismo; lo spirito musicale contro i princìpi
calcolatori. Ci si riallacciava all’interpretazione eraclitea di Nietzsche per spiegare la guerra come
grande chimico: essa separa l’autentico dall’inautentico e rivela la vera sostanza. Per gli accademici
eccitati, la guerra era l'examen rigorosum di un popolo che deve dimostrare se possiede ancora in sé
una vita possente. La guerra è dunque l’ora della verità: «L’immagine dell’uomo intero, grande,
notevole, di cui la pace mostra soltanto una grigina zona mediana [...] quest’immagine si trova
adesso plasticamente davanti a noi. Solamente la guerra misura il contorno, l’ampiezza della natura
umana; l’uomo diventa consapevole di tutta la sua grandezza, di tutta la sua piccolezza» (Scheler).
Quale sostanza spirituale porta in luce la guerra? Gli uni dicono: è una vittoria dell’idealismo. Esso
fu soffocato per molto tempo dal materialismo e dall’utilitarismo, ma adesso erompe e gli uomini
sono nuovamente pronti a immolarsi per valori immateriali, per il popolo, la patria, l’onore. Per
questo Ernst Troeltsch chiama l’entusiasmo per la guerra un ritorno della «fede nello spirito» che
trionfa sull’« idolatria del denaro », sulla « scepsi titubante », sulla « ricerca del piacere » e sull’«
ottusa dedizione alle regolarità della natura». Altri (e questi sono i nietzscheani filosofi della vita)
vedono nella guerra la liberazione di forze vitali che minacciavano di irrigidirsi durante il lungo
periodo di pace. Essi celebrano la potenza naturale della guerra; finalmente, così affermano costoro,
la civiltà trova
di nuovo contatto con l’elementare. La guerra, scrive Otto von Gierke, « pur essendo il più violento
di tutti i distruttori di civiltà, è insieme il più possente portatore di civiltà» (Glaser 187).
All’inizio della guerra, Nietzsche era così popolare che lo Zarathustra, assieme al Faust di Goethe e
al Nuovo testamento, uscì come stampa speciale per i soldati del fronte in un’edizione di
centocinquantamila copie. In tal modo, potè sorgere l’idea, in Inghilterra, negli Stati Uniti e
in Francia, che Nietzsche fosse una potenza che induceva alla guerra. Caratteristica per lo stato
d’animo d’allora in Inghilterra fu una lettera del grande romanziere Thomas Hardy, che scrisse:
«Penso che fin dall’inizio della storia non ci sia mai stato alcun esempio di come un Paese si
sia potuto a tal punto estraniare dalla morale attraverso un singolo autore» (Aschheim 132). A quel
tempo, un editore londinese parlò persino di una «Euro-Nietzschean War» (Aschheim 130).
L’editore di Nietzsche in America venne arrestato con la motivazione di essere un fattore bellico
del «mostro tedesco Nietzky» (Aschheim 133).
Senza dubbio, in Nietzsche si trovano numerosi passaggi nei quali viene apprezzata l’abilità
guerresca. Basta ricordare un famoso passo, allora molto citato, dal Crepuscolo degli idoli:
«L’uomo divenuto libero, e tanto più lo spirito divenuto libero, calpesta la spregevole sorta
di benessere di cui sognano i mercantucoli, i cristiani, le mucche, le femmine, gli Inglesi e gli altri
democratici. L’uomo libero è guerriero » (CI: 114).
Per sentimenti nazionalistici in senso tradizionale, Nietzsche non poteva quasi essere reclamato, ma
i mercenari istruiti, dal cuore avventuroso, che in seguito si troveranno soprattutto nell’orbita della
rivoluzione conservatrice, trovarono in Nietzsche alcuni stimoli, soprattutto l’idea che il senso della
lotta, come della vita in generale, non si trovi in un obiettivo e in uno scopo, bensì
nell’accresciuta intensità della vita. Chi in battaglia cercava o immaginava un’estasi nichilistica
trovò un segnavia nello Zarathustra
di Nietzsche: «Voi dite che la buona causa santifica persino la guerra? Io vi dico: è la buona guerra
che santifica ogni causa» (Z:49). Ernst Jünger e Oswald Spengler furono dei simili estatici nichilisti,
che si sentivano legati a Nietzsche allorché egli fece dire al suo Zarathustra: «Coraggio è infatti la
mazza più micidiale, - coraggio che assalti: in ogni assalto infatti è squilla di fanfare» (Z:182).
Che Zarathustra si potesse però intendere anche in maniera differente è mostrato dallo scritto di
Hermann Hesse Il ritorno di Zarathustra, comparso nel 1919. Hesse ricorda l’abuso indegno che fu
attuato con Nietzsche, in particolare col suo Zarathustra. Nietzsche non era un nemico di ogni «
principio del gregge »? chiede Hesse, e fa comparire ancora una volta Zarathustra fra i reduci di
guerra. La lezione del reduce-Zarathustra compie una variazione sull’esortazione di Nietzsche:
diventa ciò che sei! La volontà di essere se stessi viene mobilitata qui contro ogni sorta di principio
di sudditanza, anche se questa si facesse incontro in vesti guerriere e nella posa dell’eroismo, e a
tal riguardo si richiama persino a Nietzsche. Hesse difende Nietzsche dai canti pieni d’odio dei suoi
ammiratori militanti: «Non notate», fa dire Hesse al suo Zarathustra, « che, ovunque questo canto
venga intonato, ci sono pugni stretti in tasca, e quel che importa è l’utilità personale e l’amor di sé...
ma non quell’amor di sé del nobile, che vuole elevare e temprare la sua persona, ma il denaro e il
portafogli, la vanità e la boria».
Subito dopo la guerra comparve il libro di Ernst Bertram Nietzsche. Per una mitologia. Quest’opera
è sicuramente l’interpretazione più influente di Nietzsche nel periodo fra le due guerre. Thomas
Mann, amico di Bertram, accompagnò la genesi di questo libro e lo ammirò. L’immagine di
Nietzsche di Thomas Mann è fortemente segnata da Bertram. Bertram apparteneva al George-Kreis
e l’idea di un elemento di guida spirituale era per lui familiare grazie a tale appartenenza. Egli dà al
suo libro il sottotitolo Per una mitologia, e infatti è un tentativo in questo senso.

Bertram prosegue ciò che il primo romanticismo cominciò e che Richard Wagner e il giovane
Nietzsche portarono avanti: la creazione di un mito, dopo che è sbiadita la religione, adatto a
unificare un popolo in una concezione comune. Ora sono Nietzsche stesso, la sua vita e la sua opera
che devono essere rielaborati nella « leggenda di un uomo» (Bertram 44). Non c’è obiettività che
tenga, nell’illustrazione e nell’analisi della vita d’un uomo e della sua opera, ci sono soltanto
interpretazioni, spiega Bertram, del tutto in senso nietzscheano. E ora vuole
proporre un’interpretazione che faccia diventare Nietzsche uno specchio dell’anima tedesca, delle
sue sofferenze, dei suoi slanci, della sua forza creatrice e delle sue sciagure. Nietzsche volle essere
un « poeta della sua vita » e Bertram prosegue ora questo proposito, diventando egli stesso
poeta della vita e dell’opera di Nietzsche. Dell’immagine che se ne genera Bertram dice: «Costante
è il suo moto d’ascensione al cielo stellato della memoria umana» (Bertram 44). Nietzsche: non un
modello (Vorbild) in senso pedagogico, ma un’immagine da tenere davanti agli occhi (Vor-Bild)
nella quale possano apparire in modo evidente e ponderato le tensioni, gli stimoli e le contraddizioni
della civiltà tedesca, e il suo contributo alla grande storia dello spirito. Un’immagine dunque che
possa avviare un’intera civiltà che, dice Bertram, è andata in crisi, verso l’autoconoscenza delle sue
possibilità e dei suoi pericoli. Bertram cita la domanda di Hölderlin: « Quando apparirai nella
tua interezza, anima della patria?» (Bertram 124) e dà la risposta: essa è apparsa in Nietzsche, in
tutta la sua lacerazione.
C’è anzitutto la passione per la musica. La musica fa risuonare il fondamento pulsionale dionisiaco
della vita, essa si accorda all’immenso e anche alla tragicità della vita. In questa passione per la
musica Bertram individua il suo criterio di distinzione fra Kultur (tedesca) e Zivilisation (francese).
La Kultur vive dello spirito tragico-dionisiaco della musica; la Zivilisation, invece, è
necessariamente co-
sì, rimane legata all’ambito chiaro e ottimistico della vivibilità. La Zivilisation è razionale, mentre
la Kultur trascende la razionalità, è musicale, mistica, immaginifica, eroica... come sempre del
resto. Bertram cita Nietzsche, che una volta scrisse: « La Zivilisation vuole qualcosa di diverso da
quel che vuole la Kultur, forse qualcosa di contrario» (Bertram 164; trad. mod.). Cosa sarebbe il
«qualcosa di contrario»? La Zivilisation è autoconservazione, semplificazione della vita; la Kultur
invece significa rimanere legati alla problematicità profonda della vita, nelle parole di Nietzsche
dalla sua prima lettera a Richard Wagner del 22 maggio 1869: «Devo a Lei e a Schopenhauer se
finora sono stato fedele alla serietà germanica della vita, ad una considerazione più profonda di
questo modo di esistere tanto enigmatico e rischioso » (E2:9).
Ci sono due formulazioni emblematiche di Nietzsche che Bertram interpreta fervidamente. La
prima proviene da una lettera a Rhode dell’8 ottobre 1868, in cui Nietzsche scrive che egli apprezza
in Wagner, come pure in Schopenhauer, «il soffio etico, il profumo faustiano, la croce, la morte, la
tomba» (EL629). L’altra si trova nel libro sulla tragedia. Là scelse per Schopenhauer, e il
suo pessimismo eroico il simbolo del « cavaliere con la morte e il diavolo, come lo ha disegnato
Dürer, il cavaliere con l’armatura, dallo sguardo di bronzo, duro, che sa prendere il suo cammino
terribile, imperturbato dai suoi orrendi compagni, e tuttavia privo di speranza, solo col destriero e il
cane» (NT: 136). Anche Thomas Mann si riferisce a questa immagine per servirsi dello spirito
eroico, necrofilo, romantico e allo stesso tempo disilluso della civiltà tedesca contro l’ottimismo
occidentale, che si presume sciatto, e la sua ingenua ideologia riformistica. Questo emblema del
cavaliere, della morte e del diavolo avrà ancora una terribile fortuna; dal cavaliere deriveranno
l’ariano razzialmente puro e, infine, Adolf Hitler. Ci sono poesie, pezzi teatrali e dipinti relativi a
questo tema che vennero salutati e sostenuti dal Nietzsche-Archiv appestato dal na-
zionalsocialismo, ma che non avevano più molto a che fare con la tragicità di Nietzsche, di Mann e
di Bertram.
Per Bertram, Nietzsche stesso è un cavaliere con la morte e il diavolo. Anche lui è corazzato e
mascherato, non solo contro i pericoli esterni, ma anche contro le pericolosità del proprio intimo.
Nietzsche, afferma Bertram, ha in sé del caos creatore e proprio perciò è rappresentativo della
civiltà tedesca, la quale anch’essa deve essere domata verso l’interno e al contempo difesa verso
l’esterno e forse pure mascherata. Bertram cita il detto di Nietzsche «tutto ciò che è profondo ama la
maschera», per tornare a parlare nuovamente della distinzione fra Kultur e Zivilisation. La Kultur
cerca il teatro delle maschere, poiché ha in sé troppe forze elementari e deve per questo
difendersi. Il mascheramento è una risposta all’esperienza dell’elementare. La Zivilisation, invece,
ha portato a compimento la separazione dall’elementare e si organizza intorno al centro vuoto della
recita di maschere. Qui non c’è più profondità che debba essere celata. La Zivilisation cerca il
terreno sicuro, la Kultur lo trascina in prossimità dell’abisso.  Essa è in cerca di tragedia, di amore
per la morte, presagisce più di quanto sappia, per essa il sacrificio è più importante del risultato, è
eccessiva e ama la dovizia e il superfluo. Il libro su Nietzsche di Bertram è un’unica meditazione,
che si specchia in Nietzsche, sulla domanda: perché in generale v’è bisogno della Kultur se la
Zivilisation basta per vivere bene? Nella Zivilisation, sempre che riesca, tutto diventa chiaro e
luminoso, questo lo sa Nietzsche e con lui Bertram, che in conclusione del suo libro cita un passo da
una lettera di Nietzsche: « Quanto spesso ho fatto esperienza in tutte le cose proprio di questo: tutto
chiaro, ma anche tutto alla fine ».
Nietzsche, e con lui Bertram, non vorrebbe risolvere tutto con una deludente chiarezza. Nietzsche
stesso lo ha
detto di frequente: è il carattere enigmatico delle cose che lo attira. Questo desiderio di incanto e di
mistero è la melodia di fondo anche del libro di Bertram. In esso,
I
Nietzsche diventa una figura che, seducente e colma di presagi, indica la direzione del caos
creatore. In esso v’è il piacere per il tramonto. È il canto delle sirene che Bertram ascolta in
Nietzsche e che porta poi all’ascolto con proprie melodie. Il « mito-Nietzsche » di Bertram non
vuole introdurre in un mondo marziale e teutonico. In conclusione, si trova l’inno della lega
eleusina dell’amicizia, ci si raccoglie attorno al mistero di Dioniso, questo «dio veniente » che
santifica la morte e la vita, il piacere e la passione, il lutto e l’estasi. Bertram unifica la religione
dell’arte di Nietzsche e Stefan George nella frase: «L’esistenza di ciò che è umanamente più
prezioso, l’eterna efficacia di quelle forze che danno forma umana all’uomo, dipende dal fatto che
da qualche parte nel mondo venga posseduto e continui a esserci un mistero, che è una potenza
spiritualmente creatrice e unificatrice dell’anima. Che da qualche parte nel mondo, e ripetutamente,
una forza creatrice di mistero riunisca due o tre persone nel nome di dio... solo questo conserva il
mondo» (Bertram 429; trad. mod.).
Questo dio è Dioniso, evocato da Nietzsche e ritornato grazie a lui. In seguito, nel 1938, Bertram
non userà più toni delicati ed elegiaci, non privilegerà più quei pensieri «che incedono con passi di
colomba» (Z:172), ma lascerà fare ingresso, nel Völkischer Beobachter, al cavaliere con la morte e
il diavolo come figura di contadino autoctono e sicuro di sé, un misto di uomo faustiano,
mercenario e mistico. Ma questa metamorfosi non risulta indotta dal precedente, grandioso libro su
Nietzsche di Bertram, che non è dedicato all’energumeno, ma al Dioniso tedesco.
Il secondo libro su Nietzsche di grande efficacia nel periodo fra le due guerre fu lo studio di Alfred
Baeumler comparso nel 1931, Nietzsche. Il filosofo e il politico. Mentre in Bertram l’opera La
volontà di potenza (1906), redatta dalla sorella e dal Nietzsche-Archiv weimariano a partire dal
lascito, non ebbe quasi nessuna importanza, perché, per Bertram, al centro si trova il Nietzsche
dioni-
siaco, Baeumler, che dopo il 1933 competerà con Rosenberg per la posizione di guida ideologica
nel partito nazionalsocialista, sposta in primo piano il Nietzsche filosofo del potere, che del resto
esiste. La dottrina di Nietzsche, scrive Baeumler, dovrebbe portare più correttamente il nome di un
filosofo greco realmente vissuto, piuttosto che di un dio che il filosofo si inventò in un momento di
bisogno. «Non dionisiaca, bensì eraclitea chiamiamo l’immagine del mondo che Nietzsche ha
concepito. Questo è un mondo che non si ferma mai, che è completamente in divenire; ma divenire
significa battaglie e vittorie. »
Anche se Baeumler divenne un importante ideologo del nazionalsocialismo, tuttavia in questo
studio ricostruì in modo preciso e filosoficamente approfondito un contesto di pensiero che in
Nietzsche effettivamente esiste. La falsificazione consiste nella unilateralità.
Il punto d’avvio di Baeumler è il principio di Nietzsche secondo cui noi non abbiamo più alcuna
verità, ma dobbiamo piuttosto riconoscere che è la volontà di potenza che plasma qualcosa a partire
dal materiale dell’esperienza che poi noi chiamiamo verità. Le questioni di verità sono dunque
questioni di potere; anche Baeumler prende le mosse da qui. E poiché il contrasto e la lotta degli
opposti, la «guerra» eraclitea dunque, determinano il grande divenire, così vengono decise anche le
questioni di verità nel contrasto fra le potenze della vita. Mediante cosa, chiede Baeumler, una
verità diventa forte e vittoriosa? La risposta la trova nel rinvio di Nietzsche alla « grande ragione »
del corpo (Z:33). È potente soltanto quel pensiero che mantiene il contatto con le forze del corpo e
dei sensi. Baeumler cita l’indicazione nietzscheana: «Muovere dal corpo, e utilizzarlo come filo
conduttore. Esso è quel fenomeno molto più ricco che consente un’osservazione più precisa. Il
credere nel corpo è fondato meglio del credere nello spirito» (Baeumler 31; FP7/3:321).
Ci sono molti corpi e per questo anche molti poteri. Le creazioni del potere non necessitano di
alcuna giustifica-
zione, poiché soltanto una ragione che mira all’equilibrio lavora con giustificazioni. Ma poiché la
ragione stessa è fondata nel corpo (essa è uno dei suoi organi), proprio perciò si capiscono le sue
pretese universali. Non c’è alcun diritto dello spirito quale istanza d’appello sui centri di potere che
si trovano in dissidio, e per questo la contingenza è l’inizio e la fine delle cose. Non c’è alcun senso
che governi nel tutto, ma solo una dinamica di lotta, di affermazione e accrescimento di sé,
individuale e collettiva. Nell’universo eracliteo di Baeumler non c’è alcun posto per una normatività
contro-fattuale: nella realtà in carne e ossa gli uomini confinano l’uno con l’altro, si scontrano
nello spazio, si distinguono e si dividono l’uno dall’altro. Il dissidio, la guerra, è effettivamente
padre di tutte le cose. Il vivente esiste soltanto all’interno dei suoi confini, deve delimitarsi e può
anche espandersi entro confini determinati. A partire dalla necessità vitale dei confini si sviluppa la
dialettica reale dei contrari in lotta fra loro, la quale viene minimizzata se la si definisce come
dialettica. È una lotta per la vita o per la morte, senza sintesi. Infatti, ciò che sembra una sintesi è in
realtà la vittoria di una parte, e può essere che il vincitore assuma qualcosa del vinto.
Se non v’è alcuna sintesi che componga la lotta degli opposti, allora la storia universale è una storia
di contraddizioni che non si possono risolvere, ma che vengono combattute finché non risultano un
vincitore e un vinto. Si può forse pensare la totalità, ma non viverla. La si può vivere solo
sopportando le contraddizioni, solo nella storia dei dissidi. Ognuno si trova già sempre in
opposizioni che producono lacerazioni e dissidi, si nasce su un determinato versante della
contraddizione, e questo dipende dalla contingenza dell’esistenza. Non si può scegliersi il proprio
corpo e nemmeno quella comunità di corpi che si chiama «popolo». Non si sceglie il proprio luogo,
lo si può soltanto accogliere. La domanda se sia il versante « giusto » non si pone così. Vale la
logica opposta: questo versante è giusto perché vi appartengo e perché qui ci sono
i nostri. Noi e gli altri... questa è una distinzione evidente. Bisogna ancora chiarire soltanto i confini
del « noi ». Essi si spostano perché continuamente ci sono uomini che perdono la loro appartenenza.
Anche se la memoria collettiva dei miti e il lavoro concettuale dei filosofi ritornassero al principio,
per afferrarvi l'istante dell’unità, in tal modo tuttavia si sperimenterebbe l’arretramento
dell’orizzonte: non si esce dalla storia dei dissidi.
Con Nietzsche, Baeumler critica il pensiero pacifista. Esso per lui ha il valore di un autoinganno.
Ogni progetto di pace che deve essere realizzato, nello scontro fra i partiti, diventa esso stesso un
partito. Non si scontrò gelosamente, del resto, già il dio di Israele contro le altre divinità? Anch’esso
conobbe soltanto amico e nemico, fra gli uomini come fra gli dei. E il Vangelo secondo Matteo
fa dire a Gesù di non essere venuto a portare la pace, ma la spada. Soltanto quando le spade hanno
compiuto il loro lavoro possono diventare dei vomeri: così insegna la saggezza di Eraclito.
Baeumler (come in seguito anche Michel Foucault) legge Nietzsche come un filosofo che ha
rintracciato in maniera radicale, sul fondo dell’essere, la contingenza dei corpi in lotta e la
concorrenza dei poteri. Quello che si può imparare da Nietzsche, scrive Baeumler, è l’idea j che non
esiste alcuna « umanità », bensì soltanto unità concrete e delimitate in lotta fra loro. Queste unità
sono « una razza, un popolo, un ceto ».
Nietzsche non si esprimerebbe proprio così, ma vedrebbe anche l’individuo, il singolo, come unità
concreta, con la limitazione tuttavia che questo singolo è un tardo prodotto della storia. Ma da
quando esso c’è, il groviglio delle ! relazioni di potere è diventato ancora più complesso
e sconcertante. Riferendo il pensiero nietzscheano del potere esclusivamente alla « razza », al «
popolo » e al « ceto », Baeumler dischiude lo spazio alla propria ideologia della razza e
dell’elemento popolare, nella quale annovera anche Nietzsche. Qui iniziano dunque lo sfruttamento
e la
falsificazione ideologici. « Chi pensa seguendo il filo conduttore del corpo non può essere
individualista», scrive Baeumler. Invece si può, Nietzsche lo ha dimostrato e lo dimostrerà ancora
Michel Foucault.
Per quel che concerne il legame fra pensiero del potere e biologismo, altri autori, dalla cerchia della
« nuova destra» di allora, si sono spinti un po’ più avanti e per lo più coperti dalla sorella e dal
Nietzsche-Archiv di Weimar. Nella forma più cruda si ripeteva l’invito di Nietzsche a impedire la
procreazione ai deboli e ai malati. Uno scritto ampiamente diffuso di Karl Bindung e Alfred Hoch,
che patrocinava l’« approvazione dell’annientamento della vita non degna di essere vissuta»
(Aschheim 167), si richiama espressamente a Nietzsche.
Anche l’antisemitismo cercò in Nietzsche un appoggio. Circa questo problema, il più è già stato
detto. Incontestabile è che Nietzsche fu un anti-antisemita, e proprio perché l’antisemitismo lo
aveva davanti agli occhi nelle forme tanto odiate di suo cognato Bernhard Förster e di sua sorella.
Disprezzava la componente di destra nazionalista e razzista. Vide nel movimento antisemita degli
anni ’80 la rivolta dei mediocri, che illegittimamente si atteggiavano a uomini dominatori, solo
perché si sentivano ariani. Di fronte a siffatti antisemiti Nietzsche fu addirittura pronto ad affermare
e difendere la superiorità razziale degli ebrei. Il suo argomento: poiché essi per secoli dovettero
difendersi dagli attacchi, sono diventati tenaci e raffinati, hanno rafforzato la capacità difensiva
dello spirito e con ciò importato nella storia europea un’irrinunciabile ricchezza. Il popolo ebraico,
scrisse Nietzsche, « ha avuto fra tutti i popoli la storia più dolorosa » e proprio per questo si dovette
loro « l’uomo più nobile (Cristo), il saggio più puro (Spinoza), il libro più possente e la legge
morale di più vasta efficacia» (Ul:264). Si rivolge contro l’accecamento dei nazionalisti, che
conducono gli « Ebrei al macello come capri espiatòri di tutti i possibili mali pubblici e interni».
L’odio di Nietzsche per gli antisemiti aumentò vieppiù negli ultimi suoi due anni di lucidità. Ruppe
col suo editore antisemita Schmeitzner chiamando la casa editrice un «covo di antisemiti». In un
abbozzo di lettera alla sorella della fine di dicembre del 1887, scrive: « Dopo aver letto il nome di
Zarathustra nella corrispondenza antisemita, ho perso definitivamente la pazienza... adesso sono
contro il partito di tuo marito per legittima difesa. Questi maledetti ceffi da antisemita non devono
rifarsi al mio ideale» (B8,218ss.). Nei suoi appunti dell’autunno 1888, Nietzsche riunisce dei
pensieri per una psicologia dell’antisemitismo. A tal riguardo, si tratta per lo più di gente,
scrive, troppo debole per dare un senso alla propria vita e che aderisce con timore panico a
qualsivoglia partito che soddisfi il loro « bisogno tirannico » di senso. Essi diventano antisemiti, per
esempio, « solo perché gli antisemiti hanno uno scopo che è afferrabile fino alla spudoratezza: il
denaro degli Ebrei». A questa osservazione, Nietzsche riallaccia il suo psicogramma dell’antisemita
comune: «Invidia, risentimento, rabbia impotente come motivo conduttore nell’istinto: la pretesa di
essere ’eletti’; la perfetta ipocrisia moralistica verso se stessi, che porta costantemente in bocca la
virtù e tutte le grosse parole. Questi sono i segni tipici'. non si accorgono neppure come in tal modo
somiglino fino a confondersi... con chi? Un antisemita non è altro che un Ebreo invidioso, cioè
stupidissimo» (FP8/ 2:344ss.).
Anche se Nietzsche fu un anti-antisemita fino al punto di scrivere, in una delle sue ultime lettere
segnate dalla pazzia: «Farò infatti fucilare tutti gli antisemiti» (E:344; intorno al 4 gennaio 1889),
d’altra parte tuttavia, soprattutto nella Genealogia della morale, nel Crepuscolo degli idoli e
nell’Anticristo, sviluppò una teoria secondo la quale l’ebraismo religioso avrebbe inaugurato e
guidato in maniera decisiva la «rivolta degli schiavi nella morale» (GM:23). Nella Genealogia
Nietzsche ne parla addirittura con ammirazione: qui il risentimento è diventato creativo
4

in modo inaudito, poiché è stata imposta al mondo una « trasvalutazione di tutti i valori », anzitutto
con la legge ebraica e poi superando questa legge mediante l’apostata ebreo Paolo. Ciò rientra nella
«occulta magia nera di una veramente grande politica della vendetta » (GM:24). Adesso deve
imporsi di certo una rinascita dei valori « aristocratici » contro la trasvalutazione ebraica, ma ciò
nonostante la storia ebraica, ricca di successi, merita rispetto. In essa era infatti all’opera
un’incondizionata volontà di potenza, che pensò bene di elevare al proprio livello il partito dei
deboli. Per lui, il comandamento cristiano dell’amore ha il valore di una strategia
straordinariamente raffinata e sublime della volontà di potenza. Negli ultimi scritti, per esempio nel
Crepuscolo degli idoli, l'anti-ebraismo, fondato in termini di filosofia morale, viene presentato in
modo un po’ più rabbioso, e fa echeggiare addirittura toni razzistico-biologici: «Il cristianesimo,
scaturito da una radice ebraica e reso comprensibile soltanto come frutto di questo terreno,
rappresenta il movimento antitetico a ogni morale dell’allevamento, della razza, del privilegio - è
la religione antiariana par excellence» (CI:70).
Gli antisemiti, disprezzati da Nietzsche, potevano dunque sicuramente utilizzare alcune sue idee
come un impulso, quantunque l’immagine della razza ariana dominante che essi delineavano non
corrispondesse a quell’immagine di superiorità che a Nietzsche servì da idea-guida. Del resto, anche
i nazionalsocialisti lo notarono. Si continuò di certo a utilizzare Nietzsche, ma si moltiplicarono le
voci che mettevano in guardia contro di lui, lo spirito libero. Ernst Krieck, un filosofo
nazionalsocialista molto influente, giudicò ironicamente: « Insomma: Nietzsche fu avversario del
socialismo, avversario del nazionalismo e avversario del razzismo. Se si prescinde da queste tre
correnti spirituali, sarebbe stato un eccellente nazista» (Riedel 131).
Al tempo del nazionalsocialismo furono soprattutto Karl Jaspers e Martin Heidegger che
utilizzarono il riconoscimento ufficiale di Nietzsche da parte del regime
per portare sul palcoscenico un Nietzsche « diverso », non ideologico, e per sviluppare, nella sua
scia, delle idee che potevano far saltare in aria lo spazio ideologico o quantomeno non farsi limitare
da esso. Fu effettivamente una sorta di lettura sovversiva che venne tentata in tale occasione.
Per cominciare da Jaspers, nel suo libro su Nietzsche del 1936 egli presenta un filosofo che
possiede la passione per la conoscenza fuori di ogni guscio ideologico. Per Jaspers, Nietzsche fu, in
misura elevata, un filosofo sperimentale, attratto dalla «magia dell’estremo» (Jaspers 382). Jaspers,
in poche parole, apprezzava in Nietzsche il fatto che egli avesse certamente abbandonato la
trascendenza, ma non il trascendere, che pensasse in modo aperto e per questo preferisse il
movimento del pensare all’escogitare risultati. Nietzsche ha attraversato il deserto del nichilismo e
proprio perciò ha creato una nuova ricettività per il miracolo dell’essere. Tuttavia, come spesso
accade, Jaspers lascia in sospeso il suo giudizio, formulandolo nel modo condizionale: « La
grandezza di Nietzsche consisterebbe nel sentire il nulla e, mediante ciò, nel parlare dell’altro,
dell’essere, in modo passionale e illuminato, ed anzi nel fatto di poterlo conoscere meglio di coloro
che forse non ne sono mai stati certi e coscienti, e permangono nella loro ottusità» (Jaspers 384).
Jaspers, immedesimandosi nella situazione, illustra il dramma di questo pensiero smisurato e lo
segue fino a quel confine « dove non può effettuarsi il compimento dell’essere » e si mostra il
«buffone » (Jaspers 384). Probabilmente, Jaspers ha annoverato anche la sfrenata filosofia di
potenza di Nietzsche fra queste «buffonerie ». Lo accenna, ma non lo esprime direttamente per non
confliggere troppo chiaramente con la variante ufficiale. Nonostante tale prudenza, Jaspers non fu
ben tollerato dai dominanti. Alla fine degli anni ’30, com’è noto, lo colpì un divieto
d’insegnamento.
Nel medesimo periodo di Jaspers, anche Heidegger cominciò le sue lezioni su Nietzsche. Il libro
che dopo la guerra ne derivò fu una delle opere determinanti per la ri-
cezione accademica di Nietzsche. Per i filosofi accademici particolarmente limitati, Nietzsche
divenne capace di «dare soddisfazione » soltanto per mezzo di Heidegger.
Heidegger, dopo le sue dimissioni dal rettorato, dovette farsi tacciare dagli ideologi nazisti di
«nichilismo». Krieck scrisse nel 1934: «Il senso di questa filosofia è un esplicito ateismo e un
nichilismo metafisico, che del resto sono stati qui da noi rappresentati soprattutto da letterati ebrei,
dunque un fermento di disgregazione e dissoluzione per il popolo tedesco » (Schneeberger). Nelle
sue lezioni su Nietzsche tenute fra il 1936 e il 1940, Heidegger ritorce le accuse e tenta di
dimostrare che la volontà di potenza, alla quale si richiamano gli ideologi nazisti, non è un
superamento, bensì un completamento, del nichilismo, senza che ciò venga minimamente osservato
dagli adepti nietzscheani. In tal modo, le lezioni su Nietzsche diventano un attacco frontale alla
metafisica, dalla sua visuale: nichilistica, del razzismo e del biologismo. Heidegger ammette la
parziale utilizzabilità di Nietzsche per l’ideologia dominante nel momento in cui egli stesso se ne
allontana. D’altra parte, egli tenta di collegarsi a Nietzsche, ma in modo tale da presentare il proprio
pensiero come un superamento di Nietzsche... sulle tracce di Nietzsche.
Heidegger discute il concetto nietzscheano di volontà e sottolinea il significato del crescere, del
voler-diventare-più-forti, dell’accrescimento e della sopraffazione. Egli segue Nietzsche nella
critica all’idealismo, sottolinea il suo invito: « Rimanete fedeli alla terra! » Ma, esattamente a
questo punto, egli critica allo stesso tempo Nietzsche, rimproverandogli, con la sua filosofìa della
volontà di potenza, di non essere appunto rimasto fedele alla terra. Per Heidegger « rimanere fedeli
alla terra » significa non scordare l’essere oltre il groviglio dell’ente. Nietzsche, afferma Heidegger,
prendendo le mosse dal principio della volontà di potenza, attrae tutto nell’orbita dell’uomo
giudicante. L’essere, con cui ha a che fare l’uomo e che egli stesso è, viene valutato esclusivamente
come «valore».
Nietzsche voleva che l’uomo incoraggiasse se stesso, che si elevasse. Heidegger dice: non ne è
conseguita soltanto un’elevazione, ma una sollevazione; una sollevazione della tecnica e delle
masse (così chiamate da Nietzsche stesso), che solo mediante il dominio tecnico diventano
pienamente gli «ultimi uomini» che, «strizzando l’occhio», si sistemano nelle loro abitazioni e nella
loro piccola felicità e si difendono con brutalità da ogni lesione della loro sicurezza e della loro
condizione patrimoniale. L’uomo entra nel sollevamento, dice Heidegger, con riguardo anche al
presente tedesco, il mondo diventa oggetto, e la terra stessa può ormai soltanto mostrarsi come
l’oggetto dell’attacco. La natura appare ovunque come l’oggetto della tecnica. Secondo Heidegger,
tutto questo è già presente in Nietzsche, poiché in lui l’essere viene visto, e quindi mancato, soltanto
dalla prospettiva dell’assegnazione estetica, teoretica, etica e pratica di valore. Per la volontà di
potenza, il mondo è ormai solo il complesso delle condizioni di sopravvivenza e accrescimento.
Ma può l’essere, chiede. Heidegger, essere valutato in modo più alto che venendo elevato
appositamente a valore? E risponde affermando che apprezzando l’essere solo come un valore, già
per questo esso è sminuito a una condizione posta dalla stessa volontà di potenza, è perciò la via
verso l’esperienza dell’essere stesso è smarrita.
Con l’esperienza dell’essere non si intende, in Heidegger, il mondo superiore, bensì l’esperienza
dell’inesauribilità della realtà e dello stupore nella radura, quando si diventa consapevoli che la
natura spalanca nell’uomo i suoi occhi, e osserva che essa esiste. Nell’esperienza dell’essere,
l’uomo si scopre come libertà d’azione. Egli non è imprigionato nell’ente e non vi si trova fissato.
In mezzo alle cose egli ha « gioco », come deve averlo la ruota nel mozzo per muoversi. Il
problema dell’essere, dice Heidegger, è in ultima analisi un problema di libertà.
Il pensiero dell’essere, in ogni caso, è per Heidegger questo movimento «che ha gioco» del
mantenersi aperti
per l’orizzonte incommensurabile dell’essere, in cui unicamente può apparire, in generale, l’ente.
Una delle formule heideggeriane per il rifiuto dell’affermazione di rispondere ora finalmente alla
domanda circa l’essere, nelle lezioni su Nietzsche, recita: « Con l’essere non c’è nulla». Ciò
significa: l’essere non è nulla a cui ci si possa attenere. Di fronte alle visioni del mondo che fissano
e garantiscono la sicurezza, esso è ciò che puramente dissolve. La domanda circa l’essere deve
impedire che il mondo diventi immagine del mondo. Per Heidegger, anche Nietzsche fu ancora un
filosofo dell’immagine del mondo.
Effettivamente, il pensiero di Nietzsche opera in modo particolarmente immaginifico, chiuso nella
sua dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale, con la quale Heidegger si confronta intensamente. Con
l’idea del ritorno, la dimensione del tempo viene cancellata, essendo ripiegata in un cerchio; e
questo benché Nietzsche, riallacciandosi al « divenire » eracliteo, volesse davvero spingere il suo
pensiero nel tempo. E questo è proprio il culmine dell’opposizione fra Nietzsche e Heidegger:
Nietzsche pensa il tempo nella dinamica della volontà di potenza, e nella dottrina dell’eterno ritorno
lo arrotonda nuovamente in un essere. Heidegger invece tenta di tener ferma l’idea che il senso
dell’essere sia il tempo. Nietzsche fa del tempo un essere, mentre Heidegger fa dell’essere il tempo.
Tuttavia (e Karl Lowith lo ha indicato nella sua critica alle lezioni heideggeriane su Nietzsche)
rimane controverso chi dei due, Heidegger o Nietzsche, abbia spinto più radicalmente il pensiero
nell’apertura e chi di essi abbia dunque cercato nuovamente un appiglio in una dimensione esterna.
Per Nietzsche, infatti, la vita dionisiaca che si estende in tutto non è appunto un fondamento
portante, bensì un abisso, minaccioso per i nostri tentativi « apollinei » di autostabilizzazione.
Forse, sarebbe stato Nietzsche che avrebbe potuto rimproverare scarsa radicalità a Heidegger nel
superamento del bisogno di sicurezza. Forse egli avrebbe considerato anche l’«essere» di Heidegger
soltanto come un mondo dietro il mondo, di tipo platonico, in grado di garantire protezione e
sicurezza.
Heidegger interpretò la filosofia di Nietzsche come la forma conclusiva di una metafisica a cui
l’essere si sottrae nella presa oggettivante e dispensatrice di valore. La notte dell’oblio dell’essere,
che Heidegger fa cominciare con Platone, con Nietzsche non è ancora giunta al termine. Heidegger
dovette sentirsi attratto da Nietzsche, perché ci furono in modo del tutto palese dei paralleli.
Anche Nietzsche fece iniziare con Platone e Socrate la sciagura occidentale dell’alienazione dalle
fonti dionisiache della civiltà. Ciò che per l’uno è l’oblio dell’essere, per l’altro è il tradimento di
Dioniso. Entrambi spiegano che la sciagura del presente è iniziata da lungo tempo nelle profondità
della storia.
Pochi anni dopo le lezioni su Nietzsche di Heidegger, Theodor W. Adorno e Max Horkheimer
pubblicarono nel 1944 la Dialettica dell’illuminismo. Anche in questo testo fondamentale della
critica filosofica contemporanea, nel frattempo divenuto un classico, il confronto con Nietzsche ha
un’importanza decisiva. Adorno e Horkheimer si distaccano con questo libro dalla critica
dell’ideologia dei loro primi anni, quando rivolgevano ancora i valori dell’illuminismo borghese
contro la realtà capitalistica; quando cercavano e trovavano ancora del potenziale sovversivo nelle
contraddizioni del mondo tardo-capitalistico. Questo era ancora illuminismo, ma adesso, sotto
l’impressione destata dalla guerra, dal dominio nazionalsocialista e stalinista, dall’industria
culturale capitalistica e dal corteo trionfale della scienza strumentale priva di riflessione,
vedono giunto il momento in cui l’illuminismo deve illuminarsi al ; di là di se stesso e cioè al di là
del suo coinvolgimento nel
I
grande contesto di accecamento. « Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di
trionfale sventura» (Adorno/Horkheimer 11).
Nietzsche e Heidegger retrodatarono a Socrate e Platone il peccato originale della « storia
dell’umana sventura »,
l
ma Adorno/Horkheimer vanno ancora più indietro per trovare l’inizio della brutta fine. Per essi, la
«sventura» comincia allorché Odisseo si fa legare all’albero della nave per poter resistere al fascino
del canto delle sirene. Il sé che vuole qui affermarsi deve indurirsi, incatenarsi, esercitare violenza
contro se stesso. Soprattutto però: non può cedere alla musica. « Senza musica la vita sarebbe un
errore», disse Nietzsche, e Adorno/Horkheimer mostrano ora come la vita degradò a errore nel
momento in cui si decise a favore dell’affermazione di sé, contro la musica del mondo.
Per i due autori della Dialettica dell ’illuminismo, Nietzsche appare importante per due aspetti. In
primo luogo, essi seguono la scia di Dioniso che Nietzsche ha lasciato. Là dove è dionisiaca, la vita
è completamente presso di sé, nel cuore della sua inquietudine creatrice e struggente.
Così dionisiaca, così in cerca di sirene, va immaginata anche quella vita che Adorno/Horkheimer
vedono perire sotto la violenza della socializzazione e che essi chiamano « la natura nel soggetto ».
Ciò che un soggetto vuole diventare deve farsi legare all’albero della sua razionale affermazione di
sé; chi vuole determinare se stesso non può seguire le voci delle sirene, belle fino al tramonto. Il
diventare un soggetto significa violenza contro la natura esterna e quella interiore. La « natura »,
però, in questo contesto, come in Nietzsche, è ciò «che trascende il raggio d’esperienza; ciò che,
nelle cose, è più che la loro realtà già nota » (Adorno/ Horkheimer 22). Il « Dioniso » di Nietzsche,
l’« essere » di Heidegger e la « natura » di Adorno/Horkheimer sono nomi distinti per designare la
medesima cosa: l’immenso.
In secondo luogo, Adorno/Horkheimer si ricollegano all’analisi nietzscheana del potere. Quando
Nietzsche interpreta la volontà di verità come una figura della volontà di potenza, allora i giochi del
potere appaiono come il termine ultimo della saggezza. Si può sprofondare del tutto liberi da scopi e
dimentichi di sé nella verità, ma alla fine si scoprirà sempre in essa la volontà di potenza. Una cosa
analoga accade agli autori della Dialettica dell’illuminismo, delusi dalla ragione occidentale: la
magia delle idee umanistiche dell’illuminismo è svanita, e dappertutto si mostra il gelido cuore del
potere, più esattamente: la struttura dinamica di anonimi accadimenti di potere.
%
Gli elementi della Dialettica dell ’illuminismo sono dunque nietzscheani, poiché viene trattata la
tensione lacerante che abbiamo trovato anche in Nietzsche: qui il potere, là la musica; qui l’Odisseo
legato, là Dioniso, il dio veniente. Adorno rimarrà, a modo suo, un seguace di questo
Dioniso, cercando di udire quella che una volta era la vita vera, ormai soltanto come lontana eco a
partire dalle opere d’arte.
Il dionisiaco e il potere... furono questi i due temi che attirarono anche Michel Foucault verso
Nietzsche. Allorché Foucault, nel 1961, nella sua prima opera Storia della  follia nell’età classica,
analizzò l’universo moderno della ragione a partire dai suoi margini, a partire dalla prospettiva della
sfera, posta fuori dei confini e diffamata, della follia... allorché egli, dunque, descrisse l’altro della
ragione come ciò che la civiltà dell’epoca classica negò e che perciò le conferì l’identità... a tal
riguardo, non fu difficile riconoscere che dietro questo altro si celava il volto di Dioniso.
Certamente, fu Bataille che aiutò Foucault nell’udire il Nietzsche dionisiaco come la voce di una
ragione altra. E fu sempre Bataille che già negli anni ’30 introdusse il Nietzsche estatico e mistico
nel pensiero francese. A ciò poteva ricollegarsi Foucault nelle sue indagini sulla nascita della
ragione moderna. Bisogna seguire a ritroso, spiega Foucault, la storia delle separazioni, delle
scissioni, e cogliere l’attimo in cui la ragione occidentale si afferma contro l’«esperienza tragica»
(Foucault 35), in cui il «mondo felice del piacere» è addomesticato e non più pronto ad ascoltare la
voce della follia. Foucault annovera le sue ricerche fra le « grandi indagini nietzscheane » che « la
dialettica della storia vuole confrontare con le strutture immobili del tragico ».
Quando Foucault, nel proseguimento del suo progetto,
fa degli stessi poteri esterni ai confini un tema, quando dunque compie l’analisi del potere, allora
rimane pur sempre nella scia di Nietzsche. Descrivendo le pratiche moderne di produzione della
verità nei nosocomi, nella psichiatria, nelle prigioni, egli mostra con ciò quanta ragione avesse
Nietzsche a interpretare la volontà di verità come una forma epistemica della volontà di potenza. E
infine, Foucault adotta da Nietzsche anche il principio della genealogia. Nel saggio comparso nel
1971, Nietzsche, la genealogia, la storia, che risale alla prolusione al Collège de France, egli
chiarisce il principio genealogico di Nietzsche e presenta ciò che di esso riprende per le proprie
indagini.
Il genealogista esamina la vera provenienza degli eventi storici e dei modi di pensare, rinunciando
ad assunzioni finalistiche o teleologiche. Non si fa illudere dall’idea metafisica che l’origine porti in
sé la verità, che a partire da essa il senso defluisca nelle pratiche, nelle istituzioni e nelle idee.
Foucault vuole decostruire tali miti dell’origine seguendo l’esempio di Nietzsche. « Il genealogista
ha bisogno della storia per scongiurare la chimera dell’origine» (Foucault, Nietzsche 34). Così come
Nietzsche ha mostrato, nella Genealogia della morale, che anzitutto esisteva una determinata
pratica che poi si arricchiva, per esempio, con le molteplici possibilità di senso della pena, che
anzitutto esisteva una limitazione istintuale dalla quale poi, in una lunga storia, derivò il mondo
dell’interiorità umana insieme con la coscienza, così anche Foucault vuole sorridere delle «solennità
dell’origine» (ibid. 32) e mostrare che in principio non v’era alcun piano, alcuna intenzione, alcun
grande senso, bensì solo la costellazione contingente di un « brulichio barbaro e inconfessabile »
(ibid. 45).
Foucault applica il principio genealogico di Nietzsche, secondo cui i fondamenti della ragione non
sono razionali, i fondamenti della morale non sono morali, alla concreta indagine storiografica. Il
risultato di ciò è che la storia riacquista la sua opaca fattività e non può più apparire come zona
colma di senso. Sotto l’influsso di Nietzsche,
Foucault sviluppa la sua ontologia della contingenza: « Le forze che sono in gioco nella storia non
obbediscono né ad una destinazione, né ad una meccanica, ma piuttosto al caso della lotta. Non si
manifestano come le forme successive d’una intenzione primordiale; non prendono l’andamento di
un risultato. Appaiono sempre nel rischio singolare dell’avvenimento » (ibid. 44). Per Foucault,
quest’idea significa una liberazione. Non si ha più bisogno di farsi indurre in errore tramite il
fantasma di un grande ordinamento a cui si crede di dover corrispondere, poiché tramite esso parla
l’ordinamento delle cose. Chi parla, chi ordina? Con questa domanda, Foucault estrae l’attore
dalla sua azione, l’autore dalla propria opera e, in complesso, il tumulto contingente degli
avvenimenti di potere dalla cosiddetta storia.
Nietzsche scrisse in Aurora, a proposito della passione per la conoscenza, che l’uomo potrebbe
forse perire per essa, poiché non sopporta più l’autotrasparenza. Anziché elevarsi « nel fuoco e nella
luce », trapasserebbe forse più volentieri «nella polvere» (A:216). Foucault si richiama a questa
immagine nelle famose frasi con cui si conclude il suo capolavoro Le parole e le cose. Un tempo,
scrive, fu destata una determinata specie di volontà di verità, ed essa si rivolse all’uomo; le cose
sono andate bene per un lungo periodo, ma possono mutare. Forse è imminente una nuova svolta e
dunque può darsi «che l’uomo [venga]
cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia»
(Foucault, Parole 462).
Nel suo ultimo periodo creativo, Foucault si occupò di ciò che si potrebbero chiamare le « strategie
di potere sul proprio corpo». Anche questo un progetto nietzscheano. Si tratta del recupero dell’arte
di vivere. Invece di analizzare le condizioni di dissoluzione del soggetto, Foucault si interroga, negli
ultimi volumi della Storia della sessualità, circa i margini d’azione della sovranità. Egli si
occupa delle antiche dottrine di saggezza, ma anche di Nietzsche, che scrisse: « Dovresti diventare
padrone di te stesso, pa-
drone anche delle tue virtù. Prima erano esse le tue padrone; ma esse devono essere solo i tuoi
strumenti accanto ad altri strumenti. Dovresti acquistare potere sul tuo pro e contro» (U1:9; trad.
mod.).
Nella vita di Foucault ci sono alcune svolte, fratture e interruzioni, ma egli non si volle mai liberare
di Nietzsche, anche perché, del resto, non visse mai questo legame come un giogo.
L’arte di vivere... l’ultimo tema a cui è giunto Foucault con Nietzsche, è anche il punto dove si può
interrompere la storia del pensiero di Nietzsche stesso. Questa storia non ha fine. Si dovrà
continuare a scriverla.
Si potrebbe illustrare come il pragmatismo americano scopri quel Nietzsche che spiegava come la
verità sia l’illusione con cui riusciamo a cavarcela attraverso la vita. Nietzsche venne spogliato del
suo pathos vetero-europeo. Non è poi così negativo se non abbiamo alcuna verità assoluta! Si lasciò
così com’essa è la formula patetica di Nietzsche «dio è morto». Per William James, per esempio,
era chiaro: se esiste una volontà di potenza, perché allora non esiste pure una volontà di credere, se
con essa la vita individuale diventa forse più ricca e la società più stabile? I pragmatisti distinguono
in Nietzsche molto precisamente tra ciò che è funesto e ciò che è utilizzabile. Si rigettò il Nietzsche
del teatro universale della grande politica come allevamento e selezione, e si conservò il Nietzsche
che insegnava l’arte filosofica della plasmazione e dell’accrescimento di sé, il Nietzsche della recita
da camera, dunque. In questa maniera, filosofi come Richard Rorty si servono di Nietzsche, e
questo non è nemmeno il modo peggiore di scoprire le tracce della benevolenza in un pensiero
talvolta anche crudele.
Nietzsche fu un laboratorio di pensiero e non smise mai di interpretare se stesso. Fu una centrale per
la produzione di interpretazioni. Portò sul palcoscenico il dramma del pen-
sabile e del vivibile. Con ciò ha esplorato l’umanamente possibile. Chi, in generale, ritiene il
pensiero una vicenda della vita non verrà mai a capo di Nietzsche. In lui, si può fare l’esperienza
che è l’immenso, questa grande musica del mondo, che non ci lascia andare.
Scrivendo questo libro ho tenuto un quadro di Caspar David Friedrich davanti agli occhi: Il monaco
in riva al  mare. In esso, v’è un solitario sulla riva davanti a un orizzonte di cielo e mare. Si può
pensare questo immenso? Ogni pensiero non viene forse nuovamente dissolto dall’esperienza
dell’immenso? Nietzsche fu un tale monaco in riva al mare, con l’immenso sempre in vista, e
sempre pronto a far tramontare il pensiero nell’indeterminabile e a farlo ricominciare con nuovi
tentativi di plasmazione. Kant chiese se dobbiamo lasciare lo stabile regno della ragione e salpare
verso il mare aperto dell’ignoto, e preferì rimanere. Ma Nietzsche salpò.
Col pensiero di Nietzsche non si arriva da nessuna parte, non c’è un esito né un risultato. C’è in
esso soltanto la volontà di un’avventura interminabile del pensiero.
Ma talvolta ci coglie di soppiatto una sensazione: forse, però, avrebbe anche dovuto cantare...
quest’anima.

CRONOLOGIA
1884 15 ottobre: Friedrich Wilhelm Nietzsche, primo di tre figli del pastore Karl Ludwig Nietzsche
e della moglie Franziska nata Oehler, nasce a Röcken, un paesino nelle vicinanze di Lützen. «Nato
sul campo di battaglia di Lützen. Il primo nome che udii fu quello di Gustavo Adolfo» (1858).
Sul padre: «Era il perfetto ritratto del prete di campagna! Dotato di cuore e d’intelletto, adorno di
tutte le virtù d’un cristiano, menava vita tranquilla e semplice ma felice» (1858).
Sulla fanciullezza a Röcken: « Diverse qualità si svilupparono già molto presto. Per esempio,
una certa tranquillità e silenziosità con cui mi tenni leggermente a distanza dagli altri bimbi, ma
anche una passionalità talvolta prorompente. Non toccato dal mondo esterno, vissi in un ambiente
familiare felice; il paese e i dintorni erano il mio mondo e tutto ciò che stava oltre era per me un
ignoto paese delle meraviglie» (1858).
1849 30 luglio: muore il padre. Diagnosi: « rammollimento cerebrale ». « Sebbene fossi ancora
molto piccolo e ignaro, avevo però un’idea della morte; il pensiero di vedermi per sempre separato
dall’amato padre mi toccò e piansi amaramente» (1858). In Ecce homo (1888) Nietzsche scrive del
padre: «Considero un grande privilegio aver avuto un tale padre: mi sembra addirittura che ciò
spieghi tutti gli altri privilegi che ho avuto - eccetto la vita, il grande sì alla vita ».
I
1850 9 gennaio: muore il fratello Ludwig Joseph poco prima di compiere due anni. « In quei giorni
sognai una volta di udire in chiesa il suono dell’organo, come per una sepoltura. Mentre ne
ricercavo la causa, d’improvviso vidi spalancarsi una tomba, dalla qua-
le uscì mio padre avvolto nel sudario. Egli corre in chiesa e poco dopo ne ritorna con un bimbo in
braccio. Il tumulo si apre, mio padre vi rientra e il coperchio si richiude sul sepolcro. Tosto il suono
dell’organo cessa e io mi sveglio. Il giorno seguente, il piccolo Joseph si sente improvvisamente
male, cade in preda a convulsioni e muore poche ore dopo. Il nostro dolore fu enorme. Il mio sogno
si era completamente avverato» (1858).
Inizio di aprile: viene insediato il nuovo pastore di Ròcken. Per questo motivo, (a famiglia (la
nonna, due zie nubili, la madre e i due figli, Friedrich ed Elisabeth) si trasferisce a Naumburg. I
Nietzsche hanno un piccolo capitale; la madre prende una pensione di vedovanza e ricava un
piccolo reddito dall’Altenburger Hof, dove il padre operò per alcuni anni come educatore.
Friedrich frequenta la scuola elementare (sino al febbraio 1851). Di questo periodo, la sorella
racconta: i compagni di scuola lo chiamavano « il piccolo pastore », perché poteva pronunciare «
detti biblici e cantici religiosi » con tale espressività « da far piangere». Narra inoltre il seguente
aneddoto: «Un giorno, proprio all’uscita da scuola, scoppiò un violento temporale. Tutti i ragazzi
scapparono di corsa verso casa - e alla fine vediamo spuntare il nostro piccolo Fritz che cammina
tranquillamente, col berretto nascosto sotto la lavagnetta coperta da un fazzoletto [...] Quando arrivò
tutto zuppo, ai rimproveri della mamma rispose in tutta serietà: ’Ma mamma, nelle regole della
scuola sta scritto che all’uscita i ragazzi non devono correre e saltare, ma tornare a casa tranquilli e
composti’ ». Nietzsche riceve in dono dalla madre un pianoforte. Va a lezione da un anziano
direttore di coro. Primi tentativi di composizione.
1853 Gennaio: Friedrich s’ammala di scarlattina. In famiglia ci si aspetta che diventi pastore, come
il padre. Amicizia con Gustav Krug e Wilhelm Pinder.
1856 A scuola si inizia a parlare di lui. La sorella riporta
il racconto di uno scolaro riguardante Friedrich dodicenne: «A quel tempo, s’accorse spesso di mio
fratello, con quegli occhioni meditabondi, e si meravigliò dell’influenza che esercitava sui
compagni di scuola. Non osavano rivolgergli alcuna dura parola né osservazioni sconvenienti [...]
’Ma cosa vi fa?’ chiese egli. ’Oh, ha un tale aspetto che a uno restano le parole in bocca.’ [...] Fritz
gli è sempre sembrato come il Gesù dodicenne nel tempio ».
Friedrich scrive la sua prima trattazione filosofica: Dell’origine del male. I quaderni d’appunti si
riempiono di poesie.
1858    Estate: si prepara per l’esame d’ammissione a
Schulpforta e inizia a scrivere la sua prima autobiografia. Il sunto: « La mia educazione, nelle sue
parti fondamentali, è stata lasciata a me stesso [...] mi mancò la guida severa e superiore di un
intelletto maschile ». Nei dieci anni successivi scriverà ancora altri otto tentativi autobiografici.
Ottobre: ammissione a Schulpforta, l’internato d’élite nella Saaletal, nei pressi di Naumburg.
«Fu un martedì mattina, quando uscii dalle porte della città di Naumburg. C’era ancora il
crepuscolo dell’alba per le campagne [...] Anche in me regnava ancora un simile crepuscolo: nel
mio cuore non era ancora sorta una vera gioia solare. »
1859    Scoperta di Jean Paul: « I frammenti delle sue opere che ho letto mi piacciono
straordinariamente per il vigoroso talento descrittivo, la delicatezza dei pensieri e lo spirito satirico
». A scuola, per alcuni anni, è il primo della classe. Il giorno del suo quindicesi-
mo compleanno annota: «Ora mi ha afferrato un impulso non comune verso la conoscenza,
verso una formazione universalistica».
1860    Paul Deussen: «Stringemmo un patto d’amicizia,
quando [...] c’incontrammo in un’ora sacra, in cui decidemmo di darci del tu al posto del ’Lei’ che
a Pforta si usava anche tra compagni, e se non proprio bevemmo, almeno fiutammo alla nostra
amicizia».
1861    Scoperta di Hölderlin, allora quasi dimenticato. Lo chiama il suo « poeta preferito » e scrive
un saggio su di lui. Il commento dell’insegnante: «Devo dare all’autore il consiglio amichevole di
rivolgersi a un poeta più sano, più chiaro, più tedesco ».
1862    Fonda con alcuni amici l’associazione di autoeducazione « Germania ». Dallo statuto: «
Ognuno consegna volontariamente una composizione musicale, una poesia o una trattazione.
Ognuno è però obbligato a terminare almeno 6 trattazioni all’anno, fra le quali 2 debbono trattare di
storia contemporanea o di questioni contemporanee».
Viene ricoverato per « congestione alla testa (mal di testa intermittenti) ». Scrive il saggio Fato e
storia, l’abbozzo di dramma Ermanarico e varie altre composizioni.
1863    Dai ricordi di Paul Deussen del periodo scolastico
comune a Pforta: « La sua indifferenza verso i piccoli interessi dei compagni, la sua mancanza di
esprit de corps vennero interpretati come assenza di carattere, e io ricordo come un giorno un
certo M. produsse, sul sentiero delle Muse nel giardino della scuola, in modo discreto, per la gioia
dei presenti, una burattino intagliato e creato a partire da una fotografia di Nietzsche. Per fortuna il
mio amico non ne venne a sapere nulla ».
Nel locale della stazione di Kosen, in occasione
di una gita comune, beve tre boccali di birra e toma a Schulpforta ubriaco. Perde pertanto il posto di
primo della classe, rimettendoci la funzione d’ispettore dei compagni di scuola più giovani. Con
contrizione scrive alla madre: « Scrivimi dunque al più presto e con molta severità, giacché me lo
merito ». Frequenta Ernst Ortlepp, vagabondo e poeta. Riporta nel suo diario alcune poesie di
Ortlepp sull’amore e la pena d’amore: « Che avere non ti possa / mi manda lesto nella fossa ». Poco
dopo Ortlepp viene trovato morto in un fosso.
Scrive alla madre, il 6 settembre: « Per la verità, l’autunno e la sua aria matura hanno ormai
cacciato gli usignoli [...] Ma l’aria è così cristallina, il cielo dalla terra appare così nitido e il mondo
ci sta davanti come nudo. Se per qualche minuto mi è concesso di pensare a quello che voglio, cerco
allora le parole per una melodia che ho già, mentre entrambe le cose che ho non armonizzano, se
messe insieme, sebbene nate dalla stessa anima. Ma questo è il mio destino! »
1864    Ancora a Schulpforta nasce il primo grande lavoro di filologia classica su Teognide. Lode
entusiastica da parte degli insegnanti. Ma Nietzsche la pensa diversamente: « Se ne sono contento?
No, no ». Agosto: maturità. Ottobre: inizio degli studi di teologia e filologia classica a Bonn. Affitta
un pianoforte e si iscrive alla Burschenschaft della Franconia. Assiste alle lezioni di Friedrich
Ritschl.
1865    Febbraio: «La mia svolta verso la filologia è decisa». Involontaria visita a un bordello.
Lettera alla madre: « Le mie esperienze si limitano ultimamente ai godimenti artistici». Per i
membri della Burschenschaft era un «pollo impazzito», poiché, « se non si trovava ai corsi, restava
per lo più a casa, studiando e facendo musica ». Evita il carnevale di Colonia.
Trascorre a Naumburg le ferie tra i semestri. Litiga con la madre perché rifiuta T eucaristia. Ritorno
a Bonn. Adempie l’obbligo della Mensur. Racconta un testimone: « I due eroi si tamburellarono per
11 minuti sul braccio fasciato. Nietzsche ricevette un taglio superficiale di forse due centimetri sul
setto nasale ». Stringe amicizia con Cari von Gersdorff e Erwin Rohde. È disgustato dal «
materialismo fatto di birre» della Franconia. Distacco da Bonn: «Me ne vado da Bonn come un
fuggiasco ». Trasferimento a Lipsia, dov’era stato chiamato Ritschl, suo venerato maestro.
Ottobre: l’esperienza di Schopenhauer. «L’esigenza di conoscere me stesso, anzi di erodere me
stesso, mi afferrò con violenza; testimoni di quella svolta sono ormai soltanto le pagine di diario,
inquiete e melanconiche, di quel periodo, con le loro inutili autoaccuse e le loro disperate
aspettative di salvezza e trasformazione dell’intero nucleo dell’uomo ». Fondazione della Società
filologica. Nietzsche rinuncia completamente al tabacco e all’alcol, ma fa visita di frequente alla
pasticceria, dove gusta una marea di dolci e torte.
1866 Ampie escursioni nei dintorni di Lipsia. Descrive
un temporale: « Quanto diversi il lampo, la bufera, la grandine, forze libere, senza etica! Come sono
felici, come sono forti - volontà pura, non inquinata dall’intelletto » (aprile). Ammira Bismarck e si
confessa «ardente prussiano» (luglio). Sulla politica bellica bismarckiana: «Alla fine, questo
modo prussiano di liberarsi dai princìpi è il più comodo del mondo» (luglio). Scrive a Gersdorff sul
«programma nazionale » della Prussia: « Se questo fallisce, noi due possiamo sempre sperare che ci
tocchi l’onore di cadere sul campo di battaglia, colpiti da una pallottola francese».
Legge Emerson e Friedrich Albert Lange.
1867    Lavora al De fontibus Diogenìs Laertii. A Deussen:
«Non puoi credere come mi sento strettamente legato a Ritschl, a tal punto che non posso né voglio
staccarmene » (4 aprile). Si desta la volontà di possedere uno stile: « Ora mi cadono le bende dagli
occhi: fin troppo ho vissuto in una specie di innocenza stilistica. L’imperativo categorico ’tu hai il
dovere e la necessità di scrivere’ mi ha svegliato » (6 aprile). Lavora allo studio su Democrito.
31 ottobre: viene premiata dall’università di Lipsia la dissertazione su Diogene Laerzio.
Dal 9 ottobre fino al 15 ottobre 1868: servizio militare a Naumburg per un anno nell’artiglieria
locale. Impara a cavalcare e a sparare col cannone.
1868    Marzo: grave incidente a cavallo. Ferita allo sterno.
Forti dolori. Prende morfina. Sogni sotto l’effetto della droga: « Ciò ch’io temo non è l’orrenda
figura dietro la mia sedia, ma la sua voce; e nemmeno le parole, bensì il tono terribilmente
inarticolato e disumano di questa figura: Già, se parlasse almeno come parlano gli uomini! »
Da giugno ad agosto: in cura a Wittekind, nei pressi di Halle. Fa progetti, vorrebbe allentare i
legami con la filologia: « Ma io, purtroppo, ho un debole per il feuilleton parigino [...] e preferisco
mangiare ragoût piuttosto che Rinderbraten [arrosto di manzo] [...] Ma forse una buona volta
troverò un soggetto filologico che si presti a una versione musicale» (2 luglio).
Ottobre: prosegue gli studi a Lipsia.
8 novembre: conosce Richard Wagner in casa Brockhaus. Viene invitato a Tribschen.
Sensazioni euforiche.
1869    12 febbraio: benché non sia né « dottore » né abilitato
all’insegnamento, grazie agli sforzi di Ritschl ottiene la chiamata all’università di Basilea. Scrive
alla madre e alla sorella: « Frattanto potreste farmi un favore, e cioè cercarmi un domestico da
portare con me » (febbraio). Rinuncia alla cittadinanza prussiana. Prova di dottorato senza esame né
disputa. Congedo dalla condizione di studente: «Il tempo dorato di un’operosità libera, senza
limitazioni, in cui domina assoluto il presente, e si gode dell'arte e della realtà [...]
è irrimediabilmente trascorso [...] Eh, sì! Tocca a me ora fare il filisteo! » (11 aprile).
19 aprile: arrivo a Basilea.
17 maggio: prima visita da Richard Wagner e Cosima von Bülow a Tribschen, vicino a Lucerna. Per
il compleanno di Wagner (22 maggio), scrive: «Devo a Lei e a Schopenhauer se finora sono stato
fedele alla serietà germanica della vita, a una considerazione più profonda di questo modo di
esistere tanto enigmatico e rischioso».
28 maggio: lezione inaugurale Sulla personalità di Omero. Vari inviti nei. salotti di Basilea.
Conosce Jacob Burckhardt, «uomo pieno di spirito».
Cosima su Nietzsche: « un uomo acculturato e gradevole ». Frequenti visite durante i fine settimana
a Tribschen. Wagner lo convince ad abbandonare il suo severo vegetarianismo. Natale e Capodanno
a Tribschen.
1870 18 gennaio: conferenza sul Dramma musicale greco. 1° febbraio: conferenza su Socrate e la
tragedia. A tal riguardo Wagner gli scrive: «Mi preoccupo per Lei, e mi auguro con tutto il cuore
che Ella non debba rompersi il collo». Gli consiglia inoltre di esporre le sue « idee così sensazionali
» in un « lavoro più ampio e di più vasta portata». Wagner è preoccupato che «alla fine la filosofia
di Schopenhauer possa avere un’influenza negativa su questi giovani, perché essi rivolgono alla vita
il pessimismo, che è una forma del pensiero, della visione,
e di conseguenza costituiscono un’assenza pratica di speranza» (Cosima Wagner).
Nietzsche ha molta voglia di fare: « Ora, dentro di me, scienza, arte e filosofia stanno crescendo
insieme così tanto, che prima o poi partorirò un centauro» (15 febbraio). Inizia l’amicizia con
Franz Overbeck (aprile). Rohde si reca con Nietzsche a Tribschen (11 giugno). «Per quanto riguarda
Bayreuth, ho pensato che forse la cosa migliore sarebbe se sospendessi per un paio d’anni la mia
attività di professore e andassi anch’io in pellegrinaggio nel Fichtelgebirge» (19 giugno).
Con lo scoppio della guerra franco-tedesca (19 luglio) Nietzsche lavora al saggio La visione
dionisiaca del mondo. Chiede un permesso per poter partecipare alla guerra «come soldato o
infermiere».
Dal 9 agosto al 21 ottobre: impiego bellico nel personale sanitario. Nietzsche raccoglie sul campo di
battaglia cadaveri e feriti. Durante il trasporto di feriti, s’ammala di dissenteria e difterite. Di ritorno
a Basilea, scrive: « Penso che l’odierna potenza della Prussia sia molto pericolosa per la cultura »
(7 novembre).
Natale e Capodanno a Tribschen. Molta armonia. Invia in dono a Cosima La visione dionisiaca
del mondo.
1871 Soffre d’insonnia. « Non si ha mai tempo per il proprio vero compito, e ci si consuma negli
anni migliori della vita con una eccessiva pedanteria » (21 gennaio). Concorre senza successo per
una cattedra vacante di filosofia a Basilea (febbraio). « Una bussola della conoscenza, con la quale
orientarmi sul mio destino, non la possiedo per nulla » (29 marzo). L’incendio delle Tuileries per
mano dei comunardi lo sgomenta: «Che cos’è uno studioso di fronte a questi terremoti della cultura!
[...] È il giorno peg-
giore della mia vita » (27 maggio). Lavora al libro sulla tragedia, compie frequenti visite a
Tribschen, ma questa volta non vi trascorre il Natale, con delusione di Wagner.
1872    Gennaio: Compare La nascita della tragedia dallo
spirito della musica. Wagner è entusiasta. A Rohde: « Con Wagner ho stretto alleanza. Non puoi
immaginarti fino a che punto ora siamo vicini » (28 gennaio). Gli specialisti rifiutano il libro.
Ritschl lo definisce una « stravaganza geniale ».
Da gennaio a marzo: conferenze Sull ’avvenire delle nostre scuole. Jacob Burckhardt ad Arnold von
Salis: « Avrebbe dovuto sentire la cosa! A tratti era davvero estasiante, ma poi si sentiva di nuovo
un profondo cordoglio » (21 aprile). Nietzsche vuole lasciare la cattedra e lavorare per Bayreuth
come pubblicista. Wagner lo sconsiglia. Trasferimento di Wagner a Bayreuth (aprile). 22 maggio:
con gli amici Gersdorff e Rohde presenzia a Bayreuth alla posa della prima pietra. Wagner a
Nietzsche: «A pensarci bene, Ella è, dopo mia moglie, l'unico acquisto della mia vita ». Wagner si
schiera pubblicamente per Nietzsche. Compone le Meditazioni sul Manfred. Hans von Bülow le
giudica « spaventose ». Conferenza su Agone  omerico. Trascorre Natale e Capodanno a Naumburg.
1873    È spesso malato. Rohde pubblica uno scritto in difesa del libro sulla tragedia (marzo).
Nietzsche studia Afrikan Spir: Pensiero e realtà. Lavora alla Filosofìa nell’epoca tragica dei Greci.
Malattia agli occhi. Detta all’amico Gersdorff Su verità e menzogna in senso extramorale (giugno).
Lavora alla Prima considerazione inattuale. A un’ulteriore lettura del libro sulla tragedia, Wagner
gli scrive di prevedere l’epoca «in cui dovrò difendere il Suo libro contro di Lei» (21 settembre).
Compare la Prima
considerazione inattuale (22 settembre). È depresso: «Infatti, sono veramente sano e mi sento bene
solo quando esprimo qualcosa. Tutto il resto è un cattivo interludio » (27 settembre). Redige a
ottobre un Appello per l’associazione wagneriana (per il finanziamento di Bayreuth). L’associazione
rifiuta il testo (« troppo audace »). Lavora alla Seconda considerazione inattuale. Natale e
Capodanno a Naumburg.
1874 Gennaio: compare la Seconda considerazione inattuale. Wagner a Nietzsche: « Con tutta
brevità avrei avuto soltanto da dichiararLe che provo un grande orgoglio di non avere ormai più
niente da dire e di poter lasciare a Lei tutto il resto ». Febbraio: David Friedrich Strauss muore.
Nietzsche: « Spero veramente di non avergli reso impossibile l’ultimo periodo della vita, e che sia
morto senza saper nulla di me. Questo fatto mi turba un poco ».
Rohde, su preghiera di Nietzsche, critica il suo stile: «Deduci troppo poco [...] Tu persegui,
mi sembra, la creazione di immagini non molto felici e spesso davvero zoppicanti ».
Wagner reagisce alla lettera di Nietzsche, in cui questi si lamenta del suo stato di salute e di
altri malesseri: «Ella dovrebbe sposarsi o comporre un’opera; ma ovviamente quest’ultima sarà di
un genere che non giungerà mai alla rappresentazione, e nemmeno offrirà una guida nella vita ».
Nietzsche a Gersdorff: « Se tu sapessi che opinione ho in fondo di me stesso come essere creativo,
con quanto avvilimento e malinconia penso a tutto ciò! Non cerco altro che un poco di libertà, un
po’ della vera aria della vita, e mi oppongo e mi ribello contro tutte le innumerevoli schiavitù che
mi soffocano» (aprile). Nietzsche sulla funzione delle sue Considerazioni inattuali: «Intanto prima
devo tirar fuori
tutto quello che in me è polemica, negazione, odio, tormento» (10 maggio).
Luglio: lavora alla Terza inattuale. La scomunica dei filologi ortodossi sortisce il suo effetto: nel
semestre estivo e nel successivo semestre invernale, Nietzsche ha ormai soltanto tre «studenti
incapaci ». Studia Max Stimer. Permette l’ammissione di studentesse all’esame di dottorato (luglio).
La sorella si occupa provvisoriamente delle faccende domestiche a Basilea. Vengono discussi con
gli amici e la sorella alcuni progetti matrimoniali. Visita a Bayreuth (agosto). Vi suscita sgomento,
perché è entusiasta di Brahms. Ottobre: compare la Terza considerazione inattuale. Natale e
Capodanno nuovamente a Naumburg.
1875    Nietzsche su un’incisione di Dürer ricevuta in dono:
« Raramente ho provato piacere in una rappresentazione iconografica, ma questa immagine del
Cavaliere con la morte e il diavolo la sento cosi vicina che non saprei dire quanto » (marzo).
Aprile: la sorella arriva a Basilea per vivere col fratello. Franz Overbeck abbandona
l’appartamento vicino (« la grotta di Baumann »). Progetti per cinquanta trattazioni nello stile delle
Considerazioni inattuali, ma il lavoro ai saggi su Wagner e sulla filologia langue. «Nausea verso la
pubblicazione» (26 settembre). A Rohde: « Se mai arriverà il momento in cui potremo vivere più a
lungo assieme e uno nell’altro, allora voglio comunicarti alcune cose: tutto ciò è stato da me
vissuto, e per questo si stacca in maniera piuttosto difficile da me » (7 ottobre). Primo incontro con
Peter Gast (25 ottobre). Natale e Capodanno a Basilea. Molto malato.
1876    A Gersdorff: «Mio padre è morto a trentasei anni
per una commozione cerebrale; è possibile che io faccia anche più presto di lui» (18 gennaio). Inizia
l’amicizia con Paul Rèe (febbraio). Affrettata e vana proposta matrimoniale a Mathilde Trampedach
(aprile). Attinge energie dalla lettura delle memorie di Malwida von Meysenbug. A Romundt: «
Adoro, da quando mi sono riavuto [...] la liberazione e l’insubordinazione morali, e odio tutto ciò
che diventa opaco e scettico» (aprile). Peter Gast (=Köselitz) lo incoraggia a terminare il saggio su
Wagner. Nietzsche fa richiesta di un anno sabbatico (maggio); gli verrà concesso a partire dal
semestre invernale di quest’anno.
23 luglio: è a Bayreuth per il primo festival. Malato. Durante le prove, fuga a Klingenbrunn.
Ritorno per la rappresentazione. Delusione per via del pubblico e per la mancanza di attenzioni da
parte di Wagner nei suoi confronti. Distacco interiore da Wagner, entusiasta invece della Quarta
inattuale.
Da ottobre fino a maggio del 1877: con Paul Rèe a Sorrento da Malwida von Meysenbug.
Appunti che in seguito confluiranno in Umano, troppo umano. Diventa consapevole della
«differenza con la dottrina di Schopenhauer» (dicembre).
1877 Dialogando con Malwida, Nietzsche si augura
un’« assoluta concentrazione su un’unica idea che per così dire diventi una fiamma intensa alla
quale bruci l’individuale» (aprile). Cosima a Malwida su Nietzsche: «Credo che in lui ci sia un
fondamento oscuro e produttivo, di cui egli stesso non ha alcuna consapevolezza » (aprile). Medita
di abbandonare la cattedra. Gli amici lo sconsigliano.
Settembre: ritorno a Basilea, nuovo appartamento con la sorella. Malato. Prolungamento delle
vacanze al Pädagogium. Riprende le lezioni universitarie. Lavora a Umano, troppo umano.
Dettagliato esame medico dal dottor Eiser (ottobre): « Gli occhi sono stati indicati quasi
sicuramente come fonte delle mie sofferenze e soprattutto dei miei terribili mal di testa ». Il medico
gli vieta di leggere e scrivere per alcuni anni. Wagner viene a sapere della diagnosi di Eiser e scrive
al medico che, secondo lui, la causa della malattia di Nietzsche sarebbe il suo « onanismo », e che la
« mutata maniera di pensare » di Nietzsche sarebbe « una conseguenza di innaturali eccessi con
accenni di pederastia». Quando in seguito (probabilmente solo nel 1883) Nietzsche apprenderà
questa opinione, definirà l’affermazione di Wagner un’« offesa mortale».
1878    3 gennaio: da Wagner riceve il libretto del Parsifal.
«Tutto troppo cristiano [...] psicologia chiaramente fantastica [...] niente carne e fin troppo sangue
[...] e poi, non amo le stanze isteriche delle donne». Le trattative per la pubblicazione sotto
pseudonimo di Umano, troppo umano falliscono per l’opposizione dell’editore. Il libro compare in
aprile. Wagner è sgomento. Cosima: « So che qui ha vinto il male ». Anche Rohde rifiuta il libro: «
Ma può davvero tirar fuori in tal modo la sua anima e mettersene un’altra al posto di quella? »
Giugno: fine della convivenza con la sorella. Si trasferisce da solo alla periferia di Basilea. Cita
se stesso in giudizio: vuole farla finita con quell’«offuscamento metafìsico di tutto ciò che è vero e
semplice » e con la « lotta con la ragione contro la ragione». Molto malato. A Natale rimane a
Basilea. Un visitatore: « Tutto il suo aspetto mi stringe il cuore ».
1879    Marzo: deve interrompere le lezioni a causa della malattia. Compare Opinioni e sentenze
diverse. Richiesta di pensionamento presso l’università di Basilea. Viene congedato con una
pensione di tremila franchi all’anno (14 giugno). Inizia la vita errabonda. Durante l’estate a St.
Moritz. Da settembre a febbraio del 1880 a Naumburg. Rinuncia al proget
to di insediarsi in una torre delle mura di Naumburg e darsi alla coltivazione delle verdure. Crollo
fisico. Ciò nonostante, lavora al Viandante e la sua ombra, che compare in dicembre.
1880    «La mia esistenza è un peso terribile: me lo sarei già da tempo scrollato di dosso, se non
avessi avuto, proprio in questa condizione di sofferenza e di quasi assoluta rinunzia, le prove e gli
esperimenti più istruttivi in campo etico-spirituale; questa gioiosità assetata di conoscenza mi porta
ad altitudini ove trionfo su ogni martirio e su ogni disperazione» (gennaio).
Da marzo a giugno: a Venezia con Peter Gast. Lo stato di salute migliora. Dopo vari soggiorni
a Naumburg e Stresa, trascorre l’inverno per la prima volta a Genova (da gennaio ad aprile del
1881). Lavora ad Aurora. Studio intenso di opere scientifiche. Ferma decisione per la solitudine, a
vantaggio della propria opera.
1881    Estate: per la prima volta a Sils-Maria. Compare
Aurora (luglio). Inizio di agosto: l’idea dell’eterno ritorno. Esperienza dell’ispirazione. A Peter
Gast: « Appartengo a quella specie di macchine che possono esplodere! » (14 agosto). A Overbeck:
« È un inizio dei miei inizi. Cosa ci sarà ancora davanti a me! Su di me! Un giorno o l’altro sarò
obbligato a sparire formalmente dal mondo per un paio d’anni, per levarmi di testa tutto quanto: il
mio passato e le relazioni umane, e il presente, gli amici, i parenti, tutto, tutto quanto » (20 agosto).
Scopre l’affinità spirituale con Spinoza. Dopo l’euforia, profonda depressione. Rohde e Gersdorff lo
lasciano in pace.
A Genova da ottobre fino a marzo del 1882: assiste alla rappresentazione della Carmen. Prosegue il
lavoro ad Aurora. Ne risulta La gaia scienza.  « Intanto abbiamo avuto un tempo bellissimo e, in
conclusione, non ho mai vissuto niente di meglio. Ogni pomeriggio siedo in riva al mare. Grazie
all’assenza di nuvole la mia testa è libera e sono pieno di buoni pensieri» (18 novembre).
1882    II tempo bello e sereno dura per tutto gennaio. Lavora alla Gaia scienza: «Oh che tempo!
Oh questi miracoli del bel Januarius! » (29 gennaio). Arriva Paul Rèe, col quale va al casinò di
Monaco, dove Rèe perde una considerevole somma di denaro. Nietzsche si fa spedire, a causa della
pessima vista, una macchina per scrivere, che si rompe dopo poche settimane. «La macchina per
scrivere inizialmente non va bene, come qualsiasi sorta di scrivere» (febbraio). Rèe conosce a Roma
la «russa» (Lou Salomé), ne resta estasiato, ne parla a Nietzsche e gli propone un incontro comune.
Viaggia, unico passeggero, su un’imbarcazione commerciale verso Messina (aprile). Al ritorno,
conosce Lou a Roma. Si fermano a Orta, Basilea, Lucerna e Zurigo. Per due volte, a Roma e
Zurigo, Nietzsche le fa una proposta di matrimonio, che lei rifiuta. Progetto di una triplice alleanza
fra Nietzsche, Rèe e Lou. Maggio e giugno a Naumburg. Agosto a Tautenburg, dapprima solo, poi
con Lou e la sorella. Intense discussioni (Lou: «Abbiamo sempre scelto i sentieri dei camosci, e se
qualcuno ci avesse ascoltati, ci avrebbe creduti due demoni che conversavano tra loro ») e attrito fra
Lou ed Elisabeth, e fra Elisabeth e Nietzsche. A Lipsia, Nietzsche è in conflitto con Rèe per Lou. Ha
inizio l’allontanamento. Intrighi della sorella. Nietzsche è sconsolato. Non sa cosa aspettarsi da
Lou. Passa l’inverno a Santa Margherita e Rapallo. È disperato.
1883    Agevolato da un’« intera serie di giorni perfettamente limpidi », come in estasi, scrive la
prima parte di
Così parlò Zarathustra (fine gennaio).
13 febbraio: morte di Wagner. « La morte di Wagner mi ha terribilmente provato» (fine febbraio).
Nietzsche si allontana temporaneamente dalla famiglia. «Non gradisco mia madre, e sentire la voce
di mia sorella mi causa malumore; mi sono sempre malato quando sono stato assieme a loro » (24
marzo). Riconciliazione con la sorella a Roma (maggio).
A Sils-Maria nasce la seconda parte dello Zarathustra (luglio). Alla fine di agosto esce lo
Zarathustra, prima parte. A settembre, in occasione della visita a Naumburg, nuovi screzi con la
famiglia. Passa l'inverno a La Spezia, Genova e Nizza. Lavora alla terza parte dello Zarathustra.
Molto malato: «Non so più come essermi d’aiuto » (novembre). A Overbeck: « Appena mi accorgo
che mi manca un uomo con cui poter riflettere sul futuro degli uomini, mi arrabbio di continuo -
davvero, sono malato e ferito nell’intimo per la lunga privazione di una compagnia che mi
appartenga» (novembre).
1884 A Nizza. Pubblica la seconda parte dello Zarathustra (gennaio). Dopo qualche titubanza,
Nietzsche si persuade di aver creato, con lo Zarathustra, un’opera epocale. Dopo la conclusione
della terza parte, scrive a Overbeck: « E' possibile che sia venuta a me per la prima volta l’idea che
spacca in due l’umanità» (10 marzo). Ancora discordia con la sorella: «La maledetta questione
dell’antisemitismo [...] è la causa di una rottura radicale » (2 aprile). In aprile compare la terza parte
dello Zarathustra. A Venezia da aprile a maggio. Sulla visita a Jacob Burckhardt a Basilea: «Quel
che più di tutto mi divertì fu l’impaccio di Jacob Burckhardt costretto a dovermi dire qualcosa dello
Zarathustra; non gli venne fuori che questo: ’Forse un giorno o l’altro non tenterai anche il
dramma?' » (25 luglio).
Da luglio a settembre a Sils-Maria. Lavora alla quarta parte dello Zarathustra: « La mia dottrina
secondo cui il mondo del bene e del male è soltanto un mondo apparente e prospettico è
un’innovazione tale che di tanto in tanto mi vengono meno l’udito e la vista » (25 luglio).
Riconciliazione con la madre e la sorella a Zurigo (fine settembre). Qui, visita a Gottfried Keller,
che afferma di Nietzsche: « Mi par che il tizio l’è matto ». L’editore Schmeitzner vuole vendere i
diritti sulle opere di Nietzsche per 20.000 marchi, ma non trova alcun acquirente.
Nietzsche trascorre l’inverno a Nizza.
1885    La quarta parte dello Zarathustra è terminata ed esce
in un’edizione privata per gli amici e i conoscenti. La sorella sposa Bernhard Förster (maggio).
Maggio e giugno a Venezia. Nietzsche è malato: «Al mattino sopporto la vita, ma non la sopporto
quasi più di pomeriggio e la sera, e mi sembra persino che ho fatto abbastanza, in circostanze
sfavorevoli, per levarmi dai piedi con onore » (maggio). Estate a Sils-Maria. L’editore Schmeitzner
davanti alla bancarotta. Nietzsche, in cerca di un nuovo editore, vuole uscire dal « covo di
antisemiti » (=Schmeitzner). Inverno a Nizza.
1886    La sorella e Förster si trasferiscono in Paraguay, per
fondarvi una colonia tedesca. Nietzsche scrive Al di là del bene e del male. Non ha ancora un
editore, « perché è un libro terrificante, che stavolta m’è fluito dall’anima» (21 aprile). A giugno,
dopo qualche anno, rivede Rohde, che in proposito scrive a Overbeck: « Lo circondava
un’indescrivibile atmosfera di estraneità, qualcosa che allora mi risultava del tutto inquietante [...]
come se provenisse da una terra dove non abita nessun altro ». Estate a Sils-Maria. Nasce il progetto
di un capolavoro in quattro volumi dal titolo La volontà dì potenza. Tentativo dì una
trasvalutazione di tutti i valori. Compare Al di là del bene e del male. J.V. Widmann recensisce il
libro: « Quella dinamite usata per scavare il tunnel del San Gottardo portava la bandiera nera,
indicante un pericolo di morte. Soltanto in questo senso parliamo del nuovo libro del filosofo
Nietzsche come di un libro pericoloso». Rohde in proposito: «Ciò che in esso è propriamente
filosofico risulta scarso e quasi infantile ». Nietzsche toma al suo vecchio editore, Fritzsch. Scrive
nuove premesse per i libri comparsi fino a quel momento e, in questo modo, nasce un’autobiografia
intellettuale. Inverno a Nizza.
1887    Lavora al quinto libro della Gaia scienza (per la
nuova edizione). Legge Dostoevskij. Lavora alla Volontà di potenza. Numerosi abbozzi di
articolazione e assemblaggio degli aforismi ritenuti adatti. « Adesso mi diletto e mi ristabilisco
grazie alla più fredda critica della ragione, con la quale le dita diventano involontariamente blu [...]
Un assalto generale a tutto il ’causalismo’ della filosofìa valsa finora» (21 gennaio).
Terremoto a Nizza: «La casa in cui sono nate due delle mie opere è stata scossa ed è diventata
impraticabile in tal misura da dover essere demolita. Questo è un vantaggio, per il mondo a venire,
che avrà da visitare un santuario in meno » (4 marzo). Discordia con Rohde (maggio). Estate a Sils-
Maria. Appunti sul nichilismo europeo. Scrive la Genealogia della morale (apparsa poi in
novembre).
Inverno a Nizza. Prima lettera di Georg Brandes (26 novembre). Nietzsche è di nuovo molto
malato. « Ora ho 43 anni alle mie spalle e sono esattamente tanto solo quanto lo fui da bimbo »(11
novembre).
1888    Lavora alla Volontà di potenza. «L’idea di ’pubblicità’ è davvero esclusa» (26 febbraio).
Scambio epistolare con Carl Spitteler. « Mi sono prefissato, per il
mio viaggio in Germania, di occuparmi del problema psicologico in Kierkegaard» (19 febbraio).
A Torino dal 5 aprile al 5 giugno. « Questa città mi è simpatica in una maniera indescrivibile» (10
aprile). Lavora al Caso Wagner. Intanto, continua il lavoro alla Volontà di potenza: «Dopo aver
giorno per giorno 'trasvalutato valori’ e aver avuto motivo di essere molto serio, v’è una certa fatale
e inevitabile inclinazione all'allegria» (17 maggio). Legge La legge di Manu.
Ultima estate a Sils-Maria. «Ammutolisco involontariamente davanti a chiunque, perché ho sempre
meno voglia di lasciar che qualcuno guardi nelle difficoltà della mia esistenza. Attorno a me s’è
fatto davvero vuoto » (fine luglio). Intenso lavoro alla Volontà di potenza. Il 29 agosto Nietzsche
decide lo smembramento dei materiali della Volontà di potenza. Ne derivano II crepuscolo degli
idoli e L'anticristo. 9 settembre: Il crepuscolo degli idoli va in stampa.
A Torino per l’ultima volta dal 21 settembre al 9 gennaio. Il caso Wagner compare alla fine di
settembre. La comunità wagneriana è sdegnata. Violente stroncature. In agosto Strindberg legge II
caso Wagner e scrive entusiasticamente a Nietzsche. Inizia il lavoro a Ecce homo (fine ottobre).
Nietzsche vuole presentare al pubblico se stesso come persona, « prima dell’atto completamente
solitario della trasvalutazione». «Non voglio assolutamente fare la mia comparsa davanti
all’umanità come profeta, mostro e spauracchio morale» (30 ottobre). Malwida von Meysenbug
critica II caso Wagner «Sono anch’io del parere che un antico amore, perfino quando è spento, non
può essere trattato come Ella tratta Wagner». Per questo Nietzsche rompe con lei: «Infatti, Voi siete
una ’idealista’ [...] ogni frase dei miei scritti contiene il disprezzo dell’idealismo» (22 ottobre).
Ha la sensazione di essere trattato con molto rispetto dagli uomini in strada, nei caffè, a teatro,
ovunque. «Pur con tutta la buona volontà, vecchio amico Overbeck, non riesco a raccontarti
qualcosa di brutto di me. Procedo lesto col mio tempo fortissimo nel lavoro e nel buon umore» (13
novembre).
Abbozzo di lettera alla sorella, con la quale ora vuole rompere definitivamente: «Non hai la più
pallida idea di come tu sia strettamente imparentata appunto con l ’ uomo e il destino nei quali si
sono decise le questioni di millenni» (metà novembre). Tratta con l’editore i diritti delle proprie
opere: « Soltanto col mio Zarathustra c’è da diventar milionari: è l’opera più decisiva che esista »
(22 novembre). Prima lista dei Ditirambi di Dioniso (fine novembre). Abbozzo di lettera
all’imperatore Guglielmo II: « Con la presente pregio l’imperatore dei Tedeschi del massimo onore
che gli possa capitare, un onore tanto più grande quanto più debbo superare, per renderlo, la mia
profonda avversione contro tutto ciò che è tedesco: pongo nelle sue mani il primo esemplare
della mia opera, con cui annunciare il prossimo arrivo di qualcosa d’immenso» (inizio dicembre).
Nietzsche rivede il manoscritto di Ecce homo. Vi include le maledizioni alla madre e alla sorella.
Fantasie sulla grande politica. A Peter Gast: « Sapete già che ho bisogno di tutto il grande capitale
ebraico per il mio movimento intemazionale? » (9 dicembre).
Legge ancora una volta i suoi stessi libri: « Ho fatto tutto davvero bene, ma non l’ho mai saputo... al
contrario » (9 dicembre). Si definisce un « satiro » e un «buffone» (10 dicembre). Assiste a operette
e concerti in piazza. Tempo splendido. Aria leggera. Si sente più sano che mai. «Non vedo perché
dovrei accelerare la tragica catastrofe della mia vita che si inizierà con la pubblicazione di Ecce
homo » (16 dicembre). Termina la stampa di Ecce homo (fine di-
cembre). « Con lo scritto che pubblichiamo, Ecce homo, ho messo ad acta per la prossima eternità
la questione chi sono io. Non bisogna mai occuparsi di me, bensì delle cose per le quali esisto » (27
dicembre). La padrona di casa lo vede ballare nudo.
1889 Nietzsche getta le braccia al collo d’un cavallo attaccato a una carrozza per proteggerlo dai
colpi del vetturino (inizio gennaio). Lettera a Jacob Burckhardt: « Infine, preferirei di gran lunga
essere un professore di Basilea che essere dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato
tanto in là da trascurare per amor suo la creazione del mondo. Lo vede, bisogna fare sacrifici, in
base a come e a dove si vive» (6 gennaio). Burckhardt, dopo aver ricevuto questa lettera a Basilea,
va da Overbeck pregandolo di prendere in custodia l’amico. Overbeck parte subito per Torino e
racconta: «Trovai Nietzsche sul sofà, rannicchiato a leggere [...] l’incomparabile maestro
dell’espressione non era in grado di comunicare diversamente l’estasi della sua gioia che con le
espressioni più triviali o con danze e salti scurrili ». Overbeck porta Nietzsche a Basilea, dove
viene ricoverato in una clinica psichiatrica. Arriva la madre e lo porta con sé a Jena, nel locale
Istituto di cura e assistenza psichiatrica, dove Nietzsche rimarrà un anno. Nel maggio del 1890, la
madre lo porta con sé a Naumburg, assistendolo personalmente. Dopo la morte della madre, nel
1897, Nietzsche viene portato dalla sorella nella Villa Silberblick a Weimar.
August Hornheffer fece visita a Nietzsche negli ultimi mesi di vita e racconta in proposito: «Non lo
abbiamo certo conosciuto nei giorni in cui era sano, ma soltanto visto da malato, all’ultimo stadio
della paralisi. Ciò nonostante, i minuti passati in sua presenza appartengono ai ricordi più preziosi
della nostra vita [...] Benché gli occhi fossero spenti
e i tratti sopiti, benché il poveretto giacesse con le membra tutte storte e fosse abbandonato come
un bimbo, emanava dalla sua personalità un fascino e si rivelava alla sua comparsa una maestà,
quali io in un uomo non ho mai più percepito ».
1900 II 25 agosto Nietzsche muore.

ABBREVIAZIONI E FONTI
A = Aurora

ABM = Al di là del bene e del male

ANS - Sull'avvenire delle nostre scuole

CI = Crepuscolo degli idoli

DS = David Strauss

EH = Ecce homo

FETG = La filosofia nell 'epoca tragica dei Greci

GM = Genealogia della morale

GS = La gaia scienza

MV = La mia vita

NT = La nascita della tragedia

SE = Schopenhauer come educatore

U1 = Umano, troppo umano I

U2 = Umano, troppo umano II

UDSV = Sull'utilità e il danno della storia per la vita

W = Scritti su Wagner

Z = Così parlò Zarathustra

Per le citazioni tratte dalle opere pubblicate di Nietzsche qui sopra elencate, si rinvia all’edizione
«minore» di Adelphi, nella collana « Piccola biblioteca Adelphi».
Per le citazioni tratte invece dai Frammenti postumi (citati con FP<volume>/<tomo>-
<parte>:<pagina>) e dagli Scritti giovanili (citati con SG:<pagina>) si rinvia all’edizione maggiore
Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano
(in corso di completamento).
Per le citazioni tratte dalle lettere di Nietzsche (citate con E<volume>:<pagina>) si rinvia a
Epistolario di Friedrich Nietzsche, volumi I-III, Adelphi, Milano (in corso di pubblicazione), al
volume Friedrich Nietzsche, Epistolario  1865-1900, Einaudi, Torino, 1977 (citato con E:<pagina>),
al volume Triangolo di lettere. Carteggio di Frie-
drich Nietzsche, Lou von Salomé e Paul Rèe, Adelphi, Milano, 1999 (citato con TL:<pagina>) e
infine alla corrispondenza fra Nietzsche e Wagner in Carteggio Nietzsche Wagner, Boringhieri,
Torino, 1959 (citato con N/W:<pagina>).
Friedrich Nietzsche, Sämtliche Werke. Studienausgabe in 15 Bänden, herausgegeben von Giorgio
Colli und Mazzino Montinari, München, 2000 (dtv-Ausgabe); citata con <volume>,<pagina>.
Friedrich Nietzsche, Sämtliche Briefe. Kritische Studienausgabe in 8 Bänden, München, 1986 (dtv-
Ausgabe); citata con B<volume>,<pagina>.
Friedrich Nietzsche, Jugendschriften in fünf Bänden, herausgegeben von hans Joachim Mette,
München, 1994 (dtv-Ausgabe); citato con J<volume>,<pagina>.
Nietzsche und Wagner. Stationen einer Begegnung, herausgegeben von Dieter Borchmeyer und Jörg
Salaquarda, zwei Bände, Frankfurt/Main, 1994; citato con N/W:<volume>,<pagina>.
Friedrich Nietzsche - Franz und Ida Overbeck, Briefwechsel, herausgegeben von Katrin Meyer und
Barbara von Reibnitz, Stuttgart-Weimar, 2000.

BIBLIOGRAFIA
Abel G., Nietzsche, Berlin-New York, 1998.
Adorno T.W. - Horkheimer M., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966.
Aschheim S.E., Nietzsche und die Deutschen. Karriere eines Kults, Stuttgart-Weimar, 1996.
Baeumler A., Nietzsche der Philosoph und Politiker, Leipzig, 1931.
Bataille G., Su Nietzsche, SE, Milano, 1994.
Benders R. - Oettermann S., Friedrich Nietzsche. Chronik in Bildern und Texten, München, 2000.
Benn G., Poesie statiche, Einaudi, Torino, 1981.
Benz E., «Das Bild des Übermenschen in der europäischen Geistesgeschichte», in E. Benz (hrsg.),
Der Übermensch. Eine Diskussion, Zürich-Stuttgart, 1961. 
Bernoulli C.A., Franz Overbeck und Friedrich Nietzsche.
Eine Freundschaft, Jena, 1908.
Bertram E., Nietzsche. Per una mitologia, Il Mulino, Bologna, 1988.
Cancik H., Nietzsche Antike. Vorlesung, Stuttgart-Weimar, 1995.
Carlyle T., Gli eroi e il culto degli eroi e l’eroico nella storia, Milano, 1990.
Colli G., Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974.
Danto A.C., Nietzsche als Philosoph, München, 1998.
Deleuze G., Nietzsche e la fdosofia, Feltrinelli, Milano, 1992.
Emerson R.W., Repräsentanten der Menschheit, Zürich, 1987.
Figal G., Nietzsche. Eine philosophische Einführung,
Stuttgart, 1999.
Fink E., Nietzsches Philosophie, Stuttgart, 1960.
Fleischer M., Der «Sinn der Erde» und die Entzauberung des Übermenschen. Eine
Auseinandersetzung mit Nietzsche, Darmstadt, 1993.
Foucault M., «Nietzsche, la genealogia, la storia», in Microfìsica del potere, Einaudi, Torino, 1977.
-    La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano, 1978.
-    Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1996.
-    Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1996.
Frank M., Der commende Gott. Vorlesung über die Neue Mythologie, Frankfurt/Main, 1982.
-    Gott im Exil. Vorlesung über die Neue Mythologie,  Frankfurt/Main, 1988.
Frenzel I., Nietzsche in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbeck bei Hamburg, 1966.
Gabel G.U. - Jagenberg C.H. (hrsg.), Der entmündigte Philosoph. Briefe von Franziska Nietzsche
an Adalbert  Oehler aus den Jahren 1889-1897, Hürth, 1994.
Gamm H.J., Standhalten im Dasein. Nietzsches Botschaft für die Gegenwart, München-Leipzig,
1993.
Gerhardt V., Pathos und Distanz. Studien zur Philosophie Friedrich Nietzsches, Stuttgart, 1988.
-    Friedrich Nietzsche, München, 1995.
-    Vom Willen zur Macht. Anthropologie und Metaphysik der Macht am exemplarischen fall
Friedrich Nietzsches, Berlin-New York, 1996.
Gilmar S.G., Begegnungen mit Nietzsche, Bonn, 1985.
Glaser H., Sigmund Freuds Zwanzigstes Jahrhundert. Seelenbilder einer Epoche, Frankfurt/Main,
1979.
Goch K., Franziska Nietzsche. Eine Biographie, Frankfiirt/Main, 1994.
Gödde G., Traditionslinien des « Unbewußten ». Schopenhauer-Nietzsche-Freud, Tübingen, 1999.
Gregor-Dellin M., Richard Wagner. Sein Leben. Sein Werk. Sein Jahrhundert, München, 1980.
Gulyga A., Immanuel Kant, Frankfurt/Main, 1985.
Heftrich E., Nietzsches Philosophie. Identität von Welt und Nichts, Frankfurt/Main, 1962.
Hegel G.W.F., Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 2000.
Heidegger M., Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1970,
- Nietzsche, Adelphi, Milano, 1995.
Heine H., Sämtliche Schriften, hrsg. von K. Breigleb, München, 1968-76.
Heller E., Nietzsches Scheitern am Werk, Freiburg-München, 1989.
Hesse H., «Zarathustras Wiederkehr», in Politik des Gewissens. Die politischen Schriften, 1. Band,
Frankfurt/Main, 1981.
Hillebrand B., Nietzsche und die deutsche Literatur, zwei Bände, Tübingen, 1978.
Hoffmann D.M., Zur Geschichte des Nietzsche-Archivs, Berlin-New York, 1991.
Hofmannsthal H. von, Narrazioni e poesie, Mondadori, Milano, 1972.
Hölderlin F., Sämtliche Werke und Briefe in zwei Bände, München, 1970.
James W., Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare, Milano, 1994.
Janz C.P., Vita di Nietzsche, 3 volumi, Laterza, Roma-Bari, 1980-82.
Jaspers K., Nietzsche: introduzione alla comprensione del suo filosofare, Milano, Mursia, 1996.
Jünger F.G., Nietzsche, Frankfurt/Main, 2000.
Kant I., Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Milano, TEA, 1996.
Kaufmann W., Nietzsche. Philosoph - Psychologe - Antichrist, Darmstadt, 1988.
Kaulbach F., Nietzsches Idee einer Experimentalphilosophie, Köln-Wien, 1980.
Klossowski P., Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano, 1981.
Köhler J., Friedrich Nietzsche e Cosima Wagner, Nuova Pratiche Editrice, Milano, 1997.
— Zarathustras Geheimnis. Friedrich Nietzsche und seine verschlüsselte Botschaft, Nördlingen,
1989.
Kuhn E., Friedrich Nietzsches Philosophie des europäischen Nihilismus, Berlin-New York, 1992.
Lange F.A., Storia del materialismo, 2 volumi, Monanni, Milano, 1932.
Laska B.A., «Dissident geblieben. Wie Marx und Nietzsche ihren Kollegen Max Stirner
verdrängten und warum er sie geistig überlebt hat», in Die Zeit, nr. 5, 27 gennaio 2000.
Latacz J., Fruchtbares Ärgernis: Nietzsches « Geburt der Tragödie» und die gräzistische
Tragödienforschung, in Hoffmann D.M. (hrsg.), Nietzsche und die Schweiz, Zürich, 1994.
Lessing T., Nietzsche, München, 1985.
Löwith K., Nietzsche, Stuttgart, 1987 (Sämtliche Schriften Band 6).
Lütkehaus L., Nichts, Zürich, 1999.
Mann T., « La filosofia di Nietzsche », in Saggi. Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Mondadori,
Milano, 1980.
Marti U., «Der Große Pöbel- und Sklavenaufstand». Nietzsches Auseinandersetzung mit Revolution
und Demokratie, Stuttgart-Weimar, 1993.
Meyer T., Nietzsche und die Kunst, München, 1992.
Meysenbug M. von, Memoiren einer Idealistin, Berlin-Leipzig, 1903.
Montinari M., Nietzsche, Editori Riuniti, Roma, 1981.
Müller U. - Wapneski P. (hrsg.), Richard Wagner-Handbuch, Stuttgart, 1986.
Müller-Lauter W., Nietzsche. Seine Philosophie der Gegensätze und die Gegensätze seiner
Philosophie, Berlin-New York, 1971.
Nehemas A., Nietzsche. Leben als Literatur, Göttingen, 1991.
Niemeyer C., Nietzsches andere Vernunft. Psychologische Aspekte in Biographie und Werke,
Darmstadt, 1988.
Nigg W., Friedrich Nietzsche, Zürich, 1994.
Nolte E., Nietzsche e il nietzscheanesimo, Sansoni, Firenze, 1991.
Oehler D., Pariser Bilder, Frankfurt/Main, 1979.
Osho, Zarathustra. Ein Gott der tanzen kann, Wien, 1994.
Ottmann H., Philosophie und Politik bei Nietzsche, Berlin-
New York, 1987.
Pascal B., Pensieri, Garzanti, Milano, 1994.
Penzo G., Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo, Armando, Roma, 1987.
Peters H.F., Lou Andreas Salomé. Femme fatale und Dichtermuse, München, 1995.
- Zarathustras Schwester. Fritz und Lieschen Nietzsche -ein deutsches Trauerspiel, München, 1983.
Picht G., Nietzsche, Stuttgart, 1988.
Pieper A., «Ein Seil geknüpft zwischen Tier und Übermensch ». Philosophische Erläuterungen zu
Nietzsches erstem «Zarathustra », Stuttgart, 1990.
Platone, Sämtliche Werke in zehn Bänden. Griechisch und Deutsch, Frankfurt/Main, 1991.
Prossliner J., Licht wird alles, was ich fasse. Lexikon der Nietzsche-Zitate, München, 1999.
Rahden W. von, Eduard von Hartmann « und » Nietzsche. Zur Strategie der verzögerten
Konterkritik Hartmanns an Nietzsche, in «Nietzsche-Studien. Internationales Jahrbuch für die
Nietzsche-Forschung», Band 13, Berlin-New York, 1984.
Reichel N., Der Traum vom höheren Leben. Nietzsches Übermensch und die conditio humana
europäischer Intellektueller von 1890 bis 1945, Darmstadt, 1994.
Rickert H., Die Philosophie des Lebens, Tübingen, 1922.
Riedel M., Nietzsche in Weimar. Ein deutsches Drama,
Leipzig, 1997.
Rorty R., La filosofia dopo la filosofìa: contingenza, ironia e solidarietà, Roma-Bari, 1998.
Ross W., Der ängstliche Adler. Friedrich Nietzsches Leben, München, 1984.
Ryogi O., Wie man wird, was man ist. Gedanken zu Nietzsche aus östlicher Sicht, Darmstadt, 1995.
Safranski R., Wieviel Wahrheit braucht der Mensch. Über das Denkbare und Lebbare, München,
1990. Salaquarda J. (hrsg.), Nietzsche, Darmstadt, 1996.
Salomé L., Nietzsche. Una biografìa intellettuale, Savelli,
Roma, 1979.
Scheler M., Crisi dei valori, Bompiani, Milano, 1936.
-    Der Genius des Krieges und der Deutsche Krieg, Leipzig, 1915.
Schelling F.W.J., Ausgewälte Schriften in sechs Bänden, Frankfurt/Main, 1985.
Schipperges FL, Am Leitfaden des Leibes. Zur Anthropologik und Therapeutik Friedrich
Nietzsches, Stuttgart, 1975.
Schlegel F., Schriften zur Literatur, München, 1972. Schmidt H.J., Nietzsche Absconditus oder
Spurenlese bei Nietzsche, Teil I-III, Berlin-Aschaffenburg, 1991. Schneeberger G., Nachlese zu
Heidegger. Dokumente zu seinem Leben und Denken, Bern, 1962.
Schopenhauer A., Werke in fünf Bänden, hrsg. von L. Lütkehaus, Zürich, 1988.
Schulte G., Ecce Nietzsche. Eine Werkinterpretation, Frankfurt-New York, 1995.
Simmel G., Schopenhauer e Nietzsche, Ponte alle Grazie, Firenze, 1995.
Sloterdijk P., Der Denker auf der Bühne. Nietzsches Materialismus, Frankfurt/Main, 1986.
Steiner R., Friedrich Nietzsche ein Kämpfer gegen seine Zeit, Dörnach, 1983.
Stimer M., L’unico e la sua proprietà, Mursia, Milano, 1990.
Strauss D.F., Der alte und der neue Glaube. Ein Bekenntnis, Stuttgart, 1938.
Taureck B.H.F., Nietzsches Alternative zum Nihilismus, Hamburg, 1991.
-    Nietzsche und der Faschismus, Hamburg, 1989.
Troeltsch E., Deutscher Geist und Westeuropa, Tübingen, 1925.
Türcke C., Der Tolle Mensch. Nietzsche und der Wahnsinn der Vernunft, Frankfurt/Main, 1989.
Vattimo G., Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari, 1985.
Verrecchia A., La catastrofe di Nietzsche a Torino, Einaudi, Torino, 1978.
Volkmann-Schluck K.-H., Die Philosophie Nietzsches. Der Untergang der abendländischen
Metaphysik,  Würzburg, 1991.
Wagner C., Die Tagebücher, zwei Bände, München-Zürich, 1976.
Wagner R., Mein Denken, München-Zürich, 1982.
- Der Ring des Nibelungen. Vollständiger Text, München-Zürich, 1991.
Wolff H.M., Friedrich Nietzsche. Una via verso il nulla, Il Mulino, Bologna, 1975.

INDICE
1.    Due passioni: l’immenso e la musica. Come vivere quando la musica è finita? Tristezza post-
sirenica. Rinsavimento. Tentativo e tentazione.
2.    Un fanciullo scrive. Il dividuum. Tuoni e lampi: trovare e inventare biografie. Prometeo e
altri. Primo esperimento con la filosofia: Fato e storia. Oceano d’idee e nostalgia.
3.    Autoanalisi. Dieta filologica. L’esperienza vissuta di Schopenhauer. Il pensiero come
superamento di sé. La fisica trasfigurata e il genio. Dubbi sulla filologia. La volontà di stile.
Primo incontro con Wagner.
4.    Il vortice dell’essere. La nascita della Nascita della tragedia. L’orrore a fondamento. Nietzsche
in guerra. Schiavi. Pensiero morale contro pensiero estetico. Paura della rivolta. Sguardi nei misteri
di funzionamento della civiltà. Immagini luminose e abbaglio della vista di fronte all’immenso.
Saggezza dionisiaca.
5.    Nietzsche e Wagner: lavoro comune sul mito. Romanticismo e rivoluzione culturale.
L'Anello. Il lavoro di Nietzsche dal maestro. Il ritorno di Dioniso. Visioni di declino e « suprema
estasi ». Delusione a Bayreuth.
6.    Gli spiriti dell’epoca. Il pensiero in casa di correzione. I grandi disincanti. Le
Considerazioni inattuali. Contro il materialismo e lo storicismo. Scosse liberatorie e cure
disintossicanti. Con e oltre Max Stimer.
7.    Il distacco da Wagner. Socrate non molla. La virtù terapeutica universale del sapere.
Crudeltà necessarie. L’esperimento con il freddo. Atomi che precipitano nello spazio vuoto. Umano,
troppo umano.
8.    Umano, troppo umano. La chimica dei concetti. Negazione logica del mondo e
pragmatismo amante della vita. L’immensità del sociale. Pietà. Sereno naturalismo. Critica della
metafisica. L’enigma dell’essere privo di conoscenza. Causalità anziché libertà.
9.    Il congedo del professore. Il pensiero, il corpo, la lingua. Paul Rèe. Da Umano, troppo umano
ad Aurora. I fondamenti non morali della morale. Gesti sacrileghi. Religione e arte al banco di
prova. Il sistema bicamerale della civiltà.
10.    Aurora. Verità o amore? Dubbi sulla filosofia. Nietzsche come fenomenologo. Il desiderio
di conoscenza. Il Colombo del mondo interiore. I confini della lingua e i confini del mondo.
La grande ispirazione al Surlej-Felsen.
11.    Pensare cosmicamente a Sils-Maria. Natura disumanizzata. Calcoli sublimi. La dottrina
dell’eterno ritorno. San Gennaro a Genova. Giorni felici, scienza gaia. Messina.
12.    Omosessualità. Il Dioniso sessuale. La storia con Lou Salomé. Zarathustra come baluardo.
Umano e oltre-umano. Il fraintendimento darwinistico. Fantasie di distruzione. «Come mi sono
venuti a noia i gesti e i discorsi tragici. »
13.    Ancora una volta Zarathustra. La leggerezza che
è così pesante. La volontà d’amore e la volontà di potenza. Primi passi e dispiegamento. La
violenza e il gioco universale. Il problema aperto: accrescimento di sé e solidarietà. Diramazioni
sulla via verso il capolavoro non scritto: Al di là del  bene e del male e Genealogia della morale.
14.    L’ultimo anno. Pensare la sua vita. Pensare per la sua vita. Il sorriso degli àuguri. Fatalità e
serenità. Il silenzio del mare. Il finale a Torino.
15.    La nobile muffa d’Europa scopre Nietzsche. Congiuntura della filosofìa della vita.
L’esperienza di Nietzsche di Thomas Mann. Bergson, Max Scheler, Georg Simmel. Zarathustra in
guerra. Ernst Bertram e il cavaliere, la morte e il diavolo. Alfred Baeumler e il Nietzsche eracliteo.
Anti-antisemitismo. Sulle tracce di Nietzsche: Jaspers, Heidegger, Adorno/Horkheimer e Foucault.
Dioniso e il potere. Una storia senza fine.
Cronologia
Abbreviazioni e fonti
Bibliografia

Potrebbero piacerti anche