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Singolare teoria quella che rimbalza dalla Berkeley University, in California: per combattere la tristezza servono

le lacrime. Gli psicologi del celebre ateneo sembrano avere la ricetta giusta per superare il dolore, qualsiasi dolore:
e cioè, non contro-bilanciare uno stato d’animo negativo con qualcosa di fortemente positivo ma, al contrario,
abbandonarsi a malinconia e sconforto per vincere infelicità e amarezza. In pratica, sostiene il team statunitense,
«se siete abbattuti ascoltate una musica malinconica o guardate un film triste. L’importante è qualcosa che sia in
sintonia col vostro stato d’animo». Secondo questa curiosa indagine universitaria, leggere qualcosa di desolato e
mesto sarebbe un vero toccasana: per esempio, suggerisce il team di ricercatori, tra i libri andrebbe benissimo la
Malora di Fenoglio, oppure Giobbe di Joseph Roth. L’importante, a sentire gli esperti americani, è aggiungere
tristezza a tristezza.
Allora abbiamo provato ad applicare la stessa teoria alla musica scegliendo, a titolo di nostra personalissima
sperimentazione, un quartetto classico per archi – due violini, viola e violoncelli – di Schubert, quello in la
minore, Op. 29 No. 1, certo meno conosciuto del successivo “La Morte e la Fanciulla”, ma incredibilmente
delizioso, soprattutto nelle due parti centrali, l’Andante e il Minuetto. Molto applaudito al suo esordio nella società
viennese, nel marzo 1824, per la delicatezza del florilegio strumentale e per la naturalezza del discorso melodico,
dove l’inconfondibile stile di Schubert trova insieme profondità di pensiero, nobiltà di scrittura, arditezze
armoniche e genuina cantabilità. Una pagina legata a un periodo particolarmente infelice nella vita del
compositore, anzi, messo sul pentagramma in un momento così triste che più triste non avrebbe potuto essere,
anche se ne è uscita una musica dolorosamente bellissima.
Schubert, infatti, cominciò a lavorare sul quartetto durante una degenza in ospedale particolarmente lunga e
faticosa, a causa di una malattia a trasmissione sessuale che aveva contratta due anni prima. Non appena terminato
di comporre questo quartetto, Schubert scrive all’amico Leopold Kupelwieser: «Mi sento il più sfortunato degli
esseri umani sulla Terra. Caro mio, pensa a un uomo la cui salute non sarà mai più florida, e a uno che per la
disperazione peggiora anziché migliorare; pensa a un giovane le cui più luminose speranze sono giunte a un totale
annullamento, e la cui felicità per l’amore e per l’amicizia offre nulla a parte tormento e acuti dolori, il cui
entusiasmo per il Bello minaccia di sfiorire; e chiediti se questo tuo povero amico non sia che un miserabile
compagno di vita».
E’ da un tale pozzo di disperazione che Schubert – morto ad appena 31 anni, e vissuto sempre grazie agli aiuti e
alla benevolenza degli amici, senza mai aver visto l’immensa gloria delle proprie opere – cava, quasi come una
pepita d'oro da una miniera profonda e lugubre, lo splendore di questo capolavoro cameristico. Ognuno dei
quattro movimenti di questo quartetto ha qualche connessione, triste, tristissima (per tornare alla teoria della
Berkeley University) con la vita vera di Schubert al di fuori della musica: scritto in un periodo di particolare
sconforto, testimoniato da varie lettere, questa pagina infatti risente di uno stato d’animo depressivo e di una
sofferenza non solo interiore. Nella forma di quartetto la disperazione del compositore viennese trova
forma e sostanza per raccontare l’angoscia e la malattia. E le parti più belle sono proprio là dove si respira
un’atmosfera quasi di sofferenza, mista a serenità e forza combattiva.
Il tema principale del secondo movimento, Andante, è una squisita melodia dal sapore inconfondibilmente
liederistico, affidata al primo violino. Celeberrimo, è un trasognato “Andantino” riutilizzato nel Quartetto in la
minore D. 804 (1824) e proveniente dalle musiche di scena per il dramma romantico “Rosamunde, principessa di
Cipro”, e ripreso più tardi anche nell’Improvviso Op. postuma D. 935. Il materiale da lui composto in precedenza
diventa quindi l’elemento tematico principale del secondo movimento: atmosfera idilliaca dai toni meditativi e
malinconici, dove s’alternano passaggi dalla tonalità maggiore a quella minore che danno un senso di serenità e
consolazione, con in sottofondo una sensazione di mistero.
In una tonalità più delicata (La minore), e con un chiaro andamento di danza popolare, s’annuncia subito il terzo
movimento, il Minuetto, che presenta tematiche più leggere, meno introspettive e tenebrose, tendenti a una
sospirata serenità. La struttura ballettistica è irresistibile, un Minuetto realmente danzabile, anche solo con la
fantasia, tanto che riesce davvero a rapire l’ascoltatore in un vortice delizioso di musica e di dinamismo.
Strutturalmente, si caratterizza per i continui rimandi tra il violoncello e gli altri strumenti: il violoncello solo
propone il tema di apertura, poi violino primo e viola dialogano su un nuovo motivo; lo sviluppo si anima finché il
Minuetto non torna al tema iniziale.
In conclusione, per tornare alla nostra “sperimentazione”, cioè al tentativo di misurare su un capolavoro assoluto
la teoria degli psicologi di Berkeley, ci risulta energico, dal punto di vista terapeutico, il contrasto che scaturisce tra
le motivazioni che hanno portato il compositore viennese a scrivere questa partitura e l’esecuzione (davvero
eccellente) che vi proponiamo, tratta da YouTube: opera di un quartetto di giovani musicisti della MYCO Youth
Chamber Orchestra, forse più giovani dello stesso Schubert quando scrisse queste note a 27 anni, dunque
idealmente lontani dalla malattia e dal dolore, tuttavia estremamente efficaci nel trasmettere il pathos di questa.
Ragazzi poco più che diplomati al Conservatorio, o in corso di diploma, impegnati in una musica “triste”,
percepita oggi così anche perché lo stesso Schubert ci ha lasciato testimonianza biografica della tristezza che l’ha
ispirata. A voi, dunque, nell’ascolto di questa meraviglia, la conferma, o la smentita, che da tristezza in tristezza
può nascere una spinta per la serenità.
Buon ascolto.

Allargate a tutto schermo il video di questa settimana e godetevi lo spettacolo della violinista Janine Jansen,
olandese, 40 anni. La mimica, le espressioni del volto, la potenza nervosa, mai inutile, dei suoi muscoli. La
tensione sulle braccia, lo stupore negli occhi davanti alla partitura, a tratti la gioia di partecipare all’interpretazione
di un capolavoro. In alcuni istanti la malinconia, in altri la tensione emotiva, in altri ancora il vigore esecutivo,
l’ombra dell’ironia in un guizzo della melodia, intesa come felicità e serenità. La passione, la forza che sgorgano
dall’arte. Basta metà dell’energia, della vitalità che fluisce da questa musica, che si moltiplica e si espande a ogni
ascolto, e non c’è nulla di cui dobbiate temere. Nulla che possa mettervi in ginocchio. L’ha scritta Franz
Schubert nel suo penultimo anno di vita.
La scorsa puntata abbiamo ascoltato l’arte di Beethoven, la celebre “Quinta”. Il 7 maggio 1824 il Titano appare in
pubblico per l’ultima volta a Vienna: Nona Sinfonia, Inno alla gioia. Applausi fragorosi. Il compositore è seduto
accanto al direttore d’orchestra, spalle alla sala, sfoglia la partitura, ormai così sordo da non sentire nulla della
potenza che lui stesso ha riversato sul pentagramma. Lo chiamano, gli chiedono di voltarsi per osservare una scena
impressionante, che per lui è un film muto: la gente, entusiasta, batte le mani, standing ovation. Neppure tre anni
dopo, marzo 1827, perde la battaglia contro gotta, reumatismi e cirrosi epatica. Il funerale è tra i più colossali che
abbia mai visto la capitale austriaca. Tra la gente, in disparte, una figura anonima, quasi sconosciuta: è Franz
Schubert, che raggiunge Beethoven appena un anno e mezzo dopo, e chiede di essergli sepolto accanto. Se fate un
viaggio li trovate, a una decina di metri l’uno all’altro, allo Zentralfriedhof, il cimitero di Vienna.
Gli ultimissimi anni di vita erano stati per Schubert quelli della passione per la musica da camera. Amareggiato per
la mancanza di successo, per tante sue partiture neppure pubblicate, anche un po’ infastidito dall’ombra di
Beethoven, dal suoi trionfi, dal largo consenso dei contemporanei. Eppure è proprio in questo periodo di
rammarico, di invidia mista ad adorazione, di solitudine, di malattia, di dolori invalidanti, che Schubert tocca
l’apogeo musicale. Scrive due Trii per violino, violoncello e pianoforte, entrambi nel 1827: l’Op. 100, che
abbiamo già ascoltato, e l’Op. 99, che ha un numero precedente ma è stata scritta dopo. C’è dietro la tensione
emulativa, la rincorsa, la voglia di competere e insieme la resa al genio del suo ispiratore: Beethoven aveva
riequilibrato in modo paritario il ruolo dei tre strumenti, trasformando il Trio da genere un po’ frivolo, di
consumo per i dilettanti, a veicolo di profonde riflessioni sulla materia musicale, sul destino dell’uomo, come si
ascolta, per esempio, nel celeberrimo Trio No. 7 detto “dell’Arciduca”. Si può immaginare, dunque, perché anche
Schubert abbia voluto misurarsi su questo particolare impasto sonoro, timbrico e strumentale che nasce da
pianoforte, violino e violoncello.
Entrambi composti a breve distanza, l’op. 99 risale precisamente al 1826, a due anni dalla morte del musicista (13
novembre 1828), un arco di tempo segnato da spossatezza, tristezza, solitudine, malattie (tra cui la sifilide). Ma è
stato la sua forza, e oggi diventa la nostra: mettere la disperazione sul pentagramma, in modo che noi oggi,
attraverso gli interpreti, possiamo decodificarla, e toccare con mano, ascoltando, come la musica abbia spazzato
via dolore e infelicità, sofferenza e depressione. E infatti i due Trii nascono tra una serie di capolavori, molti dei
quali abbiamo già qui proposto, scritti dopo l’Ottetto e il Quartetto d’archi “La morte e la fanciulla”, ma prima del
Quintetto per archi a 2 violoncelli. Musica da camera che fa di Schubert (lui non l’ha mai saputo) un
grande tra i più grandi.
Terminato in estate, come in questi giorni, 191 anni fa, il Trio in si bemolle op. 99 fu ascoltato dall’autore solo in
un’esecuzione privata – quelle “Hausemusik” che i compositori usavano come promozione delle loro creazioni
cameristiche – nel gennaio 1828, nell’interpretazione di tre musicisti allora celebri: il violinista Ignaz Schuppanzigh,
il violoncellista Joseph Linke (entrambi amici e collaboratori di Beethoven, nonché interpreti degli ultimi
quartetti), e il pianista Carl Maria Bocklet (nel nostro video agli 88 tasti c’è l’israeliano Itamar Golan).
Per noi oggi è come toccare il paradiso cameristico, soprattutto per i primi due movimenti – Allegro
moderato e Andante un poco mosso – che riescono a far vibrare le corde più nascoste dell’animo umano. Ma
come molti dei capolavori strumentali di Schubert, questo Trio per violino, violoncello e pianoforte Op. 99 cade
quasi immediatamente nell’oblio, pubblicato postumo solo nel 1836, meno fortunato, dunque, del “gemello”,
l’Op. 100 che abbiamo già ascoltato, successivo di pochi mesi, che però stranamente ebbe immediata audience e
spazi di esecuzione a Vienna e, circostanza incredibile per Schubert, con l’autore ancora vivo.
Non è facile oggi capire questa disparità di trattamento fra i due Trii, soprattutto ascoltando, e riascoltando, i
movimenti iniziali dell’Op. 99, che nonostante la cattiva salute di Schubert, gli sbalzi d’umore e gli immaginabili
momenti di tristezza, malinconia e avvilimento per le condizioni mediche, sono raggianti, positivi, persino solari.
Melodie meravigliose in tutti e quattro i movimenti, affascinanti, liriche, ottimiste, avventurose nel senso che
la mente vaga per spazi aperti e luminosi. Con temi che sorprendono sempre per l’invenzione e la capacità di
lasciare una carezza.
Tutte le nostre impressioni però svaniscono, per consistenza e nobiltà, davanti a quelle di chi aveva gli strumenti
per capire in profondità, per essere colto da un sussulto alla semplice lettura della partitura. Appena dato alle
stampe il Trio op. 99 a opera dell’editore Diabelli, anche mediocre compositore – un suo valzer fu utilizzato da
Beethoven come tema delle 33 Variazioni per pianoforte, note proprio come Variazioni Diabelli – Robert
Schumann scrisse una recensione sulla rivista “Neue Zeitschrift für Musik”, con parole diventate celebri per i
musicologi, e che per noi sono un manifesto di cosa la grande musica, quella profonda, che sopravvive ai secoli,
può lasciare nel pubblico di queste “Strategie per stare meglio”: «Uno sguardo al Trio in si bemolle maggiore, op.
99 di Schubert, e tutte le angosce della nostra condizione umana scompaiono, tutto il mondo è di nuovo pieno di
freschezza e di luce…».
Buon ascolto.

Lasciamo le solari note cameristiche del Quintetto mozartiano per clarinetto dell’ultimo ascolto e rifugiamoci in
un’atmosfera più rarefatta e intimistica, quale di solito si sperimenta quando si arriva all’essenza estrema della
musica: lo strumento solo. In questo caso il pianoforte, quello di Franz Schubert. Lo facciamo con un capolavoro
del compositore austriaco: l’Improvviso Op. 90 No. 3, che abbiamo la fortuna di poter proporre, grazie a
YouTube, nell’interpretazione del pianista schubertiano per eccellenza, Alfred Brendel.
Nell’ultima parte della vita, tra il 1823 e il 1828, l’anno della morte, quindi nel momento in cui si misura il
senso di un’intera esistenza, Schubert scrive quattordici piccoli pezzi per pianoforte: sei Moments musicaux
Op. 94, quattro Improvvisi Op. 90 e quattro Improvvisi Op. 142. Come spiega il pianista italiano Roberto
Prosseda, soprattutto gli Improvvisi (e poi vedremo perché il compositore li chiama così) «sono una scoperta
continua, un affacciarsi e sovrapporsi di emozioni che rivelano il suo mondo privato, segreto, ed è per questo che,
di là da una facile orecchiabilità melodica, è così difficile comprendere davvero quanto fosse sconfinato
l’immaginario di Schubert». Il compositore viennese non ha avuto, in vita, successo come sinfonista. Dunque, ha
lasciato questo mondo interiore un po’ ai margini, e lo ha isolato, quasi “parcellizzato”, nella produzione pianistica
e cameristica, dove la vena melodica è più immediatamente godibile. «Ma è proprio nella musica pianistica», riflette
Prosseda, «in questa intimità, che Schubert trova se stesso e quindi riesce a “confessare” al meglio la poesia che si
affaccia nella sua musica. Per lui questo strumento è quasi un diario su cui sfogare ambizioni represse,
frustrazioni, soprattutto i sogni, la felicità agognata e mai realizzata». E qui va ricordata la storia infelice di
Schubert, morto a 31 anni, di una malattia, la sifilide, allora particolarmente ghettizzante, circondato solo dagli
amici delle Schubertiadi, e scomparso senza essersi reso conto del successo immortale delle proprie composizioni.
Gli Improvvisi, dei quali abbiamo trovato questa interpretazione di un Alfred Brendel maturo, un pianista che ha
trascorso l’intera vita a studiare Schubert, sono quelli che più racchiudono la varietà di atteggiamenti poetici
che il compositore ha espresso sugli 88 tasti. Sono pezzi brevi, senza la complessità strutturale delle Sonate.
Tuttavia - in particolare il No.1 (il più esteso) e il No .3 (il più celebre ed eseguito) – sono un itinerario nello
spirito, un viaggio attraverso luoghi dell’anima diversi. Ed è comunque bello, con pazienza e tempo a
disposizione, ascoltarli tutti, questi deliziosi frammenti, proprio per cercare di scoprire in quali luoghi
dell’immaginazione ci accompagnino.
Prendiamo l’Improvviso No. 3 dell’Op. 90, oggetto di questo ascolto, con un andamento sognante sostenuto
dalla generosa freschezza melodica. Vale la pena ricordare la caratteristica costante dell’arte schubertiana, e
cioè quella che i musicologi chiamano la “poetica del viandante”. C’è infatti un Lied che il musicista ha scritto, su
una lirica di Georg Philipp Schmidt von Lübeck, che s’intitola proprio “Der Vanderer”. E in che senso il concetto
di “viandante” – dunque il “vagare”, l’incamminarsi verso una meta – sta nel cuore espressivo di Schubert? Nel
senso che un verso di questo Lied è il simbolo di come il compositore concepisca l’esistenza umana, la
speranza e il destino, il proprio e quello di chiunque sia nella sofferenza: «Lì, dove tu non sei; lì, è la felicità».
“Dove tu non sei” perché sofferente, perché nell’impossibilità di vivere pienamente. In altre parole, Schubert
concepisce la felicità come qualcosa che gli appartiene, ma che sta tutta nel suo mondo interiore, nelle
aspettative, nelle proiezioni del cuore, ma non nella vita reale, quella vissuta, che nel momento in cui scorre
non gli piace affatto. In questa visione, la musica non è la trasposizione di un racconto per immagini, non
fotografa la realtà, non è un quadro figurativo, ma è una misura della felicità attesa e non sempre realizzata. I suoi
“Improvvisi”, di là dalla facilità d’ascolto, sono un “improvviso” riversare sul pianoforte i suoi sogni, il
mettere in evidenza la felicità che non si vede, perché oscurata dalla sofferenza e dall’inquietudine, ma
che sta dentro.
Ascoltando l’Improvviso No. 3 Op. 90, ciò che balza subito all’attenzione è il meraviglioso ricamo di arpeggi, il
tappeto sonoro che accompagna il canto. Non ci sono contrasti dinamici forti come in altri Improvvisi. Non ci
sono quei “silenzi” dai quali spesso Schubert fa sgorgare le idee musicali più cupe. «Eppure», analizza ancora
Roberto Prosseda, «anche qui tutto rimane terribilmente malinconico». Ancora una volta abbiamo, nonostante la
tonalità maggiore – che dunque dovrebbe essere brillante, solare – «un brano sconsolato, di profonda tristezza
senza via d’uscita, pennellata da un colore brunito, di rassegnazione. Ma una tristezza che è allo stesso tempo
tenera, commossa, di rimpianto per una felicità che sta “lì, dove tu non sei”, e forse proprio questo rende
l’Improvviso Op. 90 No. 3 uno dei più amati, certamente il più celebre della raccolta».
Magnifico il Brendel che esegue la composizione, arrivato alla vetta dell’essenzialità espressiva, capace di esprimere
questo mondo interiore facendo risaltare le variazioni dinamiche e agogiche – cioè l’intensità sonora e le libere
modificazioni dell’interprete alla durata delle note e dell’andamento – senza inutili romanticherie da salotto. Come
forse piaceva allo stesso Schubert, che nessun interprete ha avvicinato più di Brendel. Raccontava infatti
Albert Stadler, compagno di convitto del compositore a Vienna, a proposito dello stile di “Franz” al pianoforte:
«Vederlo e ascoltarlo suonare le proprie composizioni era un vero piacere. Un magnifico tocco, mano tranquilla,
chiaro, nitido, pieno di discernimento e di sensibilità. Apparteneva alla vecchia scuola di buoni pianisti le cui dita
non avevano ancora iniziato ad attaccare i poveri tasti come uccelli da preda». E aggiungeva Ferdinand Hiller,
virtuoso, amico di Chopin, Mendelssohn e Liszt: «Era come se la musica non avesse bisogno di suoni materiali:
melodie simili a visioni».
E’ questo il punto di arrivo di Alfred Brendel, del quale ovviamente consigliamo l’intera discografia schubertiana.
Buon ascolto.

Il giorno dell'ottobre 1817 in cui è stato scritto «Gretchen am Spinnrade» (Margherita all'arcolaio) è stato indicato
come la data di nascita del Lied tedesco. Faust è lontano, Margherita fila e ripercorre gli incontri felici: La mia pace
è perduta, il cuore è oppresso, e non la potrà più riavere. Senza di lei la vita è una tomba, il mondo intero è
amarezza. La mia povera testa è smarrita, il mio senno infranto. La mia pace è perduta, il cuore è oppresso, e non
la potrò più riavere. Solo per lui guardo fuori dalla finestra, soltanto per lui esco di casa, il suo incedere sicuro, la
sua figura nobile, il sorriso della sua bocca, la potenza dei suoi occhi, e la sua parola, scorrere d'incanti, la
pressione della sua mano, e ahimé, il suo bacio! La mia pace è perduta, il cuore è oppresso, e non la potrà più
riavere. Il mio petto si stringe a lui, ah potessi afferrarlo e trattenerlo, e baciarlo tanto quanto vorrei, e sotto i suoi
baci svenire. A una delle più grandi liriche del mondo corrisponde una musica all'altezza del compito. La parola
semplice ed incisiva si distende sul continuo dell'arcolaio, un continuo variato dalla riflessione passionale. La prima
strofa è disperata, la seconda progredisce fino al grido che accompagna la rivelazione del bacio, la terza replica la
progressione crescente, e ripete con disperazione esaltata il bisogno di amore. La chiusa dipinge nel fruscio atono
dell'arcolaio l'inanità del desiderio.

Gioacchino Lanza Tomasi

Guida all'ascolto 2
Il pianoforte ruolo protagonistico assume in Gretchen am Spinnrade, il canto di Margherita (dal Faust di Goethe)
che ricorda il trascinante oggetto del suo amore: nel rapido disegno di dodici note che scorre quasi
ininterrottamente sotto la melodia, da sempre si è voluto vedere una discreta imitazione del movimento
dell'arcolaio, sempre uguale, ossessivo, e addirittura, nei la ribattuti del grave, con eccessiva puntualità naturalistica,
i colpi del piede sul pedale dell'arcolaio! Sono piccoli particolari decorativi che non appaiono certo essenziali nella
valutazione di questa che è una delle più appassionate e desolate canzoni d'amore che siano mai state scritte, con
quel doloroso ritorno (voluto dallo stesso Goethe) della strofa «La mia pace è perduta», con quella graduale
illuminazione quando il testo ricorda la bella figura, il bel sorriso dell'uomo amato, fino all'esplosione lacerante su
«Sein Kuss» (il suo bacio). Poi, la curva ascendente riprende su un agitato passaggio modulante, fino a spegnersi
nella ripresa, in pianissimo, della «sigla» «La mia pace è perduta», questa volta inserita, per necessità musicale-
espressiva, dallo stesso Schubert.

MARGHERITA
GRETCHEN AM SPINNRADE
ALL'ARCOLAIO
Meine Ruh ist hin, La mia pace è perduta,
Mein Herz ist schwer, il mio cuore è pesante,
Ich finde sie nimmer io non la ritroverò più,
Und nimmermehr. mai più.
Wo ich ihn nicht hab, Dove io non ho lui
Ist mir das Grab, è per me la tomba,
Die ganze Welt tutto il mondo
ist mir vergällt. è per me amareggiato.
Mein armer Kopf La mia povera testa
Ist mir verrückt, mi ha dato di volta,
Mein armer Sinn il mio povero cervello
Ist mir zerstückt. mi è andato in pezzi.
Verso di lui soltanto
Nach ihm nur schau ich
guardo
Zum Fenster hinaus,
fuori dalla finesta,
Nach ihm nur geh ich
per lui soltanto
Aus dem Haus.
esco di casa.
Sein hoher Gang, Il suo alto portamento,
Sein' edle Gestalt, la sua nobile figura,
Seines Mundes Lächeln, il sorriso della sua bocca,
Seiner Augen Gewalt. il potere dei suoi occhi.
Und seiner Rede E il magico fluire
Zauberfluss, del suo discorso,
Sein Händedruck, la stretta della sua mano
Und ach, sein Kuss!< e, ah! il suo bacio!
Mein Busen drängt Il mio petto anela
Sich nach ihm hin. verso di lui.
Ach dürft ich fassen Ah! potessi prenderlo
Und halten ihn, e tenerlo.
Und küssen ihn, E baciarlo
So wie ich wollt, così com'io vorrei,
An seinen Küssen dovessi morire
Vergehen sollt! dei suoi baci!
DIE GÖTTER GRIECHENLANDS GLI DEI DELLA GRECIA
Schöne Welt, wo bist du? Dove sei, o mondo bello?
Kehre wieder, holdes ßlütenalter, der Natur! Ritorna, incantevole età dei fiori, alla natura!
Ach, nur in dem Feenland der Lieder Ah, che solo nella terra fatata del canto
Lebt noch deine fabelhafte Spur. vive ancora la tua favolosa impronta.
Ausgestorben trauert das Gefilde, Piange la campagna morente,
Keine Gottheit zeigt sich meinem Blick. nessuna divinità si mostra al mio sguardo.
Ach von jenem lebenwarmen Bilde Anche di quelle figure che avevano il calore della vita,
Blieb der Schatten nur zurück. non è rimasta che l'ombra.
Schöne Welt, wo bist du? Dove sei, o mondo bello?
Kehre wieder, holdes Blütenalter, der Natur! Ritorna, incantevole età dei fiori, alla natura!
Schöne Welt, wo bist du? Dove sei, o mondo bello?

La musica è sesso… imbottigliato, la maggior parte dei grandi musicisti lo sosteneva. La storia ci racconta che per
fare musica essi sublimavano la loro sessualità o si concedevano grandi lussurie per trarne ispirazione.

In particolare nel XIX secolo i compositori erano permeati di un ideale romantico che, se pur appagante nello
spirito, spesso non soddisfaceva la loro parte carnale: per questo molti si innamoravano di donne irraggiungibili e
poi si davano via con qualsiasi prostituta che passava. La sifilide ne era l'inevitabile risultato. Neppure una malattia
letale - a quel tempo molto più pericolosa di quanto sia l'AIDS oggi - riusciva a trattenerli dal perseguire i loro
sogni erotici.

E' il caso di Franz Schubert, che morì di sifilide quando non aveva ancora 32 anni. Il sesso sfrenato con una
quantità di donne da una notte gli regalò la malattia che lo avrebbe finito prima che lui a sua volta finisse la sua
musica.

E' risaputo che Schubert frequentasse spesso i bordelli di Vienna, che in quel periodo erano numerosi, la sua
ricerca dell'amore mercenario era sfrenata, forse perché, goffo e timido con le donne e poco attraente nella figura,
non riusciva ad avere approcci femminili soddisfacenti. Un suo amico disse di lui: "Schubert è un vero pesce lesso
con l'altro sesso. Non si cura nell'abbigliamento né nei denti, puzza di tabacco e non è davvero un figurino". La
cosa era in parte vera, sappiamo però che egli aveva dei bellissimi occhi, languidi e dolci, ma li nascondeva dietro a
degli orribili occhialini che portava sempre, anche a letto.

Diceva Schubert: "Per molti anni ho cantato la mia canzone solitaria. Se cantavo l'amore subito si tramutava in
dolore. Se avessi cantato il dolore si sarebbe tramutato in amore. Così ero lacerato fra la gioia e il dolore".
Affermazione che descrive sia la sua condizione umana in generale sia i sintomi di un noto ben male.

La sifilide era endemica in certi luoghi, e Schubert lo sapeva bene, si presuppone che egli li frequentasse lo stesso a
causa della sua timidezza, ma alcuni biografi affermarono che egli avesse anche delle tendenze omosessuali; il
biografo schubertiano Maynard Salomon sostiene infatti di aver trovato fra gli scritti di Schubert il tipico gergo
omosessuale viennese di allora.

Una volta, mentre era ubriaco o forse offuscato dall'oppio - di cui era un accanito fumatore - Schubert affermò
che necessitava di "giovani pavoni", come ebbe a dire anche Benvenuto Cellini, e cioè dei bei ragazzi spesso
travestiti a cui l'artista pare che desse spesso la caccia; ma sappiamo anche che all'inizio del XIX secolo a Vienna
mangiare la carne di pavone era considerato un valido rimedio contro la sifilide. Il dubbio quindi sta nel
considerare se il "giovane pavone" di cui egli diceva di aver bisogno sia un ragazzo o il rimedio contro la malattia.
C'è da dire, in verità, che Schubert si contornava di giovani ammiratori, tutti provenienti da scuole rigorosamente
maschili, e lui stesso scrisse molte lettere piene di passione ad amici maschi.

La malattia lo colpì nel 1822, il che avrebbe dovuto escludere qualsiasi successivo rapporto sessuale, ma così non
fu: una volta contratta la sifilide Schubert continuò a comprare i favori sessuali delle donne dei bordelli.
Verso la fine della sua vita egli era tormentato da continui dolori alla testa, perdita di appetito, violenti sbalzi
d'umore, allucinazioni, era costretto a letto per lunghi giorni ed era pervaso da uno stato di malessere causato dal
mercurio che assumeva come medicinale, addirittura a causa di questo farmaco le mani gli cominciarono a
tremare, tanto che suonare il piano gli divenne sempre più difficile.

Tuttavia non smise mai né di bere né di fumare, il che indeboliva sempre di più il suo fisico.
Nei suoi diari leggiamo che il sesso era per lui un "momento di paura e un po' di piacere", e di un "dolore nervoso
e battente" che sempre provava, le cure dell'epoca erano blande e poco efficaci, come bagni in acqua con aggiunta
di un distillato di bulbi di narciso selvatico, usata anche per le irritazioni cutanee. Un'altra cura era quella dei
"bagni animali", e consisteva nel mettere in ammollo le parti doloranti nella carne di un animale macellato di
recente.

Il certificato di morte di Schubert attesta che egli morì di febbre nervosa, ma dalle medicine prescrittegli prima
della morte è chiaro che soffrisse di sifilide. A causa del suo amore per i piaceri della vita egli percorse quei sentieri
pericolosi che non hanno ritorno, perlomeno non uno salutare.

Nonostante la sua squallida fine, o forse a causa di essa, la musica di Schubert ha ispirato generazioni di amanti,
felici o tormentati, più di quella di chiunque altro. Egli attraversò tutto il calvario della malattia dai suoi stadi
iniziali fino a quello terminale.

1. Franz Schubert allievo di Salieri


Salieri, da cui andò a lezione fino a tutto il 1817, lo aveva incoraggiato. Il Maestro di corte severo, impassibile,
dallo gelido sguardo, parco di complimenti, magro, pallido, quasi ieratico sotto le ciprie i rossetti e i lustrini, ad un
certo punto si alzò e gli disse, Franz tu hai talento, sei un poeta della musica, e potrai far onore alla mia scuola, ma
devi lasciar stare Schiller e Goethe, che sono grandi poeti, ma scrivono in tedesco, una lingua non adatta alla
musica. Se devi musicare versi pensa a quelli di Metastasio, e degli altri poeti italiani, sono gli unici ad essere
musicabili, credi a me. Del resto in quel tempo, a Vienna, imperava la musica di Rossini e lo stesso Beethoven
(“Rossini e compagni sono i vostri eroi. Sì, sì, così siete voi viennesi. Di me non ne volete più sapere!”) faticava ad
imporsi. Ma il giovane timidissimo impacciato goffo Franz aveva una sua volontà, delle sue idee, e non gli diede
retta. Perché doveva? In fondo quell’italiano ormai anziano , tutto pelle e ossa , e livida invidia per chiunque
avesse genio , dopo cinquant’anni che stava a Vienna ancora non parlava la lingua tedesca, e quando lo faceva era
un po’ comico. Antonio Salieri era rimasto “italiano” in tutte le sue manifestazioni, mentre lui, Franz Schubert ,
era un viennese puro sangue, un viennese integrale che non amava i musicisti italiani (tranne Rossini, che non era
però il suo modello) e, forse, gli italiani in genere. Anche il suo amico Franz Doppler disse che a lui di italiano
piaceva solo una cosa, il buon vino rosso corallo , e – quando aveva da spendere (raramente) – ne tracannava
parecchio sotto gli alberi del boschetto , o sotto i parapetti dell’Himmelpfortgrund ( porta del cielo). Era come un
discepolo della Gaia Scienza, e talvolta oltrepassava la misura. Quando lo spirito di Bacco fermentava in lui, si
ritirava in un suo cantuccio e si abbandonava a un tranquillo furore, distruggendo tutto ciò che gli capitava sotto le
mani, bicchieri, bottiglie, archetti violini e sogni.
Un altro amico, Anselmo Huttenbrenner, ricorda le bevute di birra al “Gatto nero”, oppure al “Lumacone” in
Piazza San Pietro e dice che Franz fumava molto… Ma quando eravamo in fondi – dice – si beveva vino rosso
italiano, o addirittura del punch, in Weihburggasse. Ma non è vero che sfasciava tutto. Anzi, s’addolciva e
ricostruiva le sue architetture interiori. Con un bicchiere di vino, o di punch, Franz diventava piacevolissimo,
perdeva quel suo aspetto goffo e campagnolo, da mugnaio del paese, e le sue opinioni musicali erano acute brevi e
concise. Coglieva sempre nel segno, come musicista era vent’anni avanti a tutti . Assomigliava in questo al vecchio
Beethoven, che nel suo barbarico isolamento sapeva – sorprendentemente – essere molto ironico. E guarda caso ,
Beethoven fu l’unico che disse (ma sarà vero o si tratta di una leggenda, dato che i due in vita non si incontrarono
mai?) che c’era in lui una “scintilla divina”, ma fu comunque un parere che non produsse alcun effetto pratico.

2.Il giardino del padre


Infatti, per Franz, che volle vivere di sola musica, – era la sua ossessione e la sua estasi quotidiana –ci furono solo
grandi delusioni e amarezze, e una vita di stenti, da bohémien ante litteram. Gli editori lo snobbarono, il grande
pubblico non lo conobbe mai veramente ( “il vento è caduto e abbiamo perso il nostro pubblico”), protettori
mecenati non ne ebbe mai (ci fu una parentesi ungherese con il conte Esterhazy in cui Franz fece da maestro di
musica delle figliole, e di una delle quali, Carolina , forse s’innamorò, ma fu trattato come il resto della servitù), né
era in grado di procurarsi favori, sia per la sua estrema timidezza e goffaggine, sia per la sua musica che fu capita
realmente solo molti anni dopo la sua morte . Per cui si trovò sempre fuori – non solo metaforicamente – da ogni
recinto e ogni giardino , anche quello dello stesso padre. Era appena un ragazzo quando un giorno il genitore –
con cui c’erano stati dissapori (lui lo voleva maestro di scuola, ma a Franz interessava solo la musica) e si erano da
poco riconciliati per il funerale della madre – lo condusse nel giardino della loro casa del “ gambero rosso”, e gli
disse, Franz , ti piace il mio giardino, guarda com’è pieno di fiori , di alberi da frutto , onesti meli e intense rose
rosse . Ma lui non rispose. Lo trovava orrendo quel giardino , pieno di spine aguzze e di ortiche , un mostro
logoro dall’occhio rosso. Per la seconda volta, il padre gli chiese, irato, se gli piacesse il giardino. E Franz,
tremando, disse No, non mi piace il giardino. Allora il padre lo colpì con un manrovescio pazzesco che gli fece
saltare gli occhialini, e lui fuggì. (Per la seconda volta volsi altrove i miei passi e col cuore pieno di infinito amore e
dolore andai errando lontano. Cantai canzoni per lunghi anni. Se cantavo l’amore , esso mi diventava dolore. E se
cantavo il dolore, esso mi diventava amore). Fuggì com’era fuggito a diciassette anni andando a vivere con l’amico
poeta Mayrhofer, in una squallida stanza in subaffitto, un ex seminarista, ex giurista ipocondriaco, un tipo
introverso, incline alla più cupa malinconia, ordinato, frugale e semplice fino allo stoicismo, tutto chitarra libri e
pipa , con tendenze omosessuali. Di Mayrhofer, Franz avrebbe musicato una ventina di mediocri poesie, anche se
lui ne era entusiasta (Le sue poesie sono sempre come un testo a una melodia), ma non aveva una grande capacità
critica letteraria. Musicava anche la nota della spesa. Si guardava le mani grassocce, con le dita tozze, che
scrivevano la musica con una rapidità incredibile, che muovevano i tasti di quello sgangherato pianoforte che gli
aveva regalato il padre quand’era bambino, e diceva, Le mani, le mie mani non hanno lacrime da spargere. Dopo
un paio d’anni il loro sodalizio, fatto di privazioni e miserie (spesso non avevano da mangiare, soffrivano
terribilmente il freddo, erano sempre senza un soldo bucato, vita da pura boheme) finì. Erano troppo diversi l’uno
dall’altro, opposti. Franz era troppo disordinato, rumoroso, con scoppi esagerati sia di gaiezza che di tristezza, e
poi era trascurato nel vestire, fumava tutto il giorno e puzzava sempre di tabacco con i denti anneriti dalla
nicotina. Ma anche fisicamente stavano agli antipodi. Mayrhofer era alto e magrissimo, col volto scavato ,sofferto
ma intenso, ieratico, sempre vestito di nero, il passo agile, elegante nel portamento, mentre Franz era goffo e
caricaturale, una “pallottola di grasso”, dice Chèzy, “un fiaccheraio ubriaco”, dice Huttenbrenner. “Piccolo di
statura e pingue, con una pancettina prominente, le spalle curve, una selva di capelli irti e cresposi, un volto grasso
troppo largo e rotondo, labbra tumide e quasi africane, il naso schiacciato e un po’ camuso , il mento grosso e
segnato da una fossetta curiosa. Ma sotto le sopracciglia folte e irsute, dietro gli occhiali a stanghetta – Franz –
dice Joseph von Spaun , che era stato con lui nel regio Convitto di Vienna – aveva due occhi splendenti, accesi da
una fiamma divina. E quando si metteva al pianoforte, quel pianoforte sgangherato , logoro e fetido che gli aveva
regalato il padre, con le sue grosse mani tozze dalle dita corte, e toccava i tasti con tanta maestria, e sapeva far
vibrare le corde con squisita inimitabile grazia e passione, e cantava con quella sua voce , voix de compositeur, un
misto di tenore leggero e di baritono, semplice, naturale, senza civetteria, il ristretto gruppo di amici che riceveva
questo straordinario dono andava letteralmente in estasi. Ma se occorreva, se mancavano le signore , Franz
cantava anche con un falsetto assai esteso, cantava la parte di contralto e di soprano, come capitò in casa Salieri
quando si cantavano le vecchie partiture della biblioteca di corte.

3. E’stato il più grande musicista viennese


Franz metteva in musica il galoppo del cavallo e l’incalzare del destino del Re degli Elfi, la tempesta che urla nella
tenebra e nel cuore della “Giovane monaca” , il mare e il vento che scrosciano e sibilano accanto agli amanti
desolati “In riva al mare”, lungo la via senza pace del “Viandante solitario”. E l’Ave Maria?, La morte e la
fanciulla?, Rosamunda?, l’Incompiuta? – mi dice il maestro Luigi Solidoro – l’incompiuta con le incomparabili
sonorità orchestrali ,le incantevoli sfumature e colorature , le mirabili delicatezze armoniche ,la tenebra e la luce, il
dolore e la gioia, i sorrisi e le lagrime, l’amore e la morte, l’estasi divina e il grido di disperazione ? Non c’è dubbio
alcuno che sia stato il più grande genio musicale viennese. Maestro, e Mozart? E Beethoven ? E Haydn? Dove li
mettiamo? Amico caro , nessuno di loro era viennese, lui sì. Franz lo “schwammerl”, il funghetto, come lo
chiamavano i compagni di cordata, per via di quella grossa testa piena di ricci , incassata nel piccolo corpo grasso e
un po’ untuoso. Lui era del sobborgo dell’Himmelpfortgrund , e con quei suoi ridicoli occhialini da travet
dickensiano, con il suo umore instabile, da arcobaleno nero sopra la notte azzurra , con la sua indole che inclinava
verso i sentieri del fior di loto , a una fondamentale malinconia da Danubio blu e da sospiro rassegnato che va di
monte e in monte , ha rappresentato meglio di tutti lo spirito viennese dell’epoca, anche se allora pochi se ne
accorsero. Ma Franz Schubert rimane per molti – anche oggi – quasi un’incognita musicale. Si eseguono tantissimi
compositori, alcuni dei quali anche francamente inutili, invece a distanza di 200 anni molta della sua musica è
ancora da scoprire. Direi quasi tutta. Se si escludono un paio di sinfonie, alcune sonate per piano , e ovviamente i
lieder, cos’altro conosciamo? Perché tutto ciò, maestro ? Forse Schubert paga la sua collocazione storica, il trovarsi
tra il periodo classico-viennese (Mozart Haydn Beethoven), e poi le tempestose cime dei romanticismi, e il
quadretto a volte oleografico che ne hanno tracciato molti biografi, a partire dalla seconda metà dell’ottocento. Ma
se lei si mette in ascolto della sinfonia n.8 in sì minore, “incompiuta”, capisce come sia stata tragica la sua vita,
capisce quanto grande sia stato il suo forte e disperato impegno artistico al quale destinò i più alti messaggi
interiori, e subordinò la propria amara vicenda esistenziale. Alla propria irrinunciabile vocazione, che era – come
ha detto qualcuno – tutta nei suoi occhi scintillanti, nel suo sguardo teso attento bello, che scopriva pianure monti
e mari pur non avendoli mai visti, nell’espressione rapita di chi dimentica se stesso in una funzione suprema, tale
da fargli ignorare le dee di tutti gli altri desideri, disertare gli altari della gloria e di ogni altra cosa terrena.

4.La sua musica era piena di sesso imbottigliato


Ma la sua musica – disse Josef Kenner – era piena di “sesso imbottigliato”, è così, maestro?. Vede, la storia ci
racconta che per fare musica quasi tutti i grandi musicisti sublimavano la loro sessualità, o si concedevano grandi
lussurie per trarne ispirazione. Dice il suo amico Franz von Schober (pittore poeta e libertino di famiglia
aristocratica, che influenzò molto Schubert) che chiunque conoscesse “Schubby” sapeva quanto potente fosse la
sua avidità di piaceri , – che avvilì la sua psiche fino alla degradazione – e quanto una parte di lui vi soccombesse
(Il peccato ha forma di donna, o di giovinetto ancora imberbe?). Allora gli artisti erano permeati di un ideale
romantico che, se pur appagante nello spirito, spesso non soddisfaceva la loro parte carnale: per questo molti si
innamoravano di donne irraggiungibili, e poi si davano via con qualsiasi prostituta che passava. Oppure
praticavano l’omosessualità – con ragazzi minori, a pagamento, – cosa che allora era considerata immorale e
inconfessabile, turpe e indicibile, ma tollerata tra le èlites degli intellettuali e degli artisti purché rimanesse nei limiti
della clandestinità e segretezza, che è poi un po’ quel che accade oggi, se lei ci riflette bene, al di là delle leggi e
dello strombazzamento delle crociate contro i pedofili. In ogni caso la sifilide era spesso l’inevitabile risultato di
queste voracità sessuali, e a quel tempo era molto più pericolosa di quanto sia l’AIDS oggi E Franz Schubert morì
di sifilide quando non aveva ancora 32 anni, sifilide che contrasse a 26 anni, e tutto ciò incise molto sulla sua
musica, che man mano si fa sempre più drammatica, disperata, tragica, senza speranza. E che lui fosse
consapevole del suo gravissimo stato di salute , viene testimoniato da una lettera che scrive all’amico Leopold
Kupelweiesser l’8 marzo 1824. – Mi sento il più infelice miserabile disperato degli uomini. Pensa ad un uomo la
cui salute non si ristabilirà più e che per disperazione peggiora invece di migliorare le cose; pensa ad un uomo le
cui speranze luminose si sono annientate, cui la felicità dell’amore e dell’amicizia non offre più nulla se non il più
profondo dolore, per il quale l’entusiasmo per la bellezza minaccia di sparire, e ti domando se c’è al mondo un
uomo più miserabile infelice e disperato. Quando vado a dormire spero di non svegliarmi più, e ogni mattina mi
parla di nuovo del dolore di ieri. Così senza gioia e senza amici io trascorro le mie giornate …Poi aggiunge anche
che la “ nostra compagnia”, ossia quella delle famose “schubertiadi “(che in realtà sono state mitizzate solo dopo
la sua morte) non c’era più, era morta, disciolta, a causa dell’aumento del “coro grossolano dei bevitori di birra e
dei mangiatori di salsicce.”

5. L’incompiuta
E tuttavia in questo grido di dolore ,in questa sorta di “ ricordanze” infelici schubertiane , Franz ancora sognava
grandi successi , anche a teatro, considerato che il più grande cantante dell’epoca, Vogel , ormai faceva sodalizio
con lui da diversi anni e cantava i suoi stupendi lieder , i cicli della “ Molinara”, del “ Canto del Cigno”, del
“Viaggio d’inverno”, un po’ dovunque. Ma erano opere raffinate , non destinate ad un grande pubblico e
comunque non erano commerciali (gli editori pagavano male e pochissimo) e neppure tali da poterci campare.
Schubert non poteva vivere (e infatti visse malissimo) con la sua attività di musicista nonostante fosse chiaramente
un genio, il genio dell’incompiuta. “Vi saranno opere orchestrali più potenti, più grandi, forse, – scrive Mary
Tibaldi –, ma nessuna potrà uguagliare l’incanto divino e la grazia celeste dell’Incompiuta di Schubert. E’ come la
Pietà Rondanini di Michelangelo, capolavori, perché incompiuti. Essa è una gemma impareggiabile e la sua
bellezza è perfetta. In questa pagina sinfonica , scolpita da due grandi movimenti, si raggiunge il massimo del
romanticismo sinfonico: le immagini musicali fioriscono da modulazioni di ineffabile dolcezza, colme di incanto
melodico e timbrico, e procedono come in dissolvenza in un errabondo ed estatico viaggio che sembra tendere
all’infinito. All’inizio piangono il clarinetto e l’oboe, e la musica si sparge nel cuore malinconica , con un senso di
pena, un’ombra dolorosa , un’infinita tristezza, finché i contrabbassi e i corni ci riportano la quiete nel cuore, e ci
fanno grazia i violoncelli con il loro suono vellutato. La melodia, così semplice, così soave ci prende nel profondo
lago dell’anima con un desiderio struggente di sovrumana bellezza e di gioia. La musica incorporea e ineffabile
passa su di noi, e vola come la visione di un coro di figure del Beato Angelico nella loro serafica abitudine, nel loro
immortale candore. Schubert ci guida nel regno dell’innocenza primordiale, in un mondo di sogno fuor d’ogni
spazio e d’ogni tempo, lontano da ogni miseria da ogni bassezza da ogni colpa nel regno della bellezza eterna e
dell’eterno mistero”. Ma Franz non l’ascoltò mai eseguita da un orchestra. La donò alla società degli amici della
musica di Graz che non la fecero mai eseguire. Solo quarantatre anni dopo la sua creazione, il 1° maggio 1865, il
direttore d’orchestra Herbeck di Vienna ebbe la ventura di scoprire la composizione e la fece subito eseguire. In
realtà – per concludere, maestro – possiamo dire che tutta la vita di Schubert fu un “incompiuta”? Tutta la sua
esistenza è rimasta nell’enigmatica sospensione dei suoi due tempi lontani. Schubert fu un mistero per se stesso, i
parenti, gli amici, che tuttavia lo adoravano, e i musicisti, gli intellettuali dell’epoca che contavano non ne capirono
la grandezza (Goethe non rispose mai alle sue lettere, lo stesso Salieri che era stato suo maestro e aveva una certa
influenza non gli fece avere alcun incarico pubblico) Franz non vide mai il mare in tutta la sua vita, eppure
nessuno seppe descriverlo come lui nei suoi famosi lieder e nella sonata per arpeggione (una specie di viola da
gamba con sei corde ma che suono aveva?) e pianoforte. Visse di tormenti e di dolori, ancor prima di essere
colpito dalla micidiale malattia venerea , e finché visse la sua arte non ebbe nessuna particolare risonanza, tranne
nel gruppo ristretto degli amici e di qualche aristocratico con l’hobby del canto come il barone Schonstein,
amateur di qualche talento, a cui Franz dedicò l’edizione dei canti de “La bella molinara”.
Solo molto più tardi si parlò di lui come del più grande musicista poeta che sia mai esistito, quando i lieder ,
canzoni-poetiche , che erano famose solo nella cerchia dei suoi amici , ebbero una valutazione più completa e
consapevole. Fu verso la fine dell’ottocento, quando Franz era morto da quasi settant’anni, che i grandi cicli
liederistici, disposti in collane pensose, si imposero come capolavori di inedita bellezza. (Anche l’Ave Maria era in
origine un lied) Il lied tedesco aveva una secolare tradizione, ma il lied di Schubert è tutto inventato, come se la
storia della musica non esistesse. Nessuno prima di lui aveva reso perfettamente in musica la parola parlata, il
grido autentico, l’autentico sussurro, potenziati e trasfigurati dall’intonazione musicale, ma sostanzialmente fedeli
alla pronuncia prosodica. Ma in genere tutta l’opera cameristica di Schubert è tesa alla ricerca di forme nuove,
nascenti da esigenze interne di sviluppo del materiale tematico , tutta l’opera è di assoluta originalità, le
composizioni di pianoforte inventano un nuovo modo di trattare l’armonia, che è ad un tempo classicamente
irreprensibile e romanticamente inquieto, quartetti e quintetti sono alternative sapienti composizione sulle orme
dei classici e compiacimenti improvvisativi che sembrano ammiccare agli amici che li ascoltano. La su musica una
volta ascoltata non si può dimenticare, essa scende nel cuore e vi rimane per sempre Schubby sembra ormai
salutarci, con quel suo sorriso timido e lo sguardo che scintilla nel crepuscolo: “ Come un estraneo sono
comparso/ come un estraneo me ne vado. Per questo viaggio non m’è dato/ di scegliere il tempo/ da me devo
trovare la via / in questa oscurità/ M’accompagna l’ombra della luna . Buona notte a tutti. Ed eccolo il piccolo
uomo grasso con l’organetto che nessuno ascolta, nessuno vede, i cani gli ringhiano alle caviglie, ma lui
indifferente a tutto, lui gira, gira la manovella e l’ organetto mai non tace.
Addio, piccolo grande “schwammerl”!

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