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HANS-GEORG GADAMER

Gadamer è stato un allievo di Heidegger e ha frequentato tutte le sue lezioni a Marburgo (questi
sono gli anni in cui Heidegger tiene le lezioni sugli argomenti di cui sarà il precipitato Essere e
Tempo). Gadamer ha inoltre avuto formazione antica, greca in quanto proveniva da Natorp
(grande grecista, rappresentante del neokantismo). Egli rimarrà in Germania durante gli anni della
guerra, non emigrerà come fecero invece tanti altri ma resta in contatto con alcuni filosofi che
andarono via. Fra tutti spicca il nome di Lowit, il loro rapporto infatti è stato importante anche
sotto il punto di vista filosofico, di fatto la loro concezione della storia sarà molto simile.
 1945 Diventa rettore dell’Università di Lipsia ma ben presto si sposta a Aiderberg? Dove
riceve una cattedra, che aveva rifiutato di assumere Jasper perché lasciava la Germania.
Gadamer inoltre parteciperà, insieme a Lowith, al convegno dei filosofi che si riunirono
dopo la Seconda Guerra Mondiale in Argentina, a cui presero parte pochissimi tedeschi.
Seguirà poi un lungo periodo di quiete nel quale G. si ritirerà per scrivere e per viaggiare.
Quindi ricapitolando:
 1930-40: G. scrive poco, soprattutto articoli.
 1945: Diventa rettore, poi va via.
 1950-60: Scrive Verità e Metodo (sarà l’opera che inaugurerà l’ermeneutica filosofica.)
 1968: Va in pensione, comincia a ricevere inviti dalle università americane, in particolare da
parte della facoltà di teologia. Gadamer aveva frequentato il teologo Bustman, aveva per
questo una formazione teologica. Egli scriverà ad Heidegger dicendogli che sarebbe patito
per questi convegni non tanto perché ci fosse un reale interesse per lui, ma perché
avvertivano in Verità e Metodo un’attualità, una legittimazione delle loro esigenze
filosofiche. Bisogna tenere presente che al tempo negli Stati Uniti l’indirizzo filosofico
predominante era la filosofia analitica.
Questo viaggio ha un grande significato perché porta la filosofia di Heidegger negli Stati
Uniti. Gadamer è un rappresentante della filosofia continentale, diventerà quindi in
America un esponente di un’alternativa alla filosofia analitica.
VERITÀ E METODO

È un titolo che Gadamer non voleva, lui ne aveva scelto un altro (Lineamenti di una ermeneutica
filosofica) che però verrà bocciato dall’editore Klosterman perché al tempo l’aggettivo
“ermeneutico” era bizzarro. Il titolo originale, quindi, diventerà il sottotitolo dell’opera che
conosciamo oggi come Verità e Metodo.
“Verità e Metodo” è un titolo fuorviante per due motivi:
1. Perché, dato che la prima parola è “verità” potrebbe dare l’impressione che il libro
contenga una teoria della verità, una guida metodologica alla verità.
2. Anche il termine “metodo” può risultare ingannevole perché trasmette l’idea che ci sia una
sorta di contrapposizione tra verità e metodo o verità o metodo.

Gadamer chiarirà i fraintendimenti nati nel dibattito pubblico sul titolo in una prefazione alla
seconda edizione. Gadamer dunque integrerà l’originale introduzione, scritta quando il libro è
stato pubblicato, con delle pagine in cui chiarirà l’equivoco sorto dal titolo.
Gadamer affermerà che non era sua intenzione mettere in discussione il metodo scientifico.
Quest’ultimo, secondo Gadamer, ha una sua validità e legittimità. Quello che invece mette in
discussione è il ricorso a questo metodo in quegli ambiti che non ricadono nelle scienze, ci sono
degli ambiti, di quello che Husserl aveva chiamato il mondo della vita (l’impostazione di Husserl
sarà fondamentale per G., non si può pensare all’ermeneutica filosofica senza fenomenologia),
dove questo metodo non può essere applicato. Ci sono degli ambiti che si sottraggono
all’applicabilità del metodo scientifico, dove viene alla luce l’esperienza, l’evento della verità.
Questo metodo, per esempio, non vale nella politica o nell’esistenza, la scienza infatti non ci può
dare indicazioni su come comportarci in politica, non c’è l’esatta soluzione ai problemi politici, né a
quelli esistenziali.
Questi ambiti vengono denominati da Gianni Vattimo “extra-metodici”, è un aggettivo riduttivo
però perché così sembra che queste esperienze è come se si definissero a partire dal metodo, è
come se fossero secondari al metodo, quando in realtà sono prioritari.

C’è poi un altro equivoco legato al titolo: sembra che Gadamer stia cercando di difendere le
discipline umanistiche contro quelle scientifiche. Gadamer interverrà anche su questo
sottolineando che V. e M. non è un’opera il cui scopo è rilanciare lo statuto delle discipline
umanistiche.

Per capire veramente quest’opera dovremmo soffermarci sul significato della parola
“comprendere”, G. infatti non parla tanto di verità quanto di comprensione. L’autore, infatti, si
riallaccia esplicitamente al circolo ermeneutico heideggeriano, il cui significato è che le parti di un
testo si capiscono solo alla luce del tutto, ma che il tutto è compreso solo alla luce delle parti.

L’opera è composta da tre parti:


Arte, storia, linguaggio;
Essi indicano quelle esperienze di verità che precedono il metodo, vanno al di là e dove Gadamer
non delinea una teoria della verità, cioè come si può procedere gnoseologicamente per giungere
alla verità ma bensì trova un modo di far emergere da sé l’accadere della verità.

1. La prima parte è dedicata all’esperienza estetica. Questa parte avrà una grande “storia
degli effetti”, Benedetto Croce direbbe che con quest’espressione s’intende la fortuna di
un’opera, il modo in cui viene recepita un’opera. Ciò significa che la nostra visione della
storia è mutevole, il passato non è rigido, cambia a seconda di come viene interpretato
nelle diverse epoche. Verità e Metodo è u libro sulla tradizione, nel senso della
trasmissione della storia.
2. La seconda è dedicata alla storia, è una critica alla coscienza storica
3. L’ultima sezione è dedicata al tema del linguaggio. È la parte più importante perché il
linguaggio è il medium del comprendere e l’ermeneutica ha a che fare con il comprendere.
Anche la comprensione ha a che fare con la comprensione. Verità e Metodo è un’opera
sulla trasmissione storica in quanto è trasmissione linguistica.

Come abbiamo detto, nella prefazione alla seconda edizione G. ribadisce la rilevanza del metodo
scientifico e la sua applicazione nelle scienze della natura e nelle scienze esatte. Ciò non significa
che da una parte ci siano le scienze della natura e dall’altra quelle dello spirito, G. in quest’opera
non si propone una difesa delle “scienze dello spirito”, cioè delle materie umanistiche.

“Io mi chiederò kantianamente quali sono le condizioni del comprendere”


Questo è l’obiettivo di Gadamer, che lo pone in diretta continuità con il pensiero di Heidegger. Il
comprendere diventa quindi una delle parole-chiave di quest’opera, come valore costitutivo
dell’Esserci e della sua storicità. L’Esserci non è più dunque il soggetto autonomo della modernità
ma ha una temporalità, una linguisticità, è situato nella storia, è finito. Non c’è un soggetto
autonomo che si pone il problema di conoscere, fuori dalla storia, dal tempo e dal linguaggio.
Tutto ciò è già stato decostruito. La filosofia deve riconoscere la finitezza dell’Esserci e rinunciare
alla possibilità di una teoria della verità. A partire da questa nuova consapevolezza nasce
l’ermeneutica filosofica.
“Il comprendere non è uno dei possibili atteggiamenti del soggetto, ma il modo di essere
dell’esistenza stessa come tale.”

Gadamer riconoscerà la finitezza dell’Esserci e a partire da questo assunto si porrà il problema di


una nuova fondazione, non più stabile e inconcussa, ma un fondamento fatto di ragnatele, un
fondamento che consiste nella rinuncia ad un fondamento ultimo. Al contrario di Husserl, che
ancora credeva nell’esistenza di un fondamento, qui c’è una rinuncia totale.
La finitezza dell’Esserci intacca tutto, significa che coglieremo dell’essere sempre punti di vista e
per la nostra connaturata limitatezza non riusciremo mai a conoscerlo in maniera definitiva. Il
discorso sull’essere non trova mai fine in quanto non lo si può definire cogliendo a pieno la sua
essenza.
Di conseguenza il modo originale dell’Esserci è quello del comprendere (ci muoviamo nel mondo
avendo già sempre una precomprensione dell’essere degli enti intramondani). Questa modalità è
antecedente alla conoscenza vera e propria, che è derivata e secondaria. Quindi viene così in luce
la priorità della sfera “extra-metodica”, il comprendere storico-linguistico viene prima del metodo
applicato per conoscere. Non c’è una separazione tra le due sfere ma c’è un rapporto di
continuità.
È così manifesto l’intento di Gadamer, che non si esaurisce in una rivendicazione delle materie
umanistiche ma che bensì consiste in qualcosa di molto più profondo: nella scoperta della finitezza
dell’Esserci.
“Il termine “ermeneutica” indica il movimento fondamentale dell’esistenza, che la costituisce nella
sua finitezza e nella sua storicità.”

INTRODUZIONE
Il problema ermeneutico riguarda il fenomeno della comprensione e della retta interpretazione
del compreso l’ermeneutica ha a che fare con il comprendere, questo non è solo un problema
specialistico di metodologi delle scienze umanistiche, ma qui si tratta di mettere allo scoperto la
finitezza dell’Esserci (ciò che caratterizza l’ermeneutica di Gadamer rispetto a quella di Heidegger è
l’estraneità).

 Che cos’è l’ermeneutica?


Dal greco “hermeneìa” nel mondo greco indica l’arte del dire, di annunciare, spiegare,
tradurre e dà luogo a regole di interpretazione. C’è però sempre più uno slittamento dal
significato di “articolazione” al significato di “interpretazione”.

 È possibile identificare una storia dell’ermeneutica? Può essere considerata una


disciplina?
Gadamer segna in questo senso uno spartiacque perché V. e M. diventa l’atto di nascita
dell’ermeneutica filosofica e nasce un grande interesse per l’ermeneutica come disciplina.
All’interno di quest’opera G. si occupa di ricostruire una disciplina, l’ermeneutica appunto,
che fino a quel momento non aveva preso coscienza di sé. Decostruendo l’ermeneutica
altrui G. trova un modo per riconoscere i suoi debiti nei loro confronti e rivendica la sua
originalità, mette in luce la novità della sua ermeneutica.
Le tappe di Gadamer saranno:

1. Lutero;
È il fondatore del protestantesimo ed è colui che traduce la Bibbia in tedesco (questo
rappresenta l’atto di nascita del tedesco come lingua).
Introduce inoltre il principio di sola scriptura per protesta contro il papismo del cattolicesimo
romano che prevede una mediazione tra lo scritto sacro e il fedele da parte della chiesa
cattolica. Il principio di sola scriptura difende invece un’interpretazione liberata da ogni
autorità, un’esegesi autonoma a cui ogni fedele può accedere senza aver bisogno della
mediazione di terzi. Questa emancipazione è molto importante per l’ermeneutica in quanto
consente lo sviluppo della capacità ermeneutica del singolo che viene spinto ad interpretare la
Bibbia.

2. Friedrich D.E. Schleiermacher (1768-1834);


È un teologo e filosofo protestante, molto amico di Humboldt con il quale condivide le
posizioni rispetto al linguaggio.
Unifica l’ermeneutica nell’arte universale del comprendere (Verstehen).
Egli è amico dei fratelli Slegel che sono esponenti del romanticismo tedesco, S. viene
anch’egli considerato un rappresentante del “primo romanticismo” (consiste nella risposta
tedesca all’illuminismo) prendendo dunque le distanze dall’illuminismo.
L’interpretazione che Gadamer da di S. nelle pagine di Verità e Metodo è molto riduttiva;
infatti, per correggere il tiro più tardi gli dedicherà un saggio.
G. fa dell’ermeneutica di S. un’ermeneutica psicologica, S. è considerato il fondatore
dell’ermeneutica perché per primo ha spostato l’interesse sulla questione del
comprendere, che da questo momento rimase decisiva nella tradizione ermeneutica. G.
però interpreta S. come se egli facesse della questione del comprendere una questione
psicologica, come se attraverso una comprensione simpatetica l’interprete comprendesse
l’autore.
Grande riconoscimento che G. deve a S. è quello di aver reso l’ermeneutica universale e
non solo un sapere settorializzato, com’era stato fino a quel momento, essa si esercitava
solo in alcuni settori. Uno degli ambiti di applicazione dell’ermeneutica era certamente
l’interpretazione delle Sacre Scritture per esempio, cosa avveniva nell’ermeneutica della
Bibbia? Si parte dal testo in ebraico, chi interpreta deve tradurre l’ebraico e interpretarlo.
LA Bibbia è un testo che ci è estraneo perché proviene da un passato remoto ed è scritto in
una lingua che non è la nostra. Chi interpreta è già disposto al non comprendere, quello
dell’interpretazione è un movimento che va dal non compreso al compreso:

Non comprendere  Comprendere

Grazie a S. l’ermeneutica diventa un’arte universale, il passaggio dal non comprendere al


comprendere non si compie solo in determinati settori ma è un passaggio che si compie
continuamente nella quotidianità del nostro dialogo. Il fraintendimento è inscritto anche
nella quotidianità del parlare e del comprendersi. Noi diamo per scontato di comunicare
comprendendoci sempre, ma comprendere non è sempre ovvio. La riflessione di S. intorno
al linguaggio e la comprensione va in parallelo con Humboldt che afferma: “Ogni
comprendere è sempre anche un non comprendere.”
S. aggiunge che il non comprendere non si risolve mai definitivamente, non c’è mai una
trasparenza, esattezza definitiva, c’è sempre uno scarto di non compreso (è un’ammissione
della finitezza dell’Esserci). L’esperienza dell’estraneità è ineludibile: la esperiamo in
particolare quando passiamo da una lingua all’altra, ma ci sovviene anche nella nostra
lingua, dato che non sempre ci comprendiamo quando parliamo.
Gadamer affermerà invece che l’esperienza dell’estraneità c’è però non può essere il non
comprendere il punto di partenza, bisogna partire da un comprendere dal quale si da poi
l’estraneità (è così anche per Heidegger).

Comprendere  Non comprendere

Partiamo sempre dal comprendere, cioè da quell’articolazione che ci dà la lingua comune e


che permette di instaurare un accordo con gli altri parlanti.
Diciamo che il comprendere diventa il “metodo” delle scienze dello spirito, mentre il
metodo delle scienze della natura è il conoscere. A chi risale però la distinzione tra scienze
dello spirito e scienze della natura? Risale a Gianbattista Vico che introdurrà il principio che
afferma: verum et factum conventuntur, cioè «vero e fatto si convertono»: questo significa
che possiamo conoscere soltanto quello che facciamo in quanto «la scienza è la conoscenza
del genere o modo in cui la cosa si fa». Questa affermazione serve a Vico per sostenere che
l’uomo non può conoscere le leggi della natura, che sono opera di Dio: egli può soltanto
pensare le cose dall’esterno, ma non le può intelligere, in quanto non può «raccogliere» in
maniera ordinata nella sua mente tutti gli elementi di cui essa è composta. Nella Scienza
nuova il principio secondo il quale vero e fatto sono convertibili servirà a Vico per sostenere
la conoscibilità del «mondo civile», che è opera degli uomini.
Dunque, come si è detto, bisogna distinguere l’ambito della natura dal “mondo civile”, che
comprende storia, linguaggio, arte, giurisprudenza. L’uomo non può conoscere la natura
perché è stata creata da Dio, ma può conoscere il mondo civile perché è quello che lui ha
fatto. Il vero si converte con il fatto significa quindi che intanto posso arrivare alla verità, in
quanto so com’è fatto. Vico legittima, inoltre, la possibilità di una conoscenza storica
perché la storia è stata fatta dagli esseri umani.

3. Wilhem Dilthey;
Amplia l’ermeneutica in una metodologia delle scienze dello spirito. D. legge Vico e rilancia
la separazione tra scienze della natura e dello spirito. D. si pone il problema della
conoscenza storica. Come conosciamo la storia? Viene messa in discussione la visione
illuministica che vede la storia come un costante progresso, un miglioramento continuo. La
storia comincerà a non essere più letta come un percorso lineare, positivo, di
autochiarimento della coscienza storica ma bensì come un percorso segmentato, con tante
interruzioni. Gadamer, in dialogo con Dilthey, si pone questi grandi problemi riprendendo
anche il prospettivismo nietzschiano e il pensiero di Heidegger. Noi siamo situati nella
storia, abbiamo di conseguenza una coscienza storica determinata, cioè guardiamo alla
storia da un determinato punto di vita, da un’angolazione. Torna qui la questione della
finitezza dell’Esserci, di un soggetto che non può più porsi l’oggetto Storia dinnanzi per
conoscerlo oggettivamente perché vi è già sempre immerso dentro e non può uscirne (ciò
accade anche con il linguaggio, la ragione non può trascendere il linguaggio per giudicarlo).
Alla luce di questa riflessione, cosa significa comprendere la storia?
La storia non è fissa ma cambia a seconda delle generazioni, il passato viene riscritto ogni
giorno e non è sempre lo stesso.
Esempio della scoperta d’America in principio veniva vista come una grande epopea.
Adesso viene vista dalla prospettiva dell’altro, viene problematizzata. Un evento passato
viene visto in modo diverso a seconda dei valori morali della società interpretante.

Il circolo ermeneutico
Il circolo ermeneutico è una delle dottrine più basilari e controverse della teoria ermeneutica.
Partiamo da qui: Heidegger scorgere nel comprendere il movimento stesso dell’esserci e ne
individua nella circolarità la caratteristica fondamentale.
Ma che vuol dire comprendere, o meglio ancora, pre-comprendere?
Vuol dire che, al contrario di quel che sosteneva l’ermeneutica romantica, la comprensione
costituisce un fenomeno originario nel quale l’Esserci già sempre è gettato e da cui il non-
comprendere e il fraintendere sono fenomeni derivati, essi hanno luogo nell’ambito del
comprendere, e non al di fuori. Solo in quanto comprendo posso anche non comprendere o
fraintendere.
Sin dall’antica retorica il comprendere è stato rappresentato dalla figura del circolo che è poi
passata all’ermeneutica. Il circolo disegna il movimento che va dalle parti al tutto e dal tutto alle
parti. Necessariamente parti e tutto si presuppongono e si condizionano reciprocamente. Ciò
significa che la comprensione della singola frase presuppone quella del testo, ma a sua volta la
comprensione del testo può scaturire solo da quella delle frasi.
La circolarità esclude la linearità, nel comprendere infatti non c’è né un inizio né una fine ma siamo
già sempre nel mezzo. Nel fenomeno della comprensione vi è dunque una chiara assenza di
fondamento. (Circolo ermeneutico: si passa dalla pre comprensione alla articolazione conoscitiva
intesa come interpretazione, c’è una circolarità perché nulla ha inizio e nulla ha fine essendo un
percorso non definito)
Heidegger però vuole portare il circolo al di là dell’“interpretazione filologica”: il circolo ha
acquistato un valore esistenziale. Il comprendere è il modo d’essere dell’esserci. Il circolo si
disegna nel modo in cui l’esistenza si comprende e comprendendosi esiste. Gettato nel mondo
l’esserci si pro-getta ogni volta sulla base delle proprie precomprensioni anticipanti. Così si prende
cura del proprio futuro aprendosi alle proprie possibilità. “A questo sviluppo della comprensione
diamo il nome interpretazione”. Interpretare non vuol dire solo assumere ciò che è compreso, ma
dispiegarlo e articolarlo (dalla pre comprensione all’interpretazione).
Il rischio che corre il circolo è quello di venir definito circolus vitiosus. Se il vizio consiste nel
presupporre ciò che deve dimostrare, la circolarità del comprendere sembra esibire questo vizio.
Ma solo se si assume la prospettiva cartesiana della linearità, si cade in questo errore di giudizio.
L’ideale della linearità del conoscere si può mantenere ma sapendo che è secondario e derivato
dalla originaria circolarità del comprendere.

Il circolo è quello del tutto e delle sue parti: possiamo comprendere le parti di un testo o di
qualsiasi significato solo a partire da un’idea generale dell’intero, ma possiamo acquisire questa
comprensione del tutto solo capendo le sue parti. L’idea di base è che non esiste una
comprensione senza presupposti (non si può partire dal non comprendere per poi giungere al
comprendere), la comprensione è dunque fondata sulla presupposizione delle parti. Heidegger
parlava della ‘struttura anticipatrice’ essenziale (Vorstruktur) della comprensione; Gadamer dei
‘pregiudizi’, che potrebbero essere produttivi o fuorvianti. Come considerare questi presupposti?
Questa è la questione. Un’ermeneutica tradizionale, maggiormente curvata in senso sistematico, li
vedeva con sospetto e si sforzava di eliminarli in nome dell’obiettività. L’obiettivo dell’ermeneutica
classica e metodica era effettivamente quello di evitare il circolo ermeneutico di
un’interpretazione che fosse inquinata dalle sue presupposizioni, dalle sue premesse o da erronee
assunzioni sull’intero o sull’intento di un lavoro. Due pensatori ermeneutici come Heidegger e
Gadamer considerano più favorevolmente il circolo ermeneutico, poiché costituisce per loro un
elemento inevitabile e positivo della comprensione: come esseri finiti e storici, noi
‘comprendiamo’ perché siamo guidati da anticipazioni, aspettative e domande.

A differenza di tutti quei procedimenti logici (es. deduzione) finalizzati ad un procedere lineare che
hanno un punto di inizio e un punto di arrivo, all’ermeneutica manca sia un principio che una fine,
o meglio, essi si presuppongono reciprocamente di continuo. Il prius è il comprendere e ci si
muove verso il non comprendere ma questo movimento non è lineare.

Ciò significa che dato un testo da interpretare, si evidenzia come l'approccio dello studioso non
può che risultare caratterizzato da una ineludibile pre comprensione del testo data dall'ambiente
storico e culturale in cui vive. La conoscenza è così necessariamente situata entro un determinato
orizzonte storico e psicologico, il frutto di una stratificazione circolare di nozioni. Secondo
Heidegger la pre comprensione dell’Esserci trova una spiegazione nel fatto che egli è già sempre
situato nella circolarità, l’individuo riconosce di essere un progetto gettato e progettandosi nel
futuro si comprende. Gadamer però interviene su questo punto, è importante che l’Esserci si
proietti nel futuro tanto quanto il suo passato, la sua storicità, cioè la sua appartenenza a un
contesto di provenienza. Il progettarsi dell’Esserci non è messo in discussione ma è più
ermeneuticamente rilevante il passato dell’Esserci.
 Heidegger: Da priorità ermeneutica al futuro, l’esserci si comprende oltrepassandosi.
L’esserci si comprende (esistenza autentica) nel momento in cui prende atto di non
essere uno dei tanti enti intramondani di cui è circondato che vivono nella mera
presenza. Comprende piuttosto che il suo essere si compie nella progettualità, nel non
chiudersi mai in sé stesso (in una definizione) ma di vivere come una possibilità di sé
stesso.
 Gadamer: Da priorità ermeneutica al passato, dimensione che fa parte dell’esserci in
modo “altrettanto originario ed essenziale”, infatti l’esserci che si progetta sulle sue
possibilità è già sempre “stato”. Per progettarsi e proiettarsi nel futuro deve muovere
da ciò che ha compreso. Ma il già compreso è già stato, è passato.

Il circolo è la figura del comprendere inteso però sempre più come partecipazione e
condivisione in cui chi comprende è già sempre com-preso. Il comprendere sé e il
comprendere altro fanno parte di uno stesso processo. L’esserci si comprende comprendendo
gli oggetti, enti intramondani.

Sui pregiudizi
Gadamer comincia a precisare il circolo ermeneutico affermando che la pre comprensione da cui
muove chi comprende è il complesso dei suoi “pregiudizi”; dunque, bisogna riconoscere “il
carattere costitutivo che ha il pregiudizio in ogni comprendere”. Gadamer vuole riabilitare lo
statuto del pregiudizio attraverso una critica all’illuminismo, fautore di quella che possiamo
definire una “svalutazione del pregiudizio”, di un “pregiudizio sul pregiudizio”.
Il termine “pregiudizio” non ha di per sé né un valore negativo né un valore positivo, è solo a
partire dall’illuminismo che acquista l’accezione negativa che ha tutt’oggi e viene a significare
“giudizio infondato” in quanto viene considerato falso perché non trova legittimità in una
fondazione certa e obiettiva. L’illuminismo chiede che la tradizione sia valutata senza pregiudizi
davanti al tribunale della ragione, in un certo senso l’Illuminismo stesso è a sua volta un
pregiudizio contro i pregiudizi, è una pretesa pregiudiziale di liberare la ragione dai pregiudizi. È da
qui che nasce la scienza storica che presume di conoscere obiettivamente il mondo del passato, si
crede alla possibilità di un soggetto che, prescindendo dall’appartenenza che come interprete lo
lega all’interpretato, si erge al di sopra della storia, della tradizione storica, dei propri pregiudizi, e
facendosi specchio di sé conosca e giudichi con obiettiva razionalità. Ma questo significa non voler
ammettere che la ragione umana, lungi dall’essere assoluta, è finita e storica. Si apre la questione
della fondatezza e della presunzione di un soggetto che pretende di essere autonomo e che non
accetta la sua appartenenza storica e la sua finitezza e fatticità. Chi sono io per pretendere di dire
che non ho pregiudizi? Sono sempre storicamente influenzato, gettato.

Tradizione e ragione
Tradizione e ragione non vanno intesi come due opposti, da una parte la tradizione che dev’essere
illuminata e dall’altra la ragione che si erge a istanza suprema. Gadamer lega la tradizione e la
ragione. Nella tradizione c’è già sempre la ragione. Questo ha inevitabilmente una ricaduta nel
paradigma gnoseologico e nel modo stesso di intendere la storia.
Cos’è la tradizione? Potremmo dire che Verità e Metodo è un libro sulla tradizione, ma cosa
intende Gadamer con questo termine?
Con i pregiudizi ha dato un nome alla precomprensione da cui muove chi comprende. Ma è
evidente che nel circolo devono entrare in gioco altre precomprensioni, questa volta non di chi
comprende, ma di ciò che viene compreso.
Con tradizione si deve intendere ciò che è di immemoriale vi è nel comprendere.
Immemoriale rinvia a due significati:
1. Rinvia all’impossibilità per chi comprende di poter liberamente disporre
dell’immemoriale costituito da tutte le pre comprensioni sedimentate dalla tradizione.
2. Rinvia all’assenza di una fondazione ultima, infatti non tutto ciò che vale per tradizione
può essere ricondotto ad una fondazione ultima.
Come può allora imporsi la tradizione se non ha quella validità razionale che deriva da una
fondazione ultima? È vero che la tradizione si impone senza essere vagliata dalla ragione ma è
altrettanto vero che sarebbe un errore considerare la tradizione un potere irrazionale e
autoritario. Gadamer parla di una tradizione “liberamente” accettata.
Tradizione e ragione hanno bisogno l’una dell’altra. La ragione non può fare a meno della
tradizione, perché quest’ultima costituisce il fondamento più “fondamentale” di tutti i progetti
razionali e di tutte le fondazioni lineari. La tradizione non può fare a meno della ragione perché per
perpetuarsi ha bisogno ogni volta di un libero assenso della ragione. È in questo senso che si deve
parlare di una razionalità della tradizione che si mantiene rinnovandosi attraverso la ragione.
La continuità non è scontata e richiede sempre una conferma. Si potrebbero addurre molti
esempi. Basterà pensare all’assenso che diamo quando usiamo le formule tradizionali di
saluto o ringraziamento. Se un inglese dice you’re welcome, che corrisponde al nostro
“prego”, ma letteralmente vuol dire “sei gradito, sei benvenuto”, non impiega solo una
formula, ma perpetua una tradizione di cui riconosce la razionalità. Quindi la ragione non
opera solo rinnovando o sovvertendo, ma anche conservando.

Tradizione e trasmissione
È inoltre importante sottolineare l’importanza che riveste il termine tradizione (Tradition) accanto
a quello di trasmissione (Uberlieferung). Non c’è tradizione senza trasmissione. La tradizione non
può essere intesa staticamente perché è il processo di trasmissione storica del passato. Gadamer
scrive che “noi siamo costantemente in trasmissione”. Il che vuol dire che prendiamo parte ad un
dialogo ininterrotto in cui può perpetuarsi la tradizione, e che il nostro essere si definisce in questa
partecipazione. La nostra coscienza storica è sempre attraversata da “una molteplicità di voci nelle
quali risuona il passato”. Dato che è storica, la coscienza non è propria ma è già sempre estranea.
La coscienza è dentro la storia, non al di fuori; dunque, essa non è un oggetto che ci poniamo
davanti in quanto soggetti, la storia ci contamina ed è sempre operante in noi. La nostra coscienza
è giocata dalla storia. Di conseguenza la storia umana non si lascia integrare da un soggetto
assoluto, la nostra coscienza non essendo trasparente a sé stessa non può delineare l’andamento
della storia.
In questa nuova prospettiva la storia viene intesa come “trasmissione linguistica”, cioè come
aperto dialogo con il passato.
La questione qui è quella del congedo dalla fondazione ultima metafisica, del soggetto autonomo,
verso una coscienza situata nell’intrigo della storia che si riconosce come finita. Di conseguenza
viene meno anche la presunzione di possedere una verità assoluta, sciolta e svincolata dal
linguaggio. Così come ciascuno di noi è un esserci situato e finito, la mia verità non può essere
assoluta e sciolta dalla storia e dal linguaggio ma sarà sempre una verità che si dà nella
trasmissione linguistica della storia. Non c’è una mia verità assoluta che si oppone alla tua, c’è
piuttosto una verità che abbiamo in comune, che si dà nella nostra comunità storica e linguistica.

Principio della Wirkungsgeschichte


Innanzitutto, cosa significa Wirkungsgeschichte?
Nella critica letteraria dell’Ottocento il termine indicava quella disciplina che si occupava della
ricezione di un’opera e della sua forma. In che modo viene recepita un’opera, viene letto un testo
o interpretato un evento a seconda del contesto storico e linguistico in cui si trova. In breve: per
studiare un’opera o un evento è opportuno tenerne presente gli effetti nella storia. È per questo
che lo storicismo attribuisce grande interesse alla “storia della fortuna”, ma l’intento che lo guida è
quello di separare l’opera originale dalla sua ricezione e studiarla così in piena obiettività. Lo
storicismo avanza quindi la pretesa di comprendere il corso della storia non razionalmente, ma
dall’alto della coscienza storica. Gadamer fa agire contro la presunzione di questa coscienza il
principio della Wirkungsgeschichte.
Vattimo a reso in italiano Wirgungsgeschichte con “storia degli effetti” e Wirkungsgeschichtliches
Bewusstsein con “coscienza della determinazione storica”.
Questa traduzione è però insufficiente, “storia degli effetti” in particolare rende il senso
pregadameriano del termine, quello cioè di storia della ricezione, una storia che si può conoscere
e indagare. Gadamer sta invece cercando di dire qualcosa di nuovo. Per comprenderlo volgiamo
l’attenzione a Wirkung che significa “effetto”, “prodotto”, “operato” ma anche “effettuare”,
“produrre”, “operare”; si riferisce dunque non solo al risultato dell’attività, ma all’attività stessa.
Quindi per comprenderne meglio il significato possiamo rendere il termine Wirkungsgeschichte
con “lavoro (o travaglio) della storia”, dove lavoro indica sia il prodotto, sia l’agire, l’operare cieco
e silenzioso della storia. È per questa via che la storia giunge fino a noi, che non ne restiamo
indenni, perché con il suo operare ci pervade ben più di quanto non presuma la nostra coscienza.
Wirkung vuol dire proprio che la storia continua ad operare al di là e oltre la coscienza che
possiamo averne, essa ci sottopone ai suoi effetti, e ci contamina a tal punto nella nostra intimità,
da darci apparire proprio l’estraneo, estraneo il proprio. La Wirkungsgeschichte non si riduce alla
mera storia degli effetti, ma è questro “intreccio” sempre operante in cui è coinvolta e irretita la
coscienza. Di tale groviglio, intreccio, impenetrabile che la penetra, la coscienza non potrà mai
venirne a capo. Perciò non è trasparente e pura, ma opaca e contaminata. È
Wirkungsgeschichtliches Bewusstsein, coscienza che sa di essere prodotta, elaborata e travagliata
dalla storia. Non può sottrarsi agli effetti che la storia produce, perché non potrà mai raggiungere
un al-di-là della storia da cui osservarla.
Duplice senso della “coscienza della determinazione storica”:
1. Questa coscienza sa della propria storicità, più precisamente sa di essere situata. A
partire dalla propria situazione tale coscienza sa che “essere storico significa non poter
mai risolversi totalmente in autotrasparenza” (al contrario della coscienza trasparente
del soggetto autonomo e inconcusso, la coscienza dell’esserci storico è opaca ed è
sempre giocata dalla storia, è penetrata dall’intreccio della storia). Dunque secondo il
principio della wirkung, la storia lavora sempre, di conseguenza non può mai essere
compresa obiettivamente in maniera definitiva. Ciò determina un cambiamento del
nostra rapporto con essa, che dall’essere statico (io soggetto autonomo mi ergo al di là
della storia per conoscerla) diventa dinamico ( io, esserci finito e gettato, sono già
sempre situato nel groviglio della storia e ciò non mi permette di conoscerla). La storia
continua ad operare e ciò dischiude alla coscienza la possibilità del dialogo infinito con
la tradizione.
2. La storia ha coscienza di sé, dato che quest’ultima è il risultato del suo operare. Ciò non
va inteso in senso hegeliano come se la storia fosse una sorta di coscienza gigantesca,
qui piuttosto si fa riferimento ad una coscienza comune che il lavoro della storia viene
producendo e che oltrepassa la coscienza soggettiva. È questo allora l’effetto forse più
importante prodotto dall’operare della storia: esibire alla coscienza moderna il suo
limite, la sua impossibilità di essere autocoscienza.
È quindi una coscienza che, più che sapere di sé, sa del proprio limite. A essa Gadamer da più
propriamente il nome di “vigilanza”. La coscienza che sa del lavoro della storia, e sa che questa
agisce anche nel suo intimo, vigila e veglia sulla fusione degli orizzonti.
Cosa inytende Gadamer per “fusione degli orizzonti”?
La parola greca orizzonte indica il cerchio mobile che delimita tutto ciò che è visibile da un punto,
designa il nostro limite che si muove con noi. Il comprendere può essere considerato l’incontro di
due orizzonti che si inscrive in una determinata costellazione storica. Nello storicismo questo
incontro viene visto come un trasporsi della coscienza che presume di uscire dall’orizzonte del
presente per penetrare in quello del passato e appropriarsene, chi comprende sembra aver
raggiunto una posizione di obiettiva neutralità. Gadamer è scettico riguardo alla possibilità di
separare gli orizzonti l’uno dall’altro perché in primis l’orizzonte del passato non è fisso, ma si
muove nell’articolazione che ne dà il presente; in secondo luogo i confini degli orizzonti non sono
netti ma l’uno sfuma nell’altro. L’incontro, la comprensione, allora si profila come una “fusione di
orizzonti”.

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