Sei sulla pagina 1di 125

Imparare a leggere, imparare a vivere

I.

A più riprese, Pierre Hadot mette in evidenza un legame tra l'i-


dea di esercizi spirituali e la sua pratica storico-filologica:

All'inizio il problema era per me di spiegare le incoerenze - apparenti -


dei filosofi. [. .. ] sono arrivato a pensare che queste apparenti incoerenze si
spiegavano col fatto che i filosofi antichi non cercavano innanzitutto di pre-
sentare una teoria sistematica della realtà, ma piuttosto di insegnare ai loro
discepoli un metodo per ben orientarsi tanto nd pensiero quanto nella vita 1.

Questo metodo di orientamento, la pratica degli esercizi spi-


rituali, necessita di una certa forma di attenzione e di incontro:
«ogni esercizio spirituale è dialogico, nella misura in cui è esercizio
di presenza autentico, a sé e agli altri» 2 . L'esercizio dialogico di
presenza autentica è un'attività di tutte le facoltà dello spirito, che
modifica anche la nostra pratica abituale del leggere.
Tra i bersagli di Hadot troviamo, infatti, una lotta contro un
modo filosofico di lettura, sempre più diffuso, che tenta di dimo-
strare che il lettore, il filosofo contemporaneo, è più intelligente
dell'autore del testo che sta "leggendo". Senza prospettiva storica,
senza lavoro filologico di interpretazione, non c'è mai un vero in-
contro, ma solo una proiezione di sé, senza preoccupazione dialo-
gica dell'altro, un soggettivismo nel peggior senso del termine:

1 Pierre Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier
e Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino 2008, pp. 122-123.
2 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, a cura di A. I. Davidson, Einaudi,
Torino 2005, p. 46.
14 Arnold I. Davidson, Frédéric Worms

Non si può trattare un testo antico come un testo contemporaneo, si


rischia di deformarne completamente il senso. È l'errore che commetto-
no spesso i filosofi analitici, che trattano i filosofi senza nessuna distanza
storica. Si direbbe quasi che si stupiscano del fatto che, stranamente,
Aristotele abbia ignorato i Principia Mathematica di Russell e Whitehead.
Credo che la prima qualità di uno storico della filosofia, e fors'anche di
un filosofo, sia possedere il senso storico 3 .

Questo senso storico che ci permette di prendere distanza da


noi stessi è spesso assente dai nostri modi attuali di leggere, anche
dalla lettura filosofica universitaria. Potremmo chiamare questo
tipo di lettura filosofica contemporanea, criticata da Hadot, la
lettura egocentrica del testo, visto che, tutto sommato, è solo un'e-
vidente ostentazione delle nostre competenze di argomentazione
intellettuale astratta.
Nel suo splendido saggio Austin at Criticism, Stanley Cavell
descrive con precisione ironica questa lettura egocentrica contem-
poranea:

La filosofia sembra incapace di andare lontano senza criticare il pro-


prio passato, come l'arte non può procedere senza imitarlo o la scienza
senza ricapitolarlo. Non c'è niente di più penoso di queste dimostrazioni
ripetute - riproducibili a richiesta da qualsiasi studente di buon livello
- del modo in cui Cartesio si è sbagliato sul sogno, Locke sulla verità, Ber-
keley su Dio, Kant sulla cosa in sé o sul valore morale, Hegel sulla "logi-
ca" e Mill sul "desiderabile", etc. O del modo in cui Berkeley ha frainteso
Locke, Kant ha frainteso Hume, Mili non ha capito niente di Kant, tutti
hanno frainteso Mili, etc. Queste "spiegazioni" sono sicuramente essen-
ziali e possono rendere conto di tutto quel che si vuole - tranne che delle
ragioni che hanno mai potuto spingere qualche spirito dotato di intelli-
genza o del minimo vigore a interessarsi alla filosofia 4 .

Per Hadot, invece, leggere un testo antico tentando di pratica-


re la virtù dell'obiettività, diviene un esercizio spirituale, ossia un
distacco da sé, un superamento dei propri pregiudizi e presuppo-
sti, delle proprie abitudini implicite, se non cieche. L'attività di
leggere è così in grado di suscitare un cambiamento della visione

3P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., pp. 101-102.
4
Stanely Cavell, Musi We Mean What We Say?, Charles Scribner's Sons, New
York 1969, p. 111.
Imparare a leggere, imparare a vivere 15

del mondo. Quando leggere è un incontro con un testo estraneo,


l'opacità del testo ci può aiutare a esaminare la nostra visione del
mondo, a porci delle domande su noi stessi. «Percepire delle cose
come estranee significa trasformare il proprio sguardo [ ... ] libe-
randosi dall'abitudine e dalla banalità»5. Ma i filosofi non amano
l'estraneità, perché è un'esperienza che implica un momento, spes-
so penoso, di incomprensione. Non capiamo quello che leggiamo
e, come ben sappiamo, i filosofi devono capire tutto, senza mai
ammettere limiti alla loro intelligenza. Riconoscere la propria inca-
pacità di comprendere richiede una certa maturità che è una virtù
più spirituale che intellettuale.
Nel suo libro di conversazioni con Alan Clements, ricco di
esempi di esercizi spirituali, Aung San Suu Kyi racconta la sua let-
tura del libro di George Eliot, Middlemarch:

C'era un personaggio, il dottor Lydgate, il cui matrimonio si era ri-


velato una delusione. Ricordo in particolare un'osservazione su di lui,
in cui si diceva che quello che temeva più di ogni altra cosa era di non
riuscire più ad amare sua moglie, perché per lui era stata una delusione.
La prima volta che lo lessi rimasi alquanto perplessa. Questo dimostra
come fossi immatura all'epoca. Mi dicevo: ma non dovrebbe piuttosto
temere che sia lei a non amarlo più? Ora invece capisco il suo sentimen-
to. Se avesse smesso di amare la moglie, sarebbe stato completamente
sconfitto. Tutta la sua vita sarebbe stata una delusione. [ ... ] lo ho sem-
pre pensato che se avessi cominciato a odiare i miei carcerieri, [. .. ] avrei
sconfitto me stessa6.

Quanti filosofi sono pronti a dichiarare, dopo la lettura di un


testo: «Questo dimostra come fossi immatura all'epoca»? E Aung
San Suu Kyi assume questa esperienza di lettura come punto di
partenza per trarre una conclusione filosofica sul rapporto tra aver
paura e odiare. Afferma di non aver avuto paura dei suoi rapito-
ri: «non li odiavo e non si può aver paura di chi non odi. Odio e
paura vanno a braccetto»7 . In generale, in Hadot, l'esercizio dell'o-
biettività nell'interpretazione è legato alla necessità «di liberarsi

5 P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 131. In questo contesto
I ladot cita lo storico Carlo Ginzburg.
6 Aung San Suu Kyi, La mia Birmania, TEA, Milano 2010, p. 45.
7 Ivi, p. 46.
16 Arnold I. Davidson, Frédéric Worms

dalla propria soggettività»8 . Allo stesso modo, Aung San Suu Kyi
dichiara che la sua ricerca della verità «in un certo senso è la lotta
per superare la soggettività»9.
Non è un caso che Hadot abbia trascorso quasi tutta la vita
come traduttore di testi antichi. Come }orge Luis Borges, che af-
fermava: «il traduttore è un lettore particolarmente minuzioso» 10 ,
possiamo dire che Hadot è un traduttore/lettore sempre pronto a
imparare da un testo, a mettersi alla prova; non vuole imporre la
sua soggettività al testo.
L'esercizio spirituale di leggere un testo di Plotino o di Marco
Aurelio, ma anche di Nietzsche o di Wittgenstein, può essere in-
fatti un movimento con il quale si è portati, secondo le parole di
Maurice Merleau-Ponty, citate da Hadot, a «reimparare a vedere il
mondo» 11 . Questo movimento che trasforma la nostra visione del
mondo è lento e difficile; fino ad un certo punto è anche un movi-
mento contro se stessi, che diffida «delle metodologie che trapassa-
no i testi come un coltello taglia il burro» 12 .
Il senso di questa pratica di imparare, disimparare e di reim-
parare è ben riassunto da Carlo Ginzburg: «Imparare il mestiere
- sia quello dell'interprete, sia il mestiere di vivere in generale
- vuol dire allora imparare a imparare» 13 . Questo tipo di forma-
zione, di capacità spirituale esige un atteggiamento filologico,
nel senso ampio del termine "filologia": «un abito mentale che
consente di ascoltare e interpretare la voce degli altri, del passato
ma anche dei contemporanei, senza prevaricare» 14 . È un atteg-
giamento allo stesso tempo epistemologico ed etico, un modo
di leggere e di vivere, ed è esattamente l'atteggiamento cui mira
Hadot. Ascoltare, imparare, esercitarsi, sono le attività filosofiche
di Hadot. Per concludere, vorrei citare le parole di Confucio: «un

8
P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 92.
9 Aung San Suu Kyi, La mia Birmania, op. cit., p. 64.
IO }orge Luis Borges, Borges su Borges, in Aa. Vv., In quante lingue si può sognare?
Leonardo, Milano 1991, p. 87.
11 P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 131 e Esercizi spirituali e

filosofia antica, op. cit., p. 182.


12 Carlo Ginzburg e Arnold I. Davidson, Il mestiere dello storico e la filosofia, in

«Aut Aut», n. 338, aprile-giugno 2008, p. 188. Sono parole di Carlo Ginzburg.
Il Jvi, p. 191.
1
~ Dino Messina, Gim:.burg, mio padre. Filologo della libertà, in «Corriere della Se-
ra», 1 maggio 2009, p. 38. Sono parole di Carlo Ginzburg.
Imparare a leggere, imparare a vivere 17

buon maestro è colui che, pur ripetendo l'antico, è capace di tro-


varvi aspetti nuovi» 15 . In mezzo a tutte le mode filosofiche, Hadot
resta un grande insegnante.

Arnold I. Davidson

II.

Un unico errore ci impedisce di vivere e di leggere, un unico


sforzo ci è necessario per leggere, ma anche per vivere.
In ogni caso, ai nostri occhi, questa è la tesi semplice che costi-
tuisce innanzitutto l'unità dell'opera e della filosofia di Pierre Ha-
dot, ma che fa anche la diversità, non meno profonda, di un'opera
che va da una lettura della filosofia antica, profondamente rinno-
vata, alla filosofia contemporanea, interamente attraversata, senza
dimenticare il percorso da una ali' altra e che il presente studio col-
lettivo accompagna, per la prima volta, in tutte le sue dimensioni.
Qual è quindi ,questo errore, quale può essere questo sforzo, per
avere tali conseguenze?
Possono sembrare semplici, addirittura troppo semplici. Vertono
"solo" su quel che sono, o su quel che fanno i testi della filosofia.
Lo sforzo che ci è richiesto è in effetti il seguente: sta nel com-
prendere che un testo di filosofia non ci mette solo in relazione con
un contenuto o con un sapere, ma anche, o piuttosto in primo luogo,
con noi stessi e con la natura nel suo senso più immediato dalla vita
più individuale a quella più cosmica così come, in modo inseparabi-
le, con un altro uomo e con la cultura nel suo senso più elevato, que-
sta volta, dalla cultura di sé alla cultura comune e storica.
Così, l'errore non consiste solo nel misconoscere la filosofia come
"modo di vivere", anche se questo è innanzitutto ciò a cui, secondo
Hadot, occorre sempre ritornare. Consiste anche nel misconoscere
la filosofia, nella sua tradizione, come lavoro di scrittura che mette
in opera questo lavoro di vivere, che testimonia in modo insepara-
bile di un lavoro su di sé e lo trasmette agli altri, tessendo così, tra

15 Confucio, Dialoghi, a cura di A. Cheng, Arnoldo Mondadori, Milano 1989, Li-

bro III, 11, p. 31.


18 Arno!d I. Davidson, Frédéric Worms

le singolarità di colui che scrive e di colui che legge, la trama della


cultura e della storia.
Più conseguenze derivano da questo doppio compito, di cui
occorre sempre tenere insieme i due estremi. Ne sottolineeremo, in
una parola, le tre principali.
La prima è l'invenzione, o la ripresa, da parte di Hadot, del
modo di leggere la filosofia che testimonia della filosofia come
maniera di vita. Questo è chiaramente esposto nel testo principale
intitolato Esercizi spirituali, che comprende queste quattro sezioni
significative: "Imparare a vivere", "Imparare a dialogare", "Impa-
rare a morire" e, infine, "Imparare a leggere". Il primo compito è
imparare a leggere dei testi per imparare a vivere. Ed è su questo
che si conclude questo splendido testo:

Passiamo la nostra vita a "leggere", ma non sappiamo'più leggere, ossia


fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi, la-
sciare da parte le nostre ricerche della sottigliezza e dell'originalità, medi-
tare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino 16 .

Si noterà, quindi, che leggere, in questo senso forte, è allo stesso


tempo ritornare a sé e «lasciare che i testi ci parlino», superan-
do il conflitto delle vanità, quella dell"'autore" e dell'"esegeta",
per permettere un incontro più profondo, che non prova tanto a
comprendere il testo imponendosi su di esso, quanto lasciandosi
impressionare da esso e che, soprattutto, ritrova nel lettore la so-
spensione necessaria all'esercizio che fu la scrittura e mette così in
contatto due sforzi di lavoro su di sé, e non due sé che sarebbero
dati e che dovrebbero solo specchiarsi l'uno nell'altro.
Ma se è questo l'essenziale, quest'ultima sezione va più lontano,
fino a definire un metodo, un (il) modo di leggere la filosofia come
maniera di vivere.
Il principio generale è il seguente: «Siamo così indotti a leggere
le opere dei filosofi dell'antichità prestando maggiore attenzione
all'atteggiamento esistenziale che fonda l'edificio dogmatico» 17 ,
che si precisa, ad esempio, così:

16 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. 68, seguito, per conclu-

dere, da una citazione esemplare di Goethe.


17 Ivi, pp. 62-63.
Imparare a leggere, imparare a vivere 19

Infatti in queste opere filosofiche il pensiero non può esprimersi se-


condo la necessità pura e assoluta di un ordine sistematico, ma deve tene-
re conto del livello dell'interlocutore, del tempo del logos concreto in cui
si esprime 18 .

Ne deriva una serie di regole concrete, che definiscono una vera


arte di leggere. Questo è dunque l'essenziale, da non dimentica-
re: definire la filosofia come "modo di vivere" non è dimenticare
la necessità di leggere, è al contrario riprenderla e trasformarla,
renderla più importante ancora. Bisogna opporsi alla filosofia con-
cepita come solo sapere, indipendentemente dalla sua fonte e dai
suoi effetti sulla nostra vita; ma bisogna anche opporsi alla filosofia
come rapporto di vanità, di chi parla o scrive con chi ascolta o
legge; il solo modo per liberarsene è un'altra maniera di leggere o
di ascoltare, rigorosa e informata, che allo stesso tempo ritrova la
cura di vivere nella struttura del discorso e l'esercizio del pensiero
nella cura di vivere.
Non è certo un caso se questo doppio sforzo è condotto da
Hadot con un ammirevole rigore sulla "filosofia antica" nelle sue
diverse figure. Ma quel che occorre sottolineare qui, quello di cui
la presente raccolta di studi testimonia in modo impressionante, è
che questa tesi non può essere ristretta, come la intendono gli "sto-
rici", alla filosofia antica, se si indica con questo termine un settore
determinato degli archivi o delle biblioteche.
Quel che Hadot ritrova nella filosofia antica, è proprio una dop-
pia direzione che apre al tempo stesso un lavoro atemporale o uni-
versale di ognuno su di sé e la ripresa costante, differente, discon-
tinua di una storia. Non ci si sorprenderà, quindi, che la sua opera
abbia la doppia portata, a partire e al di là della filosofia antica, di
una filosofia e di una storia della filosofia, di una ricerca singolare i
cui fili, i nodi, le punte sorgono ad ogni svolta, e di un percorso in-
tegrale, o se si preferisce di una una serie di incontri singolari, che
costellano tutta la storia del pensiero fino ad oggi. Questo volume
insiste su questo aspetto, più ancora che sull"'influenza" decisiva
esercitata da Hadot sui nostri contemporanei, tra cui spicca Michel
Foucault: da Montaigne a Wittgenstein, passando da Goethe, Tho-
reau o Nietzsche, è un vero orientamento nella cultura che questa

18 Ibid.
20 Arnold I. Davzdson, Frédéric Worms

filosofia, come ogni filosofia, ci permette di ritrovare, nella sua pre-


occupazione vitale ed anche cosmica.
Ogni volta, la lettura mette in opera la sua regola multipla: ritro-
vare l'arte di scrivere come lavoro su di sé dell'autore, ma anche la-
voro dello stile e della comunicazione con un lettore, distinguendosi
anche dagli altri esercizi singolari che hanno nel loro insieme e nelle
loro differenze delimitato una cultura comune della singolarità. Con
la sua opera, così come con la sua influenza singolare, con le media-
zioni tra tante figure diverse (tra cui quella di Bergson, a partire da
una citazione data al baccalaureato, o quella di Jean Wahl, primo di-
rettore di tesi, e molti altri), così come con il percorso biografico che
si incrocia con loro, in particolare nella conversazione inedita con
Amold I. Davidson, Hadot appare quindi, sotto ogni aspetto, come
una delle maggiori figure della filosofia contemporanea.
Tornerò tuttavia, per concludere, su un ultimo punto, su quel
che hanno in comune "leggere" e "vivere", su questa esperienza
relazionale che, in entrambi i casi, il verbo imparare [apprendre]1 9 ,
nella sua doppia portata di prova e di insegnamento, può permet-
tere di ben riassumere. Si "impara" a vivere, innanzitutto perché la
vita è prova o esperienza di sé, del mondo, dell'altro, in una serie
di rotture che sono altrettante domande o anche, innanzitutto,
esclamazioni, e che fanno, per così dire, "entrare" nella filosofia.
Questo apprendimento della vita è quello che conduce a im-
parare la filosofia, che infatti da lì parte e lì torna. In più, o nello
stesso movimento, questo apprendimento diventa un insegna-
mento, questa relazione con il mondo diviene una relazione tra gli
uomini. Probabilmente lo era già: non c'è relazione col mondo che
non passi già da una relazione tra gli esseri, da una cultura. Ma la
rottura stessa della relazione col mondo, nelle diverse prove della
vita, obbliga a una sorta di raddoppiamento della relazione tra gli
uomini, che passa dall'insegnamento e dalla cultura e che definisce
la filosofia.
Imparare [apprendre], in francese, può andare nei due sensi
della relazione: imparo [j'apprends] da qualcuno e insegno [j'ap-
prends] a qualcuno. Imparare a vivere, come imparare a leggere,
è imparare che la vita è una relazione a sé e al Tutto, nella quale

19 In francese, il verbo apprendre corrisponde sia all'italiano "imparare" che "inse-

gnare" [N.d. T.].


Imparare a leggere, imparare a vivere 21

prende posto (o che prende posto nella) la relazione tra gli uomini,
mirando a liberarla da tutto quello che la maschera e la chiude a se
stessa, al sé e al mondo. Così, l'insegnamento di Hadot sull'inse-
gnamento (negli "antichi e nei moderni", secondo il titolo dell'in-
tervista inedita qui trascritta) è proprio, e in primo luogo per il suo
lettore, in modo indissociabile, un incontro con qualcuno, con la
filosofia e con se stesso.

Frédéric Worms
Intervista
L'insegnamento degli antichi~
l'insegnamento dei moderni

Conversazione tra Pierre Hadot e Arnold I. Davidson, École normale


supérieure, 1 Giugno 2007

ARNOLD I. DAVIDSON

Vorrei iniziare con una citazione, tratta da La cittadella interiore


di Pierre Hadot, che rimarrà implicitamente presente durante tutta
questa conversazione:

Detesto 1 quelle monografie che, invece di restare aderenti al testo ori-


Rinario e di dare la parola all'autore, si perdono in elucubrazioni oscure
che pretendono di fornire una decodificazione e di rivelare il non detto
<lell'autore, senza che il lettore abbia la minima idea di ciò che egli ha
realmente "detto". Un tale metodo, sfortunatamente, permette ogni tipo
<li deformazione e di stortura interpretativa. La nostra epoca è avvincente
per molte ragioni, ma, troppo spesso, la si potrebbe definire da un punto
<li vista filosofico e letterario come l'era del controsenso, se non del gioco
di parole: non importa che cosa, non importa a proposito di che cosa! 2

Condurrò questa conversazione a partire da citazioni di P. Ha-


dot, per rendere il suo pensiero doppiamente presente. Per quanto
riguarda l'insegnamento antico e moderno della filosofia, possiamo
iniziare da una citazione di Plutarco, molto cara a P. Hadot e ri-
portata più volte dall'autore nei suoi testi:

Si tratta già di un fatto piuttosto importante e significativo, perché ho riletto


q11usi tutti i testi di Pierre Hadot e non dice mai «detesto».
2 P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai "Pensieri" di Marco Aurelio, Vita
r Pensiero, Milano 1996, p. 6.
26 Pierre Hadot, Arnold I. Davidson

La maggior parte delle persone crede che la filosofia consista nel discu-
tere dall'alto di una cattedra e nel tenere corsi su dei testi. Socrate, però,
non sedeva su una cattedra professorale. Non aveva orari fissi, ma era
vivendo la vita quotidiana che ha fatto filosofia 3 .

In un testo inedito, a proposito dei corsi di filosofia dell'antichi-


tà P. Hadot ha detto:

La loro caratteristica principale sta nel fatto che lo scegliere questa o


quella scuola consiste nello scegliere un modo di vita. Possiamo parago-
narlo alla situazione del moderno apprendista filosofo, che non diventa
filosofo per aver scelto un modo di vita, ma fa filosofia perché è parte
del programma dell'ultimo anno di scuola superiore, ed è un caso se
incontra un professore sostenitore di questa o di quella scuola filosofica.
Nell'antichità, invece, l'apprendista filosofo cerca la scuola filosofica che
preferisce4 .

P. Hadot ha anche citato più volte una considerazione di


Nietzsche in Schopenhauer come educatore:

L'unica critica di una filosofia che sia possibile e che dimostri qualche
cosa, vale a dire il tentare se si possa vivere secondo essa, non è mai stata
insegnata nelle università: ma sempre la critica delle parole alle parole'.

Allo stesso tempo, P. Hadot ha sempre sottolineato che il mon-


do antico non era neanche l'età dell'oro:

Non bisogna pensare che nell'antichità ogni discorso filosofico fosse


ispirato solo dalla cura di imparare a vivere una vita filosofica; in tutta
l'antichità troviamo infatti una denuncia costante, da parte dei filosofi, dei
professori che si accontentano di fare bella figura con il discorso, senza vi-
vere in modo filosofico. Questo presuppone senz'altro che la tendenza ad
accontentarsi del discorso esisteva già nei filosofi dell'antichità6 .

Plutarco, An seni res publica gerenda sit, 26, 796d.


P. Hadot, Enseignement antique et enseignement moderne de la philosophie, testo
inedito.
Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore, in Opere complete. Consi-
derazioni inattuali III, voi. III, t. I, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano
1972, p. 447.
6 P. Hadot, Enseignement antique et enseignement moderne de la philosophie, testo
inedito citato.
L'insegnamento degli antichi, l'insegnamento dei moderni 27

Vorrei quindi porre la questione delle principali differenze tra


l'insegnamento antico e quello moderno della filosofia e, soprattut-
to, del problema attuale della possibilità, per noi, oggi, di praticare
esercizi spirituali. Infatti, come P. Hadot ha ben mostrato, il conte-
sto sia sociale che intellettuale è completamente diverso.

PIERRE HADOT

Quali erano le caratteristiche dell'insegnamento antico della fi-


losofia? Mi sembra che, per la filosofia antica, l'essenziale sia stato
definito da Platone, a proposito di Pitagora 7 : la filosofia implica un
certo modo di vita ed una vita in comunità. Un esempio interes-
sante è quello della scuola epicurea: gli allievi vivono nella casa del
maestro, che li dirige nel loro progresso morale, e l'insegnamento
teorico della filosofia ha senso solo se procura la serenità.
Occorre però sfumare e precisare questa definizione. Innanzi-
tutto, per quel che riguarda la vita in comune: secondo Diogene
Laerzio8 , ad esempio, Teofrasto avrebbe avuto duemila allievi.
Erano tutti presenti allo stesso tempo, o andavano di tanto in tan-
to? È difficile dirlo. Ma, a quanto pare, c'era comunque una massa
di allievi. In età imperiale, anche gli allievi delle nuove scuole
(platonica, aristotelica, stoica) fondate da Marco Aurelio ad Atene,
dovevano essere molto numerosi. Non era dunque possibile vivere
in comunità. Questa vita in comunità era riservata a un gruppo
di allievi ferventi, agli "intimi", agli "amici", agli "affiliati", come
quelli che vivevano nella casa di Epicuro, o gli allievi del platoni-
co Palemone, che avevano costruito delle capanne accanto al suo
~iardino per vivere con lui 9. Questa distinzione tra allievi ferventi
e semplici auditori esisteva già nella scuola di Plotino e la si faceva
risalire peraltro alla scuola di Pitagora.
Sembra quindi che ci fossero due motivazioni molto diverse
Ira gli allievi dei corsi di filosofia. Gli uni entravano in filosofia,
rnme noi diremmo che qualcuno che vuole farsi prete entra in re-
li~ione. Sceglievano una scuola in funzione del modo di vita che

7 Platone, Repubblica, X, 600b.


H Diogene Laerzio, V, 37.
'' Diogene Laerzio, IV, 19.
28 Pierre Hadot, Arnold I. Davtdson

questa proponeva e si sottoponevano alla direzione di coscienza


del maestro, con cui erano in stretta relazione. Gli altri seguiva-
no i corsi di filosofia per perfezionare la loro cultura generale: si
trattava spesso di futuri amministratori, di futuri uomini politici.
Alcuni di questi futuri uomini di Stato, come possiamo vedere
dalle Diatribe di Epitteto e dalla carriera del suo allievo Arriano,
iniziavano dal vivere con il maestro una vita filosofica rigorosa-
mente conforme ai princìpi del suo insegnamento e nelle Diatribe
vediamo Epitteto preoccuparsi di quel che avrebbero fatto una
volta impegnatisi nella vita pubblica. Lungi dal dimenticare la
propria gioventù filosofica, Arriano, che divenne proconsole e
generale, scrisse le Diatribe ed il Manuale che doveva aiutare a
vivere da stoici.
Bisogna anche introdurre delle sfumature a proposito della no-
zione di filosofia come modo di vita. Di fatto, nell'antichità sono
indubbiamente esistiti filosofi che si interessavano solo al discorso
filosofico. Il platonico Polemone si prende gioco di quelli che
vogliono far bella figura nelle argomentazioni sillogistiche e poi si
contraddicono nella vita 10 ; Plutarco parla delle persone che cre-
dono che filosofare sia parlare dall'alto di una cattedra e spiegare
testi 11 ; Seneca lamenta che laphilosophia (amore della saggezza) sia
divenuta philologia (amore del discorso) 12 . Il platonico Plotino fa
lo stesso gioco di parole per il platonico Longino, cui dà del filo-
logo 13. Questa riduzione della filosofia a discorso si compie quindi
proprio all'interno delle scuole che proponevano invece una scelta
di vita, semplicemente perché i filosofi avevano allora, hanno an-
cora ed avranno sempre una tendenza quasi inestirpabile a trovare
soddisfazione in discorsi ben costruiti che suscitano l'ammirazione
del pubblico.
Bisogna però riconoscere che anche negli amanti del bel discor-
so e della retorica la preoccupazione del modo di vita non veniva
completamente cancellata. Nel II secolo Apuleio, criticando peral-
tro pseudofilosofi incolti e sporchi che sostenevano di essere dei
cinici e che del filosofo - dice Apuleio - avevano solo il mantello,

10
Diogene Laerzio, IV, 18.
11 Plutarco, An seni res publica gerenda sit, 26, 796d.
12 Seneca, Epis tale, 108, 23.
13 Porfirio, Vita di Plotino, 24, 20.
L'insegnamento degli antichi, l'insegnamento dei moderni 29

definisce la filosofia come disciplina maestra che insegna a parlare


bene e a vivere bene 14 . In questo, è l'erede di una tradizione che
risale ad Isocrate, al IV secolo a. C., che unisce la cura dell'arte
di vivere, adempiendo in particolare ai doveri religiosi, politici e
morali, all'esigenza del parlare bene. Questo tipo di insegnamento
della filosofia faceva al caso di quegli ascoltatori che, come abbia-
mo detto, consideravano la filosofia come una cultura generale che
li preparava alle loro carriere politiche o giuridiche.
Se passiamo ora all'età moderna, una cosa è certa: la vita in co-
munità di maestri e allievi scompare completamente. Come spiega-
re questo cambiamento? Non tratterò, ora, la questione del ruolo
del cristianesimo. Potremmo giusto dire, molto brevemente, che,
in un certo senso, gli ordini religiosi avevano sostituito le scuole
filosofiche, proponendo vita in comunità e modo di vita. Credo pe-
rò che il fenomeno essenziale sia quello dell'Università. Il sistema
universitario compare infatti nel Medioevo e più precisamente nel
XIII secolo. Da un punto di vista istituzionale, si tratta di corpora-
zioni (universitas significa corporazione), con una personalità giuri-
dica riconosciuta dal re e dal papa, e composte da diverse facoltà:
facoltà di Teologia, chiaramente, ma anche facoltà di Legge, facol-
tà delle Arti - che era il luogo in cui si studiava filosofia. Quello
che caratterizza le università dal Medioevo fino ai nostri giorni, è
che rilasciano dei diplomi universitari, riconosciuti dalla Chiesa
o dallo Stato. Nel Medioevo, la maggior parte degli studenti ten-
tava di accedere a questi diplomi universitari, soprattutto a quelli
rilasciati dalla Facoltà di Teologia, che permettevano di ottenere
benefici ecclesiastici molto cospicui. Nei secoli successivi e fino ai
giorni nostri, i diplomi universitari permettono di accedere a di-
verse carriere, spesso di funzionario. Le motivazioni dello studente
medioevale o moderno sono quindi molto diverse da quelle dello
studente antico. Per quest'ultimo, si trattava di fare una scelta di
vita o di acquisire una cultura generale, per lo studente medioevale
o moderno si tratta di passare gli esami, a scopo di lucro. Questo
sistema presuppone un insegnamento spersonalizzato e molto in-
fluenzato dalla prospettiva dell'esame.
Tuttavia, la concezione antica della filosofia come modo di vita
resta ancora viva, sin dal Medioevo, in pensatori come Aubry di

14 Apuleio, Florida, VII, 10.


30 Pierre Hadot, Arnold I. Davidson

Reims o Boezio di Dacia, che restano fedeli all'idea aristotelica per


cui la contemplazione può fare la felicità dell'uomo. Nel Rinasci-
mento, Montaigne può essere considerato come l'esempio di que-
sto ritorno all'ideale antico. In età moderna, grandi pensatori come
Cartesio, Malebranche, Spinoza, sono rimasti esterni all'Università.
Le meditazioni cartesiane sono veri esercizi spirituali e Cartesio
stesso, nelle sue lettere alla principessa Elisabetta, può essere con-
siderato come un direttore di coscienza. Nell'Etica Spinoza propo-
ne chiaramente un modo di vita filosofico.
Ed è nuovamente al di fuori delle Università che si sviluppa, nel
XVIII secolo, in Inghilterra, in Francia, in Germania, la filosofia
dell'Illuminismo, l'Au/kldrung, cioè l'emancipazione del pensiero
dalle autorità religiose e politiche. Si torna al modello socratico del
filosofo vicino a tutti e che riporta la filosofia dalle speculazioni
astratte alla cura delle cose umane che includono, del resto, per
questi filosofi, i progressi scientifici e tecnici, e anche e soprattutto
i problemi sociali e politici. «Affrettiamoci a rendere accessibile
[populaire] la filosofia», esclama Diderot 15 . Questa idea di una filo-
sofia popolare suppone che la filosofia risponda alle domande che
gli uomini si pongono sulla loro vita. In questa prospettiva Kant
parla di una filosofia «cosmica» o «cosmopolita», che oppone alla
filosofia delle scuole, scolare o scolastica, di quelli che egli chiama
«gli artisti della ragione» 16 .
Per Kant, la «filosofia cosmica» è quella che riguarda tutti gli
uomini, perché pone per l'appunto domande sulla maniera di
vivere, sul modo di vita, e che ha per ideale la figura del saggio.
A suo parere gli antichi, Socrate, Epicuro, Zenone, sono rimasti
molto più vicini all'ideale del filosofo di quanto l'abbiano fatto i
moderni 17 . Alla fine, per Kant, il vero interesse della ragione è un
interesse pratico.
Sin dal Medioevo, in una forma che era ligia sia alla Chiesa che
allo Stato, l'Università aveva continuato a insegnare una filoso-
fia che potremmo chiamare metafisica classica, rappresentata nel

15
Denis Diderot, Interpretazione della natura, a cura di P. Omodeo, Editori Riuni-
ti, Roma 1967, p. 64.
16 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile, G. Lombardo-

Radice e V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 512-513.


17 Cfr. I. Kant, Vorlesungen iiber die philosophische Enzyklopiidie, in Kant's gesam-

melte Schri/ten, XXIX, Akademie, Berlin 1980, p. 8.


L'insegnamento degli antichi, l'insegnamento dei moderni 31

XVIII secolo da Wolff. All'inizio del XIX secolo, in Germania, pro-


babilmente per influenza della critica kantiana, si assiste a un rinno-
vamento, ma anche a una sorta di fioritura dell'Università, e anche
a tutta una proliferazione di trattati sull'organizzazione dell'Uni-
versità, i cui autori furono in particolare Hegel, Schelling, Fichte,
Humboldt. Hegel oppone la filosofia antica, che era una questione
privata, alla filosofia moderna, che è una questione di Stato, perché
deve essere insegnata nelle Università, in forma sistematica 18 .
Segue quindi la reazione di Schopenhauer, nel suo pamphlet
dal titolo Sulla filosofia delle università 19 . La filosofia come amore
della saggezza non può essere oggetto di insegnamento scolastico,
a maggior ragione se questo è fornito da funzionari. La filosofia
non è un mestiere. La filosofia universitaria è tagliata fuori da ogni
realtà. Nietzsche intitolerà uno dei suoi saggi: Schopenhauer come
educatore. E del resto, quando è professore a Basilea, completa-
mente deluso dall'insegnamento universitario, scrive a uno dei
suoi amici 20 di voler fondare un'accademia greca, di cui sarebbe il
direttore e in cui potrebbe dirigere gli allievi e anche indicar loro
dei modi di vita. Su questo argomento consiglio il libro di Horst
Hutter, che s'intitola Shaping the future2 1 e che mostra la presenza
di esercizi spirituali in Nietzsche. C'è un intero capitolo su questo
tema dell'accademia di Nietzsche. Era il sogno della sua vita: avere
allievi e vivere in comunità con loro.
Per quanto riguarda il XX secolo, Bergson mi sembra partico-
larmente importante perché concepisce la filosofia innanzitutto
come un atto, una decisione, un atteggiamento nei confronti del
mondo, e non come un discorso. Lotte gli aveva fatto dei com-
plimenti per la sua opera filosofica, e Bergson gli aveva risposto:
«La filosofia non merita di essere lodata come una costruzione
personale, ma è la risoluzione presa una volta per tutte di guardare

18
Cfr. Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, La-
1rria, Roma-Bari 1999.
19
Arthur Schopenhauer, Su!!a filosofia de!!e università, in Parerga e paralipomena,
voi. I, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, pp. 197-276.
211 F. Nietzsche, Lettera a Erwin Rohde (15 dicembre 1870), in Opere complete. Epi-

1/ulario 1869-1874, voi. II, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, pp.
1,11.161.
21
Horst Hutter, Shaping the future. Nietzsche's New Regime of the Saul and Its
1hl'1°/lc Practices, Lexington Books, Lanham 2006.
32 Pierre Hadot, Arnold I. Davidson

ingenuamente in sé e intorno a sé»22 . Questo significa che la filoso-


fia non è un'opera letteraria da cui poter trarre gloria, ma un modo
di vita che ha il proprio valore e, potremmo dire, la propria ricom-
pensa in se stesso. Non posso evitare di raccontare, ancora una vol-
ta, la gioia che ho provato quando ho dovuto commentare questo
brano al baccalaureato del 1939. Durante tutto il XX secolo la filo-
sofia, universitaria o no, che si tratti di Husserl o di Heidegger, di
Wittgenstein, di Jean Wahl, di esistenzialisti come Merleau-Ponty
o Sartre, o anche di J ankélévitch e di Lavelle, si è presentata come
un'attività esistenziale, come una trasformazione del rapporto al
mondo, come un'esperienza, come un impegno politico.
Quindi, evidentemente, possiamo dire che la maggior parte dei
filosofi del XX secolo sono stati dei grandi universitari e dei grandi
anti-universitari.

ARNOLD I. DAVIDSON

Sembra un po' paradossale, perché praticare gli esercizi spirituali


nel contesto dell'Università attuale potrebbe far ridere ... Cosa può
significare, praticare esercizi spirituali all'interno dell'insegnamento
classico della filosofia all'Università? È possibile studiare dei testi,
ma praticare esercizi spirituali? Non è affatto chiaro. Allo stesso
tempo (questa perlomeno è la mia esperienza personale quando
insegno a Chicago, a Pisa, a Parigi, etc.) i suoi testi, come ad esem-
pio il saggio Esercizi spirituali, hanno una grande eco tra tutti gli
studenti, che mi chiedono: «Ho capito che c'è un altro modo di fare
filosofia, ma come e dove è possibile praticare gli esercizi spirituali?
Come è possibile trovare un luogo adatto per la pratica degli eser-
cizi spirituali?» Pensano subito ai luoghi della religione, perché è
la cosa più evidente anche se, a volte, forse, più pericolosa, data la
maniera in cui gli esercizi spirituali religiosi sono subordinati alle
relazioni di obbedienza. Per questo motivo il rapporto di cui si è
parlato anche oggi tra la pratica degli esercizi spirituali nel contesto
della filosofia e in quello della religione pone ancora una volta la
questione del luogo attuale degli esercizi spirituali.

22 Henri Bergson, Lettre du 26 aoùt 1907, in Mélanges, a cura di A. Robinet, PUF,

Paris 1972, p. 735.


L'insegnamento degli antichi, l'insegnamento dei moderni 33

Possiamo forse pensare a una cosa che ho sempre trovato asso-


lutamente straordinaria, cioè all'idea della lettura come esercizio
spirituale, perché anche nel contesto universitario è almeno possi-
bile leggere dei testi sia come testi di informazione che come testi
di formazione. Vorrei quindi citare alcuni brani, e in particolare la
conclusione del saggio Esercizi spirituali, in cui lei dice:

Passiamo la nostra vita a "leggere", ma non sappiamo più leggere,


ossia fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi,
lasciare da parte le nostre ricerche della sottigliezza e dell'originalità, me-
ditare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino. È un esercizio
spirituale, uno dei più difficili. "La gente - diceva Goethe - non sa quan-
to tempo e quanto sforzo costi imparare a leggere. Mi ci sono occorsi
ottant'anni, e non sono neanche in grado di dire se ci sia riuscito". 23

Nell'Introduzione de La cittadella interiore, parlando questa volta


della difficoltà di leggere il testo di Marco Aurelio, lei ha scritto:

Il senso generale del libro, la sua finalità, alcune sue affermazioni, so-
no per noi assai difficili da cogliere. D'altra parte, questa non è una carat-
teristica peculiare di Marco Aurelio. Per tutta una serie di ragioni, delle
quali la lontananza temporale non è la più importante, la nostra capacità
di comprendere le opere antiche è andata oscurandosi sempre di più. Per
ritrovarla, occorrerà praticare una sorta di esercizio spirituale, di ascesi
intellettuale, per liberarci dai numerosi pregiudizi e per riscoprire ciò che
per noi è quasi un altro modo di pensare2 4 •

Vorrei infine citare un altro brano tratto dalle nostre Conversa-


zioni, che parla nuovamente dell'interpretazione, della lettura, del-
lo studio di un testo - e lei parla soprattutto dei testi dell'antichità,
ma secondo me non sono solo i testi antichi ad esigere questo tipo
di esercizio spirituale - in cui lei scrive:

Gli studiosi che hanno il raro coraggio di riconoscere che si sono sba-
gliati in un caso particolare, o che cercano di non lasciarsi influenzare dai
propri pregiudizi personali, compiono un esercizio spirituale di distacco
da se stessi. Diciamo che l'obiettività è una virtù, peraltro molto ardua da

23 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. 68.


24 P. Hadot, La cittadella interiore, op. cit., p. 3.
34 Pierre Hadot, Arnold I. Davidson

praticare. Bisogna sbarazzarsi della parzialità dell'io individuale e passio-


nale per elevarsi all'universalità dell'io razionale2 5 .

Questo ci dà la possibilità di pensare all'esercizio della lettura di


un testo antico, e forse anche di qualche testo moderno, come ad un
vero esercizio spirituale. Vorrei quindi porre la questione generale del
luogo, della possibilità e dei tipi di esercizio spirituale che sono ancora
attuali. E poi anche quella dell'idea della lettura come esercizio spiri-
tuale, anche nel contesto universitario: è possibile insegnare un testo,
antico o moderno, come testo che richiede un esercizio spirituale?

PIERRE HADOT

Vorrei innanzitutto tornare rapidamente su questa espressione


"esercizio spirituale" che si è prestata a molti equivoci. L'avevo
scelta perché l'avevo trovata in Georges Friedmann, nel suo libro La
puissance et la sagesse: «Ogni giorno un esercizio spirituale, da solo
o in compagnia d'altri»26 . E non si poteva sospettare Friedmann di
esser stato influenzato dalla Compagnia di Gesù e da Ignazio da
Loyola. Con "esercizio spirituale" intendevo una pratica suscettibi-
le di provocare una trasformazione di ordine esistenziale e morale
nel soggetto che la pratica. Mi sembra ora che si debba distinguere
tra due tipi di esercizio. Il primo è un esercizio specifico come l'esa-
me di coscienza, che si pratica tutt'al più la mattina o la sera; l'altro
si identifica con la scelta di vita filosofica, con l'atteggiamento e
con le disposizioni interiori filosofiche - per gli Stoici, ad esempio,
l'attenzione a sé che, in linea di principio, deve essere costante.
Durante l'antichità i due tipi di esercizio erano praticati individual-
mente, sia nei casi della vita quotidiana, sia nell'intimità di ognuno,
che si fosse trattato dell'esame di coscienza, della meditazione (ad
esempio i Pensieri di Marco Aurelio), della concentrazione sull'io,
sul momento presente, dell'attenzione a sé. Nell'aula, il discorso
filosofico poteva avere valore di esercizio spirituale nella misura in
cui tentava, con diversi procedimenti, di produrre una trasforma-
zione sugli ascoltatori; Arriano ha detto del suo maestro Epitteto

25 P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 92.


26
Georges Friedmann, La puissance et la sagesse, Gallimard, Paris 1970, p. 359.
L'insegnamento degli antichz; l'insegnamento dei moderni 35

che l'ascoltatore non poteva impedirsi di provare quel che il suo


maestro voleva che provasse27 . Anche il commento di testi poteva
avere il valore di esercizio spirituale, sia per il maestro che per gli
allievi, come ha ben mostrato Ilsetraut Hadot 28 .
Chiaramente, il filosofo attuale può eventualmente praticare eser-
cizi spirituali da solo o nella vita ordinaria. A quanto pare l'inse-
gnamento universitario, che ha lo scopo di preparare per gli esami,
non può avere valore psicagogico. Tuttavia, filosofie come quella di
Bergson, Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty, Lavelle, Wittgenstein
non presentavano sistemi astratti da imparare, ma invitavano, ognu-
na a suo modo, ad un'attività interiore, a un lavoro di sé su sé.
Ma è senz'altro la lettura dei testi, come lei ha fatto capire, che
nell'insegnamento può dar luogo alla pratica degli esercizi spiri-
tuali. Si penserà, certo, a testi che potremmo definire edificanti,
al Manuale di Epitteto, ad esempio, il cui commento può portare
a un progresso morale. Ma paradossalmente inizierò da quella
che chiamerò la "lettura scientifica" che ho tentato di praticare
sia nei miei corsi che nei miei libri. In questo caso, è più che altro
colui che insegna che deve praticare un esercizio spirituale, perché
per fare un lavoro scientifico occorre sottoporsi ali' obiettività e
l'obiettività può essere solo il risultato di un lavoro di sé su sé.
Per il biologo Jacques Monod, l'esigenza scientifica di obiettività
presuppone una "scelta etica" e non un "giudizio di conoscenza".
Occorre liberarsi dai pregiudizi e dalle considerazioni di interesse
personale. Questo esercizio spirituale consiste nel cambiare punto
di vista, nell'abbandonare il punto di vista egoista ed utilitario
dell'io della vita ordinaria per innalzarsi ad un punto di vista uni-
versale. Ed è proprio quello che devono fare gli interlocutori nel
dialogo socratico e platonico: innalzarsi al punto di vista del logos,
della ragione che è loro comune, per giudicare obiettivamente il
valore dei loro rispettivi argomenti. Questo è l'inizio dell'obietti-
vità scientifica. C'è una metafora per illustrare questo esercizio,
quella dello sguardo dall'alto, che lascia intravedere il passaggio
dal punto di vista parziale e di parte a un punto di vista universale,
il distacco e l'innalzamento che permettono l'obiettività.

2i Epitteto, Diatribe. Lettera di Amano a Lucio Gel/io, 5-8.


28 Cfr. Ilsetraut Hadot, Introduzione in Simplicius, Commenta/re sur le Manuel
J'Épictète, a cura di I. Hadot, Les Belles Lettres, Paris 2001, pp. XC-C.
36 Pierre Hadot, Arnold I. Davidson

Certi pensatori hanno messo in dubbio la possibilità di un'obiet-


tività nell'ambito delle scienze umane e in particolare nell'esegesi
dei testi. Nietzsche diceva che un testo può avere tutti i significati
possibili, che un testo non ha un significato fisso. Su questo punto
ha avuto una forte influenza sul poeta Stefan George e sul suo cir-
colo che, a loro volta, hanno ispirato Hans-Georg Gadamer e la sua
concezione dell'ermeneutica per cui, alla fine, un essere storico non
può essere oggettivo. All'inizio di questa conversazione lei ha citato
alcuni testi che mostrano come io sia molto ostile a questa concezio-
ne. Non posso dedicarmi, ora, ad una confutazione dettagliata. Già
quarant'anni fa un libro di Eric Donald Hirsch, Validity in Interpre-
tation29, che ho tentato invano di far tradurre in francese, ha messo
a punto le cose distinguendo tra il senso voluto dall'autore, che può
essere scoperto grazie alla lettura scientifica, ed i diversi significati
che è possibile dare - dico proprio dare - all'opera. La ricerca del
senso voluto dall'autore esige questo tentativo di obiettività e quindi
questa scelta etica di cui ho parlato prima.
Questa lettura scientifica è molto importante, perché permette
di mettere alla portata del lettore o dell'ascoltatore contemporaneo
dei testi antichi o moderni. Questi testi sono stati scritti in mondi,
universi estremamente diversi dal nostro. Solo una lettura scientifica
può ricollocarli nella prospettiva della mentalità generale dell'epoca,
delle tradizioni letterarie, dei dogmi filosofici che richiedevano che si
dicesse questo o quello. Senza commento, i testi non sarebbero affat-
to compresi, oppure sarebbero compresi male o farebbero indignare
un lettore o un ascoltatore imbevuto di mentalità contemporanea.
Questa lettura scientifica, che è essa stessa una scelta etica, permette
dunque di leggere all'interno dell'insegnamento universitario testi
che potrebbero avere un valore formatore.
Devo ancora rispondere alla domanda: quali tipi di esercizio
spirituale sono ancora attuali? Risponderò: tutti, nella misura in cui
li si attualizza o li si adatta alla mentalità contemporanea. Abbiamo
appena visto l'esempio dello sguardo dall'alto, che corrisponde al
procedimento dell'obiettività scientifica o dell'indipendenza di giu-
dizio, come ad esempio quella che Hubert Beuve-Méry tentava rag-
giungere di nelle sue cronache su Le Monde che avevano un titolo
significativo: "Il punto di vista di Sirio". Questo innalzamento a una

29 Eric D. Hirsch, Validity in Interpretation, Yale University Press, New Haven 1967.
L'insegnamento degli antichi, l'insegnamento dei moderni 37

prospettiva universale, se non cosmica, ci libera dalla ristrettezza


del punto di vista individuale, egoista ed interessato. D'altro can-
to, direi che non bisogna avere l'idea fissa degli esercizi spirituali.
Vanno bene nelle circostanze in cui se ne ha bisogno, ad esempio
per ritrovare la serenità, o per prendere coscienza di ciò che è serio
nella vita. A questo proposito, Marco Aurelio diceva che bisogna
vivere ogni momento come se fosse l'ultimo, e questo per compiere
il proprio dovere nel modo più coscienzioso possibile. Per quanto
mi riguarda, direi che di tanto in tanto bisogna provare a vivere il
momento presente come se fosse il primo e l'ultimo: il primo, come
se si scoprisse per la prima volta lo sgorgare dell'esistenza ed il suo
splendore, l'ultimo per prendere coscienza del suo valore infinito.

ARNOLD I. DAVIDSON

Farò un'ultima domanda che è proprio legata a quello che lei


ha appena spiegato. Effettivamente, durante le nostre Conversa-
zioni, c'è stato un momento in cui abbiamo parlato dell'esigenza
dell'obiettività ed anche della possibilità dell'attualità e lei ha
molto insistito sul fatto che «l'esigenza dell'obiettività non deve
mai venir meno», perché c'è sempre, evidentemente, il rischio di
deformare il senso di un testo filosofico se non lo si ricolloca in
una prospettiva storica.
Questo, per quanto riguarda l'aspetto dell"'obiettività come
esercizio spirituale". Allo stesso tempo, però, in un altro brano
che avevo citato nella Prefazione del libro Esercizi spirituali e filo-
sofia antica, lei ha scritto:

Lo storico della filosofia dovrà cedere il posto al filosofo, il filosofo


che deve sempre restare vivo nello storico della filosofia. Quest'ultimo
compito consisterà nel porre a se stesso, con una lucidità maggiore, la
domanda decisiva: "Che cos'è filosofare?" 30

Queste due citazioni pongono quindi la questione del rapporto,


nella sua opera e nel suo pensiero, tra la pratica della storia della
filosofia e la sua particolare visione della filosofia stessa, perché la

JO P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. XVII.


38 Pierre Hadot, Arnold I. Davidson

sua visione della filosofia non è una visione campata in aria, è vera-
mente legata all'esigenza di comprendere i testi antichi. Qual è sta-
to, quindi, il rapporto tra la sua attività scientifica come storico e
filologo della filosofia e la visione della filosofia che ha sviluppato?

PIERRE HADOT

Ho cominciato molto presto a intravedere la mia rappresentazio-


ne attuale della filosofia, inizialmente per influenza di Bergson - ho
parlato poco fa del tema del baccalaureato del 1939 - poi per in-
fluenza dell'esistenzialismo, quando ho fatto i miei studi universitari
in filosofia, già durante l'ultima guerra e soprattutto negli anni suc-
cessivi. Era l'epoca di Heidegger, Sartre, Camus - con cui ho avuto
una breve corrispondenza a proposito del suo libro L'uomo in
rivolta-, Merleau-Ponty, Jean Wahl. Provavo, bene o male, a conci-
liare la filosofia tomista, considerata dai papi come dottrina ufficiale
della chiesa, con il mio esistenzialismo. Durante la discussione della
mia tesi di dottorato in filosofia scolastica all'Istituto cattolico Pari-
gi, la lezione dottorale tradizionale che tenni quel giorno, intorno al
1950, era dedicata alla distinzione tra l'essenza e l'esistenza. Avevo
scelto di esporre questa dottrina tomista proprio per la mia sim-
patia per l'esistenzialismo e la illustrai citando la celebre estasi del
giardino di Bouville descritta nella Nausea di Jean-Paul Sartre. Per
me, la filosofia era innanzitutto un'esperienza dell'essere-nel-mon-
do, cosa che prevedeva, senza che lo esprimessi esplicitamente, un
lavoro di sé su sé, una trasformazione di sé. Pensavo di scrivere, con
la direzione di Jean Wahl, una tesi sui rapporti tra Heidegger e Ril-
ke, che era a quel tempo il mio poeta preferito, ma questo progetto
si arenò. Di recente ho scoperto che questo lavoro alla fine è stato
fatto nel 1956 da Else Buddeberg con il titolo: Denken und Dichten
des Seins. Heidegger, Rilke3 1•
All'epoca, non avevo praticamente alcun senso storico. Sono
diventato uno storico grazie al mio incontro con il Padre gesuita
PatJl Henry, che allora lavorava a un'edizione monumentale e
definitiva delle Enneadi di Plotino. Il mio interesse per la mistica

31
Else Buddeberg, Denken und Dichten des Seins. Heidegger, Rilke,]. B. Metzler,
Stuttgart 1956.
L'insegnamento degli antichi; l'insegnamento dei moderni 39

mi aveva portato a leggere Plotino. Paul Henry aveva scritto anche


un libro dal titolo Plotin et l'Occident, in cui aveva trovato citazioni
letterali di Plotino in vari autori latini. Il suo principio era che si
poteva essere scientificamente sicuri dell'influenza di un autore su
un altro solo se in quest'ultimo si trovavano delle citazioni letterali
di questo autore. Aveva scoperto una frase di Plotino in un teologo
cristiano del IV secolo, Mario Vittorino, e mi consigliò con entusia-
smo di scrivere la tesi su questo autore. Jean Wahl si infuriò per la
mia defezione. Raymond Bayer, che insegnava estetica e non sapeva
niente della questione, aveva accettato di dirigere la mia tesi. Ho
quindi passato venti anni della mia vita, dal 1948 al 1968, data di
discussione della mia tesi, a studiare un autore in cui non trovavo
né Plotino - forse il suo allievo Porfirio, cosa che poteva spiegare la
presenza della frase di Plotino - né mistica. Tuttavia, non rimpiango
quei vent'anni perché, grazie ad essi, ho imparato cos'è la lettura
scientifica dei testi. Con Paul Henry abbiamo iniziato dalla realiz-
zazione dell'edizione critica. Leggevo i manoscritti, perché avevo
seguito dei corsi di paleografia, e bisognava decidere tra le diverse
lezioni. In seguito feci la traduzione e il commento di questo testo
estremamente difficile, della cui oscurità ci si lamentava già nell'an-
tichità, testo misterioso di cui ancora oggi non si è penetrato il
segreto, perché alcuni paralleli con testi gnostici hanno complicato
ancora di più il problema. Ad ogni modo, tutto questo mi ha prepa-
rato ad altre letture, potremmo dire più importanti, come quelle di
Plotino, di Marco Aurelio o di Epitteto.
Credo che sia un bene che la filosofia abbia coscienza del fatto
che i testi antichi, e anche moderni (me ne sono reso conto per le
traduzioni francesi di Goethe e di Nietzsche) sono sempre pro-
blematici e che occorre dedicare molto tempo a comprenderli: mi
è capitato di passare delle giornate intere a comprendere il senso
esatto di una parola greca di Plotino o di Marco Aurelio. Inoltre,
non è possibile comprendere un testo senza ricollocarlo nel conte-
sto di un'epoca che ha una certa mentalità dominante, senza ricol-
locarlo anche nella tradizione del genere letterario in cui si iscrive,
e nella prospettiva dell'intenzione dell'autore e della natura dell'u-
ditorio cui si rivolge. Ho scoperto tutto questo a poco a poco, più
tardi, lavorando su altri autori, come Plotino, Marco Aurelio o
Epitteto. Provando ad interpretare questi autori mi sono anche
reso conto, a poco a poco, dell'importanza degli esercizi spirituali
40 Pierre Hadot, Arnold I. Davidson

nella filosofia antica. La lettura del libro di Paul Rabbow See-


len/iihrung. Metodik der Exerzitien in der Antike3 2 e, a partire dal
1964, i lavori di mia moglie sulla direzione spirituale nell'antichità
e in Seneca, avevano attratto la mia attenzione su questo punto.
Devo anche dire che, durante quei vent'anni, non ho lavorato
solo su Vittorino. Negli anni 1959-1962 sono stato molto impe-
gnato con Wittgenstein, che poneva il problema della definizione
della filosofia e che mi ha condotto, con il suo concetto di "forma
di vita", a parlare del discorso filosofico antico come di un eser-
cizio spirituale. Nel 1963 ho scritto Plotino o la semplicità dello
sguardo che alla fine poneva anch'esso il problema della definizio-
ne della filosofia.
Tutto questo lavoro di sistemazione e di interpretazione dei
testi filosofici, quali che siano, è estremamente importante, sempli-
cemente perché ha lo scopo di conservare vivo il patrimonio della
filosofia e di renderlo accessibile ai nostri contemporanei. Ma .co-
me il filosofo non deve accontentarsi di discorrere, non deve nem-
meno accontentarsi di leggere. È qui che ritroviamo la filosofia
come vita. Ma, sia per colui che insegna che per colui che ascolta,
questo passaggio all'atto non va da sé. Ci vuole una decisione, una
scelta, una risoluzione per trasformare il proprio modo di vita,
non con la scelta esclusiva dello stile di vita di una scuola, come
nell'antichità, ma con la scelta di questo o quell'atteggiamento, a
seconda delle circostanze. Su questo tema c'è un testo capitale di
Nietzsche:

I risultati di tutte queste scuole e di tutte le loro esperienze apparten-


gono a noi, un accorgimento stoico non lo accettiamo meno volentieri
per il fatto che abbiamo fatto nostre delle regole epicuree33 .

Ci sono, evidentemente, molti altri modelli antichi, moderni o


contemporanei, ma quel che conta è non accontentarsi di spiegare
dei testi o di leggerli, ma di scoprirvi l'esperienza umana che im-
plicano e di trarne profitto, come dice Nietzsche, nella nostra vita.

32 Paul Rabbow, Seelen/uhrung. Metodik der Exer:àtien in der Antike, Kéisel, Mu-

nich 1954.
13 F. Nietzsche, "Frammento 13 (57], Autunno 1881 ", in Opere complete. Fram-

menti postumi (1881-1882), voi. V, t. II, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi,


Milano 1965, p. 443.
Studi
Retroazione filosofica:
Pierre Hadot) gli antichi e i contemporanei
Jean-François Balaudé

Vorrei tratteggiare una lettura della posizione di Pierre Hadot


nel campo filosofico contemporaneo a partire da una prospettiva
indubbiamente limitata, quella di un antichista vicino ai suoi la-
vori. Per farlo, proporrò un'interpretazione di come la sua lettura
globale della storia della filosofia si faccia sentire nel coro filosofico
contemporaneo.
La lettura di Hadot mira chiaramente a produrre una vera rot-
tura, non solo dal punto di vista della definizione della filosofia,
ma anche ed in modo più fondamentale dal punto di vista del posi-
zionamento nei confronti della cosa filosofica. Rimane da spiegare
come questa rottura si produca nella comprensione e nella pratica
Jella filosofia e quali effetti ne derivino.

Atopia e inattualità

Vorrei parlare della posizione di Hadot, cosa che però mi por-


ta subito a evocarla in forma di paradosso. Mutatis mutandis, c'è
qualcosa di atopico in Hadot. Per i Greci, è atopico quel che non
ha luogo assegnabile, ma anche che è strano, insolito. In questi due
sensi, Hadot è atopico. Certo, come ogni pensatore, ha subìto un
certo numero di influenze, che evoca soprattutto nelle Conversa-
zioni, ma non credo che sia pertinente tentare di iscriverlo in una
discendenza ben definita. Non è nietzscheano, né bergsoniano,
fenomenologo o heideggeriano, esistenzialista o wittgensteiniano,
unche se è debitore a tutti questi autori e a tutte queste correnti,
anche se si è interessato molto presto, nel corso della sua formazione
intellettuale, ad autori contemporanei come Heidegger, Husserl o
Wittgenstein. Da questo punto di vista, leggere il suo lavoro alla
44 Jean-François Balaudé

ricerca di una discendenza di questo tipo sarebbe profondamente


ingannevole. In questo senso lo definivo atopico: in primo luogo
perché non lo si può ricondurre a una delle correnti filosofiche
contemporanee, così come non lo si può ridurre allo status di pen-
satore cristiano che si sarebbe allontanato dal cristianesimo, e poi
perché ci parla oggi di stoicismo ed epicureismo come se le nostre
possibilità di vita ne dipendessero. Questo sembra ben "strano".
In realtà, se si tenesse a iscrivere Hadot in una tradizione fi-
losofica, sarebbe quella della storia della filosofia più rigorosa,
articolata alla filologia. Infatti, è proprio la storia della filosofia
ad apparire qui come motore della riflessione: autorizza la com-
prensione intima delle filosofie frequentate, perché conduce allo
stesso tempo all'immersione in queste filosofie e alla loro messa in
prospettiva. Ogni filosofia si inscrive in una storia, in una o più tra-
dizioni, con cui c'è continuità e/o rottura. La storia della filosofia
tenta di padroneggiare tutto questo, e crea allo stesso tempo la più
grande vicinanza e la più grande distanza con una tale filosofia. Da
questo punto di vista, c'è una grande differenza col modo di pro-
cedere di un filosofo che rivisita il passato e se ne appropria, senza
aver sempre coscienza dei propri presupposti e partiti presi.
Resta la questione dell'uso filosofico della storia della filosofia,
che non è affatto semplice, se si ammette che quest'ultima tende a
una certa neutralità nei confronti della filosofia che è suo oggetto
di studio. Certo, c'è un'altra maniera seducente di praticare la sto-
ria della filosofia, che consiste nel sostenerla con una filosofia con-
temporanea di riferimento: il passato della filosofia viene quindi
interrogato in modo più o meno elegante a partire dai nostri inte-
ressi, dando luogo a riletture a volte piuttosto eccitanti, ma in ogni
caso relativamente effimere, nella misura in cui si rivelano datate.
L'originalità di Hadot sta nel reperire una nuova strada inter-
pretativa per la filosofia nel suo divenire storico, a partire dalla sua
pratica di storico, dal grembo stesso del dato storico. Né piatta
ricostituzione, né proiezione, le letture di Hadot traggono la loro
forza dal fatto di proporre un'interpretazione rinnovata dei testi
filosofici antichi, che fa sorgere le loro poste in gioco a partire dalla
riconsiderazione di problematiche inizialmente all'opera nei proce-
dimenti dei filosofi antichi, e quindi a partire dalla presa in conto
delle pratiche filosofiche, dell'intento degli scritti filosofici - dialo-
ghi o altro - e non da quello che vorremmo trovarci.
Retroazione filosofica: Pierre Hadot, gli antichi ed i contemporanei 45

Lo scarto, a prima vista, tra la filosofia quale si pratica e la filo-


sofia quale Hadot la comprende, intende e ne ritrova l'ispirazione
prima percorrendo l'insieme delle filosofie antiche, segnala come
una tale interpretazione non sia una proiezione a partire da proble-
matiche contemporanee. Questa interpretazione può anche essere
detta inattuale, e proprio in questo trova credito.
È vero, questa lettura della filosofia e della sua storia incrocia in
modo piuttosto affascinante il tragitto dei filosofi contemporanei e
incontra un notevole interesse pubblico, oltre la cerchia degli spe-
cialisti. Questo può far pensare che il modo di procedere di Hadot
si trovi in una certa corrispondenza con la sensibilità contempora-
nea. Basta però osservare le riserve che questa comprensione rin-
novata della filosofia suscita in numerosi filosofi professionisti, per
convincersi che Hadot non è nell'aria del tempo e delle idee, ma
risponde ad attese ed interrogativi fondamentali, cui i suoi lavori
contribuiscono a dare qualche risposta. Da questo punto di vista,
il confronto con Foucault non deve trarci in inganno: non è Hadot
ad esser andato nella direzione delle ricerche di Foucault, ma al
contrario è quest'ultimo che ha ritenuto di trovare nella tematica
della filosofia come modo di vita una strada feconda per pensare il
sé e i suoi modi di costituzione 1•
Ho parlato anche di inattualità a proposito di Hadot: è un'inat-
tualità tranquilla, che non si ostenta né si dissimula, ma si assume
semplicemente, al riparo dalle mode. Così, suppongo che Hadot
accetterebbe di dire che gli antichi (Socrate, Platone, Epitteto,
Marco Aurelio ed in particolare Plotino) non sono stati meno im-
portanti ai suoi occhi dei contemporanei, e che in fin dei conti lo
sono stati forse di più. Tuttavia, questa ammissione non tradisce
un atteggiamento di chiusura dello storico sul suo campo - al con-
trario, proprio perché ha costantemente avuto anche un'apertura
reale sulla filosofia contemporanea, Hadot ha potuto fare emer-
gere fino a che punto la comprensione antica della filosofia può
illuminarci sulla nostra pratica della filosofia, su quello che essa è
attualmente e su quel che potrebbe essere. L'inattualità di questa
lettura è quel che le conferisce tutto il suo valore filosofico e la sua

1 Chiaramente, non intendo suggerire che Foucault si limiti invece ad essere


nell'aria del tempo, quanto che si iscriva in una costellazione teorica molto contempora-
nea, in un modo che non è esattamente quello di Hadot.
46 ]ean-François Balaudé

grande pertinenza, né moderna, né postmoderna ma, tutto somma-


to, "extra-moderna".

Retroazione

Ma ora devo spingere più lontano l'analisi, per tentare di circo-


scrivere quel che ho designato come retroazione filosofica. Per que-
sto, devo ricordare uno o due punti dell'itinerario intellettuale di
Hadot, che mi sembrano aver costituito la sua chance, in conclusio-
ne la nostra chance, di lettore e ascoltatore. Hadot ha infatti ricevu-
to un'educazione cattolica completa e molto approfondita che l'ha
condotto in seguito al Petit e al Grand Séminaire, dove ha studiato
la filosofia tomista. Grazie a questo, ha veramente assimilato, nel
senso più concreto del termine, come lo intende Nietzsche, niente
di meno che la storia del pensiero occidentale. Questo punto mi
sembra capitale. Innanzitutto, a differenza di molti di noi, per lui
il cristianesimo non è stato un momento della storia della nostra
cultura, in qualche modo sempre presente, ma dagli effetti relativa-
mente attutiti, e considerato ormai in modo più o meno esteriore.
Egli è passato volens nolens da un momento religioso, da un'età
della vita in cui l'esistenza acquisiva senso, trovava il proprio fon-
damento nella religione cattolica. Proprio perché le cose gli sono
apparse in questo modo e perché, almeno una volta, le ha vissute
in questo modo, gli è stato possibile riprendere da capo la questio-
ne stessa della filosofia.
Come è stato possibile questo passo indietro? Hadot ricorda
nelle Conversazioni il suo precoce interesse per la filosofia, che
sembra parallelo alla religione, senza coincidere esattamente con
essa; egli lega questo interesse a certe esperienze spirituali, in parti-
colar modo a quello che ha definito come il "sentimento oceanico"
- seguendo Romain Rolland - esperienze che confinano, detto in
modo schematico, con l'ampio campo della mistica. Mi sembra
quindi che Hadot sia stato portato - se non un po' costretto - dalla
sua formazione a identificare l'esigenza filosofica con quella cat-
tolica, e la vita perfetta con la vita cattolica, la vita in Cristo. Ora,
i suoi interessi intellettuali e le sue esperienze naturali gli hanno
fatto prendere coscienza, sempre più nettamente e man mano che
proseguiva negli studi filosofici, che il cristianesimo si era fatto
Retroazione filosofica: Pierre Hadot, gli antichi ed i contemporanei 47

carico della filosofia e dell'obiettivo di una vita perfetta e che ne


aveva piegato il senso in modo potente.
Mi sembra che tre condizioni dovessero essere riunite, per una
rilettura critica e retroattiva della storia della filosofia. Bisognava
prima "abitare" il cattolicesimo, per comprenderne intimamente
la struttura (l'articolazione fede-ragione, teologia-filosofia, etc.);
bisognava poi disporre di un'interrogazione filosofica indipenden-
te, aperta al proprio tempo e che poggiasse su un rapporto tutto
sommato non mediato alla natura; era necessaria infine una pratica
rigorosa di storico, di storico della filosofia, di storico della cultura
e delle istituzioni, per arrivare a proporre questa rilettura della sto-
ria della filosofia, che modifica radicalmente la prospettiva abituale
che abbiamo tutti ereditato. È dunque come «perfetto erede»,
per riprendere e forzare il senso di un'altra formula di Nietzsche,
che Hadot si è liberato e ha liberato i suoi lettori da questa vera e
propria torsione cristiana della filosofia, pensata come disciplina
teorica, puramente speculativa.
Il motore dell'interpretazione consiste, lo sappiamo, nel ripren-
dere il rapporto esatto tra logos e forma di vita e la loro interazio-
ne. La ricerca del miglior modo di vita induce la messa in opera di
una ricerca, di un'inchiesta su quel che è e su quel che siamo, per
fare delle nostre vite le vite più compiute, cioè le più conformi a
quel che è, in accordo con quel che è.
Non c'è qui niente di antispeculativo, ma da questa ripresa del
radicamento pratico della filosofia risulta in fine una certa subordi-
nazione della theoria alla praxis, o forse più esattamente una com-
prensione della theoria come praxis - meglio ancora, si potrebbe
parlare di una theoria che innerva la praxis, o anche di una praxis
teoretizzata. L'attività filosofica mira alla trasformazione di sé e de-
gli altri tramite l'esercizio del pensiero, inducendo ogni genere di
esercizio spirituale che mette in gioco anche il corpo.
Riprendendo in tutta chiarezza questa destinazione prima della
filosofia quale l'antichità l'ha messa in opera, Hadot poteva da
quel momento mettere in evidenza l'inflessione progressiva, ma
sempre più profonda, che il cristianesimo avrebbe fatto subire alla
filosofia. Presentandosi innanzitutto come la vera filosofia, la dot-
trina cristiana tendeva a imporsi come depositario esclusivo della
via del bene, autorizzando il rifiuto radicale, con a volte qualche
conciliazione, della filosofia pagana. In questo senso, la filosofia
48 ]ean-François Balaudé

che non si fondava sulla Rivelazione si trovava ipso facto messa da


parte. Ma in un secondo momento, durante il periodo medioevale,
la filosofia è divenuta l'assistente della teologia, ritrovando così un
posto legittimo, ma un posto di secondo piano (quello stesso della
ragione naturale).
La ricostruzione del processo di cristianizzazione della filosofia
fa apparire in piena luce il fatto che la filosofia che comprende
se stessa come theoria è l'effetto di un processo storico globale,
che ha esercitato una costrizione esteriore sulla disciplina, che
inizialmente comprendeva e praticava se stessa in tutt'altro modo:
come disciplina di vita, ricerca di un'arte di vivere illuminata dalla
theoria. Grazie a questo movimento retrospettivo, diviene quindi
chiaro che la vocazione prima e fondamentale della filosofia non è
quella che il cristianesimo le ha imposto.
Ma diviene anche chiaro che la storia moderna e contempo-
ranea della filosofia si iscrive sempre in modo dominante nella
continuazione di questa inflessione storica e si potrebbe sostenere
la tesi provocatoria che molte delle correnti filosofiche contempo-
ranee sono gli ultimi mutamenti di questa inflessione, dal momento
in cui persistono a vedere nella filosofia una disciplina in primo
luogo speculativa, che si voglia di nuovo speculativa o che speculi
sull'agonia dello speculativo. Certo, è meglio non schematizzare
troppo, e di fatto molte correnti contemporanee si sono preoccu-
pate di pensare la vita, di battersi con essa, di trasformarla. Ma si
può aggiungere che lo fanno a partire dal concetto e nell'orizzonte
del concetto. Questo spiega come un certo numero di filosofi
contemporanei abbiano potuto alimentare la riflessione di Hadot
sulla filosofia come pratica, ma come questo sia rimasto dell'ordine
dell'incontro circostanziato.
In senso più ampio, non bisogna nemmeno perdere di vista un
piano cui Hadot accorda molta importanza, che è quello del qua-
dro sociale della pratica della filosofia. Il fatto è che la filosofia,
istituzionalizzandosi, funzionarizzandosi, si è condannata a non
essere altro che una disciplina di sapere e che i filosofi di cui essa è
oggi la ragione sociale sono innanzitutto identificati con una certa
competenza in campi filosofici dati. Possiamo quindi immaginare
oggi che un filosofo, riconosciuto come tale da un punto di vista
professionale, sia d'altro canto bugiardo, vanitoso, vile, plagiario, o
chissà cos'altro: uno stato di fatto inconcepibile nell'antichità.
Retroazione filosofica: Pierre Hadot, gli antichi ed i contemporanei 49

Ecco in cosa la lettura filosofica della storia della filosofia che


Hadot propone presenta un effetto di retroazione notevole, poten-
te e profondo: ponendoci a confronto con la pratica antica della
filosofia, fa emergere un certo impensato delle filosofie speculative
(l'eliminazione della praxis e della trasformazione di sé, o la sua og-
gettivazione) e obbliga anche ognuno di noi a interrogarsi su quel
che fa quando pretende di filosofare o agire in nome della filosofia.
Si tratta solo di scrivere un articolo, un libro o di fare lezione?
Oppure non bisognerebbe cercare una forma di coerenza globale
tra quel che si pensa e quel che si fa, tra quel che si pensa specula-
tivamente e quel che si prova? A partire da qui, si può aggiungere
che non è più necessario essere professori di filosofia per filosofare
(sebbene una cosa, almeno spero, non escluda l'altra!) Il ritorno
sul passato della filosofia, quale lo effettua Hadot, conduce così a
modificare retroattivamente il nostro rapporto contemporaneo con
la filosofia.
Emerge allora il rischio di un malinteso, contro cui si è scontra-
to Hadot stesso, e che vorrei a mia volta evitare. Si potrebbe dire
che tutto questo finisce per difendere un'accezione debole della fi-
losofia, un'accezione che la riduce a non essere altro che un'arte di
vivere, che prende in prestito un certo numero di ricette dalle filo-
sofie antiche, e si accontenta di un certo eclettismo che tradirebbe
l'ambizione di sapere, che è in ogni caso presente in ogni procedi-
mento filosofico autentico. Se filosofare non consiste in primo luo-
go nel creare concetti, filosofare comporta anche questa dimensione.
Mi sembra che Hadot non sia mai andato contro questa idea.
Anzi, lui stesso ha fornito qualche chiave per comprendere in
particolare come la filosofia progrediva per mezzo di una logica
feconda della discussione, dell'esegesi e del controsenso creatore.
Meglio di chiunque alto, Hadot ha padroneggiato e ricostituito la
logica concettuale all'opera negli scritti di Marco Aurelio o Ploti-
no, mostrando come fossero di appoggio per la vita filosofica. Da
questo punto di vista, nessuno più di lui riconosce come la filosofia
viva anche del movimento teorico che le è proprio. Ma il punto
essenziale, che ho annunciato e su cui torno adesso, è il seguente:
la vita delle idee trova la sua ragione e il suo fondamento nell' espe-
rienza del reale, nell'apertura al mondo e agli altri, considerata non
come un complemento o un accessorio, ma come la fonte stessa di
ogni investimento filosofico.
50 ]ean-François Balaudé

Questo permette di fare la distinzione tra una filosofia senza


reale posta in gioco esistenziale, perché possiede solo l'ambizione
di creare concetti, e una filosofia che si sforza all'autonomia, nel
senso che si vuole esperienza totale, di vita e di pensiero. In questo
modo possiamo comprendere quel fenomeno notevole, ben sotto-
lineato da Hadot, che consiste nel riapparire periodico, forse già
in epoca medioevale, ma poi regolare nel Rinascimento e dal XVII
al XX secolo, di una comprensione della filosofia come disciplina
vissuta, che implica un processo totale di trasformazione interiore
del soggetto che fa filosofia. E sono Montaigne, Cartesio, Pascal,
Kant, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche, Thoreau, Wittgenstein,
Merleau-Ponty tra gli altri, a costituire altrettanti punti di riferi-
mento nella modernità.
Con il passo indietro storico che Hadot ci invita a fare, prendia-
mo coscienza del campo in cui la tradizione filosofica si è sviluppa-
ta, perché ci fa scoprire anche il fuori campo, sul fondo del quale
la theoria è stata ritagliata. Riscoprendo il campo e il fuori campo,
siamo in grado di riprendere la questione dell'intento fondamen-
tale del filosofo e delle sue condizioni; siamo così anche condotti a
riesaminare totalmente la questione del nostro rapporto con la vita
e con la verità. In effetti, il bene, il giusto non sono fondamental-
mente quello di cui occorre rendere ragione, ma quello che biso-
gna mettere in opera, e la verità si situa da qualche parte in questa
messa in opera ragionata e ponderata.
Come è facile capire, c'è evidentemente una grande differenza
tra una riflessione che accompagna un procedimento di trasfor-
mazione interiore e una riflessione che supponiamo esser valida in
sé e di per sé. Ora, per concludere, la questione è sapere se il farsi
carico di questa ricerca di una trasformazione di sé appartiene an-
cora alla filosofia e come.
Il fatto è che Hadot, da un estremo all'altro del suo itinerario,
ha scommesso a favore della filosofia, a differenza di Foucault
per il quale il lavoro su sé, questa soggettivazione che si compie
nell'estetica dell'esistenza, non è - o non è più - specificamente
filosofica. Delle filosofie antiche, Foucault trattiene certe tecni-
che di sé (cura di sé, libertà di parola) che sono estrapolabili per
pensare delle forme di vita in resistenza, ma che non sono più
specificamente filosofiche, perché la filosofia è divenuta tutt'altra
cosa. Si potrebbe giudicare questa differenza (quadro filosofico
Retroazione filosofica: Pierre Hadot, gli antichi ed i contemporanei 5l

mantenuto o meno) in qualche modo secondaria, ma credo che


si congiunga alle critiche di Hadot all'estetica dell'esistenza e, in
modo più ampio, pone la questione del contenuto della forma da
dare alla propria vita, e delle modalità di questo "dare forma".
Pensando la soggettivazione come un potere in una rete di poteri
e di contropoteri, Foucault non poteva far altro che sponsorizzare
l'invenzione, in un'esplorazione delle singolarità.
Ora, questa problematica che sembra estranea ad Hadot, è
stata forse almeno in parte resa possibile da lui, e la questione che
fa emergere è ben reale, se vogliamo pensare fino in fondo questo
effetto di retroazione prodotto dalla lettura che egli ha svolto della
filosofia nel suo movimento storico. Così come non è questione
di lanciare un programma di restaurazione della filosofia come si
praticava più di duemila anni fa, la retrospezione e la retroazione
che ne derivano hanno un altro ruolo, che Hadot ha iniziato a de-
lineare: quello di aiutarci a costruire le nostre vite, con un'esigenza
di coerenza, e quindi di universalizzazione della propria condotta,
con un desiderio padroneggiato di piacere e di felicità nella cura
mantenuta di un accordo con gli altri e con il mondo. Stando co-
sì le cose, al di là di questa esigenza e di questo desiderio, come
colmare effettivamente la nostra esistenza oggi? Come soddisfare
il nostro bisogno di accordare azione e pensiero, su quale fonda-
mento basare questo desiderio di compimento?
Non ci sono risposte semplici a queste domande. Hadot ne
ha indubbiamente abbozzate alcune, evocando l'uso libero che
possiamo fare dell'epicureismo, dello stoicismo o del platonismo
(considerati come tipi di posture fondamentali di fronte al mon-
do), ma non sono risposte fisse e definitive. Occorre fornire e, in
una certa misura inventare, come faceva Foucault, dei prolunga-
menti. Un tale compito spetta ad ognuno di noi, dato che nessun
dogma può imporre la sua regola.
L'importante, stando così le cose, è forse meno la risposta che
la domanda, ed è per questo che la retroazione filosofica ci man-
tiene nell'orizzonte della filosofia, compresa in primo luogo e in-
nanzitutto come postura riflessiva verso di sé, gli altri e il mondo.
Mi piacerebbe anche, per concludere, abbozzare un confronto
con l'opera di Merleau-Ponty, in cui possiamo percepire delle
eco, o meglio delle anticipazioni della comprensione della filosofia
sviluppata da Hadot. Con la sua sensibilità filosofica eccezionale,
52 Jean-Françots Balaudé

Merleau-Ponty ha compreso la filosofia come destinata a realiz-


zarsi in vita filosofica; ci ha anche fatto afferrare che la filosofia è
interamente nell'obiettivo della verità e che in un certo senso non
possiamo trarci da questa ambiguità positiva che traversa le nostre
vite e i nostri pensieri. In questo, la vita filosofica oggi non è nien-
te di rigido né di fisso, ma qualcosa che si inventa perpetuamente
e si sperimenta, alla prova di ciò che diviene, e che resta un'esigen-
za permanente.
La retroazione filosofica prodotta da Hadot è ambigua nel
senso positivo che Merleau-Ponty stesso conferisce al concetto;
ambigua perché ci riconduce lontano nel nostro passato, ma ci
proietta simultaneamente nel nostro presente e nel nostro futu-
ro, perché ci indica quel che la filosofia dovrebbe essere, senza
darcene tutte le chiavi, ma incitandoci a cercare e a cercare noi
stessi - come i filosofi del passato. «Ho cercato me stesso», diceva
Eraclito (B 101 DK).
L'io ineffabile: esercizi spirituali e filosofia moderna
Barbara Carnevali

Pierre Hadot ha elaborato la sua interpretazione della filoso-


fia antica in reazione a una certa concezione, dominante nella
filosofia moderna, del rapporto tra teoria e pratica. È stato infatti
proprio il sentimento di doversi confrontare con un genere let-
terario di natura e finalità molto diverse a spingere lo specialista
della tarda antichità a interrogarsi sulla specificità del suo oggetto
di studio, giungendo alla definizione di questa particolare forma
della riflessione filosofica che ha battezzato "esercizio spirituale".
Di primo acchito, quindi, il rapporto tra antichità e modernità
si presenta in forma di opposizione. Hadot precisa che la transi-
zione tra i due modelli metafilosofici si è operata nella scolastica
medioevale. Quest'ultima ha segnato m modo irreparabile il divor-
zio tra modo di vita e filosofia, assegnando alla religione cristiana
il ruolo di unico modus vivendi legittimo e alla filosofia quello di
ancilla theologiae, votata alla speculazione astratta. Questa divisio-
ne dei compiti si è poi trasmessa all'età moderna e ha mantenuto
la sua validità anche dopo l'emancipazione del discorso filosofico
dalla teologia. L'idea di filosofia dominant~ nella modernità e che
ispira le nostre istituzioni pedagogiche e la disciplina accademica
è quella di un discorso teorico, di un sistema di conoscenze logica-
mente coerente e argomentato, ma autonomo e indipendente dalle
esigenze concrete della vita.
Tuttavia, nella prospettiva di Hadot il rapporto tra antichità
e modernità non si riduce all'esclusione reciproca. Anche se in
forma nascosta e minoritaria, la tradizione antica è sopravvissuta
fino ad oggi e il suo insegnamento è ancora riconoscibile in pen-
satori che hanno rifiutato il modello dominante della filosofia. Gli
autori moderni più citati da Hadot sono Montaigne, Kierkegaard,
Nietzsche, Thoreau e Wittgenstein; ma alla sua lista di dissidenti
54 Barbara Carnevali

potremmo aggiungere umanisti come Petrarca e Erasmo - è quel


che propone lo studioso del Rinascimento Juliusz Domanski 1 - ma
anche altre figure di pensatori anti-accademici e anticonformisti,
come Rousseau, Sartre, Foucault.
Il mio intervento sarà dedicato a questa discendenza alterna-
tiva della filosofia moderna. Mi concentrerò in particolare sulla
figura di Rousseau, che mi sembra particolarmente significativa
per comprendere la persistenza dell'eredità antica nell'età classica,
come anche le nuove poste in gioco che la modernità ha posto a
proposito dell'idea della filosofia come modo di vivere. Il modo
in cui Rousseau ha reinterpretato e provato ad incarnare nella sua
vita filosofica l'ideale della saggezza antica ci permetterà di far ap-
parire una rottura decisiva a proposito del ruolo dell'individualità
nella morale, rottura che trasforma radicalmente quel che, secondo
Hadot, la filosofia antica possiede di più specifico: il ruolo dell' e-
sercizio spirituale. Possiamo presentire la potenza di questa tra-
sformazione nella distanza che separa due generi letterari, spesso
comparati a causa della loro natura autoriflessiva e per il fatto che
si esprimono entrambi alla prima persona: gli hypomnemata e l'au-
tobiografia. La differenza tra questi generi letterari corrisponde,
sul piano delle concezioni etiche, alla differenza tra il lavoro mora-
le del saggio antico, che tenta di trascendere il proprio io nella pro-
spettiva dell'universalità cosmica, e l'egotismo dello scrittore mo-
derno,.convinto dell'importanza e dell'interesse della sua esistenza
individuale e spesso imbevuto di narcisismo e di esibizionismo.

Montaigne: l'eredità dell'antichità e la scrittura di sé

Prima di affrontare Rousseau, vorrei dedicare qualche consi-


derazione a Montaigne, la cui posizione filosofica offre un primo
e importante scorcio della questione che sarà al cuore della mia
analisi. Come Hadot stesso ha spesso notato, i Saggi sono l'opera
moderna più vicina alla sua concezione della filosofia antica. Alla
base di questa vicinanza, si trova una profonda affinità spirituale,

1 Juliusz Domanski, La philosophie, théorie ou manière de vivre? Les controverses

de l'Antiquité à la Renaissance, Éditions du Cerf, Paris 1996, con una prefazione di


Pierre Hadot.
L'io ineffabile: esercizi spirituali e filosofia moderna 55

un'intuizione originale del mondo e dell'essenza della vita umana,


che egli descrive in un modo che ricorda il famoso elogio di Mon-
taigne fatto da Nietzsche in Schopenhauer come educatore: «Vera-
mente per il fatto che un tal uomo abbia scritto il piacere di vivere
su questa terra è stato aumentato»2 .
In questo amore per la vita, sempre secondo Nietzsche, Hadot
ci invita a riconoscere l'eredità del socratismo, la cui interpretazio-
ne data dai Saggi è un ritratto perfetto della sua idea della filosofia
come modo di vivere: Socrate vi appare come il saggio che ama la
condizione umana in tutte le sue forme, dalle più elevate alle più
umili, il saggio che sopporta con altrettanta grazia la condanna a
morte e i capricci della moglie, che è pronto a fare la guerra per
difendere il proprio paese o ad abbandonarsi alle sue estasi con-
templative in mezzo a una folla, ma anche a danzare o a giocare
con dei bambini3 . Montaigne condivide lo stesso atteggiamento
riguardo alla vita umana: la studia con curiosità e interesse in tutte
le sue manifestazioni e, pur riconoscendone i limiti e le debolezze,
impara ad accettarla con gioia. In questo modo, la sua ricerca della
saggezza diviene un'arte dell'esistenza: Hadot ha adottato il motto
di Montaigne sul "mestiere di vivere" e nell'epigrafe di Che cos'è la
filosofia antica? ha posto il famoso passaggio: «"Non ho fatto nien-
te oggi." "Come? Non avete vissuto? È non solo la vostra occupa-
zione fondamentale, ma la più insigne"»4 .
Tuttavia, la presenza della filosofia antica nei Saggi non si limi-
ta a questa ispirazione generalmente socratica, ma si concretizza
anche nella frequentazione assidua degli autori classici, che ispi-
rano quasi tutte le meditazioni di Montaigne e che tornano nelle
innumerevoli citazioni, allusioni e aneddoti che intessono le sue
pagine. Tra le fonti più ricche troviamo le filosofie ellenistiche, da
cui Montaigne attinge in modo così vicino all'esercizio spirituale
che sarebbe addirittura possibile dare questo significato alla parola
saggio [essai] - che rimanda, come è noto, alle idee di tentativo e di
sforzo. L'esercizio di Montaigne consiste nella meditazione ripetu-

2 F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, in Opere complete. Considerazioni


inattuali III, voi. III, t. I, op. cit., p. 371.
J Miche! de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1966, voli. 1
e 2, cap. I, 26 e III, 5, 12, 13.
4 Ivi, voi. 1, III, 13, p. 1485, citato in P. Hadot, Qu'est ce que la philosophie anti-
que?, op. cit., p. 13 [testo non presente nell'edizione italiana dell'opera (N.d.T.)].
56 Barbara Carnevali

ta dei dogmi dello stoicismo, dell'epicureismo e dello scetticismo


- in questo contesto non è importante aprire la questione spinosa
del debito specifico verso queste diverse tradizioni - allo scopo di
instillare nell'io una conoscenza più approfondita della vera natura
delle cose.
Questa conoscenza, a sua volta, è la condizione teoretica indi-
spensabile della saggezza pratica, perché è solo riconoscendo e
accettando il suo vero posto nell'ordine del Tutto, che il soggetto
può imparare a trasformare i propri atteggiamenti individuali -
pensieri, passioni, abitudini - e a modellarsi nella prospettiva della
verità e della felicità. La vicinanza tra la meditazione di Montaigne
e la tradizione studiata da Hadot è evidente, in particolare, nel sag-
gio Filoso/are è imparare a morire:

È incerto dove la morte ci attenda: attendiamola dovunque. La medi-


tazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire,
ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e
costrizione. Non c'è nulla di male nella vita per chi ha ben compreso che
la privazione della vita non è male5.

Eppure, è proprio nel bel mezzo di queste considerazioni im-


pregnate dell'insegnamento di Epicuro e di Epitteto che emerge in
Montaigne un elemento del tutto inedito per gli antichi: la voce di
un io individuale, che reclama attenzione per la propria singolarità
particolare, empirica e contingente. Questa voce privata fa uso
della meditazione morale sul tema della morte, per raccontarci con
compiacimento le circostanze esatte della sua nascita:

Nacqui fra le undici e mezzogiorno, l'ultimo giorno di febbraio mille-


cinquecentotrentatré, come contiamo adesso, iniziando l'anno in gennaio.
Sono appena quindici giorni che ho compiuto trentanove anni, me ne
occorrono per lo meno altrettanti; preoccuparsi nel frattempo di pensare
a una cosa tanto lontana sarebbe follia6.

Questo è solo un campione del tropismo che chiamerei "au-


tobiografico", intendendo l'autobiografia meno come narrazio-
ne storica di natura romanzesca che come discorso dedicato alla

5 lvi, voi. 1, I, 20, p. 110.


6 lvi, voi. 1, I, 20, p. 106.
L'io ineffabile: esercizi spirituali e filosofia moderna 57

propria vita, nella sua contingenza empirica. Montaigne giustifica


l'importanza e l'interesse di questa forma di discorso con una
preoccupazione filosofica di verità, perché non c'è accesso pos-
sibile alla conoscenza dell'uomo se non tramite la conoscenza di
sé. Tuttavia, egli è del tutto cosciente della novità e dei rischi della
propria impresa, che rompe con le convenzioni retoriche e morali
del suo tempo: «l'uso ha fatto un vizio del parlar di se stessi, e lo
proibisce ostinatamente per odio della vanteria che sembra sempre
esser congiunta alle testimonianze personali»7 . Nondimeno aggiun-
ge: «bisogna passar sopra a queste regole comuni di civiltà a favore
della verità e della libertà. Io oso non soltanto parlare di me, ma
parlare soltanto di me»8 .
È importante ricordare che le convenzioni retoriche dominanti
all'epoca di Montaigne erano fondate sull'autorità e l'esempio de-
gli antichi (in particolare Aristotele, Cicerone e Plutarco) e presup-
ponevano a loro volta un assunto morale generalmente condiviso:
ogni discorso su di sé è una forma di vanteria, un'esaltazione or-
gogliosa e illegittima dell'io individuale, che non merita in quanto
tale alcun interesse, nessuna considerazione particolare. La morale
cristiana, con l'autorità di Agostino, ha chiamato questa inclinazio-
ne all'autoglorificazione "amor sui" ("amour-propre", secondo la
tradizione agostiniana che ha influenzato in profondità la cultura
francese moderna) e gli ha attribuito il ruolo di peccato originale
della coscienza. Ma la condanna cristiana si è limitata a riprodur-
re in una nuova forma religiosa il divieto della morale antica. La
reazione quasi unanimemente scandalizzata dei primi lettori dei
Saggi sarebbe sufficiente a provarlo: vi convergono il biasimo di un
umanista come Scaligero e quello di un agostiniano come Pascal. A
quest'ultimo in particolare dobbiamo la formula categorica: «che
proposito stolto il suo: rappresentare se stesso! »9 .
Certo, sarebbe possibile replicare che anche autori antichi co-
me Seneca o Marco Aurelio hanno parlato e scritto di sé. Ma
come Hadot ha sempre precisato, in particolare a proposito dei
paragoni tra la sua nozione di esercizio spirituale e quella di "cul-
tura di sé" di Michel Foucault, per la filosofia antica il discorso in

7
Ivi, voi. 1, Il, 6, p. 487.
8 Ivi, voi. 2, III, 8, p. 1255.
9 Blaise Pascal, Pensieri, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino 2004, § 646, p. 477.
58 Barbara Carnevali

prima persona è solo uno strumento, il vettore di un processo di


universalizzazione. La vera finalità dell'esercizio spirituale è tra-
scendere la componente più particolare, e quindi più insignificante
dell'io, per permettergli di ritrovare la sua vocazione universale,
convergendo verso il principio razionale, la norma che regge la
natura. Si tratta, per il filosofo, di abbandonare la propria visione
egoista, relativa e parziale della realtà, per innalzarsi e vedere le
cose dal punto di vista di Dio, della ragione, del Tutto.
Ora, il gesto autobiografico inaugurato da Montaigne si fonda
proprio sulla legittimazione e l'affermazione di questa componente
particolare e insignificante dell'io, che costituiva l'obiettivo dell'e-
sercizio morale degli antichi. Anche se Montaigne è sincero nel
suo amor di verità e le intenzioni del suo gesto non sono necessa-
riamente narcisistiche, né vanterie, l' amour-propre penetra nel suo
discorso, aprendo alla psicologia e alla morale moderne un campo
nuovo. È dunque il momento di passare a Rousseau.

Rousseau: l'esplosione dell'individualità

Con Rousseau, questa parte singolare dell'io di cui abbiamo in-


dividuato l'emergenza in Montaigne, si afferma in modo aperto. Il
caso è ancora più interessante nella prospettiva della nostra rifles-
sione sul rapporto tra antichità e modernità, perché in Rousseau,
ad un massimo di rimandi espliciti alla tradizione antica corrispon-
de un minimo di familiarità autentica con la pratica dell'esercizio
spirituale. A differenza di Montaigne, che rifiuta ogni postura
esemplare limitandosi ad attingere nel socratismo il suo amore per
la vita, Rousseau svolge in modo intenzionale il ruolo del saggio e
si identifica pubblicamente con i modelli antichi. Il suo sforzo per
conseguire una coerenza morale che converga con la normatività
universale della natura si scontra però con la resistenza di una for-
za opposta, in cui si esprime appunto questo amour-propre che la
tradizione antica tentava di cancellare.
Consideriamo innanzitutto il primo aspetto: il modo in cui
Rousseau eredita la tradizione antica. Nato in forma di denuncia
morale - la critica della civiltà formulata nel Discorso sulle scienze
e le arti - il pensiero di Rousseau si è sempre proposto meno come
sistema di conoscenze che come ethos vissuto, come atteggiamento
L'io ineffabile: esercizi spirituali e filosofia moderna 59

esistenziale opposto alla società e alla cultura del suo tempo. Non
è un caso che qualche mese dopo il suo trionfo al premio dell'Ac-
cademia di Digione, Rousseau prenda la decisione di cambiare
radicalmente stile di vita: il filosofo che ha biasimato così violente-
mente la decadenza dei costumi contemporanei non può sottrarsi
alla prova della coerenza e tenta di dimostrare la validità dei suoi
princìpi astratti con l'evidenza della sua esemplarità personale.
Questo episodio giustamente celebre, chiamato da Rousseau «la
mia riforma», inaugura la nascita del rousseausimo come modo
di vivere filosofico, nel senso esatto che Hadot dà a questa espres-
sione. Evocherò la riforma secondo la descrizione dettagliata che
Rousseau ne dà nella terza delle sue Reveries:

Lasciai il mondo e le sue pompe, rinunciai a ogni ornamento, niente


spada, niente orologio, niente calze bianche, ori, acconciatura, scelsi una
parrucca molto semplice, un buon vestito di panno grezzo, e soprattutto
sradicai dal mio cuore la cupidigia e l'avidità che danno un prezzo a tutto
ciò che abbandonavo. Rinunciai al posto in cui ero impiegato allora, per
il quale non ero assolutamente adatto, e mi misi a copiare della musica
un tanto a pagina, occupazione per la quale avevo da sempre una spiccata
predilezione. Non limitai la mia riforma alle cose esteriori. Sentivo che la
prima ne esigeva un'altra, quella delle mie convinzioni, senza dubbio più
difficile, ma più necessaria 1°.

D'ora in poi, Rousseau darà un'importanza estrema ai dettagli


apparentemente più banali e insignificanti della sua vita privata.
Nelle Confessioni, come nelle sue altre opere autobiografiche, de-
scriverà accuratamente il suo modo di vestire (dopo il «buon vesti-
to di panno grezzo», sceglierà la parure più bizzarra di un caftano
armeno), il luogo in cui vivere (il bosco di Montmorency, l'Ermi-
tage, la campagna, luoghi ancora vicini allo stato di natura, che si
oppongono simbolicamente alla città corrotta, Parigi), e il regime
alimentare (che chiaramente privilegia prodotti naturali e non

IO Jean-Jacques Rousseau, Le fantasticherie del passeggù1tore solitario, in Scritti au-


tobiografici, a cura di L. Sozzi, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 672. Per una lettura
del rousseauismo nella prospettiva di Hadot e per un'interpretazione generale dell'indi-
vidualismo di Rousseau nella prospettiva dell'amour-propre, mi permetto di rimandare
al mio studio: Barbara Carnevali, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza
in Rousseau, il Mulino, Bologna 2004.
60 Barbara Carnevali

sofisticati). Sentirà il bisogno di giustificare le sue frequentazioni


sociali (persone del popolo per elezione, grandi del mondo solo
per necessità) e di proclamare che il suo lavoro manuale di copista
gli garantisce un'indipendenza materiale e spirituale. La riforma
di Rousseau è dunque una perfetta "conversione", secondo la de-
finizione che ne dà Hadot in Esercizi spirituali: un ricominciare in
modo assoluto con un ritorno ali' originale e all'originario, all' es-
senziale, all'autentico, che attesta il tentativo di far convergere
ogni momento della vita quotidiana verso il polo normativo della
natura. Nel sistema rousseauiano, quest'ultimo concetto svolge,
sotto molti aspetti, un ruolo equivalente a quello della physis
stoica. È l'aspirazione a identificarsi con la natura che permette al
soggetto di raggiungere il punto di vista della totalità cosmica e di
accettare il suo giusto rango nell'ordine naturale degli esseri. Ne
La professione di fede del Vicario Savoiardo, la parte dell'Emilio
che contiene il cuore metafisico del pensiero rousseauiano, si può
leggere la fondazione filosofica di questo gesto di "ricentraggio
morale" in cui risuona l'eco degli esercizi spirituali della filosofia
stoica:

O uomo! Rinchiudi la tua esistenza dentro di te, e non sarai più mi-
sero. Rimani al posto che la natura ti assegna nella catena degli esseri,
niente potrà fartene uscire; non recalcitrare affatto contro la dura legge
della necessità, e non esaurire, volendo resisterle, delle forze che il cielo
non ti ha dato già per estendere o prolungare la tua esistenza, ma soltanto
per conservarla come gli piace e fino a che gli piace. La tua libertà, il tuo
potere giungono solo fin dove giungono le tue forze naturali, e non più in
là; tutto il resto non è che schiavitù, illusione, prestigio".

Rousseau conosce bene Seneca, Epitteto e i princìpi essenziali


della filosofia epicurea. Questa tradizione svolgerà un ruolo molto
importante nell'Emilio, in cui gli esercizi spirituali sono applicati
in forma pedagogica, e tornerà occasionalmente nei suoi scritti
autobiografici, come in quella famosa pagina delle Réveries, parti-
colarmente apprezzata da Hadot, in cui Rousseau parla del «sen-
timento dell'esistenza» e descrive la sua esperienza unitiva con la
natura. L'influenza del modello antico è ancora più evidente se si

11 J.-J. Rousseau, Emilio, a cura di A. Visalberghi, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 93.


L'io ineffabile: esercizi spirituali e filosofia moderna 61

considera che, per giustificare la necessità di vivere in maniera più


coerente, Rousseau si rifà esplicitamente all'esempio socratico, così
esaltato nel Discours sur la vertu du héros, insieme a quello di Cato-
ne: «Se Socrate fosse morto nel suo letto, forse oggi dubiteremmo
che fosse stato qualche cosa di più di un abile sofista» 12 .
Rifiutando la separazione tra teoria e pratica che si è imposta
nel pensiero moderno, e in particolare in questa nuova sofistica
che è ai suoi occhi la filosofia dell'Illuminismo, Rousseau tenta di
riattualizzare la figura démodée del saggio: si impegna con il suo
pubblico a fare quel che dice e a dire quel che fa. In questo sforzo,
vede la differenza essenziale tra il proprio pensiero e quello dei
"philosophes":

Ad attirarmi la loro gelosia non fu tanto la mia celebrità letteraria


quanto la mia riforma personale [ ... ]. Essi mi avrebbero perdonato, forse,
di brillare nell'arte dello scrivere, ma non poterono perdonarmi il fatto di
offrire con la mia condotta un esempio che sembrava contrariarli 13 .

L'imitazione dell'antichità diventa quindi a sua volta esemplare


ed offre ai suoi potenziali discepoli un modello etico, la cui effi-
cacia è proporzionale alla sua forza viva. Bisogna del resto notare
che la scommessa di esemplarità di Rousseau avrà un successo
straordinario. Non sarebbe possibile citare un pensatore moderno
che abbia avuto più imitatori, in ogni ambito in cui ha esercitato
la sua autorità: c'è un rousseauismo politico (i rivoluzionari del
1798), un rousseauismo letterario (i fanatici della Nuova Eloisa e
delle Confessioni) ed uno esistenziale, la moda di vivere alla Jean-
Jacques che si è diffusa negli ambienti più insospettabili, come la
corte della regina Maria Antonietta. Se si misurasse l'efficacia di un
insegnamento filosofico dal numero e dall'entusiasmo dei suoi al-
lievi, il rousseauismo sarebbe senz'altro una delle scuole principali
della modernità.
Insomma, se si considera la morale di Rousseau alla luce delle
categorie di Hadot, si troveranno le risposte a molte domande
che assillano la critica rousseauiana da molto tempo, a partire

12
J.-J. Rousseau, Discours sur la vértu du héros, in <Euvres complètes, a cura di B.
Gagnebin e M. Raymond, Gallimard, Paris 1959-1995, voi. II, p. 1274.
13
J.-J. Rousseau, Le confessioni, in Scritti autobiografici, up. cit., p. 356.
62 Barbara Carnevali

dal problema del rapporto tra i testi autobiografici e le opere più


tradizionalmente "teoriche". Molti interpreti, imbarazzati dalla
pluralità di generi che Rousseau ha praticato, si sono concentrati
sui testi più propriamente filosofici, a discapito degli scritti giudi-
cati troppo "letterari". Ma nella prospettiva della filosofia come
modo di vivere, la narrazione delle Confessioni si rivela essere il
complemento naturale e inevitabile delle idee rousseauiane: un'au-
to-dossografia, una sorta di Diogene Laerzio alla prima persona.
Inoltre, non ci si deve meravigliare che il problema del rapporto
tra teoria e pratica abbia sempre rappresentato un punto critico
della ricezione del rousseauismo; ancora oggi, il personaggio di
Jean-Jacques è l'antonomasia popolare dell'incoerenza.
In un certo senso, Rousseau ha cercato e meritato questo desti-
no: denunciando le contraddizioni tra il suo pensiero e il suo com-
portamento, i suoi nemici hanno semplicemente preso alla lettera
la sua postura esemplare. Questa era ad esempio l'intenzione di
Voltaire, quando nel Sentiment des citoyens ricordava al pubblico
che l'autore dell'Emilio aveva abbandonato i suoi cinque figli,
o quando si prendeva gioco di Rousseau in caftano armeno, più
simile a un «saltimbanco» 14 che a un saggio antico, aggiungendo
poi per amore dell'iperbole e del sarcasmo che questo dissoluto
aveva anche ucciso la suocera. Certo, Voltaire esagerava, ma il suo
argomento era ben mirato: l'uomo che adotta la vocazione antica
della filosofia si espone in modo del tutto naturale a critiche sul
suo modo di vivere.
L'osservazione di Voltaire sul «saltimbanco» ci permette di
affrontare un altro aspetto del rapporto di Rousseau con la tradi-
zione antica: l'esplosione di questa concezione diversa dell'indivi-
dualità, fondata sulla passione dell' amour-propre, che ho chiamato
egotista o narcisista. Sembra infatti che ci sia sempre qualcosa di
eccessivo, di bizzarro, di esibizionista nel modo in cui Rousseau
assume il suo ruolo di saggio: si ha spesso il sospetto della messa in
scena e della vanteria. Non è un caso se, mentre Rousseau preten-
de di ispirarsi soprattutto ai modelli antichi più "nobili", Socrate
e gli Stoici, i suoi contemporanei evocano invece il cinico Dioge-
ne, il filosofo antico celebre per il suo gusto della provocazione

14 Voltaire, Sentiment des citoyens, in Mélanges, a cura di J. Van den Heuvel, Galli-

mard, Paris 1961, p. 717.


L'Io Ineffabile: esercizi spirituali e filoso/la moderna 63

e dello scandalo. Leggendo le pagine del Discorso sull'origine


dell'ineguaglianza che denunciano la vanità degli uomini civilizza-
ti - «questa sete di far parlare di noi, questa brama di distinguerci
che ci proietta quasi in permanenza fuori di noi stessi» 15 - Voltaire
commenterà in modo significativo: «Scimmia di Diogene, come
condanni te stesso!». Di fronte a questa perplessità si potrebbe
notare che la stranezza di Rousseau si limita a riprendere uno
degli aspetti più specifici della tradizione antica, la famosa atopia
socratica. Ricorderò quindi brevemente la storia ed il significato di
questo concetto fondamentale, cui Hadot ha dedicato delle pagine
notevoli.
Atopos è una parola che torna spesso nei dialoghi di Platone,
per descrivere il carattere di Socrate (in particolare nel famoso elo-
gio pronunciato da Alcibiade nel Simposio). Significa etimologica-
mente "fuori luogo" o "senza luogo" e può quindi essere tradotto
con strano, stravagante, assurdo, inclassificabile, sconcertante. I fi-
lologi si sono molto interrogati sul senso esatto di questa denomi-
nazione, mentre i filosofi l'hanno interpretata in modo più libero,
a seconda delle loro simpatie teoriche: Montaigne - come abbia-
mo visto - come universalità e disponibilità per tutte le forme di
vita; Kierkegaard come espressione dell'individualità esistenziale,
dell'Unico; Nietzsche come postura "intempestiva" del filosofo
contro lo spirito del tempo. Quanto a Rousseau, basta evocare una
pagina emblematica delle sue Confessioni, che cristallizza in modo
plastico la particolarità del suo "atteggiamento atopico". Si tratta
dell'episodio che racconta la rappresentazione del Devin du village
alla corte di Luigi XV. Il filosofo, che ha appena pubblicato il suo
primo Discorso e applicato la sua riforma, riceve un invito ufficiale
dal Re, che gli vuol proporre una pensione a vita. È un momento
chiave, simbolicamente cruciale, della vita filosofica di Rousseau.

Il J.-J. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli


uomini, in Scritti politici, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1994, voi. l, p. 200. La
filosofia di Rousseau si avvicina al cinismo per la sua critica della civiltà in nome della
natura, per il suo gusto dello scandalo, per la rivendicazione del valore della parrhesia.
Il rapporto di Rousseau con la tradizione cinica non è stato sufficientemente studiato
e meriterebbe una ricerca a parte. Cfr. Heinrich Niehues-Préibsting, The modem re-
ception of cynicism; Diogenes in the Enlightenment, in The Cynics, a cura di R. Bracht
Branham e M.O. Goulet-Cazé, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-
London 1996, pp. 329-365.
64 Barbara Carnevali

Ed ecco come Rousseau lo affronta:

Ero quel giorno nello stesso abbigliamento trascurato che mi era con-
sueto: barba lunga e parrucca semispettinata. Confondendo la mancanza
di decenza con un atto di coraggio, entrai così conciato nella sala dove
sarebbero giunti da lì a poco il re, la regina, la famiglia reale e tutta la
Corte. Andai a prender posto nel palco dove mi condusse il signor de Cu-
ry, e che era il suo. Era un grande palco sulla sala, proprio di fronte a un
palchetto più alto, dove si accomodò il re con la signora de Pompadour.
Circondato da dame, e unico uomo sul davanti del palco, non potevo
dubitare che mi si fosse messo là proprio per mettermi in mostra. Quando
ebbero accese le luci, trovandomi così vestito in mezzo a persone tutte
abbigliate con ricercatezza, cominciai a provare un senso di disagio. Mi
chiesi se ero al mio posto, se ci stavo con convenienza 16 .

Barba lunga, capelli spettinati, abbigliamento intenzionalmente


trascurato: non manca niente al cliché dell'artista in rivolta contro
la società, che sarà poi consacrato dal romanticismo e dal decaden-
tismo - e che ritroviamo oggi nell'immagine popolare del genio
ribelle (si pensi alle icone di Beethoven o di Einstein) o negli atteg-
giamenti finto provocatori delle rock stars. Certo, nel momento in
cui Rousseau compie questo gesto, la rivolta romantica non è anco-
ra diventata un cliché: quel che per noi, abituati agli stereotipi della
ribellione, non è trasgressivo, lo era invece moltissimo nella società
di corte del XVIII secolo. La ricerca intenzionale dello scandalo
nella più formale delle società è stata una delle condizioni di possi-
bilità del rousseauismo come fenomeno storico e culturale.
Se Rousseau si è appropriato dell'atopia, l'ha fatto dunque estre-
mizzando fino in fondo il proprio potenziale di stravaganza e di
eccentricità. Anche Spinoza conduceva una vita ritirata, svolgen-
do un semplice lavoro manuale, ma la sua scelta da vero stoico
era maturata nell'ombra e nella modestia. «La mia partenza fece
chiasso, tutta Parigi ne parlò» ci ripete invece, continuamente,
Rousseau: più che ricordare la modestia e la discrezione del saggio
antico, il suo atteggiamento sembra anticipare la stravaganza del
dandismo, se non il culto contemporaneo della celebrità e della
pubblicità. Questo atteggiamento esibizionista affonda le sue radici
in una delle correnti della morale antica - la tradizione cinica ha

16 J.·J. Rousseau, Le Confessioni, in Scritti autobiografici, op. cit., p. 371.


L'io ineffabile: esercizi spirituali e filosofia moderna 65

alimentato la tradizione moderna della contestazione sociale, come


Foucault e Peter Sloterdijk hanno dimostrato 17 . Ma nell'interpreta-
zione di Rousseau si percepisce una concezione del tutto nuova del
valore dell'individualità. L'io è il vero protagonista della rivolta di
Rousseau. Anziché cancellarsi e dissolversi lentamente nell'univer-
salità cosmica grazie alla pratica dell'esercizio spirituale, la singola-
rità individuale si afferma e trionfa nell'atteggiamento autobiogra-
fico. È nell'io, e attraverso l'io particolare, originale, diverso, che la
natura si esprime e che la verità e la giustizia si rivelano. In fondo,
il gesto al teatro di Fontainebleau si limita a riprodurre nella prati-
ca il gesto autobiografico che apre le Confessioni:

Essere eterno, raduna intorno a me l'innumerevole turba dei miei simi-


li: ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie bassezze, arrossiscano
per le mie miserie. Ciascuno d'essi con la stessa sincerità scopra a sua
volta il suo cuore ai piedi del tuo trono: e poi uno solo ti dica, se ne ha il
coraggio: "lo fui migliore di quell'uomo" 18 •

Questa voce, che prende la parola rivendicando il diritto di


parlare di sé e che reclama l'attenzione di tutta l'umanità, è ancora
più privata e nutrita di amour-propre di quella di Montaigne. Di
conseguenza, le reazioni del pubblico di Rousseau saranno ancora
più scandalizzate di quelle dei lettori dei Saggi. Sarebbe meglio
non utilizzare categorie abusive come quelle di "io moderno" o di
"soggettività moderna", che rimandano in modo implicito a una
filosofia della storia che vede uno sviluppo teleologico nel passag-
gio dall'antichità alla modernità. Ma è evidente che nel modo in
cui Rousseau interpreta la filosofia come modo di vivere si assiste
all'emergere di un fenomeno nuovo, una nuova concezione dell'au-
tenticità morale, che si fonda su un rapporto molto diverso tra
individualità e universalità.

Ii Peter Sloterdijk, Critica delta ragion cinica, Garzanti, Milano 1992 e Miche! Fou-
cault, Le courage de la vérité. Cours au Coltège de France, 1983-1984, a cura di F. Gros,
F. Ewald e A. Fontana, Gallimard-Seuil, Paris 2009.
18 J.-J. Rousseau, Le Confessioni, in Scritti autobiografici, op. cii., pp. 4-5.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale
Sandra Laugier

Pierre Hadot non è solo uno dei più grandi specialisti di filosofia
antica, è anche uno dei primi ad aver introdotto l'opera di Wittgen-
stein in Francia, in due articoli apparsi su «Critique» nel 1959 1. Non è
un caso. Il pensiero di Hadot possiede un'intima parentela con quello
di Wittgenstein. Le interpretazioni di Wittgenstein proposte da Ha-
dot nel 1959 sono passate relativamente inosservate ai wittgensteinia-
ni e, inversamente, non potevano essere colte in tutta la loro origina-
lità da tutti quelli che ignoravano l'opera di Wittgenstein. In seguito,
Hadot non ha più parlato di Wittgenstein, se non per allusioni spora-
diche. Tuttavia, elaborando un modello generale della filosofia antica
come etica, pratica del discorso e perfezionamento di sé, Hadot ha le-
gittimato un'apertura ulteriore delle interpretazioni di Wittgenstein a
delle letture originali: quella di Stanley Cavell in The Claim o/ Reason2
e quelle diJames Conant e Cora Diamond. Quarant'anni dopo lasco-
perta di Wittgenstein da parte di Hadot, è giunto il momento di met-
tere in evidenza l'attualità radicale della sua prima opera, mostrando
come la sua definizione dell'esercizio spirituale ci offre un accesso rin-
novato a Wittgenstein e alla dimensione perfezionista della sua opera.

Che cos'è il perfezionismo?

Per iniziare, possiamo partire dal punto in cui alla fine del Ti-
meo si definisce una forma di perfezionismo che ritroviamo, come
ha mostrato Hadot, in tutta la filosofia antica:

1 Testi ripresi insieme ad altri studi su Wittgenstein in un volume di recente pub-


blicazione: P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, op. cit.
2 S. Cavell, The Claim o/ Reason, Oxford University Press, l\'ew York 1979.
68 Sandra Laugier

Della nostra parte divina sono movimenti affini i pensieri e le circola-


zioni dell'universo. È dunque necessario che ciascuno segua quelli[ ... ] e
renda simile, secondo la sua antica natura, il contemplatore al contempla-
to, e fattolo simile raggiunga il fine di quest'ottima vita, che gli dei hanno
proposto agli uomini per il tempo presente e l' awenire3.

Usiamo qui il termine perfezionismo, che Cavell propone per


definire l'etica del trascendentalismo americano. Questo accosta-
mento non è così strano, perché Hadot si è interessato da vicino
a Thoreau e in seguito a Emerson. Cavell confronta questo brano
classico del Timeo con un punto del saggio Esperienza di Emerson:

Quando mi intrattengo con qualcuno di mente più profonda o nutro


in me stesso, in solitudine, più forti pensieri, non giungo, d'un tratto, a
un pieno soddisfacimento, come quando, avendo sete, bevo dell'acqua
[ ... ] oh no! ma ho soltanto come un primo avviso d'essermi awicinato a
una nuova e straordinaria regione della vita. Persistendo nel mio leggere
e pensare, questa regione mi offre ulteriori segnali di sé, quasi come per
sprazzi di luce, con improvvisi discoprimenti della sua profonda bellezza
e serenità4 .

Questo brano di Esperienza è molto sorprendente, perché in


questo testo Emerson evoca la perdita dolorosa del figlio Waldo;
questo sforzo, in un tale momento, di voler accedere a questa re-
gione che chiama più oltre una «nuova e inaccessibile America» 5 ,
riprende esattamente la forma dell'esercizio spirituale quale Hadot
l'ha definito 6 , e ne ha mostrato la presenza, ad esempio, in Marco
Aurelio, ne La cittadella interiore7 .
Questa ricerca del miglior io e di questa altra regione, associata
al perfezionamento di sé è alla base di una morale che chiameremo,

Platone, Timeo, 90c, trad. it. a cura di F. Sartori e C. Giarratano, in Opere com-
plete 6, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 443-444.
4
Ralph W. Emerson, Esperienza, in Natura e altri saggi, a cura di T. Pisanti, Riz-
zali 1990, p. 214.
l Ibid.
6 Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cii.
7 P. Hadot, La cittadella interiore, op. cit. Va notato che il passaggio citato vede ne
La cittadella interiore l'apparizione di uno dei grandi manifesti trascendentalisti degli
anni Novanta, il film L'attimo fuggente, in cui un professore allievo di Thoreau e Emer-
son insegna ai suoi allievi il Carpe diem, mostrando loro una foto di studenti pieni di
vita, ma morti ormai da tempo.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 69

con Cavell, perfezionista. Cavell inventa il termine a proposito di


Emerson, e ne ripercorre l'origine fino a Platone. Essa esiste, come
sosteneva Hadot nell'articolo di apertura di Esercizi spirituali, fino
al Medioevo e definisce gli esercizi spirituali con i quali si lavora su
se stessi. Questo implica dunque una nuova definizione dell'idea di
esercizio spirituale, in due sensi.
Innanzitutto, l'esercizio filosofico non è più, chiaramente, uno
«sradicamento dalla vita quotidiana», a differenza di quel che è
suggerito nel saggio Esercizi spirituali. Sappiamo che con questo
sradicamento Hadot intendeva una dimensione fondamentale della
scelta filosofica: decidere di rinunciare alle «convenzioni sociali»8 ,
di cambiare modo di vivere. Per Hadot, come per Emerson, la filo-
sofia è fondata sull' «avversione per la conformità» e il filosofo è un
non conformista (è la definizione emersoniana della Sel/-Reliance,
in cui si avverte già la parola conversione). Ma con il passaggio, in
Hadot, alla ricerca di una definizione dello stoicismo e, più in ge-
nerale, della filosofia antica, appare l'idea che questo cambiamento
filosofico possa compiersi nella vita quotidiana, con la compren-
sione di quel che è il quotidiano, il terra-terra (Hadot cita piutto-
sto spesso Kierkegaard). Marco Aurelio descrive la bellezza della
vita ordinaria9 . La riabilitazione del quotidiano sarebbe una nuova
forma di esercizio e il linguaggio quotidiano, come in Thoreau e
Wittgenstein 10 , il nuovo luogo della trasformazione-conversione
che la filosofia esige.
Da qui deriva il secondo senso in cui l'idea di esercizio spiri-
tuale si trasforma: è un esercizio di linguaggio. Esercizio e uso del
linguaggio, abituale e ripetuto: linguaggio parlato (il dialogo so-
cratico come esercizio spirituale in Esercizi spirituali), linguaggio
scritto (la scrittura come esercizio spirituale) e, infine, linguaggio
letto (la lettura, luogo privilegiato di un rapporto etico con il lin-
guaggio).

8 P. Hadot, La cittadella interiore, op. cit., p. 162.


9 lvi, p. 158.
IO Henry D. Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi, a cura di M. Bulghero-
ni, Mondadori, Milano 1970, opera cui Hadot ha dedicato uno splendido articolo:
"Il y a de nos jours des pro/esscurs de philosophie, mais pas de philosophes ... ", in P.
Hadot, Exercices spiritules et philosophie antique, a cura di A.I. Davidson, Albin
Miche!, Paris 2002, pp. 333-342 [testo non presente nell'edizione italiana dell'opera
(N.d.T.)].
70 Sandra Laugier

La lettura di Wittgenstein proposta da Hadot nel 1959 era


deliberatamente etica e perfezionista. Hadot è ancora quasi sco-
nosciuto quando pubblica una serie di articoli che mettono in
luce un legame tra la sua concezione della filosofia antica come
pratica e l'intento "terapeutico" che individua, prima di altri,
in Wittgenstein. Hadot si è innanzitutto interessato al Tractatus
logico-philosophicus e al silenzio che conclude l'opera. In un'in-
tervista recente confessa:

Va detto che la fine del Tractatus è estremamente enigmatica. Si capi-


sce piuttosto bene, credo, come Wittgenstein abbia tentato di condurre
il lettore alla constatazione che tutte le sue proposizioni erano nonsense
(forse con il Tractatus intende fare prima di tutto questo). Anche se è
comprensibile, ci si chiede comunque perché si debba tacere. Non pre-
tendo affatto di chiarire questo problema. Del resto, non ci si arrischia più
a parlare di Wittgenstein dopo quello che ne ha detto Jacques Bouveresse.
Il suo libro, Wittgenstein. Scienza etica estetica, è un vero capolavoro che
ammiro molto. Non ho la pretesa di fare meglio 11 .

Hadot è il primo, prima ancora di Diamond, ad assimilare la


questione del non-senso e quella di un' «etica silenziosa» che si
troverebbe in quel che l'autore non ha scritto. A proposito del si-
lenzio finale precisa:

Può aver senso nella prospettiva di una lettera a L. von Ficker del
1919. Wittgenstein vi scrive che ci sono due cose nel Tractatus: quello
che ha detto e quello che non ha detto, e aggiunge che quello che non ha
detto è la cosa più importante, cioè: "la mia opera è soprattutto quello che
non ho scritto". Ora, appunto, egli dice che quella che non ha scritto è la
parte etica 12 .

Quel che Hadot scopre in Wittgenstein è l'idea di un etica silen-


ziosa, iscritta nella comprensione dei limiti del senso. Ma è anche
l'idea di un rapporto semplice, naif, ordinario con il mondo, che
prefigura le interpretazioni di Cavell. Hadot iscrive quindi delibe-
ratamente Wittgenstein nella tradizione della filosofia del linguag-
gio ordinario.

11
P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cii., p. 250.
12
Ibid.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 71

Sappiamo che Wittgenstein stesso è tornato alla filosofia dopo


aver rivendicato il silenzio alla fine del Tractatus. Tutto questo pone
la questione del rapporto tra questa saggezza pratica e la filosofia.
Wittgenstein prende posizione contro l'esistenza stessa di qualcosa
come la filosofia morale, perché per lui la filosofia non è una teo-
ria, un corpo di dottrine, ma un'attività di chiarificazione dei nostri
pensieri. L'etica sarebbe più un'attività, un modo di vivere, che un
insieme di proposizioni teoriche. Wittgenstein permette progres-
sivamente ad Hadot di ampliare il suo approccio etico, non solo
all'antichità, ma al pensiero in generale:

Mi sono reso conto che avevo tentato di proporre un atteggiamento


filosofico che fosse indipendente, in primo luogo, da ogni filosofia parti-
colare e, in secondo luogo, da ogni religione. Qualcosa che si giustificasse
di per sé 13 .

Rivendicando il modello dell'esercizio spirituale come «in-


dipendente da ogni teoria», Hadot adotta una forma di anti-
teorismo a volte rivendicato da wittgensteiniani. Possiamo così
mettere in evidenza l'attualità radicale di questa lettura di Hadot:
la sua definizione dell'esercizio spirituale ci offre un accesso a
Wittgenstein e alla dimensione "perfezionista" della sua opera.
Il Tractatus logico philosophicus aveva attirato l'attenzione di Ha-
dot innanzitutto per lo status del linguaggio, quale è stabilito in
quest'opera. Si insisterà molto (l'ha fatto lui stesso) sul rapporto
tra la lettura del Tractatus proposta da Hadot nel suo articolo
Wittgenstein filosofo del linguaggio 14 e il silenzio mistico che
sembra esser proposto da Wittgenstein alla fine della sua opera.
Tuttavia, l'interpretazione lucida che Hadot aveva dato di que-
sto silenzio non ha mancato di incoraggiare - in Francia e non
solo - delle letture misticizzanti. Il "misticismo" del Tractatus
non è affatto un sogno di ineffabilità ed il silenzio del Tractatus
radicalizza la questione dei limiti del linguaggio e del mondo, che
non possono essere superati, né descritti. Recentemente Hadot
ha precisato:

IJ Jvi, p. 252.
14
P. Hadot, Wittgenstein filosofo del linguaggio I, in Wittgenstein e i limiti del lin-
guaggio, op. cit., pp. 51-73.
72 Sandra Laugier

In Wittgenstein, per esempio, tenuto conto della mentalità con cui


lo leggevo nel 1959, mi ha interessato soprattutto la mistica, o meglio,
quello che per me era positivismo mistico. Era quasi una contraddizione
in termini: perché Wittgenstein aveva osato parlare di mistica? 15

Hadot ha quindi una corrispondenza con Elisabeth Anscombe,


in cui si interroga sulla formula da lei attribuita a Wittgenstein:
«quella che per lui era la cosa più importante, era la meraviglia di
fronte al mondo». Questo atteggiamento di fronte al mondo, che
Hadot chiama altrove «sentimento oceanico», gli sembra quindi
poco compatibile con il secondo Wittgenstein, che gli pareva esser
caduto (dopo un lungo periodo di silenzio) in una forma di banali-
tà. Hadot è stato nondimeno il primo a interrogarsi sulla riflessione
del Tractatus sui limiti del linguaggio e sul suo rapporto con la vita
ordinaria. Il Wittgenstein del Blue book, poi delle Ricerche, non
tenta più di correggere o chiarificare il linguaggio ordinario (già
nel Tractatus il linguaggio ordinario era detto «del tutto ordinato»
[5.5563]), ma sceglie al contrario di seguirlo, di lasciarsi guidare
da esso. Un legame indubitabile tra il Tractatus e le Ricerche è
l'immanenza al linguaggio, il non-senso che c'è nel volerne avere
una visione o un approccio esteriore. Siamo sempre all'interno
«di una forma di vita» nel linguaggio. Gli esercizi spirituali non
sono un contro-esempio, ma una conferma di questa immanenza.
Sono sempre espliciti, detti: sono esercizi di linguaggio. Per que-
sto la nozione di esercizio spirituale è almeno altrettanto vicina al
secondo Wittgenstein che al primo e permette di comprendere la
continuità dall'uno all'altro. Nelle Ricerche, come nel Tractatus, c'è
un progetto di desublimazione della filosofia, una volontà di ripor-
tarla su terra («noi riportiamo le parole» dice Wittgenstein, «dal
loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano» 16 ).
La ~ontinuità dell'opera di Wittgenstein si traduce anche nella per-
sistenza di quel che nel Tractatus è chiamato «Umgangsprache» e
nelle Ricerche «unsere alltiigliche Sprache». Per Wittgenstein, come
per Hadot, il linguaggio è sempre nostro, noi nasciamo in esso. È

15 P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 243.


16 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi,
Torino 1983, f 116. Si veda anche S. Cavell, Conditions Handsome and Unhandsome,
Chicago University Press, Chicago 1989 e, dello stesso autore, Statuts d'Emerson. Con-
stitution, philosophie, politique, a cura di Ch. Fournier e S. Laugier, L'Éclat, Paris 1992.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 73

una verità etica, e difficile da accettare; tutte le nostre parole sono


apprese, sono quelle degli altri, sono già state dette e non possiamo
elevarci, se non per illusione, al di sopra (fuori) del linguaggio ere-
ditato. Il linguaggio è la nostra forma di vita, e non ce n'è un'altra.
Questo è stato detto molto chiaramente da Cavell:

Per quelle creature, per cui il linguaggio è la nostra forma di vita, quel-
le che Esperienza chiama "vittime dell'espressione" - mortali - il linguag-
gio è ovunque ci troviamo, che significa ovunque nella filosofia[ ... ]' 7 .

Quelli che chiameremo, con il grande specialista dell'opera di


Hadot, Arnold I. Davidson, «gli esercizi spirituali della filosofia»,
consistono nell'accettare questo destino. I limiti del linguaggio so-
no i limiti del mio mondo e della mia vita: riconoscere la mia forma
di vita nel linguaggio è riconoscere la mia finitudine. L'esercizio
spirituale consisterebbe nel comprendere la mia situazione nel
linguaggio, ed è un apprendimento della morte, come della vita, i
cui limiti sono quelli del mio mondo. È quel che definisce il senso
etico del Tractatus:

Così questo silenzio può avere un senso scettico, secondo l'accezione


antica del termine. Si tratterebbe, cioè, di un atteggiamento scettico che
consisterebbe nel vivere come tutti gli altri, avendo però un distacco
interiore totale, che implica il rifiuto di ogni giudizio di valore. Questo
rappresenta una forma di saggezza 18 .

Questa etica wittgensteiniana definisce dunque una forma non


religiosa di esercizio spirituale. In Esercizi spirituali, Hadot conce-
piva questi esercizi in termini di padronanza del discorso (anche
interiore), di appropriazione di un gioco linguistico. La volontà
che, secondo Hadot, è una costante dell'opera di Wittgenstein, è
proprio quella di guarire dal desiderio di uscire dal linguaggio ed
anche, cosa più difficile, dal desiderio di teorizzare l'impossibilità
di uscirne: sarebbe questa la vera terapeutica dell'opera di Wittgen-
stein, che non mira a guarirci dalla filosofia, ma a farci comprende-
re la natura del non-senso.

17 S. Cavell, This New Yet Unapprochable America. Lectures a/ter Emerson a/ter

Wittgenstein, Living Batch Press, Albuquerque (New Mexico) 1989, p. 118.


18 P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cii., p. 251.
74 Sandra Laugier

Il linguaggio come pratica

Una seconda costante nell'opera di Wittgenstein, anch'essa molto


caratteristica del modo di procedere di Hadot, è l'alleanza del lin-
guaggio e della pratica. Essa è già presente nella distinzione classica
e feconda tra quel che è detto e quel che si mostra nel linguaggio.
Non si tratta di scoprire un significato autentico delle parole,
mito di cui Wittgenstein si è disfatto nel Blue Book. Non c'è spiega-
zione ostensiva né significato originale, ci sono solo altre parole. Il
linguaggio c'è prima di me. Allo stesso modo, non posso tornare alle
origini del pensiero. Il senso etico del ritorno al linguaggio ordinario
sta nel fatto che il linguaggio così visto è un accesso all'ordinario
delle nostre vite. Come ha detto Cavell, Thoreau e Wittgenstein pro-
lungano semplicemente l'oracolo socratico: so di non poter sapere
quel che nessuno può sapere: so anche che chiunque altro può sape-
re quel che io so, ne sa altrettanto di me. Hadot, in Esercizi spirituali
cita un brano di Vauvenargues:

«Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che faces-
se amare vecchie verità». [ ... ] Vecchie verità ... poiché ci sono verità di
cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che
siano difficili da capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso
hanno persino l'apparenza della banalità; ma, precisamente per compren-
derne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l'esperien-
za: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a
rileggere queste "vecchie verità" 19 .

Il pessimismo, la malinconia di fronte al mondo (la quiet de-


speration di cui parla Thoreau) non sono un disprezzo della vita
ordinaria, così come in Marco Aurelio la descrizione lucida delle
realtà fisiche e morali non è sempre disgusto. Il mondo non è come
dovrebbe essere, ognuno ne conviene. Ma è solo in questo mondo
che posso cambiare, non ce n'è un altro. Questo è quel che defini-
sce lo stoicismo e la sua forma di esercizio spirituale (cambiare qui
ed ora, come con degli esercizi fisici).
In Hadot, è questione anche di una critica, centrale nella sua
concezione della filosofia antica, della filosofia teorica. È vero che

19
P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antù:a, op. cii., p. 68.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 75

Wittgenstein sconsigliava regolarmente ai suoi allievi di diventare


filosofi e diceva loro di scegliere invece un «mestiere decente»20 .
Nello stesso spirito, Hadot ha commentato a lungo un brano di
Walden di Thoreau:

«Al giorno d'oggi vi sono professori di filosofia, ma non filosofi».


Per lui, «essere filosofi non significa soltanto avere dei pensieri acuti, né
fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi
dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fi-
duciosa. Significa i risolvere problemi della vita non solo teoricamente ma
praticamente»21 •

Scopriamo così in Walden una forma di morale più vicina alla


saggezza antica che alla morale puritana cui vengono talvolta asso-
ciati i pensatori americani. La filosofia, per Thoreau e Wittgenstein,
come per Hadot, è fondamentalmente pratica. Così, secondo Ha-
dot, la filosofia nell'antichità era essenzialmente lettura e conver-
sione. Questo modo di associare la conversione alla vita ordinaria è
molto presente in un tipo di inquietudine filosofica che si percepi-
sce in Thoreau, Kierkegaard e Wittgenstein. Secondo Hadot:

[ ... ] Possiamo rappresentarci tutta la storia della filosofia come uno


sforzo incessantemente rinnovato per perfezionare le tecniche di "conver-
sione", le tecniche, cioè, destinate a trasformare la realtà umana, ricondu-
cendola alla sua essenza originale (conversione-ritorno), o modificandola
radicalmente (conversione-mutazione). [ ... ] Più e meglio di una teoria
sulla conversione, la filosofia è sempre rimasta essa stessa essenzialmente
un atto di conversione. [ ... ] In tutte queste forme, la conversione filosofi-
ca è sradicamento e rottura rispetto al quotidiano, al familiare2 2 .

Come la filosofia di Hadot suggerisce, la conversione sarebbe


quindi un ritorno al quotidiano dopo questo sradicamento - ma
un quotidiano trasformato, «un luogo in cui non eravamo mai an-
dati», dice Cavell. Le cose che crediamo ineffabili o invisibili sono

°
2 Cfr. Jacques Bouveresse, Wittgenstein. Scienza etica estetica, a cura di S. Benve-
nuto, Laterza, Roma-Bari 1982.
21 H.D. Thoreau, Walden, op. cit., p. 59, brani citati in P. Hadot, "Il y a de nos

jours des pro/esseurs de philosophies, mais pas de philosophes... ", art. cit., p. 334.
22 P. Hadot, Conversion, in Exercices spirituels et philsophie antique, op. cit., p. 224

e p. 233 [testo non presente nell'edizione italiana dell'opera (N.d.T.)].


76 Sandra Laugier

già dette, sono qui di fronte a noi, ai nostri piedi. Basta imparare a
guardare: la conversione è un rovesciamento dello sguardo.
La distinzione, piuttosto feconda, tra quel che è detto e quel che
si mostra nel linguaggio ha suscitato un'interpretazione inganne-
vole di Wittgenstein in termini di ineffabilità (si mostrerebbe quel
che non può essere detto). Ora, non c'è ineffabile: quel che è non-
senso è puramente non-senso e non può essere pensato, mentre il
resto può essere pensato e detto. L'etica non si trova nell'ineffabi-
le, ma nella vita stessa. In Thoreau c'è una bella formulazione di
questo punto:

Le cose che, al momento attuale, sono inesprimibili, possiamo trovarle


espresse in qualche luogo. Questi stessi interrogativi che ci assillano, stu-
piscono e confondono, si sono presentati, a loro volta, a tutti i saggi[ ... ] e
ognuno ha trovato riposta a seconda della propria abilità, con le sue paro-
le e con la sua vita 23 .

Nelle Ricerche, Wittgenstein afferma anche che quel che sem-


bra ineffabile è qui, si mostra (con le parole e con la vita). Questa
posizione prolunga di fatto quella del Tractatus (6.54): non c'è un
"al di fuori" del linguaggio e comprendere l'autore del libro è com-
prendere che il libro è sprovvisto di senso. Questa insistenza finale
e inattesa sull'autore in un'opera così metafisica come il Tractatus
(«colui che mi comprende» (6.54)) mostra bene lo status del Tracta-
tus, che è quello di trasformare il lettore, non di proporgli una teo-
ria: di trasformarlo (facendogli comprendere che, e come, quel che
legge è sprovvisto di senso), non di enunciargli qualcosa 24 .
Questo avvicina quest'opera, nel suo metodo, a un certo me-
todo della filosofia antica quale Hadot lo ha definito25 . Lo scopo
dell'opera, in Wittgenstein, non è quello di produrre una teoria
del mondo e un discorso sistematico, ma è di agire sul suo lettore

23 H.D. Thoreau, Walden, op. cit., p. 150.


24
P. Hadot, Wittgenstein philosophe du langage (II), in «Critique», n. 150, novem-
bre 1959, p. 973 e p. 976, ora in Wittgenstein e i limiti del linguaggio, op. cit., pp. 75-76
e pp. 79-81. Per delle versioni recenti di questo punto di vista, si vedano i lavori di
James Conant e Cora Diamond: cfr. C. Diamond, The Realistic Spiri/. Wittgenstein, Phi-
losophy, and the Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991; Aa. Vv., Wittgenstein,
métaphysique et.feux de langage, a cura di S. Laugier, PUF, Paris 2001 e Sandra Laugier,
Wittgenstein. Le sens de l'usage, Vrin, Paris 2009.
2
' Cfr. P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica', Einaudi, Torino 1998.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 77

(l'interlocutore delle Ricerche, che hanno forma di dialogo), di


cambiarlo (è quel che suggerisce la conclusione del Tractatus).
In questo senso, la lettura di Wittgenstein sarà anche, come dice
Hadot nella sua prefazione a Esercizi spirituali a proposito del
Tractatus, una forma di esercizio. Ma ogni lettura, come Hadot ha
progressivamente mostrato, è di questo ordine. Essa richiede la
trasformazione del lettore e non (solo) la sua istruzione.

La lettura come esercizio spirituale

Queste osservazioni sull'eredità wittgensteiniana dell'esercizio


spirituale suscitano una domanda: la tradizione dell'esercizio spi·
rituale si ferma dawero nel Medioevo, per esser riscoperta, come
Hadot suggerisce, solo nell'esistenzialismo contemporaneo? Eppure
sembra che questa tradizione dell'esercizio spirituale filosofico
venga scoperta di nuovo in America nel XIX secolo, in quei pensa-
tori americani poco noti in Europa, come Emerson e Thoreau, che
inaugurano una tradizione di pensiero rimossa in seguito durante
l'importazione massiccia della filosofia analitica europea nel XX
secolo. Se siamo diventati quasi incapaci di leggere questi filosofi
nei termini proposti e inventati da Hadot oggi, è forse a causa della
loro qualifica ingannevole di "trascendentalisti", e perché sono stati
riscoperti solo recentemente, precisamente attraverso l'emergere di
una nuova lettura di Wittgenstein. Come i commentatori americani
hanno notato, in particolare Arnold I. Davidson26 , c'è una parentela
tra la scoperta di Thoreau e Emerson da parte di Cavell e la risco-
perta della filosofia antica da parte di Hadot. Hadot ci insegna a
leggere diversamente. In modo più generale, ci insegna a leggere (è
il titolo dell'ultima parte dell'articolo inaugurale di Esercizi spiritua-
li) e ci insegna anche che (per parodiare una delle sue espressioni
preferite) filosofare è imparare a leggere e che la lettura è forse il più
difficile e il più formatore degli esercizi spirituali, per il modo molto
specifico in cui mette in gioco la soggettività del lettore e dell'autore.
C'è una parentela tra la filosofia della lettura presentata in
Emerson e Thoreau e quella suggerita da Hadot. Emerson scrive

26 A.I. Davidson, Cavell, Hadot, et !es exercices spirituels de la philosophie, ne «L'a-

venture humaine», n. 7, 1997.


78 Sandra Laugier

in SelfReliance queste parole, che permettono di parlare della let-


tura come di un esercizio spirituale:

Familiare com'è una tale voce a ciascuno di noi, il merito maggiore


che noi attribuiamo a Mosè, a Platone e a Milton è che essi non tennero
in nessun conto libri e tradizioni, ed espressero non ciò che gli altri uo-
mini pensavano, ma ciò che essi pensavano. Ognuno dovrebbe imparare
a scoprire e a tener d'occhio quel barlume di luce che gli guizza dentro
la mente più che lo scintillio del firmamento dei bardi e dei sapienti. E
invece ognuno dismette, senza dargli importanza, il suo pensiero, proprio
perché è il suo. E intanto, in ogni opera di genio riconosciamo i nostri
propri pensieri rigettati; ritornano a noi ammantati di una maestà che
altri hanno saputo dar loro27 .

Si può confrontare questo brano con un bel passaggio di Hadot:

In fondo, i libri che mi hanno influenzato sono quelli che esprimevano


quel che sentivo già in modo confuso, che dicevano meglio di me qualcosa
che avrei voluto dire[ ... ] In questa lunga frequentazione, mi sono lasciato
lentamente impregnare anche da quel che in essi mi era estraneo, e non
so più, ora, cosa è in essi, e cosa appartiene a me2 8 •

Questa filosofia della lettura, lungi dallo svalutare lo scritto (co-


me morto), lo concepisce come qualcosa di essenzialmente vivo.
Non è sufficiente leggere per leggere bene: bisogna ridare, come di-
ce Wittgenstein, un senso, una vita alle parole che diciamo e leggia-
mo. Da questo punto di vista, la lettura è indissolubilmente legata
alla vita quotidiana. Questo è evidente in particolar modo in Tho-
reau. Leggere Walden (come scrivere Walden a Walden) consiste
nell'aprire gli occhi, nel ritrovare il senso di quel che vediamo quo-
tidianamente, un'intimità perduta con la nostra esistenza ordinaria.
C'è anche un rapporto tra leggere e vivere. Bisogna, secondo
Thoreau e Emerson, reimparare a parlare e a leggere, per sapere
quel che hanno voluto dire questi autori morti da tempo, ma che
hanno pur tuttavia un linguaggio comune con noi, di cui siamo
gli eredi. È un apprendimento difficile, perché non sappiamo più

27 R. W. Emerson, Fiducia in se stessi, in Natura e altri saggi, op. cii., p 92.


28 P. Hadot, Émeroeillements, in Aa. Vv., La bibliothèque imaginaire du Collège de
France, Le Monde Éditions, Paris 1990, p. 128.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 79

parlare. È sorprendente come degli autori reputati anti-intellettua-


listi accordino tanta importanza alla lettura. Thoreau le dedica un
capitolo intero, Emerson qualche passaggio celebre dei suoi Saggi:

Bisogna essere inventori per leggere bene[ ... ]. C'è poi una lettura cre-
atrice, così come c'è una scrittura creatrice. Quando lo spirito è rinvigori-
to dal lavoro e dall'invenzione, la pagina di qualsiasi libro che leggiamo si
illumina di allusioni multiple. Ogni frase è doppiamente significativa, e il
senso del nostro autore è ampio come il mondo29 .

Thoreau, in Walden, ironizza sul nostro "livello di linguaggio":


«le nostre letture, la nostra conversazione e la nostra maniera di
pensare, sono tutte a un livello assai basso, di qualità rozza e mise-
rabile degno solo di pigmei e di omuncoli»30 .
È stata proprio questa teoria del linguaggio e della lettura a con-
durre Emerson a inventare un concetto dei più originali: la lingua
paterna:

I libri bisogna leggerli con la prudenza e la riservatezza con cui furono


scritti, poiché c'è un salto considerevole tra la lingua parlata e la lingua
scritta, tra la lingua udita e la lingua letta: normalmente, la prima è tran-
sitoria, un suono, un linguaggio, un semplice dialetto quasi bruto, che
impariamo come bruti, incoscientemente, succhiando il latte materno;
[ ... ] la seconda è la nostra lingua padre, espressione scelta e riservata,
troppo densa di significati per essere appresa dalle orecchie, e per parlarla
dobbiamo rinascere3 1•

Leggere bene è rinascere. Le nostre parole, come le nostre vite,


hanno perso il loro senso (i loro sensi) e dobbiamo imparare a ri-
trovarli. Ed è proprio il compito (pedagogico) che si dà Walden,
indissociabile da una diagnosi pessimista sulla nostra reale capacità
di leggere. Come dice finemente Hadot:

Passiamo la nostra vita a "leggere", ma non sappiamo più leggere, os-


sia fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi,

29 R. W. Emerson, The American Scholar, in Essayr and Poemr, a cura di P. Nor-

berg, Barnes & Noble Classics, New York 2004, p. 55.


30 H.D. Thoreau, Walden, op. cit., p. 149.
31 lvi, p. 144.
80 Sandra Laugier

lasciare da parte le nostre ricerche della sottigliezza e dell'originalità, me-


ditare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino32 .

Si tratta di recuperare un contatto perduto con il nostro lin-


guaggio, non per ritrovare un significato mitico e originale delle
parole, ma per giungere a una precisione nell'espressione che de-
finisce l'etica del linguaggio. Si può pensare a quel che dice Emer-
son in Self-Reliance:

Un tale conformismo li rende [gli uomini] falsi non in questo o in quel


particolare, autori solo di questa o quella bugia, ma falsi in ogni cosa.
Ogni loro verità non è mai del tutto vera. Il loro due non è il vero due, il
loro quattro non è il vero quattro; e così, ogni loro parola ci imbarazza, e
noi non sappiamo da dove cominciare per rimetterli in sesto 33 .

Si tratta proprio di apprendimento e di esercizio, di apprendi-


mento e di educazione: imparare è semplicemente continuare a
crescere nell'età adulta, cosa che consiste, secondo Cavell, nel mo-
mento in cui la crescita fisica è completata, a cambiare o - dato che
è il segno del vero cambiamento - a rinascere. È questa «seconda
nascita» che la lingua paterna esige.

Il linguaggio come politica

Linguaggio e pratica sono, in Thoreau come in Wittgenstein,


intimamente mescolati. Questo spiega il fascino di Hadot per que-
ste due figure. La scrittura di Walden è quindi un mezzo per gua-
dagnarsi la vita con il «lavoro manuale» e un modo di redenzione
tramite il linguaggio. Non manchiamo né di parole né di pensieri.
I filosofi non sono i soli, come diceva Marx, ad aver interpretato il
mondo: tutti gli uomini lo hanno fatto. Tutti noi. Per questo dob-
biamo cambiare ed agire. È la cosa più difficile (quel che Wittgen-
stein chiamava: The bloody hard way). Thoreau, Wittgenstein e
Hadot lettore della filosofia antica suscitano la stessa incompren-
sione, o difficoltà, di fronte a quel che esigono dal loro lettore: una

12 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. 68.


13
R.W. Emerson, Fiducia in se stessi, in Natura e altri saggi, op. àt., p. 99.
Linguaggzo ordinario ed esercizio spirituale 81

lettura altrettanto attenta e riservata della scrittura stessa del testo


originale: una redenzione al tempo stesso del linguaggio e della no-
stra vita (del linguaggio tramite la vita e viceversa). In questo ritor-
no alla pratica e in questa politica del linguaggio sarà ugualmente
possibile trovare il vero senso della lettura che Hadot ci offre della
filosofia antica.
Non posso tornare alle origini della filosofia: è troppo tardi e la
grandezza della filosofia di Hadot sta nel mantenere sempre questo
punto in linea di principio. Le parole di quegli scrittori morti che
leggiamo oggi vivono solo dell'uso che facciamo ora dei loro pen-
sieri. Ricercare così il loro uso è in qualche modo riportare la filo-
sofia al livello dell'ordinario, non rifiutare il linguaggio ordinario,
né migliorarlo o analizzarlo, ma fondarsi su di esso per vedere che
contiene forse le risposte, sempre già presenti, alle domande che ci
pomamo.
Il mondo non è come dovrebbe essere, ognuno ne conviene. Ma
è solo in questo mondo che posso cambiare (e che ha senso parlare
di cambiamento); non ce n'è un altro. Questo è quel che definisce
lo stoicismo e la sua forma di esercizio spirituale (cambiare qui ed
ora, come con degli esercizi fisici). Ma è anche quel che costituisce
la dimensione perfezionista degli esercizi. Emerson dice quindi in
Esperienza:

So bene che il mondo col quale sono in contatto, sia in città che in
campagna, non è il mondo che io penso. Vedo bene la differenza, e la ter-
rò ben presente. Un giorno conoscerò valore e legge di questa discrepan-
za. Ma non ho trovato che si sia guadagnato molto dai vari pratici tentativi
di realizzare il pensiero 34 .

Non c'è altro mondo che il mondo reale, con il quale parlo, il
mondo fisico descritto da Marco Aurelio. Il supposto pessimismo di
Marco Aurelio e di Thoreau sarebbe quindi l'espressione non di una
nostalgia, ma del fatto che possiamo aspirare a uno stato nuovo di
noi stessi, uno stato in cui il nostro io sarà espresso in modo più per-
fetto. Questa è la concezione che Cavell chiama perfezionismo mo-
rale. Ma è una concezione oggi poco nota, che si trovi in Emerson e
Thoreau o nella morale antica da cui questo perfezionismo è tratto:

34
R.W. Emerson, Esperienza, in Natura e altri saggi, op. cit., pp. 224-225.
82 Sandra Laugier

Quando chiedo se possiamo considerare Emerson e Thoreau come parte


della nostra eredità di filosofi, intendo dire che la nostra estraneità di filoso-
fi rispetto a questi scrittori (ed è difficile immaginare scrittori più estranei
alla nostra attuale sensibilità filosofica stabilita) può essere un segno di un
impoverimento dell'idea di filosofia, di una lontananza dalle origini della
filosofia, da quel che le è proprio [native]3 5•

Quel che è proprio [native] per la filosofia, per la sua origine è


la sua capacità di trasformarci. Filosofare è imparare a morire e a
vivere; dal punto di vista dell'apprendimento è la stessa cosa.

Da allora, questa formula per me simbolizza sia i Saggi [Essais] di


Montaigne, che le "prove" [essais] della mia vita, sia la filosofia dell'anti-
chità che la filosofia stessa. Ho imparato allora, in modo ancora confuso,
ma per sempre, che la filosofia non era una costruzione teorica astratta,
ma un esercizio, un apprendimento, un allenamento non solo a morire,
ma a vivere in un certo modo, nella coscienza e nella lucidità, e che il di-
scorso filosofico aveva senso solo se conduceva a questo risultato, e infine
che questo genere di filosofia era esattamente la filosofia quale l'antichità
l'aveva concepita e vissuta[ ... ]3 6.

Niente di nuovo in questo. Lo stesso, nessuna grande scoper-


ta da aspettarsi dalla lettura di Walden, e tuttavia è un libro che
(nella sua trivialità apparente) ha la capacità di cambiarci. Questa
problematica del cambiamento prende la forma della conversione.
Si tratta, nel senso proprio, di guadagnarsi la vita e l'insistenza di
Thoreau sull'economia non ha altro senso che questo: «Quando
andai al lago di Walden, il mio scopo era non di condurvi una
vita parsimoniosa o dispendiosa, bensì di occuparmi di certi affari
privati»37 .
Questi affari privati sono una questione di salvezza personale:
guadagnarsi la vita è regolare i conti una volta per tutte, ma per
farlo occorre essere capaci di lavorare manualmente. Questa è una
salvezza che non si guadagna con la morale, né con la filantropia,
tanto denigrata da Thoreau come da Emerson, né con la filosofia

3' S. Cavell, An Emerson Mood, in The Senses o/ Walden, North Point, San Franci-

sco 1981, p. 148.


36 P. Hadot, Émerveillemenls, in Aa. Vv., La bibliolhèque imaginaire du Collège de

France, op. cii., p. 121.


li H.D. Thoreau, Walden, op. cii., p. 64.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 83

come attività teorica. Ne deriva un rifiuto per la morale "morali-


sta" condiviso sia da Hadot che da Thoereau: «In generale», dice
Hadot, «io non sono un grande moralista e temo che il termine
"etico" sia troppo ristretto, a meno che non lo si intenda nel senso
dell'etica di Spinoza»38 . L'ipocrisia della morale in senso stret-
to è costantemente denunciata dal perfezionismo, da Emerson a
Nietzsche:

Per quanto tempo ancora staremo seduti sotto le nostre verande, prati-
cando virtù oziose e ammuffite, che qualunque lavoro dimostrerebbe futi-
li? Come se si dovesse cominciare la giornata con molta sopportazione, e
poi si chiamasse un uomo che venga a vangarci le patate; e nel pomeriggio
si uscisse di casa a praticar umiltà e carità cristiana39 .

La filosofia, per Thoreau come per Hadot (come anche per


Kant, citato a lungo da Hadot ne La cittadella interiore) è fon-
damentalmente pratica. Questo rende al tempo stesso evidente
e difficile il rapporto filosofico con la vita ordinaria. Il filosofo è
estraneo all'ordinario, ma tenta di avvicinarvisi - è quel che Cavell
chiama l'inquietante estraneità dell'ordinario.
Come Hadot dice:

Già il Socrate dei dialoghi platonici era detto atopos, ossia "inclassifica-
bile". Ciò che lo rende atopos è precisamente il fatto di essere "filo-sofo"
nel senso etimologico della parola, ossia di amare la sophia, la sapienza.
Poiché la sapienza, dice Diotima nel Convito di Platone, non è uno stato
umano, è uno stato di perfezione nell'essere e nella conoscenza che può
essere solo divino. È l'amore di questa sapienza estranea al mondo a ren-
dere il filosofo estraneo al mondo40 .

Ma il filosofo non può nemmeno vivere altrove, fuori dal quo-


tidiano41. Per andare fino in fondo al modo di procedere della
lettura di Hadot, bisogna capire che spetta anche alla filosofia fare
posto alla vita, divenire ordinaria, superando la sua tendenza classica
a voler uscire dal quotidiano. Questo divenire è dell'ordine del

18
P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 244.
9
i H.D. Thoreau, Walden, op. cit., p. 371.
40
P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. 13.
41 Cfr. ivi, p. 14.
84 Sandra Laugier

cambiamento radicale, della trasformazione di sé per mezzo della


modificazione della percezione.
Ma bisognerebbe anche immaginare, come Thoreau, come Cavell
in A la recherche du bonheur4 2 , una forma di conversione immanente
alla vita quotidiana, nella ripetizione dei giorni e delle notti. La vera
conversione sarebbe allora, come tutta la filosofia di Hadot sugge-
risce, un ritorno al quotidiano dopo questo sradicamento - ma un
quotidiano trasformato, un luogo in cui non siamo mai stati.
Questo implicherebbe reinventare la filosofia (o di riscoprirla).
È ancora possibile? Di nuovo, il solo inzio di risposta sarebbe pra-
tico. Si può pensare a Wittgenstein (che affermava che se un vero
libro di morale fosse potuto esistere, avrebbe fatto tacere tutto il
resto). Ma Thoreau sa, meglio di Wittgenstein, che il suo libro ri-
voluzionerà solo quelli che vogliono ascoltare quel che dice, quelli
che vedranno che la risposta alle domande che ci poniamo non va
cercata lontano: le cose che crediamo ineffabili sono già dette, so-
no là di fronte a noi, ai nostri piedi.
È questo -1' espressione - che Thoreau vede come soluzione alle
«vite di quieta disperazione»43 :
Io desidero parlare in qualche luogo senza confini; [ ... ] poiché sono
convinto di non poter esagerare abbastanza e gettar le fondamenta di
una vera espressione. [. .. ] La fugace verità delle nostre parole dovrebbe
continuamente rivelare l'inadeguatezza di ciò che resta della nostra di-
chiarazione44.

Ritroviamo lo scopo del politico; ritrovare un'espressione ade-


guata, evitare queste «parole che ci imbarazzano», che suonano
false. L'esercizio spirituale non ci impegna a trovare una fiducia
soggettiva (o trascendentale), ma a ritrovare la capacità di essere
espressivi. «L'uomo è timido e sta troppo a scusarsi; non sta più
saldo e dritto; non osa dire "io penso", "io sono", ma passa a citare
qualche santo o qualche filosofo» 45 . Anche Thoreau raccomanda

42 Cfr. il Dossier: "Lien conjugal et recherche du bonheur", pubblicato in

«Esprit», n. 5, mai 1999, pp. 128-172, ed in particolare l'articolo di S. Cavell, Les


comédies du remariage. Une histoire du lzen conjugal, ivi, pp. 148-158.
4
1 H.D. Thoreau, Walden, op. cit., p. 52.
44
Ivi, pp. 364-365.
45 R.W. Emerson, Fiducia in se stessi, in Natura e altri saggi, op. cii., p. 108.
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale 85

l'accettazione dell'oscurità a se stessi. È anche questo che ne fa un


pensatore del quotidiano, dell'ordinario. Ci rimane da scoprirci,
che vuol dire renderci oscuri a noi stessi. A proposito di Thoreau,
Cavell scrive che dobbiamo ancora: «get our living together, essere
un tutto ed essere una comunità. Non siamo insediati, non siamo
chiari a noi stessi; il nostro carattere, e il carattere della nazione,
non è trasparente a sé»46.
Thoreau cerca così di compiere <<l'exploit dell'oscurità» per rag-
giungere la vera chiarezza:

Non credo di essere stato oscuro, ma sarei orgoglioso se a questo ri-


guardo non si trovasse nelle mie pagine un difetto più grave di quello che
si trovò nel ghiaccio di Walden 47 •

Quello che autori come Thoreau, Wittgenstein e Hadot, così


lontani da un punto di vista geografico e storico se non (per ogni
genere di ragioni) teorico, hanno in comune è la volontà di rein-
ventare uno status per il linguaggio, di vedere come il linguaggio
è allo stesso tempo chiaro e oscuro, pubblico e privato, ordinario
e che esce dall'ordinario; i segni sono morti se non sono integrati
alla nostra (forma di) vita. Indicibile è allora solo quel che non
vogliamo dire, o leggere. Quando Thoreau evoca «Le cose che,
al momento attuale, sono inesprimibili»48 e che sarebbero «dette
altrove» designa (come Wittgenstein quando parla dei limiti del
linguaggio nel Tractatus) quel che è qui, sotto ai nostri occhi: le
parole che sta scrivendo, il suo testo. Questa posizione paradossale
dell'autore è forse quel che rende possibile la vera esperienza della
lettura del testo. Dobbiamo imparare a leggere queste cose «già
dette» per riuscire a dirle e a pensarle noi stessi. Questa arte di
leggere definisce, dall'antichità al XXI secolo, un'altra storia della
soggettività, che non è il minor contributo dell'immensa e singola-
re opera filosofica di Hadot.

46
S. Cavell, The Senses o/ Walden, op. cii., p. 79.
4
' H.D. Thoreau, Walden, op. cii., p. 365.
48 Ivi, p. 150.
La filosofia come modo di vivere e l' antzfilosofia
Gwenaelle Aubry

La questione che vorrei porre fa eco a una conversazione avuta


qualche anno fa con Pierre Hadot, che mi aveva fatto l'onore di
chiedermi di leggere l'introduzione di Che cos'è la filosofia antica? 1
che aveva appena completato. Proprio in quel periodo stavo se-
guendo il seminario di Alain Badiou sull'antifilosofia contempo-
ranea. Mi aveva colpito il fatto che alcune tesi di Hadot potevano
essere (mal) interpretate nel senso dell' antifilosofia, quale la inten-
de Badiou.
L'insistenza sulla dimensione pratica della filosofia, e in parti-
colare della filosofia antica, non poteva essere intesa come parte
della destituzione antifilosofica della filosofia come discorso? Sto
parlando di interpretazione, di ricezione o addirittura di volgariz-
zazione, perché in Hadot stesso non c'è alcuna ambiguità. Ma il
motivo della "filosofia come maniera di vivere" ha avuto talmente
tanti effetti, non solo nel campo della lettura della filosofia antica,
ma anche del rapporto contemporaneo con la filosofia, che ha
potuto talvolta occultare il fatto che per Hadot la filosofia è anche,
e in modo indissociabile, un concatenamento teorico, un modo di
pensare.
Vale dunque la pena di sottolineare quel che, in Hadot, resiste
a questo tipo di interpretazione, e questo può anche essere il mez-
zo per interrogarsi su quel che egli intende quando parla di «cau-
salità reciproca» della filosofia e del discorso filosofico, o quando
dice di questi che sono «al tempo stesso incommensurabili e inse-
parabili».

1
P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, op. cit.
88 Gwenaelle Aubry

J;"antifiloso.fia"

Il termine "antifilosofia", recentemente riattivato da Badiou,


risale in realtà al XVIII secolo. Nel 1767 un gesuita, l'abate Louis-
Mayeul Chaudon, pubblica un Dictionnaire antiphilosophique pour
servir de commentaire et de correcti/ au Dictionnaire philosophique
[di Voltaire] et autres livres qui ont paru de nos jours contre le
christianisme. Come già il titolo, anche il sottotitolo è eloquente:
Ouvrage dans lequel on donne en abrégé les preuves de la Religion
et la réponse aux objections de ses adversaires2.
All'epoca, un simile progetto non ha niente di singolare, anche
se questo si distingue per l'adozione della forma del dizionario 3 .
Si tratta di mostrare nella religione la vera filosofia. Voltaire, gli
enciclopedisti, i materialisti, gli atei e gli «increduli» sono definiti
in blocco come «falsi filosofi». In generale, secondo Didier Mas-
seau, sotto il nome di "antifilosofia" può rientrare un movimento
religioso ostile all'Illuminismo, ma senza una reale unità dottrinale
né strategica4 .
Prima di Badiou, il termine era già stato riattivato da Jacques
Lacan. In un articolo intitolato Peut-étre à Vincennes ... , Lacan
definisce il compito dell'analista rispetto alle scienze universitarie:
«Non si tratta solo di aiutare l'analista delle scienze propagate in
modo universitario, ma che queste scienze trovino nella sua espe-
rienza l'occasione di rinnovarsi»5 • Tra queste scienze, Lacan cita la
linguistica, la logica, la topologia, e ... l'antifilosofia:

Antifilosofia - darei volentieri questo titolo all'indagine di quel che il


discorso universitario deve alla sua supposizione "educativa". Non è la
storia delle idee, quanto triste, che ne verrà a capo.[ ... ] Una raccolta pa-
ziente dell'imbecillità che la caratterizza permetterà, spero, di metterla in
valore nella sua radice indistruttibile, nel suo sogno eterno6 .

2 Ringrazio Martine Groult per i suoi commenti a questo testo.


3 Tre anni dopo, nel 1770, un altro abate, Paulian, pubblicherà a sua volta un
Dictionnaire philosophico-théologique portati/, contenant l'accord de la véritable philoso-
phie avec la sainte théologie et la ré/utation des /aux principes établis par !es philosophes
modernes. Antifilosofico si traduce qui in filosofico-teologico.
~ Cfr. Didier Masseau, Les Ennemis des philosophes. L'antiphilosophie au temps
des Lumières, Albin Miche!, Paris 2000.
l Jacques Lacan, Peu/-etre à Vincennes ... , in «Ornicar?», n. 1, janvier 1975, pp. 3-5.
6 lbid.
La filosofia come modo di vivere e l' anttfilosofia 89

Come si vede, il senso del termine non è più lo stesso: non


designa più una corrente storica, ma una scienza, o almeno un'in-
dagine da costituire. E se questa scienza si definisce ancora per
reazione o opposizione, questa volta lo è rispetto al «discorso
universitario». Bisognerà chiedersi se questo senso lacaniano del
termine non possa, al contrario del primo, essere associato al modo
di procedere di Hadot.
Come lo usa Badiou, il termine sembra piuttosto dover essere
inteso nel primo senso7 . Nel suo seminario del 1992-95, Badiou lo
ha applicato successivamente a tre filosofi: Nietzsche, Wittgenstein
e Lacan. Ora, noi sappiamo - e questo sarà un altro punto da ap-
profondire - che i primi due. Nietzsche e Wittgenstein, hanno avuto
un'influenza determinante su Hadot. Nell'uso che ne fa Badiou, la
nozione di antifilosofia varia a seconda che egli la applichi a uno o
all'altro di questi autori. Ma questa variazione ne è in qualche modo
costitutiva, dal momento in cui, secondo lui, ogni antifilosofia ha una
propria strategia di identificazione della filosofia, che è anche una
strategia di discredito. Per questo motivo richiede, ogni volta, una
nuova definizione della - o una nuova assegnazione per - la filosofia:

L'antifilosofia è sempre quello che, al colmo di sé, enuncia il nuovo


dovere della filosofia, o il suo nuovo possibile nella figura di un nuovo
dovere8.

Se ne possono tuttavia distinguere tre invarianti 9:


1 - In primo luogo, la destituzione della teoria a vantaggio dell'at-
to. Così, dire che Nietzsche è un antifilosofo significa, secondo Ba-
diou, che «oppone al nichilismo speculativo della filosofia la neces-
sità totalmente affermativa di un atto» 10 - un atto, significa qui il

7 Questo nonostante il riferimento a Lacan: «Quello che Nietzsche e Wittgenstein

condividono, lo designeremo con una parola introdotta dal terzo grande detrattore af-
fascinato, in questo secolo, della filosofia: Jacques Lacan. L' antifilosofia». Alain Badiou,
Silence, solipsisme, sainteté. L'antiphilosophie de Wittgenstein, in «Barca», 3, 1994, p.
14. Questo testo è stato recentemente ripreso e riveduto in A. Badiou, L'Antiphiloso-
phie de Wittgenstein, Nous, Caen 2009.
8 A. Badiou, Casser en deux l'histoire du monde?, ne «Les Conférences du Perro-

quet», n. 3 7, déc. 1992, p. 25.


9
Enunciate da Badiou in Silence, solipsisme, sainteté, art. cit., pp. 14-15.
10
A. Badiou, Seminario del 1992-1993. Si veda anche: Casser en deux l'histoire du
monde?, art. cit. Ringrazio Dimitra Panopoulos per avermi trasmesso questi testi.
90 Gwenaelle Aubry

rovesciamento di tutti i valori in quanto è esso stesso sottratto alla


valutazione. Ma questa operazione può essere individuata anche in
Wittgenstein, che afferma: «La filosofia non è una dottrina, ma
un'attività» (Tractatus, 4.112), come in Lacan, secondo il quale la
certezza risiede nell'atto (in questo caso, analitico) e nei suoi effetti, e
che afferma: «la verità può non convincere, il sapere passa in atto» 11 .
2 - Questo ci porta alla seconda invariante dell' antifilosofia: la
destituzione della categoria di verità. «Abbiamo tolto di mezzo il
mondo vero» 12 , scrive Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli. Al regi-
me di verità si sostituisce quello del senso, o ancora quello della vita
come principio invalutabile della valutazione. Secondo Badiou, da
qui deriva la distruzione, in Nietzsche, della dialogia e del regime
argomentativo. Vi si sostituisce la «sovratensione poetica del testo»
che deriva dal fatto che «bisogna esporre la verità come vita», che
significa «esporre se stessi» 13 . Lo stesso, in Lacan, la categoria di
verità si abolisce a beneficio di quella di sapere, che esemplifica il
materna (e Badiou stabilisce un parallelo tra il materna lacaniano e
l'elemento mistico di Wittgenstein: il materna - afferma - è silenzio,
ma si scrive). In Wittgenstein, infine, la figura è in parte diversa,
dato che non si tratta tanto di destituire la verità, quanto di scredi-
tarla: l'antifilosofia riveste la forma della terapeutica e non più della
critica. Tuttavia, questo movimento si accompagna ancora a una
promozione del senso e all'affermazione della supremazia del sen-
so sulla verità. Per Wittgenstein, «ci sono due regimi di senso»: il
senso linguistico o proposizionale, e il senso etico o il senso valore.
Ora, «l'assurdità della filosofia deriva dal fatto che essa crede di po-
ter forzare il senso indicibile (Dio, se vogliamo) a dirsi nella forma
del senso proposizionale» 14 .

11 J. Lacan, Allocuzione pronunciata per la chiusura del congresso dell'École /reu-

dienne de Parts, 19 aprile 1970, in Aa. Vv., Sci/ice/. Rivista della Scuola freudiana di Pari-
gi (1-4), Feltrinelli, Milano 1977, p. 148.
12 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, in Opere complete, voi. VI, t. III, a cura di

G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1970, p. 76.


13 A. Badiou, Seminario del 1992-1993. In generale, «l'antifilosofia esige che l'anti-

filosofo sia costantemente esibito, come singolarità esistenziale [ ... ]. Perché? Perché a
differenza del!' anonimato regolato della scienza, e in opposizione a quel che nella filo-
sofia pretende di parlare in nome dell'Universale, l'atto antifilosofico, senza precedente
e senza garanzia, ha solo se stesso ed i suoi effetti come attestazione del suo valore». A.
Badiou, Silence, solipsùme, sainteté, art. cii., p. 20.
14
lvi, p. 33.
La filosofia come modo di vivere e l'antz/iloso/ia 91

3 - Badiou caratterizza la terza operazione caratteristica dell' anti-


filosofia come «l'appello, fatto contro l'atto filosofico, a un altro at-
to, di una novità radicale» e che «lo sovrasta affermativamente» 15 .
In Nietzsche, questo atto si dirà arei-politico, in Wittgenstein arci-
estetico, in Lacan arei-scientifico.
Delle tre operazioni individuate da Badiou, è soprattutto la
prima che ci interessa, in quanto permette di riformulare e di pre-
cisare la nostra domanda iniziale: la promozione, da parte di Ha-
dot, della filosofia come modo di vivere può essere definita come
antifilosofica, nel senso che si accompagnerebbe a una destituzione
della teoria a beneficio dell'atto?

Definire la filosofia come modo di vivere è essere un antifilosofo?

A prima vista, si potrebbe essere tentati di rispondere di sì, so-


prattutto leggendo le prime pagine di Che cos'è la filosofia antica?
Il libro si apre infatti con una serie di exerga 16 (tra cui due citazioni
di Nietzsche). In alcuni di essi, è in effetti possibile leggere questa
destituzione della teoria a beneficio dell'atto, come anche, forse,
quella della verità a beneficio del senso.
In primo luogo, destituzione della teoria: essa è leggibile nella
citazione di Epitteto: «Se poi i princìpi ti attirano, mettiti seduto e
meditali in te stesso: non dirti però mai filosofo e non permettere
che altri lo dica» 17 e anche in quella di Nietzsche: «un accorgimen-
to stoico non lo accettiamo meno volentieri per il fatto che abbia-
mo fatto nostre delle regole epicuree» 18 - due testi che sottolinea-
no, quindi, l'insufficienza della teoria come gioco concettuale, ma
anche come dispositivo autonomo ed esclusivo.
In altre citazioni, questa forma di riduzione critica della teoria si
accompagna ad una promozione dell'atto che va di pari passo con
la subordinazione della verità se non al senso, almeno a quello che

15 Jvi,p.15.
16 Non presenti nell'edizione italiana dell'opera (N.d.T.). Cfr. P. Hadot, Qu'est ce
que la philosophie antique?, Gallimard, Paris 1995, pp. 11-13.
17 Epitteto, Diatribe, III, XXI, 23, trad. it. a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma-

Bari 1960, p. 210.


18 F. Nietzsche, "Frammento 13 [57], Autunno 1881", in Opere complete. Fram-

menti postumi (1881-1882), voi. V, t. Il, op. cit., p. 443.


92 Gwenaelle Aubry

si potrebbe chiamare "l'interesse pratico". Si tratta delle citazioni


di Plotino («Il desiderio genera il pensiero» e «Senza la virtù vera
Dio non è che vuoto nome» 19 ) e soprattutto di Petrarca («Ma è più
saggio volere il bene che conoscere il vero») 20 . Infine, le citazioni
di Pascal e Montaigne aggiungono alla doppia subordinazione del-
la teoria all'atto e della verità all'interesse pratico, la promozione
della vita come valore2 1.
Ora, nella sua Premessa Hadot sembra innanzitutto fare eco
con le sue parole a questi testi. Da subito, caratterizza il suo pro-
getto, la sua pratica singolare della storia della filosofia, in questi
termini:

La storia della "filosofia" non si confonde con la storia delle filosofie,


se per "filosofie" si intendono i discorsi teorici e i sistemi dei filosofi. Pa-
rallelamente a questo tipo di storia c'è posto, in effetti, per uno studio dei
comportamenti filosofici e della vita filosofica 22 .

Appare subito che non si tratta solo di costituire una storia


parallela alla storia ufficiale, di scrivere in margine alla storia delle
dottrine una storia delle pratiche, in margine alla storia delle idee
una storia degli atti, ma di affermare il primato della seconda sul-
la prima. Questo primato, o anteriorità, potrebbe esser definito,
seguendo Aristotele, come cronologico, logico e ontologico allo
stesso tempo:
- cronologico, perché la scelta di vita precede il discorso teori-
co: «il discorso filosofico ha quindi origine da una scelta di vita e
da un'opzione esistenziale e non viceversa» 23 .
- logico, perché il modo di vita chiarisce il discorso: «il discorso
filosofico deve essere compreso all'interno della prospettiva di un
modello di vita di cui è allo stesso tempo mezzo ed espressione»24 .

19 Plotino, Enneadi, 24 (V, 6), 5-9 e 33 (II, 9), 15-39, trad. it. a cura di G. Reale, R.

Radice e G. Faggin, Rusconi, Milano 1999, p. 895 e p. 317.


2 ° Francesco Petrarca, De sui ipsius et multorum ignorantia, in Prose, a cura di G.
Martellotti, Ricciardi, Milano 1955, p. 749.
21 B. Pascal, Pensieri, op. cii., §457, p. 357 e «"Non ho fatto niente oggi." "Come?

Non avete vissuto? È non solo la vostra occupazione fondamentale, ma la più insigne"».
M. de Montaigne, Saggi, op. cit., voi. 1, III, 13, p. 1485.
22 P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, op. cii., p. 3.
23 lvi, p. 5.
24 lbid.
La filosofia come modo di vivere e l'antifilosofia 93

- ontologico (cioè teleologico), perché il discorso stesso è per


l'atto:

Il discorso filosofico teorico nasce [ ... ] da un'opzione esistenziale


iniziale e ad essa ritorna, nella misura in cui, grazie alla sua forza logica
persuasiva, con l'azione che intende esercitare sui suoi interlocutori, incita
maestri e discepoli a vivere realmente in conformità con la scelta iniziale,
ovvero si costituisce in qualche modo come applicazione effettiva di un
certo ideale di vita25.

Tuttavia, e vengo all'essenziale, questa anteriorità non deve


essere intesa come una stretta subordinazione. Hadot preferisce
parlare di «causalità reciproca» 26 ; se la scelta di vita determina
il discorso, a sua volta il discorso fonda, giustifica, specifica e
rinforza la scelta di vita. Bisognerebbe rfprendere a uno a uno i
momenti del percorso storico di Che cos'è la filosofia antica? II
dialogo socratico-platonico vale evidentemente come modello, in
quanto il contenuto dottrinale, la dimensione dell'informazione
sono in esso indissociabili da un'esperienza vitale di formazione e
di trasformazione. Ma la dimostrazione integra anche dei modi di
discorso filosofici più omogenei alla modernità. Bisognerebbe es-
sere particolarmente attenti a quel che Hadot scrive dei sistemi, in
cui si può vedere la forma compiuta, autarchica della teoria. Hadot
mostra infatti che lungi dall'andare nel senso della sua autonomiz-
zazione, la sistematicità rinforza l'incorporazione27 del discorso

25 Ibid.
26 «Si può dire che, con una sorta di causalità reciproca, la scelta di vita determina
il discorso e il discorso determina la vita giustificandola teoricamente». Ivi, p. 169. Si ve-
da anche: «Vi è tuttavia una sorta di interazione o di causalità reciproca tra volontà e in-
telligenza, tra ciò che il filosofo vuole profondamente, ciò che lo interessa nell'accezione
più forte del termine, vale a dire la risposta alla domanda "Come vivere?", e ciò che
tenta di delucidare e chiarire con la riflessione». Ivi, pp. 260-261. Infine «Si potrebbe
dire che esiste comunque una causalità reciproca tra riflessione teorica e scelta di vita.
La riflessione teorica va in una certa direzione grazie a un orientamento fondamentale
della vita interiore e questa tendenza della vita interiore si precisa e prende forma grazie
alla riflessione teorica. [ ... ] In altri termini, la riflessione teorica presuppone già una
certa scelta di vita, ma questa scelta di vita può progredire e precisarsi solo grazie alla
riflessione teorica». P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 141.
27
Cosa che Hadot chiama anche, secondo La grammatica del!' assenso del cardinal
Newman, il «real assent», in opposizione all'assenso solo nozionale o astratto. Cfr. P.
Hadot, La filosofi"a come modo di vivere, op. cit., pp. 80-81.
94 Gwenaelle Aubry

teorico e, in questo modo, la sua applicazione. È il caso ad esempio


del tetrapharmakon, del "quadruplice rimedio" epicureo, ma anche
dell'imbricazione organica, per gli Stoici, delle tre parti della filo-
sofia: logica, fisica ed etica; non solo ognuna di esse ha una dimen-
sione pratica (la logica come padronanza del discorso interiore, la
fisica come innalzamento alla coscienza del tutto), ma la pratica è
quel che ne manifesta l'unità 28 .

In senso generale, si può dire che il vantaggio della struttura sistemati-


ca delle teorie stoiche ed epicuree è che gli affinamenti dottrinali possono
essere riservati agli specialisti, ma che l'essenziale della dottrina è accessi-
bile a un pubblico più vasto29 .

Quel che appare nello stesso tempo è che, come per il discorso
e la scelta di vita, non si possono opporre teoria e pratica. Il modo
di vita, come testimonia la filosofia aristotelica, può essere teoreti-
co e il discorso può avere un effetto pratico: ha sempre «diretta-
mente o indirettamente, una funzione formativa, educativa, psica-
gogica, terapeutica. Esso è sempre destinato a produrre un effetto,
a creare nell'anima un habitus, a provocare una trasformazione
dell'io» 30 . Hadot illustra questa tesi con una citazione di Plutarco
molto bella:

Il discorso filosofico non scolpisce statue immobili, ma tutto ciò che


tocca esso vuole rendere attivo, efficace e vivo, ispira degli impulsi motori,
dei giudizi generatori di azioni utili, delle scelte a favore del bene3 1 .

La nozione di "esercizio spirituale" dice questa unità. Hadot la


usa per nominare delle pratiche «volte a operare una modificazio-
ne e una trasformazione nel soggetto»32 . Ma queste pratiche sono
la messa in opera di un discorso e il discorso, occorre insistere su
questo, rientra nel novero di queste pratiche:

28 Cfr. P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, op. cii., pp. 119-120 e p. 135. Su

questo punto si veda anche: P. Hadot, La cittadella interiore, op. cii., pp. 90-98.
29 P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, op. cit., p. 171.
30 lvi, p. 170.
31 Plutarco, I filosofi devono dialogare soprattutto con i potenti, 776c-d, citato in P.

Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, op. cii., p. 170.


32 Ivi, p. 7.
La filosofia come modo di vivere e l' anti/iloso/ia 95

Ciò che ho detto in generale nei miei libri sugli esercizi spirituali
potrebbe dare l'impressione, benché abbia cercato di evitarlo, che gli
esercizi spirituali siano qualcosa che si aggiunge alla teoria filosofica, al
discorso filosofico, una sorta di pratica che semplicemente completereb-
be la teoria e il discorso astratto. In realtà è tutta la filosofia a essere un
esercizio, sia il discorso di insegnamento sia quello interiore che orienta
la nostra azione 33 .

Filosofia e discorso filosofico si presenterebbero quindi come


inseparabili. Tuttavia, Hadot li definisce anche come «incom-
mensurabili»: «filosofia e discorso filosofico si presentano così, al
tempo stesso, come incommensurabili e inseparabili» 34 • Questa
nozione di incommensurabilità sembra designare, questa volta,
un eccesso della pratica, o/e della vita, sul discorso. Hadot illustra
questo eccesso con degli esempi che valgono anche come dei casi
limite. Questi tendono a provare che nell'antichità la qualifica di
"filosofo" può anche esser basata su un discorso minimo, se non
assente: minimo nel caso dei cinici, assente nel caso di alcune figu-
re come gli stoici Catone e Rutilio Rufo, o Rogaziano, l'allievo di
Plotino35 .
Un altro caso limite potrebbe essere quello dello scetticismo.
In effetti, in esso, scrive Hadot, «la distinzione tra filosofia e di-
scorso filosofico giunge al suo culmine estremo, in quanto [ ... ] il
discorso filosofico scettico perviene alla propria auto-soppressione,
lasciando il posto semplicemente a un modo di vita che peraltro
non si vuole filosofico» 36 . Tuttavia, Hadot precisa anche: «di fatto,
occorre proprio un discorso filosofico per eliminare il discorso
filosofico» 37 .
Infine, tra i casi limite si potrebbero collocare i mistici e i
Neoplatonici, ossia il discorso filosofico come teso dall'impossi-
bilità di dire quello che allo stesso tempo lo eccede e lo fonda.
Ma il discorso è appunto richiesto per dire questo eccesso, tanto
per porre la necessità dell'Uno, quanto per tentare di descriverne

H P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 120.


H P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, op. cit., p. 167.
35 Cfr. ivi, pp. 167-168.
l6 Ivi, p. 139.
17 Ivi, p. 140.
96 Gwenaelle Aubry

l'esperienza38 . E Hadot distingue molto nettamente tra il neoplatoni-


smo plotiniano e il neoplatonismo post-plotiniano, in cui la pratica,
all'occorrenza teurgica, tende a prendere il posto della discorsività.
In realtà, ci si potrebbe chiedere se per Hadot questa struttura
plotiniana non sia paradigmatica della filosofia antica e se non
illustri al meglio quel che egli intende con la nozione di "incom-
mensurabilità" (allo stesso modo, la struttura stoica illustrerebbe al
meglio la nozione di "inseparabilità" - ed è forse la ragione per cui
Plotino e gli Stoici hanno costituito per Hadot, nell'ambito antico,
degli oggetti privilegiati di studio). Il fatto è che per giustificare
questo termine, Hadot utilmente scrive:

L'essenziale della vita filosofica, la scelta esistenziale di un certo modo


di vita, l'esperienza di alcuni stati, di alcune disposizioni interiori, sfugge
totalmente all'espressione del discorso filosofico 39 .

Questo vale non solo per l'esperienza platonica dell'amore,


l'intuizione aristotelica delle nature semplici, l'esperienza uniti va
plotiniana, ma anche per «l'esperienza della vita epicurea o stoica
o cinica». L'incommensurabilità della filosofia con il discorso filo-
sofico deve dunque essere intesa come l'eccesso di un'esperienza
fondatrice sul discorso, che ne dispiega non solo la denominazio-
ne, ma anche la giustificazione e le condizioni.
È possibile individuare un tratto o una tentazione antifilosofica
in questa struttura? Mi sembra che Hadot fornisca la risposta a
questa domanda in modo indiretto, quando parla di Wittgenstein.
Più volte, lo paragona a quei due casi limite esemplari dell'incom-
mensurabilità tra discorso e vita filosofica che sono gli Scettici
ed i mistici. Gli Scettici, innanzitutto, nella misura in cui nei due
casi si ha a che vedere con un discorso terapeutico, e con un di-
scorso che, proprio in questa misura, è autodistruttore 40 . Ed i
mistici. Sappiamo che il termine «mistico» si trova nel Tractatus
(in particolare 6.522: «V'è davvero dell'ineffabile. Esso mostra sé,
è il mistico»). Ed è la questione dei rapporti tra logica e mistica in

38 Cfr. ivi, pp. 161-163.


39 lvi, p. 168.
4
° Cfr. ivi p. 141. Si veda anche: P. Hadot, Wittgenstein o i limiti del linguaggio, op.
cit., p. 22.
La filosofia come modo di vivere e l' anti/ilosofia 97

Wittgenstein che ha innanzitutto suscitato l'interesse di Hadot (vi


vedeva un «enigma affascinante») 41 .
Tuttavia, ne La filosofia come modo di vivere, Hadot dichiara
anche che la nozione di gioco linguistico ha avuto un'influenza
determinante su quella di esercizio spirituale42 . Lo spiega nella
prefazione a Wittgenstein o i limiti del linguaggio: l'idea di giochi
linguistici, ancorati in un' «attività determinata», «una situazione
concreta» o «una forma di vita», lo ha aiutato a risolvere il pro-
blema dell'incoerenza apparente dei testi antichi, che derivava dal
fatto che essi si davano come altrettante consegne per un esercizio:

Occorreva dunque ricondurre i discorsi filosofici ai loro giochi lingui-


stici, alla forma di vita che li aveva originati, alla situazione concreta, per-
sonale o sociale, alla praxis che li condizionava o agli effetti che volevano
produrre. È in quest'ottica che ho iniziato a parlare di esercizi spirituali~ 3.

Si vede che il debito (o almeno il riconoscimento del debito)


nei confronti di Wittgenstein è notevole e si accompagna ali' ere-
dità delle nozioni chiave dell'antifilosofia, in particolare quelle di
atto e di vita.
Tuttavia, la presa di distanza è altrettanto esplicita: l'affermazio-
ne del radicamento necessario del discorso filosofico in una praxis e
in un'esperienza vitale non vale la destituzione del discorso a bene-
ficio di quest'ultime. Anche se c'è un elemento che non può che es-
ser taciuto, bisogna continuare a parlare (come Plotino, inventando
incessantemente nuove immagini, nuove procedure, nuovi ragiona-
menti per dire l'Uno-Bene). Hadot mostra del resto la differenza
tra l'ineffabile plotiniano e l'indicibile wittgensteiniano 44 :

41
lvi, p. 8.
42 Cfr. P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. àt., pp. 180-181.
41 P. Hadot, Wittgenstein o i limiti del linguaggio, op. cit., p.12.
44 Sulla differenza tra l'ineffabile teologico dei Neoplatonici, quello dell'esperienza

mistica tradizionale e quello di Wittgenstein, cfr. ivi, pp. 15-16. Il primo è il compi-
mento di un metodo razionale; il secondo non si rapporta alla nozione del Principio,
ma all'esperienza estatica stessa; in Wittgenstein, infine, il "mistico" non si riferisce
né alla teologia negativa, né all'esperienza dell'estasi, ma a un sentimento e a un'espe-
rienza fondamentale di cui lui stesso testimonia in questi termini: «Mi meraviglio per
l'esistenza del mondo». Si veda anche: P. Hadot, Apophantisme et théologie négative,
in Exercices spirituels et philosophie antique, op. cit., pp. 239-252 [testo non presente
nell'edizione italiana dell'opera (N.d. T. )].
98 Gwenaelle Aubry

Sul piano personale - scrive Hadot - non accetto tanto questo atteg-
giamento silenzioso, perché penso che la filosofia non debba fermarsi co-
sì dopo un libro. Non c'è fine della filosofia e quest'ultima oscilla sempre
tra due poli: il discorso e la decisione riguardante il modo di vita45 .

Anche in Che cos'è la filosofia antica? Hadot mette in guardia


contro un malinteso: «non si tratta di contrapporre da un lato la
filosofia come discorso filosofico teorico e dall'altro la saggezza
come modello di vita silenzioso, che verrebbe praticato nel mo-
mento in cui il discorso fosse giunto alla sua conclusione e alla
sua perfezione»46 , secondo lo schema proposto da Eric Weil e da
Wittgenstein. A dire il vero, il discorso, come la vita, tende verso
la saggezza senza mai raggiungerla47 . E si potrebbe dire che è pro-
prio lo scarto tra filosofia e saggezza a porre la necessità irriducibi-
le del discorso.
Se ne può concludere (e il giudizio di Hadot su uno degli an-
tifilosofi catalogati da Badiou è un indizio prezioso) che la prima
operazione caratteristica dell'antifilosofia, quale Badiou la defini-
sce, la destituzione della teoria a beneficio dell'atto, non è presen-
te in Hadot. Anzi, in Hadot possiamo leggere, in modo esplicito,
la rivendicazione inversa: «un altro pericolo, il peggiore di tutti,
consisterebbe nel credere che sia possibile fare a meno della rifles-
sione filosofica» 48 •
Cosa ne è della seconda operazione (la destituzione della verità
a beneficio del senso)? La questione è più difficile, perché a diffe-
renza di quelle di teoria e di praxis, le nozioni di verità e di senso
non sono esplicitamente messe in opera da Hadot. Mi sembra tut-
tavia che, di nuovo, non si possa parlare di destituzione. Bisogna
nuovamente tenere insieme le due nozioni di inseparabilità e di
incommensurabilità, o anche di causalità reciproca e di anteriori-
tà: c'è un primato (o anteriorità, o eccesso) se non del senso sulla
verità, almeno dell'interesse pratico sulla ragione teorica o - e
perché Hadot stesso traduce Kant in Plotino - del desiderio sul
pensiero (tuttavia Petrarca diceva anche: del bene sulla verità). Ma

45 P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, op. cit., p. 251.


46
Ivi, p. 5.
47
Cfr. ivi, p. 6.
48
Ivi, p. 269.
La filosofia come modo di vivere e l' anti/iloso/ia 99

la nozione di «causalità reciproca» può anche essere applicata al


rapporto della volontà e dell'intelligenza 49 .

Antifilosofia o arcifilosofia?

La questione che resta quindi da porre è quella di sapere se la


nozione di antifilosofia, più che nel senso di Badiou, in quello di
Lacan, possa essere applicata al modo di procedere di Hadot. Il
fatto è che in Hadot si trova in effetti una critica, viva ed esplici-
ta, della filosofia universitaria, che sembra paragonabile a quella
progettata da Lacan. Nella versione formulata da Hadot, questa
critica poggia su un'analisi storica e ingloba numerosi aspetti, che
enumererò senza poterli sviluppare:
- la funzionarizzazione dell'insegnamento della filosofia, ini-
ziata nel II secolo a.C. e consacrata dalla fondazione, da parte
di Marco Aurelio nel 17 6, di quattro cattedre imperiali dedicate
all'insegnamento delle quattro grandi dottrine tradizionali: plato-
nismo, aristotelismo, epicureismo e stoicismo;
- la pratica crescente, a partire dal I secolo a.C., del commento
e dell'esegesi, che tende a sostituirsi a quella del dialogo e inau-
gura già una forma di scolastica: «ormai non si discute più dei
problemi in sé, non si parla più direttamente delle cose, ma di ciò
che Platone o Aristotele o Crisippo dicono riguardo ai problemi e
alle cose»50 . Questa pratica, tuttavia, come ha mostrato Ilsetraut
Hadot 51 , va ancora di pari passo, in particolare nel neoplatonismo,
con quella degli esercizi spirituali;
- un altro tratto, forse il più decisivo agli occhi di Hadot, sa-
rebbe la dissociazione tra l'insegnamento e la comunità di vita
maestro-discepoli.
Se questi movimenti diversi si awiano a partire dall'antichità,
Hadot fa tuttavia risalire al Medioevo e alla scolastica la rottura

49 Cfr. ivi, pp. 260-261.


lo Ivi, p. 147.
li Cfr. I. Hadot, Le problème du néoplatonisme alexandrin. Hiéroclès et 5implicius,
Études augustiniennes, Paris 1978 et lntroduction a Simplcius, Commenta/re sur le Ma-
nuel d'Épictète, E. J. Brill, Leiden 1996, eh. III. Si veda infine Ilsetraut e Pierre Hadot,
Apprendre à philosopher dans l'Antiquité. L'enseignement du Manuel d'Épictète et son
commentaire néoplatonicien, Librairie générale française, Paris 2004.
100 Gwenaelle Aubry

fondamentale. È la scolastica a ridurre la filosofia al rango di


«semplice materiale concettuale» e la svuota di ogni posta in gioco
pratica. Ma, e su questo punto vorrei insistere, questo movimen-
to di teorizzazione della filosofia si accompagna ad un trasferi-
mento alla religione dell'interesse pratico, della posta in gioco
esistenziale. Per il cristianesimo non si tratta più solo di ereditare
alcune pratiche filosofiche, alcuni esercizi spirituali52 , quanto di
appropriarsene. Hadot descrive questo processo alla fine di Che
cos'è la filosofia antica?, ma bisognerebbe anche citare il limpido
libretto di Domanski, per il quale Hadot ha scritto la prefazione53 .
Domanski mostra come questo movimento si awii sin dai primi
secoli del cristianesimo e si traduca nell'integrazione-riduzione
della filosofia al trivium (grammatica, retorica, dialettica). La filo-
sofia può dunque esser considerata solo come semplice strumento
teorico al servizio della teologia (ancilla theologiae). Il filosofo è
solo un tecnico, un commentatore di Aristotele e la questione del
senso è abbandonata alla religione. Secondo Domanski, il Rina-
scimento tenta di reintegrare la concezione antica della filosofia e
Hadot, da parte sua, la ritrova in Cartesio, Malebranche e Spino-
za, nella filosofia dell'Illuminismo, poi in Schopenhauer, Thoreau,
Nietzsche, Bergson e nell'esistenzialismo. Gran parte di questi
riferimenti dà forma ad un ambito che non ha niente a che vedere
con quello dell' antifilosofia, anche nella prima accezione del ter-
mine, per cui era messa in gioco contro la filosofia dell'Illumini-
smo. Il progetto di Hadot si iscrive precisamente nella volontà di
restituire alla filosofia il suo peso esistenziale, la tensione spirituale
rivendicata dalla religione.
Per questo motivo, nel suo doppio desiderio di ricondurre la
filosofia alla sua forma originaria e di restituirne la supremazia,
il suo modo di procedere sembra poter essere definito non come
antifilosofico, ma, al contrario, come arcifilosofico.

52 Nel modo descritto ad esempio in Esercti;i spirituali antichi e "filosofia cristiana"

in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cii., pp. 69-86.


53 P. Hadot, Préface a J. Domanski, La philosophie, théorie ou manière de vivre'
Les controverses de l'Antiquité à la Renaissance, op. cit., p. VIII.
Interventi
Lo studio degli antichi:
imparare a vivere, imparare a leggere
Philippe Hoffmann

Vorrei iniziare con una testimonianza. È stato detto proprio


qui, almeno due volte, che per commentare, per comprendere
l'idea di un legame della vita e del pensiero, dell'esistenza e dello
studio, per comprendere quel che significa la filosofia come modo
di vivere, bisognerebbe anche poter parlare della vita di Pierre
Hadot, come filosofo che pratica la filosofia come modo di vivere.
Tornerò sulle osservazioni fatte da Arnold I. Davidson poco fa
sulla sequenza "Imparare a leggere" dell'articolo fondativo Esercizi
spirituali, richiamando alla memoria e descrivendo in modo sobrio
due ricordi. Nel 1973-1974, su invito di Alain Le Boulluec, Hadot
ha tenuto un seminario all'École normale supérieure, nella "Salle
de Grec", oggi scomparsa e integrata alla biblioteca della Scuola,
seminario che verteva sulla Vita di Plotino di Porfirio. E noi, appe-
na usciti dalle classi preparatorie, abituati a una concezione della
filosofia precisamente come sistema dogmatico, concatenazione di
concetti, scoprivamo con meraviglia le nozioni del neoplatonismo,
che ci erano dispensate da Hadot, ma anche e soprattutto due
idee: in primo luogo che un discorso deve sempre essere compreso
nell'orizzonte dello stile di vita che ne è in qualche modo l'origine,
e verso il quale deve essere convertito il discorso e, d'altra parte,
che la lettura di un testo è fondamentalmente una nutrizione - la
lettura è ruminativa.
Aggiungerò a questo un secondo ricordo, quello del corso tenu-
to in un'aula (attualmente la "Salle Dumézil") dell'École pratique
des hautes études, sui Pensieri di Marco Aurelio, l'anno in cui il
seminario verteva sulla coscienza cosmica nei Pensieri; in quest' oc-
casione ci fu dato di scoprire quel che Hadot stesso ha rievocato,
cioè che non c'è contraddizione, ma complementarità, tra una
lettura di tipo scientifico, improntata all' akribeia e al più perfetto
104 Philippe Hof/mann

rigore filologico - che integri i problemi di edizione del testo e, al


tempo stesso, le questioni semantiche complesse della lingua greca
di epoca imperiale e del lessico filosofico - che non c'è dunque
contraddizione tra una lettura improntata al metodo filologico e
una lettura interamente orientata verso la trasformazione, verso la
modificazione interiore. Posso testimoniare che questo commento,
questa lettura collettiva dei Pensieri di Marco Aurelio, era un vero
esercizio spirituale, che praticavamo in comune, con la direzione
di un maestro, cosa che corrisponde esattamente a quel che i pro-
fessori greci della tarda antichità hanno descritto con il nome di
synanagnosis.
Mi sembra quindi che, in un certo modo, esista una risposta alla
domanda che è stata posta poco fa: «esistono dei luoghi per un
certo tipo di lettura?» e penso che anche all'interno delle istituzio-
ni dell'insegnamento universitario possano esserci dei luoghi in cui
la lettura come esercizio spirituale è praticata.
Vorrei intervenire modestamente, non avendo competenza in
materia di filosofia moderna, per portare testimonianza come ri-
cercatore ed anche come professore, nel mio ambito - quello della
tarda antichità e della lettura di autori di epoca imperiale, e in mo-
do più specifico del V e VI secolo. Farò un piccolo gioco di parole,
considerando che dopotutto questi erano chiamati in greco dei
neoteroi, cioè dei moderni.
Se torniamo, ancora una volta, sul legame reciproco del discor-
so e della vita, del logos e del bios, riassumendo quel che è stato
sottolineato proprio qui, appare chiaramente che il bios, nelle ana-
lisi di Hadot, va inteso secondo tre significati essenziali: è il luogo
della scelta fondamentale che, per altro, eccede ulteriormente il
discorso, il logos; il bios è anche, ad un altro titolo, assolutamente
consustanziale al pensiero, nel senso in cui anche in Aristotele, ad
esempio, la theoria è totalmente presa nelle maglie di un modo di
vita teoretico; e il bios è anche la vita stessa, praticata, vissuta, in-
formata dalla dottrina, alla fine di una vera assimilazione. Quanto
al logos, che è allo stesso tempo convertito verso il bios e ne porta
la traccia, ne raccoglie il ricordo, ne raccoglie la memoria, Ha-
dot ci ha insegnato, tanto nei suoi corsi quanto nelle sue opere,
che non è solo orale, ma anche scritto. Alludo qui soprattutto ai
numerosi suoi scritti, ma anche a un corso molto particolare, te-
nuto all'École pratique des hautes études, corso dedicato in modo
Lo studio degli antichi: imparare a vivere, imparare a leggere 105

specifico ai generi letterari filosofici. Hadot ci ha insegnato che


l'interpretazione dei testi e lo studio della lettura devono essere
regolati da una giusta valutazione del genere letterario filosofico,
che dà la sua forma all'insieme del discorso filosofico. Questi rife-
rimenti teorici sono essenzialmente di due ordini, apparentemente
distinti, ma che si fondono in modo molto interessante nella sua
opera. Ci sono - e Sandra Laugier ne ha parlato - le analisi pro-
poste negli articoli che sono stati raccolti nel libro Wittgenstein
e i limiti del linguaggio, e in particolare questa nozione di "giochi
linguistici" che è stata estremamente feconda per i metodi di let-
tura dei testi antichi proposti da Hadot. Ma in Hadot c'è anche
- e in questo caso lo storico non è solo uno storico della filosofia,
ma semplicemente uno storico dell'antichità e un ellenista - una
conoscenza estremamente precisa e feconda della storia della reto-
rica antica, nelle sue relazioni con la filosofia. Tutto accade come
se nell'antichità si assistesse alla storia di una discordia, seguita
da una riconciliazione. La discordia tra Platone e Isocrate cede
il posto molto rapidamente, in particolare a partire dall'epoca
ellenistica, alle diverse modalità di una riconciliazione. Si può dire
che non si possono comprendere la letteratura e i testi della fine
dell'antichità e dell'inizio dell'epoca bizantina se non si parte dal
fatto che la retorica e la filosofia si erano riconciliate, come dimo-
stra il numero di filosofi (si pensi in particolare a Siriano, Simpli-
cio e Damascio) che furono professori di retorica, almeno per una
parte della loro carriera.
Da questo punto di vista e da questa doppia prospettiva teorica
- Wittgenstein e la storia della retorica antica - deriva una presa in
considerazione della classificazione dei generi filosofici antichi che
è di un'importanza estrema nel nostro lavoro di lettura e di esegesi
di questi testi. Come Hadot invita a fare, occorre infatti distinguere
tra dialogo, discorso lungo, discorso di insegnamento e altre forme
letterarie, come la redazione di monografie o quel genere molto
particolare che è la stoicheiosis, la redazione di "elementi" - gli
stoicheia sono modi di scrittura che troviamo in Epicuro o in Pro-
do - e alla fine dell'antichità c'è quello che definirei lo sbocciare
del commento esegetico a testi autorevoli.
La lista potrebbe essere allungata, affinata, ma questi sono solo
alcuni elementi particolarmente sorprendenti della varietà di quei
generi letterari che formano il quadro di ogni interpretazione
106 Philippe Hoffmann

rigorosa delle affermazioni contenute in questi testi. Questi generi


letterari non costituiscono solo il quadro della vera valutazione
delle proposizioni, ma corrispondono anche a delle strategie di-
versificate per quanto riguarda gli effetti psicologici che i testi o i
discorsi devono produrre sia sull'autore, sul locutore o lo scrivente
che sui destinatari - che si tratti dell'interlocutore di un dialogo,
dello studente uditore o anche di un futuro lettore. In questi di-
versi schemi di comunicazione noterò ad esempio l'impiego, in un
autore come Simplicio, alla fine dell'antichità, di una formula mol-
to interessante: il participio futuro ai enteuxomenoi, che designa i
futuri lettori cui il testo si rivolge.
Le ricerche e le analisi di Hadot hanno quindi in qualche modo
delimitato il terreno per un lavoro generale di ermeneutica dei testi
antichi. È così che questi testi possono essere considerati; queste
formule non si escludono le une con le altre, sono come tracce di
una ricerca: il genere letterario è estremamente importante, se non
lo si capisce non si possono nemmeno comprendere i princìpi di
composizione, apparentemente sconcertanti, ad esempio, dei trat-
tati di Plutarco, ma credo che questo possa essere trasposto, nella
letteratura del Rinascimento, ad esempio, alla valutazione della
composizione di alcuni Saggi di Montaigne. Traccia di una ricerca,
modello offerto all'imitazione - è tutta la questione dell'etica dei
dialoghi - o tesoro di una dottrina conservata e offerta alla rime-
morazione, tutte queste opere si propongono un effetto di persua-
sione - si tratta di persuadere delle verità - e alcune di esse devono
essere colte simultaneamente, secondo un livello di lettura protret-
tico o ginnastico, o come se si rivolgessero, in modo allusivo, a dei
lettori molto più avveduti.
Tramite gli articoli e le opere di Hadot, sono tutti questi modi
di valutazione che uniscono molto finemente descrizioni del gene-
re letterario e descrizioni della strategia retorica di comunicazione,
che ci sono proposti a titolo di metodo.
Nella seconda parte del mio intervento vorrei procedere a un
commento di un testo. Inizierò con il leggere un passaggio di Eser-
cizi spirituali. Ecco quel che Hadot dice:

Allorché si affrontano i commenti di Platone o di Aristotele composti


dai neoplatonici, si ha dapprima l'impressione che la loro redazione sia
guidata unicamente da preoccupazioni dottrinali ed esegetiche. Ma ad un
Lo studio degli antichi: imparare a vivere, imparare a leggere 107

esame approfondito risulta che il metodo dell'esegesi e il suo contenuto


dottrinale sono, in ogni commento, in funzione del livello spirituale degli
ascoltatori a cui il commento stesso si rivolge. Il fatto è che esiste un cor-
so dell'insegnamento filosofico, fondato sul progresso spirituale. Non si
leggono gli stessi testi ai principianti, ai progredienti e ai perfetti, e anche
le nozioni che compaiono nei commenti sono in funzione delle capacità
spirituali degli ascoltatori. Il contenuto dottrinale può dunque variare no-
tevolmente da un commento all'altro, sebbene siano entrambi redatti dal-
lo sesso autore. Ciò non significa che sia cambiata la dottrina dello stesso
commentatore, significa che i bisogni dei discepoli erano diversi 1•

Questa pagina dovrebbe essere imparata a memoria da ognuno


di noi, in ogni caso dai ricercatori che lavorano sulla letteratura della
tarda antichità. Gli specialisti sanno che le verità contenute in questa
pagina non sono ancora assimilate da molti dei nostri colleghi.
Vorrei quindi proporre qualche riflessione molto generale su
questa letteratura dei commenti, che vengono a volte definiti come
scolastici, a Platone o ad Aristotele, traendo gli esempi di preferen-
za dai commenti di Aristotele. Innanzitutto, credo che dobbiamo
porre queste domande: "Cosa vuol dire scrivere?", "Cosa vuol dire
scrivere, per il commentatore?", "Cosa vuol dire leggere?" - che
significa due cose: "Cosa vuol dire leggere, per un commentatore
antico che legge un testo autorevole?" Ed anche: "Cosa vuol dire
leggere, per noi, ricercatori e filosofi moderni, che leggiamo un
commento tardo-antico di un testo classico?" Ed anche: "Cosa
vuol dire commentare?", che non è proprio la stessa cosa.
Commentare per il commentatore antico, commentare per noi,
che facciamo quello che uno dei nostri colleghi ha ben definito
come "meta-commento", sono atti distinti. Sono dunque queste le
domande che bisogna distinguere e incrociare le une con le altre.
Per questo, l'opera di Hadot ci ha insegnato a distinguere tra di-
versi punti di vista. Innanzitutto il fenomeno della scuola, quale si
solidifica alla fine dell'antichità, pone al cuore del dispositivo, dei
testi che potremmo definire autoritativi, affidati all'esegesi. Una
pagina celebre della Vita di Proclo di Marino, che descrive l'or-
ganizzazione della giornata di Proclo, è di grandissimo interesse.
Vi si apprende che Proclo inizia la giornata con una preghiera al

1 Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antù:a, op. cit., p. 65.


108 Philippe Hoffmann

sole, rampollo visibile del Bene, dà poi lezioni di spiegazione del


testo degli autori in programma, conformemente al corso di stu-
di, ha quindi un tempo per la scrittura - scrive settecento stichoi
al giorno, e si tratta evidentemente della messa per iscritto dei
commenti, o della redazione di monografie o di varie opere che
ha lui stesso scritto. Preghiera al sole di metà giornata, mentre il
pomeriggio è dedicato alle discussioni filosofiche con i colleghi
e ai seminari non scritti. La giornata si conclude con un'ultima
preghiera al sole, poi Proclo, che è un philoponos - dorme molto
poco e accorda al corpo solo lo stretto necessario - passa la notte
a risolvere aporie - aporie scientifiche o filosofiche rimaste in
sospeso durante la giornata - a proclamare, a recitare o a scrivere
lui stesso inni in onore degli dei - è l'origine notturna dei famosi
Inni di Proclo.
Si capisce chiaramente come scrivere un commento o una mo-
nografia, per un autore filosofico della fine dell'antichità, cor-
risponda evidentemente a un atto essenziale, che è legato alla
pedagogia e che si iscrive in un cursus. Quel che Hadot ci insegna,
è che la comprensione delle regole di scrittura dell'autore antico è
un indispensabile preliminare per il lavoro dell'esegeta moderno,
se vuol comprendere quali sono le regole di interpretazione da
applicare ai testi dell'antichità. Saremo così condotti a distingue-
re - ed è qui che la valutazione dei generi letterari interviene - tra
una monografia che ha per oggetto di tracciare un panorama teo-
rico e dogmatico su una questione singolare - è il caso ad esempio
del trattato di Damascio Sul tempo, lo spazio e il numero - e un
commento che segue l'ordine di un testo autorevole. Dobbiamo
comprendere cosa significa leggere un testo, per un commentatore
dell'antichità. Cosa significa, per Proclo o Simplicio, leggere un te-
sto di Platone o di Aristotele? Bisogna inoltrarsi in considerazioni
complesse. Bisogna comprendere, innanzitutto, qual è la filosofia
neoplatonica della storia della filosofia: abbiamo, ad esempio, in
particolare, la grandiosa prefazione della Teologia platonica di
Proclo, in cui vediamo, in un certo senso, che non c'è storia della
Verità, ma solo una storia del dispiegarsi della Verità. Allo stesso
modo, bisogna comprendere qual è il pregiudizio sinfonico che è
stato in un certo modo teorizzato da Siriano in un trattato andato
perso sull'Armonia di Orfeo, Pitagora, Platone, con gli Oracoli cal-
daici. Bisogna comprendere in modo più approfondito quel che un
Lo studio degli antichi: imparare a vivere, imparare a leggere 109

testo è per un autore o un filosofo dell'antichità, e in particolare


quali sono la forza, la presenza e la realtà di quel che chiamerei
l'implicito del testo. Hadot ha esposto sin dal suo articolo fon-
damentale del 1968, Philosophie, exégèse et contresens 2 , come
un commentatore dell'antichità e del Medioevo ha il sentimento
soggettivo, l'intenzione di esplicitare quel che è presente nel testo:
cosa che spiega come la novità e la creazione, in filosofia, non sia-
no oggetto di un'intenzione, ma di una certa pratica regolata del
controsenso esegetico. C'è una fecondità filosofica del controsenso
filologicamente accertato e, parallelamente, un rifiuto dell'origina-
lità individuale, un rifiuto della kainoprepeia. Questi elementi, che
mi accontento di ricordare, costituiscono il clima molto partico-
lare dell'esegesi antica. Se non si comprende questo clima, non è
possibile interpretare correttamente i testi dell'antichità.
Ultimo punto, e mi fermerò qui: la questione della sistematicità.
Nel lavoro che dobbiamo fare sugli autori dell'antichità, Hadot ha
tracciato delle strade metodologiche estremamente feconde, grazie
alla riflessione che ha intrapreso sulla nozione di sistematicità.
Certo, la sistematicità esiste. Possiamo dire, ad esempio, che gli
Elementi di teologia di Proclo rappresentano uno dei risultati più
compiuti nella ricerca di una sistematicità teorica. Ma quel che vi
è di più interessante e fecondo, nel lavoro di Hadot, per noi storici
della filosofia antica, sono le sue osservazioni, disseminate in tutta
la sua opera, sul fatto che esistano modalità non sistematiche della
razionalità filosofica, che si realizzano nella pratica dei commenti
a margine dei testi. Non posso sviluppare questo punto, ma credo
che vi sia qui uno strumento concettuale per noi estremamente
potente.
Concluderò cedendo la parola, se così si può dire, a un autore
a me caro: Simplicio. Nel prologo al suo commento alle Categorie
di Aristotele, Simplicio spiega come ha lavorato. Tra tutta una
serie di autorità, afferma di aver scelto due fonti che gli hanno
offerto i materiali, la materia prima del suo splendido commen-
to alle Categorie di Aristotele. Queste due fonti sono Profirio e
Giamblico: il grande commento di Porfirio a Gedalio, ora più
noto grazie a Michael Chase, e il commento di Giamblico alle

2 P. Hadot, Philosophie, exégèse et contresens, in Études de philosophie ancienne,


Les Belles Lettres, Paris 1998, pp. 2-10.
110 Philippe Hoffmann

Categorie. Simplicio spiega di aver voluto, da una parte, restringe-


re la massa di questi commenti e, dall'altra, rendere più chiaro il
commento di Giambico che, afferma, è inaccessibile alla maggior
parte degli uomini a causa della sua oscurità. Questo esercizio, al
tempo stesso di riduzione quantitativa e di semplificazione stilisti-
ca, che si nutre di parafrasi e di trascrizioni (apographe) e di lunghi
frammenti di commenti dei suoi illustri predecessori, è descritto
da Simplicio come un esercizio spirituale che deve condurlo a una
akribestera katanoesis, a una comprensione più precisa della dot-
trina della verità.
In altri termini, la scrittura del commento, che include la tra-
scrizione dei testi tratti da queste autorità, è un esercizio spi-
rituale per iscritto, e questa nozione di esercizio spirituale per
iscritto, che è chiaramente la nozione direttrice per interpretare i
Pensieri di Marco Aurelio - e Ilsetraut Hadot ha mostrato come
essa caratterizzi anche un'opera come il commento di Simplicio al
Manuale di Epitteto - questa nozione funziona molto bene anche
per descrivere altri commenti di Simplicio, in particolare, per sua
stessa ammissione, il commento alle Categorie. Ma si può andare
oltre: i commenti sono esercizi spirituali per iscritto di un tipo più
particolare ancora, nel caso in cui l'oggetto del commento sia esso
stesso una realtà divina (come il Cosmos, il Cielo o il Demiurgo).
Penso ad esempio al commento al Trattato del cielo di Aristotele.
Il commento è interamente descritto come una specie di inno al
cosmo e al demiurgo, e analisi più fini permettono di mostrare
come questa scrittura del commento corrisponda esattamente alla
dottrina neoplatonica della preghiera, quale Proclo in particolare
l'ha elaborata a partire da un'interpretazione degli Oracoli caldai-
ci. In altri termini, credo che si possa affinare l'idea del commento
come esercizio spirituale, dando a questo termine, al di là dell' e-
sercizio propriamente intellettuale che corrisponde all'akribestera
katanoesis, tutte le sue dimensioni e tutta la sua ampiezza, direi
anche religiosa, nel quadro della religiosità neoplatonica: inno e
preghiera. Questi sono solo alcuni esempi, inevitabilmente solo
allusioni, della fecondità delle strade metodologiche che ci sono
state proposte da Hadot in tutta la sua opera.
Pierre Hadot e la questione dell1arte
Anne-Lise Darras-Worms

L'aspetto del lavoro di Pierre Hadot che vorrei brevemente


mettere in evidenza, è il modo in cui affronta la questione dell'ar-
te: vorrei insistere in particolare non solo sulla coerenza della sua
prospettiva, ma anche e soprattutto sul maggior interesse che le
sue analisi presentano dal punto di vista della storia dell'arte e
degli interrogativi che hanno suscitato e che suscitano ancora oggi.
Mi baserò su due testi: il primo è la Note sur l'esthétique pubblica-
ta nel 1963 in appendice alla riedizione della sua opera su Plotino,
Plotino o la semplicità dello sguardo1; il secondo è l'opera pubbli-
cata nel 2004, che ha per titolo Il velo di Isis2.
Mi sembra infatti che, in generale, ognuno di questi due testi
sia buon testimone della preoccupazione costante che Hadot ha
di stabilire corrispondenze tra l'antichità e il tempo presente, di
comprendere il mondo che ci circonda e il nostro posto in questo
mondo, non a partire da, ma perlomeno in congiunzione con il
modo in cui gli uomini dell'antichità percepivano l'uno e l'altro,
avendo cura, certo, di lasciare ali' antichità la sua specificità, la sua
autonomia e, indubbiamente, l'identità che le è propria, se non l'e-
straneità che continua ad avere, nonostante tutto, ai nostri occhi.
Sono le condizioni di un dialogo tra le epoche quelle che, per così
dire, Hadot crea.
Certo, questi due testi sono stati pubblicati a molti anni di di-
stanza e differiscono per natura; il primo è una "nota" di poche
pagine sul confronto tra le concezioni plotiniane da una parte e,

1 P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi, Torino 1969. Cfr. P.


Hadot, Note sur l'esthétique de Plotin, in Plotin ou la simplicité du regard, Plon, Paris
1963, pp. 163-169 [testo non presente nell'edizione italiana dell'opera (N.d. T.)].
2 P. Hadot, Il velo di Isis. Storie dell'idea di natura, Einaudi, Torino 2006.
112 Anne-Lise Darras-Worms

dall'altra, l'arte antica, medioevale e moderna e contemporanea,


mentre il secondo è un'opera voluminosa, che si presenta al tempo
stesso come "saggio" e come "racconto" della storia di un'idea,
quella dei "segreti della natura", e copre venticinque secoli. I due
testi hanno però in comune numerosi temi, domande e risposte,
che rivelano la continuità di una riflessione, di una preoccupa-
zione. Non posso qui ripercorrere tutti questi temi, ma ne sot-
tolineerò almeno due, che mi interessano in modo particolare: il
tema dello sguardo - sguardo dell'uomo sul mondo, mediato dalla
creazione e dalla contemplazione dell'opera d'arte - e la nozione
di svelamento. I due temi sono senz'altro legati, perché tra le do-
mande che ci poniamo generalmente a proposito dell'arte, o che
si pongono all'artista, ci sono queste: come vedere, cosa vediamo
quando guardiamo un'opera d'arte, qual è la natura, la funzione
dell'arte ed anche, soprattutto: come rendere visibile quel che è
invisibile? Queste domande hanno origine nell'idea per cui l'arte
può far vedere diversamente, e forse meglio, quel che la percezio-
ne sensibile vede, quel che chiamiamo la realtà o il "reale" - che
rimane per noi enigmatico o, perlomeno, forse non è quel che
crediamo che sia. Il procedimento intrapreso da Hadot si basa su
queste domande e si propone di mostrare in modo esatto che non
solo gli interrogativi sono comuni da un'epoca all'altra, ma che an-
che le risposte possono talvolta essere comuni, o almeno congiun-
gersi, aldilà della loro diversità.
Così, nella Note sur l' esthétique, Hadot parte da un ritratto
del III secolo e identificato da Hans Peter L'Orange come ritrat-
to di Plotino, caratteristico «della "tendenza impressionista" che
emerge nell'arte romana del ritratto a metà del III secolo» in cui
«si riconosce il "volto illuminato dall'intelligenza" di cui parla
Porfirio»3 . Riferendosi ai lavori di André Grabar4, Hadot sotto-
linea innanzitutto gli accostamenti che è possibile stabilire tra le
concezioni plotiniane e l'arte della fine dell'antichità e del Me-
dioevo. Per Plotino, come per gli artisti di quell'epoca, si tratta

3 P. Hadot, Note sur l'esthétique de Plotin, op. cit., pp. 163-164.


4 Si veda in particolare l'articolo di André Grabar, Plotin et les origines de l'e-
sthétique médiévale, in «Chaiers archéologiques, Fin de l'Antiquité et Moyen Àge»,
1945, t. I, pp. 15-36. Questo articolo è stato ripubblicato in A. Grabar, Le origini dell'e-
stetica medioevale, Jaca Book, Milano 2001.
Pierre Hadot e la questione dell'arte 113

di fare in modo che artista e spettatore scoprano nell'opera d'ar-


te «la forma intelligibile, più viva, aldilà dell'oggetto sensibile»5 .
In questo modo la funzione euristica, cognitiva dell'arte è messa
in evidenza. Ma, per percepire questa «forma trascendente»,
«l'occhio», sottolinea Hadot, «deve trasformare il proprio modo
di vedere, la visione deve divenire interiore», fino a fare uno con
l'oggetto visto, come dice appunto Plotino nel suo primo Trat-
tato6. È infatti questa visione «ideale e trasparente», secondo i
termini di Grabar, che ritroviamo nelle opere di quest'epoca; lo
spazio vi è «assorbito», traversato da parte a parte e invaso dalla
luce, non ci sono più «limiti tra lo spettatore e l'oggetto contem-
plato», il piano è unico. Questo movimento di assorbimento cor-
risponde bene alla concezione della visione espressa da Plotino
in altri trattati 7 : «come Plotino, l'artista sembra supporre che sia-
mo trasportati dalla visione al posto dell'oggetto rappresentato e
che facciamo uno con esso»8 .
Come Hadot ricorda in seguito, sono anche le concezioni plo-
tiniane a permettere a Georges Duthuit, ne Le Feu des signes9, di
comprendere non solo l'arte bizantina, ma anche l'arte moderna, e
in particolar modo la pittura. L'apertura dello spazio - uno spazio
spirituale - a uomini che non sono «spettatori», ma sono in uno
«stato di grazia psichico e mentale», e la metafisica della luce si
trovano anche nelle parole di Matisse, citate da Duthuit, che affer-
ma di «provare a tradurre uno stato d'animo creato dagli oggetti
che lo circondano» e parla anche lui di «di identificazione con
l'oggetto» che si realizza «basandosi sugli intervalli in cui la luce
irrompe» 10 .
Infine, l'idea per cui la creazione di un'opera d'arte o la sua
contemplazione dipendono da - o conducono a - un' «esperienza
della visione» si ritrova anche nella fenomenologia, e in particolare
in Merleau-Ponty, quando analizza l'opera di Cézanne ne L'occhio
e lo spirito. Dopo aver ricordato queste frasi di Merleau-Ponty:

5
P. Hadot, Note sur l'esthétique de Plotin, op. cit., p. 165.
6
Si veda in particolare Plotino, Enneadi, l (I, 6), 9.
P. Hadot si riferisce in particolar modo a Plotino, Enneadi, 35 (Il, 8) e 41 (IV, 6).
8 P. Hadot, Note sur l'esthétique de Plotin, op. cit., p. 166.
9 Georges Duthuit, Le Feu des signes, Skira, Genève 1962.
10
lvi, p. 177, citato da P. Hadot in Note sur l'esthétique de Plotin, op. cit., p. 168.
114 Anne-Lise Darras-Worms

«la pittura non imita più il visibile, ma "rende visibile", lo depura


dalla genesi delle cose» 11 , «il quadro mostra come le cose si fanno
cose, e il mondo mondo» 12 , Hadot conclude: «il problema della
pittura moderna, che è anche quello della fenomenologia, era
quindi già il problema del pensiero plotiniano: la genesi del visibi-
le - in che modo le cose ci possono apparire?» 13
Questa è appunto la domanda sui cui torna lo studio intitolato
Il velo di Isis e Hadot precisa infatti, nella sua Prefazione, di essersi
interessato alla nozione di segreto della natura nell'antichità e nei
tempi moderni negli anni Sessanta 14 , ossia nel momento in cui ve-
niva pubblicato il suo libro su Plotino. Sembra quindi che la Note
sur l' esthétique abbia tracciato una strada che il saggio sulla storia
dell'idea di natura ha proseguito.
Certo, molti testi hanno guidato questa riflessione sull'arte e la
genesi delle forme, ma non posso fare a meno di pensare ad uno di
essi in particolare, citato ne Il velo di Isis 15 e che ne costituisce uno
dei fili conduttori. Si tratta del primo capitolo del Trattato 31 (V,
8) di Plotino:

E poi bisogna sapere che le arti non imitano semplicemente le cose


che si vedono, ma si elevano alle forme ideali, dalle quali deriva la natura.
E si dica inoltre che esse producono molte cose di per se stesse, in quanto
aggiungono alla natura qualcosa che ad essa manchi, poiché possiedono
in se stesse la bellezza. Così Fidia creò il suo Zeus senza guardare a un
modello sensibile, ma lo colse quale sarebbe apparso, qualora Zeus stesso
consentisse ad apparire ai nostri occhi 16 .

Ricordiamo il punto di partenza dell'opera: sulla pagina di de-


dica della versione tedesca dell'Essai sur la géographie des plantes,
di Alexander von Humboldt (1807), si vede un personaggio che
nella mano sinistra tiene una lira e con la destra scopre la statua di
una dea, il cui busto è formato da tre file di seni, mentre la parte

11 Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 52, citato da

P. Hadot, Note sur l'esthétique de Plotin, op. Ctt., p. 168.


12 lvi, p. 168.

il lbid.
1
~ Pierre Hadot, Il velo di lsis, op. cit., p. IX.
15 lvi, p. 231.
16
Plotino, Enneadl, 31 (V, 8), 1 34-40, trad. it. cit., pp. 905-907.
Pierre Hadot e la questione dell'arte 115

inferiore del corpo è stretta in una guaina ornata da figure di ani-


mali. Il libro di Goethe, La metamorfosi delle piante, giace ai piedi
della statua. Goethe interpretò questa «illustrazione lusinghiera»
supponendo che «lasciasse intendere che anche la Poesia potesse
sollevare il velo della Natura». Hadot stabilisce un confronto tra
questa illustrazione e la sua interpretazione, da una parte e, dall' al-
tra, il celebre aforisma di Eraclito: «la natura ama nascondersi»:
intraprende quindi una vera «inchiesta» su questo tema 17 .
Dopo aver studiato l'elaborazione dell'idea di natura nell'anti-
chità (fondata sulla concezione per cui la natura è arte), poi quella
dell'idea di segreto della natura, dall'antichità fino ai tempi moder-
ni, Hadot ripercorre innanzitutto, passo passo, la storia delle ese-
gesi di questo frammento. Egli mostra in particolare che l'aforisma
divenne, per i Neoplatonici, «la natura ama avvilupparsi» e ricor-
da, con Erwin Panofsky e Edgard Wind, che questa interpretazio-
ne ha influenzato i pittori del Rinascimento:

L'abito simbolizza il corpo, mentre la nudità simbolizza la potenza


incorporea che resta separata dal corpo [ ... ]. Si rappresentava la Natura
come una donna nuda per simbolizzarne, certo, la semplicità e trascen-
denza, ma anche, forse, per suggerire che la Natura si svela a colui che la
contempla 18 .

In un secondo momento, Hadot torna sul tema del segreto


della natura per mostrare - ed è quel che ci interessa in particolar
modo qui - che di fronte a questa concezione sono possibili due
atteggiamenti, non necessariamente opposti, ma talvolta addirit-
tura congiunti: un atteggiamento prometeico e un atteggiamento
orfico. Dopo aver proceduto alla storia del primo - «volontarista»
perché «tende a svelare con astuzia e con violenza i segreti della
natura» 19 , la sua storia si estende «dagli inizi della meccanica gre-
ca alla rivoluzione meccanicistica del Seicento, che ha aperto la
strada al mondo tecnico e industrializzato in cui viviamo ancora
oggi» 20 - Hadot studia «l'altro metodo», definito invece come

17
Cfr. P. Hadot, Il velo di Isis, op. cit., pp. IX-XI.
18
Ivi, pp. 61-62.
19
lvi, p. 93.
20 lvi, p. 151.
116 Anne-Lise Darras-Worms

«contemplativo»: «quello che punta a scoprire i segreti della na-


tura limitandosi alla percezione, senza l'aiuto di strumenti tecnici,
utilizzando solo le risorse del discorso filosofico e poetico o quelle
dell'arte pittorica»21 . Nell'analisi dedicata a questo secondo atteg-
giamento, presente dal Timeo di Platone fino a Claudel, ritrovia-
mo i temi evocati nella Note sur l'esthétique.
Quel che Hadot si propone infatti di dimostrare, è l'identifica-
zione reciproca di arte e natura che questo atteggiamento implica
o presuppone. L'opera d'arte in senso ampio (il discorso filosofico
ne è una) è:

Una forma di conoscenza della Natura - una conoscenza [connais-


sance] che, seguendo Paul Claudel, non è altro che una co-nascita [co-
naissance], dal momento che l'artista sposa il movimento creatore della
Natura e l'evento della nascita dell'opera d'arte è a conti fatti solo un
momento dell'evento della nascita della Natura 22 .

Ritroviamo qui l'idea di Plotino, per cui l'arte imita, nel senso
di «fa come», la Natura, idea che ritroviamo in Goethe, che di-
ceva: «presumo che gli artisti greci procedessero secondo le leggi
della natura stessa, leggi sulle cui tracce mi sono messo anch'io»,
ma anche in Picasso («Non si tratta di imitare la Natura, ma di
lavorare come fa lei») o Paul Klee per cui «la natura naturante
importa più della natura naturata» 23 . All'inverso, la funzione euri-
stica dell'arte e il ruolo di vero interprete della Natura che si trova
così attribuito al poeta (in senso ampio), perché ne conosce i se-
greti, hanno origine nell'idea che «la natura stessa agisse come un
poeta e che il suo prodotto fosse una sorta di poema»24 : la natura
è arte. Di nuovo, come Hadot mostra, c'è una chiara derivazione
da una concezione presente sia negli uomini dell'antichità (Filo-
ne, gli Stoici, Plotino) sia, tra altri possibili esempi, nei romantici
tedeschi (Novalis, Schelling, Holderlin). Allo stesso modo, vi è
una grande vicinanza tra l'idea per cui il «poema della natura», il
mondo in cui siamo, di cui facciamo parte e che siamo costituisce

21 lbid.
22 lvi, p. 152.
23 Citati da P. Hadot, ivi, p. 213.
24
lvi, p. 195.
Pierre Hadot e la questione dell'arte 117

un linguaggio da decifrare, detentore di una verità nascosta da una


parte e, dall'altra, la domanda o il compito comune agli artisti dal
III secolo fino all'epoca contemporanea: come rendere visibile
l'invisibile?
Mi sembra quindi che questa domanda sia anche quella che
Hadot pone a se stesso, attraverso la sua riflessione sull'arte e la
natura e sulla loro comune essenza. Questo non stupisce se si pen-
sa, certo, alla prospettiva nella quale Hadot legge i Neoplatonici e
i filosofi dell'antichità in generale, se si pensa anche ai suoi lavori
sugli esercizi spirituali - lo studio della natura e la contemplazione
di un'opera d'arte non lo sono? - se si pensa, infine, alla sua co-
stante preoccupazione di non dissociare mai le opere degli autori
filosofici dell'antichità dalle «condizioni concrete in cui scriveva-
no», di mettere in evidenza il loro aspetto propriamente letterario,
l'estetica - in senso ampio - da cui ognuno dipende in modo spe-
cifico e di considerarli sempre, in fondo, come delle opere d'arte
che con lui, grazie a lui, contempliamo.
Pierre Hadot:
filosofia) letteratura ed esercizi spirituali
Jean-Charles Darmon

In questa tavola rotonda ognuno ha potuto reagire a quel che è


stato detto durante questa giornata e, al tempo stesso, evocare le
risonanze che il lavoro di Pierre Hadot ha avuto sulle sue ricerche.
Se avessi avuto il tempo di intervenire in nome degli studi detti
letterari (teoria letteraria, critica letteraria), mi sarebbe piaciuto di-
re in modo più dettagliato a Hadot fino a che punto lo studio delle
letterature può essere arricchito, o lo è già stato, dal suo lavoro.
In particolare, durante la giornata sono stato sollecitato da
quattro tipi di domande, che sarebbe importante approfondire
ulteriormente, e che dovrò evocare molto brevemente, come base
di partenza.
Prima domanda: fino a che punto la scrittura e anche la lettura
di un testo "letterario" possono esser concepite come esercizio di
sé, come forme di "esercizio spirituale" - nel senso in cui lo inten-
de Hadot? E cosa accade quando si considera da questo punto di
vista il problema delle relazioni tra letteratura e filosofia? Si tratta,
nei due casi, dello stesso tipo di esercizio? Domanda profonda-
mente legata a quella delle frontiere tra letteratura e filosofia, che
si rinegoziano di continuo.
Più esattamente, non bisognerebbe prendere in considerazione
dei momenti specifici in cui la "letteratura" sembra farsi carico di
quel che Hadot trova nella filosofia, ossia di questa dimensione
viva, di esercizio? Penso in particolare a quel momento molto
specifico in cui, dopo Montaigne - e spesso secondo Montaigne -,
in stretto legame con certe forme del pensiero morale (come il sag-
gio) emerge la figura del "moralista"; momento di crisi sotto molti
aspetti in cui, da Montaigne a Saint-Évremond, ed oltre, questa
dimensione di esercizio di sé è spesso rivendicata apertamente con-
tro la filosofia, considerata essere dalla parte del discorso teorico,
120 Jean-Charles Darmon

e non di un'autentica trasformazione del soggetto. (Del resto, da


questo punto di vista sarebbe possibile reinterpretare l'immenso
successo delle Vite di Diogene Laerzio durante l'età d'oro dei
moralisti, Vite da cui vengono tratti exempla mobilitati volentieri
contro il discorso filosofico e ai suoi margini, per esibire la vita che
si nasconde sotto il sistema, in un modo di procedere che consiste
nel ritrovare una vitalità prima del filosofo, al di sotto delle cate-
gorie che sono state "scolarizzate", se così posso dire, dalle scuole,
con la scolastica che offre da questo punto di vista a questi scrittori
l'immagine di un Cattivo Altro) ...
Ma fino a che punto questi "moralisti" possono procurare ai
loro lettori degli esercizi, esercizi spesso definiti come "mondani",
in opposizione a quelli dei "dotti"? Sappiamo che la mondanità
dell'età classica non è quella che crediamo, e che deriva anche da
una volontà di riattivare il discorso dal lato della vita, e non solo
nell'ambito dei contenuti di dottrina, a costo di sviare e trasformare
certi gesti topici, proposti da questa o quella tradizione filosofica.
Ho avuto l'occasione di attardarmi recentemente su un esempio
caratteristico, quello della diversione, quale la si trova in Lucrezio:
si tratta essenzialmente di una tecnica di sviamento dell'attenzione,
di fronte ai fantasmi patogeni. È molto interessante analizzare co-
me un punto piuttosto marginale della dottrina antica divenga, per
alcuni moderni, l'elemento centrale di un'antropologia e, per un
moralista come Saint-Évremond, sia il concetto-chiave di un'etica
e di un'etica del divertissement, che va molto oltre il senso critico
che Pascal diede a questo termine, che consideri l'uomo come un
«essere per il divertissement», come quella creatura molto partico-
lare che ha continuamente bisogno di distogliersi da sé per essere
veramente sé. Ecco quindi un tipo di esempio in cui il lavoro di
questa figura particolare che è quella del moralista consiste nel
concentrarsi su un punto della dottrina filosofica cui si ispira e a
farne un ingresso vitale dell'analisi morale; ma a prezzo di quali
deviazioni, di quali trasposizioni, di quali perversioni?
Terza domanda che è stata stimolata da quel che ho ascoltato
prima: in quali momenti della sua storia la filosofia stessa ha pro-
vato il bisogno di dare alla vita dei filosofi e al concetto di costumi
una consistenza determinante per interpretare l'opera dei filosofi
del passato? Penso in particolar modo a un filosofo come Gas-
sendi, la cui opera sulla vita ed i costumi di Epicuro ha svolto un
Pierre Hadot:/iloso/ia, letteratura ed esercizi spirituali 121

ruolo essenziale per la reinterpretazione della sua filosofia e la sua


disseminazione nel campo della "letteratura" e delle arti.
A partire da quale momento e in quali circostanze la lettera-
tura può essere percepita come quel che offre la possibilità di un
esercizio di sé, di un esercizio su sé, ma senza termine fisso prede-
terminato, senza accesso a quel che Hadot ed altri chiamano una
saggezza (nel dialogo interrotto 1 con Foucault, Hadot dice che
questo termine non appare in Foucault e che Foucault parla più
che altro di un'estetica dell'esistenza). Ora, mi chiedo se la lette-
ratura, pur essendo esercizio, non sia anche, simultaneamente, in
molti casi, un esercizio di anti-saggezza, un assillo delle saggezze
- l'espressione è stata utilizzata oggi in un altro contesto - assillo
delle saggezze rappresentate, in particolare da molti eredi di Mon-
taigne, come altrettante illusioni della filosofia, se non come al-
trettante imposture del discorso dogmatico in filosofia e di questa
"commedia dei filosofi" messa in scena da tanti dei grandi lettori
di Luciano.
Questo ci conduce a un'altra dimensione dell'interrogazione
che l'opera di Hadot può ispirare a chi rifletta sulla letteratura e
sui suoi diversi usi possibili: che cosa sarebbe un esercizio senza
saggezza? Sarebbe interessante evocare una delle grandi rottu-
re introdotte da Montaigne in quel che egli chiama la «scienza
morale». Perché se, da un certo punto di vista, Montaigne può
essere ricollegato agli esercizi tratti dalla filosofia antica, i Saggi
testimoniano anche di un'immensa scossa per quel che riguarda la
saggezza. Da questo punto di vista mi sembra che una gran parte
della letteratura si affermi anche come materia per esercizi "sciol-
ti" dalla preoccupazione di fondare una verità, che rifiutino per
natura ogni procedura "fondazionale". Potremmo ad esempio leg-
gere alcune favole di La Fontaine - che sono spesso state ridotte a
semplici illustrazioni di una saggezza "topica" - come un esercizio
di questo tipo.
Allo stesso modo, capita a Saint-Évremond di dare un tono
e una consistenza estetica ad alcuni esercizi della saggezza del
Giardino: quando si appropria della memorizzazione affettiva,

Cfr. P. Hadot, Un dialogue interrompu avec Miche! Foucault. Convergences et


divergencer, in Exercicer spirituels et philosophie anttque, op. cit., pp. 305-311 [testo non
presente nell'edizione italiana dell'opera (N.d. T.)].
122 Jean-Charles Darmon

meditando sui momenti di felicità che permettono di resistere ai


dolori e alle infermità, l'esempio topico è chiaramente quello di
Epicuro stesso, che con questi esercizi di memoria neutralizzava
i disturbi della malattia che lo prostrava. «Mi sento in quel che
dico». La scrittura morale nel suo insieme, quale Saint-Évremond
la descrive in una bella lettera al maresciallo de Créqui, somiglia
per molti aspetti a quegli esercizi analizzati da Hadot per la filo-
sofia antica. L'atto di scrittura, come modo particolare di diver-
tissement non può essere ridotto a essere solo la messa in forma
retorica di un contenuto preliminare di pensiero, di una dottrina
di riferimento. Scrivere (ma anche dedicarsi all'arte della conver-
sazione) è esercitarsi ad essere sé, è riassestare il proprio rapporto
a sé con l'immaginazione e il linguaggio, parlando di altro ad altri
e a se stessi; è modificare quel che Saint-Évremond chiama la «si-
tuazione» del suo spirito. "Tecnica di sé" che forma e trasforma il
soggetto, nel mondo e al tempo stesso a distanza dal mondo; eser-
cizio di emancipazione della soggettività nei confronti dei discorsi
di autorità che pesano su di essa, in cui non può contentarsi di
imitare modelli, di riassumere astrattamente una dottrina, ma si ci-
menta, all'occorrenza, in una ricerca viva di sé. Tuttavia, l'analogia
con gli "esercizi spirituali" dei filosofi si ferma qui. A differenza di
quelli che praticavano gli apprendisti filosofi nella parenetica delle
"scuole", non si sa veramente in questo caso quel che si troverà
alla fine dell'esercizio, né da quale svolta linguistica e immagina-
tiva il ritorno a sé sarà il più giusto e il più vero. Anche da questo
punto di vista, nella pratica ricorrente di questo gesto senza fine,
che accetta le proprie indeterminazioni con gioia e disinvoltura,
Montaigne rimane il riferimento per eccellenza, senza precedente
né equivalente nella tradizione filosofica.
Queste erano solo alcune osservazioni in disordine, tra molte
altre possibili, che bisognerebbe chiaramente approfondire e ar-
ricchire, dato che l'opera di Hadot stimola così tante risonanze tra
coloro che riflettono oggi sulle relazioni tra "letteratura", filosofia
e morale, sia nella lunga durata, che in ogni momento caratteristico
della loro storia.
Indice

Autori 7
Ringraziamenti 9

Introduzione
Imparare a leggere, imparare a vivere
Arnold I. Davidson, Frédéric Worms 13

Intervista
L'insegnamento degli antichi, l'insegnamento dei moderni
Pierre Hadot, Arnold I. Davidson 25

Studi
Retroazione filosofica: Pierre Hadot, gli antichi
e i contemporanei
]ean-François Balaudé 43
L'io ineffabile: esercizi spirituali e filosofia moderna
Barbara Carnevali 53
Linguaggio ordinario ed esercizio spirituale
Sandra Laugier 67
La filosofia come modo di vivere e l' antifilosofia
Gwenaelle Aubry 87

Interventi
Lo studio degli antichi: imparare a vivere, imparare a leggere
Philippe Ho/fmann 103
124

Pi erre Hadot e la questione dell'arte


Anne-Lise Darras-Worms 111
Pierre Hadot: filosofia, letteratura ed esercizi spirituali
Jean-Charles Darmon 119

Potrebbero piacerti anche