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EUGEN F1NK
lavora e lotta, dove si oppone alla morte e dove ama. Non è qui
il luogo e l'occasione per esporre lo stile fondamentale di una inter
pretazione dell'esistenza che riporti alla domanda sui fenomeni fon
damentali. Ma come accenno si può osservare che tutti gli essenziali
fenomeni fondamentali dell'esistenza umana sono cangianti e appaio
no in maniera ambigua enigmatici. Ciò ha il suo motivo piu profondo
nel fatto che l'uomo è al tempo stesso esposto e al sicuro. Egli non
è piu trattenuto nel fondamento della natura come la fiera, e non è
ancora libero come l'angelo senza corpo - egli è una libertà immersa
nella natura, rimane legato ad un oscuro impulso che lo afferra e
intimamente lo possiede. Egli non è semplicemente ; egli si rapporta
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senso del suo esser-qui. L'animale non è capace, e Dio non ha bisogno
di interrogare intorno a se stesso. Ogni umana risposta alla domanda
sul senso della vita significa porre uno « scopo finale ». Nella mag
gior parte degli uomini, veramente, questo non avviene in modo
espresso ;· ma sempre governa il loro fare e non fare una rappresen
tazione di fondo di ciò che per loro è il « sommo bene ». Tutti gli
scopi quotidiani sono architettonicamente irrigiditi nella cospirazione
allo scòpo finale - tutti gli scopi particolari delle umane fun
zioni si unificano in quello che è creduto l'ultimo scopo dell'uomo
in generale.
In questa compagine degli scopi si muove l'intero lavoro umano,
si muove l'aspetto serio della vita, si muove e dà prova di sé la
sua autenticità. Ma la fatale situazione dell'uomo si mostra nel fatto
che egli da sé non può diventare assolutamente certo del fine ultimo,
e che nella domanda piu importante della sua �sistenza egli brancola
nel buio, se nessuna potenza sovrumana lo aiuta. Per questo noi
troviamo tra gli uomini un'irrimediabile confusione linguistica ap
pena si tratta di dire che cosa sia lo scopo finale, quale la destina
zione, quale la gioia vera dell'essere umano. Per questo anche l'irre
quietezza, la furia, la tormentosa incertezza le troviamo segni carat
teristici dello stile di vita dell'uomo progettante. In questo stile ora
il gioco non si inserisce come di solito ogni altra azione. Esso si
distingue considerevolmente dal complessivo carattere futuristico della
vita. Esso non si lascia neppure senz'altro incorporare nella complessa
architettura degli scopi, non accade in vista dello « scopo finale »,.
non viene turbato e sconvolto come ogni altra nostra azione dalla
profonda insicurezza della nostra interpretazione della gioia. In con
fronto con il corso della vita e con la sua dinamica inquieta, con
la sua oscura problematicità ed il suo riferimento al futuro che esso
continua a inseguire, il giocare ha il carattere di « presente » quie
tato e di autarchia di senso - esso rassomiglia ad un'« oasi » di
felicità raggiuntÒ nel deserto del nostro ulteriore tendere alla gioia
e della: nostra tantalica ricerca. Il gioco ci rapisce. Giocando noi
siamo per un po' di tempo liberati dall'ingranaggio della vita- come
trasferiti su di un altro corpo celeste, dove la vita appare piu leggera,.
piu aerea, piu felice. Spesso si dice che il giocare sia un fare ed
agire « privo di scopo », « libero da scopo >>. Questo non è vero. Come
azione generale il gioco è determinato finalisticamente e nei singoli
momenti del suo procedere ha di volta in volta scopi particolari che
si combinano insieme. Ma lo scopo immanente del gioco non è, come
gli scopi delle altre azioni umane, progettato per lo scopo finale
pm alto. L'azione del gioco ha soltanto scopi interni, e non scopi
che la oltrepassino. E dove noi eventualmente giochiamo « per lo
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mai distesi sopra di me i cieli tranquilli, volando con le mie ali nel
mio proprio cielo : se mai giocando navigai in profonde lontananze
di luce l e la mia libertà acquistò saggezza d'uccello : - giacché
parla cosi la saggezza d'uccello : " Ecco, non v'è alto, non v'è basso !
Gettati di qua e di là, avanti e indietro, tu che sei leggero ! l Can
ta ! Non parlar piu " » (l sette suggelli).
...
( Il gioco come simbolo del mondo, introd. di Jean.Michel Rey, Roma, 1969, pp. 299-305).