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Corso di Ermeneutica filosofica 2007/08

(Scienze dell’educazione)
Prof. G. Bertolotti

Dispensa delle lezioni su Totalità e Infinito


La fenomenologia dell’accoglienza di Lévinas
di Luca Pinzolo

Indice
Parte prima. Introduzione alla filosofia di Emmanuel Lévinas
Premessa .....................................................................................................................................3
Cenni sulla vita e la formazione filosofica ...................................................................................5
La svolta husserliana e il metodo fenomenologico .......................................................................7
Il Volto...................................................................................................................................... 10
Nota sulla sociologia relazionale ............................................................................................... 14

Parte seconda. Totalità e Infinito


«Prefazione» ............................................................................................................................. 16
L’infinito e la totalità: il problema ............................................................................................. 21
La dimora.................................................................................................................................. 25
Volto ed etica ............................................................................................................................ 34

2
Parte prima. Introduzione alla filosofia di Emmanuel Lévinas

Premessa

L’itinerario filosofico di Emmanuel Lévinas può, nel complesso, essere presentato come lo sforzo
di descrivere l’incontro con un’alterità assolutamente trascendente, di descrivere cioè una relazione
che non si lascia pensare nella forma del rapporto tra soggetto e oggetto e pertanto è irriducibile
all’ambito della filosofia teoretica. Nel corso del suo lungo cammino speculativo, egli ha intrapreso
una radicale messa in questione dell’intera tradizione filosofica nonché dei suoi concetti-chiave,
primo tra tutti quello di “essere”, già da Aristotele oggetto della filosofia prima, ossia della filosofia
tout court.
Potremmo anticipatamente definire il significato complessivo dell’operazione di Lévinas come il
tentativo di ristabilire, rispetto all’ontologia, il primato della metafisica, identificando quest’ultima
con il dominio dell’etica. Si tratterà, naturalmente, di rendere via via più esplicito il senso di questa
affermazione.
Emmanuel Lévinas è un filosofo lituano, di origine ebraica, formatosi filosoficamente in Francia. È
stato tra i primi (assieme a P. Ricoeur) a tradurre Husserl in francese, e senz’altro il primo a
scrivere, in Francia, su Heidegger. La sua riflessione ha affrontato esclusivamente temi morali, e in
parte politici, al punto che Ph. Nemo lo ha definito «il più importante moralista del ’900». Il suo
tema principale è quello della relazione con l’Altro (Lévinas è uno dei pensatori dell’alterità,
assieme a Lacan, e in certa misura Derrida e Deleuze), come costitutiva del soggetto. Il soggetto è la
relazione tra il Medesimo e l’Altro. Ma di questa relazione il soggetto non può fare esperienza, non
nel senso che non se ne accorge, ma nel senso che non se ne può appropriare, non può farla sua. La
relazione − la relazione sociale − è una sorta di “causa” del soggetto, che però gli rimane estranea,
trascendente, anche se lo costituisce intimamente, gli dà la sua ossatura di soggetto. L’Altro è
insomma radicato nel soggetto, e contemporaneamente rimane impensato: io non penso l’Altro,
casomai lo subisco (affezione contro esperienza). Da questo punto di vista, il prototipo dell’Altro è
sempre tutto quello che non sono e che non voglio essere: lo straniero, il povero, e − perché no? −
anche il criminale e il deviante.

3
Ecco quindi già una tesi. Se la relazione sociale è “causa” del soggetto (se il soggetto è una
formazione locale di un fascio di relazioni che egli non è in grado di pensare), allora l’Altro c’è già
sempre, e l’accoglienza è un fatto. Non si tratta di decidersi per l’accoglienza, né di “rispettare le
differenze”, di optare per questa o quella politica dell’accoglienza. Non troverete mai in Lévinas
delle prese di posizione sui problemi dell’immigrazione o del multiculturalismo: queste cose le fa lo
Stato, sono oggetto della politica.
In un’intervista, Lévinas ha sostenuto di non avere voluto elaborare un sistema di etica, ma di aver
cercato di mostrarne il senso. Qual è il senso di un’etica? Non è la formulazione di un dover-essere,
ma un esercizio fenomenologico: vale a dire la constatazione di un fatto, la sua descrizione e la sua
analisi (la descrizione della sua struttura formale e delle circostanze fenomenologiche che ce lo
fanno vivere). Il tono del discorso resta astratto, ma attraverso l’astrazione cerca di descrivere che
cosa succede nei rapporti umani, cosa sono questi rapporti:

«Si tratta di descrivere le “circostanze” fenomenologiche, la loro congiuntura


positiva e come la “messa in scena” concreta di ciò che si dice in forma di
astrazione».1

Il fatto è appunto quello dell’accoglienza nel suo nesso con la separazione, fatto che − abbiamo
visto − si colloca al di là della mia libertà, che io insomma non scelgo.
Allora: c’è accoglienza. Ma senza una separazione invalicabile non c’è accoglienza. La separazione
non può essere ridotta, rimane sempre, anche nel contatto, nella stretta di mano, nella carezza.
Anche nel contatto più intimo, io non posso fare a meno di avvertire una sproporzione, un vuoto, tra
me e l’altra persona: avverto veramente la presenza di un’altra persona, ma a condizione di sentirmi
solo (è un tema che è stato affrontato tra gli altri anche da Winnicott). Perché la separazione è e
deve essere invalicabile?
1. Se non vi fosse separazione, io non accoglierei nessuno. L’Altro sarebbe uguale a
me, sarebbe me. In sostanza, accoglierei solo me stesso.
2. L’impossibile fusione mi riguarda, mette in questione il carattere di nucleo
identitario del soggetto. Io non posso ritrovarmi nell’Altro, ma da che c’è l’Altro (cioè da
sempre), io non posso ritrovarmi in me stesso. Appunto perché io non sono una “cosa”, una
sostanza, ma l’effetto di superficie di una struttura relazionale.

1
E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, tr. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 9.

4
Cenni sulla vita e la formazione filosofica

Emmanuel Lévinas nasce a Kaunas (Lituania) il 12 gennaio 1906. Trasferito in Ucraina con la
prima guerra mondiale, nel 1916, viene poi ammesso a uno dei posti destinati agli studenti ebrei nel
ginnasio-liceo statale. Qui scopre i classici, in particolare Dostoevskij e Shakespeare. Nel 1923 è a
Strasburgo a studiare filosofia. Si forma alla scuola di studiosi come Maurice Halbwachs, studia a
lungo Durkheim.
È ipotizzabile che la sua prima formazione risenta dell’influsso di quest’ultimo, unito alla lettura dei
classici. Da Durkheim in particolare, Lévinas avrebbe acquisito il primato del legame sociale sugli
individui,2 da Dostoevskji il tema della responsabilità come forma di individuazione. Lévinas
oscillerà sempre tra questi due poli: il primato del legame sociale, che lo porta a costruire una
metafisica della relazione, la responsabilità morale, sempre e solo mia, che lo porta verso una sorta
di individualismo etico. Avremmo, insomma
• Da un lato, una metafisica della relazione sociale
• Dall’altro lato, una fenomenologia e un’ontologia della separazione.3
Questi due poli si completano a vicenda, perché se da una parte si afferma che la relazione sociale
costituisce gli individui, si può anche affermare che essa costituisce la forma stessa
dell’individualità. In altri termini, la relazione sociale costituisce degli individui separati. Presentata
così, questa tesi è una probabile eredità di Durkheim. Durkheim, infatti, ha mostrato come una
caratteristica qualificante della società moderna consista nella nascita dell’individualismo, ossia alla
costituzione di individui “egoisti”, chiusi in se stessi, capaci per lo più di rapporti sociali
impersonali e anonimi. Tuttavia, la differenziazione sociale tipica della modernità – e segnatamente
la divisione del lavoro – crea un sistema di interdipendenze tra gli individui stessi (ciò che
Durkheim definisce “solidarietà organica”. L’individualismo, quindi, si accompagna alla reciproca
dipendenza. L’individuo stesso, se vogliamo, è un fatto sociale, la solitudine stessa è una forma di
relazione sociale, e la cosiddetta “sfera privata” è un fatto “pubblico”. L’interiorità, che definisce la
sfera privata del soggetto, è prodotta da fattori esterni e precedenti il soggetto stesso.
La relazione, cui pensa Lévinas, si articola in due poli: il Medesimo e l’Altro.
Il Medesimo rappresenta il polo identitario: è ciò che ha l’identità come contenuto.4 Non si tratta
tanto di un essere che resta immutato e identico a se stesso, ma di quell’essere

2
Per Durkheim, come noto, la società è un’entità reificata che si esprime inizialmente nei simboli religiosi.
3
In Lévinas, come si vedrà, i termini “metafisica” e “ontologia” non sono sovrapponibili.
4
E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980 (d’ora in poi TI),
p. 34.

5
«il cui esistere consiste nell’identificarsi, nel ritrovare la propria identità attraverso
tutto quello che gli succede. È l’identità per eccellenza, l’opera originaria
dell’identificazione».5

Lévinas aggiunge che l’io, così inteso, più che essere gettato nel mondo – secondo una celebre tesi
di Heidegger – soggiorna in esso, esiste stando nel mondo come a casa propria. L’abitare, il
soggiornare, rappresenta per Lévinas la consistenza stessa dell’Io, la sua “stoffa”, la sua “polpa”,
ma anche la condizione del suo potere:

«La “propria casa” non è un contenente, ma un luogo nel quale io posso […]. Basta
camminare, fare per appropriarsi di ogni cosa, per prendere. Tutto, in un certo
senso, è nel luogo, tutto è a mia disposizione».6

Abbiamo, qui, una costellazione di concetti che ci permettono di avvicinarci al Medesimo:


• Essere identico
• Abitare
• Possedere
• Potere.
Potere e possesso si definiscono l’uno a partire dall’altro, in quanto il possesso è un modo di ridurre
l’alterità, quella delle cose, che inizialmente si distinguono da noi e ci fanno resistenza. Il possesso,
afferma Lévinas, «sospende l’alterità di ciò che è altro solo a prima vista e altro rispetto a me».7
Di contro al Medesimo, l’Altro rappresenta il polo non identitario: l’Altro è altro in se stesso. Non è
un altro rispetto a me: «l’alterità dell’Altro […] non dipende dalla sua identità, ma la costituisce».8
L’Altro non indica, però, un’alterità generica e indifferenziata, ma si riferisce all’altro uomo.
L’Altro è l’altro uomo, ma questi non è alter-ego: non è mio simile, è portatore di una trascendenza,
è tutt’altro, altri (alla terza persona). Lévinas ci presenta l’Altro sostenendo che è Volto. Ma il volto
non si riduce a un insieme di tratti somatici o fisionomici. Non si tratta di una faccia, ossia di una
parte del corpo umano. Quando Lévinas dice “volto” non pensa né a una bocca, né ad un naso, né al
gioco delle sopracciglia, delle labbra o dei muscoli facciali. Lévinas sostiene, anzi, che il volto non
è visibile, e, per escludere ogni componente percettiva si serve, a volte, del termine dévisage,
facendo leva sulla polisemia del verbo francese dévisager che significa tanto “guardare qualcuno”,
quanto “togliere il volto”.

5
TI, p. 34.
6
TI, p. 35.
7
TI, p. 36.
8
TI, p. 257.

6
Il volto è prerogativa dell’umano. Le cose non hanno volto: esse hanno dei lati, della facce, ma non
un volto. Le cose vengono percepite, il volto non è percepibile, o meglio, non è visibile. Non è che
noi non vediamo le altre persone, certamente le vediamo, ma quel che vediamo non è il loro essere
persone: vediamo semplicemente dei movimenti di corpi nello spazio, e tuttavia sappiamo già che
si tratta di persone, senza che qualcuno ce lo spieghi, senza bisogno di pensarci su. E questo perché
l’esperienza che noi abbiamo di un volto umano è principalmente l’ascolto del linguaggio. La
parola è certamente un fatto “acustico”, qualcosa che si ode, ma essa viene percepita come già
provvista di significato (noi non appiccichiamo i significati alle parole, ma le parole hanno già un
significato, trasmettono dei significati, sono significati). L’esperienza che abbiamo dell’Altro come
Volto si produce, quindi, al confine tra la percezione di un’immagine e il piano del significato. È
l’oscillazione, la differenza, la sproporzione tra l’immagine (che è un fatto della sensibilità) e il
significato (che non lo è). In questo senso Lévinas può affermare che il Volto «disfa la forma in cui
si offre».

La svolta husserliana e il metodo fenomenologico

In molti passi delle sue opere principali Lévinas riconosce il suo debito nei confronti della
fenomenologia husserliana. Ciò che egli dichiara di aver privilegiato nella sua recezione del
pensiero di Husserl non è la “lettera” della tradizione fenomenologica – che ne farebbe un baluardo
della filosofia della coscienza rappresentativa – quanto lo “spirito”. Ora, lo spirito della
fenomenologia consiste, a dire di Lévinas, in un metodo di presentazione e sviluppo delle nozioni
che vengono prese in esame. In questo senso Lévinas dichiara che l’articolazione del suo pensiero si
svolge secondo coordinate fenomenologiche:

«Le nostre analisi rivendicano la spirito della filosofia husserliana di cui la lettera é
stata il richiamo, nella nostra epoca, della fenomenologia permanente come metodo
di ogni filosofia».9

Il seguito della frase citata chiarisce in che cosa consista il metodo fenomenologico fatto proprio da
Lévinas:

9
E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. a cura di M. T. Aiello e S. Petrosino, Jaca Book, Milano
1973, p. 226.

7
«La nostra presentazione di nozioni non procede né attraverso la loro
decomposizione logica, né attraverso la loro descrizione. dialettica. Essa resta
fedele all’analisi intenzionale, nella misura in cui questa significa la restituzione
delle nozioni all’orizzonte del loro apparire».10

Tra il 1928-29, Lévinas è a Friburgo come libero auditore per seguire i corsi di Husserl, che in
quell’anno accademico vertono sul tema della costituzione dell’intersoggettività. Nel 1929 Lévinas
tradurrà in francese le Meditazioni cartesiane di Husserl, che mettono al centro dell’attenzione
proprio questo tema.
La filosofia di Husserl che, come noto, studia le strutture pure dell’esperienza attraverso le due
peculiari operazioni dell’epoché (o messa tra parentesi) e della riduzione, tenta di fondare
l’esperienza dell’intersoggettività a partire dalla radicale messa tra parentesi di ogni forma di
esteriorità del mondo, delle cose e delle persone. Tale riduzione ad una sfera che Husserl definisce
“primordinale” è, in effetti, una sorta di esperimento mentale che prefigura una condizione di
radicale solipsismo: ci sono solo io, tutto il resto – cose e persone – sono da concepirsi come mie
apparizioni.
In questo mondo puramente fenomenico che si svolge sotto i miei occhi come un film,
l’apparizione dell’altro uomo presenta delle peculiarità: non si tratta solo di un corpo in
movimento, perché anzi egli mi appare come portatore di un’intenzionalità (di una coscienza, per
dirla in breve) analoga alla mia. Questa intenzionalità, presente nel modo stesso in cui l’altro si dà
e si muove, non può, tuttavia, essere percepita (non posso leggere i pensieri degli altri), ma viene
“appresentata”:

«Dal punto di vista noematico, nell’oggetto di percezione presentativa-


appresentativa manifestantesi nel modo del qui-stesso si deve distinguere ciò che vi
è autenticamente percepito e l’eccedenza di ciò che vi coesiste senz’essere
autenticamente percepito».11

L’appresentazione è quella struttura della nostra percezione che ci consente, a partire da quello che
vediamo, di anticipare quello che noi non vediamo, ma potremmo vedere. Il lato visto di una cosa,
afferma Husserl,

10
Ibidem.
11
E. Husserl, Meditazioni cartesiane − con l’aggiunta dei Discorsi parigini, tr. it. a cura di F. Costa, Bompiani,
Milano 1960, p. 141.

8
«appresenta sempre e necessariamente un lato posteriore della cosa stessa e ne
presume un contenuto più o meno determinato».12

In altri termini, per fare un esempio, io posso girare intorno ad una casa perché so già che c’è una
facciata e un retro, così come so già che la variazione di colore del tronco di un albero è un indice
di voluminosità. Nella nostra facoltà percettiva è contenuta una facoltà “appresentativa” che ci
permette di cogliere – nella percezione, anche se non percettivamente, ossia non attraverso
specifici organi di senso – elementi spaziali come le superfici, i volumi etc…
Nel caso dell’alter-ego, l’appresentazione indica qualcosa di differente, perché in questo caso
quello che non vedo non potrò mai vederlo. I movimenti dell’altro, che fanno sì che io lo colga
come alter-ego anziché come un qualsiasi altro corpo che si muove nello spazio, persino il suo
stare immobile, alludono al fatto che egli ha dei pensieri, dei vissuti, delle emozioni, delle
intenzioni e un’intenzionalità. Mi permettono di rappresentarlo in analogia con me, come simile e
me, come un altro me.
Insomma, io ho dell’altro sia una percezione (che però non mi dà l’altro come alter-ego), sia
un’appresentazione, che mi dà immediatamente – anche se indirettamente – l’esperienza dell’altro
come alter-ego. Nei termini di Husserl, l’alter-ego è una presenza secondaria resa possibile da
un’intenzionalità indiretta.13
Cosa non posso vedere? Certamente i pensieri altrui, ma Husserl ha in mente qualcosa di più
importante: l’esperienza dell’alter-ego, l’incontro con l’altro uomo, è l’esperienza di una
irriducibile socialità, è l’esperienza del legame sociale, che Husserl chiama “accoppiamento”:

«ciò che in virtù della relazione analogica viene appresentato non può mai darsi
realmente al presente diretto, alla percezione autentica. Alla prima proprietà si
connette quest’altra: l’ego e l’alter ego sono dati per sempre e necessariamente in
un accoppiamento originario.
L’accoppiamento ossia il presentarsi configurato come una coppia e
successivamente come gruppo o moltitudine, è un fenomeno universale della sfera
trascendentale».14

Quindi, gli altri si costituiscono in me come altri ma solo in quanto essi sono in comunità con me.
L’elemento “invisibile” è il legame, ossia la comunità. Alter-ego è il nome che indica l’esperienza
che io ho tanto della moltitudine degli altri uomini, quanto del legame degli altri uomini con me. Il

12
Ivi, p. 130.
13
Ivi, p. 129.
14
Ivi, p. 132.

9
fatto che tale accoppiamento sia un «fenomeno universale della sfera trascendentale» indica che la
mia esperienza del mondo e delle cose passa necessariamente attraverso la loro condivisione con
gli altri.
Ma Husserl ci ha mostrato anche qualcosa d’altro: il tentativo di una coscienza di chiudersi in se
stessa pensandosi sola al mondo non può che essere fallimentare – non può infatti eliminare in
nessun caso la presenza di altri uomini che non sono me, non sono riducibili a me, non sono un
mio sogno né una mia allucinazione. Il solipsismo è impossibile.
Qui la riflessione di Husserl tocca un punto di problematicità che non può non aver colpito e
influenzato Lévinas. Husserl è convinto che l’epoché – e la conseguente riduzione – sia
un’operazione non solo possibile, ma anche necessaria se si vuole cogliere il fenomeno nella sua
autenticità: è, infatti, esattamente l’epoché a restituirci il fenomeno nella sua datità fenomenica.
Diverso sembra, però, il caso per quanto riguarda la riduzione della sfera primordinale, operazione
con cui dovremmo poter avere l’esperienza dell’alter-ego. Qui, infatti, il “fenomeno” dell’alter-ego
– oltre ad avere uno statuto fenomenologico del tutto peculiare (fenomenico e non fenomenico
insieme) – soprattutto nel suo darsi in un “accoppiamento” indissolubile con l’ego che lo coglie,
sembra rendere tale riduzione impossibile, e la stessa sfera primordinale un controsenso.

Il Volto

Lévinas riprenderà da Husserl senz’altro il tema del primato del legame, che in lui diventa il tema
della “responsabilità”. Riprenderà anche certe movenze dell’argomentazione husserliana. Le
sezioni di Totalità e infinito dedicate al mondo del Medesimo, al godimento, alla dimora, etc., sono
l’equivalente della sfera primordinale husserliana, ma una sfera in cui fa continuamente irruzione
l’Altro.
Assai differente, invece, è il modo di intendere l’Altro, che, per Lévinas non è alter-ego, pur
essendo, in effetti, l’altro uomo.
Il suo intento fenomenologico lo porta a cercare di descrivere la struttura (a priori) di una relazione
tra ego e alter concreta, ossia vissuta.
Il punto di partenza è, quindi, il vissuto, e il vissuto è tale perché è sempre il vissuto di qualcuno. Il
vissuto è sempre mio, o di un me in generale – è l’essere sempre mio di un me in generale – ossia,
è il vissuto di qualcuno che può dire “io”, ma soprattutto di qualcuno che sperimenta il vissuto
come proprio, anche e soprattutto nel senso che si sente in ciò che vive, e che per questo può

10
avvertire il vissuto come proprio. Questa sorta di assoluta autoposizione definisce la sfera,
altrettanto assoluta, del Medesimo.
Ma, in una relazione, il qualcuno-Medesimo si relaziona a un Altro, ad un polo di alterità che è
assoluta almeno quanto la sfera della medesimezza. La relazione è sempre asimmetrica, ossia tra
termini eterogenei, che assumono valore diverso appunto perché poli di una relazione.
L’asimmetria dell’interpresonale – sostiene Lévinas – significa l’impossibilità radicale «di parlare
nel medesimo senso di sé e degli altri».15
Il tipo di relazione che Lévinas ha in mente è il discorso: il discorso è la modalità di approccio
all’Altro inteso come Volto. Lévinas lo ripete in continuazione: «il Volto parla». Questa
espressione significa che il Volto non è realmente tale se non nel discorso: il Volto non è tanto
qualcosa che si guarda, quanto la voce che si ascolta e a cui si risponde:

«Vedere il Volto è parlare del mondo. La trascendenza non è un’ottica ma il primo


gesto etico».16

Il Volto, quindi, è discorso, pratica del discorrere e sorgente del discorso o, come dice Lévinas, è
«dietro al segno». Ora, io dell’Altro so solo quello che egli stesso mi dice, quello che entra nel mio
campo percettivo e intellettivo (le parole che odo e che comprendo). Il suo dire lo colgo solo nel
suo detto, ma non colgo il dire in quanto dire: quello, propriamente parlando, lo accolgo.
Il rapporto con l’Altro viene connotato da Lévinas come un “faccia-a-faccia”, ossia come una
relazione, che è anche una pratica, un gesto, o un insieme di gesti. Si tratta di quello che, nel
linguaggio ordinario, definiremmo “botta e risposta” e che, utilizzando l’apparato concettuale della
Scuola di Palo Alto, presenta due aspetti:
1. di contenuto
2. di relazione.17
Mentre l’aspetto relativo al contenuto è riducibile alla sfera del Medesimo – non foss’altro perché
un contenuto può essere compreso, condiviso, assimilato e fatto proprio – l’aspetto di relazione
non è riducibile. Se lo fosse, semplicemente, la relazione non ci sarebbe più (in una relazione
bisogna essere almeno in due). La relazione rimane relazione, ossia qualche cosa che resta-tra. La
relazione implica necessariamente una messa a contatto ed una messa a distanza. L’asimmetria di
una relazione consiste nel fatto che il Medesimo è sempre rigettato in se stesso – sperimenta la
15
TI, p. 52.
16
TI, p. 177. Questa posizione di Lévinas si differenzia manifestamente da quella proposta da J. P. Sartre ne L’essere e
il nulla, in cui il volto, più che parlare, guarda, soprattutto guarda me, e guardandomi, mi reifica e mette in pericolo la
mia libertà.
17
P. Watzlawick et alii, Pragmatica della comunicazione umana, tr. it. di M. Ferretti, Astrolabio, Roma 1971, in part. le
pp. 43-46.

11
relazione come propria, come qualcosa di suo, che riguarda solo lui – e nello stesso tempo è per
l’altro, nel senso che si rivolge a Altri.
In una relazione concreta e vissuta non è possibile scambiarsi le parti. Io rimango io (“l’io”), l’altro
rimane l’Altro. Io rimango “qui”, e anche se mi sposto resto comunque “con me” e presso di me,
l’Altro rimane sempre “là”, anche se viene ad occupare il mio posto. Il Medesimo è l’identità,
l’Altro è sempre colui a cui mi rivolgo. L’a-cui apre la dimensione della distanza, che rende
l’Altro il portatore di un’alterità assoluta: colui che non è me e non può essere me.
In un saggio in cui Derrida ha cercato di far valere, contro Lévinas, la concezione husserliana
dell’altro come alter-ego, leggiamo:

«In effetti, o non c’è che lo stesso ed esso non può nemmeno più manifestarsi ed
essere detto, e neppure esercitare la violenza […]; oppure ci sono lo stesso e l’altro,
e allora l’altro non può essere l’altro − dello stesso − se non essendo lo stesso (di
sé: ego) e lo stesso non può essere lo stesso (di sé:ego) se non essendo l’altro
dell’altro: alter ego».18

In altri termini, l’Altro, se c’è all’interno di una relazione, non può che essere un altro-medesimo,
un alter-ego. L’Altro, insomma, sarebbe pur sempre portatore di un’identità; se anche potesse
scompigliare la mia pretesa di dominio conoscitivo, lo farebbe pur sempre a partire da un’identità,
la sua. L’alterità non sarebbe pertanto assoluta, ma sarebbe quella di un’identità che si
contrappone, o semplicemente si distingue, dalla mia.
Si potrebbe però obiettare che un discorso del genere può essere fatto solo da uno spettatore che
assiste ad una conversazione dall’esterno, senza prendervi parte, o che semplicemente riporta una
conversazione a cui non ha preso parte. Ma qui l’analisi perde di vista la concretezza −
l’immediatezza − del faccia-a-faccia. Scrive Lévinas:

«Per mantenere la molteplicità è necessario che la relazione che si instaura tra me e


Altri − atteggiamento di una persona nei confronti di un’altra − sia più forte del
significato formale della congiunzione cui rischia di essere ridotta ogni relazione.
Questa forza più grande si afferma concretamente nel fatto che il rapporto che si
instaura tra Me e l’Altro non si lascia inglobare in una rete di relazioni visibili ad
un terzo. Se questo legame tra Me e l’Altro si lasciasse interamente cogliere

18
J. Derrida, «Violenza e metafisica», in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 162.

12
dall’esterno, nello sguardo che fosse capace di abbracciarlo, sopprimerebbe proprio
la molteplicità legata da questo legame».19

Proviamo a spiegarci con un esempio.


Se io parlo con qualcuno − poniamo: “Giuseppe” − ho pur sempre una rapporto con lui. Se poi io
parlo di Giuseppe con Giovanni, a quel punto ho un rapporto con Giovanni, e Giuseppe è
semplicemente l’oggetto del mio discorso. “Giuseppe” cambia radicalmente configurazione, a
seconda che io parli con lui o che parli di lui. Nel primo caso, egli è l’Altro; nel secondo caso è un
elemento della mia esperienza. Il fatto che si tratti della stessa persona è, di per sé, irrilevante. È,
infatti, diverso il modo in cui io mi rapporto a Giuseppe, è diverso ciò che egli rappresenta per me.
Scrive Lévinas:

«il rapporto tra l’io e l’altro comincia nell’ineguaglianza dei termini […] in cui
l’alterità non determina l’altro formalmente come l’alterità di B, distinta
dall’alterità di A. L’alterità dell’Altro, qui, non dipende dalla sua identità, ma la
costituisce».20

Di qui anche l’invito ad evitare un rischio, quello di ipostatizzare l’Altro, l’invito, cioè, a non
pensare che qualcuno (la donna, l’extracomunitario, etc.) faccia sempre la parte dell’Altro, e
qualcuno (l’occidentale, l’europeo, etc.) faccia sempre la parte del Medesimo. Medesimo e Altro
sono solo due funzioni dell’immediata situazione comunicativa, quella che Lévinas chiama, per
l’appunto, il faccia-a-faccia.
Su questo piano, che potremmo chiamare pragmatico e che Lévinas stesso chiamerà dire,
contrapponendolo al detto, abbiamo:
• un io in generale, un polo identitario: il Medesimo
• un altro in generale, l’Altro.
Due poli che, come detto, sono due funzioni della relazione, e quindi non vanno ipostatizzati o
reificati.

19
TI, p. 121.
20
TI, p. 257.

13
Nota sulla sociologia relazionale

Il tema forse principale delle scienze sociali è quello di relazione sociale. Un confronto con la
declinazione sociologica di questo tema può forse permettere una migliore comprensione del testo
di Lévinas. Come paradigma possiamo considerare la cosiddetta sociologia relazionale, sviluppata
da P. Donati nell’intento di conciliare − e in certo senso superare − l’antitesi tra un modello
interpretativo dei fatti sociali di stampo individualistico (notoriamente il filone che va da Weber a
Boudon) e un modello esplicativo degli stessi di stampo strutturalista (da Marx a Parsons fino a
Luhmann).21

«Dal punto di vista filosofico − scrive Donati −, la relazione è una categoria


primitiva dell’essere e del pensiero, e come tale non è “spiegabile”: può tuttavia
essere esperita, osservata e (entro certi limiti) descritta. Come ogni nozione prima
non può essere definita, ma può essere semantizzata. La sua importanza sta
nell’essere sempre presente come fatto costitutivo sia della realtà sia della
conoscenza».22

Per la precisione,

«la relazione sociale è sempre bilaterale, mentre l’azione può essere unilaterale, e
in ciò la relazione manifesta precisamente la sua più intima natura sociale,
soggettive e strutturale al contempo, laddove il fatto sociale non consiste tanto
nell’essere “collettivo”, quanto piuttosto nell’ “essere/stare fra” (inter, o legame)
termini capaci di agire simbolico».23

Questa duplice dimensione − soggettiva e strutturale − della relazione sociale, è alla base della
definizione di due assi su cui si snoda la relazione sociale stessa.
Il primo asse è quello relativo alla relazione intesa come “riferimento a” (refero): non è altro che il
piano dell’interazione:

21
In part. cfr. P. Donati, Introduzione alla sociologia relazionale, Franco Angeli, Milano 2002.
22
Ivi, p. 204.
23
Ivi, p. 205.

14
«nella realtà e per l’osservatore, A si pone o agisce per riferimento a B, e in ciò vi è
una libertà condizionale simbolica (aspetto attivo del rapporto fra A e B, dalla parte
di A che è il termine osservato o agente)».24

Il secondo asse riguarda la relazione intesa come legame tra (religo): si tratta dell’aspetto
contestuale e strutturale in cui si produce la relazione stessa:

«nella realtà e per l’osservatore, l’interazione fra A e B si configura come legame o


dipendenza reciproca, cioè vi è una libertà strutturalmente condizionata (aspetto
passivo che ricade tanto su A che su B)».25

In tal modo, è possibile affermare che

«La relazione sociale è il tramite che connette azione sociale (soggettività e


intersoggettività) e sistema sociale (struttura oggettiva e oggettivata)».26

Proprio quest’ultima affermazione permette di misurare la distanza tra questo tipo di approccio e la
riflessione di Lévinas. Il legame proposto da Donati, infatti, si riferisce al contesto strutturale della
relazione, allo sfondo della relazione stessa, costituito dalla società data e da valori e credenze
condivise. Ed è esattamente questo presupposto che consente al sociologo di considerare la
relazione sociale all’insegna della reciprocità: è infatti la totalità sociale, intesa come complesso
strutturale di credenze e vincoli, a consentire la reciprocità e il riconoscimento degli attori tra di
loro.
In Lévinas le cose non stanno così: la relazione è senza contesto, perché il Volto stesso mi appare
fuori da ogni contesto. E questo perché è nel faccia-a-faccia che si produce ogni contesto: il Volto,
nel parlare al Medesimo, non dice «Io», ma «Il mondo», egli dice qualcosa del mondo anche
quando sembra parlare di sé.

24
Ivi, p. 204.
25
Ivi, pp. 204-505.
26
Ivi, p. 205.

15
Parte seconda. Totalità e Infinito

«Prefazione»

Cominciamo adesso la lettura di Totalità e Infinito, e iniziamo con la «Prefazione», che apre il
volume.

«Tutti ammetteranno facilmente che la cosa più importante è sapere se non si è


vittime della morale».27

La frase che inaugura il testo è abbastanza sconcertante. Perché mai dovremmo essere vittime della
morale? In fondo, tutti noi abbiamo una morale e ci sembra legittimo comportarci in base a delle
convinzioni morali. Per noi, l’essere “se stessi” coincide, per lo più, con l’agire in base a delle
convinzioni che, in ultima istanza, sono morali.
Lévinas ci dice che le cose non stanno esattamente così; egli ci mostra, cioè, che la nostra vita è
regolata da un valore assai più alto, quello che già secondo Nietzsche era la verità (di cui egli
intendeva, per l’appunto, indagare il valore) e che M. Foucault ha, a sua volta, chiamato la volontà
di sapere. Si potrebbe anche aggiungere, di passaggio, che in Kant persino la morale è subordinata
al principio della verità, coincidendo per lo più con la sincerità e la trasparenza.
Lévinas chiama tutto ciò “lucidità”. La lucidità, «apertura dello spirito sul vero»,28 ci fa intravedere
che, malgrado e contro la morale, c’è sempre la possibilità permanente − o il fatto − della guerra.
La guerra è una “sospensione della morale” perché, nello stato di guerra gli imperativi etici
vengono meno − dalla proibizione di uccidere si passa infatti alla possibilità e anzi al dovere di
uccidere.29
Derrida ricorda30 che Lévinas non cita mai Carl Schmitt. È, tuttavia, indubbio che riprende una sua
tipica movenza, che lo porta a vedere la politica come conflitto e infine guerra − essa è l’arte di

27
TI, p. 19.
28
Ibidem.
29
Si potrebbe anche aggiungere che nello stato di guerra inteso come stato di eccezione, anche le garanzie costituzionali
vengono meno, spesso proprio quelle che concernono i diritti fondamentali.
30
Cfr. J. Derrida, Le mot d’accueil, in Id., Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997, p. 52 nota 2.

16
«prevedere e di vincere con tutti i mezzi la guerra»31 − (tema, in realtà, assai più vecchio, e
risalente a Von Clausewitz), cui aggiunge l’identificazione della politica con «l’esercizio stesso
della ragione»32 nonché la sua connivenza con la filosofia:

«per il filosofo l’esperienza della guerra e della totalità non coincide


semplicemente con l’esperienza e l’evidenza?» 33

Queste affermazioni si spiegano almeno in base a due motivi. Anzitutto, la guerra sospende la
morale perché ci mostra la realtà effettuale rispetto alla realtà come dovrebbe essere. Si può
ricordare che Hegel, contro la Pace perpetua di Kant, sostenne che le relazioni tra Stati sono
relazioni di guerra e che questa coincide con la storia universale.
In secondo luogo, Lévinas afferma che la guerra fa tutt’uno con il concetto di totalità:

«Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che
domina la filosofia occidentale».34

Si sa che nel corso di una guerra gli individui non contano in quanto tali e nella loro specificità
individuale; essi sono tutti sostituibili, destinati o, quanto meno, disposti a sacrificare la propria
vita affinché lo Stato sopravviva ed abbia la meglio nel conflitto (E. Junger affermò, nel periodo
tra le due guerre, che la morte era diventata un “fatto impersonale”).
Lévinas chiarisce questo punto così:

«gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro
insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso (invisibile al di fuori
di questa totalità stessa). L’unicità di ogni presente si sacrifica continuamente ad un
futuro che è chiamato a rivelarne il senso oggettivo».35

Gli individui, insomma, sono parti di meccanismi sociali anonimi − come dice Marx, sono
portatori di rapporti sociali che, proprio perché tali, sono impersonali. Gli uomini diventano,
quindi, come degli ingranaggi di una macchina o come gli organi di un organismo, e hanno senso
solo all’interno di questa totalità. Lévinas aggiunge che gli individui sono assoggettati al corso

31
TI, p. 19.
32
Ibidem.
33
TI, p. 22.
34
TI, p. 20.
35
Ibidem.

17
universale della storia: la mia vita, il mio presente, non sono nulla al di fuori del senso della storia
che abbraccia, oltre che gli Stati, l’umanità tutta intera. Come si dice… «la storia giudicherà»!
Si capisce, quindi, che la ragione e la politica si facciano beffe della morale («lo sguardo beffardo
della politica»36). Esse contrappongono la verità dei fatti all’astrattezza dei valori morali, e
contrappongono le esigenze della comunità − il punto di vista della totalità “super partes” − alla
relatività dei punti di vista individuali. Verità, oggettività, visione totalizzante, fanno quindi della
guerra l’esperienza per eccellenza, oltre che un fenomeno inevitabile ed inaggirabile. La pace
stessa, infatti, non appare come l’opposto della guerra, ma solo come la sua temporanea
interruzione: semplicemente una relazione tra Stati nemici che, anziché combattersi, fanno trattati
e stabiliscono accordi.
C’è un’alternativa? È l’escatologia profetica, ossia una sorta di corpo estraneo rispetto alla politica,
alla guerra e alla filosofia, che non cerca un «diritto di cittadinanza nel pensiero assimilandosi ad
un’evidenza filosofica».37
L’escatologia dei profeti ci presenta un’altra idea di pace − trattata in parte nelle «Conclusioni» −
ma, soprattutto, una liberazione dal corso della storia che, riducendo il flusso del tempo alla
dimensione del presente, inchioda gli individui alla loro responsabilità ora e qui:

«l’escatologia, in quanto “al di là” della storia sottrae gli esseri alla giurisdizione
della storia e del futuro − li colloca nella loro piena responsabilità e li porta ad
essa».38

Sullo sfondo, abbiamo due grandi tesi.


La prima la accenno solamente senza discuterla: è una tesi “storicistica”. L’Europa è «la Bibbia e i
Greci»: l’Europa è l’ipocrisia di un mondo legato ai filosofi e ai profeti. Leggo il passo dove si parla
di

«Una civiltà essenzialmente ipocrita, cioè legata ad un tempo al Vero e al Bene,


ormai antagonisti. È forse giunto il momento di riconoscere nell’ipocrisia, non solo
una spregevole mancanza contingente dell’uomo, ma la lacerazione profonda di un
mondo legato ad un tempo ai filosofi e ai profeti».39

36
TI, p. 20.
37
Ibidem.
38
TI, p. 21.
39
TI, p. 22.

18
Il termine greco da cui proviene “ipocrisia”, indica solo fino ad un certo punto la “finzione”. In
realtà, originariamente significa “risposta”, ma anche il comparire sulla scena di un attore (in un
contesto dialogico). Viene dal verbo upokrino, che vuol dire “separare”, e che nella forma media,
upokrinomai, indica la risposta, la chiamata in giudizio e l’interpretazione.
Questo vuol dire che non c’è un nucleo identitario europeo: una “razza”, una “cultura” e così via,
così come è privo di senso, l’ideale di una «storia universale europea», tipico del tardo storicismo
tedesco (Leopold Ranke, Ernst Troeltsch).
Si potrebbe dire, forzando un po’ la mano, che l’Europa è un’immaginazione, perché se noi
definiamo la confluenza di popoli e saperi in termini di ipocrisia, finiamo con il mettere da parte
l’esistenza stessa di una tradizione. Non c’è tradizione, non c’è continuità dei saperi e degli eventi,
ci sono degli imprevisti (Les imprévus de l’histoire è il titolo di una delle ultime raccolte di saggi di
Lévinas, del 1994).
In questa storia ricca di imprevisti il popolo ebraico acquista una funzione tutta particolare, quella di
formulare ed esprimere in greco (nella lingua europea) la propria singolarità, la quale «non è una
permanente ricaduta in un provincialismo superato» «ma rivela un aldilà dell’universalità, cioè quel
che porta a compimento e perfeziona la fraternità umana»,40 o «un universale in grado di unire le
persone senza ridurle a quell’astrazione che sacrifica la loro unicità di unico al genere».41 Abbiamo
qui un esempio di ospitalità: la lingua europea che ospita la singolarità ebraica per dire la non-
omologazione, per dire la differenza.
Ora, questa unificazione non inglobante della differenza, questo pluralismo per così dire “solidale”,
è affidato ad un’ontologia della pace:

«L’unità della pluralità è la pace e non la coerenza di elementi che costituiscono la


pluralità. La pace non può quindi identificarsi con la fine dei combattimenti che
cessano per mancanza di combattenti, per la sconfitta degli uni e la vittoria degli
altri, cioè con i cimiteri o gli imperi universali futuri».42

La pace è insomma il nome filosofico del molteplice in quanto ad un tempo assoluto e relazionato.
Questo introduce alla tesi ontologica forte, formulata nelle conclusioni di Totalità e Infinito in tre
proposizioni, che rappresentano un vero e proprio manifesto filosofico, forse troppo azzardato
(infatti verranno in parte abiurate dallo stesso Lévinas). Proviamo comunque a leggerle, anche se
non nell’ordine esatto in cui compaiono nel testo:

40
E. Lévinas, L’al di là del versetto, tr. it., Guida, Napoli, 289.
41
Ivi, p. 53.
42
TI, p. 314.

19
«L’essere è esteriorità: l’esercizio stesso del suo essere consiste nell’esteriorità».43
«Abbiamo affrontato l’esteriorità dell’essere non come una forma che l’essere
dovrebbe assumere eventualmente o provvisoriamente nella divisione o nella sua
decadenza, ma proprio come il suo esistere».44
«L’essere si produce come multiplo e come scisso in Medesimo e Altro. Questa è
la sua struttura ultima».45

L’essere è esercizio d’essere, esistenza. Tesi dinamica che fa dell’essere un processo di produzione
e completa automanifestazione. Si confronti la «Prefazione» a Totalità e Infinito, p. 24:

«il termine produzione indica e l’effettuazione dell’essere (l’evento “si produce”,


un’automobile “si produce”) e la sua messa in luce o la sua esposizione (un
argomento “si produce”, un attore “si produce”)».

L’essere è interamente ed essenzialmente un processo di generazione ed esibizione: «si produce».


L’essere è esteriorità, ossia: è fuori di sé. Non esiste una interiorità dell’essere che resta nascosta
dietro le sue manifestazioni. Chi ha studiato Hegel al liceo, sa che il procedimento hegeliano
consiste in una posizione dell’esteriorità e nella sua interiorizzazione. Tutto ciò che è “fuori” deve
in qualche modo rientrare. La “sintesi” di cui parlano i manuali del liceo è appunto questa
riconduzione dell’esteriorità e del molteplice nell’unità del sistema. Lévinas dice il contrario: questa
sintesi, semplicemente, non c’è, e non c’è perché l’essere coincide con l’ek-sistere, con l’essere
gettato fuori di sé (come già insegnava Heidegger). Non c’è – come invece in Hegel – passaggio
dalla sostanza al soggetto, non c’è storia dell’essere che si ritira in se stesso e tende verso un fine,
un destino, ma c’è la produzione d’essere come dispersione. L’essere è produzione di singolarità
assolute, irrelate e finite, le quali proprio per questo soffrono di una costitutiva perdita d’essere.
Per questo Lévinas può parlare di «individualismo dell’essere», che spesso avvicina − a torto,
perché in effetti si tratta di cose diverse − al conatus essendi spinoziano, che diventa il modello
dell’egoismo individualistico.
Abbiamo insomma produzione di individualità separate e relazionate, paradosso che ripropone
quello del rapporto tra accoglienza e separazione.
• Da un lato abbiamo una metafisica della relazione: l’essere produce la relazione sociale,
meglio, è la socialità stessa.

43
TI, p. 298.
44
TI, p. 304.
45
TI, p. 277.

20
• Dall’altro abbiamo una ontologia della separazione: l’essere è scissione, l’essere è fuori di
sé, e qui produce esseri separati ed egoisti.

L’infinito e la totalità: il problema

Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità. Gia titolo e sottotitolo ci suggeriscono che “Totalità” e
“Infinito” non sono la stessa cosa, ossia che l’infinito si distingue, per non dire che si contrappone,
alla totalità, e che l’argomento del saggio è l’esteriorità, ossia ciò che sta fuori dalla totalità.
L’infinito sta fuori dalla totalità perché la totalità non può avere alcun fuori e perché l’infinito non
si totalizza, perché se così fosse sarebbe finito. Sicché, in effetti, l’argomento del saggio è l’infinito
nelle sue ripercussioni sulla totalità.

«Questo libro si presenta… come una difesa della soggettività, ma non la coglierà
al livello della sua protesta puramente egoistica contro la totalità,46 né nella sua
angoscia di fronte alla morte,47 ma come fondata nell’idea dell’infinito.
Esso procederà distinguendo tra l’idea di totalità e l’idea di infinito e affermando il
primato filosofico dell’idea dell’infinito. Racconterà come l’infinito si produce
nella relazione del Medesimo con l’Altro…».48

Qui Lévinas precisa che non si tratta tanto di contrapporre infinito e totalità, ma di partire dalla
soggettività, mostrarne l’irriducibilità alla totalità in quanto fondata nell’infinito, e di mostrare,
infine, che l’infinito si produce nella relazione tra Medesimo e Altro. In altri termini, questo
equivale a dire che la soggettività non ha a che fare con la totalità, ma si fonda interamente nella
relazione sociale.49
Prosegue Lévinas:

«L’idea dell’infinito è il modo d’essere − l’infinizione dell’infinito. […] La sua


infinizione si produce come rivelazione, come immiizzazione della sua idea. Essa si

46
Il riferimento, qui, è a Kierkegaard.
47
Il riferimento, qui, è all’essere-per-la-morte di Heidegger.
48
TI, p. 24.
49
Secondo Fabio Polidori, la mossa filosofica di Lévinas non è «tanto la rivendicazione di una posizione centrale
dell’altro e dell’alterità in generale, quanto il fatto che questo ribaltamento di posizione, questa inversione − […] anche
gerarchica − avvenga all’interno della filosofia, all’interno del discorso forse meno ospitale nei confronti dell’alterità e
delle sue istanze, sul piano insomma del discorso entro cui si giocano i termini dell’appartenenza, del riconoscimento,
della identità», cfr. F. Polidori, «L’Altro infinito», in P. A. Rovatti (a cura di), Scenari dell’alterità, Bompiani, Milano
2004, p. 51.

21
produce con il fatto inverosimile nel quale un essere separato fissato nella sua
identità, il Medesimo, l’Io contiene nonostante tutto in sé − ciò che non può né
contenere né ricevere in virtù della sua sola identità».50

Che significa che l’infinito si produce come “immiizzazione” della sua idea? Che vuol dire
“immiizzazione?”. A prima vista, sembrerebbe un altro modo per dire “interiorizzazione”: se
penso a qualcosa, questo qualcosa, in quanto è un’idea, è nella mia testa (un conto è un oggetto
reale, un altro conto è lo stesso oggetto pensato: il primo è fuori di me, nello spazio, il secondo è
nella mia mente). Lévinas, però, chiarisce che si tratta, piuttosto, di rivelazione. In genere, ciò che
si rivela è la trascendenza, che anche se appare a me resta esterna a me, appartenente ad un’altra
dimensione. “Immiizzazione” traduce il francese “mise en moi”, messa-in-me: l’io riceve qualcosa
che non potrebbe contenere «in virtù della sua sola identità»; in altri termini, riceve qualcosa di
estraneo, di straniero.

«Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come
ospitalità».51

Derrida sostiene che Totalità e Infinito è un trattato sull’osptalità, anche se, in effetti, il termine
ricorre poche volte, assai meno di quello di “trascendenza”. Questa parola (dal latino trans +
scando) nella sua etimologia fa pensare ad un duplice movimento di attraversamento e risalita,
indica, cioè, un movimento verso l’alto e verso l’altrove. È ciò che porta Lévinas a privilegiare la
figura di Abramo, di contro a quella di Ulisse «che desidera soltanto di tornare a casa sua».52
La mossa teorica di Lévinas consiste nel rintracciare la trascendenza nel cuore stesso della
metafisica:

« “La vera vita è assente”. Ma noi siamo al mondo. La metafisica sorge e si


mantiene in questo alibi. Essa è rivolta all’ “altrove”, e all’ “altrimenti”, e all’
“altro”».53

50
TI, p. 24.
51
TI, p. 25.
52
TI, p. 25. La contrapposizione è più esplicita qui: «Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca vorremmo contrapporre la
storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di
ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza», E. Lévinas, La traccia dell’Altro, Tullio Pironti, Napoli 1979, p.
30.
53
TI, p. 31.

22
La metafisica − oltre la fisica − è desiderio di un’altra realtà, più vera di quella in cui viviamo, ma
inesperibile. Si pensi alla filosofia di Parmenide: la realtà consiste nell’unicità dell’Essere identico
a sé, immobile, immutabile, di cui però non è possibile alcuna esperienza (perché, anzi,
l’esperienza ci mostra la molteplicità, il divenire, etc…).
L’esempio, in fondo, è calzante. La metafisica, secondo Lévinas, malgrado la sua aspirazione
originaria, diventa un pensiero rivolto all’identità e all’immutabilità, all’eterno. In breve: un
pensiero che cerca la “vera vita” nella totalità. La metafisica diventa ontologia, scienza dell’essere
inteso come identità e totalità, il cui atto conoscitivo corrispondente è il concetto, che racchiude in
sé i generi delle cose.

«La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al
Medesimo […]. Questo primato del Medesimo ha costituito la lezione di Socrate.
Non ricevere nulla da Altri se non ciò che è in me, come se, da sempre, io
possedessi ciò che mi viene dal di fuori […]. La conoscenza è il dispiegarsi di
questa identità».54

La filosofia per Lévinas è, insomma, il tentativo di ridurre l’alterità all’identità, è il passaggio dalla
differenza all’identità. Esempio paradigmatico è Socrate e il suo motto per cui la vera conoscenza
è conoscenza di se stessi. La filosofia neutralizza ogni alterità, che diventa, quindi, oggetto e tema,
vale a dire qualcosa che sta di fonte a me e che mi rappresento, in quanto entra nel mio orizzonte
conoscitivo, qualcosa di cui parlo.

«L’ente si comprende nella misura in cui il pensiero lo trascende, per misurarlo


all’orizzonte nel quale si profila. Tutta la fenomenologia, a partire da Husserl, è la
promozione dell’idea dell’orizzonte che, per essa, svolge un ruolo equivalente a
quello del concetto nell’idealismo classico; l’ente sorge su uno sfondo che lo
supera come l’individuo a partire dal concetto».55

L’ente è conosciuto non in se stesso, ma a partire da uno sfondo che lo ingloba. Questo sfondo può
essere il concetto in Hegel, o l’orizzonte della coscienza in Husserl. In Heidegger questo sfondo
diventa l’essere

54
TI, p. 41.
55
TI, p. 42.

23
«Affermare la priorità dell’essere rispetto all’ente significa già pronunciarsi
sull’essenza della filosofia, subordinare la relazione con qualcuno che è un ente (la
relazione etica) a una relazione con l’essere dell’ente che, impersonale, consente il
possesso, il dominio dell’ente.56 […]
Dire che l’ente si svela solo nell’apertura dell’essere significa dire che noi non
siamo mai con l’ente in quanto tale, direttamente».57

Con Heidegger si può parlare dell’ente solo a partire dall’essere. Se l’ente in questione è l’uomo,
questo comporta che si possa parlare dell’uomo, ma che non si parli più all’uomo.
Contro l’ontologia, Lévinas sostiene il primato dell’etica intesa come la vera metafisica. La
metafisica viene concepita, infatti, come desiderio e come viaggio:

«Il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso
l’assolutamente altro.58 […]
Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel
quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la
nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai.59 […]
Essa [la metafisica] consiste nell’andare là dove non l’ha preceduta nessun pensiero
illuminante − cioè panoramico − nell’andare senza sapere dove».60

La metafisica, come tentativo di oltrepassare il piano della “fisica”, viene concepita come un
desiderio dell’altro e dell’altrove, come un viaggio che non aspira al ritorno (forse neanche alla
partenza, in realtà) perché è il desiderio di un paese mai visto.61 Questo Altro, cui la filosofia
tende, è un Altro assoluto e, quindi, non necessariamente qualcosa che sta da un’altra parte:62 il
mondo delle idee di Platone, per esempio, è il riflesso del mondo terreno, solo che viene concepito
come più vero del nostro, perché eterno.
Ancora, l’Altro è lo straniero, ma non tanto perché venga da un altro posto, quanto perché

56
TI, p. 43.
57
TI, p. 49.
58
TI, p. 31.
59
TI, p. 32.
60
TI, p. 313.
61
Si pensi all’affermazione di Aristotele secondo cui la filosofia comincia con lo stupore: si tratta dello stupore di
fronte a ciò che c’è, che, d’improvviso, cessa di essere familiare.
62
«L’Altro con il quale il metafisico è in rapporto e che egli riconosce come altro non è semplicemente in un altro
posto», TI, p. 36.

24
«viene a turbare la mia casa […]. Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa
per un fatto essenziale,anche se dispongo di lui. Non è interamente nel mio
luogo».63

L’Altro irrompe nel mio spazio come un fattore di disturbo. Nello stesso tempo, egli è libero
perché − come vedremo − inviolabile. L’Altro non si situa nel mio luogo perché è ospitato.
Per poter descrivere con esattezza la relazione tra uomini come relazione tra termini assoluti −
ossia distinti ed irrelati − Lévinas deve presupporre la possibilità della separazione. Questo
significa ricorrere all’ipotesi teorica di un mondo originariamente popolato solo dall’esperienza del
Medesimo. Questa esperienza si caratterizza come un godere del mondo e un soggiornare in esso.

La dimora

La sezione di Totalità e Infinito dedicata alla dimora può essere letta come una critica a Heidegger,
che, tuttavia, viene chiamato in causa apertamente solo nelle «Conclusioni», a p. 307:

«L’ultima filosofia di Heidegger […] pone la rivelazione dell’essere nell’abitazione


umana tra Cielo e Terra, nell’attesa di dèi e in compagnia di uomini ed innalza il
paesaggio o la “natura morta” ad origine dell’umano».

Il riferimento è alla conferenza Costruire, abitare, pensare (1951), poi raccolta da Heidegger nel
volume Saggi e discorsi (1954).64 Qui Heidegger sostiene che
• per costruire, bisogna già abitare
• abitare non significa solo un radicamento originario
• abitare indica uno stare sotto il cielo (si pensi alla pratica dell’agricoltura, che procede
tenendo conto del clima, del ciclo delle stagioni etc…)
• abitare è uno stare nell’aperto, un soggiornare presso gli dèi.
C’è, indubbiamente, un radicamento, che tuttavia è anche un’apertura verso la trascendenza.
Singolarmente, Lévinas rigetta − anche con una certa veemenza − questo motivo heideggeriano
che, in fondo, avrebbe potuto portarlo a sostenere che il Medesimo soggiorna presso l’Altro ed è

63
TI, p. 37.
64
M. Heidegger, Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 96-108.

25
esposto all’Altro, proprio in quanto il mortale cui fa riferimento Heidegger è esposto al cielo e al
divino.
Lévinas affronta il confronto con Heidegger su questo tema in almeno due altre occasioni.
La prima è un articolo apparso sulla rivista «Esprit» nel 1934, intitolato Alcune riflessioni sulla
filosofia dell’hitlerismo − Hitler ha appena preso il potere. Qui Lévinas attacca l’eccesso di
biologismo tipico di quegli anni, che porta l’uomo ad essere inchiodato (être rivé) al proprio corpo,
alla propria razza, al proprio territorio. La coscienza di être rivé viene posta all’origine
dell’invenzione delle razze. Il riferimento esplicito al nome di Martin Heidegger comparirà solo
nella prefazione del 1990 alla ripubblicazione dell’articolo in volume.65 Qui Lévinas sostiene che il
nazionalsocialismo non deve essere visto come una «contingente anomalia della ragione umana»,
né come l’effetto di un «qualche malinteso ideologico accidentale».66 Non si tratta, insomma, di un
“incidente di percorso”, ma, in certo senso, di una necessità cui si incorre qualora ci si leghi
all’elemento naturale. Questo legame, chiamato anche male elementale, è una minaccia per il
soggetto e «s’inscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura dell’essere […] secondo l’espressione
heideggeriana».67
La seconda occasione è un saggio, apparso nel 1961 sulla rivista «Information Juive», poi
ripubblicato in Difficile Libertà, dal titolo Heidegger, Gagarin e noi. L’articolo è − contro
Heidegger − una difesa della tecnica, non solo perché questa ha consentito un miglioramento delle
condizioni di vita, ma perché ha il merito di umanizzare il mondo. Essa, infatti, eliminando i
luoghi, per così dire ci consente di ragionare in termini globali e di concepire l’uomo in quanto
tale, indipendentemente dai contesti geografici o dall’appartenenza etnica e nazionale. La tecnica
ci permette di

«apercevoir les hommes en dehors de la situation où ils sont campés, laisser luire le
visage humain dans sa nudité».68

Tutti coloro che si schierano contro la tecnica − tra cui, a questo punto, lo stesso Heidegger − sono,
a detta di Lévinas, dei reazionari e dei sottosviluppati.69 La tecnica, infatti, ha eliminato
l’attaccamento ai luoghi, e soprattutto ha reso vana la superstizione del luogo propria del mondo
hiedeggeriano.70

65
E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, tr. it. di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1996.
66
Ivi, p. 21.
67
Ibidem.
68
E. Lévinas, Heidegger, Gagarine et nous, in Id., Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 1976, p. 325.
69
Ivi, p. 324.
70
Ivi, p. 325.

26
Quali le ragioni di questa critica − forse ingiusta − a Heidegger? Lévinas forse respinge quella
sorta di deriva mistico-teologica propria della cosiddetta “seconda fase” del pensiero di Heidegger,
in cui vede un “materialismo vergognoso”,71 e, senz’altro, una tesi solipsistica (in effetti, il
problema di Heidegger non sembrano essere le relazioni umane). Forse, in Heidegger, l’apertura
non porta all’accoglienza dell’Altro. Certo è che la critica a Heidegger è la strategia che serve a
Lévinas per costruire il concetto di Medesimo.
Dimorare, per Lévinas, significa ritirarsi. La costruzione della casa non è uno stare all’aperto, ma
è l’evento della separazione. Dimorare non significa essere-nel-mondo, ma ritirarsi da esso, stare
presso di sé.
In queste pagine, il termine “mondo” viene utilizzato in due accezioni diverse:72
1. Natura, ossia l’elemento naturale, oggetti di godimento
2. Mondo di cose, costituito dal lavoro umano, che trasforma il mero elemento naturale in
oggetti e beni materiali..
Il mondo naturale non è originariamente, su questo piano di analisi, termine di una
rappresentazione (come in Husserl) e nemmeno un complesso di mezzi per uno scopo (come nelle
teorie utilitaristiche), non è l’insieme degli utilizzabili (come in Heidegger). Il mondo, piuttosto, è
termine del godimento umano, qualcosa che viene assimilato e che riempie la mia vita, ne
costituisce il contenuto.

«Noi viviamo di “grana”, d’aria, di luce, di spettacoli, di lavoro, di idee, di sonno,


ecc… Non si tratta di oggetti di rappresentazione. Ne viviamo. Ciò di cui viviamo
non è “mezzo di vita”, come la penna è mezzo rispetto alla lettera che permette di
scrivere; né uno scopo della vita, come la comunicazione è scopo della lettera. Le
cose di cui viviamo non sono dei mezzi e neppure degli utilizzabili, nel senso
heideggeriano del termine. […] Vivere è come un verbo transitivo i cui
complementi diretti sono i contenuti della vita. […] Vivere di pane, non è dunque
né rappresentarsi il pane, né agire su di esso, né agire attraverso di esso».73

L’aspetto di critica verso Heidegger è riscontrabile anche nei passi in cui Lévinas fa riferimento
all’indipendenza del godimento. Mentre l’essere-nel-mondo di Heidegger allude ad una
dipendenza dell’uomo nei confronti delle cose (devo servirmi di esse, se voglio raggiungere i miei
scopi), il godimento si risolve interamente nello sfruttamento e nell’assimilazione del mondo
naturale da parte dell’uomo:
71
TI, p. 307.
72
Cfr. A. Zielinski, Lecture de Merleau-Ponty et de Lévinas, PUF, Paris 2002, in part. p. 137.
73
TI, pp. 110-111.

27
«mentre il ricorso allo strumento presuppone la finalità e sottolinea quindi una
dipendenza nei confronti dell’altro, vivere di… mette in luce proprio
l’indipendenza, l’indipendenza del godimento e della sua felicità che è il tratto
originale di ogni indipendenza».74

Vivere non è uno scopo, ma semplicemente il fatto di godere dell’elemento naturale e il fatto di
nutrirsi. La vita è il fatto dell’alimentazione che, sul piano dell’esistenza umana, coincide con
l’assaporare dei sapori, con il gusto:

«Il nutrirsi, come modo di riacquistare le forze, è la trasmutazione dell’Altro in


Medesimo, che è nell’essenza del godimento: un’energia altra da me, riconosciuta
come altra […], diventa, nel godimento, la mia energia, la mia forza, me stesso.
Ogni godimento, in questo senso, è alimentazione».75

È chiaro, quindi, che il godimento rende indipendenti in quanto è assimilazione dell’elemento


naturale e riduzione della sua alterità. Ma c’è un altro aspetto non meno importante: il godimento è
«il fremito stesso dell’io».76 È, cioè, una sorta di autoaffezione, un sentirsi attraverso ciò che si
consuma e viene assimilato, è un sentire sé, attraverso la sensazione del sapore che si avverte nel
momento in cui la lingua, i denti, entrano in contatto con il cibo, lo sciolgono e lo fanno a pezzi.

«L’indipendenza della felicità dipende sempre da un contenuto: è la gioia o la


fatica di respirare, di guardare, di alimentarsi, di lavorare, di maneggiare il martello
e la macchina, ecc…».77

Potremmo dire che, nell’esistenza dell’uomo, il godimento è la fase della sensazione, intesa come:
• Stimolazione degli organi di senso
• Affezione: sentire le qualità delle cose
• Autoaffezione: sentire se stessi attraverso la sensazione delle qualità delle cose.
Qui siamo a contatto con elementi, ossia con qualità sensibili (colori, sapori, odori, etc.), e non con
cose. Il fatto che, attraverso questo contatto, sentiamo noi stessi rappresenta una prima presa di
distanza dall’elemento, ancora insufficiente, perché non ancora in grado di tradursi inesperienza.

74
TI, p. 110.
75
TI, p. 111.
76
TI, p. 113.
77
TI, pp. 110-111.

28
È necessario che il soggetto si colga come corpo localizzato in un punto dello spazio, che abbia la
possibilità di cogliersi come luogo, per distinguersi dal continuo degli elementi naturali. Questa è
la fase del dimorare, ossia dell’insediamento, del prendere luogo.

«La casa non radica l’essere separato in un terreno per lasciarlo in una
comunicazione vegetale con gli elementi. Essa si pone in disparte rispetto
all’anonimato della terra, dell’aria, della luce, della foresta, della strada, del mare,
del fiume. […] La funzione originaria della casa non consiste nell’orientare l’essere
con l’architettura dell’edificio e nello scoprire un luogo, ma nel rompere la totalità
dell’elemento, nell’aprirvi lo spazio per l’utopia in cui l’ “io” si raccoglie
dimorando a casa sua».78

Dimorare significa, pertanto:


• Localizzarsi, prendere posto
• Separarsi da un rapporto simbiotico con gli elementi naturali per rinchiudersi in sé, trovarsi
in questo raccogliersi: «Il raccoglimento, nel senso abituale del termine, indica una
sospensione delle reazioni immediate sollecitate dal mondo, in previsione di una maggiore
attenzione rivolta a se stessi».79
• Rappresentarsi le cose del mondo (quelle che si possono vedere dalla finestra di casa
propria: il mondo diventa uno spettacolo).
Dal luogo, dallo spazio che si occupa, il mondo diventa composto di cose, che entrano nel campo
visivo, e che sono oggetto del lavoro umano tanto quanto sono oggetto di una rappresentazione:

«Concretamente, la dimora non si situa nel mondo oggettivo, ma il mondo


oggettivo si situa rispetto alla mia dimora».80

Non bisogna trascurare, però, che la dimora, spazio del raccoglimento, è anche possibilità
dell’accoglienza.
Cerchiamo di chiarire questo passaggio con un excursus, riferendoci a un saggio Di Georg Simmel
del 1909, Ponte e porta,81 senz’altro conosciuto da Lévinas e citato tra le righe da Derrida.
Ponte e porta, scrive Simmel, sono entrambi elementi che distinguono due luoghi nel momento
stesso in cui li mettono a contatto: essi stabiliscono, in altre parole, una correlazione tra la

78
TI, p. 159.
79
TI, p. 157.
80
TI, p. 156.
81
G. Simmel, Ponte e porta, in Id., Saggi di estetica, tr. it. a cura di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970, pp. 1-8.

29
separatezza e l’unificazione.82 Nel caso del ponte, l’aspetto di correlazione prevale su quello della
separatezza, tanto è vero che «non fa alcuna differenza in quale direzione si percorre un ponte».83
Differente è il caso della porta. Chi per primo eresse una porta − scrive Simmel − ritagliò un
segmento dalla continuità indefinita dello spazio: «un frammento dello spazio viene con ciò in sé
unificato e separato da tutto il mondo restante».84 Questo segmento finisce con l’acquisire un
senso, quello del dentro rispetto al fuori: «la porta indica con l’entrare e l’uscire una totale
differenza nell’intenzione».85 Tutto ciò diventa più chiaro se confrontiamo la porta con altre
strutture come una finestra o una parete. La finestra serve per guardare fuori, essa è come un paio
di occhiali, o meglio come un binocolo, la cui direzione univoca non consente di concepire la
dimensione duplice del dentro/fuori. La parete, poi, è semplicemente una barriera.
La porta può anche venire aperta, e quindi

«la sua chiusura dà la sensazione di una separatezza nei riguardi di tutto ciò che è al
di là di questo spazio, ancora più forte di quella che dà la mera e indifferente
parete».86

È assai significativo il seguito di questa frase: «La parete è muta. Ma la porta parla».87 La porta è
già indice della possibilità di rivolgersi ad altri, direbbe Lévinas, e Derrida commenta che la porta
rappresenta un “modo di parlare”, un’apertura verso la trascendenza dell’infinito.

«La porte ouverte, façon de parler, appelle l’ouverture d’une extériorité ou d’une
transcendance de l’idée de l’infini».88

Torniamo, quindi, al testo di Lévinas, a partire da una frase che riepiloga il percorso sin qui svolto
nel ribadire che la dimora è qualcosa di più di un edificio, perché definisce una struttura
dell’esperienza:

«Il ruolo privilegiato della casa non consiste nell’essere il fine dell’attività umana,
ma nell’esserne la condizione e, in questo senso, l’inizio. Il raccoglimento

82
Ivi, p. 5.
83
Ivi, p. 6.
84
Ivi, p. 5.
85
Ivi, p. 6.
86
Ivi, p. 5.
87
Ivi, p. 5.
88
J. Derrida, Le mot d’accueil, cit., p. 56.

30
necessario perché la natura possa essere rappresentata e lavorata, perché essa si
delinei soltanto come mondo, si attua nella casa».89

Segue un’ulteriore presa di distanza da Heidegger. L’uomo

«non viene da uno spazio intersiderale nel quale sarebbe già padrone di sé e a
partire dal quale dovrebbe, in ogni istante, ricominciare un percorso di atterraggio.
Ma non è brutalmente gettato e abbandonato nel mondo».90

Se l’uomo non è un puro spirito che aleggia nel vuoto, non è, del resto, nemmeno adeguata
l’ipotesi heideggeriana della gettatezza. L’uomo non è “gettato” nel mondo ma comodamente
alloggiato in esso, tuttavia, nel suo stare e nel suo risiedere, egli serve da «ingresso alla
relazione».91 L’uomo è contemporaneamente

«fuori e dentro. Si pone all’esterno partendo da un’intimità d’altra parte questa


intimità si apre in una casa che si situa in questo spazio esterno».92

È solo perché c’è un intimo che può esserci anche un fuori. La casa, però, occupa una posizione
particolare. Essa, infatti, è fuori, perché si situa nello spazio esterno; tuttavia, non rappresenta il
dentro del fuori, non è come l’anima rispetto al corpo. La casa è quell’interno a partire dal quale
l’esterno può essere visto, rappresentato, interiorizzato, ma, tuttavia, è fuori, ha una porta, la porta
può – e soprattutto deve – essere aperta per uscire, entrare, far entrare.

«Così si apre, nell’interiorità, una dimensione nella quale potrà essere attesa e
accolta la rivelazione della trascendenza».93

La dimora è, così, la possibilità dell’ospitalità, «il raccoglimento si riferisce ad un’accoglienza», 94


è in se stessa accoglienza. L’aspetto dell’accoglienza e del raccoglimento è quel che Lévinas
identifica nel femminile.
Qui Lévinas si rifà, a modo suo, a una tradizione filosofica che risale ad Aristotele. Nello scritto
L’amministrazione della casa,95 Aristotele sostiene che l’uomo è un animale sociale e che lo Stato

89
TI, p. 155.
90
TI, p. 155-156.
91
TI, p. 34.
92
TI, p. 156.
93
TI, p. 152.
94
TI, p. 158.

31
è un’unione di famiglie. La famiglia precede lo Stato, ma questo non è una “grande famiglia”: c’è
una specificità della famiglia, che la rende oggetto di una apposita disciplina, ossia l’economia
(che, originariamente, è l’amministrazione domestica).
L’economia ha quindi per oggetto la famiglia, e la casa è una forma di relazione sociale
riconducibile, però, alla sfera del possesso. Nel testo leggiamo che

«Parti della famiglia sono l’uomo e la proprietà. Poiché la natura di ogni cosa si
osserva principalmente negli elementi più piccoli, lo stesso varrà anche per la
famiglia: perciò secondo Esiodo dev’essere “casa nella sua essenza la donna e il
bove che ara”».96

Vediamo adesso in che modo Lévinas elabora questo tema. Il rapporto con il femminile
rappresenta un abbozzo di socialità:

«questo ritiro implica un fatto nuovo. È necessario che io sia stato in relazione con
qualcosa di cui non vivo. Questo fatto è la relazione con Altri che mi accoglie nella
Casa, la presenza discreta del Femminile».97

Si tratta di un abbozzo perché c’è sì un mondo umano, reso intersoggettivo, ma il rapporto è con un
tu, anziché con l’Altro.
Che differenza c’è? Nel caso del tu c’è congruenza e reciprocità, “tu” è qualcuno con cui si
condivide qualcosa. Nel caso dell’Altro, c’è asimmetria: Altri è qualcuno a cui si dona:

«per poter vedere le cose in se stesse, cioè per potermele rappresentare, per poter
rifiutare sia il godimento che il possesso, è necessario che io sappia donare quello
che possiedo».98

Tra l’uomo e il femminile – è più corretto servirsi di questo termine, anziché dire “donna”: il
femminile è una modalità di relazione – c’è un idem sentire, un vedere le stesse cose, una
comunione dei beni, anche se la donna è schiava (come, in effetti, intende il verso di Esiodo citato
da Aristotele) e, aggiungerei, anche se, di fatto, in una casa non c’è nessuna donna. Quello che
accomuna il Medesimo e il Femminile è la comune condizione di bisognosi e reclusi. “Femminile”

95
Aristotele, L’amministrazione della casa, tr. it. a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1995.
96
Ivi, p. 60.
97
TI, p. 174. Nella stessa pagina, la “discrezione” del femminile viene contrapposta al «volto indiscreto di Altri che mi
mette in questione».
98
TI, p. 174.

32
significa quindi esperienza della condivisione del bisogno e del possesso. Per questo, Lévinas fa
riferimento a un

«linguaggio senza insegnamento, linguaggio silenzioso, intesa senza parole,


espressione nel silenzio».99

Si tratta di un principio di relazione sociale, che però non è ancora tale, è solo il principio
dell’accoglienza. Con l’Altro non c’è condivisione, perché Medesimo e Altro non occupano lo
stesso luogo, non hanno possessi in comune, non godono insieme delle stesse cose. La relazione
tra Medesimo e Altro non è una relazione erotica. Importante, però, è il fatto che, per Lévinas, la
dimora abbia una connotazione femminile in quanto, di per se stessa, luogo di raccoglimento e
apertura all’accoglienza

«Il femminile è stato incontrato in questa analisi come uno dei punti cardinali
dell’orizzonte in cui si situa la vita interiore − e l’assenza empirica dell’essere
umano di “sesso femminile” in una dimora, non cambia niente alla dimensione
della femminilità che vi resta aperta, appunto come accoglienza della dimora».100

Con l’ospitalità cambia il senso del dimorare: «l’accoglienza del Volto […] risponde al desiderio
inestinguibile dell’infinito».101
Vediamo i passaggi.
Anzitutto «la trascendenza del Volto non esiste fuori del mondo».102 Infatti,

«La visione del Volto come Volto, è un certo modo di soggiornare nella casa, o
[…] una certa forma di vita economica […] nessun volto potrebbe essere incontrato
a mani vuote e a porte chiuse».103

Per donare, devo possedere; per accogliere, devo abitare da qualche parte: in questo senso l’Altro
appare comunque nel mio mondo, e l’incontro con l’Altro è ancora un fatto che riproduce nella
sfera dell’economia. L’Altro appare come colui che disturba la sfera privata, modificandone il
senso e l’esperienza. Altri appare come un essere parlante ed introduce la dimensione del
linguaggio in un mondo privo di parole. Il linguaggio è un modo per strutturare l’esperienza,
99
TI, p. 158.
100
TI, p. 161.
101
TI, p. 153.
102
TI, p. 175.
103
TI, pp. 175-176.

33
perché consente l’acquisizione della dimensione dell’oggettività del mondo, oggettività consistente
nel fatto che il mondo diventa articolabile in parole e frasi, che possono circolare indefinitamente
tra gli interlocutori.

Volto ed etica

«Il Volto è presente nel suo rifiuto di essere contenuto».104 Questo è l’unico modo in cui un volto si
può presentare: ossia come qualcosa di assolutamente esteriore a me. Il fatto che non sia
“contenuto” significa che non può essere inglobato da me e che, a rigore, non posso nemmeno
pensarlo, ossia tradurlo in un dato mentale mio, non posso inglobarlo con il pensiero, non posso
ridurlo ad una modificazione della mia coscienza.
Bisogna chiarire l’uso del termine “rifiuto”. Lévinas procede, per così dire, attraverso negazioni: ci
spiega che cosa significa dicendoci in che modo questo termine non vada inteso.
Anzitutto, “rifiuto” non equivale ad “antitesi”. L’Altro non è l’antitesi e la negazione dialettica del
Medesimo; se così fosse, sarebbe un altro Medesimo, sarebbe – come in Hegel – un’altra
autocoscienza che si oppone alla mia autocoscienza: «il carattere incomprensibile della presenza
d’Altri […] non si descrive negativamente».105
Ancora, Lévinas afferma:

«L’Altro, assolutamente altro – Altri – non limita la libertà del Medesimo.


Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica».106

Dobbiamo soffermarci su questa affermazione, che sembra in contrasto con altre relative allo
stesso argomento – la libertà del Medesimo – presenti in altri luoghi del testo.
A pag. 41 leggiamo, infatti,

«Questa messa in questione della mia spontaneità da parte della presenza di Altri si
chiama etica».

A pag. 100, ancora,

104
TI, p. 199.
105
TI, p. 200.
106
TI, p. 202.

34
«Se definiamo coscienza morale una situazione nella quale la mia libertà è messa in
questione, l’as-sociazione o l’accoglienza d’Altri è la coscienza morale».

C’è contraddizione? Vediamo le cose in maniera più approfondita.


La prima citazione – quella a pag. 41 – verte sulla spontaneità. La spontaneità non è la libertà, ma,
più semplicemente, la tendenza naturale a soddisfare un bisogno naturale (ho sete, bevo etc…).
nella sfera privata del Medesimo non c’è libertà ma, casomai, ciò che le scienze naturali chiamano
istintualità e che, per Lévinas, è la felicità che accompagna il godimento.
La cosa può essere chiarita attraverso una digressione, ossia riferendoci ad un testo molto noto di
Hannah Arendt, The Human Condition (1958), tradotta in italiano con il titolo Vita activa.107 In
quest’opera – che tratta del passaggio dall’antichità alla modernità – la Arendt distingue,
notoriamente, tre dimensioni dell’agire umano: il lavoro, l’opera, l’azione.
Il lavoro – “sostantivo verbale”, lo definisce Arendt108 – è quell’attività, o quel complesso di
attività mediante le quali l’uomo soddisfa i suoi bisogni naturali. Lavorare significa «essere fatti
schiavi dalla necessità»,109 e il lavoro è attività del corpo, un fatto motorio che, proprio per questo,
nell’epoca antica è affidato alla schiavitù.
L’opera è la fabbricazione di oggetti artificiali, attività dell’artigiano o dell’artista. Nel trattare
della fabbricazione, la Arendt davvero sembra anticipare Lévinas, nel momento, cioè, in cui vede
nell’operare l’aspetto del potere e della forza che trasformano la natura in mero “materiale”:

«Il materiale è già un prodotto delle mani umane che lo hanno rimosso dalla sua
posizione naturale, sia troncando un processo vitale, come nel caso dell’albero che
deve essere abbattuto per fornire il legno, sia interrompendo uno dei processi più
lenti della natura, come nel caso del ferro, della pietra o del marmo strappati dal
grembo della terra […]. L’animal laborans, che con il suo corpo e con l’aiuto di
animali addomesticati alimenta la vita, può essere il signore e padrone di tutte le
creature viventi, ma rimane ancora il servo della natura e della terra; solo homo
faber si comporta come signore e padrone di tutta la terra».110

Riassumendo, nell’attività lavorativa non c’è libertà, ma necessità naturale; nella fabbricazione c’è
potere e forza, ma anche lì non c’è libertà. Questo perché la libertà compare solo nell’azione, in
particolare nell’azione della deliberazione politica che si esercita nella sfera pubblica, sulla piazza,

107
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1994.
108
Ivi, p. 59.
109
Ivi, p. 60.
110
Ivi, pp. 99-100.

35
tra uomini che sono uguali perché tutti liberi: è la democrazia ateniese, nella quale non vi sono
governanti né governati, perché tutti quanti governano e sono governati a turno.
La sfera pubblica degli antichi si contrappone alla sfera domestica, in cui ritroviamo tanto l’aspetto
della necessità naturale, quanto quello del potere. Anzitutto, la casa rappresenta un bene necessario
per un uomo che desideri essere libero:

«senza possedere una casa un uomo non poteva partecipare agli affari del mondo,
perché in esso non aveva un luogo che fosse propriamente suo».111

La casa è il presupposto naturale – biologico – della politica, ma si distingue da essa così come la
necessità naturale si distingue dalla libertà:

«Il dominio della polis […] era la sfera della libertà, e se c’era una relazione tra
queste due sfere, il controllo delle necessità della vita nella sfera domestica era
evidentemente il presupposto della libertà nella polis».112

A differenza della sfera pubblica,

«il tratto distintivo della vita domestica era che in essa gli uomini vivevano insieme
perché spinti dai loro bisogni e dalla loro necessità. La forza che li spingeva era la
vita stessa – i penati, gli dei della casa, erano, secondo Plutarco, “gli dei che ci
fanno vivere e nutrono il nostro corpo” – che, per la sua conservazione individuale
e la sua sopravvivenza come vita della specie, ha bisogno della compagnia di
altri».113

Quindi, tutti i rapporti all’interno della sfera domestica sono all’insegna della non-libertà. In casa
abitano coloro che sono in posizione subordinata, come le donne e gli schiavi, i bambini che hanno
solo bisogni e necessità. Il maschio capofamiglia è anch’egli soggetto alla necessità, perché deve a
sua volta nutrirsi e riprodursi e ha bisogno, per questo, degli schiavi e delle donne. Il maschio è,
quindi, libero solo nell’agorà:

111
Ivi, p. 22.
112
Ivi, p. 23.
113
Ivi, pp. 22-23.

36
«Nella sfera domestica, dunque, non esisteva libertà; infatti il capofamiglia era
considerato libero solo in quanto aveva il potere di lasciare la casa e accedere
all’ambito politico, dove tutti erano eguali».114

Possiamo tornare a Lévinas e al tema della libertà. Le citazione tratta da pag. 100 fa riferimento ad
una libertà messa in questione. Solo un essere libero può essere messo in questione, chi è libero
può rispondere di se stesso, essere liberi significa essere responsabili. La citazione da pag. 202
chiarisce questo punto: l’Altro non è portatore di una libertà che si contrappone alla mia, ma, anzi,
attiva la mia libertà, mi rende libero.
La contrapposizione tra le libertà è tema del pensiero dialettico, a partire da Hegel. Lo si ritrova nel
pensiero di Sartre, esplicitamente richiamato da Lévinas nelle «Conclusioni»:

«L’incontro d’Altri in Sartre minaccia la mia libertà ed equivale alla sconfitta della
mia libertà sottoposta allo sguardo di un’altra libertà».115

In Sartre l’Altro è come me, è un altro me, e quindi tende a farmi diventare suo oggetto. Non
possiamo essere entrambi liberi perché, in questo modo di pensare, la libertà è concepita in termini
di sovranità e, come tale, una e indivisibile.
Al contrario, per Lévinas, la libertà coincide con la responsabilità e non con la sovranità: «la
libertà non si giustifica con la libertà».116 Se si giustificasse a partire da se stessa, la libertà
coinciderebbe con la necessità.117
Ma se il Medesimo, nella sua sfera domestica, è schiavo della necessità, come può accadere che un
essere necessitato possa diventare libero? La soluzione prospettata da Lévinas è solo
apparentemente paradossale.
Per diventare libero, il Medesimo deve perdere qualcosa, ossia quanto ha a che fare con la sfera
della naturalità – deve perdere le cose in quanto materia del godimento e deve perdere il potere
inteso come possesso. E questo è ciò che accade nell’accoglienza del Volto.118
Lévinas parte proprio dalla dimensione del potere: l’incontro con il Volto mi rende impotente. Io
non ho – sul Volto – lo stesso potere che ho sulle cose. Non ne posso godere perché, come già
visto, il Volto è discorso, e il discorso non me lo posso mettere in tasca e farlo mio; non lo posso

114
Ivi, p. 24.
115
TI, p. 311.
116
TI, p. 312.
117
Così è, p. es. in Spinosa: Dio è libero solo nel senso che agisce in base alla necessità della sua natura – il che
equivale a dire che non è libero. Dio non sceglie di creare il mondo, né decide come crearlo, non può nemmeno fare
miracoli, ossia contravvenire a delle leggi che promanano secondo necessità.
118
«Noi chiamiamo questa situazione accoglienza del Volto», TI, p. 202.

37
modificare a mio piacimento, così come da un albero posso ricavare un tavolo, etc… Certo, posso
cercare di ucciderlo, ma già dire così è un controsenso, perché l’omicidio rivela una mancanza di
potere.

«Il Volto […] si offre ancora, in un cero senso, al potere. Ma solo in un senso: la
profondità che si apre in questa sensibilità modifica la natura stessa del potere che
da questo momento non può più prendere, ma può uccidere».119

L’espressione «non uccidere», per Lévinas è, quindi, «l’espressione originaria, è la prima


parola».120 Essa limita il potere del Medesimo con la proibizione dell’omicidio e con
l’affermazione della sua impossibilità: «tu non mi puoi uccidere, perché l’uccisione non è una
forma di potere: non è possibile possedere qualcosa che si ha eliminato».
Il Volto appare in tre forme:
1. espressione
2. insegnamento
3. significazione.
Cominciamo con l’espressione. «Nell’espressione un essere si auto-presenta».121 Chi si auto-
presenta
• dice qualcosa
• presenta sé in quello che dice
• mi fa segno.
Questo aspetto del fare-segno – come già visto – è irriducibile, è l’aspetto pragmatico del discorso.
Lévinas prosegue così:

«L’essere che si manifesta assiste alla propria manifestazione e quindi fa appello a


me […]. Manifestarsi assistendo alla propria manifestazione equivale ad invocare
l’interlocutore e ad esporsi alla sua risposta e alla sua domanda».122

L’Altro resta, quindi, trascendente rispetto al suo stesso dire, ne è la sorgente, e il suo dire è la
traccia che l’Altro lascia di sé. Altri non può essere ridotto a tema anche se sono io a parlargli di
lui. L’Altro non si riduce a quello che io ne dico, non foss’altro che per il fatto che lo sto dicendo a
lui.

119
TI, p. 203.
120
TI, p. 204.
121
TI, p. 205.
122
TI, p. 205.

38
«Naturalmente, uno di essi può anche presentarsi all’altro come un tema, ma la sua
presenza non si riassorbe nello statuto di tema. La parola che porta ad altri come
tema sembra contenere altri. Ma essa si dice già ad altri che, in quanto
interlocutore, ha abbandonato il tema che lo inglobava e spunta inevitabilmente
dietro al detto».123

La parola del Volto è sempre insegnamento, è «il primo insegnamento razionale, la condizione di
ogni insegnamento».124
Già accogliere l’Altro significa ascoltare la sua parola e riceverne l’insegnamento, e questo perché
è l’Altro a portarmi la parola con il suo dire e con le sue richieste: il linguaggio non posso darmelo
da me, mi viene sempre da Altri.

«Un essere che riceve l’idea dell’infinito – che riceve, in quanto non la può trarre
da sé – è un essere istruito in modo non maieutico».125

Il riferimento è a Socrate: per Socrate imparare significa ricordare e portare all’espressione quello
che già si conosce e si possiede dentro di sé. Per Lévinas, imparare equivale ad accogliere quello
che non si possiede, né si può possedere. Che cosa non è mai mio? Il sapere: il sapere non è mai
mio, ma è tale solo se viene trasmesso e comunicato. Bisogna considerare che Lévinas ci propone,
in quest’opera, un tipo di incontro con l’Altro basato su un paradigma pedagogico: la parola del
Volto è sempre una parola magistrale, è insegnamento. Questo ci conduce al terzo e ultimo aspetto,
la significazione. Lévinas afferma che il discorso instaura il significato. In che senso intendere
questa affermazione? Si sa che il discorso si compone di significanti − ossia di componenti
materiali come i fonemi e i grafemi − e che questi, di per sé, oltre ad essere arbitrari, non hanno
significato; ma il discorso ha significato. Da dove viene il significato? Secondo Lévinas, il
significato si produce nell’interazione, intesa come un atteggiamento del Medesimo nei confronti
dell’Altro, ossia nel faccia-a-faccia:

«il linguaggio condiziona il pensiero: non il linguaggio nella sua materialità fisica,
ma come un atteggiamento del Medesimo nei confronti di altri».126

123
TI, p. 200.
124
TI, p. 208.
125
TI, p. 209.
126
TI, pp. 209-210.

39
Poco sotto, leggiamo ancora:

«non è la mediazione del segno che fa il significato, ma è la significazione (il cui


fatto originario è il faccia-a-faccia) che rende possibile la funzione del segno».127

Il segno, quindi, è significativo solo nel discorso, ossia in una concreta relazione tra interlocutori.
Tale relazione modifica anche l’esperienza del Medesimo, perché introduce la dimensione del
senso e del significato. Le cose, una volta nominate, diventano segni, ossia veicoli di significato.
Certamente, posso ancora goderne, ma posso anche dirle ad Altri e, in quanto fornite di senso, le
posso anche donare.

«Un mondo sensato è un mondo in cui c’è Altri che fa sì che il mondo del mio
godimento diventi tema fornito di significato. Le cose assumono un significato
razionale e non solo di semplice uso, perché un altro è associato alle mie relazioni
con esse. Designando una cosa la designo ad altri. L’atto di designare modifica la
mia relazione, di godimento e di possidente, con le cose, situa le cose nella
prospettiva d’altri. Utilizzare un segno […] permette di rendere le cose offribili, di
staccarle dal mio uso, di alienarle, di renderle esterne […]. L’oggettività dipende
dal linguaggio che permette di mettere in causa il possesso […]. Tematizzare
significa offrire il mondo ad Altri con la parola».128

Questo periodo, assai denso, ci permette di riepilogare il percorso sin qui svolto. Lévinas ha
ipotizzato un mondo popolato solo dal Medesimo. In questo mondo, senza linguaggio né discorso,
le cose sono solo oggetto di godimento, ossia qualità sensibili (sapori, etc…) ed elementi da
trasformare in base alle proprie necessità. Il mondo così inteso presenta un’alterità solo relativa al
Medesimo, che può assimilarlo e trasformarlo sempre e solo per assimilarlo meglio. Questo mondo
finisce con il coincidere interamente con il Medesimo: è il contenuto del godimento del
Medesimo.
L’apparizione dell’Altro coincide con l’ascolto della voce: il Medesimo, letteralmente, impara a
parlare! Ma così cambia tutto; le cose nominate acquisiscono un’esteriorità e un’oggettività che
prima non avevano: sono le stesse per tutti, e il mondo diventa un sistema di segni destinato a
circolare e a trasmettersi integralmente nel discorso.

127
TI, p. 211.
128
TI, p. 214.

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Accogliere l’Altro significa, quindi, accoglierne la parola, una parola che ci consente di
condividere un mondo e una casa, che non è più solo nostra:

«Il soggetto sorvola sulla propria esistenza designando ciò che possiede all’altro,
parlando. Ma solo l’accoglienza dell’Infinito dell’Altro gli dà la libertà da sé
richiesta da questa espropriazione».129

129
TI, p. 215.

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