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In rapporto all'autore:

I. Secondo la consuetudine del filosofo [Platone], la forma che assume questa ricostruzione
delle concezioni precedenti è polare. Il personaggio Socrate rappresenterà sul piano
drammatico i dubbi e le convinzioni personali di Platone.
Ermogene parla di 'interpretare l'oracolo di Cratilo': ironia che riprenderà anche Socrate più
avanti; dietro la veste drammatica si nasconde, in realtà, un riferimento polemico da parte
di Platone nei confronti del retroterra culturale della concezione naturalistica, sostenuta
in genere negli ambienti conservatori di Atene, legati ad un mantenimento delle tradizioni
religiose e a una concezione oracolare del sapere.
se Socrate, ironicamente, assicura ad Ermogene che potrebbe trovare risposta ai suoi dubbi
nella dottrina di Prodico, è perché il modo in cui Ermogene imposta la questione dei nomi è in
sintonia con la cultura sofistica (ovviamente, con l’immagine che di tale cultura Platone si era
costruito e voleva trasmettere). La forma con cui ha luogo il richiamo al magistero del Sofista
è quella, consueta in Platone, ironica e polemica nei confronti della pratica di percepire
compensi per l’insegnamento: Socrate afferma di non sapere come stanno le cose
sull'argomento poiché non ha seguito la lezione di Prodico da cinque dracme ma quella da
una dracma.

II. Ermogene, nell'esposizione drammatica della discussione insolvibile, parla di insolvibilità


come incapacità di raggiungere una ὁμολογία: è notevole il fatto che qui Platone affidi il
termine al personaggio Ermogene, in un’accezione puramente verbalistica («dire allo stesso
modo»), ben diversa da quella socratica (che era piuttosto un «intendere allo stesso modo»,
dove ‘intendere’ era ‘dire’ e ‘pensare’ al tempo stesso). Gli altri impieghi del termine e del
verbo corrispondente, presenti in questo dialogo, rispecchiano un uso corrente e,
comunque, non l’accezione tecnica socratica: si tratta, probabilmente, di una piccola spia
terminologica che testimonia ulteriormente il distacco di Platone dall’orizzonte della
riflessione socratica e il suo volgersi piuttosto alla ricerca delle condizioni di una verità
oggettiva.
Dopo che le due tesi sono state esposte polarmente da Ermogene, parte la confutazione
socratica. Vi sono due tensioni sotterranee:

una drammatica: il personaggio Socrate lavora con le due tesi in gioco, testandole,
confutandole o anche assumendole provvisoriamente
una "profonda" o potremmo dire "metatestuale" (cercare il termine adatto): Socrate è il
portavoce delle personali concezioni dell’autore, che dalle dottrine di Ermogene e di
Cratilo vuol prendere le distanze, mostrandone l’inadeguatezza non tanto degli esiti
quanto, più fondamentalmente, dell’impostazione. Platone verrà via via inserendo
anche elementi concettuali che predispongono ad un riorientamento complessivo sulla
questione del linguaggio e che costituiscono i primi dati da tenere presenti in vista
della ricostruzione della posizione platonica sulla correttezza dei nomi.

III. V'è una maniera di intendere la distinzione fra discorso vero e discorso falso che poggia
sul presupposto, tipicamente arcaico, della sovrapponibilità delle dimensioni dell’essere e
del linguaggio. Tesi secondo cui sarebbe impossibile dire il falso. Platone lascia che il suo
personaggio Ermogene accolga senza esitazioni la possibilità di dire il falso, in quanto (qui
come altrove altri analoghi personaggi) portatore di una mentalità corrente, di opinioni non
particolarmente sofisticate ma largamente diffuse. Platone non ha qui voluto porre la
questione concettuale della verità/falsità, che ricomparirà nei suoi termini più rigorosi
durante il successivo confronto di Socrate con Cratilo, interlocutore di maggiore spessore
filosofico. L’intento di Platone sembra mostrare solamente come siano di fatto distinguibili
due modalità del rapportarsi linguisticamente alla realtà, ma non entra nel merito di queste
due modalità (vale a dire che non si sofferma a spiegare che cos’è «dire il vero» e «dire il
falso»), ma induce solo al riconoscimento di questa distinguibilità. Gli studiosi che hanno,
invece, ritenuto che Platone avesse qui voluto porre la questione della verità/falsità delle
produzioni linguistiche, si sono, ovviamente, dovuti soffermare sulla mancanza di
differenziazione fra il piano del discorso e quello del nome: di qui una duplice possibilità
interpretativa (per cui secondo alcuni sarebbe qui sottintesa una concezione del linguaggio
come nomenclatura e secondo altri, inversamente, una concezione del nome come frase
abbreviata). Il nodo, in realtà, si scioglie se si riconosce che non è in questa sede che
Platone si impegna nell’approfondimento della nozione di alètheia (verità) e che il richiamo al
binomio vero/falso ha qui solo quella funzione strumentale e argomentativa di cui si è detto.
Il che trova conferma anche nel fatto che Platone mostra in altri luoghi del dialogo di avere
coscienza della molteplicità dei livelli del linguaggio. non ha però tematizzato questo
aspetto, giacché l’oggetto del suo interesse è qui solo il rapporto nome-cosa. Inoltre si vedrà
meglio più avanti che la ‘verità’ non sembra essere intesa dal filosofo come una
caratteristica degli enunciati, ma delle cose, riguardante perciò non tanto i nomi e le loro
denotazioni, quanto il modo in cui i nomi sono impiegati.

IV. Socrate mette in atto una rapida confutazione di dottrine attribuite a Protagora (secondo
cui misura di ogni cosa è l'uomo e quindi "e cioè che quali le cose appaiano [essere] a me,
tali siano per me e quali appaiano a te, tali siano per te") ed a Eutidemo, che mette in
evidenza il retroterra culturale nel quale Platone vuole collocare concezioni o opinioni
quali quelle rappresentate da Ermogene, avviandone il ribaltamento.
Ermogene prende le distanze da Protagora, ma confessa il fascino che la sua dottrina ha
esercitato su di lui. Dal punto di vista concettuale si può pensare che Platone abbia inteso
mostrare come certe tesi che sono entrate a far parte di una mentalità corrente e diffusa
(fra le quali quella di Ermogene sul linguaggio) siano di ascendenza sofistica, ma di questa
ascendenza non v’è chiara consapevolezza.

V. Confutazione tesi di Eutidemo: dal momento che ciascuno di noi non può essere sapiente
e ignorante e dal momento che non si può dire il falso, allora non possiamo pensare che
sussistano differenze fra i modi in cui vediamo le cose e neppure differenze fra il modo di
vedere una cosa e un’altra. Questa dottrina è dialetticamente il rovescio di quella di
Protagora, ma sostanzialmente analoga, perché fa dipendere il modo d’essere delle cose
dal modo di rapportarsi ad esse dell’uomo e dal modo di rapportarsi degli uomini fra loro.
La differenza assoluta di Protagora e l’indifferenza assoluta di Eutidemo si toccano perché
partono dal presupposto che la natura delle cose sia relativa all’uomo: di conseguenza, le
opinioni degli uomini sulle cose diventano indistinguibili, o perché non si dispone di un
criterio di preferibilità, o perché sono effettivamente tutte coincidenti. Il punto di vista
corretto, per Platone, è quello che tiene conto della natura che le cose hanno di per sé e
da questa spiega la relazione uomo-cosa.

VI.
VII. Si inizia qui un’altra fase (387d-388b) dell’argomentazione socratica con la quale si
ritorna dal ‘dire’ al ‘nome’, in una prospettiva, però, ormai diversa: Socrate-Platone vuol
mostrare che ha senso parlare del nome solo nell’orizzonte del dire, rispetto a cui ha
valore strumentale. La prospettiva da cui vuole prendere le mosse Platone è dunque una
prospettiva funzionale, quindi andare oltre al visione della corrispondenza biunivoca nome-
cosa portata avanti da Cratilo e da Ermogene: soffermarsi non sulla natura e sulla struttura
delle cose bensì sulla loro finalità, da cui in ultima analisi la loro struttura e la loro natura
dipendono strettamente.

VIII. E' significativo il fatto che Platone metta a capo del nòmos una figura umana, non già
perché egli voglia riferirsi specificamente ad un personaggio storico o a un gruppo, una
comunità storica, ma perché rende l'idea di un linguaggio che è arte del tutto umana (tant'è:
il legislatore viene definito artigiano, onomatourgòs). Si ravvisa qui, nella teoria platonica del
linguaggio, il dominio tematico delle cose tra physis e tèchne: tra i due non v'è contrasto,
poiché il nòmos dipende strettamente dall'ᾗπερ πέφυκεν, dal modo connaturato delle cose
nel loro essere e dunque dipende strettamente dalla physis e da essa prende origine, con
essa deve fare i conti - non sarebbe possibile altrimenti. E, d’altro canto, non c’è nemmeno
da pensare ad una particolare problematicità insita nella figura del nomothètes, come
vorrebbe, per esempio, N. Demand, The Nomothetes of the «Cratylus», «Phronesis», XX
1975, pp. 1069, che parla di una singolare coniugazione dei concetti di physis e nòmos
voluta da Platone per meglio evidenziare la loro incompatibilità (cfr., contra, S.L. Churchill,
Nancy Demand on the Nomothetes of the Cratylus, «Apeiron», XVII, 1983, pp. 9293 al
contrario, è la loro compatibilità che il personaggio del legislatore viene a rappresentare,
mostrando come il rispetto della natura non escluda la possibilità di scelta nelle modalità di
intervento su di essa e la codificazione di regole che, per così dire, lo ottimizzino.
Il legislatore pone i nomi partendo dalle caratteristiche delle cose che per natura le rendono
atte ad essere nominate oppure operare scelte che partano dallo stesso strumento nome
per porne degli altri (si pensi in termini linguistici ai processi di derivazione grammaticale),
fornendo in tal modo delle convenzioni atte proprio alla tèchne del dare i nomi alle cose. In
quest'ottica Platone si dissocia totalmente dalla visione semplicemente dualistico-oppositiva
tèchne-physis per instradarsi in una posizione ulteriore e conciliante.

IX. "IX. SOCR. Su allora, esamina verso dove guarda il legislatore quando pone i nomi:
riflettici, però, a partire dai casi precedenti. Verso dove guarda il falegname quando
costruisce la spola? Non a quella tal cosa che è già predisposta a tessere?
ERM. Certamente.
SOCR. E allora? Se la spola gli si rompe mentre la costruisce, ne farà di nuovo un’altra
guardando a quella rotta, o a quella idea a cui guardava anche quando costruiva la spola che
si è rotta?
ERM. A quella, mi pare.
SOCR. E quella, dunque, non potremmo chiamarla del tutto giustamente ‘ciò stesso che è
spola’?"
Che Platone stia qui apprestandosi a introdurre elementi della sua personale concezione è
confermato dall’impiego di una terminologia decisamente tecnica: blèpein (guardare), èidos
(idea), autò hò èsti (ciò stesso che è) sono tutte espressioni che ricorrono soprattutto nei
dialoghi della maturità quando viene elaborata o illustrata la cosiddetta teoria delle idee.
La correttezza (orthòtes) dello strumento risiederà dunque nel possesso dell'èidos, ovvero
del complesso di peculiarità che lo rende adatto alla sua utilità, un èidos che pertiene al
dominio di cose del pephykènai, che è quindi già presente in natura, sussiste e non muta.
Qui si rivela la distanza tra Socrate/Platone e la visione di Ermogene, che prendeva le mosse
da una arbitrarietà del nesso nome-cosa. Platone non crede che solo una sequenza di
suoni sia adatta a nominare una determinata cosa, ma, ponendosi su una linea di gradualità,
crede che l'orthòtes di un nome dipenda dalla scelta saggia del legislatore, in quanto sono
pensabili sequenze di suoni che possono accogliere meglio di altre l’èidos.

X.

Contenuto del dialogo


II. Il tema del dialogo: orthòtes tòn onomàton correttezza dei nomi
tesi di Cratilo: "nome non è ciò con cui alcuni, che convengano di chiamare, chiamano,
mettendo una parte della loro voce, ma è già predisposta una certa correttezza dei nomi per
[b Greci e per barbari, la stessa per tutti"
physei pephykòs, «già predisposto per natura»: la posizione di Cratilo è naturalistica del
linguaggio: si suppone infatti una corrispondenza nome-cosa secondo cui tra di essi v'è un
rapporto di intrinseca appartenenza. Ogni cosa ha un nome e ogni nome è nome di una sola
cosa, per cui viene fuori anche un implicito vincolo sul piano del significante, annullando così
la possibilità di una cosa di avere più nomi.

II. Tesi di Ermogene: "A me pare infatti che se qualcuno pone un nome a un oggetto, questo
sia il nome corretto; e che se poi lo cambia con un altro e non chiama più l’oggetto con quello
di prima, il nuovo nome non stia per nulla in modo meno corretto del vecchio... ...infatti non
per natura già predisposto per ciascun oggetto è il nome – nessun nome per nessun oggetto
–, bensì per legge e per uso di coloro che così usano e chiamano": abbastanza evidenti in
questo passaggio tanto la radicalità quanto la superficialità della tesi di Ermogene. Nello
specifico:
convenzione-accordo: momento dell’istituzione di un nome, tramite qualcosa come una
decisione comune a più parlanti
legge-uso: processo di consolidamento dell’attribuzione di un significato a un nome,
processo attraverso cui quel nome si impone come corretto
Più nel dettaglio:
convenzione: sottolinea alterità fra il nome e la cosa
accordo: evidenzia rapporto fra i parlanti
legge: termine dal carattere più costrittivo, perché più legato al peso di una tradizione che
continua
uso: termine che può essere piegato nel senso di una continua modificabilità dei nomi
è da rilevare il forte contrasto sussistente fra la dimensione collettiva, nella quale si situano i
quattro concetti, e la dimensione individuale alla quale evidentemente egli di fatto pensa,
quando a scopo di esemplificazione parla della imposizione e sostituzione dei nomi da parte
di un singolo parlante. In realtà, in opposizione polare a Cratilo, ciò su cui insiste Ermogene è
l’assoluta mancanza di rapporto oggettivo fra il nome e la cosa nominata, dal momento
che il nominare rientra completamente nella sfera di competenza dell’uomo.
S "Se io chiamo una qualunque delle cose che sono, per esempio quella che adesso
chiamiamo ‘uomo’, se io la denomino ‘cavallo’, e ciò che adesso chiamiamo ‘cavallo’, lo
denomino ‘uomo’, allora la stessa cosa avrà nome ‘uomo’ in pubblico e ‘cavallo’ in privato?":
Socrate fra i vari spunti sceglie, ovviamente, quello che consente una esplicitazione più
chiara delle estreme conseguenze di quella concezione. Egli opta dunque per una
radicalizzazione in senso individualistico (Se io chiamo... ...allora, in pubblico e in
privato?). Socrate sottolinea proprio come le decisioni collettive in fatto di nomi valgano
allo stesso modo di quelle individuali.

III. S "C'è qualcosa che chiami 'dire il vero e il falso'?" da un lato, viene tematizzato il lègein
(dire), e cioè l’azione del nominare più che l’entità linguistica ‘nome’; dall’altro, Socrate dopo
averci precedentemente portato sul piano della dimensione individuale, ci costringe a
concentrarci sulla relazione fra singolo nome e cosa da esso nominata (non si parla più dei
nomi in generale né del nome in quanto oggetto di una scelta del parlante, ma del singolo
nome nel suo trovarsi in rapporto con una cosa).
Socrate dunque secondo un processo riduzionistico arriva a far ammettere a Ermogene che,
se il discorso vero è vero interamente in ogni sua parte e, essendo il nome la parte più
piccola del discorso, esso non può contenere nel vero denominazioni false, o per così dire
arbitrarie.
Ermogene afferma, ribadendo il peso individualistico del nome attvs una esplicazione del
fenomeno sinonimico su base diatopica (alcuni Greci chiamano X tale cosa mentre altri Y, in
alcune città "vedo nomi dati alle stesse cose da taluni in modo privato"): al di là della
contrapposizione individuo/collettività, il nucleo sostanziale della sua concezione era proprio
questo: il nome è un’etichetta che si appone alla cosa, con la quale non ha in sé null’altro a
che fare (estrinsecità); in tal senso non ha nessuna importanza che a porlo e/o riconoscerlo
sia un parlante o molti, in e per un dato momento o da lungo tempo.

IV. Questa fase dell’argomentazione (che si chiude a 386e) è caratterizzata, innanzi tutto, da
uno spostamento tematico: Socrate chiede all’interlocutore di esprimere un’opinione intorno
agli ònta («cose che sono»).
Socrate mette in atto una rapida confutazione di dottrine attribuite a Protagora (secondo cui
misura di ogni cosa è l'uomo e quindi "e cioè che quali le cose appaiano [essere] a me, tali
siano per me e quali appaiano a te, tali siano per te") ed a Eutidemo. Ermogene prende le
distanze da Protagora, ma confessa il fascino che la sua dottrina ha esercitato su di lui. Dal
punto di vista drammatico questa battuta testimonia l’incertezza e la superficialità filosofica
di Ermogene.
Socrate, prendendo le mosse dalla tesi protagorea, chiede ad Ermogene se esista la
differenziazione tra uomini ragionevoli e uomini irragionevoli: se ciò che dice Protagora è
vero, allora non sussisterà tale differenziazione. Ermogene dunque ammette che Protagora
non dica il vero. C’è una analogia fra il modo in cui Socrate ha finora proceduto contro
Ermogene e questa sua contrapposizione a Protagora: in entrambi i casi egli sposta la mira
della sua argomentazione dal piano degli oggetti a quello della prassi. Socrate costringe
Ermogene a tre ammissioni:

 che esistono uomini cattivi;


 che esistono, anche se pochi, uomini buoni;
 che la coppia buoni/cattivi è riconducibile alla coppia ragionevoli/irragionevoli.
È stato già possibile notare come, contro Ermogene, Socrate preferisca lavorare non
sui nomi, ma sul dire. Anche contro Protagora, Socrate si mette a parlare di uomini
buoni e cattivi, anziché appuntarsi sulla soggettività o meno dell’essenza delle cose, e
chiede ad Ermogene se sul piano pratico abbia avuto modo di constatarne l’esistenza.
L’argomentazione di Socrate è allora sintetizzabile così: se alcuni sono buoni e altri
cattivi è perché alcuni sono ragionevoli altri irragionevoli; ma se ci sono ragionevolezza
e irragionevolezza, allora i modi di vedere le cose non saranno tutti accettabili: infatti
alcuni saranno ragionevoli, altri no. Due sono i pilastri su cui si basa l’argomentazione: il
presupposto che l’uomo che per Protagora costituisce il mètron sia il singolo individuo
e la constatazione che quanto dice Protagora non si attaglia ai fatti. È la prassi,
dunque, a fungere da criterio di convalidazione o meno della tesi protagorea.

V. bebaiòtes tès ousìas stabilità di essenza


Confutando la tesi di Eutidemo dopo quella protagorea Socrate intende giungere ad un
presupposto diverso, quello della bebaiòtes tès ousìas, ovvero della stabilità di essenza e ciò
sta a significare precisamente: che le cose abbiano una loro essenza, una loro natura di per
se stesse e non definita dall'uomo - che sia al modo protagoreo o della tesi di Eutidemo -
una natura in un modo ad esse connaturato (ᾗπερ πέφυκεν).
Subito dopo Socrate chiede se le stesse azioni corrispondenti alle cose siano, in virtù di una
loro classificazione come ònta, come le cose di per se stesse già predisposte o meno,
lasciando che Ermogene ammetta la prima delle due vie proposte: "SOCR. Dunque anche le
azioni si compiono secondo la loro natura, non secondo la nostra opinione"
Si sovrappongono qui i concetti di physis e di dòxa (opinione, rappresentazione): la natura
ha una sua legalità che va al di là della rappresentazione che se ne fa l'uomo. La dòxa
(opinione) non è di per sé garanzia di orthòtes (correttezza, verità) e non bisogna quindi
affidarsi ad essa se non si vuole correre il rischio di inseguire ‘fantasmi’. Nel contesto qui in
esame, ciò che consente all’opinione di essere corretta è il riconoscimento e il rispetto della
physis, vale a dire di qualcosa di già strutturato e autonomo rispetto all’uomo. Socrate, con
l'esempio sul tagliare una cosa (secondo la sua natura e la natura del tagliare o come
vogliamo e con ciò che vogliamo? insiste sulla prassi per evidenziare come la natura delle
cose sia già predisposta e la orthòtes sia da ricercarvi proprio nel rispetto della stessa, della
physis, orthòtes qui da intendervi anche come giustezza, correttezza, da cui si trae
vantaggio.

VI. Socrate dunque sposta il discorso sull'azione del dire analogamente a come fatto con le
altre azioni: egli muove quindi sempre nel dominio di cose della prassi e non in quello
strettamente linguistico del nome e del suo referente (e quindi prende le mosse dall'azione
del discorrere e non strettamente del denominare). Al nesso tra physis e orthé dòxa (giusta
rappresentazione) qui consegue quello tra orthòtes (verità) e pephykenai (modo
connaturato delle cose).
Attraverso una doppia direzione, assieme induttiva e deduttiva, Socrate chiude il cerchio:
dagli ònta delle azioni arriva a quella del dire (deduzione), mentre dal dire egli arriva
all'azione del denominare (induzione: ogni volta che si dice si dà il nome). Il denominare
dunque appartiene sempre agli ònta e per ciò stesso anche essa è un'azione già predisposta
secondo natura (pephykenai).
Conclusione: "SOCR. E, dunque, si deve nominare nel modo in cui è già predisposto il
nominare le cose e l’essere nominato e il mezzo, ma non alla maniera che vogliamo noi, se
ogni caso deve essere accordato con i precedenti? E così approderemmo a qualcosa di
buono e nomineremmo, altrimenti no?
ERM. Mi sembra."

VII. Si inizia qui un’altra fase (387d-388b) dell’argomentazione socratica con la quale si
ritorna dal ‘dire’ al ‘nome’, in una prospettiva, però, ormai diversa. Puntando l'attenzione sulla
prassi e sugli ònta e insistendo su othòtes-pephykènai, Socrate prende le mosse sul mezzo
attvs cui si esplica la prassi in forza di quel nesso e, arrivando all'azione del dire, esplica
come strumento proprio di tale azione il nome; inoltre facendo ciò Socrate implica
nell'azione del dire una regolamentazione che ne disciplina l'attività (così come nell'azione
del tessere, tagliare etc.):
"SOCR. Ma che cos’è ciò con cui si deve perforare?
ERM. Il trapano.
SOCR. E ciò con cui tessere?
ERM. La spola.
SOCR. E ciò con cui nominare?
ERM. Il nome.
SOCR. Dici bene. Quindi anche il nome è uno strumento."

VIII. Il nome è uno strumento per mettere ordine individuando differenze e pertanto
stabilendo relazioni.
Socrate porta Ermogene ad ammettere che, se è vero che il nome, come altri strumenti di
competenza - l'analogia viene posta in relazione alla spola per il tessitore - è uno strumento
tecnico, nello specifico quello del linguaggio, allora la sua costruzione presuppone una
competenza altrettanto tecnica, specifica. Se chi usa la spola la usa bene per l'atto di
tessere (quindi usare bene in vista di, in base alla tèchne di competenza), allora chi usa il
nome lo usa bene nell'atto di insegnare. Non a caso, infatti, Socrate ben distingue la tèchne
riferentesi alla costruzione dello strumento da quella del buon uso dello strumento stesso.
Se il tessitore userà lo strumento spola che è frutto del buon lavoro del falegname, allora chi
insegna ben userà lo strumento nome che è frutto del nòmos (la parola greca viene tradotta
con "legge" ma ha il significato, più lato, di "norma/uso consolidato",), anch'esso già
predisposto e non già atto a predisporre. L'artigiano predisposto alla competenza del nòmos
è il legislatore, dal quale, in ultima analisi, ogni buon insegnante ricava il nome. La parola
legislatore è la traduzione di nomothètes ed è colui che predispone appunto del serbatoio di
nomi dispensato dal nòmos. Ovviamente la sua figura è mitica, personaggio fittizio che pone
in qualche modo un termine ultimo ad una retrospezione che sarebbe infinita o quantomeno
indefinita sull'età e le origini del nòmos.
È opportuno a questo punto ricapitolare sinteticamente la procedura argomentativa seguita
da Socrate: a) riduzione della tesi convenzionalistica al singolo utente e al singolo nome; b)
riconoscimento della distinzione sussistente fra «dire (nome) vero» e «dire (nome) falso»; c)
confutazione delle dottrine di Protagora ed Eutidemo, che, pur in modi opposti, implicano
l’impossibilità pratica di operare distinzioni fra le cose che sono: pertanto, riconoscimento
agli ònta di una loro «stabilità di essenza»; d) le azioni corrispondenti alle cose sono allo
stesso modo degli ònta (in b Socr. aveva teso a mostrare come il «dire il vero» significhi
«dire gli enti» e cioè compiere un’azione corrispondente alle cose); e) il dire e il nominare
sono azioni, che (come è stato mostrato in b) possono essere compiute in modi distinguibili:
sulla base di c, pertanto, non possono essere intese in maniera relativistica e va loro
riconosciuta una stabilità di essenza, un loro modo naturalmente predisposto di essere
compiute; f) le azioni si compiono con strumenti e strumento del nominare è il nome; [g) gli
strumenti hanno una utilità e l’utilità del nome è l’insegnare e il distinguere;] h) lo strumento è
anche frutto dell’opera di un tecnico e l’onomaturgo è il legislatore, l’artigiano più raro fra gli
uomini, non un qualsiasi individuo (Ermogene è così confutato).
Il modo di procedere di Socrate implica la considerazione che la correttezza del nome rientra
non nel semplice atto del denominare ma nel dominio della tèchne: ciò per una questione sia
morale (si pensi alla nozione greca di virtù come piena realizzazione ed espressione delle
potenzialità, kalòs) sia cognitiva (per i Greci la conoscenza ha da essere intenzionale,
dirozzata, consapevole dello scopo e della finalità). Il nome dunque viene ad essere sottratto
dal libero arbitrio dell'uomo comune: e questo non perché esso prescinda dall'uso che da
questi ne vien fatto bensì ne trae origine e significato, essendo strumento; e tale uso
dev'essere consapevole, disciplinato da norme e condizioni restrittive.

IX. "SOCR. E dunque, quando si debba costruire la spola per vesti sottili o quella per vesti
grosse o di lino o di lana o di qualsiasi altra fatta, da un lato bisogna che tutte le spole
abbiano l’idea della spola, dall’altro occorre assegnare ad ogni concreta esecuzione [scil.: ad
ogni spola costruita] quella natura quale è già predisposta come ottima per ciascun
impiego?"
La costituzione dello strumento ha due aspetti:

 la sua struttura formale, relativa all'èidos, l'idea


 la sua costituzione materiale, relativa all'èrgon, l'esecuzione
Se per costruire uno strumento vi si deve rifare all'èidos di tale strumento, è altresì
vero che nella sua costruzione bisogna scegliere i materiali predisposti per natura ad
un giusto funzionamento dello stesso strumento. Entrambi gli aspetti dunque sono
vincolati da una predisposizione naturale (ciò risulta assai chiaramente da 389c27,
dove physei hekàsto pephykòs, «per natura già predisposto per ciascun impiego», si
riferisce all’èidos, alla struttura formale, così come in 389c3 epephykei si riferisce alla
costituzione materiale).
Non v'è però contrapposizione tra èidos e physis, poiché la struttura formale
predispone lo strumento a molteplici impieghi: ha perciò la natura dell’èidos, dell’uno
sui molti. La costituzione materiale deve corrispondere a questa predisposizione
formale e perciò deve ricorrere a quell’elemento che per sua natura è capace di
sostenere i molteplici impieghi sul piano pratico (deve adattarsi quindi alla physis). La
differenziazione in ultima analisi è dunque fra èidos e èrgon.
Il progresso che qui Socrate compie nell’argomentazione consiste nel mettere in luce
che non solo sul piano della struttura formale bisogna tener conto della
predisposizione naturale (questo era già emerso nelle battute precedenti, quando si
era visto che le funzioni dello strumento, che sono governate dalla struttura formale,
hanno una loro stabile essenza: il tagliare, il nominare, ecc. hanno una loro natura a cui
deve corrispondere anche ciò con cui si taglia, si nomina, ecc.), ma anche su quello
della costituzione materiale c’è una physis, in corrispondenza alla physis della struttura
formale. Non è vero inoltre che ci sarebbe qui una contrapposizione fra l’èidos (uno) e
le spole concrete con le diverse applicazioni (molte). Il meccanismo dell’uno sui molti
vale per entrambe le facce: l’idea della spola si applica a tutte le spole per tutti gli
impieghi, il legno è adatto a tutte le spole per tutti gli impieghi.
Socrate continua con l'analogia tra lo strumento nome e gli altri strumenti: egli afferma
che se l'èidos di trapano è da trasporsi in ferro affinché esso abbia una rispondenza tra
costituzione materiale èrgon e costituzione formale èidos, allo stesso modo lo
strumento nome deve essere trasposto in suoni e sillabe, affinché esso abbia una
rispondenza con "ciò stesso che è nome". Il vincolo nella costituzione materiale è
restrittivo ma non determinante: come che il trapano può essere trasposto in un ferro
o in un altro, anche i nomi possono essere trasposti in taluni o talaltri suoni/sillabe a
discrezione del legislatore. Per cui:
restrittivo: poiché la costituzione materiale (èrgon) dev'essere quella fonetica poiché
altrimenti lo strumento non risponderebbe alla sua corrispondente costituzione formale
(èidos)
non determinante: non è prestabilito quali suoni debbano dare origine al nome,
poiché basti che egli sia rispondente alla sua costituzione formale (èidos) come
suddetto.
"Socrate: E allora valuterai così anche il legislatore, quello di qui come quello dei
barbari: purché assegni l’idea del nome conveniente a ciascun impiego in sillabe quali
che siano, non sarà legislatore in nulla peggiore quello di qui o di qualunque altro
posto."
La correttezza (orthòtes) dello strumento risiederà dunque nel possesso dell'èidos,
ovvero del complesso di peculiarità che lo rende adatto alla sua utilità, un èidos che
pertiene al dominio di cose del pephykènai, che è quindi già presente in natura,
sussiste e non muta.

X. Qui Socrate chiede ad Ermogene chi sia adatto a discernere la orthòtes dello strumento.
Ci si instrada verso una duplice considerazione dello strumento:

 la sua appartenenza ad una tecnica produttiva, poiché esso è prodotto di un'opera di


costruzione;
 la sua appartenenza ad una tecnica d'uso, in quanto esso è predisposto ad una certa
utilità
Dunque chi saprà affermare la orthòtes dello strumento è proprio chi dovrà usarlo
convenientemente, il tecnico d'uso, essendo essa condizione precipua alla sua
funzionalità. Allo stesso modo, quindi, lo strumento-nome sarà valutato bene solo dal
dialettico che dal ounomatourgòs (legislatore) prenderà il nome. Solo il dialettico saprà
dunque valutarne la correttezza partendo dalla conoscenza che ha delle cose, la cui
ousìa il nome deve saperne discernere (tale è la sua utilità già predisposta in natura).
Ciò implica che il comune parlante, per ciò stesso, non potrà valutare la correttezza del
nome né saprà utilizzarlo bene, ciò che è invece competenza del dialettico come
suddetto.
Socrate conclude affermando che dunque le cose hanno nome per loro natura e il
compito di conferirglielo spetta al legislatore che sa trasporre nelle sillabe l'idea
dell'oggetto corrispondente: la trattazione linguistica sfocia quindi nell'ontologia e in
essa trova senso. Mentre la tecnicità del nome (quindi ciò che pertiene ad una
dimensione l'inguistica) segue il criterio di orthòtes, ciò che dà senso al nome stesso è
una questione squisitamente ontologica poiché il nome, da strumento linguistico quale
è, va oltre sé fino alle cose, che appunto per loro natura un nome (ciò che pertiene
dunque alla ousìa degli oggetti denominati). Dunque v'è bisogno di un altro criterio di
corrispondenza nome-cosa che non pertiene più al dominio linguistico ma ne va oltre:
l'aletheia intesa come verità propria delle cose che sono.
Ermogene chiede dunque a Socrate quale sia la correttezza per natura del nome: da
qui il filosofo partirà in una sequela della sezione etimologica, una sequela alla quale
sarà quasi costretto. La drammaticità della questione sta nell'irriducibilità delle
dimostrazioni di cui ha bisogno Ermogene per comprendere ciò che sostiene Socrate.
Ciò che Ermogene ha capito, da ottuso, è solo l'opposizione natura/convenzione,
laddove crede che Socrate si sia schierato dalla seconda e quindi dalla parte di Cratilo:
l'ironia di Socrate si svelerà proprio dal momento in cui, costretto ad una sequela
etimologica infinita, si instrada apparentemente nella visuale di Cratilo per dissolverla a
poco a poco.

XI. Socrate per dirozzare l'indagine si rifà alle autorità: in primis a Protagora, ironicamente,
lasciando ammettere ad Ermogene la poca validità della teoria di questi, poi ad Omero: i
poeti sono infatti ciò che si accorda sia alla tesi sofistica (protagorea) sia a quella espressa
nel dialogo da Cratilo. L’esegesi dei testi poetici era, infatti, una pratica tipica dei Sofisti.
IRONIA SOCRATICA laddove già si è affermato il denominare come pratica e tecnica umana,
Socrate convince Ermogene che sono gli dèi i depositari della correttezza del nome (ma non
erano l'onomatourgòs e il dialettico? Tant'è: dopo una breve sequela orientativa di nomi, in
cui egli pone il punto di domanda su quale sia il nome corretto opponendo quello dato
dall'uomo a quello dato dalle divinità, alla fine riporta l'indagine sui nomi attribuiti dall'uomo:
nella fattispecie partendo da Scamandrio e Astianatte come i due nomi dati al figlio di Ettore.

XII.

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