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I. Secondo la consuetudine del filosofo [Platone], la forma che assume questa ricostruzione
delle concezioni precedenti è polare. Il personaggio Socrate rappresenterà sul piano
drammatico i dubbi e le convinzioni personali di Platone.
Ermogene parla di 'interpretare l'oracolo di Cratilo': ironia che riprenderà anche Socrate più
avanti; dietro la veste drammatica si nasconde, in realtà, un riferimento polemico da parte
di Platone nei confronti del retroterra culturale della concezione naturalistica, sostenuta
in genere negli ambienti conservatori di Atene, legati ad un mantenimento delle tradizioni
religiose e a una concezione oracolare del sapere.
se Socrate, ironicamente, assicura ad Ermogene che potrebbe trovare risposta ai suoi dubbi
nella dottrina di Prodico, è perché il modo in cui Ermogene imposta la questione dei nomi è in
sintonia con la cultura sofistica (ovviamente, con l’immagine che di tale cultura Platone si era
costruito e voleva trasmettere). La forma con cui ha luogo il richiamo al magistero del Sofista
è quella, consueta in Platone, ironica e polemica nei confronti della pratica di percepire
compensi per l’insegnamento: Socrate afferma di non sapere come stanno le cose
sull'argomento poiché non ha seguito la lezione di Prodico da cinque dracme ma quella da
una dracma.
una drammatica: il personaggio Socrate lavora con le due tesi in gioco, testandole,
confutandole o anche assumendole provvisoriamente
una "profonda" o potremmo dire "metatestuale" (cercare il termine adatto): Socrate è il
portavoce delle personali concezioni dell’autore, che dalle dottrine di Ermogene e di
Cratilo vuol prendere le distanze, mostrandone l’inadeguatezza non tanto degli esiti
quanto, più fondamentalmente, dell’impostazione. Platone verrà via via inserendo
anche elementi concettuali che predispongono ad un riorientamento complessivo sulla
questione del linguaggio e che costituiscono i primi dati da tenere presenti in vista
della ricostruzione della posizione platonica sulla correttezza dei nomi.
III. V'è una maniera di intendere la distinzione fra discorso vero e discorso falso che poggia
sul presupposto, tipicamente arcaico, della sovrapponibilità delle dimensioni dell’essere e
del linguaggio. Tesi secondo cui sarebbe impossibile dire il falso. Platone lascia che il suo
personaggio Ermogene accolga senza esitazioni la possibilità di dire il falso, in quanto (qui
come altrove altri analoghi personaggi) portatore di una mentalità corrente, di opinioni non
particolarmente sofisticate ma largamente diffuse. Platone non ha qui voluto porre la
questione concettuale della verità/falsità, che ricomparirà nei suoi termini più rigorosi
durante il successivo confronto di Socrate con Cratilo, interlocutore di maggiore spessore
filosofico. L’intento di Platone sembra mostrare solamente come siano di fatto distinguibili
due modalità del rapportarsi linguisticamente alla realtà, ma non entra nel merito di queste
due modalità (vale a dire che non si sofferma a spiegare che cos’è «dire il vero» e «dire il
falso»), ma induce solo al riconoscimento di questa distinguibilità. Gli studiosi che hanno,
invece, ritenuto che Platone avesse qui voluto porre la questione della verità/falsità delle
produzioni linguistiche, si sono, ovviamente, dovuti soffermare sulla mancanza di
differenziazione fra il piano del discorso e quello del nome: di qui una duplice possibilità
interpretativa (per cui secondo alcuni sarebbe qui sottintesa una concezione del linguaggio
come nomenclatura e secondo altri, inversamente, una concezione del nome come frase
abbreviata). Il nodo, in realtà, si scioglie se si riconosce che non è in questa sede che
Platone si impegna nell’approfondimento della nozione di alètheia (verità) e che il richiamo al
binomio vero/falso ha qui solo quella funzione strumentale e argomentativa di cui si è detto.
Il che trova conferma anche nel fatto che Platone mostra in altri luoghi del dialogo di avere
coscienza della molteplicità dei livelli del linguaggio. non ha però tematizzato questo
aspetto, giacché l’oggetto del suo interesse è qui solo il rapporto nome-cosa. Inoltre si vedrà
meglio più avanti che la ‘verità’ non sembra essere intesa dal filosofo come una
caratteristica degli enunciati, ma delle cose, riguardante perciò non tanto i nomi e le loro
denotazioni, quanto il modo in cui i nomi sono impiegati.
IV. Socrate mette in atto una rapida confutazione di dottrine attribuite a Protagora (secondo
cui misura di ogni cosa è l'uomo e quindi "e cioè che quali le cose appaiano [essere] a me,
tali siano per me e quali appaiano a te, tali siano per te") ed a Eutidemo, che mette in
evidenza il retroterra culturale nel quale Platone vuole collocare concezioni o opinioni
quali quelle rappresentate da Ermogene, avviandone il ribaltamento.
Ermogene prende le distanze da Protagora, ma confessa il fascino che la sua dottrina ha
esercitato su di lui. Dal punto di vista concettuale si può pensare che Platone abbia inteso
mostrare come certe tesi che sono entrate a far parte di una mentalità corrente e diffusa
(fra le quali quella di Ermogene sul linguaggio) siano di ascendenza sofistica, ma di questa
ascendenza non v’è chiara consapevolezza.
V. Confutazione tesi di Eutidemo: dal momento che ciascuno di noi non può essere sapiente
e ignorante e dal momento che non si può dire il falso, allora non possiamo pensare che
sussistano differenze fra i modi in cui vediamo le cose e neppure differenze fra il modo di
vedere una cosa e un’altra. Questa dottrina è dialetticamente il rovescio di quella di
Protagora, ma sostanzialmente analoga, perché fa dipendere il modo d’essere delle cose
dal modo di rapportarsi ad esse dell’uomo e dal modo di rapportarsi degli uomini fra loro.
La differenza assoluta di Protagora e l’indifferenza assoluta di Eutidemo si toccano perché
partono dal presupposto che la natura delle cose sia relativa all’uomo: di conseguenza, le
opinioni degli uomini sulle cose diventano indistinguibili, o perché non si dispone di un
criterio di preferibilità, o perché sono effettivamente tutte coincidenti. Il punto di vista
corretto, per Platone, è quello che tiene conto della natura che le cose hanno di per sé e
da questa spiega la relazione uomo-cosa.
VI.
VII. Si inizia qui un’altra fase (387d-388b) dell’argomentazione socratica con la quale si
ritorna dal ‘dire’ al ‘nome’, in una prospettiva, però, ormai diversa: Socrate-Platone vuol
mostrare che ha senso parlare del nome solo nell’orizzonte del dire, rispetto a cui ha
valore strumentale. La prospettiva da cui vuole prendere le mosse Platone è dunque una
prospettiva funzionale, quindi andare oltre al visione della corrispondenza biunivoca nome-
cosa portata avanti da Cratilo e da Ermogene: soffermarsi non sulla natura e sulla struttura
delle cose bensì sulla loro finalità, da cui in ultima analisi la loro struttura e la loro natura
dipendono strettamente.
VIII. E' significativo il fatto che Platone metta a capo del nòmos una figura umana, non già
perché egli voglia riferirsi specificamente ad un personaggio storico o a un gruppo, una
comunità storica, ma perché rende l'idea di un linguaggio che è arte del tutto umana (tant'è:
il legislatore viene definito artigiano, onomatourgòs). Si ravvisa qui, nella teoria platonica del
linguaggio, il dominio tematico delle cose tra physis e tèchne: tra i due non v'è contrasto,
poiché il nòmos dipende strettamente dall'ᾗπερ πέφυκεν, dal modo connaturato delle cose
nel loro essere e dunque dipende strettamente dalla physis e da essa prende origine, con
essa deve fare i conti - non sarebbe possibile altrimenti. E, d’altro canto, non c’è nemmeno
da pensare ad una particolare problematicità insita nella figura del nomothètes, come
vorrebbe, per esempio, N. Demand, The Nomothetes of the «Cratylus», «Phronesis», XX
1975, pp. 1069, che parla di una singolare coniugazione dei concetti di physis e nòmos
voluta da Platone per meglio evidenziare la loro incompatibilità (cfr., contra, S.L. Churchill,
Nancy Demand on the Nomothetes of the Cratylus, «Apeiron», XVII, 1983, pp. 9293 al
contrario, è la loro compatibilità che il personaggio del legislatore viene a rappresentare,
mostrando come il rispetto della natura non escluda la possibilità di scelta nelle modalità di
intervento su di essa e la codificazione di regole che, per così dire, lo ottimizzino.
Il legislatore pone i nomi partendo dalle caratteristiche delle cose che per natura le rendono
atte ad essere nominate oppure operare scelte che partano dallo stesso strumento nome
per porne degli altri (si pensi in termini linguistici ai processi di derivazione grammaticale),
fornendo in tal modo delle convenzioni atte proprio alla tèchne del dare i nomi alle cose. In
quest'ottica Platone si dissocia totalmente dalla visione semplicemente dualistico-oppositiva
tèchne-physis per instradarsi in una posizione ulteriore e conciliante.
IX. "IX. SOCR. Su allora, esamina verso dove guarda il legislatore quando pone i nomi:
riflettici, però, a partire dai casi precedenti. Verso dove guarda il falegname quando
costruisce la spola? Non a quella tal cosa che è già predisposta a tessere?
ERM. Certamente.
SOCR. E allora? Se la spola gli si rompe mentre la costruisce, ne farà di nuovo un’altra
guardando a quella rotta, o a quella idea a cui guardava anche quando costruiva la spola che
si è rotta?
ERM. A quella, mi pare.
SOCR. E quella, dunque, non potremmo chiamarla del tutto giustamente ‘ciò stesso che è
spola’?"
Che Platone stia qui apprestandosi a introdurre elementi della sua personale concezione è
confermato dall’impiego di una terminologia decisamente tecnica: blèpein (guardare), èidos
(idea), autò hò èsti (ciò stesso che è) sono tutte espressioni che ricorrono soprattutto nei
dialoghi della maturità quando viene elaborata o illustrata la cosiddetta teoria delle idee.
La correttezza (orthòtes) dello strumento risiederà dunque nel possesso dell'èidos, ovvero
del complesso di peculiarità che lo rende adatto alla sua utilità, un èidos che pertiene al
dominio di cose del pephykènai, che è quindi già presente in natura, sussiste e non muta.
Qui si rivela la distanza tra Socrate/Platone e la visione di Ermogene, che prendeva le mosse
da una arbitrarietà del nesso nome-cosa. Platone non crede che solo una sequenza di
suoni sia adatta a nominare una determinata cosa, ma, ponendosi su una linea di gradualità,
crede che l'orthòtes di un nome dipenda dalla scelta saggia del legislatore, in quanto sono
pensabili sequenze di suoni che possono accogliere meglio di altre l’èidos.
X.
II. Tesi di Ermogene: "A me pare infatti che se qualcuno pone un nome a un oggetto, questo
sia il nome corretto; e che se poi lo cambia con un altro e non chiama più l’oggetto con quello
di prima, il nuovo nome non stia per nulla in modo meno corretto del vecchio... ...infatti non
per natura già predisposto per ciascun oggetto è il nome – nessun nome per nessun oggetto
–, bensì per legge e per uso di coloro che così usano e chiamano": abbastanza evidenti in
questo passaggio tanto la radicalità quanto la superficialità della tesi di Ermogene. Nello
specifico:
convenzione-accordo: momento dell’istituzione di un nome, tramite qualcosa come una
decisione comune a più parlanti
legge-uso: processo di consolidamento dell’attribuzione di un significato a un nome,
processo attraverso cui quel nome si impone come corretto
Più nel dettaglio:
convenzione: sottolinea alterità fra il nome e la cosa
accordo: evidenzia rapporto fra i parlanti
legge: termine dal carattere più costrittivo, perché più legato al peso di una tradizione che
continua
uso: termine che può essere piegato nel senso di una continua modificabilità dei nomi
è da rilevare il forte contrasto sussistente fra la dimensione collettiva, nella quale si situano i
quattro concetti, e la dimensione individuale alla quale evidentemente egli di fatto pensa,
quando a scopo di esemplificazione parla della imposizione e sostituzione dei nomi da parte
di un singolo parlante. In realtà, in opposizione polare a Cratilo, ciò su cui insiste Ermogene è
l’assoluta mancanza di rapporto oggettivo fra il nome e la cosa nominata, dal momento
che il nominare rientra completamente nella sfera di competenza dell’uomo.
S "Se io chiamo una qualunque delle cose che sono, per esempio quella che adesso
chiamiamo ‘uomo’, se io la denomino ‘cavallo’, e ciò che adesso chiamiamo ‘cavallo’, lo
denomino ‘uomo’, allora la stessa cosa avrà nome ‘uomo’ in pubblico e ‘cavallo’ in privato?":
Socrate fra i vari spunti sceglie, ovviamente, quello che consente una esplicitazione più
chiara delle estreme conseguenze di quella concezione. Egli opta dunque per una
radicalizzazione in senso individualistico (Se io chiamo... ...allora, in pubblico e in
privato?). Socrate sottolinea proprio come le decisioni collettive in fatto di nomi valgano
allo stesso modo di quelle individuali.
III. S "C'è qualcosa che chiami 'dire il vero e il falso'?" da un lato, viene tematizzato il lègein
(dire), e cioè l’azione del nominare più che l’entità linguistica ‘nome’; dall’altro, Socrate dopo
averci precedentemente portato sul piano della dimensione individuale, ci costringe a
concentrarci sulla relazione fra singolo nome e cosa da esso nominata (non si parla più dei
nomi in generale né del nome in quanto oggetto di una scelta del parlante, ma del singolo
nome nel suo trovarsi in rapporto con una cosa).
Socrate dunque secondo un processo riduzionistico arriva a far ammettere a Ermogene che,
se il discorso vero è vero interamente in ogni sua parte e, essendo il nome la parte più
piccola del discorso, esso non può contenere nel vero denominazioni false, o per così dire
arbitrarie.
Ermogene afferma, ribadendo il peso individualistico del nome attvs una esplicazione del
fenomeno sinonimico su base diatopica (alcuni Greci chiamano X tale cosa mentre altri Y, in
alcune città "vedo nomi dati alle stesse cose da taluni in modo privato"): al di là della
contrapposizione individuo/collettività, il nucleo sostanziale della sua concezione era proprio
questo: il nome è un’etichetta che si appone alla cosa, con la quale non ha in sé null’altro a
che fare (estrinsecità); in tal senso non ha nessuna importanza che a porlo e/o riconoscerlo
sia un parlante o molti, in e per un dato momento o da lungo tempo.
IV. Questa fase dell’argomentazione (che si chiude a 386e) è caratterizzata, innanzi tutto, da
uno spostamento tematico: Socrate chiede all’interlocutore di esprimere un’opinione intorno
agli ònta («cose che sono»).
Socrate mette in atto una rapida confutazione di dottrine attribuite a Protagora (secondo cui
misura di ogni cosa è l'uomo e quindi "e cioè che quali le cose appaiano [essere] a me, tali
siano per me e quali appaiano a te, tali siano per te") ed a Eutidemo. Ermogene prende le
distanze da Protagora, ma confessa il fascino che la sua dottrina ha esercitato su di lui. Dal
punto di vista drammatico questa battuta testimonia l’incertezza e la superficialità filosofica
di Ermogene.
Socrate, prendendo le mosse dalla tesi protagorea, chiede ad Ermogene se esista la
differenziazione tra uomini ragionevoli e uomini irragionevoli: se ciò che dice Protagora è
vero, allora non sussisterà tale differenziazione. Ermogene dunque ammette che Protagora
non dica il vero. C’è una analogia fra il modo in cui Socrate ha finora proceduto contro
Ermogene e questa sua contrapposizione a Protagora: in entrambi i casi egli sposta la mira
della sua argomentazione dal piano degli oggetti a quello della prassi. Socrate costringe
Ermogene a tre ammissioni:
VI. Socrate dunque sposta il discorso sull'azione del dire analogamente a come fatto con le
altre azioni: egli muove quindi sempre nel dominio di cose della prassi e non in quello
strettamente linguistico del nome e del suo referente (e quindi prende le mosse dall'azione
del discorrere e non strettamente del denominare). Al nesso tra physis e orthé dòxa (giusta
rappresentazione) qui consegue quello tra orthòtes (verità) e pephykenai (modo
connaturato delle cose).
Attraverso una doppia direzione, assieme induttiva e deduttiva, Socrate chiude il cerchio:
dagli ònta delle azioni arriva a quella del dire (deduzione), mentre dal dire egli arriva
all'azione del denominare (induzione: ogni volta che si dice si dà il nome). Il denominare
dunque appartiene sempre agli ònta e per ciò stesso anche essa è un'azione già predisposta
secondo natura (pephykenai).
Conclusione: "SOCR. E, dunque, si deve nominare nel modo in cui è già predisposto il
nominare le cose e l’essere nominato e il mezzo, ma non alla maniera che vogliamo noi, se
ogni caso deve essere accordato con i precedenti? E così approderemmo a qualcosa di
buono e nomineremmo, altrimenti no?
ERM. Mi sembra."
VII. Si inizia qui un’altra fase (387d-388b) dell’argomentazione socratica con la quale si
ritorna dal ‘dire’ al ‘nome’, in una prospettiva, però, ormai diversa. Puntando l'attenzione sulla
prassi e sugli ònta e insistendo su othòtes-pephykènai, Socrate prende le mosse sul mezzo
attvs cui si esplica la prassi in forza di quel nesso e, arrivando all'azione del dire, esplica
come strumento proprio di tale azione il nome; inoltre facendo ciò Socrate implica
nell'azione del dire una regolamentazione che ne disciplina l'attività (così come nell'azione
del tessere, tagliare etc.):
"SOCR. Ma che cos’è ciò con cui si deve perforare?
ERM. Il trapano.
SOCR. E ciò con cui tessere?
ERM. La spola.
SOCR. E ciò con cui nominare?
ERM. Il nome.
SOCR. Dici bene. Quindi anche il nome è uno strumento."
VIII. Il nome è uno strumento per mettere ordine individuando differenze e pertanto
stabilendo relazioni.
Socrate porta Ermogene ad ammettere che, se è vero che il nome, come altri strumenti di
competenza - l'analogia viene posta in relazione alla spola per il tessitore - è uno strumento
tecnico, nello specifico quello del linguaggio, allora la sua costruzione presuppone una
competenza altrettanto tecnica, specifica. Se chi usa la spola la usa bene per l'atto di
tessere (quindi usare bene in vista di, in base alla tèchne di competenza), allora chi usa il
nome lo usa bene nell'atto di insegnare. Non a caso, infatti, Socrate ben distingue la tèchne
riferentesi alla costruzione dello strumento da quella del buon uso dello strumento stesso.
Se il tessitore userà lo strumento spola che è frutto del buon lavoro del falegname, allora chi
insegna ben userà lo strumento nome che è frutto del nòmos (la parola greca viene tradotta
con "legge" ma ha il significato, più lato, di "norma/uso consolidato",), anch'esso già
predisposto e non già atto a predisporre. L'artigiano predisposto alla competenza del nòmos
è il legislatore, dal quale, in ultima analisi, ogni buon insegnante ricava il nome. La parola
legislatore è la traduzione di nomothètes ed è colui che predispone appunto del serbatoio di
nomi dispensato dal nòmos. Ovviamente la sua figura è mitica, personaggio fittizio che pone
in qualche modo un termine ultimo ad una retrospezione che sarebbe infinita o quantomeno
indefinita sull'età e le origini del nòmos.
È opportuno a questo punto ricapitolare sinteticamente la procedura argomentativa seguita
da Socrate: a) riduzione della tesi convenzionalistica al singolo utente e al singolo nome; b)
riconoscimento della distinzione sussistente fra «dire (nome) vero» e «dire (nome) falso»; c)
confutazione delle dottrine di Protagora ed Eutidemo, che, pur in modi opposti, implicano
l’impossibilità pratica di operare distinzioni fra le cose che sono: pertanto, riconoscimento
agli ònta di una loro «stabilità di essenza»; d) le azioni corrispondenti alle cose sono allo
stesso modo degli ònta (in b Socr. aveva teso a mostrare come il «dire il vero» significhi
«dire gli enti» e cioè compiere un’azione corrispondente alle cose); e) il dire e il nominare
sono azioni, che (come è stato mostrato in b) possono essere compiute in modi distinguibili:
sulla base di c, pertanto, non possono essere intese in maniera relativistica e va loro
riconosciuta una stabilità di essenza, un loro modo naturalmente predisposto di essere
compiute; f) le azioni si compiono con strumenti e strumento del nominare è il nome; [g) gli
strumenti hanno una utilità e l’utilità del nome è l’insegnare e il distinguere;] h) lo strumento è
anche frutto dell’opera di un tecnico e l’onomaturgo è il legislatore, l’artigiano più raro fra gli
uomini, non un qualsiasi individuo (Ermogene è così confutato).
Il modo di procedere di Socrate implica la considerazione che la correttezza del nome rientra
non nel semplice atto del denominare ma nel dominio della tèchne: ciò per una questione sia
morale (si pensi alla nozione greca di virtù come piena realizzazione ed espressione delle
potenzialità, kalòs) sia cognitiva (per i Greci la conoscenza ha da essere intenzionale,
dirozzata, consapevole dello scopo e della finalità). Il nome dunque viene ad essere sottratto
dal libero arbitrio dell'uomo comune: e questo non perché esso prescinda dall'uso che da
questi ne vien fatto bensì ne trae origine e significato, essendo strumento; e tale uso
dev'essere consapevole, disciplinato da norme e condizioni restrittive.
IX. "SOCR. E dunque, quando si debba costruire la spola per vesti sottili o quella per vesti
grosse o di lino o di lana o di qualsiasi altra fatta, da un lato bisogna che tutte le spole
abbiano l’idea della spola, dall’altro occorre assegnare ad ogni concreta esecuzione [scil.: ad
ogni spola costruita] quella natura quale è già predisposta come ottima per ciascun
impiego?"
La costituzione dello strumento ha due aspetti:
X. Qui Socrate chiede ad Ermogene chi sia adatto a discernere la orthòtes dello strumento.
Ci si instrada verso una duplice considerazione dello strumento:
XI. Socrate per dirozzare l'indagine si rifà alle autorità: in primis a Protagora, ironicamente,
lasciando ammettere ad Ermogene la poca validità della teoria di questi, poi ad Omero: i
poeti sono infatti ciò che si accorda sia alla tesi sofistica (protagorea) sia a quella espressa
nel dialogo da Cratilo. L’esegesi dei testi poetici era, infatti, una pratica tipica dei Sofisti.
IRONIA SOCRATICA laddove già si è affermato il denominare come pratica e tecnica umana,
Socrate convince Ermogene che sono gli dèi i depositari della correttezza del nome (ma non
erano l'onomatourgòs e il dialettico? Tant'è: dopo una breve sequela orientativa di nomi, in
cui egli pone il punto di domanda su quale sia il nome corretto opponendo quello dato
dall'uomo a quello dato dalle divinità, alla fine riporta l'indagine sui nomi attribuiti dall'uomo:
nella fattispecie partendo da Scamandrio e Astianatte come i due nomi dati al figlio di Ettore.
XII.