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Il concetto di materia nel Timeo di Platone

Il Timeo è una delle opere platoniche più studiate durante i secoli, sia per l’importanza delle tesi
esposte che per la continuativa disponibilità dell’opera ad uso degli studiosi. Il dialogo verte sulla
costituzione del mondo, una Fisica dunque, ed è la continuazione ideale della Repubblica. Per quanto
concerne il nostro discorso, il Timeo risulta di grande importanza in quanto è la più antica
testimonianza nella sua forma completa e autoritativa riguardo il concetto di materia; le analisi
successive in questo ambito saranno direttamente o indirettamente influenzate da quanto esposto a
proposito nel dialogo, a partire da quelle di Aristotele, nella cui Fisica troviamo un commento di rara
importanza filosofica1.

Prima di esaminare il discorso platonico sulla materia, occorre esporre una breve sintesi dei
presupposti ontologici e gnoseologici contenuti nella prima parte del dialogo. Timeo inizia la sua
lunga esposizione sulla genesi del cosmo con una distinzione ontologica: ciò che è sempre e non
diviene mai, e ciò che diviene sempre e non è mai [27D-28A]. Questa distinzione pone un doppio
livello ontologico, al quale si possono riferire, rispettivamente, le idee eterne e le realtà sensibili,
separate tra loro da una differenza apparentemente incolmabile. Conseguentemente, il grado di
conoscenza che se ne può ricavare dipende dalla natura dell’oggetto esaminato: riguardo ciò che è
sempre potrò avere conoscenza certa tramite l’intelletto, mentre su ciò che diviene sempre potrò solo
avere opinioni mediante la sensazione irrazionale. Essendo il mondo del divenire l’oggetto del
discorso di Timeo, le considerazioni di ordine gnoseologico appena esposte ne investono direttamente
le possibilità esplicative, sia a livello concettuale che linguistico. Per questa ragione le tesi vengono
introdotte come verosimili [29C], e al contempo viene specificato che «è difficile trovare il fattore e
padre di quest’universo, e, trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti»2 [28C]. Il discorso, quindi, viene
a configurarsi come un mythos, di cui il demiourgos, letteralmente lavoratore pubblico, usato
prevalentemente nella Grecia antica nel senso di artigiano e magistrato, è la figura cardine. Esso,
infatti, incarna la funzione operativa che intercorre tra i diversi piani onto-gnoseologici, costituendosi
come termine medio tramite il quale giustificare la relazione tra mondo dell’Essere e mondo del
Divenire, e, analogamente, come ponte epistemico tra le due vie conoscitive e i rispettivi oggetti. Nel
suo operare – poiein – sul mondo sensibile, il Demiurgo prende come modello le idee eterne, facendo
del cosmo una copia di esse. Per quanto imperfetta rispetto all’originale la sua opera risulterà bella,
poiché sia il modello che la natura stessa dell’artefice non permettono altro che operare nel modo
migliore possibile. Da ciò è deducibile che l’azione del Demiurgo è necessaria, inficiando quindi la
possibilità di intravedere nel dio una figura personale dotata di libera volontà. Al contrario, l’artefice
del mondo, in quanto raffigurazione mitica dovuta alle ragioni epistemiche sopra elencate, va inteso
più correttamente come la rappresentazione della funzione dinamico-operativa del piano ontologico
dell’essere in quanto causa di quello del divenire. La relazione che viene a instaurarsi è allora di
causa-effetto, come d’altra parte rivela la sfera semantica delle funzioni del demiourgos come
artigiano e come magistrato: poiein e archein, fare e principiare, presuppongono la subordinazione di
colui che subisce l’azione, esattamente come la metafisica platonica subordina l’effetto rispetto alla

1
Aristotele, Fisica, libro ∆.
2
Platone, Timeo, tr. a cura di E. Piccolo, Senecio, Napoli 2009. Tutte le seguenti citazioni del testo platonico fanno
riferimento a questa edizione.
causa. L’azione del Demiurgo, quindi, consiste nell’ordinare l’originario caos del cosmo secondo
l’imitazione dei modelli eterni, trasformando il divenire nella copia più perfetta possibile dell’Essere.
Accanto all’azione dell’artefice, però, Platone introduce un’altra causa operante nel mondo, la
necessità [47E]. I due principii vengono posti come distinti di per sé stessi, ma non estranei l’uno
rispetto all’altro

Perché l’origine di questo mondo è mista, derivando da una combinazione della necessità e dell’intelligenza: l’intelligenza
dominò la necessità, col persuaderla di rivolgere al bene la più parte di cose che si generavano; e in questo modo,
lasciandosi la necessità dominare dalla savia persuasione, fu da principio formato quest’universo. Perciò, se alcuno
volesse dire come esso fu veramente formato, dovrebbe anche ricorrere a questa specie di causa mutevole, per quanto la
natura di essa lo comporta. [48A]

L’introduzione del nuovo principio causale obbliga Timeo a ricominciare il discorso con un nuovo
inizio; mentre nella prima parte del monologo l’origine dell’universo era indagata a partire dalla
prospettiva dell’Essere eterno, quindi del demiurgo come rappresentazione della sua operatività
causale sul divenire, ora il cosmo è indagato secondo l’azione della causa necessaria, operante sui
corpi e i primi elementi (terra, aria, fuoco, acqua), ritenuti ingenuamente le lettere del mondo [48B-
C]. La prospettiva viene quindi capovolta, dovendo rintracciare un terzo genere (genos) rispetto
all’Essere e alle copie: «E allora non ne distinguemmo un terzo, credendo che due fossero sufficienti:
ma ora sembra che il ragionamento ci costringa a tentare di chiarire con le parole questa specie
difficile e oscura.» [49A] La necessità di introdurre un nuovo genere era, d’altra parte, già insita nella
distinzione ontologica avanzata in apertura del dialogo. Il bassissimo statuto ontologico riservato a
ciò che appare rispetto alle Idee eterne diviene problematico nel momento in cui Platone si trova a
dover rendere conto degli elementi corporei, dei quali nega la primarietà agli elementi empedoclei,
anch’essi soggetti al continuo divenire tanto da non poter essere qualificati con questo e quello, ma
solo con tale. Inoltre, l’azione del Demiurgo non si configura come una creatio ex nihilo, ma come
una trasformazione ordinatrice di un qualcosa di preesistente rispetto all’opera dell’artefice. Le copie
delle Idee, effetti rispetto alla causa, necessitano, dunque, di un appiglio per manifestare il loro
divenire, un questo su cui o di cui fondare il loro apparire. Tutti i tentativi di definire questo appiglio
ontologico rientrano, con varie oscillazioni tra l’uno e l’altro, all’interno dei concetti di un sostrato
come materia e/o come spazio. Ulteriori difficoltà sono date dai ragionamenti epistemici già affrontati
all’inizio del dialogo. Il nuovo genere, infatti, distinguendosi sia dall’Essere che dal divenire non può
essere appreso né dall’intelletto né dalla sensazione, ma da un ragionamento “bastardo” [52B]; perciò
il linguaggio utilizzato sarà fortemente metaforico, allusivo, sicuramente non definitorio.

La prima definizione portata da Timeo per questa realtà oscura è «d’essere ricettacolo di tutto ciò che
si genera, quasi una nutrice» [49A-B]. Nei passi immediatamente successivi l’autore rileva quanto
detto poco sopra riguardo l’impossibilità di fissare linguisticamente i corpi soggetti al divenire, «ma
quello, dove ciascuna cosa nascendo si mostra e donde di nuovo svanisce, solo quello si deve
chiamare col nome di questo e di codesto, invece le qualità, come caldo o bianco o qualsiasi dei
contrari e tutto che nasce di loro, niente di questo si può fermare con parole così.» [50A] Il riferimento
alle qualità è un passaggio rivelatore dell’ontologia platonica del sensibile, la quale, come osserva F.
Ferrari, «si profila come un’ontologia qualitativa e non sostanziale. […] Si potrebbe, anzi, dire che
gli enti sensibili sono predicati del ricettacolo, ossia qualità appartenenti allo spazio-materia, cui, solo,
spetta lo statuto di soggetto ontologico»3. La figura del ricettacolo-nutrice racchiude e, al contempo,
connota la dimensione spaziale che Platone attribuisce al terzo genere. Esso è sicuramente il luogo in
cui si manifestano e muovono le immagini, ma non uno spazio neutro, semplicemente recettivo;
bisogna ricordare che il principio che lo governa, benché persuaso dall’Intelligenza, è la causa errante
(aitia planomene), dotata di un suo movimento non finalisticamente ordinato. Dall’interazione, di per
sé misteriosa, tra le due realtà ontologiche causali, Idee e ricettacolo, vengono alla luce, seppur solo
momentaneamente, gli enti sensibili, erroneamente scambiati dai sensi come realtà oggettuali.
L’aspetto spaziale del terzo genere assume così una doppia dimensione: nel concorrere insieme
all’Essere alla possibilità della definizione del divenire risulta come spazio metafisico, logicamente
necessario per localizzare la creazione demiurgica, alla stregua di immagini che entrano ed escono
continuamente [50C]. Da questa prospettiva teoretica i due generi possono essere visti come speculari
e opposti, ovvero gli estremi di una relazione che ha come termine mediatore la funzione dinamica
generatrice, rispetto all’Essere il demiurgo e rispetto al ricettacolo la causa errante. Allo stesso tempo,
la dimensione spaziale va intesa come luogo fisico in cui si possono muovere i corpi generati dalle
due cause. Quest’ultimo aspetto introduce quella che è la dimensione materiale del terzo genere, ciò
di cui sono fatti gli enti sensibili, il loro sostrato materiale. Questa componente viene rilevata in
particolare seguendo l’analogia dell’oro [50A-B], il quale, ipotizzando che venga continuamente
plasmato in nuove forme, rimarrebbe l’unica realtà di cui si può affermare che è con verità, rispetto
invece alle forme mutevoli assunte di volta in volta. Analogamente

lo stesso ragionamento vale per quella natura che riceve tutti i corpi: si deve dire che è sempre la stessa, perché non perde
affatto la sua potenza, ma riceve sempre tutte le cose, e in nessun modo prende mai una forma simile ad alcuna di quelle
cose che entrano in essa: perché essa di sua natura è la materia formativa di tutto, che è mossa e figurata dalle cose che vi
entrano, e appare, per causa di esse, ora in una forma e ora in un’altra: e le cose che entrano ed escono sono sempre
immagini di quelle che esistono sempre, improntate da esse in modo ineffabile e meraviglioso, che dopo indagheremo.
[50B-C]

Il terzo genere viene, dunque, a configurarsi sia come principio spaziale che materiale, ossia luogo in
cui vengono improntate le immagini dalle Idee eterne [50C]. La relazione tra i due principii e le
immagini assume le sembianze di una relazione paragonabile a quella tra padre-madre-figlio [50D],
in cui il terzo genere svolge il compito di madre/nutrice, ovvero ciò che riceve e, metaforicamente,
alleva le immagini dei modelli eterni. All’interno di questa metafora, Platone tenta di rappresentare
non solo le nature dei vari generi, ma, ancora una volta, l’azione dinamica che scaturisce dalla loro
relazione partecipativa, l’origine metafisica delle entità sensibili. Il ragionamento segue, inoltre, una
direttrice che potremmo definire indiretta: il terzo genere viene postulato come necessariamente
esistente a causa dell’impossibilità di giustificare le varie rappresentazioni del divenire, di per sé
stesse e in quanto differenti ontologicamente rispetto ai paradigmi da cui derivano; è interessante
notare che questa constatazione è posta da Platone per ragioni di natura gnoseologica [51E], a riprova
della convinzione dell’autore che «i discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano» [29A]. Timeo
introduce, dunque, quella che è la definizione del terzo genere che avrà più successo nelle epoche
successive:

v’è poi una terza specie sempre esistente, quella dello spazio, la quale è immune da distruzione, e dà sede a tutte le cose
che hanno nascimento, e si può percepire senza il senso per mezzo di un ragionamento bastardo, ed è appena credibile,

3
F. Ferrari, La chora nel Timeo di Platone. Riflessioni su «materia» e «spazio» nell’ontologia del mondo fenomenico,
«Quaestio», VII, 2007, p. 14.
guardando alla quale noi sogniamo e diciamo essere necessario che tutto quello che è si trovi in qualche luogo e occupi
qualche spazio, e che quello, che non è né in terra né in qualche luogo del cielo, non è niente. [52A-B]

Il termine greco qui tradotto con spazio è chora, il quale poteva indicare sia uno spazio o un luogo
generico sia il territorio all’interno del quale sorgeva la città, traducibile quindi anche con regione o
contrada. In particolare, chora era il nome dato alla campagna intorno alla città, fuori dalle sue mura
ma sempre appartenente ad essa. L’espressione ha sicuramente il pregio di racchiudere in sé entrambe
le prospettive da cui Platone riflette sul terzo genere. La chora è, infatti, sia il luogo su cui sorge la
città, dove essa è localizzabile, sia, allo stesso tempo, il territorio da cui essa trae il suo sostentamento,
il sostrato di cui è fatta. I due aspetti, spaziale e materiale, vengono perciò a convergere: la
generazione metafisica delle realtà sensibili avviene nella chora ed esse, localizzandosi, non possono
che costituirsi della chora stessa.

Come propone Fronterotta4, rifacendosi all’ontologia sequenzialista, si può concepire la chora


platonica nel senso di un «sostrato in perenne movimento», da cui emergono «delle “sequenze”, cioè
delle disposizioni che manifestano una certa figura, una certa durata e una certa direzione solo
tendenziali, dovuta alla doppia azione cinetica che le caratterizza, quella caotica propria del sostrato
e quella ordinata prodotta dall’anima del mondo, così come si potrebbe dire, del mare, che le onde e
la loro andatura sono l’effetto combinato del movimento proprio del mare e di quello causato dal
vento che lo investe»5. Da questa prospettiva, spazio e luogo sono dimensioni riferibili non alla chora
in sé, ma alle sequenze di rappresentazioni che di volta in volta scaturiscono da essa, qualificandola,
quindi, della funzione di sostrato di cui/in cui si costituiscono le sequenze stesse. Ciò che è più
pertinente alla chora in quanto tale risulta essere la sua dinamicità incessante, tramite la quale è
possibile individuare le rappresentazioni secondo i modi in cui si manifesta il divenire, spazio e
materia.

4
F. Fronterotta, Luogo, spazio e sostrato “spazio-materiale” nel Timeo di Platone e nei commenti al Timeo, in XIV
colloquio internazionale del lessico intellettuale europeo, Istituto del CNR, LEO S. OLSCHKI EDITORE, Roma, 2013,
pp. 7-42.
5
Ibidem, p. 41.

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