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Enrico Berti
Premessa
4 PLATO, Tim., 49A, 50B-C. A rigore l’ekmageion, come si può vedere nel museo dell’Acropoli di Ate-
ne, era lo stampo di creta con cui si rivestiva la statua di cera, nel quale, una volta fatta sciogliere la ce-
ra, si versava il bronzo fuso. Esso dunque era sia il luogo in cui la statua prendeva forma, sia il luogo da
cui essa veniva tratta, ma a sua volta era anche un materiale che prendeva forma dalla cera.
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teria nel Timeo sono i quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco, i quali «pri-
ma della generazione del mondo» si trovavano ad essere scossi ed agitati dentro
al ricettacolo5.
Quanto alla Diade indefinita, vedremo che Aristotele stesso la criticherà, ne-
gandole la funzione di vero e proprio sostrato del divenire. Perciò si può dire che
lo scopritore del concetto di materia, cioè di quel concetto che rimarrà poi nel-
la storia della filosofia per indicare ciò di cui sono costituiti i corpi e ciò che fun-
ge da sostrato al divenire, è proprio Aristotele, anche se non c’è dubbio che nei
filosofi precedenti, soprattutto in Platone, si trovano parecchi indizi che ne an-
ticipano e ne preparano la scoperta. Del resto anche i termini greci con cui tale
concetto viene indicato, cioè hulê e hupokeimenon, compaiono col significato ri-
spettivamente di «materia» e «sostrato» per la prima volta in Aristotele6.
Aristotele, come è noto, elabora una dottrina della materia complessa e sofi-
sticata, distinguendo molteplici significati di essa, che vanno appunto da quel-
lo di elemento di cui sono costituiti i corpi, a quello di sostrato del divenire, a
quello di estensione («materia intelligibile», di cui sono costituite le figure geo-
metriche), a quello di genere, a quello di potenza. Tale dottrina ha suscitato tut-
ta una serie di problemi, di cui quello riguardante l’esistenza o meno di una «ma-
teria prima» è stato il più dibattuto7. Nella presente occasione non intendo oc-
cuparmi di tutti questi significati, ma solo della nozione di sostrato, o «sogget-
to» – anche così si può infatti tradurre il greco hupokeimenon – del divenire, per
mostrare quale fortuna essa ha avuto anche nella filosofia moderna, in partico-
lare tra i primi critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard.
Anche a questo proposito si possono trovare dei precedenti in Platone. Ben-
ché infatti questi non impieghi mai il termine hupokeimenon col significato di
sostrato del divenire, non c’è dubbio che ha perfettamente presente la situazio-
ne descritta da Aristotele mediante l’impiego di tale termine. Nel Gorgia, ad
esempio, Platone afferma che l’uomo può contrarre una malattia e perdere la sa-
lute, o viceversa, restando sempre il medesimo, e ciò vale anche per la forza e la
debolezza, la velocità e la lentezza, i beni e i mali8. Nel Fedone afferma che i
contrari non nascono l’uno dall’altro nel senso che l’uno diventi l’altro, per esem-
pio la piccolezza diventi grandezza, ma c’è una terza cosa, diversa dai contrari,
la quale accoglie prima l’uno e poi l’altro dei contrari, restando sempre la stes-
sa; perciò Socrate può dire: «io, pur avendo accolto e ricevuto la piccolezza, re-
sto sempre quello che sono, lo stesso Socrate di prima»9. Infine nel Parmenide
Platone dichiara che l’Uno può, in momenti diversi, nascere e perire, diventare
simile e dissimile, grande e piccolo, in quiete e in moto10. Ma non possiamo di-
re di trovarci di fronte ad una dottrina esplicita e tematizzata, cioè «ufficiale»,
del sostrato.
1. Aristotele
Nelle Categorie, l’opera con cui si apre il corpus aristotelicum tramandato dai
manoscritti, la quale probabilmente è anche la più antica di tutto il corpus11 e
che per prima ha influenzato la filosofia tardo-antica, medievale e moderna, Ari-
stotele descrive la realtà attraverso un’analisi delle «cose dette» (ta legomena),
cioè delle parole, le quali sono segni – attraverso i pensieri – delle «cose esi-
stenti» (ta onta)12, anticipando in tal modo l’intera filosofia analitica odierna,
nata dalla cosiddetta «svolta linguistica». Le «cose dette senza connessione»,
cioè parole come ‘uomo’, ‘bue’, ‘corre’, ‘vince’, significano «cose esistenti», che
Aristotele distingue in quattro tipi in base al duplice criterio del «dirsi di un sog-
getto» (kath’hupokeimenou legesthai) e dell’«essere in un soggetto» (en hupokei-
menôi einai). Se si combinano queste due relazioni in tutti i modi possibili del-
la loro presenza e della loro assenza, si ottengono i quattro seguenti tipi di cose:
1) cose dette di un soggetto, ma non esistenti in un soggetto, come ‘uomo’, che è
detto di «un certo uomo»; 2) cose esistenti in un soggetto, ma non dette di un
soggetto, ad esempio «un certo bianco», che esiste in un corpo; 3) cose dette di
un soggetto ed esistenti in un soggetto, ad esempio ‘bianco’, che è detto di «un
certo bianco» ed esiste in un corpo; 4) cose che non sono né dette di un sogget-
to né esistenti in un soggetto, ad esempio «un certo uomo» (anthrôpos tis) o «un
certo cavallo»13.
Da questa analisi risulta che ci sono cose, le quali non sono né dette di un
vio al mio libro Aristotele dalla dialettica alla filosofia prima (Cedam, Padova 1977), ripubblicato con re-
visioni e saggi integrativi, Bompiani, Milano 2004.
12 Cfr. ARIST., De int., 1, 16a3-8.
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Quale che sia il significato autentico del rapporto di predicazione, tema sul
quale oggi è in corso un ampio dibattito nell’ambito della filosofia analitica, non
c’è dubbio che esso è un rapporto anzitutto di tipo logico-linguistico, il quale tut-
tavia rivela una relazione reale tra cose, quali sono appunto il soggetto, indivi-
duale, e il predicato, universale, che nell’esempio citato indica la specie e il ge-
nere in cui rientra il soggetto. I predicati più generali, come è noto, sono le «ca-
tegorie», di cui il trattato omonimo contiene una delle due liste più complete esi-
stenti in tutto il corpus aristotelicum:
«Delle cose che sono dette secondo nessuna connessione ciascuna significa o una so-
stanza (ousia) o quanto o quale, o in relazione a qualcosa o dove o quando o stare o
avere o fare o patire»16.
«La sostanza detta nel senso più proprio, primario e principale, è quella che né si di-
ce di un soggetto né è in un soggetto»,
cioè è il soggetto stesso, per esempio, di nuovo, «un certo uomo» e «un cer-
to cavallo»17. Uomo e animale, in quanto rispettivamente specie e genere della
sostanza prima, sono «sostanze seconde». Invece «un certo uomo» e «un certo
cavallo» sono sostanze prime. Queste, secondo Aristotele, sono la condizione
dell’esistenza di tutte le altre cose; infatti,
«se non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna del-
le altre cose, poiché tutte le altre cose o si dicono di queste come di soggetti o sono in
queste come in soggetti»18.
20 ARIST., Cat., 5, 3b19-4a1. Questa dottrina mette chiaramente in crisi tutte le discriminazioni tra es-
seri umani comunemente ammesse nel mondo antico, quali quelle tra uomo e donna, libero e schiavo, gre-
co e barbaro.
21 ARIST., Cat., 5, 3b24-4a21.
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22 Anche a questo proposito rinvio al mio libro Aristotele dalla dialettica alla filosofia prima, cit.
23 ARIST., Phys., I, 4, 187a12-20.
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«Fatte queste distinzioni, da tutte le cose che divengono si può ricavare questo, qua-
lora uno osservi il modo in cui parliamo [ean tis epiblepsei hôsper legomen], cioè che
deve sempre esserci un sostrato, ciò che diviene»27.
«e questo, se anche è uno di numero, non lo è invece per specie; infatti “per specie”
[eidei] intendo qualcosa di identico a “per concetto” [logôi], poiché non è la stessa co-
sa essere uomo ed essere non-musico, e l’uno permane, mentre l’altro non permane;
ciò che non è opposto permane (l’uomo infatti permane), mentre il non-musico non per-
mane, né il composto di entrambi, ad esempio l’uomo non musico»28.
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Da ciò risulta che, in questo tipo di mutamento, che è poi l’alterazione, cioè
il mutamento di qualità, il sostrato, o soggetto, è uno di numero, nel senso che è
un unico individuo, ma non per la specie, nel senso che è una sostanza dotata di
una certa qualità, la quale appunto muta di qualità. Più avanti egli precisa che
la qualità a partire da cui ha inizio il mutamento è l’opposto (antikeimenon) di
quella a cui il mutamento approda. Ebbene: la prima qualità, ad esempio l’es-
sere non-musico, si chiama anche «privazione» (sterêsis), mentre la seconda, ad
esempio l’essere musico, si chiama «forma» (morphê), sicché si può dire che gli
elementi del divenire sono: sostrato, privazione e forma, dove è chiaro che la pri-
vazione è detta così perché è appunto la privazione, cioè la mancanza, della for-
ma29.
Il tipo di divenire sinora considerato era il mutamento di qualità, o altera-
zione, ma lo stesso discorso vale per qualsiasi altro tipo di mutamento, cioè per
il mutamento di quantità, o aumento e diminuzione, per il mutamento di luogo,
o traslazione, e – più interessante di tutti – per il mutamento di sostanza, o ge-
nerazione e corruzione. Mentre nei primi tre tipi di mutamento il sostrato è in-
fatti una sostanza, la quale muta rispettivamente di qualità, di quantità o di luo-
go, nella generazione e nella corruzione si produce un mutamento da una so-
stanza ad un’altra. Aristotele illustra quest’ultimo caso mediante l’esempio del
bronzo informe che si tramuta in statua. Qui il sostrato è il bronzo, la privazione
è l’«informe», la forma è la statua. Ma il bronzo non è altro che la «materia»
(hulê) di cui è fatta la statua, perciò si può dire che nel caso del mutamento so-
stanziale il sostrato è la materia. Aristotele afferma infatti:
«La natura che fa da sostrato è conoscibile per analogia. Come infatti il bronzo sta al-
la statua, il legno sta al letto e la materia informe, prima di assumere la forma, sta a
qualcuna delle altre cose aventi forma, così questa [cioè la materia] sta alla sostanza,
al “certo questo” e all’ente. Dunque la materia è principio, ma senza essere una e sen-
za essere ente allo stesso modo del “certo questo”, bensì essendo una come quella di
cui è il concetto [logos] ed inoltre essendo il contrario di questo, cioè la privazione»30.
questa natura della materia, affermando che essa è non-essere per accidente (ka-
ta sumbebêkos), cioè in quanto si accompagna (sumbainei) alla privazione, la
quale è non-essere per sé (kath’hauto), ed inoltre affermando che la materia è
potenza (dunamis), rispetto alla quale la forma è atto (energeia). A proposito di
quest’ultima affermazione egli aggiunge: «ciò viene definito altrove con maggior
precisione», senza indicare a quale opera si riferisce31.
La dottrina dei tre princìpi-elementi del divenire consente ad Aristotele di
criticare le dottrine dei princìpi dei filosofi precedenti, i quali, secondo lui,
avrebbero compreso la natura della materia, ma in modo insufficiente. Tra co-
storo egli critica anzitutto, senza nominarli, coloro che affermano la generazio-
ne delle cose dal non-essere, dando in tal modo ragione a Parmenide. L’errore di
questi è di non distinguere il non-essere per accidente, che è la materia, dal non-
essere per sé, che è la privazione32. Altri invece, tra i quali è riconoscibile il Pla-
tone delle dottrine non scritte, pongono come princìpi delle Idee – e attraverso
le Idee di tutte le cose – i princìpi dei numeri, cioè l’Uno e la Diade indefinita,
o «grande e piccolo». In quest’ultima dottrina, secondo Aristotele, l’Uno funge
da forma, mentre la Diade funge da materia. Ma la vera duplicità del secondo
principio – sostiene Aristotele – non è quella di grande e piccolo, bensì quella
di materia e privazione, che Platone invece trascura. La conseguenza parados-
sale in cui incorre Platone, trascurando questa distinzione, è di sostenere che il
secondo principio, il quale in base alla sua dottrina desidera il primo e tende
verso di esso, aspira al proprio contrario, cioè alla propria distruzione. Se Plato-
ne avesse distinto – osserva Aristotele – la materia dalla privazione, avrebbe po-
tuto dire che l’elemento che desidera, «come la femmina desidera il maschio»,
è la materia33.
Questa critica non significa che anche per Aristotele la materia desideri la
forma come la femmina desidera il maschio, secondo quanto hanno creduto di-
versi interpreti, perché la materia di per sé è amorfa, indeterminata e priva di
qualsiasi tendenza, come ad esempio il bronzo o il legno. Si tratta invece di una
critica che vuole essere, per così dire, interna alla dottrina di Platone, cioè rile-
vare che Platone avrebbe potuto sostenere con migliori argomenti la tesi secon-
do cui la Diade desidera l’Uno, se avesse distinto, all’interno della Diade, la ma-
teria dalla privazione, perché può avere un senso dire che la materia desidera la
forma solo in quanto la materia non è il contrario della forma, mentre non ha sen-
so dire che la privazione desidera la forma, perché ciò equivarrebbe a dire che
la privazione desidera la propria distruzione, il che è un non-senso.
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«chiamo materia il sostrato primo di ciascuna cosa, dal quale immanente qualcosa si
genera non per accidente»34.
cosa che muta da un contrario all’altro, perché i contrari non mutano, e questo
è la materia (hulê). Egli poi distingue i quattro tipi di mutamento, cioè secondo
la qualità (alterazione), secondo la quantità (aumento e diminuzione), secondo il
luogo (traslazione) e secondo la sostanza (generazione e corruzione), e subito do-
po afferma: «è necessario che muti la materia, la quale è capace di essere en-
trambi». A questo punto Aristotele introduce in modo quasi solenne la dottrina
della potenza e dell’atto, sì da indurre a pensare che sia questo il luogo a cui egli
rinviava nel I libro della Fisica come a quello in cui tale dottrina veniva esposta
con maggiore precisione.
«Poiché l’essere è duplice, ogni cosa muta da ciò che è in potenza verso ciò che è in
atto (per esempio dal bianco in potenza al bianco in atto, e allo stesso modo nell’au-
mento e diminuzione), sicché non solo è possibile che tutte le cose per accidente si
generino dal non-essere, ma si generano anche dall’essere, cioè da ciò che in potenza
è tuttavia essere, mentre in atto è non-essere»37.
«Tutte le cose che mutano hanno materia, ma diversa; ed anche tutte le cose eterne
che non sono generabili, ma sono mobili secondo traslazione, [hanno materia], ma non
generabile, bensì [capace di passare] da un luogo ad un altro»38.
Dunque anche gli astri, in quanto mobili, hanno materia, una materia non ge-
nerabile né alterabile, cioè l’etere. E subito dopo aggiunge:
E conclude:
«Tre dunque sono le cause e tre i princìpi, due i contrari, di cui l’uno è concetto e for-
ma e l’altro privazione, mentre il terzo è la materia»39.
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za, perché ogni cosa ha la sua materia, e quindi la sua potenza. Nei capitoli se-
guenti dello stesso libro Aristotele preciserà che la materia, la forma e la priva-
zione sono princìpi identici non per numero, ma per analogia, nel senso che ogni
cosa ha la sua materia, la sua forma e la sua privazione, ciascuna delle quali sta,
nei confronti della cosa di cui è principio, nello stesso rapporto in cui esse stan-
no nei confronti di tutte le altre cose di cui sono princìpi.
2.1. Feuerbach
40 In questa parte riprendo, con alcuni sviluppi, il mio saggio Aristote dans les premières critiques adres-
sées à Hegel par Feuerbach, Marx et Kierkegaard, in D. THOUARD (éd), Aristote au XIXe siècle, Presses Uni-
versitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2004, pp. 23-35.
41 Mi sono occupato di Trendelenburg in due saggi pubblicati in appendice ai miei Studi aristotelici,
«Hegel incomincia con l’essere, cioè col concetto di essere, o con l’essere astratto; per-
ché io non devo poter cominciare con l’essere stesso, cioè con l’essere reale?»44.
Non c’è dubbio che con le espressioni «concetto di essere» ed «essere astrat-
to» Feuerbach intende il predicato, mentre con «essere stesso» ed «essere rea-
le» intende il soggetto, e che a suo avviso l’essere reale dovrebbe precedere l’es-
sere astratto come il soggetto precede il predicato. Ma ciò è vero solo dal punto
di vista della filosofia di Aristotele.
La menzione esplicita della distinzione tra soggetto e predicato si trova più
avanti, dove Feuerbach oppone di nuovo la «filosofia della natura», professata
dal primo Schelling, all’«idealismo» professato da Hegel.
«Per la filosofia della natura – egli scrive – esiste solo natura, per l’idealismo soltan-
to spirito. Per l’idealismo la natura è soltanto oggetto, soltanto accidente; per la filo-
sofia della natura essa è invece sostanza, soggetto-oggetto, ciò che, nell’ambito dell’i-
dealismo, l’intelligenza afferma essere soltanto proprio. Ma due verità, due assoluti so-
no una contraddizione. Come possiamo allora uscire da questo dissidio tra l’idealismo,
che nega la filosofia della natura, e la filosofia della natura, che nega l’idealismo? So-
43 L.A. FEUERBACH, Per la critica della filosofia hegeliana, in ID., Opere, a cura di C. Cesa, Laterza,
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lo se noi facciamo del predicato (su cui le due posizioni coincidono) il soggetto – ed
abbiamo così l’assoluto, l’autonomo senza altri aggettivi – e del soggetto il predicato:
l’assoluto è spirito e natura. Spirito e natura sono soltanto predicati, determinazioni,
forme di ciò che è uno e identico, dell’assoluto»45.
Qui, come si può vedere, troviamo non solo la distinzione tra soggetto e pre-
dicato, ma anche l’equivalenza tra il soggetto e la sostanza, da un lato, e il pre-
dicato e l’accidente, dall’altro. Siamo dunque in pieno aristotelismo.
Il rimprovero che Feuerbach rivolge a Hegel è dunque di avere rovesciato il
rapporto tra il soggetto e il predicato ammesso da Aristotele, cioè di avere attri-
buito il ruolo del soggetto, che per Aristotele è il primo, la condizione, il fonda-
mento, a un predicato quale è l’assoluto, e il ruolo del predicato, che per Ari-
stotele è il secondo, il condizionato, il derivato, a dei soggetti quali la natura e
lo spirito. Vedremo in seguito che questo rimprovero, formulato qui probabil-
mente per la prima volta, sarà ripreso da Feuerbach stesso nei suoi scritti po-
steriori al 1839 e anche da Marx e da Kierkegaard. Ma è un rimprovero che ha
senso solo dal punto di vista di Aristotele, e dunque che attesta l’influenza di
Aristotele su questo scritto di Feuerbach.
Del resto la conoscenza di Aristotele da parte di Feuerbach e la sua presen-
za nell’articolo Per la critica della filosofia hegeliana sono attestate da un altro
passo della stessa opera, dove Feuerbach scrive:
«noi vediamo che già all’inizio della logica ha una funzione il nulla – una rappresen-
tazione assai vicina all’idea dell’assoluto. Ma che cosa è mai questo nulla? “Per l’om-
bra di Aristotele!” Il nulla è ciò che è assolutamente privo di pensiero e di ragione. Il
nulla non può affatto essere pensato, perché pensare è determinare [...]. “Non entis –
si è detto giustamente – nulla sunt praedicata. Non entis nulla est scientia”».
A questo punto Feuerbach aggiunge una nota a pie’ di pagina, la quale dice:
«V. anche Aristotele, Analyt. Post. lib. II, c. 7, § 2 e lib. I, § 10»46. Il primo rin-
vio si riferisce a An. post., II, 7, 92b5-8, dove Aristotele dice:
«nessuno sa che cos’è il non-essere [to mê on], ma si sa solo ciò che l’espressione o il
nome significano, per esempio se io dico ‘ircocervo’, è impossibile sapere che cos’è ir-
cocervo».
«Si è rimproverato ai filosofi pagani di non aver superato l’eternità del mondo, della
materia. La materia ha per loro soltanto il significato dell’essere, era soltanto l’e-
spressione sensibile per ‘essere’; l’unica cosa che si rimprovera loro è quindi di aver-
la fatta oggetto di pensiero. Ma forse che i cristiani hanno davvero fatto sparire l’eter-
nità, cioè la realtà dell’essere? Non hanno fatto altro invece che trasferirla in un esse-
re particolare, nell’essere divino, che essi pensavano come fondamento di se stesso,
come essere privo di inizio»47.
«Ogni bicchiere di vino di troppo che noi beviamo è una prova patetica, e persino pe-
ripatetica, che il cedere a un desiderio smodato eccita il sangue, è una prova che la
sôphrosune greca è in perfetto accordo con la natura»48.
Non c’è dubbio che il termine «peripatetico» indica qualcosa di molto lega-
to al concreto, alla percezione, ma anche alla vera realtà, dunque qualcosa che
merita ogni approvazione e che è invocato da Feuerbach a sostegno della sua teo-
ria del primato della natura.
Il rimprovero a Hegel di avere invertito il rapporto di predicazione ritorna in
un’altra opera di Feuerbach, di qualche anno posteriore a quella già considera-
ta, cioè le Tesi provvisorie per una riforma della filosofia. Queste ultime furono
redatte nel 1842 e pubblicate negli Anekdota zur neuesten Philosophie und Pu-
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blizistik a cura di A. Ruge nel 1843, sono dunque posteriori all’opera che rese
Feuerbach famoso per la sua critica della religione, cioè L’essenza del cristiane-
simo, del 1841. In esse egli scrive:
«Il metodo proprio della critica riformatrice della filosofia speculativa in generale non
si distingue da quello già applicato nella filosofia religiosa. Noi siamo sempre in gra-
do di ridurre il predicato a soggetto, e in quanto soggetto di farne un oggetto o princi-
pio; basta dunque che noi capovolgiamo la filosofia speculativa, e allora avremo fi-
nalmente la verità messa a nudo, la pura, la schietta verità»49.
«l’uomo è l’inveramento, la realtà di Dio: infatti tutti i predicati che attuano Dio in
quanto Dio, che fanno di Dio un ente reale, quali la forza, la saggezza, la bontà, l’a-
more, e persino l’infinità e la personalità, e che, in quanto tali, hanno per condizione
la differenziazione del finito, sono posti in primo luogo con l’uomo e nell’uomo»50.
Qui vediamo di nuovo che il predicato viene opposto all’essere reale, cioè al
soggetto, il che è la dottrina di Aristotele, indipendentemente – è ovvio – dal
contenuto al quale essa è applicata.
La filosofia speculativa, cioè la logica e l’intero sistema di Hegel, è riassun-
ta da Feuerbach in questo modo:
49 L.A. FEUERBACH, Tesi provvisorie per la riforma della filosofia, in ID., Principî della filosofia del-
to dal fatto che anche qui, come altrove, il pensiero è diventato il soggetto, e l’ogget-
to, cioè la religione, è diventata il semplice predicato del pensiero»51.
«Il vero rapporto tra pensiero ed essere non può essere che questo: l’essere è il sog-
getto, il pensiero è il predicato. Il pensiero dunque deriva dall’essere, ma non l’esse-
re dal pensiero. L’essere è da se stesso e per opera di se stesso»52.
«La religione cristiana ha riunito il nome dell’uomo e il nome di Dio in un unico no-
me, in quello dell’uomo-Dio; ha quindi elevato il nome dell’uomo sino a farlo diven-
tare un attributo dell’ente supremo. La nuova filosofia, conformemente alla verità, ha
trasformato l’attributo in sostantivo, il predicato in soggetto: la nuova filosofia è dun-
que l’idea realizzata, l’inveramento del cristianesimo»53.
2.2. Marx
51 FEUERBACH, Tesi provvisorie per la riforma della filosofia cit., pp. 62-63.
52 FEUERBACH, Tesi provvisorie per la riforma della filosofia cit., p. 63.
53 FEUERBACH, Tesi provvisorie per la riforma della filosofia cit., pp. 67-68.
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della filosofia della natura di Democrito e di Epicuro, con la quale ottenne il dot-
torato all’Università di Iena nel 1841, aveva letto il De anima nell’edizione pub-
blicata da Trendelenburg nel 1833, il De caelo, il De partibus animalium, la Me-
tafisica, il De generatione et corruptione, la Fisica (queste due ultime opere nel-
l’edizione con testo greco e commento pubblicata dal Collegium Conimbricense
Societatis Jesus) e gli Scholia in Aristotelem pubblicati da Brandis nel 1836 co-
me IV volume dell’edizione dell’Accademia delle Scienze di Berlino54. Anche
l’ammirazione che Marx aveva per Aristotele è ben attestata. Egli parla infatti di
Aristotele come dell’«Alessandro Magno della filosofia greca»55, di uno dei fi-
losofi più intensi56, dotato di una scienza enciclopedica57, degno di essere sti-
mato in modo particolare fra tutti i filosofi antichi58, «gigante del pensiero» e «il
più grande filosofo dell’antichità»59.
Ora, nei Quaderni preparatorii alla sua dissertazione, che risalgono al 1839,
Marx, ancora hegeliano, illustra l’opposizione tra Platone e Aristotele schieran-
dosi interamente dalla parte di quest’ultimo. Platone infatti, ammettendo le Idee
trascendenti al di sopra della realtà sensibile, avrebbe idealizzato il mondo so-
stanziale della realtà. In tal modo la riconciliazione tra il mondo e lo spirito, ten-
tata da Platone, si risolve – secondo Marx – in una nuova scissione, come os-
serva Aristotele in Metaph., A, 9, dove accusa Platone di avere raddoppiato il
mondo anziché spiegarlo (passo citato da Marx alla lettera)60. Inoltre con la sua
teoria delle Idee trascendenti Platone non avrebbe spiegato il movimento, come
ugualmente osserva Aristotele, di nuovo citato da Marx61. Altrove, sempre nei
Quaderni preparatorii, Marx afferma che Aristotele considera il processo della
realtà nella sua particolarità, benché ancora astratta62; egli paragona Aristotele
a Hegel63 e riconduce la filosofia di Platone a una sorta di religione e quella di
Aristotele a una vera scienza64.
Ma l’affermazione più interessante che si può trovare nei Quaderni del 1839,
54 K. MARX / F. ENGELS, Werke, Dietz, Berlin 1968 (= MEW), Ergänzungsband I, pp. 679 e 685. Si ve-
56 K. MARX, Hefte zur epikureischen, stoischen und skeptischen Philosophie, in MEW, EB I, p. 225.
anche se non riguarda direttamente Aristotele, è una critica della critica fatta da
Plutarco a Epicuro. Plutarco aveva detto, nel suo Adversus Coloten, che le qua-
lità ammesse da Epicuro, in quanto soggettive, erano quasi un non-essere. A ciò
Marx risponde che Plutarco parlava di un essere e di un non-essere immobili co-
me se fossero dei predicati, mentre l’essere sensibile non è assolutamente un ta-
le predicato.
«Il pensiero comune – egli conclude – ha sempre pronti i predicati astratti, che esso
separa dal soggetto. Tutti i filosofi hanno fatto, di questi stessi predicati, i soggetti [Al-
le Philosophen haben die Prädikate selbst zu Subjekten gemacht]»65.
Si ritrova qui la critica che Feuerbach nello stesso anno rivolgeva a Hegel.
Se questa contemporaneità impedisce di pensare a una dipendenza di Marx da
Feuerbach, non resta che supporre una comune dipendenza dei due filosofi te-
deschi da Aristotele. Infatti l’immagine che Marx si forma di Aristotele in que-
sto periodo è, come nel caso di Feuerbach, quella del filosofo che ha ricondotto
il luogo di origine dell’universale alla particolarità singolare66.
L’influenza di Feuerbach, invece, è molto chiara nella prima opera in cui
Marx prende esplicitamente posizione contro Hegel, cioè la Critica della filoso-
fia hegeliana del diritto pubblico, che risale al 1843 e che suppone la conoscen-
za diretta, da parte di Marx, delle Tesi provvisorie per una riforma della filosofia.
Queste infatti erano state pubblicate negli stessi Anecdota philosophica editi da
Ruge, dove Marx stesso aveva pubblicato due dei suoi primi articoli. Nella sua
Critica della filosofia hegeliana Marx riproduce i paragrafi dei Lineamenti di fi-
losofia del diritto di Hegel che riguardano la famiglia, la società civile e lo Sta-
to, aggiungendovi le proprie osservazioni.
Al § 262, dove Hegel afferma che «L’idea reale, lo spirito [...] scinde se stes-
so nelle due sfere reali del suo concetto, la famiglia e la società civile», Marx os-
serva:
«La cosiddetta “idea reale” (lo spirito come spirito infinito, reale) è rappresentata co-
me se agisse secondo un principio determinato e per un’intenzione determinata [...]. È
a questo punto che si manifesta molto chiaramente il misticismo logico, panteistico»67.
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«L’idea è ridotta a soggetto [...]. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Sta-
to, sono essi propriamente gli attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: men-
tre l’idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile, la famiglia
[...], diventano dei momenti obiettivi dell’idea, irreali, allegorici»68.
«Ciò ch’è rilevante è che Hegel dappertutto fa dell’idea il soggetto e del soggetto pro-
priamente detto, reale, quale il “sentimento politico”, fa il predicato. Ma lo sviluppo
procede sempre dalla parte del predicato»69.
La critica che Feuerbach aveva rivolto alla filosofia della religione e alla lo-
gica di Hegel è qui rivolta da Marx alla sua filosofia del diritto. Al § 269, dove
Hegel parla dell’organismo dello Stato come dello sviluppo dell’idea, Marx os-
serva:
«Ma qui si parla dell’idea come di un soggetto, dell’idea che si sviluppa nelle sue di-
stinzioni. Oltre a questa inversione [Umkehrung] di soggetto e predicato, si produce
qui l’apparenza che si tratti di un’altra idea che dell’organismo»70.
68 MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico cit., p. 18 (corsivo nel testo).
69 MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico cit., p. 21.
70 MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico cit., p. 22 (corsivi nel testo).
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«Ma poiché si è partiti dall’“idea” o “sostanza” in quanto soggetto o ente reale, il sog-
getto reale appare soltanto come l’ultimo predicato dell’astratto [suo] predicato. Il “fi-
ne statale” e i “poteri statali” sono mistificati, poiché, rappresentati come “modi di
esistenza” della sostanza, e così separati dalla loro reale esistenza, appaiono allo “spi-
rito che si sa e si vuole, lo spirito coltivato”»71.
Il termine hupokeimenon, trascritto nel testo in caratteri greci, che Marx ave-
va trovato sia nella Fisica che nella Metafisica di Aristotele, si rivela qui il più
adatto a esprimere l’idea del soggetto usata da Marx, cioè il soggetto come so-
strato, come «supporto», nel senso aristotelico.
2.3. Kierkegaard
«È un punto di partenza positivo per la filosofia, quando Aristotele dice che la filoso-
fia comincia con la meraviglia, e non come ai nostri tempi con il dubbio. In generale
71 MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico cit., p. 27 (corsivi nel testo).
72 MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico cit., pp. 34-35.
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il mondo deve ancora imparare che non giova cominciare con il negativo, e la ragione
per cui fino ad ora il metodo è riuscito, è perché non ci si è mai dati del tutto al nega-
tivo, e così non si è mai fatto sul serio ciò che si è detto di fare. Il loro dubbio è una
civetteria»73.
«Il concetto di “ripresa” ricorre dappertutto. 1) Quando io devo agire, la mia azione è
già esistita nella mia coscienza sotto forma di rappresentazione o idea; altrimenti agi-
sco senza riflessione, ciò che non è affatto agire. 2) Dal momento che devo agire, io mi
presuppongo in uno stato originario integro. Ora viene il problema del peccato; qui si
tratta di un’altra “ripresa”, poiché ora devo ritornare a me stesso un’altra volta. 3) Al-
la fine il vero paradosso, per cui io divengo il “Singolo”, poiché, se rimango nel pec-
cato considerato come la condizione generale, vi è soltanto la ripresa numero 2. Ciò si
può paragonare con la categoria di Aristotele: Das-was-war-seyn. (Cfr. Marbach, Ge-
schichte der Philos. des Mittelalters, p. 128, p. 4 e 5, e il § 102 della sua Gesch. der
griechischen Philos.)»74.
Il «Singolo», cioè l’individuo unico, realizzato nella sua autenticità, che è at-
tinto nel terzo stadio della ripresa e che rappresenta il vero «me stesso», è dun-
que paragonato a «il che cos’era essere» (una certa cosa), cioè a to ti ên einai di
Aristotele, che è l’essenza originaria di un essere, ritrovata nella sua piena rea-
lizzazione. Uno dei concetti più importanti e sicuramente il più originale della
filosofia di Kierkegaard, il concetto di «Singolo», è qui ricondotto da lui stesso
ad uno dei concetti più caratteristici e originali formulati da Aristotele. Lo sto-
rico della filosofia G.O. Marbach, citato da Kierkegaard, traduce alla lettera l’e-
spressione di Aristotele (das-was-war-seyn, to ti ên einai), normalmente inter-
pretata come l’«essenza», ma spiega che si tratta dell’essenza di ciò che è indi-
73 S. KIERKEGAARD, Diario 1840-1847 (III), a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, p. 28.
74 KIERKEGAARD, Diario 1840-1847 (III) cit., p. 93.
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«Il rapporto della divinità all’uomo, come lo può concepire ogni filosofia, l’ha già
espresso Aristotele in modo eccellente, quando dice: “Egli muove tutto, stando egli
stesso akinêtos” (Per quanto mi ricordo, Schelling lo faceva osservare a Berlino). È in
fondo il concetto astratto di immobilità, e il suo influsso ha perciò un effetto di sirena
ammaliatrice. Così ogni razionalismo finisce in superstizione»76.
«Se Hegel, una volta scritta la sua Logica, l’avesse definita – nella prefazione – come
un semplice esperimento di pensiero e avesse anche confessato d’aver in molti punti
eluso i problemi, sarebbe stato senza dubbio il più grande pensatore di tutti i tempi.
Così com’è ora, è semplicemente comico»77.
Vediamo qui ripresa la ben nota critica che Trendelenburg aveva rivolto a He-
gel nelle sue Logische Untersuchungen del 1840, cioè di avere interpolato (per
mezzo di una Unterschiebung o surrezione) nella logica l’intuizione sensibile, per
75 Cfr. G.O. MARBACH, Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, 1. Abtheilung: Einleitung und Ge-
schichte der griechischen Philosophie, Verlag von Otto Wigand, Leipzig 1838, p. 248: «So ist alle Seiende
in der Bewegung von sich zu sich, ist das Was-war-sein [...]. In ihrem Begriffe ist die Wesenheit der Selb-
ständige, daher nicht das abstract Allgemeine und nicht das Geschlecht (die Gattung), sondern das Indi-
viduelle, welches als das Was-war-sein alles Seienden bezeichnet ist»; 2. Abtheilung: Geschichte der Phi-
losophie des Mittelalters, ivi 1841, p. 5: «So kam Aristoteles zu dem Satze, dass der Begriff (als das Was-
war-sein) von Allem die Wahrheit sei und damit die Aufgabe der nous als Prinzip vom Allem nachzuwei-
sen gelöst» (devo queste citazioni a D. Thouard).
76 KIERKEGAARD, Diario 1840-1847 (III) cit., pp. 93-94.
48 Enrico Berti
E poi aggiunge:
78 Il capitolo delle Logische Untersuchungen contenente questa critica è stato tradotto in italiano: F.A.
presente anche nel passo del Diario che segue il precedente, dove Kierkegaard
scrive:
Qui Kierkegaard si riferisce alla distinzione, fatta da Aristotele, tra ciò che è
primo per noi, cioè la sensazione, e ciò che è primo per sé, o per natura, cioè i
princìpi delle dimostrazioni, distinzione che, secondo lui, è assente in Hegel ed
è sostituita dall’interpolazione surrettizia dell’intuizione sensibile nella logica,
come aveva sostenuto Trendelenburg.
Nella stessa direzione va anche quest’altro passo del Diario, scritto nel di-
cembre 1844:
«Mi fa un’impressione molto strana leggere il c. 3 del libro III del De anima di Ari-
stotele. Io ho cominciato un anno e mezzo fa un trattatello: De omnibus est dubitan-
dum, che è il mio primo tentativo di una breve storia speculativa. Il concetto di cui mi
servivo era l’errore. È ciò che fa anche Aristotele. Finora io non avevo letto niente di
lui, ma solo un po’ di Platone. I Greci restano tutta la mia consolazione. Al diavolo co-
desta maledetta abitudine di mentire, che è entrata nella filosofia con Hegel, codesto
infinito accettare e tradire, codesto fanfaronare e stiracchiare qualche testo dei Greci.
Sia gloria a Trendelenburg, uno dei più sobri pensatori che io conosca!»81.
Il capitolo 3 di De anima, III tratta, come è noto, degli errori prodotti dal-
l’influenza dell’immaginazione sul pensiero. Kierkegaard si trova d’accordo a
questo proposito con Aristotele e lo oppone ancora una volta a Hegel. Il suo elo-
gio di Trendelenburg è probabilmente dovuto al fatto che egli ha letto il De ani-
ma nell’edizione curata da quest’ultimo nel 1833, la stessa che aveva letto Marx.
Questo passo inoltre ci conferma che la scoperta di Aristotele da parte di Kierke-
gaard è avvenuta tra il 1843 e il 1844.
Infatti nelle opere di Kierkegaard pubblicate nel 1844, cioè Il concetto del-
l’angoscia e Briciole di filosofia, le citazioni di Aristotele si moltiplicano. Nella
prima Kierkegaard ricorda la dottrina aristotelica della felicità, esposta nell’E-
tica Nicomachea, la nozione di prôte philosophia esposta nella Metafisica e an-
cora una volta l’affermazione che la filosofia comincia dalla meraviglia. Nella se-
conda egli ricorda la dottrina aristotelica della kinêsis e dell’allôiosis esposta nel-
la Fisica e la teoria delle modalità logiche (possibile, reale e necessario) espo-
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sta nel De interpretatione, citando per la terza volta il passo sulla meraviglia.
Sempre nelle Briciole di filosofia egli cita la dottrina aristotelica secondo la qua-
le anche la negazione del principio di non contraddizione suppone questo prin-
cipio.
Più tardi, nel Post-scriptum alle Briciole di filosofia, che è del 1846, Kierke-
gaard cita sette volte Aristotele, dichiarandosi sempre d’accordo con lui: a pro-
posito della felicità, della metabasis eis allo genos, del carattere finale del nous
theôrêtikos (che egli paragona all’esistente) esposto in De anima, III, 10, della
superiorità della poesia sulla storia, del movimento come passaggio dalla po-
tenza all’atto, della definizione di ridicolo data nella Poetica e della nozione di
ironia esposta nella Retorica. Infine, in La malattia mortale, egli attribuisce ad
Aristotele l’identificazione della massa con la determinazione dell’animalità
(probabile allusione a Politica, III, 11, 1281a39 sqq.). Dunque egli ha presente
l’intero corpus aristotelicum.
Ma i passi più interessanti relativi all’uso di Aristotele nella critica di Hegel
si trovano ancora una volta nel Diario, anche se risalgono a un periodo più tar-
do. Per esempio tra il 7 settembre 1849 e i primi mesi del 1850 Kierkegaard
scrive:
Qui il riferimento è alla celebre critica della logica di Hegel fatta da Trende-
lenburg nelle sue Logische Untersuchungen, critica che tutti considerano di ori-
gine aristotelica. Anche Kierkegaard sembra pensarla così, poiché scrive kinê-
sis in caratteri greci, alludendo evidentemente alla dottrina di Aristotele.
Nello stesso periodo troviamo quest’altro passo:
«Ciò che confonde tutta la dottrina sulla “essenza” nella logica è il non badare che si
opera sempre con il “concetto” di esistenza. Ma il concetto di esistenza è un’idealità,
e la difficoltà sta appunto nel vedere se l’esistenza si risolva in concetti [...]. Ma l’esi-
stenza corrisponde alla realtà singolare, al singolo (ciò che già insegnò Aristotele) [qui
Kierkegaard rinvia ad una nota a pie’ di pagina, che dice, in greco: È la ousia prôte
(Cat., 5, 2a11 sqq.)]: essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide con il concetto.
82 S. KIERKEGAARD, Diario 1850 (VII), a cura di C. Fabro, Brescia 1980, p. 40 (corsivo nel testo).
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Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo l’esistenza (essere – o non
essere) è qualcosa di molto decisivo; un uomo Singolo non ha certo un’esistenza con-
cettuale. Il modo col quale la filosofia moderna parla dell’esistenza, mostra ch’essa non
crede all’immortalità personale; la filosofia in generale non crede, essa comprende so-
lo l’eternità dei “concetti”»83.
«No, no: non tanto in questo modo Hegel ha torto: fin quando Hegel definisce il male
come la soggettività astratta, l’arbitrio, il predominio del singolo sul generale, dunque
anche come egoismo, J. Müller potrebbe essere d’accordo con lui; e lo sarebbe anche
se non fosse chiaro che Hegel riferisce quest’esistenza del male ad una necessità su-
periore. No, l’errore sta principalmente in questo: che l’universale, in cui l’hegelismo
fa consistere la verità (e il Singolo diviene la verità, se è sussunto in esso), è un astrat-
to, lo Stato, ecc. Egli non arriva a Dio che è la soggettività in senso assoluto, e non ar-
riva alla verità: al principio che realmente, in ultima istanza, il Singolo è più alto del
generale, cioè il Singolo considerato nel suo rapporto a Dio. Quante volte non ho scrit-
to che Hegel fa in fondo degli uomini, come il paganesimo, un genere animale dotato
di ragione. Perché in un genere animale vale sempre il principio: il Singolo è inferio-
re al genere. Il genere umano ha la caratteristica, appunto perché ogni Singolo è crea-
to a immagine di Dio, che il singolo è più alto del genere. Che tutto questo si possa
prendere invano e abusarne in un modo orrendo: concedo. Ma il cristianesimo consi-
ste in questo, ed è in fondo qui che si deve dare battaglia»84.
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