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La dottrina dell'Essere da Parmenide ad Aristotele

Gabriele Giannantoni
La logica di Aristotele
13/3/1990
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• Secondo una celebre frase di Kant, la logica dopo Aristotele non ha dovuto fare nessun passo indietro e
non ha potuto fare nessun passo avanti. La logica dunque nasce con Aristotele e con lui raggiunge la sua
massima perfezione? (1)
• Quali sono i nuclei storicamente più importanti della logica aristotelica? È corretto attribuire ad Aristotele
la scoperta delle più generali e fondamentali leggi del pensiero, i princìpi logici? (2)
• Come è nata la deformazione della formula aristotelica di tali princìpi? (3)
• Qual è il secondo nucleo storicamente importante della logica aristotelica? (4)
• Si può affermare che Aristotele opera una distinzione netta tra la validità di un sillogismo e la sua verità?
(5)
• Può illustrare nei particolari le figure sillogistiche considerate da Aristotele? (6)
• Vi sono altri aspetti della sillogistica aristotelica che si devono mettere in evidenza? (7)
• Professor Giannantoni, tra gli altri strumenti logici con cui verificare la non validità dell'inferenza
sillogistica c'è la cosiddetta regola della "reiezione". Di che cosa si tratta? (8)

1 Secondo una celebre frase di Kant, la logica dopo Aristotele non ha dovuto fare nessun passo indietro e
non ha potuto fare nessun passo avanti. La logica dunque nasce con Aristotele e con lui raggiunge la sua
massima perfezione?

Se dovessimo fare una storia della logica antica fondandoci sul termine "logica", dovremmo escluderne Aristotele,
perché egli non usa mai questo termine, che entra nel linguaggio filosofico probabilmente con gli Stoici.
Aristotele chiama l'insieme delle sue ricerche sull'argomentazione e sulla predicazione con il nome di "analitica",
intendendo con questo termine il procedimento di analisi, cioè di risoluzione di una proposizione nei suoi
elementi componenti e nelle premesse da cui essa scaturisce. Ciò non di meno l'Analitica di Aristotele non
soltanto fa parte della storia della logica, ma è certamente la massima espressione delle ricerche su questo tema
nell'antichità. Aristotele ha consegnato queste riflessioni a molte opere, che sono state complessivamente indicate
con il titolo di Organon, cioè strumento. Questo titolo non è di Aristotele, ma dei suoi editori successivi, i quali
volevano così indicare il carattere strumentale di queste ricerche, nel senso che la ricerca dell'argomentazione
corretta è preliminare, strumentale, per tutte le scienze, così che queste possano basarsi su ragionamenti
formalmente validi. La massima espressione dell'analitica aristotelica è costituita dalla dottrina dei sillogismi, cioè
dagli Analitici primi e dagli Analitici secondi, le due grandi opere in cui Aristotele espone sia la teoria del
sillogismo in generale, sia, più specificamente, quella del sillogismo scientifico. Ma fanno a pieno titolo parte di
questo gruppo di opere aristoteliche anche i Topica, cioè la raccolta dei tópoi, ossia dei "luoghi comuni" intesi
come argomentazioni dialettiche, gli Elenchi sofistici, cioè la serie di confutazioni di argomenti particolarmente in
voga tra i sofisti, e soprattutto i due trattati che recano come titolo Categorie e De Interpretatione. Nel primo
Aristotele esamina il valore e il senso dei termini detti fuori di ogni connessione - per esempio i nomi e i verbi
staccati gli uni dagli altri; nel secondo elabora la teoria generale della proposizione come connessione di un
soggetto e di un predicato. Questo è il corpus delle opere che noi giustamente definiamo logiche, e in cui per
lungo tempo nella storia del pensiero è stata vista la realizzazione massima della riflessione umana in questo
campo. L'affermazione di Kant, non può però essere considerata storicamente esatta: per citare un esempio, le
ricerche più recenti hanno attribuito grande valore anche alla logica stoica. Tuttavia, il giudizio kantiano esprime
bene il punto di vista del razionalismo settecentesco, che considerava ancora la logica di Aristotele come il
culmine non più perfezionabile di questa disciplina filosofica

2 Quali sono i nuclei storicamente più importanti della logica aristotelica? È corretto attribuire ad
Aristotele la scoperta delle più generali e fondamentali leggi del pensiero, i princìpi logici?

1
Indubbiamente c'è molta parte di verità in quest'affermazione, anche se (e questo è significativo per intendere la
genesi e la storia dei problemi logici) Aristotele parla dei princìpi logici non tanto in un'opera logica, ma nel IV
Libro della Metafisica. In ogni caso, la teoria dei princìpi logici è certamente uno dei nuclei storicamente più
importanti della logica aristotelica. Nel De Interpretatione il filosofo di Stagira indaga a lungo i rapporti che
esistono tra proposizioni composte dallo stesso soggetto e dallo stesso predicato. Posso dire, ad esempio,
formando proposizioni con i termini "uomo" e "filosofo": "tutti gli uomini sono filosofi": si tratta di un giudizio
universale affermativo; "qualche uomo è filosofo", ed è un giudizio particolare affermativo; "nessun uomo è
filosofo", ed è un giudizio universale negativo; e infine "qualche uomo non è filosofo", ed è un giudizio
particolare negativo. Quali sono le relazioni tra queste premesse? Nel quadrato degli opposti, che la tradizione ha
tramandato con il nome di quadrato di Boezio ma che in realtà si trova per la prima volta in Apuleio, si può
vedere che tra l'universale affermativa e la particolare affermativa c'è un rapporto di subordinazione, nel senso che
entrambe le proposizioni possono essere vere (è vera "tutti gli uomini sono mortali" ed è vera anche "qualche
uomo è mortale"), oppure la particolare affermativa può essere vera anche se l'universale affermativa è falsa (può
essere falso dire "tutti gli uomini sono filosofi" e vero dire "qualche uomo è filosofo"). Tra le negative e le
affermative c'è invece un rapporto di opposizione: "tutti gli uomini sono filosofi" e "nessun uomo è filosofo" sono
due proposizioni opposte. Questo vuol dire che non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe
false. Infatti, se io dico che tutti gli Italiani sono Perugini e che nessun Italiano è Perugino, pronuncio due
proposizioni false. Infine c'è un terzo tipo di relazione: quella tra l'universale affermativa e la particolare negativa,
e tra l'universale negativa e la particolare affermativa, secondo le linee diagonali del quadrato. Qual è la
caratteristica di queste coppie di proposizioni? Sono contraddittorie: non possono essere né entrambe vere né
entrambe false, ma una deve essere necessariamente vera e l'altra necessariamente falsa. Quindi Aristotele
distingue il rapporto di opposizione o di contrarietà e il rapporto di contraddittorietà. La differenza sta, appunto,
nel fatto che solo le contraddittorie debbono essere per forza una vera e l'altra falsa. Quest'idea di contraddizione
colpisce la riflessione di Aristotele, perché, se delle due contraddittorie una è necessariamente vera e l'altra è
necessariamente falsa, non si possono dire entrambe contemporaneamente e in riferimento allo stesso soggetto.
Qui troviamo la genesi del più famoso principio logico, che nella tradizione posteriore è noto con il nome di
"principio d'identità e di non-contraddizione". Nelle trattazioni logiche posteriori, soprattutto nel Medioevo e nella
tradizione filosofica fino almeno a tutto l'800, questo principio ha preso la formula "A è A, e non è non-A".
Accanto ad esso, i trattati di logica includono un secondo principio: il "principio del terzo escluso". Esso dice che
"A o è B, o non è B", una terza ipotesi non è data: tertium non datur. Tuttavia, esaminando i testi, possiamo
notare che Aristotele non parla di principio di non-contraddizione, ma di principio di contraddizione, in greco
arché tês antipháseos. Questa formula indica che Aristotele, con tale principio, non intendeva esprimere un
divieto, ossia non intendeva dire: "il pensiero non si deve contraddire"; la sua intenzione era piuttosto quella di
analizzare qual è il principio da cui scaturisce la contraddizione. Ma soprattutto Aristotele non parla mai di
principio d'identità, e non esprime mai il principio d'identità e di non-contraddizione con la formula "A è A e non
è non-A". Infatti, le proposizioni, per Aristotele, sono sempre composte da un soggetto e da un predicato. Non ha
senso, quindi, dare una formulazione in cui per il soggetto e il predicato compaia lo stesso termine, cioè "A". Se
leggiamo il testo della Metafisica, appare del tutto chiaro che Aristotele aveva in mente due princìpi diversi. Il
primo è il principio di determinazione, secondo il quale qualunque cosa io pensi, penso, appunto, quella
determinata cosa. Il secondo è il principio di contraddizione, per il quale non posso affermare e negare nello
stesso tempo, e prendendo i termini nello stesso senso, un predicato di un soggetto. In altri termini, non posso dire
contemporaneamente "A è B" e "A non è B". Adoperando una terminologia platonico-aristotelica, potremmo
chiamare il principio di determinazione "noetico", perché appartenente non alla sfera della predicazione, ma al
campo della intuizione immediata, della conoscenza senza mediazioni di una determinata cosa. E quindi esso
indica non tanto l'identità di qualche cosa con se stessa (A è A), quanto il fatto che, quando penso, penso A, e non
posso pensare contemporaneamente un'altra cosa. In questo quadro, si vede chiaramente che in Aristotele anche il
principio del terzo escluso non è diverso da quello di identità e di non-contraddizione, ma è un puro e semplice
corollario di quest'ultimo. Se non posso affermare e negare B di A contemporaneamente, è escluso che possa
esprimere una terza eventualità: o affermo B di A, o nego B di A. Riepilogando, i princìpi logici aristotelici sono
il principio di determinazione e il principio di contraddizione.

3 Come è nata la deformazione della formula aristotelica di tali princìpi?

Tutto nasce dal fatto che si è preso il principio di determinazione come un principio dianoetico e non noetico: ciò
ha fatto sì che esso venisse trasformato in una sorta di giudizio d'identità. Data questa trasformazione, anche il
principio di contraddizione è rimasto sempre all'interno del solo "A". In base a queste premesse, il principio del
terzo escluso è diventato un principio a sé, autonomo. Da questo punto di vista, è evidente che la teoria dei
princìpi logici di Aristotele è strettamente collegata alle sue teorie metafisiche, perché serve a ribadire la

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necessaria determinatezza e identità con se stesso di qualunque oggetto del mio pensiero, contro il relativismo
sofistico, e anche contro molte teorie dei presocratici. Restituita alla sua formula originaria, la dottrina aristotelica
dei princìpi ci appare strettamente connessa con le indagini fatte da Platone nel Sofista sull'identico, sul diverso e
sulla teoria della predicazione. È possibile anche abbandonare un altro luogo comune storiografico, che ha voluto
rappresentare la logica dialettica di Hegel - la quale assume al suo interno la contraddizione - come l'opposto della
logica aristotelica - che tende invece ad escluderla. Leggendo le pagine della Scienza della logica di Hegel, ci
possiamo rendere conto di come la parentela tra Aristotele ed Hegel sia assai più stretta di quanto possa apparire.
Hegel certamente critica il principio d'identità, perché è un'insensatezza fare di una vuota tautologia ("A è A") un
principio logico. Per Hegel vale, invece, il principio di determinazione, così come Aristotele lo aveva espresso.
D'altro canto, Hegel non si sognava di affermare, con il principio di contraddizione, che si possono formulare
contemporaneamente due giudizi contraddittori. Egli critica questa eventualità nello stesso senso in cui lo avrebbe
fatto Aristotele, se fosse vissuto ai tempi di Hegel. Per Hegel ciascuna cosa è in sé contraddittoria, ma questa
affermazione non è in opposizione né ad Aristotele né a Platone, il quale aveva detto che ogni cosa è, per un certo
verso, identica a sé e, per un altro, diversa dalle altre. Dunque, un approfondimento della teoria dei principi logici
di Aristotele serve anche a ristabilire alcune linee di continuità che una tradizione, affermatasi soprattutto nel
Medioevo, ha fatto apparire come divergenze.

4 Qual è il secondo nucleo storicamente importante della logica aristotelica?

Si tratta indubbiamente del sillogismo e della teoria della dimostrazione. Aristotele, negli Analitici primi, offre
una teoria generale del sillogismo, che vale sia per il sillogismo che parte da premesse vere, sia per il sillogismo
che parte da premesse probabili. Negli Analitici secondi si sofferma invece sul sillogismo che definisce
"apodittico", cioè dimostrativo, che parte da premesse vere ed è necessario per elaborare la teoria della definizione
e della dimostrazione, i due concetti più importanti per il sapere scientifico. La sillogistica è un nucleo di
straordinaria importanza, non soltanto all'interno del pensiero aristotelico, ma anche per l'influenza storica che
Aristotele ha esercitato. Purtroppo, anche a proposito della sillogistica possiamo constatare, con il passare del
tempo, una deformazione analoga a quella che abbiamo visto a proposito della formulazione dei principi logici.
Infatti, se prendiamo un qualunque manuale di storia della filosofia, troviamo come esempio di sillogismo: "tutti
gli uomini sono mortali, Socrate è uomo, Socrate è mortale". Tuttavia questo sillogismo non sarebbe stato
riconosciuto come tale da Aristotele, per due motivi fondamentali. In primo luogo, un sillogismo che contenga
giudizi individuali è considerato da Aristotele improprio, nel senso che tutte le forme di sillogismo devono essere
formate da giudizi, o universali o particolari. In secondo luogo, nella formula citata, manca un elemento che per
Aristotele è essenziale: le espressioni "se", "e", "allora". ("Se" tutti gli uomini sono mortali "e" Socrate è uomo,
"allora" Socrate è mortale). Queste espressioni non sono di poco rilievo, perché indicano il fatto che, se si
concedono le premesse, allora, da queste premesse, consegue necessariamente la conclusione. Omettendo "se",
"e" e "allora", otteniamo una semplice sequela di tre giudizi, senza un rapporto necessario tra antecedente e
conseguente. Inoltre, dato che Aristotele non dice mai che "tutti gli uomini sono mortali", ma che "mortale si
predica di tutti gli uomini", se vogliamo avere un sillogismo genuinamente aristotelico, dobbiamo esprimerlo così:
"se mortale si predica di tutti gli uomini, e uomo si predica di tutti i Greci, allora mortale si predica di tutti i
Greci". Aristotele, infatti, definisce il sillogismo come un ragionamento in base al quale, poste due premesse, ne
consegue necessariamente, per il fatto che quelle premesse sono state poste, una conseguenza. Da questo punto di
vista, come va interpretato il sillogismo? A mio avviso, il criterio fondamentale si trova in una critica che
Aristotele muove alla dialettica platonica. Per Platone, la dialettica era essenzialmente un dividere per generi e per
specie; Aristotele ritiene che questo metodo sia inconcludente. Citerò un esempio famoso: Platone nel Sofista, per
definire che cos'è il sofista, parte da un concetto generalissimo, quello di arte, e lo divide in due: arte acquisitiva e
arte produttiva. Dopo di che continua la divisione. Ma, obietta Aristotele, come si fa a sapere se la divisione va
continuata dalla parte dell'arte acquisitiva o dalla parte dell'arte produttiva, se già non si sa che il sofista è un
produttore o un acquirente? In altri termini: o il metodo della divisione è inconcludente, o presuppone quello che
si vuole trovare. Per Aristotele posso collegare due termini, "mortale" e "greco", nell'esempio fatto, soltanto se
riesco a trovare un terzo termine che sta in una determinata relazione con entrambi. Questo termine è il medio, ed
introduce un concetto fondamentale nella storia della filosofia: quello di "mediazione". Posso collegare due
concetti in quanto riesco a trovare tra di loro non un semplice rapporto immediato, privo di carattere dimostrativo,
ma un rapporto mediato. Per questo, nell'esempio di sillogismo aristotelico che ho fatto, il termine "uomo" è il
medio, che consente di collegare "mortale" e "greco". Nella formula genuinamente aristotelica del sillogismo, il
medio è tale anche per posizione, perché funge da soggetto nella premessa maggiore, da predicato nella premessa
minore, mentre, nella conclusione, si opera la connessione del termine maggiore "mortale" e del termine minore
"greco". Aristotele non si è fermato qui nell'elaborazione del sillogismo. Il primo fatto da sottolineare è che egli fu
il primo, a quello che sappiamo, ad adoperare simboli, in particolare "A, B, " o altre lettere dell'alfabeto. In

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questo modo viene indicato il fatto che le relazioni stabilite dal sillogismo sono valide qualunque sia il significato
o il termine che si attribuisca al simbolo. Possiamo, a questo punto, presentare l'espressione più formale del
sillogismo aristotelico: "se A si predica di tutti i B e B si predica di tutti i , allora A si predica di tutti i ".
Questa formulazione indica anche che il sillogismo è valido indipendentemente dal fatto che sia o meno vero.

5 Si può affermare che Aristotele opera una distinzione netta tra la validità di un sillogismo e la sua verità?

Sicuramente. Posso avere un sillogismo con tutte e due le premesse false e la conclusione falsa, ma che è
comunque valido. Faccio un esempio bizzarro: se dico che elefante si predica di tutte le statue, e che statua si
predica di tutti i galli, e quindi elefante si predica di tutti i galli, enuncio evidentemente tre espressioni prive di
senso; però la necessità della conclusione da quelle premesse è altrettanto vincolante che nel caso di un sillogismo
vero. La distinzione tra la validità del sillogismo e la sua verità è, da un lato, la piena affermazione della formalità
della logica - mentre spetterà alla scienza il problema della verità delle proposizioni -, mentre, dall'altro, serve a
stabilire che un argomentare scientifico ed un argomentare dialettico (cioè che parte da premesse soltanto
probabili, non necessariamente vere) possono essere ugualmente validi, e portare a conclusioni altrettanto
necessarie. Naturalmente quest'aspetto è stato particolarmente ripreso e sviluppato dalla logica moderna. Ma in
Aristotele c'è anche un altro elemento importante. Un sillogismo che parte da premesse vere e arriva a conclusioni
vere è certamente valido; un sillogismo che parte da premesse false e arriva a conclusioni false è certamente
valido; un sillogismo che parte da premesse false e arriva a conclusioni vere è anch'esso valido. Considero un
altro esempio. Se dico che mortale si predica di tutte le biciclette, e bicicletta si predica di tutti gli uomini, allora
mortale si predica di tutti gli uomini: le premesse sono false, la conclusione è vera, il sillogismo è valido. Quando
non è valido il sillogismo? In un solo caso: quando sono vere le premesse ed è falsa la conclusione. In base a
questa teoria della verità, che probabilmente Aristotele riprende anche da discussioni contemporanee (penso
soprattutto a certi sviluppi del megarismo), è stata costruita la cosiddetta tavola della verità. Essa è indispensabile
per capire non solo la sillogistica aristotelica, ma anche le riflessioni su di essa. Adoperando i simboli P, M, S per
indicare il predicato, il medio e il soggetto, posso rappresentare il sillogismo in questo modo: "se P si predica di
tutti gli M, e M si predica di tutti gli S, allora P si predica di tutti gli S". Tuttavia, posso fare un altro passo avanti
- peraltro già pienamente compiuto nella logica medioevale - e indicare l'espressione "si predica di tutti" con la
prima vocale del verbo "affirmo". Allora il nostro sillogismo può essere scritto anche in questa formula: "se P A
M, e M A S, allora P A S". Questo sillogismo, che è il primo modo della prima figura, è stato chiamato dai logici
medioevali sillogismo "in Barbara"; le tre vocali indicano le tre universali affermative di cui esso è composto. Si
può fare un ulteriore passo avanti, ed esprimere mediante simboli anche il rapporto "se-allora", premessa-
conseguenza, e, come dicono i logici moderni, il funtore di congiunzione delle due premesse, "e". Posso fare
ancora un passo, e risolvere il funtore di congiunzione in un funtore di implicazione: "se P A M, allora se M A S,
allora P A S". In questo modo ho risolto nel minimo numero possibile di simboli il sillogismo aristotelico.
Naturalmente posso spingermi ancora oltre, riprendendo alcune considerazioni avanzate soprattutto dai logici
polacchi, in particolar modo da Lukasiewicz, che hanno studiato la sillogistica aristotelica dal punto di vista della
logica moderna. La premessa maggiore del sillogismo può essere indicata con P, la premessa minore con Q e la
conclusione con R, scrivendo: se P allora, se Q, R. Questa è l'espressione assolutamente formalizzata del
sillogismo aristotelico, nel senso che si parla solo di proposizioni e non più di termini. Per quanto riguarda la
struttura generale della sillogistica, Aristotele, innanzitutto, distingue varie figure sillogistiche in base alla
posizione del medio. Abbiamo già visto che il medio è, nella prima figura, soggetto nella premessa maggiore e
predicato nella premessa minore. Può essere predicato in tutte e due le premesse, o soggetto in tutte e due, o può
avere un rapporto inverso a quello della prima figura nelle due premesse. Da qui scaturiscono altre tre figure
sillogistiche, di cui però Aristotele studia soltanto due: la seconda figura sillogistica, in cui il medio fa da
predicato in entrambe le premesse, e la terza, in cui il medio fa da soggetto in entrambe le premesse.

6 Può illustrare nei particolari le figure sillogistiche considerate da Aristotele?

Anche nella seconda e nella terza figura Aristotele distingue i modi validi dai modi non validi, rispetto alla grande
varietà di combinazioni possibili. Si possono indicare con la lettera I, che è la seconda vocale del verbo "affirmo",
la particolare affermativa; con la lettera E, la prima vocale del verbo "nego", l'universale negativa, e con la lettera
O, la seconda vocale del verbo "nego", la particolare negativa. Sulla base di queste vocali, si possono formare i
nomi di tutti i modi sillogistici validi, e, poiché per Aristotele, e quindi anche per la logica medioevale, validi
senza bisogno di dimostrazione sono i quattro modi della prima figura, ad essi furono dati i nomi di "Barbara",
"Celarent", "Darii" e "Ferio". Le vocali indicano la quantità (universali o particolari) e la qualità (affermativa o
negativa) delle premesse di questi sillogismi. Nomi simili sono stati dati ai modi validi delle altre figure. Per fare
soltanto un esempio: i sillogismi di seconda figura sono stati chiamati "Cesare", "Camestres", "Festino" e

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"Baroco". Nessuna di queste lettere è casuale, nel senso che non solo le vocali indicano la quantità e la qualità
delle premesse, ma le consonanti indicano le operazioni che debbono esser fatte sui singoli giudizi che
compongono il sillogismo, o sulla loro posizione, per ricondurlo ai sillogismi di prima figura. La validità dei
sillogismi di seconda e di terza figura non è immediatamente auto-evidente, ma può essere dimostrata attraverso
tali conversioni. I sillogismi in C, come "Cesare" e "Camestres", si riconducono a "Celarent", quelli il cui nome
comincia per F, come "Festino", a "Ferio", mentre i sillogismi che cominciano per B, come "Baroco", si
riconducono a "Barbara". In questo modo i logici medioevali riconoscevano immediatamente quale fosse la
figura, a quale dei sillogismi di prima figura dovesse essere ricondotta, e mediante quali operazioni. È già un
notevole livello di formalizzazione. Esiste un'altra caratteristica che distingue le figure sillogistiche, e che forse ha
indotto Aristotele a considerare solo la prima figura come perfetta: solo i quattro sillogismi di prima figura
concludono in tutti i modi possibili: universale affermativo, universale negativo, particolare affermativo e
particolare negativo. I sillogismi di seconda figura concludono tutti negativamente, o universalmente o
particolarmente; i sillogismi di terza figura concludono solo particolarmente, affermativamente o negativamente.
Da questo punto di vista la prima figura si presenta come la più utile, nel senso che mediante i suoi sillogismi si
possono ottenere tutte le conclusioni.

7 Vi sono altri aspetti della sillogistica aristotelica che si devono mettere in evidenza?

Un altro aspetto della sillogistica aristotelica è l'uso di assiomi, nel senso che si parte da alcune premesse
considerate immediatamente evidenti. Innanzitutto un assioma d'identità che, in termini di giudizio, può essere
espresso dalla seguente formula: "A A A", A si predica di tutti gli A, oppure da un'altra del tipo "A I A", A si
predica di qualche A. Un'altra premessa è costituita dal quadrato delle proposizioni che abbiamo già visto: il
rapporto di subordinazione, opposizione e contraddittorietà tra le premesse. Inoltre ci sono le cosiddette regole di
conversione. Se per esempio dico che quadrupede non si predica di alcun uomo - giudizio universale negativo -
posso dire anche che uomo non si predica di alcun quadrupede? In altri termini, posso invertire il soggetto e il
predicato per tutti e quattro i tipi di proposizione?. Le regole di conversione stabiliscono che le universali negative
e le particolari affermative si convertono semplicemente, le universali affermative si convertono in particolari
affermative, le particolari negative non si convertono. Per la verità, Aristotele prova a dimostrare queste regole di
conversione, ma cade in un curioso circolo vizioso. Da un lato, si serve di queste regole per dimostrare le figure
sillogistiche, dall'altro, per dimostrare queste regole, si serve dei sillogismi. In ogni caso, mediante questi assiomi
e queste regole, Aristotele costruisce tutto l'edificio della sua sillogistica che, fra le molte decine di combinazioni
o modi possibili, ne riconosce come valide soltanto quattordici, divise in tre figure: quattro per la prima figura,
quattro per la seconda e sei per la terza. Aristotele respinge un sillogismo non valido in base ad esempi; quindi, in
questo caso, abbandona i simboli e torna ad adoperare termini concreti. È proprio sugli assiomi, sulle premesse
della sillogistica e sulla dimostrazione della non validità di tutti i modi non validi, che si sono concentrate le
attenzioni della logica formale moderna. Senza entrare nei dettagli, si può dire che i risultati più cospicui
riguardano l'assunzione di due sillogismi, e non più quattro, come assiomi. Questi due sillogismi-assiomi sono un
sillogismo di prima figura - "Barbara" - e uno di terza figura - "Datisi", costituito da due premesse universali
affermative e da una conclusione particolare affermativa. Il sillogismo in "Barbara" è stato scelto perché è il più
evidente. Il vantaggio di avere come assioma "Datisi" risiede invece nella possibilità di dimostrare tutte le regole
di conversione delle premesse. In questo modo, soltanto operando sui simboli, e senza ricorrere ad esempi
concreti, si può dimostrare la validità di tutti i modi validi e rifiutare i modi non validi. Si può illustrare questa
possibilità con un esempio, secondo me, particolarmente interessante. Prendiamo un sillogismo di terza figura,
quello che i logici medioevali hanno chiamato con il nome di "Bocardo". Il nome ci dice che è un sillogismo
composto da una premessa particolare negativa, da una seconda premessa universale affermativa, e da una
conclusione particolare negativa. Il fatto che comincia con la lettera "b" ci dice che si dimostra valido ricorrendo a
"Barbara"; il fatto che ci sia la consonante "c" ci dice che può essere dimostrato valido solo mediante la prova per
assurdo. Possiamo scrivere il sillogismo in "Bocardo" in questo modo: P O M, S A M - dove il medio è sempre
soggetto -, P O S. Se voglio dimostrare che questo sillogismo è vero per assurdo, devo assumere che sia falso e
ottenere una contraddizione. Noi già sappiamo che l'unico caso di sillogismo falso prevede due premesse vere e
una conclusione falsa. Nel nostro caso, otteniamo il falso quando dalle due premesse, P O M e S A M, traggo la
conclusione contraddittoria a quella di partenza, cioè P A S. Quest'ultima può essere presa come premessa di un
nuovo sillogismo. Posso, inoltre, scegliere come seconda premessa una delle due di partenza in "Bocardo", e cioè
S A M. In questo modo ottengo un sillogismo in "Barbara", la cui conclusione non può che essere P A M, una
conclusione universale affermativa. La conclusione del nostro sillogismo in "Barbara" è esattamente la
contraddittoria di una delle due premesse del sillogismo di partenza; ma, siccome sappiamo che le sue premesse
erano vere, la contraddittoria deve essere necessariamente falsa. In questo modo, si è dimostrata per assurdo la
validità di "Bocardo".

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8 Professor Giannantoni, tra gli altri strumenti logici con cui verificare la non validità dell'inferenza
sillogistica c'è la cosiddetta regola della "reiezione". Di che cosa si tratta?

L'altro modo possibile di dimostrare la validità di una figura si basa appunto sulla logica della "reiezione", la
procedura mediante la quale, senza mai ricorrere a termini concreti, è possibile dimostrare la non-validità di una
forma sillogistica. Per formalizzare completamente la logica della "reiezione" - del rifiuto - i logici moderni hanno
fatto ricorso alla cosiddetta "regola del distacco". Questa prevede che, se affermo un'implicazione, allora, quando
nego la sua conclusione, debbo negare anche la sua premessa. Questa è la formula: "se P implica Q, allora non-Q
implica non-P". Proviamo adesso a tradurre questa regola del distacco in termini sillogistici e a porre, invece della
premessa "se P implica Q", la formula che abbiamo già visto, "se P e Q implicano R". Inoltre, poniamo come
conseguente di quest'implicazione la negazione della conseguenza, e quindi la negazione della premessa: "se P e
non-R, allora non-Q". Se mettiamo, al posto di P, Q e R, le premesse del sillogismo in "Barbara", abbiamo
un'espressione di questo tipo: "se P A M e M A S, allora P A S". La conclusione della regola del distacco è: "se P
A M, P O S, allora M O S", che è "Bocardo". Quindi, se parto dall'idea che nella regola del distacco la premessa è
vera, tutto ciò che ottengo nella conseguenza è anch'esso vero, e posso dimostrare forme valide di sillogismo.
Posso concludere dicendo che il numero degli assiomi e la "reiezione" delle forme non valide di sillogismo sono i
due contributi più importanti che la logica formale moderna ha dato all'insieme della teoria sillogistica così come
Aristotele l'aveva elaborata.

Dopo aver dato alcune informazioni sull'origine del termine «logica» e sulla struttura dell'Organon di Aristotele,
Gabriele Giannantoni illustra il cosiddetto «quadrato degli opposti» che regola i rapporti di contraddizione,
contrarietà e subordinazione tra le varie proposizioni distinte sulla base della loro qualità e quantità; nel tentativo,
poi, di restituire alla sua formulazione originaria la dottrina aristotelica dei principi logici, liberandola dalle
deformazioni della scolastica, Giannantoni distingue nel cosiddetto «principium identitatis et non contradictionis»
un principio noetico di determinazione che regola l'intuizione e un principio dianoetico di contraddizione che
regola la predicazione. Il nucleo storicamente più importante dell'analitica aristotelica, a parere di Giannantoni, è
rappresentato dalla sillogistica e dalla teoria dell'apodissi, la cui origine va rintracciata nella critica al metodo
platonico della divisione e nell'introduzione della nozione di «mediazione». Formalizzando la struttura del
sillogismo, Aristotele ha separato la sua concludenza formale dalla sua verità effettiva e lo ha distinto in quattro
figure, in base alla posizione del termine medio. Dopo aver accennato agli sviluppi che l'analitica di Aristotele ha
avuto nella logica medioevale, Giannantoni sottolinea il ruolo decisivo svolto dalle regole di conversione delle
premesse e dagli assiomi della dimostrazione nella costruzione della sillogistica. I contributi più importanti che la
logica formale moderna ha dato alla logica classica riguardano la cosiddetta regola della «reiezione», che consente

La metafisica di Aristotele

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In Aristotele viene esplicitamente fuori la tesi che dell'Essere si parla in molti modi, e questo è il punto di arrivo
della dissoluzione della problematica eleatica proprio perché Parmenide riteneva che dell'Essere si potesse parlare
in un modo solo. Qui è stata spesso invocata la distinzione tra "essere esistenziale" e "essere copulativo", nel
senso che se, per esempio, io dico che Socrate è, affermo l'esistenza, la realtà di Socrate; se io invece dico che la
Chimera è un mostro mitologico, dicendo che è un mostro mitologico, non intendo affermarne l'esistenza; in
questo secondo caso il verbo "essere" ha soltanto la funzione di copulare, cioè di unire il soggetto e il predicato,
ma non implica l'affermazione della realtà. Ma in Aristotele la questione è ancora più profonda. Noi forse
possiamo trovare la prima esplicitazione della differenza tra l'"essere esistenziale" e l'"essere copulativo" nel
"Sofista" di Platone. Ma Aristotele va molto oltre. Contro l'Essere monastico di Parmenide, cioè dell'Essere di cui
si può parlare in un senso solo, Aristotele a più riprese afferma che, invece, dell'Essere si può parlare in molti
modi. In quali modi? Aristotele, più che classificare, ne elenca solitamente dieci: cioè dell'Essere si può parlare
come sostanza, cioè come qualche cosa che è, oppure se ne può parlare come qualità, come quantità, come luogo,
come tempo, e sono appunto le altre nove categorie. Cioè la teoria delle categorie di Aristotele è il punto di
approdo della critica all'Essere parmenideo iniziata da Platone. E' chiaro che da questo punto di vista dopo
Aristotele il problema dell'Essere non ha più senso, perché diventa un problema profondamente equivoco, non nel
senso della equivocità di cui parla la filosofia medioevale, ma nel senso più proprio del termine, cioè di un
problema che, come tale, non ha ragion d'essere se non si specifica l'ambito all'interno del quale il problema è
posto.

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Se noi dovessimo fare una storia della logica antica fondandoci sul termine logica, da questa storia dovremmo
proprio escludere Aristotele perché Aristotele non usa mai questo termine; questo termine entra nel linguaggio
filosofico posteriormente, probabilmente con gli stoici. Aristotele chiama l'insieme delle sue ricerche
sull'argomentazione e sulla predicazione con il nome di analitica, intendendo con questo termine il procedimento
d’analisi, cioè di risoluzione di una proposizione nei suoi elementi componenti e di una proposizione in base alle
premesse da cui essa scaturisce. Ciò non di meno, l'Analitica d’Aristotele non soltanto fa parte della storia della
logica ma è anche certamente la massima espressione delle ricerche su questo tema nell'antichità. Aristotele ha
consegnato a queste riflessioni molte opere che sono state complessivamente indicate con il titolo di Organon
cioè di strumento; questo titolo non è di Aristotele ma è dei suoi editori successivi che volevano così indicare il
carattere strumentale di queste ricerche rispetto alle varie scienze nel senso che la ricerca dell'argomentazione
corretta è preliminare e, in un certo senso, strumentale perché tutte le scienze possano fare ragionamenti
formalmente validi. Naturalmente la massima espressione dell'analitica aristotelica è costituita dai Sillogismi, cioè
dagli Analitici primi e dagli Analitici secondi, che sono le due grandi opere in cui Aristotele espone la teoria del
sillogismo sia in generale sia, più specificamente, del sillogismo scientifico.

***

Aristotele, negli Analitici primi, offre una teoria generale del sillogismo, cioè a dire una teoria che va bene sia per
il sillogismo che parte da premesse vere, sia del sillogismo che parte da premesse probabili. Mentre negli
Analitici secondi si sofferma sul sillogismo che Aristotele chiama apodittico, cioè dimostrativo, e che è quello
che parte da premesse vere e questa trattazione gli serve, appunto, per elaborare la sua teoria della definizione
essendo la dimostrazione e la definizione i due concetti più importanti dal punto di vista della scienza, del sapere
scientifico.

***

Ma fanno a pieno titolo parte di questo gruppo di opere aristoteliche anche i Topica, cioè la raccolta dei topoi, dei
luoghi comuni delle argomentazioni dialettiche, gli Elenchi sofistici, cioè la serie di confutazioni di argomenti
particolarmente in voga tra i sofisti e sia soprattutto i due trattati Le Categorie e il De Interpretatione in cui
Aristotele esamina sia il valore e il senso dei termini detti fuori di ogni connessione, per esempio i nomi e i verbi
staccati gli uni dagli altri, sia la teoria generale della proposizione come connessione di un soggetto e di un
predicato. Questo è il corpus delle opere che noi giustamente definiamo logiche, e in cui per lungo tempo nella
storia del pensiero è stata vista la realizzazione massima della riflessione umana su questo campo.

Aristotele e il problema dell'essere

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In Aristotele viene esplicitamente fuori la tesi che dell'Essere si parla in molti modi, e questo è il punto d’arrivo
della dissoluzione della problematica eleatica, proprio perché Parmenide riteneva che dell'Essere si potesse
parlare in un modo solo. Qui è stata spesso invocata la distinzione tra essere esistenziale e essere copulativo, nel
senso che se, per esempio, io dico che Socrate è, affermo l'esistenza, la realtà di Socrate; se io invece dico che la
Chimera è un mostro mitologico, dicendo che è un mostro mitologico, non intendo affermarne l'esistenza; in
questo secondo caso il verbo essere ha soltanto la funzione di copulare, cioè di unire il soggetto e il predicato, ma
non implica l'affermazione della realtà. Ma in Aristotele la questione è ancora più profonda. Noi forse possiamo
trovare la prima esplicitazione della differenza tra l'essere esistenziale e l'essere copulativo nel Sofista di
Platone. Ma Aristotele va molto oltre. Contro l'Essere monastico di Parmenide, cioè dell'Essere di cui si può
parlare in un senso solo, Aristotele a più riprese afferma che, invece, dell'Essere si può parlare in molti modi. In
quali modi? Aristotele, più che classificare, n’elenca solitamente dieci: cioè dell'Essere si può parlare come
sostanza, cioè come qualche cosa che è, oppure se ne può parlare come qualità, come quantità, come luogo, come
tempo, e sono appunto le altre nove categorie. Cioè la teoria delle categorie di Aristotele è il punto di approdo
della critica all'Essere parmenideo iniziata da Platone. Si può dire anche qualche cosa di più; nel senso che le
categorie di Aristotele sono, nella loro genesi, le classificazioni possibili delle risposte che possono essere date
alla domanda, che era poi la domanda socratica, "che cos'è?". E io posso dire che appunto una determinata cosa è
una realtà, oppure che è grande, oppure che è bella, oppure che è in un determinato luogo, che è in un determinato
tempo, e via dicendo. Cioè allora, quando io di qualche cosa chiedo "che cos'è?" io posso dare tutta una serie di
risposte, e queste risposte sono i molti modi in cui si parla dell'Essere, cioè si risponde alla domanda su che
cosa è l'Essere. E' chiaro che da questo punto di vista dopo Aristotele il problema dell'Essere non ha più senso,
perché diventa un problema profondamente equivoco, non nel senso della equivocità di cui parla la filosofia

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medioevale, ma nel senso più proprio del termine, cioè di un problema che, come tale, non ha ragion d'essere se
non si specifica l'ambito all'interno del quale il problema è posto. Ora naturalmente Aristotele non mette tutte le
categorie sullo stesso piano, perché ovviamente quando io domando "che cos'è?" la risposta prima e più
appropriata è quella che mi dice se una determinata cosa esiste o no, e quindi la prima risposta è quella che
riguarda la sostanza. Però anche tutte le altre sono risposte alla stessa domanda, e quindi ci potrà essere un
problema, diciamo così, di maggiore o minore proprietà della risposta, ma questo è tutto un altro problema da
quello dell'Essere, con la E maiuscola. D'altra parte la teoria che dell'Essere si parla in molti sensi sta alla base
non solo della metafisica, ma anche della logica aristotelica; tutta la teoria della predicazione di Aristotele, così
come tutte le teorie della metafisica aristotelica, noi non le potremmo comprendere prescindendo da questa
risposta.

Tratto dall'intervista La dottrina dell'essere da Parmenide ad Aristotele, Roma 13 marzo 1990

Il parricidio di Platone

Parricidio è un termine che usa Platone e che usa Platone quando, arrivato al cuore della questione che gli sta a
cuore, e cioè la teoria della realtà e la teoria della conoscenza, dimostra che questa problematica non è risolubile,
continua a riproporre difficoltà, se non si affronta l'obiezione fondamentale che scaturisce dalla filosofia di
Parmenide, cioè se non si fanno i conti, fino in fondo, con la filosofia di Parmenide. Di questo un sentore c'è già
nel dialogo intitolato, appunto, Parmenide, in cui Parmenide è introdotto a avanzare una serie di obiezioni contro
la teoria platonica delle idee.

Ma i conti con Parmenide, propriamente, Platone li fa nel Sofista. Perchè nel Sofista Platone si pone il compito di
definire che cos'è un sofista, e la nozione, il concetto di sofista gli evoca immediatamente quello del falso, quello
dell'apparenza. E allora com’è spiegabile l'apparenza se apparenza è ciò che non è propriamente, e tuttavia in
quanto apparenza, è. Cioè nel concetto di apparenza noi troviamo proprio quel più stretto legame di essere e non-
essere che Parmenide aveva indicato come segno della sua irrealtà e della sua falsità. E allora lì, in quel dialogo,
Platone intraprende una discussione assai approfondita sia del concetto di non-essere che del concetto di essere, e
la risolve (io adesso naturalmente procedo molto per sommi capi), ma la risolve osservando come, in realtà,
quando io pronuncio la parola, il verbo non-essere, io in realtà affermo soltanto una diversità. Se io dico che il
tavolo non è la sedia, intendo dire che il tavolo è diverso dalla sedia. Cioè Platone, nel Sofista, risolve
completamente il concetto di non-essere nel concetto di alterità. Con quale conseguenza? Che se io dico che il
tavolo è il tavolo, ed è diverso dalla sedia, io non pronuncio più la parola non è, cioè non pronuncio più quella
parola che, per Parmenide, era il segno della falsità del molteplice, e quindi mi muovo sempre sul piano
dell'essere; solo che questo essere è affermato per ogni cosa nella sua identità e, sempre per quella cosa, nella sua
diversità da tutte le altre cose. Quindi, come dire, sono sempre sul piano del positivo, mai del negativo.

L'idea di giustizia è l'idea di giustizia ed è diversa da quella di coraggio, ma tutte e due, pur nella loro diversità,
sono enti, cioè realtà. In questo senso Platone dà un contributo essenziale alla dissoluzione della problematica
eleatica, perché è ovvio che la problematica eleatica nasce contrapponendo l' è al non è e quindi contrapponendo il
mondo dell' è, cioè l'unico essere vero, al mondo del non è, cioè al mondo dell'apparenza, del molteplice. Per
Platone questa opposizione non ha più senso in questi termini; rimane in piedi soltanto nei termini di
un'opposizione tra un mondo che è eternamente identico a se stesso, e un mondo invece, quello sensibile, che
continuamente cambia, muta e si trasforma.

9 Interviste
Gabriele Giannantoni
La dottrina dell'Essere da Parmenide ad Aristotele
13/3/1990
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Vai all'abstract

• - Professor Giannantoni, vorremmo ora ripercorrere alcuni nodi concettuali che stanno alla base della nascita e
dell'elaborazione delle dottrine aristoteliche, sia logiche che ontologiche. Potremmo partire dalla dottrina parmenidea,

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quale viene sviluppata nella polemica di Zenone contro i concetti di molteplicità e di movimento? (1)

• - In che modo le variazioni apportate da Melisso alla dottrina parmenidea influenzano gli sviluppi posteriori della storia
della metafisica? (2)
• - Qual è l'atteggiamento della sofistica nei confronti della problematica eleatica? (3)

• - Il Sofista di Platone rappresenta una svolta decisiva in questo percorso. Ci può parlare del cosiddetto "parricidio" nei
confronti di Parmenide? (4)
• - Quali critiche rivolge Aristotele alla filosofia di Parmenide? (5)

• - Quali sono i tratti fondamentali della concezione aristotelica dell'Essere? (6)

1. Professor Giannantoni, vorremmo ora ripercorrere alcuni nodi concettuali che stanno alla base della
nascita e dell'elaborazione delle dottrine aristoteliche, sia logiche che ontologiche. Potremmo partire dalla
dottrina parmenidea, quale viene sviluppata nella polemica di Zenone contro i concetti di molteplicità e di
movimento?

Nel Parmenide di Platone, Zenone appare come un discepolo, autore di un libro dedicato alla difesa della dottrina
del maestro da alcune conseguenze assurde che i suoi avversari ne ricavavano. Gli antichi dossografi e biografi ci
raccontano che, di fronte alla recitazione del libro di Parmenide, si obiettava non già a parole, ma, per esempio,
alzandocisi e mettendocisi a camminare, per dimostrare in questo modo che il movimento non era un'apparenza
ma una realtà. Da Platone possiamo desumere che Zenone avesse lo scopo di dimostrare che, anche se dalle
dottrine di Parmenide potevano scaturire conseguenze apparentemente assurde, certamente ancora più assurde
erano le conseguenze che scaturivano dalle dottrine opposte. Siamo anche informati, per esempio dalla Fisica di
Aristotele, sui quattro argomenti di Zenone contro il movimento. Il più famoso è quello di Achille e della
tartaruga: Achille non raggiungerà mai la tartaruga, perché, se questa parte con un piccolo vantaggio, prima di
raggiungerla Achille dovrà arrivare al punto da cui si è messa in movimento; ma, quando avrà raggiunto quel
punto, la tartaruga avrà compiuto un piccolo spostamento. Se si concepiscono lo spazio ed il tempo come
divisibili all'infinito, Achille non colmerà mai la distanza che lo divide dalla tartaruga. Ci è giunto anche un
frammento autentico di Zenone, diretto, però, non tanto contro il movimento, quanto contro il molteplice. Zenone
segue un procedimento che poi Aristotele definirà dialettico, dimostrando come, ammessa l'ipotesi dell'esistenza
del molteplice, ne scaturiscano conseguenze contraddittorie. A Zenone è attribuita non solo la riconferma della
teoria dell'ente parmenideo, ma anche una sua progressiva trasformazione in una dottrina dell'unità. Zenone
avrebbe sostenuto, proprio in base alla sua polemica contro il molteplice, che l'Essere è uno. In questo senso il suo
contributo allo sviluppo della problematica eleatica è certamente dialettico, ma, nel suo intento confutatorio, opera
anche una trasformazione positiva dell'Essere parmenideo.

2. In che modo le variazioni apportate da Melisso alla dottrina parmenidea influenzano gli sviluppi
posteriori della storia della metafisica?

Leggendo i pochi frammenti rimasti di Melisso, è possibile constatare uno spostamento di prospettiva assai
importante rispetto a Parmenide, ed anche una profondità di riflessione che ci induce a rifiutare il giudizio di
Aristotele, il quale considerava Melisso un filosofo di scarso valore. Melisso parte da una considerazione diversa
da quella presa come base da Parmenide. Egli afferma, in sostanza, che ciò che è, per essere veramente reale, deve
essere anche esistito nel passato e deve continuare ad esistere nel futuro. Non si ha più quell'Essere atemporale, o
completamente risolto nella dimensione del presente, proprio della concezione parmenidea. In quest'ultima,
l'Essere è soltanto nella dimensione del presente, perché se dico che l'Essere era, sono costretto ad ammettere
anche che non è, o, se dico che sarà, è come se dicessi che non è ancora. E poiché Parmenide invitava a guardarsi
dal mescolare l'Essere e il Non-Essere, dell'Essere si poteva dire soltanto che è. Questo motivo sembra invece
venir meno in Melisso.

Esiste un altro aspetto importante: la caratteristica fondamentale dell'Essere, per Melisso, diviene il suo permanere
eternamente identico a se stesso. Infatti, la molteplicità del mondo sensibile, quello che per Parmenide era il
mondo della dóxa, dell'apparenza o dell'opinione, è irreale per Melisso, non già perché contraddittorio, ma perché
nel mondo dell'esperienza non è possibile rintracciare nulla che rimanga eternamente identico a se stesso. Melisso
cita il famoso esempio dell'anello, che è duro, e che tuttavia si consuma a contatto del dito, che è molle. Egli

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ammette, in linea d'ipotesi, che se qualcuno degli esseri sensibili rimanesse eternamente identico a se stesso,
sarebbe altrettanto vero quanto l'Essere in sé. In questo modo Melisso riteneva di rimanere fedele
all'insegnamento parmenideo, proprio perché riteneva che il mondo dell'esperienza non offrisse casi di
permanenza. Tuttavia, si apriva così la strada a ricerche come quelle condotte dai filosofi pluralisti. Infatti, le
"omeomerie" di Anassagora, le radici o rhizómata di Empedocle e gli atomi di Democrito hanno la caratteristica
di essere eternamente identici a se stessi, e quindi veri, indipendentemente dal fatto che siano molti. Dunque la
contraddittorietà del molteplice non è più un elemento tale da implicare necessariamente la sua non-verità. In
questo senso mi pare che Melisso occupi un posto di notevole rilievo nella storia della metafisica greca.

3. Qual è l'atteggiamento della sofistica nei confronti della problematica eleatica?

Questo è un aspetto che il progresso degli studi sui sofisti ha reso sempre più chiaro ed evidente. Non c'è dubbio
che i sofisti dovessero reagire con forza al divieto parmenideo di pronunciare lógoi, discorsi, diversi da
quell'unico discorso che dice "è". Un oratore che può dire soltanto "è" non fa molta strada. I sofisti, che sono
impegnati sul terreno dell'oratoria, della politica, delle varie arti che allora cominciavano a definirsi nel mondo
greco, assumono pertanto, nei confronti della problematica eleatica, un atteggiamento di dissoluzione ironica. Non
ne criticano positivamente i presupposti filosofici, ma, in qualche modo, la ironizzano, facendone vedere l'intima
insostenibilità sul piano della vita sociale, politica e culturale. Noi non possediamo più l'opera di Gorgia intitolata
Sull'Essere, che certamente doveva contenere una polemica anti-eleatica, ma ce ne sono rimaste due parafrasi, una
di Sesto Empirico, ed una di un aristotelico, inclusa nel Corpus aristotelicum e compresa in un testo, intitolato
De Melisso, Xenophane et Gorgia. In quest'opera Gorgia sosteneva tre tesi: niente esiste, se anche qualcosa
esistesse noi non potremmo conoscerla, e se anche la potessimo conoscere non potremmo comunicarla ad altri.
Sono, ovviamente, tre tesi paradossali, dello stesso tipo di paradossalità che Gorgia usava quando difendeva Elena
e Palamede, i prototipi del tradimento per la coscienza comune dei Greci, ma che colpivano questa volta le tesi
parmenidee. Da buon sofista e da buon avvocato, Gorgia mostra come la tesi esattamente opposta a quella di
Parmenide e di Zenone possa essere difesa con altrettanta brillantezza e altrettanto successo. Un atteggiamento di
antagonismo nei confronti della problematica eleatica si ritrova più o meno in tutti i sofisti, perché, in fondo,
anche, la sinonimica di Prodico ha questo fondo anti-eleatico. Nonostante la critica sofistica non fosse
propriamente filosofica, essa rappresenta un momento importante nella storia della dissoluzione della
problematica eleatica.

4. Il Sofista di Platone rappresenta una svolta decisiva in questo percorso. Ci può parlare del cosiddetto
"parricidio" nei confronti di Parmenide?

"Parricidio" (patraloías, Sofista, 241 d), è il termine che usa Platone quando affronta la questione che gli sta a
cuore, la teoria della realtà e della conoscenza. Platone dimostra che questa problematica non è risolubile, se non
si fanno i conti fino in fondo con la filosofia di Parmenide. C'è già un sentore di questo problema nel dialogo
intitolato Parmenide, in cui il filosofo eleate avanza una serie di obiezioni contro la teoria platonica delle idee. E
questo è del tutto comprensibile: se Parmenide avesse potuto leggere i dialoghi di Platone, certamente avrebbe
riproposto, contro la dottrina delle idee, le sue obiezioni sull'ineliminabile contraddittorietà, e quindi falsità, di
ogni molteplice, sia pure costituito da idee. Nel Parmenide Platone non risponde direttamente a queste obiezioni.
Si limita a riprendere, ironicamente, il metodo zenoniano, tentando di dimostrare che, se scaturiscono
conseguenze assurde dalla dottrina delle idee, conseguenze ancora più assurde scaturiranno dall'ammettere l'Uno
zenoniano e parmenideo. Ma Platone fa propriamente i conti con Parmenide nel Sofista. In quest'opera egli si
propone di definire che cos'è un sofista, e la nozione gli evoca immediatamente il concetto di apparenza. Ma
com'è spiegabile l'apparenza, se essa è ciò che non è propriamente, e tuttavia in quanto apparenza, è? In altri
termini, nel concetto di apparenza riscontriamo proprio quello stretto legame di Essere e Non-Essere che
Parmenide aveva indicato come segno dell'irrealtà e della falsità. Ecco dunque che, nel Sofista, Platone
intraprende una discussione assai approfondita sui concetti di Non-Essere e di Essere. La soluzione consiste
nell'osservare che, quando uso l'espressione verbale "non-essere", in realtà affermo soltanto una diversità. Se dico
che il tavolo non è la sedia, intendo dire che il tavolo è diverso dalla sedia. Quindi, il concetto di Non-Essere si
risolve completamente nel concetto di alterità. La conseguenza è che, se dico che il tavolo è il tavolo, ed è
diverso dalla sedia, non pronuncio più l'espressione "non è", che per Parmenide era il segno della falsità del
molteplice, ma mi muovo sempre sul piano dell'Essere. L'essere è affermato, per ogni cosa, nella sua identità e,
sempre per quella cosa, nella sua diversità da tutte le altre. Dunque, si rimane sempre sul piano del positivo, senza
mai portarsi su quello del negativo. È per questo che la dialettica, il rapporto tra identità e diversità, assume
un'importanza enorme. Se il Non-Essere è completamente risolto nell'alterità, è chiaro che Parmenide non può
più replicare in base alla contraddittorietà. Potrebbe ancora replicare in base alla molteplicità: dicendo che il

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tavolo è diverso dalla sedia, affermo la realtà di due cose, ma il molteplice è, in quanto tale, illusorio. Tuttavia
Platone ha alle sue spalle Melisso, il quale aveva detto che anche il molteplice, se permanesse eternamente
identico a se stesso, sarebbe altrettanto vero dell'Essere: e la caratteristica delle idee platoniche è proprio quella di
rimanere eternamente identiche a se stesse. Inoltre, questo molteplice delle idee non è più autocontraddittorio, ma
i rapporti tra le idee, ovvero la loro dialettica, si giocano sempre sul piano dell'identità e della diversità. L'idea
di giustizia è diversa da quella di coraggio, ma tutte e due, pur nella loro diversità, sono enti, realtà. In questo
senso Platone dà un contributo essenziale alla dissoluzione della problematica eleatica.

5. Quali critiche rivolge Aristotele alla filosofia di Parmenide?

Aristotele, secondo me, rivolge una critica conclusiva alla filosofia dell'Essere di Parmenide. Nonostante ciò che
si è sostenuto in varie epoche storiche, sono assolutamente convinto che la storia della metafisica cominci con
Parmenide e finisca con Aristotele, nel senso che, dopo Aristotele, il problema dell'Essere perde senso. In Platone
abbiamo visto che dell'Essere si può parlare in almeno due modi, come identico e come diverso. In Aristotele,
dell'Essere si parla "in molti modi", tò òn légetai pollachôs. A questo proposito è stata spesso invocata la
distinzione tra essere esistenziale ed essere copulativo: se, per esempio, dico che "Socrate è", ne affermo
l'esistenza, mentre, se dico che "la Chimera è un mostro mitologico", non intendo affermarne l'esistenza. In questo
secondo caso il verbo essere ha soltanto la funzione di copulare, di unire il soggetto e il predicato, ma non implica
l'affermazione dell'esistenza. Forse possiamo trovare la prima esplicitazione della differenza tra essere esistenziale
e essere copulativo nel Sofista di Platone. Ma Aristotele va molto oltre.

Contro la concezione parmenidea, elenca dieci modi in cui si può parlare dell'essere, detti categorie: come
sostanza (ousía), come qualità (poión), come quantità (posón), come relazione ( prós ti), come luogo (poû),
come tempo (póte), come agire ( poieîn), come patire ( páschein), come avere (échein), come giacere
(cheîsthai).

La teoria delle categorie di Aristotele è dunque il punto di approdo della critica all'essere parmenideo iniziata da
Platone. Si può dire anche qualche cosa di più, nel senso che le categorie sono, nella loro genesi, le classificazioni
possibili delle risposte che possono essere date alla domanda socratica "che cos'è?". È chiaro che, da questo punto
di vista, dopo Aristotele il problema dell'Essere non ha più senso, perché diventa profondamente equivoco, nel
senso più proprio del termine: un problema che, come tale, non ha ragion d'essere, se non si specifica l'ambito
all'interno del quale è posto. Naturalmente Aristotele non mette tutte le categorie sullo stesso piano, perché
quando domando "che cos'è?", la risposta prima e più appropriata è quella che riguarda la sostanza. D'altra parte,
la teoria che dell'Essere si parla in molti sensi sta alla base non solo della metafisica, ma anche della logica
aristotelica. La teoria della predicazione di Aristotele non potrebbe essere compresa prescindendo da questa
risposta anti-parmenidea.

6 Quali sono i tratti fondamentali della concezione aristotelica dell'Essere?

I tratti fondamentali sono racchiusi in quella che va, comunemente, sotto il nome di teoria della sostanza,
sviluppata soprattutto nei libri centrali della Metafisica. Quando Aristotele parla di sostanza ha in mente un'idea di
sapere particolare. Egli ripartisce le scienze in teoretiche, pratiche e poietiche, e, nell'ambito delle prime, distingue
la matematica, la fisica, e la filosofia prima. Infatti, il termine metafisica non è di Aristotele, ma dei suoi
commentatori, in particolare di Andronico di Rodi, un erudito alessandrino vissuto nel I secolo d. C., i quali
collocarono i libri sulla "filosofia prima" dopo quelli sulla fisica, quindi (metà tà physiká). La distinzione fra le
scienze è stabilita sulla base degli oggetti studiati: la matematica studia oggetti non sensibili e non in movimento,
la fisica studia oggetti sensibili e in movimento, e infine la filosofia prima studia le realtà più alte. In questo senso
esiste una gerarchia degli oggetti e delle scienze. Tuttavia, si può guardare la metafisica anche da un'altra
prospettiva, quella per cui ogni realtà può essere definita una sostanza, qualcosa che è, determinata da tutte le sue
qualificazioni. Pertanto è possibile distinguere tra le sostanze: sostanza è il bue, sostanza è l'uomo, ma ovviamente
tra il bue e l'uomo c'è una differenza data dalle determinazioni della sostanza, e lo studio di queste determinazioni
appartiene propriamente alle scienze. Ma al di là delle differenze tra gli oggetti delle varie scienze, e tra gli oggetti
all'interno di una stessa scienza, Aristotele rintraccia degli aspetti e delle determinazioni comuni a tutte le
sostanze. In questo senso la dottrina della sostanza di Aristotele è comprensibile solo alla luce delle critiche mosse
alla dottrina delle idee di Platone.

Per Aristotele, Platone ha sbagliato ad introdurre delle idee separate dalle cose sensibili, perché questa
separazione rende incomprensibile il rapporto tra idee e cose sensibili, mentre - per usare un'espressione

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aristotelica molto acuta - non è raddoppiando le realtà che si risolvono i problemi. Nei libri centrali della
Metafisica Aristotele elabora una dottrina della sostanza fondamentalmente concentrata sulle idee di potenza e
atto e di materia e forma. Il binomio di potenza ed atto è elaborato in funzione della soluzione del problema del
cambiamento e del movimento. Ogni cosa è in atto ciò che aveva la possibilità di essere; in questo senso l'atto è
sempre precedente alla potenza, e ne costituisce la realizzazione fondamentale. Il binomio materia e forma è
elaborato da Aristotele per rispondere al problema della separazione tra idee e cose sensibili sollevato da Platone.
Naturalmente, sia i concetti di potenza e di atto, sia quelli di materia e di forma, hanno varie formulazioni, dato
che vengono introdotti per definire problemi di tipo diverso. Ma l'oscillazione fondamentale mi pare questa: da un
lato, Aristotele concepisce la sostanza come individuo, come una stretta unità di materia e forma: l'espressione
che usa è "sinolo", in greco (synolon). Dall'altro lato, questa concezione, che diventa plausibile in polemica con il
platonismo, entra in conflitto con un'altra convinzione altrettanto fondamentale per Aristotele: quella per cui la
scienza è solo scienza dell'universale. Per Aristotele sarebbe difficile ammettere che la scienza non è scienza delle
sostanze: tuttavia, accanto alla concezione della sostanza come sinolo, egli mette in luce anche la dualità di
sostrato e accidente, in base alla quale il sostrato funge da soggetto, mentre gli accidenti sono i predicati di quelle
proposizioni in cui si esprime il sapere scientifico. È evidente che in questa dualità di sostrato e accidenti, più che
nell'idea di sinolo, è possibile rintracciare l'influenza platonica. Comunque nel difficile equilibrio tra le due
prospettive sta proprio la ricchezza dell'analisi e della riflessione aristotelica. Per concludere vorrei insistere su un
punto. La dottrina della sostanza di Aristotele non è una teoria dell'Essere, ma è piuttosto una teoria che serve a
distinguere i modi in cui si parla dell'Essere. Da questo punto di vista ogni ritorno a Parmenide e ogni tentativo di
richiamarsi alla sua sapienza recondita, o a quella della grecità classica, che Platone e Aristotele avrebbero
distrutto, francamente mi appare privo di senso. Con Platone e Aristotele non si esce dalla sapienza arcaica, ma ne
viene criticato a fondo il presupposto. Quindi, se vogliamo essere moderni dobbiamo andare più avanti di
Aristotele, non più indietro.

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