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Kathakali vesham
a Lintumol Antony che ha fatto un lavoro enorme nella traduzione dei video e
mi ha insegnato molto sul malayalam;
Introduzione 1
Allegati
Glossario 179
Bibliografia 191
“... Se encaminó al despacho del profesor y le dijo que
sabía el secreto y que había resuelto no revelarlo.
- ¿Lo ata su juramento? - preguntó el otro.
- No es ésa mi razón - dijo Murdock -. En esas lejanías
aprendí algo che no puedo decir.
- ¿Acaso el idioma inglés es insuficiente? - observaría
el otro.
- Nada de eso, señor. Ahora que poseo el secreto, podría
enunciarlo de cien modos distintos Y aun
contradictorios. No sé muy bien cómo decirle que el
secreto es precioso y que ahora la ciencia, nuestra
ciencia, me parece una mera frivolidad.
Agregó al cabo de una pausa:
- El secreto, por lo demás, no vale los caminos que me
condujeron a él. Esos caminos hay che andarlos.”
Jorge Luis Borges
INTRODUZIONE
1 Per quanto riguarda il Kathakali, quest’influenza si fecce sentire a partire del XIX secolo.
2
Oltre a questi viaggi e a tutto il lavoro di preparazione che n’è conseguito, mi sono
dedicato allo studio della storia dell’India e delle tecniche performative del Kathakali e allo
studio comparativo delle teorie teatrali orientali e occidentali, con particolare riguardo al
lavoro dell’attore. Ho approfondito lo studio del Nāṭyaśāstra e in particolare dei capitoli VI e
VII, che riguardano l’espressione scenica dei sentimenti, nel tentativo di metterle in relazione
con il lavoro dell’attore in Occidente, prendendo come punto di riferimento le teorie di
Stanislavskij. Nell’ambito della mia ricerca, ho studiato anche il rapporto che la danza indiana
ha oggi con il Nāṭyaśāstra e come questo testo s’inserisce nella realtà dei nostri tempi e nella
scena contemporanea, sia in Occidente che in Oriente.
Un’altra importante fonte per la mia ricerca sono stati i materiali audiovisivi della
videoteca del Teatro Tascabile Bergamo. Il lavoro di digitalizzazione di questi filmati si è
rivelato molto complesso, poiché la quantità di materiale è molto grande e la sua
conservazione è in gran parte compromessa. Questi filmati sono il frutto di più di 20 anni di
lavoro appassionato. Si tratta per la maggior parte di originali in Betamax e VHS, filmati e
conservati dagli stessi artisti del gruppo in modo piuttosto dilettantistico per quanto riguarda
le tecniche di ripresa, l’apparecchiatura utilizzata, la conservazione e l’organizzazione del
materiale. Tuttavia, il contenuto di queste riprese è prezioso perché esse sono state fatte con
l’accuratezza di chi cercava di possedere e conoscere a fondo i segreti professionali di quelli
che erano dall’altro lato dell'obiettivo.
Questo lavoro non ha la pretesa di raccontare tutta la storia del Kathakali né di
tracciare una panoramica dell’insegnamento di quest’arte oggi. Prendendo spunti dalla storia,
dall’antropologia e principalmente dalla teoria e della pratica teatrale nel XX secolo, con
particolare riguardo agli scritti dei fondatori di tradizioni teatrali nel Novecento (da
Stanislavskij a Mejerchol’d, da Grotowski a Barba) ho cercato di analizzare casi concreti e di
confrontarli con la mia esperienza di uomo di teatro. Ho cercato di capire come gli artisti che
ho avuto opportunità di incontrare, dai vecchi maestri ai giovani allievi, affrontano l’arduo
compito di mantenere viva la tradizione del Kathakali nel loro tempo, confrontandola con la
loro realtà e cercando di trovare il proprio posto al suo interno. Studiando la loro tradizione ho
potuto comprendere meglio la mia.
Questo desiderio di concentrarmi su casi concreti mi ha portato a utilizzare i miei diari
di viaggio come spunto per commenti, chiarimenti e riflessioni. In queste pagine di diario, che
insieme ai commenti fatti a posteriori costituiscono i capitoli II e IV della tesi, vi sono
tantissime informazioni sulla tecnica del Kathakali e sulla sua storia nel Novecento, che forse
risulterebbero più organiche dal punto di vista didattico se fossero state cartesianamente
ordinate in rapporto ai temi trattati. Ho scelto invece di affrontarli man mano che le situazioni
viste e vissute mi offrivano spunti di riflessione. Questo approccio metodologico mi è
sembrato più adeguato allo studio della trasmissione di una tradizione viva. Se qualcosa si è
perso dal punto di vista dell’ordine mentale, molto si è guadagnato in concretezza e il
confronto con le situazioni concrete ha favorito la comprensione.
Il capitolo II - diario del primo viaggio - osserva il Kathakali dal punto di vista dello
spettatore, analizzando e riflettendo sui diversi elementi che costituiscono quest’arte scenica:
la struttura dello spettacolo, le situazioni dove si presenta, i suoi artisti e il suo pubblico.
Possiamo anche osservare come si svolge l’apprendistato dell’attore, analizzandolo
soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione generale del lavoro, della storia e della
situazione attuale delle scuole e dell’insegnamento. Nel capitolo IV, invece, possiamo vedere
da vicino nel diario del secondo viaggio come si svolge la trasmissione della tradizione e
l’insegnamento delle tecniche attoriali del Kathakali. Questi due punti di vista complementari,
quello del primo diario, più distaccato e diretto allo spettacolo, e quello del secondo, più
ravvicinato e concentrato sull’insegnamento, rispecchiano le caratteristiche dei miei due
diversi viaggi.
3
In mezzo a questi due capitoli, il capitolo III cerca di fornire gli strumenti per la
comprensione delle tecniche attoriali del Kathakali e dei suoi metodi di insegnamento. Il
capitolo I invece fornisce al lettore la cornice necessaria alla comprensione delle questioni che
riguardano oggi la tradizione del Kathakali, cercando di stabilire delle connessioni con la
tradizione occidentale. Per raggiungere questo scopo abbiamo tracciato a grandi linee le
principali caratteristiche del Kerala e della sua storia all’interno dell’India, abbiamo
analizzato gli aspetti della teoria teatrale indiana che riguardano l’Arte dell’Attore e
l’abbiamo messa a confronto con le teorie del teatro occidentale, prendendo come punti di
riferimento la Poetica di Aristotele e il Nāṭyaśāstra di Bharata Muni e infine abbiamo studiato
la storia del Kathakali, dalla sua creazione alla prima metà del Novecento.
I documenti filmati che integrano questo lavoro cercano non soltanto di illustrare gli
argomenti trattati, che per il loro carattere pratico possono diventare molto più comprensibili
con l’ausilio di materiali filmati, ma anche di dialogare con il testo. Attraverso la scelta delle
immagini e il loro montaggio si è cercato di tracciare autonome linee di riflessione.
Premessa
Prima di addentrarci in questo scritto è necessario sottolineare che il mio interesse per
l’argomento non è puramente accademico. Per molti anni il teatro indiano ha rappresentato la
possibilità di confrontarmi nella pratica con una ricca tradizione. La precisione dei dettagli, il
rapporto con la musica, la solida disciplina, hanno arricchito il mio bagaglio tecnico come
attore e regista. Pur non essendo questa la prima volta che intraprendo studi teorici sul teatro
orientale, il mio punto di vista è quello dell’uomo di teatro.
Nella mia storia personale, il rapporto con il Kathakali si confonde con la mia
esperienza presso il Teatro Tascabile di Bergamo (TTB). Fino al 2004 non ero mai stato in
India. Ho conosciuto il Kathakali vedendo gli attori del Tascabile nel 1987 in Perù. Più tardi
nel 1989 sono venuto in Italia per studiare e lavorare ed è qui che ho avuto molti e diversi
contatti con il Kathakali. Sono stato allievo-attore al Tascabile fino al ’91 e dal ’92 al ’94,
attore, ora collaboratore occasionale. Ho imparato a danzare il Kathakali e feci il mio
arangettam (debutto) a Bergamo nel ‘94. Il “teatro danza classico indiano” è una delle
discipline obbligatorie per un allievo-attore al TTB. I miei maestri sono stati gli attori del
gruppo, Giuseppe Chierichetti e Mario Barzaghi (quest’ultimo ha lasciato il gruppo nel 1995),
oltre a Kalamandalam John, il loro maestro. Durante la mia permanenza al Tascabile ho
potuto vedere e anche partecipare alla organizzazione di molti spettacoli con troupe indiane e
partecipare a spettacoli con gli attori del gruppo. Mi sono occupato della videoteca del
gruppo, vedendo anche molti spettacoli in video. Fu nel gennaio 2004 che feci il mio primo
viaggio in India, in tournée con il TTB. Abbiamo presentato Valse (uno spettacolo di strada)
ad Ahmedabad e New Delhi, ma prima dell’inizio della tournée avevo trascorso 20 giorni nel
Kerala, a studiare le tecniche attoriali del Kathakali. Tornai in India anche nel gennaio e
giugno del 2005 per realizzare la ricerca sul campo necessaria al presente lavoro.2 Detta
ricerca si giova della sensibilità acquisita imparando il mestiere d’attore durante gli anni di
lavoro “tra oriente e occidente” al TTB. Per questo dovendo contestualizzare il mio approccio
al Kathakali è doveroso ripercorrere brevemente la traiettoria di questo gruppo per quanto
riguarda le sue esperienze col teatro orientale.
E’ nel 1977 che il Teatro Tascabile di Bergamo ha iniziato la sua “ricerca di una via
delle Indie” spinto dall’appassionata ostinazione del suo regista, Renzo Vescovi:
2 Il lavoro di ricerca sul campo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di Giuseppe Chierichetti, che mi ha
introdotto al Kerala e al mondo del Kathakali e mi ha presentato alle persone giuste.
4
3Nel novembre 1978, Luigia Calcaterra e Tiziana Barbiero partirono per New Delhi per studiare la danza Orissi
con Aloka Panikar e Beppe Chierichetti si recò a Irinjalakuda, presso la scuola di Kathakali Unnayi Warrier
Smaraka Kalanilayam. Restarono tre mesi. Verso la fine di questo periodo Renzo Vescovi li raggiunse. Franco
Pasi e Susanna Vicenzetto (che oggi non fanno più parte del gruppo) andarono autonomamente a studiare
Kathakali con Krishnan Nambudiri a Srikrishnanpuram.
4 “Mi ricordo che tutti hanno tentato di convincermi che era una strada un po’ stupida. Mi ricordo che quando
raccontai le mie intenzioni a Ferdinando Taviani, lui impiegò tutte le sue arti di persona di buon senso e colta per
dire che era una strada impraticabile, che non si poteva fare. E, dopo anni ed anni, solo qualche tempo fa,
Grotowski ha voluto che andassimo a fargli vedere le danze Kathakali, e, sorridendo mi ha detto: ‘Va bene,
adesso ci hai convinti tutti che la tua scelta era quella giusta, ma devi anche ammettere che quando hai
cominciato avevamo ragione noi’. E’ stata una pura casualità. E cecità di passione.” (VESCOVI 2007: nel libro
inedito Scritti dal Teatro Tascabile, a cura di Mirella Schino, di imminente pubblicazione presso la casa editrice
Bulzoni)
5 Il gruppo ha già intrapreso studi anche di Teatro Balinese, Opera di Pechino e Kutiyattam, oltre alla più recente
incursione nel Kuchipudi (dell’Andhra Pradesh, India del sud).
5
Tutti gli aspetti della poetica del gruppo si sono trasformati a partire dal contatto con il
teatro-danza indiano, ma ciò non ha determinato un riferimento esplicito alla cultura indiana
negli spettacoli del TTB. Non è nella superficie che troviamo l’approccio orientale, ma
nell’etica e nella tecnica. Tutta la terminologia e la metodologia del lavoro sono venute a poco
a poco trasformandosi in una nuova prospettiva, come testimonia questo frammento di uno
scritto di Renzo Vescovi dei primi anni di frequentazione del teatro orientale:
Ora assisto alla danza dei miei attori con occhi sempre diversi. Per
molto tempo li ho visti come uno spettatore esterno: lavoravo con loro
controllando su di me “l’intensità” generale della loro interpretazione.
Ora non più: il mio interesse si è spostato e durante le prove ora sono
preoccupato di tutt’altro: l’angolo delle braccia, l’inclinazione del
collo, la correttezza degli sguardi, la flessione delle ginocchia.
(VESCOVI 1981 : 58)
Il rapporto del Tascabile con l’India ha la peculiarità di aver mantenuto negli anni
sempre presente il riferimento alla propria identità di gruppo teatrale impegnato nella ricerca
di nuovi orizzonti per il teatro europeo. L’India è sempre stata un “luogo” più mentale che
fisico attorno al quale costruire un linguaggio di lavoro comune. E’ dal ’78 che gli attori e il
regista del TTB si recano in India quasi tutti gli anni per le cosiddette “vacanze-studio”:
periodo durante il quale gli attori del TTB raggiungono i maestri per studiare e hanno la
possibilità di concentrarsi nell’approfondimento delle tecniche della danza, lontani dagli
impegni e dal ritmo frenetico necessario alla sopravvivenza del loro gruppo teatrale). Anche i
maestri indiani vengono spesso a Bergamo, ma i periodi di permanenza, sia dei maestri in
Italia che degli attori in India, non vanno mai oltre qualche mese. Nessun membro del TTB si
è mai “trasferito” in India. E’ ovvio che dopo anni di frequentazione i più anziani del gruppo
conoscono molto bene la realtà indiana, ma, partendo dal presupposto che il teatro indiano è
classico e di conseguenza universale, il punto focale della loro attenzione è sempre stato la
tecnica (“... il discorso sull’India concerne, profondamente, per me, la questione della
tecnica...” - VESCOVI 2004 : 90). L’ideale perseguito dagli attori e dal regista del gruppo
bergamasco può essere riassunto in due concetti-talismano coniati dal loro regista: il “corpo-
orchestra” e “l'attore senza nome”.
Il primo concetto è un traguardo tecnico molto preciso:
Della dichiarazione dell’identità arte-musica, variamente affermata in
diversi momenti della storia moderna da filosofi ed artisti, va preso
atto ben al di là della sollecitazione metaforica o della scommessa
analogica. In realtà questa coincidenza implica questioni tecnico-
artistiche di dinamica e di agogica: in altre parole implica il fattore
della precisione nell’impiego dell’energia. In realtà questo
microcontrollo dell’energia è condizione indispensabile per l’accumulo
della densità, spia essenziale e incontrovertibile (ancorché, com’è
ovvio, insufficiente) della valenza artistica di un manufatto. Nella
danza indiana classica il possesso di una tecnica adeguata permette il
controllo del ritmo tenuto “dai piedi” mentre le mani sviluppano una
serie di azioni che trovano accordi (o consapevoli dissonanze) negli
occhi o nel volto... Naturalmente l’irradiarsi della competenza, la
capacità di controllare come un lucido (e appassionato) direttore
l’ensemble della strumentazione orchestrale delle membra implica
una cultura costante e prolungata (Ars longa, vita brevis ammoniva
6
6 Nel libro inedito Scritti dal Teatro Tascabile, a cura di Mirella Schino, di imminente pubblicazione presso la
casa editrice Bulzoni)
7In questo contesto Vescovi citava spesso come esempio la tradizione, ormai scomparsa, di aprire gli spettacoli
di Kathakali con il todayam, una preghiera danzata eseguita dagli attori dietro il sipario – e dunque “per gli dèi”.
8 Op. cit. Vedi p. 5, nota n. 6.
CAPITOLO I
Kathakali: Storia e Tradizione
La Poetica e il Nāṭyaśāstra
Quando ci avviciniamo al Nāṭyaśāstra, l’antico trattato sul teatro sanscrito la cui
scrittura è attribuita al mitico Bharata Muni - ancora oggi un riferimento fondamentale per la
cultura scenica indiana e di conseguenza per buona parte dell’Asia, che riconosce l’India
come fonte ancestrale della sua cultura teatrale9 (SAVARESI 1992 : XVI) - non è semplice
distinguere il mito dalla realtà: non sappiamo né quando fu scritto (la data della sua scrittura è
estremamente controversa, cambiando fra i secoli VI a.C. e II d.C. a seconda dei diversi
storici), né da chi fu scritto (non esiste nessuna evidenza dell’esistenza storica di Bharata
Muni10 ed è probabile che il Nāṭyaśāstra sia stato scritto con il contributo di diversi autori
anonimi nel corso dei secoli) tanto meno abbiamo sufficienti informazioni storiche sul teatro a
cui in esso si fa riferimento. Quando poi scopriamo che:
Dopo essere stato completato il Nāṭyaśāstra fu “perduto”, ridotto in
frammenti, sommerso, rimosso. Agli indiani moderni il Nāṭyaśāstra è
arrivato non direttamente e per lo più non come testo. (...) Come testo
il Nāṭyaśāstra è rimasto quasi sconosciuto fino a quando gli
orientalisti del XIX secolo lo dissotterrarono a pezzi e brandelli e
passarono la bellezza di settantacinque anni a ricucirlo fino ad
ottenere un testo coerente. (SCHECHNER 1998-99 : 21)
C’è da chiedersi come mai un testo quasi sconosciuto possa essere considerato un
importante riferimento. E’ mai possibile che gli indiani stessi non si siano interessati o non
siano stati capaci di trovarne l’unità e siano stati gli orientalisti occidentali a farlo?
Allo stesso tempo, l’interesse dell’arte scenica tradizionale indiana risiede esattamente
nella capacità che questa civiltà ha avuto di conservare le sue forme con una continuità
inimmaginabile in Occidente. Tradizioni come quella del Kathakali sono sopravvissute per molti
secoli, passando per periodi di grandi sconvolgimenti sociali e permanendo non immutabili ma
vive, mentre si adattavano alle nuove realtà senza che gli insegnamenti del passato andassero
perduti e diventavano sempre più dense con il contributo di ogni nuova generazione.
9Zeami, il fondatore del Teatro Nō giapponese, per esempio, afferma che la sua arte è originaria “della Patria del
Budha” (ZEAMI 1987 : 73).
10 Muni vuol dire “saggio” e Bharata sarebbe in realtà un acrostico di bhāva (sentimento), rāga (melodia) e tāla (ritmo).
10
Il Nāṭyaśāstra è un libro scritto da e per i praticanti del nāṭya, nel quale vengono
descritti puntigliosamente tutti i minimi dettagli che riguardano quest’arte. La sua importanza non
sta nel fatto di essere il primo libro sull’argomento, ma di esserne il primo trattato complessivo.
Come del Mahābhārata, che comprende tutte le storie e filosofie ad esso precedenti, anche
del Nāṭyaśāstra si può dire che “quello che troviamo qui forse può essere trovato altrove, ma
quello che qui non c’è non si trova da nessuna parte” (RANGACHARYA 2003 : XX).
In Occidente è stata la Poetica di Aristotele ad inaugurare la riflessione sul teatro. La
sua importanza per il teatro occidentale potrebbe essere paragonata a quella del Nāṭyaśāstra
per la tradizione indiana, ma osservando i due testi più da vicino, ci accorgiamo che le loro
differenze sono più numerose dei punti di convergenza. La Poetica è stata scritta da un
filosofo, dal punto di vista dello spettatore/lettore e non si riferisce specificamente al teatro
greco come fenomeno spettacolare, preoccupandosi soprattutto di analizzare la tragedia e
l’epopea come opere poetiche. Il suo punto focale è la tecnica della scrittura e non lo
spettacolo. Nella Poetica la poesia viene definita come l’imitazione di un’azione umana. Il
suo nucleo fondamentale è il racconto, ovvero, la composizione dei fatti. La specificità della
tragedia (in rapporto all’epopea) è quella di essere imitazione “di persone che agiscono e non
per mezzo di narrazione” (ARISTOTELE 1995 : 67).
Aristotele riconosce l’importanza dello spettacolo quando lo elenca come una delle sei
parti che compongono la tragedia, ma stabilisce una gerarchia dove tutti questi elementi
devono mettersi a servizio del racconto. In questa gerarchia, lo spettacolo è nominato per
ultimo; ma in realtà questo non è l’argomento della Poetica, e dunque poco o niente se ne
parla. Il lavoro dell’attore è contemplato soltanto indirettamente, in rapporto al testo.
11
11 Le forme di teatro-danza tradizionale in India si sono servite della gestualità del rituale tantrico per creare un
linguaggio di gesti codificati. Il culto tantrico utilizza tecniche di concentrazione rituale e d’interazione col
mondo divino basate su gesti rituali chiamati mudrā (sigillo, firma) e su parole chiamate mantra (inno,
invocazione, sortilegio). Si crede che i mudrā e i mantra, se eseguiti correttamente abbiano una efficacia in se
stessi e dunque siano capaci di incidere sulla realtà. Nelle arti sceniche questi gesti, spogliati dell’efficacia
rituale, sono designati come hasta (mani). Nel linguaggio colloquiale, però, vengono spesso, e impropriamente,
chiamati mudrā, anche dagli addetti ai lavori.
12
Nel teatro descritto dal Nāṭyaśāstra il naṭa usava anche la voce, ma nella gran parte
degli attuali stili di teatro-danza classico indiano il linguaggio verbale viene affidato ai
cantanti (forse l’unica eccezione è il Kutiyattam, come vedremo più avanti). Concentrandosi
unicamente sui movimenti, l’attore indiano può sviluppare un linguaggio corporeo
estremamente sofisticato, sempre strettamente legato al testo, che non solo viene “tradotto” in
gesti parola per parola, ma viene anche commentato e arricchito con immagini poetiche. “La
sua lingua resta in silenzio, ma tutto il suo corpo parla per segni e movimenti”. (TAGORE,
citato da GOSH 1975 : 9)
Per strutturare i movimenti con la densità necessaria a sviluppare questo linguaggio
simbolico e poetico, l’attore/danzatore indiano deve essere capace di frammentare il suo
corpo in unità minime. Le parti lavorano in armonia ma autonomamente, in modo che allo
stesso tempo possono eseguire compiti diversi, usando, secondo Vescovi, la tecnica del
“corpo-orchestra”. Lo stesso tipo di frammentazione armonica del corpo viene definito
nell’Abhinaya Darpaṇa (un piccolo testo che disquisisce su alcuni temi del Nāṭyaśāstra
scritto probabilmente nel secolo III d.C.12), con questa formula:
The song should be sustained in the throat; its meaning must be shown
by the hands; the mood (bhāva) must be shown by the glances; rhythm
(tāla) is marked by the feet. For wherever the hand moves, there the
glances follow; where the glances go, the mind follows; where the mind
goes, the mood follows; where the mood goes, there is the flavour
(rasa) (COOMARASWAMY (trad.) 2003 : 17).
Così, usando il suo “corpo-orchestra”, il naṭa deve condurre lo spettatore ad un’esperienza
estetica che nel Nāṭyaśāstra viene definita con la parola rasa, letteralmente “sapore”:
... just as when various condiments and sauces and herbs and other
materials are mixed, a taste (different from the individual tastes of the
components) is felt, (...) so also along with the different bhāva-s
(emotions) the Sthāyī bhāva becomes a taste (rasa, flavour, feeling).
(RANGACHARYA (trad.) 2003 : 55)
Il rasa viene definito come la sintesi o la miscela d’elementi diversi senza che si arrivi
a qualcosa d’indistinto. Il Nāṭyaśāstra descrive con grande raffinatezza psicologica i diversi
elementi che si devono combinare per produrre il rasa e, inoltre, stabilisce una distinzione fra
questo e il bhāva. Rasa e bhāva sono concetti intimamente legati e interdipendenti, ma allo
stesso tempo diversi.
There is no rasa (flavour) without a bhāva and there is no bhāva
without rasa. (RANGACHARYA (trad.) 2003 : 55)
Propiziare l’esperienza di un determinato rasa nello spettatore è lo scopo del nāṭya.
Per arrivare a questo traguardo il naṭa deve esprimere una particolare combinazione di diversi
tipi di bhāva. Così potremmo dire che rasa e bhāva si riferiscono alla stessa esperienza
rispettivamente dal punto di vista dello spettatore e dell’attore, essendo il rasa corrispondente
al sapore di un determinato cibo e i bhāva i diversi ingredienti che compongono il cibo stesso.
Nel Nāṭyaśāstra vi è un capitolo che riguarda il rasa (Capitolo VI) e un altro che
spiega il bhāva (Capitolo VII); questi concetti vengono inoltre affrontati in diverse altre parti
del libro. La loro interpretazione tuttavia, è tutt’altro che semplice e chiara. Lo stesso Bharata
ci avverte della complessità della questione.
12 L’autore del testo si chiama Nandikeśvara, ma è con tutta probabilità una figura mitica come Bharata Muni.
13
13 Dejection, lassitude, suspicion, jealousy, infatuation, fatigue, laziness, helplessness, anxiety, confusion,
remembrance, boldness, bashfulness, fickleness, pleasure, excitement, heaviness, pride, sorrow, impatience,
sleep, forgetfulness, dream, awakening, intolerance, dissimulation, ferocity, desire, disease, insanity, death, fear,
and guessing. (RANGACHARYA 2003 (trad.) : 54).
14 Feeling stunned, sweating, thrill, break in voice, trembling, pallor, tears and break down. (Idem)
14
How can a person, who does not feel sorry, cry in pain? How can a
miserable person appear joyful in happiness? When one feels sorrow
or joy and shed tears or feels thrilled, that is called his emotion; and so
the bhāva is called emotional. (Ibidem : 76)
La combinazione di tutti gli altri bhāva ha come risultato lo sthāyī bhāva, il
sentimento “dominante”, che è “permanente” durante il corso della rappresentazione e ha il
compito di suscitare un rasa preciso nello spettatore. Quando il Nāṭyaśāstra enumera e
descrive i rasa ci fornisce parecchi esempi di vibhāva, anubhāva e vyabhicārī bhāva
appropriati per la loro rappresentazione, ma in rapporto a questi, gli otto sthāyī bhāva e gli
otto rasa sono in una più stretta connessione.
A king is great among men, a teacher is great among his students;
similarly a Sthāyī bhāva is great among all bhāva-s. (...) The eight
Sthāyī bhāva-s are the eight rasa-s. (Ibidem : 65)
sthāyi bhāva
rasa
rati (amore)
śṛṅgāra (erotismo)
hāsa (riso)
hāsya (comicità)
śoka (dolore)
karuṇa (tristezza)
krodha (rabbia)
raudra (furia)
utsāha (fortezza)
vīra (eroismo)
bhaya (paura)
bhayānaka (terrore)
jugupsā (disgusto)
bībhatsa (ripulsione)
vismaya (stupore)
adbhuta (meraviglia)15
Secondo Tarlekar, il nāṭya è alaukika, cioè non appartiene al nostro mondo, ma alla realtà
immaginata dal poeta. I sentimenti terreni dell’attore non vi hanno spazio; sono i sentimenti
presenti nel dramma che vanno trasmessi allo spettatore. Per questo motivo l’attore viene
chiamato pātra o “vaso”: il gusto del vino non appartiene al vaso, che è soltanto lo strumento per
portarlo al bevitore. Il vibhāva è il contesto che determina la natura del comportamento dei
personaggi, gli anubhāva sono le azioni di questi personaggi che trasmettono allo spettatore i
sentimenti descritti dal poeta e i vyabhicārī bhāva sono azioni transitorie che permettono di
esprimere il sentimento con più intensità e cambiano in accordo con il personaggio e le
circostanze. Gli anubhāva e i vyabhicārī bhāva sono, quindi, azioni esteriori che possono essere
imitate da un attore allenato, mentre i sāttvika bhāva sono le manifestazioni esterne dello stato
interiore del personaggio. La loro rappresentazione esige dall’attore il distacco dal suo io
personale e la totale concentrazione nel personaggio (TARLEKAR 1999 : 51-66)
L’interpretazione di Rangacharya ha una sfumatura diversa, principalmente in
relazione alla funzione degli anubhāva e dei vyabhicārī bhāva. Gli anubhāva esprimono le
reazioni immediate del corpo appartenenti alla natura dell’essere umano. I vyabhicārī bhāva
sono invece azioni che avvengono in un momento successivo, con la mediazione della mente;
sono più individuali e variano da una persona all’altra – questo è il motivo per cui vengono
chiamati anche sāñcarī (mobili). Mentre gli anubhāva sono la reazione involontaria allo
stimolo dei vibhāva, i vyabhicārī bhāva sono azioni deliberate con lo scopo di esprimere una
particolare emozione. (RANGACHARYA 2003 : 356-367 e 1998 : 73-81)
15 Abhinavagupta, un commentatore del Nāṭyaśāstra, aggiunse nel secolo X un nono rasa: shanta (pace,
beatitudine). Shanta non corrisponderebbe a nessuno sthayi bhava in particolare, ma sarebbe il punto
d’equilibrio fra tutti i bhava. (SCHECHNER 1998/99 : 27). Con l’aggiunta di questo rasa, la tradizione indiana
lavora su nove sentimenti fondamentali, i navarasa.
15
- i vyabhicārī bhāva sono quelle azioni che portano un elemento di imprevedibilità e una
maggiore complessità all’azione, rappresentano il tocco dello stile personale dell’attore;
- i sāttvika bhāva sono gli elementi che non possono essere completamente dominati dalla
volontà cosciente dell’attore ma sono indispensabili per rendere la sua azione credibile.
La combinazione di questi elementi sfocia nello sthāyī bhāva che determina la linea
maestra dell’azione e permette allo spettatore di identificarsi con il personaggio e arrivare al rasa.
Essendo il rasa lo scopo del nāṭya, il ruolo dello spettatore è fondamentale. Nel dṛśya
kāvya l’attore deve dare corpo alle parole del poeta (e anche al bhāva che sta dietro le parole),
ma è nella mente dello spettatore che si manifesta la poesia. Lo spettatore ideale (sahrdayan o
rasika) deve avere una solida preparazione per essere in grado di capire la simbologia delle
azioni e le raffinatezze del linguaggio poetico, ma soltanto la preparazione intellettuale non
basta; allo spettatore ideale viene anche richiesta sensibilità.
One who is attentive, honest, able to argue and reason, who can detect a
fault and (yet) be sympathetic – such a man is qualified to be a spectator.
One who is glad when the character is glad or feels miserable when the
character is miserable and sorry when the character is sorry is qualified
to be a spectator. (RANGACHARYA (trad.) 2003 : 215)
Per un attore del teatro classico cinese o del No giapponese c’è qualcosa
che è il modus operandi di camminare. Possiamo dire (giocando con la
terminologia di Heidegger), che per lui non esiste soltanto l’azione
“walking”, esiste “walkness” (...) è come rinunciare alla nostra propria
soggettività nell’azione e occuparci delle sue stesse leggi. Cos’è
camminare? Siamo davanti alla divisione dei singoli movimenti che
compongono l’azione (...) Cos’è dunque camminare senza compito, senza
essere catturati dalla nostra soggettività? (GROTOWSKI 1993 : 64)
Questo rapporto soggetto/oggetto è fondamentale per il lavoro dell’attore occidentale e
l’azione è lo strumento per concretizzarlo. L’azione esiste soltanto se possiede uno scopo.
Guardando il lavoro dell’attore orientale con occhi occidentali, non possiamo dire che egli stia
eseguendo delle azioni. Dal punto di vista occidentale “lo studio di un’azione con la separazione
degli elementi che la compongono conduce ai segni delle azioni al posto delle azioni.” (Idem)
Secondo Grotowski però, anche Stanislavskij, alla fine della sua vita, dopo aver
compreso che i sentimenti non dipendono dalla nostra volontà, si occupò delle leggi che
reggono e organizzano le azioni fisiche:
Non mi parlate di sentimenti, non possiamo fissare i sentimenti. Possiamo
fissare e ricordare solo le azioni fisiche. (TOPORKOV 1991 : 111)
E’ impossibile recitare un sentimento. Ogni sentimento è per sua natura
così sottile che si nasconde al tocco del pensiero. Si può fare una cosa
sola: sondare la natura di un sentimento, esaminare cosa vive nel
pensiero e come si sviluppa un movimento fisico sotto l’influenza di
questa o quella reazione. (STANISLAVSKIJ 1980 : 155)
Secondo Grotowski, in rapporto al precedente lavoro di Stanislavskij, c’è un cambio
d’orientamento. Fino ad allora egli aveva creduto che usando tecniche psicologiche come la
“memoria emotiva” fosse possibile lavorare volontariamente con i sentimenti. In questa nuova
fase chiede invece agli attori di concentrarsi sulle azioni fisiche che eseguono: “tuo compito è
chiedere silenzio, ma tutte le tue reazioni, il tuo modo di sentire e di vedere, il tuo modo di
riconoscere la situazione, tutto sarà fatto per mezzo delle azioni fisiche, dunque attraverso il
tuo modo di camminare.” (GROTOWSKI 1993 : 64) La linea delle azioni fisiche permette
all’attore di penetrare nell’universo interiore del personaggio:
Attraverso un’azione fisica, come l’alzarsi da una sedia, mi potete di
colpo condurre nel cerchio della vostra vita interiore. Io saprò
immediatamente chi e cosa siete, cosa vi fa felici o infelici.
(STANISLAVSKI 1980 : 155)
Nel cosiddetto “metodo delle azioni fisiche” Stanislavskij si avvicina al concetto di
azione del teatro orientale. Tuttavia, questo concentrarsi sul comportamento fisico dell’attore
è ancora molto distante dall’“azione senza compito” dell’attore orientale. E non potrebbe
essere altrimenti poiché, come abbiamo visto, le premesse fornite dalle tradizioni orientali e
occidentali sono profondamente diverse. Secondo la tradizione occidentale, lo scopo del
teatro è raccontare una storia mentre per la tradizione orientale l’importante è “assaporare” un
sentimento estetico. Ma questi approcci diversi riguardano fondamentalmente lo spettatore e
dunque il risultato finale, il punto d’arrivo del processo teatrale. Se cerchiamo di superare
quello che Eugenio Barba definisce “l’etnocentrismo dello spettatore” (BARBA 1993 : 25) e
guardiamo queste culture dal punto di vista della tradizione dell’attore, vediamo che, a livello
pre-espressivo, le questioni che l’attore deve affrontare, anche se in contesti culturali
completamente differenti, sono all’incirca le stesse. Le risposte non sono uguali, esse devono
essere diverse per forza. A qualsiasi latitudine, ognuno deve confrontarsi con la propria
tradizione e trovare le proprie risposte.
18
Il clima tropicale e l’abbondanza di piogge, garantite dai due monsoni che interessano
la regione (quello di Sudovest, il più importante, va da giugno a settembre, seguito da quello
di Sudest, molto meno intenso, che dura fino a gennaio), determinano una vegetazione
rigogliosa e condizioni eccellenti per l’agricoltura, con due/tre raccolti l’anno. Dall’antichità
la regione è rinomata per le sue spezie.
Possiamo distinguere tre tipi di paesaggio, che attraversano longitudinalmente la regione:
- una rete di canali e lagune nella zona costiera meridionale (le back-waters) dedita
alle piantagioni di cocco e alla pesca;
- l’entroterra relativamente piano dove si intrecciano piantagioni (principalmente
risaie, ma anche alberi della gomma, banani, manghi, ecc.) e case per parecchi
chilometri senza interruzione;
- una zona montuosa (i Gathi Occidentali) che si alza d’improvviso, arrivando a
vette di più di 2000 metri di altezza.
19
La docilità del terreno e i numerosi fiumi perenni hanno determinato una distribuzione
molto regolare della popolazione: l’altissima densità demografica (tre volte superiore alla
media indiana) è “spalmata” su quasi tutto il territorio, con piccoli nodi commerciali e città
relativamente poco grosse per i parametri demografici indiani. Non vi sono neppure le grandi
concentrazioni di case che formano i villaggi tipici in altre regioni indiane.
Lo stato del Kerala ha circa 50 anni d’età: è stato creato nel 1956, raggruppando
insieme il distretto del Malabar (più una piccola parte dell’adiacente Karnataka) e i regni di
Kochi e del Tranvancore (alcune località dell’estremo sud di detto regno sono state inserite
nel vicino Tamil Nadu). La motivazione di quest’unione – inserita nel contesto di una riforma
dell’India neo-indipendente – fu la condivisione della lingua malayalam, appartenente alla
famiglia delle lingue dravidiche, ma con una grande quantità di parole di origine sanscrita.
Nell’Ottocento si riteneva che i Dravidici, di pelle scura, fossero il popolo originale
del sub-continente indiano mentre i “bianchi” Ariani, che vi avevano introdotto il sanscrito
(d’origine indo-europea, come il latino e il greco), fossero i popoli Eurasiani originari del
Medio Oriente (o addirittura delle pianure dell’Europa settentrionale) che avevano invaso
l’India scendendo dal Nord e obbligato i Dravidici a fuggire verso il Sud. Questa credenza si
basava sull’idea di gerarchia razziale dell’epoca, che considerava le “razze” di pelle scura
come primitive in rapporto a quelle di pelle chiara, ed era funzionale ai propositi politici dei
britannici mirati a “dividere per governare”, mettendo gli “Ariani” del Nord contro i
“Dravidici” del Sud.
L’argomento è molto controverso: gli storici moderni tendono a rifiutare l’idea che i
Dravidici e gli Ariani appartengano a due etnie distinte, essendo le differenze di colore della
pelle da attribuirsi semplicemente al clima. Il fatto è che la società indù si è formata a partire
dall’incontro di queste due culture. In linee generali, la cultura ariana è responsabile per la
sovrastruttura pan-indiana della società e i Dravidici rappresentano le culture tribali locali
(questa definizione è più valida per l’India del Sud). Agli Ariani la società indiana deve i suoi
testi sacri (i Veda), le sue divinità (Agni, Brahmā, Śiva, Viṣṇu...), la sua lingua (il sanscrito) e
la sua struttura sociale, che divideva la società in quattro caste o varṇa16 organizzate in una
gerarchia di purezza. La casta più pura era quella dei Brāhmaṇa (in italiano: Bramini),
sacerdoti detentori del sapere vedico, subito dopo venivano i Kṣatriya, i nobili guerrieri che
esercitavano il potere temporale; poi c’erano i Vaiśya, mercanti. A queste tre caste si
opponevano i Śūdra: servitori, gente del popolo, che non avevano accesso all’iniziazione che
faceva degli altri i “nati due volte”. Tutti quelli che non facevano parte di questa
classificazione erano fuori casta, o “intoccabili”.
La tradizione vuole che Paraśurāma (Rāma con l’ascia), uno degli avatāra
(incarnazione) di Viṣṇu, abbia lanciato la sua ascia nell’oceano facendo emergere il Kerala.
Questo potere gli era stato concesso dopo lunghe meditazioni e mortificazioni fatte per
espiare lo sterminio di ventuno generazioni di guerrieri Kṣatriya. Egli aveva donato la terra ai
Bramini che la divisero in 64 grāmaṃ (villaggi). Incapaci di autogovernarsi e vivere in pace
fra loro, i Bramini chiamarono un sovrano straniero per esercitare l’autorità reale. Questo fu il
primo di una serie di governanti mitici, i Perumāḷ. Così i Bramini, che avrebbero il potere
divino, lasciarono il potere temporale ai Kṣatriya, inferiori a loro dal punto di vista dello
status religioso, ma più adatti a governare: questo è un tema comune a diverse mitologie
indiane, ed esprime l’alleanza fra i Bramini e i Kṣatriya.
16La parola sanscrita “varṇa” significa letteralmente “colore”, con riferimento non al colore della pelle, ma al
guṇa, o qualità essenziale d’ogni casta: il bianco dei Bramini rappresenta la purezza (sattvaguṇa), il rosso dei
Kṣatriya e il giallo dei Vaiśya due sfumature dell’azione (rajoguṇa) e il nero dei Śūdra l’impurità (tamoguṇa).
La parola “casta” deriva dal latino “castus” (puro), attraverso il romanico “casto”. I primi ad utilizzarla per
designare le varṇa furono i portoghesi.
20
Nella realtà storica la dinastia dei Chera governò una buona parte dell’odierno Kerala
nei primi anni dell’era cristiana, come è descritto nelle antologie di poesie in lingua tamil
conosciute come “letteratura Sangam” (300 a.C. - 200 d.C.). I Tamil, d’origine dravidica,
occupavano tutto il Sud del subcontinente; praticavano l’agricoltura e l’allevamento di
bestiame, ma avevano un’organizzazione sociale primitiva. Poco a poco le tradizioni sanscrite
provenienti dai regni ariani del Nord si radicarono nella regione, attraverso gli insediamenti
dei Bramini, dando origine ad un nuovo sistema di relazioni sociali dove coesistono
caratteristiche ariane e dravidiche. Il sistema delle caste a contatto con le realtà tribali
endogame locali si è fatto poi molto complesso e si è diviso in tantissime altre caste, le
cosiddette jāti (letteralmente “gruppi di nascita”). Anche all’interno di una casta o di una jāti
ci possono essere molte sotto-caste con status diversi, tutte si rifanno però alle quattro varṇa.
Dopo un periodo oscuro dal punto di vista dei documenti storici sono i Kulaśēkharan a
regnare nel Kerala dall’IX al XI secolo. In seguito ad un periodo senza potere centrale, dove i
regni e i principati erano molteplici, i regni di Kozhikode (Calicut) al Nord, Kochi al Centro e
Travancore al Sud furono i più importanti fra il Seicento e il Settecento. Nella seconda metà
del Settecento il regno di Kozhikode fu invaso dai musulmani guidati da Hyder Ali (e in
seguito da suo figlio Tipu Sultan). Durante il dominio britannico, Tipu Sultan fu soggiogato e
il regno di Kozhikode divenne nel 1792 il distretto del Malabar, che faceva parte della
provincia di Madras sotto l’amministrazione diretta degli inglesi. I regni di Kochi e
Travancore rimasero nominalmente autonomi ma in realtà subordinati agli inglesi, e dopo
l’indipendenza hanno continuato ad esistere fino alla creazione della stato del Kerala.
La storia e l’organizzazione della società tradizionale indiana è molto complessa e non
è questa la sede per descriverla in dettaglio. Inoltre, la cultura del Kerala, forse per i motivi
geografici cui si è accennato, è molto particolare in rapporto alla cultura pan-indiana. Ci
limiteremmo ad accennare ad alcuni punti rilevanti per il nostro argomento, correndo il
rischio d’essere imprecisi o troppo schematici. In ogni caso bisogna tener presente che
nell’India odierna la situazione è completamente cambiata. Fra il Seicento e il Settecento il
movimento espansionistico europeo fece sorgere sulle coste indiane insediamenti portoghesi,
olandesi, francesi e danesi, prima dell’avvento del dominio coloniale britannico di quasi tutto
il sub-continente alla fine del Settecento. L’imposizione dell’ideologia e dell’organizzazione
sociale britannica alla società indiana scatenò una serie d’avvenimenti storici che sono
culminati nel movimento nazionalista, che ha portato l’India all’indipendenza e alla creazione
di uno Stato Nazionale democratico nel 1947.
Nell’India odierna tutti possono votare e hanno teoricamente gli stessi diritti, ma le
gerarchie di potere vigenti fino a meno di un secolo fa continuano a riflettersi sulla società
attuale. Prima del dominio britannico il potere di un regno veniva misurato dal numero di
soldati del suo esercito, non essendo così importante la sua dimensione territoriale. Non
esisteva difatti l’idea della proprietà della terra, ma le famiglie delle caste dominanti
possedevano diritti ereditari sui prodotti del suolo, privilegi, titoli, incarichi, ecc. Anche
quando facevano parte di un regno, queste famiglie di potenti locali avevano una grande
autonomia nei confronti del potere centrale e vivevano in rapporti di continua rivalità.
La legge indiana vieta qualsiasi tipo di discriminazione di casta o religione, ma in
realtà il sistema delle caste è ancora presente e le reminiscenze dell’antico stato delle cose si
fanno ancora sentire a livello di mentalità, nel sentimento d’appartenenza a certi gruppi
sociali, nell’osservanza di certe regole di comportamento, soprattutto negli ambienti più
tradizionali. Fra le caste dominanti, le più rappresentative nel Kerala sono i Nambudiri, i
Bramini malayali, un tempo grandi proprietari terrieri, e i Nayar, la casta dei militari, che
deteneva la maggior parte dei posti di comando a diversi livelli, dal capo villaggio al principe,
a seconda dello status delle sue sotto-caste (i principi Zamorin di Kozhikode, per esempio,
erano Nayar della sotto-casta dei Samantan). I Nayar sarebbero tecnicamente dei Śūdra, ma
21
in realtà hanno lo stesso ruolo che hanno i Kṣatriya nel resto dell’India: questi ultimi nel
Kerala sono poco numerosi. Ci sono diverse altre caste intermedie con differenti status, come
per esempio gli Ampalavasi (letteralmente: servitori del tempio). Alla base della piramide i
Śūdra, e gli intoccabili (“toddy-tappers”: Ilavan, Covan, Tiyan), Harijan, Pulayan e
Parayan). I musulmani e i cristiani (costituiscono oggi circa il 20% della popolazione del
Kerala e sono presenti nella regione almeno dal 190 d. C.) sono fuori-casta, e dunque
intoccabili, ma spesso hanno uno status particolare.
Duarte Barbosa, nato a Lisbona nel 1492 e vissuto in India dal 1500 al 1517, scrisse nel
1516 un importante racconto delle sue esperienze nel Livro do Oriente. E’ lui a fornirci la prima
descrizione occidentale del sistema di caste (da lui chiamate “leis”, leggi), nella Costa del Malabar:
... os reis são todos de uma lei e costume, mais ou menos, mas a das outras
pessoas é muito diferente, porque haveis de compreender que em todo o
Malabar existem dezoito leis de gentios naturais, cada uma diferente das
outras de tal forma que não se tocam uns aos outros sob pena de morte ou
de perda das suas propriedades...17 (Barbosa citato da CABRAL 2003)
Nel Kerala l’intoccabilità, ovvero la credenza che esistono persone “impure”, il cui
contatto può contaminare quelle “pure”, era particolarmente sviluppata. Non si limitava soltanto
ai Bramini e Kṣatriya in opposizione agli altri, com’è in genere nel resto dell’India, ma in
alcuni casi si diffondeva anche fra differenti caste d’intoccabili. Queste divisioni riflettevano
antiche rivalità tribali e diedero origine a forme di sfruttamento particolarmente feroci: molte
caste d’intoccabili vivevano in condizione di schiavitù. Forse fu proprio la reazione a questo
stato di cose a creare il terreno propizio alla diffusione delle idee comuniste nella regione, la
prima al mondo ad avere un governo comunista eletto con voto democratico, nel 1957.
Tantissimo potrebbe ancora essere detto sull’organizzazione della società tradizionale
del Kerala e sulle sue trasformazioni, ma andremmo oltre l’ambito di questo studio. Ci
limiteremo dunque ad analizzare alcuni aspetti che riguardano i rapporti d’alleanza fra le
famiglie Nayar e Nambudiri, che ebbero un ruolo fondamentale per la formazione della
cultura del Kerala, rappresentando i primi la cultura dravidica locale e i secondi, la cultura
sanscrita pan-indiana. Sicuramente anche le altre caste, oltre ai musulmani e i cristiani,
rappresentano degli aspetti culturali altrettanto importanti, ma queste due caste giocarono un
ruolo decisivo per la creazione del Kathakali.
17 “... i re hanno tutti una stessa legge e costume, più o meno, ma quella delle altre persone è molto diversa, perché
dovete capire che in tutto il Malabar ci sono diciotto leggi delle genti native, ognuna così differente dalle altre che
le persone di leggi diverse non si toccano gli uni con gli altri, sotto pena di morte o di perdita di tutte le proprietà.”
22
18“Questa legge, qui la vorrà considerare più profondamente, verrà che fu istituita con maggiore saggezza di
quanto volgarmente si pensa, poiché l’hanno fatta i re per i Nayar, così che non ci fosse niente che li prendesse,
impossibilitandoli di realizzare il loro servizio.”
23
Le “case” erano comunità estremamente coese con una forte identità propria e
costituivano veri e propri microcosmi con riti, costumi e conoscenze particolari.
Each basic unit, house and its land, ideally supported and thereby
patronized all rituals and cultural activities associated with the
necessities of maintaining both socio-economic and cosmological
equilibrium, from the sponsorship of the ritual life and annual
temple festival to training men-at-arms ready to defend the unit.
(ZARRILLI 2004 : 38)
Questi microcosmi, costituiti da una famiglia potente e numerosa o da più famiglie,
mobilitavano attorno a sé tutta una serie di attività legate alla vita religiosa, alla cultura, alla
vita quotidiana: artisti, artigiani, intellettuali, medici, ecc. Più ricca e potente era la famiglia,
più ricco e complesso era il gruppo di persone che aveva attorno a sé, sviluppando e
tramandando queste conoscenze. I punti d’aggregazione di queste comunità erano i templi
pan-indiani e i kalari (palestra, scuola, luogo di riunione, ma anche tempio familiare). Come
vedremo più avanti, questi sono due luoghi centrali per la creazione del Kathakali.
Abhinaya con Chakyar Kuttu con Nangiar Kuttu con Kutiyattam con Ammannur
Kalamandalam Girija Painkulam Damodara Chakyar Kapila Nangiar Madhava Chakyar
Nel Chilappatikaram, una delle poesie Sangam, composta circa 2000 fa dal poeta
tamil Ilango Adigal, viene descritta la performance teatrale di un certo Parayur
Kuttanchakaiyan (Paravur Chakyar) davanti al re Senguttuvan. Sulla base di questo
riferimento è stata attribuita al Kutiyattam un’antichità di 20 secoli. In ogni caso il Kutiyattam
come lo conosciamo oggi ha preso forma attorno al X secolo, durante il regno dei
Kulaśēkharan. In questo periodo il poeta sanscrito Tolan compose i primi attaprakaram e
kramadipika, i “manuali” di recitazione scritti su foglie di palma, che sono gelosamente
conservati presso le famiglie dei Chakyar come documenti segreti.
Nell’antichità i drammi sanscriti erano messi in scena in diverse parti dell’India. Il
Nāṭyaśāstra descriverebbe questa pratica e il Kutiyattam può essere considerato come l’unica
forma di teatro sanscrito sopravvissuta fino ai nostri giorni. E’ un adattamento regionale di
questo tipo di teatro, che rispetta alcuni precetti del Nāṭyaśāstra, principalmente per quanto
riguarda la teoria dei rasa e dei bhāva, ma se ne scosta in tantissimi altri aspetti, come per
esempio le regole per la costruzione dei teatri e le stesse tecniche utilizzate per rendere i
bhāva attraverso l’abhinaya.
Nel Kutiyattam vengono messi in scena soltanto singoli atti o scene dei drammi
sanscriti. Gli antecedenti della storia vengono narrati all’inizio della rappresentazione,
attraverso una convenzione drammatica chiamata nirvahanam. L’attore è libero di andare
molto oltre la semplice messa in scena del testo drammatico, spiegando il significato profondo
di ogni singola parola, narrando e inscenando fatti appena citati o correlati alla storia
principale, elaborando all’infinito ogni singola azione o immagine. In questo modo, questa
rappresentazione di un’unica scena può protrarsi per 41 notti di spettacolo. L’intento è portare
lo spettatore all’apice dell’intensità della fruizione del rasa.
Il Kutiyattam è un teatro rituale (nāṭya yajña), e come tale è rappresentato come una
forma di culto o di offerta alla divinità, inserito nella programmazione annuale dei templi.
Ogni performance deve seguire un rituale minuziosamente dettagliato. Una volta iniziato, lo
spettacolo non può essere interrotto e nessuno spettatore, neanche un re, ha il diritto di
criticare un Chakyar in scena. Si crede che gli dèi stessi siano gli spettatori. Nella platea
“terrena” sono ammessi soltanto i Bramini e i membri delle caste superiori.
Allo stesso tempo, il Kutiyattam mantiene un’affinità con la vita reale e gli argomenti
mondani. Il Vidūṣaka, un personaggio che accompagna l’eroe come suo amico, facendo da
contrappunto comico all’azione, ha la funzione di interpretare il senso della storia per gli
spettatori non iniziati alle sottigliezze della filosofia e della poesia sanscrita: è di fatti l’unico
a parlare in malayalam, criticando, rimproverando e prendendo in giro sia l’eroe che tutti i
personaggi, ma anche il pubblico stesso. Non dobbiamo però pensare ad un personaggio
rozzo, ma piuttosto ad un fine intellettuale pieno d’ironia.
25
- Il Kalarippayattu
All’inizio del Trecento, con la fine dei Kulaśēkharan, l’India sud-occidentale si
frammentò in numerosi piccoli principati in continua bellicosità fra loro. Per i sovrani indù la
guerra era un dovere rituale inerente la loro svadharma (vocazione) di casta, ed era concepita
come un rito sacrificale. Il sangue versato dei guerrieri purificava la terra e l’annichilamento
dell’avversario reiterava l’idea che un nuovo ordine cosmico si costruisce attraverso la
distruzione. La sovranità esercitata verso i sudditi era però principalmente rituale. Il potere
simbolico del sovrano era rafforzato, ai livelli più bassi della struttura, dai detentori del
janmaṃ (diritto di nascita), “piccoli sovrani” con i quali però il potere temporale andava
costantemente diviso e negoziato. Ogni Stato era diviso in alcuni natu (province), che a loro
volta erano suddivisi in desam (villaggi). I capi-provincia (natuvali) avevano il diritto di
arruolare i Nayar per l’esercito e i capi delle contee (desavali) erano responsabili per il
mantenimento dei kalari e per l’allenamento dei nuovi soldati.
In questo periodo l’alleanza fra i Nambudiri e i Nayar di alto statuto si consolidò e dal
Cinquecento all’inizio del Settecento vediamo le loro casate in grande fioritura. I Nambudiri
dovevano la loro supremazia al potere religioso e ai diritti superiori sulla terra, mentre la
rivalità fra i potenti locali portava in primo piano la cultura marziale dei Nayar.
Nei templi e nelle case nobiliari più ricche si poteva trovare tutto il personale
occorrente per una rappresentazione teatrale: artigiani, musicisti, manovalanza, ecc. Gli attori
del Kathakali sono stati reclutati fra i Nayar di basso statuto, “soldati”, allenati nelle arti
marziali e votati a morire per i loro sovrani nelle guerre e nei duelli dove si combatteva uomo
contro uomo, principalmente con spada e scudo. La loro cultura del corpo fu un elemento
fondamentale nell’amalgama che ha dato vita al Kathakali. Fra gli attori dell’epoca troviamo
molti Paniker e Kurup, sotto-caste di maestri d’armi, responsabili per l’allenamento nei kalari.
La progressiva egemonia europea durante il Settecento e il dominio britannico
nell’Ottocento hanno provocarono il declino delle tecniche marziali, dovuto all’introduzione
delle armi da fuoco e all’adozione di strategie di combattimento di tipo occidentale. Alla fine
l’Inghilterra sottomise, esplicitamente o di fatto, tutti i grandi e piccoli sovrani indigeni alla
corona inglese. Il loro volere si è subordinato agli interessi britannici e il loro potere diventò
più simbolico che reale. I loro eserciti vennero smobilitati e la cultura marziale dei Nayar non
aveva più ragion d’essere. A poco a poco la maggior parte delle famiglie dei guerrieri Nayar
dovette trovare un’altra attività e abbandonò la pratica delle arti marziali. Alcuni maestri però
preservarono l’insegnamento di queste tecniche, non più usate per uccidere, ma per le
esibizioni e le competizioni. Nel Novecento quest’arte prese il nome di Kalarippayattu
(esercizi del kalari).
26
Questa ideologia guerriera è ancora presente nelle numerose battaglie e uccisioni del
repertorio del Kathakali. Si tratta di storie che non soltanto rappresentano i conflitti e i dilemmi
degli eroi epici, ma riflettono anche quelli delle loro controparti umane: i Nayar ed i Nambudiri.
Given the vagaries and bellicosity of the exercise of power in medieval
Kerala, it is not surprising that one of the central anxieties and
concerns for Kathakali ruling, landholding patron-connoisseurs was
that of exploring the nature of ‘the heroic’. (...) As represented in most
Kathakali plays, the ‘heroic’ is a state dramatically marked by the
hero’s sacrificial act of blood-letting, usually accomplished through
one-to-one combat/warfare when one or another demon, demon-king,
or flawed epic villain is dispatched before the end of the performance.
(ZARRILLI 2000 : 23-24)
Allenamenti al C.V.N. Kalari, Thirunananthapuram. Vedi filmato sul Kalarippayattu nel DVD allegato.
The simplest ritual act is stepping into the kalari with the right foot
first, and touching the floor, forehead and chest with the right hand.
Through ritual entry the student ‘asks the forgiveness of Bhumi Devi
(mother earth) for exercising on her’. (...) At the end of the training (...)
the student steps backward on to the first step with the left foot, and
touches the floor, forehead and chest with the right hand, turns, and
exits up the steps. (Ibidem : 77)
Guruvayur Devaswom Krishnanattam Troupe. Vedi filmato sul Krishnanattam nel DVD allegato.
Il Krishnanattam è un teatro rituale che viene ancora oggi rappresentato nel tempio di
Guruvayur, nel nord del Kerala. Il suo creatore, Manadeva, regnò a Kozhikode dal 1655 al
1658. Grande devoto (bhakta) di Kṛṣṇa, nel 1652 compose il Kṛṣṇagīti, che narra la vita del
dio, dall’incarnazione (avatāra) all’ascensione (svargārohaṇa), in otto pièce rappresentate in
nove notti. Fin dalla sua nascita il Krishnanattam è rappresentato soltanto nel tempio di
Guruvayur (questo forse può spiegare il supposto rifiuto di Manadeva al Kottarakkara
Tampuram). Assistere alla sua rappresentazione è considerato un atto propiziatorio.
La devozione (bhakti) di Manadeva al dio Kṛṣṇa ci presenta l’opportunità di parlare
della bhakti, uno dei movimenti religiosi che hanno rivoluzionato la religione in India.
L’induismo ortodosso concentra la sua azione nell’efficacia del rito. Il potere religioso dei
Bramini nella società indù risiede nella conoscenza dei segreti di questi riti, la cui perfetta
esecuzione è considerata fondamentale all’equilibrio del cosmo. Il buddismo (V secolo a.C.) e
il giainismo (III secolo d.C.), furono i primi a ribellarsi contro il potere degli specialisti del
rito, proponendo l’azione (karma) come la via della conoscenza e della saggezza.
Questi e altri movimenti religiosi all’interno dell’induismo hanno contribuito, insieme
all’islamismo e al cristianesimo, all’enorme diversità religiosa dell’India, ma non hanno certo
eliminato la ritualità. Ogni indù, a prescindere dalla casta o dalla comunità a cui appartiene, è
soggetto ai riti della nascita, del matrimonio e della morte, oltre che alla pratica diaria del
pūjā, il rito di adorazione dell’immagine della divinità.
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Alla fine del VIII secolo d.C. la bhakti fiorì nell’India meridionale tra gruppi non
braminici, ponendo l’accento sulla devozione personale a un dio particolare. Vennero per
primi i seguaci di Śiva, poi seguirono subito quelli di Viṣṇu, per i quali il testo sacro
fondamentale è il Bhāgavata Purāṇa, che narra le storie dei suoi dieci avatāra (incarnazioni).
La devozione a Kṛṣṇa, il nono ed il più popolare avatāra di Viṣṇu, occupa un posto centrale
nella bhakti. Le storie della sua infanzia e giovinezza in mezzo alle gopī (pastorelle) hanno
avuto una particolare importanza perché il loro amore per lui è visto come simbolo dell’amore
dei devoti per dio o, più astrattamente, come il desiderio di unione dell’anima individuale con
la divinità (MADAN 1991: 109-137). Lo sviluppo di molte forme spettacolari dell’India è
legato alla bhakti di Kṛṣṇa. Il Gītagovinda, poema lirico-drammatico scritto dal bengalese
Jayadeva nel XII secolo e incentrato sulle vicende amorose di Kṛṣṇa e la pastorella Rādhā.
Primaria fonte di ispirazione religiosa nel visnuismo medioevale e contemporaneo, ha ispirato
molte forme di teatro e di danza in tutta l’India.
Nel Cinquecento la bhakti nel Kerala fu segnata dalla poesia devozionale di
Ezhuthachan, ancora oggi recitata da molte famiglie Nayar e in diversi templi. Quando la
conoscenza dei Veda era ristretta alle caste superiori, le sue versioni del Rāmāyaṇa e del
Mahābhārata, scritte in una lingua che mischiava le parole sanscrite con i dialetti locali,
contribuì non solo alla divulgazione degli insegnamenti dell’induismo, ma anche alla
formazione della lingua malayalam.
Non sappiamo di preciso quando visse il Kottarakkara Tampuram, le ipotesi vanno dal
1484 al 1650. La legenda lo vorrebbe contemporaneo di Manadeva. Il fatto è che scrisse
anche lui otto pièce raccontando la vita del dio Rāma, un altro avatāra di Viṣṇu, e creò il
Ramanattam. I suoi otto brani sulla vita di Rāma19 sono i più antichi fra gli attakkatha, i testi
del Kathakali. Considerate di scarso valore letterario, le opere di Kottarakkara Tampuram
hanno però messo le basi per il Kathakali.
Kottarakkara Tampuram, it’s true, does not deliver the rich literary cadences
of some of his successors such as Kottayam Tampuram and Unnayi Warrier,
but his pioneering quality in design and structure cannot be ignored and
later writers of attakkathas have learnt a lot from him. (PANIKER 1993 : 21)
Il Ramanattam, a differenza del Krishnanattam, non era un teatro rituale. La sua
rappresentazione non era legata direttamente ai templi e ai calendari delle loro feste (anche se
veniva spesso rappresentato, come ancora oggi succede al Kathakali, in occasione delle feste
nei templi). L’azione drammatica era più dinamica, con più dialoghi e meno inni devozionali
e la lingua utilizzata era il malayalam anziché il sanscrito, il che lo faceva diventare più
accessibile a tutti. Un’altra caratteristica importante è che gli attori si erano disimpegnati dal
dire il testo. Lasciando questo compito ai cantanti, essi hanno potuto sviluppare un lavoro
fisico (āṅgika abhinaya) più vigoroso.
Mentre il Krishnanattam rimase fra le mura del tempio di Guruvayur, il Ramanattam si
diffuse in altre parti del Kerala e iniziò a chiamarsi Kathakali quando il Kottayam Tampuram
(1625-1675) ampliò il suo repertorio, componendo quattro opere tratte dal Mahābhārata.20 In
seguito altri principi decisero di creare altre troupe nelle loro corti e raccontare altre storie.
Con l’allargamento del repertorio21 , il nome di Ramanattam perse il senso (aṭṭaṃ = azione
teatrale, danza; dunque il Ramanattam è la rappresentazione delle storie di Rāma) e questo
genere di teatro passò a chiamarsi Kathakali (katha = racconto; kali = rappresentare, mettere
in scena). Le Opere di Kottayam Tampuram, conosciute come le “Kottayam plays” sono oggi
considerate gli attakkatha più importanti del punto di vista didattico poiché con esse il
Kathakali ha consolidato il suo stile e le sue principali caratteristiche formali.
L’enfasi ora non è più devozionale, ma punta sull’espressione dei sentimenti (rasa
abhinaya) e di conseguenza il volto acquisisce importanza. Vengono abbandonate le maschere
di legno utilizzate per rappresentare alcuni dei personaggi e il viso dell’attore diventa una
maschera viva e colorata. I movimenti del volto dell’eroe sono messi in evidenza da una sorta
di cornice bianca nella linea del mento (il chutti) e dal colore rosso delle labbra e degli occhi in
contrasto con il verde della faccia. Il tempo-ritmo diventa meno veloce e l’azione più stilizzata.
A partire dalle fondamenta stabilite da Kottayam Tampuram, il Kathakali ebbe un grande
impulso nella seconda metà del Settecento con il mecenatismo di due dei tre più importanti rajah del
Kerala: Kartika Tirunal di Travancore e Veera Kerala Varma di Kochi. Ognuno aveva la sua
kaliyogam (troupe) di Kathakali. In questo periodo il repertorio si diversificò, così come i
personaggi. L’introduzione dei caratteri di tipo rajasic (dinamico), anti-eroi come Rāvaṇa e
Narakāsura, diede spunto a scene d’amore e scene di valore più dinamiche e sfumate. Veera Kerala
Varma, prima di diventare rajah di Kochi nel 1810, compose sette attakkatha22 e si dedicò allo
studio del Nāṭyaśāstra, scrivendo il Balaramabharatam, un trattato sull’estetica e la drammaturgia.
Il legame con i Nambudiri determinò una forte influenza della cultura sanscrita nei
nobili Nayar, creando un terreno fertile per lo sviluppo del Kathakali. Alla sua evoluzione
contribuirono principalmente i membri delle famiglie reali come Kottarakkara Tampuram,
Kottayam Tampuram, Kartika Tirunal e Veera Kerala Varma, che educati da precettori
Bramini Nambudiri avevano già la tradizione del mecenatismo e della scrittura di opere
poetiche in sanscrito. Questi primi mecenati sono stati spesso anche i primi autori degli
attakkatha, le cui strofe narrative (sloka) sono scritte in sanscrito ed i dialoghi (padam) in
manipravalam, un linguaggio letterario che mischia il sanscrito al malayalam. Gli attakkatha
raggiunsero alti livelli di poesia esprimendo l’eroismo (vīra rasa) dei Pāṇḍava con Kottayam
Tampuram e soprattutto con Unnayi Warrier, la cui opera Nalacharitam, considerata uno dei
capolavori della letteratura malayali, dipinge l’amore (śṛṅgāra rasa) di Nala e Damayantī. I
Nambudiri da parte loro, avevano una tradizione guerriera e di diritti sulla terra di gran lunga
superiore ad altre parti dell’India, occupando a volte posizioni di autorità, anche come
sovrani. Alcuni di loro ebbero i propri kaliyogam, come Kaplingadan Nambudiri, altro
importante rinnovatore del periodo, mecenate e performer, che perfezionò il linguaggio degli
hasta, basandosi sul Kutiyattam e adottando come testo di riferimento l’Hastalakṣaṇadīpika,
un manuale anonimo (scritto in sanscrito ma con caratteri malayali) che serve come base per
il linguaggio gestuale di diverse forme spettacolari del Kerala come il Kathakali, il
Mohiniyattam, il Krishnanattam e il Tullal,23 e descrive e classifica gli hasta ed i loro
significati in modo molto diverso dal Nāṭyaśāstra e dall’Abhinaya Darpaṇa.
Nella prima metà dell’Ottocento, considerata l’“epoca d’oro”, del Kathakali, quest’arte
era diventata un sofisticato teatro di corte e le sue principali caratteristiche formali erano state
messe a punto. Nel momento della sua massima raffinatezza la performance, sulla falsariga del
Kutiyattam, era molto elaborata ed esigeva tempi piuttosto lunghi: la rappresentazione di un
attakkatha si estendeva per 4 o 5 notti. Si sono sviluppati diversi stili a seconda dei diversi
sampradayam (linea di trasmissione maestro-allievo). I due stili più importanti, che hanno
lanciato le linee maestre che risalgono fino ai nostri giorni, sono il Kidangoor style del
Travancore (nel sud del Kerala) e il Kalluvazhi style di Olappamanna (nel Kerala centrale).
Nei primi tempi del Raj britannico, gli alti funzionari della Compagnia delle Indie
Orientali, seguendo l’esempio dei sovrani locali, arruolavano nautch girls e musicisti per
intrattenere i loro invitati nelle cene ed occasioni festive. A volte le nautch girls
accompagnavano anche l’esercito britannico nei suoi spostamenti per l’intrattenimento dei
soldati. La maggior parte degli inglesi però non aveva nessun interesse per il nautch, che
veniva considerato poco più che un rumore di fondo, un tocco di “colore locale”. Non è
difficile intuire che, sotto l’influsso degli uomini inglesi, il ruolo sociale di queste donne,
regolato da antiche leggi e costumi particolari, sia velocemente degenerato.
La regione del Kerala, pur avendo il Malabar sotto il dominio diretto della corona
britannica, era ancora una regione periferica; ciononostante i principi del Travancore furono
influenzati dai modelli europei. I successori di Utram Tirunal, un grande amante del Kathakali
che arrivò ad avere due diversi kaliyogam nella sua corte, non nutrivano un grande
apprezzamento per quest’arte (di uno di loro, Visakhom Tirunal, si dice che considerasse la
cultura occidentale superiore a quella orientale). Dopo la sua morte nel 1861, l’attività del
Kathakali nella corte del Travancore venne trascurata fino a restringersi a venti presentazioni
annuali nel tempio di Padmanabhaswami in Thiruvananthapuram.
Allo stesso tempo, forse incoraggiate dal vuoto lasciato dal minore mecenatismo reale,
parecchie famiglie aristocratiche Nayar e Nambudiri decisero di dedicarsi al sostegno del
Kathakali: più di venticinque nuovi kaliyogam nacquero nella seconda metà dell’Ottocento.
Mai nella storia furono così numerosi. (PANIKKAR 1993 : 38-39) Questo, tuttavia, fu un
periodo d’instabilità economica e sociale, che favorì, insieme all’incremento del numero di
praticanti di quest’arte, una diluizione dello stile. Tante di queste nuove compagnie ebbero
una vita breve o un’attività intermittente. In questo periodo la performance di un attakkatha
passò a svolgersi in un’unica notte anziché in quattro o cinque come prima.
La colonizzazione britannica portò non soltanto a cambiamenti politico-ideologici, ma
soprattutto al cambio della struttura socio-economica. La giustificazione ideologica stessa
dell’imperialismo era la presunta incapacità degli orientali all’autogoverno. Secondo questo
pensiero, gli inglesi avevano la responsabilità di portare agli indiani “il progresso sociale che
solo la pace interna e il buon governo possono garantire” (proclama della regina Vittoria del 8
novembre 1858, citato da COHN 2002 : 161). Questo genere di discorso non nascondeva gli
interessi britannici di sfruttamento delle risorse naturali e di creazione di un mercato
consumatore dei suoi prodotti industriali, ma difendeva l’idea secondo la quale, se questi
interessi commerciali si fossero tenuti sotto controllo e si fosse cercato di governare in modo
equanime, le popolazioni dei paesi soggiogati avrebbero preferito la tutela britannica al
dispotismo dei loro governanti.
Mappa esposto per occasione della “India & Colonial Exhibition” del 1886 a Londra.*
34
Intorno agli anni ’30 le arti sceniche indiane vissero un momento di “revival”,
quando alcuni importanti riformatori, lottando ancora contro i pregiudizi, rivisitarono
antiche tradizioni da molti anni emarginate, dando origine alle cosiddette “Indian
Classical Dances” 24. Gli artefici di queste re-invenzioni della tradizione erano intellettuali
che si rivolgevano all’esperienza di vecchi guru, danzatori e danzatrici socialmente
disprezzati e depositari di tradizioni considerate allora come “impure”, “degenerate”. La
loro fu un’operazione di “raffinamento dello stile”, basata sui testi antichi (più importante
fra tutti il Nāṭyaśāstra) e sulle statue dei templi che riproducono le pose di danza
minuziosamente descritte in questi testi.25 Crearono nuove danze, determinandone il
percorso d’apprendistato ed i canoni dello stile, ma allo stesso tempo ne rivendicavano
l’appartenenza ad antiche tradizioni.26 Indipendentemente da quanto queste danze
rispecchino o meno i loro modelli tradizionali, è importante mettere in rilievo che la loro
funzione sociale è completamente cambiata: non sono più un fatto religioso, ma un fatto
artistico. Questa rinascita delle danze indiane fu, per molti aspetti, influenzata da un
modello occidentale di riferimento. Lo stesso aggettivo “classico” (che andrebbe sempre
virgolettato quando riferito all’arte indiana) denota quest’influenza: l’idea di “classico”
difatti non appartiene alla cultura orientale ma è un concetto occidentale con una storia
ben precisa.
Questo rapido riassunto del fenomeno delle “Indian Classical Dances” non può che
essere necessariamente una generalizzazione che traccia le linee maestre di diverse singole
storie; in realtà ognuna di esse ha le sue particolarità. L’esempio più significativo e che allo
stesso tempo più corrisponde al concetto appena illustrato, è quello di Rukmini Devi, figlia di
un’importante famiglia tradizionale Bramina di Chennai (Madras) ma educata da Annie
Besant secondo i precetti della teosofia. Rukmini Devi aveva studiato per molti anni il balletto
classico occidentale, ma consigliata da Ana Pavlova decise di imparare il sadir nac (danza del
tempio), la danza delle devadāsī del Tamil Nadu. La sua iniziativa fu un vero scandalo, ma lei
non si fermò e insieme allo studioso e critico V. Raghavan ribattezzò la danza con il nome di
Bharatanatyam (danza dell’India), fondando nei dintorni di Chennai il Kalakshetra, una
scuola il cui scopo era diffonderne l’insegnamento fra “le ragazze di buona famiglia”,
dissociandola definitivamente dalla prostituzione.
Le diverse scuole nate nel Novecento con l’intenzione di diffondere e preservare le
molteplici tradizioni delle arti sceniche indiane si sono in parte basate su modelli occidentali
di apprendistato, con la divisione delle varie discipline d’insegnamento e con tanto di voti e
diploma di conclusione del corso. Ciononostante, spesso, queste scuole hanno dichiarato di
seguire il “gurukula system”, ma bisognerebbe analizzare caso per caso per capire fin dove
vengono rispettati i principi del gurukula o se questo viene inteso in un senso vago di rispetto
dell’allievo verso il maestro - avremo l’opportunità di farlo per quanto riguarda le scuole di
Kathakali che abbiamo visitato durante i viaggi di studio.
24 I critici indiani hanno riconosciuto come “classici” in un primo momento il Kathakali, il Bharatanatyam, il
Sankirtana e il Kathak. Con gli anni a questa lista si aggiunsero Orissi, Mohiniyattam, Kuchipudi e infine,
dall’anno 2000, il Sattrya. Ma non c’è un criterio “ufficiale” per l’attribuzione della “classicità” ad una danza:
trattasi di un consenso più o meno esplicito fra i diversi esperti.
25Il rapporto tra iconografia e testi è però tutt’altro che univoco. Ci sono differenze e variazioni che danno
margine a molteplici interpretazioni.
26 Ci rifacciamo ai concetti di “invenzione della tradizione”coniato da Hobsbawm in J. HOBSBAWM e T.
RANGER (a cura di) L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 2002, e di “restauro dei comportamenti”
proposto da Richard Schechner in R. SCHECHNER, La teoria della performance (a cura di VALENTINI V.),
Roma, Bulzoni, 1984.
37
Anche il Kathakali partecipò al “revival” della danza indiana. Nel 1930 Vallathol
Narayana Menon, uno dei più importanti poeti malayali del Novecento ed esponente del
nazionalismo indiano nel Kerala, fondò la scuola di Kathakali Kerala Kalamandalam (Kala =
arte, mandalam = accademia). Come abbiamo visto, verso la seconda metà dell’Ottocento il
Kathakali si trovava in una curva discendente, principalmente per quanto riguardava il
sostegno economico e il prestigio sociale, ma questo momento di difficoltà non aveva
paragoni con la campagna denigratoria che si era scatenata contro le devadāsī e le nautch
girls, a dispetto dell’enfatica descrizione della situazione che troviamo attualmente
nell’opuscolo di divulgazione della Kalamandalam:
Towards the fag end or the nineteenth century the traditional arts of
Kerala happened to be on verge of extinction. (...) This was but an
ephemeral phenomenon. The dawn of twentieth century witnessed a
cultural renaissance all over India. In Kerala among those who
spearheaded the cultural renaissance Poet Vallathol Narayana Menon
is an immortal name. Besides being an outstanding Poet and scholar,
Vallathol was a passionate lover of Kathakali and similar classical
dance-theatre traditions of Kerala. Against all odds he took up the task
of saving Kathakali and other stylized art-forms from eclipse.
(KALAMANDALAM 2005)
Vallathol dovette lottare contro gli stessi pregiudizi che affrontarono anche gli altri
protagonisti del “revival”, come testimonia Bharatha Iyer, nella prefazione del suo Kathakali,
il primo libro in lingua inglese sull’argomento, pubblicato in Inghilterra nel 1955:
Apart from lack of enthusiasm, this project [la creazione della
Kalamandalam] met with misleading and uncharitable criticism. A
similar fate overtook the author and his friends when they invited the
poet [Vallathol] and his Kathakali artists to Rangoon in 1935. An
overwhelming section of the Malayalis who constituted the Committee
formed for the promotion of Kathakali, were frankly apprehensive that
the exhibition of this ‘old-type dumb show’ would go towards lowering
the prestige of the Malayalis. (IYER 1983 : ix)
La Kalamandalam fu la prima istituzione pubblica per l’insegnamento del Kathakali,
ed ebbe un ruolo fondamentale nel trovare nuove forme di trasmissione dell’arte. Di fatto a
partire dagli anni Trenta del Novecento non abbiamo più kaliyogam in attività e
posteriormente vedremo nascere altre scuole di Kathakali sul modello della Kalamandalam.27
Vallathol voleva far riconoscere il Kathakali come un segno dell’identità malayali, a livello
locale, nazionale ed internazionale, e voleva dimostrare che il Kathakali poteva confrontarsi
sullo stesso piano con i teatri più tradizionali e rispettati di tutto il mondo. Non appena ebbe
strutturato un ensemble di attori incominciò a girare per tutta l’India e all’estero.
Vallathol riuscì a coinvolgere nella sua impresa i più importanti attori28 di Kathakali
dell’epoca, come Guru Kunchu Kurup, Sri Ambu Panikkar, Koppan Nair, Kavalppara
Narayanan Nair e Kadambur Gopalan Nair, ma il maestro più importante fu Pattikamthodi
Ravunni Menon, che guidò la scuola fino al 1943 e ne impose il suo sampradayam, il
Kalluvazhi stile. Ravunni Menon non si limitò però a riproporre l’insegnamento dell’arte così
come gli era stata tramandata, ma realizzò alla Kalamandalam una riforma dello stile del
Kathakali, creando quello che Zarrilli definisce il “Kalamandalam style” o “composite style”,
che ha preso elementi di diversi ed eterogenei stili precedenti. (ZARRILLI 1984 : 57)
27Nella fine degli anni ‘70 Zarilli registra l’attività di 5 scuole e le sue date di fondazione: Sri Muthappan
Kathakali Yogam (1938), P.S.V. Natyasangham (1939), Unnayi Warrier Smaraka Kalanilayam (1955), F.A.C.T.
Kathakali School (1974) e Margi Kathakali School (1974). (ZARILLI 1984 : 274)
28 Lo stesso successe per quanto riguarda i musicisti, ma questa ricerca vuole concentrarsi sul lavoro dell’attore.
39
Venerdì 7/1
Ore 15:30 – Partenza da Bergamo. Ultima immagine: Priscilla e Maria alla
finestra. Maria piange...
Sabato 8/1
Ore 6 (+ 2 ore di fuso orario) - Cambio di aereo in Doha, nel Qatar, una
piccola penisola nel Golfo Arabico. Un’oasi di ricchezza nel deserto.
Ore 16:30 (+ altre 2 ore e mezza di fuso orario) - Sorvolando la costa del Kerala e
le “back waters” (bellissime) non vedo segni dello tsunami. Arrivo rapido e
tranquillo. Vado direttamente al Paramekkavu Temple in Thrissur per vedere uno
spettacolo (“full-night”) di Kathakali, con Kalamandalam Gopi (Nala), Kottakkal
Sivaraman (Damayantī) e Kalamandalam Ramankutty Nair (Rāvaṇa).
Come abbiamo visto, durante l’Ottocento ci fu una progressiva diminuzione del tempo
necessario per inscenare una storia completa di Kathakali, da 3-4 notti ad una notte soltanto.
Nel corso del Novecento si è consolidata l’abitudine di non mettere in scena storie complete,
ma soltanto le scene più importanti, quelle che permettono agli attori protagonisti di sfoggiare
la sua bravura. Così, attualmente, le “full-night” di Kathakali sono in genere composte di
scene scelte da 2 o 3 storie diverse.
42
Nala e Damayantī sono la coppia d’innamorati del Nalacharitam di Unnayi Warrier (1665 -
1725), l’unica storia d’amore del repertorio del Kathakali. Per rappresentare tutta la storia
ci vorrebbero 4 notti, ma oggi vediamo soltanto un paio di scene della prima parte della
storia.
Di seguito a Nalacharitam si è rappresentata una scena del Thoranayuddhom, di Kottarakkara
Tampuram, tratto dal Rāmāyana - uno dei due grandi poemi epici indiani, che si ritiene scritto
attorno nel V secolo a.C. dal saggio Valkimi. Rāvaṇa, re di Lanka, in cui un rākṣasa (sorta di
“demone”)29 ha rapito Sītā, la moglie di Rāma. Nella scena che vediamo oggi, Rāvaṇa è
furioso perché Sītā non accetta il suo amore. In scena Rāvaṇa e Maṇḍodarī, sua moglie
(purtroppo non conosco il nome dell’attore che rappresenta Maṇḍodarī).
Le scuole di Kathakali nate nel Novecento hanno inventato una nuova tradizione:30 gli attori
usano aggiungere il nome della scuola dove hanno studiato al loro nome artistico. “Kottakkal”
e “Kalamandalam” stanno per “P.S.V. Natyasangham” (insediata a Kottakkal e finanziata da
una ditta di prodotti ayurvedici chiamata Kottakkal Ayurveda Sala) e “Kathakali Kerala
Kalamandalam”.
Kalamandalam Ramankutty Nair, nato nel 1925 e discepolo di Pattikkamthodi Ravunni
Menon, fa parte della prima generazione della Kalamandalam (allievo dal 1938 e insegnante
dal 1948). Fra gli attori di Kathakali è uno dei più riveriti. Kalamandalam Gopi, che è stato
suo allievo (e dal 1958 insegnante della scuola), viene definito come “The ever-green hero of
the Kathakali Stage, the most popular Kathakali Dancer.” (KALAMANDALAM 2005).
Kottakkal Sivaraman è della stessa generazione di Gopi (entrambi sono sulla settantina), ed è
nipote e allievo di Kunju Nair, anche lui discepolo di Ravunni Menon ma di una generazione
anteriore alla creazione della Kalamandalam. Kunju Nair fu il più importante maestro della
P.S.V. Natyasangham (dalla metà degli anni 40’ fino ai primi anni 60’) ed è stato a capo
della Kalamandalam durante gli anni 60’ (fino a 1972). Kottakkal Sivaraman è famoso nei
ruoli femminili e la coppia Gopi/Sivaraman come protagonisti di Nalacharitam è un
classico del Kathakali; sicuramente loro hanno già rappresentato insieme questo pezzo
decine di volte.
Vedi frammenti di performance di questi attori nel filmato nel DVD allegato
29I rākṣasa (o le rākṣasi) sono spiriti maligni che spesso disturbano i rituali, violano le tombe e s’impossessano
degli uomini. Le loro unghie sono velenose ed essi si cibano di carne umana e cibo avariato. Sono maghi capaci
di cambiare la propria forma a piacimento. Rāvaṇa è il re dei rākṣasa, nemico di Rāma. Ha dieci teste e una
forza enorme. (url: http://en.wikipedia.org/wiki/rākṣasa data: 26/4/2006)
30Cfr. L’invenzione della tradizione (HOBSBAWM e RANGER (a cura di) 2002), che spiega il meccanismo
dell’“invenzione di tradizioni” e ne fornisce alcuni esempi in diversi saggi.
43
Ore 22 - Beppe e Alessandro, i miei amici del TTB, e Vixia (una ragazza
italiana che sta facendo una tesi di laurea sul TTB) mi stano aspettando.
Arrivo allo spettacolo a metà del purappad, danzato da un solo attore.
Il purappad, la danza introduttiva degli spettacoli di Kathakali, normalmente è danzato da una
o due coppie di attori (in genere studenti): per questo motivo mi sono meravigliato che
venisse eseguito come danza solista. E’ l’unica intera coreografia di sola danza pura che viene
oggi eseguita in uno spettacolo di Kathakali.31 Secondo la tradizione, uno spettacolo di
Kathakali doveva essere aperto da un’altra danza pura, il todayam. Questo lungo pezzo
coreografico veniva eseguito sul palco, ma al pubblico non era permesso di vederlo: quando
gli attori entravano in scena due inservienti stendevano fra gli attori e il pubblico - appena
dietro la kalivilakku, la grande lampada ad olio che resta accesa davanti al palco - il tirasila:
una cortina colorata che viene usata per segnalare la fine di una scena e l’inizio di un’altra.
tirasila e kalivilakku
31 Il purappad viene a volte sostituito, per motivi di brevità, dal pakuti purappad, un’altra danza pura più corta del
purappad. Ho assistito al pakutti purappad eseguito dalle troupe di Kathakali in Europa e dagli attori del TTB (io
stesso l’ho imparata ed eseguita in scena), ma in tutti gli spettacoli che ho visto in India c’era sempre il purappad.
32
Tradizionalmente, la luce della lampada ad olio era l’unica luce che illuminava lo spettacolo di Kathakali (o di
Kutiyattam), ma oggigiorno gli spettacoli vengono fortemente illuminati da lampade elettriche.
33L’autore afferma che questa simbologia, con piccole varianti, è nota a tutti gli attori anziani a lui contemporanei (il libro
fu scritto nel 1946) e dichiara che questa versione gli fu raccontata da Kunju Kurup (1881-1970). (IYER 1983, p. 23)
44
Sembra che gli indiani applaudano poco: nessun applauso a Gopi alla
fine della sua scena. Applausi per gli attori soltanto alla fine della
storia, intensi ma veloci. Gli applausi più lunghi sono stati per i
musicisti alla fine del melappadam.34
Non è semplice capire come un pubblico così diverso da noi come quello indiano manifesti il suo
apprezzamento. C’è il pericolo di cadere in generalizzazioni “orientalistiche” 35. Nel video della
“lecture-demonstration” di Gopi al “Kalamandalam Diamond Jubilee” (2000), soltanto per citare
un esempio con la stessa persona, gli applausi sono entusiastici, ad ogni mossa dell’attore.
Nel Kathakali un vecchio, brutto e con la pancia (Sivaraman) può fare la parte
di una bellissima fanciulla ed essere assolutamente convincente!
I grandi attori di Kathakali, se non hanno problemi di salute che impediscano loro di danzare,
continuano in piena attività fino a età avanzata. E’ difficile vedere un attore con meno di 40
anni rappresentare un ruolo importante.
Nel tiranokku di Rāvaṇa, insieme a Ramankutty Nair entrano in scena nove
ragazzi a rappresentare le altre teste di Rāvaṇa (che ha per l’appunto 10
teste). Il tiranokku mi sembra piuttosto confuso: Ramankutty Nair, visibilmente
seccato, deve dare ordini agli “attori” che rappresentano le altre teste di
Rāvaṇa, che non sanno dove andare e cosa fare e hanno un trucco grossolano
e dei costumi che sembrano dei pezzi di stoffa presi a caso.36 Tutta questa
confusione attorno è in assoluto contrasto con la dignità della performance del
maestro, anche se lui non mi sembra in piena forma (ho saputo dopo che è in
convalescenza da una grave malattia). 37
Nel tiranokku, (lo “sguardo dal tirasila”, che viene eseguito nella prima apparizione di certi
personaggi) il tirasila viene lentamente abbassato fino a svelare il personaggio dalla cintura in su.
A dispetto della stanchezza e della mancanza di lucidità (una full-night di
Kathakali dopo dodici ore di aereo...), noto differenze enormi nelle
performance degli attori più anziani. Fino a dove queste sono differenze dovute
a scuole diverse o allo stile personale di ognuno?
Non credo che si potrebbe parlare di scuole diverse per i tre attori in questione, dato che il loro
sampradayam risale a Ravunni Menon. Ma dopo più di 50 anni d’attività, questi grandi attori
hanno sviluppato non soltanto stili personali, ma anche concezioni molto diverse della tradizione.
34 Il melappadam è un momento di performance musicale che avviene dopo il purappad*. Fa parte dei
preliminari di uno spettacolo di Kathakali e offre ai musicisti l’opportunità di sfoggiare la loro bravura.
35Cfr. il libro Orientalismo - l’immagine europea dell’Oriente (SAID 2004), fondamentale per la riflessione sui
rapporti fra Oriente e Occidente.
36 Ecco una nota biografica su Ramankutty Nair in un’intervista per la rivista indiana Sruti a proposito di questo
tipo situazione: As a teacher, Ramankutty Nair was very tough and a traditionalist to the core, who believed that
the thick wooden rod used in the class for tala-keeping had yet another use. He was as severe with his
accompanists during performances. The passage of time has made no difference. Even now, whatever may be the
character or the context of the story being presented, he is prone to react sharply on the spot if any of the
accompanists commit a mistake; invariably, he would fix his eye full of anger at the culprit. (SRUTI 2001 : 21-31)
37 Scrive Giuseppe Chierichetti parlando della stessa scena: Lui ha sempre avuto uno stile che potremmo definire
“endo-attivo”: rivolto al dentro. Hasta piccolissime, passi appena accennati ma assolutamente a tempo, occhi piccoli
ma velocissimi. E in più gli ottanta pesano. Ma Cristo! non si riusciva a staccare gli occhi da lui: per come preparava
l'azione, come la svolgeva per poi concluderla beffardamente. Il tamburo faceva fatica a stargli dietro. Un principe
dell’assorbimento nella antropologia teatrale, dove tempo e spazio dialogano impercettibilmente ma inesorabilmente
nello sviluppo dell’azione psicologicamente determinata da un testo. (CHIERICHETTI 2006 : 245-255)
45
Domenica 9/1
Ore 5 - Dopo lo spettacolo Beppe mi presenta Narippatta, che faceva parte
della troupe di Kathakali che ha partecipato all’atelier di Bergamo nel 1977.
Nella sua “visit card” c’è scritto “Sadanam Kathakali Academy - Narayanan
Nambudiri - Art Director”. Ci ha invitati ad una full-night alla Sadanam (una
delle scuole che avevo già intenzione di visitare) il 17/1.
Andiamo in taxi io, Beppe, Alessandro e Vixia a Cheruthuruthi, io a casa di
John, loro nella casa che hanno preso in affitto da John a fianco del suo kalari.
Diamo un passaggio a M.P.S. Nambudiri, ex-insegnante alla Kalamandalam
che ha collaborato con Zarilli nella redazione dei suoi libri sul Kathakali. Io e
lui chiacchieriamo un po’ e chiedo di intervistarlo (in pratica faccio già una
prova dell’intervista).
Gli attori di Kathakali appartenenti alla casta dei Nambudiri non aggiungono al loro nome
artistico il nome della scuola dove hanno studiato come fanno gli altri. E’ il caso di
Narippatta, che fu allievo della Sadanam, e di M.P.S. Nambudiri, che ha studiato alla
Kalamandalam. I Nayar a loro volta prendono il nome della scuola ma mantengono il nome di
casta (Kalamandalam Ramankutty Nair, Kalamandalam Padmanabhan Nair, Kottakkal
Krishnankutty Nair...). All’inizio ho fatto un po’ di confusione con il nome di Narippatta, dato
che tutti nel mondo del Kathakali lo chiamano così, ma nel suo biglietto da visita questo nome
non risultava (non so perché): “Narayanan” è il suo primo nome, “Narippatta” è il nome di
famiglia e “Nambudiri” indica l’appartenenza alla casta dei bramini del Kerala, dunque il suo
nome completo è Narippatta Narayanan Nambudiri.
Ore 15 - Vado a Shornur e torno a piedi. Faccio un salto alla casa di M.P.S.
per cercare di fissare un appuntamento per l’intervista. Non c’è nessuno.
Approfitto per visitare l’“Old Kalamandalam”, che è a due passi. Il portone è
aperto, ma anche qui non trovo nessuno, soltanto galline, cani e scoiattoli. C’è
una grande tranquillità.
L’“Old Kalamandalam”, sede della Kalamandalam dal 1937 al 1971, sta ai margini del fiume
Bharathapuzha che divide i distretti di Thrissur, dove si trova Cheruthuruthi, e di Palakkad
dove s’incontra Shornur, la città più vicina a Cheruthuruthi, che è invece un piccolo paese.
Nel suo giardino si trovano le tombe di Vallathol e di sua moglie. Attualmente la
Kalamandalam è sempre a Cheruthuruthi, ma in uno spazio molto più grande, a circa 4 km di
distanza. Ho pensato che l’“Old Kalamandalam” fosse chiusa perché era domenica, ma poi ho
scoperto che oggi lo spazio funziona come museo e viene aperto soltanto per gruppi
organizzati di turisti che lo visitano come una delle tappe di una sorta di visita guidata alla
Kalamandalam chiamata “A day with the masters”, che include anche la visita ai kalari
durante le lezioni e un pranzo tipico keralino.
46
Ore 18 - Vado a vedere uno spettacolo di Nangiar Kuttu e Chakyar Kuttu nel
tempio a fianco della scuola secondaria a Cheruthuruthi. La Nangiar è
Kalamandalam Shylaja, la moglie di Kalamandalam Rajashekaram, professore
della Kalamandalam, che ho conosciuto in Italia. Purtroppo non so il nome del
Chakyar. E’ la prima volta che vedo il Kuttu dal vivo.
Dal 1965 il Kutiyattam è insegnato alla Kalamandalam, dove è stato introdotto da Painkulam
Rama Chakyar. Kalamandalam Shylaja e Kalamandalam Girija, attualmente insegnanti alla
Kalamandalam, sono state le prime ragazze al di fuori della casta delle Nangiar ad apprendere
quest’arte. Nel 2001 il Kutiyattam è stato proclamato dall’Unesco come uno dei “Masterpiece
of the Oral and Intangible Heritage of Humanity”. Nel 2001 sono stati proclamati 19
“Masterpieces”, essendo il Kutiyattam l’unica indiana. Altre due proclamazioni sono state
fatte nel 2003 (28 “Masterpieces”, di cui una indiana: Il canto vedico) e nel 2005 (41
“Masterpieces, e una indiana: Il Ramalila). 38
Nel Chakyar Kuttu ho l’opportunità di vedere il Vidūṣaka, il “clown indiano”.
Ha parlato rivolgendosi direttamente al pubblico, composto nella maggioranza
da bambini, che hanno riso poco. Neanche a me divertiva, ma le sue
intonazioni mi sono sembrate interessanti, pur non capendo niente di quello
che diceva.39
Il Vidūṣaka è una sorta di cantastorie che narra in sanscrito e poi spiega in malayalam
episodi tratti dai testi sacri. Nel suo discorso non mancano la satira e i riferimenti ai temi
d’attualità. Più o meno come il buffone nella tradizione occidentale, lui sarebbe autorizzato
a criticare i potenti in chiave umoristica. Si racconta che Chachu Chakyar, nato nel 1881,
doveva rappresentare un Kuttu per 41 giorni nel famoso tempio di Vadakkumnatha, a
Thrissur. Il maharaja di Kochi, che aveva recentemente abdicato al trono, andò a vedere lo
spettacolo, ma qualche minuto prima di recarsi al tempio, spedì all’attore un messaggio
prescrivendo la storia che doveva essere narrata quella sera. Andò i giorni seguenti e
sempre decise il tema della serata allo stesso modo. Dopo qualche giorno, chiamò Chachu
Chakyar al suo palazzo. Nel corso di una cordiale conversazione, il maharaja gli fece
notare che le sue ultime performance erano al di sotto del suo livello di qualità abituale.
L’attore osservò che il fatto di sapere l’argomento del Kuttu soltanto alcuni minuti prima di
andare in scena lo metteva in grande difficoltà e chiese di poter decidere lui il tema almeno
quella sera. Il maharaja acconsentì. Chachu Chakyar scelse la scena dove Rāvaṇa prende in
giro Rāma per aver abdicato al trono. A un certo punto disse, come se fosse Rāvaṇa che
parla a Rāma, ma dirigendosi al maharaja: “Hai abdicato al trono per tuo proprio desiderio?
O sei stato detronizzato? Per salvare la faccia tu dirai sicuramente che l’hai fatto
volontariamente, ma non è vero. Ti hanno cacciato fuori dal trono perché le tue azioni
indegne sono diventate intollerabili.” Il maharaja diventò rosso dalla rabbia, ma il Chakyar
andò avanti tranquillo fino alla fine. Il giorno seguente, il maharaja chiamò l’attore un’altra
volta al suo palazzo e si congratulò con lui per l’eccellente performance del giorno prima.
(VENU 2002 : 38)
Lunedì 10/1
Ore 17 - Arrivo a Irinjalakuda, dove ho intenzione di visitare l’Unnayi Warrier
Smaraka Kalanilayam, una scuola di Kathakali, e la Natana Kailari, un centro
culturale dove c’è un festival di Kutiyattam questa settimana. Vado
direttamente alla Natana Kairali. C’è uno spettacolo alle ore 18. Parlo con G.
Venu, considerato un personaggio di spicco della cultura indiana,
politicamente molto influente. Ha scritto libri sul Kathakali e sul Kutiyattam.
Dicono che sia per suo merito il riconoscimento del Kutiyattam dall’Unesco.
Spiego rapidamente i motivi della mia visita e chiedo di videoregistrare gli
spettacoli e di avere un’intervista con lui. Per l’intervista, non ci sono
problemi, la possiamo fare il giorno seguente verso le 16, ma per la
registrazione devo fare una donazione alla sua istituzione di almeno Rs 2000.
Decido di non fare la registrazione. In compenso ho comprato 1 video-cd di
Kutiyattam (Rs 300).
All’imbrunire le bambine accendono la lampada ad olio fuori dal teatro. La
Natana Kairali è molto “carina”. Il piccolo teatro ha il tetto di paglia e il
pubblico si siede sulle stuoie. In platea, poca gente, più stranieri che indiani. Il
Kutiyattam, in realtà, è molto simile al Kathakali (più corretto sarebbe dire il
contrario, ma avendo già visto molti spettacoli di Kathakali ed essendo questa
la prima volta che vedo il Kutiyattam dal vivo, così mi pare), però più lungo e
più noioso.
Arpana Nangiar, una giovane attrice, mi ha colpito per la sua interpretazione
di Sītā (ha fatto un bellissimo “pianto musicale”). Sono quasi tutti molto
giovani, attori e musicisti. Sicuramente non ho visto nessun maestro al livello
di quelli che sono abituato a vedere nel Kathakali.
La famiglia Ammannur è una delle più importanti tra le famiglie Chakyar, originaria del
villaggio di Koopan, vicino a Pattambi e radicata in Irinjalakuda dal 1874. Ammannur
Madhava Chakyar,40 nato nel 1917, è l’ultimo rappresentante vivente dei tempi del gurukula,
quando il Kutiyattam era un teatro sacro che veniva rappresentato soltanto nei templi. Ha
imparato l’arte dai suoi zii Chachu Chakyar e Madhava Chakyar. La Ammannur Chachu
Chakyar Smaraka Gurukulam, una piccola scuola di Kutiyattam, ha iniziato le sue attività nel
1982 e accoglie allievi di tutte le caste.
Alla fine dello spettacolo l’attore si toglie la corona, prende gli stoppini accesi
della lampada e li posa sul pavimento.
Rispettando la sua origine religiosa, il Kutiyattam prevede una serie di rituali prima, durante e
dopo le presentazioni, anche quando viene rappresentato fuori dei templi. Il rituale di
conclusione della performance, dove il Chakyar si toglie la corona e prende i tre stoppini della
lampada (che rappresentano la trimūrti41 ), si chiama mutiyakkitta.
Ore 23 - Dopo lo spettacolo non trovo nessun posto aperto per mangiare. Mi
devo accontentare di qualche biscotto.
40 Vedi una performance di Ammannur Madhava Chakyar nel filmato sul Kutiyattam nel DVD allegato.
41Presso la religione Induista, la trimūrti (definita anche trinità Indù) indica i tre principali aspetti della divinità:
Brahmā, il Creatore; Viṣṇu, il Conservatore e Śiva, il Distruttore. Secondo la fede nella trimūrti, queste figure
divine sono semplicemente aspetti differenti riconducibili allo stesso e unico Dio (detto anche Īśvara), aspetto
simile alla Trinità della religione cristiana. (url: http://it.wikipedia.org/wiki/trimurti - data: 21/4/2006)
48
Martedì 11/1
Ore 10 - L’Unnayi Warrier Smaraka Kalanilayam sta a fianco del tempio di
Koodal Manikyam, un grande tempio dedicato a Bharata, il fratello di Rāma
che le ha riconsegnato il trono quando è ritornato dall’esilio. Non ero molto
sicuro di essermi fatto capire dall’autista del “three-wheeler”42, ma dal suono
dei tamburi mi rendo conto di essere nel posto giusto.
42 Così si chiamano nel Kerala i veicoli a 3 ruote che da altre parti in India chiamano risciò.
49
43I massaggi vengono fatti soltanto durante la stagione dei monsoni (da giugno a agosto) e tutta questa sezione
del lavoro non viene fatta da dicembre ad aprile (la stagione degli spettacoli).
44 Costume tradizionale degli uomini: un lungo tessuto di cottone avvolto alla vita.
51
genere profondamente sentita dai singoli individui nella più pura tradizione della bhakti. I
momenti di entrata e uscita nel kalari, l’inizio e la fine delle lezioni, sono segnati da azioni
rituali che coinvolgono il pavimento, gli strumenti musicali, il bastone e lo sgabello del
maestro. Analogamente esistono azioni rituali che segnano l’inizio e la fine degli spettacoli
e anche l’inizio del trucco. Il principale di questi gesti rituali è il namaskāra, 45 un saluto
eseguito con tutto il corpo all’inizio e alla fine delle lezioni e anche dietro il tirasila,
quando l’attore entra in scena per la prima volta durante uno spettacolo. Anche i musicisti
eseguono dei pezzi musicali che hanno la stessa funzione dei saluti degli attori, e di fatti
vengono anch’essi chiamati namaskāra.
Assisto i due allievi senior che eseguono il solo di Hanūmān in
Kalyanasougandhikam.
Kalyanasougandhikam è una delle quattro “Kottayam plays”, tratta dal Mahābhārata, poema
epico indiano che narra le dispute fra i fratelli Pāṇḍava e Kaurava fino alla vittoria dei
Pāṇḍava nella grande battaglia finale. In Kalyanasougandhikam, Draupadī, moglie dei cinque
fratelli Pāṇḍava, e Bhīma, il più forte di loro, si trovano in una foresta quando il vento posa ai
piedi di Draupadī un fiore meraviglioso (il sougandhikam). Lei chiede allora a Bhīma di
portarle altri di quei fiori. Bhīma sa soltanto che il fiore è arrivato da nord (perché il vento
soffiava da quella direzione) e parte alla sua ricerca. Lungo il cammino incontrerà molte
difficoltà. In una foresta s’imbatte nel suo fratellastro Hanūmān, una scimmia divina che,
come lui, è figlio di Vāyu, il dio del vento. La scimmia sta meditando quando viene disturbata
da Bhīma che sopraggiunge spavaldo, abbattendo gli alberi con la sua clava (il gedha) e
spaventando gli animali. Hanūmān decide che egli merita una lezione: si trasforma in una
vecchia scimmia e si mette sulla sua strada. Quando Bhīma arriva e pretende che la scimmia
si sposti, questa gli chiede di essere lui stesso a spostarla. L’eroe ci prova, ma non riesce e
cade a terra spossato. Hanūmān allora si rivela, i due fratelli si salutano affettuosamente e
Bhīma prosegue per la sua strada.
I due allievi rappresentano Hanūmān che sta meditando e viene disturbato e in
seguito Bhīma che arriva. Il tutto dura circa quaranta minuti. Vedo alcuni
piccoli dettagli diversi in rapporto all’Hanūmān che conoscevo. Per esempio
loro non fanno l’ashtakalasam, quando Hanūmān riconosce Bhīma (invece
Sadanam Krishnankutty e Mario lo fanno).
I kalasam sono pezzi di danza pura che intramezzano le strofe dei padam (scene con testo)
nelle performance di Kathakali. I nove diversi tipi di kalasam sono eseguiti con dei tala
(ritmi) specifici d’accordo con il rasa della scena che questi hanno lo scopo di esaltare. In
genere sono abbastanza corti, e servono per sottolineare le diverse parti del discorso, ma in
alcuni casi sono più lunghi come nel caso dell’ashtakalasam, un famoso e controverso
kalasam usato per esprimere la gioia. Secondo i più ortodossi, nel Kalluvazhi style questo
kalasam dovrebbe essere danzato soltanto da Arjuna in Kalakeyavadhom per esprimere la sua
felicità davanti alle bellezze di Devaloka, la corte degli dèi. La tradizione del sud del Kerala
però, lo voleva anche espressione della felicità di Hanūmān quando riconosce il suo
fratellastro Bhīma. Keezhpadam Kumaran Nair decise di assimilare questa tradizione del sud
e introdusse l’ashtakalasam nel suo Hanūmān, adattandolo al Kalluvazhi style, non soltanto in
Kalyanasougandhikam ma anche in Lavanasuravadhom. Ramankutty Nair, anch’egli famoso
45 Gli indu si salutano normalmente unendo le mani e chinando leggermente il corpo in avanti. Questo saluto si
chiama namaskāra e salutando si dice “namaste” (namas = chinarsi, ubbidire, rendere omaggio; te = tu). Fra pari
le mani unite vanno messe all’altezza del cuore, se si saluta qualcuno che merita molto rispetto le mani vanno
messe davanti alla fronte; mettendo le mani sopra la testa si salutano gli dèi. Nel teatro-danza indiano il namaskāra
elaborato in forma artistica diventa una piccola danza con lo stesso significato. Il namaskāra o kumbiduka (chinarsi
in malayalam) è la prima cosa che un allievo di Kathakali vesham impara nella sua prima lezione.
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nel ruolo di Hanūmān, ha sempre resistito a quest’idea, anche se egli stesso lo ha invece
introdotto alla fine di Subhadraharanam, danzata da Kṛṣṇa e suo fratello Balarāma. Gli allievi
della Kalamandalam e della Kalanilayam non eseguono l’ashtakalasam in
Kalyanasougandhikam, ma Sadanam Krishnankutty, allievo di Kumaran Nair, sì.46
Nel 1990 Il TTB ha messo in scena Kalyanasougandhikam con Giuseppe Chierichetti nel
ruolo di Bhīma, Alberto Gorla come Draupadī e Mario Barzaghi nel ruolo di Hanūmān, che si
è molto ispirato a Krishnankutty per la costruzione del suo personaggio, e così ha introdotto
l’ashtakalasam nella sua partitura.
Alla fine del pezzo fanno una pausa. Ne approfitto per scappare. Faccio segni
d’approvazione ai ragazzi, retribuiti con sorrisi.
Ore 15:30 - Vado di corsa a incontrare G. Venu. Arrivo alle 16 e lui sta
riposando. Si sveglia verso le 17 e mi saluta, però in realtà mi ignora. Inizia a
parlare con un signore svizzero. Vanno verso la cucina prendere un the. Venu ji
non torna più. Mi rilasso e rinuncio all’intervista, parlo con i presenti, che
aspettano l’inizio dello spettacolo. Per “consolarmi” penso che in fondo il
Kutiyattam non è il punto focale della mia ricerca.
Ore 19 - Lo spettacolo è un Nangiar Kuttu interpretato da Usha Nangiar. Se ho
capito bene, era lo Yahi Mādhava, però con riconciliazione e danza finale
delle gopī. Lei è brava, ma definitivamente trovo il Kutiyattam noioso. Meno
male che oggi è finito presto e faccio in tempo a mangiare (bene).
Lo Yahi Mādhava è una delle poesie che compongono il Gītagovinda; è l’unico episodio che
turba la felicità della coppia Kṛṣṇa e Rādhā: lei lo aspetta tutta la notte ma Kṛṣṇa arriva
soltanto al mattino e porta sul corpo le tracce dell’amore fatto con un’altra donna. In questo
caso Rādhā è una khaṇḍitā (la donna tradita), uno degli 8 tipi di eroina secondo la tipologia
descritta nel Nāṭyaśāstra. (RANGACHARYA 1996, p. 196)
Usha Nangiar è della prima classe di allievi della Ammannur Chachu Chakyar Smaraka
Gurukulam (1982).
Ore 24 - Decido di controllare la videocamera prima di dormire. Non riesco né
a registrare né a vedere niente! Cerco aiuto nelle istruzioni. Consigliano di
utilizzare un nastro di pulizia delle testine, ma io non ce l’ho... Cosa fare?
Prendo un nastro vergine e lo faccio scorrere in “fast-forward play” per un
po’. Funziona! La telecamera è a posto! Buona notte.
Mercoledì 12/1
Ore 9:15 - Arrivo in ritardo e non riprendo l’inizio della lezione! Nel
cholliyattom 4 ragazzi e 1 ragazza fanno il todayam e il purappad. Nella
“sitting class”, sul palcoscenico del teatro, i 2 ragazzi di ieri ripetono la
partitura di Hanūmān da seduti e senza musica, usando soltanto il tronco, la
faccia e le mani. Nella platea la lezione di chenda, dove 2 ragazzi suonano con i
bastoni su dei blocchi di pietra; nella lezione di maddalam, al secondo piano, tre
ragazzi suonano picchiando con le ditta in un pezzo di legno che imita la
forma cilindrica del tamburo. Faccio il giro di tutte le lezioni (4 ore di
registrazione). Nella pausa filmo la scuola dentro e fuori da tutti gli angoli; dal
secondo piano filmo la vista del tempio. Filmo da lontano due allievi (una
ragazza e un ragazzo) che parlano: lui le sta chiarendo un dubbio su un pezzo
di danza.
Il mondo del Kathakali è maschile. Attori, musicisti, truccatori, sono tutti uomini. I ruoli
femminili sono rappresentati da uomini. Prima di venire in India pensavo che una donna
indiana che fa Kathakali fosse una cosa pressoché impossibile. Invece ho visto alcune ragazze
indiane che praticano Kathakali, seppure a livello amatoriale. Soltanto nella Kalanilayam ho
visto una ragazza che faceva il corso di Kathakali vesham e una ragazza che studiava canto a
tempo pieno. Ma loro non dormivano nella scuola insieme ai ragazzi.
Ore 14:30 - Prima di incominciare la lezione, Gopi mi chiede di spegnere la
telecamera e fa un rimprovero agli allievi. Non ho capito il motivo della
reprimenda, ma mi è piaciuto il suo atteggiamento, calmo e autorevole, anche
se visibilmente arrabbiato. Non rimane lui al cholliyattom, ma un maestro più
giovane (Kalanilayam Anilkumar). Mi chiede cosa voglio vedere: chiedo di
ripetere il pezzo di ieri. Fanno anche un altro pezzo che non conosco. Alla fine
diventa una festa con i ragazzi che mi dicono il nome davanti alla telecamera e
foto di gruppo. Tutti vogliono vedersi nello schermo della telecamera.
Dopo la lezione passo in albergo, prendo lo zaino e ritorno a Cheruthuruthi.
All’uscita, parlando con il padrone dell’albergo, scopro che lui è il tesoriere
della Kalanilayam.
Giovedì 13/1
Ore 14 - Vado con gli italiani in un bellissimo villaggio tamil vicino a Palakkad.
La scuola/compagnia di John, la Kalatarananghini, presenta insieme a loro
questa sera uno spettacolo di Kathakali. Oltre a tutta la troupe ci siamo io e
Vixia. In 2 Jeep siamo più di 15 persone, costumi, tamburi, ecc. Quando
arriviamo ci fermiamo a mangiare alla casa del committente. Non ci sono né
sedie né tavoli: il cibo ci viene servito per terra su delle foglie di banano.
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47Sivadas e Gopalakrishna lavorano da John, il primo come maestro e il secondo non mi è mai stato chiaro cosa
faccia (amministrazione?).
55
Mary è entrata nel mondo della danza già adulta, dopo il suo matrimonio con John; ha
incominciato facendo il trucco per il Kathakali e dopo ha imparato il Mohiniyattam, il
Kuchipudi, il Bharatanatyam e anche un po’ di Kathakali. Lei e le sue figlie (19 e 16 anni)
danzano diversi stili. L’anno scorso Rya (la sorella più grande) è arrivata al secondo posto in
tutto il Kerala, in una “competition” dove i giovani si misurano danzando 4 stili diversi. La
partecipazione di Rya a questa “competition” ha comportato un alto investimento finanziario
per John (lezioni, costumi, viaggi, musicisti, ecc.), ma queste gare vengono parecchio seguite
dalla gente e dai media in Kerala; vincerne una è un ottimo biglietto da visita per lo “star
system” indiano. Rya ha già fatto 2 film ed è abbastanza famosa a Cheruthuruthi.
Ciononostante sta studiando odontoiatria: il futuro per chi vive soltanto d’arte in India è
troppo incerto e John è un padre molto premuroso e preoccupato per il futuro delle sue figlie.
Sabato 15/1
Ore 11 - Ritorno alla casa di M.P.S. per cercare di fissare l’intervista. L’abbiamo
fissata per il giorno 24, ma devo chiamare il giorno prima per confermare. Lui è
molto impegnato con il matrimonio di suo figlio che vive in Africa ed è venuto in
Kerala per sposarsi. Una visita veloce, ma gradevole, lui è molto gentile. Mi fa
vedere una busta con l’invito per l’Ista48 in Polonia (lui è già stato ad un’Ista in
passato e ha fatto una dimostrazione sul Kathakali che io ho visto in video).
Ore 16 - Andiamo John, Beppe, Alessandro, Vixia ed io alla casa di
Padmanabhan Nair per la “sitting class”. La si fa in una saletta all’ingresso
della casa, dove ci sono foto, ritratti di suo padre e di lui mentre fanno
Kathakali, trofei, ecc. Tutti sono seduti per terra tranne Vixia ed io, che ci
sediamo sul divano. La lezione è durata più o meno 1 ora e mezza ed è stata
molto interessante. Beppe ed Alessandro hanno fatto il Duryodhanavadhom.
Padmanabhan Nair ha precisato gli hasta, principalmente per quanto riguarda
il rapporto fra gli sguardi ed i gesti; ha parlato anche della storia, del contesto,
dei personaggi. La traduzione di John mi è sembrata un po’ “riassuntiva” (lui
parlava un sacco e John traduceva con delle frasi molto più corte). Mi ricordo
una frase in particolare: “Lo sthāyi bhāva è il padrone di casa e i sāñcarī
bhāva sono gli invitati”.
Ore 21 - Vado da solo a vedere una “full-night” nella festa del tempio di Sree
Guruvayrappan a Pattambi. Quando arrivo vedo una piccola e strana
processione: un elefante tutto addobbato, una decina di musicisti e un paio di
uomini con dei grossi “candelabri” di torce accese girano due volte attorno alla
parte più sacra del tempio (separata dal resto del tempio con delle mura di circa
1 metro di altezza) dove i non indù non possono entrare. La gente (poca) resta a
guardare al di fuori delle mura. La TV locale sta facendo un servizio sulla festa,
e trasmetterà tutta la prima parte dello spettacolo dal vivo, con tre telecamere.
Nella green-room (la stanza del trucco) faccio amicizia con Anoop, un ragazzo
indiano che studia letteratura inglese a Thrissur. Lui e suo padre fanno gli
attori dilettanti di Kathakali. Questa sera suo padre interpreta un piccolo ruolo
femminile e lui deve fare un “standing role” (ruolo molto piccolo, senza
“testo”). Gli chiedo quali storie ci saranno nella serata, lui scrive nel mio
quaderno le storie e tutti i nomi degli attori e i rispettivi ruoli:
2. payuppu (maturo) - molto simile al paccha, ma al posto del verde, l’arancione. Usato
per rappresentare quattro divinità: Brahmā, Śiva, Sūrya e Balarāma.
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3. katti (coltello) - hanno baffi rossi a forma di coltello, disegnati sullo sfondo verde. Il contrasto
fra questi due colori simboleggia l’ambiguità di questi personaggi, arroganti e malvagi,
ma con delle qualità nobili come il coraggio. Il costume è simile a quello del paccha.
4. taadi (barba) - a seconda del colore della barba stilizzata che hanno attorno al collo, i
taadi sono:
- vella taadi (barba bianca): esseri divini e superiori. Questo è il trucco di Hanūmān,
Vivida e Nadikeswara. Questi diversi personaggi hanno i trucchi simili, ma non uguali.
Hanūmān
- chuvanna taadi (barba rossa): il rosso predomina nel trucco di questi personaggi,
cattivi e volgari, simboleggiando la loro malvagità. La loro corona è come quella
dei paccha, ma molto più grossa.
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5. kari (nero) - esseri primitivi, personaggi grotteschi, legati alla foresta, col trucco
prevalentemente nero. Si dividono in:
- maschili: personaggi rozzi come il cacciatore Kirata, hanno la barba nera (e per
questo sono anche chiamati karutta taadi - barba nera)
- femminili: demonesse, hanno dei grossi seni di legno.
6. minukku (brillante) - il trucco più vicino al naturalismo del Kathakali, può rappresentare
personaggi maschili - bramini, saggi o servitori, o femminili (chiamati anche stri vesham)
- eroine, giovani donne e anche le Lalita (demonesse kari in magico travestimento).
7. teppu (speciale) - una ventina di personaggi particolari, che non entrano nella tipologia base.
(due esempi: Narasiṁha - l’uomo/leone - uno degli avatāra di Viṣṇu e Haṁsa, il cigno divino)
Haṁsa
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All’interno di questi tipi ci sono diversi dettagli e varianti di colore dei costumi per i diversi
personaggi rappresentati. Esistono casi particolari, come per esempio Bāli e Sugrīva, due
scimmie che appartengono al tipo chuvanna taadi, ma in realtà sono personaggi positivi e
hanno un trucco molto simile a quello di Hanūmān. Ci sono anche molte differenze sottili, non
facilmente percettibili per lo spettatore ma che aiutano nella caratterizzazione dei personaggi,
come per esempio diverse tonalità di rosso per le labbra dei paccha a seconda dello sthāyi
bhāva (sentimento fondamentale) del personaggio (più intenso se raudra – ira – più verso il
rosa se śṛṅgāra – amore).
Molto interessante rivedere Kottakkal Sivaraman, questa volta, in
Kuchelavrttam, nel ruolo di Kṛṣṇa - un paccha.
Kuchelavrttam, tratta dal Bhāgavata Purāṇa e scritta da Muringoor Sankaran Potti (1843-1905),
è una storia molto popolare. Kuchela è un povero bramino che è stato amico d’infanzia di Kṛṣṇa
e dopo molti anni lo va a cercare al suo palazzo. Kuchela teme che Kṛṣṇa non si ricordi di lui,
ma questi lo riceve con grande affetto e lo aiuta, nonostante egli non abbia chiesto nulla.
Il suo stile è molto vicino a quello di un attore occidentale, molto lokadharmī; i
suoi hasta non sono chiari e non vengono accompagnati dagli occhi; e poi lui
guarda gli altri attori direttamente in faccia.
Secondo il Nāṭyaśāstra, l’atteggiamento più consono al nata in scena dovrebbe essere quello
nāṭyadharmī (stilizzato, raffinato, “danzato”) e non quello lokadharmī (realista, quotidiano,
popolare). Una delle convenzioni del Kathakali, che è un esempio di questo comportamento
nāṭyadharmī, richiede che l’attore non guardi mai direttamente il suo interlocutore, ma soltanto
nella sua direzione, così da non essere mai di profilo rispetto al pubblico. Gli hasta hanno una
forma precisa che esige dall’attore uno sforzo per disporre le dita nel modo corretto; essi non
vengono fatti soltanto con le mani, ma coinvolgono tutto il corpo, il volto e soprattutto gli
occhi, che devono eseguire delle “coreografie” precise per poterne renderne il significato.
La specialità di Sivaraman sono i ruoli femminili di tipo minukku, dove l’attore deve utilizzare
l’energia lāsya - soave, femminile - che fa diventare più “piccoli” i gesti, i passi, le azioni.
Vedendolo rappresentare un paccha, che richiede un’energia tāṇḍava - forte, maschile - mi è
stato possibile osservare che le caratteristiche descritte sopra, presenti anche nello spettacolo
precedente49, quando rappresentò la principessa Damayantī, non erano, come supponevo, un
modo per rendere l’energia lāsya del personaggio, ma erano intrinseche al suo stile personale.
Sivaraman si prende molte libertà rispetto alle “regole” e non ottiene il consenso dei difensori
della “purezza” del Kathakali, ciononostante egli è un attore molto amato dal pubblico e
rispettato da tutti. In ogni caso, non è l’unico a prendersi delle libertà per creare uno stile
proprio, tutti i grandi maestri lo fanno. L’inserzione di elementi lokadharmī, per esempio, serve
come “condimento” che rende più “saporito” lo stile raffinato del Kathakali, meno “asciutto”.
Si potrebbe anche dire che Sivaraman esageri un po’, ma la tradizione è viva e ha una relatività
di fondo che permette ad un maestro di spingersi fino (e forse anche oltre) ai suoi confini. Per
“trasgredire” però bisogna avere autorevolezza e conoscenza - le stesse libertà non sarebbero
concesse ad un giovane attore. Sivaraman, essendo nipote di un grande attore e maestro come
Kunju Nair, ha sicuramente appreso tutte le tecniche del Kathakali con il massimo rigore. E
bisogna dire che il suo Kṛṣṇa è molto convincente: lui è Kṛṣṇa.
Nella seconda storia vedo un attore bravissimo nel ruolo di Jarasandhan. Il
tiranokku è impressionante, il suo chuvanna taadi è forte, volgare, spaventevole.
Ho scoperto dopo che questo attore, Nelliyodu Vasudevan Nambudiri, nato nel 1940 e allievo di
Kunju Nair, è considerato il migliore nei ruoli del tipo chuvanna taadi.
Tratta dal Mahābhārata, Rajasuyam racconta la sconfitta di due re malvagi nelle mani di
Kṛṣṇa, Bhīma e Arjuna. Un dettaglio curioso: la storia ha due versioni, la prima fu scritta da
Karthika Tirunal Rama Varma (1724-1798) e normalmente viene messa in scena nel sud del
Kerala, la seconda (quella che ho visto) è di Elayedath Nambudiri ed è preferita nel nord. La
principale differenza è che nella prima versione Jarasandhan è un katti e Sisupala un chuvana
taadi e in questa versione è il contrario.
Rivedo anche Ramankutty Nair, in migliore forma che la sera precedente. A
settantanove anni anni la sua performance è ormai molto assorbita, ma il suo
katti è denso di presenza.
Dopo aver visto in video altre performance di Ramankutty Nair quando giovane mi sono
accorto che l’“assorbimento” che ho osservato non è soltanto dovuto alla età, ma fa anche
parte del suo stile personale.
Anoop, il ragazzo che ho conosciuto, è veramente molto gentile. Sta a mio
fianco spiegandomi tutti i dettagli della performance (anche un sacco di cose
che sapevo già) fino al momento in cui deve andare a truccarsi.
Domenica 16/1
Ore 12 - Faccio una buona intervista a John. Dovremo però terminare un altro
giorno il discorso sul suo lavoro all’estero.
Telefono a Anoop e lo chiamo per fare l’interprete nelle interviste che devo fare
a Irinjalakuda.
Ore 16 - Registro in video la lezione di Padmanabhan Nair (due ore). Viene
rifatto il Duryodhanavadhom, con spiegazioni sugli hasta ancora più in
dettaglio. Dopo la prossima lezione farò l’intervista con lui.
Lunedì 17/1
Ore 12 - Arrivo a Pathiripala, dove si trova la Gandhi Seva Sadanam. Oggi c’è
la festa di compleanno di Sadanam Kumaran, il fondatore della scuola. Nel
grande auditorio con tribune di cemento rivestite in tessuto colorato è in corso
una cerimonia. Sul palcoscenico, sotto una tenda con filiere di lucine di tutti i
colori fanno un sacco di discorsi in malayalam. In prima fila, fra altri signori
che non conosco, Sadanam Krishnankutty e Kalamandalam Padmanabhan
Nair. Narippatta è indaffaratissimo e non mi può concedere che pochi secondi
di attenzione, ma mi affida a un impiegato della scuola, che mi porta al
refettorio per il pranzo. Mi siedo alla tavolata e mi mettono un pezzo di foglia
di banano davanti. Servono una montagna di riso sulla foglia ed io scavo un
buco in mezzo al riso, imitando gli altri commensali. Ci mettono dentro una
sorta di minestra di vegetali e attorno diversi sughi piccanti, dolci, di gusto
forte. Mangiare con le mani non è per niente facile; inoltre usare la mano
destra, per me che sono mancino (gli indiani usano sempre la mano destra per
mangiare, mai la sinistra che viene usata per l’igiene intima) rende le cose ancora
più complicate. Alla fine del pranzo non resisto e chiedo di versarmi il paysan50
nel bicchiere. Dopo pranzo mi offrono un posto per riposare, ma preferisco
fare un giro in paese. Stupidamente, perché fa un caldo micidiale.
Ore 15 - Quando arrivo c’è un keli (concerto di tamburi) in corso. Il suono dei
tamburi rimbomba tantissimo dentro l’auditorium. Dopo circa un’ora esco a
prendere un po’ d’aria e far riposare i timpani. Rientro quando Sadanam
Kumaran arriva su una sedia a rotelle, accompagnato da una processione di
tamburi e ragazzi in divisa scolastica (le ragazze in sari bianco, con i bordi
dorati e fiori nei capelli). Tutti in piedi, applaudono entusiasticamente.
Portano in braccio la sua sedia, e lui sopra, sul palcoscenico. Krishnankutty
gli è sempre dietro, ossequioso; ad un certo punto fa un grande inchino, fino a
sprofondare la testa in grembo all’anziano e alzarsi commosso, con gli occhi
pieni di lacrime. Tante persone vengono chiamate sul palco, ricevono una
sorta di diploma e salutano il festeggiato, chinandosi fino a toccargli i piedi. Il
vecchio maestro fa un brevissimo discorso, con voce esile. Il suo atteggiamento
è molto distaccato, sembra che tutti questi omaggi siano per un’altra persona.
Entra una ragazza con un vaso in mano e letteralmente lo sommerge con una
montagna di petali di fiori. Krishnankutty cerca di pulirgli la faccia. La
cerimonia si chiude con l’accensione di una grande lampada ad olio.
La Gandhi Seva Sadanam Kathakali & Classic Arts Academy, fondata nel 1951, non è che
una delle 6 diverse scuole che compongono la Sadanam, vi si insegna dalle elementari fino
alle superiori e si offrono corsi di formazione in computer, per insegnanti, infermieri, ecc.
Sadanam Kumaran è un “freedom figther”, eroe della lotta per l’indipendenza. E’ stato per
anni in prigione, dove è entrato in contatto con le idee del Mahatma Gandhi. Nel 1945,
seguendo l’esortazione di Gandhi ai giovani patriottici perché si recassero nei piccoli villaggi
per “work there, live there and die there”, Kumaran è ritornato al suo paese natale e ha
fondato la Gandhi Seva Sadanam.51
Ore 20 - Trovo “my italian friends” al ristorante. Alle ore 21 siamo i primi ad
arrivare allo spettacolo. Nella green-room (stanza del trucco) gli attori si stano
preparando. L’inizio era fissato per le 19, ma in platea, sotto una tenda nel
cortile della scuola, non c’è nessuno, neanche l’amplificazione è arrivata.
S’incomincia verso le 22. Questa volta il purappad è buono, quelli che avevo
visto negli spettacoli precedenti erano un po’ confusi.
E’ piuttosto strano che una danza così praticata nei kalari non funzioni in scena. Diverse volte
negli spettacoli in India mi è capitato di vedere cattive esecuzioni del purappad. Gli attori di
Kathakali non fanno prove prima degli spettacoli e la distribuzione dei ruoli è decisa al
momento. Forse i giovani allievi alle prime armi, che si trovano per la prima volta insieme sul
palcoscenico, venendo ognuno da una scuola diversa, fanno un po’ di fatica ad affiatarsi. Va
anche detto che in genere il pubblico non è molto interessato al purappad, e difatti in quel
momento tutti stanno chiacchierando senza prestare molta attenzione a quello che accade sul
palcoscenico.
La prima storia è Santanagopalam, con Kottakkal Sivaraman nel ruolo di
Kṛṣṇa e Sadanam Krishnankutty in quello di Arjuna.
In Santanagopalam, scritta da Mandavappalli Ittiraricha Menon (1745 e 1805), la devozione
di un bramino e di Arjuna, uno dei fratelli Pāṇḍava, vengono messe alla prova. Un giorno alla
corte di Arjuna, dopo la battaglia di Kurukṣetra, giunge un bramino con suo figlio neonato
morto fra le braccia. Era il nono figlio che gli nasceva senza vita. Kṛṣṇa, che si trova in visita
da Arjuna, non vuole ascoltare la storia del bramino e si ritira. Arjuna si impietosisce e
promette al bramino che il suo prossimo figlio sopravviverà. Se non sarà così, lui stesso si
toglierà la vita. Il bramino parte e ritorna mesi dopo, quando sua moglie sta per partorire.
Arjuna costruisce una tenda con le sue frecce per proteggere il parto e si mette di guardia, ma
il bambino sparisce. Il bramino disperato e furioso irride Arjuna, che si appresta a preparare il
suo rogo di morte. Ma proprio quando sta per buttarsi appare Kṛṣṇa, che riporta al bramino e
alla moglie i loro dieci figli.
Per la prima volta vedo Krishnankutty come paccha. Conosco bene il suo
lavoro perché l’ho visto in diversi spettacoli in Italia, ma sempre nel ruolo di
Hanūmān (chuvanna taadi), di Kirata (kari) o di Kichaka (katti). E’
interessante osservare le differenze nei passi, nell’espressione facciale. Alla
fine della prima storia entrano in scena 10 bambini di altezza diversa, come
gradini di una scala.
Il lavoro del volto è molto raffinato anche nel tiranokku e nel śṛṅgāra padam
(scena d’amore) del katti di Sadanam Harikumar (figlio di Sadanam Kumaran)
nella seconda storia (purtroppo non ricordo che storia fosse). Narippatta
“traduce” gli hasta durante gli attam al microfono (in malayalam, però).
I padam sono i dialoghi e i soliloqui cantati dai musicisti e interpretati dagli attori con gli
hasta. Insieme agli sloka - versi narrativi in terza persona - costituiscono il “testo” di una
storia nel Kathakali. Gli ilakiyattam o più semplicemente attam sono interpolazioni di “testo
performativo” create dagli attori, che servono come complemento o commento ai padam.
Negli ilakiyattam non vi è canto, ma l’attore “parla” con gli hasta ed esegue delle azioni,
accompagnato dal ritmo dei tamburi. In quei momenti l’attore ha una relativa libertà
d’improvvisazione, che in realtà consiste nella scelta di determinate azioni coerenti con la
storia che lui compone usando la propria immaginazione o ricorrendo a “citazioni” letterarie
(ovviamente “tradotte” nel linguaggio degli hasta), creando così il suo proprio repertorio di
ilakiyattam per ogni ruolo. Con il tempo, gli ilakiyattam dei grandi maestri tendono ad essere
incorporati al repertorio comune e a far parte della partitura di una storia allo stesso titolo del
testo dei padam. Durante i padam, il pubblico del Kerala riesce a seguire la storia più o meno
allo stesso modo in cui un italiano riesce a seguire i dialoghi nell’opera lirica. Durante gli
ilakiyattam invece, soltanto quelli che conoscono il linguaggio degli hasta possono capire
quello che gli attori stanno “dicendo”. In ogni caso, questi pezzi hanno spesso una pantomima
che tutti possono comprendere.
Nella narrazione della storia gli ilakiyattam possono assolvere a diverse funzioni. Alcuni
esempi comuni sono le scene solistiche servono a sviluppare il carattere di un personaggio
all’inizio di una storia (come la parodia del trucco femminile che fa Nakratundi in
Narakasuravadhom52 ). Un altro esempio sono le scene dove un personaggio racconta una
storia o descrive una scena che vede, come nell’episodio di Bhīma nella foresta che vede un
elefante assalito da un serpente e da un leone. Gli ilakiyattam possono servire anche per
sviluppare un determinato bhāva. Questi ilakiyattam solisti permettono agli attori di sfoggiare
la propria bravura, realizzando exploit interpretativi che possono anche durare più di un’ora.
In altre occasioni gli ilakiyattam sono scene, in genere comiche, fra due o più attori. A volte
gli ilakiyattam servono per risolvere problemi narrativi dovuti al taglio di scene, creando
raccordi o fornendo informazioni necessarie alla comprensione della storia.
Durante la serata ho l’opportunità di parlare con Krishnankutty e di fissare
un’intervista con lui per il giorno 20. Mi metto anche d’accordo con
Narippatta per una visita alla scuola la prossima settimana.
Martedì 18/1
Ore 6 - Volevamo restare fino alla fine, ma siamo troppo stanchi. Andiamo via
all’inizio della terza storia. Immagino che lo spettacolo finirà verso le 9! Il ritorno
è complicato: prendiamo un pullman nella direzione sbagliata, scendiamo in
mezzo alla strada e dobbiamo prendere un taxi, spendiamo un sacco di soldi.
Ore 16 - Aspettiamo John a casa di Padmanabhan Nair per la lezione, ma lui
non viene: ha dovuto portare Mary, che si è sentita male, all’ospedale. Senza
la traduzione, la “sitting class” è più corta e l’intervista impossibile.
Mercoledì 19/1
Ore 8:30 - Entro dal portone della Kalamandalam senza che nessuno mi
chieda dove sto andando. Gli allievi si dirigono pian piano verso i kalari.
53 Fatto con la noce di betel, il pan viene messo in un involucro di foglie e masticato. Ha una proprietà
leggermente stupefacente e colora la bocca di rosso.
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signore che arriva sembra un bidello. La lezione finisce prima e gli allievi
vanno via. Il maestro, discretamente, si riprende la borsa.
Mi fermo a guardare la lezione di Girija, la maestra di Nangiar Kuttu. Lei fa il
“dettato” alle allieve, che devono recitare lunghissimi testi in sanscrito,
mentre girano i polsi con le ginocchia piegate. Se sbagliano vengono sgridate
e minacciate con il bastone. La saluto e me ne vado.
Kalamandalam Girija, allieva della prima classe di Kutiyattam alla Kalamandalam (1965),
quando dava lezioni a mia moglie era gentilissima. Ma con le sue allieve indiane è molto
severa. Nel 2004 ho visto una sua lezione al kuttampalam, nella quale le allieve hanno
eseguito una danza lunghissima e molto bella. Durante il “dettato” una ragazza ha pianto
perché non si ricordava le parole.
Faccio ancora in tempo a vedere la fine di un’altra lezione di Kathakali, nella
quale due gruppi di 4/5 allievi fanno allo stesso tempo due cose diverse: quelli
davanti fanno gli hasta e i passi di un padam mentre recitano i versi del testo;
gli altri eseguono una danza pura e ne recitano i vayttari.54 Non so come
facciano a non confondersi! L’insegnante batte il ritmo su uno sgabello sul
quale appoggia anche le gambe.
Vado in ufficio e parlo con un impiegato che mi dice che non è possibile
filmare le lezioni. Per fare alcune fotografie devo pagare Rs 1000. Rinuncio e
compro un depliant per Rs 25.
Ore 16 - Vado a casa di Padmanabhan Nair per l’intervista, che dura quasi
un’ora. Egli, figlio di Ravunni Menon e maestro alla Kalamandalam per
moltissimi anni, parla come il depositario del “Kalamandalam style”. Secondo
lui ci sono delle regole molto rigide e sono ammessi pochi cambiamenti.
Registro con la telecamera alcune foto del padre di Padmanabhan Nair.
Giovedì 20/1
Ore 8 - Mi sono svegliato presto per andare a Irinjalakuda. Prendo un pullman
pieno per Thrissur e quando arrivo decido di prendere un “three-wheeler” per
fare più veloce. Grosso errore! Il veicolo va lento come una lumaca. Chiedo di
andare più veloce. “No problem!”, dice l’autista, ma non cambia niente. Mi
fermo in un paese a metà percorso e ne prendo un altro. Arrivo a Irinjalakuda
alle 11. Il figlio di Krishnankutty mi viene a prendere al “bus stand” (la
stazione dei pullman). Krishnankutty mi riceve con grande cortesia. Mi offre tè
con biscotti e mi fa vedere il suo album di fotografie. L’intervista in sé è un po’
difficile. Lui è molto simpatico, ma non è molto loquace. Poi la traduzione...
All’inizio un po’ suo figlio traduce e un po’ lui parla in inglese e la cosa
funziona abbastanza bene. Ad un certo punto però arriva un vicino di casa che
sa parlare bene l’inglese, ma anziché tradurre le mie domande a Krishnankutty
si mette lui a rispondere! Dopo l’intervista il figlio mi chiede se voglio filmare
suo padre nei navarasa: sicuramente! Usando solo il volto lui li fa velocemente
(forse è un po’ stanco).
I navarasa, i nove sentimenti fondamentali della tradizione scenica indiana vengono espressi
dall’attore di Kathakali con delle espressioni facciali codificate, che insieme al trucco
trasformano la faccia dell’attore in una vera e propria maschera in movimento. Uno degli
“exploit” tecnici degli attori è per l’appunto eseguire i navarasa: passare in rivista, una dopo
54 I vayttari sono sillabe senza significato che servono per memorizzare il ritmo dei passi.
65
l’altra, tutte le nove maschere facciali (più altre 2 varianti che sono espressioni femminili leja:
timidezza e ersha: un misto di rabbia e tristezza). L’attore può sviluppare ognuna di queste
maschere ad oltranza, usando tutta la parte superiore del corpo.55
Sono invitato a pranzo e mi fanno vedere in TV un pezzo di Kuchelavrttam con
Krishnankutty (Kṛṣṇa) e Padmanabhan Nair (Kuchela). Krishnankutty parla
con molto affetto del TTB e mi dice che a Bergamo si è sentito come a casa.
Dopo pranzo vanno tutti in camera a riposare e mi suggeriscono di fare lo
stesso sul divano. Questa volta accetto l’invito.
Ore 15 - Arrivo alla Kalanilayam con l’intenzione di intervistare Kalanilayam
Gopi, ma Anoop, il mio traduttore, mi tira il bidone e arriva soltanto alle 19,
quando oramai è troppo tardi perché Gopi deve truccarsi. Più o meno al
momento del mio arrivo sono incominciati i preparativi per lo spettacolo. La
green-room (stanza del trucco) viene allestita nella sala dove ho visto il
cholliyattom la volta precedente. Io me ne sto a guardare e mi sento a mio
agio. Faccio qualche ripresa video, cercando di non essere troppo invadente.
Ore 18:30 - Incomincia il trucco. Gopi trucca sua figlia, che deve fare il
purappad insieme ad una sua studentessa privata. Prima di incominciare il
trucco lui ordina alla figlia di andare a pregare davanti alla lampada ad olio.
Anche lui fa una piccola preghiera prima di incominciare a truccarla.
La “full-night” è organizzata dal “Kathakali Club” di Irinjalakuda, che una
volta al mese promuove una serata di Kathakali (2-3 ore) e una volta all’anno,
in occasione del compleanno del “club”, organizza una “full-night”. Riesco ad
avere l’autorizzazione per registrare lo spettacolo in video, dopo un
complicatissimo negoziato con Gopi, che “rappresenta” gli artisti e con il
“secretary” del “Kathakali Club”. Pago 1500 rupie al “Kathakali Club” e
750 rupie agli artisti della prima storia. Alla fine non ho pagato niente per gli
artisti della seconda storia, perché loro sono arrivati più tardi mentre lo
spettacolo si svolgeva e non ho parlato con loro. Ho chiesto il permesso di
filmare soltanto a Krishnankutty, che non ha fatto problemi e non ha chiesto
niente.
Ore 21:30 - Dopo un purappad non entusiasmante incomincia la prima storia:
Sitaswayamvaram, con Kalanilayam Gopi nel ruolo di Paraśurāma. La sua
performance è fin troppo vigorosa (dopo lo spettacolo, i ragazzi mi hanno fatto
vedere lo sgabello che lui aveva spaccato a forza d’appoggiare violentemente
il piede).
Il tema di questa storia, tratta dal Rāmāyana e scritta da Kottarakkara Tampuram (1555-1605),
è il matrimonio di Rāma e Sītā. Il re Janaka, organizza uno swayamvaram (torneo): chi fosse
riuscito a piegare il suo arco sacro, un regalo del dio Śiva in persona, avrebbe avuto la mano
di sua figlia Sītā. Rāma riesce a piegare l’arco con facilità e lo fa con così tanta forza che lo
rompe. Nella scena di cui trattiamo, Rāma sta ritornando dalla sua festa di matrimonio con
tutta la corte e incontra sulla sua strada il potente saggio Paraśurāma, il 6° avatāra
(incarnazione) di Viṣṇu. Paraśurāma, un fervente devoto di Śiva, furibondo perché ha saputo
che Rāma ha distrutto l’arco di Janaka, lo sfida a duello, ma Rāma si rifiuta di lottare con lui.
Paraśurāma allora sfida Rāma a piegare il suo arco. Non appena Rāma tocca l’arco e lo piega
facilmente Paraśurāma sente svanire il suo potere divino. In quel momento comprende che
Rāma è la prossima incarnazione di Viṣṇu. Si sdraia ai suoi piedi, chiedendo la sua
benedizione.
Sadanam Krishnankutty in
Narakasuravadhom. Vedi
un frammento di questa
performance nel DVD
allegato.
56Nella mitologia indù gli asura - di carattere demoniaco - sono gli antagonisti degli deva - gli dèi - che gli
hanno sconfitto in una guerra, capeggiati da Indra.
57Jayanta è un personaggio del tipo paccha, rappresentato qui da Kalanilayam Anilkumar (il maestro junior della
scuola).
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Venerdì 21/1
Ore 4:30 - Dopo lo spettacolo chiacchiero un po’ con i ragazzi della scuola,
con l’aiuto di Anoop. Gopi aveva fissato un appuntamento con me per
l’intervista alle 5:30, dopo lo spettacolo. Siccome era andato a casa a dormire
alla fine della prima storia, io non credevo che sarebbe tornato, invece è
venuto! Abbiamo fatto un’intervista veloce, di circa 20 minuti. Ho fatto del mio
meglio, ma ero molto stanco e avevo sonno.
Sabato 22/1
Ore 11 – Vado a fare un giro a Thrissur e ho la fortuna di trovare per strada
Rajashekaran che stava per l’appunto andando a Thrissur per un matrimonio.
Accetto un passaggio e durante il viaggio gli faccio un’“intervista”. Peccato
non avessi il registratore...
Ho lavorato con Kalamandalam Rajashekaran, attualmente “vice-principal” della
Kalamandalam, durante la tournée in Italia organizzata dal TTB nel 1993. E’ un attore molto
bravo nei ruoli femminili. Alcune delle sue affermazioni sono in contraddizione con le mie
ricerche, e dunque vanno verificate.
Ecco alcune delle cose che mi ha detto:
- Lui si considera il custode del “South-style”, che è stato introdotto alla
Kalamandalam nel 1967. In questo momento, più o meno metà degli
allievi alla Kalamandalam studia il “South-style”. Nel “South-style”
tutto è diverso. Un attore del nord e un attore del sud non possono
danzare il purappad insieme, ma per le storie non c’è problema, a patto
che i musicisti siano capaci di seguire i due stili differenti.
Secondo Nambudirippad (In: NAIR e PANIKER (ed.) 1993, p. 48) un tekkan kalari (dello
stile del sud) fu introdotto alla Kalamandalam nel 1966, guidato da Mankopu Sivasankara
Pillai (vesham - lavoro dell’attore) e Pallom Madhavan (pattu - canto/musica). Secondo
Kalamandalam John, questo kalari è ancora in attività, ma in esso studiano molto meno della
metà degli allievi della Kalamandalam (5-7 allievi).
- In realtà Ravunni Menon non fu il “salvatore” del Kathakali. E’ stato
un gruppo di guru che ha fatto la “riforma” del Kathakali.
E’ vero che Ravunni Menon non fu né l’unico né il primo maestro della Kalamandalam.
Secondo Nambudirippad (Ibidem p. 47) dal 1930 fino al 1941 la Kalamandalam ha avuto “a
galaxy of great teachers of tradition like Pattikkantodi Ramunni Menon, Kunchu Kurup,
Kavalappara Narayanan Nair, Ambu Paniker and Koppan Nair.” Ma secondo tutte le fonti
consultate Ravunni Menon fu il “principal” della scuola agl’inizi: “Pattikkantodi was the real
backbone of the institute and before he left in 1943, he stabilished the Kalluvazhi style in
which was he trained.” (Idem); “Though there were several teachers at Kalamandalam, it was
Pattikkantodi Ramunni Menon who reigned supreme by virtue of his devotion to duty and
remarkable capacity for teaching.” (Panikkar in: NAIR e PANIKER (ed.) 1993, p. 41) Tutti i
maestri più importanti delle principali scuole di Kathakali sono stati suoi allievi: lui stesso e
poi Kunju Nair alla Kottakkal; Keezhpadam Kumaran Nair alla Sadanam e Kalamandalam
Krishnan Nair alla Margi. Non ho trovato nota del nome del guru del primo maestro della
Kalanilayam (Pallippuram Gopalan Nair), ma nel sito internet della scuola, fra i nomi dei suoi
cinque principali maestri ve ne sono due della Kalamandalam.58
Lunedì 24/1
Ore 8:30 - Sono a casa di M.P.S. Nambudiri per l’intervista. Sono passato
prima a Shornur per prendere un dothi per lui e uno per Narippatta. M.P.S. è
molto più articolato nel discorso rispetto a tutti gli altri attori che ho
conosciuto prima. L’unica difficoltà è che lui è un po’ sordo, il che mi
obbliga quasi a gridare le domande; anche così ho l’impressione che lui non
capisca tutto quello che dico. Ma non è un grave problema: siccome lui ha
un discorso, direi, “già pronto” (alcune delle cose che ha detto a me le trovo
pressappoco uguali nei libri di Zarilli – con il quale egli ha collaborato) a
partire da quello che ha capito della domanda mi dà delle risposte
lunghissime, non rispondendomi, ma dicendo lo stesso delle cose
interessanti. E’ stata un’ottima idea filmare le interviste, perché spesso
l’espressione del viso dice più delle parole. Nel suo discorso M.P.S. dimostra
ottimismo sul futuro del Kathakali, ma nelle sue espressioni, nelle sue pause,
vedo preoccupazione e amarezza.
Dopo l’intervista vado all’“Old Kalamandalam” per fare delle riprese video.
Ore 15 - Narippatta mi ha invitato ad una full-night di Kathakali questa sera a
Manasseri. Nel pomeriggio devo fare un’intervista con lui, ma sono arrivato
troppo presto. Lo spettacolo è in una casa a fianco del tempio di Tricanore. Un
posto sperduto. Vedo il tempio soltanto da fuori (io non posso entrare): nel
giardino c’è un enorme banyan. A fianco del tempio c’è uno stagno con
l’acqua coperta da un fitto strato di muschio verde. Ci sono delle scale in
rovina, che portano dentro lo stagno. Sto più di un’ora seduto li; c’è un po’ di
brezza e un sacco di scoiattoli ed uccelli di diversi colori.
Ore 17 - Oggi non riesco a fare l’intervista! Narippatta dormiva quando sono
arrivato, si è svegliato troppo tardi e deve sbrigare le faccende dello
spettacolo: l’abbiamo rinviata a quando andrò a visitare la Sadanam. In
compenso, Narippatta mi spiega in dettaglio le storie che vedrò questa sera:
Kuchelavrttam, Lavanasuravadhom e Kiratam.
69
L’ultima storia (Kiratam) non mi entusiasma, ma a questo punto (le 4-5 del
mattino) ho molto sonno e finisco per addormentarmi. Sono forse troppo
comodo: vedo lo spettacolo seduto sulle stuoie e non appena manifesto il
minimo segno di stanchezza, subito mi offrono dei cuscini per sdraiarmi. La
festeggiata regala un dothi a ognuno degli artisti che si è presentato, e anch’io
ne ricevo uno. C’era un numero enorme di musicisti in questo spettacolo: a
turno si sono presentati circa sette diversi suonatori di chenda, altrettanti di
maddalam e non so quanti cantanti. Alla fine dello spettacolo Balasundaram,
(anche lui ha suonato) mi offre un passaggio nella jeep che è a disposizione dei
musicisti per andare fino alla strada principale a prendere il pullman.
Kalamandalam Balasundaram è un suonatore di chenda che ho conosciuto in Italia nel 1993,
durante la tournée organizzata dal TTB.
Martedì 25/1
Ore 10 - A Shornur c’è una festa popolare. E’ una sfilata con diversi gruppi di
persone con enormi capelli colorati (circa due metri d’altezza) che danzano
ruotando al ritmo di tamburi e trombe. Dietro di loro segue una sorta d’altare
sulle ruote, con una scatolina per offerte in denaro. Uno dei gruppi ha un
costume più elaborato, che ricorda quello del Kathakali. I danzatori di questo
gruppo non ruotano, ma fanno dei passi semplici di danza girandosi a destra e
a sinistra.
Ore 21 - Vado a vedere uno spettacolo di Kathakali degli italiani in un tempio
vicino a Pattambi. Quando passo nel centro di Cheruthuruthi vedo la gente che
balla e saltella come se fosse il carnevale brasiliano. Ma sono tutti uomini.
Arrivo alla fine del kelikottu 60. La green-room (stanza del trucco) è dietro il
palco. Dopo qualche minuto di silenzio parte la musica dagli auto-parlanti con
un volume assordante. Per parlarci dobbiamo gridare! Lo spettacolo
(Duryodhanavadhom) è un po’ confuso, secondo John la colpa è dei musicisti,
che sono troppo giovani e inesperti.
Soltanto quando vengono in India o quando organizzano una tournée con artisti indiani in
Europa gli attori del TTB hanno l’opportunità di danzare con i musicisti dal vivo. In Italia
lavorano quasi sempre con musica registrata. Questo fatto crea una sorta di perversione: essi
si abituano a seguire la musica invece di recitare insieme ai musicisti. Quando vanno in India
hanno bisogno di un po’ di tempo per abituarsi alla musica dal vivo. Ma anche in India la cosa
non è semplice: i musicisti sono sempre impegnatissimi; non è facile trovarli liberi per fare gli
spettacoli e tanto meno per accompagnare le prove, poiché fare le prove o le lezioni, non fa
parte delle loro abitudini, e sono considerate cosa da principianti. Così gli italiani devono
ripiegare sugli allievi che a volte non sono tanto sicuri e li confondono.
Nonostante questi problemi gli attori del TTB (principalmente i più anziani, naturalmente)
hanno un buon livello rispetto alla media indiana in tutti gli stili di danza che praticano. Per
quanto riguarda il Kathakali, conoscono pochissimi, pezzi ma sono entrati a fondo in questi ruoli
e li conoscono bene. Il loro corpo è diverso da quello degli indiani, si muove in un altro modo,
più pesante e meno flessibile per quanto riguarda gli uomini. Ciononostante, alla fine dei conti,
il TTB è riuscito a creare uno stile proprio. Loro non fanno finta d’essere indiani, ma cercano di
prendere l’aspetto “classico”, “universale” della danza. Su quest’aspetto la regia di Renzo
Vescovi è stata molto d’aiuto per ottenere la coerenza e l’unità di questo “stile TTB”.
Dopo le figlie di John, un’altra ragazza e tre ragazzi fanno una presentazione
di “cinematic dance”, con luce da discoteca e costumi occidentali (hanno
cambiato costume almeno 5 volte!). Un gruppo di giovani a fianco a me, che
durante la presentazione di Kathakali chiacchierava animatamente ignorando
quello che succedeva in scena, va in delirio!
Mercoledì 26/1
Ore 16 – Vado a trovare Beppe, Alessandro e Vixia, che partono domani mattina
presto per l’Italia. Andiamo a fare un giro alla Kalamandalam, dove c’è una
specie di festa, con un sacco di presentazioni degli allievi (tantissimi sono
arangettam). La giornata si concluderà con una full-night di Kathakali dove si
presenteranno insieme insegnanti e allievi. Siccome non mi è permesso di filmare
all’interno della Kalamandalam, faccio qualche minuto di ripresa dall’esterno,
tanto per documentare. Quando arriviamo il kuttampalam è strapieno e ci sono
presentazioni di Bharatanatyam, Mohiniyattam e Kuchipudi. Nella green-room
dietro al palcoscenico i ragazzi del Kathakali si stano preparando per la “full-
night”; c’è anche una ragazza francese che farà il suo arangettam come Kṛṣṇa. In
platea ci si siede per terra. La maggior parte del pubblico sono gli allievi stessi
della scuola, che si siedono divisi per sesso, ragazzi a destra e ragazze a sinistra. I
parenti e genitori stanno attorno, in piedi o seduti su un muretto che divide la
platea da un corridoio che la circonda. In platea ci sono anche diversi stranieri
(almeno una ventina), che si siedono in mezzo, fra i due sessi.
Noi però dobbiamo andarcene perché siamo invitati ad una cena in casa di
Elhama, la cognata di John che vive in Italia con sua figlia maggiore (Lintu, che
sta studiando infermeria) e lavora come baby-sitter della figlia di Alessandro e
Tiziana. La casa è in mezzo alla foresta, relativamente isolata, ci abitano suo
marito, un agricoltore, sua mamma e una coppia di figli, la bambina ha circa 13
anni e il bambino 10. La bambina è molto vivace e intelligente, è l’unica che
parla un po’ d’inglese. Studia canto carnatico ed ha cantato una musica
bellissima per noi, ma il padre, stranamente, non dimostra nessun orgoglio o
interesse per il canto della figlia. Incomincia ad apparecchiare il tavolo, in un
modo che mi sembra dispettoso, volutamente rumoroso. Dopo la cena ci portano
a visitare la casa, appena ristrutturata con i soldi che Elhama ha spedito
dall’Italia. Sul tetto ci sono tantissime palline rosse di pepe ad essiccare al sole.
Ore 20 – Ritorniamo alla Kalamandalam per vedere lo spettacolo di Kathakali.
Ci sono due francesi che fanno l’arangettam: la ragazza che ho visto prima
nella green-room a truccarsi e un ragazzo che suona il chenda. Il ragazzo non
suona tanto bene, è molto insicuro ed è affiancato dal maestro che suona
insieme a lui durante tutta la sua performance; la performance della ragazza
invece non è male per soli 3 mesi di lavoro. Però non capisco il senso di
metterli insieme ai ragazzi indiani che studiano almeno un paio d’anni prima
di fare il loro arangettam. Tuttavia la performance degli stranieri è quella che
suscita più attenzione fra gli allievi della scuola: quando essi stanno per
entrare in scena il pubblico raddoppia e alla fine della loro parte la platea si
svuota. Subito dopo vedo la performance di un maestro della scuola (così
suppongo, poiché guardando le sue mani non mi sembrano quelle di un
ragazzo) in un ruolo del tipo katti. Corretto tecnicamente, ma non
particolarmente entusiasmante, mi sembra mancare assolutamente di rasa,
come un attore che dice delle parole senza pensare a quello che sta dicendo.
72
Ore 24 - Sono troppo stanco e non riesco più a seguire lo spettacolo, che
in ogni caso non mi sembra per niente interessante, con allievi troppo
acerbi per i ruoli che eseguono ed insegnanti troppo routinari. Cerco di
filmare qualche minuto di spettacolo dalla strada, approfittando del fatto
che, per permettere la circolazione dell’aria, il kuttampalam al posto dei
muri ha dei listelli di legno orizzontali distanti circa mezzo metro l’uno
dell’altro. Ma sono a più di 100 metri dalla scena: ovviamente il filmato
non è granché.
Giovedì 27/1
Ore 8:30 – Arrivo alla Sadanam e circa 5 minuti dopo arriva Narippatta.
Dobbiamo aspettare per parlare con il “secretary” e metterci d’accordo
per la visita alla scuola di Kathakali. Lui arriva verso le 9, e per mia
sorpresa è proprio Sadanam Kumaram, il fondatore della scuola. Questa
volta scende dalla macchina e cammina verso il suo studio soltanto con
l’aiuto di un giovane (che ho saputo dopo essere suo nipote). Mi riceve
sdraiato in un letto. Parliamo per circa 3 minuti; lui non è né gentile né
sgarbato: va diretto al punto, non ha tempo da perdere. Mi dice che la
scuola ha molte difficoltà economiche e che per questo mi deve chiedere
un contributo per permettermi di filmare le lezioni. Devo decidere io il
valore d’accordo con le mie possibilità. Decido di offrire le stesse 2000
rupie che avevo pagato alla Kalanilayam. Vado in risciò con Narippatta
al kalari, che dista circa 2/3 km dal posto dove ci troviamo (che è la
scuola “normale”).
Ore 9:30 - Quando arriviamo il cholliyattom non è ancora incominciato,
stanno suonando i maddalam. Narippatta è molto loquace, e mi spiega che
al momento hanno 5 allievi di Kathakali vesham: due (Sadanam Mohan e
Sadanam Suresh) hanno sei anni di studio, un altro (Sadanam
Vishnuprasad) ha soltanto tre anni, ma aveva già un’esperienza precedente
in un’altra scuola (e secondo Narippatta non ha ancora una forma
corretta) e gli ultimi due (che non ci sono oggi) sono “junior” e non
seguono le lezioni di Kathakali a tempo pieno perché studiano ancora nella
scuola “normale”.
Nel cholliyattom vedo il todayam e una scena di Kalyanasougandhikam (il
śṛṅgāra padam (scena d’amore) di Bhīma e Draupadī). Il lavoro
m’impressiona molto positivamente. Conosco benissimo il modo particolare di
stare in piedi nel Kathakali appoggiandosi sul bordo esterno dei piedi, ma non
avevo mai visto dei piedi così girati, praticamente perpendicolari al suolo.
L’insegnante (che oggi non era Narippatta, ma Sadanam Vijayan, il “junior
teacher”) è molto attento ed esigente, ma non ho visto nessun atteggiamento
violento verso i ragazzi.
Ore 12:00 - Finita la lezione vado con Narippatta a prendere il tè in un piccolo
“tea shop” vicino al kalari. Poi ci incamminiamo verso il posto dove vivono (e
mangiano) allievi ed insegnanti.
Nel frattempo parliamo di un sacco di cose ed io gli faccio alcune domande.
Lui mi informa che la “Gandhi Seva Sadanam Kathakali & Arts Academy”
insegna solo Kathakali (per attori, musicisti e truccatori) e al momento ha 22
allievi in tutto.
73
Gli chiedo come mai i suoi allievi di Kathakali vesham durante gli
allenamenti usano il dothi e non i pantaloni tipo “pijamas” come ho
sempre visto in tutti gli altri kalari che ho visitato e in tutti i video che ho
visto fino adesso. Egli mi spiega che il dothi è il costume tradizionale per
gli allenamenti, ma da molti anni le altre scuole hanno a poco a poco
cambiato con i “pijamas”, considerati più comodi e decenti (effettivamente
con i dothi si vedono ogni tanto le mutande dei ragazzi in certe posizioni);
ma il suo guru, e anche lui, considerano che il dothi è più adatto per gli
allenamenti.
Non c’è dubbio che i pantaloni sono più pratici per danzare che il dothi, che è semplicemente
avvolto alla vita, senza nessuna cintura o spilla di sicurezza. Durante la danza e gli
allenamenti, con tutti i movimenti che uno deve fare, si rischia di rimanere nudi. D’altra parte
però, gli allievi devono imparare a aggiustare il dothi senza interrompere la danza e così si
abituano a padroneggiare il costume, abilità che sarà molto utile durante gli spettacoli.
Un’altra domanda riguarda il perché loro fanno l’ardachandra in modo
diverso di tutti gli altri, con due dita (l’indice e il dito medio) invece che con
un dito soltanto (l’indice) come tutti gli altri. Mi spiega che anche questa è
l’usanza più tradizionale, ma a un certo momento Ravunni Menon ha deciso
di cambiare il modo di fare questo hasta perché non era d’accordo con
l’Hastalakṣaṇadīpika. Tutti gli asan lo hanno seguito, ma Kumaran Nair, il
guru di Narippatta, che era “very particular”, ha deciso di continuare a fare
l’hasta nel modo antico soltanto nella danza pura, intendendo che in questo
contesto è un nṛtta hasta e dunque non ha nessun significato, essendo
soltanto ornamentale.
Nato il 30 maggio 1915, Padmasheree Keezhpadam Kumaran Nair è il più anziano discepolo
vivente di Pattikkantodi Ravunni Menon con il quale ha studiato dall’età di 9 anni al
Vellinezhi Kanthalloor Kalari per 14 anni (dal 1924 al 1938, dunque in un periodo anteriore al
lavoro di Ravunni Menon alla Kalamandalam, che inizia nel 1937).
Inizia la sua carriera d’insegnante impartendo lezioni di Kathakali agli attori dell’industria
cinematografica a Chennai, dove entra in stretto contatto con altri artisti, altre forme d’arte e
di danza classica indiana. Lavora per un lungo periodo con Mrinalini Sarabai alla Darpana
Academy, uno dei più attivi ed innovativi centri di danza dell’India nel Novecento.
Nel 1955 accetta l’invito di Mahakavi Vallathol a insegnare alla Kalamandalam, ma vi rimane
per un corto periodo. Nel 1960 inizia le sue attività alla Gandhi Seva Sadanam, dove lavora
come “principal” fino agli anni 90.
74
Kumaran Nair ha saputo coniugare la sperimentazione e l’apertura ad altre forme d’arte con il
rispetto alla tradizione. Ha sempre mantenuto una posizione indipendente, senza seguire né le
mode né l’ortodossia. Ciononostante, è uno dei pochi artisti di Kathakali che avendo lavorato
per molti anni lontano dal Kerala è riuscito a ritrovare, al suo ritorno, un posto d’onore
all’interno del chiuso mondo del Kathakali.
Ore 13:00 - I ragazzi m’invitano a mangiare con loro. Dopo faccio un’ottima
intervista con Narippatta.
Ore 15:30 - Arrivo molto in ritardo per il cholliyattom. I due allievi “senior”
stanno recitando Pootanamoksham.
La storia della morte di Pūtanā, che Aswati Tirunal Tampuram (1756-1794) trasse dal
Bhāgavata Purāṇa è molto amata dagli bravi attori esperti nei ruoli femminili. Il malvagio re
Kaṁsa, venuto a conoscenza attraverso una profezia che il neonato Kṛṣṇa una volta adulto lo
avrebbe ucciso, decide di eliminare il male alla radice inviando la rākṣasi (demonessa) Pūtanā
a Aṁbāḍi, la città dove vive il piccolo Kṛṣṇa, per assassinarlo. La scena inizia con l’arrivo di
Pūtanā travestita da Lalita (ovvero come una bellissima fanciulla: un personaggio di tipo
minukku) a Aṁbāḍi, e con la descrizione delle bellezze della città. Questo pezzo iniziale è un
padam intramezzato da diversi pezzi coreografici e pantomimici (le ragazze che giocano a
palla, suonano, cantano e ballano, la danza dei pavoni, ecc.). La storia si conclude con un
lungo ilakiyattam: Pūtanā arriva alla casa dove è nascosto Kṛṣṇa, lo trova e lo prende in
braccio, per un momento affascinata dalla sua bellezza divina, ma subito si ricorda della sua
missione e cerca di ucciderlo allattandolo dopo aver cosparso i suoi capezzoli con veleno. Ma
Kṛṣṇa invece di morire succhia la vita di Pūtanā insieme al suo latte. Prima di morire Pūtanā
lotta disperatamente con il bambino, rivelando le sue vere sembianze (in questo momento
l’attore macchia tutta la sua faccia di nero). Ma poiché ha toccato il bambino divino, Pūtanā
viene benedetta con la salvezza della sua anima, e per questo la storia si chiama
Pootanamoksham, “la salvezza di Pūtanā”.
Conosco bene questo pezzo perché il TTB, rielaborando alcuni brani di questa storia che non
vengono più messi in scena nel Kerala, ha creato, nel 1987, uno spettacolo chiamato La strega e
la fanciulla nel quale, oltre alla scena appena descritta (interpretata da Giuseppe Chierichetti),
vi sono altre due scene: nella scena iniziale Kaṁsa (un personaggio di tipo katti, interpretato da
Kalamandalam John) riceve la visita di Pūtanā (un personaggio di tipo kari, interpretato
inizialmente da Mario Barzaghi e attualmente da Alessandro Rigoletti) e le ordina di uccidere
Kṛṣṇa; in seguito c’è una scena in cui vediamo Pūtanā che cerca di farsi bella con i normali
“accorgimenti femminili” (esattamente come la scena di Nakratundi in Narakasuravadhom61)
ma non riuscendovi ricorre alla magia. Così, con l’ausilio del tirasila gli attori si scambiano e
compare l’attore in minukku che interpreta la scena descritta nel paragrafo precedente.
Venerdì 28/1
Ore 7 - Mi sveglio a pezzi, ma mi è piaciuto dormire qui. Narippatta è già in
piedi e recita le sue preghiere davanti a un tempietto a pochi metri dalla casa
dove dormivamo. Uno dei ragazzi ci porta due tazze di caffè. Prima della
lezione vado a fare colazione in un posto vicino. Mi servono dosha (una sorta
di piadina) con sambar (un sugo piccante) e una banana molto strana, dura e
gialla (secondo me acerba). Non riesco a mangiare niente, bevo soltanto il tè.
La signora che mi ha servito mi guarda malissimo: credo si sia offesa perché
non ho mangiato.
Ore 9 - Finalmente riesco a riprendere la lezione dall’inizio! La lezione è con
un altro insegnante (Kalanilayam Balakrishnan), che mi chiede quale pezzo
voglio vedere. Chiedo di ripetere il Pootanamoksham per registrare il pezzo
iniziale, che non ho visto nel giorno anteriore. Oggi Mohan non è venuto
all’allenamento perché si è sentito male e dunque questa volta lo fa soltanto
Suresh (Vishnuprasad non conosce ancora questo pezzo). In seguito chiedo
62 In realtà sarebbe più corretto dire che śṛṅgāra e vīra sono rasa. I bhāva corrispondenti sono rati e utsaka
rispettivamente (cfr. introduzione p. 8-9), ma nel linguaggio colloquiale si fa spesso questa confusione fra bhāva
e rasa.
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Sabato 29/1
Ore 6 - Arrivo alla stazione di Chennai dopo essermi congelato tutta la notte in
treno: l’aria condizionata era fortissima! Al ritorno prenderò il biglietto nel
vagone senza aria condizionata, che costa anche meno. Nella stazione un
fiume di gente.
Chennai è caotica, macchine e persone dappertutto. Cartelli pubblicitari
enormi, alti come grattacieli.
Ore 9 - Dopo aver lasciato lo zaino in albergo vado in una libreria
consigliatami da Renzo per prendere alcuni libri che mi servono.
Ore 14 - Vado a fare shopping (regali) nel Handcraft Emporium, un
grandissimo negozio di artigianato con articoli di tutta l’India.
Ore 20 - Mangio nel Saravana Bhavan, un ristorante vegetariano meraviglioso.
Domenica 30/1
Ore 9 – La mia giornata da “turista fai date” è stata un disastro. La Società
Teosofica e il Kalakshetra (la famosa scuola di danza di Rukmini Devi) sono
chiusi. Ho perso tutta la mattina e non ho fatto altro che andare in giro in risciò...
Ore 14 – Giro per le strade a caso. Tutti mi assalgono volendo vendermi
qualcosa, chiedendomi elemosina. Sembra io abbia una banconota da cento
dollari incollata sulla fronte.
Ore 21 – Prendo il treno di ritorno per Shornur.
Lunedì 31/1
Ore 6 – Arrivo a Shornur e passo la giornata a casa di John.
Martedì 1/2
Ore 7 – Partenza da casa di John per l’aeroporto di Kochi. Scalo a Doha.
Ore 19 – Arrivo a Malpensa.
CAPITOLO III
L’apprendistato dell’attore Kathakali
Nel primo capitolo abbiamo sottolineato l’importanza del legame maestro-allievo per
la tradizione popolare indiana, per la quale il rispetto “a Dio, al padre e al maestro” è un dovere
sacro. Anche se gli asan (maestri) di Kathakali non rivendicano l’appartenenza alla dinastia del
mitico Paraśurāma, come i loro omologhi nel Kalarippayattu63, ognuno è consapevole di
appartenere ad un preciso sampradayam (tradizione d’insegnamento) che può essere descritto
come una catena, i cui anelli sono il maestro, il maestro del suo maestro, e così via.
A partire dal 1930, con la fondazione della Kalamandalam e l’inizio di quello che si
potrebbe definire come l’“insegnamento istituzionale”, in contrapposizione al precedente
“insegnamento diretto” o “personale”, si è verificato un progressivo allentamento degli anelli
della catena del sampradayam, ma è negli ultimi 30 anni che il ritmo di questi cambiamenti si
è accelerato moltissimo. Nelle odierne scuole di Kathakali si può ancora vedere il grande
rispetto e il timore degli studenti verso i loro asan, anche se i maestri più anziani sostengono
che prima era completamente diverso. In quello che loro definiscono il “vero gurukula
system” l’allievo stabiliva un forte legame con il maestro. Il bambino si metteva nelle mani
del maestro come il bhakta (fedele) si mette nelle mani di Dio.
(...) the personal attention and personal attachment of the teacher to
the student is quite different from those days. That is reflected in every
aspect of the training. For example, the teacher was very cruel in a sense
at that time, they used to punish, without thinking about the reaction of
the student. But that punishment was because they wanted to see the
student do everything in the correct form. (ZARRILLI 1984 : 360-361)
Questo è il brano di un’intervista fatta ad un maestro della Kalamandalam nel 1976.
Per la mentalità occidentale moderna può sembrare strano che il maestro citi la punizione
come esempio del suo legame con l’allievo. Oggi il concetto di educazione attraverso la
punizione fisica è considerato assurdo e inammissibile, nonostante venisse praticato
63The line of masters begins with the present master’s own teacher, and stretches back in the time to the mythical
Paraśurāma. (...) Hindu masters are usually called by the plural gurukkal, rather than the singular guru or asan.
The guru does not just represent god or a line of teachers, he is the living embodiment of the lineage.
(ZARRILLI 2004 : 72)
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sistematicamente in un passato ancora piuttosto recente. D’altronde anche in India non è più
accettato così facilmente. Ma se cerchiamo di osservare la questione senza pregiudizi,
possiamo capirne il senso, pur non condividendo l’idea della violenza nei confronti dei
bambini. Il maestro deve opporsi all’indole naturalmente indisciplinata dei piccoli, molto più
interessati a giocare che a praticare una disciplina così dura come il Kathakali. Il bambino si
sforzerà di tenere la posizione giusta, anche se dolorosa, se avrà timore di una punizione più
dolorosa. Lo scopo del maestro è costruire un nuovo corpo nell’allievo, instillarvi forma,
linguaggio, ritmo. Questo processo è doloroso perché il nuovo corpo non è “naturale” ma,
volendo usare la terminologia di Eugenio Barba, “extra-quotidiano” 64
It was cruel in a sense. You do this without crying. They will make you
to do. But that is good. In the younger days, only by external
inducement can these younger students learn. They will not do it for
their own. If you fell some pain you will try to relax. So if the teacher is
strict they will do it. (Ibidem : 361)
In seguito ai mutamenti sociali degli ultimi anni sono venute meno le premesse di
questa relazione. Il giovane e la sua famiglia non accettano più la resa incondizionata di prima
e il maestro di conseguenza deve stabilire un altro tipo di rapporto.
I can’t explain why it is like that, but there are many, many small
changes made. Some times it is due to the attitudes, the mental attitudes
of the students (...) (Ibidem : 363)
Interrogato sulla differenza fra il suo apprendistato negli anni ’60 e la sua pratica
attuale come maestro, anche Narippatta Nambudiri, Art Director della Sadanam, ha messo in
rilievo la questione della punizione fisica:
At that time teachers could give more punishment on the child. Physical
punishment. Beating. Some kind of painful punishment. Nowadays we
cannot give such kind of punishment. Because the society is different.
Even it is gurukula. To beat here (picchia il suo braccio): my guru used
to beat here a heavy beat, with the stick. Now I am a little hesitating.
Not hesitating, I can’t find a good word for that. I cannot give that very
heavy beat, like he did on my body. That is the difference of the times.
(...) It was good. It is worthy. Your hand will be perfect, your chin will
be perfect. Now that push we cannot give. For the times. (Intervista a
Narippatta Nambudiri : 27/1/05)
Il punto fondamentale è la resa totale dell’allievo al maestro. Nel gurukula lo studente
rinuncia alla sua individualità e diventa la materia grezza che il maestro ha il compito di
modellare, avendo potere assoluto su corpo, mente e anima. In questo senso, potremo vedere i
suoi colpi come quelli di uno scultore sul marmo.
64 La danza delle opposizioni caratterizza la vita dell'attore e del danzatore a differenti livelli. Ma, in generale,
nella ricerca di questa danza l'attore-danzatore ha una bussola per orientarsi: il disagio. “Le mime est à l'aise
dans le malaise”, il mimo è a suo agio nel disagio, dice Decroux, e questa sua massima trova una serie di echi
presso i maestri di teatro di tutte le tradizioni. La maestra di Katzuko Azuma le diceva che per verificare se una
posizione era assunta nel modo giusto doveva badare al dolore: se non duole è sbagliato. E sorridendo
aggiungeva: “Ma se duole non vuol necessariamente dire che sia giusta”. La stessa cosa ripetono Sanjukta
Panigrahi, i maestri dell'Opera di Pechino, quelli di balletto classico o di danze balinesi. Il disagio diventa,
allora, un sistema di controllo, una specie di radar interno che permette all'attore-danzatore di osservarsi
mentre agisce. Non si osserva tramite gli occhi, ma tramite una serie di percezioni fisiche che gli confermano
che tensioni non abituali, extra-quotidiane, abitano il suo corpo. (BARBA e SAVARESE 1996 : 11)
79
I maestri di Kathakali di oggi ricordano il rapporto con i loro maestri come qualcosa
che va al di là del semplice insegnamento di tecniche attoriali, ma come un progetto di lungo
termine teso a forgiare un nuovo individuo. Seguendo le tracce dei loro asan, ma in dialogo
con i nuovi tempi, oggi essi cercano di trovare la strada per mantenere lo spirito del gurukula
nell’educazione delle nuove generazioni.
My guru lived in a house very near to the kalari. So when he was
coming to the kalari: “Oh, be silent, conscious”. Very afraid of him.
But he was very friendly sometimes. Not “friendly”, but we understood
each other. But very afraid of him... It was gurukula. The whole day his
attention was with us. That is gurukula. The whole day he was
watching us. Now I am living here, the students are there and Mr.
Balakrishnan is living there with his family. So still the gurukula system
is maintaining in some percentage, but not as before. Anyway the whole
day attention on the child is very important. Not only in the classroom.
(Idem)
Un fattore fondamentale per il mantenimento della catena del sampradayam è il
riferimento ad un preciso maestro. Nella Kalamandalam, dove l’istituzionalizzazione
dell’insegnamento e l’adozione di un’organizzazione di stampo occidentale è più avanzata che
in altre scuole, e dove anche il numero di allievi è di gran lunga superiore, questo rapporto
diretto e di lungo termine fra un allievo e un maestro praticamente non esiste più. I maestri
sono divisi per classe e dunque gli studenti hanno diversi maestri nel corso dei loro anni
d’apprendistato. Alla Sadanam invece c’è un’unica classe e i neofiti fanno lezioni dal primo
giorno insieme agli altri, all’inizio limitandosi a guardare le cose che non sono in grado di
fare. Ci sono anche lezioni supplementari per i principianti, ma essi imparano tantissimo
dall’osservazione e dallo scambio con i più anziani. I tre maestri di vesham lavorano in
collaborazione e si alternano nelle diverse lezioni.
Only one classroom for vesham. For cholliyattom, one classroom.
Because if three teachers are working in three places, they will do
different things. So in one classroom almost the same style will be
followed, even if there will be differences. For chenda one classroom,
for maddalam one classroom, for vocal music one classroom. (Idem)
Esattamente come nella coltivazione di una pianta, la crescita dell’allievo dipende
dall’attenzione dedicatagli e da determinate procedure che devono essere eseguite durante
questo processo, che si sviluppa rispettando quattro assi temporali: la giornata, le fasi della
luna, l’anno (e le sue stagioni) e il passaggio degli anni (ovvero l’evoluzione dell’allievo
durante gli anni d’apprendistato).
Nel passato i membri dei kaliyogam vivevano presso le casate delle famiglie Nair
(taravads) e Nambudiri (illam). L’apprendistato e l’allenamento non seguiva
un’organizzazione scolastica precisa, ma obbediva soltanto al ritmo della vita quotidiana della
troupe. Si lavorava d’accordo con gli impegni (e la disposizione) del maestro e si seguiva il
ritmo dettato dai pasti, dal sonno, dal sole e della luna, dagli spettacoli, dai riti religiosi, ecc.
Fondamentalmente il periodo dei monsoni (da giugno a novembre) era dedicato
all’allenamento, che incominciava il mattino molto presto per approfittare delle ore più
fresche della giornata. Durante tutto il resto dell’anno il kaliyogam si dedicava agli spettacoli
in giro per il Kerala.
Il lavoro nelle scuole di Kathakali odierne segue un timetable più preciso rispetto a
quello dei kaliyogam, che si è sviluppato a partire dalle vecchie consuetudini e poco si è
alterato durante il Novecento. Uno dei cambiamenti è stato il progressivo abbandono del
calendario indù tradizionale – che determina i giorni di pausa d’accordo con le fasi della luna –
80
e l’adozione della cosiddetta “settimana inglese” (lavoro da lunedì a venerdì con pausa il sabato
e la domenica). Delle scuole che ho visitato soltanto la Sadanam segue ancora il calendario
indù. Altra differenza è che un tempo i massaggi venivano fatti per sei mesi (da giugno a
novembre) e oggi durano soltanto tre mesi (da giugno a agosto). Inoltre, prima il lavoro nel
periodo dei monsoni cominciava alle tre del mattino e oggi incomincia alle quattro e mezza.
Nel 1990 però vi è stato un forte cambiamento alla Kalamandalam. L’istituzione ha
introdotto nel suo curriculum l’educazione generale (malayalam, inglese, hindi, estetica,
letteratura, scienze, matematica e umanità), e adesso alla fine del corso rilascia il diploma del
VII Standard (high school). La giusta preoccupazione di offrire agli allievi un’educazione
generale (pensando anche al futuro di quelli che non riusciranno a farsi una carriera in ambito
artistico) ha portato alla diminuzione delle ore e delle energie dedicate allo studio del Kathakali.
Le tappe dell’apprendistato
La crescita dell’allievo di Kathakali, seguendo il ritmo quotidiano dell’alternarsi di
luce e buio e il susseguirsi delle stagioni, prosegue durante gli anni di scuola, e continua per
tutta la vita professionale. Al tempo dei kaliyogam non veniva prefissato un numero di anni
preciso per la formazione di un attore. La tradizione ha dei riti d’iniziazione – il gurudakshina
(il dono al guru nel primo giorno di lezione), l’arangettam (il primo spettacolo) – ma non
conosce dei riti per la fine dell’apprendistato. Anche un asan è sempre un apprendista nei
confronti del suo asan e degli attori più anziani. Attualmente gli allievi entrano nella scuola
verso i dodici anni (la Kalamandalam, per esempio, accetta ragazzi fino ai tredici anni) per
seguire un curriculum di sei anni più due di post-graduation; ma nella prima metà del
Novecento le scuole non avevano regole precise al riguardo. Per gli attori che si formarono
fino agli anni ’60 (e che oggi hanno circa settant’anni o più) la consuetudine era di
incominciare a 8/9 anni e studiare per almeno 10/12 anni.
Durante gli anni d’apprendistato, man mano che l’allievo cresce, apprende pezzi
sempre più complessi e alla fine degli anni di scuola dovrebbe essere capace di rappresentare
tutti i personaggi di una ventina di storie. I ruoli sono divisi in tre tipi: all’inizio s’imparano i
kuttitharam (ruoli minori), in seguito gli idatharam (ruoli intermedi, non protagonisti) e alla
fine si è in grado di imparare gli adhivasanam (ruoli protagonisti, la parola vuol dire
letteralmente “dall’inizio alla fine”). Alla Kalamandalam l’insegnamento di questi ruoli è
rigorosamente diviso in basic (il primo anno, quando s’imparano i rudimenti del linguaggio),
intermediate (il secondo e il terzo anno, quando si apprendono i ruoli minori e i ruoli non
protagonisti), advanced (il quinto e il sesto anno, quando s’imparano i ruoli protagonisti) e
post-graduation (settimo e ottavo anno, quando si approfondisce il lavoro sui ruoli
protagonisti e s’imparano alcune storie più complesse come Nalacharitam e
Rugmangadacharitam). Alla fine, lavorando tutti in una stessa classe questa divisione in anni
è meno rigida, ma viene rispettata la stessa progressione nell’apprendimento dei ruoli.
Ci sono però alcune storie, alcuni ruoli, che vengono appresi dopo il periodo
scolastico, nel corso della vita professionale, semplicemente osservando e imitando gli attori
più esperti.65 Per un attore professionista, imparare la struttura di un nuovo ruolo è
relativamente semplice, perché il linguaggio del Kathakali, che a questo punto l’attore
dovrebbe dominare completamente, è composto da una serie di pattern ritmici e coreografici
che si ripetono (anche nei testi spesso si ripetono le stesse immagini). A questo punto, la
questione non è più la struttura del ruolo, ma la sfida di farne un’interpretazione personale.
65 Narippatta mi ha raccontato che è stato così che ha imparato, per esempio, il ruolo di Hamsa in Nalacharitam.
81
La carriera di un attore di Kathakali può essere molto lunga – oggi per esempio
abbiamo attori ancora in attività con più d’ottanta anni. Un attore con meno di quarant’anni è
considerato ancora inesperto, ed è raro che sia chiamato a rappresentare ruoli protagonisti in
spettacoli importanti. La formazione dell’attore dunque non termina con la fine della scuola.
E’ necessario continuare ad approfondire le proprie conoscenze e abilità per sviluppare uno
stile personale in quest’arte dalla struttura così forte. Questa diventa un’eccellente cornice per
la creatività, se si riesce ad andare oltre il semplice rispetto delle regole, ma può anche
rivelarsi una gabbia. Cercare di proseguire il rapporto con il proprio maestro è la strada più
ovvia, ma ciò richiede un interesse e una fiducia molto alti da parte del maestro per indurlo a
condividere i suoi segreti professionali. Spesso gli allievi considerati più bravi e interessati
continuano all’interno della scuola, sia proseguendo gli studi (e per questo esiste la possibilità
di chiedere una borsa di studi al governo indiano) sia diventando junior teacher (o le due cose
contemporaneamente). Se un attore vuole specializzarsi in un particolare tipo di ruolo può
cercare un maestro specifico. Può anche cercare di approfondire tecniche specifiche, come il
lavoro sull’espressione facciale con un attore di Kutiyattam, o sulla comprensione degli
attakkatha (testi) o del Nāṭyaśāstra in modo autodidatta, come ha fatto Kottakkal Sivaraman.
Per quasi un secolo – dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento – la famiglia
reale di Kodungalloor mantenne una specie di centro di alti studi dove alcuni attori di
Kathakali e Kutiyattam approfondivano le loro conoscenze. Questo abhinaya kalari, come
veniva chiamato, si dedicava soprattutto ai testi sanscriti in generale e al Nāṭyaśāstra in
particolare, oltre al lavoro sugli occhi (netrabhinaya) e l’espressione facciale dei sentimenti
(rasabhinaya), utilizzando anche massaggi speciali e metodi di controllo del respiro. Ravunni
Menon vi studiò durante la stagione dei monsoni per cinque anni e anche Ammannur
Madhava Chakyar vi trascorse alcuni anni della sua gioventù; entrambi sotto la guida di
Kochunni Thampuran e Kunjunni Thampuran.
Abhinaya
Il Kathakali ha ereditato la tradizione del teatro sanscrito codificata nel Nāṭyaśāstra
attraverso il Kutiyattam. Anche se i suoi attori non hanno in generale una conoscenza diretta
di questo testo, termini come rasa, bhava, sāñcarī bhava o abhinaya fanno parte del loro
vocabolario tecnico. Un modo opportuno d’analizzare l’apprendistato delle tecniche attoriali
specifiche del Kathakali è confrontarle con la teoria espressa nel Nāṭyaśāstra.66
La parola sanscrita per definire il lavoro dell’attore è abhinaya, formata dal prefisso
abhi (in direzione di) e dalla radice ni (portare). Normalmente si traduce la parola abhinaya
come “recitazione”, “lavoro dell’attore”, il che è sostanzialmente giusto. Bisogna però fare
una distinzione: nel Nāṭyaśāstra l’abhinaya comprende i mezzi espressivi usati dall’attore per
portare il senso dell’opera teatrale allo spettatore. Utilizzandoli l’attore diventa uno
strumento, uno degli “ingranaggi” della macchina scenica. Lavorando insieme ai musicisti,
l’attore utilizza l’abhinaya per portare le parole del testo e la musica al loro pieno
compimento come drsya kavya (visibile poesia), trasmettendo allo spettatore i bhava che lo
porteranno all’esperienza del rasa.
L’abhinaya è diviso in quattro sezioni: āṅgika (movimenti corporei), vācika (uso della
voce), āhārya (costumi e trucco) e sāttvika (stati psichici). Ognuna di queste sezioni si divide
66 In questo capitolo alcuni esercizi vengono descritti nel tentativo di tracciare un quadro generale della pratica
del Kathakali senza tener conto delle particolarità di ogni scuola studiata. Queste specificità, che spesso sono
descritte nei “diari di bordo” (capitoli II e IV) saranno citate in questa sede soltanto quando necessario per la
riflessione sull’apprendistato dell’attore Kathakali.
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poi in altre più specifiche. Questi sono anche gli attributi di Śiva Nataraja (il dio Śiva nella
sua veste di re – rajah – dei nata) invocati nella preghiera che inizia l’Abhinaya Darpaṇa:
āṅgikam bhuvanam [il tuo corpo è l’universo]
yasya vācikam sarva vangmayam [la tua voce parla tutte le lingue]
āhāryam chandra taradi [le tue vesti sono la luna e le stelle]
tam numah sāttvikam Shivam [davanti a te m’inchino, o divino Śiva]
(COOMARASWAMY (trad.) 2003 : 13)
Di tutti gli abhinaya, l’āṅgika abhinaya è quello fondamentale per il Kathakali. Tutte
le tecniche attoriali di questo teatro confluiscono nel lavoro sul corpo. Analizzeremo
velocemente gli altri tre abhinaya prima di addentraci in questa categoria, nella quale
troveremo intrecciati la maggior parte degli argomenti riguardanti l’Arte dell’attore Kathakali.
Vācika abhinaya
Il vācika abhinaya concerne non soltanto la corretta pronuncia delle parole, le
modulazioni della voce, il canto, gli accenti ed il ritmo, ma si riferisce anche al linguaggio,
adeguato ad ogni personaggio in accordo con il suo rango sociale e con quello del
personaggio al quale egli si rivolge.
Siccome gli attori di Kathakali non parlano, ovviamente non esiste un lavoro specifico
sul vācika abhinaya. Tuttavia il rapporto fra i gesti dell’attore e il testo cantato dai cantanti è
molto stretto e possiamo dire che nel lavoro dell’attore Kathakali la parola è molto
importante. Allo stesso modo, il Nāṭyaśāstra attribuisce un’importanza centrale alla parola, a
dispetto del luogo comune che descrive il teatro orientale come un “teatro del corpo”.
One (an actor) should be very particular about words, because words
are the body of dramatic art. Gesture, costumes and make-up, along
with the expression of emotions, are secondary as they only clarify the
meaning of words. The Sastra-s are made up of words; they depend on
words; so there is nothing more important than the word. Word is at the
source (root) of everything. (RANGACHARYA (trad.) 2003 : 116)
La contrapposizione fra “teatro di parola” e “teatro corporale” è un falso problema.
Nel Kathakali, anche le parti di sola azione senza parole cantate (gli ilakiyattam) sono spesso
create a partire da riferimenti letterari. Il Kathakali, così come il Natya, è drsya kavya (visibile
poesia), e in questo tipo di poesia la parola è indissociabile dall’abhinaya dell’attore, che le dà
un nuovo senso e un altro tipo di densità del tutto diversa da quella che essa rivela
nell’esercizio solitario della lettura.
Per concludere, va ricordato che certi personaggi grotteschi nel Kathakali (katti, taadi,
kari) possono emettere dei suoni vocali, ma non ho trovato nessun riferimento a tecniche o
esercizi specifici per questi suoni, oltre alla semplice imitazione.
Āhārya abhinaya
L’āhārya abhinaya si occupa dei costumi, degli ornamenti, del trucco e di tutte le cose
esteriori che servono all’attore per caratterizzare il suo personaggio o l’ambiente che lo
circonda. Seguendone i precetti, possono essere suggerite diverse caratteristiche dei
personaggi: dal sesso all’età, dalla razza alla classe sociale, dal carattere allo stato d’animo.
Alcuni personaggi possono essere identificati dagli oggetti che portano con sé (Krishna porta
il flauto, Arjuna l’arco, Bhīma la mazza, ecc.).
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Nel Kathakali il palco è nudo, e nei tempi antichi, quando l’unica illuminazione era
quella della lampada ad olio, i personaggi dovevano sembrare sorti magicamente dalle
tenebre, suggerendo ancor di più la peculiare atmosfera onirica di questa danza. L’assenza di
scenografia determina però un altro aspetto del lavoro dell’attore che non concerne
esattamente l’āhārya abhinaya, ma è legato alla caratterizzazione dell’ambiente e dei
personaggi: nel Kathakali gli oggetti, i luoghi, i fenomeni naturali (giorno, notte, pioggia,
sole, ecc.), le stagioni dell’anno, le piante, gli animali, ecc., spesso e volentieri compaiono
sulla scena soltanto attraverso la rappresentazione pantomimica degli attori. Questo tipo di
lavoro attoriale è previsto nel Nāṭyaśāstra e viene chiamato citrabhinaya (la rappresentazione
di cose e idee di diverso tipo).
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Sāttvika abhinaya
Il sāttvika abhinaya è forse l’aspetto più importante e più difficile da definire. Il sattva
sarebbe “qualcosa di non manifesto, ma che è il fondamento del bhava e del rasa.” (GOSH
(trad.) 1995 : v. I - p. 373).67 Sattva significa letteralmente “prodotto dalla
mente” (RANGACHARYA (trad.) 2003 : 76), ma allo stesso tempo è qualcosa che
“appartiene al corpo” (Ibidem : 185). Secondo il Nāṭyaśāstra, una rappresentazione dove il
sattva è esuberante è d’alto livello, mentre se il sattva è mediocre il livello è basso. (Idem) Il
sāttvika abhinaya viene usato per esprimere i sāttvika bhava, che sono involontari e perciò
non possono essere affrontati per via diretta, ma sorgono quando la mente è specialmente
concentrata. Naturalmente il sāttvika abhinaya non può che manifestarsi nel corpo (tramite
lievi alterazioni nella voce, nel respiro, nei gesti ed espressioni facciali o in azioni più evidenti
come il pianto), ma possiede qualcosa che sfugge all’āṅgika abhinaya perché non può essere
lavorato tecnicamente, ma deve manifestarsi spontaneamente.
Āṅgika abhinaya
Come abbiamo potuto constatare, tutti gli altri tre abhinaya descritti in precedenza
sono legati all’āṅgika abhinaya: il rapporto con la parola si manifesta nel linguaggio gestuale,
il corpo è quello che dà vita al costume, e i sentimenti non possono che manifestarsi nel
corpo, nonostante lo trascendano.
L’āṅgika abhinaya ha due categorie: nṛtta (danza pura, senza contenuto narrativo e
che non esprime nessun bhava in particolare)68 e nṛtya (danza espressiva, che racconta una
storia ed esprime un particolare stato d’animo). Questa è la parte più ampia dell’abhinaya,
perché il corpo è il principale mezzo espressivo dell’attore indiano.
L’abhinaya del corpo (anga) si divide in tre parti: 1) il movimento delle parti del
corpo (testa, mani, busto, bacino, fianchi e piedi); 2) le espressioni del viso (occhi,
sopracciglia, palpebre, naso, labbra, guance e mento); 3) le azioni e movimenti che
coinvolgono tutto il corpo insieme. In dettaglio vengono descritti i movimenti di ognuna delle
parti delle prime due sezioni (ed ulteriori suddivisioni delle stesse) e il sentimento che ognuno
di questi movimenti deve esprimere. Inoltre, in rapporto alla terza sezione vengono descritti
diversi tipi di posizioni (cari), le loro combinazioni in movimenti (mandala) e una lunga serie
di camminate per diversi tipi di personaggi in differenti situazioni.
L’āṅgika abhinaya nel Kathakali non segue alla lettera i movimenti descritti nel
Nāṭyaśāstra, ma lavora sulla segmentazione del corpo e utilizza esercizi specifici per i diversi
segmenti. Il lavoro sul viso è quello che presenta più punti in comune con quello descritto nel
testo, in particolare per l’abhinaya degli occhi (netrabhinaya). Nella early morning class, la
prima sezione di lavoro al mattino molto presto, si eseguono tutta una serie di esercizi
specifici per gli occhi (kannusadhakam) e anche alcuni esercizi per le mani e per il tronco.
Dopo l’applicazione di una specie di burro liquido (ghee) dentro le palpebre inferiori per
migliorarne la lubrificazione, la pupilla esegue una serie di movimenti lineari e circolari in
tutte le direzioni e a diverse velocità. Vi sono anche esercizi per le palpebre e le sopracciglia. I
movimenti degli occhi e gli sguardi, insieme ai movimenti delle altre parti del viso, come le
labbra e le guance, verranno poi usati in modo codificato per esprimere i nove sentimenti
fondamentali (navarasa). Questo lavoro è chiamato rasabhinaya e viene appreso nell’ultima
sezione di lavoro della giornata (la sitting class).
In seguito agli esercizi per gli occhi, il corpo viene cosparso con olio e dopo una
sequenza di sette namaskaram (saluti) fatti con tutto il corpo – si tratta di cinque saluti
(namaskarapanchaka) dedicati al dio Ganesh e perciò eseguiti in direzione sudovest e della
ripetizione degli ultimi due in direzine dell’asan – il lavoro prosegue con i meysadhakam
(esercizi per il corpo), chiamati anche meyyurappadavu (letteralmente “il metodo per rafforzare
il corpo”): una durissima serie di esercizi che prevedono salti, stretching, giri, esercizi per le
braccia, per le gambe, per la schiena, ecc.). Dopo i kall sadhakam (esercizi per i piedi), che
consistono in diversi tipi di passi praticati a quattro diverse velocità, il corpo dell’allievo è
pronto per i massaggi (uzhicchil) che servono per dare flessibilità al corpo. In questi massaggi,
provenienti dal Kalarippayattu e dalla medicina ayurvedica, il corpo viene cosparso di olio e
massaggiato con i piedi (soltanto il viso è massaggiato con le mani). L’insegnante controlla la
pressione che esercita sul corpo dell’allievo con l’ausilio di una corda appesa al soffitto o di
una sbarra orizzontale. Altri esercizi praticati in questa sezione del lavoro sono i chuzhippu
(movimenti circolari del tronco) e i kalasam (piccole coreografie di passi). In questa parte del
lavoro non si usano gli strumenti musicali, ma il ritmo viene battuto con le mani.
La progressiva costruzione del corpo dell’attore Kathakali è lo scopo di tutta la early
morning class, che dura circa tre ore giornaliere. Alcuni esercizi lavorano il corpo in modo
complessivo, altri si concentrano su determinati muscoli, che possono essere anche molto piccoli,
come i muscoli del viso e degli occhi. Si lavora sulla flessibilità e la resistenza. Non sono però
soltanto degli esercizi per il condizionamento fisico; il loro scopo fondamentale è modellare il corpo
per assumere le posizioni del Kathakali in modo corretto. Questo momento del lavoro è
estremamente importante per il principiante, poiché all’allievo vengono inoltre insegnati i primi
elementi del linguaggio; ma questi esercizi verranno praticati durante tutti gli anni dell’apprendistato.
69 Analogamente gli allievi musicisti, prima di percuotere i tamburi, suonano su delle pietre o su pezzi di legno.
70 Vedi questi hasta nel filmato sul Kutiyattam nel DVD allegato.
71 Quando le parole sono inserite nella narrazione di una storia, non sempre (o quasi mai) queste coreografie,
chiamate ilakiyattam, vengono eseguite nella loro interezza. Vedi degli esempi di questi ilakiyattam nel filmato
sul nṛtya nel DVD allegato.
72Questa suddivisione delle parole secondo aree semantiche è in realtà molto approssimativa, oppure, in quanto
occidentali, non disponiamo dei riferimenti culturali per comprenderla fino in fondo. Zarilli ha scelto come
esempi parole coerenti con la sua suddivisione, ma se guardiamo altre parole appartenenti alla famiglia numero
cinque, per esempio, troveremo parole che non denotano rapporti personali come “cattivo” o “cavallo”.
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Per alcuni tipi di personaggio (i taadi, i kari, i katti) lo sloka è preceduto dal
tiranokku: lo “sguardo dal tirasila”, una scena dove le sembianze del personaggio si rivelano
a poco a poco. Si sentono suoni di passi e urla da dietro il tirasila, si vedono dapprima
soltanto le sue mani, una di esse con lunghe unghie d’argento, in seguito l’attore abbassa di
colpo il tirasila e si mostra soltanto per un secondo. Il tiranokku si conclude con il lentissimo
abbassamento del tirasila fino all’altezza della vita, tenuto con le due mani dall’attore.
I ruoli più semplici sono composti da scene di testo in dialogo o monologo – i padam
– con piccoli kalasam alla fine di ogni strofa. La performance di un padam prevede un lavoro
coordinato delle mani, degli occhi, del volto, dei passi di danza, insomma coinvolge
armonicamente tutto il corpo all’interno del ritmo della musica. Nei ruoli più complessi, i
padam possono prevedere l’innesto di pezzi coreografici o pantomimici di diversa natura (per
esempio la descrizione della città di Aṁbāḍi in Pootanamoksham, la danza di seduzione di
Lalita o la danza del pavone di Narakāsura in Narakasuravadhom, l’ashtakalasam, ecc.) dove
normalmente si continua a ripetere un ritornello (pallavi) mentre la danza viene eseguita. Un
altro elemento che spesso troviamo nei ruoli maggiori sono gli ilakiyattam, scene senza parole
cantate, con spesso delle azioni pantomimiche, ma che possono avere anche discorsi o
dialoghi fatti soltanto con gli hasta.
La musica e il tempo-ritmo
Il lavoro dell’attore nel teatro-danza “classico” indiano è intriso di musicalità, ma nel
Nāṭyaśāstra non esiste nessuna parte specifica dell’abhinaya che descriva il rapporto dell’attore
con la musica e con il ritmo. In diversi passaggi però vengono prescritti i tala (ritmo) nei quali
le azioni devono essere eseguite (in particolare nel Capitolo XIII, che tratta delle camminate
dei diversi personaggi), oltre a presentare diversi capitoli che riguardano specificatamente la
musica (Capitoli XXVIII a XXXIII) e la metrica della poesia (Capitolo XVI).
Nello spettacolo di Kathakali la musica è sempre presente e il legame fra musica e
drammaturgia è molto stretto. Il suo sistema musicale, il cui stile è un adattamento della
musica carnatica, è legato alle specificità della scena teatrale. Il raga (scala musicale), il tala
(ritmo) e il kala o laya (tempo) della musica, in ogni scena e in ogni momento, sono
determinati dall’azione e dal bhava (sentimento). Un cambio nell’azione drammatica sarà
sicuramente segnalato da un cambio di raga73, di tala o semplicemente di kala.
Anche gli strumenti musicali hanno funzioni drammaturgiche precise. Quando
agiscono i personaggi femminili (ad eccezione delle demonesse rākṣasi) per esempio, il
chenda, dal suono potente e vigoroso, tace e talvolta viene sostituito da un altro tamburo dal
suono molto morbido chiamato idakka; più spesso invece è soltanto il maddalam che segue
l’azione in questi passaggi.
Come abbiamo visto, la prima danza che l’allievo di Kathakali vesham impara è il
todayam. In questa danza sono presenti i sei differenti tala usati nel Kathakali, eseguiti a
diverse velocità. Inizialmente l’allievo deve imparare a dire i vayttari (sillabe usate per
vocalizzare i ritmi) di ogni tala e a segnare questi ritmi con le mani. Nella coreografia della
danza, questi ritmi saranno elaborati in kalasam che a loro volta avranno i loro vayttari.
Durante la lezione il maestro segnerà il ritmo dei vayttari picchiando un bastone di legno
contro uno sgabello. La stessa modalità verrà usata in futuro in tutte le scene e coreografie. In
questo modo, dopo aver imparato il todayam, l’allievo avrà familiarizzato con tutti i ritmi che
73Il raga può, al limite, cambiare in continuazione a seconda del personaggio in un dialogo; questo accade in
Duryodhanavadhom, dove nel dialogo fra Krishna e Duryodhana i due personaggi parlano usando il chenjurutty
raga e il vegatha raga rispettivamente.
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tempo matra x . . . x . x . x
normale vayttari tey yyam ta ta ti ti tey
tempo matra x x x - x x x - x
veloce vayttari ti ti tai ti ti tai ti
tempo matra x . x x x x . x x . x
normale vayttari tai nta ti nta ta kita dhi dhi titi tai
tempo matra x - x x x x - x x - x
veloce vayttari tai nta ti nta ta ti ti tai
tempo matra x . x x x x . x x x xx . xx xx x
normale vayttari tai ta ta ta dhim ta ta ta dhim tata dhim tata tai
tempo matra - x x x x - x x x x - x - x -
veloce vayttari ta ta ta dhim ta ta ta dhim dhim dhim
tempo matra x . x x x x x
normale vayttari tom nta ti nta ka tom
tempo
come sopra
veloce
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tempo matra x . - x - x - x
normale vayttari dhim Ta dhim dhim dhim
tempo
come sopra
veloce
tempo matra x x x - - x x x . x x . x x x
normale vayttari tai dhim takita dhim ta tai
tempo matra x x - x x - x x x - x x - x x
veloce vayttari tai dhim takita dhim ta tai dhim takita dhim ta tai
Il purappad utilizza principalmente il chempada tala, che è il tala più comune nel
Kathakali. Avendo un talavatar (ciclo ritmico) di otto matra (unità ritmiche), il chempada è il
più semplice e regolare dei tala, poiché tutte le sue suddivisioni sono pari. Questa regolarità
permette un’elaborazione del ritmo ancor più complessa (probabilmente è per questa ragione
il tala più frequentemente utilizzato nel Kathakali). I namaskaram (saluti) iniziali sono un
esempio della difficoltà ritmica di questa danza: per eseguire correttamente i suoi movimenti
estremamente lenti è necessaria un’enorme concentrazione sul ritmo. La velocità della danza
va in crescendo e anche la sua parte finale, molto rapida, è di difficile esecuzione.
L’apprendistato dei musicisti di Kathakali non si restringe alla sola musica, ma implica
anche la pratica nell’accompagnamento e nel supporto degli attori. Il lavoro nel cholliyattom è
così importante perché l’affiatamento fra musicisti e attori deve essere totale e i cantanti in
particolare devono essere capaci di segnare il tempo con i loro cembali in perfetta sincronia
con le azioni degli attori. Il ponnani (primo cantante) ha il ruolo di condurre non solo
l’orchestra (della quale possiamo dire che fanno parte anche gli attori) ma tutto lo spettacolo.
I could say that more than the actor the drummer must be good. [For
that some actors want to play only with] a particular drummer. Like
that they can convey the meaning better, it is easier. If the drummers
are changing, you must be watching him: “ah, yes, he is coming with
me; oh no, he is not coming with me”. (...) When I move the hand, [the
drummer] has to know that I will look there. By the whole body he gets
the signal, he gets the meaning. Like that he can give me the good
sound effect. (...) The drummers have to follow the actor. Kathakali
kottal is drumming for Kathakali; Kathakali pattu is singing for
Kathakali. So the first thing is the acting, the actor. Actually the singer
is the first, because of the sound. That sound, that text, has to be
elaborate. So, first the singer and with the singer, the actor. The
drummer follow the actor. (Intervista a Narippatta Nambudiri : 27/1/05)
Nei padam, per ottenere una simbiosi perfetta fra la voce dei cantanti e i gesti degli attori, i
primi, oltre a cantare, devono interpretare i personaggi mentre i secondi devono agire danzando,
anche quando sono seduti. Sia nei padam che negli ilakiyattam, tutti i gesti, le azioni e le
espressioni del volto e degli occhi sono eseguiti rigorosamente all’interno del tala in continuo
dialogo con gli strumenti di percussione, che contribuiscono a illustrare il senso delle loro azioni e
ad arricchire il loro effetto. In molti momenti della musica, i tamburi eseguono anche suoni.
90
All’interno del linguaggio musicale e corporale del Kathakali, esiste però una certa
libertà interpretativa. Nei padam, ogni verso viene ripetuto un certo numero di volte per
permettere all’attore di rendere il suo significato in sincronia con le parole. Il numero di
queste ripetizioni non è fisso, per cui il tempo impiegato per eseguire la gestualità di ogni
parola può variare, entro certi limiti, a seconda dell’elaborazione del suo senso e del bhava
della scena. Tramite rallentamenti o accelerazioni l’attore può “giocare” con il ritmo
dell’azione all’interno del ritmo della musica, costruendo così la sua interpretazione personale
del ruolo. I musicisti però devono essere in grado di sostenere l’attore, eseguendo al momento
giusto le variazioni necessarie per valorizzare ogni suo gesto. Negli ilakiyattam, per il loro
carattere d’interpolazione o digressione dal normale corso della storia, l’attore può veramente
improvvisare, senza però uscire della cornice della forma e del ritmo.
Even in a padam we have the freedom to interpret, but without breaking
the music. We cannot interfere with the music. You have to read in
between the line. So in each line you have to read and fill with
something. Like that, even in a padam you have the possibility to
interpret new things. But in an attam there are many possibilities, if
your singers are cooperating, if your drummers are cooperating. In a
kalasam as well there are many possibilities. (...) You have to follow
[the rules] strictly in the school, in the kalari. But when you go to the
stage, there must be something new, because you are an artist. You are
not a machine. (Idem)
Tutto l’apprendistato nella scuola di Kathakali è pratico e orale. Gli studenti, sia attori
che musicisti, non prendono mai appunti e non usano nessun tipo di notazione musicale.
L’unica cosa che scrivono sono le parole del testo, ma anche queste devono essere imparate
perfettamente a memoria. Lo stesso non succede con gli allievi occidentali, che sapendo di
non aver molto tempo per imparare e avendo bisogno di ricordare le coreografie quando
saranno lontani dai maestri devono prendere nota di tutto. La riproduzione degli appunti
“all’occidentale” della struttura di due versi di un ruolo molto semplice, un kuttitharam, ci
sarà utile per capire come si svolge il rapporto fra musica e gesti. Lo schema di questo
brevissimo frammento è la notazione di una delle possibili esecuzioni di questo pezzo. Anche
il fatto di dover lavorare con la musica registrata restringe tantissimo la possibilità di
elaborazione del ritmo: i movimenti devono essere fissati per adeguarsi alle variazioni di
quella musica in particolare. Un’altra procedura importante per ricordarsi dei pezzi è la
videoregistrazione, ma il video senza gli appunti sarebbe del tutto inutile.
Struttura
testo Paripahi mam Hare
vayttari di ti tei . di ti tei .
gesti mani in anjali sul petto / soka bhava (tristezza)
camminata all’indietro diagonale a/c
passi
sinistro destro sinistro
Kalasam
testo Paripahi mam Hare
vayttari di ti tata tata dim ta keretaka di ta
testo Patmalaya pate
vayttari ta tadim (.) ta tata dim ta keretaka tatom (.)
testo percussione
vayttari takatom ta keretaka tahate iata tokutaka tadikina tom (.)
Gli attakkatha (storie del repertorio del Kathakali) più centrati sulla vita interiore dei
personaggi hanno in genere una struttura meno rigida, che permette una maggiore libertà
d’interpretazione; mentre invece quelle in cui la narrazione delle vicende della storia è più
importante hanno una struttura più chiusa. Di tutte le storie, le “Kottayam plays” sono quelle
che hanno la struttura più elaborata. Kottayam Tampuram era anche un attore e curò tutti i
dettagli della struttura dei suoi attakkatha: in essi ogni verso deve essere ripetuto un numero
preciso di volte, ogni gesto ha un rapporto preciso con la musica e con lo spazio, specialmente
nei passaggi dove il ritmo è lento. In queste storie anche gli ilakiyattam sono fissati. In questo
modo, l’apprendistato di tutti i ruoli delle quattro “Kottayam plays” permette all’allievo di
impadronirsi dei fondamenti della grammatica del Kathakali.
La padronanza di questa struttura estremamente rigida, che allo stesso tempo ha al suo
interno una grande flessibilità, concede all’attore libertà per la sua fantasia. Il linguaggio del
Kathakali offre infinite possibilità di sfumature, di raffinatezze, di citazioni letterarie e
filosofiche, di poesia, che forse non saranno comprese dalla maggior parte del pubblico, ma in
ogni caso contribuiranno alla densità complessiva della presenza dell’attore in scena.
L’obbligo di stare all’interno della cornice musicale non è una costrizione, ma una risorsa
preziosa per portare l’emozione del ruolo allo spettatore, poiché la musica ha il potere di
toccare la sensibilità senza la mediazione della ragione.
Quando si assiste ad uno spettacolo di Kathakali dal vivo per la prima volta si rimane
colpiti dalla potenza musicale di questa piccola orchestra di quattro musicisti.74 Il suono dei
tamburi è così forte che quando siamo vicini al palcoscenico fa vibrare le nostre ossa, così
come accade in un concerto di rock and roll – però la differenza è che i tamburi del Kathakali
non sono amplificati!75 La soggezione che questo tipo di musica può esercitare sulle persone è
nota e ampiamente sfruttata in diversi rituali: il ritmo incalzante e reiterato dei tamburi ha un
effetto ipnotico che favorisce la trance, per esempio nei rituali afro-brasiliani come il
candomblé. Il Kathakali, pur non essendo uno spettacolo rituale in senso stretto, provoca con
74 In alcune situazioni (in particolare nelle scene con i chuvana taadi) i tamburi possono essere raddoppiati,
arrivando l’orchestra a sei-sette musicisti.
75In genere soltanto la voce dei due cantanti viene amplificata, e purtroppo spesso ad un volume troppo alto,
come nel tentativo di soppiantare i tamburi, provocando sgradevoli distorsioni sonore.
94
la sua musica questo effetto ipnotico sull’uditorio, soprattutto durante le full-night, dove la
veglia prolungata ci porta ad uno stato liminale fra il sogno e la realtà.
L’allenamento quotidiano degli allievi-attori con gli allievi-musicisti durante il
cholliyattom è un aspetto dell’apprendistato che non va sottovalutato. Con questo metodo il
tempo-ritmo viene in tal modo interiorizzato per tutta la vita che, quando l’attore riesce a
creare la giusta armonia con i musicisti in scena, abbiamo l’impressione che sia il suo corpo a
suonare. Inoltre, lo stesso “massaggio ritmico” che provoca quell’effetto ipnotico negli
spettatori durante la performance, agendo per moltissime ore lungo moltissimi giorni sul
corpo dei giovani attori li aiuta a sviluppare la sensibilità necessaria per rappresentare i bhava
ed eseguire le azioni con il tempo-ritmo giusto e di conseguenza in modo convincente.
[The singers] are singing in the rhythm, and all of us are following the
rhythm. So actually the rhythm is the first. (...) [The rhythm] is inside. I
don’t listen every beat [of the cymbals], but I listen the tempo. I have to
find the tempo, how fast it is. That tempo I have to listen in the
beginning of the padam. Later I will be in the tala, and tala is in the
body, not outside. (Intervista a Narippatta Nambudiri : 27/1/05)
Senza addentrarci nelle complesse questioni della fisica e della filosofia riguardo ai
concetti di tempo e spazio, possiamo dire intuitivamente che lo spettatore osserva lo spettacolo
come un evento che accade in uno spazio determinato e delimitato (il palcoscenico o l’area di
scena) e in un preciso lasso di tempo (la durata dello spettacolo). L’attore dunque esegue le sue
azioni all’interno di questa cornice spazio-temporale. Ogni sua azione particolare può implicare
una grande o una piccola quantità di spazio, può avere una grande o una piccola durata nel tempo.
Se prendiamo per esempio l’azione di camminare, spostandosi nello spazio da un punto ad un
altro: l’attore può avvicinarsi o allontanarsi da un altro attore, da un oggetto, dallo spettatore...
Questi elementi quantitativi associati alle circostanze determinate dalla scena (il testo, i costumi, la
scenografia, ecc.) danno allo spettatore la possibilità, d’accordo con i suoi riferimenti culturali, di
mettere l’azione dell’attore dentro un determinato contesto: può capire, per esempio che un uomo
giovane si avvicina ad un altro più vecchio e che sono padre e figlio. Cosa determina però la
qualità di quest’azione e permette allo spettatore di attribuirne un senso preciso? L’attore la può
eseguire più o meno velocemente, può fermarsi ad un certo punto, può accelerare o rallentare, può
eseguire i passi con più o meno intensità: così diventerà il figlio che si avvicina al padre per
chiedere perdono o ricevere una punizione o una carezza, o per affrontarlo e ribellarsi all’ordine
appena dato, e così via. E’ lavorando sul tempo-ritmo – essendo il tempo la velocità dell’azione e
il ritmo il rapporto fra le velocità e le intensità dei singoli movimenti che compongono l’azione –
che l’attore apre allo spettatore tutto un ventaglio di possibili interpretazioni.
Un esempio molto chiarificante sulle potenzialità dell’elaborazione ritmica dell’azione è
il principio del jo, ha, kyu (preludio, sviluppo, finale), che regge il Teatro No giapponese nei
suoi minimi particolari. Il jo è l’inizio che deve essere leggero, preciso e veloce per catturare
l’attenzione dello spettatore; il ha è il dispiegamento dell’azione in tutti i suoi dettagli, che
comporta un rallentamento del ritmo; il kyu è il finale che condensa l’azione in un movimento
rapido che ne fissa l’effetto. Una giornata tradizionale di No è composta da cinque drammi,
organizzati in base alla concentrazione del pubblico, crescente fino al terzo dramma e
decrescente dopo. Il ritmo dell’interpretazione rallenta dunque progressivamente nella prima
metà per poi accelerare nella seconda. Il primo è un dramma jo, brillante e senza complicazioni,
che ha come principale scopo conquistare il pubblico, ancora preso dalle sue preoccupazioni
quotidiane, e creare un ambiente di concentrazione; le tre opere successive sono del tipo ha, più
elaborate e raffinate, che esigono maggiore concentrazione dello spettatore, essendo la seconda
la jo del ha, la terza la ha del ha (il massimo della raffinatezza e il punto culminante della
giornata) e la quarta la kyu del ha; la giornata si conclude con un dramma kyu, vivace e allegro
che non esige troppa concentrazione dallo spettatore, provato per la lunga giornata di spettacoli.
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Lo stesso principio si ripete in ogni singolo dramma, in ogni singola scena e in ogni singola
azione degli attori, costituendo il principio ritmico del No. (SIEFFERT in ZEAMI 1987 : 26-33)
Quello che si chiama jo è una [forma] spontanea; ha significa
“rendere malleabile questa forma e renderla esplicita
[sviluppandola]”. (...) Ciò che si chiama ha è una forma [di
interpretazione] che consiste nel “particolareggiare” il preludio, nel
dar fondo minuziosamente a tutte le varianti [della tecnica]. Ciò che si
chiama kyu è la maniera della conclusione, che, a sua volta, esaurisce
[le risorse] del ha. (...) La violenza dei movimenti caratterizza la
maniera di questo momento [dello spettacolo]. (ZEAMI 1987 : 165-166)
Per quanto riguarda l’attore, il principio del jo, ha, kyu diventa un fraseggio ritmico
che potremmo tradurre come lo sforzo iniziale per vincere l’inerzia, il dispiegamento
dell’energia in azione e il culmine dell’azione in una sospensione immediata, come davanti
ad uno ostacolo, per poi ricominciare con una nuova azione. E’ essenziale che gli studenti del
teatro “classico” giapponese imparino da subito ad avere jo, ha, kyu in tutte le loro azioni.
(BARBA e SAVARESE 1996 : 199)
L’importanza del tempo-ritmo nel lavoro dell’attore è una nota ricorrente nelle più
disparate scuole attoriali, e non solo in oriente. Stanislavskij, per esempio, attribuì una grande
importanza al lavoro sul tempo-ritmo, principalmente nel periodo finale della sua vita, come
testimonia Toporkov, nel suo libro “Stanislavskij alle prove - gli ultimi anni”:
Tutto quello che fa adesso, è corretto, ma aggiunga anche gli esercizi
sul ritmo. Non potrà dominare il metodo delle azioni fisiche, se non
padroneggia il ritmo. Infatti ogni azione fisica è indissolubilmente
legata al ritmo e è da esso caratterizzata. Se agirà sempre e soltanto
con l’unico ritmo che le è congeniale, come potrà interpretare
efficacemente vari personaggi? (TOPORKOV 1991: 118)
Nel suo celeberrimo libro Il lavoro dell’attore su se stesso, il regista russo, usando la
voce del suo alter ego Arkadij Nikolaevic, proponeva già come un’ipotesi di lavoro lo
sfruttamento della capacità di coinvolgimento che il tempo-ritmo delle azioni può avere sul
sistema psicofisico complessivo dell’attore:
Tutto ciò che abbiamo scoperto sul tempo-ritmo ci porta ad affermare
che è l’amico più vicino, il collaboratore più prezioso del sentimento
(...) Tra il tempo-ritmo e il sentimento e vice-versa c’è un legame
indissolubile, una reciprocità e una interdipendenza. (...) Si tratta della
possibilità immediata, a volte perfino meccanica, del tempo-ritmo
esteriore di influire sul nostro incostante, capriccioso e diffidente
sentimento. (...) E’ una scoperta eccezionale! Se è veramente così,
significa che, una volta individuato nel modo giusto, il tempo-ritmo di
un testo o di una parte può in maniera intuitiva, inconsapevole e
perfino meccanica raggiungere il sentimento di un attore, facendo
nascere la giusta reviviscenza. (...) Sull’intelletto agiscono direttamente
la parola, il testo, l’idea, il pensiero e tutte le immagini che suscitano
in noi un giudizio. Sulla volontà (desiderio) agiscono direttamente il
super-compito, i compiti e la linea d’azione conduttrice. Sul
sentimento, invece, agisce direttamente il tempo-ritmo.
(STANISLAVSKIJ 2005 : 453-454)
96
La sitting class
L’ultimo elemento da analizzare in dettaglio per quanto riguarda l’āṅgika abhinaya è
il rasabhinaya – la rappresentazione delle idee e dei sentimenti dei personaggi. Il momento
della giornata in cui l’attenzione è completamente concentrata sull’espressione del linguaggio
“verbale” del Kathakali, ovvero la “traduzione” del linguaggio verbale in gesti ed espressioni
facciali, è la sitting class, che dura circa due ore e si svolge prima di cena.
In questa lezione, come si può dedurre dal suo nome, gli allievi lavorano seduti. All’inizio
della lezione, si possono fare esercizi per l’espressione degli occhi e del volto, imparare o
ripassare gli hasta e i navarasa – i nove sentimenti fondamentali che nel Kathakali sono
rappresentati da vere e proprie maschere mobili create tramite particolari movimenti dei muscoli
del volto. L’attività fondamentale della sitting class però è la recitazione delle storie del repertorio,
concentrando l’attenzione sui gesti, movimenti del tronco ed espressioni del volto e degli occhi,
senza nessun accompagnamento musicale (nemmeno il bastone del maestro o i vayttari).
Quando usiamo le parole nella vita quotidiana mettiamo in moto una serie di segni
non-verbali – movimenti degli occhi, gesti, intonazioni – che sono legati ai processi psichici
in atto dentro di noi e danno un senso al nostro discorso, esprimendo significati che stanno al di
là delle parole. Su questo linguaggio non verbale si basa il lavoro dell’attore sul testo. Nel teatro
il significato delle parole sarà compreso fino in fondo dallo spettatore soltanto se l’attore sarà
capace di costruire un linguaggio artistico analogo alla comunicazione non-verbale della vita
quotidiana. L’āṅgika abhinaya dell’attore Kathakali non è altro che un’elaborazione artistica
di questi segni non-verbali in stretta connessione con le parole, in modo da creare un
linguaggio capace di esprimere allo stesso tempo quello che dicono le parole e quello che le
parole non possono dire. Se osserviamo la questione da questo punto di vista ci accorgiamo
che il lavoro dell’attore Kathakali è fondamentalmente lo stesso di quello di un attore che usa
la voce per dire il testo. La differenza risiede nel linguaggio. Nel Kathakali (o in altre forme
di teatro “classico” indiano) abbiamo un piano linguistico in più rispetto al teatro soltanto
parlato – quello del linguaggio gestuale – in dialogo con le parole cantate.76
Potremmo paragonare la sitting class alle “prove a tavolino” fatte dalle compagnie
teatrali occidentali. Nel Kathakali la voce è sostituita dai gesti, ma esiste la stessa intenzione
di concentrarsi sulla comprensione del testo e sull’espressione delle parole. Il fatto di “dire” le
parole senza muoversi nello spazio e senza la costrizione del ritmo permette l’elaborazione
dei piccoli dettagli del linguaggio, che non è fatto soltanto di gesti, bensì anche di sguardi,
espressioni e movimenti del corpo in armonia, come sottolinea Padmanabhan Nair:
76Dobbiamo però considerare questo teatro come rivolto ad uno “spettatore ideale” capace di capire il linguaggio
degli hasta. Nella realtà, sebbene tutti siano in grado di seguire la storia (principalmente nel Kerala dove possono
capire le parole della musica) in maggiore o minore grado secondo i propri riferimenti culturali (conoscenza della
mitologia indù, familiarità con gli spettacoli e con la pantomima usata, ecc.), la stragrande maggioranza del
pubblico non comprende fino in fondo quello che “dicono” gli attori con i gesti. Si potrebbe dire che la situazione è
analoga a quella di assistere ad uno spettacolo teatrale in una lingua straniera (e difatti anche in questo caso la
barriera linguistica non risulta insormontabile se il linguaggio non verbale dello spettacolo ha una certa densità).
97
Vedi filmato con la registrazione della sitting class con Padmanabhan Nair asan nel DVD Kathakali 2.
Normalmente per salutare basta fare così. (unisce le mani sul petto nel
gesto di namaste). Ma per dare una forma artistica e bella al nostro
saluto lo elaboriamo così (mentre parla esegue il saluto del danashi77):
comodamente, mettendo insieme gli occhi, il corpo e le mani. Tutto
insieme. E viene così. Così diventa il nostro saluto. Lo facciamo per la
bellezza. (Sitting class di Padmanabhan Nair agli attori del Teatro
Tascabile di Bergamo : 16/1/2005)
La sitting class è anche il momento in cui il maestro ha modo di parlare dei
personaggi, della trama della storia e dei bhava. Non dobbiamo però immaginare che sia una
lezione teorica o teorico-pratica. I discorsi approfonditi sul significato delle storie in realtà
sono fatti in modo molto breve, in “dosi omeopatiche”, e soprattutto per i “senior students”.
First the student learns the padam, the poetry, by heart, and after the
mudrās word by word. Later he has to find the inner meaning. For the
beginner, all the meaning of a padam is not possible to understand. So
when I teach: shilasi lisita varkam Śiva Śiva nikiramu – “the fate
cannot be avoided”- a boy cannot understand what is the fate. So he
practices only the mudrā. So in the beginning: the text, the word, the
gesture. Rhythm. Such classes are there, for the beginners. When you
are grown up you understand the inner meaning of each word, the
connections of the words. So you are growing up. Personally in my
classes I give the maximum explanations I can for each word in each
padam. Especially in the evening sitting class. (Intervista a Narippatta
Nambudiri : 27/1/05)
A prescindere dalle polemiche sull’interpretazione del meccanismo rasa/bhava cui si
accenna nel primo capitolo, nel Kathakali ogni personaggio all’interno della storia ha uno
sthayi bhava (sentimento dominante) che viene “condito” con diversi sāñcarī bhava
(sentimenti transitori) a seconda dei diversi momenti o anche delle singole parole. Così,
utilizzando come esempio la struttura della scena di Draupadī in Duryodhanavadhom che
abbiamo visto sopra (cfr. p. 14), anche se lo sthayi bhava è soka (tristezza), quando l’attore
deve “dire” l’espressione Patmanaya pate – sposo di Lakshmi – deve esprimere il rati bhava
(amore) legato alla parola “sposo”.
Il linguaggio degli hasta non si limita a rendere il significato denotativo delle parole,
ma cerca di esprimere tutta la carica di immagini e connotazioni che ogni parola porta con sé.
Questa particolare tecnica di rappresentate il senso delle parole e le loro sfumature tramite
l’āṅgika abhinaya (usando il ritmo, i movimenti e i bhava) è denominata padarthabhinaya.
Secondo il rapporto fra il gesto e la parola che questo gesto rappresenta, gli hasta
possono essere:
- imitativi o descrittivi, quando la forma che assumono le mani e il corpo – insieme
al movimento che eseguono – cerca di riprodurre la cosa rappresentata (in questo
caso il linguaggio degli hasta è molto simile alla pantomima);
- simbolici o astratti, quando la forma che il corpo e le mani assumono ha un
rapporto arbitrario con la parola che rappresentano o comunque esprime concetti
astratti o simboli, basandosi spesso sulla simbologia dell’iconografia indù.
In linea di massima, gli hasta del primo tipo rappresentano le cose, le persone, le
piante e gli animali, mentre quelli del secondo esprimono le idee, i sentimenti, gli stati
d’animo, insomma tutto quello che non ha una forma concreta.
Quando una parola viene espressa tramite gli hasta, vi sono tre livelli di significato: il
primo è il karta, o il soggetto della rappresentazione, il significato denotativo della parola; poi
abbiamo il karma, l’azione che rivela la sua natura intrinseca, le sue caratteristiche principali
(il modo di muoversi di un animale o il profumo di un fiore, per esempio); infine vi è il kriya,
le azioni specifiche e deliberate di questo soggetto nel contesto del dramma. Per capire come
questi tre livelli semantici si sviluppano nella pratica, prendiamo alcuni esempi:
- Per rappresentare il karta dell’elefante, l’attore Kathakali, con le due mani in
pataka hasta, assume con un braccio la posizione della proboscide, mentre con
l’altro imita la forma del suo grande orecchio con la mano all’altezza della faccia;
il suo karma sarà espresso dalla camminata particolare dell’animale e dai
movimenti delle orecchie e della proboscide. Nell’ilakiyattam che racconta il
passaggio di Bhīma nella foresta nel brano Kalyanasougandhikam, per esempio, il
kriya dell’elefante di fatto è la rappresentazione della scena che cui l’eroe assiste
(l’elefante che si aggira per il bosco, mangia, si abbevera ma che poi viene assalito
e ucciso dal serpente e dal leone).
- Elaborando l’immagine del fiore di loto, l’attore dapprima ci mostra il fiore che
sboccia: comincia il movimento con le mani in musti hasta per poi aprirle
lentamente, dopo un gesto circolare iniziale, unendo i polsi e disponendo le dita
come se fossero i petali di un fiore (kapota hasta); l’attore guarda il fiore davanti a
sé ed esprime con gli occhi e con il viso la felicità di questa visione (śṛṅgāra
rasa), annusa il fiore e si delizia con il suo profumo. A questo punto una delle
mani continua a rappresentare il fiore, mentre l’altra, in mukura hasta e
accompagnata dagli occhi in tutti i suoi movimenti, si trasforma in un’ape che
viene volando da lontano, si posa sul fiore, ne succhia il nettare e vola via. In
questo caso il karta è rappresentato dalle mani in forma di fiore, il karma dal suo
sbocciare e dall’attore che lo guarda e ne sente il profumo, e il kriya (che nel caso
del fiore non può essere che passivo) dalle azioni dell’ape.
- Più complessa sarebbe l’espressione di questi livelli semantici in un concetto
astratto come la parola “verità”, per esempio, che è rappresentata in questo modo:
la mano sinistra in kataka hasta sta vicina al cuore, mentre la destra in mudrākia
hasta si posiziona sopra la prima, per fare in seguito un movimento ascendente
fino a fermarsi davanti alla fronte e aprirsi in hamsapaksha hasta. In questo caso,
il karta è astratto, legato alla simbologia dei mudrā, e il karma è il movimento
ascendente dal cuore alla testa che rappresenta l’idea di verità. Per quanto riguarda
il kriya, potremmo dire che è legato al particolare senso di questa parola nel
contesto della scena dove viene impiegata.
99
Per dire venti facciamo così due volte. Dieci, dieci. Vuol dire venti. Siccome
non ci sono gesti a sufficienza facciamo degli abbinamenti. (Idem)
Allo stesso tempo, alcuni hasta possono essere usati per esprimere significati diversi,
d’accordo con il contesto dove si trovano. Prendiamo l’esempio dei versi:
- Parsati mama sake (Draupadī, mia amica);
- Niati valsala buri budita bupa vīra mahamate (affettuoso con i suoi parenti,
dispensatore di ricchezze, re valoroso dalla grande mente);
- Sarva charachara sakshiyataidum (Tutti gli esseri animati e inanimati saranno testimoni).
Lo stesso gesto viene usato in questi versi per rappresentare le parole “sake” (amica)
“niati” (parente) e “sakshiya” (testimone). Se la vicinanza semantica fra “amico” e “parente”
non ha bisogno di spiegazioni, non possiamo dire lo stesso per la parola “testimone”. Questa
frase si riferisce alla sconfitta dei Kaurava, che sarà testimoniata da tutti gli esseri viventi, i
quali, pur non svolgendo un ruolo attivo in questa guerra, non saranno testimoni neutri, bensì
amici-testimoni dei Pāṇḍava, poiché si schiereranno dalla parte di Dio. Il maestro spiega lo
stesso tipo di meccanismo con un altro esempio:
Ho detto ieri che non abbiamo gesti abbastanza per tradurre tutte le
parole. Perciò, dobbiamo usare lo stesso gesto per diverse parole. Il
vero significato di sadaram è “con rispetto”, però certe volte la si usa
con altri significati. (...) Questa è la consuetudine della poesia. Perciò
sadaram può essere usata in diversi contesti. Certe volte può significare
“con allegria”. Facciamo vedere lo stesso gesto. (Idem)
In determinate situazioni il legame tra il gesto e la parola può essere allusivo. In questi
casi il gesto non traduce esattamente il senso della parola, ma esprime un’idea analoga.
Questo accade quando Duryodhana si rivolge alla sua corte prima dell’arrivo di Krishna e
dice: oru pubanum udhanam cheiuga (neanche un re si deve alzare). Il maestro spiega perché
si usa un gesto diverso per rendere il significato di udhanam cheiuga (alzarsi):
Questa è un'usanza comune. Alla presenza di persone importanti bisogna
fare così. Coprire la bocca in segno di rispetto. Quando lo facciamo
artisticamente diventa così. (fa il gesto di coprire la bocca in modo
stilizzato) Vuol dire che non devono rendere omaggio a Krishna. (Idem)
Al di là di queste risorse linguistiche, l’abhinaya dell’attore Kathakali mette in gioco il
movimento armonico di tutto il corpo per rendere il senso delle parole e i sentimenti dei
personaggi. L’idea di coinvolgimento di tutto il corpo dell’attore nell’azione, rivendicata da
Mejerchol’d quando afferma che “ogni movimento, sia pure di un mignolo, deve ripercuotersi
immediatamente in tutte le parti del corpo” (MEJERCHOL’D 1993 : 95) è messa in pratica
nella tecnica dell’anusarikiuka. La parola vuol dire “seguire”, “obbedire” e nel Kathakali
viene usata per indicare che il corpo deve accompagnare o assecondare il gesto per dargli
maggior enfasi ed elaborare la rappresentazione dei bhava.
Non deve essere una cosa meccanica o esagerata. In questo gesto il
corpo deve fare anusarikiuka con un piccolo movimento circolare.
Quando fai così senza la collaborazione del corpo, lo fai tanto per fare.
Invece, devi aiutare il gesto con un piccolo movimento di anusarikiuka
del corpo. Senza mettere troppa aria qua. Senza rigidità. Occorre
rilassare il corpo. (Idem)
L’apprendistato di tutte queste tecniche però non sarà sufficiente per esprimere la vita
interiore dei personaggi e rappresentare correttamente i bhava che porteranno lo spettatore
102
all’esperienza del rasa. Il Nāṭyaśāstra dice che l’emozione è necessaria per rappresentare il
comportamento degli uomini e che i dolori ed i piaceri che accadono nel Natya devono avere
l’emozione corretta. (RANGACHARYA (trad.) 2003 : 76)
Feeling, it’s natural expression (Hava) and its graceful expression
(Hela) are mutually dependent, and belong to the body (because of
immediate effect of it), expression follows emotion, and grace
accompanies expression. (Ibidem : 185)
All’ultima parte della formazione dell’attore, soltanto il tempo può provvedere.
Proviene dalla sua maturazione come uomo, dall’osservazione della vita, e anche dal contatto
con i maestri, dalla visione degli spettacoli, dalla formazione del suo gusto estetico. Il
Nāṭyaśāstra afferma che le tecniche dell’abhinaya provengono dalla vita di tutti i giorni ed è
osservando il comportamento degli uomini che l’attore può riempire le eventuali lacune
presenti nel testo. E’ in questo senso che Padmanabhan Nair istruisce Kalamandalam John su
come deve proseguire il suo insegnamento.
Loro devono poter vedere questo in scena. Devono avere il personaggio
dentro. Devono ripeterlo tante volte in modo che gli venga naturale. Questo
è importante. Non solo imparare la struttura. Così è l'insegnamento. Se gli
spieghiamo bene le storie, avranno in mente la differenza tra Krishna e
Duryodhana. Questa consapevolezza deve crescere. (Sitting class di
Padmanabhan Nair agli attori del Teatro Tascabile di Bergamo : 16/1/2005)
CAPITOLO IV
Diario di bordo del secondo viaggio (6/6/2005 - 1/7/2005)
Lunedì 6/6
Ore 10 – Partenza per Roma. Questa volta è Priscilla che piange...
Mercoledì 8/6
Ore 8 – Partenza per l’India dopo due giorni passati a Roma dove ho avuto un
proficuo colloquio con Clelia e ho sbrigato faccende burocratiche all’Università.
Volo della Qatar Airways con sosta a Doha, come l’altra volta. Il viaggio
trascorre senza problemi, l’unico dettaglio curioso è che, sia in aereo che in
aeroporto nel Qatar, non ci sono praticamente europei, quasi tutti sono asiatici di
tutti i tipi possibili e immaginabili che (penso) tornano a casa in vacanza.
Giovedì 9/6
Ore 8 – Arrivo sotto la pioggia a Thiruvananthapuram, la capitale del Kerala.
Un nome così difficile da pronunciare fa capire perché gli inglesi hanno
104
Venerdì 10/6
Ore 9 – Parto per Thiruvananthapuram (più o meno mezz’ora di viaggio in risciò)
per comprare il biglietto del treno per la casa di John e per visitare la Margi, una
scuola di Kathakali alla quale Zarilli si riferisce nel suo ultimo libro Kathakali –
were gods and demons come to play78 parlandone molto favorevolmente.
Ore 14 – Anche se ho l’indirizzo, faccio molta fatica a trovare la Margi.
Chiedo alle persone per strada, ma nessuno la conosce (da questo si capisce
che sono in una grande città e non in un paesino come Cheruthuruthi o
Pathiripala). Quando la trovo ho una grande delusione. Nella scuola non c’è
nessuno, soltanto 2 tipi che dormono. Uno di loro si sveglia per ricevermi, è
attore di Kathakali e si chiama Kottakkal Ravikumar. Mi informa che la scuola
non esiste più ma la Margi funziona ancora come troupe. In quel posto loro
fanno spettacoli e lezioni per i turisti stranieri.
Cosa è successo alla Margi? Cercando di rispondere a questa domanda raccolgo una serie
d’informazioni, senza però arrivare a una risposta definitiva.
La Margi fu fondata nel 1970 come associazione culturale con lo scopo di organizzare
spettacoli di teatro-danza classico indiano nella città di Thiruvananthapuram. Appukuttan
Nair, il suo fondatore, animatore e direttore, architetto e ingegnere di professione (ha
disegnato e costruito i teatri della Kalamandalam e del Kalakshetra, entrambi ispirati ai
kuttampalam, seguendo i precetti del Nāṭyaśāstra), era anche un raffinato intellettuale e
conoscitore delle arti performative del Kerala (in particolare del Kathakali e del Kutiyattam).
Il nome dell’associazione si riferisce al termine sanscrito margi (universale, che trascende il
tempo e lo spazio), che si contrappone a desi (locale, limitato a una particolare regione).
Le attività del Margi Centre for Kathakali iniziarono nel 1974 con una scuola di Kathakali che
seguiva i precetti del gurukula (nel 1981 iniziarono anche una scuola di Kutiyattam). Il primo
“principal” della scuola di Kathakali fu Mankulam Vishnu Namboodiri, ma dal 1980 al 1990
Padmashree Kalamandalam Krishnan Nair asan (della prima generazione della
Kalamandalam, contemporaneo di Kumaran Nair) prese la direzione della scuola e fu il
responsabile del consolidamento del suo stile.
La finalità di Margi, sin dall’inizio, era quella di depurare l’insegnamento e la pratica del
Kathakali dall’influenza dei modelli occidentali (presenti nella Kalamandalam e nelle scuole
che seguono il suo esempio). Dunque, idealmente, il rapporto maestro-allievo doveva essere
più stretto e senza limiti d’orario, divisioni per classi, esami, ecc., e soprattutto non doveva
limitarsi a un certo numero di anni ma durare l’intera vita. Così negli anni ‘90 la Margi si
costituì come un kaliyogam (troupe di Kathakali), accogliendo pochi giovani artisti oriundi di
altre scuole di Kathakali e dando loro l’opportunità di continuare ad approfondire i loro studi.
78 Le informazioni riportate nel libro (ZARILLI : 2000) si riferiscono ai primi anni ’90 (1993, 1995, 1996).
105
Secondo Zarilli, probabilmente la più grave conseguenza a lungo termine della fine del
sistema tradizionale di patronato del Kathakali fu la rottura del rapporto fra i colti
aristocratici Nayar e Nambudiri e gli artisti sotto la loro protezione. Questi patrocinatori non
solo finanziavano, ma spesso scrivevano i testi che venivano rappresentati e orientavano le
scelte estetiche, contribuendo così al raffinamento dell’arte. Questo tipo di rapporto fra
intellettuali e artisti, in certa misura, esisteva ancora nei primi anni della Kalamandalam sotto
la guida di Vallathol e posteriormente di Vasudevan Namboodiripad, ma è venuto meno negli
ultimi anni, da quando la nomina alla carica di Chairman (direttore) dell’istituzione è
diventata una scelta politica. Fu nel tentativo di ristabilire questo rapporto e di “riportare l’arte
ai suoi tempi di gloria” che la Margi sviluppò un progetto di collaborazione fra intellettuali
(Appukuttan Nair e Ganesha Iyer in testa) e artisti per rimettere in scena i testi originali nella
loro integrità, contrastando l’attuale tendenza di tagliare e montare le scene. Questo processo
però, non si è limitato al testo originale, seguendo la tradizione del Kathakali e del
Kutiyattam, è andato oltre: tramite un lavoro di ricerca sui testi drammatici e sulle loro fonti,
gli intellettuali hanno raccolto materiali per creare nuove scene d’interpolazione (ilakiyattam)
e per elaborare i dettagli delle scene esistenti. Questo processo ha portato ad un allungamento
ulteriore del tempo delle performance (la loro messa in scena della storia completa di
Kalyanasougandhikam, per esempio, durava circa 18 ore). (ZARILLI 2000 : 33-34)
Da una parte il progetto di ricercare un ulteriore affinamento dell’arte del Kathakali è un
lodevole sforzo di Margi per contrastare la tendenza alla banalizzazione e al “livellamento verso
il basso” che contraddistinguono i tempi odierni, ma dall’altro lato rappresenta una visione del
Kathakali come arte elitaria, che esige dallo spettatore un lavoro attivo e una vasta erudizione,
oltre ad una conoscenza della tecnica specifica di questa danza. E’ una visione certamente
valida ma parziale, poiché il Kathakali è anche un’arte popolare sin dalle sue origini. Ciò non
sminuisce il merito del lavoro svolto alla Margi, avvalorato anche dalla pubblicazione nel 1993
del bellissimo libro Kathakali – the art of the non-worldly. (NAIR e PANIKER (ed.) : 1993)
Visitando il sito web della Margi ho potuto constatare che l’associazione continua le sue
attività e ha addirittura in programma una serie di spettacoli di Kathakali e Kutiyattam per
celebrare i suoi 35 anni di vita nel settembre 2006. A sentire Kalamandalam John e Narippatta
Nambudiri invece, dopo la scomparsa di Kalamandalam Krishnan Nair nel 1990 la Margi ha
chiuso la sua scuola di Kathakali e dopo la morte di Appukuttann Nair alla fine degli anni ‘90
(non sono riuscito a rintracciare la data precisa) la Margi è entrata in declino.
Ore 15 – Vado a visitare il tempio di Sri Padmabhaswamy (dove ovviamente
non posso entrare) e il palazzo del Maharaja di Travancore.
Sabato 11/6
Ore 5:30 – Parto da Kovalam in risciò e alle 6:20 prendo il treno per Shornur.
Il viaggio è allucinante. Il caldo, il dondolio del treno, mi stanno ipnotizzando.
Gli altri passeggeri mi si appiccicano addosso. Nel corridoio passano in
continuazione persone che vendono cibi e bevande, e storpi di tutti i tipi che
chiedono l’elemosina. Passa una signora cieca con un bambino in braccio,
canta una canzone bellissima mentre con una mano batte il ritmo picchiando
due pietre l’una contro l’altra.
Ore 13 – Arrivo a casa di John a ora di pranzo. Era doveroso fargli questa
visita prima di andare alla Sadanam. Tutti mi ricevono benissimo e c’è anche
sua cognata Elhama, la tata di Clara (figlia di Tiziana e Alessandro, attori del
TTB), in vacanza in India.
106
La Sadanam
Prima d’iniziare il racconto della mia permanenza alla Sadanam mi pare opportuno fornire
alcune informazioni sulla scuola. In questo modo sarà più semplice orientarsi.
La Sadanam si trova in un piccolo paese chiamato Pathiripala, a metà strada fra Shornur, la
piccola città vicina alla Kalamandalam dove abita Padmanabhan Nair, e Palakkad, una città ai
piedi dei Ghati Occidentali che è la porta di accesso allo stato del Tamil Nadu. La Gandhi
Seva Sadanam si distribuisce in diversi spazi ubicati lungo la stessa strada, perpendicolare a
quella che porta da Shornur a Palakkad. Il centro di Pathiripala è praticamente ai margini della
strada Shornur-Palakkad e la scuola di Kathakali è in un piccolo villaggio chiamato Perur.
1. Casa di Narippatta
2. Tempio di Ayyappa
3. Teacher Training School
4. Mensa
5. Pozzo
6. Casa di Kuttan asan
7. Bagni
8. Gabinetto
9. Casa degli studenti
10. Gabinetti
11. Casa della sitting class
12. Gabinetto
13. Casa dei massaggi
14. Casa degli insegnanti
Tutti gli studenti abitano alla Sadanam. Gli insegnanti Vijayan e Sivadas, che sono scapoli,
abitano nella scuola. La casa dove Kuttan asan (maestro di maddalam) abita con la moglie e
la figlia di 3 anni è a fianco a quella degli studenti e lui svolge informalmente anche il ruolo
di bidello. Narippatta non abita a scuola ma normalmente vi si ferma a dormire durante i
giorni di lezione, tornando a casa nei giorni liberi. Durante il mio periodo di permanenza, gli
allievi (e anche Vijayan e Sivadas) sono rimasti sempre a scuola, anche nei giorni liberi.
Dalle 4 alle 7 – “early morning class”, è il tempo dove si fanno massaggi (uzhicchil), degli
esercizi per gli occhi (kannusadhakam) e per modellare il corpo (meysadhakam). E’ un
momento dedicato a rafforzare i muscoli (da quelli delle gambe fino ai piccoli muscoli della
faccia) e rendere il corpo resistente e flessibile. Si praticano anche i passi e eventualmente
qualche kalasam (sequenza coreografica) pronunciando i vayttari (le sillabe usate per scandire il
ritmo dei movimenti) a voce alta e battendo il ritmo con le mani. Questa parte del lavoro non
viene fatta nel kalari, ma nella mensa, che è una sala abbastanza grande con un ampio spazio
vuoto. I massaggi vengono fatti in una casetta sempre nell’area della Teacher Training School.
Ore 7 – Dopo la lezione gli allievi fanno colazione e hanno tempo da dedicare all’igiene personale.
Dalle 14 alle 15 – Lezione di sahitya (letteratura) con Narippatta: si studiano i testi più
importanti della tradizione indù, quelli da dove sono tratte le storie del Kathakali
Dalle 15 alle 18 – Ancora cholliyattom oppure lezione di tecnica senza i musicisti. In questo
ultimo caso il maestro conduce la lezione soltanto con il bastone.
Dalle 19 alle 20:30 – Sitting class: si eseguono le storie da seduti, soltanto con le mani, le
braccia, la faccia e il tronco; senza marcare il ritmo.
Questi orari non sono però seguiti alla lettera. L’orario d’inizio delle lezioni è quello più
rispettato (gli allievi sono sempre più puntuali dei maestri). L’orario della fine delle lezioni
invece varia molto, potendo essere anticipato o ritardato. Si potrebbe dire che esiste un ritmo
di lavoro dettato più dallo svolgimento organico della vita quotidiana (dormire, mangiare,
studiare questa o quella storia, fare questo o quell’esercizio, ecc.) che dall’orologio.
109
Lunedì 13/6
Ore 10 – Parto per Pathiripala in risciò. Vado direttamente alla Sadanam e
arrivo in tempo per vedere la fine del cholliyattom. Ci sono gli stessi allievi
che avevo conosciuto a gennaio.
Ore 12 – Lascio la valigia nel kalari e vado a piedi con Narippatta alla
“Teacher training school” per vedere uno dei miei possibili alloggi, ma prima
ci fermiamo a prendere un tè. Narippatta mi chiede di rivolgermi a lui,
secondo il costume del Kathakali, chiamandolo “Narippatta asan” o
semplicemente “asan”, così come gli altri insegnanti della scuola. In questo
modo ha messo fine al mio imbarazzo di non sapere mai come chiamarlo! Per
quanto riguarda gli accordi economici sulla mia permanenza alla Sadanam, mi
devo rivolgere a Harikumar, il figlio di Sadanam Kumaran, che avevo
conosciuto a gennaio e che adesso è il Secretary della scuola di Kathakali (suo
fratello più vecchio è il Secretary di tutta la Sadanam).
Narippatta mi spiega come si svolgono le lezioni. Loro non seguono il
calendario occidentale, ma il calendario tradizionale, basato sulle fasi della
luna. Mi mostra i giorni nel calendario sul muro:
Martedì 14/6
Ore 8 – Colazione insieme ai ragazzi nel refettorio. Tutte le mattine si mangia
il kanni, una specie di latte di riso, né dolce né salato, con dentro dei grani che
sembrano ceci. Non mi piace neanche un po’, soprattutto al mattino, ma “mi
tappo il naso” e mangio tutto.
Ore 9 – Faccio una lezione di Kathakali con Narippatta. Ovviamente non ci
penso neanche a mettermi a fare lezione con il dothi come fanno loro. Mi
cascherebbe di sicuro dopo un minuto e rimarrei in mutande! Mi metto i soliti
pantaloni tipo “pijamas”. Sono molto fuori forma, ma credo tutto sommato di
aver fatto una buona impressione: lui non si aspettava che io sapessi già fare
qualcosa (anche se gli avevo detto di avere già studiato Kathakali). Il sistema
di fare lezione da solo mentre gli altri allievi sono nel cholliyattom non va per
niente bene. E’ molto più importante per me vedere la loro lezione che
prendere lezione io stesso.
79 In realtà gli attakkatha sono scritti sia in malayalam, sia in sanscrito, sia in manipravalam, a seconda
dell’autore e/o del periodo della storia.
112
come una “esperienza”, la cui profondità dipende più dalla serietà del soggetto che dalla
durata dell’esperienza. Il caso del Teatro Tascabile di Bergamo è particolare perché questo
gruppo ha incorporato la danza indiana nella sua ricerca, nella sua poetica, nella sua vita
professionale, ma non ha mai preteso di “diventare indiano”, anzi, ha sempre rivendicato la
sua identità occidentale.
La prima volta che un attore del Tascabile – Giuseppe Chierichetti – è venuto in India per
imparare il Kathakali si è recato in una scuola, la Kalanilayam. Ma il ritmo dell’insegnamento
in una scuola di Kathakali, scuola il cui scopo è educare dei ragazzi nel corso di un certo
numero di anni a tempo pieno, è molto diverso da quello di cui il TTB aveva bisogno.
Sicuramente Beppe non veniva trattato esattamente come i bambini indiani, ma la mentalità
dei maestri era stata formata in quella direzione e non è difficile intuire che ci siano stati dei
problemi d’adattamento reciproco. A partire dal secondo anno, il TTB ha fatto una scelta
diversa: non ha più lavorato all’interno di una scuola, ma privatamente, trovando nell’allora
giovane attore Kalamandalam John un maestro che rispondeva più facilmente alle sue
esigenze. Al TTB si dice che fu necessario “educare i maestri indiani a insegnare”. In realtà i
maestri hanno dovuto adattare il loro metodo d’insegnamento alla mentalità occidentale (John
lo ha imparato così bene che oggi la sua principale attività è insegnare agli studenti stranieri).
Io stesso ho avuto l’opportunità di constatare – e di vivere in prima persona – come i maestri
indiani davanti alle domande e alle richieste degli allievi occidentali tante volte restino
perplessi, come se non avessero mai pensato prima a quelle questioni. Ed è probabile non vi
avessero mai pensato davvero, almeno non in quei termini. L’insegnamento del Kathakali non
si basa sull’analisi, ma sull’imitazione, sulla ripetizione e sull’attenzione ai dettagli. All’inizio
s’insegna al bambino una griglia di ritmo e movimenti, in modo che abbia chiaro un percorso
da ripetere infinite volte insieme agli allievi più vecchi, davanti al maestro e in modo che, a
poco a poco, senza che l’allievo se ne accorga, il suo corpo prenda forma e il ritmo gli entri
dentro. Esiste ovviamente l’analisi e la comprensione dei principi e dei meccanismi messi in
moto, ma questo avviene in un secondo momento e partendo da altri presupposti.
Il tempo è il fattore determinante. Gli attori del Tascabile possono recarsi in India un mese
all’anno, o poco di più, e in questo breve lasso di tempo devono accumulare materiale
sufficiente a lavorare durante gli altri undici mesi, senza la presenza del maestro. La lenta
decantazione del metodo d’insegnamento indiano deve essere sostituita dall’osservazione
attenta, dagli appunti meticolosi, dalle registrazioni video. Il lavoro è fatto con la massima
cura, ma questo bisogno di fissare qualcosa di ripetibile in assenza del maestro pone
necessariamente l’accento più sulla struttura che sui piccoli dettagli. Per gli attori più esperti
del gruppo il risultato di vent’anni di lavoro è comunque molto consistente, senza ombra di
dubbio; ma è ugualmente indubitabile che il TTB ha creato una tradizione propria che non ha,
non può avere, lo stesso spessore della tradizione indiana.
Un’altra questione deriva dalla scelta del Tascabile di mettere in piedi un repertorio di
spettacoli di danza indiana: se da una parte ha permesso al Tascabile, insieme di creare attorno
a se un ambiente culturale adeguato alla pratica della danza indiana, dall’altra gli attori più
giovani hanno dovuto bruciare le tappe, dedicando meno tempo alla costruzione delle basi
dello stile per essere in grado il più velocemente possibile di partecipare agli spettacoli, nella
logica delle sostituzioni.
Nel mio caso personale, non ho mai imparato una vera e propria parte quando ero attore del
TTB, poiché la mia esperienza con il Kathakali è stata saltuaria, e di conseguenza non ho
superato la fase iniziale degli esercizi e della “danza pura”. In ogni caso il mio “stile”, per
impreciso che esso sia, è quello del TTB. Soltanto in questi ultimi anni ho imparato una
piccola parte di “danza recitata” in Duryodhanavadhom, ma ormai le mie priorità sono altre e
il mio interesse per il Kathakali si è spostato su altri aspetti. Dopo la mia esperienza presso la
Sadanam mi si sono aperte altre vie di comprensione e non ha più senso lavorare sul
114
Kathakali come prima. L’unica strada che vedrei per proseguire il lavoro sul Kathakali come
attore, sarebbe ricominciare daccapo, ma in questo momento non sento né l’interesse né il
bisogno di farlo.
Quando ho intrapreso questo secondo viaggio di studi, la scelta di abbandonare la pratica del
Kathakali non mi era ancora chiara. La mia priorità era l’osservazione del processo
d’apprendistato a scuola e poi fare lezioni pratiche quanto più possibile. La poca chiarezza dei
miei intenti si è riflessa sul mio rapporto con gli insegnanti della scuola che all’inizio
volevano darmi lezione a tutti costi salvo capire reciprocamente, dopo qualche giorno, che le
lezioni pratiche non mi servivano più. Esse sono state però molto utili per avvicinarmi agli
allievi e agli insegnanti, e per impostare la nostra relazione su un altro piano.
Ore 12:30 – Poco prima di pranzo arriva Harikumar per parlare con me.
Vuole offrirmi lezioni con Balakrishnan domani, che è giorno libero. Lui mi
chiede di alzarmi quando lui arriva, come fanno tutti gli allievi (“I don’t mind,
but is important for the boys, otherwise they will feel you like an alien”).
Ore 13 – Dopo il pranzo con i ragazzi non vado alla lezione di sahitya
(letteratura). Sono affaticato dalla lezione di Kathakali (sono molto fuori
allenamento e non ho più vent’anni...), forse è più utile riposarmi un po’... Poi
è veramente difficile seguire una lezione teorica senza capire una parola di
quello che dicono!
Ore 14:30 – Arrivo al kalari ancora in tempo per vedere la fine della lezione di
sahitya (letteratura) e tanto per contraddirmi vedo una scena interessante:
Narippatta chiede agli allievi cosa vuole dire la parola “pada” e loro anziché
rispondere con parole si toccano i piedi (“pada” vuol dire piede, per
l’appunto).
Ore 15 – Nella lezione di tecnica con Balakrishnan continua il “massacro
ritmico” di ieri, ma oggi è ancora peggio, perché gli allievi non fanno i
kalasam in gruppo, ma da soli, uno alla volta, come in una specie di verifica.
In seguito lui dedica una mezz’ora di lavoro a Praveen, l’allievo più giovane:
gli fa eseguire alcuni passi e movimenti mentre lo “mette in forma” con piccoli
colpi di bastone sul corpo. La lezione prosegue con gli allievi
“senior” (Mohan e Suresh) che stanno davanti e fanno Hanūmān in
Kalyanasougandhikam, mentre dietro Vishnuprasad (l’allievo intermediario)
insegna alcuni passi a Praveen.
Ore 18 – Balakrishnan si offre di fare lezione con me. Siccome sono distrutto,
chiedo di fare una sitting class. Facciamo i mudrā e lui mi fa vedere alcuni dei
significati che possono essere resi con ogni mudrā. Alla fine facciamo anche
un po’ di navarasa.
Ore 19 – Oggi, non ho capito perché, non c’è la sitting class. Vado in paese e
quando ritorno (verso le 20) i ragazzi stano tutti davanti al tempietto tutto
illuminato con piccole fiammelle ad olio cantando i bajan (musiche popolari
devozionali). Domani è il giorno di Ayyappa (un dio, figlio di Śiva e di Viṣṇu,
trasformatosi in donna), una divinità molto popolare nel Kerala - questo
tempietto è dedicato a lui.
Mercoledì 15/6
Ore 8 – Il tempietto di Ayyappa è in piena attività. E’ venuto un bramino che
compie tutta una serie di rituali e prepara il paysan (dolce di riso). Mentre
115
Giovedì 16/6
Ore 8 – Oggi alle cinque sono incominciate le “early morning lessons”. Ero
d’accordo con i ragazzi che mi avrebbero svegliato, ma si sono dimenticati.
Forse hanno avuto vergogna di svegliarmi o non hanno capito bene l’accordo.
La comunicazione con loro è difficile, il loro inglese è scarsissimo, alcuni di
loro non lo parlano proprio per niente. In ogni caso sono stato stupido io,
perché ho la sveglia!
Ore 9 – C’è una situazione un po’ imbarazzante: Harikumar aveva ordinato a
Balakrishnan di dare lezione a me, ma io voglio andare a vedere il
cholliyattom. Rimangono un po’ sconcertati (per non dire seccati,
principalmente Harikumar); credo di non essere stato chiaro sullo scopo della
mia permanenza alla scuola. Loro pensano che sia qui per imparare il
Kathakali.
Mi sento un po’ ridicolo ad andare in giro con il dothi, mi sembra di essere
“travestito da indiano”, ma ormai mi sto abituando a indossarlo, sia dentro la
scuola che nei dintorni. Ero tutto contento perché avevo imparato come si
piega il dothi all’insù, come fanno gli indiani. E’ scomodo camminare con quel
tessuto arrotolato alla vita che arriva fino ai piedi, impedendoti di fare passi
larghi. Quando sono arrivato al kalari, però, Randit (l’allievo di canto più
giovane), con molta dolcezza, mi dà una lezione di buone maniere: dentro il
kalari non si usa il dothi piegato e si deve stare scalzi e senza camicia.
Interessante! Nel Kerala stare a petto nudo è più dignitoso. In Brasile, uno a
casa o anche per strada sta spesso e volentieri a torso nudo (a Rio de Janeiro,
la mia città, fa molto caldo) ma questa è considerata un’abitudine volgare e in
qualsiasi locale pubblico non ti lasciano entrare senza camicia (in Italia non
c’è neanche bisogno di proibirlo perché uno non si sognerebbe mai di farlo,
eppoi nel nord Italia, dove sto, la maggior parte dell’anno fa troppo freddo per
stare senza camicia). Oggi in India quasi tutti gli uomini usano abiti
occidentali per la strada, ma credo che prima non fosse così.
E’ molto bello vedere come si svolge tutto il lavoro del cholliyattom, che è il
momento più importante dell’insegnamento, quando si riuniscono gli allievi
attori e i musicisti. Dopo aver chiesto permesso al maestro, gli allievi
incominciano per conto loro. Per prima i maddalam suonano da soli e poi si
aggiungono gli altri strumenti. In seguito arrivano gli attori, fanno il
namaskaram (saluto) e incominciano il todayam. A questo punto entra Vijayan,
il “junior teacher” e inizia a condurre la lezione. Soltanto quando questa
danza finisce, Narippatta entra nel kalari e s’incomincia a recitare una storia.
Oggi trattano una scena di Kalyanasougandhikam.
Alla fine della lezione ho un’ottima conversazione con Narippatta. Lui mi
chiarisce che la scena che hanno realizzato oggi (fra Yudishtira e Bhīma)
normalmente viene omessa durante gli spettacoli, ma in sede di insegnamento
la s’impara lo stesso. Kalyanasougandhikam è una delle “Kottayam plays”,
che sono i testi più importanti per l’apprendistato del Kathakali e in questa
scena s’impara un “vocabolario” importante che servirà per altre storie.
Ore 14 – Dopo pranzo vado a Shornur per comprare altri nastri video.
Ore 17 – Quando arrivo, Narippatta sta dando lezione ad un allievo nuovo nel
refettorio. Metto il costume da lavoro e mi siedo a guardare. Ad un certo punto
Narippatta chiama anche me a fare lezione. Facciamo il saluto e qualche
passo.
Ore 19 – Ho filmato la sitting class per provare la lampada a gas. Non fa tanta
luce, ma si riesce a vedere abbastanza bene nel video. E’ un peccato non capire
cosa dice Narippatta agli allievi... Quando è finita la lezione lui mi spiega che
ci sono due tipi di vibhava: il primo è legato al rapporto fra i personaggi
(Draupadī, per esempio, sveglia il śṛṅgāra (desiderio) in Bhīma); il secondo è
legato alle azioni dei personaggi che fanno aumentare l’intensità del
sentimento (se, per esempio, Draupadī balla, aumenta il śṛṅgāra in Bhīma).81
Venerdì 17/6
Ore 5 – I ragazzi incominciano a fare gli esercizi da soli, ma dopo qualche
minuto arriva Harikumar. Interrompe spesso gli esercizi per correggerli
mostrando come si fa correttamente. Ho la sensazione che lui non piaccia
81 Questo discorso è continuato il giorno 21/6 nella casa di Narippatta. Cfr. p. 120.
117
Sabato 18/6
Ore 11 – Dopo essere andato a Pathiripala per controllare le mie mail, io e
Vineeth facciamo lezione con Vijayan (avevo capito che oggi i ragazzi non
avevano il cholliyattom perché è il giorno dello spettacolo, ma dopo ho saputo
che hanno fatto lezione con Balakrishnan, accidenti!). Vineeth ha 12 anni ed è
alle primissime armi (non ha fatto ancora neanche un mese di lezioni). E’
molto interessante vedere le indicazioni che gli vengono date e come lui le
esegue. Non c’è ancora la “forma” del Kathakali, ma i principi dello stile sono
tutti lì. Percepisco altre differenze in rapporto al Kathakali che ho imparato
precedentemente:
118
giorno dopo la luna piena (o dopo la luna nuova), consacrato a Viṣṇu, i suoi devoti devono
astenersi del cibo e del sesso e dedicarsi alla meditazione. In quel giorno Mohini si avvicina a
Rugmangada e pretende che lui interrompa la meditazione per fare l’amore con lei. Il re si
rifiuta, ma Mohini gli ricorda la sua promessa dicendogli che se lui non accetterà di soddisfare
il suo desiderio, l’unico modo di liberarlo dalla promessa sarebbe quello di uccidere suo figlio
Dharmangada senza versare neanche una lacrima. Rugmangada implora Mohini di avere pietà
di suo figlio, ma lei è irremovibile. Nel frattempo sopraggiunge Dharmangada accompagnato
dalla madre e si dichiara felice di morire affinché suo padre possa mantenere la promessa.
Con grande struggimento, Rugmangada decide che sia più giusto uccidere il proprio figlio che
mancare di rispetto a Viṣṇu o venire meno alla promessa. Quando dunque il re alza la spada
per compiere il gesto fatale, Viṣṇu appare davanti a lui e gli ordina di non uccidere suo figlio,
poiché Mohini era una creazione di Brahmā per mettere alla prova la sua devozione. Dopo
aver incoronato Dharmangada come re, Viṣṇu porta Rugmangada con sé per vivere a suo
fianco in Paradiso.
Balivijayam, di Kalloor Nabudirippad (1776-1835), è la storia dell’umiliazione di Rāvaṇa
davanti alla scimmia divina Bāli, figlia di Indra. La storia inizia con un śṛṅgāra padam (scena
d’amore), come accade spesso negli attakkatha: il rākṣasa Rāvaṇa, che ha sconfitto Indra, il re
degli dèi, ed è diventato signore dei tre mondi, è in idillio amoroso con sua moglie
Maṇḍodarī. Il saggio Narada, che ha architettato un piano per umiliare Rāvaṇa con l’inganno,
inizia a cantare canzoni in sua lode davanti al suo palazzo. Il rākṣasa, lusingato, lo invita a
entrare. Dopo averlo lusingato in tutti i modi, dicendo che Rāvaṇa è la più potente delle
creature e che tutti hanno paura di lui, Narada informa Rāvaṇa che soltanto una scimmia
chiamata Bāli dice di non avere paura di lui. Rāvaṇa chiede quindi a Narada di portarlo alla
casa di questa insignificante scimmia che osa mancarle di rispetto per darle una lezione.
Rāvaṇa vuole prendere la sua spada Chandrahasa (in questo momento c’è un ilakiyattam
chiamato Kailasodharana, dove Rāvaṇa racconta come Viṣṇu gli ha regalato quell’arma).
Intuendo che con quella spada Rāvaṇa sarebbe invincibile, Narada lo convince a non portarla
con sé, perché non serve un’arma così potente per uccidere un nemico così insignificante.
Arrivati alla casa di Bāli, con il quale Narada si è accordato precedentemente, quest’ultimo si
trova seduto in posizione di meditazione. Narada dice che se Rāvaṇa arriverà davanti a lui,
questo scapperà impaurito, dunque è meglio prenderlo per la coda. Ma quando Rāvaṇa cerca
di prendere la scimmia rimane intrappolato e soggiogato dalla potente coda di Bāli. Il rākṣasa
piange di dolore, ma Bāli fa finta di non accorgersi della sua presenza. Dopo un po’ di tempo
Bāli libera Rāvaṇa e questo, umiliato, s’inchina davanti a lui.
Dakshayagam, di Irayiammam Tampi (1783-1856) ha una fine cruenta, come conviene alla
storia che conclude una full-night di Kathakali. Daksha, semi-dio figlio di Brahmā, e sua
moglie Prasuti hanno trovato una bambina dentro una conchiglia; decidono di adottarla e di
darle il nome di Sati. Diventata una bellissima fanciulla, Sati, con l’intento di sposare Śiva,
inizia a pregare e a fare penitenza. Un vecchio bramino le si avvicina e cerca di dissuaderla,
dicendo che Śiva è un essere repulsivo e che la sua bellezza e virtù sarebbero sprecate con lui,
ma la fanciulla lo ignora e prosegue nelle sue preghiere. Il bramino è in realtà Śiva travestito,
che dopo essersi rivelato la porta con sé e ne fa sua sposa. Dopo il matrimonio, Daksha,
offeso perché il Dio ha portato via sua figlia senza chiedergliene il permesso, diventa suo
nemico. Quando Daksha decide di realizzare un grande yaga (sacrificio agli dei) si rifiuta di
consacrare a Śiva la parte che gli è dovuta nel sacrificio. Durante lo yaga, Sati va a trovarlo e
Daksha la offende, scacciandola in malo modo. Śiva, non potendo ignorare queste offese, crea
un essere terribile chiamato Virabhadra per uccidere Daksha. Virabhadra e i suoi aiutanti
arrivano sul luogo dello yaga, distruggono tutto, tagliano la testa di Daksha e la gettano nel
fuoco sacrificale. Ma uno yaga incompleto sarebbe di cattivo augurio per tutto l’universo,
dunque Brahmā chiede a Śiva di perdonare Daksha e di farlo ritornare in vita. Ma c’è un
120
problema perché la sua testa è stata distrutta dal fuoco. Śiva allora prende una testa di caprone
e la mette sulle spalle di Daksha, il quale termina il sacrificio e prega Śiva chiedendo perdono.
Quasi tutti gli artisti che partecipano allo spettacolo (attori, musicisti e
truccatori) sono Sadanam. Per gli attori le uniche eccezioni sono Kalanilayam
Balakrishnan (lui però sta alla Sadanam dalla fine degli anni Ottanta, è venuto
prima a fare la “post-graduation” e poi è rimasto come insegnante),
Narippatta Girija (figlia di Narippatta, che ha studiato un po’ di Kathakali a
casa con il padre) e Narippatta Rajus (nipote di Narippatta di 10 anni che fa
soltanto una comparsa). La distribuzione dei ruoli è stata decisa nel
pomeriggio, in un processo di negoziazione fra gli attori anziani, al quale ho
assistito in parte. Alla fine di questa discussione si sono scritti i nomi in un
pezzo di carta che è stato portato alla green-room. Era scritto in malayalam
ma me lo sono fatto tradurre:
Maddalam:
Cantanti:
Sadanam Raj
Kalamandalam Narayanan Nambudiri
Sadanam Devadas
Sadanam Shivadas
Sadanam Radish
Sadanam Rajiv Menon
Sadanam Anishadanam
Manigandhan
Sadanam Krishnaprasad
Sadanam Jodish Bapu
Chenda:
Chutti (trucco)
Sadanam Gopalakrishna
Kalamandalam Sadihan
Sadanam Ramakrishna
Sadanam Srinvasan
Sadanam Anil
Sadanam Anand
Sadanam Krishnaprasad
Sadanam Krishnaunny
121
Domenica 19/6
Ore 8 – Lo spettacolo è finito verso le 6:30. Di ritorno alla Sadanam, cerco di
dormire, ma i ragazzi, eccitati fanno un chiasso micidiale. Si sono
addormentati verso le undici, ma adesso non riesco più a dormire. Decido di
andare a fare un giro a Palakkad.
Ore 16:30 – Quando ritorno i ragazzi dormono ancora.
Ore 21:30 – Faccio una sezione di video in casa di Kuttan asan. I ragazzi sono
contentissimi di vedersi alla TV. Andiamo avanti fino a quasi mezzanotte.
82 http://www.dailyexcelsior.com/web1/03feb05/national.htm
122
Lunedì 20/6
Ore 7:30 – Vado a casa di Narippatta, ma prima mi fermo alla tea shop vicina
al kalari per prendere un chaya (tè). Sono già diventato amico della coppia che
gestisce questo posto, anche se loro non parlano neanche una parola d’inglese.
Il procedimento di fare il tè, con una specie di primitivo samovar a carbone, è
fantastico. Quando viene ravvivato il carbone con il ventaglio tutto il bar si
ricopre di una nuvola di fuligine. Prendo quasi sempre almeno due tè soltanto
per vederlo preparare.
Ore 11 – Arrivo a casa di Narippatta a Karalmanna, dopo aver preso due
risciò e due pullman. Con lui vivono la moglie, la figlia più giovane (quella
che ha fatto il purappad allo spettacolo) e la figlia più anziana con il marito e
il nipotino neonato. La casa è grande e antica, ma in pessimo stato di
conservazione. E’ quel che resta dei tempi in cui la sua era una famiglia ricca.
Negli anni ‘50 il governo del Kerala ha fatto una riforma agraria radicale, che
ha portato molte famiglie Nambudiri alla rovina dal giorno alla notte.
Immagino che la famiglia Narippatta fosse padrona di tutto il villaggio.
Ancora oggi sono molto rispettati e sono i padroni della scuola locale (800
bambini) finanziata in parte dal governo. Abbiamo visto i video della full-night
praticamente per tutto il giorno. Fra una sezione video e l’altra siamo andati a
visitare i lavori di ristrutturazione della scuola e la casa del fratello più
anziano, che gestisce la scuola.
Narippatta non ha detto niente delle lezioni che mi aveva promesso e anch’io
ho pensato che era meglio non toccare l’argomento. Mi ha parlato un po’ della
sua storia alla Sadanam. Adesso lui lavora lì da cinque anni. Kumaran (non ho
capito se si riferiva a Kumaran Nair o a Sadanam Kumaran, ma immagino sia
il secondo) ha insistito per 3 o 4 anni perché lui ritornasse alla Sadanam.
Quando finalmente ha accettato, si è creata una situazione delicata:
Kalanilayam Balakrishnan era il “principal” e non c’era nessun motivo per
destituirlo dell’incarico, poiché adempiva in modo degno le sue funzioni, ma
Kumaran voleva che Narippatta dirigesse la scuola. Così, per risolvere la
situazione, almeno dal punto di vista formale, hanno creato per Narippatta il
posto di “art director”. A questo proposito mi ha raccontato un dettaglio sulla
negoziazione per i ruoli nello spettacolo di sabato: a lui spetterebbe “per età e
tempo di lavoro” il ruolo di Rāvaṇa e Balakrishnan quello di Narada, ma
Narippatta ha insistito perché Balakrishnan facesse Rāvaṇa, anche se lui non
voleva. Alla fine è riuscito a convincerlo con l’argomento che in quella sede
egli non era soltanto membro della Sadanam, ma era principalmente l’ospite
della compagnia. Con espedienti del genere cerca di equilibrare la perdita di
prestigio di Balakrishnan dopo il suo arrivo, poiché Narippatta oggi è di fatto
il direttore della scuola. Gli ho chiesto se non era preoccupato per l’arrivo di
Harikumar come Secretary della scuola, dato che essendo anche lui attore di
Kathakali forse potrebbe voler guidare la scuola (quando Sadanam Kumaran
era vivo, Harikumar, che non andava d’accordo con il padre, aveva una sua
scuola di danza e musica). Lui si è detto tranquillo a questo riguardo:
Harikumar è più giovane di lui e dunque dal punto di vista della tradizione del
Kathakali è gerarchicamente inferiore, anche se è il padrone della scuola. Poi
Harikumar, che è molto intelligente e ha molto talento, ha altri interessi oltre il
Kathakali: è musicista, pittore, scrittore. Non vorrà limitarsi al Kathakali, cosa
che dovrebbe fare se assumesse la responsabilità di portare avanti la scuola.
123
Spero che lui abbia ragione... L’esempio della Margi dovrebbe servire a
dimostrare la fragilità di una realtà come quella della Sadanam.
Ore 22:30 – Vado a dormire in un posto all’ingresso della casa che è praticamente
un deposito, pieno di cose vecchie ammucchiate in fondo alla stanza. Al buio sento
il rumore delle ali dei pipistrelli che mi volano sopra la testa.
Martedì 21/6
Ore 5 – Narippatta mi ha suggerito di svegliarmi a quest’ora per guardare un
programma alla TV dove fanno vedere uno spettacolo di Kathakali a puntate,
ma il programma è incominciato con più di mezz’ora di discorsi in malayalam
e io mi sono addormentato sul divano e non ho visto il pezzo di spettacolo...
Ore 14 – Dopo pranzo arriva un amico di Narippatta che è uno “spettatore
professionista” di Kathakali, un rasika, nel linguaggio del Nāṭyaśāstra.
Abbiamo una conversazione interessante sugli spettacoli di Kathakali di altri
tempi, quando non c’era ancora la luce elettrica e tutto il lavoro dell’attore era
fatto in rapporto alla kalivilakku (lampada ad olio). Per lui le nuove
generazioni di artisti di Kathakali non hanno più amore per l’Arte. Cerca di
chiarirmi il discorso sui due diversi tipi di vibhava iniziato da Narippatta
l’altro giorno (16/6) e ha voluto scriverlo egli stesso nel mio quaderno:
When a lover sees the full fledged moon he remembers his wife (love). Nala
is a lover of Damayanthi. Damayanthi is the love of Nala. When Nala looks
the full fledged moon he remembers his love Damayanthi. In this context the
moon is uddeepana vibhava and Damayanthi is alambana vibhava.
Nel Nāṭyaśāstra non ho trovato alcun riferimento a questa distinzione fra due tipi di vibhava,
ma Rangacharya vi si riferisce come a due tipi di motivazione per gli anubhava e i
vyabhichari bhava (RANGACHARYA 2003 : 362). Il vibhava è la motivazione del bhava
all’azione. L’alambana vibhava è lo sfondo sul quale sorge l’uddeepana vibhava. Nella sitting
class del 16/6 Narippatta fa riferimento a questi due tipi di vibhava dal punto di vista del
rapporto fra i personaggi in modo leggermente diverso, perché lega l’uddeepana vibhava
all’effetto dell’azione di un personaggio su un altro. Ma in sostanza l’idea è la stessa, poiché
in questo esempio di Nalacharitam la luna agisce sui sentimenti di Nala.
Ore 16 – Vado a Cheruppulasseri la città più vicina, per connettermi a internet
e telefonare a casa.
Ore 18:30 – Ci troviamo io e Narippatta al Kunchu Nair Memorial (lui sta
organizzando un altro spettacolo per il giorno 27) e andiamo in risciò a casa
di Kottakkal Sivaraman. Ci riceve nella veranda di casa sua; è un vecchietto
molto simpatico. Ci parla della sua infanzia e delle botte che ha preso da suo
zio e guru Kunchu Nair. Parlano tutto il tempo in malayalam. Narippatta un
po’ traduce per me la conversazione, ma per buona parte del tempo loro
stanno a parlare e io a guardare senza capire niente. Parlano di uno spettacolo
che Sivaraman deve fare il giorno 25 a Thrissur: un testo nuovo tratto dal
Bhāgavata Purāṇa che narra la storia di una prostituta che riceve il moksha
(salvezza dell’anima) grazie alla sua devozione a Krishna. Nel testo c’è un
momento nel quale la protagonista si vanta della propria bellezza. Sivaraman
dice che non esiste nel repertorio del Kathakali una scena dove una donna
parla della propria bellezza, ma soltanto scene dove un personaggio maschile
descrive la bellezza di una donna. Narippatta suggerisce di fare un
pakarnattam dove la prostituta faccia vedere come gli uomini parlano di lei.
124
Mercoledì 22/6
Ore 8 – Mi sono svegliato con la pancia piena di puntini rossi che prudono un
po’. Sembrano punture di qualche insetto...
Ore 10 – Oggi c’è sciopero dei mezzi di trasporto per protesta contro
l’aumento del prezzo della benzina. Andiamo in moto io e Narippatta alla casa
del suo guru, Kumaran Nair. Lui mi spiega che se per caso troviamo una
manifestazione di scioperanti, dobbiamo fermare la moto e continuare a piedi.
A quel che pare gli scioperi qui sono una cosa molto seria... Andiamo per
strade piene di fango su un rottame che funziona per miracolo. E per giunta
piove a dirotto. Apro l’ombrello e cerco di stare in equilibrio come posso.
Non ho fatto molti commenti sulla pioggia in questo diario: credo perché è un
elemento così presente che uno si dimentica della sua esistenza, come quei
suoni che vengono percepiti soltanto quando smettono. Ma di piovere non
smette praticamente mai! L’umidità è tremenda, i vestiti bagnati non si
asciugano. Da quando sono arrivato la temperatura è in lenta discesa e adesso
di giorno si toccano i 25-30 gradi.
Kumaran Nair con i suoi novant’anni sembra sapere che ha ancora poche
energie da spendere. Parla molto basso e fa pochi gesti. A volte fa delle strane
pause, come se avesse dei vuoti di lucidità, ma forse ha semplicemente un
126
Giovedì 23/6
Ore 5 – Mi sveglio, o meglio mi alzo, presto perché dobbiamo ritornare alla
Sadanam in tempo per la lezione delle nove. Mentre sto sistemando le mie cose
ricevo la visita di un’altra pantegana più grossa di quella di ieri. Questa si
ferma pure a guardarmi. Comincio a pensare che sono io l’ospite.
Prima di partire Narippatta mi chiede di filmare il suo nipotino. Partiamo
verso le sei.
8:30 – Facciamo colazione alla Central School: tè e idli (delle crocchette di
riso, molto meglio del kanni).
Ore 9 – Oggi è il giorno del gurudakshina (letteralmente offerta o regalo al
guru), la cerimonia di entrata dei nuovi allievi nella scuola. Sono tre allievi di
chenda, uno di pattu (canto) e uno di vesham (attore). L’allievo di vesham, così
come Vineeth (il ragazzo con il quale ho fatto lezione nei giorni scorsi che è
entrato alla scuola quest’anno ma non partecipa alla cerimonia perché ha già
incominciato a fare lezioni prima degli altri, non so perché), non studierà
ancora il Kathakali a tempo pieno perché deve frequentare la scuola
“normale” fino ai 14 anni. Narippatta mi spiega che gli allievi di chenda e di
maddalam sono sempre più numerosi (anche se, contraddicendo
quest’affermazione, quest’anno non ci sono allievi di maddalam) perché il
corso è più corto (dura sei anni contro gli otto anni di vesham) e le possibilità
di lavoro sono più numerose (oltre agli spettacoli di Kathakali ci sono le
numerose feste religiose con diversi tipi di eventi che prevedono questi
strumenti). Gli allievi nuovi e i loro genitori aspettano fuori dal kalari, mentre
gli allievi anziani fanno il todayam. Quando hanno finito Balakrishnan invita
tutti a entrare nel kalari. Allievi nuovi, genitori e allievi anziani si mettono da
una lato della sala e tutti gli insegnanti si schierano dall’altro, Harikumar fa
un breve discorso e Narippatta dice due parole; dopo di che, i neofiti, con
l’aiuto delle loro mamme, preparano il dakshina, un regalo simbolico ai
maestri composto da pezzi di una specie di noce e qualche moneta dentro una
foglia verde85 . Ogni allievo va da ogni maestro, gli consegna il dakshina e si
sdraia per terra con la pancia in giù toccandogli i piedi. Il maestro lo benedice
e lo fa alzare. Al termine della cerimonia c’è una prima lezione simbolica,
dove viene insegnata una piccola cosa per ogni disciplina (un ritmo per il
chenda, un vocalise per il pattu e il saluto più il passo “ditatata” per il
vesham).
Ore 15 – Ho deciso di incominciare da oggi a filmare sistematicamente le
lezioni. Filmo nel cholliyattom il Hanūmān in Kalyanasougandhikam.
Ore 19 – La sitting class è in un’altra sala nella Teacher Training School, anziché
nella mensa come al solito. Questa sala è migliore per la registrazione perché ha i
muri bianchi e invece nella mensa sono grigi fino ad una certa altezza.
Venerdì 24/6
Ore 4 – La lezione inizia con il kannusadhakam (esercizi per gli occhi). Dopo
aver messo dentro la palpebra inferiore un po’ di ghee (burro fuso) per
lubrificare l’occhio, gli allievi iniziano gli esercizi. Vijayan va da ognuno di
loro a dare indicazioni. Dopo, ancora seduti per terra sulle stuoie, fanno
esercizi per rilassare i polsi, le spalle, il tronco. In seguito fanno la sequenza
dei cinque saluti, il meyyurappadavu (esercizi per rafforzare il corpo) e alcuni
passi. Si stanno preparando per i massaggi, che prima o poi incominceranno
(spero prima della mia partenza...). Vedo che è molto difficile per loro (e anche
per il maestro) lavorare con impegno a quest’ora del mattino. Il ritmo del
lavoro è molto lento, addormentato direi.
Ore 9 – Oggi c’erano due nuovi allievi (di chenda) che hanno fatto il
gurudakshina. I maestri erano tutti lì, ma la cerimonia è stata più semplice.
L’hanno fatta subito all’inizio del cholliyattom e non hanno fatto la “lezione
simbolica”. Dopo si è continuato con il todayam e Kalyanasougandhikam
(Bhīma e Draupadī).
Narippatta mi ha spiegato che il susseguirsi dei pezzi nel cholliyattom
rispecchia l’ordine dei pezzi nello spettacolo:
86 Il mridangam è il principale strumento d’accompagnamento percussivo della musica carnatica (la musica
“classica” dell’India del Sud). E’ un tamburo orizzontale fatto con il legno dell’albero di jack-fruit con pelle di
capra nelle due estremità.
129
me, un vero maestro; ma ha mantenuto sempre una certa distanza, come fanno
in genere i Nambudiri. Bala è simpaticissimo, molto più “alla mano”. Faccio
vedere alla sua famiglia il video del suo spettacolo a Karalmanna. Suo figlio,
un adolescente, non fa Kathakali - ho pensato di chiedere come mai, ma mi è
sembrato che fosse un argomento delicato.
Sabato 25/6
9:00 – Vishnuprasad e Suresh sono ammalati. Il cholliyattom lo fanno
solamente Mohan e Praveen. Bala mi chiede cosa voglio vedere. Chiedo a
Mohan di fare la scena della costruzione del carro.
In questo pezzo, un ilakiyattam dell’attakkatha Subhadraharanam, Krishna costruisce un
carro per portare via Arjuna e la sua sposa Subhadra.
Dopo chiedo un pezzo di Kalyanasougandhikam che mi manca da registrare: la
scena di Bhīma nella foresta. Accidenti! Il nastro finisce prima della fine del
pezzo... Mi sono mancati 5-10 minuti. Ormai ho pochi nastri e sto cercando di
selezionare cosa filmare. Non mi sembra il caso di comprare altri: ho già più di 40
ore di filmato (contando quelle di gennaio) e arriverò a 47 ore con i nastri che ho.
Mi sono pentito di non aver comprato più nastri per filmare il più possibile in questa parte
finale del viaggio. Però è stato anche molto importante osservare senza filmare. Quando stai
filmando sei tutto il tempo concentrato sulla telecamera. Il problema è che non puoi mai
sapere quando accadrà qualcosa d’interessante. In ogni caso sono stato fortunato: ho ripreso
moltissimi momenti significativi e ho un eccellente materiale.
Ore 13 – Parlo con Balakrishnan e Harikumar della mia necessità di filmare i
massaggi. Hari non mi garantisce niente, ma promette di parlare della
questione con Narippatta . Speriamo...
Domenica 26/6
Ore 11 – Alla fine della lezione Balakrishnan lavora con Praveen da solo.
Povero cristo! Bala cerca di “metterlo in forma”, con il bastone e con le mani.
I modi non sono per niente gentili. Non posso dire che lo picchi con il bastone
con dei “very heavy beat” come Narippatta diceva facesse il suo maestro con
lui, ma non lo picchia certo delicatamente. In questi giorni Narippatta e Bala
stanno prendendo di mira Praveen in continuazione. Questo è il suo terzo anno
alla scuola, come lo è per Vishnuprasad che è molto più avanti di lui nel
Kathakali, ma lui non è un allievo a tempo pieno, fa ancora la scuola
“normale”. La “forma” gli manca ancora completamente.
Ore 14:30 – Ho filmato la classe di sahitya (letteratura).
Ore 15 – Nel cholliyattom, Mohan sta davanti e Praveen si mette dietro,
seguendolo senza usare le mani, per imparare a fare il pezzo (di
Sudhadraharanam) prima solamente con le gambe. Mi sembra che lui conosca già
la coreografia, ma è ancora molto insicuro. Verso la fine della lezione Narippatta
manda via Mohan e i musicisti e rimane da solo con Praveen. Ha lavorato con
rigore, correggendo le posizioni del corpo in tutti i dettagli, con meticolosità.
Nelle lezioni cui ho assistito alla Sadanam, quando Praveen era presente i maestri erano
estremamente rigorosi con lui. Era molto chiaro che erano tutti impegnati a “metterlo in
forma”. Fare Kathakali a tempo pieno, però, fa la differenza.
130
Vi è invece un altro aspetto: Vishnuprasad è entrato alla Sadanam a tempo pieno sin dal primo
anno perché è più anziano di Praveen. Il primo aveva diciannove anni l’anno scorso, e dunque
è entrato alla scuola a sedici anni, mentre il secondo aveva sedici anni ed è entrato alla
Sadanam a tredici anni. Dunque Vishnuprasad aveva già frequentato la scuola fino a un certo
punto (che corrisponderebbe alla fine della scuola media, se ho capito bene). Considerando
l’equilibrio necessario ai nostri tempi fra il bisogno di un’educazione formale e la necessità di
dedicarsi a tempo pieno all’apprendistato del Kathakali per raggiungere buoni risultati,
risconto una certa tendenza a ritardare l’entrata dei ragazzi nelle scuole di Kathakali (magari,
per chi se lo può permettere avendo ricevuto lezioni private prima – ricordiamo che le scuole
di Kathakali sono gratis e l’allievo ha addirittura una piccola “grant” per il suo
sostentamento). Alla Sadanam si è trovato questo compromesso fra la scuola formale e la
scuola di Kathakali, facilitato dal fatto che la Sadanam è anche una scuola formale. I calendari
diversi – la Sadanam Central School naturalmente segue il calendario occidentale – facilitano
un po’ le cose: nella scuola di Kathakali sabato e domenica sono giorni uguali agli altri.
Ore 18 – Parlo con Narippatta dei massaggi. Mi dice che i massaggi
incominceranno dopo la prossima pausa lunga, ai primi di luglio, ma domani
mattina si fa una seduta di massaggi appositamente per me. Sarà un po’
“fake”, ma è meglio di niente.
Ore 19 – Nella sitting class, Narippatta lavora solo con Mohan alla scena del
matrimonio di Arjuna in Subhadraharanam. Verso la metà della lezione
Narippatta mi spiega la scena e parla dello sthayi bhava e dei diversi sāñcarī
bhava. La prima parte della scena è un ilakiyattam e dunque non ha testo, ma
sono azioni che fanno parte della storia, fanno parte del “testo performativo”
e dunque vanno insegnate nella sitting class. Tutti i movimenti sono fatti con
estrema lentezza.
Subhadraharanam, di Mantredattu Bhattatirippad (1730-1795), racconta la storia
dell’innamoramento e del matrimonio di Arjuna e Subhadra, sorella di Krishna. Nella scena in
questione, Arjuna e Subhadra si sposano davanti a Krishna, Darmaputra, Indra e la sua corte
di deva (dèi) e apsaras (incantatrici celesti), ma senza la presenza di Balarāma, il fratello più
vecchio di Krishna e dunque il capo degli Yadhava (la famiglia di Krishna).
Lunedì 27/6
Ore 5 – Narippatta si era messo d’accordo con me per fare i massaggi alle 6,
ma i ragazzi sono venuti a svegliarmi perché lo si fa adesso. Andiamo. Vijaya
fa il massaggio a Mohan. Faccio un’ottima registrazione. Ovvio che sarebbe
stato meglio filmare una seduta “vera”, con tutti gli allievi; o ancora meglio
accompagnare il ciclo dei massaggi durante i tre mesi dei monsoni, potendo
vedere così la diversità nell’intensità dei massaggi e la progressione degli
esercizi. Sarà per un prossimo viaggio (o per una prossima vita).
La sala dei massaggi è sporchissima, si vede benissimo che è chiusa da un
anno. Mohan, poverino, si è dovuto sdraiare con la pancia in giù e la faccia
per terra davanti alla lampada per fare il namaskaram (saluto) prima di
mettere l’olio sul corpo. I massaggi vengono fatti sopra le stuoie (anche loro
non pulitissime...)
Dopo i massaggi, chiacchierando con Bala, scopro che il suo primo allievo
occidentale fu un attore dell’Odin Teatret chiamato Tom (Fjordefalk) che è
stato tre mesi con lui a impare il Pootanamoksham.
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Tom Fjordefalk ha lavorato all’Odin dal 1974 al 1984. Nello spettacolo Il Milione era vestito
da stri vesham (personaggio femminile nel Kathakali) e faceva dei pezzi di Kathakali.
Ore 9 – Oggi sono ritornati Suresh e Vishnuprasad. Avevo intenzione di filmare
tutto il todayam, ma quando arrivo al kalari mi accorgo di aver dimenticato la
batteria della telecamera. Faccio una corsa per prenderla, ma non arrivo in
tempo per l’inizio della danza. Non sarebbe stata però la migliore occasione
per registrare il todayam completo: Narippatta ha messo Vishnuprasad e
Praveen davanti a danzare senza usare le braccia. Vishnuprasad deve
addirittura tenere in mano un bastone sempre nella posizione orizzontale per
aiutare il suo corpo a “ricordare” la posizione giusta del petto.
Si continua a lavorare con Subhadraharanam e la scena è la stessa di ieri sera
nella sitting class. Fanno lezione anche Vijaya e Sadanand, un giovane attore, ex-
allievo. Nella parte finale danzano soltanto loro due, ma Narippatta mi chiede di
spegnere la telecamera. Alla fine della lezione chiedo il perché. Dice che loro sono
attori professionisti, non allievi. La lezione è finita quasi alle 13. Narippatta non
usa l’orologio nel kalari, va avanti fino a quando gli sembra che basti.
Ore 14 – Pranzo a Pathiripala e vado a Karalmanna per vedere uno spettacolo
di Kathakali con Narippatta nel Kunchu Nair Memorial Trust. Alla fermata del
pullman trovo Mohan, Suresh e Vishnuprasad. Prendiamo il pullman insieme
ma io mi fermo a Ottappalam per comprare dei regali per i maestri della
Sadanam. Ho deciso di regalare a Narippatta e Harikumar delle camicie tipo
“juba”, un sari alla moglie di Narippatta e dothi per Vijaya e Balakrishnan.
Comprare regali per tutti i maestri della scuola costerebbe troppo e mi sembra
esagerato, con alcuni di loro io non ho mai scambiato una parola. Alla fine
spendo mille rupie (venti euro).
Ore 18 – Trovo Raju, il fratello di Narippatta, al tea shop. Andiamo insieme
allo spettacolo. Mi ritrovo con i due amici che Narippatta mi aveva presentato.
Lo spettacolo è in occasione della pubblicazione di una rivista
dell’associazione. Sul palcoscenico, durante la cerimonia, Kalamandalam
Ramankutty Nair e in platea Kottakkal Sivaraman. Durante i discorsi iniziali
io e Raju andiamo fuori a chiacchierare un po’. Lui mi chiede una coppia del
Principe Costante del Teatro Laboratorio. Gli spiego che non è così semplice.
Ore 19:30 – Lo spettacolo è Sitaswayamvaram e Narippatta è molto bravo nel
ruolo di Paraśurāma. Ho visto la stessa storia con Kalanilayam Gopi a
gennaio. Anche se la performance di Narippatta ha più sfumature di
interpretazione (o sāñcarī bhava, come mi dice lui correggendo il mio
commento), devo confessare che questa storia non m’entusiasma. Ho notato
che lui non era completamente soddisfatto. Ha avuto dei problemi con il
costume, che doveva sistemare in continuazione e ha fatto molti segnali ai
musicisti (chiedendo “support” mi ha spiegato). La musica era assordante: tre
chenda e un maddalam. Sadanam Basi, l’attore che interpreta Rāma è bravo
ma è molto basso, e per questo ai miei occhi diventa involontariamente comico
a rappresentare un paccha.
Ore 22 – Alla fine dello spettacolo mi sento un rasika nel commentare
l’interpretazione degli attori con gli amici di Narippatta. Consegno i regali a
Narippatta, per lui e sua moglie.
Avevo chiesto ospitalità a Raju (avevo paura di essere ospite dei topi un’altra
volta) ma Kuttan, il maestro di maddalam, mi propone di dividere un taxi per
tornare alla Sadanam insieme a Mohan, Suresh e Vishnuprasad. Chiedo scusa a
132
Raju, ma decido di tornare. Molto meglio dormire nel “mio” letto e nella “mia”
stanza e svegliarmi già alla Sadanam. Ci fermiamo a Pathiripala e offro tè e
chapati per tutti. Prima di dormire Suresh m’invita a fumare una sigaretta di
nascosto dietro la casa dove dormiamo. Io non fumo quasi mai, ma quando loro
mi hanno trovato alla fermata del pullman questo pomeriggio stavo fumando
una sigaretta. Fumare e bere alcolici è severamente proibito agli allievi della
scuola, si rischia l’espulsione. L’invito significa che loro si fidano di me.
Martedì 28/6
Ore 9 – Dopo la colazione al tea shop vado a vedere l’ultimo cholliyattom del
viaggio. Preferisco soltanto guardare senza avere la preoccupazione di
registrare. Mohan e Suresh hanno lavorato con Balakrishnan sul
Pootanamoksham, una specie di prova per lo spettacolo di questa sera. Bala
ha interrotto diverse volte, principalmente per dare indicazioni al maddalam
(Radish). La sua intenzione era di migliorare il rapporto dello strumento con
le azioni, ma Radish non mi sembrava completamente convinto delle sue
indicazioni, anche se ovviamente non ha detto niente. Stranamente non c’era
nessun maestro di maddalam presente. In queste scene femminili, senza il
chenda, il maddalam e il suo rapporto con l’attore sono molto in evidenza.
Ore 12 – Alla fine del cholliyattom, su mia richiesta, si fanno i vattom vechu kalasam
nei sei diversi tala usati nel Kathakali (tripuda, panchari, champa, chempada, adanta e
muri adanta). E’ una cosa che ho visto il giorno del mio arrivo e volevo registrarla.
Ore 13 – Faccio alcune registrazioni alla mensa durante il pranzo e dopo agli
alloggi degli allievi, alla casa di Kuttan asan. I ragazzi si sono divertiti un
sacco, erano eccitatissimi, mi saltavano addosso, mi tiravano per la mano per
registrare questo o quello.
Ore 14 – Consegno i regali a Vijaya e Balakrishnan e lascio il regalo per
Harikumar in segreteria.
Ore 15 – In Pathiripala compro un bambola per la figlia di Kuttan asan. Non è
molto carina, ma è l’unica che trovo...
Ore 16 – La bambola sembra aver avuto molto successo. Meno male!
Ore 18 – Durante la presentazione di Pootanamosham, Suresh è un po’
nervoso. Alcune volte il rapporto con il maddalam non mi sembrava giusto. La
sua mancanza più grave però è di rivolgere lo sguardo troppo in basso quando
guarda il pupazzo di legno che rappresenta Krishna bambino. Lui difatti lo ha
guardato veramente, mentre nel Kathakali non si deve guardare veramente - la
mano, l’interlocutore, l’oggetto – ma soltanto “nella direzione”, mantenendo
sempre lo sguardo più verso l’alto. In ogni caso, per essere la prima volta che
faceva un ruolo così difficile in pubblico è stata una buona presentazione.
Questa iniziativa è una buona idea di Harikumar.
Ore 22 – Parto domani mattina. I ragazzi sono tristi per la mia partenza imminente.
Abbiamo stabilito un bel rapporto; loro sono molto affettuosi con me. Ormai mi
hanno anche dato un soprannome: mi chiamano unniyettan, che significa “fratello
maggiore”. Lascio aperta la porta della stanza e tutti, uno o due alla volta, mi
vengono a visitare. Faccio vedere in veranda un frammento dello spettacolo di
questo pomeriggio nello schermo della telecamera. Prima di dormire Suresh m’invita
alla piccola (per me) / grande (per lui) trasgressione della sigaretta.
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Mercoledì 29/6
Ore 5 – Mi alzo prima della sveglia. Non so se ormai mi sono abituato o sono
eccitato per la partenza o i ragazzi fanno troppo rumore. Forse un po’ di tutto
ciò. Sono felice di ritornare ad avere la mia privacy, di ritornare ai confort
della città e soprattutto di rivedere la mia famiglia, ma sono anche dispiaciuto
di partire. I ragazzi sono stati molto gentili, mi hanno trattato come “uno di
loro”, ma allo stesso tempo mi hanno saputo rispettare come ospite e come più
anziano. Comunicavamo quasi senza parole e si è creato dell’affetto. Non so se
rivedrò mai qualcuno di loro ma auguro loro un futuro brillante. Ho imparato
molto da loro e spero di avergli insegnato qualcosa anch’io. Ho lasciato in
dono alla scuola la lampada a gas. Sarà utile per le lezioni notturne. Il
secchio, il materasso e lo specchio li ho lasciati “in eredità” ai ragazzi, ma
non li ho regalati a qualcuno in particolare. Spero che questo non provochi dei
litigi, non ho voluto scontentare nessuno.
Penso al loro futuro, fra 10 o 20 anni. Quanti seguiranno la vita dell’artista?
A scuola vengono sicuramente ben preparati dal punto di vista artistico, ma è
una vita difficile. Loro sono così giovani, hanno molto da vivere e le cose
cambiano in continuazione. A scuola vivono isolati, in un mondo a parte, come
monaci laici. La vita “fuori” è molto diversa. Non so se avranno gli strumenti
per affrontarla, il solo Kathakali non è sufficiente. Non sanno neanche parlare
l’inglese! Narippatta mi ha detto che i genitori spesso indirizzano al Kathakali
i ragazzi che non vanno bene nella scuola “normale”. Il rapporto fra la scuola
“normale” e quella di Kathakali è complesso: da un lato l’allievo che non
studia il Kathakali full-time non potrà mai raggiungere un buon livello in
un’Arte così difficile, ma dall’altra parte oggi non è più possibile vivere chiusi
nel mondo del Kathakali e ignorare tutto quello che succede nel mondo.
L’inglese poi è fondamentale. E per la sopravvivenza purtroppo può anche
essere più importante delle qualità necessarie al Kathakali.
Ore 6 – Arriva il risciò. Carico la valigia. I ragazzi mi vengono a salutare. Parto.
Ore 9 – Treno per Ernakulam.
Ore 13 – E’ indescrivibile il piacere di fare una doccia calda e mettermi nel
letto a guardare la TV.
Giovedì 30/6
Giorno di shopping (regali)
Venerdì 1/7
Ore 6 – Taxi per l’aeroporto.
Ore 10 – Partenza per l’Italia.
CONCLUSIONE
Analogamente ad alcuni biologi che - come fece Darwin nelle isole Galapagos -
studiando la bio-diversità di eco-sistemi vissuti per millenni senza contatto diretto con altri
eco-sistemi, sono riusciti ad individuare leggi valide per tutta la natura, studiando la
“purezza” di queste tradizioni possiamo trovare importanti punti di riferimento per
comprendere il processo creativo dell’attore.
Raggiungere questo scopo, tuttavia non è semplice. Bisogna indagare a fondo le
specificità della tradizione in questione, sapendo che in realtà la parola “purezza”, merita
sicuramente le virgolette quando riferita alle tradizioni. Soltanto in questo modo sarà possibile
distinguere ciò che appartiene a quella cultura in particolare da ciò che può essere
condivisibile o confrontabile. Pur limitandoci a un interesse molto specifico - lo studio
dell’arte dell’attore - la complessità della questione ci obbliga ad ampliare lo sguardo e
avvalerci di punti di vista differenti - antropologico, storico, economico - per poter osservare i
modi di attuazione di quest’arte alla luce del contesto in cui s’inserisce. Per capire il senso di
un gesto, di un esercizio, di una posizione del corpo, dobbiamo scoprire la sua funzione, non
possiamo fermarci alla sua forma. Come c’insegna Grotowski, due posizioni molto simili
come il modo di sedersi per terra dello yoghi e quello del Samurai possono aver funzioni
completamente diverse, come garantire l’immobilità o essere pronti a balzare sull’avversario
in una frazione di secondo. (GROTOWSKI 1993 : 63)
Si dice spesso che la parola scritta è ciò che resta nella storia, ma forse conviene andare
oltre questa ovvietà, almeno per quanto riguarda la cultura indiana. Il sapere contenuto nel
Nāṭyaśāstra resterebbe inaccessibile agli intellettuali se non disponessero delle chiavi
d’interpretazione fornite dagli artisti, i quali non hanno avuto bisogno di leggerlo poiché
l’hanno scritto nei propri corpi. “Queste cose sono difficili da esprimere mediante il pennello.
Questa è una cosa orale che si trasmette da persona a persona”, ci insegna Zeami. (ZEAMI
1987 : 145), che ciononostante ha lasciato ai suoi discendenti una serie di insegnamenti scritti
sulla sua arte (riuniti da dallo iamatologo francese René Sieffert, in un libro intitolato La
tradition secrète du Nō 87). Il testo di Zeami, considerato il fondatore del Nō (anche se lui stesso
si definiva come un continuatore del Sarugaku, l’arte di suo padre), fu scritto come un
complemento a quegli insegnamenti orali, trasmessi da persona a persona, e per dei lettori
molto precisi: i suoi discendenti. La parola scritta diventa così un modo di custodire segreti,
trasmessi in una forma cifrata che appare enigmatica per coloro che non sono iniziati all’arte
dell’azione.
Se è vero che le tradizioni sono in continua trasformazione, gli insegnamenti di Zeami
rimarranno utili per generazioni future soltanto se continuamente reinterpretati alla luce dei
nuovi contesti, del cambio dei gusti, delle nuove realtà. Questa ricerca rimane un compito più
adeguato all'intellettuale e troppo astratto per l’artista che sa che questi segreti non possono
essere trasmessi soltanto con le parole (senza ovviamente escludere la possibilità che
qualcuno, come Zeami, esegua da solo questi due compiti).
Un esempio particolarmente illuminante di questo rapporto fra parola e azione è quello
degli attaprakaram e dei kramadipika, manuali degli attori Kutiyattam, testi secolari custoditi
presso le famiglie Chakyar. I primi descrivono le azioni che gli attori devono compiere per
esprimere le parole del testo, i secondi invece forniscono informazioni non esplicite nel testo,
ma che gli attori devono avere in mente mentre lo eseguono, e includono dettagli pratici del
trucco, il modo di entrare in scena, ecc. Se gli attaprakaram descrivono il modo giusto per
“dire”, sia con la voce che con il corpo, le parole del testo teatrale, gli kramadipika a loro volta
descrivono tutto il contesto che sta dietro le parole. Potremo dire che, se la scena teatrale fosse
un iceberg, questi due manuali descriverebbero rispettivamente le parti sopra e sotto la linea
87 Il libro di Sieffert è del 1960 e la traduzione italiana di Gisèle Bartoli è del 1966 (vedi bibliografia).
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d’acqua: non per caso l’attore Kutiyattam deve essere un'intellettuale e uno studioso dei testi
sanscriti.
I testi sull’arte dell’attore sono come scatole che hanno bisogno di due chiavi per
essere aperti: la parola e l’azione. Queste due chiavi di lettura possono far diventare testi
come gli attaprakaram e i kramadipika, o il libro di Zeami o il Nāṭyaśāstra, utili alla scena
attuale, sia in Occidente che in Oriente. Senza entrambi le chiavi di cui sopra questi testi
rimangono pura teoria e possono interessare soltanto ai filologi.
Analogamente è attraverso il rapporto fra parola e azione che l’attore dischiude il testo
teatrale, che diventa così parola in azione o, usando la definizione del Nāṭyaśāstra, drsya
kavya (poesia visibile). Questo rapporto fra parola e azione hanno perseguito Stanislavskij e
Mejerchol’d, che incentravano il loro teatro sull’attore facendo sì che l’azione prendesse il
posto della dizione.
L’analisi minuta dei processi interiori dell’attore condotta da
Stanislavskij, così come anche l’analisi delle azioni fisiche che egli più
tardi condurrà parallelamente a Mejerchol’d rende innanzitutto
evidente la coscienza di quanto sia difficile e faticoso, per l’attore,
essere non solo altrettanto indipendente, ma anche altrettanto forte,
preciso e acuto di quanto può esserlo uno scrittore nel notomizzare e
nel mettere a nudo gli intrecci, i bivii, le sospensioni e i nodi oscuri.
(CRUCIANI e TAVIANI in STANISLAVSKIJ 1980 : 16-19)
Sul terreno delle azioni fisiche il teatro occidentale può incontrarsi con il teatro
orientale e cercare di carpire la raffinatezza dell’elaborazione ritmica del rapporto fra parola e
azione del Kathakali. L’attore Kathakali non parla in scena usando la voce, ma il suo compito,
così come quello dell’attore che segue il cosiddetto “metodo delle azioni fisiche” di
Stanislavskij, è far diventare il teatro parola in azione.
Il fascino dei grandi maestri di teatro-danza orientali è accessibile a qualsiasi
spettatore occidentale che sia disponibile a superare il proprio etnocentrismo ma, così come
accade in qualsiasi arte che abbia un certo spessore, i livelli d’interpretazione sono molteplici.
Il rapporto fra gli uomini di teatro europei e gli artisti orientali, dai primi contatti con pionieri
viaggiatori come Sada Yaco o Uday Shankar nei primi anni del Novecento fino ai nostri
giorni, è un esempio di questo ventaglio di possibilità, che va dalla folgorazione premonitrice
di Antonin Artaud alla ricerca puntigliosa dei segreti del mestiere di Jerzy Grotowski.
Per carpire i segreti dell’attore, la sola visione della sua recitazione negli spettacoli è
insufficiente. Lo spettacolo è il risultato di un processo, Zeami lo sapeva, e avvertiva i
principianti:
Guardatevi dall’imitare senza avere studiato. Una volta che l’abile si è
reso perfettamente maestro della sua arte, l’interesse suscitato nello
spettatore dalla sua maniera, che allora raggiunge il grado della
scioltezza, è sentito come un interesse puro e semplice; se un
principiante, rendendosi conto di ciò, lo imita, si constaterà certamente
l’imitazione, ma il sentimento di interesse mancherà. Mentre l’abile,
dopo aver esercitato a fondo, per anni, la mente e il corpo, interpreta
con scioltezza dosando i suoi movimenti, secondo [il principio] del
140
88Il principio di “muovere la mente per i dieci decimi, muovere il corpo per i sette decimi” definisce il dosagio
dell’energia che determina la stilizzazione del gesto propria del Nō, dove “i movimenti imparati (...) si eseguono
[prima] conformemente agli insegnamenti del proprio maestro, poi, una volta giunti alla perfezione in questo
campo, non si esegue più il movimento (...) come lo si concepisce nella mente, ma lo si trattiene un poco al di
qua di quello che concepisce la mente.” (Zeami 1987 : 156)
89 Mezurashi, “insolito” è uno dei vocaboli essenziali della terminologia di Zeami. Evoca l’idea di “raro,
sorprendente per la sua novità, originale”. (SIEFFERT in ZEAMI 1987 : 79)
ALLEGATI
Contenuto dei DVD allegati
Kathakali 1
Radici
Kutiyattam
19 min 39 sec
Dimostazione con Kalamandalam Girija
(netrabhinaya, hasta e sloka) / Chakyar Kuttu con
Painkulam Domodara Chakyar / Nangiar Kuttu con
Kapila Nangiar / Kutiyattam con Ammannur
Madhava Chakyar (Balivadhom)
Kalarippayattu
08 min 05 sec
Krishnanattam
05 min 11 sec
Asan (maestri)
Kumaran Nair e Ramankutty Nair
in Kalyanasougandhikam
22 min 26 sec
Kalamandalam Gopi in Nalacharitam
07 min 59 sec
Kottakkal Sivaraman in Pootanamoksham
10 min 36 sec
Kathakali 2
Kalanilayam
Un giorno alla Kalanilayam
18 min 05 sec
Full-night alla Kalanilayam (con Kalanilayam Gopi,
21 min 12 sec
Kalamandalam Ramachandranunnithan, Margi
Vijayakumar e Sadanam Krishnankutty)
Intervista con M.P.S. Nambudiri
20 min 21 sec
Intervista con Kalmandalam John
14 min 47 sec
Kathakali 3
Angika
25 min 56 sec
meisadhakam / uzhicchil / kannusadhakam /
dimostrazione Kalamandalam Gopi (netrabhinaya) /
chuzhippu / purappad
Nrtta
15 min 54 sec
kaal sadhakam / kalasam / todayam / musica-
azione / ashtakalasam (con Kalamandalam Gopi e
Sadanam Krishnankutty)
Nrtya
18 min 08 sec
navarasa (con Kalamandalam Gopi) / ilakiyattam
(con Sadanam Krishnankutty) / kalyanasougandhikam
Kathakali 4
Gurudakshina
06 min 22 sec
Intervista con Narippatta Nambudiri
06 min 12 sec
Sitting class
54 min 33 sec
Testo Duryodhanavadhom
Iswaranekan nityanennarika ni
Iswaran = Dio / ekan = uno / nityan = indistruttibile / enna = dunque / arika = sapere / ni =tu
Il Dio unico è indistruttibile, sappilo
P: Allora, oggi ripetiamo quello che abbiamo fatto ieri o andiamo avanti?
J: Ripetiamo quella di ieri, o... Cosa pensi?
B: Cosa pensi John?
P: Cosa vogliono fare?
J: Ripetere una volta e poi andare avanti.
P: Allora basta così? Bene.
Parsati mama sake... (Draupadī, amica mia...)
Io so che è difficile farli avere un’idea chiara di Sri Krishna e di questi personaggi. Sri
Krishna è un dio... In termini umani... Come Chanakya Soothra. Krishna sa come condurre un
regno. Conosce tutti i trucchi. Lui è molto furbo. E dunque... insomma... le dirò dopo.
Dobbiamo capire tutte queste particolarità. Soltanto così possiamo capire le qualità del
personaggio che stiamo rappresentando.
Maninimar kula maulimane... Tu che tra le fanciulle sei il diadema Mudrā:
fanciulla
più prezioso...
John, non ti sto guardando. Credo che non ce ne sia bisogno.
Devi muovere il collo 2 o 3 volte. Sguardo.
plurale
Non basta. Corpo, con il corpo. Corpo!
J: Suchimukha. Prima... Ale! Cominciare con suchimukha.
P: Qui stringere gli occhi e poi aprire di colpo. Ah, non.
J: Capisci la differenza? Prima suchi.
P: Quando fai questo, fai così... così... così... così... e poi fine! Non
deve essere una cosa meccanica o esagerata. Il corpo deve "seguire"
il gesto con un piccolo movimento circolare.
J: Il corpo deve arrivare insieme al movimento.
P: Così diventa più bello.
... kula... ... tra le... Mudrā: gruppo
... maulimane... ... sei il diadema più prezioso... Mudrā:
testa
A questa altezza.
J: Sinistra o destra?
P: Mano destra, mano destra.
... mane... ... prezioso... Mudrā: gioiello
tu
... srnu kettallum. ... ascolta per favore. Mudrā:
ascolta
Occhi, occhi! Occhi, occhi! Guarda dritto. Così
per favore
J: Durnaiam Dussassana...
P: Lo so. Mauli... mane... sake...
Sui mudrā... dunque... la nostra immaginazione:
Certi mudrā non hanno un significato particolare. Se mettiamo la mano in un certo modo vuol
dire una certa cosa. E' solo immaginazione. Per esempio, i nostri: Bhrama, Viṣṇu, Siva.
Ma per Siva c'è una ragione precisa. Se le metti in questo modo: questo è cervo, questo è
ascia. Siva ha in mano queste armi. O meglio, queste sono gli oggetti che ha in mano. E' così.
Dunque non possiamo dire lo stesso per tutti. Tanti altri... certi... sono mudrā imitativi. Per far
vedere Sri Krishna usiamo l'immagine del flauto. Così fai vedere Krishna. Per far vedere
Parvati usiamo quella di "Siva" e quella di "donna". Si fa vedere Viṣṇu così. E nello stesso
modo Lakshmi Devi. Come Parvati.
Altri seguono i movimenti della natura. Allora, per far vedere un rampicante: il rampicante si
avvolge così. Si arrampica in questo modo. Lo fai vedere così. Adhitya, il sole, quando sorge
sale così, in questo modo. E poi il calore va fatto vedere con la vibrazione delle palpebre. E
153
dunque fai vedere il sole che sorge. Per la luna il movimento è lo stesso, ma il bhava
(sentimento) è esattamente l'opposto. Nel caso del vento: il vento si muove in questa
direzione. Si muove così. E' quello che si fa vedere. Il fiore, il profumo: ci mettiamo una
particolare bellezza.
Dunque, normalmente per salutare basta fare così. Ma per dare una forma artistica e bella al
nostro saluto lo elaboriamo così: comodamente, mettendo insieme gli occhi, il corpo e le
mani. Tutto insieme. E viene così. Così diventa il nostro saluto. Lo facciamo per la bellezza. E
così creiamo i mudrā con l'immaginazione. Spiega a loro brevemente.
“Durnaian Dussassana” (il cattivo Dussassana):
Quando si ricorda delle azioni e del carattere di Dussassana lui fa subito così... così... e poi
guarda da questa parte.
Deva kritam enu (Dio ha fatto questo). Dopo "sahasam" (delitti) il bhava cambia. Diventa più
morbido per rappresentare Dio. Il cambio inizia li.
J: Dopo il gesto "sahasam" (delitti) cambia il bhava.
B: Sāñcarī bhava.
Quando fai così senza la collaborazione del corpo, lo fai tanto per fare. Invece, devi aiutarti
con un piccolo movimento del corpo che segue il gesto. Senza mettere troppa aria qua. Senza
rigidità. Occorre rilassare il corpo.
154
Come si fa vedere il mudrā per "pietra preziosa"? Questa è la pietra preziosa... e questo è il
suo scintillio.
Duryodhana: “Partiva virare” (Grandi re). D'ora in poi bisogna cambiare il "carattere".
Bisogna essere più seri.
P: Due volte.
B: Dunque qui... Mi scusi. Dopo questo gesto John, non viene il plurale? Non si fanno questi
due gesti?
J: Non dobbiamo far vedere il plurale?
P: No, non c'è bisogno. Basta far vedere il significato di Pāṇḍava duthan" (messaggero dei
Pāṇḍava). Ma se si fa il plurale, va bene lo stesso.
J: Se lo fai vedere non è un problema.
P: Ma qui il tempo è veloce. E perciò basta fare così. Però, quando spiegherai questo brano in
futuro è meglio non fare il plurale altrimenti si confondono. I due modi sono giusti. Ma qui il
ritmo è veloce e non abbiamo tempo. E dunque, basta fare così.
J: Questa parte è veloce. Dunque se non fai questo gesto non è un problema.
B: Cambia?
P: E' meglio non fare due mudrā con la stessa mano. Ma
certe volte occorre farlo. Quando fai così, l'altro gesto lo fai
con l'altra mano.
Orupuban... ...Neanche un re... Mudrā:
uno
re
... udhana cheiuga. ... si alzerà. gesto di rispetto
B: E' chiaro.
P: Il significato è: NON fare così.
P: Per dire venti facciamo così due volte. Dieci, dieci. Vuol dire venti. Siccome non ci sono
gesti abbastanza facciamo degli abbinamenti. Hanno capito, vero?
vairikalannya jatharathallayo. (I miei nemici non sono figli di Pandu, sono nati da altri.):
Sono figli di altri. E come se non bastasse non sono neanche i figli dello stesso padre. Uno è
figlio di Dharmaraja (Yama). Uno è di Vāyu. Uno è figlio di Devendra (Indra). E gli altri sono
degli Aswini. Allora come fanno ad avere diritto? E' quello che dice.
Kanditham chirimangalam parapandavarkku koduthida. (Sicuramente non darò la mia terra a
quei bastardi dei Pāṇḍava.): "Non darò il mio regno ai Pāṇḍava. Sono estranei per me."
Quando Duryodhana ha espresso il suo pensiero, Krishna risponde: Chittramattra Vijitra
Veeryajanalla ninnude tadanum. (Il divertente è che tuo padre non è figlio di Vijitra Veerya.).
Allora Krishna ride e fa così. “Ah, molto bene! Ma, Vijittra Veerya è il tuo nonno? Sei un vero
discendente di Vijittra Veerya?” I Kaurava hanno parlato male dei Pāṇḍava. Adesso sono i
Pāṇḍava che parlano male del padre di Duryodhana. “E voi, che diritto avete?” Chittramattra
Vijitra Veeryajanalla ninnude tadanum. (Il divertente è che tuo padre non è figlio di Vijitra
Veerya.)
J: E' figlio di una vedova.
P: Si. E' figlio di una vedova. Vidhavatmajjiannude putranennu dharikkanam. (Devi capire
che sei il nipote di una vedova.).
Quando sente parlare di suo padre, Duryodhana si infuria: Pasaminnodhu konduva
yathuparsane kettuvan. (Portatemi una corda per legare Krishna.): “Portate la corda per legare
questo qua.”
Nasa mangidarinju Pandavarasu vannithazhikkanam. (Se i Pāṇḍava verranno a slegarlo gli
distruggeremo.): “Voglio vedere se i Pāṇḍava verranno a slegarlo quando lo sapranno.”
Andanandhanendu nammude bandanathin tamase. (Figlio di un cieco, cosa aspetti a
legarmi?). Krishna ride. Non si arrabbia.
J: Krishna non si arrabbia veramente alla fine. Lui sta ridendo.
P: Quando ordina di legarlo, lui dice: "ah, va bene. Si, legatemi.” Andanandhanendu
nammude bandanathin tamase. (Figlio di un cieco, cosa aspetti a legarmi?) “Figlio di cieco.
Anche tu non vedi. E' quello che fai adesso.” ... nammude bandanathin tamase (... cosa aspetti
a legarmi?)
Banda mendidu cholka: (Ti dico la verità:)
Cosa aspettate a legarmi? Legatemi! Pāṇḍava bandhu nianithu kanka ni. (Guardami! Io sono
parente dei Pāṇḍava.). “Io sono parente dei Pāṇḍava. Adesso vedrai.”
Così dice. Poi quando Duryodhana tenta di legarlo si sposta e si fa vedere nella sua forma
divina. E' così. La furbizia e l'intelligenza di Krishna sono importanti qui. Krishna ha bisogno
di più bhava (sentimento). mentre Duryodhana ha sempre lo stesso bhava. E' Krishna che
cambia di bhava a seconda dei momenti.
Quando Duryodhana dice che i Pāṇḍava non hanno nessun diritto e ordina di legarlo, Krishna
sorride in un modo particolare. Non è un sorriso di felicità, ma un sorriso di derisione. E'
molto sicuro che loro non riusciranno a legarlo. E' una velleità. Quando pensa così, sorride.
Niati valsala buri budita... (Affettuoso con i suoi parenti, dispensatore di ricchezze...). Mi
raccomando, non insegnare loro le banalità che gli attori fanno per attrarre il pubblico. Come
quando Krishna si mette a toccare Duryodhana come se fosse un bambino. Davanti a un
grande re bisogna sapere come comportarsi. Non si deve toccare o avere troppa confidenza.
Bisogna evitare queste cose. Se qualcuno chiede il motivo di un atteggiamento simile, non
sapremmo cosa rispondere. Se agisce così, Krishna non sarà rispettato. Anche tra re ci sono
certe regole che vanno rispettate. Non dobbiamo dimenticarlo. Il bhava (sentimento) e anche
il modo di esprimersi devono essere in un certo modo.
165
Basta.
Attenzione: qui ci sono due tipi di "tu". Duryodhana si rivolge a Krishna con una mano sola,
ma Krishna si rivolge a Duryodhana con le due mani. Per mostrare rispetto verso di lui.
Niati alla namukaho Yamajatanennu darikkia ni. (Devi capire che il figlio di Yama non è mio
parente.)
Pati rajyamadinnu Yadhava Pandavarku kodutida. (No Krishna, non darò metà del regno ai
Pāṇḍava.)
Chanjalattuamadilla mamaka nenjagathai Madhava. (La mia mente non vacilla, Krishna.)
Non c'è bisogno di fare il mudrā di "quelli". Basta fare "dare cinque villaggi". Che Cos'è? E' il
mudrā di "quelli"?
J: Si.
P: Facciamo invece "a loro". No! Invece facciamo così: "tu a loro". Così: (mudrā: “tu” e
”loro”). E' un nuovo gesto.
... panja gehamadengilum nrpa Pandavarku kodukanam.
(... dai almeno cinque case ai
Pāṇḍava, oh re.)
169
Da fuori: Nonno...
P: Si. Ah! Entrate pure. Accomodatevi.
Ospite: Aspettiamo che finiscano.
P: Burivikrama varide...
(Potentissima come l'oceano...)
(a John) Loro sono di Njangattiri. (all’ospite) Questo è John.
Ospite: Si, lo so.
P: Burivikrama varide bahu saramanassa ninnude. (Potentissima come l'oceano è la tua
enorme mente).
Dunque, "Suci..." Allora, l'odio, la rabbia che Duryodhana ha dentro sta aumentando. Però lui
non può usare parole troppo pesanti con Krishna. Perciò bisogna far vedere quello che prova
dentro solo con l’espressione dei bhava (sentimenti).
Suci kuttuvadinnu minnavakasami. ((Neanche) il diritto di puntare un ago...)
Adesso ti sposti e ti siedi e... Devi dirti quello "aha!" dentro. (a Beppe che si è alzato) Riposati
un po'. Anch'io mi muovo un attimo. Anche per me è difficile.
J: Due minuti.
P: Arrivo subito. (esce)
(continuazione) Adesso Krishna si sposta indietro e guarda bene Duryodhana.
Quando senti questo, fai così: "Che disgrazia!" Fai così... e Gesti di disgustoz
poi così. Da qui... a qui.
Poi guarda così e... Bene, bene. Mudrā: bello
Chittram...
Il bello...
Bisogna muovere il corpo verso i due lati. Uno... Con la
mano destra. Due... tre... Quando dice "bello" fa un sorriso
ironico.
J: E' un sorriso come un insulto.
P: Qui bisogna essere un po' "hasya" (ironico). Così.
Chittramattra Vijitra
Il bello qui è che tuo Mudrā: qui
(padre)
Veeryajanalla ninnude...
non è figlio di Vijitra
Veerya...
... Vijitra Veeryajan...
... figlio di Vijitra Veerya... Mudrā: figlio
... alla...
... no... Mudrā: no
...ninnude tadanum.
... tuo padre. Mudrā: tu
Adesso ha cambiato il modo di rivolgersi a lui.
Non più così:
tu (con due mani)
Adesso: ... ninnude...
... tuo...
tu! (con una mano
sola,
puntando il
Da questo lato. Devi fare da questo lato. Ah! Parla a
dito)
Duryodhana. Allora da questa parte.
... tadanum.
... padre. Mudrā:
padre
Attra ni...
Qui, tu... Mudrā: qui
tu!
.... vidhavatmajiannude...
... di figlio di vedova. Mudrā:
vedova
Questo bisogna tenere così.
.... atmajiannude...
... figlio di... Mudrā:
figlio
... putran...
... figlio. Mudrā:
bambino
... ennu...
... così... Mudrā:
dnque
... dharikkanam.
... devi capire. Mudrā: capire
tu
Quando ha detto così... Duryodhana non si aspettava di sentire una cosa del genere detta da
Krishna. Davanti a tutti... Non riesce a sopportare l'idea di essere contraddetto così. E’ fuori di
sè. E così arriva al punto di chiedere la corda per legarlo.
J: Duryodhana non aspettava questa reazione di Krishna.
P; Non ha mai pensato che Krishna potesse parlare così. Immaginava che Krishna avrebbe
risposto tranquillamente.
176
Pasamingdhu konduva yathuparsane kettuvan (Portatemi qui una corda per legare Krishna)
Loro devono poter vedere questo in scena. Devono avere il personaggio dentro. Devono
ripeterlo tante volte in modo che venga loro naturale. Questo è importante. Non solo imparare
la struttura. Così è l'insegnamento. Se spieghiamo bene le storie avranno in mente la
differenza tra Krishna e Duryodhana. Questa consapevolezza deve crescere.
177
Molti attori, quando fanno questa scena, commettono certi errori, ma voi non li dovete
imitare. Certi "Krishna" vanno da Duryodhana dicendo: "Dai, solo un paesino a loro,
poverini." C'è un tipo di abhinaya che si chiama lokadharmī. Questi “Krishna” agiscono così,
ma qui non lo dobbiamo fare. Perché occorre pensare a chi è Krishna e chi è Duryodhana. Se
abbiamo questa consapevolezza non lo facciamo.
J: Se sai chi è Krishna e chi è Duryodhana non puoi agire in modo lokadharmī.
P: Immagina di essere in una conferenza di ministri. Se a qualcuno di loro qualcosa non va lui
lo dice, però in un modo rispettoso e serio. Nessuno si comporterà "da amico", vero? Anche
qui è uguale. Allora non dovete fare così. Questi attori, quando fanno la scena della corda
agiscono come i ragazzi che badano le mucche. Non dobbiamo agire così. Bisogna avere una
certa serietà. Ho visto il Krishna di Kunju Nair tanti anni fa. Lo faceva con una tale
eleganza... Era così bello! Lo faceva con molta dignità. Ho pensato: "Quanto è bravo!" Come
dicevo: quando vedrete quei "Krishna" e quei "Duryodhana" in scena non dovete lasciare che
entrino nella vostra mente.
J: Potete vedere diversi tipi di "Krishna", ma...
P: Lo fanno per piacere alla gente. Non lo dobbiamo approvare.
J: La gente normale applaudirà, ma non è giusto.
P: Così abbiamo finito il nostro lavoro? In queste faccende c'è molta inimicizia, molto odio...
I torti fatti ai Pāṇḍava, Krishna se li asssume. Perché Krishna è il loro unico parente. Ma lui
nasconde tutte queste cose dentro, e sorride.
Tutti quelli che erano li in assemblea hanno tirato un respiro di sollievo quando alla fine
Krishna ha preteso metà del regno. Possiamo immaginare la scena.
J: Finiamo adesso?
P: Adesso devo uscire anch'io.
J: Possiamo fermarci qui.
P: La gamba si è ripresa? Ah, il corpo...
GLOSSARIO
La scrittura dei nomi orientali con caratteri occidentali è un problema molto complicato. Non
si trova nei differenti autori una logica comune per la trascrizione delle lettere. Ho cercato di
mantenere un’uniformità ortografica per ogni parola, scegliendo la versione che mi appariva
più autorevole; in questo caso però ho rispettato il manoscritto originale.
abhinaya
Parola sanscrita che definisce il lavoro dell’attore, formata dal prefisso abhi (in direzione di) e
dalla radice ni (portare). Normalmente si traduce la parola abhinaya come “recitazione”,
“lavoro dell’attore”, il che è sostanzialmente giusto. Bisogna però fare una distinzione: nel
Nāṭyaśāstra* l’abhinaya comprende i mezzi espressivi usati dall’attore per portare il senso
dell’opera teatrale allo spettatore. Utilizzandoli l’attore diventa uno strumento, uno degli
“ingranaggi” della macchina scenica. Lavorando insieme ai musicisti, l’attore utilizza
l’abhinaya* per portare le parole del testo e la musica al loro pieno compimento come drsya
kavya* (visibile poesia), trasmettendo allo spettatore i bhava che lo porteranno all’esperienza
del rasa*. L’abhinaya è diviso in quattro sezioni:
āṅgika abhinaya
I movimenti corporei. E’ la parte più ampia dell’abhinaya, perché il corpo è il principale
mezzo espressivo dell’attore indiano. Nel Nāṭyaśāstra*, l’abhinaya del corpo (anga) si
divide in tre parti: 1) il movimento delle parti del corpo (testa, mani, busto, bacino,
fianchi e piedi); 2) le espressioni del viso (occhi, sopracciglia, palpebre, naso, labbra,
guance e mento); 3) le azioni e movimenti che coinvolgono tutto il corpo insieme.
Vengono descritti in dettaglio i movimenti di ognuna delle parti delle prime due sezioni
(ed ulteriori suddivisioni delle stesse) e il sentimento che ognuno di questi movimenti
deve esprimere. Inoltre, in rapporto alla terza sezione vengono descritti diversi tipi di
posizioni (cari), le loro combinazioni in movimenti (mandala) e una lunga serie di
camminate per diversi tipi di personaggi in differenti situazioni.
vācika abhinaya
L’uso della voce. Concerne non soltanto la corretta pronuncia delle parole, le
modulazioni della voce, il canto, gli accenti ed il ritmo, ma si riferisce anche al
linguaggio, adeguato ad ogni personaggio in accordo con il suo rango sociale e con
quello del personaggio al quale egli si rivolge.
āhārya abhinaya
Si occupa dei costumi, degli ornamenti, del trucco e di tutte le cose esteriori che servono
all’attore per caratterizzare il suo personaggio o l’ambiente che lo circonda. Seguendone
i precetti, possono essere suggerite diverse caratteristiche dei personaggi: dal sesso
all’età, dalla razza alla classe sociale, dal carattere allo stato d’animo. Alcuni personaggi
possono essere identificati dagli oggetti che portano con sé (Krishna porta il flauto,
Arjuna l’arco, Bhīma la mazza, ecc.).
sāttvika abhinaya
Gli stati psichici. Il sāttvika abhinaya è forse il più importante e il più difficile da
definire. Sattva significa letteralmente “prodotto dalla mente” (RANGACHARYA
(trad.) 2003 : 76), ma allo stesso tempo è qualcosa che “appartiene al corpo” (Ibidem :
185). Il sāttvika abhinaya viene usato per esprimere i sāttvika bhava, che sono
involontari e perciò non possono essere affrontati per via diretta, ma sorgono quando la
mente è specialmente concentrata. Naturalmente il sāttvika abhinaya non può che
manifestarsi nel corpo (tramite lievi alterazioni nella voce, nel respiro, nei gesti ed
180
espressioni facciali o in azioni più evidenti come il pianto), ma possiede qualcosa che
sfugge all’āṅgika abhinaya* perché non può essere lavorato tecnicamente, ma deve
manifestarsi spontaneamente.
Abhinaya Darpaṇa
Piccolo trattato che disquisisce su alcuni temi del Nāṭyaśāstra* scritto probabilmente fra
l’inizio del IX e la fine del XII secolo d.C. L’autore del testo si chiama Nandikeśvara, ma è
con tutta probabilità una figura mitica.
adbhuta
“Meraviglia” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
āhārya abhinaya
Vedi abhinaya.
āṅgika abhinaya
Vedi abhinaya.
anubhāva
Vedi bhāva.
arangettam (araṅṅēṫṫam)
Nel Kerala, il debutto in una arte scenica, la prima volta che un giovane sale sul palco.
ashtakalasam (aṣṭakalāśam)
Kalasam* usato per esprimere la gioia.
attakkatha (āṭṭakkatha)
Parola composta da attam* (danza, azione teatrale) e katha (storia). E’ il termine che designa
il testo letterario degli spettacoli di Kathakali, scritto in versi e musicato. Le lingue utilizzate
sono il sanscrito e il manipravalam*, e in alcuni casi il malayalam. Le parti narrative si
chiamano sloka* e i dialoghi o soliloqui, padam*.
attaprakaram (āṭṭaprākaram)
Manuale d’attore nel Kutiyattam, scritto in malayalam, che descrive le azioni che gli attori
devono compiere per esprimere le parole del testo di un determinato dramma sanscrito sulla
scena. Gli attaprakaram più antichi sono scritti in foglie di palma e custoditi presso le
famiglie Chakyar e Nambiar da molte generazioni.
Bhāgavata Purāṇa
Il più popolare dei Purāṇa, che descrive tutte le dieci incarnazioni (avatāra) di Viṣṇu. I
Purāṇa sono testi antichi (purā = antico) che descrivono la cosmogonia, le storie e la
genealogia degli dèi, dei saggi e dei re. Sono la base del pensiero sociale, culturale, politico e
religioso indiano e anche la principale fonte dalla quale attingono le arti tradizionali
dell’India.
bhāva
Per portare lo spettatore alla esperienza del rasa*, il naṭa* deve esprimere una particolare
combinazione di diversi tipi di bhāva, o sentimenti, rappresentati tramite azioni concrete. Il
181
rasa nasce nello spettatore tramite l’azione dell’attore nell’espressione combinata dei
vibhāva* e degli anubhāva* con i trentatre vyabhicārī bhāva* (chiamati anche sāñcarī
bhāva*) e gli otto sāttvika bhāva*, che ha come risultato uno degli otto sthayi bhava*.
anubhāva - Reazioni immediate del personaggio alle circostanze date. Azioni
volontarie eseguite con l’intenzione di trasmettere allo spettatore i sentimenti descritti
dal poeta attraverso le parole (e le intonazioni), i gesti e le espressioni facciali.
sāñcarī bhāva - Lo stesso che vyabhicārī bhāva*.
sāttvika bhāva - Manifestazioni esterne dello stato interiore del personaggio. Elementi
che non possono essere completamente dominati dalla volontà cosciente del naṭa*, ma
sono indispensabili per rendere la sua azione credibile. La loro rappresentazione esige
dall’attore il distacco dal suo io personale.
sthāyī bhāva - La combinazione dei diversi bhāva* sfocia nello sthāyi bhāva, il
“sentimento dominante”, che è “permanente” durante il corso della rappresentazione e
ha il compito di suscitare un rasa* preciso nello spettatore.
vibhāva - Il “sentimento determinante” o lo “stimolo”, che sorge nel naṭa* a partire
dalla comprensione della situazione narrata dal testo e dallo stato d’animo determinato
dalla musica. Le motivazioni e le circostanze date che spingono all’azione.
vyabhicārī bhāva - “Sentimenti transitori” legati a un momento dell’azione. Permettono
di esprimere lo sthāyi bhāva* con più intensità, portando un elemento di imprevedibilità
e una maggiore complessità all’azione.
bhaya
“Paura” - uno degli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
bhayānaka
“Terrore” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
bībhatsa
“Ripulsione” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
chenda (ceṇṭa)
Tamburo verticale cilindrico a due pelli e suonato con due bastoni ricurvi di legno (oppure
con un bastone e la mano), usato nell’accompagnamento degli spettacoli di Kathakali.
chenkala (ceṅṅila)
Disco di metallo percosso da un bastone di legno, suonato dal primo cantante (ponnani*)
nella orchestra di quattro musicisti che accompagna gli spettacoli di Kathakali.
cholliyattom (colliyāṭṭom)
Letteralmente “recitare”, “danzare”. Così che viene chiamata la lezione che riunisce gli
allievi-attori e gli allievi-musicisti attorno all’apprendistato delle storie nel Kathakali. Il
cholliyattom è la lezione più importante, dove convergono tutti gli insegnamenti delle altre
lezioni, poiché in quest’occasione le storie (e anche il purappad* e il todayam*) sono eseguite
come in una sorta di prova.
chutti (cuṭṭi)
Linea divisoria fatta di pasta di riso bianca e carta che incornicia la faccia di certi caratteri.
182
chuvanna taadi
Vedi taadi.
corpo-orchestra
Vescovi definisce l’attore orientale come un “attore lirico”, che organizza la sua arte del
movimento secondo la tecnica contrappuntistica o concertante del corpo-orchestra. Ciò che
forse meglio di altri paralleli può illustrare la nozione di corpo-orchestra è una sua possibile
analogia con l’organizzazione poetica del linguaggio. Con riferimento alla celebre definizione
di Jakobson del linguaggio poetico come consapevolezza delle proprie caratteristiche formali
(e particolarmente ritmiche e fonosimboliche), l’attore lirico potenzia la capacità di
organizzare l’energia danzante del proprio corpo consegnandola allo spettatore attraverso la
rifinitura di differenti livelli di elaborazione delle diverse parti in gioco simultaneo.
Concretamente questo avviene tramite l’individuazione di segmenti del corpo, a partire dalle
sue unità minime, in vista di una strutturazione progressiva secondo una sorta di
dinamizzazione artistica della doppia articolazione (dai fonemi alla parola al discorso).
dṛśya kāvya
“Visibile poesia”. Un tipo di composizione poetica che non può essere fruita tramite la lettura,
ma soltanto nella scena. Con questo termine viene definito il nāṭya* nel Nāṭyaśāstra*.
dothi
Costume tradizionale degli uomini in India: un lungo tessuto di cottone avvolto alla vita.
Gītagovinda
Poema lirico-drammatico scritto dal bengalese Jayadeva nel XII secolo e incentrato sulle
vicende amorose di Kṛṣṇa e la pastorella Rādhā. Primaria fonte di ispirazione religiosa nel
visnuismo medioevale e contemporaneo, ha ispirato molte forme di teatro e di danza in tutta
l’India.
green-room
La stanza dove avviene il trucco e la vestizione degli attori negli spettacoli di Kathakali, in
genere localizzata dietro il palcoscenico.
guru
“Gu” significa “oscurità” e “ru” è colui che disperde, dunque il guru è il maestro che porta
l’allievo alla luce della conoscenza.
guru-dakṣiṇa
Il dono fatto al guru* e di conseguenza la cerimonia di inizio delle lezioni, dove l’allievo deve
fare un dono rituale al guru.
gurukula
“Kula” significa “casa” o “famiglia”. Nel gurukula il genitore consegna il proprio figlio al
maestro, che ne diventa responsabile. Il bambino si trasferisce alla casa del maestro affinché
questi gli insegni la sua arte. In cambio lui diventa il suo servo, lo segue dappertutto e lo aiuta
nelle faccende.
guru-śiṣya
Rapporto maestro/allievo nel metodo tradizionale d’apprendistato indiano.
183
hāsa
“Riso” - uno degli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
hasta
Le forme di teatro-danza tradizionale in India si sono servite della gestualità del rituale
tantrico per creare un linguaggio di gesti codificati analogo al linguaggio verbale. Questi gesti
rituali, chiamati mudrā*, nelle arti sceniche vengono spogliati dell’efficacia rituale, e sono
designati come hasta (mani). Nel linguaggio colloquiale, però, vengono spesso, e
impropriamente, chiamati mudrā, anche dagli addetti ai lavori.
Hastalakṣaṇadīpika
Manuale anonimo (scritto in sanscrito ma con caratteri malayali) che serve come base per il
linguaggio gestuale di diverse forme spettacolari del Kerala
hāsya
“Comicità” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
ilakiyattam (iḷakiyāṭṭam)
Interpolazioni di “testo performativo” create dagli attori Kathakali, che servono come
complemento o commento ai padam*. Negli ilakiyattam non vi è canto, ma l’attore “parla”
con gli hasta* ed esegue delle azioni, accompagnato dal ritmo dei tamburi.
ilattalam (ilattāḷam)
Due piccoli cembali di metallo, suonati dal secondo cantante (sankidi*) della orchestra di
quattro musicisti che accompagna gli spettacoli di Kathakali.
jugupsā
“Disgusto” - uno degli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
kalari (kaḷari)
Palestra, scuola, luogo di riunione, ma anche tempio familiare delle famiglie Nayar. Così
viene chiamato il luogo d’allenamento nel Kathakali. I kalari indù tradizionali, erano allo
stesso tempo luoghi d’allenamento e templi dove venivano adorate le divinità che
proteggevano i suoi membri e conferivano loro i poteri necessari per vincere il nemico.
kalasam (kalāśam)
Pezzi di danza pura che intramezzano le strofe dei padam* nelle performance di Kathakali. I
nove diversi tipi di kalasam sono eseguiti con dei tala (ritmi) specifici d’accordo con il rasa
della scena che questi hanno lo scopo di esaltare.
kalivilakku
Grande lampada ad olio che resta accesa davanti al palco durante tutto lo spettacolo di
Kathakali. Le sue due fiamme simboleggiano il sole e la luna. Fino alla prima metà del
Novecento l’unica illuminazione negli spettacoli di Kathakali.
kaliyogam (kaḷiyōgam)
Troupe d’attori Kathakali, normalmente legati a un tempio, alla corte di un rajah, a una mana
(casata Nambudiri) o ad una taravu (casata Nayar). Fino ai primi anni del Novecento era nei
kaliyogam che si svolgeva la pratica e l’insegnamento del Kathakali.
Mana, casata Namudiri del Kerala centrale. Uno dei due stili più importanti, che hanno
lanciato le linee maestre che risalgono fino ai nostri giorni.
kannusadhakam (kaṇṇusādhakam)
Esercizi (sadhakam) per gli occhi (kannu) nel Kathakali.
karaṇa
Cento otto pose di danza con movimenti sincronizzati delle mani e dei piedi descritte nel
Nāṭyaśāstra* e scolpite in alcuni tempi indiani, come il tempio di Chidambaram, nel Tamil
Nadu e il tempio di Konarak, in Orissa. Si parla dei karaṇa come le basi originali di tutti i
movimenti della danza orientale. Un karaṇa implica un particolare assetto del corpo, una
particolare posizione dei piedi, delle gambe, una particolare forma delle mani.
kari (kari)
“Nero”: uno dei sette tipi di caratterizzazione dei personaggi nel Kathakali, che serve per
rappresentare esseri primitivi, personaggi grotteschi, legati alla foresta, col trucco
prevalentemente nero. Si dividono in maschili - personaggi rozzi come il cacciatore Kirata,
hanno la barba nera (e per questo sono anche chiamati karutta taadi - barba nera) - e
femminili - demonesse che hanno dei grossi seni di legno.
karuṇa
“Pathos” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
katti (katti)
“Coltello”: uno dei sette tipi di caratterizzazione dei personaggi nel Kathakali. I katti hanno
baffi rossi a forma di coltello, disegnati sullo sfondo verde. Il contrasto fra questi due colori
simboleggia l’ambiguità di questi personaggi, arroganti e malvagi, ma con delle qualità nobili
come il coraggio.
kelikottu (kēḷikoṭṭu)
Concerto di tamburi fatto per annunciare lo spettacolo di Kathakali.
koppu (kōppu)
In malayalam, i costumi e gli ornamenti.
kramadipika (kramadīpika)
Manuale d’attore nel Kutiyattam, scritto in malayalam, con note che fornisco informazioni
non esplicite nel testo, ma che gli attori devono avere in mente mentre lo eseguono, e
includono dettagli pratici del trucco, il modo di entrare in scena, ecc. I più antichi
kramadipika sono scritti in foglie di palma e custoditi presso le famiglie Chakyar e Nambiar
da molte generazioni.
185
krodha
“Rabbia” - uno degli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
kumbiduka (kumbiduka)
Vedi namaskāra*
kuttampalam (kūttampalam)
Teatro sacro. Una delle cinque strutture (pañcaprasada) adiacenti ad un tempio tipico del
Kerala. Fino alla prima metà del Novecento, il Kutiyattam era praticato soltanto all’interno
del kuttampalam.
lokadharmī
Rappresentazione naturalistica. Secondo l’estetica indiana, questo tipo di comportamento
scenico è adeguato soltanto per rappresentare il quotidiano degli uomini semplici e viene
spesso associato a un’arte popolare o addirittura volgare.
maddalam (maddaḷam)
Tamburo orizzontale a forma di barile con due pelli e suonato con le mani (la mano destra ha
degli anelli rigidi in tutte le ditta), usato nell’accompagnamento degli spettacoli di Kathakali.
Mahābhārata
Uno dei due grandi poemi epici indiani, che narra le dispute fra i fratelli Pāṇḍava e Kaurava
fino alla vittoria finale dei Pāṇḍava nella grande battaglia di Kurukṣetra. La tradizione
attribuisce la sua origine al saggio Vyāsa, che lo avrebbe dettato al dio Gaṇeśa. In realtà non è
possibile riferire un autore o una data precisa per la sua scrittura, ma si crede che la sua forma
attuale si sia consolidata verso il IV secolo D.C.
manipravalam (mānipṟavāḷam)
Letteralmente “perla e corallo”, è un linguaggio letterario che mischia il sanscrito al
malayalam, utilizzato nella poesia “classica” del Kerala, e di conseguenza nei testi
(attakkatha*) del Kathakali.
mantra
Vedi mudrā.
melappadam (mēḷappadam)
Momento di performance musicale che avviene dopo il purappad*. Fa parte dei preliminari di
uno spettacolo di Kathakali e offre ai musicisti l’opportunità di sfoggiare la loro bravura.
meysadhakam (meysādhakam)
Esercizi (sadhakam) per il corpo (meyyu) nel Kathakali.
meyyurappadavu (meyyuṛapaṭavu)
Letteralmente “il metodo per rafforzare il corpo”. Lo stesso che meysadhakam*.
minukku (minukku)
“Brillante”: dei sette tipi di caratterizzazione dei personaggi nel Kathakali, è la
caratterizzazione più vicina al naturalismo. Può rappresentare personaggi maschili - bramini,
saggi o servitori, o femminili (chiamati anche stri vesham) - eroine, giovani donne e anche le
Lalita (demonesse kari in magico travestimento).
mudrā
Il culto tantrico utilizza tecniche di concentrazione rituale e d’interazione col mondo divino
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basate su gesti rituali chiamati mudrā (sigillo, firma) e su parole chiamate mantra (inno,
invocazione, sortilegio). Si crede che i mudrā e i mantra, se eseguiti correttamente abbiano
una efficacia in se stessi e dunque siano capaci di incidere sulla realtà. (vedi hasta)
namaskāra
Gli indu si salutano normalmente unendo le mani e chinando leggermente il corpo in avanti.
Questo saluto si chiama namaskāra e salutando si dice “namaste” (namas = chinarsi,
ubbidire, rendere omaggio; te = tu). Fra pari le mani unite vanno messe all’altezza del cuore,
se si saluta qualcuno che merita molto rispetto le mani vanno messe davanti alla fronte;
mettendo le mani sopra la testa si salutano gli Dei. Nel teatro-danza indiano il namaskāra
elaborato in forma artistica diventa una piccola danza con lo stesso significato. Il namaskāra
o kumbiduka (chinarsi in malayalam) è la prima cosa che un allievo di Kathakali vesham
impara nella sua prima lezione.
naṭa
Attore/danzatore nel del teatro sanscrito.
nāṭya
Termine comunemente tradotto come “arte del teatro”, ma che sarebbe più correttamente
“l’arte del teatro che danza”, poiché non solo deriva dalla radice sanscrita nṛt che ha
l’inequivocabile significato di danza, ma designa una realtà molto più avvicinabile al teatro
danzato che non a quello parlato.
nāṭyadharmī
Rappresentazione convenzionale, dove tutte le azioni sono codificate e hanno un simbolismo
preciso. Questo tipo di comportamento scenico è quello adeguato per rappresentare gli déi e
gli eroi sulla scena.
Nāṭyaśāstra
Antico trattato sul teatro sanscrito, la cui scrittura è attribuita al mitico Bharata Muni, ancora
oggi un riferimento fondamentale per la cultura scenica indiana e di conseguenza per buona
parte dell’Asia, che riconosce l’India come fonte ancestrale della sua cultura teatrale. Nel
Nāṭyaśāstra vengono descritti puntigliosamente tutti i minimi dettagli che riguardano l’arte
del teatro sanscrito.
navarasa
Secondo il Nāṭyaśāstra*, gli otto sthāyi bhāva* e gli otto rasa* sono in stretta connessione:
sthāyi bhāva
rasa
rati (amore)
śṛṅgāra (erotismo)
hāsa (riso)
hāsya (comicità)
śoka (tristezza)
karuṇa (pathos)
krodha (rabbia)
raudra (furia)
utsāha (fortezza)
vīra (eroismo)
bhaya (paura)
bhayānaka (terrore)
jugupsā (disgusto)
bībhatsa (ripulsione)
vismaya (stupore)
adbhuta (meraviglia)
Abhinavagupta, un commentatore del Nāṭyaśāstra, aggiunse nel secolo X un nono rasa: śānta
(pace, beatitudine), che non corrisponderebbe a nessuno sthāyi bhāva in particolare, ma
sarebbe il punto d’equilibrio fra tutti i bhāva*. Con l’aggiunta di questo rasa, la tradizione
indiana lavora su nove sentimenti fondamentali, i navarasa.
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nṛtta
Danza pura, senza contenuto narrativo, che non esprime nessun bhāva* in particolare. Una
delle due categorie nelle quali il nāṭya* viene diviso nell’Abhinaya Darpaṇa*.
nṛtya
Danza espressiva, che racconta una storia ed esprime un particolare stato d’animo Una delle
due categorie nelle quali il nāṭya* viene diviso nell’Abhinaya Darpaṇa*.
paccha (pacca)
“Verde”: uno dei sette tipi di caratterizzazione dei personaggi nel Kathakali, che serve per
rappresentare i re, eroi o dèi. Il colore verde, che simboleggia il coraggio e la nobiltà,
predomina sulla faccia, incorniciato dal bianco del chutti*. In testa la kirita, una corona dorata
(Kṛṣṇa ha lo stesso trucco, ma usa una corona argentata adornata con piume di pavone
chiamata muti).
padam (padam)
Dialoghi o i soliloqui cantati dai cantanti e accompagnati dai musicisti seguendo un
particolare rāga* e un determinato tala*, mentre sono interpretati dagli attori con gli hasta*.
Insieme agli sloka* costituiscono il testo (attakkatha*) di una storia nel Kathakali.
pakarnattam (pakaṛnāṭṭam)
Deriva dall’unione del verbo pakaruka – che significa “cambiare dall’uno all’altro, spostarsi,
cambiare sentimento o stato d’animo” (anche “trasmettere una malattia”) – con la parola
attam – azione teatrale, danza. Tramite questa tecnica, che è in realtà una convenzione
narrativa, il personaggio che l’attore sta rappresentando può a sua volta immedesimarsi in altri
personaggi che sta osservando o evocando, assumendo un ruolo di attore/narratore, sia nei
confronti del pubblico che eventualmente degli altri personaggi in scena.
pattu (pattu)
Canto in malayalam.
payuppu (paḻuppu)
“Maturo”: - uno dei sette tipi di caratterizzazione dei personaggi nel Kathakali, con un trucco
molto simile al paccha, ma al posto del verde, l’arancione. Usato per rappresentare 4 divinità:
Brahmā, Śiva, Sūrya e Balarāma.
ponnani (ponnāni)
Primo cantante della orchestra di quattro musicisti che accompagna gli spettacoli di Kathakali.
purappad (puṛappātu)
Il purappad (letteralmente “andare avanti”) è la danza introduttiva degli spettacoli di
Kathakali. Normalmente viene danzato da una o due coppie di attori (in genere studenti). E’
l’unica intera coreografia di sola danza pura che viene oggi eseguita in uno spettacolo di
Kathakali. lo spettacolo può iniziare con il purappad, che vuol dire e rappresenta il
dispiegarsi della vita sulla terra.
rāga
Modo musicale nella musica tradizionale indiana. Anche se le note sono importanti in un
rāga, esso non si riassume ad una scala musicale. Possiamo definirlo come una serie di regole
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per costruire una melodia. Ci sono regole per scendere e per salire la scala e le note al suo
interno hanno diverse funzioni e caratteristiche. Esistono frasi musicali da ripetere o da
evitare. Seguendo queste regole, il musicista può comporre o improvvisare infinite variazioni.
La scala musicale usata in un rāga può avere cinque, sei o sette note. Ogni rāga esprime un
particolare sentimento o stato d’animo.
Rāmāyana
Uno dei due grandi poemi epici indiani, che si ritiene scritto attorno nel V secolo a.C. dal
saggio Valkimi ed è considerato la più antica opera della letteratura sanscrita. Narra le gesta di
Rāma, la settima incarnazione (avatara) di Viṣṇu.
rasa
Significa letteralmente “sapore” e designa nel Nāṭyaśāstra* il sentimento estetico sperimentato dallo
spettatore. Propiziare l’esperienza di un determinato rasa allo spettatore è lo scopo del nāṭya*.
rasika
Lo stesso che sahrdayan*.
rati
“Amore” - uno degli otto gli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
raudra
“Furia” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
sahrdayan
Lo “spettatore ideale”, che deve avere una solida preparazione per essere in grado di capire la
simbologia delle azioni e le raffinatezze del linguaggio poetico, ma soltanto la preparazione
intellettuale non basta; allo spettatore ideale viene anche richiesta sensibilità.
sampradayam (sampradāyam)
Stile, tradizione d’insegnamento, linea di trasmissione maestro-allievo.
sāñcarī bhāva
Vedi bhāva.
sankidi (sankidi)
Secondo cantante della orchestra di quattro musicisti che accompagna gli spettacoli di Kathakali.
śānta
“Pace, beatitudine” - il nono rasa*. (vedi navarasa)
sāttvika abhinaya
Vedi abhinaya.
sāttvika bhāva
Vedi bhāva.
sitting class
Una delle lezioni della scuola di Kathakali dove, come si può dedurre dal nome, gli allievi
lavorano seduti. L’attività fondamentale della sitting class è la recitazione delle storie del
repertorio, concentrando il lavoro sui gesti, movimenti del tronco ed espressioni del volto e
degli occhi, senza nessun accompagnamento musicale.
189
sloka
Le parti narrative del testo (attakkatha*) nel Kathakali, normalmente scritte in sanscrito e in terza
persona. Sono interpretate dai cantanti con una melodia che segue un determinato rāga*, ma non
rispetta nessun tala*, ovvero sono cantate “fuori tempo”, senza accompagnamento musicale. In
genere servono come introduzione alle scene e non vengono interpretate dagli attori.
śoka
“Tristezza” - uno degli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
śṛṅgāra
“Erotismo” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
sthāyi bhāva
Vedi bhāva.
taadi (tāḍi)
“Barba”: uno dei sette tipi di caratterizzazione dei personaggi nel Kathakali, la cui principale
caratteristica è una barba stilizzata attorno al collo. A seconda del colore della barba, i taadi sono:
vella taadi (veḷḷa tāḍi)
“Barba bianca”: rappresenta esseri divini e superiori come Hanūmān, Vivida e
Nadikeswara. Questi diversi personaggi hanno i trucchi simili, ma non uguali.
chuvanna taadi (cuvanna tāḍi)
“Barba rossa”: Il rosso predomina nel trucco di questi personaggi, cattivi e volgari,
simboleggiando la loro malvagità. Hanno una corona simile a quella dei paccha, ma
molto più grossa.
tala
Pattern che determina la struttura ritmica di una composizione nella musica tradizionale indiana.
teppu (tēppu)
“Speciale”: trucchi particolari che servono per rappresentare una ventina di personaggi che
non rientrano nella tipologia dei sette tipi di caratterizzazione del Kathakali (due esempi:
Narasiṁha - l’uomo/leone - uno degli avatāra di Viṣṇu e Haṁsa, il cigno divino).
tiranokku (tiranōkku)
Letteralmente lo “sguardo dal tirasila*”, viene eseguito nella prima apparizione di certi
personaggi (i taadi*, i kari*, i katti*). Nel tiranokku le sembianze del personaggio si rivelano
a poco a poco: si sentono suoni di passi e urla da dietro il tirasila, si vedono dapprima
soltanto le sue mani, una di esse con lunghe unghie d’argento, in seguito l’attore abbassa di
colpo il tirasila e si mostra soltanto per un secondo. Il tiranokku si conclude con il lentissimo
abbassamento del tirasila fino all’altezza della vita, tenuto con le due mani dall’attore.
tirasila (tiraśśīla)
Cortina colorata che negli spettacoli di Kathakali viene alzata da due inservienti fra gli attori e
il pubblico, usata per segnalare la fine di una scena e l’inizio di un’altra.
todayam (tōṭayam)
Secondo la tradizione, uno spettacolo di Kathakali doveva essere aperto da una danza
devozionale chiamata todayam, che veniva eseguita sul palco, ma al pubblico non era
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permesso di vederlo: quando gli attori entravano in scena due inservienti stendevano il tirasila*
fra gli attori e il pubblico. La coppia di danzatori che esegue il todayam rappresenta due divinità
femminili: Māyā e Śakti, rispettivamente l’illusione e l’energia primaria o il potere creativo. La
danza è līla, il gioco infinito delle forze cosmiche, ed è nascosta agli spettatori perché queste
forze lavorano aldilà della percezione umana. Oggigiorno questa danza non viene più eseguita
durante gli spettacoli, ma è tuttora insegnata nelle scuole di Kathakali per il suo valore
formativo: la sua coreografia prevede l’utilizzo di tutti i ritmi usati nel Kathakali.
utsāha
“Fortezza” - uno degli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
uzhicchil (uḷiccal)
Massaggi che servono per dare flessibilità al corpo, applicati agli studenti di Kathakali tutti gli anni
durante la stagione dei monsoni. In questi massaggi, provenienti delle arti marziali (Kalarippayattu) e
dalla medicina ayurvedica, il corpo viene cosparso di olio e massaggiato dai piedi dell’insegnante o
del suo assistente (soltanto il viso viene massaggiato con le mani), che controlla la pressione che
esercita sull’allievo con l’ausilio di una corda appesa al soffitto o di una sbarra orizzontale.
vācika abhinaya
Vedi abhinaya.
vayttari (vāyttāri)
Nel Kathakali, sillabe senza significato che servono per memorizzare il ritmo dei passi.
vella taadi
Vedi taadi.
vesham (vēṣam)
Nel Kerala, il ruolo che un attore rappresenta o la caratterizzazione che usa per incarnare un
personaggio.
vibhāva
Vedi bhāva.
Vidūṣaka
Nel Nāṭyaśāstra* viene descritto come un giullare. Nel Kutiyattam è un personaggio che
accompagna l’eroe come suo amico, facendo da contrappunto comico all’azione, ha la
funzione di interpretare il senso della storia per gli spettatori non iniziati alle sottigliezze della
filosofia e della poesia sanscrita: è di fatti l’unico a parlare in malayalam, criticando,
rimproverando e prendendo in giro sia l’eroe che tutti i personaggi, ma anche il pubblico
stesso. Non dobbiamo però pensare ad un personaggio rozzo, ma piuttosto ad un fine
intellettuale pieno d’ironia. Nel Chakyar Kuttu il Vidūṣaka recita le poesie narrative sanscrite
e successivamente le spiega in malayalam in una specie di “lezione” improvvisata dove non
mancano mai la satira, l’ironia e il riferimento ai temi dell’attualità.
vīra
“Eroismo” - uno degli otto rasa*. (vedi navarasa)
vismaya
“Stupore” - uno degli otto sthāyi bhāva*. (vedi navarasa)
vyabhicārī bhāva
Vedi bhāva.
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