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MINISTERO DELL’ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA

ALTA FORMAZIONE ARTISTICA E MUSICALE


CONSERVATORIO DI MUSICA “BRUNO MADERNA”
CESENA

DIPLOMA ACCADEMICO DI II LIVELLO


DISCIPLINE MUSICALI
VIOLINO BAROCCO

“In maniera tale da sembrare un affettuoso discorso”


L’APPROCCIO METODOLOGICO ALLO STUDIO
DEL VIOLINO BAROCCO E LE SUE APPLICAZIONI DIDATTICHE

ANNO ACCADEMICO 2016/2017


SESSIONE STRAORDINARIA

CANDIDATO RELATORE
Andrea Mastacchi Prof.ssa Laura Pistolesi
Ella está en el horizonte.
Yo me acerco dos pasos y ella se aleja dos pasos.
Camino diez pasos y el horizonte se corre diez pasos más allá.
Por mucho que yo camine, nunca la alcanzaré.
¿Para que sirve la utopía? Para eso sirve, para caminar.

EDUARDO GALEANO, Las palabras andantes


PRESENTAZIONE

Questo lavoro nasce da una personale esigenza di trovare un punto di incontro tra lo studio della
prassi esecutiva antica e le abilità strumentali, apparentemente distanti, richieste dal gusto musicale
dei giorni nostri. La domanda chiave è: se gli strumenti e la tecnica si sono evoluti nel tempo per
migliorare le prestazioni e adeguarsi alle sempre più avanzate richieste da parte dei compositori,
perché mai dovremmo cercare risposte nel passato? Cosa ci possono insegnare i trattati, le stampe e
i manoscritti? Perché mai tornare al budello, con le problematiche che comporta, quando il mercato
offre modernissime e efficientissime corde sintetiche di ultima tecnologia?

Cercherò di dimostrare che le relazioni fra antico e modernità sono in realtà ben più strette di come
potrebbe sembrare: leggendo con attenzione i testi didattici più recenti, si può notare come alla base
di qualsiasi opera didattica ci siano caratteristiche comuni e trasversali a tutte le epoche. Si può dire,
in generale, che con il tempo ci si è discostati da una trattazione focalizzata sul linguaggio
musicale-espressivo per concentrarsi su una trattazione più sistematica delle questioni tecniche che,
in teoria, dovrebbero essere ‘al servizio’ di tale linguaggio. Ritengo tuttavia che sapere il ‘come’
dire una cosa a poco è utile, se non si ha chiaro il ‘cosa’ dire. Questa convinzione mi spinge ad
un’ulteriore riflessione, strettamente collegata alla pratica dell’esecuzione cosiddetta storicamente
informata. Coloro che si occupano di un linguaggio appartenente al passato, quanto realmente sono
liberi di interpretare? Come si può confidare in una interpretazione solo intuitiva (posto che
l’intuizione permette di realizzare grandi cose) di una musica lontana decenni o secoli? O quanto
invece si è prigionieri dei propri pregiudizi riguardo a tali stili, pregiudizi prodotti da costumi
interpretativi di esecutori più o meno lontani nel tempo?

La bibliografia su questi temi è ampia e interessante, merita di essere letta e meditata con
attenzione. Le fonti primarie a cui ho fatto riferimento includono principalmente:
- trattati antichi (sia sul violino che sulla teoria musicale)
- fonti manoscritte (lettere appunti)
- prefazioni o commenti a raccolte musicale originali.
Tra le fonti secondari, invece, troveremo le seguenti tipologie di documenti:
- testi sulla consapevolezza corporea, sulla storia del violino e sulla didattica
- testi sull’interpretazione e sulla prassi esecutiva della musica antica
- prefazioni o commenti a edizioni moderne di opere antiche

La mole dei possibili temi che potrebbero essere analizzati è tale che sarebbe necessario uno spazio
molto più ampio di questo lavoro. Per questa ragione, mi limiterò ad approfondire solo gli aspetti
che ritengo più rilevanti, concentrandomi in particolar modo sui principali trattati per violino e sul
ruolo della retorica nella musica barocca. Vorrei riuscire a creare connessioni tra idee e visioni
apparentemente lontane che, nell’atto pratico del suonare, possono apportare un nuovo punto di
vista interpretativo.

Alla luce di questa idea, ho diviso il lavoro in due parti. Nella prima, tratterò dunque dei principali
trattati per violino francesi, italiani e tedeschi, appartenenti al lasso di tempo che corrisponde ai
primi sessant’anni del secolo XVIII. Al tempo stesso, evidenzierò e introdurrò alcuni argomenti che
saranno oggetto di approfondimento nella seconda parte, dove saranno messi in relazione con le
problematiche del nostro tempo relative soprattutto allo studio del violino e all’interpretazione della
musica barocca.

3
INDICE

Presentazione .................................................................................................................................. 3

Parte prima
Lo studio del violino fra i secoli XVII e XVIII
L’allievo e il maestro nella scuola francese ..................................................................................... 6
L’allievo e il maestro nella scuola italiana ..................................................................................... 10
Geminiani vs Tartini ....................................................................................................................... 13
Suono e espressione........................................................................................................................ 17
In Germania: Quantz e Leopold Mozart......................................................................................... 20

Parte seconda
Il violino barocco e la didattica
Suonare dentro di sé ....................................................................................................................... 26
Retorica e interpretazione ............................................................................................................... 28
L’esecuzione in pubblico ................................................................................................................ 36
Il metodo di studio .......................................................................................................................... 41
La Tecnica Alexander e alcune questioni di postura ...................................................................... 44

Conclusioni .................................................................................................................................... 50

Bibliografia.................................................................................................................................... 52

4
PARTE PRIMA

5
L’allievo e il maestro nella scuola francese

1
Michel Corrette, Méthode, thèorique et pratique pour apprendre en peu de temps le violoncelle dans sa perfection,
1741
2
Michel Corrette, L'École d'Orphée, Méthode de violon dans le goût Français et Italien, 1738
6
3

Ho voluto iniziare il capitolo riportando le immagini dei frontespizi di tre importanti trattati francesi
della prima metà del ‘700 per evidenziare alcune caratteristiche che li accomunano e che risultano
funzionali alla mia trattazione. Il primo elemento è dato dall’enfasi posta sulla facilità e la rapidità
dell’apprendimento e al tempo stesso, nel caso del trattato per violoncello, sulla perfezione che ci si
aspetta di raggiungere attraverso il suo utilizzo. Inoltre, in tutti i casi sono inclusi alcuni principi
teorici della musica riguardo alla lettura del pentagramma e alla divisione della battuta.

Alla lettura dei trattati, l’aspetto più interessante risulta essere la completezza e l’organicità della
trattazione. Se consideriamo, ad esempio, il Méthode di Monteclair, vediamo che è così
organizzato:
- descrizione dello strumento
- elementi base della teoria: il pentagramma, la chiave, le note
- studio della tastiera e delle posizioni delle dita (non si menzionano, pur essendo l’anno
1711, i cambi di posizione)
- presentazione di vari esercizi su tutti gli intervalli
- il tremblement, o tremolo
- altri elementi della teoria: valori ritmici e rispettive pause
- descrizione delle diverse misure, della maniera di batterle e di archeggiarle
- alterazioni
- due brevi studi con accompagnamento

Se si pensa che a quel tempo il violino aveva poco più di un secolo di vita, è sorprendente vedere
come per i maestri francesi fosse già molto chiaro quali fossero le basi essenziali del buon violinista
e con che ordine si dovesse procedere nello studio. Bisogna tuttavia tenere presente che il ruolo del
violino nella musica francese non era lo stesso che nella musica italiana e tedesca. La forte
preponderanza che aveva la musica per danza in Francia faceva sì che le abilità strumentali richieste
al violinista fossero moderate in confronto a quelle richieste in Italia, e che si privilegiasse piuttosto
la perfetta conoscenza dei ritmi e dei passi della danza, il corretto archeggio e il carattere
appropriato dell’esecuzione.

E’ ragionevole affermare che questi metodi di area francese per violino costituivano un’ottima
opportunità per l’apprendimento in tempi brevi anche da parte dell’autodidatta per le sue
caratteristiche di organicità che poneva l’accento sugli elementi basilari della teoria e della tecnica,

3
Michel de Monteclair, Méthode pour apprendre à jouer du violon avec un abrégé des principes de la musique, 1711
7
e questa modalità trattatistica si rileva anche in altri ambiti strumentali, anche perché molti redattori
erano in realtà veri e propri polistrumentisti, come lo stesso Corrette che ci ha lasciato trattati per
flauto, violino, violoncello, clavicembalo, basso continuo. Non mancano però trattati di più alto
contenuto tecnico, soprattutto per gli strumenti di cui il gusto francese apprezzava più decisamente
le ricche sonorità strumentali, quali ad esempio la viola da gamba e il clavicembalo, per i quali
effettivamente viene raggiunto un certo virtuosismo strumentale e, di conseguenza, anche la figura
del maestro acquisiva un peso diverso.4

In quegli anni tuttavia la Francia assorbiva cultura musicale dall’Italia molto più di quanto non
facesse quest’ultima rispetto alla Francia (pensiamo ad autori come Lully o Senaillé, ad esempio o
alla querelle des Bouffons). Lo stesso Quantz ci conferma il fenomeno di contaminazione dello stile
francese con elementi della musica italiana:

Che io sappia non si sono mai eseguite in Italia, né in pubblico né in privato, opere francesi, arie
o altri pezzi vocali francesi; e men che meno si sono invitati cantanti francesi. Ma in Francia,
quantunque non vi sia una pubblica Opera Italiana, si ascoltano Arie, Concerti, Trio, Soli di
autori italiani e si sono fatti venire anche cantanti italiani e li si è mantenuti […].5

Non è dunque incoerente che Corrette, nel frontespizio de L’Ecole de Orphée, faccia riferimento al
“suonare il violino nel gusto francese e italiano”.

4
Pensiamo ad esempio al rapporto tra Marin Marais e il maestro Monsieur de Sainte Colombe descritto nel film di
Alain Corneau Tous le matin du monde, anche se naturalmente è presentatato in forma romanzata.
5
Johann Joachim Quantz, Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere, 1752, cap. XVIII. Sulle differenze tra stile
italiano e stile francese, si ritornerà nel capitolo In Germania: Quantz e Leopold Mozart, facendo riferimento alla
testimonianza di Quantz riguardo alle peculiarità di ciascuna delle due scuole.
6
Michel Corrette, op. cit., 1738
8
Ho voluto sottolineare questa indicazione perché dimostra che in Francia la scuola italiana
violinistica ha un suo riconoscimento acclarato, anche se va detto che fino alla prima metà del 700
essa risulta avere una trattazione didattica del violino più disomogenea, meno organica e
quantitativamente più scarsa di quella francese.

In appendice ai trattati francese appena citati si trovano sempre alcuni brani concepiti per essere
musicalmente apprezzabili, ma comunque con una valenza didattica. Si chiamano, non a caso,
Lezioni.

Possiamo riscontrare questo interesse tipico della cultura musicale francese verso la “didattica
d’arte”, che ha spinto grandi maestri a produrre raccolte di studi (Kreutzer, Rode, Baillot) che
ancora oggi sono fondamentali per l’apprendimento della tecnica violinistica e, pertanto, occupano
uno spazio importante nei programmi di conservatorio. Però, come si diceva, il violinismo italiano
nel ‘700 aveva un’influenza importante in tutta Europa, ragion per cui i tre maestri appena citati
erano venuti in contatto in maniera più o meno continuativa con Tartini e la sua scuola.

Anche nel Trattato di Geminiani è presente un’appendice con dodici brani che pure hanno una
valenza didattica, però con alcune peculiarità che saranno approfondite nel prossimo capitolo.

9
L’allievo e il maestro nella scuola italiana

Anche nella scuola italiana la formazione musicale era concepita come un processo unitario:
coinvolgeva al tempo stesso le conoscenze teoriche, tecniche e interpretative. La figura del maestro
di violino era centrale. In alcuni trattati più antiche, risalenti al XVI secolo, compare, come negli
esempi francesi, il riferimento nel frontespizio al vero obiettivo che vuole perseguire l’opera,
ovvero l’apprendere a suonare “con facilità”.

Vediamo due esempi chiarificatori, anche se va subito detto che sono fonti molto più antiche
rispetto ai trattati francesi appena citati:

7 8

In particolare, mi soffermerei su Il Scolaro di Zannetti, per osservare in che maniera l’autore


considerasse l’insegnamento. Vi leggiamo, ad esemplificazione del contenuto del trattato:

[…] Ove si contengono gli veri principij dell’Arie, Passi e mezzi, Saltarelli, Gagliarde, Zoppe,
Balletti, Alemane, & Correnti, accompagnate con tutte le quattro parti cioè Canto, Alto, Tenore,
& Basso.

E infatti, dopo tre paginette con alcune spiegazioni sulla lettura dell’intavolatura per violino, il
trattato non è altro che una ampia antologia di arie e vari balli, scritti a quattro voci per essere
suonati e accompagnati con ogni possibile formazione strumentale.

Quest’opera ha un grande valore per ciò che riguarda la testimonianza che ci fornisce
sull’intavolatura per violino, pratica piuttosto rara e probabilmente già in disuso all’epoca, se si
pensa che già le opere di Riccardo Rognoni 9 e del figlio Francesco10, scritte molti anni prima, sono
già notate su pentagramma. Dobbiamo ammettere però che purtroppo ci fornisce ben poche
indicazioni utili sulla prassi esecutiva di tali brani.

7
Gasparo Zannetti, Il scolaro, per imparar a suonare, 1645
8
Bartolomeo Bismantova, Compendio musicale. In cui si insegna ai principianti […], 1677
9
Riccardo Rognoni, Passaggi per potersi esercitare nel diminuire terminatamente con ogni sorte d'instrumento […],
1592
10
Francesco Rognoni Taeggio, Selva de varii pasaggi, 1620
10
Per rendere un’idea dell’intavolatura secondo Zannetti, riporto un piccolo estratto dalle sue
indicazioni:

In questa spiegazione, a mio avviso, un grande tocco di intelligenza e modernità è dato dalla
concezione delle dita della mano sinistra non come appendici isolate e indipendenti tra loro, bensì
come organi interdipendenti e coordinati. Quando scrive, ad esempio, a tre dita e analoghi, l’autore
sta suggerendo di premere la corda non solo con il dito la cui azione da sola sarebbe sufficiente a
produrre la nota (cioè il terzo), ma anche con le dita antecedenti (cioè il primo e il secondo).
Questo approccio crea una strutturazione della mano sinistra che si porta con sé importanti
conseguenze dal punto di vista tecnico, come poi esplicitato anche da Geminiani11: la sicurezza
nell’intonazione, la rapidità nell’abbassare e alzare le dita dalle corde, la ricchezza di armonici
dovuta a una pressione sulla corda distribuita più equamente e più saldamente.

Nei 100 anni successivi, è difficile tracciare un percorso su come si sia evoluta la didattica del
violino in Italia, a causa della scarsità di materiale a noi giunto e della sua disomogeneità. 12 Enzo
Porta13, rifacendosi alle dichiarazioni di Francesco Fanzago nella sua Orazione, trova una
motivazione a questa mancanza di fonti nella consuetudine italiana di affidarsi alla trasmissione
orale e all’insegnamento diretto. Possiamo immaginarci, ad esempio, un Antonio Vivaldi alle prese
con le orfane del Pio Ospedale della Pietà, che non aveva nessun interesse nel redigere una

11
Anche Geminiani, in The art of playing on the violin si raccomanda di “tenere le dita più ferme possibile, senza
alzarle, fino a quando non vi sia necessità di farlo per spostarle da qualche altra parte.”
12
Cfr. a questo proposito David Boyden, Introduzione alla ristampa anastatica del Metodo di Geminiani, London
Oxford University Press, 1952, p. VI
13
Cfr. Enzo Porta, Il violino nella storia, Torino, EDT, 2000, pp. 35-36
11
trattazione sistematica in quanto tutta la sua attività didattica era circoscritta in quell’ambiente e
impartita in forma pratica, come in un vero e proprio laboratorio permanente.

Può essere interessante leggere le parole dello stesso Fanzago riguardo alla trasmissione orale nella
scuola di Tartini:

Ed oh avesse potuto [Tartini], o per dir meglio voluto rubare ad altre sue lunghe misteriose
applicazioni qualche porzion di tempo per compilar in buon ordine le leggi, le osservazioni, e i
dettámi della sua scuola! Risonerebbero di non interrotti applausi le provincie tutte, ove in
pregio è la musica; e sarebbe anche perciò festeggiato il Tartini dai di lei giustissimi estimatori.
Ma grazie pur si rendano alle sorte, che ce ne serbò quasi di furto alcuni tratti parte in una sua
Lettera14 instruttiva già data in luce, e parte in molte lezioni pratiche comunicate ad alcuni degli
allievi suoi, che le conservano gelosamente. Deh vi fosse almen qualche gentile amatore del
pubblico bene, che a stampa le divulgasse; non ancor del tutto perduta avremmo la voce
dell’estinto Precettore.15

Questo stretto legame tra allievo e maestro ha fatto sì che ci sia giunta una quantità di materiale
didattico con caratteristiche molto disomogenee. Si potrebbe addirittura considerare il trattato
musicale come una sorta di redazione fatta dal maestro dei suoi stessi appunti e materiali didattici,
ossia l’analogo di una “dispensa”. Ad esempio, nel caso di Tartini, fu il suo allievo Giovanni
Francesco Nicolai a redigere una raccolta degli appunti del maestro16, e anche qui, come in altri
metodi, pur essendovi naturalmente un’idea di apprendimento progressivo del violino, partendo da
concetti semplici per giungere a concetti via via più complessi, la pretesa non era comunque quella
di organizzare sistematicamente l’insegnamento tecnico.

Bisogna anche tener presente il fatto che via via il livello raggiunto dal repertorio italiano sarà tale
da rendere imprescindibile la figura di un insegnante, e pure di alto livello. Non è un caso che
proprio attorno alle figure dei grandi maestri italiani (Tartini, Locatelli, Paganini) si formassero
aloni di leggenda, mistero e segretezza riguardo alla loro arte.

Un caso emblematico è The art of playing on the violin di Francesco Geminiani, un documento
preziosissimo da cui possiamo attingere molte informazioni sulla prassi esecutiva dell’epoca.

L’intenzione della musica non risiede unicamente nel compiacere l’orecchio, ma anche
nell’esprimere sentimenti, colpire l’immaginazione, influire sulla mente e comandare le
passioni. 17

Con queste parole Geminiani apre il suo trattato per violino del 1751. Nella prefazione, da cui è
tratta la citazione, il violino viene confrontato con la voce umana e si parla di precisione, proprietà e
delicatezza d’espressione secondo l’autentica intenzione della musica. Inoltre, poco dopo, troviamo
una decisa critica all’uso del violino per riprodurre effetti naturali e spettacolari o per dare sfoggio
di virtuosismo.

14
Probabilmente si riferisce alla Lettera alla signora Maddalena Lombardini Sirmen, sua allieva, scritta da Tartini nel
1760
15
Francesco Fanzago, Orazione del Signor Abate Francesco Fanzago padovano delle lodi di G. Tartini […], 1770
16
Giovanni Francesco Nicolai, Regole per arrivare a saper ben suonare il violino […]
17
Francesco Geminiani, The art of playing on the violin, 1751
12
Geminiani vs Tartini

Presumibilmente, dunque, l’approccio di Geminiani ci dà un’idea dello spirito con cui il violinista
italiano della prima metà del ‘700 si avvicina allo studio dello strumento: come meglio vedremo,
l’aspetto tecnico viene ridotto ad alcune indicazioni di base (insistendo soprattutto sull’uso e la
tenuta dell’archetto), mentre la maggior parte della trattazione si concentra su indicazioni espressive
quali l’emissione del suono, la realizzazione degli ornamenti e la varietà dei colpi d’arco.

Mi preme qui elencare alcune caratteristiche che ritengo degne di interesse:

- la trattazione è suddivisa in Esempi che contengono sia una spiegazione teorica che
applicativa nella pratica (eccetto nel caso in cui l’argomento sia lo stesso della lezione
anteriore, in tal caso si danno per scontate le istruzioni fornite in precedenza);
- vi è riportata una gran quantità di scale, esercizi, varianti di diteggiatura e di colpi d’arco, a
fronte però di indicazioni molto scarse sulla loro tecnica di esecuzione;
- l’Esempio XIII, da suonarsi come un “affettuoso discorso”, richiede conoscenze che
verranno impartite solo nell’ Esempio XVIII;
- viene dedicato un intero capitolo, l’Esempio XX, all’emissione del suono sulle diverse figure
rimiche;
- l’argomento dei colpi d’arco viene trattato solo alla fine, ossia nell’ Esempio XXIV.

Dopo il primo capitolo (Esempio I) dove si illustra la tenuta del violino e dell’arco, la struttura della
tastiera (gli “ordini”, ossia le posizioni) e vengono date varie indicazioni di carattere tecnico,
seguono alcuni “esempi” contenenti gran varietà di scale. La vera particolarità la troviamo
nell’Esempio VIII, nel quale ogni scala viene trattata come se fosse uno studio, con un ritmo, un
andamento e un carattere propri, ciascuno sopportato da un accompagnamento di basso continuo.
Potremmo definire tale esercizio un perfetto esempio di “tecnica applicata”, nel quale lo studio delle
scale non è un mero esercizio di tecnica per allenare le dita, bensì serve anche per allenare la
sensibilità dell’allievo al colore espressivo di ogni scala. Si potrebbe quasi dire che è un’educazione
all’ascolto dell’affetto proprio di ciascuna tonalità18.

18
Tornerò su questo argomento nel capitolo Retorica e interpretazione
13
Inserisco, inoltre, la tavola di esempi contenuta nell’ Esempio XIX con tutti i possibili casi di
ornamentazione di una singola nota.

Al termine dell’opera, vi è una specie di appendice con dodici Composizioni, di diversi stili e
esigenze tecniche. Abbiamo visto nel capitolo precedente, un esempio analogo con le Lezioni in
appendice al metodo di Corrette. Nel caso di Geminiani, le composizioni poste in appendice
dell’opera richiedono una perizia tecnica tale che è difficile inquadrarle come “studi didattici”,
posto anche che non seguono un ordine di progressività. Composizioni didattiche lo sono, senza
dubbio, ma sullo stretto confine tra lo “studio” e il “pezzo da concerto”, tanto più che sono scritte
con un accompagnamento di basso continuo.

È di pochi anni dopo, il 1760, la lettera che Giuseppe Tartini invia alla signora Maddalena
Lombardini Sirmen con alcuni consigli riguardanti i seguenti aspetti violinistici:

- pratica costante delle messe di voce


- studio dell’espressività dinamica delle note lunghe
- studio del detaché su movimenti di semicrome, aumentando progressivamente la velocità e
abbinando esercizi sui salti di corda
- esercitazioni negli smanicamenti trasponendo lo stesso modulo in posizione progressivamente
sempre più alte
- studio del trillo e dell’articolazione, aumentando impercettibilmente la velocità 19

Ancora una volta possiamo apprezzare come lo studio dell’espressione preceda quello della
meccanica, la quale non è altro che un mezzo per raggiungere la più perfetta padronanza della
“voce” del violino.

Nelle Regole20 di Nicolai-Tartini si trattano i seguenti argomenti:

- Regole per le arcate


- Dell’appoggiatura in genere
- Uso, ed adattazione della medesima
- Uso, ed adattazione dell’Appoggiature brevi di passaggio

19
Giuseppe Tartini, Lettera alla signora Maddalena Lombardini Sirmen, 1760
20
Giovanni Francesco Nicolai, op. cit.
14
- Appoggiature semplici ascendenti
- Del Trillo, Tremolo, e Mordente
- Uso, ed adattazione del Trillo
- Tremolo
- Mordente
- Modi naturali
- Modi artifiziali
- Cadenze naturali
- Cadenze artifiziali

Il documento tratta dunque ampiamente il tema dell’ornamentazione, sul quale non mi soffermerò.
Inoltre, non viene proprio affrontato l’argomento della mano sinistra e della divisione della tastiera,
delegando completamente quest’aspetto, pare, all’insegnamento diretto del maestro. Vi si fa solo un
breve cenno all’inizio dell’opera.

Infatti, nel primo capitolo, Regole per le arcate, curiosamente si fa riferimento a vari altri argomenti
che in realtà non hanno a che vedere con l’arco. Per esempio, sullo smanicamento:

Nello smanicare non deve tenersi regola stabile, ma bisogna adattarsi a quello che nell’occasioni
riesce piú comodo, onde si deve fare lo studio di smanicare in tutti li modi per esser sempre
pronto ad ogni caso possa accadere.

Tutto qui. Anche sull’archeggio non è molto più esaustivo:

Intorno all’arco non vi è regola determinata del cominciare l’arcata in giù, o in su, anzi bisogna
esercitarsi in tutti li passi per dritto, e per rovescio, per essere freschi dell’arco con la stessa
prontezza tanto in giù, come in su […]

Sia Geminiani che Tartini dunque, i due più importanti violinisti italiani dell’epoca, nel momento in
cui si dedicano a scrivere sul modo in cui si suona il violino, ci dimostrano di non ritenere
necessario mettere su carta indicazioni tecniche dettagliate, le quali venivano approfondite nelle ore
di lezione e di pratica individuale.

Nel primo capitolo (Esempio I), Geminiani consiglia di applicare sulla tastiera dei segni
corrispondenti alla corretta posizione delle dita (che risulta dunque essere una pratica ben antica),
affermando anche che: “È necessario posizionare le dita esattamente sui segni che appartengono
alle note; da questo dipende la perfetta intonazione del suono”.

Sempre nell’Esempio I egli consiglia inoltre un esercizio di collocamento delle dita, divenuto
famosissimo, utile per acquisire la corretta struttura della mano sinistra:

Questo esempio mostra un metodo per acquisire la corretta posizione della mano, che può essere
descritta come segue: si ponga il primo dito… […] fino a che tutte e quattro le dita saranno state
abbassate; dopodiché si potrà sollevarle un poco dalla corda che hanno toccato; e questa è la
posizione perfetta.
15
Mentre, sul movimento della mano sinistra nello smanicamento:

Dopo essersi esercitati nel primo ordine, si può passare al secondo, quindi al terzo. Bisogna aver
cura che il pollice della mano sinistra rimanga sempre più indietro dell’indice, e più si avanza
coi diversi ordini più il pollice deve rimanerne distante, fino ad essere quasi nascosto sotto il
manico dello strumento […] La diteggiatura, invero, richiede la più assidua applicazione;
sarebbe dunque più prudente intraprenderne lo studio senza l’uso dell’arco, con cui invece ci si
familiarizzerà una volta giunti all’esempio 7, dove viene spiegato il metodo necessario e
corretto per impiegarlo

Sempre nello stesso capitolo, spiega il corretto uso dell’arco:

Il suono del violino dipende principalmente da un buon uso dell’archetto. Questo va tenuto a
breve distanza dal nasetto, tra il pollice e le altre dita; i crini vanno tenuti voltati verso l’interno,
contro il dorso, ovvero l’esterno del pollice, posizione nella quale l’arco va tenuto con scioltezza
e agio, senza irrigidimenti. Nell’eseguire delle note rapide il moto dell’arco deve prodursi
mediante il movimento delle giunture del polso e del gomito, senza quasi implicare quello della
spalla. Ma nelle note lunghe, in cui l’arco viene tirato per intero da un capo all’altro, allora è
possibile esercitare anche un minimo movimento della spalla […] I migliori esecutori non si
danno la pena di risparmiare l’arco, e lo impiegano dalla punta al tallone, perfino oltre il punto
in cui lo tengono con le dita. Nel colpo d’arco in su, la mano viene piegata leggermente verso il
basso alla giuntura del polso quando il nasetto dell’arco va avvicinandosi alle corde, ma il polso
va immediatamente raddrizzato – ovvero la mano si piega nuovamente verso l’alto – non appena
l’arco ricomincia a scendere.

16
Suono e espressione

Scrive Geminiani: “Il suono del violino dipende principalmente dal buon uso dell’archetto”.

E ancora:

Una delle bellezze principali del violino è la possibilità di aumentare e diminuire la sonorità, il
che si produce aumentando o diminuendo la pressione dell’arco sulle corde con la forza del dito
indice.

Nell’eseguire le note lunghe, il suono all’inizio deve essere delicato, quindi aumentare
gradatamente in sonorità sino a metà [arco] per poi diminuire nuovamente in fondo. 21

Queste indicazioni vengono date nelle primissime pagine del primo capitolo, a dimostrazione della
priorità che l’autore conferiva alla produzione del suono, prima ancora di affrontare altre
problematiche violinistiche.

Dello stesso avviso pare essere Tartini (secondo quanto riportato da Nicolai), quando descrive la
messa di voce:

Per cavare dall’istromento buona voce bisogn’appoggiare l’arco con delicatezza prima, e poi
calcarlo altrimenti appoggiandolo subito con forza si caverebbe voce cruda e stridola.22

Il problema della cavata del suono nel violino, d’altra parte, era ormai argomento noto e trattato da
tempo. Ricordiamo Francesco Rognoni:

Le viole da brazzo, particolarmente il violino, è instromento in se stesso, crudo, e aspro, se della


soave archata non vien temprato, è radolcito […] 23

21
Francesco Geminiani, op. cit., Esempio I
22
Giovanni Francesco Nicolai, op. cit., Regole per le arcate
23
Francesco Rognoni, Selva de varii pasaggi, Parte Seconda, 1620
17
Altrettanto esemplificativa è la tavola dell’Esempio XX di Geminiani, dove si illustrano i diversi tipi
di emissione del suono consigliati per ciascuna figura ritmica:

Tornando al trattato di Nicolai-Tartini, trovo opportuno citare alcuni passaggi riguardo alla
produzione del suono, che dal punto di vista della prassi esecutiva sono fondamentali per ricostruire
la maniera di suonare dell’epoca:

Si deve distinguere nel suonare il Cantabile dal Sonabile, cioè suonando il Cantabile da una nota
all’altra con un’unione così perfetta, che non vi si senta alcun vacuo; ed il contrario il Sonabile
dev’esser eseguito con qualche distacco da una nota, all’altra.

Inoltre, come che nel suonare vi sono i suoi sensi, bisogna avvertire di non confondere un senso
con l’altro, onde per evitare questo disordine è necessario far sentire un poco di vacuo da un
senso all’altro, non ostante, che fosse un andamento Cantabile.

È molto importante quest’ultima indicazione, poiché essenzialmente sta suggerendo al lettore di non
mescolare un affetto con l’altro, ma di distinguerli adeguatamente per dare il giusto senso al
discorso musicale.24

24
Cfr. a questo proposito il capitolo Retorica e interpretazione
18
Dunque come si ricava l’espressione perfetta della “voce” dello strumento? La condizione
imprescindibile, stando alle fonti citate, è la padronanza della tecnica d’arco. Nelle seguenti righe,
sempre tratte da Nicolai-Tartini, abbiamo una particolareggiata spiegazione di come cavar voce di
polso:

L’arco va tenuto con forza ne’ primi due dita, gl’altri tre leggieri per cavar voce di polso, e
quanto più si vorrà rinforzar la voce, stringer vieppiú l’arco con le dita. E corrispondere anco
con premere vieppiù sulle corde con l’altra mano.

Possiamo dunque concludere che una costante dell’epoca barocca è l’uso dello strumento (del
violino, nel nostro caso) ad imitazione della voce umana. Il valore dell’esecutore si misura quindi
sulla base di questo criterio, ancor prima che per la sua destrezza tecnica. L’importanza data all’uso
dell’arco è tale che lo stesso Tartini nel 1758 pubblica una raccolta di variazioni su un tema di
Corelli25, tutte incentrate sul maneggio dei colpi d’arco e con livelli di difficoltà impressionanti per
la sua epoca.

Nel 1791, ormai in pieno classicismo, Francesco Galeazzi scrive un importante metodo per violino
nel quale ancora una volta si parla di “imitazione della voce umana”, a dimostrazione di quanto
questa fosse considerata una caratteristica importante per essere un buon violinista, al di là degli
stili e delle epoche storiche:

Gli stromenti musici non sono, che una imitazione del canto della voce umana; quello dunque
che più l’imita è il più perfetto, e quel Suonatore, che saprà più accostarsi alla natura di un tal
canto, sarà sempre sicuro di dare il maggior piacere agli ascoltanti, ed esser per il più bravo
stimato.

Nel guidare l’arco sopra le corde, si deve poggiarlo a bella prima leggermente, andar crescendo
la forza fino verso la metà e quindi di nuovo diminuirla fino all’estremità, di modo che la forza
della voce dee nelle estremità dell’arco essere la minima, e la massima in mezzo. 26

25
Giuseppe Tartini, L’Arte dell’Arco, 1758
26
Francesco Galeazzi, Elementi teorico pratici di Musica con un saggio sopra l’arte di suonare il violino, 1791. Sulla
descrizione della messa di voce, cfr. con questo stesso capitolo, p. 17, su Geminiani e Tartini.
19
In Germania: Quantz e Leopold Mozart

I due trattati che analizzeremo in questo capitolo hanno alcune peculiarità che li differenziano dai
contemporanei trattati italiani che abbiamo visto precedentemente. Entrambe le opere sono frutto
dell’esperienza di due grandi maestri, nonché musicisti, che hanno saputo trattare la didattica
musicale con completezza e sistematicità.27

Il Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere […], scritto da Quantz nel 1752, è un ampio
volume organizzato in diciotto capitoli che trattano una grande varietà di argomenti:

- Introduzione: le qualità che si richiedono a coloro che desiderino dedicarsi alla musica
- capitoli I-VII: la tecnica del flauto traverso, con alcuni cenni all’oboe e al fagotto
- capitoli VIII-XV: espressione, ornamentazione, cadenze, andamenti ritmici (allegro, adagio
ecc.)
- capitolo XVI: esecuzione in pubblico
- capitolo XVII: sul suonare in gruppo e sul ruolo di ciascuno strumento nell’ensemble
- capitolo XVIII: come valutare un musicista o una composizione musicale.

Nonostante la mole di informazioni di cui disponiamo grazie a questa opera maestra, tratterò solo
alcuni argomenti relazionati con quelli già considerati nei capitoli anteriori.

Sull’emissione del suono, anche Quantz è concorde con gli autori già citati nell’affermare
l’importanza del saper cantare per saper ben suonare. Auspica infatti che “[Il flautista] abbia egli la
possibilità di studiare il canto prima, o almeno contemporaneamente, al flauto” e aggiunge che
“ogni strumentista deve cercare di eseguire un cantabile, come lo eseguirebbe un buon cantante”.

Il Versuch è inoltre un’importante testimonianza sulle peculiarità che differenziavano lo stile


italiano dallo stile francese, almeno fino alla metà del secolo XVIII. In Italia, secondo Quantz, dopo
una prima fase di concordanza tra canto e musica strumentale durata all’incirca fino agli anni ‘20
del XVII sec., si aprì una discordanza fra i due generi, a causa dell’emancipazione sempre maggiore
della musica strumentale da un lato, e del protagonismo-divismo dei cantanti dall’altro:

La differenza risiede di solito nell’espressione, e nel fatto che aggiungono troppi ornamenti
arbitrari alla melodia. […] Si constata anche che gli odierni violinisti italiani eseguono quasi
tutti secondo un unico gusto, per la qual cosa essi non si discostano dalla migliore maniera dei
loro predecessori. Il colpo d’arco che su questo strumento […] deve imprimere velocità e
slancio all’espressione musicale, molto spesso serve ad essi […] soltanto per far risuonare lo
strumento alla maniera di una lira. Essi cercano la maggior bellezza la ove non si trova,
specialmente nel registro più acuto, al limite della tastiera, si arrampicano verso l’alto come i
sonnambuli sui tetti, e trascurano il bello vero, dal momento che privano lo strumento in gran
parte della sua gravità ed eleganza, quali le corde grosse sono capaci a produrre. Essi eseguono
l’adagio in maniera troppo ardimentosa e l’allegro in maniera troppo indolente. 28

27
Bisognerà aspettare ancora diversi anni prima che maestri italiani pubblichino metodi altrettanto sistematici dal punto
di vista didattico. Mi riferisco in particolar modo a Elementi teorico pratici di Musica con un saggio sopra l’arte di
suonare il violino di Francesco Galeazzi (Roma, 1791) e Nuovo metodo della meccanica progressiva per suonare il
violino (Leipzig, 1791; Milano e Firenze, 1797) di Bartolomeo Campagnoli
28
Johann Joachim Quantz, op. cit., cap. XVIII
20
Nello stesso capitolo, alcune righe dopo, spiega ancor più in dettaglio le caratteristiche dell’uno e
dell’altro stile, arrivando a trarre le seguenti conclusioni:

Gli Italiani non pongono limiti nella composizione e la loro concezione è grandiosa, vivace,
espressiva, raffinata, un tantino bizzarra, libera […] I Francesi per la verità nella composizione
sono vivaci, espressivi, naturali […] si attengono al metro, ma non hanno né profondità né
audacia, si pongono troppi limiti, sono schiavi, sempre simili a se stessi.

La maniera italiana di cantare è profonda e artificiosa, toccante e al tempo stesso stupefacente,


impegna l’intelligenza musicale […] La maniera francese di cantare è più semplice che
artificiale, più vicina al parlato che al canto […].

La maniera italiana di suonare è arbitraria, stravagante, artificiosa, oscura, anche troppo spesso
temeraria e bizzarra. […] La maniera francese di suonare rende schiavi, è di certo modesta,
chiara, netta e pulita nell’espressione, facile da imitare.

Sempre nel cap. XVIII, per dovere di equanimità, l’autore non risparmia osservazioni critiche
nemmeno ai suoi connazionali tedeschi:

Quando si vorrà considerare la musica dei tedeschi, da oltre un secolo a questa parte, si noterà
invero che i tedeschi da molto tempo hanno progredito alquanto non solo nelle composizioni di
precisa concezione armonica, ma anche nell’uso di molti strumenti. […] Le composizioni dei
tedeschi sono di struttura armonica e ad accordi pieni, ma non hanno carattere melodico né si
possono ritenere affascinanti. Essi cercano più artificiosità che intelleggibilità e la piacevolezza,
e scrivono più per la vista che per l’udito. […] Manca loro una buona scelta e la connessione dei
pensieri. E risultano pressoché sconosciuti presso di loro l’eccitare e il placare le passioni.29

Oltre ad essere un’importante testimonianza storica sull’interpretazione musicale della metà del
‘700, questo trattato è importante anche perché, insieme al Versuch di Leopold Mozart, fonda le
basi della moderna didattica musicale. In entrambi i lavori viene dato molto spazio a problematiche
quali il metodo di studio, l’atteggiamento del maestro, l’esecuzione in pubblico, la corretta lettura
della partitura e così via. Riporto un breve estratto dal cap. X del Versuch di Quantz, anche se il
metodo di studio sarà oggetto di approfondimento nella Parte seconda:

Un principiante […] non deve accontentarsi delle istruzioni che ho dato qui. È necessario
accompagnarle con lezioni verbali impartite da un buon maestro […] Le regole che si mettono
per iscritto ci mostrano la maniera più sicura di imparare qualcosa, però non correggono gli
errori che spesso sorgono all’atto di suonare […] L’alunno non se ne rende conto da solo e se il
maestro non lo richiama continuamente, gli errori diventano abitudine e, di fatto, arriva a
commetterli istintivamente.30

Di pochissimi anni dopo è il Versuch einer gründlichen Violinschule di Leopold Mozart, scritto nel
1755 e pubblicato nel 1756, con successo tale che fu ripubblicato più volte negli anni successivi in
tedesco (1769 e 1787), olandese (1766) e francese (1770).

29
Sulla teoria degli affetti, cfr. il cap. Retorica e interpretazione
30
Cfr. il capitolo La Tecnica Alexander e alcune questioni di postura
21
L’ordine in cui Leopold Mozart struttura il suo trattato è il seguente:

- Prefazione dell’autore
- Introduzione alla scuola del Violino, a sua volta divisa in due parti in cui tratta
rispettivamente degli strumenti ad arco (in particolare il violino) e della storia della musica
(origine della musica e degli strumenti musicali)
- Capitolo I: teoria musicale (notazione, misure, figure ritmiche)
- Capitolo II: postura (come afferrare il violino e dirigere l’arco)
- Capitolo III: norme che lo studente deve tenere presenti prima di suonare
- Capitolo IV: arcate
- Capitolo V: la conduzione dell’arco per ottenere un buon suono
- Capitolo VI: le terzine
- Capitolo VII: arcate (ampliamento delle casistiche già presentate nel cap. IV)
- Capitolo VIII: posizioni e smanicamento
- Capitolo IX: l’appoggiatura e altri ornamenti
- Capitolo X: il trillo
- Capitolo XI: il tremolo, il mordente e altri effetti
- Capitolo XII: la corretta lettura della musica e la buona esecuzione

Come i suoi predecessori, anche Leopold pare dare molta importanza allo studio dell’uso dell’arco,
tanto da dedicarvici tre capitoli distinti. Innanzitutto, poiché vi è una grande varietà di possibili
combinazioni di suoni brevi e lunghi, Leopold ritiene che

[…] devono necessariamente esistere regole che insegnano al violinista adeguatamente e in


maniera tale che, con un sistema ordinato di archeggio, le note lunghe e corte siano suonate
facilmente e metodicamente. 31

Non si fa dunque cenno, in questa prima fase, a un uso espressivo dell’arco. Si imparano
semplicemente le regole più logiche per condurlo in su e in giù, a seconda di ciò che richieda la
struttura ritmica del brano in questione. Questo aspetto è innovativo rispetto ai trattati più antichi, i
quali, come si ricorda, non differenziavano più di tanto lo studio del meccanismo dalla sua diretta
applicazione musicale, limitandosi tutt’al più a lasciare qualche indicazione sui vantaggi dati
dall’esercitarsi nella più grande varietà possibile di colpi d’arco.

31
Leopold Mozart, Versuch einer gründlichen Violinschule, 1756, cap. IV Sull’ordine dei colpi d’arco in su e in giù
22
Leopold, invece, nel cap. V32 divide scientificamente l’arco in tre o cinque segmenti, distribuendo a
ciascuno di essi un preciso ruolo espressivo da intendersi applicabile alla gerarchia ritmica di una
battuta o di un elemento musicale:

Come si può notare, l’autore non svincola assolutamente lo studio astratto dalle funzioni espressive.
La sua innovazione, anzi, sta nell’aver chiarificato, organizzato e reso più accessibile alcuni concetti
che fino ai suoi tempi si trattavano presumibilmente in maniera più empirica.

A maggior ragione, anche Leopold, come altri trattatisti già citati, fa più volte riferimento
all’imitazione del canto, suggerendo di pensare a come un buon cantante farebbe uso della propria
voce.

Infine, nell’ultimo capitolo33, l’autore offre alcune considerazioni specialmente interessanti per
capire ancora meglio quali caratteristiche erano apprezzabili in un violinista e nel suo metodo di
studio:

- la critica ai solisti virtuosi: come altri prima di lui, Leopold Mozart critica la prassi di certi
solisti di ornamentare tutto a proprio gusto e senza criterio, e al tempo stesso di non essere
capaci di suonare espressivamente una semplice melodia
- la superiorità del musicista d’orchestra sul solista, che oltre alla perizia strumentale deve
essere molto più involucrato nell’arte musicale: conoscere i fondamenti dell’armonia e della
composizione, saper accompagnare, saper armonizzare il proprio suono con quello del
gruppo
- la differenziazione delle note buone e note cattive
- l’ordine delle priorità nel metodo di studio: osservare con cura il tempo, la tonalità, il
carattere e soprattutto gli affetti, per cercare di renderli nella maniera più fedele possibile a
come il compositore li ha pensati.

L’autore, nella Prefazione, scrive così:

Ero spesso triste quando trovavo allievi a cui era stato insegnato così male, che non solo dovevo
riportarli all’inizio degli studi, ma che fatiche bisognava sopportare per sradicargli gli errori che
gli erano stati insegnati o, nella migliore delle ipotesi, sorvolati.

Dunque Leopold, come pure Quantz, aveva ben chiaro come si dovesse impartire l’insegnamento
dello strumento: sapeva quali procedimenti avrebbero portato l’allievo a migliorare e quali no.

32
Leopold Mozart, op. cit., cap. V Come, acquisendo il controllo dell’arco, uno dovrebbe cercare di produrre un buon
suono nel violino e condurlo nella giusta maniera
33
Leopold Mozart, op. cit., cap. XII Sulla corretta lettura della musica, e in particolare, sulla buona esecuzione
23
L’epoca in cui entrambi si trovano a vivere è un momento storico fondamentale per lo sviluppo
della conoscenza. L’Illuminismo è alle porte e gli intellettuali sono sempre più orientati a confidare
nell’approccio scientifico, nella ragione e nel dibattito critico. Il passo successivo, rappresentato
dalla Rivoluzione Francese, sarà lo scardinamento dei parametri sociali dell’Ancienne Régime, che
avrà come conseguenza la divulgazione del sapere alle masse e l’esaltazione della figura
dell’intellettuale come nuova guida educatrice della società. Queste trasformazioni nel campo del
sapere si ripercuoteranno fortemente anche sull’educazione musicale.34 Risale proprio agli anni
1751-1780 la pubblicazione dei volumi della Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences,
des arts et des métiers, un vero compendio della conoscenza umana accumulata fino ad allora.

I metodi didattici, da questo periodo in avanti, seguiranno il solco tracciato dall’affermarsi di questi
princìpi. Gli autori cercheranno di mettere su carta i loro insegnamenti nella maniera più completa e
chiara possibile, nella speranza illuminata che la perfezione nell’organizzazione della conoscenza
possa portare alla perfezione anche nell’applicazione pratica. Tuttavia, il suonare è un atto
eminentemente pratico, per cui l’aspetto “di bottega” che caratterizzava l’insegnamento dello
strumento fino ad allora non verrà mai completamente meno. La conseguenza di questa
standardizzazione porterà alla polarizzazione della didattica attorno ai principi stabiliti da un’élite
dei più grandi maestri del tempo e la conseguente nascita delle scuole nazionali (nel caso del
violino, si distingueranno in particolar modo la scuola russa e la scuola franco-belga).

34
Cfr. con Nikolaus Harnoncourt, Music as a Speech, Amadeus Press, 1988, cap. I Music in our lives. Sul pensiero di
Harnoncourt ritorneró più approfonditamente nel cap. Retorica e interpretazione.
24
PARTE SECONDA

25
Suonare dentro di sé

Nel 1981, la violinista francese Dominique Hoppenot pubblicò un libro veramente interessante
sull’approccio allo strumento, Le violon interieur. La peculiarità della sua visione sta nell’ aver
riportato lo studio del violino alla sua dimensione umana, a un’esigenza dell’anima di esprimersi
attraverso l’arte dei suoni. Al tempo stesso, viene ridimensionato il peso che hanno avuto alcuni
aspetti tecnico-fisiologici nel secolo XX, aspetti che l’autrice ritiene non utili all’esecutore se non
sono sostenuti dalla comprensione di alcuni principi di base, primo fra tutti la necessità di instaurare
un rapporto veramente intimo del violinista con il suo strumento.

Sia Enzo Porta che Antonello Farulli, importanti didatti dei nostri tempi, sono concordi nel
riconoscere la grande importanza che ha avuto l’opera della Hoppenot nell’evoluzione del metodo
di insegnamento avvenuto negli ultimi 30-40 anni:

Le violon interieur […] inaugura una nuova epoca non solo per quanto riguarda l’approccio fisiologico
al violino, ma anche per ciò che concerne la didattica violinistica in generale […] Lo scopo del libro è
quello di aprire la mente dell’allievo: […] dalla lettura di esso gli sarà possibile comprendere che
esistono altri tipi di approccio allo strumento, che agiscono facendo vibrare le ‘corde interiori’. […]
L’approccio dell’autrice mira allo sviluppo progressivo di uno stato interno creativo che ci permetta di
arrivare al nostro io più profondo, liberandoci da ogni apprensione e dalla paura di muoverci, di
ricercare, di cambiare. 35

Il fatto di concepire l’attività sullo strumento come qualcosa che riguarda l’essere umano nella sua
globalità la sollecita a prefigurare una modalità di apprendimento legata allo slancio che solo l’amore
può dare e solo la pazienza sostenere. […] Grande attenzione è riservata all’accordare il proprio corpo,
il suo equilibrio, al proprio spirito. Lo strumento diviene così, espressione del proprio corpo, parte di
esso, e non oggetto estraneo, una vera e propria sua estensione. […] Per lei [l’autrice] il segno sulla
pagina musicale non è che un pretesto per una espressione profonda delle nostre emozioni. […] La
relazione pedagogica è centrata sull’alunno. […] Il corpo e l’anima che gli dà vita, piuttosto che le
mani, divengono così protagonisti assoluti.36

L’esposizione della Hoppenot segue un’articolazione non convenzionale degli argomenti trattati.
Non vi è un’organizzazione basata su argomenti tecnici, ma tutto parte dal rapporto tra strumentista
e strumento: dalle principali problematiche psico-attitudinali si passa agli aspetti legati alla
dinamica del corpo per poi trattare solo in ultima istanza questo o quel problema tecnico in
particolare.

Vediamo alcuni punti chiave.

Per dare forma al suono e rendere concrete le immagini sonore create dall’esecutore, non si può
prescindere da un efficace uso del corpo, così come avviene, d’altra parte, in qualsiasi altra attività
vitale. La massima efficacia si trova dunque nella combinazione di una piena libertà muscolare da
qualsiasi tipo di tensione e di una coordinazione ben sviluppata.

35
Enzo Porta, op. cit., pp. 212-213
36
Antonello Farulli, La viola del pensiero, Pisa, Titivillus, 2008, pp. 240-241
26
L’autrice dà dunque indicazioni ben precise su quale sia la postura più funzionale per il violinista,
ma poiché i suoi principi concordano sostanzialmente con quelli proposti dalla Tecnica Alexander,
tratterò l’argomento in un capitolo apposito.37

Nel capitolo “Cosa vuol dire studiare?”, proseguendo, la Hoppenot si sofferma sul motore vitale
dello studio, sul vero fulcro dell’esecuzione, che è l’idea musicale che sta a monte. Senza di essa,
non vi è gesto, non vi è tecnica, perché non vi è un singolo movimento realizzato dal corpo che non
sia giustificato da una scelta espressiva:
La musica è ciò che informa, o meglio detto, ciò che dà forma a un potere tecnico. Contrariamente, non esiste
tecnica possibile senza un’idea musicale che la sostenga.

La pianificazione del lavoro non differisce dall’azione propriamente detta. 38

Si potrebbe dunque definire la tecnica come una mappa o, nel 2018, un navigatore: indispensabile
averlo se non ci si vuole perdere, ma di nessuna utilità se non si ha chiaro dove si deve andare.

La mancanza di un progetto, l’impotenza nel momento di confrontarsi con un problema, sono


soliti essere causa di nervosismo e angoscia nell’alunno di fronte al proprio problema.

L’agitazione e l’inquietudine impediscono di portare a termine con chiarezza un progetto di


lavoro.39

Un concetto simile viene espresso anche nel Versuch di Quantz, analizzato nella Parte prima, nel
quale si ribadisce l’importanza dell’espressione nel discorso musicale, seppur con un linguaggio che
al lettore moderno può apparire non sufficientemente esaustivo:

La buona espressione musicale, oltre a essere uno degli aspetti più necessari nella musica, è anche uno
dei più difficile da apprendere. In sua assenza, per quanto ammirevole e artificioso possa sembrare, la
maniera di suonare sarà sempre difettosa e l’esecutore non otterrà mai l’apprezzamento degli
ascoltatori. 40

Ho insistito molto su questo aspetto perché ritengo che non sia scontato che i docenti e le scuole
pongano la stessa enfasi sulla “progettazione” degli aspetti espressivi di un brano musicale tanto
quanto lo pongono sullo studio di un colpo d’arco o di un cambio di posizione. Viceversa, nello
studio della musica antica, questa modalità di approccio è indispensabile in quanto si tratta di
strutture concepite retoricamente, come se fossero un discorso i cui elementi devono essere
consapevolmente decodificati secondo un sistema di regole.

La retorica e il suo ruolo nell’interpretazione saranno infatti l’argomento trattato nel prossimo
capitolo.

37
Si veda il capitolo La Tecnica Alexander e alcune questioni di postura
38
Dominique Hoppenot, El violín interior, Madrid, Real Musical, 2002, cap. Cosa significa studiare?
39
Dominique Hoppenot, op. cit., cap. Cosa significa studiare?
40
Johann Joachim Quantz, op.cit., cap. XVIII
27
Retorica e interpretazione

Come si diceva nel capitolo anteriore, nella storia della musica vi sono state molti voci che hanno
criticato l’abuso di un approccio “meccanicistico” al linguaggio musicale, a fronte di una povertà di
contenuti. In genere, i musicisti (teorici o pratici) promotori di un approccio alla musica che sorge
dall’espressione e dall’immaginazione, agiscono in tale direzione perché hanno riconosciuto un
cambiamento nelle esigenze espressive del loro tempo, il quale richiede a sua volta un’evoluzione
delle tecniche compositive ed esecutive. Se questa evoluzione non ha luogo, l’operazione che si
compie è la semplice ripetizione di antichi schemi ormai non più adeguati, poiché per comunicare è
necessario che chi ascolta sia a sua volta in grado di decifrare e comprendere il messaggio.

Anche se in un caso si parla di tecniche esecutive e nell’altro di tecniche compositive, si potrebbe


creare un interessante parallelo tra le affermazioni della Hoppenot e la lettera che scrive Giulio
Cesare Monteverdi in difesa dello stile del fratello, pubblicata nel 1607 in appendice agli Scherzi
musicali. Alcuni anni prima, il teorico Giovan Maria Artusi aveva criticato aspramente alcuni
passaggi tratti dai madrigali di Monteverdi per l’uso inappropriato di dissonanze non preparate, che
risultavano sgradevoli all’orecchio oltre che scorrette contrappuntisticamente.41 Claudio Monteverdi
giustificò le proprie scelte in una dichiarazione apparsa nella pubblicazione del 1605 del Quinto
libro di madrigali e, due anni dopo, lo stesso fece il fratello Giulio Cesare in una lettera da cui è
tratto il seguente frammento:

L’Artusi, da bon maestro, piglia certe particelle, o passaggi (come lui dice) del madregale
“Cruda Amarilli” di mio fratello, nulla curandosi dell’oratione, tralasciandola in maniera tale,
come se nulla avesse a che fare con la musica; […] l’armonia dei quali [madrigali di Cipriano]
serve esattamente alla sua oratione, che certo rimarrebbono come corpi senz’anima rimanendo
senza questa, più importante e principal parte della musica, significando l’oppositore col
sindacar senza l’oratione questi passaggi, che tutto il buono et il bello si stia nella osservatione
esatta de le dette regole di prima pratica, li quali pongono l’armonia signora dell’oratione. […]
prima prattica intende che sia quella che versa intorno alla perfetione dell’armonia, cioè che
considera l’armonia non comandata ma comandante, e non serva ma signora del oratione; […]
Seconda prattica, della quale è stato il primo rinovatore ne nostri caratteri il divino Cipriano
Rore, come ben farà vedere mio fratello, seguitata et ampliata non solamente da li signori detti
[…] e finalmente da li spiriti più elevati et intendenti de la vera arte, intende che sia quella che
versa intorno alla perfetione de la melodia, cioè che considera l’armonia comandata e non
comandante, e per signora dell’armonia pone l’oratione. 42

In questo documento, si testimonia storicamente il passaggio dalla prima alla seconda prattica.
L’uso della monodia e del basso continuo era già in voga da diversi anni43 e rispondeva alla
necessità di superare la complessità armonica raggiunta dal contrappunto cinquecentesco per

41
Cfr. con Giovan Maria Artusi, L’Artusi, overo Delle imperfezioni della moderna musica, Bologna, 1600
42
Giulio Cesare Monteverdi, Dichiaratione della Lettera Stampata nel Quinto Libro dei Suoi Madrigali, in Claudio
Monteverdi, Scherzi Musicali a 3 voci, 1607, cfr. Gian Francesco Malipiero, Claudio Monteverdi, Milano, Treves,
1930, pp. 72-85.
43
Ricordiamo alcuni momenti fondamentali nell’evoluzione della monodia accompagnata dal basso continuo:
- nel 1581 viene pubblicato a Firenze il Dialogo di Vincentio Galilei nobile fiorentino della musica antica, et
della moderna;
- nel 1600 si rappresenta l’Euridice di Rinuccini-Peri-Caccini, primo esempio di opera in musica, e, due anni
dopo, la stessa opera viene messa in musica nella versione integrale di Caccini;
- nel 1602, a Firenze, sempre Caccini pubblica Le Nuove Musiche, vero manifesto del recitar cantando;
- nello stesso anno, compare per la prima volta la dicitura basso continuo, nel frontespizio dei Cento concerti
ecclesiastici, pubblicati da Lodovico Grossi da Viadana a Venezia;
- nel 1605 Claudio Monteverdi pubblica a Venezia il Quinto libro di madrigali, la prima raccolta di madrigali in
cui compare l’uso del basso continuo
28
riportare la composizione a uno stile più intelligibile e aderente al testo (ossia la oratione, per usare
il lessico monteverdiano). Negli ultimi decenni del XVI si era infatti creato un importante dibattito
attorno a due importanti teorici della musica: Gioseffo Zarlino e Vincenzo Galilei. Entrambi
sostenevano la necessità di “muovere gli affetti” attraverso il discorso musicale, anche se ciascuno
dei due attribuiva questa capacità a diverse proprietà del linguaggio musicale.

Zarlino, d’accordo con le idee già espresse da Glareanus 44 alcuni anni prima, sosteneva che il ruolo
dell’armonia fosse predominante sulla melodia e riteneva dunque che la vera espressione della
musica risiedesse nelle consonanze e dissonanze generate dalla scrittura polifonica e non
nell’intervallo melodico considerato singolarmente. Pubblicò due trattati: le Istitutioni Harmoniche
nel 1558 e le Dimostrationi Harmoniche del 1571. La teoria di Zarlino si appoggia all’idea della
musica come una scienza esatta, governata de leggi aritmetiche. Per questa ragione, dedicherà i suoi
studi alla classificazione sistematica dei suoni e delle voci, arrivando a calcolare la divisione
dell’ottava in dodici semitoni uguali, nel tentativo di correggere le imperfezioni dell’ottava divisa
secondo il sistema pitagorico. I suoi più grandi contributi sono, probabilmente il riconoscimento
degli intervalli di terza e sesta come consonanze, la riduzione dei modi antichi ai due soli modi
maggiore e minore, fondamento della musica dei secoli successivi, e l’individuazione della
verticalità accordale generata dalla sovrapposizione delle parti nella musica polifonica. Per Zarlino
era fondamentale che la musica arrivasse a “muovere gli affetti dell’anima”, ma attribuiva questo
potere non tanto a come la musica venisse eseguita, bensì a come veniva scritta: il madrigalismo,
l’artificio contrappuntistico e la descrizione pittorica della parola erano i veri mediatori
dell’affetto.45

Sul fronte opposto, Galilei (pur essendo stato allievo di Zarlino) sosteneva la supremazia della
monodia e dell’intervallo melodico sulla struttura armonica. I suoi principi sono esposti soprattutto
nel trattato Dialogo di Vincentio Galilei nobile fiorentino della musica antica, et della moderna
(Firenze 1581) e si fondano sull’idea che la perfezione della musica era data dal canto monodico,
l’unico in grado di non confondere i significati dei singoli intervalli e l’unico che, ad imitazione
degli antichi, permetteva la comprensione del testo e consentiva all’interprete, tramite la retorica, di
esprimere gli affetti con una gestualità appropriata. Venendo dalla tradizione di Zarlino, anche
Galilei aveva approfondito l’aspetto matematico-scientifico della musica, come ad esempio il
problema della divisione pitagorica dell’ottava, giungendo tuttavia a conclusioni radicalmente
diverse. Galilei operava a stretto contatto con Girolamo Mei nell’ambito della Camerata fiorentina
del de’ Bardi. Mei era uno studioso della Grecia antica che si era occupato in particolar modo della
concezione aristotelica46 delle passioni, della sua importanza nel contesto della retorica e della
funzione della musica nel teatro greco.47 Secondo Mei e Galilei, dunque, la tragedia greca aveva la
capacità influire sull’animo degli spettatori per la sua caratteristica di essere cantata e soprattutto
perché il canto era di natura monodica, organizzato sulla base di tetracordi (chiamati “modi”),
ciascuno con una diversa disposizione di toni, semitoni o quarti di tono. L’uso di un tetracordo o di
un altro generava un effetto diverso nell’animo dell’ascoltatore, influenzandone, secondo la teoria
dell’ethos, modi di pensare e comportamenti. La teoria musicale sviluppata da Galilei, nel contesto
della Camerata de’ Bardi, cerca utopisticamente di ricreare la dinamica propria della relazione testo-
44
Glareanus, Dodekachordon, Basilea, 1547
45
Cfr. Patrick Macey, Retorica e affetti nel Rinascimento, in Enciclopedia della musica, Einaudi, Torino, 2001, vol. IV,
p. 317-318
46
Ricordiamo che fino al Quattrocento la corrente più diffusa sull’origine della musica era quella pitagorica. Secondo
Pitagora, il moto dei pianeti attorno alle proprie orbite generava delle armonie celesti che risuonavano nell’anima
umana generando così la capacità di riprodurre tali armonia (si denominavano, rispettivamente, musica mundana e
musica humana). Nel Liber de arte contrapuncti, del 1477, Tinctoris contesta questo punto di vista e nega l’esistenza di
qualsiasi armonia celeste. A partire da allora, comincerà a diffondersi sempre più l’idea aristotelica, secondo la quale la
musica nasce dall’imitazione delle passioni umane e ha la capacità di influire su di esse variandone i modi e i ritmi.
47
Cfr. Girolamo Mei, Commento alla Poetica di Aristotele, 1560
29
musica presente nella tragedia greca, giungendo in realtà a risultati completamente differenti. I
mezzi e le conoscenze del mondo greco di allora (e pure di oggi) non avrebbero mai permesso di
ricostruire con fedeltà il contesto in cui si svolgeva una tragedia greca, posto anche che le finalità
erano completamente diverse.

Partendo da una pretesa di ricostruzione storica, il risultato di questo processo sarà in realtà la
nascita dell’opera in musica, nella quale attraverso il cosiddetto ‘recitar cantando’ si realizza un
linguaggio nuovo, quello della monodia accompagnata, che risponde perfettamente all’esigenza di
rappresentare e muovere gli affetti dell’anima, esigenza che si era andata definendo lungo tutto il
XVI secolo e la cui espressione principale, finora, era stata il madrigale polifonico.

Le principali fonti a cui attingono gli studiosi del Rinascimento sono le grandi opere degli autori
classici, soprattutto di epoca romana. In particolare, secondo lo studioso López Cano, i seguenti
testi sono stati fondamentali per la ripresa e lo studio della retorica nelle epoche successive: 48

- Aristotele (384-322 a.C.): Poetica, Retorica


- Cicerone (106-43 a.C.): De Inventione, De Oratore, De Optimo Genere, Oratorum,
Partitiones oratoriae, Orador, Topica
- Anonimo (contemporaneo di Cicerone): Rhetorica ad Herennium
- Quintiliano (35-100 ca. d.C.): Institutio Oratoria

Secondo Cicerone, il quale, come si nota dall’elenco, si è distinto fra tutti per la mole imponente di
trattati sulla retorica, un buon discorso per essere tale deve riuscire in tre intenti: delectare, docere,
et movere.

In altri termini: deve essere piacevole, istruttivo e toccare l’animo degli ascoltatori.

Il mio obiettivo qui non è approfondire il tema della retorica, bensì osservare come abbia
impregnato la musica dei secoli XVII-XVIII e come ancora oggi sia una fonte inesauribile di
strumenti per l’interpretazione musicale.49 Per questa ragione, esporrò solo alcuni principi
fondamentali della creazione retorica che ci risulteranno utili per capire che utilità possano avere
nell’applicazione didattico-interpretativa.

Secondo i testi classici, la creazione di un discorso prevede cinque fasi preparatorie: Inventio,
Dispositio, Elocutio, Memoria, Pronuntiatio.

La Inventio è la fase di concepimento dell’idea che si vuole affermare con il proprio discorso e degli
argomenti che si impiegheranno per sostenerla (o confutare il suo opposto). Questi argomenti (loci)
rispondono alle seguenti domande: chi? cosa? dove? per mezzo di cosa? perché? in che modo?
quando? La mancanza o la debolezza di qualcuno di questi argomenti può compromettere
l’efficacia di tutto il discorso.

48
Rubén Lopez Cano, Música y Retórica en el Barroco, México, Universidad Nacional Autónoma de México, 2000, p.
20
49
È fondamentale, senza dubbio, per avvicinarsi alla musica di quel periodo storico, la cui interpretazione risulterebbe
superficiale o manierata senza avere compiuto un adeguato studio delle formule retoriche; inoltre, lo stesso
atteggiamento analitico-interpretativo può e deve essere ispiratore anche per l’interpretazione della musica di epoche
successive (sempre che sia uno strumento metodologico, senza che questo provochi una contaminazione di stili o idee
che nulla hanno a che vedere tra loro e risulterebbero estranee).
30
La Dispositio è la fase di distribuzione e organizzazione degli argomenti, nella quale si cerca di
collocare ciascuno di essi nella sequenza che risulti più efficace per raggiungere lo scopo. La
maniera più funzionale per organizzare il discorso è suddividerlo nelle seguenti sei parti: 50

- Exordium: è l’introduzione al discorso, nella quale l’oratore attira l’interesse degli


ascoltatori (captatio benevolentiae), annuncia il contenuto e l’ordine della sua esposizione
(partitio)
- Narratio: presentazione dei fatti e delle circostanze, nella maniera più chiara, obiettiva e
concisa possibile.
- Propositio: enunciazione della tesi fondamentale del discorso
- Confutatio: difesa della propria tesi (argumentatio), facendo forza sugli argomenti che la
sostengono e confutando gli argomenti contrari
- Confirmatio: ritorno alla tesi fondamentale, rafforzata dalle argomentazioni
precedentemente esposte
- Peroratio: epilogo del discorso, nel quale si riassume e si enfatizza la propria idea, a volte
traendone anche una conclusione di carattere educativo o morale

La Elocutio è la terza fase della preparazione del discorso, nella quale si traducono in forma verbale
le idee precedentemente concepite e organizzate. Questo momento si fonda su tre principi chiave:

- Puritas: la correttezza linguistica


- Perspicuitas: la comprensibilità del linguaggio utilizzato
- Decoratio: l’introduzione consapevole di eccezioni alla norma linguistica, con il fine di
delectare e movere (in altre parole, l’uso di figure retoriche)

La Memoria è la quarta fase del processo e consiste nella memorizzazione del discorso per
agevolarne l’esposizione, concentrandosi sull’ultima fase (pronuntiatio). Non si applica,
ovviamente, nel momento in cui l’esposizione avviene per iscritto.

La Pronuntiatio o Actio è il momento finale, nel quale finalmente si espone il discorso al pubblico e
si fa uso di tutti i mezzi espressivi (gestuali e verbali) per rafforzare la propria esposizione.

In epoca barocca, nel processo di composizione tutti (o quasi) questi parametri vengono rispettati
per creare un discorso musicale che possa arrivare all’animo degli ascoltatori con la massima
efficacia. Quando si tratta di musica cantata, allora la musica è un supporto al testo ed è
quest’ultimo che ne determina le idee, la disposizione e le figure retoriche impiegate. Nel caso della
musica strumentale, si viene a creare un codice (derivato comunque dalla musica vocale)
intelligibile per tutti, nel quale a una determinata forma, tonalità, armonia o figura musicale si
associa univocamente un significato e, a sua volta, un affetto. In particolare, nel caso delle figure
retoriche, vale la stessa definizione che si usa per le figure retoriche testuali, ossia, “deviazioni dalla
norma”.51 Come scrive Harnoncourt,

dal lavoro di questa prima generazione di operisti finalmente nacque un immenso vocabolario di
figure, ciascuna dotata di un determinato significato e familiari a ogni ascoltatore istruito. Di
conseguenza, era anche possibile che questo repertorio di figure potesse essere usato
indipendentemente, senza alcun testo: l’ascoltatore giungeva al significato verbale attraverso la
figura musicale. Questo adattamento alla musica strumentale di un linguaggio musicale che in

50
Cfr. Rubén Lopez Cano, op. cit., parte prima, cap. 3.
51
Cfr. Rubén Lopez Cano, op. cit, seconda parte cap. I. Cfr. anche l’inizio del presente capitolo, quando riferivo delle
accuse rivolte a Monteverdi dall’Artusi. L’uso consapevole di dissonanze improprie rientra appunto nelle deviazioni
dalla norma classificabili come figure retoriche.
31
origine era caratteristico della musica vocale è di grande importanza per capire e interpretare la
musica barocca.52

Nel capitolo In Germania: Quantz e Leopold Mozart si citava un passo di Quantz in cui l’autore
criticava i compositori tedeschi di cercare “più artificiosità che intelligibilità e la piacevolezza, e
scrivono più per la vista che per l’udito”, sottolineando anche che “risultano pressoché sconosciuti
presso di loro l’eccitare e il placare le passioni”.53Non stupisce, dunque, che siano stati proprio gli
studiosi tedeschi, principalmente, ad approfondire e classificare tutti gli aspetti della retorica
musicale, al punto da creare una vera e propria Affektenlehre (Teoria degli affetti).

A questo proposito il musicologo Gregory Butler scrive:

Non sorprende che sin dagli inizi il termine stesso [Affektenlehre] e ciò che in esso è compreso –
ossia lo schieramento sistematico dei mezzi retorici per controllare e dirigere le emozioni del
pubblico – fossero già nel tardo Cinquecento concetti estetici essenzialmente tedeschi. Sia
Michael Praetorius che Heinrich Schutz fanno riferimento alla novità del linguaggio musicale
italiano saturo di retorica nella Germania del primo Seicento. Ma mentre in Italia questo
linguaggio madrigalistico era sorto naturalmente come conseguenza della stretta correlazione fra
testi poetici e musica, per i giovani musicisti tedeschi esso era totalmente estraneo, ed era
qualcosa da insegnare ed apprendere, sicché la sua presentazione in Germania tendeva a essere
didattica e dottrinaria.54

Si potrebbe ora fare una lunga digressione su caratteristiche, uso e classificazione delle figure
retoriche, ma non è lo scopo principale di questo lavoro, pertanto rimando al già citato libro di
Rubén Lopez Cano e, in particolare, alla seconda parte, in cui si illustra molto dettagliatamente la
fase della decoratio. Segnalo però, fra i principali trattati storici che si occupano di teoria degli
affetti, i seguenti testi:

- Kircher, Musurgia universalis (1650)


- Ahle, Musicalische Sommer-Gespräche (1698)
- Walther, Musicalisches Lexicon (1732)
- Mattheson, Das neu-eröffnete Orchester (1713) e Der volkommene Capellmeister (1739)
- Forkel, Allgemeine Geschichte der Musik (1788-1801)

Nella seconda parte di questo capitolo cercheremo di capire alcuni principi relativi
all’interpretazione, ricordando sempre le parole di Bruce Haynes che esprimono così bene
l’ambiguità insita nei due concetti di musica scritta e musica eseguita:

si parla della ‘musica’ sul leggio. Ma le note su una pagina non sono un’opera musicale; non
sono musica in nessun caso. Sono semplicemente, per gli esecutori, una ‘ricetta’ da seguire.
Sarebbe come cercare di mangiare un libro da cucina; in mezzo, c’è un passaggio mancante.55

Secondo il pensiero di Harnoncourt56, la principale differenza tra la musica dei nostri tempi e la
musica dei secoli passati, ossia fino al XIX secolo, risiede nel diverso peso che si è dato all’arte (e,
in particolare, alla musica) nella vita quotidiana. Pensiamo, ad esempio, alle grandi cattedrali e
all’impiego di forze immane che richiedeva la loro costruzione, alla perfezione contrappuntistica di

52
Nikolaus Harnoncourt, Music as a Speech, Amadeus Press, 1988, p. 550
53
J.J. Quantz, op. cit., cap. XVIII
54
Gregory Butler, La retorica tedesca e la Affektenlehre, in Enciclopedia della musica, Einaudi, Torino, 2001, vol. IV,
p. 447-448.
55
Bruce Haynes, The End of Early Music, Oxford University Press, 2007, p. 22-23
56
Nikolaus Harnoncourt, op. cit., cap. I, Music in our lives
32
una messa palestriniana, o alla maestosità espressiva di una Passione di Bach. Oggigiorno la durata
media di una canzone moderna è di pochi minuti (fra i tre e i cinque, al massimo), poiché è
concepita per un consumo immediato, che richieda poco tempo e soprattutto poca o nessuna
conoscenza musicale. Al tempo stesso, mentre la cultura di massa va in una certa direzione, ve n’è
un’altra che, anacronisticamente, guarda e studia queste grandi opere del passato, come se in esse vi
fosse celata una bellezza perduta e come se vivessimo in un’età di decadenza, perfino consapevoli
di ciò.

Sempre rifacendomi all’opinione di Harnoncourt, nella nostra epoca la musica si è ridotta a un mero
ornamento estetico della vita quotidiana. L’arte in generale in altre epoche era tenuta così tanto in
considerazione e vi si spendeva una tale quantità di energie poiché era l’unico modo per mettersi in
contatto con l’infinito, con i grandi misteri della vita. Di questo passato, a quanto pare, oggi se ne è
perso il contenuto e ne sono rimasti solo gli aspetti esteriori

Nella Parte prima, inoltre, si commentava come l’approccio all’educazione sia cambiato sul finire
del secolo XVIII.57 La volontà di rendere la conoscenza una risorsa a portata del maggior numero
possibile di persone ha avuto l’effetto indiretto di cristallizzarla, renderla “accademica” e più
distante dalle peculiarità del singolo individuo. Ma la cultura è mutevole, cangiante, si trasforma
insieme alle persone che la generano. Non esiste realmente un’evoluzione in senso positivista della
cultura, così come non esiste un’evoluzione della musica: la musica rispecchia la cultura del tempo
in cui è stata scritta, e gli strumenti sono la migliore opzione possibile che la tecnologia offre ai
musici dell’epoca per comunicare le loro idee con il loro linguaggio.

Nel caso della musica, secondo Harnoncourt58, la volontà di renderla semplice, orecchiabile,
uniformando gli stili perché fosse alla portata di tutti, ha creato quell’educazione istituzionalizzata
nella forma del Conservatorio59, che si è sostituito al tradizionale rapporto “di bottega” che
caratterizzava la relazione tra maestro e allievo nei decenni anteriori, come abbiamo visto nella
Parte prima.

Questo processo di trasformazione ha avuto varie conseguenze:


- Da una parte, la figura dell’artista come “super-uomo”, che emerge dalla mediocrità della
massa per farsi portatore di grandi messaggi (il ruolo centrale dell’arte stessa viene quindi
trasferito alla figura dell’artista)
- Dall’altra parte, la progressiva separazione tra “arte colta” e “arte popolare”, che ha portato,
ad esempio, all’anacronismo storico di suonare musiche del passato (percependole come
superiori a quelle del presente) in luoghi e situazioni totalmente estranei al contesto
originale, senza nemmeno avere la capacità di comprenderle a fondo

Per il musicista dei secoli XVII-XVIII, suonare la musica del proprio tempo era la normalità. A
grandi linee, possiamo distinguere tre tipologie di musicisti: il musicista teorico, il musicista

57
Cfr. il cap. In Germania: Quantz e Leopold Mozart
58
Ricordo che la prima edizione di Music as a Speech venne pubblicata, in tedesco, nel 1982. Le primissime esecuzioni
con pretesa di essere “storicamente informate” risalgono a pochi anni prima e lo stesso Harnoncourt fu uno dei
principali promotori di questo movimento di riscoperta. In quegli anni, fu una vera e propria rivoluzione
dell’interpretazione. Oggigiorno, questa fase storica è ormai superata e, al contrario, pare che si stia andando verso una
conciliazione delle posizioni. Inevitabilmente, in questi ultimi decenni anche la didattica ha subito grandi trasformazioni
e ormai anche la posizione di Harnoncourt sembra non essere più adeguata ai nostri tempi.
59
Harnoncourt sottolinea, inoltre, come molti dei metodi che ancora oggi si usano siano proprio figli di quell’epoca o di
poco successivi.
33
pratico, il musicista “completo”, che padroneggiava tutti gli aspetti dell’arte (tanto compositiva
quanto esecutiva), e pertanto era tenuto in maggiore considerazione.60

Sull’insegnamento, Harnoncourt scrive anche che:

Un tema costante negli scritti sulla musica, specialmente nell’età della musica barocca fra il
1600 circa e le ultime decadi del XVIII secolo, è che la musica è un linguaggio basato su toni,
implicando dialogo e confronto drammatico. Il maestro deve insegnare la sua arte
all’apprendista in tutti i suoi aspetti. Non insegna semplicemente come suonare uno strumento o
cantare, ma anche come presentare la musica. Questa naturale relazione non presentava
problemi; i cambiamenti avevano luogo gradualmente da generazione a generazione, cosicché
l’apprendimento non era un re-imparare nuovamente, bensì una semplice crescita spontanea,
una metamorfosi graduale.61

Se per i musicisti di oggi è così difficile, o impossibile, comprendere il significato profondo della
musica antica, come dovrebbero porsi di fronte alla partitura? Senz’altro, ai fini
dell’interpretazione, non è né sufficiente né a tutti i costi necessario ricreare le condizioni materiali
(cioè ricorrere a strumenti storici). L’opinione comune, sostenuta anche da Harnoncourt, è che
un’interpretazione modernista, ricca di significato, è sempre e comunque preferibile a
un’esecuzione pretenziosamente barocca, che però non è strutturata da un’idea espressiva.

Ma dopo aver speso tante parole sull’impregnare il gesto di senso musicale e sull’impiego del
mezzo tecnico per dare voce alla propria immaginazione interiore, in un qualche modo questa
“impotenza” di fronte alla partitura andrà gestita.

Lascio che le parole di Umberto Eco ci aiutino a fare luce e ci possano condurre a una posizione che
non sia né una fredda ripetizione radicale di ciò che presumibilmente si faceva in passato, né uno
stravolgimento del testo e dei suoi contenuti, dovuto a una mancanza di approccio critico.

Affermare che l’interpretazione […] è potenzialmente illimitata non significa che


l’interpretazione non abbia uno scopo e che fluisca per conto proprio. […] Secondo alcune
teorie critiche contemporanee l’unica lettura affidabile di un teso è una pessima lettura, poiché il
senso dell’esistenza di un testo viene dato dalla catena di domande-risposte che suscita e, come
indicò maliziosamente Todorov […], un testo non è altro che un picnic in cui l’autore porta le
parole e i lettori il senso. Sebbene ciò sia vero, le parole apportate dall’autore costituiscono una
scomoda manciata di prove materiali che il lettore non può sorvolare […]

Si potrebbe però obiettare che l’unica alternativa a una teoria interpretativa radicale orientata al
lettore è propugnata da coloro che affermano che l’unica interpretazione valida aspira a scoprire
l’intenzione originale dell’autore. In alcuni dei miei scritti recenti ho indicato che, tra
l’intenzione dell’autore (molto difficile da scoprire e molte volte irrilevante per l’interpretazione
di un testo) e l’intenzione dell’interprete che (citando Richard Rorty) basicamente “scolpisce il
testo fino a dagli la forma che servirà al suo proposito”, esiste una terza possibilità. Esiste
un’intenzione del testo.

60
Secondo Harnoncourt. Rispetto alla figura del “artista-eroe” romantico, questa superiorità non aveva a che fare con
grandi messaggi o grandi contenuti. In questo caso si tratta di una superiorità di carattere tecnico, ma stilisticamente il
compositore era coerente con i linguaggi del proprio tempo (anzi, quando se ne discostava, generalmente, non veniva né
apprezzato né compreso). Nella musica barocca vi erano strutture e figure retoriche ben precise, con un significato
comprensibile a tutti, e a questo i compositori si attenevano. Il loro valore risultava dalla capacità di far risaltare questi
“affetti”, tanto nella composizione come nell’interpretazione.
61
Nikolaus Harnoncourt, op. cit., pp. 73-74
34
[…] l’interpretazione è indefinita. Il tentativo di cercare un significato finale e inaccessibile
conduce all’accettazione di una deriva o di uno slittamento interminabile del senso. Una pianta
non si definisce per le sue caratteristiche morfologiche o funzionali, bensì per una sua
somiglianza, anche parziale, con un altro elemento del cosmo. Se assomiglia vagamente a una
parte del corpo umano, dunque ha significato perché rimanda al corpo. Però questa parte del
corpo ha significato perché rimanda a una stella, e quest’ultima ha significato perché rimanda a
una scala musical, e questa a sua volta perché rimanda a una gerarchia di angeli e così ad
infinitum. Qualsiasi oggetto, terreno o celeste, nasconde un segreto. Ogni volta che si scopre un
segreto, questo rimanderà a un altro segreto in un movimento progressivo verso un segreto
finale. Ciò nonostante, non ci può essere un segreto finale. Il segreto ultimo dell’iniziazione
ermetica è che tutto è segreto. […] Il pensiero ermetico trasforma tutto il teatro del mondo in un
fenomeno linguistico e al tempo stesso nega al linguaggio qualsiasi potere comunicativo.62

62
Umberto Eco e Stefan Collini (a cura di), Interpretation and overinterpretation, Cambridge University Press, 2008,
cap. I Interoretation and history
35
L’esecuzione in pubblico

Attraverso lo studio della retorica e dell’interpretazione della musica antica, nel precedente capitolo
abbiamo constatato l’importanza della strutturazione di un’idea musicale prima ancora della sua
esecuzione sullo strumento. Una volta concepita l’idea, dobbiamo individuare i mezzi tecnici che ci
permetteranno di realizzarla, e per questo scopo ricorreremo agli appositi trattati e metodi di cui
nella parte prima e seconda dell’elaborato abbiamo presentato una breve rassegna.

L’obiettivo ultimo è, naturalmente, arrivare all’animo del pubblico e muovere gli affetti, usando le
parole di Gioseffo Zarlino. Per raggiungere tale scopo abbiamo visto quanto sia importante tanto la
preparazione tecnica come la preparazione interpretativa.

Ma come si può raggiungere la profonda connessione con l’opera musicale che si deve eseguire?

Secondo alcuni principi di Tecnica Alexander63 la mancanza di sicurezza è sempre da imputarsi a


un lavoro di preparazione non adeguato e in poca o pochissima parte a circostanze esterne. Il
ragionamento segue questa logica: se la direzione del lavoro è stata seguita correttamente e
progressivamente, non ci dovrebbe essere motivo di temere l’atto dell’esecuzione. In una linea di
principio più generale, potremmo dire che la causa del fallimento non risiede nelle circostanze
esterne, bensì nella maniera in cui si reagisce ad esse.64

Negli studi condotti da Alexander viene considerato anche il problema dell’inaffidabilità della
percezione dei sensi: non ci sembra corretto ciò che è corretto, bensì ciò che siamo abituati a
considerare come tale. Per raggiungere il nuovo scopo, bisogna osservare e inibire il desiderio di
ripetere uno schema conosciuto e dare nuove direzioni, accettando anche quelle che ci sembrino
scorrette e che ci potrebbero procurare disagio. Si tratta quindi di applicare delle procedure
indirette, senza cercare di arrivare direttamente al fine, per l’appunto, ma creando le condizioni
idonee a far sì che il risultato atteso sorga come naturale e fluida conseguenza del lavoro di
preparazione. Per questa ragione, è fondamentale la guida di un maestro in qualunque atto di
apprendimento: solo l’occhio di un attento valutatore esterno a noi potrà avvertirci quando si
ripetano vecchi schemi e guidarci verso i nuovi.65

Come si diceva nella Parte prima, la maggior parte trattati italiani dei secoli XVI-XVIII sono tanto
scarni di indicazioni tecniche in proporzione a quelle musicali, proprio perché il rapporto tra allievo
e maestro era tanto stretto che si dava per scontato l’aggiustamento e l’approfondimento delle
problematiche tecniche in sede di lezione diretta. Inoltre, ricordiamo anche come in quell’epoca le
varie scuole violinistiche fossero molto caratterizzate regionalmente, anche se questo ovviamente
non impediva scambi e contaminazioni.

Dopo questa piccola digressione, ritorno al tema dell’esecuzione in pubblico prendendo in


considerazione due autori distanti nel tempo ma che hanno avuto qualcosa da scrivere al riguardo:
Johann Joachim Quantz e Kató Havas.

Il capitolo XVI del Versuch di Quantz è interamente dedicato alle problematiche del suonare in
pubblico, specialmente nel caso dei flautisti anche se vi sono alcune considerazioni che possono
valere per tutti gli strumentisti.
63
Cfr. il cap. La Tecnica Alexander e alcune questioni di postura. Cfr. anche Pedro de Alcantara, Indirect procedures,
Oxford University Press, 2000 e Frederick Matthias Alexander, The use of the self, London, Orion Books Ltd, 1985
64
Cfr. ibidem.
65
Cfr. ivi, Part I cap. 3 Sensory Awareness and Conception

36
Leggiamo il seguente passaggio:

Se un musicista che desidera essere ascoltato dal pubblico è timido e ancora non è abituato a
suonare in presenza di molte persone, mentre suona deve rivolgere tutta la sua attenzione alle
note che ha di fronte e non guardare mai gli ascoltatori, poiché la loro presenza lo distrae e gli fa
commettere errori.

E ancora:

Il timore causa un’agitazione nel sangue che fa sì che i polmoni si muovano aritmicamente e
inoltre produce molto calore nella lingua e nelle dita. Questo causa necessariamente un tremore
del corpo che impedisce che si ottenga una buona esecuzione.66

Il resto delle indicazioni fornite da Quantz sono per lo più di ordine pratico, inerenti alla scelta dei
brani, all’approccio con la sala e alla sua acustica, utili consigli su accordatura, intonazione, e altro
ancora.

Dobbiamo comunque osservare che molti dei problemi di interpretazione che abbiamo oggigiorno,
come si diceva nel capitolo anteriore, sono dovuti alla volontà di eseguire musiche che
appartengono alla nostra cultura come un ricordo, un’ombra, ma il cui spirito originario si è perso
insieme agli esecutori che con questa musica ci sono cresciuti.

Non potremo sapere con esattezza quale fosse lo stato d’animo di un esecutore nell’eseguire la
musica a lui contemporanea. Avrà avuto anche lui le sue incertezze, ma possiamo supporre che non
fossero esattamente uguali alle nostre.

Il caso di Quantz, comunque, è uno dei primissimi nella storia in cui tematiche come “il suonare in
pubblico” o “lo studio individuale” entrano a far parte di una trattazione didattica. Leopold Mozart,
come abbiamo visto, eredita questo approccio e lo enfatizza ancora di più, ponendo i semi per
quella che sarà la vera didattica violinistica.

In ogni caso, pare che Quantz stia cercando di comunicarci alcuni concetti che le conoscenze della
sua epoca ancora non erano in grado di spiegare o che non erano, evidentemente, sentiti come
particolarmente importanti.

La lettura del libro Stage Fright – its causes and cures della violinista e didatta Kató Havas può
aiutare a fare chiarezza sul tema dell’esecuzione in pubblico e sulle varie problematiche tra loro
connesse. Scritto nel 1973, Stage Fright è il terzo libro dell’autrice, che già in precedenza aveva
scritto A New Approach to Violin Playing (1961) e The violin and I (1968). In entrambi i casi la
trattazione è immediata, pratica, vicina alle esigenze quotidiane di quei violinisti che vogliano
approfondire le tematiche riguardanti il loro rapporto con il violino.

In Stage Fright il discorso è più organizzato, più sistematico. L’autrice affronta i vari aspetti
dell’ansia da prestazione che caratterizza l’esecuzione in pubblico di tanti violinisti, riscontrando tre
cause principali:67

66
Johann Joachim Quantz, op. cit., cap. XVI
67
Cfr. con Kató Havas, El miedo al escenario, Buenos Aires, Ediciones Cuerdas al Aire, 1992, cap. I Panorama
general
37
1) Aspetti fisici (paura che cada il violino, paura del tremore dell’arco, paura di stonare, paura
delle posizioni alte e dei cambi di posizione)
2) Aspetti mentali (paura di non suonare abbastanza forte, paura di non suonare abbastanza
rapido, paura di perdere la memoria)
3) Aspetti sociali (paura di non essere abbastanza bravo)

Prima di affrontare in dettaglio questi argomenti, l’autrice prende in considerazione il caso dei
violinisti gitani che, lontani dalle tensioni e dalle preoccupazioni generate dalla società civilizzata,
sono totalmente alieni al problema della paura del suonare in pubblico:

[I gitani] non devono sopportare le responsabilità del nostro sistema sociale. Non devono essere
migliori degli altri per trionfare. Anzi, gli è difficile capire perché si dovrebbe trionfare in
generale. In secondo luogo, il loro unico interesse è il piacere degli ascoltatori. Sono liberi da
qualsiasi obbligo eccetto uno: comunicare.68

L’autrice si sofferma anche sul rapporto fisico dei violinisti con il loro strumento:

Dà gioia anche solo il vedere il gusto immacolato con cui il gitano manipola il proprio
strumento. Trasmette la sensazione di stare suonando non sopra lo strumento, ma attraverso di
esso.69

Questo particolare approccio allo strumento, tipico dei violinisti gitani, ha, secondo l’autrice, due
conseguenze fisiche importantissime:

- La sensazione di una pulsazione ritmica organica che si genera all’interno e fluisce verso
l’esterno, coinvolgendo tutto il corpo e non solo le appendici in contatto con lo strumento
- Il raggiungimento dell’integrità del corpo, la libertà dei movimenti (ossia, delle
articolazioni), grazie alle quali si possono trasmettere pienamente l’immaginazione musicale
e l’energia fisica che le dà vita

Inoltre, riguardo agli aspetti fisici che impediscono di suonare adeguatamente, l’autrice stabilisce
alcuni principi che dovrebbero essere le basi di un nuovo apprendimento del violino.70 Ad esempio:

- Tornare alla centralità del proprio corpo, senza pensare al violino e alle appendici esterne
bensì all’equilibrio della propria postura
- Affidarsi a una mobilità auto-generata dagli impulsi ritmici che vengono trasmessi
dall’esterno verso l’interno, “lasciando accadere” sia il movimento della parte destra che
della parte sinistra, senza forzare

68
Kató Havas, op. cit., p. 17
69
Ivi, pp. 18-19
70
Ricordiamo, comunque, che sono passati quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di Stage Fright e che da allora molti
risultati proposti sono stati raggiunti, in tal senso. La ragione per cui riporto queste informazioni non è, quindi, solo per
sottolinearne l’importanza (che naturalmente è sempre valida) ma anche per metterle in relazione allo studio della prassi
esecutiva barocca che si è sviluppato di pari passo a queste nuove correnti didattiche. Come ricordo, lo scopo di questa
tesi è appunto verificare questa relazione tra i nuovi approcci al violino e lo studio del violino barocco, più che redigere
un riassunto della storia della didattica.
38
- Lavorare sulla sensazione di leggerezza e sospensione delle braccia, eliminando l’idea di
sostenere il violino e men che meno di sostenerlo con la pressione del mento, poiché questo
provoca altre forze di compensazione della tensione

Invece, per quanto riguarda gli aspetti mentali del suonare, dopo aver analizzato le problematiche
più frequenti, l’autrice chiama in causa il potere delle parole e il potere dell’immaginazione come
atti precursori del gesto fisico. In questo senso è anticipatrice del pensiero della Hoppenot, come già
abbiamo visto nel capitolo dedicato.

Sugli aspetti sociali del suonare in pubblico, è chiaro che certe tensioni nascono dal contesto di
competizione in cui i musicisti sono tenuti a svolgere la loro attività. Riassumendo brevemente, si
può dire che la paura di sbagliare e di non essere abbastanza bravo è ricollegabile alla paura di non
essere amati, e sappiamo che nella prima infanzia l’amore ha una valenza molto tangibile: calore,
cibo, protezione, compagnia (ovvero, tutto ciò che è legato alla sopravvivenza). Non ci interessa in
questo contesto analizzare come e perché questo avviene, ci limitiamo a prenderne atto e a studiarne
gli effetti sul suonare.

Colpisce particolarmente il fatto che Kató Havas denoti come il successo di un artista sia
comunemente inteso da un punto di vista economico.71 Certamente, è una grandezza facilmente
misurabile. Al contrario, chi potrebbe “misurare” quale artista è migliore di un altro? Eppure
abbiamo visto che non in tutte le epoche è stato così, e in particolare nel periodo barocco grande
importanza era data alla capacità retorico-espressiva del musicista.

Di conseguenza, questa ambizione sfrenata, questo istinto fortissimo alla sopravvivenza prende il
posto dell’amore, della gioia, della passione: i veri alimenti dell’arte. Per questo il centro del
metodo didattico della Havas è focalizzato (mentalmente e gestualmente) sull’idea del “dare”: è
l’unico modo per non lasciarsi sopraffare dalle tensioni generate da questa ambizione al successo,
che, al contrario, è una grande manifestazione di egoismo. I bambini, purtroppo, non ne sono
immuni, in quanto riflettono inconsapevolmente le ambizioni che la famiglia e la società, talora in
perfetta buona fede, riversano su di essi.

Un utile esercizio sulla gestione della paura del pubblico ci viene suggerito nell’ambito della
Tecnica Alexander. Pedro de Alcantara suggerisce di esercitarsi nell’anticipare l’arrivo dell’ansia da
prestazione, ricercando le stesse sensazioni che proveremmo davanti a un pubblico, “come se” fosse
la realtà. Bisogna ripetere l’esercizio più volte, prendendo confidenza con queste sensazioni e
osservandone gli effetti sul corpo. Poco a poco, bisogna concentrarsi sulla coordinazione della testa
e del collo verso l’alto e in avanti, ritrovando la funzionalità del controllo primario, e agire su
ciascuna sensazione fisica, una alla volta, eliminando le tensioni e ricercando sensazioni di
comodità. Praticando questo esercizio con regolarità, si convertirà in abitudine e, quando ci si
troverà sul palcoscenico, sarà sufficientemente interiorizzato da intervenire per inibire lo stimolo
dell’ansia e dei suoi effetti sul corpo.72

71
Citando l’autrice: “Avere successo è una meta accettata dalla nostra struttura sociale. Quello che le persone non
vedono è che la parola ‘successo’ è quasi sempre vincolata alla conquista materiale” (Kató Havas, op. cit., p. 113).
72
Cfr. Pedro de Alcantara, op. cit., Part III cap. 23 Stage Fright
39
Per finire, concludo questo capitolo tornando al Versuch di Quantz, nel quale troviamo un’ulteriore
testimonianza di come, per quanto si possa cadere nella tentazione di idealizzare l’intorno musicale
del suo tempo considerandone solo gli aspetti più felici, certi problemi fossero diffusi allora come
oggigiorno:

La scelta di dedicarsi alla musica, come tutte le decisioni che prendiamo nella vita, deve
considerarsi con attenzione. Poche persone hanno la fortuna di essere destinate alla scienza o
alla professione per la quale possono contare con una disposizione naturale più accentuata del
normale. Questo equivoco risulta spesso essere conseguenza dell’ignoranza dei genitori, che
obbligano i figli a dedicarsi a ciò che piace a loro stessi, o si immaginano che tale scienza o tale
professione sia più onorevole o vantaggiosa di un’altra. Altre volte desiderano che i figli
imparino lo stesso mestiere dei genitori, e di conseguenza li obbligano a condurre un certo tipo
di vita che gli risulta sgradita o per la quale non hanno talento.73

73
Johann Joachim Quantz, op. cit., Introduzione
40
Il metodo di studio

Trovo che possa essere interessante approfondire, in particolare, un esercizio proposto dalla Havas
nella parte sugli Aspetti mentali (capitolo intitolato La paura di non suonare abbastanza veloce).
Secondo la didatta, il problema nasce da una mancanza di coordinazione74 tra comando mentale e
atto fisico, che porta a compiere gesti erronei, fuori tempo e a tentare di compensare la mancanza di
ordine con un eccesso di forza. L’autrice propone di arrivare all’esecuzione di alcuni studi (per
esempio il nº 1 di Kreutzer) attraversando alcune tappe preparatorie prima di mettere le mani sullo
strumento.

In particolare, mi soffermo sul primo esercizio, che consiste nel coordinare il nome delle note con la
pulsazione ritmica o, altrimenti detto, solfeggiare. Non si tratta però di un solfeggiare meccanico e
assente, bensì uno studio consapevole delle note mettendone in relazione il nome, le sue
caratteristiche “fisiche”, il momento preciso dell’esecuzione, l’articolazione, la dinamica e ogni
altro possibile parametro.

Sullo stesso argomento, Antonello Farulli si esprime in questi termini:

Tuttavia mi sono trovato a riflettere sulla convinzione della vecchia scuola che chi sa
pronunciare ogni nota, anche in velocità, sappia anche suonarla. Questa opinione mi pare
stimolante se posta su un piano diverso da quello della identificazione della nota. Infatti quando,
poi, nella pratica si legge la musica nessuno pensa al nome della nota. Mi pare interessante, al
contrario, se ci si riferisce invece al problema della comunicazione nervosa, laddove è del tutto
evidente che il controllo della parola e delle labbra corrispondono alla capacità del sistema
nervoso di rispondere agli impulsi.75

Secondo Farulli, quindi, il fatto che siano coinvolti gli stessi centri nervosi impiegati nell’atto del
suonare sarebbe proprio la ragione per cui è tanto importante solfeggiare prima di suonare. Inoltre,
essere capaci di “sentire” la musica anche in assenza dello strumento contribuisce a stimolare
l’immaginazione e la logica, senza che si producano le tensioni e le cattive abitudini che si generano
da uno studio fondato sullo schema prova-errore, a sua volta prodotto dalla mancanza di una
progettualità nella preparazione. Vi sono altri casi in cui, invece, il solfeggio è concepito come mero
esercizio astratto e senza alcun legame con il repertorio studiato, quando invece la sua vera utilità
sarebbe metterlo in relazione immediata con l’atto esecutivo.

Nonostante tutto, può non essere scontato che uno studente che sappia eseguire perfettamente un
esercizio di solfeggio, sia poi in grado di trasferire la stessa abilità all’esecuzione. Forse, secondo il
mio parere, almeno all’inizio degli studi bisognerebbe imparare a solfeggiare solo i brani che si
andrà a suonare, concentrandosi più sull’utilità e sulla qualità dell’esercizio, invece che sulla
quantità o la rapidità di avanzamento.

74
È da notare che spesso nel linguaggio comune si confondono i termini sincronizzare e coordinare. Se è vero che le
parole hanno un potere creativo, questo equivoco può dare luogo a problemi poiché, come è logico, non può esservi
sincronia tra il pensiero e l’azione: esiste un ordine che va rispettato e quindi esiste una coordinazione tra pensiero e
azione, in quanto l’uno precede l’altro. Si affronterà il discorso più chiaramente nel capitolo successivo.
75
Antonello Farulli, op. cit., p. 239
41
Si possono individuare alcune ragioni fondamentali:

- L’apprendimento teorico e l’apprendimento pratico procederebbero alla stessa velocità:


perché dunque sottrarre tempo ed energie alla pratica strumentale nei primi anni, per
imparare, ad esempio, a ripetere meccanicamente gruppi ritmici irregolari che non si
affronteranno prima dei tre o quattro anni successivi?
- Si potrebbe mettere immediatamente in relazione la lettura con il gesto, e si giustificherebbe
così l’utilità di tale lavoro teorico
- Stimolerebbe la capacità di immaginazione astratta, precedente al suonare, che, come
abbiamo visto, è un requisito fondamentale
- Procedendo in questo modo, si gettano solide basi affinché l’allievo possa affrontare senza
sforzo i passi successivi dell’apprendimento, rendendosi inoltre più autonomo nel proprio
metodo di studio

Tornando a Kató Havas, la violinista spiega con queste ragioni l’importanza del saper pronunciare
le note:

Quando un bambino ha imparato che la parola tavola significa un determinato oggetto,


simultaneamente ha assimilato un sacco di informazioni su dimensioni, forma e funzioni,
incluse nel nome. […] Lo stesso accade con la musica. In questo caso l’informazione
accumulata in relazione ad ogni nota è uditiva, visiva e tattile. Però anche in questo caso, come
nelle attività quotidiane, è il nome di ogni nota che riassumerà tutte le informazioni.76

Lo sapevano bene i maestri dei secoli XVII e XVIII: come abbiamo visto nei capitoli precedenti, vi
era una totale aderenza tra testo e musica e comunque, anche in mancanza della parola, il suonare
era la naturale imitazione del cantare. Per questa ragione, era prassi comune studiare l’articolazione
delle note imitando l’articolazione di determinate sillabe. Se era fondamentale per gli strumenti a
fiato77, anche per gli strumenti ad arco era uno stimolo ad essere quanto più vicini possibile alle
forme del parlato.

78

76
Kató Havas, op. cit., p. 87
77
L’intero cap. VI del Versuch di Quantz è dedicato appunto a questo argomento.
78
Francesco Rognoni Taeggio, op. cit.

42
Possiamo osservare che, con il passare del tempo, ciò che era un fine in sé stesso è diventato un
mezzo per raggiungere altri scopi. Si sillabava il testo musicale perché doveva, effettivamente,
intendersi come se fosse un vero e proprio discorso parlato, e non come mezzo che servisse per
raggiungere uno scopo tecnico-strumentale, come invece accade per i repertori di altre epoche, nel
quale la cantabilità non è una caratteristica prioritaria e pertanto si ricorre a questo espediente più
che altro per la sua efficacia come esercizio di studio.

43
La Tecnica Alexander e alcune questioni di postura

Sino a qui, si è parlato molto del ruolo dell’immaginazione nella creazione musicale, prima che si
traduca in un atto esecutivo. Si è parlato, inoltre, di uso del corpo e di approccio allo strumento. Per
queste ragioni, vorrei riassumere in questo capitolo alcuni concetti chiave della Tecnica Alexander,
poiché ritengo che, fra le tante tecniche di consapevolezza corporea, sia una delle più esaustive e
applicabili ad ogni situazione della vita, al di là della pratica strumentale.

Il principio chiave su cui si fonda la disciplina scoperta da Alexander è l’idea di unità della vita. Si
tratta di concepire l’essere umano come un “tutto”, e non come singole parti messe insieme tra di
loro e analizzabili singolarmente, come se si potessero estrapolare dal loro contesto. Il campo fisico,
mentale e spirituale sono uniti e interdipendenti: ciascuno di essi influenza gli altri e tutti insieme
cooperano, in qualsiasi momento o azione della vita.

È possibile pensare a un movimento come a un processo puramente “fisico”? Prima di ogni azione,
vi è sempre un comando mentale che agisce e trasmette informazioni dal cervello al corpo. Al
tempo stesso, non esiste nulla che sia puramente un prodotto “mentale”, in quanto la mente stessa
non è pura astrazione, ma è un corpo materiale composto da circuiti elettro-chimici che
obbediscono a leggi della fisica.

Nella storia personale di Alexander, che non approfondiremo in dettaglio, quando egli si vide la
carriera di attore compromessa a causa di problemi alla voce, dopo aver tentato invano le cure più
disparate, ebbe l’intuizione di non cercare soluzioni esterne che gli risolvessero il problema, bensì
di cercare le cause interne che glielo causavano.79

Fu così che scoprì un principio di base del funzionamento del corpo umano: il controllo primario. Il
controllo primario è una qualità innata di ogni essere animato, che non si impara (dal momento che
tutti la possiedono), ma il cui funzionamento può essere compromesso dall’interferenza di abitudini
errate.

Su quali processi si basa il controllo primario? Prima di tutto, sul riportare l’attenzione al proprio
centro fisico, cioè l’asse della colonna vertebrale, da cui si genera qualsiasi relazione che abbiamo
con l’ambiente circostante. A livello fisico questo si traduce in una relazione coordinata tra testa e
collo, e tra il sistema testa-collo con la spina dorsale. Questa libertà (percepibile nella zona della
vertebra dell’atlante) sarebbe naturalmente presente negli esseri animati ma, nel caso dell’uomo,
l’acquisizione di certi comportamenti scoordinati e l’abitudine generata dalla loro reiterazione, ne
compromettono il naturale funzionamento.

Un comportamento scoordinato non è altro che una maniera di agire basata sulla volontà di arrivare
direttamente al risultato, senza passare per gli step intermedi, che nella terminologia di Alexander si
definiscono mezzi-con-cui. In questo modo si usano in maniera inefficace le parti periferiche del
corpo, concependole come un qualcosa di “separato” dal resto, dimenticandosi di essere un’unità
indivisibile e che, prima della coordinazione particolare, vi sono meccanismi di coordinazione
generale del sistema-persona (il controllo primario di cui si diceva). L’accumularsi di questi
comportamenti genera abitudini che, oltre a creare le condizioni che favoriscono l’insorgenza di
problemi di salute, risultano difficili da cambiare a causa dell’inaffidabilità dell’auto-percezione.

79
Per la autobiografia di Alexander, cfr. Frederick Matthias Alexander, The use of the self, London, Orion Books Ltd,
1985

44
Fra le molte scoperte che fece Alexander nello studiare le proprie problematiche di emissione della
voce, una delle più importanti fu di rendersi conto che quanto più cercava di “fare la cosa giusta”,
tanto più l’uso del suo corpo peggiorava. Perché questo?

La nostra percezione sensoriale è inaffidabile in quanto si basa sul riconoscimento di ciò che è noto
e sulla risposta che siamo abituati ad associare a tale sensazione, indipendentemente dal fatto che
sia efficace o meno. Per questa ragione, se si vuole cambiare l’uso di se stessi, occorre avere il
coraggio di sospendere il proprio giudizio e affidarsi a un’esperienza sconosciuta: se ciò che stiamo
facendo ci sembra corretto, probabilmente stiamo ripetendo qualcosa che abbiamo sempre fatto, e
se fino a quel momento il risultato non era comunque ritenuto soddisfacente, anche questa volta,
l’ennesima, non sarà diverso. Occorre quindi affidarsi alla guida di una persona esperta, che pur non
essendo infallibile, avrà comunque una visione più oggettiva della situazione e non sarà influenzata
dalla stessa percezione erronea dei sensi.

La Tecnica Alexander prevede dunque di:

- Inibire il comportamento scorretto (intervenendo non sul corpo direttamente, ma


indirettamente, lavorando sulle immagini mentali e sulla forza di volontà)
- Prevenire il ripetersi di vecchi comportamenti o l’attuazione di nuovi comportamenti erronei
- Dirigere i nuovi comportamenti che si desidera acquisire

Potremmo individuare quattro fasi, nel nostro agire:

volontà  mezzi  decisione  azione

- Volontà: il primo passo, che avviene dentro di noi, è la volontà di compiere un determinato
gesto, che si può definire anche come la reazione che scegliamo di avere di fronte a un
determinato stimolo esterno

- Mezzi: immaginazione/visualizzazione delle singole tappe che dobbiamo percorrere per


realizzare il gesto che ci detta la nostra volontà; è la fase che generalmente si salta quando si
agisce per istinto, affidandosi a schemi abituali ma non per questo efficaci a priori

- Decisione: è il momento più importante, quello in cui agisce il fenomeno inibitorio che
abbiamo visto prima, fondamentale per il cambio comportamentale; è in questa fase che
siamo padroni di scegliere se agire o meno come ci eravamo proposti

- Azione: il compimento finale della propria scelta di agire

Ora, il momento cruciale per il buon esito, per esempio, di una performance, è quello che si situa tra
la decisione e l’azione. L’esitazione non perdona. Di fronte all’esecuzione di un brano, se sappiamo
che la preparazione è stata la migliore possibile, se lasciamo che dalla decisione scaturisca l’azione,
senza interferire, difficilmente falliremo nell’intento.

Il nodo chiave della tecnica, dunque, è agire sull’uso e non sul funzionamento: non sui fattori esterni
a noi, ma sulla maniera con cui noi stessi utilizziamo le nostre risorse. L’uso influisce sul
funzionamento, ma se cerchiamo di intervenire direttamente sul secondo elemento senza occuparci
del primo, difficilmente otterremo i risultati sperati.

45
Ne derivano alcune conseguenze degne di interesse:

- La postura non è una “posizione prestabilita”, bensì il fluido passaggio da una posizione
all’altra secondo le circostanze di ogni momento
- Per la stessa ragione, la “tecnica” non è un’azione prestabilita e assoluta, ma un processo o,
per meglio dire, un complesso di azioni coordinate tra loro per ottenere un certo risultato
- Prendendo atto che vi è una gerarchia da rispettare, per cui la coordinazione generale
(controllo primario) influisce positivamente o negativamente sulla coordinazione particola, è
fondamentale dare la priorità all’acquisizione di un uso consapevole di tutto il corpo prima
di passare all’uso specifico di una particolare tecnica

Se ora relazioniamo queste informazioni con le metodologie da Kató Havas e Dominique Hoppenot,
ci risulta più facile capire il perché di tanta importanza data all’interiorità, alla fluidità del corpo e
all’immaginazione: qualsiasi gesto nasce da uno stimolo interiore e non come atto meccanico fine a
sé stesso. Quando ci sembra che questo non sia vero, è perché i nostri gesti sono comandati da
pulsioni interiori inconsce (ma che nascono, comunque, dal profondo), e per intervenire su di essi
dovremmo utilizzare tecniche che ci permettano di lavorare sull’inconscio attraverso l’osservazione
interiore.

A tal proposito, vorrei ritornare sull’idea di postura presentata dalla Hoppenot nel libro Le violon
interieur. Coerentemente con l’idea di Alexander, la postura non è un modello prefissato di come
deve “stare su” il corpo umano, ma un insieme di forze che si controbilanciano e che sono in
continua trasformazione, perché in ogni momento dobbiamo compiere gesti diversi per ottenere
risultati diversi. In basso, possiamo osservare le principali direzioni che agiscono sull’equilibrio del
corpo del violinista secondo quanto rilevato dalla Hoppenot.

80 81

82

80
Dominique Hoppenot, op. cit., p. 38.
81
Ivi, p. 40.
82
Ibidem.
46
Nella seguente immagine, possiamo vedere un’applicazione violinistica del concetto di
coordinazione testa-collo-colonna (controllo primario), di cui parla Alexander:

83

Queste immagini ci suggeriscono inoltre un’idea del flusso di energia “da dentro a fuori”, di cui
parla anche Kató Havas. Un’ulteriore innovazione nella didattica della Hoppenot è la proposta di un
uso simmetrico delle due mani che, ricordiamo, reagiscono agli stessi impulsi nervosi pur
compiendo azioni diverse e in posizioni diverse.

84

85

83
Ivi, p. 46.
84
Dominique Hoppenot, op. cit., p. 42.
85
Ivi, p. 69.
47
Per concludere questo capitolo, farò un breve cenno al problema della tenuta del violino nell’epoca
barocca. Studiando le varie fonti primarie a nostra disposizione, si possono trovare opinioni
divergenti a seconda dei luoghi, delle epoche e degli stili musicali locali. Come ci illustrano le
immagini e le informazioni dei trattati, alcuni principi di equilibrio e coordinazione su cui si è
insistito molto negli ultimi decenni, erano in realtà già abbastanza comuni nell’atteggiamento
strumentale dei violinisti del ‘600-‘700. A questo proposito, riporto una tavola riassuntiva delle
principali indicazioni posturali date dalle fonti storiche. La tabella è tratta da Posizione e tenuta del
violino e dell’arco dall’inizio del XVII alla fine del XVIII secolo di Fabio Luisi.86

86
Fabio Luisi, Posizione e tenuta del violino e dell’arco dall’inizio del XVII alla fine del XVIII secolo, Graz, 2009, pp.
58-59
48
Riporto inoltre alcune immagini tratte dalle fonti originali:

87 88

87
Michel Corrette, L'École d'Orphée, Méthode de violon dans le goût Français et Italien, 1738, ritratto dell’autore
88
Leopold Mozart, Versuch einer gründlichen Violinschule, 1756
49
89 90

Nelle prime tre immagini possiamo apprezzare la relazione “distaccata” dallo strumento, quasi
assente, il cui equilibrio fisico non è compromesso dalla presenza dello strumento, che viene
manipolato con naturalezza. Nel caso del violinista rappresentato nel Metodo di Campagnoli,
vediamo come nell’arco di qualche decina d’anni l’atteggiamento sia leggermente cambiato: ora
l’attenzione si rivolge più allo strumento e anche l’atteggiamento fisico risulta, in un certo modo,
più artificioso.

Per concludere il capitolo, riporto un ulteriore esempio tratto da Corrette che ci illustra la
naturalezza nel rapporto con lo strumento portata al massimo grado.

91

89
Francesco Geminiani, L’Art du Violon, 1751, ed. francese
90
Bartolomeo Campagnoli, Nouvelle méthode de la mécanique progressive du jeu de violon, 1824
91
Michel Corrette, L’Art de se perfeccioner dans le Violon, 1782
50
CONCLUSIONI
Giunti alla conclusione di questo percorso che ci ha portato a esplorare diverse epoche e luoghi,
possiamo trarre alcune conclusioni. Prima di tutto, è importante riconoscere che negli ultimi 20 anni
l’approccio alla musica antica è radicalmente cambiato.

Dall’iniziale lavoro di riscoperta portato avanti nella prima metà del secolo dai “pionieri” della
musica antica (Arnold Dolmetsch e Wanda Landowska, per citare alcuni tra i più importanti), si è
passati a un secondo periodo caratterizzato dall’affermazione delle nuove conquiste interpretative,
che oggi può dirsi concluso. In origine, infatti, i primi ricercatori erano soprattutto dedicati alle
scoperte organologiche relative agli strumenti antichi, ma ancora non vi erano le condizioni affinché
si operasse uno studio importante della prassi esecutiva. Questo non significa che non vi fosse
interesse per l’interpretazione: un importante testo a tale riguardo viene pubblicato proprio da
Dolmetsch già nel 1915, nascono le prime scuole dedicate esclusivamente allo studio della musica
antica e si registrano i primi dischi con pretesa di filologia storica. Tuttavia, la disponibilità delle
fonti e degli strumenti musicologici di allora permetteva una ricostruzione ancora molto lontana da
quella che si sarebbe raggiunta negli anni ’70-’90 del secolo scorso. In quel lasso di tempo, in
Inghilterra, Olanda, Austria e, successivamente, Germania, Francia, Italia e Stati Uniti, importanti
musicisti si sono dedicati non solo ad approfondire ulteriormente l’approccio all’esecuzione
“storicamente informata”, ma anche a rivendicarne l’importanza e la dignità nel panorama musicale
globale. Tra questi musicisti ricordiamo in particolare Harnocourt, Leonhardt, i fratelli Kuijken,
Brüggen e Clemencic, oltre a molti altri.

Alle soglie del nuovo millennio, la cultura della musica antica si può dire ormai integrata nel
contesto musicale generale. Il mercato è dominato da gruppi e solisti altamente specializzati, che
partecipano a festival e rassegne dedicati a questo repertorio e, non meno importante, negli istituti
pubblici e privati sono sorti dipartimenti di musica antica che stanno acquisendo un peso via via
maggiore. Al tempo stesso, una conoscenza di base della musica antica è sempre più richiesta anche
a quei musicisti che non se ne occupano a titolo principale. In generale, a livello interpretativo, un
determinato approccio critico verso la musica del passato è apprezzabile anche nell’esecuzione del
repertorio successivo al Barocco e al Classicismo, per i quali ormai lo si dà per assodato.

La grande scommessa del nostro tempo si può quindi riassumere nell’integrazione di tutti gli aspetti
visti fino ad ora, con l’obiettivo di rendere viva l’interpretazione musicale attraverso gli strumenti
della conoscenza. Non si tratta di limitare la libertà d’interpretazione, che sarebbe comunque
impossibile, bensì, al contrario, di andare oltre la ripetizione acritica di consuetudini che si sono
cristallizzate nel tempo (buone o cattive che siano, non se ne fa qui una questione di merito) e
risvegliare la curiosità, ponendosi domande e non accontentandosi solo di ciò che i grandi maestri ci
hanno insegnato fino ad oggi.

Lo scopo di questa tesi era appunto quello di dare alcuni spunti di riflessione sull’importanza che
può avere lo studio della musica antica oggi, indipendentemente dall’ambizione di dedicarvisi
professionalmente. Sperando che il percorso possa avere risvegliato qualche interesse, ricordo che,
come si diceva nell’introduzione, in poche pagine è stato possibile affrontare solo alcuni aspetti dei
tanti possibili. Comunque, il contesto culturale del nostro tempo è già permeato da questo interesse
critico, per cui l’auspicio che si possa procedere ulteriormente nell’approfondimento di queste
tematiche si sta già compiendo pienamente.

Siamo nani sulle spalle di giganti, e come tali ci viene data la possibilità di vedere un poco oltre
l’orizzonte conosciuto fino ad oggi.

51
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53

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