Sei sulla pagina 1di 422

Paolo Coggiola

L’abaco e la rosa
Tecniche elementari per la composizione musicale

Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali


© Copyright 2011 Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali
Via Bigli, 11 - 20121 Milano
www.sonzogno.it - sonzogno@sonzogno.it

Tutti i diritti riservati.


La riproduzione, anche parziale
e con qualsiasi mezzo, non è consentita
senza la preventiva autorizzazione
scritta dell’editore.

Prima edizione
ISBN
Indice

001 Premessa

007 1. Fare le scale fa bene


007 1.1. La nozione di scala: considerazioni generali
013 1.2. Come scoprire gemme preziose

035 2. Un discorso azzardato


035 2.1. Prodighi e avari

047 3. Brodo primordiale


047 3.1. Appunti per climi secchi
048 3.2. Linee
059 3.3. Ordine e caos
082 3.4. L’occhio nell’orecchio
115 3.5. Fiocchi di neve, broccoli e musica
139 3.6. La dimensione verticale
150 3.7. Darsi (un) tempo

183 4. Le ricette di Josquin


183 4.1. La composizione di linee melodiche rinascimentali
184 4.2. Il “programma” Josquin 1.0
202 4.3. Upgrade: «I Got Rhythm»
207 4.4. Josquin 1.1

223 5. Come fare lievitare la musica


223 5.1. La scrittura polifonica: cenni introduttivi
231 5.2. Fare delle scelte
250 5.3. Post scriptum

255 6. Aprire una piccola e onesta bottega


255 6.1. Non temere gli estranei
271 6.2. Un discorso più serio
VI L’abaco e la rosa

281 7. Taglie comode ed extra large


281 7.1. La composizione ad alto numero di voci
291 7.2. La composizione a otto voci (e più)

301 8. Vivere di rendita


301 8.1. I canoni, eterne ghirlande brillanti
305 8.2. Catene sonore
314 8.3. Il gioco delle coppie
329 8.4. Saliamo sulla giostra
337 8.5. Cerchi più ampi
359 8.6. Prendere il largo

365 9. Profumi e veleni


365 9.1. Chiaroscuri
368 9.2. Easy!
370 9.3. C’è qualcuno là fuori?
371 9.4. Il fascino delle perle

377 Appendice al cap. 6. Tanto per cantare


377 App. 6.1. Il problema del testo
386 App. 6.2. Una specialità italiana

389 Appendice al cap. 8. Acqua sotto i ponti


389 App. 8.1. I canoni tonali
396 App. 8.2. Un’applicazione dei canoni: la fuga
408 App. 8.3. Canoni per tutti

411 Bibliografia
A Libera e Paola
Nulla re nihilo

Lucrezio
Premessa

Questo libro non è un manuale.


I libri sulle tecniche compositive affrontano generalmente argomenti specifici come l’ar-
monia, il contrappunto e l’orchestrazione, quasi sempre trattati in modo specialistico e
quindi fortemente orientato alla didattica per le scuole professionali di musica, quali in Ita-
lia sono oggi i riformati conservatori. Esistono però anche testi sulla composizione musicale
dal taglio più accessibile, che risultano quindi maggiormente aperti a una dimensione divul-
gativa. Questi libri sono spesso stati scritti per contesti come le università americane, e ne
abbiamo un felice esempio ne La composizione musicale di Reginald Smith Brindle. In ambito
europeo è doveroso menzionare Il contrappunto di Diether de la Motte, un libro semplice-
mente meraviglioso. I testi citati rivelano comunque una sistematicità resa necessaria dalle
finalità principalmente didattiche dei loro autori.
Questo libro risponde a principi parzialmente diversi. La sua struttura non è affatto si-
stematica, né orientata a un preciso taglio o materie didattici. Non è neppure un testo di
pura divulgazione musicale, perché solo in parte illustra tecniche compositive storicamente
consolidate. Posso presentarlo come una raccolta di scritti su alcuni aspetti dell’artigianato
compositivo che da sempre mi hanno affascinato e legati, come si vedrà, da una sorta di
motivo conduttore.
Tutto ciò di cui parlerò riguarda, si badi bene, materiali e tecniche compositive. Si può fa-
cilmente obiettare che «tecnica» ed «estetica» («forma» e «contenuto») non possono essere
scisse quando si va a toccare la musica. Ciò è vero in parte; non ritengo però opportuno en-
trare in un argomento estremamente delicato nell’ambito di uno scritto che si propone inve-
ce finalità pratiche e l’essere ampiamente accessibile. Ho letto d’altronde numerosi libri e
dichiarazioni che trattavano di estetica musicale senza la minima consapevolezza (o forse
anche rispetto) della tecnica da parte dei loro autori; quella stessa tecnica considerata, a
volte anche da qualche musicista trendy, un ingombrante accessorio.
È un fatto piuttosto evidente che nel Novecento, e ancora più nel secondo dopoguerra,
l’arte in generale (in particolare l’arte visiva) ha spesso sostanzialmente abdicato a favore
della filosofia. Diversi artisti hanno quindi praticato una sorta di filosofia applicata,
un’arte «concettuale» in un senso più ampio rispetto alla nozione storica. La questione ri-
mane comunque aperta e affascinante.
Resta chiaro che quando mi riferisco a una prospettiva estetica del discorso lo faccio
soltanto in relazione a implicazioni storiche e filosofiche della musica. Occuparsi di tecnica
2 L’abaco e la rosa

significa in definitiva desiderare manufatti che soddisfino un senso di bellezza e di com-


piutezza così come può essere inteso, senza troppi ricami, da ogni buon artigiano. In un’al-
tra sede parlerei volentieri di possibili critiche nei confronti di opere di ottima fattura arti-
gianale e, per contro, della possibile ammirazione per composizioni che sembrano tagliate
con l’ascia; ma ciò sarebbe un’altra cosa. D’altronde è a partire dall’epoca romantica che si
parla e si dibatte di Trivialmusik, una musica sostanzialmente ben composta dal punto di
vista delle regole comunemente accettate ma insoddisfacente sul piano estetico (si confronti
su questo argomento il fondamentale testo di Carl Dahlhaus Analisi musicale e giudizio este-
tico).
Una delle principali aspirazioni di questo libro, tanto da costituire una sorta di motivo
conduttore, è mostrare come alcune tecniche e alcuni atteggiamenti legati alla «creatività»
musicale (o più banalmente all’angoscia che si prova davanti al classico foglio bianco) sono
fatti che forse possono trovare un trattamento più semplice di quanto possa farci credere il
nostro timore reverenziale nei confronti della cosiddetta tradizione e dei grandi artisti.
Perfino chi pensa che siamo condannati perennemente a essere nani appollaiati sulle spalle
di giganti non può non constatare che esiste un qualche piccolo privilegio anche in questa
condizione.
A ogni buon conto, accorgersi, come vedremo, che la costruzione di un canone a tre,
quattro, n-voci, ad esempio, può rivelarsi accettabilmente semplice non credo porti a de-
molire lo stupore che proviamo davanti a un canone di Bach; anzi. Trovare un varco d’ac-
cesso (non necessariamente il principale) alla meccanica di una struttura musicale come il
canone che, dalle tre voci in su, sembra generalmente presentare grandi difficoltà composi-
tive, contribuirà probabilmente a renderci meglio consapevoli della straordinaria bellezza e
complessità dei canoni di Bach.
Timori reverenziali. Ritengo che dopo la fondazione del mito romantico dell’artista, che
in ambito musicale inizia con Beethoven, tanto gli artisti che il pubblico si siano ritrovati
spesso in una situazione equivalente a quella descritta in ambito religioso dal grande filo-
sofo tedesco dell’Ottocento Ludwig Feuerbach, e che vede la specie umana riporre nella di-
vinità (leggasi per quanto ci riguarda «grande artista» e «tradizione») il complesso degli at-
tributi migliori dell’uomo in misura infinita e, per contro, ridurre se stessa a poco più di una
nullità. Questo diffuso atteggiamento nevrotico è in parte responsabile oggi (a dire il vero a
partire dal Novecento) della crisi dell’ascolto di musica contemporanea di matrice «colta»
che né più né meno che in passato continua a presentare alternanza di opere bellissime e
insignificanti, col vantaggio che il nostro tempo mostra una differenziazione stilistica im-
pensabile in altre epoche. Con il definitivo risultato che gran parte del fenomeno musicale
odierno si rivela perlopiù un affare commerciale o meta di un distratto turismo culturale
sotto la bandiera del kitsch.
Per leggere questo libro e per realizzarne alcune proposte occorre possedere un’onesta
informazione musicale di base, che ad esempio è sicuramente alla portata di uno studente
(sia anche autodidatta o di formazione non classica) che abbia già macinato i rudimenti
dell’armonia.
Dirò francamente che se questo libro, almeno nelle intenzioni, potrebbe essere uno stru-
Premessa 3

mento non sistematico, talvolta paradossale e irriverente, di integrazione didattica per le


scuole di musica, specie per i corsi di composizione, una buona parte dell’impulso alla sua
stesura proviene dal desiderio di fornire qualche proposta pratica a quella che oggi si
profila forse come una nuova figura musicale. Non è difficile oggi incontrare infatti cultori
di musica cui riesce sempre più stretto il ruolo passivo di ascoltatori o di spettatori nella
sempre più paludata liturgia del concerto contemporaneo (anche di ambito non classico) o
dello spettacolo lirico.
La fruizione stessa della musica da parte di un pubblico rimanda quasi sempre a un ri-
tuale sacro o profano: alla funzione della musica nella liturgia religiosa e alla funzione so-
ciale del concerto o dell’opera. Dal momento che queste modalità sembrano con sempre
maggiore evidenza essere declinanti, alcuni, spesso al di fuori degli ambienti istituzionaliz-
zati (siano quelli professionali o le sale da concerto), scoprono oggi la possibilità e la ne-
cessità di un rapporto originario, più intimo con la musica, anche di natura creativa e co-
gnitiva.
Questo libro, poi, vorrebbe rivolgersi anche a coloro che si occupano, a diverso titolo, di
attività legate più o meno strettamente al mondo dell’informatica, delle tecnologie e delle
scienze naturali, e che per i più svariati motivi (didattici, commerciali o ricreativi) amino
sondare i legami tra le arti e il pensiero razionale e scientifico, nel senso più ampio possibi-
le. Il libro affronta infatti alcuni aspetti relativi alla scrittura musicale in un modo, anche se
non completamente sistematico e formalizzato, che tende a renderne meccanica, algoritmi-
ca parte della realizzazione.
Quello dell’informatica musicale, ad esempio, è un settore in pieno sviluppo e con esiti
estremamente interessanti da parte di aziende e di istituti di ricerca. Alcuni ambiti di
esplorazione, come quello riguardante il rapporto tra arti e informatica, rimangono però
relegati (anche per le prospettive di scarso profitto, se riferite a settori di ricerca più com-
merciali) in un angolo dove operano soltanto pochissimi specialisti.
A un alto livello di ricerca oggi si prospettano scenari interessanti: penso ad esempio a
istituzioni come l’IRCAM di Parigi. Tuttavia, se da un lato i musicisti non possiedono
spesso consistenti cognizioni scientifiche e informatiche, sul campo di chi dedica la propria
vita alla ricerca scientifica o tecnologica si avvertono non di rado timori reverenziali nei
confronti della creatività.
Un pregevole studio abbastanza recente, Le regole della musica, indagine sui meccanismi
della comunicazione di Mario Baroni, Rossana Dalmonte e Carlo Jacoboni, indaga con meto-
do scientifico la possibilità di enucleare delle vere e proprie grammatiche musicali, le quali,
tradotte in programma informatico hanno ad esempio prodotto con il programma LEGRE,
degli stessi autori, arie nello stile del compositore seicentesco Legrenzi, non con lo scopo
principale di produrre musica con il computer ma per testare la validità della loro tesi. Si
tratta di uno studio dalle ampie riflessioni su temi linguistici ed ermeneutici, cui rimando
chi fosse interessato a un discorso approfondito avente per oggetto principale la nozione di
grammatiche musicali e il delicato campo delle loro applicazioni. In accordo con le loro tesi,
gli autori dichiarano essere molto importante superare oggi le barriere tra ambiti umanistici
e scientifici.
4 L’abaco e la rosa

Il mio lavoro non è il frutto di una tesi scientifica, e ha quindi contorni più sfumati. Non
è una riflessione teorica ma un testo di interesse pratico, che vorrebbe principalmente sti-
molare il lettore a personali ricerche musicali ad ampio raggio, di natura quanto più possi-
bile interdisciplinare. Lo colloco volentieri in una zona grigia tra i testi per principianti, a
volte a ancora generici e antiquati, e pubblicazioni specialistiche non sempre alla portata,
per svariate ragioni, di chi si accosta al mondo della composizione. Zona d’altronde poco
battuta e apprezzata.
Da parte mia, ritengo utile che, per quanto inevitabilmente complesse siano alcune mate-
rie, si ragioni anche a livelli intermedi del sapere, correndo pure il rischio di qualche inelimi-
nabile frainteidimento e semplificazione. I vantaggi che se ne potrebbero trarre potrebbero
essere più grandi e inaspettati degli errori.
In definitiva, spero che coloro che percepiscono la musica come un’esperienza vivificante
possano trovare in questo libro spunti per scoprire il potenziale di fantasia che io credo sia
presente in ognuno di noi e che può essere, specie se lo si desidera intensamente, facilmente
liberato.

Ritengo a questo punto opportuna una succinta presentazione dei capitoli del libro.
Il capitolo 1 è un piccolo contributo teorico al vasto argomento delle scale musicali, che
ancora oggi possono essere collocate tra i fondamenti della composizione.
Il testo indica alcune elementari strategie per una personale scoperta di proprie collezioni
di scale, al di là di quelle, sempre valide, della tradizione e di quelle in uso in tanta musica
del Novecento (le scale utilizzate in ambito jazzistico o i «modi artificiali» di Messiaen, ad
esempio).
Con ogni evidenza, il capitolo risente di alcune suggestioni insiemistiche proprie della
corrente analitica americana facente capo ad Allen Forte, che ha avuto un ruolo determi-
nante nel definire la nozione di insieme di classi di altezze (pitch-class set).
Il capitolo successivo introduce l’argomento più consistente, e forse provocatorio, del li-
bro che è, come ho già accennato, la proposta di un approccio sostanzialmente algoritmico
alla composizione, almeno nelle sue prime fasi. Sono del tutto consapevole che una qual-
siasi attività creativa e artistica non possa essere costretta interamente in rigide procedure
formali che vanificherebbero quello che secondo molti (me compreso) rimane uno dei pre-
supposti di ogni forma di espressione artistica: la più profonda e libera esplorazione del
potenziale di fantasia e di sensibilità, se mi si passa i termini, del nostro cervello. Detto que-
sto, in un mondo in cui siamo sempre più bombardati da una mole incontrollabile di infor-
mazioni, un atteggiamento, seppure mitigato, di rigore algoritmico può essere utile se non
altro al principiante.
Oggi siamo dotati di un apparato musicologico e analitico impressionante; questo è (o
dovrebbe essere) uno strumento indispensabile, a condizione di non esserne sopraffatti,
tanto per il musicista di professione che per il principiante. Vero è, d’altra parte, che l’ana-
lisi musicale non riesce sempre a fare luce sui processi creativi, vuoi per la loro intrinseca
complessità e ineffabilità. Sapere molto sulla struttura e sullo stile di una fuga di Bach può
non essere purtroppo della massima utilità quando si vogliano avere indicazioni su come
Premessa 5

avvicinarsi ad esempio alla composizione polifonica intesa come attività eminentemente


pratica. Essere gastronomi non è sempre lo stesso che essere cuochi. In questo senso sono
quanto mai preziosi studi di psicologia cognitiva come quelli di John A. Sloboda.
In particolare, il capitolo 2 dedica un piccolo spazio alla nozione di caso, in realtà di
estrema importanza nelle odierne procedure algoritmiche (e informatiche).
Il capitolo 3, pur essendo il più esteso del libro, non necessita di un consistente appara-
to introduttivo. Tratta di alcune proposte di applicazioni algoritmiche, seppure aperte a
consistenti margini di intervento, per la composizione di piccoli frammenti o brevi brani
non particolarmente orientati a stili connotati. Trapela però in questo capitolo, senza par-
ticolari inibizioni, il mio interesse per ambiti di sapere extramusicale come la biologia evo-
lutiva. Rimane l’ovvia considerazione che quanto proposto in questo capitolo va inteso
come semplice impulso per intraprendere ricerche personali o per scorgere la possibilità di
scoprire una specifica, quanto intrigante, forma mentis. Nulla di quanto proposto può infat-
ti competere con sofisticati programmi informatici come OpenMusic, che consentono la
personale realizzazione di potenti algoritmi compositivi. In questo senso il mio scritto sta a
queste realizzazioni come un sussidiario per le scuole elementari a un testo universitario. Il
fatto è che oggi, continuando la metafora, manca ancora su questo terreno quasi completa-
mente una letteratura che conduca gradualmente a più alti livelli di sapere.
Posso presentare insieme i capitoli dal 4 al 7: qui lo specifico linguaggio della musica ri-
nascimentale si presta a diventare un interessante banco di prova per la messa a punto di
procedure logiche per la composizione di brani orientati a stili del passato, che, se si rive-
lassero realmente operative, come del resto sembra emergere in riflessioni ben più rigorose e
articolate della mia, aprirebbero un’affascinante e ampia prospettiva per la didattica mu-
sicale.
Questi capitoli, inoltre, possono essere semplicemente letti come un’introduzione, da un
punto di vista affatto particolare, allo studio delle tecniche compositive della musica rina-
scimentale.
Per le finalità che mi sono posto, non si cerchi principalmente un agguerrito atteggiamen-
to per la più rigorosa delle ricostruzioni stilistiche: per quanto riguarda questo punto, ho
cercato di attenermi semplicemente allo standard dei più diffusi testi odierni in uso nelle
scuole di musica italiane. Se si sentisse, ad esempio, la necessità di profonde riflessioni sul-
l’ambitus modale delle melodie rinascimentali ci si rivolga a testi più titolati per questi argo-
menti.
Analogamente il capitolo 8 rimane sotto l’egida del linguaggio rinascimentale, che qui di-
venta però funzionale a un’indagine sulla meravigliosa ed estesissima materia dei canoni, le
strutture più rigorose della musica occidentale, che da molto tempo ormai danno luogo ad
analisi e riflessioni talvolta molto formalizzate, croce e delizia non solo di musicisti ma an-
che di matematici.
Una volta acquisita una certa padronanza della composizione dei canoni facendo riferi-
mento al linguaggio rinascimentale, si potranno applicare agevolmente i procedimenti illu-
strati in qualsiasi contesto stilistico, come si intravede nell’appendice al capitolo. Di conse-
guenza, si giungerà ad avere a disposizione utili mezzi per l’esplorazione della composizio-
6 L’abaco e la rosa

ne contrappuntistica in generale, di cui i canoni costituiscono il campo più rigoroso, addi-


rittura ostico, se non viene affrontato con un minimo bagaglio di procedure formalizzate.
Sia quest’ultimo che i capitoli dedicati alla musica rinascimentale possono essere age-
volmente letti anche autonomamente, prescindendo dalla lettura del capitolo 1 e del capi-
tolo 3. Considerando la natura del mio discorso, resta invece propedeutica, in ogni caso, la
lettura del capitolo 2.
Per contro, nulla di tecnico vi è nel conclusivo capitolo 9, in cui si troveranno poche pa-
gine di riflessioni del tutto personali, e quindi del tutto trascurabili, su alcuni aspetti del
comporre oggi, attività non certo popolare o generalmente prospera, ma che, per nostra for-
tuna, non ha ancora perduto il suo misterioso, a volte terribile, potenziale di ineffabilità e
di fascinazione.
1. Fare le scale fa bene

1.1. La nozione di scala: considerazioni generali

Le scale sono da sempre uno dei pilastri della teoria musicale. È opportuno, inizialmente,
cercare una chiara definizione di scala; una prima conseguenza di ciò è la distinzione del
concetto di scala da quello di modo. Quest’ultimo è di fondamentale importanza tanto per
la musica antica quanto per quella odierna, e non solo in ambito «colto»: basti pensare al-
l’importanza del concetto di modo nella musica popolare, nel jazz e nel rock. A queste do-
mande cercherò di dare una risposta più avanti.
L’importanza del concetto di scala dipende dal fatto che ogni linea sonora (banalmente:
ogni «melodia») è legata a doppio filo al tipo di scala o scale che si sono prese in conside-
razione per la sua composizione. In sintesi, dal tipo di scala prescelto deriverà una parte
importante del carattere di una linea melodica.
Negli ultimi secoli la teoria classica occidentale ha fatto riferimento ai due tipi di scala
maggiore e minore. Il pensiero musicale classico risulta di tipo intensivo: da due soli mo-
delli si sono tratte le conseguenze musicali che tutti conosciamo, grazie anche al potente
ruolo svolto dalla scala cromatica (intesa raramente come scala dotata di una propria au-
tonomia, ma invece come un allargamento delle possibilità insite nel sistema
maggiore/minore) e dallo straordinario ruolo giocato dalla modulazione, quel procedimento
che consente di passare nella stessa composizione da una tonalità a un’altra in maniera
graduale, a volte quasi impercettibile (sono possibili però anche le modulazioni
«improvvise»). La modulazione consente quindi di spostare percettivamente, e in modo
sottile, il centro tonale (che percepiamo come situazione di riposo), consentendo l’esperien-
za di un autentico viaggio psicologico all’interno di un brano musicale.
Con il superamento, verso la fine dell’Ottocento, dell’estetica e delle tecniche classico-
romantiche, si assiste a un sempre maggiore interesse per le potenzialità del concetto di
scala, intesa come riserva (pitch collection) da cui trarre il materiale sonoro di una composi-
zione musicale. Con le scale maggiori e minori si aveva diffusamente la percezione di avere
raschiato il fondo del barile; la possibilità di trarre materiale da scale diverse da quelle tra-
dizionali offriva un’eccitante prospettiva di una musica affatto nuova e originale.
Ecco quindi l’esplorazione da parte di compositori come Debussy delle potenzialità di
8 L’abaco e la rosa

scale come quella esatonale o di scale pentatoniche:

Es. 1-1

œ œ
&
œ œ œ #œ #œ #œ bœ bœ œ œ œ
œ œ œ œ

Le prime due scale dell’esempio precedente sono le sole due possibili scale esatonali a
toni interi, mentre la terza è uno dei numerosi modelli possibili di scala pentatonica in uso
in diverse tradizioni musicali di tutto il mondo.
Si pensi anche all’impiego intensivo, in particolare in area tedesca e sulla scia di Wagner,
della scala cromatica, che ha condotto intorno ai primi anni del Novecento alla cosiddetta
corrente «atonale», la cui importanza per la musica del secolo scorso e di quella odierna è
molto consistente.
L’interesse per le potenzialità di scale non tradizionali ha coinvolto anche musicisti che
si crederebbe, a torto, legati ad atteggiamenti più conservatori come Verdi, che ha scritto in
tarda età una bellissimo brano, l’Ave Maria, primo dei Quattro pezzi sacri, basato sulla co-
siddetta scala enigmatica:

Es. 1-2

& #œ #œ #œ œ
œ bœ œ

Nel corso del Novecento i compositori che hanno fatto riferimento all’esperienza
«atonale» non si sono particolarmente dedicati all’esplorazione delle scale per l’ovvia ra-
gione che la scala cromatica, il totale cromatico cui facevano riferimento, le contiene tutte,
come insieme di tutti gli insiemi possibili di scale (in maniera indifferenziata però, portan-
do con sé apetti problematici per il flusso musicale). Altri musicisti hanno continuato e ap-
profondito notevolmente lo studio delle scale, presentandone un catalogo sempre più gran-
de e differenziato.
Il compositore francese Olivier Messiaen, uno dei protagonisti del Novecento musicale,
ha fatto largo uso di scale a trasposizione limitata, quelle scale cioè che, come la scala esato-
nale, non ammettono una versione diversa del modello su tutti i semitoni della scala cro-
matica (tipo DO maggiore; SOL maggiore etc.): dopo un certo numero di trasposizioni (nel
caso della scala esatonale soltanto due; per quanto riguarda poi la scala cromatica, è evi-
dente che non esistono possibilità di trasposizione) si torna infatti a una versione già in-
contrata della scala, ma con un diverso ordine delle note.

Es. 1-3

œ œ
&
œ œ œ #œ #œ #œ bœ bœ œ œ œ
œ œ #œ #œ #œ

Ecco qualche esempio di scale («modi») utilizzate frequentemente da Messiaen:


Capitolo 1 9

Es. 1-4

& œ œ bœ œ bœ bœ nœ #œ #œ œ
œ bœ bœ nœ #œ œ œ bœ nœ #œ œ œ œ œ #œ

Constatiamo che non necessariamente una scala deve essere una successione di sette no-
te, come nel caso delle scale maggiori e minori. In linea teorica, già una successione di due
suoni diversi può essere intesa come scala: ci possono essere quindi scale da 2 a 12 note!
Il particolare interesse che hanno manifestato molti musicisti del Novecento nei confronti
di una grande varietà di scale è spesso andato di pari passo con la riscoperta delle tradi-
zioni musicali popolari, extraeuropee e della musica antica. Nell’ambito di queste ricerche,
che hanno coinvolto anche musicisti del calibro di Bartók, lo studio delle scale che stanno
alla base di quelle tradizioni si è subito imposto come argomento di primo piano, ragione
sufficiente per mostrare quanto sia oggi importante l’esplorazione della nozione di scala
per qualsiasi musicista.
Ho accennato al fatto che non occorrono necessariamente sette note per formare una
scala. In ambito afro-americano è, ad esempio, forse più importante la nozione di scale di
cinque note, le cosiddette pentatoniche, che derivano direttamente da alcune importanti tra-
dizioni africane. Ecco qualche esempio:

Es. 1-5

& œ œ œ œ œ œ œ œ
bœ œ
œ œ œ
œ œ

Si consideri ora un altro caso:

Es. 1-6

& œ œ œ œ œ
œ œ

Questa volta siamo di fronte a una scala, apparentemente familiare, composta dalle
sette note: talvolta vi si riferisce come a «modo» dorico, altre volte come a «scala» dorica.
Perché? E perché non viene considerata come una scala di DO maggiore che inizia dal RE,
dal momento che le note che la compongono sono le stesse, anche se in un ordine diverso?
È necessario allora cercare di essere un po’ più chiari quando parliamo di scale.
In un primo momento si può presentare la nozione di scala come un qualsiasi insieme di
note (da 2 a 12) sotto il profilo del suo ordinamento interno dalla nota più bassa a quella
più alta (o viceversa). In questa maniera si mette in evidenza il fatto che ciò che più conta
di una scala è, come già accennavo, il suo essere una riserva, un insieme di note al servizio
delle idee musicali. Un brano musicale può paradossalmente non presentare alcuna conti-
guità fra i suoni da cui è composto (come nel caso di DO-RE) e fare rigorosamente riferi-
mento a una sola scala, se appaiono ad esempio DO, RE, MI, FA, SOL, LA, SI. Questa no-
zione presenta i suoni in maniera indifferenziata, amorfa. Non dice nulla riguardo al ruolo,
10 L’abaco e la rosa

all’importanza percettiva di ciascun suono della scala: non è sufficiente infatti ordinare i
suoni dal più basso al più alto (per inciso, nulla ci vieterebbe di ordinarli dal più alto al più
basso: gli antichi greci preferivano quest’ultimo criterio di ordinamento).
Rivolgiamoci ora alla familiarissima scala che presenta in successione le note DO, RE,
MI, FA, SOL, LA, SI. Consideriamo i prossimi esempi (sarebbe bene suonarli o cantarli):

Es. 1-7
1-7/1

qk»§º j j j . œ œ j
6 œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ
&8 œ œ J
1-7/2

qk»¶§ 3
œ œ œ œ ˙. 3 œ
& œ J œ 8 œ
J
œœœœ œ œ
œ
J
œ œœœœ

3
œ œ œœœœ œ œ œ œœœœ œ œ œ œ 2
& J J œ. 4
3
1-7/3

q»¡£™
2 œ œ œ œj ‰ œ œ œœœœ œ œ œ œ œ œ œ œj ‰
&4 œ œ œ œ œ œ œ œ
1-7/4

q»¡§ª
4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œœœœ œ œ œ 4 œ Œ œ

œ œ œ œ œ œ œ œ œ 3
& œ œ Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ 4
1-7/5

q»¡§º œ
3 œ œ. œ œ œ. œ
&4 ˙ J œ œ œ œ œ ˙. ˙ J œ
1-7/6

q»¡™º
œ 4
& œ œ œ œ ˙. 4 œ. œ Œ œ œœœ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ

& Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ j
œ œ œ œ. œ ˙

Tutti gli esempi sono, come ho detto, accomunati dal fatto di essere composti con i suo-
ni tratti dalla stessa, familiare riserva. Gli esempi 1-7/1 e 1-7/5 rivelano all’ascolto un ca-
rattere analogo (potremmo definirlo vagamente malinconico). Gli esempi 1-7/3, 1-7/4 e 1-
7/6 presentano decisamente un carattere più aperto, mentre l’esempio 1-7/2 sembra trarsi
fuori dal gruppo, presentando un carattere decisamente particolare, un po’ spagnoleggian-
te.
Gli esempi rivelano forse meglio il loro elementare carattere se sottoponiamo a essi
un’embrionale forma di accompagnamento, come mostrato nell’esempio 1-8. Mi sembra ora
che gli esempi richiamino in qualche modo nell’ordine: una melodia di sapore celtico; spa-
gnoleggiante; ungherese o slavo (sorta di caricatura di Bartók); sudamericano; e, infine,
Capitolo 1 11

classico (un valzer triste e un assai mediocre tema settecentesco).


Risulta evidente che in ogni esempio c’è una nota (diversa da caso a caso), non necessa-

Es. 1-8

qk»§º j j j . j
6 œ œ
&8 œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ
J
œ

œœ .. œœ .. œ .. œ œ œ œœ
? 6 œœ .. œ ..
œ œ œ ..
œ œ œ
8 J œ J

qk»¶§ 3
œ œœ ˙. 3 œ
& œ Jœ œ 8 œ
J
œœœœ œ œ
œ
J
œ œœœœ

? œœ .. œœ .. ˙ .. 3 œ œ œ œ
˙ 8 œ œ ‰ œ œ ‰ œ œ ‰ œ œ ‰
œ œ œ œ
3
œ œ œœœœ œ œ œ œœœœ œ œ œ œ 2
& J J œ. 4
3

? œ œ œ œ œ 2
œ œ ‰ œ œ ‰ œ œ ‰ œ œ ‰ œ œ ‰ œ .. 4
œ œ œ œ œ œ
q»¡£™
2 œ œ œ œj ‰ œ œ œœœœ œ œ œ œ œ œ œ œj ‰
&4 œ œ œ œ œ œ œ œ

œ œ œ œ œœœœ œœ œœ œœ œœ œœ œœœ œœœ œœœœ œœ œœ œœ œ œ œœ œœ œœœœ œœ œœ œœ


? 2 œ œ œœ œœ œ œœ œ
4

q»¡§ª
4 œ œ œ œ œ
& œ œ œœœœ œ œ œ 4 œ œ œ œ œ Œ œ œ œ

œ œ œ œ œ œ œ
? œ œ œœ œœ œ œ œ 4 œœ .. œœ Œ œœ œœ .. œœ Œ œœ œœ .. j
œ Œ œœ
4 œ. J œ œ. J œ œ. œ
œ

œ œ œ œ œ œ œ 3
& œ œ Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ 4

? œœ .. j œœ .. œœ Œ œœ œœ .. œœ Œ œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ Œ
œ Œ œœ œ. œ œ. œ œ œ œ œ œ œ
3
4
œ. œ œ J J
12 L’abaco e la rosa

q»¡§º œ
3 œ œ. œ œ œ. œ
&4 ˙ J œ œ œ œ œ ˙. ˙ J œ

Œ œœ œœ Œ œœ œœ Œ œ Œ œ Œ œ Œ œ
? 3 ˙. ˙. œ œœ
˙. œ
œœ
˙. œ
œœ œ œœ
4 ˙. ˙.

q»¡™º
œ 4
& œ œ œ œ ˙. 4 œ. Œ œ œœœ
œ œ œœ œ œ œ œ œ œ
Œ œ œœ Œ ˙
? ˙. œ ˙. 4 œœœ œœœ œœœ Œ œœ œœ œœ Œ œœ œœ œœ Œ
4 œ œ œ œ œ œ

& Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ j
œ œ œ œ. œ ˙
œ œ œ œ œœ œœ œœ œœ j
? œœ œœ œœ Œ œ œ œ œ œœ œœ œœ Œ œ œ œ œ œœ .. œœ ˙˙
œ. œ

riamente la prima della sequenza, ma sempre l’ultima, che riveste psicologicamente un ruo-
lo primario; una base dell’intera sequenza melodica.
In questa prospettiva si comprende che è possibile assegnare una funzione a una o più
note appartenenti alla riserva: sostanzialmente funzioni di riposo o di movimento. Queste
funzioni creano una gerarchia tra le note stesse, al cui vertice si pone la nota potenzialmen-
te più attrattiva: in termini tecnici questa viene definita principale, la finalis degli antichi. Se
consideriamo un insieme di note sotto un profilo gerarchico si ha quello che si definisce tec-
nicamente un modo, cioè una maniera di essere delle note dell’insieme.
Per comodità si possono ordinare le note dalla più bassa alla più alta (ponendo come
nota più bassa la fondamentale) ottenendo nei fatti una «scala». Risulta però ora in tutta
la sua evidenza la differenza concettuale tra scala e modo. Per scala si dovrebbe intendere
una successione ordinata sotto il profilo delle altezze ma amorfa, indeterminata per quanto
riguarda la funzione percettiva di ciascuna nota; per modo una successione ordinata sotto il
profilo delle altezze differenziata e gerarchizzata per quanto concerne il ruolo percettivo di
ciascuna nota. Il fatto che nel linguaggio corrente moderno si parli spesso indistintamente
di scala e di modo (diciamo ormai, ad esempio, scala di SOL maggiore, e non modo di SOL
maggiore) non elimina la possibilità di distinguere facilmente i due concetti.
Si può osservare infine che per ogni scala (in senso stretto) possiamo evidenziare almeno
tanti modi quante sono le note della scala stessa. Ad esempio la nostra scala di DO forni-
sce sette modi diversi. Nell’esempio 1-9 presento i più utilizzati (quello che inizia dalla
nota SI, il locrio, è in realtà infrequente) con l’indicazione del loro nome più diffuso; più
avanti, quando ci volgeremo al linguaggio rinascimentale (cap. 4 e sgg.) userò invece i relati-
Capitolo 1 13

vi nomi latini.
I modi antichi sono stati recuperati per impieghi diversi, che vanno dal loro geniale riuti-
lizzo da parte di compositori del calibro di Debussy (preceduto in questo senso da alcune
profetiche pagine di Beethoven e di Chopin), al meno geniale riutilizzo in funzione di una
nostalgica visione del passato da parte di alcuni compositori del Novecento, all’efficace
impiego che se ne è fatto, e si fa tuttora, nel jazz e in seguito in altre esperienze musicali a
esso collegate (come il rock e il pop), sostanzialmente dopo la comparsa di quel capolavo-
ro discografico che è Kind of Blue di Miles Davis, il quale ha avuto un’immensa influenza su
moltissimi musicisti.

Es. 1-9

dorico frigio lidio


& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ
misolidio eolio ionio
œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ

Nel corso di questo capitolo parlerò di scale in senso stretto. Darò importanza quindi
alla nozione di scala come puro e semplice insieme privo di gerarchie. Per abitudine, ordi-
nerò sempre le scale dalla nota più bassa a quella più alta. Più avanti, nel capitolo 3, tente-
rò di dare anche alcune indicazioni (se qualcuno ne avvertisse il bisogno) su qualche parti-
colare e — dico subito — del tutto arbitraria applicazione compositiva delle scale.

1.2. Come scoprire gemme preziose

Desidero dare in questo capitolo semplici indicazioni per la costruzione di famiglie di scale
— cioè, in termini più tecnici, di insiemi di scale — che soddisfino le stesse proprietà per
quanto riguarda il criterio attraverso il quale si giunge alla loro costruzione. Le scale di ogni
famiglia non risulteranno essere (tranne alcuni doppioni, come vedremo più avanti), ovvia-
mente, una mera trasposizione l’una dell’altra ad altezze diverse (come ad esempio la sca-
la di SOL maggiore che, sotto il profilo della struttura degli intervalli, è identica a qualsiasi
altra scala maggiore, come FA maggiore o RE maggiore). Prima di passare all’argomento
specifico di questo capitolo ritengo però che occorrano ancora alcune osservazioni.
Per rendere più semplice e sintetico il contenuto di questo capitolo e per ulteriori consi-
derazioni analitiche, penso sia utile introdurre un semplice sistema numerico per individua-
re senza ambiguità le singole altezze della scala cromatica che, come si è visto, si può con-
siderare come l’insieme di note contenente tutti i sottoinsiemi delle possibili e immaginabili
scale che si possono inventare (cioè scoprire).
La considerazione che una stessa nota possa avere nomi diversi (ad esempio DO diesis
e RE bemolle), per il fenomeno dell’enarmonia, può generare confusione a livello analitico.
Soprattutto in contesti musicali, come molti brani del Novecento, che non fanno riferimento
14 L’abaco e la rosa

alle scale maggiori e minori, fondamento invece del repertorio classico.


Si consideri il prossimo esempio:

Es. 1-10

& œ #œ #œ œ œ œ bœ bœ nœ œ
œ œ bœ œ œ #œ

Risulta evidente che attribuire nomi diversi alle stesse note può generare confusione, con
la conseguenza che si rischia di ritenere a prima vista due o un maggior numero di scale più
diverse di quanto in realtà non siano per quanto concerne il numero di note comuni.
Sulla scia di un efficace strumento analitico ideato nel dopoguerra da studiosi statuni-
tensi come Allen Forte e finalizzato soprattutto all’analisi della musica non tonale, si può
attribuire alla nota DO la cifra 0, a DO diesis (o RE bemolle) la cifra 1, a RE la cifra 2 e
così via, aumentando a ogni semitono della scala cromatica la successione numerica di una
unità fino a raggiungere il SI, cui corrisponde ovviamente la cifra 11:

Es. 1-11
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

& œ #œ œ #œ œ #œ œ
œ #œ œ #œ œ

Ai 12 semitoni della scala cromatica corrispondono 12 cifre: semplice. Le cifre attribuite


a ogni semitono della scala cromatica vanno intese come valori assoluti, come simboli che
non cambiano nel caso di una trasposizione di una sequenza musicale ad altra altezza. Per
intenderci: la scala, o modo, di DO maggiore (la differenza terminologica non è qui per nulla
importante) può essere rappresentata numericamente come la successione [0, 2, 4, 5, 7, 9,
11], mentre quella di SOL maggiore sarà invece [7, 9, 11, 0, 2, 4, 6]. Una precisazione: in
questo libro, per desiderio di chiarezza, ho deciso di presentare le scale scritte secondo la
notazione numerica utilizzando la rappresentazione estensiva (o tabulare) insiemistica, che fa
uso delle parentesi quadre e della virgola per separare i simboli numerici.
Il metodo di notazione numerica della scala cromatica mette quindi immediatamente in
evidenza le note per quanto riguarda la loro altezza assoluta; non risulta quindi essere par-
ticolarmente utile in un contesto in cui si sia interessati maggiormente al rapporto interval-
lare tra i suoni, come può accadere d’altronde con una certa frequenza.
Occorre pochissimo tempo per familiarizzarsi con questo economico metodo di notazio-
ne che, in un primo momento, potrebbe sembrare piuttosto astratto. Si provi quindi a con-
siderare numericamente i seguenti esempi:
Capitolo 1 15

Es. 1-12
b
&b b C ˙ ˙ ˙ Œ œ #˙ n˙ n˙ b˙ œ œ bœ œ
˙ n˙
b #
&b b œ ˙ n n n 43 ˙ œ œ œ œ œ. œ Œ
œ
nœ nœ œ œ ˙ œ
Bach: Offerta musicale
# œ . œ œ œ œ œ #œ œ . #### # 4
& œœ Œ # 4 j j nœ . œ #œ nœ . ˙
œ nœ . œ #œ œ
Mozart: Sonata KV 545, Andante
# ## # j
œ nœ n˙ . œ œ œ
& # # œ œ œ nœ w nœ œ #œ ‹œ
œ ‹w
# ## #
& # #
˙ #œ #œ #w ˙ #œ ‹œ ‹˙ . ‹œ #˙ . #œ ‹w ‹w
Mahler: Decima Sinfonia

Leggendo secondo il metodo indicato le note di pochi altri frammenti musicali (non ne-
cessariamente difficili come l’ultimo dei tre proposti) ci si approprierà definitivamente di
questo utile strumento analitico, utile anche per costruire — o, meglio, per scoprire — fami-
glie di scale, nel nostro caso insiemi di scale che presentino analogie sotto il profilo del cri-
terio per mezzo del quale si giunge alla loro stessa costruzione, o scoperta. Risulta evidente
infatti che nel fare ciò non si crea nulla che non sia contenuto già nell’insieme di tutte le note
(la scala cromatica). In realtà, ciò che propongo sono semplici istruzioni per fare alcune
scoperte sulle possibilità combinatorie delle note all’interno del totale cromatico. Ogni in-
venzione è in realtà una scoperta nel mondo reale.
Per prima cosa si provi a immaginare la scala cromatica come uno schema di caselle cor-
rispondenti ciascuna a una nota della scala stessa, da DO a SI. Naturalmente risulta più
semplice, utilizzando la notazione numerica che ho illustrato, visualizzare la scala cromati-
ca come uno schema di caselle numerate dalla cifra 0 a 11, come nella seguente tabella:

Tab. 1-1
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Lo schema precedente è composto da caselle vuote. Per contro, possiamo immaginare


uno schema composto da caselle piene come il prossimo:

Tab. 1-2
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x x x x x x x x x

Nel caso si scelga di lavorare a partire da uno schema vuoto, riempiendo (cioè sceglien-
do) alcune caselle, di fatto si scelgono delle cifre (delle note quindi) che compongono una
scala. Volendo ad esempio ottenere una scala di cinque note, si può riempire a casaccio lo
schema come segue:
16 L’abaco e la rosa

Tab. 1-3
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x x

Lo schema numerico-notale risultante è questo:

[1, 4, 5, 7, 10].

Tradotto in notazione musicale tradizionale, con la convenzione che 0 rappresenti il DO


centrale del pianoforte, corrisponde a questa scala:

Es. 1-13

& œ œ bœ
#œ œ

Nel caso in cui si sia scelto invece di lavorare a partire da uno schema pieno, è possibile
cancellare dallo schema qualche x, come scolpendolo, in modo da ottenere, ad esempio,
uno schema come il seguente:

Tab. 1-4
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x x

Le caselle bianche corrispondono alle note scelte per formare questa scala di sette note:

[0, 1, 4, 6, 7, 8, 11].

Tradotta in notazione tradizionale:

Es. 1-14

& œ œ œ
œ #œ œ #œ

Una stessa scala si può visualizzare, ovviamente, in due maniere diverse; ad esempio:

Tab. 1-5
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x x
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x x x x

In entrambi i casi, cambiando il criterio di lettura, abbiamo ottenuto la sequenza [2, 4, 6,


9, 10].
Si osserva pertanto che ogni schema può essere letto mediante due criteri. A seconda di
Capitolo 1 17

quello scelto (a partire cioè da uno schema vuoto o da uno pieno), si possono leggere due
sequenze complementari (quella delle caselle vuote e quella delle caselle piene), che corri-
spondono al positivo/negativo di una fotografia. Ogni schema fornisce quindi sempre due
scale in rapporto di complementarità. Nel caso della tabella precedente, la scala comple-
mentare a quella inizialmente letta è: [0, 1 ,3, 5, 7, 8, 11]. Ovviamente, se la prima delle due
scale è costituita da n-note la seconda sarà costituita da 12 meno n-note.
Trovo affascinante il rapporto tra figura e sfondo che emerge visualizzando il totale cro-
matico nella maniera proposta. In realtà propongo qui di generalizzare l’esperienza che tut-
ti possono fare osservando la tastiera del pianoforte. Se si considera la familiare scala di
DO maggiore (la successione dei tasti bianchi a partire da un DO), la scala complementare,
il suo sfondo, risulta essere la successione dei tasti neri. Il grande compositore contempora-
neo György Ligeti, nel primo dei suoi Studi per pianoforte, ha sfruttato la possibilità (già
intravista a suo tempo da Stravinsky in Petrushka) di assegnare alle mani dell’esecutore ri-
spettivamente l’insieme dei tasti bianchi e quello dei tasti neri per tutto il corso del brano,
ottenendo uno stupefacente esito sonoro. Su quest’ultimo aspetto del rapporto tra figura e
sfondo tornerò più avanti.
Qualcuno si sarà già chiesto quale fra i due criteri di lettura proposti sia da considerare,
per diverse ragioni, migliore. Dipende: per quanto mi riguarda, trovo più semplice visualiz-
zare le scale partendo da uno schema vuoto. Vedremo tra breve, invece, che a volte risulte-
rà più semplice manipolare le note della scala complementare, quella scala che rispetto al
risultato finale potremmo definire di sfondo. Quest’ultima affermazione adesso potrà forse
sembrare astrusa; si constaterà in seguito che le cose sono più semplici di quanto si sia di-
sposti a credere a questo punto.
Immaginiamo ora di dividere lo schema della scala cromatica (quello vuoto) in parti, non
necessariamente uguali, di almeno due caselle: si può dividere ad esempio lo schema in tre
parti, così:

Tab. 1-6
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Oppure in quattro parti uguali; o cinque disuguali di due e tre caselle:

Tab. 1-7
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Le possibilità di ripartizione sono ovviamente innumerevoli. Ci si accorgerà che gran


parte del nostro lavoro di costruzione/scoperta di scale consisterà proprio nell’immaginare di
volta in volta gli schemi più fantasiosi. Torniamo ora al nostro primo esempio di ripartizio-
ne (Tab. 1-6). Mettiamo un segno a piacere in ognuna delle porzioni dello schema; ad esem-
pio così:
18 L’abaco e la rosa

Tab. 1-8
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x

Possiamo leggere in questo schema una scala di tre note: [1, 6, 9] (che in questo caso può
essere interpretata anche, casualmente, come l’accordo di FA diesis minore in stato di se-
condo rivolto). La scala complementare, lo sfondo, è invece una scala di nove note: [0, 2, 3,
4, 5, 7, 8, 10, 11]. Nulla ci vieta, come ho già detto, di invertire i ruoli e considerare que-
st’ultima scala come quella principale. Quest’ultima scala, poi, è una delle tante che fanno
parte di una famiglia, un insieme di scale che si possono costruire considerando tutte le
possibilità combinatorie relative ad alcune ripartizioni del totale cromatico. Si danno qui
tre possibilità nel primo segmento, quattro nel secondo, cinque nel terzo. Il numero delle
possibilità complessive è dato da 3 x 4 x 5, cioè 60 scale imparentate di nove note (e le rela-
tive 60 scale complementari di tre note).
Ho descritto quindi un metodo per la costruzione di una famiglia di scale di tre o nove
note. Penso che la maggior parte delle persone sia, in linea di massima, interessata più alla
costruzione di scale di nove note piuttosto che di tre. Risulta evidente ora che avere inizia-
to da uno schema vuoto mettendo le x, ma pensando in realtà già alla dimensione comple-
mentare delle scale di nove note, rende molto semplice il nostro lavoro.
Prima di passare a ulteriori esempi, ritengo necessarie ancora alcune considerazioni.
In primo luogo, quello che ho definito come rapporto di parentela fra più scale è soltanto
il risultato di semplici manipolazioni e combinazioni di segni. Si può scoprire un numero
enorme di relazioni formali fra scale di ogni genere, anche più interessanti di quelle che ho
proposto.
In secondo luogo, è lecito domandarsi, una volta progettato uno schema di scale e calco-
lato il numero di combinazioni possibili, come sviluppare il sistema, come redigere cioè, se-
condo un metodo semplice ma rigoroso, l’elenco di tutte le scale possibili dello schema pro-
gettato, senza dovere ricorrere all’informatica (su quest’ultimo punto tornerò più avanti) o
senza procedere a casaccio.
In terzo luogo, si potrebbe obiettare, considerando l’esempio precedente, che 60 sia forse
un numero di scale troppo grande perché l’insieme abbia nel suo complesso una semplice
validità pratica. Può essere quindi necessario immaginare criteri per la stesura di sottoin-
siemi più ristretti.
Si consideri il seguente schema:

Tab. 1-9
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Con quest’ultimo si possono ottenere 60 (5 x 4 x 3) combinazioni di scale di tre o nove


note. Mostrerò qui di seguito il suo sviluppo integrale secondo uno dei tanti criteri possibili.
Da quanto visto, risulta ormai evidente che è più agevole lavorare pensando a scale di tre
note quando si vogliono ottenere scale (complementari) di nove note. Quando si sarà ulti-
Capitolo 1 19

mato il lavoro sulle triplette risultanti, queste ultime verranno semplicemente scartate dalla
lettura delle cifre-note del totale cromatico.
Ci sono cinque possibilità di collocazione della x nella prima porzione, quattro nella se-
conda, tre nella terza. Si può quindi prendere la nota 0 (la prima x della prima porzione) e
relazionarla a 5 (la prima x della seconda porzione). Così si ottiene 0-5; poi si prende 0 e
lo si relaziona a 6 e si ottiene 0-6, e via di seguito. Si tratta, in definitiva, di redigere la lista
di tutte le possibilità combinatorie delle prime due porzioni del totale cromatico:

Tab. 1-10

0-5 0-6 0-7 0-8


1-5 1-6 1-7 1-8
2-5 2-6 2-7 2-8
3-5 3-6 3-7 3-8
4-5 4-6 4-7 4-8

Poi si mettono in relazione i gruppi di due note appena formati ciascuno con una delle
tre possibilità date dalla terza porzione del totale cromatico e si assegna un numero pro-
gressivo a ogni tripletta:

Tab. 1-11

(1) 0-5-9 (2) 0-5-10 (3) 0-5-11


(4) 0-6-9 (5) 0-6-10 (6) 0-6-11
(7) 0-7-9 (8) 0-7-10 (9) 0-7-11
(10) 0-8-9 (11) 0-8-10 (12) 0-8-11
(13) 1-5-9 (14) 1-5-10 (15) 1-5-11
(16) 1-6-9 (17) 1-6-10 (18) 1-6-11
(19) 1-7-9 (20) 1-7-10 (21) 1-7-11
(22) 1-8-9 (23) 1-8-10 (24) 1-8-11
(25) 2-5-9 (26) 2-5-10 (27) 2-5-11
(28) 2-6-9 (29) 2-6-10 (30) 2-6-11
(31) 2-7-9 (32) 2-7-10 (33) 2-7-11
(34) 2-8-9 (35) 2-8-10 (36) 2-8-11
(37) 3-5-9 (38) 3-5-10 (39) 3-5-11
(40) 3-6-9 (41) 3-6-10 (42) 3-6-11
(43) 3-7-9 (44) 3-7-10 (45) 3-7-11
(46) 3-8-9 (47) 3-8-10 (48) 3-8-11
(49) 4-5-9 (50) 4-5-10 (51) 4-5-11
(52) 4-6-9 (53) 4-6-10 (54) 4-6-11
(55) 4-7-9 (56) 4-7-10 (57) 4-7-11
(58) 4-8-9 (59) 4-8-10 (60) 4-8-11

Ovviamente le corrispondenti scale di nove suoni saranno le seguenti:


20 L’abaco e la rosa

Tab. 1-12
(1) 1-2-3-4-6-7-8-10-11 (2) 1-2-3-4-6-7-8-9-11 (3) 1-2-3-4-6-7-8-9-10
(3) 1-2-3-4-5-7-8-10-11 (4) 1-2-3-4-5-7-8-9-11 (5) 1-2-3-4-5-7-8-9-10

(7) 1-2-3-4-5-6-8-10-11 (8) 1-2-3-4-5-6-8-9-11 (9) 1-2-3-4-5-6-8-9-10


etc. fino a (60)

Come ho accennato, a fini pratici può risultare troppo grande la lista delle scale appena
proposta. Per ovviare a questa sovrabbondanza nulla ci vieta di redigere una lista più ri-
stretta (di 10 scale ad esempio) formata da scale scelte arbitrariamente. Oppure, data una
tabella come la 1-11, si possono scegliere 12 scale prendendone ad esempio una ogni cin-
que; così la nuova lista sarà formata dalle scale 5, 10, 15, 20, 25, 30, 35, 40, 45, 50, 55, 60.
Anche quest’ultimo elenco è, in definitiva, arbitrario. La scelta risulta essere comunque in
qualche modo ordinata. Ovviamente potremmo anche affidarci al caso.
Si possono immaginare invece criteri che riducano il numero delle scale da impiegare con
riferimento allo schema stesso del totale cromatico. Si consideri la progettazione di una fa-
miglia di scale di otto note a partire da questa ripartizione:

Tab. 1-13
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Ci comporteremo inizialmente come se stessimo lavorando per ottenere scale di quattro


note. Collochiamo ora le x della seconda e terza porzione in maniera che occupino sempre
la stessa posizione:

Tab. 1-14
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x

Una collocazione delle x nella seconda e terza porzione del totale cromatico come quella
riportata qui di seguito non potremmo in questo caso accettarla:

Tab. 1-15
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x

Il numero di scale della nostra famiglia ammonta quindi a 2 x 3 (le possibilità date dal
secondo e terzo segmento insieme) x 4: in totale 24 scale. Come ulteriore esempio fornisco
lo sviluppo di questo nuovo sistema di scale. Inizialmente la nota 0 può relazionarsi a 2-5,
a 3-6 e a 4-7; poi si procede in modo simile a quanto visto in precedenza. Ecco la lista
completa:
Capitolo 1 21

Tab. 1-16
(1) 0-2-5-8 (2) 0-2-5-9 (3) 0-2-5-10 (4) 0-2-5-11
(5) 0-3-6-8 (6) 0-3-6-9 (7) 0-3-6-10 (8) 0-3-6-11
(9) 0-4-7-8 (10) 0-4-7-9 (11) 0-4-7-10 (12) 0-4-7-11
(13) 1-2-5-8 (14) 1-2-5-9 (15) 1-2-5-10 (16) 1-2-5-11
(17) 1-3-6-8 (18) 1-3-6-9 (19) 1-3-6-10 (20) 1-3-6-11
(21) 1-4-7-8 (22) 1-4-7-9 (23) 1-4-7-10 (24) 1-4-7-11

Sembrano ancora troppe? Possiamo ridurre il numero delle scale a otto scegliendone ad
esempio una ogni tre secondo la numerazione della tabella. L’elenco delle scale sarà quindi:
3, 6, 9, 12, 15, 18, 21, 24. Finalmente possiamo scrivere la lista delle otto scale di otto note
che abbiamo scelto per i nostri fini musicali:

Tab. 1-17

(1) 1 3 4 6 7 8 9 11
(2) 1 2 4 5 7 8 10 11
(3) 1 2 3 5 6 9 10 11
(4) 1 2 3 5 6 8 9 10
(5) 0 3 4 6 7 8 9 11
(6) 0 2 4 5 7 8 10 11
(7) 0 2 3 5 6 9 10 11
(8) 0 2 3 5 6 8 9 10

Riscritta in notazione musicale la tabella corrisponde a questo elenco:

Es. 1-15

& œ #œ œ œ œ bœ bœ nœ œ bœ nœ #œ œ bœ
#œ #œ œ #œ #œ œ œ œ #œ œ bœ œ #œ #œ œ bœ œ #œ

& œ bœ bœ nœ œ bœ bœ nœ œ bœ nœ #œ œ bœ
œ bœ nœ #œ œœœœ œ œ bœ œ #œ œ œ bœ œ #œ

Per chi ha qualche dimestichezza con programmi informatici di notazione musicale


(dovrebbe oggi darsi per scontata), la stesura del sistema di scale è in realtà ancora più
semplice. Il procedimento attraverso cui si giunge alla loro scoperta è comunque identico a
quello illustrato fino a questo punto.
Si immagini ad esempio di volere costruire una famiglia di scale di nove note. Questa
volta divideremo lo schema del totale cromatico in tre parti disuguali:

Tab. 1-18
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Moltiplicando, come di consueto, il numero delle caselle dei tre segmenti otteniamo 3 x 5
x 4, cioè 60 possibilità. Per prima cosa facciamo 60 copie della scala cromatica (cosa rapi-
dissima usando il computer) evidenziando possibilmente lo schema di divisione in segmen-
ti come nell’esempio 1-16. Cancellando una nota da ogni segmento dello schema si ottengo-
22 L’abaco e la rosa

Es. 1-16
& ∑ #œ œ
∑ nœ œ #œ œ ∑ œ bœ nœ
œ

œ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ ∑ œ

& ∑ #œ œ
∑ nœ œ #œ œ #œ ∑ bœ nœ
œ

œ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ bœ ∑

& ∑ #œ œ
∑ nœ œ #œ œ #œ œ ∑ nœ
œ

œ bœ nœ œ ∑ œ ∑ œ bœ nœ

& ∑ #œ œ
∑ nœ œ #œ œ #œ œ bœ ∑
œ

œ bœ nœ œ ∑ œ #œ ∑ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ ∑ œ #œ œ ∑ œ bœ nœ
œ

œ bœ nœ œ ∑ œ #œ œ ∑ nœ

& ∑ #œ œ bœ ∑ œ #œ œ #œ ∑ bœ nœ
œ

œ bœ nœ œ ∑ œ #œ œ bœ ∑

& ∑ #œ œ bœ ∑ œ #œ œ #œ œ ∑ nœ
œ

œ bœ nœ œ #œ ∑ ∑ œ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ ∑ œ #œ œ #œ œ bœ ∑
œ

œ bœ nœ œ #œ ∑ #œ ∑ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ ∑ #œ œ ∑ œ bœ nœ
œ

œ bœ nœ œ #œ ∑ #œ œ ∑ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ ∑ #œ œ #œ ∑ bœ nœ
œ

œ bœ nœ œ #œ ∑ #œ œ bœ ∑

& ∑ #œ œ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ ∑ nœ
œ #œ
∑ ∑ nœ œ #œ œ ∑ œ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ bœ ∑
œ #œ
∑ ∑ nœ œ #œ œ #œ ∑ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ œ ∑ œ ∑ œ bœ nœ
œ #œ
∑ ∑ nœ œ #œ œ #œ œ ∑ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ œ ∑ œ #œ ∑ bœ nœ
œ #œ
∑ ∑ nœ œ #œ œ #œ œ bœ ∑

& ∑ #œ œ bœ nœ œ ∑ œ #œ œ ∑ nœ
œ #œ
∑ bœ ∑ œ #œ œ ∑ œ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ œ ∑ œ #œ œ bœ ∑
œ #œ
∑ bœ ∑ œ #œ œ #œ ∑ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ œ #œ ∑ ∑ œ bœ nœ
œ #œ
∑ bœ ∑ œ #œ œ #œ œ ∑ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ œ #œ ∑ #œ ∑ bœ nœ
œ #œ
∑ bœ ∑ œ #œ œ #œ œ bœ ∑

& ∑ #œ œ bœ nœ œ #œ ∑ #œ œ ∑ nœ
œ #œ
∑ bœ nœ ∑ #œ œ ∑ œ bœ nœ

& ∑ #œ œ bœ nœ œ #œ ∑ #œ œ bœ ∑
œ #œ
∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ ∑ bœ nœ

&œ ∑ ∑ nœ œ #œ œ ∑ œ bœ nœ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ ∑ nœ
œ œ #œ
&œ ∑ ∑ nœ œ #œ œ #œ ∑ bœ nœ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ bœ ∑
œ œ #œ
&œ ∑ ∑ nœ œ #œ œ #œ œ ∑ nœ ∑ bœ nœ œ ∑ œ ∑ œ bœ nœ
œ œ #œ
&œ ∑ ∑ nœ œ #œ œ #œ œ bœ ∑ ∑ bœ nœ œ ∑ œ #œ ∑ bœ nœ
œ œ #œ
&œ ∑ bœ ∑ œ #œ œ ∑ œ bœ nœ ∑ bœ nœ œ ∑ œ #œ œ ∑ nœ
œ œ #œ
&œ ∑ bœ ∑ œ #œ œ #œ ∑ bœ nœ ∑ bœ nœ œ ∑ œ #œ œ bœ ∑
œ œ #œ
&œ ∑ bœ ∑ œ #œ œ #œ œ ∑ nœ ∑ bœ nœ œ #œ ∑ ∑ œ bœ nœ
œ œ #œ
&œ ∑ bœ ∑ œ #œ œ #œ œ bœ ∑ ∑ bœ nœ œ #œ ∑ #œ ∑ bœ nœ
œ œ #œ
&œ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ ∑ œ bœ nœ ∑ bœ nœ œ #œ ∑ #œ œ ∑ nœ
œ œ #œ
&œ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ ∑ bœ nœ ∑ bœ nœ œ #œ ∑ #œ œ bœ ∑
œ œ #œ
Capitolo 1 23

no direttamente le nostre scale di nove note. Rimane da analizzare il procedimento per scol-
pire la tabella amorfa consistente, nel nostro caso, in 60 ripetizioni della scala cromatica.
Osserviamo l’esempio 1-16. Risulta evidente che la cancellatura di una nota del primo seg-
mento genera un gruppo di 20 scale (5 x 4 = 20); possiamo quindi ripetere per 20 volte lo
schema della scala cromatica priva della prima nota. Applichiamo ricorsivamente il ragio-
namento agli altri segmenti. Immaginiamo ora che il primo segmento non esista. La cancel-
latura di una nota del secondo segmento si associa a quattro segmenti: prepariamo quindi
sulla tabella cinque cancellature per ciascuna nota da cui il segmento è composto; associa-
mo adesso a ciascuna cancellatura del secondo gruppo una cancellatura dell’ultimo gruppo
e il gioco è fatto. Ora bisogna ripetere queste operazioni semplicemente fino al completa-
mento della tabella. Osservando ancora l’esempio 1-16, con riguardo alla sua forma
grafica, ciò che ho detto dovrebbe risultare chiaro. Prestiamo attenzione a ciò che accade
con il primo segmento, poi con il secondo, poi con il terzo. Rimane infine la banalissima os-
servazione che le pause corrispondenti alle cancellature non hanno alcun significato ritmico.
Propongo a titolo di esempio un’altra famiglia di scale, questa volta di quattro/otto no-
te. Lo schema di divisione del totale cromatico è il seguente:

Tab. 1-19

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Si danno 72 possibilità (2 x 3 x 3 x 4). Se però, come in precedenza (Tab. 1-14), limitia-


mo la possibilità di scelta nel secondo e terzo segmento, associando sempre la prima casel-
la del secondo segmento con la prima del terzo e così via, il numero di scale possibili scen-
de drasticamente a 24 (2 x 3 x 4). L’esempio 1-17 le mostra tutte. Sarà opportuno analiz-
zarlo con una certa attenzione per impratichirsi del metodo di scultura di una tabella amor-
fa.
Prima di proseguire la nostra escursione in quella che possiamo considerare soltanto una
piccola regione del vastissimo mondo delle scale, credo che si impongano alcune considera-
zioni sul percorso fatto fin qui. Alcuni avranno già provato a suonare alcune delle scale
proposte. Probabilmente qualcuno dirà: certo, abbiamo disposizione tutte le scale che vo-
gliamo, però da un lato sembra che si assomiglino un po’ tutte, dall’altro nessuna sembra
possedere il fascino di una scala carica del peso di una storia lunghissima come una scala
diatonica (ad esempio DO maggiore).
Dirò subito che di fronte a simili obiezioni sono anch’io in parte d’accordo. Non ho certo
motivi per offendermi. Nei fatti né io né eventuali altri inventori di scale possiamo definirci
creatori di alcuna famiglia di scale. Come ho già detto, le scale non si creano, si scoprono.
Non devo quindi preoccuparmi per la loro presunta sciatteria. Mi rendo del resto perfetta-
mente conto cosa significa essere uno, nessuno e centomila. Certamente non possiamo preten-
dere che una scala qualsiasi possa avere il potenziale di comunicazione di una scala conso-
lidata nel corso di secoli. Per contro ho anch’io alcune considerazioni da fare.
In primo luogo penso che valga sempre la pena sforzarsi di cercare le proprietà spe-
24 L’abaco e la rosa

Es. 1-17
&∑ #œ
∑ bœ nœ ∑ #œ œ ∑ œ bœ nœ

&∑ #œ
∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ ∑ bœ nœ

&∑ #œ
∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ ∑ nœ

&∑ #œ
∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ bœ ∑

&∑ #œ œ
∑ nœ œ ∑ œ ∑ œ bœ nœ

&∑ #œ œ
∑ nœ œ ∑ œ #œ ∑ bœ nœ

&∑ #œ œ
∑ nœ œ ∑ œ #œ œ ∑ nœ

&∑ œ
∑ nœ œ ∑ œ #œ œ bœ ∑

&∑ #œ œ bœ
∑ œ #œ ∑ ∑ œ bœ nœ

&∑ œ bœ
∑ œ #œ ∑ #œ ∑ bœ nœ

&∑ #œ œ bœ
∑ œ #œ ∑ #œ œ ∑ nœ

&∑ #œ œ bœ
∑ œ #œ ∑ #œ œ bœ ∑

&œ ∑ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ ∑ œ bœ nœ

&œ ∑ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ ∑ bœ nœ

&œ ∑ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ ∑ nœ

&œ ∑ ∑ bœ nœ ∑ #œ œ #œ œ bœ ∑

&œ ∑ ∑ nœ œ ∑ œ ∑ œ bœ nœ
œ

&œ ∑ ∑ nœ œ ∑ œ #œ ∑ bœ nœ
œ

&œ ∑ ∑ nœ œ ∑ œ #œ œ ∑ nœ
œ

&œ ∑ ∑ nœ œ ∑ œ #œ œ bœ ∑
œ

&œ ∑ ∑ œ #œ ∑ ∑ œ bœ nœ
œ bœ

&œ ∑ ∑ œ #œ ∑ #œ ∑ bœ nœ
œ bœ

&œ ∑ ∑ œ #œ ∑ #œ œ ∑ nœ
œ bœ

&œ ∑ ∑ œ #œ ∑ #œ œ bœ ∑
œ bœ
Capitolo 1 25

cifiche di nuovi materiali, siano anche composti di laboratorio. Chissà che qualcosa di inte-
ressante o inaspettato salti fuori, anche da ciò che si stimava di scarso valore.
Ritengo inoltre che l’impiego di queste scale possa tornare utile qualora si pensi a una
musica che in qualche modo si ponga il problema dell’originalità. Non occorre essere Beet-
hoven o Messiaen per comporre musica. Ritengo sia necessario però sapere valutare il gra-
do di originalità, di fitness se si preferisce, di un brano musicale. Non perché questo metro
costituisce un sicuro strumento per calcolarne il valore, ma per orientare minimamente il
senso del fare musicale. Mi spiego. Non nascondo che una canzone come quelle che si pos-
sono ascoltare alla radio possa talvolta piacermi. Per musica di questo tipo però le nostre
scale potrebbero avere al più un’importanza marginale (mi interessa poco immaginare
un’improbabile edizione del 2050 del Festival di Sanremo dove gran parte delle canzoni
siano basate su serie dodecafoniche). Se mi piace il jazz, Glass e/o Ligeti, oppure certe
espressioni di musica «trasversale», allora qualche composto in più, adesso, mi potrebbe
servire per non brancolare nel buio.
Immagino poi che leggendo queste pagine alcuni, considerando il grado odierno di svi-
luppo della tecnologia informatica, si chiedano se abbia senso una presentazione dal taglio
così primitivo e semplificato di questa materia. Esistono infatti oggi programmi sofistica-
tissimi per la manipolazione di dati musicali e del suono come Csound, Max e OpenMusic
che sono però conosciuti e utilizzati da pochi (non sono infatti applicazioni standard come
i programmi di notazione e i sequencer). Oggi il grado di informatizzazione dei musicisti è
non di rado ancora insufficiente o molto modesto. Mi rendo perfettamente conto che tutto
ciò che ho illustrato fino a qui può essere condensato in un banale programmino, del genere
di quelli che si scaricano gratis dal Web.
Devo dire però che, informatica a parte, mi sembra che oggi sia ancora molto diffuso nei
confronti della musica un atteggiamento romantico. Oltre a qualche centro di ricerca musica-
le, le cui attività risultano però talvolta di natura autoreferenziale, oggi fanno uso di stru-
menti informatici soprattutto coloro che si occupano di musica «di consumo». Ricorrono al
computer più i dj dei diplomati di conservatorio. Come ho già detto, questo libro offre po-
che ricette complete. Cerca invece di fornire semplici spunti per coloro che sono disposti ad
andare un po’ oltre il luogo comune della musica come attività romantica. Per contro, chi
utilizza l’informatica musicale in modo preconfezionato potrebbe forse trovare spunti di ori-
ginalità per il proprio lavoro.
Abbiamo scoperto molte scale. Prima di procedere nella nostra esplorazione, spenderò
qualche parola su alcune semplici operazioni che possiamo compiere sulle scale quali la
trasposizione e il rovesciamento o inversione. Faccio notare, ancora una volta, che quelle che
abbiamo scoperto fino a questo punto sono da intendere come scale in senso stretto. La pri-
ma nota di ciascuna non è necessariamente la più importante a livello percettivo, come in
un modo. Data una scala di un nostro elenco possiamo trasformarla in almeno tanti modi
quante sono le note della scala stessa.
Detto questo, ogni scala può essere ovviamente trasposta su ogni grado della scala cro-
matica. Non è detto che per ogni scala ci siano però 12 trasposizioni effettive; per alcune il
numero di trasposizioni sarà inferiore. Ciò si verifica quando a una data trasposizione, ad
26 L’abaco e la rosa

esempio alla terza, si ritrovano le note della scala di partenza ma in un diverso ordine. È
quello che si verifica, come abbiamo visto, con la scala esatonale, che ha una sola trasposi-
zione (cfr. Es. 1-3). Così, quando si è redatta, ad esempio, una lista ristretta di otto scale,
si può decidere per alcune di esse una trasposizione ad altra altezza. La trasposizione è
dunque un’operazione semplicissima; con l’impiego del computer è addirittura immediata.
Se si utilizza il sistema numerico basta sommare a tutti i numeri corrispondenti alle note
della scala un valore da 1 a 11. Il valore 1 corrisponderà ovviamente al semitono, 2 al tono,
3 alla terza minore e così via. Se alcune note della scala trasposta daranno valori superiori
o pari a 12, bisognerà sottrarre 12 a questi numeri per ottenere il valore assoluto della nota,
al fine di mantenerla per maggiore praticità nell’ottava di riferimento (0-11).
Si consideri la scala [0, 3, 4, 6, 7, 8, 9, 11]. Proviamo a trasportarla una quinta giusta
sopra. A ogni numero dovremo quindi aggiungere 7, che corrisponde appunto alla quinta
giusta. Otteniamo allora [7, 10, 11, 13, 14, 15, 16, 18]. Sottraiamo 12 agli ultimi cinque nu-
meri e otteniamo [7, 10, 11, 1, 2, 3, 4, 6].
Introdotta la nozione di trasposizione è opportuno fare ora alcune considerazioni che
probabilmente deluderanno qualcuno. Fin qui non ci siamo infatti preoccupati per la possi-
bilità che qualche famiglia di scale contenga alcuni doppioni. Intendo cioè l’evenienza che
all’interno di una famiglia ci siano due scale diverse per quanto riguarda le note, ma identi-
che sotto il profilo della struttura intervallare. Se si considerano, ad esempio, le scale di
SOL maggiore e di FA maggiore non possiamo dirle identiche per quanto riguarda le note;
entrambe però sono scale maggiori, dotate quindi di un identico schema intervallare.
Si immagini di dividere il totale cromatico in quattro parti uguali. Sviluppiamo il sistema
in parallelo, in modo da ottenere soltanto tre scale:

Tab. 1-20

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x

Le scale corrispondenti alle tabelle precedenti sono queste:

Es. 1-18

& œ bœ bœ nœ bœ bœ nœ œ œ œ bœ
#œ œ œ œ œ œ bœ œ œ bœ bœ nœ #œ

Le tre scale hanno un’identica struttura intervallare. Si tratta infatti delle tre sole possi-
bili scale diminuite, composte da un continuo susseguirsi dello schema semitono-tono o vi-
ceversa. Ognuna di esse può essere intesa come sovrapposizione di due accordi di settima
diminuita, da cui il nome delle scale:
Capitolo 1 27

Es. 1-19

& œ bœ œ œ bœ nœ bœ œ œ œ bœ œ œ œ bœ
#œ œ œ bœ œ bœ #œ bœ nœ

Siamo di fronte quindi a reciproche trasposizioni di uno stesso modello di scala (in que-
sto caso sono le uniche tre forme possibili).
Il metodo per eliminare questi doppioni (che non sono quindi, ripeto, una mera copia di
una scala rispetto a un’altra) da una famiglia di scale esula dalle finalità di questo scritto.
Ritengo però che non ci si debba eccessivamente crucciare per queste presenze. La presenza
di una o più trasposizioni di una scala può essere intesa metaforicamente come l’esistenza
di uno o più gemelli all’interno di una famiglia. Il fatto di possedere copie identiche dello
stesso DNA non impedisce a due gemelli omozigoti di avere caratteri ed esistenze del tutto
diversi. Accettiamo quindi di buon grado la presenza naturale di alcune trasposizioni.
Veniamo ora al rovesciamento o inversione di una scala. Consideriamo ancora la scala [0,
3, 4, 6, 7, 8, 9, 11]; analizziamo il prossimo esempio:

Es. 1-20
œ œ bœ œ #œ
œ bœ œ œ œ bœ bœ
& œ œ bœ bœ

Evidentemente, l’ordine in cui appaiono le note della prima scala va inteso dall’ultima
alla prima. Arrivati al DO nella seconda scala vengono ribaltati tutti gli intervalli della pri-
ma in relazione a un immaginario asse di simmetria. Guardiamo ora le cose da un altro
punto di vista:

Es. 1-21

#œ œ bœ nœ œ
bœ nœ
& œ œ bœ bœ œ œ bœ bœ

Siamo di fronte a una sorta di ventaglio musicale. Gli intervalli della scala ascendente
sono gli stessi di quella discendente, ma disposti al contrario (la stessa terminologia musi-
cale impiega anche l’espressione moto contrario). Rispetto alla scala d’origine possiamo
tranquillamente considerare, al semplice fine di lettura e classificazione, la scala rovesciata
in senso discendente, come negli esempi proposti. Una volta effettuata l’inversione è forse
più utile, però, riscrivere la scala inversa a partire dall’ultima nota per ottenere anche qui la
forma ascendente. I teorici in questo caso parlerebbero di forma retrograda dell’inversione
della scala. Spero che il prossimo esempio chiarisca quelle che potrebbero sembrare consi-
derazioni un po’ astruse:

Es. 1-22

& bœ bœ bœ nœ œ
bœ nœ œ
28 L’abaco e la rosa

Le trasformazioni effettuate — trasposizione e inversione — sono trasformazioni iso-


morfe. Quest’ultimo termine significa che questo tipo di trasformazioni conservano l’infor-
mazione dell’originale. Non potrebbero essere quindi considerate, in senso stretto, come va-
riazioni.
Torniamo alla nostra lista di otto scale della tabella 1-17. Potremmo decidere ad esem-
pio che alcune di esse si presentino in forma trasposta o inversa; non ritengo necessario di-
lungarmi oltre su ciò.
Fino a questo punto le ripartizioni che abbiamo fatto del totale cromatico non ci hanno
creato particolari problemi: questo perché si è sempre collocato un solo segno in ogni seg-
mento, come ad esempio nella tabella 1-8. Cosa succede se si vogliono collocare più segni in
un solo segmento? E perché mai dovremmo farlo? Immaginiamo di volere costruire delle
scale di cinque o sette note. Da che ripartizione dello schema della scala cromatica potrem-
mo partire per la nostra ricerca? Nulla ci vieta, ovviamente, di prendere in considerazione
cinque segmenti (ricordiamoci sempre il principio di figura-sfondo) come qui di seguito:

Tab. 1-21

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Oppure possiamo considerare tre segmenti e mettere più segni in due di essi:

Tab. 1-22

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x x

Prima di tutto: quante sono le combinazioni di x nei segmenti di cinque caselle? Per que-
sta risposta ci viene in aiuto il calcolo combinatorio. Generalizziamo per un istante il proble-
ma. Occorre considerare il numero di caselle e quello dei segni. Il numero di combinazioni
possibili è dato dal numero di caselle moltiplicato per il numero di caselle meno una unità,
moltiplicato il numero di caselle meno due unità e così via per quanti segni abbiamo a di-
sposizione. Il numero ottenuto va diviso poi per il numero fattoriale delle x. Circa il concetto
di numero fattoriale, significa semplicemente, come molti sapranno, il numero di permuta-
zioni possibili di n-elementi. Ad esempio, 3 fattoriale (si scrive 3!, dove il punto esclamati-
vo significa appunto fattoriale) corrisponde a 3 x 2 x 1 = 6 permutazioni. Data una mela,
una pera, una ciliegia, le posso mettere in fila in sei modi diversi. Torniamo alle nostre ca-
selle. Immaginiamo di collocare tre x in sette caselle; in base a quanto detto le possibilità
saranno:

7 x 6 x 5 / 3! = 35 combinazioni.

Ora possiamo finalmente occuparci della tabella 1-22. Risulta ormai chiaro che le com-
binazioni possibili di due x in cinque caselle sono 10. Infatti 5 x 4 / 2! = 10. Quante sono
Capitolo 1 29

allora le scale che possiamo estrarre dalla tabella 1-22? Sono ben 200 (10 x 2 x 10). Per
quanto mi riguarda, 200 scale per una composizione sono troppe (molte, poi, sarebbero
delle semplici trasposizioni una dell’altra, dei doppioni). È difficile dire quando un numero
possa essere considerato grande, forse non ha neppure senso chiederselo. Per alcune appli-
cazioni, però, alcuni numeri si possono forse dire empiricamente grandi. Se invece conside-
ro in parallelo due segmenti come nella tabella 1-14 le combinazioni scendono drasticamente
a 20, un numero accettabile. Si tratta allora di sviluppare il sistema delle combinazioni
possibili nei segmenti di cinque caselle e il gioco è praticamente fatto. La seguente tabella il-
lustra lo sviluppo in parallelo della tabella 1-22; può essere un modello per impratichirsi del
metodo:

Tab. 1-23
0-1 0-2 0-3 0-4
7-8 7-9 7-10 7-11
1-2 1-3 1-4
8-9 8-10 8-11
2-3 2-4
9-10 9-11
3-4
10-11

Ora siamo in grado di costruire facilmente le 20 scale di 5 note:

Tab. 1-24
(1) 0 1 5 7 8
(2) 0 2 5 7 9
(3) 0 3 5 7 10
(4) 0 4 5 7 11
(5) 1 2 5 8 9
(6) 1 3 5 8 10
(7) 1 4 5 8 11
(8) 2 3 5 9 10
(9) 2 4 5 9 11
(10) 3 4 5 10 11
(11) 0 1 6 7 8
(12) 0 2 6 7 9
(13) 0 3 6 7 10
(14) 0 4 6 7 11
(15) 1 2 6 8 9
(16) 1 3 6 8 10
(17) 1 4 6 8 11
(18) 2 3 6 9 10
(19) 2 4 6 9 11
(20) 3 4 6 10 11

Come di consueto, si potrà leggere al negativo la rimanente famiglia di scale di sette note.
Ora che abbiamo fatto un po’ di pratica con segmenti e tabelle ci accorgeremo che più un
segmento del totale cromatico è piccolo, maggiore è la frequenza delle note che rappresenta
nell’insieme di tutte le scale. È facile accorgersi che nella tabella 1-24 il 5 e il 6 la fanno da
padroni. Potremmo considerare queste note alla stregua di note principali della scala, ma
non siamo obbligati. La frequenza statistica è qui l’aspetto più interessante. Ora possiamo
30 L’abaco e la rosa

cominciare a tenerne conto nella progettazione delle nostre scale. Chiaramente, se ci sta a
cuore che alcune note compaiano con più frequenza in famiglia (come alcuni parenti gradi-
ti), avremo cura di racchiuderle in porzioni piccole del totale cromatico, ad esempio di due
caselle. Possiamo anche bloccare una casella e decidere che la nota corrispondente compaia
sempre sia al positivo che al negativo. Consideriamo la prossima tabella:

Tab. 1-25
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

In questo caso abbiamo bloccato la casella 3. Lo schema ci permette di costruire una fa-
miglia di scale di cinque o sette note, riempiendo ogni porzione con un solo segno. Deciden-
do che il secondo e l’ultimo segmento siano combinati in parallelo, si ottengono 3 x 3 x 2
possibilità, cioè 18 scale. In ognuna di esse comparirà la nota 3. Nulla ci vieta di scrivere in
seguito le scale facendole iniziare proprio dalla nota 3. Anzi; volendo fissare una nota, po-
tremmo fare iniziare lo schema proprio dalla nota stessa. Si potrebbe quindi visualizzare la
precedente tabella così:

Tab. 1-26
3 4 5 6 7 8 9 10 11 0 1 2

La possibilità di fissare anche più note ci offre prospettive interessanti, come quella di
creare facilmente segnali sonori riconoscibili.
Immaginiamo uno schema in cui siano bloccate le note 9, 10 e 1. Personalmente avverto
la necessità di visualizzarle il più vicino possibile e di collocare la nota 1 come ultima della
sequenza. Sarà perché ho in testa una scala minore armonica di RE, che mi piace tanto.
Nulla mi vieta allora di visualizzare lo schema così:

Tab. 1-27
2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 0 1

Volendo ottenere una famiglia di scale di sette note posso collocare due segni nella se-
conda porzione. Dal momento che le combinazioni all’interno di essa sono sei (ricordiamoci
la precedente formula), in tutto avremo 3 x 6 x 2, cioè 36 scale. Fornisco di seguito lo svi-
luppo del secondo segmento,

Tab. 1-28
5 6
5 7
5 8
6 7
6 8
7 8
Capitolo 1 31

poi questa volta scolpirò le scale a partire da una tabella amorfa che inizialmente riporterà
36 volte la scala cromatica a partire da un RE. L’esempio 1-23 mostra l’elenco di tutte le 36
scale.
Torniamo ai segmenti in cui si siano collocati più segni. Pensiamo a un segmento di sei
caselle con tre x. Le combinazioni sono 6 x 5 x 4 / 3!, cioè 20. Con un segmento di sette ca-
selle e tre x le combinazioni sono già 35. Proseguendo su questa strada si possono calcolare
tutte le combinazioni di n-note (le nostre x) all’interno del totale cromatico. Ci si può chie-
dere, in definitiva, a quanto ammonti, ad esempio, il numero di tutte le possibili scale di
sette note. Il calcolo non è difficile; ovviamente il numero delle scale di sette note è uguale a
quello di cinque. Pensando a queste ultime il calcolo è più semplice:

12 x 11 x 10 x 9 x 8 / 5! = 792 scale di 5 o 7 note.

Qualcuno potrebbe, magari con l’aiuto del computer, prendersi la briga di stenderle tut-
te! Il nostro lavoro però sarebbe ancora utile, perché ciò che noi cerchiamo non è la lista
completa di tutte le scale possibili e immaginabili, quanto piuttosto possibilità di relazioni,
di affinità tra scale. In questo ambito le possibilità sono innumerevoli. In più, i criteri per la
formazione di famiglie di scale possono essere, come abbiamo visto, i più fantasiosi.

Giunti a questo punto ritengo che chiunque possa procedere autonomamente nelle pro-
prie scoperte per mettere insieme personali collezioni di scale. Quanto ho proposto sarà sta-
to utile se permetterà di avere qualche strumento in più nell’esplorazione del mondo delle
scale e delle loro relazioni. Le indicazioni che ho dato non hanno infatti la minima pretesa
di fornire una trattazione esaustiva sulle scale. Che dire, ad esempio, delle scale non otta-
vizzanti, quelle scale cioè che non possono essere ripetute immediatamente dopo una sola
ottava? Il prossimo esempio ne mostra una rappresentante:

Es. 1-24
Nœ Nœ
b œ b œ n œ bœ bœ nœ #œ œ
& œ
œ œ bœ œ

Chi volesse consultare un poderoso catalogo di scale potrebbe procurarsi il classico The-
saurus of Scales and Melodic Patterns di Nicolas Slonimsky. Per fortuna quanto proposto fin
qui permette di stendere elenchi di scale ancora diversi. Per quanto riguarda invece una
trattazione esaustiva e rigorosamente formalizzata di alcuni argomenti trattati fino a que-
sto punto rimando all’ottimo e denso testo di Luigi Verdi Organizzazione delle altezze nello
spazio temperato, che risulta, nel momento in cui scrivo, forse il più completo scritto in lingua
italiana sull’approccio «insiemistico» alle relazioni fra altezze.
Vorrei infine fare osservare che non necessariamente il punto di partenza di ogni esplo-
razione debba essere la scala cromatica. Può essere interessante considerare come schema
iniziale una scala formata da un numero inferiore di note; ritengo che ciò abbia un senso
pratico soprattutto dalle sette note in su. Così, mediante la consueta ripartizione, si po-
32 L’abaco e la rosa

Es. 1-23

&w ∑ ∑ #œ #œ
w #w ∑ ∑ œ bœ nw ∑ ∑
bw
∑ ∑ #w w ∑ œ bœ nw ∑

&w ∑ ∑ w #w ∑ ∑ œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ ∑ #w w ∑ œ bœ ∑ w #œ
bw

&w ∑ ∑ #œ #œ
w ∑ w ∑ œ bœ nw ∑ ∑
bw
∑ ∑ #w ∑ #w œ bœ nw ∑

&w ∑ ∑ w ∑ w ∑ œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ ∑ #w ∑ #w œ bœ ∑ w #œ
bw

&w ∑ ∑ #œ #œ
w ∑ ∑ #w œ bœ nw ∑ ∑
bw
∑ ∑ ∑ w #w œ bœ nw ∑

&w ∑ ∑ w ∑ ∑ #w œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ ∑ ∑ w #w œ bœ ∑ w #œ
bw

&w ∑ ∑ ∑ #w w ∑ œ bœ nw ∑ #œ ∑ ∑ nw #œ
w #w ∑ ∑ œ bœ nw ∑

&w ∑ ∑ ∑ #w w ∑ œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ w #w ∑ ∑ œ bœ ∑ w #œ
nw

&w ∑ ∑ ∑ #w ∑ #w œ bœ nw ∑ #œ ∑ ∑ w ∑ w ∑ œ bœ nw ∑ #œ
nw

&w ∑ ∑ ∑ #w ∑ #w œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ w ∑ w ∑ œ bœ ∑ w #œ
nw

&w ∑ ∑ ∑ ∑ w #w œ bœ nw ∑ #œ ∑ ∑ nw #œ
w ∑ ∑ #w œ bœ nw ∑

&w ∑ ∑ ∑ ∑ w #w œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ w ∑ ∑ #w œ bœ ∑ w #œ
nw

& ∑ bw ∑ #œ #œ
w #w ∑ ∑ œ bœ nw ∑ ∑ ∑
nw
∑ #w w ∑ œ bœ nw ∑

& ∑ bw ∑ w #w ∑ ∑ œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ ∑ #w w ∑ œ bœ ∑ w #œ
nw

& ∑ bw ∑ #œ #œ
w ∑ w ∑ œ bœ nw ∑ ∑ ∑ nw ∑ #w ∑ #w œ bœ nw ∑

& ∑ bw ∑ w ∑ w ∑ œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ ∑ #w ∑ #w œ bœ ∑ w #œ
nw

& ∑ bw ∑ #œ #œ
w ∑ ∑ #w œ bœ nw ∑ ∑ ∑
nw
∑ ∑ w #w œ bœ nw ∑

& ∑ bw ∑ w ∑ ∑ #w œ bœ ∑ w #œ ∑ ∑ ∑ ∑ w #w œ bœ ∑ w #œ
nw
Capitolo 1 33

tranno ottenere scale di quattro, cinque e sei note, ad esempio. Penso non sia inutile fare
qualche prova con la scala diatonica maggiore. Il carico di storia di questa scala le conferi-
sce, volenti o nolenti, un potenziale comunicativo che non può essere trascurato o relegato
oggi ai margini della cultura musicale, sostenendo che la scala maggiore servirebbe ormai
soltanto per la musica di consumo. Importanti compositori contemporanei come Philip
Glass, Michael Nyman e Arvo Pärt credono ancora nelle possibilità espressive della fami-
gerata scala.
Visualizziamo una scala di DO maggiore (da cui possiamo trarre, come si è visto in pre-
cedenza, almeno sette modi differenti):

Tab. 1-29
0 2 4 5 7 9 11

I numeri delle caselle corrispondono, ovviamente, a una lettura secondo l’ordine dei se-
mitoni, a una lettura cromatica quindi. La scala di DO è invece una scala diatonica. Usando
le relative alterazioni in chiave per ogni trasposizione della scala è possibile scrivere tutte le
11 trasposizioni senza ulteriori alterazioni aggiuntive alle singole note. Più semplice di una
visualizzazione numerica che faccia riferimento alla scala cromatica è quella che tenga con-
to dei cosiddetti gradi della scala. Una maniera più semplice di visualizzare una scala dia-
tonica, in modo che non faccia differenza se siamo in DO o su una delle sue 11 trasposi-
zioni è quello, classicissimo, della successione dei numeri romani, intesi come gradi: il DO
corrisponde a I, il RE a II e via di seguito. Il nostro schema assumerà dunque questo aspet-
to:

Tab. 1-30
I II III IV V VI VII

Trovo però più semplice visualizzarlo con le cifre arabe:

Tab. 1-31
1 2 3 4 5 6 7

Ora posso immaginare, ad esempio, una famiglia di scale di cinque note considerando
questa ripartizione della scala:

Tab. 1-32
1 2 3 4 5 6 7

Le pentatoniche che posso trarre da questo schema sono ovviamente 10. E a proposito di
pentatoniche, posso divertirmi a stendere la lista di tutte le pentatoniche contenute nella
34 L’abaco e la rosa

scala di DO. Il numero non è affatto grande. Considerando le diadi complementari alle pen-
tatoniche si hanno 7 x 6 / 2! = 21 scale.
Coloro che si accostano da principianti, o quasi, al mondo della composizione musicale,
sia essa istantanea come l’improvvisazione o ponderata come la composizione strettamen-
te detta (sia anche di una canzone), forse rimarrebbero delusi se non tentassi di dare qual-
che suggerimento (non ci sono infatti risposte) su qualche applicazione musicale delle scale.
Come ho già detto, non ho scritto questo libro con l’intento principale di fornire delle ri-
cette. Più avanti, ora che abbiamo a disposizione qualche ingrediente, proverò invece a sug-
gerire al più delle semplicissime tecniche di cottura, per così dire, delle scale e qualche indi-
rizzo per potere assaggiare qualche piatto che possa essere ricordato quando ci si metterà
ai fornelli della propria cucina. Nel capitolo 3 citerò infatti, oltre a opere e compositori del
passato, anche alcuni compositori e opere di rilievo nel panorama musicale del secondo
Novecento. Questione di gusti si dirà, però qualche nome potrebbe rivelarsi una utile indi-
cazione per orientare ricerche personali.
Se si desiderano invece ricette vere e proprie, ne darò qualcuna, parzialmente rivisitata,
riguardante la musica rinascimentale in particolare a partire dal capitolo 4.
È tutto quello che francamente sono in grado di fare. Soltanto un pazzo o un dittatore
può pretendere di dire, oltre alla propria esperienza personale, come comporre in maniera
originale.
Passare dall’abaco alla rosa impone una delicatezza estrema se non vogliamo sciupare i
petali del fiore e la sua fragranza.
Anche il capitolo 8 — dedicato ai canoni — e la sua appendice potranno essere poi libe-
ramente riletti e interpretati alla luce deformante proveniente dalle nostre scale.
Prima però, alla stregua di intermezzo, propongo un breve capitolo che forse alcuni con-
sidereranno paradossale. Non c’è bisogno di un musicista per ricordare che sono proprio i
paradossi logici ad avere dato un impulso considerevole al pensiero filosofico e razionale, e
che lo stesso impiego della carta come supporto per fare qualcosa che si sente è assoluta-
mente paradossale.
2. Un discorso azzardato

2.1. Prodighi e avari

Ci sono due generi di compositori: quelli che scrivono musica a partire da materiale qualsiasi
e quelli che possono stare anche mesi ad aspettare che venga loro in mente un’idea partico-
lare (se per il motivo di una canzone o per il tema di una sinfonia poco importa), non sosti-
tuibile per alcuna ragione. Quelli appartenenti al primo genere, invece, sono in linea di mas-
sima disposti a cambiare un’idea con un’altra, a condizione che entrambe abbiano, per il
compositore, requisiti equivalenti (non ci interessa ora sapere quali). È in questo senso che
si deve qui intendere l’espressione materiale qualsiasi. Questo atteggiamento di fondo si ri-
percuote, ovviamente, anche sulla natura delle opere prodotte. Cosa sarebbe stata la Quin-
ta Sinfonia di Beethoven senza il suo celeberrimo motivo?

Es. 2-1

Allegro con brio


b 2 U
&b b 4 ‰ œ œ œ ˙
ƒ

Sarebbe stata la «Quinta Sinfonia» per antonomasia? Beethoven potrebbe essere infatti
considerato uno dei più autorevoli rappresentanti della seconda schiera. Ai suoi antipodi
potremmo collocare invece un compositore come Palestrina, che nel Cinquecento scrisse
centinaia di pezzi per coro che sembrano assomigliarsi un po’ tutti, ma che a giudizio di
molti (e che sottoscrivo volentieri) comunicano analogamente alle sinfonie di Beethoven uno
straordinario senso di bellezza. Questi due opposti atteggiamenti non dipendono soltanto
da orientamenti estetici relativi allo «spirito» di epoche diverse o soltanto da ragioni con-
tingenti. Se è vero che un’epoca può certamente preferire un atteggiamento rispetto all’altro,
è innegabile che anche nello stesso periodo storico ci possono essere personalità diametral-
mente opposte come Palestrina e alcuni compositori di madrigali che centellinavano (come
Gesualdo o Monteverdi) la loro produzione musicale.
La nostra epoca sembra ammettere indistintamente (all’insegna della massima libertà
espressiva, o quasi) entrambe le posizioni. Shostakovich, paladino della prima, ha scritto
36 L’abaco e la rosa

tantissimo, Ravel, uno dei più grandi rifinitori di musica di tutti i tempi, pochissimo. Non
voglio qui andare più a fondo in una questione che comunque riveste caratteri di notevole
complessità; mi limito pressoché a dati di fatto.
In questo libro proverò a stare dalla parte del primo tipo di atteggiamento menzionato.
Non per una rigida presa di posizione ideologica, ma per la considerazione che questo tipo
di atteggiamento risulta particolarmente interessante sotto il profilo di quelle che vorrebbe-
ro essere alcune semplici indicazioni per chi intenda provare a comporre musica. Per quan-
to mi riguarda, trovo meno scivoloso il terreno del pragmatismo rispetto a quello di un at-
teggiamento che definirei idealista. E poi, chi lo dice che quella che sembra essere a uno
un’idea irrinunciabile non sia un’idea qualsiasi per un altro? Certo, la «Quinta» di
Beethoven...
In un episodio del bellissimo romanzo Amsterdam di Ian McEwan, un compositore ingle-
se dei nostri giorni è pressato dalla data di esecuzione di una sinfonia che è ancora lontano
dall’avere terminato. Questo musicista senza dubbio appartiene alla seconda schiera men-
zionata di compositori. In preda all’ansia (sta attraversando per giunta un momento di cri-
si personale) decide di fare un breve viaggio nella regione dei laghi per cercare attraverso
lunghe passeggiate di trovare quell’«ispirazione» che in città sembrava del tutto mancargli.
Durante un’escursione gli passa per la testa un piccolo tema, che gli sembra però decisivo
per la continuazione della sinfonia. Nello stesso momento assiste a un orribile delitto nei
confronti di una donna. Decide di tirare avanti: se avesse tentato di prestare soccorso a
quella persona forse quel piccolo ma prezioso tema se lo sarebbe dimenticato. McEwan è
straordinario nel descrivere una situazione di estrema tensione che si rivela drammatica
(anche se ciò può sembrarci ridicolo) per entrambi. Tanto più che il musicista viene in pre-
cedenza presentato come un uomo «normale», non certo come un mostro insensibile al
mondo esterno. Raramente la letteratura contemporanea ci ha presentato in modo così cru-
do ed essenziale un contrasto tra etica ed estetica. Quanto vale, in definitiva, un tema mu-
sicale che nella migliore delle ipotesi tra duecento anni sarà considerato alla stregua di
quello della «Quinta» di Beethoven? Vale la vita di una persona o, comunque, un rimorso
perpetuo? Ritengo che Palestrina, Vivaldi, Haydn, Mozart e Shostakovich non avrebbero
avuto dubbi nel dare una risposta.
Compositori come quelli appena citati sembrano essere stati dotati dalla natura di una
sorta di potente software mentale che ha consentito loro di produrre quasi automaticamen-
te musica di altissima qualità. Uso la metafora del software, soltanto per rendere imme-
diatamente comprensibile il discorso. Si potrebbe parlare della capacità di questi musicisti
di mettere a punto degli «algoritmi», e della loro disponibilità a servirsene.
Un algoritmo è un insieme ordinato di passi che porta alla soluzione di un problema o
alla realizzazione di un compito. Non solo un problema matematico. A ben vedere anche
una ricetta di cucina è un algoritmo. Se l’algoritmo è formulato in un linguaggio di program-
mazione per computer allora può essere definito come programma. Una volta formulato, un
algoritmo permette di portare a termine quante volte si vuole lo stesso tipo di compito,
quindi in linea teorica anche la composizione di un brano dotato di specifici requisiti stili-
stici, come ad esempio una chanson rinascimentale, una parte di una messa o una fuga come
Capitolo 2 37

quelle di Bach. Sicuramente anche Bach, il compositore prediletto dai matematici, ha molto
a che fare con il pensiero algoritmico. Si è molto discusso e favoleggiato infatti su alcuni
pretesi segreti da lui posseduti per la composizione, ad esempio, dei complicatissimi cano-
ni dell’Offerta musicale e delle Variazioni Goldberg.
Si obietterà che la composizione di una fuga del Clavicembalo ben temperato di Bach o di
un sonetto del Canzoniere di Petrarca non possa essere completamente il prodotto di un al-
goritmo. Sono perfettamente d’accordo. Ma un algoritmo, o qualcosa di analogo, ma meno
rigoroso, può sicuramente essere uno degli strumenti di lavoro dell’artista. Soprattutto di
quegli artisti che per diverse ragioni si trovino ad affrontare più volte la ripetizione di un
compito con caratteri analoghi a un precedente. Se è vero infatti che non esiste una sola
fuga del Clavicembalo ben temperato formalmente identica a un’altra, è vero però che una
fuga possiede caratteri strutturali che la rendono sostanzialmente diversa da un preludio o
da un movimento di danza di una suite.
Beethoven ha scritto 32 sonate per pianoforte. La sonata classica ha una struttura for-
male sostanzialmente condivisa dai compositori del periodo classico. La stessa musica di
Beethoven potrebbe quindi in qualche misura essere considerata algoritmica. Il fatto è che
quasi ogni sonata di Beethoven sembra essere un tentativo di rinnovare o scardinare le con-
venzioni formali. Infatti Beethoven è mosso, in accordo con il suo tempo burrascoso, da un
grande spirito di libertà.
Il caso di Bach è parzialmente diverso. Non esiste, contrariamente a quanto affermano
antiquati trattati di composizione, una forma per la fuga. La fuga può essere meglio definita
come un processo. Non un contenitore dotato di una certa forma, ma una sequenza rigorosa e
al contempo aperta di passi che si possono seguire: una sorta di partita a scacchi. Bach non
sembra volere scardinare le regole del gioco, ma indagarne, quasi scientificamente, tutte le
possibilità (tutti gli «alberi» possibili, direbbero gli informatici).
In qualche misura tutti gli artisti ricorrono a degli algoritmi: è un’affermazione addirittu-
ra banale; alcuni però vi fanno ricorso in modo consistente, altri meno. È chiaro che se uno
scrittore come Manzoni intende scrivere un solo romanzo in tutta la propria vita ha meno
bisogno di algoritmi rispetto a scrittori prolifici come Balzac o Simenon. Quest’ultimo affer-
mava che scrivere un poliziesco della serie di Maigret era come suonare le scale per un pia-
nista.
Se un algoritmo non è certo sufficiente per arrivare a un prodotto di qualche pregio este-
tico, la sua messa a punto e il suo impiego sono equiparabili in ambito artistico al ricorrere
oggi in molti campi ai cosiddetti sistemi esperti. In anni recenti, grazie anche all’apporto del-
la «teoria dei giochi», sono state elaborate complesse teorie informatiche che sono alla base
di applicazioni che aiutano l’utente a risolvere problemi troppo complessi per le capacità
di sintesi di un solo individuo. Questi programmi sono ormai molto diffusi, ad esempio, in
campo finanziario o medico. La responsabilità della decisione rimane comunque all’opera-
tore. Il fatto interessante e paradossale allo stesso tempo è che la complessa teoria dei gio-
chi ha dimostrato che una decisione, per essere il più possibile razionale, deve ricorrere in
parte a considerazioni di natura probabilistica. La scienza del XX secolo, del resto, ha rein-
trodotto la nozione di caso in qualsiasi fenomeno naturale e umano. Certo, occorre spesso
38 L’abaco e la rosa

anche un potente hardware in grado di supportare un programma particolarmente elabora-


to («pesante», come si dice in gergo). Un idiota non potrebbe affatto utilizzare un ipotetico
software mentale di certa complessità.
I cultori di una concezione romantica dell’arte generalmente storcono il naso davanti a
un modo di produrre opere fortemente supportato da ciò che, come abbiamo visto, po-
tremmo definire approssimativamente come algoritmi. Si rimprovera ad esempio ai compo-
sitori «algoritmici» una produzione seriale. Le opere di un compositore algoritmico, in
definitiva, si assomiglierebbero tutte. È la critica mossa a Vivaldi (l’avere scritto di fatto
centinaia di volte lo stesso concerto) anche da Stravinsky, che romantico non era affatto. È
vero che lo stile dei compositori del primo genere sembra mutare più lentamente rispetto a
quello di musicisti per cui ogni composizione è un’avventura imprevedibile. Lo stile dei pri-
mi non è generalmente soggetto a frequenti colpi di testa. Come rappresentanti del primo
genere ho però citato musicisti che solo persone in malafede potrebbero definire insi-
gnificanti, al di là del gusto personale. Sarebbe profondamente stupido stabilire se valga di
più la musica di Palestrina o di Ravel; entrambe le categorie di compositori hanno infatti
dalla propria parte artisti geniali e imbrattacarte.
Quello che ho detto per la musica vale anche per l’arte figurativa e per la letteratura. Ha
senso dire se valga meno Balzac di Manzoni? Oppure Simenon della Yourcenar? Purtrop-
po, al di là della buona volontà di alcuni, il Novecento, intriso ancora, volenti o nolenti, di
cultura di stampo idealistico, ha fatto sempre fatica ad accettare l’equivalenza delle posi-
zioni. Anzi; mi sbilancio volentieri un po’ dicendo che la critica ufficiale ha preferito spesso
figure come Webern, che ha scritto pochissime composizioni di estrema rarefazione, a per-
sonalità come Shostakovich, che ha prodotto una mole sbalorditiva di opere quasi sempre
di altissima qualità.
Per chi comincia l’avventura della composizione musicale è sicuramente una naturale di-
sposizione a suggerire quale atteggiamento assumere nei confronti della scrittura. Da parte
mia ritengo però che una buona disposizione nei confronti di un approccio algoritmico ab-
bia inizialmente un vantaggio sotto il profilo della formazione di un solido artigianato che
risulta essere, per chi lo possiede, un punto d’appoggio irrinunciabile quando si dovranno
in seguito compiere scelte di natura propriamente estetica.
Questo modo di porsi inizialmente di fronte alla composizione non va inteso come un
atteggiamento nichilista o fine a se stesso, come è avvenuto talvolta nel Novecento. Il fatto
che l’utilizzo di un software prospetti il rischio di un’atrofizzazione mentale è infatti sol-
tanto la più banale o più perversa delle opzioni.
Parlare invece di automatismo di scrittura può essere fuorviante. Prima di tutto perché
può richiamare la definizione specifica che ne ha dato il Novecento e che, semplificando
molto, riguarda un flusso non controllato di coscienza. È una nozione coniata per la lette-
ratura, ma che è stata citata talvolta in relazione alla composizione musicale. Si tratta co-
munque di una nozione complessa, psicologica, che ha a che fare con quella grande scoper-
ta del Novecento che è l’inconscio. Non è questa la sede per addentrarci in una materia di
tale complessità.
Non sono uno psicologo cognitivista e non posso dire molto su come funziona il cervello
Capitolo 2 39

quando si trova di fronte a un compito di natura musicale. Quando ho parlato di una sorta
di software mentale l’ho fatto soltanto per rendere più chiara un’idea di come si possa ar-
rivare a elaborare un prodotto di puro e semplice artigianato musicale anche senza compie-
re complicate circonvoluzioni mentali, che non sempre possono essere prese per pensieri ar-
tistici.
Ritengo che sarebbe buona cosa considerare il caso come uno degli aspetti fondamentali
di questo programma. Nel senso che dati casuali potrebbero essere il punto di partenza per
sequenze musicali la cui correzione, in base a rigorosi parametri stilistici, porterebbe al pro-
dotto finito. Sarebbe infatti la casualità delle sequenze iniziali di dati a garantire la massi-
ma varietà del prodotto finito (e in modo pressoché gratuito). Alcuni recenti esperimenti
informatici tendono ad andare in questo senso.
In questo libro parlerò parecchio di caso. Il nostro scopo non sarà però quello di scrivere
musica casuale.
Ci sono stati nel Novecento diversi compositori affascinati dall’idea del caso. Si pensi a
John Cage o a Iannis Xenakis, che ha dedicato molti sforzi a indagare la possibilità di scri-
vere musica in base a complesse teorie sulla generazione casuale di altezze, durate e altri
parametri sonori e sul calcolo delle probabilità. Cage e Xenakis, pur essendo affascinati
dalla stessa idea, sono state personalità molto diverse. Il primo è stato un musicista legato
a un’idea quasi zen del fare artistico (mediata talvolta da influssi dada alla Duchamp). Il
caso, per Cage, permetterebbe all’artista di liberarsi dalla colla della soggettività. Xenakis,
da buon francese (anche se per adozione), ha sfruttato invece le potenzialità del caso con
sguardo pressoché scientifico. È di Xenakis il motto «arti e scienze: leghe». In più, per mo-
strare che l’interesse per il caso applicato alla musica non è in realtà cosa recente, si può ci-
tare, ad esempio, un passo del Thesauri Magnæ Artis Musicæ di Mauritius Vogt, del 1719,
dove l’autore, suggerendo un metodo per farsi venire in mente idee melodiche, consiglia di
spargere a caso spilli sul pentagramma e ricopiarne il profilo da essi indicato.
Per noi il caso sarà, molto più semplicemente, uno strumento di lavoro. Per quanto mi ri-
guarda, penso che affidarsi al caso (nelle modalità che si vedranno oltre) in una fase inizia-
le del lavoro di composizione sia un modo efficacissimo per uscire dall’impasse del «foglio
bianco». Come ho accennato, il «software» in seguito potrebbe correggere i dati casuali se-
condo rigorosi parametri stilistici di nostra scelta.
Da diverso tempo ormai si sono affermate discipline che affrontano in modo sistematico
la possibilità di incrementare le facoltà creative dell’individuo, di potenziarne, in altri ter-
mini, la fantasia. Queste discipline sono nate e si sono affermate inizialmente in ambito
americano, dove hanno trovato applicazione non soltanto in campo artistico, ma in modo
consistente anche in contesti aziendali, dove una maggiore creatività dei dipendenti do-
vrebbe condurre a una maggiore produttività. Per quanto discutibile possa essere un ap-
proccio sistematico, scientifico, alla creatività, i guru di queste nuove discipline hanno avu-
to un seguito enorme, tanto che in ambito aziendale sono ormai diffusissimi anche in Euro-
pa termini e concetti come brainstorming. Quest’ultimo è una sorta di vagabondaggio men-
tale organizzato da praticare in gruppi di lavoro, dove, partendo inizialmente da idee pro-
dotte a ruota libera, si dovrebbe giungere a progetti e soluzioni imprevedibili e originali, ol-
40 L’abaco e la rosa

tre che, ovviamente, utili e praticabili. I principali esponenti di queste discipline hanno
scritto libri di successo che contengono non di rado idee interessanti a proposito del cosid-
detto pensiero laterale e del pensiero trasformativo. Sono considerati, ad esempio, testi impor-
tanti Il pensiero laterale di Edward de Bono e Come Leonardo di David Perkins.
Leggendo questi scritti ci accorgiamo che, tanto in pratiche di gruppo, come il brainstor-
ming, quanto in pratiche da svolgere da soli, risulterebbe spesso vantaggioso affidarsi al
caso. Citando le parole di Perkins, il caso servirebbe «per sganciarsi dal prevedibile». Nella
storia delle invenzioni, ad esempio, Perkins sostiene che «innumerevoli episodi dimostrano
che il caso è un motore dell’intuizione»: a questo proposito l’autore cita episodi legati alla
vita di Archimede, di Gutenberg e di Darwin. Ovviamente, quando parliamo di caso, par-
liamo di caso coltivato. Il grande chimico e biologo Louis Pasteur affermava: «Nel campo
dell’osservazione il caso favorisce solo la mente preparata».
Ritengo che oggi il piano di studi delle scuole di qualsiasi indirizzo, non solo artistico o
in qualche modo «creativo», dovrebbe prevedere ormai, se non lo studio di una materia
specifica, almeno quello di un insieme di tecniche adatte a stimolare la creatività in senso
generale. A essere creativi si trae infatti grande vantaggio in qualsiasi attività umana, sia
anche quella dell’amministratore di condominio. Certo, non sarebbe necessario seguire per
filo e per segno i protocolli di ascendenza americana, che a tratti sembrano anche dare sug-
gerimenti per fare scoperte simili a quella dell’acqua calda. Però si può concepire la stimo-
lazione delle facoltà legate alla fantasia in modo indipendente da specifiche discipline e
talenti. Gli esiti di questo nuovo atteggiamento potrebbero essere molto soddisfacenti. Al-
cune scuole e insegnanti stanno del resto già muovendosi in questo senso.
Credo che l’ansia di fronte alla pagina bianca è forse tra i più grandi e inconfessati pro-
blemi di ogni attività «creativa»; lo era anche per molti grandi artisti. Inoltre oggi si vive
sempre più in ambienti dove è facile essere letteralmente bombardati da una quantità enor-
me di informazioni e messaggi. L’eccesso di informazione può creare un effetto di impasse.
Lo stesso computer si pianta sotto un carico eccessivo informazioni. Ecco allora che l’elabo-
razione di un semplice esercizio di scrittura (non importa se musicale) può essere difficile
non solo per mancanza di talento e di tecnica, ma anche per un inconsapevole sovraccarico
di informazioni. L’oblio, in alcune situazioni, può essere fertile.
Pensiamo invece a un compositore del Quattrocento. La musica che poteva ascoltare era
in realtà pochissima e quasi soltanto del suo tempo. La musica del passato semplicemente
si dimenticava. Se aveva la possibilità di fare tesoro di qualche sporadico viaggio poteva
ascoltare qualche variante regionale di una lingua franca condivisa da tutti. Immaginiamo la
differenza quando, rispetto a una persona dei nostri giorni, doveva farsi venire in mente
un’idea musicale. Tanto più che non era affatto disdicevole partire da materiale preesisten-
te, come una melodia sacra o una canzone profana.
I manuali di composizione sembrano ignorare quasi del tutto questo problema. Sono
spesso figli di una cultura antiquata per la quale non era decoroso parlare di «certe cose».
Diversamente, alcuni testi sulla «scrittura creativa» di ambito letterario cercano talvolta di
dare indicazioni in questo senso. Giuste o sbagliate che siano, almeno tentano di soccorrere
il principiante o il professionista che non abbia mai trovato qualcuno o qualcosa che ri-
Capitolo 2 41

uscisse a curare quella particolare forma di ansia.


Se c’è un motivo conduttore che lega i disparati capitoli di questo libro, è forse proprio
quello relativo a semplici (per quanto arbitrarie) indicazioni che rendano un po’ più facile
l’atto dello scrivere in sé. La garanzia di qualità estetica (non semplicemente artigianale) di
quello che vogliamo scrivere è un altro paio di maniche. Se una persona vuole comporre
musica sarà comunque meglio che il mezzo con cui vuole intraprendere gitarelle o pericolo-
se esplorazioni nel mondo di quello che molti chiamano spirito non si guasti continuamente.
Un insieme di dati casuali può costituire uno stimolo per farci venire rapidamente delle
idee o può rappresentare un autentico dono (del generatore). Attenersi a esso ci permette
di considerare l’inizio di un’attività «creativa» in una prospettiva ludica od oracolare. È
già qualcosa in una fase tanto delicata.
Prima di cercare il modo di ottenere dati casuali (un generatore quindi) qualcuno potreb-
be domandarsi di che tipo di dati avremmo bisogno per la composizione musicale e cosa
sia un insieme di dati casuali.
Rispondere alla prima domanda, dopo avere testato nel capitolo precedente il vantaggio
di utilizzare spesso un sistema di notazione numerica è facilissimo: si avrà bisogno di un
generatore casuale di numeri, o, per essere più precisi in relazione a quanto ci occorre, più
spesso di cifre. Le cifre, in realtà, non sono numeri, ma segni con i quali si rappresentano i
numeri.
Dare una risposta alla seconda domanda è più difficile. Un matematico ha sicuramente
molto da dire sull’argomento. Limitiamoci a qualche esempio. Consideriamo questa succes-
sione di numeri:

3, 6, 9, 12, 15, 18.

Consideriamo ora quest’altra:

5, 3, 9, 4, 4, 1, 1, 1, 19, 14, 77, 3, 3.

Risulta a evidente che la prima non è una successione casuale mentre la seconda, a pri-
ma vista, avrebbe tutto l’aspetto di esserlo. La spiegazione sta nel fatto che la prima non è
casuale perché si può immaginare una formula che la possa esprimere con un minore di-
spendio di simboli (sono i primi sei numeri della «tabellina» del 3). In questo caso la se-
quenza sarebbe allora algoritmicamente comprimibile. Nel caso della seconda, sembrerebbe im-
possibile invece trovare una formula.
Consideriamo questa nuova successione di numeri:

1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21.

Stabilire in questo caso se si tratti di una sequenza casuale (a parte la constatazione che
i numeri sono in ordine di grandezza crescente) o no è un po’ più difficile rispetto a prima.
Ci vuole comunque pochissimo per accorgersi che, esclusi i primi due, ogni numero è la
42 L’abaco e la rosa

somma dei due precedenti. Si tratta (qualcuno se ne sarà accorto, immagino) della famosa
successione dei numeri «di Fibonacci». Per questa successione, è noto, da molto tempo
ormai si versano fiumi di inchiostro, a causa delle sue stupefacenti proprietà. Chi volesse
saperne di più può facilmente reperire numerosi testi, anche di grande accessibilità, sull’ar-
gomento. È ovvio quindi che non si tratta di una successione casuale. Si consideri ora que-
sta successione:

1, 1, 1, 2, 4, 6, 9, 15.

Qui è certo più difficile stabilire se siamo di fronte a una successione casuale. In realtà è
la stessa successione precedente, dove ogni numero è stato però moltiplicato per 0,71 e ar-
rotondato all’intero più vicino. Non è quindi casuale. Se non avessi dato subito la risposta
si sarebbe forse faticato un po’ per decidere se la successione fosse casuale oppure no.
Rimane da vedere come sia possibile procurarsi successioni casuali di numeri. Prima di
tutto sarà necessario, dal momento che la successione dei numeri naturali è infinita, stabili-
re un intervallo entro il quale procurarsi in modo casuale dei numeri. Se stiamo infatti cer-
cando successioni casuali di numeri da associare alla scala di DO maggiore, ad esempio,
forse (ma non necessariamente come vedremo più avanti) potrebbero bastare i numeri
dall’1 al 7. Se si volesse scrivere musica dodecafonica e si volessero utilizzare delle sequen-
ze casuali si avrebbe bisogno almeno dei numeri dall’1 al 12. Detto questo, è necessario sce-
gliere un generatore casuale di numeri. La prima cosa che potrebbe venirci in mente potreb-
be essere forse quella di sparare a caso una gran quantità di numeri e annotarli su un foglio,
proprio così come ci vengono fuori dalla testa. Sarebbero veramente numeri casuali quelli
ottenuti? Provate a chiedere a un gran numero di persone di dire, senza pensarci, un nu-
mero dall’1 al 12. State sicuri che alcuni numeri verrebbero detti con maggiore frequenza.
Pensate che il 3 abbia la stessa probabilità di uscire come l’8 o l’11? Fate qualche esperi-
mento.
Il matematico e psicologo sperimentale ungherese László Mérö, nel suo libro I limiti della
razionalità, evidenzia la spettacolare difficoltà, per una persona qualsiasi, di stendere una
semplice sequenza di simboli corrispondenti a un consistente numero di lanci di una mone-
ta che non riveli l’esistenza di un qualche schema cognitivo. Esperimenti effettuati in pro-
posito dimostrano in definitiva che è difficile ottenere risultati casuali senza affidarsi al caso.
In linea di massima la sequenza di simboli corrispondenti a testa o croce della persona che
non si sia affidata al caso, ma a quello che potremmo chiamare un proprio istinto per il ca-
so, tenderà a escludere frammenti di sequenze corrispondenti a modelli regolari come T-C-
T-C-T-C, evenienza che il caso, proprio perché tale, può tranquillamente produrre. Da un
certo punto di vista potremmo considerare semplicemente più banali e quindi meno fanta-
siosi tentativi che non siano effettivamente affidati al caso. Il caso risulta essere infatti tal-
volta — anzi, direi spesso — più fantasioso di noi stessi. È questa una considerazione pre-
ziosa quando vogliamo affidarci a elementi casuali nella fase iniziale di un lavoro artistico,
o quando vogliamo dirigerci verso prospettive insolite e inaspettate che da soli non sa-
premmo forse immaginare e verso le quali il caso può invece meravigliosamente condurci.
Capitolo 2 43

Così, avendo bisogno di numeri da 0 a 9, si potrebbe pensare, ad esempio, di aprire a


caso un elenco telefonico e annotare i primi numeri che ci vengano sott’occhio. Purtroppo
anche qui i matematici potrebbero farci serie obiezioni sull’aspettativa di avere la stessa
probabilità (e quindi il massimo di casualità) di frequenza dei numeri che andiamo cercan-
do. Si potrebbero fare altri esperimenti per ottenere successioni casuali. Ci si renderebbe
conto che non è per nulla facile trovare dei generatori che garantiscano un’assoluta casuali-
tà. È ovvio che se abbiamo intenzione di comporre un’opera che voglia fare concorrenza a Il
telefono di Giancarlo Menotti, tipo Il cellulare, magari potremmo trovare di buon auspicio
affidarsi a un elenco telefonico; in caso contrario l’elenco telefonico potrebbe rivelarsi un
generatore stupido o, peggio ancora, farci sentire degli stupidi.
Esiste una legge scientifica, nota come legge di Benford, dal nome del fisico americano
che la formulò nel 1938, secondo la quale, se si esamina un qualsiasi insieme di dati reali, la
prima cifra di ogni numero sarà con maggiore frequenza 1 (30%), con minore frequenza sarà
2, poi 3, sino a 9, che avrà una frequenza del 4,5%. Questa legge ha, fra l’altro, la capacità
di permettere di verificare facilmente se un elenco di dati reali sia falso, qualora i dati siano
stati inseriti da persone ignare della legge in questione, col risultato di aver permesso in so-
stanza alla prima cifra di ogni numero di avere la stessa frequenza rispetto a un altro.
Il mio discorso, per essere il più chiaro possibile, vuole prendere invece le mosse da suc-
cessioni perfettamente casuali, in cui ogni elemento (cifra) di un insieme prescelto abbia la
stessa probabilità di un altro di comparire in una successione. In un secondo momento po-
trebbe essere interessante prendere in considerazione e studiare situazioni che dalla pura
casualità ci portino su un terreno probabilistico. In quest’ultima prospettiva avrebbero di-
ritto di cittadinanza anche generatori come mazzi di carte o le tessere del domino, per limi-
tarci a strumenti elementari. Rimane però da chiedersi, come ho accennato, perché si utiliz-
zi un generatore fortemente connotato come un mazzo di carte. Perché, ammesso che una
sequenza di numeri sia il risultato, ad esempio, di una scozzata di 40 carte, devo sempre
avere a disposizione quattro 7, quattro 5, quattro 3? Se, sempre in via ipotetica, ho deciso
che le figure corrispondano a pause (in questo modo potrei anche immaginare una gerarchia
di valori di durata dal fante al re), perché in ogni scozzata ce ne devono essere sempre e
soltanto 12? Non rischierebbe la mia musica (a meno di non volere comporre un brano dal
titolo L’ultima briscola) di rivelare un inspiegabile e ingiustificato isomorfismo con un mazzo
di carte?
La tecnologia informatica mette oggi a disposizione generatori di numeri casuali (in real-
tà si tratta di numeri pseudocasuali) raffinatissimi. È sufficiente provare a utilizzare un pro-
gramma di foglio elettronico per rendersene facilmente conto. Tuttavia, anche se ciò può
sembrare paradossale oggi, ritengo che inizialmente sia più utile e pratico affidarsi a gene-
ratori di caso estremamente semplici come un set di dadi. D’altra parte, nelle scuole si con-
tinua a insegnare ai bambini a scrivere con penne e matite, nonostante la scrittura al com-
puter offra enormi vantaggi.
Possiedo un set di dadi di colore diverso; questo piccolo accorgimento mi permette un
facile ordinamento a ogni lancio. Il solo manipolare oggetti così affascinanti come i dadi fa
immediatamente venire in mente qualcosa. Può essere già un punto di partenza. Ho iniziato
44 L’abaco e la rosa

a manipolare i dadi pensando a successioni esacordali, di sei note cioè. In seguito vedremo
come l’antica teoria esacordale ci permetterà di fare alcuni esperimenti di composizione sulla
falsariga del linguaggio rinascimentale. Sottolineo sulla falsariga, e non nello spirito di una
pedissequa imitazione. In pratica, la «musica antica» (Medioevo, Rinascimento e primo
Barocco) considera principalmente le prime sei note di una scala diatonica. La settima no-
ta, quella che chiamiamo sensibile, ha una limitata libertà di movimento. In termini estrema-
mente semplificati significa che la sua funzione è sostanzialmente quella di preparare la
comparsa della fondamentale al termine di un episodio. Nei nostri futuri esperimenti (cap.
4 e sgg.) avremo modo di approfondire meglio quanto appena detto. Ora mi limiterò a un
semplicissimo esempio — ispirato alla linea melodica di una chanson rinascimentale — di
quello che praticamente senza alcuno sforzo permettono di fare alcuni lanci di dadi:

Es. 2-2
œ. œ ˙. bœ œœ˙ œ. œ ˙ œ œ ˙
&b C ˙ J
œ œ œœœ œ
J

Come ho detto, ritengo possa essere particolarmente utile, oltre che divertente, iniziare a
impratichirsi con generatori limitati e primitivi come un set di dadi. Questi possono essere
considerati ottimi generatori casuali qualora si abbia bisogno di cifre da 1 a 6. Ma se si ha
la necessità di combinazioni casuali di cifre da 1 a 4 o se si vogliono ottenere combinazioni
relative, ad esempio, a 7, 8, 12 cifre?
Per quanto riguarda i dadi, è vero che esistono oggi in commercio (si trovano nei negozi
dei cosiddetti giochi di ruolo) dadi speciali a 4, 8, 10, 12 e 20 facce. Si tratta, a parte quello
a 10 facce, di applicazioni ludiche dei «solidi platonici». Disporre di questo tipo di dadi
non risolverebbe però altri problemi, come ad esempio ottenere combinazioni di 13 numeri
con dadi a 12 facce. Andiamo tranquillamente allora a tirare fuori i dadi da una vecchia
scatola di Monopoli.
Consideriamo un primo problema. Come ottenere combinazioni di sole quattro cifre, te-
nendo fermo il principio di equiprobabilità di ognuna? Un vecchio dado a sei facce può
dirci in realtà molte cose. Può essere considerato, ad esempio, come un dado a tre facce
pari e tre dispari. In questo modo si possono ottenere combinazioni casuali di pari/dispari
o se si preferisce di 0 e 1. L’uscita di ogni cifra sarà ovviamente equiprobabile, perché il nu-
mero delle facce pari e dispari è uguale. Con un solo lancio posso ottenere informazioni su
due cifre (0 e 1). Se effettuo un secondo lancio e lo confronto con il primo otterrò informa-
zioni relative a quattro cifre.
Si consideri la seguente tabella:

Tab. 2-1
0 0 1 1
0 1 0 1
1 2 3 4

La tabella esaurisce tutte le possibilità di due lanci. Con tre lanci, poi, possiamo ottene-
Capitolo 2 45

re informazioni relative alle cifre da 1 a 8:

Tab. 2-2
0 0 0 0 1 1 1 1
0 0 1 1 0 0 1 1
0 1 0 1 0 1 0 1
1 2 3 4 5 6 7 8

Certamente questo metodo non ci permette di fare le cose in fretta, perché occorre lan-
ciare tre volte un dado per ottenere informazioni sulle cifre da 1 a 8 (un informatico direbbe
che occorrono tre bit per ogni numero). È un metodo farraginoso, però risulta efficace. Con-
siderando che, come ho suggerito prima, è utile disporre di un set di dadi di colore diverso,
questo tipo di operazioni può essere meno estenuante perché occorre effettuare meno lanci.
Per quanto mi riguarda, riesco a fare senza troppa fatica alcuni dei miei «esperimenti» con
un set di sei dadi. Immaginiamo di volere ora informazioni relative a 12 cifre. Questa pos-
sibilità potrebbe essere allettante per un cultore di musica dodecafonica. Un primo lancio
di dadi ci darà informazioni sulle cifre da 1 a 6. Un secondo lancio informazioni su pari e
dispari (0 e 1). È chiaro che ogni cifra da 1 a 6 può essere associata a 0 oppure a 1. Nel
primo caso le cifre saranno lette per quello che sono, nel secondo aggiungeremo 6 a ogni nu-
mero:

Tab. 2-3
1 2 3 4 5 6 1 2 3 4 5 6
0 0 0 0 0 0 1 1 1 1 1 1
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12

In base a quanto detto nel capitolo 1 possiamo associare una cifra da 0 a 11 a ogni nota
della scala cromatica. Sostituiremo 0 a 12 e potremo così divertirci a scrivere sequenze ca-
suali liberamente dodecafoniche (non seriali).
Le cose sembrano complicarsi se vogliamo ottenere con i dadi a sei facce sequenze ca-
suali relative a cifre dispari come 5, 7 o 9. Rapportarsi al 9 non è per nulla difficile. Molti
sapranno che se si va al casinò per giocare alla roulette, oltre che sui numeri si può puntare
su rosso e nero, pari e dispari (che è praticamente la stessa cosa) e sulla prima o seconda o
terza dozzina dei 36 numeri (più lo zero) della roulette. Per quanto riguarda i nostri dadi,
come si è visto, si può giocare a pari e dispari, ma anche alla prima, seconda e terza duina.
Le cifre 1 e 2 corrispondono alla prima, 3 e 4 alla seconda, 5 e 6 alla terza; ogni lancio cor-
risponde allora a 1 o 2 o 3. Con un secondo lancio dello stesso tipo si ottengono in tutto
nove possibilità, come esemplificato dalla seguente tabella:

Tab. 2-4
1 1 1 2 2 2 3 3 3
1 2 3 1 2 3 1 2 3

1 2 3 4 5 6 7 8 9
46 L’abaco e la rosa

L’utilizzo dei dadi a sei facce per ottenere sequenze di cifre da 1 a 5 è più problematico.
In linea di massima la soluzione più semplice è quella di lanciare i dadi ignorando il 6. Si-
curamente non è un modo di procedere elegante. Consideriamo però le cose da un diverso
punto di vista. Fino a questo momento abbiamo utilizzato i dadi per ottenere sequenze di
cifre che potevano essere associate senza difficoltà, ad esempio, a un insieme di note. Se si
lanciavano i dadi per ottenere sequenze di 4, 6, 8, 9, 12 note, non c’erano problemi. Ovvia-
mente, tranne la possibilità di considerare tutte le note della stessa durata, non potevamo
ottenere alcuna informazione sul ritmo, ad esempio. Immaginiamo ora di utilizzare i dadi
per ottenere sequenze relative a scale pentatoniche. Ci avanza, come abbiamo visto, il 6.
Questa cifra potrebbe adesso essere considerata come una pausa; osservazione banale ma
utile. In questo modo potremmo automaticamente ottenere una segmentazione della nostra
sequenza pentatonica. Possiamo spingerci più in là, e apprezzare di avere per ogni tipo di
sequenza delle cifre libere alle quali assegnare una funzione di nostra scelta (quella relativa
al ritmo è tra le più semplici). Ci accorgeremo allora che se vogliamo utilizzare i dadi per
ottenere, ad esempio, successioni relative a scale di sei note, sarà più interessante fare rife-
rimento ai dadi per ottenere sequenze numeriche dall’1 all’8. In questo modo avremo due
cifre libere alle quali assegnare anche due funzioni diverse.
Qualcuno penserà forse che è più semplice, qualora si voglia organizzare in modo casua-
le parte del materiale di una composizione, procedere su più livelli elaborando sequenze
separate per durate, altezze e altri eventuali parametri. Questo tipo di procedimento porta
al prodotto finale mediante informazioni trasmesse in modo parallelo (impiego qui un termi-
ne proprio dell’elettronica). Il procedimento più sopra considerato è simile invece a una
trasmissione di tipo seriale, dove una sola linea serve a trasmettere l’intera informazione. Il
protocollo di comunicazione MIDI utilizza ad esempio un sistema di trasmissione seriale
dei dati. Quest’ultimo è sicuramente più lento rispetto alla trasmissione parallela, ma più
semplice.
A questo punto sarei soddisfatto se queste poche considerazioni potessero suggerire a
qualcuno la possibilità di procedere in modo inaspettato, autonomo e fantasioso. Nel
prossimo capitolo vedremo comunque alcune applicazioni pratiche — e sottolineo ancora:
del tutto arbitrarie — di quanto detto fin qui.
3. Brodo primordiale

3.1. Appunti per climi secchi

Come avevo promesso nel capitolo 1, cercherò ora di dare qualche elementare indicazione
per avvicinarsi alla composizione attraverso le scale. Questo proposito potrebbe essere
considerato molto pretenzioso, perché indicazioni sull’impiego delle scale non sarebbero al-
tro che idee generali su come comporre. Se infatti è ragionevole, come vedremo nei prossimi
capitoli, fornire alcune direttive per comporre semplici brani improntati a consolidati stili
del passato, come quello rinascimentale e quello barocco, risulta invece estremamente
difficile proporre orientamenti sulla prassi compositiva contemporanea, dove, in ragione
dell’esplosione di linguaggi e di stili nel corso del Novecento, in sostanza tutto sarebbe per-
messo. Eventuali proposte risentono inevitabilmente di punti di vista del tutto personali.
Certo, alcune idee sono nell’aria; possono però trovare realizzazioni molto diverse.
Per quanto mi riguarda, non ho motivo di nascondere le mie preferenze, che però non
influenzeranno eccessivamente questo scritto. Come si sarà intuito nel capitolo 1, mi sento
vicino ad alcune espressioni musicali contemporanee come i labirinti sonori di Ligeti e la
musica di figure come Glass, Nyman e Pärt; questi ultimi tre accomunati per l’impiego di
tecniche improntate alla ripetizione e definite spesso minimaliste. Per contro, fino a non
molti anni fa, almeno in Italia, il lavoro di questi ultimi tre musicisti era spesso accolto con
sospetto, se non con disprezzo, negli ambienti accademici, dove si preferivano gli eredi di
protagonisti musicali del secondo dopoguerra come Boulez e Stockhausen, in base a
un’idea di avanguardia francamente unilaterale. Per fortuna oggi sono cadute molte barriere
ideologiche. Le nuove generazioni di musicisti non hanno generalmente pregiudizi; i musici-
sti più anziani si sono spesso rassegnati o hanno ammorbidito le loro posizioni (una certa
rigidità ideologica è paradossalmente un ingrediente fondamentale del secondo Novecento,
bisogna rendersene conto). Persone lucide, al di là delle preferenze e dei vissuti personali,
sono consapevoli che il ruolo dell’arte — intesa come espressione di sensibilità e intelligenza
— e della cultura in generale è oggi quanto mai problematico e rimpicciolito, contrariamente
ad affermazioni superficiali sulla nostra attuale condizione «globale». Per usare un’efficace
espressione di Nietzsche, molti percepiscono che «il deserto cresce». Al di là delle delle
preferenze di ciascuno, oggi serve quanto mai un aperto e sereno scambio di idee (forse più
48 L’abaco e la rosa

che di semplici informazioni), dove ogni apporto, anche spregiudicato o eccentrico, può ri-
velarsi importante nell’affermare il bisogno irrinunciabile di beni artistici.
Nel corso di questo capitolo si noterà che molte idee provengono, anche se in modo
piuttosto libero, da ambiti apparentemente molto distanti dalla musica: principalmente
dalle arti visive (specie la grafica), dalla matematica e dalle scienze naturali. Il fatto è che
la musica, anche se forse è l’arte più astratta e immateriale, rimanda sempre a qualcos’altro
da sé. A partire dal Seicento, ad esempio, comincia ad affermarsi, per poi essere vigorosa-
mente affermato nell’epoca classica e romantica, il principio della discorsività e della narra-
tività della musica. In questa prospettiva, un brano musicale come un quartetto d’archi vie-
ne concepito come una conversazione tra persone sensate. Quest’idea, non necessariamente
musicale, orienterà fortemente le tecniche compositive per quasi due secoli. Così, anche la
teoria musicale farà ricorso a termini come frase e periodo, ancora essenziali oggi per tanti
musicisti. Oppure a termini tratti dalla teoria letteraria come piede, metro e accento. Ovvia-
mente un approccio musicale che faccia riferimento al discorso verbale non è l’unico possi-
bile. Il fatto che l’epoca della musica discorsiva abbia dato i frutti che tutti conosciamo im-
pedisce a molti addirittura di concepire la musica in modo diverso. Paradossalmente, an-
che alcune personalità di spicco nella rivoluzione musicale dei primi anni del Novecento
come Arnold Schönberg, che hanno scardinato molti elementi della tradizione, vi sono ri-
masti coscientemente legati per tutto il corso della loro vita (non a caso Schönberg si defini-
va un rivoluzionario conservatore). Per contro, musicisti che a un primo ascolto rivelano mon-
di sonori più soft, come Debussy, sembrano essere in alcune composizioni lontani anni luce
da una logica discorsiva di tipo verbale.
Da qualche tempo sono particolarmente affascinato da suggestioni che provengono dalle
scienze naturali, in particolare dalla biologia, che ha in comune con la musica l’interesse per
la crescita, lo sviluppo e l’evoluzione di organismi. Certamente sono tra coloro che conside-
rano la natura un’inesauribile e necessaria fonte di ciò che una volta si definiva senza trop-
pi problemi come ispirazione. Scienza e poesia possono essere molto vicine, come ci ricorda
l’immortale poema di Lucrezio.

3.2. Linee

In questo capitolo non darò dettagliate indicazioni per comporre brani sulla falsariga di
stili e tecniche consolidati. Per questo tipo di esigenza ci sono testi specifici che spiegano,
ad esempio, come comporre un brano in stile classico come un minuetto o una canzone
pop, oltre a una miriade di testi sull’improvvisazione. (Ritengo che per l’ambito delle forme
classiche e per un solido approccio alla musica discorsiva rimanga per molti aspetti ancora
consigliabile il testo di Schönberg Elementi di composizione musicale.) Se nel prossimo capito-
lo inizieremo un breve viaggio nello stile musicale del primo Rinascimento (con una piccola
escursione nella musica barocca in una delle appendici di questo libro) e, a partire da lì,
fornirò alcuni elementi per comporre piccoli brani con precisi connotati stilistici — per spe-
Capitolo 3 49

rimentare la possibilità di un approccio sostanzialmente algoritmico alla composizione an-


che in ambiti consolidati — ora proveremo a compiere qualche esperimento su basi svincola-
te da specifiche considerazioni stilistiche.
In questo libro userò molto il termine esperimento. Al suo posto potrei usare espressioni
più neutre come esercizi o abbozzi. Mi sembra però che questi ultimi due termini, spesso pre-
senti nei libri di testo, rimandino continuamente il momento della realizzazione di un risul-
tato artistico di pur minimo interesse. Li trovo termini ipocriti e deresponsabilizzanti (per
quanto riguarda la stesura di un abbozzo, mi sembra che abbia senso quando si ha in men-
te la realizzazione di un successivo lavoro finito). Il grande pittore inglese dell’Ottocento
John Constable affermava che «la pittura è una scienza [...] di cui i quadri non sono che gli
esperimenti». Quando un quadro quindi, come un esperimento scientifico, è ben riuscito
porterebbe un contributo alla conoscenza. Per quanto mi riguarda, nutro qualche perplessi-
tà sul fatto che l’aspetto e il fine più importante delle arti sia di natura cognitiva, almeno
per quanto riguarda il presente e con un discorso a parte per la letteratura. Però un esperi-
mento artistico ben riuscito porta, per quanto piccolo, un contributo alla conoscenza del-
l’arte che lo riguarda. Certamente il discorso sulla natura cognitiva dell’arte è di estrema
difficoltà e complessità. Preferisco però utilizzare un termine problematico e stimolante
come esperimento rispetto a uno scialbo come esercizio.
Ciò che proporrò in questo capitolo potrà da qualcuno essere considerato forse astratto.
Quando si parla di qualcosa di astratto molte persone hanno reazioni di insofferenza, for-
se memori di non felici esperienze scolastiche di matematica. Con il termine astratto indico
qui soltanto cose sganciate da particolari connotazioni stilistiche. Il carattere astratto di ciò
che faremo non implica alcunché di difficile, anzi. Ciò che realizzeremo in questa sede po-
trà essere considerato da alcuni fin troppo semplice, forse addirittura banale. I prossimi
esperimenti sul materiale musicale sono in realtà solo alcuni spunti arbitrari per fornire a
chi lo desidera alcuni basilari elementi per avvicinarsi alla composizione musicale in una
prospettiva che tenda il più possibile a rendere consapevolmente libero chi voglia praticar-
la. Aggiungo libero di conoscere, apprezzare e valutare quanto fatto sino a oggi.

Per prima cosa: esistono brani musicali (al di là delle raccolte di esercizi) interamente
composti da scale allo stato puro?
Partiamo dal passato. Brani composti, brutalmente, da sole scale a quanto mi risulta
non ce ne sono. Molti musicisti hanno usato scale allo stato puro, o quasi, in parti di loro
composizioni. Ecco l’inizio della Fantasia cromatica (BWV 903) di Bach:

Es. 3-1

œ œ œœ œ œ œ œ œ #œ #œ œ œ Œ
& b c ® œ œ œ œ œ nœ #œ nœ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ ≈ œ nœ #œ œœœœ
œœœœœ

?
b c
50 L’abaco e la rosa

Si noti che alla fine di ogni battuta l’andamento puramente scalare è attenuato dall’in-
troduzione di salti.
Ecco la linea principale dell’inizio del Concerto per due violini in LA minore (RV 522)
tratto da L’estro armonico di Vivaldi, un musicista che amava molto le scale (e gli arpeggi):

Es. 3-2
Allegro
œ #œ œ nœ œ œ
&c
œ œœœ œ œœ œœ œ œœ œœ œ
œ œ #œ #œ œ œ œ œ #œ #œ œ œ œ

Anche in tempi recenti alcuni compositori sono stati affascinati dalla forza delle scale
allo stato puro. Cito, fra gli altri, György Ligeti, che ha composto nel secondo libro delle sue
Études pour piano un brano intitolato Vertige, quasi del tutto basato su frammenti di scala
cromatica. Eccone un passaggio (b. 7 e sgg.):

Es. 3-3
(Prestissimo sempre molto legato)

& œ b œ œ œœ b œ œ b œ n œ b œ œ œ b œ b œ œ b œ n n œœ b b œœ œœ b œ n œ b b œœ b œœ n œ b œ

& œ bœ bœ bœ
œ b œ œ œ b œ n n œœ b b œœ œ œ b œ œ b b œœ œ b œ œ n œ b œ œ b œ b œ œ b œ n œœ b b œœ

Questo disegno viene portato avanti per tutta la lunghezza del brano (che, come gli altri
studi della raccolta, impegna quasi al limite le capacità tecniche dell’esecutore). Quale sia
l’effetto all’acolto lo si può facilmente desumere dal titolo.
Proveremo ora a sperimentare qualcosa a partire da una scala diatonica, ad esempio
una scala di DO minore naturale (corrispondente a MI bemolle maggiore). Perché proprio
questa scala? Direi principalmente per una considerazione di natura pratica. In questo ca-
pitolo alcuni esempi mostreranno l’impiego di scale diatoniche: queste scale sono patrimo-
nio di tutti i musicisti di formazione occidentale. Ovviamente quando in seguito alcune ap-
plicazioni saranno chiare si potrà fare uso, ad esempio, anche di scale generate secondo le
indicazioni del capitolo 1.
Un’idea guida di questo capitolo è che tutti gli esempi realizzati possono essere ricon-
dotti a una sequenza di semplici istruzioni che portano direttamente a un risultato musica-
le — per quanto elementare — mediante l’utilizzo di dati casuali, ad esempio generati dal
lancio di dadi. Di fatto faremo ricorso a semplici algoritmi. Faccio notare che semplici ma
rigorosi algoritmi messi a punto da personalità di grande talento come Arvo Pärt (il suo
stile tintinnabuli) possono dare vita a opere di grande respiro e intensità come la sua Passio.
Nel nostro primo esperimento varrà la regola dell’alternanza di segmenti di scala ascen-
denti e discendenti. Quante note per ogni segmento? Lo lasceremo decidere ai dadi. Usati
in modo banale i dadi non possono fornirci dati interessanti. Stabilire che le singole cifre
delle sei facce corrispondano a frammenti di una, due, tre... sei note o, al più, due, tre,
quattro... sette note mi sembra un’idea misera.
Capitolo 3 51

Nel capitolo precedente ho accennato alla successione dei numeri di Fibonacci. Partendo
da 1, 1, ogni numero successivo è la somma dei due precedenti. Otteniamo quindi 1, 1, 2, 3,
5, 8, 13, 21 etc. Il fatto interessante è che i numeri di Fibonacci appaiono in tantissimi feno-
meni naturali, come la crescita delle piante o la disposizione a spirale delle galassie. Utiliz-
zarli in alcuni nostri esperimenti non darà certo maggiore importanza a ciò che faremo. Il
loro utilizzo, come innumerevoli altre risorse di derivazione naturale o matematica potreb-
be però contribuire a generare una sorta di respiro nei nostri lavori.
Nella prossima tabella alle sei cifre dei dadi è associato il numero di note dei singoli seg-
menti del nostro esperimento:

Tab. 3-1
1 2
2 2
3 3
4 5
5 8
6 13

Si nota che i numeri della colonna a destra sono tutti numeri appartenenti alla succes-
sione di Fibonacci.
Si immagini che dopo un lancio di dadi si siano ottenute queste cifre:

5, 3, 2, 6, 1, 3.

Decidendo di iniziare con un segmento ascendente, ecco cosa possiamo ottenere:

Es. 3-4

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b 4 œ œ œ œ œ œ œ œœœœ
&b b 4 œœœœ
œœœœœœ

Notiamo che ogni nuovo segmento inizia dalla nota immediatamente superiore all’ultima
del segmento precedente se lo stesso è ascendente, e dalla nota inferiore se è discendente. È
una regola arbitraria che contribuisce a dare maggiore coerenza a ciò che abbiamo appena
realizzato.
Cosa potrebbe accadere se continuassimo il frammento appena esposto? Seguendo l’al-
ternanza di segmenti ascendenti e discendenti saremmo tentati forse di prevedere, in base a
banali considerazioni statistiche, che la nostra linea si mantenga complessivamente in uno
stesso registro, ondeggiando quindi intorno a un immaginario asse. Le cose però potrebbero
anche non procedere in modo così lineare. Se per caso il risultato della somma delle cifre
pari (la seconda, la quarta, la sesta etc.) di una nuova successione di cifre ottenuta con i
dadi fosse, ad esempio, per un po’ consistentemente più grande di quello della somma delle
cifre dispari (cosa che potrebbe facilmente accadere), la nostra linea si inabisserebbe in un
52 L’abaco e la rosa

registro molto basso; viceversa, spiccherrebbe il volo verso registri siderali. Alla lunga, in
base alle semplici regole progettate otterremmo comunque una situazione stazionaria. È in-
teressante notare che semplicemente restando alla finestra possiamo facilmente ottenere linee
che presentino vicende completamente diverse: alcune racconterebbero tranquille — e pro-
babilmente noiose — escursioni intorno alla propria casa e in ambienti poco accidentati; al-
tre invece grandi traversie per i gradi della scala: rapide ascese grazie a forti correnti ascen-
sionali e cadute a precipizio (se ci si riflette un po’, si comprende come i numeri di Fibonac-
ci contribuiscano alla realizzazione di eventi movimentati).
Le vicende di ogni singola linea sono la sua storia: potremmo considerare la storia di ogni
linea come la sua specifica forma, per usare un termine propriamente musicale. In questo
senso le linee da noi ottenute sarebbero, a tutti gli effetti, degli embrionali brani musicali.
Una sorta di batteri musicali, se si vuole; molto semplici, ma a tutti gli effetti vivi.
Esperimenti come quello appena realizzato si potrebbero generare a migliaia attraverso
un semplice software. Il fatto che il computer abbia sempre più rilevanza anche in ambito
musicale fa presagire che sarà sempre più importante anche per ciò che riguarda in modo
specifico la composizione (lo è già in realtà per alcuni): per quanto mi riguarda non ci trovo
nulla di svilente.
Torniamo ancora un istante al nostro esperimento. Immaginiamo di essere noi ora a vole-
re influenzare in maniera consistente la storia della nostra linea. Dopo un certo tempo in cui
si alternino regolarmente segmenti ascendenti e discendenti, potremmo decidere, ad esem-
pio, di fare apparire una nuova regola per cui non vi sia più semplice alternanza
ascendente/discendente ma che la direzione di un segmento sia stabilita su basi casuali.
Potremmo decidere, ad esempio, che ogni cifra pari (0) corrisponda a un segmento discen-
dente e ogni cifra dispari (1) a un segmento ascendente. In questo modo molto probabil-
mente otterremmo alla lunga ancora situazioni stazionarie. Se però decidessimo di alterare
il rapporto tra 0 e 1 le cose cambierebbero notevolmente. Si potrebbe decidere che quattro
facce dei dadi corrispondano a 1 e due a 0; oppure che siano cinque le facce che corrispon-
dano a 1 e una soltanto a 0. In entrambi i casi sarebbe molto probabile una complessiva sa-
lita della nostra linea. Nel primo caso questo processo sarebbe, in base alla probabilità, più
graduale; nel secondo sarebbe lecito aspettarsi un brusco innalzamento. Le cose si rivele-
rebbero più interessanti se si prestasse particolare attenzione nell’assegnare i numeri di Fi-
bonacci alle singole facce dei dadi. Assegnando a 1 cifre di valore alto della successione, la
linea balzerebbe subito verso l’alto in modo forse meno interessante rispetto al caso in cui
si assegnasse a 1 cifre di valore basso (ad esempio 2 e 3). In quest’ultimo caso l’ascesa del-
la linea sarebbe sì inarrestabile, ma avverrebbe per piccoli passi e sarebbe continuamente
contrastata da segmenti discendenti di consistente lunghezza.
Si potrebbe inoltre immaginare linee che presentino storie che alternino periodi di relativa
stabilità a bruschi cambiamenti: periodi di boom e di crisi (banalmente: ascese e cadute). Si
potrebbe lasciare al caso l’eventualità di simili cambiamenti. Si immagini di costruire una li-
nea sulla base di pacchetti di cifre ottenute dai dadi (anche questi pacchetti potrebbero rife-
rirsi a tabelle simili a quella precedente). A ogni pacchetto potremmo associare una certa
probabilità relativa al modo di assegnare le cifre dei dadi ai numeri di Fibonacci e a 0 e 1.
Capitolo 3 53

In questo modo potremmo aspettarci storie di qualche interesse.


Certo, in fondo non faremmo che andare su e giù per le montagne russe. Non dimenti-
chiamo però di avere a che fare con semplici batteri musicali. In modo un po’ irriverente pos-
siamo però trovare delle affinità tra i nostri batteri ed esempi di tutt’altro livello evolutivo.
Mi riferisco ad alcune composizioni di Bach per violino e violoncello solo. Per inciso, faccio
notare che si sono dovuti aspettare grandi interpreti del Novecento come Pablo Casals per
fare accettare ai più che le Suites per violoncello solo non sono meccanici esercizi, come rite-
neva la maggior parte dei musicisti dell’Ottocento (abituati a espressioni musicali piuttosto
sostanziose), ma realizzazioni artistiche che hanno messo in rilievo, con esiti altissimi,
l’aspetto essenziale di una composizione musicale. Possiamo fare riferimento a un fram-
mento come il seguente, tratto dalla «Double» della Partita n. 1 per violino solo in SI mino-
re:

Es. 3-5

# # Presto
3 œ
& 4 Rœ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ # œ #œ œ œ œ œ
#œ œ œ
# œ œ œ œ
& # œ nœ nœ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Non occorre certo essere critici prestigiosi per rendersi conto delle differenze di natura
qualitativa, oltreché propriamente musicale, tra il nostro e l’esempio di Bach. È pur vero,
d’altra parte, che il nostro DNA di esseri umani presenta una mole di geni identici a quello
di organismi estremamente più semplici di qualsiasi mammifero.
Consideriamo anche che il nostro modo di concepire e ascoltare la musica è profonda-
mente cambiato rispetto ai tempi di Bach. Una lunga linea con un grado di complessità
appena più alto rispetto a quella del nostro precedente esempio (come la presenza di qual-
che salto, stabilita da qualche regola — sorta di gene musicale — in più, conferirebbe un
maggiore interesse in luogo di un continuo procedere per grado congiunto) e il cui svolgi-
mento presentasse una vicenda movimentata e imprevedibile potrebbe anche affascinare
qualche ascoltatore contemporaneo (e, cosa non irrilevante, lo stesso compositore). Si po-
trebbe scorgere così — e apprezzare proprio per la sua essenzialità — la metafora di un
racconto naturale, svincolato dalla discorsività di tipo verbale di tanta musica del passato.
Ormai da alcuni decenni molti apprezzano le scarne composizioni di musicisti, apparte-
nenti anche a contesti culturali molto diversi, sbrigativamente accomunati dall’etichetta di
minimalismo. Penso ad esempio a Philip Glass e Arvo Pärt. La loro concezione musicale
non è certo oggi l’unica possibile, né tantomeno quella dominante: è semplicemente una
(affascinante) possibilità.
Pärt, intorno alla metà degli anni Settanta, ha messo a punto una tecnica compositiva in
cui c’è una corrispondenza assoluta tra il numero di sillabe delle parole di un testo
(perlopiù sacro) e il numero di note di una successione rigorosamente scalare; note che pos-
sono in questa maniera rivestire di suoni il testo stesso o dare vita a un autonomo brano
54 L’abaco e la rosa

strumentale. Per il compositore risultano essere fondamentali addirittura i segni di punteg-


giatura del testo: questi possono stabilire, ad esempio, la direzione di una serie di segmenti
di scala che, come nel nostro precedente esempio, possono presentare un’alternanza
ascendente/discendente e viceversa. A ogni nota della scala, secondo semplicissime, ma ri-
gorosissime, regole è associata poi una nota della triade di riferimento tonale della scala
(prevalentemente minore). Si tratta di un vero e proprio algoritmo di composizione musica-
le, che, ben lontano dall’essere un atto nichilista, riveste per l’autore il significato di una
profonda, totale adesione al testo sacro.
Ecco l’esordio, per voce sola di basso, dell’Evangelista nella sua già citata Passio, dopo il
breve coro iniziale:

Es. 3-6

q»¡£™
P œ
?2 ˙ 1 œ 3 œ œ œ ˙ œ 2 3 œ œ 1 œ
4 4 4 4 ∑ 4 4
Haec cum di - xis-set Je - sus, e - gres - sus est

? œ 4 œ œ œ œ 2 œ œ 1 œ 3 œ œ œ ˙ œ 2 ∑
4 4 4 4 4
cum di-sci-pu-lis su - is trans Tor - ren -tem Ce - dron,

Si noti che le parole composte da una sola sillaba vengono articolate tutte sul LA. La
prima parola a essere formata da più sillabe scende dal LA di due note; la seconda, inve-
ce, dal LA sale di una nota. In modo simile vengono articolate le successive parole. Si noti
poi il trattamento delle parole seguite da una virgola: la penultima nota dura una minima e
l’ultima nota è seguita da una pausa di due quarti. Si noti infine che le singole parole stabi-
liscono il metro stesso della musica (la lunghezza delle battute): aspetto sottolineato da
Pärt con una meticolosa notazione che assegna un’intera battuta anche alle parole formate
da una sola sillaba.
Torniamo ora all’esempio 3-4. Alcuni potrebbero sentire l’esigenza di una maggiore va-
rietà ritimica e dell’articolazione della linea. Immaginiamo, in primo luogo, la partecipazio-
ne di un ulteriore valore di durata oltre alla semicroma: ad esempio una croma. Tra le
infinite soluzioni che si possono immaginare, propongo qui l’utilizzo di alcuni modelli rit-
mici che verranno scelti poi casualmente. Immaginiamo quattro modelli della durata com-
plessiva di una semiminima:

Es. 3-7

1 2 3 4

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Il primo modello conserva la successione di semicrome. A partire dal secondo la croma


scivola di una semicroma nei successivi modelli.
Con i dadi speciali a forma di tetraedro, o mediante le semplici indicazioni date nel ca-
Capitolo 3 55

pitolo precedente, possiamo assegnare uguale probabilità di utilizzo ai quattro modelli.


Potremmo anche decidere di assegnare a più facce di un dado normale lo stesso modello.
Volendo ad esempio una linea in cui sia prevalente la successione di semicrome, potremmo
assegnare alle prime tre cifre del dado il primo modello. Immaginando diverse soluzioni di
probabilità dei singoli modelli è possibile ottenere risultati interessanti, fare respirare la no-
stra linea. Si potrebbe immaginare, ad esempio, un inizio in cui i modelli siano equiprobabi-
li, seguito da episodi in cui alcuni modelli siano più probabili degli altri. Di questo passo si
potrebbe immaginare anche che la probabilità di un modello sia sempre più grande, fino a
scalzare tutti gli altri.
Assegniamo una cifra da 1 a 4 — in modo che tutti i modelli siano ora equiprobabili —
in corrispondenza di ogni semiminima dell’esempio 3-4; lanciamo i dadi per ottenere alcune
cifre. Vediamo come si modifica l’esempio iniziale:

Es. 3-8

1 4 3 2 2 2 3 4
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
b 4 œ œ
&b b 4 œ œ œ œ œ

Si nota che, a causa della presenza delle crome, alcune note dell’esempio 3-4 sono slitta-
te in avanti.
Cerchiamo adesso di conferire maggiore varietà al profilo della linea originale, qualora
non si volessero sempre movimenti per grado congiunto. Anche qui, le soluzioni possono
essere innumerevoli. Eccone una che non mi dispiace. Immaginiamo di sostituire una nota in
ogni gruppo di quattro semicrome. Per fare questo possiamo fare corrispondere alle cifre 1-
4 le quattro semicrome di ogni gruppo. Lanciamo i dadi per ottenere otto cifre:

4, 2, 2, 3, 2, 4, 1, 4.

In base a quanto ci siamo proposti, sostituiremo la quarta semicroma del primo gruppo,
la seconda del secondo etc., con altre note. Quali? Anche qui si potrà procedere affidando-
si al caso. Per questo torneranno sempre utili i nostri dadi a sei facce. Si potrebbe procede-
re così. La quarta semicroma del primo gruppo è un FA; anche disponendo di ipotetici
dadi a sette facce, si ha una probabilità su sette di ritrovarsi di fronte alla stessa nota. Con
normali dadi a sei facce si può procedere allora come qui di seguito. Per quanto riguarda la
prima sostituzione, non volendo ritrovarsi il FA tra i piedi, si può considerare una scala
priva di questa nota: si avrà così la successione DO, RE, MI, SOL, LA, SI, dove ogni nota
corrisponderà a una cifra da 1 a 6 in ordine crescente. La seconda nota del secondo gruppo
di crome è un LA; si farà qui riferimento alla successione DO, RE, MI, FA, SOL, SI. Otte-
nendo otto cifre dal lancio dei dadi ecco cosa si può ottenere:
56 L’abaco e la rosa

Es. 3-9
4 2 2 3 2 4 1 4
4 3 3 2 6 5 6 3
b œ œ œ œœ œœ œœ œœ œœ œ œ œœ
4 œ œœ œœ
&b b 4 œ œœœ œœœ œœ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b 4 œ œ œ œ œ œ œœœœœœ
& b 4 œ œ œœœœ
œœ œ œ

La prima linea di cifre si riferisce alla nota da sostituire entro il gruppo di semicrome; la
seconda si riferisce alla nota che verrà introdotta nella linea. Dal momento che mancava
poi l’ultima semicroma dell’ultimo gruppo, ho pensato di introdurre un generico MI, sugge-
rito dall’ultima cifra della seconda linea.
Si nota che tutte le note di nuova collocazione sono state poste al di sotto della linea
originale, nello stesso registro d’ottava della nota a loro precedente. In questo modo le nuo-
ve arrivate diventano le note di una virtuale linea più bassa. La linea sembra dare in questo
caso l’illusione uditiva di un suo sdoppiamento. Il Preludio della Suite n. 4 per violoncello
solo di Bach è un magistrale esempio di questo genere di tecnica:

Es. 3-10
œœ œ œœ œ bœ œ œ bœ œ œ
? b 4 œ œœ œ œœ œ œœ œ œœ
b b 4 œ œ œ œ
œ œ œ œ

Non è che con i nostri esperimenti vogliamo imitare lo stile di Bach. Il fatto è che Bach è
stato uno straordinario sperimentatore delle possibilità di articolazione del materiale musi-
cale. Al di là di uno stile legato a un’epoca lontana e a una singola personalità, le sugge-
stioni derivanti dall’articolazione, dall’organizzazione del materiale sonoro, possono rive-
larsi sempre utili e affascinanti. Ce ne renderemo meglio conto quando arriveremo all’idea
di texture.
Tornando all’esempio 3-9, si potrebbe pensare a un’articolazione ritmica mediante l’uti-
lizzo di modelli, analogamente a quanto proposto in precedenza. Si consideri però (fra le
tante) la possibilità di una successione ininterrotta di uguali valori di durata, ciò che tecni-
camente si definisce continuum. Nel brano di Bach appena menzionato il modello ritmico
della prima battutta viene portato avanti per ben altre 47 battute. Non si tratta di un caso
isolato perché Bach amava molto la tecnica del continuum. Ritengo che questa tecnica pos-
sa rivelarsi oggi molto utile per iniziali esperimenti di scrittura musicale. L’idea del conti-
nuum permea tantissime espressioni musicali contemporanee e non solo in ambito «colto».
La stessa musica «di consumo» sembra averla fatta propria. Ovviamente non tutti gli esiti
sono memorabili, ma ciò non dipende dalla natura della tecnica. L’uniformità (più o meno
integrale) di un flusso ritmico, che potremmo inizialmente considerare un’opzione banale,
può rivelarsi una sfida nei confronti del materiale sonoro.
Possiamo ora cercare di realizzare qualcosa a partire da scale ottenute per mezzo delle
indicazioni del capitolo 1. Immaginiamo di volere comporre una linea a partire dalle prime
Capitolo 3 57

quattro scale dell’esempio 1-15:

Es. 3-11

& œ #œ œœ œ bœ bœ nœ œ bœ nœ #œ œ bœ
#œ #œ œ #œ #œ œ œ œ #œ œ bœ œ #œ #œ œ bœ œ #œ

Teniamo per buona la tabella 3-1 (quella relativa alla corrispondenza delle cifre delle
facce dei dadi e il numero di note dei segmenti).
Disponendo ora di quattro scale che appartengono a una stessa famiglia, dovremo pen-
sare anche a un criterio relativo al loro utilizzo. Il più semplice risulta essere forse quello
per cui, stabilita una scala iniziale, ogni nuovo segmento presenta una scala secondo l’ordi-
ne del prospetto precedente.
Questa volta proveremo a realizzare un frammento un po’ più lungo rispetto a quello del
precedente esperimento. Per fare ciò avremo bisogno di una dozzina di cifre o più:

4, 5, 1, 4, 2, 4, 3, 3, 6, 3, 1, 4, 1, 1, 5.

Ecco cosa si può ottenere iniziando dalla terza scala del precedente prospetto:

Es. 3-12
œ œ #œ œ nœ œ
4 #œ œ bœ œ œ b œ # œ n œ œ œ œ œ bœ bœ nœ #œ œ œ #œ
œ
&4 #œ nœ #œ #œ œ œ

œ bœ œ #œ œ bœ œ
#œnœbœ œ#œ œ #œ nœ bœ œ #œ nœ #œ œ
& œbœ œ œ #œ #œ œ œ œ nœ œ œ œ #œ nœ

Immaginiamo ora di volere apportare delle modifiche al rigido profilo scalare della linea,
come nell’esempio 3-9; associare adesso un suono appartenente a una delle precedenti sca-
le ai singoli gruppi di quattro note non è agevole, perché i singoli gruppi possono anche pre-
sentare note appartenenti a due scale diverse. Come si potrebbe facilmente procedere? Per
quanto mi riguarda, visto che il profilo della linea si rivela essere alquanto cromatico mi
viene in mente una soluzione forse brutale, ma che per la sua semplicità non mi dispiace af-
fatto. Una volta che avrò individuato le singole note di ogni gruppo da sostituire secondo
la procedura applicata in precedenza, sceglierò le nuove note dalla scala cromatica che,
come ho già detto nel capitolo 1, è la scala che contiene tutte le scale. Assegnando a ogni
cifra da 1 a 12 una nota della scala cromatica, in modo che la cifra 1 corrisponda a DO
diesis/RE bemolle e la cifra 12 a DO, le sostituzioni diventano facili e coerenti. Nel fare ciò
accetterò una probabilità (inferiore al 10%) che la nuova nota e quella da sostituire siano
identiche. Il prossimo esempio mostra il risultato finale. Al frammento ho imposto anche
altre elementari modifiche che necessitano forse di un breve commento.
58 L’abaco e la rosa

Es. 3-13

3 1 3 4 1 1 3 4
2 1 7 4 10 7 3 6
#œ > œ #œ œ nœ >
b œ #œ nœ œ œ bœ > nœ #œ œ bœ
4 #œ œ œ
&4 œ bœ œ b b œœ
> œœ # # œœ œ # œœ # œ n >œœ œ bœ
œ œ
œ
œ #œ
n œ
> > > >
1 4 1 1 4 3 1 3 3
1 9 4 5 4 5 11 1 8
bœ œ #œ œ bœ
> œ bœ œ#œ # œ # œ œ œ n œ œ >œ œ b œ œ # œ n œ œ œ œ œ
& œ œ bœ œœ > œœ b œœ # œ #œ > bœ
# # œœ œ >œ b >œ > > # >œ b >œ

Come in precedenza, la prima linea di cifre si riferisce alla nota da sostituire, la seconda
alla nota sostituita.
Si nota facilmente che ogni nota sostituita si accompagna, alternativamente, a un’altra
nota in modo da formare intervalli di quinta e di quarta giuste. Quest’alternanza di quinte
e di quarte avviene in base a un criterio arbitrario che applica un semplicissimo modello.
Con queste aggiunte ho realizzato un embrionale tentativo di scrittura polifonica (di que-
st’ultima ce ne occuperemo con maggiori dettagli in seguito).
Sarà la presenza di quinte e quarte a farmi ricordare il sound tagliente di una chitarra
elettrica: al di là della realizzabilità effettiva su tale strumento, mi piace ascoltare per mez-
zo del computer quest’ultimo frammento assegnandogli proprio quello strumento. Questa
volta il registro della nuova nota è stato scelto, sebbene sempre al di sotto della linea origi-
nale, in modo arbitrario.
Veniamo ora alla collocazione degli accenti su alcune note del frammento. Fin qui i nostri
esempi si riferivano a una generica battuta di 4/4 senza che la stessa riuscisse a imporre
un’idea metrica precisa. In quest’ultimo esempio ho voluto evidenziare il familiare metro di
4/4 assegnando un accento alla prima nota di ogni battuta. In contrasto con questo scorri-
mento ritmico regolare, ho accentato tutte le note sostituite, in modo da ottenere un profilo
ritmico accidentato, assecondando così il carattere piuttosto aspro della linea melodica. Il
contrasto fra la scansione regolare di un metro, evidanziata da accenti in punti determinati
della battuta e una suddivisione sostanzialmente libera al suo interno, è ingrediente fonda-
mentale, fra l’altro, del jazz (ma troviamo esempi entusiasmanti anche in Beethoven!) e di
tutti gli stili che in qualche modo vi fanno riferimento.
Ho voluto dare un certo spazio a questi primi semplici esperimenti per mostrare come
sia possibile articolare, anche se in modo embrionale, ciò che in un primo momento potreb-
be sembrare materiale privo di interesse. Semplicissime manipolazioni del materiale posso-
no essere sempre fonte di sorpresa. L’affidarsi al caso permette poi di evitare circoli viziosi
che potrebbero rendere eccessivamente banali i nostri tentativi di composizione. Come ho
accennato nel capitolo precedente, il caso può esercitare un grande e misterioso fascino, e
presentare, paradossalmente, caratteri di coerenza.
Capitolo 3 59

3.3. Ordine e caos

Chi ha qualche familiarità con la musica scritta nel secondo dopoguerra, avrà sicuramente
ritrovato nei precedenti esperimenti echi delle tecniche legate alla corrente «seriale» o
«strutturalista», cui punti di riferimento sono stati, per limitarsi ad alcuni nomi importanti,
musicisti come Boulez, Stockhausen, Maderna e Nono nei primi anni della loro attività arti-
stica. Questi sono stati eredi diretti dell’opera di Schönberg, Webern (vero nume tutelare
dell’avanguardia degli anni Cinquanta) e, in misura più attenuata, di Berg. Sicuramente ha
esercitato un peso notevole anche l’opera di Messiaen, che del resto si è rivelato poi uno dei
protagonisti più originali dei primi anni del dopoguerra.
Certamente il passato esercita sempre un influsso sul presente. Ciò che ho proposto nei
precedenti esempi è in parte debitore di quelle tecniche. Oggi però il nostro orizzonte, ri-
spetto a più di mezzo secolo fa, è cambiato — e sarebbe grave se non fosse così — e pos-
siamo trovare, come vedremo, notevoli differenze nel nostro fare musicale.
Ritengo opportuno, prima di ogni altra considerazione, citare qualche basilare elemento
tecnico che talvolta ha accomunato i musicisti che hanno fatto riferimento alle esperienze
appena citate.
Gli eredi di Schönberg, Webern e Berg hanno continuato a riferirsi al principio
«dodecafonico». In base a questo, i suoni di una composizione musicale vengono tratti da
una «serie» di 12 note in modo tale che siano presenti, secondo l’ordine stabilito in modo
del tutto libero dal compositore, tutte le note del totale cromatico; così, nelle singole serie
dodecafoniche non vi sono ripetizioni di note. Queste serie non possono per nulla essere
paragonate a un «tema». Non sono infatti articolate né dal punto di vista ritmico, né da
quello dinamico, né da quello della disposizione delle note nei vari registri di altezza im-
maginabili. Per inciso, il numero di serie possibili è 12! (fattoriale): ciò significa 479.001.600
serie diverse (in realtà alcune presentano degli isomorfismi). Considerando che le serie sono
materiale amorfo come una scala, si può immaginare un numero infinito di composizioni a
partire da esse. Il compositore può inoltre utilizzare una serie trasponendola su qualsiasi
grado della scala cromatica. Può inoltre leggere le note della serie a ritroso (forma retrogra-
da della serie); invertendo la direzione degli intervalli, come leggendola allo specchio
(forma inversa); oppure può leggere a ritroso la forma a specchio. Con la forma originale
della serie si danno quattro possibili criteri di lettura.
Compositori come Schönberg (ideatore di tale tecnica), Webern e Berg hanno fatto uso di
serie dodecafoniche, imponendo quindi un’organizzazione rigorosissima dei suoni di molte
loro opere. Scopo della tecnica dodecafonica è infatti il massimo rigore strutturale. Per
quanto riguarda altri parametri musicali, come ad esempio il ritmo e la dinamica, Schön-
berg e Berg hanno agito quasi sempre con maggiore libertà, non ingabbiando questi elementi
in schemi precostituiti. Nel saggio Tonalità/atonalità, contenuto ne Il discorso musicale, Jean-
Jacques Nattiez mostra che l’inizio del Quarto Quartetto per archi di Schönberg possiede di
fatto un carattere molto classico. Infatti Nattiez dimostra con un esempio che sostituendo
le altezze organizzate in modo dodecafonico dal compositore con altre scritte secondo i
principi della tonalità, lasciando intatto il ritmo, si può ottenere un tema con caratteri otto-
60 L’abaco e la rosa

centeschi! Le opere rivoluzionarie di Schönberg non sono infatti quelle della tarda maturità,
quando il compositore sembra ormai impegnato in una difficile sintesi fra «tradizione» e
«progresso».
Webern è stato il traghettatore verso nuove e radicali prospettive. In alcune sue opere in-
travide infatti la possibilità di organizzare in modo seriale tutti i parametri musicali (oltre
ai suoni, quindi ritmo, dinamiche, timbro e altri ancora). Questo nuovo atteggiamento nei
confronti della composizione musicale venne sviluppato e fatto proprio da giovani attivi
inizialmente nell’immediato dopoguerra come i già citati Boulez, Stockhausen, Maderna e
Nono. Questi ultimi e Messiaen (che è stato insegnante, fra l’altro, degli stessi Boulez e
Stockhausen) misero a punto tecniche di serialità integrale. Queste rappresentano quindi una
punta estrema di razionalismo e hanno il loro parallelo in alcune manifestazioni del più ra-
dicale astrattismo pittorico, come quello di Mondrian e di Klee.
Le tecniche della serialità integrale raggiunsero in poco tempo impressionanti livelli di
complessità, situazione che ha portato in seguito a svolte drammatiche e impreviste.
Mi propongo ora di realizzare un semplicissimo esempio di scrittura improntata alla se-
rialità integrale. Qui, oltre all’impiego di una serie dodecafonica che verrà proposta per due
volte, organizzerò in modo seriale il ritmo, le dinamiche e il registro del breve frammento.
Mi rifarò, di fatto, alla tecnica impiegata nel celebrato brano per pianoforte di Messiaen
Mode de valeurs et d’intensités del 1949, più citato dai testi di storia della musica che esegui-
to, a dire la verità. Questo brano è considerato il primo esempio di serialità integrale.
La serie che utilizzerò è la seguente:

Es. 3-14

bœ œ nœ bœ bœ œ nœ bœ œ #œ
& œ œ

Si tratta di una particolare serie che si sviluppa a ventaglio. Questa serie possiede la ca-
ratteristica di contenere, a partire dalla seconda minore, tutti gli intervalli possibili nell’am-
bito di un’ottava. Serie di questo tipo erano particolarmente apprezzate dai compositori
appena citati.
Si consideri ora la seguente tabella:

Tab. 3-2

Note 0 1 11 2 10 3 9 4 8 5 7 6
Durate (biscrome) 7 6 5 3 2 4 1
Dinamiche f pp mf ff p
Registro 3 2 4 5

La prima riga indica, secondo l’ormai familiare notazione numerica, le note della serie.
La seconda riga indica una serie di durate, dove ogni cifra corrisponde alla durata delle
singole note del frammento con riferimento alla biscroma (unità di misura del tutto arbitra-
ria). Ciò significa che la serie di durate inizierà con una nota pari alla lunghezza di sette bi-
Capitolo 3 61

scrome, la seconda pari a sei etc. La terza riga indica una serie di dinamiche, in modo da
attribuirne una a ogni singola nota. Infine, la quarta riga indica una possibile serie di registri
d’ottava. A questo proposito si consideri il seguente prospetto:

Es. 3-15
œ
œ œ
& œ œ
œ œ
œ
DO2 DO3 DO4 DO5

Le cifre associate ai singoli DO dipendono da una convenzione della teoria musicale che
consente di stabilire (per mezzo della cifra appunto) l’esatta altezza di una nota senza ri-
correre al rigo musicale.
Veniamo alle indicazioni dell’ultima riga della tabella. Essendo la prima cifra 3, ciò si-
gnifica che la nota della serie sarà collocata entro l’ottava che comincia con il DO3. Questo
DO sarà quindi il DO centrale del pianoforte. La seconda nota della serie è un generico RE
bemolle. In base alla serie dei registri verrà collocato nell’ottava che inizia dal DO2. In
modo simile procederò con tutte le altre note della serie.
Assegnando a ogni nota della serie dodecafonica una cifra relativa alla serie di durate,
dinamiche e registro ecco cosa si ottiene, dopo aver attribuito al frammento un’arbitraria
misura di 2/4, al solo fine di facilitarne la lettura:

Es. 3-16
ƒ π π
F f
œ œ. #œ p œ
Vivo œ. œœ œ œ œ œ œ..
2 bœ bœ œ œ
&4
œ.. p bœ œ . F œ œ. f
f bœ œ œ œ œ bœ
ƒ p F
π f ƒ
ƒ p
ƒ
œ œ œ œ. #œ œ
œ œ œ œ
& bœ . œ bœ
π bœ œ f œ œ. F
F π

Qualcuno, non abituato alla musica seriale del dopoguerra, potrebbe rimanere impres-
sionato dall’apparente complessità del frammento. Si consideri però che esso è solo una
banalissima applicazione delle tecniche della serialità integrale. La letteratura musicale of-
fre opere che presentano un grado di organizzazione incredibilmente più elevato.
Per quanto riguarda il nostro frammento, si noti che il numero di eventi delle serie delle
durate e delle dinamiche non sono sottomultipli di 12, valore numerico della serie dodeca-
fonica. In questo modo, una volta terminati i suoni della serie gli elementi delle altre due se-
rie si presentano in modo sfasato, conferendo maggiore varietà al frammento. La serie dei
registri presenta invece un’immediata periodicità nei confronti della serie dodecafonica.
62 L’abaco e la rosa

Si può comprendere facilmente perché lo stile dei compositori «strutturalisti» (i termini


strutturalista e seriale indicano praticamente lo stesso tipo di musica) sia dai più ritenuto
difficile ed esoterico. Si consideri poi che scrivere musica strutturalista non è certo la via
migliore per farsi molti amici nel mondo degli esecutori.
È forse più facile comprendere le ragioni di questo urticante stile musicale se si pensa al-
l’epoca in cui si è sviluppato. Diversi artisti appena emersi dall’immenso cumulo di macerie
della guerra percepivano che nulla poteva riprendere senza fare i conti con quest’immane
tabula rasa. Da qui la volontà di rinnovare interamente il linguaggio e le finalità dell’arte. Le
avanguardie del primo Novecento avevano infatti iniziato un percorso che si sentiva ben
lontano dall’essere concluso. Anzi, si sentiva fortemente il bisogno di sistematizzarlo e li-
berarlo da quelle che erano percepite come sedimentazioni sgradite, in quanto appartenenti
a un mondo che, complice la guerra, non esisteva più.
A distanza di mezzo secolo possiamo essere ormai pienamente consapevoli di quali
drammatici interrogativi ponesse il nuovo e radicale stile musicale (e nel mondo di oggi, in
cui la musica è degradata perlopiù a rumore di fondo, questi interrogativi potrebbero costi-
tuire ancora un motivo di fascinazione), che nel corso degli anni è diventato, seppure con
molte trasformazioni, una sorta di lingua franca della musica colta ufficiale (quella delle
grandi istituzioni per intenderci), tanto che si possono considerare alcune sue attuali ema-
nazioni come esiti accademici, se questo aggettivo significa ancora qualcosa. Ma a parte
uno sparuto numero di sinceri appassionati (qualche volta non mi dispiace esservi annove-
rato), molti accettano le opere di quegli anni e quelle di loro attuale filiazione in virtù di
quella che originariamente si poteva definire una sorta di forza morale di tale posizione
musicale; altri non sono ormai né scandalizzati né impauriti da tale lingua: si sentono sem-
plicemente annoiati.
Un esito sonoro ed estetico non poteva (e non può) essere facilmente liquidato come ac-
cidentale prodotto di rigorose, quanto astratte, manipolazioni del materiale musicale.
Ascoltando un brano di Boulez o di Stockhausen degli anni Cinquanta, ad esempio, siamo
come frastornati da quella che in prima istanza sembreremmo disposti a definire come
complessità. Il fatto è che la nozione di complessità è intrinsecamente difficile (è un’osserva-
zione addirittura banale).
Per fortuna oggi possiamo trovare qualche spiraglio di chiarezza dalla nascente scienza
che si definisce appunto della complessità, anche se ha già superato i trent’anni, età comun-
que infantile per questo genere di cose. Uno degli aspetti nuovi di questa scienza è il suo
carattere fortemente interdisciplinare. Inizialmente alcuni matematici e fisici teorici hanno
cominciato a indagare fenomeni legati a situazioni apparentemente caotiche e imprevedibili
come la turbolenza dei fluidi e la meteorologia, considerati fino ad allora come fastidiose
stranezze della natura. Grazie a ormai potenti capacità di calcolo, la simulazione al com-
puter si è subito imposta come fondamentale ed efficacissimo strumento di indagine.
I teorici del caos, come in un primo tempo venivano chiamati questi scienziati, hanno velo-
cemente elaborato idee e raggiunto risultati che subito hanno conquistato anche altri ricer-
catori appartenenti ai più disparati campi, dalla biologia, all’ecologia per arrivare all’eco-
nomia e alle reti informatiche. Ci si era resi conto infatti che il mondo reale non è indagabile
Capitolo 3 63

in modo soddisfacente soltanto con gli strumenti offerti da un approccio «deterministico»,


che in definitiva fa ancora riferimento al «paradigma» scientifico di Newton. Ci sono libri
bellissimi su questo nuovo paradigma, che è forse destinato a imporsi come il paradigma
scientifico del XXI secolo. In particolare vanno citati due testi ormai classici: Caos di James
Gleick, che con un linguaggio abbordabile introduce i concetti fondamentali del nuovo pen-
siero, e Complessità di Morris Mitchell Waldrop, che racconta in modo avvincente le vicende
dell’Istituto di Santa Fe, un tempio di questo nuovo sapere.
È facile rendersi conto che, come le straordinarie idee scientifiche del primo Novecento
hanno influenzato schiere di artisti e di intellettuali (basti pensare alla teoria della relativi-
tà), oggi può essere di enorme impulso anche per la musica un pensiero che rifletta in modo
sostanzialmente nuovo sulla complessità. La musica è infatti l’arte della complessità per
eccellenza.
I teorici del caos, che nel frattempo erano diventati teorici della complessità, hanno comin-
ciato finalmente a fare luce su concetti apparentemente fluidi come ordine, caos e complessità.
È inevitabile e opportuno semplificare in questa sede parecchio il discorso. Mi limito ad
accennare che troviamo ordine in una situazione cristallizzata, assai poco dinamica. Si pen-
si allo stato solido dell’acqua, il ghiaccio, che rivela un’organizzazione reticolare, geometri-
ca, delle singole molecole. All’opposto, troviamo il caos in una situazione fortemente disor-
dinata, disorganizzata come lo stato gassoso del vapore, in cui tutte le molecole sembrano
avere rotto i ranghi. Possiamo avvicinarci all’idea di complessità pensando allo stato liqui-
do dell’acqua. In realtà, i teorici della complessità prestano molta attenzione al fenomeno
della transizione di fase tra due «stati». Allontaniamoci ora dall’esempio dell’acqua. Imma-
giniamo due generiche situazioni (stati): una completamente ordinata, l’altra caotica. Se-
condo i teorici, la complessità si troverebbe sul margine del caos, e si rivelerebbe essere una
situazione vitale. La vita stessa è l’emblema della complessità, ragione per cui un numero
sempre maggiore di biologi ed ecologi impegnano grandi energie nello studio dei fenomeni
complessi.
Un concetto basilare legato alla complessità è quello di emergenza. La complessità sem-
brerebbe svilupparsi da agenti che, presi singolarmente, si rivelano essere della massima
semplicità. L’interazione di innumerevoli agenti, in base a semplici regole di comportamen-
to fa emergere un comportamento complesso, imprevedibile in base alle semplici regole de-
terministiche secondo cui si comportano gli agenti. Il totale, per così dire, si rivela più gran-
de della semplice somma dei singoli elementi. Quella della complessità è una scienza dove
è lo sguardo d’insieme ciò che conta.
Si pensi a un formicaio. Le singole formiche non dispongono certo di uno sguardo d’in-
sieme, né agiscono secondo complesse strategie organizzative. Il loro comportamento è de-
terminato da pochi segnali chimici che le orientano verso un limitatissimo numero di azioni.
Ma il formicaio nel suo insieme rivela una stupefacente organizzazione, tanto che sarebbe
possibile parlare di un’intelligenza emergente del formicaio stesso. Alcuni studiosi hanno
evidenziato che la storia di un formicaio mostra vere e proprie fasi di apprendimento at-
traverso una sorta di infanzia, per poi passare alla maturità, dove l’efficienza del formi-
caio è al suo culmine, per giungere infine alla vecchiaia, in cui sono evidenti segnali di deca-
64 L’abaco e la rosa

dimento e disgregazione.
Quella del formicaio è diventata una vera e propria metafora dello studio della com-
plessità, che oggi tende ormai a profilarsi sempre più come scienza dei sistemi emergenti. Di-
versi neuroscienziati vedono nel modello del formicaio una potente anologia con quello che
sembrerebbe essere il funzionamento reale del cervello: un formicaio composto da cento mi-
liardi circa di neuroni, tutti singolarmente stupidi (in quanto capaci di svolgere soltanto ele-
mentari azioni), la cui interazione darebbe i risultati che ben conosciamo. La cosa quasi in-
credibile dei comportamenti complessi è che sembra ormai chiaro che non ci sia dietro alcu-
na «mano invisibile». In una situazione complessa non ci sarebbero infatti dei pacemaker. Il
principio basilare di un comportamento complesso è infatti la sua totale autorganizzazione.
C’è ancora un aspetto estremamente importante dei sistemi complessi. La complessità
non dipende affatto da qualche qualità materiale degli agenti di un sistema: ne è assoluta-
mente indipendente; riguarda soltanto un principio organizzativo. La vita stessa, per citare
le parole di Waldrop, «non è una proprietà della materia di per sé, ma della sua organiz-
zazione». Ciò probabilmente aprirà affascinanti quanto inquietanti orizzonti di vita ar-
tificiale; in realtà si sta già lavorando in questo senso, non è più fantascienza, anche se sia-
mo solo all’inizio. È chiaro comunque che la complessità di un formicaio può essere impor-
tante per capire la complessità di un sistema economico o di una rete informatica. L’inter-
disciplinarità scientifica si sta già rivelando uno strumento potente di ricerca e di compren-
sione della realtà.
Ho scritto volentieri questa breve, quanto irrimediabilmente semplificata digressione,
convinto che suggestioni, se non alcuni veri e propri strumenti tecnici, della scienza della
complessità possono essere di grande interesse anche in ambito artistico, quanto un poten-
te mezzo per l’analisi musicale. Quanto appena detto potrà comunque tornarci utile in que-
sto libro.
Certo, molti, fra artisti, intellettuali e persone comuni — quanto mai in Italia, paese dove
in diversi ambienti umanistici la scienza non sembra essere neppure considerata cultura —
si trovano sgomenti di fronte al fatto che si possa, ad esempio, considerare i meravigliosi
prodotti del cervello umano come prodotti di un immenso formicaio. La scienza può essere
fonte di ispirazione, come certamente la letteratura. Invece, per quanto riguarda la musica, è
ancora quello che si potrebbe definire il pardigma letterario a dominare la scena, a parte si-
tuazioni isolate. Peccato, perché imbrigliando a tutti i costi la musica nell’alveo del logos si
rischia di soffocare le immense potenzialità di un’arte misteriosa che ha ancora un enorme
impatto sulla nostra sensibilità e che dimentichiamo troppo spesso essere di natura ase-
mantica.
Ritengo pertinente citare qui un’affermazione di Charles Ives, uno dei più importanti
compositori americani della prima metà del Novecento, che si impone per la fortissima ca-
rica di libertà e originalità del proprio linguaggio musicale, tra i più avanzati della sua epo-
ca, anche in confronto di campioni della modernità come Schönberg e Stravinsky. Musicista
straordinariamente spregiudicato e libero da pregiudizi come molti artisti d’oltreoceano
suoi contemporanei, Ives afferma in Essays Before a Sonata, sorta di commento alla sua mo-
numentale Concord Sonata per pianoforte, che «la musica è al di là di ogni analogia con il
Capitolo 3 65

linguaggio verbale», affermazione che va sì inquadrata nel legame di Ives con le idee della
filosofia trascendentale americana di Emerson, Thoreau e Hawthorne, ma che rivela una
sensibilità del tutto nuova rispetto alla concezione, in particolare tecnica e formale,
classico-romantica.
Un nuovo pardigma musicale potrebbe essere un pardigma integrato, multidisciplinare.
Mi sembra chiaro infatti che sia del tutto svilente considerare la musica alla stregua di un
surrogato scientifico, filosofico, o letterario.
Purtroppo circolano ancora affermazioni di pseudointellettuali (che il grande biologo
evoluzionista Richard Dawkins, ne L’arcobaleno della vita, non esita a collocare tra «i vuoti,
insensati giochi di parole dei savants francofoni alla moda» o tra quelle di «un cultore ame-
ricano dello scemenzaio postmoderno») per cui la scienza non sarebbe altro che uno fra i
tanti modi di vedere il mondo, in grado di imporsi soltanto in forza di un grande potere
(leggi interessi economici, in primo luogo) a essa collegato.
Sul rapporto fra arti e scienze in generale ritengo sia di straordinario interesse il decimo
capitolo del libro L’armonia meravigliosa di Edward O. Wilson, uno dei padri della socio-
biologia. Afferma Wilson: «La scienza ha bisogno dell’intuizione e del potere metaforico
delle arti, che a loro volta hanno bisogno del sangue fresco della scienza». Wilson non au-
spica d’altronde forme di ibridazione che condurrebbero a espressioni di arte scientifica o
di scienza artistica. Scrive infatti: «Le opere d’arte comunicano le sensazioni direttamente,
da una mente all’altra, senza porsi il problema di spiegare perché avvenga l’incontro. Per
questa loro caratteristica fondamentale, le arti sono l’antitesi della scienza».

Torniamo ai protagonisti dell’avanguardia musicale dell’immediato dopoguerra. Provia-


mo a considerare con sincera ammirazione il loro coraggio per un salto nel vuoto e, conside-
rando che non disponevano di strumenti di indagine come quelli messi a punto dalla suc-
cessiva scienza della complessità (che molto probabilmente avrebbero apprezzato), guar-
diamo con indulgenza al loro furore ideologico. Come ho accennato, emergono drammatici
interrogativi posti dal nuovo e radicale linguaggio musicale. Questo libro, ovviamente, non
vuole e non può dare risposte esaustive. Tanto più in relazione a spinosissimi problemi po-
sti da un importante linguaggio musicale. Quanto segue non sono che alcune osservazioni in
ordine sparso che potrebbero forse rivelarsi un elemento di impulso per chi volesse entrare
oggi nel mondo sconfinato della composizione musicale, o volesse avvicinarsi alle opere di
alcuni fra i musicisti citati del dopoguerra.
I paladini dello «strutturalismo» non avrebbero esitato a definire i risultati dei loro sfor-
zi compositivi non solo complessi, aspirazione di ogni buon artista, ma altamente complessi.
Cosa significa, in definitiva, complessità in un’opera d’arte, in particolare musicale? Po-
tremmo tentare di rispondere sinteticamente, con il linguaggio della quotidianità, dicendo
che complessità significa, fra l’altro, ricchezza di idee, intelligenza, vitalità ed eleganza.
In definitiva poi, volenti o nolenti, di un prodotto artistico diamo una valutazione este-
tica. L’atto di dare una valutazione è forse più importante dei criteri, continuamente can-
gianti e fluidi, con cui avviene la valutazione stessa: è di fatto ineliminabile (per me chi pre-
tende di sospendere il giudizio su un’opera o è insensibile, o incompetente, o vigliacco). Dal
66 L’abaco e la rosa

momento che da un’opera d’arte ci apettiamo complessità quanto una qualità


(chiamiamola anche soddisfazione) estetica, è inevitabile, a mio parere, che una qualche
idea di bellezza si sovrapponga a quella di complessità. Stabilire in che modo è più difficile.
Si potrebbe azzardare anche che complessità significhi in definitiva bellezza. Ma la bellezza
potrebbe anche emergere da una qualche forza morale. Il fatto che la musica sia un’arte
asemantica rende tutto più sfumato e scivoloso.
I compositori del dopoguerra erano poco inclini a entrare in un simile ginepraio. Erano
perlopiù soddisfatti della loro complessità:

Es. 3-17

¨j

bœ bœ
n >œ bœ
& bœ ‰
sub.
nœ #œ 3 Ï
1º Pf.
5
F f Î 5
π 3 F
? bœ ^
bœ ‰ r ‰
nœ nœ
bœ nœ Ë
bœ n˙
n œ^

nœ nœ nœ
? bœ Œ &≈ #œ Œ
nœ bœ
p Ï
2º Pf. π # >œ
? ‰
3
bœ ˘ ? bœ
p ^
j ‰ ˘ ‰& Œ
nœ nœ
b œ π nœ F Ï
b œ
fl f 3
f

Quest’ultimo esempio è tratto da Pensare la musica oggi di Pierre Boulez, un testo di


riflessione teorica che ha un avuto grande influsso su molti musicisti vicini al pensiero
strutturalista.
Ho accennato prima a un margine del caos nel quale prenderebbe forma la complessità, la
vita stessa. La constatazione che la musica è sostanzialmente un’arte astratta e asemantica
ci facilita nell’ipotizzare che la complessità di un brano musicale nasca in un punto di equi-
librio fra ordine e caos. (La musica è in definitiva la più potente metafora estetica della
complessità.)
La corrente «strutturalista» è affascinante perché ha messo drammaticamente il dito
sulla piaga. È innegabile che all’insegna dell’ordine più rigoroso erano le premesse della
composizione di un brano musicale. Come abbiamo visto, si deve alla serialità integrale
l’idea che ogni parametro musicale possa essere razionalizzato mediante serie numeriche.
Il fatto che il risultato sonoro e l’aspetto di una partitura potessero risultare parados-
salmente caotici era l’altra faccia della medaglia. Per alcuni compositori non era il risultato
sonoro a essere importante, anzi; per taluni era addirittura indifferente. Ciò significa che, al
di là del significato che se ne potesse dare, si era consapevoli che l’atto del comporre po-
tesse anche essere scollegato da qualsiasi considerazione relativa alla dimensione del-
l’ascolto. Ciò poneva drammaticamente in primo piano il problema della comunicazione. (È
Capitolo 3 67

significativo che una delle tarde opere di Luigi Nono — siamo negli anni Ottanta, quando
Nono per molti aspetti era ormai molto distante dallo strutturalismo dei primi anni Cin-
quanta — si intitoli Prometeo, tragedia dell’ascolto.)
Molti ritengono che la difficoltà di ascolto della musica strutturalista sia legata alle sue
aspre sonorità dissonanti. Se è per questo anche la Sagra della primavera di Stravinsky è
dissonantissima e a tratti carica di un’impressionante violenza sonora. Eppure passa. È
ormai un brano di repertorio. L’aspetto problematico, caotico, della musica strutturalista è,
in primo luogo, legato a uno dei punti nevralgici dell’organizzazione musicale. Riguarda un
particolare aspetto della scansione temporale, cioè in prima approssimazione, della di-
mensione ritmica.
Concetti connessi ma sostanzialmente diversi sono quelli di metro e di ritmo. Il metro è
quasi sempre un aspetto irrinunciabile della dimensione temporale della musica (la musica
è arte del tempo: quella temporale è una dimensione ancora più importante di quella sono-
ra). Consiste in regolari punti di riferimento della dimensione temporale, punti d’appoggio
come pilastri di un ponte regolarmente distanziati. Al di sopra di questo ponte possiamo
camminare, saltare o andare in bicicletta. Lo stesso avviene in un brano musicale. Ascol-
tando il Concerto di Capodanno riusciamo facilmente a distinguere un valzer da una
polka, nonostante la varietà combinatoria delle durate dei suoni. Il ritmo, secondo una no-
zione specifica, consiste invece in una successione di puri e semplici intervalli di durata. Nel-
l’esempio 3-16 troviamo ritmo nudo e crudo: invano cerchiamo invece qualche elemento che
ci dia una pur blanda informazione sul metro. La misura di 2/4 è infatti soltanto un aiuto
visivo per rendere più agevole la lettura del frammento.
È certo possibile trovarsi di fronte a brani musicali sostanzialmente privi di dimensione
metrica: in questi casi gli esempi tratti dalla storia della musica rivelano però che il ritmo
vero e proprio presenta perlopiù valori di durata tendenti all’uniformità. Si pensi al canto
piano (il canto «gregoriano») o a un celeberrimo passaggio della Sagra della primavera, forse
uno dei momenti più emblematici del Novecento musicale:

Es. 3-18

Tempo giusto q»∞§


b œœœ œœœ œœœ œœœ b œœœ œœœ œœœ œœœ b œœœ œ>œœ œœœ œ>œœ b œœœ œœœ œœœ œœœ
? b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b

? b b b œœ œœ œœ œœ b b œœœ œœ œœ œœ b b œœœ œœ œœ œœ b b œœœ œœ œœ œœ


b b b œœ œœ œœ œœ bœ œœ œœ œœ bœ œ œœ œ œœ œœ œœ
>œ >œ bœ
b œœœ œ>œœ œœœ œœœ b œ>œœ œœœ œœœ œœœ b œ>œœ œœœ œœœ œœœ b œœœ œ>œœ œœœ œœœ
? b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b

? b b b œœ œœ œœ œœ b b œœœ œœ œœ œœ b b œœœ œœ œœ œœ b b œœœ œœ œœ œœ


b b b œœ œ œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ œ œœ œœ
>œ b >œ b >œ bœ >œ
68 L’abaco e la rosa

Qui un aspetto caotico (gli accenti distanziati in modo irregolare) è bilanciato da uno or-
dinato (la successione di valori di durata uguali). In quest’ultimo caso il metro sembra esse-
re la croma stessa: quindi, di fatto, è un metro corrispondente a una unità. (Si noti come nel
precedente esempio siano sovrapposti due diversi centri tonali: un accordo di settima, con
MI bemolle come fondamentale e una triade maggiore di FA bemolle, che enarmonicamente
corrisponde a MI.)
La musica africana, la polifonia medievale e diverse espressioni della musica del Nove-
cento presentano invece una dimensione poliritmica. Con questa non felicissima espressione
si identifica il fenomeno della sovrapposizione di metri diversi. Anche nella musica del pe-
riodo classico non è poi così raro imbattersi in queste situazioni. Un vistoso e straordinario
esempio è la scena della festa (finale del primo atto) nel Don Giovanni di Mozart. Qui, al-
cuni gruppi strumentali collocati in punti diversi (due sulla scena), suonano con uno stupe-
facente esito armonioso brani (si tratta di danze) con indicazioni di misura diverse!
Ricorrendo ancora alla metafora biologica, si potrebbe affermare che, per quanto riguar-
da la musica dei compositori strutturalisti, sembri mancare un collegamento funzionale tra
genotipo e fenotipo. Il genotipo è la ricetta genetica codificata nel DNA di un organismo; il fe-
notipo è l’organismo che si forma a partire da tali istruzioni. Gli strutturalisti si sono di
fatto concentrati, forse come non mai, sulla dimensione per così dire genotipica della musi-
ca. La considerazione che anche l’aspetto fenotipico fosse stato fino ad allora importante e
che non potesse essere scisso dal progetto musicale in sé è passata in secondo piano. Gli
strutturalisti sembrano essere la metafora musicale della famosa teoria del «gene egoista»
del già citato Richard Dawkins, per cui i veri e unici protagonisti dell’evoluzione naturale
sarebbero soltanto i geni. Gli organismi viventi non sarebbero altro che macchine per la ri-
produzione dei geni stessi, che, in quanto pura informazione digitale, potrebbero risultare
immortali: di fatto, ci sono geni che esistono da molti milioni di anni. Se la teoria del «gene
egoista» valesse in tutto e per tutto anche in ambito artistico, gli strutturalisti rappresente-
rebbero il momento più alto della storia della musica. Forse però le analogie in ambito arti-
stico e biologico non sono poi così stringenti.
Ci si dovrebbe chiedere a questo punto come possa realmente emergere la complessità in
termini musicali, come si realizzi concretamente l’interazione tra ordine e caos. Un tema
così affascinante e difficile meriterebbe certo un lungo e articolato discorso. Mi limiterò qui
ad alcune elementari osservazioni che potrebbero rivelarsi utili per le finalità di questo li-
bro.
Ritengo possa essere di qualche utilità che nel riferirsi a nozioni di ordine e caos riguar-
danti situazioni musicali, fra i vari elementi che possono contribuire a formarne un quadro
concettuale completo, vengano messe in rilievo la quantità di informazione presente in un
brano musicale e il grado di prevedibilità nell’evolversi dello stesso.
Secondo l’ormai classica teoria dell’informazione, messa a punto alla fine degli anni
Quaranta dal matematico statunitense Claude Shannon, per descrivere una situazione or-
dinata occorre meno informazione di una situazione disordinata. Si immagini la differenza
tra la descrizione di un disegno di un cerchio e un disegno di un paesaggio. In questo caso
la teoria, rifacendosi direttamente al secondo principio della termodinamica, considera il
Capitolo 3 69

disegno del paesaggio come un sistema tendente a un’elevata entropia, mentre il disegno del
cerchio sarebbe un sistema a bassa entropia. Riferendosi alla quantità di disordine come
entropia la teoria dell’informazione si colloca in un difficile ambito concettuale, col vantag-
gio però di fare riferimento all’estremo rigore del pensiero scientifico.
Per la teoria risulta di estrema importanza la nozione di ridondanza. Quest’ultima è, in
sintesi, un allontanamento prevedibile dalla casualità all’interno di un messaggio. Facciamo
un esempio. Pensiamo a una qualsiasi parola in italiano. Tranne in un caso (la parola soq-
quadro), qualsiasi lettera q sarà seguita dalla u; l’h sarà seguita da una vocale; la m potrà
essere seguita da alcune lettere ma non da altre (ad esempio la q o la r). Per quanto riguar-
da il linguaggio, un flusso di dati allora non è del tutto casuale. Immaginando di comprime-
re un testo in formato digitale (la mole di bit dei nostri computer), ogni nuovo bit dipenderà
in qualche modo da quelli precedenti. Ciò significa che trasporterà meno informazione di
un bit astrattamente inteso come unità reale di informazione. All’estremo opposto della ri-
dondanza troviamo il cosiddetto rumore, un flusso casuale di dati.
Per quanto riguarda ogni considerazione sul ruolo dell’informazione, ritengo faccia parte
dell’esperienza comune di ogni ascoltatore constatare che, mediamente, è più impegnativo
seguire il corso di una fuga a quattro voci di Bach che una sua invenzione a due voci, al di
là della loro intrinseca bellezza, indipendente dal numero di parti in gioco. In un brano ad
alto numero di parti (ma in realtà già a tre-quattro), il rischio di percepire rumore, per il no-
stro cervello, è infatti piuttosto alto.
Per quanto concerne possibili considerazioni sul rumore, è chiaro che un brano con poche
informazioni sonore può essere poco interessante, rischiando di degradare continuamente
nella banalità. Uno con una mole enorme di informazioni rischia invece di degenerare nel
caos. Ogni situazione sonora tende a un suo limite, ciò è inevitabile. Comporre un brano a
due o a quattro voci implica quindi di volta in volta interessi diversi, perché obbliga a mi-
surarsi con strategie opposte nei confronti del materiale. Da una parte all’orizzonte si sta-
glia un corpo a corpo con la desolazione, dall’altro con un uragano: il bello è che queste
prospettive possono stimolare l’artista in modi completamenti diversi, dando luogo a poe-
tiche ugualmente affascinanti.
Per quanto concerne invece il ruolo della ridondanza, della possibilità di prevedere parte
dell’evolversi di una situazione musicale, si può tranquillamente dire che essa fa parte del
complesso fenomeno di gratificazione nell’ascolto. La musica si fonda proprio su questa
misteriosa attività del cervello che trae immenso piacere nel perdere e ritrovare continua-
mente il filo di un flusso sonoro.
Si immagini di ascoltare una sonata per pianoforte di Mozart, ad esempio la Sonata in
DO maggiore KV 545. A battuta 25, dopo la comparsa del «secondo tema», ascolteremmo
questa situazione sonora:
70 L’abaco e la rosa

Es. 3-19
Ÿ~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
w œ œ
&

& œ œ #œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Sulla base della nostra consapevole o meno esperienza di ascoltatori di musica occiden-
tale ci aspettiamo all’inizio della battuta successiva una situazione che contenga il SOL:
siamo nel bel mezzo di una situazione cadenzale e il nostro oreccchio occidentale desidera
qui sentire una risoluzione sulla tonica. Infatti ecco cosa succede immediatamente dopo:

Es. 3-20
œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ
&
f
& œœ Œ Œ œœ
œ

Il primo quarto presenta infatti una situazione contenente il SOL; a questo punto, in teo-
ria, potremmo ascoltare qualsiasi cosa. Mozart termina infatti la prima parte della sonata
con una figurazione del tutto nuova (quella che comincia sul secondo quarto del precedente
esempio).
Il fatto che nell’ambito della musica occidentale sino alla fine dell’Ottocento ci sia la
possibilità, per l’ascoltatore, di fare alcune previsioni sull’immediato sviluppo di una si-
tuazione sonora è suffragato da termini di teoria musicale quali cadenza evitata, risoluzione
eccezionale, cadenza d’inganno.
La cosa affascinante del nostro cervello è che possiamo provare spesso piacere nel-
l’ascolto reiterato di un brano musicale, quasi che ogni volta si rinnovasse l’esperienza del
primo ascolto unita alla gioia del ritrovare.
L’opposto di una situazione caotica è una situazione del tutto ordinata, cristallizzata.
Qui, o siamo di fronte a una situazione che si ripete all’infinito sempre uguale a se stessa
(si pensi alle prime due battute della Quinta Sinfonia di Beethoven ripetute sino alla fine dei
tempi) o del tutto prevedibile, ridondante, come nei famosi esercizi per pianoforte di Ha-
non, di cui riporto un frammento:
Capitolo 3 71

Es. 3-21
2
&4

?2 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ

Alla fine della terza battuta possiamo qui prevedere facilmente come proseguirà la tiri-
tera. L’ascolto di simili esercizi è per molte persone quasi insopportabile, perché totalmente
prevedibili. Un esercizio di Hanon non viene neppure recepito come brano musicale: è un
semplice scioglidita. (Brahms sembra l’unico ad avere vinto la scommessa della composi-
zione di esercizi dotati di valore estetico, tanto che ne possiedo anche una bellissima inci-
sione discografica di Idil Biret.)
All’opposto, anche una situazione sonora con un sovraccarico di informazioni e del tut-
to imprevedibile difficilmente viene recepita come espressione dotata di valore estetico.
Il misterioso equilibrio tra ordine e caos può trovare realizzazione in modi diversi.
Uno straordinario esempio può essere considerato il N. 2 dei Preludi di Chopin, in LA
minore. Un brano di appena 23 battute, ma di sconvolgente originalità e intensità. Ecco le
prime sette battute:

Es. 3-22

Lento

&C ∑ ∑
˙.. j
œ w
p
?C œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ #œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

& œ. j j j Ó
#œ œ œ. œ œ. œ ˙ ˙
œ

? nœ œ #œ œ œœ œ b œœ œ n œœ œ b œœ œ n œœ œ b œœ œ n œœ œ b œœ
œ #œ œ nœ œ #œ œ #œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
œ

Una semplice, nobile, linea melodica si staglia su uno sfondo ostile, aspro, del tutto in-
sensibile. Tutto il contrario di un tradizionale «accompagnamento» che dovrebbe assecon-
dare il materiale melodico.
Potremmo inizialmente considerare come caotica, sovraccarica, la parte del rigo inferiore
e ordinata, cantabile, quella del rigo superiore. La cosa affascinante è che qui potrebbe esse-
re forse legittima anche una lettura opposta. Tralasciando infatti la valenza espressiva dei
due elementi costitutivi di questo brano, potremmo vedere nel rigo inferiore un gelido ordine
tendente alla stasi assoluta, alla morte, mentre nel rigo superiore una libertà che, se lasciata
a se stessa, potrebbe avere come destino il disordine, la dissoluzione nel caos. La linea me-
lodica sembra quindi dovere rimanere incantenata alla spietata scansione degli ottavi.
72 L’abaco e la rosa

Questa duplice lettura rende ancora più affascinante il brano che, in questo modo, presenta
analogie con quelle suggestive opere grafiche che creano nell’osservatore l’illusione di pas-
sare continuamente da un’immagine a un’altra. Comunque sia, ci troviamo di fronte a due
situazioni opposte.
La relazione sincronica tra una situazione tendente all’ordine e una tendente al caos può
essere sottile e nascosta. Consideriamo le battute iniziali di un piccolo preludio di Bach in
DO minore (BWV 999):

Es. 3-23
b 3
& b b 4 ≈ œ œ œ œ ≈ r≈ r ≈ œ œ œ œ ≈ r≈ r ≈ œ œ œ œ ≈ r≈ r
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

? b 3 œ œ œ œ œ œ œ
b b 4 Œ œ Œ œ Œ

Per ciò che riguarda ritmo e profilo lineare occorre poca informazione per descriverne la
natura. Un unico modello ritmico viene portato avanti per tutta la durata del brano, com-
posto, per quanto concerne il profilo lineare, interamente da accordi spezzati (triadi e set-
time).
L’aspetto che necessita invece di molta informazione per essere descritto è, nel caso del-
l’esempio precedente, quello relativo al percorso armonico, alla logica tonale che pervade
l’intero svolgimento del brano. Le regole del gioco cui si attiene Bach nelle scelte armoniche
corrispondono, grosso modo, alla mole di un buon manuale di armonia classica! Siamo qui
allora in un ambito tendente alla caoticità (molte informazioni = potenziale entropia).
Quanto ci comunica Bach per ciò che riguarda il percorso armonico non è infatti lontano da
una situazione che potrebbe rivelarsi facilmente caotica (cosa ben nota agli studenti princi-
pianti di armonia, che generalmente impiegano parecchio tempo per ottenere concatenazio-
ni armoniche che non diano un senso di disordine e di casualità).
Se ci si volge alla possibilità diacronica di un rapporto tra ordine e caos ne avremmo
uno straordinario esempio, secondo una suggestiva interpretazione analitica — probabil-
mente influenzata dal pensiero di Schopenhauer e riferibile a un grande pianista del passa-
to (di cui purtroppo non ricordo il nome) —, nella Sonata op. 111 di Beethoven, l’ultima
delle sue sonate per pianoforte. Qui il rapporto tra un’iniziale situazione di caos e una suc-
cessiva di ordine riguarderebbe la relazione tra i due movimenti da cui è formata. Nella tur-
bolenza (termine caro agli studiosi della complessità) del primo movimento in DO minore si
potrebbe leggere una metafora della samsara, e nelle successive variazioni dell’«Arietta» del
raggiungimento del nirvana. Analogamente a molti fenomeni naturali studiati dai teorici
della complessità, in un’opera straordinariamente riuscita come la Sonata op. 111 di Beet-
hoven sarebbe possibile ritrovare anche a dimensioni più piccole il rapporto tra ordine e
caos. Vi sarebbe quella che si definisce invarianza di scala, ineliminabile quanto necessaria.
In realtà ciò che sembra essere un rapporto diacronico tra ordine caos si ritrova spessis-
simo nel repertorio classico.
La forma-sonata è, semplificando, sostanzialmente improntata al rapporto e allo svilup-
Capitolo 3 73

po di due «temi». Nella prima parte di un brano in forma-sonata, la cosiddetta esposizione,


i due temi sono collegati da un episodio di transizione: il «ponte».
Il grado di informazione sonora di ciò che viene concepito (e percepito) come «temi» e il
«ponte» è in linea di massima maggiore per i temi. Per ovvie ragioni, un tema non può esse-
re molto ridondante. Certo, questo maggiore interesse del tema ha un costo: si rischia sempre
di andare verso una situazione di rumore, di caoticità. A ben vedere, un tema classico na-
sconde una natura turbolenta. Ecco la necessità di un seguito momentaneo di situazioni più
neutre, ordinate, che celano una natura sempre in bilico sul margine della banalità attraver-
so situazioni che superficialmente richiamano il movimento, la velocità, come scale e arpeg-
gi. Quelli che sembrerebbero essere semplici episodi di collegamento, di servizio, rivestono
un fondamentale ruolo nella genesi della complessità, nel necessario respiro della forma.
Giustapporre semplicemente due «temi» ci collocherebbe in realtà in una situazione virtual-
mente caotica.
Prendiamo ancora la sonata di Mozart che ho citato: l’esempio 3-24 ne riporta le prime
12 battute. Qui il tema è formato dalle prime quattro battute. Alla quinta battuta inizia
una transizione che presenta passaggi meccanici alla Hanon. La successione delle rapide
scale costituisce ciò che in termini tecnici si definisce progressione, cioè la ripetizione su gra-
di differenti di una scala di un modello melodico o armonico, o entrambe le cose. Le pro-
gressioni all’interno di brani musicali sono paragonabili dunque a frammenti di esercizi
come quelli di Hanon, che sono implacabili progressioni a tutti gli effetti. La progressione,
come vedremo fra breve, è un ingrediente fondamentale della musica del periodo barocco.
Possiamo tranquillamente affermare che senza le progressioni la musica di Bach e di Vival-
di, ad esempio, sarebbe inimmaginabilmente diversa. Nel momento in cui la progressione
sembra fare precipitare in una situazione di stallo, iniziano quattro nuove battute che at-
traverso la modulazione conducono alla dominante. Anche se il grado di informazione non
è paragonabile a quello del tema (non deve trarci in inganno la quantità di note), quest’ulti-
mo frammento presenta un’articolazione meno cristallizzata, più liquida.
Ci rendiamo conto, così, che anche in un contesto apparentemente semplice come quello
precedente emerge un comportamento autenticamente complesso. Attraverso una fine e sa-
piente concezione della forma la musica acquista respiro, vitalità.
Come accennato, la progressione riveste fondamentale importanza nella musica del pe-
riodo barocco. Lo stile barocco ha messo a punto un caratteristico modello di complessità,
un elementare ma efficacissimo modo di relazionare situazioni tendenti al caos e all’ordine.
Questo modello vede la continua alternanza tra situazioni che musicalmente potremmo
definire tematiche, cioè situazioni virtualmente caotiche, e progressioni. Sembrano attenervi-
si in modo consistente i concerti di Vivaldi, ad esempio, ma anche tantissime composizioni
di Bach, tra cui un numero considerevole di fughe, seppure in modo meno vistoso.
Ho in precedenza riportato la linea superiore dell’inizio del concerto per due violini in
LA minore tratto da L’estro armonico di Vivaldi: l’esempio 3-25 riporta la linea superiore
del primo «tutti». Ho arbitrariamente diviso il frammento in segmenti di diversi lunghezza
contrassegnati da una lettera per facilitarne l’analisi.
Si può facilmente riconoscere nei segmenti a e b quella che abbiamo definito una situa-
74 L’abaco e la rosa

Es. 3-24
Allegro
œ ˙ œ œ
œ œœœ
&c ˙ œ. Œ
p
&c œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ
œ œŸ œ œ œ œœœœœœœœœœ œœœœœœœœ
& Œ œ œœœ œ œ œœœœ œœ

œ œ œ
Œ Œ ? œ œ Œ Œ œ
& œ œ œ œ œ œ
œ œ œ

œ œœœœœœ œ œœœ
& œ œœœœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ œ
œ
cresc.
œ œ œ ww
? œ Œ Œ œ œ Œ Œ œœ

œ œ nœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ . . . . .
œ œ œ. œ œ œ. œ. œ œ œ. œ. œœœ
& œ Œ
.
f
? œ. œ œ. #œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. Œ
J J œœ œ œ œœ œ œ œ. œ.

zione tematica, cioè potenzialmente caotica. A dire il vero, il segmento b presenta la ripeti-
zione di una piccola cellula melodica, una situazione del tutto cristallizzata. Musicalmente
è una sorta di liquidazione del segmento a, dal momento che le ripetizioni costituiscono
qualcosa di analogo a una transizione di fase verso una situazione cristallizzata. Il segmen-
to c infatti è una progressione a tutti gli effetti. Si noti comunque che Vivaldi tende a cri-
stallizzare anche il segmento a. Quest’ultimo presenta infatti la ripetizione di un’intera bat-
tuta, la seconda. (Tornerò a parlare del ruolo della ripetizione fra breve.)
Il segmento d sembra presentare una situazione particolare. Dal punto di vista ritmico
mostra quasi interamente una successione di crome. Dal punto di vista lineare rispetto al
precedente segmento c sembra essere leggermente più caotico. Va detto però che la parte di
basso (nell’esempio non riportata) contribuisce a creare una situazione cadenzale, provvi-
soriamente conclusiva, con tutto il bagaglio di strategie codificate e prevedibili.
Il segmento e presenta una progressione mancata. Se il modello della progressione è la
prima battuta del segmento, il modello viene ripetuto soltanto a metà, nella seconda battu-
ta del segmento.
Capitolo 3 75

Es. 3-25
Allegro
a
œ #œ œ nœ œ œ
&c
œ œœœ œ œ œ œœ œœ œ œœ œœ
œœ # œ # œ œ œ #œ #œ œ œ
b c

œ œ œ œ œœœœœœœœœ œ œ œ œ œ
& ‰ Jœ œ œ ‰ Jœ œ œ ‰ Jœ œ œ ‰ Jœ œœ œ œ œ œ œœœœ
œ
d
#œ œ œ
œœ œœ œœœ œœ œ œ œ ‰ Jœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& #œ œ

#œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ #œ œ
& œ œ ‰ Jœ
e f Solo

œ œ
& bœ œ œ œ œ œ œ
œ
œ
œ #œ œ œ œ #œ œ . œ œ .
œ
œ œ œ

Il segmento f evidenzia infine una chiara situazione cadenzale. Si può riportare per esso
sostanzialmente quanto detto per il segmento d.
Ho accennato al ruolo giocato in questo frammento vivaldiano dalla ripetizione, che è
piuttosto consistente. Troviamo infatti ripetizioni letterali e su gradi diversi della scala
come la progressione, che non è altro che una forma più articolata della ripetizione pura e
semplice, la realizzazione di una sorta di caleidoscopio sonoro. In più, cosa di cui non ho
ancora parlato, sono possibili ripetizioni con variazioni. La variazione sarà in epoca classi-
ca e romantica il più potente strumento a disposizione del compositore; in definitiva, pur
semplificando molto, la risposta stilistica ed estetica al problema della complessità.
Generalizzando, si potrebbe forse affermare che comporre musica significa mettersi con-
tinuamente di fronte al problema della ripetizione. Se la complessità nasce in un punto
d’equilibrio tra ordine e caos, la ripetizione è lo strumento più potente di ordine musicale.
Sotto il profilo temporale — fondamentale in musica, tanto da costituirne l’intima essenza
—, la ripetizione è infatti la forma più evidente di simmetria. (Quello della simmetria è un
argomento immenso, e non può essere trattato esaurientemente in questa sede.) La ripeti-
zione contrasta però con la necessità di ascoltare materiale sempre nuovo. Le soluzioni
possibili sono di fatto le innumerevoli soluzioni proposte da uno stile musicale e dal pen-
siero estetico di un singolo artista.
Dal momento che i compositori dell’età barocca adottano intensivamente lo schema
tema-progressione, la forma complessiva di un loro brano nasce perlopiù dalla giustapposi-
zione di materiale. I classici, tra cui ovviamente Mozart, elaborano invece una gestione della
forma che, più che giustapporre, sviluppa sempre più il materiale sonoro. La relazione tra
situazioni tendenzialmente cristallizzate e caotiche diventa più articolata, meno schemati-
76 L’abaco e la rosa

ca. Come ho accennato, ciò è dovuto al ruolo sempre più importante giocato dalla varia-
zione, che consente di graduare a proprio piacimento la consistenza della ripetizione.
C’è una sostanziale differenza tra la musica del periodo barocco e quella del periodo
classico-romantico. In un brano di Vivaldi, ad esempio, abbiamo spesso l’impressione di
trovarci in una situazione circolare. L’alteranza di materiale tendenzialmente caotico e or-
dinato potrebbe continuare all’infinito. Immaginando di entrare in una sala dove sia già ini-
ziata l’esecuzione di un brano di Vivaldi, sarebbe generalmente difficile, anche per orecchie
allenate, stabilire se ci si trovi a metà o alla fine dello svolgimento. Ripetendo invece l’espe-
rimento con un brano di Mozart, di Beethoven o di Brahms, un ascoltatore dotato di una
certa esperienza sarebbe in grado di riconoscere se ci si trovi a metà o verso la fine della
composizione. Ciò dipende dalla particolare struttura delle forme classiche, in particolare
della forma-sonata, che è un autentico racconto sonoro o, se si preferisce, una drammatur-
gia sonora, dove, nella parte centrale (il cosiddetto sviluppo) assistiamo generalmente ad al-
cuni colpi di scena. Questa diversa concezione stilistica ed estetica è resa possibile, in gran
parte, da una mutata concezione del ruolo della ripetizione del materiale sonoro, della
complessità quindi.
Se in un brano di Mozart è spesso ancora percepibile in modo evidente l’articolazione in
sezioni che chiaramente rivelano rispettivamente situazioni tendenzialmente caotiche od
ordinate, come abbiamo visto nell’esempio della Sonata in DO maggiore, a partire da Beet-
hoven si assiste sempre più a una tendenza verso articolazioni sincroniche della complessi-
tà e a un sostanziale livellamento del rapporto ordine/caos delle singole sezioni da cui è
formato un brano musicale.
È innegabile che l’Ottocento sia stato un secolo straordinario per la musica. Il numero di
personalità geniali è impressionante. Le stesse innovazioni di tecnica musicale sono state
enormi. Impercettibilmente però si assite a quello che potrebbe essere definito un frainten-
dimento del concetto di complessità. La retorica romantica portò ben presto a equiparare
complessità a quantità di informazione. Nella sua evidente drammaticità questo frainten-
dimento risulta anche affascinante.
Questa situazione si pose ormai in tutta la sua evidenza alla fine del secolo (e probabil-
mente alcuni tra i protagonisti di quegli anni ne erano lucidamente consapevoli), quando la
crisi del linguaggio musicale portò a un autentico rovesciamento di paradigma. La Sagra
della primavera ne è la testimonianza più violenta e il corpus delle sinfonie di Mahler quella
più struggente. Dopo la prima guerra mondiale dappertutto si levavano invocazioni all’or-
dine, in vista di una rinnovata idea di complessità. In questo senso sono accomunate le più
grandi personalità musicali dell’epoca, da Schönberg (che diede una risposta sistematica
con l’invenzione della tecnica dodecafonica) a Stravinsky (con la sua discussa svolta
«neoclassica»).

Eccoci, dopo gli anni del nefasto ordine delle dittature e delle catastrofi di due guerre
mondiali, di nuovo di fronte ai compositori strutturalisti cui non si può negare grande im-
portanza nel panorama del secondo dopoguerra. Certo, la loro idea di complessità pone
drammaticamente in risalto il fatto che talvolta possa essere abbattuto il ponte che tradi-
Capitolo 3 77

zionalmente collega in modo funzionale un progetto artistico dalla sua concreta comunica-
bilità. Del resto oggi siamo sempre più consapevoli che un’opera d’arte (tanto più una del
presente) vale forse più per le domande che riesce a porre che per le eventuali risposte che
riesce a dare.
Molti, anche se non all’estetica, sono comunque debitori alle tecniche degli strutturalisti.
Un compositore come Pärt ne è probabilmente consapevole, anche se la sua musica è lonta-
nissima dagli esiti sonori di opere come Structures di Boulez.
Oltre che i continuatori e gli epigoni, il pensiero dodecafonico e strutturalista ha influen-
zato anche alcune figure ormai classiche del Novecento, portatrici di estetiche talvolta po-
lemicamente in contrasto con i risultati più radicali della musica del dopoguerra. Lo stesso
Stravinsky, dopo gli anni delle composizioni «neoclassiche», aspramente criticate dagli
avanguardisti più intransigenti, si avvicinò sempre più alle tecniche seriali che, coniugate al
suo eccezionale talento, sono state al centro delle sue rarefatte opere della tarda maturità,
algida sintesi del pensiero musicale occidentale.
Anche Shostakovich nel dopoguerra, con una coraggiosa posizione nei confronti delle di-
rettive ufficiali del regime sovietico, che bandiva ogni elemento di modernismo, primo fra
tutti la dodecafonia, introdusse elementi dodecafonici nelle sue tarde opere, riuscendo a
farli convivere con il tessuto sostanzialmente tonale del suo intenso e originalissimo stile
musicale.
Mi piace riportare un frammento tratto dal suo Quartetto n. 12 op. 133 del 1968 (siamo
quindi a pochi dalla sua morte, avvenuta nel 1975), che potrebbe essere considerato anche
come una straordinaria riflessione sulla complessità e sulla storia. Considerando l’epoca a
noi relativamente vicina in cui è stato composto, quest’opera rivela un pensiero intimamen-
te classico, dove per classico Shostakovich intende evidentemente un’idea universale e non
situazioni contingenti. Eccone dunque l’inizio:

Es. 3-26

Moderato q»ª™ q=q


b b 3
&b b b 2 ∑ Ó c
w w w
p cresc.
b b 3
&b b b 2 ∑ ∑ c ∑ ∑

B b b b b b 23 ∑ ∑ c ∑ ∑
[1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12]

? b b 3 ‰ bœ bœ
b b b 2 œ nœ œ bœ ∫œ œ c œ œ
œœ nœ ˙ œ œ œ œ nœbœ œ œ œœœœœœœœ œœœœœ œ
cresc.
p

Come si può notare per mezzo delle cifre introdotte per facilitare l’analisi, le prime 12
note sono una serie dodecafonica a tutti gli effetti (12 note una diversa dall’altra); l’ultima
nota è, con tutta evidenza, la fondamentale della tonalità d’impianto. A partire dalla se-
conda battuta inizia una linea alla Hanon che viene sviluppata in concorrenza con il riap-
78 L’abaco e la rosa

parire di linee dodecafoniche. Siamo quindi nell’ambito di una situazione analoga a quella
vista in precedenza nella sonata di Mozart.
Si noti che Shostakovich utilizza qui, come accade spesso nella sua musica, quello che
potrebbe sembrare materiale qualsiasi, nel senso di quanto detto nel capitolo precedente.
Shostakovich è infatti interessato alle relazioni tra materiali sonori, più che al materiale in
sé. Forse questo atteggiamento ha una qualche relazione con il fatto che circostanze esterne
alla volontà e alla necessità espressiva hanno giocato un ruolo pesante nella vita del com-
positore.
Ma proprio parte consistente del fascino della musica di Shostakovich riesiede, per il
mio modo di sentire, nella straordinaria capacità di questo musicista di far emergere la
complessità e infine la bellezza anche da materiale apparentemente insignificante (in ciò
possiamo trovare un analogo nell’emergenza della complessità in sistemi formati da agenti
singolarmente «stupidi», come le formiche).
È evidente che Shostakovich conferisce all’inizio del suo quartetto grande importanza al
ruolo della serie, un ruolo che ha qui quei caratteri di tematicità cui ho accennato. Nello
stesso tempo sembra essere consapevole però dell’alta entropia irrimediabilmente connessa
a tale materiale. Ecco che la tonalità svolge allora un umile ruolo di bilanciamento, essen-
ziale per l’equilibrio del brano. Il passato (la tonalità) ha ceduto il passo, non è più prota-
gonista, ma il presente (la dodecafonia) ha bisogno di confrontarsi con la storia. L’emergen-
za della complessità sembra qui realizzarsi quindi su diversi livelli, con esiti artistici altissi-
mi.

Giunti a questo punto ritengo opportune alcune considerazioni.


In primo luogo sottolineo che quanto ho detto sulla complessità potrebbe essere la con-
dizione necessaria ma non ancora sufficiente per l’emergenza di un qualsivoglia interesse
estetico, in definitiva di ciò che possiamo riconoscere come bellezza. In effetti, le strategie
per l’emergenza della complessità sono in una certa misura razionalizzabili. L’emergenza
della complessità, in un brano musicale, può essere evidente, a condizione che vi si presti
una certa attenzione. Più difficile, per non dire folle, pretendere di fare razionanalmente
emergere o riconoscere in modo inequivocabile la bellezza. Qui valgono sempre considera-
zioni molto più sottili e soggettive. (In quest’ambito domina senza dubbio il misterioso po-
tere della rosa.)
In secondo luogo mi sembra di qualche interesse soffermarsi sulla nozione di ciò che si
potrebbe definire semplicità e il suo contrario. Dovrebbe risultare evidente che la nozione di
complessità non è il contrario di semplicità, e non è affatto una nozione quantitativa. Se
così fosse saremmo tentati di riconoscere più facilmente l’emergenza della complessità in
un brano di Beethoven, di Wagner o di Boulez, piuttosto che in uno di Josquin des Prés, di
Mozart o di Pärt.
Si può immaginare la complessità come una striscia sottilissima di terra, ma virtualmen-
te infinita, tra l’ordine assoluto e il caos. È vero, molte opere affascinanti si collocano sul
margine del caos. Ve ne sono altre, per contro, che si collocano su quello che si potrebbe
definire margine dell’ordine, se mi si passa quest’espressione. Nel momento in cui si oltre-
Capitolo 3 79

passa la frontiera dell’ordine si è già nel territorio della complessità, probabilmente indi-
spensabile per l’emergere del fenomeno estetico. Camminando su questa sottilissima stri-
scia di terra, osservando da una parte le geometrie di innumerevoli forme di cristallo e, dal-
l’altra, vortici e turbolenze eternamente cangianti, è facile sconfinare negli sterminati territo-
ri che la delimitano. Data l’esiguità del nostro sentiero, ciascuno di noi avverte un’attrazio-
ne, o una debolezza, per l’uno o l’altro di questi territori. È possibile, del resto, che ciò av-
venga anche nell’ambito di uno stesso brano musicale.
Consideriamo d’altronde che la musica è quasi universalmente considerata una delle
manifestazioni più misteriose e potenti della creatività umana. Il suo grado di immaterialità
e di astrazione, avvertito generalmente maggiore che nelle altre arti, ne accresce certo il suo
fascino e potere, ma rende difficile una sua definizione e un suo controllo anche da parte
degli addetti ai lavori. È comprensibile quindi che il versante del caos eserciti talvolta un
potere maggiore. Da qui espressioni musicali tendenzialmente caotiche come Tristano e Isotta
di Wagner e tantissime pagine del Novecento. È innegabile, inoltre, che negli ultimi due se-
coli il mondo occidentale si sia accorto di quanto distanti da un’ordine ideale siano la real-
tà naturale e le vicende umane. Un riflesso di ciò si avverte in importanti espressioni arti-
stiche, tanto che alcuni hanno iniziato a ritenere in fondo meno rilevanti sul piano estetico
manifestazioni che si situano sul margine dell’ordine, posizione del resto altrettanto legitti-
ma. La scienza della complessità rende infatti evidente e fornisce una spiegazione all’eter-
na coesistenza delle categorie atemporali del classico e del romantico; in una prospettiva del
tutto nuova che può essere di grande impulso per le attuali e future generazioni di artisti e
intellettuali.

Desidero terminare questa sezione accennando più che brevemente ad alcune trafficate
strade imboccate dopo gli anni dello strutturalismo.
Se è vero che diversi musicisti, anche di grande talento, non sono stati direttamente toc-
cati dalla serialità integrale, come Benjamin Britten (che rimane comunque uno dei protago-
nisti della scena musicale del Novecento), e hanno continuato nella legittima convinzione
che non fosse una tappa obbligata, si potrebbe forse delineare quanto segue.
La concezione strutturalista ha continuato, con diverse sfaccettature, a influenzare il la-
voro di molti compositori fino ai nostri giorni, accompagnandosi a fenomeni di inevitabile
epigonismo, un prezzo da pagare quando una concezione si impone per decenni, diventan-
do lingua ufficiale, accademia.
In alcune opere successive alla prima stagione della serialità integrale si ritrovano forse i
risultati migliori. Mi riferisco in particolare a quelle di Berio, Ligeti e Messiaen, spesso da
annoverare tra i capolavori della seconda metà del secolo scorso. Penso però anche a
Stockhausen, che dopo le prime opere orientate alla serialità ha continuato a comporre mu-
sica forse influenzata dall’aspetto eccentrico e megalomane della sua personalità, ma di in-
dubbia forza espressiva. Colloco poi tra i musicisti più originali che, in un modo o nell’al-
tro, hanno fatto riferimento alla stagione dello strutturalismo anche Franco Donatoni. La
sua musica possiede la rara capacità di mostrare chiaramente la crescita organica di una
cellula musicale attraverso operazioni pressoché automatiche, sulla soglia dell’afasia. Ep-
80 L’abaco e la rosa

pure il risultato è un mondo sonoro straordinariamente vitale, animato da una forza dan-
zante indifferente e spietata, probabilmente la vera forza propulsiva della natura.
Il rigore e il razionalismo della serialità integrale hanno influenzato in Francia (terra
d’elezione dell’esprit de géométrie) i primi passi di una generazione che, intorno all’inizio de-
gli anni Settanta, ha cominciato a esplorare le conseguenze di una dimensione rigorosamen-
te scientifica nella composizione musicale. Compositori come Hugues Dufourt, Gerard Gri-
sey e Tristan Murail, all’ombra dell’onnipresente figura di Boulez e grazie agli imponenti
strumenti tecnologici messi a disposizione dall’IRCAM di Parigi (uno dei più importanti
centri mondiali di ricerca musicale), hanno cominciato a comporre concentrandosi sul-
l’esplorazione della serie, virtualmente infinita, dei suoni armonici, principali responsabili
del fenomeno timbrico, continuando di fatto nel solco della predilezione, tutta francese, per
un approccio sintetico, accordale, della concezione musicale (si pensi ad esempio a
Debussy). Facendo riferimento ai suoni armonici si entra nella dimensione autenticamente
naturale del suono: le relazioni fra le altezze non sono in quest’ambito riconducibili al tem-
peramento equabile, che divide artificialmente l’ottava in 12 parti uguali; la conseguenza
più immediata di tutto ciò è che sono così disponibili intervalli anche più piccoli del semi-
tono.
Oltre a questa predilezione per il suono in sé, nella musica di questi artisti-scienziati ri-
vestono un ruolo importante considerazioni di psicoacustica e recenti sviluppi nell’uso di
potenti strumenti informatici in ambito musicale. L’attenzione per le caratteristiche naturali
del suono accomuna un consistente numero di musicisti (oggi non soltanto francesi) nella
cosiddetta corrente spettrale, dove il termine evidenzia appunto l’interesse per l’insieme
delle frequenze di un singolo suono, per il suo spettro. I risultati sonori di alcune opere or-
chestrali di Grisey e Murail sono certamente affascinanti.
In questo libro ho scelto arbitrariamente di non considerare situazioni sonore che esulino
dal temperamento equabile. Più che una scelta ideologica è una scelta pratica. Non si deve
comunque dimenticare che oggi la tecnologia mette a disposizione del musicista la possibi-
lità di entrare in un territorio sonoro pressoché illimitato, anche con strumenti tecnologici
piuttosto casalinghi. Vi è solo il rischio di perdersi o di finire nelle sabbie mobili se non si è
abili esploratori.
Ho fin qui considerato situazioni musicali che, in modo o nell’altro, hanno fatto o fanno
riferimento a una concezione musicale che presenta un debito di una certa entità nei con-
fronti di ciò che hanno fatto i primi compositori «strutturalisti». Siamo qui principalmente
nell’ambito di una concezione musicale «colta». Con questa problematica ma diffusa
espressione si identifica un modo di fare musica legato non a quella che si potrebbe equivo-
care come la sola possibile espressione di intelligenza musicale, ma principalmente al feno-
meno della scrittura della musica. Nella prossima sezione avrò modo di soffermarmi su
questo punto e considerarne alcuni particolari aspetti.
Il Novecento ci ha messo di fronte a fenomeni musicali di grande importanza come il
jazz e il rock, che non si pongono principalmente come fenomeni musicali scritti. Eppure
non si può dire che le più alte realizzazioni di questi generi manchino di intelligenza o di in-
tensità. Basti pensare a John Coltrane o ai Pink Floyd. Inoltre la musica non scritta, o dove
Capitolo 3 81

l’aspetto della scrittura non è fondamentale, è quantitativamente il fenomeno più impor-


tante del panorama musicale contemporaneo. La tribù dei «compositori» — coloro che scri-
vono la musica — rischia ormai quasi l’estinzione. Detto questo, va considerato che la filia-
zione strutturalista non è il solo fenomeno importante nell’ambito della musica colta —
scritta — del dopoguerra.
In modo indipendente si sono affermate importanti concezioni come il «minimalismo»,
su cui ho già avuto modo di spendere qualche parola. Figure come Adams, Glass, Reich in
America, Nyman e Pärt in Europa, sono molto presenti nell’ambito della programmazione
della musica da concerto contemporanea e vantano una considerevole produzione disco-
grafica, ma non solo. La loro musica è arrivata al grande pubblico anche attraverso mezzi
come il cinema (Nyman e Glass in particolare). Se si esclude Ligeti, noto al grande pubblico
attraverso il cinema di Kubrick, l’altro grande versante della musica colta non è riuscito a
penetrare (forse non lo ha neppure desiderato) nell’immaginario delle persone distanti dalle
sale da concerto.
Ma il fenomeno più rilevante oggi — ormai da qualche decennio — nell’ambito della mu-
sica colta (e non solo) sembra essere quello della caduta delle barriere ideologiche e dell’af-
fermazione di un’irrinunciabile libertà espressiva. I linguaggi e gli stili musicali si sfiorano, si
sovrappongono. Oggi si parla molto di «contaminazione»; questo termine ad effetto si rife-
risce generalmente al mescolarsi di concezioni musicali apparentemente molto distanti
come la musica «colta», il jazz o il pop, ad esempio. È ormai del tutto evidente e naturale
che per chi ha oggi meno di settant’anni (!) i Pink Floyd come Miles Davis possono avere
avuto, anche per un musicista di estrazione classica, lo stesso peso di Stravinsky.
In questo contesto ci sono anche posizioni apparentemente meno vistose che hanno pro-
dotto risultati molto interessanti. Penso a figure come Peter Maxwell Davies, che ha mesco-
lato spesso tecniche proprie dell’avanguardia strutturalista con elementi di musica popola-
re scozzese, o all’olandese Louis Andriessen (punto di riferimento per molti musicisti del-
l’ultima generazione), nella cui musica si sente una sintesi efficacissima tra elementi propri
dell’esperienza strutturalista del dopoguerra (Andriessen ha studiato anche con Berio) e
della concezione minimale, ripetitiva. Sintesi realizzata efficacemente già negli anni Settan-
ta in importanti lavori come De Staat. Del resto, una figura di riferimento della corrente mi-
nimalista come John Adams, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ha com-
posto brani come Chamber Symphony che, nonostante la riconoscibilissima cifra stilistica
dell’autore, sono distanti anni luce dalle atmosfere ipnotiche della prima stagione del mini-
malismo.
Si assiste dunque spesso a un consistente meticciato stilistico. Paradossalmente oggi è
quasi fastidioso e banale sentire voci che continuamente portano l’attenzione sulla forza
innovativa di questo fenomeno, che in realtà può dirsi pienamente metabolizzato. Discorsi
sulla contaminazione stilistica sono ormai diventati un vero e proprio luogo comune, buoni
al più per stupire soltanto qualche vetusto abbonato di qualche paludata società di concer-
ti o adatti a eleganti magazines. Sarebbe importante oggi sentire invece più spesso qualcosa
di veramente interessante e sincero su alcuni malinconici aspetti dell’odierna situazione
musicale, come la percepibile neutralizzazione del gusto, il politically correct e la crisi di
82 L’abaco e la rosa

molte istituzioni musicali tradizionali.


Si spera che il coloratissimo e sonorissimo spettacolo pirotecnico della musica contem-
poranea non sia la festa d’addio della musica intesa come autentica espressione artistica e
non mero intrattenimento.

3.4. L’occhio nell’orecchio

Abbiamo già realizzato alcuni semplici esperimenti di composizione di «linee» sonore. Il


termine linea può richiamare allora un concetto visivo in relazione a un fenomeno musicale.
Ciò può sembrare un paradosso. Da quando supporti materiali come la pergamena, poi la
carta e infine la carta virtuale dello schermo del computer sono diventati elementi fonda-
mentali per la maggior parte dei musicisti di cultura occidentale, è innegabile che questi
strumenti abbiano fatto sentire le proprie ragioni e abbiano aperto inaspettate prospettive.
È avvenuta infatti un’autentica estroflessione di conoscenza, cioè una rappresentazione ester-
na al cervello umano mediante un supporto fisico, attraverso la quale la musica non è risul-
tata più soltanto un prodotto mentale e corporeo, ma anche un oggetto, manipolabile quin-
di in maniera analoga ad altri oggetti del mondo reale.
Il fenomeno della scrittura della musica, nato circa un millennio fa inizialmente per archi-
viare e tramandare il materiale musicale, ha influito profondamente sulla creatività musica-
le stessa. È stato, fino a oggi, la più grande innovazione nel mondo della musica occidenta-
le, un autentico paradigma culturale. Solo oggi, a distanza di un millennio, alcuni strumenti
messi a disposizione dall’attuale rivoluzione informatica, che fanno sempre più intravedere
enormi e imprevedibili potenzialità, iniziano seriamente a fare concorrenza alla scrittura
musicale propriamente intesa (ciò è già vero nell’ambito della musica «di consumo» ed elet-
tronica). In un lontano (ma forse non troppo) futuro si potrà probabilmente assistere a un
nuovo cambio di paradigma della concezione musicale.
Ho già avuto modo di evidenziare la natura sostanzialmente imprendibile del materiale
musicale; quest’ultima espressione è per molti versi un ossimoro. Quando si è scoperto che,
con un insieme di simboli, si poteva fissare e materializzare concretamente la musica con una
certa facilità su un supporto tanto familiare come un pezzo di pergamena, poi carta (anche
se la messa a punto di un’efficace notazione musicale ha impegnato non poco generazioni
di musicisti, soprattutto per quanto riguardava la notazione del ritmo), ci si è resi conto
che la manipolazione di simboli visivi poteva suggerire nuove possibilità di organizzazione
sonora. Ciò avveniva probabilmente insieme alla constatazione che, così fissata la musica
si prestava ora a essere osservata e indagata con agio, per tutto il tempo che si voleva.
In questo modo si è potuta sviluppare inizialmente la concezione contrappuntistica. Se,
tutto sommato, la musica monodica (composta, in sostanza da una sola linea sonora, non
importa se supportata da un embrionale accompagnamento strumentale, paragonibile oggi
a quello di una chitarra) non ha l’assoluta necessità di essere concepita su un supporto car-
taceo, non altrettanto si può dire della musica polifonica propriamente detta, dove più li-
Capitolo 3 83

nee indipendenti, anche sotto il profilo ritmico, generano un risultato che viene, almeno da
un ristretto numero di persone, percepito come armonioso.
Il contrappunto (punctum contra punctum, dove il sostantivo indica la nota musicale, do-
tata di un’altezza e di una durata) — non la polifonia in senso generale — è una specialità
occidentale. Attraverso un espediente che, di fatto, rende stabilmente possibile un fenome-
no sinestetico (vedere una cosa che si sente), si è potuto realizzare lo sviluppo visivo del ma-
teriale musicale che, a partire dalla scuola parigina di Notre-Dame nel Duecento, ha porta-
to alle grandi architetture sonore che tutti conosciamo (i grandi polifonisti del Rinascimento,
Bach, Mozart, Beethoven, per arrivare ai musicisti citati nella sezione precedente).
Attraverso l’insieme dei simboli visivi comporre musica è un po’ come giocare con i mat-
toncini di un Lego sonoro. I suoni diventano quindi materiale (espressione, come si sarà no-
tato, molto presente in questo libro). Le conseguenze di ciò sono enormi. Con un materiale
sostanzialmente gratuito e infinito come quello dei simboli sonori non ci sono limiti per la
fantasia. Come tutti i materiali poi, anche quello simbolico-sonoro, può essere sottoposto a
indagine e studio razionali, non diversamente da quanto accade nell’ambito dell’ingegneria
e dell’architettura, dove lo studio dei materiali è di fondamentale importanza.
Certamente, e qui c’è di mezzo il solito zampino del secondo principio della termodina-
mica, per ciò che si guadagna qualcosa si perde in modo irrimediabile. La manipolazione
razionale dei simboli sonori ha portato quasi sempre a opere che vanno a toccare in modo
inscindibile le corde della sensibilità e dell’intelligenza dell’ascoltatore e, si noti bene, dell’al-
trettanto legittimo fruitore dell’opera in qualità di lettore e osservatore di una partitura musi-
cale. Con lo sviluppo della stagione contrappuntistica, della musica scritta, la musica occi-
dentale ha perso così quella dimensione irrazionale, sciamanica, che è stata, ed è in molte
culture extraeuropee, ingrediente fondamentale del fenomeno musicale. La musica è stata
ritenuta da sempre infatti uno dei più potenti mezzi per evadere dai lacci della realtà, cui
sembriamo essere condannati. In fondo, questa dimensione era ancora presente, ad esem-
pio, nei canti allelujatici del repertorio gregoriano che in definitiva contengono qualcosa di
incontrallabile, di pericoloso. Del potenziale pericolo insito nella musica era ben consapevole
Platone, che nella Repubblica, come è noto, lascia intendere che si sarebbe fatto volentieri a
meno di canti e balli nello stato ideale. Per fortuna la drastica affermazione di Platone è
stata successivamente controbilanciata da quella di Sant’Agostino, per cui «chi canta bene
prega due volte».
Non è un caso che la musica contrappuntistica sia stata accettata, nonostante polemi-
che ciclicamente riemergenti, dalle più alte gerarchie ecclesiastiche, e sostanzialmente sia
stata sempre considerata confacente alla fede razionale propria del Cristianesimo (c’erano
state a questo proposito rimostranze durante il Concilio di Trento). Con questo suggello si
è potuta sviluppare con vigore e libertà, anche in ambito profano e nell’ambito astratto della
musica strumentale, dove troviamo i frutti estremi di una concezione ingegneristica e archi-
tettonica: si pensi all’Arte della fuga di Bach e alla Quinta Sinfonia di Beethoven.
Un altro aspetto della possibilità di visualizzare e fissare il fenomeno musicale è poi
quello di considerare la musica un’arte simbolica e astratta a tutti gli effetti. Per quanto ri-
guarda l’aspetto puramente simbolico, si consideri che molte composizioni del Tre-Quat-
84 L’abaco e la rosa

trocento contengono, ben celate, complicate relazioni numeriche, che diventano un bagaglio
proprio di un mondo spirituale ed esoterico.
Ma non solo; si consideri il soggetto, cioè il tema principale, della prima fuga del primo
volume del Clavicembalo ben temperato di Bach:

Es. 3-27

&c ‰ œ œ œ œ œ œ œ œ œr
œ œ œ œ. œœ

Si tratta di un soggetto di 14 note. Un lettore che avesse sotto mano l’intero brano di
Bach potrebbe chiedersi perché ho troncato il soggetto proprio dopo l’ultimo MI. Il fatto è
che per quanto riguarda la segmentazione delle linee sonore che compongono una fuga oc-
corrono nozioni che aprirebbero una parentesi troppo lunga. Ci si fidi allora quando affer-
mo che l’esempio precedente contiene proprio un soggetto di fuga e non un frammento scel-
to arbitrariamente.
In base alla precedente constatazione numerica è possibile accorgersi di un piccolo se-
greto. Secondo la tecnica cabalistica della ghematria, che considera la possibilità di asse-
gnare una cifra a ogni lettera dell’alfabeto, in modo da scoprire quelli che sarebbero i pro-
fondi significati del testo biblico, il numero 14 corrisponde al nome Bach. Infatti: B = 2, A =
1, C = 3, H = 8; il totale numerico è appunto 14. Sappiamo che Bach era affascinanto dai
simboli numerici, che dissemina qua e là nelle sue opere. È molto suggestivo che Bach firmi
in questo modo esoterico la cattedrale sonora che in questo primo preludio e fuga sta pren-
dendo forma.
Certamente viene da chiedersi quanto di tutto ciò rimanga all’ascolto. E qui veniamo al-
l’altro interrogativo posto in precedenza e che riguarda il grado di astrazione di una musica
che passa attraverso la manipolazione di simboli visivo-sonori. Nella precedente sezione
ho messo in evidenza il possibile grado di astrazione di una concezione musicale che con la
corrente strutturalista raggiunge un’indiscusso vertice. Il fatto che la musica di Bach e di
Beethoven, ad esempio, parli la lingua franca della tonalità, che ammanta le loro composi-
zioni di un’apparente intelligibilità, non esclude, anzi, inganna circa il fatto che gran parte
del «significato» di un brano rimane sulla carta, e che solo un’attenta analisi può decifrare
(si provi ad ascoltare il labirinto sonoro in cui Bach ci conduce nel corso dello svolgimento
della fuga appena citata).
Così, gran parte della letteratura musicale occidentale per certi versi lascia fuori chi non è
dotato di consistenti nozioni specificamente musicali. La grande stagione della musica oc-
cidentale presenta però numerose opere il cui grande valore risiede anche nel fatto che si
possono comunque cogliere echi che possono appagare profondamente anche l’ascoltatore
profano (in senso letterale). In ciò vi è qualcosa di straordinario nella musica, e che mostra il
suo grande potere sulla psiche umana. Una formula matematica può commuovere fino alle
lacrime un esperto per la sua bellezza; se non si possiedono tutte le nozioni necessarie è però
soltanto una sequenza incomprensibile di simboli.
Resta la considerazione che nel momento in cui la musica viene scritta, operazione que-
Capitolo 3 85

sta irrimediabilmente colta, la musica diventa in parte autoreferenziale. Si scrive musica an-
che (o soltanto) per quei pochi che vi possono penetrare in profondità, usando anche gli
occhi. Mozart, in una famosa lettera, rivela di essere pienamente conscio di questa realtà e
di volere trovare un punto d’equilibrio. Forse per questo è, fra i grandi musicisti, il più ama-
to dal grande pubblico.
Ovviamente questa autoreferenzialità ha un fascino potente cui non hanno saputo resi-
stere moltissimi musicisti nel corso di quasi un millennio, un fascino meravigliosamente pe-
ricoloso.
Consideriamo ora il famoso preludio che precede la fuga cui ho appena accennato; ecco
le prime battute:

Es. 3-28

œ œ œ œ œ œ œ œ
&c ‰ œ œ œ œ ‰ œ œ œ œ ‰ œ œ œ œ ‰ œ œ œ œ
≈ j ≈ j ≈ j ≈ j
˙ œ. œ ˙ œ. œ ˙ œ. œ ˙ œ. œ
?c

œ œ œ œ ‰ œ œ œ œ œ œ œ œ
& ‰ œ œ œ œ ‰ œ œ œ œ ‰ œ œ œ œ
≈ j ≈ j ≈ j ≈ j
œ. œ ˙ œ. œ ˙ œ. œ ˙ œ. œ
? ˙

Si può provare a fare un piccolo ma interessante esperimento: sottoporre l’intero sparti-


to di questo brano a una persona profana (magari una di quelle che hanno questo preludio
come suoneria del proprio cellulare). Diverse persone non dotate di competenze musicali
affermeranno di avere l’impressione di trovarsi di fronte a una pagina dal forte impatto
grafico, analoga a un’opera di optical art. Alcune riconosceranno, anche senza sapere legge-
re la musica, un’intrinseca bellezza della pagina. Non è raro trovare brani di Bach con que-
ste caratteristiche visive. Lo stesso frammento del preludio riportato nell’esempio 3-23 lo
dimostra. Si possono sfogliare i due volumi del Clavicembalo ben temperato e trovare, per
quanto riguarda quest’aspetto, pagine analoghe.
Una concezione visiva può essere quindi un ingrediente importante della composizione
musicale. Di ciò si accorse Rousseau, che fu anche compositore, il quale nel suo Dizionario
di musica del 1767 scrisse che la musica «sembra portare l’occhio nell’orecchio». Una conse-
guenza di ciò comporta che la manipolazione dei simboli musicali sulla carta, simboli che, a
differenza delle lettere dell’alfabeto che si trovano sempre in configurazioni prestabilite
poiché determinate dalle parole di una lingua, sono manipolabili a totale piacimento come
oggetti grafici. Anzi, proprio particolari configurazioni di questi simboli, intesi come oggetti
grafici, possono essere alla base di una concezione musicale. Il caso di una elaborazione si-
mile a quella dell’esempio 3-28, pur non essendo infrequente nella letteratura musicale
(vedremo in seguito esempi di autori appartenenti a epoche diverse), rappresenta una con-
cezione estrema di trattamento grafico del materiale musicale; estrema perché in casi come
86 L’abaco e la rosa

quello il disegno è del tutto evidente e semplice.


È importante considerare che questo tipo di approccio alla composizione si è potuto
pienamente affermare quando la musica strumentale è giunta, attraverso un impressionante
progresso tecnico, a un grado di sostanziale indipendenza dalla concezione vocale. Infatti
una musica con caratteristiche di interesse visivo è realizzabile per lo più con gli strumenti.
(Ritengo che questo genere di concezione musicale venisse percepito ai tempi di Bach come
fenomeno estremamente moderno.)
Nell’esempio 3-23 Bach realizza una cosa che i grafici definirebbero texture. Quest’ulti-
mo è un termine pressoché intraducibile. Alcuni testi italiani di argomento musicale si riferi-
scono alla texture come testura. Non è però una traduzione particolarmente felice. In realtà,
il termine inglese possiede anche per noi italiani un alone di significato tanto evidente che
possiamo non tradurlo. Per quanto riguarda il suo impiego in ambito musicale, fino a qual-
che tempo fa pochissimi testi italiani prendevano in considerazione questo concetto; oggi
sembra finalmente faticosamente attecchire. Diversi testi anglosassoni, che invece lo pro-
pongono da più tempo, ne danno definizioni spesso complicate, ciò per essere a tutti i costi
esaustivi. Per quanto riguarda questo libro, ricorrerò all’idea di texture sostanzialmente in
senso grafico, e farò riferimento a una sua semplice ed efficace definizione, quella contenu-
ta nel bellissimo libro Design e comunicazione visiva di Bruno Munari, che è stato uno dei più
grandi designer a livello mondiale. Secondo Munari una texture è «la sensibilizzazione
(naturale o artificiale) di una superficie, mediante segni che non ne alterino l’uniformità».
Quindi, sintetizzando ulteriormente, possiamo definire texture la sensibilizzazione unifor-
me di una superficie (superficie non necessariamente uniforme).
Ecco ad esempio un catalogo di cinque banalissime textures:

Fig. 3-1

L’importanza del concetto di texture nell’ambito del design è grandissima. Si pensi, ad


esempio, all’applicazione dell’idea di texture nella realizzazione di tessuti.
Un ramo di studio affascinante e difficile della matematica contemporanea, poi, si oc-
cupa di problemi di «tassellazione» del piano, particolari textures geometriche simili a intri-
cati pavimenti, che hanno anche importanti implicazioni nella ricerca scientifica. Simili pro-
blemi hanno affascinato artisti come Maurits Cornelius Escher, amatissimo dai matemati-
ci, che ha sempre escogitato modi diversi di divisione regolare del piano. Ecco una sua ope-
Capitolo 3 87

ra grafica in cui il piano è interamente occupato da figure di farfalle:

Fig. 3-2

A pensarci un istante, ci rendiamo conto della quantità di textures che passano ogni
giorno davanti ai nostri occhi. Ovviamente le textures non sono un’invenzione moderna. La
natura, fonte inesauribile, e le tecniche decorative, per limitarsi a un caso, ne hanno fornito
esemplari da sempre. Contemporanea è invece la definizione e l’indagine sistematica del
concetto, che si rivela essenziale per ogni considerazione su ciò che vedono i nostri occhi.
Prima di soffermarci su alcuni aspetti dell’idea di texture applicata alla musica, fornirò
ancora qualche esempio evidente di texture, tratto, oltre che dalla musica di Bach, da brani
di compositori appartenenti a epoche diverse.
Chopin, ad esempio, ci ha dato non poche, bellissime, realizzazioni di textures. Eccone
una, particolarmente elaborata, costituita dall’inizio del Preludio n. 8 in FA diesis minore,
che viene portata avanti per tutto il corso del brano:

Es. 3-29
Molto agitato

### œ œ œ #œ
œ œ
& c œ
œ œ œ œ
œ œ œ
œ œœ #œ œ œ œ n œœ . # œ œ œ n œ œœ
œœ . œœ œœ . œ œœ . # œœ
3
œ œ
? ### c œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ #œ œ
œ œ
* *
° * ° * ° °

L’elemento texturale ripetuto può essere qui interpretato come ciò che troviamo nello
spazio complessivo di una semiminima, oppure possiamo considerare l’esempio composto
dalla sovrapposizione di due textures. Come vedremo più avanti, la sovrapposizione, la
giustapposizione e la variazione di textures possono essere un’importante strumento di or-
ganizzazione del materiale musicale.
Considero molto affascinante che l’idea di texture, l’organizzazione quindi del materiale
musicale secondo criteri che rivelano un interesse visivo (consapevole o meno: ciò non im-
porta se è un dato di fatto), non sia un’idea necessariamente associabile a un atteggiamen-
88 L’abaco e la rosa

to freddo, geometrico: in una parola inespressivo. Il brano appena citato realizza al massimo
grado alcune istanze proprie del romanticismo. Chopin d’altronde amava profondamente
la musica di Bach. Rifacendosi più volte al modello bachiano, Chopin ne assimila l’idea di
texture dandone una sua originalissima interpretazione.
Un compositore per cui la texture riveste un ruolo importantissimo, spesso fondante, è
Debussy, come più tardi Ravel. Le suggestioni visive sono, per ammissione stessa di De-
bussy, una tra le sue principali fonti d’ispirazione. Il compositore non parla esplicitamente
di texture ma dell’importanza che riveste nella sua musica l’idea di arabesque, evidentemente
vicina ai motivi ornamentali dell’arte islamica, la quale non potendo, com’è noto, rappre-
sentare figure umane si è concentrata sulla realizzazione di disegni di natura astratta rag-
giungendo spesso esiti straordinari: un esempio famoso sono i meravigliosi motivi dell’Al-
hambra. Come ben sanno gli appassionati, questi motivi possiedono notevoli e studiatissi-
me implicazioni matematiche.
Rifacendosi consapevolmente a esperienze di tipo visivo come l’arabesque, Debussy si al-
lontana da una concezione musicale che ricalca la logica del discorso verbale. In questo
modo si aprono nella sua musica nuove e originalissime prospettive. La musica di Debussy
non è infatti più preoccupata dall’idea di «sviluppo tematico», propria della concezione
intimamente «retorica» della musica del periodo classico-romantico (eccezion fatta per al-
cune fulminee pagine, ad esempio, di Chopin e di Schumann). Svincolando la musica da
una logica di tipo verbale Debussy, al di là di risultati apparentemente più soft rispetto a
musicisti come Wagner, Strauss e Mahler, è probabilmente l’esponente più radicale della ri-
voluzione musicale a cavallo fra Otto e Novecento.
Sfogliare la partitura di un brano di Debussy è spesso anche imbattersi in un meraviglio-
so catologo di textures; è difficile quindi sceglierne qualcuna esemplificativa. Una potrebbe
essere l’inizio di «The Snow is Dancing», per pianoforte, tratta dalla raccolta Children’s
Corner:

Es. 3-30

Modérément animé

. . . œ. œ. œ. œ. œ.
4 œ œ œ œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ.
b
& 4
π doux et estompé

4
&b 4 ∑
œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ.

œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ.
&b
p p
^- ^
& b wœ œ. œ. œ. œ. w- œ. œ. œ. œ.
œ. œ. œ. œ. œ. œ. œ.
.

Dopo la prima battuta, che è l’impulso di tutto quello che va a seguire, ci troviamo da-
Capitolo 3 89

vanti a una texture cristallina. Il movimento ascensionale allude in modo efficacissimo alla
leggerezza dei fiocchi di neve, come ci aspetteremmo da un titolo così evocativo. Un com-
positore meno dotato di Debussy avrebbe probabilmente giocato con prevedibili figurazioni
discendenti.
Aspetto tra i più affascinanti della concezione texturale nella musica di Debussy è che
spesso le singole battute o gruppi di poche battute vengono concepiti a partire da una tex-
ture che in seguito può subire le più svariate trasformazioni o essere abbandonata. Tornerò
più avanti su questo originalissimo modo di condurre il flusso musicale da parte di De-
bussy. È di grande interesse analizzare la sua tecnica di sovrapposizione di più textures,
spesso molto elaborate. Qualcuno potrebbe definire floreale il prossimo passaggio, tratto da
«Cloches à travers les feuilles» dalla seconda serie di Images. Si nota facilmente che tutti i
suoni appartengono a una delle due forme possibili di scala esatonale:

Es. 3-31

[Lent]
un peu en dehors

œ œ œ œ #œ . # œ ˙œ
#œ #œ œ œ œ#œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ
&
3 3 3 3

π 3
3
3 3
^ ^
& œ œ b œœ bœ bœ œ
œœ œ
. . . . . . . .
m. g. -˙
? Ó

Si nota anche che il tradizionale modo di scrivere per pianoforte su due righi è, come in
altre composizioni della maturità di Debussy, qui abbandonato in favore di tre righi. Una
scrittura texturale come quella dell’esempio precedente ha infatti bisogno di molto spazio.
Davanti a un esempio come quello precedente ci si rende facilmente conto che è comple-
tamente scomparsa una concezione del tipo melodia più accompagnamento. D’altronde non
siamo di fronte neppure a una concezione propriamente contrappuntistica, che prevede
una qualche forma di imitazione tra le linee sonore, qui del tutto assente.
La musica di Debussy è spesso texturale ma raramente sembra essere affascinata dalla
precisione geometrica, dal taglio netto del materiale e dalla forte luminosità; la sua è una
musica che possiede quasi sempre un carattere liquido. Pur essendo affascinato da una
concezione visiva, Debussy non è un compositore astratto. La dimensione puramente sono-
ra, l’importanza del timbro è sempre presente nella sua musica, che però non ama general-
mente la luce abbagliante, preferendo il chiaroscuro.
Nel caso di Ravel, anch’egli particolarmente attento alle proprietà texturali della musica,
è come se assistessimo invece a una sorta di cristallizzazione del mondo sonoro di De-
90 L’abaco e la rosa

bussy. Si avverte un maggiore bisogno di precisione, di chiarezza. Ecco uno scintillante


esempio della sua scrittura pianistica tratto dall’inizio del ciclo Le tombeau de Couperin:

Es. 3-32
Vif qk»ª™
# 12
& 16 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœ œ œ œ œ. œœ œ œ œ œ.
π
# 12 j j
& 16 œ ≈ ‰. ≈ ‰.
œ. œ œ œ œ œ œ
. œ œ œ œ œ œ
#
& œ œ œ œ œ œ œœ œ œ œ œ. œœ œ œ œ œ.
œ œ œ œ œ œ

# j j
& ≈ ‰. ≈ ‰.
œ. œ. œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ

L’idea di arabesque può avere giocato qui un ruolo ancora rilevante. Come ho detto, si
percepisce però, a differenza di Debussy, un bisogno di un tratto più netto, più preciso. Si
noti l’impiego della razionalissima tecnica imitativa nella seconda e quarta battuta.
Termino questa breve panoramica su esempi di musica texturale proponendo un fram-
mento tratto dal N. 5 dei 6 Capricci per violino di Salvatore Sciarrino, una delle figure più
interessanti e apprezzate del panorama musicale contemporaneo italiano:

Es. 3-33
Presto 3
3 3
# O# O O
4 .. O œ Oœ O O n O O O O N O# O
#O
&4 O O O O
O b œ b O # O b O N O n œ b Oœ b œ b O
O œ bO b œ bO bœ œ bO œnO bœ
π_ (un sospiro)
f_ π_

Sciarrino è tra i musicisti che più hanno esplorato il suggestivo mondo dei suoni armonici
(che vengono tradizionalmente scritti in notazione quadrata), sebbene da una prospettiva
sensibilmente diversa rispetto alla citata corrente francese «spettrale». Nella musica di
Sciarrino si avverte allo stesso tempo una grande rilevanza della dimensione texturale, visi-
va, della musica. Non è probabilmente del tutto fuori luogo affermare che per apprezzare
fino in fondo la musica di questo originalissimo musicista bisognerebbe soffermarsi davanti
ai suoi meravigliosi manoscritti, che rivelano un autentico amore per la calligrafia che, inte-
sa come arte, è parte integrante della sua concezione musicale. Difficilmente brani di musi-
ca scritta esercitano un fascino visivo come quelli di Sciarrino.
Questo compositore si è più volte soffermato sull’importanza del concetto di figura.
Questo termine è entrato nel linguaggio comune di numerosi compositori italiani a partire
dalla fine degli anni Settanta. Non esiste una definizione unitaria di questo concetto, ma il
suo evidente alone di significato ha influenzato in modi diversi musicisti anche distanti sul
piano della concezione estetica e tecnica. Penso all’importanza che il concetto di figura ha
Capitolo 3 91

rivestito nella musica di Donatoni, compositore, come ho detto, vicino a una concezione
«struttralista» e in quello che riveste tuttora nella concezione di Carlo Galante, musicista
accomunato all’inizio della sua attività alla corrente «neoromantica», la quale ha cercato di
riportare al centro della riflessione musicale l’aspetto della comunicazione, in polemica
quindi con il pensiero musicale di ascendenza struttralista, accusato di essere sostanzial-
mente autoreferenziale.
L’importanza che da sempre Sciarrino ha dato al concetto di figura, precedendo prati-
camente tutti (i suoi 6 Capricci sono del 1976, epoca in cui una posizione come quella di
Sciarrino poteva tranquillamente passare per eccentrica e disimpegnata), è testimoniata dal
suo bellissimo libro Le figure della musica, dove, nell’ambito di un approccio interdisciplinare
alla riflessione musicale, l’autore mostra illuminanti relazioni fra musica e arti visive.
Torniamo ancora all’idea di texture. Qualsiasi cosa si possa intendere per texture è inne-
gabile che appartenga più alla sfera dell’ordine che del caos. Mettendo in primo piano l’im-
portanza della texture, un compositore si trova nella necessità di controbilanciarne la sua
natura geometrica, cristallizzata.
Il materiale sonoro (i suoni non le note, per intenderci) può, in concorrenza con la texture,
esplorare il versante turbolento, caotico, della composizione musicale, rimettendosi all’oc-
correnza sullo stretto sentiero dell’equilibrio. Composizioni fortemente texturali, come il
menzionato preludio di Chopin, presentano spesso un’ardita escursione tonale o una libe-
rissima e coraggiosa esplorazione di una non addomesticata foresta sonora, come quasi
sempre, del resto, in Debussy.
Ci si può chiedere a questo punto se una sola texture possa o debba essere presente per
tutta la durata di un brano. In altre parole ci si chiede, perché il fenomeno texturale risulti
efficace ed evidente, se un’intera composizione debba essere anch’essa una texture.
Torniamo ancora al preludio in DO maggiore di Bach. La texture, il cui modello viene
esposto nella prima battuta, viene qui ripetuta fino a quasi le battute finali; ecco le ultime
quattro battute del preludio:

Es. 3-34

& ‰ œ œ

œ œ
œ bœ œ œ œœ œ œ
≈ j ≈ j
? œ. œ œ. œ
˙ ˙
œ m U
& ‰ ‰ œœœ œœœœœœ œ ww
œœœœœ œ œœ w
œœ
≈ j œœœœ œ ≈ j
? œ. œ ˙ œ œ w
œ. œ ˙
˙ ˙ ˙ ˙ uw

Notiamo che nelle ultime tre battute la texture subisce delle modifiche. Mentre il percorso
armonico giunge al termine, tende cioè a stabilizzarsi, e ciò viene affermato dalla tonica te-
92 L’abaco e la rosa

nuta al basso (il cosiddetto pedale), la texture, a seconda di due possibili punti di vista, o
sembra sfilacciarsi o sembra animarsi in un ultimo, forte, impulso energetico: in definitiva
l’interpretazione risente del volere o meno percepire anche qui le conseguenze del secondo
principio della termodinamica. L’universo sonoro creato da Bach all’inizio del Clavicembalo
ben temperato (una texture che suggerisce un mondo sonoro indifferenziato, meravigliosa-
mente privo ancora della dimensione orizzontale-verticale) è destinato alla fine dei 24 pre-
ludi e fughe anch’esso a una morte termica oppure no? Mi sembra evidente, in ogni caso, che
questa rottura di simmetria produca uno straordinario senso di bellezza.
Nel caso del preludio di Chopin, invece, la texture viene interrotta bruscamente per la-
sciare posto alla scarna e desolata conclusione delle due ultime battute:

Es. 3-35

# # U
& # œ
œœ œ œ
œ œ
œ œœ œ
œ œ
œ œ œœ
œ œ
œ œ œ œ
œ ˙ n œœ
˙˙ œ # œœœ g # œ ww
œœ . œœ œœ . œœ œœ . œœ œœ . œœ gg w
ggg
gg
gg U
? ### œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙˙ n œ # œ ggg
œ œ œ ˙ œ œ gg ww
œ œ œ œ g
° *

Esistono molte composizioni che presentano più textures in successione. Bach ne offre
spesso degli esempi. Nel preludio in DO minore del primo volume del Clavicembalo ben tem-
perato se ne rintracciano almeno tre:

Es. 3-36

[b. 1 e sgg.] [b. 25 e sgg.] [b. 28 e sgg.]


Presto
b ≈œ œ œ œ œnœ œ nœ œ œ œ œ œ œ œ
& b b c œœœœ œœœœœœœ œœœ
œ œ
r œ
? b c œœœœ œ œœœœœœœ œ œœœ œ œ œœnœ œnœ œ œ œœ œœ
b b œnœ w

D’altra parte è possibile comporre in modo texturale un brano sovrapponendo più tex-
tures, oppure ritrovare l’idea di texture soltanto in uno strato (voce o strumento) della com-
posizione. Il prossimo esempio, tratto ancora dai Preludi di Chopin, il N. 3 in SOL maggio-
re, risulta essere ben più di un semplice caso di melodia più accompagnamento:
Capitolo 3 93

Es. 3-37
Vivace
#
& C ∑ ∑ ‰ œœ .. ≈ œœ
R
>œ .
leggieramente
œ œ œ
œœœœ œ œ œœœœœ œœœœ œ œ œœœœœ œœœœ œ œ œœœœœ
?# C œœ œ œœ œ œœ œ
œ œ œ
œ w ˙
# ˙.
& ˙. ‰ ≈ Rœ w ˙ Ó

œ œ œ
œœœœ œ œ œœœœœ œœœœ œ œ œœœœœ œœœœ œ œ œœœœœ
?# œœ œ œœ œ œœ œ
œ œ œ

Con ogni evidenza, la parte assegnata alla mano sinistra è di natura texturale. Scorren-
do il seguito del brano ci si accorge che anche ciò che suona la mano destra potrebbe avere
analoga natura. Sia come sia, è interessante notare che le prime quattro note della parte su-
periore sono già contenute nella texture, dove occupano una posizione di rilievo:

Es. 3-38
# ˙ ˙
& r ˙ R R
˙ R
œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
?# œ œ œ
œ

Oltre alla sovrapposizione, si rivela di grande interesse la giustapposizione di textures.


La giustapposizione è in molte composizioni di Debussy il modo in cui viene condotto il
flusso musicale o, si sarebbe tentati di dire, con termini più classici, il discorso o la forma.
Senonché con questi termini spesso si tradirebbe la concezione, come ho detto, sostanzial-
mente antidiscorsiva di tanta musica di Debussy. Per quanto riguarda numerose sue com-
posizioni si potrebbe affermare di essere davanti a una vera e propria forma di collage so-
noro.
In Debussy lo stesso materiale texturale viene generalmente portato avanti per poche
battute. Accade che sia sufficiente la ripetizione di una sola battuta-modello perché com-
paiano nuove textures, derivate dalla precedente o del tutto nuove. È di grande interesse
questo modo di procedere, perché mette in evidenza il ruolo irrinunciabile della ripetizione
nel flusso musicale. Detto ciò, risulta evidente che in questa maniera è possibile raggiungere
esiti estetici importanti senza preoccuparsi eccessivamente dell’idea di unità di una com-
posizione derivante dall’elaborazione di un nucleo ristretto di motivi musicali, sorta di
dogma a partire da Beethoven.
A questo punto abbiamo qualche elemento in più per mettere a fuoco l’idea di texture e
apprezzarne forse la portata quando si voglia comporre musica propria.
Veniamo a una prima questione su cui, fin quando non si fosse presa in considerazione
la musica di Debussy, desideravo rimanere piuttosto vago. In definitiva: una dimensione
94 L’abaco e la rosa

texturale viene a formarsi nel corso di un intero brano, o parte di esso, oppure siamo di
fronte a essa, ad esempio, anche nell’ambito di una o due battute di una composizione? In
altri termini la texture è un fenomeno che che va considerato su vasta scala o anche su scala
ridotta? Il dubbio potrebbe infatti sorgere legittimamente quando vediamo che in diverse
composizioni di Debussy una o poche battute vengono ripetute per poi lasciare il campo a
nuove idee. Si potrebbe sostenere che simili brani non siano improntati all’idea di texture.
Se torniamo all’esempio 3-30 ci si rende però facilmente conto che si può definire texture
una singola battuta. Ci troviamo infatti davanti a una superficie che, sebbene ristretta, è di
per sé già sensibilizzata in maniera uniforme. Non si dimentichi comunque che anche una
singola battuta può presentare la sovrapposizione di più textures, come nell’esempio 3-31.
Ci sono composizioni che ricorrono a materiale texturale portandolo avanti per l’intero
corso del brano o per consistenti porzioni di esso. È il caso, come ho detto, di alcune com-
posizioni di Bach e di Chopin: qui siamo davanti a un fenomeno di invarianza di scala.
Abbiamo una texture tanto su piccola scala (una o poche battute) che su grande scala; cioè in
termini propriamente musicali, nell’ambito della micro e della macro-forma. Per quanto ri-
guarda Debussy, la texture gioca un ruolo importantissimo (complessivamente direi più im-
portante che in Bach e Chopin), ma generalmente su piccola scala. La macro-forma risulta
spesso dal montaggio di textures, che si rinnovano continuamente o, più spesso, che ritorna-
no nel corso del brano. Una sorta di collage sonoro, come accennavo. Ma la macro-forma
non è allora qui propriamente una texture. Ritengo esempi meravigliosi, anche per prendere
confidenza con questa affascinante concezione del flusso musicale, alcuni preludi del Se-
condo libro. In particolare il N. 8 («Ondine»), il N. 11 («Les tierces alternées») e il N. 12
(«Feux d’artifice»).
In questo breve discorso sulla texture, come si sarà notato, sono risultati grandi assenti,
a parte Chopin, i compositori dell’epoca classico-romantica. Un discorso sulla texture per
quanto riguarda la musica del periodo classico-romantico non è in realtà impossibile, è sol-
tanto un po’ più sfumato. In alcuni casi la presenza della texture sembrerebbe innegabile,
basti tornare all’esempio di Mozart (Es. 3-24). Per limitarsi alle battute 5-8, è del tutto evi-
dente che nell’ambito di una progressione si verifichi il fenomeno della texture. Se nel caso
di Bach e di Chopin, ad esempio, la texture potrebbe essere facilmente una consapevole
idea di organizzazione anche visiva del materiale musicale, faccio più fatica a credere che
una consapevolezza di questo genere fosse molto generalizzata nel periodo classico-ro-
mantico. Qui l’idea di texture sembrerebbe affiorare più spesso nel trattamento dell’orche-
strazione, ma non è sempre agevole ritrovarla in composizioni da camera o per strumento
solista. Prevale infatti il paradigma verbale, fraseologico, dell’organizzazione di quello che
a buon diritto si può qui definire discorso musicale. Detto questo, ci si può rendere facilmen-
te conto che la texture, accidentalmente, emerge comunque più spesso di quanto si sia di-
sposti a credere. È una conseguenza ineliminabile dell’utilizzo di un supporto materiale,
una superficie come la carta, come strumento indispensabile per la riflessione musicale;
supporto che fa sempre sentire in qualche modo le proprie ragioni.
Ritrovare textures nella musica di carattere discorsivo e anche in quella contrappuntistica,
apparentemente refrattaria a un approccio e analisi texturali, è un esercizio molto utile e
Capitolo 3 95

può rivelarsi molto interessante, proprio perché ciò non è sempre di immediata evidenza. È
possibile un approccio texturale quindi anche con composizioni di Beethoven, Brahms e
Mahler; poi, per quanto riguarda il Novecento, anche con composizioni di Hindemith o di
Prokofiev, ad esempio, autori legati a una concezione di musica sostanzialmente discorsi-
va.
Ecco un esempio di scrittura di Beethoven che potrebbe essere definita texturale, anche
se in modo meno vistoso rispetto agli esempi di Bach e Chopin; si tratta dell’inizio della
Sonata per pianoforte op. 109:

Es. 3-39
Vivace, ma non troppo
# ## 2
& # 4 œ œ. œ œ.
œ œ. œ œ. œœ
œ œ. œ œ.
œ œ.
p dolce
œ
? #### 2 ‰ œ œ ‰ œ œ
4 œ ‰ œ ‰ œ œ ‰ œ ‰ ‰ œ
œ œ
œ
# ## œ. œ œ . œ #œ .
& # œœ œ œ. œ œ . #œ œ . œ œ. œ œ. œœ
. œœ œ . #œ 3
4
œ œ
œ œ.
cresc. œ
œ œ œ œ
? #### ‰ œ ‰ œ œ ‰ œ
œ‰ œœ ‰ œ‰ œ ‰ œ‰ œ ‰ œ ‰ œ 3
œ 4
œ

La consapevolezza che la texture possa riguardare anche solo una porzione di un brano
(ad esempio una forma di accompagnamento) agevolerà un suo più frequente ritrovamen-
to.
Ci si renderà facilmente conto che attraverso l’analisi della texture è facile definire carat-
teri stilistici anche importanti della musica che si sta analizzando, proprio per un’evidenza
di tipo visivo. Infatti, per la loro natura volatile o astratta, le idee musicali sono spesso re-
frattarie a essere fissate o descritte. Ciò che si vede, invece, può essere più facilmente de-
scritto di ciò che si sente o si pensa. Analizzare una texture, definendone i caratteri costituti-
vi, è in definitiva penetrare in uno stile musicale.
Consci di ciò, alcuni testi anglosassoni, come il testo di Brindle citato nella premessa di
questo libro, spesso identificano l’idea di texture con il tipo di scrittura musicale, il tipo di
tecnica cioè. Descrivendo ad esempio le textures corali, Brindle elenca l’omofonia, la mono-
dia, la disposizione a coppie, la voce solista con accompagnamento, due o più strati sono-
ri, l’ostinato e il contrappunto.
Pensare la musica in modo texturale può accelerare l’acquisizione di tecniche e della pa-
dronanza di scrittura, aiutando a compiere anche scelte difficili. Si tratta di stimolare l’im-
maginazione visiva e sviluppare il «colpo d’occhio», cosa che riguarda l’esperienza di tutti
i giorni e che quindi è meno astratta della pura fantasia sonora.
Propongo ora un elementare esempio per rendere più chiaro quanto detto fin qui, in vista
di esperimenti di composizione di proprie textures. Immaginiamo una banalissima texture
composta da arpeggi, che potrebbe essere letta come un maldestro tentativo di ricreare il
96 L’abaco e la rosa

clima di alcune pagine pianistiche di Britten:

Es. 3-40

œ
3 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
&4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ
œ
?3 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ

œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ
& œ œ œ œ œ
œ œ

œ œ œ œ œ œ
? œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ

(Immagino un tempo d’esecuzione piuttosto veloce per questo passaggio.)


Si provi ora a suonare o ascoltare l’esempio successivo, che presenta la precedente tex-
ture con alcune modifiche, volutamente di lieve entità per non snaturarla:

Es. 3-41

œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ

œ œ œ œ œ œ
? œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ

œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ
& œ œ œ œ
œ œ
œ
œ œ œ œ œ œ œ œ
? œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ

Per quanto mi riguarda, trovo il secondo esempio meno soddisfacente rispetto al primo.
(Questione di gusti, si dirà; in questo caso ho però idee precise: a chi preferisse il secondo
consiglio soltanto di saltare queste considerazioni.) Potrei inizialmente obiettare che il se-
condo esempio sia meno «coerente» del primo, in quanto entrambi gli strati sonori conten-
gono alcuni elementi estranei, le figure di crome al basso, a quelli texturali predominanti. Il
fatto però che entrambi gli elementi estranei alle due linee compaiano due volte rende pro-
blematica la definizione di coerenza. Probabilmente, se la texture fosse portata avanti per un
numero consitente di battute e se gli stessi elementi «estranei» continuassero ad apparire,
Capitolo 3 97

potrei forse ritenermi soddisfatto del risultato, a condizione che il contrasto risultasse ben
organizzato. A parte questa possibilità, proviamo invece a concentrarci qui soltanto su
quattro battute. Nel valutare i due esempi, ritengo molto più semplice dare ragione della
mia scelta estetica non affidandomi a concetti problematici come logica interna, coerenza,
continuità, equilibrio etc.; ritengo più soddisfacente e più utile affidarmi al «colpo d’occhio»
e affermare in modo (certamente) sbrigativo: «Problemi di texture!».
È ovvio che una qualsiasi valutazione estetica completamente oggettiva è, per fortuna,
impossibile. Possiamo allora considerare con interesse il fatto che, dopo un po’ di allena-
mento, il «colpo d’occhio», o anche l’esame approfondito di una texture ovviamente, pos-
sono contribuire a dare una risposta sintetica a quella lista problematica appena elencata
davanti a situazioni chiaramente texturali. Risposta spietata e utilissima soprattutto quan-
do si procede nella composizione di propri lavori e ci si trova spesso a pensare, più che da
critici, da artigiani. Sviluppando il «colpo d’occhio» si potrà procedere con mano sicura in
tutte quelle necessarie, quanto delicate, operazioni di modifica della texture, se non si vuole
produrre una sequenza di situazioni musicali che più ad autentici pezzi di musica assomi-
glino ai già citati esercizi di Hanon. Un suggerimento: sarebbe opportuno che inizialmente
queste modifiche fossero in relazione con la grande scala, e solo in un secondo momento con
la piccola.
Rimane del tutto evidente che l’idea di texture non sia l’unica, né la principale idea di or-
ganizzazione del materiale musicale, semmai è tra le principali.
Quando si è di fronte a una concezione musicale di tipo discorsivo, come il classico
«sviluppo» di motivi (sia una fuga di Bach, una sonata o una sinfonia di Beethoven), o a
una concezione che faccia della varietà il suo punto di forza, come nella musica rinasci-
mentale (vedremo nel prossimo capitolo l’importanza dell’idea di varietas nella musica an-
tica) e nella musica «struttralista» del dopoguerra, certamente risultano essere più impor-
tanti altri criteri di valutazione e di organizzazione del materiale musicale. Ciò non esclude
però che in alcuni casi possano risultare utili ed efficaci l’analisi e l’apprroccio texturali.

A questo punto sarebbe legittimo e auspicabile il desiderio di cimentarsi nella composi-


zione di qualche texture musicale. Qui conterà molto il gusto per il disegno e sarà quindi im-
portante sapere sviluppare un’immaginazione di tipo visivo. Avere, ad esempio, a portata
di mano brani di Debussy potrà essere stimolante, essendo il disegno della sua musica
estremamente elaborato e fantasioso.
Si potrebbe iniziare con semplici sensibilizzazioni di tipo geometrico, come frammenti di
scale e di arpeggi, come nell’esempio 3-40. Una volta realizzate alcune textures, più o meno
differenziate tra loro, si potrebbe pensare a un montaggio in modo da ottenere un collage
sonoro, cioè una vera e propria composizione musicale.
Dopo alcuni esperimenti si potrebbero (si dovrebbero!) cercare soluzioni un po’ più ri-
cercate rispetto alla pur sempre valida elaborazione di textures basate su elementi geome-
trici e facili, come frammenti di scale e di arpeggi. Il problema della sensibilizzazione
(uniforme) della superficie si porrebbe a quel punto in tutta la sua portata.
Il modo di sensibilizzazione uniforme mediante elementi come scale e arpeggi è, come ho
98 L’abaco e la rosa

detto, facilmente assimilibaile a un trattamento proprio da arte grafica, da designer. Esi-


stono per contro meravigliose sensibilizzazioni naturali di superfici.
Alcune forme naturali poi (fenomeni, cose o animali), pur non essendo propriamente
delle textures, hanno direttamente suggestionato la composizione di textures musicali. Ecco
un esempio tratto da un brano per clavicembalo di François Couperin, elegantissimo tessi-
tore di arazzi musicali (non a caso omaggiato, come si è visto, da Ravel); il brano da cui è
tratto l’esempio appartiene al Second Ordre. Come molti brani di Couperin reca un titolo
evocativo; a volte i titoli di Couperin sono descrittivi, altre allusivi, altre ancore ironici; qui
il brano reca il titolo «Les Papillons» («Le Farfalle»).

Es. 3-42

Tres légérement. œ
6
œ œ œ œ #œ œ œ #œ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ bœ œ œ œ œ
& 16 nœ œ

M# M m œ œ
œ M œœ œ œ œ œ œ
? 6 ‰ œ bœ œ œ nœ #œ œ œ œ œ
16

È del tutto evidente che ci troviamo di fronte a una delicatissima pittura sonora; ogni
elemento, compresa l’indicazione di tempo, sembra voler essere volatile.
Accennavo prima alle textures naturali. Forse le textures più belle sono proprio quelle
realizzate dalla natura: si pensi ai motivi della superficie di una conchiglia o di un fram-
mento di corteccia d’albero.
Penso ai miei amati poeti classici giapponesi di haiku e alla loro sensibilità per questo
genere di cose. Nella letteratura di haiku si trovano innumerevoli versi di bellezza e intensi-
tà come questi di Raizan, poeta vissuto a cavallo tra il XVII e XVIII secolo: Verde, verde, ver-
de / l’erba chiazza / il campo innevato. Versi che sembrano essi stessi delle textures.
Alcune textures naturali sono la combinazione apparentemente casuale di pochi elementi
ripetuti. Queste ultime textures, per quello che sembra essere il loro equilibrio tra ordine e
caoticità, mi hanno sempre affascinato anche per una possibile suggestione in ambito musi-
cale. Mi fanno ad esempio pensare a un modo di procedere come il seguente.
Sarà innanzitutto necessario riferirsi a una scala intesa come contenitore di suoni (si ri-
cordi quanto detto nel capitolo 1). Per amore di semplicità, farò qui ricorso a una scala di
sei note che, essendo riconducibile a una successione di tasti bianchi del pianoforte, associo
facilmente al campo innevato dei versi di Raizan:

Es. 3-43

œ œ œ œ
& œ œ

Le mie textures, diciamo tre, faranno uso di queste note distribuite in un registro di due
ottave. In questo modo potrò ottenere una certà uniformità dal punto di vista della delle
altezze; disponendo di fatto di 12 suoni restringo un campo molto più ampio:
Capitolo 3 99

Es. 3-44
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12
œ
& œ œ œ œ œ œ
œ
œ œ œ œ

Come si vede, a ogni suono è associata una cifra. (Secondo quanto suggerito nel capitolo
precedente, è facile, anche con i comuni dadi a sei facce procurarsi una successione casuale
di cifre da 1 a 12.)
Realizzo una prima texture pari alla lunghezza di una battuta di 5/8 che presenta una
successione continua di biscrome, scelte casualmente per mezzo dei dadi; saranno neces-
sarie quindi 20 cifre. Ecco cosa ottengo:

Es. 3-45

5 œœœœœ œœ œ œ
&8 œ œ œœ œ œ
œœ
œ œ œ

Rispetto all’impiego di elementi «geometrici» come frammenti di scale e arpeggi, la tex-


turizzazione della precedente battuta è più sottile, ma ritengo che ci sia.
Dall’idea di texture come disegno uniforme è possibile infatti giungere all’idea di texture
come pura sensibilizzazione della superficie, non necessariamente geometrica (artificiale).
Nel campo dell’arte figurativa penso all’action painting e a opere di Jackson Pollock come
One, del 1950. Per continuare ad avere il fenomeno della texture risulta comunque impor-
tante procedere mediante l’iterazione di pochissimi elementi costitutivi. Giunti a questo
punto sarà ormai evidente che si può riferire la natura della texture alla ripetizione. Volen-
do, allora, si possono facilmente ottenere textures anche dalla ripetizione di elementi che
textures non sono. Se si giustappongono una moltitudine di cartoline della «Gioconda» si
ottiene di fatto una texture. Molte celebri opere di Andy Warhol consistono proprio in que-
sto genere di operazione.
Desidero ora ottenere una seconda texture dalla precedente. Questa volta lavorerò sul
ritmo. Attribuendo le cifre 0 e 1 (pari, dispari) a ogni nota del precedente esempio, associo
alla cifra 0 la durata di una biscroma e alla cifra 1 la durata di una semicroma; se necessa-
rio arrotonderò la battuta con pause in modo da ottenere ancora una (comoda) battuta
espressa questa volta in 7/8. In questo caso il criterio di sensibilizzazione uniforme è un
criterio di natura probabilistica. Qui vi è equiprobabilità delle durate, ma si potevano im-
maginare diversi e più sottili rapporti probabilistici:

Es. 3-46
0 1 1 1 0 0 0 0 0 1 1 1 0 0 0 0 0 1 0 0

7 œ œœ œ œ œ œ œ œ œ ®
&8 œ œ œ œ œ œ
œ œ
œ œ œ œ

Nulla mi vieta ora di eliminare la pausa di una biscroma e interpretare l’ultima nota del-
100 L’abaco e la rosa

la durata di una semicroma. Il prossimo esempio riporta inoltre altre semplici aggiunte:

Es. 3-47

7 œ œ œœ œ œ œ œ œ œ œ
&8 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œœ

Si nota che in corrispondenza delle note scritte come semicrome (non quindi due note le-
gate del valore di una biscroma ciascuna), per ottenere una più intensa texturizzazione, ho
creato dei bicordi che formano intervalli di quarta. Nel fare ciò ho cercato bicordi che non
contenessero il SOL, nota estranea alla scala di riferimento. Perché non associare i bicordi
anche alle note legate? Ecco una risposta influenzata da una concezione puramente textu-
rale: perché in questo caso non mi piaceva l’effetto visivo del risultato (risposta legittima e
opinabile allo stesso tempo).
Elaboro adesso un’ultima texture; anche questa è derivata dalla prima. Per realizzarla ne
ho rovesciato gli intervalli: ho ottenuto quindi la sua forma inversa, altrimenti detta a spec-
chio:

Es. 3-48
œœœ œ œ
5 œœ œ œœ œ œ
&8 œœœ œ œœ œ œ

Questa battuta contiene dei SOL estranei alla scala di riferimento e alcuni DO fuori regi-
stro. In corrispondenza dei SOL assocerò cifre da 1 a 12 e sostituirò le note a esse corri-
spondenti; i DO fuori registro verranno abbassati di un’ottava. In complesso, mi sono al-
lontanato in maniera piuttosto consistente dalla texture iniziale:

Es. 3-49
8 12 2 5 9

5 œ œœ
&8 œœ œœœœ œ
œ
œ
œ
œ
œœœ
œ
œ
œ

Avere citato i versi di Raizan mi ha fatto venire voglia di effettuare un montaggio delle
tre textures rifacendomi alla forma poetica dell’haiku. L’haiku tradizionale si compone di tre
versi rispettivamente di cinque/sette/cinque sillabe. Il montaggio che intendo effettuare
farà riferimento alla prima texture per le prime cinque battute, alla seconda per le successi-
ve sette, alla terza per le ultime cinque. Ho deciso che le singole textures potranno essere
trasposte da un intervallo di seconda a un intervallo di sesta (cinque trasposizioni più la
forma originale della texture), e potranno essere lette anche a ritroso.
Ritengo che le forme retrograde di una linea o di una texture possiedano un fascino par-
ticolare. Ci mettono di fronte a uno dei due soli possibili tipi di simmetria relativa al tem-
po. Il tempo è assimilabile a una linea. Le linee hanno due tipi di simmetria. Sono possibili
Capitolo 3 101

la traslazione e la riflessione. La traslazione temporale genera fenomeni ciclici, di cui vi sono


innumerevoli esempi in natura; la riflessione prospetta invece l’andare indietro nel tempo.
Con la retrogradazione di un elemento musicale avviene qualcosa di paradossale: la retro-
gradazione fa effettivamente scorrere l’elemento all’indietro, come lo sentiremmo se andas-
simo a ritroso nel tempo; intanto, però, la freccia del tempo reale dell’ascolto, inesorabil-
mente, scorre in avanti!
L’esempio 3-50 mostra il risultato finale del montaggio, che rende opportuna qualche
parola di commento.
Per quanto riguarda le trasposizioni ho proceduto affidandomi al lancio dei dadi. La ci-
fra 1 corrispondeva a nessuna trasposizione, la cifra 2 alla trasposizione della texture alla
seconda etc., fino alla cifra 6, corrispondente alla trasposizione alla sesta. Trasponendo il
materiale è ovvio che parte delle note non corrispondevano al prospetto dell’esempio 3-44.
Ho conservato tutte le note tranne i SOL che di tanto in tanto apparivano; ho proceduto di
volta in volta alla loro singola sostituzione mediante la procedura già indicata per l’esem-
pio 3-49. In questo modo le textures trasposte hanno subito modifiche anche consistenti. In
particolare, per quanto riguarda la seconda texture, che mostra dei bicordi, quando un bi-
cordo conteneva un SOL ho inizialmente sostituito questa nota; a partire dalla nota così
ottenuta, ho aggiunto un’altra nota in modo da formare un intervallo di quarta, secondo i
criteri esposti in precedenza.
Per la retrogradazione di alcune battute, anche qui, mi sono affidato al caso, assegnan-
do a ogni battuta, tranne la prima di ogni sezione, una probabilità del 50% di essere retro-
gradata.
Tengo a sottolineare l’eventualità che durante la fase di manipolazione delle textures, ad
esempio durante la fase di sostituzione dei SOL, c’era la possibilità che si verificassero de-
gli errori. Ritengo che in simili situazioni non ci si debba preoccupare molto per l’insorgere
di questi presunti errori procedurali. Un’elaborazione e un genere di scrittura musicale come
quella di cui mi sto occupando ora è in grado di assimilare bene alcuni errori, in modo non
diverso da un organismo vivente, che può sopportare senza difficoltà sporadici errori di
copiatura del proprio DNA. Non trovo affatto che sia un aspetto svilente del nostro lavo-
ro, anzi; è possibile che dall’errore talvolta sorgano situazioni interessanti e inaspettate.
Scrivere musica non è come risolvere equazioni o seguire i passi di una rigida procedura le-
gale. Un certo rigore è stimolante e necessario; detto questo, un atteggiamento di naturale
elasticità non può che fare bene alla nostra musica. Nell’esempio proposto, l’unico errore la
cui insorgenza non avrei tollerato sarebbe stato la comparsa del SOL; ciò non dipende da
quella che potrebbe passare per un’inspiegabile antipatia verso questa nota: volevo sempli-
cemente che il montaggio facesse esclusivamente riferimento alla scala di sei note dell’esem-
pio 3-43.
Si noti che il caso ha voluto che l’ultima nota del montaggio corrispondesse a un FA, la
nota più alta del prospetto di riferimento (Es. 3-44). Questa coincidenza mi ha suggerito di
fare sentire in un «cluster» (un grappolo di note, presenza non rara in diversi brani del No-
vecento) tutte le note del prospetto di riferimento sovrapposte.
Volutamente, suggestionato ancora dalla bianchezza della neve dei versi di Raizan e da
102 L’abaco e la rosa

Es. 3-50

5 œœœœœ œœ œ œ
&8 œ œ œœ œœ
œœœ œ œ
œœœœœ œœ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ
œœ œ œ œ œ œœœœœœ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

œ œ œœ œœœœœ œ
œœ œ
& œ œ œœœ œœ œ œ œœœœœœœœœ œœ
œ 7
8
œ œœœ œ œ

7 œ œ œœ œ œ œ œœ œœ œ œ
&8 œœ œœ œœ œ œ
œœ
œ œ œ œœ
œ œ œœ œ œ
œœ œ œœœœœ œ œ œ œ œ œœœ
œœ œ œ œ œ œœ œ œ œ
œ œ
& œœ œ œ œ œ œœ œœ œ œ œ œ œœ
œ œ œ œ œ

œ œ œœ œ œ œ œ œ œ
œœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœ œ œœ
& œœ œ œ œ œ œœ œœ œœ œ œœ œ œ œ œ œœ
œ œ
œ œ œ œ œ œœ œ œ œœ œ œ œœ œ œ
œ œ œœ œ œ œ œ œ œ
& œœ œ œ
œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œœ œ œœ 85
œ œ œœ œ œ œ

5 œ œœ
&8 œ œ œ œ œ œ œ
œ
œ
œ
œ
œœœ
œ
œ
œ
œ
œœ œœ œœœ œ œœœœ œ œ œœœ œ œœ œœœœœœ œœ
& œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ

œœ œ
œ œœœ œ œ œœ œ œœœœ œ œœœœ
& œ œ œ œœ œ œ œœœ œœ œœ œ œœ œœœœ
œ œ œ œ œ œœœœ
Capitolo 3 103

molte composizioni di Bach che non recano altra indicazione se non le note e la loro durata,
ho deciso di lasciare l’esempio privo di indicazioni relative allo strumento su cui potrebbe
essere eseguito, alla velocità d’esecuzione, alle dinamiche e alle articolazioni. La scrittura,
facendo uso di semicrome e biscrome, suggerisce tuttavia un’esecuzione piuttosto veloce (in
realtà immagino l’esempio eseguito molto rapidamente, come se vedessi scorrere da un tre-
no veloce un desolato paesaggio innevato). Anche qui, come per l’esempio 3-13, mi piace
immaginare il suono di una virtuale chitarra elettrica, in un assolo di fulminea malinconia.
Un’ultima considerazione sul precedente esempio. Si nota un tentativo di dare un inte-
resse puramente visivo alla disposizione delle battute nella pagina; le textures originali, con
cui inizia ciascuna delle tre sezioni, sono evidenziate dalla loro disposizione singola. Que-
sta disposizione spaziale non potrà certo influire sul risultato sonoro, però mi dà un certo
senso di appagamento, quello che forse potrebbe provare una persona non in grado di leg-
gere la musica, e che potrebbe magari provare la strana, quanto piacevole sensazione di
trovarsi davanti a una pagina di calligrafia orientale, composta da forse incomprensibili
quanto affascinanti ideogrammi.
Propongo ora un nuovo esperimento su textures composte a partire da segmenti della
scala cromatica. In questo modo otterremo un risultato sonoro molto diverso dal preceden-
te; così, si potrà constatare che quanto esposto fino a questo punto non necessariamente
debba associarsi a una sensibilità e a uno stile particolari.
Tra l’utilizzo di materiale diatonico e il totale cromatico ciascuno, se lo vorrà, potrà tro-
vare vie intermedie attraverso l’impiego di scale diverse.
Questo nuovo esperimento ci permetterà inoltre di realizzare un’embrionale scrittura di
tipo polifonico, con parti autenticamente indipendenti.
La scala inziale dell’esperimento corrisponde a mezza scala cromatica; c’è una ragione
precisa in questa scelta, e risulterà evidente in seguito:

Es. 3-51
1 2 3 4 5 6
& œ #œ œ œ #œ

A ogni nota ho assegnato una cifra corrispondente alla sua notazione numerica. In que-
sta maniera risulta estremamente agevole assegnare ogni nota a una faccia di un comunissi-
mo dado.
Ora, lanciando i dadi, voglio ottenere quattro frammenti di nove note ciascuno, che scri-
verò come semicrome in battute incomplete di 3/4 (il perché sarà chiaro più avanti):

Es. 3-52

3 r r
& 4 nœ bœ #œ
#œ #œ nœ #œ nœ nœ nœ #œ nœ #œ nœ nœ nœ #œ nœ

r r
& nœ
#œ #œ nœ #œ bœ nœ nœ nœ nœ #œ nœ #œ #œ #œ nœ nœ nœ
104 L’abaco e la rosa

A questo punto, desidero che alcune note risultino più alte di un’ottava, rispetto a come
sono scritte nel precedente esempio; ciò al fine di disporre di un registro più ampio in ogni
texture. Assegnando a ogni nota la probabilità del 50% di essere trasposta di un’ottava,
dopo avere lanciato i dadi ottengo queste nuove textures:

Es. 3-53

3 bœ #œ #œ nœ r nœ nœ nœ #œ nœ
& 4 nœ #œ #œ nœ nœ R
#œ #œ nœ nœ
nœ nœ nœ r nœ nœ #œ nœ nœ nœ
& nœ nœ R
#œ #œ #œ bœ #œ #œ #œ

Se ora assegno la durata di una semiminima a una qualsiasi nota delle precedenti textu-
res, queste misureranno esattamente una battuta di 3/4. Ovviamente, se fossi partito, ad
esempio, da una battuta di 4/4 incompleta, e avessi attribuito a una qualsiasi nota la du-
rata di una minima, avrei ottenuto alla fine esattamente una battuta di 4/4:

Es. 3-54

3 bœ #œ #œ nœ nœ nœ nœ #œ nœ nœ nœ nœ r
& 4 n œr #œ #œ nœ nœ #œ #œ nœ nœ nœ #œ #œ #œ bœ nœ

Lo stesso esempio, per una lettura e un’esecuzione più agevoli, può (deve!) essere riscrit-
to così:

Es. 3-55

3 bœ . œ #œ #œ nœ nœ nœ nœ #œ nœ nœ nœ nœ œ .
& 4 nœ #œ #œ nœ nœ #œ #œ nœ nœ nœ #œ #œ #œ bœ nœ

Partendo da operazioni analoghe, si possono immaginare innumerevoli modi di variare


ritmicamente le textures. Si potrebbe inserire, ad esempio, all’interno di ogni texture più di
una nota di uguale o diversa durata. Basta fare qualche banalissimo conteggio, relazionan-
do il numero delle note iniziali alla lunghezza della battuta di riferimento e alla durata
complessiva delle durate da inserire.
Quelle così ottenute potrebbero essere definite seriosamente textures a scorrimento di du-
rata, textures a mobilità ritmica controllata, o per mezzo di altre definizioni consone ad auste-
ri saggi musicologici. Per quanto mi riguarda, ciò che qui mi sembra essere abbastanza inte-
ressante è la possibilità di conservare in modo non rigido una qualche idea di metro.
Affidando al caso anche la posizione della nota della durata di una semiminima, dopo
qualche proposta di tali textures probabilmente il cervello dell’ascoltatore stimerà che un
suono di durata più lunga appaia entro un intervallo di tempo fisso. Siamo di fronte quindi
a un elemento imprevedibile, caotico, e un elemento d’ordine: perciò mi piace questo tipo di
trattamento ritmico della texture.
Capitolo 3 105

Giungo ora a un aspetto della composizione che fin qui ho toccato soltanto in modo ac-
cidentale: mi riferisco a una situazione autenticamente polifonica del flusso musicale, quel-
la cioè che si verifica quando si trovano sovrapposti elementi che si possono ragionevol-
mente definire indipendenti (non importa ora in che misura), in particolare per quanto ri-
guarda le altezze e il ritmo o per uno soltanto di questi parametri.
Le textures degli esempi 3-52/53 possiedono una particolarità che può rivelarsi interes-
sante quando se ne vogliano presentare due contemporaneamente. Le note che singolar-
mente le compongono sono effettivamente contenute in un intervallo di quarta giusta (Es. 3-
52); o riconducibili a esso, qualora si tornasse a disporle nel registro più stretto possibile
(Es. 3-53). Proviamo a sovrapporre due intervalli di quarta giusta in modo che la prima
nota del secondo intervallo si trovi a distanza di semitono dalla nota più acuta del primo:

Es. 3-56

& # n n ˙˙˙ n˙ #˙ n˙ #˙ n˙ n˙
#˙ #˙ n˙ #˙ n˙ n˙ #˙

Si nota che la sovrapposizione dei due intervalli copre il totale cromatico.


Torniamo alle textures degli esempi 3-52/53; immaginiamo di sovrapporre due qualsiasi
textures degli esempi (anche due copie della stessa texture). Se si traspone una delle due
textures all’intervallo di quarta eccedente o di quinta diminuita (trasposizione di tritono) le
due textures sovrapposte risultano non avere note in comune. Così, qualsiasi cosa presenti-
no le singole textures, è impossibile trovarsi di fronte a raddoppi di note o a parallelismi
d’unisono o d’ottava.
Queste ultime due evenienze sono tendenzialmente evitate nella musica «atonale» che fa
uso del totale cromatico. Per quanto riguarda i parallelismi d’unisono e d’ottava, sono ge-
neralmente evitati (a parte evidenti situazioni «di rinforzo») anche nella musica rinasci-
mentale e nella musica tonale. Su questo punto avrò modo di tornare a partire dal capitolo
5 (casi di parallelismi d’unisono e d’ottava sono mostrati nell’esempio 5-4). Raddoppi e
parallelismi d’unisono e d’ottava sono generalmente evitati perché costituiscono una cadu-
ta d’informazione, un calo d’interesse del flusso sonoro.
Altra cosa sono invece raddoppi di una stessa nota o salti d’ottava. Alcuni compositori
non amano neppure queste evenienze. Comprendo facilmente le ragioni contro l’insorgenza
di raddoppi e parallelismi d’unisono e d’ottava in molti contesti musicali (non tutti!); ma
per quanto mi riguarda ritengo al limite del fanatismo il rifiuto di salti d’ottava in una com-
posizione di carattere fortemente cromatico o atonale.
Procediamo nel nostro esperimento: nel prossimo esempio (Es. 3-57) ho realizzato, a
partire da alcune textures dell’esempio 3-53, un montaggio che mostra una scrittura sostan-
zialmente di tipo pianistico.
Occorre forse qualche parola di commento: si tratta di un breve montaggio di 14 battute,
dove la seconda metà (ultime sette battute) presenta in forma retrograda (dall’ultima alla
prima nota) quanto apparso nella prima metà del brano. Ho ottenuto così una sorta di di-
106 L’abaco e la rosa

Es. 3-57
q»¡™º
œ #œ œ œ œ bœ œ
3 bœ bœ œ
&4 œ #œ œ
œ œ œ
œ œ œ

bœ œ bœ bœ œ . nœ
?3 œ
4 nœ bœ bœ œ bœ œ œ bœ
bœ œ nœ œ

œ nœ œ nœ œ œ nœ bœ nœ œ #œ œ œ
& œ .
#œ œ œ œ bœ œ bœ #œ œ œ œ œ. œ
œ œ œ.

? œ œ nœ bœ bœ nœ bœ bœ œ nœ nœ
#œ œ œ œ bœ œ œ #œ œ œ bœ bœ
bœ . œ œ nœ œ

œ œ nœ bœ nœ œ #œ œ œ #œ œ œ nœ œ bœ
& œ bœ
œœ œ œ #œ œ œ œ. œ nœ œ . œ œ

? bœ œ #œ #œ œ #œ nœ œ #œ œ #œ
bœ nœ œ œœ. œ nœ œ œ œ bœ œ œ bœ nœ œ nœ

& bœ œ
œ œ #œ nœ œ nœ œ bœ œ œ bœ nœ œ
#œ œ œ œ œ œ nœ œ . œ œ #œ œ œ . œ œ

? #œ bœ œ œ nœ nœ bœ bœ nœ bœ nœ
œ œ œ . nœ œ œ bœ bœ bœ #œ œ œ nœ nœ œ bœ œ œ.

œœ nœ œ bœ œ œ œ #œ nœ bœ bœ œ
& œ bœ #œ œ #œ nœ
œ œ œ . nœ œœ œ
nœ œ œ

? bœ nœ œ nœ œ bœ . œ bœ œ bœ bœ nœ bœ nœ
bœ nœ œ œ bœ nœ bœ œ nœ
#œ nœ œ bœ œ

stico musicale (questa volta composto idealmente da due settenari). L’avere utilizzato la
forma retrograda di un elemento mi ha condotto a comporre di fatto un palindromo musi-
cale, sulla falsariga di parole come Anna o ingegni. Sarà sufficiente allora commentare sol-
tanto quanto accade nelle prime sette battute.
Per prima cosa ho giustapposto sette textures, prima nel rigo superiore, poi in quello in-
feriore, scegliendole a caso, secondo un criterio di uguale probabilità. Ho effettuato poi una
trasposizione di tritono di tutto il rigo inferiore, in modo che non vi fosse l’evenienza di
suoni raddoppiati e, pertanto, di unisoni e ottave parallele. A questo punto, a partire dalla
Capitolo 3 107

seconda battuta, ho trasposto entrambe le textures a uno stesso intervallo della scala cro-
matica determinato, anche qui, dal caso. Infine, sempre in base a quanto risultava dal lan-
cio dei dadi, ho assegnato a una delle note delle singole textures un valore di semiminima
(ricordo che nel capitolo precedente ho suggerito un modo per ottenere con i comuni dadi a
6 facce 9 e 12 cifre equiprobabili). Elaborate le prime sette battute ho effettuato la loro
esatta retrogradazione.
Insisto ancora, come altrove, nel sottolineare che quello che ho appena realizzato è un
elementare esperimento: potrei chiamarlo gioco, schizzo, o in maniera analoga. Come ho ac-
cennato all’inizio di questo capitolo, mi piace pensare all’esistenza di batteri musicali, orga-
nismi estremamente più semplici di composizioni di una certa pretesa, ma comunque più
sviluppati di un semplice esercizio meccanico alla Hanon. Di fatto, però, dopo una certa
soglia (diciamo in situazioni un po’ più consistenti della precedente) ritengo non esista un
confine netto tra ciò che possiede inequivocabilmente un interesse estetico o no. Il confine
tra l’abaco e la rosa in musica risulta sempre alquanto sfumato. (Non si può ridurre Tristano
e Isotta a pura letteratura, e neppure considerarlo alla stregua di un seguito infinito di mo-
dulazioni.)
Torniamo ancora alla primitiva biologia dell’ultimo esempio. Si potrebbe desiderare una
sonorità un po’ più spessa della precedente. Come già in esempi precedenti, si potrebbe
pensare ancora alla formazione di qualche bicordo; anche qui bicordi di quarta giusta mi
piacciono molto come addensanti. Utilizzando le prime sette battute del precedente esem-
pio, ho pensato di collocare due bicordi in ogni texture secondo un criterio casuale ma in
modo da non avere bicordi contigui. Ritengo superfluo illustrare in dettaglio la procedura
per ottenere ciò, dal momento che una analoga può essere ormai facilmente immaginata.

Es. 3-58
3 n œ œ # # >œœ œ >œ œ œ bœ œ
& 4 œ œ # # œœ œ œ b œœ b œ œ nœ
œ
> >

>
œ b b œœ >œ œ .
œ œ b >œ
bœ nœ
?3 œ
4 œ n œ b b œœ b œ n œ bœ
> bœ œ n œ œ > b œ

& œ . # œ œœ œ nœ bœ œ œ œ nœ
#œ œ > bœ n œ n œœ >œ
> > œ œ œ.
> # # œœ œ
>
? nœ œ nœ bœ bœ b œ b œœ
# >œ œ b œ œ œ bœ nœ
> # >œ bœ . œ œ n œ œœ n œ >
> >
bœ nœ #œ œ œ œ nœ bœ nœ œ œ
& b œ œ œ nœ œ bœ œ # # œœ œ
> œ n œœ œ . œ œ œ # œœ # œ œ >œ œ. œ >
>> >œ > > >
# œ n œœ n >œ n œ n >œ bœ œ >œ >
?
œ #œ > bœ œ bœ bœ œ œ œœ . # # œœ # # œœ œ n œ œ b œ œ
œ # œ n œœ >œ
>œ > >

Rispetto all’esempio precedente si notano anche altre piccole differrenze. La prima ri-
guarda il registro di alcune note: la ragione del loro spostamento è quella di rendere più
108 L’abaco e la rosa

agevole un’ipotetica esecuzione pianistica. La seconda riguarda la collocazione di un ac-


cento in corrispondenza dei bicordi e delle note lunghe.
Propongo ora un ultimo intervento su questo montaggio. Si tratta di un intervento sugge-
rito da un evento biologico: il crossing over («ricombinazione»), consistente nel possibile
scambio di pezzi di cromosoma durante la divisione di una cellula.
Possiamo immaginare il precedente esempio composto da due filamenti. Si può stabilire
inoltre che ogni battuta sia composta da tre pezzi della durata di una semiminima. A que-
sto punto si può decidere che avvenga uno scambio in ogni battuta; in base a un criterio ca-
suale si individuano i pezzi che dovranno scambiarsi di posto (prima, seconda o terza se-
miminima). Si procede nello scambio aggiustando, se lo si ritiene necessario, il registro dei
singoli pezzi (alzandoli o abbassandoli di un’ottava) una volta che abbiano raggiunto il
loro nuovo filamento:

Es. 3-59

bœ œ n œ # # >œœ œ >œ œ œ
b œ n œ b >œ
& œ œ # # œœ œ b œ bœ bœ œ nœ
> œ n œ œ >œ œ b œ

>œ >
œ b b œœ >œ œ .
? œ œ bœ b œ bœ œ bœ œ
œ œ b >œ nœ
>
bœ >> bœ
& nœ . # œ œœ œ b œ n œ œ b œ bœ œ œ œ nœ
# >œ œ > # œ bœ œ nœ #œ n >œ
nœ œ
>
? nœ œ nœ nœ œ b œ b œœ
# >œ œ œ. # # >œœ n œ n œ
bœ œ œœ bœ .
> >
>
#œ œ œ œ nœ nœ
& # œ œœ œ œ . œ œœœ n œ >œ . # œ bœ œ # # œœ œ
œ #œ > > œ > œ œ.
> >œ > >
b >œ n œ n œ >
? b œ n œ n >œ bœ œ b œ n œ œ # œ # # >œœ œ n œ œ b œ
œ
œ œ bœ œ bœ bœ œ
œ œœ n œ # >œœ œ œ n œœ œ> œ
> > œ

(Nell’esempio precedente quando, a seguito dello scambio, mi sono trovato di fronte a


due bicordi contigui ho eliminato la nota più bassa del secondo bicordo; non mi sono invece
qui preoccupato di aggiustare il registro in vista di un’agevole esecuzione pianistica.)
Mi piace molto questo rimescolamento di carte, che conferisce varietà e imprevedibilità
al flusso musicale attraverso un semplicissimo, quanto naturale, intervento.
Volendo, possiamo ora applicare facilmente quanto appena fatto anche in ambiti dove
la scala di riferimento non sia quella cromatica.
Mi limito a mostrare che anche con scale di sette note, come la comunissima scala di DO
maggiore, è possibile ottenere due linee in cui non vi sia il rischio di unisoni e ottave paral-
lele. L’unico prezzo da pagare sarà qui la condivisione di un suono comune tra due linee.
Immaginiamo, ad esempio, di utilizzare una scala di LA minore naturale. La scala dia-
tonica può essere divisa in due tetracordi. Scelgo inizialmente di riferirmi al tetracordo LA-
Capitolo 3 109

RE; entro le note di quest’intervallo realizzo una successione casuale di note. Abbassando
diatonicamente di una quarta o alzando di una quinta la sequenza, se ne ottiene una di
note diverse tranne una che rimane in comune a entrambe (la nota in comune potrebbe esse-
re intesa come una sorta di «fondamentale»). Come in precedenza, ci troviamo anche qui
nell’impossibilità di formazione di unisoni e ottave parallele:

Es. 3-60
œ œ œ œ œ œ œ œ
&

& œ œ œ œ œ œ œ œ

Non è difficile poi immaginare di muoversi a proprio agio anche a tre parti. A tale scopo
proviamo a utilizzare ancora il totale cromatico. Dividendo la scala cromatica in tre seg-
menti uguali si ottiene la sovrapposizione di tre intervalli di terza minore:

Es. 3-61

& n˙ #˙ n˙ #˙ n˙ #˙ n˙ n˙
#˙ n˙ #˙ n˙

Si realizzeranno questa volta textures le cui note siano comprese nell’ambito di una terza
minore: si avranno quindi a disposizione quattro note. Ecco un esempio composto da sei
textures di sei note ciascuna:

Es. 3-62

4 nœ bœ bœ nœ nœ nœ bœ bœ #œ
& 4 nœ bœ nœ nœ nœ #œ
#œ #œ #œ
bœ #œ nœ bœ nœ
& #œ nœ nœ
#œ #œ #œ nœ #œ nœ nœ bœ #œ bœ

Si osserva in questo caso che quando si presentano note ripetute non viene mai effettua-
to un salto d’ottava, una concessione alla più intransigente concezione musicale degli
«strutturalisti».
Il trattamento ritmico delle singole textures è leggermente diverso rispetto a prima. Fa-
cendo in modo che due qualsiasi note di una texture durino rispettivamente una semimini-
ma e una minima, si otterranno sempre battute complete di 4/4. Per assegnare i due valori
di durata si procede in maniera analoga all’esperimento precedente; l’unica cosa da rilevare
è che bisogna decidere quale dei due valori di durata compaia per primo. Anche qui ci si
può affidare al caso.
Per quanto riguarda il trattamento del totale cromatico, una volta che si siano sovrap-
poste tre textures (non importa se alcune possono essere identiche), per evitare note rad-
doppiate e parallelismi d’unisono e d’ottava occorre trasportare la seconda texture di una
110 L’abaco e la rosa

terza maggiore ascendente e la terza texture di una terza maggiore discendente; poi si può
procedere come nel precedente esperimento.
L’esempio 3-63 mostra un possibile montaggio a tre parti. La parte del rigo superiore si
adatta a uno strumento monofonico, mentre le rimanenti parti potrebbero essere assegnate
a un pianoforte, seppure con alcune difficoltà dovute agli ampi salti. Ho collocato accenti
sulle note di lunga durata.
Dal momento che ora i suoni a disposizione in ogni texture sono relativamente pochi
(soltanto quattro), potrebbe rivelarsi interessante ricorrere spesso al «crossing over».
Se a due parti il «crossing over» risulta essere agevole, potrebbe sembrarlo meno dalle
tre parti in su. A tre parti si hanno infatti sei possibilità combinatorie (3 fattoriale); se si
esclude quella iniziale ne rimangono cinque. Gestire cinque diverse possibilità in luogo di
una sola potrebbe risultare più macchinoso. Se non si volesse procedere in modo del tutto
arbitrario, ma si volesse invece stabilire un criterio per procedere anche ricorrendo alla ca-
sualità, si potrebbe ad esempio tenere conto di quanto segue.
Si consideri a questo proposito la prossima tabella:

Tab. 3-3

(1) 2 3 4 5 6
1 1 2 2 3 3
2 3 3 1 1 2
3 2 1 3 2 1

Assegnando una cifra a ogni colonna (scartando la cifra 1) è possibile lasciare decidere
a un dado quale forma assumerà il «crossing over». Si nota che non tutte le permutazioni
riguardano l’insieme dei tre livelli; le colonne 2, 4, 6 prospettano un «crossing over» soltan-
to in due livelli. Per quanto mi riguarda, non mi sembra un buon motivo per scartarle. Qual-
cuno, ovviamente, potrebbe invece optare per tenere buone soltanto le colonne 3 e 5; in que-
sto caso si potrebbe assegnare a queste le cifre 0 e 1 (pari e dispari).
L’esempio 3-64 mostra un montaggio con «crossing over». Ho stabilito che dovesse es-
sercene uno in ogni battuta; a questo fine ho assegnato eguale probabilità che avvenisse in
una delle quattro porzioni pari alla lunghezza di semiminima. Si nota che a seguito del
«crossing over» gli accenti talvolta non sono più in corrispondenza delle note più lunghe.
Una modifica del tutto arbitraria rispetto all’esempio 3-63 è quella che riguarda il cam-
bio di registro delle ultime tre semicrome e la collocazione di accenti. (In definitiva, quando
si compone, ritengo possibile qualsiasi cosa, se la si ritiene per qualche ragione necessaria.)
Questi ultimi esempi si avvicinano a una sensibilità «strutturalista». Personalmente ci
trovo qualcosa di datato, ma nello stesso tempo mi rendo conto di avere trattato un em-
brionale tentativo di composizione strutturalista alla stregua di coloro, ad esempio, che
consapevolmente o meno rivisitano piatti della cucina tradizionale che, con qualche con-
cessione al gusto del momento (generalmente un tocco di maggior leggerezza), si rivelano
sempre un successo. Le ormai classiche tecniche dello strutturalismo, ripensate spesso at-
traverso inevitabili contaminazioni, continuano a dare risultati di rilievo: penso alla musica
Capitolo 3 111

Es. 3-63
q»¡ºª bœ bœ >œ œ œ b >œ œ
4 œ œ.
> œ œ >œ . œ b œ
&4 œ #œ bœ œ
œ # >œ .
>
œ bœ œ œ œ. œ >
œ bœ œ œ
4 œ >˙ bœ œ
&4

> >˙
?4 œ œ œ. œ #œ
4 œ œ œ œ œ. œ œ >˙
>
œ >œ œ œ
œ œ b >œ œ œ . b œ >œ bœ bœ œ .
>
œ
& œ œ
>œ . œ œ bœ œ b >œ . œ œ œ
>
œ bœ . œ œ b œ >œ . œ œ œ
&

? œ œ >˙ b >˙ œ n œ >œ œ . #œ


œ œ œ
> #œ
b œ >œ œ. œ œ n >œ
b œ >œ . œ œ œ œ œ >˙
&

nœ #œ b œ # >œ
œ œ >œ œ . >œ œ œ. œ œ œ # >œ œ œ.
&

œ b >œ œ . bœ > >˙


?
œ #œ b œ >˙ nœ . œ œ bœ œ
>œ œ #œ
œ œ œ >˙ >œ
nœ #œ œ nœ
&
œ.
> œ œ
œ
nœ œ b >œ œ . b >œ œ œ. œ b >˙ >œ
& nœ œ œ œ

> œ.
œ bœ œ
? œ bœ œ œ
> bœ œ nœ œ . œ n >˙
>
112 L’abaco e la rosa

Es. 3-64
bœ bœ >œ œ >
œ bœ bœ
œ œ >œ . œ b œ bœ
& œ œ œ #œ bœ œ
œ œ >
œ # >œ . œ b œ >œ œ œ. œ bœ œ
œ >˙ œ
&

? œ >œ .
œ. >˙ œ #œ œ b >œ
œ œ œ. œ œ œ
>œ . >
nœ >œ œ œ bœ nœ
œ œ b >œ b œ œ . b œ >œ bœ bœ
> œ œ
& nœ œ

> œ œ bœ œ b >œ . œ
œ bœ . œ
œ œ nœ œ b œ >œ . œ bœ
& bœ .

? œ bœ
>˙ b >˙ œ n œ >œ œ . #œ
> #œ
b œ >œ œ n >œ
b œ >œ . b >œ n œ œ œ # >œ >
œ œ œ ˙
&
#œ b œ # >œ

>œ œ œ œ
œ œ >œ œ . œ. œ nœ #œ œ.
&

? œ b >œ œ . bœ > >˙


œ #œ œ nœ . œ œ bœ œ
bœ œ
>œ œ #œ
b >œ

œ œ œ >˙ >œ > >
#œ œ
&
œ œ
œ
nœ œ b >œ œ . b >œ b œ œ. œ bœ >œ
& nœ œ œ œ nœ
.

>
œ bœ bœ
œ œ
? œ bœ œ œ
> bœ œ nœ œ . œ n >˙
>
Capitolo 3 113

di Maxwell Davies, un compositore che, nonostante ormai la sua aura di artista ufficiale,
ha saputo come pochi rinnovare e contaminare le tecniche seriali con originalità e talento.

Ho messo in evidenza alcuni aspetti legati alla nozione di texture in ambito musicale. Ho
inizialmente accennato ad aspetti che vanno dall’idea di disegno geometrico a un’idea più
libera di disegno musicale. In quest’approccio alla texture è comune quindi l’idea della com-
posizione musicale che trae origine anche da sollecitazioni e invenzioni visive.
Più avanti ho accennato a una possibile concezione della texture come pura sensibilizza-
zione pressoché uniforme di una superficie; quest’ultima concezione presenta alcune diffe-
renze rispetto alla prima. Infatti l’idea sensibilizzazione non necessariamente si riferisce a
quella di disegno: il disegno propriamente detto è la riproduzione di figure geometriche o un
atto di libera invenzione; comunque sia, entrambi sono un prodotto della nostra mente. La
sensibilizzazione di una superficie (più o meno uniforme: nel primo caso abbiamo una tex-
ture pura) può invece dipendere anche da eventi accidentali naturali (casuali o meno). In
una superficie naturalmente sensibilizzata riconosciamo spesso un disegno: in questo atteg-
giamento probabilmente distorciamo la realtà, dal momento che la natura non sa di avere
realizzato quello che noi riconosciamo come disegno.
Nell’essere disponibili verso fenomeni di «sensibilizzazione» ritengo si possano oggi
scorgere affascinanti prospettive nella composizione musicale, che in ciò può ricevere una
mole di impulsi dalla natura e, attraverso la sensibilità del compositore, assorbirne suoni e
ritmi: un’evenienza tutt’altro che dispezzabile per chi ritiene che tra natura e arte vi sia una
profonda connessione.
In ogni caso, ho cercato di mettere in evidenza che esiste una possibilità di fare musica
che non può essere scissa dalla constatazione dell’esistenza di un supporto fisico (una su-
perficie) su cui un pezzo di musica prende forma, e che, lo si voglia o no, in qualche modo
fa sentire le proprie ragioni; queste ultime possono essere uno strumento in più a disposi-
zione della fantasia del compositore.
Oggi, per la prima volta dopo quasi un millennio, si comincia a intuire che questo para-
digma visivo potrebbe cedere il passo — in un forse non lontano futuro — di fronte a un
modo di realizzare musica in cui la sollecitazione visiva risulti non di primaria importanza.
Si potrebbe definire il nuovo paradigma come quello del dj. Tornerò più avanti, nel capitolo
9, su questa considerazione, per alcuni forse inquietante.
Tutti gli esempi che ho composto fin qui sono, di fatto, anche realizzazioni di qualcosa
di analogo a semplicissimi algoritmi, cioè l’insieme di una rigorosa sequenza di passi che
conduce a un risultato. La sequenza rimane rigorosa anche se, come accade talvolta anche
in contesti informatici di grande complessità, si ricorre alla «randomizzazione» di determi-
nati eventi: in questi casi il rigore sta nel lasciare sempre che sia il caso a decidere alcuni in-
put. Ciò che ha reso il mio modo di procedere parzialmente diverso da un programma in-
formatico è il fatto che ho deciso di intervenire in modo arbitrario ogni volta che lo ritenes-
si, per qualsiasi ragione, necessario. Per quanto mi riguarda, ricorrere a degli algoritmi non
dovrebbe imbrigliare la fantasia ma potenziarla.
Non mi sembra il caso di insistere sull’evidente semplicità dei precedenti esempi. Si po-
114 L’abaco e la rosa

trebbe desiderare di proseguirne il flusso, cioè, come si è soliti dire nell’ambito della com-
posizione tradizionale, di svilupparli. In questo modo si otterrebbero vere e proprie compo-
sizioni di piccole o grandi dimensioni. La possibilità di ottenere brani di una certa lunghez-
za sarà oggetto di successive sezioni; ora desidero invece mettere in luce un aspetto del
comporre mediante algoritmi che mi sembra stimolante.
Si immagini di trasformare le istruzioni per realizzare gli esempi precedenti in veri e pro-
pri programmi informatici (cosa non particolarmente complessa per degli esperti). A questo
punto, per ogni tipo di esempio, se ne potrebbe realizzare un numero infinito. Si immagini
di doverne scegliere qualcuno per una qualche forma di esecuzione. È evidente che, per
qualche misterioso motivo, ve ne sarebbero alcuni che la sensibilità di ciascuno giudichereb-
be arbitrariamente migliori, cioè più belli. In questo modo si realizzerebbe un autentico pro-
cesso di selezione artificiale. L’aspetto creativo del comporre si sposterebbe quindi da un lato
nella realizzazione di (si spera) fantasiosi algoritmi e programmi, dall’altro nella selezione
mediante considerazioni puramente estetiche. Rispetto al passato si tratta certo di una di-
versa concezione e realizzazione del fare artistico; il fatto che la si possa considerare svi-
lente e/o deprimente è altra cosa. Non riesco, dal canto mio, a trovare convincenti obiezio-
ni per considerare un simile modo di procedere totalmente estraneo a una qualche idea di
arte.
Oggi, in realtà, si possono già trovare sul Web miriadi di programmi che producono, con
fortuna alterna, musica in modo automatico, a partire da considerazioni teoriche ed esteti-
che anche molto diverse tra loro (nella prossima sezione tornerò su questo punto), senza
parlare di applicazioni complesse come OpenMusic, frutto dell’imponente lavoro di ricer-
catori attivi presso l’IRCAM di Parigi.
Il rapporto creativo tra musica e informatica non risulta ancora però una realtà molto
diffusa e consolidata. Tuttavia, sono propenso a credere che nel giro di alcuni anni, al mas-
simo qualche decennio, la situazione sia destinata a mutare radicalmente.
Nel suo indispensabile libro L’orologiaio cieco, il già citato biologo evoluzionista Richard
Dawkins ha mostrato qualche esempio di realizzazione di suoi «biomorfi». Questi ultimi
sono, semplificando, figure create dal computer mediante la reiterazione di alcuni motivi di
base come una T o una Y, secondo alcune semplici regole che Dawkins chiama geni. In que-
sto modo talvolta vengono a formarsi figure che l’occhio umano può facilmente riconoscere
come piante, animali, o manufatti umani come aeroplani. A questo punto si può selezionare
una di queste figure e consentirle di evolvere secondo le stesse regole iniziali. In questo modo
si mette in atto un autentico processo evolutivo, non naturale, certo, ma artificiale: qualco-
sa di analogo a quello che da sempre fanno i coltivatori di varietà vegetali o razze animali
che si ottengono mediante selezione artificiale.
Dawkins ha ottenuto in questo modo risultati stupefacenti, mettendo in evidenza che
probabilmente si tratta dello stesso processo evolutivo ottenibile mediante selezione natu-
rale, e (cosa importantissima per la comprensione di alcuni fenomeni della natura) che si
possono ottenere risultati di grande complessità a partire da un piccolo insieme di semplici
regole.
L’attuale ricerca sull’«intelligenza artificiale», sulle reti neurali e sull’autorganizzazione
Capitolo 3 115

di sistemi complessi sta iniziando a dare alcuni risultati interessanti che prospettano un
campo di indagine e potenzialità immense. Alcuni stanno lavorando anche su possibili ap-
plicazioni musicali. Ne vedremo delle belle. Gli inguaribili romantici si mettano il cuore in
pace, o elaborino idee autenticamente concorrenziali.

3.5. Fiocchi di neve, broccoli e musica

L’idea di texture ci ha introdotto nell’ambito di una concezione musicale in qualche modo


visiva. Esiste da anni un affascinante campo della ricerca matematica che mette in relazio-
ne un genere di articolatissime figure a importanti fenomeni del mondo reale: si tratta del
magico mondo dei frattali. Per la loro intrinseca bellezza le figure e gli oggetti frattali hanno
attratto schiere di appassionati (non necessariamente matematici di professione) che ela-
borano per mezzo del computer affascinanti immagini che sono oggi da molti considerate
realizzazioni artistiche a tutti gli effetti.
In termini semplificati si può definire frattale una figura risultante dalla ripetizione di
uno stesso motivo ripetuto su scala diversa. È ormai diventato un classico introdurre i frat-
tali per mezzo dei passaggi che conducono alla formazione della famosa curva di Koch e
del relativo «fiocco di neve», creati dal matematico svedese nel 1904.
Si consideri la seguente figura:

Fig. 3-3

Il primo passaggio consiste nel disegnare un segmento di retta. Dopo averlo diviso in tre
parti uguali, sulla parte centrale si disegna un triangolo equilatero avente come lato la terza
parte del segmento, che viene in seguito cancellata. Si ripete l’operazione su ogni nuovo seg-
mento; il processo è virtualmente infinito.
Se, invece di iniziare da un segmento di retta, si inizia da un triangolo equilatero il risul-
tato è una sorta di fiocco di neve:
116 L’abaco e la rosa

Fig. 3-4

Un aspetto molto suggestivo (e inquietante) del fiocco di neve di Koch è che l’area della
figura è sicuramente finita, dal momento che il fiocco può essere inscritto in un cerchio, ma
il suo perimetro è virtualmente infinito.
Un altro classico è il «setaccio di Sierpinski»:

Fig. 3-5

Qui ci troviamo di fronte a una situazione complementare alla precedente: la figura ha


perimetro finito (quello del triangolo equilatero) ma area virtualmente nulla.
Attraverso la ripetizione di elementari motivi su scala diversa si possono ottenere figure
che richiamano oggetti del mondo reale. Ecco un’immagine celebre fra gli appassionati: una
«felce frattale»:

Fig. 3-6
Capitolo 3 117

Caratteristica delle figure e degli oggetti frattali è l’autosimilarità (o autosomiglianza). Ciò


significa che non esiste una dimensione tipica di una figura o un oggetto frattale: a qualsiasi
ordine di grandezza la figura o l’oggetto risultante è una miniatura o un ingrandimento del
precedente; vige dunque il principio d’invarianza di scala.
Il termine frattale è stato coniato dal matematico franco-polacco-americano Benoît Man-
delbrot, il grande guru della materia, nel 1975. A partire dagli anni Ottanta la teoria dei
frattali ha fatto irruzione in un grande numero di campi, non soltanti scientifici. Il mondo
reale infatti ci offre un numero enorme di figure e oggetti frattali. Gli alberi, le nuvole, i vasi
sanguigni e le reti fluviali, gli alveoli polmonari, per limitarci a pochi esempi, presentano
una struttura frattale. Anche andando a fare la spesa ci si può imbattere in strutture frat-
tali come i broccoli.
Nel mondo reale la teoria dei frattali riguarda tanto fenomeni spaziali quanto fenomeni
quantitativi e temporali. Ci sono infatti fenomeni come i terremoti che non presentano una
dimensione tipica: obbediscono infatti a una legge di potenza. Leggi di potenza sono quelle
per cui, date due variabili, l’ordinata varia in modo proporzionale all’ascissa elevata a una
data potenza; possono essere quindi generalizzate così:
n
y=x.
Secondo la legge di Guntenberg-Richter i terremoti, al raddoppiare della loro intensità,
diventano quattro volte meno frequenti.
Ovviamente, le forme e i fenomeni frattali presenti in natura non presentano la regolarità
delle figure mostrate in precedenza, essendo queste delle forme idealizzate, artificiali, così
come un ramo di un albero non è esattamente la copia miniaturizzata del tronco; ciò che
conta è il principio di autosimilarità: è una considerazione importante se si vogliono utiliz-
zare le forme frattali o, più semplicemente, alcune suggestioni di esse in ambito artistico.
Esistono schiere di appassionati di computer art che ricorrono alla teoria dei frattali per
la creazione di immagini. La teoria dei frattali attrae anche per le possibili applicazioni in
ambito musicale. È sufficiente fare una semplice ricerca sul Web per trovare una quantità di
realizzazioni musicali e di programmi che permettono all’utente di creare «musica frattale».
Si tratta di applicazioni spesso interessanti, che rivelano notevoli competenze teoriche dei
loro autori (la matematica dei frattali è piuttosto difficile). Non sempre, però, gli esiti este-
tici sono paragonabili ai presupposti teorici.
In questa sezione l’approccio ai frattali, per quanto riguarda possibili implicazioni com-
positive, sarà piuttosto libero, non facendo ricorso alla complessa teoria matematica sotte-
sa ma a semplici suggestioni di carattere visivo. Dal momento che il ricorso ai frattali è di-
ventato di grande importanza in ambito scientifico e artistico (in particolare figurativo),
accennarvi qui e realizzare semplici esperimenti potrebbe essere un impulso per cercare in
seguito informazioni teoriche più consistenti in sedi più appropriate, non in ultima istanza
il Web, dove quello dei frattali sembra essere un argomento molto à la page.
Immaginiamo una prima applicazione musicale. Teniamo sempre presente che si può
definire frattale la ripetizione di un motivo su scale (in senso dimensionale) diverse. Un
semplicissimo motivo musicale può essere una triade; realizziamo ora una triade frattale:
118 L’abaco e la rosa

Es. 3-65

& w w
w

˙ ˙ ˙
& ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
˙
œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ

Ho iniziato dalla triade del primo rigo; su ogni nota della triade ho collocato una nuova
triade (secondo rigo); poi su ogni nota del secondo rigo ho collocato nuovamente una triade
(terzo rigo). Il risultato può essere considerato complessivamente su tre righi. Di fatto, pe-
rò, sia il secondo che il terzo rigo possono essere considerati singolarmente linee molodiche
frattali. Il secondo rigo contiene infatti quella che può essere considerata la proiezione del
primo, il terzo quella del primo e del secondo. I tre righi sono autosimili perché (qui su scale
temporali e altezze diverse) presentano sempre un seguito di triadi.
L’esempio precedente parte dal grande per arrivare al piccolo. Per i nostri fini sarà forse
più semplice il processo inverso: il risultato finale sarà sempre una linea frattale.
Si consideri il prossimo esempio:

Es. 3-66

& œ
œ œ

œ
& œ œ œ œ œ œ
œ œ
œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ

Sono partito dal motivo base (la triade); ho poi ripetuto lo stesso motivo su ciascuna
delle sue note, ottenendo la linea del secondo rigo. A partire da questa ho ripetuto la stessa
operazione (riproporre lo stesso motivo su ciascuna delle sue note). Ho effettuato quindi
quelle che vengono definite tecnicamente ricorsioni. Dal momento che l’approccio ai frattali
è in questa sede piuttosto libero e semplificato, in luogo dell’impegnativo termine ricorsione
impiegherò il più generico termine iterazione. Nel caso precedente, a partire da un motivo
base, ho effettuato due iterazioni; il processo è virtualmente infinito. Ho qui ottenuto lo
stesso risultato del terzo rigo dell’esempio 3-65. Certamente dal punto di vista estetico il
risultato finale dei due esempi precedenti è alquanto deludente: risulta essere del tutto
meccanico come un esercizio di Hanon.
Molti artisti visivi ricorrono oggi volentieri a suggestioni frattali perché, pur rappresen-
tando un campo d’indagine che può essere affrontato con estremo rigore, costituiscono una
via d’uscita a un’approccio geometrico di tipo euclideo. Numerose espressioni dell’arte vi-
siva e dell’architettura del Novecento presentano spesso opere che si ispirano a figure sem-
Capitolo 3 119

plici come cerchi, triangoli e quadrati. Queste realizzazioni lasciano deluse molte persone
per la freddezza del risultato: lo stesso Mandelbrot, per sua stessa ammissione. La geome-
tria dei frattali può rappresentare una via d’uscita per coloro che, in un modo o in un’altro,
fanno ancora riferimento alla natura come ineliminabile fonte d’ispirazione, dal momento
che si prende sempre più coscienza che i frattali sembrano costituire, per numerosi aspetti,
l’autentica geometria della natura. Importante è tenere conto che le forme frattali naturali
presentano sempre, come già accennato, un certo grado di irregolarità e di casualità, cosa
che le rende molto affascinanti. Si tratta di forme complesse, nel senso dato a questo termine
in precedenza; presentano quindi sia caratteri di regolarità che di caoticità. Come si è ipo-
tizzato, parte del segreto di ciò che molti percepiscono come bello consisterebbe proprio
nell’equilibrio tra ordine e caos. Se vorremo ricorrere a suggestioni frattali (o comunque geo-
metriche) nei nostri lavori sarà quindi opportuno introdurre sempre qualche elemento di ir-
regolarità o di casualità.
Torniamo all’esempio precedente; prendiamo quanto abbiamo ottenuto nell’ultimo rigo e
lanciamo i dadi:

Es. 3-67
1 4 4 6 3 3 6 3 4 1 5 5 4 5 2 2 2 3 1 5 5 4 1 4 1 4 3
7 4 6 7 3 4 1
œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ

Nella riga superiore ho assegnato una cifra da 1 a 6 a ogni nota. Ho deciso che in corri-
spondenza della cifra 1 e della cifra 6 dovessero esserci delle sostituzioni casuali di nota;
le cifre della riga inferiore indicano appunto le note sostituite (ho stabilito che, nel caso in
cui a una cifra fosse corrisposta una nota dell’esempio, dovessi procedere nella scelta ca-
suale fino a quando non avessi ottenuto una nota diversa). Ecco il risultato finale, meno ri-
gido e prevedibile rispetto al precedente:

Es. 3-68
1 4 4 6 3 3 6 3 4 1 5 5 4 5 2 2 2 3 1 5 5 4 1 4 1 4 3
7 4 6 7 3 4 1
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ

Si osserva che le nuove note sono state collocate nella posizione più vicina alle note so-
stituite.
Ovviamente risulta interessante sperimentare diversi gradi di casualità e di irregolarità
nei propri lavori. Ci sono infiniti modi di procedere.
120 L’abaco e la rosa

Ritengo sia evidente che dalla scelta del motivo iniziale dipenderà una parte consistente
della natura del risultato finale. Un motivo iniziale piuttosto frastagliato può generare un
frattale molto complesso. Si tenga conto, poi, che la crescita di un esempio musicale come
quello precedente è molto rapida. Attraverso un banalissimo calcolo, dato un motivo ini-
ziale, si può conoscere il numero di note dopo n-iterazioni. Immaginiamo di partire da un
motivo di cinque note; dopo due iterazioni il numero di note corrisponde a 5 alla terza po-
tenza, cioè 125, in base a questa semplice formula:
n (iterazioni) + 1
Numero complessivo di note di una linea «frattale» = a ,
dove a rappresenta il numero di note del motivo iniziale. È quindi opportuno iniziare da
motivi di poche note, se non ci si vuole trovare di fronte a risultati molto ingombranti.
Immaginiamo in un primo momento motivi composti soltanto da suoni appartenenti alla
scala diatonica o cromatica. L’utilizzo di altre scale (tutte le altre possibili e immaginabili),
per una ragione particolare, lo rimando un po’ più avanti.
Ecco un piccolo catalogo di motivi:

Es. 3-69

b 5 # #
&b b 8 œ œ œ œ n n n # 48 œ œ œ
œ œœ

7 nœ nœ nœ bœ
&8 nœ bœ nœ

Ho ottenuto questi motivi ricorrendo al caso. Il primo fa riferimento alla scala minore
naturale di DO; il secondo presenta un bicordo, un’evenienza tutt’altro che disprezzabile;
l’ultimo motivo l’ho ottenuto a partire da dodici cifre, a ciascuna delle quali era associata
una nota della scala cromatica.
Svilupperò ora il primo motivo (il trattamento del materiale musicale che ora propongo è
facilmente realizzabile ricorrendo a un qualsiasi software di notazione musicale; senza non
è certamente impossibile ma è parecchio più faticoso):

• 1) Per prima cosa occorrono cinque copie (in totale) del motivo, corrispondenti al nume-
ro delle sue note.
• 2) A partire dalla seconda copia (seconda battuta dell’esempio), traspongo le copie in
maniera che ciascuna cominci dalla corrispondente nota del motivo (la seconda e la ter-
za, quindi, dal SOL, la quarta dal SI bemolle, la quinta dal DO).
• 3) Occorrono ora cinque copie del risultato ottenuto.
• 4) A partire dalla seconda copia, traspongo le nuove copie di cinque battute in maniera
che ciascuna cominci dalla corrispondente nota del motivo iniziale di cinque note. Il pro-
cedimento potrebbe andare avanti all’infinito; mi fermo qui a una seconda iterazione:
Capitolo 3 121

Es. 3-70
b 5 œ œ œ œ œ
&b b 8 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ
œ
b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& b b œ œ œ œ œ œ œ œ

b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
&b b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
œ
b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ
&b b œ œ

b œ
&b b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ

(La prima riga corrisponde alla prima iterazione.)


Il risultato è del tutto banale e meccanico: bisogna introdurre elementi di irregolarità e
casualità per ottenere un risultato minimamente soddisfacente. Potrei procedere come pri-
ma, sostituendo qualche nota qua e là. Sono immaginabili, ovviamente, innumerevoli altri
modi di procedere. La prossima procedura è un po’ più elaborata di quella precedentemen-
te proposta.
Proviamo inizialmente a trasformare l’esempio nel tempo di 4/4, operazione facilissima
usando il computer. Ecco come si presenta ora l’inizio:

Es. 3-71

b 4 œ œ œœœ
&b b 4 œœœœ œœœ œœœœ œœ œ
œ

Ovviamente fin qui non abbiamo ottenuto, nella sostanza, un risultato diverso rispetto
all’esempio 3-70: ci siamo limitati a raggruppare in modo diverso le note; così, però, pos-
siamo intervenire su raggruppamenti di note (le battute di 4/4) che ci permettono di rime-
scolare le carte, per così dire.
A questo punto posso immaginare di procedere, ad esempio, nel seguente modo. Ho già
manifestato altrove la mia predilezione per procedimenti di retrogradazione di materiale
musicale. Posso considerare ora le singole battute di 4/4 composte da raggruppamenti di
due note (ogni battuta contiene quindi quattro raggruppamenti di due crome). Affidandomi
al caso, scelgo inizialmente di retrogradare un raggruppamento per battuta; ecco cosa po-
trebbe accadere:
122 L’abaco e la rosa

Es. 3-72
b 4 œ œ œœœ œ œ
&b b 4 œœœœ œœœ œ œœœ œœ œ œœœ œ œœ œœ
œ œ œ
œ
b œœœœœœœœ œœœ œ œœ œ
œ œœœ œ œœœ œœœ
œ
&b b œ œ œ œ
œ
b œ œœœ œ œ œ œ œœœœ œœ œ œœœ œ
œ œ œ œ
&b b œ œœ œ œ
œ œ œ

b œœœ œ
œœœ œœ œœœ œœ œ
&b b œ œ œœ œ œ œ œ j‰ Œ
œ œ œœ œœ

I gruppi di note che presentano la legatura corrispondono a quelli retrogradati. Si noti


che, avendo trascritto l’esempio precedente in 4/4, nell’ultima battuta mancano alcune
note per il suo completamento, aspetto, questo, che non ritengo meriti alcun tipo di censu-
ra. Si può continuare ovviamente a elaborare in modo analogo il risultato fin qui ottenuto.
Nel prossimo esempio il materiale precedente è stato inizialmente riscritto in 7/8. A quel
punto ho assegnato una probabilità del 50% a ogni battuta di essere interamente retrogra-
data e ho lanciato i dadi per procedere nelle retrogradazioni. Il risultato ottenuto è stato
nuovamente trascritto in 4/4. A quel punto ho assegnato uguale probabilità a ogni nota al-
l’interno di una battuta di essere cancellata e di essere sostituita con una pausa di corri-
spondente valore. Il risultato finale è questo:

Es. 3-73

b 4 œ œ œœœ œœœ
&b b 4 œœ œ‰ œœœ ‰ œœœ œ œœ‰ œ ‰ œœœœ
œ œ œ
œ
b œœ œ œœ œ œ
œ ‰ œœ œ ‰ œœ œœœœ
&b b œ œ ‰ œ œ œ‰ œœ œ œ
œ
œ œ œ œ
b b ‰ œœœœœœ œ œ œ œ ‰ œ œ ‰ œ œ œ œœœœ‰ œ
& b œ œ œ œ

b œœœ œ
œœ œœ‰ œ ‰ œœ œœ œ
&b b œ ‰ œœ
œ œ œ ‰ j‰ Œ
œ œ œœ œ

Le differenze rispetto all’esempio 3-72 sono consistenti. Ciò che più conta mi sembra es-
sere il fatto che alla fine della procedura si sia ottenuta una discreta varietà mediante sem-
plici operazioni completamente algoritmiche. In controluce possiamo però ancora scorgere
tracce della regolarità del materiale da cui siamo partiti.
Ritengo abbastanza ovvio che, così com’è, il precedente esempio non possa essere facil-
mente spacciato per un pezzo di musica di qualche apprezzabile valore. Ho già detto, in-
fatti, che lo scopo di questo capitolo è soltanto quello di fornire semplici spunti per proce-
dere poi autonomamente nella composizione di propri brani musicali. È vero che un brano
musicale, anche bellissimo, può essere formato da una sola linea vocale o strumentale (si
pensi al canto piano, o a alle composizioni di Bach per violino e violoncello soli). Se voglia-
Capitolo 3 123

mo però composizioni che non siano paragonabili soltanto a quelli che ho definito batteri
musicali (che sono comunque, continuando nella metafora naturalistica, organismi musicali
vivi), occorre certamente qualcosa di più. Questa differenza potrà dipendere sia dall’espe-
rienza che dalla necessità espressiva di chi vuole cimentarsi in tentativi di composizione
musicale. Per quanto riguarda il «mestiere», fare degli esperimenti, insieme all’assicurarsi
solide cognizioni teoriche, è certamente un modo di procedere efficace.
Un primo passo verso la realizzazione di esperimenti più articolati a partire da sugge-
stioni frattali potrebbe essere quello di rendere autenticamente polifonica la scrittura. De-
dicherò la prossima sezione ad alcune considerazioni ed esperimenti specifici sulla scrittu-
ra polifonica. Propongo invece ora un primo esperimento di grande semplicità.
Immaginiamo di volere realizzare qualcosa a partire da questo elemento:

Es. 3-74
œ œ œ œ
& œ

Si tratta di un frammento diatonico ottenuto mediante scelta casuale di note della scala
minore naturale di LA priva del FA (scelta del tutto arbitraria, dettata soltanto da gusto
personale):

Es. 3-75
œ œ œ
& œ œ œ

Dal frammento iniziale ottengo poi un secondo frammento:

Es. 3-76
œ œ œ œ
&

Ho ottenuto questo frammento così: prima di tutto ho eliminato l’ultima nota del primo
frammento; ho deciso poi che una delle quattro note rimaste dovesse essere sostituita con
una nota della scala di riferimento; mi sono affidato al caso sia per scegliere quale delle
quattro note andasse sostituita che per la scelta della nuova nota. I due frammenti sono
quindi imparentati: è come se il secondo fosse una sorta di mutante.
Ora procederò così:

• 1) Realizzerò una linea frattale dal primo frammento mediante due iterazioni dello stes-
so. Otterrò quindi una linea di 125 note (5 elevato alla terza potenza).
• 2) Dal momento che le iterazioni faranno inevitabilmente comparire dei FA nella linea,
procederò alla loro sostituzione con note appartenenti alla scala di riferimento, median-
te scelta casuale delle stesse (tralascio il semplice criterio per la scelta del registro di tali
note). In questo modo otterrò già una linea meno rigida rispetto a quanto ottenuto ini-
zialmente dalle due iterazioni.
124 L’abaco e la rosa

• 3) Trascriverò il risultato ottenuto in battute di 3/4. A partire dalla seconda battuta,


procederò nella retrogradazione di intere battute affidandomi al caso, assegnando a
ogni battuta una probabilità del 50% di essere retrogradata.
• 4) A questo punto, desiderando qui una certa varietà ritmica della linea, ricorrerò a
quelle che in precedenza ho definito in modo semiserio textures a scorrimento di durata o
textures a mobilità ritmica. Trascriverò quindi la linea che avrò ottenuto sempre in 3/4,
ma in modo che in ogni battuta ci siano soltanto cinque ottavi: così, sempre affidandomi
al caso, potrò fare valere in ogni battuta una delle cinque note la durata di una semimi-
nima.

Ecco cosa ho ottenuto seguendo la procedura, accettando l’eventualità di avere com-


messo anche alcuni errori:

Es. 3-77
3 œ œ œ œ œ œ œ j œ
&4 œ J œ J œ œ œ œ œ Jœ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ
œ
œ œ œ œ œ œ œ œ Jœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ j
& œ J œ Jœ J œ j
œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ J J œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
J
œ
J œ œ œ œ œ œ

œ œ œ œ œ œ œ j
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ j
œ œ œ

& œ œ œ œ œ œ œj œ j œj j j j
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Ora passerò a elaborare il secondo frammento, in modo analogo a quanto realizzato in


precedenza. Una precisazione: essendo il frammento composto da quattro note, con due
iterazioni otterrò 64 note, un numero di note insufficiente se vorrò unire questa nuova ela-
borazione al precedente esempio. Del resto con tre iterazioni ne otterrei 256, un numero ec-
cessivo. Qui effettuerò comunque tre iterazioni conservando soltanto 125 note, numero cor-
rispondente alle note del precedente esempio. A questo punto il modo di procedere sarà
analogo all’elaborazione del primo frammento:

• 1) Procederò alla sostituzione dei FA risultanti dalle iterazioni con note appartenenti
alla scala di riferimento, mediante scelta casuale delle stesse.
• 2) Trascriverò il risultato ottenuto in battute di 3/4. A partire dalla seconda battuta,
procederò nella retrogradazione di intere battute affidandomi al caso, assegnando a
ogni battuta una probabilità del 50% di essere retrogradata.
• 3) Anche qui tratterò il ritmo della linea in modo analogo a quanto fatto in precedenza.
Trascriverò la linea che avrò ottenuto sempre in 3/4, in modo che in ogni battuta ci sia-
no adesso soltanto quattro ottavi: così, sempre affidandomi al caso, potrò fare valere
Capitolo 3 125

qui in ogni battuta una delle quattro note la durata di una semiminima puntata.

Ecco cosa ho infine ottenuto:

Es. 3-78
3 œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ. œ
&4 J J œ œ œ
J J

œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ. œ
J J

œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ
& œ œ
J J J
œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ. œ
J
œ œ œ. œ œ œ œ. œ
J J

œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& J

Anche se potrà sembrare bizzarro, unisco ora le due linee, succeda quel che succeda; il
risultato è mostrato nell’esempio 3-79. Sotto il profilo di una scrittura polifonica tradizio-
nale questo esempio potrebbe essere considerato insensato, sgrammaticato.

Es. 3-79
3 œ œ œ œ
&4 œ
œ
J œ
œ œ œ œ œ œj œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ
J J œ œ
3 œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ . œ
&4 J J œ œ œ
J J
œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
J œ œ œ œ œ œ œ œ œ j
& J J œ œ œ j
J œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ. œ
J J

œ œ œ œ œ œ
&œ J
œ œ œ
J œ œ œ œ œ œ
J œ
œ
J œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ. œ œ œ
& œ œ œ œ
J J J

œ œ œ œ œ œ j
&œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ j
œ œ
œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ. œ
J
œ œ œ. œ œ œ œ. œ
J J

&œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œj œ j œj j
œ œ œ
j j
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& J
126 L’abaco e la rosa

La curiosità è un ingrediente fondamentale nel fare umano. Dal momento che ho ottenu-
to questo risultato seguendo, di fatto, un algoritmo, cioè una procedura rigorosa, e dal mo-
mento che le linee, come si è visto, sono tra loro affini, non lo trovo del tutto inaccettabile.
Ritenerlo bello o brutto è un’altra cosa; prima di gettarlo alle ortiche voglio immaginare una
sua possibile elaborazione. Il tipo di scrittura, di texture, mi ricorda quella di certa musica
dell’estremo oriente, in cui più esecutori suonano versioni differenti di una stessa melodia
realizzando ciò che si definisce tecnicamente un’eterofonia. Dal momento che qui le due linee
sono affini, non mi pare un’analogia del tutto azzardata. Ricorrendo anche soltanto alle ri-
sorse musicali di cui è dotato ogni computer (il General MIDI), posso assegnare le linee del
precedente esempio a due strumenti esotici come il koto e la kalimba. Scopro che il risultato
non mi dispiace affatto: decido così di andare avanti.
Prima di procedere, ritengo necessario spendere qualche parola su un aspetto tecnico
dell’esempio precedente. La prima battuta prende le mosse da una condotta all’unisono. È
possibile d’altronde che, sovrapponendo linee ottenute da indipendenti elaborazioni, si
formino unisoni e ottave parallele, un tipo di condotta polifonica ritenuta povera e bollata
come errore tanto in contesti tradizionali quanto in molta musica del Novecento. Come ab-
biamo visto, anche la scrittura improntata all’atonalità tende a evitare una condotta paral-
lela d’unisono e d’ottava (nessun problema invece per le quinte parallele: al di fuori del
contesto tradizionale non vengono percepite come un problema); non solo, ma evita spesso
anche i singoli raddoppi di suoni. Se in altri contesti ritengo che una condotta parallela
d’unisono e d’ottava (che non risulti da evidenti raddoppi di rinforzo) costituisca effetti-
vamente una problematica caduta d’informazione, in esperimenti come il precedente penso
che possiamo anche non curarcene e considerarla una semplice evenienza. In realtà, quello
delle ottave parallele (e unisoni) non dovrebbe essere un dogma di fede. Le composizioni
polifoniche del Duecento, ad esempio, contengono in numerosi passaggi unisoni e ottave
parallele. In quel contesto non danno alcun disturbo e lasciano inalterato il fascino di quella
musica. Volendo, ovviamente, si possono escogitare innumerevoli e semplici modi per neu-
tralizzare le ottave parallele, mediante operazioni di sostituzione o cancellatura.
A questo punto desidero aggiungere al precedente esempio alcuni suoni che servano a
realizzare una maggiore consistenza sonora. L’idea più semplice è quella di sottoporre al-
l’esempio una linea di basso. (Nella prossima sezione farò qualche elementare considera-
zione, al di là degli esempi della tradizione, su quello che potrebbe essere definito un am-
biente sonoro: una linea di basso può essere efficace in questo senso.)
Penso in realtà a qualcosa di più articolato di una linea di basso ma, allo stesso tempo,
a un intervento poco invasivo o distraente. Il mio pensiero va subito alla serie degli armoni-
ci. Come molti sapranno, in natura non esistono suoni puri, cioè composti da singole fre-
quenze per ogni suono. Ogni suono è infatti sempre un’insieme, virtualmente infinito, di
suoni. Dato ad esempio un DO, i primi armonici sono questi:
Capitolo 3 127

Es. 3-80

& œ
œ œ

? œ
œ
˙

Quando suoniamo il primo DO, ad esempio su un pianoforte, oltre a questo, con un po’
d’attenzione, possiamo udire alcuni degli armonici; ciò è molto evidente per il secondo, il
primo SOL.
Nell’elaborazione del precedente esempio sottoporrò alle due linee melodiche suoni sin-
goli e poi suoni via via più composti dalla sovrapposizione di armonici:

Es. 3-81
? ˙
˙ ˙
˙ ˙ ˙

Passo ora alla fase finale dell’elaborazione. Ascoltando più volte l’esempio 3-79 mi vie-
ne voglia di realizzare qualcosa che ricordi una sorta di jingle o una musica per immagini di
tipo documentaristico. Decido di ritrascrivere l’esempio in 4/4; poi di raggruppare alcune
battute, corrispondenti a due classici periodi di otto unità. (Il periodo di otto battute è
un’unità costruttiva fondamentale tanto per Beethoven che per una canzone di Gershwin o
di tanta musica dance.) Riorganizzando metricamente il frammento nel modo che ho detto
mi troverò con una sorta di resto: alcune battute che utilizzerò nella parte finale del brano.
Oltre a ciò penso a un montaggio in cui gli elementi costitutivi compaiano in successione e a
una ulteriore particolarità. Prima di ogni altra considerazione rimando però al risultato
finale mostrato nell’esempio 3-82.
Nella riorganizzazione del materiale ho trasportato le linee originali all’ottava superiore.
Oltre a una parte di archi (virtuali, da computer), ho aggiunto un effetto che facilmente po-
trebbe essere considerato di cattivo gusto: si tratta del rumore delle onde del mare compre-
so nel General MIDI, l’orchestra virtuale in cui trovano posto anche una serie di effetti come
quello appena citato.
Inizialmente ho realizzato la parte che va dal principio dell’ultimo ritornello alla fine del
brano. Alle due linee originarie ho aggiunto, all’ottava inferiore, altre due linee che non sono
altro che le stesse linee traslate di una semiminima. In questo modo si crea l’effetto sugge-
stivo di una sorta di riverberazione, ciò che di fatto è qui un canone doppio (per quanto ri-
guarda un discorso più ampio sui canoni rimando al capitolo 8). La parte di archi nel pre-
sentare sezioni di otto battute (due suoni fondamentali, qui con i primi due armonici) ri-
chiama una situazione piuttosto frequente nel pop.
Il montaggio finale prende le mosse dalla prima linea e una linea di sole fondamentali.
Con il primo ritornello il brano comincia a crescere (introduzione della seconda linea e del
primo armonico nella parte di archi). Nel secondo ritornello c’è un ulteriore livello di cresci-
ta. Si noti come la crescita riguardi anche il numero di ripetizioni del gruppo di 16 battute
128 L’abaco e la rosa

Es. 3-82
h»¡¡™
[Koto 1] œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
4 œ
&4
[Kalimba 1]
4 ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
&4
[Koto 2]
4 ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
&4
[Kalimba 2]
4 ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
&4
[Archi]
?4
4
w w w w w w
[Seashore]
÷ 44 w w w w w w

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ
J J J œ œ œ œ œ
& J
?
w w w w w w
œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ Jœ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ ..
& J
œ œ œ œœœ œ œ œ œ œ. œ
∑ ∑ ∑ ∑ .. J
&

? ..
w w
w w w w w w
÷ ∑ ∑ ∑ ∑ .. ∑ w
œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ J J J œ œ
& J
œ
œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ
J J
&

?
w w w w w w
w w w w w w
÷ w w w w w ∑
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ
&
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ
J
&

?
w w w w w w
w w w w w w
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ Jœ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
& œ œ Jœ œ .. .. œ œ

œ œ œ œ œ j
∑ ∑ .. .. Œ œ
J œ J œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ
& œ J œ œ œ œ œ œ œ
œ
œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ
œ
J .. .. J J
&

∑ ∑ .. .. Œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ
& J J

? .. .. w w w w
w w w w w w
w w w w w w
÷ ∑ ∑ .. .. ∑ ∑ ∑ w
Capitolo 3 129

œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ
J J J œ œ
& J
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ J œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
J J J
œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
J
&
œ œ œ œ œ œ œ
& œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ
J J
? w w w w w
w w w w w
w w w w w
÷ w w w w w

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ
&

& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ. œ œ œ œ œ œ
J
&

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ
œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ
J
œ œ
J
? w w w w w
w w w w w
w w w w w

3 volte œ œ œ œ œ >
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ >œ œ
œ œ œ œ Jœ œ œ œ œ
œ ..
œ
J J Œ
& œ J

œ œ .. j j j j
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ >œ
œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ
œ
œ œ. œ
œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ >œ >œ >
J .. J Œ
&

œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ . œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ >œ >œ
& œ. J . œ

? w w .. w w w
w w w w w
w w w w w

(una, due, tre volte). La parte conclusiva, come ho già detto, è una sorta di resto.
Il brano precedente assomiglia a tanta musica «di consumo» (potrei affibbiargli un titolo
confacente a questo genere, tipo «Oriental Sea»). Qualcuno potrebbe essere irritato dalla
leggerezza del precedente esperimento, collocato dopo esempi di autori siderali. Per quanto
mi riguarda, non ritengo che sia oggi una garanzia di seria formazione musicale lo studio di
uno stile particolare o di un insieme di tecniche blasonate a scapito di altre. Ritengo certo le
tecniche classiche molto formative, necessarie (non sufficienti), ma giudico in modo estre-
mamente positivo le aperture nei confronti di situazioni musicali più vicine alle nostre at-
tuali necessità (come ad esempio la musica «di consumo» o per le immagini). Che lo si vo-
glia o no il mondo attuale ha maggiore bisogno di musica per le immagini che di quartetti
per archi, per limitarsi a un esempio. Certo, scrivere una poesia è cosa diversa rispetto allo
scrivere il testo di uno spot pubblicitario. Non necessariamente però un buon poeta può ri-
velarsi un buon copywriter (ovviamente vale il contrario). Sono tra coloro che sono disposti
a scommettere che ascoltando le ragioni sia dell’alto che del basso possiamo godere di gran-
130 L’abaco e la rosa

di benefici.
In questa sezione liberamente ispirata al mondo dei frattali ho fin qui elaborato esempi
che facevano riferimento soltanto alla familiare scala diatonica. Ovviamente si può appli-
care quanto fatto anche a situazioni che facciano riferimento ad altri tipi di scale.
Come abbiamo visto, qualche volta le iterazioni di un frammento possono essere proble-
matiche, quando si vogliano escludere una o più note, facendo ad esempio riferimento,
come in precedenza, a una scala di sei note. In questo senso, la scala cromatica è di facilisi-
mo impiego: tutte le iterazioni di un frammento improntato alla scala cromatica faranno
necessariamente riferimento a essa. Con la scala cromatica il problema, semmai, è quello
della varietà del risultato che, in base a semplici iterazioni, sarebbe rigido e prevedibile.
Anche nel caso dell’utilizzo di materiale cromatico è quindi necessario pensare a procedure
finalizzate a rendere più duttile l’esito finale, ricorrendo magari alla sostituzione di note e
alla manipolazione di intere sezioni.
Propongo ora un caso particolare. La scala di riferimento è una scala di sette note, ma
non è riconducibile alla familiare scala di DO:

Es. 3-83

& œ #œ œ bœ
#œ #œ œ

Con quella di DO quest’ultima scala ha in comune il nome delle note. Come la scala di
DO, inoltre, è una successione diatonica, cioè una successione di note contigue senza che vi
sia la ripetizione del nome di alcuna. (Ricordo la definizione di semitono diatonico e di semi-
tono cromatico: si ha il primo quando cambia il nome delle note che lo compongono, ad
esempio SI-DO; si ha il secondo quando non cambia il nome delle note che lo compongono,
ad esempio DO-DO diesis.) Facendo riferimento a una bizzarra armatura, potrei riscrivere
l’esempio precedente così:

Es. 3-84

n ## n
& # nb œ œ œ œ œ œ
œ

In termini tecnici ho fatto ricorso a un’armatura non standard (Bartók, ad esempio, ne ha


fatto talvolta uso). L’utilità di un simile approccio sarà evidente fra poco.
Proviamo a realizzare ancora, come nel capitolo 1, qualche set di scale con caratteristi-
che simili alla precedente. Immaginiamo ad esempio di dividere il totale cromatico in cinque
segmenti:

Tab. 3-5

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
Capitolo 3 131

Collocando due x nei segmenti di tre caselle e una x in quelli di due otteniamo scale di
sette note. Il primo segmento corrisponderà alle note DO e RE, il secondo a MI, il terzo a
FA, il quarto a SOL, il quinto a LA e SI.
Possiamo collocare le x nei segmenti in base a un criterio di casualità. Proviamo in que-
sto modo a stendere un set di sei scale:

Tab. 3-6

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
x x x x x x x
x x x x x x x
x x x x x x x
x x x x x x x
x x x x x x x
x x x x x x x

Tradotta in note la tabella corrisponde a questo prospetto:

Es. 3-85

n##n n
& #œ œ bœ nb œ œ œ
#œ œ œ œ œ œ œ œ
#nnb n
& œ œ œ nn œ œ œ
œ bœ œ #œ œ œ œ œ
nnnn b
& œ œ œ n n œ œ œ
œ œ bœ œ œ œ œ œ
###n n
& #œ #œ œ #n œ œ œ
#œ œ œ #œ œ œ œ œ
n##n b
& #œ œ œ n n œ œ œ
#œ œ bœ œ œ œ œ œ

& œ œ bœ bbnbnnn œ œ œ
œ bœ bœ œ œ œ œ œ

Ovviamente risulta molto più semplice la lettura delle scale quando sono scritte come
nella prima colonna. Scriverle con un’armatura non standard serve, come vedremo, ad altro.
Proviamo a immaginare ancora un set. Questa volta dividiamo il totale cromatico in tre
segmenti:

Tab. 3-7

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Possiamo, ad esempio, collocare due x nel primo e nell’ultimo segmento e tre x nel seg-
mento centrale. Procedendo ancora collocando le x secondo un criterio di casualità, possia-
mo ottenere questo nuovo set:
132 L’abaco e la rosa

Es. 3-86

##nn #
& œ #œ œ # n œ œ œ
#œ œ #œ #œ œ œ œ œ
#nn# n
& œ œ bœ nb œ œ œ
œ #œ œ #œ œ œ œ œ
#nnb #
& œ œ œ n n œ œ œ
œ bœ #œ #œ œ œ œ œ

& œ bœ bœ bnbbnnn œ œ œ
œ bœ œ œ œ œ œ œ

& bœ œ bœ bnn#bnn œ œ œ
œ #œ œ œ œ œ œ œ
nnnn n
& œ œ œ nn œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ

Come si vede, lo schema iniziale consente anche la formazione della scala di DO mag-
giore.
Immaginiamo ora di realizzare una linea «frattale» utilizzando una delle scale dei prece-
denti esempi. Sia procedendo a mano che facendo ricorso al computer, effettuare le itera-
zioni non risulterà molto agevole. Nel primo caso infatti bisognerà continuamente fare at-
tenzione a non lasciare per strada qualche alterazione, nel secondo invece, i programmi di
notazione musicale ci mettono di solito davanti alla scelta di fare trasposizioni diatoniche
o cromatiche. Nel primo caso, partendo da situazioni non riconducibili alla successione dei
tasti bianchi del pianoforte, vengono fuori risultati piuttosto bizzarri; nel secondo, la tra-
sposizione fa riferimento all’esatta distanza intervallare del modello da trasporre: le tra-
sposizioni conterranno quindi inevitabilmente note estranee alla scala originale. (Se tra-
sporto diatonicamente la scala di DO maggiore alla seconda ottengo, di fatto, il modo dori-
co, che contiene soltanto note della scala di DO; se trasporto cromaticamente la stessa sca-
la di DO alla seconda maggiore ottengo la scala di RE maggiore, che contiene, rispetto a
quella di DO, due note estranee: il FA diesis e il DO diesis.)
Facciamo ora una prova. Compongo un frammento di cinque note a partire dalla prima
scala dell’esempio 3-85:

Es. 3-87

n #n n 5 œ œ œ œ
& # nb 8 œ

Effettuo una iterazione. Utilizzando il computer, dal momento che l’armatura non stan-
dard viene interpretatata come qualsiasi altra armatura tradizionale e che la linea non pre-
senta alcuna alterazione momentanea, l’operazione è facilissima: posso infatti senza alcun
problema ricorrere alla trasposizione diatonica:
Capitolo 3 133

Es. 3-88

n #n n 5 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& # nb 8 œ œ œ œ œ œ œ œ

Altrettanto facilmente posso trascrivere la linea in notazione tradizionale:

Es. 3-89
5 œ œ œ #œ œ bœ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ #œ #œ œ œ bœ
&8 œ œ #œ œ #œ

Parto ora da un altro frammento:

Es. 3-90

& œ œ œ œ

Effettuo due iterazioni:

Es. 3-91
2
&4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ

& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ

& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Mi propongo ora di applicare alcune armature dell’esempio 3-86 secondo questa proce-
dura. Scelgo inizialmente un’armatura affidandomi al caso. Stabilisco che con una probabi-
lità del 50% ogni tre battute possa cambiare l’armatura in chiave. Anche qui la scelta è
affidata al caso, ma in maniera tale che, qualora si debba cambiare armatura, non possa ri-
presentarsi l’armatura precedente. Stabilisco inoltre che una stessa armatura non possa ri-
manere per più di sei battute, a parte l’eventualità che alla fine della linea rimanga un resto
inferiore a tre battute. Ottengo questo risultato:
134 L’abaco e la rosa

Es. 3-92
# nb # 2 nnnn n n b n
& n n n 4 œ œ œ œ œ œ œ œ n nb b n n œ œ
œ œ œ œ œ œ
n b œ œœœœ œ nnn n# n
& b b nnn œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ n n n nb n b n œ œ œ œ
œ
n#
& b n bnn œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Si noti che non essendoci stato un cambio d’armatura dopo tre battute a partire dall’ul-
timo, a causa del resto di una battuta, l’ultimo segmento dura sette battute.
Dopo avere ulteriormente trascritto la linea in 5/8, averne retrogradato alcune battute
secondo un criterio casuale e avere nuovamente trascritto la linea in 2/4, ottengo quanto
segue:

Es. 3-93

2 œ #œ #œ œ bœ bœ œ bœ
&4 œ œ bœ
#œ #œ #œ #œ nœ nœ œ

œ

bœ œ bœ œ œ bœ bœ
& œ œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ

œ
&
œ œ œ nœ œ œ œ œ œ bœ œ œ #œ œ #œ bœ bœ
#œ œ œ #œ bœ #œ

In quest’ultima versione ho scritto le alterazioni in modo da privilegiare la comodità di


lettura, più che l’esatta aderenza alle armature (d’altronde non fa alcuna differenza per i
nostri fini scrivere, ad esempio, DO diesis o RE bemolle).
Imponendo delle armature non standard a un’innocua linea diatonica come quella del-
l’esempio 3-91, ho deformato, per così dire, la stessa. Con un’analogia un po’ forzata, ma
per quanto mi riguarda suggestiva, si potrebbero interpretare le armature non standard come
una sorta di tonalità non euclidee. È affascinante pensare che in uno stesso momento stori-
co, il XIX secolo, si è cominciato a concepire la geometria, la logica, la musica, le arti figura-
tive e la letteratura in un modo radicalmente nuovo, che ha sconquassato un pensiero so-
stanzialmente plurimillenario.
Ancora un’osservazione. Si potrebbe non essere soddisfatti da situazioni che presentino
soltanto note riconducibili, per quanto riguarda il nome, alla scala di DO. È banale osserva-
re che, per soddisfare ogni esigenza, si potrebbe sempre trasportare cromaticamente qual-
siasi situazione musicale. Potrebbe essere invece più interessante compiere qualche esperi-
mento di trasporto cromatico di alcune porzioni di una situazione musicale ottenuta con
armature non standard.
Effettuerò ora un ultimo esperimento di scrittura liberamente ispirata ai frattali; percor-
rerò a grandi linee le tappe della sua realizzazione.
Capitolo 3 135

Comincerò da un frammento diatonico di cinque note diverse:

Es. 3-94
& œ œ œ œ œ

Da esso realizzerò due linee «frattali»: la prima come successione di crome, la seconda
come successione di semiminime. Entrambe le linee saranno deformate attraverso l’uso del-
le armature non standard dell’esempio 3-86. Pensando poi a un risultato in 4/4 e a un im-
piego delle textures «a scorrimento di durata», valuto che in ogni battuta della prima linea
(quella in ottavi) mi serviranno sei note. Realizzando due iterazioni di un frammento di
cinque note, otterrò 125 note; eliminando le ultime cinque otterrò 120 note, che occuperanno
così esattamente 20 battute. Per quanto riguarda la seconda linea (quella in quarti) deside-
ro che in ogni battuta vi siano tre note: una sola iterazione sarà insufficiente, due saranno
eccessive; è chiaro allora che dovrò conservare soltanto quanto corrisponde a 20 battute
contenenti ciascuna tre note. Anche nella seconda linea impiegherò textures «a scorrimento
di durata», ma in un maniera leggermente diversa da quanto fatto fin qui.
Ho detto che nella seconda linea desidero avere in ogni battuta tre note come nel prossi-
mo esempio:

Es. 3-95
4
&4 œ œ œ

Potrei, affidandomi al caso, allungare una delle qualsiasi note assegnandole la durata di
una minima. In questo modo otterrei un risultato molto «quadrato». Dal momento che ho
intenzione che la seconda linea, opportunamente trasposta, formi una linea di basso molto
sincopata, vagamente ispirata a un funky un po’ delirante, devo procedere in altro modo.
Torniamo all’esempio precedente; per ottenere una battuta corretta dal punto di visto rit-
mico manca una semiminima. Posso considerare questo valore come la somma di due cro-
me. Immaginiamo, inizialmente, di volere collocare una croma nella battuta dell’esempio
precedente; potrei collocarla prima di una delle tre note o dopo l’ultima: si danno quattro
possibilità. Ripetendo la stessa procedura per l’inserimento di una seconda croma, si pos-
sono ottenere risultati interessanti: sia sincopati che «quadrati»; ecco qualche esempio:

Es. 3-96
4
&4 œ ‰ œ ‰ œ ‰ œ œ œ ‰ œ ‰ ‰ œ œ œ Œ œ œ

(L’ultima battuta dell’esempio precedente ripropone la penultima battuta in una forma


di scrittura sicuramente più corretta.)
L’esempio 3-97 mostra il risultato finale dell’elaborazione. Come di consueto, sarà forse
utile spendere qualche parola di commento.
È sufficiente soffermarsi sulla prima e sull’ultima linea, essendo la seconda e la terza
136 L’abaco e la rosa

Es. 3-97
h»¡¢ª
j nœ bœ nœ œ œ nœ œ
4 j
& 4 .. œ b œ œ bœ œ œ #œ œ œ œ .. .. œ œ

b œ b œ œ b œj œ J
j œ bœ nœ bœ nœ . . bœ œ nœ œ œ
& 44 .. Œ
j
œ bœ œ bœ J #œ J. . œ œ bœ bœ œ bœ œ œ

& 44 .. Œ ‰ œj b œ œ bœ œ bœ nœ œ bœ #œ .. .. œ œ b œ œ œ œ nœ
J bœ bœ œ œ œ
œ
œ J bœ
t 44 .. ‰ j j ‰ j j .. .. n œ bœ >œ j j
œ> b œ œ œ bœ
‰ œ œ ‰ bœ ‰ œ ‰ ‰ œ œ ‰ bœ
>
#œ nœ œ #œ œ bœ bœ œ #œ œ œ bœ #œ
œ œ
& bœ œ bœ #œ .. .. n œ nœ J œ œ œ J
J J œ
œ œ #œ bœ œ bœ œ bœ bœ œ #œ œ #œ œ
& #œ .. .. n œ nœ #œ œ nœ j
œ œ œ œ œ œ
b œ
J
œ nœ #œ bœ œ bœ nœ œ œ bœ bœ œ #œ œ
j œ #œ bœ #œ
& œ # œ .. .. œ J J J œ nœ œ œ œ œ

t ‰ œ > >
j j œ ‰ .. .. ‰ œj œj ‰ œ ‰ œ ‰ ‰ œ Jœ Jœ œ ‰
> #œ œ bœ #œ bœ > >

n œ bœ nœ œ bœ nœ nœ œ #œ nœ bœ . . bœ bœ nœ bœ nœ nœ bœ bœ nœ

& #œ . . J J #œ nœ
œ bœ b œ
n œ b œ œ b Jœ nœ nœ œ #œ .. .. œ b œ b œ œ n œ b œ n œ # œ n œ b œ bœ nœ
& J #œ nœ
œ bœ b œ
J œ nœ bœ œ bœ n œ œ n œ œ # œ . . œ œ b œ b œ n œ b œ n Jœ bœ
& J J #œ J . . # œ n Jœ b Jœ n œ J
t ‰ >œ j j > bœ
bœ œ œ ‰ bœ nœ Œ .. .. n œ ‰ Jœ Jœ ‰ # œ œ bœ Œ

œ bœ nœ j bœ j
& j bœ œ bœ œ nœ nœ œ . . #œ bœ œ œ
J . . bœ nœ bœ #œ œ
nœ œ œ #œ œ
œ
bœ œ b œ n Jœ j
& b œ œj b œ n œ n œ bœ
# œ b œ œ œ .. .. œ œ b œ n œ b œ # œ
œ œ œ #œ œ J
œ
nœ b œ œ n œ bœ œ bœ
& J J bœ œ #œ œ bœ œ
œ nœ œ J #œ œ .. .. b œ œ
œ J bœ nœ bœ œ #œ
t ‰ >œ œ œ œ > œ œ
J J >œ ‰ ‰ œj œj œ ‰ œ ‰ œ ‰ .. .. œ Œ
> œ
bœ œ œ œ œ bœ bœ œ œ nœ .
bœ œ nœ œ #œ œ œ œ #œ œ .. .. b Jœ nœ œ œ .
& #œ J #œ
œ bœ œ bœ œ œ nœ œ œ bœ
& œ
bœ œ #œ nœ œ # œ œ œ J œ J .. .. œ œ b Jœ œ # œj ..
œ
j bœ œ œ nœ œ œ # œ œ œ œ œ .. .. b Jœ œ b œ n œ œ œ œ œ b œ œ b œ œ ..
& œ œ J #œ J
œ œ > > j j œ
t œ ‰ J J œ ‰ œ œ ‰ ‰ .. .. œ ‰ œ œ œ ‰ ‰ œ œ œ ‰ ..
> >œ J J
Capitolo 3 137

una riverberazione della prima. Questa volta, a differenza di precedenti esperimenti, non
ho voluto effettuare retrogradazioni o altri interventi per rendere meno geometrica la linea.
Ho ritenuto sufficiente procedere, in modo indipendente per le due linee, all’assegnazione
di alcune armature (scelte secondo un criterio di casualità) dell’esempio 3-86. Ho così otte-
nuto un brano «frattale» abbastanza puro.
Di fatto, il breve brano potrebbe essere letto come una sorta di canone per aumentazione
(rimando ancora al capitolo 8), tra linea superiore e linea più bassa (con alcune linee di
contorno). Inoltre, a causa degli sfasamenti ritmici dovuti alla tecnica adottata, si potreb-
bero trovare alcune (labili) analogie con quanto facevano talvolta alcuni maestri del Quat-
trocento come Johannes Ockeghem, in particolare quando scrivevano i cosiddetti canoni con
prolazioni. Anche in questo esempio non mi sono affatto preoccupato per l’eventuale insor-
genza di parallelismi d’unisono e d’ottava.
Per quanto riguarda l’inserimento dei ritornelli (la ripetizione è un elemento d’ordine in
una situazione apparentemente caotica) mi sono regolato in questo modo: desideravo che il
brano si articolasse in segmenti di 2, 3, 5 battute (i numeri appartengono alla già citata suc-
cessione di Fibonacci). Per la scelta mi sono affidato a un criterio di equiprobabilità per
ogni lunghezza (ho accettato l’eventualità, che nell’esempio non si è verificata, di un resto
di battute numericamente non corrispondente alle tre cifre scelte).
Si osservi il trattamento dei segni di articolazione nella linea più bassa: ho deciso che
dovessero essere accentate tutte le note che non cadessero sui tempi forti, a eccezione delle
note che presentavano una legatura di valore.
Per quanto riguarda una possibile esecuzione del brano (anche virtuale, al computer)
immagino che le tre voci superiori siano eseguite da tastiere o chitarre elettriche, magari po-
nendo in evidenza, per quanto riguarda la dinamica, la prima delle tre linee; per la linea più
grave immagino bene il suono di un agguerrito basso elettrico (nell’esempio, pensando a
un’esecuzione virtuale, non mi sono preoccupato del registro reale dello strumento: alcune
note vanno infatti più in basso dell’estensione di un normale strumento).
Si potrà dire peste e corna del precedente esempio, ma non che assomigli, per quanto ri-
guarda il carattere, all’esempio 3-82. Mi sembra ormai chiaro che la scelta di una particola-
re tecnica non sia interamente responsabile dell’orientamento stilistico ed espressivo di un
brano, come del resto la scelta di particolari materiali sonori, anche se può sembrare meno
evidente. Si potrebbe azzardare che oggi soltanto persone in malafede possano dare giudizi
qualitativi facendo pesare in modo consistente la scelta di una tecnica o di materiali da
parte di un musicista. A ben vedere, ci si può ritrovare a essere passatisti usando materiali
fortemente dissonanti, ad esempio, e all’avanguardia usando pretesi materiali consumati
come accordi maggiori e minori. Purtroppo non è la scelta di particolari tecniche o materiali
a non farci cadere nel burrone della banalità, sul cui ciglio siamo quasi tutti condannati a
muovere i nostri passi.

Potrebbe essere interessante elaborare ora composizioni più estese, realizzando un mag-
gior numero di iterazioni di un frammento.
Si sarà notato che, procedendo nelle iterazioni, una linea «frattale», a seconda della for-
138 L’abaco e la rosa

ma del frammento iniziale, cresce verso l’alto, verso il basso o entrambe le direzioni. A un
certo punto ci troveremmo nella necessità di porre un tetto o un pavimento all’espandersi
della linea. Si potrebbe immaginare, ad esempio, che quando la linea oltrepassi un limite di
registro prestabilito si debba abbassare di una o più ottave l’intera battuta (o battute) in
cui si verifica il fenomeno. Si possono immaginare innumerevoli interventi di questa natura.
Grazie a questo tipo di interventi possiamo continuare in modo indeterminato l’elaborazio-
ne «frattale» di un frammento.
Detto questo, è così possibile trovarsi di fronte a estesi sviluppi di minuscoli frammenti.
Volendo elaborare queste grandi campiture sarebbe opportuno fare i conti con le inevitabili
implicazioni relative alla complessità di un brano di grandi dimensioni.
Immaginiamo di avere realizzato, mediante diverse iterazioni di un frammento e ulteriori
elaborazioni di linee più o meno indipendenti l’abbozzo di un brano piuttosto esteso. La
necessità di varietà nel grado di articolazione della scrittura ci potrebbe suggerire di alter-
nare momenti in cui il brano faccia riferimento a scale di un certo numero note ad altri in cui
le scale di riferimento siano formate da un numero inferiore di note. Si potrebbero alternare
momenti in cui la scala di riferimento sia diatonica ad altri in cui si faccia riferimento a
scale «non euclidee». Anche impiegando in modo continuativo quest’ultimo genere di scale,
si può facilmente graduare la densità sonora utilizzando per un lungo tratto in tutte le linee
(se diverse linee sono coinvolte) una stessa scala, e sfociando in seguito in una regione dove
il susseguirsi di scale sia più rapido e dove sia possibile anche la sovrapposizione di più
scale. Inoltre si potrebbe fare tacere momentaneamente qualche linea, magari ricorrendo a
criteri algoritmici anche per questo aspetto dell’organizzazione del brano; ciò potrebbe con-
tribuire a fare respirare la composizione.
Si tratta, in definitiva, di praticare interventi su un materiale che all’inizio si è formato in
maniera del tutto automatica. Si può procedere facendo in modo che la nostra personalità
e la nostra volontà emergano in maniera fortemente concorrenziale rispetto all’imporsi au-
tomatico del materiale iniziale. Oppure si possono immaginare interventi più discreti, assu-
mendo un atteggiamento quasi da osservatori. In ogni caso, ritengo che non sia da escludere
l’eventualità di ottenere risultati interessanti e imprevedibili.
Resta poi, ovviamente, la possibilità di comporre un brano che risulti essere un montag-
gio di elaborazioni «frattali» di diversi frammenti. Potrebbe essere interessante modificare
uno stesso frammento, in modo tale che possa dare luogo a un semplice mutamento o una
sostanziale evoluzione. Avrò modo di tornare su questo punto nella sezione 3.7.
L’applicazione di suggestioni frattali nella composizione musicale, come ho già detto al-
l’inizio di questa sezione, può andare in direzioni del tutto diverse rispetto a quanto ho
proposto fin qui. Le applicazioni, visto l’estremo interesse di questo relativamente nuovo
campo del sapere, sono probabilmente innumerevoli e affascinanti. Va da sé che quanto
realizzato qui è soltanto l’esito di un pallido riflesso di una teoria di grande complessità.
Anche se non siamo attirati dalla possibilità di comporre brani di consistenti dimensioni
ispirati ai frattali, brevi situazioni musicali composte a partire da suggestioni derivanti da
essi potrebbero rivelarsi fruttuose in altri contesti: proporrò qualche esempio più avanti.
Capitolo 3 139

3.6. La dimensione verticale

Fino a questo punto, a parte il sostegno armonico dell’esempio 3-82, ogni risultato polifoni-
co dei nostri esperimenti è sorto dalla sovrapposizione di linee più o meno inspessite con
l’aggiunta di qualche suono. In questa sezione mostrerò qualche applicazione di una conce-
zione sostanzialmente verticale della composizione. In questa prospettiva, la sovrapposi-
zione di suoni non è il risultato della sovrapposizione di linee ma della formazione di bloc-
chi sonori.
Si potrebbe considerare qualsiasi combinbazione simultanea alla stregua di un accordo.
La teoria musicale classica riserva questa definizione alle sovrapposizioni di suoni che
possono essere ricondotte, in origine, a una sovrapposizione di almeno due intervalli di ter-
za. Una teoria più recente, a partire dall’inizio del Novecento, ha in seguito introdotto la
nozione di accordo per quarte. Quasi contemporaneamente veniva a profilarsi, prevalente-
mente in area americana, la nozione di cluster (grappolo): cioè una sovrapposizione di in-
tervalli di seconda; quest’ultimo è un risultato che si può ottenere suonando simultanea-
mente tutta una porzione di tasti bianchi e/o neri della tastiera del pianoforte. La defini-
zione di cluster deriva dall’aspetto grafico che tali combinazioni di note assumono sul pen-
tagramma. A ogni modo, le definizioni date si riferiscono a sovrapposizioni originarie di
intervalli della stessa natura. Oggi tuttavia è possibile accettare una nozione più allargata
di accordo che coincide, di fatto, con qualsiasi combinazione simultanea di suoni.
In base alle precedenti definizioni, potrebbe essere stimolante la costruzione di accordi a
partire da scale come quelle scoperte nel capitolo 1. Sulla scia della nozione tradizionale, si
potrebbe ad esempio costruire accordi prendendo dalle scale una nota sì e una no: con sca-
le che presentano buchi, o scale molto strette, di 9, 10 note, si otterrebbero risultati partico-
larmente interessanti. In maniera analoga si potrebbero costruire accordi prendendo una
nota ogni tre di una determinata scala. È evidente che in questa prospettiva conta il criterio
con cui vengono costruiti gli accordi, che può essere di estrema semplicità o più elaborato.
La costruzione di accordi non è di per sé difficile. Più difficile, forse, è dare una ragione
dell’esistenza e della necessità di una musica con elementi propriamente accordali.
La polifonia, intesa come una condotta coordinata di strati sonori dotati ciascuno di
una decisa individualità (non importa poi molto se la sovrapposizione prospetta la river-
berazione di uno o più strati, come nell’esempio 3-97), è un fenomeno la cui necessità si
spiega facilmente: è il passaggio dall’unità al molteplice. Più difficile è rendere conto della
presenza di accordi in un brano musicale. Il caso di un brano composto da soli accordi non
pone grandi interrogativi: in questo caso si rivela esssere una composizione di blocchi sono-
ri, un’affascinante, quanto immediata, possibilità di organizzazione musicale che si apre su
sconfinati territori, anche lontani da quelli del temperamento equabile.
Per quanto mi riguarda, trovo invece difficile — terribilmente difficile — dare una rispo-
sta circa l’intima necessità di una musica che preveda situazioni tipo «melodia» più
«accompagnamento»; quest’ultimo, in una sterminata casistica, può essere ricondotto al fe-
nomeno accordale nelle sue infinite sfaccettature. Paradossalmente, è questo il tipo di
configurazione musicale maggiormente diffuso, da diversi secoli in qua, nell’ambito della
140 L’abaco e la rosa

musica occidentale: da un’aria di Monteverdi, a gran parte delle composizioni del reperto-
rio classico-romantico, per arrivare a una canzone di Elton John. Non mi sembra una rispo-
sta esauriente affermare che situazioni come quelle appena citate prospettino una maggiore
ricchezza rispetto a una melodia nuda e cruda.
Si fa probabilmente un po’ più di chiarezza quando si paragona l’accompagnamento a
una sorta di sfondo, meglio ancora di ambiente, in cui si muoverebbe la linea melodica. Que-
sto ambiente conferirebbe, nel più semplice dei casi, una precisa collocazione alla melodia,
amplificando e svelando quanto di latente ci sia in essa (l’idea musicale primaria), a livello
sonoro e psicologico. In casi più complessi sarebbe possibile percepire anche un contrasto
tra melodia e ambiente, come nel già citato N. 2 dei Preludi di Chopin (Es. 3-22). Queste
affermazioni possono essere forse suggestive, ma rimangono nell’ambito della metafora. Gli
interrogativi non scompaiono del tutto.
Ho sempre trovato misterioso il rapporto che lega una «melodia» a un
«accompagnamento». Non mi sono mai imbattuto in risposte per me davvero convincenti;
del resto, non sono mai riuscito a darmi, per quanto opinabile, una risposta in qualche
modo teorica. Se non altro, accorgendomi di avere un carattere più intuitivo che autentica-
mente analitico, ho sempre cercato di rifarmi alla mia più intima, immediata percezione
della musica. Mi esprimerò quindi in termini di grande semplicità. Nell’esperienza musicale
individuo, da una parte, una dimensione puramente naturale, quella del suono in sé e per
sé, che meglio non riesco a definire se non come fisica; dall’altra c’è l’elemento dell’organiz-
zazione, dell’informazione, che consente il dipanarsi di una sorta di racconto astratto che,
nei casi migliori, è causa di un intenso piacere di natura psichica, intellettuale.
Nella polifonia propriamente intesa c’è talvolta uno squilibrio a vantaggio della dimen-
sione narrativa, intellettuale: il piacere «fisico» è di fatto incidentale, anche se può essere
molto intenso: si pensi a un coro composto da ottimi elementi che, in un ambiente dall’acu-
stica particolarmente felice, esegua un brano di Josquin des Près a quattro voci o, ancora
meglio in questa prospettiva, a 6, 8 o 12.
Mi riesce più difficile, per il tipo di approccio che ho nei confronti della musica, fornire
esempi di propensione per la pura dimensione fisica del suono. Penso a brani come Stim-
mung di Stockhausen, dove un solo accordo viene fatto sentire per circa un’ora da un en-
semble vocale, o ad alcune sonorità del rock «duro» o di certa musica martellante da di-
scoteca.
Nell’ambito di composizioni del tipo melodia più accompagnamento mi piace pensare ai
due elementi come a due alleati; a una simbiosi che dà vita a un fenomeno musicale che,
toccando tutte le corde del destinatario, massimizza la soddisfazione dell’ascolto, lascian-
do però in due ambiti non necessariamente unificati il suono e la narrazione. Credo che
Mozart sia tra i compositori più amati proprio perché nella sua musica sembra esserci un
equilibrio quasi sempre perfetto tra i due elementi. Per me questo significa essere «classici».
Si può certo amare Bach, Beethoven, Wagner o l’heavy metal più di Mozart: in questi casi
però, consapevolmente o meno e con infinite gradazioni, ritengo che si desideri un appaga-
mento più consistente o a livello «fisico» o «intellettuale». Nella prospettiva cui ho accen-
nato, potremmo visualizzare il fenomeno musicale per mezzo di un’iperbole; in questo
Capitolo 3 141

modo collocheremmo musicisti come Mozart in prossimità dell’origine degli assi. È eviden-
te, del resto, che le situazioni pure tenderebbero asintoticamente all’infinito: nell’esperienza
della vita reale, la musica si rivela tra le cose che coinvolgono di più la totalità del nostro
essere.
La musica del nostro tempo continua a offrire innumerevoli esempi di «melodia» più
«accompagnamento»: si pensi soltanto allo sterminato e imperante mondo della canzone.
Da molto tempo però, a ben vedere anche prima della crisi del linguaggio tradizionale alla
fine dell’Ottocento, questo modo di organizzare la materia sonora è parso ad alcuni logo-
rato. Soprattutto nell’ambito della musica «colta» si sono cercati (si pensi, ad esempio, alla
concezione texturale, cui ho accennato in precedenza) e si cercano — ormai quasi sempre
— altri schemi organizzativi.
Lo schema tradizionale vede la componente armonica, accordale, sostanzialmente as-
servita all’idea melodica. Nulla vieterebbe che i due elementi «suono» e «narrazione» si
presentassero in maniera indipendente o su un medesimo piano gerarchico nell’ambito di
una stessa composizione. Ci troveremmo di fronte quindi a una sorta di rapporto simbioti-
co, a un’alleanza utilitaristica per giungere entrambi all’attenzione dell’ascoltatore, o al fe-
nomeno estetico. Vedo in ciò un’analogia con un pool genetico, che mostra la cooperazione
di singoli geni per costruire una macchina (cioè un organismo vivente) per assicurarsi la pos-
sibilità di massimizzare, in definitiva, la riproduzione dei singoli geni stessi. Presi singolar-
mente, «suono» e «narrazione» avrebbero probabilmente più difficoltà a imporsi, dal mo-
mento che la musica tocca corde umane (e aree del cervello) diverse.
Ritengo che nell’ambito di rapporti non tradizionali fra «linea» e «accordo», per sem-
plificare il più possibile, si possano realizzare situazioni musicali ancora fresche e affasci-
nanti.
Affidandomi ai consueti criteri fondati sulla casualità, desidero ora realizzare, prima
ancora di pensare a un loro utilizzo concreto, alcune pure sequenze accordali a partire da
scale qualsiasi, ciò al solo fine di fornire qualche spunto per ulteriori esplorazioni personali.
Prendiamo ancora in considerazione una scala dell’esempio 3-86: potrebbe essere la
quinta. A partire da questa realizzerò una sequenza di accordi, 20 ad esempio, il cui crite-
rio di composizione prevede che possano essere formati da un massimo di sei a un minimo
di tre note diverse. Mostro subito il risultato finale, affinché sia più semplice illustrare come
ci sono arrivato:
142 L’abaco e la rosa

Es. 3-98

& # ˙˙ b ˙˙ ˙ ˙ b # ˙˙˙˙ ˙

˙
˙ # ˙˙
˙ ˙ ˙ ˙ # ˙˙˙ ˙ ˙ b˙ ˙

? ˙ # b ˙˙˙ b˙ ˙
b # ˙˙ b˙ b ˙˙ b ˙ b # ˙˙ #˙ b˙
˙
# b ˙˙˙ ˙ b # ˙˙˙˙ b # ˙˙ ˙ b˙

˙ b # ˙˙ b # ˙˙ # ˙
& ˙ ˙ ˙ # ˙ # ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙
˙

? b˙ b˙ ˙ # b ˙˙ ˙ b˙
˙ b ˙˙˙
˙ ˙ ˙

Come già detto, i singoli accordi non presentano note ripetute. Per giungere alla loro ste-
sura ho assegnato una cifra a ogni nota della scala di riferimento. Per scegliere le note ho
fatto uso di un set di dadi a forma di ottaedro (non disponendo di essi avrei potuto otte-
nere facilmente, a partire dal lancio di comunissimi dadi a sei facce, sequenze di cifre dall’1
all’8 in base a quanto detto nel capitolo 2). Ho deciso, arbitrariamente, di ricorrere per ogni
accordo a otto cifre casuali. Dalle otto cifre di ogni sequenza ho sempre scartato la cifra 8,
e le cifre eventualmente ripetute. In questo modo ho sempre ottenuto sequenze di lunghezza
variabile (nel caso avessi ottenuto successioni di due o sette cifre diverse le avrei scartate).
Come si vede, nell’esempio precedente non ho mai ottenuto accordi di sei suoni.
Una volta ottenuta una sequenza di cifre diverse, ho sottoposto alla nota corrisponden-
te alla prima cifra le altre note in modo che occupassero sempre la posizione più vicina a
quella immediatamente più alta. Fa eccezione a questa regola il caso in cui, nel livello for-
mato dalla nota più bassa di ogni accordo, venivano a formarsi in sequenza orizzontale
salti d’ottava, che qui, per una scelta arbitraria, non volevo ottenere. Ad esempio, il SI be-
molle del settimo accordo avrebbe dovuto trovarsi un’ottava più in alto, ma in questo caso
si sarebbe formato un salto d’ottava tra la nota più bassa del settimo e ottavo accordo. In
questi casi ho sempre fatto in modo che una delle due note si trovasse nello stesso registro
di quella che non poteva essere agevolmente spostata (nell’esempio quella dell’ottavo ac-
cordo).
Ho anche imposto un criterio per stabilire il registro della prima nota di ogni accordo.
Dato un accordo, la prima nota di quello successivo doveva trovarsi nella posizione più vi-
cina alla precedente. Faceva eccezione il caso in cui una nota fosse scesa sotto il DO cen-
trale. Se fosse accaduto ciò, come nel caso del quinto accordo, la nota in questione sarebbe
stata collocata nella posizione più vicina sopra il DO centrale. (Ovviamente, in caso di ne-
cessità, avrei potuto stabilire analoghe prescrizioni per il registro acuto, come quella di non
fare oltrepassare alla nota più alta di un accordo il DO con due tagli addizionali.) Nel caso
in cui l’intervallo tra le due note più alte di due accordi contigui fosse un tritono (che, divi-
dendo l’ottava in due parti uguali prospetta, data una qualsiasi nota, la possibilità di due
note equidistanti), ho stabilito che si dovesse effettuare un salto verso il basso (come nel
caso del 12º accordo), a condizione di non scendere sotto il DO centrale. Va da sé che
Capitolo 3 143

quanto realizzato potrebbe essere il prodotto di un semplice software capace di generare


infinite sequenze accordali analoghe alla precedente.
Quanto appena detto costituisce una sorta di minuscolo e arbitrario manuale d’armonia
per la composizione di successioni accordali. Ritengo che affidandosi a un ridotto com-
plesso di regole di propria invenzione, che comprendano anche criteri per la formazione di
successioni casuali, si possano ottenere risultati interessanti. Per quanto mi riguarda, prefe-
risco risultati ottenuti in modi analoghi a quello descritto piuttosto che affidarmi alla pura
invenzione, che mi porterebbe con ogni probabilità alla stesura di accordi che sicuramente
rivelerebbero idiosincrasie e stereotipi. Ritengo invece che disporre di un elementare
«manuale d’armonia» (quello che potrebbe essere il manuale d’armonia di un batterio) con-
senta di comporre successioni misteriosamente coerenti ed equilibrate, anche da un punto
di vista puramente sonoro.
Potrebbe rivelarsi interessante, sulla falsariga di quanto realizzato nella sezione prece-
dente, comporre sequenze accordali neutre, diatoniche, per poi deformarle attraverso arma-
ture non standard.
Si possono ovviamente escogitare infiniti criteri («manuali d’armonia») per la composi-
zione di sequenze accordali che facciano riferimento a una o più scale (compresa quella
cromatica). Eccone ad esempio uno molto diverso dal precedente.
Questa volta desidero ottenere una sequenza di accordi di quattro suoni a partire da
questa scala di nove note:

Es. 3-99

& œ #œ œ bœ
œ bœ bœ nœ #œ

Ora la sequenza degli accordi presenterà un processo di trasformazione dell’accordo


iniziale:

Es. 3-100

bw bw nw Nw Nw b N ww b N ww
& # w w w b ww ww ww w w

? # N ww # ww # ww # ww # ww # # ww # # ww # ww # ww b # ww

b N ww b ww b # ww #w
w
nw
w
w
w b ww b # ww N # ww N # ww
&

? n # ww ww ww ww ww b ww b ww b ww b ww b N ww

Come in precedenza, ho assegnato una cifra a ogni nota della scala di riferimento.
Affidandomi al caso, ho ottenuto una successione di quattro cifre diverse, corrispondenti a
quattro note della scala.
Per quanto riguarda il primo accordo, il SOL diesis del rigo superiore è nella sottostante
144 L’abaco e la rosa

posizione più vicina al MI bemolle. Invece ho collocato il SOL naturale in modo che si tro-
vasse nel rigo inferiore, senza tagli addizionali. Il sottostante FA diesis è nella posizione
più vicina al SOL.
Ho deciso che in ogni accordo successivo dovesse esserci un cambiamento relativo a una
sola nota. Per scegliere quale nota dovesse essere modificata mi sono affidato ogni volta al
caso con un criterio di equiprobabilità. Ho stabilito poi che la nota da modificare avesse
due probabilità su tre di muoversi verso l’alto raggiungendo la nota più vicina della scala;
una probabilità su tre di muoversi verso il basso raggiungendo la nota più vicina della sca-
la. Quando, muovendosi, un’altezza avrebbe raggiunto una nota già presente nell’accordo,
ho deciso che avrebbe raggiunto la nota non raddoppiata più vicina della scala di riferi-
mento. Nel caso in cui, muovendosi verso l’alto o verso il basso, una nota avrebbe raggiunto
o scavalcato la nota rispettivamente più alta o più bassa, ho deciso che la nota avrebbe
dovuto prendere l’unica direzione possibile.
Assegnando una diversa probabilità al movimento verso l’alto o verso il basso, è prati-
camente inevitabile (ovvero molto probabile) che la sequenza degli accordi si muova com-
plessivamente in una precisa direzione. In questo modo assistiamo a un chiaro, direziona-
to, processo sonoro, in cui ogni evento non è isolato ma è parte di un continuum. Il fatto che
ci sia ad esempio anche una probabilità di movimento verso il basso rende meno prevedibi-
le, più accidentata la vicenda; in sostanza più interessante.
Una sequenza di accordi come la precedente può essere letta, ovviamente, da sinistra a
destra. Si possono immaginare però modi di lettura diversi, che permettano di tornare su
accordi precedentemente sentiti per poi procedere in avanti. In modo analogo a quanto fat-
to per le singole note degli accordi, possiamo stabilire un criterio probabilistico per cui ri-
sulterà praticamente inevitabile arrivare all’ultimo accordo; il percorso però, nel breve pe-
riodo, potrebbe mostrarsi accidentato e imprevedibile. Possiamo ottenere questo risultato
assegnando anche qui due probabilità su tre per procedere in avanti nella lettura, e una
probabilità su tre per tornare indietro di un accordo. È ovvio che in questo modo potrebbe-
ro crearsi strane, quanto affascinanti ripetizioni.
Facciamo una prova. Ecco il risultato di una lettura non lineare, che si limita a procedere
per 20 battute, senza giungere alla fine della sequenza:

Es. 3-101

bw bw bw bw nw bw nw b ww ww b ww
& # w w # w w w w w

? # N ww # ww # N ww # ww # ww # ww # ww # ww # ww # ww

ww ww Nw Nw b N ww Nw b N ww Nw Nw Nw
& w w w w w w

? # ww # # ww # # ww # ww # ww # ww # ww # ww # # ww # ww
Capitolo 3 145

(Ovviamente all’inizio o quando ci troviamo sul primo accordo non possiamo fare altro
che andare avanti.)
Si confronti il precedente esempio con l’esempio 3-100: la 20ª battuta presenta l’ottavo
accordo della sequenza precedente; la lettura procede a zig zag, ma procede inevitabilmente
in avanti.
È interessante pensare alla possibilità di applicare questo criterio di lettura, o altri ana-
loghi, anche a sequenze di battute che presentino situazioni non necessariamente accordali:
in definitiva a qualsiasi tipo di materiale musicale.
Giunti a questo punto potremmo desiderare l’impiego di una sequenza di accordi come
quella precedente per fini propriamente musicali. Abituati a una concezione sostanzial-
mente lineare della composizione, potrebbe sembrare inizialmente un compito difficile o in-
grato. Il fatto è che la concezione lineare della composizione musicale ci sembra più natura-
le perché è assimilabile al discorso verbale e al canto. Nel momento in cui ci troviamo a vo-
lere articolare dei blocchi sonori, quali sono in definitiva gli accordi, il nostro fare assomiglia
più a quello della realizzazione di una scultura sonora che di un costrutto verbale. Questo
compito può rivelarsi estremamente affascinante. Di fatto, a partire dall’epoca di Bach, si
sono realizzate talvolta composizioni intimamente accordali, complice anche un approccio
texturale. Ricorrendo a quest’ultimo, non dovrebbe essere particolarmente difficile articola-
re una sequenza di accordi come la precedente. Ecco una banalissima elaborazione delle
prime due battute dell’ultimo esempio che richiama una scrittura di tipo toccatistico, ap-
prezzata anche da diversi compositori del Novecento storico e contemporanei:

Es. 3-102
4 bœ œ œ œ œ œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ
&4 # œ aœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

? 4 # œœ N œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ # œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ œœ
4

La prossima elaborazione è un po’ più articolata. Come prima cosa decido che le note
degli accordi della sequenza precedente appartengano a quattro strati indipendenti. Ognu-
no potrà avere un profilo ritmico diverso, determinato da modelli prestabiliti che verranno
assegnati ai singoli strati in base a un criterio casualità. I modelli ritmici potrebbero essere
costituiti da successioni di un certo numero di note di uguale durata; ecco un possibile pro-
spetto:

Es. 3-103
1 2 3 4
7 5 3
4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ ˙ ˙
4

Ogni strato, in base al caso, mostrerà per ogni accordo un modello ritmico. Decido inol-
tre che la scelta sia indipendente per ogni strato: ciò significa che diversi strati potrebbero
146 L’abaco e la rosa

mostrare lo stesso modello ritmico. Diversamente, avrei potuto pensare a un’elaborazione


in cui, di volta in volta, gli strati avrebbero presentato sempre tutti i modelli, in una delle
possibili 24 permutazioni (4 fattoriale).
Ecco cosa ottengo elaborando le prime due battute, dopo avere effettuato alcune tra-
sposizioni d’ottava (si noti l’utilizzo della chiave di basso «ottavata» nell’ultimo rigo):

Es. 3-104
bœ œ œ œ œ b˙ ˙ ˙
4
&4
4 œ œ œ œ œ
& 4 #˙ ˙ ˙
?4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
4
t4
4 #œ œ œ œ œ #˙ ˙ ˙

Posso immaginare ovviamente un’elaborazione più articolata. Potrei stabilire, ad esem-


pio, in base a un criterio di equiprobabilità, che il singolo strato di ogni battuta rimanga
nell’ordine: intatto; presenti l’eliminazione della prima nota; presenti l’eliminazione dell’ul-
tima nota. In più, sempre in base a criteri probabilistici, potrei stabilire che ogni singolo
strato di ogni battuta presenti alcuni segni di articolazione. In relazione a uno strato di set-
te note, ad esempio, potrei stabilire: che non ci siano segni di articolazione; che le prime tre
note presentino un segno di articolazione; che i segni di articolazione riguardino le ultime
tre note. Nel caso della presenza di pause, ciascuna conterebbe come una nota: ovviamente
non sarebbe necessario collocare un segno dinamico su una pausa. In modo simile potrei
comportarmi con strati di cinque, quattro, tre note. Nel caso in cui dovessi collocare dei se-
gni di articolazione, questi riguarderebbero meno della metà delle note di ogni strato (due in
uno di cinque, uno in uno di quattro e di tre). Ecco come potrebbero presentarsi le prime
due battute dell’elaborazione:

Es. 3-105
b œ^ œ^ œ œ œ b ˙^ ˙
4 Ó
&4
4 ^ Ó Œ œ œ œ œ
& 4 #˙ ˙
? 4 œ œ œ œ œ^ œ^ œ^ Œ œ œ œ^
4
t4 ^ ^
4 Œ
#œ œ œ œ #˙ ˙ ˙

Un’ulteriore elaborazione potrebbe consistere in una sorta di orchestrazione. Parlo qui di


orchestrazione in termini virtuali, pensando ad esempio alla tavolozza di strumenti del Ge-
neral MIDI. L’esempio 3-106 presenta un’elaborazione di otto battute. Risulta evidente che
Capitolo 3 147

Es. 3-106
Chit. el. 1
q»¡ºº b œ^ œ^ œ œ œ b ˙^ ˙ bœ œ œ œ œ œ œ b œ œ œ œ^ œ^ œ^
4 Ó Œ
&4
Chit. el. 2
^ ^
4
&4 #˙ ˙ Ó Œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ œ Œ œ œ œ œ Œ
Chit. el. 3
?4 œ œ œ œ œ^ œ^ œ^ ^
Œ œ œ œ œ œ œ œ œ^ œ^ Œ œ œ œ œ Œ
4
Basso el.
t4 ^ ^ ^
4 Œ
#œ œ œ œ #˙ ˙ ˙ #˙ ˙ ˙ #œ œ œ œ
^ œ^ œ œ œ
Piano 1 b œ b ˙^ ˙ bœ œ œ œ œ œ œ
4 ∑ Ó
&4
4
^
&4 ∑ #˙ ˙ Ó Œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ œ Œ
?4 ∑ œ œ œ œ œ^ œ^ œ^ ^
Œ œ œ œ œ œ œ œ œ^ œ^ Œ
4
t4 ^ ^ ^
4 ∑ Œ
#œ œ œ œ #˙ ˙ ˙ #˙ ˙ ˙
Piano 2 (Honky-tonk)
4 b w^ b w^ b w^ b w^
&4 # w w # w w
? 4 # N ww^ # ww^ # N ww^ # ww^
4
n˙ ˙ b ˙^ ˙ ˙ n˙ ˙ ˙^ ˙
& Ó Ó Ó
^^
& œ œ œ œ œ ˙ ˙ Ó Œœœœœœœ Œ bœ œ œ œ œ œ

? œ œ œ œ œ ˙ ˙ Ó Œ œ œ œ œœœœœœœ

t ^ ^ ^ ^ ^
Ó Œ Œ
#˙ ˙ #œ œ œ #œ œ œ #œ œ œ œ œ
b œ œ œ œ^ œ^ œ^ n˙ ˙ b ˙^ ˙ ˙ n˙ ˙
& Œ Ó Ó
^ ^^
& œ œ œ œ Œ œ œ œ œ œ ˙ ˙ Ó Œ œœœœœœ

? œ œ œ œ Œ œ œ œ œ œ ˙ ˙ Ó Œ œ œ œ

t ^ ^ ^
Ó Œ Œ
#œ œ œ œ #˙ ˙ #œ œ œ #œ œ œ
n w^ b w^ n w^ ^
b ww
& w w w
? # ww^ # ww^ # ww^ # ww^
148 L’abaco e la rosa

ricorrendo a un’esecuzione realizzata dal computer non è necessario porsi domande circa
la difficoltà di realizzazione ritmica di musica analoga a quella dell’esempio precedente.
Nel caso invece di una destinazione a esecutori umani le cose si porrebbero in modo diver-
so perché, a parte il caso di esecutori specializzati in questo genere di difficoltà, l’esempio
3-106 risulterebbe piuttosto difficile sotto il profilo dell’«assieme». D’altra parte, è meravi-
glioso disporre oggi di strumenti digitali capaci di eseguire virtualmente qualsiasi tipo di
musica. Si stanno forse aprendo spazi immensi per la creatività, attraverso strumenti alla
portata di tutti. Resta il fatto, forse non trascurabile, che gli strumenti digitali non sembrano
ancora in grado di offrire esecuzioni musicali dotate di un autentico calore espressivo, an-
che se la musica elettronica propriamente detta fin dal suo apparire ha mostrato risultati
apprezzabili, direi anche espressivi. (Per quanto mi riguarda, non mi piacciono molto parole
come espressione ed espressività: mi sembrano delle paludi semantiche. Ciò non toglie nulla
all’amore che nutro per musica come quella di Mozart o di Chopin.)
Nell’esempio 3-106 il primo sistema di quattro righi risulta essere riverberato da quello
sottostante a distanza di una battuta. Ho già mostrato in precedenza qualche esempio di
riverberazione artificiale: sono molto affascinato da questa tecnica perché ritengo che con-
senta di realizzare un’illusione di profondità, di ampio spazio sonoro.
L’ultimo sistema riporta la sequenza originale degli accordi scanditi come rintocchi di-
storti a intervalli regolari: un contrastante elemento di ordine in un contesto piuttosto
sfilacciato, ciò nel tentativo di realizzare una situazione di ordine sul margine di una na-
scente complessità.
L’esito sonoro di questo esempio richiama a me qualcosa come il movimento di una for-
mazione di nuvole. Mi piace l’idea di una musica meteorologica, composta cioè da grandi
masse sonore poste in movimento in base ad alcuni semplici parametri, ma sul cui anda-
mento però non sia possibile fare previsioni a medio e lungo termine. In quest’ambito sareb-
be certo opportuno ricorrere ampiamente alla progettazione di programmi informatici, ana-
loghi a quelli usati per simulazioni di vario genere al computer, come quelle meteorologiche
appunto. Qui avrebbero ovviamente diritto di cittadinanza sonorità non temperate e
«spettrali», ferma restando uguale dignità per materiali sonori più semplici o connotati. Il
fare artistico non è infatti (non dovrebbe essere) un’attività puramente cognitiva. L’incontro
con il pensiero scientifico può essere straordinariamente suggestivo e fecondo, ma mi piace
pensare che l’arte rimanga, in definitiva, un’attività improntata alla più totale libertà.
L’unico tribunale legittimato a giudicare un prodotto della fantasia è la sensibilità dell’arti-
sta, se si vuole in concorrenza con il giudizio di un pubblico. Se così non fosse, sarebbe ef-
fettivamente meglio dedicarsi ad altre attività che prospettino più spesso solide e oggettive
soddisfazioni intellettuali.
L’esempio precedente può anche essere considerato un frammento di scrittura che si ri-
chiama a una concezione pulsante, propria di musica che sembra nascere dall’articolazione
di puro materiale accordale, di blocchi sonori. Penso a brani come Shaker Loops, per archi,
di John Adams o Orpheus Over and Under, per due pianoforti, di David Lang (compositore
americano di punta delle ultime generazioni, definibile come postminimalista); brani infor-
mati da un puro e incessante (a tratti anche allucinato) pulsare. (Entrambi i brani fanno ri-
Capitolo 3 149

ferimento al temperamento equabile.) Questo modo di articolare la materia sonora è, per


quanto mi riguarda, particolarmente suggestivo, dal momento che il suono è messo in ma-
niera immediata, brutale, davanti al nevralgico argomento della musica (e forse dell’esi-
stenza): lo scorrere del tempo. In questo senso, tale modo di concepire l’articolazione musi-
cale può essere considerato una sorta di modello universale, al pari di altri ben collaudati
(penso ad esempio alla melodia più accompagnamento), e offrire forse ancora interessanti
prospettive.

Ritengo ora opportune alcune considerazioni. Gli esempi fin qui realizzati, come ho ripe-
tutamente detto, non sono altro che il prodotto di una semplificazione estrema di un possi-
bile approccio alla composizione musicale, utile forse in una fase di apprendistato. Risulta
infatti del tutto evidente che un’attività artistica può essere qualcosa di più del risultato di
un semplice algoritmo. Non credo però sia questo il nocciolo della questione. Compositori
come Arvo Pärt, per loro stessa ammissione, hanno realizzato composizioni interamente e
rigorosamente algoritmiche: penso alla già citata Passio o a un brano come Summa. Il fatto
di essere il prodotto di un algoritmo non le rende meno artistiche. Anzi, la musica di Pärt
viene da molti considerata addirittura come una delle più importanti realizzazioni odierne
di musica di ispirazione sacra.
L’esempio di Pärt sembra smentire quindi coloro che negano decisamente che un prodot-
to artistico possa essere soltanto il risultato di un algoritmo. Il problema è semmai un altro.
Ha a che fare con la creatività la necessità dell’artista che conduce alla messa a punto di
un algoritmo. Non un algoritmo qualsiasi, ma uno, il solo forse, che permetta di realizzare
nel modo più preciso e intenso la propria necessità interiore. Si tratta di un momento mi-
sterioso e delicatissimo del fare artistico, che implica un’attività mentale che sembrerebbe
essere diversa da tutte le altre. Non essendo un neuroscienziato preferisco non andare oltre
su questo punto.
Forse si potrà obiettare che una simile concezione riduca l’arte alla sfera del concetto
(del concettuale) e alla pura intuizione. È innegabile che viviamo in un’epoca in cui le tecno-
logie mettono a disposizione di molti (molti più che in passato) gli strumenti per realizzare
facilmente (molto più che in passato) complessi, meravigliosi, prodotti (si pensi all’ambito
visivo) un tempo considerati dominio esclusivo dell’arte, quella con l’a maiuscola per inten-
derci. È comprensibile allora che qualcuno cerchi di sottrarre il più possibile a una tecnica
ormai accessibile e svelata (in un certo senso anche svilita) un’espressione artistica che vor-
rebbe essere il più possibile un’attività della mente diversa da tutte le altre e ancora essen-
ziale, indispensabile.
È chiaro, d’altronde, che risulta essere del tutto sostenibile anche l’idea opposta: quella
che l’arte non possa essere ridotta al prodotto di un algoritmo, che il fare artistico sia in
sostanza molto più libero. Mi sembra questa un’idea bellissima, ma bisogna considerare che
non si svilisce forse poi molto l’arte se collochiamo prima della realizzazione materiale del
prodotto piuttosto che durante, come siamo stati abituati dal passato, il momento della ne-
cessità e della libertà.
Come dicevo, ritengo che un approccio algoritmico possa essere di qualche utilità in una
150 L’abaco e la rosa

fase di apprendistato. Se la tecnica è oggi infatti più accessibile di un tempo non per questo
la possiamo trascurare o disinteressarcene del tutto. Rimane ancora una condizione neces-
saria (non sufficiente) per la realizzazione di prodotti artistici. Paradossalmente, quella
della potenzialmente facile accessibilità è diventata talvolta una ragione per sottovalutarla.
Si possono legittimamente fare obiezioni a un approccio algoritmico; non quella però di
un suo scarso rigore e di una sua assoluta rigidità: come abbiamo visto a proposito di
esempi precedenti, è facile immaginare e gestire diversi gradi di libertà di interventi esterni,
di natura personale cioè.
Mi sembra comunque evidente che attraverso più o meno semplici algoritmi si possano
ottenere risultati di qualche rilievo: non mi riferisco ai miei batteri musicali, ma a composi-
zioni, ad esempio, come quelle di Pärt (che hanno dato luogo, del resto, anche ad accese
discussioni). Se non altro possono rivelarsi un efficace strumento al servizio di un solido
artigianato musicale. Nei prossimi capitoli vedremo che mediante un approccio consisten-
temente algoritmico si possono ottenere risultati artigianali anche con riferimento a consoli-
date tecniche del passato come la scrittura polifonica rinascimentale.
Attraverso un approccio discutibile quanto si vuole, ma rigoroso e, credo, stimolante
come quello algoritmico si possono forse affrontare inizialmente meglio alcune spinose que-
stioni legate a due elementi indispensabili e apparentemente antitetici del fare artistico: il
rigore e la libertà. Affidando la realizzazione tecnica ad algoritmi (anche se con un atteg-
giamento di elasticità), si può in definitiva ipotizzare un maggiore controllo su di essa, in-
dirizzando maggiori energie su aspetti puramente estetici, di consistente problematicità. È
chiaro che una volta stabiliti i punti nevralgici del proprio fare artistico è possibile che si
verifichi un fenomeno di feedback, dove i dati di uscita condizionano quelli in entrata, e con
effetti di retroazione positiva, cioè di amplificazione del segnale in uscita. L’imprevedibile
crescita del segno tecnico o dell’intuizione, o, nel migliore dei casi, di entrambi, potrebbe
infine condurre nelle vicinanze di una rosa profumata.

3.7. Darsi (un) tempo

Gli esperimenti compiuti fino a questo punto presentavano dimensioni piuttosto ridotte: in
termini musicali ciò significa che erano di breve durata. Quanto breve? Si può definire la
brevità in termini oggettivi, in modo da potere distinguere agevolmente un brano breve da
uno lungo? Un compositore scrive brani «lunghi» (penso ad esempio a Mahler) perché in
esso si possono esprimere più cose rispetto a uno «breve»? Considerando la produzione
musicale di un autore di valore, confrontando due brani possiamo dire che valga di più
quello più lungo?
In relazione alla durata di un brano musicale, si possono immaginare innumerevoli do-
mande come le precedenti: domande che difficilmente possono ottenere una risposta sod-
disfacente, ma che talvolta non riusciamo a non porcele.
In questa sezione cercheremo di orientarci verso esperimenti più estesi rispetto ai prece-
Capitolo 3 151

denti: nella sua disarmante nudità mi sembra un’ipotesi di lavoro chiara, posta nei termini
adatti a un libro per «principianti».
Ritengo che quello della durata sia un argomento estremamente delicato, che va ben oltre
l’ipotetica necessità di definire una linea di demarcazione tra le nozioni di un brano breve e
uno lungo. Il problema della durata è da mettere in relazione a quello della densità di quan-
to espresso in un brano. Ci sono brani di fulminante brevità dallo straordinario impatto
emotivo e intellettuale: penso, ad esempio, ad alcuni preludi di Chopin o ad alcuni brani di
Webern come le Bagatelle per quartetto d’archi.
D’altronde, anche in casi meno vistosi, difficilmente possiamo affermare che sia la dura-
ta a fare la qualità. Pensiamo al caso del lied romantico o alla canzone d’autore. Conside-
riamo ad esempio una canzone di Cole Porter. Questo straordinario musicista si trovava a
proprio agio soltanto nell’ambito della canzone classica americana, dotata sempre di un ri-
tornello di 32 battute: una struttura rigida, tanto che ci si riferisce alle canzoni classiche
americane col termine standard. A differenza di Schubert, che si trovava a proprio agio tan-
to nelle contenute dimensioni del lied quanto in quelle smisurate delle proprie composizioni
sinfoniche e da camera, Porter non mostrava propensione per brani molto sviluppati. La
qualità della sua ispirazione melodica è però sempre altissima, direi anzi talvolta vertigi-
nosa. Si può del resto essere grandi scrittori anche soltanto come autori di racconti: si pensi
a Cechov, Borges o Carver.
Il problema della durata riguarda, in sostanza, quello della forma, un concetto spaziale,
architettonico e, ancora di più, del tempo, l’entità forse più misteriosa e imprendibile su cui
ci è dato di riflettere nel mondo fisico. Il musicista che si sente attratto dalle grandi dimen-
sioni è quasi sempre uno specialista della forma e/o del trattamento del tempo. Per questo,
ascoltatori superficiali rimangono talvolta delusi dalla mancanza di elementi appariscenti,
come melodie trascinanti, in composizioni di Beethoven o di Sibelius.
Prima di fare alcune semplici precisazioni a proposito della forma, soprattutto in rela-
zione al taglio di questo scritto, ritengo opportuno esporre quelli che mi sembrano due modi
fondamentali di considerare e percepire il fenomeno musicale, dai quali dipende l’organiz-
zazione interna della musica e quindi la durata.
In estrema sintesi (si tratta ovviamente di un discorso che avrebbe bisogno di uno spazio
molto più ampio), la musica può essere in primo luogo concepita e praticata come un po-
tente mezzo per il raggiungimento di uno stato alterato di coscienza, rispetto a quello nor-
male di veglia e delle comuni attività quotidiane. In secondo luogo, la musica può essere
concepita e praticata come un mezzo in grado di stimolare, principalmente, la sensibilità e
l’intelligenza, in un modo sostanzialmente inestricabile (la sensibilità più che una sfera pro-
priamente intellettuale, per intenderci, nel caso di una canzone). Ciò distinguerebbe la mu-
sica dalla matematica, ad esempio. La matematica è ritenuta infatti dai più, a torto o a ra-
gione, un’attività esclusivamente intellettuale che svilupperebbe facoltà legate all’intelligen-
za nella sua forma più astratta. Per quanto riguarda invece un confronto con la letteratura,
invece, la seconda concezione pone in evidenza delle analogie. Entrambe, musica e lettera-
tura, sviluppano infatti spesso un «discorso». Il discorso musicale sarebbe però un discor-
so asemantico, non legato cioè a un preciso significato, ma (più) universale. La musica che
152 L’abaco e la rosa

accompagna innumerevoli riti religiosi e iniziatici, di ogni tempo e collocazione geografica,


apparterrebbe al primo genere di concezione, mentre quella profana (ma in un certo senso
anche quella sacra) di Bach, di Mozart e di Beethoven, per intenderci, al secondo.
Certamente sono possibili infiniti intrecci tra gli esiti desiderati. A partire dall’epoca di
Beethoven (forse a causa di Beethoven), diventa pressoché un’idea ufficiale quella per cui
la musica sarebbe un mezzo per accedere al «mondo dello spirito», non necessariamente
quello religioso. Un mezzo, quindi, di «elevazione». Ancora oggi, almeno per quanto riguar-
da una pretesa musica «alta», questa idea è viva in molti musicisti e appassionati. C’è da
dire però che il «mondo dello spirito» in cui si avrebbe accesso attraverso la musica «alta»
(si legga musica «classica») è un mondo in cui troverebbero ampio diritto di cittadinanza la
ragione e la narrazione. È evidente infatti che il «mondo dello spirito» occidentale è un
mondo razionale. Beethoven, il campione di questa concezione musicale, ha scritto consa-
pevolmente una musica profondamente dialettica. Beethoven ha infatti portato al suo mas-
simo splendore la realizzazione della forma-sonata, quella che potrebbe essere definita uno
schema — un progetto di un brano — incentrato sul rapporto fra due aree tematiche e to-
nali che informano interamente il discorso musicale attraverso il loro «sviluppo».
È ovvio che le due tipologie del fenomeno musicale adottano strategie molto diverse per
ciò che riguarda la loro organizzazione.
Nel discorso musicale del periodo classico-romantico, quello dominato appunto dalla
figura di Beethoven, sarebbe indispensabile tanto la varietà quanto la coerenza (un quartet-
to per archi, ad esempio, veniva generalmente considerato alla stregua di una conversazio-
ne fra quattro persone sensate). Il discorso musicale classico-romantico, che ha continuato
a influenzare ancora in modo consistente parecchia musica del Novecento, ricorre a concet-
ti, che diventano termini tecnici, quali tema, frase, periodo, sviluppo, chiaramente apparte-
nenti alla sfera del discorso. In più, il bagaglio concettuale della musica classico-romantica
prende a prestito concetti di natura chiaramente spaziale, architettonica. Si parla infatti
comunemente di costruzione, di architettura sonora, di piani sonori, di linea, di tessitura (non
ancora di texture). Questi ultimi termini evidenziano pertanto, in modo paradossale, che,
per essere un mezzo per raggiungere il «mondo dello spirito», la musica classico-romantica
è piuttosto solida e materiale!
Per quanto riguarda la concezione del primo tipo — quella che accomunerebbe certa mu-
sica da discoteca a quella di antichi o lontani riti tribali e religiosi — è evidente che la pra-
tica musicale deve qui fare ricorso a mezzi che contribuiscano a far perdere la nozione delle
coordinate spazio-temporali. La musica di questa concezione si affida spesso all’idea della
ripetizione come strumento principale. Portata alle estreme conseguenze l’idea della ripeti-
zione può generare infatti effetti ipnotici, o di trance.
È ovvio che se si giudica col metro della musica di Beethoven un’espressione musicale ri-
petitiva non si giungerà che ad affermazioni del tipo: «Questa musica è primitiva», accusa
non di rado rivolta da cultori di musica classica a molte espressioni contemporanee. Il fatto
è che a causa dell’ingombrante concezione «classica» ancora oggi risulta spesso difficile
prendere in considerazione altre concezioni e altre funzioni. Anzi, ad alcuni puristi sembra
quasi scandaloso che la musica possa svolgere una funzione.
Capitolo 3 153

In questo senso, per limitarci soltanto a una polemica cui ho già accenntato, la musica di
ispirazione «minimalista», «ripetitiva», comparsa negli Stati Uniti a metà degli anni Ses-
santa, si è attirata gli strali anche di molti compositori d’avanguardia di formazione euro-
pea — non importa se alcuni tra loro erano americani — che tradivano ancora una conce-
zione dialettica, beethoveniana della musica. Un principio organizzativo che si ritrova in
diverse composizioni di ispirazione «minimalista» è infatti quello della lenta, a volte quasi
impercettibile, trasformazione del flusso musicale. Questo è il risultato del grande diffon-
dersi di culture e filosofie orientali in America negli anni Sessanta, come lo zen, intrise di
una concezione del tempo e del principio di causa-effetto completamente diversi da quelli
occidentali.
Si potrebbe obiettare alla concezione minimalista che la musica da essa permeata non
sia adatta alla sala da concerto, luogo in fondo scarsamente idoneo a un ascolto che richie-
derebbe una disposizione mentale analoga alla meditazione orientale. Di questo erano con-
sapevoli musicisti come La Monte Young, che richiedeva per la propria musica delle houses
of dreams. C’è da dire che negli ultimi decenni la sala da concerto non è ormai più l’unico
luogo ideale per l’ascolto di musica — compresa quella «colta» —, anzi; la sempre più per-
fezionata tecnologia della riproduzione sonora mette in discussione la necessità di uno
specifico luogo per l’ascolto.
In questa sezione non prenderò in considerazione per lo sviluppo di idee musicali princi-
pi organizzativi ispirati al discorso classico-romantico, né modelli tratti da importanti
composizioni delle avanguardie europee del Novecento o della corrente minimalista. Cer-
cherò, sostanzialmente in base a considerazioni di natura personale, di fornire qualche
spunto per portare avanti un brano musicale. È un’affermazione molto generica, utile però
per condizionare il meno possibile chi volesse realizzare ulteriori esperimenti di composi-
zione musicale non particolarmente influenzati da forti connotazioni stilistiche. Per onestà,
come del resto ho già detto all’inizio di questo capitolo, ritengo comunque opportuno non
nascondere una mia propensione nei confronti di una concezione musicale «minimalista»,
cui ho già accennato.
Come ipotesi di lavoro propongo quattro modi di procedere:

• quello additivo;
• quello moltiplicativo;
• quello metamorfico;
• quello evolutivo.

Questi quattro principi di organizzazione del flusso musicale potrebbero poi intersecar-
si, dando vita a modalità sempre diverse, e meno schematiche, di comporre un brano musi-
cale.

3.7.1. Il procedimento additivo


Si tratta della semplicissima opportunità di procedere nella composizione di un brano
giustapponendo situazioni musicali prive di un nesso che, con una certa approssimazione,
154 L’abaco e la rosa

si potrebbe definire di causalità; o prive di affinità formali e strutturali. Il nesso di causali-


tà o strutturale potrebbe mancare del tutto o essere molto labile. Questo modo di procedere
può essere definito quindi puramente additivo, alluvionale.
Sembrerebbe a prima vista un’idea alquanto rozza e banale. Pensiamo però a quante
volte, ascoltando un brano anche del repertorio classico, non percepiamo un evidente nesso
causale tra quanto avviene prima e quanto avviene dopo. All’ascolto, poca importanza po-
trebbe avere per noi la conoscenza del fatto che diverse idee musicali siano accomunate da
affinità strutturali non rilevabili che all’analisi. Ciò non toglierebbe nulla al senso di bellez-
za che potrebbe comunicare la musica in questione. D’altra parte, l’ideale dell’assoluta coe-
renza interna di un brano, dovuta a continue relazioni causali e strutturali, è fatto proprio,
fino a Beethoven, da pochi compositori come Bach e Haydn, che, comunque, procedono
spesso (anche in «rigorose» composizioni come le fughe) con maggiore libertà di quanto vo-
gliano farci credere antiquati testi sulla forma e alcuni fanatici musicologi (ad esempio gli
analisti «schenkeriani», ancora in auge in non pochi ambienti accademici).
È soltanto dopo Beethoven che si afferma, a causa dei suoi seguaci imbevuti di cultura
di stampo idealistico forse più che di Beethoven stesso, il mito della musica totalmente
coerente e unitaria. Prima di Beethoven compositori del calibro di Mozart non di rado giu-
stapponevano idee musicali che francamente (a meno di essere in vena di sofismi) non pre-
sentano relazioni evidenti, accomunate soltanto da elementi grammaticali e stilistici. Lo
stesso Mozart affermava di avere faticato non poco nella composizione dei sei quartetti
dedicati ad Haydn, composti a Vienna dal 1782 al 1785, brani in cui si era imposto di
trattare lo sviluppo musicale in maniera unitaria, secondo il principio caro ad Haydn del-
l’unità motivica.
Dopo Beethoven, praticamente tutti i compositori volevano adeguarsi — o così afferma-
vano — all’idea di massima corenza interna e conseguente unitarietà di un brano di grandi
dimensioni, addirittura di un complesso di brani, come una sinfonia. Alcuni sembravano
essere quasi ossessionati da questa idea (Brahms, ad esempio). Di fatto, le voci isolate era-
no pressoché inesistenti. L’ambito dell’irrazionalità era confinato, nonostante proclami di
natura romantica, al massimo in brani di piccole dimensioni, tali da non far sorgere troppe
domande sulla loro coerenza interna. Ovviamente la «coerenza» e l’«unità» potevano esse-
re raggiunte in diversi modi: si pensi a quella che, come abbiamo visto, potrebbe essere una
concezione texturale in alcuni preludi di Chopin.
Quanto detto vale sostanzialmente per il mondo della musica «assoluta»: quella sinfo-
nica e da camera. Per il melodramma, una sorta di universo parallelo a quello della musica
strumentale, le cose si ponevano in modo parzialmente diverso. Qui il discorso musicale si
rapportava prevalentemente a considerazioni drammaturgiche e all’aderenza psicologica al
testo; ed era in base a ciò che si giudicava la qualità di un lavoro. Il teatro musicale, di fat-
to, fa uscire la musica da una situazione di autoreferenzialità, anche se nel corso dell’Otto-
cento il melodramma, nella sua bulimia espressiva, accoglieva sempre più suggestioni e so-
norità sinfoniche.
Da sempre la prassi compositiva ha mostrato la possibilità di giustapporre idee musi-
cali indipendenti, senza eccessive preoccupazioni di causalità e di unità. Penso, ad esem-
Capitolo 3 155

pio, a tanti brani rinascimentali in cui, esaurite le possibilità di sviluppo di un’idea, se ne


faceva seguire un’altra del tutto nuova, accomunata alla precedente soltanto dallo stile
(avrò modo di diffondermi maggiormente su questo punto nei prossimi capitoli, che fanno
riferimento allo stile rinascimentale), a molte composizioni di Vivaldi, di Domenico Scar-
latti, di Mozart e alle fantasie strumentali dell’Ottocento basate su temi tratti da melo-
drammi famosi. Ma è soltanto alla fine dell’Ottocento che il problema della causalità in
una composizione musicale diventò un punto nevralgico di riflessione. Alcuni, come De-
bussy, mostrarono un’autentica insofferenza verso le affermate tecniche di sviluppo tema-
tico di Beethoven e dei suoi seguaci. Si cercarono altre affinità tra le idee musicali; si comin-
ciarono ad apprezzare e ricercare labili legami, che prospettavano una concezione musicale
non-lineare. E in breve tempo si arrivò alla Sagra della primavera, dove la concezione
classico-romantica della composizione subisce un colpo mortale, generando uno sconquas-
so enorme nel panorama della musica «colta» occidentale.
Nel secondo dopoguerra si parla ormai senza problemi di collage sonoro (penso ai colla-
ges del milanese Paolo Castaldi), nell’ambito della crisi di fiducia nella concezione musicale
come discorso.
A dire il vero, la società delle immagini ci ha ormai del tutto abituati a un continuo zap-
ping, rendendo innaturale e difficile per molti concentrarsi per più di poco tempo su una
medesima cosa; considerazione che coinvolge inevitabilmente la capacità di concentrazione
su un testo o su un brano musicale di una certa lunghezza. È un fatto che, se non siamo in-
teressati a generi ormai minoritari come la musica classica e il jazz, la quasi totalità della
musica proposta dai media giunge a noi oggi sotto forma di «canzoni», della durata stan-
dard di tre-quattro minuti.
In questo senso può rivelarsi stimolante immaginare un flusso musicale che risulti di fat-
to un collage, uno zapping: una concezione della forma confacente a una visione sostanzial-
mente postmoderna della realtà. Potrebbe essere una buona occasione per indagare il con-
cetto di affinità tra idee apparentemente e formalmente indipendenti. È diverso, ad esem-
pio, un montaggio composto da frammenti tratti da un’idea magari unitaria ma di natura
extramusicale (come un seguito di melodie ispirate dal pensiero della propria fidanzata) o
concepiti secondo uno stile unitario, rispetto a una composizione che risulti essere un con-
tenitore di materiale indifferenziato.
Mi sembra che attraverso il montaggio di idee eterogenee non necessariamente si debba
sempre arrivare a confezionare un abito di Arlecchino, o che il brano-contenitore richiami
inevitabilmente il bidone della spazzatura (per questo tipo di espressioni ritengo vi siano a
sufficienza cultori della pop-art). Quello che voglio dire è che un collage, o un montaggio che
dir si voglia, non deve per forza rispecchiare una visione stracciona o sfiduciata del-
l’espressione artistica.

3.7.2. Il procedimento moltiplicativo


Sono sempre stato affascinato dai caleidoscopi. Volendo, questi oggetti meravigliosi po-
trebbero offrire la possibilità di guardare immagini continuamente cangianti per un tempo
più lungo di quello dell’età dell’universo. Ma tutte le infinite e irripetibili immagini offerte
156 L’abaco e la rosa

da uno stesso caleidoscopio hanno caratteristiche specifiche e comuni. La loro qualità di-
pende dalla forma e dal colore dei pezzetti contenuti nel caleidoscopio e dal tipo di sim-
metria speculare da esso proposta. Ogni caleidoscopio presenta qualche analogia con la
nozione di insieme o classe, cioè una collezione di enti definita da leggi formali. Per quanto
ciò possa sembrare paradossale, la matematica ci dice che è possibile concepire infinite
classi di infiniti. La successione dei numeri interi positivi, ad esempio, è un insieme infinito,
così come la successione dei numeri frazionari compresi tra 0 e 1.
Molti brani musicali contengono al loro interno delle ripetizioni: di materiale identico,
variato o trasportato; basta sfogliare qualche pagina di Bach per accorgersi di ciò. In epoca
barocca esiste poi una forma di caleidoscopio sonoro rappresentata dalla progressione
(come già detto, si tratta di una sequenza costituita dalla ripetizione di un modello melodi-
co e/o armonico su diversi gradi della scala o in toni diversi rispetto a quello d’impianto
del brano). Bach, che generalmente ripete un modello tre-quattro volte, nella toccata per
clavicembalo in FA diesis minore BVW 910 propone in progressione due modelli, di cui il
secondo costituisce una variante del primo; il primo è proposto complessivamente 7 volte,
il secondo 12 volte.

Es. 3-107

# # #œ œ œ œ œ œ œ #œ
& # ‹ œœ . œ # œœ œ œ œ œœ œ
Œ
≈ #œ œ œ œ Œ
? # # # # œ .# œ # œ ‹ œ œ œ
Œ

# # # œ . œ # œœ # œœœ œœ œ œ Œ
& # œ œ œ
≈ Œ
œ
? ### œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœ

Considerando che la linea superiore del primo modello si conserva intatta nel secondo
(anche se collocata al basso), abbiamo per 19 volte consecutive la proposta dello stesso
modello melodico!
Si può dunque immaginare un brano musicale come una sorta di caleidoscopio composto
da frammenti sonori. Mettendo in un immaginario shaker (con o senza specchi di riflessione)
questi frammenti, o anche immaginando dei criteri non casuali per la loro combinazione si
potrebbero ottenere infiniti brani musicali. A seconda delle caratteristiche dei singoli fram-
menti i brani mostrerebbero delle analogie. I frammenti potrebberro sovrapporsi e disporsi
in innumerevoli modi, anche soltanto attraverso la trasposizione, la retrogradazione, il ro-
vesciamento e la retrogradazione del rovesciamento. Si pensi alla lettera b, che può trovarsi
in qualsiasi punto di questa pagina, e che può presentarsi anche come d, p e q:

bd
pq
Capitolo 3 157

Immaginiamo di comporre un brano composto da più versioni di un cocktail di fram-


menti: questo modo di procedere può essere definito quindi moltiplicativo.
La musica moltiplicativa, caleidoscopica, sarebbe quella che pone l’interesse principale
nella ripetizione. Se si giudica col metro della musica classico-romantica, l’atto del molti-
plicare può essere considerato superfluo, ridondante: in questo senso anche la toccata in
FA diesis minore di Bach potrebbe essere criticata. Una valutazione meno ideologica do-
vrebbe forse prendere in considerazione gli effetti psichici che un’espressione musicale vuo-
le ottenere.
Nella sua accezione più semplice, il procedere moltiplicativo dovrebbe ricorrere a combi-
nazioni di un ridotto catalogo di elementi musicali (ad esempio frammenti melodici o textu-
res) conservandoli nella loro integrità. Se si optasse per qualche trasformazione, a rigore
dovrebbe essere isomorfa (come la retrogradazione di un elemento), cioè conservare l’infor-
mazione completa dell’originale. Un procedere puramente moltiplicativo non prende infatti
in considerazione la variazione degli elementi di base.
La musica puramente moltiplicativa non presenta quindi alcun tipo di evoluzione. Si può
infatti immaginare una collezione di un numero enorme di immagini generate da un caleido-
scopio disposte in successione. Qui mancherebbe però, ad esempio, la trasformazione dal
semplice al complesso; o involuzione, cioè il caso contrario. Più avanti avrò modo di sof-
fermarmi sulla possibilità di procedere per mezzo di mutamenti — semplici variazioni — o
di evoluzioni/involuzioni del flusso musicale.
A dire il vero, la musica «d’arte» occidentale raramente presenta situazioni puramente
moltiplicative. Il mutamento, la narrazione, nella musica di Beethoven, ad esempio, costi-
tuisce un elemento fondante; ma anche la concezione minimalista prende in considerazione
il mutamento, sebbene sia orientata a un fenomeno molto lento, su ampia scala. Alcune
espressioni musicali non destinate alla sala da concerto (penso alla techno in un’accezione
molto generica) mostrano invece più spesso esempi puramente moltiplicativi.
La procedura per realizzare ad esempio un caleidoscopio sonoro può essere sostanzial-
mente analoga a quanto abbiamo fatto per ottenere gli esempi 3/63-64. In quel caso abbia-
mo fatto ricorso a quella sorta di catalogo musicale che è l’esempio 3/62, composto da
un’insieme di frammenti sonori che possono essere duplicati e shakerati nel nostro ipotetico
caleidoscopio.
Le caratteristiche musicali (e la qualità) del nostro caleidoscopio dipendono soltanto
dai frammenti sonori e dal criterio di scelta (casuale o meno) di essi. I frammenti possono
essere della massima semplicità o presentare situazioni più articolate. Potrebbero, ad
esempio, essere il prodotto di un’elaborazione «frattale».
Per il prossimo esempio ricorrerò soltanto a quattro frammenti. Due, di un certo interes-
se lineare, li otterrò da alcune iterazioni di un frammento di tre note fra loro diverse, tratte,
con un criterio di casualità, dalla scala minore naturale di DO; gli altri due, semplicissimi,
dall’articolazione di due intervalli: una quarta e una quinta. Tutti i frammenti saranno ac-
comunati, oltre che dall’essere costituiti da note appartenenti a una sola scala, dal fatto di
presentare un continuum ritmico di crome. Ecco un possibile risultato relativo a un’elabora-
zione del catalogo:
158 L’abaco e la rosa

Es. 3-108
b 4 œ
1 &b b 4 œ œ œ œ œ œ œ j
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
b
2 & b b 44 œ œ œ œ œ œ œ œ Jœ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b 4
3 &b b 4 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b
4 & b b 44 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

I primi due righi sono elaborazioni «frattali». Gli ultimi due quelli costituiti da un solo
intervallo (uno inizialmente ascendente e uno inizialmente discendente). Per quanto riguar-
da i primi due righi, le parentesi quadre indicano le tre note d’avvio per le iterazioni. Dal
momento che ho deciso arbitrariamente (e banalmente) di ricorrere a frammenti formati da
battute in 4/4, le 27 note ottenute dalle due iterazioni degli iniziali frammenti di tre note
non erano esattamente distribuibili in battute del metro prescelto. Dividendo 27 per 8 si ot-
tengono infatti tre battute in 4/4 con il resto di tre note: queste ultime possono essere elimi-
nate. Decido inoltre che il mio caleidoscopio non presenti sempre la totalità dei frammenti
in diverse disposizioni e trasposizioni; sarà invece costituito di volta in volta da tre fram-
menti scelti così: inizialmente sceglierò in modo casuale tre frammenti, ad esempio, nell’or-
dine: 4, 2, 3. Posso immaginarli sovrapposti in una colonna:

Tab. 3-8
4
2
3

Il caleidoscopio può essere immaginato, di fatto, come un seguito di colonne in cui le ci-
fre in ogni colonna possono essere conservate o cambiate. A tal fine, si può immaginare di
procedere mediante un semplice algoritmo. Ad esempio, si può decidere che la cifra succes-
siva di ogni casella abbia una certa probabilità, diciamo del 50%, di rimanere identica o di
cambiare. A questo punto, con tre righe e quattro elementi la scelta diventa obbligata. Si
consideri la prossima tabella:

Tab. 3-9
4 cambia 1
2 resta 2
3 cambia 4

È evidente che per la prima casella della prima colonna l’unica possibilità di scelta è il
frammento 1. A questo punto, dopo avere riportato la nuova cifra nella seconda colonna,
l’unica possibilità di scelta per la terza casella è 4. Il procedimento, a causa dell’eventualità
che le nuove colonne presentino cambi non simultanei di cifra, rimane sostanzialmente im-
prevedibile.
Capitolo 3 159

Per ottenere poi un risultato più interessante, si può decidere, ad esempio, che a partire
dalla seconda colonna le nuove cifre, cioè i frammenti assegnati, presentino delle trasposi-
zioni sui diversi gradi della scala mediante criteri di casualità, oppure secondo un piano
prestabilito. Per quanto mi riguarda, trovo molto semplice regolarmi così: nel caso della
scala minore naturale di DO, la cifre da 1 a 7 corrispondono alla prima nota del frammen-
to (se ad esempio, affidandomi al caso, ottengo 2, ciò significa che il frammento deve ini-
ziare da RE). I frammenti, oltre che trasposti su diversi gradi della scala, possono ovvia-
mante essere collocati in registri diversi: due righi possono ad esempio fare riferimento a un
registro medio, mentre il terzo a un registro grave. Potrebbero poi essere retrogradati, rove-
sciati, e retrogradati a partire dal loro rovesciamento.
Mi piace pensare anche ad alcune ulteriori condizioni. Se lavoro ad esempio con fram-
menti costruiti a partire da una scala minore naturale, non amo sentire generalmente il sesto
grado (utilizzando ad esempio una scala minore di DO, il LA bemolle) come nota più acu-
ta dell’insieme e il secondo grado come nota più grave. Se effettuando delle trasposizioni si
verificassero queste eventualità, opterei per una trasposizione diversa.
L’esempio 3-109 mostra un possibile risultato, ottenuto applicando il procedimento set-
te volte. Nella realizzazione dell’esempio non mi sono il posto il problema dell’insorgenza
di ottave parallele (c’erano qui pochi motivi per porselo). Pensando a una possibile esecu-
zione, immagino le linee assegnate a sintetizzatori e un tempo piuttosto veloce (ad esempio
una minima corrispondente a 96 pulsazioni al minuto). Potevo ovviamente continuare ad
aggiungere, finché avessi voluto, nuove configurazioni ripetendo il procedimento, virtual-
mente infinito.
A rigore, l’esempio precedente non potrebbe essere definito effettivamente caleidoscopi-
co: manca infatti una qualche analogia relativa alla riflessione speculare dei frammenti da
cui sono costituite le immagini sonore. Volendo, a partire dall’esempio precedente, si po-
trebbe facilmente realizzare un caleidoscopio sonoro vero e proprio: sarebbe sufficiente ad
esempio presentare contemporaneamente di ogni linea una versione speculare (cioè, tecni-
camente, un’inversione). Sarebbe veramente necessario? Per quanto mi riguarda preferisco
pensare al caleidoscopio come a una metafora. Nell’ambito di immagini prodotte da un ca-
leidoscopio reale, è la simmetria prodotta dagli specchi a produrre immagini cui possiamo
attribuire un valore estetico. In ambito temporale le uniche forme di simmetria sono, come
ho già accennato, la traslazione e la regressione. Di conseguenza, in ambito musicale sareb-
bero queste le forme di simmetria naturali. La simmetria mediante inversione è quindi un di
più, una conseguenza della possibilità di visualizzare la musica su un supporto materiale
attraverso segni convenzionali; qualcosa, in definitiva, che si può verificare quasi soltanto
attraverso l’analisi di un brano.
La realizzazione di musica caleidoscopica ci mette in diretto contatto con un procedere
del tutto seriale, analogo alla produzione industriale. È evidente che una simile concezione
estetica si presta a pesanti critiche, se la valutiamo col metro di una concezione legata a un
passato ormai lontano (di fatto anche quello di Van Gogh e di Schönberg). D’altra parte il
XX secolo ha moltiplicato in modo impressionante l’esistenza di oggetti dotati di un qual-
che valore estetico prodotti nel modo menzionato: talvolta è difficile — e forse inutile —
160 L’abaco e la rosa

Es. 3-109
b
& b b 44 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b
& b b 44 œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œœœœœ œœœœœœœ œ œœ œœ œ œœœœœ
? b 4 œœœœœœœœ œœœœœœœœ œœœœœœœœ œœœœœœœœ
b b 4

b œ
&b b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ
b
&b b œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
? b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b œ œ œ œ œ œ œ œ

b œ
&b b œ
œ œ œ
œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ
œ œ œ
œ
œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b
&b b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
? b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b œ œ œ œ œ œ œ œ

b œ œ
&b b œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ
œ
œ œ œ
œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ
b œ œ œ œ œ œ œ œ
&b b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
? b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b œ œ œ œ

b
&b b œœ œ œ
œ
œœœ œœœœœœœœ œœœœœœœœ œœœœœœœœ
œ œ
œœ œœ œœ
b œ œ œ
œœ œœœœ
&b b œœœœœœœ œ œœ œ œ œ œ
œœœ œœ œ œ œœœ œ
œœ œœ œœ
? b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

cercare di porre un netto confine tra «design» e «arte figurativa» o, generalizzando, tra
«arte applicata» e «arte» tout court.
La riproduzione meccanica, seriale, obbliga a interrogarci sul significato della parola arte
riferita al nostro tempo. Nel capitolo 2 mi sono soffermato, in modo un po’ provocatorio,
sull’idea algoritmica di produzione artistica, che non era affatto estranea a personalità del
passato. Il fatto è che è possibile realizzare algoritmicamente prodotti artistici che non dia-
Capitolo 3 161

no l’impressione di essere di per sé seriali. Il caso di caleidoscopi sonori, siano anche pezzi
da discoteca, o delle opere di Andy Warhol riguarda invece prodotti di per sé seriali, ripe-
titivi. (In campo letterario l’equivalente di una produzione seriale potrebbe essere conside-
rata la scrittura di romanzi gialli. Il caso di Simenon, che rimane un grande scrittore tanto
nei suoi «Maigret» che nei suoi romanzi, è fra i più noti.)
Per quanto riguarda il terreno d’elezione di una concezione caleidoscopica in ambito
musicale, è facile pensare che esso possa essere quello della musica «di consumo» (anche
questo è un termine problematico). In quest’ambito sono apparsi negli ultimi anni software
sbalorditivi, per mezzo dei quali, attraverso il montaggio di uno sterminato catalogo di ele-
menti preconfezionati (mattoncini di un Lego sonoro che si possono anche modificare a
piacere), è possibile comporre molta della musica «commerciale» che arriva oggi alle nostre
orecchie. Il sistema operativo Mac Os X, disponibile su qualsiasi computer Apple, è dotato
di un bellissimo programma di questo genere, estremamente semplice da utilizzare: si tratta
dell’ormai celebre GarageBand, per mezzo del quale anche una persona sprovvista di qual-
siasi nozione musicale, potrebbe realizzare, con un po’ di fortuna, un brano di successo. Lo
stesso Mozart ha realizzato un ingegnoso gioco musicale (KV 516f), in cui attraverso delle
tessere corrispondenti alle singole battute di un minuetto e di una contraddanza si può
comporre un numero enorme di brani deliziosi.
Rispetto alle possibilità offerte anche solo da GarageBand, ciò che ho proposto è di una
elementarità disarmante. Ho voluto suggerire soltanto un modo di procedere in cui siamo
noi, però, gli ideatori dei frammenti e delle regole di assemblaggio, da cui dipende intera-
mente il carattere del risultato, che potrebbe anche essere di qualche originalità. In definiti-
va, programmi come GarageBand ci portano su un vasto terreno musicale ma con precisi
confini, in cui andremo a comporre musica con molte delle caratteristiche dell’odierna mu-
sica di consumo. In situazioni del genere mi sembra comunque che se si vuole parlare di ar-
tisti risultano esserlo, semmai, anche — e forse di più! — coloro che hanno realizzato il pro-
gramma (tornerò su queste considerazioni nel capitolo 9).

3.7.3. Il procedimento metamorfico


L’ultimo dei nostri esempi presenta un’interessante varietà sonora, ma è sostanzialmen-
te statico. Giungiamo qui a considerazioni estremamente delicate quanto, mi auguro, stimo-
lanti. L’esempio precedente è di concezione molto diversa da quella di un brano classico-
romantico. È in questo periodo, infatti, che i compositori cominciano a rendersi pienamente
conto che un’espressione musicale può, al pari di un racconto, narrare realmente una storia,
presentare profonde trasformazioni, metamorfosi, e/o evolvere.
L’importanza data alla dimensione temporale a partire dall’epoca classico-romantica
porta alla scoperta dell’irreversibilità (la possibilità — teorica — per la musica di andare a
ritroso nel tempo mette in evidenza, come ho accennato, aspetti paradossali). Fino all’epo-
ca classico-romantica il tempo risulta essere quasi sempre trattato come un semplice conte-
nitore. In seguito la riflessione sul tempo diventa invece fondamentale. Così, quando in un
brano di Mozart o di Beethoven una stessa idea musicale viene riproposta non ha più la
stessa valenza psicologica di quando è comparsa per la prima volta.
162 L’abaco e la rosa

Va da sé che la scoperta della dimensione temporale come dimensione nevralgica del


pensiero musicale non necessariamente orienta in senso classico-romantico la musica che
continui a trarne conseguenze. E, dal momento che l’idea di progresso risulta estremamente
problematica in campo artistico ed estetico, non siamo obbligati ad abbracciare questa
concezione.
Ritengo perciò legittima la scelta di continuare a optare per una concezione musicale che
tenti di annullare lo scorrere del tempo senza sentirsi musicisti banali o primitivi. Penso an-
cora a Pärt e alla sostanziale staticità di molte sue composizioni, la sua Passio ad esempio.
Per questo musicista l’idea della staticità ha infatti profonde motivazioni spirituali. Autori
come Adams e Glass, invece, pur essendo, almeno per quanto riguarda il loro passato,
compositori definibili come minimalisti, hanno composto musica con al centro una riflessio-
ne sull’inevitabilità e sulla sostanziale irreversibilità dello scorrere del tempo.
L’idea di mutamento effettivo nel flusso musicale può essere in stretta relazione con una
profonda riflessione sul tempo, ma in definitiva ciò può anche non rivelarsi necessario.
Dove una riflessione sul tempo risulta quasi inevitabile (consapevolmente o no) è semmai in
una concezione evolutiva. Un brano musicale può essere un seguito di mutamenti senza di
fatto evolvere. In questo senso il tempo continua a essere un semplice contenitore degli
eventi. L’idea di evoluzione è invece diversa. Risulta infatti impossibile prendere in consi-
derazione un qualsiasi fenomeno evolutivo trascurandone la dimensione temporale.
Mutamento, evoluzione, due termini apparentemente analoghi. In realtà, in determinati
contesti, non lo sono per nulla. Ritengo che alcune brevi considerazioni su alcuni loro possi-
bili significati e alcuni esperimenti a loro ispirati possano rivelarsi utili. Direi anzi che que-
ste due idee siano quasi indispensabili in qualsiasi discorso odierno sulla composizione.
Ho scelto volutamente due termini non fortemente connotati in ambito musicale come inve-
ce variazione e sviluppo, perché, carichi come sono del loro significato in una prospettiva
storica, rischiano di essere fuorvianti. Ancora una volta, parlare in termini astratti può co-
stituire un vantaggio e non condizionare eccessivamente le scelte di chi volesse dedicarsi a
propri esperimenti compositivi.
Rivolgiamoci al concetto di evoluzione: esso è molto chiaro in ambito biologico; ritengo
quindi possa essere un buon inizio per alcune considerazioni generali.
L’evoluzione naturale dipende tanto dal caso che dalla necessità. Il caso è rappresenta-
to da quelle variazioni — casuali appunto — nel genoma che possono essere trasmesse da
un organismo appartenente a una determinata specie a un proprio discendente. General-
mente queste variazioni sono disastrose per l’organismo. La necessità è rappresentata dal-
la selezione naturale, che consente invece a quei pochissimi organismi dotati di variazioni
vantaggiose nel loro genoma di avere un maggior successo riproduttivo. Caso più selezione
naturale: così evolvono le specie nel tempo.
Due aspetti dell’evoluzione risultano particolarmente importanti.
Da un lato l’evoluzione consiste, abbastanza frequentemente — non sempre quindi —, in
un aumento di complessità degli organismi viventi e spesso è il risultato di una corsa agli ar-
mamenti di specie in competizione (si pensi al caso di leoni e gazzelle). In termini assoluti,
non rappresenta quindi sempre un vantaggio essere organismi complessi. I batteri, veri pa-
Capitolo 3 163

droni del nostro pianeta, sono organismi molto più semplici di una gazzella e conducono
con successo le loro esistenze da tempo immemorabile.
Dall’altro, i biologi evolutivi sono pressoché concordi nell’affermare che l’evoluzione na-
turale, nel suo complesso, è del tutto cieca, non ha cioè alcuno scopo. In termini filosofici si
può dire quindi che l’evoluzione non è teleologicamente orientata. (Questa considerazione è
contenuta già nell’Orologiaio cieco, precedentemente citato, uno dei testi fondamentali con-
temporanei sull’evoluzione. È al centro anche dell’ormai classico Il caso e la necessità del Pre-
mio Nobel Jacques Monod.) L’evoluzione naturale non è allora una storia di progresso, ma
un meccanismo idoneo ad adattare gli esseri viventi all’ambiente in vista di un successo ri-
produttivo.
A rigore, se si volesse applicare l’idea di evoluzione a un brano musicale occorrerebbero i
due ingredienti fondamentali: variazioni casuali e selezione naturale. Per quanto riguarda le
prime, giunti a questo punto ci possiamo rendere facilmente conto che è possibile elaborare
un numero pressoché infinito di semplici algoritmi per ottenere delle variazioni casuali di
un elemento musicale iniziale. I problemi riguardano invece l’idea di selezione, teoricamente
indispensabile. Per la prospettiva di una selezione naturale, i problemi sono molto consisten-
ti. Più facile è probabilmente ricorrere invece all’idea di una selezione artificiale. Nel corso dei
millenni attraverso la selezione artificiale l’uomo ha ottenuto razze animali e varietà vege-
tali la cui evoluzione è stata da esso orientata in base a esigenze materiali o estetiche. In
questo senso l’evoluzione artificiale generalmente ha un obiettivo ideale (ottenere, ad esem-
pio, cani specializzati in alcuni compiti o fiori di particolare bellezza).
Se quindi un’idea del tutto naturale di evoluzione non è di immediata applicazione alle
arti — ma per mezzo del computer si profilano scenari sempre più affascinanti —, la no-
zione stessa di evoluzione applicata a esse diventa quindi più sfumata. Si parla comune-
mente di evoluzione quando ci troviamo di fronte a un processo storico, a delle profonde e
irreversibili trasformazioni nel tempo. Una serie di immagini generate da un caleidoscopio
non è, per intenderci, evolutiva. È vero che ogni immagine dipende dalla posizione delle
tessere colorate dell’immagine precedente, ma il seguito di immagini non ci racconta alcuna
storia. E neppure c’è mai un aumento o diminuzione della complessità di un’immagine ri-
spetto alla precedente.
Gli eventi non sono condizionati dallo scorrere del tempo. È infatti evidente che il fatto-
re tempo condiziona potentemente qualsiasi processo evolutivo. Molti si stupiscono a tal
punto della complessità degli organismi viventi o di organi particolarmente complessi come
il cervello o l’occhio, giungendo a dubitare che siano il risultato di un puro processo evoluti-
vo. Se si pensa però che l’evoluzione naturale è all’opera da miliardi di anni, tali capolavori
diventano del tutto comprensibili.
Di fatto, a causa della riflessione sul tempo, i compositori, specie a partire dall’epoca
classico-romantica, hanno iniziato a narrare grandi e autentiche storie sonore. Si pensi a una
sonata o a una sinfonia di Beethoven: nel primo movimento di esse incontriamo quasi sem-
pre due aree tonali e tematiche ben definite che costituiscono il materiale più importante
dell’esposizione. Dopo un episodio generalmente turbolento e drammatico, lo sviluppo, si
giunge a un episodio in cui i temi sono esposti nella stessa tonalità d’impianto, la ripresa.
164 L’abaco e la rosa

Così alla fine abbiamo la faticosa e conquistata conciliazione degli opposti. Questo sche-
ma, la forma-sonata, è quindi analogo a uno schema di un processo dialettico di tesi, antite-
si e sintesi.
Nel caso della forma-sonata non ci troviamo di fronte quindi a un processo evolutivo
vero e proprio. Va da sé che fino alla comparsa dell’Origine delle specie di Darwin nel 1859
era impossibile avere idee chiare sull’evoluzione naturale, e per diversi decenni ancora la
maggior parte degli artisti non sembrò suggestionata da alcuna idea scientifica in particola-
re; semmai lo era da qualche generica idea di scienza e di progresso.
Se oggi ricorriamo talvolta a una generica idea di evoluzione per comprendere brani del
passato e del presente, lo facciamo perché il termine evoluzione possiede un alone semanti-
co particolarmente vasto e suggestivo. In effetti anche un’imprecisa metafora di evoluzione
può essere talvolta efficace. In primo luogo, il fattore tempo a partire dalla musica classico-
romantica ha un peso enorme (ancora nella musica di Bach il tempo sembra spesso essere
un semplice contenitore), anche se, sostanzialmente fino a Debussy, si rimane di fatto nel-
l’ambito di una concezione di tempo lineare; in secondo luogo, a dispetto di un’identità
formale tra alcuni elementi di una composizione, gli stessi elementi assumono talvolta nel
corso del tempo un diverso significato, generalmente legato a una maggiore complessità.
Desidero evidenziare ancora un aspetto della dimensione temporale in musica. Se è vero
che a partire dall’epoca classico-romantica i compositori sono diventati pienamente consa-
pevoli del fattore tempo, hanno cioè scoperto che il tempo è forse l’elemento più importan-
te della musica, trovo molto affascinante che l’ineliminabile dimensione temporale — che,
beninteso, è qualcosa di diverso e più profondo rispetto a quella puramente ritmica e me-
trica — abbia agito indisturbata nella musica per molti secoli offrendo modelli di scorri-
mento quanto mai vari.
Non riflettendo forse così consapevolmente sul tempo come un compositore dell’epoca
classico-romantica (ammetto candidamente che potrei sbagliarmi), i musicisti precedenti a
quell’epoca non sembrano essersi accorti di trovarsi in situazioni talvolta paradossali come
una grande o caleidoscopica staticità. Probabilmente prima dell’età industriale l’umanità
aveva con il tempo un rapporto meno problematico di quanto abbia avuto successivamen-
te; con una migliore disposizione, o indifferenza, verso i suoi paradossi e i suoi capricci.
Però nel Novecento molti, ormai suggestionati, se non imbevuti, dalle sconvolgenti scoperte
sul tempo offerte dalla fisica teorica sono giunti ad avere nei confronti del tempo una con-
cezione non lineare e di autentico (anche se spesso sgomentato) stupore.
A dire il vero, coloro che sembrano affascinati da una qualche metafora di evoluzione
pensano non di rado a processi che tendono a qualcosa; cioè a processi teleologicamente
orientati.
Si immagini di volere comporre un brano in cui tutte le idee musicali, prendendo avvio
da un registro molto grave, attraverso vicissitudini più o meno drammatiche raggiungano un
registro molto acuto, come una conquista. Bene o male, spesso i compositori, al di là dei
linguaggi e della complessità del loro pensiero musicale, sembrano ragionare in un modo
analogo. In epoca classico-romantica l’obiettivo era sostanzialmente quello della concilia-
zione degli opposti, in seguito (anche se tale obiettivo è rimasto sempre piuttosto rincorso)
Capitolo 3 165

si è assistito a una proliferazione di obiettivi. È del tutto naturale infatti che, al di là delle
preferenze e delle aspirazioni, la natura umana desideri spesso qualcosa di determinato. In
presenza di un bersaglio raggiungibile con una successione di singoli tentativi si può ancora
parlare di una forma particolare di evoluzione: si tratta, in termini tecnici, di un modello
evolutivo a passi singoli. Questo modello è ben distinto da quello principale dell’evoluzione
naturale, definito come evoluzione per selezione cumulativa. Quest’ultima, come ho accenna-
to, è propriamente priva di scopo e imprevedibile.
Essendo la musica un’arte del tempo è ovvio che ha a che fare con mutamenti, crescite
ed estinzioni. Possiamo trovare molti termini analoghi a questi ultimi: ad esempio variazio-
ni, varianti, sviluppi, rarefazioni. Sono queste le idee basilari per portare avanti un brano
musicale. Un brano potrà o meno narrare consapevolmente una storia, avere degli obiettivi,
essere statico o estremamente dinamico. Ciò dipenderà ovviamente dalle inclinazioni e dal-
le aspirazioni del compositore. Per quanto mi riguarda, considero estremamente importante
essere il più possibile spregiudicati nei confronti della propria immaginazione. La timidez-
za e il moderatismo sono i principali nemici di qualsiasi espressione creativa, a meno di
volersi muovere nel paludatissimo terreno «accademico». (Ovviamente oggi la timidezza e
l’accademismo possono assumere forme una volta impensabili: recandomi a mostre di pop-
art ho faticato talvolta a capire se mi trovavo a esposizioni d’arte contemporanea o in ne-
gozi di sanitari.)
In questa sottosezione darò soltanto alcune semplicissime indicazioni riguardanti
un’idea generale di mutamento, o di metamorfosi, se si preferisce. Ho già detto che nella
prossima sottosezione darò invece alcune indicazioni per esperimenti maggiormente orien-
tati a una dimensione propriamente evolutiva.
Ovviamente nel campo delle trasformazioni del materiale musicale sono immaginabili
un’infinità di soluzioni: siamo infatti di fronte a uno degli aspetti cruciali della composizio-
ne musicale. Qui, ancora più che altrove, le indicazioni date sono volutamente esigue e ri-
guardano un punto di vista del tutto personale. Come al solito lancerò i miei amati dadi.
Del resto, ritengo che non sia affatto difficile escogitare tecniche per ottenere dei mutamenti
(o variazioni che dir si vogliano) e una crescita del materiale musicale. L’arte della varia-
zione può essere estremamente difficile sotto il profilo estetico, ma non lo è praticamente
mai sotto quello concettuale.
Come punto di partenza, quasi fosse una sorta di talismano, invece di un esempio musi-
cale mi piace affidarmi ancora a un’opera grafica di Escher che, al di là della sua grande
bellezza, ritengo possa riassumere mirabilmente molte delle cose dette fin qui.

Fig. 3-7
166 L’abaco e la rosa

Si tratta di Metamorphosis I del 1937. Ritengo che quest’opera non possegga un carattere
propriamente evolutivo, e che pertanto sia particolarmente idonea a orientare degli esperi-
menti che propongono come obiettivo il semplice mutamento del materiale musicale. I per-
corsi di lettura sono infatti del tutto reversibili. Faccio notare che un’opera come questa
narra comunque una storia, una storia che può essere letta anche a ritroso. Come in altre
opere di Escher, trovo estremamente affascinanti le graduali trasformazioni da un punto
all’altro.
Come di consueto, compirò esperimenti di estrema semplicità. Prima però desidero dare
alcune indicazioni di base.
In linea di massima, qualsiasi idea musicale può essere materiale idoneo per un processo
metamorfico. Per quanto riguarda invece il modo di realizzare i mutamenti, propongo quat-
tro criteri di base. Ovviamente si potrebbe procedere in innumerevoli altri modi. I criteri
sono questi:

• a) sostituzione di note;
• b) aggiunta di note, in orizzontale e/o in verticale;
• c) cancellazione di note;
• d) modifica della durata delle note.

Si tratta di criteri che permettono di effettuare interventi profondi, attraverso i quali si


ottiene una vera e propria deriva dell’elemento iniziale. Criteri invece come l’inversione e la
retrogradazione non incidono profondamente sull’elemento prospettandone una effettiva
mutazione. Questi ultimi generano infatti elementi isomorfi. (In ambito biologico invece,
l’inversione di sequenze di nucleotidi di DNA viene considerata una mutazione a tutti gli
effetti.)
Quello della sostituzione di note è un criterio molto semplice, ma efficace. Dato un ele-
mento iniziale si può procedere affidandosi anche qui al caso, assegnando a ogni nota del-
l’elemento una certa probabilità di essere sostituita.
Basandolo su questa scala di otto note:

Es. 3-110

& #œ œ bœ
œ œ œ œ #œ

immaginiamo di disporre di un semplice elemento lineare in 4/4:

Es. 3-111
œ
4 œ œ nœ œ #œ
& 4 #œ #œ

Per ottenerlo ho seguito questa procedura: per prima cosa ho fissato un registro entro il
quale l’elemento iniziale e le sue «derive» si dovessero muovere.
Capitolo 3 167

Es. 3-112
œ
&
œ

A questo punto, affidandomi al caso, ho ottenuto otto cifre corrispondenti alle note del-
la scala di riferimento. Consentendolo i limiti di registro, ogni nota risulta, nell’ambito di
un’ottava, nella posizione più lontana rispetto alla precedente. Così il FA diesis (seconda
nota del frammento) dista un intervallo di settima minore dal precedente MI, mentre il SOL
diesis (terza nota del frammento) può distare dalla precedente soltanto una seconda mag-
giore. Se una nota dista dalla precedente un tritono (che divide esattamente a metà l’otta-
va) ho deciso che, se il registro lo consente, sia più alta rispetto alla precedente. La sempli-
ce imposizione di un registro rende quindi meno prevedibile l’articolazione del materiale,
specie in prossimità dei limiti del registro.
Ecco cosa può succedere accettando l’eventualità di mutazioni per 11 volte:

Es. 3-113

x x x x x
œ œ bœ #œ
4 œ œ nœ œ #œ œ œ œ œ œ œ bœ œ #œ œ œ œ œ œ #œ
& 4 #œ #œ #œ #œ nœ #œ œ #œ
x x x x (x) x x
œ œ
œ œ œ bœ #œ œ œ œ bœ #œ œ œ œ œ œ bœ #œ œ bœ œ œ œ #œ
& œ #œ œ #œ #œ #œ œ
x x x
bœ œ œ œ #œ œ bœ œ œ œ #œ œ bœ œ œ œ œ #œ œ bœ œ
œ œ œ #œ
& #œ œ #œ œ #œ #œ œ

Nell’esempio ho segnato le note sostituite rispetto alle battute immediatamente prece-


denti. Ho assegnato a ogni nota una probabilità intorno al 16% (una probabilità su sei) di
essere sostituita. Si osserva che talvolta una battuta si ripete senza sostituzioni. Per quanto
riguarda le note di nuova collocazione mi sono affidato al caso. Se il registro lo consentiva,
ho collocato una nuova nota anche qui nella posizione più lontana all’interno di un’ottava
rispetto alla precedente. Se il caso decideva che la nota da sostituire e la nuova nota fosse-
ro le stesse, ho deciso di accettare questa eventualità: cosa che si è verificata alla sesta bat-
tuta, dove una sostituzione è segnata tra parentesi. Si noti infine che la nota LA, apparte-
nente alla scala di riferimento, compare soltanto nell’ultima battuta dell’esempio.
Variando la probabilità di sostituzione si possono ottenere ovviamente «derive» più
lente o più veloci. Potrebbe essere interessante pensare anche a un criterio che modifichi la
probabilità di sostituzione all’interno di un brano.
Con criteri analoghi a quelli applicati all’esperimento precedente (quelli relativi alla po-
sizione delle note e ai limiti di registro) comporrò ora un elemento lineare a partire da que-
sta scala di nove note:
168 L’abaco e la rosa

Es. 3-114

& bœ nœ bœ nœ
#œ œ bœ nœ œ

La lunghezza dell’elemento dipenderà dai valori di durata. Per prima cosa mi procuro
una sequenza, ad esempio, di otto cifre binarie 0 e 1:

1, 0, 1, 1, 0, 1, 1, 1.

La cifra 0 corrisponde alla semiminima, la cifra 1 alla croma. La precedente sequenza


corrisponde quindi a una battuta in 5/4. Rivestendo la sequenza ritmica con note apparte-
nenti alla scala di riferimento scelte affidandomi al caso ottengo questo elemento:

Es. 3-115

bœ œ bœ
5 j >œ œ J b >œ J œ
&4 œ J

(Si noti che le semiminime sono accentate.)


A questo punto mi attengo alla seguente successione di passi:

• 1) Per prima cosa duplico l’elemento iniziale provvedendo alle eventuali sostituzioni, in
modo analogo a quanto fatto nel precedente esperimento. Anche qui la probabilità di
sostituzione sarà di una su sei.
• 2) Assegno a ogni nota una probabilità su sei di mutare per quanto riguarda la sua du-
rata. Se si verifica quest’eventualità la semiminima diventa croma e viceversa. In questo
modo posso ottenere un allungamento o accorciamento della battuta.
• 3) Provvedo a eventuali aggiunte o eliminazioni di note in orizzontale. Qui procedo così.
Lancio un dado: se ottengo 6 aggiungo una nota al termine della sequenza, della durata
di una semiminima o di una croma, con una probabilità del 50%; se ottengo 1 cancello
l’ultima nota della sequenza. In questa maniera c’è la (remota) possibilità che una se-
quenza si estingua.
• 4) Provvedo a eventuali aggiunte o eliminazioni di note in verticale. Assegno a ogni nota
una cifra, ad esempio da 1 a 6, affidandomi al caso. In corrispondenza della cifra 6 sot-
topongo, senza preoccupazioni di registro, una nota scelta sempre in base a un criterio
di casualità, ma in modo che sia diversa dalla prima. Posso stabilire, in più, che un in-
sieme di note possa contenerne al massimo cinque. In corrispondenza della cifra 1 se
sono in presenza di un insieme di almeno due note cancello quella più bassa. Per quanto
riguarda l’eventualità di sostituzioni di insiemi — si veda il punto 1) — ho deciso di
comportarmi in modo piuttosto drastico, affidandomi al caso per ottenere un numero di
note corrispondente al precedente insieme e diverse tra loro.
Capitolo 3 169

Quella che ho descritto è certo una procedura piuttosto macchinosa. Consente però di
ottenere risultati abbastanza interessanti. Ecco, ad esempio, cosa si può ottenere applican-
do per tre volte la procedura all’elemento mostrato nell’esempio 3-115:

Es. 3-116
bœ œ bœ œ bœ
5 j >œ œ J b >œ J œ 11 n œj n >œ j œ b >œ J œ b œ 6
&4 œ J 8 œ J 4

nœ bœ >œ n œ b œ
6 n œ n >œ œ bœ œ b œ n œ n >œ œ b œ # œ œ b œ n œ
&4 œœ # œ œ J J
b >œ > b >œ bœ

(Per quanto riguarda le configurazioni verticali, ho deciso di collocare rispetto alla nota
più alta le note sottostanti nella posizione più vicina, eccezion fatta nel caso in cui la posi-
zione più vicina andasse a formare un intervallo di seconda, eventualità che in questo con-
testo non mi soddisfaceva; a questo proposito si consideri la terza battuta dell’esempio.)
Si potrebbero ora compiere esperimenti a due-tre strati seguendo una procedura analoga
a quella dell’esempio precedente. Questi esperimenti potrebbero però rivelarsi un po’ mac-
chinosi e forse deludenti. Se si desiderasse realizzare qualcosa di più soddisfacente si po-
trebbe ad esempio immaginare un elemento composto in base alle indicazioni precedenti
che si muova in uno sfondo.
Anche per mostrare che quanto realizzato finora non sempre è destinato ad avere un ca-
rattere astratto, realizzerò adesso un brevissimo brano che (addirittura) avrà affinità col
blues.
Farò riferimento a una scala di sei note, di fatto una «scala blues»:

Es. 3-117

& œ œ bœ
œ bœ nœ

Con la procedura seguita prima realizzo adesso un abbozzo che elaborerò in seguito. Ri-
spetto a prima, ho deciso qui che le configurazioni verticali non possano essere formate da
più di tre note:

Es. 3-118
> œ > œ >
6 œ
&4 J œ bœ j j >œ J œ œ bœ j >œ œ œ œ > œ
œ jœ œ
> >œ bœ nœ > >œ b œ n œ J >œ >œ œ œ J
> > 11 œ> > œ> œ>
& b œ œœ œ œ œj œ œœ 8 œ œœ b œ œ œ œ œj b œ œ b Jœ œ 64 œ b œ œ b œ œ 118
> œœ J >> œ b >œ œ œ J b n œœ œ œ >œ
> œ bœ nœ bœ nœ
œ
> >œ œ >œ > >
11 > >œ b œœ 9 œ bœ 5 > œ b >œœœ
& 8 n œ œœ b œ J 8 nœ œœ j b œ J J 4 n œ œœ j b œ J
bœ œ bœ œ œ bœ œ
b >œ n >œ b >œ n œ > b >œ n œ
œ> >œ >œ
170 L’abaco e la rosa

Come accennato, proverò a comporre qualcosa che richiami un carattere affine al blues.
In realtà, penso più a un brano il cui sfondo sia composto da un accompagnamento stile
boogie-woogie, che al blues è strettamente imparentato per quanto riguarda la struttura
formale e armonica. Per realizzare un chorus, cioè un episodio di 12 battute, dovrò inizial-
mente trascrivere l’esempio precedente in 4/4 (non mi soffermo qui sui principali caratteri
armonici e formali del blues, su cui esiste una letteratura vastissima). Dal momento che
l’esempio mi fornirà più di 12 battute in 4/4, userò le battute di resto per la coda conclusi-
va. L’esempio 3-119 mostra il risultato finale.
Rispetto all’abbozzo (a parte la trascrizione in 4/4) ci sono qua e là interventi di una
certa consistenza, in primo luogo in relazione a un tipo di scrittura pianistica che si è impo-
sta strada facendo. Pensando a quest’ultima ho dovuto scrivere infatti in modo più stretto
gli accordi.

Es. 3-119 œ >œ


>œ > b >œ b œ n œ >œ >œ œœ >œ >
#œœ J
>œ b œ
>œ b œ n œ J œœ >œ œ œ
& .. J œ œ
J J J J J

? .. œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ
œ œ œ #œ œ œ œ nœ #œ œ œ œ nœ #œ œ œ œ œ #œ œ
>œ œ > > œ>
œ b œ >
œœ œ œ œ > >
œ # œœ n n œœ b œ œ œ >œ œ œ
bœ J œ n œ b œ J œœ J b œ œ # œœ œ
& J b >œ J
>œ J >œ

? œ œ
nœ œ bœ nœ œ œ
œ œ bœ nœ œ
œ œ œ
œ œ # œ œ œ œ
œ œ #œ œ bœ
œ œ œ œ œ
> œ œœ > >
b œ œ b œ >œ > b >œ œ b œ > >œ b >œ œ
J J >
b n œœœ # œœœ œ œ n œ
b œœ # œœ œ b œœ b n >œœ # œœ .
& J œ œ.
>œ >œ J

? œ œ œ .
œ œ œ #œ œ bœ nœ œ
œ œ bœ nœ œ
œ
œ œ # œ œ œ œ
œ œ # œ œ œ.
œ œ œ œ
>œ >œ # œ>œœ
b >œ œ >œœ b >œ œ b œœ >œœ b >œ œ b œœ
œ
œ
#œ œ œ b œœ b n >œœ #œ œ J #œ œ J Œ Ó
& œ J J

? œ œ Œ Ó
œ œ nœ #œ œ œ
œ œ œ #œ œ œ b >œ b œ b œ œ œ
œ œ b >œ
b >œ >œ

Capitolo 3 171

Gli interventi più consistenti riguardano però alcune modifiche del registro e delle note
originari. Ho innanzitutto alzato di un’ottava l’esempio precedente per ottenere una sono-
rità più brillante. Occasionalmente ho effettuato ulteriori cambi di registro riguardanti sin-
goli eventi sonori. Si confronti ad esempio la prima battuta dell’abbozzo e quella della ver-
sione finale. Qui non solo ho cambiato il registro, ma ho anche aggiunto una nota, il RE die-
sis al primo MI, per accentuare il carattere blues del brano. Analogamente mi sono compor-
tato all’inizio di battuta 7, dove ho aggiunto il SOL diesis al LA.
Si noti che a battuta 4, 5 e 10 alcuni MI, che nell’abbozzo erano naturali, sono diventati
bemolle. Ciò perché nell’ambito di un accordo con funzione di IV grado (qui FA7), per ra-
gioni stilistiche proprie del blues, è preferibile non evidenziare la nota che dista un semito-
no discendente dalla fondamentale dell’accordo.
Per quanto riguarda la coda, inizialmente disponevo di due battute di resto. Dal mo-
mento che volevo ottenere una coda di quattro battute, ho duplicato la seconda battuta di
resto e ho aggiunto un accordo conclusivo.
Certamente non è questo il modo più ortodosso e più agevole per comporre un boogie-
woogie. Ciò che mi interessava porre in risalto è che non necessariamente l’atteggiamento
nei confronti del metodo compositivo condiziona irrimediabilmente il carattere e lo stile del
risultato finale. Anche nell’ambito di un preciso contesto stilistico possono convivere diver-
se posizioni circa il metodo. Il caso di Mozart e di Haydn è emblematico. Mozart si rivela
spesso essere intuitivo e dispersivo, mentre Haydn è quasi sempre rigoroso e orientato al-
l’ottimizzazione dell’impiego del materiale musicale. Ciò non toglie che entrambi abbiano
composto musica meravigliosa.
È diffusa l’idea secondo cui chi si occupa di musica «di consumo» avrebbe sostanzial-
mente nei confronti della composizione un atteggiamento di faciloneria e che chi compone
musica «seria» per contro avrebbe un atteggiamento di estrema concentrazione. Posso ga-
rantire che non sempre è così.

3.7.4. Il procedimento evolutivo


Come afferma Wilson, natura e scienza possono fornire all’artista un illimitato serbatoio
di idee. Del resto, arte e scienza dovrebbero oggi dialogare per arricchirsi a vicenda. Si evi-
denzia ormai sempre più, infatti, che anche l’attività scientifica è più creativa di quanto si
pensi. Ciò riguarda soprattutto l’importanza dell’intuizione per lo scienziato. Detto questo
però, arte e scienza sono due cose magari non più separate da barriere insormontabili, ma
certamente diverse.
Sono tra coloro che ritengono che l’arte sia in definitiva una delle attività più libere della
mente e che considerano irrinunciabile questa libertà. Probabilmente è in questo senso che
l’arte può dirsi oggi ancora un mezzo di conoscenza. Conoscenza delle potenzialità della
mente o, più modestamente, della propria mente. Tarpare o tarparsi le ali mi sembra quindi
un delitto intollerabile. Poi, per il resto, è una questione di sensibilità e di intelligenza.
Concordo pienamente che in ambito artistico possano coesistere fonti di ispirazione
molto diverse. La poesia può continuare ancora oggi, ad esempio, a ispirare i musicisti
(come si ricorderà, un haiku di Raizan è stato di impulso per un precedente esperimento).
172 L’abaco e la rosa

Ritengo però che il rapporto fra musica e parola risulti sempre delicatissimo, per quanto
straordinariamente affascinante. Non ritengo che, in assenza di idee abbastanza solide su
come organizzare un brano di musica, un testo possa essere di effettivo aiuto per sviluppa-
re concrete idee musicali. Essendo la musica principalmente un’arte temporale e, se scritta,
visiva, mi sembrano più immediate e concrete idee provenienti dal mondo naturale, dove la
dimensione temporale e visiva (si ricordi, ad esempio, quanto detto sulla texture) è prota-
gonista. È in un secondo momento che possono invece rivelarsi estremamente stimolanti le
idee provenienti da ambiti propriamente umanistici come la letteratura (purtroppo non ba-
sta lasciarsi ispirare da qualche bella poesia di Hermann Hesse per scrivere brani come i
Vier letzte Lieder di Strauss).
Ecco allora che la dimensione evolutiva, la quale domina ogni fenomeno legato alla vita,
può essere una fonte particolarmente suggestiva di idee anche in ambito musicale. Come
sempre questo libro intende proporre soltanto idee estremamente semplici ma allo stesso
tempo, però, immediatamente spendibili.
Nella sottosezione precedente ho accennato alla nozione biologica di evoluzione. In na-
tura esiste solo l’evoluzione cumulativa, quella relativa a piccole variazioni nel genoma de-
gli organismi passate al setaccio della selezione naturale. Generalmente l’evoluzione si ac-
compagna a un graduale e impercettibile aumento di complessità dell’organismo. Alcuni
grandi studiosi, come l’americano Stephen Jay Gould (che, fra l’altro, è stato uno dei più
grandi divulgatori scientifici del nostro tempo), hanno ipotizzato che l’evoluzione degli or-
ganismi viventi possa anche non procedere in questo modo ma sostanzialmente per salti: è
la teoria degli «equilibri punteggiati». A questo proposito fino a non molti anni fa infuriava
un’autentica battaglia tra coloro che sostenevano le ragioni di un’evoluzione senza strappi,
continuativa — che vedeva in prima fila Dawkins —, e i sostenitori degli equilibri punteg-
giati, capeggiati da Gould e Niles Eldredge.
Dal punto di vista musicale le suggestioni di un procedere evolutivo che presenti muta-
menti nei livelli di complessità possono essere molto stimolanti. Tanto più se si accetta (per
quanto riguarda un brano musicale non vedo ragioni contrarie) anche la possibilità di un’in-
voluzione, una diminuzione della complessità quindi. Inoltre, analogamente a quanto accade
in ambito naturale, possiamo assistere nel corso di un brano alla comparsa di nuovi organi-
smi musicali così come alla loro estinzione. Prima di realizzare alcuni esperimenti in questa
prospettiva desidero però effettuarne altri in cui ci si troverà in una dimensione evolutiva
più semplice da trattare, ma che potrebbe rivelarsi musicalmente interessante.
Se quello dell’evoluzione cumulativa è il modello sostanzialmente incontestato di evolu-
zione biologica, ciò non toglie però che si possano immaginare modelli evolutivi astratti
adatti ad altri scopi che non siano quelli di spiegare l’evoluzione naturale. Nell’Orologiaio
cieco Dawkins, per mostrare che cosa non è l’evoluzione naturale, mostra un caso particolare
di evoluzione «con bersaglio», cioè teleologicamente orientata. Semplificando, una via di
mezzo fra l’evoluzione a passi singoli e l’evoluzione cumulativa.
Si immagini di mettere una simpatica scimmietta davanti alla tastiera di un computer
per un tempo infinito e, attraverso singoli tentativi (ad esempio assegnandole qualche mi-
nuto per ogni tentativo), aspettare, facendole battere i tasti come meglio crede, di vedere
Capitolo 3 173

apparire sullo schermo un verso famoso (Dawkins, da buon inglese, sceglie Shakespeare;
noi, per analogo orgoglio nazionale, potremmo scegliere Dante); ad esempio: fatti non foste a
viver come bruti. Probabilmente dovremmo aspettare un tempo maggiore all’età dell’univer-
so per ottenere il risultato desiderato. Potremmo però decidere di far compiere inizialmente
alla scimmietta un tentativo composto da 34 battute, tra lettere e spazi vuoti, corrispon-
denti al verso. La scimmietta potrebbe inizialmente ottenere quanto segue (le verrebbero ri-
sparmiati i tasti con simboli diversi dalle lettere, comprese quelle accentate, e dalla spazia-
tura):

qpzkrnfg ksocjflslgiv lcpdgdaze vb.

Notiamo che la 12ª e la 21ª battuta corrispondono alle lettere del verso di Dante. Fac-
ciamo fare alla scimmietta un ulteriore tentativo, ma in modo da conservare le lettere corri-
spondenti (quelle sottolineate). A questo punto potremmo ottenere questo nuovo risultato:

sd bsr qn foeo aemf vzoef dofiuapd.

Ora due nuove battute corrispondono a quelle del bersaglio. Compiendo altri tentativi è
molto probabile che in qualche decina o, al massimo, centinaio di passaggi si giunga al ri-
sultato desiderato. Questa situazione è quindi radicalmente diversa rispetto a quella di
procedere buttando via l’intero risultato se non corrisponde alle aspettative: conservando
di volta in volta l’eventualità di una corrispondenza fra le battute, si giunge infatti al ber-
saglio in un ragionevole lasso di tempo.
Come dicevo, Dawkins rileva che questo tipo di evoluzione non corrisponde esattamen-
te a quella biologica. Rispetto all’evoluzione a passi singoli è vero che questo tipo di evolu-
zione procede in modo cumulativo, conservando di volta in volta piccoli risultati vantag-
giosi e non buttandoli invece alle ortiche. In questo è simile al processo evolutivo biologico.
Rispetto a quanto avviene in natura, questo tipo di evoluzione procede però verso un fine
prestabilito. Invece l’evoluzione in natura sembra essere del tutto cieca, cioè priva di qual-
siasi scopo.
In ambito musicale, essendo del tutto liberi, possiamo tranquillamente affidarci a due
concezioni diverse di processi evolutivi, corrispondenti ciascuna, in modo sostanziale, a un
differente atteggiamento nei confronti della composizione.
Se procediamo secondo un processo evolutivo con uno o più bersagli, abbiamo la possi-
bilità di intervenire in modo consistente sulla forma complessiva di un brano, qualora deci-
diamo noi stessi le caratteristiche degli obiettivi da raggiungere. Può essere un modo di pro-
cedere molto stimolante, perché possiamo trovare un punto di equilibrio tra situazioni con-
tingenti, determinate ad esempio dal caso, e la nostra volontà. Il processo evolutivo po-
trebbe essere poi molto evidente qualora cambiasse di volta in volta, nel corso di un brano
la natura degli obiettivi, che potrebbero diventare via via più complessi, come del resto in-
volversi o estinguersi.
174 L’abaco e la rosa

Un diverso atteggiamento, più distaccato, lo si ha invece affidandosi a processi evoluti-


vi senza un preciso fine, lasciando che il risultato sia deciso dalle vicende generate da un
algoritmo evolutivo. La situazione non è concettualmente molto diversa da quanto abbiamo
realizzato in precedenza. Solamente, qui l’algoritmo si rivela essere più complesso perché
dovrebbe dar luogo a un reale processo evolutivo, cosa certamente non facile ma non im-
possibile per mezzo del computer.
Proverò ora a compiere un primo esperimento improntato all’evoluzione con bersaglio,
qui molto semplice. Facendo riferimento, ad esempio, alla scala minore naturale di DO pri-
va del LA bemolle, voglio che dopo alcuni tentativi venga raggiunto come obiettivo questo
frammento di scala in due distinti livelli sonori:

Es. 3-120
b
&b b œ
œ œ œ œ

Inizialmente mi affido al caso per ottenere, nei due livelli, due sequenze di cinque note
ciascuna:

Es. 3-121
b 5
&b b 8 œ
œ œ œ œ
? b 5 œ œ œ œ œ
b b 8

In nessuno dei due livelli c’è una corrispondenza tra le note dei frammenti e quelle della
scala. Conservando questo primo tentativo aggiungo una nuova battuta, affidandomi an-
cora completamente al caso:

Es. 3-122
b 5
&b b 8 œ
œ œ œ œ >œ
œ œ œ œ

? b 5 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b b 8
>

Ora in ciascuno dei due livelli sono comparse due note, evidenziate dagli accenti, corri-
spondenti al frammento di scala. Nei successivi tentativi di avvicinarmi al bersaglio queste
note verranno conservate. Potevo ovviamente decidere di non evidenziare dinamicamente
le note corrispondenti alla scala, ma questo espediente mi sembra un semplice modo di ar-
ticolare una sequenza che altrimenti sarebbe del tutto amorfa.
Procedendo in ulteriori tentativi, conservando di volta in volta le note corrispondenti
alla scala, ottengo il risultato dell’esempio 3-123. Sono occorse in tutto 22 battute per rag-
giungere il bersaglio. Ovviamente, più la sequenza corrispondente al bersaglio è lunga, più
tentativi occorreranno, molto probabilmente, per raggiungerlo. Ciò è quanto si può ottenere
Capitolo 3 175

Es. 3-123
b 5 œ œ œ œ
&b b 8 œ œ œ œ œ
œ œ œ œ >œ
œ œ œ œ œ> >œ
? b 5 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
> >œ >œ >œ > >œ œ >œ >œ
b b 8 œ œ œ
>
b
&b b œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
>œ œ >œ œ > >œ >œ œ œ> œ œ>
? b >œ >œ œ >œ >œ > > > >œ
œ œ œ œ
> > œ >œ >œ
œ œ
> > œ >œ >œ
œ œ
b b

b
&b b œ œ œ œ œ œ œ
> œ œ
>œ >œ > >œ >œ œ œ >œ
œ œ œ œ
>
? b >œ >œ œ >œ >œ > > œ >œ >œ
œ œ
> > œ >œ >œ
œ œ
> > œ >œ >œ
œ œ
b b

b
& b b œ œ œ œ >œ œ œ >œ œ œ> œ œ œ> œ> œ> œ œ œ> >œ >œ œ œ >œ >œ
> > > > > > >œ
? b >œ >œ >œ >œ > > >œ >œ
œ œ œ
>> œ
œ œ
>œ >œ > > >œ >œ >œ > > >œ
œ œ œ œ
>œ >œ
b b œ

b
& b b œ œ œ œ œ> œ œ œ œ œ œ œ œ >œ >œ >œ œ> œ> œ>
> > > >œ > > > >œ >œ > > >œ >œ >œ
? b >œ >œ >œ >œ >œ > > >œ >œ >œ
œ œ
> > >œ >œ >œ > > >œ
œ œ œ œ
>œ >œ > > >œ >œ
œ œ

b b

anche con alcune applicazioni musicali di reti neurali. Quest’ultime servono a simulare in
maniera del tutto autonoma la realizzazione di alcuni compiti come forse potrebbe fare un
cervello. La ricerca in questo settore in pieno sviluppo procede oggi ancora in modo em-
brionale, ma con delle prospettive che nel giro di non molti anni potrebbero offrire applica-
zioni stupefacenti. Le reti neurali possono essere realizzate sotto forma di software; ciò
non dovrebbe portarci però a ritenere inutili esperimenti come il precedente, ottenuto, in
definitiva, con dadi e matita. L’ideazione e il trattamento di reti neurali rimane ancora una
cosa piuttosto complessa. D’altra parte, la possibilità di sperimentare elaborazioni musi-
cali inconsuete e aperte su prospettive affascinanti ci autorizza a ricorrere anche a stru-
menti primitivi come i dadi.
Ovviamente è lecito domandarsi se esperimenti come il precedente abbiano un qualche
interesse da un punto di vista propriamente musicale. Qui il discorso si fa più delicato. I
cultori di un approccio «tradizionale» alla composizione (e ormai la tradizione riguarda
176 L’abaco e la rosa

gran parte della musica del Novecento) direbbero che un esempio come quello precedente
non possiede alcun valore estetico. Certamente quanto abbiamo ottenuto è di estrema sem-
plicità. Probabilmente inserendolo nel contesto di un ambiente sonoro più articolato si po-
trebbero forse ottenere risultati più soddisfacenti. D’altra parte lo scopo di questo capitolo
non è affatto quello di insegnare a comporre brani di rilevante consistenza tecnica ed este-
tica, ma di proporre semplici spunti che possano aprire spiragli su prospettive di qualche
interesse creativo. Come ho già detto, non è la meccanicità del processo compositivo a
escludere la qualità di un brano musicale. Gli esempi non mancano.
Passiamo ora all’ambizioso progetto di realizzare qualcosa che si rifaccia, seppure lon-
tanamente, all’idea di evoluzione naturale. Perché ci sia evoluzione naturale occorrono due
ingredienti fondamentali:

• a) variazione casuale di alcuni tratti del genoma di un organismo;


• b) selezione naturale.

Variare un generico organismo musicale non è affatto difficile, anche nella prospettiva di
variazioni casuali. Le tecniche di variazione musicale sono infatti praticamente infinite.
Accenno soltanto al fatto che le principali forme di mutazione relative al DNA di un orga-
nismo possono essere: puntiformi, cioè riguardare un singolo nucleotide; o relative a porzio-
ni di cromosomi.
Nel primo caso le mutazioni consistono:

• a) nella delezione di un nucleotide;


• b) nell’inserzione di un nucleotide;
• c) nella sostituzione di un nucleotide con un altro.

Nel secondo caso le mutazioni consistono:

• a) nella traslocazione, cioè scambio, di un segmento;


• b) nell’inversione di un segmento (ciò corrisponde in termini musicali alla retrogradazio-
ne);
• c) nella delezione di un segmento.

Trovo molto suggestivo che le tecniche di variazione della natura appena elencate potreb-
bero essere valide in ambito musicale. Nel corso di questo capitolo le ho applicate, del re-
sto, in numerosi esperimenti.
Il problema dell’evoluzione di un organismo musicale si prospetta invece difficile in rela-
zione al ruolo indispensabile della selezione naturale. È vero che nel corso dei secoli l’uomo
ha realizzato processi di evoluzione di piante e animali ricorrendo alla selezione artificiale.
In molti casi la selezione artificiale consisteva in un obiettivo preciso, quale la migliore utili-
tà di una pianta o di un animale; o un suo ideale aspetto estetico.
In realtà anche l’evoluzione naturale può essere considerata sotto il profilo della fitness,
Capitolo 3 177

cioè della capacità degli organismi di sopravvivere e, di conseguenza, di riprodursi il più


possibile in un ambiente in cui le risorse sono limitate e la competizione tra organismi vi-
venti è per necessità spietata. Si tratterebbe però di un obiettivo guidato soltanto dal caso
e dalle situazioni contingenti e non da una mano invisibile. Siamo noi a vedere comunque un
pur generico obiettivo; la natura invece è del tutto cieca.
Immaginiamo un possibile esempio di evoluzione di un organismo musicale. Anche un
organismo musicale dovrà essere dotato di una propria fitness, che potrebbe essere qui
definita come una generica rilevanza estetica. Possiamo, come pura ipotesi, considerare ri-
levante dal punto estetico un fenomeno complesso, nei termini accennati nella sezione 3.3.
Lì ho detto che risulta oggi ragionevole collocare la complessità sul margine fra l’ordine e il
caos.
Nulla ci vieta, quindi, di considerare un possibile esempio di evoluzione il percorso di un
organismo musicale dal semplice al complesso. La complessità non consisterebbe qui in un
obiettivo determinato, ma potrebbe essere il prodotto dell’applicazione, volendo casuale,
di alcune regole, di geni, della composizione musicale. Un percorso di questo tipo per esse-
re minimamente interessante dal punto di vista musicale dovrebbe con ogni probabilità
prevedere la possibilità di stagnazioni e brusche fermate nel processo evolutivo; potrebbe
prevedere anche la possibilità di un’involuzione momentanea o irreversibile (in questo si di-
scosterebbe quindi da un processo di evoluzione propriamente naturale).
Potremmo inoltre considerare un brano musicale come un semplice contenitore di diversi
processi evolutivi: sincronici o diacronici. In questo contesto potremmo assistere anche al-
l’estinzione di organismi musicali e alla comparsa di nuovi: potrebbe rivelarsi un approccio
al problema della forma musicale.
Nel prossimo esperimento farò evolvere un minuscolo organismo musicale. Prenderò le
mosse da un frammento poco caratterizzato, praticamente amorfo, sotto ogni profilo. Per
rendere il processo evolutivo della massima evidenza stabilisco anche qui che il frammento
sia originariamente diatonico e composto da poche note. Stabilisco anche che inizialmente
il frammento sia privo di note ribattute:

Es. 3-124
b
&b b ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
> >˙ > > > >˙ >

Ho scritto l’esempio ricorrendo a una particolare notazione che mostra bianca la testa
delle crome: questo espediente tornerà particolarmente utile quando darò inizio al processo
evolutivo del piccolo frammento.
A partire da ogni nota del frammento, o da ogni nota successivamente aggiunta, in
modo del tutto casuale ed equiprobabile e per mezzo di note tratte dalla scala minore na-
turale di DO, il frammento può evolvere in base a queste sei semplici regole:

• a) aggiunta di una nota per grado congiunto ascendente;


• b) aggiunta di una nota per grado congiunto discendente;
178 L’abaco e la rosa

• c) aggiunta di una nota ribattuta;


• d) aggiunta di due note ribattute;
• e) sottoposizione a una nota bianca di una nota diversa, anche da altre successivamente
aggiunte, scelta in base al caso (qui è ovvio che al massimo si potranno avere sette note
sovrapposte);
• f) sottoposizione a una nota bianca di due note diverse, anche da altre successivamente
aggiunte, scelte in base al caso.

In pratica mi regolerò così:

• 1) assegnerò un numero d’ordine a ogni nota del frammento iniziale;


• 2) assegnerò a ogni nota una probabilità di applicazione di una delle sei regole esposte;
• 3) stabilirò, ad esempio, un criterio per cui, almeno per una nota, il frammento debba
evolvere a ogni passaggio;
• 4) in base a un criterio di scelta equiprobabile applicherò quindi le regole alla nota o alle
note di volta in volta interessate.
N.B. Il frammento può crescere tanto in senso orizzontale, per l’applicazione delle regole
da a) a d), che verticale (fino a un certo punto, come abbiamo visto), per l’applicazione
delle regole e) e f). Per quanto riguarda l’applicazione delle regole da a) a d), sarà op-
portuno fare riferimento sempre alle note del frammento originale. Così, se avrò già ap-
plicato alcune delle regole, continuerò ad applicarle facendo riferimento alle note del
frammento iniziale: di fatto, in base all’applicazione delle suddette quattro regole sarà
molto probabile che a partire da ogni nota del frammento iniziale si formi un serpentone
di successive note aggiunte. In questo modo le crome bianche diventano un punto stabile
di riferimento.

Ecco, ad esempio, come evolve il frammento dopo alcuni passaggi:

Es. 3-125

b
&b b ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
> >˙ > > > >˙ > >˙ ˙œ > > > >˙ > >˙ ˙œ > > > >˙ œ >
>

b œ
&b b ˙œ ˙˙˙ ˙ œ ˙ ˙
˙ ˙ œ œ ˙ >˙ >˙ ˙œ œ ˙ œ ˙œ œ
> ˙œ œ > > > >˙ œ > >˙ ˙œ œ > > >œ ˙œ œ > >˙ œ œ > œ >œ
>œ >œ > >œ >
b ˙œ˙˙œ ˙œ ˙
&b b ˙œœ ˙œ
> ˙œ œ œ œ > > >œ ˙œ œ >œœ >˙
œœ ˙
œ œ œ > >˙ >œœ œ ˙ œ ˙œœ œ
œ œ >
>
>œ >œ
b ˙œ˙˙ œœ ˙œ˙ ˙ œ
&b b ˙œœ ˙œ œœœ ˙ ˙
> ˙œ œ œ œ > > >œœ ˙œ œ œ >œœ >˙ œ œ œ œ > > >œœ œ ˙ œ œ œœ œ œ œ
œ œ> >
>œ > >œ

Da una situazione iniziale quasi del tutto amorfa, progressivamente ci troviamo di fron-
te a situazioni che presentano sia elementi d’ordine che elementi caotici: di fatto abbiamo
Capitolo 3 179

un barlume di complessità, nozione indispensabile in ambito evolutivo. Il procedimento po-


teva andare ovviamente avanti per un numero infinito di passaggi. Qui ho deciso di appli-
care al frammento iniziale soltanto nove volte il processo.
Resta ora da vedere se sia possibile un’elaborazione di pur minimo interesse musicale di
quanto abbiamo ottenuto. Quella che propongo è ovviamente un’elaborazione che risponde
a criteri di valutazione del tutto personali.
In sostanza, decido inizialmente di collocare le 10 figure ottenute in battute di 12/4, in
modo che uno spazio (si potrebbe qui forse dire una nicchia evolutiva, per usare una meta-
fora particolarmente suggestiva) venga progressivamente colmato, esplorato. A questo
punto a ciò che ho ottenuto sottopongo tre nuovi righi musicali. Nei primi due il materiale
verrà semplicemente riverberato (procedimento che, come si sarà notato, mi piace molto);
nell’ultimo aggiungerò qualcosa di molto affine a una sorta di sostegno armonico secondo
un «giro» che fa riferimento a collegamenti di accordi per terze e per quinte. Effettuerò an-
che alcune altre modifiche, ma prima ritengo opportuno mostrare quello che potrebbe essere
un risultato finale nell’esempio 3-126.
Per quanto riguarda quello che potrebbe essere interpretato come un elemento
«armonico» nell’ultimo rigo, rimando all’esempio 3-81 e alle considerazioni che lo hanno
preceduto. In corrispondenza delle battute che, dopo la prima, hanno come fondamentale il
DO nell’ultimo rigo, ho effettuato modifiche in modo da non avere la presenza del LA be-
molle, poco soddisfacente per il mio modo di sentire, in una situazione armonica che in
qualche modo faccia riferimento a una triade di DO. In questi casi ho effettuato sostituzio-
ni di note in base a una elementare procedura che non ritengo necessario esporre.
Un esempio come il precedente si presta bene a diverse orchestrazioni. In particolare, mi
ha soddisfatto una versione elettronica composta a partire dal primo rigo da: pianoforte,
due chitarre elettriche non distorte e un sintetizzatore.
Accennavo alla mia predilezione per le figure riverberate: in situazioni analoghe alla pre-
cedente, oltre a un suggestivo effetto sonoro, vedo un’affinità con le simmetrie presenti in
molti organismi viventi, compresi noi stessi. In ciò sono di nuovo debitore a Dawkins: in
particolare al settimo capitolo di Alla conquista del monte improbabile, dove l’autore giunge
alla conclusione che alcuni tipi di embriologia si rivelano essere «migliori» per l’evoluzione
di altri. In sintesi, l’esistenza di vincoli di simmetria nelle embriologie caleidoscopiche
(secondo la bella definizione di Dawkins) si è dimostrata essere particolarmente fruttuosa
dal punto di vista evolutivo.
Quello appena compiuto è un esperimento estremamente semplice. Potrebbe essere ov-
viamente più stimolante provare a cimentarsi con esperimenti realizzati in base a regole
compositive più articolate e più sviluppati per quanto riguarda la loro estensione nel tem-
po. Certamente quello dell’evoluzione di organismi musicali è un campo in cui il ricorso a
programmi informatici realizzati ad hoc può rivelarsi estremamente interessante. In realtà,
se si volessero indagare a fondo le potenzialità di questo modo di procedere, il ricorso al
computer si rivelerebbe indispensabile. Di fatto, si parla già da diverso tempo di composi-
zione musicale assistita dal computer.
Come ho accennato, possiamo considerare la «forma» musicale come una sorta di con-
180 L’abaco e la rosa

Es. 3-126
q»¡§º
b 12
&b b 4 ˙ ˙ ˙ ˙ ‰ „ ˙ ˙ ˙ ˙ ‰ „
> >˙ > > > >˙ >˙ >˙ ˙œ > > > >˙ >
>
b 12
&b b 4 Œ ˙ ˙ ˙ ‰ Œ ∑ Ó Œ ˙ ˙ ˙ ˙ ‰ Œ ∑ Ó
>˙ >˙ > > > >˙ >˙ >˙ ˙œ > > > >˙ >
˙ > ˙ ˙
b 12 ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
&b b 4 Œ ‰ ˙ ˙ ˙ Œ ∑ Ó Œ ‰ ˙
˙
œ
˙ Œ ∑ Ó

? b 12 W . W.
b b 4 W. W.
W. W.
b
&b b ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ „ œ ˙ >˙ >˙ >˙ ˙ œ >˙ Œ ∑ Ó
> ˙œ > > > >˙ œ > >˙ œ œ >
>œ >œ
b
&b b Œ ˙ ˙ ˙ ˙ ∑.. Œ œ ˙ >˙ >˙ >˙ ˙ œ >˙ ∑ Ó
>˙ ˙œ > > > ˙> œ > >˙ œ œ >
>œ >œ
œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
b ‰ ˙ ˙ œ
&b b Œ ‰ ˙ ˙ ˙ ˙ ‰ ∑ Ó Œ œ œ ‰ ∑ Œ
>˙ ˙œ > > > >˙ œ > œ
? b W . >œ
b b W. W.
W.
W.
W.
b œ
&b b ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ Œ ∑ Ó œ œ ˙ >˙ >˙ ˙œ œ ˙ œ ˙œ œ ∑ Œ
> ˙œ œ > > >œ ˙œ œ > >˙ œ œ > œ œ
>œ > œ> > >
b œ
&b b Œ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ∑ Ó Œ œ œ ˙ >˙ >˙ ˙œ œ ˙ œ ˙œ œ ∑
> ˙œ œ > > >œ ˙œ œ > >˙ œ œ > œ œ
> > >
>œ œ>
˙ ˙ ˙ œ
b œ œ ˙ œ ˙ ‰ ∑ œ œ ˙ ˙ ˙ ˙œ œ ˙ œ ˙œ œ
&b b Œ ‰ ˙ ˙œ œ Œ Œ ‰ ˙ œ œ ‰ Ó Œ
œ œ œ
œ œ
? b W. W.
b b W. W.
W. W.

b ˙œ˙˙œ ˙ œ ˙
&b b ˙œœ ˙ ∑ ˙> œ œ ˙ œ œ œ > >˙ œœ œ ˙ œ ˙œœ œ

> œ ˙ œ œ œ > > >œ ˙ œ œœ œ >
>œ >
œ œ >
>œ >œ
b ˙œ˙˙œ ˙ œ ˙ ˙ œ
&b b Œ ˙œœ ˙œÓ Œ Œ œ œ ˙ ˙ Ó Œ
> ˙œ œ œ œ > > >œ ˙œ œ œœ >˙ œ œ œ > > >œœ ˙ œ œœ œ
> œ œ >
œ
> ˙ œ ˙ ˙ >œ >œ
b ˙œœ˙œœœ œ ˙ œ ˙œœ œ ‰ Ó ˙ œ ˙ ˙ œ
&b b Œ ‰ œ Œ ‰ œ œ ˙ ‰ Ó
œ
œ >˙ ˙ œ œ œ > > >œœ ˙ œ œœ œ
œ œ >
? b W. W. >œ
b b W. W.
W. W.
Capitolo 3 181

b ˙œ˙˙ œ ˙œ˙˙ œ Œ ..
&b b ˙œœ ˙ Ó Œ œœœ˙ ˙
> ˙ œ œ œ > > >œœ œ ˙ œ œ œœ œ >˙ œ œ œ œ > > >œœ œ ˙ œ œ œœ œ œ œ
œ > œ
>œ >œ >
>œ >œ
b ˙œ ˙˙ œ œ ˙œ ˙˙ œ ..
&b b Œ ˙œœ ˙ Ó Œ œœœ˙ ˙
> ˙ œ œ œ > > >œœ ˙ œ œ œœ œ >˙ œ > > >œœ œ ˙ œ œ œœ œ œ œ
œ > œœœœ >
œ> >œ >œ
>œ œ
˙ ˙ ˙œœ
b œœœ˙ ˙
˙ œ œ œœ œ ‰ ..
&b b Œ ‰ ˙œœ ˙ œ˙ ˙ œ œ ˙ œ œ ˙œ œ ‰ Œ Œ ‰˙ œœœ œœ œœ
> ˙ œ œ œ > > >œœ œ
œ
>œ >œ œ

? b W. W. ..
b b W. W.
W. W.

tenitore in cui avvengono fenomeni evolutivi. Questi fenomeni potrebbero anche essere si-
multanei: in questo caso la forma risulterebbe essere una sorta di ecosistema.
Nell’esempio precedente sono stato io a decidere quanti processi evolutivi effettuare.
Potrei d’altronde lasciare al caso anche questo aspetto della composizione. Ad esempio,
potrei stabilire una certa probabilità di evolvere per un organismo musicale; se l’eventualità
di evolvere non si verificasse potrei considerare estinto l’organismo e rimpiazzarlo con uno
nuovo o terminare la composizione. Potrei anche stabilire che, nel caso in cui non si ve-
rificasse l’eventualità evolutiva, l’organismo subisca una più o meno radicale trasformazio-
ne, ad esempio un dimezzamento della sua lunghezza o un rimescolamento delle note che
lo compongono.

Sono consapevole di avere suggerito un modo di affrontare la composizione musicale


che alcuni probabilmente giudicheranno meccanico. Come ho già detto, in questa prospetti-
va — utile almeno a livello di un possibile approccio didattico — l’aspetto più interessan-
te consiste nel realizzare originali ed efficaci algoritmi compositivi. Per quanto mi riguarda,
provo un intenso godimento nel vedere poi svilupparsi un brano musicale a partire dall’al-
goritmo/i adottati. In questa fase vagamente contemplativa è facile che giungano piccole il-
luminazioni su come adattare e modificare il risultato ottenuto a delle personali esigenze
estetiche o come procedere in ulteriori composizioni. La cosa affascinante è che spesso ot-
tengo risultati che, con tutta onestà, non avrei probabilmente immaginato con il — sempre
legittimo — modo di comporre sedendosi al pianoforte per cercare idee musicali. Risultati
che spesso mi sorprendono e che in fondo non avrei ottenuto neppure come risultato di una
pura e intransigente speculazione intellettuale.
Tutto ciò è in fondo molto vicino alla poetica della «musica generativa», un filone di
pensiero musicale che ricorre quasi esclusivamente ad algoritmi compositivi e che risulta
particolarmente sensibile alla relazione tra sistemi e caso. In quest’ambito va segnalata
l’opera di una figura trasversale come Brian Eno, che, presentando l’album Discreet Music,
del 1975, così si esprime: «Ho gravitato alla volta di situazioni e sistemi che, una volta di-
venuti operativi, potessero creare musica con interventi minimi o addirittura senza inter-
venti da parte mia. Cioè, io tendo al ruolo di programmatore e pianificatore e in seguito a
182 L’abaco e la rosa

quello di ascoltatore dei risultati».


Con le potenzialità della pogrammazione e dei computer odierni si aprono probabilmen-
te scenari fantastici. Avendo a disposizione strumenti tecnici virtualmente illimitati, poco
mi interessa però mettere a punto algoritmi di grande complessità per ottenere risultati mu-
sicali della stessa natura. In fondo lo stesso computer, debitamente istruito, potrebbe sfor-
nare infiniti algoritmi di questo genere e, di conseguenza, prodotti musicali genericamente
ipercomplessi.
Un atteggiamento artistico che voglia conservare una forte componente «umanistica»,
ma non necessariamente «romantica», può forse scommettere qualcosa nel mettere a punto
algoritmi di grande semplicità che per qualche misteriosa intuizione dell’artista conducano
nella migliore delle ipotesi a un risultato che venga percepito a sua volta come misterioso,
ambiguo e profondo. Ritorno all’immagine dell’haiku: una minuscola poesia (una poesia
bonsai) in grado di sollecitare nel lettore una (grande) risposta estetica e intellettuale, che
non può essere espressa a parole. Gli algoritmi che desidero realizzare vorrebbero in qual-
che modo avvicinarsi alla forma e alla natura dell’haiku (per questo ho un personale neolo-
gismo: algomaiku). In questo modo potrei forse riuscire a conservare e coltivare nella com-
posizione musicale le indispensabili e indivisibili virtù dell’abaco e della rosa.
4. Le ricette di Josquin

4.1. La composizione di linee melodiche rinascimentali

In questo capitolo proveremo a comporre in modo pressoché algoritmico semplici linee me-
lodiche sulla falsariga dello stile a cavallo fra Quattro e Cinquecento. Stile che fa riferimento
prevalentemente alla musica vocale. Fino a Cinquecento inoltrato sono poche, rispetto alla
musica vocale, le testimonianze di musica strumentale; questo genere è stato infatti per lun-
go tempo considerato subalterno o popolare. La musica strumentale del Rinascimento, co-
munque, consisteva spesso nell’esecuzione di brani vocali, che erano il principale modello
anche per le tecniche compositive. Il musicista di riferimento a cavallo fra Quattro e Cin-
quecento può essere considerato Josquin des Prés (1450 ca. - 1521), un gigante della musica
occidentale.
Preciso ancora che i nostri esperimenti non avranno come fine un’esatta ricostruzione sti-
listica di brani rinascimentali, come invece si propone oggi un ormai consolidato orienta-
mento didattico, il quale più che la figura di Josquin prende a modello quella più tarda di
Palestrina. Come ho accennato, per in nostri scopi ritengo più utile rivolgersi a uno stile leg-
germente più antico di quello di Palestrina, e quindi a una figura altrettanto importante
come Josquin.
La ricostruzione stilistica è un obiettivo ideale. D’altra parte ritengo che sia estrema-
mente difficile ricostruire fedelmente il passato in uno qualsiasi dei suoi aspetti. In fondo,
anche alcuni dei protagonisti del best-seller Jurassic Park di Michael Crichton si domandano
se i dinosauri che hanno davanti ai loro occhi in carne e ossa, risultato di straordinarie tec-
niche di manipolazione genetica, possano dirsi dei veri dinosauri.
Lavori come quello di Baroni, Dalmonte e Jacoboni, già citato nella premessa di questo
libro, dimostrano che anche per un campione piuttosto semplice e ristretto come le arie ba-
rocche di Legrenzi (quelle analizzate dagli autori ammontano a 31), una ricostruzione
grammaticale pressoché completa richiede un enorme sforzo analitico e metodologico; figu-
rarsi quello necessario per la ricostruzione di un complessivo fenomeno stilistico di un’epo-
ca. Nell’ambito della ricostruzione stilistica dovrebbe quindi valere un atteggiamento relati-
vista, purtroppo non molto diffuso nei testi didattici di composizione, specie quelli del
passato.
184 L’abaco e la rosa

Le ragioni per cui ho deciso di proporre alcuni esperimenti di composizione sulla falsari-
ga dello stile rinascimentale dipendono dalla considerazione che risulta possibile, nell’am-
bito di questo stile, prendere in esame modelli di notevole intensità e bellezza che al con-
tempo presentino anche caratteri di grande semplicità. Questi modelli sono dunque estre-
mamente utili per testare alcuni procedimenti sostanzialmente algoritmici che a partire da
un insieme di dati pressoché casuali, attraverso un filtro formato da semplici regole stilisti-
che, vorrebbero condurre alla stesura di prodotti con caratteri di un accettabile artigianato.
Rispetto ai tradizionali trattati di contrappunto (compresi alcuni ottimi testi del Nove-
cento, come il già citato Il contrappunto di Diether de la Motte) l’approccio che suggerisco
qui per la realizzazione di propri lavori è sensibilmente diverso. Infatti all’inizio non fare-
mo esperimenti di scrittura a due voci come proposto dalla maggior parte dei testi scolasti-
ci. Ci concentreremo invece sulla semplice idea di linea melodica (una sola voce). Poi, nei
successivi capitoli, passeremo subito a un’embrionale scrittura a quattro parti. Dopodiché
darò semplici indicazioni per scrivere a cinque, sei, otto (n-parti).
Non ho mai creduto che per diventare buoni musicisti oggi sia necessario penetrare nei
più profondi meandri di uno stile del passato. Un conto è essere degli storici, altro essere
degli artigiani. Lo studio approfondito di differenti stili musicali del passato non offre pur-
troppo la garanzia assoluta di comprendere le necessità del presente, e di essere musicisti
originali. Ritengo che proporre una sorta di software mentale minimo per potere manipola-
re, senza sforzo eccessivo e a livello elementare, i meccanismi di uno stile musicale consoli-
dato prospetti fra l’altro la possibilità di avere tempo (e l’avere tempo oggi è diventato
pressoché un lusso) per prendere in considerazione gli elementi essenziali di altri stili e altri
aspetti del mestiere di musicista, per certi aspetti così simile a quello del cuoco, cosa che
più di ogni altra si rivelerà necessaria quando si vorrà procedere autonomamente per la
propria strada.

4.2. Il “programma” Josquin 1.0

Ho accennato a quello che potrebbe essere definito un software mentale minimo per com-
piere esperimenti sulla falsariga dello stile melodico rinascimentale. A questo fine darò qui
alcuni semplici indicazioni e suggerimenti. Nella sezione successiva cercherò, quindi, di al-
largare un po’ l’orizzonte.
Ritengo sia ovvio che la migliore guida e strumento di controllo per i propri lavori riman-
ga sempre l’ascolto della musica del Rinascimento. Per chi volesse poi approfondire gli ele-
menti tecnici di questa musica, oltre al citato testo di Diether de la Motte, consiglio La tec-
nica del contrappunto vocale nel Cinquecento di Renato Dionisi e Bruno Zanolini, che, pur es-
sendo stato scritto pensando alle esigenze di uno studio di composizione di tipo conserva-
toriale, presenta una notevole semplicità espositiva, oltre che una vastissima casistica.
Ecco ora un prontuario di indicazioni (o regole che dir si voglia) e di suggerimenti, tratti
interamente dall’analisi del repertorio che ci interessa, cui attenersi inizialmente come a un
Capitolo 4 185

gioco, compreso, naturalmente, il suo rigore formale.

• a) Per prima cosa è necessario stabilire che nei nostri esperimenti impiegheremo di volta
in volta le note appartenenti a un solo modo fra quelli proposti qui di seguito. Nel capi-
tolo 1 abbiamo già fatto conoscenza di alcuni di questi modi presentati allora col nome
italiano di uso corrente, ad esempio dorico, che qui viene ora definito protus. Parlando di
musica rinascimentale preferisco, come molti, riferirmi infatti ai modi in uso, sostanzial-
mente quattro, con il loro nome latino:

Es. 4-1
protus protus (discendente)
œ œ œ œ œ œ bœ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ
protus trasportato protus trasportato (discendente)
œ œ œ œ œ œ bœ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ

deuterus deuterus trasportato


œ œ œ œ b
& œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ
tritus tetrardus œ œ
œ œ œ n œ œ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ

Non si possono impiegare alterazioni per le singole note se non nei termini che vedremo
più avanti. Per quanto riguarda il protus e la sua trasposizione alla quarta, le linee
ascendenti utilizzeranno il SI naturale, quelle discendenti il SI bemolle con riguardo al
primo; il MI naturale e il MI bemolle con riguardo al secondo. Inoltre, se dal LA (protus)
o dal RE (protus trasportato) si salirà al SI o al MI per poi scendere, non importa se di
grado congiunto, le note in questione saranno sempre bemollizzate come nel prossimo
esempio:

Es. 4-2
protus protus trasportato
bœ b œ œ œ œ bœ œ
& œ œ œ œ

Nei nostri primi tentativi non faremo riferimento a un registro determinato, come l’esten-
sione di una voce o di uno strumento. Per il momento sarà più che sufficiente muovere le
linee melodiche entro questa estensione:

Es. 4-3
œ
&
œ

• b) In ciascun modo le note gerarchicamente più importanti sono la tonica e la dominante,


definite dagli antichi maestri rispettivamente finalis e repercussio. Quest’ultima, tranne
che nel deuterus (dove si trova una sesta sopra la finalis), si trova una quinta sopra alla
186 L’abaco e la rosa

finalis. La realtà è invero più complessa: ma ciò non ha importanza per i nostri scopi.
Finalis e repercussio costituiscono dei punti d’appoggio della linea melodica, vere e pro-
prie «corde» cui attaccarsi. Per quanto ci riguarda, una linea potrà iniziare con la finalis
o con la repercussio. Terminerà sempre con la finalis.
• c) L’estensione delle linee melodiche dovrebbe approssimativamente essere compresa
entro un intervallo d’ottava (come vedremo potrà essere anche inferiore all’ottava). Po-
tremo però tranquillamente arrivare anche a un’estensione di decima e, più raramente,
anche più.
• d) La linea melodica rinascimentale ama generalmente procedere per grado congiunto
come andamento di tipo normale. Una linea può presentare ovviamente anche diversi
salti. Sono ammessi salti di terza, quarta e quinta giuste, sia in senso ascendente che di-
scendente. Più raramente, sono possibili anche salti di sesta minore e d’ottava, soltanto
ascendenti. Questi ultimi devono essere sempre corretti con un immediato cambio di di-
rezione:

Es. 4-4
œ œ œ œ
& œ œ

Anche i salti di quarta e quinta giusta preferibilmente richiedono il cambio di direzione


(ad esempio nella musica di Palestrina), ma non di rado, almeno fino a Josquin, quando
il salto è ascendente, la linea continua nella stessa direzione:

Es. 4-5

& œ œ œ
œ

• e) Di grande importanza risulta essere, al fine di un soddisfacente risultato estetico, il


profilo della linea che andiamo costruendo. Si consideri che una linea può essere suddi-
visa in singoli segmenti. Per le nostre necessità è utile considerare come «segmento» una
sequenza di note nella stessa direzione. Così, il primo caso del prossimo esempio lo
possiamo considerare, arbitrariamente, un segmento, mentre il secondo no:

Es. 4-6

& œ œ œ œ œ œ œ
œ œ

Infatti, in base alla definizione che ho dato di segmento, il secondo caso è composto da
due segmenti. Per avere un segmento sono sufficienti quindi anche due sole note.
Una linea melodica è composta dall’unione alternata di segmenti ascendenti e discen-
denti. Una volta compreso ciò (che è della massima semplicità), potremo scrivere seg-
menti ascendenti composti esclusivamente da note in scala o che inizino con un salto di
terza e, un po’ meno frequentemente, di quarta o di quinta giuste:
Capitolo 4 187

Es. 4-7

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Analogamente, potremo scrivere segmenti discendenti composti esclusivamente da note


in scala o che finiscano, dopo alcune per grado congiunto, con un salto di terza e, un po’
meno frequentemente, quarta o di quinta giuste:

Es. 4-8

œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ

Per quanto riguarda la sovrapposizione di due terze (la moderna triade), si deve ricono-
scere che non è un caso frequente di condotta melodica. Se si vuole ricorrere a questa
possibilità si tenga conto che un segmento può iniziare con una triade ascendente, effet-
tuare poi un cambio di direzione melodica o procedere per grado congiunto; oppure può
iniziare con una triade discendente ed effettuare un cambio di direzione.

Es. 4-9

& œ œ œ œ œ œ œ
œ

In ciò il linguaggio rinascimentale è quindi profondamente diverso da quelli che, dall’età


barocca, porteranno allo stile classico e romantico. A partire dal Seicento infatti il lin-
guaggio melodico fa consistente riferimento agli accordi. La dimensione verticale, armo-
nica, in quel linguaggio detta le sue regole anche per quella orizzontale, melodica. In que-
sta prospettiva lo stile melodico del Rinascimento si rivela un ottimo campo di speri-
mentazione, perché i problemi che riguardano la costruzione della linea si rivelano essere
puri, non intaccati da ulteriori considerazioni che si pongono in relazione a ulteriori pa-
rametri come la condotta tonale.
Come si sarà notato nei precedenti esempi, i salti stanno nella parte più bassa di un seg-
mento. In base a quanto ho detto, i prossimi segmenti non sono (per i nostri fini) parti-
colarmente soddisfacenti:

Es. 4-10

œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

È possibile però che un segmento ascendente inizi per grado congiunto e prosegua per
salto di terza nella stessa direzione. In questo caso, subito dopo il salto, si rende neces-
sario un cambio di direzione. Similmente, un segmento discendente può iniziare con un
salto di terza e proseguire per grado congiunto nella stessa direzione; subito dopo si
188 L’abaco e la rosa

rende anche qui necessario un cambio di direzione. Profili che presentano segmenti come
i seguenti vanno quindi benissimo:

Es. 4-11
& œ œ œ œ œ œ œ œ

Mentre profili come i prossimi non sono, in linea di massima, soddisfacenti:

Es. 4-12
œ œ œ œ œ
& œ œ œ

Quelli che ho descritto ora potrebbero essere definiti come i principi, o regole, della buo-
na segmentazione o dei buoni segmenti.
• f) Lo stile melodico rinascimentale ama la più grande varietà (questo è vero quanto più
si è vicini alla sensibilità musicale del Quattrocento). L’idea appunto di varietas era al
centro della riflessione dei teorici. Si potrebbero oggi infatti definire non poche composi-
zioni rinascimentali come atematiche. Ciò può sembrare assurdo qualora si guardi al lin-
guaggio rinascimentale, come spesso viene fatto con una certa leggerezza, esclusivamente
come a un linguaggio che fa dell’imitazione (il principio per cui due o più voci presentano
in successione materiale identico o simile) il principale punto di riferimento. Si impongo-
no allora alcune delicate osservazioni. Se è vero che la musica del Cinquecento è spesso
(non sempre) imitativa, non altrettanto può dirsi per quella del Quattrocento.
Il fatto è che si parla quasi sempre di musica rinascimentale con riferimento al Cinque-
cento: allo stile sacro di Palestrina e alla straordinaria stagione del madrigale. In questo
modo si mette in ombra tutta la splendida produzione del Quattrocento, la cui musica
può dirsi rinascimentale sotto quasi ogni aspetto. Ritengo che ciò sia da imputare a un
banale approccio alla cosiddetta musica antica, oltre al fatto che, per molti di noi, riesce
più facile analizzare e immedesimarsi nelle opere del Cinquecento. Ora, se si analizzano
le opere di Dufay, di Ockeghem e di Obrecht, ad esempio, ci si rende facilmente conto
che la varietas era la regola, e che l’imitazione (canoni a parte) non era poi molto pratica-
ta nel Quattrocento. Se si analizza la Messa «Mi-Mi» di Ockeghem (che, a differenza di
quasi tutte le messe dell’epoca, non elabora delle linee melodiche sopra un cantus firmus
a fondamento della composizione), ci si rende facilmente conto della straordinaria va-
rietà (e apparente libertà) della scrittura. Tutto ciò sembra quasi incredibile, se si pensa
al limitato catalogo dei valori di durata impiegato.
Per quanto ci riguarda, sulla falsariga di Josquin, prenderemo come unità di misura la
minima. Inizialmente scriveremo linee nel tempo di 2/2, dove la metà sarà appunto
l’unità di misura della nostra musica, la sua pulsazione o, come dicevano gli antichi
maestri, il tactus.
Il catalogo dei valori usati, per il momento, sarà questo:

w, h, q
Capitolo 4 189

La minima e la semiminima possono presentare il punto di valore. La semiminima pun-


tata si accompagna a note della durata di una croma. Il catalogo perciò diventa il se-
guente:

w, h, hd, q, qd e

Questi valori e l’ultima figura possono essere utilizzati liberamente. Si tenga conto che la
musica rinascimentale non praticava la divisione in battute e la legatura di valore, che
noi adottiamo invece a fini pratici. Quando alla fine di una battuta si vuole quindi pro-
lungare un valore nella successiva, sulla base della prassi antica possiamo legare la pri-
ma nota con la prima della battuta successiva, a condizione che la seconda abbia la
stessa durata o la metà rispetto alla prima. Si tenga inoltre presente che anche una nota
che inizia sulla parte debole del tactus (cioè sulla seconda semiminima) può prolungarsi
soltanto per un valore pari alla sua durata o alla sua metà. Il prossimo esempio esauri-
sce praticamente i casi possibili:

Es. 4-13

&C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙ œ

& ˙ œ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ . Jœ œ

Queste combinazioni sono quindi inaccettabili:

Es. 4-14
&C ˙ ˙ ˙. œ ˙. ˙ œ œ ˙

• g) Si deve aver cura che la note estreme di un «segmento» non vadano a formare un tri-
tono, cioè un intervallo di quarta eccedente o di quinta diminuita. Infatti la melodia rina-
scimentale tende a mascherare il più possibile il tritono:

Es. 4-15
NO NO SI’ SI’
& œ œ bœ œ b˙ œ œ b˙ œ œ œ œ
œ œ ˙ ˙

• h) La conclusione di una linea è ciò che si è soliti definire cadenza, la clausola degli antichi
maestri. La linea rinascimentale utilizza per le cadenze un catalogo di modelli codificati,
una sorta di materiale prefabbricato. Per il momento possiamo assumere come principio
generale della cadenza che la finalis del modo (più avanti anche altri suoni, nel caso di
una «modulazione») sia raggiunta per grado congiunto o con un salto (si faccia sempre
attenzione alle regole della «buona segmentazione»!); a questo punto si può applicare
uno dei modelli proposti per ciascun modo, a eccezione del deuterus, che riceve un trat-
tamento particolare:
190 L’abaco e la rosa

Es. 4-16

Questa cadenza, frequente durante


il Quattrocento, scompare nei
protus primi anni del secolo successivo.
˙ . #œ w ˙ #œ ˙ œ w œ œ #œ œ œ w
&C
protus trasportato
& b ˙ . #œ w ˙ #œ ˙ œ w œ œ #œ œ œ w

tritus
& b ˙. œ w ˙ œ ˙ œ w œ œœœœ w n

tetrardus
& ˙. #œ w ˙ #œ ˙ œ w œ œ #œ œ œ w

Naturalmente, se l’estensione lo consente (Es. 4-3), i modelli possono presentarsi anche


in altri registri. Si consideri poi l’ultimo modello di ogni riga, distante dalla nostra sensi-
bilità moderna ma caratteristico della sensibilità quattrocentesca e utilizzato in maniera
consistente ancora da Josquin.
Quando, per qualche ragione, ve ne sia la necessità, le cadenze possono essere poste an-
che a cavallo di battuta, come qui di seguito:

Es. 4-17

˙ œ #œ ˙ ˙ #œ œ œ #œ ˙ œ œ #œ œ œ ˙
&

Per quanto riguarda il deuterus, il principio che adotteremo in questa fase è quello di rag-
giungere la finalis, scendere alla sensibile naturale e risalire alla finalis:

Es. 4-18

& C ˙. œ w

Escluso quest’ultimo caso, si sarà notato che in fase cadenzale la sensibile, la settima
nota di ogni modo, definita dagli antichi maestri subfinalis, dista sempre un semitono
dalla finalis. Nel caso del protus (originale e trasportato) sono comparse quindi delle
note diesizzate. Per adesso, la cadenza è l’unico luogo dove possiamo alterare alcune
note.
La cadenza in deuterus, come abbiamo visto, riceve un trattamento particolare perché la
musica rinascimentale non utilizzava il RE diesis, e solo in determinati casi faceva uso
del SOL diesis.
• i) Quando si vorrà utilizzare la figura ritmica composta da una semiminima puntata se-
guita da una croma, per il momento, la croma potrà soltanto andare a colmare un inter-
vallo di terza, come mostra il prossimo esempio. Più avanti vedremo che si potrà di-
sporre di maggior libertà di movimento.
Capitolo 4 191

Es. 4-19
j œ j
& C œ. œ ˙
œ. œ œ œ œ œ œ

(Come si sarà notato, la figura ritmica in questione può anche essere posta a cavallo di
battuta.)
• l) Conviene ancora insistere sulla necessità di varietas della linea melodica rinascimenta-
le. Le linee non dovrebbero presentare ripetizioni vistose di figure ritmiche e di gruppi di
note. Tipi di condotta come i seguenti sarebbero da evitare:

Es. 4-20
œ œ œ . œ œ . œj . œj œ . œ œ œ
&C ˙ œ œ ˙ J œ J

& ˙. œ ˙. ˙ ˙ ˙ ˙
œ ˙. œ ˙ ˙

˙ ˙ ˙ ˙ œ œ œ ˙
& œ œ œ

L’analisi del repertorio sembra però talvolta smentire quanto appena detto. Lo stesso
Josquin, musicista dotato di grandissima fantasia e animato da una forte libertà espres-
siva, qualche volta, come in alcuni passaggi della Missa sexti toni (basata sulla celebre
melodia «L’homme armé»), ricorre persino a vere e proprie progressioni melodiche, ingre-
diente fondamentale della musica di due secoli dopo:

Es. 4-21

3 Œ œ œ œ œ
&2 ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ
Gra - ti - as, gra - ti - as, gra - ti - as a - - - gi - - -

œ œ ˙ C œ œœœ œœ
& œ œœœ œœœ œ œœ ˙
œ œ
mus A - - - - gnus De - - - - i
Missa sexti toni: Gloria Missa sexti toni: Agnus Dei

Si sarà notato che il primo frammento è scritto in 3/2. Parlerò più avanti delle misure
ternarie.

Siamo finalmente pronti per compiere qualche esperimento. Quello che (casualmente) si
è rivelato essere un decalogo di regole e suggerimenti potrà essere sembrato a qualcuno un
po’ indigesto. Per procedere senza grossi problemi consiglio di iniziare a pasticciare un foglio
di musica a partire da un qualsiasi modo tra quelli elencati al punto a) (in questa primissi-
ma fase lascerei da parte il deuterus), e verificare solo in seguito, punto per punto, se la li-
nea così ottenuta soddisfi i requisiti del nostro decalogo. Dopo pochi tentativi qualcosa di
buono potrebbe apparire sul pentagramma.
I testi di contrappunto propongono generalmente di iniziare a comporre direttamente a
192 L’abaco e la rosa

due voci. Può essere certamente un buon inizio. Questo libro si discosta però da tale conso-
lidato orientamento didattico. Di come procedessero gli antichi maestri, del resto, sappia-
mo poco. I testi teorici del loro tempo non si preoccupavano generalmente di fornire consi-
stenti indicazioni di metodo per quanto riguarda la composizione musicale.
Dopo i primi tentativi di scrittura melodica rinascimentale potrebbe darsi che qualcuno
possa ritenersi soddisfatto, e trovare agevole scrivere, in base alle indicazioni date, affi-
dandosi sostanzialmente al proprio istinto e alla propria fantasia. Va benissimo.
Per quanto mi riguarda, ricordo che, dopo l’entusiasmo iniziale, i miei primi tentativi di
scrittura melodica in stile rinascimentale (ma ciò valeva anche per altri stili) rivelavano
particolari e ingiustificate idiosincrasie per alcune possibilità sicuramente lecite e, peggio
ancora, una sostanziale uniformità della concezione melodica. Rendersi conto di ciò era
tutto sommato facile (essere critici è generalmente più facile dell’essere creativi), ma uscire
da questo impasse risultava francamente più difficile. I difetti del principiante, oltre a in-
contestabili ragioni legate all’inesperienza, dipendono anche da una sorta di nodi. Le no-
stre orecchie, per quanto concerne ad esempio la musica del Rinascimento, a distanza di
mezzo millennio sono piene di interferenze, responsabili di circoli viziosi. Una volta rimossi
questi ultimi sarebbe certamente più facile procedere in modo rapido e soddisfacente.
Come di consueto, propongo inizialmente di affidarsi al caso. I dadi saranno come gli
ingranaggi di una macchina per produrre il materiale grezzo delle nostre melodie. Il nostro
intervento consisterà nell’adattare questo materiale alle regole stilistiche di condotta linea-
re. In questo compito la nostra sensibilità sarà invece preziosa perché giungerà in una fase
del lavoro già impostata e meno esposta ai rischi della creazione ex nihilo.
Si potrebbe subito contestare l’utilizzo dei dadi per il motivo che non consentono di ge-
nerare facilmente sequenze di cifre da 1 a 7, come richiederebbe una sequenza diatonica di
note. In realtà, la settima nota di un modo (la sensibile) sembra avere, dall’analisi del re-
pertorio, minore autonomia di movimento rispetto agli altri suoni. Infatti si accompagna
alla finalis secondo quanto visto per le cadenze; oppure è data prevalentemente come nota
transitoria, di passaggio. In termini molto semplificati: è raramente una nota dotata di piena
autonomia. Il profilo più naturale di una melodia sembra essere, per gli antichi maestri,
quello in cui la sesta nota della scala è l’apice della linea melodica; la sensibile dista ben
una settima (in senso discendente) da questo punto! È questa una concezione melodica di
tipo esacordale, secondo l’antico insegnamento di Guido d’Arezzo. Ecco un esempio:

Es. 4-22

VI: apice
œ ˙ ˙ œ œ œ œ
&b C ˙ œ.
J œ ˙ œ w
VII: sensibile

Ancora Bach risulta spesso affascinato da questo tipo di concezione melodica. Ecco un
frammento tratto dalle Invenzioni a due voci (la N. 4 in RE minore):
Capitolo 4 193

Es. 4-23
3 j
&b 8 œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ

Proviamo ora a lanciare i dadi. Immaginiamo di avere ottenuto questa sequenza:

2, 5, 4, 6, 5, 5, 1, 1, 5, 6, 5, 6.

Per prima cosa scegliamo un modo fra quelli indicati al punto a). Possiamo ad esempio
scegliere il protus trasportato. Come prima operazione sarà necessario trasformare le cifre
in una sequenza di note, senza badare alla loro durata:

Es. 4-24
œ œ bœ œ œ œ bœ œ bœ
&b œ œ œ

Facciamo passare ora questa sequenza attraverso il filtro delle regole stilistiche. In sinte-
si, dovremo trasformare la sequenza nel modo più economico, con il minore dispendio di
mezzi dunque, per ottenere una nuova sequenza che risponda all’elenco delle indicazioni
date. Propongo questa nuova versione, cui segue un minimo commento:

Es. 4-25
œ œ bœ œ œ œ bœ œ œ bœ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

• 1) La prima sequenza iniziava con un LA. Se è vero che una linea melodica rinascimen-
tale può iniziare con diverse note del modo in cui è composta, avviene frequentemente
che la linea inizi con la finalis o la repercussio. Una volta aggiunto il SOL all’inizio della
sequenza non si poteva raggiungere subito il RE dopo il LA perché si sarebbe trascurata
la regola del punto e). La maniera più semplice per ottenere un buon profilo era quello di
tornare al SOL per poi saltare al RE.
• 2) Le ultime quattro note della sequenza originaria prospettano alcuni problemi per il
profilo della linea. Innanzitutto la ridizione di RE-MI bemolle non garantirebbe una con-
dotta elegante. Inoltre, se è vero che una linea melodica rinascimentale può presentare
più volte la nota che costituisce il suo apice (contrariamente a quanto sostengono alcuni
testi, che tradiscono forse un eccesso di formazione classico-romantica dei loro autori),
risulta buona cosa cercare di ovviare, a volte in modo impercettibile, a una eccessiva in-
sistenza. Così il FA prima dell’ultimo MI bemolle, non suona come una sensibile ma
piuttosto come una sorta di appoggiatura o aggancio.
• 3) La sequenza originaria ci obbliga a provvedere alla conclusione della linea che deve
raggiungere prima la finalis per poi cadenzare. Saltare direttamente dall’ultimo MI be-
molle al SOL (finalis) non era possibile, perché il linguaggio rinascimentale non ammette
salti discendenti di sesta. La soluzione del problema è quella indicata nella nuova se-
quenza. Raggiunto il SOL del registro centrale (soluzione più soddisfacente rispetto a
194 L’abaco e la rosa

toccare il SOL acuto), non si sarebbe poi potuto raggiungere subito la sensibile (questa
volta alterata) sempre per la regola del punto e). L’intervento più semplice per ovviare a
ciò è quanto ho proposto alla fine della seconda sequenza.

A questo punto potremmo ritenerci soddisfatti del risultato ottenuto e procedere a ri-
scriverlo rivestendolo di un profilo ritmico. Ciò sarebbe sicuramente subito possibile. Con-
sideriamo però un istante il punto d). In base a questo, dovremmo sempre valutare l’op-
portunità di colmare completamete o in maniera parziale alcuni salti per rendere meno ac-
cidentata la linea. La seconda sequenza presenta ben quattro salti di quinta. Posso pensare
ad esempio di colmare il secondo e il quarto in questa maniera:

Es. 4-26
œ œ œ œ
&b œ œ œ œ

Adesso la sequenza dell’esempio 4-25 assume questo aspetto:

Es. 4-27
œ œ bœ œ œ œ œ bœ œ œ bœ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

Possiamo ora finalmente assegnare anche un profilo ritmico alla nostra sequenza, se-
guendo le indicazioni date al punto f). L’unico suggerimento che aggiungo è quello di inizia-
re, almeno in questa prima fase dei nostri esperimenti, con una nota della durata almeno di
una minima, secondo quella che era una prassi diffusa. Una possibile lettura ritmica tra-
sforma così la sequenza:

Es. 4-28
˙ œ b˙ œ œ ˙ œ b˙
&b C ˙ ˙ œ ˙ œ

œ œ. bœ œ œ
&b J œ œ œ ˙ ˙ œ #œ ˙

Con un po’ di pratica diventa molto facile modificare le sequenze casuali. Anzi; garanti-
sco che non sarà difficile arrivare a comporre melodie leggendo semplicemente una sequen-
za numerica. Si potrà così comporre «alla mente», in maniera analoga agli antichi maestri.
Si provi a cantare la linea melodica che abbiamo ottenuto. La musica rinascimentale ha
generalmente un andamento tranquillo. In linea di massima può essere considerata come ri-
ferimento la pulsazione di minima (corrispondente a mezza battuta in 2/2) a 60/80 circa
di metronomo.
Ci si chiederà forse perché non affidarci a sequenze numeriche casuali anche per il profi-
lo ritmico della linea melodica. In questa prima fase di sperimentazioni ciò risulterebbe
macchinoso. Nella prossima sezione vedremo invece come trarre vantaggi pratici anche
Capitolo 4 195

dall’utilizzo di sequenze numeriche casuali da riferire agli eventi ritmici.


Ritengo utile ora tenere fermi alcuni punti.
In primo luogo non ci si deve aspettare, lanciando i dadi, di ottenere sequenze numeriche
addomesticate. Più una sequenza sembra apparentemente impedire la possibilità di inte-
ressanti sviluppi musicali, più il nostro intervento potrà rivelarsi entusiasmante e aperto a
soluzioni imprevedibili. Il consiglio è dunque: cercare di non barare quando si gioca con i
dadi.
In secondo luogo valutare sempre la possibilità di opzioni più semplici. Cercare sempre
le possibilità più complesse tradisce infatti un’ansia tipicamente moderna.
Sarebbe bene poi non farsi influenzare dalla divisione in battute che, a differenza degli
antichi, abbiamo adottato per pura comodità. La linea melodica rinascimentale è un flusso
continuo (più avanti parlerò anche delle pause, non me ne sono dimenticato), una sorta di
onda la cui natura differisce sensibilmente dalla struttura fraseologica di tanta musica di
epoche successive. Non dimentichiamoci che da questa caratteristica dipende gran parte
del suo particolare fascino.
Non insisterò poi mai abbastanza nel raccomandare l’ascolto (più avanti sarà necessa-
ria anche l’analisi di partiture) e la pratica nei cori di questa musica.
Consiglio caldamente, infine, di cercare di comporre le proprie melodie senza l’aiuto di
alcuno strumento, ma soltanto aiutandosi con la propria voce. È un modo efficacissimo per
formare l’«orecchio interiore». Non si perda però la fiducia nelle proprie capacità se all’ini-
zio ciò potrebbe rivelarsi eccessivamente difficile. Non è certo disdicevole aiutarsi inizial-
mente con uno strumento o con il computer.
Propongo ora altri esempi con un commento ridotto all’osso. Sarebbe utile che chi avesse
intenzione di fare propri esperimenti ripercorra più volte le tappe che, dalla sequenza ca-
suale di cifre, conducono alla linea melodica compiuta.
Per il primo di questi nuovi esempi impiegherò il modo tetrardus. A differenza della mo-
derna scala di SOL maggiore, il modo presenta il FA diesis soltanto in fase cadenzale.
L’ambito in cui si muoverà la linea melodica sarà approssimativamente il seguente:

Es. 4-29

œ
& œ

Quando, in linea di massima, i poli estremi della linea sono composti dalla repercussio, si
parla di utilizzo plagale del modo, una quarta sotto rispetto quello autentico. Questa consi-
derazione vale per ogni modo. È chiaro che la melodia potrà sforare per pochi tratti di al-
cune note tanto verso l’alto che verso il basso. I due poli sono dunque punti di riferimento
sostanzialmente ideali.
Ci troviamo ora davanti a questa nuova sequenza casuale di cifre, generata dai dadi:

1, 6, 3, 1, 4, 4, 6, 4, 2, 3, 2, 2, 5, 3.
196 L’abaco e la rosa

Trasformiamo le cifre in note con riferimento al modo impiegato:

Es. 4-30

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ

Modifichiamo ora la sequenza in maniera da ottenere una segmentazione corretta:

Es. 4-31

œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ #œ œ

Il RE iniziale non era, a rigore, necessario. Per mezzo di esso si riesce però a evidenziare
forse meglio l’ambito plagale della linea. Per la cadenza ho impiegato il secondo dei modelli
proposti.
Passiamo adesso a una proposta di farcitura di alcuni salti:

Es. 4-32

& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ #œ œ

Realizziamo finalmente la melodia attraverso il ritmo:

Es. 4-33

j ˙. œ
&C w ˙ œ. œ œ ˙
œ ˙ œ œ ˙
˙

& œ . Jœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ #œ ˙ œ w

Proviamo a costruire ora una linea melodica basata sul deuterus trasportato. Lanciamo i
dadi per ottenere 10 cifre:

2, 2, 2, 3, 6, 3, 4, 4, 5, 6.

Decidendo di non oltrepassare i limiti di estensione proposti dal punto a), potremo con-
siderare come poli di riferimento i due MI alle estremità del rigo. Anche ora guarderemo al
modo sotto un profilo sostanzialmente plagale (in realtà, per quanto riguarda l’effettiva
forma plagale del deuterus e degli altri modi in generale, le cose si pongono in maniera più
complessa).
Trasformiamo le cifre in una sequenza di note:
Capitolo 4 197

Es. 4-34
œ œ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ

(Per quanto riguarda la collocazione dei due FA, nulla ci vieta di porre queste note in
posizioni diverse.)
Aggiungendo il LA all’inizio e la fase cadenzale al termine, il profilo della sequenza di-
venterà immediatamente accettabile. Ecco dunque la sequenza nella sua realizzazione in-
termedia:

Es. 4-35
œ œ œ œ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Si sarà notato che il MI basso (uno dei due «poli») non è stato raggiunto. Va bene lo
stesso perché, come ho accennato, raggiungere i «poli» non costituisce un precetto.
Basta ora una leggera «farcitura» e la sequenza è pronta per essere rivestita ritmicamen-
te:

Es. 4-36
œ œ œ œ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Ecco infine una proposta di realizzazione completa della melodia:

Es. 4-37
j ˙ œ. œ ˙ ˙
&b C w ˙ œ œ œ œ. œ œ ˙ ˙ J ˙ œ œ ˙ ˙

Non ci si perda d’animo se nei primi esperimenti potrebbe non filare tutto liscio. Consi-
glio di verificare sempre se le proprie composizioni rispondano alle indicazioni dei punti
da a) a l). All’inizio sarà un lavoro abbastanza faticoso ma, dopo poco, ci si accorgerà di
avere assimilato in modo naturale tutte le indicazioni stilistiche, attraverso le quali filtriamo
i dati casuali. Consiglio ancora di accettare l’eventuale riottosità del materiale grezzo come
una sfida a cimentarsi in un gioco che sicuramente porterà a un ampliamento della propria
immaginazione sonora, a un potenziamento (magari una liberazione) della propria fanta-
sia. È lo scopo ideale di questo libro.
Non mi piace terminare questa sezione senza dare poche altre semplici indicazioni che
permetteranno subito di comporre non semplici frammenti melodici, come quelli realizzati
fin qui, ma vere e proprie composizioni, sia pure di dimensioni ridotte.
Non è questa la sede per parlare diffusamente di forme musicali del passato. Propongo
qui soltanto alcuni spunti che permetteranno a chiunque di muoversi successivamente con
autonomia, qualora si volesse allargare il proprio orizzonte.
Ritengo inoltre opportuno specificare fin da subito che il mio discorso farà riferimento
198 L’abaco e la rosa

prevalentemente alle forme profane. Ciò potrà sembrare, ancora una volta, paradossale se
si considera che la musica a carattere sacro costituisce almeno la metà della produzione
musicale che va dal Medioevo alle soglie del periodo classico. Come ho più volte detto,
questo libro non ha la pretesa di esaurire l’analisi stilistica della musica rinascimentale: non
è infatti neanche il suo obiettivo. Restringere il campo alle sole forme della musica profana
— per quanto riguarda il linguaggio la musica antica non fa invece grande differenza tra sa-
cro e profano — permette (in base a un’arbitraria scelta personale) di non rendere eccessi-
vamente generico e dispersivo un discorso che, come si vedrà, condurrà a semplici risultati
pratici come la composizione di piccoli brani musicali. In più, mi sembra che il carattere vo-
lutamente profano del discorso di questo libro potrebbe ridicolmente urtare con una consi-
stente attenzione per la musica sacra.
Più avanti, il capitolo dedicato ai canoni (capitolo 8) consentirà di disporre di alcuni
elementi largamente impiegati anche dalla musica sacra rinascimentale. In questo libro, co-
munque, si troveranno pochissime indicazioni sul rapporto tra musica e testo, che esulano
dall’ambito principale del discorso. Questa profanazione di un consolidato orientamento
didattico ed estetico, non necessariamente sbagliato, potrà trovare facilmente una ripara-
zione nei testi specialisitici segnalati nelle indicazioni bibliografiche e, parzialmente, nel-
l’appendice al capitolo 6.
Farò qui riferimento ad alcune semplici forme profane, messe a punto prevalentemente
in ambito francese, che a partire dal Duecento furono praticate fino a Cinquecento inoltra-
to. Ovviamente questi schemi formali, nelle mani di compositori appartenenti a diverse ge-
nerazioni, subirono diverse varianti. Queste forme sono il rondeau, il virelai e la ballade, alla
base di quasi ogni chanson. Fino all’avvento del madrigale italiano, nei primi decenni del
Cinquecento, la chanson francese rimase il modello per eccellenza della musica profana.
Tutte e tre le forme menzionate permettono di comporre un brano musicale per mezzo di
due soli episodi o sezioni (uso qui termini volutamente generici), corrispondenti in linea di
massima, ai versi di un testo poetico. Gli episodi possono corrispondere alle linee melodi-
che che abbiamo realizzato in precedenza. Se attribuiamo la lettera A a un primo episodio
e la lettera B a un secondo, gli schemi sono i seguenti:

Rondeau: A B A A A B A B
Virelai: A B B A A
Ballade: A A B

Qualsiasi buon testo di storia della musica riporta l’origine e lo sviluppo di queste for-
me. Così come abbiamo manipolato le note per mezzo di semplici tecniche combinatorie,
potremmo fare lo stesso con gli elementi che compongono le forme. Potrebbe essere interes-
sante sperimentare proprie varianti per questo tipo di schemi.
Cerchiamo ora di comporre un brano basato, ad esempio, sulla forma di virelai. Si tratta
semplicemente di collegare due episodi tra loro. Il secondo episodio potrà iniziare con
qualsiasi nota del modo base, e terminerà sulla finalis, dopo una cadenza uguale o diversa
rispetto a quella del primo episodio. La lunghezza dei due episodi potrà essere, ovviamen-
Capitolo 4 199

te, variabile.
Nei primi esperimenti sarà più semplice gestire la forma se i due episodi offriranno la
possibilità di essere semplicemente giustapposti. Si tenga comunque presente che, dopo
quello iniziale, i successivi episodi di una composizione rinascimentale hanno la tendenza a
iniziare in levare. Questa tendenza offre la possibilità di parlare adesso dell’impiego delle
pause.
Lo stile rinascimentale contempla l’utilizzo di pause ogniqualvolta se ne presenti, per
qualsiasi motivo, la necessità, anche all’interno di un singolo episodio (linea). Oltre alla
possibilità di pause di lunga durata (l’equivalente di una battuta e più, e ciò in contesti po-
lifonici, dove spesso si sente la necessità di alleggerire la trama sonora) la linea presenta
spesso pause della durata di una minima e di una semiminima. Sono pressoché assenti
pause di durata inferiore. Il principio generale è quello che la pausa deve iniziare sul tactus
(cioè sul battere corrispondente alla pulsazione di minima). Casi del genere sono molto fre-
quenti:

Es. 4-38
(1)
&C Ó ˙ ˙ ˙
Œ
œ œ œ ˙ Ó

(2)

& ˙. œ ˙ Ó Œ œ b˙ ˙ w
˙

Mentre vanno del tutto evitate situazioni come queste:

Es. 4-39

j
&C ˙ œ. œ ˙ œ
Œ
œ œ ˙ œ Ó œ ˙ ˙

La nostra chanson impiegherà il tritus. A partire da una prima sequenza casuale di cifre:

3, 4, 6, 2, 5, 6, 2, 5, 6, 5,

realizziamo un primo episodio:

Es. 4-40
.
&b C w ˙ ˙ œ œ Jœ œ ˙ ˙ Œ œ œ œ

œ œ. œ œ
&b ˙ ˙ J œ œ œ œ œ œ œ œ ˙

Lanciamo nuovamente i dadi:

4, 1, 2, 6, 3, 2, 1, 3, 1, 6, 4, 5.
200 L’abaco e la rosa

Realizziamo ora un secondo episodio tenendo conto di quanto detto a proposito della
principale peculiarità ritmica di questo, l’inizio in levare:

Es. 4-41
œ œ œ j
&b C Œ œ œ œ ˙ Œ ˙ ˙ ˙ œ œ. œ œ

˙ œ œ œ œ ˙
&b œ ˙ œ Œ œ œ œ œ œ œ w

La ripetizione della formula più arcaica di cadenza (cfr. Es. 4-16) conferisce un sapore
particolare alla nostra chanson.
Passando ora all’elementare montaggio dei due episodi avremo completato il brano:

Es. 4-42
. œ œ. œœ
&b C w ˙ ˙ œ œ Jœ œ ˙ ˙ Œ œ œ œ ˙ ˙ J

.. Œ œ œ œ œ œ ˙ j
&b œ œ œ œ œœœœ˙ œ ˙ Œ ˙ ˙ œ œ. œ œ

œ œœœ ˙ .
&b œ ˙ œ ˙ Œ œ œ œœœœ w
.. .. Ó
˙ ˙ ˙ œ œ Jœ œ

œ œ. œ œ
&b ˙ ˙ Œ œ œ œ ˙ ˙ J œ œ œ œ œœœœ˙
..

La ripresa del primo episodio avviene, come si sarà notato, in modo leggermente diverso
(con una pausa) per ovviare alla monotonia della ripetizione di due FA della durata di una
semibreve. Non mi stancherò mai di raccomandare il cantare sempre più volte le linee melo-
diche composte. Ciò contribuirà molto ad assimilare con naturalezza il linguaggio rinasci-
mentale.
Come ultimo esempio di questa sezione propongo la composizione di una linea melodica
nel tempo di 6/4. Questo andamento era molto diffuso nel Quattrocento. Per familiariz-
zarsi con esso, si pensi che l’andamento è uguale a quello di un brano in 6/8. L’inizio del
celebre canto natalizio «Stille Nacht» (il cui originale è in 6/8) scritto in 6/4 risulta così:

Es. 4-43
# 6
& # 4 œ . Jœ œ ˙ .

Una battuta in 6/4 ha la stessa quantità di semiminime di una battuta in 3/2 (sei). La
differenza tra i due tipi di andamento sta nel fatto che mentre normalmente la battuta in
6/4 ha (o rende l’idea di) due accenti all’inizio della prima e della seconda minima punta-
ta, quella in 3/2 ha (o rende l’idea di) tre accenti all’inizio di ogni minima. I musicisti rina-
scimentali (talvolta ancora Bach e alcuni suoi contemporanei) sfruttano la possibilità di
passare continuamente da un andamento all’altro. Ciò produce un’affascinante profilo rit-
Capitolo 4 201

mico. Questa condotta prende il nome di hemiola. (Quella che noi chiamiamo hemiola costi-
tuisce uno dei fondamenti del pensiero ritmico di diverse tradizioni musicali africane.)
Nei nostri esperimenti potremo fare uso — sarà anzi cosa buona — dell’hemiola. Quan-
do dal 6/4 passeremo di fatto al 3/2 (per una o più battute) non dovremo però indicare il
cambio di tempo. Si comprende infatti la natura dell’hemiola se si familiarizza con la possi-
bilità di assegnare a una generica battuta della durata complessiva di sei semiminime due o
tre accenti. (Ovviamente si tratta di accenti virtuali che non dovremo scrivere sul penta-
gramma.)
Per quanto riguarda l’assegnazione dei valori di durata a una linea in 6/4 non ci sono
particolari problemi. Potremo procedere con la libertà usata in precedenza. Se ci dovessero
essere casi dubbi dovuti al fatto che il tactus (la minima puntata) non è divisibile in due
parti uguali, consiglio di fare i conti sempre come se ci si trovasse in battute di 3/2. Così,
ad esempio, è da scartare una condotta come la seguente per le ragioni indicate al punto f):

Es. 4-44

6 œ ˙
&4 œ w

Mentre invece va benissimo questa:

Es. 4-45

6 ˙ œ ˙
&4 œ ˙

Per il prossimo esempio faremo riferimento alla forma di rondeau, per una sorta di chan-
son in protus. Lanciamo i dadi per i dati numerici relativi al primo episodio:

2, 2, 1, 5, 2, 6, 2, 4, 1, 6.

Ecco una possibile realizzazione:

Es. 4-46

6 j Œ œ bœ ˙
&4 ˙ œ ˙ œ. œ œ œ œ œ œ ˙ ˙ œ
œ œ

j
& ˙ ˙ ˙ œ. œ œ b˙ œ
˙ ˙ ˙ œ #˙ ˙.

Per muoversi con sicurezza nella fase cadenzale di un episodio in 6/4 suggerisco di col-
locare sempre la sensibile sulla parte debole del tactus.
Da un’altra sequenza di cifre:

4, 1, 5, 6, 2, 2, 2, 5,
202 L’abaco e la rosa

facciamo derivare il secondo episodio:

Es. 4-47
6 j bœ œ œ ˙
& 4 œ. œ œ œ ˙ œ ˙ ˙ ˙
œ œ #œ œ œ ˙ .

Passiamo ora al montaggio. L’esempio 4-48 mostra il risultato finale. Si noti l’abbon-
dante ricorso all’hemiola.
Si facciano ora diversi esperimenti personali prima di passare alla prossima sezione.

Es. 4-48
6 j
& 4 ˙ œ ˙ œ œ . œ œ œ œ œ Œ œ bœ ˙ œ œ ˙ ˙ œ ˙ ˙ ˙

j j
& œ . œ œ b˙ œ
˙ ˙ ˙ œ #˙ ˙. œ. œ œ œ ˙ bœ œ œ œ
˙

.. j Œ œ bœ ˙ œ
& ˙ ˙ ˙ œ œ #œ œ œ ˙ . ˙ œ ˙ œ
œ. œ œ œ œ
œ

j ..
& œ ˙ ˙ œ ˙ ˙ ˙ œ . œ œ b˙ œ
˙ ˙ ˙ œ #˙ ˙.

j
& .. ˙ œ ˙ œ
œ. œ œ œ œ
œ
Œ œ bœ ˙ œ œ ˙ ˙ œ

j
& ˙ ˙ ˙ œ. œ œ b˙ œ
˙ ˙ ˙ œ #˙ ˙.

j bœ œ œ œ ..
& œ. œ œ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
œ œ #œ œ œ ˙ .

4.3. Upgrade: «I Got Rhythm»

Nella sezione precedente ho accennato alla possibilità di utilizzare sequenze numeriche ca-
suali anche per quanto riguarda gli eventi ritmici. Immaginiamo di trovarci già a buon punto
nell’elaborazione di una linea melodica:
Capitolo 4 203

Es. 4-49
œ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

In questo primo esperimento rendiamoci un po’ più semplice il compito stabilendo che la
prima nota valga almeno la durata di una minima. Dal momento poi che la fase cadenzale
è costituita, come abbiamo visto, da materiale prefabbricato anche sotto l’aspetto del rit-
mo, potremo limitarci a costruire un profilo ritmico a partire da dati casuali per le sole note
comprese fra la seconda e quella che precede il SOL prima della sensibile.
Lanciamo i dadi per ottenere quindi 11 cifre:

3, 3, 3, 2, 4, 6, 1, 4, 3, 1, 5.

Utilizzando una sequenza numerica casuale per strutturare ritmicamente una melodia,
sarà buona cosa procedere con la consueta elasticità. Difficile utilizzare le cifre come valori
assoluti, cioè come precisi valori di durata. Può essere ad esempio efficace attribuire alla
metà delle cifre la funzione di trasformare le note a cui si riferiscono in note bianche; all’al-
tra metà delle cifre la funzione di trasformare le note della sequenza in note nere. In base a
quanto detto nella precedente sezione, una nota bianca può valere una semibreve, una mini-
ma e una minima puntata. Una nota nera vale una semiminima. Due note nere possono for-
mare (nei limiti visti) un gruppo di due note costituito da una semiminima puntata seguita
da una croma. Scegliere i valori assoluti sarà il nostro intervento discrezionale.
Le sei facce di un dado sono formate da tre numeri pari e tre numeri dispari. Si può at-
tribuire al pari la cifra 0, con riferimento alle note bianche; al dispari la cifra 1, con riferi-
mento alle note nere.
Assegniamo le cifre alla sequenza di note del precedente esempio:

Es. 4-50
(0) 1 1 1 0 0 0 1 0 1 1 1
œ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

A questo punto è facilissimo ottenere una possibile realizzazione completa della linea:

Es. 4-51
&b C ˙ œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ ˙ œ œ œ ˙ #œ w

È evidente che talvolta può accadere, come nella seconda misura, che l’unico modo per
rappresentare una nota bianca sia quello di legare fra loro due note nere. Per quanto riguar-
da poi la fase cadenzale, quella proposta è una variante della minima puntata seguita da
semiminima. Aspetto comune della maggior parte delle cadenze è infatti quello di avere la
sensibile posta sulla parte debole del tactus.
Non si pensi ora che, dal momento che si è deciso di affidarsi a dati casuali anche per
204 L’abaco e la rosa

ciò che concerne il ritmo, il nostro ruolo creativo scompaia del tutto. Si consideri il prossi-
mo esempio:

Es. 4-52

& b C ˙. œ œ œ ˙ ˙ ˙ Œ ˙ œ ˙. œ œ œ ˙ œ #œ ˙

Non ho certo ottenuto il profilo ritmico di una bossa nova, ma esiste una differenza con
l’esempio precedente. Per quanto riguarda il DO alla terza misura, ho preferito non allun-
garlo nella successiva (ipotesi peraltro del tutto ammissibile), e mettere al posto del suo
prolungamento una pausa.
Generalizzando, si può immaginare quindi di introdurre delle pause rubandone la dura-
ta a una nota bianca.
Per ciò che riguarda l’utilizzo di un gruppo di note nere composto da semiminima punta-
ta seguita da croma, immaginiamo di trovarci davanti a una sequenza come questa:

Es. 4-53
1 1 0
œ œ œ
&

La natura del segmento è tale per cui, se vogliamo, possiamo trasformarlo in questa ver-
sione:

Es. 4-54
œ. œ ˙
& J

Al di fuori delle regole stilistiche, cui ci atteniamo come a un gioco, le regole di libera in-
venzione non dovrebbero mai ingabbiarci, ma dovrebbero invece essere uno stimolo per svi-
luppare la fantasia.
In questi primi esempi si sarà certamente notato che, per avere assegnato lo stesso nu-
mero di facce a 0 e 1, la probabilità di ottenere note bianche è la stessa di ottenere note nere.
In questo modo è facile che si ottenga un profilo melodico di andamento tranquillo. Imma-
ginando invece di volere comporre melodie dall’andamento decisamente più lento o più
scorrevole, si deve trovare un modo per ovviare all’equiprobabilità di note bianche e nere.
Con i dadi a sei facce si può cambiare il rapporto da 3:3 a 4:2 o 5:1. Per quanto mi riguar-
da, trovo interessante il rapporto 5:3 che, utilizzando dadi a sei facce, sembrerebbe diffici-
le da ottenere. Ricordando quanto detto nel capitolo 2, con una sequenza di triplici lanci
possiamo ottenere cifre equiprobabili da 1 a 8.
Ottenuta una sequenza casuale di cifre da 1 a 8, personalmente trovo facile distinguere i
cinque numeri appartenenti alla successione di Fibonacci (cfr. cap. 2), 1, 2, 3, 5, 8, dagli al-
tri, 4, 6, 7. Si avranno buone probabilità di ottenere un andamento piuttosto lento asse-
gnando ai numeri di Fibonacci la cifra 1, cui si faranno corrispondere le note bianche. Si ot-
Capitolo 4 205

terrà probabilmente un andamento scorrevole facendovi invece corrispondere le note nere.


Facciamo una prova. Immaginiamo di trovarci davanti a un profilo melodico pronto a
essere rivestito ritmicamente:

Es. 4-55
œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ

& œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

Mi propongo di realizzare una melodia di andamento scorrevole. Ai numeri di Fibonacci


assegniamo perciò le note nere. Se si escludono la prima e le ultime tre note, occorrono 27
cifre, ad esempio:

8, 7, 3, 5, 1, 6, 3, 5, 4, 1, 7, 5, 3, 3, 5, 6, 5, 6, 5, 6, 5, 7, 6, 5, 3, 7, 6.

Tradotte in notazione binaria:

1, 0, 1, 1, 1, 0, 1, 1, 0, 1, 0, 1, 1, 1, 1, 0, 1, 0, 1, 0, 1, 0, 0, 1, 1, 0, 0.

Es. 4-56
0 1 0 1 1 1 0 1 1 0 1 0 1 1 1
œ œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ œ œ
1 0 1 0 1 0 1 0 0 1 1 0 0

& œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

Ecco una possibile realizzazione della linea:

Es. 4-57
6
&4 ˙ œ ˙. œ œ. œ ˙ œ œ ˙ œ ˙ Œ œ œ œ œ œ
J

& œ œ ˙ œ œ œ œ ˙ ˙ œ œ ˙ ˙ ˙ #œ ˙ .

Proviamo ora ad assegnare a 1 le note bianche e a 0 le note nere. La linea può assumere
un andamento decisamente più lento:

Es. 4-58
˙. œ ˙ ˙
&C ˙ ˙ œ œ ˙ œ œ œ ˙ ˙ œ œ œ ˙

& Œ ˙ œ ˙ œ œ œ œ ˙ œ œ ˙ Œ ˙ œ œ ˙ #œ w
206 L’abaco e la rosa

Si possono ovviamente sperimentare altri rapporti probabilistici fra note bianche e note
nere, come 3:1 (facilissimo con dadi speciali a forma di tetraedro).
I compositori fino alle ultime generazioni del Quattrocento erano particolarmente affa-
scinati da una quantità di complesse operazioni (anche di natura molto astratta) riguar-
danti il ritmo. A partire dal Trecento venne sviluppata una tecnica, definita dai teorici mo-
derni isoritmia, che ottenne il favore di numerosi musicisti e che venne impiegata fino alla
prima generazione di compositori franco-fiamminghi del secolo successivo. In termini molto
semplificati, consisteva nell’impiego di modelli ritmici che venivano utilizzati in alcune del-
le voci di una composizione polifonica. Questi modelli venivano chiamati talee. (Non molto
diversamente, oggi non pochi generi musicali fanno uso di ciò che si suole chiamare pattern,
riff o groove.) Non è questa la sede per approfondire la tecnica isoritmica in senso autenti-
co. Desidero proporre qui soltanto la possibilità di utilizzare modelli composti dalle cifre 0
e 1. Questi modelli, semplici da utilizzare, possono conferire una maggiore coerenza ritmica
a una sequenza melodica e rendere più spedito il lavoro di composizione.
Si immagini, come di consueto, di avere completato la stesura di una sequenza melodica
tranne che per il suo profilo ritmico:

Es. 4-59

& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ

œ #œ œ #œ œ
& œ bœ œ œ œ œ œ œ bœ œ

Pensiamo ora a un modello con 0 e 1: sarà bene scegliere un modello piuttosto corto, ad
esempio di cinque cifre. Pensiamo quindi a una sequenza, non necessariamente casuale,
come la seguente:

0, 1, 1, 1, 0.

Applichiamo il modello alle note della sequenza a partire, come in precedenza, dalla se-
conda nota (anche se in questo caso lo stile ci avrebbe permesso un suo utilizzo fin dalla
prima nota) e tralasciando le ultime note della fase cadenzale:

Es. 4-60

0 1 1 1 0 0 1 1 1 0 0 1 1 1

& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ
0 0 1 1 1 0 0 1 1 1 0
œ #œ œ #œ œ
& œ bœ œ œ œ œ œ œ bœ œ

Realizziamo finalmente la linea secondo un possibile profilo ritmico:


Capitolo 4 207

Es. 4-61
&C w ˙. œ œ œ ˙ ˙ Œ œ œ œ ˙ ˙
œ œ

œ #œ ˙ œ w
& œ œ ˙ bœ œ œ œ œ ˙ ˙ œ bœ œ

Si nota facilmente che l’ultima ripetizione del modello è incompleta. Se si fosse assegna-
ta una durata uguale o superiore a una minima al RE che precede il primo dei DO diesis la
formula cadenzale non sarebbe stata di applicazione immediata. Com’è ragionevole, i pro-
cessi meccanici dovrebbero renderci più semplice la vita (per consentirci di dedicarci a un
miglioramento della sua qualità, pia illusione), invece di complicarcela.
Si obietterà che il modello ritmico scelto non garantisce la riconoscibilità di un ritmo pre-
ciso come nel caso di un riff in un’odierna canzone pop. Non era questo lo scopo neppure
delle antiche talee. Come ho più volte detto, ciò che stava particolarmente a cuore agli anti-
chi maestri era la varietas. I modelli ritmici servivano a creare un tipo di coerenza non su-
perficiale, ma verificabile a un livello più profondo. Una delle idee chiave della cultura del
Medioevo era infatti quella della varietà all’interno dell’unità.
Il nostro piccolo esperimento rivela la sua minuscola coerenza semplicemente osservan-
do la linea ottenuta. Il modello riferito al ritmo si esplicita principalmente in maniera visi-
va. Torniamo per un istante all’idea di texture esposta nel capitolo precedente. Eccoci da-
vanti a uno di quegli affascinanti paradossi davanti ai quali ci pone continuamente la mu-
sica.

4.4. Josquin 1.1

In questa sezione arricchiremo il bagaglio (la cassetta degli attrezzi) precedentemente acquisi-
to per i nostri esperimenti sulle linee melodiche rinascimentali. Non essendo questo un testo
specialistico sul linguaggio musicale del Rinascimento, non indicherò tutte le possibilità a
disposizione degli antichi maestri. Per i nostri scopi ne basteranno soltanto alcune,
sufficienti però, se ben impiegate, a realizzare linee interessanti. Certamente chiunque sarà
poi in grado, possedendo questi semplici elementi linguistici, di perfezionare la qualità dei
propri brani analizzando le partiture di Josquin, Palestrina e altri compositori a loro con-
temporanei.
Per prima cosa potremo ora, all’interno di una linea melodica, effettuare cadenze su
suoni diversi dalla finalis. È ciò che si definisce comunemente col termine modulazione. Non
tutti i suoni appartenenti a un modo sono idonei per formare una cadenza. Come punto di
partenza si può tranquillamente considerare le possibilità più frequenti.
Fornisco qui di seguito un prospetto contenente le note su cui è possibile cadenzare per
ogni modo. Le note bianche (tra cui, ovviamente, la finalis) sono le note su cui si cadenza
più spesso. Le note nere rappresentano casi meno frequenti. Tra parentesi sono indicati
208 L’abaco e la rosa

infine casi ancora più rari. Si tenga presente comunque che, per quanto si presentino meno
frequentemente, le cadenze sulle note nere non sono affatto eccezionali.

Es. 4-62
protus protus trasportato
œ w œ
& w œ w b w œ

deuterus deuterus trasportato


œ œ w œ
& w œ w b w

tritus
w œ
&b w l

tetrardus
l œ w
& w

Cadenzare su note diverse dalla finalis di ogni modo è semplicissimo. Basta raggiungere
le note in questione e applicare gli stessi modelli utilizzati in precedenza. In più, è possibile
cadenzare raggiungendo semplicemente la nota per grado congiunto discendente (ricordarsi
che valgono sempre le regole della «buona segmentazione»). Si tenga conto che la nota così
raggiunta e quella precedente dovranno avere la durata di almeno una minima. Poi si conti-
nuerà la linea, preferibilmente in levare. Questa seconda possibilità diventerà più chiara
quando affronteremo la scrittura a più voci. Per adesso, questo tipo di cadenza non risulta
tanto diversa da ciò che risultava dall’impiego di pause nel corso di una linea melodica.
Importante poi è stabilire quanto segue.
Nei nostri esperimenti, una volta effettuata la cadenza continueremo la linea melodica
nel modo originale e non con le note appartenenti a un modo nuovo. Se, ad esempio, nel
corso di una linea melodica in tetrardus si cadenza sul RE, non si dovrà proseguire la linea
in protus (introducendo all’occorrenza il SI bemolle). In molti casi il problema del cambio di
modo in realtà non si pone. Se in una linea in protus si cadenza sul FA, di fatto, anche vo-
lendo, è difficile allontanarsi di molto dal modo originale. La letteratura musicale presenta
in realtà alcuni casi di effettiva modulazione, cioè di passaggio dalle abitudini di un modo
a quelle di un altro. La considerazione di tali possibilità esula tuttavia dall’orizzonte di
questo scritto.
Un consistente arricchimento delle linee deriverà poi dall’impiego di un catalogo più va-
sto di figure melodiche e ritmiche.
Innanzitutto consideriamo il caso della semiminima puntata seguita da croma. Fino a
questo punto abbiamo, in sostanza, considerato la croma come nota di passaggio, cioè come
«farcitura» di un intervallo di terza. Oltre a questo impiego — in assoluto il più frequente
— si considerino questi altri casi:
Capitolo 4 209

Es. 4-63

œ. œœ œ l l
J

œ. œ œ
J

Nel primo caso, una vera e propria specialità melodica dello stile di Josquin des Prés,
dopo la croma c’è un salto di terza discendente, dopodiché la linea continua per grado
congiunto in direzione opposta o (appena meno frequentemente) con un salto di terza, di
quarta (note tra parentesi) o, più raramente, con un salto più ampio. In termini moderni, la
croma rappresenta qui una nota di sfuggita.
Il secondo caso è quello in cui la croma riveste il ruolo di anticipare la nota successiva. È
questa una situazione abbastanza frequente in fase cadenzale. In entrambi i casi, le note
successive alla croma possono rivestire qualsiasi valore di durata. Altri casi residuali di
impiego della semiminima puntata seguita da croma verranno analizzati e proposti quando
passeremo a una scrittura a più voci.
Possiamo poi iniziare anche a considerare l’impiego di gruppi di crome, che sono ele-
menti molto importanti per vivacizzare il profilo della linea e il suo andamento ritmico.
Per quanto riguarda l’impiego di questi gruppi, lo stile che qui ci interessa si rivela piut-
tosto rigido e codificato. Il catalogo dei gruppi risulta abbastanza ristretto e composto per-
lopiù da figure ricorrenti.
Con riferimento all’impiego di gruppi di due crome, lo stile rinascimentale privilegia que-
sto tipo di forma:

Es. 4-64

a) b) c)
˙ œ œ œ ˙ œ œ œ ˙ œ œ œ l

I casi a), b) e c) presentano chiaramente caratteristiche comuni. In primo luogo il gruppo


di crome è costituito da note discendenti per grado congiunto; è infatti piuttosto raro tro-
vare brani in cui compaiono gruppi di due crome ascendenti. Le crome sono raggiunte per
grado congiunto da una nota più alta. La nota che precede le crome è generalmente della
durata di una minima (o di una minima puntata). Un caso come il prossimo è quindi più
raro (cosa strana per la sensibilità melodica moderna):

Es. 4-65

œ œ œ œ

I prossimi casi sono invece piuttosto rari, e nei nostri esperimenti andrebbero impiegati
con molta parsimonia:
210 L’abaco e la rosa

Es. 4-66

˙ œ œ œ œ œ œ œ

Torniamo all’esempio 4-64. Dopo l’ultima delle due crome la linea può procedere per
grado congiunto e nella stessa direzione come nel caso a); con un cambio di direzione melo-
dica proseguendo per grado congiunto, come nel caso b); con un salto di terza in direzione
opposta o di quarta (caso più raro indicato tra parentesi) o, ben più raramente, con un sal-
to più ampio, caso c).
È molto importante considerare inoltre che il gruppo di due crome deve trovarsi sulla
parte debole del tactus (la pulsazione di minima). Così, i prossimi esempi sono assoluta-
mente corretti:

Es. 4-67

&C œ ˙ œœ œ ˙. œ œ ˙

Mentre il prossimo risulta stilisticamente del tutto scorretto, e quindi non andrebbe pre-
so in considerazione neppure come possibile eccezione:

Es. 4-68

&C ˙ œ œ œ œ

Il linguaggio rinascimentale ha già ben chiaro quanto sia importante, per conferire dina-
micità a una linea melodica, sfruttare molto le potenzialità del levare (un vero e proprio
condensatore di energia ritmica), non diversamente rispetto ai compositori delle generazio-
ni successive. Si pensi quanto sarebbe piatto l’inizio della Sesta Sinfonia di Beethoven se, in-
vece del celeberrimo motivo in levare:

Es. 4-69

2 œ œ œœœ
&b 4 ‰ œ œ œ œ œ œœ ˙
œ

sentissimo lo stesso motivo in battere:

Es. 4-70

2 œ œ œ œœœ
&b 4 œ œ œ œ œœ ˙
œ

L’inizio della Quinta Sinfonia sarebbe disastroso se le quattro note più famose della mu-
sica classica si presentassero così:
Capitolo 4 211

Es. 4-71
b 2
&b b 4 œ œ œ ˙

Un inizio in battere può essere ovviamente efficacissimo: dipende dal contesto e dalle
intenzioni del compositore; un esempio lo abbiamo ancora in Beethoven all’inizio della So-
nata op. 13 per pianoforte in DO minore («Patetica»):

Es. 4-72
Grave
b
&b b c œœ
œœ œœ .. œœ n œœœ ... œ.
œ œ. . .
N
? b c œ œœ .. œ. œ. . œ.
b b œœ
œ œœ ..
° *

I gruppi di quattro crome più frequenti sono questi:

Es. 4-73

a) b) c) d) e)

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Per quanto ho detto sulle risorse del levare, i musicisti rinascimentali spesso (e molto
spesso, anzi, quasi sempre, i maestri del Quattrocento) trasformavano la prima nota del
gruppo in una semiminima puntata:

Es. 4-74

œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ

Le stesse figure si possono scrivere, ovviamente, anche in quest’altra maniera:

Es. 4-75

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

I gruppi a) e b) sono in assoluto i più frequenti. Il gruppo c) appare più frequentemente


di d) e e). Il gruppo e) risulta spesso utilizzato da Josquin des Prés. Di altri gruppi, decisa-
mente più rari, parlerò nel capitolo 8. Dico subito però che ci sono innumerevoli brani in cui
compaiono soltanto i gruppi descritti, addirittura soltanto i primi tre o quattro (non sem-
pre sono necessari molti ingredienti per cucinare un buon piatto).
Per utilizzare i gruppi di crome si tengano sempre presenti le regole della «buona seg-
mentazione». Si consideri però che la nota che precede l’inizio di un gruppo di crome è ten-
212 L’abaco e la rosa

denzialmente più alta (o la stessa) rispetto al gruppo.

Es. 4-76

œ œ œ œ œ

Inoltre, non necessariamente il gruppo deve iniziare dopo un movimento per grado con-
giunto; può infatti iniziare anche dopo un salto discendente. Casi come il prossimo sono
quindi più rari:

Es. 4-77

œ œ œ œ œ

È inoltre necessario prestare particolare attenzione alla nota successiva a quella con cui
termina un gruppo.
Il gruppo a) termina quasi sempre così:

Es. 4-78
œ
œ œ œ œ

Mentre è decisamente più raro questo tipo di conclusione:

Es. 4-79

œ œ œ œ œ

Il linguaggio melodico rinascimentale infatti fa raramente uso della cosiddetta nota di


volta superiore (l’ultima del gruppo di crome, in questo caso).
Il gruppo b) è seguito generalmente da una nota per grado congiunto nella stessa direzio-
ne o in senso ascendente. La nota di volta inferiore viene infatti accettata senza alcuna re-
strizione. Meno frequentemente, dopo l’ultima nota del gruppo c’è un salto ascendente di
terza, di quarta o, più raramente, di altro intervallo:

Es. 4-80

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ

Per quanto riguarda il gruppo c) valgono semplicemente le regole della «buona segmen-
tazione». Sono quindi ugualmente ammissibili i seguenti casi:

Es. 4-81

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
Capitolo 4 213

Una «buona segmentazione» non esclude un’ipotesi del genere:

Es. 4-82

œœœœœ œ

Per quanto ho detto sulla nota di volta, il gruppo d) termina praticamente sempre così:

Es. 4-83
œ œ œ œ œ

Non ci sono particolari problemi per il gruppo e): basta realizzare una «buona segmen-
tazione»:

Es. 4-84

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

A questo punto possiamo tentare qualche nuovo esperimento. Proponiamoci ad esempio


di realizzare una linea composta da due episodi, il primo dei quali cadenzerà su un suono
diverso dalla finalis. Scegliamo un modo d’impianto, ad esempio il tritus. Lanciamo i dadi
per ottenere una sequenza di una decina di cifre:

5, 2, 5, 6, 1, 3, 2, 2, 5, 4.

Immaginiamo di volere cadenzare sul DO. Aggiungiamo quindi alla sequenza la cifra 5:

5, 2, 5, 6, 1, 3, 2, 2, 5, 4, 5.

Trasformiamo ora, come di consueto, le cifre in una sequenza di note:

Es. 4-85
œ
&b œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ

Per cadenzare sul DO sarebbe sufficiente modificare la sequenza così:

Es. 4-86
œ
&b œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ nœ œ

È facile notare, però, che c’è troppa insistenza sulle ultime note della sequenza: il già ci-
tato difetto stilistico della ridizione melodica. Nel caso precedente è facilissimo porre rime-
214 L’abaco e la rosa

dio al problema ritoccando leggermente la parte conclusiva della linea:

Es. 4-87
œ
&b œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ nœ œ

Proviamo a inserire ora alcuni dei nuovi elementi a disposizione, ad esempio dei gruppi
di crome. Dove? Sicuramente dove vogliamo, se lo si desidera. Se invece si è incerti al ri-
guardo, si potrebbe pensare ad esempio di inserire un gruppo di crome ogni quattro note: in
questo modo daremmo vita a una sorta di pattern di collocazione dei gruppi. In corrispon-
denza delle note segnate faremo iniziare quindi un gruppo di crome. Quale? Un criterio di
economicità ci suggerisce di utilizzare un gruppo di crome che ci permetta di avvicinarci il
più possibile alla nota successiva. Si ricordi comunque che i gruppi più utilizzati sono a), b)
e c) (Es. 4-73).

Es. 4-88
+œ + +
&b œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ nœ œ

Una possibile realizzazione è la seguente:

Es. 4-89
œ œ œ œ
&b œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ

&b œ œ œ œ œ œ œ œ nœ œ

Preoccupiamoci ora di una «buona segmentazione» e di eventuali «farciture»:

Es. 4-90

œœœœ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœœœ

œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ nœ œ

Non rimane che dare una veste ritmica alla sequenza. Per quanto riguarda i gruppi di
quattro crome, li utilizzeremo perlopiù nella loro forma allungata (cfr. Es. 4-74). I gruppi di
quattro crome possono iniziare sia sulla parte forte del tactus (in corrispondenza delle mi-
nime) che su quella debole (in corrispondenza delle semiminime pari quindi). A dire il vero,
quest’ultima possibilità andrebbe ulteriormente specificata, ma per i nostri scopi non è ne-
cessario. Si consideri infine che dopo un gruppo di quattro crome si tende (nessun obbligo
quindi) a continuare la linea con una nota nera (non con una minima dunque o un valore su-
periore). Ciò per non arrestare bruscamente la spinta dinamica del gruppo di crome:
Capitolo 4 215

Es. 4-91

& b C ˙. œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ ˙ œ œ

j
&b œ œ œ ˙ ˙ œ. œ œ œ œ ˙ œ nœ ˙

Alla quarta battuta c’è un esempio della possibilità di iniziare un gruppo di quattro cro-
me in corrispondenza della parte debole del tactus. Come si vede, il fatto di avere realizza-
to una corretta segmentazione e una «farcitura», dopo avere deciso la collocazione dei
gruppi di crome, ha nascosto la schematicità del pattern. È forse interessante notare che,
una volta che si decida di arricchire la linea con gruppi di crome (e con gli altri nuovi stru-
menti), è sufficiente una breve sequenza numerica casuale per ottenere una linea di una cer-
ta lunghezza. In base a poche regole si assiste perciò a una crescita organica della linea. Per
quanto mi riguarda, trovo ciò molto affascinante.
Passiamo alla realizzazione di un secondo episodio. Questa volta terminerà sulla finalis.
Lanciamo i dadi per ottenere ancora una sequenza di 10 cifre, cui aggiungiamo la cifra 1:

4, 2, 4, 1, 1, 4, 3, 6, 4, 5, 1.

Ecco la stessa sequenza tradotta in note:

Es. 4-92

œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ

Per animare il profilo melodico della linea ho deciso di collocare il primo dei due FA nel
registro acuto.
Questa volta stabiliamo che una nota sì e una no siano l’inizio rispettivamente: di un
gruppo di note facente uso di semiminima puntata, in una delle due forme speciali (Es. 4-
63); di un gruppo di due crome, preceduto dalla nota lunga preparatoria (Es. 4-64); di un
gruppo di quattro crome. Segniamo le note interessate a queste inserzioni come abbiamo
fatto in precedenza:

Es. 4-93

+ œ+ + œ+
+
œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ

Ecco una proposta di realizzazione:


216 L’abaco e la rosa

Es. 4-94

j œ œ œ
&b œ œ. œ œ œ
œ œ

œ. œ œ œ
&b œ œ œ œ œ J
œ œ œ œ

Ho fatto ricorso a delle legature per facilitare l’identificazione dei gruppi codificati. Per
ottenere adesso una «buona segmentazione» e un profilo scorrevole per mezzo di alcune
«farciture» dovremo lavorare non poco:

Es. 4-95

j œ œ œ œ œœœ
&b œ œ œ. œ œ œ œ œ
œ œ œ œ

œ œ. œœ œ
& b œœœœœ œ œ
J
œ œœœ œ œ œ œ œ

Si noti che, dopo l’ultima nota del primo gruppo (semiminima puntata), la linea sale al
FA per assecondare la tendenza risolutiva del MI (sensibile in un segmento ascendente).
Per quanto riguarda la veste ritmica che andremo a realizzare, si tenga conto che dopo
un gruppo di due crome è frequente tanto una nota bianca quanto una nota nera. Essendo
poi il nostro il secondo episodio di un brano, è più efficace un inizio in levare, dopo una
pausa quindi:

Es. 4-96
œ œ ˙. œœ ˙
& b C Œ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ œ œ œ œ œ. J œ œ

œ œœœ œ œ œ œœ
&b œœœœœ œ œ œ œ œ œ œ ˙ œ w

Effettuando un semplice montaggio tra i due episodi otteniamo facilmente una piccola
composizione in forma di ballade (AAB):

Es. 4-97

& b C ˙. œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ ˙ œ œ

j
&b œ œ œ ˙ ˙ œ. œ œ œ œ ˙ œ nœ ˙ ..

œ ˙. œ œ ˙
&b Œ œ œ œ œœœ œ œ Œ œ œ œ œ . Jœ œ œ
œ

œ œœœ œ œ
&b œœœœœ œ œ œ œ œ œœœ
œ œ ˙ œ w
Capitolo 4 217

Cerchiamo ora, come abbiamo fatto nella sezione precedente, di utilizzare le risorse del
caso anche per realizzare la maggior parte degli eventi ritmici della linea melodica.
Dovremo adesso gestire eventi semplici composti da note bianche e nere, i gruppi relativi
all’impiego «speciale» della semiminima puntata, i gruppi contenenti due crome, e i gruppi
di quattro crome. I gruppi con semiminima puntata (semiminima «speciale») potrebbero es-
sere chiamati A; i gruppi contenenti due crome B; i gruppi di quattro crome C. Dove e in
che misura assegnare gli eventi ritmici relativi alle note di una sequenza di suoni amorfi? In
modo equiprobabile? Forse; meglio ancora, però, con probabilità diverse. Disponendo sol-
tanto di dadi a sei facce, e volendo semplificare molto il discorso, si potrebbe ipotizzare
inizialmente questo prospetto per qualche esperimento:

1, 2 = Eventi semplici (note bianche o nere), indicati con una x (33% ca.);
3 = A (16% ca.);
4 = B (16% ca.);
5, 6 = C (33% ca.).
Otteniamo dai nostri dadi una dozzina di cifre:

1, 6, 3, 5, 6, 2, 6, 3, 1, 3, 5, 1.

Immaginiamo, ad esempio, di elaborare una linea in protus trasportato. La sequenza nu-


merica si trasforma così:

Es. 4-98

bœ œ bœ bœ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ

Escludendo la prima e l’ultima nota, lanciamo il numero necessario di volte i dadi per
ottenere informazioni relative agli eventi ritmico-melodici:

Es. 4-99
2 4 3 3 1 5 4 6 1 1
x B A A x C B C x x
bœ œ bœ bœ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ

Avendo già fatto numerosi esperimenti, dovremmo essere in grado di effettuare allo
stesso tempo le necessarie operazioni relative alla segmentazione, alla «farcitura», e alla
collocazione dei gruppi (consiglio, nei primi tentativi, di iniziare dai gruppi e di regolarsi di
conseguenza):
218 L’abaco e la rosa

Es. 4-100
œ œ bœ œ œ œ. œ œ
&b œ œ ˙ œœœ œ J

œ bœ . œ œ œ œ bœ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ
J

œ œ
&b œœœœ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

Dobbiamo ora rivestire ritmicamente le note amorfe della sequenza. Potremmo rilanciare
nuovamente i dadi per ottenere sequenze di 1 e 0, oppure ricorrere ai pattern di note bianche
e nere. Quest’ultimo metodo sembra, a questo punto, il più agevole. Immaginiamo un pattern
1-1-0:

Es. 4-101
(0) 1 1 0 1 1 0 1 1 0
œ œ bœ œ œ œ. œ œ
&b œ œ ˙ œœœ œ J
1 1 0 1 1 0 1 1 0
œ bœ . œ œ œ1 œ1 b œ œ œ œ 0
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ
J
1 1 0 1 1 0 1
œ œ
&b œœœœ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ

Con facilità otteniamo il profilo definitivo della linea melodica:

Es. 4-102
œ. œ ˙. bœ œœ˙ œ. œ ˙ œ œ ˙
&b C ˙ J
œ œ œœœ œ
J

œ bœ . œ œ œ œ bœ œ
&b Œ œ ˙ œ œ ˙ œ œ œ
J

j œ ˙
&b ˙ œ . œ œ œ œ . Jœ Œ œ œ ˙ œ ˙. #œ w

Sarà utile ripercorrere le fasi che dalla prima sequenza di note (Es. 4-98) hanno condot-
to al risultato finale. Si presti particolare attenzione alle operazioni di segmentazione e di
«farcitura». Nonostante una notevole crescita del materiale iniziale, tutte le fasi sono avve-
nute all’insegna di un criterio di economicità. Nell’ultima parte della sequenza (a partire
dall’ultimo RE) desideravo una discesa poco ripida (un tipo di esigenza piuttosto frequen-
te in fase conclusiva) senza necessariamente colmare interamente l’intervallo RE-SOL. Ecco
dunque il motivo di quell’ultimo zig zag. Ovviamente era assolutamente lecita una chiusa
più elementare. Ciò che conta, in definitiva, è che gli elementi a nostra disposizione siano
effettivamente utili e ci lascino un margine di libertà. Abbiamo infatti visto che il grado di
formalizzazione dei procedimenti per ottenere linee melodiche può essere più o meno ac-
centuato.
Capitolo 4 219

Si sarà notato che compare un consistente numero di note in una fase relativa alla seg-
mentazione e alla «farcitura» della sequenza. Come si è visto, una soluzione ritmica ele-
mentare per queste note è considerarle come eventi semplici, cioè come generiche note bian-
che o nere. In questo modo partendo da un prospetto relativo alle probabilità degli eventi
ritmici come quello utilizzato in precedenza è lecito apettarsi una linea dall’andamento
tranquillo con delle increspature ritmiche. Una linea del tutto normale. Qualora si volesse
ottenere una linea dall’andamento più mosso potrebbe andare bene un prospetto così mo-
dificato:

1 = Eventi semplici (note bianche o nere) (16% ca.);


2 = A (16% ca.);
3 = B (16% ca.);
4, 5, 6 = C (50%).

Si potrebbe inoltre immaginare che la cifra 6 corrisponda a un doppio gruppo di quattro


crome; avremmo quindi:

1 = Eventi semplici (note bianche o nere) (16% ca.);


2 = A (16% ca.);
3 = B (16% ca.);
4, 5 = C (33% ca.);
6 = CC (16% ca.).

Ciascuno potrebbe ora provare a immaginare schemi probabilistici diversi da quelli pro-
posti fin qui. Con dadi speciali a 8, 10, 12 facce è facile pensare a situazioni probabilisti-
che degli eventi ritmico-melodici più complesse e raffinate.
Affidandoci agli schemi formali proposti in precedenza sarà possibile scrivere semplici
brani. È importante ricordare che non dobbiamo sentirci obbligati a utilizzare sempre tutti
gli elementi a nostra disposizione. Si può comporre un episodio impiegando soltanto gli
strumenti della sezione 4.2 e un altro con gli strumenti di questa sezione. Oppure si può
variare la probabilità degli eventi nei diversi episodi di una composizione, in modo da ot-
tenere, ad esempio, un andamento tranquillo con pochi gruppi di crome nel primo e un an-
damento più mosso nel secondo. Si può decidere di assegnare probabilità elevate a singoli
gruppi (ad esempio a quello di due crome o di nota puntata «speciale»). Si tenga comunque
conto che una linearità molto articolata e con molti gruppi di crome è generalmente di ca-
rattere colto e di derivazione sacra, cosa che non ha escluso la possibilità di esplorarne le
potenzialità anche in ambito profano. Una linearità ritmicamente più semplice richiama in-
vece un carattere più popolareggiante. L’analisi del repertorio darà in proposito sempre
utili indicazioni.
Faccio notare che con gli strumenti a nostra disposizione si potrebbero scrivere le linee
melodiche di gran parte del repertorio rinascimentale (forse più del 50%). Quello che ci
manca verrà considerato in parte più avanti; in parte appartiene al territorio delle cosid-
220 L’abaco e la rosa

dette eccezioni. Nei fatti sono proprio queste eccezioni a conferire un carattere particolare
alle singole opere. Spesso ciò che viene definito come eccezione altro non è che una devia-
zione dalla comune lingua franca stilistica. In base alle indicazioni che ho dato si potrebbe-
ro spesso definire (in modo aberrante però) le eccezioni come errori.
Apro a caso una pagina della Missa sexti toni (cioè in tritus) di Josquin des Prés, basata
sulla celebre melodia «L’homme armé»; si tratta di un frammento del Gloria:

Es. 4-103

&C w ˙ ˙ ˙ ˙ œ œœ˙ ˙

Ecco un raro (anche per Josquin) gruppo di due crome ascendenti. Poco più avanti, nello
stesso Gloria, ecco un vistoso caso di quella che, come abbiamo visto, si definisce ridizione
melodica (e un trattamento particolare della durata dell’ultima nota):

Es. 4-104

&C œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ ˙

& Ó ˙ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
˙ w

Quella che ho definito come una condotta melodica poco elegante sembra, in questo ca-
so, piacere molto a Josquin, che non esita a riproporla immediatamente dopo, cosa che
mette in evidenza quindi una precisa volontà del musicista. Il fatto interessante è che que-
sto tipo di condotta costituisce un evento raro (anche nella stessa messa) per lo stesso Jo-
squin.
Si tenga conto che più si va a ritroso nel Quattrocento più è facile trovare esempi che si
discostano molto dalle indicazioni date. È poi caratteristica del Quattrocento una forte
propensione per lo sperimentalismo e i prodotti di una fantasia creativa talvolta eccitata.
La linearità melodica di Ockeghem, ad esempio, risente certo di quella grammatica della
lingua franca che, dalla generazione precedente (con Dufay), si andava affermando come
bagaglio comune dei musicisti europei. Diverse sue composizioni sono all’insegna però di
un acceso atteggiamento melodico che si potrebbe quasi definire espressionista. Basta pre-
stare attenzione per un istante alla già citata Messa «Mi-Mi» per rendersene facilmente con-
to. Intorno ai primi anni del Cinquecento la lingua franca trova il momento di sua massima
stabilità. Più avanti si cristallizzerà con l’opera di Palestrina da un lato, e si disintegrerà
dall’altro sotto la spinta del madrigale italiano, che inaugurerà una nuova stagione per la
musica occidentale.

Potremmo ritenerci, dopo un po’, insoddisfatti per non riuscire a ottenere che linee melo-
diche di laboratorio. In un certo senso le nostre linee melodiche avrebbero qualche analogia
con le frasi di un racconto che un grande glottologo, Arthur Schleicher, ha tentato di scrive-
Capitolo 4 221

re in indoeuropeo alla fine dell’Ottocento (il racconto si intitola Owis Ekwoosque — La pecora
e i cavalli — e si trova per intero, fra l’altro, nell’ottimo saggio Il terzo scimpanzé di Jared
Diamond). In base alla grammatica ipersemplificata che abbiamo ricostruito, le nostre linee
formalmente potranno essere magari anche ineccepibili, ma risultare fredde. Non possiamo
però pretendere di dare un consistente calore alle nostre linee melodiche: potremmo farlo se
con la macchina del tempo tornassimo a essere contemporanei di Josquin per respirare,
mangiare, pensare e innamorarci com’era possibile per lui e i suoi contemporanei.
Potrebbe essere invece interessante cercare alcune strategie per introdurre delle
«eccezioni», per uscire dal sistema. In questo senso anche l’«errore» potrebbe rivelarsi utile.
Per prima cosa sarà opportuno redigere un catalogo di eccezioni. L’analisi delle opere sarà
allora qui indispensabile. In secondo luogo sarà necessario attribuire una probabilità per la
comparsa di ogni eccezione.
5. Come fare lievitare la musica

5.1. La scrittura polifonica: cenni introduttivi

Un discreto numero di musicisti effettua ancora una distinzione tra «armonia» e


«contrappunto», tanto che (o perché) continuano a essere perlopiù materie di insegnamento
separato. Se la distinzione può avere qualche utilità a livello didattico, molti sono concordi
nel ritenere impossibile, se non dannoso, distinguere due concetti volendo riflettere in ma-
niera più profonda. Consideriamo ad esempio un corale e una fuga di Bach qualsiasi: par-
lare di composizione armonica per il primo e di composizione contrappuntistica per la secon-
da pone seri interrogativi.
Il problema consiste infatti nel dare una definizione di condotta armonica e di condotta
contrappuntistica convincente e operativamente valida. Entrambi i casi appartengono al-
l’ambito della musica polifonica, cioè la musica composta da diversi strati sonori (il numero
di «voci» o di «parti»). La dimensione armonica della musica prenderebbe in considerazio-
ne gli strati sonori come una sorta di blocchi: gli accordi; quella contrappuntistica gli strati
sonori come linee indipendenti ma coordinate. Il fatto è che quasi ogni testo d’armonia con-
sidera fin da subito gli accordi come sovrapposizione di voci: il problema di una confusio-
ne concettuale rispetto al contrappunto pertanto rimane.
Forse, come per la definizione di consonanza e dissonanza, l’atteggiamento più saggio si
rivela essere quello di un sano relativismo. Quanto meno indipendenti sono le singole linee
di una composizione polifonica (quantità di informazione lineare si potrebbe dire) tanto
più si potrebbe parlare di condotta armonica; quanto più indipendenti le linee, di condotta
contrappuntistica. Una linea netta di confine non esisterebbe.
Oggi non sono in pochi a considerare buona la distinzione tra «armonia» e
«contrappunto» soltanto per finalità didattiche e per introdurre in modo semplificato il fe-
nomeno della musica polifonica. A quello che ho indicato come un atteggiamento relativista
mi atterrò in questo libro.
Nel corso del capitolo i nostri esperimenti sul linguaggio rinascimentale diventeranno po-
lifonici. Cominceremo, contrariamente alla maggior parte dei testi di «contrappunto», dalle
quattro voci per passare poi a un numero crescente di voci. Anche in questa sede cerchere-
mo il più possibile di essere ben disposti nei confronti di eventuali suggestioni algoritmiche,
224 L’abaco e la rosa

per cercare di evitare circoli viziosi.


Sgomberiamo subito il campo da un malinteso. Gli antichi maestri non facevano diffe-
renza tra «armonia» e «contrappunto» perché non possedevano una chiara nozione di ac-
cordo. La polifonia era sempre il risultato di una sovrapposizione di voci. Di fatto però la
musica rinascimentale, dalle quattro voci in su, rivela quasi sempre una dimensione che noi
moderni definiremmo accordale, evidentissima nel repertorio profano. Potrebbe darsi che,
nonostante una chiara nozione di accordo non esistesse presso i musicisti rinascimentali,
un’embrionale percezione del fenomeno accordale ci fosse già allora. Ne è una testimonian-
za la scrittura per uno strumento come il liuto, che aiuta a comprendere la formazione della
tecnica del basso continuo alla fine del Cinquecento.
Una risposta univoca non si può dare. Si consideri però che la musica polifonica rinasci-
mentale (con un principio che risale al Duecento con la Scuola parigina di Notre-Dame)
pone come suo fondamento sonoro le «consonanze perfette» di ottava e di quinta, esclu-
dendo quindi la quarta, considerata consonante solo in determinati contesti. Anche le terze
e le seste erano considerate consonanze ma, forse per le maggiori difficoltà d’intonazione di
questi ultimi intervalli, ogni situazione verticale dotata della massima stabilità (idea che si
lega per buona parte a quella di consonanza) doveva mostrare intervalli di ottava e/o di
quinta giusti (gli intervalli più semplici, in quanto semplici sono i loro rapporti matematici
scoperti già dalla scuola pitagorica: 2/1 e 3/2) in relazione con la voce più grave, sorta di
fondamenta della struttura sonora. Perciò la seguente situazione sonora, che noi oggi
definiamo accordo, era (ed è) considerata stabile:

Es. 5-1

& www
w

Infatti, oltre a mostrare un intervallo di quinta e di ottava rispetto al grave, è costituita


da altri due intervalli consonanti: la terza e la quarta. La situazione è quindi del tutto con-
sonante e stabile. Per quanto riguarda l’intervallo di quarta, era considerato consonante se
non era in rapporto con la nota più bassa dell’insieme sonoro. La prossima situazione
(quella che in termini armonici moderni si definisce come accordo di quarta e sesta, cioè secon-
do rivolto della triade) era pertanto sentita dissonante e quindi instabile:

Es. 5-2
ww
& w

Anche la prossima situazione verticale (ciò che si definisce come accordo di terza e sesta,
cioè primo rivolto della triade) veniva percepita del tutto consonante:

Es. 5-3

& ww
w
Capitolo 5 225

In relazione però a quella dell’esempio 5-1 era ritenuta meno stabile, perché rispetto alla
voce più grave non contiene intervalli di ottava e/o di quinta.
A partire dalle quattro voci in su si sentiva l’esigenza della massima stabilità verticale.
Si cercava il più possibile, come ho accennato, di ottenere situazioni sonore che contenesse-
ro almeno un intervallo di ottava e/o di quinta in rapporto alla voce più grave. Quindi, di
fatto, si faceva larghissimo uso di quelli che noi oggi definiamo accordi allo stato fondamenta-
le.
Se nei nostri esperimenti polifonici ragioneremo inizialmente a partire da collegamenti di
triadi (evitando del tutto le quadriadi, cioè accordi di settima, del tutto estrenee al linguag-
gio rinascimentale) allo stato fondamentale (non rivoltato quindi come quelli degli esempi
5-2 e 5-3), nei fatti otterremo risultati molto simili, dal punto di vista della verticalità, a
quelli dei musicisti del Quattro e Cinquecento. Certo, non è precisamente calarsi del tutto
nei loro panni, ma, come ho già detto, per studiare il linguaggio musicale del Quattro-Cin-
quecento nel modo più accurato dovremmo fare uso della macchina del tempo.
Negli esperimenti di questo capitolo non ci occuperemo, se non in modo embrionale, di
una scrittura di tipo «imitativo», quella, per intenderci, dove le voci copiano in successione
(anche parzialmente) i motivi della prima a comparire. Nel capitolo 8, dedicato ai canoni,
questo genere di scrittura diventerà protagonista, poi, se si vorrà, si mescoleranno insieme i
vari tipi di approcci. In effetti l’imitazione motivica diventa veramente importante soltanto
a partire dalla fine del Quattrocento (ciò è visibile nella musica di Josquin des Prés, il quale
rappresenta una sorta di cerniera fra i due secoli, che comunque, in termini musicali, non
presentano una sostanziale soluzione di continuità). Prima, la principale tecnica composi-
tiva era (canoni a parte) quella di scrivere linee sopra un cantus firmus — una melodia sacra
o profana scelta dal compositore — in maniera anche del tutto libera (realizzando quindi
una sorta di glossa, di commento al testo dato); oppure scrivere semplicemente in maniera
polifonica senza ulteriori preoccupazioni, come in non poche chansons e frottole.
Come ho detto nella premessa di questo libro, darò per scontate le basilari nozioni di
condotta armonica e polifonica, quelle, per intenderci, che vengono impartite nelle scuole di
musica nelle prime lezioni d’armonia. Per leggere con profitto questo capitolo bisognerebbe
almeno avere una chiara nozione di quanto segue:

• 1) Avere chiaro il concetto di parte e di movimento di parte (moto retto, contrario, obliquo).
• 2) Sapere collegare accordi allo stato fondamentale a parti strette (tornerò fra breve su
questo punto).
• 3) Avere chiari i principi relativi agli errori dei «parallelismi» proibiti: le famose ottave e
quinte reali e nascoste. Su quest’ultimo punto si tenga riassuntivamente presente quanto
segue.
Si hanno ottave o quinte parallele reali se in un collegamento tra due accordi due stesse
voci, procedendo per moto retto o contrario muovendo da un intervallo d’ottava (o
d’unisono), formano ancora un intervallo d’ottava (o d’unisono); o, muovendo da un in-
tervallo di quinta, formano ancora un intervallo di quinta. Questi parallelismi, come
sanno tutti i principianti, vanno sempre evitati (anche se ancora Josquin — forse intriso
226 L’abaco e la rosa

di lasciti di una vicina sensibilità medievale che amava le successioni di quinte — di


tanto in tanto ricorre, fra parti interne, a quinte reali, e così pure, molto raramente,
Bach!):

Es. 5-4

w w w
& w w w ww ww w w w
w ww ww w w w w w
w

Il problema delle ottave e quinte parallele nascoste è più sottile. Sostanzialmente riguarda
il caso in cui, in un collegamento accordale, due stesse voci finiscono per motto retto
(per moto contrario non ci sono problemi) su un’ottava (o unisono) muovendo da un al-
tro intervallo, o su una quinta muovendo da un altro intervallo:

Es. 5-5

w w ww ww w w
& w w
w
w
w
w w ww w
w w

Quello delle ottave e quinte nascoste è un argomento su cui si potrebbe scrivere un intero
libro riguardante le diverse opinioni che da sempre si sono avute in proposito. Saggia-
mente Schönberg, nel suo celeberrimo Manuale d’armonia, taglia corto, affermando che
soltanto in pochissimi casi andrebbero evitate le ottave nascoste, mentre non ci dovreb-
bero essere divieti per l’uso delle quinte nascoste.
A ogni modo gli antichi maestri, per quanto riguarda il trattamento delle ottave e quinte
nascoste, a partire dalle tre voci, erano di manica larga. Per quanto riguarda i nostri fini,
il principio-guida che seguiremo è questo: le ottave e le quinte nascoste sono problemati-
che — ma non un errore in termini assoluti — soltanto con riguardo alle parti estreme di
un qualsiasi insieme sonoro (la più bassa e la più alta, ad esempio basso e soprano). Se
fra queste parti viene a formarsi un’ottava o quinta nascosta la si può invece accettare
se la voce superiore si muove per grado congiunto.
• 4) Avere chiara l’estensione delle voci di coro, dal momento che la musica rinascimentale
andrebbe pensata in termini vocali. Ricordo l’estensione approssimativa delle pricipali
voci di coro:

Es. 5-6

soprano contralto tenore basso


w w w
w ?
& V w
w w
w

Si noti che la voce di tenore è scritta con la chiave «ottavata». Ciò significa che i suoni
effettivamente cantati da un tenore risultano più bassi di un’ottava rispetto a quanto
scritto.
Capitolo 5 227

Per quanto riguarda il punto 2), occorre spendere ancora qualche parola sulla nozione di
scrittura a parti strette e parti late. Si ha una scrittura a parti strette quando la distanza
massima fra le tre parti superiori (la cosiddetta realizzazione di un basso dato) di una com-
posizione a quattro parti non supera l’intervallo d’ottava. Nella scrittura a parti late tale
distanza può essere maggiore. Anche qui la distinzione è relativa, perché la scrittura a parti
late comprende talvolta anche quella a parti strette. La scrittura a parti strette, in realtà, è
molto comoda per un’esecuzione con strumenti a tastiera (è, di fatto, la realizzazione di un
basso continuo), mentre quella a parti late è propria della scrittura corale o per più strumen-
ti. Diversi testi classici di armonia, specie francesi e italiani, iniziano con il proporre la
scrittura a parti strette perché ritenuta più facile.
Facciamo ora un piccolo esperimento. Prendiamo un frammento di un corale luterano —
le melodie luterane, per la loro semplicità, sono le più utilizzate in molti manuali di armo-
nia —, ad esempio «Werde munter, mein Gemüte»:

Es. 5-7
U
&b C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w

Proviamo a realizzare una banalissima armonizzazione a parti strette impiegando sol-


tanto accordi allo stato fondamentale:

Es. 5-8
U
& b C ˙˙ ˙˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ www
˙ ˙

? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
b C ˙ ˙ ˙ ˙
u ˙ ˙ ˙
˙ ˙ w

Abbassiamo ora la parte di contralto di un’ottava (la seconda partendo dall’alto), tra-
sformando quindi il contralto in tenore (e viceversa):

Es. 5-9
U
& b C ˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
˙ ˙ w
u
˙˙ ˙˙ U ˙
? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙ ˙˙
b C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
w
u

Abbiamo immediatamente ottenuto (grazie a un piccolo trucco di cui parlerò fra poco)
una versione a parti late. Perché la chiusa risulti più convincente dobbiamo però fare salire
l’ultimo MI della parte di tenore al FA (tonica), dal momento che a parti late, in fase ca-
denzale, anche se la sensibile è in una parte interna tende a salire alla tonica. Una volta
steso il frammento a parti late, è facile vedere poi la possibilità di fiorire la cadenza finale
228 L’abaco e la rosa

per renderla un po’ più interessante e vivace.


Una possibile versione riveduta potrebbe essere questa:

Es. 5-10
U
& b C ˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙˙ ˙
œ œ ww
u
˙˙ ˙˙ U ˙ ˙ œœ˙
? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙ ˙ w
b C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
u

(Una cosa curiosa è che diversi testi classici di armonia non propongono questo sempli-
ce metodo per scrivere, senza particolare sforzo, subito a parti late, cosa ritenuta più
difficile e spesso rimandata dopo un tirocinio a parti strette.)
Il procedimento che ho proposto in realtà riesce (ecco il trucco cui accennavo) se si ha
l’accortezza di distanziare sempre nella prima stesura a parti strette il basso almeno di
un’ottava rispetto al contralto. Altrimenti, nel caso di una distanza inferiore, il contralto,
una volta abbassato, e quindi diventato tenore, risulterebbe più basso della voce grave,
creando non pochi problemi. Questi però possono essere risolti facilmente, come vedremo,
con alcuni semplici aggiustamenti.
Bisogna fare attenzione, poi, che tenore e contralto non formino una successione di quar-
te giuste. Si consideri ad esempio questo caso:

Es. 5-11

& b C ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙
˙
˙˙ ˙˙ ˙˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙

? ˙ ˙ ˙
b C ˙ ˙ ˙ ˙

Nella seconda battuta abbiamo una successione di quarte tra contralto e tenore. Abbas-
siamo nuovamente la parte di contralto di un’ottava:

Es. 5-12

&b C ˙ ˙ ˙ ˙
˙
˙ ˙ ˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
5ª 5ª!

? ˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙
b C ˙

Ecco che la successione di quarte, diventando una successione di due quinte, ha generato
il famigerato errore di condotta polifonica menzionato al punto 3)! Per fortuna nei nostri
esperimenti, come si vedrà, sarà piuttosto difficile imbattersi in questo problema per una
semplice ragione che si comprenderà più avanti.
Consideriamo ora il caso di un’armonizzazione a parti strette del corale visto in prece-
Capitolo 5 229

denza in cui non sempre sia mantenuta la distanza di almeno un’ottava tra basso e con-
tralto. Di fatto, l’unica differenza sta nella condotta del basso che, in alcuni momenti, sce-
glie un registro d’ottava più acuto rispetto alla versione precedente:

Es. 5-13
U
& b C ˙˙ ˙˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ www
˙ ˙
˙ U˙
? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
b C ˙ ˙

Ecco cosa succede se abbassiamo di un’ottava il contralto:

Es. 5-14
U
& b C ˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
˙ ˙ w
u
˙ U˙
? ˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙
˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙ ww
b C u ˙

Possiamo limitarci a dire che avviene qualcosa di strano (si incrociano le parti di tenore
e basso). (Ciò è evidente anche solo osservando la direzione delle stanghette delle note nel
rigo inferiore.) Considerando l’ultimo esempio sembrerebbe essere proprio vero ciò che si
afferma spesso a proposito dei guai, quando si dice che è facile andarseli a cercare. Con-
frontando infatti la versione precedente, si nota che sarebbe bastato muovere in modo ap-
pena più oculato il basso per non avere problemi di sorta.
Un modo laborioso, ma sicuro (quindi consigliabile ai principianti), per risolvere il pro-
blema potrebbe essere quello di riportare la disposizione degli accordi a parti strette, asse-
gnando però due parti per rigo (come nella scrittura a parti late), nelle sezioni in cui si sia
verificato un problema in seguito alla trasformazione a parti late:

Es. 5-15
U
& b C ˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙
˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
u w
U
˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙
? ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙
˙˙ ww
b C u

L’esempio, così com’è, riporta però ancora non pochi problemi:

• 1) Nella prima e nella quinta battuta, tra basso e contralto, c’è una successione di due
quinte reali.
• 2) Nelle stesse misure la voce di tenore compie un salto ascendente di sesta maggiore, un
230 L’abaco e la rosa

intervallo che sarebbe meglio evitare nella musica corale classica (non è infatti vocalmen-
te molto comodo); mentre nella terza battuta la stessa voce compie un salto della stessa
ampiezza ma discendente. Essendo l’intervallo di sesta maggiore discendente molto di-
sagevole da cantare, dire di evitarlo è più che un blando consiglio (come si è visto nel ca-
pitolo precedente, i musicisti di qualche generazione anteriore all’epoca in cui il corale
luterano comincia a diffondersi ammettevano soltanto, e piuttosto raramente, i salti di
sesta minore ascendenti).
• 3) Nella penultima battuta il tenore compie un salto di quinta diminuita. Nell’ambito di
una scrittura molto semplice come questa sarebbe meglio evitarlo.

Per procedere negli aggiustamenti necessari bisognerà ora concentrarsi semplicemente


sulle due voci interne, contralto e tenore (dal momento che le voci esterne non possono es-
sere modificate), nei passi problematici. Essendo a parti late ogni nota di una triade teori-
camente raddoppiabile — tranne una nota con funzione di sensibile (o di settima) —, non
sarà difficile fare alcune prove per ottenere una buona realizzazione. Ricordo però che una
triade può essere priva della quinta ma non della terza.
Per buona realizzazione intendo qui l’assenza di ottave e quinte reali e il minor movi-
mento possibile fra le note (il minor movimento intervallare quindi). Anche in musica vige il
principio del minore dispendio di energia per il massimo profitto. Una possibile versione
potrebbe essere la seguente:

Es. 5-16
U
& b C ˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙œ œ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙ ˙ œ œ ˙˙ ˙œ œ w
u w
U
˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙˙ ˙
? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ww
b C u
˙ ˙

Certamente delle nozioni armoniche un po’ più consistenti di quelle elencate nei punti 1),
2) e 3) sarebbero molto utili durante la fase di aggiustamento. In ogni caso, se inizialmente
non ci si volesse imbattere in problemi la cui soluzione necessiterebbe di qualche nozione
armonica in più rispetto a quelle che si apprendono normalmente in una fase preliminare di
studio, si dovrebbe porre molta attenzione a distanziare il basso dal contralto di un inter-
vallo d’ottava, o una distanza maggiore, il più frequentemente possibile.
Il semplice ma laborioso procedimento che ho appena descritto potrebbe essere riassun-
to così:

• a) Armonizzare una linea melodica a parti strette.


• b) Abbassare la voce di contralto di un’ottava se la distanza tra basso e contralto è
maggiore o uguale a un intervallo d’ottava.
• c) Quando il contralto dista dal basso un intervallo inferiore all’ottava limitarsi a tra-
scrivere (cioè semplicemente ricopiare) la nota del tenore nel rigo inferiore.
Capitolo 5 231

• d) Procedere a tutti gli aggiustamenti necessari.

Si potrebbe fare ora qualche prova con semplici melodie di propria invenzione o con al-
cuni corali luterani. Consiglio però di proseguire nella lettura se non si possiedono nozioni
di scrittura polifonica superiori a quelle esposte fino a questo punto.

5.2. Fare delle scelte

Un aspetto importante della scrittura polifonica è non tanto l’acquisizione delle semplici
regole di condotta cui ho accennato, che non necessitano in realtà di molto tempo per esse-
re assimilate, quanto invece la capacità di sapere scegliere fra più soluzioni quando possi-
bile. Semplificando molto, il problema maggiore riguarda spesso la scelta della situazione
verticale; in definitiva, la scelta dell’accordo.
Tenendo fermo il fatto che una fase cadenzale presenta esigenze analoghe sia nel lin-
guaggio rinascimentale che in quello successivo (il linguaggio tonale), e cioè che la stabilità di
una chiusa (accordo di tonica) nella stragrande maggioranza dei casi è preceduta da una
situazione dominantica, linguaggio rinascimentale e linguaggio tonale presentano però diffe-
renze sostanziali.
La tecnica tonale pone in primo piano gli accordi, quella rinascimentale le linee. In una
composizione tonale, ad esempio un corale di Bach, una sonata di Mozart o una sinfonia
di Beethoven, gli accordi svolgono sempre un ruolo, una funzione. Fatte salve le regole di
condotta lineare, come quelle relative a successioni di ottave e quinte, a un dato accordo
non ne può seguire uno qualsiasi. A seconda del tipo di accordo, della funzione da esso
svolta quindi, ci sarà una forte probabilità che l’accordo successivo (scelto tra una ristretta
rosa di candidati) abbia una funzione specifica relativa all’accordo precedente.
Di fatto la tecnica tonale fa ruotare (gravitare, come amano esprimersi alcuni) tutti i mo-
vimenti armonici intorno alle funzioni di tonica, sottodominante e dominante. Da un certo
punto di vista la musica tonale non è altro che una sequenza infinita di cadenze. Se la tec-
nica tonale non prevedesse l’impiego incessante della modulazione, che sposta continua-
mente i centri tonali (cambio di tonalità) con profondi effetti psicologici, i suoi prodotti sa-
rebbero piuttosto noiosi!
Il linguaggio rinascimentale, come ho detto, pone al centro la pura linearità melodica.
Dal momento però che a partire dalle quattro voci le situazioni verticali (che inevitabilmente
si vengono a formare) mostrano perlopiù quelli che, con termini moderni, si possono defini-
re accordi allo stato fondamentale, ci si può chiedere se esista e, in caso affermativo, quale
sia la logica di tali successioni accordali. La risposta potrebbe essere semplificata in questo
modo: è sempre il frammento melodico più rilevante (non necessariamente la voce più acu-
ta: si pensi al caso di composizioni su cantus firmus, per limitarsi a un esempio) a guidare
verso quale situazione verticale scegliere. Un’osservazione importante è che, se si esclude la
fase cadenzale, la tecnica modale del Quattro-Cinquecento ammette praticamente qualsiasi
232 L’abaco e la rosa

successione di triadi maggiori e minori (più una piccola parte di altre situazioni accordali,
come il primo rivolto della triade diminuita) a condizione che non si verifichino errori di
condotta lineare (sostanzialmente quinte e ottave reali).
Non si deve credere però che gli antichi maestri fossero del tutto indifferenti al fascino
della pura dimensione verticale. Come rivela l’analisi del repertorio, ci sono numerosi casi,
specie in ambito profano, in cui sembrerebbe proprio la dimensione verticale a dettare leg-
ge.
Se è una linea melodica a imporre le condizioni per una successione accordale, è vero an-
che che per una stessa linea ci sono diverse possibilità di «armonizzazione». In questa se-
zione cercherò di dare alcune semplici indicazioni per procedere in poco tempo in maniera
agevole.
Torniamo alle parti strette. Le tre voci superiori, nella maggioranza dei casi, presentano
tutti i suoni di una triade, cioè una triade completa. Ogni suono di una triade può rivestire
il ruolo di: fondamentale, che verrà sempre indicata con la cifra 8; mediante (cioè la terza
dell’accordo), che verrà sempre indicata con la cifra 3; quinta dell’accordo, che verrà sem-
pre indicata con la cifra 5. Se consideriamo l’accordo dal punto di vista della voce superio-
re, a seconda del fatto che questa presenti la fondamentale, la mediante o la quinta dell’ac-
cordo si avrà un accordo in posizione d’ottava (8), di terza (3) o di quinta (5):

Es. 5-17
8 3 5
ww ww
& ww w w
w

? w w w

Non bisogna confondere il concetto di posizione con quello di rivolto di un accordo. Nel-
l’esempio precedente al basso abbiamo sempre la fondamentale dell’accordo. La posizione
di un accordo non incide invece sul suo stato (l’essere rivoltato o meno).
Consideriamo ora un frammento melodico. Immaginando che tutte le sue note siano ar-
monizzabili, cioè non vengano pensate in alcuni casi come note estranee all’accordo (ad
esempio come note di passaggio), ogni nota può rappresentare ovviamente tre diverse posi-
zioni di una triade. Assegnato un ruolo alla prima nota in vista della sua armonizzazione
(cioè una una posizione) e sottoposti a essa i restanti suoni della triade, è possibile in linea
teorica scegliere fra tre accordi per la nota successiva a seconda del ruolo (uno per ogni po-
sizione della nota) che rivestirà.
Vogliamo ad esempio armonizzare un frammento composto da due note:

Es. 5-18

& w w

Assegniamo un ruolo alla prima nota, ad esempio una posizione di terza. Come ho det-
Capitolo 5 233

to, per la nota successiva ci sono tre possibilità di collegamento:

Es. 5-19

3 8 3 3 3 5

& ww ww w ww w ww
w w ww w ww w

? w w w w w
w

Nel primo caso il collegamento sembra buono. Non ci sono errori di ottave e di quinte
parallele, e in più c’è il moto contrario tra il basso e le altre parti. In realtà si sarebbe potuto
fare saltare il basso anche di una quinta ascendente:

Es. 5-20

3 8

& ww ww
w w

w
? w

Quest’ultimo caso però presenta alcuni problemi. Per prima cosa tutte le parti si muovo-
no nella stessa direzione. Si potrebbe dire che ci sia una caduta di informazione lineare, e
quindi un calo d’interesse. In secondo luogo tra basso e soprano ci sono due ottave nasco-
ste. Va detto che entrambi i problemi, di per sé non molto gravi, non presentano soluzioni
difficili. Come si vedrà più avanti, in fase di «fioritura» si possono ottenere soluzioni del
tutto dignitose.
A presentare problemi seri è il secondo caso dell’esempio 5-19. Si hanno infatti due ot-
tave reali tra basso e contralto, e due quinte reali tra basso e tenore. Questo collegamento
va quindi assolutamente evitato. Si sarà notato che questo è il caso in cui entrambe le note
della voce di soprano (e tutte le altre) rivestono uno stesso ruolo (la stessa posizione). Una
regola generale quindi è quella di evitare sempre collegamenti tra due accordi allo stato fon-
damentale in cui le voci conservino la stessa posizione. In un linguaggio che pone al centro
la varietà dell’informazione lineare, una caduta del livello informazione come quella del se-
condo collegamento veniva comprensibilmente ritenuta rovinosa.
È chiaro che se non si considera la dimensione verticale come somma di parti indipen-
denti ma come successione di blocchi sonori (gli accordi), con una funzione di puro colore,
le cose cambiano notevolmente. Ecco un passaggio tratto da un celebre e bellissimo prelu-
dio per pianoforte di Debussy, «La Cathédrale engloutie»:
234 L’abaco e la rosa

Es. 5-21
Sonore sans dureté

˙˙ ˙˙ .. œœ œœ œœ ˙˙ ˙˙
& Ó ˙˙ ˙˙ .. œœ œœ ˙˙ ˙˙
˙˙ ˙˙ œœ ˙˙ ˙˙
<
˙˙ ˙˙ .. œœ œœ œœ ˙˙ ˙˙
? Ó ˙˙ ˙˙ ˙˙ .. œœ œœ œœ ˙˙ ˙˙ ˙˙
˙˙ ˙˙
w. w. w.
√ bassa

Anche in epoca rinascimentale, del resto, i compositori apprezzavano talvolta condotte


parallele in ambito profano quando, in forme «minori» e popolareggianti come la villanella,
si voleva emulare quella che probabilmente era una prassi diffusa nella musica popolare.
Valga come esempio questo frammento di una villanella (forse della fine del Quattrocento)
di Giovanni De Antiquis:

Es. 5-22
j
n œœ œœ n œœ .. œœ n œœ œœ œœ œœ ˙œ # œ œœ
& b C # ˙˙ J
Tut - to lo mal che va fa cen - do–A - mo - re

j
&b C ˙ œ œ œ. œ œ œ œ œ ˙
œ

Situazioni come questa sono sempre state tenute ben nascoste dai vetusti trattati di ar-
monia e di contrappunto, quasi rappresentassero pericolose eresie.
Veniamo adesso al terzo caso dell’esempio 5-19. È ciò che i trattati di armonia defini-
scono come cambio di posizione. Rimane di fatto identico l’accordo (una triade di FA): cam-
bia soltanto la posizione delle voci rispetto alla fondamentale. Questo tipo di collegamen-
to, senza sostanziale cambio d’accordo dunque, non presenta generalmente alcun tipo di
problema.
Bisogna comunque prestare sempre attenzione a non collegare due accordi di cui uno
(indifferentemente il primo o il secondo) sia una triade diminuita. La triade diminuita viene
talvolta impiegata nel linguaggio rinascimentale, ma solo allo stato di primo rivolto. Colle-
gamenti come quelli del prossimo esempio vanno quindi sempre evitati:

Es. 5-23
ww ww
& www w w
ww
w

? w w
w w

I prossimi esempi esauriscono le possibilità di armonizzazione a parti strette con triadi


allo stato fondamentale di intervalli, sia ascendenti che discendenti, fino all’ampiezza di
una quinta giusta.
Iniziamo con il caso in cui tutti i suoni iniziali dell’intervallo che si vuole armonizzare
Capitolo 5 235

determinano una posizione d’ottava dell’accordo:

Es. 5-24

collegamento di due accordi in posizione 8-3; 8-5


a b c d e f g h
8 3 8 5 8 3 8 5 8 3 8 5 8 3 8 5
& w w w ww w ww w w w ww w www w w ww www ww www w w w www w www
ww w ww w ww w ww w w ww ww

w w w w w
? w w w w w w w w w w w w

i l m n o p q r
8 3 8 5 8 3 8 5 8 3 8 5
w w ww ww ww ww w w ww w ww w w w ww w ww w w w8 3 w8 5
& w w w w w ww w ww w ww w ww w ww ww ww ww
w w

? w
w w w w w w w w w w w w w w w w
w

Proseguiamo con il caso in cui tutti i suoni iniziali dell’intervallo che si vuole armonizza-
re determinano una posizione di terza dell’accordo:

Es. 5-25

collegamento di due accordi in posizione 3-5; 3-8


a b c d e f g h
3 5 3 8 3 5 3 8 3 5 3 8 3 5 3 8
& w w ww ww ww ww w w ww www ww ww w w ww www ww www w w ww www ww www
w w w w w w w w w w w

w w w w
? w
w w w w w w w w w w w w
w
i l m n o p q r
3 5 3 8 3 5 3 8 3 5 3 8
w w3 5 w3 8
& w w ww ww ww ww w w www www www ww w w ww w ww w
w ww w ww w ww ww ww ww
w
w w w w w w

?
w
w w w w w w w w w w w w
w w w w w

Ecco infine il caso in cui tutti i suoni iniziali dell’intervallo che si vuole armonizzare de-
terminano una posizione di quinta dell’accordo:
236 L’abaco e la rosa

Es. 5-26

collegamento di due accordi in posizione 5-8; 5-3


a b c d e f g h
5 8 5 3 5 8 5 3 5 8 5 3
w 5 ww8 5 ww3
& w w ww ww ww ww w w www www www www w w ww www ww www w ww w ww w
w w
w w w w w w

? ∑ w
w w w w ∑ w w w w ∑ w w w w ∑ w w w w
w
i l m n o p q r
5 8 5 3 5 8 5 3 5 8 5 3 5 8 5 3

& w w ww w ww ww w w www w www ww w w ww w ww w w w w


w ww w w ww w w w w w ww ww ww ww
w w w w w

? ∑ w w w w ∑ w w w w ∑ w w w w ∑ w w w w
w

Tutti i collegamenti di tutti e tre gli esempi sono ammissibili, anche se alcuni si rivelano
più eleganti di altri. (Come si sarà notato, gli esempi non presentano casi di collegamenti in
cui uno degli accordi sia una triade diminuita.) Talvolta il basso può scegliere due registri
differenti come nel caso dell’esempio 5-24 i) e m). Nel primo caso si prospettano due colle-
gamenti ugualmente buoni (le note del basso sono scritte entrambe in dimensione normale).
Se il basso si muove su una nota scritta in piccolo, come nel secondo caso, si prospetta al-
lora una possibilità ammissibile ma meno soddisfacente. Le parti infatti, in questo caso, si
muovono tutte nella stessa direzione senza che la voce superiore si muova di grado con-
giunto, condizione per avere un’attenuazione di questo problema. Si noterà facilmente che
altri collegamenti presentano problemi analoghi. Vale la pena ripetere che questi collega-
menti non vanno affatto scartati a priori. Bisogna essere consapevoli però che sono più
problematici, e che, in linea teorica, ci sono collegamenti migliori. Sarà poi il contesto com-
plessivo di una composizione a suggerire, di volta in volta, quale collegamento preferire. In
linea di massima, più è grande l’intervallo da «armonizzare» più si prospettano collega-
menti problematici.
Occorre tuttavia anche qualche cenno sull’eventualità di «armonizzare» un salto di sesta
e d’ottava. In questi casi, ovviamente, si deve fare sempre attenzione a non collegare due
accordi che siano nella medesima posizione (regola generale). Detto questo, il collegamento
migliore risulterà qui molto condizionato dal contesto complessivo.
Passiamo ora a qualche prova. Per prima cosa ci serve un frammento di linea melodica.
Pensiamo inizialmente a qualcosa di estremamente semplice. Realizziamone uno come
quelli della sezione 4.2. Come sempre, lasciamo che siano i dadi a tracciare il profilo della
nostra linea. Otteniamo ad esempio questa sequenza di cifre:

2, 5, 5, 2, 2, 6, 5, 4, 1, 2, 6, 2.

Immaginiamo che la linea sia in protus trasportato. Elaborando la sequenza secondo le


indicazioni del capitolo precedente, possiamo ottenere questo frammento melodico:
Capitolo 5 237

Es. 5-27
œ œ œ Œ œ œ œ œ bœ ˙
&b C ˙ œ œ œ œ œ œ œ

b˙ œ œœ˙ œ
&b œ œ ˙ œ ˙ ˙ ˙. #œ w

Ecco ora qualche indicazione di carattere generale:

• a) Nel linguaggio rinascimentale i complessi sonori dalla durata di semiminima in su


sono generalmente consonanti, tranne casi che analizzeremo più avanti. Ciò, in pratica,
significa che appartengono alle note di un accordo (una triade). Le crome che cadono
sull’inizio di una semiminima devono essere consonanti, quelle poste sulla parte debole
della semiminima possono (non è quindi loro dovere) essere estranee all’armonia (note di
passaggio, note di sfuggita, anticipazioni etc.). In linea di massima, quindi, si arriva ad
«armonizzare» le semiminime.
• b) Nel linguaggio rinascimentale non esistono problemi di sincope armonica. Nel linguaggio
tonale si ha sincope armonica quando fra un tempo debole e un tempo forte, ad esempio
a cavallo di battuta, si trovano due accordi uguali anche se in posizione diversa; inoltre
anche un cambiamento di stato non è sufficiente ad annullarla. Nel linguaggio rinasci-
mentale questo problema non esiste per l’ovvia considerazione che gli antichi maestri
non ragionavano in senso armonico. Tendenzialmente però, si evitava di porre in evi-
denza la sincope ritmica, considerata una sorta di effetto speciale, peraltro piuttosto
frequente nel repertorio profano:

Es. 5-28

& C œœœ b ˙˙˙ œœ


œ b ˙˙ ˙˙ b ˙˙˙ œœ œœ œœ œœ b ˙˙
˙ ˙ œ œ œ œ ˙

?C œ ˙ œ ˙ ˙ œ œ œ œ ˙
˙

Nell’esempio precedente la sincope ritmica è infatti presente anche nella dimensione ver-
ticale, cioè armonica. Esattamente come in una villanella di Luca Marenzio, di cui ripor-
to un frammento, in cui ciò è sfruttato per fini espressivi:

Es. 5-29

& b C # ˙˙ ˙˙ # œœ ˙˙ œœ # ˙˙ ˙˙
Al pri - mo vo - stro sguar - do

?
b C ˙ ˙ œ
˙ œ
˙ ˙

Si consideri nuovamente l’esempio 5-28. Cerchiamo ora di attenuare leggermente l’effetto


della sincope ritmica; ciò è possibile marcando il tactus con alcuni eventi sonori:
238 L’abaco e la rosa

Es. 5-30

& C œœœ b ˙œœ œœ œœœ b ˙˙ ˙˙ b ˙˙˙ œœ œœ œœ œœ b ˙˙


˙ ˙ œ œ œ œ ˙

?C œ ˙ œ ˙ ˙ œ œ œ œ ˙
˙

Nel primo caso le voci di contralto e di tenore marcano il secondo tactus della prima
battuta. Nel secondo a marcare il tactus è il basso. Questi ultimi esempi di condotta rit-
mica sono preferibili nella maggioranza dei casi, mentre quello visto in precedenza do-
vrebbe essere riservato solo quando si desidera che l’effetto della sincope ritmica sia
massimo. Inoltre si dovrebbe quasi sempre marcare il tactus in corrispondenza di pause
nella linea melodica che si intende armonizzare anticipando alcune note dell’accordo.
Questa «marcatura», in realtà, può essere realizzata in una fase successiva alla stesura
dello schizzo a parti strette, cioè quando si sarà passati alle parti late.
• c) Come ultima indicazione di carattere generale, si consideri che la fase cadenzale ne-
cessita quasi sempre dell’accordo della dominante posto immediatamente prima del-
l’accordo della finalis del modo. Nel caso ci si trovi in deuterus, le cose, come vedremo
più avanti, andranno in modo diverso.
È importantissimo tenere presente cha la fase cadenzale, tanto da costituirne la sua ci-
fra, contiene praticamente sempre una situazione di ritardo, dal momento che il ritardo
costituisce un efficacissimo strumento per creare il necessario innalzamento di tensione
nella fase conclusiva di un episodio. Una qualsiasi voce presenta cioè, rispetto alla di-
mensione verticale, una situazione dissonante consistente nel prolungamento di un suo-
no precedentemente sentito come consonante (appartenente, quindi, all’accordo prece-
dente). Il ritardo in assoluto più utilizzato è quello della terza. (Per chi volesse saperne
di più, qualsiasi manuale di armonia o contrappunto spiega diffusamente l’argomento
dei ritardi.) Valga ora il seguente esempio:

Es. 5-31
4ª 3ª

& ˙˙˙ œ˙ œ
˙
ww
w

? ˙ ˙
w

Ecco finalmente una possibile armonizzazione a parti strette (lo schizzo per una succes-
Capitolo 5 239

siva elaborazione) della linea precedentemente composta (Es. 5-27):

Es. 5-32
œœ œœ Œ œœ œœœ œœœ œœ b œœ ˙˙
& b C ˙˙ œœ œ b œœœ œ œ œœœ œœ œœ œœ œœ œ œ ˙
˙ œ œœ œ œ œ œ œ

? ˙ œ œ œ œ Œ œ œ œ
b C œ œ œ œ œ œ œ œ ˙

b ˙˙ œœ œœ œ ˙
& b œœœ œœ ˙˙ b œœœ ˙ œ œ ˙˙ œœ
œ ˙˙ ˙˙ b ˙˙˙ . ˙˙ # œ ww
œ ˙ ˙ ˙ w

? ˙ œ œ ˙ œ ˙
b œ œ œ ˙ ˙ ˙
˙ w

Alcune considerazioni:

• 1) Come si sarà notato, nell’esempio precedente ho cercato spesso di ottenere il moto


contrario tra basso e parti superiori.
• 2) Si è già apprezzato in precedenza il fatto di distanziare il basso di un’ottava o più ri-
spetto al contralto, per rendere spedita la trasformazione a parti late. Nel precedente
esempio, a parte la prima battuta, ciò avviene sempre. In realtà potevo distanziare il
basso dal contralto di almeno un’ottava anche nella prima battuta. In questo caso il
basso si sarebbe presentato subito nel registro più grave, situazione in realtà poco sod-
disfacente, anche se il precedente frammento di Marenzio (Es. 5-29) sembra immediata-
mente smentirmi: nei fatti molti esempi del repertorio rinascimentale mostrano che è pre-
feribile fare scendere il basso nel suo registro più grave in una fase successiva all’esordio
del brano.
• 3) Per quanto riguarda le sincopi ritmiche, si sarà notato che è possibile attenuarne la
portata anche cambiando accordo in corrispondenza del tactus più vicino, come nella
seconda battuta.
• 4) Per quanto riguarda gli accordi che contengono il sesto grado del modo (in questo
caso il MI bemolle) si può scegliere liberamente fra la nota naturale e quella bemollizza-
ta. Occorre però che le singole parti non si muovano in maniera stilisticamente scorretta.
Nella seconda battuta il MI del contralto doveva per forza essere bemolle perché, in
caso contrario, avrebbe compiuto subito dopo un salto di quinta diminuita, stilistica-
mente scorretto. Si ricordi comunque che la tendenza naturale del sesto grado del protus
(originale e trasportato) è quella di essere bemolle quando la linea continua scendendo, e
naturale quando la linea continua salendo. Si osservi che nella settima battuta il contral-
to poteva presentare un MI naturale, evitando così poi il salto di sesta maggiore. In que-
sto caso ci sarebbe stato però un conflitto tra il MI naturale del contralto e quello bemol-
le del soprano. Questo conflitto (tecnicamente: falsa relazione cromatica) può talvolta es-
sere efficace per fini espressivi (è in realtà piuttosto frequente nel tardo repertorio ma-
drigalistico), ma inizialmente è meglio accontentarsi della soluzione proposta (a costo di
240 L’abaco e la rosa

fare saltare il contralto di una sesta maggiore), poiché l’urto tra le due note costituisce
un effetto molto forte che andrebbe valutato in una fase successiva di sperimentazioni.
• 5) Si sarà forse notato che anche l’armonizzazione evita di fare sentire la sensibile alte-
rata del modo (FA diesis) se non nella fase cadenzale. Questa sarebbe la regola aurea
del periodo della musica rinascimentale fino ai primi anni del Cinquecento. In seguito,
soprattutto nel repertorio profano, le alterazioni possibili in ambito modale, e persino
altre estranee, vengono utilizzate sempre più con libertà.
• 6) Si noti infine che l’ultima battuta presenta di fatto un accordo privo della terza. È
questa una soluzione molto apprezzata dagli antichi maestri. Un’altra soluzione preve-
de di cadenzare su una triade maggiore (indifferentemente dal carattere del modo). Al
tempo di Josquin, si cadenzava raramente su una triade minore; in seguito invece prati-
camente mai.

Siamo ora in grado di passare agevolmente a una prima versione a parti late del prece-
dente esempio:

Es. 5-33

œ œ Œ œ œ œ œ bœ ˙
& b C ˙˙ œœ œœ b œœ œ œ œœ œ œ œ œ œ œ ˙
œ œ œ œ Œ œ œ œ

˙˙ œ œœ œ œ œ œ œ ˙
?
b C
œ œ œ œ œœ œœ œœ œ œœ
œ Œ œœ œœ œœ œ œ ˙
Œ
b˙ œ œœ˙
& b œœ œ ˙ œ ˙ œ œ ˙ œ
œ ˙ ˙ ˙. #œ w
œ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ w
œ ˙ œ œ ˙˙ œœ
? ˙˙ ˙
b œ œœ b œœ ˙ œ œ ˙
˙ ˙
b ˙˙ ˙˙ w
w

Si sarà notato che quelle che nel capitolo 4 avevo definito come regole della «buona seg-
mentazione» non sempre sono osservate nelle voci inferiori, in particolare nel basso. Si può
semplicemente affermare che questo è un prezzo da pagare alla dimensione polifonica. (Chi
ha qualche nozione di fisica sa che il secondo principio della termodinamica, quello relativo
al concetto di entropia, interviene in qualsiasi vicenda dell’universo. Volendo mettere ordi-
ne da qualche parte, il prezzo da pagare sarà disordine da qualche altra.) Può essere un
buon principio, allora, che sia la voce più acuta a rispettare il più possibile quelle regole.
Passiamo ora a una versione un po’ più elaborata del precedente esempio:
Capitolo 5 241

Es. 5-34

œ œ Œ œ œ œ œ bœ ˙
& b C ˙˙ œœ œœ œœ œ . b œ œ
œ
œ œ œ œ
œ. œ œ œ œ œ ˙
J œ œ œ œ J
˙˙ œ œœ œ œ œ ˙ œ œœ œœ œ œ ˙
? œ œœ œœ œœ œ œœ
b C œ œ. œ œ Œ œ œ ˙
J
b˙ œ œ œ
& b œœ œ ˙ œ ˙ œ œ b œ ˙œ œ . œ œ ˙ ˙ ˙ . #œ w
œ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ w
J
. j
? œ ˙˙ œ œ œ œœ œ ˙˙ œœ
j
œ. œ ˙
b œ œœ œ ˙ œ
˙ ˙
b ˙˙ ˙˙ w
w

Come di consueto, è necessaria qualche parola di commento:

• 1) Che fine ha fatto il bemolle posto prima del MI al contralto nella seconda battuta?
Dal momento che è stato necessario qualche aggiustamento per passare dalle parti stret-
te a quelle late tra la prima e la seconda battuta, il contralto, non dovendo più compiere
un salto di quinta diminuita (come nell’esempio a parti strette), può assecondare la ten-
denza del sesto grado a essere nota naturale in salita. Nella stessa battuta, scendendo,
il MI diventa invece bemolle.
• 2) Si noti che all’inizio della settima battuta ho sostituito il MI bemolle con un SOL per
evitare il salto di sesta maggiore. In questo modo si viene a creare un «accordo incom-
pleto», qui della terza, opportunità del resto apprezzata dagli antichi maestri (specie
quelli del Quattrocento).
• 3) Si osservi come nella quarta e quinta battuta ho attenuato prima l’inizio in levare (qui
con le pause) e la successiva sincope ritmica.
• 4) Questo primo esperimento polifonico fa uso di crome solo in relazione alla figura rit-
mica di semiminima puntata, allo scopo in questo caso di farcire un intervallo di terza.
Partendo dall’esempio 5-33, si cerchi di ricostruire il percorso attraverso il quale sono
giunto all’impiego delle semiminime puntate nelle linee inferiori. È molto importante con-
siderare che le crome (benché note di passaggio) non devono assolutamente generare errori
di ottave e quinte reali (soltanto ottave e quinte giuste come vedremo) con le altre voci.
Per questa ragione, come mostra il prossimo esempio, sarebbe del tutto scorretto colma-
re, ad esempio, l’intervallo di terza al contralto nella penultima battuta:

Es. 5-35

& b ˙. w
œ . œ ˙# œ w
J
5ª 5ª!

?
b b ˙˙ ˙˙ w
w

Non costituisce invece per nulla un problema (come invece talvolta nel linguaggio tonale)
242 L’abaco e la rosa

— e tanti passaggi di Josquin lo dimostrano — il fatto che la prima quinta (intesa come
nota estranea all’accordo e quindi di passaggio) sia diminuita e la seconda sia giusta,
come accade nella quarta e terz’ultima battuta del nostro frammento. Invece anche nel
linguaggio tonale non costituisce affatto un problema il caso contrario (quinta giusta se-
guita da quinta diminuita).

Es. 5-36
5ª dim. 5ª g.
Œ œ œ
& b œ. œ
œ œ œ
J

? ˙ œ œœ œ
b Œ œ

Forse i cultori della musica contrappuntistica sono rimasti fino a questo punto delusi
dalla scarsa attenzione che ho prestato alla pretesa regina della polifonia: l’imitazione. Ri-
mando il discorso sullo stile imitativo al capitolo 8 sui canoni (la forma più rigorosa e affa-
scinante di polifonia imitativa), dove gli appassionati di inseguimenti sonori troveranno
forse qualche elemento di soddisfazione. Cercherò adesso di dare qualche indicazione per
realizzare embrionalmente qualche esperimento di scrittura imitativa.
Quello dell’imitazione è uno sconfinato argomento che non può trovare certo in questa
sede una trattazione sufficiente. A chi non è completamente sprovvisto di nozioni contrap-
puntistiche basterà ricordare che, rispetto ai maestri dell’età barocca (come Bach), i musici-
sti rinascimentali trattavano l’imitazione con maggiore libertà. Semplificando moltissimo, si
può affermare che un motivo veniva perlopiù imitato all’unisono, all’ottava, alla quarta o
alla quinta, ciò soprattutto all’inizio di un brano; in seguito poteva valere la più grande li-
bertà. Un motivo da imitare, all’inizio di un brano (o di un episodio importante), iniziava
spesso con la finalis o la repercussio, dopodiché alcune voci, non necessariamente tutte, po-
tevano riproporlo a piacere agli intervalli indicati (cioè le consonanze perfette).
Torniamo all’inizio dell’esempio 5-34. Dal momento che un motivo da imitare non supe-
ra, generalmente, tre o quattro tactus, la linea del soprano della prima battuta può essere
considerata un buono spunto di imitazione. Proponiamo questo motivo in una qualsiasi li-
nea inferiore: nel prossimo esempio ho scelto il tenore. Possiamo riattaccarci subito al-
l’esempio realizzato in precedenza, o continuare il procedimento a piacere per alcune o tut-
te le voci rimanenti. Possiamo, ad esempio, decidere di fare sentire lo stesso motivo in
un’altra voce, all’unisono o a uno degli intervalli indicati (nel prossimo esempio sarà il con-
tralto). Aggiungiamo allora in corrispondenza della «seconda entrata» suoni consonanti
alla voce che aveva iniziato per prima per consentirle di andare avanti. (Meglio forse se
questi suoni, qualora siano posti alla voce momentaneamente più bassa, siano fondamen-
tali di triadi virtuali.) Siamo pronti poi, ancora una volta, a riattaccarci a quanto già realiz-
zato o proseguire ancora per una volta, dal momento che le voci sono quattro.
Capitolo 5 243

Es. 5-37

œ œ Œ œ œ œ
&b C ∑ ∑
œ œ ˙˙ œœ œœ œœ œ . b œ œœ œ œ œ œ
œ. œ œ œ
˙ J œ œ œ œ J

˙ œ œ œ ˙˙ œ œœ œ œ œ ˙ œ œœ œœ
?
b C ∑ œ ˙ ∑ œ œ œ . œ œœ œœ œœ œ œœ
œ Œ
J

œ bœ ˙ œ œ ˙ b˙ œ œ œ
&b œ œ ˙ œ œ ˙ œ ˙ œ œ b œ ˙œ œ . œœ ˙ ˙ ˙. #œ w
œ ˙ ˙ ˙ ˙ w
J
œ œ ˙ . j
? œ œ ˙˙ œ œ œ œœ œ ˙˙ œœ j
œ. œ ˙ b ˙˙
b œ œ ˙ œ œ œ ˙ œ
˙ ˙
˙˙ w
w

Si noti che, alla seconda battuta, il contralto imita alla quarta superiore. Avrebbe potu-
to, ovviamente, comportarsi in modo diverso. L’imitazione, ad esempio, poteva essere alla
quinta. In questo caso però il trattamento del sesto grado sarebbe stato abbastanza proble-
matico (perché?). Si noti poi che, per puro caso, il basso, contemporaneamente all’entrata
del soprano, propone il motivo principale nella sua forma inversa (o «a specchio»). Ecco
ora un’altra versione:

Es. 5-38

œ œ
&b C ∑ ∑ ∑
œ ˙˙ œœ œ
œ œœ œ . b œ œœ
˙ œ J
j
˙ œ œœ . œ . b œ œ œœ ˙˙ œ œœ œ œ œ
?
b C ∑ œ œ œ œ œœ œ
˙ œ œ œ œ œ . œ œœ
J J

Œ œ œ œ œ bœ ˙ œ
&b œ œ
œ
œ
œ œ œ. œ œ œ œ œ ˙ œ œ ˙
œ œ J œ ˙

˙ œ œœ œ œ œ ˙ œ
? œœ œœ œ œœ œ œ œ ˙ œœ ˙˙
b œ Œ œ

b˙ œ œ œ
&b œ ˙ œ œ b œ ˙œ œ . œ œ ˙ ˙ ˙. #œ w
œ ˙ ˙ ˙ ˙ w
J
. j
? œ œ œ œœ œ
œ ˙˙ œœ œ.
j
œ ˙ b ˙˙ ˙˙ w
b œ ˙ ˙ ˙ w

Anche un piccolo esperimento realizzato con mezzi elementari, se condotto con un po’
di concentrazione, può condurci a qualcosa che altro non è che un prodotto di livello artigia-
nale. Potremmo ritenerci ancora insoddisfatti per l’esiguità dei mezzi utilizzati. Si consideri
però che non di rado la musica rinascimentale (specie quella profana), anche se opera di
grandi maestri come Josquin o Palestrina, presenta caratteri ancora più semplificati. Uno
dei consigli forse più utili per chi vuole iniziare a fare esperimenti di composizione musicale
è quello di non cadere nella trappola della complicazione a ogni costo: altra cosa è un pen-
siero orientato alla complessità. L’apparente semplicità della musica di Mozart, per limi-
244 L’abaco e la rosa

tarsi a un vistoso esempio, cela un pensiero musicale meravigliosamente ricco, complesso


appunto.
Torniamo ora un istante al discorso sulle cadenze. Ho detto che la fase cadenzale di un
episodio o di un brano generalmente fa precedere l’accordo della nota principale del modo
(finalis) da quello della dominante (repercussio). Ho detto inoltre che nella fase cadenzale
non manca praticamente mai una situazione dissonante, sotto forma di ritardo. Per quanto
riguarda la tecnica dei ritardi, le prime generazioni di compositori rinascimentali (di fatto
ancora Josquin) preferivano farne uso soltanto in fase cadenzale. Più avanti, sia in ambito
sacro che in quello profano se ne fece un impiego più esteso.
Per quanto riguarda il deuterus le cose si pongono invece in maniera diversa. Ciò dipende
dal fatto che non si potevano utilizzare le sensibili alterate del modo (RE diesis e, per
quanta rigurada l’ambito di deuterus trasportato, anche SOL diesis, altrimenti utilizzabile
in altri contesti) così da potere ottenere ciò che oggi si definisce come accordo di dominan-
te.
La fase cadenzale del deuterus può essere schematizzata in due frequenti possibilità per
ogni forma del modo (originale e trasportato). Nel primo caso si fa uso soltanto di triadi
allo stato fondamentale, nel secondo entrano per un istante in scena triadi allo stato di pri-
mo rivolto. Questa seconda soluzione è forse un po’ più frequente e apprezzata. Ho detto
che la situazione cadenzale più tipica del deuterus è quella in cui la finalis è preceduta dalla
sensibile naturale (si confronti, su questo punto il capitolo precedente). Si consideri il pros-
simo esempio condotto a parti strette:

Es. 5-39

w w w w w w w
www ww ww # ww b ww ww ww ww w ww ww ww
& w w w w ww ww ww # ww www ww www ww
ww ww ww # ww w #w w w w # w ww w w # w
w w w w w w
? w w w w w w w w w w w w w w
b w w
w w

Come si sarà notato, l’accordo della finalis è dato qui con la terza maggiore (la «terza
piccarda») ed è sempre preceduto dall’accordo del quarto grado. Questa situazione (IV-I)
prende il nome di cadenza plagale. A sua volta il penultimo accordo è preceduto in tutti i
casi già dalla triade della finalis. Inoltre, si sarà notato che questo tipo di cadenza non ren-
de necessario l’impiego di ritardi.
Immaginiamo ora di volere elaborare a quattro voci un breve frammento in deuterus tra-
sportato:

Es. 5-40

˙ ˙ œ œ ˙ œ
&b C w ˙ œ œ œ œ œœ

˙ ˙ œœœ ˙ ˙ œ œ ˙
&b Œ œ ˙ œ w w
Capitolo 5 245

Notiamo che l’ultima nota della linea eccede il consueto spazio di una battuta. Ciò di-
pende dal fatto che la cadenza plagale, preceduta dall’accordo della finalis, occupa talvol-
ta lo spazio di due battute.
Realizziamo ora un primo schizzo a parti strette:

Es. 5-41
˙˙ ˙˙ œœ œœ ˙ œ ˙˙ ˙˙
& b C www ˙ ˙ œ œ ˙˙ ˙˙ œœ œœ œœ œœœ œœœ œ œœ ˙ ˙
˙ œ œ œ

? œ ˙ œ
b C w ˙ ˙ œ ˙ œ œ œ ˙ ˙ ˙

œœ œœ œœ ˙˙ ˙˙ œœ œœ ˙
&b Œ œ œ œ ˙ ˙ œ œ ˙ œœ ˙˙ œœœ w˙ ˙˙ w
˙ œ ˙ ˙ # ww

? œ œ œ ˙ ˙ œ œ ˙ ˙ œ ˙ w
b Œ œ ˙

Passiamo subito a una versione definitiva a parti late:

Es. 5-42
˙ ˙ œ œ ˙ œ ˙ ˙
& b C ww ˙ ˙ ˙ ˙ œ œ œ œœ œœ œ œ w
˙ ˙ œ œ œ

w ˙ ˙ œ œœ ˙˙ œ ˙ ˙˙
? ˙œ . œ œœ œ œœ œœ œ
b C w œ. œ ˙ œ J œ ˙ ˙
J
Œ œ œ œ ˙ ˙ œ œ ˙
&b ˙ œ œ ˙ ˙ œ œ œ ˙
œ ˙ œœ w˙ ˙ ww
Œ œ
˙ œ œ ˙˙ œ œ œ˙ œ ˙
? ˙ ˙œ . œ œœ œœ Œ˙ œ œ œ˙ œ # ww
b œ œ J œ ˙

Qualche commento:

• 1) Nella prima battuta ho preferito sostituire il FA del tenore con un LA. Così come un
episodio o un brano possono terminare su un accordo privo della terza, è possibile che
ciò avvenga anche all’inizio, come del resto è sempre possibile utilizzare triadi (virtuali)
prive della terza anche nel corso di un brano. Un inizio come quello dell’esempio prece-
dente ha il sapore inconfondibile di tanta musica rinascimentale.
• 2) Alla sesta battuta si noti come ho modificato la parte del basso, rispetto allo schizzo
a parti strette. Se, in linea di massima, è infatti possibile un salto inusuale come quello
di settima dopo una pausa, senza quest’ultima risulta una condotta melodica scorretta.
• 3) Nella penultima battuta ho inserito un ritardo. Se ciò, come ho detto, non è stretta-
mente necessario nell’ambito di una una cadenza plagale, nulla impedisce però di farne
uso.
246 L’abaco e la rosa

• 4) Per quanto riguarda note di passaggio, legature di valore e altre trasformazioni ri-
spetto allo schizzo iniziale, si cerchi di ricostruirne una possibile logica. Ci si renderà
conto che le scelte compiute non erano affatto le uniche possibili. Si provi magari a ipo-
tizzarne di migliori.

Ecco poi lo stesso frammento in una versione in cui ho aggiunto un inizio con alcune imi-
tazioni:

Es. 5-43
˙ ˙ œ œ ˙ œ
&b C ∑ ∑ ∑ Ó ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ œ œ œ œœ œœ œ œ
w ˙ ˙ œ. œ ˙ w ˙ œ œ œ
J
? ˙ ˙ w ˙ ˙ œ œœ ˙˙ ˙ œœ œ œ œ œ œ
b C ∑ w w œ. œ ˙ œ œ. œ œ œ œ ˙
∑ ∑ J J

˙ ˙ Œ œ œ œ
&b w ˙ œ œ ˙˙ ˙
˙
œ œ ˙
œ œ œ ˙ œœ w˙ ˙ ww
Œ œ œ ˙
˙ ˙ œ œ ˙˙ œ
? ˙˙ ˙ ˙˙ œœ œœ ˙Œ œ œ œ˙ œœ œ˙ œ ˙ # ww
b ˙ œ œ œ ˙

Si sarà notato che le imitazioni riguardano soltanto le tre voci superiori. Inoltre, per rav-
vivare il tessuto sonoro, ho preferito accorciare la prima nota del soprano della metà del
suo valore. In ambito rinascimentale la tecnica imitativa è infatti sempre libera e fantasiosa.
Più avanti, in epoca barocca, se non nelle mani di musicisti di genio come Bach, si assisterà
sempre più a un suo irrigidimento.
Non ritengo che siano necessariamente migliori gli esempi con imitazioni iniziali. Mi sem-
bra però in qualche modo affascinante e paradossale la possibilità di comporre parte di un
brano a ritroso. L’ascolto della musica va necessariamente nella direzione irreversibile del
tempo. La composizione musicale può invece fare affidamento alla logica spaziale del sup-
porto cartaceo su cui si sviluppa, che può andare in più direzioni!
Per terminare questa sezione, propongo ora la stesura di un breve, ma completo, brano a
quattro parti. Per quanto riguarda la sua forma torniamo un istante al semplice schema di
ballade (AAB), visto nel capitolo precedente. Non poca musica polifonica profana, come
alcuni canti carnascialeschi di ambiente fiorentino o alcune villanelle, adotta questo schema
improntato a una grande economia di mezzi, ma con una variante. Giunti alla fine della ri-
petizione della sezione B, viene aggiunto un episodio in tempo ternario (il richiamo alla
danza è d’obbligo), che possiamo oggi ricondurre a un semplice 3/4, dopodiché viene an-
cora aggiunto un breve episodio conclusivo in tempo binario. Si possono pensare queste
battute in 3/4 della durata effettiva di mezza battuta del tempo binario (minima puntata
uguale a precedente minima). L’effetto è sempre molto bello.
Per un simile brano bisognerebbe quindi realizzare quattro distinti episodi: A(A)BC (in
3/4) D. Un versione semplificata di questo schema necessita invece di tre soli episodi. Il
suo schema è infatti: ABC (in 3/4) B. Per il nostro brano impiegheremo quest’ultima forma.
Capitolo 5 247

Immaginiamo che il brano sia in tritus, e lanciamo i dadi. Saranno necessarie una decina
di cifre circa per ogni episodio:

A: 5, 1, 3, 3, 1, 4, 2, 3, 2, 5
B: 1, 1, 6, 4, 1, 6, 1, 3, 2, 1
C: 3, 6, 2, 5, 2, 1, 4, 2, 5, 3

Il prossimo esempio mostra, nella voce superiore, una possibile realizzazione di ogni li-
nea melodica, cui ho sottoposto uno schizzo di armonizzazione a parti strette:

Es. 5-44

A B
.
& b C ˙˙˙ œœ œœ œœœ ˙ œœœ œœœ œœ ˙˙ ˙˙ ˙˙˙ œ˙ n œ ˙˙
˙˙ .. œœ œœ ˙˙ œœœ ˙˙˙ .. œœ
œ
œ œ ˙˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙. œ œ ˙

? ˙ œ ˙ œ œ œ ˙ ˙ ˙. œ
b C œ œ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙ œ ˙.

œ j
& b ˙˙˙ ˙˙ Œ ˙˙ œœœ œœœ œ œœ œœœ œœœ œœœ œ˙ . œ œœ œ œ œœ œ œ ˙ 3
4
˙ ˙ œ œœ œ œ œœ œœ œ ˙ œ ww
˙ œ œ ˙ w
œ œ œ ˙
? ˙ Œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ 3
b ˙ œ œ œ ˙ w 4
C
3 œ j
& b 4 œœ œœ œœ œ˙˙ . œ œœœ œœ œœœ œœœ œœ ˙˙ œ œ
œœ œœœ œœœ œœ œœ œœœ œœœ ˙˙˙ ˙œ ˙ œ ˙˙ .
œ œ œ œ ˙ œ œ ˙ ˙ ..

3 œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ œ œ œ œ
?
b 4 œ œ œ œ œ ˙
œ ˙ ˙.

È importante notare che la posizione degli accordi tra la fine di un episodio e l’inizio di
un altro deve necessariamente essere diversa. In vista del montaggio conclusivo la posizio-
ne dell’accordo con cui inizia l’episodio B deve essere diversa da quella con cui termina
l’episodio C.
Come ho già detto, non si può pretendere che le voci inferiori osservino sempre le regole
della «buona segmentazione». In particolare, il basso si trova quasi sempre nella condizio-
ne di dovere compiere continuamente salti.
Se una «buona segmentazione» non sempre è possibile (in definitiva rimane un obiettivo
ideale), si può comunque fare spesso qualcosa per migliorarla. Cosa importante è fare in
modo che le voci sottoposte a quella più acuta non presentino «segmenti» composti da due
quarte o quinte sovrapposte. Si tenga comunque conto che nell’ambito di «segmenti» com-
248 L’abaco e la rosa

posti da tre note non si dovrebbe superare l’intervallo di settima, fatto salvo il caso in cui
due o tre note contigue formino un «segmento» dell’ampiezza di un’ottava. Il problema ri-
guarda, per fortuna, quasi sempre la voce più grave: nei fatti è raro che si verifichi nelle al-
tre voci. Così, nella terza battuta del precedente esempio il basso non avrebbe dovuto pre-
sentarsi in questa forma:

Es. 5-45
5ª 5ª!
? ˙ œ œ
b œ ˙
œ

Va da sé che quest’ultimo problema relativo alla successione orizzontale, melodica, di


quinte non è per nulla assimilabile a quello della dimensione verticale, armonica.
In definitiva, le possibilità e le limitazioni della linea melodica della voce più grave pos-
sono e devono essere un ulteriore elemento per orientarsi nella scelta di un’armonizzazione.
L’esempio 5-46 mostra una possibile elaborazione finale della precedente linea. L’esem-
pio riporta l’elaborazione sul tipico sistema di quattro pentagrammi in uso nella musica co-
rale. Si noti che la voce di tenore è scritta, secondo la consuetudine moderna, in chiave di
SOL «ottavata». Come ho già detto, ciò significa che i suoni reali della linea risultano
un’ottava sotto rispetto a quanto scritto. Con un minimo di pratica ci si abitua in fretta
alla disposizione «in partitura» del materiale. In questo modo sarà più semplice e più sti-
molante (oltre che formalmente corretta) l’elaborazione delle idee musicali. Alla partitura
relativa all’elaborazione delle quattro voci ho aggiunto, per comodità, il precedente schizzo
a parti strette; sarà così più semplice ricostruire l’elaborazione definitiva del brano.
Si noterà che nei riquadri l’elaborazione si discosta non poco da quella che sarebbe stata
una prevedibile vicenda evolutiva a partire dal mero trasporto della parte di contralto
un’ottava sotto: quest’ultimo non si sarebbe potuto praticare? Certo che sì. Nel caso del
primo riquadro si sarebbero prodotte soltanto delle ottave nascoste facilmente accettabili.
Nel caso del secondo riquadro il discostarsi in modo consistente dallo schizzo permette
una vivacità maggiore nell’articolazione della voce di tenore.
Il fatto è che quando si è disposto il materiale in partitura diventa sempre più facile ve-
dere possibili varianti rispetto a una disposizione del materiale nello schizzo a parti strette.
Si tenga sempre presente che, in linea teorica, ogni suono dell’accordo è raddoppiabile, a
esclusione della sensibile. È inoltre possibile per brevi tratti l’incrocio delle voci, anche se
molto raro quando viene coinvolta la parte più bassa.
Una volta superato l’iniziale disagio relativo al vedere disposto il materiale su più pen-
tagrammi, si apprezzerà invece l’opportunità di avere più spazio. Quello stesso spazio che
sembra suggerire diverse varianti. Più avanti non ci si accorgerà quasi che lo schizzo a parti
strette verrà sempre più intaccato da elaborazioni consistenti ed efficaci. Il solo consiglio è
quello di non perdere di vista l’unica regola forte: quella di evitare ottave e quinte reali, che
degraderebbero la qualità del nostro prodotto musicale, il quale non avrà certo la pretesa
di essere considerato un capolavoro, volendo semplicemente essere un’accettabile espres-
sione di artigianato.
Capitolo 5 249

Es. 5-46
&b C ˙ œ œ œ ˙ œ œœœ ˙ ˙ ˙ œ nœ ˙
˙. œ œ ˙ œ

&b C j Œ
œ œ œœœ œ ˙ œ œ œ ˙ œ. œ ˙ ˙ ˙
˙ œ œ ˙ œ

j j Œ œ. j
Vb C ˙ œ. œ œ ˙ œ œ œ ˙ œ. œ ˙ ˙ ˙ œœ œ ˙ œ

? ˙ œ œ ˙ j
b C œ œ œ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ œ œ. œ œ œ ˙ œ

& b C ˙˙˙ œœ œœ œœ œœ
œœœ ˙˙ ˙˙˙
˙˙ œ˙ n œ ˙˙ œœ ˙˙ œœ
œœœ œ œ ˙˙
˙ œ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙˙˙ .. œœœ œ ˙ œ
.
? ˙ ˙ œ œ ˙ ˙ ˙.
b C œ œ œ œ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙ œ

˙. œ Œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ 3
&b ˙ ˙ J œ œ œ œ œ ˙ œ w 4

j 3
&b ˙ œ. œ ˙ ˙
Œ
œ œ œ œœœ œ œ œ ˙ œ 4
œ œ œ œ œ œ ˙ w

Vb œ ˙ œ j
œ. œ ˙ Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ . œj œ Œ 3
4
œ œ œ œ œ ˙ w

? œ j œ œ œ œ ˙ œ œ œ 3
b ˙. œ. œ œ œ ˙. œ œ œ
œ œ
œ
˙
w 4

˙˙ .. œœ œœ œ œœœ œœœ œœ œœ œ˙ . j 3
& b œœœ ˙˙ Œ ˙˙ œ ˙ œ œœ œ
˙. ˙ ˙˙˙ ˙ œ œ œ œ œœœ œœœ œœ œœœ œœœ ˙œ ˙ œ
œ ˙
ww
w
4

? œ ˙ Œ ˙ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ
œ ˙ 3
b ˙. ˙ œ œ œ œ w 4

3 œ œ. œ œ œ œ j
&b 4 œ œ œ œ
J œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ. œ

3
&b 4 œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ ˙ œ ˙

3 j œ ˙ œ œ
Vb 4 œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙
˙ œ œ œ œ œ
? 3 œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ
b 4 œ œ ˙

3 œœ j
& b 4 œœ œœ ˙œ˙ . œ œœ œœœ œœœ ˙˙ œœ œœœ œœœ œœ œœ ˙˙
œ œ œ œ œœœ œœœ ˙ œœ
œ œ œœœ œ œ ˙

˙ œ œ œ œ œ
? 3 œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ
b 4 œ œ ˙
250 L’abaco e la rosa

œ ˙. œ
&b ˙ œ ˙. C ˙. œ œ ˙ ˙ ˙

&b œ C Œ j
œ ˙ œ ˙ œ. œ ˙ ˙
˙ ˙. ˙ œ

Vb œ C Œ j ˙ œ œ ˙ œ j
˙ ˙. œ. œ œ œ œ. œ ˙

? j œ j
b œ ˙ C œ œ. œ œ œ œ ˙. œ. œ œ œ
˙. ˙

œœ ˙˙ .. œœ
& b ˙œ œ ˙˙ . C ˙˙ .. œœ œœ ˙˙˙ œ ˙. œ ˙˙˙ ˙˙
œ ˙˙ ˙ .. ˙. œ œ ˙

? ˙ C ˙. œ œ ˙
b œ ˙. œ œ ˙ ˙. ˙

˙ œ œ œ œ œ œ œ œ.
&b Œ œ œ
J œ œ œ œ œ ˙ œ w

&b Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙ w
œ œ œ j
Vb Œ œ œ œ œ œ œ. œ œ Œ
œ œ œ œ œ ˙ w
? œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ
b ˙. œ œ œ œ
œ
˙
w

œœ œ œœœ j
& b Œ ˙˙ œœ œœœ œœ œœ œ˙ . œ œœ
˙ œ œ œ œ ˙ œ œœ œœ œœœ œœ œœ
œ ˙œ ˙˙ œ ww
œ œ œ œ w

? œ œ œ œ ˙ œ
b Œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙
œ œ w

5.3. Post scriptum

Una volta che si siano metabolizzati gli elementi basilari per la composizione a più voci
descritti sommariamente nelle precedenti sezioni, è possibile prendere in considerazione
opzioni un po’ più raffinate e complesse.
Ad esempio, ho precedentemente parlato dei famigerati divieti di condotta polifonica
relativi alle ottave e quinte parallele. Se quella delle ottave e quinte reali è una regola forte,
più elastico risulta invece essere il trattamento delle ottave e quinte nascoste.
Nell’ambito delle ottave e delle quinte nascoste si presenta però un caso piuttosto pro-
blematico che andrebbe in linea di massima evitato, pur non costituendo un reato come ot-
tave e quinte reali. Si tratta di quelle che alcuni teorici definiscono come ottave e quinte diret-
te. Si consideri il caso seguente:
Capitolo 5 251

Es. 5- 47
˙ ˙
& ˙˙ ˙ ˙
˙ ˙

Qui gli intervalli di ottava e di quinta sono raggiunti per moto retto con un salto di en-
trambe le parti (altra cosa sarebbe il raggiungimento per moto contrario, che sostanzial-
mente annullerebbe il problema), e non con un movimento per grado congiuto di una delle
due, preferibilmente quella superiore, condizione quest’ultima per renderle accettabili senza
grandi questioni. Le ottave e le quinte nascoste «dirette» sono più problematiche perché
pongono consistenti problemi d’intonazione. Ovviamente, anche per i casi di ottave e di
quinte dirette i problemi maggiori si pongono più per l’intervallo d’ottava, e tra parti estre-
me, che per quello di quinta, che gode di un numero maggiore di salvacondotti (le famose
«licenze» dei trattati scolastici).
Un altro ambito in cui potremmo agire con maggiore eleganza è poi ancora quello della
costruzione melodica. Nel capitolo precedente ho accennato all’impiego delle pause, che
devono sempre iniziare sul tactus. Se non si vuole ottenere una linea piuttosto singhiozzante
andrebbe sempre presa in considerazione l’opportunità che l’ultimo suono prima di una
pausa sia della durata di una minima o più.
Il trattamento della fase conclusiva di un frammento melodico intermedio di una com-
posizione polifonica è in realtà una cosa piuttosto delicata, paradossalmente più delle an-
nose questioni legate a ottave e quinte nascoste, la cui presenza non intacca in fondo molto
l’inconfondibile sound rinascimentale di un brano composto secondo le indicazioni propo-
ste fin qui.
L’opportunità di fare precedere una pausa da una nota bianca è molto consistente quan-
do si mette in musica un testo. In questo caso l’effetto singhiozzo può manifestarsi infatti con
maggiore evidenza.
Nell’ambito di una composizione a carattere sacro è molto frequente che un frammento
melodico termini con una nota bianca. Ovviamente si trovano casi, non rari anche in autori
classicissimi come Palestrina, in cui una pausa è preceduta da una semiminima (non cono-
sco casi, invece, di pause precedute da crome). Le cose si pongono in maniera leggermente
diversa per il repertorio profano. Qui è sicuramente più frequente trovare frammenti melo-
dici intermedi (per quelli conclusivi il problema ovviamente non si pone, perché terminano
sempre con una nota bianca di lunga durata) che finiscono con una semiminima. Ciò dipen-
de soprattutto da esigenze relative all’elaborazione musicale di testi in lingua volgare, come
l’italiano, che presentano una mole di parole piane. È vero che anche il latino è prevalente-
mente una lingua piana, ma il trattamento del testo nella musica sacra prevede l’elabora-
zione di poche parole per volta, cosa che consente di realizzare facilmente delle chiuse con
suoni lunghi. La musica profana richiede invece una maggiore densità narrativa, cosicché,
mediamente, una linea melodica che nel repertorio sacro sarebbe stata rivestita da poche
parole, nel repertorio profano si trova a esserne rivestita da un numero maggiore. Nell’am-
bito della musica profana è quindi giocoforza trovarsi nella necessità di fare terminare più
frequentemente una linea intermedia con note nere.
252 L’abaco e la rosa

Le precedenti considerazioni potrebbero essere considerate un po’ pedanti in un testo


che vuole proporre soltanto alcuni elementi della composizione polifonica rinascimentale e,
per di più, da una prospettiva affatto particolare. Si consideri però che a partire dalle
quattro-cinque voci realizzare linee intermedie che finiscano pressoché sempre con una nota
lunga (una nota bianca) può presentare alcune difficoltà di non poco conto.
Diversi testi che trattano della composizione polifonica rinascimentale, compreso quello
eccellente di De la Motte, stranamente non danno molto risalto alla questione. D’altra par-
te, anche i manuali che arrivano a considerare il trattamento del testo nell’ambito della po-
lifonia rinascimentale inizialmente propongono esercizi privi di testo. Come ho accennato,
le parole possono guidare agevolmente nella chiusa dei frammenti melodici. Privi di un te-
sto, occorre invece fare delle scelte arbitrarie. Si potrebbe considerare la necessità di una
nota bianca alla fine di un frammento melodico come una regola, dal momento che è piutto-
sto frequente, ma questa regola nella prassi rinascimentale in realtà non esiste.
Per quanto riguarda questo libro, avendo affermato di essere maggiormente interessato a
una prassi compositiva orientata al repertorio profano, nei miei esperimenti ho accettato di
buon grado che una linea melodica intermedia possa terminare con delle note nere
(semiminime) quando, per qualsiasi motivo, se ne presenti la necessità o l’opportunità, te-
nendo ovviamente conto della maggiore ricorrenza di suoni lunghi. Avrei probabilmente po-
tuto realizzare un maggior numero di chiuse con note bianche, cercando di attenermi a cor-
retti criteri statistici della musica rinascimentale. Dal momento però che il trattamento delle
chiuse con suoni lunghi non si lascia facilmente imbrigliare in semplici e immediati algoritmi
compositivi, in questo modo avrei forse deviato i miei sforzi in un’attività (altrove sacro-
santa) di aggiustamenti empirici rispetto all’interesse principale per semplici procedure
compositive. In realtà, se si vogliono ottenere a colpo sicuro chiuse di frammenti intermedi
con suoni di lunga durata (dalla minima in su) — ad esempio se si vuole comporre brani
improntati allo stile sacro — occorre procedere con lo sguardo rivolto lontano. Una proce-
dura potrebbe essere la seguente.
Si compone inizialmente una linea melodica in cui gli ultimi due suoni siano note bianche.
A questo punto si armonizza la linea avendo cura che gli ultimi due suoni non siano armo-
nizzati da più di due accordi. In questa maniera una qualsiasi delle voci in gioco può offrire
la possibilità di ripartire in levare frammentando l’ultima nota bianca in una pausa e in una
nota di breve durata (ad esempio pausa di semiminima seguita da nota in levare dello
stesso valore). È ovvio allora che la voce in questione mostrerebbe una chiusa con una nota
bianca (la prima delle due note bianche precedentemente armonizzate). Le altre voci avreb-
bero la possibilità di effettuare la stessa cosa; oppure, se si collegassero senza soluzione di
continuità a nuovi frammenti, potrebbero scegliere di conservare i valori lunghi, o articolare
i suoni lunghi in durate più brevi. Premetto che questa procedura rischia di diventare meno
agevole (per motivi che saranno chiari a partire dal capitolo 7) quando si passa a un nume-
ro di voci superiore a quattro.
Come di consueto, queste ultime indicazioni non vogliono affatto essere prese per regole
tassative, né, cosa peggiore, questa digressione sulle chiuse intermedie deve paralizzare nel
momento in cui si torni a effettuare esperimenti sulla musica polifonica. Ogni volta che ci
Capitolo 5 253

accingiamo a realizzare anche il più semplice esperimento compositivo è impossibile elude-


re domande circa le finalità del nostro fare. Come ho già detto, il mio interesse per la musi-
ca rinascimentale si lega in questo libro prevalentemente ad alcune considerazioni
(arbitrarie quanto si vuole) di procedura compositiva, cui la grammatica rinascimentale
sembra prestarsi a innumerevoli esperimenti. In questo senso la procedura in sé mi interessa
francamente più di sottili considerazioni stilistiche e del raggiungimento di imitazioni (falsi
d’autore) pressoché perfette. Mi bastano infatti requisiti minimi di artigianato per portare
avanti i miei interessi sulla procedura.
Non dimentichiamo mai, però, che al di là dei requisiti minimi di un sistema o di un co-
dice grammaticale non si possono identificare in modo assoluto «errori» come in una pro-
cedura giuridica o ludica (penso ad esempio a una mossa inaccettabile negli scacchi, come
muovere una torre in diagonale). La bellezza di un brano musicale è sempre il risultato di
codici grammaticali e stilistici interpretati con elasticità, in definitiva con fantasia; que-
st’ultima la protagonista irrinunciabile e assoluta di ogni fare artistico.
6. Aprire una piccola e onesta bottega

6.1. Non temere gli estranei

Nel capitolo precedente ho parlato di ciò che potrebbe costituire una base per una scrittura
polifonica orientata al linguaggio rinascimentale. Resta da vedere come affrontare situazio-
ni in cui si vogliano elaborare linee più articolate.
In questa sezione affronteremo la presenza di note dissonanti rispetto al contesto verti-
cale, altrimenti dette «note estranee» all’armonia.
Saremo così in possesso della maggior parte degli elementi necessari per comporre brani
polifonici a quattro voci. Con l’aggiunta di alcune indicazioni per l’elaborazione di brani
basati su cantus firmus e alcuni suggerimenti riguardanti la forma, si sarà in grado di mani-
polare embrionalmente gli elementi utilizzati da un artigiano musicale del periodo a cavallo
fra Quattro e Cinquecento, dove la scrittura musicale sembra in equilibrio tra lo sperimen-
talismo della prima generazione dei musicisti quattrocenteschi e lo sperimentalismo del
Cinquecento inoltrato, in particolare in ambito profano con la splendida fioritura della sta-
gione del madrigale. Fra Quattro e Cinquecento il tipo di composizione standard era infatti
a quattro voci, come quella vista fin qui.
Consideriamo per prima cosa la possibilità di elaborare polifonicamente i seguenti fram-
menti melodici:

Es. 6-1

& C ˙. œ ˙ ˙ ˙. œ ˙ ˙

Come si è visto nel capitolo precedente, ogni nota potrebbe essere armonizzata con una
diversa triade. Lo stile rinascimentale ammette però anche un’altra possibilità. Se, come nel
caso precedente, una nota della durata di una semiminima, posta sulla parte debole del
tactus, colma un intervallo di terza ed è preceduta da una nota di durata almeno doppia
(minima o più), può essere considerata estranea al contesto verticale. In questo caso la nota
diventa di passaggio, esattamente come nel caso della figura di semiminima puntata seguita
da croma, visto nel capitolo precedente. Si potrebbe immaginare questa elaborazione:
256 L’abaco e la rosa

Es. 6-2

& C ww˙ . œ ˙˙ ˙˙ w˙w . œ ˙˙˙ ˙˙


˙
˙ ˙

?C w ˙ ˙ w ˙ ˙

Da quanto detto, è del tutto ammissibile anche un simile passaggio:

Es. 6-3
œ
& C œœ ˙œœ ˙˙ œ ˙˙˙ ˙˙ ˙ œ ˙˙˙ ˙˙
˙ œœœ œœ ˙˙ ˙

?C œ œ ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙
œ ˙

(Non dirò mai abbastanza quanto le note estranee al contesto armonico sembrino avere
una natura dispettosa e amino divertirsi a fare commettere errori di quinte e ottave paralle-
le.)
Come si ricorderà, anche un gruppo isolato di due crome è preceduto di solito da una
nota della durata di minima o più. Questi gruppi sono generalmente discendenti (cfr. Es. 4-
64). In questi casi la prima nota del gruppo di due crome può essere considerata estranea
al contesto verticale; per la seconda nota del gruppo non c’è invece alcun problema: come
vedremo, le note pari di un gruppo di crome (quindi la seconda, la quarta etc.) sono spesso
estranee al contesto verticale:

Es. 6-4

˙. œœ ˙ ˙w . œ œ ˙˙ ˙w . œ œ ˙˙
& b C ww ˙˙ w ˙ w ˙

? ˙ ˙
b C w w w ˙

L’ultimo dei tre casi è meno frequente. L’ultima croma è, di fatto, una nota di sfuggita.
Quest’ultima possibilità è presa non di rado in considerazione dai compositori del Quat-
trocento; tende invece a scomparire nel secolo successivo.
Per quanto riguarda le semiminime puntate seguite da croma, si è già visto nel capitolo
precedente un possibile modello di armonizzazione, quando la croma colma un intervallo
di terza. Nel caso si tratti di terza discendente, è sempre possibile considerare il punto del-
Capitolo 6 257

la semiminima come ritardo. Si hanno quindi due possibilità:

Es. 6-5
a) b) c)
j j
œ. œ ˙˙ œœ . œ œ ˙ œœ œœ œ ˙
& b ˙˙ ˙ œ œ ˙˙ œ œ ˙˙

? ˙ œ ˙ œ ˙
b ˙ œ œ

Il caso a) è quello già considerato nel capitolo precedente. Il caso b) è quello del punto
della semiminima considerato come ritardo. Scrivendo il passaggio come in c) la visualiz-
zazione del ritardo è del tutto evidente.
Restano da vedere possibili modelli di armonizzazione per le semiminime seguite da
crome che di fatto sono note di sfuggita o anticipazioni (cfr. Es. 4-63). Ho detto in preceden-
za che la singola croma di solito non viene armonizzata: ciò appesantirebbe notevolmente il
tessuto musicale. Anche in questi ultimi casi le crome verranno allora considerate come note
estranee al contesto armonico:

Es. 6-6
nota «di sfuggita» anticipazione
j j
œ. œœ œ œ˙ . œ ˙˙
& b ˙˙ œœ œœ ˙˙
˙ ˙ ˙

? œ ˙
b ˙ œ ˙ ˙

Nulla ci vieta poi di considerare il punto di valore, che precede la croma data come an-
ticipazione alla stregua di un ritardo, esattamente come nei casi b) e c) dell’esempio 6-5:

Es. 6-7
j
œ. œœ œ ˙˙˙
& b œœ

? œ ˙
b œ

Veniamo infine al trattamento dei gruppi di quattro crome. Consideriamo inizialmente i


seguenti gruppi (quelli in cui tutte le note si presentano per grado congiunto):

Es. 6-8
œ œ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ œ

Qui la seconda e la quarta nota di ogni gruppo possono essere estranee al contesto verti-
cale (di fatto lo sono quasi sempre). Le crome possono essere armonizzate o con un solo
258 L’abaco e la rosa

accordo, e in questo caso bisogna fare attenzione che la terza nota appartenga al contesto
accordale, o con due accordi (uno ogni semiminima). Sono quindi possibili armonizzazioni
come le seguenti:

Es. 6-9

œ˙ ˙
œœ œ œœœ œ ˙˙
˙
œœ œ œœœ œ ˙˙
& œ˙ œ œ ˙˙ œ
œœ œ œœ œ ˙ œœ
œ œ œ œ ˙˙ œœ œ œœ œ ˙˙˙
˙ œ œ œ ˙˙ œœ ˙ œ œ

? w w
œ
œ ˙
œ œ ˙
œ œ ˙ œ œ ˙

Si noti, in particolare, che nell’ultimo caso la quarta croma rimane estranea al contesto
verticale anche se la linea non procede per grado congiunto. Anche quest’ultima condotta,
non frequentissima, è riferibile soprattutto ai maestri del Quattrocento.
Rimane da vedere il trattamento dei gruppi di crome che contengono un salto:

Es. 6-10

& œ œ œ œ œ œ œ œ

In questi casi, essendo stilisticamente scorretto armonizzare con due accordi due crome
contigue, è necessario che le ultime due note di ogni gruppo siano consonanti, appartengano
cioè allo stesso accordo. Ecco alcune possibili realizzazioni:

Es. 6-11

& œœ œ œœœ œ ˙˙˙ œœ œ œœœ œ ˙˙


˙
˙˙œ œ œ œ ˙˙˙ œœœ œ œœœ œ ˙˙
˙
œ œ

? ˙ ˙ œ œ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙

Con queste semplici integrazioni si dispone in pratica della tavolozza necessaria per
realizzare una scrittura polifonica di tutto rispetto. Aggiungendo pochi altri utili elementi si
potrà subito procedere con soddisfazione alla realizzazione di qualche ulteriore esperimento
che, nei casi migliori, potrebbe passare per un discreto prodotto di artigianato musicale
dell’epoca rinascimentale.
Per prima cosa si potrà prendere ora in considerazione un moderato utilizzo del primo
Capitolo 6 259

rivolto della triade diminuita. Ecco qualche possibile impiego di tale accordo:

Es. 6-12

˙ ˙˙ ˙˙ ˙w ww
& b ˙˙ ˙ ˙˙˙ ˙ w
˙
w n

? ˙ ˙ ˙ ˙ w
b w n

˙ b ˙˙˙ ˙˙
& ˙˙ #˙˙˙
˙ ww˙ #˙ w
# ww

? ˙ ˙ ˙ ˙ w
w

Nei nostri esperimenti (sulla falsariga del precedente esempio) si potrà fare uso della
triade diminuita — e soltanto allo stato di primo rivolto — quando la nota più bassa del
contesto verticale raggiunga per grado congiunto la finalis. (Di fatto, come formalizzeranno i
teorici dell’«armonia funzionale» secoli dopo, la triade diminuita che si forma sul settimo
grado della scala viene utilizzata alla stregua dell’accordo di dominante.) Si consideri inol-
tre che gli antichi maestri tendevano a riservare la comparsa della triade diminuita in un
contesto cadenzale o pre-cadenzale. Inoltre, se ne fa maggiormente uso quando la sensibile
(subfinalis), la quale, si ricordi, non può mai essere raddoppiata da altra voce, si trova nella
voce più acuta dopo essere stata raggiunta per grado congiunto. Come si vede, poi, si rad-
doppia preferibilmente la quinta dell’accordo.
Si noti che attraverso l’impiego della triade diminuita è possibile anticipare la comparsa
dell’alterazione della sensibile. Sulla base di ciò è possibile modificare quindi linee melodi-
che che presentino la sensibile naturale, in fase pre-cadenzale. Come di consueto, la fre-
quentazione del repertorio mostrerà altri impieghi degli strumenti fin qui illustrati, che si
potranno fare propri in una fase successiva di sperimentazioni.
Sarà poi vantaggioso disporre di qualche modello cadenzale in più.
In primo luogo è interessante la possibilità di fioritura del ritardo:

Es. 6-13

œ œ œ w
& œœ œœ ˙˙ # œ œ œ ww b œ œ œ
œœ œœ ˙ œ œ œ w
˙ ww

? œ œ w
˙ b œ œ ˙ w

In questi ultimi casi entrano in gioco le semicrome. Si provi a confrontare quest’esempio


con casi più semplici come quello dell’esempio 5-31.
Se fino a questo punto nella linea-guida abbiamo quasi sempre raggiunto la finalis toc-
cando la sensibile, nulla vieta di raggiungere la finalis da sopra, per grado congiunto. Da
260 L’abaco e la rosa

questo momento potremo anche concludere un brano in questa maniera, e non limitarci a
sfruttare questa possibilità per episodi interni.
Si considerino ora le seguenti cadenze:

Es. 6-14
x x
˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙
& b ˙˙ ˙ ˙wœ œ œ ˙œ # œ ww ˙ ˙ œœw œœœ ˙œ # œ œ œ ww
nw nw

? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
b ˙ w ˙ w
x x

& b ˙˙˙ ˙˙
˙ ˙œw œ œ ˙œ œ ww
˙˙
˙
˙˙
˙ œœw œœœ ˙œ œ œ œ ww
w w

? ˙ ˙ ˙ ˙
b ˙ ˙ w ˙ ˙ w
xx x x
˙ n ˙˙˙ œœœ œœ œœ œ œœ œ œ ˙œ # œ œ ww
& b ˙˙ œœœ b œœœ ˙wœ œ œ œ œ ˙œ # œ ww œ w œ w
nw

? œ œ ˙ œ œ ˙
b ˙ ˙
w n ˙ ˙
w

Le prime due cadenze sono in protus trasportato, la terza e la quarta in tritus, la quinta
in protus trasportato, l’ultima in tetrardus (va da sé che sono applicabili anche al protus ori-
ginale, ma non al deuterus, per le ragioni esposte nel capitolo precedente). Le prime quattro
sono del tutto simili. In realtà il modello cadenzale, in tutti i casi dell’esempio precedente, è
costituito soltanto dalle ultime due battute. Si osservi che la note evidenziate nei primi
quattro casi, anche se consistono in una croma dispari, sono dissonanti rispetto al contesto
verticale. Di fatto, l’effetto è quello di pestare i piedi, per così dire, di scalzare la finalis
dalla voce inferiore. Si noti che la stessa nota è raggiunta a partire dalla nota immediata-
mente superiore. Il secondo e quarto caso mostrano la stessa cadenza con fioritura del ri-
tardo. Negli ultimi due casi le note segnate sono crome ribattute precedute da una nota con
funzione di ritardo (si faccia attenzione affinché la nota «di preparazione» sia della durata
di una semiminima!) seguite da due semicrome di fioritura.
Come tutti i modelli cadenzali, anche questi ultimi casi sono in pratica formule precosti-
tuite, idiomatiche, che andrebbero prese così come sono.
Oltre a terminare sulla finalis, la voce superiore può toccare la terza dell’accordo, che
anche in protus deve essere maggiore, la cosiddetta terza piccarda. In pratica è possibile con-
cludere sia un episodio interno o addirittura un brano con un accordo in posizione di terza.
Il prossimo esempio mostra tale possibilità. Le cadenze precedenti sono inoltre ora realiz-
zate a parti late:
Capitolo 6 261

Es. 6-15

˙ ˙ ˙ ˙
&b ˙ ˙ œ œ ˙
w œ
nw
w ˙ ˙ œ œ ˙
w œ
nw
w

˙ ˙˙ ˙˙ œ˙ # œ w ˙ ˙˙ œ˙ œ
?
b ˙ ˙ ˙œ # œ œ œ w
w w

& b ˙˙ ˙
˙
œ œœ˙ w ˙
˙
˙
˙
œ œœ˙ w
w w w w

? ˙ ˙ ˙˙ œ˙ œ w ˙ ˙ œ˙ œ œ˙ œ œ œ w
b ˙ ˙ w ˙ ˙ w

˙ n ˙˙ œœ œ
& b ˙ œœ b œœ œ œ œ œœ˙
w
nw
w œ
œ œ œ œœ˙
w
w
w

? ˙ œœ œ ˙˙ œ˙ # œ w ˙ œœ œ œ˙ œ œ˙ # œ œ œ w
b ˙ œ w n ˙ œ w

Le ultime due cadenze appartengono a uno stile pienamente cinquecentesco e, qualora si


vogliano comporre brani in uno stile più arcaico, andrebbero evitate. Esiste invece una si-
tuazione cadenzale dal sapore tipicamente quattrocentesco, cui ho già accennato, nota
come cadenza «di Landini» (dal nome del compositore italiano del Trecento che probabil-
mente la rese celebre). Eccone una realizzazione a quattro parti:

Es. 6-16

œ œ œ w
œ œ œ w
& ˙˙ ˙˙ # œ œ œ ww b œ˙˙ œ œ˙ # œ œ n œ ww b ˙˙ ˙˙ œ œ œ ww
˙ w

? ˙ ˙ ˙ ˙ w
w ˙ w b ˙

Si nota che l’ultima croma è, di fatto, una nota di sfuggita. L’aspetto affascinante di que-
sta cadenza è proprio il salto di terza prima della finalis. Questo tipo di chiusa ha un sa-
pore ancora più arcaico se si presenta in questa forma:

Es. 6-17

œ œ œ # œ œ œ www œ œ œ œ œ œ www
& ˙˙ # ˙˙ b ˙˙ n ˙˙

? ˙ ˙ ˙ ˙ w
w b

In questi ultimi casi la finalis è prima armonizzata con una triade in primo rivolto, cui se-
gue un’altra triade anch’essa rivoltata (la prima nota delle crome è infatti un ritardo).
262 L’abaco e la rosa

L’aspetto particolare è la presenza di note alterate oltre alla sensibile. Di fatto queste note
sono a loro volta la sensibile della dominante. Si tratta quindi di cadenze con «doppia sen-
sibile». Questo tipo di cadenza (nelle forme viste nei due precedenti esempi) sarà molto
pertinente agli esperimenti che effettueremo in relazione a composizioni basate su cantus
firmus.
Giunti a questo punto si può tentare di comporre qualche frammento o qualche breve
brano a quattro parti con tutti gli elementi acquisiti fin qui. Come sempre, si potrà iniziare
a comporre una linea melodica (che ora potrà contenere anche gruppi di crome) secondo le
tecniche viste nel capitolo 4, e poi procedere alla sua armonizzazione, prima a parti strette
e poi a parti late; infine si procederà alla fioritura delle voci inferiori con tutti gli elementi a
disposizione.
Come primo esempio propongo l’elaborazione di un frammento melodico in protus tra-
sportato, composto secondo le tecniche esposte nel capitolo 4:

Es. 6-18
j ˙ Œ ˙ œ œ œ . œ . œj œ œ œ b ˙
& b C ˙ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœœ Œ Jœ

œ œ ˙ œ . œ œ œ œ œ œ œ œ bœ œ œ œ œ œ . œ bœ œ œ œ œ . œ œ œ ˙
&b J J J œ w

Come di consueto, realizziamo prima un abbozzo a parti strette:

Es. 6-19
j x x
& b C ˙˙ œ˙ . œ œœ œ œœ œ œ œœ œ œ˙œ œœ Œ œ œœ b œœ œ œ Œ ˙œœ ˙˙ œ œ
˙ ˙ œ œ b œœ œ ˙˙ œ œ œœ œœœ

? ˙ ˙ œ œ bœ Œ œ ˙
b C œ œ œ ˙ œ
œ ˙

x x
j j j œ
œ œ b˙ œœ œœ ˙ œ˙ . œ œ œ œœ œ œœœ œ œœ b œœœ
b
& b ˙˙ . œ œ˙ . œ œœœ œ œœ ˙˙ œ œ b ˙˙ ˙ œœ œœ œ
˙

? œ ˙ œ œ œ
b ˙ ˙ œ œ ˙ œ ˙ œ œ œ
x x
j j
œ œ œ œ œ. œ b ˙œ œ œ œ œ˙ .
& b œœ œœ b ˙˙ ˙ ˙ œ ˙œ œ œ ˙œ
w #œ n ww
w

? œ ˙ ˙ ˙
b œ ˙ ˙ w

In corrispondenza delle x le note estranee generano quinte reali, fra soprano e tenore. In
questi casi è forse meglio lasciare intatto l’abbozzo a parti strette e rimandare la correzione
alla stesura finale a parti late, dove, come si è visto, si dispone di una maggiore libertà di
movimento. Quando le quinte reali sono generate da una croma dissonante, come nel prece-
Capitolo 6 263

dente esempio, gli antichi maestri, specie quelli del Quattrocento, lasciavano talvolta correre.
Come ho già accennato, la preoccupazione per l’insorgenza di quinte reali (per le ottave il
discorso è diverso) può diventare, in contesti come quello del nostro esempio — dove le
quinte sono di fatto «mascherate» —, una sorta di fisima. Le quinte reali di Ockeghem, di
Josquin (di Bach e di Mozart) non suonano affatto male!
Si sarà notato infine che nelle ultime due battute ho impiegato il primo dei modelli del-
l’esempio 6-14.
Elaboriamo ora l’abbozzo in partitura corale, come mostrato nell’esempio 6-20. Può es-
sere ancora utile un breve commento, per evidenziare i punti in cui mi sono discostato mag-
giormente dall’abbozzo (riportato come di consueto in piccolo sotto la partitura).

• 1) Per prima cosa si osservi come sono state evitate le quinte reali nelle battute 6 e 11.
Come si sarà notato, rispetto all’abbozzo sono state sufficienti piccole modifiche rese
agevoli dalla comoda disposizione del materiale su quattro righi.
• 2) L’inizio del frammento presenta un accordo privo della terza e l’entrata sfasata del
tenore rispetto alle altre parti. Come si vede, già dalla prima battuta l’impiego di pause
anche nelle voci interne snellisce spesso il tessuto sonoro, rendendolo più dinamico. Si
osservino a questo proposito le battute 4, 5 e 9. In più, l’utilizzo delle pause può facil-
mente eliminare errori di condotta lineare, tipo ottave e quinte reali, semplicemente ridu-
cendoli al silenzio.
• 3) La battuta 2 evidenzia il fatto che i gruppi di crome possono essere raddoppiati, a
condizione di non incorrere nei ben noti errori di condotta polifonica.
• 4) A battuta 3 ho preferito, per una maggiore chiarezza della condotta lineare, bemolliz-
zare il MI rispetto all’abbozzo.
• 5) Si noti, nelle battute 7, 8 e 9, l’inserimento di crome anche nella parte di basso. Al-
l’inizio di battuta 8 e in corrispondenza della quarta semiminima a battuta 9 si formano
degli occasionali accordi in primo rivolto. L’impiego intensivo degli accordi allo stato
fondamentale non è infatti un dogma, come del resto già visto in occasione della triade
diminuita.
• 6) A battuta 12 si noti il particolare impiego della nota dissonante di passaggio per ben
due volte consecutive. Ciò è reso possibile dal fatto che, rispetto alle due note dissonan-
ti, le note che le precedono sono di durata superiore alle stesse.
• 7) Come ho già detto altrove, l’impiego dei ritardi è soprattutto riservato alle fasi pre-
cadenzali e cadenzali. Questo è l’uso che ne è stato fatto sino ai primi anni del Cinque-
cento. In epoca più avanzata i ritardi sono usati con più abbondanza anche all’interno
degli episodi. Se si vuole una scrittura più vicina al Cinquecento inoltrato, ad esempio
allo stile madrigalistico, se ne potrà (e dovrà) fare quindi maggiormente uso.

Dopo qualche nuovo esperimento si constaterà forse che non sembra poi così immediata
la possibilità di vedere numerosi spunti di elaborazione. Per ciò che riguarda la «fioritura»
vale sicuramente il principio del «chi cerca trova».
Considero la fase di elaborazione dell’abbozzo estremamente affascinante e, perché no,
264 L’abaco e la rosa

Es. 6-20 2 3 4 5
j ˙ ˙
&b C ˙ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ Œ œ œ œ œ œ
œ
Œ œ œ

&b C w ˙ œ œ ˙ ˙
˙ œ œ œ bœ bœ œ œ œ ˙

Vb C Ó ˙ œ œ bœ œ œ œ Œ œ œ bœ ˙ Œ œ ˙

? w œ œ bœ ˙
b C œ œ œ œ ˙ Œ œ ˙ ˙

j x x
œ ˙œ ˙œ œ œ
& b C ˙˙ ˙œ˙ . œ œœœ œ œœ
œ b œœœ œ œœ
œ œ œœ ˙˙ œœ b œœœ œœœ œ œœ
Œ œ ˙˙
˙ ˙ œ œ
? ˙ ˙ œ bœ ˙
b C œ œ œ œ ˙
œ
œ ˙
Œ œ

6 7 8 9 10
j b˙ œ œ bœ
& b œ. œ . œ œ œ œ œ ˙ œ. œ œ œ œ œ œ
J œ J œ

j
& b bœ . j
œ ˙ œ ˙ œ œ. œ b˙ Œ œ œ œ œ œ œ
œ

Vb ˙ œ œ ˙ œ œ œ ˙ Ó Œ œ œ œ œ œ

?
b w œ bœ œ œ ˙ œ bœ œ œ œ œ
œ œ œ. J
˙ ˙
x x
j j b ˙˙ j œ
& b œ. œ œ. œ œœ œ œœœ œœœ œœœ ˙ ˙œ˙ . œ œ œœ œœ œ œœœ œ œœ b œœ
b ˙˙ ˙˙ œ ˙ b ˙˙ œœ œ œ œ

? œ ˙ œ œ
b ˙ ˙ œ œ ˙ œ ˙ œ œ œ œ

11 12 13 14
œ œ œ œ œ. œ bœ œ œ œ œ . œ
&b J J
œ œ œ ˙ nw

j
&b bœ . œ w w w
˙

Vb œ œ œ œ œ œ ˙ œ ˙ œ #œ w

? œ ˙ ˙ ˙
b œ ˙ ˙ w
x x
j j
œœ œ œ b œ˙ œ œ œ˙ .
& b œ œœœ œ œ.
b ˙˙ ˙ œ ˙ œ ˙œw œ œ ˙œ #œ n ww
w

? œ ˙ ˙ ˙
b œ ˙ ˙ w
Capitolo 6 265

divertente. Detto questo, in realtà, già l’esempio precedente mostra una densità di scrittura
(di informazioni quindi) di tutto rispetto; si potrebbe definire una densità di tipo medio.
Non è desiderabile cercare sempre di riempire. Anzi; il volere a tutti i costi inserire elementi
di fioritura può alla lunga rendere pesanti le nostre composizioni. Tantissime composizioni
rinascimentali, anche di grande bellezza, presentano una scrittura che noi oggi percepiamo
rarefatta. È in realtà la delicata gestione di questa dimensione a conferire loro gran parte
del fascino che emanano. Si può quindi essere sempre soddisfatti di realizzazioni semplici.
Insisto sul fatto che la prima stesura a parti strette dev’essere considerata niente più di
un semplice schizzo. Una volta disposto il materiale in partitura corale, si deve cercare di
manipolarlo liberamente, nonostante all’inizio ciò possa forse risultare abbastanza fatico-
so. Si ricordi che è possibile raddoppiare qualsiasi suono di una triade (anche se il raddop-
pio della terza di un accordo maggiore può risultare talvolta un po’ duro), a esclusione di
una nota con funzione di sensibile.
Dopo qualche esperimento di elaborazione di brevi frammenti si potrebbe desiderare di
comporre un intero brano. Ho indicato in precedenza alcuni modelli formali, che possono
essere utilizzati in piena libertà. Ne aggiungo ora uno nuovo. Si tratta di quello della chan-
son «parigina», un tipo di composizione diffuso alla corte francese dei Valois nei primi de-
cenni del Cinquecento, che ebbe un influsso enorme sulla musica profana di tutta Europa, e
determinante per il nascente stile strumentale. La chanson parigina può essere considerata
un ottimo modello per i nostri esperimenti perché richiede un trattamento piuttosto sempli-
ce del materiale musicale. In particolare, non necessita di un imponente apparato imitativo.
La sua forma consiste di quattro brevi episodi organizzati nello schema ABCAA. Gli epi-
sodi B e C possono cadenzare su suoni diversi dalla finalis, secondo quanto visto nel capi-
tolo 4. Ciò che caratterizza però maggiormente la chanson parigina è il suo profilo ritmico.
Molte chansons esordiscono infatti nella voce superiore con questo ritmo:

Es. 6-21

C ˙ œ œ w Œ œ œ œ

Il tratto ritmico che caratterizza maggiormente il nascente stile strumentale nel Cinque-
cento è proprio il frequente impiego del piede dattilo (cioè una minima seguita da due semi-
minime, come nella prima battuta del precedente esempio). Generalmente, le semiminime
della prima misura sono note ribattute (cioè uguali).
Propongo ora la composizione di una chanson parigina in tritus. Gli episodi interni ca-
denzeranno rispettivamente sul RE e sul DO.
Per il primo episodio sarà necessaria una dozzina di cifre. Per gli altri episodi non sa-
ranno necessarie più di sette-otto cifre. Tutti gli episodi potranno contenere gruppi di cro-
me. Ecco sequenze numeriche (ottenute come di consueto lanciando i dadi) per i tre episodi
del brano:
266 L’abaco e la rosa

A: 1, 2, 2, 3, 5, 2, 5, 5, 5, 3, 6, 4
B: 3, 6, 3, 5, 6, 6, 5
C: 3, 3, 4, 1, 3, 5, 6

Secondo le tecniche acquisite prepariamo un abbozzo a parti strette:

Es. 6-22
j
& b C ˙ œœ œœ ww Œ œœœ œ œœ œœ ˙˙˙ œœ œ˙˙ . œ œœ œœœ œœ œœ ˙
œ œ ˙˙ œœwœœœ ˙œ œ œ œ
˙˙ œ œ w œœ œ œ œ œ

?
b C
˙ œ œ w Œ œ œ œ œ ˙ œ ˙ œœ œ œ ˙ ˙
˙
5ª 5ª! j
j j œ œ
&b w Œ œœ ˙œ˙ . œ œœ ˙˙ œœ œ.
˙œ˙ œ œ œœœ œœ ˙˙ œ œœ œœ ˙œ˙ œ œ œœœ œœ œ˙˙ . œ œœ œ œœœ
ww œ œ ˙ œ œ œ œ

? ˙ œœ ˙ œ
b w Œœ ˙ œ ˙ œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ

œœ œ
& b œœ œœœ œ œœœ œ œœ ˙˙œ # œ n œ œ ˙˙ Œ ˙˙ œ . j j
˙ ˙
œœ
œ ˙˙œ œ œ œ˙˙ œ œœ œœ œ˙ . œ
œ œ ˙

? œ œ œ œ
b œ ˙ ˙ Œ ˙ ˙
˙ œ ˙
œ
j j
& b œœ œ œœœ ˙˙ Œ ˙˙ œœ œ œ ˙˙ œœ œ˙ . œ œ œœ ˙ œ˙˙ . œ n œw œ œ œ œ œ ww
œ ˙ ˙ œ œœ ˙ œ ˙ œœ œ ˙˙ œœ ˙ w

? ˙ ˙ ˙ œ ˙ œ œ
b Œ˙ œ œ ˙ ˙ w
w

Naturalmente, il ritmo «obbligato» delle prime tre battute della voce superiore non deve
necessariamente essere riproposto all’inizio di ogni nuova sezione. Come di consueto, però,
gli episodi interni di un brano rinascimentale hanno la tendenza a iniziare in levare.
L’abbozzo riporta tre diversi tipi di cadenze. Si noti come nell’ultimo episodio si formi
incidentalmente una triade in secondo rivolto (un accordo «di quarta e sesta»). È questo
uno dei pochissimi casi del suo utilizzo in ambito rinascimentale. Questa diffusa formula
cadenzale può essere quindi messa ora nella propria collezione di cadenze.
L’esempio 6-23 mostra il montaggio finale del brano nella stesura in partitura corale, con
le necessarie modifiche e fioriture.

• 1) A battuta 7 la parte di tenore poteva sicuramente non effettuare il salto d’ottava e


continuare pertanto come avrebbe suggerito immediatamente l’abbozzo. La realizzazio-
ne di battuta 7 mette in evidenza la natura tensiva della parte di tenore e la possibilità
di generare un occasionale incrocio delle parti, possibilità tutt’altro che disprezzata da-
gli antichi maestri.
• 2) A cavallo delle battute 11-12 si notino le quinte «dirette», cui ho accennato nel capi-
Capitolo 6 267

Es. 6-23 2 3 4 5 6
Œ œ œ ˙ œ œ. œ œ œ
&b C ˙ œ œ w œ œ œ œ
J
˙

&b C œ œ w ˙ œ ˙ œ ˙ œ œ œ
˙ œ œ œ ˙

œ œ ˙ ˙ œ œ œ œ j j
Vb C ˙ œ œ ˙ œ œ. œ œ œ œ. œ ˙

? ˙ ˙. œ ˙ œ œ œ ˙ œ œ œ œ œ
b C œ œ œ œ œ ˙

j œœ œœ
& b C œœœ œœœ ww Œ œœœ œœ œœ ˙˙˙ œœ ˙œ˙ . œ œœ œœœ ˙˙
˙˙
˙ w œœœ œ œ œ œ œ œ ˙

? ˙ w œ œ œ ˙ ˙ œ
b C œ œ Œ œ œ œ œ œ ˙

7 8 9 10 11 12 13

&b œ œ œ ˙ w Œ œ œ. œ œ ˙ œ œ œœœ œ
œ. œ œ œ œ œœœ œ
J J

&b Œ j Œ œ
w w œ œ. œ œ ˙ œ œ œ œœœ œ œ œ œ œœœ

œ œ œœœ w j œ œ œ
Vb œ Œ œ
œ. œ w
Œ ˙ œ œ œ œ œ œ

? w j
œ. œ ˙ œ ˙ œ ˙ œ ˙ œ. œ ˙ ˙
b ˙ ˙ œ J

j j
œ˙ . œ ˙œ˙ . œœ œ˙ œ œ œœ
& b œœ œœ œ ˙œ œ œ
œ ww Œ œœ
œ ˙ œœ
œ
˙˙
˙
œœ
œ
œ˙ œ œ œœ œœœ
œ œ
œœ œ ˙ œ œœ
w w ˙ œ œ

? ˙ ˙ œ œ ˙ œ œ
b ˙ Œ œ ˙ œ ˙ œ œ œ
˙ w

14 15 16 17 18 19
œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ nœ œ ˙ j
œ œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ
j
&b J œ Œ ˙ œ

j
& b œ. œ ˙ Œ ˙ Œ
œ ˙ ˙ œ œ œ ˙ ˙ ˙ ˙

œ œ œ œ œ Œ ˙ œ ˙ ˙
Vb ˙ ˙ w œ œ ˙

? œ œ. œ œ œ œ ˙. œ ˙ j
b ˙. J ˙ ˙ œ. œ œ œ ˙
j
œ˙ . œ œœ œ œœ œœ œ œ œ œ j j
& b œ œ œ œœ œœ œ œœœ œ˙ # œ n œ œ ˙˙ Œ ˙˙ œœ œ˙ œ œ œ œ˙ . œ
˙ ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ œœœ œœœ ˙œ˙ . œ

? œ œ œ œ ˙ œ ˙
b ˙ œ œ ˙ ˙ Œ ˙ œ ˙
œ
268 L’abaco e la rosa

20 21 22 23 24 25 26 27
œ . œ nœ œ œ œ œ œ w
&b œœœ ˙ Œ ˙ œœ œ ˙ œ œ. œ œ œ
J ˙ J
..
˙ œ œ

&b œ œ ˙ Œ ˙ œ Œ œ ..
œ œ œ œ ˙ ˙ ˙ w w
˙ œ œ

œ ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ w
Vb œ Œ ˙ œ Œ œ œ .. ˙ œ œ

? œ. œ˙ ˙. œ ˙ œ
˙ œ œ .. ˙
b J œ ˙ ˙ w w œ œ

j j
œœ œ œœœ ˙œ˙ . œ˙ . œ n wœ œ œ œœœ ww ..
& b ˙˙ Œ ˙˙ œœ œ ˙
œœœ ˙˙ œœ
œ
œ œ œœ
œœ œ ˙˙˙ ˙ œ œ ˙ w ˙˙ œœœ œœœ
œ ˙ ˙ œ ˙

? ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ œ œ .. ˙
b Œ œ œ ˙ ˙ w œ œ
w

28 29 30 31 32 33 34
Œ œ œ ˙ œ œ. œ œ œ œ œ ˙ ..
&b w œ œ J
œ œ œ ˙ w

&b w ..
˙ œ ˙ œ ˙ œ œ œ ˙
œ œ œ w w
j j œ œ œœœ w
Vb ˙ ˙ œ œœœ
œ œ ˙ œ œ. œ œ œ œ. œ˙ œ
..

? ˙. œ ˙ œ œ œ ˙ œ œ œœœ œ œ ˙ w ..
b œ ˙
˙
j œœ œœ
& b ww Œ œœœ œœ œœ ˙˙˙ œœ ˙œ˙ . œ œœ œœœ ˙˙ œœ ..
w œœœ œ œ œ œ œ œ ˙ w
œœ œ ˙œ œ œ œ ww
w

? w Œ œ œ œ œ ˙ ˙ œ œ œ ..
b œ œ ˙ ˙
˙ w

tolo precedente, tra le parti estreme. Il fatto che ci sia una nota comune tra basso e so-
prano, il FA, attenua la problematicità del passaggio. (Considero un atteggiamento pa-
vido non accettare consapevolmente, quando se ne avverta la necessità, situazioni meno
ortodosse rispetto alla media.)
• 3) Da battuta 17 a battuta 26 si noti che, in ragione della compattezza della tessitura
sonora, non è stato necessario effettuare la consueta trasposizione di un’ottava della
parte di contralto. Di fatto ho proceduto a una semplice fioritura dell’abbozzo.
• 4) A battuta 27 si presti particolare attenzione al collegamento del terzo episodio con la
ripresa del primo. Dal momento che il terzo episodio termina con un accordo in posizio-
ne d’ottava e la sezione A inizia anch’essa con un accordo nella stessa posizione, è ine-
vitabile andare incontro a problemi di ottave e quinte parallele, anche se per moto con-
trario. In questi casi nulla ci vieterebbe di modificare la linea melodica originale nella ri-
presa (sezione A), lasciandola inalterata a battuta 1. Oppure si potrebbe provvedere a
una diversa armonizzazione.
Capitolo 6 269

Per quanto riguarda le ottave parallele tra battuta 26 e 27, il fatto che siano tra due epi-
sodi diversi del brano e che siano per moto contrario (per moto retto non sarebbero state
ovviamente ammissibili) ne attenua notevolmente l’impatto. Si consideri che anche in
epoche successive, in ambito tonale, queste ottave sono ammesse nel momento cadenza-
le, quando la voce superiore dalla dominante scende alla tonica, contestualmente al bas-
so che dalla dominante sale alla tonica. Ecco un esempio di tutto rispetto tratto da un
frammento del primo movimento della Sonata op. 27 n. 2 di Beethoven (la famosa «Al
chiaro di luna»):

Es. 6-24
[Adagio sostenuto]
####
& ˙ œ œ Œ Ó
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

? #### w
˙ ˙
˙ ˙ w

Si noti poi che tra contralto e basso, tra battuta 26 e 27, il collegamento genera anche
delle quinte reali per moto contrario. A quattro voci queste quinte sono pienamente am-
messe nella prassi rinascimentale quando tra le due quinte c’è un suono in comune:

Es. 6-25
& w
w

? w w

Le quinte reali per moto contrario senza nota comune diventano poi una possibilità con-
creta, anzi frequente, dalle cinque voci in su. A quattro parti quest’ultima evenienza è da
considerarsi lecita, ma meno frequente.

Prima di procedere in ulteriori esperimenti si consideri la possibilità di mettere qualche


altro accessorio nella propria cassetta degli attrezzi.
Ad esempio, potremmo considerare alcuni altri nuovi impieghi della semiminima punta-
ta seguita da croma. In primo luogo quello in cui la croma sia una nota di volta inferiore; poi
quello in cui la croma sia una nota ribattuta. Si tratta di impieghi meno frequenti rispetto a
quello della nota di passaggio, ma certamente degni di menzione:

Es. 6-26
j
œ. œ œ œ. œ œ
J

Ricapitoliamo ora quanto detto sull’armonizzazione delle seguenti figure ritmiche:


270 L’abaco e la rosa

Es. 6-27
x x x
C ˙. œ œ ˙. œ œ œ ˙ œ œ

x x x
œ ˙ œ œ œ. œ ˙ œ. œ ˙
J J

Negli ultimi due casi le crome, come ho già detto, non potrebbero essere armonizzate
singolarmente: nel contesto verticale (armonico) saranno perlopiù note dissonanti, estranee
all’armonia cioè. Negli altri casi le semiminime evidenziate possono essere armonizzate sin-
golarmente oppure, essendo la nota che le precede di durata maggiore alle stesse, possono
essere considerate come dissonanze. Tutti i casi dell’esempio precedente sono accomunati
dal fatto che le note segnate colmano un intervallo di terza: se le medesime note risultano
dissonanti nel contesto verticale, vengono comunemente definite note di passaggio o disso-
nanze di passaggio. Fin qui nulla di nuovo rispetto a quanto detto in precedenza. In base a
ciò, una semiminima non può essere considerata dissonante se è preceduta da una nota di
durata inferiore o uguale. Lo stile rinascimentale ammette però che anche una semiminima,
preceduta a sua volta da un’altra semiminima, possa essere considerata come dissonanza
di passaggio a condizione che immediatamente prima si siano incontrate dissonanze di
passaggio del tipo visto nell’esempio precedente. Il prossimo esempio illustra questa inte-
ressante possibilità:

Es. 6-28
x x x x x x
C ˙. œ œ œ ˙ ˙. œ œ œ ˙ œ ˙ œ œ œ ˙

x x
œ ˙ œ j œx œ œ. œ œ œ
x
œ œ ˙ œ. œ œ œ
J

Negli ultimi due casi (quelli in cui compaiono le crome) le note evidenziate possono sem-
pre essere considerate come dissonanze di passaggio. Negli altri casi le semiminime prece-
dute da un’altra semiminima possono essere considerate come dissonanze di passaggio a
condizione che le precedenti semiminime siano dissonanze di passaggio. Si nota nell’esem-
pio precedente che le note in questione si trovano di fatto su un frammento di scala. Un po’
meno frequentemente si incontrano anche casi simili ai prossimi, dove le note evidenziate
— che possono essere dissonanze di passaggio alle condizioni esposte in precedenza — si
trovano in un successivo «segmento», contrariamente a quanto accadeva nell’esempio pre-
cedente:

Es. 6-29
x x x x
C ˙. œ œ œ ˙ ˙. œ œ œ ˙ œ. œ œ œ œ œ. œ œ œ œ
J J

In casi simili al prossimo, invece, la semiminima segnata non deve risultare dissonante
Capitolo 6 271

rispetto al contesto verticale perché non colma un intervallo di terza (non è una nota di pas-
saggio):

Es. 6-30
x
C ˙. œ œ œ ˙

6.2. Un discorso più serio

In questa sezione cercheremo di familiarizzarci con una delle tecniche predilette dai com-
positori rinascimentali, in particolare quelli del Quattrocento: si tratta della tecnica di com-
posizione su cantus firmus. Insieme alla tecnica dei canoni, costituiva il bagaglio tecnico più
consistente delle prime generazioni dei maestri rinascimentali. Nel corso del Cinquecento,
infatti, queste tecniche lasciarono il passo ad altre più duttili alle necessità espressive del
Cinquecento inoltrato, all’orizzonte del quale si stagliavano già le moderne e libere tecniche
compositive del primo barocco.
È sufficiente aprire un buon testo di storia della musica per intuire la complessità del
pensiero musicale del Quattrocento. In questa sede non ne affronterò aspetti storici e musi-
cologici. Mi limiterò ad alcune semplici considerazioni che ci permetteranno di compiere
esperimenti sulla falsariga di composizioni rinascimentali su cantus firmus.
Per un antico maestro un cantus firmus poteva essere una linea melodica sacra, profana o
di libera invenzione che, proposta a valori larghi (cioè con note di lunga durata) in una delle
voci della trama polifonica, prevalentemente il tenore e mai il basso, condizionava la com-
posizione del rimanente materiale sonoro. Relativamente a quest’ultimo punto, diversi testi
di taglio storico o didattico, affermano sbrigativamente che nelle composizioni basate su
cantus firmus tutto il materiale deriverebbe da quest’ultimo, non tanto diversamente, in so-
stanza, da quanto avviene nell’ambito della tecnica «motivica» del Sette-Ottocento. In
realtà, se alcune sezioni di brani basati su cantus firmus a partire dalla generazione di Jo-
squin des Près sembrano dipendere motivicamente (in forza della tecnica imitativa), in tut-
te le voci, dal cantus firmus, per Josquin stesso e per le generazioni di compositori a lui pre-
cedenti le altre voci della composizione generalmente potevano non presentare evidenti re-
lazioni motiviche con il cantus firmus.
Per un compositore rinascimentale l’impiego di un cantus firmus (anche profano, come la
celebre chanson «L’homme armé», su cui sono basate numerose messe) significava forse che
il fare artistico non era tanto un’attività puramente creativa, quanto, piuttosto, una sorta
di commento, di glossa, a un testo dato. Ciò in linea con le idee dominanti di quel tempo
sull’uomo e la realtà. In più, l’utilizzo di un cantus firmus permetteva di realizzare musical-
mente l’idea dell’unità nella varietà, estremamente importante per il pensiero occidentale
fino alle soglie del Cinquecento. Ricorrere a un cantus firmus, per un antico maestro, rappre-
sentava quindi una cosa diversa rispetto alla semplice assunzione di una tecnica. Aveva
ragioni profonde, ideologiche, che andavano di pari passo con la complessità concettuale
272 L’abaco e la rosa

(in particolare numerico-simbolica) di molta musica del Quattrocento.


Nei nostri esperimenti non potremo certo tenere conto della complessità concettuale cui
ho accennato. In realtà però, anche se in termini estremamente semplificati, ritengo che si
possa ancora provare qualcosa di più di un barlume di fascinazione dal tentativo di appli-
care la tecnica del cantus firmus a nostre composizioni. Ciò proprio in forza di una miste-
riosa forza (non riesco a darne altra definizione) di questa tecnica, con il suo scorrere di li-
velli temporali diversi: quello lento, siderale, del cantus firmus e quello più veloce, terreno e
caduco delle altre parti della composizione.
Per quanto riguarda la scelta del cantus firmus, faremo qui ricorso a linee di libera inven-
zione. Dal momento che molte composizioni su cantus firmus sono in un tempo analogo al
nostro 3/2 (e ancora per motivi ideologici legati alla simbologia del numero 3), comporremo
linee di cantus firmus in questo metro. Per quanto riguarda la natura della linea melodica
non ci sono problemi, perché la potremo comporre in base alle tecniche fin qui acquisite.
Pensando a un frammento in deuterus (modo, per noi moderni, dal sapore particolar-
mente arcaico), lanciamo i dadi per ottenere una sequenza di sette-otto cifre:

5, 5, 1, 4, 5, 3, 2, 1.

Tradotta in note la sequenza corrisponde a ciò:

Es. 6-31

& œ œ
œ œ œ œ œ œ

Dopo pochi ritocchi relativi alle esigenze della «buona segmentazione» e alla «farcitura»
melodica otteniamo questa linea:

Es. 6-32
& œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Non resta che rivestirla ritmicamente. Essendo il cantus firmus una linea melodica propo-
sta a valori larghi, potremmo utilizzare soltanto durate pari alla doppia battuta di 3/2,
corrispondenti quindi a due semibrevi puntate legate fra loro; semibrevi puntate; valori di
minima. Ecco una possibile versione:

Es. 6-33
3
& 2 w. w ˙ w. w.
Ó w

& w ˙ w. w. w ˙ w. w.

Per realizzare l’abbozzo a parti strette sarà necessario procedere a un’armonizzazione


Capitolo 6 273

considerando come parte principale la voce di contralto, cui inizialmente assegneremo il


cantus firmus. Nessuna differenza, per il resto, rispetto all’armonizzazione di un linea melo-
dica collocata nella parte più alta della trama sonora, tranne il fatto che, armonizzando il
contralto, se non vorremo andare incontro a diversi inconvenienti in fase di realizzazione a
parti late, dovremo rispettare sempre la distanza di sicurezza di almeno un’ottava con il
basso. Nel caso di armonizzazione del contralto si cambierà posizione tra due accordi con-
tigui con riferimento a quest’ultimo. Il prossimo esempio dovrebbe chiarire tutto ciò:

Es. 6-34

3 ˙ ˙ ˙ ww
˙˙˙ ˙w ˙
& 2 w˙ . ˙ ˙ w w˙˙ . ˙˙ ˙ w ˙ Ó ˙ ˙
˙ ww . ˙

?3 w ˙ w ˙ ˙ ˙ ˙ Ó ˙ ˙
2 w ˙

w ˙˙˙
& ww w˙˙ . ww w˙˙ . ˙˙ ˙
˙ w˙˙ ˙ ˙˙ ˙w . w w.
ww ..
˙ ˙ ˙ w

? w ˙ ˙ w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w.
w

Si noti che il primo e l’ultimo accordo sono privi della terza, secondo una tendenza stili-
stica della prima stagione della musica rinascimentale.
Per quanto riguarda poi l’accordo conclusivo si preferiva forse un accordo privo della
terza alla possibilità, comunque del tutto accettabile, della «terza piccarda» (propria di
una concezione stilistica appena più avanzata), vista in precedenza. Dal momento che la
parte di soprano rimane la più acuta, si dovrà fare in modo di non assegnarle note fuori re-
gistro. A questo proposito ecco un consiglio pratico, che per quanto ci riguarda potrebbe
diventare una regola: in fase di stesura del cantus firmus si dovrebbe avere cura di mantene-
re lo stesso entro l’estensione tra il SI-DO centrale e il DO-RE all’ottava superiore. In que-
sto modo il soprano potrebbe al massimo trovarsi a toccare il SOL, che costituisce il limite
usuale della sua estensione.
Certo, questo tipo di trattamento del cantus firmus potrebbe essere considerato non mol-
to ortodosso: la tecnica che propongo non permette infatti di trattare il cantus firmus in
modo esaustivo. Com’è nella natura di questo libro, ciò che ritengo maggiormente impor-
tante è la possibilità di mettere a punto semplici procedimenti compositivi. Senza un pro-
cedimento compositivo il trattamento del cantus firmus rischia facilmente di condurre su un
terreno di sabbie mobili o alla frustrante sensazione di trovarsi impegnati nella difficilissi-
ma (quanto forse inutile) costruzione di un castello di carte. (Ovviamente, per i maestri ri-
nascimentali l’approccio poteva forse essere più naturale; ma noi siamo distanti da loro
mezzo millennio.)
Nell’esempio 6-35 propongo una possibile elaborazione finale del cantus firmus. Si noterà
che il lavorio di fioritura ha trasformato notevolmente l’abbozzo iniziale.
274 L’abaco e la rosa

Es. 6-35 2 3 4 5
3 œ œœœ ˙ œ œ ˙ j ˙ œ. œ
& 2 ˙. œ Ó œ œ œ œ œ. œ œ œ ˙
œ ˙ Ó
J

3 j ΠΠj
& 2 œ. œ ˙. œ œœœœ˙ ˙ œ ˙ ˙
˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ
3
V 2 w. w ˙ w. w.
Ó w

?3 ˙
2 œ. œ ˙ œ œ œœœœ˙ œ. œ ˙ ˙
˙. œ ˙ œ. œ œ œ ˙
J J J

3 ˙ ˙ ˙ ww
˙˙˙ w˙˙ ˙
& 2 w˙ . ˙ ˙ w w˙˙ . ˙
˙
˙
˙ www . ˙ Ó ˙
˙

? 3 w ˙ w ˙ ˙ ˙ ˙ Ó ˙ ˙
2 w ˙

6 7 8 9 10 11
œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙. œ œ œœœœœ œ œ œ œœœ ˙ w.
& œ œ œ ˙ w

Πj
& ˙ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ ˙ j œ
˙ ˙ œ. œ œ œ œ œ œ œ œ w.

V w ˙ w. w. w ˙ w. w.

? ˙. œ œ œ œ œ. œœ œœœ œ œ œ œ œ œ. œ˙ œ. œ ˙ ˙ ˙ w.
J œ J J w

ww ˙˙˙ w w.
& w w˙˙ . w w˙˙ . ˙ ˙
˙ w˙˙ ˙ ˙˙˙ w˙˙ . w ww ..
˙ ˙ w

? w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w.
w ˙ ˙ w

Come ho già detto, non è sempre possibile osservare le regole della «buona segmentazio-
ne» in tutte le parti di una composizione. Dal momento che abbiamo per primo composto il
cantus firmus, tenendo conto di quelle regole, le altre parti possono discostarsene all’occor-
renza: infatti talvolta sembrano esservi costrette. D’altra parte, è sufficiente analizzare una
qualsiasi composizione rinascimentale per rendersi conto che quello della «buona segmen-
tazione», più che un precetto, è un principio ideale cui gli antichi maestri, soprattutto quelli
a cavallo fra Quattro e Cinquecento, consapevolmente o no, orientavano la composizione
delle linee melodiche.
Consideriamo ora in modo più dettagliato alcuni passaggi dell’esempio:

• 1) A battuta 2 la fioritura del basso sembra scherzare col fuoco perché una sola croma
(l’ultima del gruppo), rispetto al contralto, impedisce che vengano a formarsi due ottave
reali. Il principio valido a quattro parti è quello che un solo intervallo consonante è
Capitolo 6 275

sufficiente a neutralizzare errori di ottave e di quinte. Alcuni puristi, in casi come que-
sto, storcono comunque il naso, nonostante che il repertorio rinascimentale mostri non di
rado analoghe situazioni. Partendo da un solido abbozzo, casi del genere non dovrebbe-
ro però farci paura (la pavidità in arte conduce direttamente al piattume).
• 2) Si noti infine che, tra battuta 9 e 10, il SI al contralto non genera errori di quinte reali
tra soprano e contralto, perché la prima quinta che si viene a formare è diminuita: ciò nel
linguaggio rinascimentale, come abbiamo visto, non costituisce un problema quando
sono in gioco note di passaggio.

Non dico che una proposta di realizzazione come quella precedente sia immediata o fa-
cile come altri precedenti esperimenti. La difficoltà sta qui soprattutto nell’abituarsi a vede-
re possibilità di fioritura: ecco nel fare ricorso qui più alla vista che all’udito ancora una si-
tuazione paradossale. Avendo però seguito e sperimentato passo dopo passo quanto indi-
cato fin qui, non ritengo si tratti di una difficoltà insormontabile.
A conclusione di questo primo esperimento su cantus firmus, si rende necessaria una con-
siderazione. Nel capitolo 4 l’aspetto algoritmico della composizione era molto pronunciato.
Alcune semplici procedure potevano facilmente condurre alla realizzazione di linee melodi-
che certamente non memorabili, ma stilisticamente corrette, artigianali. È per questo motivo
che le intestazioni delle sezioni facevano talvolta riferimento a un ipotetico programma de-
dicato a Josquin. Già nel capitolo precedente ci si sarà forse resi conto che gran parte della
fase di elaborazione polifonica di una linea melodica sarebbe stata invece più difficilmente
realizzabile per mezzo di un programma elementare come quello del capitolo 4. Ecco un al-
tro paradosso: quella che in prima istanza sembrerebbe a tutti un’attività delicata, difficile
e intrinsecamente artistica come la composizione di una linea melodica, si rivela, a certe
condizioni (anche il software più potente del mondo difficilmente potrebbe oggi comporre
linee melodiche di qualità pari a quelle delle mazurke di Chopin o delle canzoni di Cole
Porter), essere più semplice della sua elaborazione successiva, che anche molti profani po-
trebbero considerare un’attività più vicina alla routine.
E qui sta il bello. Se la successiva elaborazione polifonica di una melodia richiede
un’elasticità e una duttilità che sembrano essere, per adesso, prerogativa del pensiero uma-
no, non per questo la sua iniziale composizione, come abbiamo visto in più occasioni, deve
essere considerata un’attività particolarmente difficile. Per questa è sufficiente infatti sol-
tanto un po’ d’esercizio (per una volta uso di buon grado questo termine). Anzi; il fatto di
partire da materiale dato (anche se in parte abbiamo contribuito alla sua fabbricazione) ci
libera dall’impasse del foglio bianco, da tutta una serie di condizionamenti e luoghi comuni
sulla cosiddetta creatività. Il ricorrere a un pensiero algoritmico nella prima fase di realiz-
zazione di un prodotto artistico può essere allora un’utile, quanto intrigante, strategia del
proprio fare.
A certe condizioni, la «creatività», la fantasia, hanno tutto l’agio di manifestarsi in un
secondo momento. Da parte mia, ritengo estremamente affascinante l’ipotesi che, in alcuni
contesti, il carattere di artisticità e di espressione di qualità spiccatamente umane di un
prodotto dipendano in gran parte da un’attività di glossa, di commento.
276 L’abaco e la rosa

Molte persone faticano (a malincuore forse) a immaginarsi in un ruolo «creativo». Spes-


so però si trovano a proprio agio nella conversazione, nella critica, nello humour. Molti si
rendono conto, inoltre, che oggi, nella ricerca fisica e biologica ad esempio, ma anche in at-
tività più vicine all’arte come la progettazione di complesse strutture architettoniche, ci si
deve misurare sempre più, volenti o nolenti, con la forza bruta del computer. Non ritengo
che quest’ultima considerazione debba sgomentare troppo. Al contrario, dovrebbe mostrar-
ci nuove prospettive per la conoscenza e la fantasia. In fondo la macchina sviluppa ciò che
le chiediamo. Il sapere chiedere alla macchina delle prestazioni originali è già un atto di
fantasia. Detto questo, forse la cifra di un prodotto artistico sarà sempre più considerata
la sua capacità di rivelare in modo consistente qualità tipicamente umane, simili, ad esem-
pio, a quelle di una conversazione ricca di sense of humour, più che essere in grado di mo-
strare complesse relazioni formali. Per queste ultime saremo infatti sempre più assistiti dal
computer. In quest’ambito sarà importante allora sapere formulare gli algoritmi più efficaci.
Per il resto saremo forse più liberi e facilitati a esprimerci con intensità, nel momento in cui
si vincesse la sfida di non rimanere ingabbiati nelle forme. Chissà.

Proviamo ora a compiere un ulteriore esperimento. Terremo conto del fatto, adesso, che
non è necessario che il cantus firmus sia fatto sentire continuamente. La parte che lo riguar-
da può infatti presentare pause di una certa lunghezza. In corrispondenza di queste le altre
parti si trovano allora, per così dire, in libera uscita. Possono presentare materiale derivato
dal cantus firmus o del tutto indipendente.
Nel prossimo eperimento utilizzeremo un cantus firmus diviso in due sezioni. Prima, in
mezzo e alla fine di queste faremo ricorso a materiale libero. Si dovrà inizialmente compor-
re, secondo le tecniche analizzate, il cantus firmus; poi si comporranno tre brevi frammenti
da collocare prima, in mezzo e alla fine dello stesso. Per questo scopo saranno necessarie
soltanto poche cifre ottenute dal lancio dei dadi. Naturalmente nulla vieta di comporre
parti libere di una certa ampiezza.
Il modo che ho scelto per il prossimo esperimento è il protus. Ecco la realizzazione di
due sezioni per il cantus firmus:

Es. 6-36

3
& 2 w. w. w ˙ ˙ w w. w. w.

& w. b˙ w w. Ó bw w.
w. w.

Ed ecco la realizzazione dei tre brevi frammenti da collocare prima, in mezzo e alla fine
del cantus firmus.
Capitolo 6 277

Es. 6-37

3 j j .
& 2 ˙ œ œ œ. œ ˙. ˙ œ œ b˙ œ œ . œ œ œ œ œ #œ œ œ w
œ

j Œ œ œ œ œ #œ œ œ w .
& Œ œ œ ˙ bœ œ. œ œ œ
˙

Si sarà notato l’impiego della cadenza arcaica «di Landini» con il suo caratteristico sal-
to di terza prima della finalis. In un’ambientazione stilistica orientata al Quattrocento risul-
ta essere molto pertinente.
Siamo ora pronti per elaborare l’intera composizione. Per quanto riguarda l’armonizza-
zione del cantus firmus non c’è nulla di nuovo da aggiungere. Per l’armonizzazione dei brevi
frammenti a tre voci, non ci sono differenze sostanziali rispetto alle quattro. L’esempio 6-
38 riporta, come di consueto, l’abbozzo e la realizzazione definitiva in partitura.
Qualche commento:

• 1) Abbiamo più volte constatato che l’elaborazione finale di un frammento o di un brano


passa spesso attraverso una fase di montaggio: quando si montano estesi frammenti
l’operazione si riduce il più delle volte a una sostanziale giustapposizione (si confronti a
questo proposito quanto detto sul montaggio dell’esempio 6-23). Il montaggio di fram-
menti più piccoli può essere invece un po’ più delicato. A battuta 2 ho sacrificato l’ulti-
ma nota del frammento originario (un FA della durata di una semiminima) a vantaggio
di un LA, perché quest’ultima nota pone meno problemi per attaccare l’elaborazione poli-
fonica del primo frammento al secondo, quello in cui appare per la prima volta il cantus
firmus (batt. 3).
• 2) Si noti, a battuta 14, il salto d’ottava discendente al basso. Se il salto d’ottava di-
scendente, come ho detto nel capitolo 4, non è sostanzialmente praticato nelle voci su-
periori, è invece più frequente nella parte di basso; una parte che, come si sarà notato,
ha spesso la tendenza a muoversi per salti di quarta, quinta e ottava. Si noti, poi, che
tra battuta 15 e 16 c’è un raro salto di sesta maggiore discendente. Mi sarei potuto arro-
vellare (o divertire) per un po’ nel tentativo di correggere una condotta melodica così
scomoda. Accettare, di tanto in tanto, e consapevolmente, l’eccezione — al limite anche
l’errore! — nei propri esperimenti può contribuire a renderli, contrariamente a orienta-
menti didattici militareschi e antiquati, meno rigidi e addirittura più vivi.
• 3) Si noti che, pur non essendovene la necessità, la conclusione del frammento vede, a
partire da battuta 21, la partecipazione del tenore con un LA prolungato. In casi del ge-
nere una nota molto lunga (in una qualsiasi delle parti) prende il nome di pedale. L’inse-
rimento di questo LA è reso possibile, nel nostro caso, dal contesto armonico complessi-
vo, e contribuisce a rendere più sonora la conclusione del frammento.

Con quest’ultimo esperimento siamo arrivati a una stazione di posta. Abbiamo infatti
acquisito gli elementi minimi per l’elaborazione di brani in stile rinascimentale. Prima di
278 L’abaco e la rosa

Es. 6-38 2 3 4
3 j ˙ ˙ œ œ œ œ ˙ j
&2 ˙ ˙ ˙. œ bœ . œ œ œ
œ œ œ. œ

3 j
&2 ˙ j œ œ
œ. œ ˙ bœ œ œ œ œ . œ œ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙

3 ∑ ∑ w.
V2 w.

˙ ˙ ˙
?3 w
2 œ œ œ œ œ œ ˙ œ.
j
œ œ œ œ
œ ˙ ˙

3 j w˙˙ . ˙ ˙
& 2 ˙
˙ œ˙ œ œ˙ . œ ˙ ˙.
˙ ˙
œ ˙ ˙ w˙˙ . ˙
˙
˙
˙

? 3 ˙ ˙ ˙ ˙
2 ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙

5 6 7 8
j
& Œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ ˙ ˙ ˙ ˙ Œ
œ ˙. œ

& Ó ˙ ˙
˙ ˙. bœ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ ˙. bœ œ ˙

V w ˙ ˙ w w. w.

? ˙. œ œ. œ ˙ j j
J ˙ ˙ œ. œ b˙ ˙ œ . bœ w

& ww ˙˙˙ ˙˙˙ w˙˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w˙˙ . w


w ˙ bw˙ . ˙ ˙ w

? w ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ b˙ ˙ w

9 10 11 12
j j œ œ #œ œ œ w.
& ˙ ˙ œ. œ œ b˙ œ œ. œ œ œ œ
j
& j œ bœ . œ œ œ
b˙ œ œ ˙ œ ˙ ˙ bœ ˙ ˙
˙ œ.

V w. ∑ ∑ ∑

? ˙ œ ˙ œ ˙ w
œ œ bœ œ
˙ œ ˙ ˙ œ ˙

b˙ j œ œ #œ œ œ w. b˙
& ˙ œ œ œ. œ ˙
w˙˙ . b˙
˙
˙ œ ˙ œ ˙ œ˙ œ b œœ
œ ˙ ˙

œ ˙ œ œ ˙ ˙ ˙
? ˙ ˙ ˙ ˙ œ ˙
˙
Capitolo 6 279

13 14 15 16
˙ j
& ˙ ˙. bœ œ œ œ ˙ ˙ œ. œ b˙ Ó ˙ ˙

& ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ Ó j
˙ ˙ œ. œ b˙ œ œ œ œ
˙

V w. b˙ w w. w.

? œ. œ w bœ . œ . œ œ ˙ j
J J œ J œ œ œ œ œ œ œ b˙ œ. œ ˙

& w˙˙ . w
w b ˙˙˙ w˙˙ ˙ www . b˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ b w˙ . ˙
˙

? ˙ w b˙ ˙ ˙ ˙
w b˙ ˙ ˙

17 18 19
œ œ œ œ bœ œ . œ ˙ ˙
& Œ J ˙ Œ œ ˙. œ

& ˙ ˙. ˙ œ Ó
œ œ œ œ œ b˙ ˙

V Ó bw w.
w.

? œ.
b˙ . œ œ œ œ œ œ ˙.
J œ b˙ œ œ œ œ
˙

& Ó b www w˙˙ . w


w ˙ ˙ ˙
Ó bw˙ . ˙ ˙

? Ó ˙ w ˙
bw b˙ ˙

20 21 22 23
bœ j œ œ œ #œ œ œ w.
& ˙ œ ˙ œ. œ œ œ œ œ œ œ ˙

& Πj
˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ ˙ ˙ w.
˙ œ

V ∑ w. w. w.

? w. w w.
˙ œ ˙ œ ˙

Œ bœ j Œ œ œ œ #œ œ œ w.
& œœ œ ˙ œ. œ ˙œ œ œ ˙ ˙
œ ˙ œ ˙ ˙˙ œ w.

? Œ ˙ w. Œ œ ˙ w.
œ œ œ ˙
280 L’abaco e la rosa

procedere nell’escursione nel mondo musicale del Rinascimento (faccio notare ancora che
anche la musica del Quattrocento può essere considerata, sotto quasi ogni aspetto, rinasci-
mentale, anche se talvolta scorgiamo ancora bagliori tardogotici) suggerisco di fare diverse
prove con gli strumenti acquisiti. Se ben utilizzati potrebbero portare alla realizzazione di
brani interessanti. Una volta consolidati alcuni procedimenti compositivi — e i procedi-
menti sono il nocciolo di questo libro —, si potrebbero prendere in esame con mano (più)
sicura opzioni stilistiche particolari, senza perdersi nella giungla della casistica del reperto-
rio.
Si consideri ancora che il linguaggio rinascimentale si rivela un’ottima scuola per appren-
dere qualcosa sulla composizione in generale. Ciò per i caratteri di estrema semplicità dei
suoi presupposti. Analogamente ad alcuni fenomeni naturali e sociali studiati dalla na-
scente «scienza della complessità» (si torni a quanto accennato nel capitolo 3), il linguaggio
rinascimentale muove a partire dalla grande semplicità dei propri elementi costitutivi. Il
grande fascino di alcune manifestazioni della natura come il clima, o di numerosi fenomeni
sociali e artistici, dipende spesso dal fatto che una grande complessità può nascere dall’in-
terazione di elementi estremamente semplici — che a un certo momento sembrano sfuggire
alla possibilità di essere oggetto di previsioni lineari — dando vita a esiti inaspettati.
La complessità di tanta musica rinascimentale si sviluppa da possibili relazioni tra ele-
menti semplici; ma la complessità non viene avvertita sempre come necessaria. Occorre al-
lora cercare di entrare nello spirito della semplicità per carpirne ancora utili insegnamenti,
accettando inizialmente una dieta a pane e acqua, per così dire. Imparare a cucinare con
ingredienti poveri conduce ad apprezzare l’infinita varietà delle erbe aromatiche e delle
tecniche di cottura. Una simile prospettiva può aiutarci a guarire dall’ansia contemporanea
di consumo e farci sentire infinitamente più liberi.
7. Taglie comode ed extra large

7.1. La composizione ad alto numero di voci

Prenderemo ora confidenza con una scrittura a più di quattro voci (fino a otto), accorgen-
doci che esistono possibilità di affrontarla senza grosse difficoltà concettuali. Di conse-
guenza, si giungerà probabilmente all’intima consapevolezza che la qualità di una composi-
zione polifonica, e di un brano di musica in genere, non è data per nulla dalla quantità ma
dalla qualità. Infatti, fino a quando si abbia un timore reverenziale nei confronti di un brano
a sei, otto o più voci, per le difficoltà costruttive dovute all’alto numero di parti, potrebbe
forse rimanere un dubbio sul fatto che un brano a quattro parti, ad esempio, dovrebbe ce-
dere per certi versi il passo davanti a uno di cinque o di sei. Sperimentando che non è af-
fatto il numero di parti a fare il peso estetico di una composizione, si apprezzerà la qualità
di un prodotto musicale in maniera più sottile e profonda, scoprendo che la grandezza di
un’invenzione a due voci di Bach, ad esempio, può essere analoga (o superiore) a un brano
per grande orchestra.
Resta, certo, la soddisfazione di costruire imponenti castelli e alte torri musicali accanto
alla vertiginosa e inquietante bellezza di opere come Spem in alium del compositore inglese
del Cinquecento Thomas Tallis, a 40 voci reali. Un capolavoro la cui consistenza è pari oggi
alla sua scarsa conoscenza anche da parte di molti appassionati di musica corale.
Questo e il prossimo capitolo sono debitori, per quanto riguarda alcuni spunti tecnici,
degli scritti teorici del compositore romano Giancarlo Bizzi. Mi riferisco ai suoi Il canone e la
fuga. Logica di due costruzioni musicali e Specchi invisibili dei suoni. Sono due brevi quanto fol-
goranti testi che hanno influenzato molto le mie riflessioni sulla musica contrappuntistica.
Purtroppo questi testi, a distanza di alcuni decenni dalla loro comparsa, non hanno ancora
ricevuto la considerazione che meriterebbero. Le successive pagine di questo e del prossimo
capitolo potrebbero essere lette come una sorta di glossa e di ulteriore sviluppo di questi
brevi scritti che, come i migliori articoli scientifici, potrebbero stimolare nuove e interessanti
idee musicali.
Veniamo ora a una prima considerazione. È certamente possibile aggiungere ex novo una
o più parti a una composizione a più voci. Non sempre però è una pratica agevole. In linea
di massima, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, è forse più semplice procedere a
282 L’abaco e la rosa

una armonizzazione di una linea-guida.


Fino alle quattro parti è comunque ragionevole scegliere diverse e ugualmente efficaci
strategie per la gestione del materiale. I problemi diventano consistenti a partire dalle cin-
que voci, e si capisce. Le tecniche compositive fino all’Ottocento sono sostanzialmente tria-
diche. Un brano musicale orientato alla modalità-tonalità (con tutte le eccezioni e le ag-
giunte di suoni, come le settime nel linguaggio tonale) fa sostanzialmente riferimento ai suo-
ni degli accordi maggiori e minori. Di fatto, già la scrittura a quattro parti, con gli inevitabili
raddoppi di suoni delle triadi che comporta (esistenti del resto già a due e tre parti), è, in
linea puramente teorica, ridondante. Se si aumenta il numero delle parti non è possibile au-
mentare la base sonora degli insiemi verticali, che rimane di tre suoni. È ovvio infatti che in
una composizione in cui non ci siano consistenti limiti di incontri verticali, come in brano in
cui la base armonica sia costituita da accordi di cinque suoni, ci saranno, almeno per un
po’ (fino a un certo numero di parti, superiore comunque a cinque), meno problemi. Nel
caso di un sistema armonico fondato sulle triadi, una scrittura dalle cinque parti in su vuol
dire raddoppi in quantità, quindi pericolo di caduta di autonomia delle singole parti. In
termini pratici: ottave e quinte parallele a profusione.
Non è un caso che la maggior parte delle composizioni in cui tutti gli strati sonori proce-
dono contemporaneamente per lunghi tratti siano a quattro parti. Si pensi ai corali di Bach
e alla maggior parte del repertorio per coro misto. La scrittura a quattro parti è il tipo di
scrittura standard. Anche la scrittura orchestrale del periodo classico è riducibile perlopiù
a una scrittura a quattro parti con raddoppi.
Quando si passa alle cinque voci effettive e più, gli strati sonori raramente procedono
simultaneamente per lunghi tratti. Qualche voce, a turno, tace.
Nel Cinquecento la scrittura a cinque parti affascinava particolarmente i compositori
proprio per la possibilità di agire su mutevoli raggruppamenti di voci (ad esempio due con-
tro tre) senza perdere in ricchezza sonora. Questi raggruppamenti sono efficaci per una
tecnica di sapore quasi orchestrale che sembra avere scoperto il colore nella musica, cioè il
timbro. Così, a Cinquecento inoltrato, la scrittura standard del madrigale italiano diventa
a cinque parti. Nel Quattrocento e a cavallo del secolo successivo la scrittura polifonica è
normalmente a quattro voci, praticamente sempre, nelle composizioni basate su cantus
firmus.
Talvolta i compositori, in particolare quelli di scuola franco-fiamminga, facevano ricorso
a una scrittura a cinque o, preferibilmente, a sei parti, fino ad arrivare a composizioni mo-
numentali a 12 parti o più. Qui l’aspetto coloristico non era però quello predominante. I
maestri del Quattrocento, quando scrivevano per un alto numero di voci, lo facevano pro-
babilmente con la volontà di indagare le potenzialità del materiale sonoro e sfidarne la re-
sistenza.
Scrivere a cinque parti e più rischia di essere una frustrante esperienza simile alla co-
struzione di un castello di carte, o un’attività empirica che procede a costo di un’estenuan-
te lentezza. Il fatto è che non esiste una tecnica di armonizzazione semplice e diretta come
per le quattro parti. Gli antichi maestri erano probabilmente dotati, oltre che di navigata
esperienza, di una consistente pazienza. Forse disponevano anche di specifiche tecniche
Capitolo 7 283

analoghe a quelle di cui parlerò tra breve.


Inizierò con una semplice osservazione. Consideriamo un possibile schema di un fram-
mento di una composizione a quattro parti. Le parti possono essere facilmente visualizzate
come strati, come nel seguente schema:

Tab. 7-1
Soprano
e e e e e

Contralto
e e e e e

Tenore
e e e e e

Basso
e e e e e

Ogni casella contiene genericamente parte di una linea melodica, simboleggiata dalla
nota in essa contenuta. Le singole caselle non necessariamente corrispondono alla lunghez-
za di una battuta.
Mi propongo ora di trasformare il precedente frammento a quattro voci in uno a cinque.
Mi trovo quindi nella necessità di raddoppiare una voce dell’organico. Le abitudini rinasci-
mentali, fino alle otto parti, difficilmente portano al raddoppio del basso. Accade di fre-
quente, invece, che in una composizione a cinque voci ci siano due parti di tenore. Nel
prossimo schema notiamo che l’originaria voce di tenore ha generosamente ceduto parte del
proprio materiale alla nuova arrivata:

Tab. 7-2
Soprano
e e e e e

Contralto
e e e e e

Tenore 1 ↓ ↓
e e e

Tenore 2
e e

Basso
e e e e e

Il materiale è ora distribuito in cinque voci, ma in modo poco elegante. Ascoltando un


ipotetico brano che seguisse alla lettera questa disposizione delle voci si percepirebbe chia-
ramente che i singoli frammenti di linea melodica suddivisi fra le due parti di tenore inizie-
rebbero e finirebbero spesso in modo brusco, dal momento che sono stati spezzati. Rimane
poi l’ovvia constatazione che non si ha mai la compresenza di tutte le cinque voci.
284 L’abaco e la rosa

Si consideri ora questo nuovo schema:

Tab. 7-3

Soprano
e e e e e

Contralto
e e e e e

Tenore 1
e e e e e e e

Tenore 2
e e e e e e

Basso
e e e e e

Negli spazi bianchi ho inserito delle note di raccordo (in caratteri chiari) — d’aggancio
— per entrare e uscire da un frammento del disegno originale a quattro voci. Si tratta, più
facilmente, di note singole o di frammenti poco estesi. La collocazione di queste note, come
si vedrà, non pone grossi problemi. Si tenga conto che a partire dalle cinque voci diventano
abbastanza frequenti (e da sei molto) anche le quinte reali per moto contrario, con o senza
nota in comune: come si ricorderà, quelle con nota comune sono ammesse anche a quattro
parti (si veda l’esempio 6-25).
Il risultato finale sarà quindi sufficientemente omogeneo. Si consideri poi che anche le al-
tre parti, quelle che sono rimaste intatte, possono facilmente contenere dei buchi nel disegno
originale, delle pause cioè. Come ho già detto, a partire dalle cinque voci la sovrapposizio-
ne delle parti non è praticamente mai continua, anche se l’ultimo schema mostra la possibi-
lità di tratti in cui vi sia la sovrapposizione di tutte le voci dell’organico.
Passiamo ora alla realizzazione di un primo esperimento. Comporremo inizialmente un
frammento a quattro parti completo in tutti i suoi dettagli. Avremo cura che il frammento
contenga il meno possibile accordi rivoltati, che a partire dalle cinque voci tendono a di-
ventare sempre più rari. Per noi non sarà un problema rinunciarvi, poiché ne abbiamo fatto
fin qui un uso molto parco. Si potrebbe, ad esempio, realizzare a cinque voci questo breve
schizzo in protus:
Capitolo 7 285

Es. 7-1

j j
&C ˙ ˙ œ ˙ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ œ

&C ˙ ˙ œ ˙ œ
j œ.
j
bœ . œ ˙ œ œ œ

VC ˙ ˙ œ bœ ˙ Œ œ ˙ ˙ Œ œ

?C ˙ œ œ ˙ ˙ j
˙ ˙ œ. bœ œ œ

Œ bœ œ ˙ œ œ œ #œ œ œ w
& ˙ œ œ œ œ œ œ œ

& œ œ œ œ . œj œ œ œ œ
Œ œ œ œ #w
bœ œ œ œ
j œ . œ bœ j
V œ. œ bœ œ œ œ
J œ œ. œ œ œ bœ ˙ w

? ˙ œ ˙ ˙ w
˙ œ œ bœ ˙ ˙

La voce che ora aggiungeremo sarà, come nei precedenti schemi, una seconda parte di
tenore. Disponiamo quindi il materiale dell’esempio su cinque righi sdoppiando a piacere
l’originaria parte di tenore. Un possibile risultato potrebbe essere quello dell’esempio 7-3
(nella pagina seguente). L’esempio 7-4 mostra infine una realizzazione di possibili note
d’aggancio (scritte in piccolo) e aggiustamenti. Notiamo che non è sempre necessario un ag-
gancio tanto per entrare in un frammento originario che per uscirne.
Se si procede con ordine non è difficile realizzare esperimenti analoghi al precedente. In
primo luogo occorre prestare particolare attenzione a errori di ottave e quinte reali, sempre
in agguato. Poi si deve avere cura di non raddoppiare mai la sensibile in fase cadenzale.
Per ultimo, bisogna fare attenzione al trattamento dei ritardi: non bisogna mai fare sentire
contemporaneamente una nota ritardata insieme al suo ritardo. A questo proposito si con-
sideri il seguente esempio:

Es. 7-2

+
˙ ˙ ˙ ˙
&

& b˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ w
V
+
V ˙ ˙ ˙ ˙

? ˙ w
˙

Le note segnate evidenziano un contesto verticale in cui la nota ritardata (il DO) si sente
contemporaneamente al ritardo (il RE). Come ho detto, situazioni del genere vanno evitate.
286 L’abaco e la rosa

Es. 7-3
j j
&C ˙ ˙ œ ˙ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ œ

&C ˙ œ j j
˙ ˙ œ bœ . œ ˙ œ œ. œ œ

VC ˙ ˙ œ bœ ˙ ∑ ˙ Œ œ

VC ∑ ∑ Œ œ ˙ ∑

?C ˙ œ œ ˙ ˙ j
˙ ˙ œ. bœ œ œ

Œ bœ œ ˙ œ œ œ #œ œ œ w
& ˙ œ œ œ œ œ œ œ

& œ œ œ œ. j Œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ #w
bœ œ œ
∑ œ œ. œ bœ ∑
V J œ bœ ˙ w
j j
V œ. œ bœ œ œ ∑ œ œ. œ œ ∑ ∑

? ˙ œ ˙ ˙ w
˙ œ œ bœ ˙ ˙

Il tenore secondo avrebbe qui dovuto presentare un LA invece del DO. Le eccezioni a que-
sto principio naturalmente non mancano. La più vistosa è quella relativa al ritardo dell’ot-
tava (9-8), che invece ammette la compresenza simultanea di ritardo e nota ritardata.
Certamente è buona cosa fare terminare un frammento con la presenza di tutte le voci,
le quali, durante lo svolgimento, possono anche tacere per tratti di una certa lunghezza,
scomparendo e riapparendo come un fiume carsico. La cadenza, come ci si renderà conto
ancora meglio quando si proverà ad aumentare il numero delle voci, è quindi probabilmente
il momento più impegnativo della scrittura ad alto numero di parti. Bisogna essere piutto-
sto pazienti, poiché le soluzioni non sempre appaiono subito a portata di mano.
(Non mi stancherò mai di raccomandare di realizzare i propri lavori utilizzando le risor-
se musicali del computer per mezzo degli ormai numerosi programmi di notazione musica-
le. Anche utilizzando soltanto i suoni di un modesto sintetizzatore come quelli presenti in
ogni sistema operativo, sarà molto bello, forse addirittura emozionante, ascoltare subito i
propri brani.)
Siamo ora pronti per realizzare composizioni anche a sei-sette voci, prima di superare le
colonne d’Ercole delle otto voci, che richiedono alcune considerazioni supplementari.
È possibile realizzare agevolmente un brano a sei voci sdoppiando, oltre alla voce di te-
nore, anche la voce di soprano o di contralto di un precedente brano scritto a quattro parti.
Capitolo 7 287

Es. 7-4
j j
&C ˙ ˙ œ ˙ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ œ

&C ˙ ˙ œ ˙ œ
j œ.
j
bœ . œ ˙ œ œ œ

VC ˙ ˙ œ bœ ˙ b˙ Œ œ œ œ. bœ œ
J

VC ∑ Ó Œ
œ ˙ ˙ ˙ Ó

?C ˙ œ œ ˙ ˙ j
˙ ˙ œ. bœ œ œ

Œ bœ œ ˙ œ œ œ #œ œ œ w
& ˙ œ œ œ œ œ œ œ

& œ œ œ œ. j Œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ #w
bœ œ œ
œ œ. œ bœ
V ˙ Œ bœ
J ˙ Ó œ bœ ˙ w
j j œ
V œ. œ bœ œ œ ˙ Ó œ œ. œ œ bœ œ Œ w

? ˙ œ ˙ ˙ w
˙ œ œ bœ ˙ ˙

Cercheremo adesso di realizzare a sei parti questo frammento in tetrardus:

Es. 7-5
2 3 4 5 6
w ˙ ˙ œ œ œ . œj œ œ œ œ œ œ œ
&C ˙ œ œ. œ œ
J
œ

&C w w œ ˙ œ ˙
Œ œ œ œ Œ œ œ.
j
œ ˙

˙ j
VC Ó ˙ œ œ œ œ ˙ ˙ œ. œ ˙ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

?C w ˙ œ ˙ w œ œ. œ
˙ œ œ œ ˙ Œ
J
7 8 9 10 11 12
œ ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ
& œ œ œ œ Œ ˙ œ œ œ œ ˙ w

& ˙ œ œ œ œ ˙ œ j œ œ œ œ ˙ œ œ #œ œ œ w
œ. œ œ œ
œ ˙ j ˙ œ w
V œ. œ ˙ Œ ˙ œ œ Œ œ œ. œ œ œ
J

? œ œ œ œ œ ˙ Œ œ œ ˙ ˙ w
œ œ œ œ ˙ ˙.
288 L’abaco e la rosa

Il frammento contiene una particolarità che potrebbe essere guardata con raccapriccio
da alcuni intransigenti professori. A battuta 9, tra soprano e contralto, si verificano due
quinte reali! In realtà, si tratta di un caso di quinte piuttosto interessante. Le quinte, infatti,
si verificano sostanzialmente per il DO del soprano. Questa nota, estranea all’armonia, è
una cosiddetta nota di sfuggita. Dal momento che la nota non raggiunge la successiva nota
consonante (LA) per grado, come nel caso di una nota di passaggio, risulta fortemente
estranea al contesto verticale: una sorta di nota fantasma. In casi come questi gli antichi
maestri — in particolare i contemporanei di Josquin e i musicisti a lui precedenti — non si
preoccupavano troppo per le quinte reali che venivano a formarsi (altra cosa sarebbero
state le ottave reali) e accettavano abbastanza tranquillamente la possibilità di una simile
condotta. Lo stesso Josquin lasciava passare a volte quinte reali di gran lunga più vistose.
La formazione sostanzialmente accademica dei musicisti moderni li mette fin da subito
davanti alla prospettiva di commettere errori, veri e propri reati scolastici. Per gli antichi
maestri la nozione di errore era probabilmente più sfumata. Nei nostri lavori cerchiamo
quindi di non essere più realisti del re.
Si noti che a battuta 6 il tenore funge momentaneamente da basso di una triade allo sta-
to fondamentale. Poco più avanti, a battuta 9, il tenore per un istante funge ancora da bas-
so, ma questa volta non riveste il ruolo di fondamentale dell’accordo. In questo caso è
difficile interpretare la situazione verticale come un accordo rivoltato. È più semplice qui
considerare il tenore come facente parte di un puro intervallo consonante, interpretazione
assolutamente lecita, dal momento che i musicisti rinascimentali non concepivano gli incon-
tri verticali come accordi, ma come puri intervalli la cui somma doveva portare a una situa-
zione complessivamente consonante. A questo proposito, come ho già accennato altrove, si
deve sempre evitare che la voce più bassa (che momentaneamente può essere anche il teno-
re e, addirittura, il contralto o un soprano secondo) sia in rapporto di quarta con una delle
voci superiori, poiché tale situazione verticale era considerata dissonante. Cosa che non si
verifica a battuta 9 del precedente esempio. Di fatto, dopo la pausa di semiminima il bas-
so riporta comunque subito sul terreno di una solida accordalità. Se anche avessimo sentito
prima una situazione chiaramente riconducibile a un accordo in stato di primo rivolto, sa-
rebbe stata troppo breve per generare instabilità in una successiva realizzazione a cinque o
più parti.
L’esempio 7-6 mostra una possibile elaborazione del precedente abbozzo. Il soprano
termina qui con la terza dell’accordo. È piuttosto raro che questo suono venga raddoppiato
da altre voci nella fase conclusiva.
Naturalmente è sempre possibile elaborare un brano con spunti imitativi. A questo sco-
po potrebbero andare bene le prime due battute del soprano. Stendiamo quindi una traccia
per l’entrata in successione delle voci; come ho accennato nel capitolo 5, se le voci tendono
a comparire dal registro grave risulta più facile l’elaborazione polifonica. L’esempio 7-8
mostra una delle innumerevoli possibilità. L’imitazione avviene alla quinta. L’entrata delle
ultime voci, come spesso si verifica nel repertorio rinascimentale, risulta temporalmente
sfasata. Qui le voci entrano prima che le altre abbiano terminato di esporre il motivo da
imitare: è ciò che in epoca più tarda verrà definito stretto.
Capitolo 7 289

Es. 7-6
w ˙ ˙ œ œ œ . œj œ œ œ œ œ œ œ œ œ.
&C ˙ œ œ
J
œ

&C w w œ ˙
˙
Œ œ œ œ
Œ
œ œ.
j
œ ˙
œ

&C ∑ Ó
˙ œ ˙ œ ˙
Ó ∑ Ó Œ œ

VC Ó ˙ ˙ œ œ œ œ ˙ Ó Ó ˙ œ œ œ œ œ
˙ œ œ œ œ
j œ ˙
VC ∑ ∑ ˙ ˙ œ. œ ˙ œ œ œ Ó Œ œ

?C w ˙ œ ˙ w œ œ. œ
˙ œ œ œ ˙ Œ
J

œ œœœ œ œ ˙ œ œ œ œ œ
& œœ œ œ Œ ˙ œ œ œ œ ˙ w

& Ó Ó j Ó œ œ #œ œ œ w
˙ ˙ œ œ. œ œ ˙ œ
& ˙ œ œ œ œ ˙ Ó Œ ˙ w
œ
œœ œœ ˙ ˙
j
V ˙ Ó Œ ˙ œ ˙
˙ Œ œ œ. œ œ œ ˙ œ w
˙ œ ˙ ˙ w w
V œ. œ ˙ Ó œ Œ œ
J
? œ œœ œœ ˙ Œ œ œ ˙ ˙ w
œ œ œ œ ˙ ˙.

Modificando leggermente lo schizzo iniziale per ottenere una continuazione omogenea


otteniamo infine quanto mostrato nell’esempio 7-9.
Comporre un brano a sette parti impiegando lo stesso metodo non è molto più difficile:
basta munirsi di una buona dose di pazienza, dal momento che gran parte del tempo speso
per realizzare un lavoro ad alto numero di voci se ne andrà in controlli per stanare le inevi-
tabili ottave e quinte reali che si affezioneranno alla nostra composizione e non mostreran-
no alcuna intenzione di sloggiare. (In realtà oggi esistono plug-in di programmi di notazione
musicale per scovare errori relativi ai parallelismi proibiti. Ritengo però che chi voglia com-
porre musica con cognizione di causa dovrebbe compiere lo sforzo di rintracciare autono-
mamente gli aspetti problematici di una propria composizione.)
L’unica novità di rilievo per le sette voci è che da questo numero di parti in su diventano
del tutto leciti e frequenti anche gli unisoni e le ottave per moto contrario, in qualsiasi cop-
pia di voci si verifichino:

Es. 7-7
œ œ œ œ œ œ
& œ œ

? œ œ
& œ œ œ œ œ
œ
290 L’abaco e la rosa

Es. 7-8
&C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

&C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ Ó ˙ ˙ ˙ ∑

&C ∑ ∑ ∑ ∑
w ˙ ˙
∑ ∑
w ˙ ˙
VC ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

VC ∑ ∑ w ˙ ˙ ∑ ∑ ∑ ∑
?C ˙ ˙ ˙
∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ Ó

Es. 7-9
&C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
j
&C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ Ó ˙ ˙ ˙ œ. œ œ œ
&C ∑ ∑ ∑ ∑ j Œ œ
w ˙ ˙ œ. œ ˙ ˙
w ˙ ˙ j
VC œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ ∑ Ó Œ œ
˙ œ. œ œ œ œ ˙
VC ∑ ∑ w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ J œ ˙
?C ˙ ˙ ˙
∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ Ó

w ˙ ˙ œ œ œ . œj œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ
& ˙ J
& w w œ œ ˙ Œ œ œ Œ j
˙ œ œ œ. œ ˙
& œ œ ˙ Ó œ ˙ Ó ∑ Ó Œ œ
˙ œ ˙
œ œ ˙ ˙ œ œ œ œ ˙ Ó Ó ˙
V ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ j ˙
V œ œ œ ˙ Ó ˙ ˙ œ. œ ˙ œ œ œ œ Ó Œ œ
? ˙ œ ˙ œ œ.
Œ œ ˙
˙ œ w œ œ ˙ Œ œ
J

œ œœœ œ œ ˙ œ œ œ œ œ
& œœ œ œ Œ ˙ œ œ œ œ ˙ w

& ˙ Ó Ó œ j Ó œ œ #œ œ œ w
˙ œ. œ œ ˙ œ
& ˙ œ œ œ œ ˙ Ó Œ ˙ w
œ œœ œœ ˙ ˙
˙ j
V ˙ Ó Œ ˙ œ ˙ Œ œ œ. œ œ œ ˙ œ w
˙ œ ˙ ˙
V œ. œ ˙ Ó œ Œ œ w w
J
? œ œœ œœ ˙ Œ œ œ ˙ ˙ w
œ œ œ œ ˙ ˙.
Capitolo 7 291

È possibile dunque che casi simili ai precedenti riguardino, ad esempio, soprano e teno-
re, o basso e contralto. Possono verificarsi anche tra voci estreme (tra basso e soprano, ad
esempio).
Può sorgere ora una domanda: le ottave e gli unisoni per moto contrario possono ve-
rificarsi soltanto quando siano presenti tutte le sette parti oppure anche quando ne venga a
mancare qualcuna, dal momento che l’orecchio potrebbe essersi abituato a una maggiore
densità sonora? A rigore di logica le ottave e gli unisoni per moto contrario si potrebbero
effettuare soltanto quando si è in compresenza di almeno sette voci. Di fatto, gli antichi
maestri erano propensi a sfruttare questa possibilità anche quando in una composizione a
sette-otto voci c’era una momentanea e quasi impercettibile rarefazione del numero delle
parti (ad esempio quando da otto o da sette si passava a sei). Musicisti dal temperamento
libero come Josquin a volte praticavano ottave e unisoni per moto contrario anche a due
voci! Nessun problema, in definitiva, se ci troveremo occasionalmente a praticare ottave e
unisoni per moto contrario nell’ambito di una composizione a sette parti e più, in momen-
tanei contesti a cinque-sei voci effettive.

7.2. La composizione a otto voci (e più)

Siamo adesso pronti per affrontare una scrittura ad alto (e altissimo) numero di parti. Il
punto critico, come ho accennato nella sezione 7.1, è rappresentato dalle otto voci, che ci
introducono nel mondo della policoralità. Se nulla vieta infatti, in linea teorica, di fare pro-
seguire la lievitazione delle voci come si è fatto sino a questo punto per un numero indeter-
minato di parti, in realtà, a partire dalle otto voci, la prassi rinascimentale organizza per-
lopiù il materiale sonoro in gruppi separati, in due (o più) cori che si fronteggiano per dare
vita a effetti stereofonici. (Anche per quanto riguarda l’origine e gli sviluppi della policora-
lità rimando a un buon testo di storia della musica, qualora si desideri approfondirne gli
aspetti propriamente musicologici.)
Si consideri inoltre che, a partire dalle otto voci, se si proseguisse nell’aumentare in-
definitamente il numero di parti semplicemente continuando con il metodo finora adottato
ben presto ci troveremmo di fronte a un consistente problema di statica sonora. La parte
più bassa, che costituisce le fondamenta della composizione, sarebbe sempre meno idonea a
sostenere l’intero edificio sonoro (come abbiamo visto, la musica ha spesso forti analogie
con l’architettura).
I maestri del Cinquecento non si accontentarono di trovare una soluzione a questo pro-
blema semplicemente aumentando il numero di cantori-esecutori della parte più bassa; tro-
varono una soluzione più elegante ed efficace. Dal momento che una composizione a otto e
più parti è generalmente organizzata in modo da formare, come si è detto, cori distinti (in
genere due) che si fronteggiano — però non mancano le eccezioni —, una buona idea poteva
essere quella di far sì che nelle composizioni a «doppio coro» ogni gruppo, per ragioni di
stabilità e indipendenza sonora, avesse una parte di basso quasi identica a quella degli altri
292 L’abaco e la rosa

gruppi (nelle composizioni a tre e più cori le cose andavano in maniera leggermente diver-
sa). Quasi identica: non uguale quindi; in caso contrario ci si sarebbe trovati di fronte a un
banale raddoppio che avrebbe presentato di fatto un’infinita successione di unisoni paral-
leli. Ecco allora una brillantissima soluzione: quella di fare procedere i bassi con salti che
formano quasi sempre unisoni e ottave per moto contrario. In questo modo i bassi sono
pressoché uno la copia dell’altro, senza peraltro essere formalmente identici:

Es. 7-10
˙ ˙ ˙ w
?C ˙ w

?C ˙ ˙ ˙ ˙ w w

In più accade continuamente, come nel precedente esempio, che il movimento dei due
bassi dia luogo, in senso verticale, a intervalli d’ottava che rendono più robusta la trama
sonora come nella sezione degli strumenti ad arco dell’orchestra classica, dove la parte dei
bassi procede praticamente sempre in ottava per mezzo dei violoncelli e dei contrabbassi.
Affinché questa tecnica fosse praticabile, si ammetteva (come risulta anche dal prece-
dente esempio) che il basso potesse sconfinare di una o due note dal suo registro ordinario
che, ricordo, all’acuto raggiunge normalmente il DO centrale del pianoforte.
Generalmente una singola linea di basso per composizioni policorali procede per salti di
quarta e di quinta. Il movimento per mezzo di altri intervalli è meno frequente. A questo
proposito si consideri il movimento di terza e di seconda del basso posto nel secondo rigo
del prossimo esempio:

Es. 7-11
˙ ˙ ˙
?C ˙ ˙
˙

?C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙

Una delle due parti di basso si trova qui a dovere compiere salti problematici di sesta e
di settima (del tutto antimelodici per lo stile vocale) per potere duplicare, con le stesse no-
te, la linea formata da movimenti di terza e di seconda.
Nel caso in cui si introducevano movimenti melodici diversi dai comodi salti di quarta e
di quinta, gli antichi maestri procedevano in altro modo. A questo proposito si consideri
che a otto e più voci il basso è praticamente sempre la fondamentale di un accordo. Quindi
si fa uso pressoché esclusivo di accordi allo stato fondamentale. Qualora una linea presenti
movimenti melodici diversi dagli intervalli giusti (quarte, quinte e ottave), una parte, quella
più bassa, funge da fondamentale; l’altra, quella più alta, presenta generalmente la terza
dell’accordo (terza o decima che sia effettivamente). Non potrebbe, in linea teorica, presen-
Capitolo 7 293

tare invece la quinta dell’accordo, perché uno dei due gruppi si troverebbe in stato di se-
condo rivolto che, come più volte ho detto, veniva considerato instabile.
Si consideri il prossimo caso:

Es. 7-12
˙ ˙ ˙
?C ˙ ˙ ˙ w

?C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙

Quando possibile, ho proceduto alla duplicazione della linea di basso, altrimenti la li-
nea più alta della coppia di bassi presenta note in modo da formare delle terze. In casi
analoghi al precedente questo era generalmente il modo di procedere degli antichi maestri.
Ovviamente non mancano le eccezioni a questo principio, come nel prossimo esempio
tratto dalle prime battute della doppia linea di basso del madrigale a 10 voci «Trionfo del
Tempo» di Orlando di Lasso:

Es. 7-13

?C Ó ˙ ˙ ˙ w œ œ bœ œ
Pas - - - san vo - - - stri tri - on - fi,

?C w ˙ Ó
˙ œ œ bw
Pas - - - san vo - stri tri - on - - -

? Œ œ ˙ œ œ œ ˙ ˙
˙ Œ ˙
tri - on - fi e vo - stre pom - - - pe.

? Πj
œ ˙ œ. œ ˙ ˙ ˙
w
fi e vo - stre pom - pe.

Come si vede, le quinte formate per mezzo della parte più alta della coppia appaiono in
quantità.
Nei nostri esperimenti cercheremo il più possibile di attenerci a un tipo di condotta simi-
le a quella dell’esempio 7-12. Occasionalmente, il basso effettivamente più alto della coppia
(non importa quindi se quello del primo o del secondo rigo) potrebbe formare una quinta.
Date le particolari esigenze del basso di una composizione a otto voci e più, si è soliti
comporre per primo quest’ultimo, sovrapponendo poi le rimanenti voci. Di fatto si tratta di
una particolare «realizzazione del basso», espressione nota a chi abbia frequentato i tradi-
zionali trattati di armonia.
Per prima cosa dovremo quindi mettere a punto alcune strategie per la realizzazione di
una linea di basso per doppio coro. Quanto detto a proposito della linea melodica non può
essere infatti qui interamente applicato, perché il basso si muove perlopiù per salti di quar-
ta e quinta, e occasionalmente di seconda e di terza. Un semplice lancio di dadi per ottene-
294 L’abaco e la rosa

re informazioni numeriche come quelle che abbiamo utilizzato fino a questo punto ci porte-
rebbe infatti a realizzare linee con una varietà considerevole di intervalli, poco confacente
alla linea di un basso per doppio coro. Inoltre, dal momento che dalle sette-otto voci in su,
si fa uso praticamente solo di accordi allo stato fondamentale, bisogna evitare che la linea
di basso contenga note su cui si possano costruire soltanto triadi diminuite allo stato fon-
damentale, come ad esempio il MI in tritus.
Ferma restando la possibilità di procedere senza alcuno schema prestabilito, propongo
anche qui qualche spunto per lavorare in modo più formalizzato.
Si potrebbe immaginare, ad esempio, il ricorso a schemi intervallari (già in precedenza
abbiamo fatto uso di schemi di durata). Si decide in anticipo cioè che la linea di basso pro-
ceda presentando in successione un numero fisso di intervalli di quarta e di quinta giuste
seguiti da uno o due intervalli liberi; il modello si ripete sino alla formazione di una caden-
za, che vedrà la finalis preceduta dalla dominante.
Per quanto riguarda il ritmo, oltre alla possibilità di procedere liberamente, si potrebbe
anche adesso ricorrere a schemi di durata o a sequenze numeriche casuali che diano infor-
mazioni relative ai valori maggiormente usati. Si tenga presente che il passo di una composi-
zione a elevato numero di parti è piuttosto pesante. Nel basso occorre far uso prevalente-
mente di note bianche e occasionalmente di quelle nere. Nel capitolo 4 l’avere assegnato va-
lori di durata diversi a sequenze di note ci ha fatto ottenere profili ritmici anche molto va-
riegati. Era la varietas che cercavamo. Per quanto riguarda il profilo ritmico di una linea di
basso, in ragione della sua principale funzione di sostegno, si richiede una varietà minore.
Si potrebbe pensare di assegnare a ciascuna faccia di un dado non singoli valori di durata
ma moduli ritmici, per ottenere sì una varietà ritmica, ma più «quadrata». Ecco, ad esem-
pio, un possibile prospetto di moduli ritmici da assegnare a ciascuna faccia di un dado:

Es. 7-14

1 2 3 4 5 6
C w ˙ ˙ ˙ œ œ œ ˙ œ ˙. œ ˙ ˙ ˙ ˙

Molte composizioni policorali sono composte nel tempo di 2/2, ma si potrebbe pensare
anche a moduli per tempi ternari. Si noti che non sono state utilizzate crome e che l’ultimo
modulo è composto da due battute.
Proviamo ora a fare qualche esperimento. Per prima cosa stabiliamo uno schema inter-
vallare. Potrebbe essere composto da tre intervalli di quarta/quinta (non importa se ripe-
tuti o no: DO-SOL costituiscono, ad esempio, una quinta ascendente, SOL-DO una discen-
dente) e da uno o due intervalli diversi. Immaginando una linea di basso in protus, e non
pensando inizialmente ai valori di durata delle note, ma soltanto ai principi della «buona
segmentazione», si potrebbe ottenere, rispettando lo schema intervallare proposto, una li-
nea come quella del prossimo esempio, costituita dalla triplice ripetizione dello schema in-
tervallare, seguita infine dalla fase cadenzale:
Capitolo 7 295

Es. 7-15
? œ œ œ œ œ œ œ ˙
œ œ bœ œ œ œ œ œ ˙

Ho utilizzato delle legature al solo fine di evidenziare meglio gli intervalli di


quarta/quinta e, di conseguenza, lo schema intervallare. (Le ultime due note sono state
scritte in modo diverso rispetto alle altre per evidenziare il fatto che appartengono alla ca-
denza e non allo schema intervallare; nulla vietava, ovviamente, di immaginare una fase
cadenzale composta da più di due note.)
Assegniamo ora valori di durata utilizzando i moduli ritmici dell’esempio 7-14. Consi-
deriamo che in genere le ultime due note di un basso per doppio coro hanno valori lunghi:
una semibreve o, molto spesso, una breve (cioè la lunghezza di due battute in 2/2). Inoltre
potrebbe contribuire a rendere ritmicamente più stabile la linea assegnare anche alla prima
nota un valore lungo, ad esempio una semibreve. Ora applicheremo i moduli ritmici dalla
seconda nota alla terzultima.
Nell’applicare i moduli ritmici secondo quanto stabilito dal lancio dei dadi potrebbe
darsi che le ultime note della sequenza non vi possano rientrare per difetto o per eccesso;
nessun problema: faremo all’occorrenza uso di valori di durata scelti liberamente.
Iniziamo a lanciare un dado. Assegniamo i valori ritmici secondo quanto è uscito e con-
tinuiamo fin quando è possibile:

Es. 7-16
?C w œ ˙ œ œ œ ˙. œ w
˙ ˙ ˙ b˙ ˙.
œ ˙ w w w

Secondo quanto avevo ottenuto dal lancio dei dadi avrei dovuto applicare il modulo 6
alle ultime due note nere dell’esempio 7-16: ciò non era possibile perché le note a disposi-
zione non erano sufficienti, a meno di ripeterne una. Ho preferito utilizzare durate scelte li-
beramente.
Passiamo ora alla duplicazione della linea ottenuta:

Es. 7-17
?C Ó ˙ ˙ ˙ Œœ ˙ œ w w
˙ ˙. œ œ œ ˙ œ ˙. œ w w

?C w œ ˙ œ œ œ ˙. œ w
˙ ˙ ˙ b˙ ˙.
œ ˙ w w w

Si noti l’uso occasionale di pause nella linea superiore, e il fatto che la stessa linea, alla
quinta battuta, in corrispondenza del LA della linea inferiore, non presenta la terza del-
l’accordo ma la quinta. La breve durata della nota attenua l’effetto di momentanea instabi-
lità armonica che si potrebbe verificare nel primo coro.
Prima di passare a un’elaborazione polifonica, può essere forse ancora utile tentare la
composizione di un’altra doppia linea di basso.
296 L’abaco e la rosa

Inizialmente pensiamo a un nuovo profilo melodico, questa volta in tetrardus, secondo


un nuovo schema intervallare. Adesso faremo riferimento alla sequenza di quattro o cinque
quarte/quinte, seguite da uno o due intervalli diversi:

Es. 7-18
? œ œ œ œ œ œ œ œ ˙
œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙

Come la precedente, la nuova linea non presenta note immediatamente ripetute


(«ribattute»). Immaginiamo di volerne inserire alcune, ad esempio una ogni quattro note
(ecco un altro schema). Il risultato è questo (le note ribattute sono evidenziate in bianco):

Es. 7-19
? œ ˙ œ œ œ ˙ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ ˙ œ ˙ ˙
œ œ œ œ

Applicando ancora i moduli ritmici dell’esempio 7-15 ecco cosa potrebbe risultare:

Es. 7-20
?C ˙. ˙ ˙ w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
w œ w w ˙

? œ
˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ w w w
w w

Come di consueto duplichiamo la linea ottenuta:

Es. 7-21
?C w ˙.
œ ˙ ˙
w w w ˙ ˙ ˙
˙ ˙ ˙

?C ˙. œ ˙ ˙ w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
w w w ˙

? ˙ ˙ œ
Ó œ ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ w w w w

? œ
˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ w w w
w w

Passiamo finalmente all’elaborazione polifonica di una doppia linea di basso. Un modo


sicuro e abbastanza spedito di procedere potrebbe essere il seguente.
Per prima cosa si dovrebbe armonizzare a parti strette la doppia linea di basso, avendo
inizialmente riguardo della sola parte effettivamente più grave. Nel fare ciò si dovrebbe
avere cura di non fare scendere la voce più bassa della realizzazione al di sotto della rima-
nente linea di basso (la più acuta). Ricordo che il modo più semplice, più economico, di ar-
Capitolo 7 297

monizzare una linea di basso è quello di effettuare il collegamento «armonico» tra accordi
aventi note in comune (tenendo ferme cioè le note comuni tra i due accordi), ed effettuare il
moto contrario delle parti superiori rispetto al basso, quando gli accordi non presentano
note in comune.
Elaboriamo la doppia linea dell’esempio 7-17. Secondo quanto appena detto, una pos-
sibile elaborazione potrebbe essere questa:

Es. 7-22
ww ˙ +˙ ˙+ œ œ
&C w # ˙˙˙ ˙˙˙ b ˙˙ ˙˙ ˙ ... œœ œ b ˙˙ œœ ˙˙ œœ b œœ ˙ . œœ ˙˙ ˙˙ ˙w # ˙ ˙˙ b ˙˙ w
˙ œ ˙œ ˙+ œ œ ˙˙ .. œ ˙ ˙ w ˙ ˙ # ww
++ + +
+ +
?C Ó ˙ ˙ ˙ Œœ ˙ + œ + + w ++ w
˙ ˙. œ œ œ ˙ œ ˙. œ w w

?C w ˙. œ w
˙ ˙ ˙b˙ ˙ . œ œ ˙ œ ˙ œ œ w w w

Come si può facilmente notare, se tutto sembra funzionare rispetto alla seconda linea di
basso, non altrettanto si può dire in relazione alla prima (la più acuta). In corrispondenza
dei punti segnati si verificano infatti errori di ottave reali per moto retto. Nel primo caso è
coinvolta la parte di contralto, nel secondo e nel terzo la parte di tenore. Una volta armo-
nizzata la linea più grave, occorre quindi concentrarsi per scovare eventuali errori di con-
dotta errata rispetto all’altra linea di basso. Subito dopo si effettueranno le modifiche ne-
cessarie, facendo attenzione a non fare errori, questa volta, con la linea più grave. È questa
una fase piuttosto delicata, che non bisogna sottovalutare:

Es. 7-23

ww ˙
&C w # ˙˙˙ ˙˙˙ b ˙œ b œ ˙˙˙ ˙˙˙ ... œœœ œœœ b ˙˙˙ œœ ˙˙ œœ b œœ ˙ . œœœ ˙˙ ˙˙ ˙w # ˙ ˙˙ b ˙˙ w
œ ˙ œ œ ˙˙ .. ˙ ˙ w ˙ ˙ # ww

˙ w w
?C Ó ˙ ˙ ˙ Œœ ˙. œ œ ˙ œ ˙ œ œ ˙. œ w w

?C w
˙ ˙ ˙ b˙ ˙ . œ œ ˙ œ ˙ œ œ ˙ . œ w w w w

Ora che abbiamo corretto la realizzazione delle parti superiori, notiamo alcune cose.
In primo luogo, nella seconda battuta appare subito la sensibile alterata. Come ho già
detto, è questa una possibilità legittima nell’ambito di situazioni stilisticamente orientate al
Rinascimento avanzato.
In secondo luogo, notiamo che la tessitura della realizzazione è piuttosto acuta. Non di-
mentichiamo che la scena di una composizione ad alto numero parti è molto affollata, e bi-
sogna fare quindi spazio alla moltitudine di personaggi, principalmente utilizzando il più
possibile l’intera tessitura corale. Per ottenere ciò, si consideri che la parte di soprano do-
298 L’abaco e la rosa

vrebbe muoversi il più possibile nel registro acuto.


L’ultima cosa di rilievo, poi, è la fase cadenzale. Si cerchi il punto idoneo per inserire
una situazione dissonante (un ritardo), come nella terzultima battuta, dove ho fatto ricorso
prima a un accordo di quarta e sesta (secondo rivolto di una triade), come accordo di volta.
Lo stesso tipo di accordo compare anche in corrispondenza della penultima battuta, sul
secondo movimento, e contribuisce qui a realizzare una cadenza plagale (IV-I). Gli accordi di
quarta e sesta possono quindi avere anche loro una piccola parte in una composizione po-
lifonica, specie in una composizione orientata allo stile del Cinquecento inoltrato. Il loro
utilizzo è limitato quindi ad alcune formule cadenzali o nell’ambito di un pedale. Ricordo
che con quest’ultimo termine si definisce una situazione armonica in cui un suono (molto
spesso il basso) si prolunga a lungo (diciamo empiricamente due o più battute). Ancora con
riguardo alla cadenza, nell’ultima battuta le composizioni ad alto numero di parti preferi-
scono fare sentire anche la terza dell’accordo (nel modo minore la «terza piccarda»), come
nell’esempio precedente, per ottenere maggiore pienezza.
Giunti a questo punto occorre realizzare un’elaborazione a cinque voci (due di basso)
secondo quanto visto in precedenza. Nell’eventualità di abbassare di un’ottava la parte di
contralto delle parti strette, si faccia attenzione affinché la linea abbassata sia in una si-
tuazione di unisono o più alta di entrambe le linee di basso. I due cori devono infatti man-
tenere il più possibile una propria autonomia armonica:

Es. 7-24
w ˙ ˙ ˙ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙
&C œ

&C w ˙ ˙ w ˙. œ ˙.
œ
w #˙ ˙ œ bœ ˙ ˙ œ
VC Œ œ b˙ œ

?C Ó ˙ ˙ œ ˙ œ
˙ ˙ Œ œ ˙. œ

?C w ˙ ˙. œ
˙ ˙ b˙ œ ˙ œ

˙ œ #œ œ ˙ w w
& œ ˙ bœ ˙. œ ˙

& ˙ œ œ Œ ˙ œ œ œ œ ˙ #w
œ œ ˙ œ w
j j Ó bœ œ œ œ
V œ œ ˙ œ. œ œ œ œ. œ ˙ ˙ ˙ w

? ˙ œ œ w w
œ ˙. w w

? œ œ ˙. œ w w
˙ w w

Per mezzo dell’ormai nota tecnica dello sdoppiamento delle parti, che ora coinvolgerà
tutte le tre voci superiori, potremo realizzare il frammento a otto voci. Nel fare questo non
disporremo le parti a coppie di voci uguali dall’alto in basso (ad es.: sopr./sopr.,
contr./contr. etc.), ma in modo che vengano a sovrapporsi due cori a quattro voci.
Si tenga sempre presente che qualora si vogliano comporre brani a otto e più voci di
Capitolo 7 299

maggiore lunghezza non sempre è necessaria la presenza di tutto l’organico vocale. Anzi,
aspetto particolarmente suggestivo della musica ad alto numero di voci è l’alternanza dei
cori. Se i due cori si fronteggiano allora entra in scena un altro elemento nella concezione e
nella pratica musicale: quello dello spazio.
Quando i cori si alternano, l’entrata di quello che fino a quel momento ha taciuto avvie-
ne spesso sulla fase cadenzale dell’altro o sull’ultimo accordo. Così il dialogo risultante
può essere ricco di sfaccettature.
Per quanto ci riguarda, la tessitura a otto e più voci è rivolta alla composizione di fram-
menti che vedano impegnate quasi sempre tutte le voci, come avviene di solito al termine di
un episodio o di un brano policorale.
Nulla ci vieta a questo punto di provare a comporre frammenti a più di otto voci. Gene-
ralmente il repertorio presenta composizioni a numero pari di voci, ad esempio 10 o 12.
Per ottenere risultati interessanti (senza impazzire) consiglio di realizzare un frammento
a otto voci secondo quanto detto fin qui; si sdoppieranno poi alcune voci e si completerà il
frammento definitivo. Si tenga conto inoltre che il passo di una composizione a più di otto
voci diventa estremamente pesante. I valori ritmici della doppia linea di basso devono
quindi presentare parecchie note della durata di almeno una semibreve. Sarebbe buona
cosa fare a meno delle semiminime. I moduli dell’esempio 7-14 non sono quindi consigliabi-
li; si potrebbe invece pensare a un prospetto come il prossimo, dove alcuni moduli vengono
ripetuti:

Es. 7-25

1 2 3 4 5 6
C w w w ˙ ˙ w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w w

Dal momento che si tratta di moduli piuttosto ingombranti, si può anche decidere che se
il caso prospetti l’immediata ripetizione di un modulo diverso da quello della semplice ri-
petizione della semibreve — situazione del tutto neutra — (moduli 1 e 2) si possa optare
liberamente per un altro modulo. Si potrebbe decidere anche che se il caso non abbia predi-
sposto la comparsa di uno dei moduli lo si possa comunque introdurre nella sequenza,
come una sorta di resto.
Sarà cosa buona predisporre un lungo pedale alla fine del frammento (diciamo di alme-
no quattro battute). Ad altissimo numero di parti risulta spesso piuttosto difficile trovare
punti per agganciare una voce che ha precedentemente taciuto. Anche sfruttando abbon-
dantemente la possibilità di fare ricorso a ottave e quinte per moto contrario, risulta arduo
conferire autonomia a ogni singola parte: le ottave, gli unisoni e le quinte reali per moto ret-
to sono sempre in agguato. Avendo a disposizione un lungo pedale per la finalis si potrà
creare facilmente una sorta di illusione ottico-uditiva. Dopo una pausa, una voce può in-
fatti scegliere qualsiasi suono della triade, e, per mezzo di un’articolazione ritmica di una
certa lunghezza dello stesso suono si può facilmente ottenere l’illusione di una parte indi-
pendente. Ma per questo occorre ovviamente lo spazio sufficiente, un lungo pedale appunto.
300 L’abaco e la rosa

Riconosco che davanti a una composizione a elevato numero di parti non riesco facil-
mente a rapportarmi con il risultato sonoro. A volte mi sembra di essere di fronte a una si-
tuazione musicale corrispondente a un affollato dipinto di Bosch o di Brueghel, altre ho la
sensazione di trovarmi di fronte a un edificio massiccio e anonimo.
Ciò che talvolta mi affascina in una composizione a elevato numero di voci, oltre al-
l’idea astratta di proliferazione del materiale e di caos organizzato, è soprattutto il suono,
come in Lux æterna di Ligeti, reso famoso dall’ultima scena del film Odissea 2001 di Stanley
Kubrick, dove l’intricato reticolo delle 16 voci a cappella genera un effetto simile al suono
elettronico. La stessa sensazione che provo ascoltando alcuni passaggi del già citato Spem
in alium di Tallis, scritto quattro secoli prima.
Tutto sommato, ritengo però che non sia in genere necessario un grande dispendio di
parti per ottenere musica di un qualche interesse o intensità. In questo libro, come ho detto
all’inizio del capitolo 4, non faccio praticamente riferimento alla scrittura a due voci in stile
rinascimentale, e del resto fin qui mi sono occupato pochissimo di quella a tre. Queste
omissioni possono avere sconcertato qualcuno. Se per le tre voci rimedierò nel prossimo ca-
pitolo, rimane scoperto un discorso per le due voci.
Ritengo, paradossalmente, piuttosto difficile il trattamento della scrittura a due voci,
sulla quale si insiste molto nel tradizionale approccio al contrappunto. A parte il maggiore
rigore richiesto dalla condotta delle parti, con tutte le maggiori limitazioni poste qui da ot-
tave e quinte nascoste, non è facile ottenere fin da subito prodotti artigianali di qualche in-
teresse. Le due voci, più che un punto di partenza, sono forse un traguardo da raggiungere.
Se è possibile scimmiottare abbastanza facilmente una frottola a quattro voci, si provi a
fare lo stesso, ad esempio, con un’invenzione a due voci di Bach.
Composizioni rinascimentali a due parti molto studiate sono le Cantiones duarum vocum
di Orlando di Lasso. A esse rimando il lettore. Buona fortuna!
8. Vivere di rendita

8.1. I canoni, eterne ghirlande brillanti

In questo capitolo ci occuperemo di canoni, secondo una delle tante prospettive possibili.
Per prima cosa: cosa sono in realtà? Immaginiamo di ascoltare una linea melodica; dopo un
po’, mentre la linea continua il suo percorso, inizia un’altra linea: la stessa di prima. Passa
altro tempo e appare una nuova copia, poi un’altra ancora e così via, come in «Fra Marti-
no». A certe condizioni, il gioco può andare avanti quanto si vuole. Il fatto è che la linea
originale e le sue copie presentate in successione vengono percepite in modo armonioso, se-
condo le regole della lingua franca musicale cui, di volta in volta (di epoca in epoca), i ca-
noni decidono di sottostare. E qui sta il bello. Perché non è per nulla facile essere servitori
di due padroni.
Il termine canone deriva dal greco e significa regola. Bisogna servire la regola dell’esatta
duplicazione di se stessi (secondo la teoria biologica del «gene egoista» tutti gli organismi
viventi sarebbero macchine per la riproduzione dei propri geni che chiedono in continuazio-
ne: «Duplicami, duplicami!») nel rispetto delle regole artistiche, o di natura se si preferisce.
Per natura si legga qui ciò che di volta in volta si intende per armonia. Anche per quest’ulti-
ma le sue regole sono responsabili di una durissima selezione naturale. Dati diversi casi di
inseguimenti di melodie qualsiasi, non programmate cioè per questo tipo di corsa, pochissi-
mi, forse nessuno, riuscirebbero a sopravvivere, a giungere cioè a un traguardo estetico mi-
nimamente rilevante. Perché ciò riesca, la melodia originale deve possedere un pool genetico,
per così dire, idoneo a superare la selezione rappresentata dalle regole armoniche. Più que-
ste regole sono complesse (come quelle del tempo di Bach), più la selezione si rivela essere
spietata. Si provi a fare qualche prova per rendersene conto.
Ho detto che le linee melodiche che si susseguono dopo la prima sono, nelle espressioni
più semplici del canone, la copia della stessa. In realtà, la condizione necessaria per otte-
nere un canone è che le linee melodiche successive alla prima presentino, rispetto a que-
st’ultima, caratteri isomorfi. Ricordiamo quanto detto nel capitolo 1 in relazione alle princi-
pali trasformazioni di una scala, che si può leggere allo specchio (cioè in senso «inverso»), a
ritroso (cioè in senso «retrogado», dall’ultima alla prima nota) oppure, mettendo insieme le
due cose, in senso «retrogrado dell’inverso» (Ess. 20/22). La stessa cosa può essere realiz-
302 L’abaco e la rosa

zata con qualsiasi linea melodica. Nei fatti, ogni trasformazione di questo genere conserva
la forma, cioè l’informazione, relativa al modello. In questo senso diciamo che la trasforma-
zione è isomorfa. Possiamo immaginare molti altri esempi di isomorfismi, via via più sottili.
Possiamo ad esempio copiare il modello in modo che ogni nota della copia valga una dura-
ta doppia. In questo caso la teoria musicale parla di imitazione per aumentazione o per ag-
gravamento.
Una cosa secondo me affascinante è che possiamo considerare le trasformazioni iso-
morfe come una sorta di cifratura del modello, esattamente come un messaggio crittografato
conserva (deve conservare!) esattamente l’informazione dell’originale secondo relazioni che,
quanto più gli isomorfismi sono complessi e nascosti, garantiscono la segretezza del mes-
saggio. Ovviamente, la forma più semplice di canone, quella in cui le linee melodiche suc-
cessive alla prima sono la copia esatta della prima, quindi senza alcun tipo di trasforma-
zione, non presenta aspetti crittografici.
I grandi compositori franco-fiamminghi del Quattro-Cinquecento come Ockeghem, Jo-
squin e Pierre de la Rue hanno scritto canoni escogitando relazioni che, considerando sem-
pre che il progetto di un canone deve fare i conti con le spietate leggi della selezione armo-
nica, producono nel complesso esiti vertiginosi. Testi specifici sulla musica rinascimentale
riportano generalmente alcuni commenti ed esempi di questi lavori.
L’erede di questa tradizione, al limite dell’esoterico, è, come molti sapranno, Bach, il
quale ha scritto alla fine della propria vita alcuni canoni difficilissimi, insuperabili.
Consideriamo un famoso canone dell’Offerta musicale (Es. 8-1). Qui la forma originale
della linea melodica, costruita a partire dal «Tema regio» (riportato all’inizio dell’esempio
1-12) è sovrapposta immediatamente alla sua forma retrograda. Il fatto che Bach riesca a
superare la selezione delle complesse regole armoniche della sua epoca ha quasi dell’incre-
dibile. Per alcuni oggi questo canone è diventato addirittura l’emblema stesso dell’arte mu-
sicale, come per Douglas Hofstadter, autore di quell’ormai libro di culto che è Gödel, Escher,
Bach — cui ho spudoratamente rubato parte del sottotitolo per l’intestazione di questa se-
zione —, irrinunciabile punto di riferimento per ogni successiva riflessione sull’«intelligenza
artificiale» e ricchissimo di mirabili e spregiudicate riflessioni musicali (basterebbe la sua
lapidaria ed efficacissima definizione di fuga) che valgono certamente più di una pila di
trattati di antiquati didatti della composizione.
Se il canone precedente è di certo spettacolare, le 30 Variazioni Goldberg presentano, fra
l’altro, una serie di canoni la cui veste sonora meno seriosa di quelli dell’Offerta musicale e
dell’Arte della fuga sembra quasi voler celare la misteriosa ed enorme complessità della loro
costruzione. I nove canoni delle «Goldberg» si misurano infatti con una difficoltà in più, ol-
tre a quella dell’osservanza del sistema armonico vigente. Tutti i canoni sono infatti co-
struiti su diverse variazioni del tema delle «Goldberg», a loro sempre aggiunto, che di fatto
è una linea di basso e non una melodia propriamente detta (cioè una linea cantabile): la nota
«Aria» di apertura, della quale riporto l’inizio (Es. 8-2), è già infatti un’elaborazione della
linea del basso.
L’esempio 8-3 riporta le battute iniziali del primo dei canoni delle «Goldberg»: il canone
è presentato interamente nel rigo superiore, mentre il tema su cui è costruito è, come ho det-
Capitolo 8 303

Es. 8-1
b
&b b c ˙ ˙ ˙ Œ œ œ #˙ nœ
˙ n˙

b œ œ œ œ œ œ nœ nœ nœ œ œ œ œ œ œ
&b b c œ œ nœ œ œ œ œ œ œ œ
œ
œ œ
b
&b b œ n˙ bœ œ œ bœ œ ˙ ˙
œ nœ œ œ

b bœ
& b b œ bœ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœœœœœœ
œ œ œ œ œ nœ nœ œ œ

b
&b b ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ nœ nœ œ œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
˙

b
&b b œœœœœœœœ ˙ œ œ ˙ ˙
bœ nœ œ
˙ œ nœ œ
b bœ œœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ nœ œ
& b b œ œ œ œ œ œ œ nœ nœ œ œ œ œ nœ œ œ œ œ
œ

b
& b b œ n˙ œ œ #˙ œ œ Œ ˙ ˙ ˙
n˙ ˙

to, rappresentato dalla linea di basso. Con questo triplice sistema di imposizioni (copia
isomorfa di una linea melodica, osservanza di complesse regole armoniche e, infine, costru-
zione su tema dato) le difficoltà di costruzione diventano esponenziali. Il fatto è che, come
se non bastasse, nei successivi otto canoni Bach cambia di volta in volta l’intervallo a cui
avviene l’inseguimento, che nel primo canone è all’unisono. Si hanno così canoni alla secon-
da, alla terza, alla quarta e via di seguito, come facilmente si nota sfogliando le
«Goldberg».

Es. 8-2

M. œ r
# 3 œ œ œ œ œ œ œr
˙
& 4

Œ Œ œ Œ Œ œ
? # 3 ˙. ˙ ˙. ˙
4
304 L’abaco e la rosa

Es. 8-3 j
# 12 . œ. œ œ œ œ œ œ œ œ œ ‰ ‰ œ
& 8 œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œœ .. œ œ œ œ. œœœœœ

? # 12 œ œ œ œ œ œ œ œ œ
8 œ œ œ œ œ
œ
œ œ œ œ #œ œ
œ œ œ
j j ‰ ‰ œj œ
# ‰ œœ œ. œ œ œœ œ œœ œ œ œ œ œ œ œ œ œœj
& œ. œ œ œ œ œ
œ œ œ ‰ ‰ œ œœœœœ œœœœœ œ œ œ
J ‰

?#
œœœœœ œœœœœœœœœ œœœ œœœœ œ œ œ œ œœœœœœœœœœœœœ œœ
œœ œœœœ

È stato proprio il già citato Giancarlo Bizzi, in Specchi invisibili dei suoni, a essere tra co-
loro che si sono occupati in modo finalmente approfondito del mistero delle «Goldberg».
Lo studioso romano afferma che è assai improbabile che Bach sia potuto andare avanti
nella composizione per tentativi, attraverso estenuanti tours de force, peraltro possibili per
un canone singolo o per lavori di breve respiro.
Secondo Bizzi dovrebbe esserci uno schema, una «macchina» logico-numerica che abbia
permesso la realizzazione dei canoni. Bizzi è riuscito a presentare qualcosa di più di quella
che potrebbe essere ritenuta una semplice ipotesi, mettendo in evidenza che le difficoltà
delle «Goldberg» possono essere affrontate (almeno da un personaggio del calibro di Bach)
attraverso uno schema numerico simile alla Tabula mirifica di Athanasius Kircher, il fecon-
dissimo erudito tedesco, figura di spicco della cultura del XVII secolo, i cui studi musicali (è
tra i fondatori, fra l’altro, dell’acustica scientifica), o i loro riflessi, potevano forse essere
noti allo stesso Bach, che non era alieno da interessi filosofici e scientifici.
Uno schema come la Tabula mirifica potrebbe costituire il presupposto teorico dei canoni
delle Variazioni Goldberg. Ne consentirebbe cioè la loro composizione. Senza di esso, la
composizione di una serie di canoni complessi come quelli delle «Goldberg» sarebbe forse
ancora più misteriosa.
L’eventuale schema non è quindi la «macchina» per comporre automaticamente i canoni
delle «Goldberg». Per quelli ci vuole ancora il genio di Bach. Il fatto che senza di essa quei
canoni forse non esisterebbero non toglie nulla alla loro impenetrabile grandezza; anzi. I
nove canoni delle «Goldberg» costituiscono per questo forse uno dei punti più alti della
sintesi tra arte e scienza mai realizzato.
Tornando agli elementi minimi necessari per la comprensione dei canoni, occorre dire che
ciò che all’inizio ho presentato come una sorta di inseguimento tra linee melodiche è, in ter-
mini tecnici, l’imitazione di una linea-modello, definita antecedente, da parte di una o più li-
nee, definite conseguente/i, che, come ho detto, in modo più o meno sottile conservano l’inte-
ra informazione dell’antecedente. Gli antichi maestri impiegavano per l’antecedente il ter-
Capitolo 8 305

mine dux e per il conseguente il termine comes.


Il canone è la forma più rigorosa di scrittura contrappuntistica, proprio perché il conse-
guente conserva, in un modo o nell’altro, l’informazione dell’antecedente. Altre espressioni
contrappuntistiche, come molte composizioni rinascimentali e la fuga barocca, ricorrono a
imitazioni più libere. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, una linea melodica può
imitarne una precedente in modo inizialmente rigoroso per poi procedere più o meno libera-
mente. In questi casi l’informazione dell’antecedente va in parte persa. È ovvio però che il
maggiore rigore concettuale del canone non garantisce sempre una maggiore riuscita sul pia-
no estetico.
In questo capitolo ci occuperemo di canoni dove il conseguente non presenta relazioni
isomorfe di particolare complessità. Anche la maggior parte dei canoni delle «Goldberg»
non è spettacolare sotto questo profilo: la relazione tra dux e comes è infatti sempre molto
evidente.
L’aspetto specifico di questo capitolo è la costruzione di un particolare tipo di canoni a
più di due parti, che, senza un trattamento rigoroso, presenterebbero non poche difficoltà
di costruzione. Va da sé che l’approccio che qui propongo — e che in parte è debitore degli
studi di Bizzi — è uno dei tanti probabilmente possibili. Rappresenta un punto di vista
particolare che potrebbe essere ulteriormente sviluppato, o per mezzo del quale qualcuno
potrebbe trovare spunti o motivazioni per elaborare un originale trattamento dei canoni e
delle proprie composizioni più in generale.
Nel corso del capitolo vedremo anche che la costruzione dei canoni, oltre a essere
un’esperienza affascinante sotto il profilo di un’articolata scrittura lineare, offre interes-
santi spunti di riflessione per quanto riguarda la generazione e l’organizzazione del mate-
riale musicale in senso più ampio e sotto prospettive anche molto attuali.

8.2. Catene sonore

Comporre un semplice canone a due voci (non certo quello dell’esempio 8-1!) non è affatto
difficile. In questo capitolo lo stile dei canoni che cercheremo di costruire sarà sulla falsariga
di quello rinascimentale, che dovrebbe, se non altro per quanto detto nei precedenti capito-
li, essere ormai noto a grandi linee al lettore. Nell’appendice a questo capitolo prenderemo
in considerazione anche la possibilità di costruire canoni in una prospettiva propriamente
tonale e poi più libera.
Come si è precedentemente visto, il linguaggio rinascimentale, per la sua essenzialità, è
molto indicato per semplici esperimenti di composizione musicale. Inoltre, tutto quello che è
stato detto e fatto fin qui sulla falsariga del linguaggio rinascimentale potrà essere integrato
da ciò che faremo con i canoni.
Per prima cosa, si consideri che l’imitazione fra antecedente e conseguente può essere
facilmente schematizzata in questo modo:
306 L’abaco e la rosa

Tab. 8-1
A B C D
A B C D

La sequenza superiore di lettere costituisce l’antecedente, quella inferiore il conseguente.


È ovvio che l’antecedente potrebbe benissimo anche iniziare in basso ed essere imitato da
un conseguente più alto. Le lettere rappresentano singoli e generici segmenti di linee. Inizia
una voce con il segmento A (ad esempio di una o due battute); mentre la stessa continua
con una nuova porzione di linea, B, l’altra voce presenta di nuovo A, a cui seguirà B e così
via con C e D dell’antecedente.
Cerchiamo ora di mettere a punto un canovaccio per un breve canone a due voci. Ci pro-
poniamo di costruire un canone in protus nel tempo di 2/2.
Inizialmente si potrebbe pensare di costruire una struttura composta da note della dura-
ta di una minima (un tactus) che, in un secondo momento, potrebbero essere fiorite. Si po-
trebbe, del resto, anche pensare di assegnare alla prima nota una durata di semibreve per
ottenere una maggiore stabilità iniziale. Com’è nostra abitudine, ci affideremo al lancio dei
dadi per ottenere una sequenza di cifre da trasformare in note, relativa al primo segmento
dell’antecedente (A). Per i successivi segmenti (B etc.), come vedremo, non avremo più bi-
sogno di ricorrere ai dadi, perché questi segmenti risulteranno essere causati direttamente
dall’antecedente.
Come accade spesso nei brani rinascimentali, una linea inizia o con la finalis o la reper-
cussio; possiamo lasciare che siano i dadi a decidere. Considerando un iniziale segmento di
due battute, abbiamo bisogno di altre tre note. Lanciando i dadi, per ottenere maggiore va-
rietà, non accetteremo successioni di più di due cifre uguali. Se ciò dovesse accadere, rilan-
ceremo i dadi fino a ottenere una cifra diversa rispetto a quelle della coppia identica. Im-
maginiamo di ottenere questa sequenza di cifre:

6, 5, 4.

Inizieremo qui con la repercussio. Tradotta in note, ecco come figura la sequenza numeri-
ca:

Es. 8-4

& C ˙ b˙ ˙ ˙

Il segmento, che corrisponde alla lettera A del precedente schema, può essere fiorito, se-
condo il linguaggio rinascimentale, ad esempio così:

Es. 8-5

& C ˙ bœ œ œ œ ˙ ˙
Capitolo 8 307

In base allo schema siamo ora in grado di costruire il nostro canone, immaginando che le
due parti siano una voce di contralto e una di tenore. Dopo aver introdotto al contralto il
segmento, si tratta di collocare lo stesso nel rigo inferiore un’ottava più in basso. Il nostro è
quindi un canone all’ottava, intervallo a cui avviene l’imitazione. Sul segmento A dato al te-
nore costruiamo un segmento B, secondo ciò che ci consente di fare il linguaggio rinascimen-
tale. Andiamo poi a collocare B nell’altra linea. Procediamo così sino alla fine, quando
avremo realizzato anche il segmento D e lo avremo assegnato, per ultimo, al tenore. Ecco
un risultato che si può facilmente ottenere:

Es. 8-6

A B C
j
& C ˙ bœ œ œ œ ˙ ˙ œ œ. œ œ œ
œ ˙
Œ œ
˙ ˙ œœœœ œ
A B
VC ∑ ∑ ˙ bœ œ œ œ ˙ ˙ œ œ
˙ ˙ œœœœ
D Coda
j
& ˙ ˙ bœ . œ ˙ œ œ . bœ œ ˙ bœ œ œ œ œ ˙ #œ w
J
C D Coda
j j
V œ. œ œ œ œ ˙ Œ œ ˙ bœ . œ ˙ ˙
˙ ˙ w

Si noti che dopo il segmento D l’antecedente presenta materiale musicale che non viene
più imitato dal conseguente una volta che anch’esso ha presentato D. Quest’ultima parte
del canone prende comunemente il nome di coda. Come si vede, anche il conseguente, dopo
aver esposto il segmento D, termina la linea con materiale libero.
Per quanto riguarda la struttura del canone, è interessante notare ancora che B è causato
da A, a sua volta B è causa di C e così via sino alla fine. Ogni segmento quindi, a parte A, è
tanto un effetto quanto una causa.
Ritengo che non occorra insistere molto sul fatto che le linee melodiche del canone, nella
loro interezza, rispondono a criteri stilistici rinascimentali. Va detto inoltre che nella co-
struzione dei canoni non sempre è possibile attenersi agevolmente alle regole della «buona
segmentazione» in precedenza illustrate.
Per chi volesse costruire canoni a due voci, consiglio soltanto di fare attenzione a evitare
le ottave parallele in fase. Si hanno quest’ultime quando due ottave (o due unisoni) sono posti
in corrispondenza di accenti corrispondenti: forte/forte oppure debole/debole, anche se
separate da altro intervallo:
308 L’abaco e la rosa

Es. 8-9

œ œ ˙ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ
&C

&C œ œ ˙ ˙ ˙ œ œ œ œ œ œ

A due voci — e soltanto a due voci — gli antichi maestri tendevano a evitare le ottave in
fase (sono presenti però, ad esempio, in diversi passaggi di Ockeghem). In linea di massi-
ma, le quinte in fase venivano invece ammesse da compositori come Josquin, anche se non
appaiono frequentemente.
Si consideri ora la possibilità di costruire un canone a tre voci. Lo schema è ancora mol-
to semplice:

Tab. 8-2

A B C D
A B C D
A B C D

Il fatto è che, seguendo il metodo precedente, per quanto riguarda la dimensione vertica-
le (cioè armonica) del nostro canone potremmo trovarci subito davanti a problemi molto
consistenti o addirittura insormontabili. In corrispondenza delle colonne evidenziate
(C/B/A e D/C/B) la probabilità di trovarsi sempre su triadi maggiori o minori è piuttosto
bassa. Costruire un canone a tre voci con il metodo precedente, seppure non impossibile, è
molto più difficile di costruire un castello di carte. Ci troveremmo continuamente di fronte
a situazioni del genere: «Cambio questo così va a posto quello... così però si crea un proble-
ma con quell’altro» e via di seguito fino a perdere la pazienza o impazzire; figurarsi a quat-
tro, cinque voci e più!
Una via d’uscita ci viene indicata dalla tecnica del contrappunto multiplo. Capire di che
si tratta non è particolarmente difficile. Torniamo al canone dell’esempio 8-6. Sarebbe pos-
sibile ribaltare le linee in modo da assegnare l’antecedente al tenore e il conseguente al con-
tralto? Proviamo:
Capitolo 8 309

Es. 8-10

&C ∑ ∑ ˙ bœ œ œ œ ˙ ˙ œ œ
˙ ˙ œœœœ

j
V C ˙ bœ œ œ œ ˙ ˙ œ œ œ. œ œ œ
œ ˙
Œ œ
˙ ˙ œœœœ
j j
& œ. œ œ œ œ ˙ Œ œ ˙ bœ . œ ˙ ˙
˙ ˙ w

j
V ˙ ˙ bœ . œ ˙ œ œ . bœ œ ˙ bœ œ œ œ œ ˙ #œ w
J

In corrispondenza delle linee tratteggiate siamo in presenza di intervalli dissonanti sco-


perti. Come ben sappiamo, la quarta, se relazionata con la parte più bassa di una compo-
sizione, viene percepita dissonante dal linguaggio rinascimentale. Il nostro canone è ora sti-
listicamente inaccettabile.
Ecco allora venirci in soccorso ciò che avevo preannunciato: il contrappunto multiplo.
Per mezzo di esso due line melodiche possono essere messe una sopra all’altra a piacimen-
to, senza che si verifichino problemi di condotta verticale:

Tab. 8-3
LINEA 1 LINEA 2
LINEA 2 LINEA 1

Perché ciò si possa realizzare, è necessario che in tutte le situazioni verticali siano pre-
senti soltanto consonanze d’unisono, d’ottava, di terza e di sesta (salvo i punti dove si
possono collocare dissonanze di passaggio e ritardi), in modo che il loro rivolto continui a
dare una situazione verticale accettabile. L’intervallo di quinta rimane quindi escluso, per-
ché il suo rivolto dà una quarta, che in alcune situazioni è percepita dissonante. Valga
quindi il seguente prospetto:

Tab. 8-4
8 1 6 3
1 8 3 6

Per mezzo di esso è possibile realizzare, ovviamente a due voci, contrappunti doppi (ecco
perché si parla, in senso generale, di contrappunto multiplo) rovesciabili all’ottava, nel senso
che le due melodie possono essere cioè messe sottosopra di un’ottava (o più).
Consideriamo una semplice linea melodica in tritus, composta soltanto da note della
durata di una minima, tranne le ultime due:

Es. 8-11
˙ ˙ ˙ ˙ ˙
&b C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w w
310 L’abaco e la rosa

Adesso proviamo a realizzare un contrappunto doppio:

Es. 8-12

˙ ˙ ˙ ˙ ˙
&b C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w w

? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ œ œœ˙ w
b C

&b ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ œ œœ˙ w

˙ ˙ ˙ ˙ ˙
? ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w w
b

L’esempio mostra le due possibili versioni sottosopra. Si noti che, in fase cadenzale, una
delle due linee introduce la nota situazione del ritardo fiorito. Dal momento che la disso-
nanza è preparata e che risolve su una terza, non si pongono affatto problemi al momento
del rovesciamento.
Passiamo ora a una fioritura del contrappunto. Faremo attenzione a impiegare soltanto
le consonanze del precedente prospetto (Tab. 8-4), dissonanze di passaggio, e di evitare
intervalli di quinta, a meno che la quinta sia trattata a tutti gli effetti come una dissonanza:

Es. 8-13

j j ˙ œœœœ
& b C ˙ œœœœ ˙ œœœœ ˙ œ. œ ˙ œ. œ œœœœœ œ

? ˙ ˙ œ œ œ œ ˙ œ. œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ ˙
b C J

j
&b œ ˙ œ w w ˙ ˙ œ œ œ œ ˙ œ. œ

? ˙ œ œœ˙ w ˙ œœœœ ˙ œœœœ ˙ œ. œ


b œ . Jœ J

&b ˙ œœœœ œ œ œœœœ ˙ ˙ j


œ. œ ˙ œ œœ˙ w

˙ œœœœ œ ˙
? ˙ œ. œ œœœœœ œ œ w w
b J

Mancando la possibilità di fare uso di un intervallo strutturalmente forte e frequente


come la quinta, è facile che la fioritura possa presentare, in alcuni passaggi, delle ottave in
fase. Se la durata delle note che le generano è breve (ad esempio di una croma), direi che la
presenza di queste ottave possa essere ora tollerata. Valgano comunque sempre il buon
senso e il buon gusto più di un insensato dogmatismo.
Capitolo 8 311

Cosideriamo ora il prossimo schema:

Tab. 8-5

A B A B A B A ...
A B A B A B ...

Date due line melodiche A e B, di non importa quale lunghezza, composte in contrap-
punto doppio, è possibile costruire un canone in cui gli elementi, una volta che si sia stabi-
lizzato il modulo posto in evidenza, invece di rinnovarsi continuamente (come nello schema
della tabella 8-1) si ripetano sempre, volendo all’infinito. Si dirà che un canone del genere
sarebbe intollerabilmente noioso, e sono pienamente d’accordo. Si consideri però questo
nuovo schema:

Tab. 8-6

A B A B A CODA
Parte libera A B A B CODA

Potrebbe essere lo schema di una breve composizione canonica (una composizione, cioè,
la cui struttura è sostanzialmente un canone) dove il modulo evidenziato si ripete due vol-
te, come se fosse un ritornello.
Immaginiamo che la lunghezza di A (e quindi anche di B) sia di quattro battute. Stabi-
lendo che anche la coda sia di quattro battute, con la composizione di sole otto battute (e
la parte libera iniziale) possiamo scrivere un brano di 24 battute di un’accettabile varietà.
Con un piccolo investimento possiamo quindi ottenere una discreta rendita!
Cerchiamo, ad esempio, di costruire un modulo A/B in protus trasportato. Come in pre-
cedenza, inizieremo a partire da una linea melodica composta da note della durata di una
minima. Potremo affidarci, come di consueto, al lancio dei dadi. Immaginiamo di volere ini-
ziare con la finalis del modo. Saranno necessarie otto cifre per ottenere l’intera linea:

1, 1, 1, 2, 6, 4, 5, 3.

Otteniamo quindi questa linea melodica:

Es. 8-14

b˙ ˙ ˙
&b C ˙ ˙ ˙ ˙ ˙

Anche se la linea verrà in seguito fiorita, il salto tra la seconda e la terza battuta non è
per nulla convincente, e sarebbe meglio provvedere subito a sistemare il passaggio. Cerchia-
mo di trovare una buona condotta lineare con il minor dispendio di mezzi possibile:
312 L’abaco e la rosa

Es. 8-15
œ b˙ ˙ ˙
&b C ˙ ˙ œ œ œ ˙

A questo frammento aggiungiamone un altro in contrappunto doppio, e realizziamo le


eventuali fioriture. Dopodiché presentiamoli di seguito rovesciati uno rispetto all’altro:

Es. 8-16

œ bœ œ œ . œ œ . œj
&b ˙ ˙ œ œ œ Œ œ
J

? œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ . bœ ˙
b J œ œ bœ œ ˙ J

j j
& b œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ . bœ ˙
œ œ bœ œ ˙
œ bœ œ œ œ. œ œ. œ
? ˙ ˙ œ œ œ Œ J
b J

Abbiamo ottenuto così i segmenti A/B e B/A. Come si vede, dal momento che i seg-
menti saranno presentati uno di seguito all’altro nella nostra composizione, è stato neces-
sario realizzare un aggancio convincente tra A/B e B/A (di fatto tra prima e seconda riga),
in maniera che il collegamento risultasse fluido e che non ci fossero errori di condotta tra le
parti. In questo caso è stato sufficiente introdurre l’ultimo LA del rigo superiore, prima del-
la doppia barra.
L’esempio 8-17 mostra il risultato finale della successiva elaborazione; potremmo consi-
derarla come una breve fantasia strumentale. Ovviamente la parte libera iniziale non è sta-
ta composta in contrappunto doppio perché non ce n’era alcuna necessità strutturale. Il
fatto che la coda risulti essere invece composta in contrappunto doppio è un fatto pura-
mente accidentale. Si noti poi che la sensibile alterata compare anche prima dell’ultima ca-
denza (nulla infatti ce lo vietava) e che in diversi punti del brano si forma un incrocio fra le
parti. Quest’ultimo aspetto renderebbe più agevole l’esecuzione del brano per mezzo di due
strumenti diversi, rispetto all’esecuzione mediante uno strumento a tastiera.
Ora che abbiamo preso confidenza con la tecnica del contrappunto doppio, pensiamo
alla possibilità di comporre un frammento a tre parti, dove ogni parte possa essere messa
sotto o sopra a piacere. Nei fatti è ciò che si ottiene con il contrappunto triplo, un altro
membro della famiglia del contrappunto multiplo. Ricordando quanto detto nel capitolo 1
a proposito del calcolo combinatorio, ci rendiamo facilmente conto che possiamo disporre le
Capitolo 8 313

Es. 8-17
œ bœ œ œ . œ œ . œj œ œ œ . œj
&b C ˙ ˙ œ œ œ Œ œ œ œ œ œ œ œ
J
œ
? ˙ . œ #œ ˙ ˙ œ œ œ
b C Ó œ œ b Jœ œ œ . œ bœ œ œ œ ˙
J

j œ bœ œ Œ œ œ . œ œ . œj
&b œ . bœ ˙ ˙ ˙ œ œ œ
œ œ bœ œ ˙ J

bœ œ œ œ. œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ
? Œ J J J œ œ œ œ œ bœ œ ˙ œ . bœ ˙
b J

j j œ
& b œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ . bœ ˙ ˙ ˙ œ œ œ
œ œ bœ œ ˙
œ bœ œ œ œ. œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ
? ˙ ˙ œ œ œ Œ J J œ œ œ
b J

&b
bœ œ Œ œ œ . œ œ . œj œ ˙ œ œœœœœœœœ œ œ . #œ œ œ w
J

? œ . bœ ˙ œ. œ ˙ œ œ bœ œ #œ œ ˙ w
b œ œ bœ œ ˙ J J

tre parti in sei modi diversi. Infatti 3! (cioè 3 fattoriale, corrispondente a 3 x 2 x 1) dà come
risultato 6. La prossima tabella mostra tutte le possibilità:

Tab. 8-7

A A B B C C
B C C A A B
C B A C B A

Grazie al fatto che le tre parti sono rovesciabili a piacere, senza alcun problema di natu-
ra verticale, è possibile immaginare uno schema di organizzazione delle parti come il se-
guente:

Tab. 8-8

A B C CODA
A B C A CODA
A B C A B CODA
314 L’abaco e la rosa

È chiaro che se si considera ogni lettera come un segmento melodico ci troviamo di fronte
allo schema di un canone. In evidenza sono indicati i tre segmenti melodici nella loro suc-
cessione di entrate. Una volta che la linea inferiore ha esaurito la presentazione di segmenti
diversi, B e C, riprende con A e B. Similmente la linea di mezzo, dopo C, mostra nuova-
mente A. La linea superiore può invece passare subito alla coda.
Detto per inciso, se si immagina ad esempio un segmento A/B/C della lunghezza di due
battute e una coda di quattro battute, si ottiene una composizione di 14 battute a partire
da sei. Una simile osservazione, come del resto quella analoga riferita al precedente brano
a due voci, potrebbe essere considerata utile da un musicista pigro, ma non da compositori
dotati di buona volontà e fantasia. In realtà, l’osservazione è utile soprattutto nella pro-
spettiva dell’economia dei mezzi costruttivi di un brano musicale. Se si osserva nuovamen-
te lo schema precedente, notiamo anche che nel complesso, sotto il profilo della somma
verticale delle parti, non una parte dell’intero brano è l’esatta copia di un’altra, anche se gli
elementi che la compongono (coda a parte) sono gli stessi. Si realizza quindi il principio
dell’unità nella varietà, ritenuto di grande importanza in epoche diverse per ciò che riguarda
la coerenza interna di una composizione musicale.
Potremmo ora tentare, una volta realizzato un qualsiasi contrappunto triplo, di com-
porre quindi un canone a tre parti sulla falsariga del modello precedente. Dal punto di vi-
sta tecnico, però, la realizzazione di un contrappunto triplo risulta essere un po’ più com-
plessa rispetto al contrappunto doppio. Se non la si affronta in modo più sistematico ri-
spetto alla semplice applicazione del prospetto intervallare mostrato nella tabella 8-4 è fa-
cile essere vittime di quello che ormai potremmo definire come effetto del castello di carte.
La realizzazione di contrappunti tripli e successivamente quadrupli, quintupli etc. ne-
cessita quindi di qualche precisazione in più, cosa che occuperà interamente la prossima
sezione. Per la composizione di un canone a tre parti dovremo allora ancora un po’ pazien-
tare.

8.3. Il gioco delle coppie

Giancarlo Bizzi ha affrontato in maniera scientifica il problema della realizzazione del con-
trappunto triplo. Ha messo a punto, nei suoi già citati scritti, una «macchina» — intesa
come schema logico-numerico — che permette di realizzare in modo automatico una griglia
di note in contrappunto triplo. La «macchina» di Bizzi, oltre a permettere, dopo una breve
pratica, di realizzare facilmente contrappunti tripli, ha l’indubbio merito di avere inqua-
drato la trattazione di questa forma di contrappunto in maniera sistematica e non averla
lasciata al pressapochismo dei vetusti trattati. La «macchina» di Bizzi, per quanto efficace
e di indubbia importanza sul piano della teoria musicale, non è comunque l’unica via per
realizzare contrappunti tripli in modo rigoroso.
In questa sede indicherò alcune altre strade per giungere facilmente alla stesura di con-
trappunti tripli e quadrupli. Una prima semplice procedura per ottenere facilmente un ri-
Capitolo 8 315

sultato potrebbe essere la seguente.


Per prima cosa si consideri che, non essendo possibile utilizzare l’intervallo di quinta
anche in un contrappunto triplo, quadruplo etc. (per le ragioni già esposte), di fatto anche
a tre e quattro parti ci si trova, in ogni situazione verticale, ad avere a che fare con un solo
intervallo per volta. L’intervallo può essere l’ottava (o l’unisono), la terza e la sesta. Dal
momento che unisono e ottava da una parte, e terza e sesta dall’altra sono rispettivamente
uno il rivolto dell’altro, da questo momento ragioneremo sempre come se a disposizione del
contrappunto multiplo ci fossero soltanto intervalli d’ottava (indicati con la cifra 8) e di
terza (indicati con la cifra 3). Essendo infatti caratteristica principale del contrappunto
multiplo proprio la possibilità di rovesciare linee e quindi intervalli, parlando di intervalli
d’ottava è come se parlassimo sempre anche di intervalli d’unisono (paradossalmente an-
che l’unisono è un intervallo) e di intervalli di terza come di intervalli di sesta.
Dal momento che le linee coinvolte nel contrappunto triplo sono tre, e che l’intervallo co-
involto è, a livello teorico, uno solo, è chiaro che verticalmente ci sarà sempre il raddoppio
di un suono. Questo suono potrebbe essere considerato la fondamentale dell’accordo vir-
tuale (virtuale perché manca un suono della triade: la quinta) che di fatto si viene a forma-
re. (Nel contrappunto doppio si è visto che se c’è una situazione che può essere interpreta-
ta armonicamente come accordo allo stato fondamentale, in seguito, dopo il rovesciamento
della linea, viene interpretata come accordo allo stato di primo rivolto e viceversa.)
Proviamo ora a cominciare da una situazione come la seguente:

Es. 8-18
˙
& ˙˙

Dal punto di vista verticale ci troviamo, di fatto, di fronte a una triade di RE priva della
quinta, ad esempio quella del primo grado del protus.
Stabiliamo poi che la nota più alta prosegua per grado congiunto raggiungendo il MI:

Es. 8-19
˙ ˙
& ˙˙

Come ottenere ora un collegamento che soddisfi i requisiti del contrappunto triplo?
Seguiamo inizialmente questo ragionamento. Se muovessimo il FA sul SOL, il RE più
basso dovrebbe, per forza di cose, scendere al DO; altrimenti, se salisse al MI, si verifiche-
rebbero delle ottave parallele. Ma in questo caso fra il DO e il SOL ci sarebbe un’intervallo
di quinta, inaccettabile nel contrappunto triplo. Anche muovendo il FA verso il LA do-
vremmo fare scendere il secondo RE sul DO. Ma anche fra il LA e il MI della parte più alta
316 L’abaco e la rosa

si formerebbe un altro inaccettabile intervallo di quinta. Attraverso un simile ragionamento


difficilmente arriveremmo a risultati apprezzabili in modo agevole. Occorre pertanto segui-
re un’altra strada.
Consideriamo ancora l’esempio 8-18. I tre suoni sovrapposti, rappresentando di fatto
una triade priva della quinta, costituiscono la situazione verticale più soddisfacente che si
possa dare alle condizioni di partenza (stabilità armonica ed esclusione di intervalli di
quinta). Abbiamo infatti un raddoppio della fondamentale dell’accordo (il RE) e un solo
suono che rappresenta la terza (mediante). Come detto in precedenza, non è che non si pos-
sa mai raddoppiare la terza in un contesto verticale. In molti esempi precedenti ciò accade.
Di fatto, in termini generali, è però più soddisfacente una versione di un accordo che non la
raddoppi. Detto questo, se vogliamo conservare questa buona qualità verticale dobbiamo
fare in modo che anche una successiva situazione verticale sia simile al modello iniziale,
presentando quindi due suoni con funzione di fondamentale e un suono con funzione di
terza dell’accordo. Non è ovviamente necessario che la fondamentale sia il suono più bas-
so. Nel contrappunto multiplo non si fa infatti distinzione tra sopra e sotto.
Consideriamo ora l’esempio 8-19. Ci troviamo di fronte a un suono guida, il MI, che è
quello che orienterà il collegamento armonico. Se la precedente nota con funzione di terza
(mediante) dell’accordo (il FA) fungesse ancora da terza nell’accordo successivo, finendo
quindi sul SOL, la nota rimanente non potrebbe che finire sul MI: avremmo due note con il
ruolo di fondamentale dell’accordo. A questo punto però ci troveremmo di fronte a due vi-
stose ottave parallele:

Es. 8-20

˙ ˙
& ˙˙ ˙˙

Ecco allora, per comodità, un prontuario di semplici regole:

• 1) Una voce con funzione di mediante dovrà, nel successivo «accordo», rivestire sempre
il ruolo di fondamentale (riassumendo: terza in ottava). Ci sono sempre due possibilità.
• 2) Andando a rivestire il ruolo di fondamentale, la voce che rappresenta la mediante
avrà riguardo di non formare una quinta (o quarta) con il suono guida.
• 3) Gli altri suoni completeranno l’accordo in modo da ottenere complessivamente una
triade priva della quinta con raddoppio della fondamentale.

Non serve altro per un approccio immediato al contrappunto triplo.


Torniamo ora all’esempio 8-19. Disponiamo il primo accordo su tre righi in chiave di
SOL e applichiamo le regole:
Capitolo 8 317

Es. 8-21
˙ œ ˙ ˙
&

& œ ˙
œ ˙

& ˙ ˙ œ
˙

L’esempio indica le due sole possibilità di collegamento. Dal punto di vista qualitativo
sono entrambe valide. Le note nere evidenziano la mediante degli «accordi».
Un consiglio: sarà a partire dalla mediante dell’ultimo «accordo» che si inizierà un nuo-
vo ragionamento per un eventuale altro collegamento accordale.
Si osservi che se una voce con funzione di mediante deve in seguito assumere la funzione
di fondamentale, non necessariamente deve accadere il contrario. Nel primo collegamento il
RE basso (fondamentale) conduce a un’altra fondamentale.
Si consideri ora la seguente situazione:

Es. 8-22
˙ ˙
& ˙˙

Le possibilità di collegamento sono queste:

Es. 8-23
˙ œ ˙ ˙
&

& œ ˙ œ ˙

& ˙ œ
˙ ˙

Nel primo caso abbiamo di fatto un cambio di posizione dell’accordo (l’accordo rimane
cioè lo stesso), nel secondo un collegamento in maniera da ottenere un cambio d’accordo.
Invito ancora a riflettere sul fatto che è del tutto indifferente considerare un rigo effetti-
vamente più alto o più basso di un altro; tutto può andare sottosopra a piacere. L’esempio
precedente è stato realizzato infatti per prospettare anche situazioni come questa:

Es. 8-24
? ˙ œ ˙ ˙

? œ ˙ œ ˙

& ˙ œ
˙ ˙

Nelle nostre realizzazioni di contrappunti multipli in generale utilizzeremo sistemi di ri-


ghi in chiave di SOL soltanto per comodità e per ridurre la questione ai minimi termini.
318 L’abaco e la rosa

Siamo ora pronti per realizzare qualche contrappunto triplo. Iniziamo da un profilo me-
lodico amorfo, ad esempio in tetrardus, che funga da linea guida:

Es. 8-25

˙ ˙ ˙ ˙
& ˙ ˙ ˙ ˙

Passiamo a realizzare un contrappunto triplo:

Es. 8-26

œ ˙
& ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙

& œ ˙ œ ˙ œ ˙ œ ˙

& ˙ ˙ ˙
œ ˙ ˙ ˙ œ

Ecco l’esempio precedente con le rimanenti cinque possibilità di rovesciamento:

Es. 8-27
œ ˙ œ ˙
& ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ œ ˙
œ ˙
œ ˙
œ ˙
œ ˙
& œ ˙ œ ˙ œ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙
˙ ˙ œ
œ ˙
& ˙ ˙ ˙ œ ˙ œ ˙ ˙ ˙
œ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙ œ ˙ ˙
œ ˙ ˙ ˙ œ

& œ ˙ œ ˙ œ ˙ œ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙
œ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙ ˙ ˙ œ
œ ˙
& ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ œ ˙
œ ˙
œ ˙
œ ˙
œ ˙ ˙ ˙ œ
œ ˙ œ ˙
& ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙ œ ˙
œ ˙
œ ˙
œ ˙ ˙ ˙ ˙ œ ˙ ˙

È chiaro che ciò che abbiamo realizzato è soltanto uno schema di collegamenti armonici.
Alcuni avranno forse notato che qua e là ci sono collegamenti che evidenziano ottave na-
scoste. Nella realizzazione di un contrappunto triplo ci preoccupiamo soltanto di non
commettere errori di ottave reali (invece gli errori relativi alle quinte sono impossibili perché
non ci sono quinte). Seguendo le regole esposte è impossibile, se non per distrazione, com-
mettere tali errori. Per quanto riguarda le ottave nascoste (nei confronti delle quali, lo ricor-
do, gli antichi maestri, a partire dalle tre voci, erano di larghe vedute), correggeremo ciò che
non ci soddisfa in fase di fioritura dei nostri contrappunti. Per ottenere qualcosa di interes-
sante (e gradevole) dovremo infatti rivestire musicalmente, ad esempio in base a quanto
detto sul linguaggio rinascimentale nei capitoli precedenti, le nostre griglie di collegamenti
pseudo-armonici.
Capitolo 8 319

Realizziamo un primo esperimento di fioritura su ciò che abbiamo appena ottenuto. Per
la fioritura vale quanto detto per le due voci. Gli intervalli di quinta vanno trattati, a tutti
gli effetti, come dissonanti.
A partire dall’esempio 8-26 ho inizialmente preparato uno schizzo in cui tutti gli accor-
di, tranne gli ultimi due, valgono una minima (ho disposto quindi due accordi per battuta).
A quel punto ho realizzato la fioritura vera e propria:

Es. 8-28
˙
&C ˙ œ. œ ˙ œ œ œ œ œ œ w
w
J
&C Œ œ ˙ ˙ Œ œ ˙
œ œ œ ˙ #œ w
?
&C ˙ ˙ ˙ Œ
œ œ œ œ œ œ œ w w

& Œ œ ˙ ˙ Œ œ ˙
œ œ œ ˙ #œ w

& ˙ ˙ ˙ Œ
œ œ œ œ œ œ œ w w
? j ˙
˙ œ. œ ˙ œ œ œ œ œ œ w
w

La seconda versione è una delle sei possibili versioni del contrappunto triplo, uno dei sei
possibili cocktail ottenibili dopo avere magari cambiato il registro a qualche linea, come nel
caso della prima riga, che ho abbassato di due ottave nella seconda versione. Rispetto alla
prima, la seconda versione è certo più soddisfacente per il fatto che la linea di basso termi-
na sulla finalis.
Per quanto riguarda la fase cadenzale, il SOL dissonante nella penultima battuta è una
caratteristica peculiare di uno dei più antichi modelli di clausola, precedentemente visto nei
capitoli 4, 5 e 6.
Nell’esempio 8-27 ho realizzato un contrappunto triplo senza uno schema preordinato.
Osservando le tre precedenti regole, ho navigato, per così dire, a vista.
Propongo invece ora un metodo di grande semplicità per procedere in modo pressoché
automatico nella realizzazione di un contrappunto triplo a partire da un profilo melodico
dato. Come di consueto, in questo libro sono i procedimenti compositivi a interessarmi, più
che risultati (anche buoni!) ottenuti in qualche modo.
Per prima cosa scriverò un breve profilo melodico di una decina di note, ad esempio in
protus trasportato:

Es. 8-29
˙ ˙ b˙ ˙
&b ˙ ˙ ˙ ˙ #˙ ˙

Risulterà ormai chiaro che, dissonanze a parte, una singola nota di una linea melodica
appartenente a una griglia di contrappunto triplo può rivestire soltanto il ruolo di terza (o
320 L’abaco e la rosa

sesta) e ottava (o unisono) di un accordo. Possiamo assegnare in anticipo questi ruoli alle
singole note di un profilo melodico. L’unico precetto, in base a ciò che si è visto fin qui, è
quello di non avere due note contigue con funzione di mediante, perché si formerebbero in
seguito delle ottave reali. Consiglio poi di assegnare subito un ruolo all’ultima e alla penul-
tima nota: si avranno così maggiori probabilità di organizzare senza problemi la fase ca-
denzale. Nel caso del precedente esempio è ovvio che l’ultima nota rivestirà il ruolo di fina-
lis e la penultima, per potere appartenere a una situazione di dominante, rivestirà il ruolo
di mediante. Detto questo, per forza di cose, la terz’ultima dovrà rivestire il ruolo di fon-
damentale, perché non si possono avere due note contigue con funzione di mediante.
Nell’assegnare una funzione alle singole note del profilo melodico si può certamente pro-
cedere in modo libero. Si consideri però anche la possibilità di lavorare in modo più forma-
lizzato, elaborando ad esempio un modello che si applicherà a ritroso finché possibile. Un
modello potrebbe essere: 8, 3, 8, 8. Applichiamolo dunque a ritroso:

Es. 8-30
(8 3) 8 8 3 8 8 8 3 8
˙ ˙ b˙ ˙
&b ˙ ˙ ˙ ˙ #˙ ˙

Come si vede, ho applicato il modello a ritroso fino alle prime due note della linea. A
queste due ho assegnato funzioni in modo libero (le cifre poste tra parentesi).
Realizzerò ora un possibile contrappunto triplo (in alcune situazioni infatti non ero di
fronte a una scelta obbligata):

Es. 8-31
(8 3) 8 8 3 8 8 8 3 8
˙ œ b˙ ˙
&b ˙ œ ˙ ˙ #œ ˙
˙
&b œ ˙ ˙ œ ˙ b˙ œ ˙ œ

&b ˙ ˙ œ
˙
˙ œ ˙
œ
˙ ˙

Ecco una possibile fioritura:

Es. 8-32

˙ œ œ b˙ ˙
&b C ˙ ˙ œœœœ Œ œ œ #œ ˙
œ w
˙ œ nw
Vb C Œ œ ˙ ˙ œ œ ˙ Œ
bœ ˙ ˙ œ
? C ˙ œœœœ ˙ Œ œ œ
œ ˙
œ œ
˙
Œ œ ˙ w
b

Propongo ora un ulteriore metodo per la stesura di contrappunti tripli. Quest’ultimo ci


traghetterà verso un possibile metodo per affrontare in seguito la stesura di contrappunti
Capitolo 8 321

quadrupli.
Se consideriamo le possibilità degli pseudo-accordi dell’esempio 8-31, sotto il profilo
delle cifre se ne danno soltanto tre:

Tab. 8-9
3 8 8
8 3 8
8 8 3

Risulta interessante leggere la tabella in senso verticale, per colonne. Potrebbe essere lo
schema intervallare di un contrappunto triplo, come il seguente:

Es. 8-33
3
œ ˙8 8

& ˙
8 3 8

& ˙ œ ˙
8 8 3

& ˙ œ
˙

Possiamo quindi realizzare schemi intervallari di contrappunti tripli, di qualsiasi lun-


ghezza, mettendo semplicemente una accanto all’altra colonne scelte a piacere fra le tre di-
sponibili, con l’unica limitazione di non poter accettare l’immediata ripetizione di due co-
lonne uguali. Si consideri infatti la prossima tabella:

Tab. 8-10
8 3 8 8 3 8 3
3 8 3 3 8 8 8
8 8 8 8 8 3 8

In corrispondenza delle colonne evidenziate si ha la contiguità di due terze. Di conse-


guenza avremo i soliti parallelismi proibiti in fase di realizzazione musicale del contrap-
punto triplo. Considerando quest’ultimo soltanto nella prospettiva di schemi intervallari, ci
si rende facilmente conto che l’unica cosa da evitare è quella di avere coppie di cifre uguali
in due colonne contigue (nella tabella precedente, in corrispondenza delle due colonne evi-
denziate abbiamo infatti due coppie 8-8 e una 3-3). Quest’ultima considerazione ci sarà di
grande utilità quando realizzeremo contrappunti quadrupli.
Avendo per il contrappunto triplo tre colonne a disposizione, dato un «accordo» di
partenza, cioè una colonna, dal momento che non è possibile la ripetizione immediata della
stessa, possiamo scegliere soltanto fra due colonne. Come di consueto, possiamo affidarci
ai dadi e considerare ad esempio, fra le possibili colonne di uno schema come quello della
tabella 8-9 rimaste a disposizione, di volta in volta quella risultante più a sinistra associa-
ta alla cifra 0 (pari) e quella risultante più a destra associata alla cifra 1 (dispari).
Lanciamo i dadi per ottenere, ad esempio, una sequenza di sei cifre che ci permetterà di
322 L’abaco e la rosa

realizzare un contrappunto triplo:

1, 1, 0, 0, 1, 0.

Possiamo decidere di fare iniziare e terminare il nostro contrappunto rispettivamente


con due colonne scelte a piacere o secondo necessità. Con l’aiuto della prossima tabella è
facile seguire le fasi attravero le quali si giunge allo schema intervallare finale:

Tab. 8-11

1 1 0 0 1 0
II III II I II III I
8 8 8 3 8 8 3 8
3 8 3 8 3 8 8 3
8 3 8 8 8 3 8 8

La prima riga riporta le cifre ottenute dal lancio dei dadi, la seconda riga le colonne con
riferimento alla tabella 8-9, le ultime tre righe riportano lo schema intervallare risultante.
Iniziando arbitrariamente dalla seconda colonna, essendo uscita come prima cifra 1,
dobbiamo scegliere la terza colonna. Considerando quest’ultima, essendo uscito ancora 1,
la colonna più a destra fra quelle disponibili è la seconda. Il procedimento si ripete fino alla
sesta cifra ottenuta dal lancio dei dadi. Troviamo infine un’ultima colonna scelta libera-
mente fra quelle disponibili.
Cerchiamo ora di rivestire musicalmente lo schema indicato nella precedente tabella.
Pensiamo ad esempio a un contrappunto triplo in tritus. Per prima cosa dovremo realizza-
re un profilo melodico che funga da guida. La prima e le ultime tre note sono determinate in
partenza (per una stabilità iniziale e una cadenza convincente), le rimanenti quattro saran-
no determinate dal lancio dei dadi. Attraverso le cifre:

6, 4, 1, 4,

otteniamo questo profilo melodico:

Es. 8-34

˙
&b C w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w

Si faccia adesso attenzione a questo punto: dal momento che la penultima nota deve es-
sere la sensibile, e quindi rivestire il ruolo di mediante, il profilo melodico appena compo-
sto corrisponderà alla prima riga del precedente schema. Se la cifra 3 si fosse trovata nella
seconda o terza riga, avremmo considerato rispettivamente una o l’altra come riga di riferi-
mento per la successiva elaborazione.
Realizziamo ora il contrappunto e una proposta di fioritura:
Capitolo 8 323

Es. 8-35
8 8 8 3 8 8 3 8
˙
&b C w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
3 8 3 8 3 8 8 3

&b C w ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ w
8 3 8 8 8 3 8 8

&b C w ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙ w

Es. 8-36
˙ œ œ. œ ˙
&b C œ J ˙ Œ œ œ œ. œœœ w
j j œ
& b C œ. œ œ œ ˙
j
œ. œ ˙ œ. œ ˙ w
œ
j
V b C œ. œ œ œ œ œ ˙ Œ ˙ œ. œ ˙ w
œ J

Trovo affascinante, con buona pace degli inguaribili romantici, che si possa giungere a un
risultato come quello dell’esempio 8-35 interamente attraverso operazioni automatiche.
L’unica cosa creativa è stata infatti la fase successiva di fioritura. Seppure di grande sem-
plicità, il precedente frammento risponde a discreti requisiti stilistici.
Per mezzo di quanto fatto fin qui, possiamo ora intravedere un metodo per giungere an-
che alla stesura di contrappunti quadrupli e, eventualmente, quintupli, sestupli e così via.
Torniamo per un istante a quello che si potrebbe definire gioco delle coppie. Date le cifre 8
e 3, le uniche disponibili per il contrappunto multiplo, constatiamo facilmente che si danno
soltanto quattro coppie diverse di cifre:

Tab. 8-12
8 8
3 3
8 3
3 8

Saranno queste quattro coppie a formare gli schemi del contrappunto quadruplo. Come
si vede, siamo costretti ad accettare, nelle combinazioni verticali, un raddoppio della terza
dell’«accordo».
Le diverse colonne possibili sono sei:

Tab. 8-13
8 3 8 3 8 3
8 3 3 8 3 8
3 8 8 3 3 8
3 8 3 8 8 3

Analizzando la tabella si nota che data una qualsiasi colonna non le si può giustapporre
324 L’abaco e la rosa

una qualsiasi altra scelta fra le rimamenti.


Fra la prima e la seconda colonna, ad esempio, notiamo subito due gruppi di coppie
uguali. Un metodo analogo a quello seguito per realizzare gli schemi del contrappunto tri-
plo, a partire dalle colonne, non può quindi ora essere agevolmente adottato.
Un modo di procedere semplice potrebbe essere il seguente. Si potrebbe chiamarlo gioco
della cifra uguale e della cifra diversa. Si comincia da una colonna scelta a piacere o, dal mo-
mento che le colonne possibili sono sei, affidandoci alla scelta di un dado. Immaginiamo di
avere bisogno di altre tre colonne. Consideriamo la prossima tabella:

Tab. 8-14
A B C D
1 8
2 3
3 8
4 3

Per decidere se giocare alla cifra uguale o alla cifra diversa ricorreremo di volta in volta al
lancio di un dado. Se esce pari giocheremo alla cifra uguale, se esce dispari alla cifra diversa.
Dopodiché si tratta di scrivere le cifre della colonna B della precedente tabella, in modo da
non avere coppie uguali. Lanciamo il dado: immaginiamo che sia uscito uscito 3. Giochere-
mo quindi, per questa colonna, alla cifra diversa. In corrispondenza della casella B1 collo-
cheremo una cifra diversa rispetto ad A1. Alla casella B1 assegneremo dunque 3. A B2 è
possibile ora assegnare 8? Sì, perché ciò non fa apparire ancora coppie uguali. A B3 è pos-
sibile assegnare 3? No, perché si formerebbe la coppia 8-3 già apparsa. Siamo costretti ad
assegnare 8. A B4 è possibile assegnare 8? No, per ragioni analoghe alle precedenti. Siamo
costretti ad assegnare 3. Abbiamo completato, in questo modo, la colonna B. È evidente
che il gioco potrebbe essere chiamato anche chi ultimo arriva male alloggia.

Tab. 8-15
A B C D
1 8 3
2 3 8
3 8 8
4 3 3

Immaginiamo ora che per scrivere la colonna C sia uscito pari. Si giocherà alla cifra ugua-
le in modo analogo a quanto abbiamo fatto prima. A C1 assegneremo 3, a C2 8, a C3 non
potendo assegnare 8 assegneremo 3. A C4 assegneremo 8:

Tab. 8-16
A B C D
1 8 3 3
2 3 8 8
3 8 8 3
4 3 3 8
Capitolo 8 325

Immaginando che anche per la colonna D si giochi alla cifra uguale, il risultato finale
sarà questo:

Tab. 8-17
A B C D
1 8 3 3 3
2 3 8 8 8
3 8 8 3 8
4 3 3 8 3

Si consideri che, dato uno schema come quello della tabella precedente, le permutazioni
possibili sono ben 24 (4!): ciò significa che ci sono 24 modi diversi di mettere le quattro li-
nee sottosopra.
Consideriamo un modo diverso di disporre le linee rispetto alla tabella precedente:

Tab. 8-18
3 3 8 3
8 3 3 3
3 8 8 8
8 8 3 8

Proviamo ora a realizzare musicalmente il precedente schema di contrappunto quadru-


plo. Immaginiamo una linea guida in protus trasportato. Questa volta assegneremo a tutte
le note la durata di una semibreve:

Es. 8-37
3 3 8 3
w
&b C w w w

Passiamo a realizzare il contrappunto quadruplo e la sua fioritura:

Es. 8-38
3 3 8 3 j
w œ. œ œ œ Œ œ w
&b C w w w ˙ w
8 3 3 3
&b C w w #w w ˙. œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ œ
œ
Œ œ ˙
3 8 8 8 ˙. œ w
&b C w w w w V ˙ ˙ w
8 8 3 8
&b C w w #w w
? Œ ˙ œ w Ó Œ #œ w

Il modulo di partenza, secondo la prospettiva del linguaggio rinascimentale, presenta


diversi problemi. Innanzitutto nella penultima battuta notiamo un raddoppio di sensibile.
Nella seconda linea la sensibile compie poi un salto di quarta diminuita che, come sappia-
mo, non è in linea di massima gradito. Anche il cromatismo (FA-FA diesis) nella quarta li-
nea, fra seconda e terza battuta, non è certo convincente al di fuori di quello «stile cromati-
326 L’abaco e la rosa

co» piuttosto praticato, specie in ambito madrigalistico, nella seconda metà del Cinquecen-
to. In fase di fioritura era dunque necessario rimboccarsi bene le maniche per risolvere que-
sti problemi.
Si consideri come le pause possono essere un prezioso aiuto.
Si noti poi la soluzione proposta per la seconda linea, che non si ferma sul primo tactus
della battuta, come invece le altre linee. A dire la verità, quest’ultima soluzione potrebbe
essere considerata non particolarmente felice. Nel contrappunto multiplo, però, a volte bi-
sogna accontentarsi di soluzioni semplicemente corrette.
Si noti infine che per realizzare il ritardo alla terza battuta ho legato un SOL che nella
seconda battuta non è una consonanza, ma una dissonanza di passaggio. Ho fatto ricorso
dunque a una soluzione efficace ma non troppo ortodossa.
Conviene insistere sulle diverse possibilità di realizzazione di contrappunto multiplo:
quando realizzeremo i canoni ci accorgeremo di aver fatto gran parte del lavoro più impe-
gnativo e potremo quindi procedere speditamente e con soddisfazione.
Nel capitolo precedente si è presa confidenza con una scrittura a cinque e più parti, per
mezzo di una tecnica di sdoppiamento di alcune linee di una precedente composizione a
quattro parti. È anche possibile realizzare contrappunti multipli sdoppiando le linee di un
precedente modulo. Ad esempio, è possibile ottenere un contrappunto quadruplo sdop-
piando una linea di un precedente contrappunto triplo. Vedremo più avanti, però, che ci
sono anche altri metodi più rigorosi e automatici per ottenere contrappunti multipli a più di
quattro parti.
Poniamo di avere realizzato un contrappunto triplo in tetrardus come il seguente:

Es. 8-39
j ˙
& C œ. œ œ œ ˙ œ. œ ˙ ˙ ˙ œ #œ œ ˙ w
J
j œ. œ ˙ ˙. œ
& C œ. œ œ œ Ó
J ˙ ˙ œœœœ w

w
&C ˙ ˙ œ #œ Œ œ œ ˙ œ œ œ Œ œ w

A dire il vero, il secondo elemento melodico della terza linea è in odore di tritono. Quan-
do si lavora sul contrappunto multiplo non sempre però il profilo delle singole linee rispon-
de facilmente ai principi di un’ottima condotta melodica.
Proviamo ora a sdoppiare ad esempio la prima linea:

Es. 8-40
j
& C œ. œ œ œ ˙ Ó ∑ Ó ˙ œ #œ œ ˙ w

œ. œ ˙ ˙
&C ∑ Ó
J ˙ Ó ∑ ∑

j œ. œ ˙ ˙. œ
& C œ. œ œ œ Ó
J ˙ ˙ œ œ œ œ w

w
&C ˙ ˙ œ #œ Œ œ œ ˙ œ œ œ Œ œ w
Capitolo 8 327

Realizziamo gli agganci necessari e facciamo in modo che anche la seconda linea parteci-
pi alla conclusione del frammento (si tenga sempre conto che, come principio generale, il
raddoppio della fondamentale di un accordo è preferibile rispetto a quello della mediante):

Es. 8-41
j
& C œ. œ œ œ ˙ ˙ ∑ ˙ ˙ œ #œ œ ˙ w w
˙ j
&C ∑ Ó œ. œ ˙ ˙ Ó ∑ œ. œ œ œ œ œ ˙ ˙
J
j œ. œ ˙ ˙. œ
& C œ. œ œ œ Ó
J ˙ ˙ œœœœ ˙ Œ œ w

w
&C ˙ ˙ œ #œ Œ œ œ ˙ œ œ œ Œ œ w w

Al frammento originale ho aggiunto una battuta alla fine. La seconda voce infatti
difficilmente avrebbe potuto partecipare agevolmente alla fase cadenzale. La soluzione
proposta attenua un poco la sensazione del «chi ultimo arriva male alloggia», che si sareb-
be forse avuta conservando il frammento originale.
Il metodo dello sdoppiamento può essere efficacemente utilizzato per realizzare anche
contrappunti quintupli, sestupli e così via. Invece di sdoppiare due linee di un contrappunto
triplo, ad esempio, si potrebbe iniziare direttamente da un contrappunto quadruplo prece-
dentemente realizzato per mezzo della composizione di un modulo idoneo.
Non ci sono ragioni di particolare importanza per preferire l’una o l’altra strada propo-
sta per giungere alla realizzazione di contrappunti multipli. È una questione di gusto per-
sonale e di abitudine.
Il metodo dei moduli consente di costruire schemi di qualsivoglia complessità in modo
del tutto meccanico, algoritmico.
Attraverso i moduli cerchiamo ora di realizzare qualche schema di contrappunto quin-
tuplo, sestuplo, ottuplo e così via.
A partire dal contrappunto quintuplo siamo di fronte a un problema di certa consisten-
za. Le coppie di cifre a nostra disposizione per i contrappunti multipli sono, come si è vi-
sto, soltanto quattro. Ripeterne una o più in una colonna significa avere ottave parallele.
Una soluzione al problema potrebbe essere questa. Volendo realizzare inizialmente un
contrappunto quintuplo, si consideri il prossimo schema:

Tab. 8-19
8 3
- -
3 8
3 3
8 8

Ci sono due colonne. La seconda è stata realizzata mediante il «gioco della cifra diver-
sa». Notiamo che la seconda linea è composta da pause, indicate con i trattini. Al posto
della pausa della prima o della seconda colonna nulla ci vieta di introdurre una cifra, 8 o 3.
328 L’abaco e la rosa

In linea di massima è preferibile 8, perché il raddoppio della fondamentale produce una


sonorità più soddisfacente:

Tab. 8-20
8 3
- 8
3 8
3 3
8 8

Consideriamo ora il prossimo schema:

Tab. 8-21
8 3 3
- 8 8
3 8 -
3 3 8
8 8 3

Ho realizzato la terza colonna in base al «gioco della cifra uguale». Dal momento che,
come si è appena visto, non sono disponibili cinque coppie di cifre diverse, ho dovuto inse-
rire, per prima cosa, una pausa. L’ho collocata a fianco di un 8: ciò che ho aggiunto nella
colonna precedente adesso l’ho tolto. Si noti che la pausa è stata collocata in modo da non
isolare una cifra (— 8 —): ciò infatti impoverirebbe notevolmente l’interesse melodico della
linea in fase di realizzazione musicale. Volendo, si può formalizzare la collocazione della
pausa a partire dalla terza colonna, stabilendo, ad esempio, di collocarla a fianco di un 8,
nella linea più vicina a quella che presentava la pausa, muovendo, se possibile, verso il
basso; oppure nella linea più vicina a quella che presentava la pausa muovendo verso l’al-
to.
Notiamo quindi che lo schema di un contrappunto quintuplo (sestuplo, ottuplo, etc.) al-
terna colonne piene a colonne che presentano dei buchi.
Ecco come potrebbe presentarsi infine lo schema precedente dopo aver aggiunto altre tre
colonne (nell’ultima colonna c’è una cifra isolata):

Tab. 8-22
8 3 3 8 3 3
- 8 8 3 8 8
3 8 - 8 8 3
3 3 8 8 - 8
8 8 3 3 3 8

Il contrappunto quintuplo offre già la considerevole scelta di 120 modi di disporre sot-
tosopra le cinque linee che lo compongono (5!).
Con lo stesso metodo si possono realizzare schemi di contrappunti a n-voci.
Ecco ad esempio uno schema di contrappunto ottuplo, ottenuto mediante il solito «gioco
Capitolo 8 329

della cifra uguale e diversa». Le pause da collocare una colonna sì e una no sono adesso
quattro. Si tenga conto che nel realizzare uno schema di contrappunto ottuplo ci si deve
accontentare di avere qualche cifra isolata qua e là:

Tab. 8-23
8 8 - 8 8 8
- 8 8 3 3 3
3 3 3 8 - 8
- 8 - 8 3 8
8 3 8 8 - 8
- 8 - 8 - 8
3 8 3 3 8 3
- 8 - 8 - 8

Volendo rivestire musicalmente uno schema di contrappunto ottuplo conviene che i suo-
ni della linea guida siano della durata di una semibreve o più, durata che dà la possibilità
di una pur minima articolazione melodica e ritmica delle note isolate (un singolo suono ar-
ticolato ritmicamente è già in qualche misura un evento melodico). Quasi certamente le sin-
gole linee melodiche non faranno concorrenza, per qualità, a quelle di una fuga di Bach o di
un quartetto di Haydn. Qui però le regole del gioco sono estremamente restrittive e ci po-
tremmo — dovremmo — accontentare.
Faccio notare che le permutazioni delle linee di un contrappunto ottuplo ammontano a
40.320 (8!)!
Il fatto comunque interessante è che anche la realizzazione di un contrappunto ottuplo
non risulta particolarmente difficile. Una considerazione rassicurante se vorremo comporre
canoni a otto voci.

8.4. Saliamo sulla giostra

Abbiamo finalmente a disposizione gli elementi necessari per comporre canoni a qualsivo-
glia numero di voci. In questa sezione darò ormai per scontata la capacità di realizzare
contrappunti multipli nella loro forma fiorita. Sottolineo che la fioritura dei contrappunti
multipli è una fase molto importante — forse la più importante — per ciò che riguarda la
qualità di un canone; per quanto riguarda il meccanismo di un canone intervengono invece
schemi che risultano essere molto semplici, una volta fattasi un po’ la mano. Conviene
quindi insistere in propri esperimenti fino a raggiungere una discreta facilità nella realizza-
zione dei contrappunti multipli, che saranno i moduli generatori dei nostri canoni.
Consideriamo ora il seguente schema:
330 L’abaco e la rosa

Tab. 8-24
A B C A B C A B C ...
(C) A B C A B C A B C ...
(B) (C) A B C A B C A B C ...

Si tratta di uno schema del tutto simile alla tabella 8-2. Le caselle evidenziate sono lo
schema di un canone che può ripetersi, volendo, all’infinito. Se si considera soltanto la pri-
ma colonna, notiamo che è del tutto simile a uno schema di contrappunto triplo. Per com-
porre il canone dovremo realizzare soltanto, come vedremo, agganci convincenti e corretti
sotto il profilo stilistico tra il segmento A e B, tra B e C e tra C e A. Un piccolo lavoro ri-
spetto alla realizzazione di un modulo in contrappunto multiplo.
Si tenga conto che lo schema precedente è sostanzialmente diverso da uno come il se-
guente:

Tab. 8-25
A B C D E ...
A B C D E ...
A B C D E ...

Qui gli elementi del canone si rinnovano continuamente. Canoni che rispondono a schemi
aperti come l’ultimo risultano difficili da realizzare a tre e più parti (a due parti costitui-
scono invece la regola). Non li prenderò quindi in considerazione in questa sede.
Invece canoni che rispondono a uno schema come quello della tabella 8-24 prendono il
nome di canoni infiniti. Il loro schema può essere sintetizzato anche nel modo che segue:

Tab. 8-26
A B C A B
A B C A
A B C

Il canone inizia con le entrate in successione dei segmenti A, B e C. Una volta che la ter-
za linea ha esposto anch’essa i tre segmenti è possibile evidenziare un modulo, come nella
tabella, che può essere ripetuto quante volte si vuole, come un ritornello.
Si può quindi immaginare anche uno schema che risulti essere praticamente identico a
quello della tabella 8-8:

Tab. 8-27
A B C A B CODA
A B C A CODA
A B C CODA

È questo il modo più frequente di terminare (vocabolo qui paradossale) un canone infini-
to. Il modulo evidenziato può essere ripetuto o no. Il materiale della coda può essere del
tutto libero o trarre elementi dai precedenti segmenti. Dal momento che gli elementi sono
Capitolo 8 331

qui determinati da un vero e proprio modulo sonoro, quello del contrappunto multiplo
(A/B/C), si potrebbe definire questo tipo di canoni come canoni ostinati. In questo modo li
si distinguerebbe immediatamente da quelli (piuttosto infrequenti a partire dalle tre voci)
basati sullo schema aperto della tabella 8-25.
Sulla base dello schema precedente proviamo finalmente a comporre un canone, ad
esempio in tritus. Per prima cosa realizziamo una linea guida di alcune battute:

Es. 8-42
˙ ˙ ˙
&b C ˙ ˙ ˙

Come si vede, la linea inizia con la nota fondamentale del modo e termina con una nota
che può appartenere a una situazione di dominante. In questo modo si ha una certa garan-
zia di ottenere un effetto di circolarità basato sulla tensione e distensione dei principali
ruoli armonici. A parte la prima e l’ultima nota, le altre sono state ottenute lanciando i da-
di. Non si badi in questa fase alla «buona segmentazione» della linea guida: si provvederà
ai miglioramenti in fase di fioritura.
In base alle tecniche esposte in precedenza, ho ottenuto un modulo in contrappunto tri-
plo. Ho assegnato alla prima e all’ultima nota della linea guida la funzione di finalis e di re-
percussio:

Es. 8-43

˙ œ œ œ
& b C ˙. œ ˙ Œ

&b C ˙ œ œ œ œ ˙
Œ œ œ œ ˙
& b C œ. j œ. œ œ
œ ˙ œ J œ ˙ œ

Si noti, nella seconda battuta del pentagramma più basso, il trattamento del secondo
DO (che forma un intervallo di quinta) come dissonanza.
Vediamo ora cosa accade con gli agganci tra i diversi segmenti:

Es. 8-44
A B
˙ œ œ œ
& b C ˙. œ ˙ Œ ˙
B C
&b C ˙ Œ j
œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ ˙ œ. œ
C A
& b C œ . œj ˙ œ. œ œ
J œ ˙ œ ˙.
œ

L’aspetto più importante di un aggancio tra due segmenti è il non verificarsi di errori di
condotta lineare (in particolare ottave reali) e l’adesione ai canoni stilistici che si vogliono
osservare. L’aggancio dovrebbe comunque avvenire nel modo più naturale possibile. Nel
332 L’abaco e la rosa

caso precedente non è stato necessario intervenire. Gli agganci risultano, già così, accettabi-
li. Più avanti vedremo invece casi in cui sarà necessario modificare la parte finale di una li-
nea, per realizzare in modo corretto e convincente l’aggancio.
Seguendo lo schema riportato dalla tabella 8-27, passiamo ora al montaggio del canone
e a comporre una coda libera, volendo secondo le indicazioni dei capitoli precedenti:

Es. 8-45

& b C ˙. œ
˙
˙ Œ œœœ ˙ Œ œ œ œ j
œœœœ ˙ œ ˙ œ.œ ˙

&b C ∑ ∑ ∑ ˙. œ
˙
˙ Œ œœœ ˙
œœœœ
? ˙. œ
b C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

&b œ. œ œ ˙ Œ œ œ œ ˙
œ J œ ˙ œ ˙. œ ˙ œœœœ
&b ˙ Œ œ œ œ j œ. œ œ
œ ˙ œ. œ ˙ œ J œ ˙ œ ˙. œ
˙ œ œ œ ˙
? ˙ Œ œœœœ ˙ Œ œ œœœ ˙ œ. œ ˙
b J
CODA
j œ œ ˙
&b ˙ Œ œ œ œ
œ ˙ œ. œ œ œ œ œ œ˙ œ œ. œœœ w

&b ˙ ˙ Œ œ œ œ œ . œj œ œ œ œ . œj œ œ œ œ ˙
œ œ œ ˙ w
œ .
? œ Jœ œ œ ˙ œ œ . œ œ œ œ œ œ . œ œ œ ˙ ˙ ˙ w
b J J œ

Rispetto allo schema di riferimento, il nostro canone non presenta la ripetizione del mo-
dulo evidenziato.
La terza linea del modulo in contrappunto triplo è stata abbassata di un’ottava. Si po-
tevano realizzare ovviamente altre disposizioni.
La coda, di carattere abbastanza arcaico (si noti, oltre a un caso di quinte «in fase», il
RE del pentagramma centrale nella terz’ultima battuta, nota di sfuggita, che risolve poi sulla
finalis), è stata composta realizzando la linea melodica più acuta con l’aiuto dei dadi, cui
sono state aggiunte le rimanenti linee. Quello che ho composto può essere definito un canone
all’unisono-ottava (gli intervalli a cui compaiono i conseguenti).
Per quanto riguarda la realizzazione del canone vero e proprio, si consideri che non c’è
un’assoluta necessità di inserire ritardi nel modulo di partenza. Un ritardo è però indi-
spensabile nella fase cadenzale della coda. Si provveda invece, possibilmente, affinché nel
modulo iniziale compaiano tutte le note del modo di riferimento: ciò contribuirà notevol-
mente a conferire naturalezza al canone.
A ben vedere, i musicisti rinascimentali amavano presentare canoni infiniti in «forma
chiusa». Il canone precedente sarebbe stato allora presentato in questa concisa, quanto
esoterica maniera:
Capitolo 8 333

Es. 8-46
%
& b ˙. œ ˙ ˙ Œ œœœ ˙ œ Œ j œ.œœ
œœ œ ˙ œ œœœ ˙ œ. œ ˙ œ J œ ˙ œ

Inizia una voce o strumento che sia: giunti al segno, attacca una seconda voce, ricomin-
ciando dall’inizio, mentre la prima continua. Giunta anche la seconda voce al segno attacca
la terza. Da questo momento l’esecuzione del canone può andare avanti, volendo, sino alla
fine dei tempi. Lo si potrebbe però interrompere in almeno due modi. Il primo è quello di
fare smettere simultaneamente le voci in corrispondenza di una cadenza sulla finalis. Nel
nostro caso, il momento più indicato per l’interruzione è in corrispondenza della prima
nota del canone. Un secondo modo, meno brusco, è quello di fare tacere dapprima la voce
che aveva cominciato, una volta ritornata a una nota con decisa funzione conclusiva (la
finalis del modo). A questo punto, analogamente uscirà di scena la seconda e, infine, la ter-
za, ritrovatasi ormai sola. È ovvio che queste maniere di presentare e di eseguire i canoni
non prevedono la coda conclusiva.
Ora che abbiamo realizzato un primo, semplice, canone a tre voci possiamo facilmente
renderci conto di alcuni aspetti che possono essere di particolare interesse per noi, oggi, nel
XXI secolo. La fortuna, quasi mai in declino, del canone, inteso come l’espressione più rigo-
rosa di musica polifonica, si lega probabilmente anche al fascino di significati che vanno ol-
tre la musica stessa, significati che di volta in volta i musicisti delle varie epoche hanno cre-
duto di potere attribuire a esso.
Penso che oggi possa essere molto affascinante considerare un canone come quello del-
l’esempio 8-46 sotto il profilo di ciò che si definisce come loop, cioè, in prima approssima-
zione, come un anello di cause ed effetti. Il concetto di loop, come quello, in parte simile, di
feedback, traducibile come processo di «retroazione», è, ad esempio, molto importante per
la nascente scienza dei «sistemi complessi», che si rivela sempre più essere uno strumento
di primaria importanza per lo studio di molti fenomeni naturali (quelli meteorologici per li-
mitarci a un caso) o dei comportamenti sociali. Vi ho accennato nel capitolo 3.
Un canone può essere inteso quindi come una sorta di anello retroattivo, nel senso che
ogni suo singolo elemento costitutivo è al contempo causa ed effetto. Tornando all’esempio
8-44, A può essere interpretata come causa di B; a sua volta B come causa di C; quest’ulti-
ma, come si vede dall’aggancio, può essere interpretata però, a sua volta, come causa di A:

A
/ \

C _ B

Ascoltare un canone, o percorrerlo con gli occhi in partitura, per certi aspetti può essere
un’esperienza simile a quella di osservare la famosa litografia di Escher, Salita e discesa, del
334 L’abaco e la rosa

1960 (nel riquadro), dove una fila


di misteriosi uomini incappucciati
percorre un’impossibile scala che
consente di ritrovarsi al punto di
partenza dopo averne percorso le
rampe da cui è costituita. Un’ope-
ra come questa, sfidando la no-
stra esperienza spaziale quotidia-
na, ha a che fare con l’infinito, di
cui il moto perpetuo è una sua
rappresentazione. Anche un cano-
ne infinito, a pensarci un po’,
sfida la normale dimensione tem-
porale della musica, l’andare
avanti nel tempo.
Un altro aspetto dei canoni che
ritengo molto affascinante è il fat-
to che essi, in qualche modo, deli-
neano una dimensione diagonale
della musica. Copie di una singola
linea melodica, come quella del-
l’esempio 8-46, che costituisce un
saggio di dimensione orizzontale,
se attorcigliate su loro stesse, come un DNA, creano anche la dimensione verticale, cioè la
dimensione armonica.
Diversi compositori del Novecento hanno guardato e molti oggi guardano con insoffe-
renza al tradizionale rapporto melodia-accompagnamento, inteso come elementare rappor-
to (per quanto possa essere talvolta meraviglioso) tra dimensione orizzontale e verticale.
Per questo molti nel Novecento hanno prediletto la scrittura contrappuntistica, fondata
sulla sovrapposizione di linee che si vorrebbero indipendenti. Alcuni però erano insoddi-
sfatti da questo ritorno alla polifonia, perché spesso celava appena meglio della melodia
accompagnata la netta separazione tra dimensione orizzontale e verticale.
Compositori come Anton Webern si resero conto che una via d’uscita era data proprio
dai canoni. Diverse opere di Webern sono infatti in forma di canone. Canoni a volte ben ce-
lati, che solo l’analisi rivela. In questo modo Webern aprì la strada allo «strutturalismo»
musicale del dopoguerra, che pose al centro della propria concezione musicale proprio la
dimensione diagonale, la quale fa sì che non si possa distinguere chiaramente la condotta li-
neare da quella armonica. Se gli anni Settanta hanno segnato quasi definitivamente la crisi
dello strutturalismo e la conseguente legittimazione di altri linguaggi, quelli della cosiddetta
postmodernità, un’eredità preziosa dello strutturalismo, al di là di tutto ciò che se ne può
dire, rimane proprio questo tentativo di indagare nuove dimensioni dello spazio e del tem-
po musicali.
Capitolo 8 335

Numerosi esponenti delle nuove generazioni hanno metabolizzato le prospettive aperte


dalla stagione strutturalista — a volte anche inconsapevolmente o altre, polemicamente,
anche negandole —, e con esiti che sotto il profilo puramente sonoro non di rado sembrano
non aver nulla in comune con essa. Penso principalmente al minimalismo e alla musica di
Adams, Glass, e Reich, per limitarmi a qualche nome, nella quale, fra l’altro, qualcosa di
somigliante ai canoni o canoni effettivi sono piuttosto frequenti.

Torniamo ai nostri canoni. Ci proponiamo ora di comporre un canone a cinque voci.


Per prima cosa dovremo realizzare un modulo in contrappunto quintuplo, ad esempio in
protus trasportato, secondo quanto esposto fin qui:

Es. 8-47

A B
j
&b C ˙ j
œ bœ œ. œ bœ œ œ œ ˙ œ #œ ˙ œ œ
œ. œ
B C
œ ˙ œ œ n˙
& b C œ œ bœ . j
œ œ
˙ Ó Ó
C D
&b C Ó ˙ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ ˙ Ó Œ
œ œ bœ œ œ
D E
˙
&b C Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ Œ œ œ œ ˙
E A
&b C ˙ bœ œ œ bœ
œ œ

Ó
˙
˙ nœ œ œ œ

Notiamo che l’aggancio tra A e B consente l’inserimento di un ritardo. A subire una mo-
difica, quindi, non è ora la parte finale di un segmento, ma quella iniziale (in questo caso
B). Si noti poi che all’inizio della terza battuta del segmento D il SOL è trattato come nota
dissonante.
Detto questo, si può procedere agevolmente al montaggio del canone e aggiungere una
coda. Il risultato finale è mostrato nell’esempio 8-48.
Si noterà che la coda è composta da tre sole battute. La quarta voce imita l’ultimo seg-
mento melodico della quinta parte. Quando lo sviluppo di un canone è di una lunghezza
che per qualche ragione si può considerare consistente, come sembra accadere nel nostro
caso, bisognerebbe prestare particolare attenzione alla stesura della coda. Risulta soddi-
sfacente una coda che presenti, in parte, materiale del canone stesso per non avere in segui-
to la sgradevole sensazione che non abbia nulla a che fare con quanto ascoltato in prece-
denza. La coda di una canone di una certa brevità può invece presentare, senza grossi pro-
blemi, materiale eterogeneo.
Ritengo sia opportuno insistere ancora sul fatto che, come diversi altri nostri esperimenti
di questo capitolo, il canone non è stato scritto con riferimento a registri particolari di voci.
Le prime tre parti potrebbero essere genericamente intese per voci o strumenti di registro
medio, mentre le ultime due per voci o strumenti bassi. Nei fatti, quasi tutti i nostri esperi-
menti sono assimilabili a quelle composizioni rinascimentali che, come le canzoni strumen-
tali, non prevedevano alcuna indicazione timbrica o vocale, ma erano «da sonar con ogni
sorta di strumenti», sempre che il registro dello strumento consentisse l’esecuzione delle
336 L’abaco e la rosa

Es. 8-48
j œ
&b C ˙ j
œ bœ œ. œ bœ œ œ œ ˙ œ #œ ˙ œ nœ bœ . œ
j ˙
œ. œ œ
j
&b C ∑ ∑ ∑ ∑
˙
j
œ bœ œ. œ
œ. œ
&b C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

?
b C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

?
b C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

œ œ n˙ œ œ œ œ ˙
&b ˙ Ó Ó ˙ œ œ œ œ ˙ Ó
œ œ bœ œ
œ ˙ œ œ n˙
& b bœ œ œ ˙ œ #œ ˙ œ nœ bœ . œ
j ˙ Ó
œ œ
j
&b ∑ ∑
˙ œ
j
bœ œ. œ bœ œ œ œ ˙ œ #œ ˙
œ. œ
? ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
b
? ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
b

˙
&b Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ Œ œ œ œ ˙ bœ œ œ bœ
œ œ

&b Ó ˙ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ ˙ Ó Œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ bœ œ
œ ˙ ˙ œ œ n˙ ˙
& b œ nœ bœ . j Ó Ó œ œ œ œ
œ œ œ œ bœ œ
œ ˙
?
b ˙ œ. œ bœ œ œ . œ bœ œ œ œ ˙
J
œ #œ ˙ œ nœ bœ . œ œ
J J
? ∑ ∑ ∑ ∑ ˙ œ bœ œ. œ
b œ. œ J
J

j
& b b˙ Ó j
œ bœ œ. œ bœ œ œ œ ˙ œ #œ ˙
˙ nœ œ œ œ ˙ œ. œ
˙
& b œ œ bœ Œ œ œ œ ˙ bœ œ œ bœ
œ œ

Ó
˙ nœ œ œ œ
&b ˙ œ œ œ œ ˙ Ó Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ Œ œ
˙
œ œ
˙ œ œ n˙ ˙ ˙ œ œ œ œ ˙
? œ œ œ œ
b Ó Ó œ œ bœ œ Ó
œ ˙ ˙ œ œ n˙
? ˙ œ #œ ˙ œ nœ bœ .
b bœ œ œ œ œ
J
œ Ó

œ ˙ œ œ n˙ ˙
& b œ nœ bœ . œ
j ˙ Ó Ó
œ
j
&b ˙ j
œ bœ œ. œ bœ œ œ œ ˙ œ #œ ˙ œ nœ bœ . œ
j
œ. œ
&b ˙ bœ œ œ bœ
œ œ

Ó
˙ œ
j
˙ nœ œ œ œ œ.
œ œ œ œ œ œ ˙
? œ œ œ œ bœ œ œ œ bœ œ
b Œ Œ ˙
˙ ˙ œ œ œ œ ˙ œ œ
? œ œ œ œ
b Ó œ œ bœ œ Ó Œ œ
Capitolo 8 337

˙
&b œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ Ó Œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ bœ œ œ
œ ˙ œ œ n˙ ˙
&b ˙ Ó Ó œ œ œ œ
œ œ œ bœ œ
j œ
& b bœ œ. œ bœ œ œ œ ˙ œ #œ ˙ œ n œ b œ . œj ˙
œ œ
? œ bœ œ œ œ. œ
b b˙ ˙ Ó nœ œ œ œ ˙ œ . œ bœ œ
J J
œ œ œ œ ˙ œ œ
? œ œ œ bœ Œ œ œ œ ˙ bœ œ œ bœ
b

˙
& b œ œ bœ Œ œ œ œ œ #œ œ ˙ w w
˙
&b ˙ œ œ œ œ Ó
w ˙ ˙ w
œ œ n˙ œ œ œ.
&b ˙ Ó Œ ˙ nœ œ
J
nw
œ ˙ œ œ nœ œ œ œ œ w
? ˙ œ #œ ˙
b bœ œ œ œ
? w
b b˙ ˙ Ó nœ œ œ œ w
w

note della parte prescelta.


Faccio notare poi che il modulo iniziale di quattro battute ha fruttato ben 36 battute di
fatto una diversa dall’altra. Avendo aggiunto una coda di tre battute abbiamo ottenuto
una composizione di una quarantina di battute da un capitale, per così dire, di sole sette
battute. Ritengo possa essere ormai chiaro il significato del titolo che ho dato a questo ca-
pitolo.
Giunti a questo punto, con la stessa procedura, risulterà (abbastanza) agevole comporre
anche canoni all’unisono-ottava a sei, otto, n-voci.

8.5. Cerchi più ampi

Ho dato sino a questo punto indicazioni relative a canoni all’ottava e/o unisono. Volendo,
siamo ora in grado di comporre anche canoni a otto e più parti. L’insieme dei conseguenti
sarà però sempre una copia identica dell’antecedente, a parte possibili trasposizioni d’ot-
tava (o più) di qualche conseguente. Ho detto però all’inizio di questo capitolo che il rap-
porto tra antecedente e conseguente può essere anche più sottile e meno scontato di quello
dei canoni all’unisono-ottava. In questo capitolo tralascerò relazioni come il rapporto di re-
trogadazione o di aggravamento del coseguente, che richiedono una complessa formalizza-
zione, e che sono state perlopiù affrontate dagli antichi maestri in canoni a due parti.
In questa sede ci occuperemo invece di canoni dove i conseguenti presentino, rispetto al-
l’antecedente, uno o più rapporti di trasposizione intervallare.
Immaginiamo un antecedente in protus che inizi con un RE. Un primo conseguente po-
trebbe iniziare con un LA e poi procedere conservando lo schema intervallare del dux. In
338 L’abaco e la rosa

questo caso si prospetterebbe un canone alla quinta (o alla quarta: l’intervallo viene defini-
to dal fatto che il comes inizi sopra o sotto il dux; la differenza, in pratica, è solo nominale).
A tre voci, un secondo conseguente potrebbe di nuovo presentare una copia esatta della li-
nea iniziando dal RE, oppure, ad esempio, dal SOL.
Occorre ora una piccola ma importante precisazione sul concetto di trasposizione inter-
vallare. Facciamo iniziare ad esempio dalla nota FA il segmento A dell’ultimo canone a
cinque voci. Nei fatti abbiamo un’imitazione alla terza. Ecco cosa succede per le tre prime
battute se conserviamo esattamente lo schema intervallare, effettuando cioè una trasposi-
zione cromatica, che fa corrispondere il numero esatto di semitoni degli intervalli dell’ante-
cedente a quello del conseguente:

Es. 8-49

j j
&b C ˙ œ bœ bœ œ . bœ bœ œ œ ˙
bœ . bœ

Se la trasposizione cromatica è teoricamente la più rigorosa, non sempre nella pratica


modale e tonale si rivela accettabile. Nel precedente esempio appaiono note che non pos-
sono apparire nel protus trasportarto (il SOL bemolle e il LA bemolle).
Si consideri ora il prossimo esempio:

Es. 8-50

j j
&b C ˙ œ œ bœ œ. œ œ œ œ bœ ˙
bœ .

Compaiono qui soltanto note appartenenti al modo di riferimento: abbiamo effettuato


ora una trasposizione diatonica. Quest’ultima consiste nel conservare soltanto i nomi degli
intervalli dell’antecedente. Una terza rimane una terza, ma se nell’antecedente, ad esempio,
questa terza è minore, come il primo intervallo della seconda battuta del segmento origina-
rio, potrebbe darsi che nel conseguente questa terza sia maggiore, come vediamo nell’esem-
pio 8-50. Nei fatti, la trasposizione avviene con riferimento alle note del modo (o scala) di
riferimento. Tutti i canoni delle «Goldberg» a intervalli diversi dall’unisono e dall’ottava si
attengono al principio della trasposizione diatonica.
Ecco un ultimo esempio per ciò che riguarda il concetto di traposizione:

Es. 8-51

& œ œ œ œ œ #œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ œ

Nel primo caso la trasposizione cromatica di una scala di DO maggiore dà come risulta-
to una scala di RE maggiore; nel secondo caso, la trasposizione diatonica trasforma la sca-
la di DO maggiore nel protus.
Analizziamo ora la seguente tabella:
Capitolo 8 339

Tab. 8-28
A1 B5 C1 A5 B1 C5 A1 ...
A5 B1 C5 A1 B5 C1 A5 ...
A1 B5 C1 A5 B1 C5 A1 ...

Si tratta di uno schema di canone alla quinta a tre parti. Il segmento A1, dopo essere
stato esposto dall’antecedente, viene presentato da un primo conseguente alla quinta. Co-
sì, anche il segmento B dell’antecedente deve essere trasportato a questo intervallo perché
possa essere sovrapposto ad A5. In seguito il secondo conseguente ripresenta il segmento
A esattamente come l’antecedente. I segmenti B e C a esso sottoposti non dovranno essere
quindi trasposti (la cifra 1 a fianco di una lettera indica semplicemente la situazione inizia-
le di riferimento).
Se analizziamo l’antecedente (riga più bassa dello schema) notiamo che giunti a C non si
torna subito alla situazione iniziale A1. Ciò avviene invece dopo un ulteriore giro di gio-
stra. Infatti occorre passare ancora per A5, B1 e C5. Analogamente, anche i conseguenti si
ritrovano al punto di partenza dopo avere presentato due volte i tre segmenti.
Analizzando ancora lo schema, notiamo che ora sono due gli elementi costitutivi: le parti
(voci) coinvolte nel canone, corrispondenti ciascuna a uno dei segmenti A, B e C; e un perio-
do relativo alle trasposizioni dei segmenti stessi. In questo caso il periodo è composto da
due eventi e potrebbe essere indicato semplicemente così: 1-5.
Notiamo poi che il primo conseguente (riga centrale) ha la proprietà di poter essere svi-
luppato anche a partire da un punto dell’antecedente. In questo caso, se si inizia a leggere
l’antecedente a partire da A5 (quarto segmento) procedendo poi sino alla fine della parte
evidenziata e si riprende poi dall’inizio dell’antecedente (A1), si ottiene proprio il conse-
guente. Quest’ultima osservazione risulterà preziosa in seguito.
Proviamo ora a comporre un canone, ad esempio in tetrardus. Per prima cosa preparia-
mo una linea guida. Potrebbe essere di tre battute:

Es. 8-52
˙ ˙
&C ˙ ˙ ˙ ˙

Come di consueto, mi sono affidato ai dadi per ottenere una sequenza casuale. Si sarà
notato che il segmento termina con una nota diversa dalla finalis e dalla repercussio. In real-
tà, la sola cosa forse indispensabile di una linea guida è che appaia — anche in un punto
diverso dall’inizio e dalla fine — almeno una volta la finalis. Quando si compongono canoni
con trasposizioni, iniziare da un modulo che non presenti cadenze evidenti (clausole) può
contribuire a conferire naturalezza. Una decisa situazione cadenzale apparirà poi nella co-
da.
Realizziamo un primo modulo A/B/C, a partire dalla linea guida, che sarà l’ossatura
del segmento A:
340 L’abaco e la rosa

Es. 8-53
C
& C œ.
j
œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ ˙
J
J
B
&C ˙ j œ œ œ ˙ œ œ ˙ ˙
œ J
A
˙ œ œ
&C œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙

Si noti che nella prima battuta di B appare una sincope che inizia con una croma. È una
possibilità ammessa dal linguaggio rinascimentale, anche se di sapore più quattrocentesco.
L’ultima nota di ogni segmento presenta un valore di minima perché in seguito dovremo
intervenire in quel punto per realizzare l’aggancio con un secondo modulo. Infatti dovremo
affiancare al primo modulo quello della trasposizione alla quinta.
Torniamo alla precedente tabella e confrontiamola con la prossima:

Tab. 8-29
B1 C5 A1 B5 C1 A5 B1 C5 A1 ...
C1 A5 B1 C5 A1 B5 C1 A5 ...
A1 B5 C1 A5 B1 C5 A1 ...

Concentriamoci sulle prime tre colonne. Analizziamo la prima: perché il modulo del-
l’esempio musicale precedente vi corrisponda, dovremo attribuire al segmento B la lettera C
e viceversa. Si tratta di effettuare una banalissima sostituzione di lettere.
Secondo quanto indicato dallo schema, dovremo ora affiancare al primo modulo un se-
condo modulo con il materiale trasportato alla quinta. Dovremo poi realizzare agganci cor-
retti tra il primo e il secondo modulo e tra il secondo modulo e la colonna bianca, che ripor-
ta all’inizio:

Es. 8-54
B1 C5 j
& C œ.
j
œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ ˙
J ˙ jœ œ
J œ
C1 A5
&C ˙ jœ œ œ ˙ œ œ ˙ ˙
œ J œ œ œ œ œ
A1 ˙ œ œ B5
&C œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ j
œ. œ œ œ
A1
& œ ˙ œ œ ˙ ˙ œ œ
B1
j
& œ œ œ œ ˙ œ œ
˙ œ. œ
j C1
j œ. j
& œ. œ œ œ œ œ œ ˙ ˙
œ

Sono contento che il nuovo esempio metta in evidenza diversi problemi. Se riusciremo a
darvi una soluzione convincente, questo primo canone con trasposizione potrebbe essere un
punto di riferimento per altre situazioni, anche più complesse, che presentino problemi
Capitolo 8 341

analoghi.
La trasposizione del materiale del secondo modulo, per motivi di estensione, è stata ef-
fettuata alla quarta inferiore (che corrisponde in tutto e per tutto alla quinta superiore).
Dopo avere notato che la trasposizione del materiale del secondo modulo è stata effettua-
ta diatonicamente — e nei nostri lavori, sulla falsariga del linguaggio rinascimentale, questo
tipo di trasposizione sarà la regola — ci accorgiamo, forse con orrore, che l’aggancio C1-A5
forma ottave reali con A1-B5. Anche A5-B1 forma ottave reali con C5-A1. Un altro pro-
blema è costituito dai salti fra l’ultima battuta di A1 e la prima di B5. Un intervallo di
nona in tre sole note è davvero troppo. Anche l’inizio del segmento C5 non è stilisticamente
corretto. Tra la prima e la seconda nota, a causa della trasposizione diatonica, si forma un
salto di quinta diminuita.
Prima di mostrare come ho cercato di porre rimedio a questo elenco di mali, mi preme ri-
cordare ancora — perché questo concetto risulterà in seguito della massima importanza —
che se una qualsiasi linea melodica può essere sovrapposta a copie di se stessa, rispettan-
do un insieme di regole stilistiche, è un canone.
Consideriamo ora i rimedi. Dico fin d’ora che ci saranno molte sorprese:

Es. 8-55

B1 C5 j
& œ.
j
œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ
J œ œ œ ˙ ‰ œ œ
J
C1 A5
& ˙ jœ œ œ ˙ œ œ ˙ œ
œ J œ œ œ œ œ
A1
œ œ œ B5
˙
& Œ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ
œ ˙ j
œ. œ œ œ
A1
& œ ˙ œ œ Œ œ
˙ ˙
B1
j
& œ œ œ œ ˙ œ œ
œ œ œ œ œ. œ
j j j C1 j
& œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ. œ ˙ œ

La prima cosa che salta all’occhio consiste nella non perfetta corrispondenza dei seg-
menti relativi a lettere uguali, che dovrebbero differire semplicemente per essere uno la tra-
sposizione dell’altro. Si confronti, ad esempio A1 e A5: il primo inizia con una pausa, il se-
condo no; la terza battuta dello stesso segmento, al di là della trasposizione, è molto di-
versa da quella corrispondente del secondo. Così pure le altre coppie di segmenti presenta-
no alcune differenze, anche consistenti.
Il fatto è che ora il punto di riferimento è diventato complessivamente un solo modulo
composto a partire dagli elementi del primo e della loro trasposizione nel secondo. In que-
sto caso il nuovo modulo corrisponde a sei battute. Come i moduli dei canoni all’unisono-
ottava, anche questo modulo fornirà una sola linea melodica che darà luogo a un canone a
tre parti. La caratteristica di questo tipo di canone è che la trasposizione modifica appa-
rentemente il conseguente. Avremo così ancora un canone a tutti gli effetti.
342 L’abaco e la rosa

Prima di passare al montaggio del canone devo prima fornire spiegazioni sulla rielabo-
razione del nuovo modulo, punto per punto:

• Per prima cosa consideriamo il problema delle ottave reali tra C1-A5 e A1-B5, a cavallo
della prima doppia barra, e tra C5-A1 e A5-B1, a cavallo della seconda doppia barra.
Nel primo caso il segmento C1, alla terza battuta, presenta un gruppo di crome che ri-
para all’offesa. A dire il vero non abbiamo fin qui incontrato un analogo gruppo di cro-
me, e si potrebbe pertanto avere il sospetto che non sia accettabile sotto il profilo del
linguaggio rinascimentale. Come già detto in precedenza, i gruppi di crome che abbiamo
fino a ora impiegato sono soltanto i più diffusi; non sono quindi gli unici in uso nel lin-
guaggio rinascimentale.
I principi generali della forma dei gruppi di quattro crome sono due. Il primo è quello per
cui non si devono presentare salti ascendenti dopo la prima e la terza croma (per quan-
to riguarda la seconda croma non c’è quindi alcun problema). I salti discendenti sono in-
vece sempre ammessi (quando serve, si può ricorrere addirittura a un salto d’ottava). Il
secondo è quello di evitare la nota di volta superiore sulla seconda croma. Ecco alcuni
gruppi di quattro crome sicuramente accettabili:

Es. 8-56

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ

Il prossimo esempio mostra invece gruppi stilisticamente scorretti:

Es. 8-57

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Ci si potrebbe chiedere perché non abbia indicato già in precedenza la possibilità di am-
pliare il catalogo dei gruppi di quattro crome. Il fatto è che quelli impiegati fino a ora ri-
mangono i più diffusi e, quindi, i più caratteristici dello stile a cavallo fra Quattro e Cin-
quecento. Tutti gli altri gruppi stilisticamente corretti andrebbero, per le nostre finalità,
utilizzati quando ve ne sia un’esigenza particolare. Se si vuole vedere un utilizzo molto
vario di gruppi di quattro crome, si prendano le già citate Cantiones duarum vocum di
Orlando di Lasso.
Tornando al nostro modulo, osserviamo come sono state eliminate le ottave reali tra C5-
A1 e A5-B1, a cavallo della seconda doppia barra. La linea centrale raggiunge il SOL
questa volta attraverso un blasonato gruppo di quattro crome. La linea più alta si inter-
rompe prima della doppia barra. Il successivo aggancio con A1 avviene con una pausa
che, come si sa, già a tre voci ha il potere di annullare quinte ottave reali. Prestiamo at-
tenzione al fatto che il modulo termina prima della seconda doppia barra. L’aggancio
Capitolo 8 343

successivo avviene in realtà con l’inizio del modulo stesso, di cui riporto un segmento
alla fine dell’esempio soltanto per chiarezza. Quest’ultimo aggancio serve, come già det-
to, a chiudere il cerchio. Se qualcosa viene modificato dopo la fine del modulo vero e
proprio si sta modificando in realtà l’inizio del modulo stesso! Ecco quindi la necessità
di riportare la pausa di A1, alla fine dell’esempio, all’inizio del modulo.
• Per quanto riguarda il problema dei brutti salti tra l’aggancio di A1 e B5, una facile solu-
zione è stata quella di abbassare il secondo MI nella terza battuta di A1. Il fatto che non
ho prolungato il MI dalla battuta precedente, con il conseguente inserimento di una pau-
sa, dipende da gusto personale.
• Per quanto riguarda infine il salto di quinta diminuita all’inizio del segmento C5, l’inseri-
mento di una pausa si impone quasi in modo automatico. Come si sarà ormai più volte
notato, le pause sono strumenti preziosi per tirarsi fuori dai guai.

Siamo finalmente pronti per il montaggio del nostro canone. Seguiremo il seguente sche-
ma:

Tab. 8-30
A1 B5 C1 A5 B1 C5 CODA
A5 B1 C5 A1 B5 C1 A5 CODA
A1 B5 C1 A5 B1 C5 A1 B5 CODA

Per prima cosa monteremo l’antecedente, costituito dalla parte evidenziata dell’ultima
riga. È ovvio che tutti i frammenti del canone sono contenuti nel modulo. Occorre semplice-
mente partire da A1 e seguire il percorso per mezzo delle indicazioni:

Es. 8-58
œ˙ j œœ j j
&C Œ œ œœœ œœœ Œ
œ ˙ j
œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ. œ

œ œ %
& ˙ œj J œ ˙ œ œ ˙ œ œœœœ
˙ œ œ
œœœœ
œœœ œ œ œœœ
j œ œ. œ œ œ j
& œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ J œœ ˙ ‰œ œ œ ˙ œœ ˙
J ˙

Se iniziamo a leggere il canone a partire dal segno (che è l’inizio di A5) ricominciando
dall’inizio una volta arrivati alla fine otterremo automaticamente il comes.
L’esempio 8-59 mostra il risultato finale. Il canone vero e proprio termina a battuta 24.
Da battuta 25 inizia la coda che, fino a metà di battuta 27, altro non è che la prosecuzione
del canone stesso. In corrispondenza del secondo tactus di battuta 27 si presenta infatti
una buona situazione per la comparsa di nuovo materiale che conclude la coda.
Si noti che la cadenza è una versione a tre parti di quella cadenza «di Landini» di cui ho
già parlato nei capitoli precedenti (cfr. Es. 6-16). Questa versione a tre parti presenta due
elementi di interesse. In primo luogo notiamo che anche la repercussio (il RE) è preceduta
dalla propria sensibile (il DO diesis). La «doppia sensibile», come già detto nel capitolo 6,
344 L’abaco e la rosa

Es. 8-59
2 3 4 5

&C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

&C ∑ ∑ ∑
œ œ œ œœ œœœœ
˙
˙
?C Œ œ œ œ œ œœœœ ˙ j œœœœœ
Œ œ œ. œ œ œ œ.
J
6 7 8 9 10
∑ Œ œ œœ œœœ˙ Œ j
& œ œ œ ˙ œ. œ œ œ
j
j
& œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ . Jœ œ œ œ œ ˙ ‰ œ œ
J
œ . ˙ œ œ œ ˙ œœ ˙
? œ œ. œ œ J œ
J J J œœœ œ œ œ œœ
11 12 13 14 15
j œ œ œ . œj . j
œ ˙ jœ œ œ ˙ œœ ˙ œ
& œ. œœ œ œ œ J
œœœ
˙
& œ ˙ œœ ˙ ˙
Œ œ œœ
œ œœœœ Œ
œ ˙
œ œ .
? œœœœ˙ œ œ
œ œ œ œ œ. œ œ œ œ. œ œ œ œ œœ
J œœœ
J J

16 17 18 19 20

& œ œ œ œ œœ˙ œ œ œ œ . œj œ œ œ. œœœœœ


œ œ œ œ œ œ J
j
j œ œ œ. œ . j jœ œ œ ˙
& œ. j . œ œ œ œ œ ˙ J œœ
œ œ œ œ œ
œ œ œ ˙ œ œœœ˙
? ˙ ‰ J œœ ˙ ˙ Œ œ œœ œ

21 22 23 24 25
œ. œ œ œ j
& J œœ ˙ ‰ œ œ œ ˙ œœ ˙ Œ œ œœ
˙
œ
œ ˙ œ œ j
& ˙ œœœœ œ œ œ œ œ. œ œ œ
œœœ œ œ œ œ œ œ œ
? Œ œ ˙ j œ œ œ œ œ œ. œ œ. œ ˙ J
œ. œ œ œ œ. J J œ
J J
26 27 28 29 30
œ˙ j
& œœœ œ œ . œ ˙
J
Œ œ . œ œ œ œ #œ œ
œ w

& œ. œ œ œ œ œ œ . Jœ œ œ œ œ œ œ
J ˙ œ œ #˙ w
œ ˙ œ œ ˙ œ . œ ˙ œ œ œ œ œ ˙ w
?
J
Capitolo 8 345

è una particolarità dello stile del Quattrocento (ereditata, a sua volta, dal secolo preceden-
te) che ritengo si adatti bene alla sonorità arcaica del nostro canone. La seconda particola-
rità di questa versione della cadenza è il fatto che la parte più bassa raggiunge la finalis dal
secondo grado del modo (il LA). Di fatto la chiusa è preceduta da un accordo di terza e
sesta anch’esso preceduto preferibilmente da un accordo dello stesso tipo. Possiamo infatti
ridurre all’osso la cadenza così:

Es. 8-60

& ˙˙ ww
˙ # # ˙˙˙ w

Tornando alla penultima battuta del canone, ci si rende facilmente conto che, in corri-
spondenza del gruppo di crome sull’ultimo tactus, il SOL è un ritardo, il FA diesis è nota
appartenente all’accordo e il MI è la nota di sfuggita che caratterizza maggiormente la ca-
denza con il suo salto di terza verso la finalis.
Accennavo a un carattere arcaico del brano. Considero infatti questo canone più conso-
no alla seconda metà del Quattrocento che allo stile del Cinquecento inoltrato. Ritengo che
questo carattere arcaico dipenda soprattutto da una certa vaghezza modale, rintracciabile
talvolta in Ockeghem, in Josquin e in altri loro contemporanei. Il modo tetrardus non viene
infatti affermato con decisione; anzi, sembra sino alla fine propendere quasi per il deuterus.
Il carattere arcaico è determinato anche dalla presenza di ottave nascoste (cfr. Es. 5-5),
ammesse con maggiore larghezza dai musicisti del Quattrocento, particolarmente evidenti a
cavallo fra la quarta e quinta battuta. È giusto osservare che la presenza di ottave nascoste
diventa piuttosto familiare, quasi inevitabile, nei canoni a più di due parti. Dal momento
che le possibilità di condotta lineare sono assai più limitate che nella libera scrittura polifo-
nica, diventa insensato fare gli schizzinosi.
Prima di affrontare altri esperimenti, conviene forse soffermarsi ancora un poco su alcu-
ni aspetti generali dei canoni con trasposizione.
Come già detto, può lasciare perplessi il fatto che il conseguente trasportato non sia la
copia esatta, seppure ad altezza diversa, dell’antecedente. Bizzi, nel già citato Specchi in-
visibili dei suoni, affronta solamente la composizione di alcuni canoni con riferimento al lin-
guaggio tonale, come in Bach. Qui la trasposizione non è diatonica, ma cromatica, e lo stile
lineare è molto più elastico di quello rinascimentale. In questi casi è possibile dunque con-
servare più facilmente i moduli trasportati grazie anche al fatto che gli agganci risultano
meno problematici. (Nell’appendice di questo capitolo affronteremo anche noi la composi-
zione di alcuni canoni di carattere tonale.)
Applicando la stessa tecnica al linguaggio rinascimentale le cose, come si è visto, posso-
no andare diversamente. Di fatto capita spesso di ottenere un conseguente che non conser-
va in modo esatto, seppure diatonicamente, la struttura intervallare dell’antecedente. Si ot-
346 L’abaco e la rosa

tiene invece un conseguente che si rivela essere l’antecedente letto a partire da un punto di-
verso del suo inizio. In questa maniera, la trasposizione risulta più o meno evidente a se-
conda del grado di deformazione del modulo definitivo. Otteniamo però un canone rigoro-
so, dal momento che è una sola linea melodica, attorcigliata su se stessa, a dare luogo a una
composizione polifonica.
Difficile ricostruire i metodi con cui i compositori rinascimentali scrivevano i canoni. Ab-
biamo visto, del resto, che disponiamo di scarsissime notizie sul metodo compositivo in ge-
nerale degli antichi maestri. Per coloro che sono interessati principalmente alla rigorosa ri-
costruzione stilistica di musica del passato l’applicazione delle indicazioni proposte fin
qui per il linguaggio rinascimentale potrebbe apparire fuori luogo. A parte il fatto che, come
ho già ripetutamente detto, nutro in generale forti perplessità sulla possibilità di una rico-
struzione stilistica rigorosa (per chi avesse qualche dubbio consiglio di leggere, o rileggere, lo
straordinario racconto di Borges Pierre Menard, autore del “Chisciotte”, in Finzioni), io mi
sento qui di rimandare al mittente tale obiezione.
Un conto è applicare delle forme arbitrarie a un linguaggio del passato. È il caso dei vec-
chi trattatisti della fuga, come Gedalge, che volevano vederle applicato un preciso schema
formale (nei fatti una specie di rondò), contro ogni evidenza di quanto fatto, ad esempio,
da Bach. I canoni, come del resto la fuga, che a essi è strettamente imparentata, sono re-
frattari a essere trattati alla stregua di forme. Il concetto di forma si riferisce, di solito, al-
l’organizzazione e alle proporzioni delle sezioni di una composizione, come ad esempio il
virelai, cui ho accennato nel capitolo 4. Gli schemi di riferimento dei nostri canoni non ri-
guardano tanto le sezioni della composizione ma un possibile meccanismo degli stessi ca-
noni. Generalmente un canone risulta essere un evento musicale compatto, la cui sovrap-
posizione di linee dà luogo a un evento polifonico che risponde a regole armoniche presta-
bilite.
Come già accennato, quando ci occupiamo di canoni facciamo semmai riferimento al-
l’idea di processo, inteso come un metodo, una sequenza di atti da compiere per uno scopo
determinato, nel nostro caso la composizione di singole linee che diano luogo a meccanismi
sonori che, una volta messi in moto, vadano avanti automaticamente.
In definitiva, quando parliamo di forma ci riferiamo di solito a un tipo di musica che ri-
chiama un’architettura sonora; quando parliamo di processi, invece, a un tipo di musica che
richiama sostanzialmente un meccanismo. Una composizione che faccia riferimento esclusi-
vamente a un processo è di fatto estranea a considerazioni architettoniche, o colloca queste
ultime in secondo piano. Più che all’architettura, un processo si riferirebbe quindi all’inge-
gneria.
Dal momento che gli antichi maestri, per quanto riguarda i canoni, erano affascinati dal-
l’invenzione e/o al collaudo di processi, ritengo semmai che quello che abbiamo realizzato
finora sia un tentativo di fare propria una concezione musicale, di adottare una forma men-
tis dunque, operazione forse più affascinante dell’essere occupati in attività che rischiano
talvolta di diventare un maquillage artistico.
Torniamo ancora ai nostri moduli sonori. Da un primo modulo ne abbiamo ottenuto un
secondo, grande il doppio, che è il prodotto della ricorsione, più o meno deformata del pri-
Capitolo 8 347

mo (prendo ancora in prestito, qui forse impropriamente, un termine caro ai matematici).


Questo nuovo modulo può, come si è visto, essere al suo interno rielaborato a piacere. La
cosa affascinante è che, a partire da tre soli elementi (A, B e C), siano necessarie due ricor-
sioni del gruppo, due giri di giostra insomma, per ritrovarsi al punto di partenza. Ciò risul-
ta evidente prestando ancora attenzione alla tabella 8-30.
Quest’ultima considerazione ci permette di intravedere la possibilità di costruire grandi
catene sonore a partire da pochissimi elementi, la cui ricorsione generi una musica in cui, a
ben vedere, non ci siano mai situazioni del tutto uguali. Possibilità intrigante oggi quanto in
un passato remoto. Gli ultimi decenni hanno infatti visto al lavoro molti musicisti attratti
dall’idea di una musica, apparentemente ripetitiva, che presenti incessanti quanto sottili
trasformazioni.
L’esplorazione delle possibilità di comporre canoni con materiale trasposto ci mostra
dunque un’affascinante prospettiva di manipolazione del materiale sonoro in rapporto al
tempo e alla percezione.
Ho già detto che gli elementi in gioco nei canoni con trasposizioni sono il numero delle
parti (voci) del canone (corrispondenti ciascuna a un generico segmento A, B, C etc.) e il
periodo formato dalle trasposizioni, che ovviamente possono essere più di una.
Non necessariamente il periodo deve presentare trasposizioni ciascuna a intervalli di-
versi. Si possono infatti immaginare periodi come i seguenti: 1-5-5, dove la cifra 5 indica,
ovviamente, una trasposizione alla quinta; 1-5-5-1; 1-5-4-1-1 e innumerevoli altri.
Componendo canoni con riferimento al linguaggio rinascimentale, consiglio, come ribadi-
rò più avanti, di prendere in considerazione soltanto trasposizioni alla quarta e alla quinta.
Informazione importantissima relativa al periodo, è il numero delle trasposizioni. (Forse,
in base a quanto ho appena detto, sarebbe più corretto riferirsi anche a ciò che finora ho
chiamato trasposizioni come a delle ricorsioni.) Il valore numerico del periodo sarà n + 1
(cioè numero delle trasposizioni più 1). Nel canone precedente il valore numerico del perio-
do corrisponde quindi a 2.
Se i valori numerici dei due elementi sono fra loro diversi (non ci sono, ad esempio tre
parti in gioco e tre trasposizioni) e i due valori danno luogo a rapporti ridotti ai minimi ter-
mini, cioè a rapporti non ulteriormente semplificabili (come insegna l’aritmetica elementa-
re), il numero di ricorsioni del gruppo di segmenti (corrispondente al numero di parti) per-
ché si ritorni al punto di partenza è uguale al valore numerico del periodo. In questo modo
si possono sfruttare al massimo le possibilità di rendimento di un canone (la grandezza del
suo accrescimento automatico a partire dal modulo iniziale), che corrisponde, grosso
modo, al classico principio economico del migliore rapporto tra guadagni e investimenti.
Un aspetto affascinante della tecnica dei canoni, come ho detto ormai più volte, è infatti
proprio la possibilità di comporre un brano, anche di consistente lunghezza, che a partire
da un piccolo modulo generatore si metta in moto come un meccanismo caricato a molla,
dando luogo a musica con caratteri di coerenza e varietà (quanto alla qualità è un altro
paio di maniche). Qualche esempio potrà tornare utile.
Si immagini di comporre un canone a tre voci con cinque trasposizioni, e quindi sei even-
ti complessivi (C6 è la quinta trasposizione):
348 L’abaco e la rosa

Tab. 8-31
A1 B2 C3 A4 B5 C6

Si consideri ancora il caso del canone precedente:

Tab. 8-32
A1 B2 C1 A2 B1 C2

Ho ottenuto ancora una linea della stessa lunghezza ma ho investito di meno. Per questo
risultato bastava una sola trasposizione. E non è che nel primo caso ho ottenuto poi una
varietà molto più grande. I segmenti su cui lavorare sono, in entrambi i casi, sempre tre.
Quella della varietà all’interno di un canone è pur sempre un’illusione generata dalla dispo-
sizione periodica degli elementi di partenza.
Si immagini ora di realizzare lo schema dell’antecedente di un canone a cinque voci con
tre trasposizioni. Il valore numerico del periodo corrisponde a 4 (3+1). Il rapporto fra le ci-
fre 5 e 4 è ridotto ai minimi termini. Saranno quindi necessarie quattro ricorsioni del gruppo
di cinque lettere e, per contro, cinque ricorsioni del periodo, per tornare al punto di parten-
za. Se si preferisce, si può anche pensare che A1 sia la 21ª lettera della linea:

Tab. 8-33
A1 B2 C3 D4 E1 A2 B3 C4 D1 E2 A3 B4 C1 D2 E3 A4 B1 C2 D3 E4 A1

Se si volesse realmente comporre un canone il cui antecedente sia la parte evidenziata


nella precedente tabella, per prima cosa si realizzerebbe un primo modulo, ad esempio di
due battute. Il modulo definitivo sarebbe composto quindi da otto battute (sei battute sa-
rebbero quindi corrispondenti alle tre trasposizioni) e avrebbe uno schema come il seguente:

Tab. 8-34
B1 C2 D3 E4
C1 D2 E3 A4
D1 E2 A3 B4
E1 A2 B3 C4
A1 B2 C3 D4

Per quanto mi riguarda, nel realizzare un modulo di canone preferisco iniziare dalla riga
più bassa, ma è pura questione di gusto.
Si nota che la lunghezza del modulo dipende dal periodo (il valore numerico del periodo
corrisponde al numero di colonne di uno schema, in altri termini: il modulo è costruito sul
periodo).
Come si vede, partendo dalla riga più bassa e risalendo di riga in riga, iniziando la let-
tura sempre da sinistra, si ottiene la linea — l’antecedente — della tabella 8-34.
Fino a questo punto abbiamo fatto riferimento a canoni a numero dispari di parti (o
voci). Quando il numero di parti è pari possono accadere cose piuttosto strane.
Prima di tutto, consideriamo anche che il valore del periodo sia un numero pari
Capitolo 8 349

(immaginiamo ad esempio un periodo 1-5). Il rapporto fra il numero delle parti e il valore
del periodo non è ridotto ai minimi termini; forma infatti una coppia di numeri semplifica-
bili. Il canone pari-pari, dunque, non avrà un grande rendimento rispetto a quelli precedente-
mente visti. Non essendo però sempre necessario pensare come Paperon de’ Paperoni, non
ce ne preoccuperemo molto. Si consideri, ad esempio, l’antecedente di un canone a quattro
parti con una trasposizione:

Tab. 8-35
A1 B2 C1 D2

Come si vede, si torna al punto di partenza già dopo D2.


Costruiamo ora il modulo relativo al canone:

Tab. 8-36
B1 C2
C1 D2
D1 A2
A1 B2

Per ricostruire l’antecedente, come evidenziato nella precedente tabella, si dovrà proce-
dere ora a zig zag tra le righe.
Consideriamo ora il conseguente della terza e della prima riga: tornando al modulo pre-
cedente, lo si può ricostruire seguendo il percorso che da A2 sale alla prima riga, riporta le
lettere da sinistra a destra e torna a D1 sulla riga di partenza. Ma così si ottengono allora
di fatto due canoni distinti, due coppie di canoni! Ricordiamoci infatti che, nei casi prece-
denti, risalendo di riga in riga si veniva a formare una sola linea melodica che avrebbe origi-
nato il canone.
Consideriamo ora lo schema complessivo del canone:

Tab. 8-37
A2 B1 C2 D1
A1 B2 C1 D2
A2 B1 C2 D1
A1 B2 C1 D2

Risultano sempre due coppie di canoni con qualsiasi numero pari di parti associato a un
valore pari del periodo. Se la messa a punto del modulo definitivo riesce a conservare il più
possibile il materiale del modulo di partenza, la differenza tra le due coppie sarà minima,
altrimenti più evidente.
Ritengo sia interessante fare comunque esperimenti anche con situazioni «pari-pari».
Come vedremo tra breve, da quella che sembra essere un’anomalia possono emergere situa-
zioni suggestive. Prima, però, occorre sottolineare che se si compongono canoni a numero
pari di parti con periodo dispari le cose tornano a filare lisce. Un esempio ce lo confermerà.
Si pensi a un canone a quattro parti con due trasposizioni (il valore numerico del perio-
do corrisponde qui a 3). Ecco lo schema dell’antecedente:
350 L’abaco e la rosa

Tab. 8-38
A1 B2 C3 D1 A2 B3 C1 D2 A3 B1 C2 D3

Ed ecco il modulo definitivo:

Tab. 8-39
B1 C2 D3
C1 D2 A3
D1 A2 B3
A1 B2 C3

Partendo da A1 e risalendo lo schema nel modo consueto si ottiene l’antecedente della


tabella 8-39.
Gli antichi maestri componevano talvolta canoni multipli. Uno stupefacente esempio di
canone doppio è il terzo «Agnus Dei» della Missa sexti toni di Josquin des Prés, che ha per
cantus firmus «L’homme armé». Questo brano è composto da coppie di canoni indipendenti
che procedono armoniosamente in modo simultaneo; una specialità dei compositori franco-
fiamminghi, celebrati per il loro virtuosismo tecnico.
Il fatto che il modulo «pari-pari» dia luogo a due canoni, ci consente di fare qualche ul-
teriore esperimento. Possiamo, ad esempio, utilizzare il modulo della tabella 8-36 e realiz-
zare un primo modulo preparatorio a partire da questo segmento melodico in protus:

Es. 8-61

&C ˙ ˙ ˙ ˙
˙ ˙

Da questo segmento, che verrà elaborato nell’elemento A, possiamo ottenere un modulo,


sempre secondo lo schema riportato dalla tabella 8-36:

Es. 8-62

B1 C4
bœ . œ œ. œ
&C œ œ œ ˙ ˙ œ
bœ ˙ ˙ J J
œ
C1 D4
j œ œ œ œ bœ œ œ b˙ .
& C œ. œ œ. J
Ó ˙ œ œ
D1 A4
˙ œ œ œ œ bœ ˙ œ. œ
&C ˙ ˙ Œ œ J
A1 B4
j j
&C Œ œ
œ. œ ˙ Œ
œ
œ. œ ˙ œ œ œ œ b˙
D1
œ œ œ œœœ
& Ó b˙ ˙
A1
& ˙ œ œ œ œ œ ˙ ˙
B1
& ˙ Œ j
œ œ. œ bœ œ œ œ œ œ œ œ
C1
‰ j j
& ˙ œ œ ˙ œ œ œ. œ
Capitolo 8 351

Si nota che il materiale è trasportato alla quarta nella seconda parte del modulo.
Sempre in base allo schema di riferimento, ci accorgiamo che prima e terza riga sono in-
dipendenti, non comunicanti rispetto alla seconda e alla quarta. Come ho detto — giocan-
do ora al gioco dell’oca, per così dire —, iniziando una prima volta da A1 e una seconda
da A4, otterremo, di fatto, due canoni distinti. Questa caratteristica dei moduli «pari-pa-
ri» ci consente allora di realizzare un canone doppio.
Perché un canone doppio sia interessante, le coppie dovrebbero presentare un certo gra-
do di differenzazione, al fine di rendere evidente il procedimento. Un’efficace strategia per
realizzare un canone doppio sarà allora elaborare nella maniera più diversa le coppie alter-
nate di righe del modulo. Alla fine otterremo due coppie di canoni in cui la linea di ogni dux
si ripresenterà questa volta in modo identico in ogni rispettivo comes.
Questo tipo di elaborazione non è difficile, è soltanto delicato. In questo può tornarci
utile, ad esempio, una particolarità di alcune composizioni di maestri del Quattrocento. Si
tratta della sovrapposizione, all’interno di una stessa composizione, o di parti di essa, di
metri diversi, di mensuræ, come si esprimevano gli antichi. È, di fatto, il ben noto fenomeno
della poliritmia, che viene progressivamente abbandonato nel Cinquecento per riapparire, di
tanto in tanto, in modo più o meno evidente, nelle composizioni di alcuni autori, fra cui
Bach, Mozart, Beethoven e Brahms. Il principio della poliritmia verrà poi riaffermato con
decisione nel Novecento. La poliritmia, cara alla musica polifonica del Medioevo e, in par-
te, del Quattrocento, è l’elemento fondamentale di molta musica africana. Paradossalmen-
te, la musica di Guillaume de Machaut, il più grande compositore del Trecento, e la musica
per ensemble di percussioni dell’Africa occidentale rivelano sorprendenti affinità.
Si consideri questo esempio, tratto dalla Ballata n. 4 op. 10 di Brahms:

Es. 8-63

# ## # 6 3 3 3 3 3 3

& # # 4 .. œ œ œ œ œ œ
œ˙ œ œ œ œœ œ œ˙ œ œ œ œœ œ
π
? # # # # # 6 .. œ œ œ
# 4 œ œ œ
œ œ œ œ œ œ
con °

Questo tipo di disegno, di texture, viene portato avanti da Brahms per decine di battute.
Anche i maestri del Quattrocento amavano talvolta sovrapporre quelle che, con termini
moderni, chiamiamo terzine e, con un termine poco elegante, duine. In questi casi, la parte
che conteneva l’equivalente delle nostre terzine veniva indicata con un tempo ternario,
quella con suddivisione binaria conservava l’indicazione di tempo binario.
Proveremo ora, a partire dal modulo dell’esempio 8-62, a realizzare un canone doppio
dove una coppia di canoni procederà nel metro di 6/4 e l’altra in 2/2. Essendo le misure
sovrapposte, tre semiminime del metro ternario dureranno lo stesso tempo di una minima,
(un tactus) del tempo binario. La prima cosa da fare sarà assegnare metri diversi a righe al-
352 L’abaco e la rosa

ternate. In seguito si passerà a una ulteriore elaborazione (fioritura) del modulo stesso, per
ottenere una decisa differenzazione delle coppie di righe alternate:

Es. 8-64

B1 C4
6
& 4 œ. jœ œ ˙. bœ ˙. ˙ œ b œ œ . œ œ œ . Jœ
œ ˙ œ ˙ J
C1 D4
j œ œ œ bœ œ œ b˙ .
& C œ. œ œ. œ
J
Ó ˙ œ œ
D1 A4
6
& 4 ˙. œ œœœœ
˙ œ ˙ œ œ œ bœ ˙ . Œ œ œ œ œ. œ
J
A1 B4
j j
&C ˙ œ. œ ˙ Œ
œ
œ. œ œ œ œ œ œ œ b˙

˙ œ œ œœ˙ D1
& Ó. b˙ œ ˙.
A1
& ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙
B1
& ˙. Œ j j j
œ œ œ œ œ. œ bœ . œ œ œ œ. œ œ œ
C1
‰ j j
& ˙ ˙ ˙ œ œ œ. œ

Dal momento che già dal capitolo 4 sappiamo come trattare il metro di 6/4, le sole cose
da rilevare nel modulo sono l’impiego, alla seconda battuta, di un ritardo 7-6 e, nella sesta
battuta, di un doppio ritardo 4-3 e 9-8. In questo modulo alcune figure ritmiche si ripetono
immediatamente. Ciò sembrerebbe contrastare con quel principio di varietas di cui ho parla-
to in precedenza. A parte il fatto che occasionalmente troviamo, anche nel repertorio rina-
scimentale, composizioni che presentano ripetizioni ritmiche e melodiche, l’ideale di varietas
cui conformarsi è dato qui dalla diversità insita nel canone doppio.
Non ci resterebbe altro, ora, che il montaggio del canone stesso secondo le indicazioni
date in precedenza, operazione per nulla difficile. Consideriamo però ancora un’opportu-
nità. Nel realizzare la stesura definitiva del canone doppio, fra le varie possibilità, ci sa-
rebbe quella di assegnare il canone in tempo binario a una coppia inferiore di parti (scritte
ad esempio in chiave di basso). La coppia in tempo ternario sarebbe allora assegnata alle
voci superiori; cosa del tutto naturale, dal momento che linee melodiche dotate di consi-
stente densità e movimento tendono a collocarsi in un registro acuto.
Ci si rende facilmente conto allora che, se si opta per quest’ultima soluzione, il canone in
tempo ternario può occasionalmente formare con le altre parti intervalli di quarta e di quin-
ta che, ovviamente, non compariranno mai nel registro grave, e quindi non andranno a for-
mare dissonanza:
Capitolo 8 353

Es. 8-65
B1 C4
6 . œ
& 4 œ. jœ œ ˙. ˙ œ ˙
bœ ˙. œ œ b œ œ œ b œ œ . Jœ œ œ J
œ
C1 D4
j œ œ œ œ bœ œ œ b˙ .
& C œ. œ œ. J
Ó ˙ œ œ
D1 A4
6 ˙ œ ˙ œ œ œ bœ ˙ . Œ œ œ j
& 4 ˙. œ œœœœ œ. œ œ œ
A1 B4
j j
&C ˙ œ. œ ˙ Œ
œ
œ. œ œ œ œ œ œ œ b˙

˙ œ œ œœ˙ D1
& Ó. b˙ œ ˙.
A1
& ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙
B1
& ˙. Œ j j j
œ œ œ œ œ. œ bœ . œ œ œ œ. œ œ œ
C1
‰ j j
& ˙ ˙ ˙ œ œ œ. œ

Si noti che le modifiche, rispetto al modulo precedente, riguardano la terza battuta


(primo pentagramma) e la quarta (terzo pentagramma).
L’esempio 8-66 mostra il risultato finale.
Gli antecedenti sono stati collocati, rispettivamente, nella parte più bassa e nella parte
più alta dei canoni. In questo modo viene forse meglio evidenziato il fatto che il canone in
tempo binario inizia con un salto ascendente e quello in tempo ternario con un salto discen-
dente.
La coda occupa le ultime tre battute. Nella penultima battuta tutte le voci passano al
metro di 3/2. Simili cambi di tempo non erano infrequenti nella musica rinascimentale, spe-
cie in quella del Quattrocento.
Qualora si volesse eseguire questo canone doppio, la resa migliore si avrebbe forse asse-
gnando ai singoli canoni due gruppi strumentali nettamente differenziati per quanto riguar-
da il timbro. Ciò per evidenziare meglio il procedere indipendente delle due coppie e per
evitare un effetto confuso, probabilmente in agguato se si assegnassero a tutte le parti stru-
menti di timbro omogeneo.
Prima di affrontare qualche nuovo aspetto dei canoni potrà forse tornare utile compiere
ancora un esperimento. Realizzeremo ora un canone a cinque voci in deuterus con una tra-
sposizione ripetuta alla quarta superiore. Il valore numerico del periodo sarà quindi 3 (1-4-
4).
Ecco lo schema del modulo:

Tab. 8-40

B1 C4/1 D4/2
C1 D4/1 E4/2
D1 E4/1 A4/2
E1 A4/1 B4/2
A1 B4/1 C4/2
354 L’abaco e la rosa

Es. 8-66
6 ∑ ∑ ∑ Œ j ˙. Œ
&4 œ œ œ. œ œ œ œ œ
6 ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
&4

?C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

?C ˙ œ. œ ˙ Œ œ
œ. œ œ œ œ œ œ œ b˙ ˙ ˙
J J

. œ
& œ œ œ. j j j bœ ˙. œ œ b œ œ œ b œ œ . Jœ œ œ J
œ bœ . œ œ œ œ . œ œ œ ˙ œ ˙ œ ˙

& ∑ ∑ ∑ ∑ Œ œ œ j
œ. œ œ œ
? ∑ ˙
œ. œ ˙
Œ œ
œ. œ œ œ œ œ œ œ b˙
J J

? ˙ ‰ œ œ œ. œ œ . Jœ œ œ œ bœ œ œ
Ó ˙ b˙ . œ œ
J J

˙ œ œ œœ˙ ˙ œ ˙ œ œ œ bœ ˙ .
& Ó. b˙ œ ˙. œ œœœœ

& ˙. Œ
œ œ œ œ œ . œj b œ . œj œ œ œ . œj œ œ ˙ œ ˙ œ ˙ bœ ˙. œ œ bœ œ œ

? ˙ ˙ œ. œ œ œ œ bœ œ œ
˙ ‰ œ œ œ . Jœ J Ó ˙
J
? ˙ œ œ œ œœ œ œ œ. œ œ. œ œ œ
˙ J ˙ Œ œ J

& Œ œ œ œ . œj œ œ ˙ . Œ œ œ œ œ œ . œj b œ . œj œ œ œ . œj œ œ ˙ œ ˙ œ ˙

œ œ . œ ˙ œ œ œœ˙ œ ˙ œ
& b œ œ . Jœ J Ó. b˙ œ ˙. œ œœœœ
˙

? b˙ . œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙
œ. œ ˙ Œ œ
J
œ œ œ bœ œ œ
? œ œ œ œ b˙ ˙ ˙ ˙ ‰ œ œ œ. œ œ. œ
J
J J

j j 3 œ œ #œ œ œ 6 w .
& ˙. œ œ bœ œ œ bœ œ . œ œ œ 2 œ œ œ œ œ 4
œ.
œ œ bœ ˙ . j 3 j 6 w.
& ˙ bœ œ. œ œ 2 œ. œ œ œ œ ˙ 4
bœ . ˙ ˙ ˙ w
? œ. œ œ œ Œ
œ œ
J 3 C
J 2

? Ó ˙ ˙. œ 3 œ.
2 œ œ œ œ œ ˙ C w
J
Capitolo 8 355

Come si vede, quando il periodo presenta più volte uno stesso tipo di trasposizione, è
importante (e ce ne renderemo conto più avanti, durante la fase di montaggio del canone)
evidenziare a quale modulo appartengono le trasposizioni a intervallo uguale. Nel nostro
caso, 4/1 si riferisce alla prima trasposizione, quindi apparterrà al secondo modulo. L’in-
dicazione 4/2 si riferisce invece alla seconda trasposizione, e quindi apparterrà al terzo
modulo.
Per realizzare lo schema del dux, partendo da A1 si proseguirà a zig zag a righe alterna-
te sino alla prima. Giunti a D4 si scenderà a E1 (quarta riga); giunti a B4 si salterà alla se-
conda riga per congiungersi a C1 e proseguire fino a E4. Nonostante il percorso a zig zag,
otteniamo una sola linea. Siamo infatti nell’ambito di un canone «dispari-dispari».
Il segmento da cui elaboreremo il modulo sarà di due battute in 6/4. E deriverà da un
semplice tetracordo ascendente con inizio dal MI (è il tetracordo letto a note alternate). In
questo modo il carattere del deuterus verrà affermato senza ambiguità:

Es. 8-67

6
& 4 ˙. ˙. ˙. ˙.

Ecco una possibile realizzazione del modulo:

Es. 8-68

B1 C4/1
6 j ˙. ˙ j
&4 Œ ˙ ˙ œ Œ
œ œ œ. œ œ
œ œ œ œ œ. œ ˙.
C1 D4/1
6 œ. œ Ó.
& 4 ˙. ˙ œœ œ J˙ œ ˙. œ œœœœ˙
E4/1
œ
D1
6 Ó. . Ó.
& 4 ˙. œ œœœœ˙ œœ œ œ œœœœ ˙
˙
E1 A4/1
6 .
&4 ˙ œ œ œœœœ ˙ Ó. ˙ œ ˙ œ œ œœœœ˙ œœ
A1 B4/1
6 Œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ œ
&4 ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. J
D4/2 E1
j
& ˙. Ó. œ œ œ œ œ œ. œ œ ˙ œ
E4/2 A1
& . Ó.
˙ œ œ œ œ œ œ ˙ ˙ œ
A4/2 B1
& ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙ Œ
˙
B4/2 C1
˙ œ Œ œ œ. œ œ
& œ ˙ œ J ˙.
C4/2 D1
j
& ˙. ˙ œ œ œ œ. œ ˙. ˙.

Ora si possono facilmente allineare tutti gli elementi dell’antecedente:


356 L’abaco e la rosa

Es. 8-69

& ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. Œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ œ ˙. ˙ œ œ
J

j Ó. Ó.
& œ œ. œ ˙. ˙. œ œœœœ˙ œœ ˙ œ œ œœœœ ˙
.
% A4/2
œ j
& ˙ œ ˙ œ œ œœœœ ˙ Œ
˙
˙ œ Œ
œ œ œ. œ œ
œ ˙. ˙ œ œ

j j .
& œ œ. œ ˙. ˙. Ó. œ œ œ œ œ œ. œ œ ˙ œ œ œœœœ ˙ Ó.

% A4/1
& ˙ œ ˙ œ œ œœœœ˙ œœ œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ ˙. ˙ œ œ
J

œ. œ ˙ Ó. Ó.
& œ J œ ˙. œ œœœœ˙ œ œ œœœœ ˙
.
œ ˙

Faccio notare che da un segmento di due battue, abbiamo ottenuto una linea di 30 bat-
tute: una rendita consistente.
Prima di passare al montaggio del canone può forse essere utile uno schema relativo alle
entrate delle singole parti. Decidendo che il dux sia assegnato alla parte più acuta, lo sche-
ma può essere questo:

Tab. 8-41
A1 B4/1 C4/2 D1 E4/1 ...
A4/1 B4/2 C1 D4/1 ...
A4/2 B1 C4/1 ...
A1 B4/1 ...
A4/1 ...

Si sarà notato che le entrate A4/1 e A4/2 corrispondono a punti diversi dell’anteceden-
te. L’antecedente, in questo caso, è attorcigliato nel modulo in una maniera per cui, una vol-
ta srotolata la linea del dux, l’elemento A4/2 compare prima di A4/1.
Detto questo, il montaggio non presenta grosse difficoltà. L’esempio 8-70 mostra l’esito
finale con una coda conclusiva; essendo il canone in deuterus, alla fine del brano (le ultime
due battute) era opportuna una cadenza plagale (IV-I) secondo le abitudini del modo.
Per quanto riguarda la composizione di canoni ad alto numero di parti, ad esempio ot-
to, non ci sono ulteriori difficoltà concettuali da affrontare. Qui ovviamente non si potrà
fare distinzione tra le esigenze del basso e le parti superiori. L’unico problema è ottenere un
antecedente di accettabile qualità melodica, cosa per la quale è necessario lavorare sodo.
Ad alto numero di parti non dobbiamo comunque aspettarci linee memorabili. Così dovre-
mo fare affidamento soprattutto al risultato d’insieme. Ciò significa che le cose comince-
ranno a funzionare bene quando saranno entrate tutte le parti in gioco.
Non riesco riesco a immaginare le intime sensazioni provate da uomini di oltre mezzo
millennio fa di fronte a canoni complessi. Il fatto che la complessità non intaccasse l’am-
biente sonoro basato sulla modalità tradizionale (le familiari sette note più qualche spora-
Capitolo 8 357

Es. 8-70
6 Œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ œ ˙. ˙ œ œ
&4 ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. J
6 ∑ ∑ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ ˙ ˙ œ
&4 ˙
6 ∑ ∑ ∑ ∑ ˙ œ ˙ œ
V4
6 ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
V4
?6 ∑ ∑ ∑ ∑ ∑
4

j Ó. Ó.
& œ œ. œ ˙. ˙. œ œ œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙
.

œ. œ œ œ. œ Ó.
& Œ œ œ
J ˙. ˙ œ œ œ J ˙ œ ˙. œ œ œ œ œ ˙
œ
œ ˙ j j
V œ œ œ œ œ Œ
˙
˙ œ Œ
œ œ œ. œ œ œ
˙. ˙ œ œ œ œ. œ ˙.
∑ Œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ œ
V ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. J
˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ
? ∑ ∑ ∑

œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙ Œ ˙ Œ j ˙. ˙ œ œ
& ˙ ˙ œ œ œ œ. œ œ œ
Ó. Œ ˙ ˙ œ
& œ œ œ œ œ œ ˙
. ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ ˙.
œ
˙
j .
V ˙. Ó. œ œ œ œ œ œ. œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ Ó. ˙ œ ˙ œ

j
V ˙. ˙ œ œ œ œ. œ ˙. ˙.
Ó.
œ œ œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ
˙ œ œ œ. œ œ œ. œ
? œ ˙ J ˙ œ ˙.
Œ œ J ˙. ˙ œ œ œ Ó.

j j .
& œ œ. œ ˙. ˙. Ó. œ œ œ œ œ œ. œ œ ˙ œ œ œ œ œœ ˙ Ó.

œ. œ œ œ ˙. ˙ j Ó.
& Œ œ œ
J
œ œ œ œ. œ ˙. ˙. œ œ œ œ œ ˙ œ œ
˙ ˙ œ. œ œ œ.
V œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ œ Œ œ œ
J ˙. ˙ œœ œ
œ
J ˙ œ

Ó. œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙ Œ ˙ Œ j
V ˙. ˙ œ œ
˙ œ œ œ. œ œ
? œ œ œ œ œ ˙ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. Ó. ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ .
œ

œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ
& ˙ J ˙. ˙ œ œ

& . Ó. ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙ Œ ˙
˙ œ œ œ œ œ œ ˙ ˙ œ

V ˙. Ó. œ œ œ œ œ ˙ . Ó.
œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ ˙ œ ˙ œ
j j
V ˙. ˙ œ œ œ œ. œ ˙. ˙. Ó. œ œ œ œ œ œ. œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ
˙ œ œ œ. œ œ œ ˙. ˙ œ œ œ œ.
? Œ ˙ Œ œ J œ . ˙. Ó.
J ˙
358 L’abaco e la rosa

œ. œ Ó. Ó.
& œ J ˙ œ ˙. œ œ œ œ œ ˙ œ œ œœ œœ ˙
.
œ ˙
j ˙. ˙ j j
& Œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ. œ ˙. ˙. Ó. œ œ œ œ œ œ. œ œ

Œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ œ ˙. ˙ œ œ œ œ. j
V œ œ œ œ œ ˙. J œ ˙.
˙. Ó. œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ
V ˙ J
˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ ˙
? œ œ œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. Ó.

Œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ œ ˙. ˙ œ œ
& ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ ˙.
œ J
. ˙
& ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ Ó. ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ ˙ œ

V ˙. Ó. . Ó. ˙ œ ˙ œ
œ œ œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙
œ. œ Ó.
V ˙. ˙ œ œ œ J ˙ œ ˙. œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ
œ ˙
˙ œ œ ˙. ˙ œ œ œ œ. ˙.
? Œ ˙ Œ œ œ œ . Jœ œ œ .
J ˙ Ó.

j Ó. Ó.
& œ œ. œ ˙. ˙. œ œ œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ œ œœœ œ ˙
.

œ. œ œ œ. œ Ó.
& Œ œ œ
J ˙. ˙ œœ œ J ˙ œ ˙. œ œ œ œ œ ˙
œ
œ ˙ j j
V œ œ œ œ œ Œ
˙
˙ œ Œ
œ œ œ. œ œ œ
˙. ˙ œ œ œ œ. œ ˙.
Ó. Œ ˙ ˙ œ Œ œ œ œ. œ œ œ
V ˙. ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. J
? œ œ œ œ œ œ . Jœ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙. ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ œ ˙ œ œ
Ó.

œ w. w.
& ˙ œ ˙ œ œ œ œ œ ˙

& œ. j j Œ ˙. ˙. #˙ .
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ
Ó. ˙ œ œ œ w.
V ˙. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ.
J
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
V œ. œ œ
J
˙ œ œ œ œ œ ˙ œ w.

? ˙ ˙ œ œ œ œ w. w.
œ ˙.

dica alterazione, come nei nostri esperimenti), garantiva forse una sorta di naturalezza an-
che a livello di ascolto non competente (ma considerando anche superficialmente i caratteri
della società del tempo occorre poco per intuire che tali opere potevano essere comprese
soltanto da una ristrettissima élite). Se si ascolta una buona esecuzione della Missa prolatio-
num di Ockeghem si può recepirla, non sapendo nulla dei suoi complicatissimi canoni,
come un tranquillo brano corale, semmai con un carattere vagamente ipnotico. Non credo
però che Ockeghem aspirasse a questo. Sospetto che questa pretesa naturalezza sonora sia
una conseguenza, se non addirittura un fatto accidentale.
Queste ultime osservazioni mettono in evidenza un altro dei numerosi paradossi in cui ci
Capitolo 8 359

siamo imbattuti fin qui. Per la nostra odierna sensibilità di fruitori musicali (per il passato
francamente non saprei) è possibile recepire opere di grande complessità intellettuale e
concettuale in modo apparentemente non problematico, cui l’ascolto può rivelarsi anche
piacevole e naturale. Ockeghem probabilmente non immaginava che mezzo millennio più
tardi si sarebbe potuta ascoltare la sua Missa prolationum riprodotta da un mezzo meccani-
co comodamente sdraiati sul divano di casa propria, e non in una cattedrale durante una
solenne funzione tra nubi d’incenso. Per contro, un espressivo, ma meno ingegneristico, ma-
drigale cromatico della fine del Cinquecento (come quelli di Gesualdo da Venosa) può esse-
re considerato ancora difficile, se non addirittura urtante.
Nel Novecento la difficoltà, in relazione diretta con la fatica dell’ascolto musicale, è stata
per molti sinonimo di complessità intellettuale. Questa concezione è stata una sorta di lin-
gua franca per molti musicisti «d’avanguardia». È occorso infatti aspettare parecchio per-
ché la modernità di un genio come Debussy, per limitarci a un caso, sia stata pienamente
riconosciuta.
Questo luogo comune viene ripetuto ancora da coloro che considerano di nessun valore
opere che, nonostante la grande complessità intellettuale della loro concezione, sono ree di
presentare una «semplice» o accattivante veste sonora. Ricordo ancora violente discussioni
negli anni Ottanta, quando in Italia cominciavano a essere eseguite e conosciute composi-
zioni di musicisti americani come Adams, Glass e Reich, ed europei come Pärt e Nyman,
che facevano riferimento, in un modo o nell’altro, a una concezione «minimalista». Ricordo
in particolare le critiche velenose e lo scherno di molti nei confronti di Pärt, i cui esordi,
quando era un oscuro compositore estone, lo avevano visto nelle fila dei compositori dode-
cafonici. Passi per Nyman, che allora veniva considerato soltanto come l’autore delle co-
lonne sonore dei film di Peter Greenaway, ma che Pärt avesse tradito le magnifiche sorti e
progressive del totale cromatico e che con il suo disarmante ritorno alle sette note ottenesse
un incredibile successo di pubblico nei luoghi deputati alla musica «seria» e nelle vendite
discografiche, con pezzi di ispirazione perlopiù sacra, poteva rappresentare un pericoloso
cambio di rotta. Alcune vecchie cariatidi vedevano sgretolarsi il piedistallo dove qualcuno
(o loro stesse) le avevano collocate.
Oggi, a distanza di più di vent’anni, le cose sono parzialmente cambiate. La molteplicità
si è imposta come il nuovo credo. Va bene a tutti, anche alla logica di mercato. Tra musici-
sti, a parte pochi irriducibili, vige sempre più un clima di civile tolleranza o d’indifferenza.
Inoltre, di ossi da rosicchiare se ne trovano attualmente pochi. Alcuni ritengono più saggio
(o necessario) darsi alle caramelle.

8.6. Prendere il largo

Giunti a questo punto, qualcuno potrebbe sentirsi invogliato a cercare proprie soluzioni per
la scrittura imitativa o per i canoni. Avrei raggiunto lo scopo di questo capitolo.
Mi piace però aggiungere ancora qualcosa. Riguarda un aspetto particolare della scrittu-
360 L’abaco e la rosa

ra imitativa e, volendo, dei canoni.


Quelli realizzati fin qui sono tutti canoni con entrate equidistanti. Ciò significa che, tra
un’entrata e l’altra delle parti di un canone, trascorre lo stesso intervallo di tempo (ad
esempio due battute): come spesso accade nell’ambito della musica scritta, risulta più intui-
tivo riferirsi a concetti spaziali; in questo caso alla distanza spaziale tra un’entrata e l’al-
tra.
In realtà, l’analisi del repertorio rivela che spesso, nelle composizioni polifoniche non ri-
gidamente canoniche, le entrate delle voci non sono equidistanti. I canoni mostrano invece
perlopiù entrate equidistanti.
Ecco l’inizio del madrigale «Dormend’un giorno» di Philippe Verdelot, attivo nella pri-
ma metà del Cinquecento:

Es. 8-71

&b C ∑ ∑ ∑ ∑
˙ œ œ
Dor - mend’ un
œ. œ œ
Vb C ∑ ∑ ∑ Ó Œ œ J
œ
Dor - mend’
? œ œ œ œ ˙ œ œ . un giorn’œ a
œ
b C ∑ ∑ ˙ J
Dor - mend’ un giorn’ a Ba - ia–all - ombr’ a - mo -
? œ œ œ œ ˙ œ œ œ #œ ˙
b C Ó ˙ ˙ Ó
Dor - mend’ un giorn’ a Ba - ia–all’ ombr’ a - mo - re,
? j j
b C ˙ œ. œ œ œ œ œ œ. œ œ ˙ Ó
œ ˙ ˙
Dor - mend’ un giorn’ a Ba - ia–all’ - ombr’ a - - - mo - re,

Ritengo risulti chiaro adesso, che cosa si intende per entrate non equisdistanti.
Attraverso un uso spregiudicato dei moduli si può giungere anche alla realizzazione di
canoni con entrate non equidistanti.
Immaginiamo di volere realizzare un modulo a cinque parti a partire dal seguente fram-
mento in protus trasportato:

Es. 8-72

&b C ˙ ˙ ˙ œ

Ecco il modulo iniziale di due battute:

Es. 8-73

&b C œ œ œ. œ ˙ œ
J œ
j œ
&b C ˙ œ. œ ˙ Œ

&b C ˙ Ó ˙ œ

&b C ˙ ˙ œ œ
˙
j bœ
&b C œ œ ˙ œ. œ œ

Stabiliamo un periodo, ad esempio 1-5-1. In base a quanto realizzato negli esempi pre-
Capitolo 8 361

cedenti, otterremmo un modulo definitivo di sei battute.


Immaginiamo ora di deformare, rispettivamente allungandoli e accorciandoli, i due nuovi
sottomoduli. Ad esempio, potremmo ottenere un modulo di 2 + 2 e mezza battute + 1 e
mezza battute. Ciò potrebbe equivalere a un modulo composto, nell’ordine, da battute di:
2/2, 2/2; 2/2, 3/2; 2/2, 1/2. In totale ancora sei battute, ma di diversa lunghezza. In que-
sta maniera alcune entrate non sarebbero equidistanti. Ecco come potremmo deformare il
secondo e terzo sottomodulo:

Es. 8-74

B1 C5 D1/2 E1
& b C œ œ œ . Jœ ˙ œ Œ j 3 Ó œ Ó 1
2 Œ œ C ˙
œ œ œ. œ 2 b˙ œ ˙
C1 D5 E1/2 A1
j 3 1
& b C Œ œ œ. œ ˙ Ó Ó 2 œ œ ˙ œ ˙ ˙ Œ œ 2 ˙ C œ œ
œ bœ
D1 E5 A1/2 j B1
3 1
&b C ˙ Ó ˙ œ
bœ ˙ 2 œ œ œ #œ œ œ ˙ œ œ ˙ 2 œ. œ C œ œ
˙
E1 A5œ B1/2 C1
˙ œ œ œ b˙ 3 bœ . œ œ. œ œ 1
&b C ˙ ˙ 2 J J œ œ
Œ œ œ. œ
J 2 ˙ C Œ œ
A1 B5 C1/2 D1
j bœ ˙ j 3 j 1
&b C œ œ ˙ œ. œ œ ‰
bœ œ 2 ˙ ˙ ˙ ˙ œ. œ 2 ˙ C ˙

Dal momento che abbiamo ormai imparato ad apportare ogni tipo di modifiche ai sot-
tomoduli, non ritengo risulti più difficile allungarne uno e accorciarne un altro. Nel fare que-
sto, si tenga presente che, se non si vuole andare incontro a notevoli difficoltà nel montag-
gio del canone, bisogna fare in modo che la somma dei valori di durata del modulo sia
uguale a un multiplo del metro originario. In questo caso è 12: non ci saranno quindi proble-
mi.
Per quanto riguarda le particolarità del modulo appena realizzato, si noti che la terza
battuta presenta una fase cadenzale con tanto di sensibile alterata (il FA diesis). La ca-
denza presenta alcuni aspetti poco ortodossi. Ci sono infatti due note con funzione di ri-
tardo (i due SOL nella seconda e terza riga), quando la prassi ne richiederebbe una soltan-
to. Il SOL della seconda riga risolve poi salendo verso il LA, invece di scendere! Quest’ulti-
ma nota, per il linguaggio rinascimentale, può essere considerata nota di passaggio (la nota
che la precede è infatti di durata più lunga) e come tale non creerà problemi quando si tro-
verà al basso. Un’interpretazione tonale, poteva invece prospettare una triade allo stato di
secondo rivolto, inaccettabile nel contrappunto multiplo. Gli aspetti poco ortodossi (errati,
secondo una rigida lettura scolastica) mi sembrano qui giustificati da una condotta lineare
scorrevole. Ogni tanto, se vogliamo cimentarci in qualcosa di interessante, dobbiamo avere
il coraggio di fare qualche passo azzardato come gli antichi maestri, che in questo si dimo-
strano spesso autentici funamboli.
Passiamo ora alla lettura del precedente modulo riscrivendolo interamente in 2/2 (il me-
tro originario):
362 L’abaco e la rosa

Es. 8-75
B1 C5 D1/2 E1
& b C œ œ œ . Jœ ˙ œ Œ
œ œ.
j
œ b˙
Ó œ œ ˙ Ó Œ œ ˙
œ
C1 D5 E1/2 A1
j Œ œ ˙
& b C Œ œ œ. œ ˙ Ó Ó
œ œ ˙ œ ˙ ˙ œ œ
œ bœ
D1 E5 A1/2 j B1
&b C ˙ Ó ˙ œ
bœ ˙ œ œ œ #œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ. œ œ œ
˙
E1 A5 œ B1/2 C1
˙ œ œ œ b˙ bœ . œ œ. œ œ œ œ Œ œ œ ˙
&b C ˙ ˙ J J œ.
J
Œ œ
A1 B5 C1/2 D1
j bœ ˙ j j
&b C œ œ ˙ œ. œ œ ‰
bœ œ ˙ ˙ ˙ ˙ œ. œ ˙ ˙

Per nulla difficile è ora svolgere la linea dell’antecedente:

Es. 8-76
j bœ ˙ ‰ j j
&b œ œ ˙ œ. œ œ bœ œ ˙ ˙ w œ. œ ˙

% A1/2 j
&b ˙ Ó ˙ œ
bœ ˙ œ œ œ #œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ. œ
˙

& b œ œ œ . Jœ ˙ œ Œ j
œ œ . œ b˙
Ó œ œ ˙ Ó Œ œ
œ
% A5œ b ˙ bœ . œ œ . œ œ
˙ œ œ œ œ. œ ˙
&b ˙ ˙ J J œœ
Œ œ
J

j Œ œ ˙
& b Œ œ œ. œ ˙ Ó Ó
œœ˙ œ w
œ bœ

L’esempio 8-77 mostra il risultato finale di un possibile montaggio del canone. Ho scel-
to, come nel madrigale di Verdelot, di presentare in successione le parti iniziando dal bas-
so. L’ordine delle entrate è: A1, A5, A1/2, A1, A5.
Nel momento in cui si sappiano manipolare con varietà i moduli, si può pensare di uti-
lizzarli per alcune sezioni di composizioni più ampie e più libere dei canoni. Innumerevoli
composizioni di carattere sia sacro che profano presentano episodi di carattere imitativo
alternati ad altri di carattere più omoritmico. Realizzando brevi moduli (ad esempio con
una sola trasposizione) si possono inserire i canoni risultanti nell’ambito di questo tipo di
composizioni. Si possono poi modificare questi canoni per esigenze di varietà e scorrevo-
lezza. Dal momento che i moduli diventano in questi casi semplici strumenti per realizzare
agevolmente episodi imitativi, e non canoni rigorosi, si possono ad esempio modificare i
canoni cambiando registro ad alcune parti, sostituire alcune note del canone con note che
formino intervalli di quinta per una maggiore ricchezza sonora, ed effettuare altre libere
operazioni secondo le proprie esigenze.
Capitolo 8 363

Es. 8-77
&b C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

&b C ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ œ œ ˙
j
Vb C ∑ ∑ ∑ ∑ Ó œ œ ˙ œ. œ œ œ œ. œ
J
œ œ b˙ bœ . œ œ. œ j
Vb C ∑ ∑ J œ œ œ Œ œ œ. œ ˙ Œ œ œ. œ
J J
j bœ ˙ j j
Vb C œ œ ˙ œ. œ œ ‰
bœ œ ˙ ˙ w œ. œ ˙ ˙ Ó

œ œ b˙ bœ . œ œ. œ j
&b ∑ J œ œ œ Œ œ œ. œ ˙ Œ œ œ. œ ˙ Ó
J J
j bœ ˙ j j
& b œ. œ œ ‰
bœ œ ˙ ˙ w œ. œ ˙ ˙ Ó ˙ œ

Vb ˙ œ Œ
œ
j
œ b˙
Ó œ œ ˙ Ó Œ œ ˙ ˙
˙ œ œ
œ œ.
˙ j bœ
Vb ˙ Ó Ó
bœ œ œ ˙ œ w Œ œ œ œ ˙ œ. œ œ
œ
j ˙
Vb ˙ œ
bœ ˙ œ œ œ #œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ. œ œ œ œ. œ
J œ
˙ œ

˙ j bœ ˙ j
&b Ó bœ œ œ ˙ œ w Œ œ œ œ ˙ œ. œ œ ‰
bœ œ
œ
j
&b ˙ œ œ œ #œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ. œ œ œ œ. œ ˙ œ Œ j
˙ J œ œ œ. œ
œ œ b˙ bœ . œ œ. œ j
Vb J œ œ œ Œ œ œ. œ ˙ Œ œ œ. œ ˙ Ó Ó
J J œ bœ
˙ j j
Vb ‰
bœ œ ˙ ˙ w œ. œ ˙ ˙ Ó ˙ œ
bœ ˙ ˙
œ ˙ œ œ œ b˙
Vb Œ œ
j
œ b˙
Ó œ œ ˙ Ó Œ ˙ ˙ œ
œ.
j
&b ˙ ˙ w œ. œ ˙ ˙ Ó ˙ œ
bœ ˙ œ œ œ #œ œ œ
˙
œ ˙ œ œ œ œ b˙ bœ . œ œ. œ
& b b˙ Ó œ œ ˙ Ó Œ ˙ ˙ J J
˙ j bœ ˙ j
Vb œ œ ˙ œ w Œ œ œ œ ˙ œ. œ œ ‰
bœ œ ˙ ˙
j
Vb œ œ œ #œ œ œ ˙ œ œ ˙ œ. œ œ œ œ. œ ˙ œ Œ j Ó
J œ œ œ. œ b˙
bœ . œ œ. œ œ ˙ j
Vb J J
œ œ œ Œ œ œ. Œ œ œ. œ ˙ Ó Ó
œ œ ˙ œ
J œ bœ
j
&b ˙ œ œ ˙ œ. œ œ œ œ. œ ˙ œ Œ j Ó œ œ ˙
J œ œ œ. œ b˙
œ ˙ j
&b œ œ œ Œ œ œ.
J
Œ œ œ. œ ˙ Ó Ó
bœ œ œ ˙ œ w
œ
j
Vb w œ. œ ˙ ˙ Ó ˙ œ
bœ ˙ œ œ œ #œ œ œ ˙ œ œ
˙
œ ˙ œ œ œ b˙ bœ . œ œ. œ
Vb œ œ ˙ Ó Œ ˙ ˙ œ J J
œ œ œ Œ œ
˙ j bœ ˙ j
Vb w Œ œ œ œ ˙ œ. œ œ ‰
bœ œ ˙ ˙ w

œ ˙ œ œ œ b˙ bœ . œ œ. œ
&b Ó Œ ˙ ˙ œ J J
œ œ œ ˙ nw

˙ j bœ ˙ j
&b Œ œ œ œ ˙ œ. œ œ ‰
bœ œ ˙ ˙
Œ œ œ #œ œ œ w
j œ. œ œ w
Vb ˙ œ. œ œ œ œ. œ ˙ œ Œ j Ó Œ J
J œ œ œ. œ b˙
œ ˙ j
V b œ. Œ œ œ. œ ˙ Ó Ó
œ œ ˙ œ œ œ ˙ w
J œ bœ
j
V b œ. œ ˙ ˙ Ó ˙ œ
bœ ˙ œ œ œ #œ œ œ ˙ ˙ w
˙
9. Profumi e veleni

9.1. Chiaroscuri

Chi si aspettava uno scritto che equamente si dividesse fra l’abaco e la rosa è sicuramente ri-
masto deluso: ho dedicato quasi tutte le precedenti pagine a far di conto trascurando di in-
naffiare il fiore che impudicamente ho tirato in ballo fin dal titolo di questo libro.
Non è mia intenzione riparare frettolosamente in quest’ultimo capitolo. Se risulta quasi
atroce pensare a un mondo privo della fragranza della rosa, non trovo nulla di meglio che
richiamare alcuni meravigliosi versi di Borges tratti dalla raccolta Fervore di Buenos Aires,
del 1923: La rosa, / l’immarcescibile rosa che non canto [...] / la rosa irraggiungibile.
Potrei dunque fermarmi qui. Non sono infatti in grado di scrivere seriamente di estetica.
Non è la mia professione (sono infatti un musicista e non un filosofo), e, rifacendomi alla
celeberrima proposizione di Wittgenstein, non potendo su di essa parlare, dovrei soltanto
tacere. Sempre rifacendomi al filosofo austriaco, avverto d’altronde che ciò che impone il
silenzio rappresenta una parte importante del mondo: con esso si instaura di fatto un rap-
porto che possiede caratteri del misticismo.
Nella premessa di questo libro non ho nascosto una punta di irritazione nei confronti di
una critica musicale refrattaria a (o incapace di) considerazioni tecniche sulla musica che, a
ben vedere, sono considerazioni di sostanza. Ammetto francamente di nutrire scarso inte-
resse per una critica musicale di taglio letterario o per scritti di estetica musicale che non ri-
velino qualcosa di più di una navigata competenza tecnica — musicale — dell’autore
(magistrali restano per me ancora gli scritti di Schumann).
Trovo invece spesso più profonde le considerazioni di coloro che si occupano di estetica
secondo una prospettiva a più ampio raggio rispetto all’approccio settoriale e accademico.
Uno dei testi di argomento estetico che mi ha maggiormente affascinato negli ultimi anni è
Grammatiche della creazione di George Steiner, uno dei massimi critici letterari contempora-
nei, che mirabilmente riesce a impostare un ampio e ambiziosissimo discorso su letteratura,
filosofia, scienza e arti, offrendo idee e quesiti di interesse nevralgico per questo iniziale
scorcio del nuovo millennio. Non a caso il libro di Steiner pone al centro l’idea stessa di
creazione, mettendo il dito sulla piaga su uno dei più scottanti argomenti estetici di ogni
tempo. Sono poi più che debitore del bellissimo libro L’universo come opera d’arte di John
366 L’abaco e la rosa

Barrow, celebre astrofisico, in cui l’autore considera l’influsso della natura, in particolare
quello del cosmo, sulla creatività umana. Il libro dedica anche un denso capitolo a quelli
che potrebbero essere i fondamenti naturali della musica alla luce delle più recenti scoperte
in ambito scientifico e psicologico. Proprio in un passo di questo libro l’autore propone
l’immagine dell’abaco e della rosa di cui mi sono impunemente appropriato. In genere, mi
piacciono poi le testimonianze dirette degli artisti.
Nel già citato Pensare la musica oggi, Boulez dedica e intitola un intero capitolo alla neces-
sità di un orientamento estetico. Quella di un orientamento estetico è sicuramente una necessi-
tà fondamentale. Quale sia poi è altra cosa, riguardando la sfera personale dell’artista. A
questo proposito, ricordo ancora con irritazione — direi quasi con sgomento — l’afferma-
zione di un affermato docente di analisi musicale durante un corso di perfezionamento che
seguii in Italia all’inizio degli anni Novanta (!), secondo il quale una seria espressione com-
positiva contemporanea non avrebbe potuto (non so oggi quale sia il suo attuale punto di
vista) non tenere conto di quanto era stato fatto e detto a Darmstadt (la cittadella dei
compositori seriali e strutturalisti nell’immediato dopoguerra) negli anni Cinquanta e Ses-
santa. Se una simile affermazione è del tutto legittima come idea personale (ho già espresso
la mia ammirazione per alcuni continuatori del pensiero strutturalista come Ligeti, Donato-
ni e Maxwell Davies, che hanno portato avanti idee anche intransigenti), la ritengo irre-
sponsabile e assolutista in un contesto didattico. D’altronde ho già accennato alla bagarre
che ci fu all’apparire in ambito «colto» di espressioni musicali molto distanti da un pensie-
ro di filiazione strutturalista (la lingua franca della musica contemporanea «istituzionale»),
negli anni Settanta-Ottanta.
Nel momento in cui scrivo, generalmente chi è nato negli ultimi quaranta, cinquant’anni
ha posizioni e toni più sfumati e tolleranti. Rispetto ad esempio agli anni Ottanta, in Italia
il confronto tra compositori può dirsi oggi generalmente sereno e costruttivo; nella peggiore
delle ipotesi regna la più totale indifferenza. Come ho già detto, molti si rendono dramma-
ticamente conto dell’enorme rimpicciolimento degli spazi dedicati alla musica «d’arte» (uso
un’espressione non particolarmente felice, ma forse qui funzionale). Ci si ritrova coalizzati
— al di là della scelta di estetiche anche molto diverse — nell’invocare l’intervento di una
purtroppo inesistente protezione civile a sfondo musicale, e impegnati a fare i conti con una
diffusa e svilente situazione di precarietà artistica e professionale.
Sia chiaro: non sono tra quelli che invocano il ritorno ai «bei tempi andati», che proba-
bilmente non erano poi così belli per tutti. Può darsi che l’epoca delle sale da concerto sia
inevitabilmente al tramonto e che si debba trovare il modo di far passare il patrimonio del-
la cultura musicale per altri spazi e canali. Per quanto mi riguarda però, non sono per nulla
disposto a negare che esista e debba continuare a esistere una qualche forma di fare musi-
cale che si ponga il problema di una dimensione autenticamente culturale. Non necessaria-
mente questo fare musicale deve essere esoterico. Anzi, la sostanziale dimensione autorefe-
renziale di molta arte contemporanea ha una sua parte di colpa nell’attuale ghettizzazione
culturale.
Non ho alcuna intenzione di sottomettermi a una paralizzante forma di pessimismo. I
modi per difendere con i denti il ruolo culturale della musica, dell’arte e dell’intelligenza
Capitolo 9 367

sono molteplici. Fra gli innumerevoli, c’è forse anche quello di parlare di tecniche musicali.
È vero che si avverte quanto mai la necessità di un orientamento estetico, ma che sia il più
possibile libero, anche da qualsiasi assolutismo e fondamentalismo di ritorno.
Nella premessa di questo libro ho detto che esso è rivolto soprattutto a studenti curiosi
e privi di condizionamenti settari, e ad appassionati che desiderino anche solo avvicinarsi
al mondo della composizione senza provare la frustrante sensazione di addentrarsi in un
terreno di sabbie mobili o di profanare un tempio di qualche culto per iniziati. Nel corso dei
capitoli precedenti qualcuno potrà avere avuto la sensazione di trovarsi di fronte a non
poche situazioni riconducibili a un atteggiamento ludico nei confronti della composizione
musicale. Non nego che trovo quest’ultimo un componente importante e irrinunciabile del-
l’essere umano. Sono d’altronde in buona compagnia nel ritenerlo un potente impulso per la
creazione artistica. Ovviamente quest’ultima può anche non essere motivata soltanto da
considerazioni e impulsi di questo genere.
Al di là del fatto che i giochi possono essere una cosa estremamente seria e profonda
(basti pensare agli scacchi), e che possono rivestire un ruolo importante nella formazione e
nella qualità dell’esistenza di un individuo, per quanto riguarda le tecniche in genere — ma
si potrebbe fare un discorso analogo per la matematica, la logica e le scienze — ritengo che
sia assai stimolante e fruttuoso un approccio anche di tipo ludico. Quando sono riuscito a
comunicare a degli allievi in che modo ci si può divertire come pazzi a realizzare un con-
trappunto rinascimentale o l’armonizzazione di una melodia (sia anche un austero corale),
ho generalmente ottenuto risultati incoraggianti e, soprattutto, l’entusiasmo di persone che
in seguito hanno magari deciso di approfondire l’esperienza della composizione. Non fosse
altro che un gioco intelligente dà gioia a chi lo pratica, lo rende un fatto di tutto rispetto, o,
almeno, consolatorio. Al di là di questa non irrilevante dimensione c’è lo sconfinato mondo
dell’estetica.
Ciò che mi spinge a scrivere queste frammentarie note conclusive è intimamente legato a
un possibile ruolo culturale della musica all’inizio del XXI secolo. Parlare di estetica per me
si lega soprattutto al tentativo di continuare a considerare la musica come appartenente al
più ampio bagaglio culturale del mondo contemporaneo. Purtroppo un ruolo della musica
così concepito sta drammaticamente rimpicciolendosi, basti pensare allo scarso e spesso
squalificato ruolo della musica nell’odierna scuola dell’obbligo italiana.
Ma oltre a considerazioni di natura sociale e politica c’è oggi la sempre più (pre)potente
concorrenza del mondo delle immagini. È forse un passaggio epocale: la musica, come
(anche se in termini meno drammatici) la letteratura, potrebbe effettivamente, per le più
profonde e oscure ragioni dell’evoluzione culturale nel suo complesso, rivestire sempre più
un ruolo subalterno o marginale, nonostante la buona volontà di quella che potrebbe essere
una sempre possibile classe dirigente illuminata (ecco un efficace termine appartenente alla
sfera visiva).
Del resto, anche ascoltando le più disparate espressioni musicali provenienti da ambiti
anche fra loro lontanissimi nello spazio e nella psiche, mi accorgo che attualmente, al di là
di questa pirotecnica girandola sonora, non siamo in pochi ad avvertire, meno raramente di
quanto ci piacerebbe, una sorta di stanchezza in quella che un tempo si chiamava ispira-
368 L’abaco e la rosa

zione musicale e che potrebbe essere semplicemente individuata nella fantasia tout court.
Nel bene e nel male gli anni Ottanta sono stati in ambito classico, jazz e pop ancora un
momento di esplosiva quanto purtroppo effimera creatività musicale. Da quasi vent’anni
non si fatica a constatare, nella migliore delle ipotesi, una fase di elegante stagnazione.
Pensando soltanto ai più recenti lavori dei miei amati compositori «minimalisti», ad esem-
pio, percepisco non di rado tentativi di bilanci e di rivisitazioni, che a tratti assumono già
connotazioni di sapore accademico. Anche nell’ambito della musica pop, gli anni Novanta
e i primi dieci anni del nuovo millennio (a parte rare eccezioni come Björk) sono stati abba-
stanza deludenti. I dj spodestano i musicisti (tornerò su questo punto); imperversano le co-
ver. Molti, anche in ambito «colto», sembrano piuttosto impegnati a levigare e ad arricchire
i propri lavori musicali con le apparentemente immense e stimolanti possibilità offerte da
una tecnologia sempre più sofisticata e a alla portata di tutti (anche su ciò bisogna minima-
mente riflettere).
Le sparse considerazioni che seguiranno hanno soprattutto a che fare con ciò che confu-
samente mi passa per la testa ogni volta che mi accosto alla musica come ascoltatore, come
compositore o come insegnante: cioè confusi pensieri che riguardano il ruolo della musica in
questo primo scorcio del nuovo millennio, dal momento che, almeno per quanto riguarda la
musica, ho la sensazione che stiamo vivendo un cambiamento epocale, un cambio di para-
digma. Per molti aspetti, forse può già dirsi ampiamente conclusa quella meravigliosa e ric-
chissima stagione della musica che si era aperta in un lontano passato, addirittura con i
maestri della Scuola di Notre-Dame nel XIII secolo.

9.2. Easy!

Considero questo capitolo una sorta di bonus track conclusivo di questo libro. Non ho alcu-
na pretesa di condurre un discorso rigoroso e sistematico. Come ho detto nella premessa, il
mio obiettivo era quello di scrivere su materiali e semplici tecniche per la composizione mu-
sicale, destinato in primo luogo a principianti e appassionati.
Torno di nuovo su quello che può essere considerato un approccio ludico all’arte da
parte di studenti, appassionati, e, perché no, artisti stessi. Non nego che alla lunga una
concezione puramente ludica dell’arte mi sembra svilente. Il fatto che l’arte possa essere un
gioco meraviglioso e profondo può forse però avvicinare a essa schiere di persone regalan-
do momenti di autentica gioia.
Durante la stesura di quest’ultimo capitolo ho riletto il bellissimo quanto ambiguo ro-
manzo di Hermann Hesse Il gioco delle perle di vetro. In esso l’autore immagina un’epoca
(all’incirca un XXIII secolo che sembra mostrare ben pochi caratteri ipertecnologici) in cui
appare spenta l’innovazione artistica e culturale, e dove le arti, la cultura e le scienze ven-
gono coltivate — conservate — prevalentemente da parte di un’élite ascetica, la Castalia, in
luoghi appartati (sorta di monasteri laici) dal resto della società. L’atteggiamento eminen-
temente conservativo della Castalia pone al proprio centro la pratica di una sorta di gioco
Capitolo 9 369

spirituale, il «gioco delle perle» appunto, che mette in relazione, sotto forma di un linguag-
gio iniziatico, tutto lo scibile umano, e dove un ruolo di grande importanza è svolto dalla
musica e dalla matematica.
Non sono tra coloro che credono nella «fine della storia»; ma in un mondo sempre più
globalizzato è interconnesso potrebbe forse accadere per le arti tradizionali (penso ad esem-
pio alla musica «colta» e alla pittura) qualcosa di simile a quanto prospettato da Hesse nel
suo romanzo. La creatività umana avrebbe sempre modo di esprimersi in altri ambiti rite-
nuti di volta in volta artistici. Del resto, i mondi delle immagini e della ricerca scientifica
sembrano oggi quantomai creativi. Per quasi tutti i miei più anziani maestri, purtroppo oggi
scomparsi, ciò che hanno intravisto e udito del mondo dei videoclip e dell’odierna musica
pop non poteva essere considerato mai artistico alla stregua di un brano di musica classica
o contemporanea eseguito in una sala da concerto. Per le nuove generazioni e per chi si av-
via verso la mezza età le cose si pongono spesso in modo diverso.
Detto ciò, l’opzione delle «perle di vetro» può essere oggi in qualche modo già praticata
e potrebbe anche profilarsi all’orizzonte del nostro invecchiato mondo occidentale, o di una
società definitivamente composta da cyborg.
Vero è che potenti tecnologie alla portata di molti (in fondo basta possedere un compu-
ter e pochi diffusi programmi) consentono a un numero di persone molto più grande rispet-
to al passato di realizzare autonomamente composizioni musicali anche di una consistente
complessità e qualità, e di lavorare nella propria stanza avendo a disposizione un’orche-
stra virtuale che può eseguire in qualsiasi momento ogni genere di abbozzo e di esperimento
sonoro. Non è una cosa da poco. Fino a non molto tempo fa era complicato e costoso rea-
lizzare autonomamente anche il più semplice arrangiamento. Poi sono arrivati il MIDI e le
applicazioni per computer, e tutto è diventato progressivamente molto facile, troppo facile
forse. Nell’ambito della musica di consumo, ad esempio, professionisti seri e preparati la-
mentano che il mercato è ormai invaso da «maneggioni» che offrono prodotti di scarsa
qualità ma a prezzi stracciati. Purtroppo il mercato della musica di consumo è più permea-
bile a prodotti per persone di bocca buona (il «grande pubblico»), e gli investimenti per una
qualità prettamente musicale di un prodotto vengono volentieri sacrificati a operazioni le-
gate all’impatto d’immagine. È un fatto evidente, ad esempio, che si fa sempre più raro il
ricorso alla figura tradizionale dell’arrangiatore, che, al pari di un compositore, deve fare i
conti con un pensiero orchestrale che richiede una consistente conoscenza delle tecniche
compositive. Nell’ambito della musica «colta» è più difficile che si insinuino figure dilettan-
tesche che compongano al computer con una sommaria conoscenza delle tecniche composi-
tive.
Quanto appena detto conduce a molti scottanti interrogativi. Ritengo che questi rientri-
no sicuramente in ogni considerazione sullo stato attuale della musica e del fare musica, in
particolare dell’inventarla. Purtroppo, non essendo Italo Calvino, non mi sento assoluta-
mente in grado di fare alcuna proposta per il nuovo millennio. Mi limito quindi a eviden-
ziare qualcuna di quelle possibili domande.
370 L’abaco e la rosa

9.3. C’è qualcuno là fuori?

Una prima domanda riguarda quale sia la destinazione di musica di nuova fattura, al di là
della musica di «consumo» per la quale si dovrebbe fare un discorso a parte.
Come ho già detto numerose volte nel corso dei capitoli precedenti, mi sembra evidente
oggi un enorme iato tra le possibilità pressoché illimitate offerte dalle nuove tecnologie e
l’esiguità della proposta di musica nuova da parte di enti e istituzioni, eccezioni a parte.
Questa situazione risulta particolarmente frustrante perché l’arte, in generale, rimanda alla
necessità di un pubblico; fosse anche un solo ascoltatore, per la musica. Al di fuori della
musica di consumo e di realtà come l’opera lirica tradizionale, sembra che la musica sia
sempre più considerata come un’attività esoterica. Potremmo anche rassegnarci ad accetta-
re questo stato di cose. In fondo i madrigali di Gesualdo, L’arte della fuga di Bach o i quar-
tetti di Beethoven sono state e in parte sono espressioni artistiche elitarie. Pur non creden-
do molto alle magnifiche sorti e progressive di lopardiana memoria, non mi rassegno però a
pensare che una rinnovata e profonda educazione musicale e un entusiasta impegno per la
conoscenza del patrimonio musicale di ogni tempo non potrebbero contribuire al migliora-
mento della qualità della vita di ogni individuo e, perché no, di una crescita anche morale
di una società. Purtroppo per la musica, il mondo attuale è dominato dalle immagini. Nulla
toglie che si potrebbe assistere a un cambio di paradigma, ma per molto tempo ancora ri-
tengo che si debba fare i conti con l’attuale situazione.
Va da sé che la musica potrebbe cercare di proporsi sempre più come alleata e non in
una posizione subalterna rispetto alle immagini come spesso si ritrova a essere oggi. Su
questo argomento, del resto, si scrive e si dibatte molto. Penso a quello che, talvolta, è un
felice connubio nei videoclip. A parte rari casi, il videoclip è però un prodotto sostanzial-
mente commerciale avente a che fare con la musica di consumo, e prevalentemente con una
logica di profitto. (Si può ovviamente pensare di guadagnare con la musica: nessuno vive
solo d’aria. Si può però non considerare la musica alla stregua di una pura — e del tutto le-
gittima — attività imprenditoriale.)
Un terreno vergine mi sembra dunque quello dell’esplorazione del rapporto paritario tra
musica e immagini. Pensando anche soltanto agli ultimi secoli, è di grande evidenza un’au-
tentica simbiosi tra musica e parola. Una meravigliosa eccezione è costituita dalla parabola
della musica strumentale, che però ha spesso fatto riferimento a una retorica di tipo ver-
bale, discorsiva. Il nuovo millennio sembra in questo senso sancire un svolta importante.
Tutto sta nel concepire o meno lo spazio comunicativo come un contenitore, al novantano-
ve per cento, di prodotti usa e getta.
Se si continua a considerare l’arte come un fenomeno fortemente comunicativo, è chiaro
che ogni passo sul versante della pura creatività deve muoversi insieme a considerazioni
sulla destinazione del prodotto musicale. La creatività riguarda oggi più che mai, forse, la
ricerca di spazi, di nicchie comunicative. D’altronde anche la natura mostra che l’evoluzio-
ne di nuove specie è spesso connessa all’occupazione di nuove nicchie dell’ecosistema non
ancora sfruttate. Tuttavia, anche nell’ambito dell’evoluzione culturale, dobbiamo forse ras-
Capitolo 9 371

segnarci ad accettare, nonostante la straordinaria capacità di conservare della nostra civil-


tà, estinzioni contenute o di massa di idee e di forme della sensibilità.

9.4. Il fascino delle perle

Sullo scorcio degli inquietanti scenari che non sono riuscito a non evocare, mi chiedo ancora
se sia così improbabile l’opzione delle «perle di vetro», se non altro in una forma solipsisti-
ca. L’attuale tecnologia (non riesco neanche a immaginare cosa avremo a disposizione nei
prossimi decenni) permette, come ho già detto, di autoprodursi in maniera sempre più sem-
plice e soddisfacente. Di fatto una sola persona può realizzare a casa propria prodotti
musicali anche molto interessanti.
All’orizzonte potrebbe allora profilarsi una situazione in cui sempre più persone realiz-
zino musica per sé, senza preoccuparsi troppo di una destinazione della loro attività e del-
l’esistenza di un pubblico. Il pubblico sarebbe composto in primo luogo da loro stesse. Le
attuali tecnologie rendono possibile anche con un semplice tirocinio (rimando a quanto ho
in precedenza accennato su applicazioni come GarageBand) un rapporto autenticamente
ludico con la musica o avere con essa un rapporto solipsistico simile all’attività fisica soli-
taria o la meditazione. In passato simili prospettive per la musica erano certamente assai
meno praticabili. Il fatto che una persona possa ascoltare propri lavori autonomamente
realizzati mentre va in macchina o mentre riposa sul divano di casa mi sembra che renda
questo approccio musicale parzialmente diverso dall’avere, ad esempio, poesie nel casset-
to. E comunque oggi si rileva spesso che molti scrivono e pochi leggono. La musica, fino a
oggi è sempre stata un’attività per necessità più esposta, più spettacolare della scrittura.
Nel prossimo futuro le cose potrebbero mutare. La creatività musicale potrebbe avvicinarsi
sempre più alla sfera del privato.
Certo, l’altra faccia della medaglia di questo approccio alla musica è la malinconica di-
mensione di solitudine che sta caratterizzando sempre più svariate attività umane. Si pensi
al crescente successo dei videogames. Il fatto che sempre più persone tendono a divertirsi
da sole davanti a un video a scapito di attività collettive ha forse alcuni aspetti inquietan-
ti, ma non tutto il male viene per nuocere. Per quanto riguarda la musica, le nuove tecnolo-
gie consentiranno probabilmente di colmare il divario tra il musicista e il profano. Ecco al-
lora profilarsi una nuova imprevedibile stagione: realizzare da soli la colonna sonora della
propria esistenza anche semplicemente manipolando materiale esistente, sorta di estensio-
ne delle odierne playlist, potrebbe diventare parte integrante del quotidiano. Contestual-
mente dovremmo accettare la decostruzione del mito del performer e dell’artista di conce-
zione «romantica».
Mi chiedo, in definitiva, se siamo destinati a diventare tutti dj. La figura del dj mi sem-
bra paradigmatica del nostro tempo musicale. È di grande evidenza nell’ambito della musi-
ca di consumo che i dj stanno sempre più diventando protagonisti. Non occorre ormai ave-
re alcuna competenza musicale di tipo tradizionale (sapere leggere la musica, sapere suo-
372 L’abaco e la rosa

nare uno strumento o conoscere i fondamenti della composizione) per realizzare prodotti
di successo, che spesso consistono in montaggi di elementi musicali preconfezionati che il
computer permette di sovrapporre, collegare, modificare e riascoltare a piacimento. Penso
a dj che si sono imposti come musicisti di successo planetario come Moby. La nostra di-
mensione estetica d’altronde si profila sempre meno in maniera lineare e intimamente creati-
va; quella del montaggio è ormai da diverso tempo la dimensione prevalente in diversi am-
biti artistici, dal cinema (arte del montaggio per eccellenza) alla stessa letteratura.
Per certi aspetti un dj risulta paradossalmente più avantaggiato rispetto a un
«musicista» tradizionale (sia anche un chitarrista rock), perché la sua figura consiste essen-
zialmente nell’essere un esploratore nella giungla dell’offerta musicale contemporanea, un
esperto e arbitro delle mode e del gusto. Il dj è infatti una sorta di sommelier musicale. Le
sue competenze, in questo senso, sono spesso più grandi rispetto a quelle di una figura so-
stanzialmente specifica e settoriale come quella del musicista, dotato di una preparazione
«tecnica». Nell’ambito della musica di consumo non trovo nulla di scandaloso in questa
nuova tendenza: è una conseguenza di una civiltà in cui la tecnica è sempre più alla portata
di tutti. In un certo senso, in ambiti come la musica di consumo, si profilano essere ugual-
mente importanti o più importanti altre competenze che la tecnica propriamente detta.
Mi chiedo se qualcosa di simile alla figura e al ruolo del dj possa affiancarsi a quella dei
musicisti nell’ambito più conservatore della musica «colta», senza necessariamente spode-
starli. Potrebbe essere la naturale conseguenza di quel nuovo approccio alla musica che ho
provato a immaginare.
Comunque sia, per molti compositori, attraverso l’impiego del computer sta cambiando,
consapevolmente o meno, l’approccio alla composizione. È una cosa che riguarda anche al-
cuni miei illustri colleghi, ma di cui non si parla ancora apertamente (si tratta di cosa non
ancora metabolizzata), il fatto che uno strumento in più a disposizione del compositore è
l’abbandonarsi a vagabondaggi combinatori al computer, immediatamente e agevolmente
valutabili, partendo da materiali che diventano simili alle tessere di un mosaico sonoro
(abbiamo praticato qualcosa di analogo nel capitolo 3). Come ho già detto, il computer
consente una maggiore e più agevole attività esplorativa dei materiali musicali. Alcuni met-
tono in evidenza che un simile approccio pregiudicherebbe il controllo della forma e svili-
rebbe l’attività compositiva riducendola a un gioco combinatorio. Io non sono d’accordo.
Tutto ciò dovrebbe essere uno strumento in più a disposizione del compositore, non un
fine. Quanto al controllo della «forma» ritengo più importanti le idee generali che un com-
positore ha sulla musica, la sua estetica. Quest’ultima, se ben fondata, in modo conscio o
meno saprà orientare il senso della forma e delle proporzioni di una composizione musica-
le.
Comunque, volenti o nolenti, qualcosa sta cambiando anche nell’ambito della musica
«colta», dal momento che la maggior parte dei compositori fa un uso sempre più intensivo
del computer. Non ritengo improbabile che alla lunga, anche nell’ambito della composizione
«colta», si potrebbe assistere a una smitizzazione della tecnica, sempre più alla portata di
tutti. Come ho già detto nel capitolo 3, stiamo forse vivendo la fase iniziale di un cambio di
paradigma nella composizione musicale, in cui forse non sarà più protagonista la
Capitolo 9 373

«scrittura», come lo è stata nello scorso millennio.


Non mi stupirei in fondo che la musica — e non solo quella «colta» — diventasse un’ar-
te sempre più concettuale, dove a contare sarebbero soltanto la qualità e l’originalità delle
idee, dal momento che il superamento di problemi tecnici sarà sempre più alla portata di
molti. In questo senso, ci si potrebbe anche trovare di fronte a un’espressione artistica che
sarebbe puro prodotto di idee e che manifesti al contempo un forte potenziale comunicati-
vo. In realtà tutto ciò è da molto tempo evidente nell’ambito delle arti visive. La stagione
della pop art ha continuato la lezione di Duchamp portando spesso nei musei oggetti d’uso
quotidiano, che astratti non sono affatto. (Purtroppo i cultori della pop art hanno forse
talvolta esagerato nel seguire alla lettera il maestro per quanto riguarda la predilezione per
sanitari e per oggetti destinati all’espletazione di funzioni intime.) Del resto, è un fatto ri-
conosciuto che non necessariamente artisti come Andy Wharol fossero dei virtuosi sotto il
profilo delle tecniche classiche come il disegno. Eppure oggi in molti (io stesso) considerano
l’arte di Wharol più profonda rispetto all’attività di un talentuoso ma generico pittore (va
da sé che per pittori come Lucien Freud, probabilmente il più grande ritrattista contempo-
raneo, le cose si pongono in modo diverso).
Le arti visive mostrano oggi opere di artisti che delegano ad altri la realizzazione tecnica
delle loro opere, che conservano però una notevole forza comunicativa. Penso alle ormai
celebri opere di Maurizio Cattelan, ad esempio La nona ora, del 1999, in cui una riproduzio-
ne pressoché perfetta di Giovanni Paolo II (realizzata in cera, vetroresina, capelli e stoffa) è
accasciata su un tappeto rosso, colpita da un meteorite. Cattelan non è uno scultore, dele-
ga la realizzazione delle sue opere a valenti artigiani. Opere come La nona ora risultano af-
fascinanti nell’essere la metafora di una sorta di Apocalisse, un’Apocalisse che conduca
anche a un linguaggio nuovo in ambito artistico. Non sono un critico d’arte e non so dire
(non m’interessa neppure) se Cattelan sia un artista concettuale o un artista pop. Per
quanto mi riguarda, è un artista che sa mettere molto bene il dito sulle piaghe del nostro
tempo e sulla natura del fare arte oggi.
Nel senso cui ho accennato, un’arte — una musica — sempre più svincolata da problemi
tecnici potrebbe forse diventare patrimonio di un sempre maggior numero di persone. Po-
trebbe lentamente venire meno la linea di confine tra artista e fruitore dell’opera. Ciò po-
trebbe rappresentare per molti un miglioramento della qualità della vita. Per contro, ma
questa è già oggi una realtà problematica, ci si dovrà forse rassegnare sempre più a vedere
un rimpicciolimento di un fiorente mercato di prodotti artistici. (Probabilmente, in un simile
scenario, sarebbero sempre più importanti i contributi personali di individui dotati di par-
ticolari competenze e talento, che più dei loro prodotti potrebbero trarre sostentamento e
profitto dai propri servizi.)
Resta, ovviamente, una quantità di interrogativi brucianti. È chiaro che figure come
Wharol o Cattelan sono difficilmente assimilabili ad artisti visivi del passato come Miche-
langelo. Non è, in fondo, un problema di qualità, ma un problema legato alla natura stessa
dell’arte come pratica. Considerando che l’etimologia del termine arte rimanda al concetto di
tecnica, ci si può legittimamente chiedere se molta arte di oggi sia in realtà arte. La stessa
nozione di arte concettuale potrebbe essere considerata un ossimoro. Ritengo che non si pos-
374 L’abaco e la rosa

sa ragionevolmente eliminare un termine del rapporto tra idea e realizzazione pratica. For-
se Cattelan senza gli artigiani che realizzano le sue idee non avrebbe potuto raggiungere i
propri intenti artistici e la sua grande notorietà. È altrettanto evidente che non è automati-
co che a un artigiano specializzato nella realizzazione di statue di cera debbano o possano
passare per la testa idee come quelle che hanno dato l’impulso alla realizzazione di
un’opera come La nona ora. Per quanto riguarda la musica, penso ancora a programmi
ormai utilizzati da molti come GarageBand. Davanti a simili applicazioni, ci si può chiede-
re se gli artisti siano, più che gli utenti, i programmatori stessi.
Dobbiamo probabilmente sempre più accettare che la figura dell’artista oggi non assom-
mi in sé tutta una serie di competenze che sembravano necessarie agli artisti del passato.
Non dobbiamo neppure dimenticare però che anche in passato esistevano figure di com-
mittenti di opere visive che erano gli autentici registi dell’opera, suggerendo all’artista di
turno temi e simbologie a cui probabilmente diversi artisti del passato non potevano avere
accesso a causa di un diverso, anche deficitario, retroterra culturale. Per certi aspetti questi
committenti, non necessariamente anonimi, erano i Wharol e i Cattelan del passato, ma una
consolidata convenzione culturale ha riconosciuto soltanto come artisti i realizzatori mate-
riali, attribuendo loro una profondità e originalità intellettuale che magari non sempre pos-
sedevano. Ciò per un profondo culto della persona e di una visione unitaria della realtà.
Sotto il profilo culturale, uno degli aspetti più stimolanti della nostra epoca può essere
la necessità e l’esigenza di considerare in modo sostanzialmente diverso rispetto agli ultimi
secoli l’idea di autorialità.
Quello di una crisi dell’autorialità sempre più evidente nel mondo contemporaneo (il
mondo degli ultimi anni) è un argomento che ha bisogno di molto spazio e di affilati stru-
menti analitici. Posso cercare soltanto di immaginare alcuni possibili scenari di un mondo
in cui potremmo considerare l’arte — il singolo prodotto artistico — come una somma di
competenze e intuizioni di diversi individui. La musica è da molti ancora considerata come
un’arte tra le più romantiche. In questo senso sarebbe legata a una dimensione il più possibi-
le unitaria della sua creazione. Secondo questa prospettiva sono paradigmatiche alcune
pagine del Manuale d’armonia di Schönberg, dove l’autore espone le sue convinzioni circa il
fatto che melodia e armonia dovrebbero arrivare insieme sulla punta della penna del com-
positore. Considerando che Schönberg è tra i numi tutelari della musica del Novecento, si
comprende bene che in ambito musicale si faceva fatica a ipotizzare e accettare la divisione
delle competenze. Nell’ambiente della musica «colta» è ad esempio infrequente o addirittu-
ra disdicevole che un compositore si faccia orchestrare la propria musica (anche se alcuni
«grandi» lo hanno fatto più o meno clandestinamente). Le arti visive, per la loro compo-
nente materica e per necessità artigianale, hanno da sempre fatto meglio i conti con la divi-
sione del lavoro e con l’idea di «bottega».
L’idea della divisione delle competenze, del lavoro di gruppo, non è comunque una no-
vità e non è estranea neppure in ambito letterario, basti pensare al binomio Fruttero-Lucen-
tini o a Ellery Queen (Frederic Dannay e Manfred B. Lee). Il cinema, la forma d’arte proba-
bilmente più originale del Novecento, è l’esempio perfetto di un’opera d’arte di gruppo. In
campo musicale il lavoro cumulativo di più persone ha dato buona prova nei gruppi rock e
Capitolo 9 375

pop.
Ritengo comunque che sia nel modo di lavorare nel cinema, dove è evidente e necessaria
la divisione delle competenze, che si potrebbe vedere un nuovo approccio alla composizio-
ne musicale. Infatti non è poi diverso pensare che un autore a tutti gli effetti (per quanto ri-
guarda ad esempio la riconoscibilità stilistica, e la tutela economica) sia un binomio lettera-
rio o il lavoro di un gruppo di musicisti. Quello a cui forse dovremo sempre più abituarci è
la spersonalizzazione e la smaterializzazione della creazione artistica. In questo senso l’ar-
te del futuro potrebbe stare a quella del passato e in parte a quella di oggi come un oggetto
reale sta al suo ologramma.
Comporre musica con GarageBand è cosa diversa rispetto allo scrivere un giallo a quat-
tro mani. Nel primo caso l’autore è smaterializzato, si fa fatica a rintracciarlo. Ci si può ad-
dirittura legittimamente domandare se l’autore di musica composta con GarageBand debba
pagare dei diritti agli autori del programma. Non solo comporre musica con GarageBand
non prevede necessariamente un consapevole e concertato lavoro di gruppo, ma si possono
scorgere anche interessi in conflitto tra gli autori della musica e del programma.
Siamo forse destinati a praticare sempre più una forma d’arte ad autorialità limitata. Del
resto anche la scienza vede sempre più raramente figure solitarie destinate a cambiare la
nostra concezione del mondo. Le figure di un Galileo armato del suo rudimentale cannoc-
chiale, o di un Einstein di carta e penna, non sembrano più appartenere alla nostra epoca,
dove un normale articolo di una rivista scientifica può essere firmato da una dozzina o più
di ricercatori.
Trovo affascinante l’idea della formazione di gruppi di lavoro anche al di fuori della
musica di consumo. Trovo ancora più affascinante la possibilità che questi gruppi riunisca-
no persone con interessi e competenze molto diverse. Qualcosa in questo senso si sta fa-
cendo in contesti di ricerca molto avanzati come l’IRCAM di Parigi, attivo ormai da parec-
chi anni e orientato prevalentemente all’esplorazione di un rigoroso (forse troppo) rapporto
tra musica e scienza. Si potrebbe ovviamente pensare a qualcosa di più morbido e di più
fluido, e non necessariamente delle dimensioni e dei mezzi pari a quelli di una sorta di mi-
nistero. Attorno a me vedo però ancora musicisti molto isolati nel loro lavoro e che sembra-
no fortemente gelosi di un’autentica dimensione autoriale. Forse è ancora giusto che sia co-
sì.
Viviamo in un tempo in cui c’è probabilmente ancora spazio per gli autori. John Cage, al-
tro grande nume della musica contemporanea, ci ha mostrato però anche che è possibile e
forse salutare liberarci dalla colla dell’io. La sua lezione è stata ammirata e discussa, ma
pochissimi sono stati e sono disposti a farla intimamente propria. Mi piacerebbe che lo
spirito di artisti come Cage continuasse ad aleggiare sulla nostra musica e sui nostri silenzi.
Appendice al cap. 6. Tanto per cantare

App. 6.1. Il problema del testo

Qualcuno si sarà già indignato per la mancanza assoluta, fino a questo punto, di indica-
zioni riguardanti il trattamento di un testo in rapporto alla musica e viceversa. Dal mo-
mento che ciò che rimane della musica rinascimentale è costituito per la maggior parte da
brani vocali, l’assenza di considerazioni al riguardo potrebbe essere considerata particolar-
mente grave.
Da quanto ho proposto fin qui, l’argomento principale di questo libro è l’illustrazione di
semplici (forse semplificati) procedimenti compositivi. Il rapporto musica/testo, anche
sotto il profilo meramente tecnico, è un argomento troppo vasto e complesso per trovare
un’esauriente trattazione in questa sede. (Sull’argomento sono facilmente reperibili ottime
indicazioni, come quelle contenute nel già citato testo di Dionisi e Zanolini.)
Ritengo comunque utile proporre qui alcuni semplici elementi che potranno essere in se-
guito integrati da approfondimenti personali.
Sono dell’idea che il rapporto tra musica e testo come lo intendiamo oggi, e cioè come un
rapporto, in definitiva, simbiotico fra i contenuti di un testo letterario e della musica
(sostanzialmente «espressivo» e «psicologico»), si affermi in modo deciso soltanto dal
Cinquecento: prima con la meravigliosa fioritura del madrigale italiano; in seguito con la
composizione delle prime monodie d’arte accompagnate che inaugurano la stagione del-
l’aria e del melodramma.
Prima di quest’epoca il modello per il trattamento musicale di un testo in una composi-
zione colta, cioè scritta (poco sappiamo infatti sulla musica popolare antica), consisteva
nel repertorio sacro. Qui il testo, nonostante dichiarazioni programmatiche di teorici e mu-
sicisti sull’importanza dell’adesione della musica ai principi della retorica classica, nel ge-
nere polifonico sembra in realtà spesso galleggiare (esagero: essere appiccicato alla musica)
— tranne casi come alcuni passi mirabilmente espressivi di Josquin — fatto salvo il princi-
pio (ma non sempre) della concordanza degli accenti del testo con la pulsazione musicale e
dei principi accentuativi derivanti dal canto piano (dove spesso una sillaba accentata è as-
segnata a una nota più acuta rispetto a una sillaba non accentata, sulla scia dei principi
della retorica classica).
Certo, queste ultime affermazioni rischiano di essere alquanto azzardate, ma basta
378 L’abaco e la rosa

aprire qualche partitura scritta prima del Cinquecento per rendersi facilmente conto che le
cose sembrano spesso stare così. Ciò che sembra maggiormente importare agli antichi mae-
stri è infatti il contenuto accentuativo e simbolico del testo; quest’ultimo può trovare rela-
zioni nascoste e astratte con la musica: spesso si tratta di complesse, quanto esoteriche, re-
lazioni numeriche.
In relazione a quanto appena detto ritengo opportuno citare alcuni passi dell’ottimo vo-
lumetto di Malcom Boyd Lo stile di Palestrina, che vale da introduzione pratica. L’autore, a
proposito della disposizione delle parole nelle composizioni a carattere sacro di Palestrina,
scrive: «Anche i passaggi del Credo che si riferiscono alla crocifissione sono spesso musica-
ti da Palestrina e dai suoi contemporanei senza alcun particolare trattamento espressivo.
In effetti c’è poca angoscia nelle crocifissioni di Palestrina, come in quelle di Raffaello; per
trovare una rappresentazione drammaticamente plastica della passione di Cristo è meglio
rivolgersi a certi artisti tedeschi come Matthias Grünewald e J.S. Bach. [...] Nella musica di
Palestrina sembra spesso che una frase sia stata concepita indipendentemente dalle parole
con cui è cantata. [...] Tutto questo non vuole affermare che i compositori del Rinascimento
fossero indifferenti alla qualità delle parole o trascurassero il rapporto tra il testo e la mu-
sica. Al contrario dedicavano la massima attenzione a far sì che le parole si potessero can-
tare distintamente, con il giusto peso e la giusta enfasi per ogni sillaba».
Come ho accennato, è vero che il rapporto musica/testo secondo i principi e le figure
della retorica classica è spesso invocato dai teorici già durante il Medioevo. È solo a partire
dal Cinquecento però che la musica sembra decisamente e definitivamente assoggettarsi a
principi della retorica classica che vadano oltre i principi accentuativi. (A questo riguardo
può essere illuminante l’agile testo di Silvano Perlini Elementi di Retorica musicale, dove l’au-
tore offre numerosi esempi del rapporto tra figure retoriche e situazioni musicali.)
In questa sede riferiremo il rapporto musica/testo alla musica profana, dove l’applica-
zione di regole formali sul trattamento del testo sembra, rispetto al repertorio sacro, più
elastica. Se occorre infatti attendere il Cinquecento per trovare profonde e frequenti rela-
zioni espressive tra musica polifonica e testo (come del resto in alcuni straordinari passaggi
di Josquin), a cavallo fra Quattro e Cinquecento si profilano invece regole formali di tratta-
mento musica/testo più rigide di quelle a cui siamo abituati noi oggi. Queste regole sembra-
no spesso essere sufficienti, per gli antichi maestri, a legittimare l’unione tra suono e parola.
Dal momento che i nostri esperimenti hanno a che fare con la lingua franca dei composi-
tori dalla metà, circa, del Quattrocento sino alla metà del Cinquecento, poco male ce ne
verrà se cercheremo di appiccicare, secondo semplici regole formali, un testo letterario a un
brano musicale. Certo, non tenteremo l’unione di un disperato testo amoroso con una lumi-
nosa linea melodica in tetrardus. Ci accontenteremo di requisiti minimi di espressività, ana-
loghi a quelli che si ritrovano in tante composizioni del repertorio. Quest’appendice, d’al-
tronde, si propone infatti un approccio al testo sostanzialmente da principianti.
Tutto ciò potrebbe fare orrore a qualcuno. A questo proposito, ritengo che non poche
delle idee che circolano oggi sull’arte siano, sotto mentite spoglie, ancora profondamente
intrise di lasciti del romanticismo. È naturale allora che molti possano scandalizzarsi per la
presunta mancanza di un evidente rapporto espressivo e psicologico fra testo e musica,
Appendice al cap. 6 379

rapporto che in realtà trova realizzazione completa, per mezzo delle figure retoriche, già
nel Cinquecento, e che raggiunge il suo coronamento dal Seicento all’Ottocento. Quest’at-
teggiamento rischia di mostrarci però da un lato le cose in una prospettiva storica distorta,
dall’altro di costituire una pesante zavorra nella ricerca di soluzioni originali per il presen-
te.
Nel mondo contemporaneo la realtà quantitativamente più consistente di testi legati alla
musica è sicuramente il mondo della canzone. «Cantautori» a parte, in quest’ambito acca-
de spesso che di una canzone venga composta prima la musica, poi scritto il testo. Quasi
sempre, negli anni d’oro della canzone, il testo veniva scritto da un paroliere, un autentico
artigiano della parola, che cuciva sulla musica un testo come un abito di sartoria. Esatta-
mente il contrario di quanto accade nel mondo dell’opera, dove il compositore generalmen-
te musica un libretto scritto in precedenza; procedura lineare che i nipoti del romanticismo
vorrebbero ancora vedere applicata. L’altro modo di procedere non ha certo impedito un
approccio «espressivo» alla canzone. Per limitarci all’ambito italiano, si pensi al sodalizio
Battisti-Mogol, che ha dato frutti meravigliosi: canzoni a cui migliaia, forse milioni, di per-
sone sono ancora oggi emotivamente legate.
Se non c’è allora un approccio espressivo al rapporto fra testo e musica, ciò non dipen-
de allora dal fatto che un testo sia stato appiccicato a un brano musicale. Dipende da ragio-
ni più complesse.
Farò qui riferimento al trattamento di testi letterari del periodo rinascimentale in lingua
italiana, ma si potranno anche tentare esperimenti con testi di Petrarca, particolarmente
amato dai musicisti del Rinascimento. Dal momento, però, che la lingua internazionale del-
la musica profana, per il ruolo dominante dei compositori franco-fiamminghi, è stato a lun-
go il francese, suggerisco di fare esperimenti anche con quest’ultimo, con testi che vadano
dal Quattrocento fino a Ronsard (darò più avanti suggerimenti al riguardo).
Principio generale, valido praticamente per tutte le epoche, del rapporto formale fra te-
sto e musica è quello della concordanza tra gli accenti principali del testo e la pulsazione
musicale. Per quanto riguarda la musica rinascimentale, questa pulsazione, come ho più
volte detto, è data dal tactus (la nostra minima).
Si consideri questo frammento tratto da un famoso brano di Josquin:

Es. 6a-1

&C w ˙ ˙ ˙
Œ œ œ œ #œ œ ˙ œ
El GRIL - lo, el GRIL - lo–è BUON can - TO - re
Josquin: El grillo è buon cantore

Come si può facilmente notare, le sillabe accentate, che ho evidenziato in maiuscolo,


sono in corrispondenza del tactus. Generalmente le sillabe non accentate sono collocate sul-
la parte debole del tactus, ma in alcuni casi anche sul tactus stesso.
Il precedente esempio è inoltre interessante per altri aspetti. In primo luogo per l’impiego
di un melisma nella seconda battuta. Si definisce melisma un frammento melodico cui corri-
sponde una sola sillaba. I melismi sono molto frequenti nella musica rinascimentale, specie
380 L’abaco e la rosa

in corrispondenza di gruppi di crome, come vedremo più avanti. L’altro aspetto interes-
sante del frammento è l’impiego di un’elisione nella quarta battuta. Qui due sillabe, che, ri-
spettivamente, terminano e iniziano con una vocale, si fondono e vengono cantate su una
sola nota. Le elisioni sono frequenti nel repertorio profano e possono riguardare anche più
di due sillabe.
Passiamo ora a questo frammento di Costanzo Festa:

Es. 6a-2

&C w œ œ œ œ ˙ Œ œ œ œ œ œ
In - - - giu - STIS - si - mo–a - MOR, in - giu - STIS - si - mo–a -

& œ œ œ œ ˙ œ ‰ Jœ œ ˙ œ ˙
MOR per - CHÉ SÌ RA - ro, per - CHÉ SÌ RA - ro
Festa: Ingiustissimo amor

Qui la corrispondenza tra accenti del testo e pulsazione musicale non è sempre rispetta-
ta, ad esempio nella seconda battuta, dove l’accento cade sulla parte debole del tactus (la
seconda semiminima). In casi come questo — molto frequenti — è soltanto l’ultimo accento
di un frammento verbale di senso compiuto (che spesso corrisponde a un emistichio del
verso poetico, nel precedente esempio a ingiustissimo amor) a ricadere sul tactus. Essendo,
come ho detto, un trattamento del testo tanto frequente quanto facile, possiamo conside-
rarlo anche noi come una valida opportunità.
Il precedente esempio mostra anche, alla quinta battuta, che se si trovano parole accen-
tate contigue non tutte, ovviamente, hanno la necessità di fare ricadere il proprio accento
sul tactus, analogamente a quanto detto prima.
L’esempio precedente termina in modo apparentemente scorretto. L’ultimo accento non
corrisponde infatti al tactus. Qui però siamo di fronte a una specialità del trattamento te-
stuale da parte degli antichi maestri. In corrispondenza di una fase conclusiva di un fram-
mento melodico, se l’ultima nota del frammento è preceduta dalla figura ritmica composta
da semiminima-minima-semiminima (una sincope dunque), come nella settima battuta, al-
lora l’ultimo accento può ricadere sull’ultima semiminima della figura.
Il prossimo esempio mostra diversi casi di impiego di melismi in corrispondenza di cro-
me:

Es. 6a-3
˙ ˙ ˙ ˙ œ. œ œ œ œ ˙
&b C Ó œ
J
L’al - - - to si - gnor,
Rore: L’alto signor

&b C œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ œ
Va -ghis - si - mo ri - trat - - - to
Palestrina: Da così dotta man
˙ œ œ œ œ œ
&C œ œ œ œ œ œ . Jœ œ œ #œ ˙
na - - - - - - - - - - cque;
Arcadelt: Dormendo un giorno
Appendice al cap. 6 381

Si nota che il melisma può riguardare qualsiasi sillaba di una parola, compresa una sil-
laba non accentata, come dimostra il frammento di Palestrina. Fra l’ultima nota di un grup-
po di crome e la nota successiva gli antichi maestri tendono a non effettuare un cambio di
sillaba, anche se nel repertorio profano non mancano eccezioni a questo principio generale.
In linea di massima le crome appaiono in passi melismatici. Ciò significa che il principio
generale — assoluto nel repertorio sacro — esclude che possano essere collocate più sillabe
in corrispondenza di gruppi di crome. Invece la croma isolata dopo una semiminima pun-
tata, può ricevere tranquillamente (anche in ambito sacro) una sillaba. Nel repertorio pro-
fano questo principio viene però molto frequentemente disatteso, come dimostrano i pros-
simi autorevoli frammenti:

Es. 6a-4
j
& b C Œ œ œ. œ œ œ œ œ œ œ ˙ œ w
Di mil - le mor -te–il dì sa - rei con - ten - to,
Arcadelt: Il bianco e dolce cigno

V C Œ œ œ . Jœ œ œ œ œ œ œ œ œ
Par - tir vor - rei o - gni–or, o - gni mo - men-to,
Rore: Ancor che col partire

Il primo dei due frammenti è interessante anche per un altro aspetto. L’ultima sillaba ac-
centata, nella penultima battuta, non cade sul tactus. Di fatto inizia nella parte debole del
primo tactus della battuta e si prolunga su quello successivo. In realtà allora la sillaba ac-
centata passa, per così dire, comunque sopra il tactus successivo dando la sensazione di an-
dare a prendersi l’accento. È questo un trattamento testuale molto frequente in fase di ca-
denza.
Nel musicare un testo poetico si tengano presenti i seguenti punti:

• a) Un verso può corrispondere a un singolo episodio musicale, ma anche più versi pos-
sono appartenere a un singolo episodio. Ciò significa che non occorre una fase cadenzale
alla fine di ogni verso poetico.
• b) Si può ripetere più volte un verso poetico o parte di esso, anche una singola parola. È
questo un procedimento frequente alla fine di un brano.

Con questo bagaglio minimo di istruzioni siamo ora in grado di tentare qualche esperi-
mento utilizzando un testo poetico.
Immaginiamo di volere rivestire musicalmente alcuni bei versi di Poliziano:

Io ti ringrazio, Amore,
d’ogni pena e tormento,
e son contento omai d’ogni dolore.

Che forma dare al nostro brano? Essendo i due primi versi più brevi dell’ultimo (si trat-
ta di due settenari), potremmo comporre un primo episodio con questi e un secondo con
382 L’abaco e la rosa

l’ultimo verso (un endecasillabo). Questa soluzione relativa al rivestimento musicale di tre
versi poetici è piuttosto frequente, specie nel repertorio di villanelle e canzonette. Inizial-
mente, però, nel musicare i testi poetici non dovremmo preoccuparci troppo di dare un
nome alla forma dei nostri brani.
Dal momento che i versi che abbiamo scelto contengono un ossimoro — l’essere contenti
per il dolore — potremmo optare sia per un modo di sapore maggiore, come tritus e tetrar-
dus, che per i più malinconici protus e deuterus. Tutto sommato le pene d’amore non fanno
generalmente granché piacere; sono portato quindi a propendere banalmente per un protus,
magari trasportato, per la ragione che lo percepisco un po’ più luminoso di quello originale.
Quale strategia adottare ora per associare le parole alla musica? Come primo tentativo
si potrebbe provare a comporre un brano e poi cercare di appiccicarvi (quale orrore!) il testo.
In realtà, se si pensa che brevi composizioni come le frottole e le villanelle sono spesso
strofiche, cioè ripropongono la stessa musica per altre strofe di versi, il procedimento pro-
posto non è poi così balzano, dal momento che ai nostri tre versi sulle pene d’amore po-
trebbero magari seguirne altri tre inneggianti alle grazie del corpo femminile. La frequente
non corrispondenza del carattere della musica con quello del testo fu uno dei motivi d’im-
pulso della messa a punto del madrigale che, in quanto forma aperta, può esprimere in qual-
siasi momento e con la massima libertà le esigenze del testo in rapporto alla musica.
Il primo episodio, dovendo musicare 14 sillabe, ha bisogno di 14 suoni almeno. Per que-
sto, considerando le inevitabili fioriture, potrebbero bastare una decina o dozzina di cifre
ottenute dal lancio dei dadi, avendo deciso che il primo episodio non contenga (o non ne
contenga troppe) ripetizioni testuali. Proveremo con 10 cifre. Per quanto riguarda il secon-
do episodio, volendo alcune ripetizioni di parti del verso (ad esempio d’ogni dolore) po-
trebbero servirci indicativamente anche 14-15 note.
Ecco un possibile tentativo di musicare il testo:

Es. 6a-5

˙ œ bœ . œ ˙ ˙ œ.
&b C Ó ˙. J œ œ œ œ œ
J
Io ti rin - gra - zio, A - mo - re, d’o - gni pe - na
.. .. Œ œ ˙ œ. œ ˙ œ bœ ˙ œœ ˙
&b œ œ ˙ œ #œ ˙ J
œ œ œ. J œ œ
e tor - men - - to e son con - ten - to–o -mai d’o - gni do- lo - re, d’o - gni
œ œ œ œ bœ . œ œ œ œ œ ..
&b œ J œ œ œ œ œ œ œ ˙ #œ w
do - lo - re, d’o - gni do - lo - - - re, do - lo - re.

Ogni episodio della linea melodica è ripetuto due volte, come spesso accadeva nell’am-
bito di brevi composizioni.
A questo punto si potrebbe passare a un’elaborazione a quattro parti della linea melo-
dica. Le parti inferiori potrebbero non recare il testo. Si potrebbe ovviamente provare ad
appiccicarlo, con le modifiche necessarie alla musica. In realtà, molte composizioni profane
sino alla comparsa del madrigale (molte frottole ad esempio), riportano il testo soltanto
nella parte più acuta. Le altre voci venivano aggiustate con il testo in un secondo momento
o, ipotesi più probabile, le parti inferiori venivano eseguite da strumenti.
Appendice al cap. 6 383

Ritengo sia appena necessario accennare al fatto che i brani rinascimentali non riportano
mai alcuna indicazione dinamica, o espressiva, o di tempo; cose che entrarono a far parte
di una partitura molto più tardi.
Se il testo sembra alla fine calzare passabilmente la musica del precedente esempio, non
potevo prevederne inizialmente la disposizione in ogni dettaglio. Nel primo episodio mi sa-
rei magari trovato nella necessità di qualche ripetizione e nel secondo non avrei potuto pre-
vedere con precisione quante e quali ripetizioni sarebbero occorse. Tuttavia il procedimento
non mi dispiace.
Se si vuole controllare maggiormente il trattamento musicale di un testo ecco invece
un’ulteriore proposta di elaborazione. Immaginiamo di volere musicare ancora il testo di
Poliziano. Questa volta sforziamoci di pensare d’essere contenti nello star male, e immagi-
niamo un brano in tritus, di sapore maggiore quindi. Come prima cosa dovremo realizzare
una linea melodica senza pensare ai valori di durata, come ho illustrato all’inizio del capi-
tolo 4. Facciamo in modo di avere (per ogni evenienza) un po’ più di note rispetto alla
quantità di sillabe da musicare: se ne avanzeranno, in seguito le scarteremo.
Immaginiamo, dopo avere gettato i dadi e aggiustato la sequenza secondo le regole della
«buona segmentazione», di avere ottenuto questo primo frammento:

Es. 6a-6

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ

Come si sarà notato, il frammento non termina necessariamente con una cadenza; le ra-
gioni di ciò saranno evidenti fra poco.
Associamo ora a ogni nota del frammento una sillaba. Dal momento che la linea non ri-
porta valori di durata non ci sono problemi di accentuazione:

Es. 6a-7

œ œ œ œ
&b œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ (œ œ œ œ)
Io ti rin - gra - zio, A - mo - re, d'o - gni pe - na e tor - men - to

Le ultime quattro note del frammento risultano in eccesso e possiamo quindi scartarle.
A questo punto dovremo però assegnare un FA (finalis) all’ultima sillaba e preparare quindi
la cadenza. Per questo è molto probabile trovarsi spesso nella necessità di aggiustare anche
la penultima sillaba aggiungendo con ogni probabilità, volenti o nolenti, un breve melisma.
Ora pensiamo a quali sillabe dei primi due versi saranno associati dei melismi. In questo
modo avremo la possibilità di enfatizzare parole chiave del testo quali Amore e tormento.
Provvederemo anche alla fase cadenzale:

Es. 6a-8

œ œ œ œ œ œ ˙ œ
&b œ œ œ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ
Io ti rin - gra - zio, A - MO - re, d'o - gni pe - na e TOR - men - - - - - to
384 L’abaco e la rosa

In corrispondenza delle sillabe e dei suoni evidenziati, realizzeremo un breve frammento


melismatico. Dopodiché, rispettando gli accenti del testo, rivestiremo ritmicamente la linea.
Ecco un possibile risultato:

Es. 6a-9

˙ ˙ ˙
&b C ˙ œ œ ˙ Œ œ œ œ œ œ œ œ ˙
Io ti rin - gra - zio, A - mo - - - - re, d’o - gni
œ œ œ œ œ
& b ˙. œ œ œ ˙. œ œ œ ˙
œ w
pe - na e tor - - - men - - - - - to

Con lo stesso procedimento possiamo comporre un secondo frammento per l’ultimo ver-
so:

Es. 6a-10

œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
&b C Œ œ ˙ ˙ œ.
J
e son con - ten - to–o - mai d’o - gni do - lo - - -

&b œ œ œ œ œ œ Œ œ ˙ ˙. œ œ œ œ. œ œ œ w
re, d'o - gni do - - - lo - - - re.

Realizziamo ora polifonicamente l’intero brano. Questa volta cuciremo il testo sulle parti
inferiori, in modo da ottenere un brano corale a tutti gli effetti. L’esempio 6a-11 mostra il
risultato finale.
Si noti che alla fine del primo episodio, il contralto scavalca il soprano: abbiamo quindi
una cadenza con incrocio delle parti.

Non resta ora che accennare alla possibilità di musicare un testo poetico in francese an-
tico, cosa analoga al trattamento di un testo italiano. Si faccia principalmente attenzione al
fatto che, a differenza del modo in cui vengono pronunciate le parole nel discorso parlato, i
francesi, ancora oggi, in linea di massima articolano tutte le sillabe terminanti per e prece-
dute da consonante sia nella declamazione poetica che nel canto. Perciò, se si sentisse de-
clamare o cantare, ad esempio, un antico verso di un testo musicato da Guillaume Dufay,
adieu toute playsante joye, non sentiremmo adiœtutplesantjuà ma adiœtuteplesantejuà. Per il re-
sto le cose funzionano, più o meno, come per l’italiano.
Appendice al cap. 6 385

Es. 6a-11
˙ ˙ ˙
&b ˙ œ œ ˙ Œ œ œ œ œ œ œ œ ˙
Io ti rin - gra - zio, A - mo - - - - re, d’o - gni

&b œ œ ˙ Œ
œ.
j j
œ œ œ œ œ œ œ œ
˙ ˙ œ œ ˙ œ. œ
Io ti rin - gra - zio, A - - - - mo - re, d’o - gni
œ œ œ. œ ˙
Vb ˙ J Œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ ˙
Io ti rin - gra - zio, A - mo - - - - re, d’o - gni
? ˙ j j
b œ œ ˙ ˙ œ. œ ˙ œ œ. œ œ œ ˙
œ
Io ti rin - gra - zio, ti rin - gra - - - zio, A - mo - re, d’o - gni

œ œ œ œ œ
& b ˙. œ œ œ ˙. œ œ œ ˙ œ w
..
pe - na e tor - - - men - - - - - - - to

& b ˙. œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ œ ˙ w ..
œ J
pe - na e tor - to e tor - men - - - - - to

œ œ œ j ..
V b œ œ. J
œ œ œ œ. œ ˙ œ œ ˙ w
pe - na e tor - men - to e tor-men - - - - - - to
? ˙. œ œ ˙ w ..
b Œ œ œ
˙ œ œ œ œ œ œ
pe - na e tor - - - men - - - - - - - to

œ œ œ œ œ œ œ œ
& b .. Œ œ œ ˙ ˙ œ. œ
J
œ
e son con - ten - to–o - mai d’o - gni do - lo - - -
j
& b .. Œ œ.
j
œ œ œ ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ
œ
e son con - ten - - - to–o - mai d’o - gni do - lo - - -
œ
V b .. ˙ œ œ ˙ ˙ œ œ œ. œ
J
˙ œ
e son con - ten - to–o - - - mai d’o - gni do - lo - re,
? ˙ ˙ œ œ œ ˙
b .. œ œ
˙
œ œ ˙
e son con - ten - to–o - - - - mai d’o - gni do - lo - - -

&b œ œ œ œ œ œ Œ œ ˙ ˙. œ œ ..
œ œ. œœœ w
re, d’o - gni do - - - - lo - - - re.

&b œ j j j ..
œ. œ œ œ. œ ˙ œ. œ œ œ œ œ ˙ w
re, d’o - gni do - - - - - lo - re.
j ..
Vb Œ œ œ œ œ. œ ˙ ˙ ˙ œ œ ˙ w
d’o - gni do - lo - re, do - lo - - - re.
? ˙ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ˙ w ..
b ˙ œ œ œ
re, d’o - gni do - lo - - - - - re, do - - - lo - re.
386 L’abaco e la rosa

Proviamo ora a immaginare noi una linea melodica per il verso che ho appena citato,
preceduto dal verso adieu celle que tant amoye. Cerchiamo di scrivere una malinconica linea
in protus, di sapore quattrocentesco, nel tempo di 6/4, adattissimo, come abbiamo visto
nel capitolo 4, alle nostre esigenze:

Es. 6a-12
6 b˙ œœœ ˙ ˙ bœ ˙. œ œ #œ œ nœ w.
& 4 ˙. ˙. ˙ œ œ ˙ ˙.
A - dieu cel - le que tant a - - - moye,

& œ b˙ . j œ œ #œ œ œ w .
˙ œ œ ˙ œ bœ œ ˙ œ œ ˙ ˙ œ
a - dieu tou - te plai - san - - - te, plai -san - te joye.

Un’ultima considerazione. Si sarà notato che spesso le linee melodiche cui è stato sotto-
posto un testo sembrano non lasciare molto spazio per respirare con agio. Di fatto manca-
no le pause necessarie. Gli antichi maestri amavano infatti scrivere spesso lunghe sequenze
melodiche. In tutti questi casi il cantante dovrebbe cercare di ritagliarsi gli spazi necessari
per respirare, rubandoli alle note. Si tenga comunque presente che l’esecuzione del reperto-
rio rinascimentale, al di là di apparenze innocenti, è piuttosto faticosa.
Non mi stancherò mai di affermare, a costo di ripetermi, quanto sia importante abituarsi
a cantare le linee melodiche di propria invenzione, anche quelle prive di testo, e altre del re-
pertorio. In questo modo è possibile fare di noi stessi uno strumento musicale, e provare
quanto di più intimo e profondo vi sia nell’esperienza musicale.

App. 6.2. Una specialità italiana

Scopo di questa sezione è fornire elementari indicazioni per comporre piccoli madrigali a
quattro-cinque voci.
Non ritengo certo questa la sede opportuna per un discorso musicologico e profonda-
mente analitico sul fenomeno del madrigale; esistono per questo numerosi testi specifici.
Basti qui accennare che il madrigale è nato dall’esigenza di massima duttilità e libertà nel
trattamento musicale di un testo poetico, che non era garantita dalle forme profane coeve,
sostanzialmente strofiche. La musica di una sezione poteva infatti accordarsi bene a una
strofa poetica ma male a un’altra. Il madrigale è invece una forma aperta. È costituito da
episodi spesso tutti diversi, a ciascuno dei quali corrisponde una porzione del testo poeti-
co musicato.
Semplificando, si potrebbe dire che è possibile comporre un madrigale impiegando, con
la massima libertà, tutti gli elementi relativi alla musica rinascimentale visti fin qui. Con
questi è possibile scrivere un embrionale madrigale della prima generazione, non ancora
orientato allo straordinario sperimentalismo dei madrigali del tempo di (e di) Marenzio,
Rore, e poi di Gesualdo e Monteverdi. Così, non faremo uso della scrittura cromatica, tipi-
ca del madrigale nella sua fase matura, che necessiterebbe almeno di una sezione a parte.
Per scrivere un breve madrigale si tenga conto almeno di quanto segue:
Appendice al cap. 6 387

• Si scelga un frammento di un testo poetico del Rinascimento italiano o di Petrarca


(poeta particolarmente amato dai madrigalisti) in endecasillabi o settenari, o entrambi.
Se altre espressioni musicali profane utilizzano infatti testi poetici scritti anche con me-
tri più popolareggianti, come l’ottonario, non così il madrigale, che si rifà a una conce-
zione alta di letteratura. Potrebbe andare bene, ad esempio, una quartina di un sonetto.
• Il madrigale del Cinquecento è generalmente scritto a cinque voci, con raddoppio fre-
quente della voce di tenore. Ci sono comunque madrigali a tre, quattro, sei, sette voci,
fino ai madrigali a 10 voci per doppio coro di Orlando di Lasso.
• Il metro scelto dai madrigalisti del Cinquecento è spesso quello di 2/2.
• Il madrigale alterna episodi con imitazioni ad altri più omoritmici, cioè accordali. Gli
episodi generalmente sono piuttosto brevi, a parte l’ultimo, che può risultare abbastanza
esteso e presentare diverse ripetizioni, compresa la ripetizione stessa dell’intero episo-
dio con alcune varianti. Si tenga conto che la tecnica imitativa nel madrigale è trattata
con molta libertà, e, nell’ambito di uno stesso episodio, può anche non estendersi a tutte
le voci.
• È possibile usare le alterazioni modali anche prima della fase cadenzale. Si può quindi
fare uso della sensibile alterata del protus e del tetrardus anche all’interno di un episodio.
È questo un passo avanti nella formazione di una sensibilità tonale in luogo dell’antica
concezione modale.
• Caratteristica di particolare interesse è l’impiego di madrigalismi. Questi ultimi — vere e
proprie rappresentazioni allegoriche del testo poetico — consistono nella traduzione di
immagini o idee del testo per mezzo di disegni melodici che in qualche modo le richiami-
no. Ecco un interessante esempio di questa tecnica tratto da un frammento del madriga-
le di Marenzio «Già torna a rallegrar l’aria e la terra»:

Es. 7-10

w œ œ œ œ œ
&b C œ œ œ œ œ #˙
Il mar s’ac - que -

&b Œ ‰
œ
j
œ
‰ œ. œ œ œ œ
#˙ œ œ œ œ
ta, il giel fug - - - ge sot - ter - ra,

La parola mar viene resa musicalmente con un disegno che allude chiaramente a un’on-
da. L’acquietarsi del mare viene subito richiamato con un momentaneo rallentamento ot-
tenuto con l’allargamento dei valori di durata. Poi il fuggire del giel viene tradotto in
suoni con una scala discendente che fa uso di veloci semicrome, valori di durata che oc-
casionalmente possono essere utilizzati anche al di fuori della consueta figura di due
note che, come abbiamo visto, appare spesso in fase cadenzale. Il finire sottoterra è
infine suggerito dall’eccezionale escursione del soprano (la linea in questione è infatti
scritta per questa voce) in un registro estremamente profondo.
Questo esempio è certamente frutto di uno straordinario virtuosismo del compositore
che, non a caso, era considerato una figura di riferimento per tutti coloro che si dedica-
388 L’abaco e la rosa

vano alla composizione di madrigali.


Nei nostri lavori sarà cosa saggia non abusare di madrigalismi per non cadere in una
scrittura che, se non nelle mani di musicisti come Marenzio, rischia di diventare eccessi-
vamente manierista. Ovviamente, se vorremo ricorrere alla tecnica cui ho accennato, sarà
necessario cercare un testo poetico che fornisca immagini che possano facilmente essere
tradotte in una sorta di pittura sonora.
Appendice al cap 8. Acqua sotto i ponti

App. 8.1. I canoni tonali

Darò ora alcune indicazioni per la composizione di canoni tonali, sulla falsariga delle con-
suetudini armoniche del tempo di Bach. Rispetto ai capitoli precedenti presuppongo qui
nozioni d’armonia un po’ più avanzate. In particolare, considero acquisite nozioni sul trat-
tamento degli accordi di settima di dominante e di settima diminuita, oltre a una certa pa-
dronanza dei principi della modulazione.
Nel periodo che va dal Settecento alla fine dell’Ottocento la tecnica dei canoni non viene
del tutto accantonata. Oltre a Bach, anche i classici scrivono canoni: Mozart spicca fra tut-
ti anche in quest’ambito con lavori di squisita fattura. Ancora Schumann e Brahms com-
pongono talvolta dei canoni. Nel Novecento si assiterà poi a una vera e propria renaissance
del canone a opera di musicisti come Webern e Dallapiccola.
Al tempo di Bach la tecnica ereditata dal Rinascimento viene rivista alla luce delle nuo-
ve esigenze del moderno linguaggio tonale. Il rigore della tecnica canonica si riversa perlopiù
nelle composizioni a carattere imitativo come la fuga. Quasi tutta la musica di Bach fa rife-
rimento alla tecnica dell’imitazione. Spesso anche i più semplici preludi e i movimenti di
danza delle suites contengono episodi di carattere imitativo. Come ho già detto, sono però
di Bach alcuni fra i più vertiginosi canoni mai scritti.
Per certi aspetti la composizione di semplici canoni tonali è più facile rispetto a quelli
che fanno riferimento al linguaggio rinascimentale.
Protagonisti dei canoni tonali diventano gli accordi di settima. Un accordo di settima
può essere scritto in forma completa o incompleta. Nel primo caso l’accordo presenta la
quinta; nel secondo la quinta viene omessa. Nella stesura a quattro parti dell’accordo di
settima incompleta viene raddoppiata la fondamentale:

Es. 8a-1

& ˙˙ ˙˙˙
˙

? ˙ ˙

Se l’accordo viene scritto a tre parti per forza di cose risulta essere incompleto. Si omet-
390 L’abaco e la rosa

te sempre la quinta che, nel caso delle settime, è la nota meno caratteristica dell’accordo; le
altre note risultano infatti indispensabili. Ecco le tre possibili disposizioni dell’accordo a
tre parti:

Es. 8a-2
˙ ˙˙
& ˙˙ ˙ ˙˙˙

Tutte le disposizioni sono ugualmente buone nell’ambito del contrappunto triplo. Man-
cando la quinta dell’accordo, in nessun caso può presentarsi una quarta giusta (rivolto del-
la quinta) con il suo potenziale dissonante. Aspetto apparentemente paradossale è invece
che il tritono — quarta eccedente o quinta diminuita —, viene sempre accettato, compreso
il caso (come il secondo del precedente esempio) in cui si formi con la nota più grave. In
realtà, il carattere tensivo del tritono (formato da sensibile e controsensibile) fa invece tut-
t’uno con l’accordo. L’accordo di settima diventa così una sorta di accordo jolly, di facilis-
simo ed efficace impiego.
Anche la triade sul settimo grado presenta ora, nel linguaggio tonale, aspetti di grande
interesse per quanto riguarda il contrappunto triplo. Consideriamo le tre possibili disposi-
zioni dell’accordo:

Es. 8a-3
˙˙ ˙˙
& ˙ ˙ ˙˙
˙

Anche qui è impossibile che appaia una quarta giusta.


La triade del settimo grado in epoca tonale diventa un surrogato dell’accordo di domi-
nante, e viene usata anche allo stato fondamentale. Il fatto che manchi la fondamentale (nel
caso precedente caso il SOL) consente di impiegare la nota che altrimenti rappresenterebbe
la quinta dell’accordo. Per mezzo di fioritura la triade diminuita si trasforma facilmente in
un accordo di settima diminuita:

Es. 8a-4

œ˙ bœ œ œ
& ˙

Per comporre un contrappunto multiplo tonale rimangono valide le indicazioni fornite


nel capitolo precedente. Si tenga conto però che il linguaggio tonale si caratterizza per la
grande frequenza dei tipici collegamenti cadenzali V-I (e VII-I). Oltre alle triadi maggiori e
minori, rivestono un ruolo chiave gli accordi di settima e le triadi diminuite, possibilmente
fiorite per formare l’accordo di settima diminuita. Sulla traccia dei già citati studi di Bizzi,
per la realizzazione di contrappunti tripli tonali possono quindi valere queste indicazioni:

• a) Quando ci si trova ad armonizzare un semitono ascendente è possibile considerare la


Appendice al cap. 8 391

prima nota come una sensibile appartenente a un accordo di settima di dominante o a


una triade diminuita (VII grado):

Es. 8a-5
& ˙˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙
˙ ˙ ˙˙

Nel primo caso si nota che la fondamentale dell’accordo di dominante (SOL) finisce sul-
la fondamentale dell’accordo successivo. Così, anche nel secondo caso la fondamentale
della triade viene raddoppiata.
Il precedente esempio è chiaramente nella tonalità di DO maggiore. La scala di DO mag-
giore oltre al semitono SI-DO contiene anche il semitono MI-FA. Qualora ci si trovasse
davanti al semitono MI-FA, si potrebbe (anzi, spesso sarebbe preferibile) anche qui fare
riferimento a una situazione dominantica. Di fatto, si modulerebbe transitoriamente in
FA maggiore:

Es. 8a-6
˙ ˙˙ ˙
& b ˙˙ ˙ b ˙˙˙ ˙˙

In realtà, l’accordo di settima cui appartiene il MI può essere considerato anche come
una dominante secondaria. Quella che a prima vista sembrerebbe una modulazione (la co-
siddetta modulazione di passaggio menzionata dai vetusti trattati d’armonia) rientra
spesso nel contesto tonale d’impianto. Rappresenta una semplice deviazione o un’enfa-
tizzazione dei gradi della scala di DO diversi dalla tonica; nel caso precedente la sotto-
dominante, uno dei tre pilastri della tonalità, insieme a tonica e dominante.
• b) Un salto di quarta ascendente o di quinta discendente prospetta una situazione do-
minantica. La prima nota del salto potrà appartenere quindi a un accordo di settima.
Non ci preoccuperemo qui dell’eventuale comparsa di ottave nascoste, come nel primo
caso del prossimo esempio:

Es. 8a-7
˙
& ˙˙ ˙ ˙˙ ˙˙
˙ ˙˙ ˙

• c) In un movimento discendente per grado congiunto (tono o semitono) la prima nota


può appartenere a un accordo di settima di dominante o a una triade diminuita:

Es. 8a-8
˙ ˙ ˙˙˙ ˙˙ ˙˙ ˙˙˙
& # ˙˙ ˙˙˙ ˙˙ ˙
˙˙
˙
˙

• d) Un movimento di terza discendente (maggiore o minore), se non viene interpretato


come un cambio di posizione, può prospettare un collegamento dominantico (V-I). Ov-
392 L’abaco e la rosa

viamente la triade di dominante è priva della quinta:

Es. 8a-9
˙ ˙
& ˙˙ ˙˙˙ ˙˙ b ˙˙˙

Quest’ultima soluzione non è però sempre consigliabile. Si consideri ad esempio il pros-


simo caso:

Es. 8a-10
˙ ˙ ˙˙
& ˙˙ b ˙˙ ˙ n ˙˙˙ ˙˙
˙

Se si fosse realizzato il collegamento indicato al punto d), fra terzo e quarto accordo si
sarebbe toccato transitoriamente il tono di SI bemolle, lontano rispetto a DO maggiore,
oscurando l’immediata chiarezza del percorso armonico. Generalmente, se si vuole rag-
giungere una tonalità lontana in modo elegante è buona cosa farlo attraverso passi gra-
duali. Altra cosa è la ricerca di effetti speciali, come ad esempio nella sezione di svilup-
po di innumerevoli movimenti di sonata classica. Per quanto ci riguarda, ci muoveremo
nell’ambito di tonalità vicine, come i musicisti dell’epoca di Bach.

Siamo ora in grado di comporre un canone tonale. Come primo esperimento realizzeremo
un canone a tre parti all’unisono/ottava.
L’unica cosa su cui conviene spendere ancora qualche parola è la stesura di una linea
guida. Anche qui, consiglio di pensare questa linea con valori uniformi di durata, ad esem-
pio minime. Possiamo, come di consueto, affidarci al lancio dei dadi. Una volta ottenuta
una linea casuale a partire dalla tonica o dalla dominante, dovremo però aggiustarla in
base alle esigenze tonali. Più ci saranno movimenti melodici come quelli indicati dai punti
a), b), c) e d), più conferiremo una pregnanza schiettamente tonale al nostro profilo melo-
dico. In definitiva, sarà bene quindi inserire spesso movimenti di semitono ascendenti, salti
di quarta ascendenti o quinta discendenti, e movimenti di terza e grado congiunto discen-
denti. La fase cadenzale finale dovrà necessariamente contenere uno di questi movimenti
melodici.
Lanciamo i dadi per ottenere una sequenza di sei cifre:

(1), 4, 6, 1, 4, 6, 1.

Pensiamo ora a una realizzazione in RE minore della linea guida, nel tempo di 4/4, me-
tro che a partire dall’età barocca soppianta gradualmente il tempo di 2/2:

Es. 8a-11

&b c ˙ ˙ ˙
˙ ˙ ˙
w
Appendice al cap. 8 393

Ora dobbiamo provvedere alle correzioni necessarie per rendere convincente la linea sot-
to il profilo tonale. Non si dimentichi, in questa fase, che in epoca tonale si afferma il prin-
cipio di evitare che una stessa funzione armonica inizi su un tempo debole e continui su un
tempo forte (ad esempio a cavallo di battuta), situazione che configurerebbe la cosiddetta
sincope armonica. Conviene inoltre, durante questa fase di aggiustamenti, pensare già alle
funzioni armoniche. Un possibile intervento potrebbe essere questo:

Es. 8a-12
œ
&b ˙ œ œ ˙ #œ œ œ œ
#œ w
I IV V I V/IV IV V I

Il percorso melodico suggerisce due distinte cadenze; il FA diesis nella seconda battuta
richiama l’impiego di una dominante secondaria (la settima di dominante della tonalità di
SOL).
Realizziamo un contrappunto triplo, fiorendo la linea guida; assegniamo, come di con-
sueto, una lettera a ogni riga e provvediamo agli agganci:

Es. 8a-13
B
œ. œ œ œ #œ nœ œ œ nœ œ œœœ œ œ œ
&b c J œ œ œ œ
C j j
& b c œ œ œ #œ œ . nœ œ œ . œ #œ œ œ œ œ ˙ ‰ œ

A
œ
&b c ˙ œ œ ˙ #œ œ œ œ œ . œœ
J #œ œ nœ œ
C
& b œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ
A
&b œ ‰ œj
˙ ˙
B.
œ œ #œ œ nœ
&b œ J

Va detto subito che in ambito tonale le possibilità di fioritura sono molto più libere ri-
spetto al linguaggio rinascimentale. Di rigide prescrizioni non ce ne sono, tranne quelle ri-
guardanti il trattamento delle note estranee all’armonia, come ritardi, appoggiature, note di
sfuggita etc. La fioritura si impara dunque con l’analisi del repertorio e con la pratica. Un
discorso approfondito sulle preferenze melodiche al tempo di Bach, e oltre, esula dalle
finalità di questo libro. Ci sono ottimi testi sull’argomento, come il monumentale La tecnica
del contrappunto strumentale nell’epoca di Bach di Bruno Zanolini, che contiene centinaia di
esempi. Chi avesse difficoltà con questo tipo di fioritura potrebbe comunque applicare le
indicazioni relative al linguaggio rinascimentale. Avrebbe in ogni caso la garanzia di un ri-
sultato sicuramente accettabile. Si faccia invece uso abbondante di ritardi, non solo in fase
cadenzale.
Nell’esempio precedente si nota l’impiego di appoggiature e di note di sfuggita. L’ultimo
394 L’abaco e la rosa

gruppo di crome della terza battuta contiene poi una singolarità. La seconda nota del
gruppo (MI) è la quinta dell’accordo di dominante. Secondo i principi della musica rinasci-
mentale, formerebbe una dissonanza inaccettabile e quindi andrebbe esclusa. Il linguaggio
tonale è invece molto più incline a percepire gli accordi come blocchi sonori. Se la quinta
dell’accordo si trova in un punto debole (ad esempio in levare) è sicuramente accettabile. Si
noti infine che nella prima battuta le due semicrome nel pentagramma centrale trasformano
la triade del quarto grado nella triade del secondo, che è diminuita. Ricordo che anche il se-
condo grado può rivestire, al pari del quarto, una funzione sottodominantica.
Anche l’ultima battuta è stata fiorita. Per evitare la sincope armonica fra l’ultima battu-
ta e la ripresa, in corrispondenza della seconda metà della quarta battuta, ho inserito una
triade fiorita del settimo grado.
Ancora un’osservazione sulla fioritura. Quest’ultima versione del contrappunto triplo
dà, all’ascolto, una sensazione di continuità ritmica in ottavi. Se si facesse infatti una
proiezione delle durate delle tre linee otterremmo un continuum di crome. L’idea del conti-
nuum ritmico è alla base della concezione temporale della musica all’epoca di Bach (l’età
barocca). In linea di massima, in una composizione ad andamento scorrevole il continuum è
spesso dato, come nel nostro esempio, dagli ottavi.
Ricordiamo lo schema di un canone a tre parti:

Tab. 8a-1

A B C ...
A B C ...
A B C ...

L’esempio 8a-14 mostra la realizzazione completa del canone.


Come si vede, non è stato necessario comporre la coda. Ripetendo alcune battute del ca-
none mi sono trovato direttamente nella condizione di effettuare una chiusa accettabile.
Per quanto riguarda il continuum ritmico cui accennavo, non è inutile osservare che si
rende necessario soltanto a partire dal momento in cui entrano in gioco tutte le parti della
composizione.
Per la composizione di canoni a quattro e più parti consiglio di realizzare moduli secon-
do la tecnica dello «sdoppiamento» di qualche linea. Moduli composti secondo il «gioco
delle coppie» del precedente capitolo mostrerebbero spesso il raddoppio della terza del-
l’accordo che, in ambito tonale, non è molto apprezzato. Sdoppiando un modulo a tre par-
ti si dovrebbe — anzi, si deve — raddoppiare quanto più spesso la fondamentale di un ac-
cordo.
Proviamo adesso a comporre un canone a quattro parti con trasposizione: il periodo
sarà 1-5-1.
Realizziamo per prima cosa, per mezzo dello «sdoppiamento» di qualche linea di un
precedente modulo a tre parti, un modulo a quattro parti in SOL maggiore.
Appendice al cap. 8 395

Es. 8a-14

&b c ∑ ∑ ∑ ∑

&b c ∑ ∑ ∑ ∑
œ ˙ œ œ œ œ œ #œ
? œ #œ œ œ œ œ .
b c ˙ J œ
#œ nœ œ œ

&b ∑ ∑ ∑ ∑

œ œ œ #œ
&b ˙ œ œ ˙ #œ œ œ œ œ . œ œ
J #œ œ nœ œ œ
œ . nœ œ œ œ #œ nœ œ œ nœ œ œœœ œ œ œ œ œ
? J œ œ œœœ œ œ œœœ œœ
b

œ œ œ #œ
&b ˙ œ œ ˙ #œ œ œ œ œ . œœ
J #œ œ nœ œ œ
œ. nœ œ œ œ œ #œ nœ œ œ nœ œ œœœ œ œ œ
&b J œ œ œ œœœ œ œ œœœ œœ
? œ œ œ #œ œ . nœ œ œ . œ #œ œ œ œ œ ˙
#œ ‰
œ
J œ ‰ Jœ ˙
b J

œ. nœ œ œ œ œ #œ nœ œ œ nœ
œœœœ œ œ œ œ œ
&b J œ œœœ œ œ œœœ œœ
j j
& b œ œ œ #œ œ . nœ œ œ . œ #œ œ œ œ œ ˙ ‰ œ ‰ œj
#œ œ ˙
œ œ œ #œ
? ˙ œ œ ˙ #œ œ œ œ œ . œœ
J #œ œ nœ œ œ
b

j ‰ œj
& b œ œ œ #œ œ . nœ œ œ . œ #œ œ œ œ œ ˙ œ
œ ˙

œ œ œ #œ
&b ˙ œ œ ˙ #œ œ œ œ œ . œœ
J #œ œ nœ œ œ
œ. nœ œ œ œ œ #œ nœ œ œ nœ œ œœœ œœ œ œ œ
? J œ œœœ œ œ œœœ œœ
b

œ œ œ #œ w
&b ˙ œ œ ˙ #œ œ œ œ œ . œœ
J #œ œ nœ œ œ
œ. nœ œ œœ œ #œ nœ œ œ nœ œœœœœœ œ
&b J œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #w
? œ œ œ #œ œ . nœ œ œ . œ #œ œ œ ˙ œ
‰ Jœ ˙
b J œ œ #œ ‰ J œ w
396 L’abaco e la rosa

Questa volta la linea guida, come non raramente accade in epoca barocca, sarà compo-
sta da frammenti di scala cromatica:

Es. 8a-15
#
& c ˙ œ nœ œ bœ ˙

In maniera del tutto analoga a quanto fatto in precedenza, realizziamo un contrappunto


quadruplo fiorendo la linea guida; assegniamo, come di consueto, una lettera a ogni riga e
realizziamo gli agganci:

Es. 8a-16
# œB. œœœ œ œ œ œ œ C5
œ j
& c œ Œ ‰ J Œ œ œ j
œ œ œ nœ œ ‰ œ œ œ
C D5
# œ œ j
& c Ó J œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ œ. #œ ˙
J œ
# D A5 œ
& c œ œ œ œ œ Œ œ. #œ œ Œ Œ œ œ #œ nœ œ œ bœ œ ‰ J
J
# A B5
c Œ j œ #œ œ. #œ œ œ Œ ‰ Jœ œ # œ œ
& œ œ œ nœ œ œ bœ œ J œ
# D1/2 œ œ œ. #œ œ
A
& œ œ œ Œ Œ Œ œ œ œ
J
B
# A1/2 œ. #œ nœ œ
& Œ nœ œ œ nœ œ œ bœ j œ œ
J
œ
B1/2 C
# œ. œœœ œ œ œœœ œ œ œ
& œ Œ ‰ J Œ J
# C1/2 œ nœ œ œ œ bœ œ œ
D
œ
& Ó J ‰ nœ œ œ œ
J œ J

In alcuni passaggi ho fatto ricorso alle indicazioni date nei punti da a) a d), precedente-
mente illustrati. In altri, nonostante vi potessi teoricamente ricorrere, non l’ho fatto. La ra-
gione è che ho voluto rimanere nell’ambito di toni vicini a SOL maggiore, secondo la prassi
stilistica del tempo di Bach, e non toccare, neppure momentaneamente, toni lontani, cosa
inevitabile se avessi applicato, ogni volta che risultava possibile, le indicazioni date.
L’esempio 8a-17 mostra un possibile montaggio del canone.
In maniera analoga a quanto fatto fin qui è possibile comporre facilmente canoni tonali a
cinque e più parti.

App. 8.2. Un’applicazione dei canoni: la fuga

La tecnica dei canoni risulta tanto più interessante quanto non si esaurisca in se stessa, e
consenta di affrontare in una prospettiva affascinante la composizione di musica dal re-
spiro più ampio di quanto fatto finora con i puri canoni.
Attraverso la tecnica dei canoni, ad esempio, è possibile affrontare in un modo smali-
ziato la composizione della fuga, la celebrata, quanto fraintesa, forma barocca. Affermare
Appendice al cap. 8 397

Es. 8a-17
# œ # œ œ .# œ œ œ
& c Œ œ œ œ nœ œ œ b œ œj J Œ ‰ Jœ œ # œ œ Ó œ nœ œ
J
œ J
# œ œ.œœœ
& c ∑ ∑ Œ œ œ# œ n œ œ œ b œ œ ‰J œ
#
& c ∑ ∑ ∑ ∑ Œ œ œ œ nœ

?# c ∑ ∑ ∑ ∑ ∑

# œœ œ nœ œ œ œ œ Œ œ . #œ œ
& bœ œ ‰ Œ Œ œ œ #œ nœ
œ J J
# œ œ œœœ œœ
& Œ ‰J Ó œ œ bœ œ
J Jœ œ
œ œ œœœœ œ Œ

# œ œ œ . #œ nœ œ œ œ œœœ œ Œ j
& œ œ bœ œ j J œ Œ ‰ J œ œ œj

?# j
∑ Œ
œ œ œ nœ œ œ bœ j œ #œ œ . #œ œ œ
œ œ

# œ œ œ. œœœ œ œ œœœ œœ
& œ bœ œ ‰J œ Œ ‰J Ó J Jœ
# j œ . #œ nœ œ
& œ. #œ ˙ Œ nœ œ œ nœ œ œ bœ jœ œ
J œ
œ
#
& œ œ nœ œ ‰ œœœ œœœœ œ Œ œ. #œ œ Œ Œ œ œ œ nœ
J
j
?# Œ ‰ œ œ #œ œ Ó œ n œ œj œ œ b œ œ ‰ œ nœ œ œ œ œ Œ
J J œ

# œœ j
& bœ œ œ œ œœœœ œ Œ œ. #œ ˙ Œ nœ œ œ nœ
œ
# œ œ œœœ œ Œ j
& Œ ‰J œ œ œj œ œ n œ œ ‰ œ œ œ œœœœ œ Œ

#
& œ œ bœ j œ #œ œ . #œ œ œ Œ ‰ Jœ œ # œ œ Ó œ nœ œ
J
œ J œ J
j
? # œ. #œ œ Œ Œ œ œ #œ nœ œ œ bœ œ ‰ Jœ œ . œœœ
œ
398 L’abaco e la rosa

# œ . #œ nœ œ œ œ œœœ œ j
& œ œ bœ j œ Jœ œ Œ ‰J Œ œ œ œj
œ
# œ.
& #œ œ Œ Œ œ œ œ nœ œ œ bœ j œ #œ œ . #œ œ œ
J œ J œ
# œœ œ nœ œ œ œ œ #œ œ
& bœ œ ‰ Œ œ. Œ Œ œ œ #œ nœ
œ J J
?# Œ ‰ Jœ œ œ œ œ Ó œ œ œj œ œ b œ œ œ œ œ œ œœ œ Œ
J œ

#
& œ œ nœ œ ‰ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ œ. #œ œ Œ
J
#
& Œ ‰ Jœ œ # œ œ Ó œ nœ
J œ œ œ bœ œ œ

J œ J
# œ œ œ. œœœ œ œ œ œ œ
& œ bœ œ ‰ J œ Œ ‰ J

?# j Œ
œ. #œ ˙ nœ œ œ nœ œ œ bœ j œ œ
J
œ

# œ.
& Œ œ œ œ nœ œ œ bœ j œ #œ #œ œ œ
œ J œ
# œ #œ œ œ œ #œ nœ
& nœ œ œ œ Œ œ. Œ Œ
J
# œ œ
& Ó J œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ Œ
J œ
? # œ. œ
#œ nœ œ Œ ‰ Jœ œ œ œ œ Œ j
œ œ j
œ œ

#
& Œ ‰ Jœ œ # œ œ Ó œ nœ œ œ œ bœ œ
J ‰ œ nw
J œ J
# œ œ. œœœ œ œ œœœ w
& œ œ bœ œ ‰ J œ Œ ‰ J

# j
& œ. #œ ˙ Œ nœ œ œ nœ œ œ bœ jœ œ
J
w
œ
?# j w
‰ œœœ œœœœ œ Œ œ. #œ œ ‰ œ
œ œ nœ œ J
Appendice al cap. 8 399

infatti che la fuga è una forma, cioè uno schema stabilito come la sonata classica, è inesatto:
soltanto limitandosi alle fughe composte da Bach, ci accorgiamo che sotto il profilo formale
quasi non esiste una sua fuga uguale a un’altra.
Gli studenti di composizione subiscono talvolta ancora le militaresche prescrizioni della
manualistica dell’Ottocento, come quelle di André Gedalge, autore di un famoso trattato
sulla fuga ancora talvolta utilizzato. Secondo queste prescrizioni la fuga risulta essere
qualcosa di rigido e, in definitiva, di noioso. In realtà, la fuga barocca più che una forma è
un processo aperto. Non conosco definizione migliore di fuga di quella contenuta nel già ci-
tato libro Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter, secondo cui una fuga «è simile a un
canone, in quanto di solito si basa su un tema che viene eseguito da varie voci e in varie to-
nalità, a volte a velocità diverse, o all’inverso o a ritroso. Tuttavia la fuga è molto meno ri-
gida del canone, e quindi permette maggiore espressività emotiva e artistica. L’elemento da
cui si riconosce una fuga è il modo in cui comincia: con una sola voce che espone il tema.
Ciò fatto, entra una seconda voce: o quattro note più in alto o tre note più in basso. Nel
frattempo, la prima voce continua cantando il “controsoggetto”: un tema secondario che
viene scelto in modo da fornire un contrasto ritmico, armonico e melodico al soggetto. Le
voci entrano, una alla volta, con il tema, spesso accompagnate dal controsoggetto in qual-
che altra voce, mentre le altre voci eseguono quanto di fantasioso è venuto in mente al com-
positore. Quando tutte le voci sono entrate, non vi sono sostanzialmente più regole. Esisto-
no certamente norme circa l’ulteriore svolgimento, ma non sono così tassative da fornire
una formula per costruire fughe».
Secondo quanto appena citato, la parte più codificata della fuga (analogamente al gioco
degli scacchi) è il suo inizio, tradizionalmente definito come esposizione. A dire il vero, non
sempre le fughe presentano un controsoggetto, quel controcanto tanto importante da poter
essere considerato un tema a tutti gli effetti, che a sua volta si ripresenta nel corso della
composizione. Tutto ciò che i trattati dell’Ottocento vorrebbero vedere codificato e indi-
spensabile in una fuga, come i divertimenti — episodi di collegamento tra una ripresa e l’al-
tra del tema principale — e gli stretti — gli accavallamenti cioè del tema principale da parte
delle varie voci — risulta essere opzionale. Ci sono fughe, infatti, che presentano diverti-
menti ma non stretti e viceversa; altre invece li presentano entrambi. Cosa rilevante è che
non esiste una regola per stabilire a che punto della composizione debbano comparire i di-
vertimenti e gli stretti. Gli antiquati trattati dell’Ottocento prescrivono di comporre stretti
soltanto verso la conclusione della fuga, secondo una romantica idea di intensificazione del
discorso musicale, ma ciò va frequentemente contro la prassi barocca. La prima fuga del
primo volume del Clavicembalo ben temperato, in DO maggiore, per limitarci a un esempio, ri-
porta sequenze di stretti per tutto lo svolgimento del brano.
Ci proponiamo ora la composizione di una breve fuga a tre voci dove, come prosegui-
mento dell’esposizione, troveremo alcuni divertimenti alternati alla ripresa del tema — sog-
getto — principale. Insuperati modelli di fughe di piccole dimensioni rimangono quelle di
Bach, spesso studiate dai pianisti nei primi anni di apprendistato.
Prima però, mi sento in dovere di precisare ancora alcune cose. In primo luogo questo li-
bro non può e non vuole affrontare in modo esaustivo un argomento tanto vasto come quel-
400 L’abaco e la rosa

lo della fuga: per questo vi sono validi testi specifici, come il già citato volume di Zanolini,
o La struttura della fuga in Johann Sebastian Bach di Zsolt Gárdonyi. In secondo luogo ciò che
realizzeremo è del tutto sulla falsariga del repertorio barocco. (Del resto i testi ottocenteschi
sulla fuga come quello di Gedalge hanno completamente frainteso lo spirito della fuga e non
soltanto i suoi precetti costruttivi e stilistici.) Quanto segue non è utile tanto per un eserci-
zio di imitazione stilistica — in questo senso potrebbe essere a tratti addirittura fuorviante
— quanto invece per l’acquisizione di un embrionale procedimento compositivo orientato a
un tipo di composizione tanto affascinante come la fuga barocca. In definitiva, come ho già
detto in più occasioni, ritengo più utile per l’apprendistato concentrarsi su un numero con-
sistente di tecniche compositive piuttosto che insistere eccessivamente su pochi ambiti di
imitazione stilistica.
Veniamo alll’esposizione.
Elemento indispensabile dell’esposizione di una fuga è il tema o, come si preferisce
definirlo, il soggetto. Un soggetto può iniziare con la tonica o con la dominante. Il soggetto,
una volta esposto da una voce, viene riproposto da un’altra nel tono della dominante,
dando luogo alla risposta. Qui si verifica spesso il fenomeno della mutazione. Per ragioni di
chiarezza tonale la risposta può infatti, oltre alla trasposizione alla dominante, presentare
lievi modifiche. Si consideri questo soggetto, in DO maggiore, tratto dalla prima fuga (BWV
870) del secondo volume del Clavicembalo ben temperato, e la sua risposta come appare nel-
l’elaborazione di Bach:

Es. 8a-18
M
2 ‰ œ œœ œ œ œœœœœ r
&4 ‰ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ
M
œ œ ‰ œœœœœœ œœœœœœœœ œ
& ‰ œ œ œ œ R

Nella parte iniziale del soggetto, che si definisce solitamente testa e che in questo caso
corrisponde alle prime due battute, appaiono sia la dominante che la tonica. Nella testa
della risposta compaiono le stesse note del soggetto ma in ordine inverso. La risposta,
dopo la mutazione, riporta poi esattamente lo schema intervallare del soggetto, trasportato
alla quinta. Se la risposta avesse riportato dall’inizio l’esatto schema intervallare del sog-
getto sarebbe comparso un RE, che avrebbe offuscato il movimento pendolare tra le funzio-
ni di tonica e di dominante.
Esulano dall’orizzonte di quest’appendice le indicazioni per la composizione di un sog-
getto di fuga e per una sua corretta risposta, che costituiscono un vasto argomento piutto-
sto delicato e complesso; anche qui rimando a testi specifici. Per questo nostro esperimento
utilizzeremo un soggetto di Bach, che lo stesso ha elaborato due volte: la prima, in FA mag-
giore, per una fughetta (BWV 901) che è lo studio preparatorio della fuga in LA bemolle
maggiore (BWV 886) del secondo volume del Clavicembalo ben temperato, dove il soggetto dà
luogo a una fuga maggiormente sviluppata. Anche artisti geniali come Bach, quindi, sono ri-
corsi talvolta a lavori preparatori o a ripensamenti e rielaborazioni.
Appendice al cap. 8 401

Ecco il soggetto in FA maggiore e la sua risposta:

Es. 8a-19
r œ œ œœ œ œœœœœœœœ œ
œ
& b c ‰ œ œ œ œœœ œœœ œœœœœœœœ œ ‰ œ œ œ œ œ œœ R
œ œ

Si nota in questo caso che la mutazione riguarda soltanto le prime due note del soggetto.
Ricorrendo alla tecnica dei canoni, la composizione di un’esposizione di fuga non è par-
ticolarmente difficile. Volendo scrivere una fuga a tre voci, si tratta di comporre inizialmen-
te un contrappunto triplo in cui la linea guida sia rappresentata dal soggetto. In questa ma-
niera otterremo in realtà due controsoggetti (cosa del resto contemplata anche dalla prassi
barocca) che ricompariranno sempre insieme al soggetto:

Es. 8a-20
B
œ œœœœ œ œ œ
&b c œ œœœ œ œ œ œ œ J
C
&b c œ œ œ œ bœ j
œ œ œ œ. œ œ œ œ œ.
œ œ œ
SOGGETTO (A)
œ j
&b c ‰ œ œ œ œœœ œ œœœ œœœœœ œœœ œ
œ

Per ottenere l’intera esposizione è sufficiente scrivere un canone il cui periodo sia 1-5.
Relazioniamo quindi questo primo modulo a quello della risposta e realizziamo gli agganci:

Es. 8a-21
B
œ œ œ œ œ œ œ œ
&b c œ œ œ œ œ œ œ œ œ
C

&b c œ œ œ œ bœ
œ œ œ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ. œ
SOGGETTO (A)
œ
&b c ‰ œ œ œ œ œ œ
œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
œ
œ
C alla quinta
œ œ œ bœ SOGGETTO (A)
& b œ œ œ nœ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ. œ ‰ œ œ œ
RISPOSTA (A)
j œ œ œ
œ œœœ œ œœœ œ œ œ œ œ œ œ œ Bœ œ
&b œ œ
B alla quinta C
œ œ nœ œ œ œ
&b œ œ œœœ œ œ œ œ nœ œ œ
œœœ

Si nota, rispetto alla prima stesura, che ho apportato piccole modifiche al primo modu-
lo.
Rimandiamo per un momento il montaggio del canone (l’esposizione). Occupiamoci in-
vece del proseguimento della fuga. Nel nostro esperimento compariranno degli episodi di
collegamento tra le nuove entrate del soggetto: si tratta di comporre i divertimenti.
Questi ultimi sono solitamente fondati su una o più progressioni armoniche. Il materiale
melodico dei divertimenti può essere tratto da elementi dell’esposizione oppure può essere
402 L’abaco e la rosa

costituito da materiale libero. Quest’ultima è una possibilità generalmente negata dai trat-
tati dell’Ottocento, che evidentemente volevano ignorare, all’insegna del dogma dell’unità
in una composizione, una prassi apprezzata da compositori come Bach. Se ci sono più di-
vertimenti, si può ricorrere sia a materiale melodico diverso per ognuno di essi che a mate-
riale unitario.
I divertimenti del nostro esperimento saranno basati su un’unica battuta in contrappun-
to triplo che fungerà da modello:

Es. 8a-22

A
j
&b œœœœœœœœœ ‰ œ
B
&b œ ‰ œ
œœœ
C
? œ œœœœ œœœœ
b œ œ œ

Il materiale melodico a partire dal quale ho composto questa battuta è una derivazione
del disegno di semicrome della seconda battuta del soggetto. Si nota che anche la seconda
metà della battuta è stata composta sfruttando la tecnica dei canoni:

Es. 8a-23
A (B)
j
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ ‰ œ
B (C)
&b œ ‰ œ
œ œ œ
(A)
C
? œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b œ œ œ

La composizione dei divertimenti consisterà nel disporre in modo canonico gli elementi
dell’esempio 8a-22 (secondo quindi il susseguirsi, in ogni linea, degli elementi A, B, C etc.)
sullo schema di una progressione armonica. Di fatto, se si sanno progettare buoni piani ar-
monici delle progressioni — questi caleidoscopi sonori che altro non sono che la ripetizione
su gradi diversi di una concatenazione accordale — il gioco è fatto. In particolare, bisogna
sapere effettuare talvolta piccole modifiche alla rotta della progressione per arrivare age-
volmente in porto. Altra cosa è poi sapere decidere, in base al carattere e alla velocità di
scorrimento armonico dell’esposizione, quante funzioni armoniche collocare nella battuta
che servirà da modello della progressione. Spesso bastano due funzioni armoniche. Con un
po’ di esperienza si sapranno trovare soluzioni diverse ed efficaci.
Appendice al cap. 8 403

Lo schema della progressione del primo divertimento è il seguente:

Es. 8a-24

? ˙ ˙ ˙ j
b ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ œ

Come si vedrà poi nella fase di montaggio della fuga, ho scelto che la nuova entrata del
soggetto dopo il primo divertimento sia al quarto grado del tono d’impianto (la tonalità di
SI bemolle maggiore). La progressione traghetta quindi dalla tonalità d’impianto sino al-
l’accordo FA (indicato dalla croma): la dominante del soggetto nel nuovo tono. Si noti che
nell’ultima battuta della progressione il modello, invece di ripresentarsi come in precedenza
dopo uno scatto di seconda ascendente, si presenta con uno scatto di seconda discenden-
te, per preparare la cadenza.
A questo punto si dispongono gli elementi della battuta dell’esempio 8a-22 sul modello
della progressione. Ecco cosa accade nelle prime due battute del divertimento:

Es. 8a-25

A B
j
&b œ œ œ œ œ œ œ œ œ ‰ œ œ ‰
œ nœ œ
œ
B œ C œ œ œ œ œ œ œ œ
&b œ ‰ œ ‰ œj œ œ
œ œ œ
C A
? œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ
b œ œ œ nœ œ œ œ œ œ œ œ œ ‰ J

La prima linea proseguirà presentando gli elementi C, B, A, B etc. In modo analogo si


comporteranno le altre due. In alcuni punti dei divertimenti ci si troverà talvolta a dovere
compiere degli aggiustamenti, spesso per assecondare la modifica del piano della progres-
sione, come avviene nell’ultima battuta dell’esempio precedente. Ovviamente si procederà
con tutta l’elasticità che si ritiene opportuna.
È da notare che alla seconda battuta si verifica, di fatto, una modulazione transitoria al
tono di DO. Volendo, la progressione poteva rimanere nel tono d’impianto e non presenta-
re alterazioni. Una progressione può infatti essere: diatonica, quando il tono d’impianto vie-
ne rispettato senza alterazioni; modulante, quando ci troviamo di fronte a modulazioni di
passaggio; mista, quando troviamo sia elementi diatonici che modulanti.
Possiamo procedere ora alla stesura definitiva della nostra fughetta. Il piano formale
complessivo sarà questo: esposizione, divertimento, entrata al quarto grado, divertimento,
entrata al sesto grado (relativa minore), entrata al secondo grado, divertimento, nuova en-
trata alla tonica.
Per quanto riguarda le nuove entrate, non ci sono prescrizioni particolari per esse. Le
nuove entrate possono essere singole o presentare qualche rapporto di soggetto e risposta o
viceversa. L’unica limitazione è che devono presentarsi in toni vicini a quello d’impianto.
Un’entrata in LA maggiore, ad esempio, non sarebbe qui pertinente.
404 L’abaco e la rosa

Ecco poi il piano armonico del secondo e del terzo divertimento:

Es. 8a-26

? ˙ ˙ ˙ j
b ˙ ˙ ˙ ˙ œ œ
œ

? l œ ˙ ˙ ˙ ˙ j
b ˙ œ

Il primo dei due è basato sul consolidatissimo schema della «caduta di quinte»; si nota
che nell’ultima battuta c’è un’intensificazione del ritmo armonico (due accordi nella seconda
metà della battuta), in vista del punto d’arrivo (la dominante della relativa minore).
L’esempio 8a-27 mostra il risultato finale. Ho immaginato che la composizione sia de-
stinata a uno strumento melodico, come l’oboe o il violino, e uno strumento a tastiera come
il clavicembalo.
Il numero delle entrate nell’esposizione può essere superiore a quello delle voci in gioco.
In linea di massima non è rara un’entrata supplementare rispetto al numero delle voci. A
tre voci il numero delle entrate potrebbe quindi essere quattro. Talvolta però l’esposizione è
seguita da ulteriori entrate supplementari: si ha una riesposizione quando il materiale dell’in-
tera esposizione è riproposto con alcune modifiche; una controesposizione quando il materia-
le dell’intera esposizione è riproposto a partire dalla risposta.
Per quanto ci riguarda, essendo l’esposizione la realizzazione di un canone, ho fatto in
modo di farlo sentire per intero, e di ripresentare infine ancora una volta il soggetto nel
tono d’impianto. Complice anche la brevità e il carattere piuttosto mosso del soggetto,
l’esposizione risulta essere tutto sommato scorrevole. Non si tratta però questa di una
prassi molto diffusa nel periodo barocco. Volendosi attenere maggiormente allo stile del
tempo di Bach, si potrebbe ovviamente fare terminare il canone una volta esaurite le entrate
previste da un’esposizione tradizionale. Qualora si lavori con soggetti più lunghi e dall’an-
damento più grave, ritengo comunque buona cosa non fare sentire il canone per intero: ba-
sterà un numero di entrate pari a quello delle voci, più una, se lo si desidera. Vige, come
come di consueto, un senso per le proporzioni, che si acquista con l’esperienza. Si tenga
conto che anche nell’esposizione la realizzazione del canone non deve essere una costrizio-
ne. Si possono apportare piccole o grandi varianti.
Faccio notare infine che ho composto questa fughetta di 34 battute a partire dalla stesu-
ra di tre sole battute (il modulo del soggetto e quello dei divertimenti)! Di fatto, a parte la
composizione vera e propria dei moduli, tutto il resto è consistito in un lavoro di montaggio e
aggiustamento.
La precedente fughetta non presenta stretti, eventualità del tutto legittima per la prassi
barocca. Immaginiamo invece ora di volerne comporre alcuni. Ho già accennato al fatto che
si ha uno stretto quando, prima che finisca il soggetto, si accavalla la comparsa del sogget-
to o della risposta in una o più voci. Perché ciò avvenga, molti soggetti sono stati apposita-
mente composti in modo che diano luogo ad almeno un canone a due voci.
Si sarà già intuito che la composizione degli stretti può essere affrontata come la stesura
Appendice al cap. 8 405

Es. 8a-27
œ œ œ nœ œ
& b c ‰ œ œ œ œœœ œ œœœ œœœœœœœœ œ œœ œœœ œ
œ
œ œ œ œ œœœ
&b c ∑ ∑ ‰ œ
?
b c ∑ ∑ ∑

œ œ œ bœ
& b œ œ œ nœ œ œ œ œ œ œ œ œ . œ œœœ . œœ œ
œ œ
œœ œ œ œ œ
œ œœ œ œ œ œ œœœœœ œ œ œ
&b œ œœœ œ œ œ œ
œ œ œ œ œœœ œœœœœ œœœ
? ∑ ‰ œ œ œœœ
b

œ
j œ œ nœ œ œ œ œœœœœ œ œœ œ œ œœœœ
œ œœœ œ œ œœ œ
&b œ œ
œ œ œ bœ
& b œ œ œ nœ œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ. nœ ‰ œ nœ œ œ œ bœ œ
œ
œ œ nœ œ œ œ nœ œ œ œ
? œ œœœ œ œ œ œ œœœœ
œ œ œœ
b

œ œ œ bœ
&b œœ œ œœ œ œ œ nœ
œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ. nœ
œ œ

&b œ œœœ œœœœœ œœœ œ œ œ nœ œ œ


œ œœœ œ œœ œ nœ œ œ
œ œ bœ œ
? œ. œ œ œ œ œ. œ œ œ œ nœ œ œ œ œ œœœ œœœœœ œ œœ
b J œ
Primo divertimento

&b ‰ œ nœ œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœœœœœœ œ œ ‰ œj
œ œ œœœ

&b œ œœœ œ œ œ bœ ‰ œ
œ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ. œ œ œœœ
? œ œ œ œ œœ œœœœ
b œ œ œœœœ œ œœ œ œœ œ œ œ œ
œ œ œ

j œ œ œœ œ œœœœœœ œ
&b œ ‰ œ ‰ œ œ œœœœœ œ œ ‰ œj
œ nœ œ
j œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ nœ œ œ œ œ j œ
&b ‰ œ œ œ ‰ œ œ ‰
œ bœ nœ
œ œ
?
b nœ œ œ œ œ œ œ œ œ ‰ Jœ ‰ œ #œ œ ‰ j œ œ œ œ œ nœ œ œ œ œ œ
œ
406 L’abaco e la rosa

Secondo divertimento
œ œ bœ bœ œ
& b œ œœœ œ œ œ œ. œ œ œ œ œ. œ œ ‰ œ
œ nœ
œ œ œ œœ
nœ œ œ œ œ œ
& b œ œ œ œ œ œ bœ œ œ œ œœ œ œ œ ‰ œ
J
œ œ
Nuova entrata del soggetto al IV

? œ œ ‰ œj
b œj œ œ œ bœ œ œ œ œ bœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ nœ
œ
j œ œ œ œ œ œœœœœœ œ œ œ
&b ‰ œ œ œœœœœ œ œ ‰ J ‰ œœœ ‰ œj
œ œ j œ œœœœ œ
& b #œ œ nœ œ œ œ œ ‰ œ œ ‰ œ ‰ œj œ œœ œ
œ bœ nœ œ
œ
?
b œ ‰ œ ‰ j œ œ œ œ œ nœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ ‰ J
œ #œ œ œ œœ œ œ
Nuova entrata del soggetto al II

& b #œ œ œ nœ œ œ
œœœœ œ œ œ œ #œ œ œ œœ
J œ bœ œ œ nœ œ
œ
Nuova entrata del soggetto al VI (relativa minore)
j
&b œ œ œ œ
œœœœ œœœ œ œ œ œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œœœ
œ œ
œ œ œ bœ
?
b œ nœ #œ œ
œ œ œ œ œ #œ œ œ nœ œ œ . œ œ œ #œ œ nœ bœ œ nœ œ œ œ œ

Terzo divertimento

& b œ œœœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œœ œ œ œœœœœœœœœ œœ œ œ œ ‰ Jœ


œœ œ œ
œ œ bœ
& b œ. œ œ œ œ œ. #œ œ œ œ œ #œ œ œ œ œ ‰ j
œ œ
‰ œ
œœ œ
? #œ œ œ œ
b œœ œ œ ‰ œ ‰ j œ œ œ #œ œ œ nœ œ œ œ œ
#œ œ œ
Ultima entrata del soggetto alla tonica

œ œ œ# œ œ
&b ‰ œ# œ œ nœ œ œ œ œ œ œ bœ œ œœœœ œœœœœ œœœ w
J œ
œ œ œ œ œ œ œn œ œ œ œ œ bœ
& b ‰ œj œ œ œœ œ. œœœœ . œœ œ
œ œœœ œ w
? # œœœœœœœ œœ ‰ œ œ œ nœ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ w
b J œ œ

di un canone utilizzando i primi elementi del soggetto.


Nel comporre degli stretti possiamo liberamente decidere a che punto si accavalli una
nuova entrata prima che l’altra voce sia giunta alla fine del soggetto. Come possibilità
estrema si può immaginare lo stretto della testa del soggetto.
Componiamo ora uno stretto con la prima battuta del soggetto della nostra fuga. Pos-
Appendice al cap. 8 407

siamo decidere di comporre un canone all’unisono/ottava o un canone alla quinta. Provia-


mo con quest’ultima possibilità. Realizziamo un modulo:

Es. 8a-28
B C A
œ œ œœœœœ œ œ œ œ œ nœ œ œ
& b œ œ œ œ œ œ Jœ œ œ œ
œ
C A B
œ
j œ œ œ œœœ œœ œ œ
&b œ œ œ
œœœœ œ œœ œ
A B C

&b ‰ œ œ œ œ œœœ œ œ nœ œ
œœ œœœ œ
œ œœœ œœœ

Ecco ora una proposta di realizzazione dello stretto. Si tenga conto che, solitamente,
giunti alla fine dello stretto l’ultima entrata — al tono d’impianto — espone il soggetto nel-
la sua interezza. Nel nostro caso, poiché il soggetto finisce sulla terza dell’accordo di toni-
ca (LA), bisogna fare in modo che quest’entrata non si trovi al basso, perché termineremmo
su un accordo in primo rivolto. Bisogna quindi provare qualche montaggio per scegliere una
soluzione appropriata. Il prossimo esempio ne propone una:

Es. 8a-29

&b ∑ ∑ ‰ œ œ œ œœœœ
œœnœœ
œœœœœ
œ œ œœ
œ œ œ œ œ
œœœ œ œ œ œœœœ œœœ
œœœ œ œœœnœœ œ œ œœ
&b ∑ ‰ œ
œ œ œ œœ œ
? ‰ œ œ œ œ œ œ œœ nœœœ œœœœ œœœœ
œ œ œœ œ œ œ œ œœœœ œœ
b J œ
œ
j œ œ œ œœœ œœ œ œ œœœœœ œ œœœœ
& b œ œœœ œ œ œœ œ œ œ
œ
œ œ bœ œ œ œ nœ œ
& b Jœ œ œ œ œœœ œœ œœœ œ œ
œ œœœœ œ œœ
j œ œ œ œ b œ œ
? œ œ œœœœ œ
b œ œ œœœœœ œ œ œ nœ œ œ œ œœ œ œ

œœ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ œ
& b œ œ œ nœ œ œœœ œœœœ œ œ œœ w
J œ œ
œ œœœ œœ œ
jœ œ œ œ œœœœœœ œœœœœ œ œ œ. œ w
&b œ œ J
œ œ nœ œ œ œ œ bœ
? œ œœ œœœœœ œ œ œœ œ. œœœœ
b œœœœ œ. œ w

Concludo questa breve escursione nel mondo della fuga accennando alla possibilità di
comporre fughe a quattro voci. Per quanto riguarda un maggior numero di parti in gioco po-
tranno valere le indicazioni date qui di seguito. È del resto raro imbattersi in fughe a cinque
e più parti; lo stesso Bach ne ha scritte pochissime.
A quattro parti l’esposizione realizzata secondo le tecniche canoniche fin qui illustrate
presenta un inconveniente. Nel capitolo precedente ho detto infatti che se il numero di parti
408 L’abaco e la rosa

di una composizione è pari e il periodo delle trasposizioni anche, di fatto ci imbatteremo in


due canoni distinti. È evidente che ciò si verificherebbe in una esposizione a quattro parti,
perché il periodo è, per forza di cose, 1-5. Si può certamente procedere accettando questa
possibilità; ce n’è però un’altra. Quest’ultima è quella di comporre inizialmente un’esposi-
zione a tre parti; poi, direttamente nella fase di montaggio, si procederà sdoppiando alcu-
ne parti, come abbiamo fatto già nei precedenti capitoli; per ultimo si realizzeranno agganci
più o meno elaborati. In questa maniera, nella fase di stesura delle parti aggiuntive, si po-
tranno talvolta fare sentire, nelle tre voci superiori, anche i suoni che formano la quinta de-
gli accordi, ottenendo così armonie più ricche, che potrebbero essere invocate da una scrit-
tura a quattro e più parti.

App. 8.3 Canoni per tutti

Come avevo promesso fin dal capitolo 1, prenderò ora in considerazione la possibilità di
comporre canoni a partire da linguaggi diversi dalla modalità rinascimentale e dalla tonali-
tà. In realtà si tratta semplicemente di verificare se quanto ho proposto fin qui possa age-
volmente essere applicato anche a ogni sorta di scale. Mi limiterò a un solo esperimento,
che riassume alcune delle proposte fin qui realizzate.
Per il prossimo canone ho deciso di ricorrere a un genere di fioritura completamente di-
verso rispetto a quanto visto fino a questo punto. Il risultato finale richiama infatti una
concezione sonora vagamente vicina al rock e al pop. Certamente attraverso il prisma de-
formante di una scala diversa da quella diatonica il risultato potrebbe sembrare un po’
stralunato. Questa prospettiva non mi dispiace affatto perché ciò potrebbe convincere al-
cuni a proseguire sulla strada di esperimenti liberi da convenzioni e pregiudizi.
(Lo ripeto, non ho nulla contro una musica che voglia porsi nel solco della tradizione —
sia anche la lingua franca dell’avanguardia del dopoguerra — o faccia i conti con le neces-
sarie convenzioni derivanti da un particolare tipo di committenza, ad esempio la musica di
consumo. Importante ritengo sia una consapevolezza artistica e culturale che escluda de-
terminate scelte per moderatismo, un nemico subdolo e forse ineliminabile dell’arte in gene-
re.)
Propongo la composizione di un piccolo canone all’ottava basato su una scala di otto
note: si tratta della cosiddetta scala diminuita cui ho accennato nel capitolo 1 (cfr. Es.1-18),
composta da una successione di toni e semitoni alternati (o viceversa):

Es. 8a-30

& ˙ #˙ #˙ ˙ ˙
˙ ˙ b˙

Realizzo ora un modulo in contrappunto triplo di quattro battute secondo le tecniche


esposte nel capitolo 8:
Appendice al cap. 8 409

Es. 8a-31
b˙ #˙ ˙
˙ ˙ b˙ ˙
& #˙

& ˙ ˙ ˙ b˙ ˙
˙ ˙ #˙

& ˙ ˙ #˙ ˙ b˙ #˙ #˙
˙

Si noti che tutti gli intervalli di terza contenuti nel modulo sono minori.
La fioritura necessita forse di qualche parola di commento:

Es. 8a-32
C x x x x

&c ‰ jb˙ #˙ ‰ nœ bœ j ‰ ‰ j
>œ # œ > J œ b >œ b œ œ bœ #˙
>œ . >œ
B x
> x j x x
j ‰ œ œœ ‰ œ jb˙
&c œ ‰ œœ
J . #˙ ‰
>œ > œ # >œ œ œ

. >œ
A x x x x

& c œ œœœ œœ œœ œ œ œ œ >œ b œ œ œ œ # >œ œ # œ œ >œ œ


> #œ œ # œ œ >œ œ œ œ œ > #œ œ œ œ >
>

La linea A propone un andamento ritmico abbastanza tipico del rock e del pop; in cor-
rispondenza delle x si verifica un fenomeno di anticipazione della prima nota della battuta
successiva. La linea B presenta un andamento piuttosto sincopato: in corrispondenza delle
x siamo di fronte o a delle appoggiature ascendenti di semitono (ad es. nella prima battuta) o
a delle note di sfuggita (ad es. nella seconda battuta). Il trattamento della linea C è del tutto
simile a quello della linea B. Anche qui le x corrispondono o a delle appoggiature ascenden-
ti o a delle note di sfuggita. L’elaborazione della fioritura è il risultato, in realtà, di alcuni
semplici algoritmi che mi hanno permesso di ottenere il risultato precedente in modo del
tutto automatico. Partendo dal modulo iniziale (Es. 8a-31) ritengo essere del tutto evidente
la logica di questi elementari algoritmi.
Come ho accennato, realizzerò un canone infinito all’ottava. Il risultato è mostrato dal-
l’esempio 8a-33. Ho deciso di attribuire due linee a un registro basso (la linea più grave di
tutte è scritta in modo che le altezze reali suonino un’ottava più in basso rispetto a come
sono scritte le note), e a una linea di registro medio. Penso a una possibile realizzazione at-
tribuendo ad esempio la linea più grave a un basso elettrico e le altre a un pianoforte.
A questo punto possiamo decidere di usare le tecniche per comporre i canoni in modo li-
bero e fantasioso, analogamente a quanto abbiamo fatto per la fuga. È uno strumento in
più nella cassetta degli attrezzi del compositore, e tra i più affascinanti.
410 L’abaco e la rosa

Es. 8a-33
q»¡™º
& ∑ ∑ ∑ ∑

? ∑ ∑ ∑ ∑

t œ œ œ >œ œ œ œ œ > > >


œ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ œ œ œ #œ œ #œ œ œ œ
# œ œ # œ œ >œ > #œ œ œ œ >
>

& ∑ ∑ ∑ ∑

? œ œ œ >œ œ œ œ œ > > >


œ œ œ œ œ œ œ œ œ bœ œ œ œ #œ œ #œ œ œ œ
# œ œ # œ œ >œ > #œ œ œ œ >
>
> >œ œ œ >œ œ b ˙
t nœ ‰ œœœ ‰ JJ ‰ #˙ ‰ #œ œ œ
J œ. œ> . J >
>

& .. œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ œ >œ b œ œ œ œ # >œ œ # œ œ >œ œ


> #œ œ # œ œ >œ œ œ œ œ > #œ œ œ œ >
> >œ œ œ
? .. n œ >œ œ œ JJ >œ œ b ˙ #˙
J ‰ ‰ œ> . ‰ ‰ #œ œ œ
J
>œ . >
t .. ‰ >œ # œj b ˙ #˙ n >œ b œ
‰ J œ ‰ bœ bœ œ ‰ œ b œj
J œ. > > #˙
>
j > j
& nœ ‰ œœ ‰ œ œœ ‰ œ j b˙ #˙ ‰
>œ J > œ
. >œ
. # >œ œ œ

>
? ‰ œ # œj b ˙ #˙ n >œ b œ
‰ J œ ‰ bœ bœ œ ‰ œ b œj
J œ. > > #˙
>
t œ œ œ >œ œ œ œ œ > > œ # œ œ >œ
œ œ œ œ œ bœ œ œ œ #œ œ
#œ œ #œ œ œ œ œ œ œ
> > #œ œ œ œ >
>

& ‰ œ j b˙ #˙ ‰ nœ bœ j ‰ ‰ j ..
> #œ > J œ b >œ b œ œ œ> b œ # ˙
.
>œ > >
? œ œ œ >œ œ œ œ œ œ œ œ œ
>
œ œ œ œ œ bœ œ œ œ #œ œ #œ œ œ œ.
#œ œ # œ œ >œ > #œ œ œ œ > .
>
> >œ œ œ >œ œ b ˙
t nœ ‰ #œ œ œ ‰ JJ ‰ #˙ ‰ # œ œ œ ..
J œ. œ> . J >
>
Bibliografia

Scritti di argomento musicale

BARONI Mario, DALMONTE Rossana, JACOBONI Carlo, Le regole della musica. Indagine sui
meccanismi della comunicazione, Torino, EDT, 1999.
BIZZI Giancarlo, Il canone e la fuga. Logica di due costruzioni musicali, Ancona, Bèrben, 1990.
BIZZI Giancarlo, Specchi invisibili dei suoni. La costruzione dei canoni: risposta a un enigma, Ro-
ma, Edizioni Kappa, 1982.
BOULEZ Pierre, Pensare la musica oggi, trad. it. L. Bonino Savarino, Torino, Einaudi, 1979.
BOYD Malcom, Lo stile di Palestrina. (Lo studio della polifonia del Rinascimento). Introduzione
pratica, trad. it. A.M. Morazzoni, Milano, Ricordi, 1981.
DAHLHAUS Carl, Analisi musicale e giudizio estetico, ed. it A. Serravezza, Bologna, Il Mulino,
1987.
DE LA MOTTE Diether, Il contrappunto. Un libro da leggere e da studiare, ed. it. L. Azzaroni, Mi-
lano, Ricordi, 1991.
DIONISI Renato, ZANOLINI Bruno, La tecnica del contrappunto vocale nel Cinquecento, Milano,
Suvini Zerboni, 1979.
GÁRDONYI Zsolt, La struttura della fuga in Johann Sebastian Bach, trad. it. A. Giacometti, Mi-
lano , Ricordi, 1996.
NATTIEZ Jean-Jacques, Il discorso musicale. Per una semiologia della musica, ed. it. R. Dalmonte,
Torino, Einaudi, 1977.
PERLINI Silvano, Elementi di Retorica musicale. Il testo e la sua veste musicale nella polifonia
del ‘500-’600, Roma, BMG Ricordi, 2002.
ROUSSEAU Jean-Jacques, Dictionnaire de musique, Parigi, 1767.
SCHÖNBERG Arnold, Elementi di composizione musicale, trad. it. G. Manzoni, Milano, Suvini
Zerboni, 1969.
SCHÖNBERG Arnold, Manuale d’armonia, trad. it. G. Manzoni, Milano, il Saggiatore, 1963.
SCIARRINO Salvatore, Le figure della musica. Da Beethoven a oggi, Milano, Ricordi, 1998.
SLONIMSKY Nicolas, Thesaurus of Scales and Melodic Patterns, New York, C. Scribner, 1947.
SMITH BRINDLE Reginald, La composizione musicale. Orientamenti didattici, trad. it. D. Zan-
noni, Milano, Ricordi, 1992.
VERDI Luigi, Organizzazione delle altezze nello spazio temperato, Treviso, Ensemble ‘900 D i a -
stema, 1998.
412 L’abaco e la rosa

VOGT Mauritius, Thesauri Magnæ Artis Musicæ, Praga, 1719.


ZANOLINI Bruno, La tecnica del contrappunto strumentale nell’epoca di Bach, Milano, Suvini
Zerboni, 1993.

Altri scritti

BARROW John, L’universo come opera d’arte. La fonte cosmica della creatività umana, trad. it. I.
Blum e C. Capararo, Milano, RCS Libri, 1997.
BORGES Jorge Luis, Fervore di Buenos Aires, in Tutte le opere, Vol. 1, a cura di D. Porzio e H. Ly-
ria, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984.
BORGES Jorge Luis, Pierre Menard, autore del “Chisciotte”, in Finzioni, trad. it. F. Lucentini, To-
rino, Einaudi, 1955.
CRICHTON Michael, Jurassic Park, trad. it. M.T. Marenco, Milano, Garzanti, 1990.
DARWIN Charles, L’origine delle specie, trad. it. C. Balducci, Roma, Newton Compton, 1973.
DAWKINS Richard, L’arcobaleno della vita. La scienza di fronte alla bellezza dell’universo,
trad. it. L. Serra, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001.
DAWKINS Richard, L’orologiaio cieco. Creazione o evoluzione?, trad. it. L. Sosio, Milano, Arnol-
do Mondadori Editore, 2003.
DE BONO Edward, Il pensiero laterale, trad. it. F. Brunelli, Milano, BUR Biblioteca Univ. Riz-
zoli, 2001.
DIAMOND Jared, Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, trad. it. L. Sosio,
Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
GLEICK James, Caos. La nascita di una nuova scienza, trad. it. L. Sosio, Milano, RCS Libri, 1989.
HESSE Hermann, Il gioco delle perle di vetro, trad. it. E. Pocar, Milano, Arnoldo Mondadori Edi-
tore, 1984.
HOFSTADTER Douglas, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, ed. it. G. Trautteur,
Milano, Adelphi, 1984.
McEWAN Ian, Amsterdam, trad. it. S. Basso, Torino, Einaudi, 1998.
MÉRÖ László, I limiti della razionalità. Intuizione, logica e trance-logica, trad. it. M. Buono, Ba-
ri, Edizioni Dedalo, 2005.
MONOD Jacques, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contempora-
nea, trad. it. A. Busi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1970.
MUNARI Bruno, Design e comunicazione visiva. Contributo a una metodologia didattica, Bari,
Laterza, 1968.
PERKINS David, Come Leonardo, trad. it. G. Rigamonti, Milano, Net, 2005.
STEINER George, Grammatiche della creazione, trad. it. F. Restine, Milano, Garzanti, 2003.
WALDROP Morris Mitchell, Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, trad. it. L.
Sosio, Torino, Instar libri, 2002.
WILSON Edward O., L’armonia meravigliosa. Dalla biologia alla religione, la nuova unità della
conoscenza, trad. it. R. Cagliero, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1999.

Potrebbero piacerti anche