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Prolegomeni per un’estetica della musica

Di Mariano Aprea

Si può cominciare arbitrariamente uno scritto che si impegni a definire un’estetica. Si


può farlo, così come adesso, in modo primitivo e in fondo ricorsivo. Ciò può
sembrare abbastanza sconcertante, e pure, così come accade oggi, sembra che
qualunque presa di posizione sia obsoleta. Appare un principio della libertà creativa
che sembra far eco al principio di libertà politica economica e sociale che stiamo
vivendo in questo inizio secolo. Appare così che chiunque possa fare una qualsiasi
cosa infischiandosene della storia, della cultura, delle tecniche purché si raggiunga lo
scopo prefisso; una qualunque cosa va bene purché funzionale, quindi purché utile. In
ogni lato della nostra realtà, oggi più di ieri, l’idea dell’utile, più risibile del
rivoluzionario principio settecentesco, guida non solo l’attività economico politica,
ma, in genere, anche quella artistica, in modo particolare quella musicale. Non si
vuole delegittimare l’aspetto popolare dell’arte e della musica in particolare, ma si
vuole mettere in evidenza come attualmente tutto ciò che nel recente passato è stato
innovativo, forte e anche rivoluzionario, sia stato messo da parte, come un’esperienza
dolorosamente necessaria, ma fortunatamente superata. Cosicché, tranne rare
eccezioni, ci ritroviamo ad esprimerci in maniera ottocentesca, banalmente
romantica. Il romanticismo fu un’esplosione geniale, problematica, ma geniale. Oggi
viviamo una caduta assolutamente poco interessante. E’chiaro, le avanguardie hanno
necessariamente fatto il loro tempo, anzi il proprio tempo. Si sono appropriate di un
pezzo del tempo della nostra storia, lo hanno caratterizzato così tanto che se ci
azzardiamo ad emularne le gesta non possiamo fare altro che essere retorici. Ciò ci
accade quando scriviamo in un linguaggio fortemente codificato come quello della
Scuola di Vienna o di Darmstad, tanto codificato da inventarsi l’Alea, rischiando così
di ripetere cliches vuoti e per questo retorici. Ma ciò non può essere sufficiente per
fermare lo spirito di ricerca. Ora se il resto dell’Europa è vivace e inventivo, se New
York rimane l’ombelico del mondo e l’oriente già da tempo ci prepara sorprese,
l’Italia è il fantasma della sua età peggiore. Essendo un paese di provincia, oltre ad
impedire strutturalmente il progresso culturale e scientifico, si appropria in modo
scriteriato delle esperienze altrui, senza spirito critico, ma prima ancora senza
comprenderle, solo per via di emulazione. Ciò fa della gran massa degli individui che
usufruiscono della musica e dell’arte in generale un insieme di dormienti capaci solo
di plaudire a ciò che già sanno, non insinuando in loro il benché minimo dubbio o
non facendo insorgere la benché minima domanda. In questo malinteso del
sacrosanto principio di uguaglianza, tutto ciò che ci risveglia è bandito: ci sarebbe da
ricordare Odisseo nella terra dei Lotofagi.
Questo appare il paesaggio in cui siamo immersi. E ora ci facciamo la domanda se sia
lecito pensare un’Estetica in generale e della musica in particolare. Se è lecito fare gli
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equilibristi sul filo teso della libertà e affermare che il frutto di un certo albero sia una
mela oppure una ciliegia1. Detto questo, riformulerei la domanda: E’ possibile
definire i confini di un’opera d’arte? Si può dire cosa dovrebbe essere una
composizione o anche un’esecuzione perché si possa chiamare musica? E’ chiaro, le
domande sono ingenue, ma chiunque, colto e meno colto, le farebbe così, paventando
limiti non condivisibili. La cosa singolare di tutte le opere d’ingegno è che pur
nascendo da un’esigenza del presente, proprio nel momento in cui questo presente è
colto, si estendono inopinatamente verso il futuro e si riallacciano straordinariamente
al passato. Nessun essere sano di mente fa qualcosa per quando non ci sarà più, né
per un tempo passato che non ha mai vissuto, fatte salve le moine delle eredità
acquisite e lasciate, ciascuno fa qualcosa per sé nel proprio presente, in modo
sanamente egoistico. Pertanto sia generalizzando, sia facendo un discorso
maggiormente specifico, ogni essere umano dal carpentiere al direttore di banca,
dall’agricoltore all’ingegnere, dal fisico nucleare al grande poeta fa qualcosa, quando
questo qualcosa è per sé nel proprio presente. Come sappiamo la categoria temporale
del presente è assai sfuggente, da Agostino in poi non si è mai capito bene cosa fosse.
E pure non possiamo fare altro che dire che oggi è il nostro presente; che in quel
momento quando gli amanti si sono baciati erano presenti l’un l’altro. Certo è un bel
problema mettere d’accordo il linguaggio quotidiano con quello teoretico e
scientifico, ma la partita di una possibilità di definizione dell’arte e della musica in
particolare si gioca sulla categoria temporale designata dalla parola presente. L’arte
ha sempre parlato alla comunità in cui nasceva. Per quanto complessa sia la genesi
artistica, non può prescindere d’essere fatta da uomini per altri uomini, la
trascendenza e l’autotrascendimento li lasciamo per ora in una parte nascosta del
nostro cuore. Questa parola si rivelava urgente e la si esprimeva in genere perché la
comunità vi si riconoscesse. Pensiamo alle ruote imbottite delle carrozze a Milano
quando passavano sotto casa di G.Verdi per non disturbarlo mentre dormiva il sonno
della sua ultima malattia. Questa città che si fa silenziosa al riposo del maestro.
Perché mai una città dovrebbe farsi silenziosa per un solo uomo. Perché questo uomo
aveva parlato alla città e lei si era riconosciuta nella sua musica e nelle sue opere.
Quel che si vuole mettere in rilievo non è tanto l’unicità irripetibile del grande artista
di fronte al quale l’umanità si genuflette, quanto il fatto non comune che i
riconoscimenti che accadono nella nostra vita sono rari, spesso tortuosi e sovente
sfuggenti, infine generalmente del tutto particolari e difficilmente riconoscibili.
Quando, quindi, accade che una molteplicità di esseri umani si riconosca in qualcosa
ci troviamo innanzi ad un Valore per nulla trascurabile. Questo riconoscimento, però,
non va confuso con una piatta acquiescenza a ciò che ci è dato come la filastrocca
quotidiana della nostra routine. Il riconoscimento avviene sia nell’accettazione
entusiastica, rivelata, di una data espressione, sia nel momento del rifiuto, della
critica indignata, di un’ irresistibile non accettazione. Così Adorno commentava e
interpretava la reazione del pubblico durante le esecuzioni delle opere di
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E’necessario, per inciso, poter concedere come acquisita gran parte della letteratura filosofia,
linguistica e artistica degli ultimi cinquecento anni, e del secolo passato in particolare di cui
salutiamo con prossimità e gioia tutta la corrente prospettivistica, fenomenologica e relativistica.
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Schoemberg: urlano, dissertano, tirano le sedie perché non possono accettare, gli
spettatori-ascoltatori di vedere e sentire ciò che sono diventati. Secondo Adorno,
Schoemberg non faceva altro che far specchiare il pubblico nelle sue opere e questo,
per quegli esseri umani colti, raffinati e borghesi era veramente insopportabile. Ma la
forza dirompente delle opere del compositore Viennese stava proprio in questa
intenzione, leggere il proprio presente. Molti anni fa, scrivevo che l’opera d’arte è
un’interpretazione della natura. Continuo ad essere piuttosto convinto di questo, ma
oggi estendo il concetto di natura a quella natura seconda che è l’ambiente quotidiano
in cui viviamo. Questo non è certo, oggi, una novità. Dal Dadaismo ad Andy Wharol,
ci sono stati lasciati splendidi esempi dell’interpretazione di questa natura seconda.
Ma il punto sta proprio in questo crocevia tracciato da Schoemberg e Wharol che,
inoltre ci induce a chiederci se abbia valore o senso un’arte per l’intrattenimento. Per
carità, chiunque abbia una minima coscienza del dolore, non può non ringraziare chi
ci faccia sorridere, allontanare dalle preoccupazioni, fantasticare un po’. Ma il gesto
umano, compassionevole dell’intrattenitore ha a che fare con l’Etica o con l’Estetica?
Volendo tagliare la risposta in modo grossolano, verrebbe da rispondere con l’Etica.
Rimando, per l’approfondimento di questo rapporto tra etica ed estetica,
all’illuminante libro di Attilio Scarpellini “L’angelo rovesciato” (idea 2009). A mio
parere, però, l’arte non ha un compito etico. Può eventualmente avere un effetto etico,
ma non un compito etico. In questo senso, non posso che condividere la tesi Kantiana
per cui un’opera d’arte è tale se non ha alcuno scopo. Quindi, certamente, secondo
questo presupposto non è utile. Ora, questa affermazione darebbe completamente
ragione alle attuali “politiche culturali” che, infatti, come precedentemente accennato,
fanno di tutto per sopprimere la ricerca e lo sviluppo artistico; volendo essere oziosi,
però si contraddicono quando non sostengono neanche quello scientifico, il che
induce a credere che la scienza sia simile all’arte. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo al problema: con quali punti di riferimento ci si può arrogare il diritto di
definire l’espressione artistica? Dicevamo del “presente”. Lo dicevamo in senso
storico, reale, ma lo diciamo anche in quel particolare senso in cui il presente
racchiude un’azione. Il dato principale è che in sostanza non è possibile il
differimento di un’azione nel momento in cui questa stia avvenendo. Esiste sempre
un orizzonte degli eventi, nel senso che non c’è un orizzonte possibile senza che
contemporaneamente ci siano eventi. Allora, noi, in un momento dato possiamo
alzare un bicchiere o non alzarlo, ma in entrambi i casi compiamo un’azione. Il
tempo, come ci insegna la relatività, non è un involucro vuoto, ma è la sostanza attiva
che manifesta il passaggio possibile nella totalità del suo orizzonte. Per cui, per
quanto si cerchi di rimuovere questo aspetto, noi siamo sempre sul ciglio
dell’emergenza, cosicché pensare di poter differire un’azione è illusorio. Questa
possibilità di differimento è però concreta nella nostra immaginazione. Ed è la nostra
immaginazione che ci permette di creare catene continue di slittamento referenziale
che trasformano il dato emergenziale del presente in una figura retorica, nella
metafora piuttosto che nell’esausto rapporto tra significante e significato. Se
confrontassimo le logiche sintattiche, artistiche e scientifiche, ci accorgeremmo che a
differire è la nomenclatura grammaticale ma non la struttura logica, cioè la sintassi.
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Ora se la sintassi corrisponde alla logica astratta del pensiero nel suo correlarsi alla
realtà, la grammatica corrisponde a quei nessi sensibili ed estetici che sono chiamati
segni e che costituiscono la parte emergente del nostro linguaggio. In questo senso la
grammatica si avvale dell’immaginazione.2
Quindi, l’apertura temporale, non neutra, nella quale agiamo costituisce l’insieme
delle possibilità del nostro agire, non ancora in atto, esibendo altresì un’emergenza:
perché qualunque cosa si faccia, in qualche modo è necessitata dallo stato di cose
determinato sostanzialmente dall’apertura della nostra soggettività all’orizzonte del
paesaggio che ci è di fronte definendo il nostro presente. Sulla base di questa
simultanea corrispondenza biunivoca si innesta la creazione linguistica la cui
produzione-percezione è formata dalla nostra immaginazione, cioè dalla relazione tra
sensibilità e individuazione. Solo in questo frangente è possibile creare quel
differimento referenziale di cui si è accennato in precedenza. E soltanto all’interno di
questo differimento è possibile creare una sovrastruttura grammaticale che
apparentemente si libera dalla necessità e definisce il suo campo d’azione nella
dimensione disancorata di una così detta libertà di espressione. Una libertà
d’espressione che in realtà fa fluire modelli eteronomi come se appartenessero
omogeneamente alla stessa natura, mentre sono spessissimo espressione di una stessa
eterogenesi dei fini, del tutto estrinseca all’opera, ma acquiescente all’ascolto
plaudente, dimenticandosi così del presente e rifluendo nel passato. In questo senso è
molto facile creare opere ed esecuzioni che non rispondano alla necessità del presente
in cui il nostro io si trova radicato. Così può passare come gradevole, ironico,
metacritico, citativo un qualunque tipo di composizione o esecuzione, proprio perché
tutti i suoi lemmi sono mutuati dall’anfora del già saputo e codificato. Con questo
non si vuole dire che non si debba avere assimilazione del passato, anzi al contrario;
nemmeno, inoltre, che sia irrinunciabile la novità per la novità: Modigliani e Picasso
litigavano spesso sulle reciproche scelte artistiche, ma se Modigliani si attacca alla
“figura” e Picasso al “cubo”, nulla ci impedisce di rimanere di fronte alle loro opere
come si sta di fronte una rivelazione. Evidentemente il problema non sta
propriamente nella dialettica fra vecchio e nuovo, anche se così può sembrare. A
questo proposito invito alla lettura e all’ascolto del contrappunto 14 dell’arte della
fuga di Bach: in molte battute e passaggi intervallari ci si potrebbe chiedere se si tratti
di musica dell’epoca barocca o del primo novecento. Non ci si confonda, non è
ancora un problema di “genio”, è invece ancora qualcosa che attiene al rapporto tra
realtà e grammatica. Ciò che stupisce in Bach, come in Picasso e Modigliani,
piuttosto che in Rilke, Brancuçi o Le Courbousier è che quel che hanno espresso non
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Lo scenario che in questo momento si aprirebbe sarebbe di fortissima complessità, se volessimo
analizzare i complessi rapporti tra facoltà dell’intelletto e della sensibilità in relazione ai dati della
realtà e alle corrispondenti categorie che ci permettono di ordinare il mondo in cui siamo. Pertanto
mi permetto di indicare, solo per consentire al lettore un orientamento su quanto si andrà
affrontando, le due critiche Kantiane della Ragion Pura e del Giudizio; la Fenomenologia
Hegeliana; due testi di Husserl: Le Ricerche logiche e Idee per una fenomenologia pura e per una
filosofia fenomenologica; un testo di Heiddeger: Essere e tempo e l’intera opera di Wittgestein. In
questo modo credo di potermi mantenere aderente allo scopo di questo scritto.
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può essere detto in un altro modo. Non perchè sia già stato fatto, compiuto, per cui
quella realtà risulta irreversibile, ma perché sono giunti ad un esaurimento delle
possibilità linguistiche, grammaticali, a loro disposizione: non avevano più parole, né
colori, né suoni per dire quel che dicevano. Ora questo esaurimento non si ha perché
si sia finita la riserva di segni a nostra disposizione, ma perché si è saturato il
rapporto tra significato e significante. Questo è ciò che contraddistingue le loro
opere da altre. Questa saturazione, questa mancanza di spazio tra figura e sfondo.
Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a svariati tentativi di ancorare il
linguaggio artistico alla realtà fisica, all’evento extrarappresentativo, al cortocircuito
tra finzione e realtà. Ma la strada intrapresa ha, in qualche modo, prediletto la realtà:
si veda la body art, gli esperimenti di Orlan o di Serrano e così via. Ma il problema
non si risolve certo rendendo il corpo dell’artista l’oggetto di una concreta mutazione,
come se lo sconcerto determinato da un braccio meccanico inserito nel petto
dell’artista potesse costituire la plus valenza di una verità. Non credo, per quanto
interessanti e discutibili siano queste esperienze, che in ciò consista l’identità tra
segno e significato. Perché anche nel caso di una reale mutilazione il campo
semantico che viene suscitato non si ferma all’atto in sé, ma si estende, per esempio,
alla patologia che immediatamente ne consegue, cosa che rende assai poco preciso il
segno esibito. Pertanto non si tratta di realisticità, o di un’ iper-realtà irreversibile 3.
Torniamo allora al concetto di saturazione precedentemente accennato. Per farlo,
finalmente, proviamo ad affrontare la sfera della musica 4. Prendiamo ad esempio i
valzer di Strauss. Nessuno si sognerebbe mai di dire che non sia musica ben scritta,
piacevole, umana con slanci di bellezza, possiamo ballarla o ascoltarla ed in entrambi
i casi ne proviamo godimento. Eppure, se cambiassimo qualche nota al Bel Danubio
Blu il senso di quella costruzione rimarrebbe inalterato; potremmo anche mutare
qualche passaggio armonico e otterremmo lo stesso risultato continuando a ballarlo o
ad ascoltarlo. Questo non perché Strauss fosse poco abile, ma perché la sua musica
aveva una funzione extra-musicale; aveva una finalità altra. Così che la sua implicita
natura rappresentativa lasciava spazio ad altre rappresentatività, come, per esempio, il
ballo. Mi si dirà, ma anche le Suites per Violoncello di Bach sono danze! Oh, certo, si
possono ballare se si vuole, ma possiamo modificarle a nostro piacimento
aspettandoci di non mutare la loro natura? No, non possiamo. Perché quelle
composizioni manifestano una forza di gravità che si centra sulla materia sonora per
la materia sonora. Non c’era altro, oltre il suono che interessasse Bach. La sua
esigenza è la scoperta dei limiti dell’apertura del suo presente alla materia sonora che
fa della sua opera un’opera autentica. L’autentico è ciò che non ha bisogno di altro da
sé per essere qualcosa. La composizione autentica è quella che trae dalla sua stessa
materia le regole per darle forma. Ma questa materia non è il suono, in quanto tale,
quale evento separato tra gli oggetti di una natura altrettanto separata. Il suono, come
materia, riposa in quell’apertura del presente che rende l’io, passivo e attivo, sensibile
alle forme, ciò che per conseguenza avviene è la scoperta che l’io fa della sua
3
Anche per questa argomentazione, si rimanda al testo di Scarpellini.
4
Quanto si dirà della musica classica e della musica jazz nelle sue linee generali riguarderà anche la
musica popolare.
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estensibilità. Fino a dove si può estendere quella particolare esperienza del suono che
l’io da sempre raffigura come sua propria? Ecco quale è la domanda che prefigura
l’autentico dell’opera d’arte e la saturazione tra segno e significato. Se avessimo
modo di analizzare da vicino le partiture, potremmo mostrare quale sia stato il lavoro
che ha sovrainteso a costruzioni del genere. Però possiamo accennare al I°
movimento della Nona sinfonia di Beethoven in cui per 543 battute la tonalità di re
minore viene rivoltata, stirata, esaurita fino a non avere più risorse e lasciare spazio
ad altro; tanto che poi non ci si può stupire di fronte ai suoi ultimi quartetti così ricchi
di armonie ambigue e spesso dissonanti; come, guarda caso gli ultimi quartetti di
Mozart; come, l’abbiamo accennato, l’ultima opera di Bach. Come mai questi tre
giganti sono giunti, in tempi diversi, alle stesse conclusioni? Perché non hanno fatto
altro che interessarsi del suono che è la materia della musica. Ora, benché mi renda
conto che le mie parole siano ben poca cosa per i valori suscitati fin qui, è tuttavia
ammissibile volgere l’attenzione al jazz. La sua storia è assai più breve, in qualche
modo più convulsa, della sua sorella maggiore, ma la sua portata non solo non è
trascurabile, ma arricchisce di molto la nostra esperienza musicale ed esecutiva,
avendo nel suo sviluppo lasciato opere di cristallina bellezza. Mentre sulla musica
classica si hanno predilezioni e specializzazioni in relazione alle varie epoche che
l’hanno caratterizzata, il jazz si articola in varie tipologie, che invero si sono
succedute nei decenni del 900: questo sviluppo così repentino ha dato vita ad una
sorta di caratterizzazione musicale che ha prodotto una classificazione della musica
jazz per generi. Ogni genere swing, bebop, hardbop, free e così via ha dato forma a
vari stili esecutivi studiati dai musicisti sia per preparazione che per predilezione.
Ora, però, poiché questi stili, data la natura improvvisativa di questa musica, si
identificavano con i musicisti che ne erano i più eminenti rappresentanti, ecco che le
modalità espressive si andavano ad identificare con le tecniche e le estetiche
esecutive dei singoli. La cosa che più comunemente succede è che questi stili siano
diventati delle retoriche in cui la gran parte dei musicisti nuota. Abbiamo già detto
che questa cosa accade anche per la musica classica contemporanea. Ma ciò che
stupisce è che proprio il Jazz, che dovrebbe vivere del presente della sua natura
improvvisativa, ricalchi invece quel differimento di cui parlavamo innanzi.
Quando improvvisiamo è come se ci portassimo dietro le spalle e poi davanti a noi
una specie di sfera oscura, qualcosa che si delinea man mano in cui impercettibili
percezioni esterne, come nei sogni, determinano importanti mutamenti di rotta. Ogni
nota che suoniamo non è mai la preparazione di quella successiva, per quanta
coscienza musicale si abbia, ma è proprio quella nota li. Questa apre alla successiva
in un modo sostanzialmente inatteso, anche se la struttura armonica del brano rimane
stabile. Arriviamo alla fine dell’esecuzione come alla fine di un tunnel in cui pian
piano abbiamo visto spiragli di luce. In questo ondeggiamento c’è tutta la grandezza
di un evento presente e irripetibile che mette letteralmente in gioco la sostanza
artistica ed umana del musicista. Per questo Mingus arrivava a picchiare i propri
musicisti se non suonavano dando completamente la loro presenza all’esecuzione,
perché quell’irripetibilità non fosse perduta. Questa esigenza, per converso, ci aiuta a

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capire la grandezza delle esecuzioni di Gould o quelle di Coltraine. Non c’è nessun
calcolo da fare, nessuna reticenza, ma solo compimento ed estenuazione delle proprie
possibilità. E questo è quel che dovrebbe valere sia per la composizione sia per
l’esecuzione. Gould esaurisce le sue possibilità e probabilmente quelle di Bach,
Beethoven e Brahms quando li esegue; come Jarret, con opere volutamente non
complesse come “A melody at night with you”. Ma la messa in gioco
nell’improvvisazione non può far trascurare l’esigenza compositiva. La quale, come
nella musica classica, non può prescindere da quella emergenzialità di cui si è parlato
prima. L’eccessiva abitudine a considerare l’improvvisazione il fulcro del Jazz blocca
le avventure compositive a favore delle poco interessanti esecuzioni di Standards.
Che il Jazz abbia la peculiarità dell’aspetto improvvisativo si è gia detto, ma, come
nel gergo teatrale si dice che un buon attore possa anche recitare l’elenco del telefono
esimendosi dalla responsabilità della scelta testuale, così anche se uno splendido
sassofonista può incantare improvvisando su uno stornello, si esime anch’egli, se
questo è il suo modo di relazionarsi alla musica, dalla responsabilità artistica della
scelta dell’ambito armonico, strutturale, e melodico del brano su cui sta
improvvisando. E’, a mio modesto parere, importante esprimere una poetica che,
come nel classico, faccia i conti con il passato, si disinteressi degli effetti futuri, e si
concentri sull’autentico del proprio presente, come lo si è definito prima. Ci sono
musicisti e ascoltatori ancorati a modelli oltre i quali, a loro parere, non è lecito
andare. Credo, invece, che il Jazz abbia alcune caratteristiche, largamente
condivisibili, delle quali una assolutamente irrinunciabile: la qualità e la forza
espressiva, l’immediatezza, che dànno a questa musica il carattere espressionistico
che l’ha sempre distinta. Al contrario del percorso ben compiuto della musica
classica, il Jazz è scaturito non da principi costruttivi, ma dalla fortissima esigenza di
esprimere senza il filtro di mediazioni la condizione immanente alla natura del vivere
che il musicista andava esperendo. In una parola la traduzione fisica di ciò che
l’umano psicofisicamente provava. Per questo è stato molto più naturale per il Jazz
usare intervalli e accordi che si allontanavano dalle tonalità di partenza, di quanto non
sia stato per la musica classica. Ovvero l’accoglimento della dissonanza nel Jazz è
stato assai precoce così come lo spostamento dell’accento. Per tanto, sulla base di
questo carattere, che certamente si trascina stilemi, tecniche e modelli compositivi, è
importante trovarsi dinanzi ad un campo non ancora arato e da coltivare, tanto più
oggi che le esperienze musicali si sono arricchite di tante influenze in cui molti
estrinseci o anche storici steccati, come per esempio la dialettica tra neri e bianchi, o
Jazz Europeo e Americano, sono stati abbattuti. Per meglio esprimere il senso di ciò
che si è detto si vuole sottolineare che fatta salva la volontà del musicista di essere
solo un interprete ed un esecutore di ciò che più ama, è importante, direi
fondamentale, promuovere e sostenere la ricerca per nuove avventure compositive
che possano offrirsi come il superamento di quel differimento di senso, segno e
significato di cui si è già detto. Questa messa in gioco, per la quale abbiamo usato
tante parole, è la condizione senza la quale quello che esprimiamo grazie alla nostra
sensibilità, intelligenza e preparazione si perderebbe irrimediabilmente.

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Nell’aprile del 1968, ad Atlanta, al funerale di Martin Luter King, Aretha Franklin
canta “Precious Lord”. Una folla enorme e commossa l’ascolta. Ella inizia, come
nello spirito del gospel, con brevi forme di invocazioni mantenendosi generalmente
sul registro basso. Progressivamente, però, le relazioni tra gli intervalli si dirigono
verso il registro acuto. Aretha sale. Generalmente quando cantiamo note acute
chiudiamo la glottide, proiettiamo il fiato in maschera lo facciamo sbattere sul palato
ed emettiamo il suono. Aretha sale di nota in nota aprendo in continuazione il cono
d’aria, più sale e più apre dando a quel suono acuto l’ampiezza di un corpo e il senso
illimitato di una sensibilità che faceva del suo esser musicista la corda che unisce ciò
che vediamo a ciò che dobbiamo ancora scoprire. Per questo la commozione ci
assale, le lacrime scendono sul viso e i nostri desideri si dileguano.

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