Di Mariano Aprea
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capire la grandezza delle esecuzioni di Gould o quelle di Coltraine. Non c’è nessun
calcolo da fare, nessuna reticenza, ma solo compimento ed estenuazione delle proprie
possibilità. E questo è quel che dovrebbe valere sia per la composizione sia per
l’esecuzione. Gould esaurisce le sue possibilità e probabilmente quelle di Bach,
Beethoven e Brahms quando li esegue; come Jarret, con opere volutamente non
complesse come “A melody at night with you”. Ma la messa in gioco
nell’improvvisazione non può far trascurare l’esigenza compositiva. La quale, come
nella musica classica, non può prescindere da quella emergenzialità di cui si è parlato
prima. L’eccessiva abitudine a considerare l’improvvisazione il fulcro del Jazz blocca
le avventure compositive a favore delle poco interessanti esecuzioni di Standards.
Che il Jazz abbia la peculiarità dell’aspetto improvvisativo si è gia detto, ma, come
nel gergo teatrale si dice che un buon attore possa anche recitare l’elenco del telefono
esimendosi dalla responsabilità della scelta testuale, così anche se uno splendido
sassofonista può incantare improvvisando su uno stornello, si esime anch’egli, se
questo è il suo modo di relazionarsi alla musica, dalla responsabilità artistica della
scelta dell’ambito armonico, strutturale, e melodico del brano su cui sta
improvvisando. E’, a mio modesto parere, importante esprimere una poetica che,
come nel classico, faccia i conti con il passato, si disinteressi degli effetti futuri, e si
concentri sull’autentico del proprio presente, come lo si è definito prima. Ci sono
musicisti e ascoltatori ancorati a modelli oltre i quali, a loro parere, non è lecito
andare. Credo, invece, che il Jazz abbia alcune caratteristiche, largamente
condivisibili, delle quali una assolutamente irrinunciabile: la qualità e la forza
espressiva, l’immediatezza, che dànno a questa musica il carattere espressionistico
che l’ha sempre distinta. Al contrario del percorso ben compiuto della musica
classica, il Jazz è scaturito non da principi costruttivi, ma dalla fortissima esigenza di
esprimere senza il filtro di mediazioni la condizione immanente alla natura del vivere
che il musicista andava esperendo. In una parola la traduzione fisica di ciò che
l’umano psicofisicamente provava. Per questo è stato molto più naturale per il Jazz
usare intervalli e accordi che si allontanavano dalle tonalità di partenza, di quanto non
sia stato per la musica classica. Ovvero l’accoglimento della dissonanza nel Jazz è
stato assai precoce così come lo spostamento dell’accento. Per tanto, sulla base di
questo carattere, che certamente si trascina stilemi, tecniche e modelli compositivi, è
importante trovarsi dinanzi ad un campo non ancora arato e da coltivare, tanto più
oggi che le esperienze musicali si sono arricchite di tante influenze in cui molti
estrinseci o anche storici steccati, come per esempio la dialettica tra neri e bianchi, o
Jazz Europeo e Americano, sono stati abbattuti. Per meglio esprimere il senso di ciò
che si è detto si vuole sottolineare che fatta salva la volontà del musicista di essere
solo un interprete ed un esecutore di ciò che più ama, è importante, direi
fondamentale, promuovere e sostenere la ricerca per nuove avventure compositive
che possano offrirsi come il superamento di quel differimento di senso, segno e
significato di cui si è già detto. Questa messa in gioco, per la quale abbiamo usato
tante parole, è la condizione senza la quale quello che esprimiamo grazie alla nostra
sensibilità, intelligenza e preparazione si perderebbe irrimediabilmente.
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Nell’aprile del 1968, ad Atlanta, al funerale di Martin Luter King, Aretha Franklin
canta “Precious Lord”. Una folla enorme e commossa l’ascolta. Ella inizia, come
nello spirito del gospel, con brevi forme di invocazioni mantenendosi generalmente
sul registro basso. Progressivamente, però, le relazioni tra gli intervalli si dirigono
verso il registro acuto. Aretha sale. Generalmente quando cantiamo note acute
chiudiamo la glottide, proiettiamo il fiato in maschera lo facciamo sbattere sul palato
ed emettiamo il suono. Aretha sale di nota in nota aprendo in continuazione il cono
d’aria, più sale e più apre dando a quel suono acuto l’ampiezza di un corpo e il senso
illimitato di una sensibilità che faceva del suo esser musicista la corda che unisce ciò
che vediamo a ciò che dobbiamo ancora scoprire. Per questo la commozione ci
assale, le lacrime scendono sul viso e i nostri desideri si dileguano.