Sei sulla pagina 1di 6

FILOSOFIA: Eraclito, Parmenide e Zenone (4)

1) Breve introduzione ai due filosofi


In questa dispensa ci occuperemo di due scuole di pensiero, facendo riferimento
essenzialmente ai suoi massimi esponenti: Parmenide per il gruppo che si è soliti
definire anche “eleati” e dall’altra parte Eraclito per il gruppo che viene denominato o
“eraclitei” oppure “scuola ionica” (ovviamente da non confondere con la scuola ionica
di Mileto che abbiamo già visto). In un certo senso possiamo dire che con loro si
cristallizzano due strade della filosofia che, a voler semplificare, continuano a
permanere nel corso dei secoli. Il problema cruciale è sintetizzato benissimo dalla
filosofa Hersch: <<nell’esperienza, noi abbiamo sempre a che fare con il
cambiamento, e il cambiamento viola continuamente il principio di identità>>1. Il
principio di identità, <<noto già agli antichi e definito poi formalmente nell’età
moderna, definisce l’uguaglianza di qualsiasi ente con se stesso (espressa nella
forma A = A), il che consente di identificare l’ente rispetto a ogni altro. Il principio
però è controverso, perché, come già era chiaro a Eraclito, l’identità di un ente con
se stesso non può essere assoluta in un mondo dominato dal tempo e quindi dalla
trasformazione, dal divenire. Pertanto dal pensiero greco fino a Hegel e alla logica del
Novecento, questo principio è oggetto di riflessione critica>>2. Facciamo l’esempio del
bruco nel momento della trasformazione in farfalla: è chiaro che viene a scardinarsi il
principio di identità. Quello che dobbiamo cercare di comprendere è il rapporto tra
“intelletto” ed “esperienza”. Per semplificare, è come se avessero esigenze diverse.
L’esperienza registra i cambiamenti, il molteplice, l’effimero. L’intelletto con il
suo principio dell’identità e di non contraddizione andrebbe naturalmente verso
l’Uno, l’immutabile, l’identico. Spesso i filosofi escono fuori da questa frattura
attraverso una sorta di duplicazione del reale: da una parte la “doxa” (ciò l’opinione, ciò
che appare ai sensi) dall’altra la “vera” realtà di ordine razionale. Addirittura, secondo
Hersh <<senza questa profonda opposizione fondamentale tra l’esigenza di identità
del nostro intelletto da una parte, e l’evidenza dell’esperienza quotidiana dove
incontriamo solo il cambiamento dall’altra, probabilmente la filosofia non
esisterebbe>>3.

2) Eraclito
Nacque circa nel 540 a.C e morì circa nel 480 a.C. Sappiamo poco della sua vita, ma
tutto fa pensare che fosse di origini nobili, infatti <<i frammenti della sua opera (un
centinaio di aforismi che in maniera densa e sintetica accennano e alludono alla
sua dottrina) sono scritti in uno stile volutamente oscuro e ambiguo, espressione di
un carattere altero e superbo e di una personalità aristocratica e orgogliosa che
disprezzava il volgo ritenendo la sapienza (per sua natura nascosta e impervia)
appannaggio di una ristretta cerchia>>4. Contrapponeva i più che vivono in una
realtà illusoria ai filosofi in grado di cogliere il nocciolo segreto delle cose. Il
filosofo vero, riflettendo in solitudine, arriva ad una visione profonda e d’insieme

1 Hersch J., Storia della filosofia come stupore, Mondadori, Milano, 2002 (trad. dal francese di A. Bramati sulla II ed.
del 1993. I ed. originale 1981), p. 7 (il neretto è mio).
2 Pancaldi M., Trombino M., Villani M., Atlante della filosofia. Gli autori e le scuole. Le parole – Le opere, Hoepli,
Milano, 2006, pp. 496-497 (il neretto è mio).
3 Hersch J., Storia della filosofia come stupore, cit., p. 7 (il neretto è mio).
4 Pancaldi M., Trombino M., Villani M., Atlante della filosofia. Gli autori e le scuole. Le parole – Le opere, Hoepli,
Milano, 2006, p. 191 (il neretto è mio).
1
della realtà, rifiutando così i saperi specialistici. Riporto ora un brano tratto da un
frammento di Eraclito perché ci fa capire quello che è probabilmente il punto
nodale della filosofia eraclitea. <<Non è possibile discendere due volte nello stesso
fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità
del movimento, tutto si disperde e si ricompone di nuovo, tutto viene e va>>5.
Questo vuol dire che per Eraclito <<la forma dell’essere è il divenire, poiché ogni
cosa è soggetta al tempo e alla trasformazione, e anche ciò che sembra statico e
fermo in realtà è dinamico>>6. Perché non è possibile scendere due volte nello stesso
fiume? Perché quando ci bagneremo la seconda volta l’acqua non è la stessa che ci ha
bagnato la prima volta. Insomma il mondo è <<un flusso perenne in cui “tutto scorre”
(pánta réi), analogamente a quanto fa la corrente di un fiume, le cui acque non sono
mai le stesse>>7. Coerentemente, <<la concezione della realtà come fluire si
concretizza poi nella tesi secondo cui il principio di tutte le cose è il fuoco, elemento
mobile e distruttore per eccellenza, che ben simboleggia la visione eraclitea del
cosmo come energia in perpetua trasformazione: tutto ciò che esiste proviene dal
fuoco e ritorna al fuoco, secondo il duplice processo della “via all’in giù” (il fuoco,
condensandosi, diventa acqua e poi terra) e della “via all’insù” (la terra,
rarefacendosi, si fa acqua e poi fuoco)>>8. Questo processo di rarefazione e
condensazione (ne sono sicuro) vi avrà fatto subito venire in mente Anassimene
secondo il quale le trasformazioni per rarefazione e condensazione avvengono
all’interno di questo schema: fuoco, aria, vento, nuvola, acqua, terra e pietra. Secondo
Eraclito un opposto non può esistere senza l’altro (il bene senza il male, ad
esempio). E’ la sua teoria dell’unità dei contrari. <<La legge segreta del mondo
risiede proprio nella stretta connessione dei contrari, che, in quanto opposti, lottano
tra loro […] ma nello stesso tempo non possono stare l’uno senza l’altro, in quanto
vivono solo l’uno in virtù dell’altro>>9. Il mondo di Eraclito, però, non è dominato dal
caos e dall’irrazionalità perché questa lotta tra opposti è l’espressione di una
profonda razionalità. Lo è a tal punto che Eraclito chiama il “fuoco” anche con il
termine “logos”, cioè ragione. Come per la scuola di Mileto l’arché (il principio) era
sia origine che legge che governa il mondo, allo stesso modo per Eraclito il “fuoco” è
il principio fisico che costituisce le cose (quando si riferisce a questa accezione lo
chiama fuoco) ma è anche legge universale che governa il mondo (quando si
riferisce a questa accezione lo chiama logos). E’ utile notare che nella concezione di
Eraclito <<l’armonia del mondo non risieda nella conciliazione dei contrari […]
bensì nel mantenimento del conflitto. La vita è lotta e opposizione, e la sua
armonia risiede proprio in questo fatto, senza il quale non ci sarebbe l’essere>>10.
Partiamo da un frammento <<La divinità è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace,
sazietà-fame. Ed essa muta come il Fuoco>>11. Sicuramente avrete colto il senso del
frammento: la visione panteistica di Eraclito, dove per panteismo (ve lo ricordo) si

5 Citato in Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla
scolastica, (con la collaborazione di Giancarlo Burghi), Pearson, Milano-Torino, 2013, p. 26 (il neretto e la
sottolineatura sono miei).
6 Ibidem (la sottolineatura ed una parte del neretto sono miei).
7 Ibidem (la sottolineatura è mia).
8 Ivi, p. 27 (la sottolineatura ed una parte del neretto sono miei).
9 Ibidem.
10 Ibidem (la sottolineatura ed una parte del neretto sono miei).
11 Citato in Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla
scolastica, cit., p. 28.
2
intende l’identificazione di Dio con l’universo. Il Dio eracliteo, quindi, è l’unità di tutti
i contrari, mutamento continuo, fuoco generatore. Quindi il fuoco (o logos) è una
realtà eterna e divina che si realizza nella lotta dei contrari. Questo Dio-tutto non è
creato, è sempre esistito e sempre esisterà. L’universo, nel suo insieme, alterna fasi di
distruzione e produzione, si tratta, quindi, di una visione ciclica del mondo.
L’ultima riflessione su Eraclito riguarda il rapporto tra sensi, ragione e verità. Prima
però credo sia utile tornare ad un concetto che ritengo fondamentale in filosofia e cioè
la differenza tra certezza e verità. La certezza <<si distingue nettamente dalla verità,
perché designa l’aspetto soggettivo della conoscenza: è sempre un soggetto ad
essere certo. Naturalmente uno dei problemi della teoria della conoscenza è
proprio la questione del fondamento reale della certezza e in questo senso il
problema della certezza è affrontato da tutti i filosofi che si occupano della
conoscenza umana>>12. Il problema di tutta la filosofia, ovviamente, è quello di far
avvicinare il più possibile la certezza con la verità, che a sua volta richiama la
definizione delle basi sulle quali posso giustificare la mia certezza. Detto in altre parole:
quali strumenti posso utilizzare per dire che la mia certezza si avvicini o nei casi
estremi addirittura coincida con la realtà? Abbiamo visto in questa introduzione che
Eraclito privilegia i sensi mentre Parmenide (che incontreremo tra poco) privilegia la
ragione. Eraclito <<ha una visione piuttosto semplice della conoscenza. Egli crede
nell’affidabilità dell’esperienza immediata e nella veridicità delle informazioni fornite
dai sensi>>13, dall’altra parte, però, afferma che <<occhi e orecchie sono per gli
uomini cattivi testimoni […] se accettano le cose così come appaiono, l’una distinta
dall’altra, disarticolate>>14. Questo per dire che Eraclito sicuramente privilegia i sensi
ma, nonostante questo, utilizza comunque la ragione per guidare “occhi e orecchie”
secondo il principio della teoria degli opposti. Allo stesso modo Parmenide, che
privilegia la ragione, deve comunque tener conto e giustificare in qualche modo
(all’interno del suo sistema filosofico) il continuo mutamento che ci restituiscono i
sensi.

3) Parmenide
Nacque ad Elea (in Campania, a sud di Paestum) intorno al 515 a.C. Scrisse un’opera in
versi poi indicata con il titolo Sulla natura dove espose il suo pensiero. Rispetto alla
conoscenza l’uomo ha di fronte a sé due alternative: 1) l’alétheia cioè il sentiero
della verità che ci porta a conoscere l’essere vero ed è basato sulla ragione 2) la
dóxa: il sentiero dell’opinione basato sui sensi che ci porta a conoscere l’essere
apparente.
Ma cosa ci dice la ragione? Il punto di partenza è il seguente: <<l’essere è e non può
non essere, mentre il non essere non è e non può essere>>15. Questo vuol dire che
solo l’essere esiste, e fin qui ci siamo. Poi però vuol dire anche che il non essere non
esiste e non può essere pensato. La nostra ragione ed il nostro linguaggio possono far
riferimento solo all’essere; il non essere non è pensabile e nemmeno esprimibile.
12 Pancaldi M., Trombino M., Villani M., Atlante della filosofia. Gli autori e le scuole. Le parole – Le opere, Hoepli,
Milano, 2006, p. 468 (il neretto è mio).
13 Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla scolastica,
cit., p. 28.
14 Pancaldi M., Trombino M., Villani M., Atlante della filosofia. Gli autori e le scuole. Le parole – Le opere, Hoepli,
Milano, 2006, p. 191.
15 Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla scolastica,
cit., p. 39.
3
Quanto detto (l’essere è; il nulla non è) presuppone la validità di due principi logici:
il principio di identità (ogni cosa è se stessa) ed il principio di non contraddizione
(una cosa non può essere nello stesso tempo ciò che è e ciò che non è). Principi che
verranno sistematizzati in modo coerente solo più tardi. Una cosa interessante da notare
è che il termine “essere” assume con Parmenide un significato nuovo. Da forma
verbale diventa un sostantivo neutro che rimanda ad un concetto astratto.
Facciamo un esempio: quando dico che un cane è bello sto indicando che “quel” cane è
bello. Se invece dico che “il bello” deve essere qualcosa di piacevole mi sto riferendo al
concetto di “bello” in generale. Con “l’essere” Parmenide non indica la singola cosa
ma la realtà in generale. Per questo con lui nasce l’ontologia: branca della filosofia
che studia l’essere nelle sue caratteristiche universali. Quindi possiamo definire
l’ontologia anche come lo studio dell’essere in generale.
Parmenide parte dal principio che il non essere non esiste, da questa tesi arriva a
definire gli attributi dell’essere attraverso un procedimento logico.
1) L’essere è ingenerato ed imperituro perché in caso contrario verrebbe dal nulla (nel
caso della nascita) oppure si dissolverebbe nel nulla (nel caso della morte), ma il nulla
in quanto non essere non esiste e non posso pensarlo.
2) E’ eterno. Questo perché se fosse nel tempo implicherebbe che “non è” più ciò che
era nel passato e “non è” ancora ciò che sarà nel futuro. Con Parmenide abbiamo una
prima concezione filosofica dell’eternità intesa non come tempo infinito ma come
qualcosa che è al di là del tempo.
3) E’ immutabile ed immobile: in caso diverso si troverebbe in stati o posizioni dove
prima “non era”
4) E’ unico ed omogeneo perché altrimenti ci sarebbero degli intervalli di “non essere”
5) E’ finito. Come abbiamo visto insieme nella cultura greca ciò che è finito ha un
grado di perfezione maggiore dell’infinito. Parmenide utilizza l’immagine di una sfera
per indicare questa idea di “pieno assoluto”, dove non può penetrare il non essere.
In questo modo Parmenide arriva a delineare un essere ontologicamente perfetto.
Inoltre l’essere parmenideo è un essere “necessario”. Il termine “necessario” nel
linguaggio filosofico vuol dire che “non può essere altrimenti”. Ad esempio per vivere
devo “necessariamente” respirare. Nel caso di Parmenide l’essere deve necessariamente
esistere ed avere le caratteristiche che abbiamo visto.
Purtroppo non avendo a disposizione tutta l’opera di Parmenide ma solamente alcuni
frammenti non siamo in grado di dire con certezza “cosa” era questo essere le cui
caratteristiche, però, sono quelle che abbiamo descritto. Secondo alcuni si riferiva ad
una realtà fisica e corporea (facendo riferimento alla sfera); altri sostengono che si tratti
di una realtà di carattere religiosa; per altri addirittura si tratterebbe solo di una
costruzione logico-grammaticale.
Vi riporto qui di seguito un brano tratto dall’importante Storia del pensiero filosofico e
scientifico di Ludovico Geymonat perché spiega sostanzialmente le stesse cose con
parole diverse e quindi vi può essere utile. <<Il metodo vero costruisce
conoscitivamente la realtà, l’essere, perché elimina gradualmente dal pensiero tutti i
contrassegni di irrealtà, di non-essere, che vi si erano infiltrati: la molteplicità nello
spazio, intesa come differenziazione di parti, la molteplicità nel tempo, intesa come
differenziazione di momenti, il vuoto inteso come assenza di realtà, la generazione e la
distruzione intese come limiti dell’essere. Partito dal riconoscimento logico e
metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso, Parmenide giunge al culmine

4
della “via” a dichiarare l’impensabilità, l’inesprimibilità e l’inesistenza del non-essere,
e la parimenti assoluta esistenza dell’essere, che condiziona la possibilità di pensare e di
dire il vero>>16.
Anche Parmenide, però, deve fare i conti con i nostri sensi. Questi ci rimandano
l’immagine di un universo in costante divenire. In altre parole il mondo per come
ci appare ha caratteristiche opposte all’essere “vero”. Noi abbiamo a che fare con il
cambiamento, la nascita, la morte, la pluralità. Ecco un suo frammento molto
significativo: <<saranno tutte soltanto parole quanto i mortali hanno stabilito,
convinti che fosse vero: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e
mutare il luminoso colore>>17. In sostanza conferma quanto abbiamo detto in
precedenza: tutto ciò che implica il non essere è apparenza, illusione. Anche la struttura
del poema è significativa: nella prima parte si occupa dell’alétheia mentre nella
seconda parte della dóxa. In questa seconda parte <<abbozza una teoria verosimile del
mondo dell’esperienza e dell’apparenza. In base a questa teoria, fondato su una
prospettiva dualistica, il mondo sarebbe generato e governato da due principi opposti e
in perenne contrasto tra loro: la luce e la notte>>18. Abbiamo visto che per Parmenide
l’essere si può pensare e dire mentre il non essere non si può né pensare né dire. In
questo senso sembra che ci sia in lui una identificazione tra linguaggio, logica ed
ontologia. Il linguaggio, quindi, come qualcosa che riflette la realtà, mentre ciò che non
è, non sarebbe passibile di nessuna formulazione verbale (non si può dire). Però nel
contempo abbiamo letto nel frammento che l’uomo dà un nome alla molteplicità, a cose
che non sono. In questo caso, quindi, al suono non corrisponderebbe nulla di reale
(“tutte soltanto parole”) ed allora il linguaggio in questo caso è una costruzione
artificiosa dell’uomo, una convenzione priva di spessore ontologico (che non rimanda
necessariamente all’essere). Quindi Parmenide distingue il piano dell’essere da
quello del linguaggio.
Secondo molti critici Parmenide individuerebbe non 2 ma 3 vie alla conoscenza:
l’assoluta verità, più due forme di dóxa. La prima forma di dóxa rappresenta una
opinione plausibile. In questo caso gli opposti si devono pensare come parte
dell’unità dell’essere. E’ come se ci fosse uno strappo alla regola della ragione
<<pura>> (che negherebbe l’esistenza degli opposti perché, come abbiamo visto,
l’essere è omogeneo) ma all’interno, comunque, del principio fondamentale della
negazione dell’esistenza del nulla. Infatti i due opposti sono “pieni”, entrambi sono
“essere”. Quindi, ad esempio, nella doxá plausibile non esiste la morte: il cadavere,
secondo Parmenide, continua in qualche modo a vivere: percepisce il freddo, il silenzio
e gli elementi contrari. La doxá ingannevole o fallace, invece, include il non essere
violando in questo modo il principio di non contraddizione.
Per alcuni critici, invece, la divisione tra verità assoluta e opinione è netta: sia la
doxá “plausibile” che quella “ingannevole” sono comunque apparenza e privi di
verità incontrovertibili.

4) Zenone

16 Geymonat L., Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I L’antichità – Il medioevo, Garzanti, Milano, 1975
(II ed., I ed. 1970), p. 50.
17 Citato in Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla
scolastica, cit., p. 41.
18 Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1 Dalle origini alla scolastica,
cit., p. 41.
5
Fu scolaro ed amico di Parmenide, sebbene più giovane di circa 25 anni. Zenone
difende le tesi del suo maestro partendo proprio dalle affermazioni contrarie. Cioè
inizialmente dà per vere queste tesi (quelle contrarie a Parmenide) ma ben presto
ne dimostra la loro assurdità. In questo modo dimostra che Parmenide (il suo
maestro) aveva ragione. Noi esaminiamo solo due esempi (che riguardano
entrambi la confutazione del movimento): quello famosissimo di “Achille e la
tartaruga” e quello della “freccia”.
Partiamo dal primo. Poniamo che Achille stia indietro di 100 metri rispetto alla
tartaruga e corra nella sua direzione. Quando Achille arriverà nella posizione iniziale
della tartaruga, quest’ultima avrà percorso uno spazio, sia anche solo di 1 metro
(rapporto di 1 a 100). A questo punto la distanza dei due diventa di 1 metro.
Ripartiamo: quando Achille avrà raggiunto il secondo punto iniziale della tartaruga, la
tartaruga, nel frattempo, avrà percorso 1 centimetro. Ora la distanza è di 1 centimetro.
Questo lo possiamo ripetere all’infinito: la distanza tra i due, pur diventando sempre più
piccola, non arriverà mai a zero. Di conseguenza Achille non raggiungerà mai la
tartaruga. Aristotele cerca di uscire da questo paradosso distinguendo il piano della
realtà, dove esiste solo il finito, ed il piano del pensiero, dove si può immaginare
l’infinito. Nel Novecento un grande filosofo e matematico, Bertrand Russel, esalta
Zenone perché avrebbe individuato un vera difficoltà del pensiero umano. Secondo
alcuni studiosi, se si ammette l’infinita divisibilità dello spazio, sul piano logico-
filosofico l’argomento di Zenone non è confutato e addirittura sarebbe inconfutabile.
Ora vediamo l’argomento della freccia. Anche se noi vediamo una freccia in
movimento, nella realtà questa è immobile. In un istante, infatti, occupa uno spazio che
è quello delle sua lunghezza: e per definizione in quell’istante è ferma, insomma è
come facessimo una sorta di “fermo immagine”. Il tempo in cui si muove è fatto di
molteplici istanti dove in ogni singolo momento la freccia è ferma. Ma da una somma
di posizioni immobili non può risultare qualcosa di diverso, cioè il movimento. In
questo caso, come osserva Aristotele, si presuppone l’esistenza di istanti indivisibili.
Mi sembra che in questi due esempi sia evidente la differenza parmenidea tra
l’alétheia cioè la verità basata sulla ragione che ci porta a conoscere l’essere vero e
la dóxa, cioè l’opinione basata sui sensi, che ci porta a conoscere l’essere
apparente.

BIBLIOGRAFIA
Abbagnano N., Fornero G., L’ideale e il reale. Corso di storia della filosofia, vol. 1
Dalle origini alla scolastica, (con la collaborazione di Giancarlo Burghi), Pearson,
Milano-Torino, 2013.
Geymonat L., Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I L’antichità – Il
medioevo, Garzanti, Milano, 1975 (II ed., I ed. 1970).
Hersch J., Storia della filosofia come stupore, Mondadori, Milano, 2002 (trad. dal
francese di A. Bramati sulla II ed. del 1993. I ed. originale 1981).
Pancaldi M., Trombino M., Villani M., Atlante della filosofia. Gli autori e le scuole. Le
parole – Le opere, Hoepli, Milano, 2006.

Potrebbero piacerti anche