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LA POLITICA E’ UNA TECHNE? E RICHIEDE UN’EPISTEME?

UNO STUDIO SULL’EPISTEMOLOGIA DELLA POLITICA DI ARISTOTELE*

PREMESSA. [p. 75] Aristotele, nel parlare della politica nelle sue varie funzioni, fa
frequentemente ricorso all'analogia con qualcuna delle arti (technai), quale quella del medico e
quella del carpentiere. Nel fare questo egli non innova ma riprende un approccio di Platone, per il
quale però le arti non servivano semplicemente da modello, perché la politica stessa è da lui
considerata un'arte. Da questa sua ammissione Platone traeva certe conseguenze, delle quali la più
importante (e la più nota) è che la politica deve essere affidata a dei competenti, che sono i filosofi.
Un primo problema che si pone è, allora, se per Aristotele quell'analogia ha lo stesso significato che
per Platone, cioè se anche per lui la politica è un'arte, nel senso di essere una abilità caratterizzata
dal ricorso a criteri di correttezza e dall'avere una base di conoscenze di tipo in qualche modo
scientifico. Un secondo problema si pone nel caso che egli condivida, almeno in parte,
l'impostazione platonica: è disposto anche a trarre le stesse conseguenze che ne traeva Platone?
Nell'affrontare questi problemi c'è da domandarsi, al tempo stesso, che luce getti l'analogia con le
arti sulla natura e sui compiti della politica e quindi sul disegno complessivo - se ce n'è uno -
dell'opera aristotelica chiamata Politica.

1.1. Nella Politica di Aristotele ci sono alcuni passi che egli dedica alla metodologia da lui messa
in atto nella sua indagine avente per oggetto un certo ambito o aspetto dell'agire umano, quello che
ha a che fare coll'appartenenza alla comunità politica (o particolarmente alla polis). I due passi più
estesi si trovano nel libro IV, al cap. 1 e al cap. 4, e questi anzi, se si accetta la connessione che ora
cercherò di stabilire fra il secondo con un passo alla fine del cap. 1 dell'intera opera, costituiscono le
sue principali discussioni della metodologia che caratterizza quell'indagine.

L'importanza di uno dei due metodi, quello descritto in IV 4, è sottolineata da Aristotele stesso
nel riferimento ad esso nel passo ║di I 1, dove lo chiama "il metodo principale (o direttivo)" (he
hyphegemene methodos)1 da seguire nella ricerca appena iniziata (1252a17-18). Questo viene qui
descritto brevemente come segue: "come negli altri campi, è necessario dividere (diairein) il
composto fino ai non-composti, e cioè alle parti più piccole del tutto, e così esaminando da che cosa
è costituita la polis vedremo meglio intorno a queste figure in che differiscano l'una dall'altra, e se è
possibile ottenere una conoscenza sistematica (technikon) circa ciascuno dei punti menzionati"
(1252a18-23). Il riferimento è a quanto precede, dove la questione che viene sollevata è se le figure
(e quindi il tipo di arché da essi esercitato) del politico, del re, del capo-famiglia (oikonomos) e del
despota coincidono o meno. Egli nota subito che il presupposto di chi afferma la loro identità è
l'indistinzione fra una grande famiglia o casa (oikos) e una piccola città (polis). Dal seguito è chiaro
che la sua propria risposta negativa alla questione è motivata, almeno in parte, dai risultati
dell'analisi da lui messa in atto, cioè dalla sua suddivisione della città in case. Essa implica infatti
che, mentre il potere (arché) esercitato dall'uomo politico concerne la città nel suo complesso,
quello del capo-famiglia e, per certi versi, anche quello del despota, concernono la casa, cioè una

1
Intendere l'espressione con "metodo normale" (LSJ e vari traduttori) non si giustifica col significato che è proprio del
verbo, ma solo col fatto che è usato un participio; intenderla con "metodo indicato <in precedenza>" non si giustifica
nel contesto (a differenza di Ethica Nicomachea II 7, 1108a3) perché non c'è un luogo, anche nella "precedente" Eth.
Nic., in cui ciò sia avvenuto.
1
comunità che è una parte – e quindi una condizione – di quella più grande che è costituita dalla
città. Questa applicazione del procedimento descritto alla fine del cap. 1 conferma dunque che si
tratta di un metodo di analisi, cioè di una scomposizione di un tutto in quelle che sono le sue parti
costitutive e non ulteriormente riducibili (almeno dal punto di vista adottato, che nel nostro caso è
quello delle forme del potere).

La situazione che Aristotele ha in mente in IV 4 è un po' diversa e più complessa, perché qui il
riferimento alle parti in cui si può scomporre la città serve a differenziare i vari tipi di costituzione
(politeia) posseduti da città che differiscono appunto per via delle loro differenti costituzioni. Il
punto di partenza dell'indagine è: perché ci sono più costituzioni?, e la risposta che viene data è che
esse differiscono perché le città hanno più parti, che a loro volta presentano differenze (cfr. IV 3,
inizio, passo al quale egli si richiama in IV 4, 1290b21-24). Viene introdotto, a chiarimento, un
parallelo con la classificazione dei tipi di animale, anch'essa fatta in base alle parti di cui sono
composti. E' questo un excursus metodologico (che va da 1290b25 a b37) che è importante anche
per la comprensione della zoologia aristotelica.

Si assume (tacitamente) che tutti gli animali, o almeno quel gruppo di essi che si prende in
considerazione, presentino le stesse parti, le quali sono (questo viene detto espressamente) quelle
indispensabili alla vita, come certi organi di senso, la bocca e lo stomaco – cioè quanto║
costituisce l'apparato digerente – e gli organi di locomozione; la differenziazione dunque di un tipo
di animale da un altro non dipende dal possesso o meno di queste parti. Essa viene fatta dipendere
invece dal modo in cui queste stesse parti differiscono (nel caso di ciascuna) fra di esse, cioè viene
fatta dipendere da una tipologia delle parti: ci sono (dice Aristotele) differenti tipi (gene) di bocca,
di ventre, e così via, e dalla congiunzione o combinazione (suzeuxis) di queste parti così
differenziate si ricava una pluralità di tipi (gene) di animale. E' escluso infatti, come egli precisa
espressamente, che uno stesso tipo di animale possegga differenti varietà di bocca e così via.

Quello che è in gioco in questo passo, mi pare, è un doppio procedimento. Il primo è quello che
consiste in un primo momento, dato per scontato, di analisi di ciascun animale nelle sue parti, che
coincide dunque con quello descritto in I 1, e in un secondo momento di unificazione o di sintesi di
queste parti stesse nel tutto (tale secondo momento è incluso nella "congiunzione" di cui si fa
parola). Il secondo procedimento è quello di divisione delle parti stesse nei loro vari tipi, ricavando
così una tipologia dalla quale poi si ricava la tipologia degli animali stessi che appunto differiscono
perché le loro parti sono sostanzialmente identiche solo per quel che riguarda le loro funzioni.
Presumo che questo secondo procedimento non implichi il primo, perché due animali possono
differire di tipo anche per il fatto che le loro parti sono organizzate in modo differente, per esempio
disposte differentemente.2

Se è così, si presuppone una certa differenziazione preliminare degli animali in vari tipi, giacché
(a) c'è un'analisi concernente ciascun tipo, (b) la divisione stessa delle parti in tipi non si verificherà
senza tener conto del fatto che sono parti appartenenti ad animali differenti (suggerimento che è
confermato, mi pare, dal procedimento da lui effettivamente usato nelle sue opere zoologiche).
Pertanto si tratta di un procedimento in primo luogo diairetico e non di un procedimento del tutto

2
E' una possibilità che Aristotele prospetta effettivamente in Hist. anim. I 6, 491a15 ss. e anche I 15, 494a26 ss. Alcune
esemplificazioni saranno considerate più oltre, in sez. 1.3.
2
deduttivo (nel senso in cui una combinatoria è deduttiva), com'è parso a qualche studioso.3 In realtà
il procedimento descritto di divisione in tipi di parte e loro combinatoria serve da conferma
scientifica di una divisione fatta preliminarmente, la quale a sua volta potrebbe essere stata condotta
nel modo più scientifico, seppure diverso e senza un'analisi così approfondita, anche se più
facilmente rispecchierà distinzioni ormai correnti.

1.2. [p. 78] Nel seguito del capitolo IV 4 Aristotele passa ad un'elencazione di quelle che sono le
parti della città, da lui identificate in classi o gruppi sociali caratterizzati dalle funzioni da essi
esercitate, e cioè gli agricoltori (che servono all'alimentazione), gli artigiani (che fabbricano artefatti
utili o anche dilettevoli), i commercianti (che servono alla scambio di beni), i lavoratori salariati, i
militari (che difendono la città), quelli che deliberano e hanno compiti giudiziari, quelli che rendono
pubblici servizi ("liturgie") con le loro proprietà, infine quelli che rendono servizi esercitando
cariche pubbliche (archai). E' esplicito (1290b37: ton auton tropon) il parallelo con le parti degli
animali anch'esse caratterizzate dalle loro funzioni. (Il passo va da 1290b37 a 1291a40, con una
parentesi da 1291a10 fino ad a33 di giustificazione della sesta categoria, cioè di quelli che
deliberano e hanno compiti giudiziari, in gran parte in polemica con Platone, che nella Repubblica
non ne avrebbe tenuto conto; la categoria è richiamata in 1291a38-40.)

Se si guarda tuttavia alla trattazione delle costituzioni che è offerta nel resto del libro IV, si
constata che Aristotele arriva ad una loro tipologia che non è il risultato immediato del
riconoscimento di differenze che ci sarebbero fra le otto parti delle città che sono elencate in IV 4.
In questa sua trattazione egli si concentra su democrazia ed oligarchia, introducendo però anche la
politeia come costituzione mista o intermedia e, insieme, come sua variante,4 l'aristocrazia. Questi
tre tipi principali di costituzione sono ritenuti ammettere delle differenziazioni al loro interno, per
cui si arriva a dei sottotipi: così in IV 6 sono distinti 4 tipi di democrazia e 4 tipi di oligarchia.
Questa tipologia è giustificata, in primo luogo, con la constatazione che la città si divide in tre
"parti" principali, i ricchi, i poveri, e la classe media (cfr. IV 3, inizio; IV 11, 1295b1 ss.; e IV 12): a
seconda di quale di queste parti ha la prevalenza (la hyperoché) si ha, o il regime democratico (con
la prevalenza dei poveri), o quello oligarchico (con la prevalenza dei ricchi), o infine quello misto
(con la prevalenza della classe media). Talvolta Aristotele ha in mente soltanto la differenziazione
di democrazia e oligarchia, per cui parla unicamente della prevalenza dei ricchi o dei poveri (cfr. III
8; IV 4, 1290b17-20 e 1291b7 ss.); ma il principio è manifestamente lo stesso. Viene poi ammesso,
in generale, che la prevalenza di un certo sottogruppo, appartenente ad uno dei tre gruppi principali
dei ricchi, dei poveri e della classe media, porta ad una differenziazione allo interno di ciascuno dei
tre tipi principali di costituzione (cfr. IV 12, 1296b25 ss.; una formulazione di tale principio, meno
netta perché mescolata con la considerazione di altri fattori, anche in IV 3, inizio). Nel caso
particolare della democrazia viene suggerito in effetti che un suo tipo è determinato dalla
prevalenza degli agricoltori, un altro dalla prevalenza degli artigiani, e così via (cfr. di nuovo IV 12,
1296b25 ss.; inoltre IV 3, 1289b32-34; 4, 1291b14 ss.; 6, 1292b22 ss.; VI 1, 1317a18 ss.). Nel caso
delle altre costituzioni invece non emerge una chiara tipologia del genere, ma semmai viene

3
Per esempio a G.E.R. Lloyd, in The Development of Aristotle's Theory of the Classification of Animals, "Phronesis"
VI, 1961, (pp. 59-81) pp. 68-69.
4
Oppure come variante dell'oligarchia, cfr. IV 8, 1293b34 ss.
3
riconosciuto ║che un regime è più propriamente oligarchico quando in esso prevale la ricchezza, è
più propriamente aristocratico quando in esso prevalgono criteri più meritocratici.

La "prevalenza" che è in questione in questa trattazione è quantitativa nel caso dei poveri e,
quindi, dei regimi democratici, mentre è qualitativa nel caso dei ricchi o dei notabili e, quindi, dei
regimi oligarchici o aristocratici: siccome i poveri, salvo casi eccezionali (cfr. IV 4, 1290a30-b20),
sono prevalenti nel numero, ci vuole una prevalenza qualitativa degli altri tale da più che
compensare quella quantitativa dei poveri perché si stabilisca un regime diverso da quello
democratico (cfr. IV 12, 1296b31-34). Il criterio qualitativo è dato da fattori come la ricchezza, la
nobiltà, la virtù e l'educazione (cfr. IV 3, 1289b 33 ss.; 4, 1291b28-30; 12, 1296b17 ss.).
Presumibilmente si tratta di una prevalenza nella partecipazione alla cittadinanza o particolarmente
nella partecipazione alle funzioni direttive, non nella composizione della città nel suo complesso
(gli schiavi, i meteci, e così via, sono fuori gioco).

Le differenze di costituzione non sono fatte dipendere unicamente da questa considerazione


relativa alla prevalenza di una certa parte della città, ma anche dalla considerazione data dalle
modalità di partecipazione alle cariche o funzioni pubbliche. Ovviamente questo criterio non è
indipendente dall'altro, ma viene pur sempre riconosciuto come distinto (cfr. IV 3, 1290a3 ss., e VI
1, 1318a18 ss., con applicazione alla democrazia), presumibilmente perché qui il punto di vista è
quello delle istituzioni politiche (cariche direttive, ecc.), e ad esse possono essere ammessi (nel caso
di un regime oligarchico rigorosamente censitario) solo i membri della parte prevalente della città,
ma possono anche essere ammessi tutti i cittadini (il che avviene solitamente in un regime
democratico), per cui vanno precisate le qualifiche di ammissione (p. es. se il censo è una di esse).
Le tipologie che Aristotele offre effettivamente delle forme di democrazia e di oligarchia tengono
conto di questo secondo criterio, ma spesso anche di qualche criterio ulteriore (p. es. se il potere che
viene esercitato è subordinato o no alle leggi): cfr. per i tipi di democrazia IV 4, 1291b30 ss. e IV 6,
prima metà; per i tipi di oligarchia IV 5 e IV 6, seconda metà.

Nell'offrire questa tipologia delle costituzioni Aristotele, come si è appena sottolineato, tiene
conto di chi partecipa alle cariche o funzioni pubbliche, senza però di solito fare distinzioni circa la
natura di queste cariche o funzioni stesse e circa i meccanismi di ammissione ad esse. Egli tuttavia è
consapevole del fatto che anche questi fattori, più propriamente istituzionali, fanno differenza per le
costituzioni, perché (a) certi meccanismi sono tipici più di altri di certi regimi o costituzioni (in
particolare l'elezione lo è di quelli oligarchici, il sorteggio di quelli democratici, cfr. IV 9, 1294b6
ss.; 15, 1300a8 ss.), (b) anche il potere che viene esercitato da certe istituzioni rispetto ad altre e alla
città tutta fa differenza (era ben noto che in un regime democratico l'assemblea ha gran peso, e tanto
più quanto più democratico è il regime).║E' in questa luce che si giustifica lo studio delle
costituzioni che egli offre, dal punto di vista più strettamente istituzionale, in IV 14-16. Lo fa a
partire da una distinzione di tre fattori (anch'essi chiamati "parti", 1297b37), che noi chiameremmo
"poteri", che sono quello deliberativo (che coincide con l'assemblea in un regime democratico),
quello costituito dalle cariche ufficiali ovvero dalle magistrature (oltre a quelle più propriamente
politiche, quali quelle dell'ambasciatore e dell'araldo, quelle militari e quelle religiose, cfr. IV 15,
1299a14 ss., con altri esempi), e quello giudiziario. Per ciascuno di questi "poteri" ci sono tre punti
principali di differenziazione: (1) chi ha accesso alle cariche o funzioni pubbliche, (2) qual è la
modalità di accesso (elezione, sorteggio, ecc.), (3) quali sono i compiti esercitati ovvero l'estensione

4
del potere (cfr. IV 15, specialm. inizio e 1309a9 ss., e IV 16, inizio; due di questi tre punti sono
impliciti in IV 14,1298a1-3); gli ulteriori punti paiono essere riportabili a questi tre, per esempio la
durata della carica si può riportare al terzo.

Si arriva così ad una tipologia complessa, che, nel caso almeno delle cariche ufficiali, cioè del
secondo "potere" (discusso in IV 15), diventa una vera e propria combinatoria (basata sulla
considerazione di possibilità come: tutti ammessi alle cariche; solo alcuni; alcuni a certe cariche,
altri ad altre; ammissione per sorteggio; per elezione; elezione per alcune cariche, sorteggio per
altre.5 Peraltro questa tipologia non porta ad una nuova tipologia delle costituzioni, che modifichi o
approfondisca quelle già offerte in precedenza nel libro IV, ma le dà per scontate. Aristotele pare
tuttavia avere pensato ad una trattazione più completa, che portasse ad una appropriata tipologia
delle costituzioni, perché pone questo come un compito da attuare all'inizio del libro VI (in
1316b39-b10, dove osserva che la tematica non era stata esplorata dai suoi predecessori).6 Che egli,
a questo proposito, abbia in mente una combinatoria è suggerito dalle formulazioni stesse usate in
quel passo, perché parla di "accoppiamenti" o di "combinazioni" (synduasmous, 1317a3;
synagogas, 1316b40) riguardanti le modalità di funzionamento delle cariche, che portano
all'"intrecciarsi" (epallattein, 1317a2) delle costituzioni,7 in quanto per esempio modalità
oligarchiche (come il ricorso al censo come discriminante) possono essere attuate anche in [p. 81]
una costituzione aristocratica.8 La trattazione più completa qui contemplata manca, perché egli
torna specificamente sulla questione solo in VI 8, un cap. che è più che altro una raccolta di
osservazioni particolari suggerite dalla sua conoscenza delle pratiche delle città greche.

1.3. Come si può constatare, l'idea di una combinatoria, suggerita dall'esposizione metodologica
di IV 4, trova la sua applicazione più completa nell'analisi, rimasta incompleta, del funzionamento
delle istituzioni direttive della città. Ma già per il fatto che la sua applicazione è a queste e non
all'organizzazione complessiva della città, viene meno l'analogia con la classificazione degli animali
prospettata in quell'esposizione (ciascun tipo di animale, si è visto, è considerato nel suo complesso
e analizzato in tutti gli organi necessari alla sua vita). L'analogia viene meno anche perché è in
gioco non solo il funzionamento, nel senso di espletamento di una funzione, di cariche direttive che
potremmo pur sempre chiamare organi della città, ma anche le modalità di accesso ad esse.
L'analogia permane appunto nella misura limitata in cui si tratta di "parti" (come le chiama
Aristotele) od organi della città che esercitano determinate funzioni di tipo direttivo. E' probabile
che Aristotele non si sia reso ben conto della distanza che c'è fra questa applicazione del suo
metodo analitico-combinatorio e quella prospettata in IV 4 per aver sopravvalutato questo punto di
coincidenza e per essere stato anche tratto un po' in inganno dall'ambiguità del termine greco per

5
Cfr. lo schema di T.J. Saunders alla sua revisione della trad. della Politica di T.A. Sinclair per la Penguin Books,
Harmondsworth 1981, p. 288.
6
Si può osservare che la questione è toccata anche nella Athenaion Politeia, nei capp. 43-69, ma senza pervenire ad una
tipologia del genere, anche perché i criteri sono in parte differenti (p. es. non è riconosciuto un potere deliberativo per
conto proprio) e perché prevale la preoccupazione di rendere conto delle peculiarità della costituzione ateniese.
7
Notare che si tratta di termini che hanno tutti un uso nelle opere zoologiche, in particolare il primo per indicare gli
accoppiamenti degli animali (cfr. Bonitz, Index, s.v., 725a60 ss.), il terzo per indicare l'incontro di caratteristiche tipiche
di specie differenti in un'unica specie animale, come quella del pipistrello o della foca (cfr. ivi, s.v., 264b51 ss.).
8
Che il passo sia un richiamo a IV 4 è riconosciuto da P. Accattino, L'anatomia della città nella 'Politica' di Aristotele,
Torino 1986, pp. 83-84, ma il modo in cui Arist. attua quel suo programma non è reso chiaro dalla sua esposizione.
5
"costituzione": politeia, che si applica all'organizzazione totale della città ma anche (come vedremo
più oltre) più specificamente all'organizzazione delle cariche direttive.

L'altra sua applicazione del metodo è quella, che pure abbiamo già incontrato, alle "parti" della
città nel suo complesso, dalle cui interrelazioni dipende se il regime o la costituzione è di un certo
tipo (p. es. democratico piuttosto che oligarchico). Anche in questo caso l'analogia con la
classificazione degli animali è poco stretta, perché le parti principali in cui è suddivisa la città, cioè
l'insieme dei ricchi, quello dei poveri, ed eventualmente quello della classe media, sono definite in
termini sociali ed economici, non in termini di funzioni da esse espletate. E anche quando viene
fatto riferimento a gruppi più ristretti, come gli artigiani e gli agricoltori, che esercitano delle
funzioni che possono servire a definirli come "parte" od organo della città, il discrimine
fondamentale, dal punto di vista della tipologia delle costituzioni, è, come nel caso dei gruppi
maggiori, quello della prevalenza di una di queste "parti" rispetto alle altre. Un discrimine analogo
nel caso della classificazione degli animali non potrebbe avere lo stesso peso, perché può sì
accadere che una certe funzione, per esempio quella digestiva, sia particolarmente sviluppata in
certi animali piuttosto che in altri, ma si tratta di una ║differenza piuttosto relativa che comporta
una differenza di tipo di animale solo se unita ad altre significative differenziazioni (perché
differenze simili sono riscontrabili anche in individui di una stessa specie)

E' probabile, tuttavia, che Aristotele abbia in mente qualcos'altro, perché, nella città, la
prevalenza di una delle sue parti si traduce nel fatto che essa esercita delle funzioni direttive: per
esempio, la prevalenza degli artigiani in un certo regime si traduce in una loro partecipazione alle
cariche pubbliche e anche (se altri partecipano) in una loro superiore partecipazione ad esse. E si
può guardare ai vari regimi o tipi di costituzione appunto alla luce del fatto che una categoria di
persone che esercita una certa funzione sua propria (come quella produttiva per gli artigiani)
esercita pure un'altra funzione, quella direttiva appunto. Un'analogia diretta con quanto avviene
negli animali non c'è, perché in essi certi organi hanno certe funzioni, per esempio il cuore esercita
(secondo Aristotele) quelle direttive, e non è ipotizzabile che un organo che già esercita un'altra
funzione, per esempio il fegato, subentri al cuore in quella funzione. Ci sono tuttavia, anche negli
animali, delle significative differenze nell'organizzazione dei loro organi che offrono dei paralleli
parziali con l'organizzazione delle parti della città.

Va premesso che fra questi organi, con le funzioni che esercitano, sussiste una »gerarchia, oltre
ad una divisione del lavoro, per la quale certi organi sono indispensabili alla vita, cioè esercitano
funzioni vitali come l'alimentarsi e il riprodursi,9 altri (a cominciare dagli organi sensoriali, escluso
il tatto) servono al vivere bene, cioè esercitano funzioni superiori, soprattutto conoscitive,10 altri
ancora sono subordinati a questi (p. es. le palpebre proteggono gli occhi), e fra tutti è centrale il
cuore.11 Sebbene non sia ipotizzabile un rovesciamento di questa gerarchia, ci sono appunto delle
significative differenze fra gli animali per quel che riguarda i rapporti fra questi organi (oltre che nel
possesso o meno di certuni di essi), dalle quali pure dipende il modo di vita che essi possono
attuare. Solo nell'uomo (suggerisce Aristotele12) le parti o gli organi sono ordinati secondo natura

9
Cfr., oltre al passo di Politica IV 4, Hist. anim. I 2-3.
10
Cfr. De anima III 12-13 e De sensu 1 per gli organi del senso.
11
Cfr. p. es. De motu animalium 10. Notare che in questo testo viene introdotta espressamente un'analogia fra
l'organizzazione dell'animale e quella di una città.
12
Cfr. Hist. anim. I 15, Part. anim. II 10 e IV 10, De incessu 5.
6
ovvero in corrispondenza alle parti del mondo, di modo che le sue parti nobili (in primo luogo la
testa) corrispondono alle parti nobili del mondo (cioè ai corpi celesti); negli altri esseri viventi
manca questa disposizione,13 e man mano che ci si allontana dall'uomo nella scala dei viventi si
perviene ad un ordinamento che finisce con l'essere il rovescio di quello umano, ║perché nelle
piante la parte che corrisponde alla testa e che serve all'alimentazione, le radici, è in basso, mentre
la parte che serve alla riproduzione è in alto. C'è dunque, in natura, una norma nell'ordinamento
degli organi degli animali, che è data dall'uomo, e una serie di deviazioni crescenti da questa norma:
più un animale è prossimo alla pianta, più se ne allontana.

Il modello della tipologia animale è applicabile in politica solo se viene ad essere tacitamente
trasformato, perché Aristotele deve tener conto del fatto che nella maggior parte delle costituzioni
reali le stesse persone esercitano sia una funzione loro propria, che è il loro mestiere, sia una
funzione politica, per esempio come membro di un'assemblea. Se tale modello, in una situazione
così mutata, ha ancora un valore classificatorio, deve esserlo perché egli ha comunque in mente una
pluralità di condizioni, una delle quali costituisce la normalità mentre le altre rappresentano delle
deviazioni da essa. La condizione di normalità, in politica, è data dal caso in cui ciascuna delle
"parti" della città identificate in IV 4 esercita la funzione ad essa propria e nessun'altra; la
condizione di devianza è data, in maniera generale, dal caso in cui un'altra parte è "prevalente", cioè
subentra, nelle funzioni direttive, a quella parte (cioè a quel gruppo di persone) alla quale
spetterebbero quelle funzioni.

Chiaramente la prima condizione è quella rappresentata dalla organizzazione della città ideale
descritta nei due libri finali della Politica o anche (nella misura in cui le due non coincidono
completamente) dalla costituzione aristocratica, che è dichiaratamente una costituzione retta (cfr. III
7). Nella città ideale infatti coloro che esercitano funzioni strumentali, cioè essenziali alla
sopravvivenza della città ma non costitutive del suo "bene vivere (eu zen)", come gli agricoltori e
gli artigiani, sono esclusi dalla cittadinanza e, quindi, dalle funzioni direttive. Fanno parte della
cittadinanza invece quelli, a cominciare dai militari,14 che hanno compiti non strumentali; e viene
naturalmente ammesso che ci sono persone che, per via delle loro attitudini, oltre che per la loro
libertà da quei compiti, sono adatte ad esercitare le funzioni direttive. Questa è appunto la tesi che
Aristotele introduce in VII 9, che offre una trattazione che è in continuità con quella del cap. 8,
dove ritorna l'idea delle "parti" della città (cfr. 1328a21-22, b2-4) e (come mostra il primo di questi
passi) in analogia con l'animale. Le parti stesse sono definite in relazione alle funzioni da esse
esercitate, come mostra il contesto dei passi (cfr. particolarmente l’uso di erga in 1328b15). Che le
parti non siano tutte sullo stesso piano, ma talune strumentali e altre no, era stato riconosciuto anche
nell'introdurle in IV 4, specialmente nella sezione di polemica con Platone (peraltro l'idea che ogni
parte della città deve esercitare la propria funzione è desunta proprio dalla trattazione della
Repubblica).

13
Per es. i quadrupedi hanno sotto le parti che gli uomini hanno davanti (cfr. Hist. anim. II 1, 498b10 ss.), e quindi la
testa davanti anziché in alto. Ci sono anche vari casi un po' peculiari che Arist. considera, per es. quello dei cefalopodi,
la cui testa viene a trovarsi in posizione intermedia fra i piedi e il ventre (Hist. anim. IV 1, 523b26 ss.), ma essi sono
significativi della sua attenzione per l'organizzazione degli organi.
14
Evidentemente qui Aristotele è influenzato dal forte apprezzamento, assai diffuso nella cultura del suo tempo, per il
valore militare; altrimenti la funzione di difesa della città potrebbe essere vista come strumentale.
7
[p. 84] Quanto all'altra condizione, quella di devianza, essa presenta naturalmente delle varianti,
cioè si riscontra in più tipi di costituzione, a seconda di quale sia la parte inferiore o strumentale che
viene a "prevalere", cioè ad esercitare le funzioni direttive. Si ha così l'insieme delle costituzioni
devianti (le parekbaseis), le quali per Aristotele sono rappresentate dall'insieme di quelle
oligarchiche e di quelle democratiche, oltre che da quelle tiranniche. E' vero che la distinzione fra
costituzioni rette e costituzioni devianti, laddove viene introdotta espressamente, in III 7, non viene
giustificata in questi termini, ma col suggerimento che le costituzioni rette sono quelle in cui coloro
che esercitano i compiti direttivi lo fanno nell'interesse generale, mentre le devianti sono quelle in
cui essi lo fanno nell'interesse proprio. Ma Aristotele deve avere visto in queste due condizioni la
conseguenza del fatto che, nel primo caso, i dirigenti sono coloro che hanno la virtù e le attitudini
per farlo, nel secondo caso sono persone la cui virtù e le cui attitudini sono di tipo servile, appunto
perché sono subentrate nelle funzioni direttive categorie di persone che hanno funzioni di natura
strumentale. Non può essere casuale, infatti, se poco prima, nel cap. 5, egli aveva sollevato la
questione di chi abbia i titoli per fare parte della cittadinanza (e quindi per esercitare le funzioni
direttive), rispondendo ad essa con il suggerimento che nelle città meglio ordinate i lavoratori non
debbono farne parte (cfr. 1278a8), ma riconoscendo che così non è nelle altre costituzioni e che
questa circostanza fa differenza per la costituzione stessa (cfr. 1278a13 ss.: mentre nelle
aristocratiche sono esclusi, in quelle democratiche sono ammessi, e in quelle oligarchiche sono
ammessi solo se ricchi).

Ancora, questa discussione del cap. 5 si collega a quella del cap. 4, dove viene sottolineato che la
città è costituita da parti non uniformi (1277a5) che hanno funzioni differenti. E' come in una nave,
nella quale c'è chi fa il pilota, chi fa il rematore, chi la vedetta, e così via (cfr. 1276b20 ss.). Ma, in
quanto queste persone o gruppi di persone hanno funzioni differenti, hanno pure virtù (aretai)
differenti (cfr. 1277a10-12; nella concezione funzionalistica aristotelica, che riprende quella
platonica, la virtù che uno ha è in relazione alla funzione esercitata). Ci saranno, in generale,
persone che hanno la virtù appropriata per l'esercizio delle funzioni direttive, e persone che hanno la
virtù appropriata per l'esercizio delle funzioni servili (ivi e seguito). Si implica chiaramente che i
lavoratori non possono che avere il secondo tipo di virtù, perché essi vengono associati agli schiavi
(1277a33 ss.). A questo proposito c'è l'osservazione che sono i regimi di democrazia estrema che
hanno permesso agli artigiani di partecipare al potere (1277b1-3). Le attività o funzioni (erga)
proprie dei lavoratori non dovrebbero essere esercitate dal buon politico o dal buon cittadino,
perché in questo modo viene meno la distinzione fra padrone e schiavo (b3-7). (E' facile poi
prospettare una differenziazione fra le "parti" servili, cioè rivolte alla soddisfazione dei bisogni
pratici della città, dato che Aristotele ritiene, per esempio, che la democrazia in cui prevalgono gli
agricoltori è superiore a quella in cui prevalgono gli artigiani, cfr. IV 12.) E' abbastanza chiaro che,
║nella prospettiva qui adottata, un regime democratico è deviante perché le "parti" della città che
sono costituite da persone con virtù servili e che dovrebbero esercitare solo funzioni servili
finiscono con il subentrare, nella direzione della città, alle "parti" di essa che sono costituite da
persone dotate della virtù del comando (virtù che in III 4, 1277b 25 ss. viene fatta consistere nella
saggezza, phronesis, mentre a chi è comandato basta l'opinione vera).

Va infine osservato che il carattere deviante delle costituzioni secondarie, rispetto all'ordine
naturale nell'esercizio delle funzioni ad opera delle varie parti della città che è attuato dalla
migliore, si rispecchia anche nel fatto che vengono ad avere dei fini che sono in qualche modo
8
distinti da quello che dovrebbe essere il loro fine comune del bene vivere o della felicità.15 La
democrazia infatti ha come suo fine principale la libertà, e l'oligarchia la ricchezza,16 e questi
possono essere visti solo in parte come differenti modalità di attuazione del fine comune della
felicità (come ci si aspetterebbe secondo VII 8, 1328a38-b2), perché sono anche delle deviazioni da
quel fine. In altri termini, Aristotele, nel classificare le costituzioni, per un verso tratta quelle
secondarie come se fossero tutte delle approssimazioni alla condizione realizzata dalla costituzione
migliore (per cui risultano essere delle deviazioni da essa solo nel senso di attuare imperfettamente
il fine che è attuato pienamente da quella), per un altro verso le tratta piuttosto come delle vere e
proprie perversioni, appunto perché stravolgono quello che è l'ordine naturale nell'esercizio delle
funzioni, sicché risultano anche volte a dei fini non buoni.17 C'è cioè una ambivalenza nella
valutazione stessa delle costituzioni devianti che deve essere legata ad un'ambiguità del termine
parekbasis che serve per designarne la condizione: esso può indicare un semplice allontanamento
dalla condizione perfetta ma anche una vera e propria trasgressione. Questa ambivalenza di
atteggiamento del resto si riscontra nelle stesse opere biologiche: gli animali per un verso sono
inseriti in una scala di gradazioni che culmina nell'uomo, per un altro verso come delle
deformazioni dell'ordine naturale realizzato dall'uomo.18

1.4. Il quadro fin qui offerto, pur abbastanza complesso, rappresenta una semplificazione, perché
è vero pure che in III 7 Aristotele ammette, fra le costituzioni rette, la politeia, nella quale è la
massa (il plethos) [p. 86] ad esercitare le funzioni direttive nell'interesse generale (cfr. 1273a37-39)
– una tesi, questa, che è legata, come vedremo, alla sua attribuzione di una certa saggezza politica a
certi tipi almeno di assemblea popolare. In realtà egli viene qui ad introdurre un criterio alquanto
differente da quello che è fatto valere nella distinzione complessiva fra forme rette e forme devianti
di costituzione, il quale è dato dalla bontà che è presentata dal miscuglio equilibrato (dalla krasis,
cfr. IV 3, 1290a26) degli opposti, cioè di democrazia e di oligarchia (nel contesto di quel passo tale
regime misto è tenuto distinto dalla costituzione ottima [ariste]; sulla bontà di tale regime vedi la
presentazione complessiva datane in IV 11).

Più in generale, è ugualmente vero che, come abbiamo già visto, la sua analisi e tipologia delle
costituzioni è in certa misura fondata sulla divisione della città in tre gruppi o "parti" principali, che
sono definiti economicamente e non in relazione alle loro funzioni, e sulle modalità di accesso alle
cariche direttive (come conseguenza della prevalenza di uno di tali gruppi). Evidentemente egli si
deve essere reso conto che lo schema suggerito da una classificazione delle costituzioni in relazione
a strati sociali definiti dalle loro funzioni è troppo restrittivo per permettere una comprensione
completa della realtà politica con cui aveva a che fare. Ma rimane vero che tale schema gioca un
ruolo importante nella sua analisi, nonostante che non sia reso del tutto esplicito. E anche quando se
ne distacca, non viene abbandonata la metodologia complessiva, ad un tempo tipologica e analitica.

15
Cfr. Pol. I 2, 1252b30; III 6, 1278b20 ss.; III 9, 1280a31-2 e b39; e, in generale, il libro VII.
16
Cfr. rispettivamente Pol. VI 2 (con Rhet. I 8, 1366a4) e V 10, 1311a9-10 (con III 15, 1286b15-16 e Rhet. I 8, 1366a4-
5).
17
Questo punto della discrepanza dei fini è sottolineato da C.J. Rowe in Aims and Methods in Aristotle's "Politics",
"Class. Quart." n.s. XXVII, 1977, pp. 159-172 (specialm. 166 ss.) e in un articolo non pubblicato da lui cortesemente
trasmessomi. (La questione dei fini, o degli ideali, è toccata anche più oltre, in 2.3, ma da un punto di vista piuttosto
differente dall’attuale.)
18
Cfr. i testi citati in n. 13; in Part. anim. IV 10, 686b2-5 essi sono paragonati ai nani!
9
E' pure significativo che, nel caso della trattazione delle istituzioni direttive per conto proprio, egli
pervenga ad una vera e propria combinatoria, così attuando un aspetto delle indicazioni
metodologiche di IV 4. Certamente solo un aspetto formale, perché dell'analogia ivi introdotta
rimane poco. Da essa si discosta dunque in vari modi, e anche per altre ragioni la trattazione delle
costituzioni, nel corso del libro IV e altrove nell'opera, si rivela ben più complessa e tormentata di
quello che pare suggerire il "discorso sul metodo" di IV 4. Ma questo è il destino che attende tutti i
discorsi del genere, e non vale solo per l'applicazione di quel metodo in politica: difficoltà ne
incontra, anche se forse in misura inferiore, pure in zoologia (p. es. in che classe collocare i
pipistrelli, che hanno parti in comune con gli uccelli e con gli animali terrestri?). La presenza di
difficoltà come quelle menzionate per la politica non è dunque una smentita del carattere scientifico
dell'indagine, che è condotta in uno spirito non differente da quella zoologica alla quale è
comparata.

Se si considerano le indicazioni metodologiche di Politica IV 4 (insieme a quelle di I 1) in


questa luce, si può trarre da esse lo spunto per determinare la natura e gli intenti di quelle parti
dell'opera che noi stessi saremmo indotti a considerare come dei contributi alla scienza politica.
(Certe differenze che inevitabilmente ci sono rispetto ai contenuti di un trattato contemporaneo di
scienza politica sono in gran parte dovute alle trasformazioni intervenute nel frattempo nella vita
politica, che in uno stato moderno è ben differente da quella di una città come l'Atene dei tempi di
Aristotele.) Una parte significativa ║dell'opera aristotelica, soprattutto nei libri III e IV (in qualche
misura in V e VI), concerne appunto la tematica della classificazione delle costituzioni (politeiai) e
della definizione di ciascuna di esse, come l'autore stesso dichiara espressamente (cfr. III 1 inizio, e
IV 1 fine).19 Alla base di questa tematica c'è la già menzionata discussione della questione delle
cause dell'esistenza di una pluralità di costituzioni. Se quest'ultima tematica sfocia nella sociologia,
la prima è ben presente nella scienza politica moderna, per la quale viene a coincidere con quella
dei regimi politici.20 Ma anche per Aristotele è in gioco quest'altra tematica, perché (come vedremo
in 2.2) la questione della definizione di una costituzione è, al tempo stesso, la questione di come
sono organizzate le archai, cioè le cariche o forme di potere all'interno di una città.

Queste tematiche, e altre che incontreremo, sono strettamente intrecciate l'una all'altra e sono
tipiche di un trattato di scienza politica (sottolineo: scienza) come poteva essere scritto da un
pensatore greco del V sec. a.C. avente a che fare con la realtà della polis. Esse, certo, non
esauriscono l'opera, perché accanto ad esse ci sono (come vedremo fra poco) tematiche che non
sono più concentrate sulla definizione, classificazione e analisi di certe realtà prese come date –
quindi che non sono più contributi alla scienza politica –, ma che sono volte abbastanza
direttamente ad offrire orientamenti all'uomo politico nei suoi interventi effettivi sulla realtà, fino ad
arrivare ad una specie di precettistica. A parte poi queste altre tematiche, che sono concentrate in
libri della Politica differenti da quelli ora menzionati, è vero che Aristotele affronta questioni come
quella della classificazione delle costituzioni in maniera un po' differente da come fa (o cerca di
fare) il politologo moderno, perché non prescinde da giudizi di valore. Ma giudizi di valore entrano
in gioco anche nelle sue opere zoologiche (per esempio con l'affermazione della superiorità

19
Quanto ai contenuti di ciascuno di questi libri, un po' più in dettaglio, rinvio a 1.2 e anche a 1.10 per quelli del libro
IV, aggiungendo che il cap. 7 concerne le forme dell'aristocrazia e i capp. 8, 9 e 11 riguardano la politia come regime
misto; rinvio di nuovo a 1.10 per quelli dei libri III, IV e VI.
20
Si può citare, a titolo di esempio, il volumetto di M. Duverger su Les règimes politiques nella raccolta "Que sais-je?"
10
dell'uomo) e più generalmente in quelle fisiche, per cui quello che è cambiato è semmai il concetto
di scienza (e comunque è questione controversa se si possa davvero prescindere del tutto da quei
giudizi).

Ad Aristotele deve essere parso ovvio che la normalità – o la naturalità – è costituita dalla
condizione in cui ciascun gruppo di persone fa quello che gli compete, e solo quello, mentre la
condizione in cui le stesse persone fanno per esempio gli artigiani ed esercitano funzioni direttive è
anomala, rappresenta appunto una deviazione. Anche nel mondo naturale costituito dagli animali e
dalle piante vale il principio della divisione del lavoro, per cui è meglio che ogni organo svolga una
sola funzione, quella che gli compete (cfr. De partibus animalium IV 6, 683 a20 ss. e, per delle
applicazioni, ivi, III 2, 663a17 ss. e De generatione animalium I 23). La costituzione migliore dei
libri VII e VIII va considerata per l'appunto [p. 88] come la normalità, non come una costituzione
del tutto ideale, come saremmo inclini a fare noi (e come aveva fatto Jaeger nella sua
interpretazione genetica dell'opera). Il suo procedimento risulta così essere molto idealtypisch, ma
ciò è richiesto dalla sua stessa metodologia analitico-combinatoria: anche i gruppi di costituzioni
esistenti del tipo democratico e oligarchico sono considerati a partire da modelli come la
democrazia allo stato puro e la oligarchia allo stato puro che erano realizzati solo imperfettamente
nelle città del tempo di Aristotele. Indubbiamente nelle opere zoologiche egli si sforza di più di
attenersi alle specie esistenti di animali, ma la differenza di approccio, credo, è solo relativa.21

1.5 Per tornare direttamente al metodo come viene presentato in Politica IV 4, c'è da dire che, se
è giusta la mia interpretazione, si tratta di un metodo (in parte) diairetico, per cui c'è un'ovvia
continuità, sotto questo punto di vista, con la metodologia di Platone. Ma si può riscontrare una
continuità più precisa, che concerne l'applicazione che del metodo diairetico viene prospettata nella
parte finale del Fedro (cioè in 271a ss.), perché Aristotele risulta sviluppare o rendere esplicito un
punto già ammesso da Platone in quel testo o comunque richiesto per ragioni di coerenza. Ivi il
punto di partenza è la questione se l'anima è qualcosa di uno o di uniforme, oppure è qualcosa di
complesso (variegato: polyeidés), come la forma del corpo. Si riconosce, implicitamente, che
l'anima presenta della complessità e così si ammette l'applicabilità ad essa del procedimento
diairetico. Il parallelo col corpo porta a richiamarsi alla medicina, che ha appunto questo come suo
oggetto, la quale applicherebbe quel procedimento in modo esemplare, anche perché essa riconosce
che di tale suo oggetto deve occuparsi in modo globale.22 A questo punto ci si aspetterebbe che
l'applicazione del metodo alla anima portasse alla suddivisione di una singola anima nelle sue parti,
per esempio nelle tre parti (intellettuale, emotiva ed appetitiva) ammesse nella Repubblica e nel
Timeo. Ci si aspetterebbe questo anche perché nel corso dell'esposizione del noto mito escatologico
del dialogo (Fedro, 246a ss.) si allude proprio a questa sua tripartizione, parlando pure, a questo

21
Non posso ovviamente entrare in una discussione dettagliata dell'approccio aristotelico in zoologia. Mi limito ad
osservare che (1) ho dato per ammesso che uno studio classificatorio degli animali, fondato anche su di un'analisi e
combinatoria delle loro parti, ha valore scientifico agli occhi di Aristotele, anche se è vero che una tassonomia
complessiva non emerge nelle sue opere zoologiche; (2) non si deve però ritenere che egli stia estendendo al mondo
umano una metodologia già consolidata nel campo del sapere naturale (come p. es. Hume, nei tempi moderni, intendeva
estendere il metodo della fisica di Newton ai Moral Subjects), perché una zoologia scientifica qual è quella da lui
elaborata rappresentava una novità al suo tempo.
22
Che il "tutto" di cui si parla sia, almeno in primo luogo, il corpo di una persona nel suo complesso è suggerito da
Carmide, 156b-c, e da Leggi X, 903c-d e 902d.
11
proposito, di una sua differenziazione in eide, cfr. 253c-d). Quello invece a cui si arriva è una
suddivisione di tipi (sempre chiamati eide, ║cfr. 271d-e) di anima nel senso di differenti caratteri o
temperamenti posseduti da differenti persone, che richiedono ciascuno un tipo di discorso
persuasivo ad esso appropriato.

Naturalmente il parallelo con la medicina non viene meno, perché sappiamo che quella
ippocratica (e ad Ippocrate Platone allude espressamente nel passo del Fedro, 270c) aveva elaborato
una tipologia di caratteri o tipi fisici che era legata alla teoria degli umori: il carattere flemmatico,
quello melanconico, quello bilioso, quello sanguigno, ed eventualmente altri ancora (va sottolineato
che questa era intesa come una tipologia fisica, cioè riguardante il corpo, anche se con riflessi
psichici, e non come una tipologia prevalentemente psicologica, come finirà col diventarlo nel corso
della storia).23 Non è dunque difficile ipotizzare un'analoga tipologia di caratteri psichici, che in
effetti è prospettata (non sistematicamente ma per esempi) da Platone nel Politico. Ma rimane la
discrepanza fra questa suddivisione e quella in parti dell'anima che ci si aspetta. Il passaggio
dall'una all'altra suddivisione è indubbiamente favorito dal fatto che in un caso come nell'altro
Platone parla di una pluralità di eide. Ma c'è da pensare che egli non sia semplicemente caduto
vittima di un'ambiguità, ma abbia ammesso (pur non rendendo il punto esplicito) una connessione
fra i due tipi di suddivisione. Quale sia questa connessione è reso chiaro appunto dal testo
aristotelico, dove si è visto, la suddivisione in parti è anche una suddivisione in tipi di parti, la
quale permette un'analoga suddivisione in tipi dei tutti a cui queste parti appartengono. Pare dunque
legittimo riconoscere una continuità fra il testo platonico e quello aristotelico.

Nel Fedro si prospetta l'elaborazione di una tipologia di caratteri psichici mediante l'applicazione
del metodo diairetico, dunque di un metodo scientifico, per precisare la natura della conoscenza
riguardante l'anima che deve essere posseduta dal vero oratore, cioè da quello che opera non in
modo puramente empirico ma sulla base di una techne. Come ho già accennato, questa stessa
conoscenza è richiesta all'uomo politico in un altro dialogo platonico (non molto distante
cronologicamente), il Politico. Verso la fine di esso, in 306a ss., si suggerisce che l'uomo politico
deve riconoscere l'esistenza di una diversità di tipi di carattere (di nuovo chiamati eide, 307d) nei
membri della città, per poterla organizzare nel modo migliore. Deve infatti saper combinare o
armonizzare fra di loro quei caratteri con una operazione analoga a quella del tessere (quella con la
tessitura, che comporta la capacità di combinare fili differenti ecc., è la principale analogia fatta
valere in quel dialogo per la politica), per esempio accoppiando nei posti di comando persone dal
temperamento impulsivo e persone caute, così da ottenere che le decisioni che vengono prese non
pecchino di nessuno dei due eccessi. [p. 90] Non deve sorprendere il fatto che la stessa conoscenza
sia richiesta al politico e all'oratore: la persuasione è uno strumento necessario per l'ottenimento di
fini come questo che si pone il politico, ed in effetti la retorica nel Politico è subordinata alla
politica (cfr. 304c-d). L'analogia con la medicina vale allora non soltanto per la conoscenza che
deve essere posseduta dall'oratore ma anche per quella che deve essere posseduta dal politico. Che

23
Alcuni di questi caratteri sono menzionati p. es. in Arie, acque e luoghi, specialm. nel cap. 10 (per una discussione
cfr. H. Flashar, Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, Berlin 1966, pp. 21 ss.), e un
riferimento ad essi pare esserci nella Repubblica, VIII, 564b-c. Sulla caratterologia del Fedro e del Politico cfr. anche
R. Joly, La caractérologie antique jusqu'a Aristote, in "Revue belge de philol. et hist." 40, 1962, pp. 5-28, specialm. 21-
25 e 10.
12
questa fosse l'intenzione di Platone non deve essere sfuggito ad Aristotele (una conferma sarà
fornita più oltre).

Se è accettabile la proposta che sto avanzando di intendere il passo aristotelico avendo presente
questo background platonico, si possono già trarre alcune conseguenze piuttosto importanti per la
natura della metodologia che Aristotele prospetta per lo studio della politica. La prima è che questa
metodologia è ritenuta essere applicata in modo esemplare dalla medicina, per cui l'indagine da
attuarsi nel nostro campo può essere vista in analogia con quella attuata dalla medicina. L'analogia
con la medicina ovviamente è pertinente anche per l'orientamento pratico da essa posseduto, dal
quale la politica non può prescindere. Ma il richiamo alla medicina può servire anche per stabilire
una connessione con una disciplina non orientata praticamente com'è la zoologia, perché nelle sue
opere fisiche (comprese appunto quelle zoologiche) Aristotele notoriamente si serve spesso del
modello di arti come quella del medico per la comprensione dei procedimenti attuati dalla natura.24
Indubbiamente la connessione è possibile perché il metodo di Politica IV 4 non ha niente di
specificamente medico, ma è senz'altro il metodo (o almeno una parte del metodo) scientifico in
generale. Del resto così era stato inteso da Platone stesso nel Fedro, per il quale quella in medicina
era solo un'applicazione corretta e riuscita (e per questo motivo esemplare) del metodo della
divisione. Aristotele stesso, in Politica I 1, pare sottolinearne non solo (come si è già notato)
l'importanza, ma anche la scientificità, peraltro tenendo conto della sua utilizzazione da parte di una
techne. E' probabile infatti che la riserva da lui espressa nella formulazione un po' anacolutica:
"vedremo meglio ... in che cosa differiscano ... e se è possibile ottenere una conoscenza sistematica
(ei ti technikon endechetai labein) ...", sia solo retorica.

1.6. Può sembrare tuttavia che questi riconoscimenti della scientificità dell'indagine che si
conduce non abbiano posto nell'altro passo fondamentale per la metodologia della politica, quello di
Politica IV 1, nonostante che anche qui sia in gioco l'analogia con la medicina, che questa volta
anzi è menzionata espressamente (in 1288b20), anche se non con gli sviluppi che riceve la analogia
con la ginnastica introdotta all'inizio del capitolo (ma le due discipline erano tradizionalmente - e
certo in Platone - considerate come molto affini). [p. 91] La metodologia che emerge da questo
passo, infatti, non può valere come metodologia scientifica generale, ma è assai legata
all'orientamento pratico della politica.

Mentre in IV 4 si trattava di offrire ad un tempo un criterio ed una giustificazione della varietà


delle costituzioni da studiare, con il riconoscimento della loro complessità interna, in IV 1 si
definiscono i compiti dell'indagine politica in relazione ad una graduatoria di tipi di costituzione –
che è una graduatoria di valore non strettamente legata alla possibilità di suddividere ciascuna di
esse nelle sue parti. Si tratta di studiare (theoresai), in primo luogo, la costituzione migliore in
assoluto, cioè quella che del tutto desiderabile – dando per ammesso che non ci sono circostanze
che ne impediscano l'attuazione –; poi la costituzione migliore nelle circostanze che si presentano di
fatto; poi ancora la costituzione data, cioè quella che è effettivamente adottata da una città e che non
è la migliore possibile per essa; infine la costituzione "comune", cioè quella che può andare bene
per tutte le città.

24
Per es. in Part. anim. I 1, 641b10 ss., Gen. anim. II 1, 734b21; III 11, 762a15-18; Phys. II 1, 193b14-15.
13
Le formulazioni che Aristotele usa in questo passo (1288b21-39) nell'esporre il programma non
sono prive di qualche ambivalenza, e ci sono alcune discrepanze fra di esso e il passo
programmatico, impostato alquanto differentemente, che si trova alla fine del cap. 2 (1289b12-26),
e ciò anche a proposito dei compiti che dovrebbero essere coincidenti. Non posso entrare in una
discussione approfondita di questi testi e del modo in cui le loro indicazioni si trovano attuate nel
corso dell'opera,25 ma debbo limitarmi ad alcuni chiarimenti. La costituzione migliore in assoluto
non è presentata qui (come del resto neppure altrove) come una costituzione puramente ideale, ma
come quella possibile nelle circostanze più favorevoli, anche se presumibilmente assai rare.26 La
seconda costituzione della serie è considerata come la migliore nelle circostanze date in b26, mentre
in b32-33 è denominata la "possibile" in tali circostanze – ma presumo che egli intenda dire la
"migliore possibile", non la "possibile simpliciter".27 E' presentata anche come quella che si adatta
(harmottousa, b24) ad un certo popolo o gruppo di persone, ma l'implicazione deve essere che è
confacente, che si armonizza con le loro esigenze (vale a dire il verbo usato indica una riuscita), il
che è confermato dall'indicazione della sua "preferibilità" (sia pure relativa) in 1289b17-18. La terza
è presentata come quella che si fonda su di un presupposto (che è ex hypotheseos, b28), il quale
risulta essere che essa è considerata come già data (cfr. b28-29); è dunque peggiore (b33) della
seconda, ║ma non necessariamente cattiva. Quanto all'ultimo tipo di costituzione, presumo che sia
quella mista, che Aristotele stesso chiama senz'altro politeia, della quale peraltro egli non dà una
definizione del tutto univoca nelle occasioni in cui la menziona.28 Nel seguito del nostro testo è
trattata come quella di più facile realizzazione e più capace di diffusione (b38-39), ed
evidentemente è fatta corrispondere al regime ginnico "medio", cioè quello che si adatta a più
persone. Invece nella parte finale di IV 2 viene accostata a quella aristocratica e comunque
considerata come la preferibile dopo la migliore (evidentemente: in assoluto) (cfr. 1289b14-17),
quindi tende ad essere collocata al secondo posto nella graduatoria anziché essere lasciata fuori da
essa per essere apprezzata per la sua capacità di diffusione. Sono oscillazioni rilevabili anche
altrove e che possono dipendere dal fatto che alle volte essa è considerata come una semplice
mescolanza di altre costituzioni, alle volte invece è ritenuta essere una krasis, cioè una felice
conciliazione di tendenze opposte (quelle democratiche e quelle oligarchiche).29 Comunque sia,
essa non va assimilata alla migliore in assoluto, come avviene in alcuni studi.

A ben vedere questa classificazione porta all'identificazione di due compiti principali dell'uomo
politico che agisca sulla realtà (alla stregua del maestro di ginnastica), dato che l'occuparsi della
costituzione mista può essere assimilato, a seconda di come essa sia concepita, o alla considerazione
delle costituzioni migliori o alla considerazione di quelle esistenti. Un primo compito è appunto
quello delle determinazione dei modi per stabilire ex novo una costituzione che sia ottima o in modo

25
Questo richiederebbe un saggio a sé. Ma per alcune osservazioni utili cfr. W.L. Newman, The Politics of Aristotle,
Oxford 1887-1902, vol. I, pp. 492-94; vol. IV, pp. 135 ss.
26
Ciò è mostrato dal cenno al doverci non essere ostacoli in b23-24, e da quello all'impossibilità di pervenire ad essa in
assenza dei mezzi necessari in b24-25 e b31-32; inoltre il caso parallelo del regime ginnico migliore è presentato come
quello che richiede le migliori doti naturali in b14-15.
27
E' vero che essa pare coincidere con la "possibile" (senza precisazioni) di 1288b33, ma essa è tenuta distinta da quella
esistente (alla quale si allude subito dopo, b41), per cui la possibilità in questione deve essere quella del meglio rispetto
alla circostanze effettive, non di ciò che è anche dato realmente.
28
Sulla questione cfr. R.G. Mulgan, Aristotle's Political Theory, Oxford 1977, pp. 76-77. Qualche cenno anche più
oltre, 1. 10.
29
Per quest'ultima presentazione cfr. il passo citato in 1. 4 inizio e la fine di Pol. IV 11; è chiamata semplicemente una
mixis di democrazia e di oligarchia in IV 8, 1293b34.
14
assoluto o in modo relativo, oppure anche per migliorare la condizione esistente, sempre in vista di
quel vivere bene o di quella felicità che è il fine della città.30 Un secondo compito è quello di
determinare i modi di preservare le costituzioni esistenti, che risponde al programma da Aristotele
messo in atto nei libri V e VI. Occuparsi della costituzione non buona ma effettiva viene
espressamente connesso, nel corso dell'esposizione (in 1288b28-30, e nel contesto, in 1289a5-7), a
tale programma. Ci si può invero domandare come il programma stesso si concilii con il ricorso
all'analogia con la medicina e con la ginnastica, dato che alla prima almeno Aristotele attribuisce
normalmente31 il fine del tutto positivo di produrre o stabilire la salute negli organismi, e questo suo
fine corrisponde al primo dei compiti sopra menzionati, che comporta il programma di realizzare la
costituzione migliore possibile nelle circostanze effettive. Tuttavia alla medicina si può attribuire
pure il compito secondario ║(corrispondente a quell'altro programma) di tenere in vita malati che
non si lasciano più guarire, e questo certamente è conforme alla prassi medica del tempo, che è
deplorata da Platone ma non da Aristotele.

Quest'ultimo può dunque avere finito coll'ammettere tacitamente l'esistenza di questo fine
secondario, anche se la sua tendenza è di definire ogni attività con un unico fine.32 Si può
aggiungere che qui gioca pure l'analogia col pilota della nave, al quale si attribuisce come compito
la salvezza (soteria) della stessa (cfr. III 4, 1276b20 ss.); e di salvezza (sozein in 1288b30; soteria
in VI 1, 1317a38 e passim) si parla anche a proposito del preservare quelle costituzioni. Una
giustificazione del compito sta nell'affermazione aristotelica che vivere è meglio che non vivere,33
la quale, estesa dai viventi alle costituzioni, può significare che l'esserci una costituzione è
comunque meglio del conflitto generalizzato o del disordine. Rimane vero che un effetto possibile
del programma è di tenere in vita costituzioni mal riuscite piuttosto che cercare di migliorarne la
condizione.34

Comunque sia, questa presentazione del compito della politica mostra che viene sì fatta valere
l'analogia con arti come la medicina, ma questa serve a mettere in luce l'orientamento nettamente
pratico dei compiti menzionati, nonostante che essi siano introdotti da una formulazione
concernente ciò che si deve conoscere o studiare. Tale impressione è confermata dall'analogia che
viene sviluppata più diffusamente nel contesto, quella con la ginnastica. Si suggerisce che anche il
maestro di ginnastica deve considerare sia il tipo di esercizio che è meglio in assoluto, sia quello
che è il migliore possibile per la persona con cui ha effettivamente a che fare, sia, infine, quello che
va bene per la maggior parte delle persone. E' evidente che da lui ci si aspetta non una semplice
speculazione in proposito, ma indicazioni fattive per le persone che praticano la ginnastica.

Una conferma di questo è data dal fatto che lo studio delle costituzioni è presentata anche come
una preparazione all'opera di elaborazione delle leggi da parte del politico (cfr. 1289a11 ss.). E
quest'orientamento pratico si lascia scorgere facilmente negli stessi programmi che sono legati ai
compiti (in se stessi conoscitivi) attribuiti alla politica in IV 1. Si è già detto dell'esigenza che viene

30
Per la prima variante del compito cfr. la fine del libro III, per la seconda IV 1, 1288b39 ss.
31
Per es. in Part. anim. I 1, 641b10 ss.; Gen. anim. II 1, 734b21; III 11, 762a15-18; Phys. II 1, 193b14-15.
32
Per es. in Eth. Nic. I 1, 1096a8-9 e in Pol. I 9, 1257b11-12; ma cfr. Rhet. I 1, 1355b12-14 per la precisazione che
vanno curati anche quelli che non possono guarire.
33
Cfr. Gen. anim. II 1, 731b30.
34
Su questo punto insiste Rowe nell'art. cit. in n. 17, ma mi pare che egli accentui troppo il carattere negativo presentato
secondo Arist. dalle costituzioni secondarie.
15
posta di preservare le costituzioni esistenti. Quanto all'altro, si trova attuato da Aristotele (anche se
non in modo completo) negli ultimi due libri della (Politica), e sta nel delineare la costituzione
migliore in assoluto, descrivendo quindi l'organizzazione della città che risponde pienamente ai
desideri umani. [p. 94] Questo programma invero non è del tutto pratico nel senso che la
costituzione perfetta, come tale, si lasci realizzare con qualche facilità; ma dalla sua descrizione si
possono almeno trarre indicazioni su come migliorare le costituzioni esistenti, il che (appunto per
questo motivo, presumo) non è un programma che, al di là di alcune indicazioni presenti nel libro
IV,35 sia perseguito distintamente nel corso dell'opera. E' abbastanza chiaro, insomma, che i compiti
che vengono attribuiti alla politica in IV 1 sono legati all'orientamento pratico che la distingue e non
si lasciano tradurre in indicazioni del tutto generali di metodo scientifico quali sono quelle ricavabili
da IV 4.

1.7. La conclusione ora tratta è incontestabile, ed è ugualmente vero che il punto di partenza di
tutta l'indagine condotta da Aristotele nella Politica è nettamente pratico, come mostrano le
considerazioni fatte alla fine dell'Etica Nicomachea che servono da introduzione ad essa. Qui c'è il
riconoscimento dell'influenza che le leggi esercitano sugli uomini, per cui si tratta di vedere quali
leggi servano a migliorarli (cfr. specialm. 1180b23 ss.). Se la sua attenzione non si rivolge (come
avviene nelle Leggi di Platone) all'elaborazione di un intero corpus di leggi che regolino la vita dei
membri di una città ma a definire quel tipo di organizzazione della città che è la sua costituzione è
perché ai suoi occhi il modo in cui le leggi sono fatte dipende dalla costituzione che sta alla loro
base, come suggerisce in IV 1, 1289 a11-15; inoltre quell'elaborazione deve essergli sembrata un
entrare in dettagli che spetta al legislatore definire a seconda delle circostanze in cui si trova ad
operare. Ma la trattazione delle costituzioni, come conferma quello stesso passo, è in vista della
elaborazione delle leggi.

E però Aristotele lascia pure intendere che il legislatore o uomo politico che non sia un semplice
praticone ma voglia fare bene il suo mestiere deve possedere una serie di conoscenze che non sono
esse stesse immediatamente rivolte alla pratica. Nel corso dell'esposizione di IV 1 egli suggerisce
che chi voglia o introdurre una nuova costituzione o migliorare una già vigente (compito questo da
lui giudicato non inferiore all'altro, cfr. 1289a3-4) non può farlo ignorando quanti siano i tipi di
costituzione: "non debbono sfuggire le differenze presentate dalle costituzioni, quante esse siano, e
in quanti modi esse siano composte" (1289a10-11). E nella riformulazione del programma di IV 1
che egli offre in IV 2, 1289b12 ss., il primo dei compiti che viene prospettato è quello di
"distinguere quante siano le varietà delle costituzioni, se è vero che ci sono più forme di democrazia
e di oligarchia" – anche se, nel formulare la questione con riferimento particolarmente a oligarchia e
a democrazia, cioè alle costituzioni prevalenti nella Grecia del suo tempo, sta pure pensando (come
avviene anche nel contesto del passo appena citato di IV 1) al modo in cui queste si adattano a
║popolazioni esistenti.36 Chiaramente in questi passi si parla delle conoscenze che vanno acquisite

35
Anche su questo punto cfr. più oltre, 1. 10.
36
Comunque la ricerca da lui condotta nel seguito del libro è concentrata su questi due tipi principali di costituzione. In
questa riformulazione del programma il terzo dei temi menzionati (1289b17-19) corrisponde sicuramente al secondo di
IV 1 (1288b24-27) sulla costituzione preferibile nelle circostanze reali, e il riferimento a democrazia e ad oligarchia,
che comunque è a titolo di esemplificazione, riflette l'accentuazione sulle condizioni effettive; ma il secondo (b14-17),
che deve corrispondere al quarto (1288b33 ss.), introduce un riferimento all'aristocrazia oltre che alla costituzione
16
col metodo introdotto in IV 4. Queste conoscenze stesse vanno inserite in un quadro più ampio, che
viene tratteggiato in un modo sintetico da Aristotele in Retorica I 4, sempre nel definire il sapere
che dovrebbe essere posseduto dal legislatore ovvero dall'uomo politico. Il passo (1360a30-37) è il
seguente:

“Per la legislazione è utile non solo, a partire dallo studio del passato, essere conoscitore di quale
costituzione sia utile, ma anche sapere, <con lo studio delle costituzioni> che ci sono presso altri
popoli, quali siano quelle che si confanno a popoli con certe qualità. Sicché è chiaro che per la
legislazione sono utili le opere di tipo geografico-etnologico (hai tes ges periodoi), perché di lì si
può acquisire familiarità con le leggi dei popoli; come del resto per le deliberazioni politiche sono
<utili> le ricerche storiche (historiai) di coloro che scrivono sulle azioni umane.” Viene precisato
subito dopo che questi sono temi di politica (politiké), non di retorica.

Rientrano abbastanza chiaramente nel quadro così delineato certi suggerimenti che Aristotele
introduce nel cap. finale della Etica Nicomachea, quando si sofferma sui temi da trattare nella
Politica. Qui viene rilevato che "anche le raccolte delle leggi e delle costituzioni saranno ben utili
per coloro che sono in grado di riflettere e di discernere che cosa <è detto> bene e che cosa in modo
contrario e quali <di esse> si adattino a quali <gruppi o popoli>" (1181b7-9). Più oltre viene fatto
riferimento espresso alle "costituzioni raccolte" da Aristotele stesso, a partire dalle quali si tratta di
"arrivare a conoscere quali fattori conservano e rovinano le città <in generale> e quali ciascun tipo
di costituzione, e per quali cause alcune città sono ben governate e altre il contrario" (b17-20).

Si può vedere che da queste indicazioni emerge tutto un programma di studio storico e
comparativo concernente le costituzioni e i corpi di leggi adottati dalle varie città greche e da vari
popoli non greci, che finisce collo sconfinare nell'etnologia. Sappiamo che esso è stato in gran parte
attuato, almeno per quel che riguarda la rassegna dei dati storici e lo studio di come è fatta ciascuna
costituzione per conto proprio, da Aristotele stesso nella menzionata raccolta di costituzioni ║(di
cui ci è rimasta solo la trattazione di quella ateniese)37 e nella sua opera perduta intitolata
Nomima38, che presumibilmente era di carattere etnologico e forse aveva un'impostazione
comparativa. Che dell'etnologia – che allora era strettamente associata alla geografia – egli tenga
conto nella Politica è sufficientemente chiaro da quanto egli dice in VII 7 sull'influenza dei climi
sui popoli (che è un tema corrente a quel tempo, basti pensare ad Erodoto e allo scritto ippocratico
Sulle arie, acque e luoghi). Sempre nella Politica c'è qualche parte dedicata all'esame di costituzioni
vigenti presso alcuni popoli: in particolare, nel libro II, il cap. 9 sulla costituzione spartana e il cap.
10 su quella cretese; si può aggiungere che anche l'esame delle costituzioni ideali proposte da
Platone e da altri, nello stesso libro, offre una specie di materiale comparativo, anche se concernente
soprattutto la questione di come deve essere fatta la costituzione perfetta (per un altro verso

mista, per via dell'affinità che Arist. talvolta almeno (cfr. IV 11, 1295a31-34) ammette fra le due; infine il quarto tema
(b20-22), che è un di più, non introduce particolari novità concettuali, ed è formulato con riferimento specifico a
democrazia e ad oligarchia.
37
Con un numero limitato di frammenti e testimonianze delle altre, raccolti da V. Rose nella sua ed. dei Fragmenta
aristotelici (Aristotelis qui ferebantur librorum fragmenta collegit Valentinus Rose), BT, Leipzig 1886, pp. 258-367, ai
nr. 381-603. C’è da precisare che non tutte le Costituzioni saranno state redatte materialmente dallo stesso Aristotele,
che deve essere stato piuttosto il direttore dell’impresa (nel caso stesso dell’Athenaion politeia si discute se è stata
redatta effettivamente da lui).
38
Oppure Nomima barbarika. Cfr. l'ed. cit. dei Fragmenta del Rose, ai nr. 604-610, per la poca documentazione che ci
resta.
17
quest'ultima trattazione rientra nell'esame critico delle opinioni altrui che è dichiarato necessario
sempre alla fine dell'Eth. Nic., 1181b15-17). La Politica stessa, nel suo complesso, è appunto
l'opera nella quale lo Stagirita trae le conseguenze generali, in forma in gran parte definitoria e
classificatoria, dal lavoro di raccolta dei dati e dalla loro comparazione.

Quanto vengo suggerendo è che è nel quadro più comprensivo qui delineato che vanno inseriti i
compiti esposti in Politica IV 1, alcuni dei quali sono effettivamente menzionati nei passi citati
(quello della Retorica formula l'esigenza di sapere quale costituzione va bene per quale popolo, il
che corrisponde più che altro al secondo di quei compiti; nell'Eth. Nic., oltre a riprendere questa
esigenza, si fa riferimento al terzo compito, quello del preservare le costituzioni esistenti quali che
siano.) Ma se è vero che al legislatore e all'uomo politico si chiede di acquisire le conoscenze che
sono contenute nelle raccolte di costituzioni e in altre opere del genere, non vale però la
conseguenza che spetti ad essi compiere le ricerche che danno luogo ai risultati di cui debbono tener
conto. Queste ricerche stesse saranno piuttosto il compito dello studioso, ed esse comporteranno
sicuramente l'adozione di metodologie scientifiche, che sono appunto quelle necessarie per
condurre indagini storiche e comparative e che, del resto, vanno messe in atto (e sono
effettivamente messe in atto da Aristotele) nei trattati di zoologia. Da questo punto di vista è dunque
il "discorso sul metodo" in Politica IV 4 e non quello in IV 1 ad essere pertinente. Resta però da
vedere quanto Aristotele stesso sia consapevole di questa distinzione di piani.

1.8. [p. 97] L'impressione che si ricava da certi dei testi fin qui discussi di un intento scientifico
dell'indagine condotta da Aristotele nella sua Politica circa la definizione, l'analisi e la
classificazione delle costituzioni è confermata da una serie di passi - ai quali tornerò - in cui egli
insiste sulla "filosoficità" (nel senso di scientificità o teoreticità) del procedimento da lui messo in
atto. Ma le sue professioni di scientificità possono sembrare in netto contrasto con una serie di
passi, reperibili nei primi due libri dell'Eth. Nic., nei quali si insiste sulla mancanza di esattezza
dello studio rivolto all'ambito dell'azione umana. La pertinenza di questi passi non può essere
contestata per il fatto di appartenere ad un'opera intitolata Etica perché in essi si fa riferimento
espresso alla politica, anche se, nell'ambito della stessa Eth. Nic., l'interesse è concentrato sulla virtù
e sugli ethe dei singoli e non certo sulle costituzioni di intere città. Si tratta, per Aristotele stesso, di
quella "indagine sugli ethe che è giusto chiamare politica" (Retorica I 2, 1356a26-27). E' compito
della politica occuparsi pure del comportamento dei singoli, che sono i membri di una città, com'è
suo compito pervenire a delle conoscenze circa l'anima umana (Eth. Nic. I 13, 1102a18 ss., citato in
1.9, e Politica VII 14, 1333a37 ss.). Entrambi i compiti si connettono a quello della determinazione
del fine o bene ultimo per l'uomo, e qui vale la identità di tale fine per il singolo e per la città, per
cui, tenuto conto della priorità della città sul singolo anche questo risulta essere un compito della
politica.39 In tutto questo, com'è facile vedere, Aristotele conserva quella che era l'impostazione
platonica; in particolare entrambi concordano nel chiedere al politico una conoscenza di tipo
psicologico (si ricorderà quanto ho detto del programma nel Politico di Platone).

Per tornare al nostro tema principale, i passi dell'Eth. Nic. che toccano la questione dell'esattezza
del sapere pratico sono I 3, 1094b11 ss.; I 7, 1098a30 ss.; e II 2, 1103b34 ss. (del metodo si parla

39
Su questi punti cfr. più oltre, 2. 1.
18
anche in I 4, 1095a31-b13, con considerazioni riguardanti la natura e l'apprensione dei principi). Il
motivo comune a questi passi è che non si può cercare lo stesso tipo di esattezza (akribeia) nei vari
campi che sono l'oggetto di discipline, cioè di scienze o arti, differenti. Per esempio, non si esigerà
da un carpentiere, nel determinare un angolo retto, la stessa esattezza che si esige da un matematico
(I 7). E questo vale anche per le argomentazioni che si usano: dimostrative per i matematici,
persuasive per gli oratori (I 3). Di esattezza ce n'è poca proprio nell'ambito delle azioni umane,
perché qui prevale l'instabilità e la variabilità: quello che è di vantaggio per una persona è di danno
per l'altra, e così via (I 3 e II 2). Pertanto in questo campo bisogna accontentarsi di una trattazione o
di un modo di esposizione che sia approssimativo e a grandi linee ovvero schematico (pachylôs kai
typo, 1094b20; typo kai ouk akribôs, 1104a1-2).

Questi passi sembrano contenere una condanna sommaria di ogni scientificità dell'indagine
concernente le azioni umane. Tuttavia, se si guarda più da vicino a quanto vengono a suggerire,║la
situazione risulta essere più complessa. C'è certamente una svalutazione, ma essa è assai generale,
perché concerne ogni sapere riguardante il mondo sublunare, rispetto non solo a quello della
matematica pura ma anche rispetto all'astronomia intesa come matematica applicata, la quale
anch'essa ha a che fare con qualcosa di eterno e di necessario. E' convinzione di Aristotele che la
scienza (episteme) vera e propria o in senso pieno ha a che fare con l'eterno, che al tempo stesso è
necessario (cfr. particolarmente An. post. I 8 ed Eth. Nic. VI 3). Pertanto egli è indotto ad affermare,
in De partibus animalium I 1, 639b30 ss., che il modo di dimostrazione delle "scienze teoretiche" è
differente da quello adottato in fisica, la quale deve ricorrere alla necessità che egli chiama
ipotetica. Insomma la fisica, cioè lo studio della natura, in generale, da questo punto di vista, non
può essere considerato un sapere scientifico teoretico, come lo è invece quello delle matematiche.40
In questo passo è suggerito implicitamente un accostamento fra discipline naturali e discipline
pratiche che non manca di giustificazioni: il tipo di ragionamento in uso nelle prime al quale fa
riferimento coincide col calcolo dei mezzi rispetto al fine che è presente nelle seconde, perché la
necessità ipotetica è quella che connette al fine preso come dato i mezzi che ne sono la condizione;
inoltre di entrambi i gruppi di discipline si suggerisce che hanno a che fare con "il per lo più (to hos
epi to poly).41 E' innegabile che quella che troviamo espressa così è una svalutazione, ma proprio
per la sua generalità essa ha un significato limitato, cioè non può escludere la possibilità di
pervenire ad un certo grado – non altissimo ma neppure insignificante – di scientificità nell'ambito
del sublunare. Altrimenti non avrebbe neppure avuto senso per Aristotele redigere dei trattati di
zoologia o di meteorologia, anziché limitarsi a raccogliere curiosità su questi argomenti.

40
Un'interpretazione del passo alternativa a quella corrente da me adottata è stata proposta inizialmente da I. Düring e
difesa ora da P. Pellegrin in La classification des animaux chez Aristote, Paris 1982, pp. 164 ss. Essi lo traducono così:
"ma nelle discipline fisiche come in quelle teoretiche la forma della dimostrazione e della necessità è differente",
intendendosi differente da altre, che sarebbero quelle produttive. Tuttavia, sebbene la traduzione sia possibile, è esclusa
dal contesto, perché la necessità delle discipline fisiche è quella ipotetica, che differisce da quella assoluta che vale per
gli oggetti delle discipline che hanno a che fare con ciò che è eterno (cfr. 639b21 ss.): è naturale fare coincidere queste
ultime con le discipline "teoretiche" e ammettere che le discipline fisiche sono accostate a quelle produttive (come
mostrano anche gli esempi usati) per il comune ricorso alla necessità ipotetica. (L'accostamento è notabile anche in
Phys. II 9 e Eth.Eud. II 11.)
41
Sul "per lo più" nel caso delle azioni che sono l'oggetto della etica e della politica cfr. Eth. Nic. I 3, 1094b21; III 3,
1112b9 (e applicazione concreta in VIII 1, 1161a27 e IX 2, 1164b31), nel caso dei processi naturali cfr. An. pr. I 13,
32b4-13; Gen. anim. I 19, 727b29; An. post. II 12, 96a8 ss.; Phys. II 8, 198b35-36; ecc
19
Nei passi in discussione però c'è qualcosa di più, e cioè una esclusione dell'esattezza nel campo
dello studio delle azioni umane dovuto all'instabilità e alla varietà che queste presentano. Questa è
una restrizione che tocca direttamente la politica e che pare non poter concernere le discipline
fisiche. C'è però da chiarire che peso abbia questa restrizione ║domandandoci qual è il punto di
vista che viene adottato da Aristotele nel formularla. Sicuramente esso è quello di chi, come l'uomo
politico e il legislatore, si pone il problema di quello che deve essere fatto in determinate
circostanze concrete. La prevalenza dell'orientamento immediatamente pratico è evidente nel
contesto dei passi in questione (cfr. particolarmente l'inizio di II 2), e quelle due figure sono i
principali destinatari delle opere di politica. Ora chi si metta nei loro panni deve constatare che,
nelle decisioni da prendere, non ci sono regole generali che si lascino applicare in un modo
automatico, ma si deve considerare, volta per volta, quello che è più opportuno fare. Chi faccia il
medico non si trova in una condizione differente, perché "non si diventa medici a partire dai trattati"
(Eth. Nic. X 9, 1181b2). Pertanto, dice Aristotele, si deve rinunciare alla pretesa di render conto dei
casi particolari (ta kath'hekasta), "giacché essi non cadono sotto nessun'arte né sotto nessuna regola
professionale, ma è necessario che siano sempre quegli stessi che agiscono a scorgere le cose che la
circostanza [o l'opportunità: ton kairon] richiede, come avviene anche nel caso della medicina e
dell'arte del pilotare la nave" (1104a6-10, trad. Zanatta).

A questo punto sta diventando chiaro che la restrizione di cui Aristotele sta parlando è anch'essa
di ordine piuttosto generale, sebbene differisca dalla prima sopra considerata. E' una restrizione che
concerne non solo la politica ma anche le arti, delle quali non si può contestare l'intento di pervenire
al massimo di rigore possibile nel loro ambito (l'universalità della loro conoscenza è sottolineata da
Aristotele in Metafisica A 1, 981a5 ss.). Insomma, chiunque voglia intervenire in circostanze
particolari viene a trovarsi nella situazione di non potersi rifare a regole o a proposizioni che
possano valere in modo uniforme per tutti i casi. Che concludere, allora: che l'insieme di
conoscenze universali che accompagna ciascuna disciplina pratica non ha valore scientifico perché
non si presta ad una diretta applicazione alle situazioni particolari?

Guardiamo al caso di una disciplina non pratica, la zoologia. Quella aristotelica contiene
(specialmente in Historia animalium IX) descrizioni dei comportamenti degli animali, oltre che,
s'intende, del modo in cui sono fatti (nei libri precedenti). Si tratta di informazioni di carattere assai
generale, che non si prestano ad una utilizzazione del tutto diretta da chi abbia il compito di allevare
o ammaestrare animali: questi dovrà preoccuparsi delle reazioni dell'individuo animale (p.es. dello
scimpanzé di nome Tobia) con cui ha a che fare concretamente; pertanto non può fare a meno di
familiarizzarsi con esso e non sfuggirà mai del tutto ad errori di giudizio, per quante opere di
zoologia abbia studiato. Questo è dunque un limite di quelle opere, ma esso non viene sottolineato
espressamente,42 perché Aristotele, come del resto ║lo scienziato moderno, ben poco si cura
dell'utilità che i risultati delle sue ricerche possono avere per un allevatore (anche se egli stesso pare
avere tratto informazioni dagli apicultori e così via). Il limite invece viene rimarcato nel caso della
politica, perché, trattandosi non più di animali ma degli uomini e della loro vita in comunità, la
preoccupazione del modo in cui operano i politici e quindi dell'utilità che hanno conoscenze
generali sull'uomo per essi diventa dominante. Ma i due casi non sono affatto differenti da un punto

42
Almeno da Aristotele stesso, che usa la formula hôs typo labein in zoologia (cfr. Hist. anim. I 1, 487a12 e 6, 491a8)
solo per indicare il carattere approssimativo delle definizioni introdotte nella fase iniziale dell'esposizione; Teofrasto
invece tende a dare ad essa un valore più generale, cfr. Hist. plantarum I 1, § 6; 3, §§ 2 e 5; 4, § 3.
20
di vista epistemologico. Anche nel caso della zoologia si potrebbe affermare che è limitata ad un
sapere a grandi linee o schematico, perché si occupa solo dei tipi di animale. La scientificità di
quelle conoscenze generali sull'uomo e del modo in cui sono acquisite non è dunque in questione.43

1.9. Come sta diventando chiaro, Aristotele, nel trattare di politica, si richiama a certe arti, delle
quali la principale è la medicina, perché queste gli offrono un modello di sapere che ad un tempo
comporta delle conoscenze generali di carattere scientifico ed è rivolto alla pratica, cioè è la
capacità di applicare le conoscenze generali ai casi particolari. Ai suoi occhi, come già a quelli di
Platone, la cosa più importante nelle arti è il modo in cui riescono a mediare fra conoscenze che di
per sé hanno natura teoretica e il riuscire ad orientarsi nelle circostanze concrete, anche se questa
mediazione stessa non si lascia tradurre in proposizioni di carattere universale.

Da questo punto di vista è significativo quanto egli dice sulla natura della medicina nell'esporre,
all'inizio della raccolta, ║il programma dei trattatelli che sono normalmente chiamati Parva
Naturalia, uno dei quali (andato perduto o forse non mai scritto) avrebbe dovuto concernere i
principi della salute e della malattia.44 Il passo è il seguente:

“E' proprio del fisico anche avere cognizione dei primi principi della salute e della malattia (...).
Perciò la maggior parte di coloro che s'occupano della natura e tra i medici quanti, nell'attendere
alla loro arte, lo fanno coll'intento più scientifico (hoi philosophoteros ten technen metiontes), i
primi finiscono con l'occuparsi di ciò che riguarda la medicina, gli altri prendono l'avvio dallo
studio della natura.” (De sensu 1, 436a17-b1)

Qui, si può vedere, viene sottolineato come una medicina che non si riduca a mera pratica non possa
prescindere da conoscenze più generali, che finiscono col coincidere col sapere naturalistico nel suo
complesso.

43
La situazione peraltro muta alquanto nell'estendere la zoologia (o la fisica in genere) all'uomo stesso, così da avere
una coincidenza fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto (cfr. più oltre, 3. 5). Aggiungo che non condivido
l'interpretazione di chi, come W. Kullmann in Wissenschaft und Methode. Interpretationen zur aristotelischen Theorie
der Naturwissenschaft, Berlin 1974, pp. 221 ss., svaluta la scientificità delle indagini contenute nelle opere di etica e di
politica richiamandosi a Eth. Nic. I 4, 1095b4-8, dove, parlando dei principi, si sottolinea che uno deve avere già
acquisito dei costumi appropriati per poter ascoltare con profitto quanto viene detto riguardo al bene, al giusto, e, in
generale, a quanto appartiene all'ambito politico. "In effetti (afferma Arist.) il principio è 'il che' (to hoti), e se questo
risulterà sufficientemente chiaro, uno non avrà più bisogno del perché (to dioti). Chi si trova in questa condizione
possiede i principi o può coglierli facilmente." Per Kullmann il passo viene a suggerire che l'indagine è limitata al 'che',
al dato, senza dover ricorrere alla considerazione del perché, cioè alla spiegazione causale, come avviene nelle scienze.
A mio avviso esso, considerato nel suo contesto, riguarda sempre il cogliere il principio, p. es. il fine come punto di
partenza di un ragionamento pratico; è questo che costituisce qualcosa di dato, e di esso non c'è bisogno di cercare un
perché, che sarebbe un ulteriore perché, in quanto è esso il perché. 'Perché' e 'che' qui non si escludono a vicenda, ed è
anche possibile che Arist. abbia in mente un tipo di 'che' il cui adeguato coglimento già comporta il cogliere il perché
(in astronomia un osservatore sulla luna potrebbe cogliere il perché dell'eclissi mediante l'osservazione immediata, cfr.
An. post. I 31). Eth. Eud. I 6, 1216b36-39 (cit. in 1. 9) conferma questa interpretazione, e il tentativo di Kullmann di
intendere la formula to dia ti ivi usata nel senso dei mezzi anziché del perché è artificioso; del resto già la richiesta ivi
espressa di conoscere che cosa sia l'oggetto va oltre il semplice attenersi al 'che'.
44
Un riferimento a quest'opera viene fatto in Part. anim. II 7, 653a8 (notare che Hist. anim. VIII 19-27 è dedicato alle
malattie degli animali). C'è poi da ricordare che un'affermazione del tutto simile a quella contenuta nel passo che vengo
a citare si trova anche alla fine dei Parva Naturalia, in 480b21 ss., dove si insiste che i medici più bravi pervengono ad
una qualche conoscenza della natura e che i fisici (o indagatori della natura) più preparati (hoi chariestatoi) completano
le loro ricerche sulla natura con la considerazione dei principi della medicina.
21
Anche nel caso della politica viene affermato in più passi il carattere scientifico o teoretico (reso
sempre dalla parola philosophia e dai suoi derivati) della conoscenza che comporta. Questo avviene
in Politica III 8, all'inizio del cap., dove il tema è quello della definizione della natura di ciascun
tipo di costituzione; viene suggerito, ad indicazione del procedimento da seguire in questo e
nell'affrontare le difficoltà che suscita, che "è proprio di chi, in ciascun campo di indagine, procede
scientificamente (to de peri hekasten methodon philosophounti) e non guarda solo all'aspetto pratico
(pros to prattein) non tralasciare né trascurare alcunché, ma rendere manifesta la verità su ciascuna
cosa" (1279a13-15). Anche all'inizio di III 12 non solo c'è un richiamo alla discussione della
giustizia fornita nell'Etica, che è fatto nei termini di "discorsi katà philosophian", ma si afferma che
la questione connessa dell'uguaglianza che sta venendo toccata è l'oggetto della philosophia
politiké. Passi abbastanza simili si trovano nell'Eth. Nic., dove, all'inizio di VII 12, si dichiara che lo
studio del piacere e del dolore spetta a chi si occupa di politica in modo scientifico, e in X 9,
1181b15, si fa menzione di he perì ta anthropeia philosophia.

Da alcuni almeno di questi passi stessi è chiaro che il carattere scientifico dell'indagine non è
inteso escludere una utilità pratica delle conoscenze acquisite, perché in Eth. Nic. VII 12 si
suggerisce che chi le possiede è un "architetto del fine", cioè è in grado di dare ordini perché coglie
il fine, e qualcosa di analogo viene affermato in Politica III 12. Entrambi questi aspetti sono
presenti in un passo dell'Etica Eudemia (I 6, 1216b35 ss.), dove egli riconosce che, per ciascun
campo di indagine (perì hekasten methodon), i discorsi presentati in forma scientifica (philosophōs
legomenoi) differiscono da quelli che non l'hanno; [p. 102] questa considerazione viene
manifestamente fatta valere per l'indagine in corso, che è di tipo politico (alla politica aveva fatto
riferimento espresso nel cap. precedente). Aggiunge che "non si deve ritenere che per il politico sia
superfluo acquisire una conoscenza di questo tipo (ten toiauten theorian), mediante la quale è reso
manifesto non solo il che cosa <sia, sc. l'oggetto> ma anche il <suo> perché, giacché questa è la
dimensione scientifica di ciascun campo d'indagine" (b36-39). Il politico, qui come altrove, è
sicuramente chi partecipa attivamente alla vita politica.45

Che la medicina serva da modello sotto questo rispetto risulta dal richiamo ad essa nel passo (già
menzionato) di Eth.Nic. I 13, 1102a18 ss., dove si afferma che il politico deve acquisire conoscenze
circa l'anima. Viene introdotto un parallelo con la medicina, sottolineando (con un
rieccheggiamento del Carmide platonico [156b-c] e anche del Fedro) la globalità del suo studio:
"pure chi cura gli occhi deve occuparsi anche di tutto il corpo"(a19-20). Infatti "i medici colti (hoi
charientes) compiono molte indagini per arrivare alla conoscenza (gnosis) del corpo" (a21-22).
Nella politica si deve arrivare ad una conoscenza simile,46 ed anzi in misura maggiore, dato che essa
è superiore alla medicina. Va osservato che la specificazione "medici colti", cioè che esercitano la
loro arte in modo sofisticato ed intelligente, serve a distinguere questi dai semplici praticoni (è una
distinzione che è già compiuta da Platone in due passi delle Leggi e che è presente in buona parte
della tradizione medica antica, almeno fino a Galeno).

45
Adotto una correzione del testo: tÕn politikÕn, che viene difesa da Dirlmeier nel suo comm.; in base alla lezione dei
MSS.: tîn politikîn, si avrebbe: "indagine su questioni di politica".
46
Questo non vuol dire, s'intende, che ogni possibile conoscenza dell'anima, dunque anche per es. di essa nella sua
dimensione biologica che non interessa alla politica, debba essere acquisita in modo approfondito; pertanto Arist. è
indotto ad introdurre la restrizione di a23-26.
22
Peraltro, se è vero che, secondo le indicazioni dello stesso Aristotele, nel campo della politica c'è
tutta una serie di conoscenze da acquisire nel modo più scientifico possibile, questo non vale per
tutte, perché ce ne sono di quelle che sono più direttamente volte ad orientare le decisioni pratiche
concrete.47 Dalla esposizione precedente è già emerso che c'è una significativa differenza fra una
trattazione delle costituzioni che sia volta a definirle e classificarle ed una che sia volta ad offrire
suggerimenti sul modo in cui preservare quelle esistenti. Aristotele riconosce espressamente una
tale differenza, anche se lo fa non a questo proposito ma parlando dell'economia e della
crematistica, all'inizio del cap. 11 di Politica I. Qui egli dichiara di avere introdotto (evidentemente
nei capp. precedenti) sufficienti precisazioni in merito dal punto di vista della conoscenza (pros ten
gnosin), e di voler ora discutere ║quanto è di utilità pratica (pros ten chresin). E aggiunge: "nel
caso di temi del genere lo studio teorico (he theoria) si svolge in modo libero, mentre la pratica si
piega alle necessità" (1258b10-11).

Di solito, indubbiamente, Aristotele non sottolinea questa dualità di aspetti della trattazione,
come avviene nel passo ora citato, che potrebbe concernere particolarmente la crematistica. Ma la
dualità si tradisce nella discrepanza che c'è nelle sue dichiarazioni (contenute in passi delle Etiche)
riguardanti lo scopo del sapere etico-politico. Alle volte egli dichiara, in polemica esplicita o
implicita con Socrate, che l'importante è praticare la virtù, non arrivare ad una conoscenza circa la
sua natura (cfr. Eth. Nic. II 2, 1103b26 ss., e Eth. Eud. I 5, 1216 b20 ss.); e c'è un passo nel quale,
parlando in generale della politica, afferma che il suo fine è la prassi e non la conoscenza (cfr. Eth.
Nic. I 3, 1095a5-6).48 Altre volte però afferma che il compito dell'indagine che sta conducendo è
quello di comprendere l'essenza o natura (ti esti) della virtù (cfr. Eth. Nic. II 4, 1105b19, e Eth. Eud.
II 1, 1220a13), del volontario e dell'involontario (cfr. Eth. Nic. III 2, 1111b4 ss. e Eth. Eud. II 7,
inizio), del bene in generale (cfr. Eth. Nic. I 6 e Eth. Eud. I 8), e così via.

1.10. Quanto ho detto fin qui può avere creato l'impressione che sia sempre possibile distinguere
con nettezza, all'interno della Politica, quelle parti che hanno un orientamento conoscitivo da quello
che hanno un orientamento pratico. In realtà la situazione non è così semplice. A soffermarsi sui
libri centrali dell'opera, si constata facilmente che il passaggio dall'un orientamento all’altro, nel
corso dell'esposizione, si verifica con una certa frequenza. Questo vale indubbiamente per il libro
IV, al quale finora si è dedicata più attenzione. In diversi passi di esso emerge abbastanza
chiaramente la convinzione di Aristotele che i regimi democratici e quelli oligarchici sono tanto più
accettabili e hanno tanto più possibilità di durare quanto più evitano le forme estreme che sono
tipiche di essi, per appoggiarsi invece sulla classe media. Anzi, seguire questa via con sufficiente
coerenza vuol dire adottare la costituzione mista, cioè la politeia, che è quella più libera da conflitti
intestini; riformare le altre costituzioni a favore di quest'altra è solo un passo ulteriore rispetto al
rimediare agli eccessi di quelle. La costituzione mista in effetti è quella migliore non in assoluto ma

47
Questo è il "momento tecnologico" di cui parla G. Bien in Das Theorie-Praxis Problem und die politische
Philosophie bei Platon und Aristoteles, "Philos. Jahrbuch" 76, 1968 (pp. 264-314) pp. 275-81; anch'egli si richiama al
testo che ora cito di Pol. I 11.
48
Notare ancora che in Eth. Eud. I 1, 1214a12 ss., c'è la precisazione (nel parlare del tema della felicità come fine dello
uomo) che le questioni che competono esclusivamente (monon) alla "filosofia teoretica" vanno rinviate ad un'altra
occasione; ma l'indagine (skepsis) proposta non concerne solo il modo di acquisire la felicità ma anche in che cosa essa
consista.
23
per una qualsiasi città che sia costituita da persone di virtù non superiore (ma anche non inferiore)
al normale (su questo punto cfr. la formulazione usata all'inizio di IV 11, con un evidente richiamo
al quarto dei compiti introdotto in IV 1). Da questo orientamento generale adottato da Aristotele
discendono in modo naturale delle indicazioni sia sul come eliminare ║i tratti più radicali della
democrazia e dell'oligarchia (p.es. il legislatore proporrà leggi alla città che siano tali da rafforzare
la classe media, cfr. IV 12, 1296b34 ss.; prenderà pure provvedimenti appropriati circa
l'ammissione alle cariche, quali quelli descritti in IV 13), sia, più positivamente, sul modo di
stabilire la costituzione mista (in primo luogo associando regole democratiche a regole oligarchiche,
cfr. IV 9).

L'intento pratico di Aristotele è da lui dichiarato all'inizio di IV 12, dove viene proposto come
tema da affrontare dopo quelli discussi in precedenza quello di stabilire quale costituzione sia di
vantaggio per un dato insieme di persone, dotate di certe caratteristiche; e viene detto che il primo
punto da cogliere, di valore generale, è che la parte della città che vuole il mantenimento della
costituzione deve essere più forte della parte che non lo vuole. E' evidente che per lui si tratta di
trovare i modi per attuare tale principio di ovvia rilevanza pratica. Al di là di questo, si tratta per lui
di attuare due dei punti del programma di IV 1, quello della realizzazione della costituzione
migliore nelle circostanze (a questo soprattutto allude nel nostro passo) e quello della realizzazione
della costituzione mista, intesa come quella che è più desiderabile e migliore per la maggior parte
delle città (a quest'altro allude all'inizio di IV 11), tenuto conto che fra i due compiti non c'è
comunque molta distanza. L'intento pratico che così si manifesta prevale, all'interno del libro IV,
nei capp. 12 e 13, e si fa sentire nel cap. 9, mentre in tutti gli altri capitoli è dominante l'intento
conoscitivo.

Nel libro III l'intento conoscitivo è sicuramente del tutto prevalente anche nella parte di esso che
concerne la classificazione delle costituzioni (cioè nei capp. 7 e 8, dove c'è una tipologia generale,
nel cap. 14, dove si distinguono cinque tipi di monarchia, con esempi che sono dati da regimi del
passato). Il resto del libro poi è largamente concentrato su questioni di principio della politica. I
primi capitoli sono rivolti alla definizione del cittadino (sul significato del tema vedi più oltre, 2.2 e
inizio di 2.3), quelli successivi discutono dei rispettivi meriti di un regime, rappresentato (almeno
storicamente) dalla monarchia, in cui un uomo solo abbia il potere, e un regime che ricorra a delle
leggi che non siano cattive e assegni un ruolo significativo al giudizio collettivo dei cittadini qual è
quello che si manifesta nelle assemblee (nei capp. 9-13 e 15-16 tale questione è pervasiva; la
conclusione alla quale Aristotele arriva è che il potere va affidato al singolo solo se è una persona
eccezionale); più in generale, discutono delle varie pretese che si trovano avanzate da più parti al
governo della città. C'è, si può notare, un certo intreccio fra la problematica più generale e quella
concernente la natura della monarchia (ed è quest’ultima che è dichiarata essere stata completata
alla fine del cap. 17); manifestamente la monarchia è il primo dei regimi che viene discusso dopo la
tipologia generale dei capp. 7 e 8, mentre degli altri regimi (ma della aristocrazia in maniera
piuttosto subordinata o alla oligarchia o alla politeia) si discute, si è visto, nel libro IV. (Quanto al
cap. 18, contiene una ricapitolazione di quanto viene prima e, dopo la precisazione che l'educazione
per l'uomo bravo e per il politico o il re deve essere la stessa, dato che è allo stesso modo ║che un
uomo diventa virtuoso e che una città acquista un regime aristocratico o monarchico, viene a
dichiarare che ci si deve occupare della costituzione migliore, il che avviene in effetti nei libri VII e
VIII.)
24
La trattazione nel libro V e, in parte, nel VI,49 è dichiaratamente concentrata sul motivo della
"salvezza" delle costituzioni esistenti (come già si accennava nella sez. 1.6), e comprende pertanto
indicazioni abbastanza concrete sul da farsi per preservare un qualsiasi regime, compresa la
tirannide. Tuttavia è solo in parte così nettamente pratica, perché le indicazioni pratiche che
vengono date sono ritenute fondarsi su di una conoscenza dei processi di mutamento delle
costituzioni, nelle loro modalità e nelle loro cause, le cui acquisizioni sono esposte nel corso della
trattazione. Questo è un punto che è reso esplicito da Aristotele stesso nelle sue formulazioni
programmatiche. Proprio all'inizio del libro V egli presenta come tema della trattazione successiva
quello delle "cause per cui le costituzioni mutano – quali e quante esse siano" e, insieme, del
"modo in cui le costituzioni deperiscono", "di quali di esse trapassino per lo più in quali altre di
esse", di "quali siano i modi per salvarle, in generale o ciascuna di esse", ovvero di "quali siano i
mezzi che meglio ne assicurano la conservazione" (1301a20-24). Nel seguito si allude più volte al
compito di accertare le cause che portano al mutamento delle costituzioni ovvero al loro
deperimento (cfr. p.es. cap. 2, inizio e 1302b23; cap. 5, fine, con riferimento alle democrazie; cap.
6, fine, con riferimento alle oligarchie; cap. 9 fine; cap. 10, inizio e fine, con riferimento alle
monarchie), talvolta parlando più specificamente delle cause delle sedizioni (all'inizio del cap. 2 si
menzionano anche queste; e cfr. 1, 1301a4-5; cap. 4, inizio; cap. 7, inizio, con riferimento alle
aristocrazie; ecc.). Al tema delle cause della dissoluzione delle costituzioni, insieme a quello delle
cause del loro mantenimento, si allude ancora allo inizio di VI 1, nell'offrire una ricapitolazione di
quanto viene prima, e all'inizio di VI 5. Quale sia la connessione fra tali due tematiche viene detto
all'inizio di V 8 e anche di V 11: conoscendo le cause di dissoluzione delle costituzioni si
conoscono anche le cause della loro preservazione, che sono le contrarie delle prime, perché "i
contrari producono i contrari, e dissoluzione e preservazione sono contrari <l'uno all'altro>"
(1307b 29-30). Insomma, dalla conoscenza delle cause dei mutamenti e della dissoluzione delle
costituzioni si ricava immediatamente quella delle cause del loro mantenimento, e quest'ultima
conoscenza si lascia tradurre in indicazioni pratiche volte a favorire il prevalere di quest'ultime
cause, come avviene appunto nel libro V.

Non c'è, allora, separazione fra le due prospettive, quella conoscitiva e quella "terapeutica", nel
corso di questa trattazione: la seconda viene fatta discendere dalla prima. C'è tuttavia una certa
prevalenza dell'una sull'altra in certe sue parti. In V 1-7 prevale l'analisi delle cause ║(in effetti
relativa soprattutto ai mutamenti di democrazia e di oligarchia), mentre in V 8-9 si parla del
preservare le costituzioni (la dichiarazione programmatica all'inizio del cap. 8, alla quale si è già
alluso, viene a giustificare questo fatto); in V 10 si torna alla questione delle cause, in relazione alla
monarchia (cfr. l'inizio programmatico del cap.), mentre in 11 e, in parte, in 12 si parla di come
preservarla (ma in effetti l'attenzione si sposta sulla tirannide). Pertinenti alla tematica della
preservazione delle democrazie sono poi VI 3 (sui modi per realizzare l'uguaglianza) e 5 (più
espressamente sul tema, cfr. l'inizio del cap.); a quella della preservazione delle oligarchie lo sono
V 6 e 7.

49
Il libro VI è in effetti una specie di appendice ai libri precedenti; alcuni dei suoi temi sono menzionati più oltre, in
questa sez.; per il resto, si è già notato che VI 8 si rifà a IV 14-16 sui meccanismi istituzionali, e va sottolineato che VI
2 contiene un'importante descrizione della democrazia, nei suoi principi e nei modi in cui li attua.

25
Ho parlato apposta di una connessione fra una prospettiva conoscitiva e una "terapeutica" nel
corso della trattazione condotta in questa parte della Politica, perché essa illustra quel legame fra i
due momenti che Aristotele stesso riconosce nei passi citati dei Parva Naturalia. Anche in medicina
infatti si arriva a determinare qual è la terapia più adatta per tenere il malato in vita (una volta che si
è riconosciuto che questo è uno dei suoi compiti), come, se possibile, per farlo guarire, sulla base di
una conoscenza adeguata delle cause delle malattie (cioè delle condizioni di deperimento del
malato) e anche delle modalità di trasformazione di certe malattie in altre. Dal politico ci si aspetta
dunque che egli, alla stregua del medico che sia anche un fisico o del fisico che sia interessato a
questioni di medicina, pervenga alla conoscenza più completa ed obbiettiva possibile delle cause e
delle modalità di certi processi politico-sociali, realizzando così un momento puramente
conoscitivo. Invero questa non è un'analogia che sia proposta esplicitamente da Aristotele stesso,
ma essa è suggerita molto naturalmente da formule come quella dei contrari che producono i
contrari, che si richiama al principio medico dell'efficacia terapeutica dei contrari.50

2.1. Fin qui ho considerato la natura dell'indagine condotta da Aristotele nella sua Politica
soprattutto dal punto di vista della sua metodologia. E' opportuno ora soffermarsi un po' di più sul
suo oggetto. C'è da domandarsi, in primo luogo, se l'analogia con le arti valga anche dal punto di
vista di questo oggetto, la polis, cioè se essa sia concepita, se non come un artefatto vero e proprio,
sull'analogia di esso. Se così fosse, essa potrebbe lasciarsi scomporre in materia e forma e, in
genere, prestarsi ad un'analisi in termini dei quattro tipi di causa normalmente riconosciuti da
Aristotele (oltre ai due menzionati, fine e causa efficiente). L'adozione di questa analogia non
escluderebbe che la città sia concepita anche alla stregua di un essere vivente, con la stessa
conseguenza, dato che quel tipo di analisi è applicato da lui anche agli esseri viventi, [p. 107] sulla
base dell'ammissione che la natura opera in maniera simile alle arti (in quanto queste ultime, a loro
volta, "imitano la natura", per cui dallo studio delle loro operazioni si può trarre inferenze sulle
operazioni della natura). E indubbiamente il fatto che Aristotele affermi la naturalità della città (il
suo essere physei) fa pensare che la seconda analogia sia ai suoi occhi più stretta della prima.

Su questo punto c'è della controversia fra gli studiosi: l’ammissione che le menzionate analogie
sono all'opera nella Politica comporta l'attribuzione ad Aristotele della tesi che la città va concepita,
almeno entro certi limiti, come una sostanza, e questa è una tesi che da alcuni è nettamente
rifiutata.51 A me pare tuttavia difficile negare che una certa sostanzializzazione della città è

50
Anche Mulgan, in op.cit., nota a questo proposito che "the analysis of causes leads directly to the giving of advice to
the statesman, just as the explanation of disease helps the doctor to administer the cure" (p. 117). Per attestazioni del
principio della cura mediante opposti in testi ippocratici cfr. A. Thivel, Cnide et Cos? Essai sur les doctrines
medicales dans la collection hippocratique, Paris 1981, pp. 258 ss.
51
L'applicabilità delle quattro cause alla città considerata come un tutto è affermata p.es. da W.L. Newman, The
politics of Aristotle, vol. I, Oxford 1887, pp. 44-50; da E. Barker, The Political Thought of Plato and Aristotle, 3.ed.,
London 1947, cap. VII, § 1 e passim; da A.B. Hentschke, Politik und Philosophie bei Plato und Aristoteles,
Frankfurt/Main 1971, p. 394; da M. Riedel, Metaphysik und Metapolitik, Frankfurt/Main 1975, pp. 63 ss.; e da A.
Kamp, Die politische Philosophie des Aristoteles und ihre metaphysischen Grundlagen, Freiburg 1985, pp. 164 ss.; ed
è contestata da E. Schütrumpf, Kritische Ueberlegungen zur Ontologie und Terminologie der aristotelischen "Politik",
"Allg. Zeitschrift für Philos." 6/2, 1981, pp. 26-47, e da W. Kullmann, Der Mensch als politischer Lebewesen bei
Aristoteles, "Hermes" 108, 1980, pp. 419-443.

26
compiuta da parte sua. La città è da lui presentata come un tutto di cui i membri (i suoi abitanti)
sono parti non autosufficienti (in Politica I 2, 1253a18 ss.), e comunque come qualcosa che ha
priorità sui suoi componenti (in Eth. Nic. I 2, 1194b7-9). Ora è difficile pensare che per lui una
realtà non sostanziale possa avere priorità su di una realtà sostanziale, qual è quella di ciascuno
degli uomini che fa parte della città. Il fatto stesso che ad essa sia attribuito un fine proprio, che
viene sì ritenuto fondamentalmente identico a quello dell'uomo singolo, ma non perché riducibile a
quest'ultimo (cfr. l'ultimo passo citato, e Politica VII 2, inizio), ha l’effetto di sostanzializzarla. Si
può aggiungere che in VII 1, 1323b29 ss. egli considera la città (con riferimento a quella ben
ordinata) dotata non solo di felicità (che è il fine comune ad essa e all'uomo singolo) ma anche di
qualità o virtù come il coraggio e la saggezza, e tutto questo dichiaratamente alla stregua di quanto
vale per l'uomo singolo. E anche l'applicazione ad essa di criteri (discriminanti da ciò che non è
città) come quello dell’autosufficienza riflette una sua sostanzializzazione.52

Che ci sia una sostanzializzazione della città è confermato dalla frequenza con cui essa è
considerata o in analogia, in particolare, con gli esseri viventi, o in analogia, più generalmente, con
sostanze che includono gli esseri viventi e gli artefatti. Già la precedentemente discussa trattazione
di IV 4 comporta l'istituzione di un'analogia fra la città e l'animale, il che è confermato dal ricorrere
dell'analogia con l'essere vivente nel corso dell'esposizione in quel cap. (in 1291a24 ss.). Si trova
poi che in VII 8, 1328a21 ss., la città è considerata come un tutto ║dotato di parti alla stregua (si
dichiara) di ogni altro composto naturale (ta kata physin synestota), il che evidentemente fa pensare
agli animali. (Più genericamente, in III 1, 1274 b39-40, viene detto che essa è un composto come
ogni altro tutto che sia costituito da più parti.) In precedenza, in VII 4, 1326a35-37, parlando della
grandezza che deve essere posseduta dalla città ben ordinata, viene suggerito che ci deve essere un
limite, come c'è un limite per tutte le altre cose: animali, piante, strumenti (cioè artefatti). Un caso
abbastanza simile in cui viene introdotta l'analogia con l'animale (questa volta non per la grandezza
in assoluto della città ma per la proporzione che ci deve essere fra le sue parti) si trova in V 3,
1302b33 ss. E un uso dell'analogia con l'essere vivente simile a quello di IV 4 si trova in III 4,
1277a5 ss.

Tutto questo difficilmente si può intendere come un pura metafora, come suggerisce il
Kullmann.53 Certo, non si deve neppure pensare che Aristotele concepisca la città come un essere
umano o come un animale in grande, del quale i singoli sono semplicemente le cellule: egli è
consapevole del fatto che si tratta di un'aggregazione ovvero di una comunità di individui distinti.
Ed egli critica anzi chi, come Platone, non ha tenuto sufficientemente conto del fatto che la città
presenta, al suo interno, una pluralità differenziata, e ha sostenuto che il suo fine, la felicità, si può
realizzare nella città tutta anche se nessuno dei componenti la realizza (cfr. Politica II 1-5). Fra le
analogie alle quali ricorre per rendere conto della natura della città non c'è solo quella con
l'animale, ma quella (di III 3, sulla quale tornerò fra poco) con il coro in una recita teatrale e quella
con la nave insieme al suo equipaggio e i suoi passeggeri (VII 4, nel contesto del passo già citato, e

52
L'autosufficienza (autarkeia) è attribuita alla città in I 2, 1252b28 ss. e 1253a25 ss. e anche altrove; sulla questione
cfr. Kamp, op.cit., pp. 115-16.
53
Nell'art. cit., p. 423; è criticato da Kamp, op.cit., p. 100 e n. 3, p. 116 e n. 27.

27
III 4, 1276b20 ss.). Nessuna di queste analogie, s'intende, è del tutto adeguata: il coro ha bisogno
solo di un minimo di struttura materiale, mentre coloro che navigano sono tenuti insieme dalla nave
proprio come struttura materiale; ma esse mostrano comunque che la indubbia sostanzializzazione
della città operata da Aristotele non va oltre certi limiti. Nel parlare della città come di una
comunità (koinonia), sottolineando che il territorio ne è solo la condizione (cfr. III 3 e VII 8),
Aristotele riconosce che essa è data in primo luogo da un certo insieme di rapporti interumani.
Quello però che mi preme sottolineare è che le analogie con l'animale e con l'artefatto, con la
sostanzializzazione che esse comportano, si fanno particolarmente sentire quando Aristotele sta
parlando dell'indagine scientifica da condurre (o da lui condotta) circa la città. Se è vero che non
tutto l'apparato concettuale usato nella Politica trae la sua origine dall'ambito delle arti, credo però
che questo sia sostanzialmente vero dell'apparato concettuale relativo all'epistemologia della
politica. E' su questa ammissione (che certo avrebbe bisogno di ulteriori giustificazioni) che si
fonda l'approccio da me adottato nel presente saggio.

L'affermazione aristotelica di VII 8 che la città è un composto naturale già suggerisce la


possibilità della sua analisi in termini di materia e forma, ║come parte dell'applicazione della
distinzione delle quattro cause. E' bene però vedere se una tale analisi è effettivamente condotta da
Aristotele direttamente sulla città come un tutto. Il problema della struttura della città, da un punto
di vista in qualche modo ontologico, viene affrontato da lui nel modo più diretto in Politica III 3.
Qui viene sollevata la questione della identità o continuità della città, con particolare riferimento
alla tesi (sulla cui validità egli stesso non si pronuncia in modo definitivo) che il mantenimento di
certe obbligazioni, come i trattati stipulati con altre città, da parte di una data città non è più
richiesto se la città non è più la stessa per avere cambiato costituzione (p. es. passando da un
regime oligarchico ad uno democratico). La questione che si pone è quindi: in quali condizioni la
città, nel corso del tempo, è ancora la stessa, e in quali non lo è più? Nell'affrontarla Aristotele,
dopo aver precisato che la città non consiste (propriamente) nel suo territorio (delimitato o meno da
mura), ma semmai nella sua popolazione che, pur cambiando con il succedersi delle generazioni,
conserva una sua continuità, suggerisce che essa non risiede primariamente neppure nella
popolazione stessa, come gruppo di persone che si trovi in una qualsiasi condizione, di unificazione
o meno. La città infatti è una comunità o associazione (è una koinonia, 1276b1), quindi un insieme
ordinato, un composto (una synthesis) dotato di una sua unità. Tale comunità è paragonata a quella
costituita da un coro: questo, anche quando è composto dalle stesse persone, diventa differente se
prima è un coro tragico e poi un coro comico; allo stesso modo la città diventa differente se c'è un
cambiamento di tipo o specie della sua costituzione. (Presumo che il suggerimento è che ciò
avviene se cambia del tutto di regime politico, p.es. da oligarchico a democratico, non se ci sono
delle variazioni in un regime che rimanga fondamentalmente oligarchico o fondamentalmente
democratico.)

La costituzione stessa di una città è paragonata, non solo nel passo ora preso in considerazione
(in 1276b8-9) ma anche altrove (in IV 3, 1290a19-22), alle armonie musicali, cioè alle
combinazioni di note, delle quali si distinguono il modo dorico e quello frigio (fatti corrispondere
manifestamente all'oligarchia e alla democrazia). Mi pare abbastanza chiaro che questa analogia con
l'armonia (che in De anima I 4, 407b30 ss., è detta essere un logos ovvero una certa combinazione,
cioè synthesis ma anche krasis, di cose che vengono mescolate), come anche quella con la
disposizione di un coro, implica che la costituzione va vista come la forma della città (notare che
28
anche il modo in cui le lettere dell'alfabeto sono ordinate in sillabe è detto essere la loro forma in
Metaph. Z 17). Una conferma di questo suggerimento è data dal fatto che la costituzione di una città
è chiamata il suo ordine (la sua taxis, cfr. III 1, 1274b38; III 6, 1278b8 ss.; IV 1, 1289a15-16; IV
3, 1290a7 ss.). Un'ulteriore conferma sta nel fatto che essa è chiamata pure la vita della città (il bios
tes poleos, IV 11, 1295a40-41), perché la vita di un organismo sta nella sua anima, che è la sua
forma.

Qual è allora la materia della città? L'analogia con il coro in III 3 e in genere l'approccio adottato
in quel capitolo suggerisce che essa è data dalla sua popolazione, [p. 110] cioè dagli abitanti (dei
quali viene fatta menzione in 1276b12) considerati a prescindere dal modo in cui sono organizzati
nel far parte di quella comunità che è la città dotata di una costituzione. Ma la popolazione della
città è chiamata espressamente la sua materia (hyle) da Aristotele in Politica VII 4, 1325b40 ss.,
perché qui essa è trattata come ciò di cui per prima cosa il nomoteta deve disporre nel dare della
leggi alla città. Contrariamente infatti a quello che pare ad alcuni studiosi54 il fatto che qui
Aristotele adotti il punto di vista del nomoteta, considerando il suo modo di procedere alla stregua
di quello di un artigiano, che rende formata una certa materia data, non esclude che egli parli della
materia della città: il bronzo, per esempio, è sia la materia che l'artigiano trasforma sia la materia
della statua che risulta da tale sua operazione. (C'è invero una complicazione, perché in VII 4 la
popolazione è la materia della città in primo luogo, e il territorio lo è pure, in secondo luogo, cfr.
1326a 5-8, mentre nel libro III il territorio non fa propriamente parte della città, ma ne è solo una
condizione. Probabilmente però c'è una certa, facilmente comprensibile, oscillazione nella
valutazione che Aristotele dà dell'importanza del territorio, che è pur sempre qualcosa di
indispensabile all'esistenza di una città.) Il nomoteta, in questo quadro, viene trattato come una
causa efficiente, sull'analogia appunto dell'artigiano nella produzione degli artefatti. Quanto al fine,
sappiamo già che Aristotele ne ammette uno per la città nel suo complesso, per cui l'analisi di essa
in termini delle quattro cause pare applicarsi senza difficoltà.

2.2. All'idea della scienza politica come studio delle costituzioni Aristotele arriva in parte (come
abbiamo visto sopra, 1.5, nel prendere in considerazione un passo alla fine di Eth.Nic.) perché
ritiene questo studio indispensabile al legislatore, in base al riconoscimento che le leggi da
assegnare ad una città dipendono dalla sua costituzione. Ma egli ci arriva anche perché lo studio
della costituzione di una città è lo studio della città tutta dal punto di vista della forma che possiede,
dunque è uno studio della città nella sua essenza, ed è questa ad essere l'oggetto naturale di un
sapere che sia politico. Come viene da lui rilevato espressamente in VII 8, 1328a35-b2, la varietà
delle costituzioni implica una correlativa varietà delle città. La città infatti è un'associazione di
persone, ma queste persone, nel loro insieme, perseguono il loro fine fondamentale, la felicità, in
modi differenti e con mezzi differenti, per cui anche i loro modi di vita sono differenti e,
ugualmente, le loro costituzioni (si ricorderà che la costituzione è chiamata in IV 11, 1295a40-41 la
vita della città).

54
Oltre a Schütrumpf, art. cit., p. 31, e a W. Kullmann, art. cit., p. 437, anche da Kamp, op.cit., p. 163 e n. 38,
nonostante che egli altrimenti dissenta dai precedenti.
29
E' insomma la città (polis), e non semplicemente la costituzione (politeia), che è l'oggetto della
scienza politica (della episteme o philosophia politiké), la quale appunto è chiamata "politica" ║in
relazione al primo termine, non al secondo (esso stesso derivativo). Questo è riconosciuto da
Aristotele quando afferma, all'inizio di III 1, che "per chi indaghi sulla costituzione,
<determinando> che cosa sia ciascuna <costituzione> e quale sia [cioè la sua natura e i suoi
caratteri], la prima indagine <da condurre> è circa la città, per conoscere che cosa essa sia"
(1274b31-33). Ed egli rileva, nel seguito immediato, che la attività del nomoteta e del politico
riguarda tutta la città (b36-37). In realtà nel seguito del capitolo e in quelli successivi (fino al cap. 5
e salvo il cap. 3) la sua attenzione si concentra sul cittadino visto proprio come "parte" o membro
della città, che è appunto un insieme di cittadini (b39-41); e la questione di chi debba essere
cittadino o lo sia di fatto nelle costituzioni esistenti porta alla questione della classificazione delle
costituzioni (per una ragione da precisare fra poco), che è quanto è soprattutto al centro
dell'attenzione nel resto del libro. Ma, come si è già visto, il cap. 3 è concentrato sulla questione
della natura della città dal punto di vista della sua continuità nel tempo (e il problema in esso
discusso del mantenimento di certi impegni da parte della città si connette a quello che viene
sollevato subito dopo il citato inizio di III 1: un certo atto che viene compiuto – evidentemente di
tipo politico – è opera della città come tale oppure lo è dell'oligarchia o del tiranno?) A parte poi le
indicazioni che si trovano qua e là nell'opera circa l'idea che Aristotele si fà della città, incluse le
analogie precedentemente menzionate, dell'attenzione alla sua essenza è dedicata all'inizio
dell'opera, nel cap. 2, dove viene affermata la naturalità della città (cfr. 1252b30 e 1253a25 ss.),
manifestamente in polemica con coloro che sostenevano che la sua esistenza dipende solo da un
patto fra i suoi membri (cfr. III 9, 1280a34-b12). Qui la prospettiva è differente da quella di III 3,
perché egli passa ad un'analisi della città in "parti" che però non sono né gli strati sociali di cui parla
nel libro IV e VII né i cittadini di cui parla nei primi capp. del libro III: sono le comunità minori
che compongono la città, cioè le case o famiglie (oikoi) e i villaggi (komai). Il resto del libro
peraltro concentra la sua attenzione proprio sulla casa e (per via del carattere famigliare che
continua ad essere attribuito all'economia) sulla "crematistica" nel doppio senso di arte
dell'acquisizione di beni utili e dell'acquisizione di denaro55. Del villaggio, salvo cenni occasionali,
non si parla più. E manca quello studio della struttura della città, in relazione sia alle comunità
minori che ne sono le "parti" sia ad altre forme vaste di associazione fra uomini come può essere
l'ethnos che prevale, secondo lo stesso Aristotele56, ║presso i popoli barbari, che ci si aspetterebbe
dopo l'introduzione del tema in I 2.

Nella misura in cui anche il resto dell'opera considera la città nel suo complesso, lo fa non più in
questa prospettiva del libro I oppure in quella adottata in III 3, ma dal punto di vista delle
costituzioni possedute dalle varie città, in base appunto all'idea che ciascun tipo di città è distinto
dal proprio tipo di costituzione. Peraltro questo suo approccio non è del tutto uniforme, ma presenta

55
A partire da una considerazione del rapporto padrone-schiavo Aristotele offre una trattazione generale della schiavitù
nei capp. 3-7; altri rapporti che esistono all'interno della casa sono da lui discussi nei capp. 12-13 (con considerazioni
più generali in quest'ultimo cap.); la crematistica è discussa nei capp. 8-11.
56
Una distinzione fra polis ed ethnos è riconosciuta in II 2, 1261a27-29 e III 14, 1285b33; peraltro Aristotele fa un uso
ambiguo del termine, che può servire ad indicare un certo popolo indipendentemente dal suo ordinamento politico (cfr.
Newman, op. cit., p. 39); sull'uso del termine nel senso di società non centralizzata o tribale, anche in altri autori greci,
cfr. C.Ampolo, La politica in Grecia, Roma-Bari 1981, pp. 103 ss.

30
delle differenziazioni che sono legate alle differenze di significato che sono presentate da
"costituzione" (politeia), così come Aristotele definisce e utilizza il termine. C'è una polivalenza
della parola, anche a prescindere dal suo uso per designare un certo tipo di costituzione, quella
mista, che emerge se si mettono a confronto due definizioni che Aristotele propone nel corso
dell'opera: la prima è quella di costituzione come ordine (taxis) degli abitanti della città (III 1,
1274b38); la seconda è quella di costituzione come ordine delle cariche (taxis tôn archôn, IV 3,
1290a7-8), cioè delle magistrature e delle funzioni direttive. S'intende che la seconda definizione
può essere facilmente estesa alle persone che detengono quelle posizioni, per cui non è qui il punto
principale di differenza fra le due definizioni. E' significativo, piuttosto, che nel caso della prima
definizione egli parli degli abitanti della città e non dei cittadini o addirittura soltanto dei detentori
delle posizioni di potere. Qui dunque la costituzione è l'organizzazione complessiva della città, e
questo è quanto Aristotele ha in mente anche nella menzionata discussione della struttura della città
in III 3 (dove, si ricorderà, in 1276b12 si fa menzione dei suoi abitanti con riferimento appunto alla
sua costituzione), come lo ha in mente, almeno principalmente, quando definisce la costituzione la
vita della città. E' sicuramente indicativo di questo senso ampio del termine anche che la
costituzione sia chiamata una comunità (koinonia), cioè sia chiamata allo stesso modo in cui è
chiamata la città nel suo complesso (cfr. II 1, 1260b40). Nell'offrire invece la seconda definizione
Aristotele deve avere in mente sia l'organizzazione delle cariche o posizioni direttive sia le modalità
di accesso ad esse.

A ben vedere, è nel primo senso che il termine è inteso nella presentazione della costituzione
migliore in assoluto negli ultimi due libri dell'opera, perché ivi la città è descritta in tutta la sua
organizzazione. Si parla infatti del territorio che essa dovrebbe occupare e di altre circostanze
esteriori (in VII 5-7 e 10-11), della sua urbanistica (in VII 12), dell'istituto del matrimonio e della
famiglia (in VII 16), dell'educazione dei cittadini (soprattutto nel libro VIII), e di altro ancora che
non ha direttamente a che fare con il suo ordinamento strettamente politico. Se questa fosse la
prospettiva predominante nei libri centrali, e in particolare nel libro IV, si dovrebbe arrivare in essi
ad un'analoga descrizione completa del modo in cui è organizzata la città democratica o la città
oligarchica, prendendo in considerazione quello che è tipico di ciascuna ║(p.es. tipico della
democrazia è, come si può arguire dai cenni soprattutto nello stesso libro VII, la vicinanza al mare,
l'urbanistica centrata sulla piazza del mercato e in assenza di un'acropoli, ecc.). Non è questo però
l'approccio adottato in quei libri, dove l'attenzione è centrata invece proprio sull'ordinamento
politico delle città. Qui egli parla di costituzioni nel senso che è diventato tradizionale per la scienza
politica, cioè nel senso di regimi politici come la democrazia e l'oligarchia, differenziandoli in base
a considerazioni come quella delle modalità di partecipazione al potere politico.

Per una migliore comprensione di questa parte dell'opera va tuttavia tenuta presente un'ulteriore
definizione di "costituzione (politeia)" che viene offerta da Aristotele, che è in qualche modo
intermedia fra le altre due. In due passi (III 6, 1278b 9-10 e IV 1, 1289a15-16) la costituzione è
definita l'ordine della città rispetto alle cariche (archai). Essa è cioè trattata come l'ordine della città
tutta, ma dal punto di vista dell'organizzazione e delle modalità di accesso alle cariche o posizioni
direttive. La presenza di questa definizione intermedia aiuta a spiegare il passaggio dal senso più
largo al senso più stretto di costituzione: c'è una specializzazione progressiva del termine, con
l'accentuazione dell'attenzione per l'ordinamento propriamente politico della città. Ovviamente, alla
base del passaggio, c'è la convinzione che dall'ordinamento politico dipende l'organizzazione
31
complessiva della città, per cui è lo studio di esso ad essere decisivo per chi vuole avere una
conoscenza di che cosa è la città. E se è indubbiamente vero che è la costituzione nel primo e più
ampio dei sensi che è più appropriatamente vista come la forma della città, la centralità attribuita
all'ordinamento politico permette l'estensione della concezione anche agli altri sensi del termine.

A questo punto si può dire che il secondo dei sensi considerati di costituzione, cioè quello più
stretto di tutti, prevale solo nella discussione tecnica del funzionamento delle cariche pubbliche in
IV 14-16, dove queste sono considerate per conto proprio. Il senso intermedio è invece quello che
prevale nella classificazione e analisi delle costituzioni che è offerta nel resto del libro IV e in certe
parti del libro III. In questi testi viene sì considerato l'ordinamento delle cariche, ma dal punto di
vista della città tutta, avendo in mente (come si è già visto) distinzioni come quella fra ricchi e
poveri, perché è soprattutto la questione dell'accesso a quelle cariche che è in questione.

Peraltro il senso originario del greco politeia non è quello di costituzione (in una qualsiasi di
quelle definizioni) ma quello di cittadinanza, qualora si consideri quest'ultimo termine nel doppio
senso di insieme dei cittadini e di diritto di cittadinanza. Il legame fra questo senso e quello di
costituzione (politica) è dato dall'ammissione che è o dovrebbe essere l'insieme dei cittadini,
chiamato anche politeuma, ad esercitare il potere all'interno di una città presa nel suo complesso.
Questa prospettiva si riflette nella definizione che Aristotele stesso propone di cittadino, come
colui che partecipa del potere (cfr. III 1, 1275a22-23). Questa esigenza risulta però valere in linea di
principio e non di fatto, ║perché anche nei regimi democratici, in cui tutti hanno il diritto a
partecipare ad attività politiche come il prendere decisioni nell'assemblea, non tutti lo esercitano, e
in quelli oligarchici certi cittadini sono esclusi dal potere per legge (in base al criterio del censo),
dunque anche di diritto. Pertanto lo stesso termine politeuma, da Aristotele detto espressamente
essere equivalente a politeia (III 6, 1278b10-11 e III 7, 1279a25-26), finisce col cambiare di senso,
per indicare solo una parte dei cittadini, quelli che esercitano effettivamente le funzioni direttive,
come è chiaro già dalla sua presentazione nel contesto dei passi ora citati.57 Per di più, c'è talvolta la
tendenza, almeno da parte di Aristotele, a trattare la polis stessa come l'insieme dei cittadini soltanto
piuttosto che come l'insieme degli abitanti, includendo cioè coloro che sono indispensabili alla sua
esistenza.58 Probabilmente si fa sentire la persuasione che solo nel primo caso abbiamo a che fare
con una comunità (koinonia) genuina.59 In questa luce si comprende meglio l'emergere di un senso

57
Il termine finisce dunque coll'assumere il senso di "cittadinanza attiva (Aktivbürgerschaft)", come suggerisce C.
Meier, Entstehung des Begriffs 'Demokratie', Frankfurt/Main 1970, p. 61, n. 73; cfr. anche Kamp, op.cit., pp. 149 ss. e
P. Accattino, op.cit. (in n. 8), pp. 42-43 e n. 49 a p. 66.
58
Questa tendenza si nota in III 1, 1274b41, dove la città è denominata una pluralità di cittadini, in III 6, 1279a21, dove
è considerata come una comunità di liberi, e in IV 11, 1295b25-26, dove è detta essere costituita soprattutto da uguali e
simili (su questi passi anche Newman, op.cit., pp. 40-41); ma si nota anche in VII 4, dove quelle che sono le condizioni
di esistenza della città sono trattate non solo come la sua materia ma come il suo "equipaggiamento (choregia)", alla
stregua di quello di una nave o di un cavallo, oppure in IV 4, 1291a22 ss., dove viene introdotta l'analogia fra la città e
l'animale: come nell'animale è più propriamente parte di esso l'anima del corpo, così nella città coloro che hanno le
funzioni di decidere, di giudicare e di combattere sono più propriamente parti di essa di coloro che hanno funzioni
rivolte solo a soddisfare necessità vitali.
59
Questa tesi si comprende alla luce della concezione tipicamente greca della vita politica che Aristotele adotta: la
partecipazione alle attività pubbliche, concernenti la città, distintamente da quella alle attività (comprese quelle
economiche) concernenti la casa, è vista come costitutiva del "bene vivere", per cui senza di essa un uomo si trova in
una condizione di non piena attuazione di se stesso, il che vale per tutti coloro che non sono cittadini. Su alcuni aspetti
32
ristretto del termine politeia: il problema finisce col diventare quello del modo in cui i cittadini in
particolare sono organizzati, cioè quello di chi di loro ha accesso al potere e con quali modalità,
insieme a quello del modo in cui lo esercita – dato che il non cittadino è comunque escluso da esso;
il termine così finisce coll'indicare tale organizzazione, seguendo l'evoluzione di politeuma. Per un
altro verso il termine, che è venuto comunque ad indicare una certa organizzazione, tende a
sostituirsi a quello di "costituzione" (katastasis) per indicare l'organizzazione complessiva della
città (dunque questo senso più ampio del termine probabilmente non ha priorità genetica su quello
ristretto, ║ma questo è un punto che ho lasciato da parte nel discutere del loro rapporto).60

Concludendo, si può dire che, come ormai è diventato abbastanza chiaro, la costituzione
(politeia) di una città è vista stare non tanto nelle sue leggi scritte (anche se in genere si riconosce
che c'è o ci può essere un certo corpus di leggi fondamentali della città, per es. quelle istituite da
Solone e da Clistene, che peraltro non è esattamente una "costituzione" nel senso moderno, la quale
contiene piuttosto delle direttive generali concernenti anche il modo di legiferare in concreto)
quanto nelle sue pratiche (che sono nomoi nel senso greco del termine), con particolare
sottolineatura di quelle più propriamente politiche, e nelle stesse persone che le attuano. Più che
l'ordine politico che i cittadini attuano essa è i cittadini stessi ordinati a quel modo.61

2.3. Con quanto ora si è detto della connessione che c'è fra costituzione e cittadinanza nella
prospettiva greca, si spiega come mai Aristotele dedichi tanta attenzione al cittadino come membro
della città nella prima parte del libro III, cercando anche di offrirne una definizione generale.
Quello che emerge, in questa discussione, è che la differenziazione delle costituzioni ammessa da
Aristotele richiede che il cittadino stesso differisca da costituzione a costituzione, e questo non solo
perché la sua partecipazione al potere varia da costituzione a costituzione ma anche perché le
qualità che esso presenta, la virtù che possiede, non è sempre identica (cfr. particolarmente III 4,
1276b27 ss.). Per ogni tipo di costituzione, insomma, c'è un tipo di cittadino che è distintivo di essa:
ci sarà un carattere democratico dei cittadini che sono rappresentativi della democrazia, come ce ne
sarà uno oligarchico per l'oligarchia (cfr. VIII 1, 1337a14 ss., questa è un'implicazione anche del
passo già discusso di VII 8, 1328a35 ss., sulle costituzioni).

Aristotele riconosce pure, ma più esplicitamente nell'Eth. Nic. (VIII 10), che c'è un'analogia fra i
rapporti, di autorità ecc., che valgono all'interno della casa, e quelli che valgono nella città nel suo
complesso, anche se (come si accennava allo inizio, con riferimento a Politica I 1) egli ritiene che i

di questa concezione cfr. la discussione (un po' libera) di H. Arendt, The Human Condition, Chicago 1958, cap. I, cap.
II, e cap. V, specialm. sez. 24-27.
60
Su tutta la questione cfr. Meier, op. cit., pp. 59 ss., inoltre Kamp, op. cit. , pp. 132 ss. (ma il quadro che egli offre dei
significati di politeia è un po' confuso, per quanto piuttosto dettagliato) e (in forma sommaria) E. Braun, Das dritte
Buch der aristotelischen Politik, "Sitzungsb. Oesterr. Akad. d. Wiss.", Philos.-Hist. Kl. 247, IV, Wien 1965, p. 247. Si
noterà che il nostro "costituzione" ha un corrispondente esatto nel greco katastasis per gli usi sia politici che medici (sui
primi cfr. Meier, op.cit. e, per es., Platone, Resp. IV, 426c), il che può essere indicativo di una tradizione di
accostamento fra politica e medicina; il termine ricorre anche nella Politica, cfr. p. es. IV 15, 1299a11, ma non è
frequente e tende ad essere usato con un senso un po' restrittivo.
61
Sulla costituzione per i Greci cfr. quanto ne dice R. Robinson nell'introd. al vol. Aristotle's 'Politics', III-IV, Oxford
1962, pp. xv-xvii, e anche Kamp, op.cit., pp. 132 ss.
33
rapporti propriamente politici, cioè quelli che intercorrono fra cittadini, hanno una natura
sostanzialmente differente dagli altri (cfr. particolarmente III 4 e 6). Ma quelli politici sono [p. 116]
comunque attuati pienamente solo nelle costituzioni migliori (dove c'è un'alternanza fra i cittadini
nell'esercitare le funzioni direttive, cfr. VII 9 oltre ai capp. ora menzionati), mentre nelle altre c'è
più vicinanza fra tali rapporti e quelli che valgono nella casa (e questa diventa un'altra ragione per
cui sono devianti). Il suggerimento del testo dell'Etica è che il rapporto padrone-schiavo è di tipo
tirannico, quello fra marito e moglie è di tipo aristocratico, quello fra fratelli è di tipo timocratico (la
timocrazia qui sta al posto della politeia come tipo di costituzione), quello in cui nessuno è padrone
di casa è di tipo democratico. (Su quest'analogia nella Politica stessa cfr. I 12-13 e passim.)62

Ovviamente la sussistenza di tale analogia diventa un ulteriore motivo per il quale quello della
casa è uno dei temi trattati nella Politica, libro I. Va peraltro osservato che la precedentemente
discussa dualità di approcci della indagine condotta nell'opera in relazione alla costituzione si
riflette anche nella classificazione dello studio della casa (oikos), cioè dell'oikonomia (come viene
espressamente chiamata l'indagine condotta nel libro I in III 6, 1278b18) o della oikonomiké. Il fatto
che il tema sia stato introdotto nella nostra opera fa pensare ad un riconoscimento che esso fa parte
integrante della politica come scienza, ma questo vale per la politica come studio della costituzione
nel senso di organizzazione complessiva della città. Invece nell'Eth.Nic. (VI 8) essa è trattata come
una disciplina distinta dalla politica, evidentemente perché quì quest'ultima è ritenuta concernere la
costituzione nel senso stretto del termine.

Un ulteriore aspetto, che viene sottolineato sempre nella Eth.Nic. (VIII 11, inizio) è che ogni
costituzione comporta anche una forma di "amicizia (philia)" fra i cittadini tipica di essa. Una città
(viene suggerito in VIII 1, 1155a22 ss.) è tenuta insieme dai legami di affezione, simpatia,
solidarietà, ecc. (il termine greco è più esteso del nostro "amicizia") che sussistono fra i cittadini, e
non semplicemente dal rispetto per certe norme morali. Ci saranno dunque forme di amicizia tipiche
di una certa costituzione: quella che sussiste fra compagni della stessa età o fra fratelli è tipicamente
timocratica, mentre le forme che escludono l'uguaglianza sono tipiche di altri regimi (cfr.
nuovamente VIII 11, 1161a22 ss.; sul ruolo dell'amicizia in politica cfr. anche Eth. Eud. VII 10).
Un riconoscimento che la comunità politica si fonda sull'amicizia c'è anche nella Politica, ma non si
va oltre a dei cenni (in III 9, 1280b33 ss. e in IV 11, 1295b24 ss.); almeno implicitamente la
questione è toccata anche nella polemica con Platone nel libro II, specialmente capp. 3-4.63

Sempre nel definire i rapporti fra i membri della città e fra i cittadini in particolare maggiore
attenzione è dedicata, nella nostra opera, al motivo della giustizia. Si riconosce che una certa dose
di giustizia è la condizione minima dell'unità della città, ma che la giustizia (o il modo ║in cui è
attuata) non è la stessa per tutte le costituzioni (V 9, 1309a36-39). Ciascuna delle costituzioni, come
quella democratica e quella oligarchica, hanno il proprio modo di attuare la giustizia (III 9, inizio).
Va notato che, nel presentare la questione in questo modo, è in gioco soprattutto la giustizia nella
partecipazione al potere, anche se questo ha implicazioni per tutti gli altri rapporti fra i membri
della città. E' abbastanza chiara la convinzione di Aristotele che sono solo le costituzioni migliori
che attuano la giustizia con pienezza, mentre le altre sono delle deviazioni da quelle anche per il

62
Su questa tematica cfr. F.Calabi, La città dell'"oikos". La "politia" di Aristotele, Lucca 1984, specialm. il cap. 5.
63
In effetti questo dell'"amicizia" che lega i cittadini è già un motivo presente nella Repubblica di Platone, come
sottolinea G. Vlastos, Platonic Studies, 2.ed., Princeton 1981, nel I saggio, pp. 11 ss.
34
motivo che non la attuano in quel modo. Questo è da lui sottolineato per esempio all'inizio del libro
V, dove sia il modo democratico che quello oligarchico di attuare la giustizia è giudicato
unilaterale, il primo perché si fonda sulla idea che la giustizia comporta completa uguaglianza fra i
cittadini, prescindendo da differenze di virtù, ecc., l'altro perché si fonda sull'idea che la
diseguaglianza in fatto di ricchezza comporta diseguaglianza sotto ogni altro rispetto. Della
questione egli discute pure, in termini abbastanza simili, in III 9 e 12.

Al motivo della giustizia è connesso quello del fine complessivo della città, che vale per ogni
città, e quello dell’ideale che viene perseguito dalle singole città a seconda del tipo di costituzione
che viene adottato. Il fine, come si è già visto, è di solito identificato da Aristotele con la felicità,
ma talvolta egli tratta anche la giustizia come un fine (fa così in III 12, inizio). La questione del fine
della città è discussa, in maniera generale, ma avendo in mente la successiva descrizione della
costituzione migliore (in assoluto), nei primi 3 capp. di Politica VII; essa è discussa ammettendo
una coincidenza fra di esso e quello dello uomo singolo, e concentrandosi in larga misura proprio
sul tema della felicità per quest'ultimo.

Quanto all'ideale che ciascuna costituzione persegue, che poi è il proprio modo di realizzare il
fine della città e di soddisfare all'esigenza di giustizia, alla democrazia viene espressamente
attribuito l'ideale della libertà, all'oligarchia quello della ricchezza, all'aristocrazia quello della virtù.
Questi tre fini sono menzionati insieme come costituenti ciascuno il tratto distintivo (horos) di una
delle tre costituzioni in IV 8, 1294a9 ss.; della libertà come ideale della democrazia si parla anche
altrove (in V 9, 1310a25 ss. e VI 2, 1317a40 ss.), e così della virtù come ideale dell'aristocrazia (III
17, 1288a10 ss., ecc.).

Su quest'ultima tematica Aristotele non si sofferma particolarmente né nella Politica né in altre


opere. Invece è chiara la connessione fra la trattazione della felicità offerta in VII 1-3 e quella che
incontriamo in vari passi delle due Etiche (ma il riferimento espresso, poco dopo l'inizio di VII 1, è
ai "discorsi essoterici", che potrebbero essere quelli contenuti in opere perdute come il Protrettico e
il Peri philosophias). Quanto al tema della giustizia, il richiamo alla trattazione che di essa viene
offerta in Eth. Nic. V è del tutto esplicito nella Politica (III 9, 1280a17 e 12, 1282b20). Nel
complesso si può dire che Aristotele ha una teoria della giustizia, come ha una teoria della felicità
umana, che sono al fondamento della sua trattazione delle costituzioni nella Politica, ma queste
║teorie ricevono la loro esposizione più completa, fra le opere che ci sono rimaste, in quelle dette di
Etica.

La gerarchia delle costituzioni che Aristotele ammette, a partire dalla costituzione migliore (in
assoluto), la quale risponde a certi requisiti di perfezione che possono non essere soddisfatti da
nessuna costituzione esistente, ma alla quale vanno ugualmente commisurate le costituzioni
esistenti (ma anche altre possibili), si fonda su di una serie di criteri che sono suggeriti dalle sue
riflessioni di ordine più propriamente filosofico, di cui quelle sulla giustizia sono, come si può
vedere, una parte importante. Anche l'ammissione, molto esplicita nella menzionata discussione
nelle Etiche, di una gerarchia di forme di "amicizia", serve a giustificare la gerarchia delle forme di
costituzione, sebbene ciò non sia reso esplicito nella Politica. Questo criterio è comunque in
qualche modo legato a quello dato dal riferimento all'attuazione della felicità come fine ad un tempo
dell'individuo e della città (in quanto l'amicizia ne è una condizione). E' abbastanza chiaro,
nonostante le affermazioni di una coincidenza del fine del singolo e quello della città, che la forma
35
di felicità più alta, quella che sta nella contemplazione, costituisce un fine extrapolitico, perché non
si realizza nella vita di comunità; quello che si richiede, piuttosto, è che la città sia ordinata così da
facilitare l'attuazione di tale fine da parte di quei singoli che hanno la disposizione ad esso. E'
invece quel tipo di felicità che è dato dalla piena attuazione della saggezza (phronesis), dunque che
sta nella vita virtuosa, che è il fine comune al singolo e alla città, tenuto conto del fatto che il
singolo lo può attuare pienamente solo partecipando alla vita politica (cfr. III 4, 1277b16ss., ecc.).
In effetti, la gerarchia delle costituzioni è data anche dalla considerazione che tale piena attuazione
della saggezza, dunque tale piena coincidenza fra uomo buono e buon cittadino, è ottenuta in modo
completo solo nella costituzione migliore, e che le altre costituzioni sono, in diverso grado,
deviazioni da questa condizione ideale.64

Tutte queste sono tematiche che, salvo i passi menzionati della Politica, sono affrontate nelle
Etiche, per cui la riflessione intorno a quelli che sono i principi della politica è contenuta in quelle
altre opere. Tale riflessione comporta poi una riflessione sulla natura umana, a giustificazione per
esempio della felicità concepita ad un certo modo come fine dell'uomo, la quale è in parte di tipo
propriamente filosofico in parte di tipo psicologico, ma in tutti i casi è anch'essa condotta nelle
Etiche. Può allora sembrare, ed è sembrato a qualche studioso,65 che sia l'etica a fondare la politica
nella prospettiva adottata da Aristotele.

[p. 119] Non è qui possibile affrontare, in tutti i suoi aspetti, la molto discussa questione del
rapporto fra etica e politica nella prospettiva aristotelica, ma vanno fatte almeno le seguenti
precisazioni. In primo luogo, lo Stagirita riconosce che i principali temi che sono trattati nella sua
Politica presentano una unità. Questo è già chiaro dalla presentazione di essi nel sopra discusso
passo di Politica IV 1, ma è reso anche più chiaro dal modo in cui sono introdotti alla fine
dell'Eth.Nic., al momento della transizione all'altra opera. Qui (in 1181b12 ss.) egli dichiara di
voler portare a compimento la philosophia circa le cose umane conducendo una indagine circa la
legislazione e, in generale, circa la costituzione.

“In primo luogo, quindi, cercheremo di considerare se qualcosa è stato detto bene su qualche
punto da coloro che ci hanno preceduto. In secondo luogo, a partire dalle costituzioni che abbiamo
raccolto, <cercheremo> di arrivare a conoscere quali fattori conservano e rovinano le città <in
generale> e quali ciascun tipo di costituzione, e per quali cause alcune città sono ben governate e
altre il contrario. Una volta infatti che si siano condotte queste indagini, probabilmente
comprenderemo meglio sia quale costituzione sia la migliore, sia come ciascuna debba essere
ordinata, sia di quali leggi e costumi debbano fare uso.”

64
Cfr. particolarmente III 4 e III 9, specialm. 1281a2ss.; sulla questione vedi anche Kamp, op.cit., pp. 182 ss., 236-37,
251 ss. e 302 ss.
65
P. es. a E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlicher Entwicklung, Bd. II 2, 4.ed. Leipzig 1921,
pp. 607-608, a Newman, op.cit., vol. II, p. 400, e, da ultimo e con delle qualificazioni, a C.A. Viano, nella sez. su
Aristotele del vol. I della Storia delle idee politiche economiche e sociali a cura di L. Firpo, Torino 1982, p. 304. Del
Viano sono comunque opportune le osservazioni ivi, a pp. 293-95, sui limiti dell'approccio jaegeriano ma anche sulla
necessità di non leggere la Politica come se fosse un trattato unitario nel senso moderno della parola. Sulla questione va
tenuto presente anche l'art. di C.Rowe cit. in n. 17.

36
E' chiaro che il primo tema è trattato soprattutto in Politica II, e il secondo, almeno per quel che
riguarda le cause della salvezza e della distruzione delle città, soprattutto nel libro V; delle
costituzione migliore in assoluto si parla nei due libri finali, della migliore costituzione possibile
nelle circostanze (tema desumibile dalle precisazioni finali del nostro passo) nel libro IV e anche
nel III e nel VI. E, come si può vedere, la presentazione di questi temi è abbastanza prossima a
quella che troviamo in IV 1. Se si guarda poi all'aspetto più conoscitivo dell'indagine, cioè al
compito di offrire una tipologia delle costituzioni a partire dalla migliore e di descrivere il
funzionamento di ciascuna, oltre a determinare le cause che ne favoriscono la conservazione e la
distruzione, si tratta, come ho già sottolineato, di temi che costituiscono nel loro insieme i contenuti
di una scienza della politica. Ma tale scienza indubbiamente non è autosufficiente, perché i criteri
che applica sono valutativi e possono ricevere una giustificazione solo sul piano della riflessione
filosofica.

Nell'esporre i temi della politica alla fine dell'Eth.Nic., nel passo ora citato, Aristotele dà per
scontato che in precedenza, nell'opera di cui scrive la conclusione, aveva trattato di questioni che
hanno indubbiamente a che fare con la giustificazione di quei criteri ovvero dei principi della
politica stessa (all'inizio del cap. aveva dichiarato di aver trattato "di questi argomenti", cioè della
felicità nei suoi vari aspetti, "della virtù, e inoltre dell'amicizia e del piacere" (1179a33-34), ma che
tale loro trattazione non esauriva i compiti di un'indagine condotta, a quanto pare, dal punto di vista
del sapere pratico). Questo però non vuol dire che le questioni che concernono i principi della
politica debbano essere appannaggio dell'etica piuttosto che della politica stessa, ma presa in un
senso più lato che quello di studio delle costituzioni, ║che è il senso del termine che è suggerito
dalle dichiarazioni programmatiche relative alla Politica e dallo stesso insieme dei temi principali
effettivamente affrontati in quell'opera. Se per etica cioè si intende una riflessione concernente
l'uomo come singolo (ovvero come entità separata dalla città), discutere della giustizia, come viene
fatto in Eth.Nic. V, non è certo tipico della sola etica, perché di essa si parla in tutti i suoi aspetti,
anche più strettamente politici e legali. Ma anche lo studio dell'anima umana, come parte dello
studio dell'uomo nel suo complesso, che viene condotta in quell'opera, si affianca (per via
dell'analogia che ammette fra i due) a quello della città nel suo complesso; e la discussione della
questione della felicità esorbita dalla politica solo nella misura in cui si fa parola della
contemplazione.

Tutti questi sono temi che non sono menzionati fra quelli della politica in senso stretto, cioè
quelli che costituiscono i contenuti dell’opera chiamata Politica; ma Aristotele stesso, come si è
accennato sopra e come è mostrato da più passi66, parla a questo proposito di politica e non di etica.
Lasciando pure da parte la questione se queste sue dichiarazioni escludono o meno che egli avrebbe
potuto anche parlare di etica a tale proposito, dando cioè spazio al punto di vista dell'individuo,67

66
Sopra in 1.8, con riferimento a Rhet. I 2, 1356a26-27; e cfr. Eth.Nic. I 1, 1095a2 e 15; 10, 1099b29; 13, 1102a13 ss.;
II 2, 1105a12; ecc.
67
Contrariamente a quanto suggeriscono F. Dirlmeier, comm. a Aristoteles. Magna Moralia, Berlin 1966, pp. 154-55,
e P. Aubenque, Politique et èthique chez Aristote, in "Ktema" 5, 1980, pp. 211-221: la questione non è se Aristotele
parli (come indubbiamente fa, per es. nei suoi riferimenti all'Etica) di temi definiti come ethe o come areté, ma in quale
prospettiva essi siano considerati. Più significativo può essere il fatto che in Politica VII 2, 1324a13 ss., egli distingue
due questioni principali: (a) quella di quale vita sia più desiderabile, (b) quella di quale costituzione sia la migliore,
giudicando la prima incidentale alla sua indagine presente perché si tratta di ciò che è desiderabile per il singolo (a20-
21). (Molto critici del riconoscimento di un'etica distinta dalla politica sono R. Bodèus, in Le philosophe et la citè, Paris
37
resta che quanto egli lascia non chiarito, dal nostro punto di vista, è qualcos'altro: il rapporto che c'è
fra le indagini sulle costituzioni che fanno parte della Politica e che nel loro complesso possono
essere considerate un contributo alla scienza politica, e le indagini concernenti quelli che si possono
chiamare i principi della politica anche perché sono alla base della scienza politica. Che
quest'ultime di fatto siano svolte nelle Etiche non le rende particolarmente etiche, ma mostra
piuttosto che le riflessioni sui principi sia di etica che di politica sono raccolte in un'opera differente
dalla Politica, nella quale prevale l'approccio della scienza politica e non quello filosofico – nel
nostro senso del termine, dato che il termine greco philosophia come viene usato da Aristotele
copre entrambe le cose senza particolari differenziazioni. Forse in parte già per questa ragione e in
parte per altre ragioni, come possono essere la disponibilità a ricorrere a giudizi di valore in tutti i
campi e l'incapacità (rilevabile anche in altri casi) a distinguere a sufficienza i differenti piani in cui
si svolge l'indagine, Aristotele rimane nell'indeterminatezza su questo punto così importante.

3.1. [p. 121] Sia nel caso in cui Aristotele accentua l'orientamento pratico della trattazione sia in
quello in cui ne rileva la natura conoscitiva, egli ha in mente gli stessi destinatari, che sono il
legislatore (ho nomothetes) e l'uomo politico (ho politikos). Questo avviene nei passi citati (in 1.7)
di Eth.Eud. I 6 e di Eth.Nic. I 13, come anche nel pure citato Retorica I 4: in tutti questi si parla
delle conoscenze che il politico deve possedere. Affine a questo è Politica IV 1, 1288b27-28,
appartenente al contesto della già discussa esposizione metodologica, dove si menziona anche il
legislatore. A proposito poi di Politica III 12, inizio, ed Eth.Nic. VII 11, inizio, si è notato (sempre
in I 7) che essi istituiscono una connessione generale fra il possesso di certe conoscenze di ordine
politico e la capacità direttiva di chi le possiede. Un altro passo del genere, assai significativo, si
trova nell'ultimo cap. di Eth.Nic.: rinvio la sua discussione alla fine del presente saggio. In secondo
luogo ci sono diversi passi in cui viene adottato più direttamente il punto di vista del politico e/o del
legislatore, per precisare quali sono i loro compiti di ordine pratico, per esempio nel tentare di
preservare una costituzione vigente (cfr. Politica V 9, 1309b35-36, e VI 5, 1319b33 ss.) o di
istituirne una nuova (cfr. III 3, 1276a31-34, e VII 2, 1325a7 ss.). Di questo tenore sono anche: III
13, 1287b37 e 1284b17; IV 12, 1286b35; e IV 14, 1297b38; tralascio la menzione di vari altri
passi in cui di quei compiti si parla senza specificare a chi spettino. Storicamente i destinatari
principali delle opere aristoteliche di politica e di etica sono diventati lo studioso di scienza politica
e il filosofo o storico della filosofia, ma Aristotele stesso, se avesse potuto prevedere questo loro
destino, probabilmente se ne sarebbe rammaricato, perché manifestamente si rivolgeva a persone
direttamente coinvolte nella vita politica.68

1982, e Kamp, op.cit.) A dare per ammessa la distinzione fra etica e politica si arriva al quadro che ho cercato di
schematizzare col diagramma offerto in appendice [omesso].
68
Cfr. R.G. Mulgan, op.cit.: "Like all the major Greek political theorists, Aristotle is writing primarily for the ruler,
the statesman or legislator who will be making important political decisions, rather than for the ordinary citizen; his
political science is statesmanship not civics. In this respect Greek political theory differs from the main modern
tradition of political theory which has been more concerned with the interests of the individual subject and his relation
to the state." (p.9) Questo è un punto che era già stato sottolineato da E. Barker sia nel cit. Political Thought,
specialm. nell'introd., sia in Greek Political Theory. Plato and his Predecessors, London 1918, di nuovo specialm.
nell'introd. Recentemente R. Bodèus, in op. cit., cap. II, ha insistito sul fatto che il principale destinatario dell'opera
aristotelica è il legislatore. Quanto al mutamento di prospettiva che c'è stato da allora, anche M. Finley in Politics in the
38
Ci sarebbe peraltro da domandarsi chi siano le due figure del legislatore e del politico che sono i
suoi destinatari espressamente menzionati. Ci sono dei passi in cui Aristotele le tiene nettamente
distinte, facendo del primo chi elabora una costituzione o un intero corpus di leggi, quindi chi
provvede ad organizzare la città nel suo complesso, mentre l'uomo politico è visto come chi
contribuisce, per esempio da membro di un'assemblea, alle decisioni da prendere giorno per giorno.
║(Un passo che va in tale senso è quello citato di Retorica I 4, dove le indagini sulle costituzioni
ecc. utili alla legislazione sono tenute separate dalle indagini storiche utili alla deliberazione; più
chiaramente le due figure sono separate in Eth.Nic. VI 8, un testo che discuterò più oltre, ma dal
quale è comunque chiaro che il tipico politikos è il membro di un'assemblea, cfr. 1141b27- 29.)
Tuttavia non mancano i passi in cui le due figure sono citate insieme (uno è il già menzionato
Politica IV 1, 1288b27-28), e questo fa pensare che Aristotele riconosceva che la differenza fra le
due figure è piuttosto relativa: non tutti coloro che si occupano della legislazione di una città sono
dei Licurghi o dei Soloni (sui legislatori celebri cfr. Politica II 12), perché può trattarsi di persone
con funzioni più modeste;69 e, sull'altro versante, non tutti i politici sono dei semplici membri di
un'assemblea, perché ci sono personaggi come Pericle che esercitano una influenza decisiva sui
destini di una città anche quando non abbiano una carica ufficiale.

La conseguenza del rivolgersi a persone direttamente coinvolte nella vita politica è che
Aristotele, quando parla di "politica (politiké)", lo fa adottando il punto di vista di questi destinatari,
non quello di chi conduce ricerche sulla politica senza avere lui stesso l'intento di intervenire nelle
decisioni di una città (salvo qualche allusione di cui si dirà, e salvo i suoi discorsi sul metodo): la
politica è appunto la capacità che le menzionate figure posseggono nell'esercitare le loro funzioni.
S'intende però che non è la capacità del semplice praticone ma quella di chi ha una preparazione
comparabile a quella del medico colto. C'è da domandarsi, allora, se Aristotele faccia ricorso
all'analogia con arti come la medicina quando parla senz'altro di politica in questo modo e non
soltanto (come nei passi esaminati di Politica IV e di Eth.Nic. I 13) nel discutere del metodo o della
natura dell'indagine avente questioni di politica come suo oggetto. Di più, c'è da domandarsi se in
questo caso egli vada oltre la semplice analogia, per ammettere (come faceva Platone) che la
politica stessa è una techne.

3.2. La prima di queste domande ha ovviamente una risposta positiva: Aristotele fa abbastanza
spesso ricorso a quel tipo di analogia. L'analogia con le arti non è, s'intende, solo con la medicina,
ma con varie altre. Per esempio viene ripresa l'analogia, presente in Platone (cfr. particolarmente
Resp. VI 488a ss. e Politico 302a), ma più antica, del politico col pilota della nave (a questo
proposito non è superfluo osservare che il kybernetes greco non è semplicemente il timoniere ma
anche ║il capitano della nave: è appunto chi la "governa"). Si intende che gli usi che vengono fatti

Ancient World, Cambridge 1983, pp. 134-135, ha osservato come una discussione dell'obbligazione politica del singolo
verso lo stato (o la città) qual è quella presente nel Critone di Platone è un'eccezione nel pensiero politico antico.
69
Sull'importanza che la figura del legislatore ha nel pensiero politico greco cfr. di nuovo Barker, Greek Political
Theory, pp. 9-10, 48-49, ecc. Una funzione limitata, ma non trascurabile, hanno i nomothetai anche nella democrazia
ateniese: decidevano dell'ammissibilità delle proposte di leggi alla discussione nell'assemblea, anche se non avevano la
possibilità di prendere iniziative legislatrici essi stessi (cfr. D.M. MacDowell, The Law in Classical Athens, London
1978, pp. 48-49). Anche la distinzione fra leggi (nomoi) e decreti (psephismata), per quanto venga ad attenuarsi, non
scompare mai del tutto, cfr. p. es. M. Talamanca, in M. Bretone e M.T., Il diritto in Grecia e a Roma, Roma-Bari 1981,
pp. 51 ss.

39
dell'analogia possono variare a seconda dell'arte che viene considerata e anche a seconda
dell'aspetto del suo operare che riceve l'attenzione, come pure in relazione a ciò che dell'attività del
politico e/o del legislatore si vuole chiarire. A quest'ultimo proposito va tenuto presente che
l'analogia con le arti talvolta concerne l'attività sia del politico che del legislatore, talvolta concerne
solo l'attività di uno di essi.

Senza pretendere di offrire un quadro del tutto completo, mi soffermo su degli usi dell'analogia che
mi paiono particolarmente tipici o significativi. In primo luogo viene istituita un'analogia fra
l'attività, indifferentemente, del politico e del legislatore, e quella del medico, per via della loro
comune finalità positiva: alla salute del corpo umano viene fatta corrispondere una analoga
condizione (di giustizia od altro) concernente la città nel suo complesso (cfr. Politica III 6,
1287b37 ss., e anche il testo di IV 1 già discusso, nel quale, si ricorderà, è introdotta allo stesso
modo anche l'analogia con il maestro di ginnastica). Il riferimento ad una finalità positiva è
ovviamente in gioco anche nel caso dell'analogia con l'operare del pilota della nave, come si era già
detto in precedenza nel toccare il motivo della "salvezza" della costituzione di una città. In effetti
l'analogia con l'operare del pilota è introdotta pure in III 6, 1279a3 ss., cioè nel contesto del passo
prima citato perché contenente l'analogia col medico (contiene pure quella col maestro di
ginnastica) per indicare che chi esercita il comando (l'arché) lo fa (o dovrebbe farlo) a vantaggio di
coloro cui i suoi ordini sono rivolti. Più esteso è l'uso della analogia in III 4, inizio, dove i differenti
ruoli dei cittadini sono paragonati a quelli dei membri di una nave, di cui uno è il pilota: è
riconosciuto che tutti hanno il fine unico della "salvezza della nave", che è comparabile a quello
della soteria tes koinonias. Si può aggiungere che, dal punto di vista dell'oggetto, l'analogia fra la
nave e la città viene adottata in VI 6, 1320b30 ss.

Va segnalato, a questo punto, che in alcuni dei passi citati, e particolarmente in quello di III 6, è
in gioco non solo la questione del fine ma quella della legittimazione del potere di comando
(dell'arché) esercitato. Anche il detentore di un'arte esercita tale potere: il pilota dà ordini
all'equipaggio e (almeno entro certi limiti) ai passeggeri della sua nave; il medico dà ordini al
malato sotto la sua cura, nel senso almeno di dargli delle prescrizioni. Ovviamente la questione è
importante per la politica, e da questo punto di vista non pare essere fatta distinzione fra il
legislatore e l'uomo politico. E' nell'affrontarla che è introdotta l'analogia non solo col ruolo del
medico e del pilota ma con quello di altri detentori di arti in III 11, 1281b39 ss., in una discussione
sulla quale tornerò. In VII 2, 1324b22 ss. viene invece affrontata una questione un po' diversa, ma
strettamente connessa alla precedente, che è quella dell'estensione del potere esercitato dal politico:
l'analogia di nuovo col ruolo del medico e del pilota serve a suggerire che non può essere illimitata.
Naturalmente poi l'analogia sia con l'operare del medico che con l'operare di certi altri detentori di
arti è introdotta con una certa frequenza nelle Etiche a chiarimento della natura della decisione
pratica in generale; [p. 124] non mi soffermo su di essa, anche perché ha già ricevuto parecchia
attenzione negli studi.70

70
Cfr., fra l'altro, W. Jaeger, Aristotle's use of medicine as model of method of his ethics, "Journ. Hell. Stud." LXXVII,
1957, pp. 54-61 (rist. in Scripta Minora II, Roma, 1960) e G. Lloyd, The role of medical and biological analogies in
Aristotle's ethics, "Phronesis" XIII, 1968, pp. 68-83, oltre che, più in generale, W. Fiedler, Analogiemodelle bei
Aristoteles, Amsterdam 1978.

40
C'è da menzionare, infine, un'analogia che concerne soprattutto, anche se non esclusivamente,
l'attività del legislatore, ed è quella con arti come la carpenteria e la tessitura: tutte queste attività
hanno in comune di partire da una materia data che si tratta di trasformare; così il legislatore e
l'uomo politico debbono introdurre dell'ordine in qualcosa di già dato, che sono gli uomini che
vengono a costituire la città. L'analogia ricorre in I 10, inizio, e in VII 4, inizio (su cui 2.1). Che
Aristotele abbia in mente soprattutto l'attività del legislatore è suggerito non solo dal contesto
complessivo del secondo passo, dove si sta parlando della costituzione ideale, ma anche dal fatto
che egli pare vedere in quell'attività qualcosa di "demiurgico", per cui è indotto a denominare i
legislatori hoi nomōn demiourgoi (II 12, 1273b32-33 e 1274b18-19). Un carattere in qualche modo
produttivo è da lui riconosciuto alla politica, presumibilmente soprattutto nel senso di legislazione,
anche in Eth. Eud. I 5, 1216b17 ss., dove anzi è trattata senz'altro come una poietikè episteme alla
stregua della medicina, e come fine (distinto dalla sua attività) le è assegnato quello dell'eunomia.

3.3 Ovviamente le analogie di cui ho parlato finora della politica con questa o quella arte
lasciano aperta la questione se la politica stessa sia o no un'arte. Ma ora si deve passare a quella che
per un verso rimane un'analogia ma per un altro verso non lo è più perché comporta il considerare la
politica senz'altro come un'arte. Questo doppio modo di considerare la politica ha luogo in quei
passi in cui quello che è in gioco è una differenziazione di livelli che può verificarsi sia all'interno
di una stessa arte sia nei rapporti fra arti differenti. La differenziazione di livelli è data, in genere, o
dalla presenza di un ruolo direttivo e di un altro di subordinazione al primo, o dalla presenza di una
capacità di utilizzazione dei prodotti accanto alla capacità di produrli, o, ancora, da entrambe queste
caratteristiche fatte coincidere.

Per cominciare dal caso in cui la differenziazione di livelli è all'interno della stessa arte, c'è più
di un passo nelle opere aristoteliche in cui è fatta valere per le arti, anche se non è chiaro se per tutte
o soltanto per alcune. Aristotele ammette che al loro interno c'è un'importante differenza fra chi
opera da "demiurgo" o da cheirotechnon, cioè interviene direttamente sulla materia da trasformare o
comunque sull'oggetto, e chi invece ha una funzione direttiva, cioè è un architekton (cfr. Metaph. A
1, 981a30 ss.; Physica II 2, 194b1 ss.). Un esempio ovvio è dato dalle figure del muratore e del
capo-mastro o architetto (tenuto conto che questi ultimi due coincidono nella Grecia antica). ║Nella
Politica si fa allusione a questa differenziazione, ivi illustrata dal medico con funzione direttiva
(oggidì si penserebbe al direttore di un ospedale) e dal medico che cura i singoli malati, in uno dei
passi menzionati riguardanti la questione della legittimazione del potere, cioè III 11, 1281b38-82a7.
Ora in questo caso Aristotele si serve dell'analogia con le arti per indicare l'esistenza di una
distinzione di livelli dello stesso genere all'interno della politica. Lo fa in Eth.Nic. VI 8, dove, dopo
avere sostenuto che c'è una coincidenza di politica e saggezza (phronesis), dichiara che della
saggezza che concerne la città una forma o modalità è quella che, in quanto è direttiva
("architettonica"), è saggezza legislativa, un'altra è quella che, in quanto concerne i particolari, è
saggezza politica nel senso stretto del termine "politico" (cioè si ammette che la politica in senso
lato include sia la capacità legislativa sia la politica in senso stretto). Della seconda viene detto che
è pratica e deliberativa, cioè concerne decisioni concrete (illustrate da un riferimento ai decreti
[psephismata] delle assemblee), e che coloro che fanno politica in questo senso agiscono come gli
artigiani (cheirotechnai). Evidentemente Aristotele ritiene che l'uomo politico è subordinato al

41
legislatore perché la sua azione deve svolgersi all'interno del quadro costituito dalla costituzione
ovvero dalle leggi fondamentali della città.

Ma Aristotele non ammette una distinzione fra funzione direttiva e funzione subordinata perché
immediatamente pratica solo all'interno della politica: egli sostiene che la politica nel suo
complesso esercita una funzione direttiva nei confronti delle altre discipline, istituendo una
gerarchia in cui quella al culmine, la politica, non può che essere anch'essa un'arte (o comunque non
può essere da meno di un'arte). Il passo più noto, e anche più significativo, in cui la tesi è introdotta
è il cap. 1 dell’Eth.Nic., dove si suggerisce che fra le varie arti esistono dei rapporti di
subordinazione, per cui alcune di esse sono "architettoniche" rispetto alle altre, ma che la più
"architettonica" di tutte – cioè quella che è direttiva anche rispetto ad arti esse stesse direttive nei
confronti di altre inferiori ad esse – è la politica. Nel corso dell'esposizione non viene detto del tutto
espressamente che la politica è una techne o episteme (i due termini ivi sono intercambiabili), ma lo
si lascia intendere abbastanza chiaramente, per esempio nell'alludere alle arti rimanenti (1094b4-5).
Affine a questo passo è quello di Politica III 12, inizio, che in effetti ne è quasi un riassunto: qui la
politiké dynamis è dichiarata essere la principale (kuriotate) di tutte le arti e discipline tecniche
(technai kai epistemai). Anche in Eth.Eud. I 8 viene detto, brevemente, che la politica è la
"principale di tutte" (1218b13), intendendosi (come mostra il contesto, cfr. b4) "di tutte le arti". Il
passo di Politica III 12 era stato citato in precedenza per la connessione che esso istituisce fra la
politica e il sapere scientifico (philosophia); sotto questo rispetto è affine, si ricorderà, a Eth.Nic.
VII 12, inizio, dove pure si fa riferimento alla funzione "architettonica" della politica, anche se non
si parla espressamente di arti.

Ci sono poi alcuni passi in cui la politica è trattata come un'arte prescindendo da un riferimento,
almeno esplicito, alla sua posizione di superiorità nei confronti delle altre arti. Uno di questi passi si
trova [p. 126] nel cap. finale dell'Eth.Nic., dove si parla di un'identità di situazione fra la politica e
le altre epistemai e dynameis (1180b31-32), che nel contesto (b27, ecc.) sono esemplificate dalla
medicina. Il passo è significativo perché quello che viene sottolineato in esso è che la politica è una
competenza alla stregua di arti come la medicina, cioè comporta ad un tempo possesso di
conoscenze e pratica sufficiente, per cui operare da legislatore non è di chicchessia ma di chi sa (tou
eidotos) (b26-28). Ulteriori passi che si possono menzionare, appartenenti questi alla Politica,
sono I 1, 1252a15; III 6, 1278b40; e VII 2, 1324b22 ss.

3.4. A questo punto siamo pervenuti ad una conclusione che appare sorprendente, perché la tesi
che la politica è una techne è in contrasto con la separazione del sapere pratico da quello produttivo
che è usuale in Aristotele. Il sapere pratico è da lui, notoriamente, tenuto separato dall'altro perché
ha a che fare con l'azione (praxis) e non con la produzione (poiesis), e l'azione si distingue dalla
produzione perché non comporta quella separazione di attività e fine che si riscontra nell'altra.71
Delle arti stesse viene riconosciuto normalmente che esse appartengono appunto all'ambito del
71
Sul primo punto cfr. p.es. Metaph. E 1, 1025b21 ss., sul secondo Eth.Nic. VI 5, 1140b6-7 e Politica I 4, 1254a5.
Peraltro la distinzione di azione e produzione non è sempre così netta, perché p. es. Aristotele afferma, in Eth.Nic. X 7,
1177b16 ss., che le azioni politiche e belliche non sono desiderabili in se stesse, al confronto almeno dell'attività
contemplativa, e (in 8, 1178a23 ss.) che l'esercizio della virtù etica richiede beni esterni, p. es. essere liberale richiede
ricchezze.
42
sapere produttivo.72 Il sapere pratico va ricondotto invece alla saggezza (phronesis), la quale si
distingue dall'arte non solo, s'intende, perché ha a che fare con l'azione ma perché è una
disposizione (hexis) che differisce dalla mera abilità o intelligenza (deinotes) per il legame
intrinseco che possiede con la virtù etica – e la virtù è qualcosa di differente da un'arte.73 L'arte in
effetti è da accostare all'abilità perché può anche essere rivolta ad un fine negativo, e l'errore
volontario (in questo senso) è appunto segno di arte, mentre la saggezza non è più tale se non è
rivolta al bene (cfr. Eth.Nic. VI 5). Cioè uccidere un malato da parte di un medico, per esempio con
un veleno non identificabile, può essere un esempio di abilità tecnica, ma non di saggezza.

Tuttavia, se si approfondisce la questione, si constata che il quadro è più complesso di così. C'è
da osservare, in primo luogo, sul versante delle arti, che l'identificazione di arte e fonte di attività
produttiva è una semplificazione (a prescindere dal fatto ovvio che non ogni attività produttiva è
dovuta ad arte). Se Aristotele si fosse attenuto ad una tale tesi fino in fondo, la sua posizione
sarebbe stata un regresso rispetto a quella di Platone, che già nell'Eutidemo (290a ss.)
differenziava le arti produttrici da quelle ║che sono "procacciatrici" (come la caccia e la pesca, che
procurano il cibo) e da quelle dell'uso (dei prodotti delle altre), che includono proprio la politica. E
in realtà non ci vuole molto per rendersi conto che arti come quella del medico e quella del
cacciatore non producono artefatti. Aristotele stesso, nelle opere che possediamo, non offre mai una
tipologia abbastanza completa delle arti, e il passo che più si sofferma sulle loro distinzioni interne,
Physica II 2, 194a35 ss., non è troppo lineare. Qui per un verso egli distingue l'arte dell'uso
(chromene) da quella produttiva, e considera quella "architettonica" come una forma del secondo
tipo; per un altro verso osserva che quella dell'uso è essa stessa "architettonica". Probabilmente sta
mescolando la distinzione all'interno di una stessa arte (p.es. fra muratore e capo-mastro) con quella
fra arti differenti. Comunque sia, l'illustrazione che offre del pilota che conosce la forma del timone
e su questa base dà ordini al fabbricante di esso serve sicuramente a chiarire la distinzione fra arte
dell'uso e arte produttrice. Quanto al sapere "architettonico", anche all'interno di una stessa arte,
che esso abbia uno statuto piuttosto particolare è da lui riconosciuto in Politica VII 3, 1325b21-23,
dove l'attività di chi dirige è accostata a quella contemplativa perché in qualche modo completa e
autosufficiente.

Sull'altro versante, quello della politica, si può osservare che il fatto che essa è presentata come
un'arte non pare escludere il suo comportare anche saggezza. Nel passo già discusso di Eth.Nic. X
9, dove la politica è accostata ad arti come la medicina, si dice di queste stesse che comportano "una
certa cura e saggezza (epimeleia tis kai phronesis, 1180b28). Un passo in parte affine a questo è
Politica VII 13, 1332a31-32, dove si suggerisce che per una città essere ben organizzata richiede
non fortuna ma episteme kai proairesis; ora quest'ultima di solito è associata strettamente alla
saggezza. E' probabile dunque che Aristotele ritenga che la politica è qualcosa di più di una
semplice arte, perché, oltre ad avere le caratteristiche di questa, comporta anche saggezza.

La politica finisce così con l'essere trattata come un'arte sui generis, sicuramente in primo luogo
per via del suo statuto più elevato di ogni altra arte dovuto al suo essere al vertice della gerarchia

72
Cfr. di nuovo Metaph., ivi, e Theta (IX) 2, 1046b3 (endiadi); Eth.Nic. VI 4, 1140a17 e 5, 1140b3-4.
73
Sul suo legame con la virtù, che la differenzia dall’arte, cfr. Eth.Nic. VI 5, 1140b20 ss.; sulla differenziazione
dall'abilità cfr. 13, 1144a22 ss. (per buona parte del cap.); cfr. poi II 3, 1105a26 ss. per la differenza fra virtù e arte.

43
delle arti in quanto "architettonica". (La buona e cattiva utilizzazione delle altre arti dipende, in
ultima istanza, da essa, mentre essa stessa non si presta a tale utilizzazione da parte di un'altra arte.)
Che non possa comunque essere da meno di un'arte lo richiede anche il tipo di conoscenza che
comporta, per il quale essa viene accostata alla medicina e anche al pilotaggio della nave (Aristotele
probabilmente condivide l'idea che di quest'ultimo se ne fa Platone in Resp. VI, 488d, dove si
richiede che il pilota sappia delle stagioni, del cielo, degli astri, dei venti e di tutto quanto riguarda
la sua arte; in tutti i casi in An.post. I 13, 79a1 riconosce l'esistenza di un'astronomia matematica
applicata chiamata "nautica"). Uno statuto epistemologicamente elevato della politica si ammette in
passi precedentemente considerati, come Eth.Nic. X 9, 1180b26 ('non chicchessia ma chi sa') e I 13,
sulla conoscenza riguardo l'anima umana. Certamente non sempre l'uso di analogie con altre arti
suggerisce questa presenza di ampie conoscenze, che è tipica di arti come la medicina, [p. 128] ma
esso comunque viene a suggerire che è in gioco una competenza ben definita, anche per il suo
ambito di azione, che comporta l'uso di criteri di correttezza, per cui si può sempre tener distinto
l'esperto dal mero praticone.74 Ridurre la politica a semplice saggezza sarebbe avvicinarla troppo a
quel sapere o abilità molto terra terra che ciascuno di noi mette in atto nelle circostanze concrete
della vita.

Aristotele però non asserisce che tutti quelli che sono coinvolti nella vita politica sono, o
dovrebbero essere, persone dotate di arte politica nel senso ora precisato. In realtà del tipico
membro di un'assemblea egli dà per scontato (come vedremo fra poco) che non possiede nessun'arte
del genere, per cui c'è da aspettarsi soltanto che faccia uso della sua saggezza. E' solo chi esercita
una funzione direttiva che deve possedere quel tipo di conoscenze che gli permettano di pervenire
ad una visione complessiva di quanto concerne la città. Che questa sia la posizione di Aristotele
tende ad essere suggerito dai passi precedentemente discussi, cioè sia da quelli in cui la politica è
trattata senz'altro come un'arte sia da quelli in cui viene istituita qualche analogia con altre arti.
Questi infatti, quando non concernano semplicemente la questione del fine di queste arti, o
comportano un riferimento alla politica intesa come legislazione o comunque in quanto
"architettonica", o servono a legittimare il potere di comando posseduto dal politico. In questi casi
allora Aristotele deve avere in mente il legislatore oppure almeno chi esercita una funzione di
leadership in una città. C'è la tendenza ad accostare la seconda figura alla prima e a separarle
entrambe da chi gioca un ruolo in politica come semplice membro di un'assemblea o comunque con
funzioni piuttosto ristrette.

E' questa, credo, la soluzione verso la quale Aristotele è orientato di fronte alla difficoltà che è
costituita dall'associazione delle arti al sapere produttivo tenuto distinto da quello pratico. Nel passo
già discusso di Eth.Nic. VI 8 i politici membri di un'assemblea sono affiancati agli artigiani che
usano le mani di persona (i cheirotechnai): è su questo piano che vale la distinzione di sapere
pratico e sapere produttivo perché gli uni prendono decisioni su azioni da compiere e agiscono
mentre gli altri producono artefatti o comunque trasformano realtà materiali. Il sapere direttivo però

74
Sul concetto di arte a quel tempo lo studio più utile rimane Eine vorplatonische Theorie der "techne" di F.
Heinimann, "Museum Helv." 18, 1961, pp. 105-130 (rist. in C.J. Classen, cur., Sophistik, Darmstadt 1976). Sulla
necessità di un criterio di correttezza nell'arte cfr. p. es. la fine del cap. 1 dell'ippocratico Antica medicina e, in
Aristotele, Eth.Eud. VIII 3, 1249a21 ss., sempre richiamandosi alla medicina come esempio.

44
si trova su di un piano differente, perché non è immediatamente coinvolto nelle azioni e nelle
produzioni; pertanto, su questo piano, la differenza fra azioni e produzioni perde d'importanza.

Indubbiamente la tesi che attribuisco ad Aristotele non è esente da difficoltà. Essa comporta
infatti l'ammissione di una frattura epistemologica all'interno di uno stesso ambito, sia esso quello
del sapere pratico sia esso quello del sapere produttivo – e questa è una frattura che si fa sentire
particolarmente quando la differenziazione fra ruolo direttivo ║e ruolo attivo è all'interno di una
stessa arte. Inoltre essa comporta una distinzione un po' troppo netta, e pertanto artificiosa, fra i
differenti ruoli posseduti dagli uomini politici, alla quale Aristotele stesso (si è già notato) non
sempre si attiene. E' possibilmente per questi motivi che egli non arriva a teorizzare espressamente
questo tipo di tesi. Tuttavia, essa presenta anche dei vantaggi ai quali era poco disposto a rinunciare.
In questo modo infatti si lascia posto, nell'ambito della politica, sia ad un sapere che presenta quei
requisiti di competenza e di visione complessiva che sono indispensabili ad una buona
organizzazione della comunità politica, sia ad un sapere più modesto ma efficace che trova la sua
estrinsecazione nelle decisioni da prendere giorno per giorno avendo come quadro di riferimento
una certa costituzione e un certo corpo di leggi. Si può suggerire, ulteriormente, che questo secondo
sapere è quello che, per la sua mancanza di tecnicità e di specificità, è l'oggetto della persuasione di
tipo retorico, ma che, per questo fatto stesso, esso viene giudicato inferiore all'altro.75

3.5. In linea generale per Aristotele vale che il sapere architettonico, sia all'interno di una stessa
arte come la medicina, sia nel rapporto fra più arti, non può essere messo sullo stesso piano del
sapere immediatamente produttivo. Si può presumere che egli veda un motivo di superiorità del
sapere architettonico rispetto a quello produttivo nel fatto che il primo opera sul piano dei discorsi
(dei logoi), in quanto trasmette ordini all’altro, che opera sul piano delle attività concrete (o delle
opere: erga). Questo vale certamente per la nomotetica nei confronti della politica (nel senso
stretto), perché quello che essa elabora, le leggi (nomoi), sono sicuramente dei discorsi (logoi), per
quanto di un tipo un po' peculiare.76 C'è dunque una serie di piani di crescente intellettualità, e
anche di generalità conoscitiva, nel passare dalla politica come attività pratica alla nomotetica e alla
politica come scienza. Se si accosta a questa successione quella che riscontriamo in medicina, si
arriva al seguente parallelo:

75
La persuasione retorica viene distinta dalla trasmissione del sapere scientifico (didaskalia) in An.post., inizio, e in
Rhet. I 1, 1355a19 ss., al quale passo si può accostare l'inizio di I 2. Una svalutazione complessiva della retorica, perché
limitata all'ambito dell'opinione, è evidente in III 1,1404a1 ss.
76
Il nÒmoj in Eth.Nic. X 9, 1180a21-22, è chiamato un lÒgoj ¢pÒ tinoj fron»sewj kaˆ noà, cfr. anche V 10,
1134a35; nella Politica, III 16, 1287a32, e 15, 1286a19, è trattato come una forma di intelligenza (nous) priva di
appetizione. Notare poi che nella prima opera, in X 9, 1181a23, si asserisce che hoi nomoi tes politikes ergois eoikasin:
sono come azioni o opere (erga), cioè corrispondono alle azioni in politica, senza essere azioni essi stessi, appunto
perché sono logoi, dunque hanno uno statuto particolare (nel seguito, in b 2, sono paragonati ai trattati scritti,
syngrammata).

45
scienza politica scienza fisica

nomotetica sapere medico architettonico

politica sapere medico pratico

[p. 130] Questo parallelo è istruttivo anche perché viene a mostrare che un sapere di per sé
teoretico, qual è quello fisico, apre la strada all'arte medica, e non soltanto perché ne è la
condizione. Aristotele ammette, nei due passi citati dei Parva Naturalia (cfr. 1.9 e n. 44) che i fisici
più preparati sono quelli che si occupano anche delle cause della salute e della malattia,
evidentemente a proposito soprattutto dell'uomo. Anche la fisica, insomma, non può trascurare il
fatto che al vertice del mondo sublunare c'è l'uomo. Ma la salute per l'uomo si pone anche come un
fine positivo, che è da perseguire come parte di quella felicità che è il suo fine complessivo. Nel
caso dell'uomo avviene cioè che, per la coincidenza che c'è fra soggetto conoscente e oggetto
conosciuto, emerge un interesse pratico che tocca lo stesso sapere fisico.

La condizione particolare di ogni sapere e di ogni attività che concerne direttamente l'uomo
stesso si estende pure all'arte medica. Questa è orientata a quello che per l'uomo è immediatamente
un bene, un fine da attuare. La medicina non è un'arte alla stregua di quella del falegname non solo
perché non ha a che fare con artefatti, ma anche perché concerne direttamente l'uomo stesso, nella
sua condizione di benessere o di mancanza di benessere, di cui il possesso della salute è un aspetto
(e quello della vita è un presupposto). Le altre arti, nel produrre artefatti, garantiscono semmai quei
beni esterni che sono necessari al benessere ma non lo costituiscono. E' probabilmente per questo
motivo che Aristotele riconosce, nel passo citato di Eth.Nic., ad arti come la medicina e come quella
del pilota della nave (che, per il fatto di occuparsi della salvezza di coloro che navigano, può essere
una delle "altre" arti che egli ha in mente) la caratteristica di essere una saggezza e una certa cura
(epimeleia). La stessa associazione fra sapere medico e sapere etico pare implicita anche in
Eth.Nic. VI 7, dove il salutare e il bene sono menzionati insieme, come entrambi obbiettivi della
saggezza (phronesis). E ciò è in conformità con la tendenza, presente in Platone, al quale Aristotele
pare rimanere prossimo su questi punti, a trattare la cura del corpo in vista della sua salute da parte
della medicina come corrispondente alla cura dell'anima in vista della sua salute (che è la felicità)
da parte della filosofia. Possibilmente alla medicina viene attribuito uno statuto particolare anche
perché pure essa è architettonica rispetto ad altre arti (la subordinazione ad essa di quelle che
servono al benessere corporeo è suggerita da Platone in Gorgia, 517c-518a), la politica essendo
architettonica anche nei confronti di altre arti che sono esse stesse architettoniche (cfr. Eth.Nic. I 1,
1094a14 ss.), cioè essendo al vertice della gerarchia. Se la politica stessa, dunque, è trattata come
una saggezza (phronesis), ciò non deve escludere il suo essere un'arte (techne).

Fra la scienza fisica e la scienza politica c'è un punto di contatto, si diceva, perché anche la
prima concerne la condizione dell'uomo e trova un suo ovvio sviluppo nell'arte medica, che ha la
salute dell'uomo come suo obbiettivo. Una certa differenza fra le due però permane: la fisica tutto

46
sommato ha una sua completezza anche senza occuparsi particolarmente dell'uomo; sono solo i
migliori dei fisici che se ne occupano, ma ciò non è indispensabile al sapere fisico come tale. ║La
scienza politica invece è inevitabilmente tutta concentrata sull'uomo, quindi non può prescindere
completamente da un interesse pratico: non può occuparsi della città esattamente allo stesso modo
in cui il naturalista si occupa di un alveare, anche se il suo intento principale rimane conoscitivo. In
altre parole, non ci può essere un totale sdoppiamento di soggetto conoscente e oggetto conosciuto
laddove l'oggetto è lo stesso soggetto conoscente. Questo spiega come mai Aristotele tenda ad
insistere sul suo orientamento alla pratica, in qualche misura a scapito di quell'intento conoscitivo e
scientifico che pure la distingue.77

3.6. Aristotele, nel trattare la politica come un'arte ovvero nell'impiegare l'analogia fra di essa e
altre arti come quelle del medico e del pilota della nave, non fa altro che riprendere l'approccio
platonico alla tematica. Più o meno le stesse analogie sono presenti nei dialoghi di Platone e anche
per questi esse erano importanti nel discutere della questione della legittimazione del potere
politico. E se anche in quei dialoghi non si trova mai un quadro complessivo dei rapporti di
subordinazione fra le arti, con la politica al culmine, qual è quello delineato all'inizio dell'Eth.Nic.,
l'ammissione di quei rapporti di subordinazione è chiara da parte sua, come risulta già dal testo
dell'Eutidemo al quale si è fatto riferimento, e come è mostrato dalla sua affermazione, in Politico
303e ss., che retorica, arte giudiziaria e strategia sono subordinate alla politica (Aristotele non fa
altro che rimpiazzare l'arte giudiziaria con l'economia in 1094b3). Credo che non sarebbe troppo
difficile mostrare come anche certe tesi di Aristotele circa i compiti e la natura del sapere politico
siano una continuazione di tesi platoniche, pur con significative innovazioni.78 (Prescindo qui dalla
questione di quanto Platone stesso sia originale.)

Le principali innovazioni dello Stagirita stanno altrove. Una di queste è quella che abbiamo già
incontrato, del riconoscimento di un sapere, nel campo della politica, che non è del tipo della
techne, pur essendo subordinato al sapere di questo tipo. Una legittimazione di questo sapere non
tecnico o non scientifico è da lui offerta nella Politica, soprattutto nella discussione condotta in III
11 circa la questione se un gruppo di persone, per esempio un'assemblea popolare, abbia sufficiente
competenza per prendere decisioni. Di contro al richiamo, da parte di Platone, alla competenza che
si richiede dai detentori delle arti Aristotele fa osservare che ci sono comunque casi in cui il non
esperto prevale sull'esperto (p. es. chi compra una casa per usarla in proprio decide su come deve
essere fatta più dell'architetto), e che nel caso in questione va ammessa una certa superiorità del
giudizio collettivo in quanto tale su quello del singolo (cfr. particolarmente 1284a14 ss.). E'
importante sottolineare [p. 132] che Aristotele non contesta la superiorità di un singolo
particolarmente dotato di sapere ed esperienza rispetto a ciascun membro della collettività; la
superiorità è appunto della collettività come tale, perché in essa avviene una sintesi degli apporti dei
singoli, che di per sé possono essere assai limitati, donde un giudizio complessivo più comprensivo

77
Quest'ultimo aspetto è assai sottovalutato, mi pare, nella maggior parte degli studi recenti; un'eccezione è
rappresentata dal libro di A.B. Hentschke cit. in n. 51, cfr. pp. 388, 390 e ss.
78
Per esempio l'idea di uno studio comparativo delle costituzioni è almeno prefigurata in Leggi XII, 951-52, dove si
parla della desiderabilità di mandare "osservatori" presso altre città e popoli.
47
e meglio informato del giudizio del singolo, per quanto bravo.79 Sicuramente poi egli qui ha in
mente quel tipo di questioni sulle quali si esprime normalmente un'assemblea popolare. Questa sua
valutazione positiva del sapere collettivo non è dunque in contrasto con l’ammissione che ci sono
questioni, appartenenti sempre all'ambito della politica, che richiedono una competenza particolare
– il che, ho suggerito, vale soprattutto nel campo della legislazione.

Se ne può concludere che Aristotele apporta restrizioni al ruolo della competenza in politica, ma
non nega la sua esistenza e la sua importanza. Pertanto potrebbe ancora consentire con la tesi
platonica che ci vogliono dei competenti che debbono essere i filosofi. Ci sono tuttavia indicazioni
che egli dissentiva da Platone su questo punto. In primo luogo, sappiamo da una testimonianza di
Temistio che nella sua opera perduta Sul regno Aristotele dichiarava, con un'alterazione
intenzionale della formulazione platonica, che per un re essere un filosofo non solo non è necessario
ma è di ostacolo, ma che egli dovrebbe prestare il suo orecchio ai consigli dei filosofi genuini (fr. 2
Ross, 647 Rose). E' un detto che è in parte rieccheggiato dal noto detto di Kant, per il quale non
solo non è da attendersi, ma neppure è desiderabile, che i filosofi diventino re, perché questo ne
corromperebbe il giudizio; è desiderabile invece che siano liberi di esprimere le loro opinioni su
quanto viene fatto in politica.80 La possibilità di una corruzione del giudizio anche del competente
è rimarcata dallo stesso Aristotele, sia pure in un contesto un po' differente, quello della difesa del
ruolo dominante della legge (del nomos) nella città, in Politica, III 16. Per il resto in quell'opera
egli non prende espressamente posizione su questa questione, neppure nel criticare la costituzione
della Repubblica nel II libro, ma tutto fa pensare che egli sia rimasto sempre della stessa posizione,
anche perché nel libro VII ammette una netta distinzione fra la vita politica e quella filosofica.

Un primo punto di dissenso con Platone concerne la natura della competenza politica e, tutto
sommato, è abbastanza semplice. Aristotele non ritiene che per la politica sia necessaria una
competenza diversa da quella che è data dall'insieme di conoscenze e di esperienze che sono
direttamente attinenti all'ambito stesso della politica. In questo come in altri casi egli riconosce un
ambito autonomo per la disciplina, ad esclusione di una subordinazione del suo sapere ad un sapere
più comprensivo circa la realtà. ║Per di più egli deve avere avuto la sensazione che ha anche il
lettore moderno della Repubblica di Platone, che non è del tutto ovvio perché un lunghissimo
curriculum nel campo delle matematiche e della dialettica deve essere di particolare utilità per chi
intende partecipare attivamente alla vita politica, quindi, in termini platonici, deve districarsi fra le
ombre in fondo alla caverna. Certi contenuti della dialettica, come l'idea del bene, sono giudicati del
tutto non rilevanti per il sapere pratico, come mostrano le discussioni in Eth.Nic. I 6 e in Eth.Eud. I
8 (anche qui, si noti, con un richiamo a ciò che avviene nelle arti, cfr. 1097a4 ss.). Tutto questo
sapere ai suoi occhi è altrettanto poco utile per la politica quanto quello delle matematiche pure.

Ma questo non vuol dire che Aristotele non pretenda delle conoscenze generali dal politico-
legislatore; si è visto che, al contrario, esse debbono essere ampie, fino ad includere i contenuti
delle opere geografico-etnologiche. Sicuramente (come conferma il passo di Eth.Nic. da citare) egli
riteneva che la propria Politica e la propria raccolta di costituzioni costituisse un materiale di studio

79
Per una discussione approfondita della questione, con una presa in esame anche di altri testi, cfr. E. Braun, Die
Summierungstheorie des Aristoteles, nel vol. Schriften zu den Politika des Aristoteles a cura di P. Steinmetz,
Hildesheim 1973, pp. 396-423.
80
Cfr. Zum ewigen Frieden, Zusatz 2.
48
particolarmente appropriato per chi volesse dedicarsi alla politica; lo stesso vale per le Etiche. Se
vivesse oggidì, pretenderebbe dal politico anche conoscenze di economia e di sociologia. Se il
politico aristotelico non è il filosofo di Platone, è pur sempre un uomo dalla preparazione vasta e
profonda.

Ma le opere sulle quali il politico compie la sua preparazione negli studi non sono il risultato di
sue ricerche personali oppure di ricerche compiute dai politici venuti prima di lui. E' una
constatazione che Aristotele stesso viene a fare nella parte finale dell'Eth.Nic. (X 9, 1080b28 ss.),
in cui pone il problema di quello che ci vuole per diventar esperti di politica. Egli osserva che, su
questo punto, la condizione della politica è differente da quella delle altre arti. Per esse vale che il
sapere che comportano è trasmesso da maestri che sono essi stessi persone che esercitano il
mestiere, per esempio in medicina dai medici, in pittura dai pittori. In politica invece avviene che le
persone che la praticano non sono in grado, o non si curano, di raccogliere le loro cognizioni in
discorsi scritti ed orali, tanto è vero che non riescono ad insegnare il loro mestiere a nessuno, né ai
loro figli né ai loro amici (qui si rieccheggia un motivo socratico). Così si spiega come mai i sofisti
cerchino di riempire il vuoto, professando di essere loro i maestri di politica.

E' una pretesa, quella dei sofisti, che Aristotele manifestamente rifiuta, rilevando nel contempo
che i trattati da soli, senza esperienza e giudizio da parte di chi li utilizza, non bastano. Ma, si lascia
intendere, pur non bastando, essi sono indispensabili, ovviamente se fatti bene. A questo punto
(1181b12 ss.) egli si mostra critico dei lavori dei suoi predecessori, che poco hanno contribuito alle
indagini concernenti i principi e la natura della legislazione e delle costituzioni, riservando a se
stesso, per quanto è nelle sue forze, il tentativo di fare di meglio. Con questo, a parte la
dichiarazione di modestia che il buon gusto richiede, egli viene a proporre i suoi contributi come
gli unici adeguati sull'argomento; ma sono contributi destinati appunto al legislatore e all'uomo
politico.

E' probabile, allora, che già in quel suo dialogo perduto Aristotele pensasse non tanto ad una
consulenza spicciola e prevalentemente moralistica da parte del filosofo nei confronti di chi
esercita il potere, ma ad una formazione appropriata che quest'ultimo dovrebbe acquisire sia
mediante l'insegnamento orale che mediante lo studio di trattati su temi etico-politici. La redazione
di tali trattati, come anche la conduzione dell'insegnamento, dovrebbe spettare a quelli che di quei
temi si occupano con spirito scientifico. Riscontriamo così nello Stagirita una consapevolezza della
differenza dei compiti dello studioso e dell'uomo politico che manca in Platone, che si sentiva un
politico fallito e non uno studioso riuscito, ma anche un'affermazione dell'indispensabilità
dell'attività dello studioso in vista di un migliore ordinamento della comunità politica.

Walter Leszl

*Fonte: Etica, Politica, Retorica. Studi su Aristotele e la sua presenza nell’età moderna,
a cura di Enrico Berti e Linda M. Napolitano Valditara, Japadre Editore, L’Aquila 1989
(versione dattiloscritta, le pagine del testo stampato sono indicate con il numero della pagina,
p. es. [p. 75], o con il seguente segno di cambio di pagina: ║)

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