Sei sulla pagina 1di 33

Cesare Iacono Isidoro

Look at the Fool


Lo scettro di Tim Buckley
In copertina:

James Turrel
Sky Space I
1974, installazione site-specific, Villa Panza, Varese
Luce fluorescente e luce esterna
Portale 2,54 x 2,54 mt., spazio 6 x 3,60 x 3,60 mt.

Cesare Iacono Isidoro

Look at the Fool


Ma il riso degli uomini
sembra
lacerarmi, degli uomini, ché io pure ho un
cuore.
Potrei essere una cometa? Ben credo, poi che hanno
la rapidità degli uccelli; fioriscono in fuoco e
sono
come fanciulli in purezza.

Friedrich Hölderlin, In amabile azzurro

Tim Buckley canta Song To The Siren


e si apre un lucernario sul soffitto,
il blu del cielo gareggia con un mare
di calma inquietudine remota
e su quel mare naviga qualcosa
che non assomiglia a alcuna nave nota,
che non assomiglia ad iceberg alla deriva,
che non assomiglia a faraglioni erranti
disincagliati dalle loro ime radici
o a galle esplose dalle nuvole;
che assomiglia semmai a una nebulosa
di fantasmi, questi sì transfughi,
che hanno rotto le gomene per il largo
pontos dell’immaginazione.
La voce è lo sguardo di Odisseo alle pendici
della rimembranza del naufragio,
la lacrima versata per la morte di Argo,
la brace della poesia che cova viva
dentro le rughe fertili del sale della terra
e di hals, il desiderio toccato dal contagio
della sapienza nello smarrimento.

Il Palazzo di Teodorico di Ravenna


sta là come un sipario imperturbabile
chiuso e aperto al tempo stesso:
chiuso su un passato e la sua strenna
di solennità disidratata
immemore di imperialità e imperiosa,
aperto su un presente ossequioso
tanto quanto distratto, reo confesso
di tutte le sue scialbe cerimonie.
Eppure non è il silenzio dell’oblio
che ascolto guardandolo da qui,
dal marciapiede antistante, dalla riva
opposta di questo Lete che è la Via di Roma
in piena ZTL; tra il cicaleccio e lo scalpiccio
e i flash ciechi degli smartphone
dei turisti, e l’abitudinaria noncuranza
dei locali, mi sovviene una rediviva
apparenza di assoluta nobiltà.
Forse perché so mantenere la distanza?


Long afloat on shipless oceans
I did all my best to smile,
due primi versi e già tutto il tributo
di una vita, di una musica, a un mito:
è vero, diciamo “mito” e non sappiamo
forse neanche più di che parliamo,
prendiamo a dosi la favola antica
come cachet al fosforo, ricostituenti
per orecchie che oramai hanno smarrito
il capo del filo che le teneva unite
alla punta della lingua, il vincolo
della parola lunga dei poeti.
Ma ogni tanto ancora accade
che il nostro tempo strattonato dai magneti
implacabili di Cronos sincronizzi
un suo attimo con un attimo di Kairos
e la parola “mito” si ritrovi in rada.
Quando Tim canta la vocale I
attaccandola all’ans del verso precedente
fa – se non sbaglio – un salto di ottava:
dentro quella I c’è una screpolatura,
appena percettibile, una soglia fina
quanto basta al baluginio di una stella
come la prima luce di mattina,
e i solchi di un disco diventano le scie
di rotte epiche, e di una dismisura.

E invece passiamo questo fiume d’asfalto


fin sotto al velario, a respirare
il tempo che si muove avanti e indietro,
e il Qui diventa un corpuscolo sfuggente
e il massiccio edificio non più spalto
alla sua ondulazione: io sono
lo stato eccitato di un punto del campo.
La storia a sua volta sfila davanti agli occhi,
un fascio di lampi indeterminati,
relazioni tra posizioni e quantità di moto:
e nel vento che entra e esce dall’arco
si sentono bene ogni tanto i crocchi
come del vetro incrinato sull’ex voto
alla memoria trasposta in memoriale;
non c’è guida turistica che possa
lanciare un amo, piantare un gagliardetto
davanti a questo immaginifico fondale.

‘til your singing eyes and fingers


Drew me loving to your isle:
il canto delle sirene arriva, arriva
alle orecchie del navigatore,
si infila in quella linea d’ombra
che la luce ha attraversato in fretta:
quel canto è esso stesso l’ombra
che riflette e ingoia la bellezza viva
e il desiderio della conoscenza
che sfugge alla vigile vedetta
perché scintilla azzurro nello sguardo
prima di stregare l’orecchio, sì
ma nello sguardo di chi la sua presenza
l’aveva già nel cuore. È stato forse
quel giorno in cui fu incisa
Love From Room 109 At The Islander
e per un errore tecnico la riproduzione
trainava con sé un fruscio seccante;
e qualcuno s’inventò di registrare
le onde del Pacifico e le corse
dei surfers sulle loro creste per coprirlo
e il rumore di fondo divenne il punto in cui
de l’onda il ciel, del ciel l’onda è confine.

In quei giorni la malinconia notturna


di Miles Davis cominciò a allagare
i pomeriggi, ma nell’aria ticchettava un Morse
nervoso e aguzzo: e le antenne prensili
di Tim in coffa sulla sua liburna
captavano aliti di qualcosa all’orizzonte,
la New Thing del jazz, terra aria e fuoco
di Ornette Coleman, Albert Ayler, Cecil Taylor,
John Coltrane, e i mondi eliocentrici
del principe Sun Ra. E poi l’inaudita fonte
del suono elettronico e dell’umana voce
che mirabilmente si fa musica
che mirabilmente traduce poi in parola.
Ai compagni non trovò che dire:
“Non cesseremo di esplorare, e alla fine
sapremo il luogo per la prima volta.
Andremo oltre, verso il mare aperto,
oltre ciò che la gente si aspetterà di udire,
ma so dove vado, so la strada, in me s’ascolta
la mia stessa coscienza, e il mio timone,
questa semplice impugnatura di chitarra,
governerà la nave volta a volta
per quanto grande sia e benché un tifone
sembri incombere sulle acque tranquille
di questo California Dreamin’.
Non addio, ma avanti, viaggiatori”.

Non lontano da qui c’è un planetario,


cinque minuti a piedi, giusto il tempo
di ascoltare Starsailor, il delirio
spazio-odisseico di Tim Buckley,
la voce uscita di riga, dal binario,
incauta come un’ape nella brutta stagione
nei campi a impollinare galaverne,
fiorita in un riverberare a sedici
piste sul nastro magnetico, un eone
di musica risalita da una falda artesiana
o precipitata dalle chine eterne,
siderali, del suono.
Nel cortile, su una pedana di cemento,
è piantato un cerchio di Ipparco,
l’astronomo che nel 134 avanti Cristo
sospettò una stella nuova dentro
al claustro immoto delle stelle fisse,
vide qualcosa che nessuno aveva visto.
Tim Buckley non fu tanto quella stella
inattesa nello scenario musicale –
come pure verrebbe da pensare –
quanto Ipparco stesso, il viaggiatore
che vide stella se stesso fra le stelle
di un universo tutto da contare
che lasciò in eredità al mondo
se solo il mondo lo avesse voluto ereditare.

Il dubbio è tuttora legittimo: la gente


cosa vuole davvero? Stelle appiccicate
su un firmamento di carta crespa blu,
Halls of Fame aggiornate di frequente
un po’ come un listino? O Bright Stars
immarcescibili all’ombra de’ cipressi
e dentro l’urne confortate di pianto,
album di santini da adorare? O più
probabilmente, in medio stat virtus,
glorie né troppo gravi né troppo leggere?
Tim Buckley ha detto “so la strada”
ma su quella strada era un varco,
la foce stretta in mezzo alle scogliere
oltre le quali si stendono l’ignoto
e l’appetito struggente di sapere:
da lontano si staglia una figura
che ha la forma di un mistero, le mura
forse di una città di nome Irene
che diventa altra se ci si avvicina,
o forse di uno scoglio dal quale le Sirene
sciolgono il loro melos d’incanto e di paura.

Sail to me, Let me enfold you


Here I am, Waiting to hold you
Tim ha sentito quel canto mescolarsi
all’onda, al vento e al fremito
di lontananze mai rimarginate;
ha visto un bagliore insinuarsi
sul bordo tra la musica e il silenzio,
l’ha visto senza far velo alle pupille
in tutto il suo spavento fascinoso.
Cosa ineffabile e però macigno,
una roccia dischiusa al rabdomante
che sente suono d’acqua tra le argille,
attesa che fende inquieta il flutto
prima ancora di tracciare rotte:
ci sarà, non segnato da mappe, un luogo
dove in un tempo è cominciato tutto,
un luogo dove la musica non cade
macchia qualunque nell’immensità
dovunque intorno, ma viene, accade
dentro; quello che il vecchio Femio
disincantato chiedeva a una conchiglia
breve, perché l’oda il breve orecchio,
non è la risacca o il rombo di thalassa
ma il sangue che fluendo lì s’accende
perché sente battere il polso al desiderio
che non sapeva ancora di desiderare,
il dispaccio sfuggito alla bottiglia.

Nel complesso del Palazzo si conservano


mosaici pavimentali ritrovati
nel corso di scavi archeologici:
sono molto belli, geometrie lapidee
di diligenza ed estro, estirpati
alle sviste dei secoli. E ribalta delle Muse,
se vogliamo esporci a grilli etimologici,
quelle Muse che, come Orfeo, sconfissero
nel canto proprio le Sirene: loro perché dee
custodi del sapere, delle arti e delle scienze,
di tutte le parole in grembo alla memoria,
lui perché padrone d’ogni vibrazione
dal granello di sabbia sulla spiaggia
all’astro infisso nel diadema celeste.
Da allora non c’è più combattimento
tra i bracci di volontà e dannazione,
le Sirene sono nascoste più che misteriose,
inghiottite dal mare come dalle pieghe
di un panneggio, e comunque nessuno
saprebbe ora se eluderle
più per timore o più per compassione.
Sfilano i teste con le loro egloghe:
c’è chi ha detto, le ho sentite cantare
sì, ma l’una all’altra, non per me;
c’è chi ha detto, con un ramo sfiorito
ho sviato l’alito delle loro bocche avare;
c’è chi ha detto, le ho pregate invano
non ho avuto che sguardi ante il naufragio;
c’è chi ha detto, ha o è spirato il canto
dal silenzio che lo spazio ha inghiottito;
c’è chi ha detto, hanno tentato mute
un inganno e si sono ingannate;
c’è chi ha detto, ho potuto soltanto
averne il pieno della loro assenza;
c’è chi ha detto, ormai sono annegate,
lo specchio del mare riflette il ricordo
di un canto vano ad un mondo sordo.

Did I dream you dreamed about me?


Were you hare when I was fox?
Da qualche recesso del tempo trasmodante
Tim le Sirene le ha avvertite, accalappiate
nel trabocchetto di una metempsicosi:
dal fondo immemoriale ove s’erano gettate
dei flauti le ha mosse amabile il canto
e sopra il mare lungo sono riemerse
nei corpi slanciati e giocosi di delfini.
Quante erano le figlie di Archeloo, due, tre?
Qualunque fosse il numero s’è infranto
in un caleidoscopio di riprove e vaticini,
è diventato incognita: “sono nessuno
o sono una nazione, ma la mia nazione
è l’immaginazione”. E cosa cantavano?
Questione sconcertante, ma non al di là
d’ogni supposizione. C’era Blonde On Blonde
ascoltato fino a rovinarlo, e poi occhi
di magazzino deposti ai cancelli
di una dolcezza pigra e malinconica
avvolta su se stessa e svolta sul seno
di un’ultima Lady. Poi salpò la sonda
verso abissi oceanici e vuoti astrali
e presto lanciava inauditi i suoi segnali,
inauditi a chi aveva cera nelle orecchie
non all’Odisseo che tendeva nervo
d’arco a cantare con voce simile alla rondine:
la danza di una vampa elettrica, superba,
la voce che danza fuoco e vento
tra il grido e il bisbiglio, la preghiera
e l’anatema, il suono puro di cento
e cento schizzi di fusione atomica,
i frizzi del Fool tra cielo e terra,
tra vento e corda, la guerra dichiarata
– Shhh / Peaceful – alla scala diatonica,
una via al silenzio elettrica, infiammata,
un salmo mite ribollente, la corrente
della voce tirata via dal fodero, sguainata.

I Bizantini non ebbero ardore per il mare


al pari di altri popoli, il mare era “il mare
fra le terre”, coste da difendere, porti
fra i quali commerciare. Esiste un Odisseo
bizantino con le sue Colonne da violare?
Io verso Bisanzio non ho bisogno di salpare,
a due passi da qui la polveriera dei conforti
esplode le sue munizioni d’oro e verde,
lo splendore nell’artificio dell’eternità.
Eppure so che è qui che devo rimanere
dove tutta la bellezza si disperde
nell’austerità dell’argilla cotta,
si disperde sì ma come polline
che non sa dove ma sa che rifiorirà.

Now my foolish boat is leaning


Broken lovelorn on your rocks
Tim mise sé per l’alto mare aperto,
incandescente riscattarsi da ogni ormeggio
come se sapesse tutto l’etymos
che una sola parola, sirena, può serbare:
la radice del canto, la fune che incatena,
la malia dell’incanto meridiano.
Due sono le Colonne d’Ercole, pare
potessero essere due anche le Sirene,
serrafilo della ragione, serrafilo della seduzione
e in mezzo il battere d’ali del gabbiano,
la corrente abbagliante tra il visibile
e l’invisibile che nutre la bellezza
dove s’allarga il crepaccio dell’irrequietezza,
del desiderio e della prostrazione.
Il canto delle Sirene è forse imperfetto
ovvero non si sa fatto per cosa,
uno sciame selvaggio di fulmini lontani
che inonda la città tetto per tetto
e non lascia che intendere il barbaglio
della musica che freme burrascosa
da qualche parte; ma c’è una direzione
che passa dentro la linea d’orizzonte
scritta nel cuore come un’ischemia;
su quella soglia veleggiano i seafarer
che parlano il fuoco della poesia
ed è la fiamma stessa che li avvolge –
vogliamo chiamarla ispirazione? –
che sembra parlare a loro stregua.
Sulla carta da musica, tra un rigo
e l’altro, tra le corde SOL e RE
della chitarra, da long a afloat la tregua
tra parole: il centimetro arduo su cui
vasti archi di spazio posano, sempre.

E sul centimetro arduo posa il vasto


arco di spazio di Starsailor, l’ora
ardente in cui Tim più si è approssimato
agli argini di un gorgo o di un buco nero.
Se Song To The Siren è una diastole
e Moulin Rouge quasi una canzoncina,
il resto del disco potrebbe essere davvero
inavvicinabile a scanso di pericolo,
come all’isola delle Sirene, come a un suono
che tutto può finire o incominciare,
come a un prato d’ossa pronte a germogliare.
Dalla musica rimestata nell’intrico
estatico e teso di tamburi e fiati,
tra climax, malinconie e vapori
all’estremo limite o nel cuore di tenebra,
la voce si estenua in ascese e conati
in paesaggi tra il sussurro e il volo;
e narra di vecchie finestre bisognose d’ombra,
di anelli di stelle in freddi ignominiosi,
di oblio che si carca sulle spalle un uomo solo
con se stesso e il proprio urlo nella gola,
di esche di gemiti e canzoni vorticose,
figure di danza di costellazioni e danzatori
che si tuffano in cielo come su antichi affreschi.
E di marinai che indicano qualcosa, fuori,
dove si lancia il loro sguardo che ha incontrato
per un istante il proprio riflesso
e la cui mente rinnova il mondo in un verso,
un brano di musica, un paragrafo
di filosofo giusto;
di marinai che hanno provato il gusto
di essere una cosa con il viaggio
e l’ardimento della conoscenza
e col diritto d’essere pagato alla sapienza.

Tim Buckley è tornato, come Odisseo:


ha resistito agli incantevoli gorgheggi
o ai mostruosi gridi, ha oltrepassato l’hypnos
sinistro addossato alle vele come un nuvolo
o agglutinato come un corpo di medusa?
Ha ascoltato le lusinghe e i dileggi
di cantatrici calve, il ronzio di un nugolo
di api sterili, ondeggianti alla rinfusa?
Ha legato le Legatrici, polymetis
forse a malincuore, piegato la nostalgia
a una lista squadernata ormai di armeggi?
O, tranchant, ha tirato dritto con la scusa
di non far tardi al convegno con la sorte?
O come Orfeo aveva un asso nella manica,
la cetra Bistonia, il trucco della dissonanza
espedito contro e sopra l’estro armonico
delle ammaliatrici?
Ecco, forse è più o meno così: un Orfeo furbo
non come Odisseo edotto dell’astuzia,
ma come Odisseo avido di avventura,
un Orfeo che ha visto l’ombra di una vela
coprire quelle di cento Euridici,
scavare la luce come una morsura.

I am puzzled as the newborn child


I am troubled at the tide
Tim ha vinto le Sirene
o le Sirene hanno sconfitto lui
con la loro stessa disfatta? Turbato
di fronte alla marea, lo hanno veduto
da lontano con un remo in spalla
incamminarsi tuttavia ancora per la sponda
come fosse passato a ubbidire
a una famigerata profezia, dalla
intercapedine di chissà quale Averno:
che doveva una volta ancora navigare
oltre l’estremità del mare interno
fino a raggiungere genti ignare
dei cibi conditi con il sale
e del colore e del profumo delle distese
acque, e dei fianchi robusti delle navi;
e che avrebbe incrociato altro viandante
che ignorante dell’asta sagomata -
sempre tenuta all’omero come a uno scalmo -
la scambierebbe per un ventilabro;
allora sarebbe stato il momento di piantare
in terra il legno e di tornare indietro.
Ma era un remo quel bastone glabro,
come quello che Tim aveva intinto
nelle linfe della visione dietro al soffio
di Euro e i suoi fratelli? Era una pala atta
a separare il grano dalla pula – come a dire
i chicchi di musica dal loro cascame -
che lui per anni ha ben sventolato?
Era una leva priva di stortura
per arrestare l’ordigno universale,
il carillon di nenie e tiritere?
O era uno scettro, l’insegna di un reame
dove l’armonia è in singolar tenzone
con il caos, uno stretto tronco
nel cui corpo se passa una canzone
si apre un canale tra la terra e il cielo
e tra il cielo e il mare? Era uno scettro
sì, lo scettro del giullare, del fanciullo divino:
Look at the Fool, il giovane marinaio
vecchio e tardo che ci sta guardando
mentre dietro di lui la luna si dilegua
sta andando incontro a una montagna bruna
che rassomiglia troppo ad un destino.

Il parcheggio dove sosta l’auto


è sullo stesso percorso per la sala
circolare con il tetto a cupola
che diventa con il clic di un planetario
volta celeste: Song To The Siren è una cicala
che continua a frinirmi in testa
in barba ai miei piedi di formica
solerti al pensiero di un disco orario
già scaduto. Vado a un sortilegio antico
chiuso nel graffio di un incanto nuovo
e nel frattempo fuggo da un’altra fattura,
dai trilli delle Sirene museografiche
che adescano come post-it nelle bacheche,
dai papiri delle Muse oleografiche
venduti nei bazar del centro
ai vari Burbank in cerca di baedeker.
Con Odisseo oltre le Colonne d’Ercole,
con Tim Buckley oltre le stargates,
oltre la Porta Nuova di Ravenna
in viaggio con la musica e la poesia
con l’alta fantasia che scava dentro
come l’artiglio del mio scettro, che è la penna.

Sembra così semplice, un buco sul soffitto,


un rudimentale lucernario senza nemmeno
il vetro; ma il soffitto non è quello
di una qualunque stanza, è su uno spazio
definito da proporzioni esatte,
su un cubicolo rinascimentale, su un sacello
che si apre quell’adito di sei metri
quadrati e mezzo circa che ha il nome
niente affatto fortuito di portale.
Allora entrare lì e alzare lo sguardo
non vuol dire solo avere un giusto pezzo
di cielo ritagliato, bensì l’occasione
di ghermire il proprio infinito sulla mano,
la propria eternità in un’ora.
È come davanti a un taglio di Fontana:
quella garzetta nera che sta dietro
la tela per mantenere la tensione,
per evitare slabbrature, è quello stesso
tipo di infinito, il benigno vaso di Pandora
che si spalanca all’immaginazione
di chi guarda un’opera d’arte e ne è guardato,
di chi guarda se stesso mentre guarda,
di chi vede limite estremo, non plus ultra
solo dove e qualora un St. Victoire non arda.

Song To The Siren


(Tim Buckley, 1967)

Long afloat on shipless oceans


I did all my best to smile
‘til your singing eyes and fingers
Drew me loving to your isle
And you sang

Sail to me
Sail to me
Let me enfold you
Here I am
Here I am
Waiting to hold you

Did I dream you dreamed about me?


Were you hare when I was fox?
Now my foolish boat is leaning
Broken lovelorn on your rocks,
For you sing, touch me not, touch me not, come back tomorrow:
O my heart, o my heart shies from the sorrow

I am puzzled as the newborn child


I am troubled at the tide:
Should I stand amid the breakers?
Should I lie with death my bride?
Hear me sing, swim to me, swim to me, let me enfold you
Here I am, here I am, waiting to hold you

Canzone per la sirena.

Alla deriva in mari deserti


facevo del mio meglio per sorridere
fino a che le tue dita e i tuoi occhi ridenti
non mi hanno attirato verso la tua isola
e tu cantavi

"Fai vela verso di me


fai vela verso di me
lascia che ti stringa tra le mie braccia
io sono qui
io sono qui
ti sto aspettando per averti"

E' stato un sogno o tu sognavi me?


Eri tu la lepre ed io ero la volpe?
Ora la mia stupida barca sta accostando
innamorati infelici (si sono) infranti suoi tuoi scogli
perché tu canti "non toccarmi, non toccarmi, ritorna domani"
oh il mio cuore, oh il mio cuore rifugge dal dolore

Sono confuso come un bimbo appena nato


sono turbato di fronte alla marea:
Rimarrò tra quelli che si sono infranti?
Mi stenderò con la morte come mia sposa?
Puoi ascoltarmi cantare: "Nuota verso di me, nuota verso di me,
lascia che ti stringa tra le mie braccia
ti sto aspettando per averti"
Il dedicatario di quest’ultimo poemetto della mia cosiddetta Quadrilogia dei cantanti è
forse il meno “famoso” della serie; benché, non dico rivalutato (non ce n’era bisogno, i suoi
dischi hanno continuato a parlare per lui e a suonare sui piatti di tutti gli amanti della grande
musica), ma più ricordato grazie a qualche pubblicazione, e soprattutto all’inevitabile deflusso
di materiale discografico dagli archivi delle sale di registrazione (gli album postumi, tra live e
compilazioni, hanno ampiamente superato quelli pubblicati in vita), capita ancora di sentirlo
evocare, più che per se stesso, in quanto “il padre di Jeff” – che è stato anch’egli un eccellente
cantante e musicista, non credo però commensurabile al genitore per importanza storica e
autorevole influenza musicale. Forse questo è uno dei pochissimi casi in cui un figlio d’arte si
è trovato, almeno in parte, a eclissare l’ombra lunga del precursore.
D’altra parte in un vecchio libretto di Savelli Editore, il quarto volume, Le strade del folk,
della serie “La vera storia del rock” curata da Ernesto Assante ed Enzo Capua, quest’ultimo
cominciava la redazione di un capitolo dedicato a Buckley sottolineando quanto la sua morte
nel giugno 1975 fosse passata quasi inosservata, accompagnata non dal clamore tipico dei casi
purtroppo non rari di perdite di giovani rock star, ma appena da “qualche articolo dei suoi
cultori più affezionati”. Quel libretto fu pubblicato nel 1981, e sul frontespizio io riportai al
momento del suo acquisto un riferimento temporale, febbraio ’82, e uno topografico, stazione
FS Alassio (SV): lo avevo preso in una tappa del viaggio in treno verso Albenga dove dovevo
prestare il mio primo mese di servizio militare, è in una camerata del Centro Addestramento
Reclute della cittadina ligure che lo lessi. Allora Tim Buckley non sapevo nemmeno chi fosse,
a differenza degli altri protagonisti del libro (da Bob Dylan a Van Morrison, da Neil Young a
Pete Seeger), ma lo avrei saputo presto, e il mio sarebbe stato un battesimo di fuoco.
Io fin dall’adolescenza ho avuto una curiosità, intellettuale in genere, nello specifico
musicale che mi ha spronato ad accontentarmi ben poco dei palinsesti radiofonici e televisivi,
per cui cercavo dove e come potevo di allargare i miei orizzonti, sia nell’ambito del rock e
del pop che in quello della classica (il jazz sarebbe arrivato un po’ più tardi); un vero spirito
d’avventura mi guidava alla scoperta di roba assai poco mainstream. Così non mi sembrò vero
quando un giorno trovai una cassetta di Starsailor, poiché dalle pagine di quel libro che avevo
ancora ben impresse in mente (la cassetta in questione porta un copyright del 1983, e sono
quasi certo che sia stata comperata in quello stesso anno) pareva essere il capolavoro di
Buckey; molto tempo dopo, conosciuta gran parte della sua discografia, e comunque tutti gli
album in studio, avrei potuto discutere la cosa ma non c’è dubbio che quello era e resterà un
LP formidabile. E tale, devo dire, lo considerai anche allora, da subito, benché avessi avuto
bisogno di parecchi ascolti per farmelo entrare in testa. Rammento che feci una cosa di
un’ingenuità commovente: scrissi alla sede di Milano della WEA, l’etichetta distributrice, per
avere i testi dei brani dell’album … e francamente non ho idea di dove avessi potuto trovare
un indirizzo plausibile (mica c’era internet). Ovviamente non ebbi risposta.
La vicenda artistica di Buckley viene canonicamente divisa in tre periodi. Il primo, che ha
avuto inizio da giovanissimo nei gangli losangelini del folk, lo ha formato e gli ha aperto le
strade del mondo discografico; a questo periodo fanno capo sostanzialmente i primi tre album,
anche se dopo l’esordio già si intravedono con chiarezza i passi di allontanamento dal recinto
folk e di avvicinamento alla temeraria sperimentazione che seguirà, di fatto inqualificabile. I
tre dischi successivi, Blue Afternoon, Lorca e appunto Starsailor, registrati nell’arco di un
anno appena, sono opere visionarie e gemme della musica in senso lato. Ci saranno poi due
anni di silenzio, legati probabilmente anche allo sventurato incontro con l’eroina e a alla
ricezione non certo entusiasta della sua musica in anticipo sui tempi; quindi il ritorno per altri
tre lavori che rivelano una brusca sterzata verso un rock, e addirittura un funk, più
convenzionali, dove per buona parte dei fan di Buckley di davvero “suo” rimane soltanto la
voce. Il titolo del mio poemetto è lo stesso dell’ultimo di questi album, titolo che sommato
alla grafica di copertina portò Enzo Capua nel suddetto saggio a definire l’artwork “ignobile”.
Per quanto mi riguarda l’idea è di considerare il termine fool, che oltre che con scemo si può,
e forse si deve, tradurre con buffone, nella sua accezione più ampia, che si allarga alle figure
del clown e del giullare con tutto il loro carico simbolico e antropologico (da qui il sottotitolo,
che fa capo a un prezioso libro dello psicanalista e psicoterapeuta statunitense William
Willeford, Il Fool e il suo scettro. Viaggio nel mondo dei clown, dei buffoni e dei giullari,
Bergamo, Moretti & Vitali, 1998).
La preferenza accordata a Song To The Siren come solco sonoro sul quale impostare la
scrittura dei versi è, rispetto ai precedenti poemetti, anomala, in quanto questa meravigliosa
canzone è immediatamente associabile a lui anche da parte di chi lo conosce poco (pur se il
merito va più alle cover che ne sono state fatte, quella di This Mortal Coil fra tutte, che non a
un successo che l’originale non ha mai avuto). Diciamo che, come con Johnny Cash, anche
con Buckley ho cercato di sondare il sondabile, fino a rendermi conto che nel testo di Song To
The Siren (coautore non accreditato il poeta Larry Beckett, che con Tim ha lavorato
parecchio, il quale suggerì di ripescare il brano nel cassetto da quasi tre anni e lo aiutò a
ritoccarlo) com’è facile intuire ispirato al mito, avrei trovato quegli appigli che si sono resi
talora utili e talora quasi necessari per incanalare la scrittura, com’è stato negli altri poemetti,
e come non ho trovato tra le parole di tanti altri brani.

Il Palazzo cosiddetto di Teodorico in Ravenna è l’unica testimonianza architettonica


dell’VIII secolo d.C. superstite dell’antica area palaziale della città imperiale. Di quest’area
restano oggi visibili la porzione di edificio identificata quale nartece (una struttura tipica delle
basiliche dei primi 6-7 secoli del Cristianesimo, consistente in uno spazio posto fra le navate e
la facciata principale della chiesa con funzione di atrio) e la facciata della chiesa di San
Salvatore Ad Calchis , di cui si conservano anche le fondazioni del corpo principale. Grazie ai
restauri di Corrado Ricci la struttura, in particolare il prospetto costituito da una doppia
parete, si presenta nuovamente leggibile nel suo aspetto originario: al piano terreno con il
portale e le due coppie di archi e al piano superiore con l’imponente nicchia dotata di bifora e
affiancata da due serie simmetriche di arcatelle cieche. La parte retrostante è caratterizzata da
rampe scalari simmetriche che collegano quello che doveva essere il nartece della chiesa con
l’ambiente al primo piano: una è stata completamente ricostruita dal Ricci, dell’altra restano
soltanto le fondazioni e alcune tracce murarie. Imponente e suggestivo il grande arco che
connetteva questa struttura di accesso al corpo basilicale della chiesa. Il primo piano del
palazzo, celato dalla suddetta bifora, ospita una selezione di mosaici pavimentali dovuta a un
prezioso ritrovamento avvenuto nel corso di scavi negli anni 1908-1914 (cfr. scheda sul sito
del Polo Museale Emilia-Romagna, sezione Musei).
I versi dei precedenti poemetti di questa Quadrilogia hanno un rapporto preciso coi luoghi
ad essi associati: l’idea di Il sale dolce e il frutto amaro è nata veramente mentre percorrevo
in automobile la via interna alle saline di Cervia ascoltando Lady In Satin di Billie Holiday;
quella di dedicare un secondo simile gruppo di testi a Édith Piaf mi è venuta davvero durante
una passeggiata sulla spiaggia della Bassona, la canzone è stata poi scelta tenendo conto delle
relative suggestioni; per il lavoro su Johnny Cash c’è stato un certo “aggiustamento”, il luogo
è stato valutato a posteriori, verificatane dal vivo l’adeguatezza – nulla di più di un’intuitiva
associazione mentale tra due diverse forme di nobiltà della vecchiaia – in seguito alla sua
conoscenza su un libro dedicato all’archeologia industriale del ravennate, e pure a posteriori
ho cercato il brano giusto, attraverso una vera e propria ricognizione su tutti quelli che Cash
ha inciso nei sei volumi della collana American Recordings.
Il caso Buckley è diverso: il palazzo di Teodorico non ha un momento-ponte con la figura
di Buckley, nessun riferimento se non forse con un anelito alla potenza dell’immaginazione
che la sua musica, per quanto mi riguarda, favorisce non poco, così come ciò che resta del
monumento che “costringe” a fantasticare su quel che non c’è più; con gli altri luoghi
condivide il fatto di appartenere all’ambito ravennate, attributo che ho deciso di seguire per
tutti i poemetti sin da quando ne ho pensato il disegno d’insieme.

Qualche nota.

Riporto qui alcune precisazioni su cose e persone e opere citate nel testo, e assolvo i miei
debiti nei confronti di prestiti diretti o indiretti incastonati nei versi. Le notizie sono riferite
seguendo il loro ordine di apparizione nel testo stesso. Rispetto alle simili note presenti in
ciascuno dei poemetti della Quadrilogia, queste sono molto più estese, perché sono molto folti
i riferimenti e i “furti” che mi sono concesso: prego i lettori di non considerare tutto questo
come una ostentazione d’erudizione – sarebbe cosa ben futile – ma come sincero e dovuto
riconoscimento a tutto quello che mi è servito di ispirazione, anche se forse stavolta ho un po’
passato il limite … Con un po’ di condiscendenza si può accoglierle parte stessa della opera, o
leggerle addirittura come opera a sé stante.
A differenza di quanto ho fatto per i lavori ispirati a Édith Piaf e Johnny Cash, per i quali
ho ritenuto opportuno consultare una biografia, per questo su Tim Buckley sono per così dire
tornato all’origine, ovvero al primo poemetto della serie, quello per Billie Holiday, quando
pensai di non fare a quel modo e mi documentai quasi soltanto su una succinta monografia
pubblicata da una rivista jazz e imperniata sull’album che conteneva la canzone bussola per la
scrittura. Un paio di libri su Buckley sono stati pubblicati in Italia, ma non sono facilmente
reperibili; e d’altra parte uno di essi gioca sul confronto tra vite e musiche di Tim e Jeff, padre
e figlio, forse cavalcando l’ovvietà, forse tentando onestamente di spezzarla. Ci sarebbe anche
un romanzo (Giampiero La Valle, Voci da una nuvola. Il segreto di Nick Drake e Tim
Buckley, Pescara, Ianieri Edizioni, 2015), questo tuttora disponibile sul sito dell’editore, ma è
un romanzo appunto e, anche in questo caso, se posso azzardare a scatola chiusa, mi pare che
l’accostamento Buckley-Drake sia di per sé abbastanza prevedibile e non saprei quanto
proficuo. Allora mi sono rivolto, oltre che al saggio di Enzo Capua di cui sopra, invero
piuttosto didascalico come presumibilmente era richiesto dal tipo di pubblicazione in cui esso
è inserito, a: un accorato articolo di Riccardo Bertoncelli, scritto tra il 1991 e il 1997 e poi
pubblicato nel volume Paesaggi immaginari. Trent’anni di rock e oltre (Firenze, Giunti,
1998); alcune pagine di Giancarlo Nanni dal sito internet Ondarock e altre da quello
dell’enciclopedia musicale vivente Piero Scaruffi, anche questo materiale però poco più che
divulgativo; due testi reperiti invece direttamente sul sito ufficiale dell’artista, uno dei quali
secondo Bertoncelli era, al momento in cui egli scriveva il suo, il saggio più esauriente
apparso su Buckley (Martin Aston, Tim Buckley: The High Flyer) e l’altro è un florilegio di
ricordi personali di Lee Underwood, chitarrista in sette dei nove album in studio di Tim;
nonostante il mio inglese sia rimasto alla terza media, queste sono state le due fonti più
preziose, per quel che sono riuscito a capire. Su internet ho trovato anche l’offerta dei testi di
tutte le canzoni incise da Buckley.
Ma il punto di svolta nella fase preparatoria del poemetto è stato il recupero da una pila di
libri accatastata su un mobiletto del mio studio di un libro di Piero Boitani acquistato tempo fa
ma ancora intonso: L’ombra di Ulisse. Figure di un mito (Bologna, Il Mulino, 1992, in realtà
il primo di più studi dedicati dal filologo e critico letterario romano al personaggio mitico);
l’intento era quello di dare un’occhiata a eventuali pagine che vi fossero contenute sulle
Sirene, ma l’indice mi ha rivelato che non soltanto alle Sirene è consacrato un intero capitolo
con una giberna colma di munizioni citazionistiche formidabili (Thomas S. Eliot, Wallace
Stevens, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Samuel T. Coleridge, Dante naturalmente) la cui
potenza di fuoco è moltiplicata in virtù di una fitta e accurata trama intertestuale, ma che il
volume nel suo complesso è un volo acrobatico sul rilievo che il mito e le sue progressive
interpretazioni hanno avuto sul destino dell’intera poesia occidentale. Sulle possibilità di
ricalcare alcune caratteristiche e funzioni di Odisseo su Buckley, e quelle dei ragionamenti
intorno alla poesia sulla musica, non credo sia necessario soffermarmi: i versi di Look at the
Fool parleranno da soli. A questo libro devo talmente tanto, e non solo per l’impostazione del
poemetto e i numerosi spunti di cui mi sono avvalso, ma per una nuova navigazione nella
riflessione poetologica che con esso si aggiunge ad altre fondamentali fatte nel passato (due
nomi su tutti, Salvatore Lo Bue e Maurice Blanchot, non casuali perché per l’occasione me li
sono rispolverati, e con giovamento), che un semplice “grazie” è quasi ridicolo: ma lo dico lo
stesso, e con tutto il cuore.
Per gli altri poemetti non l’ho fatto, ma per il presente mi sembra opportuno spendere
qualche parola anche per l’esergo. Intanto per accennare al fatto che esso ha ne ha sostituito
uno scelto precedentemente, era un passo da Animula di Thomas Eliot, quando nell’ultima
pagina di Lo spazio letterario di Maurice Blachot – una delle suddette rispolverate, l’altra di
Lo Bue è L’origine orfica della poesia– ho ritrovato questa frase di Hölderlin “Vorrei essere
una cometa? Sì. Poiché esse hanno la rapidità degli uccelli, fioriscono in fuoco e sono in
purezza come fanciulli”, che mi ha folgorato (Lo spazio letterario l’ho letto molti anni fa e
non la ricordavo). Se non che da una ricerca approntata per capire da dove essa venisse, resa
necessaria dalla sua irreperibilità nella mia edizione di tutte le liriche del poeta tedesco
(Milano, Adelphi, 1977 e 1983, curata da Enzo Mandruzzato), ho scoperto che in altre
edizioni sia precedenti che successive è contenuta in una poesia intitolata In amabile azzurro
(In lieblicher Bläue) che però, nonostante compaia in importanti edizioni critiche dell’opera
omnia di Hölderlin, è ancora alonata da un dubbio di autenticità, non tutti gli studiosi sono
convinti che sia stata effettivamente composta da lui. Ho dato conto dell’accidentato ma
divertente percorso delle mie ricerche in merito in una nota dei miei scartafacci; per l’esergo
ho scelto una traduzione di Leone Traverso, come si vede piuttosto diversa dal riporto di
Blanchot, perché su quest’ultimo non posso avere riscontri circa la provenienza (lui non l’ha
indicata).
Il “lucernaio sul soffitto” fa riferimento immediato all’opera di James Turrel che compare
in copertina e alla quale, come in tutti i poemetti della serie, è dedicato l’ultimo blocco di
versi. Mi piace però qui ricordare anche i “lucernari dell’infinito”, la definizione che Charles
Baudelaire dette degli stereoscopi nel 1859, in uno degli scritti sul Salon di quell’anno, “Il
pubblico moderno e la fotografia”, stereoscopi sui cui fori si chinavano “migliaia di occhi
avidi” che una moderna tecnologia di riproduzione delle immagini portava a disamorarsi della
storia e della pittura (il regista e critico cinematografico Noël Burch si rifarà alla medesima
espressione nel titolo di un suo fondamentale saggio sulla nascita del linguaggio del cinema);
uno dei canonici momenti di estrema tensione fra arte e tecnica – e tecnica più o meno
applicata all’arte – che alla resa dei conti faranno bene all’arte come alla tecnica.
Pontos e hals son due tra le diverse denominazioni che i Greci usavano per “mare”, mare
come vastità la prima e mare come sale, materia, la seconda; oltre a pelagos, mare come
distesa e immaginazione, thalassa, mare come esperienza o avvenimento, colpos, ovvero
insenatura, riparo, e infine laitma, mare come profondità “cara ai poeti e ai sucidi” precisa
Predgrag Matvejević, dal cui Mediterraneo. Un nuovo breviario (Milano, Garzanti, 1991) ho
preso questo inventario.
“per orecchie che oramai hanno smarrito / il capo del filo che le teneva unite / alla punta
della lingua”; in uno spettacolo teatrale di quella che all’epoca si chiamava ancora Societas
Raffello Sanzio (ora semplicemente Societas), Ahura Mazda. Un Capodanno di Palcoscenico,
come puro apparire (un’epifania più che uno spettacolo in verità, andata in scena in unica
soluzione in poche repliche nel settembre del 1991), una sorta di celebrazione con riserva
dell’avvento della civiltà della scrittura e del libro, c’era una icastica scena nella quale un
attore tagliava un filo che collegava l’orecchio di un secondo con la bocca di un terzo, icona
appunto della messa in crisi della civiltà orale.
“lo stato eccitato di un punto del campo”, “relazioni tra posizioni e quantità di moto”, sono
vaghi e, lo ammetto forse un po’ capziosi, accenni alle basi della meccanica quantistica.
“nello sguardo di chi la sua presenza / l’aveva già nel cuore”; nella terza scena del primo
atto dell’opera Ulisse di Luigi Dallapiccola (composta tra il 1960 e il 1968, e nel 1968 andata
in scena per la prima volta a Berlino) Circe si rivolge a Ulisse, al riguardo non delle Sirene ma
di Ciclopi e Lestrigoni , con queste parole: “Non avresti incontrati, Ulisse, mai / Ciclopi né
Lestrìgoni, / se non li avessi avuti già nel cuore”.
L’episodio relativo alla registrazione di Love From Room 109 At The Islander (On Pacific
Coast Highway) – nell’album Happy/Sad del 1968 - è raccontato da Riccardo Bertoncelli in
“Lettere in sogno da Tim Buckley”, l’articolo di Paesaggi immaginari. Trent’anni di rock e
oltre di cui più sopra.
“de l’onda il ciel, del ciel l’onda è confine”, forse il più bel verso di poesia che io abbia
mai conosciuto (e non ne ho conosciuti pochi!), è di Torquato Tasso, Gerusalemme liberata,
XV, 24; nell’edizione che posseggo io, Milano, Mondadori, 1983, a cura di Lanfranco Caretti,
una nota al verso rimanda a Virgilio, Eneide, Canto terzo, versi 192 – 193, “Il mare era
profondo, un’infinita distesa / senza nessuna terra, soltanto cielo e mare”.
Del trapasso dal jazz modale e notturno di Kind Of Blue, il must del 1959 di Miles Davis
fonte di ispirazione per l’album Happy/Sad, ai suoni fiammeggianti del free jazz parla sempre
Bertoncelli; dell’interesse di Buckley per le ricerche sull’avanguardia “colta” ricorda invece
Lee Underwood, secondo il quale dalle loro scorribande nei negozi di dischi i due uscivano
con sottobraccio Xenakis, Cage, Stockhausen, Subotnick, soprattutto Berio; a quanto pare
Buckley si innamorò delle Folk Songs arrangiate per Cathy Berberian, ma Underwood cita
esplicitamente Visage, e Thema (Omaggio a Joyce) che è un’elaborazione elettronica della
lettura da parte della stessa Berberian della prima parte dell’XI capitolo dell’Ulysses, quello
sulle Sirene.
“umana voce / che mirabilmente si fa musica / che mirabilmente traduce poi in parola”;
in una lettera a Dallapiccola Berio, a proposito del lavoro per Thema, scrisse: “ho fatto una
scoperta ‘sensazionale’ che, finalmente, renderà possibile un legame musicale, di continuità,
tra strumenti e suoni elettronici: anche tra voce e suoni elettronici... sto facendo ora delle
prove con l’inizio del capitolo delle ‘Sirene’ dell’Ulisse di Joyce: la voce diventa musica, la
musica diventa parola. È meraviglioso” (Luigi Dallapiccola : Saggi, testimonianze, carteggio,
biografia e bibliografia, a cura di Fiamma Nicolodi, Milano, Suvini Zerboni,1975).
“Non cesseremo di esplorare, e alla fine / sapremo il luogo per la prima volta”; Thomas S.
Eliot, Quattro quartetti. Little gidding, V: “Non cesseremo di esplorare / e alla fine
dell’esplorazione / saremo al punto di partenza / sapremo il luogo per la prima volta”.
“oltre ciò che la gente si aspetterà di udire, / ma so dove vado, so la strada”; nel corso di
un’intervista, della quale ammetto di aver completamente perso le coordinate e che non sono
più riuscito a rintracciare, Buckley asseriva: “Sto andando oltre, e probabilmente sarà molto,
molto più in là di quello che la gente si aspetta. Ma so dove sto andando, vedo la strada”.
“il mio timone (…) governerà la nave” richiama un passo della Lettera di Giacomo, 3, 4:
“Ecco che anche le navi, pur essendo così grandi e spinte da venti impetuosi, sono guidate da
un timone minuscolo, a pieno arbitrio del nocchiero”.
California Dreamin’ è naturalmente l’hit incisa dai Mamas & Papas nel 1965.
“Non addio, ma avanti, viaggiatori”; Thomas S. Eliot, Quattro quartetti. I Dry Salvages,
III. Questo verso che conclude la terza sezione del quartetto è un caso esemplare di difficoltà
di traduzione: me ne sono reso conto quando, trovatane la citazione in Piero Boitani, ho avuto
voglia di andarmi a rileggere il capolavoro eliotiano; Boitani riporta una versione, della quale
non indica l’autore, che recita “Non buon viaggio / ma avanti, viaggiatori”, mentre quella che
ho usato io, di Filippo Donini, ce l’avevo in casa. Data la differenza significativa, mi sono
incuriosito e, gironzolando un poco in internet, ho trovato una lezione di Carlo Franzini “non
andate tranquilli, / ma andate avanti, viaggiatori”, una di Roberto Sanesi “Non dite addio, /
viaggiatori, ma avanzate”, una di Massimo Bacigalupo “Non buon viaggio, ma buon
proseguimento, viaggiatori”. Dopodiché ho deciso di mantenere la mia opzione, in quanto
“addio” ha un significato ambivalente che secondo me si addice al contesto (nota: i corsivi
nelle rese del verso sono scelte dei singoli traduttori, nel testo inglese originale non esistono,
almeno stando alle edizioni con testo a fronte che ho consultato).
“incauta come un’ape nella brutta stagione / nei campi”; dal primo verso di Starsailor,
“Sono un’ape fuori nei campi d’inverno”. Anche il riferimento alla “falda acquifera” che si
trova più avanti nel testo è un rimando a una frase della canzone.
Il cerchio attribuito a Ipparco di Nicea, astronomo greco del 2° secolo avanti Cristo, fu
probabilmente ideato molto tempo prima. Si tratta di una sorta di calendario naturale che
serve per individuare la data esatta del verificarsi dell’Equinozio, quindi per fissare l’inizio
della Primavera e dell’Autunno. Soltanto il 21 marzo e il 23 settembre, giorni dell’equinozio,
la metà superiore dell’anello metallico proietta la sua ombra sulla metà inferiore dell’anello
stesso, e l’ombra che in ogni altro giorno dell’anno ha forma di ellisse più o meno schiacciata,
assume rigorosamente quella di una linea (intersezione tra il piano del cerchio e il piano della
superficie). Nel 134 a.C., a seguito dell’apparizione di una stella nuova, Ipparco decise di
compilare un catalogo in cui registrare la posizione di tutte le stelle visibili e note. Nel suo
primo catalogo stellare, Ipparco inserì circa 1080 stelle, registrando per ognuna la latitudine e
la longitudine sulla sfera celeste, con la precisione permessa dall’assenza di orologi, di
telescopio o di altri strumenti moderni (dal sito internet del Planetario di Ravenna).
Nella Storia naturale, Libro II, 95, Plinio il Vecchio descrisse l’opera di Ipparco con
parole che vale la pena citare per intero: “Lo stesso Ipparco non lodato mai abbastanza,
poiché nessuno più di lui ebbe dimostrato l’affinità delle stelle con l’uomo e che le nostre
anime sono una parte del cielo, capì che nel suo tempo era nata anche un’altra nuova stella e
dal suo moto, per dove brillò, fu portato ad un dubbio, se ciò accadeva più spesso e fossero
mosse anche queste che riteniamo fisse, perciò osò un’impresa disperata anche per un dio,
contare per i posteri i pianeti e registrare le stelle secondo il nome con strumenti inventati,
attraverso i quali segnasse i luoghi di ciascuno e le grandezze, affinché facilmente potesse
essere stabilito da dove non solo se morissero o nascessero, ma in generale se alcune
transitavano ed erano mosse, ugualmente se crescessero e diminuissero, lasciato il cielo in
eredità a tutti, se fosse trovato qualcuno, che accettasse questa scoperta”.
Bright Star, al singolare, è il titolo della poesia di John Keats resa celebre dal film
omonimo che Jane Campion ha dedicato al poeta inglese nel 2009.
“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto” è di sana pianta l’incipit di
Dei sepolcri di Ugo Foscolo (1807).
“la foce stretta” è lo Stretto di Gibilterra, il limite delle Colonne d’Ercole, secondo come
lo definisce Ulisse nel suo racconto a Dante e Virgilio nel Canto XXVI dell’Inferno.
Il riferimento a Irene, la città invisibile di Italo Calvino, “un nome di città da lontano” che
“se ci si avvicina cambia”, mi è venuto per via di un’installazione che con altre dieci dava vita
a una mostra su Le città invisibili curata da Gianni Canova per la Triennale di Milano 2001 -
2004. L’installazione, realizzata dai designer Carlo Forcolini e Thomas Berloffa e dal gruppo
rock italiano Afterhours per la parte sonora, cercava di riprodurre lo spaesamento causato dal
disturbo a un ecosistema sonoro da parte dei visitatori, i quali interagendo con anche uno solo
dei “quartieri” musicali presenti all’interno della città accostandovisi, avrebbero provocato la
rottura dell’equilibrio acustico, una progressiva sfasatura della singola fonte dal ritmo e dalla
chiave armonica dell’insieme, un incantesimo. Un moderno metaforico scoglio delle Sirene?
“visto senza far velo alle pupille”; un rinvio a Lorenzo Stecchetti, Postuma. VII, “Ma
quando il dubbio mi risveglia (…) Colle man mi fo velo alle pupille / E mi guardo nel core e
mi domando: / Sono un poeta o sono un imbecille?”, sonetto al quale avevo già attinto in
passato; qui mi è sembrata pertinente, epurata dal sarcasmo dell’intera quartina, l’allusione al
dubbio del poeta, dell’artista, di fronte alla propria arte.
“roccia dischiusa al rabdomante / che sente suono d’acqua tra le argille”; anche qui prestito
“rinegoziato”, da Thomas S. Eliot, La terra desolata. I. La sepoltura dei morti “E l’arida
pietra non dà suono d’acqua”.
“breve, perché l’oda il breve orecchio”; Giovanni Pascoli, L’ultimo viaggio. X. La
conchiglia; l’aedo Femio parla con Ulisse spiegandogli il potere del sogno, e della poesia, che
può racchiudere il tutto in un “nicchio vile” che s’accosta all’orecchio (l’ascolto del mare
nella conchiglia verrà ripreso anche da Joyce nel capitolo delle Sirene dell’Ulysses).
Delle “gare canore” delle Sirene troviamo un accenno a quella con le Muse in Pausania,
Descrizione delle Grecia, IX 34, 2, e un racconto piuttosto dettagliato di quella con Orfeo in
Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 885 – 919 e in Argonautiche orfiche, 1264 – 1290, dove
l’anonimo autore racconta anche del loro suicidio per l’onta (“Dalla rupe scoscesa si gettarono
nell’abisso del mare ondoso”). L’accostamento del mare a un “panneggio” è una specie di
omaggio obliquo a Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto
(Milano, Abscondita, 2010), che rilegge la figura della Ninfa a partire dall’imprescindibile
Aby Warburg come possibilità di sopravvivenza - oggi qualcuno direbbe di resilienza – del
mito; ma se teniamo conto del fatto che le Sirene vengono talvolta tramandate come “ninfe
marine” il legame raddoppia.
Le fonti delle citazioni sirenesche, i “teste con le loro egloghe” sono: Thomas S. Eliot, Il
canto d’amore di J. Alfred Prufrock (“Ho udito le sirene cantare l’una per l’altra. / Non credo
che canteranno per me”); Guillome Apollinaire, Lul De Faltenin (“Agito un ramo sfiorito /
Per deviare l’alito tiepido / Che esalano contro le mie alte grida / Le vostre terribili bocche
mute”); Giovanni Pascoli, L’ultimo viaggio. XIII. Il vero (“«Solo mi resta un attimo. Vi
prego! / Ditemi almeno chi sono io! Chi ero!» E tra i due scogli si spezzò la nave”); Rainer
Maria Rilke, L’isola delle sirene (“da quel silenzio che tutto lo spazio / immenso ha in sé e
nelle orecchie spira”); Franz Kafka, Il silenzio delle sirene (“Le Sirene però posseggono un’
arma ancora più terribile del canto, vale a dire il loro silenzio […] Ulisse però, se così si può
dire, non udiva il loro silenzio”); Luigi Dallapiccola, per “ho potuto soltanto / averne il pieno
della loro assenza” (nella sua opera Ulisse il compositore, autore anche del libretto, non fa
comparire le sirene se non in poche parole rivolte da Circe a Ulisse prima del suo incontro
con loro - “Dimmi …, / Dimmi, non ti sembra / sul mar d’udir cantare le Sirene?” – e forse,
secondo una suggestiva ipotesi musicologica, nel ricorrere in battute diverse e distanti della
partitura di un suono - un Si bemolle della xilomarimba – alludente al silenzio delle sirene in
chiave kafkiana; cfr. Michele Napolitano, Ulisse e il fantasma delle Sirene. Riflessioni
sull’Ulisse di Luigi Dallapiccola, Musica/Realtà, Anno XXX, n. 89, Luglio 2009, Libreria
Musicale Italiana); Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Odisseo, o mito e illuminismo, in
Dialettica dell’illuminismo per “un canto vano ad un mondo sordo” (“Dall’incontro
felicemente mancato di Odisseo con le Sirene tutti i canti sono feriti, e tutta la musica
occidentale soffre dell’assurdità del canto nella civiltà, assurdità che è tuttavia, ad un certo
tempo, l’ispirazione di ogni musica d’arte”).
“dei flauti le ha mosse amabile il canto”; presumibilmente nel 1804, Friedrich Hölderlin
scrisse delle “chiose” ad alcuni frammenti di Pindaro, dopo averli egli steso tradotti; uno di
questi è un distico intitolato Del delfino: “Nella profondità del mare senza onde, dei flauti / Lo
ha mosso amabile il canto”. Una nota ricorda che “la musicalità del delfino è un topos della
letteratura classica”. Per chi non lo sapesse, Dolphins è una bellissima canzone di Fred Neil
che Buckley ha inciso nell’album Sefronia del 1973, ma che eseguiva dal vivo da molto prima
(come testimonia ad esempio il doppio Dream Letter. Live in London 1968); nel gruppo che
suona la versione in studio c’è un solo flauto, però c’è anche un corno inglese …
Archeloo è il fiume padre delle Sirene, secondo una delle genealogie tramandate che indica
la madre in una Musa, Mnemosyne o Tersicore o Calliope.
“sono nessuno o sono una nazione” è un verso del poeta caraibico DereK Walcott, dal
poemetto La goletta «Flight»; per inciso Walcott ha composto con Omeros (1990) una
versione antillana dell’Odissea.
“Quale canzone cantassero le sirene, o quale nome assumesse Achille quando si nascose
tra le donne, per quanto problemi sconcertanti, non sono al di là di ogni congettura”; Sir
Thomas Browne, Hydriotaphia (1658), frase resa popolare da Edgar Allan Poe che la mise ad
epigrafe a I delitti della Rue Morgue.
“C’era Blonde On Blonde”; Piero Scaruffi, nell’articolo dedicato a Buckley sul suo sito
www.scaruffi.com, ricorda quanto Tim e parte della band all’epoca del secondo album,
Goodbye ad Hello, ascoltassero e cercassero di imitare il classico dylaniano; “occhi di
magazzino deposti ai cancelli” viene da una strofa di Sad Eyed Lady of the Lowlands, l’ultima
canzone di Blonde on Blonde: “i miei occhi di magazzino i miei tamburi arabi / li deporrò
signora ai tuoi cancelli”, signora che qui diventa Lady in ironica ipostasi di una disamorata
Sirena moderna in linea con la collezione di citazioni del blocco di versi precedente.
“tendeva nervo / d’arco a cantare con voce simile alla rondine”; Odissea, Libro XXI, 410 –
411: “Poi con la mano destra pizzicò e provò il nervo / che bene cantò sotto, simile a grido di
rondine” (versione di Rosa Calzecchi Onesti).
Shhh / Peaceful è il brano che occupa il lato A dell’LP In A Silent Way di Miles Davis,
1969, primo passo del Davis elettrico e primo disco jazz, se non sbaglio, a servirsi della post
produzione.
“della voce tirata via dal fodero, sguainata” è dall’incipit di uno scritto di Demetrio Stratos,
Diplofonie e altro (Il Piccolo Hans, Rivista di analisi materialistica, anno VI n. 24 ott./dic.
1979, Dedalo libri , Milano): “La voce è oggi nella musica un canale di trasmissione
che non trasmette più nulla. La musica che si ritrova attraverso la «forma voce» ed i suoi
environments, allontana il problema-voce « dimenticata nella custodia della laringe »
(cfr.G.E. Simonetti) a causa di una pretesa oscurità ed inaccessibilità nel fondo del pensiero”;
non mi risultano punti di contatto diretti fra Stratos e Buckley – e del resto non ce ne sono, gli
interessi scientifici ed etnomusicologici che hanno impegnato Stratos da un certo momento in
avanti della sua attività sono pressoché un unicum – ma nel 2019 una mostra al Palazzo delle
Esposizioni di Roma ha messo insieme Stratos, Carmelo Bene e Cathy Berberian (delle cui
esecuzioni come abbiamo visto Buckley si interessò invece parecchio). Semmai, secondo
un’idea di Giancarlo Nanni (che ha scritto una monografia su Buckley sul sito Ondarock),
potrebbe essere proprio Stratos, come altri cantanti – Roy Harper, Peter Hammil – ad aver
fatto tesoro dell’esperienza buckleyana). Coincidenza: poco dopo il passo succitato, Stratos
scrive questa enigmatica frase “E la giovane Leontyne «espulsa» dal convento del bel canto
per via del vibrato desiderio?” che pare indubbiamente riferirsi alla grande soprano
statunitense Leontyne Price; ebbene, si racconta che Price rimase incantata da uno show di
Buckley a New York al punto di esprimere il desiderio che qualcuno scrivesse per lei musica
simile, e che Buckley le abbia detto “Fai come ho fatto io: metti su un tuo gruppo”.
“Io verso Bisanzio non ho bisogno di salpare (…) lo splendore nell’artificio dell’eternità”;
cfr. William Butler Yeats, Navigando verso Bisanzio; nei miei versi in un certo senso mitigo
l’assunto della stupenda poesia di Yeats, ovvero che il ritorno alla mitica porta d’Oriente
possa idealmente materializzare come “in una forma quale creano gli orefici greci” il sogno di
liberarsi dalla caducità umana costretta nel proprio corpo animale, di una vecchiaia proiettata
nella luce dell’eternità (non, attenzione, dell’immortalità); va detto che quando Yeats scriveva
Sailing to Bysantium aveva circa sessant’anni (63 al momento in cui fu pubblicata, nel 1928,
la raccolta che la contiene, The Tower), io ora ne ho 58 … La “polveriera di conforti (… )
d’oro e verde” si riferisce ai mosaici di Sant’Apollinare Nuovo che sta pochi metri più avanti
rispetto al Palazzo di Teodorico.
“mise sé per l’altro mare aperto”; scrive Piero Boitani a proposito del verso dantesco di
Inferno, XXVI – laddove Ulisse racconta a Dante e Virgilio del suo ultimo viaggio – e con
riferimento a un passaggio di Se questo è un uomo in cui Primo Levi, traducendo i pochi versi
di quel canto che riesce a ricordare a memoria in francese per un compagno di lager, incontra
una difficoltà nel rendere proprio quella forma verbale (“«misi me» non è «je me mis», è
molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una
barriera”): “si accorge solo ora, nel lager, che la proibizione, «acciò che l’uom più oltre non si
metta», riguarda proprio l’impulso stesso di Ulisse (misi me)”.
L’etimologia della parola “sirena” è incerta e discussa: c’è chi la fa risalire alla radice
semitica sir (canto), chi al greco seirá (corda, fune, cioè la sirena è colei che avvince, lega col
suo canto), chi ancora a séirios (colei che brilla, arde, ricollegandola a una personificazione
della natura accecante, allucinatoria della luce del mezzogiorno, l’ora in cui Odisseo passa
accanto all’isola delle Sirene, tesi sposata anche da Roger Caillois che le reclutò tra i I demoni
meridiani nel suo famoso saggio del 1937).
“il battere d’ali del gabbiano” ricorda l’albatros della Ballata del vecchio marinaio di S.T.
Coleridge, lo sguardo insostenibile della bellezza (“Perché guardi così?”), il rilkiano bello
della Prima elegia, il principio del terribile.
È di Maurice Blanchot (Il canto delle Sirene. I. L’incontro con l’immaginario, in Il libro a
venire, Torino, Einaudi, 1969) il concetto che quello delle Sirene sia un canto “a venire”,
imperfetto, che tuttavia lascia intravedere un luogo dove il canto vero può iniziare, e vi guida
il navigante.
The Seafarer (Il Navigatore) è un poemetto elegiaco in inglese alto-medievale di autore
ignoto sul tema delle difficoltà e della solitudine del viaggio per mare e del conforto offerto
dalla fede, dalla pietà e dalla fierezza nell’affrontalo.
La fiamma della poesia che avvolge i suoi “navigatori” e sembra quasi l’immagine vivente
della loro stessa lingua che si muove parlando è ancora dall’Ulisse dantesco: “Lo maggior
corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento
affatica; / indi la cima qua e là menando, / come fosse la lingua che parlasse, / gittò voce di
fuori […]”.
“il centimetro arduo su cui / vasti archi di spazio posano, sempre”; Wallace Stevens, La
vela di Ulisse. VII.
Al gorgo come causa e/o ventura del naufragio Piero Boitani dedica nel suo libro un
capitolo, intravedendovi una figura della sovrapposizione tra le tempeste esteriori e quelle che
si aprono all’interno dell’animo umano e della sua vocazione al limite.
“un prato d’ossa” cita direttamente l’Odissea, il prato sul quale le Sirene sono adagiate con
intorno “un mucchio d’ossa di uomini putridi con la pelle che raggrinza”; l’idea che tali ossa
possano “germogliare” è se vogliamo pur sempre wastelandiana (“Quel cadavere che l’anno
scorso piantasti nel giardino, / ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?” – I. La
sepoltura dei morti – “Una corrente sottomarina / gli spolpò le ossa in mormorii” – IV- La
morte per acqua); è però anche memoria di un verso di una mia vecchia poesia, Esorcismo,
dove compaiono “ossa diventate flauti per il vento”.
Cuore di tenebra è, ovvio, il capolavoro di Joseph Conrad, ma anche All’estremo limite è
il titolo di un suo romanzo, un po’ meno noto. Da qui fino al verso “E di marinai che indicano
qualcosa, fuori,” ho cercato di incastellare una sintesi musicale e testuale dell’intero album
Starsailor usando lacerti di espressioni ricorrenti nei commenti critici alla sua musica e
frammenti dai testi delle canzoni che ho liberamente tradotti e adattati. All’interno di questa
libertà sta l’immagine dei “danzatori / che si tuffano in cielo come su antichi affreschi” che,
per un verso sottolinea il continuo scambio di prospettiva tra cielo e mare che percorre il
pometto; per un altro si rifà ad alcune osservazioni, che ho reperito nel corso delle varie
ricerche che ho approntato per la scrittura (neanche avessi dovuto licenziare un saggio … ),
sul fregio di un vaso corinzio del 560 a.C., un aryballos, conservato presso il Museum of Fine
Arts di Boston, nel quale sono raffigurate in sequenza la nave di Odisseo, le Sirene in agguato
e una non bene identificabile struttura che come ha notato lo studioso Bruno d’Agostino ha
una certa somiglianza con il trampolino da cui si getta in mare (in realtà nel mistero della
morte) il protagonista della pittura rinvenuta presso la celeberrima cosiddetta Tomba del
Tuffatore di Paestum, di circa un secolo più tarda rispetto al fregio.
“La mente rinnova il mondo in un verso, / un brano di musica, un paragrafo / di un filosofo
giusto”; Wallace Stevens, La vela di Ulisse. VI.
Le “cantatrici calve” è un’evocazione puramente intuitiva del dramma di Eugène Ionesco,
della disperata assenza di qualcosa che pure incombe qual è il personaggio in contumacia
della pièce, molto simile al Godot di Samuel Beckett.
“O come Orfeo aveva un asso nella manica, / la cetra Bistonia, il trucco della dissonanza”;
ancora Apollonio Rodio, Argonautiche. Libro IV, stesso passo citato più sopra, in particolare
i versi 905 – 909 che dicono che le “note allegre” e il “ritmo veloce” della canzone di Orfeo
generano un suono che si sovrappone al canto delle Sirene e rimbomba nelle loro orecchie. Il
curatore della mia edizione del poema (Milano, Mondadori, 2003, 2007), Alberto Borgogno,
ipotizza in una nota al passo uno specifico interesse tecnico di Apollonio per il fatto acustico
descritto, la creazione da parte di Orfeo di “dissonanze sia ritmiche sia melodiche rispetto alla
musica delle Sirene (…) una nuova musica che, sovrapponendosi alla precedente, determina
come risultante una nuova combinazione sonora”. La metafora per Buckley funziona a metà:
egli indubbiamente generò musica nuova, forse in parte perfino combinazioni sonore nuove,
quantomeno per la musica pop dell’epoca (compresa quella più d’avanguardia), musica che di
certo però non si “sovrappose” a quella contemporanea.
“con un remo in spalla / incamminarsi”; qui comincia una immersione nella profezia di
Tiresia a Odisseo come è detta dall’indovino in Odissea XI (e ripetuta da Odisseo a Penelope
in XXIII), ma con l’ombra incombente del racconto di Ulisse nel Canto XXVI dell’Inferno di
Dante; come se si compisse qui la metamorfosi definitiva necessaria a motivare il “naufragio”
di Buckley che non fu colto dalla morte “soavemente fiaccato da mite vecchiezza”, ma nel
pieno di una gioventù che pure c’è chi, come Piero Scaruffi nel suo scritto, ha considerato al
pari di una “precoce vecchiaia”.
Tra le varie forme simboliche assunte dal remo, quella della “leva priva di stortura / per
arrestare l’ordigno universale” è strappata a Eugenio Montale, Avrei voluto essere scabro ed
essenziale, in Ossi di seppia.
Dei vari attributi dello scettro, regale e buffonesco, parla William Willeford nel libro che
ho già citato, Lo scettro del Fool; ho tralasciato l’aspetto fallico e spesso anche ermafrodito
che pure avrebbe potuto avere dimora, specie in riferimento all’ultimo Buckley (Scaruffi ha
scritto di Greetings From L.A., l’album del 1972, che si tratta “praticamente di un concept
erotico”); l’accostamento a un tronco è stato pensato invece da me in proposito al significato
rituale del tamburo nella musica antica, che è esattamente quello di congiungere verticalmente
il cielo e la terra (Marius Schneider, Il significato della musica).
La locuzione “giovane marinaio / vecchio e tardo” è una contrazione ironica che riunisce il
vecchio marinaio di Coleridge e l’Ulisse coi compagni “vecchi e tardi” di Dante in funzione
dell’idea di “precoce vecchiaia” di cui più sopra.
“che ci sta guardando / mentre dietro di lui la luna si dilegua” è in pratica l’immagine di
copertina di Look At The Fool con, se vogliamo, una spolveratina di Leopardi, Canto XXXIII,
Il tramonto della luna; e la “montagna bruna” è quella di Dante, la chimera della “nova terra”
dalla quale si leva il “turbo” che provoca il naufragio.
“ai vari Burbank in cerca di baedeker”; nell’antologia di Thomas S. Eliot approntata da
Roberto Sanesi per Bompiani (io ho un’edizione del 1993), nel lungo saggio introduttivo il
curatore commenta la poesia Burbank con un baedeker: Bleinstein con un sigaro con una nota
ampia e chiarissima, che varrebbe la pena di riportare per intero; il concetto generale è il
“dramma moderno dell’impossibilità di giungere a un punto d’incontro (…) fra una grandezza
passata resa eroica nel pensiero e una presente volgarità resa evidente dai fatti”, che ha nel
turismo di massa che affligge Ravenna – come la Venezia che fa da sfondo ai versi di Eliot –
una manifestazione appunto inoppugnabile. Piero Boitani, nel capitolo del suo libro intitolato
“L’ultimo viaggio e la fine dei viaggi”, paventando una “misura colma” che del resto già la
letteratura del ‘900 aveva recepito quale dato di fatto (come provano le numerose rivisitazioni
ironiche del mito di Ulisse), scriveva che il fastidio non è soltanto letterario e/o metafisico, e
ricordava la prima parte di Tristi tropici dove Claude Lévi-Strauss già aveva visto – ed era il
1955 – il rovescio della medaglia che il turismo di massa avrebbe rovesciato sul mondo che
un tempo era appannaggio degli (autentici) viaggiatori, “Ciò che per prima cosa ci mostrate, o
viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità”. Fine dei viaggi, morte della musica
… e la poesia?
“l’alta fantasia” è da un verso di Dante, Purgatorio, XVII, che però è entrato nella mia
collezione di immagini folgoranti per via indiretta, attraverso Italo Calvino che con esso
apriva la sua “lezione americana” dedicata alla Visibilità: “Poi piovve dentro a l’alta fantasia”
– Dante –, “la fantasia è un posto dove ci piove dentro” – Calvino.
L’opera in copertina è, a quanto mi risulta, il primo esempio di skyspace realizzato da
James Turrel, artista di Los Angeles classe 1943 che da 50 anni lavora con la luce creando
ambienti e situazioni che permettano di farne esperienza concreta, quasi tangibile, spesso con
l’aiuto di tecniche di manipolazione della percezione: “Credo che la luce sia una sostanza
forte e potente ma la sua presenza fisica sembra fragile, quasi impalpabile”. Uno skyspace è
una camera appositamente proporzionata, autonoma o integrata nell'architettura esistente, con
un'apertura nel soffitto verso il cielo, rotonda, ovale o quadrata. Quello che si trova a Villa
Panza (Biumo Superiore, Varese), un luogo che Giuseppe Panza (1923 – 2010, uno dei più
importanti collezionisti italiani di arte contemporanea) nel 1996 ha donato al FAI insieme a
centotrentasette opere d’arte contemporanea, gli arredi e una collezione di arte africana, è in
prestito permanente dal Guggenheim Museum di New York al quale Panza lo aveva offerto
nel 1992 (benché l’installazione sia sempre rimasta fisicamente allocata nella Villa, poiché si
tratta di ciò che in gergo si dice site-specific, creata appositamente per un certo luogo).
“ghermire il proprio infinito sulla mano, / la propria eternità in un’ora” è dalla celeberrima
prima quartina di Auguries of Innocence di William Blake “Vedere il mondo in un granello di
sabbia / E un paradiso in un fiore selvaggio, / Tenere nel palmo della mano l’infinito / E
l’eternità in un’ora”, una citazione-prezzemolo che sta bene un po’ dappertutto.
L’idea dell’opera d’arte che guarda chi la sta guardando annovera esempi illustri, da
Velasquez a Giulio Paolini, allo stesso Fontana per certi versi; quella di chi guarda se stesso
mentre guarda è suggerita da Turrel medesimo: “Le mie opere non hanno oggetti, non hanno
immagini, non hanno focus. Allora a cosa state guardando? State guardando voi che state
guardando, un pensiero senza parole”.
“solo dove e qualora un St. Victoire non arda”; Paul Cézanne a proposito della montagna
dipinta decine di volte, “Guardate questa montagna, una volta era fuoco. Quel fuoco brucia
ancora”.

Potrebbero piacerti anche