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Cesare Iacono Isidoro

Esercizio di improntitudine
Traduzione di Syringa di John Ashbery
Esercizio di improntitudine
Traduzione di Syringa di John Ashbery

Come la tangente tocca la circonferenza di sfuggita e in un


solo punto, e come questo contatto sì, ma non il punto, le
prescrive la sua legge, per cui essa continua all’infinito la
sua via retta, così la traduzione tocca l’originale di
sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso,
per continuare, secondo la legge della fedeltà, nella
libertà del movimento linguistico, la sua propria via.

Walter Benjamin, Il compito del traduttore, 1920

Non so da dove cominciare, ma da qualche parte devo pur cominciare. Cominciamo allora
dall’evento scatenante, anche se detta così sembra che sia successo chissà cosa. Invece è successo
soltanto che in un momento di relax durante una lunga quarantena casalinga (sto vivendo quella che
salvo imprevisti dovrebbe essere l’ultima di cinque settimane di vacanza forzata dal lavoro, e dal
tempo libero outdoor, per l’emergenza Covid-19 di questo primo quadrimestre 2020) ho guardato
una puntata del programma di RAI 5 Amabili Testi, nel quale lo scrittore Edoardo Albinati va a casa
di personaggi conosciuti del mondo della cultura (altri scrittori, registi, musicisti, artisti, perfino una
chef) per fare un tour guidato all’interno delle loro biblioteche personali. Si tratta di una replica di
una serie che poi a sua volta è il remake di un altro programma seriale pressoché identico di qualche
anno prima, La banda del book; qui l’ospite era la giornalista Costanza Melani in compagnia di due
avvenenti operatrici video protagoniste di una mise en abyme, in quanto riprese da altri operatori
mentre esse riprendevano i protagonisti in conversazione.
Comunque, dettagli di storia della televisione italiana a parte, e proseguendo il discorso che qui
importa, durante le sue visite Albinati porge agli anfitrioni alcuni omaggi, per lo più libri. Nella
puntata in questione la visita era a casa dell’attrice Valeria Golino che, in quanto di madre greca e
tuttora detentrice della lingua, è stata invitata a leggere in originale Aspettando i barbari di
Konstantinos Kavafis, una bellissima poesia scritta in più stesure tra il 1899 e il 1908; non si sa di
preciso chi siano i “civili” – chi ha detto i Romani, chi i Bizantini, chi gli Inglesi colonizzatori in
Egitto all’epoca della composizione – e di conseguenza chi siano i barbari, ma sembra fotografare
perfino il nostro presente. Pur se io non conosco ahimè il greco, né antico né moderno, sentire la
musica di tale lettura avrebbe reso già di suo meritevole la visione del programma – che ad ogni
modo è molto gradevole. Se non che subito dopo Albinati ha pensato di consegnare uno dei presenti
destinati a Valeria, ed è spuntato fuori un libriccino di 50 pagine1 che conteneva la traduzione dello
stesso Albinati di alcune liriche di John Ashbery, e in particolare di Syringa, una variazione sul
tema di Orfeo e Euridice in cui Orfeo si volta come da copione ma, specifica il poeta dando la cosa
per scontata, Euridice sarebbe svanita comunque. Questo è quanto e solo nel programma, che poi è

1
John Ashbery, Syringa e altre poesie tradotte da Edoardo Albinati, con due disegni di Gianni Dessì (edizione di 300
esemplari numerati), Roma, Il Labirinto, 1999.
andato avanti per la sua strada, Albinati ha detto del testo di Ashbery, colpito dall’ipotesi che vede
l’aedo mitico cadere in una sorta di recondito inganno.
Ora, bisogna sapere che il mio interesse per il mito di Orfeo è di lunghissima data, dalla lettura
di L’origine orfica della poesia di Salvatore Lo Bue (1983/84) alla composizione del poema Orfeo
(1987), fino al capitolo su Orfeo nella musica in Inesausta sorpresa (la musica è una) (2007 –
2009) con successiva compilazione di un catalogo aggiornato di opere di qualsiasi genere musicale
delle quali sono venuto a conoscenza dopo la stesura del libro; non è strano perciò che mi sia venuta
voglia di leggere quel testo. Così sono andato (pardon, non sono andato perché si può uscire
soltanto per limitati e specifici motivi, mi sono messo) a cercare il volume, purtroppo scoprendo che
è stato pubblicato nel lontano 1999 e non è più disponibile; forse la copia che aveva Albinati era
posseduta personalmente. In realtà l’avrei visto su un sito di libri antichi e moderni introvabili che si
chiama Maremagnum (una miniera aurea) a 20 euro; ma confesso che non mi andava di spendere
questi soldi per una plaquette di un poeta che, parafrasando Flavio Santi, un altro suo traduttore
italiano, “ammiro ma non amo”. Posseggo una delle sue raccolte importanti, Autoritratto entro uno
specchio convesso, che è stata stampata di recente da Bompiani per la cura di Damiano Abeni
(interprete di diversi poeti americani del ‘900 poco conosciuti da noi se non in cerchie abbastanza
ristrette, come lo è lo stesso Ashbery 2) e mi basta. Ashbery è un poeta che nel nostro paese, come
altri da qualche tempo, sembra essere spuntato dal nulla, come una rosa nel deserto di cui dall’oggi
al domani molti si sono invaghiti quando fino a poco prima la maggior parte di essi neanche sapeva
chi fosse: è successo lo stesso con Mark Strand, è successo con Wallace Stevens, giusto per fare due
esempi ma ce ne sarebbero tanti altri. In tutto ciò si può vedere il bicchiere mezzo pieno nel fatto
che le opere di maestri sono tornate o arrivate tout court in libreria (ammesso e non concesso che
maestri siano, ma su questo non mi sento legittimato a pronunciarmi), o il bicchiere mezzo vuoto
nel fatto che i nomi di questi poeti (persone spesso umili e schive, come spesso sono i poeti, in
ispecie proprio quelli più bravi) hanno cominciato a fremere sulle labbra di sedicenti amanti della
poesia con le parole deperibili dell’idolatria, di un’adorazione (chi non ha mai sentito qualcuno dire
“Ah, la Szymborska, io la A-D-O-R-O!” alzi la mano) del tutto inutile alla causa della poesia: nei
miei scartafacci conservo una nota su un esempio paradigmatico di tutto ciò, su un giovane poeta
nostrano - un poetastro mi verrebbe da dire – il quale l’anno scorso in occasione di una lettura
pubblica a precisa domanda rispondeva che tra i suoi numi tutelari c’era Mark Strand, di cui da noi
prima del 2006 - 2007 credo non esistesse praticamente nulla, e al contempo si vantava – d’accordo
provocatoriamente, ma perché poi? – di non averne alcuno tra gli italiani.
Dunque, un corno della questione è che John Ashbery è un poeta che “ammiro ma non amo”,
come del resto Wallace Stevens, i loro libri li ho comperati dietro l’impulso di recensioni molto
belle lette su il manifesto, il mio quotidiano, fra l’altro per quanto riguarda Stevens affrontando la
spesa da vero samurai di un Meridiano Mondadori (80 euro; per Ashbery, edizione economica ma
di buon gusto, un po’ più di 200 pagine, 18 euro). Sono felice che essi siano entrati nel novero delle
mie amicizie, di Stevens ho già anche “approfittato” nelle mie scorribande intertestuali (leggi: ho
rubacchiato qualche verso, citando con acribia la fonte), come sono felice che in altri tempi siano
entrati Gottfried Benn, Marianne Moore, Ezra Pound, Amelia Rosselli, Paul Celan, Andrea
Zanzotto e altri ostici mostri sacri: alcuni di questi li amo, altri solo li ammiro, ma attenzione che se
prendiamo l’ammirazione per il suo lembo etimologico abbiamo qualcosa che potrebbe stare
perfino al di sopra di un non meglio definito amore, di un eros che non sia ad altezze socratiche;
2
Autoritratto entro uno specchio convesso fu già tradotta nel 1983 da Aldo Busi, che sul poeta statunitense fece pure la
sua tesi di laurea.
perché ad mirari è guardare con meraviglia, e la meraviglia è uno dei motori fondamentali della
conoscenza.

Il secondo passo è stato quello di cercare su internet il brano singolo, a volte la rete è davvero
generosa, mi è capitato – come sarà capitato a molti – di trovarci cose davvero impensabili. Ma in
questo caso non mi è capitato. O meglio, il brano l’ho scovato però solamente in lingua originale.
Ed è a questo punto che mi è venuta un’idea folle: scaricarmelo e tradurmelo per conto mio. Dirà
qualcuno, cosa c’è di folle in un proposito del genere? Lo spiego subito.
Io l’inglese l’ho studiato alle scuole medie, un paio di anni alle superiori, e poi sventuratamente
l’ho lasciato al suo destino. Non del tutto in verità, quando strimpellavo la chitarra imparavo molte
canzoni rock e pop di songwriter e band anglofoni che mi piacevano, poi studiavo le intavolature e
mi accompagnavo al canto (aggiungo che mi è sempre piaciuto cantare e sono sempre stato bravino,
non solo tra le mura della mia stanza di adolescente o guccinianamente nelle osterie con gli amici e
il vino, ma fino a un paio di anni fa in una dignitosa carriera di corista amatoriale e, in epoche più
lontane, come attore in un contesto di teatro di ricerca); così la polvere della lingua mi è rimasta.
Molto poco, me ne rendo conto le volte che mi incontro coi miei cugini inglesi (eh sì, c’ho anche i
cugini inglesi) e faccio una fatica bestia a capire quello che dicono, e ancora di più ne faccio per
imbastire qualche frase io, e se non fosse che loro sanno l’italiano un unghia più di quanto io sappia
l’inglese forse dovremmo capirci a gesti. La follia di questa idea non sta tanto nell’ambizione di
tradurre dall’inglese, cosa che ho fatto in diverse occasioni per testi in prosa, bensì in quella di
tradurre una poesia, di un poeta americano – che non è esattamente inglese – e per di più di un poeta
americano notoriamente oscuro e con uno stile frammentario, rapsodico, con oscillazioni temporali,
un poeta difficile anche per chi conosce bene la lingua, e che del resto riconosce da sé di esserlo (a
una rivista una volta ha dichiarato “Anche io, come molte altre persone, sono piuttosto confuso dal
mio lavoro”). A ciò andrebbe poi aggiunta la intrinseca problematicità del tradurre poesia in genere,
argomento sul quale sono stati scritti interi trattati e che qui non credo sia opportuno approfondire,
perché significherebbe tagliare subito la testa al toro con l’abbandono del progetto per comprovata
imperizia del suo artefice: guardando al risultato che ho ottenuto le sparute volte che mi sono
esposto a cimenti simili, non si potrebbe che stendere non uno bensì più di un velo pietoso (a mia
discolpa posso dire che è accaduto tanto tempo fa, beata gioventù e beata incoscienza, con alcune
canzoni, ad esempio di Bruce Springsteen e di Tom Waits, perfino con The Raven di Edgar Allan
Poe, il genio di Boston non mi è mai venuto a visitare in sogno, si vede che non se l’è presa più di
tanto).
Del resto basterebbe leggere quanto ha scritto sulla traduzione e sul compito del traduttore
Walter Benjamin3 per farsi passare la voglia o almeno per sentirsi tremare i polsi: ovvero che il
traduttore ha il compito di trovare un atteggiamento nella propria lingua che possa in essa ridestare
l’eco dell’originale, il che sarebbe però solo il prodromo di qualcosa di molto più alto che è niente
di meno il riuscire a leggere attraverso l’opera di traduzione tra le righe e nel silenzio del testo
originale ciò che sta prima, dell’originale e della traduzione e di ogni lingua corrente, in una lingua
pura che tutte le altre appunto precede, e contiene. Una lingua che forse potrebbe coincidere con la

3
“Il compito del traduttore”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti (a cura di Renato Solmi),Torino, Einaudi, 1962.
Significativamente questo testo di Benjamin nel 2007 è stato ritradotto da Antonello Sciacchitano per il numero 334,
2007, della rivista Aut Aut – peraltro interamente dedicato al tema della traduzione – nella considerazione di una
obsolescenza della versione di Renato Solmi e anche di alcune sue opzioni dichiarate discutibili, e al contempo di una
messa alla prova della validità delle idee del filosofo tedesco.
“esitazione prolungata tra il suono e il senso”4 inchiodata dall’aforisma che quel buontempone di
Paul Valéry ha improvvidamente regalato a tutti gli inclini a citazioni prêt-à-porter?

Il terzo passo è stato quello di provare a sapere qualcosa di più sulla poesia di John Ashbery a
prescindere da Syringa, ma i carotaggi in materia non hanno avuto esiti molto più incoraggianti.
Nell’edizione Bompiani di Autoritratto entro uno specchio convesso è contenuto un saggio di
Harold Bloom sulla lunga poesia che intitola la raccolta: è uno scritto che entra subito in medias res,
il testo poetico viene analizzato passo passo sia dal punto di vista della tecnica compositiva che da
quello del contenuto, qua e là emergono considerazioni un tantino più generiche, ma molto poco. In
Italia sono usciti altri libri di Ashbery, in particolare Un mondo che non può essere migliore. Poesie
scelte 1956-2007 (Bologna, Luca Sossella, 2017, a cura di Moira Egan e dello stesso Damiano
Abeni) che non costa tanto e contiene un’introduzione firmata da un allievo di Harold Bloom (ma
soprattutto è stata montata con la diretta supervisione dello stesso Ashbery), ma quanto detto sopra
resta, è inutile aprire il portafoglio per mettere in casa oggetti di un desiderio limitato (anche per
questioni di posto, scarseggia e quindi è meglio lasciarlo per desideri più pressanti o più utili). In
rete in termini di letteratura critica sono riuscito a reperire: due numeri di Atelier. Trimestrale di
poesia critica letteratura, il n. 16, anno IV, dicembre 1999, con una recensione firmata Andrea
Ponso al poema Flow Chart (Lugo, Edizioni del Bradipo, 1997); il n. 26, anno VII, giugno 2002
con alcune poesie tradotte dal succitato Flavio Santi e una sua dichiarazione di metodo, più alcune
osservazioni di un terzo, il poeta e saggista Federico Italiano; oltre a una bella intervista a Ashbery
di Massimo Gezzi uscita su Poesia, n. 234, gennaio 2009. Devo dire che da questi lacerti ho
ricavato molto più di quanto potessi sperare, o almeno posso dire che quanto ho ricavato me lo sono
fatto bastare (anche perché non volevo passare troppo tempo su questo che in buona sostanza non è
molto più di un capriccio).

Ed ecco quello che ho messo insieme componendo quanto sopra in un sommario prontuario di
linee guida per affrontare la mia traduzione.
Harold Bloom nel suo saggio sottolineava che “Ashbery, come Wallace Stevens, è un poeta
profondamente whitmaniano” e che “In tutta la sua carriera si è concentrato su poesie di grande
respiro”, ma io direi che pure nei brani corti certe caratteristiche di scrittura sono rinvenibili, magari
in forma pulviscolare. E in effetti Andrea Ponso, intorno a Flow Chart (titolo di per sé sintomatico,
“diagramma di flusso”), che è un poema di quasi 5000 versi, scriveva di cose che posso ritrovare
nelle poesie di Autoritratto e in Syringa. Ad esempio l’articolazione e la stratificazione del testo
spesso condotte verso artifici atti a rendere ardua la sua decifrazione, la sua riduzione a un senso
univoco; o la disseminazione di tracce poi cancellate, la generazione di storie inconcluse o lasciate
in sospeso per essere riprese più in là; o la disinvolta mescolanza di passato e presente, l’utilizzo di
registri espressivi diversi e la frammentazione di ogni idea di linearità temporale, come in un flusso
appunto, ma quasi “quantistico”. Circa questa attitudine a generare una confusione di piani Ponso
chiamava in causa anche l’uso di tecniche quali il collage o il pastiche, e intravedeva per il lettore
una posizione come potrebbe essere quella di chi sta guidando in mezzo al traffico di una
megalopoli, di chi sta guardando un televisore troppo da vicino, di chi è davanti a un ipertesto che
apre continuamente finestre senza chiuderle.5

4
Nella sezione Rhumbs (Rombi) di Tel Quel (Gallimard, 1943).
5
Leggendo questi esempi, mi riesce difficile credere che l’autore, laureato in teoria letteraria con un dottorato in
comparatistica e studi anche teologici, non abbia conosciuto un capitale saggio di Franco Moretti, “Dalla terra desolata
A queste strategie diciamo così macro, se ne accompagnano altre micro, non attinenti cioè allo
impianto strutturale del testo ma ai suoi elementi interni: uso di citazioni errate o fuori contesto (in
Syringa ad esempio Orfeo invece della lira ha un liuto), slittamento dei pronomi, alternanza di
schemi metrici tradizionali e lunghi versi “atonali” che prolungano il respiro fino alla apnea
(potrebbero venire in mente i problemi prosodici di Allen Ginsberg risolti appunto con le frasi
calibrate sul respiro, ma naturalmente è un’altra cosa), accoglimento di stimoli ambientali vari e
incongruenti (schegge di notizie, di conversazioni telefoniche, di lettere abbandonate sulla
scrivania). Forse, concludeva Ponso, più che leggere bisognerebbe ascoltare Ashbery, inventare una
modalità di approccio al testo simile a quella che avremmo nei confronti di certa musica elettronica,
Luciano Berio, Brian Eno, o nientemeno Aphex Twin (d’altra parte Ashbery era un musicofilo e
considerava spazio poetico e spazio musicale attigui): musica di attesa che diventa attesa, così come
può darsi che alla fin fine la poesia di Ashbery non sia altro che attesa di se stessa, addirittura lo
specchio del fallimento ontologico del proprio farsi. Qualcosa di necessario, se vogliamo seguire
Bloom quando mette a fuoco in Ashbery una frantumazione della forma, una deformazione dei
versi che diventa rifugio, una produzione di significati che si attua sbriciolando i “recipienti” che
hanno fatto il proprio tempo.

Tutto questo allontana molto Ashbery dalla mia sensibilità; che è quella di un poeta che, pur
capace di apprezzare molte maniere di scrivere versi, comprese quelle che si attengono ai precetti
appena appresi da Bloom – che sarebbe banale confinare nel regno indistinto di avanguardie ormai
consegnate, e rassegnate, alla storia (“le avanguardie sono storiche” diceva Carmelo Bene) e
bisognerebbe semmai elevare al rango di scelte etiche, ancor prima che estetiche, profonde –
tuttavia è da tempo affetto da, e affezionato a, un regime di scrittura decisamente anacronistico
(metrica, ritmo, assonanze e rime, lessico largo e senza pregiudizi epocali, etc.). Come si fa a
tradurre qualcuno al quale non ci si sente affini, nella piena consapevolezza di una distanza, anzi
come scriveva Santi, di una disforia? È senz’altro più difficile che tradurre poeti più prossimi, in
quanto interviene un senso di stridore rispetto alla propria lingua poetica che, volere o volare, in
qualche modo trasfonderà nell’opera di traduzione. Santi diceva di aver adoperato uno schermo, lo
schermo di un altro poeta “ammirato ma non amato” italiano, Andrea Zanzotto: io non ho capito
bene il senso di questo dispositivo di filtraggio, o per meglio dire nell’articolo non viene spiegato,
immagino che l’idea sia “fare finta” di essere un poeta difficile come Zanzotto, calarsi nei suoi
stratagemmi di manipolazione testuale, di disgregazione formale, per forzare meglio alla propria
lingua quelli di una lingua differente. Non so, la cosa non mi convince, ma d’altra parte anche non
mi riguarda perché non ho una padronanza dell’inglese tale da farmi fare questo passaggio in più, e
poi di passaggi come si vedrà ne ho dovuti compiere anche troppi.
al paradiso artificiale”, pubblicato nel 1980 sulla rivista Calibano (“Il filo di Arianna. Elementi mitici nella letteratura
moderna”, Savelli Editore) dove compaiono esattamente gli stessi esempi riferiti al lettore di The Waste Land di
Thomas S. Eliot, a parte quello dell’ipertesto per ovvie ragioni temporali: là la sensazione del lettore poteva essere
quella di assistere a qualcosa che ha un senso solo se connesso a un tutto soggiacente, ma il cui fascino sta nel fatto di
non poter risalire al codice di quel tutto; qui la sensazione è quella di essere arrivati troppo tardi, dopo che qualcuno,
manomesso il tutto, si è dato alla fuga, per cui resta qualcosa di vicino ma inafferrabile. Se per Moretti quello di Eliot
era un esperimento destinato a fallire in partenza in quanto aspirante a risolvere nell’ambito letterario problemi che
avrebbero richiesto l’istituzione di nuovi sistemi estetici e culturali, con Ashbery parrebbe in un certo senso giunto il
tempo della soluzione di quei problemi, stabilito l’insediamento di quei nuovi sistemi estetici e culturali che, passando
per il trionfo della cultura di massa, si sono poi consolidati con quella delegittimazione dei grandi récits – poesia
compresa – che sarà chiamata il post-moderno (lo so che oggi parlare ancora di post-moderno è quasi una bestemmia,
ma nel tempo di Flow Chart, 1991, direi che il paradigma era ancora attestato). Curiosità: il poeta e critico letterario
Calvin Bedient ha usato per la poesia di Ashbery, per la sua multiformità di voci, la metafora dell’isola di Calibano.
Mi convince invece il pensiero del commentatore di traduzione e metodo di Santi, Federico
Italiano, secondo il quale quella disforia non pregiudica il risultato della traduzione, anzi potrebbe
generare valore aggiunto in termini di sincerità, una sincerità resa necessaria proprio dalla distanza.
Benché egli si affrettasse però a dire poco dopo che l’opportunità non va scambiata per garanzia, i
testi di Ashbery hanno un’estensione di significato tale da rendere ardua anche una rielaborazione
abilmente artefatta.
E mi convince l’atteggiamento di Antonio Prete, comparatista ma anche narratore e poeta, che in
premessa a un suo quaderno di traduzioni 6 commisurava l’opera del traduttore a un gesto di
ospitalità; se l’ospitato è un poeta ci si accorge che nessuna lingua potrà mai accogliere davvero il
ritmo e il pensiero della sua parola altra, e tuttavia l’azzardo (l’improntitudine addirittura) è il polo
d’attrazione paradossale che può approssimare quell’estraneità senza attenuarne la differenza (è un
po’ lo stesso concetto di sopra, distanza che chiama sincerità). L’oscillazione tra fedeltà e libertà –
sulla quale Benjamin nel succitato Compito del traduttore scrisse pensieri bellissimi – riguarda
infine più la propria lingua e la sua tradizione, che non la lingua dell’originale: tra il calco e la
prevaricazione spunta una terza via, muoversi nella propria lingua in parallelo con quella dell’autore
e accettare che questa vi entri come in una “camera oscura”, paragone pensato da Leopardi nello
Zibaldone proprio a proposito di traduzione; ben sapendo che si tratta di una macchina in grado di
rendere “oggetti e prospettive reali” tanto meglio quanto più è “adattata a renderle con esattezza:
sicché tutto l’effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall’oggetto reale”.7 La vita
dell’originale è nella lingua del traduttore in stato d’ombra, asseriva perciò Prete, “incorporea,
intangibile, forse perturbante”. Aggiungerei io anche rovesciata, se parlando di camera oscura ci
riferiamo precisamente a essa, cioè al rudimentale “scatolone” ottico su una cui parete la luce
penetrando attraverso un foro riporta l’immagine di un oggetto esterno appunto ribaltata, fenomeno
che già nel IV secolo era conosciuto dagli Arabi; e non piuttosto la camera ottica che, a partire dal
XVI secolo, impara a correggere e a raddrizzare i fantasmi capovolti con l’aiuto di lenti e specchi.

Mi resta da ricordare un ultimo spunto, ultimo ma non per attrattiva. Nel 1978 Elliott Carter ha
realizzato da Syringa una composizione di circa venti minuti per due voci e ensemble. Il testo del
brano è tratto dalla poesia di Ashbery alla quale però sono stati intercalati frammenti in greco antico
allo scopo di accentuare per un verso le commistioni temporali operate da Ashbery e per un altro
quel che è detto alla fine della poesia, ovvero che del passato spesso a noi non giungono che
“sillabe”. Il brano è molto teso, evoca quella che un suo esegeta ha patito nel testo di Ashbery come
“la disperazione accademica degli dèi”, scansiona lo slittamento cronologico col quale Ashbery
officia la scoperta del momento presente attraverso il richiamo al passato, ma al tempo stesso
stigmatizza, anche se con ironia, la noncuranza che il presente ha del passato, che renderà chi vive
nel presente vittima di una stessa indifferenza nel futuro; la celebrazione del tempo non può
prescindere dalla coppia creazione-distruzione, memoria-oblio.

La mia arbitraria traduzione si è svolta in più fasi. In principio non ho fatto altro che cercare di
acquisire a naso un senso di massima con l’ausilio di … un traduttore automatico, quello di Google;
avrei potuto fare la stessa operazione, come l’ho fatta in altri casi, aiutandomi con un classico
vocabolario cartaceo, avrei impiegato più tempo e non necessariamente con maggior successo, ma a
pesare sulla mia scelta è stata soprattutto una contingenza fisiologica, i miei occhiali stanno
6
L’ospitalità della lingua. Baudelaire e altri poeti, Lecce, Piero Manni, 1996.
7
963, 20 – 22 aprile 1821; ma nello Zibaldone a proposito di traduzione c’è molto altro.
“scadendo” e la composizione tipografica sul vocabolario cartaceo che ho in casa è molto minuta.
Dopo di che è iniziata una prima accomodatura, una scrematura di quelle soluzioni comiche che ti
offre un traduttore automatico, specie se gli dai troppe parole alla volta da trasporre. Quindi sono
passato alla versione vera e propria, ho approntato uno dopo l’altro due “testi di transizione” coi
quali ho cercato prima di trasformare il senso a naso in qualcosa di più verosimile, poi di far
maturare un po’ il frutto acerbo. Con il terzo e ultimo testo sono arrivato a compimento, ho limato,
mi sono preso infinite libertà, ridisegnato versi, stravolto le cesure, temo talvolta flesso il senso
dove ero meno sicuro di aver capito il dettato dell’originale. Mi sono inconsciamente immedesimato
nel Friedrich Hölderlin (poeta sia ammirato che amato) alle prese con l’Antigone di Sofocle
infervorato dall’idea di “chiamare in vita le latenze insite nel testo ma tuttora inadempiute, di
«sorpassare» il testo originale nell’esatto spirito del testo stesso”?8 Almeno lui il greco lo sapeva,
beh, più o meno, e in ogni caso, a parte qualche eccezione, la sua traduzione è stata considerata uno
tra altri segni della sua pazzia.
Prima di concentrarmi su questa fase finale ho provato a badare al consiglio di Ponso (più che
leggere ascoltare) proprio alla lettera, seguendo alcuni readings di Ashbery (in internet ce ne sono
diversi, sia dal vivo che incisi, inutile dire che uno con Syringa non l’ho rintracciato, sarebbe stato
troppo bello) per vedere di entrare nella musicalità della sua lingua, malgrado le disomogeneità
ritmiche che come abbiamo visto più sopra spesso i suoi testi presentano: credo che a qualcosa sia
servito, non che abbia potuto ricalcare i miei versi sulle cadenze e intonazioni dei suoi, ma qualche
minimo aggiustamento di tiro ne è sortito.
Cosa è venuto fuori? Ai posteri l’ardua sentenza.

26 – 29 aprile 2020

In copertina: André Kertész, dalla serie Au milieu de livres éparpillés sur le trottoir (1974)

P.S. Il volumetto de Il Labirinto con le traduzioni di Edoardo Albinati contiene due disegni
dell’artista Gianni Dessì (non so se compreso o escluso quello di copertina); così ho pensato di
aggiungere in questo fascicoletto due miei schizzi astratti che ho fatto un po’ alla carlona con
Paint; una contumacia cronica delle mie periferiche digitali (scanner e stampante multi funzione)
mi impedisce di acquisire al computer disegni fatti a mano con più cura – benché con altrettanto
arbitrio - come quelli, una quarantina, di una raccolta messa insieme alcuni anni or sono intitolata
Quaderno dei gesti quotidiani.
Dopo il testo originale e la mia traduzione, ho pensato di allegare qui anche il frutti delle altre
fasi del lavoro.

8
George Steiner, Le Antigoni, Milano, Garzanti, 1990, pag. 83.
Syringa
Orpheus liked the glad personal quality
Of the things beneath the sky. Of course, Eurydice was a part
Of this. Then one day, everything changed. He rends
Rocks into fissures with lament. Gullies, hummocks
Can't withstand it. The sky shudders from one horizon
To the other, almost ready to give up wholeness.
Then Apollo quietly told him: “Leave it all on earth.
Your lute, what point? Why pick at a dull pavan few care to
Follow, except a few birds of dusty feather,
Not vivid performances of the past”. But why not?
All other things must change too.
The seasons are no longer what they once were,
But it is the nature of things to be seen only once,
As they happen along, bumping into other things, getting along
Somehow. That’s where Orpheus made his mistake.
Of course Eurydice vanished into the shade;
She would have even if he hadn't turned around.
No use standing there like a gray stone toga as the whole wheel
Of recorded history flashes past, struck dumb, unable to
utter an intelligent
Comment on the most thought-provoking element in its train.
Only love stays on the brain, and something these people,
These other ones, call life. Singing accurately
So that the notes mount straight up out of the well of
Dim noon and rival the tiny, sparkling yellow flowers
Growing around the brink of the quarry, encapsulizes
The different weights of the things.
But it isn’t enough
To just go on singing. Orpheus realized this
And didn't mind so much about his reward being in heaven
After the Bacchantes had torn him apart, driven
Half out of their minds by his music, what it was doing to them.
Some say it was for his treatment of Eurydice.
But probably the music had more to do with it, and
The way music passes, emblematic
Of life and how you cannot isolate a note of it
And say it is good or bad. You must
Wait till it’s over. “The end crowns all,”
Meaning also that the “tableau”
Is wrong. For although memories, of a season, for example,
Melt into a single snapshot, one cannot guard, treasure
That stalled moment. It too is flowing, fleeting;
It is a picture of flowing, scenery, though living, mortal,
Over which an abstract action is laid out in blunt,
Harsh strokes. And to ask more than this
Is to become the tossing reeds of that slow,
Powerful stream, the trailing grasses
Playfully tugged at, but to participate in the action
No more than this. Then in the lowering gentian sky
Electric twitches are faintly apparent first, then burst forth
Into a shower of fixed, cream-colored flares. The horses
Have each seen a share of the truth, though each thinks,
“I’m a maverick. Nothing of this is happening to me,
Though I can understand the language of birds, and
The itinerary of the lights caught in the storm is
fully apparent to me.
Their jousting ends in music much
As trees move more easily in the wind after a summer storm
And is happening in lacy shadows of shore-trees, now,
day after day”.

But how late to be regretting all this, even


Bearing in mind that regrets are always late, too late!
To which Orpheus, a bluish cloud with white contours,
Replies that these are of course not regrets at all,
Merely a careful, scholarly setting down of
Unquestioned facts, a record of pebbles along the way.
And no matter how all this disappeared,
Or got where it was going, it is no longer
Material for a poem. Its subject
Matters too much, and not enough, standing there helplessly
While the poem streaked by, its tail afire, a bad
Comet screaming hate and disaster, but so turned inward
That the meaning, good or other, can never
Become known. The singer thinks
Constructively, builds up his chant in progressive stages
Like a skyscraper, but at the last minute turns away.
The song is engulfed in an instant in blackness
Which must in turn flood the whole continent
With blackness, for it cannot see. The singer
Must then pass out of sight, not even relieved
Of the evil burthen of the words. Stellification
Is for the few, and comes about much later
When all record of these people and their lives
Has disappeared into libraries, onto microfilm.
A few are still interested in them. “But what about
So-and-so?” is still asked on occasion. But they lie
Frozen and out of touch until an arbitrary chorus
Speaks of a totally different incident with a similar name
In whose tale are hidden syllables
Of what happened so long before that
In some small town, one indifferent summer.

Syringa
Orfeo amava la felice singolarità
di ogni cosa nel creato. Senz’altro anche Euridice
ne era parte. Poi un giorno cambiò tutto. Egli schiuse
col suo compianto fessure nella roccia. Calanchi, collinette
non potevano resistergli. Il cielo tremava da un orizzonte
all’altro, rassegnato a rinunciare a una integrità.
Apollo così gli sussurrò: “Lascia perdere la terra.
Il tuo liuto, a che scopo? A cosa serve pizzicarci ‘ste pavane
che pochi ascoltano, tranne alcuni uccelli polverosi,
prove non all’altezza del passato”. Perché no?
Anche il resto però deve cambiare.
Non ci sono più le vecchie stagioni,
ma è nella natura delle cose di apparirci una sola volta,
mentre accadono insieme, si aggrovigliano,
per armonizzarsi in qualche modo. È lì che Orfeo sbagliò.
Naturalmente Euridice dileguò nell’ombra;
se non si fosse voltato sarebbe stato uguale.
Inutile adesso stare lì impalati, neanche l’intera ruota della storia
tramandata lampeggiasse oltre. Muta, incapace
di un commento intelligente
sulla parte interessante del prosieguo.
Solo l’amore resiste nell’intelligenza, e qualcuno,
gli altri, usa chiamarlo vita. Cantare con impegno
in modo che le note si elevino dal pozzo
dell’oscuro pomeriggio a gara con i piccoli, scintillanti
fiori gialli che crescono in margine alle cave,
dissimula il diverso peso delle cose.
Ma non basta
per continuare a cantare. Orfeo capì
non badò troppo al fatto che il suo premio fosse in paradiso
dopo che le Baccanti lo avevano smembrato, mandate
mezzo fuori di testa, a quanto pare dalla musica.
Alcuni dicono fosse per la faccenda di Euridice.
Ma probabilmente c’entrava più la musica,
e il modo con cui la musica si annuncia, indicativo
della vita e di come non puoi isolarne una nota
e dire se è cattiva o buona. Devi per forza
aspettare che finisca. “La tonalità si vede dalla fine”*

**
L’originale “The end crowns all,”, alla lettera “la fine incorona tutto”, messo tra virgolette - virgola compresa –
sembra citare esplicitamente Troilo e Cressida di William Shakespeare, IV, 5, 223 – 225: “The end crowns all, / And
that old common arbitrator, Time, / Will one way end it”, che Mario Praz traduce: “Il fine corona l’opera, / quel vecchio
arbitro comune, il Tempo, / vi metterà fine un giorno”. La mia interpretazione, se vogliamo una forzatura spinta di
quella di Praz, è dal motto di Lutero In fine videbitur cuius toni che Johann Sebastian Bach pose in calce a una sua
partitura del 1725 (cfr. Andrea Frova, Bravo Sebastian. Dieci episodi nella vita di Bach, Milano, Bompiani, 2007: ho
cercato conferme e precisazioni in merito, ma non sono riuscito a trovarne); dato il contesto musicale del passo mi è
può voler dire anche che il “tableau” è sbagliato.
Perché anche se i ricordi, di una stagione per esempio,
si fondono in un’unica istantanea, non si può custodire,
accantonare l’attimo sospeso. Anche lui scorre, fugace;
è un’immagine fluttuante, scenario, vivente ma mortale,
su cui si svolge una battaglia immaginaria,
senza esclusione di colpi. Saperne un po’ di più
è diventare le canne agitate da quel lento,
potente flusso, le erbe trascinate allegramente,
partecipare all’azione, ok, ma tutto qui.
Dopo di che nel cielo genziana che si abbassa
scosse elettriche all’apparenza così fioche, poi scoppiano
in una pioggia di salde fiammate color crema. I cavalli
prendono parte alla situazione, benché ognuno pensi
“Io sono diverso. Nulla di tutto questo mi riguarda
anche se posso capire il linguaggio degli uccelli
e il tragitto delle luci tracciate dalla tempesta
mi è del tutto lampante.
La giostra finisce più o meno nella musica
così come gli alberi si muovono meglio al vento dopo una burrasca
e sta accadendo ai merletti d’ombra dei pini marini,
ora, giorno dopo giorno”.

Ma quanto tardi rimpiangerete tutto questo,


pur tenendo presente che i rimpianti
sono sempre in ritardo, e sempre troppo!
A ciò, una nuvola bluastra alonata di bianco, Orfeo
risponde che ovviamente non sono rimpianti, affatto,
solo un’accurata erudita esposizione
di fatti indiscussi, sassolini sparsi per la strada.
E non importa quanto si perda tutto questo
o quanto raggiungerà la meta, non è più ormai
argomento per una poesia. È un soggetto
troppo importante, ma non abbastanza, inerme
mentre la poesia si spandeva, una cattiva cometa
urlante odio e disastro, la coda in fiamme così volta su se stessa
che il significato, buono o meno che fosse, non potrà
mai più forse sapersi. L’aedo pensa
in modo costruttivo, edifica il suo canto piano a piano
come un grattacielo, ma all’ultimo momento si distrae.
Il canto in un istante piomba nell’oscurità
che a sua volta finirà per invadere ogni cosa
in modo tale che non ci si veda. L’aedo deve allora
andare oltre la vista, per niente sollevato
sembrata una soluzione intrigante.
dal carico funesto di parole. La stellificazione
è per pochi, e arriva chissà in quale tempo
quando la gente, le loro vite, i loro ricordi
sono spariti nelle biblioteche, o nei microfilm.
Alcuni sono ancora interessati: “Ma a proposito
Così-e-così?” viene chiesto occasionalmente. Ma essi mentono
freddi e indifferenti finché un coro arbitrario
narrerà tutt’altre vicende con un nome simile
nel cui racconto sono nascoste sillabe
di quello che è successo tanto tempo prima
in una piccola città, in una qualunque estate.

Primo passaggio: interpretazione della traduzione automatica


Ad Orfeo piaceva la felice qualità personale
Delle cose sotto il cielo. Certo, Euridice faceva parte
Di questo. Poi un giorno tutto è cambiato. Egli tende
Le rocce in una fessura con lamento. Calanchi, collinette
Non può resistere. Il cielo trema da un orizzonte
All’altro, quasi pronto a rinunciare alla totalità.
Allora Apollo gli sussurrò: “Lascia tutto sulla terra.
Il tuo liuto, a che scopo? Perché pizzicare una noiosa pavana che pochi
Ascoltano, tranne alcuni uccelli dalle piume polverose,
non vivide manifestazioni del passato”. Perché no?
Anche il resto deve cambiare.
Le stagioni non sono più quelle di una volta,
Ma è la natura delle cose essere viste una sola volta,
Mentre esse accadono insieme, s’imbattono l’una nell’altra, vanno d’accordo
In qualche modo. È lì che Orfeo ha fatto il suo errore.
Naturalmente Euridice svanì nell’ombra;
Lo avrebbe fatto anche se non si fosse voltato.
Inutile stare lì come una toga di pietra grigia come se l’intera ruota
Della storia tramandata lampeggiasse oltre, muta, incapace di
Essere compresa completamente.
Commento sull’elemento più stimolante del suo seguito.
Solo l’amore resiste nel cervello, e un po’ di queste persone,
Gli altri, chiama la vita. Cantare con precisione
In modo che le note si incastrino verso l’alto dal pozzo del
Fioco pomeriggio e rivaleggino con i piccoli, scintillanti fiori gialli
Che crescono sull’orlo della cava, incapsula
Il diverso peso delle cose.
Ma non basta
Per continuare a cantare. Orfeo lo capì
E non badò molto al fatto che la sua ricompensa fosse in paradiso
Dopo che le Baccanti lo avevano fatto a pezzi, mandate
Mezzo fuori di testa dalla sua musica, ciò che aveva fatto loro.
Alcuni dicono che fosse per il suo trattamento di Euridice.
Ma probabilmente c’entrava più la musica, e
Il modo in cui passa la musica, emblematico
Della vita, e il fatto che non puoi isolarne una nota
E dire se è buona o cattiva. Devi
Aspettare che finisca. “L’estremità incorona tutto”
Significa anche che il “tableau”
è sbagliato. Perché sebbene i ricordi, di una stagione, per esempio,
Si fondano in un’unica istantanea, non si può custodire, tesoro
Quel momento di stallo. Anche lui scorre, fugace;
è un’immagine fluttuante, scenario, sebbene vivente, mortale,
su cui si svolge un astratto combattimento
senza esclusione di colpi. E per saperne di più
Diventerà le canne da lancio di quel lento,
potente flusso, le erbe striscianti
tirate allegramente, ma per partecipare al combattimento
non più di questo. Quindi nel cielo genziana che si abbassa
Le contrazioni elettriche sono prima debolmente evidenti, poi scoppiano
In una pioggia di immobili bagliori color crema. I cavalli
Ognuno di loro ha visto una parte della verità, anche se ognuno pensa
“Io sono diverso. Non mi sta succedendo niente,
anche se posso capire il linguaggio degli uccelli, e
l’itinerario delle luci catturate nella tempesta è
per me del tutto evidente.
La loro giostra finisce nella musica più o meno
Come gli alberi si muovono più facilmente nel vento dopo una tempesta estiva
E sta accadendo alle ombre di pizzo degli alberi di riva, ora,
giorno dopo giorno”.

Ma quanto tardi rimpiangerete tutto questo, anche


Tenendo presente che i rimpianti sono sempre in ritardo, troppo in ritardo!
A cui Orfeo, una nuvola bluastra con contorni bianchi,
risponde che ovviamente non sono affatto rimpianti,
solo un’attenta, erudita esposizione di
Fatti indiscussi, un ricordo di ciottoli lungo la strada.
E non importa quanto tutto questo sia scomparso,
o abbia raggiunto lo scopo, non è più
argomento per una poesia. È un soggetto
troppo importante, e non abbastanza, stando lì impotente
mentre la poesia si diffondeva, la sua coda in fiamme, una cattiva
cometa urlante odio e disastro, ma così rivolta a se stessa
che il significato, buono o no, non potrà mai
essere conosciuto. Il cantore pensa
costruttivamente, costruisce il suo canto in fasi progressive
come un grattacielo, ma all’ultimo momento si allontana.
Il canto precipita in un attimo nell’oscurità
Che a sua volta invade l’intero continente
Di oscurità, così non può più vedere. Il cantore
Deve quindi andare oltre la vista, non sollevato
Dal funesto carico di parole. La stellificazione
È per pochi, e succede molto più tardi
Quando tutti i ricordi delle gente e della loro vita
Sono spariti nelle biblioteche, o nei microfilm.
Alcuni sono ancora interessati a loro: “Ma a proposito
Così-e-così?” viene chiesto occasionalmente. Ma esso mentono
Freddi e distratti finché un coro dispotico
Racconta di un avvenimento totalmente diverso con un nome simile
Nel cui racconto sono nascoste sillabe
Di quello che è successo tanto tempo prima
In una piccola città, in una qualunque estate.

Secondo passaggio: primo testo di transizione


A Orfeo piaceva la felice unicità
delle cose sotto il cielo. Senz'altro anche Euridice
ne faceva parte. Poi un giorno tutto cambiò. Egli aprì
fessure gementi nella roccia. Calanchi, collinette
non potevano resistergli. Il cielo tremava da un orizzonte
all’altro, quasi pronto a rinunciare alla totalità.
Così Apollo gli sussurrò: “Lascia tutto sulla terra.
Il tuo liuto, a che scopo? Perché pizzicare una noiosa pavana che pochi
ascoltano, tranne alcuni uccelli dalle piume polverose,
tutt’altro che vivide epifanie del passato”. Perché no?
Ma anche il resto deve cambiare.
Non ci sono più le vecchie stagioni,
ma è la natura delle cose apparire una alla volta,
mentre esse accadono insieme, s’imbattono l’una nell’altra, per andare d’accordo
in un modo o nell’altro. È lì che Orfeo ha fatto il suo errore.
Naturalmente Euridice svanì nell’ombra;
lo avrebbe fatto anche se non si fosse voltato.
Inutile stare come una toga di pietra grigia come se l’intera ruota
della storia tramandata lampeggiasse oltre. Muta, incapace di
essere compresa completamente.
Commento sull’elemento più stimolante del prosieguo.
Solo l’amore resiste nell’intelligenza, e qualcuno,
gli altri, lo chiamano vita. Cantare con precisione
in modo che le note salgano verso l’alto dal pozzo
dell’oscuro pomeriggio e rivaleggino con i piccoli, scintillanti fiori gialli
che crescono sul margine delle cave, maschera
il diverso peso delle cose.
Ma non basta
per continuare a cantare. Orfeo lo capì
e non badò molto al fatto che la sua ricompensa fosse in paradiso
dopo che le Baccanti lo avevano fatto a pezzi, mandate
mezzo fuori di testa dalla sua musica, a quanto pare.
Alcuni dicono fosse per come aveva trattato Euridice.
Ma probabilmente c’entrava la musica, e
il modo on cui si trasmette la musica, emblematico
della vita, e il fatto che non puoi isolarne una nota
e dire se è buona o cattiva. Devi
aspettare che finisca. “La tonalità si vede dalla fine”
significa che anche il “tableau”
è sbagliato. Perché benché i ricordi, di una stagione per esempio,
si fondano in un’unica istantanea, non si può custodire, accantonare
l’attimo sospeso. Anche lui scorre, fugace;
è un’immagine fluttuante, scenario, sebbene vivente, mortale,
su cui si volge un ideale battaglia,
senza esclusione di colpi. E saperne di più
è diventare le canne da lancio di quel lento,
potente flusso, le erbe striscianti
che allegramente si tira dietro, ma per prendere parte all’azione
nulla di più. Quindi nel cielo genziana che si abbassa
contrazioni elettriche prima apparentemente deboli, poi scoppiano
in una pioggia di immobili fiammate color crema. I cavalli
hanno condiviso una parte della verità, anche se ognuno pensa
“Io sono diverso. Non mi sta accadendo nulla di questo
anche se posso capire il linguaggio degli uccelli, e
l’itinerario delle luci fermate nella tempesta
mi è del tutto chiaro.
La loro giostra finisce più o meno nella musica
così come gli alberi si muovono meglio al vento dopo una tempesta estiva
e sta accadendo alle ombre di pizzo dei pini marini, ora,
giorno dopo giorno”.

Ma quanto tardi rimpiangerete tutto questo, anche


tenendo presente che i rimpianti sono sempre in ritardo, troppo in ritardo!
A ciò Orfeo, una nuvole bluastra alonata di bianco,
risponde che ovviamente non sono affatto rimpianti,
solo un’accurata esposizione accademica di
fatti indiscussi, una scia di ciottoli lungo la strada.
E non importa quanto tutto questo svanisca
o abbia raggiunto la meta, non è più ormai
argomento per una poesia. È un soggetto
troppo importante, e non abbastanza, impotente
mentre la poesia si spandeva, la sua coda in fiamme, una cattiva
cometa urlante odio e disastro, ma così rivolta in se stessa
che il significato, buono o meno che sia, non potrà mai
essere conosciuto. Il cantore pensa
in modo costruttivo, edifica il suo canto piano a piano
come un grattacielo, ma all’ultimo momento si distrae.
Il canto precipita in un attimo nell’oscurità
che a sua volta deve invadere l’intero continente
di oscurità, perché non si veda. Il cantore
deve così andare oltre la vista, non sollevato
dal funesto carico di parole. La stellificazione
è per pochi, e viene molto più tardi
quando tutti i ricordi di questa gente e delle loro vite
sono spariti nelle biblioteche, o nei microfilm.
Alcuni sono ancora interessati a loro: “Ma a proposito
Così-e-così” viene chiesto occasionalmente. Ma essi mentono
freddi e indifferenti finché un coro arbitrario
narra di fatti totalmente diversi con un nome simile
nel cui racconto sono nascoste sillabe
di quello che è successo tanto tempo prima
in una piccola città, in una qualunque estate.

Terzo passaggio: secondo testo di transizione


A Orfeo piaceva la felice singolarità
delle cose sotto il cielo. Senz'altro anche Euridice
ne faceva parte. Poi un giorno tutto cambiò. Egli aprì
fessure gementi nella roccia. Calanchi, collinette
non potevano resistergli. Il cielo tremava da un orizzonte
all’altro, quasi pronto a rinunciare alla sua integrità.
Così Apollo gli sussurrò: “Lascia tutto sulla terra.
Il tuo liuto, a che scopo? Perché pizzicare una noiosa pavana che pochi
ascoltano, tranne alcuni uccelli dalle piume polverose,
tutt’altro che vivide epifanie del passato”. Perché no?
Ma anche il resto deve cambiare.
Non ci sono più le vecchie stagioni,
ma è la natura delle cose apparire una alla volta,
mentre esse accadono insieme, s’imbattono l’una nell’altra, per andare d’accordo
in un modo o nell’altro. È lì che Orfeo ha fatto il suo errore.
Naturalmente Euridice svanì nell’ombra;
lo avrebbe fatto anche se non si fosse voltato.
Inutile stare come una toga di pietra grigia quasi l’intera ruota
della storia tramandata lampeggiasse oltre. Muta, incapace di
essere compresa completamente.
Commento sull’elemento più stimolante del prosieguo.
Solo l’amore resiste nell’intelligenza, e qualcuno,
gli altri, lo chiama vita. Cantare con precisione
in modo che le note salgano verso l’alto dal pozzo
dell’oscuro pomeriggio a gara con i piccoli, scintillanti fiori gialli
che crescono sul margine delle cave, dissimula
il diverso peso delle cose.
Ma non basta
per continuare a cantare. Orfeo lo capì
e non badò molto al fatto che la sua ricompensa fosse in paradiso
dopo che le Baccanti lo avevano fatto a pezzi, mandate
mezzo fuori di testa dalla sua musica, a quanto pare.
Alcuni dicono fosse per come aveva trattato Euridice.
Ma probabilmente c’entrava la musica, e
il modo con cui la musica si trasmette, rivelatore
della vita, e il fatto che non puoi isolarne una nota
e dire se è buona o cattiva. Devi
aspettare che finisca. “La tonalità si vede dalla fine”
significa che anche il “tableau”
è sbagliato. Perché benché i ricordi, di una stagione per esempio,
si fondano in un’unica istantanea, non si può custodire, accantonare
l’attimo sospeso. Anche lui scorre, fugace;
è un’immagine fluttuante, scenario, sebbene vivente, mortale,
su cui si volge un’ideale battaglia,
senza esclusione di colpi. E saperne di più
è diventare le canne da getto di quel lento,
potente flusso, le erbe striscianti
che allegramente si tira dietro, ma per prendere parte all’azione
nulla di più. Quindi nel cielo genziana che si abbassa
contrazioni elettriche prima apparentemente deboli, poi scoppiano
in una pioggia di immobili fiammate color crema. I cavalli
hanno condiviso una parte della questione, anche se ognuno pensa
“Io sono diverso. Non mi sta accadendo nulla di questo
anche se posso capire il linguaggio degli uccelli, e
l’itinerario delle luci fermate nella tempesta
mi è del tutto chiaro.
La loro giostra finisce più o meno nella musica
così come gli alberi si muovono meglio al vento dopo una tempesta estiva
e sta accadendo alle ombre di pizzo dei pini marini, ora,
giorno dopo giorno”.

Ma quanto tardi rimpiangerete tutto questo, anche


tenendo presente che i rimpianti sono sempre in ritardo, troppo in ritardo!
A ciò, una nuvola bluastra alonata di bianco, Orfeo
risponde che ovviamente non sono affatto rimpianti,
solo un’accurata esposizione accademica di
fatti indiscussi, una scia di ciottoli lungo la strada.
E non importa quanto tutto questo svanisca
o abbia raggiunto la meta, non è più ormai
argomento per una poesia. È un soggetto
troppo importante, e non abbastanza, impotente
mentre la poesia si spandeva, la sua coda in fiamme, una cattiva
cometa urlante odio e disastro, ma così rivolta in se stessa
che il significato, buono o meno che sia, non potrà mai
essere conosciuto. Il cantore pensa
in modo costruttivo, edifica il suo canto piano a piano
come un grattacielo, ma all’ultimo momento si distrae.
Il canto precipita in un attimo nell’oscurità
che a sua volta deve invadere l’intero continente
di oscurità, perché non si veda. Il cantore
deve così andare oltre la vista, non sollevato
dal funesto carico di parole. La stellificazione
è per pochi, e viene molto più tardi
quando tutti i ricordi di questa gente e delle loro vite
sono spariti nelle biblioteche, o nei microfilm.
Alcuni sono ancora interessati a loro: “Ma a proposito
Così-e-così” viene chiesto occasionalmente. Ma essi mentono
freddi e indifferenti finché un coro arbitrario
narra di fatti totalmente diversi con un nome simile
nel cui racconto sono nascoste sillabe
di quello che è successo tanto tempo prima
in una piccola città, in una qualunque estate.

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