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Il suono (non) ha un’immagine

Concerti per “occhi che sentono e orecchie che vedono”

“Sullo schermo non «parla» l’immagine del suono, ma il suono stesso,


che la pellicola ha fissato e che ora riproduce (…) Il suono non ha
un’immagine. È il suono nella dimensione originale, con le proprietà fisiche
originali, che si ripete e torna a «parlare» sullo schermo”. Così scriveva
Béla Balázs, importante teorico del cinema e sceneggiatore ungherese, nel
suo libro Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova (1948), all’interno
di un ampio capitolo dedicato al film sonoro. Questo capitolo comincia con
un paragrafo intitolato “Una tragica profezia”, e la profezia è quella che
Balázs aveva licenziato quasi vent’anni prima di fronte ai primi tentativi di
cinema sonoro - “il suono non costituiva ancora una conquista, ma un
semplice problema” - e che ora si trovava a dover a malincuore vidimare:
“Ha cessato di esistere l’arte del film muto, e ad essa si è sostituita la tecnica
del film sonoro”1; il cinema sonoro pensava di essere una prosecuzione
logica ed organica di quello muto, e così facendo ne bloccava il progresso in
un momento decisivo, mentre avrebbe dovuto divenire un’arte a sé.
Naturalmente c’erano eccezioni: M. il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang
(1931) viene tutt’oggi canonicamente lodato per l’uso già molto “maturo”
delle risorse sonore, nonostante sia l’autore che la cinematografia tedesca
fossero in pratica agli esordi nel campo; ne L’uomo che sapeva troppo di
Alfred Hitchcock (1934) c’è la celeberrima, magistrale sequenza del
concerto alla Royal Albert Hall di Londra che fa perno sulle condizioni
imposte dal paesaggio sonoro e costruisce tutta la suspense sull’attesa di un
singolo, specifico suono (il colpo di piatti di un orchestrale). Ma per Balázs
le eccezioni erano proprio eccezioni, destinate a confermare la regola di un
cinema in generale incapace di utilizzare l’ambiente acustico in funzione
drammatica e i suoni come veri e propri personaggi, di rendere in modo
efficace e preciso la pressione dei silenzi, di adoperare in maniera creativa e
linguisticamente attiva il fuori campo sonoro così come il “primo piano
acustico”, così come “effetti speciali” quali l’asincronia o le dissolvenze
sonore, di conferire al “montaggio sonoro” la stessa forza di suggestione di
quello visivo sfruttando attrazioni e polarità.
Cosa direbbe oggi Balázs in proposito? Avrebbe modo di cambiare idea
o si vedrebbe costretto a prorogare ancora gli effetti dei suoi vaticini? Non
lo possiamo sapere: quello che invece è certo è che egli non estese, allora, le
sue eccellenti osservazioni sul problema del sonoro a tutto il cinema. Perché
un cinema seriamente impegnato nella sperimentazione sonora, c’era: il

1
Béla Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 1987 (prima
edizione, 1952), pagg. 231 e 207-208.
cinema di animazione. Ne Il film in realtà l’argomento viene affrontato, sui
versanti sia della produzione corrente che di quella più decentrata, d’essai
diremmo oggi, ma Balázs si rivela stranamente frettoloso; e liquida la prima
confinandola nell’ambito più generale del comico, pur riconoscendo il fatto
– del resto inequivocabile – che il sonoro “ha aperto nuove vie al disegno
animato e ha favorito la creazione di una eccezionale forma d’arte di
carattere musicale” e individuando in Walt Disney il maestro di questa
nuova arte; la seconda quasi come una specie di trastullo per artisti annoiati,
dediti alla crezione di “divertimenti formali” che rivelerebbero la propria
infondatezza artistica in soluzioni “estremamente precise e inconfutabili” - e
qui Balázs sta parlando del cinema astratto muto - alle quali tuttavia il
contributo della musica può regalare l’opportunità di giungere a risultati di
“eccezionale valore estetico” in ogni caso non molto più che decorativo 2
(noterei che qui Balázs, riferendosi a queste opportunità in termini di “arte
di carattere musicale”, sembra quasi regredire dal suo stesso pensiero sulla
ricchezza e versatilità del materiale sonoro in senso più ampio: e in effetti
quando cita Disney è molto probabile che egli stia pensando in particolare a
Fantasia, i cui risultati estetici furono sicuramente eccezionali, ma proprio
sul piano di quelle “soluzioni estremamente precise e inconfutabili” che nel
caso del cinema astratto sarebbero state indizio di scarso valore artistico: va
beh).
Invece il cinema di animazione, sia quello più “mainstream” che quello
di ricerca, stava esprimendo da tempo vivacissime indagini sul sonoro, e in
modo particolare sui rapporti e sull’integrazione tra suono e immagine,
anche se da prospettive differenti (e tuttavia non poi tanto lontane). Il
rapporto tra suono e immagini e la loro integrazione in funzione espressiva
aveva trovato nei cortometraggi di animazione, come le Silly Symphonies di
Disney, un banco di prova straordinario: qui la musica entra in perfetta
osmosi con suoni e rumori di ogni tipo e con le voci fino a costituire un tutto
organico che poi, a sua volta, gioca in ulteriore risonanza con le immagini,
dosate al ritmo del suono; l’intero corpus sonoro (le cui modalità di
costruzione verranno non a caso denominate mickey mousing: uno dei
“testi” di base di questo modus operandi è infatti Steamboat Willie -1928,
passato alla storia come primo disegno animato sonoro, con protagonista un
primordiale Mickey Mouse; e pare che il termine, poi entrato ufficialmente
nel gergo cinematografico e musicologico, sia stato suggerito da Sergej
Ejzenštejn, fan di Disney al punto da dedicargli un noto e bellissimo
saggio3) e le immagini sullo schermo sono in definitiva la conseguenza
2
Béla Balázs, idem, pagg. 204-206 e 194-195. Del resto Balázs fu tentato di spiegare il
fenomeno dell’avanguardia nel cinema con ragioni d’ordine sociologico più che estetico,
scorgendovi un “soggettivismo disperato, forma evidente di fuga ideologica dalla realtà”,
pag. 188.
3
In realtà si tratta di una serie di appunti redatti, secondo alcune ricostruzioni storiche, fra il
1940 e il 1941, e che avrebbero dovuto costituirsi in saggio per un libro poi rimasto
incompiuto. Il regista russo aveva visitato gli studi Disney nel 1930, nel corso di una
dell’orchestrazione di un’unica partitura sonoro-visiva. Una prassi di
bruitage sonoro che Disney tenderà in gran parte ad abbandonare quando
vorrà dare al cinema di animazione la dignità – soprattutto commerciale -
del cinema dal vero investendo nel lungometraggio, e allora la colonna
sonora finirà per rispondere alle stesse funzioni, appunto del cinema dal
vero, e a ricadere in quella mediocrità denunciata da Balazs (a parte il citato
caso di Fantasia, film com’è noto fatto di episodi studiati per “visualizzare”
celebri brani di musica classica, diversi dei quali non seguono una
narrazione vera e propria). La sperimentazione nel corto tuttavia proseguirà,
e sarà fra altri soprattutto Carl W. Stalling, che alla Disney si era fatto le
ossa, a esploderla in una creatività formidabile componendo oltre 600
soundtracks per le Merry Melodies e per le Looney Tunes alla Warner Bros:
qui metterà a frutto una solidissima conoscenza musicale (proveniente dal
suo lavoro come pianista di sala ai tempi del muto) e soprattutto una geniale
irriverenza mimetico-citazionistica che anticipa di sessant’anni le tecniche
di cut’n’paste e di remix che oggi ascoltiamo praticate ovunque, da
funamboli musicali quali John Zorn o Dj Spooky così come dai più innocui
creatori di jingles pubblicitari.4
Per quanto concerne invece il cinema di ricerca (la difficoltà di trovare
una definizione sensata non sembri artificiosa, poiché come abbiamo appena
visto spirito di ricerca e di sperimentazione ce n’era anche nella produzione
per il pubblico di massa; ad ogni modo il termine “ricerca” a me sembra
quello più ragionevole), bisogna fare un discorso un po’ più articolato, pur
nella sintesi di uno scritto come questo. Qui il punto di partenza non può che
essere il mondo delle avanguardie storiche di primo Novecento; le quali già
prese nel vortice della decostruzione percettiva, prospettica, spaziale,
figurativa del visibile inaugurata dall’Impressionismo e poi da esse stesse -
Cubismo, Futurismo, Astrattismo, Dada – accelerata, furono sospinte
proprio dalla nuova musa verso ulteriori sconfinamenti della visione e della
percezione. I Futuristi, che già cercavano di mostrare il dinamismo e la
velocità nella pittura, non potevano che scorgere nel cinematografo una
potenzialità al cubo per i loro obiettivi, anzi addirittura “il mezzo di
espressione più adatto alla plurisensibilità di un artista futurista”, e
sfortunata spedizione di lavoro a Hollywood. Cfr. Sergej M. Ejzenštejn, Walt Disney (a
cura di Sergio Pomati), Milano, SE, 2004. D’altra parte tutto il pensiero teorico del maestro
russo, a muovere dall’irripetibilità della sintesi artistica ottenuta nella tragedia Greca e solo
in parte ritrovata da Wagner nella sua idea di Gesamtkunstwerk, considera il rapporto fra le
immagini e la musica (e il suono), un elemento fondante per recuperare nel cinema quella
sintesi.
4
Ha scritto John Zorn per le note di copertina di un’antologia delle musiche di Stalling per
la WB: “Separando la musica dalle immagini per le quali doveva servire da supporto,
diventa chiaro che Stalling fu uno dei più rivoluzionari visionari della musica americana,
specialmente nella sua concezione del tempo”. Cfr. Giuseppe Valenzise, “Rivoluzionario
visionario. Carl W. Stalling, un Maestro per la Warner Bros”, in Giannalberto Bendazzi,
Manuele Cecconello, Guido Michelone, Coloriture. Voci, rumori, musiche nel cinema
d’animazione, Bologna, Edizioni Pendragon, 1995, pag. 164.
progetteranno fra l’altro “ricerche musicali cinematografate (dissonanze,
accordi, sinfonie di gesti, fatti, colori, linee, ecc.)” ed “equivalenze lineari
plastiche, cromatiche, ecc., di uomini, donne, avvenimenti, pensieri,
musiche, sentimenti, pesi, odori, rumori cinematografati”.5 Il pittore russo
Léopold Survage creò fra il 1912 e il 1916 una serie di quadri di matrice
cubista, Ritmi colorati, con l’intento di trarne un film astratto in cui forme e
colori concorressero all’accentuazione del dinamismo, non in chiave di
semplice illustrazione o interpretazione di brani musicali, ma come un’arte
autonoma anche se fondata sugli stessi dati psicologici della musica (nel
2005 l’artista statunitense Bruce Checefsky ha concretizzato in minima
parte il sogno di Survage animando in digitale una piccolissima sequenza di
dipinti che, ripetuta alcune volte, dà come risultato un film di circa tre
minuti). Per il suo poema sinfonico Prometeo (1910), Aleksandr Skrjabin
prevedette di utilizzare una speciale tastiera basata sulle associazioni fra
suoni e colori (inventata da Alexander Wallace Rimington nel 1895 – l’anno
del cinematografo dei Lumière … ; ma c’erano stati dei precedenti come un
organo a colori brevettato già nel 1877) per dare vita a “una sinfonia
cromatica” nella quale ad ogni tipo di suono corrispondesse un colore e ad
ogni modulazione armonica una modulazione cromatica. Nelle pagine di
Der Blau Reiter, il celeberrimo almanacco pubblicato a Monaco di Baviera
nel 1910 da Wassily Kandinsky e Franz Marc, oltre ad un commento su
quest’opera di Skrjabin c’era una “composizione scenica” dello stesso
Kandisky, Il suono giallo: qui il grande artista russo cercava di riscattare
l’arte dalla “specializzazione” - nello specifico l’arte teatrale, smembrata “in
tre gruppi di opere sceniche, separati l’uno dall’altro da alte mura: a)
dramma, b) opera, c) balletto” – spostando il baricentro della creazione, e lo
svolgimento del dramma, dal piano esteriore all’interiorità dello spettatore,
al complesso delle sue “vibrazioni dell’anima”; i cardini di tale spostamento
furono ravvisati nel “suono musicale e il suo movimento, il suono fisico-
psichico e il suo movimento espresso per mezzo di figure umane e di
oggetti, il tono cromatico e il suo movimento”. 6 Nei titoli delle sue opere (e
nelle lezioni che tenne presso la scuola del Bauhaus negli anni Venti), Paul
Klee attinse spesso al lessico musicale, e com’è noto era anche musicista;
egli non tentò mai tuttavia di stabilire dei rigidi parallelismi fra il mondo dei
suoni e quello delle immagini, di “tradurre” graficamente la musica, bensì
come ha spiegato molto bene Pierre Boulez, di trasferirne le ricchezze, di
studiarne e trasporne le strutture in un’altra forma espressiva.7
5
“La cinematografia futurista”: F.T. Marinetti, Bruno Corra, E. Settimelli, Arnaldo Ginna,
G. Balla, Remo Chiti; L’Italia Futurista, 11 settembre 1916, in I futuristi (a cura di
Francesco Grisi), Roma, Newton Compton, 1994, pagg. 79-86 (corsivi nel testo originale).
6
Cfr. Wassily Kandinsky, Franz Marc, Il Cavaliere Azzurro, Milano, SE, 1988; pagg. 97-
113 per il commento sul Prometeo di A. Skrjabin, pagg. 159-191 per le note di Kandisky
Sulla composizione scenica e il copione di Il suono giallo.
7
Cfr. Pierre Boulez, Il paese fertile. Paul Klee e la musica (a cura di Paule Thévenin),
Milano, Absondita, 2004, pag. 37.
Qualche esempio per dimostrare come nei primi anni del XX secolo le
arti cercassero di comunicare fra di loro, sulla scia della lezione wagneriana,
a un livello che oggi definiamo abitudinariamente “multimediale”, ma che
sarebbe molto più giusto chiamare “intermediale” (recuperando un termine
caro a Fluxus): poiché non di molteplicità, di sovrapposizione, e neppure di
pura e semplice integrazione si parla, ma di relazioni, correlazioni articolate,
e di situazioni di indecidibilità fra limiti spaziali e temporali. Qui si innesta
il cinema ed inizia un’avventura verso un territorio vergine che potremmo
collocare, un po’ a grandi linee ma per capirci, nel quadro di una questione
di visualizzazione del suono, o per dirla altrimenti di musica visiva. La
figura astratta, fatta viva sulla pellicola, appare come la candidata ideale per
il ruolo di ambasciatrice di questa nuova frontiera dell’arte: la pittura si
anima e, raccogliendo idealmente una serie di suggestioni che dall’intuito di
Leonardo Da Vinci su poesia e pittura che “hanno scambiati i sensi” agli
studi di Ernst Chladni sulla morfogenetica delle onde sonore arrivano alle
Voyelles di Rimbaud8, cerca di risolvere i problemi affrontati come abbiamo
accennato più sopra dalle avanguardie.
Il primo artista “imprestato” dalla pittura al disegno animato astratto sarà
Viking Eggeling, svedese ma attivo in Germania, che fra il 1917 ed il 1924
lavora a un progetto che darà come risultato ultimo (e purtroppo unico:
verrà proiettato insieme ad altri film sperimentali nel 1925, pochi giorni
dopo la scomparsa dell’autore) Diagonal Symphony, considerato come il
primo capolavoro della animazione astratta. Anche se a dire la verità più o
meno in quegli stessi anni altri due tedeschi, Hans Richter (che fu tra i
fondatori di Dada) e Walter Ruttmann, licenziano i loro Rhytmus - Richter -
i loro Opus - Ruttmann. Non sarà superfluo notare che il primo aveva preso
lezioni di contrappunto da Ferruccio Busoni, e che il secondo oltre che
architettura e belle arti aveva studiato violoncello: perché della musica
questi esperimenti di cinema, che è ancora muto, posseggono diverse
qualità. Il ritmo, prima di tutto, il che è talmente ovvio che sembra quasi
puerile sottolinearlo; ma anche qualcosa che potremmo definire armonia e
qualcos altro che potremmo definire contrappunto, perché le figure sono
orchestrate (il verbo “orchestrare” lo adoperò Richter per i suoi lavori) nello
spazio secondo concatenazioni, intersezioni, accordi; e potremmo azzardare
a trovarvi perfino un certo “cromatismo”, cromatismo in senso musicale,
ovvero alterazione dei rapporti di valore all’interno di una scala determinata.
8
Negli appunti che poi verranno denominati Trattato della pittura (1480-1516), Leonardo
affrontò con particolare acume le relazioni reciproche fra parola, immagine, suono, poesia.
Il fisico tedesco Ernst Chladni (1756-1827) sperimentò un metodo per dimostrare i vari
modi di vibrare di una superficie meccanica di forma regolare od irregolare: facendo
vibrare con un archetto di violino lastre di vetro ricoperte di sabbia finissima, questa si
allontana dalle zone di maggior vibrazione e si accumula progressivamente nei punti della
superficie in cui la vibrazione è nulla, dando vita a curiose figure tuttora denominate “figure
di Chladni. Nel suo celeberrimo sonetto sulle vocali Arthur Rimbaud costruì un intreccio di
sinestesie che vale ancora come lezione per chiunque voglia mettersi a scrivere versi.
Ricorderei en passant che Ruttmann negli anni successivi si dedicherà a
girare sinfonie di immagini mute, come Berlin – Die Sinfonie Der Grosstadt
(1927, una specie di documentario poetico sulla città e i suoi ritmi) così
come a comporre film sonori senza immagini, costituiti soltanto da un
montaggio di rumori (Weekend, 1928, qualcosa di non molto dissimile dalle
sintesi radiofoniche di F.T. Marinetti). All’inizio abbiamo riportato il parere
di Béla Balázs sulle possibilità creative offerte al cinema dal sonoro: le
aveva capite prima di lui Laszlo Moholy-Nagy, pittore e fotografo presso il
Bauhaus, indicando anch’egli come il cinema avrebbe dovuto usarle:
simultaneità acustiche in corrispondenza di simultaneità ottiche, primi piani
acustici, rallentati e accelerati, sovrapposizioni, contrazioni, manipolazioni
del montaggio sonoro. E agli inizi degli anni Trenta lo troviamo infatti a
lavorare sul “suono ottico”, ovvero la tecnica che consente di imprimere la
traccia audio di un film sulla pellicola (tra i fotogrammi e la perforazione),
insieme ad alcuni colleghi tra i quali Oskar Fischinger. Fischinger è un
nome importante, sia perché le sue opere, pur nell’ambito di una ricerca
centrata sullo specifico filmico, su ipotesi di “film assoluti”, sulla qualità
espressiva del disegno astratto, “rappresentano il primo serio e geniale
approccio alla visualizzazione della musica” 9; sia perché, quando sarà
costretto ad andarsene dalla Germania poiché “artista degenerato” in base ai
canoni culturali nazisti, si ritroverà negli USA ad essere un vero e proprio
medium fra l’esperienza europea del cinema astratto e quella
dell’animazione d’oltreoceano; collaborando fra l’altro con Disney per il
primo episodio di Fantasia, ispirato alla Toccata e Fuga in Re minore di
J.S. Bach (ma in una trascrizione per orchestra di Leopold Stokowski); una
scelta coraggiosa da parte di Disney, ma molto deludente per Fischinger, le
cui proposte per il film saranno edulcorate affinché le forme astratte possano
evocare oggetti reali (archetti, ponti e corde di violino) e semplificate in
termini di rapporto con la musica (alla fine il risultato non è nulla di più che
una gradevole, innocua coreografia).
La fecondità di queste sperimentazioni non mancherà di farsi notare negli
anni a venire: due nomi su tutti, Len Lye e Norman McLaren, paladini del
cinema concreto, ovvero realizzato senza cinepresa e agendo direttamente
sulla pellicola. Len Lye, neozelandese ma attivo soprattutto a Londra, sarà il
primo a ripercorrere (o forse a ri-immaginare) le intuizioni Futuriste sulla
cinepittura10 e a dettare le tavole delle legge per quest’arte di “controllare il
9
Un’arte del movimento. Le collezioni cinematografiche del Centre Pompidou dalle
avanguardie storiche all’underground americano (a cura di Philippe-Alain Michaud).
Cineteca, ottobre 2004, speciale, Bologna, Ente Mostra Internazionale del Cinema Libero,
2004, pag. 54
10
Tra il 1910 e il 1912 Ginna e Corra (ossia i fratelli ravennati Arnaldo e Bruno Ginanni
Corradini) realizzarono alcuni cortrometraggi astratti, utilizzando il colore direttamente
sulla pellicola non trattata (le opere andarono distrutte durante la seconda guerra mondiale).
Ginna e Corra, prima di questi esperimenti di “cinepittura”, avevano realizzato un loro
“pianoforte cromatico” dotato di una tastiera con 28 tasti corrispondenti ciascuno ad un
movimento in vista della sua composizione”, secondo le sue proprie parole:
A Colour Cry (1935) è ritenuto da Gianni Rondolino “il testo fondamentale
del cinema senza cinecamera”, mentre il suo ultimo film, Tal Farlow
(iniziato già negli anni Cinquanta, ma uscito postumo nel 1981), rappresenta
la sintesi ideale di un’arte nella quale “ciò che conta è un’intesa subitanea,
una stima reciproca e una resa generale in un lavoro dove nessuno dei due
linguaggi [immagini e musica, n.d.r.] deve prevalere sull’altro, pur
mantenendo, sempre, ciascuno di essi la propria autenticità espressiva”.11
Norman McLaren era invece scozzese e andò a finire in Canada, dove fu tra
le eminenze grige del National Film Board, un’istituzione che anche grazie a
lui diverrà nel tempo un centro di eccellenza nell’ambito del cinema
d’animazione sperimentale, o anche soltanto di qualità (a lui fu infatti
affidato all’interno del NFB un dipartimento specifico per l’animazione dal
suo connazionale, produttore e teorico dl cinema, John Grierson, col quale
del resto era già in rapporti di collaborazione - come, guardo caso, Len
Lye). McLaren ha usato nel corso della sua carriera diverse tecniche, ma
non c’è dubbio che alcuni dei suoi lavori più belli ed importanti siano legati
al disegno diretto su pellicola: fra l’altro già nel 1939 aveva composto una
colonna sonora incisavi direttamente secondo i dettami del suono ottico e
soprattutto secondo l’idea di poter davvero mostrare su uno schermo
cinematografico la corrispondenza diretta fra un segno e un suono. Del resto
è a proposito del suo Begone Dull Care (1949) che lo studioso André Martin
ha usato l’espressione “occhi che sentono e orecchie che vedono”, da noi
adottata come sottotitolo per questa rassegna. L’influenza del NFB sarà
molto forte: qualcuno parlerà di una vera e propria “scuola canadese”, forse
esagerando un po’ (bisogna piuttosto ricordare che dai suoi studi passeranno
molti grandi artisti di tutto il mondo, da Aleksandr Alexeieff col suo celebre
schermo di spilli a Lotte Reiniger con le amate silhouette, a Carolyn Leaf
con l’animazione di sabbia; cioè lasciando ciascuno una traccia del proprio
modo di lavorare); comunque sia quel modo di produrre film d’animazione
continuerà, e continua tutt’ora, a far proseliti. Nella nostra filmografia c’è il
caso di Stan Brakhage, un’icona del cinema underground statunitense, anche
lui operativo su diversi fronti, ma che con la tecnica della pittura diretta su

proiettore colorato, così da poter “suonare” musica trasponendola in colori. Il giornalista e


critco cinematografico (ma anche regista di videoclip) Domenico Liggeri ha rintracciato nel
lavoro e nel pensiero dei Corradini una sorta di profezia della “volgarizzazione” (in senso
etimologico) che questi esperimenti di sintesi delle arti avrebbero avuto molto tempo dopo,
soprattutto nel mondo della pubblicità e dei videoclip, citando un passo di Bruno Corra:
“Ogni persona appena intelligente potrebbe arrivare a una visione limpida di tutte le
possibilità di ogni arte e delle relazioni intercorrenti tra tutte le arti” (Musica cromatica,
1912). Non c’è dubbio che molti shorts pubblicitari e molti videoclip abbiano fatto tesoro
delle intuzioni e delle esperienze delle avanguardie. Cfr. Domenico Liggeri, Musica per i
nostri occhi. Storie e segreti dei videoclip, Milano, Bompiani, 2007, pag. 59.
11
Guido Michelone, Giuseppe Valenzise, Bibidi Bobidi Bu. La musica nei cartoni animati
da Betty Boop a Peter Gabriel, Roma, Castelvecchi, 1998, pag. 251.
pellicola ha realizzato decine di shorts fino alla fine della sua vita (è
scomparso nel 2003), recuperando fra l’altro la fascinazione del muto.
Insistendo ad inseguire il filo rosso di questa informale cronologia del
cinema di animazione astratto incontriamo un punto di svolta con i fratelli
californiani John e James Whitney. Già attivi negli anni Quaranta con degli
“esercizi” nei quali il suono sintetico era impressionato sulla pellicola,
grazie a un dispositivo di pendoli luminosi, in perfetta sincronia con le
immagini, e in forme tali da richiamare l’idea del “canone musicale, con le
ripetizioni, le riprese, le variazioni e le intersecazioni dei motivi” 12, le loro
strade a un certo punto si separeranno. James proseguirà con l’animazione
tradizionale realizzando film astratti di grande rigore e suggestione, fra i
quali Yantra (costato ben cinque anni di lavoro dal 1950 al ’55). John
invece, dopo aver inventato un’apparecchiatura per l’elaborazione grafica di
modelli astratti (rodata da Saul Bass nei titoli di testa di Vertigo di Alfred
Hitchcock), sarà fra i primi autori a lavorare con il computer: la sua
“conversione” avviene con Catalogue (1961) che, in assoluta consonanza
col titolo, è proprio un campionario di diversi effetti basati su uno studio
accurato delle possibilità cinetiche del disegno e delle varie tecniche
dell’animazione; effetti che saranno poi assai sfruttati in sigle televisive e
titoli di testa cinematografici. Ci sono due elementi importantissimi per il
nostro discorso nella scelta di John Whitney: il primo è che egli, già dagli
anni Cinquanta, maturava la convinzione che il disegno animato astratto
stesse diventando tecnicamente anacronistico; il secondo è che per
qualificare il suo mestiere Whitney ha sempre preferito la denominazione di
“compositore di musica visiva”13: essi ci raccontano che l’interesse per la
questione della visualizzazione del suono non cessava di apparire
all’orizzonte di artisti immaginosi, ma che si aprivano nuove vie per
perseguirlo. Il fatto che un’opera seminale di questo, diciamo così, nuovo
corso, si intitoli “catalogo” (e sia un catalogo) non è casuale: il computer è
prima di tutto una macchina per calcolare e il suo utilizzo in dei processi
creativi non può non tenerne conto; è una condizione che cambia
radicalmente l’approccio. Il creatore si trova a disposizione una quantità di
patterns e la possibilità di combinarli, e ancora di intervenire in vari modi su
specifici parametri, sia dei modelli che delle loro combinazioni.
E così facciamo un salto di quarant’anni e ci ritroviamo all’oggi, per dare
un’occhiata a un paio di esempi significativi di questo cambio di approccio
12
Gianni Rondolino, Storia del cinema d’animazione. Dalla lanterna magica a Walt
Disney da Tex Avery a Steven Spielberg, Torino, UTET Libreria, 2003, pag. 379. È stato
giustamente osservato che i risultati raggiunti dai Whitney, per qualità timbrica, precisione
cromatica, riverberi, non hanno nulla da invidiare a ciò che sarà ottenuto soltanto alcuni
anni dopo negli studi di fonologia grazie a complesse apparecchiature per la generazione e
la modulazione di suoni artificiali e alla registrazione su nastro magnetico; cosa che di fatto
li annovera fra i precursori della musica elettronica.
13
Cfr. Metafore della visione. Sperimentalismo cinematograficao e formazione artistica (a
cura di Andrea La Porta), Bologna, Pendragon, 2003, pag. 152.
e provare a trarre qualche eventuale conclusione. Nel 2003 Golan Levin e
Zachary Liebermann, artisti multimediali (e ingegneri, come risulta dai loro
curriculum, e come del resto Levin tiene a precisare perché la sua idea è
proprio quella di conciliare la ricerca artistica con quella tecnologica), con
l’aiuto di due performers vocali di vaglia come Jaap Blonk e Joan La
Barbara, hanno realizzato Messa di voce (il titolo originale è in italiano, e
cita un’espressione del gergo musicale riferita a un effetto di gradazione
vocale, in crescendo fino al fortissimo e in diminuendo fino al pianissimo,
in voga nel bel canto del Sei e Settecento). Si tratta di una performance nella
quale parole, canzoni e suoni vari prodotti dai due vocalisti vengono
visualizzati in 12 moduli – “vignette audiovisive” - su schermi alle loro
spalle grazie a un complesso sistema di analisi informatica della voce,
rilevatori di movimento e computer grafica in tempo reale: le teorie della
psicologia della Gestalt, in particolare l’esperimento col quale nel 1927
Wolfgang Köhler dimostrò che per la maggior parte delle persone esistono
relazioni tra fonemi e tipologie di forme geometriche (fonestesia), e il
linguaggio dei cartoons, sono alla base di questo progetto. Apro una
parentesi per rimarcare il fatto che in Messa di voce è appunto la voce ad
essere visualizzata, la voce come tale: che invece nelle ricerche di cinema
d’animazione astratto e musica visiva che abbiamo raccontato è stata, come
tale, usata pochissimo. E la cosa è curiosa se pensiamo che, negli stessi anni
nei quali quelle ricerche iniziavano la loro avventura, anche per la voce e il
canto ne iniziava una: il Pierrot lunaire di Arnold Schönberg (1912), 21
poesie di Albert Giraud che il compositore austriaco trasformò per un’attrice
di cabaret in inquietanti frammenti di Sprechstimme variamente colorato da
un complesso di otto strumenti, introducendo la partitura con indicazioni
che a una cantante dell’epoca avrebbero fatto accaponare la pelle, è la prima
epifania di una lunga stagione di immaginifiche vicissitudini vocali che,
risalendo il corso del Novecento, verranno sventagliate da nomi quali Cathy
Berberian14, Demetrio Stratos, Meredith Monk, Joan La Barbara, David
Hykes, e altri. Chiusa la parentesi, passiamo a un secondo esempio:
Wonokromo (2003-2004) di Adriano Abbado, artista milanese classe 1958,
diplomato in musica elettronica ma interessato fin da giovane studente
anche alle arti visive (la fotografia e, tho chi si rivede, il cinema di Norman
McLaren). Wonokromo è un pezzo di animazione digitale in bianco e nero e
senza sonoro che il suo autore definisce come “una ricerca in due parti sul
rumore visuale”. La descrizione che egli fa della costruzione di quest’opera
(peraltro più prossima alla videoarte che al cinema) è illuminante, specie per
quanto concerne la seconda parte; in sintesi: scelta di alcune textures, studio
di diverse possibili combinazioni create modificando volta a volta differenti
parametri, classificazione in un database delle – numerose – sequenze
14
En passant: nel 1966 Cathy Berberian cantò un pezzettino, da lei stessa inventato con la
collaborazione del vignettista Roberto Zamarin (e del pittore Eugenio Carmi in una diversa
versione) per la “notazione”, fatto di onomatopee e citazioni dai fumetti.
ottenute, scelta delle più adatte per la animazione definitiva. Non si legge
forse tra le righe di questo processo, pari pari, ciò che ho detto prima a
proposito dell’approccio suggerito dal computer? Si badi bene che io non
sto facendo questo discorso con intenti moralistici, o per stabilire delle
gerarchie di valore: vorrei anzi che il tono delle mie osservazioni risultasse
piuttosto neutro. Ma non c’è dubbio che la differenza è importante. Gli
animatori di cui abbiamo narrato per sommi capi le vicende lavoravano con
mezzi di base, essenziali, e in regime di artigianalità: è noto come McLaren,
ad esempio, col suo connazionale John Grierson, gestisse da vero
“scozzese” il dipartimento di animazione del NFB del Canada, e come non
si facesse scrupolo di usare qualsiasi comune oggetto gli capitasse fra le
mani per improvvisare qualche effetto per i suoi film. E tuttavia, a monte di
questa essenzialità di mezzi e artigianalità di prassi, stava una ricerca
artistica accurata, un pensiero semplice ma raffinato. Nell’animazione con
l’ausilio del computer c’è invece a monte una ricerca tecnologica potente, in
termini di risorse sia economiche che umane, che come abbiamo detto mette
a disposizione degli artisti un ipertrofico ventaglio di scelte a portata – o
quasi – di dita: non è difficile che questo conduca a una certa immediatezza,
al rischio che il mezzo diventi quasi un fine15. Mi viene in mente una cosa
che scrisse il critico cinematografico Paolo Mereghetti a proposito del film
Inspector Gadget (1999), una trasposizione in lungometraggio dal vero di
una fortunata serie a disegni animati francese, che sparava a raffica effetti
speciali digitali quasi come per far concorrenza alla “smaterializzazione” dei
corpi concessa dal disegno: “Con la tecnologia digitale oggi si fa di tutto
meno una cosa: divertire il pubblico”. Non voglio fare paragoni: i lavori di
Adriano Abbado sono molto interessanti e Messa di voce senza’altro non è
uno spettacolo noioso: direi però che se su un’ipotetica bilancia trovassimo
su un piatto poíesis e sull’altro téchne, sarebbe il secondo a pendere per loro
e il primo per McLaren & Co.
15
E anche, se vogliamo, di una insidiosa deriva verso la “democraticità” della produzione
culturale e artistica aperta da questi mezzi. Nel 1984 Adriano Abbado è stato coautore di un
manulae divulgativo di compuer grafica del quale si è detto “adatto sia a principianti che ad
esperti nel campo” (Laura Liotti, Adriano Abbado (tesi di laurea, Università degli Studi di
Roma - La Sapienza, dipartimento di Storia dell’Arte, relatore Silvia Bordini, 2004). Del
resto lo statuto stesso dell’autorialità, la “stabilità e l’immutabilità” di un fotogramma o di
un disegno su carta, a causa (e/o per merito) dell’elettronica e della digitalizzazione, sono
stati messi definitivamente in discussione, sono un “oggetto nel computer” interpretabile e
manipolabile da chiunque, almeno in potenza, abbia accesso al file (Giulietta Fara, Andrea
Romeo, Vita da pixel. Effetti speciali e animazione digitale, Milano, Editrice Il Castoro,
2000). Qui ad interesarmi non è tanto lo scollamento definitivo delle immagini dal corpo
della realtà, che ha modificato il nostro modo di vedere e di pensare il cinema come ad una
macchina che interviene, comunque, sulla realtà (e non come ad un software che genera
realtà); ma il fatto che l’accessibilità d’uso di un mezzo tecnico, unita alla potenza della sua
offerta, spinga a una specie di euforia che fa passare in secondo piano i presupposti etici ed
estetici di un lavoro di produzione artistica e culturale; fino al rischio appunto che il mezzo
diventi fine o, per dirla con Fara e Romeo, uno stile debba nascere per “far fronte alla
nuova tecnica”.
Negli anni Trenta del XIX secolo, cioè nell’epoca d’oro del precinema,
Hanry Langdon Child inventò il cromatropio, un meccanismo per lanterna
magica nel quale due vetri, dipinti con lo stesso motivo geometrico ma con
colori differenti, ruotando in senso inverso per mezzo di una manovella
danno vita ad effetti cromatici molto suggestivi e, soprattutto, vertiginosi.
Nel 1833 Joseph Plateau ideò il fenachistoscopio, uno degli strumenti più
semplici e a un tempo affascinanti e importanti per la comprensione del
fenomeno della persistenza retinica, com’è noto alla base del cinematografo:
un disco di cartone con una progressione di immagini leggermente variate e
delle fessure corrispondenti a intervalli regolari, che fatto ruotare davanti a
uno specchio ricompone l’illusione del movimento; su un disco come questo
lo stesso Plateau disegnò la piroetta di un ballerino che, secondo lo studioso
e collezionista David Robinson, per grazia e precisione può considerarsi già
un primo capolavoro dell’animazione; in seguito motivi geometrici d’ogni
tipo faranno a gara con le evoluzioni dei personaggi più buffi e inverosimili
convertendo questo congegno scientifico in giocattolo apprezzatissimo. Nel
1878 Samuel Charles Tisley costruì l’armonografo, uno strumento che in
base all’oscillazione di due pendoli consente a uno stilo opportunamente
collegatovi di tracciare su carta la figura prodotta dall’oscillazione stessa;
una versione da proiezione di questo strumento disegna le curve su schermo.
Nella mostra Lanterna magica e film dipinto. 400 anni di cinema16 una sala
è stata dedicata all’astrazione: “Nell’Ottocento i cromatropi proiettano le
prime immagini astratte in movimento che ispireranno alcuni importanti
autori delle avanguardie artistiche. Dal vetro dipinto alla pellicola dipinta il
passo è breve: il cinema sperimentale astratto seguirà la grande lezione della
lanterna magica” (dal sito della mostra www.lemacchinedellameraviglia.it.
Nello spazio web del Museo Nazionale del Cinema di Torino c’è un trailer
dedicato alll’esposizione dove si vede per pochi secondi l’animazione del
cromatropio; nulla da invidiare agli effetti che oggi vediamo sugli schermi
dei nostri pc grazie ai generatori di frattali). Senza voler cadere nella
“propensione verso le teorie meccanicistiche dell’evoluzione, secondo le
quali la storia della civiltà umana non è che un progresso ininterrotto
attraverso cinque millenni”, propensione che induce a “gettare un ponte fra
le pitture rupestri di Altamira, le teorie dei rilievi egizi, i fregi del Partenone
e le «successioni di immagini animate» del XIX secolo”; mentre per la
storia, soprattutto la storia della tecnica (e dei risvolti tecnici nell’arte) “non
ha importanza che si «verifichino» delle scoperte casuali, bensì ha
importanza che queste scoperte «divengano efficaci» 17; non appare tuttavia
16
Parigi, Cinémathèque français, 14 ottobre 2009 – 28 marzo 2010; Torino, Venaria Reale,
12 ottobre 2010 – 9 gennaio 2011. Catalogo a cura di Laurent Mannoni e Donata Pesenti
Campagnoni, Milano-Torino, Editrice Il Castoro-Museo Nazionale del Cinema, 2009.
17
C.W. Ceram, Archeologia del cinema, Milano, Mondadori, 1966, pagg. 14-15. Il
rimbrotto del famoso studioso di civiltà sepolte temporaneamente “imprestatosi” alle
vicende del precinema era, è ragionevole; tuttavia gli studi e le ricerche successivi, specie
infondato guardare con qualcosa di più che semplice curiosità a come
l’attrazione per l’astrazione del movimento, per una possibile musica per gli
occhi, non solo percorre la storia del cinema ma anche la pre-corre.
Stan Brakhage parlava dell’uso (suo e di tanti altri artisti, compresi gli
“anonimi a me noti e ignoti”) della manipolazione della pellicola in vari
modi per fare cinema come di un atto che spezza “i vincoli pittorici che
rendono schiavo il Film” consentendo che la “mano umana e tutto il sistema
nervoso ad essa connesso possa venire in contatto con la Luce della luce in
un rivelatore lavoro manuale”: sembra una bella contraddizione, dire che
un’opera che tratta la pellicola come fosse una tela (o “un murale”, nel caso
di Brakhage) spezza “i vincoli pittorici che rendono schiavo il Film”; ma qui
evidentemente l’artista americano si riferisce alla pittura nei termini di una
rappresentazione dello spazio che ha allontanato il cinema dalla sua natura
di spettacolo generato dalla luce, rendendo “schiavo il Film” (inteso come il
prodotto del cinema e anche come il suo supporto, la pellicola) di ciò di cui
il cinema avrebbe aiutato la rappresentazione visiva a liberarsi, ovvero la
prospettiva, l’immobilità dello spazio Rinascimentale, il campo senza “fuori
campo” della scena teatrale, per andare ben oltre la pittura e tutto questo18. Il
cinema di animazione astratto, nella sua ricerca di utopie, racconta così di
un viaggio che spingendosi verso il buio dell’inesplorato torna alla luce
dell’origine. E questa origine, per quanto concerne il problema dei rapporti
fra immagini e suono, è ben sintetizzata dalle parole con le quali Laurent
Jullier apre il suo saggio Il suono nel cinema. Storia, regole, mestieri
(Torino, Lindau, 2007): “Ogni spettacolo di immagini animate nella storia
dell’umanità si è svolto con un accompagnamento sonoro”, fin dalle prime
proiezioni col pianista in sala, ma ancora prima, molto prima, negli
spettacoli di ombre cinesi. Sulla copertina del volume compare Gene
Hackman in un torvo primo piano da La conversazione (1974) di Francis
Ford Coppola, centrato sull’ossessione dell’ascolto e passato alla storia per
una delle più complesse colonne sonore che un tecnico (Walter Murch)
abbia mai dovuto affrontare, un capolaoro di stratificazioni e frantumazioni
davanti al quale Béla Balázs si sarebbe beato. Cinque anni dopo Coppola
con Apocalypse Now entra dritto nel cuore della tenebra, e segna un’altra
tappa fondamentale per il suono nella settima arte (e qui Murch, insieme ai
suoi collaboratori, vincerà il premio Oscar per il Miglior Suono, che
comunque aveva sfiorato anche con La conversazione). Che un maestro del

degli ultimi vent’anni, hanno dimostrato che, al di là dell’efficacia o meno di certe scoperte,
“è possibile riconoscere un humus e un giacimento di segni e simboli che hanno contribuito
ad alimentare l’imaginario di milioni di persone introducendole a quella concezione di
spettacolo che il cinema ha poi saputo raccogliere magistralmente” (Gian Piero Brunetta, Il
viaggio dell’icononauta dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Venezia,
Marsilio, 1997).
18
Le parole fra virgolette di Brakhage sono riportate in Metafore della visione, cit., pagg.
23-24. Il titolo di questo volume, non a caso, è lo stesso di un libro di Brakhage, l’unico che
sia stato pubblicato in Italia (Feltrinelli, 1970).
cinema tanto attento alla cura del suono sia un appassionato collezionista di
lanterne magiche e giocattoli ottici, può significare qualcosa?

3 settembre – 10 ottobre 2001

Bibliografia.

Animania. 100 anni di esperimenti nel cinema di animazione. Mostra


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Filmografia

Viking Eggeling (1880-1925)


Symphonie diaganal (Diagonal Symphony)
1921-1924, b/n, ca 8’00’’, muto

Hans Richter (1888-1976)

Rhytmus 21
1921, b/n, ca 3’20’’, muto

Walter Ruttmann (1887-1941)

Opus III
1924, col., ca 3’54’’, muto

Opus IV
1925, col., ca 4’20’’, muto

Oskar Fischinger (1900-1967)

Studie n. 7
1930, b/n, ca 2’30’’, sonoro

Len Lye (1901-1980)

A Colour Box
1935, col., ca 2’55’’, sonoro

Free Radicals
1958-1979, b/n, ca 4’10’’, sonoro

Tal Farlow
Anni ’50-1981, b/n, ca. 2’20’’, sonoro (postumo)

Luigi Veronesi (1908-1998)

Film n. 4 – Studio 40
1940, col., ca 4’20’’, muto

Norman McLaren (1914-1987)

Begone Dull Care


1949, col., ca 7’50’’, sonoro

Blinkity Blank
1957, col., ca 5’15’’, sonoro

Lines Vertical (con Evelyn Lambart)


1960, col., ca 5’45’’, sonoro

Lines Horizontal (con Evelyn Lambart)


1962, col., ca 5’54’’, sonoro

James Whitney (1921-1982)

Yantra
1957, col., ca 6’30’’, sonoro

John Whitney (1917-1995)

Permutations
1966, col., ca 7’30’’, sonoro

Cioni Carpi (1932-)

Punto e contrappunto
1960, col., ca 4’30’’, sonoro

Robert Breer (1926-2011)

69
1968, col., ca 4’30’’, sonoro

70
1970, col., ca 4’30’’, sonoro

Stan Brakhage (1933-2003)

Prelude # 1
1995, col., ca 2’53’’, muto

Prelude # 10
1995, col., ca 2’35’’, muto

Water For Maya – Span Style


2000, col., ca 2’30’’, muto

Durata totale: ca 96 minuti

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