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Svanire, Ghirri

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Andrea Cortellessa 4 settembre 2021

Pieno giorno, campo medio. La luce è variabile: il centro dell’immagine è in pieno sole,
ma il cielo si sta rannuvolando e in fondo alla strada le ombre sono meno definite; fra
poco questa luce verrà meno. Al centro dell’immagine, di profilo, cammina una bambina
in gonna rosa e calzettoni bianchi. Per strada nessun altro, solo un ciclista che vaga in
lontananza. Davanti alla bambina fa angolo una chiesuola senza pretese, schiacciata
addosso a una casa generica, dalla verandina probabilmente abusiva. In basso si allunga
l’ombra di un lampione, ma il punctum sono le tre gigantesche ciminiere, a strisce
orizzontali bianche e rosse, che scandiscono la fuga prospettica sullo sfondo – come
colonne che sorreggano il soffitto del cielo incombente sulla scena. Il titolo, «Ostiglia,
centrale elettrica»; la data, «1987».

È un esempio perfetto del paradosso che da molto presto hanno incarnato le fotografie di
Luigi Ghirri: il quale con tutte le sue forze ha voluto distogliere da sé non solo ogni
tentazione di tecnicismo formalistico ma anche ogni marchio di “autorialità” e “stile”
individuale (quella che definisce sprezzante «fotografia creativa» ossia, possiamo
tradurre, d’avanguardia: che a suo dire complica senza necessità l’immagine, portandola
a «interrompere il dialogo con la realtà, per un monologo tra specchi»), ma che oggi, con

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ogni probabilità, è il fotografo più riconoscibile in assoluto. Gli sottopone questo
paradosso, senza che Ghirri risponda (come potrebbe, in effetti?), Arturo Carlo
Quintavalle nel ’91 (l’anno prima, cioè, dell’improvvisa scomparsa del fotografo, non
ancora cinquantenne), nell’ultima delle conversazioni che mettono capo a Niente di antico
sotto il sole, libro che colma un’annosa lacuna: la prima edizione dei suoi scritti, qui rivista
e integrata, risale al ’97 ed era da tempo introvabile.

Un occhio “tecnico” mostrerebbe con agio che la foto di Ostiglia, nella sua apparente
“casualità”, è incorniciata al suo interno da un sistema di ascisse e ordinate (al ritmo delle
ciminiere “risponde”, sull’asse verticale, l’ombra del lampione; in orizzontale un cavo
collega i due lati della strada e un’altra ombra lineare interseca il piano della camminata
della bambina; in diagonale altri cavi si perdono al margine superiore dell’inquadratura):
quelle che nelle Lezioni di fotografia (sorprendente bestseller della stessa Quodlibet),
pubblicate postume nel 2010, Ghirri chiama «quinte» o «inquadrature naturali». Certo
quella del teatro – inteso anzitutto come circoscrizione dello spazio e dispositivo visivo –
è suggestione importante, così come la percezione di una «leggibilità del mondo» (per
dirla con Hans Blumenberg), di un suo “ordine” tanto misterioso quanto evidente (sulla cui
origine non si può che apporre un’epochè). A tutti gli effetti, insomma, quella di Ghirri è
una sensibilità metafisica: che ogni volta s’interroga su quanto c’è fuori dal taglio
dell’inquadratura. (Mistero e malinconia di una centrale elettrica, non si può non
ribattezzare la foto di Ostiglia.)

Un altro paradosso è questo libro. Il suo autore non era certo un “intellettuale”. «Un
astronauta da camera», lo definì Franco Vaccari: fu lui il primo a rendersi conto che quel
geometra modenese occhialuto e trasognato, dall’aspetto sciatto e inappariscente, era
portatore di uno sguardo. Gli organizza la prima mostra, a Reggio Emilia nel ’72: due anni
dopo Ghirri smette di fare il geometra e le sue foto cominciano a correre per il mondo. Ma
le sue letture sono disordinate quanto voraci, le sue citazioni – spesso di seconda mano
– si ripetono formulari, i suoi scritti superano di rado le due o tre pagine. Proprio questi
scritti, però, mostrano con tutta evidenza come a quello sguardo corrispondesse un
pensiero. Lo dice vezzosamente lui stesso, citando (alla sua maniera) Giordano Bruno:
«pensare è speculare per immagini». Una frase alla quale resterà sempre fedele, anche
quando abiurerà l’impianto esibitamente concettuale dei primi lavori, cui quelle parole in
origine si legavano, e Ghirri passerà – come pure gli piacerà ripetere – dalla «fotografia di
ricerca alla ricerca della fotografia» (un po’ alla maniera del proverbiale Picasso che non
cercava, ma trovava).

Sul «manifesto» un giovanissimo Marco Belpoliti lo intervista nel 1984, e gli chiede se la
foto celebre dei due turisti di schiena che si dirigono verso il profilo imponente delle
montagne all’orizzonte (è l’immagine che tre anni dopo il complice di sempre, Gianni
Celati, metterà in copertina al suo libro più “filosofico”, le Quattro novelle sulle apparenze)
non sia «una foto ricordo di una foto ricordo», e «in definitiva una fotografia intellettuale».
La stessa foto parrà a Quintavalle un trompe l’œil, coi «villeggianti davanti a un
cartellone». Ma Ghirri, con puntiglio, all’uno risponde che quella «era una immagine vera
scattata all’Alpe di Siusi» (anche se, concede, impostata sul palinsesto d’una foto

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“concettuale” di dieci anni prima, con «due persone che passavano davanti a una cascata
in un cartellone pubblicitario»), e all’altro che la qualifica di «fotografo intellettuale» è un
«malinteso», perché le sue sono «fotografie naturali» (formula a ben vedere ossimorica,
come quella del Teatro Naturale di Oklahoma di Kafka; un suo libro Celati lo intitolerà
Cinema naturale). Lo stesso anno, però, a un interlocutore sin troppo disposto alla
semplificazione dice severo che «la fotografia è conoscenza e affetto; ma nel senso di
una categoria della scienza»: la «complessità del mondo […] va capita allargando al
massimo la ricerca».

Non vuole essere «uno specialista», Ghirri. Aspira a un linguaggio che sia tanto semplice
quanto accurato, come quello delle canzoni di Bob Dylan o dei dipinti di Bruegel (forse i
due artisti che ammira di più in assoluto), immagini che siano «abitabili» (così parafrasa,
orecchiando Heidegger, un passo della Chambre claire di Barthes), perfettamente
quotidiane e insieme cariche di «mistero». Senz’altro divide in due versanti il suo
percorso la scoperta, attorno al ’75, di Walker Evans: il linguaggio straight, frontale e
senza artifici tecnici, dei “classici” americani interviene a correggere l’agudeza
“concettuale” degli esordi (e lo divide dai “fratelli” d’oltreoceano suoi coetanei, i New
Topographics come William Eggleston, che assai ammira ma non ama per la
«precisione» iperbolica che trova «funebre» e anestetizzante). Ma il fatto è che non la
esautora mai del tutto. Questa singolare formazione di compromesso, per inciso, salva
Ghirri dalla tentazione “identitaria” e dal “colore locale”, diciamo, che di recente Stefano
Chiodi ha sintetizzato con la formula di Genius Loci: formula che Ghirri (mutuandola
proprio da Norberg-Schulz, come mostra un passo delle Lezioni) rigetta, infatti, nel più
denso forse dei suoi scritti, quello dell’87 che s’intitola Il punto di scomparsa. È la

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fotografia del bizzarro e del «romanzo fiabesco» (cita Diane Arbus) a essere per lui
sovraccarica di identità, laddove la sua ricerca è improntata, all’estremo opposto, a una
minuziosa spersonalizzazione. Quando riassume la tradizione iconografica italiana liquida
sprezzante ogni tentazione di «strapaese» (difendendo dall’accusa Un paese di Strand e
Zavattini). Anche la negazione del «momento decisivo» di Cartier-Bresson mira a
emendare ogni aneddotismo in favore di uno «stare al mondo» (i suoi pittori, oltre a
Bruegel, sono Hopper e Van Gogh) che non è il suo ma, idealmente, quello di tutti (le sue
topiche figure di spalle sono, propriamente, everymen).

Al di là delle loro apparenze casual, cioè dalla matrice per lo più occasionale e volatile,
come ogni sua fotografia ogni pagina di Ghirri è portatrice del suo pensiero. Non importa
se gli echi evidenti di Benjamin (la «distruzione dell’esperienza»), Lévi-Strauss (la «fine
dei viaggi», divinata guardando le immagini della Terra dalla Luna, come nello Sguardo
dal di fuori di Alberto Boatto) o soprattutto Heidegger (l’«immagine del mondo») derivino
da letture dirette: la densità di pensiero, proprio perché mai ostentata, fa di ogni episodio
una piccola – e spesso non così piccola – illuminazione.

Anzi è sintomatico che il suo pensiero più poetico derivi da una citazione malintesa,
quella di una frase di Cézanne: «tutto sta scomparendo, bisogna far presto se si vuole
vedere ancora qualcosa». In realtà il pittore spesso lamenta, nelle sue lettere,
l’impermanenza della luce che non gli permette di lavorare en plein air con continuità:
invece Ghirri (che altrove denuncia «un disastro visivo colossale»), che la preleva da un
film di Wenders, intende la “scomparsa delle cose” in senso gnoseologico, per non dire
ontologico. Poco tempo dopo infatti, intervistato sempre sul «manifesto» da Severino
Cesari, all’uscita di Verso la foce (testo nato proprio dalla collaborazione con Ghirri, ai
tempi di Viaggio in Italia), Celati gli farà eco parlando del «lutto per ciò che svanisce». Tre
anni dopo, svanito era Ghirri stesso.

Nell’ultima delle poche foto che li ritraggano insieme (Ghirri, che detestava farne, assai di
rado è presente nei ritratti dai suoi colleghi) si tengono a braccetto: Gianni è “in
maschera”, incantato e in tralice. Invece Ghirri guarda dritto nell’obbiettivo: lo sguardo al
solito è un po’ appannato, ma il sorriso è franco. Si capisce che si sta divertendo. E un
po’, a chi lo guarda oggi, fa stringere il cuore.

Luigi Ghirri
Niente di antico sotto il sole. Scritti e interviste
introduzione di Francesco Zanot
Quodlibet 2021, pp. 354, € 22

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 1 agosto 2021

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