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Alfred Stieglitz e i grattacieli di New York.

Se la fotografia di Jacob Riis ci conduce nei bassifondi della metropoli, quella di Alfred Stieglitz
(1864-1946) ci svela un volto completamente diverso della metropoli newyorchese, quello della
città ricca e dinamica. La famiglia Stieglitz si trasferì a New York dal New Jersey nel 1871, quando
Alfred aveva sette anni: la loro residenza una brownstone1 ubicata sulla East 60th Street, all’epoca,
una delle rare costruzioni settentrionali rispetto alla 59th Street; tutto intorno, ancora pochi edifici e
molti lotti liberi. Non fu però soltanto l’esser cresciuto in questo contesto di privilegio che orientò la
formazione di Alfred Stieglitz nella sua successiva pratica fotografica; ancor più essenziale per il
suo approccio risulteranno infatti i quasi dieci anni trascorsi in Europa, dal 1881 al 1890.
Tornato a New York nel 1890, Stieglitz trovò una città profondamente modificata rispetto a
quella della propria infanzia: il ponte di Brooklyn e la Statua della Libertà, tanto per fare un
esempio, erano improvvisamente apparsi all’orizzonte, e le strade erano state dotate di lampioni
elettrici e non più a gas. In società con due amici aprì a Downtown Manhattan un’impresa di
riproduzione fotomeccaniche ad alta qualità. Proprio come nel caso di Jacob Riis, fu la collocazione
del suo spazio lavorativo a favorire, inizialmente, la sua attività di street photographer: nei giorni in
cui non c’era molto lavoro, infatti, Stieglitz prese a passeggiare per New York, entusiasta del nuovo
aspetto di una città che, dopo gli anni in Europa, aveva concepito come un luogo provinciale ed
arretrato, e che invece gli si palesava dinnanzi agli occhi come l’avanguardia della modernità, non
solo per il suo dinamismo, ma anche per i forti contrasti che, come abbiamo ampiamente
sottolineato, la animavano. Le sue prime foto newyorchesi si conformavano infatti al tema comune
dell’epoca del forte contrasto tra gli stili di vita distribuiti sul territorio di Manhattan. In questo
periodo Stieglitz concepì il progetto di scattare cento diverse immagini di New York per descrivere
le varie fasi, forme e facce della città, e “di farle nel modo migliore possibile, in modo da registrare
un sentimento della vita come la sentivo, e magari in questo modo riuscire a collocare la fotografia
nella posizione che le spetta nell’ambito dell’espressione plastica”2. Questa affermazione del
fotografo è particolarmente interessante, perché essa allude ad una doppia ambizione che lo
animava all’epoca: da una parte una registrazione fedele, ravvicinata, della vita di Manhattan nella
sua molteplicità; dall’altra il desiderio di intraprendere una battaglia per collocare la fotografia nella
sfera dell’arte alta. Risulta a questo punto estremamente significativo il fatto che Stieglitz finirà per
realizzare soltanto il secondo progetto, lasciando da parte il primo. Pur tornando in modo

1
Con questo termine si indica una pietra bruno-rossastra di tipo arenario: per conseguente processo metonimico, la
parola brownstone viene poi sostantivata, allo scopo di indicare la costruzione residenziale (tipica dell’architettura
statunitense a cavallo tra XIX e XX secolo) il cui materiale principale è per l’appunto l’arenaria.
2
Citato in Yochelson, Alfred Stieglitz: New York, New York, Skira Rizzoli, 2010, p. 9.
1
intermittente a fotografare New York per tutta la sua lunga carriera (morirà ottantaduenne nel
1946), egli non realizzerà mai questa serie sistematica di immagini della città nelle sue molteplici
forme, finendo per privilegiare soltanto un ristretto repertorio di soggetti urbani, e soprattutto
preferendo dedicarsi alla sua attività di incessante propugnatore dell’importanza artistica della
fotografia.

Ad ogni modo, guardando ad esempi come Five Points (qui sopra) in cui il fotografo osserva da
lontano la folla che si accalca all’ingresso di un negozio di vestiario degli slums che si proclama
trionfante “the cheapest place in the city”, o West Street (alla pagina successiva) una foto scattata al
porto sull’Hudson River, è comunque possibile strutturare un discorso articolato. Rispetto alle
fotografie di Riis queste immagini, che pure ‘frequentano’ gli stessi luoghi, non potrebbero produrre
un contrasto più forte: entrambe si segnalano per la loro ariosità, la loro capacità di costruire uno
spazio ampio che lo sguardo abbraccia agevolmente, anche perché le masse di soggetti urbani sono
inquadrate da una certa distanza.

2
L’utilizzo della luce e del contrasto va ugualmente in direzione di una resa molto precisa del
dettaglio materico (si veda in particolare la strada bagnata della fotografia portuale, ma anche il
terriccio asciutto dell’altra immagine è rimarchevole). Complessivamente queste immagini, molto
ponderate nell’esecuzione, sembrano suscitare al momento della ricezione una corrispondente
sensazione di calma e piacevolezza. Sorprende dunque di sentire nelle parole di Stieglitz la traccia
di un tormento che non sembra trasparire:

Io detestavo le strade sporche, eppure ne ero affascinato. Volevo fotografare ogni


cosa che vedevo. Dovunque guardassi c’era un’immagine che mi commuoveva – i
derelitti, i negozi di vestiti di seconda mano, gli straccivendoli, i cenci lacerati.
Tutto trovava un posto al caldo del mio cuore. Sentivo che la gente in quei
paraggi, nonostante la loro povertà, stava meglio di quanto stessi io. Perché? Non

3
si trattava di un’idea sentimentale. Essi possedevano una realtà che mancava al
mondo artificiale in cui mi trovavo io e che si opponeva alla mia vena3.

Queste parole rivelano come Stieglitz fosse animato esattamente da quella sorta di ragionamento
pittoresco cui abbiamo parlato a proposito di Jacob Riis. D’altronde, il portfolio di dodici
fotoincisioni pubblicato da Stieglitz nel 1897 recava un titolo assolutamente esplicito in questo
senso, Picturesque Bits of New York and Other Studies. Di fatto però il pittoresco di Stieglitz,
almeno nelle immagini che ci sono rimaste, non indulge mai nell’estetizzazione della povertà
urbana di cui viene accusato Riis – non fosse altro che perché Stieglitz rimase sempre a debita
distanza dalle figure umane. Sembra allora che la dichiarazione succitata debba leggersi più come
sostrato di fondo che informa la sensibilità di Stieglitz piuttosto che indicazione di una sua effettiva
scelta dei soggetti da ritrarre: le sue parole sono più importanti per definire il senso di isolamento e
di timida partecipazione dall’esterno che caratterizzano il suo entrare in contatto con la brulicante
vita metropolitana.
È piuttosto un’altra la sfumatura del pittoresco in cui possiamo far rientrare Stieglitz, e
questa volta a pieno titolo (molto più a ragione di quanto questa etichetta venga attribuita a Riis): si
tratta di quella che si risolve di rimodellare lo spazio urbano difficile da dominare in direzione di
analogie rassicuranti con l’universo naturale e il paesaggismo tradizionale.
Tanto nel caso di Riis che in quello di Stieglitz l’elemento di pittoresco presente nelle loro
opere (ma abbiamo visto che nel primo caso non si tratta che di un tratto molto parziale della sua
opera) fa appello all’autorità della natura ed alla sua capacità di attenuare le ansie della modernità:
nella prima istanza la natura funziona come contesto selvaggio e primitivo, qui invece essa viene
evocata in quanto spazio armonico e riposante, secondo un discorso estremamente diffuso che
lavorava per sostituire una visione della città come coacervo di tensioni e problemi irrisolti con una
in cui prevalesse la possibilità di prendere comodamente possesso dello spazio urbano tramite
panorami e vedute che si rifacessero ai modelli del vedutismo seicentesco e dei panorami e diorami
sette-ottocenteschi.
Il pittoresco incrocia qui un punto nevralgico del dibattito sul medium fotografico
dell’epoca: il rapporto con la pittura e con quella corrente chiamata pittorialismo. L’intreccio tra
pittoresco e pittorialismo è evidente già grazie alla convergenza etimologica dei termini, eppure
conviene soffermarvisi un attimo per comprendere quale sia la posizione di Stieglitz all’interno di
questo dibattito. Se le fotografie cui abbiamo accennato sopra presentavano già (come abbiamo
sottolineato) una predisposizione per il dato materico, altre immagini dello stesso periodo, non a

3
Citato in Yochelson, Alfred Stieglitz, cit., p. 16.
4
caso tra le più celebri di Stieglitz, sono molto più dirette in questo senso. Si pensi alla celeberrima
Winter, 5th Avenue, in cui la neve ammanta lo spazio urbano e con esso tutta l’immagine:

Per scattare questa foto Stieglitz aveva atteso pazientemente per tre ore sotto la tormenta, fino a che
non aveva trovato il momento giusto per scattare, il momento “in cui tutto è in equilibrio, ovvero il
momento che soddisfa il vostro occhio”4. La svolta epocale che ebbe luogo in quel pomeriggio del
22 febbraio 1893 non deve in effetti essere sottovalutata, al di là dell’autocelebrazione mitizzante
messa in seguito in piedi dallo stesso Stieglitz (che definì la foto “l’inizio di una nuova era (…) di
una nuova visione del mondo”5): il punto è che l’immagine era stata ottenuta senza alcun artificio,

4
Citato in Yochelson, Alfred Stieglitz, cit., p. 15
5
Ibid.
5
essa era il risultato diretto del gioco della luce di New York, senza filtro alcuno, laddove era invece
pratica comune quella di alterare il negativo per ottenere l’effetto levigato che si desiderava.
La pratica pittorialista, seppur diffusa da decenni, aveva subito un forte impulso proprio a
partire dalla fine degli anni ottanta dell’Ottocento, come risposta polemica di una ristretta cerchia di
ricchi e colti amateurs nei confronti della diffusione di massa degli apparecchi portatili: costoro
intendevano propugnare lo statuto artistico della fotografia, convinti che essa fosse un’attività da
praticare come fine a sé, senza legami con gli imperativi commerciali. Di pari passo con questa idea
andava naturalmente anche quella che tale pratica dovesse essere animata da una motivazione
superiore rispetto alla semplice registrazione della realtà.
La ricerca pittorialista partiva dunque dal presupposto che un negativo fotografico, di per sé,
non può essere arte. Si lavorava perciò per modificare ad arte (è il caso di dirlo) l’immagine: sul
modello del francese Robert Demachy si era diffusa anche negli Stati Uniti la pratica di adoperare
sul negativo della gomma bicromata, in modo da sopprimere dettagli indesiderati e variare gli
effetti, creando una sorta di aura. Altre pratiche comuni erano quelle di usare carta colorata nella
stampa della lastra per simulare delle pennellate, o di graffiare il negativo allo stesso scopo.
La foto di Stieglitz invece non solo fu scattata senza aggiungere alcun elemento, e per
ottenerla il fotografo adoperò una piccola macchina a mano, fino a quel momento considerata uno
strumento indegno per l’espressione di una fotografia con aspirazioni artistiche. Stieglitz invece ne
fu un convinto fautore, visto che solo grazie alla macchina a mano si poteva realizzare appieno,
secondo lui, il potenziale artistico della fotografia ed emanciparla dal suo ruolo ancillare della
pittura6.
Che Stieglitz rigettasse gli espedienti artificiosi del pittorialismo precedente non significa,
naturalmente, che egli si allontanasse completamente da questo modello. Le sue fotografie infatti,
presentano una notevole somiglianza con alcune tele del principale esponente dell’impressionismo
americano, Frederick Childe Hassam: si vedano ad esempio dipinti come ad esempio Snowstorm,
Madison Square (1900, nella pagina successiva). Le sue immagini possono insomma essere
comunque ascritte al pittorialismo: i mezzi adoperati per ottenere l’effetto cambiavano (e non era
cosa da poco), ma il fine, quello di imitare la pittura, rimaneva il medesimo.

6
Questo in verità non significava affatto che egli poi lasciasse l’immagine quale era una volta scattata. Le sue fotografie
erano sempre pensate per essere usate solo in parte, eliminando gli elementi distraenti ed ingrandendo la parte prescelta.
6
D’altronde le foto di Stieglitz ambiscono alla naturalità anche ad un livello ancora diverso: esse si
configurano infatti come messa in forma dello stato d’animo intimo del fotografo, a lui connaturato
soprattutto in risposta ed in connessione con talune condizioni meteorologiche. La morbidezza di
tono delle foto pittorialiste di Stieglitz nasceva infatti dalla capacità di sfruttare elementi atmosferici
come la neve, la pioggia, la nebbia per creare l’effetto giusto. Egli amava particolarmente queste
situazioni ambientali perché in tali occasioni la sua solitudine tanto rispetto al mondo Downtown
quanto a quello Uptown svaniva, e “tutto sembrava intonato ai [suoi] sentimenti a proposito della
vita negli anni novanta dell’800”7.
La ricerca di Stieglitz emerge così come il vero equivalente fotografico della pittura
impressionista. In ogni caso, queste immagini rimangono tra le più suggestive della fotografia
dell’epoca, e Stieglitz continuerà a scattarne degli esempi per buona parte della sua attività (fino
all’inizio degli anni dieci, quando, come vedremo, si attuerà una svolta): si vedano alla pagina
seguente altre fotografie famose, come The Terminal (che fu scattata proprio il giorno dopo di
Winter, Fifth Avenue, il 23 febbraio 1893), The Street. 5th Avenue (1900) o Two Towers (1911).

7
Citato in Dorothy Norman, Alfred Stieglitz: An American Seer, Millerton (NY), Aperture, 1973, p. 36.
7
8
Altre importanti immagini come The Hand of Man (1902) o Lower Manhattan (1911), scattate in
contesti diversi, estendono questo discorso ad altri aspetti del contesto newyrochese, e poi al suo
intero skyline, avvolgendo tutto in una miriade di nuvole e sbuffi di fumo.

9
The Flatiron Building: Stieglitz, Bracklow, Steichen, Langdon Coburn.

Un altro momento importante per la produzione urbana di Stieglitz si colloca circa sette anni dopo
questi primi scatti di cui abbiamo parlato, e dunque a partire dal 1900. In questi anni l’impatto di un
movimento come il City Beautiful si è fatto sentire sempre di più all’interno dei dibattiti urbanistici:
si tratta di un movimento che mira, come il titolo spiega eloquentemente, ad abbellire e
monumentalizzare la città, per aumentare la qualità della vita, promuovere un ordine sociale
armonico e contrastare l’ombra inquietante degli slums.
Uno dei principali esponenti del City Beautiful fu l’architetto Daniel Burnham, il cui
edificio più famoso, il Flatiron Building, riveste un ruolo di primo piano anche nella storia della
fotografia dell’epoca. Ufficialmente denominato Fuller Building, ma ribattezzato Flatiron per la sua
forma praticamente identica a quella di un ferro da stiro, questo landmark del panorama di
Manhattan aveva attirato enorme interesse sin da prima del suo completamento.
Stieglitz stesso ha raccontato come si sviluppò la sua fascinazione per l’edificio, che pure
inizialmente durante la sua costruzione (mentre già attraeva orde di curiosi estasiati dall’ardita
struttura), l’aveva lasciato alquanto indifferente. Il fotografo descrive il momento in cui si rese
conto dell’importanza del Flatiron come una vera e propria epifania: “con gli alberi di Madison
Square coperti di neve fresca, il Flatiron mi colpì come non mi era mai successo prima. Sembrava
che si muovesse verso di me come la prua di un mostruoso transatlantico – l’immagine della nuova
America ancora in costruzione”8. La fotografia che Stieglitz ne trasse (1903) replica precisamente la
struttura di questo momento di rivelazione, innanzitutto restituendo la sensazione di solitudine che
caratterizzava l’atteggiamento di Stieglitz: dalla foto non si direbbe mai che quella che accoglieva il
palazzo era (ed è) una delle piazze più affollate della città. Al di là di questo, è molto significativo
che Stieglitz inquadri l’edificio da lontano e da sinistra, in modo da rendere conto della sua
peculiare struttura ed anzi da farla sembrare ancora più sottile. In primo piano, un albero da cui ad
una certa altezza un ramo di distacca formando una sorta di V che sembra replicare la struttura
dell’edificio (non per come la vediamo nella foto, ma per come sappiamo che è vista dall’alto, o su
pianta). Non mancano nemmeno altri alberi innevati ai piedi del grattacielo, cosicché l’effetto
complessivo è quello di un paesaggio bucolico, in cui le forme della natura ammorbidiscono,
replicano e in qualche modo ‘spiegano’ perfino l’opera dell’uomo.

8
William Taylor, New York. Le origini di un mito (1992), Venezia, Marsilio, 1994, pp. 102-103.
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11
L’intuizione compositiva di Stieglitz è ancora più evidente se la compariamo allo scatto (alla
prossima pagina) fatto l’anno precedente da Robert L. Bracklow, un amico e collega di Stieglitz,
che militava con lui sin dai tempi della Society of Amateur Photographers e poi nella Camera Club.
Bracklow decide infatti di fotografare il Flatiron frontalmente, e rende dunque in maniera più netta
e diretta l’innovazione della struttura architettonica. Anche lui tra l’altro ovvia al fatto di non poter
rendere conto tramite una foto a livello strada della struttura dell’edificio: questa volta però a
replicarne la struttura non sono i rami di un albero, ma l’inclinazione a ˄ dei bastoni di due
gentiluomini che in quel momento si trovano a passare esattamente davanti all’edificio. Il
coefficiente ironico di questa soluzione di Bracklow viene amplificato ulteriormente dal fatto che
egli decide di emanciparsi dalla rigida struttura reiterativa data dall’allineamento delle forme simili
dei bastoni in campo medio e del grattacielo sullo sfondo: il fotografo infatti sceglie di non centrare
il suo sguardo sul medesimo asse, e si sposta invece leggermente verso sinistra. In questo modo egli
può includere nel campo visivo un alberello che, modesto ma presente, sembra rappresentare un
commento bonariamente dissacrante tanto rispetto alla fissazione pittorialista per gli elementi
naturali quanto in relazione all’ossessione del tempo per l’altezza e la solennità dei grattacieli. La
natura viene dunque usata qui da Bracklow come elemento contrastivo, come elemento di
un’intuizione libera da discorsi eccessivamente astrattizzanti che risulta piuttosto stimolante.
Viceversa, altri famosi fotografi dell’epoca che si confrontarono con il Flatiron reiterarono,
pur con variazioni assai significative, il rapporto pittoresco stabilito da Stieglitz tra Flatiron ed
elementi naturali: Edward Steichen aveva conosciuto Stieglitz nel 1900, ed i due avevano iniziato a
collaborare attivamente nel 1903, lavorando insieme alla nuova rivista di Stieglitz, Camera Work
(fu tra l’altro proprio sul numero inaugurale della rivista che Stieglitz pubblicò la sua foto del
Flatiron) e fondando poi insieme quello che sarà lo spazio espositivo di tutto il gruppo della
cosiddetta Photo Secession, la galleria 291, dal civico della Fifth Avenue dov’era ubicata. L’anno
seguente rispetto a Stieglitz, dunque nel 1904, anche Steichen si confrontò con il soggetto del
Flatiron (vedi prossima pagina). Fotografando l’edificio in un punto situato evidentemente a metà
tra la posizione di Bracklow e quella di Stieglitz, Steichen interseca la struttura dell’edificio con i
ghirigori disegnati dai rami di un albero il cui tronco rimane invisibile fuori cornice sulla sinistra.
Ma l’elemento pittoresco dato dalla giustapposizione tra natura e opera dell’uomo viene indirizzato
questa volta decisamente in direzione di una resa più sofisticata e glamour, effetto ai fini del quale è
altresì centrale il fatto che foto sia stata scattata al crepuscolo.

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Sopra: Robert Bracklow ed Edward Steichen.
Sotto: Alvin Langdon Coburn

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Una cosa che tutte queste immagini hanno comunque in comune è la loro celebrazione del palazzo
come costruzione alta e imponente. In verità, uno degli aspetti più rimarchevoli della foto di
Stieglitz era proprio il fatto che la verticalità dell’edificio si inscriveva nella forma stessa
dell’immagine, che era allungata, come un rettangolo poggiato su uno dei lati corti.
Contemporaneamente però un altro aspetto fondamentale del racconto di Stieglitz a proposito del
suo ‘incontro’ con il Flatiron è rappresentato dal paragone che egli compie tra il palazzo e la prua
della nave del progresso. Evidentemente, per quanto il Flatiron fosse un grattacielo e fosse all’epoca
uno dei palazzi più alti della città, esso poteva ancora essere concepito in relazione ad una dinamica
del progresso figurata in termini orizzontali. Un approccio di questo tipo sarebbe di lì a poco stato
del tutto superato, allorché la verticalità stabilì definitivamente il proprio primato tanto all’interno
del concreto tessuto urbano newyorchese quanto sull’immaginario collettivo. In questo processo, il
Flatiron stesso perse l’importanza epocale che aveva avuto: di fronte ai veri e propri grattacieli
come prova concreta, tangibile, dell’avanzamento della civiltà fino alle stelle improvvisamente
l’edificio di Burnham si rivelava fondamentalmente ed irrimediabilmente basso.
Per comprendere questo cambiamento di paradigma basta paragonare due scatti (vedi pagina
precedente) di un altro fotografo che prese parte alla Photo Secession, l’inglese Alvin Langdon
Coburn: nel 1912 si cimentò anche lui con il Flatiron, e la sua foto somiglia fortemente a quella di
Steichen, con tanto di rami d’albero che movimentano l’immagine del palazzo. Le differenze
sostanziali sono due, e puntano entrambe nella stessa direzione (il basso): innanzitutto viene dato
molto rilievo, nel contrasto coloristico che caratterizza la foto, al pavimento stradale ed alle persone
che vi camminano (nelle foto precedenti la presenza umana era o totalmente assente – Stieglitz – o
vaga – Steichen). Viene inoltre messo in risalto un lampione acceso, la cui presenza sembra avere
una doppia funzione rispetto alle fotografie antecedenti: da una parte esso non fa che aggiungere
luce ad un’immagine tardo pomeridiana in cui evidentemente il sole non era ancora tramontato del
tutto, quasi a smentire doppiamente la seduzione crepuscolare proposta da Steichen;
contemporaneamente grazie al gioco di prospettiva, il lampione finisce per essere alto più della
metà dell’intero Flatiron Building. Basta paragonare questa foto con l’immagine scattata quello
stesso anno da Coburn ad un edificio più alto. L’immagine, intitolata eloquentemente The House of
Thousand Windows è scattata da un punto di vista ancora più alto, ma l’effetto non è quello di
sminuire l’altezza dell’edificio, quanto piuttosto il contrario: il grattacielo sembra quasi non toccare
terra, e l’angolazione dell’inquadratura enfatizza ulteriormente la gigantesca statura dell’edificio, la
cui parte alta sembra quasi sporgersi verso lo spettatore. Contemporaneamente, la perfetta
definizione della foto, in cui tutto, dal grattacielo ai dettagli a livello strada, è perfettamente a

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fuoco, costituisce un contrastoo veramente netto con l’immagine dedicata al Flatiron, appannata
come si stava appannando il ruolo fortemente innovativo dell’edificio.
Nella sua foto di qualche anno più tardi, Old and New New York (1910, fig. 28), Stieglitz
mette esplicitamente in contrasto
rasto due facce della New York che cambia, fotografando una serie di
brownstone e sullo sfondo un grattacielo in costruzione.

In verità i due tipi di edificio sembrano compenetrarsi perfettamente all’interno del gioco di linee
della foto: da una parte i brownstone che tagliano la foto con una linea che collega la parte in alto a
destra con quella in basso a sinistra; dall’altra lo
lo scheletro del nuovo edificio che emerge compatto
dal fondo a coprire quella superficie di immagine che altrimenti resterebbe libera; in più, la linea
orizzontale di un’aiuola si trova perfettamente in corrispondenza del nuovo edificio ma nella parte

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bassa dell’immagine, sotto i brownstone, ed equilibra ulteriormente la composizione; a concludere
il tutto, il bordo all’estrema sinistra è costituito da un sottile pezzo di muro che ha la funzione di
inquadrare con più precisione il tutto, replicando simmetricamente la presenza del brownstone
dall’altro lato, e come rassicurando gli spettatori che questo spettacolo urbano non rompe nessun
equilibrio, che esso può essere visto e contenuto perfettamente.
Questa immagine è perfettamente rappresentativa della nuova direzione che la fotografia di
Stieglitz ha preso da qualche anno: quello cui si assiste in questo periodo è un progressivo
abbandono del discorso pittorialista, che viene soppiantato da un crescente interesse estetico per le
linee della città moderna, ritenute espressive di per sé. Intorno al 1910 insomma, nell’ambito della
cultura fotografica e ad opera di alcuni degli stessi protagonisti del pittorialismo, si determinò una
reazione contro il pittorialismo stesso, in favore di quella che Carl Sadakichi Hartmann, teorico
sempre pronto a registrare le metamorfosi del gusto e a farsene propugnatore, aveva definito
straight photography9. Per sintetizzare questo passaggio Giovanni Fanelli scrive che “cogliere
visivamente l’anima delle cose, che per il pittorialismo era affidato a una espressività simbolica
dell’oggetto ottenuto con l’accentuazione delle condizioni contingenti e con l’interpretazione
emotivo-sentimentale, venne invece perseguito per condensazione-sublimazione (…) dei caratteri
strutturali e formali dell’oggetto”10 e fino alla produzione di una realtà visiva diversa che tendeva
nettamente all’astrazione.
La foto forse più eloquente a questo riguardo, eloquente proprio per la sua contraddittorietà
interna, in verità non è stata scattata a New York. The Steerage (1907, fig. 29) è spesso considerata
il capolavoro di Stieglitz, o comunque la sua prima fotografia pienamente modernista. Se
guardiamo l’immagine in questione, che ritrae il ponte di terza classe di un transatlantico, ci tornano
immediatamente alla mente le immagini di Riis, ma si tratta soltanto di una somiglianza di
superficie, perché si percepisce che la foto non solo non funziona secondo alcun elemento di shock
melodrammatico, ma non è nemmeno veramente interessata a costruire con il proprio sguardo un
commento circa le relazioni di potere e di classe. La foto tra l’altro è spesso stata interpretata in
modo erroneo: essa infatti non rappresenta, come pure viene naturale immaginarsi, degli immigrati
che stanno arrivando negli Stati Uniti. Al contrario, Stieglitz si trovava su una nave diretta dagli
Stati Uniti all’Inghilterra, e dunque i suoi compagni di viaggio erano semmai coloro che stavano
rimpatriando, di ritorno in Europa dopo un periodo all’estero o, più probabilmente, in quanto era
stato rifiutato loro l’ingresso sul suolo statunitense dall’Ufficio Immigrazione.

9
Hartmann, “A Plea for Straight Photography”, «American Amateur Photographer», n. 16, March 1904, pp. 101-109.
10
Giovanni Fanelli, Storia della fotografia di architettura, Roma, Laterza, 2009, p. 172.
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Di fatto però, nessuna traccia delle infinite implicazioni politiche che l’immagine sottende sono
volutamente inscritte nella sua struttura.
struttura Scrivendo a proposito della visione sociale proposta dalla
foto, Jason Francisco sostiene giustamente che i passeggeri che vediamo “non
“ costituiscono
esemplari sociali con cui si intende sollecitare una simpatia paternalistica,
paternalistica né sono membri di
comunità nazionali a cui noi stessi potremmo appartenere. (…) Non riusciamo a ravvisare
chiaramente legami o assenze di legami tra di loro,
loro, e l’immagine non conduce la nostra ricezione in

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direzione della speranza, la nostalgia o il lutto, essa non ammette nessuna narrazione di
sopravvivenza o fallimento”11.
A conferma di questo c’è anche il fatto che, nel raccontare il momento in cui l’immagine fu
creata, Stieglitz usi un linguaggio epifanico non dissimile da quello adoperato per Winter, 5th
Avenue nel 1893, ma non una volta citi l’aspetto contenutistico dell’immagine: per lui essa è
importante unicamente come concreta manifestazione di un consapevole punto di svolta in cui egli
si rese pienamente conto della possibilità del mezzo fotografico di funzionare solo grazie alle
dinamiche di linee, volumi e forme al suo interno. Pur avendo scattato l’immagine nel 1907, egli la
espose soltanto nel 1911, all’interno di un numero di Camera Work in cui era accompagnata da un
disegno di Picasso. Stieglitz stesso raccontava d’altronde che il grande pittore aveva apprezzato
particolarmente la struttura dei piani su cui si fonda il fascino di The Steerage, che si proponeva
appunto in analogia alle sperimentazioni dell’avanguardia cubista, nel tentativo di smontare la
composizione in una scala di superfici.
Nonostante i contatti di Stieglitz e degli altri esponenti della Photo Secession con gli artisti
europei siano storicamente essenziali dal punto di vista della creazione di una comunicazione tra i
diversi fronti della temperie culturale modernista, da un punto di vista strettamente fotografico essi
però non rappresentano la vera e propria rivoluzione che Stieglitz credette di compiere. Secondo
Claudio Marra è in verità proprio questo costante riferirsi e cercare di rapportarsi alle ricerche delle
avanguardie europee che fa sì che la ricerca di Stieglitz rimanga in effetti legata al modello
pittorialista, anche laddove essa sembra apparentemente volgersi in direzione opposta, verso una
ricerca della specificità del mezzo. Secondo Marra infatti, paradossalmente, è proprio “pensando di
individuare il proprio modo di essere nelle questioni formali, nell’inquadratura, nel punto di vista,
nell’equilibrio tonale, nella sintassi compositiva” che la fotografia “scivola senza accorgersene
verso l’identità pittorica, si pone saldamente nella logica del quadro e questa volta non per ingenua
adozione di temi e stili, bensì per un’assai più complessa e coinvolgente adesione metodologica”12.
Quello che Marra imputa a questa fotografia è insomma un formalismo di fondo che invece di far
funzionare la fotografia secondo una propria logica indipendente, la assoggetta ancora una volta
all’imperativo pittorico, con la sua ricerca di giochi tra linee e volumi perfettamente conchiusi
all’interno del quadro. È questo quello che Marra intende quando afferma che “il pittoricismo non

11
Jason Francisco, The prismatic fragment: Looking into Alfred Stieglitz’s The Steerage, in Jason Francisco, Anne
MacCauley (a cura di), The Steerage and Alfred Stieglitz, Berkeley, University of California Press, 2012. Il saggio è
disponibile online all’ indirizzo: http://jasonfrancisco.net/alfred-stieglitz
12
Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento”, Milano, Bruno Mondadori
Editore, 2000, p. 111.
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muore dunque con l’avvento della straight photography ma cambia solo sponsor, dalla tutela
impressionista a quella astrattista”13.
Quale che sia il giudizio su quest’ultima fase modernista della produzione di Stieglitz, essa va
comunque inquadrata all’interno di un più ampio processo di profonda metamorfosi dei modi con
cui ci si relazionava alla città. il nuovo paradigma del grattacielo sempre più verticale trasforma
infatti lo skyline della città sostituendo la sagoma omogenea dei palazzi con le cuspidi isolate delle
torri. Viene così introdotta una nuova dimensione in altezza che modifica le proporzioni del tessuto
urbano. Tra l’altro è soprattutto la parte più bassa dell’isola, nella zona di Wall Street, ad essere
protagonista di questa metamorfosi, modificando nettamente il dualismo nord ricco vs. sud povero
di cui abbiamo parlato.
Questo processo richiede come evoluzione pressoché obbligata l’abbandono del pittoresco a
favore di una dimensione diversa, più nettamente volta alla in direzione del sublime. Con la nuova
“economia psichica”14 del grattacielo l’enfasi tende infatti ad abbandonare sempre di più il livello
della strada, e la città smette in un certo senso di essere uno spazio vibrante ed affollato di persone,
oggetti e mezzi di trasporto, per diventare un regno distante, abitato da piccole figurine indistinte.
Il movimento City Beautiful sembrò in effetti indirizzarsi sempre più verso un distacco dai
problemi “terreni”, in direzione di una progettazione costantemente indifferente ai reali bisogni
della cittadinanza, e volta solo ad uno sfoggio di monumentalità. È questa l’interpretazione che ne
diede famosamente nei primi anni sessanta un’urbanista come Jane Jacobs, la quale si scagliò in
particolare contro gli effetti nefasti del meccanismo messo in atto in questo periodo, per cui si tende
a segregare il centro monumentale dal resto della città: in questo modo si creava certamente un
raggruppamento di edifici di impatto unico, ma contemporaneamente si isolavano certe funzioni
culturali e pubbliche da ogni rapporto con l’ordinario tessuto urbano. Secondo Jacobs in questo
modo “tutta l’urbanistica ortodossa ha ignorato l’effettivo modo di funzionare delle città. Lungi
dall’essere studiata e rispettata, la città è servita soltanto come vittima sacrificale”15. Questa attività
di decentramento, propugnata da nomi anche celebri come Lewis Mumford, nasceva di fatto da un
malcelato (ed in alcuni casi per nulla celato) disprezzo per il concentramento urbano e per i quartieri
più poveri. New York diventò infatti una sorta di versione metaforicamente perfetta di quella “casa
sulla collina” di cui aveva parlato il Governatore della Massachusetts Bay Area John Winthrop nel
1630, descrivendo la terra promessa che l’America rappresentava per i coloni: la possibilità di

13
Ibid., p. 115.
14
David E. Nye, The Sublime and the Skyline. The New York Skyscraper, in Roberta Moudry (a cura di), The American
Skyscraper: Cultural Histories, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 255-269, p. 262
15
Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città: Saggio sulle metropoli americane (1961), Torino, Einaudi, 1969.
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costruire una Nuova Israele, che avesse sede appunto su un’altura, isolata dal resto della comunità
umana ed elevata sopra di essa, incontaminata detentrice della verità assoluta.
Le ultime immagini di Stieglitz, tra il 1915 ed il 1931, esprimono proprio una visione di
questo genere: esse non toccano mai terra, sono tutte visioni dalla finestra, sin dalla metà degli anni
Dieci ma anche nei primi anni Trenta. Sono immagini molto belle, che testimoniano, con un misto
di celebrazione e quieta tristezza, di questo mondo di linee e forme magnifiche che il fotografo vede
affacciandosi da casa (con la seconda moglie, la pittrice Georgia O’Keeffe, abitano per un periodo
nel palazzo più alto dell’epoca, lo Shelton Hotel) o dall’ultima galleria di cui fu responsabile, An
American Place.

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In conclusione, si può d’altronde notare che le immagini più importanti dell’ultimo periodo di
Stieglitz sono in verità altre: si tratta dei cosiddetti Equivalenti,, una serie di immagini di nuvole,
scattate alle ore più diverse del giorno e della notte. Con
Con esse il fotografo trova una sintesi tra la sua
passione originaria per le condizioni atmosferiche e il suo desiderio di astrazione verso l’alto.
Inoltre pur riproponendo un modello di analisi seriale legata alle variazioni dell’orario e dunque
della luce di stampo patentemente impressionista, in queste immagini Stieglitz, come sostiene
Rosalind Krauss16, riesce ad emanciparsi finalmente dall’imperativo pittorialista: fino a questo
momento egli aveva infatti ostinatamente rifiutato di creare delle immagini che riconoscessero pur
implicitamente il rapporto con un fuori campo, preferendo invece strutturare le proprie foto come
dei quadri dalla composizione interna pienamente autosufficiente; ora invece, inquadrando un
soggetto tanto astratto da essere pressoché
pressoché inafferrabile, il fotografo eleva proprio il taglio
dell’inquadratura ad unico elemento compositivo forte.

16
Rosalind Krauss, Stieglitz: equivalenti,
equivalenti in Id., Teoria e storia della fotografia (1990), Milano, Bruno Mondadori
editore, 1996, pp. 127-138.
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Lorenzo Marmo

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