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Anno accademico:2020/2021

Stile,storia dell’arte e del costume 3


(pittura)
oggetto di studio : René Magritte

«Nella vita tutto è mistero.»


(René Magritte, Intervista di Maurice Bots, 2 luglio 1951)

Docente: Pasquale Lettieri Allieva:Errigo Carmen


Vita e opere
René François Ghislain Magritte
Nato a Lessines, Belgio, nel 21 novembre 1898, il padre Léopold Magritte era un sarto.
Da giovane si trasferisce più volte con la famiglia: nel 1910, all'età di 12 anni, si trasferirono
a Châtelet, dove sua madre Régina Bertinchamps, due anni dopo, nel 1912, morirà gettandosi
nel fiume Sambre.
Secondo una versione ricorrente, di cui non è chiara la veridicità, venne ritrovata annegata con la
testa avvolta dalla camicia da notte; questo fatto sarebbe rimasto particolarmente impresso in alcuni
suoi dipinti come L'histoire centrale, Les amants e Le fantasticherie del passeggiatore solitario.

Quest’ultimo dipinto non è altro che il riflesso del dramma esistenziale che vive l’uomo difronte la
morte. L’uomo con la bombetta (icona ampiamente diffusa nei dipinti di Magritte) dal carattere en-
igmatico e misterioso si incammina , lasciandosi alle spalle un cadavere di donna rigido, secco, cal-
vo, simile ad un osso di seppia,mentre il cielo è dominato da nubi scure che si riflettono sul fiume
Sambre. Il dipinto può essere letto come un tentativo da parte di Magritte stesso, di allontanare il
dramma che lo ha segnato ,ma non solo ; l’uomo con la bombetta riassume tutti quegli interrogativi
che affliggono l’uomo , dinanzi al mistero della vita.
Il conflitto interiore che ogni uomo porta dentro di sè e che spesso non sa spiegare.
Non a caso i dipinti di Magritte esprimono, gli aspetti più misteriosi e paradossali della nostra esis-
tenza, interrogativi che che non avranno mai una risposta.
In relazione al dipinto l’autore doveva aver sicuramente letto “Le fantasticherie del passeggiatore
solitario” un'opera incompiuta e postuma di Jean-Jacques Rousseau .
Scritto in prima persona, l’autore parla come se stesse passeggiando , intrattenendo una riflessione
filosofica sulla natura dell'uomo e del suo spirito.
Rousseau, attraverso questo libro, presenta la filosofia della visione della felicità, vicina alla con-
templazione, attraverso un relativo isolamento, una vita tranquilla e, soprattutto, un rapporto armo-
nico con la natura.
Nel quadro, la solitudine esistenziale della figura che si incammina nel tentativo di allontanare il
proprio dolore risulta evidente , e la vita viene paragonata allo scorrere di un fiume in piena .
Le immagini nei dipinti di Magritte diventano pertanto uno strumento per esplorare sé stessi, ed an-
che uno stimolo per interrogarsi sul mondo.
Accostamenti dissociativi, composizioni assurde, situazioni in bilico tra l’onirico e la più fervida
immaginazione, oggetti quasi banali sapientemente incastonati in scenografie al limite del concepi-
bile, mettono in discussioni le abitudini visive del senso comune stimolando l’istinto nella ricerca
della propria profondità.
Non a caso il percorso di Magritte fu lungo e travagliato, una ricerca influenzata da più campi, che
vanta una grandissima quantità di quadri .
L’avvicinamento di Magritte alla pittura ebbe inizio dopo aver concluso gli studi classici,quando
nel 1916 si iscrisse all'Accademia di belle arti di Bruxelles seguendo i corsi di Van Damme, Ghis-
bert, Combaz e Montald , incontrando anche il pittore Victor Servranckx.
Nel 1917 obbligato dalla leva militare prende parte all’esercito,seppur odiandolo, riesce comunque
ad ottenenere vari privilegi dipingendo per i suoi superiori.

Sopravissuto decide di tornare in accademia. In ambito accademico egli esplora i suoi modelli e gli
stili in voga ,cubismo in primis,ed esponde il suo primo dipinto intitolato tre donne .

Questi interessi giovanili, che spesso vengono sottovalutati, sono fondamentali per capire come l’ar-
tista intende fin da subito la pittura. In particolare attorno agli anni Venti egli dipinse delle opere is-
pirandosi a Georges Braque.
Magritte fu innanzitutto attirato dall’analisi strutturale alla base del Cubismo: la consapevolezza
della bidimensionalità della superficie della tela spinge i cubisti attraverso una visione attenta della
realtà, a portare alla luce i limiti della pittura. Essi non s’arrestano alla pittura come semplice appa-
renza, perciò si discostano da qualsiasi tentativo di riproduzione del reale; arte e natura, viaggiano
su binari paralleli, ciascuno sorretto da leggi proprie e, per dirla con Picasso, l’arte è pura conven-
zione, al limite è una bugia . Magritte li segue in questa condanna senz’appello, con l’intento di
mettere in discussione le abitudini visive del senso comune.

L’anno è il 1920, quando Magritte abbandonò gli studi accademici e iniziò altre ricerche, allora la
sua pittura conobbe vicende diverse scaturite da un interesse vivissimo per il futurismo. Il fascino
del futurismo consisteva nell’aver cercato di ottenere, operazione mai tentata prima in pittura, un
meccanismo di simultaneità che proponeva l’accavallarsi delle immagini più diverse nella velocità
del dinamismo; una sorta di sintesi figurativa dell’efficienza tecnologica e dell’arte pittorica che
porterà Magritte a cogliere subito la possibilità di dislocare gli oggetti secondo un principio di spae-
samento che li rende estranei alle loro strutture statiche.
Sono del periodo opere come Jeunesse (Giovinezza) e Nu(1922)
Dirà a questo proposito, David Sylvester: Era stata l’esperienza del futurismo a indurlo a interrogar-
si, non solo sul rapporto tra l’oggetto e la sua forma, ma anche su quello tra l’immagine dipinta e
l’immagine reale, un problema destinato ad assumere centralità nella sua opera.
Agli occhi del pittore di Bruxelles il futurismo aveva però il difetto di rimanere troppo fedele a
un’interpretazione estetizzante della realtà.

Nel 1922 si sposa con Georgette Berger, che aveva conosciuto nel 1913, quando aveva quindici
anni. La relazione con Georgette per Magritte fu fondamentale poichè, era la sua musa .

Nel 1923 comincia a lavorare come grafico, principalmente nel design di carta da parati e poi come
desingner per le agenzie di moda.
Pur detestando la sua occupazione è qui che si forma il suo stile pulito e nitido nonchè impersonale.
In questo periodo realizzò anche una pubblicità per Alfa Romeo, di chiara ispirazione cubista.
Secondo quanto affermato da lui stesso, la svolta artistica avviene con la scoperta dell'opera di Gior-
gio de Chirico, in particolare dalla visione del quadro Canto d'amore, nel quale compaiono, sul fian-
co di un edificio, un calco della testa dell'Apollo del Belvedere, un gigantesco guanto in lattice da
chirurgo e una palla.

Racconta lo stesso pittore, in un’intervista del 1967 a Charles Flamand: Il momento in cui vidi per
la prima volta la riproduzione di Canto d’amore di de Chirico fu tra i più commoventi della mia
vita: i miei occhi videro il pensiero per la prima volta .
Nel linguaggio metafisico del pittore italiano Magritte trova il primo segnavia che gli suggerisce in
che direzione avviare la sua ricerca artistica: atmosfere sospese, immagini semplici che evocano il
passato, associazioni stranianti, oggetti fuori dal tempo che conducono ad una dimensione che
sfugge ai canoni dell’esperienza sensibile. Indagare la realtà senza fermarsi al primo sguardo, an-
dare oltre le apparenze, ecco il primo passo da fare.

Profondamente colpito dal dipinto, lo descrive come un'opera ”che rappresentava un taglio netto
con le abitudini mentali di artisti prigionieri del talento, dei virtuosi e di tutti i piccoli estetismi con-
solidati: un nuovo modo di vedere."
De Chirico, grazie alla folgorante opera Canto d’amore, fu un grande e importante esempio, perché
i futuristi, come scrive Magritte, tendevano in definitiva a ricercare un modo originale di dipingere
mentre de Chirico non si preoccupava di un modo di dipingere, ma di ciò che si deve dipingere, che
è una cosa molto diversa .

De Chirico segnò la carriera artistica magrittiana e prima di lui aveva reso visibile, attraverso le fig-
ure, la poesia; di conseguenza anche le immagini del pittore belga verranno descritte come poetiche
poichè esse sono descrizioni di un pensiero poetico .

A tal proposito la sua pittura dunque si occupa di “materializzare” il reale, non è una poetica oscura
che dipinge i fantasmi dell’inconscio ma una scelta esecutiva diversa. Egli è ben lontano infatti
dalle poetiche del sogno e dell’assurdo che lo vedono coinvolto nella corrente surrealista; anche se
l’associazione al Movimento Surrealista non è casuale.
Risale al 1925 all'adesione al gruppo surrealista di Bruxelles, composto da Camille Goemans, Mar-
cel Lecomte e Paul Nougé. Un anno dopo dipingerà il suo primo quadro surrealista, Le Jockey per-
du (Il fantino perduto),mentre lavora a diversi disegni pubblicitari.
Il fantino perduto -1926 – olio su tela, 39,5 x 54 cm, Collezione Privata, New York

Le Jockey Perdu, il Fantino Perduto è la prima opera di Magritte che lo stesso autore considerò
pienamente surrealista. La versione iniziale risale al 1926 ed è un collage di acquarello, china e
matita. La scena è incorniciata da due tende come un sipario, al centro c’è il disegno di un fanti-
no in corsa, il ricamo geometrico del terreno fatto di linee sottili arriva fino al cielo che sfuma
dal bianco al blu. Gli alberi ai lati richiamano i pezzi della scacchiera su cui sono disegnati note
di spartiti musicali. Gli scacchi, più e meglio di qualsiasi altro gioco, rappresentano l’anima del
surrealismo, non è un caso che nel 1934 André Breton, leader del movimento surrealista e ami-
co di Magritte, riunì tutti i surrealisti nella sua Scacchiera surrealista.

Difatto nel 1926 prende contatto con André Breton, leader del movimento surrealista.
Il surrealismo è un movimento artistico d'avanguardia del Novecento nato come evoluzione del da-
daismo e che coinvolse tutte le arti, toccando anche letteratura e cinema, nato negli anni 20 a Parigi;
nel 1924 fu scritto il primo manifesto.
I surrealisti con il loro operato riabilitano l’esperienza del sogno, valorizzano l’inconscio, cercando
di portare alla luce, tramite le immagini, gli stati mentali profondamente nascosti. Tutto ciò non è
nient’altro che un tentativo di rielaborare in chiave creativa la disciplina psicanalitica, la quale, ha
origine dal lavoro di Sigmund Freud. Per Freud, infatti, tutto ha inizio dal sogno che è una forma
particolare del nostro pensiero e la via regia per accedere ai contenuti inconsci.

Attratto quindi dal clima culturale della capitale francesce , Magritte si trasferisce con la moglie
a Le Perreux-sur-Marne, nei pressi di Parigi nel 1927.
L’epoca eroica del surrealismo è al suo apice a Parigi .
E’ il tempo della della patafisica, del bue sul tetto , di Joséphine Baker e Andrè breton .
Anni di intensa attività per Magritte, che era solito dipingere nella sala da pranzo adibita a studio .
Riceve spesso a casa sua gli amici surrelisti in visita a Parigi , Camille Goemans, Marcel Le-
comte e Paul Nougé, ma soprattutto crea oltre 200 dipinti in 3 anni.
La modesta abitazione ospita un esplosione di immagini da la scoperta, il demone della perver-
sione,l’assassino minacciato .
Tanti dipinti ispirati , a volte violenti a volte oscuri che già rivelavano l’abilità propria dell’autore di
fuggire dal mondo circostante.
E’lo stesso Magritte a darci la definizione di questo periodo della sua arte detto “cavernoso”.
Il motivo deriva dall'uso di colori freddi e scuri, di atmosfere nere, temi torbidi e crudeli.
Le fonti di ispirazione, non per niente furono Edgar Allan Poe, e Lewis carroll...
La morte è un tema ricorrente nelle opere del pittore ,ed è evidente nel quadro l’assassino minaccia-
to .
La scena è inserita all’interno di un appartamento spoglio, privo di mobilio con l’eccezione di un
letto su cui è adagiata una donna nuda, con un rivolo di sangue che le esce dalla bocca, probabil-
mente strangolata come suggerisce un foulard bianco che le copre il collo; una sedia su cui sono po-
sati un soprabito e un cappello ed accanto alla quale vi è una valigetta; ed un tavolino con sopra un
grammofono.
L’assassino rivolge il proprio sguardo proprio al grammofono, intento ad ascoltare una musica che,
si presume, sta inondando l’ambiente.
Nella stanza attigua, due uomini identici, elegantemente vestiti ed armati uno di clava l’altro di rete
sembrano essere in ascolto, immobili, come in attesa del momento opportuno per intervenire.
L’assassino non si accorge della loro presenza, ne tanto meno dei tre volti che si affacciano dalla fi-
nestra aperta, senza vetri, alle sue spalle, che introduce un paesaggio sperduto tra i monti.
Con questo dipinto René Magritte imprime alla morte degli elementi statici eppure al tempo stesso
privi di pesantezza, paradossalmente lievi; quasi che l’inevitabilità del trapasso, riducesse la fine di
ogni cosa a un banale momento di sospensione tra un prima e un dopo di modesta importanza.
L’assassino attende serenamente la propria cattura, così come il pallore della donna, ormai libera da
ogni configurazione terrena, le ha già fatto assumere le sembianze di una statua marmorea.
La morte in sé, per Magritte, sembra quasi essere una condizione da osservare serenamente. In fon-
do, non risparmierà nessuno, nemmeno l’assassino.

Un altro quadro appartenente a questo periodo ,che parla di morte e di impossibilità di comunicare è
“Gli amanti”(1928)

Il quadro raffigura due amanti che si baciano, con le teste coperte da un panno bianco che impe-
disce loro di vedersi e comunicare, suscitando una certa inquietudine e angoscia. La scena è poi
completata da uno sfondo fortemente contrastato di tonalità blu e dalla cornice classicheggiante che
riveste la rossa parete, riportando agli occhi i tempi antichi.
I due lenzuoli sono resi con un abile uso dei chiaroscuri, che sembrano riecheggiare i virtuosismi
del peplo di una scultura ellenistica, e sono fonte di luce dell'intera opera. Questi drappeggi che
paiono leggeri e appena appoggiati sui volti dei due amanti, sono in netto contrasto con il rigore
classico dell'architettura appena accennata in alto a destra. La composizione è equilibrata sia dal
punto di vista geometrico che plastico, anche attraverso il rapporto che il pittore crea tra il rosso del
muro e il rosso della camicia della donna. Questo rosso che spicca, però sempre in secondo piano
rispetto alla luce del bianco dei lenzuoli, richiama il rosso del sangue e quindi della morte, altro ri-
ferimento al suicidio della madre.
Tra le due figure quella più emblematica è la figura maschile: giacca scura, camicia bianca e cravat-
ta, semplice e ordinata, che alla vista non resta impressa. Questi è il padre di Magritte che dà un ul-
timo bacio alla moglie, appena morta, con il volto coperto dal dolore.
Nascosti dietro i loro lenzuoli si scambiano un amore muto incapace di un linguaggio diverso da
quello del corpo, esprimendo una forte passione nonostante la mancanza di dialogo.
Possiamo considerarlo il “bacio della morte”? Un bacio tra due defunti, o in procinto di essere tali?
Ciò di cui siamo certi è che ai due amanti ,privati dei sensi della vista e del tatto, dell'esperienza
sensibile, è vietato di conoscersi. Egli vuole andare oltre l’esperienza sensibile per mostrarci nuovi
aspetti del reale.
Nascondendo i volti, rendendoli non visibili, il pittore vuole mostrare i molteplici significati del re-
ale attraverso nuovi punti di vista. Egli vuole portare alla luce l’invisibile che si ciela dietro al mis-
tero. E per fare ciò i volti sono privati della loro identità.
Negando ogni tipo di identificazione e somiglianza con un essere umano egli mostra la realtà
dell’essenza dell’umanità , e di quest’attimo congelato che è destinato a durare in eterno .
A questo punto la lontananza con i suoi colleghi surrealisti risulta più che mai evidente.
Si può dire che Magritte fu un caso unico fra i surrealisti: prese parte al surrealismo, espose molte
delle sue opere con loro, ma allo stesso tempo era fortemente critico nei confronti della loro poetica
dell’inconscio. Egli non accettò mai di essere etichettato come “pittore surrealista”, in quanto la de-
finizione aveva per lui un senso molto limitato.

Inoltre bisogna specificare che Magritte a Parigi , si trovò spesso in difficoltà nei confronti dei sur-
realisti. Ciò fu dovuto probabilmente alla sua mancanza di disponibilità nei confronti dei colleghi .
Era difatto richiesta una disponibilità totale ,che Magritte ribelle per natura e spesso in antitesi con
il loro modo di vedere , non era in grado di dare. E’ qui che i rapporti cominciarono ad inasprirsi ,e
quando la sua esposizione ebbe luogo fu accolta freddamente per il senso di risentimento nei suoi
confronti .

All’interno dei suoi Scritti troviamo molte considerazioni significative dell’artista, in merito alla
questione:

“Praticamente” si potrebbe pensare che io sia “surrealista”, ma ciò rientra in un “gioco” idiota. […]
Ci si inganna, è ovvio, credendo che io faccia parte di tale o tal altro movimento artistico-cultur-
ale... .

E ancora nel 1958 in un’intervista:

Certo è più facile usare un’ “etichetta” per designare una scuola o una presunta scuola…Io non desi-
dero, non dimeno, che ciò che dipingo venga qualificato. […] .

Magritte è quanto mai lontano dalla poetica del sogno e dell’inconscio, perciò risulta abbastanza
evidente che la teoria psicanalitica non abbia alcuna connessione con la sua arte.
E’ proprio il pittore a voler sottolineare il fatto, in occasione di una mostra tenutasi a Bruxelles nel
1962:

[…] L’arte, come la concepisco io, è refrattaria alla psicoanalisi: essa evoca il mistero senza il quale
il mondo non esisterebbe, ossia il mistero che non si deve confondere con una sorta di problema,
[…] .

Io mi sforzo di non dipingere se non immagini che evochino il mistero del mondo. […]
Nessuna persona sensata crede che la psicoanalisi potrebbe chiarire il mistero del mondo. […] .
La psicoanalisi non ha nulla da dire neppure sulle opere d’arte che evocano il mistero del mondo.

Risulta evidente che la sua poetica non vuole scavare nel buio dei meandri dell’animo umano, ma
vuole occuparsi del pensiero visibile e reale che pervade il mondo.
Potremmo dire perciò che l’irrazionale dell’artista non abita il sogno, ma lo spazio e il tempo del
giorno e della veglia. Il suo lavoro metodologico si avvantaggia di uno sguardo che, in piena luce,
scruta e analizza il mistero (l’irrazionale) che abita l’universo. A tal proposito, il suo Surrealismo, si
potrebbe definire un “Surrealismo alla luce del sole” .

L’impalcatura teorica della concezione magrittiana porta a galla un nuovo tipo di pittura, molto di-
versa da quella proposta da Andrè Breton, e dal gruppo parigino.
Il primo manifesto redatto dal Gruppo nel 1924, contiene la seguente definizione: […] il Surrealis-
mo si fonda sulla fede nella realtà superiore di certe forme di associazione finora trascurate, nell’on-
nipotenza del sogno, nel gioco disinteressato del pensiero. Capiamo subito che una tale poetica è
ben distante dalla ricerca artistica del pittore belga, il quale, s’inserisce nella corrente in modo del
tutto originale, dichiarando che la parola non ha alcun significato e non può essere utilizzata per
giudicare le sue scelte estetiche. L’irrazionale di Magritte, per dirla in termini surrealisti, viene alla
luce attraverso un lavoro che indaga la struttura del reale e non trova alcun fondamento nell’idea
surrealista che solo il sogno è la vera vita. Dai suoi quadri emergono delle immagini che sono il
frutto di un premeditato lavoro metodologico che scruta il mondo attraverso un pensiero lucido e at-
tento.

Questo, a sua volta, non si rivela essere un gioco disinteressato ma un meccanismo che porta a galla
i problemi che riguardano la realtà; da qui possiamo prendere in considerazione la sua nuova vi-
sione di pittura surrealista, una pittura che non si avvantaggia del buio e della penombra, ma della
luce che pervade il mondo:

Il surrealismo per me è la pittura, è la descrizione di un pensiero che evoca il mistero; ciò implica
che questo pensiero deve assomigliare alle figure che il mondo offre al pensiero […]. Il modo in cui
riunisco gli oggetti evoca il mistero surrealista. Si tratta di qualcosa che esiste.

Ritorniamo così nuovamente sul concetto essenziale che sottende tutta l’opera magrittiana: il myst-
ére della vita che egli ha cercato costantemente di evocare , attraverso i suoi dipinti, negli ultimi
quarant’anni della sua vita. Le sue immagini, come egli tiene spesso a sottolineare, non sono mai in-
venzioni fantastiche o finzioni che emulano i fantasmi del subconscio create con il solo scopo di
sconvolgere e sorprendere chi le osserva.
Ci dà alcune indicazioni a riguardo Magritte: Non giustappongo elementi estranei allo scopo di col-
pire. Descrivo i miei pensieri del mistero, che è l’unione di ciascuna cosa e di tutto ciò che conos-
ciamo… .
Nei suoi quadri, attraverso la messa in scena di oggetti famigliari in modo sconosciuto, bizzarre as-
sociazioni e trasformazioni di oggetti noti, Magritte vuole semplicemente suggerire che il mondo è
impregnato di non-senso invisibile.
Osservando la sua opera però è possibile penetrare nel cuore del mistero, anche se, come suggerisce
lo stesso artista, nel mondo non c’è nulla che possa spiegarlo.
La poesia è una pipa
Un oggetto non possiede il suo nome al punto che non si possa trovargliene un altro che gli si adatti
meglio. Questa riflessione risale al 1929 e si trova nel testo intitolato Le parole e le immagini,
all’interno dell’ultimo numero di “La Révolution Surréaliste”.
Alla base di questo pensiero vi sono una serie di investigazioni linguistiche che René Magritte com-
pie a partire dall’anno 1926. In sostanza, esso mette in discussione tre relazioni di solito date per
scontate: quella tra oggetto reale e cosa rappresentata, tra linguaggio iconico e linguaggio verbale,
tra realtà e linguaggio. La traduzione in immagini di tutto ciò, trova la sua formulazione più celebre,
e più riuscita per semplicità ed efficacia, in uno dei più famosi quadri dipinti da Magritte attorno
all’anno 1928: L’uso della parola I.
L’opera è molto semplice, uno sfondo monocromo e il ritratto di una pipa accompagnata da una di-
dascalia in un corsivo manierato ed elegante, Ceci n’est pas une pipe. Le pipe hanno una lunga stor-
ia nella carriera artistica di Magritte, a partire dal 1926 egli ne dipinse diverse versioni del tema.

L’uso della parola I, 1928

La prima pipa realizzata in assoluto dal pittore è uno schizzo, raffigurante tre elementi in giallo: una
forma astratta, la rappresentazione di una pipa e la parola pipe.

Senza titolo (la pipa), 1926

Dopo la classica versione del 1928 l’artista belga riproporrà questo tema più volte ed in varie ver-
sioni che tendono ad aumentare gli elementi della finzione rappresentativa.
La Trahison des images, ad esempio, fa proiettare alla pipa un’ombra, l’oggetto è sospeso davanti a
un piano di legno con tanto di venature e in basso vi è inchiodata una targhetta in ottone che porta la
medesima scritta “Ceci n’est pas une pipe”. La scrittura della didascalia, questa volta, non è più
come dipinta a mano e in corsivo, ma ci appare come un qualcosa di molto più autorevole.
Il tradimento delle immagini, 1948

Trentacinque anni dopo la prima opera, il problema non è ancora risolto per l’artista René Magritte;
tutto ciò ci è dimostrato dal fatto che egli, anche negli anni più tardi, ritornerà ben due volte sullo
stesso soggetto, per approfondirne alcuni corollari.
Nel 1964 l’artista dipinge L’air e la chanson , raffigurante di nuovo una pipa e la medesima scritta
sottostante: Questo non è una pipa.

L'air e la chanson, 1964

Ma c’è qualcosa d’insolito, c’è che la pipa è inserita in una cornice dipinta: […] la pipa nel quadro
(nel quadro) mostra d’esser dipinta, col che si sa che – come sottolinea la scrittura –non è una vera
pipa . Subito ci accorgiamo però di una stranezza, la pipa nel quadro nel quadro sprigiona del fumo,
come se contenesse del tabacco accesso, che passa davanti alla cornice e poi si perde lasciando il di-
pinto di Magritte.

La pipa in questione proietta sulla tela un’ombra, sicché al quadro nel quadro la si direbbe appog-
giata. La pipa dipinta può sembrare vera. E la scritta: “questo non è una pipa”, mette in guardia, si
capisce contro il rischio di prender, da lontano alla sprovvista, la pipa così ben dipinta (in terza di-
mensione) per una pipa appunto, magari un ready-made di Duchamp.

Dopo L’air e la chanson del 1964 l’artista belga torna al lavoro rappresentando quella che è l’ultima
versione dell’opera, dal titolo: I due misteri ; stessa pipa, stesso enunciato, stessa calligrafia e an-
cora il testo e la figura si trovano all’interno di una cornice dipinta dall’artista. La differenza, rispet-
to alle opere precedenti, è che nella tela del 1966 vediamo rappresentate ben due pipe: una è inqua-
drata in una tela-lavagna posta su un cavalletto da pittore; l’altra, sospesa a mezz’aria, più grande e
come fosse una nube di fumo grigiastra, fluttua nello spazio e aleggia nel vuoto. Ma se non è pipa la
prima per esser dipinta, lo è forse la seconda che è assurda, grossa e sospesa a mezz’aria? Dov’è in-
somma la pipa reale?

I due misteri, 1966

Giunti alla fine della descrizione delle “tavole” che rappresentano la serie “Ceci n’est pas une
pipe”, possiamo fare alcuni confronti tra la versione primitiva dell’opera che a detta di Foucault
sconcerta per la semplicità con cui è dipinta, e le successive; la versione degli anni Sessanta, invece,
moltiplica manifestamente le incertezze volontarie.

Il disegno questa volta è collocato sulla superficie molto chiaramente delimitata di un quadro, la
cornice, esposta su di un cavalletto, è appoggiata ai cavicchi di legno, ciò sta ad indicare che si trat-
ta del lavoro di un pittore.
L’opera appare così conclusa e messa in mostra per un eventuale osservatore, il quale, potrà servirsi
dell’enunciato come didascalia che spiega e commenta il disegno della pipa.
Considerato che la dicitura Questo non è una pipa, posta sotto al disegno, non è il titolo dell’opera,
in quanto essa è stata nominata da Magritte I due misteri, potremmo pensare ad un enunciato espli-
cativo, scritto da un maestro zelante in una grafia elementare; tutti gli elementi insomma fanno pen-
sare a un contesto scolastico, per la precisione la lavagna di un’aula.

Tutte queste versioni hanno dato vita a numerose interpretazioni critiche. Come riferimenti sono
state indicate le ricerche semiotiche di Ferdinand de Saussure, la filosofia di Ludwig Wittgen-
stein e le varie esperienze artistico-letterarie che tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
esprimevano la rottura della certezza del linguaggio: da Rimbaud, a Lautréamont, da Seurat a Balla
e Boccioni, sino agli artisti Dada, laddove insomma il mondo reale e quello dei segni si separano in-
esorabilmente e il secondo non riesce più ad affermare la tangibilità o comunque la consistenza del
primo.

Nelle opere del pittore sono continuamente sollevati problemi sull'identità relazionale di oggetti e
simboli, problemi di somiglianze equivalenti, problemi sull'intera validità del vedere rappresentati-
vo.

In "L'uso della parola I", Magritte dimostra che un'immagine non è lo stesso dell'oggetto che vuole
rappresentare, e che quella e questo non svolgono la stessa funzione.

Per smentire ogni luogo comune e dissipare ogni dubbio d’interpretazione a quest’immagine d’arti-
sta, e le successive, è fondamentale il contributo di un grande filosofo quale Michel Foucault (1926-
1984), il quale, ha dedicato un lungo studio al linguaggio magrittiano, prendendo spunto proprio da
quest’opera.
Questo non è una pipa è infatti il titolo del saggio datato 1973, in cui il filosofo studia in maniera
puntuale e chiara tutte le implicazioni figurative e filosofiche dell’importante ricerca artistica del
pittore belga.
Lo studio di Foucault scredita, fin da principio, tutte le banali ed equivoche interpretazioni della
rappresentazione, andando subito a precisare il rapporto nel primo quadro,l’uso della parola I, tra
l’immagine e il testo;
si rivela che la didascalia non funge da supporto al disegno: in Magritte essa comporta, invece, l’ar-
ticolarsi di una frase il cui senso è senza corrispondenza con ciò che si vede. Scrive Foucault:

Ciò che rende strana questa figura non è la “ contraddizione “ tra l’immagine e il testo. Per buona
ragione: potrebbe esserci contraddizione soltanto tra due enunciati […]. Ora, io vedo che qui ce n’è
soltanto uno, e che non può essere contraddittorio perché il soggetto della proposizione è un sem-
plice pronome dimostrativo . Se fino ad un momento fa speravamo di poter dare una spiegazione
alla pipa, posta al centro della tela, tramite l’enunciato sottostante, con l’arrivo di Foucault tutte le
nostre certezze crollano. Adesso scrittura e raffigurazione vivono in uno stato autonomo, non vi è
più la necessità inevitabile di riferire il testo al disegno.

La questione che Magritte affronta attraverso le sue immagini dipinte ha un significato che va oltre
la tela: è la rottura linguistica. La sua ricerca artistica mira a sconfessare il principio della pittura
classica, basato sull’illusionismo pittorico, secondo il quale vi è corrispondenza tra immagine e
realtà. Il concetto, porta con sé una riflessione molto profonda sulla natura del linguaggio e viene
espresso da Magritte in maniera molto semplice: …La famosa pipa…Me l’hanno tanto rimprovera-
ta! E tuttavia… la si può forse caricare, la mia pipa? No, vero, non è altro che un’immagine. Dun-
que, se avessi scritto sotto il mio quadro: “Questa è una pipa”, avrei mentito!...[…]
E così, con una banalità disarmante ma efficace, la celeberrima pipa vuole svelare la vera natura
della rappresentazione: ciò che abbiamo davanti agli occhi, per quanto si avvicini ad un’immagine
realistica, non è una pipa.
Ora siamo finalmente consapevoli che una rappresentazione non può prendere il posto di un oggetto
nella realtà.

I problemi che l’opera sprigiona attraverso le immagini sono inerenti alla natura dell’arte e ai suoi
fondamenti logici e linguistici, una sorta di critica indiretta alla pittura classica che stabiliva un le-
game indissolubile tra la realtà oggettiva e l’opera d’arte. L’opera del giovane pittore, già a partire
dal 1926, può essere considerata rivoluzionaria: la celeberrima pipa accompagnata dalla scritta Ceci
n’est pas une pipe, non solo contesta la rappresentazione ma lo fa con i mezzi stessi della rappresen-
tazione.
Proprio attraverso il lavoro con le immagini, Magritte opera una critica in merito all’illusionismo
pittorico, la cui riflessione porterà alla luce un concetto fondamentale: le immagini tradiscono.

E così che possiamo considerare lo schematico disegno della pipa, alla pari di un trattato filosofico,
una ricerca semiotica, in linea con i postulati di de Saussure.
Le interpretazioni critiche più acute, infatti, pongono alla base del pensiero magrittiano le ricerche
semiotiche di de Saussure o la filosofia di Wittgenstein; l’opera dell’artista belga segna l’esigenza
di una nuova ridefinizione del rapporto significante-significato, messo in luce all’interno del Tratta-
to di linguistica generale. Nel Trattato che è la vera e propria culla della semiotica, de Saussure
elimina la corrispondenza diretta tra significato-significante, introducendo il concetto di arbitrarietà
del segno.

Il contributo del filosofo francese Michel Foucault, è decisivo per capire come la serie delle tele sot-
totitolate Ceci n’est pas une pipe (sviluppatesi dal 1928-29 fino al 1966), siano in realtà una vera e
propria opera da allegare a un testo di filosofia del linguaggio.
La rappresentazione della pipa diviene così l’emblema del modo in cui il pittore, fin dall’inizio, si
occupa della sua attività artistica: un metodo apparentemente semplice e una rappresentazione rea-
listica atte a porre in luce l’abisso incolmabile che separa linguaggio e realtà.
Risulta subito evidente,è che non c’è identità tra denominazione verbale e denominazione visiva
dell’oggetto.

Ma veniamo ora al nodo cruciale della riflessione, analizzando il ruolo che hanno le parole all’inter-
no dell’immagine magrittiana; secondo Suzi Gablik, infatti, è difficile dire se l’asserzione del testo
è vera o falsa, come del resto ci dice lo stesso Foucault all’interno di Ceci n’est pas une pipe: vi è
l’impossibilità di definire il piano che permetterebbe di dire che l’asserzione è vera, falsa, contra-
ddittoria. Anche il testo d'altronde è dipinto, perciò non può essere altro che la rappresentazione di
un testo: la scrittura, infatti, non è nient’altro che un linguaggio convenzionale come la pittura.
Magritte quindi avverte lo spettatore che ciò che è rappresentato è, appunto, solo rappresentato
come sono rappresentazioni una parola o un pensiero;

L’arte non copia la natura ne tanto meno la ricrea; quel che è raffigurato con mezzi pittorici è un ra-
gionamento e non un'emozione, lo straniamento del pensiero di fronte alla negazione di qualcosa
che si dava per scontato.

Michel Foucault arriva così a darci la spiegazione in merito all’operazione elaborata da Magritte nel
quadro: un calligramma costruito segretamente dal pittore, poi disfatto con cura .
Il Testo difatto essendo un calligramma è in forma di immagine, rievoca quindi la forma stessa della
pipa. Inversamente, la forma della pipa, disegnata dalla stessa mano e con la stessa matita del testo,
prolunga la scrittura come fosse una figura in forma di grafia.

Tramite questo espediente scrittura e rappresentazione vengono poste sullo stesso piano.
Entrambe possiedono la stessa valenza di linguaggio convenzionale ,tuttavia guardare e leggere
sono due operazioni distinte, e Magritte lo dimostra così.
Con la scritta sottostante viene a mancare la tradizionale funzione della didascalia che è quella dare
informazioni circa l’immagine raffigurata.
Per quanto riguarda la pipa essa viene rinnegata come oggetto reale, essendone una semplice rap-
presentazione .
Non vi è quindi più necessità di riferire le parole all’immagine.
Le parti vengono distaccate, in ciò avviene la frantumazione già citata, perciò scrittura e raffigura-
zione vivono in uno stato di autonomo isolamento.
Possiamo quindi affermare con sicurezza che da quest’operazione di rottura del calligramma deriva
una stratificazione di discorsi, il cui compito è abbattere la corrispondenza tra la realtà e la sua rap-
presentazione simbolica.

Attraverso i suoi quadwe3ri Magritte compie una serie di investigazioni sul linguaggio della pittura,
tra immagine e parola, tra denominazione visiva (l’immagine della pipa) e denominazione verbale
(la leggenda “Ceci n’est pas une pipe”), sconfessando il ruolo assertivo tradizionalmente attribuito
al quadro in virtù della presenza (implicita o esplicita) della didascalia e della presunta corrispon-
denza tra immagine e realtà.

Ciò che emerge dall’analisi foucaultiana di Ceci n’est pas une pipe è il fatto che una lettura simboli-
ca di ogni opera d’arte del pittore belga non è possibile; dietro la tematica delle pipe, approfondita
da Magritte nel corso di tutta la sua carriera, non vi sono significati simbolici. In merito, nota Suzi
Gablik che le sue immagini non hanno un significato: sono un significato.
I suoi quadri non ci permettono di articolare dei lunghi discorsi razionali, essi infatti alternano alle
immagini le parole, come fossero una sorta di rebus i quali propongono un problema.
La pittura di Magritte è costantemente alla ricerca di problemi che vengono resi visibili tramite le
immagini ma non sono spiegabili verbalmente.
L’osservatore verrà letteralmente spiazzato dalla semplicità delle immagini alle quali, però, non
potrà trovare soluzione. L’impossibilità generale della soluzione è data dal fatto che pur essendo i
suoi dipinti vicini ai rebus, ogni ostacolo linguistico presente non può essere superato e questo
perché ciò che abbiamo di fronte non è un gioco enigmatico da risolvere, ma un’opera d’arte.
E il vero compito dell’artista, secondo Magritte, è di rappresentare attraverso l’arte della pittura il
mistero e la poesia che pervadono l’universo e che non possono essere spiegati razionalmente.

Le figure dei suoi quadri sono tratte esclusivamente da pensieri che il mondo offre all’artista e ordi-
nate in modo tale da evocare non soggetti originali o fantastici ma il segreto del mistero.

Magritte, si rifiutava di dare una spiegazione ai segreti che sottendono il mondo: essi non possono
essere svelati, ma solo intuiti.

Una tela e dei pennelli devono essere per il pittore ciò che la grammatica è per lo scrittore: uno stru-
mento che gli permetta di evocare qualcosa. E per me, questo “qualcosa” è ciò che importa di più,
io credo: il mistero del mondo .
Nel 1930, dopo l'esperienza parigina, Magritte decide di tornare a Bruxelles insieme con Georgette.
I due si trasferiscono al 135 della rue Esseghem di Jette (nel nord di Bruxelles), in cui Magritte ha
vissuto il suo periodo più prospero per 24 anni e creando circa la metà di tutte le sue opere (800 in
totale tra tele e disegni).

Nel 1930 realizza L’evidenza eterna.

Fondamentale per comprendere come Magritte veda il corpo umano.


Piuttosto che un'unità armoniosa e stabile, il corpo umano, nell'arte di Magritte, è una rete inconci-
liabile di possibilità che mette in discussione ogni certezza.
Difatto quest’opera mette in discussione l’idea albertiana di quadro come finestra sul mondo .
E' stato il Rinascimento a introdurre nell’arte quest’idea.
La pittura di Magritte non è stata che una inesausta messa in discussione di questa tradizione attra-
verso un uso ''alterato'' delle sue convenzioni, una critica al concetto tradizionale di rappresenta-
zione.
Presuppone così un piano immaginario, al di là del quale c'è una modella nuda, in piedi.
Le cinque piccole tele non sono altro che ''finestre'' aperte in questo piano, che ci rivelano dei parti-
colari diversi della donna: il volto, il seno, il pube, le ginocchia e i piedi.
La realtà all’interno del quadro è quindi una realtà diversa , un mondo che non coincide con quello
reale; nonstante ciò , alla modella è permesso gettare uno sguardo al nostro .
L'opera rende evidente come ciò che ci sembra reale, la res extensa, possa essere vista come una
serie discontinua di parti mobili, che l'immaginazione e l'arte possono trattare con libertà creativa e
irriverente.
Ecco rivelata l'assoluta convenzionalità della finestra albertiana e l'implicita menzogna in essa con-
tenuta.
L’arte non è una ripresa della realtà effettiva, ma ciò che rivela la realtà è lo shock causato dall’uso
irriverente e sovversivo delle immagini , che hanno l’obbiettivo di mettere in discussione le abitudi-
ni visive del senso comune, scardinando così l’idea di arte come copia veritiera del mondo reale.
Sulla soglia della libertà (1930)

Un cannone sembra pronto a sparare contro il mondo di immagini cui Magritte ha dato vita fino a
questo momento. L'impressione è di essere all'interno di una stanza -archivio, con le pareti divise in
settori che propongono l'uno un busto di donna, l'altro una foresta, e quindi un cielo nuvoloso, delle
assi di legno, dei sonagli, la facciata di un edificio, una superficie traforata, le fiamme di un incen-
dio. La minaccia sembra evidente, eppure il titolo non rivela nulla della tensione interna all'imma-
gine. Anzi, ''Sulla soglia della libertà'' sembra implicare che il botto possa portare a una liberazione,
non certo a una tragedia.
In questo quadro, come negli altri ''polittici'' dello stesso periodo, il nucleo poetico è la riflessione,
avviata da Magritte nei tardi anni Venti, sul rapporto esistente tra un oggetto e le sue rappresentazio-
ni convenzionali nei linguaggi, iconico e verbale.
Per Magritte, ''un oggetto non svolge mai la stessa funzione del suo nome e della sua immagine'' ed
ecco allora, il senso del cannone: liberare, anzitutto, gli oggetti dalle immagini che convenzional-
mente vengono loro assegnate, senza che vi sia un reale legame tra gli uni e le altre; e liberare, quin-
di, le immagini dal vincolo che impone loro di considerarsi rappresentazioni di qualcosa di esterno,
di appartenente a un altro mondo.
Ma a trarre maggiori vantaggi da questa rottura del vincolo che lega un oggetto alla sua rappresenta-
zione convenzionale sarà soprattutto la mente dell'uomo, che si libererà finalmente dal ''senso co-
mune'' che la stringe in una morsa impedendogli di comprendere il mistero del mondo.
La condizione umana (1933)

Nel maggio 1933 appare per la prima volta l’opera dal titolo La condition humaine , ad olio su tela
e, nel 1935, Magritte dipinge un altro quadro con lo stesso titolo e motivo. Gettando un primo
sguardo sull’opera, si può osservare la raffigurazione di una tela sorretta da un cavalletto posta al
centro del dipinto; la tela cela una parte del paesaggio naturale al di là del vetro. La parte di paesag-
gio nascosta sembra essere rappresentata dalla tela nel dipinto. Sorge spontanea la domanda: ciò che
vediamo rappresentato nella tela in primo piano corrisponde davvero al paesaggio al di là della fi-
nestra?

Magritte si espresse molte volte su La condition humaine nel 1938. Il passo che ci è più congeniale
lo riprendiamo da una conferenza dello stesso anno:

L’albero rappresentato su questo quadro nasconde quindi l’albero situato alle sue spalle, fuori dalla
stanza. Per lo spettatore si trova allo stesso tempo sul quadro, dentro la stanza, nel pensiero (pensèe)
e all’esterno, nel paesaggio reale. E’ così che noi vediamo il mondo, lo vediamo all’esterno di noi
stessi e tuttavia non ne abbiamo che una rappresentazione (reprèsentation) dentro di noi .

La tela posta sul cavalletto si trova all’interno di un’ opera a sua volta dipinta, siamo in presenza di
un tipico espediente magrittiano di quadro nel quadro.
Si tratta di un vero e proprio paradosso rappresentativo in cui lo stacco tra illusione e realtà (ovvero
tra scenario naturale e natura rappresentata) diviene quasi impercettibile.
Ma se andiamo ad analizzare bene il quadro, ci accorgeremo che vi sono alcuni elementi che vanno
a svelare l'inganno del dipinto nel dipinto. Li elenco qui di seguito:
· la continuità lineare tra la tela e il paesaggio retrostante viene interrotta sulla sinistra, dove av-
viene una sovrapposizione tra il dipinto sul cavalletto e la tenda posta ai lati della finestra;
· lo sfalsamento dei piani è evidente anche sulla destra, dove si nota il bordo bianco della tela in-
chiodata ai listelli;
· infine potremmo affermare macroscopicamente che il quadro non è il paesaggio .

La continuità tra la tela e il paesaggio nascosto viene interrotta e la rappresentazione non può che
svelarsi come tale: essa non può più sostituirsi al reale; il quadro non è il paesaggio, la pittura del
pretesto “reale” si è rivelata pittura.
Ora possiamo affermare con sicurezza che la dialettica non è tra la realtà e la sua riproduzione, ma
tra due immagini della realtà.
La finestra è chiaramente un’apertura sulla realtà esterna ma allo stesso tempo non dobbiamo di-
menticare che è una rappresentazione della stessa, che incornicia e distanzia come un vero e proprio
quadro.
Con La Condizione umana I entra nuovamente in questione, come del resto in molte altre opere di
Magritte (ad esempio Ceci n’est pas une pipe), la sfiducia dell'impossibilità di una corrispondenza
tra immagine e realtà.
Questa considerazione ci è permessa perché la tela dipinta da Magritte può solamente ambire alla
sostituzione del reale, ma non esserne fedele a tal punto da poterlo sostituire.
Un occhio attento infatti analizzando l’opera in tutti i suoi dettagli potrà notare che ciò che è rappre-
sentato sul quadro non corrisponde necessariamente a quello che nasconde.
La spiegazione sta infatti nel particolare intenzionale della tenda, nascosta dalla tela sul cavalletto
ma non riprodotta; il quadro prosegue infatti la descrizione del paesaggio che si presuppone ci sia
dietro, anche se di ciò non potremmo mai essere sicuri.
E’ una piccola menzogna, atta a generare il sospetto di bugie più consistenti, come ad esempio,
l’identità di rappresentazione e realtà, messaggio cardine dell’opera magrittiana.
La condizione umana, proclamando la sua assoluta sincerità, dice la sua prima bugia rivelandoci
così che la menzogna fa parte dello statuto di ogni rappresentazione .
La condizione umana I (1933) è il capostipite di una lunga serie di variazioni sul tema in cui trover-
emo sempre lo stesso tipo di problema, come lo chiama lo stesso artista, quello della finestra .

La condizione umana II (1935)


L’opera dipinta nel 1935, infatti, porta il titolo La condizione umana II , è sempre un modello ma-
grittiano di “quadro nel quadro”. Anche qui entra nuovamente in gioco il rapporto tra la realtà ester-
na e la sua rappresentazione generando il solito circolo che non ci permette più di distinguere il
vero dal falso.
La tela del 1935 presenta alcune variazioni rispetto alla prima variante del 1933, fino ad ora presa in
analisi.
Nella Condizione umana II notiamo infatti che il cavalletto è posto in un punto diverso, non si pone
più al centro della finestra coprendone gran parte del paesaggio retrostante ma è leggermente spos-
tato sulla destra. Il fatto che la tela posta sul cavalletto nasconda solo in minima parte il paesaggio
retrostante permette una continuità di piano: un passaggio lineare del mare che procede senza inter-
ruzione dall’orizzonte alla tela.
In questo modo Magritte mescola perfidamente il quadro con il suo modello: un travaso continuo
dell’uno nell’altro , provocando una sorta di confusione nello spettatore il quale non sarà più in gra-
do di distinguere la rappresentazione dalla realtà.
Avviene infatti uno slittamento da sinistra a destra, dall’orizzonte alla tela, che contribuisce ad au-
mentare l’ambiguità dell’opera e non ci aiuta a distinguere tra modello e copia.
L’artista belga ci pone di fronte un altro esempio di menzogna rappresentativa che vuole dichiarare
se stessa: non è possibile alcuna rappresentazione che possa dichiararsi fedele alla realtà.
Il dipinto posto sul cavalletto nella Condizione Umana II non vuole essere imitazione del paesag-
gio retrostante in quanto si pone come continuità di esso; neppure quest’ultimo però si dichiara re-
ale mescolandosi all’immagine dipinta in primo piano e facendo parte a sua volta della stessa cor-
nice che li racchiude in un’unica immagine; dalla generazione creata dal pittore di questo circolo vi-
zioso si svela lo statuto fittizio dell’immagine magrittiana che, seguendo lo statuto di ogni rappre-
sentazione, non potrà mai ambire di sostituirsi al reale ma solo rimanere pura similitudine che non
trabocca mai all’esterno del quadro .

Il titolo del quadro, La condition humaine, nonostante la sua ambiguità, suggerisce che la
profondità problematica della tela non può riguardare esclusivamente l’ambito della pittura ma si
addentra in un terreno completamente diverso. Il rapporto che si viene a creare tra le parole .
La condizione umana e l’immagine dipinta ha un ruolo puramente ambiguo ed enigmatico tanto da
negare allo spettatore qualsiasi possibilità interpretativa o corrispondenza tra immagine e parola
Spesso in Magritte il titolo di un quadro e il quadro, come sottolinea Brandt, stanno in un rapporto
tra loro precario e non hanno assolutamente a che fare l’uno con l’altra.
I titoli dei quadri non sono esplicativi e i quadri non sono illustrazioni dei titoli. La relazione fra il
titolo e il quadro è poetica . Sottolinea lo stesso.

Seguendo i consigli di Magritte e tornando all’analisi dell’opera principale, cui è dedicato questo
capitolo, La condizione umana, potremmo sostenere senza ombra di dubbio che il quadro e il titolo
condion humaine non hanno assolutamente a che fare l’uno con l’altra .
Dunque se andiamo a riflettere sul titolo per sé stesso e ci sleghiamo dal paesaggio e dal cavalletto
come sole raffigurazioni, ci renderemo conto della portata filosofica della Condition humaine; sca-
valcando l’ambito della sola pittura, egli si addentra in un vero e proprio problema gnoseologico.
Se andiamo a rileggere ciò che Magritte sostenne a proposito dell’opera nel 1938, scorgeremo un
paragone tra la visione dell’albero nel dipinto e la nostra visione del mondo in generale.
L’albero come la realtà sono presenti sia all’esterno di noi, sia nel pensiero (ovvero ce ne creiamo
una rappresentazione interna). Questa osservazione ci aiuta a comprendere anche il titolo.
La nostra conoscenza del mondo esterno è dunque analoga all’oggetto-albero del quadro che si tro-
va all’interno della tela: si mostra in quanto rappresentazione e, allo stesso tempo, cela quello che
c’è dietro di esso nel paesaggio reale. Vi è dunque la possibilità che dietro l’oggetto dipinto vi sia
davvero il suo corrispondente reale, al di là della finestra. Ma la possibilità rimane tale, non diviene
garanzia, perché di fatto davanti a noi abbiamo solo una rappresentazione dell’albero. Allo stesso
modo, non possiamo che avere delle rappresentazioni del mondo esterno .
Secondo il pensiero esplicato attraverso le immagini di Magritte, tutto ciò che vediamo del mondo
esterno infatti, non è che una rappresentazione di ciò che vogliamo vedervi: non parliamo perciò di
un mondo esterno oggettivo, bensì di un mondo esterno soggettivo (una mia rappresentazione).
Così, come l’albero attraverso la sua raffigurazione nasconde l’esterno, anche le rappresentazioni
che ci creiamo sul mondo vanno a sostituire (o per lo meno alterare) la realtà effettiva.
Allo stesso modo noi possiamo avere solo l’illusione di conoscere effettivamente la realtà com’è,
perché di fatto ne possiamo solo percepire l’apparenza. E il pittore, attraverso l’esempio della raffi-
gurazione, ci pone davanti al limite umano: non ci resta che una rappresentazione del mondo tutta
nostra e non potremmo mai effettivamente sapere com’è il mondo esterno, così come non potremmo
mai sapere cosa c’è al di là della tela nella Condition humaine.
La visione esterna sarebbe solo una mera apparenza; una velo (o nel caso dell’opera, una finestra)
che ci fa vedere il mondo indirettamente e, inevitabilmente lo altera.

La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James) (1937) .

Un uomo di spalle, vestito elegantemente e con i capelli accuratamente tagliati, è in piedi di fronte a
uno specchio. La resa pittorica è molto accurata e la precisione quasi fotografica. Ogni elemento è
reso molto realisticamente: il marmo della mensola, la cornice dello specchio, i capelli perfetta-
mente acconciati, la copertina del libro, di cui riusciamo persino a leggere titolo e autore. Le nostre
convenzioni percettive vorrebbero subito farcelo riconoscere come un normale ritratto allo spec-
chio, ma le nostre aspettative sono spiazzate. Contro ogni logica, il volto non si vede. Rimaniamo
disorientati, in preda all'inquietudine .

Per tentare di capire "La riproduzione vietata", andiamo al cuore della visione magrittiana: la pittura
è uno specchio infedele della realtà; ha insito in sé un principio di irrealtà. Come lo specchio non è
ciò che riflette, così la pittura non è ciò che riproduce. Essa non duplica la realtà, ma può disporre a
suo piacimento delle apparenze visibili, imponendo loro una logica che è in contrasto con le comuni
leggi della percezione.
Difatto siamo difronte un dipinto che sembra rispettare i canoni della realtà effettiva, ma subito ci
rendiamo conto che non è così, ed è questo soprattutto a disorientare e inquietare lo spettatore.
Magritte si dichiara innanzitutto un pittore di idee, di pensieri visibili, un pensiero reso per immagi-
ni. La sua pittura è di natura speculativa, si potrebbe dire filosofica, in quanto lo shock estetico pro-
vocato dall'immagine dipinta non può mai essere separato dalla riflessione, dal piacere della mente
che viene costretta al pensiero.
La pittura non copia la realtà, non celebra le apparenze, ma costruisce immagini in grado di adden-
trarsi nella natura profonda, segreta del reale, nel suo mistero nascosto e invisibile.
Il titolo di questa opera, La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James), come tutti i titoli delle
opere di Magritte, non è descrittivo o identificatore, ma un ulteriore depistamento. Come le immagi-
ni del quadro, anche le parole che compongono i titoli mirano a provocare uno shock poetico, in
grado di penetrare il mistero che gli oggetti dissimulano.
Nel quadro si evice una sorta di sdoppiamento, di dicotomia , tra l’uomo e il suo riflesso .
Il mistero del quadro sta tutto li . Nell’impossibilità di avere una visione veritiera di noi stessi ,
poichè lo specchio ci mostra nient’altro che un riflesso irreale . L’identità del personaggio nel quad-
ro viene così nascosta, e l’idea che la nostra immagine riflessa rispecchi noi stessi viene messa in
dubbio .
C’è davvero un uomo riflesso nello specchio ? Impossibile dirlo . Tramite questo quadro vengono
messi in luce i limiti dell’essere umano che non possiede la capacità di vedersi propriamente per
quello che è .
Nel 1940, per timore dell'occupazione tedesca, si trasferisce con la moglie nel sud della Francia,
a Carcassonne.
In questo periodo sperimenta dapprima una pennellata pseudo-impressionista e poi la tecnica fauvis-
ta.
La fase “impressionista”, è stata letta come una concessione allo stile e alla bella pittura e indica an-
che l’indifferenza verso il lato tecnico del dipingere.
A questo periodo appartiene Ii Ritorno di Fiamma.

Il quadro, è una ripresa letterale della copertina della prima edizione in volume del romanzo ''Fanto-
mas'' di Pierre Souvestre e Marcel Allain. A parte qualche variazione nel panorama parigino, unica
modifica di rilievo è la sostituzione del coltello tenuto in mano dal criminale mascherato con una
rosa.
Pur rientrando di diritto nella fase del Surrealismo in pieno sole, ''Il ritorno di fiamma'' ispira più in-
quietudine che serenità, soprattutto per la dominante rossastra che ne smorza i toni.
Quanto al tema è curiosa questa ripresa relativamente tarda di una passione che aveva acceso il gio-
vane Magritte, ma che dopo gli anni Trenta, egli aveva molto ridimensionato.
Che sia proprio qui la chiave del quadro, nel ritorno di fiamma di una passione ormai data per estin-
ta ? Il protagonista dell' “Assassino minacciato”(1927) è ritornato con una rosa in mano: forse Ma-
gritte vuole dirci che anche dietro le immagini luminose di questi anni c'è l'ombra di Fantomas ?
Protagonista di una fortunata serie di romanzi neri e di cinque film firmati da Louis Feuillade, Fan-
tomas è un genio del crimine, un campione di crudeltà: con lui il mistero si cala nel quotidiano, nel-
la realtà grigia della metropoli.
La scienza di Fantomas è più preziosa della parola.
Non la si indovina, e non si può dubitare della sua potenza''La scienza di Fantomas è la capacità di
dar vita al mistero, di non essere mai uguale a se stesso, di violare ogni legge.

Nel 1948 Magritte scrive al suo socio Louis Scutenaire, scrittore e poeta belga, che è giunto il mo-
mento di risvegliare il buon gusto di Parigi. Scutenaire ne è estasiato e inizia a buttare giù testi pro-
vocatori.
Pertanto in vista di una mostra personale a Parigi ,Magritte dipinge un quadro al giorno con un rit-
mo furioso, impulsivo e senza freni.
Tale proposito nasceva da un senso di frustrazione nei confronti di Parigi , un tempo culla della let-
teratura e dell’intelletto. E’ il periodo cosiddetto, “Vache”.
Il periodo Vache coincideva con un momento in cui Magritte riteneva che Parigi avesse perso la sua
supremazia. E’ un momento di rivolta per l’artista , che realizza circa 30 opere che volevano essere
una vera e propria provocazione nei confronti del pubblico parigino.
Le tele dallo stile rapido, molto colorato e sopratutto caricaturale, strizzavano l’occhiolino al movi-
mento dei “Fauves”.
Con queste opere Magritte voleva liberarsi e tornare ad uno stile che aveva per certi versi abbando-
nato ricorrendo all’astrazione. Sperava di riscoprire il piacere delle immagini, non in senso poetico
ma quel piacere che le immagini suscitano attraverso la loro stessa natura e i loro colori dominanti.
Con numerosi riferimenti storici – a James Ensor, Henri Matisse o Joan Miró – Magritte ridicolizza
i tradizionali valori culturali e le norme estetiche. Contrariamente a quanto accade con le sue opere
dal taglio più “classico” dove primeggiano la precisione e l’aspetto concettuale, le opere del Pério-
do vache ci sorprendono per la loro esplosione cromatica, la loro bidimensionalità, la velocità di
realizzazione e l’assoluta, raggiante, diretta spontaneità.
Questo era il suo modo di esaltare e distruggere allo stesso tempo il mondo della pittura.
Per tanto 24 dipinti sgargianti vengono sbattuti in faccia ai critici parigini per 20 giorni, dallo stor-
pio ,un divoratore di pipe, a il motanaro un un rinoceronte che si arrampica sulle colonne del clas-
sicimo.
La reazione della gente è universalmete negativa. E nessuno approva il tonante attacco di Magritte.
Il giorno dopo l’esibizione ,scrive a Scutenaire risentito e sarcastico.
A questo punto Magritte sembra essersi arreso e promette di ritornare allo stile precedente .
Abbandonati il neoimpressionismo e il fauvismo, il magnifico estro di Magritte riprese la propria
andatura ripartendo daccapo e fu un susseguirsi fino alla morte di quadri splendidi, mettendo da
parte questi due periodi senza lasciare traccia. Se ce ne furono, sono impercettebili; la scelta dei col-
ori, spesso più generosa di prima, può essere una di queste. Nei nuovi lavori vediamo persistere e
fortificarsi sempre di più, le idee fondamentali, la scelta del dizionario degli oggetti preferiti e il vo-
cabolario originale degli inizi. E' all'interno di questi principi che si colloca la maggior parte dei
quadri nati tra il 1948 e il 1967.

La memoria (La Mémorie ), 1948

L'immagine sembrerebbe nascere da una riflessione sulla questione della statua; qualcosa di inani-
mato che copia le sembianze di qualcuno che ha avuto una vita, una storia, una durata nel tempo.
Così il volto in gesso di un personaggio femminile, con gli occhi chiusi e un sorriso discreto tra le
labbra, non conserva della vita di un tempo se non una macchia di sangue. Di fianco sullo stesso ri-
piano, una foglia accartocciata e un sonaglio bianco. Nelle diverse versioni dello stesso tema, la tes-
ta in gesso compare sempre affiancata a un altro elemento, quasi sempre a formare una natura mor-
ta.
E tra vita e morte, esistenza e dissoluzione si colloca tutto il percorso della memoria, persistenza
viva e bruciante di cose defunte, riemergere alla coscienza di u dramma che si credeva dimenticato.
Resta da capire se la macchia di sangue provenga dalla statua - segno evidente di una piaga che non
riesce a rimarginarsi - o se si tratti, come lascia supporre la sua conformazione, di uno schizzo pro-
veniente da un fatto di sangue di cui la statua è stata testimone silenziosa.
Dietro un'immagine di questo tipo ritroviamo ancora, ormai a distanza di anni dalla sua scoperta, la
traccia del ''Canto d'amore'' dechirichiano: è una nuova visione, nella quale lo spettatore ritrova il
suo isolamento e intende il silenzio del mondo.
Golconda (1953)

Il nome dell'opera, suggeritagli dallo scrittore e poeta belga surrealista Louis Scutenaire, fa riferi-
mento all'omonima città ormai ridotta in rovina che si trova nell’India centro meridionale. Fin dal
XII secolo epoca dalla sua edificazione Golconda fu celebre in tutto il mondo per la ricchezza dei
suoi giacimenti di diamanti .
Per secoli il nome di Golconda divenne per gli europei sinonimo di incredibile ricchezza. Dopo un
periodo di decadenza venne conquistata dall’imperatore Mughal Aurangzeb, che la annesse al suo
impero 1687. Mughal Aurangzeb,assediò il forte cittadino per 9 mesi e riuscì aconquistarlo tramite
il tradimento di un ufficiaale che aprì un ingresso secondario.
Perchè Magritte pensava che il nome di Golconda si adattasse così tanto bene al dipinto ?
La sensazione che si ha osservando l’opera è di angosciante dissociazione e alienazione ,una schiera
infinita di uomini tutti uguali sospesi a mezz’aria in bombetta e cappotto scuro si staglia nel cielo e
pare galleggiare in mezzo alle case di una città triste e grigia.
Si differenziano nei volti e nella direzione del loro sguardo, hanno dimensioni diverse in base alla
loro distanza dall'osservatore, quelli sullo stesso piano sono perfettamente equidistanti e nel com-
plesso non si sa se stiano cadendo dal cielo o levitando verso l'alto. La composizione si staglia su
uno sfondo azzurro quasi bidimensionale, mentre nella parte bassa è possibile vedere delle tipiche
case belghe.
Queste ci danno un suggerimento sulla posizione dell'osservatore: essendo visibile solamente la
sommità delle abitazioni, è possibile che anche chi osserva il dipinto sia sospeso a mezz'aria come i
curiosi personaggi, identificandosi addirittura come uno di essi.
Questi individui diventano un antitesi di ciò che è un essere umano , vivo entusiasta ,creativo , lib-
ero, facendo un paragone ricordano l’accostamento di scuri pezzi di carbone a diamanti scintillanti ,
ciò che sono e ciò che potrebbero essere.
L’individualità omologata si oppone alla libertà creativa. Qualcuno ha tradito la sua consegna come
l’ufficiale venduto al gran Mughal e ha condannato la città , creando l’ambiente ideale per un ditta-
tore, che trova terreno adatto al suo potere assoluto dove vi è omologazione di pensiero e comporta-
mento . Golconda diventa metafora dello stile di vita alienante di molte metropoli moderne, che ri-
ducono le persone ad automi , oltre che allegoria dell’infelicità di chi si dimentica della propria nat-
ura di essere umano , vivo , libero, creativo e inimitabile.
L’impero delle luci (1953-54)

Nello sfondo campeggia un cielo azzurro cosparso di vaporose nuvole bianche, invece in primo pia-
no è stata rappresentata una strada buia con un lampione che rischiara debolmente un'abitazione im-
mersa in un paesaggio cupo e puramente notturno. Le forme sono tridimensionali, la tecnica è im-
peccabile, quasi accademica, ma la particolarità del dipinto sta nella realtà che vi è rappresentata.
L'opera accosta due momenti diversi, opposti tra loro: la metà superiore è vista in pieno giorno,
quella inferiore di notte. La luminosità del sole è contrapposta alla sensazione di turbamento e mal-
essere tradizionalmente collegato all'oscurità; l'obiettivo dell'artista è stato quello di creare un effet-
to di shock, di spaesamento nei confronti dello spettatore. Citando direttamente Magritte:
«Nell'Impero delle luci ho rappresentato due idee diverse, vale a dire un paesaggio notturno e un
cielo come lo vediamo di giorno. Il paesaggio fa pensare alla notte e il cielo al giorno. Trovo che
questa contemporaneità di giorno e notte abbia la forza di sorprendere e di incantare. Chiamo questa
forza poesia».
La forza del dipinto sta in questa visione totale , Magritte ci mostra quello che nessuna esperienza
del reale potrà mai mostrarci , piuttosto si avvicina al mondo onirico dove le leggi naturali e della fi-
sica vengono sconvolti e possiamo sperimentare le associazioni apparentemente più assurde .
Nel 1961 René Magritte era un artista di fama internazionale; identificato dai suoi dipinti più famo-
si, era ancora considerato un agente segreto, una misteriosa figura riconosciuta per l'abito scuro e la
bombetta. I suoi hobby erano la cinematografia amatoriale e gli scacchi; gli piaceva fare passeggi-
ate con la moglie e il suo cane.
A 63 anni disse: "Sto invecchiando, ho mal di denti e mal di testa, e non c'è niente che io possa fare
a riguardo". Magritte visse in una casa e in un ambiente confortevole nei pressi di Bruxelles, in un
silenzio schiacciante e anche se famoso, i suoi dipinti non ebbero prezzi elevati a differenza di altri
importanti artisti surrealisti (ad esempio Dalì).
Nel 1962 continuò a fare murales e ne progettò uno per il Palais de Crogress intitolato "Les Myster-
eouses Barracade." In quel periodo comincò a fare edizioni limitate di litografie.

Intorno al 1963 scoprì di essere malato e viaggiò alla ricerca di un clima più mite, trascorrendo del
tempo in Italia a Ischia. Nonostante i suoi problemi di salute nel 1965, fece il primo viaggio negli
Stati Uniti, in occasione della retrospettiva al Museum of Modern Art di New York. Magritte si ri-
ferì al lavoro di questo ultimo periodo come i suoi "figli" trovati. Nei primi mesi del 1967, dopo una
mostra personale a Parigi, intraprese la realizzazione di otto sculture. Purtroppo non ebbe il tempo
di vedere le sue opere in bronzo.
Magritte ha continuato a dipingere fino al 1967, anno della sua morte; morì di cancro al pancreas
nella sua casa il 15 agosto 1967, undici giorni dopo l'apertura di una retrospettiva delle sue opere
presso il Boijmans-van Beuningen Museum di Rotterdam.
Lasciò un dipinto incompiuto sul suo cavalletto. Il lavoro era stato commissionato da un giovane
collezionista di Colonia, che voleva qualcosa sul genere dell' "Impero delle luci", ma il quadro ri-
mase sul suo cavalletto fino alla morte di Georgette Magritte nel 1986.

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