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La Fine Disattesa

Apocalissi fredde nel cinema

L’Apocalisse di Giovanni reclama l’attenzione del lettore da due fonti di


sollecitazione sensoriale piuttosto equamente divise, ed entrambe condotte a
deflagrazioni di violenza formidabile: immagini, suoni. Cinema e Musica.
Giovanni riceve visioni e le trascrive sul rotolo (pellicola?) mentre si
scatena l’inaudita e smisurata colonna sonora già annunciata dai Profeti.
Forse è per questo che il Ravenna Festival del 2007, incentrato sull’opera
video di Adriano Guarnieri Pietra di diaspro (con testi dall’Apocalisse di
Giovanni e da poesie di Paul Celan), e sviluppato sul tema delle antiche e
moderne apocalissi, pensò di inserire nel catalogo il “soggetto” di Blaise
Cendrars La fine del mondo filmata dall’angelo N.-D. 1 e un discorso sulla
Apocalisse tenuto da Andrej Tarkovskij nel 1984 presso la St. James Church
di Londra (in Italia il testo della conferenza era già stato pubblicato, insieme
ad alcuni commenti, dalle Edizioni della Meridiana, Firenze, 2005).
Il cinema si è confrontato solitamente col tema dell’apocalisse come fine
violenta del mondo, per cercare di raccontarne talvolta il “durante”, talvolta
il “dopo”, ma tenendosi alla larga dai suoi significati più stretti, quello della
rivelazione profetica e quello messianico, che la collegano alla speranza (o,
meglio, alla certezza) che la fine sia soltanto quella di una storia segnata dal
male, un transito verso l’avvento del regno di Dio. Così abbiamo un cinema
“apocalittico”, vera e propria branca di quello di fantascienza, che cataloga
tutte le possibili fini provocate dalla ribellione della natura, dalla follia
tecnologica e/o bellica dell’uomo o di invasori extra-terrestri, e abbiamo un
cinema più “metafisico” che mappa tutte le verosimili wastelands, i
paesaggi post-catastrofici. In entrambe le prospettive domina la tracotanza
di un’umanità che sa di star giocando a flipper col pianeta e con la stessa
propria storia, ma sa anche – o pensa di sapere – che il giorno del tilt lo
vedrà qualcun altro.
1
Dio decide di investire parte del suo grande capitale nel mondo dello spettacolo, e dopo
aver fallito come organizzatore di eventi passa al cinema con un’imprresa che nessun altro
produttore potrebbe tentare: filmare la fine del mondo, assumendo come operatore l’angelo
dell’Apocalisse che abita la facciata di Notre-Dame. Ma al termine delle riprese, nella
cabina di proiezione salta una molla al proiettore e la pellicola si riavvolge: come nel
filmino dei Lumière Dèmolition d’un mur (riprodotto al contrario, così che il muro appena
buttato già da alcuni operai diretti da Auguste Lumière riemerge magicamente dalla nube di
povere da egli stesso sollevata), man mano che il film si srotola il mondo si rifà; l’ultima
inquadratura ci mostra Dio seduto nel suo ufficio, come all’inizio del film. Cendrars scrisse
nel 1917 questa satira, che sembra fondere sotto un unico amarissimo sberleffo la morte del
sacro e la arrogante pretesa del cinema di conservare a tutti i costi la vita, o di prolungarla,
con l’intento di farne proprio un film: poi il testo fu pubblicato nel 1919 come racconto,
con illustrazioni di Fernand Léger, in una tiratura di 1.225 copie che diventeranno poi un
prezioso libro d’artista (una copia è conservata anche al MoMA di New York).
Vi sono state epoche storiche durante le quali il senso della fine, sospeso
fra desiderio del suo compiersi, e terrore per le modalità del suo compiersi,
permeava la vita degli uomini. Oggi, superato il varco di due scadenze
millenaristiche, lo spettacolo del mondo parrebbe offrire abbondanti prove,
a chi le cercasse, che lo scenario per il Giudizio Universale è in via di
allestimento (la terra che trema, il cielo che scompare – dietro le cortine
dell’inquinamento -, le guerre e le violenze crescenti fra le nazioni, i
cataclismi). Eppure quella fine sembra paradossalmente ritrarsi, allontanarsi,
dissimularsi. Così si volge lo sguardo ai pronostici dei Maya, che hanno il
pregio di aver cronometrato il momento preciso del THE END anziché
lasciare agli uomini il tempo di rendersi conto del proprio ruolo nella
predisposizione del set. Nel suo discorso Tarkovskij vedeva nell’Apocalisse
“l’immagine dell’animo umano con le sue responsabilità e i suoi doveri”,
ovvero un ammonimento a trovare nella relatività del tempo la condizione
spirituale necessaria per interrogarsi sulla “insensibilità e l’apatia” al
cospetto della vita e del mondo, “equiparate al peccato, a un delitto nei
confronti della Creazione”.
Da qui la metafora delle “apocalissi fredde”: apocalissi per un’umanità
che non è più all’altezza dell’Apocalisse, del proprio mito escatologico e
della vis dirompente delle relative profezie, dello stato di veglia lucida che
esse domandano; e si lascia piuttosto trascinare, insensibile e apatica come
diceva Tarkovskij (o magari istericamente effervescente, non perciò meno
obnubilata), dalla propria desolazione verso lo s-finimento; verso una fine
dislocata oramai da un, qualsiasi, fine.

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