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CESARE PAVESE, La vita

Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo (Cuneo). Ultimo di
cinque figli, tre dei quali morti in tenera età. Il padre un operaio, la madre
benestante. Frequenta la prima elementare nel suo paese natale. Gli studi
elementari li completerà a Torino, presso l'Istituto privato "Trombetta". Morto il
padre, frequenta il ginnasio-liceo presso i gesuiti e poi al "Massimo D'Azeglio". Il suo
Professore di latino e italiano è Augusto Monti, antifascista, amico di Antonio
Gramsci e Pietro Gobetti, che avrà un peso determinante nella formazione dello
Scrittore. Da liceale legge molto. In particolare D'Annunzio e Guido da Verona. Nel
1926 supera l'esame di maturità. Invia le sue prime liriche a "ricerca di poesia" ma gli
vengono respinte. Studia l'inglese e grazie ad Augusto Monti, pedagogo illuminato di
grande prestigio politico e civile, conosce Noberto Bobbio, Leone Ginzburg e Vittorio
Foà. Nel 1927 si iscrive alla facoltà di lettere all'Università di Torino e studia
Benedetto Croce. Si laurea a pieni voti ma non può insegnare perché non iscritto al
fascio. Per vivere traduce James Joyce, Melville, Dos Passos. Nel maggio 1935 viene
arrestato e condannato a un anno di confino in Calabria. Alla fine della guerra fu uno
dei collaboratori più illuminati e attivi della casa editrice Einaudi. Dopo la Liberazione
rientra a Torino e si iscrive al Partito Comunista e collabora a "l'Unità’’. È un periodo
intenso di scrittura. Frequenta Italo Calvino e Davide Lajolo. Fa la spola tra Roma e il
paese natale dove lo aspetta Pinolo Scaglione, la cui vicinanza lo rinfranca e lo
rasserena. Nel 1950 vince il Premio Strega per "La bella estate". Il 27 agosto 1950 si
suicida in una camera d'albergo a Torino.
LA TEMATICA di Cesare Pavese
Nella prima stesura di "Nei dialoghi con Leucò" così Cesare Pavese si presenta:
"Molti si ostinano a considerarmi un testardo narratore realista, specializzato in
campagne e periferie americano-piemontesi. Io sono questo ma anche uno scrittore
autentico con i miei quarti di luna, i miei capricci, la mia solitudine interiore, la
grande difficoltà che ho nell'integrarmi dalla campagna alla città. Solo il ritorno
all'adolescenza come periodo mitico della mia vita e, la descrizione delle Langhe,
come simbolo del rapporto immediato con la Natura, riescono a darmi consolazione
e a placare il mio vuoto interiore."
Amante della letteratura americana e anglosassone studiò, tradusse e divulgò in
Italia Melville, Don Passos, Joyce. Approfondì Stendhal, Hemingway, Flaubert,
Dostoevskij, Lawrence, definendoli tipici narratori in prima persona. Lo scrittore ama
gli Autori sopracitati ma non disdegna gli iniziatori del Romanzo Italiano come prosa
narrante che sono anzitutto dei lirici: Alfieri, Leopardi, Foscolo. Diversi elementi

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narrativi lo accomunano con Giuseppe Tomasi di Lampedusa: la memoria, il rifugiarsi
nell'infanzia, la descrizione minuziosa di ciò che raccontano, anche se le situazioni e
gli oggetti sono diversi. Il Principe Tomasi descrive minuziosamente il mondo della
nobiltà, i suoi palazzi, i suoi decori, le sue ville.... Pavese descrive un mondo
semplice, agreste, le sue colline ricche di alberi da frutto, di vigne, il cielo,
l'orizzontale marino, la luna complice, i falò che illuminavano e riscaldavano i cuori e
le speranze di quella povera gente, le canne, i fiumi…… Concorda con lo Scrittore
Siciliano nell'affermare che tutte le passioni passano e si spengono tranne le più
antiche, quelle dell'infanzia. Solo rifugiandosi nel suo ricordo gli scrittori ritrovano il
loro Paradiso perduto. Anche il pensiero della morte e la loro inquietudine li
accomuna. In Tomasi di Lampedusa il tramonto della classe nobiliare; in Pavese la
scomparsa della civiltà contadina. Mentre l'ironia salva lo Scrittore Siciliano, Pavese
non supera il male del vivere e mette fine alla sua vita col suicidio. Così scrive: "Io
sono solo, sono nato per vivere sotto le ali di un altro, sorretto e giustificato. Mi
illudo di bastare da solo a rifare il mondo ma per quanto viva sia la gioia di stare con
amici, con qualcuno, è più forte quella di andarmene. La vita è morte.’’ Neanche lo
confortò l'amore per l'attrice americana Constance Dowling, né la vicinanza
dell'amico di sempre Pinolo Scaglione.
La memoria è fondamentale nella sua scrittura, dissente dal Rousseau quando
affermava che "la memoria è l'assenza di fantasia." Per Cesare Pavese come per
Tomasi di Lampedusa, essa è quell'elemento che presenta le cose lontane in oggetti
rinnovati, disabituati dal tempo e dalla dimenticanza, ma grazie allo stimolo della
fantasia, le rende nuove e misteriosamente personali.
Gianfranco Contini così scrive: "Cesare Pavese è l'indiscusso Capofila del
Neorealismo italiano, grazie ai suoi studi religiosi, antropologici, sociologici, arricchiti
da una affabulazione narrativa che mescola prosa e poesia."
I suoi temi sono quelli di un borghese che teme e subisce lo sradicamento della
propria terra e cerca di inserirsi in un ambiente che esprime una società senza classi
sociali. Questo inserimento non gli riesce come scrive nel "Il mestiere del vivere": "Il
problema della vita è come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli
altri. Essa è terribile e meravigliosa nello stesso tempo perché ti permette di
conoscere te stesso."
Prima di morire manderà una copia della "La luna e i falò " al suo Maestro Prof.Monti
con questa dedica: "Et nunc demitte me domina" ovvero "E adesso lasciami morire".
Pochi mesi dopo si tolse la vita.

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Cesare Pavese – La luna e i falò, Commento critico
La stesura dell’ultimo romanzo occupò Pavese dal 18 settembre al 9 novembre del
1949, sebbene per La luna e i falò si possa parlare di una gestazione assai lunga, in
quanto antichi e lungamente elaborati sono i temi destinati a confluire all’interno del
romanzo. Si registra un ritorno dello scrittore ad una posizione infantile di prima di
scoprire il mondo (adolescenza): è lo stesso ritorno che il protagonista del romanzo,
Anguilla, sta, a sua volta, compiendo. Il diario, Mestiere di vivere, registra le
affermazioni di Pavese relative all’importanza del recupero memoriale dell’infanzia
(sulla natura mitica dell’infanzia non si dimentichino gli scritti di Feria d’agosto, in
particolare L’adolescenza e Mal di mestiere). Vi è la presenza, nel romanzo, di un
motivo perenne, ovvero la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua
forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia. Conclude Pavese ‘’in arte si
esprime bene soltanto ciò che fu assorbito ingenuamente’’ (Il mestiere di vivere). Per
venire a un momento più prossimo alla stesura del romanzo, si legga quanto osserva
Pavese nel tornare con la memoria al momento in cui (tredici o dodici anni) si
staccava dal paese, intravedeva il mondo, senza aver ancora la consapevolezza, che
solo l’esperienza e l’età adulta gli avrebbero regalato. Ad ulteriore conferma
dell’importanza dell’infanzia, ne Il mestiere di vivere, si legge: ‘’Tutto è nell’infanzia,
anche il fascino che sarà avvenire’’. Il ritorno ai luoghi dell’infanzia significa per
Anguilla riappropriarsi anche delle situazioni in essi agite, le cosiddette ‘situazioni
tipiche’. La vocazione letteraria si concretizza nel raccogliere tutte le sue situazioni
tipiche e legarle insieme in un tessuto narrativo che renda loro giustizia. Scorrendo il
diario, si viene a sapere che nella mente di Pavese si andava delineando il progetto di
un ‘’nuovo libro’’. Il 22 giugno del ’49, nell’accingersi alla stesura del nuovo libro, lo
scrittore dichiara la sua soddisfazione per essere giunto a quello che considera
essere il momento più alto della propria produzione come narratore. È un’ispirazione
forte quella che conduce Pavese a completare il romanzo nel giro di pochi mesi. Il 17
novembre, Pavese annuncia nel Mestiere: ‘’9 novembre finito la Luna e i falò’’. Dal 18
settembre, quando realmente Pavese iniziò la stesura del romanzo, sono meno di
due mesi. Quasi sempre un capitolo al giorno. È certo l’exploit più forte sinora. La
luna e i falò rappresenta per lui un approdo, una conclusione. L’infanzia è
l’argomento sul quale ciclicamente egli è ritornato di opera in opera: un’infanzia che
Pavese non si è limitato a ricordare, ma ha teorizzato e soprattutto vissuto, o forse
sarebbe meglio dire rivissuto, isolandosi e meditando. L’idea che La luna e i falò sia
da considerarsi il punto più alto della sua produzione torna insistentemente anche
nelle lettere scritte da Pavese immediatamente dopo la pubblicazione. Ad Aldo
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Camerino confessa essere stato questo il libro che si portava dentro da più tempo e
che ha più goduto a scrivere, al punto di pensare di doversi per un po’ astenersi da
qualsia altra opera. Molto importante risulta essere il giudizio di Calamandrei, in
generale sull’opera di Pavese, e in specie sulla Luna e i falò. Egli afferma che questa è
grande arte e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è
filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo. Pavese trova in Calamandrei
un lettore capace di intravedere attraverso la filigrana dei romanzi pavesiani l’eternò
pena dell’uomo. Il romanzo, che si propone come summa della narrativa pavesiana,
sembra comportare un ritorno alle origini, ricollegandosi ai principali spunti tematici
già introdotti dallo scrittore nella prima delle poesie, I mari del Sud. È l’ulteriore
conferma della continuità tematica che attraverso l’intera opera di Pavese, creando
così un sistema chiuso e compatto. La luna e i falò presenta una significativa
privazione, però, come ha osservato Elio Gioanola: viene meno la dimensione
cittadina, con la tensione agonistica ravvisabile nel rapporto città-campagna, e la
bipolarità geografica si orienta su coordinate estremamente divaricate e lontane, le
Langhe e l’America. Ma la dicotomia sottolinea una lacerazione irreversibile, dal
momento che La luna i falò, riprendendo la situazione adombrata nei Mari del Sud,
ne rovescia le implicazioni di fondo: il protagonista non è riuscito a diventare come il
cugino (l’uomo che ha raggiunto la maturità e che, giungendo a dominare il proprio
destino, ritrova le sue radici); anche nel romanzo le Langhe rappresentano il punto di
partenza e il punto di arrivo, ma il ritorno prelude a un nuovo e definitivo distacco.
La condizione di ‘bastardo’ attribuita ad Anguilla (il soprannome è significativo) è, sin
dall’inizio, la metafora di un’inquietudine, di un malessere, che non trova certezze e
punti di riferimento, né sa dare risposta agli interrogativi più profondi sul piano
esistenziale. È una mancanza d’identità che il protagonista porta con sé fin dalla
nascita, come una sorta di peccato originale: i numerosi luoghi e paesi verso cui
volge lo sguardo e che giungerà poi a visitare, rappresentano anche la dispersione
sofferta da chi non avrà mai un posto in cui stabilirsi, dal momento che ‘’molti paesi
vuol dire nessuno’’. Di qui una proiezione del desiderio sempre più intensa che di
Canelli ‘’la porta del mondo’’, il limite che occorre infrangere, ma che, una volta
raggiunto l’obiettivo cercato, si ripropone come superamento illusivo e delusivo, se è
vero che già ‘’Canelli è tutto il mondo e sulle colline il tempo non passa mai’’.
L’America, che si insinua nelle pieghe del racconto attraverso i flash-back, frammenti
di immagini e di ricordi, rappresenta l’altrove e il lontano, vagheggiato
nell’immaginazione ma incapace di dare senso a una vita priva di stabilità. Di qui
l’inutilità di una esperienza tante volte fantasticata. Per il protagonista di La luna e i
falò il soggiorno americano si è rivelato un inutile tentativo di evasione e di
riappropriazione, che ha definitivamente spezzato il rapporto fra il passato (l’infanzia
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e l’adolescenza) e il presente. In America, del resto, Anguilla andava soprattutto alla
ricerca delle sue Langhe. Superando il piano individuale, lo scrittore cerca altre
verifiche sul piano della storia. A interrompere la continuità tra il presente e il
passato c’è stata anche la guerra, che non solo non ha placato il sangue di chi è
caduto ma continua a rinfocolare gli odi e le divisioni di parte. Anche l’intrusione
della storia contribuisce a scardinare le mitiche illusioni giovanili. La presenza dei
cadaveri dissepolti riassume il senso di uno sconvolgimento che ha profondamente
mutato l’ordine delle cose. Ma, nonostante la pietà umana che ispira a Nuto, questo
diviene il pretesto per la propaganda reazionaria del prete, che sfrutta l’occasione
per inveire contro i partigiani e i comunisti. Si capisce, a questo punto, che i morti
non sono serviti a nulla e che neppure l’esperienza della guerra è riuscita a cambiare
la realtà. Chi racconta ad Anguilla le vicende trascorse è appunto il compagno di un
tempo, Nuto. Nuto, che suonava il clarino girando per i paesi durante le feste, ha
insegnato al protagonista molte cose, aprendogli gli occhi di fronte alle necessitò
della vita. Per certi versi Nuto ha assolto al compito di sostituire il padre mancante
(Pavese aveva perso il padre quando aveva appena sei anni) e proprio a lui Anguilla
affiderò, prima di ripartire, l’avvenire di Cinto, il povero ragazzo sciancato, in cui ha
ravvisato un altro se stesso, ancora più indifeso e bisognoso d’aiuto. Cinto abitava
alla Gaminella, dove Anguilla era stato accolto e allevato. Finchè suo padre, il Valino,
colto da un’improvvisa crisi di follia, uccide la compagna e la madre, dà fuoco
all’abitazione e si impicca; solo Cinto, che assiste alla scena nascosto nei canneti,
riuscirà a salvarsi, pronto a difendersi con il coltello che il protagonista gli aveva
regalato. Il romanzo si rivela una sorta di autobiografia simbolica, infatti nelle
metafore indicate dal titolo, si trovano i suoi elementi rivelatori e risolutori, entro le
coordinate del mito. Il motivo della luna, allusivo al mistero del destino umano, viene
a innestarsi sul ciclo degli avvicendamenti stagionali, che regola, le opere e i giorni
della cultura contadina. Nel cielo notturno, illuminato dalla luna, si rispecchiano i
bagliori dei falò accesi dai contadini, durante le feste paesane. Simboli di vita, i falò
sono gli elementi superstiti di una tradizione rustico-popolare, arcaica, legata agli
antichi riti di propiziazione e di fecondazione della terra; agli occhi del protagonista
bambino, che li osservava impaziente e curioso, hanno rappresentano un momento
magico e iniziatico di scoperta. Ancora Nuto spiegherà il significato di questi eventi:
‘’eppure tutti i voltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più
succoso, più vivace’’. E subito dopo: ‘’la luna, bisognava crederci per forza. Perfino gli
innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano’’. È la verità, eterna e
immutabile, che Anguilla aveva dimenticato. (‘’m’ero accorto che non sapevo più di
saperlo’’). Ma il tempo del mito non coincide più con il tempo della storia, e le cose,
a chi si è allontanato, appaiono adesso irrimediabilmente mutate. Ai falò
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dell’infanzia si contrappongono altri falò, che provocano la perdita delle illusioni da
parte del protagonista e la sua decisione di abbandonare il paese. Uno di questi è
rappresentato dall’incendio appiccato dal padre di Cinto al casotto di Gaminella, che
distrugge, insieme, le ultime tracce del passato; l’altro si riferisce alla vicenda di
Santa, la figlia più piccola del sor Matteo, che il protagonista aveva lasciato quando
era ancora bambina (solo alla fine verrà a sapere che la giovane, prima
compromessa con i fascisti e passata poi con i partigiani, era stata giustiziata, quando
si era scoperto che faceva il doppio gioco). Da simboli di gioia e di vita i falò si sono
ormai trasformati in simboli di distruzione e di morte.
Antologia della critica
La Luna e i falò è la storia dell’orfano, il bastardo, che sa la miseria contadina e che è
fuggito in America; e quando ritorna ritrova il suo paese, eguale nell’immobilità delle
stagioni ma mutato per una generazione sparita, per le morti e le stragi; e di queste
gli si fa storico un amico rimasto, un altro se stesso che non è partito, che in sé porta
la volontà di intendere e cambiare il mondo. L’uomo che ha lasciato i paesi suoi e vi
ritorna è figurazione di Pavese medesimo, ma è anche, assai più profondamente,
immagine di una situazione storica degli italiani; o realmente emigrati nel grande
mondo o costretti a vivere nella contraddizione di una società imperfettamente
sviluppata, dove alle incoerenze di culture diverse corrispondono gradi di sviluppo
delle classi. Si salva, se è un salvarsi, chi non se n’è mai andato veramente, chi voleva
ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni: Nuto, un personaggio
complesso, il socialista italiano, o il ragazzo storpio, Cinto, che l’autore avvia ad
un’evasione. Lui, il personaggio, ripartirà: non si può vivere in Italia. Si può vivere
appena nelle città straniere, senza padre né madre, né patria. Avere espresso la
realtà storica di una situazione è il gran merito di questo libro. Qui, paesaggio,
situazioni, scene, son quelli consueti della campagna astigiana; ma l’occhio che tutto
rivede ha fra sé e quelle l’ambiguo alone del ricordo. I primi quattordici capitoli sono
un itinerario nel passato e una scoperta dell’intollerabile presente: dapprima
l’incontro, le conversazioni con Nuto, i ricordi di America, poi la visita al Valino.
Verranno poi altre notizie: si scopre poco a poco l’aspetto sinistro del vivere
contadino; le donne che muoiono senza cure; i vecchi che finiscono abbandonati; i
ragazzi cresciuti nella fame. Tra l’una e l’altra di queste scoperte, i ricordi dell’infanzia
contadini si ordinano in pagine bellissime; ma, a circa la metà del libro, la narrazione
pare distrarsi nei personaggi di Irene e Silvia, nella loro storia di evasioni mancate. Il
mito centrale del libro (i falò rituali, simbolo della sacralità terrestre, della
immutabilità profonda della terra) è fra gli elementi centrali del libro. Il libro si
chiude con la narrazione secca, tagliente, con il racconto della fine di Santa, una
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splendida ragazza fucilata come spia e bruciata in un crudele falò ben diverso da
quelli che fiammeggiano nella notte di San Giovanni. Era una storia che Nuto si era
tenuta in gola sin dal primo momento e che scoppia alla fine. Ne La luna e i falò il
personaggio che dice ‘io’, torna ai vigneti del paese natale dopo aver fatto fortuna in
America; ciò che egli cerca non è soltanto il ricordo o il reinserimento in una società
o la rivincita sulla miseria della sua giovinezza; cerca il perché un paese è un paese, il
segreto che lega luoghi e nomi e generazioni. Non a caso è un io senza nome: è un
trovatello d’ospizio, è stato allevato da agricoltori poveri, e si è fatto uomo
emigrando negli Stati Uniti, dove il presenta ha meno radici, dove ognuno è di
passaggio. Ora, tornato al mondo immobile delle sue campagne, vuole conoscere
quelle immagini che sono l’unica realtà di se stesso.
La critica, che è piuttosto divisa intorno al giudizio di valore da accordare a La luna e i
falò, è unanime nel ritenere il libro come una summa dei motivi umani e poetici di
Pavese. È un libro nuovo e originale, un traguardo riassuntivo solo nel senso che
trasforma in organismo coerente e concluso una serie di intuizioni e approssimazioni
riscontrabili fin dagli esordi di Lavorare stanca. Ciò che costituisce il libro come
originale pur nell’ambito di una tematica nota è la mancanza della città; o per dir
meglio, la rinuncia a vedere la campagna dal punto di vista della città. La campagna
diventa universo e orizzonte, senza per questo costituirsi come rifugio, ma
inglobando in sé i motivi del conflitto memoria-presente, istinto-ragione. Il tema del
ritorno è molto significativo: Anguilla, che torna ricco dall’America in quel paese che
l’ha visto figlio bastardo d’una miserabile famiglia di contadini, sa di compiere un
atto ineludibile, recuperando la vera essenza di sé oltre le incrostazioni che la vita
avventurosa e fortunata è venuta accumulando. Per questo egli pensa che ‘’un paese
ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dir non essere
soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche
quando non ci sei resta ad aspettarti’’. Al paese Anguilla ritorna non per tuffarsi nel
ricordo, compiendo un viaggio dalla realtà alla memoria, nel tentativo di recuperare
il tempo favoloso dell’infanzia: conduce la sua esplorazione con l’attenzione sempre
desta sull’adesso, opponendo l’attrattiva dell’una volta. Si attua in questo libro la
saldatura di memoria e realtà a cui tutta la ricerca di Pavese converge: la persuasione
che per ritrovare la condizione dell’infanzia più che sforzo mnemonico si richiede
scavo nella realtà attuale. Infatti vi è nel racconto il continuo paragone temporale,
che porta al rapido passaggio dal passato remoto al presente, dal presente al
passato e così via e che assicura la circolazione drammatica del libro, ne costituisce
anche la struttura narrativa.

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Ancora commenti critici
«La luna e i falò è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che più ho goduto a
scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse per sempre – non farò più altro»:
così scrive Pavese il 30 maggio 1950 nella lettera che indirizza a Mario Camerino.
Lo scrittore, sempre capace di un non comune distacco critico verso la sua opera, è
ben consapevole di aver raggiunto in questo testo, pubblicato poco prima della
tragica morte, la summa perfetta degli elementi fondanti la sua narrativa. A partire
dal passato mitico che rifiuta di scendere a patti col ricordo che si ha di esso («Il
grande tema di Pavese: la dolce stagione irrevocabile, la bella estate, il paradiso
perduto, la luna», per dirla con il giornalista e scrittore Davide Lajolo), passando per
le fievoli speranze di riappropriarsi di una vita sempre più passiva spettatrice di se
stessa, fino all'amore premessa di un puntuale abbandono.
Se fosse lecito parlare di “pavesismo”, esso si rivelerebbe in ogni pagina di questo
capolavoro pubblicato nella primavera del 1950. Qui Pavese ci accompagna per
mano nel suo complesso universo letterario, si mette a nudo nei suoi rovelli interiori
e nelle sue speranze. Il filtro tra autore e personaggi è sempre più sottile, alcune
figure che si muovono sullo scenario romanzesco hanno precisi referenti biografici e
non è difficile scorgere lo scrittore stesso un passo dietro le parole pronunciate da
Anguilla o da Cinto.
Beninteso, cedere alla mania di rintracciare a ogni modo persone reali alla base della
finzione letteraria sarebbe deleterio. Significherebbe smantellare un edificio
bellissimo solo per il presuntuoso desiderio di capire da dove sono state prelevate le
pietre che lo compongono. Annullare ogni distanza tra vita e letteratura è sempre un
errore da evitare. Tuttavia, sebbene non vi sia una pura sovrapposizione di
esperienze vissute nella pagina pavesiana, numerosi sono gli elementi – poi trasposti
in invenzione letteraria – tratti dalla realtà.
Nuto, personaggio ispirato all'amico d'infanzia Pinolo Scaglione, è uno dei soggetti su
cui si impernia l'intero romanzo; o meglio: Nuto è l'altro capo del filo, è il polo che
insieme ad Anguilla attiva un incessante flusso di memorie e ricordi che innervano la
narrazione.
Il libro si apre col ritorno di Anguilla nel paese natio. Emigrato in America – e qui
vissuto per anni – è ora, dopo la Liberazione, un uomo dotato di una gratificante
posizione sociale ed economica. È un ritorno che si tinge da subito di amarezza: «Ma
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non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch'era tutto finito». E
poco dopo: «Capii lì per lì cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel
sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi». L'elemento di estraneità è
un marchio impresso già nelle pagine iniziali che andrà definendosi in forme e modi
diversi lungo tutto l'arco della storia. Nelle righe citate il riferimento è alla difficile
condizione di chi non conosce i propri genitori, di chi si trova a crescere e a vivere in
un determinato ambiente per cause accidentali. Anzi, le cause sono qui il riflesso
delle difficili condizioni dei contadini piemontesi nell'anteguerra: se il protagonista
trascorre la sua infanzia tra i campi della Piana di Santo Stefano Belbo (che nel
romanzo muta nome in Collina del Salto) è perché Virgilia e Padrino lo hanno
adottato al fine di intascare le cinque lire che il municipio pagava in questi casi. Una
vita grama, quindi, che nella rievocazione nobilitante del ricordo perde ogni
connotazione sociale e si fa simbolo di un'epoca incontaminata e vitale, un mondo
mitico vissuto con la leggera spensieratezza della gioventù, estraneo a al filtro
razionale che, bergsonianamente, cristallizza e blocca il flusso vitale.
L'estraneità della condizione esistenziale fa il paio con la debole e per certi versi
rinunciataria visione storica del protagonista, messa in risalto per contrasto dalle
parole di Nuto, per lui una sorta di guida durante la prima adolescenza (« “[...] Lascia
stare le cose come sono. Io ce l'ho fatta, anche senza nome” “Tu ce l'hai fatta – disse
Nuto – e più nessuno osa parlartene; ma quelli che non ce l'hanno fatta? [..] Non
bisogna dire, gli altri ce la facciano, bisogna aiutarli” »). Nuto era l'uomo che Anguilla
sarebbe voluto diventare, la promessa che sarebbe stato possibile resistere – a testa
alta e col sorriso sul volto – in un paese da cui si voleva a ogni costo fuggire: «Per lui
il mondo era una festa continua di dieci anni, sapeva tutti i bevitori, i saltimbanchi, le
allegrie dei paesi».
Il mancato senso di appartenenza, alla vita come alla società, è anche declinato da
Pavese come critica al modello capitalistico e industriale incarnato nel suo massimo
grado dalla società statunitense. Il trionfo dell'incomunicabilità, di un paese troppo
vasto per poter conoscere i suoi abitanti, e perché questi possano conoscersi tra
loro. E di nuovo si fa forte la nostalgia per l'erba e i rospi dei campi in cui si è
cresciuti.
Nei trentadue brevissimi capitoli lo scrittore alterna rievocazione di vicende passate
e narrazione di un presente che, comunque, assume un andamento ciclico,
riconducibile sempre a un passato che si evolve in futuro ripetendo eternamente se
stesso. Qui sta una ferita lacerante, un dissidio che non è consentito sanare:
«era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale”.

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Cinto, il giovanissimo ragazzo zoppo e rachitico figlio del mezzadro Valino, è il
passato che ritorna. In lui il protagonista si identifica e nei suoi gesti e nelle sue
movenze vede se stesso. Riconosce la disperazione che gli spegne la voce e gli
incendia lo sguardo, in suo padre vede la disumanizzazione imposta da un lavoro
brutale compiuto, come direbbe Nuto, per permettere al ricco di turno di rafforzare i
propri agi e privilegi. E sarà proprio il padre di Cinto a imprimere al libro una svolta
tragica. Questi, esasperato dalle esose richieste della madama della Villa, cade preda
di un'ira incontrollata che lo porta ad appiccare il fuoco alla casa, a colpire a morte
Rosina e la nonna, e a impiccarsi dopo aver inutilmente tentato di scagliarsi contro il
ragazzo.
Le mortifere e sterili fiamme dell'incendio si oppongono, a ben vedere, alle fiamme
rigeneratrici dei falò della notte di San Giovanni la cui immagine ricorre più volte nel
romanzo. Da una parte la realtà, arida e spietata, che brucia, in una raggelante
combustione, ogni speranza di riscatto e ipoteca sotto la sua cenere l'avvenire di chi
è costretto a muoversi entro una logica di sopraffazione e obbligata ignoranza,
l'ignoranza che Nuto auspica di veder svanire per lasciare il posto a una “coscienza di
classe” che dia l'idea piena delle condizioni in cui si vive e, conseguentemente, la
forza necessaria per rompere le consuetudini che garantiscono tale ordine di cose;
dall'altra parte il sogno, il mito, le fiamme reali che trasfigurano in ricordo e poesia,
in superstizioni irrazionali in quanto tali ma capaci di riattivare il contatto, flebile e
momentaneo, con un eden perduto che è l'infanzia del mondo non meno del mondo
dell'infanzia. Fuoco che dà vita, insomma, a ciò che il fuoco brucia: «Eppure, disse
lui, non sapeva cos'era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto
sta che tutti i coltivi dove sull'orlo si accendeva il falò davano un raccolto più
succoso, più vivace».
È opportuno ora aprire una breve parentesi sulla concezione che Pavese ha del mito.
Esso, lo chiarisce l'autore in un articolo inviato in questo periodo alla rivista «Cultura
e realtà», non ha nulla che vedere con un linguaggio mistico o estetizzante. È
piuttosto da intendere, scavando sotto le sue manifestazioni narrative
eminentemente liriche e allegoriche, come frutto di riflessioni storiche su cui poi
germoglierà una precisa poetica. Il mito essenzialmente si caratterizza in negativo,
come mancanza, come ciò che resta dopo che qualcosa è stato tolto. E a esser stato
tolto è nello specifico, il suo «alone religioso», perché «possedere vuol dire
distruggere». Una volta trasposto in poesia, in letteratura, «allora comincia la vera
sofferenza dell'artista; quando un suo mito s'è ormai fatto figura, e lui, disoccupato,
non può più crederci ma non sa ancora rassegnarsi alla perdita di quel bene, di
quell'autentica fede che lo teneva in vita, la ritenta, la tormenta, se ne disgusta». Un
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po' come le “illusioni” leopardiane dopo che sono svanite sotto i colpi della
razionalità, in un certo senso. Un po' come il disorientamento che si prova dopo che
la scienza ci ha informato di vivere in un piccolo pianeta tra i miliardi di pianeti
esistenti, dopo che la Terra si è ridotta a insignificante “pallottolina”.
Per quanto riguarda invece le pagine dedicate alla rievocazione dell'infanzia alla
cascina della Mora, l'autore incentra il discorso su tre figure che hanno assunto lo
status di simbolo della concezione incantata e ingenua che il protagonista – e Pavese
stesso, stando alle lettere scritte durante i primi anni del liceo – aveva della donna
negli anni della pubertà. Ma dietro i personaggi di Irene Silvia e Santa, figlie del sor
Matteo proprietario della cascina, vanno colti importanti aspetti che trascendono la
percezione quasi 'sacrale' che Anguilla aveva di loro. Si riscontra, neanche troppo tra
le righe, una nota di misoginia che è stata troppo spesso rimproverata a Pavese da
una critica non in grado di compiere il passaggio necessario tra righe di un romanzo
e i motivi esistenziali e reali che sostanziano il serbatoio da cui lo scrittore ha attinto
le righe in questione. Lajolo, più volte citato, dedica due capitoli del suo volume Il
“vizio assurdo” al rapporto tra il piemontese e la presenza femminile. È un rapporto
che conosce una fase di assoluta fascinazione e completezza fisica e mentale, un
bruciante ardore amoroso (diretto verso la “donna dalla voce rauca” nelle poesie di
Lavorare stanca) destinato però a lasciare il posto, in seguito a una serie di
abbandoni e disillusioni, a frequenti accenti di disprezzo e, appunto, a innegabili
punte di misoginia. “Le altre donne come vendetta” è il sintetico e incisivo titolo di
un capitolo del volume succitato.
Ben più importante, però, è l'aspetto sociale che richiama il ricordo delle tre
bellissime ragazze della Mora. Queste permettono infatti la negazione del fatalistico
refrain secondo cui la loro condizione di “signorine della cascina” sarebbe stata
esempio di irraggiungibile stabilità e benessere. Tutte andranno incontro a una fine
tragica, tradite proprio dall'amore che si erano illuse di aver imparato a conoscere
dai vetusti libri di favole, simbolo di un'elitaria visione borghese che non tiene il
passo con la realtà. Realtà che irrompe in modo brutale e spietato nel finale del libro,
portando con sé la drammatica esperienza degli scontri tra fascisti e partigiani. Il
libro si chiude con un altro falò, rievocato da Nuto: quello che incenerisce il corpo di
Santa, prima creduta staffetta partigiana dotata di coraggio e dedizione alla causa e
poi rivelatasi una spia per conto delle camicie nere. Queste incursioni “realistiche”
non devono trarre in inganno. Pavese si muove soprattutto in una dimensione
metastorica, e anche quando figurano e acquisiscono peso narrativo precisi
avvenimenti reali siamo comunque molti distanti dal neorealismo in senso stretto. La
base su cui crescono i suoi romanzi non è la pura e “cronachistica” realtà storica.
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Nel fuoco tragico che illumina le ultime pagine del romanzo si ode il grido di
un'impossibilità e di una mancanza. Il lettore prende atto, cioè, che nessun eden è
possibile, che nessun luogo geografico o temporale è davvero incontaminato. Si
palesa l'implacabile fallimento di quello slancio vitalistico che implica l'evasione, la
fuga anche, nella speranza di potersi radicare in un altrove estraneo alla ripetizione
degli eventi e alla meschinità di un insignificante angolo di mondo. Si scopre cioè che
l'inappartenenza, la violenza e le sopraffazioni rappresentano una condizione
esistenziale da cui non è concretamente possibile fuggire. Le uniche fiamme che
possono esistere sono ormai quelle distruttive che lasciano cenere e non
dischiudono sogni.
Con questa angosciante constatazione termina l'opera più intensa e spietata di
Cesare Pavese. Di qui a poco il suicidio e il biglietto con le sue ultime parole:
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Un altro commento critico
«Scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949 (come testimonia l’annotazione
in calce al manoscritto) ma pubblicato nel 1950, La luna e i falò riassume e porta alle
forme estreme i caratteri della ricerca artistica di Cesare Pavese. Si tratta di un
romanzo che non appare privo di alcune battute a vuoto, specie per la difficoltà con
cui si amalgamano i tanti temi e le tante storie che l’autore volle condensare in esso;
tuttavia la sua importanza deriva proprio dall’ambizione del progetto, che testimonia
la chiara coscienza che lo scrittore aveva raggiunto della pienezza dei mezzi
espressivi e della validità dei suoi referenti culturali.
Non tutta la critica accolse l’opera con favore, ma rimane il fatto che essa mostra
assai chiaramente le sue finalità estetiche e si rivela un indicatore preciso del
«metodo» pavesiano di costruire un testo narrativo. La luna e i falò presenta, infatti,
una perfetta commistione delle due tendenze che vivono nell’opera di Pavese: la
tensione a creare una situazione narrativa, uno stile ed una lingua che permettano di
rappresentare la realtà con la stessa forza di «persuasione» che possedeva il
realismo; in secondo luogo la volontà di sfruttare ancora i caratteri stilistici e
linguistici, ma anche gli elementi della trama, per fornire un «surplus» di significato
alla vicenda, farne appunto la manifestazione di un mito, attraverso il quale venga
illustrata una realtà umana «universale», paradigmatica, ben oltre e ben al di là dei
limiti della vicenda narrata. In questa convivenza di due tendenze, a volte
integrantesi e a volte no, si può senza dubbio vedere l’incontro-scontro di due visioni
del mondo, una razionale e l’altra mitica, che in Pavese si ritrovano quasi sempre a
confronto all’interno delle singole opere.
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La luna e i falò recupera, innanzitutto, un vero e proprio archetipo culturale: si può
leggere come un ritorno alla terra natale, di cui l’Odissea è il prototipo; il
protagonista infatti, dopo aver girato il mondo, ritrova i luoghi della sua fanciullezza,
circostanza che introduce inevitabilmente nel racconto l’ansia di tirare delle
conclusioni, di cogliere il senso di un’intera esistenza. Ma il romanzo è un vero e
proprio repertorio della «mitologia» pavesiana: praticamente ogni suo personaggio e
situazione acquista una dimensione mitica, perché nelle varie vicende, nei nuclei
narrativi attorno a cui si coagula il racconto, si sviluppa costantemente un significato
simbolico. Il titolo stesso fa riferimento alla credenza contadina che i falò accesi nella
notte di san Giovanni, così come le fasi della luna, influenzino l’andamento dei
raccolti; influenza intesa in un senso magico-superstizioso.
È un aspetto di uno dei temi del romanzo, quello del conflitto tra la tradizione della
cultura contadina (magica, fatalista, in una parola pre-razionale) e la cultura della
modernità; il romanzo non risolve tale contrasto, e in ciò si attua la sua dimensione
mitica: gli ambiti di mistero inspiegabile rimangono fino alla fine, perché Pavese non
vuole indicare una «soluzione», piuttosto vuole rendere emblematico quel tipo di
conflitto, fargli assumere il valore di simbolo di tutte le contraddizioni che nella
cultura dell’uomo si aprono, tra passato e presente, tra tradizione e innovazione, tra
nuovo e vecchio.
E su questo tema si innestano altri miti, altri conflitti; ad esempio quello tra il restare
e il partire, che nel romanzo si concretizza nel continuo confronto tra i due
protagonisti, Anguilla e Nuto, il ragazzo che è andato in America ed ha girato il
mondo e colui che è diventato uomo non muovendosi mai dalla valle del Belbo; ma il
carattere complesso, simbolico, di tale confronto è determinato dal fatto che nel
romanzo si dimostra come il partire possa essere niente altro che un prepararsi a
tornare, e che anche a livello di conoscenza c’è una interscambiabilità tra il
macrocosmo (l’America) e il microcosmo (la valle del Belbo).
La giusta attenzione critica che si deve prestare alla dimensione mitica del romanzo,
che sul piano narrativo ed artistico si risolve in una scelta che si può definire di
realismo lirico, non deve far dimenticare che comunque La luna e i falò rimane un
romanzo in cui la Storia ha un ruolo preminente.
Anzi, bisogna sottolineare come la scelta del momento storico particolare si inserisca
perfettamente nel carattere di «romanzo di memoria», che è insito nel recupero
delle proprie radici da parte del protagonista Anguilla: a parte un episodio (quello
della scoperta dei due cadaveri di spie repubblichine), gli avvenimenti della lotta
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partigiana, della guerra ed in parte, ancora prima, del fascismo trionfante, sono tutti
narrati da Nuto, il personaggio che non si è mosso dalla valle. Il presente, il
dopoguerra, non offre se non storie «private» di disperazione, di miseria o di
prepotenza; sono le assenze che segnano il passaggio della Storia: non ci sono più i
borghesi della Mora, non c’è più la famiglia di Padrino, non ci sono più molti dei
coetanei di Anguilla, morti durante la guerra. Quindi la Storia, considerata da questo
punto di vista, diviene un tema importante nel romanzo, ma che Pavese sviluppa
tutto quanto in una dimensione privata, nella quale le scelte morali riassorbono
anche le scelte politiche e ideologiche dei personaggi.
Riassunto;
Il romanzo è organizzato in 32 brevi capitoletti nei quali la narrazione si muove
continuamente, frantumandosi, sull’asse del tempo, in un arco che comprende più o
meno tutte le età del narratore che parla in prima persona, quindi circa quarant’anni.
Perciò non è tanto possibile fare un riassunto dell’opera, quanto indicare i nuclei
tematici attorno ai quali si addensa la materia narrata.
Il protagonista e narratore è un uomo di circa quarant’anni che inizia a parlare nel
momento in cui è tornato al paese dove è cresciuto: una località delle Langhe, di cui
non si dice il nome, che è tuttavia identificabile con S. Stefano Belbo. Egli risiede
ancora a Genova, dove ha avviato un’attività commerciale dopo essere stato per
parecchi anni negli Stati Uniti, e si reca al paese soprattutto durante l’estate. Quindi il
primo nucleo tematico è formato dai capitoli nei quali il protagonista, soprattutto
attraverso i colloqui con l’amico d’infanzia Nuto, un falegname, e attraverso i contatti
con la gente del posto, riacquista a poco a poco il senso del suo attaccamento a
quella terra, che egli percorre in lunghe passeggiate riscoprendo i luoghi e le
sensazioni di quando era bambino e adolescente.
Era nato «bastardo», cioè era stato abbandonato e accolto nell’ospedale di Alba; da
lì era stato tolto da una famiglia contadina, formata dal Padrino, da Virgilia e da due
bambine, perché l’ospedale dava cinque lire al mese per il mantenimento del
trovatello. L’infanzia era trascorsa nella povertà e nel lavoro, fino a quando Padrino,
non potendo più tirare avanti, aveva dovuto vendere il podere con la sua casa,
«Gaminella», e andare a lavorare come bracciante; allora il bambino era stato messo
a servizio alla Mora, una grossa tenuta del signor Matteo, dove era cresciuto ed era
diventato un uomo capace di guadagnare la sua giornata; erano stati i contadini della
Mora a dargli il soprannome col quale era conosciuto in paese, Anguilla. Arrivato il
tempo del servizio militare, era stato mandato a Genova, dove aveva fatto
l’attendente di un ufficiale e si era messo con la serva di casa, Teresa. A Genova era

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rimasto, frequentando una scuola serale e divenendo amico di alcuni operai
antifascisti; quando questi erano stati arrestati, Teresa gli aveva procurato un
imbarco clandestino per gli Stati Uniti, dove Anguilla aveva fatto molti mestieri,
spostandosi sempre più verso ovest, fino a stabilirsi in California. Internato allo
scoppio della guerra, in quanto cittadino di un paese nemico degli Stati Uniti, alla
fine era tornato in Italia, a Genova.
Al paese ritrova Nuto, con il quale cerca di capire il senso del proprio «andar via»
dalle Langhe e del suo ritorno; è poi Nuto, che pur non avendo partecipato
direttamente alla Resistenza è stato un fiancheggiatore delle bande partigiane, a
spiegare ad Anguilla il senso dello scontro che c’è stato sulle colline e perché, alla
fine, tutto sia tornato come prima: i poveri sono sempre più poveri, mentre
continuano a comandare i ricchi e i preti. Sotto questo aspetto diventa illuminante
l’episodio del ritrovamento del cadavere di due spie fasciste, uccise durante la lotta
armata dai partigiani: il parroco del paese ne approfitta per celebrare solennemente
il loro funerale e fare una predica contro il pericolo del comunismo. È ancora Nuto a
narrare le vicende degli abitanti che sono morti durante l’assenza di Anguilla: come
siano scomparsi uno dopo l’altro i componenti della sua vecchia famiglia adottiva,
Virgilia, le due sorellastre e, per ultimo, ridotto a chiedere la carità, Padrino.
Su questo si innesta il secondo nucleo tematico: ora alla «Gaminella» c’è una
famiglia di mezzadri, formata dal Valino, sua cognata e sua suocera (la moglie è
morta); c’è anche un bambino, nato storpio, Cinto. Anguilla va a rivedere la cascina e
il podere dove è stato bambino, vede le condizioni di miseria estrema in cui vive la
famiglia di «Gaminella», nella quale la disperazione fa sì che tutti si comportino
animalescamente: Valino, ad esempio, ogni sera picchia le donne e Cinto. Tra
Anguilla e il bambino si stabilisce un rapporto di amicizia, perché l’adulto nutre nei
confronti di quella creatura sfortunata un sentimento quasi paterno, e soprattutto
rivive in lui la sua fanciullezza; comincia a parlargli della possibilità di andar via dalla
valle del Belbo, gli regala un coltello simile a quello che aveva avuto anche lui alla
sua età, lo protegge. Parlando con Cinto si ricorda dell’usanza di accendere dei falò
sulle colline nella notte di san Giovanni.
L’altro nucleo tematico è il ricordo della vita alla Mora: Anguilla, allora appena
adolescente, aveva conosciuto lì Nuto e, soprattutto, aveva avuto occasione di
gettare il suo sguardo sulla vita dei «signori»: il padrone Matteo, le sue due figlie di
primo letto, Irene e Silvia, la seconda moglie e l’ultima figlia, una bambina ancora,
Santa. Questi ricordi sono incentrati sul tema della dissoluzione della famiglia
borghese: le due figlie più grandi erano passate da un fidanzamento sbagliato
all’altro, fino a fare entrambe una misera fine: Irene era morta di tifo, Silvia aveva
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finito per sposare un fannullone dedito al gioco che, diventato padrone della Mora,
se l’era mangiata in poco tempo. Anguilla apprende tutto questo da Nuto, che però
resta reticente riguardo alla sorte dell’ultima ragazza della Mora, Santa.

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