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Francesco Lamendola BENIGNI, ZEFFIRELLI, DANTE E L'INGUARIBILE PROSOPOPEA DEGLI INTELLETTUALI

Recentemente, in una recente intervista , il regista Franco Zeffirelli si espresso con toni sprezzanti e arroganti nei confronti delle letture dantesche del comico Roberto Benigni. Il succo del discorso era che il gran padre Dante una cosa seria e bisogna lasciarlo alle persone serie; e che, se il poeta fiorentino tornasse in vita e assistesse a una serata dantesca di Benigni, ne resterebbe inorridito. Anche perch Benigni di Prato e l'accento di Prato, per recitare Dante, " una bestemmia, sa di montanari dell'Appennino e non di Firenze". Figuriamoci, aggiungiamo noi, se si azzardasse a recitare Dante un attore di Torino o di Palermo! Ora, siamo d'accordo sul fatto che Benigni, quando legge Dante, lo fa senza mai riuscire del tutto a spogliarsi di quel tono toscaneggiante dai sottintesi umoristici, che lo stile abituale del comico di professione. Tuttavia, prima di liquidarlo con tanta supponenza, dovremmo soffermarci a fare qualche breve, semplice riflessione. Certamente Dante uno scrittore polisenso: che si offre, su diversi piani di poesia e di filosofia, a differenti generi di lettori. Dire che uno scrittore per tutti, farebbe semplicemente ridere. Per egli volle essere anche, su un piano pi semplice e immediato, uno scrittore per il popolo: altrimenti non avrebbe scelto di scrivere la Commedia in volgare, cosa che gli intellettuali del tempo non gli perdonarono mai. Tant' vero che non solo non gli concessero il lauro poetico, ma neppure un qualunque insegnamento universitario: mai. Non era degno di insegnare nelle universit italiane, secondo loro; non aveva i titoli. In effetti, la sua colpa era grave: non aveva la puzza sotto il naso, il gran padre Dante, come ce l'hanno alcuni suoi scudieri, autoproclamatisi censori e custodi della Cultura con la "c" maiuscola. Pi in generale, questo episodio - di per s quasi insignificante - ci offre l'occasione per svolgere una riflessione sul ruolo (mancato) degli intellettuali italiani come promotori di una sana e bene intesa cultura popolare. Tale dovrebbe essere la loro funzione naturale, si dir; ma, da noi, quel che dovrebbe essere ovvio e naturale non lo mai. Prendiamo il caso della musica leggera. In Francia c' stata la splendida stagione degli chansonnier (che, indirettamente, ha promosso la stagione dei cantautori italiani, specialmente genovesi): musica raffinata, ma pur sempre popolare: un ponte fra la "cultura alta" e quella "bassa". Un signor ponte, in verit. Oppure prendiamo il caso del cinema; si pensi ai film di Ren Clair o, pi recentemente, di Eric Rohmer: cinema d'autore, coi fiocchi; ma cinema capace di dialogare anche con un pubblico popolare, di interessarlo, di avvincerlo. S'intende che un film di Clair o di Rohmer pu essere usufruito a diversi livelli di complessit: in ogni caso, sono opere che non respingono lo spettatore privo di una specifica cultura cinematografica, ma che, al contrario, lo attraggono e, in qualche misura, lo educano. Da noi, no. Da noi gli intellettuali scrivono, dipingono, compongono musica e fanno teatro non per il pubblico, ma per gli altri intellettuali. Se la fanno e se la godono tra di loro. E il popolo? Per lui ci sono i sotto-intellettuali, i mestieranti, i guitti, i buffoni che gli ammanniscono prodotti scadenti confezionati su misura. Da noi, tanto per fare un esempio, si passa direttamente dalle altezze sublimi di Fellini, dagli ermetismi di Bertolucci e dalle raffinatezze di Visconti alle centinaia di filmetti e filmacci per militari in libera uscita, popolati dalle inesauribili grazie di Edwige Fenech (prima maniera), Anna Maria Rizzoli e Nadia Cassini o dalle smorfie e boccacce di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
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Intendiamoci: nulla di male a girare filmetti come quelli di Franchi e Ingrassia; il male quando tutta la produzione cinematografica, eccezion fatta per alcuni capolavori e film "impegnati" d'autore, si esaurisce su quel livello; o, magari, scende ancora pi in basso. Questo il male: che gli intellettuali di nome non abbiano cercato, almeno qualche volta, di parlare il linguaggio delle classi popolari; e che queste ultime siano state interamente abbandonate alla sottocultura del disimpegno, nelle sue forme pi banali e grossolane. Oppure, prendiamo il caso della letteratura. Dai virtuosismi sperimentalistici della narrativa di Gadda e della poesia di Zanzotto, si precipita direttamente ai "gialli" tascabili da leggere in treno o ai "rosa" per commesse romantiche in attesa del Principe Azzurro. Ogni qual volta uno scrittore di talento ha provato a scegliere un registro linguistico fruibile anche al livello di un pubblico pi semplice, stato coperto d'insulti e di sberleffi dai suoi intelligentissimi e impegnatissimi colleghi "seri". Chi non ricorda la definizione di "Liala" data dal Gruppo 63 a Giorgio Bassani e a Carlo Cassola? Eppure, Bassani e soprattutto Cassola erano due scrittori tutt'altro che banali. Osiamo dire che Carlo Cassola stato uno dei pi grandi narratori italiani del Novecento; e non solo ne Il taglio del bosco (sulla cui eccezionale qualit di scrittura tutti convengono), n solo per l'arci-famoso La ragazza di Bube (portata al successo dal film interpretato da Claudia Cardinale), ma proprio per quei romanzi intimisti e "minimalisti" che tanto i suoi arcigni detrattori gli rimproveravano: Storia di Ada, Un cuore arido, Gisella. stato grande perch ha saputo fare poesia, e altissima poesia, con gli ingredienti pi semplici e disadorni che si possano immaginare. Chi, nei suoi romanzi psicologici, non ha saputo vedere altro che malinconie crepuscolari e monotoni interni piccolo-borghesi privi d'interesse umano, non ha capito proprio niente. Non occorre trattare la guerra di Troia per fare della grande letteratura. Come per la pittura di Carlo Carr: non il soggetto augusto che crea la grande opera; il genio poetico che rende sublime anche il soggetto pi umile. E dal momento che abbiamo nominato Liala, vogliamo dire un'altra cosa: che se Liala ha avuto milioni di lettrici (e, magari, di lettori) - come, del resto, e prima di lei, li ha avuti Carolina Invernizio - forse, dopotutto, se li anche meritati. Certo i suoi romanzi sentimentali erano pieni di luoghi comuni e di situazioni sdolcinate; per non erano volgari, non erano stupidi e non erano nemmeno scritti tanto male. Non tutti possono toccare le corde del sublime come Eco o Sanguineti; non tutti possono fare del romanzo una miccia per innescare l'immancabile rivoluzione, come Balestrini. E qui, inevitabile, giungiamo a toccare un altro aspetto della spocchia aristocratica dei nostri intellettuali: il predominio insindacabile di una casta di artisti, e soprattutto di critici, di formazione marxista che, dopo il cinquantennio del sultanato intellettuale idealista di Benedetto Croce, ci ha regalato un altro cinquantennio di regno incontrastato del mito comunista, peraltro in una delle sue versioni pi mediocri: quella togliattiana e sub-staliniana. Per cinquant'anni sono stati giudicati belli solo i quadri di Guttuso, solo i romanzi di Moravia, solo i film di Scola. Ufficialmente perch erano opere impegnate, che riflettevano le lotte e le problematiche del popolo lavoratore lanciato verso la sua irresistibile liberazione o perch fustigavano, con inflessibile intransigenza, i vizi palesi e nascosti della borghesia nostrana; in realt, perch erano iscritti - honoris causa - alla confraternita degli intellettuali "promossi" dal tribunale dei critici neo-stalinisti. Non occorre fare nomi; tanto li sappiano tutti. E non importa che i quadri di Guttuso, specialmente quelli di soggetto sociale, siano - guardati con mente sgombra da pregiudizi ideologici - tutt'altro che dei capolavori; che i romanzi di Moravia, tolti Gli indifferenti, siano men che mediocri, quando non scadono addirittura nella pi sciatta pornografia; e che non tutti i film di Scola siano all'altezza della sua fama. Per parecchi decenni, tutto ci che non era problematica sociale, tutto ci che non sapeva di critica marxista era robaccia reazionaria o, nel migliore dei casi, "arte individualistica", "narcisismo piccolo-borghese", "degenerazione intimistica e decadente". Alberto Asor Rosa e Carlo Salinari presiedevano questo tribunale ideale del politicamente corretto e decidevano chi meritava il
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biglietto immediato per il Paradiso degli artisti, chi per il Purgatorio (ancora affetto da decadenza borghese, tuttavia rivedibile) e chi, senza piet, per il fondo dell'Inferno. Ma, proprio come i gesuiti dei bei tempi andati, questi critici inesorabili potevano salvare anche l'artista pi ferocemente reazionario, purch si convertisse e abiurasse la fede passata: tale fu il caso di Curzio Malaparte, primo della serie. Lui, per, era famoso gi sotto il Ventennio e perci doveva fare pubblica abiura; altri, molti altri, sono riusciti a sgattaiolare dalla parte "giusta" risparmiandosi la pubblica umiliazione; oppure sostenendo, senza batter ciglio, di aver solo fatto finta di adulare il Fascio, mentre in realt aspettavano il momento giusto per mostrare tutto il loro coraggio. Quante code di paglia, nel panorama degli intellettuali italioti dopo il 1945! Consigliamo una lettura altamente istruttiva in materia: il libro di Nino Tripodi Intellettuali sotto due bandiere, con un lungo (e malinconico) elenco di nomi e cognomi. Viceversa i relapsi, coloro che, ammoniti una prima volta dalla Santa Inquisizione marxista, perseveravano nell'eresia e ricadevano nell'errore, non meritavano alcuna piet e ogni mezzo era buono per distruggerli, moralmente e materialmente. Tale fu il destino riservato a Ignazio Silone che, come scrittore, valeva cento volte pi di Moravia - e anche a Pier Paolo Pasolini, ma non tanto - nel suo caso - per ragioni ideologiche, quanto moralistiche: non gli perdonarono mai la sua dichiarata omosessualit. Perch, anche in questo, i sultani del marxismo nostrano somigliavano terribilmente ai gesuiti dell'epoca d'oro dell'Index librorum prohibitorum: per il loro assoluto, roccioso, granitico puritanesimo; anche e specialmente in materia sessuale. Certo, quei tempi sono finiti, ma i danni che ha subito la cultura popolare in Italia sono stati immensi e, forse, irreparabili. Anche in questo campo le classi dirigenti nostrane hanno mancato clamorosamente alla loro funzione storica: mai hanno saputo o voluto tentare un dialogo con le classi popolari, se non con la mente ingombra di pregiudizi paternalistici. Ad ogni modo, Alessandro Manzoni, nel suo sforzo di scrivere un romanzo che fosse nazionale e popolare, sia per la lingua che per i contenuti, fa molta pi bella figura di tutti i puristi di ieri e di oggi, che vorrebbero imbalsamare le nostre glorie letterarie come tante mummie e metterle dietro una teca di cristallo, in modo che neppure l'alito del volgo ignorante le possa infastidire. Torniamo al punto da cui eravamo partiti, e ci avviamo a concludere. Zeffirelli trova scandaloso che un comico come Benigni legga Dante agli Italiani? Noi, invece, troviamo scandaloso che in Italia siano proprio dei comici a dover supplire, in campo culturale cos come in campo politico - e qui pensiamo a Beppe Grillo - alla colpevole latitanza di coloro che, per professione, dovrebbero fare cultura e dovrebbero fare critica politica: gli intellettuali usciti dalle nostre accademie e dalle nostre universit. Sta di fatto che Grillo riempie le piazze d'Italia e Benigni fa registrare ascolti televisivi da record. Certo non solo oro quello che dicono; ma, perdio, almeno loro si sforzano di innalzare il livello dello spettacolo verso le regioni alte della cultura e della riflessione politico-sociale. Riempiono un vuoto: un vuoto, quello s, scandaloso. Gli intellettuali di professione, in questi decenni, sono stati troppo occupati a parlare difficile tra di loro, a imbastire schermaglie civettuole tra di loro, a scambiarsi complimenti avvelenati e a farsi lo sgambetto, mentre fingevano di parlare in nome di una cultura puramente disinteressata. Oppure a scambiare la forma per la sostanza, realizzando film elegantissimi, ma assolutamente poveri di contenuto; e scrivendo libri di filosofia che nessuno riesce a capire, tranne - forse - loro. In effetti, si tratta di un retaggio storico. Da Petrarca in poi, gli intellettuali italiani sono stati dei cortigiani nel senso letterale della parola; e non hanno mai perso l'antico vizio di leccare il sedere al potente di turno. Cos stato per secoli e secoli; cos anche oggi: anzi, oggi pi che mai. Sono cambiati i padroni, ma il vecchio vizio rimasto. Leccare il sedere dei potenti e fare cultura solo per gli altri membri della casta, non certo per le classi popolari - se non, forse, a parole: ecco il ritratto, impietoso ma sostanzialmente veritiero, dell'intellettuale italiano medio. Con qualche onorevole eccezione. Che conferma la regola.
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