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Invenzione e ricominciamento

nel canto I dell’Orlando furioso

Il 14 luglio del 1512 Ludovico Ariosto scriveva al Marchese di


Mantova:

Prima per il Molina e poi per Ierondeo me è stato fatto intendere che
vostra extia haveria piacere de vedere un mio libro, al quale già molti dì
(continuando la inventione del conte Matheo Maria Boiardo) io dedi
principio1.

È, com’è noto, una delle prime (la prima di mano dell’autore)


attestazioni del lavoro ariostesco, a una data già vicina a quella del-
la prima stampa del 1516; una data, peraltro, ancora quasi “quattro-
centesca”, tanto vicina al secolo appena trascorso da sbilanciare il
Furioso, con la nuda evidenza del rilievo cronologico, verso l’età di
Ercole, già ferita dalla stupefazione epocale dei tragici eventi del
1494, e tuttavia ancora aperta a virtualità percorribili, a esiti non in
tutto scontati, ad aspirazioni e ambizioni né troncate ancora né de-
luse; un’età ben diversa da quella lucidamente amara, conclusa e de-
finitiva, dell’ultimo Furioso. In questo annuncio precoce di un poe-
ma anagraficamente ancora “quasi” quattrocentesco, la menzione
del Boiardo suona naturalmente doverosa. D’altronde, altri conti-
nuatori erano già al lavoro: il Quarto libro dell’Agostini era com-
parso già nel 1505, da solo, in un’edizione adesso perduta, e poi, in

1
Ludovico Ariosto, Lettere, a cura di Angelo Stella, in Tutte le opere, iii,
Milano, Mondadori, 1984, p. 151.
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coda ai tre libri dell’Innamorato, nell’edizione rusconiana del 1506


(e poi, a cascata, nell’11 e nel ’13); prima del ’16 faranno in tempo a
raggiungere i torchi il Quinto libro di Raffaele Valcieco (1514) e, in
concorrenza con questo, nello stesso 1514, il Quinto dello stesso
Agostini; non senza qualche riverbero testuale, come è stato da tem-
po dimostrato, di queste umili ottave su quelle ariostesche2.
Ma l’Ariosto non è un continuatore del Boiardo. La lettera che
ho appena rammentato, peraltro citatissima, traccia un discrimine
che mi pare non sia stato inteso o, comunque, messo in conto con
la dovuta serietà. L’Ariosto non dice che sta continuando l’Orlando
innamorato, ma la inventione del conte Matteo Maria Boiardo. Per
uno scrittore antico parole come queste hanno un peso specifico,
una capacità di compromissione definitiva, e non è il caso davvero
di invocare, qui, la possibile cursorietà ed eventuale approssimazio-
ne della scrittura epistolare3. Se l’Ariosto dichiara di voler conti-
nuare l’«inventione» del Boiardo è proprio perché egli non vuole es-
sere messo nel mazzo dei continuatori che cominciano a pullulare
intorno alle operose tipografie padane; perché egli sa perfettamente
che il poema che uscirà dalla sua officina è destinato a scaffali ben
diversi da quelli dell’Agostini e di Raffaele Valcieco. E questo non
soltanto per l’ovvia, abissale distanza tra l’arte ariostesca e l’artigia-
nato dei continuatori di routine. È proprio, e preliminarmente, la
fisicità dei manufatti, la diversità degli oggetti-libro, che denuncia
una radicale differenza tra il Furioso e gli altri poemi, in termini di
programmazione editoriale, prima ancora che di qualità poetica e
letteraria. Basta prendere in mano l’inestimabile Bibliografia
dell’ “Orlando Innamorato” di Neil Harris4, per chiarirsi preliminar-

2
Alcune osservazioni già in Gioacchino Paparelli, Tra Boiardo e Ariosto: le
giunte all’«Innamorato» di Niccolò degli Agostini e Raffaele da Verona, Salerno, Edi-
zioni Beta, 1971; e si veda il mio “Ventura” e “inchiesta” tra Boiardo e Ariosto, in Sta-
gioni della civiltà estense, cit., pp. 87-126.
3
Una diversa interpretazione del termine, e di tutt’intero l’atteggiamento di
Ariosto “continuatore” del Boiardo, è proposta da Marco Dorigatti, Il boiardi-
smo del primo «Furioso» in Tipografie e romanzi in Val Padana, cit., pp. 161-174. In
particolare, secondo Dorigatti «invenzione» si riferirebbe al “ritrovamento”, da par-
te del Boiardo, del personaggio (e della storia relativa) di Ruggiero: cfr. pp. 169-170.
4
Si veda Neil Harris, Bibliografia dell’«Orlando innamorato», cit.; un suc-
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mente i termini concreti, bibliografici appunto, di questa radicale


differenza. Rarissime sono, infatti, le stampe autonome, in volume
separato, con proprio frontespizio, del Quarto libro dell’Agostini, o
del Quinto di Raffaele Valcieco; come manufatti tipografici, questi
libri fanno quasi sempre corpo, infatti, con i tre libri dell’Orlando
innamorato, ne sono inseparabili, e anzi, proprio da questa simbio-
si ricavano quel tanto di vitalità letteraria, e di successo editoriale,
che è consentito al debole ingegno dei loro scrittori. In ogni caso il
Boiardo è sempre invocato e pubblicitariamente sfruttato a dovizia
(non foss’altro nella seriazione numerica dei libri), per puntellare te-
sti dichiaratamente parassitari, subordinati e ancillari, che possono
sperare favore proprio dal presentarsi fin dal frontespizio e
dagli esordi nella funzione narrativamente assai specifica del sequel
5
. Ec- co, l’Orlando furioso non volle mai essere un sequel. Lo
splendido frontespizio del ’16 non denuncia alcuna dipendenza,
non rimanda ad alcun precedente, non invoca, per lusinga
editoriale o per cor- rettezza deontologica, alcuna prestigiosa tutela.
Se, come legge l’e- dizione critica della Tissoni Benvenuti, il
frontespizio del poema boiardesco suonava non Orlando
innamorato, ma Libro de l’inamo- ramento de Orlando 6, anche
l’effetto d’eco e di variatio (Orlando in- namorato-Orlando furioso ) a
cui ci aveva abituato la tradizione, an- drà ripensato nei termini di
una presa di distanza più recisa, di una riformulazione
classicizzante improntata ormai a un gusto, anche

cinto resoconto sui continuatori boiardeschi si legge in Marco Villoresi, La let-


teratura cavalleresca. Dai cicli medievali all’Ariosto, cit., pp. 172-176.
5
Si vedano, per esempio, i frontespizi delle prime edizioni comprendenti, ol-
tre ai tre libri del Boiardo, il libro IV di Niccolò degli Agostini (si cita, semplifi-
cando i segni, dalla Bibliografia di Harris): Tutti li Libri De Orlando. / Inamorato.
/ Del Conte de Scandiano Mattheo / Maria Boiardo Tratti Fidelmen/te Dal suo Emen-
datissimo Exem/plare Novamente stampato / & historiato (Venezia, Rusconi, 1506),
o il libro V di Raffaele Valcieco: El Quinto e Fine de tutti li Libri / de lo inamora-
mento de Orlando / Novamente composto e hystoriato (Venezia, Rusconi, 1514). L’i-
dentità dei continuatori è debitamente occultata, mentre la paternità boiardesca è
ambiguamente estesa anche ai libri successivi al terzo.
6
Si fa riferimento naturalmente alla più volte citata edizione critica (Mi-
lano-Napoli, Ricciardi, 1999). Come già osservato (cfr. supra, Primavera artu-
riana, p. 4 nota 2), Harris aveva autorevolmente chiarito, nella sua Bibliografia,
la legittimità di ambedue i titoli.
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d’impostazione tipografica, completamente nuovo. Muoiono in
definitiva le copertine a funzione multipla della tipografia quattro-
centesca, col titolo che fa corpo con quella che oggi chiameremmo
la fascetta editoriale, o addirittura la bandella, e nasce il frontespi-
zio di gusto moderno, sobriamente profilato nei suoi dati essenzia-
li: autore, titolo, nome dello stampatore. L’Orlando furioso, insom-
ma, anche come oggetto tipografico, non si presenta affatto come
una continuazione del Boiardo. Mi scuso di insistere così a lungo
su quella che sembrerebbe un’ovvietà. Ma tanto ovvietà non sarà,
se al rapporto dell’Ariosto col Boiardo, e al trattamento del prece-
dente boiardesco all’interno della favola ariostesca, è stata dedicata
tanta, e così sofisticata attenzione critica. È noto, infatti, che l’A-
riosto rimuove totalmente ogni esplicita memoria boiardesca dal
suo poema. A differenza, anche qui, dei continuatori, egli non ci-
ta mai il Boiardo, e sfuma sistematicamente gli agganci con la fa-
vola dell’Innamorato mediante formule elusive o ammiccanti, che
fanno precipitare i precedenti boiardeschi in una sorta di memoria
pregressa assiomaticamente data per posseduta dai lettori, ma mai
esplicitamente identificata in un testo specifico. Gli esempi sono,
com’è ovvio, legione, ed esulano dai confini di questo intervento7.
Ma ne basti uno, a misurare l’evidentemente pertinace intenzione
ariostesca di cancellare dal suo poema ogni esplicita memoria del
suo grande antecedente. L’anello di Angelica: al momento in cui la
donzella lo riconosce per suo, l’Ariosto dà un breve ragguaglio del-
la sua storia, che altro non è se non un riassunto di vari episodi del-
l’Innamorato :

7
Un buon mannello se ne può leggere nello studio di Marco Dorigatti, Il
boiardismo del primo «Furioso», cit. Manca però, per quanto possa parere singola-
re, uno studio sistematico e ragionato dei punti di sutura e di frizione tra Furioso
e Innamorato ; il lavoro di Giuseppe Sangirardi, Boiardismo ariostesco. Presenza e
trattamento dell’«Orlando innamorato» nel «Furioso», Lucca, Maria Pacini Fazzi
Editore, 1993, pur nella sua strenua puntualità, ha carattere diverso, mirando a una
recognizione degli imprestiti linguistico-stilistici, non narrativi, fra i due poemi. E
si veda l’ampia discussione del volume di Sangirardi (sia nei suoi presupposti teo-
rici che nei suoi risultati operativi) in Maria Cristina Cabani, Considerazioni sul
boiardismo del «Furioso» e alcune riflessioni sull’uso degli strumenti informatici nelle
indagini intertestuali, in «Rivista di Letteratura Italiana», xii, 1994, pp. 157-248.
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Questo è l’annel ch’ella portò già in Francia
La prima volta che fe’ quel camino
Col fratel suo, che v’arrecò la lancia,
La qual fu poi d’Astolfo paladino.
Con questo fe’ gli incanti uscire in ciancia
Di Malagigi al petron di Merlino;
Con questo Orlando et altri una matina
Tolse di servitù di Dragontina;

Con questo uscì invisibil de la torre


Dove l’avea rinchiusa un vecchio rio8.
(XI iv-v)

Ma alla fine di questa lunga e trasparente citazione di storie del-


l’Innamorato, l’Ariosto conclude, ostinato nella sua sorniona reti-
cenza: «A che voglio io tutte sue prove accorre, / Se le sapete voi
così come io?».

Sembra proprio di essere di fronte a un lampante caso di “in-


vidia d’autore”, a un Ariosto sopraffatto da una bloomiana anxiety
of influence. Ciò che è certo, comunque, è che tutto ciò – ovvero,
il rapporto dell’Ariosto con Boiardo, e le eventuali torsioni com-
petitive di quel rapporto – è calato e consumato nel semplice
quanto reciso gesto ariostesco del rifiutare l’intruppamento nella
folla dei “continuatori”; del voler scrivere, per tornare alla letteri-
na da cui siamo partiti, non una continuazione dell’Innamorato,
ma dell’invenzione del Boiardo. L’Ariosto non si obbliga, di con-
seguenza, a una prosecuzione meccanica del testo boiardesco,
riannodando i fili della gran tela dove e come il conte di Scandia-
no li aveva lasciati interrotti; l’Ariosto annuncia l’intenzione di vo-
ler riprendere in mano il soggetto inventato, “trovato” dal Boiar-
do; in termini che diventeranno poi familiari all’aristotelismo di
qualche decennio successivo, egli intende riattivare, insomma, più
la “materia”, che non, in stretti termini, la “favola” boiardesca; il

8
L’Ariosto si riferisce qui alla lunga sequenza della ventura di Orlando nel re-
gno infero di Morgana: cfr. Orlando innamorato, II vii-xiii.
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mondo, diremmo forse noi oggi, dell’Innamorato, più che la lette-


rale fisicità di quel testo.

La libertà programmatica con cui il Furioso riattiva la trama in-


terrotta del romanzo boiardesco, e la differenza qualitativa di un
testo che rifiuta i connotati di genere del sequel , sono preliminari
che emergono in speciale, luminosa evidenza, com’è naturale, nel
primo canto del poema, dove si tratta di riattivare e di rimettere in
moto la gran macchina poematica boiardesca. Da dove comincia-
re? O meglio, come ri-cominciare? I continuatori non avevano
avuto esitazioni, anche perché non avevano, in quanto tali, scelta:
il sistema dell’entrelacement offriva, naturalmente, una varietà di
opzioni – tante erano le fila lasciate interrotte – ma nella succes-
sione lineare del racconto, l’ultima trama interrotta, e davvero in
un momento critico, era stata quella dell’innamoramento di Fior-
dispina per Bradamante, scambiata per un cavaliere:

L’una dell’altra accesa è nel disio,


Quel che li manca ben sapre’ dir io.

E infatti anche il De Agostini, prima di riprendere in mano il


filo di Ruggiero e Gradasso, che lo tiene occupato per i primi can-
ti del Quarto libro, si sente in obbligo di saldare la sua continua-
zione con il finale boiardesco: la storia di Fiordispina e Bradaman-
te è inevitabilmente richiamata almeno nelle primissime ottave del
suo primo canto, sia pure per essere abbandonata quasi subito, al-
l’ottava 89. Ma l’Ariosto, che non è tecnicamente un continuatore,
non è naturalmente vincolato da tali obblighi. E quindi: da dove
cominciare? O meglio, come ri-cominciare?
In questa prospettiva, il primo canto dell’Orlando furioso si può
leggere come un mirabile spartito intertestuale, in cui i rapporti sot-
tintesi con l’interrotta trama dell’Innamorato vengono stretti o al-
lentati con una libertà totale di reinvenzione della favola, in un in-
cessante giuoco allusivo di coincidenze, di sorprese, di deviazioni,

9
Vedi a questo proposito Riccardo Bruscagli, “Ventura” e “inchiesta” fra
Boiardo e Ariosto, in Stagioni della civiltà estense, cit., pp. 97-98.
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di spontanee e perciò impreviste obbedienze al palinsesto boiarde-


sco. L’Ariosto in qualche caso letteralmente “continua”, alla manie-
ra dell’Agostini e degli altri più o meno presentabili autori di seria-
lità cavalleresche: non arretra dunque di fronte a procedimenti nar-
ratologicamente di seconda scelta; solo che non li denuncia come
tali. In altre occasioni narrative, questo primo canto rimbastisce tra-
me compatibili col Boiardo, approfittando di situazioni lasciate va-
gamente in sospeso dall’antecedente stesso: è, come vedremo, il ca-
so della ricomparsa di Sacripante. Ma proprio riguardo al finale del-
l’Innamorato l’Ariosto si prende la libertà più provocatoria: non so-
lo lasciando cadere – per ora – la pruriginosa situazione su cui si
chiudeva il poema boiardesco – e quindi, letteralmente, rifiutando
di ricominciare il suo poema da dove il conte di Scandiano l’aveva
lasciato interrotto – ma radicalmente alterando e rimanipolando il
filo narrativo di Bradamante e Ruggiero, che irrompe nella selva del
primo canto in una situazione del tutto indipendente e profonda-
mente mutata da quella boiardesca.

All’interno di questa libera e variabile ripresa dell’invenzione


del conte di Scandiano, l’Ariosto opera suture perfette, rispetto al-
l’Innamorato, soltanto in due casi, e apparentemente non dei più
decisivi. Nel primo, egli attualizza una virtualità narrativa sugge-
stivamente quanto vagamente profilata nel poema del Boiardo: che
aveva così abbandonato Rinaldo, anzi Ranaldo:
Così dicendo, se pone a cercare,
E vede il suo Baiardo avanti poco.
A lui se accosta, e volendo montare,
Il destrier volta e fugge di quel loco.
Ranaldo si voleva disperare.
Dicendo: Adesso è ben tempo da gioco!
Deh, sta, ti dico, bestia maledetta!
Baiardo pur va inanti e non lo aspetta.
E lui pur seguitando il suo destriero, Se fu
condutto entro una selva scura, Onde
lasciarlo un pezo è di mestiero, Ch’egli
incontrò in quel loco alta ventura. (III iv
39-40)
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La prima azione del Furioso, come si ricorderà, consiste proprio


nello scontro di Angelica in fuga con un «gran cavallier, che a piè ve-
nia»: «Entrò in un bosco, e nella stretta via / Rincontrò un cavallier,
che a piè venia». L’Ariosto riattiva qui il fotogrammna rimasto fer-
mo nel racconto boiardesco, aggiungendo appena un tocco stra-
niante, in quella ironica sottolineatura fra la natura di “cavaliere” del
personaggio e il suo correre «a piè»: situazione ironica e quasi sur-
reale, di un cavaliere che, armato di tutto punto, corra per la foresta
dietro al suo cavallo, quasi nella disperata ricerca di ricostituire l’u-
nità, il sinolo, della sua natura cavalleresca: come potrebbe darsi, in-
fatti, un cavaliere senza cavallo? «Indosso la corazza, l’elmo in testa,
/ La spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; / E più leggier
cor- rea per la foresta, / Ch’al palio rosso il villan mezzo ignudo».
L’oc- casionale bizzarria della situazione boiardesca è quindi già
trasfor- mata in un’immagine di privazione, di frustrazione e di
mancanza; insomma, in una sia pur minima quête, che qui va a
sovrapporsi e complicarsi, alternandosi, con la più impegnativa
quête amorosa; sì che il Rinaldo ariostesco attraverserà la scena del
primo canto, tal- volta con passaggi fulminei, come quello costituito
dalla sola ottava
32, distribuendo alternativamente e confusamente le sue energie
d’inseguitore tra la donna e il cavallo: entrambi sfuggenti, entrambi
imprendibili. La sutura perfetta di questa occasione narrativa veico-
la nel primo canto anche il suo sfondo naturale, o meglio la sua in-
dimenticabile topografia: l’«alta selva fiera» su cui si apre il poema,
in un impressionante corto circuito tra la «selva oscura» dell’incipit
dantesco e la riproposizione del luogo archetipico dell’avventura ca-
valleresca, proviene proprio da qui, dalla «selva scura» in cui Boiar-
do perdeva, ai margini del campo di battaglia, in una quinta latera-
le quanto narrativamente provvida, uno dei suoi protagonisti. L’A-
riosto dilata la quinta a scena, trasformandola in una articolata to-
pografia unitaria, esaltandone e inverandone i connotati, appena
prognosticati nel Boiardo, di luogo deputato di «alta ventura». Al
suo interno egli ricolloca anche un altro personaggio, lasciato ana-
logamente dal Boiardo in ambiente selvatico – ma distinto, nell’In-
namorato, dalla selva di Ranaldo –: Ferraù, qui rimesso in moto, con
un’altra sutura perfetta, nell’atto di rimestare il fondo di un «rivo»
in cui gli è accidentalmente caduto l’elmo dell’Argalia:
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OI III iv 12
Stava il pagano ad un fiume a cercare
De l’elmo, qual là giù gli era caduto,
Sì come io vi ebbi avanti a ricontare.

OF I 14
Su la riviera Ferraù trovosse
Di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
Un gran disio di bere e di riposo;
E poi mal grado suo, quivi fermosse,
Perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
L’elmo nel fiume si lasciò cadere,
Né l’avea potuto anco rïavere.

Superfluo notare, credo, la selettiva cura con cui l’Ariosto stana,


nella gran tela del suo predecessore, i personaggi abbandonati in un
momento di privazione, di spoliazione ironica o di incompletezza
del loro equipaggiamento di cavalieri; personaggi fisicamente in
cerca di un pezzo della loro identità cavalleresca. La concentrazione
e la fusione dello sfondo boschivo esaspera la perdita, o meglio,
reimmette la cerca, la quête dell’oggetto cavalleresco – il cavallo, l’el-
mo – all’interno di una direttrice più potente del desiderio: Angeli-
ca in fuga nella selva attrae e distrae i cavalieri dalla loro ricerca, in-
crocia i loro gesti anteriori, boiardeschi, con pulsioni erotiche nuo-
ve e contrastanti, che si traducono puntualmente, anche per Ferraù,
in un ritmo narrativo alternato: se nelle ottave 1 5-22 egli si lascia di-
stogliere dalla ricerca dell’elmo per contendere la dama a Rinaldo,
una volta separatosi da quest’ultimo – «si messero ad arbitrio di for-
tuna, / Rinaldo a questa il Saracino a quella [strada]» – egli torna
all’occupazione precedente, boiardesca appunto, e dopo l’appari-
zione del fantasma dell’Argalia si congeda dalla scena del primo
canto non come amante frustrato ma come cavaliere senz’elmo,
proiettato sulle direttrici di una quête guerriera che lo porterà più
oltre, come sappiamo, a una diretta competizione con Orlando.
Alcuni fotogrammi, dunque, sono effettivamente ereditati nella
loro fisica, letterale identità dal nuovo regista: ma, mi sembra perfi-
no inutile sottolinearlo, al di fuori da ogni logica di continuazione.
Non foss’altro perché essi interagiscono ormai dinamicamente, come
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si è visto, con la inedita forza magnetica rappresentata dalla avventu-


rosa corsa di Angelica attraverso il labirinto del primo canto: «Fugge
tra selve spaventose e scure, / Per lochi inabitati, ermi e selvaggi
…».

E Angelica, da dove proviene? Come ricomincia la sua storia in


questo primo canto del Furioso ? Qui, com’è noto, la sutura è tutt’al-
tro che perfetta. Il Boiardo aveva lasciato la fanciulla in mano a Na-
mo di Baviera, pegno per quello dei due cugini rivali – Orlando e Ra-
naldo – che meglio avrebbe combattuto nell’imminente scontro
campale con i Mori, presso Montealbano. Ora, ciò avveniva assai per
tempo, nel racconto boiardesco: addirittura al canto xxi del secondo
libro; sarà superfluo qui rammentare che ce ne vorranno altri dieci,
di canti, per arrivare alla fine del libro II (che ne conta infatti trentu-
no) e che un altro intero libro, il terzo, sia pure di solo nove canti,
dovrà seguire per giungere all’interrotta fine della favola boiardesca.
Angelica, insomma, era stata abbandonata dal conte di Scandiano a
diciannove canti dal finale del suo poema, ed è lì, con una spettaco-
lare macchina indietro, che l’Ariosto sceglie di ricominciare il suo rac-
conto. Sembra di conseguenza un po’ timida l’affermazione dei com-
menti – anche di quello carettiano – che al proposito annotano: «l’A-
riosto riprende la vicenda un poco più addietro del punto in cui l’a-
veva lasciata il Boiardo, il quale aveva descritto la sconfitta cristiana e
quindi aveva cominciato a parlare dell’assedio di Parigi». Altro che
«un poco più addietro». L’Ariosto scavalca e mette fra parentesi, per
il momento, tutta la revanche epica dell’ultima parte dell’Innamorato,
quando l’addensarsi dei campioni cristiani e saraceni in terra di Fran-
cia impone al suo testo una decisiva impennata guerriera, sbilancian-
do il racconto verso un’altezza iperbolica di stile che di fatto costrin-
ge il mondo delle venture e degli incanti ormai ai margini del poe-
ma. Sono questi i canti dei duelli finalmente più memorabili, in cui
le virtù dei combattenti d’ambo le parti, fin qui verificate sporadica-
mente o in contesti, appunto, magico-avventurosi, si dispiegano cla-
morosamente, in accoppiate che vedono affrontarsi Ruggiero e Ro-
damonte, Ruggiero e Ranaldo, Rodamonte e Bradamante…10.

10
La accentuata diversità del Terzo libro rispetto ai precedenti è ormai dato ac-
invenzione e ricominciamento 65

L’elusione di questa imponente inarcatura epica del racconto


boiardesco è certamente la scelta più libera e impertinente com-
piuta dall’Ariosto nei confronti del suo predecessore. Egli respinge
sullo sfondo, in un accenno quasi sfuggente, la grande battaglia di
Montealbano – «Contrari ai voti poi furo i successi, / Ch’in fuga
andò la gente battezzata» – ma ricominciando il racconto dal mo-
mento di questo scontro, amputa il seguito drammatico della rot-
ta cristiana: la fuga verso Parigi dell’esercito di Carlo, durata sei
giorni e sei notti, nonché le vicende dell’assedio, non solo comin-
ciate, ma ampiamente già portate avanti nel racconto boiardesco.
La manipolazione del tempo narrativo coincide dunque con l’e-
sclusione, o almeno l’elusione della scena epica boiardesca, e col ri-
torno ad Angelica: un ritorno, in termini funzionali, non alla fine
interrotta dell’Innamorato, ma al suo inizio, a quella comparsa del-
la donzella fra i cavalieri di Carlo, a Pasqua Rosata, su cui si era
aperto il poema del Boiardo. Il racconto ariostesco si riattiva dun-
que in flagrante disobbedienza rispetto alla lettera di quello del-
l’Innamorato, ma recuperandone invece la suggestione incipitaria:
riproponendo Angelica non come il pegno passivo, imprigionato,
di uno scontro guerriero che la sovrasta, ma liberandone di nuovo
il potenziale seduttivo e, di conseguenza, la prepotente virtù di
propulsione narrativa.
La restaurazione del protagonismo di Angelica reagisce dun-
que polemicamente alla lunga latenza della donzella nell’ultima
parte dell’Innamorato e ancora di più (se si pone mente alle vi-
cende compositive ed editoriali del poema boiardesco), al lungo,
annoso disinteresse del Boiardo nei suoi confronti: non dimenti-
chiamo che l’ultima menzione di Angelica, nel canto xxi del libro
II, significa che essa viene abbandonata non solo a ben dicianno-
ve canti dalla fine, ma, in termini di cronologia del romanzo, nel
1483, data della princeps in due libri; il suo irresistibile fascino

quisito della critica boiardesca. Soprattutto la moderna editrice dell’Innamorato,


Antonia Tissoni Benvenuti, vi insiste; ma sul piano stilistico, erano già stati osser-
vati fenomeni particolari, eppur concorrenti a una individua fisionomia dell’ulti-
mo libro boiardesco: vedi Stefano Carrai, Primi appunti sulle presenze pulciane
nell’«Innamorato», in Tipografie e romanzi in Val Padana, cit., pp. 107-116.
66 studi cavallereschi

sembra non agire più sul conte di Scandiano negli anni, tra i pri-
mi Ottanta e la morte nel 1494, in cui egli laboriosamente atten-
de al terzo libro, dove di Angelica, appunto, non si fa cenno. Ri-
collocata al centro della trama, la donzella ha il potere di far riaf-
fiorare in questo primo canto anche un pretendente di alto profi-
lo quale Sacripante, che il Boiardo aveva maneggiato un po’ mal-
destramente, tuttavia, verso la fine del suo poema: rammentato
un’ultima volta come prigioniero nella Riviera del Riso insieme a
Orlando (III vii 23), al momento della liberazione di tutti gli al-
tri cavalieri di lui non s’era fatta menzione; né d’altronde, anche
prima, il Boiardo aveva spiegato come Sacripante fosse finito nel-
la Riviera, una volta liberato dal castello della fata per intervento
di Mandricardo. Il commento di Scaglione annotava in proposi-
to: «Come si vede, l’Autore non segue ora più i suoi eroi con la
sollecitudine di una volta». Approfittando di questo sfrangiamen-
to del tessuto narrativo, nelle mani di un Boiardo ormai un po’
distratto, l’Ariosto non ha difficoltà a condurre anche Sacripante
nella selva di Ranaldo e di Ferraù: gli basta asserire che «seppe in
India con suo gran dolore, / Come ella Orlando seguitò in Po-
nente», e presupporre un viaggio analogo dell’eroe, da Oriente a
Occidente, sulle orme della sfuggente donzella: «Appresso ove il
sol cade, per suo Amore, / Venuto era dal capo d’Oriente»; pec-
cato che la riviera del Riso, ultimo luogo abitato dal personaggio
nell’antecedente boiardesco, non sia in India, ma in Francia, pres-
so il luogo dello scontro campale fra cristiani e Saraceni; anche
qui l’Ariosto rappicca il filo narrativo liberamente, alludendo non
all’ultima, ma alla penultima avventura del Sacripante boiardesco,
che prima di capitare nella riviera del Riso era stato effettivamen-
te inviato da Angelica presso Gradasso, cioè in Sericana, in India;
insomma, è come se anche l’Ariosto scuotesse il capo sulle finali
incongruenze e distrazioni della trama boiardesca, preferendo ri-
prenderla più all’indietro, dove ancora essa appariva saldamente
sotto il controllo dell’autore.
Il lungo viaggio, come si sa, ha acuito la gelosia di Sacripante;
e ancora più la notizia di questo assai compromettente compagno-
nage di Angelica e di Orlando lungo un itinerario così protratto,
da un capo all’altro del mondo.
invenzione e ricominciamento 67

Pensier (dicea) che ’l cor m’aggiacci et ardi,


E causi il duol che sempre il rode e lima,
Che debbo far, poi ch’io son giunto tardi
E ch’altri a corre il frutto è andato prima?
A pena avuto io n’ho parole e sguardi
Et altri n’ha tutta la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
Perché affligger per lei mi vuo’ più il core?
(I 41)

Il contrasto tra la musica soave del lamento di Sacripante, e la


crudezza dei contenuti, imposta la situazione più altamente ironica
del canto. Da una parte, il cavaliere è profilato in una posa sospiro-
sa, patetica, perfino lacrimevole: «Pensoso più d’un’ora a capo bas-
so / Stette, Signore, il cavalier dolente»; i segni d’espressione pre-
scrivono un’intonazione languidissima: «Poi cominciò con suono
afflitto e lasso / A lamentarsi sì soavemente, / Ch’avrebbe di pietà
spezzato un sasso, / Una tigre crudel fatta clemente», e l’apparato
metaforico rimanda alla più frusta topica della tradizione lirica:
«Sospirando piangea, tal ch’un ruscello / Parean le guancie, e ’l pet-
to un Mongibello». Ma il patetico lirismo dell’episodio veicola, in
realtà, un messaggio di rapace, aggressivo sessismo: la donna è buo-
na finché vergine; una volta deflorata essa perde ogni attrattiva e
ogni freschezza di seduzione. Angelica cade nella trappola.
Persuasa più dalla musica che dalle parole, rassicurata dalla posa
patetica del cavaliere e dal seducente lirismo del suo lamento,
Angelica non de- cifra la violenza possessiva dell’ideologia erotica
di Sacripante, e la legge, invece, alla lettera, come una deferente
magnificazione della verginità femminile. Di qui il colpo di scena,
secondo lei, ben cal- colato: il suo improvviso uscire dalle quinte del
«boschetto adorno», contro un opportuno sfondo di rose bianche
e rosse, «Come di sel- va o fuor d’ombroso speco / Diana in scena
o Citerea si mostra»; di qui le sue replicate rassicurazioni sulla
incolumità del suo prezioso imene: «che ’l fior virginal così avea
salvo, / Come se lo portò del materno alvo». L’istinto predatorio,
ahimè non decifrato da Angeli- ca nel lamento di Sacripante, non
tarda a trasformare il «cavallier dolente» in un volgare stupratore, e
la «rosa» di poche ottave prima, lì gentile immagine di verginale
freschezza («La verginella è simile
68 studi cavallereschi

alla rosa…») si tramuta in franca metafora del sesso femminile, og-


getto ormai – anche grammaticale – dell’aggressiva iniziativa ma-
schile: «Corrò la fresca e mattutina rosa, / Che, tardando, stagion
perder potria». E si badi come il commovente cesellatore di pene
amorose di poco innanzi non esiti ad appropriarsi dei più triviali
motivi apologetici della violenza sessuale: «So ben ch’a donna non
si può far cosa / Che più soave e più piacevol sia, / Ancor che se
ne mostri disdegnosa, / E talor mesta e flebil se ne stia».
Mi sono soffermato in particolare su questo episodio centrale
del canto perché in esso si rivela lucidamente a quali patti, con
quali rifrazioni di significato, Ariosto ricollochi la bella donna al
centro della sua favola, ripescandola dopo il lungo oblio boiarde-
sco. Non è questione soltanto della pura forza magnetica, propul-
siva, con cui Angelica crea intorno a sé il «vorticare di guerrieri»
ben notato da Calvino11. Non si tratta soltanto di replicare il col-
po di fulmine, o comunque l’irresistibile forza attrattiva, con cui
Angelica aveva galvanizzato – e sconvolto – l’intera corte palatina
all’inizio dell’Innamorato. Fino da questo primo canto, Angelica fa
esplodere le contraddizioni del codice cortese e cavalleresco: de-
nudando, nella repentina metamorfosi di Sacripante, la violenza
sotterranea di quell’ideologia, la sua possibile riduzione a mera
pulsione di controllo e di possesso sessuale. Si badi: in questa
apertura di romanzo, in questo «vorticare di guerrieri» c’è natu-
ralmente un grande assente: manca Orlando. Ma si badi che
quando Orlando entrerà in scena, al canto VIII, ciò avverrà con
un lamento anch’esso pericolosamente dimidiato tra la tonalità li-
rico-patetica dello stile e la violenza del messaggio, dominato dal-
l’ossessione del «fiore» in pericolo: secondo un’ambiguità perfet-
tamente anticipata in questo primo canto da Sacripante. Fin dal-
l’inizio, dunque, il pericolo di una implosione violenta, distrutti-
va e autodistruttiva, del codice cortese-cavalleresco è presente nel
testo, e la perturbante possibilità di una conversione dell’omaggio
amoroso in stupro non configura soltanto un’occasionalità “comi-
ca”, ma colpisce al cuore la legittimità, l’integrità, l’attendibilità

11
Cfr. Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Con una
scelta del poema, Torino, Einaudi, 1970, p. 3.
invenzione e ricominciamento 69

del mondo di valori su cui era costruito l’Innamorato e su cui, in


quanto continuazione, si dovrebbe dare per scontato che anche il
Furioso dovrebbe reggersi.
L’«amoroso assalto» di Sacripante, come è noto, non va a buon
fine. «Ecco pel bosco un cavallier venire, / Il cui sembiante è
d’uom gagliardo e fiero; / Candido come nieve è il suo vestire, /
Un bian- co pennoncello ha per cimiero». Lo sconosciuto
cavaliere attraver- sa fisicamente lo spazio ambiguamente,
ingannevolmente idillico del «boschetto adorno» ripristinandolo in
qualità di «bosco», selva percorsa dai labirinti dell’avventura e dello
scontro cavalleresco. Risospinto suo malgrado nell’agone
guerriero, Sacripante viene sottoposto a una prova che anche un
diffidente freudiano di poca fede non potrà esitare a riconoscere
come un vero e proprio ritua- le di castrazione: abbattuto da
cavallo, rimasto schiacciato dal suo proprio destriero tanto da
potersi raddrizzare solo con l’aiuto di Angelica (la vittima
designata della sua aggressività maschile…), moralmente distrutto
dalla rivelazione che il misterioso avversario che lo ha così
bruscamente umiliato è in realtà una donzella guer- riera –
«Angelica presente al duro caso» commenta l’Ariosto, e mai
ablativo assoluto fu meglio usato in funzione di impassibile con-
trappunto dell’azione principale –, al cavaliere così ripetutamente
mortificato nella sua virilità non resta che constatare il subitaneo
calo della libido : «Tolse Angelica in groppa, e differilla / A più lie-
to uso, a stanza più tranquilla».
L’irrompere di Bradamante – che di lei, naturalmente, si tratta –
nella selva del primo canto rappresenta il più spettacolare colpo di
scena di questo ricominciamento ariostesco dell’invenzione del
Boiardo. Già si è notato che l’Ariosto si rifiuta di riattaccarsi diretta-
mente, meccanicamente, al finale dell’Innamorato : l’episodio del «va-
no amore» di Fiordispina rimane, per il momento, eluso12. Da dove
proviene, allora, questa Bradamante guerriera, di poche parole e di
sbrigativa efficienza, che non risponde nemmeno alla sfida di Sacri-
pante ma si limita a stenderlo a terra, per dileguarsi senza neanche
indugiarsi a verificare le conseguenze della sua vittoria? Anche qui, il

12
Verrà ripreso – e risolto, tramite il provvidenziale sdoppiamento di Brada-
mante nel suo gemello, Ricciardetto – al canto XXV dell’Orlando furioso.
70 studi cavallereschi

testo del Furioso evita una sutura perfetta col testo antecedente ma
si riconnette, più vagamente e nello stesso tempo più
sostanzialmente, alla situazione narrativa fondamentale impostata
dal Boiardo: in questo caso, all’amore appena divampato fra i due
progenitori esten- si. E in effetti, nel canto successivo ci saranno
spiegate le ragioni del- la sua evidente impazienza nel primo canto:
«…cercando Brada- mante gìa / L’amante suo, ch’avea nome dal
padre, / Così sicura sen- za compagnia, / Come avesse in sua
guardia mille squadre…». È dunque una Bradamante tutta
concentrata e assorbita nella sua pro- pria quête quella che ha
incrociato l’«amoroso assalto» di Sacripante, sovrapponendo alle
labirintiche giravolte di Angelica e dei suoi inse- guitori la direttrice
determinata del suo proprio inseguimento, attra- versando il campo
magnetico dei desideri scatenati da Angelica con l’impazienza del
suo proprio desiderio. Evidentemente, l’Ariosto ha voluto
innanzitutto sincronizzare le quêtes fondamentali del suo poe- ma,
ma con un giuoco studiatamente chiastico delle funzioni in campo:
la linea di Angelica e Orlando è qui rappresentata dalla pre- da
inseguita, dalla donna, Angelica appunto; la linea di Bradamante e
Ruggiero è introdotta dall’inseguitore, o cercatore, ovvero da Bra-
damante; con un effetto di simmetria ulteriore, visto che nelle due
coppie le funzioni sono per ora scambiate tra i protagonisti maschi-
li e femminili: giacché nell’inchiesta di Orlando è il cavaliere che in-
segue, mentre in quella di Bradamante è la donna che svolge questa
funzione attiva, dinamica, rispetto a un Ruggiero forse non proprio
fuggente ma comunque oggetto passivo, “preda” amorosa offerta
al- la conquista di Bradamante; e va da sé che quest’ultima può
assu- mersi per ora il ruolo virile grazie alla sua provvidenziale
ambiguità o duplicità di donzella guerriera, di donna-cavaliere. Il
Tasso ebbe a notare, nella sua Apologia della Gerusalemme, sia pure
all’interno di un contesto viziato dall’intenzione apologetica nei
confronti del di- sgraziato Amadigi del padre Bernardo, che questa
inversione di ruo- li nella coppia Bradamante-Ruggiero non poteva
dirsi in tutto legit- tima, e certo sembrava poco onorevole per il
progenitore estense, rappresentato quale amante, anzi, amato,
alquanto neghittoso:

Questa convenevolezza non si trova nel Furioso, nel quale Ruggiero è


amato più che amante, e Bradamante ama più che non è amata, e segue
invenzione e ricominciamento 71

Ruggiero, e cerca di trarlo di prigione, e fa tutti quegli uffici e quelle ope-


razioni che parrebbono più tosto convenevoli a cavaliero per acquistar l’a-
more della sua donna, quantunque ella fosse guerriera; là dove Ruggiero
non fa cosa alcuna per guadagnarsi quello di Bradamante, ma quasi pare
che la disprezzi e ne faccia poca stima13.

Ma appunto: questa radicale reinvenzione della meccanica di


coppia, questa riconfigurazione dell’inchiesta, questa modalità di ri-
comparsa di Bradamante nel primo canto ariostesco è frutto di un’in-
frazione baldanzosa rispetto ai suggerimenti dell’Innamorato, le cui
conseguenze sono destinate a estendersi su tutta la superficie del ro-
manzo. Nel Boiardo, infatti, non c’è la benché minima avvisaglia di
questa inversione dei ruoli, né il minimo sospetto di una attribuzio-
ne esclusiva del ruolo attivo a Bradamante, né tanto meno un’ombra
di men che perfetto e ardente amore in Ruggiero. Anzi: dopo essersi
fortunosamente perduti di vista, mentre Bradamante, ferita al capo,
trova riparo presso il romito che, tagliandole le chiome per meglio
curare la piaga, la rende perfettamente simile a un maschio e prepara
così l’amoroso equivoco di Fiordispina, è Ruggiero che sia pure bre-
vemente, ma con indubitabile passione, prende su di sé il ruolo del
“cercatore”, ovvero la funzione attiva all’interno della quête amorosa:

Era già il sole allo occidente ascoso,


Quando finita è la battaglia dura;
Allor guardando il giovane amoroso
Di Bradamante cerca e di lei cura,
Né trova nel pensiero alcun riposo.
Per tutto a cerco è già la notte oscura:
Veder non può colei che cotanto ama,
Ma guarda intorno e ad alta voce chiama.
(III vi 33)

E quando, incontrati al buio Mandricardo e Gradasso, Ruggie-


ro mancherà di rispondere al loro cortese saluto, assorto com’è nei

13
Torquato Tasso, Apologia della Gerusalemme, in Scritti sull’Arte poetica, a cu-
ra di Ettore Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959 (Reprint Einaudi 1977), p. 75.
72 studi cavallereschi

suoi pensieri, egli si scuserà dell’involontaria maleducazione invo-


cando l’attenuante della distrazione per amore: «Amor, che ha del
mio cor la briglia in mano, / Me ha da lo intendimento sì disorto,
/ Che quel che esser soleva, or più non sono…». (III vi 35 vv. 5-7).
Non c’è evidentemente nessun presentimento del Ruggiero vo-
lubile e vagabondo della prima parte del Furioso ; nessuna avvisaglia
del laborioso romanzo di formazione che finirà col dilatare l’inchie-
sta di Bradamante sino alla fine del poema, e col trasformare la se-
conda parte del Furioso nella storia di un amore contrastato, fra due
promessi sposi su cui non mancherà di calare alla fine il brusco
«questo matrimonio non s’ha da fare» dei genitori della donzella,
Amone e Beatrice, sdegnati per lo scarso peculio del futuro genero,
bello, valoroso, e squattrinato; donde l’ultima, e più complicata e
avviluppata dilazione, nella giunta estrema di Leone, che guada-
gnerà finalmente a Ruggiero una corona regale, quella dei Bulgari,
finendo col perfezionare il cammino evolutivo del personaggio. Di
tale processo di perfezionamento, tuttavia, il Ruggiero di Boiardo
non sembrava avere alcun bisogno; fino dalla sua prima menzione
nell’Innamorato, nell’ultima ottava del libro I, di lui si diceva che
«del novo Rugier quivi si canta, / qual fu d’ogni virtute il più per-
fetto / di qualunche altro che al mondo si vanta», e ogni suo inter-
vento nel poema non fa che ribadire l’assolutezza inarrivabile, as-
siomatica, della sua eccellenza guerriera, cortese, amorosa14.
L’indipendenza del gesto ariostesco, di conseguenza, non si li-
mita alla pura e semplice modalità di recupero del personaggio del-
la Bradamante boiardesca. Reimmettendola nella gran tela in quel
modo, l’Ariosto altera in profondità il rapporto funzionale della
coppia dei progenitori estensi, prefigura per Ruggiero un lungo ap-
prendistato di perfezione che è l’esatto contrario del ruolo
assolto
dal Ruggiero boiardesco nell’Innamorato, e pensa, evidentemente,
a una configurazione profondamente nuova della favola. Il Furioso

14
Il Boiardo sottolinea più volte l’irreprensibilità del suo eroe, quasi giustifi-
cando così, a ritroso, il suo tardo arrivo nella favola: l’ultimo cavaliere a manife-
starsi è anche il più perfetto, quello destinato a eclissare la bravura di tutti gli al-
tri: «Voi odireti la inclita prodezza / e le virtuti de un cor pellegrino, / l’infinita
possanza e la bellezza / che ebbe Rugiero, il terzo paladino» (II i 4).
invenzione e ricominciamento 73

infatti, non condurrà mai Ruggiero alla precoce morte che su di lui
incombe nel Boiardo e a cui lo accompagnano invece più o meno
speditamente tutti i continuatori (magari per procedere oltre, ver-
so la vendetta consumata dalla vedova Bradamante o dal figliolet-
to postumo, Rugino). Ma l’Ariosto, pur nelle successive edizioni
del poema, pur rimettendo nel ’32 le mani nella favola e incre-
mentando l’intreccio di sei canti nuovi, e quale che sia il posto, nel
farsi del poema, dei tuttora controversi Cinque canti, si impedirà
sempre di superare la soglia lieta e gloriosa del finale sposalizio del-
l’eroe estense. Se Boiardo pensava evidentemente a una favola in
cui le somme virtù di Ruggiero e Bradamante erano destinate a
una unione tempestiva, cui sarebbe seguita la pagina cupa degl’in-
trighi di Gano e della morte del cavaliere, l’Ariosto punta invece a
una divaricazione di ruoli tra i due innamorati che richiederà tut-
to lo spazio del poema per essere sanata, in un finale lieto davvero
guadagnato a caro prezzo.
Tutt’altro che semplicemente continuare il mondo del Boiardo,
si trattava evidentemente per l’Ariosto di reinventarlo; non di ac-
compagnarlo piamente alla fine prestabilita, ma di richiamarlo a
una rinnovata esistenza. Per questo, egli aveva bisogno, paradossal-
mente, proprio di ignorare il Boiardo, o almeno di non citarlo, di
non costringersi nelle vesti del suo esecutore testamentario. Ma
proprio così facendo, proprio riconoscendo all’Innamorato non lo
statuto di un testo interrotto, ma di una inventio di perenne, ri-
sorgente vitalità, l’Ariosto tributava al suo grande predecessore
fer- rarese il più ammirato, anche se tacito, riconoscimento.

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